Wild Card

di l y r a _
(/viewuser.php?uid=36258)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Cicale di luglio + Capitolo 1: Perdere Occasioni ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Ambizione ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: La porta sbagliata ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Solo una foto ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: La tregua ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Sincronicità ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Assenze ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Tutti sanno ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Punizione! ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Naomi Kato ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: Comfort Zone ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Risorse ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: Vertigine ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: Tooru ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Tutti contro tutti ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: Anche le brave ragazze vanno all'inferno ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: Neve ***



Capitolo 1
*** Prologo: Cicale di luglio + Capitolo 1: Perdere Occasioni ***


Prologo

Cicale di luglio

Di quella sera di luglio, Wakatoshi conservava il ricordo gelosamente. Ricordava l’arsura insopportabile di mezza estate, il suolo che scottava anche se il sole era già tramontato da un bel pezzo, il frinire ritmico delle cicale che riecheggiava nell’orto di sua nonna. Ogni piccolo e insignificante dettaglio di quel giorno era scolpito accuratamente nella sua memoria, perciò non aveva nemmeno dimenticato l’angoscia che regnava padrona nel suo petto, né tantomeno il pianto a dirotto in cui era scoppiato quando aveva sentito i propri genitori litigare per l’ennesima volta.

Mai, nemmeno per un istante, aveva avuto il sospetto che suo padre avrebbe lasciato il Giappone, eppure – a ripensarci dopo undici anni – i segnali erano stati piuttosto chiari. Forse però non abbastanza per un bambino di appena sei anni.

Quando suo padre sarebbe partito per gli Stati Uniti, chi lo avrebbe incitato dai bordi del campo? Chi avrebbe ammirato i suoi successi? Di chi sarebbe stato il campione? Con chi avrebbe continuato a giocare a pallavolo? Non curandosi delle lacrime che gli rigavano il viso, dei singhiozzi che gli scuotevano le spalle, rimproverava suo padre di averlo iniziato al suo mondo e poi di averlo lasciato nel mezzo di un bosco troppo lontano dal sentiero. Precisamente, anche a distanza di anni, non avrebbe saputo dire se quel sentimento negativo che provava fosse solo tristezza o anche rabbia, ma nel momento in cui non riusciva più a vedere una via d’uscita, il signor Utsui era riapparso sulla soglia dell’orticello tenendo per mano una figura minuta che Wakatoshi conosceva bene. Si trattava della figlia maggiore dei vicini, l’unica compagna di giochi che potesse dichiarare di avere, complice la totale desolazione della zona rurale in cui abitavano, che distava dal paese almeno sei chilometri. Era una bambina chiacchierona ed affettuosa, spesso anche piuttosto invadente, ma tutto sommato la sua compagnia non gli era mai risultata sgradevole. Per qualche motivo la piccola vicina di casa trovava il suo nome troppo lungo e difficile da pronunciare, perciò aveva sviluppato l’abitudine di riferirsi a lui come “Waka-nii” e lui non aveva mai avuto niente da obiettare.

Appena lo ebbe scorto, la piccola Megumi era corsa a stringerlo in uno dei suoi abbracci goffi ma calorosi. Profumava della crostata di lamponi che la signora Sakurai preparava ogni domenica ed aveva le braccia e la nuca arrossate a causa del sole che aveva preso giocando nelle campagne per tutto il pomeriggio. Le lentiggini che le costellavano numerose il viso e le spalle erano un altro raro dono del sole, che – con sommo disappunto dell’interessata – non avrebbe mai perso completamente neppure quando sarebbe diventata la giovane donna che era ora.

«Non devi più piangere, Waka-nii.» lo aveva rassicurato porgendogli il fazzoletto che sua madre le metteva ogni mattina nella tasca della salopette «Tuo papà dice che mi insegna, così quando va via puoi giocare con me a …» la bimba si era interrotta, corrugando le sopracciglia e gonfiando le guance in una buffa espressione pensosa. «Com’è che si chiama? L’ho scordato … »

«Pallavolo.» le era venuto in aiuto l’amico.

«Palavollo.» si era sforzata di ripetere Megumi, strappandogli il primo sorriso della giornata. «Cosa ho detto che non va?» lo aveva poi incalzato arricciando il naso indispettita.

«Megumi-chan, si dice pallavolo, non palavollo.» aveva spiegato asciugandosi le lacrime col fazzoletto che lei le aveva offerto.

«Palpalavpalavv … Insomma, Waka-nii! Quello! E poi vengo a tutte le tue partite, sai? Faccio sempre il tifo per te! Dove vai tu, vado io … così non sei mai solo! Capito?»

Era così che quel boccone da amaro si era gradualmente addolcito. Come se, in qualche modo, l’intervento subitaneo di quella vivace ed indiscreta vicina di casa avesse fatto sì che il peso che gli opprimeva il cuore fosse ripartito in due parti uguali e di una si fosse fatta carico personalmente lei. Si trattava di una promessa fra bambini, ma col senno di poi, nessuno dei due l’avrebbe mai dimenticata.

«Posso insegnarti anche io!» si era proposto correndo a recuperare il pallone impolverato che giaceva abbandonato fra le angurie della nonna «Vuoi provare?» le domandò in uno scoppio di rinnovato entusiasmo.

«Adesso?» aveva domandato incerta l’amica.

Quella sera di luglio, mentre impazzava il canto delle cicale, per merito esclusivamente suo aveva mosso i suoi primi passi quella che sarebbe diventata la terribile Megumi Sakurai.

E sì, lo Wakatoshi lo raccontava sempre a tutti che la sua storica amica aveva iniziato a giocare a pallavolo prima ancora di saperne pronunciare correttamente il nome, ne andava particolarmente fiero.

 

Capitolo 1

Perdere occasioni

Wakatoshi a volte si chiedeva quanto di quella bambina fosse rimasto tale. Alle volte il modo di gonfiare le guance, meno cariche di lentiggini rispetto a qualche anno prima, quando qualcosa suscitava il suo disappunto gli suggeriva che fosse rimasta sempre la ragazzina che ruzzolava e si sbucciava le ginocchia quando giocavano ad acchiapparello fino al tramonto, curandosi ben poco dei rimproveri che la signora Sakurai strillava dalla finestra della cucina. Era rimasta vivace e affettuosa, ma solo con lui. Fuori dal loro piccolo microcosmo quasi familiare, le cose avevano preso una piega del tutto diversa. Alle elementari prima e alle medie poi, Megumi non si era fatta molti amici: si ostinava a passere con lui tutto il suo tempo libero e non ammetteva altri nella sua vita. Di certo aveva ottemperato alla sua promessa, ma non c’era nessun altro che reputasse alla propria altezza. Il suo carattere era gradualmente peggiorato, così che dalla bambina dolce e affezionata che era stata si era tramutata con il resto del mondo in una strega snob e senza cuore. E senza cuore lo era soprattutto in campo, tant’è che le sue avversarie ai tempi dei tornei delle scuole medie la temevano più di ogni altra disgrazia. Megumi si era ben presto resa conto di amare lo sport che aveva abbracciato per merito suo e si era scoperta in esso straordinariamente dotata. Del resto, madre natura era stata piuttosto generosa: crescendo e allenandosi aveva messo su una costituzione resistente e robusta, molto diversa dalla silhouette delicata delle sue coetanee, e c’era perfino stato un periodo fra i dodici e i tredici anni in cui era stata qualche centimetro più alta di lui. Tutto questo l’aveva resa l’ottima schiacciatrice che era. Peccato – davvero – per il carattere. Wakatoshi era certo che a corromperla fosse stata l’eccessiva ambizione, che ne aveva esacerbato l’aggressività e la tendenza a sentirsi continuamente messa alla prova dal mondo. Se non l’avesse conosciuta quando era ancora quella bambina, probabilmente le sarebbe stato alla larga come facevano tutti.

«Se Kurihara l’anno prossimo diventa capitano, ti giuro … lascio la squadra!»

«Gli allenamenti sono iniziati da nemmeno una settimana, Megumi-chan …»

La ragazza serrò le labbra e accelerò il ritmo di corsa lasciandoselo silenziosamente alle spalle. Lui la raggiunse in una manciata di falcate. «Non puoi risolvere sempre qualsiasi cosa mettendola sul piano della competizione. Senza contare che se poi ne esci sconfitta ti arrabbi comunque, perciò non arrivi a nessuna soluzione.»

«Mi stai facendo la predica, Waka-nii

«Mi sto solo preoccupando per te, non fare la permalosa con me.»

«Non sono permalosa!» poi si corresse dopo aver intercettato il suo sguardo di biasimo «D’accordo, forse lo sono un pochino, ma Kurihara è oggettivamente penosa. L’unica nota positiva dell’anno scorso era che si fosse diplomata, pensa che gioia ritrovarla nel club del liceo come palleggiatrice titolare! Titolare! Waka-nii, non so se ci siamo capiti, farebbe fallo di doppia anche in bagher!»

«Non è possibile fare doppia in bagher, piuttosto la palla cade a terra …» considerò.

«Waka-nii, è un modo di dire!»

«È un modo di dire pallavolisticamente senza senso.»

«Pallavolisticamente Kurihara alza da schifo. Non sono riuscita a schiacciare niente!»

«Dovresti darle il tempo di abituarsi a te … » le suggerì.

«E se la tira da morire!» continuò l’amica ignorandolo.

«Da quale pulpito … »

«Non me la tiro quanto Kurihara!»

«Certamente, chi oserebbe contraddirti?»

«E anche se lo facessi, ne avrei tutto il diritto, d’accordo? A differenza sua io sono eccezionale! Lei è di una mediocrità spiazzante, lo sanno tutti che è titolare solo perché è la nipote del preside …»

Wakatoshi tirò appena l’estremità della coda di cavallo dell’amica, proprio mentre varcavano sfrecciando il cancello dell’Accademia, di ritorno dalla loro sessione di jogging pomeridiana, che precedeva gli allenamenti ufficiali dei rispettivi club. Si guardò intorno frettolosamente prima di rimbrottarla a bassa voce: «Non devi fare certe affermazioni qui vicino … se ti becchi un’altra sospensione non ho alcuna intenzione di coprirti di nuovo con i tuoi genitori … »

Wakatoshi si riferiva ad un episodio scomodo accaduto due anni prima, quando era venuta alle mani con un compagno di classe che aveva manomesso la tabella delle rotazioni per la pulizia della loro aula, costringendo Megumi a ripulire i bagni per due volte nella stessa settimana al suo posto. La ragazzina, che non poteva permettersi di sottrarre tempo al club, essendo sempre più vicino il torneo primaverile, appena scoperto il misfatto, si era precipitata nel campetto di calcio e gliele aveva suonate di santa ragione, buscandosi una sospensione di tre giorni. Avrebbe poi dovuto sopportare a casa ramanzine e punizioni ben più gravose se Wakatoshi non avesse raccontato ai suoi genitori una versione più edulcorata dell’accaduto, inventandosi che Megumi aveva reagito soltanto dopo che il ragazzo l’aveva aggredita verbalmente.

La schiacciatrice rallentò la corsa fino a fermarsi a pochi passi dal campo scoperto. L’amico fece altrettanto. La rete non era ancora stata montata, ma a breve – approfittando delle temperature crescenti della sempre più vicina stagione estiva – sarebbero iniziate le faide fra i club maschile e femminile di pallavolo per stabilire l’egemonia su quello spazio di allenamento privilegiato. Megumi intrecciò le mani dietro la schiena e gli si avvicinò pericolosamente.

«Sei sempre così carino quando ti preoccupi per me.» gli sussurrò in un orecchio. Ci avrebbe messo la mano sul fuoco che sorridesse sorniona. Con disinvoltura si scansò dalla sua portata, secondo una pratica ormai assodata per via della sua frequenza. Megumi alzò gli occhi al cielo, spazientita.

«Dovresti trovarti un fidanzato, Megumi-chan

«Avrei potuto averlo, se non avesse respinto diciannove volte le mie dichiarazioni d’amore.»

«Allora dovresti trovarti qualcuno che non le respinga.»

«Ma io voglio te, Waka-nii!» protestò scuotendo il capo «Nessun altro!»

Uno dei rischi primari di avere un migliore (e unico?) amico del sesso opposto al proprio, era che uno dei due maturasse per l’altro sentimenti che vanno ben oltre l’amicizia. Wakatoshi, ad essere sinceri, non aveva mai pensato che quello potesse essere il caso suo e di Megumi: si conoscevano da prima di quanto la sua memoria riuscisse a rammentare ed erano sempre stati reciprocamente presenti l’una nella vita dell’altro. Dacché era sempre stato figlio unico, aveva permesso alla sua vicina di occupare il posto della sorellina minore ed aveva sempre supposto che anche per lei valesse lo stesso principio. Perciò era rimasto sorpreso alla prima delle diciannove confessioni, avvenuta all’incirca durante il suo secondo anno alle scuole medie, appena Megumi era arrivata all’accademia. Si era sentito un po’ crudele a respingerla, ma le aveva spiegato che lui intendeva il loro legame diversamente. Non sapeva se ammirare o meno la perseveranza dell’amica, che non si era arresa e gli si era dichiarata poi altre diciotto volte negli anni successivi, senza contare tutti gli agguati che gli tendeva continuamente: Megumi era convinta che col tempo lui avrebbe cambiato idea, e perciò compiva ogni sforzo affinché ciò avvenisse il prima possibile. Negli anni era diventata più asfissiante e appiccicosa, oltre che piuttosto sensibile su quella particolare questione. A nulla valevano i continui rifiuti opportunamente giustificati di Wakatoshi, lei procedeva sempre imperterrita sulla stessa strada.

«Fattela passare.» le ribadì ulteriormente.

«Stai diventando indolente anche con me Waka-nii …» osservò lei in risposta.

«Solo quando tiri fuori questa storia.»

«Anche se fosse, non è giusto che mi riservi lo stesso trattamento che riservi agli altri.»

«Sono cresciuto e anche tu sei cambiata.»

«Nel mio caso presumo in peggio, no? Conosco l’antifona … »

«Dovresti farti anche altri amici, non credi?»

«Non ti ho chiesto la predica.»

«Hai una nuova classe, un nuovo club, una stanza doppia nel dormitorio … »

«Che prego rimanga singola per tutto il resto dell’anno.»

«Stai sprecando occasioni … »

«Mettila un po’ come vuoi, io però sto bene così.» concluse, tirando su le spalle con noncuranza. «Torno al club, Dio solo sa quanto Hattori-sensei possa essere odioso quando sono in ritardo.»

«Fai del tuo meglio.» le augurò come di consueto ormai da una settimana «E … »

«Non fare stupidaggini, lo so. Ciao!» lo anticipò l’amica, scocciata.

Rimase a guardarla preoccupato finché non fu certo che fosse entrata nella palestra C. Non era nemmeno più abituato a parlare così tanto, né a rimproverare qualcuno: l’anno prima incontrare Megumi era stato particolarmente difficile, dal momento che medie e superiori erano rigidamente separate pur trovandosi nello stesso campo e che ai ragazzi delle medie non spettava un posto nei dormitori, esclusivamente riservati ai liceali. La ragazza dunque era stata costretta ad affrontare da sola ogni giorno i lunghi e scomodi viaggi di andata e ritorno fino alle campagne del villaggio di Minamisaka1, a sud di Sendai, ed aveva trascorso un anno all’insegna della quasi totale solitudine. Per quanto riguardava lui, ne aveva sentito la mancanza, ma si era comunque legato in qualche modo ad alcuni dei suoi nuovi compagni di squadra, anche se con nessuno di loro si era mai sentito in confidenza come con l’amica d’infanzia. Perfino la parlantina esuberante di Satori non riusciva a cavargli di bocca più di una manciata di parole. Proprio il bizzarro compagno di squadra era rimasto piuttosto sorpreso di vederlo conversare tranquillamente con Megumi, non aspettandosi che potesse risultare così amichevole con qualcuno. Se la ragazza ora lo accusava di essere diventato indolente anche con lei, probabilmente in quell’annetto doveva aver perso la mano.

~

Durante le lezioni Megumi proprio non riusciva a rimanere attenta. A dire la verità, non era mai stata una studentessa particolarmente diligente, le uniche lezioni che riuscivano ad entusiasmarla erano quelle di educazione fisica, per il resto si poteva dire che puntasse alla sufficienza. Lo studio alla fine dei conti non le interessava, ed era stato solo per accontentare la sua famiglia se si era arresa a farsi inserire in una classe preparatoria per l’università. Lei neanche voleva andarci all’università, mirava solo a farsi ingaggiare al più presto da qualche squadra appena uscita dal liceo, ma sua madre l’aveva costretta a studiare come una matta per concorrere all’iscrizione in quella sezione. Il risultato era che al momento si trovava circondata da un manipolo di sgobboni in competizione fra loro per la supremazia intellettuale. Conosceva appena due ragazze occhialute che erano state sue compagne alle medie, e che – come avevano fatto per i precedenti tre anni – la ignoravano senza troppi complimenti. Era bravo Wakatoshi a sciorinarle una predica sulle occasioni perse di fare amicizia con qualcuno! Lui si era lasciato circuire dal suo nuovo gruppetto di pallavolisti eccentrici, che lo adoravano come se fosse una divinità, a lei era toccata una squadra di invidiose ed una classe di studenti modello. Prendiamo ad esempio il tizio seduto al banco accanto al suo, che prendeva febbrilmente pagine e pagine fitte di appunti durante ogni singola ora di lezione, tanto che la manica destra della giacca bianca era continuamente sporca d’inchiostro: non staccava mai il naso dai libri, nemmeno durante gli intervalli. Come ci si approcciava ad un secchione del genere? Non si ricordava neanche come si chiamasse, avrebbe forse dovuto rompere il ghiaccio con un complimento? E di cosa doveva complimentarsi? “Ehi, ciao Secchione-kun, gran bel taglio di capelli! Chi è il tuo parrucchiere?” Non credeva affatto fosse la maniera giusta.

Trascorreva dunque le ore ad anticipare con impazienza il pranzo con Wakatoshi e le attività pomeridiane del club, anche se queste ultime si erano rivelate particolarmente deludenti: il coach la rimproverava di continuo e quando si dividevano in due squadre per gli allenamenti, lei finiva sempre in quella delle riserve, insieme alle più scarse ed alle altre due ragazze del primo anno, che conosceva già dalle medie ma con le quali non aveva mai scambiato con loro parole diverse dalle formule di cortesia in campo. Fra di loro, le due non sarebbero potute essere più diverse di così.

Centottantuno centimetri di cattiveria non diluita, Mikoto Ikeda giocava come centrale dal primo anno delle medie: la leggenda metropolitana riferiva che non ci fosse scampo dalle sue iettature, decisamente più precise e venali delle sue veloci. Per il resto era altezzosa e taciturna, fidanzata da anni con Nobuhara del club di basket, quello alto due metri, dal quale trotterellava dopo ogni allenamento, non curandosi nemmeno di salutare le compagne. Oltre ad essere alta, era magra come un chiodo, e fissava sempre tutte con aria inquietante da sotto la frangia nera e liscia che ormai portava da quando la conosceva. A parte questo, di lei non si sapeva nient’altro: era sempre troppo poco presente o troppo poco loquace per rivelare qualcosa di sé.

A girarle intorno c’era Kaori Nonaka, che nessuno avrebbe mai preso per un’atleta al primo sguardo, data la stazza. Mediocre banda, per un motivo o per l’altro si era specializzata in difesa sin da quando aveva messo piede nel club delle medie, ma aveva giocato solo ed esclusivamente solo come riserva; questo ovviamente, ad opinione di Megumi, accadeva perché non si può pensare di praticare uno sport del genere se si lambisce la seconda soglia di obesità e non si intende in alcun modo mettersi a dieta. Da quando la conosceva, Nonaka era sempre stata così: oggettivamente grassa ma incurante delle implicazioni che ciò aveva in campo. L’unica differenza palpabile dalle scuole medie era che al momento si era tinta il caschetto di un biondo così acceso da sembrare giallo. Le era stato riferito che frequentava la stessa sezione di Ikeda, e lei stessa cercava palesemente di farsela amica, senza risultati apprezzabili.

Per tutta la prima settimana le matricole iscritte al club erano state solo tre. Il mercoledì della seconda, però, sulla soglia della porta apparve una figura minuta quanto appariscente. Si trattava di una ragazza ridicolmente bassa con i capelli tagliati in un eccentrico caschetto rosa cicca. Aveva un piercing sul naso e gli occhi chiari erano pesantemente contornati di eye-liner e mascara nero. Se non fosse stato per la tuta del liceo che indossava, l’avrebbe certamente presa per una ragazzina delle elementari con la fissa di apparire più adulta di quanto fosse. Perfino sua sorella Himeka era più alta di lei! Si chiese poi per quale motivo avesse due cerotti sulla faccia: uno sulla guancia sinistra e l’altro sulla fronte. Che avesse fatto a botte con qualcuno?

«Buonasera.» salutò senza tirar fuori le mani dalle tasche. Masticava maleducatamente una gomma e pareva quasi avesse voglia di litigare con qualcuno. Nell’ascoltare la sua voce, acuta come il suo aspetto mingherlino suggeriva, Megumi ebbe per un istante la sensazione di averla già incontrata.

«Buonasera!» ricambiò Inoue-san, l’attuale capitana in carica, visibilmente incuriosita dalla nuova stravagante arrivata. Miyazaki e Okamoto, le due manager che fino ad allora stavano chiacchierando dietro il carrello dei palloni, si avvicinarono all’inaspettata ospite.

«Siete il club di pallavolo?» esordì senza troppi preamboli, spiegando un foglio tutto sgualcito che Megumi riconobbe essere un modulo d’iscrizione per i club «Voglio iscrivermi.»

Inoue era piuttosto perplessa, non riusciva proprio a tener giù il sopracciglio destro che aveva la tendenza a sfuggire al suo controllo ogni volta che qualcosa non la convinceva. Mentre Kurihara non nascondeva affatto la propria faccia divertita, Nonaka e Ikeda sembravano invece sforzarsi di ricordare qualcosa, evidentemente anche loro avevano percepito la stessa familiarità che la schiacciatrice ritrovava nel volto della ragazzina.

«Oh, è … è un piacere avere una nuova iscritta!» annunciò tesa la capitana, ma si udiva chiaramente che non era poi così entusiasta come dichiarava di essere. Tutto di quella bambolina di statura ridotta urlava “Teppista!”, dunque come biasimarla?

«Quanto sei alta?» intervenne Miyazaki, piuttosto scettica sull’utilità della nuova recluta.

«Il mese scorso ero un metro e cinquantatre.»

«Oh, e … hai mai giocato a pallavolo?» riprese Inoue, con bene poca speranza di ricevere una risposta positiva.

«Da quando andavo alle elementari.» rispose quella invece a sorpresa. Si prese un po’ di tempo per gonfiare una bolla con la gomma da masticare e poi scoppiarla, come se fosse a casa sua. «Negli scorsi tre anni sono stata il libero titolare della scuola media Hanazono.»

Megumi fu folgorata da una consapevolezza improvvisa. L’under-16 della Shiratorizawa aveva incontrato la Hanazono sul campo solo una volta negli anni in cui Megumi frequentava le medie, ed era stato in occasione del più recente torneo interscolastico. Era stata la squadra contro la quale avevano disputato la durissima finale che le era valsa una menzione su Monthly Volleyball, che aveva descritto la partita come un serratissimo scontro a spada tratta fra l’asso della squadra favorita e l’instancabile libero della scuola Hanazono. E se lo ricordava, Megumi, il libero: una spina nel fianco alta a malapena un metro e mezzo, in apparenza gracilina ma in realtà leggera quanto bastava a scattare di punto in bianco da un lato all’altro del campo e a strisciare proprio sotto la rete per salvare la palla respinta dal muro. Saltava ovunque e difendeva la palla anche a costo di rischiare infortuni pericolosissimi; il risultato era che schiantare la palla a terra come faceva di solito le aveva richiesto almeno il triplo della fatica ed era arrivata stremata e furiosa a segnare il match point della vittoria solo dopo due set trascinatisi fino ai vantaggi. Un 3-0 che perdeva quasi tutto il suo prestigio se era la conclusione di 32-30, 30-28 e 25-9. In genere Megumi aveva un problema con tutti i libero delle squadra avversarie: li detestava con tutto il cuore, specie se continuavano a difendere bene le sue schiacciate. S’indispettiva con loro prima ancora di mettere piede in campo e provava un piacere quasi sadico nel distruggerne la difesa. Più solida era la loro ricezione, più Megumi ne era infervorata. Il povero libero della scuola media Hanazono, che aveva ridotto alle lacrime, aveva la sola colpa di essere stata obiettivamente troppo brava, perciò Megumi si era accanita su di lei con una crudeltà insaziabile finché la stanchezza aveva avuto la meglio e si erano aperte numerose falle nella sua difesa. Con soddisfazione, la schiacciatrice aveva letto negli occhi dell’irriducibile avversaria terrore e vergogna, e si era sentita quasi divina quando dopo la partita le aveva stretto la mano secondo la convenzione, senza riuscire però a guardarla in faccia.

Ad osservarla meglio, notava una certa somiglianza ma c’era qualcosa che giustificava il proprio dubbio: il caschetto rosa cicca. Il libero della scuola Hanazono, all’inizio di febbraio, portava i capelli castano chiaro raccolti sulla testa in una coda di cavallo lunga e ispida che, oscillando a destra e a sinistra mentre si muoveva per il campo, suggeriva il modo di muoversi rapido della coda di un piccolo animale selvatico. Era certa di non sbagliarsi, perché era proprio quell’acconciatura ad averla legata indissolubilmente al famoso nomignolo di …

«Scoiattolo?!» esclamò finalmente Ikeda con gli occhi sgranati «Che hai fatto ai capelli?»

Ecco, per l’appunto. Megumi la conosceva solo con il nome di “Scoiattolo” e non aveva nemmeno idea di come si chiamasse realmente. Certo era che con quel taglio ribelle ed il piercing sul naso, che prima non c’era, sembrava molto più aggressiva di quanto non fosse stata l’ultima volta che si erano incontrate. Si chiese quale fosse stato il motivo di quella improvvisa svolta punk.

«Il mio nome è Arisu Hiromi.» la corresse irritata, chiaramente stanca di sentirsi apostrofare in quella maniera. L’assonanza del suo primo nome con il corrispettivo giapponese per “scoiattolo” doveva essere un’altra delle motivazioni dietro la scelta del suo soprannome2. «Avevo voglia di cambiamenti, così la gente non avrà più motivo di continuare a chiamarmi in quel modo ridicolo, va bene? Ora posso consegnare a qualcuno questo stramaledettissimo foglio?» riprese agitando la pagina tutta spiegazzata. Miyazaki e Inoue erano sull’orlo della crisi isterica ma la prima ritirò personalmente il documento dalle mani della ragazzina, che parve soddisfatta.

Con una punta d’invidia Megumi osservò che Hiromi capitava proprio a fagiolo nel club. Inoue aveva spiegato che i due libero che fino a quel momento avevano giocato nel loro club si erano diplomate l’anno precedente, e non erano riuscite a trovarne una nuova, visto che le nuove iscritte per quell’anno erano solo tre e nessuna di loro era adatta al ruolo. Ikeda era disastrosa in difesa e ricezione, oltre che troppo alta per essere relegata a fare il libero, Nonaka – invece – era eccellente in difesa, ma troppo lenta e pesante per correre dietro la palla. Megumi non era nemmeno stata presa in considerazione, e la cosa la rendeva particolarmente felice. Era matematicamente certo che la piccoletta sarebbe finita nella rosa titolare senza dover competere con nessuno per il proprio ruolo. Non che non lo meritasse, comunque, nessuno meglio di lei avrebbe saputo dire quanto poteva essere fenomenale nel suo posto in seconda linea. Tuttavia si sentiva come sconfitta: aveva pensato che non avrebbe mai più visto Scoiattolo dopo la loro finale di fuoco, perciò si era presa la libertà di umiliarla. Ora che non solo condividevano la stessa squadra, ma lei aveva imboccato la strada privilegiata per un ruolo tutto suo, provava invidia e rabbia. Si disse che certamente invece l’altra doveva essere felice di quella situazione ribaltata e che non avrebbe perso tempo per fargliela pesare. Lo bisbigliò nell’orecchio di Inoue mentre la nuova arrivata stringeva con scarso interesse le mani delle nuove compagne di squadra e delle due manager. Le confessò anche che era possibile che fra loro due permanessero delle tensioni per via del loro ultimo incontro, e ciò suscitò uno sbuffo esasperato della senpai. «Non ti basta la guerriglia con Noriko?» le chiese stancamente.

Megumi non ebbe il tempo di giustificare le sue tensioni con Kurihara, perché proprio allora giunse il suo turno di presentarsi a Hiromi, che si piazzò dinanzi a lei scrutandola con i grandi occhi nocciola. Non sapeva affatto cosa dire, si sentiva solamente a disagio.

«Benvenuta, Hiromi-san.» si decise infine. Aveva un tono tanto goffo che scorse Kurihara soffocare una risatina dietro la mano «Sono Sakurai, forse ti ricordi di me.»

«E chi ti scorda?» replicò quella con un sorriso malinconico. Per la prima volta, Megumi si sentì dispiaciuta per qualcosa che aveva fatto. Prima di entrare in campo per quella fatidica partita, Scoiattolo non era così spenta: era energica e positiva, rivolgeva a tutti sorrisi ottimisti e raccomandazioni. Quando si era accanita su di lei, Megumi ne aveva distrutto totalmente il morale. Credeva che lo avrebbe recuperato il giorno successivo, ma evidentemente si era sbagliata. Possibile che fosse stata la sua cattiveria la causa del suo estremo cambiamento fisico e attitudinale?

Non riuscì a smettere di chiederselo per tutto l’allenamento, risultando distratta e beccandosi continuamente i rimproveri irruenti di Hattori-sensei. Quell’uomo, che esordiva in qualità di coach della squadra solamente quell’anno, a Megumi non piaceva per niente. Il suo nome era legato ad un paio di stagioni della ormai defunta Akagi Union, una vecchia squadra che una decina di anni prima aveva disputato un paio di campionati in V.Challenge League3, in seguito, dopo una pesante squalifica per condotta offensiva, era sparito per un bel pezzo ed era poi ricomparso per allenare il loro club. Le ragazze non si erano fatte meraviglia della scelta scadente che la presidenza aveva operato per il loro club, da sempre oscurato dalla fama della sua controparte maschile, sebbene ottenesse comunque risultati lodevoli. Hattori aveva superato da un pezzo la quarantina, ma non aveva perso affatto la stazza muscolosa che aveva messo su ai tempi in cui era una discreta banda per la propria squadra e ciò, insieme all’intensità insistente con cui lo aveva sorpreso qualche volta a fissarla, la intimoriva abbastanza da farle desiderare di non essere mai ripresa da lui. Desiderio che rimaneva tale, dal momento che sembrava essere il suo bersaglio preferito.

«Sakurai, come tieni quelle mani?» la rimproverò quando atterrò dopo il muro «Vuoi che la palla ci passi attraverso? Ripeti l’esercizio! Kurihara, anche tu … così la pianti di sghignazzare.»

Era difficile eseguire il movimento corretto se continuava ad essere ipnotizzata dalla danza di Hiromi a fondo campo, che stava egregiamente ricevendo uno dopo l’altro i servizi di Hoshino senza mai mancarne alcuno. Era evidente che oltre ad essere diventata più seriosa, la piccoletta aveva anche perfezionato ulteriormente le proprie abilità, laddove Megumi credeva che fosse giunta al picco definitivo. Moriva dalla voglia di metterla personalmente alla prova, o – meglio – di mettere alla prova sé stessa contro quel prodigio della difesa, ma al contempo non riusciva a liberarsi di quel fastidioso ed inusuale senso di rimorso, che aumentava esponenzialmente quando di tanto in tanto si voltava e la nuova arrivata si faceva intenzionalmente cogliere con gli occhi fissi su di lei.

«Cosa diavolo vuole da me?» sibilò fra sé e sé mentre ricacciava alla rinfusa nel borsone tutto l’equipaggiamento sportivo. Nonaka, accanto a lei, le porse la ginocchiera che stava cercando invano da qualche minuto e lei gliela strappò di mano senza nemmeno degnarla di un ringraziamento. Poteva ascoltare Hiromi conversare con Inoue dietro di lei e le lodi che il capitano le stava tributando per il suo innegabile talento. Era verde d’invidia, ma non sapeva se provasse per il libero più rancore o rammarico e ciò contribuiva ad innervosirla ancora di più. Tutto quello che voleva fare era tornare in dormitorio alla svelta e infilarsi sotto il piumone del suo letto, in santa pace.

Ma si sa: se qualcosa sta andando male, si può star certi che peggiorerà. Ed è quello che accadde poco prima che Megumi lasciasse lo spogliatoio come stava progettando.

«Abiti giù in città, Hiromi-san?» domandò Inoue osservando perplessa il grosso borsone di Scoiattolo, ad occhio e croce lungo quanto la sua metà.

«No, abito a Tagajo4, prendo una navetta fino alla stazione degli autobus e da lì arrivo a casa con la linea Senseki. Se tutto va bene è poco più di un’oretta di viaggio.»

«Dici davvero? Perché non hai chiesto alloggio nei dormitori?»

«L’ho fatto, ma pare che siano rimasti solo posti letto in stanze doppie e per qualche motivo nessuna delle stanze segnate sull’elenco che mi hanno dato in segreteria è libera quando io busso alla porta. Per mail sono sempre tutte disponibili, ma quando mi vedono di persona cambiano idea.» spiegò facendo spallucce. Be’ – considerò Megumi – i capelli tinti, il piercing ed i cerottini sul viso di certo non incoraggiavano le inquiline ad accettarla come compagna di stanza. Se non si fosse conciata in quel modo e fosse rimasta la ragazzina allegra che era alle medie, certamente non avrebbe avuto nessun problema a trovare alloggio.

Fu allora che Inoue ebbe quello che per lei doveva essere il colpo di genio della sua nascente carriera di capitano. Prima che Megumi potesse sgattaiolare via dallo spogliatoio, la fermò prendendola per un braccio. «Sakurai-san ha un posto vuoto in stanza, non è vero?»

Un brivido di orrore percorse la schiena della ragazza, che – colta alla sprovvista – tentò di boccheggiare un paio di scuse poco credibili. «Sciocchezze!» la liquidò Inoue con un sorriso che non prometteva niente di buono «Sarete ottime compagne di stanza!»

Megumi abbassò lo sguardo su Hiromi, e fu stupita nel trovarla per niente contrariata, anzi, piuttosto entusiasta dell’idea. Doveva essere davvero disperata per guardare con favore all’idea di avere come coinquilina una persona che odiava. Chissà quante fregature aveva preso in una settimana di tentativi di trovare una stanza, ancora una volta – suo malgrado – provò compassione.

«Che ne dici Hiromi-san?» la incalzò Inoue con impazienza «Per me è un ottima occasione per creare un bel legame anche sul campo, avrete tanto tempo per conoscervi meglio!»

«Se per Sakurai-san non è un problema … »

Megumi stava per boccheggiare che, , era un problema dormire con l’unica primina a cui era toccato un posto nella rosa titolare e con la quale i trascorsi erano tutt’altro che sereni, ma Inoue fu più rapida di lei e le impedì di replicare.

«No, che non è un problema … è sempre sola soletta, ha bisogno di compagnia!»

«Non ho bisogno di … » protestò l’interessata.

«Certo che ne hai bisogno, ne abbiamo bisogno tutti.» la corresse scoccandole in tralice uno sguardo di rimprovero. Megumi fu costretta ad arrendersi alla volontà della capitana.

«Vuoi vedere la stanza?» propose con riluttanza a Hiromi.

«Non è necessario ma ho urgenza di trasferirmi al più presto. Domani mattina posso già portare le mie cose? Così in giornata passo anche a comunicarlo in segreteria e a ritirare la chiave.»

«Non c’è nessun problema. È la stanza numero 178, al terzo piano.»

Mentiva: la sua stanza al momento era un disastro ed avrebbe dovuto fare le ore piccole quella notte per ripulirla di tutto il disordine che era riuscita a far accumulare in una sola settimana. Aveva gettato libri e quaderni su entrambe le scrivanie, insieme ai pesetti e agli elastici con cui si allenava ogni mattina ed ogni sera. Sul balcone, prima di uscire per le lezioni, aveva lasciato le sue scarpe da jogging, che puzzavano troppo per tenerle dentro. Sul letto che teoricamente sarebbe dovuto essere sgombro, aveva ammassato tutta la roba che aveva estratto dalla valigia, senza preoccuparsi di appendere nell’armadio nulla se non quei soli due o tre completi casual che possedeva e che non indossava mai. L’unica fortuna era che non possedesse una grande quantità di abiti e che quindi con un po’ di impegno tutto sarebbe entrato agevolmente in una sola metà dell’armadio.

«Allora è fatta!» dichiarò soddisfatta mettendosi in spalla il borsone. Controllò rapidamente l’orario sul cellulare ed abbozzò un inchino di congedo «Ora devo scappare, ci vediamo domani mattina!»

Quando Scoiattolo fu uscita dallo spogliatoio, Megumi scoccò uno sguardo di biasimo ad Inoue. La capitana fece spallucce fingendo una naturalezza innocente, che sembrava dirle “Cosa c’è? Volevo soltanto aiutarla!” Dal canto suo Megumi girò sui tacchi e si precipitò fuori dalla stanza sbattendo la porta. La sua vita da liceale era decisamente iniziata col piede sbagliato.

~

Wakatoshi osservò Megumi finire il proprio pranzo con avidità. Una spia lampeggiante sul suo cellulare, distrattamente abbandonato sul tavolo, indicava che aveva ricevuto un messaggio ma l’amica non se ne preoccupava affatto. Lui invece era piuttosto impensierito dalle occhiaie che le cerchiavano gli occhi marroni e dall’inconsueto silenzio che regnava al loro tavolo, di solito riempito dalle chiacchiere e dalle lamentele della più giovane.

«Non eri a colazione stamattina.» esordì per tentare di sondare le condizioni dell’amica.

«Già.» si limitò a replicare l’altra.

«Come mai sei così silenziosa? Hai dormito male?»

«Ho dormito due ore, fai tu.»

Megumi era sempre stata una gran dormigliona. Si addormentava in un batter d’occhio e faceva tutta una tirata di sette ore fino alla mattina successiva, anche otto se saltava il jogging mattutino. Ripeteva sempre che il sonno era una parte imprescindibile del proprio allenamento e non rinunciava per nulla al mondo. Nemmeno lo studio dell’anno prima, in previsione degli esami di ammissione alle classi propedeutiche all’università, era mai riuscito a tenerla sveglia oltre la mezzanotte, dunque doveva essere accaduto qualcosa di molto grave per toglierle il riposo.

«Ho una compagna di stanza. Ora sarai contento.» spiegò spontaneamente.

«Tu però non mi sembri contenta. Non sei riuscita a dormire per l’angoscia di dividere la camera?»

«No, non ho potuto dormire perché ho dovuto sistemare la stanza. E stamattina la tipa in questione mi ha svegliata alle sei per lasciare in camera le cose. Credo di aver dormito in classe per colpa sua, ora dovrò chiedere gli appunti a Secchione-kun

«Secchione-kun

«Un tipo seduto al banco accanto. Non leva mai la faccia dal quaderno.»

Non era molto carino indicare una persona con un soprannome simile, ma non osò farglielo notare: era già di cattivo umore senza rimproveri.

«D’accordo, hai dovuto riordinare la stanza. Ma perché lo hai fatto il giorno prima che arrivasse? Non potevi iniziare nei giorni precedenti, quando ti è arrivata la sua mail?»

«Perché» ringhiò infastidita «Non c’è stata nessuna mail. È tutta colpa di Inoue-san

«Cosa c’entra Inoue?»

«Senti, Waka-nii … tu te lo ricordi lo Scoiattolo?»

«Il libero della Hanazono?» chiese conferma l’amico «Quella che hai fatto piangere?»

«Breve storia triste: è iscritta qui, è entrata nella mia stessa squadra, sarà certamente titolare e Inoue ha arbitrariamente deciso che debba essere la mia compagna di stanza.»

Non era esattamente quello che Wakatoshi augurava all’amica: avrebbe preferito per lei una coinquilina anonima e ordinaria, con cui avrebbe potuto chiacchierare delle sciocchezze che piacevano tanto alle ragazze e con cui non si fosse sentita in competizione. Scoiattolo, visti i loro precedenti, di certo non era l’opzione più conveniente, per come stavano le cose al momento. «Com’è?» chiese alla fine.

«Sono sicura che progetta di soffocarmi nel sonno. È ovvio che prova risentimento!»

«O forse sei tu quella risentita …»

«È reciproco. E poi non so come spiegarlo … è molto cambiata dall’anno scorso, si è tinta i capelli di rosa ed ha quest’aria triste e litigiosa insieme che mi fa sentire in colpa per come l’ho trattata. Te la ricordi, no? Non era così … Ho anche pensato che abbia subito a causa mia una specie di trauma e che il suo nuovo look da teppistella sia stato un suo modo per venirne fuori. Se le cose stessero così, sarebbe più che giusto se toccasse a me sopportarla, dal momento che ho contribuito a creare il mostro. Insomma, sarebbe colpa mia se le altre ragazze sono state intimorite dalla sua apparenza e le hanno negato la disponibilità delle altre camere.»

Wakatoshi corrugò le sopracciglia in un’espressione di disapprovazione. Che Megumi si sentisse in colpa per qualcosa era un’inaspettata novità ma la sua solita tendenza a porsi al centro del mondo smorzava il suo timido slancio di umanità. Dubitava che lei c’entrasse qualcosa con i capelli rosa di Scoiattolo ma apprezzava che – a modo suo – si stesse pentendo di essere stata spietata con lei.

«Gli scoiattoli sono innocui, sono sicuro che le cose si sistemeranno.» concluse, dopo averci riflettuto «Potrebbe essere una buona occasione per rimediare e stabilire un rapporto pacifico.»

«Mi odia ed io odio lei, occasione persa in partenza. Ho intenzione di far finta che non esista.»

«Ti si legge in faccia che muori d’invidia.»

«Sono più brava io, ma l’unico posto che mi spetta è la panchina.»

«Non puoi mettere a confronto libero e banda. E Scoiattolo è obiettivamente in gamba. Avrai anche tu la tua occasione di stare in campo, devi solo prenderti il tempo per distinguerti dalle altre.»

«Se dovesse capitare, non me la lascerei sfuggire per nulla al mondo.» dichiarò con bruciante determinazione «Allora tutti dovranno ricredersi e riceverò il rispetto che merito.»

Forse, riconsiderò l’amico, di strada da fare ce n’era fin troppa: quella incosciente volontà di farsi strada ad ogni costo aveva rischiato di metterla nei guai negli anni precedenti, ma in qualche modo l’aveva sempre scampata. Aveva però la spiacevole sensazione che quella volta le cose per Megumi non sarebbero filate lisce come avevano fatto fino ad allora.

La loro conversazione fu interrotta dall’arrivo di un’infastidita Kurihara, che picchiettò riluttante sulla spalla di Megumi per richiamare la sua attenzione.

«Hattori-sensei vuole parlarti prima che ricomincino le lezioni. Ti aspetta nella stanza del club, faresti bene ad andarci subito, prima che cambi idea.» le riferì assottigliando gli occhi con sospetto. Sganciata la bomba, salutò solamente Wakatoshi con un inchino e si allontanò a grandi passi.

«Eccola, la mia occasione!» annunciò scoprendo i denti in un sorriso eccitato.


1 Minamisaka è una località d’invenzione.

Tecnicismi vari di una che di giapponese sa poco ma ci prova. “Scoiattolo” in giapponese si pronuncia “Risu”, che è fondamentalmente “Arisu” privato della vocale iniziale. Ci tengo a precisare che “Arisu” non contiene, a parte l’assonanza, alcun riferimento all’animale nel significato. Ciò è evidente dalla difformità dei kanji fra i due termini: “Scoiattolo” si scrive 栗鼠, Hiromi scrive invece il suo nome di battesimo usando 有栖.

3 Secondo le poche informazioni che sono riuscita a trarre dal magico mondo di internet, in Giappone ci sono due serie di campionati: A e B, ovviamente sia maschile che femminile. Il corrispettivo della nostra serie A sarebbe la V.Premium League, quello della nostra serie B la V.Challenge League. La squadra di cui faceva parte Hattori, dunque, per noi sarebbe una squadra di serie B. Non ho idea se ci siano corrispettivi anche per le serie dalla C in giù, se avete qualche notizia illuminatemi perché devo sapere.

Si tratta di una cittadina a nord di Sendai, realmente esistente. Anche il tragitto e le autolinee descritti da Hiromi sono realmente attestate.


NOTE FINALI

Se siete arrivati fin qui, significa che forse l'incipit di questa storia, con tutti i suoi difetti, vi ha incuriositi/e almeno un po' o che le avete dato un minimo di possibilità. Anche solo per questo, vi ringrazio. Pubblicare su EFP qualcosa di simile è per me uno scoglio insuperabile: sono molto critica nei confronti dei miei OC, li trovo spesso rudimentali e artificiosi, ma Megumi sta così sinceramente antipatica a me, che sono la sua creatrice, che penso che il suo pessimo carattere finisca per compensare il suo bel faccino ed il suo presunto talento in campo, perciò eccomi qui a fare un tentativo. Siate buoni, per favore, perché la pubblicazione di Wild Card è per me un po' come rimanere nuda davanti a tutti. (._.)7
Dunque, spiegare una storia è triste come dover spiegare una battuta, significa che non ha funzionato, ma mi sembra doveroso comunque aggiungere qualche delucidazione, dal momento che questo è solo il primo capitolo e capisco che ci sia molta carne al fuoco.

- Wild Card è, nelle mie intenzioni, un prequel o almeno lo è nella sua prima metà. Perciò è ambientata un anno prima di quello che al momento è il presente del canon. Questo fa sì che tutti i personaggi canon che appaiono nella storia in questa sua parte abbiano un anno in meno.
- Scoiattolo e alcune delle ragazze citate in questo capitolo non sono solo comparse. Non ho speso inutilmente parole per loro, ma sono funzionali ai fini della trama.
- L'amicizia di Sakurai con Ushijima non è un mio personale vezzo ma un plot device, che spero possa dispiegare tutte le sue potenzialità nei prossimi capitoli. A proposito di questo, Ushijima qui appare con Sakurai più affettuoso e chiacchierino che con gli altri nella serie. Ho immaginato che, se è in grado di concedere ai suoi compagni di squadra di tanto in tanto un sprazzo di un lato di sé più umano e meno distaccato, avrebbe potuto farlo molto più frequentemente con una persona che si suppone conosca da tempi immemori, il prologo - d'altronde - è qui per spiegare questo. Il suo comportamento con gli altri, ad ogni modo, in teoria non cambia. Spero che non risulti OOC, nel caso lo fosse, sono pronta ad inserire l'avvertimento. (╥_╥)
- Fra i personaggi è segnato Oikawa, mi scuso se in questo capitolo (e forse neanche nel prossimo) non fa ancora la sua comparsa. Quando lo farà, potrebbe diventare anche troppo protagonista, perciò tranquilli/e, non è un'esca! Mi sento anche in colpa a spezzare la IwaOi con un OC (ebbene sì, sono capitano di tante navi), ma volevo provare qualcosa di diverso.

Sto pubblicando questo capitolo in uno straordinario slancio di autostima. So già che me ne pentirò. Abbiate pietà.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: Ambizione ***


Capitolo 2

Ambizione

Il budget limitato che il consiglio d’istituto aveva riservato al club femminile di pallavolo condizionava anche le dimensioni della stanza ad esso assegnata. Di certo a nessuna delle ragazze sarebbe mai passato per la mente di lamentarsi: quello che avevano a disposizione non era il minuscolo cubicolo dalle pareti foderate di armadietti che la maggior parte delle scuole rifilavano ai propri club sportivi, ma era inevitabile – per chiunque conoscesse le stanze a disposizione dei club maschili di calcio e pallavolo e di quello femminile di ginnastica, notare la differenza di trattamento. Laddove infatti questi ultimi disponevano di un arredamento funzionale e confortevole, tutto ciò che componeva invece il mobilio del club femminile di pallavolo erano le sedie avanzate dall’aula del consiglio studentesco, una lunga fila di armadietti personali, una vecchia libreria della biblioteca ridipinta e utilizzata impropriamente, una bacheca di sughero come quelle all’ingresso dei dormitori e due banchi accostati per sostituire la scrivania dell’allenatore. Sulle pareti bianche si distinguevano i segni del nastro adesivo rimosso di recente: Chigusa-san aveva raccontato alle kohai che in passato erano costellate di poster di idol e sportivi piacenti, ma che il coach Hattori li aveva fatti staccare appena aveva assunto l’incarico. Tutto sommato era luminosa e spaziosa, potendo contare sul fatto che gli spogliatoi fossero invece collocati direttamente della palestra C, ma per una scuola con un nome del genere e per la retta onerosa che l’accademia pretendeva dai suoi iscritti, Megumi si era aspettata di meglio.
Trovò l’allenatore ad attenderla con una sigaretta accesa fra le dita, un vezzo che ormai si concedeva abitualmente di propria iniziativa in quel luogo, anche se il regolamento scolastico lo vietava categoricamente. Se ne stava comodamente adagiato accanto al davanzale della finestra spalancata e le fece cenno di entrare e chiudere la porta.
«Alla buon’ora, Sakurai!» la accolse controllando l’orologio al polso «Stavo per andar via.»
A giudicare dalla lunghezza della sigaretta, appena consumata all’estremità, le aveva detto una bugia: uno che sta per andar via non inizia a fumare una sigaretta nuova. Sentì gli occhi dell’uomo percorrerla dai piedi alla testa e poi di nuovo dalla testa ai piedi, lentamente ed in silenzio, e avvertì montare l’ormai familiare senso di disagio.
«Sono stata appena avvisata, sensei.» si giustificò comunque, alludendo a Kurihara.
«Cazzate, Sakurai … cazzate.» tagliò corto quello «Tu manchi di disciplina, ma oggi voglio perdonarti perché non ti avevo ancora vista con l'uniforme scolastica. Ti sta molto bene.»
Megumi fu colta alla sprovvista dal complimento improvviso, che non sapeva nemmeno come interpretare. Mormorò un “grazie” incerto e cercò di tirare più giù l’orlo della gonna, perché non le scoprisse eccessivamente le cosce, troppo piene e muscolose per rispettare gli standard di bellezza giapponesi. Se ne vergognava così tanto che limitava l’uso dei pantaloncini solamente alle partite ufficiali in cui era prevista la divisa della squadra e ad ogni modo, in quei casi, entrava in campo per ultima e ne usciva frettolosamente per prima.
«Non devi coprirle, è un peccato.» la biasimò Hattori questa volta indugiando sulle sue cosce più manifestamente, senza preoccuparsi di nasconderlo «Hai delle gran belle gambe, dovresti indossare le gonne più spesso, magari senza quelle calze scure.»
Non aveva idea di perché stesse sostenendo quella conversazione surreale col proprio allenatore, ma provava un imbarazzo fastidioso. Non le piacevano le proprie gambe, non le piaceva l’argomento, non le piaceva affatto che qualcuno le guardasse, soprattutto se quel qualcuno era Hattori.
«Quella della divisa è l’unica gonna che ho, mi spiace.» borbottò in risposta, desiderando ardentemente che quella questione fosse accantonata al più presto. Non era possibile che il coach l’avesse convocata solamente per complimentarsi per come le stava l’uniforme scolastica.
«Non ti piace il tuo fisico, Sakurai?» continuò invece lui.
«Non del tutto. Ma una ragazza che sceglie l’agonismo deve pur rinunciare a qualcosa.»
«Mi piace la tua filosofia, ma lasciati dire che tu non hai rinunciato a nulla. Sei ugualmente bella.»
Hattori spense la sigaretta prima ancora di arrivare alla metà e si affrettò a chiudere la finestra. Per qualche motivo, anche quel gesto non le piacque per niente. Ancora confusa da tutti quelle lusinghe indesiderate, accettò il suo invito a sedersi su una delle sedie poste di fronte all’improvvisata scrivania. Quello si accomodò davanti a lei, incrociando le dita sulla superficie lignea del banco.
«Parliamo di cose serie, Sakurai. Giocherai con noi o con la squadra avversaria?»
«Prego?»
«Ogni volta che sei in campo, combini casini. Sarò onesto: tu hai talento, tanto, e credo che questo tu lo sappia già, ma il talento da solo non serve a niente. Posso avere fra le titolari dozzine di ragazze che non hanno il talento dalla loro, ma hanno raggiunto gli stessi tuoi risultati per mezzo di allenamento duro e costante. Senza contare che nessuna di loro si attaccherebbe briga con la palleggiatrice, o si rifiuterebbe a priori di schiacciare sulle sue alzate perché “indecenti”.»
«Kurihara non ha dalla sua né talento né allenamento.» commentò stizzita.
«È un’affermazione molto presuntuosa, questa.»
«Non è lontana dalla realtà.»
«Anche se lo fosse questo non cambia la tua posizione. Sakurai, sei egocentrica, insolente, per niente empatica ed assolutamente poco collaborativa. Dimmi cosa dovrei farmene di una come te nella rosa titolare.»
Megumi non riusciva davvero a capire come le motivazioni addotte dal coach potessero interferire nella decisione di inserirla o meno nella formazione titolare. Un giocatore vale nella misura in cui segna punti, e lei di punti – con delle buone alzate – ne segnava abbastanza.
«Lei mi lasci giocare e io glielo mostrerò.»
«E quali garanzie ho? Nessuno sano di mente ti ammetterebbe ora come ora.»
«Ha la mia parola. Se le cose dovessero andare male, mi ritirerò spontaneamente.»
«Mi sembra un’offerta che pende tutta dalla tua parte, Sakurai. Forse, se mi dessi qualcosa in cambio, potrei prendere in considerazione l’idea … » propose con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
«Qualcosa tipo?» lo incalzò incuriosita dall’offerta.
«Un bacio, ad esempio.»
Per i primi secondi di silenzio teso che seguì, Megumi s’illuse che Hattori stesse cercando di fare dell’umorismo. Si sforzò di rivolgergli un sorriso che potesse passare per divertito, ma l’espressione dell’allenatore rimase seria più che mai.
«Dice davvero?» domandò allora, sbalordita.
«Sono serio. Un bacio e sei dentro, prima banda.»
«Non mi prende in giro? Se io le do un bacio, lei mantiene la parola?»
«Puoi giurarci.»
Esitò qualche istante: in cuor suo sapeva che era sbagliato. Stava comprando un posto da protagonista al prezzo di un bacio, al vantaggioso prezzo di un bacio. Era completamente scorretto entrare in squadra a quel modo, ma si era ripromessa che non avrebbe mai perso un’occasione simile, a qualsiasi costo. Farsi odiare di più o di meno dalle altre galline in campo non era più un problema, ci si era abituata e sarebbe sopravvissuta comunque. Ed era vero che nei suoi sogni aveva sempre riservato il suo primo bacio a Wakatoshi, che desiderava condividere con lui uno di quei primi baci romantici in punta di piedi, forse dopo la ventesima dichiarazione, ma una ragazza che sceglie l’agonismo – lo aveva detto poco prima – deve pur rinunciare a qualcosa. Se Wakatoshi non lo avesse saputo, non ne avrebbe sofferto. Per conto suo, lei avrebbe fatto in modo di dimenticarsene subito dopo. Al diavolo le romanticherie, in ballo c’era il ruolo di prima banda!
«Va bene.» bisbigliò prima ancora di rendersene conto «Anche adesso.»
«Così ti voglio, Sakurai: intraprendente.» commentò soddisfatto.
Mentre le si avvicinava, con l’avidità che scintillava negli occhi scuri, si rammentò che Hattori portava una fede all’anulare sinistro, che una volta aveva menzionato di avere una figlia alle medie e che non era per nulla normale che bramasse il bacio di una sedicenne. Serrò gli occhi nel momento in cui il palmo del coach raggiunse la sua spalla, pochi istanti prima che si chinasse ad un soffio dal suo volto. Si sforzò di concentrarsi su altro, sull’aurea prospettiva di calcare il campo in qualità di titolare, sui rari sorrisi che Wakatoshi le riservava quando erano soli, sulla strada di terra battuta che dalla fermata dell’autobus di Minamisaka conduceva a casa sua attraverso le risaie, sui messaggini carini che la sua sorellina le inviava ogni sera per sapere come stesse. Quella sera sarebbe stato diverso? “Ciao Himeka, ho baciato il mio coach ed adesso sono titolare, non è fantastico?” No, non avrebbe mai permesso che scoprisse qualcosa di così raccapricciante sul suo conto. Le labbra di Hattori erano sottili e arse, la barba le pungeva la faccia, e solo un secondo più tardi si rese conto che un semplice bacio a stampo non era quello che aveva in mente. Fu costretta, suo malgrado, a schiudere le labbra e accoglierne la lingua, combattendo contro il senso di nausea che montava dallo stomaco, tollerando a stento il sapore sgradevole della sigaretta che pochi minuti prima stava fumando. Pregò a lungo che quel supplizio finisse il prima possibile e, dopo quella che le parve un’infinità di tempo, Hattori la lasciò nuovamente libera di respirare.
«Non c’è bisogno che ti dica che questo è un segreto che rimane fra me e te, vero? Non devi assolutamente parlarne con nessuno.» si raccomandò poi, gli occhi appena socchiusi.
Disgustata ed intimorita, Megumi annuì lentamente.
«Brava ragazza!» la lodò accarezzandole una guancia «Perché hai ancora quel muso? Sei titolare ora, dovresti esserne felice! Non era quello che volevi?»
La ragazza finse un sorriso tirato, ma non riusciva ad essere affatto felice. Gli occhi le caddero sulla fede di Hattori, poi sull’armadietto con la targa di Hoshino, che probabilmente avrebbe spodestato del suo ruolo in campo. Si sentiva sporca dentro, ma non poteva permettersi di abbandonarsi ai sentimentalismi superflui, se voleva farsi strada.
Dopotutto, era solo un bacio, si disse mentre tornava a lezione, con la sensazione di muoversi su delle gambe che non fossero le proprie. Continuò suo malgrado a crucciarsi, fissando il vuoto dal proprio banco, interrogandosi sull’eventuale esclusività del trattamento che Hattori le aveva riervato.
Dopo l’ultima, interminabile, ora di matematica, Megumi quasi urlò quando – aperta la porta della propria camera – trovò Scoiattolo sdraiata a pancia in giù sul letto che si era dimenticata non essere più vuoto. Era stata così turbata da quello che era successo con Hattori che non si era ricordata dell’ennesima scocciatura che quell’aprile le aveva riservato. Con uno scatto ferino, la nuova inquilina si puntellò sui gomiti e si mise seduta, affrettandosi a togliersi gli auricolari dalle orecchie. «Ho sentito che sei stata dal coach … allora? È quello che penso io? Promossa?» le domandò prima ancora che Megumi avesse il tempo di sfilarsi la giacca della divisa. Non capiva perché la cosa la interessasse tanto, ma era una buona occasione per ristabilire la propria supremazia.
«Così pare.» replicò con sufficienza.
«Non vedo l’ora di giocare dal tuo stesso lato del campo!» annunciò quella improvvisando un piccolo applauso con le mani. Davvero, una maestra della recitazione: fino al giorno prima era stata così giù di morale da farla sentire in colpa, adesso mancava poco che cominciasse a saltare sul letto. «Dai, cambiati! Ti ho aspettato qui apposta per andare in palestra insieme!»
In effetti, ora che notava, Scoiattolo indossava già la sua tuta da allenamento e il borsone era già pronto sulla sua scrivania. La guardò infilarsi le scarpe da ginnastica senza muoversi di una virgola.
«C’è qualcosa che non va, Sakurai-san?» le chiese, constatando la sua esitazione.
Megumi non riuscì a trattenersi dal porre quella domanda. Scoiattolo aveva reso palese che anche lei era stata ammessa fra le titolari e dunque anche lei aveva dovuto sostenere un colloquio con Hattori. Per un po’, aveva cercato di giustificare la propria sottomissione al volere dell’allenatore, ipotizzando che avesse preteso il pagamento di un prezzo simile a tutte le sue nuove giocatrici. In cuor suo sapeva che non era vero, ma volle chiedere comunque conferma.
«Hattori-sensei ha chiesto che tu gli dessi qualcosa in cambio?»
«In cambio di cosa?»
«Del posto nel sestetto iniziale.»
L’espressione confusa di Scoiattolo sfumò rapidamente in una profondamente offesa. Assottigliò gli occhi nocciola e arricciò il labbro inferiore, irritata. Megumi comprese subito di aver adottato una pessima combinazione di parole per farle quella domanda e che aveva lasciato largo spazio al fraintendimento. Per una volta non intendeva insultare nessuno, si stava solo interrogando sulla condotta di Hattori, ma riuscì ugualmente a mandare la piccola compagna di stanza e di squadra su tutte le furie.
«Si può sapere per chi mi hai preso? Certo che sei cambiata affatto, sei rimasta una stronza!» si lamentò profondamente ferita «E comunque, no … non preoccuparti, non mi sono comprata con una bustarella l’ammissione in squadra, non sei brava solo tu!»
Avrebbe potuto spiegarsi e rimettere a posto le cose, ma per farlo si rese conto che avrebbe dovuto confidare quello che era accaduto nel primo pomeriggio fra lei e l’allenatore, perciò preferì continuare a marciare sul malinteso che, tutto d’un tratto, da spiacevole come le era sembrato a primo acchito si riempì di possibilità. Si ripeté, ancora una volta, che non era un problema farsi detestare da una persona in più o da una in meno, l’importante era raggiungere i propri obiettivi.
«Già, dimenticavo che sei l’unico libero che abbiamo.» aggiunse quindi con freddezza.
«Come puoi essere così odiosa? Se non l’avevi notato, io stavo cercando di mettere da parte i nostri problemi e di ricominciare dall’inizio per rendere più civile questa convivenza. Potresti almeno sforzarti di fingere che io ti vada a genio, giusto per ricambiare un minimo della mia fatica, ma tu che fai? Sempre la solita antipatica arrogante!»
«Non ho alcuna voglia di fingere che tu mi vada a genio, perciò puoi smettere di essere ipocrita.»
«Ero sincera, non ipocrita! Ma una persona tristemente sola come te evidentemente questa differenza non è in grado di afferrarla!»
Ci sono dei tasti, nella nostra vita, che nessuno dovrebbe mai toccare senza permesso. Per Megumi, lo erano i suoi scarsi rapporti sociali: lei con le persone proprio non ci sapeva fare. O meglio, le piacevano finché la facevano sentire ammirata su un piedistallo e si sentiva autorizzata a non dar loro confidenza proprio in virtù della diversità di piani su cui insistevano. Chi per qualche motivo osava sentirsi un suo pari o – peggio – potesse a ragione vantarsi di essere migliore di lei, lo evitava senza rimpianti. Wakatoshi era l’unico a cui riconoscesse una superiorità e, complice la singolare natura della loro duraturo legame, l’unico che riuscisse a considerare un amico. Anche di più, nel suo particolare caso, ma non era quello il momento di crucciarsene. Tollerava a stento che fosse Wakatoshi stesso a farle notare la sua penuria di socievolezza, figurarsi la prima sconosciuta piombata fra capo e collo nella sua vita. Le montò in corpo la stessa identica rabbia che l’aveva spinta ad umiliare Scoiattolo in campo qualche mese prima e, come quella volta non aveva esitato a ferirla sportivamente, questa volta non intese affatto moderare l’affilatezza della propria lingua.
«Parla di solitudine quella che si è fatta chiudere in faccia tutte le porte del dormitorio! Non ti avrei voluta nemmeno io se Inoue non si fosse fatta improvvisamente proprietaria della mia stanza!»
Gli occhi di Scoiattolo non diventarono lucidi come l’ultima volta. Mantenne un contegno ed una determinazione ammirevole ma, involontariamente, confermò la teoria che Megumi aveva formulato all’amico il giorno prima e che da lui era stata disapprovata.
«Ne avevo tanti, di amici, prima che tu … prima che tu facessi quello che hai fatto!»
«Quindi dai la colpa a me perché hai voluto tingerti i capelli di rosa? Quanto sei infantile?»
«Do la colpa a te di aver fatto perdere alle mie compagne di squadra la fiducia che avevano in me! Ti do la colpa di avermi fatto dubitare della sincerità di quelli che mi stavano intorno! Ti do la colpa di avermi fatto trascorrere l’ultima metà dello scorso anno fuori dal club della mia scuola! Ma soprattutto, ti do la colpa di avermi fatto diffidare delle mie capacità, non ci cascherò di nuovo!»
«Se mi detesti così tanto, allora perché fra tutte le scuole della prefettura sei venuta ad iscriverti proprio qui? Saresti potuta andare al liceo Niiyama[1], ed avresti potuto prenderti la tua rivincita in campo. Ma, ahimè, credo che neanche con loro saresti riuscita ad averla vinta contro di me.»
Scoiattolo divenne paonazza per la collera. Strinse i pugni e boccheggiò a vuoto due o tre volte prima di riuscire a ribattere con la risposta definitiva.
«Sono fatti miei il perché sono venuta qui! E comunque non sperare di farmi desistere, questa stanza ormai è anche mia, non levo il disturbo fino alla fine dell’anno scolastico. Fino ad allora, mi dispiace, ma dovrai sopportare la mia presenza!»
Imbracciò il borsone che aveva già preparato e si sbatté la porta alle spalle, lasciando Megumi irritata e sola nella stanza che ormai non era più soltanto sua.
Mentre sbottonava la camicia meditò di telefonare immediatamente Wakatoshi e riferirgli cosa era appena accaduto, ma dovette subito riconsiderare l’idea. Per giustificarsi avrebbe dovuto parlare anche a lui di Hattori e per dirla tutta, l’amico non doveva assolutamente sapere nulla del bacio che aveva concesso al suo coach se non voleva perdere ogni chance con lui. Imprecò quando, per l’eccessivo vigore che aveva impiegato, un bottone saltò via dalla camicia rimbalzando dietro il letto. Non gli aveva mai tenuto nascosto qualcosa, ed era certa che lui sarebbe stato presto in grado di leggere oltre le sue bugie. Aveva le sensazione di aver imboccato un vicolo cieco.
~
«Allora, come va con Scoiattolo?»
Erano passate tre settimane da quando Megumi gli aveva annunciato che avrebbe giocato da titolare i preliminari degli interscolastici. Quando Wakatoshi le aveva fatto notare che non sembrava poi così felice come si aspettava, l’amica gli aveva menzionato di aver avuto – fra le altre cose – un battibecco con la compagna di stanza. Sospettava che non volesse rivelargli quale fosse stata la motivazione del litigio perché la ragazza sapeva bene di essere nel torto. In quei casi, per il proprio benessere, aveva imparato a lasciarla fare, ma buttò la domanda lì per interrompere il silenzio carico di tensione che si era creato fra lei e Tendou, colpevole di essersi seduto di punto in bianco accanto a lui a pranzo e di aver interrotto il loro momento di confidenza. A lui, in tutta sincerità, non dispiaceva affatto.
«Non ci parliamo da quella volta.» rispose giocherellando annoiata con un pezzetto di carne avanzata nel piatto.
«Eh?» s’intromise il centrale dando sfogo a tutto il suo potenziale da pettegola «E non avete provato a far pace, Sakurai-chan
Megumi arricciò il naso infastidita, ma si limitò a precisare acidamente che non aveva alcuna intenzione di riappacificarsi con Scoiattolo, nonostante quella stesse fingendo da un po’ che la discussione non fosse mai avvenuta e tentasse di parlarle con disinvoltura.
Apparentemente era la stessa di sempre, ma c’erano una serie di piccoli segnali che aveva iniziato ad osservare nell’amica che lo lasciavano talvolta perplesso. Innanzitutto, l’appetito: Megumi era capace di spazzolare quantità incredibili di cibo, tant’è che appena il suo corpo aveva iniziato ad essere rimodellato dall’adolescenza, aveva messo su dei cuscinetti sui fianchi che a stento teneva a bada con le numerose sessioni di allenamento a cui si sottoponeva. Il fatto che invece di mandare giù quel pezzetto di manzo ci stesse giocando era completamente fuori dalle sue consuetudini. Due: come conseguenza, era più pallida e smunta. Se non fosse stato per il fondotinta che adoperava copiosamente per coprirsi le lentiggini, sarebbe sembrata un cencio. Tre, continuava a guardarsi attorno con circospezione ed una certa inquietudine e a controllare il cellulare facendo attenzione che Wakatoshi non leggesse i messaggi che riceveva. Quattro: da un pezzo quando parlava con lui, si tratteneva. Sembrava sempre sul punto di dirgli qualcosa di importante, ma alla fine decideva di rimanere zitta o cambiare argomento. Era ovvio che gli stesse tenendo nascosto qualcosa che la tormentava, ma non se la sentiva di metterla alle strette a costringerla a confidarsi con lui, l’avrebbe solamente indispettita. Solo che a volte gli sembrava quasi spaventata da qualcosa, ed iniziava a preoccuparsi.
«Cosa fai oggi pomeriggio, Megumi-chan?» le domandò allora.
«Niente.» l’amica fece spallucce «Forse andrò in biblioteca a studiare, oggi che non ci sono allenamenti al club preferisco trascorrere meno tempo possibile con Scoiattolo.»
«Potresti venire a guardare i nostri.» le propose per cercare di tirarle su il morale.
«Sì, Sakurai-chan! Vieni a vederci!» approvò Satori con entusiasmo «Le ragazze fra gli spettatori hanno sempre un effetto benefico su Semisemi, poi s’impegna per fare bella figura!»
La questione Semi era piuttosto spinosa, ma si era aperta solamente a partire da quell’anno. Era stato il palleggiatore di Wakatoshi per tutto il periodo delle medie, poi al primo anno di liceo: era molto bravo e non gli sarebbe mai venuto in mente di lamentarsi di lui o delle sue alzate, ma da quando al club si era iscritto Shirabu, Washijou-sensei gli aveva sostituito la nuova leva senza esitazioni. Non l’aveva mai visto tanto furioso: i primi giorni evitava accuratamente di scambiare alcuna parola con il kohai, poi la rabbia era mutata in una quieta presa di coscienza dei fatti e in uno stato di perpetuo abbattimento. I palleggi di Shirabu erano certamente più efficaci ed affidabili di quelli di Semi, ma a Wakatoshi rincresceva che fosse stato escluso. Fra l’altro era un episodio che lasciava spazio alla riflessione: se Washijou avesse trovato fra i nuovi iscritti qualcuno di migliore degli attuali membri della formazione titolare, non si sarebbe fatto scrupoli e lo avrebbe sostituito come era accaduto a Semi. Al suo posto avrebbe potuto esserci chiunque, perfino Wakatoshi stesso, se non si fosse impegnato abbastanza.
Comunque, come sosteneva Tendou, le belle ragazze che assistevano gli allenamenti avevano sempre il merito di tirar fuori il meglio di lui, perciò non sarebbe stato male se Megumi si fosse fatta vedere da quelle parti.
Alla fine l’amica si era accucciata in un angolo sul palco che la palestra B ospitava e si era messa a scrutare ad uno ad uno i suoi compagni di squadra in azione. Questi ultimi, dal canto loro, gli chiedevano di continuo se fosse la sua ragazza e – alla successiva risposta negativa – se fosse single o già impegnata con qualcun altro. Wakatoshi non aveva considerato l’eventualità che un fenomeno simile potesse verificarsi quando l’aveva invitata, tuttavia il coach prese la situazione rapidamente in mano piazzandosi seduto proprio davanti a lei ed impedì che i ragazzi si distraessero continuando a ronzarle intorno.
Le sembrò che fosse leggermente più distesa: seguì la partitella di allenamento con attenzione lodevole, lasciandosi sfuggire un sorriso compiaciuto ogni volta che era lui a completare l’azione in fase di attacco. Lo faceva da quando erano bambini, e – nonostante fossero cambiate molte cose da quando lei correva a fare il tifo per lui durante i tornei fra bambini disputati nel minuscolo campetto all’aperto di Minamisaka – non riusciva a non trovarlo adorabile.
«Allora, che mi dici?» le domandò mentre gli altri lasciavano la palestra alla volta degli spogliatoi. Qualcuno la salutò timidamente con la mano, ottenendo in cambio un’occhiata scettica di entrambi.
«Sei sempre troppo schifosamente straordinario per questo mondo, Waka-nii.» commentò scuotendo il capo con rassegnazione. Le tese la mano per aiutarla a scendere dal palco, ma Megumi preferì saltare giù da sola. «Ma è stato ancora più straordinario scoprire che Secchione-kun in realtà non ha il naso geneticamente attaccato al libro. Iniziavo a credere che fosse nato così.»
«Cosa c’entra ora il tuo compagno di classe secchione?»
«Il vostro nuovo palleggiatore, quello del primo anno.»
«Shirabu è Secchione-kun
Megumi annuì con solennità. «Dovresti vederlo, Waka-nii. È un tutt’uno col banco. Non pensavo che fosse iscritto a nessun club, in tutta franchezza.»
«Effettivamente avevo sentito che non è entrato qui con una raccomandazione sportiva, e non ha frequentato le medie all’Accademia quindi … »
«Ha superato il test. Come ci si aspetta da un secchione.»
«A guardarlo non lo diresti … » considerò Wakatoshi osservandolo sfilarsi le ginocchiere. Il più giovane si accorse di avere addosso gli occhi dei due amici e, tutto imbarazzato, finse di doversi riallacciare le scarpe e si concentrò sui lacci.
«Non diresti nemmeno che è così bravo. Vuoi fare a cambio con Kurihara?»
«Kurihara ve la tenete voi. Non saprei che farmene di una che fa doppia in bagher.»
«Non era un modo di dire pallavolisticamente scorretto?» lo citò divertita.
«Comincio a credere che non sia solo un modo di dire. Ad ogni modo sono contento, Megumi-chan. Ti ho vista più tranquilla questo pomeriggio, mi stavi facendo impensierire.»
Shirabu passò accanto a loro per raggiungere l’uscita e li salutò con un inchino goffo e frettoloso prima di scappare via.
«Sono sempre tranquilla.» mormorò l’amica, sforzandosi di essere disinvolta.
«È ovvio che non lo sei, ti si legge in faccia che hai i nervi a fior di pelle. È per colpa di Scoiattolo?» le domandò mentre si allontanavano in direzione dell’uscita.
«No, quella non c’entra niente.»
«Allora è successo qualcosa al club?»
Megumi sembrò nuovamente sul punto di dirgli qualcosa ma si morse un labbro davanti alla porta degli spogliatoi, dove avrebbe dovuto salutarlo. Come al solito, alle fine non disse nulla.
«No, è tutto uguale.» dichiarò con poca convinzione «Waka-nii, ti dispiace se ti chiedo di farti la doccia su al dormitorio e di venire via con me adesso? Non voglio tornare da sola ora che si sta facendo buio.» lo pregò invece con un tono docile che sentiva raramente. Non era il solito capriccio da ragazzina innamorata, né un modo per attirare la sua attenzione a discapito delle sue nuove conoscenze, ebbe l’impressione quasi che fosse una richiesta d’aiuto. E se quello era l’unico tipo di aiuto che poteva darle, non aveva alcuna intenzione di negarglielo. Le rivolse un sorriso comprensivo.
«No, non mi dispiace.» la rassicurò accarezzandole affettuosamente i capelli «Vado a prendere le mie cose e possiamo andare.»
~
I cori degli spalti la infastidivano, più che rincuorarla, ed in quel primo sabato di giugno al Sendai City Gymnasium faceva così caldo che perfino respirare stava diventando difficile. Colpire la palla dalla zona 4 doveva essere teoricamente semplice con di fronte un muro basso come quello approntato dal liceo Gensai, ma Kurihara era così prevedibile che perfino quelle avversarie notoriamente scarse riuscivano a marcare con facilità le schiacciatrici. In tutta sincerità, era anche stanca di saltare a vuoto. Aspettava palle che raramente arrivavano, il più delle volte si ritrovava senza volerlo ad essere l’esca che distoglieva l’attenzione da Yoshida, che segnava da sotto rete un punto dopo l’altro ripetendo di continuo la stessa fast e guadagnandosi le lodi degli spettatori. Dopo esserci cascate per tutto il primo set, ora le ragazze della Gensai si stavano adattando al loro ritmo. Messa alle strette dalle circostanze, Kurihara tentò di alzarle finalmente una palla, ma il palleggio era tanto basso e scadente che la sua schiacciata rimbalzò sulle dita della centrale avversaria e ricadde nella loro metà del campo, a pochi centimetri dal braccio teso di Scoiattolo.
Con la coda dell’occhio scorse Hattori non battere nemmeno un ciglio per manifestare il proprio disappunto per l’errore. Quando però si accorse che Megumi lo stava guardando, scoprì la di denti ingialliti dalla nicotina in un ghigno che la fece rabbrividire di paura.
Non ne poteva più. Doveva uscirne, in ogni modo.
Da quando ad aprile aveva accettato lo scambio del coach, la situazione era rapidamente precipitata. Hattori ne aveva preteso un altro per farla rimanere nonostante le proteste delle sue compagne, un altro ancora quando aveva abbandonato il campo dopo aver aggredito Kurihara, un altro ancora quando aveva sofferto per uno stiramento al trapezio della spalla destra e non aveva potuto allenarsi a pieno regime per una settimana. Ne aveva pretesi e ricevuti così tanti che ormai Megumi aveva perso il conto e lui aveva smesso perfino di chiedere, prendeva e basta. Ed erano baci sempre più audaci, durante i quali ormai non voleva più saperne di tenere le mani a posto, ultimamente aveva avuto paura che potesse iniziare a esigere un prezzo ancora più alto. Più di una volta l’aveva minacciata di rovinare la sua carriera sportiva macchiandola di calunnie se non avesse acconsentito alle sue richieste, più spesso di quanto volesse le ricordava che se non avesse collaborato o se avesse parlato con qualcuno, non si sarebbe limitato a punirla con gli schiaffi o gli strattoni che le riservava ogni volta che opponeva resistenza.
Megumi era terrorizzata da Hattori. Le mani le tremavano e sudavano freddo, la vista le si appannava, dimenticò perfino di avere caldo. Cosa le avrebbe chiesto questa volta per rimediare all’errore? Si malediva ogni giorno per aver accettato quel ricatto: di certo non aveva giovato alla sua ambizione. Non era in quel modo che voleva giocare: nessuna delle ragazze si fidava di lei e, a parte i timidi tentativi di Scoiattolo, nessuna le si avvicinava. La guardavano tutte con sospetto e disprezzo e più di una volta aveva temuto che qualcuna sapesse qualcosa del modo in cui era arrivata nel sestetto iniziale. E neanche l’idea di mollare la formazione titolare era vantaggiosa: il coach avrebbe preteso comunque qualcosa perfino per rimanere in panchina, glielo aveva fatto presente in uno dei numerosi messaggi che le inviava ad ogni ora del giorno e della notte. Non poteva parlarne a Wakatoshi, non poteva parlarne alla sua famiglia, non aveva alcuna voglia di parlarne con le compagne di squadra.
Riuscì a stento a concentrarsi abbastanza per approfittare di una buona alzata di Kurihara e infilare nei tre metri una diagonale, riprendendosi il punto che aveva perso. Giocò il resto del set con il cuore in gola, temendo quasi che la palla le si avvicinasse e lei fosse costretta a colpirla male. Salutò il fischio del 2-0 con estremo sollievo e si unì alle altre per inscenare la recita dell’esultanza. Ascoltò Hattori propinare alla squadra le consuete quattro parole di rito, come se gliene importasse effettivamente qualcosa della loro vittoria. Rabbrividì ancora quando lo udì pronunciare il suo nome con tono serio.
«Sakurai, dobbiamo parlare, fuori di qui.»
Kurihara ridacchiò e mormorò qualcosa nell’orecchio di Okamoto, la più giovane delle due manager. Megumi avrebbe voluto prenderle entrambe a schiaffi: non avevano idea di cosa Hattori intendesse quando diceva di voler “parlare con lei”. Scoiattolo cercò di difenderla, incolpandosi personalmente di non aver raggiunto la palla prima che toccasse terra, ma Hattori era sordo a qualsiasi tipo di giustificazione: bramava solo ardentemente di poterle rimettere le mani addosso.
Sotto il flusso di acqua bollente della doccia, cercò di strofinare scrupolosamente ogni porzione della sua pelle che le mani e le labbra del suo coach avevano toccato, finché la zona interessata non si arrossava e cominciava a farle male. Questa volta ci era andato molto vicino, lei si era un po’ ribellata e le cose erano finite per il meglio, se meglio si poteva definire il ceffone che le aveva tirato prima di lasciarla andare. Ma le aveva anticipato:
«La prossima volta che ne combini una, dovrai impegnarti molto di più per farti perdonare.»
Osservò depressa il proprio riflesso nello specchio, appena uscita dalla doccia. Con sommo orrore si accorse, dopo aver scostato i capelli, di avere un segno rosso scuro fra la clavicola sinistra ed il collo. Quel maiale si era preso la libertà di farle un succhiotto e lei non era nemmeno stata in grado di riconoscere il dolore pungente che aveva provato in quel momento, per via della paura che aveva monopolizzato tutti i suoi organi di senso. Un succhiotto! Come se lei fosse una sua proprietà che – come tale – fosse sottomessa ad ogni suo più inconfessato e sudicio desiderio!
Si sentì ripugnata da se stessa, da quello che stava facendo, dallo sport che stava praticando. Se si fosse iscritta al liceo femminile Niiyama, come la sua famiglia e Wakatoshi le avevano più volte consigliato, le cose sarebbero state certamente diverse. Aveva scelto di rimanere vicina all’amico d’infanzia ad ogni costo e quelle erano state le disastrose conseguenze delle sue scelte.
Non valeva nemmeno più la pena lottare, l’ambizione che fin’ora aveva guidato ogni suo passo non serviva più a nulla, giocare non le serviva più a nulla. Era tutto sbagliato.
Alla fine di quel torneo si sarebbe spontaneamente ritirata dalla squadra e chiuso definitivamente con quella storia. Poco contava che avrebbe perso la borsa di studio sportiva, che non sarebbe riuscita a ripagare il prestito d’onore che i suoi genitori avevano dovuto chiedere alla banca per sostenere la retta esosa dell’accademia, loro li avrebbe affrontati quando lo avrebbero scoperto.
Se il giorno successivo avessero perso la partita contro l’istituto Shimaoka, tanto meglio: quel supplizio si sarebbe concluso in anticipo. Non le veniva nemmeno da piangere: aveva solamente voglia di tornare a casa, in mezzo all’orticello di nonna Ushijima e al canto delle cicale di luglio, farsi abbracciare da Wakatoshi come quando erano bambini e sentirsi sussurrare da lui che andava ancora tutto bene.
 
 

[1] LIEVE SPOILER PER CHI SEGUE SOLO L’ANIME! Il Liceo Niiyama è una scuola femminile della prefettura di Miyagi. La sua squadra femminile di pallavolo vince i preliminari degli interscolastici e del torneo nazionale primaverile ogni anno da ben tre anni. Insomma, queste ragazze sono il meglio della pallavolo femminile di Miyagi.

NOTE FINALI

Non ci credo nemmeno io che ho postato un altro capitolo! Innanzitutto voglio ringraziare tutti quelli che hanno dato una possibilità al primo, non mi aspettavo il minimo successo ed invece sono stata piacevolmente sorpresa! Grazie mille, mi fate recuperare un pochino di fiducia in me stessa, che scarseggia.
Questo capitolo è un po' pesantuccio, per le tematiche (lo riconosco) e si ha l'impressione che accada tutto molto in fretta: quella di tagliare le molestie di Hattori e limitarmi a degli accenni successivi è stata una scelta dettata dalla necessità di non rendere troppo melò e tragica la storia, anche se alcuni particolari sono rimasti piuttosto chiari. Insomma, questo è un capitolo in parte di transizione ed in parte necessario al meccanismo della trama, spero non sia risultato noioso.
Il prossimo posso assicurarvi che è più leggero: debuttano nuovi personaggi, il punto di vista principale cambia e se tutto va bene potrebbe anche far sorridere un pochino. Al momento sono in piena sessione estiva, ma cerco di fare del mio meglio. Che poi perché l'ispirazione arriva sempre sotto esame?
Ad ogni modo, se il capitolo vi è piaciuto, se ve la sentite lasciatemi una recensioncina: non c'è bisogno che sia un saggio sulla letteratura post moderna (ne ho già letti abbastanza), perciò non sentitevi intimoriti :( Se non vi è piaciuto per favore siate buoni che ho il cuore debole. ^^'
Se ci sono i miei soliti bellissimi errori di distrazione/battitura segnalatemeli, pare che nonostante le decine di riletture qualcuno mi sfugga sempre!
Un bacio e alla prossima! ♥

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: La porta sbagliata ***


Capitolo 3

La porta sbagliata

La disavventura del secondo giorno ai preliminari degli interscolastici era iniziata così, con il guasto al motore del minibus del liceo Aoba Johsai. Ne erano ridiscesi tutti innervositi alla prospettiva di non poter tornare a casa per il pranzo e trascorrere il resto del pomeriggio ad oziare dopo le due partite della mattinata. Con il mezzo in panne, dovettero rassegnarsi a consumare il pranzo in una pessima bettola a pochi passi dal City Gymnasium, qualcuno si lamentava di essersi perso la puntata di un varietà televisivo all’insegna del trash più estremo, altri di annoiarsi da morire. Tooru, per conto suo, si lamentava un po’ di tutto: il cibo che avevano mangiato faceva schifo, non si sarebbe sorpreso se fosse d’improvviso stato colto un attacco di dissenteria fulminante, aveva caldo, sonno ed urgente bisogno di spalmarsi sul ginocchio la pomata analgesica che aveva dimenticato sulla propria scrivania. Aveva giocato bene ed aveva perciò tutto il diritto di sprofondare nel futon della sua cameretta e spararsi in faccia il getto del ventilatore a velocità massima, ma alla fine tutti quanti avevano dovuto riportare i propri effetti personali nella stanza degli spogliatoi che era stata assegnata loro in mattinata. Era l’unica ancora occupata da una squadra maschile, dal momento che tutte le altre erano già ripartite alla volta delle proprie scuole ed il tardo pomeriggio era dedicato esclusivamente agli ultimi match del girone B femminile. Il minibus era stato portato via da un meccanico ed i due coach, prima di seguirlo, avevano raccomandato ai ragazzi di non separarsi per nessun motivo dal capitano Fujiwara, attualmente in carica.
La trovata geniale fu di Hanamaki, che balzò in piedi appena un istante dopo essersi abbandonato su una delle panche dello spogliatoio, gli occhi luccicanti di rinnovato entusiasmo.
«Andiamo a vedere qualche partita del girone femminile!»
«Eh? Ma se le nostre sono nel girone C!» osservò Watari incerto.
«Shinji, che te ne frega della nostra squadra femminile? Le conosciamo già!» lo rimbeccò Hanamaki urtandogli appena il braccio col gomito «Andiamo a vedere se fra le ragazze degli altri licei ce n’è qualcuna di interessante! Non so se mi spiego … Pantaloncini inguinali e aderenti, capelli legati, canotte attillate … » prospettò elettrizzato «Si sa che tutti guardano il volley femminile per la tecnica
Un brusio di assenso si diffuse fra i compagni di squadra, specie fra i kohai del primo anno. Tooru non condivideva l’entusiasmo generale, a dirla tutta: di ragazze fra i piedi ne aveva comunque abbastanza e la pallavolo femminile non era secondo lui competitiva e coinvolgente quanto quella maschile. Avrebbe di gran lunga preferito studiare i video dei prossimi avversari come proposto da Fujiwara, o continuare a sonnecchiare sulla spalla di Iwaizumi, nonostante l’amico non avesse alcuna intenzione di star fermo e la sua disumana temperatura corporea gli facesse sentire ancora più caldo. Quando tuttavia la votazione democratica si espresse a favore degli ormoni adolescenziali del resto della squadra, dovette arrendersi a rialzarsi e a seguire il gruppo fuori dagli spogliatoi, barcollando sul ginocchio buono. Forse sarebbe stato il caso di fare controllare l’altro, ma aveva il sentore che il medico lo avrebbe messo a riposo per qualche tempo e non era affatto sicuro che ciò si conciliasse bene con il raggiungimento dei suoi obiettivi.
«Sì Oikulo[1], dovresti far vedere a qualcuno il ginocchio destro.»
Iwaizumi lo avvicinò non appena imboccarono il corridoio che sbucava fra le tribune, dalle quali provenivano i cori della tifoseria intervallati a tratti quasi regolari dai fischi degli arbitri. Hanamaki e Matsukawa li seguivano in coda al gruppo, conversando concitati con Yahaba, il nuovo alzatore del primo anno.
«Non fa poi così male.» mentì per rassicurarlo. In parte era la verità: ad essere precisi, una volta che iniziava a camminare, il dolore si alleviava gradualmente fin quasi a scomparire, la difficoltà stava solamente nell’iniziare «Al momento ho solo un gran sonno.»
«Allora siediti accanto a Issei, non ti lascerò sbavare sulla mia maglietta anche sugli spalti.»
«Non ho sbavato sulla tua maglietta! Io non sbavo quando dormo!»
«Ah sì?» obiettò l’altro indicandosi la spalla sinistra, dove spiccava una chiazza di colore più scuro sul tessuto turchese della maglia «Quindi questa roba disgustosa di chi è?»
«D’accordo, ti ho sbavato la maglietta. Ma è saliva preziosa! Preziosa! Sai quante ragazze  pagherebbero oro per farsi macchiare la spalla di saliva da me?»
«Che schifo.»
«Sei solo invidioso perché io non ho bisogno di imbucarmi fra gli spettatori degli ottavi di finale femminili per trovarmi una bella ragazza.» replicò indispettito.
«Ah! Quindi è questo il problema? Non volevi venire con noi?» ridacchiò Iwaizumi «Non essere egoista, Oikulo. Solo perché tu hai figa in abbondanza non significa che debba negare ai tuoi compagni di squadra la possibilità di rimorchiare.»
«Quanto sei volgare, Iwa-chan!» protestò con tono volutamente infantile «Tanto non riusciresti ad abbordare una ragazza nemmeno se fossi l’ultimo maschio rimasto sulla faccia della Terra. E sai perché? Perché in tutte sarebbe vivo il ricordo del tuo splendido migliore amico, che poi sarei io, e sarebbero tristi per la mia assenza!»
«Un sacrificio che farei volentieri, con la garanzia di vivere in quello scenario.»
«Iwa-chan, sei cattivo!»
«E tu sei un deficiente che continua a farsi mollare dalle ragazze con cui si mette!»
«Come, come?» s’intromise tutto interessato Hanamaki, interrompendo la conversazione che stava svolgendo con Yahaba «Ci sono cose che non so?»
Tooru avrebbe voluto mettersi a gridare per la vergogna. Aveva detto e ripetuto più di una volta ad Iwaizumi di non far menzione a nessuno di quello che gli raccontava riguardo le fortunate con le quali si metteva insieme. Ultimamente era perfino riuscito qualche volta – per usare la metafora pallavolistica che adoperavano nello spogliatoio – a fare ace, solo che poi lo piantavano dopo qualche tempo, senza che lui sapesse esattamente dove aveva sbagliato. La cosa lo turbava poco, alla fine, perché non era mai serio con nessuna di loro e le avrebbe comunque mollate lui quando se ne fosse stancato; dopotutto aveva così tanta scelta da non correre mai il rischio di rimanere solo. Tuttavia sentirsi prendere in giro dal suo migliore amico che – teoricamente – sarebbe dovuto rimanere un confidente discreto, lo innervosiva ogni volta.
«Tutte le ragazze con cui si mette lo piantano dopo un paio di settimane.» ammise infatti Iwaizumi, tirando su le spalle con un candore decisamente fuori luogo.
«Stai scherzando, Iwaizumi-san?» domandò Yahaba sconcertato.
«Ovvio che no, lo vedi mai con la stessa ragazza per più di due settimane?»
«No, ma pensavo che le lasciasse lui …» si giustificò il più giovane, confuso.
Tooru sperò che tutti si fossero fatti la stessa idea di Yahaba: aveva lavorato tanto sulla sua dignitosa facciata di ragazzo popolare con l’altro sesso, non voleva che fosse lesa dalle indiscrezioni di Iwaizumi. Alla fine dei conti era un bel ragazzo e se la meritava.
«Infatti è come dici tu! Iwa-chan inventa storie perché è geloso della mia popolarità!» concordò dunque cogliendo immediatamente la palla al balzo, ma nessuno ormai sembrava accordare alla sua parola un’affidabilità maggiore di quelle di dell’amico.
«Andiamo, Hajime … e perché lo mollano?» domandò Hanamaki incuriosito «Scopa male?»
«Questo non lo escluderei.» convenne Iwaizumi rivolgendogli un’occhiata divertita in tralice.
«Io scopo da dio!» protestò il palleggiatore offeso «Puoi chiedere a chiunque fra quelle con cui sono stato! Soddisfatte alla perfezione
«Ma se lo hai fatto sì o no tre volte … Avranno finto … » commentò provocatorio l’altro.
«Comunque scopo di sicuro più di te!» precisò Tooru deciso a ribadire la propria condizione di superiorità.
Matsukawa e Hanamaki dovettero trattenere Iwaizumi per le braccia per evitare che lo pestasse di botte, ricordandogli che il giorno dopo si sarebbe disputata la finale ed avrebbero preferito avere il palleggiatore ancora tutto intero. Con sollievo di Tooru l’amico desistette dall’intento omicida e fu convinto dagli altri a prendere posto pacificamente accanto a lui, a patto che non tentasse nuovamente di appisolarsi sulla sua spalla.
«La voce che gira è che tu sia troppo concentrato sulla pallavolo.» spiegò a sorpresa Matsukawa, che fino ad allora era stato ad ascoltare in silenzio «All’inizio le ragazze pensano di poter chiudere un occhio, ma poi si rendono conto che sei continuamente assente e dai buca agli appuntamenti all’ultimo momento, perciò preferiscono rompere.»
«E, quando c’è, le ossessiona con la pallavolo.» concluse Hanamaki «Sì, direi che ha senso.»
«Makki!» si lamentò Tooru «Non è vero!»
«Sì, che lo è!» lo ammonì Iwaizumi mentre il gruppo si fermava davanti alla bacheca con gli incontri del giorno «Quando stavi con Nagase, quella poveretta per ottenere di uscire finalmente con te dopo una settimana di bidoni è stata costretta a vedersi una partita di V.challenge League
«Decisamente più emozionante del film romantico che voleva propinarmi al cinema.» si giustificò il palleggiatore tutto imbronciato «Dovrebbe ringraziarmi.»
«Oikulo, tutte le ragazze amano i film romantici, se fai così continuerai a farti lasciare!» commentò Hanamaki divertito.
«Va bene così, non ho mai detto di avere intenzione di mettere la testa a posto per ora. E poi, caro il mio Makki, ne ho mollate parecchie anche io, d’accordo? Sono tutte uguali: stessi gusti, stessi discorsi, stessi interessi stereotipati. Una volta che è riuscito a limonare un po’ o a  fare ace, è inevitabile che uno si stanchi.»
«Giuro che ti ammazzo, Oikulo. Uno di questi giorni, davvero.» grugnì Iwaizumi innervosito.
Il povero Iwa-chan, a dirla tutta, fuori dal campo non aveva mai fatto ace o anche solo baciato qualcuna, e non era molto popolare fra le ragazze, che dedicavano costantemente più attenzione a lui che al suo amico. Tooru non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma non capiva quelle ingrate: trovava che Iwaizumi avesse tutte le carte in regola per essere il migliore dei fidanzati. Nonostante l’apparenza burbera, sapeva essere gentile e premuroso, oltre che affidabile e leale. Era quel genere di ragazzo corretto e spontaneo su cui una donna avrebbe sempre potuto contare. Per di più, fisicamente non era affatto messo male, quando si ricordava di curarsi. Perché non interessasse a nessuna rimaneva dunque un mistero.
«Non essere così invidioso, se vuoi inzuppare il biscotto ti combino un appuntamento con qualcuna che ci sta, ne ho conosciute un paio che … »
«Sei davvero depravato … » commentò Iwaizumi disgustato.
«C’è differenza fra l’essere depravato ed il divertirsi mentre si aspetta di trovare quella che si commuova guardando la League come le altre si commuovono guardando i film d’amore.»
«Allora aspetterai per sempre …» cantilenò Hanamaki.
«Vorrà dire che mi divertirò per sempre.» concluse compiaciuto.
Nel campo, intanto, erano iniziati i riscaldamenti delle due squadre. Una di esse, lo appresero da un tifoso seduto qualche fila più in basso, era quella del liceo femminile Sekigawa che – a quanto pare – l’anno prima era perfino arrivata alle finali. La vivace divisa oro e rosso cremisi che le sue giocatrici indossavano contrastava fortemente con il bianco, il nero ed i viola tenui predominanti su quella delle avversarie. Con una fastidiosa stretta allo stomaco riconobbe le uniformi scolastiche che portavano i supporter sistematisi dal lato opposto, dietro lo striscione color malva che recitava “Più in alto di tutte!
«La Shiratorizawa ha una squadra femminile?» domandò ad alta voce prima ancora di rendersene conto. La tifoseria era decisamente ridotta rispetto al solito, ma li avrebbe riconosciuti ovunque.
«Una scuola grande così, cretino … ti pareva che non avesse una squadra femminile?»
«Iwa-chan, sai com’è? Quando penso all’accademia Shiratorizawa la prima cosa che mi viene in mente non è di certo l’eventualità che la frequentino anche studentesse che giocano a pallavolo.»
Il senpai Guda, uno schiacciatore laterale dall’indole scherzosa e vivace prese posto proprio davanti a loro appena riconobbe le squadre in campo. Da quello che Tooru sapeva di lui, era appassionato di pallavolo femminile, perché sua sorella era iscritta al primo anno nel loro liceo e giocava nel club delle ragazze come libero. «Quindi hanno vinto contro l’istituto Shimaoka, stamattina? Questa non me la perdo nemmeno per sogno!» esclamò inforcando un paio di occhiali da vista.
«Guda, le conosci? Sono brave?» intervenne Hanamaki, tutto preso. «No, perché fra quelle della Shiratorizawa ce ne sono un paio che sono davvero una benedizione per gli occhi.»
«Ad essere sinceri, anche fra quelle del liceo Sekigawa c’è qualche gioiellino.» aggiunse stancamente Matsukawa.
«Entrambe fanno parte delle migliori otto squadre femminili della prefettura. Il liceo Sekigawa spacca, sono due anni che arrivano ai quarti di finale. La Shiratorizawa invece è da un pezzo nella fase discendente della sua parabola di successi, fino a qualche tempo fa arrivavano puntualmente alle finali di tutti i tornei della prefettura, spesso si qualificavano per i tornei nazionali. Cambiano allenatore di continuo, non riescono a trovarne uno che voglia tenersi il posto. Adesso hanno Isao Hattori, quello che giocava negli Akagi Union, chissà se va meglio.»
«Ma chi, quell’energumeno che aggredì l’arbitro per avergli fischiato invasione?» domandò Hanamaki perplesso «Insegna alle sue ragazze come farsi ammonire efficacemente?»
«Riformulo: non credo che vada affatto meglio.» ritentò Guda «È un gran peccato perché ci sono alcune giocatrici di quella squadra che sono davvero valide, farebbero la festa perfino a qualche giocatore delle squadre maschili.»
«Vuoi esagerare … » ridacchiò Tooru scettico.
«No, sono serio. Vedi quella lì? Quella con i capelli corti, che sta in coppia con la bionda riccia.»
La ragazza in questione era probabilmente la più alta che Tooru avesse mai visto in vita propria. A giudicare dalla tonalità ambrata della pelle, era verosimile che non fosse totalmente giapponese.
«La numero 7?» chiese conferma Iwaizumi.
«Quella è Asami Yoshida, ben 190 cm, gioca da centrale ed è stata convocata già due volte in nazionale under-18. È incredibile già così ma aggiungeteci che ha la vostra stessa età.»
«Quindi gioca in nazionale da quando aveva sedici anni?» intervenne Matsukawa per la prima volta realmente stupito di qualcosa.
«Esatto, Mattsun.» concordò Guda sistemandosi gli occhiali con l’indice, prima di continuare indicando la compagna bionda con cui Yoshida stava palleggiando. «Furumi Hoshino, stesso anno, banda. Ha delle gran belle diagonali in repertorio, anche se non brilla per la tecnica. In questo torneo è stata sostituita nel sestetto iniziale e francamente non so se mi dispiaccia o meno.»
«Non è alta come l’altra.» osservò Hanamaki.
«Sì, ma salta parecchio in alto. Spero la facciano entrare almeno un per un po’, così potrai vedere.»
Il senpai puntò quindi il dito su una figurina minuscola in fondo al campo, i cui capelli rosa pastello arrangiati in un codino spettinato cozzavano fortemente con il nero prevalente della divisa. «Arisu Hiromi, detta lo Scoiattolo. È stata compagna di scuola e di squadra di mia sorella alle medie, perciò posso dirvi che è straordinaria. Mia sorella l’ammira tanto per le sue difese al limite dell’incolumità fisica, lei non è in grado di lanciarsi in quel modo sul pallone. Hiromi è capace di tuffarsi nel pubblico per salvare una palla, di ricevere una schiacciata in faccia pur di non far segnare le avversarie, ha una resistenza che la maggior parte di chi gioca può solo sognarsi. L’anno scorso ha avuto un momento di crisi, pensavano che avrebbe lasciato la pallavolo, ma poi è ricomparsa nelle fila della Shiratorizawa. È sempre bello rivederla in campo.» spiegò mentre entrambe le squadre si mettevano in fila per i riscaldamenti dell’attacco che l’arbitro aveva appena fischiato.
«Però è proprio minuscola. Una battuta forte potrebbe spezzarle le braccia.» considerò Watari prendendo parte alla conversazione.
«Piccola ma resistente, infatti ha giocato contro … e qui viene il bello … quella lì! Numero 12!»
Il rumore della palla rimbombò due volte nel palazzetto. La prima, quando con uno schiocco secco la mano destra della ragazza a cui Guda accennava la colpì bruscamente, la seconda quasi immediatamente dopo, quando si schiantò, con un boato chiaramente distinguibile perfino sul chiacchiericcio degli spettatori, entro la linea dei tre metri del campo avversario, per poi rimbalzare in alto e finire fra le mani di un ragazzo comodamente seduto fra gli spettatori. Tooru udì chiaramente Iwaizumi lasciarsi sfuggire qualcosa a metà fra un apprezzamento ed un’imprecazione e suo malgrado si ritrovò d’accordo con quello che Guda aveva sostenuto qualche minuto prima: con quel braccio avrebbe potuto facilmente rivaleggiare con qualche suo collega di una squadra maschile.
La numero dodici atterrò pesantemente sui talloni e si allontanò per rimettersi in fila, controllando con le dita che la treccia in cui aveva raccolto i capelli mogano fosse rimasta ferma sulla sommità della testa e non fosse scesa durante il salto. Ma non era solo il suo attacco a renderla speciale e a distinguerla dalle sue compagne: non era alta quanto Yoshida, ma svettava ugualmente sulle altre compagne di squadra, per merito certo delle gambe lunghe e tornite, toniche come quelle di una statua greca che aveva visto sul suo libro di arte a scuola. Altrettanto muscolose erano le braccia e le spalle ampie e robuste. Ciò giustificava la potenza della schiacciata a cui avevano assistito poco prima. Quando si voltò verso il lato dove si erano sistemati, poté intravederne da lontano i lineamenti del viso, gli occhi grandi e appena allungati, il naso sottile e leggermente appuntito, le labbra carnose arrossate per il caldo. Si trattava di un tipo di bellezza poco convenzionale che poteva soggettivamente piacere o non piacere, ma ne rimase colpito così tanto da non riuscire a levarle gli occhi di dosso.
«Megumi Sakurai, primo anno. Come avete visto, una bestia.»
«Primo anno?» ripeté Iwaizumi sconvolto «Schiaccia in quel modo?»
«Ha distrutto la squadra di mia sorella alle finali dello scorso anno. Poverina, Miyu è terrorizzata da lei e non ha nemmeno provato ad entrare in campo, pensate che è riuscita a sfiancare Hiromi e ad avere la meglio in partita.»
Il fischio dell’arbitro segnalò l’inizio della partita. Sakurai era schierata sotto rete, in zona 2, proprio di fronte alla palleggiatrice, già pronta al servizio. Ne ricavò che giocasse nel ruolo di prima banda, anche se non sembrava affatto felice di trovarsi dov’era. Rimase piuttosto deluso del vederla giocare: l’altezza, l’elevazione e la potenza di braccio che la schiacciatrice aveva esibito poco prima durante i riscaldamenti latitavano invece nelle azioni vere e proprie. Era raro che la palleggiatrice, che peraltro non eccelleva affatto nella tecnica, le servisse la palla e – quando lo faceva –  sembrava che la numero 12 avesse sempre da ridire qualcosa, anche quando riusciva a completare un attacco invidiabile e a guadagnarsi un punto. Concluse non solo che quello schema di gioco, che consisteva soprattutto in un gran numero di fast eseguite da Yoshida, la penalizzava fortemente ma anche che lei non faceva assolutamente nulla per migliorare la propria condizione: si trovava di fronte ad un vero spreco.
«È brava ma è sfruttata male.» considerò ad alta voce senza nemmeno accorgersene.
«Cosa intendi, senpai?»  domandò Yahaba incuriosito. Nel frattempo Sakurai ottenne di mettere a terra un’altra palla impeccabile, permettendo alla propria squadra di raggiungere per prima la soglia dei 20 punti.
«Ti piace il cinema, Yahaba?»
La riserva annuì, non nascondendo un briciolo di confusione.
«Ed eccolo che comincia … » sospirò Iwaizumi.
«Spesso nel gergo sportivo ci si riferisce all’alzatore come al regista, ho sempre trovato che non ci fosse termine più azzeccato. Hai mai la sensazione che da un film all’altro la performance di un attore migliori o peggiori drasticamente? Capita più spesso di quanto immagini che la colpa sia da addossare alla regia: l’attore recita sottostando alle indicazioni del regista e può accadere che fra i due vi siano delle tensioni quando il primo non condivide per un motivo o per l’altro le dritte del secondo. Qualcuno riduce tutto alla vaga scusante delle “divergenze artistiche”: ebbene, esistono anche nella pallavolo. Nel caso di questa squadra, le divergenze artistiche sono evidenti: la regista è mediocre e nel cast c’è un talento grezzo quanto immodesto, che smania di poter essere una primadonna, ma si ritrova la strada bloccata sia dalla regia.»
«Comunque presa da sola rimane brava e non ci piove, poi è anche una bella ragazza … » cambiò argomento Iwaizumi.
«Direi che di viso è carina, però il fisico proprio non mi piace. Troppo alta e troppo corpulenta.» commentò invece Yahaba.
«Perché lamentarsi del fatto che sia piazzata? Io penso che abbia delle belle curve!»
«Iwa-chan, quindi ti piacciono le ragazze curvy?»
«Cosa dovrei farmene di una tavola? Mangiarci sopra?»
«Potrebbe essere una buona idea … » intervenne Matsukawa.
Con enorme disappunto degli spettatori, Sakurai sbagliò clamorosamente una battuta. Tooru osservò che era chiaramente troppo tesa. Di cosa aveva paura? La risposta giunse quando un secondo dopo la Shiratorizawa chiamò il time-out e l’allenatore la prese da parte per rimproverarla. Il coach Hattori, così lo aveva chiamato Guda poco prima, non urlava, né sembrava aggredirla. Le si rivolgeva con un calma melliflua ma allo stesso tempo appariva vagamente inquietante, tanto che la ragazza sembrava terrorizzata da lui. Tooru non si sarebbe sorpreso se fosse scoppiata a piangere di punto in bianco. Al termine del tempo concessogli, la spinse in campo con una pacca … sul sedere? Aveva visto bene? Cercò lo sguardo di qualche suo compagno per trovare conferma ma nessuno stava guardando cosa accadeva ai bordi del campo, tutti presi da un nuovo capriccio.
Hanamaki aveva tirato fuori il cellulare ed aveva ricercato con successo il profilo Twitter[2] di Sakurai, perciò i suoi compagni di squadra si erano lanciati in un acceso dibattito su quanto fosse o non fosse interessante come ragazza. Guda ridacchiava con l’aria di uno che la sapeva lunga, ma non sembrava avere alcuna intenzione di interromperli. A quel punto anche Tooru si incuriosì e si sporse meglio per dare un’occhiata allo schermo del telefono, sgomitando su Iwaizumi.
«Oikulo, arrivi al momento giusto. Stavamo giusto dicendo che sembra il tuo Twitter
«In che senso, Makki?»
Da un primissimo esame dei post, la sproporzione tematica era ad assoluto favore della pallavolo: foto di lei in azione, del campo, delle sue nuove scarpe da ginnastica, della maglia numero 12 appena ricevuta, delle tute che provava davanti allo specchio, di un Molten da beach volley rosa pastello che aveva trovato per caso in un negozio di articoli sportivi. C’era anche un selfie con Johannes Schneider, il palleggiatore titolare dei Mitsubishi Aces, che – a giudicare dalla didascalia della foto – dovevano essere la sua squadra di V.Premium League preferita.
«Io ho più selfie.» giudicò indispettito «Non sono così monotematico.»
«Non vedo molta differenza, a lei piace la pallavolo e basta, a te piace la pallavolo e te stesso.»
«Ci sto facendo un pensierino, davvero!» dichiarò sinceramente intrigato.
«Non stai uscendo con Kobe della sezione 3?» chiese Matsukawa perplesso.
«Sì, ma ho già fatto ace
«Fai schifo.» bofonchiò Iwaizumi «Sei davvero un pervertito.»
«Allora la acchiapperò per te, Iwa-chan. Sono o non sono un amico magnanimo?»
«Non la voglio una se è come te, come piaga tu basti e avanzi.»
«Allora la terrò tutta per me, sta’ a vedere … aspettate la fine della partita!»
Osservò il resto della partita con attenzione lodevole e lo sguardo fisso su Sakurai, che attendeva invano palle che non le venivano quasi mai servite. Ancora una volta si ritrovò ad interrogarsi sul tipo di rapporto che intrattenesse con il coach che continuava ad occhieggiare in sua direzione mettendole ansia. La sua fantasia galoppò rapidamente senza che riuscisse ad impedirlo: che la molestasse? Forse si augurava che sbagliasse qualcosa per avere un pretesto per punirla. No, troppo cliché, troppo trama da filmetto porno anni novanta. La schiacciatrice recuperò un minimo di compostezza verso la fine e fu la protagonista indiscussa delle azioni che determinarono gli ultimi spettacolari cinque punti a favore della propria squadra nel secondo set, tuttavia vanificati da una serie di ace del capitano della squadra avversaria che chiuse infine la partita 2-0.
Mentre gli spettatori iniziavano a defluire dagli spalti, alcuni scendevano in campo per congratularsi con le vincitrici o rincuorare le sconfitte. Qualche giocatrice conversava ai bordi del campo con chi era venuto a fare il tifo per loro, altre si affrettavano alla volta degli spogliatoi.
Tooru e gli altri scesero fino alla gradinata più in basso, impazienti di scoprire in che modo il palleggiatore sarebbe riuscito ad attaccar bottone con Sakurai. L’occasione giunse presto, quando la ragazza, con il borsone in spalla e la felpa legata in vita, passò davanti a loro sistemandosi la treccia ormai sfatta. Era stanca e provata, le guance erano arrossate per la fatica, i capelli sudati e appiccicosi e forse prima di entrare in campo aveva messo dell’eye-liner che le si era prevedibilmente sbavato durante i due set, ma vista da vicino per qualche motivo gli sembrava anche più carina che nelle poche foto di tutto punto che avevano trovato su Twitter.
«Gumi-chan!» gridò per attirare la sua attenzione. La ragazza però non colse l’appello oppure finse di non udirlo, perciò ripeté a voce più alta «Gumi-chan!».
Solo allora Sakurai si voltò a guardarlo, piuttosto perplessa «Dici a me?»
«Certo che sì, ci sono altre Gumi-chan?» domandò gioviale.
«In realtà non ce n’è nemmeno una, Gumi-chan ci chiami tua sorella.» replicò infastidita.
Sentì Iwaizumi e gli altri trattenere le risate. Non si aspettava affatto un’uscita simile: di solito le ragazze a cui rivolgeva la parola arrossivano e iniziavano a balbettare, tutte lusingate. Certo, qualche volta qualcuna l’aveva ignorato, ma nessuna gli aveva mai risposto in maniera scortese.
«Megumi-chan va bene?» ritentò allora.
«Chi non mi conosce mi chiama Sakurai-san e tu non mi conosci.»
Ma quanto poteva essere indisponente? Se la tirava come la locomotiva di uno shinkansen! Si era già pentito di averci provato, ma ormai non poteva più demordere: lo avrebbero preso in giro a vita. Se doveva affondare, tanto valeva farlo con dignità.
«D’accordo, Sakurai-san. Se mi presento ci conosceremo no? Potrò chiamarti per nome? Tu puoi usare il mio. Io sono …»
«Tooru Oikawa, so chi sei.» tagliò corto lei.
A quel punto qualcuno cominciò a tossire vigorosamente, sospettava fosse il senpai Guda.
«Magari sei una mia fan?» dedusse speranzoso.
«Niente affatto, ma conosco qualcuno che parla costantemente di te.» ribatté infastidita «Per quello che mi riguarda, quelli come te mi stanno sulle palle.» aggiunse poi.
«Come sarebbero quelli come me?»
«Palloni gonfiati, narcisisti, vanitosi, superficiali e sessisti.» rispose sollevando un sopracciglio con aria di sufficienza. Il resto del gruppo esplose in un applauso di pura ammirazione, eccezione fatta per Yahaba che ancora non riusciva – come Tooru – a capacitarsi di cosa fosse precisamente accaduto. Sakurai abbozzò un vago sorriso compiaciuto e si allontanò a grandi passi verso l’altro lato del campo.
«Ti ha fregato, caro il mio Oikulo!» annunciò Iwaizumi allegro come non mai «Questo giorno sarà scritto negli annali della storia!»
«Sono stato rifiutato?»
«Brutalmente!» confermò Matsukawa battendogli un sonoro colpo sulla spalla.
«Pare che anche tu sia umano, dopotutto!» considerò Hanamaki «Don’t mind, don’t mind! Dopo un po’ passa … »
«O forse è lei che ha dei gusti disumani … » obiettò Tooru offeso.
«Okay, ma per respingere Oikawa-senpai, deve avere degli standard altissimi! » osservò Yahaba.
«Sapete» s’intromise finalmente Guda, manifestando finalmente la sua posizione ambigua «Credo che altissimi sia proprio l’aggettivo giusto per indicare gli standard di Sakurai.»
Tooru intercettò la direzione che il dito del senpai indicava e la trovò intenta a conversare amorevolmente al bordo del campo con nientedimeno che Wakatoshi Ushijima, probabilmente rimasto ad assistere al torneo femminile. Si sorridevano e lui le teneva disinvoltamente una mano sulla spalla, parlandole di chissà che cosa. Sembravano in assoluta confidenza.
«Sta con Ushiwaka?» esclamò sconvolto il palleggiatore «E tu lo sapevi, brutto … »
«Ehi! Ehi!» si giustificò il senpai «Eri così infiammato che mi dispiaceva fermarti. E comunque non so se stanno insieme veramente, a dire la verità non lo sa nessuno. Si sa solo che passano molto tempo insieme e si conoscono da prima di iscriversi all’Accademia.»
«Bene, sono perfetti: il signore e la signora Antipatia.» si lamentò Tooru «E comunque l’avete decisamente sopravvalutata, non è niente di che.» proseguì stizzito.
«Ah, certo.» replicò sarcastico Iwaizumi «Si vedeva da come l’hai fissata per tutto il tempo che pensi che sia niente di che
D’accordo – rimuginava qualche minuto più tardi mentre si allontanavano a grandi passi in direzione del complesso degli spogliatoi per recuperare le loro cose e caricarle sul pullmino rimesso a nuovo – forse all’inizio l’aveva giudicata appetibile, ma adesso che si proponeva di essere obiettivo si rendeva conto di essere stato troppo avventato del giudizio. Poteva avere dei bei lineamenti, certo, ma le ragazze erano carine se basse e magroline, così che ai ragazzi venisse voglia di difenderle e a loro di farsi difendere. Una come Megumi Sakurai era invece alta e sgraziata, e con quei bicipiti probabilmente avrebbe steso anche il proprio fidanzato. E poi, quei capelli mogano erano sicuramente tinti, non era per niente naturale. Per non parlare di tutte quelle lentiggini: la pelle di una bella ragazza deve essere candida ed uniforme, non costellata di macchioline antiestetiche. E Iwaizumi avrebbe dovuto piantarla di urlargli contro mentre si stava sforzando di fare opera di auto-convincimento, cosa aveva da sbraitare tanto? E per quale motivo non lo stavano seguendo nella stanza che era stata assegnata loro? In quello stato di confusione generale, ruotò verso il basso la maniglia e spalancò la porta, mentre il resto dei compagni di squadra gridava all’unisono: «Oikawa, no!»
Che avesse aperto la porta sbagliata, lo elaborò un instante dopo, o forse un’ora, anche se non escludeva che fosse rimasto lì imbambolato con la bocca aperta per metà giornata. Il senso del tempo lo aveva dimenticato certamente a casa come la pomata per il ginocchio.
Lo spogliatoio sarebbe stato felicemente vuoto se non fosse stato per una sola persona, pietrificata nell’angolo sinistro accanto al suo borsone. Megumi Sakurai lo fissava agghiacciata stare impalato sulla soglia della stanza, con indosso solo l’intimo. I capelli mogano, che fino a poco prima aveva reputato troppo tinti, erano bagnati e le ricadevano in onde leggere oltre le scapole. Tooru la contemplò paralizzato, come assistesse in estasi ad una visione celestiale, e tutti i suoi buoni propositi di levarsela dalla testa crollarono ridicolmente su loro stessi. Ammirò la larghezza delle spalle, l’incavo delle clavicole, la robustezza dei bicipiti disseminati delle lentiggini che tanto aveva disprezzato, la perfezione petto inaspettatamente prosperoso per la sua età. Ancora indugiò sulla sagoma degli addominali, sui tre nei bizzarri a sinistra dell’ombelico, sui fianchi sinuosi e ampi e in seguito, oltre gli infantili slip bianchi a cuoricini rossi, sulla curva formata dai glutei gonfi e sodi, sulle cosce tornite e piene. Sentiva il cuore battere a mille e le orecchie in fiamme, suo malgrado si rese conto di non aver mai apprezzato più di così un corpo femminile e si scoprì a formulare una quantità indicibile di pensieri tutt’altro che casti.
«Da che pianeta vieni … ?» si ritrovò a sussurrare con la bocca secca.
Strillando improperi che non si addicevano affatto ad una signorina, Sakurai sollevò il proprio borsone pieno con un solo braccio e glielo scagliò addosso con tutta la forza. Tooru ebbe appena il tempo – grazie all’istinto di conservazione – di richiudere rapidamente la porta metallica, sulla quale rimbombò il tonfo del colpo. Ancora scosso e con le guance rosse, si riavvicinò barcollante ai compagni, visibilmente preoccupati. Iwaizumi si stava già arrotolando le maniche per riempirlo di botte, Tooru gli piazzò una mano sulla spalla e ansimò con serietà: «Su Sakurai … hai ragione tu …» commentò ancora con voce rauca «Lei è … non ho parole.»
«Oikawa, stai bene?» si preoccupò Matsukawa.
«Hai beccato Sakurai nuda?» domandò Hanamaki entusiasmato.
«Il solito bastardo fortunato … » borbottò Iwaizumi assestandogli un forte colpo sul petto che gli strappò un uggiolio di dolore «Sei proprio una faccia di bronzo, Oikulo
«Non l’ho fatto volontariamente! Ho sbagliato porta!» si giustificò il palleggiatore imbarazzato «Pensavo che fosse da quella parte!»
«Ti stavo avvisando da mezz’ora, deficiente!»
«Non ho sentito!»
«Ed invece hai sentito benissimo, volevi solo spiare! Oggi le prendi sicuro!»
Prima che l’amico potesse provvedere personalmente a punirlo per la sua distrazione, la porta che aveva appena richiuso si riaprì di scatto. Megumi Sakurai ne uscì schiumante di rabbia e vergogna, con i capelli ancora umidi, la t-shirt di ricambio infilata al contrario ed i pugni stretti così tanto che le nocche erano sbiancate e le spalle le tremavano. Una scintilla allarmante le balenò negli occhi marroni quando appurò che Tooru era ancora lì, sul punto di prendersi una testata da Iwaizumi, il quale però, come il resto della squadra, al momento la guardava impietrito avanzare a grandi passi verso di loro.
«Tu, schifoso maiale pervertito!»
«Non l’ho fatto apposta!» si difese spaventato «Mi sono sbagliato, lo giuro!»
Con un gesto brusco e forte spinse Tooru indietro ed il ragazzo si ritrovò dolorosamente seduto per terra prima che lui o i suoi compagni si rendessero conto di cosa stesse accadendo. Poi si chinò ad afferrarlo per il bavero della tuta con la mano sinistra, mentre stringeva la destra in un pugno pronto a colpirlo sul viso.
«La faccia no, la faccia no!» la supplicò terrorizzato mentre lei si avventava su di lui come una belva, immune ad ogni suo appello. Per fortuna Iwaizumi si riscosse subito dalla sorpresa e riuscì a fermarla prima che lo colpisse sul naso, bloccandole i polsi a fatica. Hanamaki e Watari riuscirono, unendo i proprio sforzi a quelli di Iwaizumi, a tirarla nuovamente in piedi, credendo di fare cosa giusta, mentre invece la nuova posizione le permise di sferrare un dolorosissimo pestone sullo zigomo del palleggiatore. Guda e Matsukawa lo trascinarono più lontano da lei, mentre Fujiwara si frapponeva fra i due con le braccia spalancate.
«Basta così!» gridò in direzione di Sakurai, che ancora tentava di divincolarsi dai suoi tre compagni di squadra, mettendone a dura prova la resistenza «Non l’ha fatto apposta, hai sentito?»
Con uno scalpiccio di scarpe da ginnastica ed un gran vociare la squadra di Sakurai, che proprio allora ritornava dal campo e aveva sentito le urla, circondò il capannello di ragazzi. La loro capitana, scorgendo la propria schiacciatrice immobilizzata da ben tre ragazzi fece una smorfia inorridita e corse subito in suo soccorso, seguita dal libero coi capelli rosa. Riportata alla realtà dal suo intervento, Sakurai si rilassò e smise finalmente di attentare alla vita di Tooru.
«Cosa diamine le state facendo?» urlò allarmata cercando di sottrarre la compagna di squadra alla stretta di Iwaizumi, Hanamaki e Watari. La ragazzina coi capelli rosa cercò senza successo di costringere Iwaizumi a mollare la presa e sembrava pronta a mordergli un avambraccio.
«Non è come sembra!» intervenne Fujiwara mortificato «C’è stato un malinteso e lei ha aggredito il nostro palleggiatore!»
Le tredici ragazze che componevano la squadra femminile di pallavolo della Shiratorizawa rivolsero tutte lo sguardo a Tooru, ancora seduto a terra con una mano sulla guancia dolente, che si stava già gonfiando. Era abituato ad essere sottoposto all’attenzione delle ragazze, ma in genere erano adoranti ed entusiaste e non lo guardavano dubbiose dall’alto verso il basso. Si sentiva in imbarazzo come non mai, quella scena avrebbe macchiato la sua reputazione per secoli! Sakurai gliel’avrebbe pagata cara!
«Sakurai, lo hai picchiato veramente?» domandò sfiduciata la capitana.
«È entrato nel nostro spogliatoio! Mi ha visto praticamente nuda!» sbraitò l’interessata. «Sei impazzita? Potrebbero prendere dei provvedimenti seri! Dio mio, se dovesse saperlo Hattori-sensei …»
Attratti da tutto quel baccano, dagli spogliatoi si radunarono gruppetti di molte altre ragazze e alcuni dei loro accompagnatori. Alle spalle del club femminile, apparve Ushijima, che – per la prima volta da quando conosceva – sembrava turbato.
«Non eri nuda!» sbottò Tooru in risposta «Avevi addosso reggiseno e quelle mutandine a cuoricini rossi che – a proposito – avresti dovuto smettere di indossare quando hai finito le elementari!»
Sakurai divenne paonazza fra le risatine generali e, cercò con un forte strattone, di liberarsi di Iwaizumi e degli altri. La ragazzina coi capelli rosa accennò innervosita qualche passo verso di loro, ma la capitana la fermò prendendole un polso. Fujiwara gli scoccò uno sguardo di rimprovero, ma Tooru era contento di aver avuto la sua personale vendetta. O almeno lo fu finché Ushijima non si fu avvicinato alla sua amica ed ebbe ottenuto dai ragazzi che fosse lasciata stare. Sakurai rimase a testa bassa a fissarsi i lacci ancora sciolti delle scarpe e lui le accarezzò appena una spalla con fare rassicurante. La capitana tirò un sospiro di sollievo con una mano sul petto.
«Chiedile scusa e finiamola qui.» gli ordinò con tono piatto.
«Prima deve scusarsi lei con me!» piagnucolò Tooru indicandosi la guancia tumefatta col pollice.
«Megumi-chan, chiedi scusa ad Oikawa.» mormorò allora in direzione dell’amica, stupendolo.
«Non voglio, Waka-nii … mi ha messa in ridicolo!»
«Megumi-chan.» ripeté Ushiwaka con tranquillità.
«Non le voglio le sue scuse, e lui non merita le mie!»
A quel punto l’altro le scoccò un’occhiata seccata e vagamente bieca, come un fratello maggiore ridotto al limite della pazienza dai capricci della sorellina testarda. Sembrava che la stesse minacciando di dirlo alla mamma.
«D’accordo, scusa! Va bene così?» si arrese la ragazza alla fine.
Ushijima parve soddisfatto anche da quelle scuse di evidente sola facciata. «Adesso tocca a te.» lo esortò poi.
Tooru si morse un labbro e inspirò profondamente, non aveva alcuna intenzione di scusarsi con una che lo aveva aggredito in quel modo, ma dopo aver incrociato lo sguardo preoccupato di Iwaizumi, recitò riluttante: «Mi dispiace.»
«Perfetto, perfetto … »  concluse Fujiwara cogliendo la palla al balzo «Adesso che ci abbiamo messo una pietra sopra, andiamo via perché ci staranno sicuramente aspettando!»
Guda e Matsukawa aiutarono Tooru a rimettersi in piedi e fu rapidamente raggiunto da Iwaizumi, confuso e preoccupato. Il capitano li spinse via verso la loro stanza, dove avevano lasciato i borsoni, salutando in fretta e furia Ushijima e la sua collega del club femminile.
Mentre si allontanavano, Tooru diede un’occhiata furtiva alle proprie spalle, dove Sakurai si era avviluppata come una cozza attorno alle spalle dell’amico, frignando capricciosa. L’altro, dal canto suo, Tooru avrebbe potuto giurare che mantenesse la sua solita flemma impassibile, se non fosse stato che accarezzasse la schiena dell’amica con affetto. Da lontano, distinse il labiale della domanda «Hai freddo?» che le stava rivolgendo e lo vide sfilarsi la felpa per appoggiarla premurosamente sulle sue spalle. Lei se la strinse addosso con le guance rosse e si ributtò nuovamente fra le braccia dell’altro, esigendo ulteriori attenzioni. Che ufficialmente fossero solo amici non contava molto, era palese che Sakurai fosse cotta di Ushijima e non facesse nulla per nasconderlo, nemmeno in presenza degli altri membri della sua squadra. Quanto all’oggetto del desiderio della schiacciatrice, non gli era chiaro se ricambiasse o meno, ma se lui gliela dava vinta a quel modo sui capricci, non escludeva che potesse farlo.
Poco importava, entro l’indomani se la sarebbe tolta dalla testa, giusto in tempo per polverizzare Ushijima nelle finali del torneo e prendersi la propria rivincita.
~
Ma poi come gli era venuto in mente di raccontarlo ad Iwaizumi? Gli era proprio sfuggito, la mattina seguente, quando l’amico gli aveva fatto notare che fra il grosso livido violaceo sulla guancia e occhiaie scavate, aveva davvero un aspetto orribile. Senza nemmeno fermarsi a riflettere sui pro e i contro della rivelazione, gli aveva confidato per quale motivo non fosse riuscito a dormire decentemente. Tooru avrebbe voluto sotterrarsi.
«Ti sei fatto un sega pensando a Sakurai!» continuava a ripetere febbrilmente Iwaizumi fra una risata e l’altra, con gli occhi pieni di lacrime.
Il palleggiatore gli fece cenno di abbassare la voce.
«Fosse bastato, avrei dormito di più.» ammise a mezza voce.
A questo punto il suo amico di infanzia era così paonazzo da rischiare di esplodere. Tooru detestava quando non lo prendeva sul serio: non aveva più avuto bisogno di toccarsi da quando aveva perso la verginità, questo improvviso istinto autoerotico non era affatto normale e si riaccendeva solo se pensava a Sakurai. Una sua coetanea, non una idol gravure che posava su playboy! Quell’incidente nello spogliatoio gli era stato fatale, perfino il ricordo delle mutandine a fantasia infantile bastava a ridestare irrazionalmente in lui il desiderio.
«Ridi perché non hai visto quello che ho visto io, altrimenti una sega te la saresti fatta anche tu.»
«Una forse sì, ma io non ho uno stuolo di fan che sbavano per me, quindi sarei giustificato.» rettificò Iwaizumi asciugandosi le lacrime «E comunque con me non attacca, sai Oikulo? Te la stavi mangiando con gli occhi anche prima di vederla mezza nuda, quello è stato il colpo di grazia.»
«Non riesco a pensare ad altro, e tra un’ora c’è la finale con Ushiwaka!»
«Pensa se Ushiwaka sapesse che ti sei segato sulla sua amichetta …»
«Non riesco a capire cosa mi sia preso, mi ha anche picchiato … non dovrei reagire così!»
«Forse ti sei semplicemente fissato … »
«Quindi dici che passerà?» domandò arrossendo.
Sulla soglia dello spogliatoio apparvero i suoi compagni di squadra, freschi come delle rose.
«Cosa dovrebbe passare?» domandò Watari pensoso «Oikawa-senpai sta male? Non può stare male prima di una finale!»
«Porca miseria, Oikawa che ti è successo alla faccia?» esclamò Hanamaki appena entrato «Capisco il livido di ieri, ma le occhiaie sono un capolavoro!»
Bastò questo perché Iwaizumi ricominciasse a ridere tenendosi lo stomaco.
«Cosa sai che io non so, Iwaizumi?»
Oikawa sperò almeno che il suo migliore amico avesse la decenza di non raccontarlo a tutti, ed invece …
«Oikulo ha passato la notte a segarsi pensando a Sakurai della Shiratorizawa!» cantilenò.
«Dai, a questa non ci credo, Iwaizumi … » replicò Yahaba «Si fosse trattato di qualcun altro …»
«Ed invece lo è, si preoccupa del fatto che gli si rizzi ogni volta che si ricorda di averla vista mezza nuda! Mi stava giusto chiedendo se pensavo che gli sarebbe passata …»
«Oikawa, sei arrossito? Non ti avevo mai visto arrossire.» fece notare Matsukawa.
A quel punto tutti presero a ridere a crepapelle, compreso addirittura Fujiwara, che notoriamente non aveva tutto questo senso dell’umorismo. Hanamaki sembrava sul punto di morire per quanto rantolava. «Ma come!» commentò cercando di prendere aria «Dicevi che non era tutto questo granché, e che l’avevamo sopravvalutata!»
«Quello lo diceva perché lo ha rifiutato!» intervenne Iwaizumi «Ma in realtà lo attizza proprio perché non gli dà gioco facile e lo ha respinto. E poi stimola la sua competizione con Ushiwaka …»
«Ohh! E Oikulo … cosa pensavi mentre lo facevi? “Ah, sì! Gumi-chan, picchiami di nuovo! Più forte …  Ohhh sì, così!”» infierì Hanamaki imitando eccelsamente il suo modo di parlare.
«Non c’è che dire, Iwa-chan, sei un vero amico.»
«E tu sei la parodia di te stesso! Con tutte le ragazze che puoi avere … »
«Dovreste aiutarmi a scordarla, non prendermi in giro!» si lagnò Tooru.
«Smetterò solo se riesci a abbordarla!» annunciò Iwaizumi.
«Ma lei è Ushiwakasessuale.» replicò depresso «Hai visto come gli si appiccica?»
«Anche tu ti appiccichi così ad Iwaizumi, dunque sei Iwaizumisessuale?» intervenne Matsukawa.
«Per favore, non dipingetemi questo quadro apocalittico, per me è una disgrazia già da etero!» protestò atterrito il diretto interessato mentre gli altri ridevano della battuta.
«Ma si vede che gli va dietro … è proprio irrecuperabile … » continuò a lamentarsi scoraggiato.
I ragazzi smisero di ridere e presero a guardarlo con la preoccupazione scritta a chiare lettere sul volto. Tooru si chiese cosa avesse detto o fatto di sbagliato perché reagissero così e fu Watari a chiarirgli il dubbio prima che avesse il tempo di chiederlo.
«Non ha colto la provocazione.» constatò scioccato.
«Non infierisci su Iwaizumi?» aggiunse incredulo Hanamaki.
«Senpai, sei depresso davvero?» domandò Yahaba scettico.
«Oikulo, credo che tu ti sia preso una bella sbandata!»
Tooru non se la sentì di obiettare, perché non escludeva che Iwaizumi potesse avere ragione. Non si era mai fissato così su una ragazza, neanche su quelle con cui era andato fino in fondo. Sakurai invece era onnipresente e ripensare a lei gli faceva venire la tachicardia. Voleva illudersi che fosse solo per via del suo bel fisico o solo perché la vedeva come l’ennesima sfida da vincere contro Ushijima, ma sentiva che c’entrava solo in parte.
«Che destino crudele, siete come Romeo e Giulietta!» ironizzò Matsukawa richiudendo il suo armadietto, dove aveva spinto goffamente il proprio borsone.
«Con la sola differenza che almeno Giulietta era collaborativa!» si sentì in dovere di aggiungere Guda prima di sfilarsi le scarpe. Fujiwara gli tirò un pizzicottò nel fianco.
«Qualcun altro vuole girare il dito nella piaga?» brontolò seccato voltandosi dall’altra parte «Sì, Makki?» proseguì, notando il laterale che stendeva la mano verso l’alto come gli studenti con la domanda pronta per il professore.
«Vuoi consigli d’amore?»
«No, ragazzi … questo è davvero troppo!»
«E perché? Gli amici servono a questo!»
«Già, Oikulo … secondo me abbiamo appurato che le tue battute ignoranti sono controproducenti con lei, dovresti tentare un approccio più naturale … »
«Iwa-chan, ma se tu non hai mai battuto chiodo in vita tua?»
«Visto che trovi piacevole farti pestare, se vuoi ti pesto.»
«Ma a lui piace farsi pestare solo dalle belle ragazze!» lo fermò Hanamaki.
«Già … da quelle alte …» rincarò la dose Matsukawa.
«Allenate … » continuò Iwaizumi.
«Capelli lunghi e umidi … » proseguì ancora Matsukawa con aria sognante, fingendo di passare le dita in un’immaginaria chioma.
«Due poppe così!» fece cenno Iwaizumi mimando la misura davanti al petto come lui stesso aveva fatto il giorno prima cercando di descrivere cosa aveva visto nello spogliatoio delle ragazze.
«Ed un marmoreo e tondeggiante capolavoro realizzato a suon di squat giornalieri fasciato in un paio di mutandine bianche a cuoricini rossi.» concluse Hanamaki riprendendo anche lui con estrema diligenza le stesse parole della sua descrizione del sedere di Sakurai.
«Ragazzi se continuate così, Oikawa avrà bisogno di farsi una doccia fredda prima di giocare … » li rimproverò il capitano, che pure si stava sforzando di non sorridere. Si vedeva chiaramente da come gli tremasse l’angolo destro della bocca.
«Non ha bisogno della doccia, Naoto …» lo corresse Guda «Ormai ci ha preso la mano …»
Si ricompose, mal sopportando tutte quelle umiliazioni. Sakurai, ne era certo, prima o poi avrebbe ceduto come tutte le altre. Era solo questione di conoscerla meglio, prenderci un po’ di confidenza e in men che non si dicesse se la sarebbe trovata legata al dito. Prima di tutto, però, aveva bisogno di dimostrarle di essere migliore di Ushijima, ed era fiducioso che ci sarebbe riuscito subito, mettendolo a tacere una volta per tutte durante la finale di quel giorno.
«Certo, certo … ridete pure di me!» obiettò Tooru alzando la voce per sovrastare l’ennesimo scoppio di risate sguaiate dei suoi compagni «Ma quando Sakurai cadrà ai miei piedi vi pentirete tutti di esservi presi gioco di me! Vedrete, ci vorrà pochissimo!»
~
Quando Megumi scorse Oikawa davanti all’ingresso del palazzetto, le mani iniziarono già a pruderle dalla voglia di picchiarlo a sangue. Quella mattina, per quanto le riguardava, faceva già schifo così com’era, anche senza il suo contributo: la sconfitta cocente del giorno prima le era costata una violenta discussione con il resto della squadra, al termine della quale – come aveva già deciso – aveva annunciato di lasciare il club, con sommo sollievo di Kurihara, che si era detta sospettosa dei metodi con cui la ragazza si era fatta ammettere nel sestetto titolare. Bella ironia della sorte che fosse proprio la palleggiatrice, la regina delle raccomandazioni, ad accusarla di essersi comprata il posto con qualche trucchetto. Ma, alla fine dei conti, non la si poteva biasimare: Kurihara ci aveva visto giusto e Megumi non era affatto fiera di quello che aveva fatto, anzi, continuava a provare disgusto per se stessa. Erano poi seguite, per tutta la notte, decine e decine di chiamate di Hattori, che erano cessate solo quando aveva spento il telefono, che la mattina dopo aveva trovato intasato da un centinaio di suoi messaggini, dapprima lusinghieri e melensi poi pian piano sempre più minacciosi, tanto da farle iniziare a temere della propria incolumità.
Tooru Oikawa, dunque, era solo la ciliegina su una torta fatta di fregature, per giunta resa ancora più amara dal fatto che Wakatoshi le avesse proibito di alzare le mani su quel maiale, d’altronde l’amico non aveva lodi che per lui da almeno tre anni! Con una bella scazzottata, avrebbe dissipato certamente il nervosismo che aveva accumulato in quei mesi e gli avrebbe fatto pagare di averla vista nuda e di aver messo mezza Sendai a parte della fantasia dei suoi slip. Ecco perché nel momento in cui quel bastardo aprì la bocca, lei desiderò scomparire dal mondo.
«Buongiorno Gumi-chan!» cinguettò provocatorio «Di che colore sono i cuoricini, oggi?»
Tutto intorno alcuni ragazzi che erano presenti alla penosa scena del pomeriggio precedente scoppiarono a ridere fragorosamente. Ciò che era strano era che l’amico che il giorno prima le aveva impedito di spaccargli il naso, e che – se non ricordava male – doveva chiamarsi Iwaizumi, non si era unito al riso generale, ma guardava Oikawa amareggiato.
«Levati di torno.»
«Andiamo, perché sei sempre così nervosa? Le belle ragazze come te dovrebbero sorridere.»
Iwaizumi a quel punto si piantò una mano sulla fronte, disperato.
Con piacere Megumi notò che sul volto del palleggiatore dell’Aoba Johsai si era formato un grosso livido in corrispondenza di dove l’aveva colpito col piede. A giudicare poi dalle occhiaie profonde che gli marcavano gli occhi, non era riuscito a dormire molto. Distese le labbra in un ghigno vittorioso.
«Che brutte occhiaie, Oikawa-kun!» osservò ad alta voce, così che sentissero tutti «Non dirmi che la bua ti ha fatto tanto male da non farti chiudere occhio questa notte! Povero cucciolo … »
Accadde l’inspiegabile: Iwaizumi scoppiò solo allora a ridere di gran gusto, seguito dal resto dei compagni di squadra, mentre la faccia di Oikawa si colorava di un rosso scarlatto. Il tipo con i capelli quasi rosa si era perfino accucciato per terra asciugandosi le lacrime. Probabilmente dovevano aver passato la giornata precedente a prenderlo in giro per essersi fatto picchiare da una ragazza.
Ben gli stava, si ripeté soddisfatta girando sui tacchi. Certamente tra qualche minuto Waka-nii gliel’avrebbe fatta pagare come promesso, stracciando la loro squadra alle finali. Colta da un colpo di genio improvviso e pronta a sferrare il colpo di grazia a quel montato di Oikawa, si voltò nuovamente per un attimo verso il capannello di ragazzi e sventolò la mano in direzione di uno di loro.
«Ciao, Iwaizumi-kun!» lo salutò con un sorriso sornione.
 
[1] C’è una cosa che non ho capito delle traduzioni amatoriali italiane: perché dobbiamo usare le traduzioni inglesi dei soprannomi che Iwaizumi affibbia ad Oikawa quando si possono riadattare con efficacia? Prendete la pregnanza e l’ignoranza di “Oikulo”, sento quasi la poesia riverberare fra le sillabe!
[2] Twitter è il social network più utilizzato in Giappone, seguito da Instagram. Entrambi sono superati per numero di utenti da LINE.

NOTE FINALI

Questo capitolo è stato faticosissimo da stendere, tant'è che a volte nel rileggerlo mi domando se non sia scritto in uno stile troppo sempliciotto in alcune sue parti. Per questo ho due piccoli appunti da fare, uno riguarda i contenuti, l'altro il lessico. In questo capitolo, i ragazzi sono ... ragazzi comuni di età compresa fra i 16 ed i 18 anni, perciò, insomma hanno un chiodo fisso ed un sistema di valori piuttosto semplice. Da ciò discende un linguaggio piuttosto semplice e colorito, come è normale che sia. Ho, insomma, sacrificato la formalità ed il politically correct all'altare del realismo, o almeno credo di averlo fatto. Spero di non aver fatto storcere il naso a nessuno con i "discorsi da spogliatoio" di questi adolescenti!
Come al solito siate buoni e se vi va lasciatemi una recensione! (E fatemi notare le sviste, che la vecchiaia è una carogna.)

Un bacio e alla prossima! ♥

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4: Solo una foto ***


Capitolo 4

Solo una foto


“Papà è furioso, dice che non può permettersi di pagare la tua retta scolastica se rinunci alla borsa di studio. Vuole che tu torni a casa e frequenti il liceo statale di Minamisaka.”
“Se è per questo non ha neanche i mezzi per restituire il prestito d’onore. La piantasse di essere ridicolo, io non posso cambiare scuola.”
“Onee-chan, non sarebbe meglio anche per te se tornassi a casa?”
Megumi si ficcò frettolosamente il cellulare nella tasca dei jeans quando sentì Uchida-san chiamare il suo nome. Si lasciò consegnare gli scatoloni appena scaricati dal corriere e prese a sistemarli nel magazzino come indicato. Lavorava in quel negozio di articoli sportivi da appena una settimana ed Uchida-san era un datore di lavoro fin troppo comprensivo e gentile con lei, ma dubitava che il poco denaro che fosse riuscita a racimolare lavorando anche per tutto il trimestre estivo sarebbe mai riuscito a coprire la rata autunnale non mitigata dalla borsa di studio sportiva. Poi c’era la questione del prestito d’onore concessole dall’Accademia sin dal primo anno delle medie, che avrebbe potuto ripagare solamente quando, al termine della formazione, avesse iniziato a lavorare, ma che avrebbe dovuto restituire immediatamente se per qualche motivo avesse rinunciato o fallito negli studi.
Lavorare per più di una manciata di giorni nello stesso posto era fra l’altro fin troppo difficile: Hattori non si era affatto rassegnato all’idea che Megumi avesse deciso di lasciare il club e che non volesse più aver a che fare con lui. Gli era sufficiente un arco di tempo piuttosto esiguo per scoprire dove lavorasse e, di conseguenza, appostarsi lungo il tragitto. La ragazza sperava che questa volta impiegasse di più, perché quello era finora l’impiego che più la faceva sentire vicina alla pallavolo, di cui – nonostante tutto – sentiva sempre più la mancanza. Si era sorpresa un sacco di volte a vagare fra li scaffali del reparto volley, ad accertarsi con i polpastrelli che la pressione dei palloni esposti per la vendita fosse adeguata, immaginandosi nell’atto di colpirne uno con tutta la forza che aveva in corpo e vederlo atterrare con un rumoroso schianto dall’altra parte della rete. Si era perfino provata un nuovo modello di scarpe da ginnastica a prova di atterraggi frettolosi ed aveva insegnato ad un ragazzino delle elementari come incerottarsi correttamente le dita. Si doleva della propria spericolata sete di gloria e della propria ingenuità ogni pomeriggio in cui vedeva Scoiattolo mettersi in spalla la propria borsa e sparire oltre la porta della loro stanza, alla volta della palestra. Non che la compagna non l’avesse interrogata e non si fosse opposta con forza alla sua decisione, ma Megumi non aveva alcuna voglia di parlare con lei né con nessun altro delle telefonate continue che riceveva e delle asfissianti centinaia di messaggi che ingombravano la casella del suo cellulare.
Perfino i rapporti con Wakatoshi si erano tesi come mai era successo in vita sua e presagiva che, da un momento all’altro, anche l’unico filo che fin dall’infanzia l’aveva legata a qualcun'altro si sarebbe presto spezzato definitivamente sotto i colpi delle sue bugie. L’amico la conosceva abbastanza per sapere che non avrebbe mai abbandonato di punto in bianco il club per delle incomprensioni con la squadra: la Megumi che conosceva avrebbe forse litigato, urlato come un’ossessa contro le sue compagne, probabilmente anche preso a pugni qualcuno, ma non l’avrebbe mai data vinta a Kurihara e le altre mandando all’aria i propri sforzi. Si sentiva in colpa a mentirgli, ma Wakatoshi non avrebbe mai dovuto sapere nulla dei guai in cui era andata ad infilarsi, o si sarebbe fatto una pessima idea di lei e Megumi non si sentiva di biasimarlo.
Ma come poteva essere stata così stupida? Si era rovinata con le proprie mani ed avrebbe dovuto capire subito che di uno come Hattori, per giunta già noto per il suo temperamento violento, non si sarebbe mai dovuta fidare. Al momento non vedeva più alcuna via di fuga: la sua carriera pallavolistica era prematuramente conclusa, i suoi genitori erano a giusta ragione infuriati con lei, sentiva Wakatoshi sempre più irraggiungibile ed era perseguitata giorno e notte da Hattori. Himeka, che pure era a conoscenza della versione dei fatti edulcorata che aveva rifilato a tutti, aveva ragione a farle notare che cambiare scuola sarebbe potuto essere conveniente. Certo, la sorella minore si riferiva al risvolto economico, ma tornare a Minamisaka le avrebbe probabilmente concesso di disfarsi di Hattori una volta per tutte. Tuttavia, a parte la gravosa questione del prestito che mai avrebbero potuto restituire, Megumi non si sentiva affatto sicura di voler tagliare i ponti con tutto e intimamente sperava che un giorno le cose sarebbero potute cambiare abbastanza in meglio da permetterle di ritornare indietro.
Era così persa nei suoi pensieri che si accorse solo alla fine di avere fra le mani un volantino che qualcuno aveva lasciato sul bancone della cassa.
«Hai abboccato, Megumi!» annunciò allegra la sua caporeparto lasciando fragorosamente cadere una caterva di appendiabiti nell’armadio dietro di lei «L’ho messo lì apposta per te!»
Rumiko era un ragazza che aveva da poco superato la trentina, da quanto aveva capito aveva già una figlia a carico e lavorava in quel negozio all’incirca da un quinquennio, sebbene avesse ottenuto la promozione solo di recente. Scrutò prima lei e poi il foglietto con maggiore attenzione.
«Per me?»
Il depliant pubblicizzava la fondazione di una divisione mista, probabilmente amatoriale, sotto l’egida del FC Galaxy Sendai, la società che stava dietro alle squadre maschili e femminili della città, attualmente impegnate in V.Challenge League 2. Ora che ci pensava, Sendai non aveva mai avuto una squadra mista, o al City Gymnasium qualche volta sarebbe spuntato un avviso di reclutamento, esattamente come quello che aveva in mano al momento.
«Il presidente ha avviato il progetto solo da qualche settimana, stiamo cercando di metter su un gruppo abbastanza numeroso per giocare come si deve.» le spiegò Rumiko.
«Non ho mai detto di saper giocare a pallavolo … »
«Ma sai che tutte le ginocchiere, a prescindere dal prezzo e dalla marca, dopo due settimane di uso puzzano di formaggio, che il taping del pollice è meglio farlo col dito leggermente flesso e che ai palloni Mikasa è più semplice imprimere l’effetto float. In che ruolo giochi?»
Megumi non sapeva decidere se fosse stata più imprudente lei o perspicace Rumiko, ma alla fine abbozzò un sorriso di resa e sollevò le mani, sconfitta.
«D’accordo, mi hai scoperta. Giocavo a sinistra.»
«Giocavi? Hai smesso?»
«Ho … avuto qualche tensione con il club.» mentì, o almeno lo fece in parte.
«Non devi essere così timorosa di ammettere che hai bisticciato con qualche compagna di squadra, questi sono imprevisti che al liceo capitano più di quanto si voglia credere. Che scuola frequenti, se posso chiederti?»
«Shiratorizawa.» tentò di mascherare l’imbarazzo fingendo di esaminare l’etichetta sgualcita di una felpa che qualcuno aveva restituito.
«Ho ben presente il tuo liceo, allora.» ridacchiò sottraendole la felpa dalle mani e ripiegandola con un precisione disumana. «Al momento avete un club maschile che spacca un po’ tutto ma qualche anno fa, quando io frequentavo le superiori, anche quello femminile era piuttosto temibile. Non so ne sei a conoscenza, erano i tempi di Naomi Kato.»
«Dubito che dopo di allora l’Accademia abbia più prodotto giocatrici di livello pari. Penso che attualmente per la mia scuola Yoshida sia un’ottima centrale, ma Kato era un rarissimo esempio di universale.»
«Puoi giurarci, nessuno capiva mai cosa stesse per fare … quante volte ho visto giocatrici eccellenti in prima linea saltare su un suo palleggio prendendolo per una veloce da murare!»
«La nazionale giapponese ha perso un’atleta esemplare per un infortunio apparentemente ridicolo.» sentenziò facendo spallucce. L’instancabile Rumiko dunque ritornò all’attacco.
«E tu? Tu come te la cavi?»
Fino a qualche settimana fa, avrebbe gonfiato il petto d’orgoglio e avrebbe prontamente annunciato tutta tronfia alla sua caporeparto si essere un portento in campo, ma – ed in questo la bizzarria della vita la sorprese non poco – non se la sentì affatto di fare una dichiarazione simile. A dire la verità, non credeva più neanche lei di essere mai stata così in gamba come credeva. Ripensare al club, poi, le rammentava di Hattori e dello squallore delle proprie azioni, dettate dal desiderio di farsi strada con le unghie e con i denti. Se fosse stata realmente brava, non avrebbe mai avuto bisogno di ricorrere alla mediazione del proprio coach per aggiudicarsi un posto da titolare.
«Non lo so neanche io.»
Rumiko le rivolse un sorriso d’incoraggiamento. «Come non lo sai? Scommetto che sei brava, alta così sarai stata certamente la punta di diamante della squadra.»
«Niente affatto, ero piuttosto inutile.»
«Sono certa che non sia vero, ma se la pensi così, perché non provi con noi? Domani sera potresti venire ad allenarti, ti accompagno io. Ci vediamo i giorni dispari della settimana, dalle sei alle otto. Siamo molto tranquilli, vedrai.»
Provava sentimenti contrastanti, eccome! Tornare in campo era qualcosa che bramava ardentemente ma che ravvivava allo stesso tempo il ricordo gli errori commessi. Se poi Hattori lo avesse saputo, non sapeva se sarebbe stata in grado di gestire le conseguenze.
"Se scopro che ti fai allenare da qualcun altro …"
Ricordare il primo messaggio che le aveva inviato il giorno stesso in cui aveva lasciato il club le fece accapponare la pelle. Lo aveva ribadito più volte, giorno dopo giorno, fino a diventare sempre più esplicito e temerario.
"Puoi giocare solo per me, intesi? Appartieni a me!"
Non aveva idea di quando ed in che modo il suo precedente allenatore avesse maturato la concezione di lei come un oggetto, ma era consapevole che intendesse realmente quello che le aveva scritto. La tentazione di ricominciare, in un ambiente totalmente nuovo, in cui nessuno sapesse nulla di lei o delle sue scelte riprovevoli, era tuttavia ugualmente troppo forte.
«Domani sera … dove?» si risolse infine a domandare.
Le labbra della caporeparto si distesero in un sorriso entusiasta.
«Ovviamente al City Gymnasium, pochi isolati da qui. Ma immagino che tu lo conosca già abbastanza.»
«Come le squadre della League … il presidente vi tratta bene!»
«Il presidente è un grand’uomo. Allora, posso accennargli di te?»
Si chiese poi più tardi, mentre cercava le proprie scarpe da ginnastica, se il presidente Anzai avesse mai sentito parlare di lei in precedenza. Era molto probabile che un’atleta del calibro di Yoshida gli fosse familiare e che qualche squadra le avesse messo gli occhi addosso forse anche prima della sua convocazione nell’under-18, ma chi mai aveva sentito parlare di Megumi Sakurai al di fuori dei tornei scolastici? Era piuttosto desolante constatare come non avesse effettivamente raggiunto alcun risultato in tutti quegli anni di pallavolo e ciò sarebbe dovuto essere – considerò fra sé e sé – un chiaro campanello d’allarme riguardo le proprie capacità. Non era mai stata, come credeva, forte.
Scoiattolo rientrò in stanza poco prima dell’ora di cena e, constatato che Megumi era stata colta nell’atto di riesumare il proprio equipaggiamento sportivo dall’armadio mezzo spoglio, prese a saltellare entusiasta tutt’intorno a lei.
«Sapevo che saresti tornata! Una come te non può mollare tutto così!»
Megumi avrebbe preferito che nessuno si accorgesse delle sue manovre furtive: si sa che le voci serpeggiano rapidamente di bocca in bocca e non voleva assolutamente che la notizia o anche il solo sospetto potesse giungere alle orecchie di Hattori. Scoiattolo però – Megumi lo aveva appreso da qualche tempo – aveva il miracoloso dono di essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, perciò fu costretta a vuotare il sacco.
«Non sto tornando.»
«Stai preparando la borsa!» la incalzò l’altra indicando col dito il borsone aperto sul suo letto.
«Preparo la borsa ma non per il club.» sentenziò asciutta.
«Allora per cosa?»
«Ho un allenamento di prova con un’altra squadra, d’accordo? E vedi di tenere chiusa quella bocca, se scopro che lo hai detto a qualcuno te ne faccio pentire.»
La piccoletta si sedette sul letto e incrociò le braccia al petto con aria piccata. Megumi non aveva alcuna intenzione di scusarsi per essere stata aggressiva, che le fosse da lezione, cosicché la volta successiva si sarebbe rammentata di non ficcare il naso in questioni che non la riguardavano.
«Non lo dico a nessuno, va bene.» promise imbronciata «Ma che senso ha allenarsi con un’altra squadra se hai il club a disposizione? Voglio dire, certo al momento non siamo fra i migliori quattro, ma siamo una delle otto scuole migliori. Ti basterebbe mettere da parte … »
«Non si può mettere da parte tutto, va bene? E comunque non sono affari tuoi!»
«Solo perché Kurihara ti ha detto quelle cose non è detto che le intendesse sul serio, sai?» cercò di spiegare l’altra con calma «Quella volta era solo arrabbiata perché avevamo perso e se l’è presa con te. E poi nessuna di noi condivide, io per esempio non penso affatto che tu ti sia comprata una raccomandazione.»
«Ti ripeto che non sono affari tuoi!»
«Perché fai così? Ti sto dicendo che tutte noi sappiamo che sei brava, davvero! Dovresti tornare, ti riaccoglieremmo tutte a braccia aperte, anche se sei un po’ … ecco … »
«Permalosa? Scorbutica? Poco collaborativa? Cos’altro?»
«Okay, lo hai detto tu. Però ti riaccogliamo lo stesso! Anche il coach non fa altro che chiedermi di te … »
Qualcosa di gelido le si annodò nello stomaco e per qualche istante lo scaffale delle scarpe oscillò a destra e a sinistra, mentre il battito del cuore rimbombava assordante nei suoi timpani. La voce squillante di Scoiattolo si fece sempre più flebile e distante. Tramite quante vie Hattori la stava sorvegliando? Quanto poteva mostrare di sé alla propria compagna di stanza? Quanto ancora questa aveva rivelato all’allenatore? Facendo mente locale, Megumi era certa di aver rivolto la parola a Scoiattolo solo per questioni indispensabili e di non averle mai riferito nulla di importante. Ma forse era ugualmente così che il suo persecutore otteneva le informazioni necessarie per scovarla in ogni nuovo luogo di lavoro. Non era nemmeno colpa della sua compagna di stanza se aveva riconosciuto la divisa del fast-food in fondo alla strada o il grembiule del konbini[1] vicino la stazione degli autobus. Probabilmente, lo spirito di aiutante di Scoiattolo si era poi manifestato nel momento in cui qualcuno le aveva chiesto di lei, e – del tutto in buona fede – si era disposta a condividere informazioni utili. Avrebbe dovuto fare i conti anche con quella realtà: doveva guardarsi da tutti, se voleva essere lasciata in pace da Hattori.
«Sta’ a sentire, Hiromi.» l’avvertì cercando di nascondere il tremore nella voce «Non devi per nessun motivo al mondo parlare a Hattori-san di me. Non dirgli mai che sto lavorando o dove lavoro, soprattutto non osare raccontargli quello che ti ho detto stasera. Anzi, non parlarne più a nessuno. Non deve sapere più niente di me, ci siamo capite?»
«Vuole solo che torni al club, come tutte noi!» protestò «Si preoccupa per te!»
«Fidati, lui … non si preoccupa per me.»
Scoiattolo aggrottò le sopracciglia, turbata.
«Sakurai, è successo qualcosa con Hattori-san? Sei andata via per lui?» domandò a quel punto con serietà «Una volta hai detto una cosa strana su di lui … »
Megumi inghiottì a fatica la propria saliva. Provò l’impulso incontrollabile di scoppiare a piangere, ma non poteva permettersi di lasciarsi andare davanti alla compagna di stanza. Lottò contro il groppo in gola e strinse i denti.
«Non è successo niente con Hattori-san. Se sono andata via, la colpa è vostra.» mentì con un filo di voce «Ed ora levati dai piedi, devo andare in bagno.»
~
«Dio mio, Oikulo. Sei completamente andato! Certo, confesso che ho sempre pensato che il senno ti avesse abbandonato ormai da un bel pezzo, ma questa volta credo che il danno sia definitivo.»
Tooru scoccò un’occhiata in tralice al compagno di squadra che stava prepotentemente trascinando per un braccio alla volta della prima palestra della scuola. Iwaizumi si era categoricamente rifiutato di accompagnarlo a “rendersi ridicolo”, come diceva lui, ed Hanamaki era stato l’unico a dirsi disposto a fargli compagnia.
«Non commentare e muoviti! Sono sicuro che abbiano già finito!» si lamentò in risposta «Ovviamente Guda si ricorda solo all’ultimo momento di riferirmi qualcosa di così importante … »
«Non incolperei il senpai … Si è premurato di venire al club appena possibile solo per avvertirti, nonostante i ragazzi del terzo anno si stiano dedicando ormai esclusivamente allo studio. Piuttosto direi che è stato molto gentile, se non lo avesse fatto non lo avresti mai saputo.»
«A che mi serve saperlo, Makki, se sono già andate via?»
«Rilassati, sono sicuro che la tua bella sarà ancora lì!»
Guda era comparso cinque minuti prima, tutto sudato e ansante, all’ingresso della loro palestra, dopo essersi destreggiato in un compito di recupero particolarmente intenso, ed aveva buttato lì la notizia in tempo reale: sua sorella era impegnata in un’amichevole contro il club femminile dell’Accademia Shiratorizawa. A quel punto Tooru non si era nemmeno preoccupato di cambiarsi, aveva tentato invano di rapire Iwaizumi, dopodiché aveva ottenuto che Hanamaki acconsentisse e si era dileguato con lui dieci minuti prima della fine dell’allenamento, fra gli insulti particolarmente veementi del suo migliore amico. Non poteva affatto biasimarlo: da novello capitano, non faceva esattamente una porca figura se piantava in asso i compagni in anticipo, piuttosto era il primo a diffondere il cattivo esempio, ma era certo che proprio Iwaizumi avesse compreso più di tutti quanto la questione Sakurai stesse diventando importante per Tooru.
Aveva cercato di dimenticarsela, sul serio. Non l’aveva più rivista dal giorno della dolorosa sconfitta impartita loro dal club di Ushijima, quando lei era corsa ad avvinghiarsi all’amato appena il terzo set si era chiuso in suo favore, spargendo ulteriore sale sulle ferite già sofferenti del palleggiatore dell’Aoba Johsai. Da allora, s’era impuntato di togliersela dalla testa. S’era ripromesso di non parlare di lei più con nessuno, ma pochi giorni dopo aveva ripreso a tediare Iwazumi con lo stesso argomento. Aveva deciso che non avrebbe mai più visitato il suo profilo Twitter, ed alla fine aveva perfino scoperto quel vecchio articolo di Monthly Volleyball risalente ad almeno tre anni prima, con una foto adorabile di una giovanissima Sakurai, appena iscritta alle medie, coi capelli ancora castani raccolti in due codini infantili. Insomma, di giorno in giorno tutti i suoi propositi vacillavano sempre di più senza che lui riuscisse a far nulla per impedirlo.
La cercò avidamente con lo sguardo, quando raggiunsero la tribuna in tempo per le battute finali del terzo set, che avrebbe prevedibilmente sancito la vittoria delle padrone di casa, ma rimase deluso appena constatò che Sakurai non era in campo, né sedeva in panchina. Semplicemente, non c’era: il suo posto era occupato da Hoshino e le riserve erano già abbastanza numerose senza di lei. Il loro coach – notò – era nervoso come non mai e continuava a rimbrottare chiunque commettesse perfino l’errore più stupido, privato com’era del suo capro espiatorio.
«Forse è ammalata.» tentò Hanamaki facendo spallucce «Oppure ha avuto un infortunio. O magari è impegnata con qualche compito in classe e non poteva perdere tempo.»
«Non sarebbe stata una perdita di tempo.»
«Può darsi che lei la pensi diversamente. E poi rimane la prima ipotesi, potrebbe avere l’influenza o il raffreddore.»
«A giugno?» domandò scettico Tooru.
«Due sere fa c’era un brutto vento, sai? Forse è uscita ed ha preso freddo.»
«Se fosse uscita con me non le avrei fatto prendere freddo sapendo che aveva un’amichevole in programma … » piagnucolò frustrato.
«Ci stiamo allontanando dall’argomento. Perché più tardi non chiedi a qualcuno? All’allenatore?»
«Piuttosto che domandare di Gumi-chan a quell’Hattori, mi chiudo la lingua nello sportello di una macchina.»
Hanamaki ridacchiò sorpreso. «D’accordo, per quanto l’idea di te che stai zitto per mesi possa far piacere ad Iwaizumi, a questo punto sarebbe meglio se chiedessi ad una sua compagna di squadra.»
«Se ha davvero il raffreddore dici che dovrei mandarle dei fiori?»
«Certo, così te ne manderò un mazzo anche io quando sarai in ortopedia dopo che ti avrà picchiato con la giusta dovizia.» scherzò l’altro «Ma se ti conosce appena? E poi chi manda fiori per un raffreddore?»
«Magari trova l’idea carina … mi sembrava una cosa galante! Forse avrei fatto colpo!»
«E Sakurai ti pare una da galanterie?»
«A tutte le ragazze del pianeta piacciono le galanterie, Makki!»
«Allora escluderei che sia di questo pianeta.»
«Se fosse un’extraterrestre si spiegherebbe la superforza, ma a questo punto il raffreddore sarebbe una scusa. Gli alieni non prendono il raffreddore degli umani, i loro anticorpi sono tutta un’altra storia. Per non parlare dei virus, che non sono per niente compatibili con il loro DNA.» considerò con fin troppa serietà, tant’è che l’amico gli scoppiò a ridere in faccia.
«Magari la tua Supergirl è stata esposta alla Kryptonite.» ipotizzò scherzosamente.
«Immagino che sia l’unica cosa che possa fermarla.»
Dopo il fischio finale, che decretò la vittoria delle ragazze dell’Aoba Johsai, le ragazze presero a sciamare fuori dalla palestra. Tooru afferrò nuovamente il polso del compagno di squadra e lo condusse con sé davanti all’uscita di servizio della palestra, dove era parcheggiato l’autobus della squadra ospite. Avrebbero aspettato lì che si facesse viva la squadra ospite e Tooru avrebbe chiesto notizie di Sakurai alla prima che gli avesse ispirato abbastanza fiducia.
Scartò a prescindere tutte quelle che, riconoscendolo, lo salutarono affettatamente con la mano o con voce svenevole, giudicandole chiaramente interessate ad attirare la sua attenzione e quindi più propense a mentire riguardo ad una loro potenziale rivale. Alla fine si parò davanti all’unica che aveva tirato dritto senza degnarlo di uno sguardo e che qualche volta aveva visto parlare con Sakurai. Forse qualcun’altra si sarebbe fatta intimidire dalla differenza di stazza, ma Hiromi sostenne il loro sguardo con snervante tenacia, visibilmente incuriosita.
«Posso aiutarvi?» domandò dunque, con una gentilezza che né Tooru né Hanamaki si aspettavano. Aveva una voce dolce e acuta, che non c’entrava molto con la sua parvenza aggressiva.
«Oggi non ho visto Sakurai, mi chiedevo se fosse ammalata o le fosse successo qualcosa.» esordì impacciato.
La piccoletta si mordicchiò il labbro inferiore, prima di rispondere.
«Sakurai ha lasciato la squadra dopo l’ultima sconfitta ai preliminari degli interscolastici. Ci sono stati, dei … contrasti con le altre, o almeno così dice.»
«Ha chiuso con la pallavolo?» ripeté incredulo Tooru «Per una sconfitta?»
Hiromi strinse gli occhi e lo osservò con maggiore attenzione.
«Tu non sei quello a cui ha dato un calcio in faccia?»
«Sì, è proprio lui.» intervenne Hanamaki «In carne, ossa e livido da poco riassorbito.»
«Perché mi chiedi di lei?»
«Vorrei, ecco … vorrei rivederla.» spiegò maldestramente «Parlarci un pochino.»
«Uno strano modo per dire che ti piace.» commentò Hiromi con schiettezza, prima di guardarsi rapidamente intorno, come se volesse accertarsi che nessuno oltre loro stesse ascoltando la conversazione. «Senti, io non dovrei parlarne ma … non è che ha proprio chiuso con la pallavolo. Non posso dire nient’altro perché mi ha ordinato di non farlo, ma penso che tu possa arrivarci da solo.»
«Non avrà mica cambiato scuola?»
«No, o almeno non ancora. Ma se prosegue così potrebbe accadere. Sakurai vive di borse di studio, quando il suo abbandono sportivo verrà ufficializzato, probabilmente non potrà più permettersi l’Accademia.»
«E pur sapendolo ha mollato il club per delle innocue tensioni con la squadra?» considerò Tooru stupito «Mi sembra ridicolo, avrebbe dovuto cercare di risolvere … »
«Questo non dovrei dirlo ma non credo affatto che quella sia la vera motivazione. Sakurai non parla con nessuno, ma si comporta in modo molto sospetto e alle volte si lascia sfuggire discorsi molto strani. Io ti confesso che secondo me la vera questione è Hattori-san, l’allenatore. Non so di preciso cosa sia accaduto, ma tutte sapevamo che lui la considerasse la sua prediletta, anche se le urlava contro di continuo roba piuttosto pesante. Per noi era divertente che venisse strigliata di tanto in tanto, visto che si dava un sacco di arie, ma ultimamente ho iniziato a pensare che le cose non fossero così semplici. Dopo ogni partita, se aveva commesso anche errori inevitabili, la prendeva da parte e la rimproverava privatamente, e durante gli allenamenti non faceva altro che insultarla. L’altra sera quando le ho parlato di lui è sbiancata e mi ha imposto di non raccontargli mai niente. Per me è tutto troppo strano.»
Cosa avrebbe potuto dirle Tooru? Che anche lui aveva maturato gli stessi dubbi, semplicemente accorgendosi di una pacca sul sedere prima di un rientro in campo? D’improvviso tutto quell’occhieggiare minaccioso fra l’allenatore e la schiacciatrice assunse nuovamente il significato grave che vi aveva letto qualche settimana prima. Si trattava ad ogni modo ancora di soli sospetti, comprovati da nulla, ma perlomeno appoggiati da qualcuno di più vicino a Sakurai di quanto fosse lui.
«Dici che Sakurai non parla, ma a quanto pare parla con te.» commentò, invece.
«Solo il minimo necessario. È piuttosto inevitabile dal momento che dorme nel letto di fronte al mio.»
La dea bendata gli aveva servito un bell’assist facendogli scegliere proprio la compagna di stanza di Sakurai, forse l’unica che era rimasta in contatto con lei. Che fosse un buon segno?
«Quando dici che “non ha proprio chiuso”, cosa intendi?»
«Mi ha chiesto di non parlarne, perciò ho già detto troppo.» tagliò corto mentre l’ultima delle sue compagne di squadra, la bionda cicciottella che aveva passato tutto il tempo in panchina, le faceva cenno con la mano di salire sull’autobus. «Devo andare, manco solo io.»
«Aspetta un attimo … dammi almeno un altro indizio!» la richiamò invano mentre la piccoletta raggiungeva velocemente l’autobus e ci saliva sopra. «Ora la riprendo … »
«Non puoi salire sull’autobus!» protestò Hanamaki cercando di trattenerlo a fatica «Dovevamo portarci Iwaizumi, lo sapevo!»
«Iwa-chan mi avrebbe fatto andar via quando ci siamo accorti che non c’era.»
«Perché sa che finisci per metterti nei guai, conosce il suo pollo.» spiegò l’altro mentre con un rombo l’autobus sorpassava il cancello del liceo, portandosi via l’unica preziosa fonte di notizie che avesse.
«Che significa che “non ha proprio chiuso”? Cosa fa, la raccattapalle? O forse ora è una manager. Peggio, potrebbe essere la manager del club maschile, così starebbe attaccata ad Ushiwaka tutto il tempo!»
Commentava le notizie fresche con il resto dei ragazzi, dinanzi ad un Iwaizumi particolarmente preoccupato all’idea che Tooru si fosse immischiato in faccende simili e che per un pelo non fosse salito su un autobus pieno di ragazze, per giunta di un’altra scuola, quando Yahaba suggerì l’ennesima opzione.
«Voi ve lo ricordate Kyoutani?»
«Ah, il cagnolino rabbioso? È da un pezzo che non si fa più vedere al club.» considerò Tooru.
«Dio ce ne liberi, era tremendo!» commentò Guda, che era accorso con solerzia solamente per avere un resoconto di ciò che era accaduto in seguito alla sua soffiata. «Fujiwara aveva perso le speranze già ad aprile, dopo una settimana di allenamenti.»
«Allora, l’altro giorno un mio amico che è anche suo compagno di classe mi ha detto che gli è sembrato di averlo visto nella palestra della scuola media Wakabayashi, dove si allenano quelli della squadra di quartiere.»
«E questo che c’entra?» lo esortò Iwaizumi.
«Forse questa Sakurai fa la stessa cosa. Forse ha lasciato la sua squadra ma non la pallavolo, e continua ad allenarsi in qualche altra palestra della città.»
«Yahaba, sei un vero genio. Degno di essere la mia riserva.» si congratulò Tooru tutto speranzoso.
Il più giovane sbatté un paio di volte le palpebre prima di arrossire. «Grazie, senpai
Solo quando furono soli sulla strada di casa, Iwaizumi lo prese per il lobo di un orecchio. «Non avrai mica intenzione di passare in rassegna tutte le palestre di Sendai per cercare una ragazza che ti detesta, eh Oikulo
«Se non dovessi trovarla ci sono anche quelle delle città limitrofe.»
«Tu sei folle, hai idea di quante palestre ci siano? Per non parlare degli orari, le combinazioni sono infinite!»
«Se le provo tutte, prima o poi salterà fuori!»
«Sei patologico, ormai. Può darsi pure che la sua amica ti abbia detto una bugia!»
«E perché avrebbe dovuto?»
«Probabilmente Sakurai vuole farti impazzire e prendersi gioco di te.»
«Gumi-chan non lo farebbe mai!»
«Non lo farebbe mai? Ma se non la conosci! Questa ragazza è una completa sconosciuta, non hai idea di come sia fatta! Le cose sarebbero andate diversamente se all’inizio del mese mi avessi ascoltato e l’avessi piantata con le battute squallide, forse le saresti stato più simpatico e avresti perfino rimediato il suo numero! Adesso faresti bene a prenderti le tue responsabilità e metterci una pietra sopra.»
Ferito, Tooru incrociò le braccia e guardò dall’altra parte imbronciato.
«Parli così, Iwa-chan, perché non ti sei mai innamorato di nessuno.»
Iwaizumi arrossì vagamente, poi strinse gli occhi indispettito.
«Questo per quanto ne sai tu.»
«Iwa-chan! C’è una che ti piace? E non mi dici niente? La conosco?»
«Ma ti aspetti veramente che ti risponda? Mi hai seccato, fila via!»
«Guarda che lo scoprirò prima o poi, non puoi tenermelo nascosto a lungo.» cantilenò divertito.
«Ti stava bene il livido di Sakurai sullo zigomo, ne sento la mancanza. Vogliamo replicare?»
«Appena avrò ritrovato Gumi-chan mi occuperò di far luce sulla tua nuova fiamma … »
«Nuova, dici?» si lasciò sfuggire l’amico scuotendo il capo.
«Quindi è una cosa che va avanti da molto e non mi hai detto niente? Sei davvero pessimo.»
«Sarai tu quello pessimo quando ti arriverà una denuncia per stalking
Tooru non era certo del perché l’amico si scaldasse tanto. Era lusingato che si preoccupasse del suo benessere, ma si trattava solo di farsi un giro per le palestre della città nel tempo libero: non avrebbe sottratto tempo né allo studio, né agli allenamenti. Non si aspettava ovviamente che Iwaizumi si offrisse di accompagnarlo, perciò non glielo aveva neanche chiesto. Quella di Sakurai era una questione che riguardava solo lui e dopo le dichiarazioni di Hiromi, era stato anche colto dal desiderio bruciante di far luce sul mistero.
Ora, dunque, da quale palestra iniziare?
~
Megumi era pronta a giurare che il sorriso che il presidente Anzai aveva sfoderato quando l’aveva trovata in campo in qualità di nuova recluta, fosse uno dei più spontanei che avesse mai visto. Anzai era ormai vecchiotto, aveva fatto la sua storia, eppure fu arzillo come non mai nel raggiungerla per dargli il benvenuto. Lei gli rivolse un inchino profondo, che l’altro contraccambiò con cortesia.
«Tu devi essere la ragazza di cui ieri parlava Rumiko-san. Benvenuta!»
La più giovane mormorò il ringraziamento più cortese che avesse in repertorio.
«Perdonami se sono così diretto, ma Rumiko-san mi aveva parlato di una matricola al liceo, non mi aspettavo che fossi tanto alta e che colpissi così forte. Dimmi un po’, cosa ti hanno dato da mangiare i tuoi genitori?»
«Onestamente non lo so, signore. Ma non escluderei che sia stata l’aria di campagna.»
Anzai ridacchiò sotto il baffo ormai ingrigito, ben diverso dai tempi in cui era stato il palleggiatore di punta della nazionale giapponese. «Cosa mi dici, come ti trovi con i nostri ragazzi?»
«Sono tutti fin troppo gentili con me, Kawabata-san è un alzatore molto scrupoloso.»
«Quando aveva la tua età è arrivato ai tornei nazionali, mi dispiace solo che si sia fermato quando si è sposato qualche anno fa. Signorina … non ti ho chiesto come ti chiami, devi perdonarmi.»
«Megumi Sakurai.»
«Allora sei dei nostri, Megumi?»
Megumi avrebbe volentieri voluto essere dei loro, ma al momento della proposta aveva tralasciato una particolare quanto importante problematica: la quota d’iscrizione. Le sue finanze erano già così precarie, che anche perfino i 3900 yen mensili richiesti dalla società avrebbero finito per gravare irrimediabilmente sul proprio bilancio. Impacciata, cercò di spiegare al presidente Anzai il motivo per cui non poteva procedere al tesseramento, ma il vecchietto la stupì con un sorriso cordiale.
«Sai compilare i referti[2], Megumi?»
«Intende quelli delle gare? Sì, mi è capitato qualche volta … »
«Potresti fare da refertista per le gare di Challenge League che giocheremo in casa, si tratterebbe solo di impegnarsi qualche weekend ogni mese, ed in cambio saresti esonerata dal mensile. Che ne dici? Te la senti … »
«Presidente, non credo di meritare tutta questa gentilezza.» mormorò incredula.
«E perché?» ridacchiò lui «Te lo si legge in faccia che sei una brava ragazza. E poi, da quello che ho visto, sarebbe un peccato perdere una schiacciatrice così in gamba.»
Megumi non si sentiva né una brava ragazza, né la schiacciatrice in gamba di cui parlava Anzai. Le schiacciatrici in gamba non giocano sporco, e non baciano il proprio coach. L’occasione però era troppo ghiotta per rifiutare e il compito di redigere il referto di gara le avrebbe perfino permesso di guardare da vicino tutte le partite di Challenge League che desiderava.
Particolarmente di buon umore, estrasse il cellulare mentre era sulla via di casa.
“Ci vediamo dopo cena al campetto di calcio dietro il dormitorio?”
Wakatoshi, come suo solito, la fece attendere quasi un’ora prima di rispondere al suo messaggio. Era sempre così preso da quello che aveva da fare da dimenticarsi ogni giorno di avere un cellulare, per poi rispondere come previsto con ammirevole concisione.
“Okay. A più tardi.”
Avrebbe riletto la sua risposta più e più volte, in attesa dell’amico. Di tanto in tanto si guardò intorno, impensierita dal fruscio delle foglie, per poi scoprire sempre che il responsabile fosse un improvviso filo di vento. Forse si era allontanata troppo presto dalla mensa, complice il suo appetito ormai ridotto, e aspettare la stava facendo diventare paranoica. Ma Hattori non poteva possedere il dono dell’ubiquità: a quell’ora in genere sarebbe dovuto essere sicuramente a casa sua, dopotutto non poteva fingere di non avere una famiglia.
«Sei qui da molto? Tendou mi ha trattenuto un quarto d’ora nel cortile.»
Wakatoshi si sedette sulla panchina accanto a lei mentre era ancora tutta presa dai suoi pensieri. Rivederlo la rasserenò immediatamente: era rimasto l’unica variante immutata nel suo mondo, nonostante tutti i disastri che l’avevano squassato negli ultimi mesi. Tornare da lui era come approdare finalmente nel proprio porto sicuro, la faceva sentire protetta e a casa. Forse fu per questo che le sue braccia si avvolsero meccanicamente attorno alle spalle dell’altro, senza che lei potesse far nulla per impedirlo. Inspirò profondamente il suo profumo, che le ricordava quello della boscaglia che costeggiava l’argine del fiume a Minamisaka e appoggiò la fronte sulla sua spalla.
«Megumi-chan, non mi avrai invitato qui per la ventesima dichiarazione, spero … » la prese in giro picchiettandole affettuosamente il capo.
«No, nessuna dichiarazione. La ventesima aspetterà.» lo rassicurò.
«Allora a cosa devo tutta questa esplosione improvvisa di affetto?»
«Ho bisogno di ricaricarmi. E tu sei la mia principale fonte di rigenerazione.» spiegò con semplicità prima di scostarsi da lui. «E poi ti ho chiesto di venire qui perché ho qualcosa di cui parlarti.»
«Finalmente decidi di parlarmi di qualcosa. Da quand’è che non lo fai?»
Da quando sono diventata una poco di buono, Waka-nii.” Era ciò che dovette trattenersi dal replicare, in fondo era cosciente di non essere neanche più degna di rubargli un abbraccio come quello di poco prima. Wakatoshi non meritava di essere preso in giro in quel modo.
«Indovina? Riprendo a giocare!» annunciò cercando di nascondere l’angoscia sotto un sorriso allegro. Il volto dell’amico si distese in un sorriso appagato.
«Sono molto felice che ritorni al club, Megumi-chan. È quello il tuo posto, uscirne è stato un crimine.»
Megumi non riuscì a mascherare il disappunto. «Waka-nii, non ho detto che torno al club. Ho trovato una squadra, una nuova! Hai presente la società di Anzai che si allena al City Gymnasium? Hanno da poco messo su una divisione amatoriale mista e …»
«Che spreco.» l’amico la interruppe senza nemmeno permetterle di concludere la propria spiegazione. Ogni ombra del sorriso che prima le aveva rivolto era scomparsa, sostituita da un’espressione dura  e seria. «Allenarti nelle divisioni amatoriali non ti porterà da nessuna parte, le tappe della carriera passano per i club scolastici, da lì solamente attingono le squadre di League. Non riesco a capire veramente perché tu abbia fatto una cosa così stupida come lasciare il club.»
La più giovane si aspettava che Wakatoshi fosse comunque entusiasta della sua decisione, perciò si sentì spezzare il cuore nel sentirlo così drastico con lei. Ancora una volta, si doleva di non potergli riferire delle sue vere motivazioni: era riuscita solo a farlo infuriare con pochissime battute.
«Ti ripeto che avevo problemi insormontabili con le altre!»
«Non ci sono problemi insormontabili, di insormontabile c’è solo la tua testa dura ed il tuo orgoglio. Se solamente ogni tanto ammettessi di avere torto … »
«Quindi pensi che io abbia torto? Complimenti Waka-nii, sei un vero amico …»
«Proprio perché sono tuo amico, ti parlo in questo modo!»
«Non importa quanto tu insista, tornare al club mi è proprio impossibile!»
«Rimanere a scuola ti sarà impossibile! Quando revocheranno la tua borsa di studio sarai costretta a tornare a Minamisaka! È questo che vuoi? Lasciare l’Accademia?»
«Sai che sto lavorando, riuscirò a pagare la rata!»
«Certo, ma a quale prezzo? Come va lo studio Megumi-chan
«Non mi pare che ti sia mai interessato del mio rendimento scolastico … »
«Perché finora era sufficiente! Se nel pomeriggio lavori, ed adesso inizi anche gli allenamenti con una nuova squadra, quand’è che fai i compiti? La notte?»
«E se anche fosse? Finora me la sto cavando.»
«Sai che se non è la verità lo scoprirò prima o poi.»
«Waka-nii» cercò di spiegargli con calma «Per me è molto importante. Se non lo fosse non mi darei così tanto da fare.» Si accorse che sembrava più una supplica che un’affermazione, ma probabilmente non poteva essere diversamente: quello offertogli dal presidente Anzai era l’unico compromesso accettabile. Sapeva in cuor suo che non era che un palliativo per alleviare solo apparentemente i suoi affanni, ma non vedeva altra via per non abbandonare completamente quello che fino ad allora era stato tutto il suo mondo.
Forse anche Wakatoshi, che pur vedeva la sola punta dell’iceberg, parve capirlo perché mugugnò quella che per l’amica fu una sorta di approvazione.
«Però promettimi che non ti metterai a strafare.» aggiunse severo «Se conciliare tutto diventa difficile, considera di tirarti indietro, o almeno chiedimi aiuto se ne hai bisogno.»
«Ma tu hai i tuoi nuovi amici … le selezioni del torneo primaverile … »
«Ed ho anche te, è una vita che ho te. Non esitare.»
«Quindi non sei arrabbiato?»
«Se mi arrabbiassi con te tutte le volte che ne combini una delle tue, probabilmente avremmo smesso di essere amici da anni. Ma io ti conosco bene, e ci tengo a te, perciò finisco sempre per sorvolare.»
Megumi scosse la testa, rassegnata. «Come fai ad essere sempre così schifosamente perfetto[3]
L’altro le scoccò uno sguardo interrogativo. «Non capisco.» disse.
«Posso avere un altro abbraccio d’incoraggiamento?» propose speranzosa.
«Lo stai veramente chiedendo? Chi sei tu? Di certo non la mia Megumi, lei non chiede gli abbracci, se li prende e basta.»
Aveva appena salutato Wakatoshi all’ingresso del dormitorio, pervasa da un’effimera quanto piacevole sensazione di serenità ritrovata, quando un trillo familiare le segnalò di aver ricevuto un messaggio sul cellulare. Non gli diede tanta retta in principio, ancora tutta intenta a rivivere molteplici volte nella propria testa la conversazione con l’amico, evitando accuratamente di rammentarsi della parte in cui l’aveva rimproverata. Si ricordò del messaggio solo quando si fu infilata silenziosamente sotto le lenzuola, attenta a non svegliare Scoiattolo che russava lievemente nel letto di fronte. Leggere il nome di Hattori nel campo del mittente scalfì il suo buonumore, ma non riuscì a distruggerlo, grazie all’ancora vivissima influenza di Wakatoshi e della sua benedizione.
Fu il contenuto del messaggio a riportarla bruscamente coi piedi per terra. Era solo una foto, scattata dal fondo della strada che congiungeva il dormitorio con i campi all’aperto, abbastanza vicina perché si distinguessero chiaramente lei e Wakatoshi abbracciati sotto l’unica panchina illuminata dalla luce artificiale del neon. Con un brivido realizzò che risaliva a pochi minuti prima e che Hattori l’aveva vista in compagnia di Wakatoshi.
“Ora puttaneggi in giro? Vuoi capirlo che mi appartieni?
Se vi vedo ancora insieme, potrebbe capitargli qualcosa di molto spiacevole.
So che sei una ragazza intelligente, prima di essere una troia.”
~
Kenjiro non era stato in grado di celare il proprio stupore quando durante il primo intervallo un compagno di classe gli aveva riferito che il senpai Ushijima lo attendeva nel corridoio. Stando ben attento a non farsi notare da quella nevrotica di Sakurai, che però al momento sonnecchiava sbavando sul suo libro di storia, sgattaiolò fuori dall’aula ricolmo di aspettative. Era così emozionato che era convinto che il battito accelerato del proprio cuore fosse chiaramente udibile da tutti. Seguì il senpai in silenzio attraverso il corridoio, e poi sulle scale che conducevano al terrazzo dell’edificio. Gli sembrava tutto così perfettamente calcolato che le sue aspettative non fecero altro che lievitare. Le mani gli sudavano freddo e le guance bruciavano prepotentemente.
Solo quando fu certo che fossero da soli Ushijima gli rivolse la parola, e fu una delusione.
«Shirabu, ho bisogno di farti delle domande a cui solo tu puoi rispondere.» poi si accigliò un attimo «Sei rosso in viso, ti senti bene?»
Aveva la gola secca, perciò si limitò ad annuire con forza.
«Volevo chiederti della mia amica Megumi, è seduta in classe alla tua sinistra.»
Si ripromise mentalmente di ringraziare Sakurai di essere una spina nel fianco anche in absentia. Non sapeva neanche se andasse considerata una rivale, ma la sua presenza intorno ad Ushijima era asfissiante e lui ne era suo malgrado terribilmente geloso.
«Non … non ci conosciamo molto bene.» rispose con voce rauca. Tossì per schiarirsela «Sakurai non parla mai con nessuno, in classe.»
«Allora, per quello che vedi durante le lezioni, come se la cava? Riesce a prendere buoni voti, a seguire le spiegazioni … »
«All’inizio dell’anno sì, andava abbastanza bene.» lo interruppe subito «Ma adesso … è sempre distratta, controlla spesso il cellulare sotto il banco, non è raro che non finisca tutti i compiti e occasionalmente si addormenta. Ad esempio ora l’ho lasciata che dormiva.»
Ushijima scosse il capo con rassegnazione, poi riprese ad interrogarlo.
«Se ne sta tranquilla? Ha avuto qualche problema con voi o con gli insegnanti?»
«La settimana scorsa ha rischiato di finire in presidenza per aver risposto male alla professoressa di matematica, l’ha scampata per un pelo.» raccontò «Però, senpai, perdonami se mi permetto … è anche colpa sua: è molto suscettibile e si comporta come se fosse convinta che il mondo intero la perseguiti.»
Ushijima sollevò un sopracciglio, perplesso. «Questa mi è nuova, spiegati meglio.»
Kenjiro cercò di essere il più chiaro possibile. «È guardinga, controlla spesso fuori dalla finestra e nei corridoi. Scatta subito sulla difensiva per qualsiasi cosa e, se qualcuno le si avvicina troppo, lo allontana bruscamente.»
«Ti starai chiedendo perché sono venuto a domandarlo proprio a te, dal momento che di certo la conosco molto meglio.» considerò lo studente più grande. Kenjiro non poteva dargli che ragione: di Sakurai conosceva a stento nome e cognome.
«Due sere fa ci siamo salutati normalmente. Abbiamo avuto un piccolo diverbio, ma avevo deciso di passarci sopra, perciò avevamo risolto tutto per il meglio. L’ho lasciata che era rilassata e più calma, ma dopo quasi mezz’ora mi ha inviato un messaggio privo di senso. Mi ha scritto che non dobbiamo vederci mai più e nient’altro. Ho provato a chiamarla ma non mi risponde più, è diventata sfuggente e mi evita da giorni, non mi guarda nemmeno in faccia. Sono sicuro di non aver fatto nulla di male, quindi la faccenda mi puzza.»
«Sakurai è psicopatica» sentenziò il più giovane, ma si pentì subito di ciò che aveva detto dinanzi alla faccia indispettita di Ushijima «Be’, è quello che dicono tutti.»
«La prendono in giro? Le fanno dei dispetti?» lo incalzò preoccupato.
«No, no!» si affrettò a chiarire «Nessuno avrebbe mai il fegato di infastidire Sakurai, è una di quelle che se ti prende ti fa a pezzi! Tutti hanno paura di lei!»
Su Sakurai, in effetti, c’era perfino una leggenda metropolitana: nessuno sapeva quanto fosse vera, ma si diceva che avesse messo al tappeto in una rissa uno studente più anziano di un’altra scuola, probabilmente durante gli interscolastici. Le voci non sempre corrispondono alla realtà, e Kenjiro era abbastanza sveglio da riconoscerlo, ma aveva comunque sviluppato una certa soggezione nei confronti della compagna di classe.
«E tu, tu hai paura di Megumi, Shirabu?»
Arrossì nuovamente, sentendosi addosso lo sguardo diretto del più grande. Per compiacerlo doveva mentire, lo capì dall’aspettativa che brillava nei suoi occhi scuri, perciò lo rassicurò:
«Assolutamente no, è una ragazza come tutte le altre.»
Ushijima gli rivolse un sorriso che non aveva mai visto, ed il cuore riprese a battergli all’impazzata.
«Sa essere molto dolce, se è a suo agio.» gli spiegò con leggerezza.
Kenjiro dubitava che le parole “Sakurai” e “dolce” potessero stare nella stessa frase, ma non se la sentì di contraddirlo. Sostenere una conversazione tanto lunga con Wakatoshi Ushijima era un evento tanto raro che solo un pazzo non si sarebbe fatto scrupoli a rovinarlo.
«Posso chiederti un favore?»
«Puoi chiedermi tutto, senpai.» bisbigliò meccanicamente.
«Vorrei che tu l’aiutassi quando è in difficoltà, soprattutto con lo studio, Megumi mi ha detto che sei molto bravo, perciò sono sicuro di affidarla ad ottime mani. Non dirle che te l’ho chiesto io, però. Ha bisogno di mantenere almeno una media accettabile a scuola, sta già perdendo la borsa di studio sportiva.»
Un punto per Sakurai: gli aveva fatto un complimento indiretto davanti al suo senpai, non se lo sarebbe mai aspettato. Incapace di rifiutarsi, annuì solennemente.
«La cacceranno?»
«Se non dovesse ritornare sui suoi passi, credo sia solo una questione di tempo. Se ti è possibile, tienila d’occhio, Shirabu. Se noti qualcosa di strano, per favore, riferiscimelo.»
«Se sei tu a chiedermelo, lo farò!»
Ushijima gli rivolse nuovamente il sorriso gentile di poco prima, poi controllò l’orologio che portava al polso destro. Gli disse che si stava facendo tardi e che era ora di ritornare in classe. Kenjiro non riuscì a trattenere la propria curiosità mentre si affrettavano giù per le scale.
«Davvero non state insieme? Tu e Sakurai, dico.»
«No, siamo solo molto amici.»
Si era pentito di aver accettato la richiesta d’aiuto di Ushijima appena si era riseduto al proprio banco. Era entusiasta di essere riuscito a trascorrere qualche minuto da solo con lui, e piuttosto lusingato di essere stato giudicato da lui degno di fiducia. Ma quando posò lo sguardo su Sakurai, che a denti stretti, strusciava barbaramente la gomma sulla pagina già stropicciata del proprio quaderno di geometria, fu piuttosto preoccupato per la sua incolumità. Tentò comunque di attirarne l’attenzione con un sibilo sommesso, al quale la ragazza rispose con un’espressione confusa.
Si fece coraggio, per Ushijima.
«Vuoi una mano con quel problema?»
 

[1] Penso sia superfluo spiegarlo, ma i konbini sono negozi molto diffusi in Giappone: una sorta di supermercati aperti ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette.
[2] Il referto è il documento ufficiale di ogni partita di pallavolo. In genere è compilato da un tesserato della società che organizza il torneo, il quale registra minuziosamente ogni dettaglio della gara: orario di inizio e fine partita, formazioni iniziali per ogni set, i punti segnati, i nomi degli arbitri e così via. Per i non addetti ai lavori (come me) compilarlo può sembrare difficile, ma per chi è del campo pare sia quasi automatico.
[3] La frase preferita di Megumi, piuttosto ricorrente.

NOTE FINALI

Pare che io sia viva, e lo so che questo è il vero colpo di scena della storia. Mi dispiace essere così irregolare negli aggiornamenti, ma gli esami estivi mi hanno sottratto luglio senza troppi complimenti. Non iscrivetevi all'università, è "buia e piena di terrore".
Dunque, forse perché ho scritto a singhiozzo, rileggere questo capitolo per me è ogni volta come ascoltare lo stridio delle unghie sulla lavagna: non so di preciso cosa mi aspettassi però lo sento un po' grezzo. Saranno i dialoghi o il fatto che per certi versi mi è servito come transizione, non riesco ad inquadrare il problema.
Posso essere un pochino più specifica qui nelle note finali, dunque:
- Mi scuso ancora nei casi (ridotti ad Hattori) in cui compare qualche accezione scurrile, ma era necessaria T-T. 
- I dialoghi sono tantissimi, e spero non sia un male.
- Su Shirabu, bè ... sì, in questa storia è chiaramente gay. (Non è gay sempre comunque? COFF COFF)

Come al solito, siate buoni (perché questo capitolo rimarrà per ora la mia croce) e se c'è qualche mio errore/orrore/disastro fatemelo notare cosicché io possa correggerlo!
Alla prossima! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5: La tregua ***


Capitolo 5

La tregua

L’esperienza più simile che Tooru avesse mai vissuto era quella delle lenti a contatto disperse, ormai celebre fra i suoi amici: una sera le aveva tolte ed aveva conservato il contenitore nel posto che riteneva il più sicuro e semplice da ricordare; la mattina dopo però si era completamente dimenticato di quell’accortezza. Così, armato di pazienza, le aveva cercate per tutta la casa: sulla scrivania, sul comodino, nel bagno, nell’armadio, perfino nella scarpiera e nella camera del fratello, nonostante non vivesse più lì da anni. Quanto più disperatamente ne aveva bisogno, tanto più difficile gli sembrava che diventasse trovarle. Solo quando fu rincasato esausto da scuola, seccato di essere stato preso in giro ininterrottamente per via della montatura fuori moda degli occhiali che non adoperava mai, che quelle disgraziate spuntarono fuori dalla cartella che si era trascinato dietro per tutto il giorno. Insomma, non solo erano nel luogo più a portata di mano di tutti, ma anche in quello che aveva involontariamente controllato più di frequente!
Ecco, in quel secondo lunedì di luglio, Tooru si era sentito frustrato esattamente come quando aveva perso le lenti a contatto. Ricolmo delle più rosee speranze, aveva perlustrato ogni centro sportivo della città in lungo ed in largo ed in giorni ed orari diversi, nella speranza di trovare Megumi Sakurai. Iwaizumi gli aveva fatto sorgere il fastidioso dubbio che quello che stava facendo sfiorasse il limite della decenza e del rispetto della privacy, e che sarebbe bastato davvero poco perché lo si potesse definire una sorta di maniaco, ma aveva bisogno di rivederla: dopo quello che aveva ascoltato qualche settimana prima da Hiromi, aveva voglia di far luce sulla faccenda. La sua mente aveva cominciato ad attivarsi giorno e notte, delineando degli ipotetici scenari che via via diventavano sempre più simili alla trama di qualche film thriller a sfondo erotico e cominciava a sentirsi piuttosto preoccupato.
«Certo, figurati se è qui...» biascicò fra i denti mentre dagli spalti del City Gymnasium lanciava un’occhiata per sicurezza giù nel campo. La frequentava abbastanza spesso ed in quei giorni vi era passato un paio di volte per trovarci una volta la squadra cittadina di basket, un’altra i ragazzi della squadra maschile di pallavolo in pieno allenamento. Era un palazzetto così tanto gettonato che di certo – se realmente desiderava passare inosservata – Sakurai ne avrebbe scartato l’opzione a priori. Quella sera fu sorpreso di ritrovarsi nel bel mezzo di un’amichevole fra la gli studenti e le studentesse dell’università di Miyagi e quella che sembrava una squadra mista cittadina. A dire la verità non sapeva nemmeno che Sendai avesse una squadra mista al City Gymnasium, perciò doveva essere una trovata dell’ultimo momento. Le formazioni miste non lo facevano affatto impazzire, a tratti le trovava umilianti: condividere la propria metà del campo con compagni del sesso opposto non era facile come sembrava, essendo maschi e femmine abituati a gestire le azioni in maniera diversa, senza contare che le schiacciate ed i servizi delle donne erano davvero ridicoli da ricevere per un uomo abituato al vigore dei propri colleghi. Non c’era dunque da meravigliarsi se in pochi s’interessassero di quel genere di incontri, che avevano più cose in comune con le partitelle improvvisate nel parco dagli amatori che con la società che molto probabilmente teneva in piedi la squadra.
Stava per girare sui tacchi quando scorse nella metà campo occupata dalla squadra cittadina una treccia di un colore molto familiare. Con una piacevole sensazione di vuoto nello stomaco, riconobbe Sakurai in seconda linea con indosso la casacca blu numero 23, tutta intenta ad aggiustarsi le ginocchiere sui leggins scuri. Si voltò un attimo per scambiare delle indicazioni con il centrale al suo fianco, probabilmente sulla ricezione del prossimo servizio. Sembrava decisamente più distesa di quanto fosse con la squadra del suo club scolastico o almeno non dava l’impressione di essere una che si appressa soglia del patibolo.
Caspita, se era ancora più bella quando sorrideva! Perché quello era un sorriso abbozzato appena ma gentile, quello che stava rivolgendo al palleggiatore, in risposta ai cenni con gli occhi che da sottorete le faceva per segnalarle un’imminente mezza in seconda linea. Fu piuttosto invidioso dell’aurea condizione di quest’ultimo: cosa avrebbe dato per trovarsi al suo posto! La guardò arretrare oltre la linea alla sua sinistra, prendere la rincorsa, staccare prima della linea dei tre metri e colpire con uno schianto la palla egregiamente servitale; la centrale avversaria se la fece sfuggire dalle mani, il libero sembrò quasi riuscire a difenderla, ma la traiettoria risultò deviata e finì per lasciarla cadere fuori campo. Tooru si ritrovò a pensare che se quel braccio potente era capace di sfondare un muro avversario in quel modo dalla seconda linea, Sakurai sarebbe potuta essere ancora più utile se avesse giocato in un altro ruolo. Le sarebbe bastato abituarsi a schiacciare palle diverse da quelle che prediligeva, lavorare maggiormente sulla resistenza e migliorare a muro per poter giocare a destra e diventare l’inarrestabile top scorer di qualsiasi formazione.
Alla fine rimase incollato alla tribuna fino all’ultimo set della partita, che si risolse con la vittoria della squadra cittadina, sancita da un ultimo, eccellente, punto di quella che certamente era la più giovane in campo. Tooru non poté non ammirare il clima di coesione e spensieratezza che circondava i componenti della squadra da cui la ragazza era stata accolta. Erano persone di età, provenienze ed esperienze differenti, ma ognuno di loro ci teneva a supportare i propri compagni condividendo con loro dritte e critiche. L’alzatore, un ragazzo sulla trentina, scambiò con Sakurai un poderoso cinque, congratulandosi per aver utilizzato al meglio tutte le sue palle. La ragazza accennò un inusuale inchino cortese e lo ringraziò per gli ottimi palleggi. Ancora una volta considerò che sarebbe stato entusiasta di trovarsi nei suoi panni: a prescindere dalla sua incontrollabile cotta per la schiacciatrice, vedere le proprie alzate utilizzate in maniera efficace da un’ala tanto esigente in campo, doveva essere particolarmente soddisfacente. Per non parlare di poterle stare così vicino, toccarla per complimentarsi con lei o augurarle un buon servizio, condividere con lei quell’intesa speciale che solo un palleggiatore ed il proprio schiacciatore conoscevano, guardarla negli occhi per dirle “Questa è tua, vai e spacca tutto!” Si trattava di sensazioni che provava già con i suoi compagni di squadra, ma l’idea di poterlo fare con Sakurai gli mandava in tilt il cuore e lo stomaco. Perciò quando la vide recuperare il proprio borsone e avviarsi verso gli spalti non seppe trattenersi: voleva che lei lo notasse.
«Gumi-chan!» cinguettò eccitato sventolando per aria la mano in segno di saluto «Sei stata davvero eccezionale! Gran belle schiacciate!»
Le spalle della ragazza s’irrigidirono, prima che questa si voltasse di scatto verso di lui. Tooru scorse una scintilla di terrore balenarle negli occhi marroni. Se aveva paura che lui la stesse pedinando si stava preoccupando del nulla: in fin dei conti lo aveva pur sempre messo al tappeto con uno spintone.
«Come mi hai trovata?» gridò in sua direzione «Chi ti ha detto che ero qui?»
«Non è il caso di agitarsi, Gumi-chan, è stato un caso!» mentì, mettendosi sulla difensiva.
La ragazza però non fu affatto convinta dalla sua risposta, e si arrampicò rapida sulla gradinata per arpionargli bruscamente il braccio destro con una mano. Tooru non sapeva se il cuore gli galoppasse in petto tanto forte per la paura di buscarle di nuovo o per il semplice contatto fisico con Sakurai. Così vicino e con l’abbondante luce prodotta dai fari che illuminavano il palazzetto, sarebbe riuscito a contare con accuratezza le lentiggini che le costellavano il viso e che aveva scorto così nitide solamente in qualche foto sul suo profilo «Chi ti ha detto che ero qui?» ripeté minacciosa.
«Nessuno! Ti giuro nessuno!» si affrettò a risponderle nascondendo la faccia dietro le braccia per ripararlo da eventuali colpi. Considerò dunque che sarebbe stato rischioso provare a raccontarle una bugia e ammise la verità. «Ho saputo che avevi lasciato la squadra ed ho pensato che non avresti mai potuto lasciar perdere la pallavolo. Volevo rivederti e così ti ho cercata in tutte le palestre di Sendai, sperando di ritrovarti. Oggi, finalmente, ti ho trovata qui!»
«Ed io dovrei credere a queste balle?»
«È la verità!» le assicurò. Sakurai, seppur ancora guardinga, lasciò andare il suo braccio.
«E perché avresti voluto così tanto rivedermi da cercare in tutta Sendai? Hai qualcosa di mio che devi restituirmi o vuoi semplicemente confessare di aver deliberatamente fatto il guardone nel mio spogliatoio?» domandò sospettosa.
Tooru sperò che stesse scherzando, perché gli appariva palese il motivo per cui lo stesse facendo. Certo, non glielo aveva mai detto ad alta voce, ma chiunque lo avrebbe capito. Quindi o lo stava prendendo in giro o era meno sveglia di quanto si aspettasse. Forse Iwa-chan aveva ragione: girarci intorno senza essere chiari non si sarebbe mai rivelato abbastanza utile e non sapeva per di più quando avrebbe nuovamente avuto l’occasione di essere a tu per tu con Sakurai. Constatò di trovarsi in una situazione del tutto nuova, o almeno nuovo era il ruolo che questa volta ricopriva nella conversazione con una ragazza. In un coraggioso slancio d’onestà, confessò:
«Perché mi piaci, no?»
Seguì un imbarazzante intervallo di silenzio teso, in cui si accorse di sentire un gran caldo sul viso, nonostante le mani – invece – stessero sudando freddo. Si fece forza e con la coda dell’occhio sbirciò la faccia della ragazza, che lo fissava con gli occhi ridotti a due fessure fiammeggianti e le braccia incrociate davanti al petto.
«Guarda che non ci casco. Lo sanno tutti che sei un farfallone.»
«Sono sincero, sincero! Tu mi piaci!»
«Ah, certo… e sapresti dirmi perché ti piaccio?»
Tooru trovava che ci fosse così tanto da dire per fornire una risposta esaustiva a quella domanda, che l’elenco avrebbe superato le cento pagine. Non riusciva a stabilire una classifica per sintetizzare i motivi per cui si sentiva attratto da Sakurai, quindi provò ad enumerarne alcuni in ordine sparso, mentre la faccia gli andava a fuoco. Si chiese se le ragazze che gli si dichiaravano provassero le stesse sensazioni, ma fortunatamente al sicuro dal terrore di buscarsi un pugno in un occhio in caso di un riscontro negativo.
«Ti piace la pallavolo e sei molto brava, poi hai carattere e una personalità molto marcati, senza contare che sei una ragazza molto bella, ma credo che tu questo lo sappia già: sei bella anche quando vieni fuori dal campo tutta sfatta. Adoro molto come sorridi quando fai punto, e quando ti sistemi la treccia fra una fase e l’altra. Mi piace il modo in cui parli, e anche la tua voce, e poi…»
«Bene…» lo interruppe lei di punto in bianco. Tooru intravide con piacere un po’ di rosa colorarle le guance «Tu in ogni caso non piaci a me, quindi sparisci.»
«Non puoi provare ad uscire con me, almeno una volta? Poi decidi!» le suggerì instancabile.
«Sarebbe comunque inutile: io amo solo il mio Waka-nii, quindi non hai speranze.» tagliò corto.
Eccola, la verità che aveva voluto ignorare fino a quel momento. Eppure l’aveva vista con i suoi stessi occhi, il malaugurato giorno in cui la sua strada aveva incrociato quella della ragazza in quello stesso palazzetto dello sport. Ushijima era stato così amorevole con Sakurai, tanto da sembrare fuori dal suo stesso personaggio: accarezzarle la schiena, prestargli la giacca della propria tuta, accettare tutte le moine che la presunta “solo amica” gli rivolgeva erano tutti segnali molto chiari. Così come l’invadente tendenza della ragazza ad appiccicarglisi addosso, scaricando su di lui tutti i capricci e i sintomi della sindrome dell’abbandono, avrebbero dovuto scoraggiare Tooru nel suo intento. Anzi, a pensarci bene, una persona sana di mente si sarebbe dovuta tirare indietro già quando la ragazza con cui stava cercando di attaccar bottone lo aveva incontrovertibilmente respinto, mettendolo pure in imbarazzo davanti a tutti. Ma invece che demoralizzarlo, quel brusco rifiuto non faceva altro che accrescere il suo desiderio e si vergognava di sé stesso anche solo per provare un simile sentimento. Forse non si era innamorato subito di Megumi Sakurai, quando l’aveva vista schiantare la palla nei primi tre metri del campo avversario, o quando aveva scoperto che avevano in comune più di quanto chiunque potesse immaginare. Forse, per quel breve lasso di tempo, era solo stato affascinato dal suo aspetto fisico e dalla sua straordinaria presenza in campo e soltanto poco più tardi era inciampato nella rete che qualche dispettoso dio dell’amore doveva avergli teso. Perché nel momento in cui Sakurai gli aveva rifilato il suo secco no, lo teneva già irreversibilmente in pugno. Iwa-chan e gli altri lo avrebbero canzonato dandogli del masochista ma forse, da un certo punto di vista, lo era davvero. Anche dinanzi al secondo rifiuto e alla certezza che lei fosse persa del suo più acerrimo rivale, per giunta, non riusciva ad arretrare. Al contrario, si sentiva ardere il petto ancora maggiormente, bruciava dalla voglia di serrare la distanza fra le loro labbra e ascoltarla ammettere, subito dopo un bacio impetuoso ma perfetto in ogni dettaglio: “Sei meglio tu di Waka-nii.”
Forse questo avrebbe dovuto dirle: «Mi piaci perché mi sfuggi, ed in amore vince chi fugge. Mi piaci perché amarti è una sfida, perché tu vedi solo un altro, ed io posso essere molto meglio di lui. Lascia che te lo dimostri.»
Ed invece disse solamente: «Hai dei gusti davvero di merda.»
«Ti ammazzo, brutto figlio di…» cominciò lei pronta a prenderlo nuovamente per la collottola.
«Non c’è bisogno di mettere in mezzo mia madre!» protestò lui con voce acuta. Il cuore gli martellava di nuovo all’impazzata: era seccante che potesse sperare nel contatto fisico solo provocandola e rischiando di prenderle di santa ragione.
«Allora ritira quello che hai detto, stronzo!»
«D’accordo, d’accordo … hai buon gusto, va bene? Il tuo Ushiwaka-nii è alto, bello, forte, eccetera eccetera, proprio come dici tu.»
Sakurai lo lasciò andare e lui si risistemò la maglietta sgualcita. «Allora da quand’è che state insieme?»
La schiacciatrice divenne quasi porpora per la vergogna. Abbassò gli occhi verso i lacci delle proprie scarpe da ginnastica rosa shocking e ammise: «No, non stiamo insieme.»
Era dunque questo il secondo lato di Megumi Sakurai che imparava a conoscere: alla fine dei conti, veniva fuori che anche lei era una ragazza di sedici anni che quando arrossiva diventava tremendamente carina. Alta quasi un metro e ottanta, graziata da madre natura con un’ammirevole quantità di muscoli, ma comunque riusciva di tanto in tanto a risultare adorabile. Forse sarebbe riuscito a bearsi un altro po’ di questa sua nuova facciata se avesse continuato a girare il coltello nella piaga.
«E tu ti attacchi a lui come una cozza per fargli capire che ti piace?»
«Io non mi attacco a Waka-nii come una cozza!»
«Ah no?» la rimbeccò lui fingendo di togliersi una giacca immaginaria e porgerla all’aria accanto a sé. «Hai freddo?» recitò imitando la voce baritonale di Ushiwaka e poi mimando il gesto di stringersi la giacca sulle spalle come aveva fatto lei in quell’occasione. Ciliegina sulla torta, completò la performance da Oscar fingendo di lanciarsi fra le braccia di un Ushiwaka inesistente riproducendo perfettamente la stessa faccina da cane bastonato che Sakurai aveva esibito.
«Mi hai spiata, Oikawa? Sono cose personali!» protestò praticamente paonazza.
«Personali un cavolo! Stavi cercando di amoreggiare con lui in un corridoio pieno di gente!»
«Am- amoreggiare?» sillabò la ragazza sempre più a disagio «Ma cosa dici, razza di cretino?»
«Che ti imbarazzi a fare? Sono forse davanti ad una deliziosa e timida verginella?» commentò lui con un sorriso sghembo.
«Non sono una verginel…»
«Ah-ah!» la fermò lui, scuotendo l’indice davanti al suo naso con fare sentenzioso, sempre più divertito. Ci stava prendendo la mano e cominciava ad essere più facile gestirla e toccarla sui punti deboli, anche se doveva stare attento a non superare il limite, se non voleva tornare a casa con un occhio nero. «Attenta a quello che scegli di dire, Gumi-chan. Qualcuno potrebbe giudicarti in entrambi i casi.»
Sakurai nascose le mani dietro la schiena e si voltò dall’altro lato. «Comunque sono fatti miei, questi.» concluse con voce vibrante di vergogna «Non vedo perché dovrei raccontarli a te.»
«Dunque lo sei davvero, una verginella inesperta!»
Come prevedibile la schiacciatrice lo agguantò nuovamente con cipiglio minaccioso.
«Guarda che rischi di brutto!» strillò, con la voce più alta di un’ottava rispetto al solito «Non mi faccio problemi a gonfiarti quel bel faccino! Spero che le tue ammiratrici lo abbiano assicurato!»
«Sei davvero acida, Gumi-chan! Perché non ti fai dare due colpi dal tuo Ushiwaka-nii? Sono matematicamente certo che dopo saresti molto meno isterica!»
«Ed io sono matematicamente certa che oggi tu non tornerai a casa intero!»
«Che c’è? Basta che ti dichiari ed il gioco è fatto!»
«Be’ si dà il caso che non sia così semplice e che io mi sia già dichiarata!»
Un risvolto sorprendente ed interessante insieme: innanzitutto ne veniva fuori che Sakurai era il tipo di ragazza che si dichiara all’uomo che ama, mentre Tooru non ci avrebbe scommesso nemmeno un centesimo; inoltre Ushiwaka l’aveva rifiutata, e anche qui, il palleggiatore non era in grado di spiegarsi perché.
«Ti ha rifiutata? Questa è proprio bella!»
«Non so nemmeno perché ti stia raccontando queste cose, sono fatti personali!» si lamentò strattonandolo come una bambola.
«E tu non ti sei ancora arresa? Siamo uguali, vedi?»
«Io non sono uguale a te, cretino! I miei sentimenti per Waka-nii sono puri e sinceri!»
«Cosa ti fa pensare che i miei per te non lo siano?» la rimbeccò lui offeso.
«Tu sei un uccello di passo[1]! Vuoi solo una ragazza in più nel tuo letto!»
«Gumi-chan, sei crudele! E poi “puri e sinceri” … a chi vuoi darla a bere? Si vede chiaramente che muori dalla voglia di saltargli addosso e farti fare da lui qualsiasi cosa!»
A questo punto Sakurai era tanto rossa che quasi temeva che implodesse da un momento all’altro. Ma era anche così carina che avrebbe potuto starla a contemplare per il resto della propria vita.
«E anche se fosse? Oltre l’attrazione fisica c’è il sentimento!» biascicò imbarazzata.
«E vi siete baciati, qualche volta?»
«No!» sbottò lei «Basta con queste domande!»
Si ripromise di stuzzicarla solamente un’altra volta e poi di lasciar perdere, prima che perdesse effettivamente la pazienza e lo prendesse a calci nel sedere. La parte più sorprendente e divertente insieme era che, nonostante tutte le proteste, Sakurai continuasse a soddisfare le sue curiosità.
«Quindi non hai mai baciato nessuno?»
Si aspettava che il colorito grazioso di Sakurai durasse ancora per un po’ e che lei gli urlasse in faccia l’ennesimo e ultimo diniego goffo, ma invece la ragazza a quella domanda sbiancò completamente, le pupille si rimpicciolirono nelle iridi color cioccolato e ritornò spaventata come lo era stata quando lui si era fatto notare. Lasciò la presa sulla camicia e si affondò nervosa le unghie nelle nocche. «Sì.» mormorò, con la colpevolezza dipinta sul volto. Ma perché avrebbe dovuto sentirsi colpevole per aver baciato qualcuno? Non ebbe nemmeno il tempo di chiederglielo che lei era già ridiscesa per le scale degli spalti, senza nemmeno degnarsi di salutarlo.
Avrebbe dovuto arrendersi, sul serio, ma non ne era affatto in grado. Voleva scusarsi se aveva toccato involontariamente un tasto troppo dolente e voleva scoprire perché fosse così dolente. Voleva parlarle ancora così da vicino, ascoltare ancora il tono della sua voce quando, per l’imbarazzo, si faceva più femminile, chiederle perché giocasse così bene da quando aveva lasciato il club. Ma quando sarebbe riuscito a rivederla nuovamente era una vera incognita.
A meno che …
Dio, i ragazzi lo avrebbero ucciso.
~
Megumi si chiedeva cosa avesse fatto di tanto malvagio da meritarsi un trattamento simile. Ad essere sincera, sapeva benissimo di non essersi sempre comportata in maniera pedissequamente corretta, ma riteneva che la punizione che l’era toccata in sorte non fosse commisurata alla colpa. Il lavoro e la nuova squadra le offrivano, per qualche ora, sollievo dall’invadenza di Hattori, peccato però che nulla potessero invece contro quella di Tooru Oikawa. Perciò, quando Anzai gliel’aveva presentato come un nuovo palleggiatore della squadra, invitandola ad essere gentile con lui e a dissipare tutti i suoi dubbi, Megumi avrebbe voluto mettersi a piangere e pestare i piedi per terra. Era certa che Anzai si fosse mosso con i più nobili propositi, probabilmente sperando che fra di loro s’instaurasse – complice anche l’età – un’amicizia vantaggiosa per il lavoro di squadra, ma la ragazza avrebbe preferito stringere amicizia con la signora delle pulizie piuttosto che avere fra i piedi la nuova e seccante recluta. Innanzitutto, era da due giorni che s’interrogava sull’effettiva autenticità della spiazzante dichiarazione che le aveva rifilato il mercoledì precedente, la notte prima l’aveva addirittura sognato che la inseguiva mentre lei correva con Wakatoshi il suo consueto circuito pomeridiano. Inutile precisare che quell’incubo l’aveva messa di pessimo umore per tutta la mattinata ed aveva perfino disertato l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive. Poi c’era la questione della sua lingua instancabile: parlava di continuo e faceva continuamente domande a cui lei avrebbe volentieri evitato di rispondere, ma Oikawa era munito di qualche superpotere subdolo che gli permetteva di strapparle sempre una risposta.
Megumi voleva solo essere lasciata in pace, chiedeva tanto?
«Non mi trovo per niente bene con te, è meglio se lasciamo perdere.» sospirò esausta dopo essersi lasciata cadere sul parquet consunto della palestra. Oikawa si sedette a gambe incrociate accanto a lei. La ragazza si distese sul pavimento e lo scrutò furtivamente dal basso, tuttavia non abbastanza da non farsi notare.
«Perché mi guardi così?» le domandò l’altro corrugando le sopracciglia.
«Perché ti si legge in faccia il disappunto. Io ti avevo avvisato che non avresti ottenuto niente venendo qui, pare che te ne sia finalmente accorto.»
Oikawa sbuffò. «Non è per quello che ho il broncio, è che tu ti arrendi troppo presto!»
«Perché perseverare in cose che non mi riescono? È solo uno spreco di energie…»
«Niente è uno spreco di energie!»
Megumi non condivideva affatto. Per tutta l’ultima ora non avevano fatto altro che provare un’infinita serie di combinazioni di ogni tipo. Il repertorio di Oikawa, come spesso le aveva decantato Wakatoshi era davvero molto ampio: aveva tentato ogni singolo tipo di alzata, ma lei era stata in grado di colpirne di striscio a malapena un paio. Ogni volta il nuovo palleggiatore non si lamentava di nulla, anzi, sorprendentemente si scusava per aver sbagliato e le serviva una nuova palla, senza mai scoraggiarsi. Forse avevano reiterato quel circolo vizioso per una cinquantina di volte senza successo e glielo fece notare senza troppi complimenti.
«Vedi? È per questo che sbagli Gumi-chan. Tu non prendi seriamente gli allenamenti, non devi dare il massimo solamente in partita: se una cosa non ti riesce, non devi mollare finché invece non ce la fai!» la rimproverò. Megumi non aveva alcuna voglia di farsi fare la predica perfino da uno che aveva conosciuto solo perché l’aveva sbirciata nello spogliatoio, perciò replicò:
«Kawabata-san non si è mai lamentato, ed io non mi sono mai lamentata di lui, credo che sarebbe meglio se continuassimo a lavorare insieme come era fino a ieri.»
«Perché Kawabata-san è fin troppo gentile e ti fa sempre lo stesso palleggio, i virtuosismi se li concede solo con gli altri schiacciatori. Se schiacci sempre le stesse palle non aggiungi niente alla squadra, anzi diventi solo prevedibile.»
«Sei qui da nemmeno un giorno e già ti senti in dovere di farmi la lezioncina?»
«Perché te la prendi tanto? Ti sto solo dando dei consigli. Dispiace che un braccio forte come il tuo venga sprecato a causa della prevedibilità. Pensa che flagello per gli avversari saresti se fossi in grado di mettere a terra con quella stessa energia qualsiasi tipo di palla!»
«Tu vaneggi, stai parlando di chimere.» tagliò corto infastidita.
«No, sto parlando di te, perciò credo che sia possibile.»
«Si vede proprio che mi conosci appena» commentò con amarezza Megumi roteando gli occhi al cielo «Io queste cose che dici tu proprio non so farle. Ad esempio, faccio schifo con le veloci.»
«Sempre perché perdi la pazienza e non ti eserciti abbastanza.»
«Non è questione di pazienza, è questione di essere portati o meno per qualcosa!» ribatté.
«Fammi indovinare, Gumi-chan. Scommetto che sei quel genere di persona che se non riesce subito a superare il livello di un videogioco, si scoraggia e lo molla per intero.»
«Ovvio che sì, lo rivenderei e me ne comprerei un altro.»
«E così via all’infinito…»
«Oppure mi procurerei il salvataggio di qualcuno che ha superato quel livello.»
«In breve prenderesti una scorciatoia.» considerò Oikawa «Ma Gumi-chan, nello sport non possono esistere le scorciatoie. O superi il livello, o in ogni caso dovrai rassegnarti al game over
Forse Tooru Oikawa poteva leggere nella mente delle persone, come il protagonista di quell’americanata sui vampiri che la sua sorellina l’aveva costretta qualche anno prima a vedere con lei[2]. Megumi si sentì particolarmente toccata dalle sue parole, come se le stesse facendo una frecciatina ben mirata, e si rimise rapidamente in piedi.
«Se pensi questo di me, non vedo perché tu debba continuare ad ostinarti.» annunciò innervosita «Qui abbiamo finito, io me ne vado.»
Anche Oikawa scattò in piedi e fece in tempo ad afferrarla per il gomito. Sembrava dispiaciuto che lei l’avesse presa in quel modo. Megumi era stata troppo impetuosa, in fin dei conti lui non poteva assolutamente sapere nulla delle sue disavventure.
«Gumi-chan, non avevo alcuna intenzione di offenderti! Era solo un consiglio, senza obblighi!»
Megumi si lasciò sfuggire un sospiro. «Lo avevo capito, Oikawa. Grazie lo stesso.»
«Posso farmi perdonare?» propose speranzoso.
«No.» replicò duramente l’altra «Ora lasciami andare, si fa tardi.»
«Ti riaccompagno all’Accademia, una ragazza non dovrebbe andare via da sola…»
C’era un particolare di quell’invito indesiderato che a Megumi non quadrava affatto. Lei e Oikawa avevano – da quando si erano conosciuti – conversato solo tre o quattro volte, e durante nessuna di queste la schiacciatrice aveva accennato di alloggiare nei dormitori dell’Accademia.
«Chi te l’ha detto che sto ai dormitori?»
Oikawa si morse un labbro, conscio di averla fatta grossa.
«La tua amica Hiromi.» ammise riluttante.
«Fantastico, e cos’altro ti ha detto? Che giocavo qui? È stata lei?»
«No, lei mi ha detto solo che ti allenavi da qualche altra parte. Sono stato io a trovarti.»
«A quanto pare io con lei parlo a vanvera, tanto non mi ascolta.» si lamentò a mezza voce.
«In sua difesa, me l’ha detto che non volevi che nessuno sapesse nulla…»
«Ah, te l’ha detto. Molto utile, devo dire. Ci vediamo, cretino.»
«Gumi-chan, lasciati accompagnare!»
«No. So benissimo tornare a casa da sola.»
~
C’era da qualche sera un lampione fulminato lungo l’ultimo tratto di strada che conduceva all’Accademia: l’assenza della sua luce rendeva difficile mettere un passo dopo l’altro, perciò Megumi dovette affidarsi alla memoria. Continuava a meditare sui suggerimenti utopici di Oikawa, sulla possibilità di adeguarsi ad ogni tipo di palla e sfruttarla al massimo in ogni caso. Megumi disponeva di un ottimo controllo dopo aver staccato in salto, si era abituata a calcolare l’angolo perfetto per colpire il punto cieco dietro gli avversari o il pertugio nel muro, ma per fare quello aveva bisogno di un’alzata piuttosto duttile, perciò era impossibile fare la stessa cosa con tempistiche diverse. Stava giusto pensando questo quando, proprio al limite della zona d’ombra definita dal lampione guasto, ad un solo passo dalla luce, qualcuno la trattenne tirandole i capelli. Per un attimo, s’interrogò su chi fosse, prima di rendersi conto che Oikawa aveva avuto il merito di farle dimenticare per qualche ora l’angosciosa questione che ormai la tormentava da mesi. Hattori le sussurrò nell’orecchio:
«Dov’è che sei stata fino a così tardi?»
Megumi reagì con inaspettata lucidità.
«Perché non lo chiede ad Hiromi? Mi pare che ormai lei sia diventata la sua confidente più fidata.» ringhiò levandoselo di dosso e affrettandosi ad entrare nel cono di luce del lampione successivo.
«Sei gelosa, Sakurai? Non devi esserlo, per me esisti solo tu. Lo sai, no?»
«Non ho alcun motivo di essere gelosa!» protestò disgustata «Voglio solo che smetta di ficcare il naso nella mia vita e di farlo mettendo in mezzo terze persone! Mi lasci in pace!»
«La tua vita, la tua carriera sportiva, tutto di te … è mio
«Lei è malato… da denuncia...»
Hattori la raggiunse e le strinse dolorosamente il polso destro, ben conscio di quanto questo le fosse utile per le proprie prestazioni sportive. «Se solo ti permetti, ragazzina» sibilò ad un soffio dalle sue labbra, così vicino che poteva percepire la familiare puzza di tabacco «Io ti rovino. A chi credi che crederebbero? Ad una mocciosa in cerca di successo facile o ad un rispettabile adulto con anni di esperienza?»
«Ho i suoi messaggi, sono una prova più che sufficiente!»
«E tu credi che io abbia usato un numero realmente esistente?»
Fu un brutto boccone da mandare giù. Per tutto quel tempo Megumi aveva conservato con cura ogni singolo messaggio ricevuto dal proprio ex-allenatore, considerandoli la più preziosa delle armi a sua disposizione per combatterlo, dal momento che invece le telefonate che riceveva erano tutte anonime. Ora scopriva che non valevano nulla. La prontezza di riflessi che aveva manifestato poco prima svanì in un sol colpo. Le pizzicavano gli occhi e la gola e riprese nuovamente a sentirsi in un tunnel senza via d’uscita. Approfittando del suo momento di confusione, l’uomo la tirò vicino a sé e le impedì di allontanarsi nuovamente.
«Mi manchi, Sakurai. Perché non vuoi capirlo?» sussurrò mellifluo.
«Si allontani da me!» urlò spaventata. Si era illusa che sarebbe bastato smettere con il club e non farsi vedere più in giro per sfuggire alla propria condanna, ma si rendeva ora conto che non gli sarebbe potuta scappare per sempre, prima o poi Hattori avrebbe ottenuto da lei quello che aveva sempre bramato, che lei fosse d’accordo o meno era una questione che non lo tangeva. Sarebbe accaduto lì, in qualche vicolo poco illuminato, così d’improvviso? E dopo, cosa sarebbe successo dopo? Per qualche motivo non riusciva a figurarselo, come se la sua vita si fermasse a quel momento. Al terrore sopraggiunse anche la nausea nell’istante in cui le mani ruvide di Hattori scivolarono sotto la sua maglietta, schiuse le labbra per gridare ancora una volta ma la richiesta d’aiuto rimase impigliata fra la gola e la lingua.
Questa volta, però, fu il caso a salvarla. Hattori si scostò bruscamente e le intimò di non fiatare. Megumi comprese il perché di quel repentino e salvifico cambio di programma quando scorse il professor Ayase affrettarsi verso di loro.
«Buon Dio, Isao… ti abbiamo cercato ovunque!» esordì rivolgendosi ad Hattori. Poi squadrò la ragazza con curiosità. Megumi sperò che cogliesse sul suo viso i segni del disperato grido d’aiuto che era stata sul punto di lanciare, ma l’allenatore fu più rapido a fornire la sua personale versione dei fatti.
«Ho incontrato la nostra Sakurai qui sulla strada, ho pensato di approfittare per chiederle ancora una volta di tornare al club, ma come al solito non vuole saperne. Un vero peccato.»
Il responsabile del club si raddrizzò sul naso i minuscoli occhialini cerchiati di metallo e la scrutò con maggior dovizia. «Già Sakurai, perché non torni? Mi sembri abbastanza adulta per smetterla con questi capricci…»
«Non è come sembra, professore…» tentò di spiegare attingendo a tutta la propria riserva di coraggio, ma ancora una volta Hattori intervenne con maggior solerzia: finse di cingerle amichevolmente la vita con un braccio ma ne approfittò per pizzicarle forte un fianco. Le sembrò quasi di sentirlo ripetere: “Se solo ti permetti, ragazzina, io ti rovino.”
«Sakurai, da quando hai smesso col club mi sembri aver perso tutta la serietà.» continuò dunque il professore con fare critico «Rincasare così tardi non è affatto prudente. Mi auguro che il tuo rendimento scolastico non ne risenta. Faresti bene a riprendere le attività e pensare alla tua carriera.»
«È quello che le ho detto anche io, professore: salvaguardare la sua futura carriera è la cosa più importante di tutte. Ma lei… niente, fa sempre di testa sua. Si rovinerà, in questo modo.»
A Megumi non sfuggì la subdola minaccia celata fra le righe, ma non poté far altro che fingere di ascoltare e annuire.
«Adesso torna in Accademia, Sakurai… la mensa sta per chiudere. Vuoi andare a letto senza cena?»
Cenare era l’ultima delle sue priorità, ma colse al volo l’occasione per congedare i due con un inchino frettoloso e correre via più veloce che poteva. Il cuore le martellava tanto forte in petto da farle male, respirare era diventato quasi impossibile, aveva freddo anche se luglio era alle soglie.
Per la prima volta sentì la necessità di affrontare l’argomento con qualcuno e spontaneamente il suo pensiero corse a Scoiattolo, che avrebbe di certo trovato nella loro stanza, da poco tornata dalla cena. Era stata lei il giorno prima ad offrirsi come ascoltatrice, di certo non si sarebbe tirata indietro. Trafficò qualche istante con le chiavi, che le scivolavano fra le dita tremanti e sudate, ma quando aprì la porta della camera, la trovò vuota. Sulla scrivania di Scoiattolo c’era un bigliettino riempito dalla sua grafia sgraziata.
“Sto partendo per il ritiro con il club, ci vediamo domenica sera.
(Visto che non mi lasci parlare, ti avrei inviato un messaggio, ma non ho il tuo numero.)”

 
Avrebbe voluto esserci, al ritiro. Provava invidia e rimorso, voleva essere lì con loro e non sola e abbandonata da tutti. Per di più, per una volta che aveva preso coraggio e si era decisa ad aprirsi con qualcuno, quel qualcuno spariva. Era probabile – considerò – che qualche essere superiore la stesse punendo per aver maltrattato la povera Hiromi. Avrebbe potuto chiamare Wakatoshi, ma avrebbe compromesso tutto il lavoro svolto finora per far sì che l’amico non si facesse di lei una pessima idea.
Cercò di calmarsi e riflettere con maggiore lucidità e dedusse che il ritiro doveva essere il motivo per cui Hattori era nei paraggi della scuola ad un orario tanto inusuale e per cui il professore lo stava cercando: se stavano partendo quella sera, fino a domenica poteva dirsi libera di lui e muoversi tranquillamente. Il problema si sarebbe presentato da lunedì in poi: se l’allenatore aveva intuito che vi erano dei giorni in cui ritornava tanto tardi, di certo avrebbe preso l’abitudine di appostarsi sulla sua strada. Sarebbe stato utile tornare a casa per le vacanze estive, ma lei aveva bisogno di lavorare e di recuperare l’insufficienza in fisica. Martedì, giovedì e sabato non ponevano nessun problema: smontava dal lavoro alle sei, la domenica era libera. Era importante che cercasse una soluzione per le sole sere in cui rimaneva fuori per l’allenamento.
Tentennò per ore prima di prendere in considerazione l’unica opzione valida. Era perfino folle considerare Oikawa un’opzione, ma non v’era dubbio che fra lui ed Hattori il più sopportabile fosse il primo. Era un tipo superficiale, ma non aveva l’aria di essere un cattivo ragazzo e ascoltare la sua parlantina vivace era un’attività talmente monopolizzante da distoglierla da qualsiasi altro pensiero. Se Hattori li avesse visti insieme, si fosse fatto idee strane su di loro ed avesse deciso di rivalersi su di lui, a Megumi non sarebbe importato affatto: non si crucciava affatto della sua incolumità, al contrario di quanto faceva con Wakatoshi.
L’unico ostacolo per la riuscita del suo nuovo piano, a questo punto, era di certo il proprio orgoglio. Non aveva alcuna voglia di abbassarsi a domandare ad Oikawa di accompagnarla a casa ogni sera dopo aver rifiutato la sua proposta spontanea e continuò a rimuginare per tutto il weekend su come introdurre la questione senza sembrare una disperata che chiede l’elemosina. Alle volte – lontana dall’influenza di Hattori – questi pensieri si mescolavano alle speculazioni sui suggerimenti che il palleggiatore le aveva dato l’ultima volta che si erano visti, generando uno stato di trance generale da cui a stento Secchione-kun, che si era miracolosamente proposto di aiutarla con il recupero di fisica, riusciva a risvegliarla.
Spesso sprechiamo troppo tempo a arrovellarci su problemi che alla fine si risolvono da soli.
«Posso accompagnarti stasera, Gumi-chan
La domanda arrivò inaspettata alla fine dell’intensa sessione di allenamento, insieme al palleggio perfettamente eseguito che le mise la palla proprio sulla mano destra, alla distanza dalla rete che più preferiva. Nella foga di esultare che la sorte fosse stata per una volta benevola con lei, la spedì in diagonale oltre la linea di fondo campo. Oikawa le rivolse uno sguardo contrariato.
«Non voglio essere pretenzioso, ma dovresti calibrare un po’ la forza. Questa volta il palleggio era buono.»
«È colpa tua che mi hai distratta con questa storia di accompagnarmi a casa!» si giustificò ricacciando indietro dei ciuffi sfuggiti alla treccia, poi colse la palla al balzo «Visto che insisti tanto da essere fastidioso, per una volta te lo concedo.»
Oikawa lasciò cadere a terra il pallone che aveva appena estratto dal cesto e sbatté le palpebre incredulo un paio di volte, poi distese le labbra in un sorriso pago – era un bel ragazzo, considerò dopotutto – e sollevò i pugni al cielo in segno di esultanza, lasciandola di stucco e anche piuttosto divertita.
«Non hai vinto l’oro alle Olimpiadi, Oikawa. Solo un viaggio di andata e ritorno sulla linea per Wakano.» precisò senza riuscire a non ridere.
Oikawa la fissò attento per qualche istante prima di avvicinarsi a lei con fare cauto. Megumi era perplessa ma doveva ammettere che l’intera situazione, per quanto servisse a coprire qualcosa di ben più grave, aveva qualcosa di comico. La voce gracchiante del Presidente Anzai annunciò intanto la fine dell’allenamento.
«Dammi un pizzicotto, andiamo.» la esortò il nuovo compagno di squadra.
«Cosa?»
«Mi hai anche sorriso, dunque potrei star sognando: è tutto troppo perfetto. Dammi un pizzicotto.»
«Mi stai dicendo che non sorrido mai? Come dovrei prenderla?» protestò indispettita.
«Voglio dire che a me non sorridi mai. Mi dai il pizzicotto, sì o no?»
Megumi scosse il capo rassegnata. «Dove dovrei dartelo, scusa?» si arrese, quindi si corresse goffamente quando si accorse dell’espressione divertita di Oikawa «Non intendo toccarti in nessun… ecco… posto intimo. Non volevo dire suggerire quello.»
Oikawa assottigliò gli occhi con malizia. «Gumi-chan, vuoi toccarmi il sedere? E pensare che l’ultima volta ti avevo lasciata ancora innocente e illibata! Che sporcacciona!»
Ma quale pizzicotto? Tirò al palleggiatore uno schiaffo sulla nuca così fulmineo che non ebbe nemmeno il tempo di vederlo e gli strappò un grido particolarmente acuto.
«Sei manesca, manesca! Mi rimarrà il segno!»
«Ora sai di essere perfettamente vigile, contento?»
Oikawa parve accettare il risvolto positivo della sberla. Massaggiandosi la nuca dolente, mentre rientravano alla volta degli spogliatoi, le pose la domanda che avrebbe dovuto farle sin dall’inizio:
«Piuttosto, che strada fai da qui per Wakano, Gumi-chan
«Da qui prendo la linea Namboku, scendo a Kita-Sendai e da lì c’è una mezz’oretta d’autobus fino a Wakano[3]
L’altro si mordicchiò il labbro inferiore, impensierito: probabilmente non si era mai posto il problema di calcolare quale fosse l’effettiva distanza fra il City Gymnasium e l’Accademia Shiratorizawa, quando si era spontaneamente offerto di riaccompagnarla.
«Impieghi un’ora per arrivare fin qui?» considerò sorpreso «Devi tenere molto a questa squadra!»
«Lavoro part-time nel negozio di articoli sportivi a due isolati da qui, perciò mi trovo già da queste parti.» spiegò facendo spallucce quando si fermarono dinanzi ai rispettivi ingressi «Dunque ritiri l’invito?»
«Assolutamente no!» si sbrigò a rispondere Oikawa «Avremo il tempo per scambiare qualche chiacchiera. Corro a fare la doccia e sono pronto, non andare assolutamente via senza di me!»
~
Spiegare a sua madre come mai sarebbe rientrato un’ora più tardi non era stato particolarmente ostico: gli era bastato menzionare che c’era una ragazza da accompagnare e la signora Oikawa se n’era subito fatta una ragione (oltre a tempestarlo di raccomandazioni imbarazzanti). Invece di fermarsi a Kita-Sendai come di consueto, avrebbe dovuto fare un pezzo di strada avanti ed indietro in più, ma per trascorrere un po’ di tempo in più con Gumi-chan, avrebbe fatto questo ed altro.
Per la fretta, mentre infilava i pantaloni fece riversare metà del contenuto del suo borsone sul pavimento e si ritrovò perfino a preoccuparsi del perché l’asciugacapelli non funzionasse, prima di accorgersi che non aveva inserito la spina nella presa. Quasi gli scivolò la boccetta del profumo che suo fratello gli aveva regalato a Natale, e per un pelo non dimenticò il cellulare in carica su una panca.
Sakurai lo aspettava sulle scale che conducevano all’uscita, con l’aria annoiata di una che è già pronta da un pezzo. Gli faceva uno strano effetto vederla con i capelli sciolti, visto che fino ad allora – se si eccettuava il loro primo burrascoso incontro, in cui erano ancora bagnati – l’aveva sempre vista con la sua caratteristica treccia sportiva. Si sentiva nervoso come una ragazzina al primo appuntamento. O forse era veramente una specie di primo appuntamento.
Per i primi dieci minuti di viaggio in metropolitana, con suo dispiacere, non parlarono affatto: la ragazza sembrava persa nei suoi pensieri, che dovevano essere piuttosto burrascosi. Aveva un sacco di cose da chiederle, in primo luogo voleva chiarire la questione di Hattori, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare per non sembrare maleducato. Così tentò di rompere il ghiaccio con un argomento leggero.
«Allora, Gumi-chan, dimmi qualcosa di te.»
Sakurai si ridestò dal suo stato di apparente trance e gli rivolse uno sguardo disorientato.
«Dai, una cosa qualsiasi… tipo, non so, qual è la cosa che preferisci mangiare?» suggerì propositivo.
«Il gelato mochi, al cioccolato.»
Tooru non si aspettava che avrebbe veramente risposto ad una domanda così stupida. Forse era realmente il suo giorno fortunato.
«E chi lo immaginava? A primo acchito sembri una sportiva tutta devota alla forma fisica, nessuno direbbe mai che hai un debole per i dolci.»
«Il mio debole per il gelato mochi è il mio segreto, ora ne sei a parte. Fanne buon uso e non rivelarlo a nessuno!» scherzò lei sollevando l’indice con aria solenne.
«Vuol dire che quando finalmente riuscirai a schiacciarmi una veloce come si deve, ti offro un gelato mochi al cioccolato, conosco una pasticceria in centro che fa i gelati mochi migliori della prefettura.»
«Che palleggiatore devoto! Devo ammettere che Waka-nii aveva ragione su di te.»
«E cosa dice il tuo Waka-nii su di me?» domandò, sinceramente incuriosito dalla menzione del suo rivale.
«Al momento non dice più niente, non parliamo più.» sospirò amareggiata.
«Avete litigato?»
«No, è stata una mia decisione. Per lui è meglio così.»
Le porte del treno si aprirono a Nagamachi, consentendo ad un gran numero di nuovi passeggeri di salire. Tooru scoprì di essere molto più vicino a lei di quanto avesse mai sperato e mai, in vita sua, aveva ringraziato tanto la calca della metropolitana. C’era una sorta di ombra negli occhi scuri della ragazza, che sottraeva loro tutta la luce vivace che vi aveva visto brillare quando erano in campo. Le parole preoccupate di Hiromi riecheggiavano insistentemente nella sua mente. Forse era ora di introdurre l’argomento, a poco a poco.
«Mi chiedevo, Gumi-chan, se va tutto bene.»
Sakurai scosse il capo con poca energia. «Niente va bene, Oikawa.» ammise senza perdere troppo tempo a rimuginarci «Sto combinando un casino dopo l’altro. Quando sembra che qualcosa si sia risolto, scopro che invece è peggiorato inesorabilmente.»
«C’entra il tuo club? Il motivo per cui lo hai lasciato?»
«Non voglio parlarne.» annunciò tesa, ma c’era da aspettarselo. Già che avesse per qualche istante lasciato aperto un piccolo varco nella sua corazza impassibile era un risultato non da poco: Hiromi aveva detto che la sua compagna di stanza non parlava con nessuno, eppure per qualche minuto era stata sincera e perfino serena. Non se la sentì di insistere o di chiamare in causa Hattori, preferì fingere che la sua risposta vaga fosse stata sufficiente.
Trascorsero il tragitto in autobus fino a Wakano ad ipotizzare quali potessero essere i nuovi gironi dell’imminente stagione di V. Premium League maschile, e su quante possibilità avesse la squadra di Sendai di accedervi l’anno successivo vincendo un campionato di promozione. Era piacevole poter trattare un simile argomento con una ragazza, senza temere di poterla annoiare con un monologo di cui non le interessava nulla. Sakurai invece era partecipe, faceva osservazioni interessanti, auspicava l’ingaggio di atleti emergenti ma talentuosi che aveva avuto modo di osservare nei tornei precedenti. Quando parlava di pallavolo, l’ombra scura nel suo sguardo si riduceva ad un sottile velo di preoccupazione, quasi invisibile se messo a confronto con il luccichio entusiasta dei suoi occhi. Ogni minuto in più che passava con lei, era sempre più sicuro di non volersi arrendere.
«Non posso avvicinarmi troppo alla tua scuola, Gumi-chan. Potrei prendere fuoco spontaneamente.» scherzò mentre la scortava lungo l’ultimo tratto di strada a piedi, piuttosto esiguo ma reso insicuro da un lampione spento nelle vicinanze dell’Accademia.
«Non essere ridicolo!» L’altra gli diede un colpo leggero sulla spalla, per una volta senza l’intenzione di fargli realmente male. Era un bel passo in avanti, rispetto anche solo ad un’ora prima. «Se accompagni una ragazza, devi arrivare fino alla porta di casa sua. Nel mio caso, quella del dormitorio.»
«Non mi va di entrare… E poi se dovesse vedermi qualcuno saremmo entrambi nei guai.»
«Ma se non c’è anima viva? Sono tutti a cena.» insistette Sakurai. Era curioso che avesse cambiato idea così tanto radicalmente da desiderare che la scortasse fino alla porta del dormitorio. Insomma, la volta precedente non aveva voluto in alcun modo accettare la sua proposta e, quel giorno, era sembrata inizialmente molto prudente, mentre ora aveva l’impressione che lo stesse quasi pregando di rimanere più tempo insieme a lei. Non voleva illudersi, ma poteva significare qualcosa.
«Se non c’è anima viva, perché ti guardi sempre intorno?» obiettò sospettoso.
«Non mi sto guardando sempre intorno.»
«Ma se lo hai appena fatto!»
Sakurai finse di non aver sentito. «Grazie per avermi accompagnato fino a qui, Oikawa. Spero che adesso ti sia tolto lo sfizio di farmi compagnia.»
«È stato l’appuntamento meno convenzionale che io abbia mai avuto.» commentò.
«Non era un appuntamento, infatti.»
«Per me lo è stato, e mi sono divertito. Hai parlato con me per più di dieci minuti e non mi hai picchiato per un’ora intera. Un record!»
«Se vuoi ti pesto adesso!» propose con un ghigno.
«Preferisco evitare, grazie. E poi ti ho promesso un gekato mochi, faresti bene a mantenermi in salute.»
Sakurai sembrò soddisfatta «Allora ci vediamo mercoledì, carichi per la partita!»
«Mostreremo ai montati dell’università chi comanda!» dichiarò entusiasta.
«Buonanotte, e grazie ancora.»
Era felice, ma allo stesso tempo deluso. Mentre percorreva in fretta il cortile dell’Accademia, chiedendosi se la ragazza avrebbe permesso che quella piccola tregua fra di loro diventasse una consuetudine, ebbe la fastidiosa sensazione di sentirsi osservato. Accelerò ulteriormente il passo, e si voltò a guardarsi alle spalle solo quando fu ritornato alla fermata dell’autobus.
Poteva essere stata una sua suggestione, ma non gli era sfuggita la sagoma corpulenta che era sbucata dall’angolo della strada proprio quando lui era salito sul mezzo.
 
[1] Non è un modo di dire che si usa molto spesso, perciò riporto parte della definizione. Uccello di passo: persona di natura inquieta, incapace di star ferma a lungo nello stesso luogo, oppure sentimentalmente incostante, che predilige rapporti amorosi intensi ma di breve durata.
[2] Megumi si sta riferendo proprio a “Twilight”. Himeka Sakurai è una ragazzina a cui piacciono le cose che vanno di moda.
[3]Wakano” è il quartiere in cui, secondo la serie originale, si trova l’Accademia Shiratorizawa. È una località di finzione, tuttavia la scuola è ispirata alla Tohoku International School di Sendai, realmente esistente e situata in periferia. Per comodità, in questa storia ho collocato Wakano e l’Accademia proprio nel luogo in cui si trova l’International School. Le linee nominate da Sakurai, dunque, sono realmente esistenti.

NOTE FINALI

 

Nuovamente sotto esame, riemergo dalle ceneri della mia vergogna. Non so più come scusarmi per i continui ritardi, ma agosto - fra ferie, connessioni fantasma, computer rotti e nuovi esami - è passato in un batter d'occhio, e così anche settembre. Questo capitolo è stato molto faticoso da scrivere e sono stata costretta a spezzare l'idea originale per poter pubblicare il prima possibile. Succede tutto... e niente, ma è il preludio della tragedia. Ancora una volta è un testo che ha alti e bassi, ci sono alcune scene che sento di poter scrivere meglio di così, altre che ho riletto dopo settimane e mi hanno fatto chiedere se l'abbia scritte io o la mia "gemella talentuosa". Lo lascio a voi, per farmi perdonare dell'attesa. Ringrazio tutti voi che ancora mi seguite nonostante tutti i miei ritardi, siete incredibili. Io mi sarei mandata a quel paese da sola non so da quanto tempo!
Come al solito, in caso di sviste/errori/disastri fatemi un fischio ed io accorrerò il prima possibile. Siate buoni :( anche se non lo merito perché sono una ritardataria schifosa.

Alla prossima e buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6: Sincronicità ***


Capitolo 6

Sincronicità

La brezza del tardo pomeriggio in agosto, che soffiava piacevolmente nel cortile che ospitava il campo all’aperto, gli ricordava casa propria e quella rete di fortuna che avevano montato fra la gramigna sempre rinsecchita che infestava il terreno dietro le stalle del signor Sakurai. Accadeva spesso che il forte vento che spazzava di notte le campagne l’abbattesse e che la mattina seguente rimanessero delusi di trovarla molto lontana da dove sarebbe dovuta essere, ma si adoperavano sempre per ripararla alla men peggio e riprendere a giocarci in un baleno. Ai tempi, bastava questo a renderli felici: una palla ormai tutta scucita e sudicia, una rete in cui si erano aperti numerosi buchi, delle linee di fortuna tutte storte, tracciate nel terreno con ciò che avanzava della vernice azzurra di cui suo padre si serviva per dipingere le staccionate. Persino il cattivo odore che proveniva dalle stalle diventava sopportabile, come i sassolini nelle scarpe, i cerotti sulle ginocchia sbucciate, il continuo intromettersi nel gioco del cane dei vicini, che aveva scambiato la palla per un giocattolo da azzannare.
Ora la rete era diventata troppo bassa per entrambi, il campo troppo stretto, il cane dei Sakurai - pace alla sua anima - non c’era più. Ogni tanto tornavano dietro la stalla, immersi in un silenzio carico di parole non dette, e raffrontavano quello che erano con ciò che erano stati.
Sarebbe stata una menzogna affermare che l’amica non gli mancasse. Wakatoshi era certo di non averle fatto nessun torto e di non meritare la sua totale indifferenza per corridoi del liceo, sulle scale del dormitorio, nell’autobus che a weekend alternati li riportava a casa. Aveva provato a parlarle di nuovo, convinto com’era che si trattasse solo di un capriccio passeggero, che il tempo avrebbe cancellato autonomamente, ma non c’era stato verso di spuntarla.
Essendo queste le premesse, Shirabu era una benedizione: inizialmente aveva avuto l’impressione che il più giovane non avesse accettato di buon grado l’ingrato compito di fare da balia a Megumi, ma poi aveva dovuto ricredersi. Nelle esigue pause distribuite durante l’allenamento, il ragazzo si sedeva accanto a lui e rispondeva pazientemente alle sue domande, di tanto in tanto scostandosi la frangia dalla fronte sudata. Aveva un che di femmineo, di androgino che dir si voglia, conversava con una proprietà di linguaggio stupefacente, muoveva le mani sottili e bianche come le avrebbe mosse una ragazza. Era piacevole guardarlo, altrettanto ascoltarlo: la sua voce era tranquilla e soffice, come se anziché parlare stesse intonando una ninna nanna. A volte Wakatoshi finiva per perdere il filo del discorso, ipnotizzato da quei modi graziosi. Riuscì a comprendere che Shirabu si era personalmente occupato dell’insufficienza che Megumi si era buscata in fisica ed aveva provvisto spontaneamente ad aiutarla con il recupero, senza che lei opponesse alcuna resistenza. Il ragazzo riteneva che avesse buone possibilità di superare l’esame di riparazione fissato per il giorno successivo: era svogliata - aveva spiegato al compagno di squadra - ma non stupida.
«Non so come ringraziarti, Shirabu. Non pensavo che saresti riuscito a fare una cosa simile.»
Il ragazzo lasciò dondolare le gambe, troppo corte per toccare terra dal muretto su cui era seduto, e gli rivolse uno sguardo indecifrabile. “Mi offendi, senpai.”
«Non era mia intenzione.” precisò dispiaciuto “È che mi era sembrato, dal nostro primo colloquio, che non fossi affatto sicuro di cosa fare.»
«Hai ragione, ma alla fine l’ho fatto lo stesso.» convenne «Non volevo dirti di no.»
«Sei un ragazzo gentile.»
«Certo… Gentile.» ripeté con un’incomprensibile punta di amarezza nel tono di voce.
Per qualche minuto la loro conversazione fu interrotta dalle urla di Tendou, che – approfittando dell’assenza temporanea di Washijou – stava rincorrendo Semi tutt’intorno al campo. Da quanto aveva capito, il palleggiatore aveva rimediato un appuntamento con una del terzo anno, ma era determinato a non svelarne l’identità per nessun motivo al mondo e perciò Tendou si era indispettito. Diceva che non gli avrebbe dato credito se non gli avesse fatto un nome, ma non c’era modo di fargli sputare il rospo. Alle volte diventava difficile credere che fossero degli studenti delle superiori, finivano per comportarsi come ragazzini di prima media, ma – anche se era da poco stato nominato capitano –  non gli andava affatto di rimproverarli: in qualche modo, animavano l’atmosfera.
«Come ti sei trovato in questi mesi?» domandò a sorpresa a Shirabu, che fu colto alla sprovvista dalla domanda inattesa. Titubò qualche attimo prima di rispondere.
«Non posso dire di trovarmi male, talvolta c’è qualche attrito con Semi, ma per il resto va tutto bene. Volevo giocare in una squadra composta da giocatori forti e posso dirmi soddisfatto.»
Wakatoshi distese le labbra in un sorriso gentile, sorprendendo sé stesso ed il suo interlocutore: si trattava di una confidenza che non aveva mai concesso a nessuna delle sue nuove conoscenze.
«Ne sono felice» commentò col cuore più leggero «Sei sempre così quieto che non si riesce mai a capire cosa ti passi per la testa, per i primi tempi ho temuto che non ti stessi integrando.»
Il più giovane arrossì appena e scosse il capo energicamente.
«Sono fatto così, ma non significa che non mi stia integrando. Grazie per il pensiero, senpai
Anche Wakatoshi si stava trovando bene col nuovo alzatore: gli era straordinariamente devoto e rinunciava ad ogni pretesa di sfavillare in prima persona pur di servirgli delle palle che lui potesse maneggiare al meglio. Non si lamentava mai, accettava ogni giudizio ed ogni critica, addirittura quelle acidule dell’amareggiato Semi, e lavorava sempre sodo fino all’ultimo minuto di ogni allenamento. Diligente come pochi, lo si sarebbe potuto a diritto definire un secchione anche in campo, ma un secchione di quelli simpatici, che ti passano le risposte del compito in classe sotto il banco spontaneamente e senza chiederti nulla in cambio. Tentò di congratularsi con lui, ma non era abituato, perciò gli venne fuori solamente un goffo «Anche io mi trovo molto bene con te» che però al ragazzo sembrò bastare, dal momento che tirò le labbra in un sorriso emozionato.
~
Svegliarsi ogni mattina con l’ansia che potesse essere l’ultima, per Megumi, era da qualche giorno diventato normale, così come specchiarsi e scoprire dall’altra parte del vetro solo il fantasma di sé stessa, coi capelli spettinati e le occhiaie violacee per via della pessima qualità del sonno. Normale come i messaggi continui sul cellulare, come le telefonate insistenti ad ogni ora, come doversi guardare costantemente alle spalle quando per strada non c’era nessuno. Normale come il controproducente e giustificato senso di colpa che le dilaniava lo stomaco: con un solo bacio, era stata lei a dare il via a quella sventurata catena di eventi. Non importava quanto avesse tentato di rimediare, di giorno in giorno le sue sorti continuavano implacabilmente a peggiorare, spingendola a vivere nell’attesa che il peggio sopraggiungesse da un momento all’altro.
«Ti dispiace se entro anche io?» la voce acuta di Scoiattolo era perfino più fastidiosa del solito di prima mattina. Nel suo infantile pigiama a paperelle gialle, era comparsa impaziente sulla soglia del bagno appena la sveglia l’aveva buttata giù dal letto. Megumi le fece un cenno riluttante di assenso mentre con la spazzola tentava di sbrogliarsi i capelli, e l’altra si fece spazio accanto al lavandino, frugando nel portaspazzolino.
«Oggi è il gran giorno, no?» le domandò ancora assonnata «Inizia il primo turno delle eliminatorie.»
Scoiattolo annuì energicamente. La guardò spalmare una generosa dose di dentifricio sul proprio spazzolino. «Già, è arrivato il momento. Mi dispiace che tu non ci sia.»
«Non è più importante, ormai.» mentì Megumi. In realtà dispiaceva anche a lei, la squadra mista era divertente e armonica, ma le rincresceva di non poter più far parte di quella scolastica come tutte le ragazze normali facevano.
«Puoi venire a fare il tifo.» le propose Scoiattolo a bocca piena.
«Neanche per sogno.» replicò piccata.
«Mi chiedo se Ikeda invece verrà a vederci.» considerò quindi la compagna di stanza «Nonaka dice che non risponde nemmeno più al telefono.»
Megumi non ne sapeva nulla: aveva lasciato la perfida Ikeda a sputare sentenze sottorete sul suo straordinario piedistallo di cattiveria, oppure a camminare tutta tronfia con il braccio saldamente agganciato a quello del suo altrettanto simpatico fidanzato, venerato dall’intera popolazione femminile dell’istituto scolastico per le sue performance col club di basket.
«Cosa è successo ad Ikeda? Qualcuno le ha pestato la coda o le ha detto che l’eyeliner le si era sbavato?»
«Nobuhara l’ha piantata.»
«Che? Non ci credo, stavano insieme dalle medie! Perché l’avrebbe lasciata?»
«Non lo sa nessuno. Comunque da quando è successo ha dato forfait al club e non si è fatta più vedere, la settimana prima delle vacanze ha perfino marinato la scuola e si è rinchiusa in casa. Se l’è potuto permettere perché non sta ai dormitori, immagino… Se lo avessimo fatto noi, il preside sarebbe venuto a prelevarci personalmente e ci avrebbe trascinate di peso in classe.»
«La fortuna di abitare a Sendai, noi provinciali non possiamo comprenderla.» considerò dopo aver rimesso a posto la spazzola.
«Vieni a vederci almeno tu, non fare finta che non te ne importi nulla.»
«Non posso venire a vedervi, ho l’esame di recupero alle dieci e Shirabu mi vuole lì alle nove, per assicurarsi che io faccia un bel ripasso finale.» spiegò lasciando il bagno libero alla compagna «Mi domando per quale motivo abbia preso tanto a cuore la questione, fino al mese scorso non mi salutava nemmeno. Una volta gli ho chiesto se potesse prestarmi il temperamatite e mi ha risposto che non ne aveva, invece ne aveva due.»
Scoiattolo prese a ridere dall’altra stanza. «Non è il palleggiatore nuovo del club maschile? Com’è questa storia che attrai i palleggiatori?»
«Non ha una cotta per me!» puntualizzò Megumi «E comunque è colpa tua se Oikawa mi si è attaccato, gli hai dato troppe indicazioni. Adesso devo fare i conti con ben due stalker.» si lasciò sfuggire mentre perlustrava il mucchio di abiti che si era accumulato sulla sua sedia, alla ricerca del cravattino della divisa scolastica.
«Due?»
Scoiattolo fece capolino dal bagno e le rivolse uno sguardo preoccupato. Megumi capì subito di essersi involontariamente esposta troppo e cercò di inventarsi una giustificazione sensata, ma senza successo. «Volevo dire… nell’eventualità che anche Shirabu…»
«Sakurai, chi è lo stalker di cui parli? Oikawa è appiccicoso, ma innocuo.»
«Facevo per dire, era un’iperbole… non ho nessuno stalker!» ritrattò.
«Perché se ne avessi uno si spiegherebbero tante cose. Le telefonate nel cuore della notte, per esempio.»
I nervi di Megumi erano tesi al massimo. Era convinta che Scoiattolo non si fosse mai accorta delle chiamate notturne di Hattori, aveva giudicato il suono della vibrazione troppo flebile per essere udito. Si sforzò di adoperare al meglio le proprie doti recitative.
«Io non ricevo chiamate notturne, cosa dici?»
«Ovvio! Ora non le ricevi più perché hai preso l’abitudine di spegnere il telefono prima di andare a dormire, ma un paio di mesi fa il tuo telefono squillava almeno una volta durante la notte!»
Aveva decisamente sottovalutato la propria compagna di stanza. Sembrava un’ingenuotta, nei suoi outfit color pastello e con i suoi capelli da cartone animato, quando invece era più sveglia di quanto si aspettasse. E pensare che la settimana prima si era quasi decisa a parlarne con lei! Approntò una scusa quanto più credibile possibile ed improvvisò una risata tesa.
«Quella era mia sorella, che si divertiva a farmi degli scherzi!» inventò «Quindi puoi stare tranquilla, non c’è nessun maniaco che mi dà la caccia.»
«Se non c’è nessun maniaco, perché mi hai proibito di parlare a chiunque di cosa fai?»
«Perché mi dà fastidio che si spettegoli su di me.» improvvisò. Scoiattolo spalancò gli occhi, per niente convinta dalla sua scusa.
«D’accordo, è solo un fan un po’ insistente.» finse di confessare «Uno di quei nerd occhialuti, brufolosi e ingobbiti che ti scatta foto di nascosto durante le partite, nulla di ingestibile.»
«Guarda che queste persone diventano pericolose da un giorno all’altro! Dovresti parlarne al coach, anzi, sarebbe meglio al preside… Se non lo fai tu, lo farò io.»
Megumi rabbrividì: se la storia fosse giunta alle orecchie del preside, sarebbe stata chiamata a risponderne direttamente ed era certa che la sua storiella dell’ammiratore insistente non avrebbe retto ad ulteriori approfondimenti, né sarebbe stato utile incolpare una persona innocente. Se poi avesse raccontato la verità ed accusato Hattori, questi si sarebbe fatto la propria ragione esattamente come poche settimane prima aveva fatto in presenza del professor Ayase.
«Tu fatti gli affari tuoi, Scoiattolo. Se le cose dovessero peggiorare, valuterò cosa fare.»
«Grazie, Hiromi! Sei gentile a preoccuparti per me, Hiromi!» cantilenò la compagna di stanza gesticolando con veemenza «Anche quando sembri esserti calmata, scopro sempre che sei rimasta insopportabile come al solito.»
«Tu invece oggi non t’innervosisci come al solito.»
«Non voglio rovinare il mio umore pre-competizione.» annunciò con semplicità «E poi ho una proposta da farti: io non riferirò al preside del tuo “fan insistente” se tu in cambio verrai a vedere almeno una partita della giornata, va bene anche la seconda, così hai il tempo di terminare l’esame di riparazione.»
«Non sai nemmeno se riuscirete a vincere la prima.» ribatté Megumi perplessa.
«La vincerò apposta per permetterti di venire a vederci.»
«E dimmi, come faresti ad essere certa che io sia fra gli spettatori? Potrei dirti una bugia e tu ci crederesti, il tuo piano fa acqua da tutte le parti.»
«E qui ti sbagli! Dovrai sederti nella seconda fila del settore D, tanto non ci va mai nessuno. Se non sarai lì, vuol dire che non sei venuta a vederci.» spiegò orgogliosa del suo colpo di genio.
«Mi spieghi perché t’importa tanto che io venga a vedervi? Cosa vuoi ottenere?»
«Può essere che ti torni la voglia di giocare con noi, spero sempre che tu cambi idea.» ammise con candore.
«È un ricatto bello e buono, e comunque non otterrai niente, lo sai?»
«Non sono una che si arrende. E sotto sotto neanche tu.»
«Prometti che non ne farai parola con nessuno?» si accertò ulteriormente.
«Prometto: se vieni a vederci, non lo dirò a nessuno… Parola di scoiattolo!»
«Vengo, però non chiedermi di avvicinarmi o di fare conversazione con le altre o con Hattori.» concordò rassegnata «E, per piacere, non dire al coach che sono lì.»
Tesa al centro e veloci classiche, lo schema di Kurihara era rimasto ridotto come lo aveva lasciato. Era così chiaro che le avversarie avessero familiarizzato col ritmo che ormai lo Shiratorizawa segnava qualche punto solo quando Yoshida tornava in prima linea. Era penoso guardarle incassare un punto dopo l’altro, soprattutto se Scoiattolo si sforzava di rimettere in gioco delle palle che nessuno si degnava di sfruttare bene. Fra l’altro, le parve che in battuta fossero quasi tutte calate drasticamente: ricordava che Chigusa non fosse affatto male ed invece aveva colpito la rete un paio di volte. Sentì una fitta di compassione per la propria compagna di stanza, che, dopo essersi tuffata nella propria metà del campo per tre set, non risparmiandosi di balzare in mezzo agli spettatori per recuperare palle impossibili, si ritrovò con in mano un pugno di mosche ed una sconfitta 2-1. Incrociò il suo sguardo deluso durante l’inchino finale, e strinse le spalle abbozzando quello che voleva essere un sorriso solidale. Scoiattolo ne parve lievemente confortata e le fece cenno con il capo, come per chiederle se si sarebbero viste più tardi. Stava per comunicarle che avrebbe potuto raggiungerla dopo, ma fece appena in tempo ad accorgersene: Hattori la non era più seduto in panchina dove l’aveva lasciato. Colta dall’atroce dubbio che avesse potuto notarla dalla sua posizione, si sentì raggelare e scattò rapidamente in piedi, sgomitò fra la folla in uscita dalla tribuna per poter correre fuori il prima possibile. Urtò un paio di persone nel processo, ma sgattaiolò dall’uscio in tutta fretta, sorpassò Oikawa che, notandola, aveva già alzato la mano per salutarla. Ridiscese le scale controllando che alle spalle non ci fosse nessuno e controllò l’orologio al polso. Poteva farcela: se anche Hattori l’avesse vista durante la partita, Megumi avrebbe raggiunto Tomizawa prima ancora che lui potesse trovarla, e sul treno sarebbe stata al sicuro da ogni molestia. La stradina privata che tagliava la zona residenziale le avrebbe permesso di accorciare il percorso quanto bastava per seminarlo, a patto però di attraversare il parco adiacente al centro sportivo, una strada meno battuta ma più breve di quella consueta. Era straordinario come in un paio di mesi le giornate si fossero già accorciate: il sole rosseggiava già al di là del ponte e si stava già levando il venticello freddo della sera. L’aria limpida di giugno e l’arsura di luglio le parevano dei ricordi vaghi e lontani, ed era difficile credere che l’estate stesse giungendo al termine: tra l’esame di recupero di fisica, il lavoro, la nuova squadra e la faccenda di Hattori, le sembrava che la cerimonia di apertura dell’anno scolastico fosse avvenuta il giorno prima anziché in aprile. A passo svelto svoltò in direzione della vecchia galleria che probabilmente ormai erano rimasti in pochi ad usare, da quando il quartiere vicino era stato ristrutturato, ma che rimaneva un’eccellente scorciatoia per raggiungere il ponte, nonostante il topo che qualche sera prima lei e Oikawa vi avevano scoperto. Megumi non aveva paura dei topi, in campagna ne aveva visti fin troppi. Per spaventarla c’era bisogno di ben altro.
Ebbene, quel ben altro l’attendeva allo sbocco del tunnel, appoggiato ad un pilastro annerito dall’umidità che risaliva dal fiume, scuoteva il capo con aria appagata, lieto di essere riuscito a prevederla.
«Una ragazzina come te non dovrebbe tagliare per la galleria, a meno che non sia in cerca di guai.» esordì Hattori avanzando di qualche passo in sua direzione. Il primo istinto di Megumi, i cui sensi iniziavano già ad essere intorpiditi dalla paura, fu di irrigidirsi, poi di arretrare inutilmente di qualche passo.
«Ti starai chiedendo come io potessi sapere che avresti evitato la strada principale, non è così?»
«Mi sto anche chiedendo come lei sia potuto arrivare prima di me.» mormorò con la voce che già tremava. Se fosse scappata via ripercorrendo i propri passi sarebbe stata raggiunta? Quanto prudente poteva essere voltare le spalle all’ex-allenatore e correre in direzione opposta?
Hattori scoprì i propri denti ingialliti nella sua abituale smorfia maliziosa, gettò a terra il mozzicone di sigaretta che teneva fra le dita e si curò di schiacciarlo con un piede per spegnerlo meglio.
«Ti ho vista appena sei entrata, sapevo che ti saresti dileguata subito dopo la partita. Ho sperato fino alla fine che quelle sei impedite perdessero l’ultimo set in fretta. Per un attimo ho temuto che sarebbero rimontate e sarei dovuto rimanere con loro fino all’incontro successivo, ma poi – per fortuna – Hiromi ha mancato la ricezione.»
Per qualche istante, la paura cedette il passo alla rabbia. Ripensò agli sforzi di Scoiattolo, alla tristezza con cui l’aveva salutata. «Come può parlare così della sua squadra?»
«È un lavoro come un altro, Megumi.» spiegò con disinvoltura l’uomo «I primi tempi, non volevo accettare. Ma mia moglie ha insistito, diceva che avevamo bisogno di denaro, e alla fine ho preso una decisione. Allenare un branco di ragazzine montate e prive di potenziale non rientrava nelle mie aspirazioni ma mi ero rassegnato a ripetere ogni giorno una mansione per me priva di qualsiasi interesse. Poi ho visto te: così giovane e così talentuosa, bella quanto determinata, ingenua quanto ambiziosa. In men che non si dica sei diventata tutto quel che contava, mi hai dato una ragione per continuare.»
Megumi rabbrividì, strinse i pugni tremanti. «Lei è anche più spregevole di quello che pensassi.»
«Puoi smettere di recitare: se tu non avessi provato lo stesso per me non mi avresti mai acconsentito di baciarmi così in fretta, morivi dalla voglia.»
«L’ho fatto solamente perché volevo quel posto in squadra, è stato lei a costringermi!» replicò turbata. Come poteva essere giunto ad una conclusione tanto inverosimile e non vedere le vere ragioni dietro le sue mosse?
«E poi mi hai baciato ancora, ti sei lasciata toccare…» continuò andandole incontro per qualche altro passo, le braccia aperte come se si aspettasse che lei corresse ad abbracciarlo «Allora perché adesso mi sfuggi, perché hai messo in piedi tutta questa farsa?»
«Perché» ribatté tentando di sopraffare il groppo in gola «era lei ad obbligarmi a farlo! Non si rende conto di avermi ricattata? Continua a minacciarmi di rovinarmi la carriera! Lo scrive in tutti i messaggi e me lo ripete in tutte le chiamate! I bigliettini minatori nell’armadietto delle scarpe? Mi ha anche picchiata!»
Hattori parve per un momento turbato, prima di ricomporsi. «Ti stavo solo dando una mano a realizzare quale fosse il tuo vero posto, quali fossero i tuoi veri sentimenti.» dichiarò con un sorriso.
«Se si avvicina di un altro passo mi metto a gridare!» lo avvertì.
«Eccome se griderai, ragazzina» annunciò criptico «Ma non potrà sentirti nessuno, sei stata tu a scegliere di tagliare per una scorciatoia così desolata. Io stesso non avrei mai immaginato che tu decidessi di percorrere una strada simile, se non ti avessi vista farlo negli ultimi tempi con quel bellimbusto che stai frequentando. È il secondo con cui ti vedo, quanti nei hai? Perché ti diverti a spezzarmi il cuore così, Megumi?»
L’epiteto di bellimbusto si addiceva ad Oikawa più di quanto lo facesse qualsiasi altra definizione al mondo ed ebbe la certezza che Hattori li aveva tenuti d’occhio e seguiti come immaginava. Se non altro, questo diversivo aveva distolto l’attenzione del coach da Wakatoshi.
«Sono solo amici» chiarì per l’ennesima volta.
«O forse anche tu sei una zoccoletta come tutte quelle della tua età.» ringhiò infastidito «Cosa hai fatto l’altra sera per tutto quel tempo qui sotto con quello lì? Pensi che non abbia capito che vi siete appartati? Ero convinto di essere stato chiaro con te!»
La ragazza intuì che il coach si riferiva alla sera in cui avevano trovato il topo lungo la strada ed erano rimasti al buio lì sotto qualche minuto in più a cercare di capire cosa avesse toccato il piede di Oikawa usando la torcia del cellulare, perché l’altro non faceva altro che strillare spaventato “Si muoveva! Si muoveva!
«Lei fa troppi voli di fantasia! Le ripeto che è solo un amico, un conoscente!»
«Com’è che con me fai sempre la ritrosa quando invece sei così libertina da fartela anche coi semplici conoscenti?»
«Io non ho mai fatto niente con nessuno!» protestò esasperata. Hattori era ormai a pochi passi da lei, senza pensarci due volte fece la cosa più stupida che avrebbe potuto: girò sui tacchi e fece per lanciarsi in corsa fuori dalla galleria. Non ebbe il tempo di fare neanche un metro, Hattori l’afferrò per un braccio senza alcuna gentilezza e la costrinse con la faccia poggiata al pilastro più vicino. Le si spalmò dietro ed infilò una mano su per la sua maglietta, fino a palparle prepotentemente il seno, mentre con l’altra le impediva di sfuggire via. «Perché non controlliamo, se è così?» le sussurrò nell’orecchio.
Megumi era terrorizzata, ma tentò in tutti i modi di dimenarsi, pur dovendo scoprire con terrore che la stazza considerevole dell’uomo, più adulto e robusto di lei, non le avrebbe mai lasciato scampo. Chiamò aiuto con quanto più fiato aveva in gola, ma Hattori aveva ragione quando aveva detto che mai nessuno l’avrebbe udita. Quando le mani dell’uomo scivolarono sulla zip dei suoi pantaloni, forse minuti dopo o forse ore, aveva completamente perso consapevolezza di sé: non riusciva più a muoversi, a reagire o quantomeno a pensare. Desiderava solo che tutto iniziasse e finisse in fretta. Realizzò di star tremando solamente quando Hattori tentò quella che per lui doveva essere una rassicurazione: «Se è vero quello che dici, farà male solo all’inizio, vedrai.»
Servì a farle recuperare lucidità tutto d’un tratto, sgomitò d’improvviso costringendolo ad esitare. Approfittò per voltarsi e sottrarsi a quella posizione così sfavorevole per lei, ma l’altro le fu subito addosso, schiacciandola questa volta con le spalle al muro e strappandole con la forza un bacio che non avrebbe mai voluto concedergli. Gridò ancora e ancora, inascoltata.
«Perché fai così?» le domandò come se davvero non riuscisse a capire, o forse non si rendeva realmente conto che Megumi non fosse affatto d’accordo con quello che voleva fare. «Mi sei mancata così tanto in questi ultimi mesi, cosa ti costa accontentarmi? Anche tu lo vuoi…»
«Piuttosto» sibilò disgustata, gli occhi che si erano inumiditi in un momento che non riusciva a definire «Preferirei morire!»
Per la prima volta Hattori esitò di sua volontà. Sul suo volto lo stupore sostituì il desiderio e poi la rabbia sostituì lo stupore, finché alla fine la spietatezza non sostituì la rabbia.
«Vogliamo vedere se è davvero quello che preferisci?» avvolse le mani grandi e ruvide attorno al collo della ragazza e strinse finché lei non fu più in grado di respirare. Forse, considerò mentre la vista si sfocava ed il senso di vertigine prendeva il sopravvento, terminare quella vicenda in quella maniera era la cosa migliore: avrebbe chiuso gli occhi, si sarebbe lasciata tutto alle spalle e non li avrebbe riaperti più. Probabilmente avrebbe dovuto pensarci prima, si sarebbe risparmiata un sacco di grane, un sacco di bugie raccontate a Wakatoshi e ai suoi genitori, un sacco di sofferenza.
Poi, quando la sua coscienza era ormai ridotta ad un esile filo pronto a spezzarsi, Hattori mollò la presa d’improvviso.
~
A Tooru proprio non era andato giù che Sakurai l’avesse ignorato sulle scale. Era umiliante perché da settimane raccontava tutto orgoglioso ai suoi amici le passeggiate che condividevano insieme di ritorno dall’allenamento, suggerendo che fossero entrati in maggiore confidenza. Ora Matsukawa e gli altri ridevano sguaiatamente come se avessero ascoltato una barzelletta. E poi, in quell’attimo in cui i loro occhi si erano incrociati, era sicuro di averne scorto le pupille dilatate e il viso più pallido che mai. Perciò le era corso dietro dopo tre interi minuti di esitazione, in cui Iwaizumi aveva fatto di tutto per rincuorarlo. Quando riuscì a intravederne la sagoma, erano nei pressi di quella che da giorni convenivano nel chiamare “La galleria del topo”, tentò di chiamarla ma lei non si accorse affatto di lui. La rincorse all’interno del tunnel, buio già nel tardo pomeriggio, ma dovette fermarsi quando la udì parlare con qualcuno. Si sistemò a qualche metro di distanza, abilmente nascosto dietro uno dei pilastri che correvano lungo tutta la galleria. Si sporse abbastanza da riconoscere con un sussulto la figura di Hattori nel suo interlocutore, illuminata dalla luce gialla che a intermittenza rischiarava flebilmente il tunnel. Nutrendo ancora il dubbio che questi fosse la causa dell’apatia di Sakurai, la sua mano destra corse quasi inconsciamente alla tasca della felpa e le sue dita si richiusero attorno al cellulare, quando prese ad ascoltare le prime battute della conversazione: il senso era chiaro, ma alcune parole risultavano difficili da comprendere e sarebbe potuto essere utile ascoltarle più tardi. Pigiò il tasto per avviare la registrazione audio e rimase in attesa, spiando di tanto in tanto quello che accadeva dal suo nascondiglio.
Sperò fin da subito di aver interpretato male qualcosa, che la realtà non superasse la fantasia, che le cose non stessero peggio di quanto aveva ipotizzato. Apprese che c’era stato un evento scatenante, qualcosa che aveva dato inizio a tutto, un bacio barattato con un posto in squadra, sottratto con la forza. Comprese che Hattori era un individuo totalmente scellerato, che aveva allungato le mani su una sedicenne ricattandola senza alcuno scrupolo: era malato, da richiudere. Ad ogni replica il mistero si diradava di più: Sakurai aveva ricevuto messaggi, chiamate, biglietti pieni di minacce. Non c’era da meravigliarsi che si guardasse continuamente le spalle e che apparisse sempre all’erta. Era ovvio che avesse lasciato il club per non avere più a che fare con lui, piuttosto che per presunti contrasti con le sue compagne di squadra. Ad un certo punto iniziò a temere per sé stesso, quando sentì Hattori riferirsi indirettamente a lui. La udì urlare, chiamare aiuto, e quando si decise a sporgersi per guardare, Hattori la teneva inchiodata ad un pilastro, schiacciato su di lei mentre armeggiava frettolosamente con la cintura dei propri pantaloni. Sembrava che la ragazza avesse smesso di lottare, e Tooru era pronto ad intervenire, ma improvvisamente si ridestò e riuscì a scrollarselo di dosso mentre lui tornava a nascondersi dietro il muro.
Seguirono ulteriori grida, affermazioni pesanti. Sakurai strillò che avrebbe preferito morire piuttosto che concedersi a lui e lui replicò qualcosa in tono di sfida. Alla fine calò un silenzio inaspettato, tale che Tooru si risolse a sbirciare di nuovo e non poté – questa volta – fare a meno di intromettersi.
«Allontanati immediatamente da lei!» ordinò balzando fuori dal suo nascondiglio, la sua voce incerta riecheggiò per alcuni istanti per la galleria. Hattori si irrigidì, poi lasciò andare la gola di Sakurai che – semi incosciente – si accasciò a terra tossendo ripetutamente, e si allontanò da lei.
Tooru si precipitò ad accertarsi come stesse, prima ancora di preoccuparsi del suo aggressore. Si accovacciò accanto a lei e cercò di riscuoterla dal suo stato di trance, ma era probabile che lei non l’avesse neanche riconosciuto, assente com’era.
«Gumi-chan, mi senti?» tentò preoccupato per l’ennesima volta, senza ricevere alcuna risposta se non uno sguardo stanco e vacuo.
Hattori lo fissava impalato, incerto sul da dirsi o da farsi. Avrebbe potuto darsela a gambe, colto con le mani nel sacco, ma invece rimase a guardarli, i denti stretti per la gelosia.
«Risparmiati le giustificazioni stravaganti.» tagliò corto Tooru non appena quello ebbe iniziato a boccheggiare delle scuse assolutamente inutili «Ho visto tutto, con i miei occhi! So qual è la verità, ho registrato col cellulare ciò che vi siete detti! Ho abbastanza materiale per farti finire al fresco per un bel po’ di tempo!»
Sakurai stava intanto riprendendo conoscenza. Quando tornò a guardarla, lei spalancò gli occhi allarmata, come se avesse visto un fantasma. «Non devi stare qui…» tossì faticosamente, il tono della voce quasi inudibile «Lui ti…»
Ma la voce grave e seriosa di Hattori sovrastò il sussurro della ragazza:
«Dammi il cellulare, ragazzo. Quella registrazione può danneggiare la mia reputazione.»
Quell’affermazione lo incendiò di collera: curioso, da parte di uno deciso ad ostacolare e distruggere la carriera sportiva di un giovane talento come Sakurai, che volesse invece risparmiare la sua, come se meritasse di godersela.
«Puoi scordartelo! Ti farò arrestare!»
Sakurai strinse appena la presa sulla sua felpa. «Idiota, non dovevi!» lo rimproverò, sebbene ancora incapace di parlare agevolmente. Ma lui si era già rialzato ed aveva assunto l’aria più intimidatoria che gli riuscisse, col petto gonfio e lo sguardo fiero. Certo, ebbe un momento di sconforto quando si rese conto che Hattori era più alto e robusto di lui, ma non ebbe il tempo di crucciarsene oltre: il primo pugno, quello diretto al volto, lo schivò a malapena, a differenza del secondo, che lo centrò in pieno nello stomaco e lo spedì sull’asfalto. La prima sensazione che provò, oltre il dolore atroce all’addome, attorno al quale avvolse le braccia, fu quella di poter vomitare da un momento all’altro. Soltanto dopo giunse la scarica di adrenalina ed il senso di vertigine. Ebbe la lucidità di allungare un braccio mano dietro di sé mentre crollava per terra, così da attutire la caduta col gomito. Il cellulare, che ancora registrava, roteò in aria disegnando una parabola ed atterrò distante da lui. Mentre si contorceva a terra per il dolore si rimproverò di essere stato così impulsivo. Iwaizumi glielo diceva sempre: “Con le risse fai schifo, lascia fare a me se vuoi picchiare qualcuno.
Era certo che Hattori si sarebbe ulteriormente accanito su di lui: lo avrebbe forse pestato fino alla morte? Non era improbabile che volesse sbarazzarsi di ogni testimonianza del suo crimine. Si chiese se davvero fosse valsa la pena di cacciarsi in quel guaio per una ragazza che non si curava affatto di lui. Udì un tonfo secco e schiuse appena gli occhi per distinguere Sakurai pararsi davanti a lui per difenderlo, ripetendo febbrilmente che non c’entrava nulla e di lasciarlo stare. Hattori, tuttavia, non pareva voler sentire ragioni. La prese per i capelli e la strattonò nuovamente a terra e nel processo prese una bella botta alla tempia, ma si rimise subito in piedi. Con una determinazione ammirevole, cercò di costringerlo ad allontanarsi da Tooru ma l’uomo non si fece scrupoli nel colpirla al viso.
Barcollando sulle proprie gambe e sforzandosi di ignorare il senso di nausea e di vertigine, Tooru si rialzò per impedire che infierisse ancora su di lei. Non era affatto sicuro che ne sarebbero usciti vivi, ma non intendeva lasciarci le penne senza opporre la minima resistenza. Nel vederlo ancora attivo Hattori s’infuriò ulteriormente e il ragazzo finì per prendersi l’ennesimo pugno, questa volta diretto con successo sul volto.
«Ho detto che non c’entra niente!»
Con un ultimo, disperato ruggito, Sakurai scattò su Hattori così rapidamente da non riuscire a distinguerla, un attimo dopo Hattori arretrava con le mani sul naso e gli occhi serrati per il dolore. C’era del sangue ovunque: sulle mani e sugli abiti dell’aggressore, sulla maglietta di Sakurai e sulla sua faccia. Animata da uno straordinario spirito di sopravvivenza e approfittando degli effetti che il suo efficace pugno sul naso aveva prodotto su Hattori, prese con la mano gelida Tooru per un polso e lo aiutò a rimettersi in piedi. Aveva male ovunque, e il senso di nausea causato dal colpo preso allo stomaco non accennava a diminuire, perciò non aveva idea di come avesse fatto, in quelle condizioni, a lasciarsi trascinare di corsa fuori dalla galleria, chinandosi solo un attimo per raccogliere da terra il proprio cellulare contenente la preziosa registrazione. I polmoni protestavano, così come ogni singolo muscolo del suo corpo, e non ebbe la forza né il coraggio di dirle qualcosa. Era sorprendente che lei avesse avuto la lucidità di reagire e di creare un diversivo, nonostante la presa tremante sulla manica della sua felpa tradisse quanto fosse scossa. Arrancò dietro di lei, il cellulare stretto in mano, attraverso il parco per evitare i semafori: era indubbio che nutrisse la speranza di seminare Hattori salendo sul primo treno disponibile sulla linea metropolitana. Respirare era difficile come non mai, ma non potevano permettersi di rallentare. Aveva smesso di chiedersi quanto tempo fosse passato, se i suoi compagni e Mizoguchi si fossero preoccupati non vedendolo tornare. Solo quando ebbero sorpassato l’atrio della stazione di Tomizawa, il ragazzo piantò con forza i talloni sul pavimento lucido, impedendo a Sakurai di proseguire oltre.
«Cosa fai?» protestò con urgenza «Dobbiamo andarcene il più lontano…»
Tooru la interruppe subito.
«Non pensare che se tornerai a scuola sarà come se niente fosse successo. Se torni a scuola ora, anzi, non ti libererai mai di lui, s’indispettirà ancora di più. Lo sai?»
Sakurai tentennò, angosciata. Era scontato che si vergognasse di raccontare quello che le era accaduto ed era ancora profondamente turbata per il pericolo che aveva corso soltanto qualche minuto prima. L’adrenalina doveva scorrere copiosa nelle sue vene, la mano che gli stringeva il braccio era gelida e tremava forte, in volto era pallida come un cencio.
«Dimentica quello che hai visto» bisbigliò sconvolta «Cancella quella registrazione, non parlarne con nessuno.»
«Non posso.» si oppose con fermezza «E non voglio.»
«Questa faccenda non ti riguarda minimamente, non ti permetto di intrometterti!»
«Bel modo di ringraziare quello che ti ha salvato la vita!»
«E se invece avessi desiderato morire?» domandò angosciata.
«Sarebbe stato terribile.» replicò duramente. Orrendo davvero, che una ragazza tanto giovane fosse giunta a valutare una soluzione tanto estrema a causa di un maiale simile.
«Ma poi perché eri proprio lì, proprio in quel momento? Ti avevo lasciato sui gradini all’ingresso con la tua scuola, e poi di colpo eri nella galleria! E perché ti sei messo a registrare una discussione che non aveva nulla a che fare con te?»
Un paio di persone stranite si voltarono a guardarli mentre si dirigevano di fretta ai binari, una signora sussurrò qualcosa all’orecchio di suo marito. Non c’era da stupirsene, erano entrambi ridotti in uno stato pietoso: Tooru doveva essere verdognolo in viso e, a giudicare dal sapore metallico che avvertiva sulle labbra, forse ne aveva uno spaccato. Una manica della felpa si era strappata in corrispondenza del gomito che si era sbucciato quando era strisciato sull’asfalto. Sakurai, dal canto suo, non era ridotta meglio: sull’occhio sinistro le si stava spandendo un grosso livido e, sulla parte del collo che la maglietta lasciava scoperta, erano comparsi i segni delle dita di Hattori. La sua mano destra era sporca del sangue che l’aggressore aveva perso quando lei gli aveva colpito il naso (e sperò ardentemente che gliel’avesse rotto) e forse le stava sanguinando un sopracciglio.
«Mi sei sembrata molto spaventata, sulle scale. Non mi hai neanche salutato.» ammise francamente «Ti ho seguita perché ho pensato che potesse esserti accaduto qualcosa di brutto, anche se non immaginavo questo. Tuttavia, Gumi-chan, io sospettavo già di Hattori, perciò ho preso il telefono.»
«Non te lo aveva chiesto nessuno!»
«Ma non potevo stare a guardare mentre una ragazza viene stuprata o strangolata da un maniaco e, se non fossi venuto ad aiutarti, di certo avrei qualche livido in meno ma tu non staresti qui a parlare con me. Quindi ora rendi il favore a chi ti ha salvato la vita.» dichiarò, puntando il dito verso il piccolo gabbiotto della polizia situato in fondo all’atrio della stazione. Omise volontariamente, per permettere al proprio ragionamento di filare con coerenza, la parte in cui lei si era precipitata a difenderlo, ripagando già de facto il suo aiuto. Ma Sakurai era troppo confusa, non ci fece affatto caso, si limitò a scuotere il capo lentamente, orripilata.
«Non posso farlo, capisci? Sono stata io ad iniziare!»
«No che non sei stata tu. È stato lui a creare le condizioni perché tu facessi quello che hai fatto.»
«Quello che conta è che alla fine l’ho fatto!»
«Ho la sensazione che sia stato lui a convincerti che le cose stiano così. Eppure non è vero, è tua solo una piccola parte della colpa. D’accordo! Devo renderti atto che non ne sei totalmente esente, ma è stato lui dopo a marciarci sopra!»
«La polizia» lo rimbeccò l’altra sfinita «avvertirà i miei genitori, riferirà loro tutto! Come pensi che potrebbero capire? Cosa penserebbero di me?»
«Non conosco i tuoi genitori, ma dubito che si schiererebbero contro di te. Dovrai aspettarti una ramanzina per essere stata ingenua e per non aver raccontato loro cosa stava accadendo, ma nessuna madre o padre colpevolizzerebbe una figlia che è incappata in un tale guaio, a meno che non siano ingiustamente crudeli con te. Sono così?»
«Assolutamente no.» mormorò «Ma ne parleranno tutti… il mio nome sarà sulla bocca di tutti…»
«E perché t’importa tanto? Se ne discuterà? Bene, tanto di guadagnato: un’altra ragazza imparerà la lezione ascoltando la tua esperienza. Se tu l’avessi saputo prima, non saresti mai caduta nel tranello.»
La ragazza avrebbe voluto protestare qualcos’altro, sbatté più volte le palpebre nel tentativo di trattenere il pianto imminente, ma non riuscì ad aggiungere altro: un giovane agente di polizia, probabilmente allertato da uno dei passanti, si appressò a loro con aria preoccupata. Domandò ai due cosa fosse successo e come si fossero fatti tanto male. Sakurai scoccò a Tooru uno sguardo supplice, implorandolo silenziosamente di improvvisare una scusa, ma il ragazzo scosse lentamente il capo.
«Puoi fermarlo.» la incoraggiò «Possiamo fermarlo, fargliela pagare.»
Era combattuta, alternava momenti in cui evitava il suo sguardo ad altri in cui lo cercava. Non sapeva che altro dirle per convincerla, ma desiderava con tutto il suo cuore che prendesse di nuovo in mano la propria vita. Se non l’avesse fatto, avrebbe voluto dire che Hattori, nonostante i suoi sforzi, era riuscito in qualche modo ad ottenere quello che si era proposto dall’inizio ed era stato in grado di porre comunque un freno alla sua nascente carriera.
Infine abbassò gli occhi al pavimento e ammise riluttante:
«È una lunga storia.»
~
Il resto della serata lo avrebbe ricordato appena, come un sogno di cui si rammentano appena i tratti salienti: sua madre che le teneva la mano mentre un medico del pronto soccorso le metteva due punti di sutura sul sopracciglio, lei che si chiedeva se le sarebbe rimasta la cicatrice, suo padre che discuteva animosamente nel corridoio con due poliziotti, Oikawa che aveva vomitato in sala d’attesa per via del pugno allo stomaco, un ragazzo più grande seduto accanto a lui gli faceva una predica di cui lei non distingueva le parole. Non conservava invece nessun ricordo – né vago, né chiaro – di quanto avesse raccontato in centrale: sapeva solo che ad un certo punto aveva iniziato a piangere e non era riuscita a fermarsi.
Poi si era infilata nel pick-up di suo padre e si era risvegliata nella sua cameretta a Minamisaka.
Himeka dormiva beata nel letto accanto, una scenetta quotidiana che suggeriva che il tutto fosse stato solo un lucido incubo. Forse – considerò pacatamente – non si era mai iscritta al liceo Shiratorizawa, non aveva mai avuto un vicino di banco secchione, né come compagna di squadra Scoiattolo della scuola media Hanazono e questa non si era mai tinta i capelli di rosa. Non aveva frequentato lo stesso liceo di Wakatoshi ed aveva smesso di vederlo tutti i giorni dall’anno precedente, godendosi solo le sue brevi visite nel weekend. Poteva essere che si fosse iscritta al piccolo istituto superiore del suo paesino di campagna, che non avesse mai conosciuto nessun Hattori e dunque non avesse mai subito nessun sopruso. Se tutto fosse stato solo un incubo ben strutturato, ne sarebbe stata molto felice.
Però poi si ricordò del dolore pungente al sopracciglio, all’occhio e ad ogni parte del corpo. Il cuore riprese a martellarle in petto, gli occhi si inumidirono ancora. Con le dita sfiorò il cerotto con cui le avevano medicato la fronte e, avvertendo un lieve fitta al solo sfiorarlo, realizzò che non era affatto stato un semplice brutto sogno.
Quanto aveva dormito? La sveglia sul comodino di Himeka segnava le dieci del mattino, perciò si mise seduta a fatica. Si lasciò sfuggire un lamento sommesso quando si puntellò su una spalla dolorante, ma la sua sorellina si limitò a rigirarsi dall’altro lato brontolando qualcosa di indistinguibile. Era confortante che, in un mondo dove tutto si era capovolto, lei fosse rimasta la stessa di sempre. Incespicò apatica sugli assi di legno del corridoio che girava tutt’intorno all’esterno della casa[1]. Il sole di campagna rendeva ogni passo piacevole sotto i piedi nudi. Fece scorrere il pannello che dall’esterno permetteva l’accesso alla sala da pranzo e trasalì nel trovarvi suo padre impegnato in una conversazione telefonica parecchio accesa. Non aveva voglia o coraggio di guardarlo in faccia, ma Masato Sakurai le fece cenno di entrare e sedersi al piccolo tavolo di legno. Riagganciò il telefono con urgenza e si sedette di fronte a lei.
«Come stai stamattina?» le domandò.
Megumi sollevò le spalle.
«Male.» confessò mortificata «Non ricordo quasi niente di quello che è accaduto ieri.»
«Non pensarci più, almeno per ora.» le suggerì il padre con gentilezza, il momento dei rimproveri doveva essersi aperto e chiuso la notte prima «La polizia sta già prendendo provvedimenti, al momento Isao Hattori è in commissariato per verificare la sua versione dei fatti. Ma è solo una formalità, lo metteranno dentro. La registrazione del tuo amico è stata molto utile e lui è stato molto coraggioso.»
«Del mio amico?» ripeté incerta prima che il filo dei suoi pensieri corresse ad Oikawa. Forse non lo aveva neanche salutato o ringraziato abbastanza per quello che aveva fatto. Non sapeva se lo avrebbe mai rivisto, forse non sarebbe mai più tornata a scuola a Sendai. «Come sta?»
«Gli hanno medicato le ferite e suo fratello maggiore l’ha riportato a casa. Con qualche giorno di riposo, si rimetterà presto.»
Sapere che Oikawa non avesse subito danni gravi la rincuorò appena, dopotutto, se era stato coinvolto in quella vicenda, era colpa sua. Le sembrava ancora incredibile che il ragazzo si fosse trovato proprio lì al momento giusto e provò a definire il nesso causale fra l’accaduto e la sua presenza, ma come prevedibile fu una fatica vana. Una fortuita coincidenza, o forse – come le aveva spiegato Shirabu durante il ripasso di fisica – di un apparente caso di sincronicità[2]
«Mamma dov’è? È arrabbiata con me?»
«È andata a riprendersi le tue cose dal dormitorio, mi ha chiamato poco fa. Wakatoshi sta tornando con lei, vuole venirti a trovare.»
«Non voglio vederlo.» tagliò corto allarmata. Non aveva neanche il diritto di parlare con lui, ora che era al corrente di tutta la verità.
«Capisco che oggi tu non te la senta di vedere nessuno, ma non puoi allontanarlo per sempre. È molto preoccupato per te.»
«Lo sanno tutti adesso, no? Il club, la scuola, la famiglia di Wakatoshi… forse l’intera Sendai.»
Suo padre scosse il capo con amarezza. «Era inevitabile che qualche giornalista in cerca di scoop ne parlasse, ma è stato impedito loro di fare il tuo nome. Si riferiscono tutti ad “una liceale dell’Accademia Shiratorizawa.”»
«Come se la gente fosse così stupida da non fare i collegamenti. Lo sanno, che sono io.»
Masato sospirò angosciato. «Forse è presto per chiedertelo, Megumi, ma intendi tornare all’Accademia o no? Io e tua madre capiremmo se non volessi più metterci piede e rinunciare alle borse di studio, sai bene che te lo avevamo suggerito già qualche mese fa.»
Megumi non aveva ancora riflettuto al riguardo: di certo non conservava bei ricordi di quel luogo, a parte qualche minuto strappato a Wakatoshi, e non aveva legato mai abbastanza con le sue compagne da rimpiangerle. Lasciare l’Accademia avrebbe avuto il vantaggioso effetto di aiutarla a rimarginare in maniera più rapida ed efficace le ferite, eppure quella di abbandonarla le pareva ancora una decisione troppo affrettata. Provava dispiacere nel figurarsi lontana da Wakatoshi e, sorprendentemente, qualcosa le suggeriva che avrebbe sentito la mancanza delle lezioni di recupero di Shirabu e delle levatacce di Scoiattolo. Buffo, perché due mesi prima avrebbe dato qualsiasi cosa per liberarsi della compagna di stanza. La immaginò, impalata accanto alla sua scrivania, osservare con i grandi occhi nocciola sua madre che raccattava i suoi effetti personali sparsi per tutta la camera, titubando prima di chiederle cosa le fosse accaduto. Avrebbe ascoltato una veloce sintesi dei fatti, seguita dalla raccomandazione di non farne parola con nessuno, e si sarebbe portata le mani alla bocca come era solita fare quando era sgomenta, forse si sarebbe sentita in colpa per averla costretta ad assistere alla loro partita. Ci era stata tanto vicina, Scoiattolo, alla verità: se non si fosse impuntata nel depistarla, la mattina precedente, avrebbe avuto dalla sua un’alleata.
Ed ancora era tanto sorprendente che la compagna di stanza avesse intuito tutto e nulla, proprio la mattina del misfatto: un altro, apparente, caso di sincronicità.
~
Prima di allora, Arisu non si era mai accorta di quanto la presenza di Sakurai fosse ingombrante in quella stanza. Ora che il suo letto era disfatto, la sua metà dell’armadio vuota, la sua scrivania sgombra di ogni cianfrusaglia che si ostinava a lasciare in giro, tutto era vuoto e silenzioso. Eppure l’altra non era mai stata una ragazza di molte parole e neanche avevano condiviso il particolare rapporto che il libero aveva sperato fino all’ultimo di poter instaurare con lei.
Di lei era rimasto solo il cravattino dell’uniforme, quello che la mattina prima non riusciva a trovare, per qualche motivo finito sotto il suo libro di storia e quindi scampato alla retata di sua madre. Lo avvolse attorno alle dita, poi lo srotolò. Se lo rigirò fra le mani un paio di volte e cercò di contare le volte in cui l’aveva vista annodarselo al collo. Un gesto ordinario, ripetuto mattina dopo mattina allo stesso modo. Tuttavia tutte quelle mattine non dovevano essersi svolte per lei nello stesso modo: chissà da quando aveva iniziato ad annodare il cravattino curandosi di far apparire normale qualcosa che non lo era, trattenendo fra le labbra serrate segreti di cui si vergognava.
Se si fosse imposta di più quella mattina, o se non l’avesse esortata a raggiungerle al City Gymnasium, le cose sarebbero andate diversamente? Esaminò ancora una volta la sottile striscia di raso viola e si chiese se gliel’avrebbe ancora vista addosso.
 

[1] La casa dei Sakurai è una tradizionale villetta giapponese in campagna, piuttosto modesta.
[2] Sincronicità è un termine che indica una connessione fra due o più eventi diversi che allo stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato.

NOTE FINALI

Ciao, sono Lyra e faccio molta pena quando scrivo scene d'azione.
Il capitolo 6 - a cui finalmente sono giunta - è una sorta di spartiacque e mi auguro che, in quanto tale, sia stata in grado di rendergli l'importanza che merita (Eppure non ne sono mai totalmente convinta). Il problema è, e lo vedrete, che affronta di petto una situazione che ho trovato difficile da narrare e non escludo di poterci ritornare sopra per una revisione. Dal prossimo capitolo, potrò dedicarmi alla seconda parte della storia ed lasciare che facciano il loro ingresso personaggi nuovi, personaggi che sono stati citati non a caso (in questo capitolo ce ne sono ben due) e personaggi che avete avuto modo di conoscere più o meno bene ma che non hanno mai potuto prestarci il loro punto di vista. Ne avete letta una minuscola anticipazione nelle ultime righe di questo capitolo. Dopo questo picco di negatività, il tutto diventerà pian piano molto più leggero e divertente.
Colgo l'occasione per ringraziare se siete arrivati fin qui con la lettura: Wild Card è un storia nata per poltrire nelle cartelle del mio pc e svuotare la mia mente dai pensieri scomodi, ma qualcuno mi ha esortato a pubblicarla. Poiché nella mia vita credo di aver creato all'incirca una decina di Mary Sue che giacciono grazie al mio buon senso negli archivi dimenticati del mio hard disk, protetti da password che neanche io ricordo più (grazie al cielo) e poiché ho temuto e temo che anche Megumi (e, ora posso dirlo, le altre) possa essere relegata in questa categoria, sono sorpresa e felice ogni volta che leggo una nuova recensione postitiva o scopro che qualcuno l'ha aggiunta ad una lista, o ancora quando vedo il contatore delle visite aumentare di una cifra (per quanto esso sia fallace). Non so se siano poche o molte e - in tutta franchezza - non ho voglia di mettermi a fare paragoni, ma per me sono importanti e mi aiutano nella mia giornaliera lotta contro la carenza di autostima. Perciò vi ringrazio di seguire questo enorme pasticcio, e vi invito a recensire se vi va <3


Sulla pagina Facebook OracleLyra , oltre a dare talvolta speranzosi segni di vita fra un aggiornamento e l'altro, sto uppando a poco a poco materiale che può essere utile ad integrare i capitoli o a capirli meglio, fra cui i profili e gli schizzi di alcuni dei personaggi apparsi in questi capitoli, anche se non sono una cima nel disegno. Se avete tempo da perdere, potete consultarli qui: [HQ] Wild Card / Materiale extra

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7: Assenze ***


Capitolo 7
 

Assenze

L’Accademia Shiratorizawa non era poi tanto differente da Tagajo. In un ambiente in cui tutti conoscevano tutti, in cui il tempo scorreva sempre uguale, scandito dal ciclico alternarsi di verifiche e vacanze comandate, la più piccola novità creava enorme scompiglio e le voci circolavano con grande vivacità. Erano passati tre giorni da quando la signora Sakurai aveva rifatto le valigie di sua figlia e se le era portate via, da quando Hattori si era assentato la prima volta, ma solo ora la notizia aveva iniziato a serpeggiare con insistenza per i corridoi del liceo.
Alcuni pettegolezzi erano farciti dei particolari più romanzeschi e fantasiosi, altri riferivano una versione dei fatti decisamente più macabra e di cattivo gusto di quanto non fosse già. La capitana del club di basket femminile – ansiosa forse di accaparrarsi una stanza migliore per la propria squadra – aveva messo in giro la diceria che il consiglio d’istituto avesse deciso di sciogliere il club di pallavolo per sedare lo stupore nato attorno allo scandalo. La madre di Arisu le aveva telefonato subito dopo il servizio del notiziario mattutino, allarmata e probabilmente allo stesso tempo felice di avere una nuova ragione per scoraggiare le velleità sportive della propria figlia, da lei giudicate troppo mascoline e inadatte ad una Hiromi.
«No, mamma» aveva ripetuto circa un migliaio di volte «Non sono io la ragazza di cui parlano, a me non è successo proprio un bel niente. La ragazza in questione io la conosco e si è ritirata dal club qualche mese fa.»
«Potrei procurarmi il nullaosta per il Liceo Femminile Niiyama.» suggerì la voce di sua madre dall’altro capo del telefono «Se proprio ci tieni come dici, t’inseriresti in una squadra migliore, con allenatori validi che non siano criminali sotto copertura…»
«Non voglio andare al Niiyama! Quante volte devo dirtelo? E poi è ovvio che adesso ingaggeranno un nuovo allenatore!»
Al momento a supplire Hattori era il professore di educazione fisica delle sezioni uno e due. Non era particolarmente severo, né aveva idee precise su cosa dovesse fare con loro. Il risultato era che passavano a chiacchierare molto più tempo di quanto non facessero ad allenarsi.
«O è Sakurai, o è Ikeda.» ricapitolò Hoshino contando le ipotesi sulle dita della mano.
«Ma se i giornali dicono che la studentessa è al momento tornata a casa…» osservò Chigusa con aria pensosa, ricontrollando l’articolo dal proprio telefonino «Ed Ikeda abita qui a Sendai…»
«Oh piantatela!» tagliò corto Arisu, sfilando alla più grande il cellulare di mano. Chiuse il browser web e gettò nuovamente il telefono in grembo alla proprietaria «È Sakurai, d’accordo? È solo questione di tempo prima che tutti intuiscano il collegamento, quindi ora tenete la bocca chiusa e cercate di non accelerare i pettegolezzi. Fate come Kurihara, che è stata zitta tutta la giornata nonostante sapesse già chi fosse la vittima.»
Le compagne di squadra si voltarono in direzione della palleggiatrice, da qualche giorno ormai vice-capitana, che se ne stava muta e accucciata nell’angolino più isolato. Trasalì nel sentir nominare il suo nome.
«Scommetto che tuo nonno te lo ha detto, no?» la sollecitò stizzita.
Kurihara si rabbuiò e strinse le spalle, una visione piuttosto inusuale per le compagne.
«Sì, me lo ha detto, che è Sakurai.» ammise con un filo di voce «E mi dispiace.»
«Ti dispiace di cosa? Di quello che le è successo o di quello che le hai detto l’ultima volta?» la rimbeccò Arisu stizzita. Kaori le sfiorò una spalla con le dita, per ricordarle di calmarsi, peccato che lei non ne avesse abbastanza voglia. Aveva invece bisogno di prendersela con qualcuno, di mettersi ad urlare, foss’altro perché Hattori era troppo lontano per potergli sbraitare contro. Kurihara era solo un capro espiatorio per alleviare temporaneamente la sua rabbia. Yoshida, che pure era la nuova capitana, le osservava in silenzio con le labbra serrate, senza intervenire.
«Per entrambe, mi dispiace per entrambe le cose.» mormorò la bionda «Non pensavo veramente quello che dicevo, volevo solo indispettirla. Non sapevo che potesse essere così vicino alla realtà.»
«Ma ora tornerà, no?» domandò fiduciosa Kaori «Cambierà allenatore e tutto… e siamo rimaste in poche da quando le senpai si sono ritirate.»
«Io non penso affatto che tornerà.» dichiarò affranta Hiromi «Non penso che metterà mai più piede in questa scuola, né tantomeno in questa palestra.»
«Io credo che invece dovrebbe ricominciare» intervenne Okamoto, richiudendo il quaderno su cui appuntava le loro formazioni «Come dicono tutti quando cadi dal cavallo: prima rimonti, meglio è.»
«Ma Sakurai non è caduta da un cavallo, Mami-chan.» rispose placida Yoshida, scostandosi la frangia del caschetto dalla fronte abbronzata «Direi che il cavallo le è passato sopra.»
«Sì, ma di chi è la colpa?» considerò Chigusa pensosa «Del coach? Di Sakurai? Di entrambi?»
«Sakurai è stata troppo ingenua.» commentò Kurihara con rara serietà «E troppo ambiziosa, ma Hattori ha approfittato di lei e non avrebbe mai dovuto farlo. È solo una primina e lui è un uomo con famiglia. Non riesco a smettere di pensarci, come ha fatto a tenersi tutto dentro?»
«La verità è che vorrei tanto sapere come sta adesso» considerò Arisu a denti stretti «Ma si è ostinata così tanto a prendere le distanze da me che non ho nemmeno avuto il tempo di scambiare con lei il numero di telefono. Proprio adesso che avevamo iniziato a chiacchierare di più…»
Kaori le batté una pacca sulla testa con la sua consueta dolcezza. Era una ragazza a modo, forse la più normale fra le compagne del primo anno. Sempre tranquilla e con un sorriso luminoso sul viso, trasmetteva ottimismo e serenità anche solo posando gli occhi azzurri sul proprio interlocutore. Quell’inusuale colore chiaro delle iridi, le aveva raccontato una volta, lo aveva ereditato da sua madre e da suo nonno prima di lei, ma era riuscita a valorizzarlo al meglio tingendosi i capelli tagliati a caschetto di un brillante biondo platino. Era forse la più bassa dopo il libero e – per giunta – era anche fin troppo in carne, e perciò le era toccato in sorte di giocare ben poco nel suo ruolo di schiacciatrice laterale, eppure quando lo faceva non era male come chiunque avrebbe potuto pensare. In particolare, era molto affidabile in difesa, e ciò aveva suscitato la simpatia di Arisu.
«Sei ancora angosciata per averle chiesto di venire alla partita?» le domandò, come se le avesse letto nel pensiero «Sai che non significa niente, vero?»
«Grazie, Kaori-chan, ma non riesco a togliermelo dalla testa. Quel giorno all’inizio dell’anno in cui era stata da Hattori per discutere del proprio ruolo in campo, deve essere stato proprio quello il giorno in cui è iniziato tutto. Quando è tornata in camera mi ha domandato se il coach mi avesse chiesto qualcosa in cambio del mio ruolo da titolare. Io ho pensato che volesse offendermi, mi sono infuriata e l’ho lasciata sola. Adesso tutto ha un nuovo significato.»
«Fidati, la conosco da molto prima di te… Sakurai ha la testa dura» commentò inaspettata Kurihara come se volesse confortarla in qualche modo «Non ti avrebbe messa a parte di tutto neanche se tu avessi intuito il senso corretto di quella domanda.»
Si rimise in piedi e scrutò rapidamente fuori dalla finestrella della palestra, quella che si affacciava sul campetto all’aperto al momento occupato dai ragazzi, prima di rivolgersi nuovamente ad Arisu. «Se vuoi sapere qualcosa di Sakurai, dovresti parlare con Ushijima.»
«Non sarà mica lui il ragazzo che è intervenuto per aiutarla?» osservò Chigusa preoccupata.
«Non è lui, perché è tutto intero. Al telegiornale hanno detto che ha riportato delle ferite. E comunque credo di aver capito che sia uno studente di un’altra scuola che la conosceva.»
Arisu una mezza idea ce l’aveva: la compagna di stanza non era mai stata un asso della socializzazione già nel proprio ambiente scolastico, figurarsi quanto avrebbe potuto fare amicizia fuori da lì. Al momento le veniva in mente un solo nome, ma preferì mantenere il segreto. Non aveva voglia di coinvolgere qualcuno che non era al momento presente, né di aggiungere involontariamente altri particolari romantici alla vicenda di Megumi.
~
Se fra asilo e liceo Hajime aveva appreso una lezione importante, questa era che non poteva esistere un amico più sregolato e incosciente di Tooru Oikawa. Guardarlo zoppicare lungo il viale d’ingresso della palestra della loro vecchia scuola media suscitava in lui un’irritazione che sospettava di poter sedare solo prendendolo a pugni. Il problema era, a quel punto della loro storia, che Oikawa di pugni ultimamente ne aveva presi anche troppi e che – nonostante l’incazzatura – ad Hajime sarebbe spiaciuto se ne avesse incassato altri e si fosse ridotto ancora peggio di come stava adesso.
Il problema non era neanche più il taglio sul labbro inferiore, che si era rimarginato e che a poco a poco stava svanendo, né il gomito sbucciato che sarebbe guarito rapidamente, e nemmeno il livido scuro proprio sotto il diaframma, che gli aveva mostrato a casa sua il giorno dopo il misfatto e che solo livido era rimasto, dato che gli esami effettuati in ospedale avevano escluso qualsiasi complicazione interna. Il problema era quel benedetto ginocchio che da mesi lui stesso gli consigliava invano di controllare e che non era affatto stato inficiato dalla zuffa in cui si era lasciato coinvolgere, ma dalla mole doppia di allenamenti a cui da qualche tempo si sottoponeva.
Che senso aveva continuare a frequentare la divisione amatoriale del Galaxy se la ragione per cui aveva iniziato a farlo non partecipava agli allenamenti da ormai due settimane? Hajime l’aveva fatto notare a Tooru svariate volte, ma in ogni occasione l’amico non gli aveva prestato ascolto e gli aveva ricordato che dell’allenamento extra non poteva certo fargli male. La sua ossessione per lo sport aveva trovato in quella per Sakurai la sposa perfetta così che tutta la sua vita ora ruotasse intorno all’imminente selezione preliminare dell’Harukou e dalla spasmodica attesa che Sakurai si facesse viva. Augurava il meglio al suo amico, ma a suo parere Sakurai non era ciò che Tooru meritava ed aveva preso a mal sopportarla a causa dei rischi che lei lo aveva costretto a correre, facendo leva sui suoi sentimenti. Il punto era che invece l’altro ne era totalmente perso e continuava a nutrire la speranza che lei potesse ricambiarlo. Il ginocchio destro fuori gioco era la conseguenza più palpabile di quell’ostinazione: avrebbe dovuto limitarne l’uso, anziché moltiplicarne gli sforzi, e la mattina precedente era stato costretto ad interrompere l’allenamento con loro per il forte dolore che glielo aveva immobilizzato.
E dunque quel giorno zoppicava con una faccia funerea dietro di lui, in ritardo per la partita che il club della loro vecchia scuola media avrebbe disputato contro una testa di serie tutt’altro che semplice da gestire. Era stato Tooru stesso ad insistere perché andassero a studiare una partita di Kageyama, nell’eventualità di ritrovarselo come avversario l’anno successivo, quando si sarebbe iscritto al liceo.
«Iwa-chan, si può sapere perché corri così tanto?» sbottò alla fine.
«Perché siamo in ritardo, e se non avessi affaticato tanto quel ginocchio come ti avevo detto, saresti stato perfettamente in grado di reggere questo ritmo.»
«Andiamo, sei ancora arrabbiato per il ginocchio? Passerà senza che io faccia niente di preciso, non c’è nulla da temere. Forse è una specie di dolore stagionale.»
«Soffri di meteoropatia[1]? Quanti anni hai, cinquanta?»
«Ascolta, so bene che sareste spacciati ai preliminari senza di me, ma chi meglio di me stesso conosce il mio fisico? Tutto è sotto il mio totale controllo.»
«Stracceremmo tutti anche senza di te, torna coi piedi per terra, Oikulo.» lo rimbeccò offeso «E non è tutto sotto “il tuo totale controllo”, sei fuori di testa da qualche mese!»
«Questo è quello che vedi tu!»
«Takahiro ed Issei vedono la stessa cosa, dovresti farti delle domande.»
«Stai elencando solo quelli che sanno di Gumi-chan!» evidenziò Oikawa imbronciato.
«Mi pare ovvio che l’astinenza ti faccia male, perciò perché non lasci perdere questo vicolo cieco e non riprendi ad uscire con qualcuna delle tue ammiratrici starnazzanti? Svuoteresti la mente e qualcos’altro di più concreto e non prenderesti più le decisioni ricorrendo agli ormoni.»
«Non sono affatto in astinenza!» protestò imbarazzato «E… svuoto abbastanza la mente.»
«Che schifo.»
La discussione stava lambendo argomenti di cui ci teneva a non conoscere i minimi dettagli, perciò ripeté per l’ennesima volta in tre mesi:
«Va’ da un medico. Ne hai uno in famiglia, no?»
«Mio fratello è un dentista, i ginocchi non sono la sua specialità, sai?»
«Allora va’ da qualche amico o collega di tuo fratello la cui specialità siano i ginocchi del saltatore!»
«Non è il ginocchio del saltatore[2]
«Lo sarà quando ti si romperà il tendine, allora?»
«Non si romperà nessun tendine, ti preoccupi per niente.»
Hajime decise di non rispondere. Se Oikawa non aveva intenzione di ascoltarlo, allora era giusto che si prendesse la responsabilità della propria cocciutaggine, e forse che Yahaba si esercitasse un po’ di più con la squadra A. Ciò che allarmava lo schiacciatore era che, ogni volta che l’amico ne combinava una, ci finiva sempre di mezzo lui stesso, o per rimediare a qualcuna delle trovate di cui si era poi pentito, o per intervenire in tempo prima che compisse l’irreparabile. Il caso più eclatante era accaduto due anni prima con Kageyama, che ora guardavano bacchettare qualcuno dei ragazzini del primo anno in seconda linea.
Ad esempio, a proposito di Kageyama, non sapeva se sperare che s’iscrivesse al loro liceo o ad un altro: non riusciva a decidere quale delle due opzioni avrebbe turbato meno l’ego di Oikawa. Averlo fra di loro l’avrebbe messo perennemente di cattivo umore, in un'altra squadra – d’altro canto – avrebbe dato il via ad un’inesorabile altalena di motivazione e depressione. Lo scenario più apocalittico ed altrettanto verosimile, era che venisse ammesso all’Accademia Shiratorizawa con qualche convenzione sportiva, ed a quel punto tutti i suoi compagni avrebbero vissuto ogni allenamento ed ogni torneo con addosso un insopportabile fardello di tensione e angoscia.
«Ho deciso che d’ora in poi ci andrò una sola volta a settimana.» mormorò Tooru di punto in bianco.
Hajime non riusciva ad afferrare a quale riguardo si collocasse quell’affermazione improvvisa, perciò si limitò a scoccargli uno sguardo poco convinto. L’amico distolse per un po’ gli occhi dall’eccellente mezza di mano servita da Kageyama alla sua banda.
«Al Galaxy, ci vado una volta a settimana. Il lunedì, magari.» spiegò con serietà.
Era già un buon compromesso, per esserci arrivato da solo, tuttavia per le condizioni in cui verteva non era abbastanza: Oikawa aveva bisogno di molto più riposo, forse sarebbe stato perfino necessario anche che saltasse qualche allenamento del club.
«Il lunedì dovrebbe servirti per riposare, lo avevamo deciso col coach, no?»
«Meglio due ore il lunedì che quattro il mercoledì o il venerdì.»
«Come hai già fatto finora.» gli fece notare sarcastico.
«Non puoi non accettare questo compromesso, sto rinunciando a due giorni su tre.»
Hajime sbuffò, poi tornò a concentrarsi su una nuova palla tesa di Kageyama. «D’accordo, ma andrai da un medico. Devi controllare quel ginocchio prima che sia troppo tardi.»
«Vedi che sei gentile quando vuoi, Iwa-chan?» lo canzonò soddisfatto «Se fossi così premuroso con le ragazze anziché con me, avresti molto più successo.»
«Non ti prendo a calci nel culo solo perché qualcuno mi ha anticipato.» borbottò irritato. Lo infastidiva che di tanto in tanto Tooru tirasse fuori la desolazione della sua vita sentimentale, perché era troppo semplice per lui, che era così fortunato da poter contare nel proprio novero di ammiratrici decine e decine di ragazze alla volta, accusarlo di non saperci fare. Non si trattava di voler avere una ragazza solo per potersene vantare durante gli intervalli fra le lezioni o nelle docce dello spogliatoio maschile, come spesso e volentieri faceva lui. Hajime non voleva una relazione artificiosa ed occasionale, ma attendeva di incontrare la persona giusta, quella che gli facesse perdere un battito ogni volta in cui le rivolgeva la parola. Che poi avesse la preoccupante sensazione di aver già conosciuto tale fanciulla, ma di non avere la benché minima speranza di raggiungerla, era tutt’un altro paio di maniche.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il suo migliore amico tornò alla ribalta.
«Dunque, la ragazza di cui mi accennavi qualche tempo fa…»
«Non ne voglio parlare!» tentò di chiudere.
«Dimmi almeno se io la conosco!» protestò indispettito.
Alla fine dei conti, non poteva essere un’informazione così discriminante, Oikawa conosceva un sacco di ragazze. «Sì, la conosci.» ammise «Ma non ti dirò nient’altro su di lei, quindi non chiedermelo!»
«E chi è? Maiko della sezione due? Una volta hai detto che la trovi carina. Oppure Kazuki della sezione cinque? Se fosse lei mi congratulerei per il buon gusto, perché ho avuto modo di… be’, posso assicurarti che non è niente male.»
Non gliene fregava nulla di Kazuki della sezione due, ma si sentì ugualmente disturbato.
«Non volevo sapere cosa ci hai fatto!» protestò.
«Be’, io non te l’ho detto!» si difese l’amico.
«Ma se si è capito tutto?» borbottò indignato «La facevo più seria, comunque.»
«La prova che…» s’interruppe qualche istante quando l’ultimo punto chiuse il primo set a favore della Kitagawa Daichi «… la prova che anche le più serie non sanno resistermi.» scherzò tutto fiero.
Indispettito dall’autocelebrazione dell’amico, Hajime annunciò risoluto:
«Ricorderò ad Issei e Takahiro di girare il dito nella piaga, la prossima volta che attaccherai con le tue lagne. Mi premurerò io stesso di dare il mio contributo.»
«In che senso?»
«Sai, Oikulo, mi chiedo se Ushiwaka sia andato a trovare la tua Gumi-chan
La provocazione ebbe effetto immediato.
«Non voglio sentire parlare di Ushiwaka adesso, m’innervosisce già guardare Tobio che fa lo spavaldo in campo e spara una super a sinistra senza che nessuno possa colpirla.» mugolò Oikawa infastidito.
«Secondo me si sono già visti. Lei gli avrà raccontato tutto in lacrime e si sarà gettata fra le sue braccia per cercare conforto. Ushiwaka l’avrà coccolata come solo lui sa fare. Forse sarà intenerito e questa sarà stata l’occasione adatta per mettersi finalmente insieme, che dici? Per me sono una bella coppia.»
«Dico che sei uno stronzo, Iwa-chan. E che voglio provare quella super, proviamola domani.»
~
Dopo averci scambiato solo un paio di parole davanti ad una granita piuttosto insipida, Arisu si era già fatta qualche idea del perché Ushijima andasse d’accordo con Sakurai. Il vantaggio di fondo era che non sarebbero potuti essere più diversi di così: se Sakurai non era affatto in grado di stare a sentire qualcuno senza sbottare dopo appena cinque minuti, il nuovo capitano del club di pallavolo maschile era evidentemente più abituato ad ascoltare che a parlare, tant’è che per proseguire la conversazione era importante che fosse Arisu ad esortarlo con delle domande. Per fortuna lei non era affatto una ragazza con i peli sulla lingua, anzi, era dotata di un’ammirevole faccia di bronzo, e quindi non si era intimorita, neanche quando lo aveva fermato dopo l’allenamento e si era resa conto di arrivargli a stento al petto.
«Non la vedo da molto prima di te.» confessò Ushijima senza cambiare espressione «Non parlavamo da qualche tempo perché si era allontanata da me.»
«Posso chiederti perché lo ha fatto, secondo te?» lo esortò, grattando del ghiaccio dal fondo del bicchiere di plastica.
«Non voleva coinvolgermi.» replicò con flemma «Sul cellulare di Megumi c’era una foto di noi due, Hattori ce l’aveva scattata di nascosto e gliel’aveva inviata. L’aveva avvisata che se mi avesse frequentato ancora, lui avrebbe preso di mira me. Forse tu non hai ancora avuto la possibilità di conoscerla bene, ma Megumi sa essere premurosa con le persone a cui tiene.»
A questo punto, chi era Megumi Sakurai? La compagna di squadra permalosa e saccente, la coinquilina nervosa e taciturna, o la ragazza gentile che le aveva rivolto un sorriso solidale per rincuorarla dopo l’aspra squalifica al torneo primaverile? Arisu non sapeva più che risposta darsi.
«Ed adesso?» gli domandò incerta «Ora che tu lo sai, che motivo avete ancora per non riconciliarvi? Perché si rifiuta ancora di vederti? Hai detto che siete amici da sempre!»
Per un istante, l’autocontrollo di Ushijima vacillò e la maschera distaccata che aveva fino a quel momento indossato cedette il posto all’avvilimento.
«Hiromi-san, lo sanno tutti che io e Megumi non vediamo il nostro rapporto allo stesso modo. Per lei sono ben più di un semplice amico, come non ha mancato di farmi presente diciannove volte. È ovvio che io fossi l’ultima persona al mondo che lei voleva fosse messa al corrente di ciò cha aveva fatto.»
«Quindi Sakurai ha una cotta per te?»
«Penso che sia riduttivo definire una cotta un sentimento che, nonostante i miei rifiuti, va avanti da almeno quattro anni.»
Ushijima si riferiva alla questione come se fosse un’informazione di pubblico dominio, eppure Arisu non aveva mai sospettato che alla compagna di stanza fosse mai piaciuto qualcuno, né aveva sentito voci di corridoio al riguardo. Com’era Sakurai con la persona di cui era innamorata? A pensarci sentì un fastidioso formicolio allo stomaco: non l’aveva conosciuta affatto come avrebbe voluto.
«Ti confesso, Hiromi-san» continuò a sorpresa Ushijima «Che in questi giorni ho riflettuto molto su me e Megumi. Qualche volta sono arrivato a credere che se io non l’avessi respinta, lei non sarebbe mai andata a ficcarsi in questa storia. Alle volte il pensiero è quasi ossessivo.»
Il formicolio s’intensificò, per qualche motivo. Cercò di ignorarlo prima si rispondere.
«Hai ragione, io non l’ho conosciuta come invece hai fatto tu, ma sono una ragazza anch’io e sono sicura che se tu avessi finto di provare dei sentimenti per accontentarla, è possibile che lei ne avrebbe sofferto ancora di più. Perciò non stare a rimuginare su questo, Sakurai si sarebbe comunque piegata ad Hattori in ogni caso.»
Ushijima bisbigliò fra i denti qualcosa che ad Arisu parve molto simile a “Quel bastardo”.
«Pensi che tornerà a scuola?» gli chiese, ansiosa di ricevere una risposta positiva.
«I suoi genitori sono riusciti a trascinare Hattori in tribunale e la testimonianza di Megumi è necessaria per ricostruire i fatti. Sua madre mi ha detto che vede una psicologa più di una volta a settimana. A parte questo, non esce di casa né s’impegna in qualcosa per distrarsi. L’unica che riesce nell’intento è la sua sorella, che cerca di starle vicina tutto il giorno. Se le cose rimangono così, dubito che voglia tornare a scuola.»
«Senza contare che i pettegolezzi qui girano…» commentò demoralizzata. «Quando le vacanze estive saranno finite e torneranno anche gli studenti non coinvolti nelle attività dei club sportivi, le voci si moltiplicheranno a dismisura. Durante la gita del primo anno non si parlerà che di questo.»
Ushijima strinse forte la propria mano sinistra attorno al bicchiere ormai vuoto. La plastica, per quanto rigida, si accartocciò su sé stessa. Era semplice anche per Arisu intuire che si sentisse totalmente impotente in quella situazione, sentimento che anche lei condivideva appieno. Se avesse potuto mettere un bel cerotto sulla bocca di tutti e gettare via per sempre la chiave della cella di Hattori, forse si sarebbe sentita utile.
«C’era un’altra persona con loro, sabato.» aggiunse il più grande «Lo sai, no?»
«Sì, lo hanno scritto tutti i giornali. Ushijima-kun, può essere che io sappia chi sia.» si affrettò a rispondere «Si tratta solo di una mia supposizione, ma ho pensato che potesse essere Oikawa del liceo Aoba Johsai. So che lo conosci, c’eri anche tu quella volta che Megumi l’ha aggredito nel corridoio.»
Ushijima aggrottò le sopracciglia con sospetto.
«Questo lo sapevo già, ma vorrei capire tu come ci sei arrivata.»
Arisu si chiese se fosse il caso di condividere un’informazione tanto personale su Oikawa. Intrecciò le dita sul tavolo davanti a sé e decise che non avrebbe in alcun modo nuociuto all’interessato, che plausibilmente non avrebbe nemmeno più mai visto.
«Ad Oikawa piace Sakurai.» annunciò con semplicità. «Lo so per certo perché me lo ha riferito personalmente, la stava cercando.»
Si aspettava che l’altro fosse sbigottito dall’unicità della sua rivelazione, ma Ushijima rimase inespressivo, si limitò a scuotere il capo.
«Sapevi già anche questo?» domandò delusa.
«Avevo considerato la possibilità, tu la stai confermando.» spiegò pacatamente «Ma questo non basta a giustificare la sua presenza nella galleria, ti butteresti mai nella mischia per una che hai visto una sola volta e non ti rivolge nemmeno la parola? O hai lo spirito dell’eroe o sei completamente fuori di testa.»
«Ma loro si sono rivisti dopo quell’incidente. Da quel che ho capito dalle sporadiche dichiarazioni di Sakurai, s’incontravano regolarmente anche se non so bene in quale occasione.»
Questa volta riuscì a sorprendere Ushijima. Arisu abbozzò un sorriso malizioso.
«Sei geloso, Ushijima-kun? Avevi detto che non t’interessava in quel senso.»
«No, sono solo dispiaciuto che Megumi mi abbia taciuto così tante cose.» chiarì.
Se pure il disappunto che Ushijima provava era giustificato dal legame storico che lo univa a Sakurai, anche Arisu ne provava – come compagna di squadra e di stanza – una buona dose. Non riusciva a capire se la conversazione appena conclusasi avesse aggiunto o meno qualcosa a quello che sapeva sulla sua coinquilina e tutto quel parlare di lei, di Ushijima e di Oikawa aveva intensificato il formicolio allo stomaco. Se la colpa fosse da imputare alla granita disgustosa, non avrebbe saputo dirlo. Di certo, si era assicurata di avere Ushijima fra gli alleati e iniziava a non sentirsi l’unica genuinamente desiderosa di risposte.
Rientrata, gettò lo zainetto sul letto vacante e si sfilò il cellulare dalla tasca in tempo per leggere un messaggio di Kaori.
«Arisu-chan, ho una notizia bomba!»
Per Kaori qualsiasi cosa era una “notizia bomba”, anche lo sconto del 10% sugli articoli di cancelleria dell’anno precedente o il nuovo taglio di capelli della professoressa di storia. Perciò la incalzò perché fosse più chiara.
«Non perderesti meno tempo se mi dicessi da subito di cosa parli?»

La risposta giunse dopo nemmeno venti secondi dall’invio. Si chiese se la compagna di squadra non si fosse fusa con il proprio telefono.
«Ma è più divertente, così! Indovina!»

Arisu roteò gli occhi al cielo. Come faceva ad indovinare qualcosa senza nemmeno il minimo cenno? Buttò lì un’idea che potesse essere plausibile.
«Ikeda ha risposto ad una tua chiamata.»

Entro tre secondi l’altra rispose:
«Come no? Ed io dopo ho attraversato l’arcobaleno a cavallo di un unicorno rosa.»

Mentre Arisu meditava già di andare a bussare dietro la porta della sua stanza, Nonaka inviò l’ennesimo messaggio, questa volta leggermente più pregno di informazioni significative.
«Mentre finivo di rimettere in ordine la palestra, ho visto una certa persona parlare col professor Hayase. Ho chiesto alla senpai Yoshida perché quella persona fosse lì e lei mi ha spifferato che forse si occuperà di allenarci!»

Come al solito, raccontava tutto e niente insieme.
«D’accordo, abbiamo un nuovo allenatore ed è indubbiamente fantastico. Ma forse capirei meglio perché sei così eccitata se mi dicessi di chi si tratta.»

Non che esortare Nonaka ad essere chiara servisse a qualcosa.
«E no, almeno questo devi indovinarlo tu.»

«E cosa vuoi che ne sappia? Può essere che sia un tipo giovane e figo?»

«Sei proprio fuori strada, devi impegnarti di più.»

Arisu diede un’occhiata all’orologio, mancavano poco più di tre quarti d’ora al pranzo. Valutò di piazzarsi alle costole di Nonaka e di insistere finché non avesse sciolto il silenzio. E dire che, per come si sentiva, non credeva nemmeno che le interessasse sapere chi avrebbe sostituito Hattori definitivamente, ma l’entusiasmo di Nonaka non lasciava scampo a nessuno.
~
«Manca un mese – uno solo! – ai preliminari dell’Harukou e tu cosa fai?»
«Mi dispiace, professore…»
«Non me ne frega niente che ti dispiaccia o meno, anzi! Come minimo deve dispiacerti, ci mancherebbe che fosse il contrario!»
«Non pensavo che potesse essere così grave…»
«Passi la rissa in cui ti sei immischiato tre settimane fa, passi quando hai attaccato briga con una ragazza nel corridoio del City Gymnasium, passino anche tutte le volte che hai fatto di testa tua e ti è andata bene! Ma questi ragazzi hanno scelto te, Tooru Oikawa, come loro capitano e tu da quando hai assunto il ruolo avevi il preciso dovere di sostenerli e di pensare al loro bene!»
«Ma io li ho sostenuti, mi sono impegnato il doppio…»
«No, tu ti sei logorato un’articolazione fino allo stadio irreversibile perché te ne sei sbattuto di quello che io ed Irihata ti abbiamo sempre detto e non hai rispettato i ritmi di riposo! E non contento di questo, non ti sei neanche preso la briga di farti visitare da un medico!»
«Credevo sarebbe passato…»
«Credevi male! Ora io cosa racconto ai tuoi compagni? Anzi, cosa gli racconti tu
«Coach, io giocherò ad ottobre!»
«Ad ottobre, se sarai fortunato, camminerai senza zoppicare! Se ne riparla dopo dicembre! E ti faccio presente che se gli altri dovessero intanto classificarsi per l’Harukou, tu non giocherai nemmeno le fasi nazionali di gennaio!»
«Ma non è giusto!»
«Sai cosa non è giusto? Dare una pacca sulla spalla di Yahaba dopo che ha faticato al posto tuo e poi dirgli di accomodarsi pure in panchina, che dei frutti dei suoi sforzi ne approfitti tu!»
«Ma io mi tirerei indietro volentieri…» commentò invece docilmente Yahaba. Hajime gli scoccò uno sguardo di biasimo e gli fece cenno di far silenzio premendosi l’indice sulle labbra. Rischiavano già tanto a starsene accalcati ad origliare con l’orecchio appiccicato alla porta dell’ufficio, se qualcuno si fosse messo anche a commentare, sarebbero stati prontamente scoperti e cacciati.
Ormai andava avanti da mezz’ora: il giorno prima Oikawa non era più stato in grado di sostenere gli allenamenti per il dolore al ginocchio, nel pomeriggio aveva finalmente visto un medico, e quella mattina si era presentato a scuola con una stampella ed un certificato medico per giustificare l’imminente ricovero. Hajime non l’aveva mai visto tanto devastato e pentito, ma al coach Mizoguchi non era giustamente bastato il suo rammarico. Checché ne dicesse lui, senza l’attuale capitano avrebbero superato sì o no i quarti di finale, fine della storia, delle fasi nazionali si sarebbe potuto discutere solamente l’anno successivo. Sperava almeno che l’amico avesse la decenza di imparare dai propri errori in futuro.
«E non provare a fare la faccia da cane bastonato, forse puoi intenerire qualcun altro con queste cose, ma con me non attacca!» continuava intanto Mizoguchi.
Issei picchiettò sulla spalla di Hajime con insistenza. «Via da qui!» sussurrò nel suo orecchio «Sta arrivando Irihata!»
Si dispersero alla men peggio, fingendo inesistente disinvoltura nel salutare il professore appena arrivato. Il viso pallido di Yahaba tradiva qualche preoccupazione, ma il fatto che Takahiro se lo fosse portato via sottobraccio nel magazzino servì a non renderlo troppo palese.
«Ma per quanto tempo dovrà stare in clinica?» bisbigliò Watari quando la porta dell’ufficio si fu richiusa ed il silenzio fu tornato nell’androne d’ingresso.
«Quindici giorni, un mese… chi lo sa?» replicò con amarezza Hajime «Dipende da quanto l’ha fatta grossa, ed io so che l’ha fatta molto grossa. Fra l’altro, le dimissioni significano solo che la fase intensiva della terapia si è conclusa e che può tornare a casa, ma la riabilitazione continua. Ci vorranno mesi prima che abbia il permesso di ricominciare ad allenarsi.»
«Ma come ha fatto a non accorgersene?»
«Fidati, se n’era accorto eccome! Me n’ero accorto persino io! Peccato che ci tenesse tanto a fare lo sborone! Pensavo che il nuovo ruolo gli avesse messo del sale in zucca, ma mi sbagliavo!»
«Ragazzi» si affrettò a precisare Issei prima che fosse troppo tardi «Iwaizumi non sta dicendo che senza Oikawa non abbiamo speranze, siamo sicuri che Yahaba farà un magnifico lavoro.»
Yahaba non condivideva lo stesso ottimismo, ma si limitò ad annuire con incertezza.
«È solo che è… improvviso.» ammise Yuda[3] prima che potesse farlo lui.
Hajime non aveva mai inquadrato Yuda nel corso dell’anno precedente, di lui avrebbe potuto dire solamente che era un ragazzo volenteroso e quieto, a parte qualche esplosione di melodrammaticità quando il suo servizio finiva sulla rete.
«Non piangere, Kaneo.» lo stuzzicò Sawauchi dandogli un colpetto col gomito.
«Non ho alcuna intenzione di piangere!»
«Ma se hai gli occhi lucidi?» osservò Takahiro divertito.
«Mi è entrato qualcosa nell’occhio, questa palestra è piena di polvere!»
«Guarda che ieri ho pulito io» fece presente Shido «E non ti permetto di svilire la faticaccia che ho fatto. Non mi è sfuggito neanche un singolo granello di polvere.»
Se non altro Yuda aveva il merito di alleviare per qualche minuto la tensione. Hajime approfittò per richiamare gli altri all’ordine ed esortarli ad iniziare il riscaldamento, obbligo che solitamente perteneva ad Oikawa ma che per qualche tempo sarebbe spettato a lui.
Quando Oikawa uscì zoppicando dall’ufficio, trascinandosi goffamente sulla stampella e accompagnato dai due allenatori, non ci fu tuttavia verso di trattenerli. Lui per primo non resistette alla tentazione di avvicinarglisi, ed il gruppo gli si raccolse ansiosamente intorno.
«Oikawa si prende una pausa per curare il suo ginocchio.» ufficializzò Mizoguchi con durezza «Quindi non giocherà con voi i preliminari di ottobre.»
«Ma tornerà dopo, no?» propose speranzoso Yuda.
«Tornerà quando il suo ginocchio sarà perfettamente guarito.» puntualizzò Irihata con un sorriso indulgente «Perciò quanto più riposerà, tanto prima riuscirà a tornare.»
Oikawa evitava accuratamente di incrociare lo sguardo dell’amico, conscio che vi avrebbe trovato solo biasimo e disapprovazione. Ad Hajime però vederlo in quello stato non faceva affatto bene, o nello specifico, gli faceva prudere intensamente i palmi delle mani con quella faccia da schiaffi, ma in fin dei conti non riusciva a pensare “Te lo sei meritato, subiscine le conseguenze”.
«Mi dispiace tanto ragazzi... so che contavate su di me e che vi avevo promesso che quest’anno saremmo arrivati insieme alle fasi nazionali, ma sono stato ugualmente troppo incosciente. È colpa mia.»
«Arriveremo alle fasi nazionali anche per te, capitano!»
«Grazie, Watacchi.» rispose non molto convinto.
«Ci mancherai, Oikulo.» lo rassicurò Takahiro «Ma verremo a trovarti in clinica e ti porteremo un sacco di schifezze da mangiare durante la degenza. Issei, tu che nei dici?»
«Non fatelo ingrassare!» li ammonì Irihata «Quando tornerà dovrà essere in forma!»
«E schifezze siano!» sentenziò Issei «Hajime, ci dai il permesso di ingrassarlo come un vitello?»
«Per me potete anche mangiarlo come un vitello, non devo darvi proprio nessun permesso.»
«Iwa-chan, sei sempre più crudele!» piagnucolò l’interessato.
«E tu sei sempre più demente!» lo rimbrottò stizzito.
«Quindi tu non verrai a trovarmi?» gli domandò con lo stesso tono supplice con cui, quando erano bambini, gli chiedeva di portarlo con sé durante sue battute di caccia all’insetto, che in genere si concludevano quando l’altro strillava spaventato perfino dalle farfalle, costringendolo alla ritirata. Eppure la volta successiva gli avrebbe chiesto ancora di poterlo seguire, nonostante ne avesse paura a morte. E lui tutte le volte, glielo permetteva.
«Certo che verrò a trovarti.» si arrese «Se stai troppo tempo senza di me, combini casini.»
«Iwa-chan, quello che dici è molto romantico.»
«Ti rompo l’altro ginocchio.»
«Questo non lo è.»
«Perdonami, pensavo che, viste le tue recenti disavventure, ti piacessero queste cose.» osservò maligno.
«Questa è proprio cattiva!»
~
L’entusiasmo di Kaori si era esaurito una settimana dopo l’inizio del nuovo regime. Correre ininterrottamente per venti minuti prima dell’inizio dell’allenamento vero e proprio le aveva quasi fatto rimpiangere i metodi ben più permissivi di Hattori, e tutte quelle proteste sul fatto che non avessero abbastanza giocatrici per coprire le riserve di tutti i ruoli le sembravano immotivate, oltre a metterle addosso un certo senso di inutilità. Arisu queste cose le sapeva perché, al termine delle due ore di tortura, l’amica si era accasciata accanto a lei, sull’orlo delle lacrime.
«Non ne uscirò viva, lo so.» si lamentò esausta.
«Kaori-chan, non è il caso di farne una tragedia, si tratta solo di abituarsi.»
«Sono molto pentita di essere stata così felice della sua nomina!»
«Io invece penso che faccia bene il suo lavoro di coach. Per ora non ci conosce molto bene, quindi è naturale che sia molto esigente, ma col tempo migliorerà tutto.»
La situazione di per sé era già abbastanza anomala: l’ottimismo di Kaori era generalmente impossibile da scalfire, eppure era infine giunto qualcuno in grado di farlo. Arisu stessa nutriva i suoi dubbi sulla nuova recluta del preside Kurihara, che appariva decisamente troppo concentrata sull’idea di mettere su una formazione all’altezza di quelle che l’avevano preceduta anni e anni prima, nell’epoca d’oro del club femminile dell’Accademia. Se non altro, però, Arisu era riuscita ad ottenere dei complimenti, perciò riusciva a sentirsi vagamente adeguata al nuovo progetto.
«Horie non riuscirà mai a fare quello che pretende, non è portata per l’attacco.» commentò soprappensiero Kaori. «Nessuna di noi, a parte le senpai Yoshida e Hoshino, è veramente portata per l’attacco. Di come voglia farla questa squadra, io proprio non ne ho idea. E la storia del controllo delle presenze? Ha chiamato all’appello anche quelle che si sono ritirate, mi mette i brividi…»
«Quando ha realizzato che erano le senpai del terzo anno che sono andate via, le ha cancellate dalla lista. Okamoto mi ha fatto dare un’occhiata al registro, quindi l’ho visto di persona.»
«Non poteva osare tanto da andare a chiamare qualcuno che si è ritirato, in effetti.» considerò Kaori.
«Sai, Kaori-chan, quando parlava di rafforzare l’attacco a destra… a me non è sembrato che si riferisse a Horie. È una persona sufficientemente preparata da capire che lei non ha i requisiti necessari per quel genere di schemi.»
Kaori annuì concorde. «Non era una mia impressione allora.» rispose con un sorriso stanco.
«Non ha cancellato Ikeda e Sakurai dall’elenco.»
La bionda staccò le spalle dalla parete a cui si era appoggiata e si sporse in avanti per guardarla meglio, dubbiosa riguardo le sue parole ma, allo stesso tempo, appena eccitata.
«Cosa spera di ottenere? Mikoto non risponde neanche al telefono! Certo, se riuscisse a trascinarla qui sarebbe stupendo! A te non manca?»
«Chi, Ikeda?» ribatté con disappunto «C’è mai stata?»
«Non potevi non notarla, Arisu-chan: è alta più di un metro e ottanta e stava proprio lì, sotto la rete.» scherzò l’altra accennando al campo con la mano paffuta. «Non che parlasse mai con nessuno.»
«Francamente, in confronto ad Ikeda, Sakurai era eloquente ed amichevole, un angelo del paradiso.»
«Sono due cose diverse… Sakurai è un po’ aggressiva e arrogante, Mikoto è…»
«Snob e terrificante.» completò Arisu prontamente.
«Snob sì, terrificante no. Non è spaventosa come dite tutti.»
«Come fai a dire una cosa del genere? Una volta l’ho urtata nello spogliatoio e mi ha fatto un’occhiataccia tale da raccapricciarmi. Dopo soli due minuti sono inciampata in una panca e mi sono fatta male. Un cerotto in più o uno in meno non fa molta differenza, ma è stata lei.»
«Siete esagerate con questa storia delle iettature!» obiettò Kaori «La maggior parte delle volte sono solo coincidenze.» precisò con scetticismo.
«Sarà come dici, ma in ogni caso tu vedi troppo il buono nelle persone: ad esempio Sakurai non era un po’ aggressiva e arrogante, era decisamente aggressiva ed arrogante.»
«E nonostante tutto ti manca, sei sicura che sia io quella che vede troppo il buono nelle persone?»
«Ogni tanto mostrava qualche raro sprazzo di umanità, e non l’ho conosciuta abbastanza bene da poter esprimere un giudizio.» spiegò Arisu sollevando le spalle.
«Perché ne parli al passato? Grazie al cielo non è mica morta…»
«Perché sono sicura che non tornerà, neanche se professore referente e coach andassero personalmente a casa sua a cercare di convincerla. E se ipoteticamente tornasse, immagino che sia ormai profondamente diversa da come era prima.»
«In senso positivo o negativo?»
«Chi può saperlo? Forse entrambi.»
Non aveva senso interrogarsi, in ogni caso. La scuola sarebbe ricominciata il lunedì successivo, e di Sakurai ancora nessuna traccia. L’aria cominciava a diventare più fresca e sopportabile, il sole aveva perduto una parte della propria intensità, gli studenti del primo anno strepitavano già in previsione dell’imminente gita in montagna, bisticciavano per messaggi su chi sarebbe dovuto stare in gruppo con chi. Ad Arisu non interessava con chi fosse finita in gruppo: se non fosse stata obbligata a scegliere esclusivamente fra le compagne della propria classe, avrebbe di sicuro fatto carte false per rimanere con Kaori, che ancora sperava che anche Ikeda partecipasse. Si riteneva fortunata ad aver stretto amicizia con lei, che era l’unica coetanea che le fosse rimasta nel club nonché una delle poche che non si lasciasse intimidire dai capelli rosa e dal piercing sul naso. Era solo facciata, in ogni caso: sotto il trucco e la faccia truce, era rimasta la stessa ragazzina con i capelli raccolti in una coda che pareva quella di uno scoiattolo e che troppo spesso era disposta a farsi in quattro per i propri amici, finendo spesso per accollarsi responsabilità che non la riguardavano.
E pensare che all’inizio si era convinta di essere veramente cresciuta.
~
Il sabato mattina era il giorno di visite consistenti: a quelle quotidiane della propria famiglia e di Iwaizumi, si aggiungevano Hanamaki e Matsukawa, e – di tanto in tanto – del resto dei ragazzi della squadra o di qualche compagno di classe particolarmente premuroso disposto a prestargli gli appunti delle lezioni ormai cominciate da una settimana. Di certo non poteva dirsi che Tooru fosse di buon umore: non aveva affatto mandato giù la sospensione temporanea dalle attività del club, né riusciva a perdonarsi di essersi ridotto a quel modo con le proprie mani, o con le proprie gambe, così come lo aveva corretto il medico il primo giorno di trattamento.
Iwaizumi non aveva più detto una sola parola al riguardo, preoccupato com’era, ma Tooru continuava a ripetersi che avrebbe dovuto ascoltarlo dall’inizio. Se era finito in una situazione tanto estrema, doveva rimproverare solo sé stesso e l’ostinazione con cui si era fissato su Sakurai, scomparsa d’improvviso dopo l’aggressione di Hattori, senza nemmeno ringraziarlo a dovere per averle salvato la vita. Era ovvio che, nonostante per lei si fosse preso un pugno nello stomaco ed avesse ultimamente affaticato al limite il proprio ginocchio, la ragazza non avesse alcuna voglia di ricambiare le sue gentilezze.
Sgranocchiava quindi mestamente le patatine che Hanamaki aveva lasciato in camera sua poco prima di andar via con gli altri. Quello di portargli schifezze il sabato mattina e trangugiarle tutti insieme era diventato ormai un rituale importante, alla faccia della linea che avrebbe dovuto mantenere, ma era così depresso che solamente il cibo spazzatura era in grado di sollevargli il morale. Gli venne in mente che avrebbe dovuto chiedere ai ragazzi di portare dei marshmallow disgustosamente dolci il giorno successivo e così, con le mani unte, raggiunse il cellulare sul comodino.
Vagamente seccato, fece per ignorare un messaggio di cui doveva essergli sfuggito il trillo e ne lesse accigliato la notifica nella barra superiore. Aggrottò la fronte: si trattava di un numero che non aveva registrato in memoria. Sarebbe potuta essere una ragazza a cui qualcuno aveva dato il suo numero, che cercava di attaccar bottone contando di sfruttare la sua attuale condizione di infortunato.  
Incuriosito, procedette ad aprirlo.
«Ciao! Ho saputo del tuo ginocchio, come stai?»
 

[1] La meteoropatia è un disturbo che si verifica con il cambiamento del tempo atmosferico. Quella a cui Iwaizumi si riferisce è la meteoropatia secondaria, in particolare quella reumatica. E no, non è come sostiene lui: possono soffrirne anche persone molto giovani.
[2] Il “ginocchio del saltatore” è il nome con cui è comunemente nota la tendinite/tendinosi rotulea, ovvero un’infiammazione dei tendini del ginocchio tipica degli atleti che effettuano frequentemente dei salti.
[3] Kaneo Yuda è uno dei ragazzi dello stesso anno di Oikawa. Appare nel capitolo extra del manga incluso nel volume 17. Gli altri due sono Heisuke Shido e Motomu Sawauchi. Non ho avuto l’occasione di presentarveli in azione nei capitoli precedenti, ma c’erano ogni volta che si faceva riferimento al club in generale. Nella mia testa sono una sorta di “gruppetto a parte” perciò non hanno (o almeno non per ora) tutta questa confidenza con i ragazzi dello stesso anno.

NOTE FINALI

Mi prendo una pausa da questo periodo compulsivo per aggiornare con questo capitolo, questi intervalli lunghissimi sono dovuti alla tesi, che al momento è la mia priorità insieme all'ultimo esame. Se siete ancora qui, quindi, grazie per avermi attesa!
L'idea era scrivere un capitolo in cui Megumi non apparisse nemmeno una volta di persona, e credo di avercela fatta anche se ho la sensazione che sia un capitolo un po' frettoloso. Come al solito, se ci sono refusi ed orrori vari fatemelo sapere in modo che possa occultare subito ogni traccia.
Ora, ad un certo punto di questo capitolo si parla di chi si occuperà dell'allenamento delle ragazze e sono stata particolarmente attenta a non lasciare nessun indizio sul sesso maschile o femminile di questa persona, perché sarebbe divertente sapere di chi pensate che si tratti. Ovviamente devo dirvi che 1) è un personaggio originale e 2) nei capitoli precedenti è già comparso il suo nome. Quindi se avete qualche idea di chi sia, scrivetemelo dove volete (recensioni, messaggi, facebook, segnali di fumo, ecc...), se tutto va bene avrete a disposizione ancora un altro capitolo prima che il mistero sia svelato.
Grazie ancora a tutti quelli che seguono ancora il mio piccolo disastro, a chi lo aggiunge alle liste, recensice o semplicemente legge. Siete i migliori ;)
E anche per questa volta, è tutto. Siate buoni <3
Alla prossima (si spera presto e a cuor leggero) ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8: Tutti sanno ***


Capitolo 8

Tutti sanno

Gli occhi di Tooru puntarono immediatamente alla miniatura tonda a sinistra della chat, che – a conferma di quanto aveva ipotizzato – sembrava proprio il primo piano di una signorina tutta agghindata a festa. Strinse appena gli occhi per mettere a fuoco la crocchia elegante in cui aveva raccolto i capelli, che rilucevano di una tonalità molto simile al viola. Insoddisfatto da quell’esame superficiale, sistemò meglio gli occhiali sul naso e ingrandì la miniatura per capire di chi si trattasse.
Per prima cosa urlò e forse il suo grido suonò anche troppo femminile, ma per fortuna nessuno era nei paraggi per ascoltarlo. Poi si rimise in piedi con l’intenzione di saltellare per tutta la stanza, prima di ricordarsi dolorosamente di non poterselo permettere e lasciarsi nuovamente cadere sul letto a gambe e braccia aperte e con un largo sorriso stampato sulla faccia.
Sollevò di nuovo il cellulare e ne osservò nuovamente lo schermo.
Quella che Sakurai aveva impostato come immagine del profilo doveva essere una foto scattata poco prima di iniziare il liceo, in occasione di qualche ricorrenza importante a cui aveva partecipato. Sembrava vagamente più giovane di come l’aveva conosciuta, e la tinta dei capelli doveva essere recente se il colore pareva tanto acceso. Di certo era truccata molto più diligentemente del solito e sorrideva felice all’obiettivo.
Avvicinò con entrambe le mani il telefono al petto e strinse i denti in un sorriso estatico.
«Gumi-chan» commentò ad alta voce «Quando usciremo insieme voglio che ti trucchi così! Però non farti più una tinta così eccentrica, ti preferisco come sei adesso.» poi si accigliò un attimo e ricontrollò la foto, dubbioso. «Ora che ci penso puoi anche non truccarti così tanto, altrimenti non si vedono le lentiggini.»
Le dita si mossero rapide sulla tastiera, lasciando impronte oleose sullo schermo. Si fermò, cancellò tutto quello che aveva scritto, digitò qualche altra parola per poi cancellarla nuovamente. Mise temporaneamente da parte l’editor dei messaggi e compose febbrilmente il numero di Iwaizumi a memoria, imprecando perché l’amico rispondesse al più presto.
«Iwa-chan!» annunciò estatico quando quello, con tono scocciato, gli ebbe risposto che si erano visti solo venti minuti prima «Gumi-chan mi scritto!»
«Cosa? Quando?» replicò incredula la voce dall’altro capo del telefono.
«Alle dodici, cinquantadue minuti e otto secondi.»
«Ma noi eravamo lì a quell’ora!»
«E proprio per questo non me ne ero accorto!»
«E cosa ti ha scritto?» lo incalzò impaziente.
«Vuole sapere del ginocchio. Cosa le rispondo?»
«E tu dille del ginocchio, no? Chi meglio di te può saperlo?» sentì poi Iwaizumi rivolgersi a chi era con lui «Gli ha scritto Sakurai, vuole sapere del ginocchio.»
«Eh? E chi le ha dato il suo numero?» udì interpellare la voce di Hanamaki.
«Già, Oikulo, chi le ha dato il tuo numero?»
Tooru impiegò qualche istante per far mente locale: giunse alla soluzione solamente dopo aver inavvertitamente urtato col gomito l’agenda su cui il fisioterapista aveva segnato i suoi esercizi, che cadde sul pavimento aperta alla pagina del giorno precedente.
«Ieri era venerdì, no? È andata all’allenamento del Galaxy! Vedi che facevo bene ad andarci? Sapevo che prima o poi si sarebbe fatta viva da quelle parti!»
«D’accordo, d’accordo, hai ragione, contento? Adesso stacca e rispondile.»
«No! Iwa-chan, e cosa le scrivo se mi risponde al messaggio del ginocchio? Fa’ sentire anche a Makki e Mattsun, metti il vivavoce!»
«C’è già il vivavoce, Oikulo!» lo rimbeccò Hanamaki «Non eri tu che non volevi assolutamente da noi consigli d’amore?»
«Non voglio fare altre figuracce!» si giustificò nervoso «Questa deve essere la svolta! Datemi una mano!»
«Ma cosa vuoi che ne sappia io di cosa si scrive ad una ragazza?» protestò Iwaizumi imbarazzato «Non l’ho neanche mai avuto, il numero di una ragazza, nella rubrica del telefono!»
«Dici sul serio, Iwaizumi?» osservò Matsukawa sorpreso «Ti facevo più popolare.»
«Non siamo qui per parlare della vita sentimentale di Iwa-chan, ma della mia!» contestò spazientito.
«Se lei ti ha scritto del ginocchio, tu parlale del ginocchio, no? Riferiscile cosa ti hanno detto i medici ed il motivo per cui ti sei ridotto così.» gli consigliò Hanamaki.
«E non scordarti di chiedere come sta lei!» intervenne Iwaizumi «Dopo quello che le è accaduto non deve essersela passata affatto bene. Se non lo fai, sembrerai scortese!»
«Ovvio, ovvio che glielo chiedo! Voglio saperlo anche io!» lo rassicurò.
«Niente frasi fatte, per favore.» lo ammonì Matsukawa.
«Ora stacca questa chiamata, sbrigati!» lo esortò infine Iwaizumi «Fa’ in modo che esserti quasi sfasciato definitivamente un ginocchio non sia stato vano.»
«Signorsì!»
Non era facile, si disse quando un bip familiare lo ebbe avvertito della fine della telefonata. Rilesse nuovamente il messaggio di Sakurai, scrisse, riscrisse, tentennò, riprese, cancellò, esitò per cinque minuti interi prima di pigiare il tasto d’invio. Se ne pentì un secondo dopo: e se non avesse controllato bene e gli fosse sfuggito qualche errore di grammatica? Alle ragazze piacciono i ragazzi che sanno parlar bene, non voleva far la figura dell’ignorante. O forse il messaggio era troppo lungo, avrebbe dovuto spezzettarlo. Si mise a rileggere per l’ennesima volta ciò che aveva appena inviato.

 
“Ciao Gumi-chan! Il mio ginocchio non va molto bene, sono ricoverato da più di una settimana in una clinica specializzata. I dottori dicono che è grave, che ho sovraccaricato troppo il tendine e che ho rischiato la rottura, ma pensano che non sarà necessario l’intervento. Ora mi hanno messo un tutore fastidioso e mi hanno proibito di camminare senza stampella. Ogni giorno faccio un sacco di esercizi noiosi, però sono utili: sto già un po’ meglio. Tu, invece? Come stai?”
 
Con un tonfo al cuore, sotto il suo messaggio apparve l’icona che indicava che Sakurai stava scrivendo. Non riusciva a distinguere tempo soggettivo e oggettivo, ma gli sembrò che passassero ore prima che la risposta della ragazza comparisse.
 
“Sei stato un cretino, a venire al Galaxy. Ti è venuto il ginocchio del saltatore, potevi dirmelo che ti faceva male. Quando me lo hanno raccontato non riuscivo a crederci. La clinica di cui parli è quella vicino Odawara[1]? Se sì, sono molto bravi, forse sarà noioso e faticoso, ma ti rimetteranno a nuovo.”
 
Rilesse nuovamente il messaggio. Sakurai si era ragguardata di non rispondere alla sua ultima domanda. Si chiese se fosse il caso d’insistere, poi riapparvero i puntini di sospensione che suggerivano la speranza di un nuovo messaggio.
 
“Quanto a come sto, non lo so neanch’io.”
 
Cosa si rispondeva ad un’affermazione del genere? La tentazione di chiamare daccapo Iwaizumi e gli altri si ripresentò con urgenza, ma alla fine si risolse a far da sé.
 
“Vorrei poter fare di più che scriverti che d’ora in poi tutto andrà bene.”
 
La risposta di Sakurai fu stavolta fulminea, e gli strappò un sorriso.
 
“E cos’altro vorresti poter fare? Hai fatto anche troppo, non me lo meritavo.”
 
Altrettanto prontamente le sue dita scivolarono sulla tastiera.

“Non meritavi nemmeno che non intervenissi, non me lo sarei mai perdonato.”
 
Riapparvero i familiari puntini di sospensione, poi sparirono.

“Hai perfino lasciato il cellulare con la registrazione alla stazione di polizia.”

“Aveva lo schermo rotto per via della caduta, avrei comunque dovuto prenderne uno nuovo.”

“Quindi hai rotto un telefono per me? Oltre ad esserti fatto riempire di botte?”

“Il solo fatto che tu ora sia in grado di scrivermi vuol dire che ne è valsa la pena.”

 
Questa volta Sakurai non rispose subito, perciò Tooru fu colto dal dubbio di aver osato troppo con la sua ultima uscita. Si maledisse mentalmente: Matsukawa lo aveva avvisato di evitare le frasi fatte. Osservò sullo schermo Sakurai indugiare, scrivere, fermarsi e ricominciare.
 
“Permettimi di ripagarti il telefono, è il minimo che posso fare.”
 
Considerò che una proposta del genere era generosa, soprattutto se avanzata da una che può permettersi gli studi solo sfruttando delle borse di studio.
 
“Non essere ridicola, non ne ho bisogno. L’ho fatto spontaneamente, davvero!”

“E se il tuo ginocchio fosse peggiorato quel giorno, per colpa mia?”

 
Sorrise intenerito. Tentò di immaginarsela, Sakurai, tutta presa da quelle paranoie insensate, ma in qualche modo preoccupata per lui. Forse avrebbe avuto le guance arrossate come quando doveva dire qualcosa di scomodo, era plausibile che con i denti si stesse tormentando il labbro inferiore, come quando le toccava il servizio sul 24-23. Per quanto fosse un’immagine subdolamente piacevole da evocare, la rassicurò.
 
“Il mio ginocchio è peggiorato perché ho passato ore intere ad esercitarmi col servizio in salto. E perché sorvolavo spesso sul riscaldamento e sullo stretching. Anche tu, fai più stretching dopo gli allenamenti, okay?”
 
Sakurai scrisse e cancellò più volte prima di inviargli la risposta.
 
“Non ho bisogno di stretching se non mi alleno.”
 
Tooru s’infastidì nel leggere quell’affermazione. Francamente, avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi allenare con gli altri e non capiva come invece Sakurai non desiderasse affatto riprendere a giocare. Era consapevole, certo, che l’ambiente sportivo ricordasse alla ragazza eventi spiacevoli che stava cercando di dimenticare, ma trovava che fosse biasimevole accantonare in tronco la pallavolo intera solamente per rinchiudersi in una campana di vetro. Cercò di esprimere la propria opinione abbozzando un paio di messaggi che avrebbe poi cancellato senza inviare: non voleva ferirla.
Scrisse allora:

 
“Ti devo ancora quel gelato mochi.”

“Non sono mai riuscita a schiacciare la veloce che volevi, quindi non mi devi nulla.”

“Speravo che potessi chiudere un occhio.”

“Sei ostinato.”

“Da quale pulpito…”

 
~
«Sono ancora vive?»
Tendou aprì maggiormente la finestrella che dava sul cortile delle palestre, lasciando che l’anta scorresse rumorosamente sul binario appena arrugginito. Wakatoshi ne approfittò per guardare cosa accadeva fuori: il campo all’aperto era occupato dai ragazzi del club di basket. Uno di loro, il più alto, scrutava il gruppetto di ragazze che stava compiendo l’ennesimo giro di riscaldamento, senza neanche preoccuparsi di non farsi notare. Ma le ragazze del club di pallavolo non parevano farci affatto caso, ridotte com’erano allo stremo delle forze.
«Sono quasi venti minuti che corrono, sono preoccupato per la cicciottella.» commentò Shirabu arrotolando meglio il nastro sulle dita.
«La cicciottella ha un nome, sai? Si chiama Nonaka.» lo corresse stizzito Kawanishi. «Faresti bene a chiamarla così, invece di correre il rischio che qualcuno ti senta.»
«Perdonami, non sapevo avessi un debole per le ragazze cicciottelle.» ironizzò l’altro infastidito.
«Siamo compagni di classe, ed è una persona squisita… non merita di essere presa in giro.»
«Quindi ti piace.»
«Non ho detto che mi piace in quel senso, mi piace come persona.» ribadì Kawanishi senza scomporsi.
«Non devi vergognarti, sai? I gusti sono gusti, insindacabili.» rincarò Shirabu con serietà.
Un sopracciglio di Kawanishi guizzò verso l’altro, mentre gli occhi scuri si assottigliavano e le labbra si distendevano in un ghigno appena accennato, che non sfuggi a Wakatoshi.
«Insindacabili, eh? In fondo chi meglio di te può saperlo?»
Shirabu parve per qualche motivo intimorito. Wakatoshi lo vide stringere i denti ed i pugni, guardarsi furtivamente intorno per rendersi conto di quanti avessero udito la battuta di Kawanishi. Battuta che, per quanto riguardava Wakatoshi, era totalmente innocua, affatto ambigua. Non comprendeva perché Kawanishi l’avesse pronunciata con tanta cattiveria, né perché Shirabu l’avesse presa tanto a male. I gusti sono gusti: non si può rimproverare a qualcuno di amare il pesce poiché in prima persona si ama la carne. Quando ci si siede insieme ad un ristorante, ognuno ordina quello che vuole e tutti sono soddisfatti. Cosa c’era di ambiguo in questo?
Invece Shirabu si fece più vicino a Kawanishi, di scatto, come se volesse prenderlo a pugni ma non osasse farlo, poiché l’altro lo avrebbe subito messo al tappeto.
«Non so cosa tu abbia sentito al riguardo, ma non è vero.» sibilò a metà fra furia e paura.
«Fra le matricole girano delle voci…»
«Le voci possono mentire.»
«Ma io ho visto con i miei occhi.» spiegò il centrale con tranquillità «L’altro pomeriggio, quando ci stavamo cambiando…»
«Sta’ zitto!» intimò Shirabu, stavolta terrorizzato «Tieni chiusa quella bocca!»
Prima che potesse intervenire personalmente per calmare il palleggiatore, Semi si era già precipitato fra i due per impedire che accadesse l’inseparabile. Qualsiasi fosse il segreto a cui i due si riferivano, Shirabu ottenne da Kawanishi la promessa che non ne avrebbe parlato a nessuno, e – nonostante il compagno di squadra apparisse piuttosto reticente a mantenerla – Shirabu ne fu rassicurato, al punto da cambiare repentinamente discorso. Per niente certo di aver afferrato cosa fosse accaduto, cercò lo sguardo di Tendou, normalmente molto più perspicace di lui, che ricambiò con un sorriso enigmatico e affatto d’aiuto.
«Credevo che ci fosse un’altra ragazza del club femminile nella tua classe, una più popolare.» balbettò Shirabu ancora un po’ rosso in viso.
«Oh, capisco a chi ti riferisci.» rispose Kawanishi quasi divertito «Ikeda, ma non la troverai qui. Fino a prima delle vacanze non veniva neanche a scuola.»
«Un’altra persona squisita?»
«Certo, se trovi squisito il veleno.» ribatté l’altro, prima di far cenno col pollice a quanto accadeva al di là della finestra «Si dice che Nobuhara l’abbia piantata e che lei si sia rinchiusa in casa col cuore spezzato, ma ora eccolo lì Nobuhara… Impalato come uno stoccafisso di due metri a cercarla fra le sue vecchie compagne di squadra. Avrei giurato di averlo visto in giro con un’altra ragazza lo scorso mese, ma ora sembra tornato sui suoi passi.»
Seguire quanto i due si stessero dicendo era ora divenuto più difficile: le voci di Shirabu e Kawanishi erano state coperte – e Wakatoshi si chiedeva se volontariamente o meno – dalla chiacchiera allegra di Tendou, che aveva preso a punzecchiare Yamagata suggerendogli scherzosamente di abbandonare il club in favore di quello di calcio. Ammirava i tentativi compiuti da Semi per metterlo a tacere prima che perfino il libero perdesse la pazienza, ma avrebbe preferito che zittissero tutti, nell’eventualità che Shirabu o Kawanishi avessero ripreso l’argomento di poco prima. Si trattava di una delle rare volte in cui si scopriva realmente curioso di qualcosa, ma si rese conto che la propria indiscrezione non sarebbe stata appagata quando anche Yunohama si aggiunse alla conversazione, che aveva assunto tutti i connotati del pettegolezzo.
«La strega avrà gettato un sortilegio su di lui, perché si pentisse!»
«Anche a te hanno raccontato del suo talento, Yunohama?» ridacchiò Kawanishi «Il club dell’occulto ha tentato di intervistarla, ma quella è sfuggente e altezzosa come non mai. Li ha spaventati finché non sono scappati via!»
«Quanto dovete essere sempliciotti per pensare che Ikeda faccia magie, incantesimi o cose simili?» commentò scettico Shirabu «Sakurai diceva solo che ha la lingua affilata ed una marcata tendenza ad augurare ogni genere di male a chi le faccia un torto.»
Sentir pronunciare il cognome dell’amica ridestò la sua attenzione. Aveva quasi dimenticato, dopo tutto quello che era successo, di averla affidata a Shirabu. Era abituato a sapere sempre tutto di lei, non era avvezzo a sentirne parlare da altri che non fossero Megumi in persona. Negli ultimi due mesi invece accadeva continuamente, e l’amica si ostinava ancora a non volerlo vedere.
«Bene, e Sakurai ti ha anche detto con quale frequenza queste iettature avessero effetto?»
«Ecco...» farfugliò il palleggiatore «Ha detto che succedeva spesso, perciò lei cercava di averci a che fare il meno possibile.»
Kawanishi e Yunohama gli rivolsero un sorriso soddisfatto.
«Ma sono certo che si tratta solo di un caso, l’ho detto anche a lei!»
«Anche Nonaka la pensa così, ma quella ragazza è troppo buona.» commentò Kawanishi facendo cenno alla bionda, che terminati i giri di riscaldamento si era spiaggiata sul muretto del cortile, mentre la capitana cercava in tutti i modi di rimetterla in piedi.
Alla fine Kurihara, particolarmente irritata dal chiacchiericcio proveniente dalla palestra coperta, spuntò davanti alla finestrella e la richiuse dall’esterno con uno schianto sonoro. Mentre la udivano allontanarsi borbottando ad alta voce «Razza di pervertiti!», Washijou rientrò nella palestra infastidito come non mai.
«La pausa è finita da un bel pezzo, vi pare il momento di mettervi a guardare i culi di quelle del club femminile? Alle ragazze dovete pensarci fuori da qui, per colpa vostra ho dovuto sopportare la ramanzina di quella… quella…»
«Cerchiamo di dare il buon esempio, professore.» intervenne teso Saitou.
«Zitto tu! Detesto essere rimproverato da chi ha ancora il moccio al naso!»
«Non la stavo rimproverando, professore…» si scusò l’allenatore più giovane.
«Non parlavo di te!» sbottò l’anziano ancora più nervoso «Ma di quella… quella maleducata incapace! Allena da meno di due settimane e si sente già la padrona di casa, nessun rispetto per i superiori!»
«Si è diplomata qui, conosce bene l’ambiente, non c’è da meravigliarsi che si sia già integrata.»
«Ed è anche peggio! Nessun rispetto per gli ex-professori! Ma lei è sempre stata così, sempre insolente, sempre inopportuna. Mi faceva perdere la voce, tornavo a casa che potevo solo sussurrare monosillabi. Allora mia moglie mi chiedeva: “Kato?” ed io cosa potevo fare? Facevo sì solo con la testa. Ora è cresciuta, ed invece di mettersi a pensare all’abito con cui sposarsi viene qui a far la gradassa con me, che ero ben felice di essermene liberato quindici anni fa!»
«Se sta parlando della stessa signorina Kato che conosco io, professore» s’intromise Tendou come se stesse parlando con l’amico della porta accanto «non si può negare che avesse talento.»
Per un attimo Wakatoshi temé l’ira di Washijou, che scrutò il centrale con sospetto. Dopo dieci, lunghi, secondi di terrore, sospirò:
«Talento? Quella donna era una bestia sacra, il suo non era talento… era una benedizione divina. La mettevi in campo e segnava la metà dei punti, pallonetti come se piovesse, schiacciava come un’opposta, ed era solo una centrale!»
«E quei muri, professore…» aggiunse Tendou.
«Ah, no… se era in prima linea, non passava assolutamente nulla. E non la si fregava, no… era lei a fregare te, con quei palleggi inaspettati… dritti sull’opposta! Arrivò al liceo che già serviva in salto e sapeva anche ricevere e difendere come si deve! Una centrale? È riduttivo, quella donna è un’universale coi fiocchi!»
«E lei l’ha allenata professore, ha sfondato in Nazionale, dovrebbe esser fiero di aver perso la voce per lei.» cercò di farlo ragionare Saitou.
«Non ne fanno più giocatrici così, la fama di quel club si è spenta dopo la generazione di Kato.» sentenziò Washijou amareggiato «Guardale ora… sono ochette che si fanno guardare il culo dai maschi alla finestra, e che piangono se a muro gli si rovina la manicure. Che poi cosa ci sia da guardare non lo so, a parte qualche eccezione sono secche come manici di scopa.»
«La loro fama si è spenta da quando lei ha smesso di allenare il club.» lo corresse Saitou.
«No, le ragazze non sono più quelle di una volta. Sarà il turno di Kato di tornare a casa senza voce, ma senza ottenere niente da loro. Io almeno ottenevo vittorie.» poi scoccò uno sguardo di disapprovazione ai ragazzi «E voi? Non avete nulla di meglio da fare che starvene dietro la finestra a cercare il culo delle ochette? Dividetevi immediatamente e formate le squadre, facciamo set da 15 punti, uscite di qui solamente quando entrambe le squadre avranno vinto tre set!»
«Ma professore! Tre set sono tanti! Vuol dire che usciremmo da qui dopo aver giocato come minimo sei set!» protestò flebilmente Yamagata.
«Silenzio! Prima iniziate, prima finite!»

 
~
 
Uno vive tutta la sua vita immerso negli stereotipi senza riconoscerli, finché un giorno non assiste al loro disfarsi e capovolgersi. Uno può quindi trovarsi rilassato sul proprio letto d’ospedale, con un tutore rigido e fastidioso sul ginocchio, ed ascoltare i propri amici – di sesso rigorosamente maschile – dibattere tutti eccitati di vita sentimentale, o più correttamente, della sua vita sentimentale. Di solito ci si aspetta che certi discorsi li facciano le ragazzine delle medie, ed invece a trattare l’argomento questa volta erano quattro liceali alti dal metro e settantacinque in su.
Il nocciolo della questione, che tutto orgoglioso aveva esposto ad i suoi amici, era che lui e Sakurai si erano scambiati messaggi per tutto il pomeriggio e la sera del giorno precedente, fino a mezzanotte inoltrata. Avevano parlato del più e del meno, a partire dalle condizioni del suo ginocchio, per poi raccontare di come lei stesse trascorrendo quei giorni, passando per il tempo atmosferico, i compiti a casa e un’infinità d’altre questioni futili. Era come se Sakurai, favorendo il rinnovo degli argomenti, non volesse smettere di chiacchierare con lui, né tantomeno lui aveva intenzione di terminare presto la conversazione. Quella mattina le aveva inviato un buongiorno a cui non era però seguito lo stesso fervore loquace del giorno prima.
«Mi ha scritto risposto solo “buongiorno” e basta.» spiegò amareggiato.
«Avrà avuto altro da fare.» suggerì Iwaizumi con semplicità «Forse sta facendo i compiti, oppure ti ha risposto, s’è girata dall’altro lato del letto e si è addormentata di nuovo.»
«Io lo faccio sempre.» approvò Matsukawa.
«Questo spiega tante cose.» commentò Hanamaki aggrottando le sopracciglia «Ed io che stamattina aspettavo invano che mi rispondessi con l’orario dei treni!»
«La domenica mattina è fatta per dormire.»
«Se stesse facendo i compiti sarebbe già una gran cosa, vorrebbe dire che sta pensando di tornare a scuola.» rifletté Tooru «Se poi invece dorme come Mattsun, non saprei cosa pensare.»
«Che ne sai, magari ieri sera è uscita ed ha fatto le ore piccole!» osservò Hanamaki.
«Ma l’hai vista Minamisaka? Io, sì, l’ho cercata su Google Maps! È una strada con delle case sui lati, una scuola, una farmacia, un negozio di alimentari, un ristorante di ramen ed un fornaio. Dove vuoi che possa andare?»
«Al ristorante di ramen.»
«Peccato che lei abiti nel mezzo delle campagne, e per raggiungere il paese a piedi ci metta quaranta minuti.»
«Stai diventando ridicolo, Oikulo.» si lamentò Iwaizumi «Se vuole risponderti ti risponderà. Chi ha finito le merendine al cioccolato? Adesso tocca andarle a prendere…»
«Avevo giusto voglia di sgranchirmi le gambe, vado al distributore.» si propose Matsukawa alzandosi in piedi e stiracchiandosi «Volete qualcos’altro? Offre Oikulo.»
«Io non offro proprio niente!» protestò l’interessato, ma rimase inascoltato.
«Qualcosa da bere, decidi tu.» rispose Hanamaki cercando senza riserve il portafoglio di Tooru nel cassetto «Ed i biscotti ripieni di crema alla fragola.»
«Costano l’ira di dio e ce ne sono solo due nella confezione!»
«Acuta osservazione, Oikulo. Issei, prendine due!»
«Ma mi ascoltate quando parlo o no?» contestò l’interessato quando Matsukawa fu uscito dalla stanza carico di spiccioli indebitamente sottrattigli «State prosciugando le mie finanze. La vita è dura qui dentro, ne avete idea?»
«Ma se stai tutto il giorno stravaccato nel letto?» lo rimbeccò Iwaizumi.
«Mi annoio!»
Furono interrotti da Matsukawa, che si affacciò nuovamente nella stanza, con un’aria piuttosto allarmata, come se avesse visto un fantasma, ed a mani vuote.
«Hajime, puoi venire fuori anche tu? Ho bisogno che controlli una cosa.»
«Che genere di cosa?» borbottò raggiungendolo oltre la soglia.
Tooru e Hanamaki si scambiarono uno sguardo interrogativo, il primo ipotizzò che fossero finite le merendine che cercava, ma li sentì bisbigliare appena dietro la porta. Pochi istanti dopo i due si ripresentarono nuovamente nella stanza, senza nessun bottino. Matsukawa gli restituì il portafoglio con un lancio da maestro, Iwaizumi raccattò tutte le sue cose e esortò Hanamaki ad alzarsi tirandolo per il braccio.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» protestò quello confuso.
«Stiamo andando via, si è fatto tardi!»
«Ma se sono solo le dieci? E che ne è delle tue merendine?»
«Ne comprerò una confezione intera al konbini dietro la stazione, adesso dobbiamo andare. Buttiamo via tutte queste cartacce!» poi puntò il dito contro Tooru, più confuso che mai «Tu, aggiustati quei capelli e metti le lenti a contatto. Anzi no, non faresti in tempo… pulisciti almeno gli occhiali!»
«Iwa-chan, sei impazzito?»
«Fidati, dopo lo ringrazierai!» cantilenò Matsukawa che stava rimettendo a posto due delle tre sedie su cui si erano accomodati. Si era curato di lasciarne solo una, proprio accanto al suo letto.
«Sta arrivando qualcuno?» dedusse incerto.
Iwaizumi lo afferrò per le spalle, e gli rispose con estrema serietà, dopo aver preso un respiro profondo.
«Ora ascoltami, stai zitto!» esordì «Devi mantenere la calma, niente escandescenze. Ricorda quello che ti abbiamo detto ieri al telefono. Sakurai è qui nel corridoio.»
«Non è uno scherzo divertente, Iwa-chan!» si lamentò offeso.
«Non è uno scherzo, leggeva i numeri delle stanze sulle porte. Sarà qui fra pochissimo, noi andiamo via.»
Niente escandescenze? Come faceva a non farsi prendere dalle escandescenze in una situazione simile? Era in un letto, con quello stupido pigiama coi maialini che Asuka gli aveva regalato perché – a sua detta – era carino e sua madre non gliene aveva ancora portati altri quella settimana, aveva i capelli sparati in aria come se avesse appena alzato la testa dal cuscino, gli occhiali fuori moda e sudici, e probabilmente in faccia doveva essere sporco di qualcosa che aveva mangiato, perché Iwaizumi rabbrividì e con un fazzoletto inumidito chissà come prese a strofinargli energicamente una guancia. Infine gli sfilò gli occhiali e glieli lucidò alla men peggio sulla propria felpa. Quando glieli risistemò sul naso vedeva ancora peggio di prima. Non ebbe nemmeno il tempo di farglielo presente che erano spariti. Qualche istante dopo, sentì bussare.
«È permesso?»
Suonava così la voce di Sakurai l’ultima volta che l’aveva sentita? Era più incerta, più femminile, meno aggressiva. Era passato così tanto tempo che aveva l’impressione di non averla mai ascoltata prima di allora. Se il cuore non avesse smesso di battergli tanto forse, poteva darsi che l’avrebbe potuto udire anche lei? Sperò con tutto il cuore che non fosse possibile. Sperò così tanto da dimenticarsi di rispondere.
«C’è nessuno?» riprovò allora lei.
Si schiarì la gola e balbettò timidamente qualcosa di sconnesso, che pregò assomigliasse ad un «Avanti!».
Parve un’eternità prima che entrasse cautamente nella stanza, guardandosi intorno con circospezione. Avrebbe voluto poter dire che non fosse cambiata affatto, eppure il volto era più scavato, il colorito più spento, i capelli crespi relegati in una coda per niente precisa, i ciuffi che ne sfuggivano coprivano a malapena la porzione di pelle più rosea e glabra che interrompeva l’arco del sopracciglio sinistro.
«Ciao!» lo salutò impacciata, ma decisamente non quanto lui, che invece avrebbe voluto farsi inghiottire dal letto «Ieri mi avevi detto che eri qui, ho pensato di venire a trovarti.»
«Sei… sei gentile!» farfugliò rosso in volto «Sediti… cioè… siediti!»
«Forse è il momento sbagliato? Hai la faccia tutta rossa, hai la febbre?»
«Sì! Cioè… no!» ribatté, si accorse di non riuscire a mettere in fila più di una parola alla volta, eppure ne aveva centinaia sulla punta della lingua «È che non mi aspettavo una tua visita…»
Sakurai sembrò interdetta. «Capisco, avrei dovuto avvisare prima di piombare qui.»
«Sì! No, aspetta… volevo dire no!»
La ragazza assottigliò gli occhi con sospetto. «Sì o no, cretino?»
«No, è… è stata una bella sorpresa.» tentò di spiegare «Solo che sono un po’ imbarazzato a farmi vedere così… proprio da te, ecco.»
«E perché?» domandò accomodandosi sulla sedia lasciata lì da Matsukawa, dopo rimase a bocca aperta come quando ci si ricorda qui qualcosa che si era scordato. «Ah, non ti è ancora passata?»
«Queste cose non passano, dovresti saperlo meglio di me!» protestò contrariato «E non è una cotta!»
L’altra parve dispiaciuta, si torturò i palmi delle mani per un po’, prima di chiarire: «Pensavo che dopo aver saputo quello che avevo fatto, avresti perso ogni interesse. Alla fine chi vorrebbe stare con una che si è fatta mettere le mani addosso in cambio di un privilegio?»
«A me non importa, so come sono andate le cose. Non riesco a biasimarti, né a garantirti che al posto tuo mi sarei comportato diversamente.»
Sakurai lo guardò incredula, poi sorrise. «Ma tu non ne hai bisogno, tu sei bravo davvero.»
«Mi hai fatto un complimento? Tu, Megumi Sakurai, mi hai fatto un complimento? Non puoi essere quella vera, hai una sorella gemella buona o un replicante di manifattura aliena!»
Lei sembrò per un attimo rasserenata e rise un po’ «Mi spiace deluderti, ho solo una sorellina minore, ed anche gli alieni ignorano l’esistenza di Minamisaka. Sono proprio io.»
«Ma vivi in campagna, è più facile atterrare! Avete del grano, ci avete mai trovato dei cerchi? Forse tu sei quella vera e la cattiva era quel robot di ferro che schiaccia nei tre metri come un bazooka e picchia come un campione di wrestling!»
«Ora mi stai offendendo…» protestò, ma sorrideva ancora.
«Nessuna offesa, sarebbe una figata!» annunciò estatico «Tu saresti ancora più figa!»
«Ma non sono figa, per niente.» replicò lei «E sono io, torna coi piedi a terra prima che te le suoni.»
«Okay, sei tu.» concordò divertito «Ho visto che sai fare male davvero, quando vuoi, perciò preferirei non aggravare ulteriormente la mia situazione.» spiegò accennando con la testa al tutore coperto dalle lenzuola, ma lei riuscì a comprendere lo stesso a cosa si riferisse, perché tornò seria.
«Posso… vederlo?» domandò insicura.
Il suo cervello tuttavia non connetteva molto bene, perciò arrossì fino alla punta delle orecchie e immaginò la cosa sbagliata, o forse si era confuso con un sogno particolare che iniziava proprio così.
«Gumi-chan… è un po’ presto, ecco… per queste cose! Insomma, normalmente per me non è mai presto però a te sono successi dei fatti spiacevoli… sei confusa e non vorrei approfittare, potresti pentirtene! Io penso che dovremmo aspettare, io posso resistere… è da un po’ che lo faccio! E poi potrebbe entrare qualcuno e…»
La ragazza divenne di colpo ancora più rossa di lui e aggrottò le sopracciglia, furente.
«Cos’hai capito, depravato? Io mi riferivo al ginocchio! Ma cos’hai in quella testa?»
Perché il letto non lo ingoiava come lo stava pregando di fare da dieci minuti?
«Il ginocchio! Il ginocchio… ecco sono così nervoso che mi ero dimenticato anche per quale motivo io fossi qui. Per un attimo ho creduto che la realtà avesse superato il sogno…»
«Quale sogno?» ripeté lei sbigottita «Oikawa, è la cosa più imbarazzante che abbia mai sentito!» protestò nascondendosi la faccia dietro le mani.
«Sono io che dovrei essere imbarazzato!» si lamentò «Ti ho appena detto una cosa che non volevo dirti! Perché arrossisci tu?»
«Perché mi hai fatto pensare a me… e te… che… brrrr, che schifo!»
«Prima dovresti provare per giudicare!» protestò inorgoglito «E poi sappi che là fuori le ragazze fanno la fila per me, evidentemente loro non pensano che io faccia tanto schifo!»
«Scusami, ma col pigiama a maialini e gli occhiali di Harry Potter proprio non riesco ad apprezzare.»
«Siamo pari con le tue mutande a cuoricini! Ti ricordo che io sono andato oltre quelle!»
«Ancora? Dimenticale!»
«Le dimentico se tu dimentichi quello che stai vedendo ora!»
«Affare fatto. Ora per favore cambiamo discorso, mi si sta accapponando la pelle.»
«Certo, cambiamo discorso. Volevi vedere il ginocchio no?» riprese scoprendo la gamba dalle lenzuola.
«Oh, sì… eravamo rimasti al ginocchio, giusto.» ripeté velocemente, si sporse in avanti per vedere meglio e lui riuscì ad osservare meglio la cicatrice sul suo sopracciglio «Il tutore sembra rigidissimo, dimmi che non dovrai tenerlo sempre!»
«Invece dovrò tenerne sempre uno, ma non questo… il medico dice che lo cambierò, sarà più comodo.»
Sakurai annuì, ancora un po’ a disagio.
«Alla fine ti è restata la cicatrice.» considerò dispiaciuto.
La ragazza trasalì immediatamente e si pigiò forte il ciuffo sul sopracciglio sinistro, dove avrebbe dovuto coprirla. «Si vede ancora? Questo ciuffo non vuole saperne di fare il suo lavoro…»
«Guarda che non ti sta male, come dire… ti si addice. Ti fa sembrare più selvaggia.»
«Quindi sono una selvaggia?» domandò sul piede di guerra.
«In senso positivo, sì… come un’amazzone! Hai presente? È un segno particolare affascinante.»
«Affascinante o no, devo tenerla. Mi ricorderà di quanto sia stata incosciente.» commentò tristemente.
«Anche di quanto tu sia stata coraggiosa. Quella te la sei fatta per difendere me, non è roba da poco.»
«Non ricordo quando me la sono fatta, il dolore l’ho sentito dopo. Non ti ho mai ringraziato, Oikawa, forse non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza.» ammise mestamente.
Maledetto tutore, avrebbe voluto strapparselo via, alzarsi in piedi e renderle l’abbraccio di cui aveva bisogno! Forse avrebbe ottenuto un calcio negli stinchi dopo, ma ne sarebbe valsa la pena.
«Il solo fatto che tu sia venuta fin qui da Minamisaka per me è un ringraziamento più che adeguato.»
Sakurai sorrise rincuorata, poi aggiunse:
«Ma io sono tornata a Sendai stamattina, per la scuola. La psicologa dice che devo farlo, io non volevo.»
«Sei tornata a scuola?»
«Sì, domani riprendo le lezioni, i miei genitori mi hanno accompagnata per lasciare a dormitorio le mie cose. Oggi è festivo e ci sono pochi studenti, ma parlano tutti di me, li ho sentiti.»
«Lasciali parlare, oppure vai in giro con Ushiwaka. Lui saprà cosa fare.»
Sakurai non parve affatto rassicurata, anzi – se possibile – s’incupì ancora di più, gli occhi luccicarono di malinconia.
«Io e Waka-nii non ci frequentiamo più.»
«Cosa? Non vuole più vederti? È un gesto così superficiale che…»
«No, no! Lui non c’entra. È venuto a cercarmi tutti i giorni, ma io non ho voluto.»
«Ma sei stupida?» la rimproverò incredulo «Pensi ancora che ti allontanerà? Stai facendo tutto da sola! Guarda, a me fa anche comodo che lui si tolga dei piedi, ma non ti fa bene. Cosa dice la psicologa?»
«Che devo parlargli, e fare amicizie nuove.»
«Brava, devi fare proprio quello. Già hai un nuovo amico straordinario, sono io! Non accetto rimostranze. Poi che mi dici della ragazzina coi capelli rosa? Siete coinquiline, no?»
«Scoiattolo? Penso che mi detesti, sono stata crudele con lei.» confessò sconsolata.
«Ma guarda le coincidenze? Lei pensa che sia tu a detestarla, dovreste chiarire. E poi dovresti tornare da Ushiwaka, uno così apatico non può turbarsi per una cosa del genere e ti è venuto a cercare un sacco di volte. Te lo sto dicendo contro il mio tornaconto, per quel che mi riguarda sarebbe meglio se non gli stessi più intorno, ma so che tu ci tieni molto.»
«Pensavo fossi più frivolo, Oikawa. Viene fuori che non sei quel che sembri.»  considerò sorpresa.
«Tooru, devi chiamarmi Tooru.» la corresse raggiante, Sakurai invece storse il naso.
«Neanche i tuoi amici ti chiamano per nome, perché dovrei farlo io?»
«Perché detto da una ragazza suona più carino, Gumi-chan
«Neanche per sogno, rimani Oikawa. Però ti concedo di chiamarmi come ti pare, anche se il permesso te lo sei accordato da solo. Ma come ti è venuto in mente poi?»
«Gumi? Fa tanto cartone animato, Megu è più inflazionato ed è meno tenero.»
Due minuti dopo si erano addentrati in una disputa su tutta una serie di personaggi di cartoni animati che condividevano il nome con loro, da cui Sakurai uscì sconfitta. Di lì, un nuovo dibattito sulla scuola, sullo studio, sulla moda dei selfie (Sakurai non ne era affatto entusiasta, apprese), sul parco divertimenti poco distante dalla clinica, che entrambi avrebbero voluto visitare. Tooru forse un po’ meno, dal momento che non amava particolarmente le altezze, ma si ripromisero di visitarlo insieme: aveva rimediato un appuntamento senza neanche faticare. Era sicuro che avrebbero continuato a parlare per ore, se l’infermiera coi capelli tinti non fosse venuta a cacciar via la ragazza quando l’ora del pranzo si fu avvicinata.
«Gumi-chan, tornerai a trovarmi?»
Lei sembrò sorpresa, smise di abbottonarsi la giacca di jeans. «Vuoi che torni?»
«Certo!» confermò con un sorriso «Qui è una noia mortale, il tempo passa solo quando gli amici vengono a trovarmi, e tu sei mia amica… per parte mia un’amica speciale, ma pur sempre un’amica.»
«Se ci tieni tornerò, tanto devo andare a scuola…» rispose, per niente entusiasta di tornare a lezione. Gli venne in mente un’idea.
«Gumi-chan, prima hai detto che non sapevi se saresti riuscita a ringraziarmi, non è così?»
Sakurai annuì, interessata.
«Vedi, io ho tanta voglia di tornare a giocare con i miei compagni di squadra, ma sono costretto a stare qui e non posso farlo. Non posso neanche assistere ai loro allenamenti, ed il coach mi ha detto chiaramente che anche se dovessi guarire prima, non mi permetterebbe di giocare prima di gennaio.»
«Mi dispiace tantissimo, è terribile.»
«Tu invece puoi farlo, puoi tornare dalle tue compagne di squadra e ricominciare tutto daccapo. Puoi riscattare la tua reputazione in campo e se sarai brava come sai essere, nessuno si permetterà più di dire nulla su di te. Dimenticheranno e capiranno anche loro che Hattori ti stava impedendo di proseguire sulla tua strada.»
«Non è così semplice, la gente è cattiva… non dimentica e non capisce.»
«Torna a giocare, Gumi-chan. Fallo per me, fallo al posto mio.» la pregò.
L’altra restò a guardarlo in silenzio per qualche istante, tanto indecifrabile da non sbattere neanche le palpebre. Poi sussurrò:
«Ci penso. Ciao, Oikawa.»
Il rumore della porta che si chiudeva non gli aveva mai messo addosso tutta quella malinconia. Solo qualche ora prima si stava struggendo con Iwaizumi e gli altri, adesso si sentiva come se per tre ore fosse stato completo e poi privato del pezzo appena ritrovato.
Quanto detestava quell’infermiera!
~
 
Come tutte le adolescenti che si rispettassero, Arisu detestava il lunedì mattina. Anche per una mattiniera come lei era insopportabile alzarsi alle quattro e mezza e trascinarsi sull’autobus che da Tagajo l’avrebbe portata a Wakano, con la valigia pesante e piena di abiti autunnali e l’uniforme scolastica che rendeva scomodo ogni movimento. Una volta lì, non aveva nemmeno il tempo di far colazione, lasciava il bagaglio nella portineria dei dormitori e arrivava a lezione una manciata di minuti prima del suono della campanella. Neanche sarebbe voluta tornarci a casa nei week-end, sua madre era ossessiva ed irritante ed avrebbe preferito non rivederla.
Da qualche settimana, tuttavia, l’ultimo tratto di strada lo faceva con Nonaka. L’amica avanzava anche più faticosamente di lei alla volta del dormitorio e poi dell’edificio scolastico, sgranocchiando ogni volta uno snack ipercalorico diverso, visto che non era in grado di saltare la colazione.
Quando ebbero raggiunto lo spiazzale del dormitorio, proprio dietro la fontana orribile che il primo preside dell’istituto aveva deciso di piazzarci nel mezzo, Arisu alzò istintivamente gli occhi alla ricerca della finestra della propria stanza e si fermò senza preavviso a guardarla. Kaori si voltò a cercarla.
«Cosa c’è, Arisu-chan?» si preoccupò Kaori fermandosi a sua volta e cercando di intercettare la direzione del suo sguardo.
Arisu indicò le ante spalancate del bacone della propria stanza, dove la tenda bianca svolazzava fuori in balia della corrente.
«Il balcone» disse sconvolta «Sono sicurissima di averlo lasciato chiuso venerdì scorso prima di partire, adesso è aperto.»
Ed era realmente certa di averlo fatto: quella sera Arisu era ritornata indietro appositamente per verificare che fosse chiuso, dopo aver già sceso una rampa di scale.
«Forse non l’hai chiuso bene e durante la notte si è riaperto.» suggerì ottimista la bionda, prima di dare un morso alla sua merendina.
«Ti dico che l’ho chiuso!» ribadì innervosita «Devo andare a controllare!»
«Ma tra poco suonerà la campanella, non arriveremo mai in tempo a lezione!»
«Non ti ho chiesto di venire con me!» sbottò l’altra seccata «Tu vai in classe, io devo capire cosa sta succedendo nella mia stanza!»
Incespicò con la valigia sulle scale maledicendosi per non esser stata dotata di gambe abbastanza lunghe da salirle a due a due, scansò sul pianerottolo due ragazze del secondo anno che correvano a scuola, si precipitò nel corridoio scivolando sul pavimento lucido di cera. Infilò con urgenza la propria chiave nella serratura, trasalì quando si accorse che la porta era chiusa ad una sola mandata, quando lei aveva l’abitudine di farne due. Spinse con difficoltà la porta, apparentemente bloccata da qualcosa di pesante appoggiata all’anta e si risolse ad entrare sgusciando dal piccolo spazio che era riuscita ad aprire.
All’interno c’era un disastro. C’erano scatole e vestiti ovunque, libri sparsi sulla scrivania che sarebbe dovuta essere sgombra, il materasso del letto vacante era stato scoperto dalla trapunta a righe bianca e viola, l’armadio era spalancato come il balcone. Quale ladro poteva entrare in una stanza di un dormitorio scolastico? E cosa poteva sperare di trovarci?
Solo poco dopo si rese conto che i suoi effetti personali non erano stati spostati di un millimetro, che il suo letto e la sua scrivania erano esattamente come li aveva lasciati e così la sua metà dell’armadio. Incuriosita, esaminò il contenuto di una borsa di carta abbandonata sulla sedia dell’altra scrivania, per cercare di capire di chi fosse tutta quella roba.
«Sono medicine.»
La voce femminile proveniente dalla porticina del bagno alla propria sinistra la sorprese d’improvviso, tanto da farle cacciare un grido spaventato. Si voltò impaurita per scoprire Sakurai che la guardava mortificata con una pila di asciugamani fra le braccia.
Il primo istinto di Arisu fu quello di non credere ai propri occhi e che il nuovo ritmo di allenamenti le avesse provocato delle allucinazioni, il cuore che martellava nel petto. Eppure doveva essere davvero Sakurai, in carne ed ossa: di certo era più smunta di come se la ricordasse e non aveva un’aria molto sana. L’occhio sinistro era ancora leggermente scuro e sul sopracciglio era visibile una piccola porzione di pelle scoperta, più recente del resto. Trasalì quando intravide sul collo i segni ancora visibili lasciati dalle dita di Hattori.
Le rivolse un’occhiata interrogativa e si fece più vicina, le tastò con l’indice una manica della divisa scolastica.
«Scoiattolo, sono vera. Non ti è ancora dato di volta il cervello ed in quel caso quelle medicine potrebbero essere utili anche a te.»
Quando era più giovane, Arisu era solita divertirsi a far disperare la madre, annunciandole la volontà di volersi dilettare in ogni tipo di sport estremo. Anna Hiromi in genere si agitava tanto da rischiare il collasso, ma Arisu non aveva mai desiderato mettere a rischio la propria vita a quel modo. Non fino a quel giorno evidentemente.
Sakurai non si scansò dal suo abbraccio repentino, né si lamentò in alcun modo. Lasciò invece che rimanessero in quella posizione goffa finché Arisu non si fosse stancata. Non riusciva a vederle il viso, ma immaginò che ne fosse rimasta sorpresa.
«Sono felice che tu sia tornata!» confessò stringendola più forte «Quando ho saputo, non potevi essere tu… Non sono stata in grado di capirlo, puoi perdonarmi?»
La voce di Sakurai tremò lievemente.
«Non c’era niente da capire, avrei dovuto dirtelo io. Tu non c’entri niente.»
Arisu si scostò, le rivolse un sorriso d’incoraggiamento.
«Sei tornata stamattina?» le domandò.
«Ieri, in realtà. Ma in mattinata sono andata a trovare un amico e nel pomeriggio sono tornata qui.»
«E non hai ancora messo in ordine le tue cose?»
«Ci ho provato, ma mi sono addormentata… vestita e tutto. Questa roba mi aiuta, ma mi fa dormire troppo.» spiegò estraendo un flaconcino dalla borsa della farmacia. Dalla confezione, sembrava un qualche tipo di antidepressivo. Si disse che avrebbe dovuto aspettarselo.
«Devi prenderne molti?»
«No, è una dose minima. La mia psicologa era contraria, ma il medico dice che sono necessari.» spiegò «Effettivamente se posso permettermi di stare qui è grazie a questo.»
«Se ti fanno bene dovresti prenderli, prima o poi te ne libererai. Sono così contenta che tu sia tornata in tempo per la gita delle matricole! Vedrai, ci divertiremo tantissimo, anche se siamo in classi diverse verrò a trovarti di continuo! Io sono in gruppo con due stupide che ridacchiano sempre fra di loro, perciò le lascio più che volentieri.»
Sakurai si rabbuiò.
«Ah, la gita.» ripeté a bassa voce «Pensavo di non venire. Parleranno tutti di me, non voglio sentire.»
«Devi venire per questo, per dimostrare che non hai nulla di cui vergognarti!»
«Ma il fatto è che io ho molte cose di cui vergognarmi.»
«Avrei voluto vedere tutti loro al tuo posto, tu sei stata fin troppo forte.» commentò indispettita, poi continuò «Di qualsiasi altra tua colpa tu ti sia macchiata, ne parleremo a tempo debito. Adesso non è importante, Megumi-chan
Sentendosi chiamare col proprio nome per la prima volta, Megumi sgranò appena gli occhi. Poi le sorrise timidamente.
«Grazie…»
«…Arisu-chan.» le suggerì lei. Megumi non parve convinta.
«Risu-chan.» concluse infine.
«In un modo o nell’altro stai continuando a chiamarmi Scoiattolo[2]…» si lamentò.
«Mi piace ricordarti così.» affermò facendo spallucce «Che salti da una parte all’altra, come uno scoiattolo.»
«A modo suo è un pensiero carino.» concluse.
Lo sguardo di Arisu si soffermò poi sul colletto della camicia, privo del cravattino dell’uniforme. Megumi parve capirlo, perché spiegò:
«Ieri ero così assonnata che non sono riuscita a trovare il cravattino della divisa. Ci ho riprovato stamattina, ma immagino di averlo perso. Mia madre dice di non averlo visto neanche a casa, temo di doverne ordinare uno nuovo.»
Ovviamente, Arisu sapeva bene dove fosse finito il cravattino della coinquilina. Lo custodiva gelosamente da un mese, come fosse un cimelio prezioso. Si vergognò di dove lo aveva conservato, perciò le chiede di voltarsi dall’altra parte prima di andare a prenderlo. Quando si fu assicurata che l’altra non l’avrebbe vista, sollevò il cuscino del proprio letto e lo estrasse.
«Per quale motivo tenevi il mio cravattino sotto il tuo cuscino?» domandò turbata Megumi quando glielo porse «È un posto strano per conservare una cosa simile.»
«Hai sbirciato!» protestò Arisu «Ti avevo chiesto di non guardare!»
«Dormivi col mio cravattino?» aggiunse confusa.
L’altra avvertì le guance diventare calde, «Mi faceva pensare che non fossi così lontana.» ammise imbarazzata.
«Non so se esserne lieta o preoccupata.»
«Io ti consiglio di esserne lieta.»
~
Ma tu lo sai che Ikeda ha mollato Nobuhara?
Io sapevo che fosse stato lui a lasciarla!
Lui l’ha tradita con una della sezione uno!
Ma lei gli ha fatto un incantesimo!
 
Tu ce l’hai presente il secchione della sezione cinque?
Ma chi, Shirabu?
Dicono che sia gay, lo sanno tutti!
Allora bottino grasso per lui stanotte, è in gruppo con altri due!
 
Ha avuto il coraggio di ripresentarsi a scuola…
Dopo tutto quello che ha fatto, non si vergogna?
Era già pazza, adesso sembra scappata da un manicomio.
Una vera troia, una sfasciafamiglie!
Io sono certo che sia stata lei a stuzzicare Hattori.
Hai sentito che se la faceva anche con uno di un’altra scuola?
Io, al posto del preside, le toglierei la borsa di studio.
 
«Non ascoltarli, Megumi-chan.» provò a rassicurarla Arisu mentre scendevano dall’autobus per raggiungere la struttura in cui avrebbero alloggiato per quel week-end.
Megumi avrebbe tanto voluto fare come l’amica le consigliava, ma tutto quel chiacchiericcio era assordante ogni volta che voltava le spalle. Nessuno rispondeva ai suoi saluti, tutti le stavano alla larga. Le sue presunte compagne di gruppo erano così disgustate da lei che mantenevano una distanza di sicurezza e si curavano di non rivolgerle la parola nemmeno per sbaglio. Certo, gli sguardi in cagnesco di Risu erano efficaci per zittire per un pezzo chi spettegolava, ma l’effetto era troppo effimero per rasserenarla. Forse prendere parte alla gita non era stata affatto una buona idea.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa e scrisse ad Oikawa:

 
"Sono il loro argomento preferito, tutti sanno. Mi odiano."
 
E lui rispose, dal suo letto in clinica:

"E tu lasciati odiare, lo rimpiangeranno."
 

[1] È una località realmente esistente a Sendai.
[2] Come già spiegato nel primo capitolo, “Scoiattolo” in giapponese si pronuncia “Risu”, che è fondamentalmente “Arisu” privato della vocale iniziale.
NOTE DELL'AUTRICE
Sono proprio io, Miss Aggiorno-Un-po'-a-caso, in diretta dalla landa dei sensi di colpa. Mi pentirò di aver perso una giornata per completare questo capitolo invece di dedicarmi alla tesi. Vorrei ringraziare ancora un volta EFP per aver distrutto la formattazione, perciò nel caso non si sia capito, i testi centrati in corsivo fra virgolette alte sono messaggi, quelli che trovate alla fine allineati a sinistra e a destra sono pettegolezzi.
Ora, questi teppistelli del primo anno, che non possono esser chiamati in altro modo, sono in "gita" poco lontano dalla scuola in realtà. Nemmeno un'oretta, ma in mezzo ai boschi. Pare sia una cosa comune e che serva a far integrare le matricole, Megumi piuttosto preferirebbe integrarsi in un pilastro di cemento, ma sta tentando una sorta di terapia d'urto. Se ne vedranno delle belle.
Pare che per esigenze di trama il mistero del sostituto di Hattori si stia già disvelando da ora. Ma ragazzi, io amo Kato.
Per la cronaca, sto facendo ingrassare Oikawa, sono una criminale.
Come al solito, lasciatemi un commentino/recensione se vi va... e se ci sono errori fatemeli notare perché sono conscia di essere fusa.
Alla prossima, quando sarò più libera, si spera. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9: Punizione! ***


Capitolo 9

Punizione!
 

Spero mi perdonerete se per questa volta anticipo il mio piccolo spazio, ma sento di dovervi delle scuse. Come vedete - a dispetto di tutto - sono ancora viva! So bene che dall'ultimo aggiornamento sono passati un numero preoccupante di mesi, ma la verità è che negli stessi mesi me ne sono successe di belle e di brutte. Per ricordare solo le belle, mi sono laureata!Se, nonostante la mia latitanza, ancora siete qui ad aspettare un capitolo, vi ringrazio di cuore, non potevo desiderare lettori migliori. ;) Poiché questo capitolo (piuttosto di transizione) è stato  scritto e riscritto a più riprese in un lasso di tempo lungo all'incirca quattro mesi, potreste percepire spaccature piuttosto nette nel modo di scrivere. Ho cercato di appianare queste differenze quanto più o potuto nella fase di limatura finale, ma io le sento tutte, come in una sorta di percorso ad ostacoli.

Buona lettura e grazie ancora per essere qui! <3

P.S. Pubblicare dopo tutto questo tempo mi fa sentire tutta la vergogna della prima volta, sono un caso disperato....


 

Il monte Kaihaku[1], dall’alto dei suoi miseri cinquecentosessantadue metri, distava quaranta minuti dall’Accademia Shiratorizawa e soli trenta dal centro di Sendai. Stando così le cose, non c’era nessuno in tutta la città che non l’avesse visitato almeno una volta nella vita, perlomeno da bambino, strepitando e pestando i piedi a terra perché troppo stanco per proseguire il giro nel boschetto che lo ricopriva. Eppure il preside Kurihara si ostinava a non cambiare meta per la prima gita delle matricole, che ogni anno prevedeva che gli studenti alloggiassero tre giorni in una piccola struttura di proprietà della scuola ai piedi del monte, tentando di autogestirsi quanto più possibile allo scopo di “consolidare i legami del gruppo classe”, come ricordava la brochure dell’orientamento che annualmente tornava a circolare nelle classi terze delle scuole medie.
Ognuna delle sei sezioni veniva divisa fra maschi e femmine, ed a loro volta le due categorie venivano spezzettate in gruppetti da tre estratti a sorte, destinati a condividere una delle stanzette della struttura. Il regolamento prevedeva che i gruppi classi rimanessero sempre coesi e svolgessero insieme ogni attività di gruppo, dalla preparazione del pranzo alle escursioni, ma accadeva puntualmente che gli studenti abbandonassero i compagni della propria classe per trascorrere il proprio tempo con qualche amico iscritto ad un’altra sezione, mandando all’aria tutti i buoni propositi del consiglio d’istituto. Così, in realtà, piuttosto che entusiasmare i ragazzi per la bellezza del luogo (discutibile secondo la metà della popolazione scolastica), la gita era attesa esclusivamente come pretesto per saltare le lezioni e far baldoria fino a notte fonda sovraffollando le stanzette dei singoli gruppi.
Accadeva quindi che, durante questa singolare tappa del curriculum scolastico di ogni studente dell’accademia, si stabilissero amicizie e rivalità che andavano ben oltre i confini della sezione.
Ovviamente, a Megumi erano toccate le due secchione con gli occhiali. Di per sé non erano male: non parlottavano di lei alle spalle né la guardavano disgustate come i tre quarti degli altri studenti, tuttavia dibattevano esclusivamente delle lezioni di fisica della professoressa Saito e lei aveva nuovamente bisogno di ripetizioni, perciò si sentiva un’idiota quando stava ad ascoltarle. E poi si annoiava, a pelare patate per il pranzo mentre quella del terzo banco l’osservava sospettosa, ed era seccante dover tenere i capelli sciolti per coprire il collo, oggetto degli sguardi più curiosi. Durante il pranzo, un tipo della sezione tre le aveva chiesto se le andava di far visita a lui e ad i suoi due compagni di gruppo durante la notte, visto che “era abituata a questo genere di cose” e lei aveva sentito la gola e gli occhi pizzicare tanto che era dovuta correre in bagno e prendere una pillola in più. Le ragazze puntavano il dito contro di lei e storcevano il naso, i ragazzi sghignazzavano, qualcuno era meno crudele e le rivolgeva occhiate compassionevoli, che lei non accettava. Se aveva qualcosa da dire, la riferiva soltanto alle insegnanti, evitava invece accuratamente ogni occasione di rimanere sola con i professori, sia perché non voleva alimentare ulteriori voci di corridoio, sia perché in cuor suo li temeva profondamente.
Tuttavia non si sentiva sola, nient’affatto.
Possedeva un’ombra che la seguiva ovunque andasse, ogni volta che la sua sezione era al completo. Shirabu l’aveva salutata frettolosamente quando erano saliti sull’autobus, e null’altro. Da allora, Megumi lo scorgeva sempre con la coda dell’occhio, che fosse solo o circondato da altri non importava: parlava poco e l’osservava molto, come se avesse da dirle il mondo, ma non trovasse il coraggio e le parole. A lei non dava fastidio: non era né uno di quelli che giudicavano, né di quelli che sghignazzavano. Shirabu era uno di quelli che taceva e a Megumi piacevano le persone così.
Arisu, per conto suo, aveva tenuto fede alla sua promessa: piccola com’era nessuno si accorgeva che alla sezione quattro si aggiungesse talvolta una studentessa in più. Trotterellava attorno a Megumi appena poteva, come un cane da guardia, pronta a ringhiare contro chi sorprendesse a spettegolare.
Così la mattina seguente avevano piantato in asso i propri rispettivi gruppi e si erano avventurate in due sul pendio della collina. Il premio per chi toccava per primo la cima del monte era la completa astensione dalle incombenze dell’autogestione. L’idea di non lavare i piatti della mensa ed i gabinetti doveva attrarre parecchio la maggior parte degli studenti, se il primo tratto della salita era tanto affollato da obbligare a sgomitare per poter vincere la concorrenza. A Megumi e ad Arisu non interessava molto l’esenzione dalle faccende, in particolare la prima alzava il passo solamente per allontanarsi dal grosso della scolaresca, che era stanca di sentir bisbigliare di continuo. La seconda, invece, si arrampicava fra i cespugli come l’animale selvatico che doveva essere stata in una vita precedente e Megumi doveva faticare – ingombrante com’era – per starle dietro.
Il percorso, in altri frangenti, sarebbe dovuto essere affascinante: il sole di mezzogiorno filtrava attraverso le foglie dei pioppi e dei faggi che assistevano, ogni anno, al passaggio di un centinaio di ragazzini con indosso la stessa tuta viola. Un particolare uccello cinguettava insistentemente su un ramo di castagno, probabilmente seccato da tutto quel viavai di ragazzi rumorosi, ma né Megumi né Arisu avrebbero mai saputo dire a quale razza appartenesse. L’aria era fresca e profumava di erba, e man mano che si avvicinavano alla cima, l’atmosfera si faceva sempre più silenziosa e gli abeti sempre più numerosi. L’idea era quella di fermarsi al tempio ad un centinaio di metri dalla meta e consumare lì il pranzo a sacco che avevano nello zaino.
«Spero che non ci sia nessuno vicino al tempio adesso.» confessò Megumi scavalcando un grosso ramo d’abete che il vento doveva aver tirato giù «Vorrei poter pranzare in pace. Ieri sono rimasta a digiuno, per colpa di quelli stronzi.»
«Non devi ascoltare quello che dicono, Megumi-chan. Sanno solo la metà della storia, condita di pettegolezzi. Alla gente piace tenerti in considerazione quando le sei utile, quando essere tuo amico è una questione di prestigio. Sei fantastica finché hai successo e ti fai in quattro per loro. È successo anche a me, vedrai che per te sarà la stessa cosa.»
«Anche a te?»
«Ecco, sì.» la voce di Arisu tremò lievemente «Lo scorso anno, quando ero ancora alle medie.»
«C’entrano i tuoi capelli rosa?»
L’altra rise, ma si trattava di un riso colmo di amarezza. «No, quelli sono venuti dopo.»
«E allora cosa ti era successo?»
Arisu smise di avanzare lungo il sentiero sconnesso, Megumi fece altrettanto, in attesa del responso dell’amica. La coinquilina sollevo le spalle e scosse il capo, poi alzò l’indice in sua direzione.
«Mi sei successa tu.» ammise «La nostra scuola lo aveva vinto sempre quel torneo, io avevo la reputazione di essere imbattibile. Mi adoravano tutti! La coach, le mie compagne di squadra, il mio ragazzo, i miei amici! O almeno, quelli che credevo che lo fossero. Facevo qualsiasi cosa per loro, tolleravo anche che mi chiamassero Scoiattolo, era un nomignolo che faceva tremare le migliori attaccanti delle squadre avversarie. Tutte, tranne te.»
Negli ultimi tempi, a causa delle vicende che avevano coinvolto Megumi, i trascorsi fra le due erano passati in secondo piano, sepolti da ben più contingenti questioni. Arisu stessa aveva permesso che lei se ne dimenticasse, sforzandosi quanto più possibile di far finta di nulla dopo la discussione sorta al primo giorno di convivenza. Adesso riemergeva con tutta la sua forza e Megumi non si sentiva affatto in grado di farci i conti. Qualche mese prima non si sarebbe preoccupata dello stato d’animo di Arisu, in quel momento invece, finì per appesantire ancora di più il suo fardello di colpe.
«Sono stata crudele con te» ammise fra i denti «ingiustificabile.»
«Ora è tutto passato» la rassicurò l’altra «Davvero, è tutto a posto.»
«Faresti bene ad odiarmi, invece.»
«L’ho fatto, sai? Per il primo mese, quando nessuno mi parlava più nei corridoi ed io non mi fidavo più di loro.» spiegò Arisu riprendendo ad avanzare lungo il sentiero, Megumi la imitò «Ti ho detestata con tutto il mio cuore. Mi avevano parcheggiata in panchina, le mie compagne non mi volevano nemmeno nella squadra B durante gli allenamenti. Avevo terrore di ogni servizio, non riuscivo a difendere più niente. Ti rivedevo in ognuna di loro, così ho lasciato il club, volevo lasciare anche la pallavolo.»
«Allora perché sei qui?»
Ancora una volta Arisu scosse il capo, come se stesse per dire la cosa più ovvia del mondo. Il vento scosse i rami dell’abete sopra di lei, da cui piovve una generosa quantità di aghi ingialliti e sottili.
«Per te.» disse.
«Scusa, ma non capisco.» balbettò perplessa «Mi odi eppure sei venuta qui per me?»
Le guance dell’altra si tinsero di un rosa molto simile a quello dei suoi capelli.
«Mi dicevo che se anche al liceo avessi ripreso a giocare con una nuova squadra, prima o poi ci saremmo scontrate nuovamente, e tu mi avresti portato via ancora una volta la fiducia delle mie nuove compagne. Eri come un muro enorme contro cui continuavo a sbattere la faccia, ero ossessionata da te, non riuscivo a pensare o a parlare d’altro. Ad un certo punto ho pensato che c’era un altro modo per far sì che non ci scontrassimo più, a parte lasciare la pallavolo: essere nella tua stessa squadra. È stata una rivelazione! Ho iniziato a studiare per il test di selezione ed ho ritrovato l’entusiasmo ed un senso a ciò che facevo. Ho capito che io ho sempre voluto giocare con te, dal primo momento, ed era quel desiderio a torturarmi. Quando ad aprile sono entrata nella palestra con il modulo d’iscrizione al club e ti ho vista lì… ho dovuto faticare per non commuovermi.»
Megumi ripensò all’inchino frettoloso che Arisu le aveva rivolto a settembre, quando lei era ancora troppo imbarazzata per parlarle con disinvoltura. “E chi ti scorda?” le aveva domandato con il sorriso che Megumi aveva connotato di risentimento dolorosamente vivo. Quel giorno aveva interpretato ogni sguardo o gesto che Arisu le rivolgeva come un tentativo di suscitare in lei dei sensi di colpa, ora scopriva invece che la compagna di squadra era semplicemente emozionata. Questa spiegazione, fra l’altro, giustificava il repentino cambio d’umore del giorno successivo, quando pareva che l’altra avesse maturato l’improvvisa voglia di saltellare di gioia: non c’era stato nessun cambio d’umore, Arisu era sempre stata felice di rivederla.
«Dovresti scegliere meglio le persone per cui provi ammirazione.» commentò cercando di rinsaldare alla men peggio le vistose falle nella sua presunta facciata impassibile «Soffri di sindrome di Stoccolma?»
«Devi rovinare sempre tutto?» la rimbeccò Arisu, ma non c’era traccia di disappunto nella sua voce.
«Mi dispiace essere stata una fregatura.» si scusò allora Megumi, il cuore un po’ più leggero «Non sono affatto un modello a cui guardare, al massimo sono l’esempio di cosa non si fa.»
«Non ho mai detto che tu fossi il mio modello da imitare, a meno che in realtà tu non ti chiami Xiao Lu[2], questo cambierebbe tutto.» precisò Arisu «Io volevo te come compagna di squadra, e sì… sei stata una bella fregatura, dal momento che hai perfino smesso di giocare. Però negli ultimi tempi non sei male come amica, quasi non ti riconosco. Dai, dimmi una cosa cattiva delle tue.»
«Io non dico cose cattive!» protestò, poi si corresse quando l’altra sollevò un sopracciglio «O almeno non le dico a comando.»
«Io conosco un’altra versione della storia.»
«Se stai cercando di fare una battuta non ti è riuscita.»
«Sono un libero, non posso andare al servizio… perciò perdonerai la mia assoluta mancanza di familiarità con le battute.»
«Questa ti è già venuta meglio, anche se pecca di originalità.»
«Che ne sai tu di umorismo?» la punzecchiò Arisu divertita, Megumi si lasciò stuzzicare di buon grado.
«Sicuramente più di quanto ne sappia uno scoiattolo insipido come te.»
«Eccoti qui, mi eri mancata!»
«Sei proprio impicciosa.»
Oltre l’ultima ansa del sentiero sterrato, il tempietto tanto agognato si lasciò scorgere. Lo stomaco di Megumi brontolò con prepotenza al ricordo dei panini nello zaino, e lei fu felice di non incontrare nessuno nei dintorni. Si era quasi convinta che il suo desiderio di pranzare in solitudine fosse sul punto di essere realizzato, quando si accorse delle due voci femminili che provenivano dall’area di sosta.
«Peccato, è già occupato…» imprecò Arisu prima che potesse farlo personalmente.
«Parla piano!» l’ammonì premendosi l’indice sulle labbra «C’è una che piange!»
«Che piange?» ripeté l’altra dubbiosa.
«Sì, ascolta!» sussurrò imperativa.
Megumi non avrebbe saputo dire perché quelle voci le suonassero familiari, ipotizzò che si trattasse di qualche compagna di classe o inquilina dello stesso piano. Fatto stava che la ragazza che piangeva doveva essere davvero disperata: i suoi lamenti alternavano il dolore all’ira senza vie di mezzo, singhiozzava tanto che era difficile comprendere che parole stesse pronunciando, lei ne afferrò appena tre, ed erano tutti improperi irripetibili. Lo sguardo di Arisu si accese di rivelazione non appena la seconda voce, più dolce e controllata (seppure l’acutezza del tono tradisse una punta d’apprensione), intervenne per cercare di consolare la sciagurata.
«È Kaori-chan!» annunciò a mezza voce.
«Chi è? Una tua compagna di classe?» domandò Megumi incapace di capire perché si fosse eccitata tanto. L’altra, per tutta risposta, aggrottò le sopracciglia.
«Kaori Nonaka, primo anno, schiacciatrice laterale. Hai dimenticato proprio tutto del club, eh?»
Megumi arrossì appena. «No che non l’ho dimenticato, e che mi sono sempre riferita a lei per cognome. Non pensavo che tu e la grassottella foste diventate tanto amiche da chiamarvi per nome.»
«È gelosia quella che leggo fra le righe?» cantilenò Arisu assottigliando gli occhi nocciola.
«Certo che no!» si affrettò a replicare subito «Si tratta solo di un’osservazione, perché dovrei essere gelosa del fatto che voi siate amiche?»
«Megumi-chan, non devi essere gelosa del fatto che qualcuno abbia fatto amicizia con me prima di te.»
«Infatti ti ripeto che non lo sono, se non siamo diventate amiche prima è perché non l’ho voluto, pace.» spiegò impacciata, anche se un po’ le rodeva realmente che Arisu avesse un’altra amica oltre lei. «E l’altra chi è?»
«Mai sentita.» sentenziò Arisu con serietà.
«Io invece sì…» ammise Megumi pensosa «Il punto è… dove?»
«Andiamo a vedere, forse possiamo dare una mano!» propose l’altra.
«Ma sei matta? Se una piange è per cose personali, non puoi piombare lì e farti i fatti suoi…»
«La povera Kaori mi sembra molto in difficoltà.»
«Sono certa che la tua povera amica saprà venirne fuori da sola.»
«Megumi-chan, se andiamo lì forse può diventare anche amica tua.»
«Non essere ridicola, non ho bisogno di altre amiche, né tantomeno di altra gente che faccia parte di quel club.»
Ma Arisu non aveva alcuna intenzione di ascoltarla: la prese per un polso e suo malgrado si ritrovò un istante dopo nel bel mezzo dell’area di sosta, gli occhi piantati su Nonaka e sulla misera figura rannicchiata su un tronco accanto a lei, i capelli neri e lucidi che ne coprivano il volto come quelli della protagonista di un noto film dell’orrore.
«Kaori-chan, perché l’hai fatta piangere?» esordì Arisu senza troppi mezzi termini.
«Quella è Ikeda?» domandò invece Megumi prima ancora che Nonaka potesse obiettare di non avere alcuna colpa. La ragazza accanto a lei sollevò lentamente il capo e scostò i capelli lisci dalla fronte, scoprendo gli occhi sottili e allungati, ora gonfi di lacrime.
«Andate via!» ringhiò in loro direzione.
«È davvero lei!» esclamò Arisu sorpresa «Ma cosa è successo?»
Nonaka strascicò la pianta del piede sinistro per terra, a corto di parole. Con un sorriso tirato cercò di spiegare: «Poco fa sono passati di qui Nobuhara e la sua nuova ragazza.»
«Quella troia!» sbottò nuovamente Ikeda riprendendo a singhiozzare «Si tenevano per mano, capisci? Per mano! Gliele taglierei, quelle mani!»
«Mikoto-chan, non essere così volgare… ci sono altre persone adesso…»
«Che se ne vadano!» strillò furente «Sono qui per compiacersi di me? Per raccontare che anche la strega piange?»
«Ma nessuno si compiace di vederti così per colpa di Nobuhara, Ikeda.» intervenne Megumi «Mi dispiace molto che tu stia così per uno come quello lì, nessuna dovrebbe stare così male per quello lì né per nessun altro. I maschi sono disgustosi.»
Ikeda smise di singhiozzare e rivolse uno sguardo indecifrabile a Megumi. Soffiò poderosamente il naso nel fazzoletto raggrinzito e, dopo secondi di silenzio lunghi quanto ore intere, batté la mano destra sulla parte del tronco libera, per farle cenno di sedersi accanto a lei. La ragazza cercò lo sguardo di Arisu, perplesso quanto il suo, poi quello incoraggiante di Nonaka. Così finì accucciata accanto alla strega, in bilico sul tronco, chiedendosi in quale modo avrebbe dovuto piegare le gambe per stare comoda. Ikeda la scrutava con curiosità, finché non si decise a parlare:
«Non si fa che parlare di te.» disse di punto in bianco «Quello che dicono è vero?»
«Dipende da cosa dicono.» obiettò già infastidita.
«Che te la facevi con Hattori per rimanere nella squadra.»
Non aveva fatto tutta quella strada per sentirsi giudicare da Ikeda, perciò Megumi valutò di alzarsi ed andar via prima che la rabbia prendesse il sopravvento. Arisu schiuse le labbra per difendere la compagna di stanza, ma entrambe furono interdette appena in tempo.
«Io lo sapevo.» aggiunse Ikeda tirando su con il naso «E sapevo anche che era un violento. Vedevo come ti guardava, era nauseante. L’ho visto metterti le mani addosso dopo l’amichevole contro il liceo Yamanaka e per giorni mi sono tormentata: volevo denunciarlo al consiglio d’istituto, ma ho commesso l’errore di parlarne prima con Ren e lui mi ha proibito di immischiarmi nella vicenda. So che adesso è tardi, ma se la mia testimonianza può essere ancora utile, ti prego di tenermi in considerazione.»
«Quindi tu hai visto Hattori molestare Megumi» ripeté Arisu incredula «E non ne hai fatto parola con nessuno solamente perché Nobuhara ti ha vietato di farlo?»
La domanda di Arisu era lecita, ma fra le parole di Ikeda si nascondeva una questione molto più profonda, per giunta non molto dissimile da quanto Megumi stessa avesse vissuto negli ultimi tempi.
«Nobuhara decideva cosa dovevi o non dovevi fare?» la domanda le sfuggì fra le labbra in un sussurro e gli occhi di Ikeda s’inumidirono di nuovo.
«Pretendeva che non parlassi con altri ragazzi all’infuori di lui, dopo che ci siamo messi insieme ha allontanato da me tutti i miei amici e mi ha impedito di legarmi ad altre persone, comprese voi del club. Diceva che mi avreste messo in testa idee strane e mi sarei rovinata. Ogni volta che mi ribellavo minacciava di lasciarmi, cosa che poi ha fatto ugualmente. Io tolleravo tutto, ero troppo innamorata.»
«Quindi era questo il motivo!» esclamò Nonaka spazientita. Megumi personalmente non credeva che Nonaka potesse perdere la pazienza ed infuriarsi come i comuni mortali, ma in quel momento era inequivocabilmente fuori di sé. «Facevo bene, allora, ad insistere con te! Ci voleva Sakurai per farti sputare il rospo? È da quando sei tornata che cerco di farti parlare, di tirarti su di morale, e solo ora ne parli? Come potevo capirti, se continuavi a stare zitta?»
«Kaori-chan, ti sei arrabbiata?» mormorò Ikeda dubbiosa.
«Kaori-chan, ti sei arrabbiata?» ripeté l’altra scimmiottandola «Sì, Kaori-chan è incazzata nera! Noi ti avremmo messo in testa idee strane? Sarebbe stato meglio, se ci avessi permesso di farlo! Lo avresti lasciato tu, quel grandissimo pezzo di… di…» si trattenne appena in tempo «Oh, se solo un’altra volta ti sorprendo a sospirargli dietro, io…»
«Tu cosa, Kaori-chan?» continuò Ikeda con serietà «Sei troppo buona per prendermi a schiaffi.»
«Allora smetterò di parlarti.»
«Se può essere utile due schiaffi posso darteli io, credo di essere cattiva quanto basta per farlo.»
Tutte e tre rivolsero lo sguardo ad Arisu, come attendendo che anche lei avanzasse una proposta, ma la ragazza tese le braccia in avanti per difendersi e voltò con uno scatto la testa dall’altro lato.
«Io non farò proprio nulla!» precisò intimorita «Una volta mi hai fatta inciampare sulla panca nello spogliatoio!»
A quel punto Mikoto Ikeda scoppiò in una risata sincera e cristallina, che Megumi non aveva udito mai da quando si conoscevano. La guardò esterrefatta premersi le mani sullo stomaco perfettamente piatto e curvarsi in avanti. Aveva cominciato a dubitare della sanità mentale di Ikeda, quando si scoprì anche sé stessa a ridere senza un motivo preciso e presto si accorse che anche Arisu e Nonaka erano state contagiate dalla loro ridarella. Risero così tanto che le facevano male gli addominali ed il ritrovato buonumore le mise una fame da lupi. Nessuna di loro menzionò più Ren Nobuhara e la sua nuova fiamma, né – con grande sollievo di Megumi – Ikeda insistette oltre sull’argomento Hattori: per mezza giornata, riuscì a sentirsi una ragazza come tutte le altre, che parla e ride di argomenti frivoli quanto solenni, come l’ultimo paio di scarpe in saldo al negozio appena fuori città, che Nonaka aveva mostrato tutta tronfia sullo schermo del suo cellulare quasi totalmente scarico.
Solo che – e se ne rese conto solo quando il sole prese a calare ed il cielo tingersi di un rosso insopportabile – tanto normale quel quartetto non doveva essere: dopo aver raggiunto la vetta, s’erano fatte persuadere da Arisu ad abbandonare il sentiero del ritorno in nome di una fantomatica scorciatoia ed erano finite in mezzo al bosco, o forse continuavano a girare in tondo come delle cretine.
«Ricordami, perché mi sono fidata di te?» si lamentò Megumi esausta dopo l’ennesimo giro.
«Perché conoscevo un modo per accorciare i tempi?» ribatté ironica Arisu.
«Accorciare i tempi?» ripeté stridula «Se avessimo seguito il percorso indicato saremmo giù da un pezzo! Se non te ne sei accorta, tra poco non si vedrà più nulla!»
«Me ne sono accorta, grazie! Useremo la torcia del cellulare!»
«Se hai ancora della batteria, perché non la usi per chiamare aiuto?»
«Perché non c’è copertura, genio!»
«Ragazze, per favore… mi sta venendo mal di testa…» le avvisò Ikeda.
«Non è il tempo né il luogo giusto per litigare…» intervenne Nonaka.
«Non era nemmeno il tempo ed il luogo per giocare all’esploratrice!»
«Ritorniamo sul sentiero, allora!»
«Tra meno di mezz’ora sarà buio pesto! Come credi di trovarlo?»
«Basta!» gridò Ikeda seccata «Siete insopportabili! Adesso lasciate fare a me e statemi ad ascoltare: Kaori-chan, raccogli delle foglie… che siano secche! Hiromi, dalle una mano e procurati un paio di legnetti sottili.» puntò quindi il dito contro Megumi, poi indicò il ramo più basso del pino sopra di loro «Sakurai, io e te staccheremo questo qui.»
~
«Guardatelo, ha la faccia da stupido.»
«Non ti sente nemmeno, Takahiro. Sorride allo schermo come un deficiente e basta.»
«Iwa-chan, ti ho sentito!»
«Ah, quindi non sei ancora del tutto rincoglionito?»
«Certo che no! Sono solo felice.» ammise Tooru tutto impettito «Mi ha mandato una foto di dove sono ora!» aggiunse mostrando il telefono agli amici.
«Kaihaku, gran bella meta…» commento Matsukawa sarcastico «A parte il tempio cosa c’è a Kaihaku?»
«Niente, penso. Ci sono gli alberi e le zanzare.» rispose con schiettezza Hanamaki «Che gran fregatura, se pagassi io quella retta lì pretenderei di più che una gitarella in mezzo ai boschi. E se ti perdi nei boschi?»
«Solo uno sprovveduto uscirebbe dal sentiero.» obiettò Iwaizumi «Tipo il nostro Oikulo, ecco lui sarebbe uno di quelli che esce dal sentiero e si perde nel bosco. Ed io sono uno di quelli che ce lo lascia.»
«Vorrei poterti credere Hajime.» ridacchiò Hanamaki rigirandosi fra le mani il telecomando della televisione della clinica «Il problema è che ce lo riporti sempre indietro, non saresti in grado di lasciarlo lì.»
«D’accordo, la prossima volta che siamo dalle parti di un bosco avvisatemi, farò del mio meglio per lasciarcelo.»
«Ah ah, molto divertente!» finse irritato Tooru «Vi farà piacere sapere, invece di fare congetture insensate su di me, che questo pomeriggio Gumi-chan s’è fatta convincere a lasciare il sentiero e si sono perse.»
Hanamaki lasciò perdere il telecomando e si portò le mani al petto fingendo commozione, poi con piglio volutamente effeminato annunciò: «Io voglio essere la damigella!»
Tooru lo fulminò con lo sguardo.
«Sì, so cosa stai pensando.» aggiunse allora l’amico «Che il mio colore di capelli condiziona fortemente la scelta della tinta dell’abito. Ebbene sì, hai ragione, ma penso che il lavanda mi starebbe divinamente.»
«Puoi giurarci!» confermò Matsukawa.
«Oggi siete tutti particolarmente simpatici.» considerò con disappunto «E comunque il lavanda mi fa profondamente schifo, levatelo dalla testa.»
«Quindi la tua Sakurai è tornata a scuola, ha smesso di giocare al Galaxy, vi sentite tutti i giorni e verrà a trovarti lunedì prossimo, di ritorno dalla gita.» ricapitolò Hanamaki «Dov’è l’inganno?»
«Ora è parcheggiato nel lato più oscuro della friendzone. Ed è ammirevole che si sia offerto di sua spontanea volontà.»
La spiegazione semplice e concisa di Iwaizumi gli procurò una spiacevole fitta gelida al petto. In tutta onestà, non si era pentito di essersi proposto come amico, ma si augurò che Sakurai non lasciasse impolverare i sentimenti che nutriva per lei, dopo quell’improvvisa svolta nel loro rapporto. Si domandava più volte al giorno se una ragazza potesse mantenersi in contatto così frequentemente con un semplice amico ed il suo cuore continuava a bisbigliargli che «No, non lo farebbe
Ma Sakurai trascendeva – lo aveva imparato a sue spese – dalle etichette femminili. Quindi, a cosa credere?
«La prossima volta rimedia un appuntamento per quando esci da qui.» suggerì Matsukawa notando forse la sua tristezza «Portala in quel parco divertimenti di cui avete parlato. Se non vuole venirci, dille che vogliamo andarci anche noi… ad un certo punto ci defileremo e vi lasceremo soli.»
«Esco di qui ad ottobre… saremo sotto i preliminari dell’Harukou e voi dovete allenarvi. Non potete permettervi di saltare le attività del club.»
«Oikawa, sei il mio capitano preferito.» annunciò Hanamaki con solennità «Perciò le chiederai di andarci di lunedì.»
«Mi risponderà di no in ogni caso.»
«Si può sapere perché sei così pessimista?» sbottò infine Iwaizumi «Non è scritto da nessuna parte che rifiuterà per forza! Sia chiaro che a me Sakurai non sta nemmeno tanto simpatica, ma m’innervosisce che tu ti fasci la testa prima ancora di batterla! Dieci minuti fa leggevi i suoi messaggi sprizzando felicità, adesso sei piombato nello sconforto… decidi cosa fare, no?»
«Iwa-chan, non lo faccio apposta… è che succede.»
«Allora cerca di non farlo succedere più: per colpa di Sakurai sei stato picchiato in un corridoio, sei stato coinvolto e rimasto ferito in una rissa con uno che poteva pure sfondarti il cranio, hai peggiorato il tuo ginocchio e bruciato ogni possibilità di giocare all’Harukou. Sia chiaro che se ti accade altro dovrà rispondermene direttamente, perciò vedi di non deprimerti.»
~
Erano già le dieci e mezza di sera quando tutte le stoviglie furono perfettamente lucidate ed impilate l’una sull’altra. A quel punto la professoressa Suzuki, dopo aver verificato che tutte le faccende fossero state correttamente portate a termine, consegnò loro un sandwich per ciascuna, l’unica portata che avrebbe costituito la loro misera cena.
Kaori ne fu parecchio delusa: dopo tutta la fatica di scrostare i tegami sporchi di grasso bruciato, aveva sperato di venir premiata con gli avanzi del pollo arrosto ed invece doveva accontentarsi di un panino minuscolo. Megumi osservò Mikoto separare le due parti del proprio sandwich ed estrarne disgustata l’unica e sottile fetta di carne che vi era contenuta.
«Qualcuno la vuole?» propose con voce rauca.
Kaori si affrettò a prenderla ed aggiungerla all’imbottitura del proprio panino, raddoppiandone lo spessore. Nel panino di Mikoto, d’altro canto, erano restate solo le verdure cotte al vapore.
«Come puoi farti bastare quello?» domandò allora Megumi contrariata «Non dirmi che sei a dieta o altre cose simili, perché sarebbe ridicolo.»
«Sono vegetariana.» spiegò con una tranquillità preoccupante «Hai qualche problema?»
«Megumi-chan non ha proprio nessun problema!» s’immischiò Arisu prima che l’altra potesse replicare e scatenare un eventuale putiferio.
«Come mai?» continuò invece Megumi sinceramente interessata.
«Mi piacciono gli animali, mi dispiace mangiarli.»
«Capisco. Io avevo un cane, una volta. Ci ero molto affezionata.»
«Io ho tredici gatti.»
«Credo di aver capito male.»
Mikoto sembrò divertita. «Hai capito bene, ho tredici gatti. Il mio preferito è Quattro
«Come fai a tenere tredici gatti in casa?» obiettò Arisu sconvolta.
«Mikoto ha una bella villetta in città, con un giardino molto grande.» intervenne Kaori a bocca piena «Perciò può lasciarli liberi di fare ciò che vogliono.»
«Tutti sono randagi che ho raccattato. I miei sono veterinari, a volte capita che dei volontari ce ne portino alcuni per sterilizzarli, e noi ce li teniamo. I gatti portano fortuna.»
«Tredici sono troppi, in ogni caso.» osservò Arisu, poi fu colta da un’improvvisa epifania «Il fatto che la tua maglia fosse la numero tredici c’entra qualcosa coi tuoi gatti?»
Mikoto non rispose e si limitò ad un sorriso ambiguo. Per quel giorno, considerò Megumi, aveva parlato abbastanza e non doveva esserci più abituata; riflettendoci meglio constatò di trovarsi nella medesima situazione, perciò fu lieta quando l’altra annunciò la sua volontà di ritirarsi per riposare. Ne seguì l’esempio immediatamente, rivolgendo un rapido inchino a lei e a Kaori e sorridendo a Risu, ancora presa dall’eventuale correlazione fra il numero di maglia di Mikoto e quello dei suoi gatti.
Attraversando di fretta il patio che conduceva alle stanze sorpassò l’ingresso alla piccola sorgente termale, dalla quale non proveniva più il chiacchiericcio festoso della sera precedente: l’orologio che portava al polso segnava le undici e mezza e non doveva esserci più anima viva. L’idea di avere quel piccolo angolo di pace tutto per sé la dissuase dal proseguire il tragitto fino alla stanza delle secchione e a sgattaiolare di soppiatto nelle terme. Si meravigliò della prontezza con cui finì per disfarsi dei propri abiti e si immerse nella vasca senza doversi preoccupare delle occhiatacce delle altre ragazze o dell’eventualità che qualche ragazzo tentasse di sbirciare fra le fessure che costellavano la parete divisoria.
Ad un certo punto si ricordò che avrebbe dovuto scrivere ad Oikawa della punizione poiché il resoconto con lui si era fermato a quando erano riuscite a tornare al coperto, poco prima che l’arrivo dei professori la costringesse a staccare il telefono dal caricabatteria. Immaginando che il suo repentino silenzio avesse potuto preoccuparlo, si rimproverò di non aver pensato di farsi viva prima di fare il bagno, poi ritorno sui suoi passi: cosa gliene importava se Oikawa si fosse tormentato? Tuttavia – cambiò idea dopo qualche minuto – era crudele tenerlo sulle spine.
Stava per riprendere l’asciugamani che aveva lasciato a bordo vasca, pronta ad uscire dalla vasca, quando la quiete fu spezzata dal tonfo di qualcosa che cadeva in acqua nel lato della piscina riservato ai maschi, simile al rumore prodotto da un tuffo, seguito dall’imprecazione sommessa di una voce che conosceva bene.
«Shirabu? Sei tu?» tentò incuriosita.
Nel silenzio teso che seguì, Megumi fu abbastanza certa di aver preso un clamoroso granchio.
«Sakurai?» domandò invece l’altro «Che ci fai ancora qui a mezzanotte passata?»
Megumi si fece più vicina al divisore, per farsi udire meglio, e anche l’altro fece altrettanto, a giudicare dal flebile scroscio dell’acqua e dall’appressarsi della sua voce. «Avevo bisogno di rielaborare la giornata.» spiegò.
«Ho sentito che insieme a tre ragazze delle altre sezioni ti sei presa una punizione per essere rimasta fuori sulla collina oltre l’orario consentito.»
«È stata colpa di Hiromi.» si giustificò «Ha insistito per lasciar perdere il sentiero e cercare delle scorciatoie nella boscaglia, ed alla fine ci siamo ritrovate in mezzo al nulla, senza copertura per i cellulari e alla fine anche con la batteria scarica. In breve, se non ci fosse stata Ikeda non saremmo più rientrate, sarebbero dovuti venire a cercarci.»
«Ikeda non è quella che stava con Nobuhara? Giocava da centrale, no?»
«Proprio lei, pare che abbia un buon senso dell’orientamento. E di sopravvivenza, aggiungerei, l’ho vista costruire una fiaccola con un ramo, foglie secche e resina. Hai presente Indiana Jones, no? Stentavo a crederci.»
«Senti che roba… E dire che sembra una signorinella viziata.»
«Una sorpresa, ti giuro. Prima o poi le chiederò dove abbia imparato. Il massimo della mia sopravvivenza è accendere un falò di legnetti secchi col fiammifero.»
«Almeno tu sai accendere il falò, io mezz’ora fa ho trovato uno scarafaggio nel gabinetto e mi sono rifiutato di entrarci finché gli altri non se ne sono sbarazzati. Penso proprio che mi prenderanno in giro per il resto della mia vita.» confessò demoralizzato.
«Ti bastava schiacciarlo, no? Noi in campagna ne troviamo tantissimi, soprattutto dalle parti del torrente. Se dovessimo allarmarci ogni volta che ne vediamo uno, dovremmo piuttosto trasferirci in città.» raccontò con un po’ di nostalgia.
«Sono disgustosi, e quando gli schiacci fanno crac. Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci!»
«Mi dispiace, se ci fossi stata io, te lo avrei fatto fuori senza troppe storie.»
Shirabu la ringraziò per il pensiero, ma le spiegò che era umiliante ricorrere all’aiuto di una ragazza per uno scarafaggio: avrebbe ottenuto un effetto ancor più disastroso e le beffe si sarebbero moltiplicate in un batter d’occhio.
«Non ci sarebbe niente di male, non siamo tutti uguali. Sarebbe un buon modo di ricambiare tutte le ripetizioni che mi hai offerto.» commentò perplessa «E comunque se dovesse capitartene un altro, e ti auguro di no, che ne so… in ritiro, chiedi a Wakatoshi, è un professionista. Dovresti vederlo, li schiaccia con una noncuranza tale da risultare quasi comico.»
«Grazie per avermi offerto questa immagine idilliaca del capitano.» replicò schifato «Non ne avevo per niente bisogno.»
«È solo la bucolica quotidianità di Minamisaka e dei bei vecchi tempi.» ammise con malinconia «Fa tanto strano sentir parlare di lui come “Il capitano”, non ho mai pensato che potesse avere abbastanza carisma per un ruolo simile.»
«Il carisma si manifesta sotto forme diverse dalla semplice eloquenza.»
«Quando parlo con te mi sento sempre ignorante.»
«Sakurai, è inutile che te lo dica… se hai bisogno di altro aiuto con lo studio, puoi sempre contare su di me. Lo faccio volentieri.»
«Te l’ha chiesto il capitano, non è vero?» domandò lasciandosi sfuggire un sorriso. S’era interrogata per tanto tempo sulle ragioni dietro la gentilezza di Shirabu, fino a raggiungere la certezza del coinvolgimento di Wakatoshi. Doveva averci visto giusto, perché l’altro replicò:
«Se tu smettessi di evitarlo, potrei dire con certezza di volerti aiutare di mia spontanea volontà.»
«Quindi te l’ha chiesto davvero lui.»
«Adesso sto facendo di testa mia. Mi dispiace molto per quello che ti è accaduto, e – tanto per la cronaca – io non credo nemmeno ad una parola delle voci che hanno messo in giro su di te. Ieri quelli della sezione 3 sono stati rivoltanti con quelle battute…»
«Oggi sto scoprendo che c’è più di uno dalla mia parte, ed è una sensazione piacevole.» rispose con maggiore serenità «Grazie. E credo che accetterò quelle ripetizioni.»
«Con piacere.»
Si ritirarono per qualche minuto in silenzio, godendosi il tepore dell’acqua termale, fino a che a Megumi non fu tornata in mente la domanda che avrebbe voluto porgli prima che iniziassero a parlare di insetti molesti.
«E tu, Shirabu, perché fai il bagno da solo dopo mezzanotte e non con i tuoi compagni di gruppo?»
L’acqua si mosse d’improvviso, come se il ragazzo fosse sobbalzato. Borbottò a mezza voce qualcosa che l’altra non riuscì a comprendere molto bene, perciò gli domandò di ripetere.
«Mi vergogno a fare il bagno con gli altri.» ammise impacciato «Mi sento osservato. È lo stesso motivo per cui alla fine degli allenamenti aspetto che tutti siano andati via per fare la doccia.»
«E perché? Siete tutti maschi e tu diversamente da me non hai alcun segno inconsueto addosso, non c’è niente da osservare. Loro non guardano te come tu non guardi loro.»
«Hai centrato perfettamente il problema.»
«Non ti capisco, ti ho appena detto che non c’è nessun problema di cui curarsi.»
«Lascia perdere» sospirò Shirabu rassegnato «Vuol dire che sono bravo a dissimulare.»
Ancora dubbiosa, decise di accettare l’invito a lasciar cadere l’argomento, che il compagno di classe non sembrava affatto morire dalla voglia di affrontare. Dal momento che il sonno cominciava finalmente a prendere il sopravvento, uscì dalla vasca e si avvolse l’asciugamano attorno al petto, lo salutò e gli augurò la buona notte, prima di dirigersi verso l’uscita. Shirabu la fermò prima che potesse oltrepassarla.
«Sakurai» la pregò titubante «Non raccontare a nessuno quello che ci siamo detti sulla questione di fare il bagno, per favore. Neanche al capitano
«Ti ricordo che io non ci parlo più col tuo capitano
«E dovresti parlarci invece. E parlare di tutto tranne che di quello che ci siamo detti.»
~
Era ovvio che Arisu e Kaori, quando la sera precedente erano rimaste sole, avessero continuato a parlare di loro e, più specificamente, ad escogitare qualche espediente per persuaderle a tornare al club. Il piano dell’ultima mattina di gita scolastica, dedusse Mikoto, era far leva sulla nostalgia.
«Risu-chan, perché hai scelto di giocare proprio a pallavolo?» aprì le danze Kaori strofinando con forza la spugna su una ciotola, durante il secondo round della loro punizione «Una volta mi hai detto che hai praticato tanti altri sport.»
Arisu non piaceva a Mikoto, la trovava irritante e buonista nonostante cercasse di atteggiarsi da dura. Quindi dovette faticare non poco per nascondere il proprio stupore quando quella rispose:
«Volevo fare un dispiacere a mia mamma.»
«Ed in che modo, scusa?» la incalzò perplessa Kaori.
«Mia mamma è una di quelle donne che vestono le figlie femmine di pizzi e trine e che le iscrivono a scuole di danza contro la loro volontà. Dopo anni di ginnastica ritmica, l’unica via di mezzo che mi avesse concesso, ho iniziato a provare vari club scolastici. Alla fine non le è andata male, ho scelto la pallavolo, ma ricordo quanto fosse sconvolta quando le ho annunciato di voler fare il portiere di calcio.»
«Saresti stata un ottimo portiere» commento sarcastica Mikoto «Sarebbe bastato mirare nell’ampio spazio compreso fra la traversa e la tua testa.»
«Be’, tu ce l’avresti sbattuta, la testa!» ribatté l’altra indispettita.
«So che da lì in basso può sembrare tutto più imponente, ma per arrivare a due metri e quarantaquattro centimetri mi manca ancora parecchio. Lo prenderò per un complimento.»
«Prendila come vuoi!»
«E poi» intervenne Megumi con l’intendo di sedare le acque «Hai cambiato idea?»
Arisu tornò tranquilla immediatamente, come se l’altra avesse spento un interruttore.
«Sì, quando ho scoperto che avrei potuto giocare in difesa a pallavolo. Torno a casa ricoperta di lividi e mia madre s’infuria ogni volta, dice che ho la pelle chiara, i capillari deboli e cose di questo tipo… è la mia piccola vendetta dopo anni di forzature. Adesso amo quello che faccio e sono decisamente più brava come libero che come ginnasta. Per la cronaca, ero penosa.»
«Quindi giochi a pallavolo per ricoprirti di lividi? Molto nobile, vagamente masochista.» ritornò ad osservare Mikoto, intenzionata come non mai a smontare la loro strategia di persuasione. In verità non lo desiderava perché determinata a non riprendere più le attività sportive, ma per il semplice gusto di contraddire Scoiattolo.  Kaori, tuttavia, finse di non aver sentito ed aggiunse prontamente:
«Tu perché invece hai scelto la pallavolo, Mikoto-chan
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.»
«Dai, sono curiosa!»
«Già» ribadì Arisu come se avesse già fiutato il suo imbarazzo «Perché?»
«Perché sono alta.» tagliò corto.
«Avresti potuto iscriverti a basket.»
«Non voglio sentir mai più parlare di basket, intesi?»
«Dai, non essere timida, Mikoto-chan!» protestò Kaori.
«Timida, io? Ma mi hai vista?» replicò contrariata prima di schioccare la lingua.
«Allora che male c’è?»
Bruciante di vergogna, Mikoto inspirò ed espirò profondamente. Poi, con un filo di voce, sussurrò tutto d’un fiato:
«Quando avevo dodici anni ero pazza di una serie tv in cui la protagonista giocava a pallavolo.»
«Tutto qui? Questo era il tuo grande segreto?» domandò Megumi perplessa.
«Molto nobile la tua ragione, Mikoto-chan.» la canzonò Arisu, finalmente giunta al momento del proprio riscatto «Vagamente infantile.»
«Di buono c’è che conoscerla non vi aiuterà a comporre nessun sermone di convincimento. Siete finite dritte dritte in un vicolo cieco.» annunciò Mikoto soddisfatta.
«In che senso sermone?» intervenne Megumi incrociando le braccia.
«Queste due stanno cercando di convincerci a tornare al club, ma farebbero bene a lasciare da parte la retorica perché non è affatto il loro forte.»
«Ma cosa dici, Mikoto-chan?» balbettò Kaori arrossendo «Era solo un argomento qualsiasi!»
«E Kaori è una pessima attrice, non c’è dubbio.»
«Le cose stanno veramente come dice Mikoto?» tuonò Megumi alle due cospiratrici.
Mikoto guardò le due compagne farsi sempre più piccole dinanzi all’interrogatorio dell’altra e per poco non sentì anche lei l’esigenza di fare qualche passo indietro. Il fatto era che Megumi Sakurai nonostante fosse stata privata di buona parte del suo smalto e fosse ultimamente vittima di pettegolezzi e prepotenze, continuava a destare in loro quel sentimento di inquietudine che da sempre la circondava in campo. Fin da quando era poco più che una bambina, Sakurai era stata imprevedibile, pronta a scattare con arroganza e crudeltà contro chiunque gliene desse occasione ma allo stesso tempo perno imprescindibile della formazione sul quale contare ogni volta che si finiva negli angoli. Emanava dunque un’aria di autorevolezza poco ortodossa, ed era forse proprio questa a scontrarsi con l’autorità ben più legittima di Kurihara. Felice di essere dalla stessa parte di Megumi, si godé lo spettacolo.
«Pensavo ne avessimo parlato abbastanza!» rimproverava adesso in direzione di Arisu «Non ho alcuna intenzione di ricominciare, ed è scorretto da parte tua cercare di incastrarmi coi tranelli!»
«Sono stata io ad influenzarla!» s’intromise coraggiosamente Kaori, ma Megumi la zittì con uno sguardo e ritornò a rimbeccare la compagna di stanza.
Dopo dieci minuti di quella tiritera – e vagamente preoccupata che Kaori potesse scoppiare in lacrime – Mikoto decise di interromperla. D’altro canto era curiosa: quanto avrebbe potuto ottenere la nostalgia su una simile personalità selvaggia?
«E tu, Megumi… perché hai iniziato a giocare?»
«Che fai, passi al nemico?»
«Semplice curiosità.» la sfidò con un sorriso. Non aveva alcuna intenzione di mettersi contro di lei, le stava perfino simpatica.
«Per un amico.» rispose alla fine «Aveva bisogno di una compagna di giochi.»
«Ora non ne ha bisogno più?»
«S’è fatto altri compagni di giochi.» spiegò con amarezza.
«Come è giusto che sia.» aggiunse Mikoto «Credo sia il caso che te ne faccia anche tu.»
Avrebbe voluto chiudere la bocca aperta di Kaori, che con occhi sgranati guardava incredula in sua direzione, prima che le venisse troppo da ridere. Eppure Mikoto non si stava affatto prendendo gioco di Megumi: era estremamente seria e si ritrovò a pensare che lei stessa avrebbe fatto bene a seguire il proprio consiglio. Suo malgrado dovette considerare che Kaori sapeva essere indirettamente persuasiva.
«Ci sono compagni di giochi migliori di me.»
«Come è giusto che sia.» ripeté.
«Che gioco stai facendo?»
«Puoi anche rimproverarmi, io non ho affatto paura di te.»
«Non ho mai voluto che nessuno avesse paura di me.»
«Bugiarda. Quella lì» ed indicò Arisu, che la supplicava silenziosamente di smetterla «trema ancora dallo scorso inverno.»
Punta sul vivo, l’altra strinse le labbra in silenzio. Mikoto fece un sorriso di sbieco.
«Ma non ho alcuna voglia di litigare con te, sarebbe un peccato perdere una compagna di giochi così.»
«Non mi risulta che tu abbia intenzione di giocare.»
«Non si sa mai, potrei fare una maratona di quella serie tv e ritrovare l’entusiasmo.»
«Fai quello che vuoi.» si arrese «Nessuno avrebbe da ridire se tu tornassi al club, sono a corto di membri.»
A Mikoto sembrò che quell’ultima conclusione di Megumi straripasse di rimpianto ed invidia, sottolineava che per lei le cose stavano in modo diverso e che nessuno l’avrebbe voluta nuovamente al club dopo quanto era accaduto. Tuttavia, in nome di quella nascente amicizia, decise di non oltrepassare la soglia della discrezione e lasciò che l’altra riprendesse ad occuparsi del pavimento della cucina, non prima di aver rassicurato Scoiattolo di non essere poi così delusa da lei come le aveva fatto pensare.

 
 

[1] Il Monte Kaihaku è una località d’invenzione.
[2] In questo universo immaginario, Xiao Lu è il nome del libero della Nazionale cinese maschile di pallavolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10: Naomi Kato ***


Capitolo 10

Naomi Kato
 

Ricordate quando ho detto che avrei pubblicato con più costanza? Bene, mentivo, o forse sono semplicemente costante nella mia incostanza. Spero possiate perdonarmi anche se non sto rispondendo alle recensioni! Sappiate che le leggo tutte e mi fa molto piacere riceverle, anche se sono una pseudo-autrice ingrata!
Le prime due parti di questo capitolo sono un flashback e si svolgono all'incirca all'altezza dei fatti raccontati nei capitoli 7,8 e 9.
Vi lascio libere di odiarmi e proseguire nella lettura di questo disastro.

Buona lettura!


 
 
Tre settimane prima.
 
Naomi Kato era sempre stata una che si prendeva tutto quello che voleva, che fosse l’ultimo pacchetto di patatine nel distributore, la convocazione in nazionale o il bel fisioterapista già fidanzato che la seguiva durante la riabilitazione. A scuola era sempre stata una peste, così suo padre l’aveva spedita all’accademia Shiratorizawa dalle medie, sperando che il prestigio dell’istituto potesse contribuire a placarne l’esuberanza. Ovviamente non era servito a nulla e lei era diventata contemporaneamente l’incubo e l’orgoglio dei professori. Se era vero infatti che era stata terribilmente vivace ed irriverente, altrettanto indubbia era stata la sua straordinarietà dietro la rete: era sempre stata la più alta della propria classe, per merito della parte californiana del suo patrimonio genetico, e sua madre l’aveva iscritta molto presto ad un corso di pallavolo. Da lì, non s’era più fermata, le scuole qualche anno dopo avrebbero fatto a gara per assicurarsela, prima che suo padre decidesse che affidarla all’accademia fosse la scelta più conveniente.
Per quanto sui banchi non rendesse affatto, eccelleva invece in ogni aspetto della pallavolo: la sua elevazione era quasi disumana, i suoi attacchi inarrestabili, le sue difese ineccepibili. I suoi muri insuperabili le erano da sempre valsi il ruolo di centrale ma, oltre alla velocità ed ai riflessi, possedeva un palleggio così preciso e pulito che alle volte serviva le altre schiacciatrici meglio di quanto facesse la sua compagna alzatrice. Di quella peculitarità aveva fatto il suo punto di forza, fingeva di attaccare quando meno ci si aspettava ed invece passava la palla ad un’altra attaccante, sbaragliando tutte le difese avversarie. Anche in nazionale, dove aveva giocato per ben otto anni, era diventata celebre per la sua versatilità.
In seguito si era rotta un malleolo durante una finale, pensava che non fosse nulla di cui preoccuparsi, che avrebbe ricominciato dopo l’intervento, quando le avrebbero tolto il gesso. Invece aveva scoperto che non avrebbe più potuto sopportare la fatica della carriera sportiva, ed aveva dovuto ritirarsi.
I primi dodici mesi li aveva trascorsi nella depressione più assoluta, oltre che nello spaesamento: cosa avrebbe potuto fare della propria vita, adesso? Con cosa si sarebbe mantenuta, una volta persa la pallavolo? Aveva convissuto con l’angoscia alle spalle finché non aveva conosciuto il suo nuovo fisioterapista ed aveva perso la testa per lui, tanto da fargli mollare la fidanzata. Con Takao aveva iniziato a considerare la possibilità di una laurea in scienze delle attività sportive, ad accarezzare l’idea di allenare e, per quanto si sforzasse di ampliare i propri orizzonti, finiva sempre a fantasticarsi nel suo vecchio liceo, seduta sulla sedia che un tempo era spettata al professor Washijou, dispensando consigli e direttive alle proprie studentesse. Fatto era che l’accademia Shiratorizawa si era rivelata sorda alle sue autocandidature, e si era ritrovata invece ad allenare bambini di una scuola elementare di provincia.
«Schifoso, viscido, pezzo di merda…» borbottò gettando con violenza nel carrello un sacchetto di spinaci surgelati. Takao si guardò attorno con prudenza e la rimise nel banco frigo, estraendone in cambio una in condizioni ancora accettabili.
«Naomi, non dovresti maltrattare le verdure surgelate: non hanno colpa.» l’ammonì riponendo con delicatezza la nuova confezione nel carrello.
«Quello lì invece maltrattava una ragazza, ti pare? Meglio gli spinaci!» sbraitò nervosa.
«Davvero, amore, dovresti smettere di pensarci! Non è affar tuo, in tutta franchezza.»
«Se avessero preso me, anziché quel porco rognoso di Isao…» ripeté per l’ennesima volta in quella mattinata «Ma poi come si fa a scegliere Isao, dico? Con tutte le squalifiche per cattiva condotta che ha collezionato quando giocava ancora? Era chiaro come il sole che fosse un violento, anche se non ti nascondo che mai avrei potuto pensare che fosse anche maniaco.»
«Questa è la settima volta che lo dici da quando hai visto il servizio in tv stamattina.»
«Non mi stancherò mai di ribadirlo. Che schifo… spero lo sbattano in carcere per il resto della vita!»
«Sei troppo ottimista, farà sì o no un paio d’anni.»
«Di certo nessuno avrà il coraggio di riassumerlo. L’accademia sta facendo proprio una magra figura, dopo anni di sconfitte penose il club femminile di pallavolo finisce coinvolto anche in uno scandalo. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il professor Washijou…»
«Non avrai intenzione di autocandidarti di nuovo? Tesoro, lo sai che poi ci stai male ogni volta…»
«Ho spedito il mio curriculum poco prima di venire qui, troppo tardi!»
«Poi non demoralizzarti se scelgono altri!»
«E chi altri dovrebbero scegliere? Dopo tutto questo scalpore, proprio nessuno vorrà occuparsi di quel club, dovranno necessariamente accettare la mia candidatura.»
La settimana successiva le aspettative di Naomi si compirono: il preside Kurihara, dopo aver atteso invano altre candidature, s’era visto costretto ad incaricare la segreteria di mettersi in contatto con l’ex-allieva; non diffidava affatto della sua bravura – nessuno sano di mente avrebbe mai potuto – ma nutriva dei seri dubbi sulla sua capacità di mantenere la disciplina della squadra.
Quando il lunedì successivo Naomi Kato comparve nel suo ufficio alle otto esatte del mattino, i capelli ricci e scuri che le incorniciavano il viso abbronzato come la criniera della Leonessa che era stata, Kurihara s’era già pentito; Naomi lo lesse con una certa soddisfazione sul viso rugoso dell’ex-insegnante ed allora gli rivolse un sorriso radioso.
«Cosa ho fatto?» sospirò allora quello passandosi una mano stanca sui capelli radi.
«È invecchiato male, professore!» osservò lei ignorando la sua lamentela.
«Signor preside, Naomi devi chiamarmi così!»
«D’accordo, signor preside!» cantilenò allora «Ma per me rimarrà sempre il professore. E sorvolerò sul fatto che lei abbia ignorato il mio curriculum tutte le volte, nonostante mi conoscesse bene.»
«Francamente non penso che tu possa essere una buona insegnante.»
«I miei allievi delle elementari adorano la maestra Naomi, provi a parlarne con loro.»
Kurihara sbatté le palpebre con perplessità.
«Alleni bambini delle elementari?»
«Certo, lo saprebbe se si fosse degnato di leggere il mio curriculum.»
Il preside si fece rosso in viso, contraddetto.
«A proposito» si affrettò ad aggiungere lei «Ho bisogno di incastrare gli orari, non ho intenzione di lasciarli per nessun motivo.»
«Ma se hai già un lavoro» domandò Kurihara incrociando le mani sulla scrivania «per quale motivo hai insistito tanto per ottenerne un altro?»
«Questa è la mia scuola, professore.» spiegò, ma per lei era la cosa più ovvia del mondo «Dieci anni fa camminavo per questi corridoi, sedevo in queste aule, giocavo nella palestra B con il professor Washijou, ed eravamo fenomeni. Da quando ci siamo diplomate noi e lui ha iniziato ad allenare i ragazzi, la squadra femminile si è a stento qualificata per i play-off e nessuno ha mosso un dito per aiutarla, perfino un bambino capirebbe in che modo barbaro avete tagliato i finanziamenti. È terribile per chi ne ha fatto la storia vedere la propria squadra ridotta in condizioni simili, io voglio salvare queste ragazze.»
«Il punto è» obiettò Kurihara «che voi avevate il talento ci cui questa generazione è priva.»
«Io le ho viste giocare contro il liceo Gensai questa primavera, e mi permetto di dissentire.»
«Devi sapere che le studentesse del terzo anno hanno lasciato il club.»
«Non mi riferivo solo al terzo anno.»
«Non sono nemmeno in numero apprezzabile.»
«Mi conceda il resto dell’anno e triplicherò le iscrizioni.»
«Non fare promesse che non puoi mantenere.» la frenò Kurihara con tono greve «Non si può recuperare una squadra in sei mesi.»
«Io non ho mai fatto promesse che non ho poi mantenuto.»
«Infrangeresti il suo primato, allora. Ascolta, Naomi…» sospirò poi spingendo verso di lei il contratto che biancheggiava sulla superficie vitrea della scrivania, lucida e priva di impronte «Questo lavoro da oggi è tuo, ma non avanzare proposte che non posso soddisfare. Non mi chiedere di cercarti nuovi sponsor, né di credere nell’impossibile, né di chiudere un occhio sulle regole. Il tuo compito è tenere insieme la squadra almeno fino alla fine dell’anno, nessuno s’aspetta altro da te.»
«Non conta quanto io m’aspetti da me?» protestò contrariata.
«Non per noi.» precisò il preside con serietà «Adesso ci sono da mettere un paio di firme.»
«Chi è la ragazza?» lo interruppe invece Naomi prima di afferrare la penna che le porgeva.
«Ah no… non fare questo giochetto, mia cara. Tu non puoi vedere la ragazza. C’è di mezzo una causa, sai? Un passo falso e potrebbe finirci anche l’Accademia, francamente preferisco che rimanga un problema fra la sua famiglia ed Hattori.»
«Le ho solo chiesto chi sia» borbottò scrivendo il proprio nome sulla prima riga segnalata dal preside, quanto più chiaro e gradevole potesse permetterle la sua grafia «Non le ho chiesto di vederla.»
«Ma è ciò che farai se io dovessi dirtelo.»
«Perché, è tornata a scuola?» chiese più entusiasta di quanto sarebbe dovuta essere.
Kurihara non se lo lasciò sfuggire.
«Questo ad esempio non avrei dovuto dirtelo.»
«Sa che scoprirò ugualmente chi sia la ragazza?»
«Se scopro che l’hai avvicinata, considera pure questo contratto carta straccia.»
«L’età l’ha resa crudele, professore. Una volta lei era quello che mi salvava dalla bocciatura.»
«Soltanto perché Washijou si lamentava che non sarebbe riuscito a sopportarti un anno in più.»
«In realtà gli manco. Lo sento, proprio qui.» annunciò con una mano sul petto.
Su sollecitazione del preside si sbrigò ad apporre le altre firme, una più diversa e brutta dell’altra, sulle varie parti del foglio. Kurihara non si espresse oltre sui suoi reclami, si limitò a chiederle di segnare le fasce orarie in cui era libera su un promemoria e a consegnarlo in segreteria, assicurandole che nella stessa settimana avrebbe preso servizio.
«In segreteria» ribadì con tono ammonitorio «e poi dritta a casa. Non voglio che ti metta a curiosare in giro e – per l’amor del cielo – non cercare la ragazza, fatti i fatti tuoi.»
Dopo il breve colloquio con la stessa acida segretaria che infestava l’ufficio dai tempi in cui era ancora al liceo, interrotto bruscamente da una telefonata che l’aveva mandata su tutte le furie, Naomi non poté astenersi dal pensare che Kurihara avrebbe fatto meglio ad incoraggiarla a farsi due passi nell’Accademia, se proprio avesse desiderato tenerla lontana. Non era nella sua natura obbedire, così si diresse a grandi passi verso l’edificio che un tempo era stata la sua palestra, speranzosa di trovare quello che stava cercando.

 
~
 
Una settimana prima.
 
La vita dell’allenatrice non era bella come l’aveva immaginata. Lo spiegava svogliatamente a Takao una sera mentre sfogliava il fitto dossier che le manager del club le avevano diligentemente preparato su sua richiesta. Non avevano abbastanza membri per permettersi un numero adeguato di riserve, in allenamento erano sempre dispari e la manciata di ragazze che le erano rimaste non sembravano poi così motivate.
«A parte qualcuna, è ovvio.» precisò separando dagli altri alcuni fascicoli e mostrandoli al fidanzato «Yoshida, Hoshino, ed il libero, Hiromi… Hanno la testa e lo stomaco che serve. Hiromi è il libero più talentuoso che abbia mai visto in una squadra femminile, Yoshida è stata convocata nella nazionale juniores e questo parla da sé, Hoshino non è particolarmente intelligente, ma ha potenziale.»
Era ammirevole, tra le tante cose, la solidarietà che tutte dimostravano nei confronti della misteriosa ragazza molestata da Hattori: era impossibile cavar loro di bocca anche una sola parola sulla sua identità, eppure era certa che le sarebbe bastato passeggiare nel cortile all’intervallo per scoprirne il nome.
«Non riesco, davvero, a creare una formazione titolare che mi soddisfi.» si lamentò «Ho una sola palleggiatrice, ti rendi conto? L’alzatrice che avevano prima è al terzo anno, ovviamente ha lasciato il club e non posso sottrarre tempo agli studi di chi è prossimo al diploma.» continuò indicando la pila di fascicoli a sinistra, dove aveva raccolto quelli sulle studentesse del terzo anno che avevano lasciato.
«E quella che hai adesso è tanto male?»
«La nipotina di Kurihara? Direi che raggiunge la sufficienza.»
«Allora cosa c’è che non va?»
«Tu proprio non capisci, no? Se non posso cambiare il palleggio, non posso cambiare il gioco.» spiegò esasperata «E poi se la signorina si fa male? Con chi la sostituisco?»
«Non puoi insegnare il palleggio ad una delle altre?»
«Bisogna vedere quanto siano predisposte. Non è esattamente il ruolo più semplice da ricoprire.»
«Qualcuna di loro dovrà farlo, penso che dovrai importi.»
«E poi c’è questa questione…» sospirò rattristata occhieggiando i dossier rimasti «Volevo potenziare l’attacco, era questa la mia idea, con lo schema dell’opposto che non riceve.»
«Se non sbaglio è tipico delle squadre maschili.» osservò Takao con calma «In una squadra femminile…»
«Tipico, non esclusivo.» obiettò lei tamburellando i polpastrelli sul tavolo «Peccato che io non abbia l’attaccante giusta proprio per quel ruolo.»
«Be’, c’è un’opposta.» le fece notare l’altro, indicando il profilo di Hamasaki.
«Certo, nemmeno un metro e settanta e ti assicuro che la palla non la colpisce… l’accarezza. Brava, eccellente in difesa, buona tecnica e tutto… ma per quel ruolo lì, inteso come lo intendo io, è la candidata peggiore. Io ho bisogno del braccio più… ignorante – ecco, non c’è termine migliore – che una ragazza possa avere. Capisci? Buona altezza e forza bruta, ho bisogno di una che mi faccia incazzare quando le faccio notare che poteva fare un pallonetto perché conosce solo gli avverbi forte e fortissimo. E buona difesa, perché sta qui dietro.»
«Quindi ti serve un maschio.»
A quel punto dispose sul tavolo gli ultimi due fascicoli rimasti da parte, quelli delle due ragazze del primo anno che avevano rinunciato alle attività del club. Naomi lo sapeva con certezza, che una delle due era quella che si era compromessa per Hattori, anche se non avrebbe saputo dire quale. Fatto stava che, per lo stesso motivo, non poteva cercare di persuadere nessuna delle due a tornare al club, o avrebbe perso il posto.
«No, con tutta probabilità mi sarebbe bastata questa qui.» annunciò porgendo a Takao il fascicolo di Sakurai, che doveva essere la ragazza che aveva segnato i pochi ma decisivi punti contro il liceo Gensai e che ad un certo punto aveva sbagliato un servizio ed aveva smesso di giocare decentemente. Eppure la sua scheda parlava chiaro, così come i video del torneo scolastico under-16 dell’anno precedente che Naomi s’era fatta prestare da una sua collega di una scuola limitrofa: Sakurai era tutt’altro che l’agnellino distratto che era stata in quell’incontro, piuttosto era una sorta di lupo vorace, segnava così tanti punti che dubitava che sui referti di quel torneo un nome comparisse più del suo. Perché fosse peggiorata tanto, non avrebbe saputo dirlo: forse aveva lasciato proprio perché aveva perso lo smalto, oppure aveva subito un calo d’interesse, o forse era la stessa ragazza che le sue compagne continuavano a proteggere.
«L’altra è una centrale.» si affrettò a spiegare al fidanzato «Una delle due è quella delle molestie.»
«Perciò, non sapendo quale delle due, hai le mani legate per entrambe.» concluse dispiaciuto.
«Sono arrabbiata, perché se Kurihara mi avesse convocata da subito al posto di quell’animale, avrei potuto fare grandi cose con la formazione originaria. La ragazza molestata non avrebbe avuto bisogno di andar via e forse anche l’altra avrebbe avuto dei motivi per restare!»
«Poi non dirmi che non ti avevo avvisata che ti saresti innervosita.»
«Per favore, tesoro, non ti ci mettere anche tu.»
«Non voglio che tu te la prenda tanto, è solo un club scolastico.» mormorò con un sorriso premuroso.
«Ma è il mio club scolastico.»

 
~
 
«Avrei voluto portarti un pensierino, ma c’erano solo alberi e pietre, ed ho passato l’ultimo giorno in punizione perciò…»
«La sola idea che tu abbia considerato di farmi un pensierino vale tutto per me, Gumi-chan.» gongolò Tooru appoggiandosi ora con più entusiasmo sulle stampelle. L’ingombrante tutore che indossava la settimana precedente, e che era stato causa del più imbarazzante dei fraintendimenti, era stato sostituito da un modello meno rigido che gli permetteva di osare qualche passo nel corridoio. In genere lo trovava deprimente, ma era la prima “passeggiata” con Megumi che riusciva ad ottenere dai tempi in cui l’accompagnava al dormitorio dopo gli allenamenti del Galaxy, e l’atmosfera era del tutto cambiata. La vide arrossire a causa della sua affermazione, stringere le labbra imbarazzata e subito dopo schiuderle per sibilare qualcosa di velenoso, ma fu pronto ad intervenire.
«No! Non dire niente!» aggiunse scuotendo la testa «Voglio ricordarmi questo momento così com’è: ambiguamente romantico.»
«Non c’è niente di romantico.» biascicò contrariata «Quindi vola basso. Avrei fatto bene a portarti la montagna di escrementi d’uccello che c’era sul davanzale della mia finestra, probabilmente l’avresti trovato meno ambiguo.»
«Gumi-chan, ti avevo chiesto di non dire altro!» pigolò insoddisfatto «Adesso hai reso volgare un momento bellissimo!»
«Perfetto, perché era precisamente ciò che intendevo fare.»
Tooru era lieto che a separarlo dalle sue dimissioni fossero solo un paio di giorni, perché la routine quotidiana in clinica l’aveva definitivamente scocciato; Hanamaki lo rimproverava che suonava secchione, ma per un certo verso non vedeva l’ora di tornare a scuola, anche arrancando sulle stampelle. Si chiedeva però, con un certo rammarico, se Megumi avrebbe continuato a cercare la sua compagnia anche quando fosse uscito: non poteva zoppicare in posti molto diversi da casa propria e dalla scuola, ed era piuttosto sicuro che nessuna delle due opzioni lusingasse particolarmente la ragazza. Prima che potesse controllarsi, le parole gli erano già sfuggite fra le labbra:
«Non ci vedremo più così da vicino quando sarò fuori di qui.»
Megumi assunse un’aria perplessa e si fermò accanto alla vetrata più vicina. Incrociò le braccia e si appoggiò con le spalle alla parete.
«Questa è bella. E sentiamo, di grazia, perché?»
Tooru mugugnò quel che aveva pensato, che mai lei se la sarebbe sentita di recarsi a casa sua o nei pressi della propria scuola.
«E quindi? Fra le due non c’è nemmeno un pezzetto di strada?»
«Mi accompagnerà mio fratello in macchina.»
«Capisco, ma troveremo un modo.»
«Gumi-chan, non ti sembra di iniziare a tenerci di più?» propose con tono speranzoso.
«Ovvio, siamo amici.» lo spense lei con una certa urgenza. «Non farti idee strane.»
Per quanto fosse divertente stuzzicarla, Tooru preferì non tirare ulteriormente la corda per non bruciarsi ogni opportunità di rivederla. Deviò spontaneamente il discorso sulle notizie che aveva sul proprio club e sul suo desiderio di assistere agli allenamenti, anche seduto in tribuna come un semplice spettatore. A quel punto Megumi borbottò un’osservazione stizzita che gli fece battere il cuore.
«Certo, così le tue fan verranno a farti compagnia. Immagino che muoiano dalla voglia di consolarti.»
«Cosa hai detto?»
La ragazza arrossì nuovamente, poi scosse il capo di fretta.
«Niente che sia importante.» replicò guardando altrove «Sono certa che il tuo allenatore ti permetterà di assistere addirittura dalla panchina, dopotutto rimani il capitano.»
«Ancora per poco, temo. Iwa-chan mi sta facendo una buona concorrenza, non mi stupirei se l’anno prossimo scegliessero lui. Voglio dire, io sceglierei lui anche ad occhi chiusi.»
«Essere capitano deve essere una bella scocciatura ed io non vorrei mai trovarmi nei tuoi panni. Però va osservato che anche tu sei una bella scocciatura, perciò credo che il ruolo si addica a te più di chiunque altro.»
«Un modo contorto per farmi un complimento.» commentò lusingato.
«Non è mia abitudine elargire complimenti, sono solo oggettiva.»
«Allora ti ringrazio due volte. Quando ti offrirò quel gelato mochi, te ne prenderò due!»
Megumi rise. «Non è che siccome tu sei ingrassato devo farlo anche io!»
«Hai perso molto peso nelle ultime settimane, Gumi-chan, non sarebbe male se lo riprendessi.»
«Saltare è più semplice.» affermò con un sorriso, poi si morse un labbro. «Non che ora mi serva a qualcosa.» aggiunse amareggiata.
«È nostalgia quella che sento nella tua voce?»
«Può darsi, non lo so.»
«Andiamo, non è qualcosa che puoi non sapere…»
«Lo è.» rispose allora inaspettatamente «In gita sono successe molte cose, ed ho avuto il tempo di riflettere. Sono giunta alla conclusione che sarebbe bello ricominciare daccapo.»
Tooru le rivolse il più raggiante dei sorrisi, felice che fosse finalmente riuscita a tornare sui suoi passi.
«Gumi-chan, è magnifico! Se ricomincerai, verrò a vedere tutte le vostre partite, perfino le amichevoli in trasferta! Ti garantisco che sarò il più grande dei tuoi fan!»
«Non voglio fan, non sono mica te!» contestò contrariata. «E comunque è stato solo un pensiero di un momento, non è detto che sia realizzabile. Con tutto quello che si dice di me a scuola…»
«Ma che t’importa? Da’ loro qualcosa di bello e di cui essere fieri e dimenticheranno le tue presunte colpe, il mondo è volubile! Se hai bisogno di qualcuno con cui esercitarti prima di riprendere posso…» il suo ginocchio protestò come se avesse potuto comprendere le sue intenzioni «Ah no, non posso.»
«Si può sapere perché ne sei tanto contento?» sospirò Megumi piuttosto divertita dal suo entusiasmo «Non è una cosa che riguarda te.»
«Ma io sono un tuo fan.»
«Grazie, mio unico fan. Hai proprio del cattivo gusto.»
«Scommetto che non sono l’unico.»
«Ad aver cattivo gusto? Su quello non ci piove…»
«Ad essere tuo fan.»
Megumi scosse il capo, le guance appena più rosa, forse segretamente lusingata. Ribadì docilmente che non le risultava di conoscere qualcuno che l’ammirasse in quel modo a livello sportivo, al di fuori – s’intendeva – della propria famiglia.
«Davvero?» commentò Tooru «A me pare che tu ne abbia almeno un altro.»
La ragazza fu inizialmente perplessa, poi riuscì a sciogliere la sua dichiarazione enigmatica e ad attivare tutt’una serie di collegamenti sopiti, ed infine inarcò un sopracciglio.
«Lo stai davvero mettendo in mezzo di tua spontanea volontà?»
«È un mio rivale, ma io sono una persona sportiva.» spiegò, non senza una incontrollabile punta di gelosia.
«Se anche lo fosse stato in passato, di certo ora non è più un mio fan.»

 
~
 
Naomi salutò frettolosamente le manager della squadra, pregandole di comunicare quanto prima in segreteria i nuovi orari del club. Liberatasi di questa ulteriore incombenza, fece tutta la strada indietro verso la stanza del club, di dimensioni ridicole rispetto a quelle che erano state un tempo, riaprì il proprio armadietto e si riprese la propria borsa. Constatato che mancava una buona oretta al suo turno nella scuola elementare, decise di trattenersi lì per qualche altro minuto e fare magari una telefonata al proprio fidanzato. Aveva separato i due banchi che Hattori aveva unito, perché non le piacevano né le cattedre né le formalità e finiva sempre per non usare le sedie. In questa posizione imbarazzante, seduta sul banco con le gambe incrociate, la sorprese lo studente che bussò alla porta.
«Coach Kato?» aveva una voce baritonale che all’inizio credette potesse piuttosto appartenere ad un professore «È già andata via?»
Balzò in piedi in tutta fretta e cercò di assumere una postura quanto più disinvolta e professionale le venisse in mente, con scarsi risultati. Nel mentre balbettò che poteva entrare e si ritrovò davanti l’adolescente più alto e ben piazzato che lei avesse mai visto in vita sua, con indosso la tuta del club di pallavolo maschile. Con quell’aria seriosa, lo avrebbe scambiato per un padre di famiglia invece che per un liceale.
«Ciao! Credo che tu ti sia sbagliato» lo avvertì preoccupata «Io alleno le ragazze.»
«Lo so.» la rassicurò senza scomporsi.
«Be’ non mi sembri una ragazza.» cercò di scherzare, ma sulle labbra del ragazzo non apparve nemmeno il minimo segno di un sorriso, piuttosto corrugò le sopracciglia folte in un cipiglio confuso.
«No, non lo sono.» considerò infine con serietà.
«Ecco… sì, è ovvio che non lo sei!» si sforzò di sorridere ma il ragazzo restò impassibile. «Allora, entra pure!» lo invitò «Come posso aiutarti?»
«Sono venuto a parlare con lei di una mia amica.»
«Fa parte del club?»
«Al momento non più.»
Naomi si chiese, su questi presupposti, cosa potesse mai volere un tizio del genere da lei.
«Si chiama Sakurai.»
Il cognome familiare ricondusse l’allenatrice ai dossier che aveva sfogliato più e più volte nella penombra del proprio appartamento, rosicchiandosi le unghie per il nervosismo. Com’era da interpretarsi l’improvvisa apparizione di qualcuno che intendeva parlare con lei proprio di quella schiacciatrice che con tanta bramosia aveva desiderato riavere in squadra? Forse qualche divinità misteriosa sosteneva la sua causa ed aveva deciso di aiutarla?
Fu il ragazzo stesso a sciogliere le sue riserve.
«Tutta la scuola sa che le è stato vietato avvicinarsi alla ragazza dello scandalo e perciò non può permettersi di fare troppe domande in giro sulla sua identità. Mi è stato riferito da una delle sue ragazze che è in dubbio su due nomi e che non osa interessarsi per prudenza a nessuna delle due.»
Naomi era sorpresa, annuì silenziosamente al preambolo del ragazzo.
«Io sono venuto qui per dirle che la ragazza dello scandalo è la mia amica.»
Che la giocatrice che più bramava fosse proprio quella intoccabile era davvero un brutto tiro. Se qualche istante prima aveva creduto nella divina collaborazione di qualche essere trascendente, adesso dovette trattenersi per dare il buon esempio e non imprecare.
«Non avresti dovuto dirmelo: le sue compagne di squadra si stanno impegnando moltissimo per proteggerla.»
«Non è una a cui piace essere protetta, in linea di massima. Io invece spero che lei possa darle una bella scrollata e convincerla a riprendere gli allenamenti.»
«Vuoi farmi rischiare il posto? Forse ti manda Washijou-sensei per farmi cacciare…»
«Non mi manda nessuno, è stata una mia scelta. Posso dirle come trovarla senza che nessuno lo sappia o vi veda, fuori dalla scuola.»
L’occasione era tanto ghiotta che Naomi non fu in grado di pensarci una seconda volta. Avrebbe voluto possedere la compostezza di quel ragazzo, immaginava che Washijou lo adorasse.
«Com’è che ti chiami?»
«Ushijima.»
«Ah! Il nostro prodigio! È un piacere conoscerti di persona, però ho l’abitudine di chiamare gli studenti con il loro nome di battesimo, usare il cognome è troppo formale e mi fa sentire più vecchia di quanto io sia.»
«Wakatoshi.» rispose, poi aggiunse «E lei non è affatto vecchia.»
Naomi arrossì. «Grazie Wakatoshi! E ti ringrazio anche per aver condiviso con me quello che sai.»
«Quindi cercherà Megumi?»
«Sì.» gli garantì con un sorriso «Non ti nascondo che in questi giorni mi sono resa conto di aver bisogno di un elemento come la tua amica. Il tuo intervento è provvidenziale.»
«Se vuole parlare con lei fuori dalla scuola deve approfittare del lunedì mattina, scende dall’autobus alle sette meno un quarto, davanti all’ufficio postale.»
«Come puoi darmi così tanti dettagli con tutta questa precisione?» domandò sospettosa.
«Siamo vicini di casa, in genere prendiamo lo stesso autobus.»
Il ragazzo fece per accomiatarsi, ma Naomi lo richiamò prima che sparisse oltre la porta.
«Wakatoshi, perché credi che la tua amica si lascerà convincere da me? Se tu, che sei suo amico, non ci sei riuscito, allora…»
Wakatoshi rispose con tutta la calma e la disinvoltura del mondo, dando per scontato che la risposta fosse ovvia.
«Perché lei è stata una leggenda, coach.»
Naomi non era certa che bastasse la propria buona fama a persuadere una ragazza molestata a tornare nello stesso campo che era stato lo sfondo delle sue disavventure, eppure il lunedì mattina uscì di casa di buon’ora e si sedette alla fermata, stringendosi impaziente nella propria giacca a vento mentre la pioggia picchiava senza sosta sulla superficie della pensilina. Contò ben quattro autobus, e cominciò a dubitare della buona fede di Wakatoshi, prima di individuarne uno proveniente dal sud della prefettura. I dubbi si dissiparono nel momento stesso in cui ne uscì una ragazza alta e coi capelli scuri, con indosso l’uniforme scolastica dell’Accademia ed una borsa pesante.
Megumi non doveva essere abituata a trovare qualcuno che aspettasse un autobus a quell’ora, perché le rivolse un’occhiata sorpresa. Tuttavia si limitò ad aprire l’ombrello e a voltarle le spalle.
«Aspetta!» la chiamò balzando in piedi «Tu sei Megumi, non è così?»
La ragazza tornò ad osservarla meglio e Naomi fece altrettanto. In confronto alla foto che le manager avevano appiccicato con zelo sul suo fascicolo del dossier, la persona che aveva davanti sarebbe potuta essere solo lo spettro di Megumi Sakurai: il viso era più sottile e malaticcio, gli occhi scavati, le labbra screpolate. Considerò che quelle conseguenze dovevano essere abbastanza ovvie visto quanto le era accaduto. Le sorrise con garbo e le si presentò.
«Io sono Naomi Kato. Non so se lo sai, ma alleno il tuo club adesso.»
Megumi non parve affatto contenta dell’approccio, anzi le sembrò fin troppo spaventata.
«Lei… le altre non mi avevano detto niente… sono certa che stia facendo un ottimo lavoro!» balbettò fin troppo energicamente e chinandosi appena in avanti in segno di rispetto.
«Hai un po’ di tempo Megumi?»
«Kato-san, io non voglio tornare al club.» si affrettò a chiarire in risposta.
«Sarebbe una brutta batosta per me, Megumi.» spiegò allora lei con dolcezza «Ho bisogno di qualcuno come te e mi piacerebbe raccontarti il perché. Cosa ti costa concedermi un po’ di tempo? Le lezioni non cominciano che fra un’ora.»
«In realtà in genere utilizzo l’anticipo per passare dalla mensa e fare colazione.» dissentì immediatamente.
«Che coincidenza! Neanch’io ho fatto colazione, la faremo insieme. C’è un posto molto carino qui vicino, mi fermavo sempre lì con le mie compagne di squadra. Sarà come tornare ai vecchi tempi!»
Evidentemente la povera ragazza non riuscì più a trovare scuse da opporle, perché si limitò a sollevare le spalle e si arrese a seguirla. Lungo il tragitto sotto la pioggia, Naomi tentò di tener accese le ceneri della conversazione, ma la più giovane si era chiusa in uno stato di assenza totale. Avrebbe davvero voluto sapere cosa le passasse per la testa in quel momento.
Il luogo di cui le aveva parlato era rimasto esattamente come l’aveva lasciato da studentessa, riposero gli ombrelli fradici all’ingresso e Naomi la condusse verso il tavolo più isolato e che riuscì a trovare. Gli avventori di mattina erano pochi e – con sollievo – constatò che fra loro non era incluso nessuno che potesse essere al corrente del divieto che le era stato imposto dal preside.
«Chiariamo una cosa: io non sono Isao Hattori.» esordì non appena la cameriera si allontanò lasciando sul tavolo le loro ordinazioni.
Megumi lasciò immediatamente perdere la tazza che stava sorseggiando con ben poco appetito e le rivolse uno sguardo inorridito.
«Lei… lo sa?» bisbigliò improvvisamente pallida in viso.
«Sì. Ma non me l’hanno detto le tue compagne di squadra, loro sono state estremamente solidali con te. Me l’ha detto un tuo amico.»
«Io non ho tutti questi amici.»
«Ha detto di chiamarsi Wakatoshi, è stato lui a dirmi dove trovarti.»
La ragazza apparentemente non riuscì più a reggere il contatto visivo, perciò rivolse di scatto l’attenzione a ciò che stava oltre la finestra alla sua sinistra, gli occhi marroni le si fecero più lucidi.
«Non ha ancora imparato che deve farsi i fatti propri, quello stupido.»
«Mi è sembrato preoccupato per te.» lo difese Naomi.
«Lo è veramente, ma non me lo merito.» ribatté inquieta.
Poiché non le era piaciuto né il suo tono di voce acuto, né il tremolio delle sue mani, cercò di andare dritta al punto e di precisare la propria posizione prima che la più giovane fosse colta da una qualche irreversibile crisi di pianto. Cominciava a capire perché il professor Kurihara aveva insistito tanto che avrebbe potuto aggravare le cose: non aveva nemmeno iniziato a trattare con lei che già aveva toccato delle corde troppo sensibili.
«Ascolta, Megumi, a me non importa che cosa sia successo con Hattori.»
«È successo che gliel’ho permesso io, ho rovinato la mia vita per colpa di uno stupido sport, ho imbrogliato per ottenere il posto da titolare che desideravo ma non meritavo, ho fatto sì che un… uno che avrebbe potuto essere mio padre…» Megumi non riuscì più a continuare, la voce le morì in gola, piegata dai singhiozzi, e nascose il volto arrossato dietro le mani.
Non c’era davvero niente di tutto quello nei manuali del buon allenatore, nulla che potesse aiutarla. Si guardò intorno preoccupata, pregando che nessuno si fosse accorto di quanto stava succedendo, poi cercò di arginare i danni. Tentò di rincuorarla prendendole una mano, ma l’altra la ritrasse di scatto appena l’ebbe sfiorata, fissandola con gli occhi sgranati per lo spavento. Riprese lucidità un attimo dopo, quando le mormorò delle scuse affrettate.
«Io non sono Isao Hattori, Megumi.» ripeté con fermezza «Io non alzerò le mani su di te quando commetti un errore o ti presenti in ritardo all’allenamento. Non alzerei un dito su di te nemmeno se dovessi sbagliare più della metà dei servizi di una partita!»
«Non ho bisogno di altri privilegi…»
«Non sono privilegi, è il mio modo di agire, lo farei con ognuna di voi.» spiegò determinata «Non c’è moina o comando che regga con me: il preside mi ha chiaramente annunciato che avrei perso il posto se ti fossi venuta a cercare, io oggi sono qui con te a rischiare di perdere il lavoro che desidero da quando ho preso il brevetto da allenatrice. E se lo sto rischiando non è per beneficienza o perché tu mi sia simpatica, ma perché io e la tua squadra abbiamo bisogno di te.»
Inaspettatamente, la sua tirata sembrò calmare Megumi ed arginarne il pianto, sebbene il tremore alle mani non fosse svanito.
«Se avete bisogno di altri membri per raggiungere il numero…»
«Non abbiamo bisogno di altri membri, ho bisogno di te.» la interruppe con impazienza. Aprì la propria borsa, che aveva abbandonato mezza bagnata sulla sedia accanto, e ne estrasse il taccuino su cui aveva abbozzato il suo schema di posizioni ideali. «Guarda!» disse porgendoglielo.
La ragazza lo accetto con circospezione, si asciugò gli occhi con un fazzoletto ed esaminò la pagina a cui Naomi l’aveva aperto. Dal repentino cambio d’espressione sul suo viso, fu certa che avesse compreso al primo sguardo le sue intenzioni.
«Questa…» mormorò confusa prima di alzare gli occhi dalla pagina e tenderle nuovamente il suo taccuino «Deve essere la pagina sbagliata, signorina. È lo schema di una formazione maschile, ha scritto che l’opposto non partecipa alla ricezione.»
«Nient’affatto. È il vostro.» le garantì con un sorriso d’incoraggiamento «E qui» picchiettò con urgenza sul pallino del posto 1 «è dove sei tu.»
«Io non sono un’opposta, ho sempre giocato a sinistra.» obiettò scettica, poi tirò su con il naso.
«Imparerai ad esserlo. Ti aiuterò io, non devi avere paura.»
«Con questo schema, sarei chiamata a chiudere la maggior parte degli attacchi.» considerò Megumi a mezza voce, più a sé stessa che a Naomi «È lo stesso ruolo di Wakatoshi… Non sono abbastanza brava per fare una cosa del genere…»
«Ora come ora fra le tue compagne non c’è nessun’altra che possa fare una cosa del genere.»
«C’è Yoshida…»
«Non mi privo della migliore e della più alta delle mie centrali. E poi se una è brava in prima linea non è necessariamente vero che lo sia anche in seconda. Tu, invece, tiri in modo particolarmente vigoroso e preciso anche dalla seconda linea, l’ho visto quando avete giocato contro il Gensai.»
«Ma salto meno di Yoshida, e mi stanco presto.» contestò scuotendo il capo.
«A tutto questo farò in modo di rimediare personalmente, puoi fidarti.»
«Lei… desidera veramente che io torni?» domandò come se solamente in quel momento stesse cogliendo il senso delle sue proposte, o forse – considerò Naomi – le cose stavano realmente così.
«Non sprecherei tanto fiato se non lo volessi. realmente E qualcosa mi dice che in qualche parte remota della tua testolina lo desideri ardentemente anche tu.»
Megumi finì di asciugarsi gli occhi e scosse il capo.
«Come posso rifarmi viva con le altre? Non ho veramente il coraggio di farmi rivedere da loro, soprattutto da Kurihara e da Hoshino, a cui ho rubato il ruolo. E poi non sono abbastanza brava per fare tutto quello che lei mi ha proposto, signorina. Le ricordo che sono una che ha dovuto barare per giocare nella formazione titolare, non sono evidentemente sufficientemente dotata per farcela con le mie forze.»
«Le altre non provano alcun risentimento per te, e lo sapresti se non le evitassi come fai.» l’ammonì «E non sei tu che parli, è la tua paura a farlo. La tua coach delle medie dice che non eri così autocritica fino allo scorso anno.»
«Perché nessuno mi aveva aperto gli occhi. Hattori si è premurato di farlo nel peggiore dei modi.» spiegò con amarezza, poi diede una rapida occhiata all’orologio. «S’è fatto tardi, signorina. Devo andare.»
«Aspetta!» la prese per un braccio, questa volta Megumi trasalì ma non si ritrasse dalla presa. «Lascia che ti aiuti, la tua borsa sembra molto pesante.»
«Nulla che non sia alla mia portata.» rispose imbracciandola con una scioltezza spiazzante. Naomi avrebbe voluto mangiarsi le mani per quanto bramasse avere quella prestanza fisica a disposizione.
«Temo di essere costretta a declinare il suo invito, signorina Kato.» annunciò ancora scossa.
Non aveva fatto tutta quella fatica per nulla, ormai era una questione di principio: non avrebbe permesso che le malefatte di Hattori annullassero completamente la personalità e la carriera di un’atleta che le era sembrata tanto promettente.
«Io vorrei che tu ci pensassi ancora, Megumi.» insistette con tono quasi supplice «Gli allenamenti oggi pomeriggio iniziano alle cinque. Io ti aspetterò e se non verrai… insomma capirò.»
«Signorina, io…» iniziò nuovamente a schermirsi ma Naomi la interruppe.
«Promettimi che ci penserai meglio.»
«Ci proverò.» si arrese «Ma farà bene a mettersi l’anima in pace.»

 
~
 
La settimana di Megumi non sarebbe potuta iniziare in modo peggiore: il temporale, la nuova allenatrice del suo club che si appostava alla fermata dell’autobus, una bella crisi di panico e – per concludere in bellezza – Waka-nii che l’aspettava a braccia incrociate all’ingresso della sua classe.
«Togliti» mormorò a testa bassa, senza guardarlo negli occhi «Devo entrare.»
Alcuni dei suoi compagni di classe rizzarono il capo per non perdersi nemmeno un secondo del loro imminente scambio di battute. Dal suo banco, Shirabu scattò in piedi colto da un’improvvisa indole solidale, ma alla fine restò fermo sul suo posto, incapace di decidere da quale parte schierarsi.
«Non mi sposto se non mi guardi in faccia.» rispose con la stessa serietà che le era familiare. Non le riusciva di opporsi alle sue richieste, così alzò timidamente il capo, quanto bastava perché i suoi occhi – che sapeva essere ancora gonfi e arrossati – non fossero più nascosti alla vista dell’amico.
Wakatoshi ne fu immediatamente turbato. La prese per mano, nonostante le sue resistenze, e la condusse fuori dal corridoio, su una rampa delle scale che nessuno prendeva mai.
«Stai bene?» le domandò allarmato, tenendola per le spalle con una dolcezza che Megumi aveva dimenticato e che non sentiva appartenerle più.
Annuì, incapace com’era di rivolgergli la parola.
«Non pensavo che ti avrebbe fatta piangere.» si giustificò «Ti ha detto qualcosa di cattivo?»
Scosse la testa.
«Sono io quello di poche parole.» le fece notare per sollecitarla a dire qualcosa, ma Megumi non osò rivolgergli la parola.
Si vergognava così tanto, dopo che lui aveva scoperto tutta la verità, a stargli troppo vicino. Wakatoshi non aveva fatto nulla per meritare tutte quelle bugie, nulla che gli valesse un’amica tanto infame. Cosa poteva pensare di tutte le sue dichiarazioni di amore incondizionato, ora che aveva scoperto che si era venduta in cambio di un posto? Lui detestava i sotterfugi, era uno strenuo sostenitore della sportività, e – davvero – non aveva bisogno di una come lei. Anzi, avrebbe dovuto provar disagio a farsi vedere in giro con una poco di buono, qualcuno avrebbe potuto mettere in giro delle voci affatto piacevoli anche su di lui.
Wakatoshi sospirò spazientito.
«Perché continui ad evitarmi?»
«Ti ho detto un sacco di bugie…» sussurrò con un filo di voce.
«E allora? Non sarebbe la prima volta, in ogni caso.»
«Avrei dovuto essere sincera con te, e poi mi fa schifo ciò che ho fatto. Non sono più alla tua…»
Wakatoshi schioccò la lingua prima che avesse tempo di finire «Tu non devi essere all’altezza di nessun altro, solo di te stessa.»
Megumi strinse le labbra e chinò il capo, le mancavano le parole per replicare.
«Sei cambiata, Megumi-chan. Non parlo di questi ultimi mesi, è successo molto prima: non sei più la stessa. Una volta eri una ragazza allegra e altruista, avevi una parlantina tale da riuscire a farti amico chiunque, poi ti sei trasformata in una presuntuosa ed hai cominciato ad avere fretta di bruciare tutte le tappe. È stato questo a metterti nei guai.»
Megumi non si era mai fermata a riflettere su cosa aveva sacrificato quando aveva iniziato a votarsi anima e corpo allo sport, perciò la rivelazione di Wakatoshi le giunse inaspettata, ma allo stesso tempo necessaria. Aveva ragione quando sosteneva che fosse cambiata e negarlo sarebbe stato inutile. Una volta Arisu non avrebbe dovuto faticare tanto per guadagnarsi la sua simpatia, le sarebbero bastati un paio di giorni per conquistarla. Lo stesso valeva per Kaori, Shirabu e tutti quelli che si erano dovuti sforzare continuamente per stabilire con lei una certa familiarità. Collocò inconsapevolmente Oikawa in una categoria di conoscenze riservata poiché aveva la sensazione fastidiosa che la natura del loro legame fosse appena diversa da quello che condivideva con gli altri.
Sì, era stato questo a metterla nei guai: se non fosse stata irritata con Kurihara, con Arisu e con il resto delle ragazze, se avesse avuto dalla sua una manciata di amici, se non si fosse affannata ansiosamente per accorciare i tempi, avrebbe denunciato ben presto quello che le stava accadendo, o forse avrebbe potuto addirittura scansarselo.
«Non posso più tornare indietro.»
«Certo che puoi, ti conosco abbastanza per sapere che la mia Megumi-chan esiste ancora.»
«Ed è per questo che mi hai messo alle costole la signorina Kato?» lo rimproverò.
«Sono stato scorretto, lo riconosco. Ma non pensavo che ti avrebbe ferita.»
«Non l’ha fatto, non volontariamente almeno. Ho solo perso il controllo.»
«E succede spesso?»
«Più di quanto vorrei. Che sia accaduto davanti a lei è piuttosto umiliante, ma non è nei miei piani rivederla ancora, perciò sto provando a scrollarmi l’imbarazzo di dosso e dimenticare la figuraccia.»
«Capisco, quindi non ci è riuscita.» osservò amareggiato. «Ma nessuno può obbligarti, in fin dei conti. Posso almeno sapere per quale motivo non hai voglia di tornare anche ora che Hattori non c’è più?»
Per la seconda volta in quella mattina, il nome del suo persecutore le procurò un brivido lungo la spina dorsale, ma questa volta si sforzò di non cedere. Ripeté all’amico le stesse ragioni che poco prima aveva riferito alla signorina Kato, che si vergognava delle sue compagne e che non si riteneva più abbastanza brava per proseguire con le proprie forze e lui la lasciò continuare fino all’ultimo.
«Sono sciocchezze.» commentò però alla fine, non era mai stato un campione di sensibilità. «Le tue compagne non ti odiano affatto, ti riaccoglierebbero a braccia aperte. Hanno più bisogno di te che mai, sono poche e senza speranza in qualsiasi competizione ufficiale.»
«Resterebbero deluse, perché non sarei di nessun aiuto.»
«Tu no, ma la mia Megumi-chan sì.»
«Sono sempre io, Waka-nii… non si può tornare indietro nel tempo. Immagina se tornassi a giocare in un campionato ufficiale, nessuno verrebbe a tifare per una disonesta. L’intera scuola mi disprezza.»
«Ma le persone sono volubili, da’ loro un motivo per essere fieri di te e metteranno da parte i pregiudizi.»
Megumi fu sorpresa di riconoscere nelle parole dell’amico le stesse che solo qualche giorno prima le aveva rivolto Oikawa. Che i due fossero d’accordo su qualcosa era totalmente impensabile e lei non aveva mai conosciuto due persone più diverse. Ma che due persone così profondamente differenti concordassero su qualcosa poteva significare che avessero oggettivamente ragione.
«Vorrei che mi perdonassi, per tutto.» mormorò allora rammaricata.
Per la prima volta dopo mesi, le riuscì di rivedere il sorriso di Wakatoshi. Le era mancato così tanto che si era dimenticata quanto potesse farle battere il cuore.
«Ed io vorrei che perdonassi me per non essermene accorto.»
«Non volevo che lui se la prendesse con te. Ti prometto che non ti dirò mai più bugie.»
«Facciamo che puoi raccontare bugie a tutti, anche a te stessa se ti va. Ma non ne dirai più a me. Voglio che parli con me quando qualcosa ti preoccupa.»
Quando più tardi sedette al proprio banco, Megumi si accorse di sentirsi alleggerita. Il peso sullo stomaco non voleva saperne di lasciarla andare, ma adesso combatteva con quel sentimento caldo e positivo che soltanto Wakatoshi sapeva ravvivare. Scosse il capo quando Shirabu le chiese se fosse accaduto qualcosa di grave, gli spiegò in breve che era avvenuta una sorta di riconciliazione. L’altro tirò le labbra in un sorriso colmo di tensione, che Megumi non fu in grado di interpretare.

 
~
 
Gli occhi delle ragazze radunate a cerchio attorno a Naomi tradivano avvilimento, ma lei non era affatto il tipo che si risparmiava le critiche. Gli occhioni da cucciolo bastonato non l’avevano mai ingannata, né mai avrebbero iniziato a farlo. Dopo quanto era accaduto con Sakurai quella mattina, alle cinque passate aveva deciso di metterci una pietra sopra e tentare di sistemare la formazione con quel poco che aveva in mano, rassegnandosi a rinunciare alle sue velleità innovative.
«Io non dico che dobbiate eccellere in ogni azione, ma se c’è una cosa che proprio non tollero sono gli errori di rotazione. Ragazze, i bambini delle elementari le conoscono meglio di voi! Se aveste iniziato a giocare soltanto quest’anno potrei anche passarci sopra, ma ognuna di voi ha alle spalle almeno tre anni di esperienza! Vi ho portato una fotocopia per ciascuna, e fareste bene a studiarla in questi giorni se volete arrivare al campionato della prefettura in condizioni accettabili. Dalla prossima volta chi sbaglia la rotazione farà un minuto di plank sui gomiti.»
«Un minuto intero?» ripeté Horie sbigottita «Signorina, io reggo a malapena trenta secondi.»
«Io soltanto quindici secondi.» ammise preoccupata Kaori.
«Riproverete finché non raggiungerete il minuto intero.» tagliò corto «E per ogni allenamento a cui sarete assenti senza motivazioni valide, raddoppierò la durata degli esercizi di punizione. Significa che se non vi presentate per andare a fare shopping o se mi dite di aver portato il gatto dal veterinario per due volte di seguito, farete due serie da un minuto.»
«È un bel problema, perché io di gatti ne ho parecchi.» osservò una ragazza alta e magra appena spuntata all’ingresso della palestra. Riconobbe nei capelli scuri e lisci e negli occhi allungati la fototessera del fascicolo di Mikoto Ikeda. La salutò chiamandola per nome e lei sembrò quasi più sorpresa di quanto lo era stata Kaori quando l’aveva vista apparire sulla soglia. La invitò ad accomodarsi insieme alle altre, lieta di avere una recluta in più, anche se non era quella che desiderava.
«Manco agli allenamenti da un bel pezzo, immagino che mi spettino almeno cento minuti di plank
«Non se hai una giustificazione accettabile.»
«Il mio ragazzo mi ha lasciata. Ed ho portato tre volte i miei gatti dal veterinario, che è mio padre.»
«Kato-san, Mikoto-chan è stata male realmente per colpa del suo ex-ragazzo, per favore non moltiplichi le durate delle sue punizioni!» intervenne Kaori ansiosa.
«Non lo farò, Kaori, stai serena.» la rassicurò «Non intendo farla scappare via. Bentornata, Mikoto.»
Mikoto la ringraziò e prese posto fra Kaori e Arisu, poi si ricordò di aggiungere: «Signorina, c’è ancora un’altra persona nello spogliatoio.»
Stava per chiedere di chi si trattasse quando Megumi irruppe di corsa nella palestra.
«Mi dispiace per il ritardo» ansimò mortificata «Ma sono stata trattenuta dalla professoressa Fukuda in sala professori. Sono corsa qui più veloce che potevo!»
Che ragazza incostante! Eppure Naomi non riuscì a fare a meno di rivolgerle un sorriso d’incoraggiamento e farle cenno di entrare con la mano.
«Bentornata, Megumi.»
«Bentornata!» le fecero eco le altre, prima di rompere le righe e andare incontro alla compagna. Naomi non aveva alcuna intenzione di placare il loro chiacchiericcio, sembravano così felici di riaccoglierla, e Arisu le pareva sull’orlo delle lacrime. Noriko, la nipote di Kurihara, se ne stava un po’ in disparte, ma rivolse qualche parola di scusa a Megumi, per qualcosa che doveva essere accaduto prima che lei fosse assunta.
«Signorina, le faccia fare dieci serie di plank da cinque minuti!» scherzò Mikoto, che intanto aveva già preso sotto braccio la nuova arrivata.
«In che senso… cinque minuti?» balbettò preoccupata «Signorina, io riesco a resistere solo due minuti e mezzo in quella posizione…»
«Mikoto sta scherzando, Megumi.» la tranquillizzò «Caspita, però… due minuti e mezzo? Proprio brava, qualcuno poco fa mi ha detto di resistere a stento per quindici secondi…»
Kaori si fece rossa in volto, ma Naomi le strizzò l’occhio.
«Ma adesso possiamo migliorare, tutte insieme. Cambio di programma, ragazze! Lasciate che vi spieghi come muterà da oggi il nostro schema di gioco, ci sono tante questioni da affrontare e tante proposte da fare!»
Mentre le ragazze tornavano ai loro posti – Arisu saldamente appiccicata a Megumi, a cui stava riassumendo estaticamente cosa si erano dette poco prima del suo arrivo – Naomi replicò a memoria sulla lavagnetta lo schema che aveva disegnato sul suo taccuino. Hamasaki osservò, come quella mattina aveva già fatto Megumi, che quello era lo schema di una formazione maschile.
«Chi ve l’ha messa in testa questa cosa, vorrei proprio saperlo.» ridacchiò scuotendo il capo «Anche le ragazze possono giocare prevalentemente in attacco, e voi dovreste imparare a farlo. In ricezione e difesa ci siamo, siete abbastanza in gamba, a parte qualcuna di voi che conto di poter esaminare nei prossimi giorni.» indugiò con lo sguardo su Mikoto, che fece finta di guardare da un’altra parte. Quello che non va bene è il modo in cui attaccate: Asami è molto brava, ma non possiamo far fare tutto a lei, non è giusto. Il palleggio è… Noriko, sul palleggio bisogna lavorare. Ci sono alcuni passaggi che non sei in grado di fare, ed hai sempre troppa fretta. Oltretutto dobbiamo risolvere un problema affatto indifferente, ovvero che non abbiamo una seconda palleggiatrice, ed è importantissimo averne una per variare il ritmo di gioco. Vorrei che tutte quante rifletteste su questa contingenza nei prossimi giorni: se c’è qualcuna di voi interessata a cambiare ruolo e giocare da alzatrice può venire a dirmelo, mi solleverà dall’incombenza di scegliere personalmente.»
Si levò un mormorio nervoso.
«Lo so, non è facile cambiare ruolo. Ma forse a qualcuna di voi potrebbe stare stretto quello che ha adesso, specialmente fra le riserve. Vi chiedo di pensarci e farmelo presente, anche se non vi sentite pratiche, ci lavoreremo insieme finché non prenderemo dimestichezza.»
Le ragazze si scambiarono qualche sguardo dubbioso, ma poi parvero rassegnarsi.
«Altri cambiamenti di ruolo saranno invece obbligatori: Megumi lascerà a Furumi e a Horie il loro posto a sinistra ed imparerà a giocare a destra, al posto di Satsuki.» si rivolse poi alla ragazza in questione «Satsuki, mi dispiace sottrarti l’opportunità di essere finalmente titolare, ma spero che tu capisca che non lo faccio perché tu non sia valida. Ritornerai in campo ogni volta che servirai, o quando Megumi avrà bisogno di riposare.»
Megumi alzò la mano per obiettare qualcosa, ma Naomi chiarì subito:
«Ovviamente per i primi tempi Megumi riscalderà un po’ la panchina, e la farò entrare solo quando sarà necessario e la riterrò pronta. Come già le ho già fatto presente stamattina, io non concedo privilegi e non faccio preferenze, dunque se intendete tenervi il vostro ruolo dovrete impegnarvi. Vi ricordo che si sono fatte avanti alcune ragazze del primo e del secondo anno per rimpolpare il numero delle iscritte al club, perciò io al vostro posto non mi adagerei sugli allori credendo di non poter essere sostituita. Ci sono altre domande?»
Forse troppo intimorite per parlare, le ragazze rimasero in silenzio. Qualcuna scosse la testa.
«D’accordo, prima di iniziare con il riscaldamento ho bisogno di verificare un dettaglio importante che è venuto fuori dai dossier che Mami e Nagisa hanno preparato per me: quante di voi allo stato attuale sono in grado di eseguire correttamente un servizio in salto?»
Solo la mano di Asami Yoshida si levò prontamente in alto, le altre invece assunsero il comportamento tipico dello studente impreparato negli istanti immediatamente precedenti all’interrogazione: qualcuna guardava altrove, qualcun’altra si nascondeva dietro la schiena di quella davanti, qualcun’altra ancora fingeva di aggiustarsi le ginocchiere.
«Solo una, davvero?» obiettò delusa «Speravo che i dossier si basassero su informazioni datate! Mikoto, Megumi… neanche voi?»
Le due fecero spallucce.
«Ragazze, è inconcepibile! Dobbiamo sistemare anche questo, è essenziale! Esigo che almeno tre di voi siano in grado di farlo, quindi dovranno impararlo almeno altre due ed inizieremo oggi stesso.»
Naomi era consapevole di aver fetta, eppure riteneva che fosse giusto così. Se intendevano giocare in maniera dignitosa i campionati autunnali di Miyagi, era necessario che la squadra si facesse una reputazione. Non sperava certo che le avversarie potessero mettersi a tremare davanti ad una formazione ancora tanto instabile, ma desiderava che almeno fossero conosciute per qualcosa di speciale già prima di iniziare il torneo. Negli ultimi giorni aveva fissato così tante amichevoli che s’era lasciata prendere la mano e non trovava il coraggio di comunicarlo alle ragazze che sicuramente non si sarebbero sentite abbastanza pronte per cimentarsi quasi ogni fine settimana in una sfida nuova. Iniziare ad allenare a metà anno non era un’impresa semplice, il tutto era stato ulteriormente aggravato dal completo disinteresse di Hattori, che non s’era curato per niente della preparazione fisica delle sue giocatrici, né di favorire la coesione fra di loro.
Il tempo era davvero agli sgoccioli.

 
~

Tooru era appena sceso dall’auto di suo fratello quando il suo cellulare trillò. Sullo schermo apparve la notifica di un messaggio da parte di Megumi, a cui era allegata una foto. Incapace di resistere alla curiosità indugiò sulla soglia della propria casa, dove pure aveva desiderato a lungo di tornare al più presto, e si puntellò su una sola stampella per leggere meglio. Nella foto figurava quella che certamente doveva essere la palestra di una scuola, anche piuttosto grande, nella quale si muovevano una decina di ragazze in t-shirt rosa pastello.
Il messaggio che la seguiva annunciava:
“News esclusive per il mio unico fan: hai vinto tu.”

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11: Comfort Zone ***


Capitolo 11

Comfort Zone

Dopo ben diciotto minuti di attesa, il limite di pazienza di Megumi era già stato abbondantemente oltrepassato. In realtà s’era ravveduta già al terzo minuto e al quinto studente dell’Aoba Johsai che aveva scoccato uno sguardo diffidente alle rifiniture viola della sua giacca scolastica. Non ignorava, chiaramente, la rivalità sportiva fra le due scuole e lei stessa aveva potuto assistere dagli spalti agli accadimenti più assurdi ed a litigi al limite fra civiltà e bestialità, qualche volta anche a qualche bella scazzottata, come quella da cui Tendou era uscito vincitore l’anno prima dopo il torneo primaverile. Eppure non si aspettava affatto che a qualcuno potesse importare qualcosa della scuola a cui era iscritta, fuori dai palazzetti e dalle competizioni ufficiali. Il fatto era che il disappunto non le era stato dimostrato da un solo studente randagio e arrabbiato, ma era stata fulminata dalla maggior parte di quelli che le erano sfilati davanti tornando a casa. Come se lei avesse personalmente fatto qualcosa per garantire il successo sportivo dei propri compagni di scuola.
«Si procurassero giocatori migliori, se tanto ci tengono…» sibilò fra sé e sé, innervosita all’ennesima occhiataccia.
Aveva problemi ben peggiori da affrontare che l’antagonismo becero fra due istituti privati, perciò picchiettò furiosamente con i pollici sullo schermo del suo cellulare: se Oikawa non si fosse presentato entro i seguenti due minuti, se ne sarebbe andata senza esitazione. Non si capacitava nemmeno del perché si fosse scoperta disposta ad incontrarlo dopo la fine delle lezioni, e si rimproverava di non aver riflettuto un attimo di più prima di aprir bocca.
«Perché, sotto sotto, ti piace!» aveva concluso Kaori quella mattina, e Megumi avrebbe preferito che la nuova amica tenesse le proprie considerazioni per sé, perché erano del tutto fuori luogo: Mikoto s’era messa a sghignazzare con la faccia di una che la sa lunga, mentre Risu si era semplicemente ed inspiegabilmente imbronciata. Le piaceva pensare che lo avesse fatto perché era dalla sua parte.
«Ferma così…» trillò una voce fastidiosamente conosciuta. Prima che Megumi avesse il tempo di replicare qualsiasi cosa, con un bip irritante quanto il suo proprietario, il cellulare di Oikawa le aveva già rubato una foto a tradimento.
Digrignò i denti innervosita e s’impose di contare fino a dieci prima di prenderlo a calci nel sedere. Davvero, si poteva essere più seccanti di così? In base a quale oscuro criterio l’intuito di Kaori le aveva suggerito che Megumi potesse essere attratta da un individuo così esasperante? Sapeva perfettamente di essere facilmente prona a reazioni aggressive, ma quello lì avrebbe reso violento anche il più mite dei santi!
«Cancella immediatamente la foto!» protestò cercando di sfilargli il telefono dalla mano.
«Assolutamente no!» replicò il ragazzo opponendo resistenza «Sei venuta troppo bene, vuoi vedere?»
«No! Voglio solo che la cancelli!»
«Te ne mando una mia per compensare!» propose come se l’offerta fosse realmente vantaggiosa, il che infastidì Megumi ancora di più.
«Mi spieghi cosa dovrei farmene? Cancellala e falla finita!»
«Ti mando un selfie al giorno! Decidi tu come!» offrì, forse veramente convinto di farle cosa gradita.
«Ma sei scemo o cosa? Non ne voglio, di tue foto sul mio telefono! Piantala di fare il maniaco e cancella come ti ho detto, prima che perda la pazienza e ti prenda a schiaffi!»
Al fallimento dei suoi tentativi di negoziato (in cui sembrava aver creduto sinceramente), Oikawa parve rassegnarsi. Increspò le labbra in un broncio triste e si arrese.
«E va bene, Gumi-chan. Ma sei davvero cattiva, cattivissima, praticamente perfida. Io ho fatto tanto per te, potresti anche essermi grata per una volta. Ma se tu vuoi che la cancelli, allora lo farò. E se ti dà così tanta noia, non mi farò neanche più sentire.»
Il cuore di Megumi compì una capriola, o un triplo salto mortale, o comunque una qualche acrobazia rischiosa del tutto inadeguata al contesto. Qualcosa di simile ad un formicolio freddo le pizzicò la schiena e suo malgrado si ritrovò a controbattere, senza poter controllare le parole che le sfuggivano di bocca. Solo che quella faccia di bronzo, con quell’espressione infantile di rammarico, la angustiava profondamente.
«Nessuno ti ha chiesto di non farti sentire più!» farfugliò allarmata «D’accordo, tienila pure!»
All’istante, Oikawa tornò a rivolgerle il suo sorriso indisponente, stavolta particolarmente soddisfatto, e la ragazza comprese di essere stata astutamente raggirata con uno dei peggiori piani B di cui avesse memoria. L’ultima volta che se n’era servita lei aveva otto anni ed aveva appena rotto la finestra della signora Sasaki con un bagher molto penoso. Senza ulteriore voglia di lottare, si risolse ad accontentarlo e a lasciar cadere la questione, anche se non voleva in nessun modo sapere che uso avrebbe fatto della sua foto. Se non altro, l’intera faccenda lo aveva messo di buonumore.
Solo allora, quando la sua collera fu stemperata, Megumi si prese la libertà di guardarlo meglio. L’uniforme scolastica addosso a lui sembrava un completo realizzato su misura da un sarto esperto, oltre che un perfetto esempio di come si dovesse indossare una divisa. Portava del profumo che non aveva mai sentito, una fragranza fresca e piacevole, che Megumi avrebbe volentieri annusato tutto il giorno.
«Che fine hanno fatto le stampelle?» gli domandò appena se ne rese conto.
«Nel garage di casa, da tre giorni.» annunciò allegro «Per il dottore è giunto il momento che io cammini di nuovo da solo. Zoppico ancora, ma gli altri dicono che si vede poco.»
«Solo se ci fai caso.» gli garantì, sollevata che stesse meglio. «Adesso però non combinarne nessuna delle tue, non sforzarti e prenditi tutto il tempo che ti serve.»
Il sorriso allegro di poco prima si spense, riducendosi al solo spettro amaro di quello che era stato pochi istanti prima.
«Ma non c’è tempo, Gumi-chan. Il campionato è vicino.»
«Che male c’è se non lo giochi? Ti siedi in panchina e fai un regalo alla tua riserva e al tuo ginocchio.»
«Certo, perché no? Magari mi porto un plaid, un mazzo di carte e mi faccio un bel solitario!» ironizzò lui per niente felice del suggerimento.
«Tu in panchina non ci sai proprio stare, non è così?»
«Da quale pulpito…»
«Sai, il mio caso era molto diverso. E comunque, col senno di poi, non lo trovo più così insopportabile. Se poi fosse a causa di un infortunio, non me la prenderei più di tanto.»
«Il regalo lo farò solamente agli avversari, standomene lì.»
Megumi gonfiò le guance d’indignazione. «Ma che bravo capitano! Se i tuoi compagni sentissero quanto poca stima di loro hai, ne sarebbero devastati. Pensi che non siano in grado di vincere senza di te? Quanta presunzione! Spero che ti diano una bella lezione!»
Oikawa tornò a sorridere, questa volta in maniera diversa, più dolce.
«Poi mi chiedono perché mi piaci.» commentò «Ti bacerei, quando dici queste cose.»
Megumi arrossì troppo rispetto a quanto volesse, perciò gli diede una spallata di protesta, leggera, innocua, senza alcun intento di fargli male.
«E comunque dove stiamo andando?» domandò ansiosa di cambiare discorso.
«Il tuo gelato mochi, non ricordi?»
«Sono due.»
«Caspita, ricordi eccome le cose che t’interessano!»
«Per compensare quanto ti sei fatto attendere fuori dalla tua scuola, merito un rifornimento a vita.» puntualizzò ancora indignata «Davvero, cosa avete che non va? Quasi tutti quelli che mi sono passati davanti mi hanno fulminata con lo sguardo, quasi fossi un nemico pubblico. Non è educato giudicare una persona solo perché è iscritto ad una scuola oggettivamente migliore della propria.»
«Oggettivamente migliore? Non c’è proprio nulla di oggettivo.»
«Certo che c’è: non esiste una scuola migliore in tutta la prefettura. Ma chi non vive l’Accademia non può capire l’Accademia.»
«Ho sempre sospettato che lì dentro vi facciano il lavaggio del cervello, comincio ad averne delle prove. Imparate a memoria il dépliant dell’orientamento il primo giorno di scuola insieme all’inno?»
«Che simpatico!» commentò Megumi con sarcasmo «Ci sarà un motivo se ammettono solo le eccellenze, ci hai mai pensato?»
«La categoria delle eccellenze comprende anche i pervertiti che vengono assunti come coach?»
«Sei proprio uno stronzo.» borbottò risentita «Tante grazie per la sensibilità.»
Consapevole di essersi lasciato trascinare un po’ troppo dalla foga del discorso, Oikawa si chiuse in un silenzio nervoso. Megumi non era poi così offesa come lui credeva: lo conosceva ormai abbastanza da sapere che non aveva tirato in ballo Hattori con l’intenzione di lanciarle una frecciatina, ma per ripicca e con un pizzico di sadismo preferì lasciare che crogiolasse ancora qualche minuto nel proprio brodo.
Per uno che aveva lasciato le stampelle a malapena da tre giorni, camminava piuttosto bene. A guardarlo con maggiore attenzione però, ci si poteva render conto dell’irregolarità con cui zoppicava: compiva con la gamba destra passi molto più brevi e rapidi di quanto facesse con quella sinistra. Per un solo provvidenziale momento, le balenò l’idea di aiutarlo prendendolo a braccetto, poi se la scrollò bruscamente di dosso come avrebbe fatto con un insetto sul naso.
Percorsero fino in fondo la strada che correva parallela lungo la facciata anteriore della scuola, poi svoltarono a sinistra, costeggiando il fiume. Il tappeto di foglie secche crepitava sotto i loro piedi ed un venticello docile ma freddo faceva ondeggiare il bucato che una donna stava stendendo sulla sua terrazza. Megumi ne incrociò lo sguardo e quella le sorrise complice, peccato che avesse frainteso la loro passeggiata per un appuntamento romantico. Girarono ancora una volta e Megumi fu attratta da un fenomeno piuttosto fuori dal comune.
Sull’altro marciapiede un piccolo angolo di primavera doveva essere rimasto imprigionato a causa di qualche sortilegio sotto il gazebo di una piccola pasticceria di quartiere: fiori colorati e freschi prosperavano infatti tutt’intorno il perimetro, come solo una magia oscura avrebbe potuto permettere. Si domandò istintivamente se Wakatoshi sarebbe stato in grado di spiegarle l’arcano dietro quella fioritura innaturale, o se ne sarebbe rimasto affascinato come lei. Il posto sembrava delizioso, arredato secondo un gusto elegante e curato, dalle sedie intricate di ghirigori in ferro battuto ai lucidi tavolini di marmo rosa.
«Siamo arrivati.» affermò Oikawa quando ebbero attraversato la strada. Il suo tono era titubante, segno che era ancora mortificato per ciò che si erano detti prima. Le dispiacque di essere stata così severa, ma era troppo tardi per scusarsi a parole, perciò si limitò a seguirlo oltre le porte scorrevoli.
«Che posticino carino!» osservò sbalordita ammirando le distese di leccornie di ogni tipo esposte sotto il vetro lucido del bancone. Se avesse avuto soldi da spendere – il listino prezzi non era clemente come avrebbe desiderato – sarebbe passata da lì ogni giorno per assaggiare qualcosa di nuovo, dai cupcake colorati alla spettacolare torta a tre piani in bella vista accanto alla vetrina.
Doveva sembrare una bambina, così presa ad ammirare i dolci, perché Oikawa iniziò a ridere.
«Lo dici perché ti piacciono le cose carine o perché ti piacciono i dolci?»
«Non possono piacermi entrambi?» replicò con innocenza.
«Quindi sei anche una ragazza a cui piacciono le cose carine, questo non lo sapevo.» concluse il ragazzo strizzandole l’occhio. Ma Megumi era troppo presa per notare altro.
«Quello è un muro di caramelle gommose? E lì c’è una fontana di cioccolato?»
«Andiamo a sederci, dai.» la invitò indicandole un tavolo non molto lontano «Qui fanno i mochi più buoni del mondo, parola mia! Puoi anche chiedere di metterli sotto la fontana di cioccolato.»
«La signorina Kato mi ucciderà per questo, ma è un sacrificio che vale la pena compiere.»
Così, a dispetto della dieta iperproteica che Kato le aveva consigliato per riprendere massa muscolare, si ritrovò ben presto a leccarsi la cioccolata dalle mani appiccicaticce. Oikawa, d’altro canto, rimaneva ineccepibile perfino nel modo di mangiare, servendosi della forchetta di cui Megumi aveva perfino dimenticato l’esistenza.
«Sei tutta sporca di cioccolato sul viso!» commentò divertito, appoggiando i gomiti sul tavolo e il mento fra le mani.
«Davvero? Dove?» domandò allarmata cercando il tovagliolo, peraltro già sporchissimo quanto le sue mani. «Qui?» tentò indicando un punto sul mento.
«No, è più su… a destra.»
«Qui?»
«Aspetta» disse, prima di sporgersi un po’ in avanti e sfilarle il tovagliolo dalla mano. Strofinò delicatamente un punto appena più in su dell’angolo delle labbra.
Che poi Oikawa era davvero un bel ragazzo, non c’era da biasimare nessuna delle sue ammiratrici starnazzanti. Così da vicino, riuscì a notare per la prima volta dei particolari a cui non aveva mai potuto o voluto far caso: la sua pelle era candida e molto più liscia di quanto Megumi fosse mai riuscita a rendere la propria, le ciglia lunghe erano folte ed incurvate come quelle di una ragazza, il suo colore di occhi era un marrone profondo, il naso sottile non presentava alcuna traccia di imperfezione, e sarebbe stata pronta a giurare che le sue labbra carnose e rosee sarebbero risultate calde e morbide da…
Stupida, stupida, Kaori! Inveì interiormente, ritraendosi con un sussulto improvviso dal suo tocco e serrando gli occhi. Di certo il suo discorso doveva averla influenzata, ma non poteva lasciarsi suggestionare dalle sue intuizioni, soprattutto se erano lontanissime dalla realtà dei fatti.
«Fatto!» annunciò soddisfatto restituendole il tovagliolo, che la ragazza accettò dopo qualche attimo di esitazione. Dopo si rilassò nuovamente sullo schienale della propria sedia, con grande sollievo di Megumi «Adesso va molto meglio.»
Per Megumi non andava esattamente tutto bene: per qualche motivo aveva la testa sottosopra, come se dentro ci fosse esplosa una bomba, un evento che non aveva per niente senso: il cuore le batteva fortissimo ed Oikawa continuava a sorriderle dall’altro lato del tavolo, con la sua solita faccia irritante.
«Com’è che conosci un posto così femminile?» domandò allora, con l’urgente necessità di riempire quel silenzio e focalizzarsi su altro.
«Questa pasticceria è la preferita di Asuka, ci veniamo molto spesso.»
La disinvoltura con cui aveva chiamato in causa il nome di un’altra ragazza servì efficacemente a riscuoterla da quel torpore confuso, per gettarla però nel fuoco più vivo. Davvero, lei non era affatto gelosa – continuava a ribadirselo più come ordine che come rassicurazione – ma portare una ragazza nello stesso luogo in cui se ne sono portate altre, per di più mettendola al corrente del misfatto, non era per niente educato. E, ancora più grave, ci veniamo spesso era molto diverso da ci siamo venuti spesso: frequentava stabilmente un’altra ragazza mentre continuava a sostenere di essere innamorato di lei! Squallido! Un bel ragazzo ma squallido come pochi altri.
Quindi, visto che non era affatto gelosa, sibilò innervosita:
«Chi è Asuka?»
Oikawa cercò di chiarire tutto allarmato, farfugliando a Megumi che aveva capito male, che in realtà Asuka era…
«Non m’importa.» lo zittì lei, senza neanche sapersi spiegare perché si sentisse così tradita «Sono soltanto una tua amica e non m’interessano le ragazze con cui te la fai!»
«Gumi-chan!» protestò lui sconcertato «Asuka non potrebbe mai essere una ragazza con cui…»
«Non voglio saperlo, va bene?» concluse stizzita, rimettendosi in piedi «Sono fatti tuoi. Vado a casa, così tu puoi andare dalla tua Asuka.»
Aveva sbagliato ad accettare di incontrarlo, si stava soltanto lasciando prendere in giro e se non si fosse fermata subito, probabilmente alla fine sarebbe stata troppo coinvolta e le si sarebbe spezzato presto il cuore.
Oikawa scattò in piedi per fermarla, ma il suo ginocchio non fu affatto clemente con lui, perciò fu costretto a lasciarsi nuovamente cadere sulla sedia di ferro battuto.
«Gumi-chan

~

Lo stato d’animo di Kaori non era affatto più invidiabile. Aveva passato la giornata a mangiarsi le pellicine delle unghie, riducendo le proprie mani all’impresentabilità totale, tanto che Mikoto si era lasciata sfuggire un commento affatto gentile a cui l’interessata però non aveva prestato minimamente attenzione. Non riusciva a smettere di pensare, nemmeno un secondo, al dilemma sollevato dalla signorina Kato.
«Non è facile cambiare ruolo. Ma forse a qualcuna di voi potrebbe stare stretto quello che ha adesso, specialmente fra le riserve» aveva detto.
E a Kaori stava stretto? Sì, come il paio di jeans acquistato mentre era in balia della follia cieca dei saldi e rimasto a prendere polvere nell’armadio di camera sua, indossato appena due volte perché di una taglia troppo piccola. Il punto era che non sapeva se avesse abbastanza fegato di provare qualcosa di così diverso dal solito.
«Anche se non vi sentite pratiche, ci lavoreremo insieme finché non prenderemo dimestichezza
Eppure l’idea le piaceva da morire: forse aveva atteso l’occasione per tutto il tempo, e di ogni match che aveva visto in tv aveva sempre ammirato il gioco d’astuzia delle palleggiatrici. Aveva perso il conto di tutte le volte in cui, guardando Kurihara dalla panchina, aveva mentalmente corretto le sue decisioni avventate. Ma le alzatrici erano svelte con la mente e con le gambe, Kaori era svelta solo con il cibo e i compiti a casa.
«Hai un problema.» giudicò Kawanishi appoggiandosi al banco accanto a lei.
Kaori annuì, sospirando appena. «Si vede tanto?» aggiunse.
«Abbastanza» rispose lui sollevando le spalle «Cosa è successo? Hai paura di aver preso un punteggio basso al compito di inglese?»
«No, quello… è una A, ne sono sicura. Non ho sbagliato nemmeno una domanda.»
«E quindi cosa preoccupa la sempre raggiante Kaori Nonaka? Qualcuno ti ha offesa?»
«No!» si affrettò a rispondere «Ci vuole un bell’impegno per riuscirci, ai commenti sgarbati sul mio peso ci sono abituata.»
«E non è affatto giusto, vai bene così come sei.»
«Grazie, ma non ne sono più tanto sicura.» spiegò con un sorriso amaro «Kawanishi-kun, io stavo pensando di cambiare ruolo. Nella squadra, voglio dire.»
«E cosa vorresti fare?
«La palleggiatrice.» ammise dopo aver preso un respiro profondo «Toccherei in un solo set la palla più di quanto abbia fatto per tutta la mia vita. Per essere onesta: vivo in panchina. A scuola ci sono entrata solo per i voti, se avessi dovuto essere valutata solo sulla base delle mie doti sportive, a quest’ora sarei altrove.»
Kawanishi non parve affatto prenderla con il suo stesso pessimismo.
«Forse sei sempre stata in panchina perché giocavi in un ruolo che non era adatto a te.»
«Se fosse stato così, non me ne sarei dovuta accorgere molto tempo fa?»
«Non c’è un momento preciso, per come la vedo io. Hai un buon palleggio e sei sveglia, può bastare per iniziare. Forse è un proposito ambizioso, ma ti si addice.»
«Vorrei pensarla come te.» confessò insicura «Non voglio deludere nessuna. E se poi non fossi brava abbastanza?»
«Come fai a saperlo se rimani nella tua comfort zone? Troppo semplice fare così. Se ti è venuto in mente di cambiare, significa che tu intendi cambiare.»
Kaori si guardò le dita massacrate dal nervosismo, quando si accorse che Kawanishi stesse facendo lo stesso, strinse i pugni imbarazzata e nascose le mani dietro la schiena. Il compagno di classe avvicinò la sedia del banco vicino e si sedette accanto a lei.
«Be’, non puoi continuare così.» disse sollevando le spalle «Ne hai parlato con qualcun altro?»
Scosse il capo. «Solo con te.» Inspirò profondamente, poi domandò in fretta: «Tu credi davvero quello che hai detto prima? Che mi si addica?»
«Certo che sì.» le garantì con un sorriso incoraggiante «Sei la ragazza più intelligente che conosca, ed impari tutto in fretta. Sei brava ad osservare gli altri e a comprenderli, e sono del parere che potresti usare il tuo talento per un fine migliore del pettegolezzo.»
«Non sono pettegola, Kawanishi-kun, è che mi piace sapere tutto di tutti.»
«Bene, potresti ficcanasare un po’ più oltre la rete e diventare una brava palleggiatrice. Ma se non ci provi, la panchina esaurirà ben presto i suoi spunti creativi.»
Kawanishi sembrava realmente convinto di quanto dichiarava: raramente lo aveva visto tanto preso da qualcosa, in genere trascorreva la maggior parte del tempo ad annuire ai discorsi degli altri senza nemmeno disturbarsi di simulare interesse. I suoi occhi tradivano sempre che la sua testa fosse da tutt’altra parte rispetto al resto del corpo. Secondo Kaori, era un sognatore sotto copertura: la quotidianità doveva risultargli asfissiante, così come le chiacchiere irrilevanti dei suoi compagni, e dunque aveva messo a punto una strategia che gli permettesse di astrarsi di tanto in tanto dalla realtà. I rari momenti in cui mente e corpo condividevano lo stesso spazio, richiedevano che lui fosse coinvolto direttamente, come quando giocava, anche se una volta Kaori lo aveva visto distrarsi e murare praticamente con la faccia. Questa volta, invece, nonostante la questione non lo riguardasse affatto, era più che mai concentrato e presente.
«Se vuoi un mio consiglio, dovresti andare dalla signorina Kato e proporti. Lei certamente saprà cosa fare e t’insegnerà tutto quello che c’è da sapere. Tu imparerai come hai imparato tutte le cose che sai fare. Voglio dire, se uno Shirabu spuntato dal nulla può fare le scarpe a Semi ed essere palleggiatore, puoi diventarlo anche tu.»
Kaori non voleva far le scarpe a nessuno, né tantomeno a Kurihara: innanzitutto le lamentele della nipote del preside sarebbero state insopportabili e l’ultima cosa che desiderava era che andasse a pestare i piedi sul pavimento dell’ufficio di suo nonno. E poi non le era mai piaciuta la competizione, era mansueta come un agnellino e prontamente finiva divorata dal lupo.
«Kurihara mi odierà.»
«Esiste la possibilità, ma a te cosa importa? È certo che vi serve una seconda palleggiatrice, se lei dovesse farsi male e non potesse giocare cosa fareste? Sconfitta a tavolino?»
«Forse lei preferirebbe così.»
«Sei troppo buona, Nonaka.» commentò il ragazzo scuotendo il capo «Ma non è un difetto!» precisò rapidamente «Solo che ci sono tante persone che non lo meritano.»
«Sono solo troppo pigra per litigare con qualcuno.» spiegò lei restituendogli un sorriso «Sai, tenere il broncio è faticoso, ed anche preoccuparsi che qualcuno sia arrabbiato con te è una bella seccatura.»
«Non puoi evitare tutti i conflitti del mondo!»
«Posso provarci, però.»
«Allora, se tu non troverai il coraggio di andare da Kato, io mi arrabbierò davvero tanto con te.»
Kaori non voleva discutere con Kawanishi, era uno dei pochi ragazzi che le rivolgevano la parola ed aveva sempre qualcosa di straordinariamente interessante da dire. Non le andava proprio di perderlo solo per aver condiviso con lui le proprie perplessità. Glielo fece notare.
«Giusto, quindi dovrai scegliere se metterti contro me oppure Kurihara.» replicò lui.
«Dai, non è da te!»
«E tu che ne sai di cosa sia da me?»
«Non è da te impicciarti delle questioni degli altri, a te non importa.»
«È vero, non mi importa degli altri. Però tu non sei una di loro, sei mia amica.» ammise mentre il suono della campanella interrompeva la pausa pranzo. Si alzò in piedi e rimise la sedia al suo posto. «Fuori dalla comfort zone, okay?»

~

Per Tooru fu piacevole ritornare dopo tanto tempo alle chiacchiere da spogliatoio, anche se non poteva allenarsi e doveva limitarsi a guardare i suoi compagni prepararsi per un campionato che non avrebbe mai giocato. Aveva preso la consuetudine di raggiungerli negli spogliatoi dopo aver assistito agli allenamenti, per discutere di quanto andasse o meno nella strategia e di come sembrassero le cose viste fuori dal campo. Gumi-chan non aveva torto a credere che ce l’avrebbero fatta anche senza di lui, Iwaizumi e gli altri sapevano il fatto loro. Si sentì inutile, e stupido: stava mettendo a segno una formidabile serie ininterrotta di buchi nell’acqua, in qualsiasi contesto.
«Quando tornerai» suggerì Iwaizumi «dobbiamo provare qualche pipe. Yahaba deve ancora lavorarci molto e non ne stiamo più facendo nessuna, stiamo perdendo l’abitudine.»
«Non ne abbiamo mai fatte tante.» osservò Tooru lanciando stancamente l’asciugamano all’amico «E nemmeno io penso di essere più tanto pratico.»
«Parli così soltanto perché è da tanto che non ti eserciti. Quando avrai concluso la convalescenza ritornerai ad essere il solito iperattivo.»
Era come se fossero passati anni dall’ultima volta che si era esercitato, ed invece era solo poco più di un mese. Il tocco dei polpastrelli sulla palla, lo stridio delle scarpe sul parquet, la puzza di sudore, il dolore al ginocchio… gli sembravano tutte cose lontanissime nel tempo, irraggiungibili.
«Come è andata?» gli domandò allora Iwaizumi quando ebbe finito di tamponarsi energicamente i capelli con l’asciugamano, una pratica barbara che Tooru disapprovava fortemente: un giorno o l’altro li avrebbe persi tutti, se avesse continuato a torturarseli in quel modo.
«Come è andata cosa?»
«Sakurai, ieri pomeriggio.»
«Come sempre, male. Non ho neanche capito bene dove io abbia sbagliato. Ad un certo punto le ho detto che io e Asuka andiamo spesso in quella pasticceria e lei s’è infuriata. Non mi ha lasciato neanche più spiegare, ha frainteso ed è andata via.»
«Asuka?» considerò Iwaizumi perplesso «Ma tu le hai detto che…»
«Te l’ho detto, non mi ha lasciato più parlare! Ha detto che non voleva saperlo e se n’è andata.»
«Allora tu non hai sbagliato proprio niente, è lei che reagisce in modo eccessivo. Ha un carattere di merda, fine della storia.»
Matsukawa si sedette accanto a loro.
«Se posso dire la mia, dovresti guardare il lato positivo: è ovvio che è gelosa.» osservò con una punta di soddisfazione.
«Se io fossi una ragazza, anche io sarei gelosa di Asuka.» osservò Hanamaki, che sembrava non aver più bisogno di accappatoi quando usciva dalla doccia «Voglio dire, Asuka è un gran pezzo di…»
Iwaizumi gli tirò bruscamente addosso l’asciugamano con cui si era asciugato i capelli, prima che l’altro avesse il tempo di concludere la frase.
«Abbi la decenza di coprirti prima di parlare di Asuka!»
«Grazie, Iwa-chan
«Prego!» ringhiò l’amico, come se la questione riguardasse più lui che Tooru.
«Comunque, resta il fatto che Sakurai è gelosa del solo nome di una ragazza.» riprese Matsukawa «Può raccontare quello che le pare, ma questo la dice lunga…»
«Non puoi mandarle un messaggio in cui le spieghi come stanno le cose?» suggerì Hanamaki.
«Oh, me ne ha mandato lei uno cinque minuti dopo avermi lasciato solo: mi ha scritto che, se oso scriverle qualcosa su Asuka, mi bloccherà.»
«È pazza, totalmente fuori di testa!» inveì Iwaizumi sempre più seccato «Soltanto a te poteva interessare un’esaltata del genere! Guarda, se penso a quante altre ragazze normali ti fanno il filo, mi viene voglia di prenderti a schiaffi!»
Tooru non poteva negare che l’amico avesse ragione: di ragazze ne aveva conosciute e frequentate fin troppe, e gli sarebbe bastato il minimo sforzo per ricominciare ad assicurarsi un nuovo appuntamento al giorno, come aveva sempre fatto, ma non gli interessava più. Rimaneva cortese con le sue ammiratrici, accettava di buon grado i loro regali, i loro likes ai suoi selfie, si fermava a chiacchierare con loro, ma non gli importava altro. Né lo stuzzicavano più le belle ragazze che un tempo avrebbe avuto in mano in un batter d’occhio, quelle che tutti si voltavano a guardare mentre ancheggiavano fieramente per strada o nei corridoi della scuola e quelle che si sarebbero spogliate prima ancora che lui avesse il tempo di chiederlo. Da quando aveva conosciuto Megumi, aveva gradualmente perso interesse nei loro riguardi.
«Prendimi a schiaffi, allora.» buttò lì facendo spallucce.
Iwaizumi schioccò la lingua in segno di disapprovazione, ma fortunatamente non accolse la sua coraggiosa esortazione. Restò in silenzio per il resto della conversazione, ascoltando ciò che Hanamaki e Matsukawa consigliavano all’amico senza proferire parola o anche solo annuire.
Fu quella, forse, la prima volta in cui Tooru si rese conto di quanto Megumi non piacesse al suo migliore amico: già dai primi tempi era stato meno entusiasta degli altri riguardo la sua cotta, era sempre stato il meno collaborativo dei tre, quello che lo rimproverava di più.
In auto con suo fratello, di ritorno a casa, le scrisse di nuovo. Evitò accuratamente ogni riferimento ad Asuka o a quanto era accaduto il pomeriggio precedente; d’altro canto anche lei sembrava averlo dimenticato. Le inviò una foto della strada che stavano percorrendo, lei rispose con un’altra della sua scrivania ingombra di libri e quaderni. I suoi compiti d’inglese erano zeppi di errori di ortografia, ma preferì non farglielo notare: era una ragazza normale, in fondo, così diversa da come appariva in superficie.
«Ricordi che avevamo parlato di quel parco divertimenti?
Potremmo andarci, quando sei libera. Anche i miei amici vogliono andarci.
Possiamo organizzare qualcosa tutti insieme.»
~
 
Mai un messaggio di Oikawa aveva reso Megumi tanto felice. Subito essere salita sull’autobus si era resa conto di aver reagito in modo del tutto irragionevole ed infantile, e se l’autista non avesse subito pestato l’acceleratore, sarebbe certamente scesa ed avrebbe percorso tutta la strada all’indietro fino a dove l’aveva lasciato. Dopotutto, quale ragione aveva di essere gelosa di un’altra ragazza che in tutta probabilità Oikawa frequentava? Lo aveva chiarito lei, più di una volta, che erano soltanto due buoni amici e che l’unico ragazzo a cui era interessata era Wakatoshi. Si era comportata come una bambina e per giunta non era nemmeno la prima volta che lo faceva. A quel punto aveva deciso che si sarebbe eclissata, per vergogna, dalla vita di Oikawa e la loro nascente amicizia avrebbe dovuto trovare in quell’episodio la sua battuta d’arresto.
«Hai intenzione di tirare entro la fine dell’allenamento oppure devo trovarmi un’altra compagna?»
«Cosa?» biascicò ritornando coi piedi per terra «Certo, certo, faccio subito. Scusami, Risu.»
Sollevò la palla con la mano sinistra e la colpì con la destra; ne ottenne un servizio di tutto rispetto, ma il libero lo intercettò senza alcuno sforzo e rispedì con precisione il pallone fra le sue mani.
«Non ci siamo!» protestò insoddisfatta «Devi saltare, saltare! Kato non si è raccomandata d’altro!»
«Io non credo di essere in grado di farlo.» spiegò girandosi la palla fra le dita «Ed è imbarazzante provare e fallire davanti a tutti.»
Ripeté il medesimo servizio eseguito poco prima, questa volta con maggiore vigore, ma di nuovo Risu le restituì la palla senza la minima difficoltà.
«Quindi da sola ci hai provato, qualche volta?» le domandò l’amica.
«Con Waka-nii, ha provato ad insegnarmelo. Non che lui sia un ottimo insegnante, ma di certo io non sono un’ottima allieva. Mi sono sentita un’incapace.» confessò.
«Un’allieva che non fa i compiti.» sentenziò Risu «Adesso riprova, e salta!»
Pur riluttante, Megumi si risolse ad accontentare l’amica. Tentò almeno tre volte prima di riuscire a coordinarsi abbastanza da toccare almeno la palla dopo essersi staccata da terra: la prima volta, sferzò semplicemente l’aria stantia della palestra; la seconda, pregando che nessuno stesse assistendo a quel fallimento, incespicò sul parquet, dove il pallone finì penosamente poco dopo; alla terza si ritrovò completamente scoordinata e con la coda dell’occhio vide Kurihara nascondere il sorriso sornione con una mano. Risu, invece attendeva pazientemente, Megumi avrebbe voluto avere un briciolo della fiducia che l’amica nutriva nei suoi confronti. Fu solo per amore suo che, alla quarta volta, con la punta delle dita riuscì a colpire la palla, che scelse una traiettoria arbitraria che come meta aveva la testa della povera Kaori. La signorina Kato recuperò la palla senza batter ciglio e la restituì a Megumi, che si piegò in segno di scusa; la nuova allenatrice le sorrise, Kaori invece scosse una mano per rassicurarla di non essersi fatta male.
«Come vedi, non sono in grado.» concluse spicciola «Se c’è qualcuno che deve riuscirci nel nostro club, mi pare chiaro che non sia io.»
«A ma pare soltanto chiaro che sei di una pigrizia insostenibile.»
«Potresti almeno ammettere che non io non sia in forma come una volta.»
«E tu invece potresti almeno ammettere di non provarci abbastanza.»
«Forse ho altro per la testa, che ne dici?»
«Che dovresti smettere di nasconderti dietro un dito e ricominciare a fare sul serio senza preoccuparti del giudizio degli altri.»
«Sai quello che pensano di me.»
«So quello che tu credi che pensino di te.»
Megumi si passò le dita nei capelli, stanca di battibeccare.
«Va bene, non ne verremo mai fuori. Sarà meglio cambiare partner, andrò a chiedere a Mikoto.»
«Io non voglio Mikoto, sei impazzita?»
«Allora chiederò a Kaori.»
«Kaori è nel bel mezzo di un allenamento speciale, da lei dovresti prendere soltanto spunto. Lei non ha paura di Kurihara.»
«Io non ho paura di Kurihara, è solo che mi mette a disagio. Non fa che guardarmi e sghignazzare, il che non è per niente d’aiuto.»
«Sono fatti suoi: al suo posto invece di fare dell’ironia m’impegnerei prima che Kaori mi soffi il posto. Suppongo che lamentarsi con suo nonno potesse bastare quando c’era Hattori, ma Kato non si lascerà imporre niente da nessuno.»
Kaori si esercitava ormai da una settimana, con ottimi risultati. Certo, i primi giorni erano stati i più difficili, e l’idea di essersi dovuta mettere a dieta non l’aiutava per niente: eppure ogni giorno sembrava sempre più motivata a rendersi utile per le altre. L’aveva vista alzarsi presto ogni mattina e percorrere svariate volte il circuito del cortile dell’Accademia, rinunciare alle sue merendine preferite in favore di barrette energetiche insipide e minuscole e durante gli allenamenti trascorreva quasi tutto il tempo con Kato, che a poco a poco le stava insegnando le basi del ruolo di palleggiatrice. Megumi pensava che l’amica fosse tagliata apposta per il ruolo: era quel genere di persona che sapeva a memoria cosa ognuno dei suoi amici amasse mettere sul gelato, e allo stesso modo ricordava perfettamente che tipo di palleggio ciascuna delle sue compagne si aspettasse. In passato, non avrebbe scommesso su di lei nemmeno un centesimo, adesso scopriva di non aver mai capito nulla di lei.
Fece rimbalzare nuovamente la palla per terra un paio di volte, la lanciò, prese la rincorsa, la colpì, con decisamente troppi centesimi di secondo di ritardo, ma questa volta fu abbastanza fortunata da ottenere un risultato accettabile, anche se privo del vigore necessario a mettere in difficoltà chiunque. Risu, in effetti, ricevette il suo servizio con facilità, tuttavia ne fu soddisfatta.
«Come vedi» le fece notare ora cantilenando l’amica «sei in grado eccome, se vuoi!»
«Macché, solo fortuna! Non ho idea di cosa stessi facendo.»
«Allora ti consiglio di cercare di capirlo al più presto, perché sei sulla strada giusta!»
La signorina Kato doveva essersi silenziosamente avvicinata alle due mentre Megumi era concentrata sulla sua battuta. Per quanto il servizio fosse stato penoso, era entusiasta – forse troppo – dei miglioramenti di Megumi.
«Arisu, posso chiederti di prestarmi Megumi per i minuti d’allenamento che restano? Potresti unirti intanto ad Asami e Kaori, hanno bisogno di qualcuno che difenda.»
Dopo che Risu ebbe diligentemente raggiunto le altre, Kato rivolse a Megumi un largo sorriso. La verità era che erano passate settimane, ma la ragazza non sapeva esattamente come sentirsi quando intorno c’era Kato: la leggenda precedeva sempre il suo nome, eppure manteneva un profilo così basso ed un’attitudine tanto amichevole, che talvolta sembrava difficile distinguerla dalle sue studentesse. Certo, era severa ed autoritaria, ma al contempo non la si sarebbe mai potuta definire inflessibile o poco empatica: la prima domanda che faceva quando si riunivano era se qualcuna si sentisse poco bene, se avesse dolore da qualche parte o fosse preoccupata per qualcosa. Non era raro che raccontasse qualcosa di sé in tutta disinvoltura, al punto che spesso anche le ragazze finivano per aprirsi a loro volta. Insomma, era lì complessivamente da un mese, ma sembrava che la conoscessero da una vita. Con Megumi era sempre particolarmente attenta: non le si rivolgeva mai in modo brusco, né le imponeva troppo la sua presenza; si limitava ad osservarla a debita distanza, occultando quanto poteva il suo sguardo perché non provasse soggezione. Era dunque una sorpresa, che dopo due settimane, la prendesse da parte per parlarle a tu per tu.
«Puoi ricordarmi, Megumi, gli esercizi propedeutici che abbiamo fatto insieme finora per imparare il servizio in salto?»
Megumi aggrottò la fronte, presa alla sprovvista da una richiesta così illogica.
«Ovviamente io so quali esercizi abbiamo fatto» precisò con un sorriso «Voglio accertarmi di quanto ricordi tu.»
Megumi annuì educatamente, prima di iniziare ad elencare:
«Attacco con autoalzata ed ultimo passo da eseguire nel cerchio, poi attacco con autoalzata a distanza crescente dalla rete, battuta in salto su alzata di una compagna.»
«E a cosa servivano?»
«Il primo a familiarizzare con la ricorsa, il secondo a calibrare la forza con cui colpire la palla, il terzo a capire quando saltare.»
«Bravissima! Adesso dobbiamo pian piano mettere insieme quel che abbiamo appreso da questi esercizi, per trovare le distanze giuste. Ma devi tenere a mente che in genere questi esercizi li si fa per tantissimo tempo, e lo faremo anche noi. Il servizio in salto non è una cosa che s’impara dall’oggi al domani, tu sei già ad un ottimo punto, ma non devi chiedere troppo a te stessa. È per questo che ti ho chiesto di provare sempre questo servizio negli allenamenti in coppia, ma di farlo a cuor leggero. Nessuno può biasimarti se sbagli, hai iniziato da pochissimo!»
«Qualcuno lo fa…» mormorò Megumi.
«Non a giusta ragione, chiaramente. Parleremo con Noriko.»
«Parleremo?»
«Certo! Nella mia squadra, se qualcuno ha un problema lo risolve col confronto.»
«Non sono mai stata il tipo da confronto.»
«E che tipo sei?»
«Più quella che alza le mani…»
La signorina Kato rise.
«Lo sono stata anche io!» ammise «Adesso, però, lascia che ti dia dei consigli. Esegui gli ultimi due passi più rapidamente del primo, altrimenti arriverai troppo tardi e sotto la palla. Ricorda che la differenza con lo stacco della schiacciata è che qui non devi neutralizzare la spinta in avanti, ma accoglierla. Cerca di provare il servizio quanto più puoi e anche il terzo esercizio propedeutico, possibilmente con qualcuno di cui non ti vergogneresti ad uscire dalla comfort zone
«Ho provato con Wakatoshi, negli scorsi giorni. Ma non sono stata granché brillante…»
«Megumi, qualcuno a cui senti di non dover dimostrare nulla.» puntualizzò la signorina Kato con tono vagamente malizioso «Perciò, scegli qualcuno di diverso dal ragazzo che ti piace.»
Megumi arrossì.
«D’accordo, signorina. Conosco qualcuno di adatto, un mio compagno di classe» la rassicurò, certa che Kenjiro non si sarebbe rifiutato di aiutarla ancora una volta «ho già perso la dignità davanti a lui commettendo errori di calcolo ridicoli, penso di non temere più nulla.»

~

Il giorno Megumi si era diretta al liceo Aoba Johsai, questa volta col capo cosparso di cenere. Oikawa le aveva scritto per tutto il pomeriggio precedente sforzandosi di evitare l’argomento e di comportarsi come se non fosse accaduto niente, ma lei continuava ad essere divorata dai sensi di colpa. Era stata sgarbata con una persona che invece era stata tanto gentile da offrirle di dolci in una pasticceria costosissima, che l’aveva aiutata ad uscire da un vicolo apprentemente cieco, rimanendo anche personalmente coinvolto. Lei aveva ricambiato con cosa? Si era innervosita per nulla e l’aveva lasciato lì da solo, pergiunta sapendo quanto difficile sarebbe stato per lui ripercorrere la salita a ritroso con un ginocchio ancora convalescente.
Non l’aveva neanche avvisato che lo avrebbe aspettato all’uscita da scuola, aveva reagito d’istinto e si era presentata lì. Ancora una volta, sopportò gli sguardi sospettosi degli studenti, affinando il proprio nella speranza di scorgere Oikawa nella massa. Lo vide zoppicare accanto ai tre amici con cui lo aveva visto ogni volta che si erano incontrati al City Gymnasium in occasione delle competizioni scolastiche. Una ragazza in uniforme la urtò volontariamente, e si allontanò ridacchiando con il suo gruppetto, rivolgendole di tanto in tanto occhiatine pungenti. Megumi si impose di rimanere calma, strinse i pugni, inspirò profondamente.
Oikawa la riconobbe subito, si sbracciò in sua direzione, fin troppo felice di vederla. Si sentì ancora più in colpa per averlo trattato ingiustamente in quella maniera burbera. D'accordo, frequentava con tutta probabilità un'altra ragazza, ma in fin dei conti nessuno dei due aveva firmato un contratto con l'altro, erano liberi di uscire con chi meglio gli paresse.
Come se stesse camminando su una lastra di ghiaccio sottile e fragile, Megumi andò loro incontro, con lentezza e cautela.
«Gumi-chan, cosa ti porta qui?» le domandò con serenità insopportabile.
Perché non si arrabbiava con lei? Perché non si decideva ad infuriarsi e a mandarla al diavolo? Non meritava quel trattamento così condiscendente, era intollerabile.
«Volevo parlarti» affermò tesa «Da soli, se è possibile.»
Oikawa schiuse le labbra per parlare ma Iwaizumi lo precedette.
«No, non è possibile.» tagliò corto «Come vedi, lui sta con noi. Se vuoi dirgli qualcosa dovrai farlo davanti a noi.»
«Andiamo Hajime, non ti sembra di esagerare? Sono fatti loro…» cercò di farlo ragionare Hanamaki.
«Non fa che ferirlo ed è mio amico. Per quel che mi riguarda, sono anche fatti miei.»
«Iwa-chan, non è cortese…»
«Be’, neanche lei lo è.»
Megumi era sorpresa: non si aspettava affatto che a prendersela per Oikawa fossero i suoi amici. Ne soffriva, ma ne fu soddisfatta: sentiva di meritarlo, si era comportata da vera cretina.
«Iwaizumi ha ragione. Sono stata crudele con te la scorsa volta e non lo meriti affatto, tu sei sempre tanto gentile con me… Ero venuta per chiedere scusa, sei libero però di non accettarlo. Capirò.»
Iwaizumi schioccò la lingua sul palato. «Pensi che bastano le scuse?»
«No, ma ci tenevo a fargliele.»
«Iwa-chan, è una cosa che riguarda solo me.»
«Allora sii sincero e dille che ci sei stato male.»
Oikawa strinse le labbra, interdetto.
«Dice la verità? Ti ho ferito?» gli domandò Megumi.
L’altro annuì, senza riuscire a dire altro.
«Potevi scrivermelo, invece di far finta di nulla.» osservò lei dispiaciuta.
«Avevo paura che potessi arrabbiarti ancora di più.» ammise.
Megumi si sentì, se possibile, una persona ancora più orribile. Quale considerazione di lei dovevano avere gli altri, se perfino Oikawa arrivava a temerla? Certo, sapeva di non essere mai stata uno stinco di santo, ma non credeva di essere tanto irascibile da spaventare addirittura coloro che considerava suoi amici. Ripromettersi di cambiare non bastava, sarebbe mai stata in grado di perseguire un obiettivo simile? Non era qualcosa che s’impara dall’oggi al domani.
Chinò profondamente il capo, in segno di scusa.
«Mi dispiace profondamente di averti trattato in quel modo, non so che cosa mi sia preso. Ti prego, perdonami, non voglio perdere un amico come te.»
«Gumi­-chan, vale lo stesso per me e ti ho già perdonata.»
«Starò attenta a ciò che dico e faccio, d’ora in poi.»
«Ed io cercherò di spiegarmi meglio la prossima volta.»
Megumi si rimise dritta e aggiunse: «Ad ogni modo non voglio sapere chi sia, quella Asuka.»
Gli amici di Oikawa, compreso perfino Iwaizumi, non riuscirono a trattenere un sorriso divertito. In particolare Hanamaki non sembrava proprio in grado di trattenersi. L’intera questione la incuriosiva e la irritava, ma Megumi fece di tutto per contenersi e non infrangere da subito le proprie promesse. Lei e Oikawa erano buoni amici e non le interessava la ragazza che frequentava abitualmente, d’altro canto lo aveva rifiutato da abbastanza tempo perché si riprendesse e se ne cercasse una nuova.
«Guarda che sarebbe tutto più semplice se mi lasciassi spiegare…»
«Non c’è bisogno di spiegare nulla.» rispose lei con un sorriso che sperò essere il più naturale possibile, anche se sentiva l’angolo destro della bocca tremare pericolosamente.
«D’accordo, come vuoi.» convenne l’altro «Adesso cosa fai? Ti va di fare un giro con noi? Pensavamo di passare dal centro e fermarci un po’ lì…»
«No, che non le va.» intervenne nuovamente Iwaizumi «Sakurai ha sicuramente altro da fare, non è così?»
«Iwa-chan, mi ha chiesto scusa! Potresti trattarla con più gentilezza adesso?»
«Torno a casa, Iwaizumi ha ragione. Ho degli allenamenti supplementari, sono venuta qui soltanto perché volevo farti le mie scuse. Adesso posso andare.»
«Allenamenti supplementari per cosa?»
Megumi arrossì. «Be’, poi magari te lo spiego per messaggi.»
Oikawa per fortuna non ci fece troppo caso.
«Ti ringrazio di cuore per aver capito e per avermi perdonato.» disse, poi si rivolse ad Iwaizumi. «Grazie anche a te per avermi fatto intendere come stessero le cose, Iwaizumi-kun
Infine si accomiatò con fin troppa cortesia e corse via in tutta fretta.
«Iwa-chan, potevi evitare di fare l’antipatico, era venuta a scusarsi!»
«Solo dell’ultima scemenza che ha fatto, non di quelle precedenti!» lo rimbeccò nervosamente l’amico «E, per la cronaca, non provo alcuna simpatia per Sakurai, perciò mi è logicamente impossibile non essere antipatico con lei!»
«Quindi non vuoi che io la frequenti?»
«Tu sei libero di fare quello che vuoi, io preferirei che le stessi alla larga perché non ne posso più di vederti in queste condizioni. Hai già altre grane per conto tuo ed una di queste, ovvero il tuo ginocchio, è venuta fuori anche a causa sua. Vorrei che tu fossi sereno, e finché c’è ancora lei di mezzo tu non lo sei.»
Iwaizumi non aveva torto: Tooru non era affatto sereno, eppure non riusciva ad immaginarsi meno sereno senza Sakurai. E se lei lo avesse presto dimenticato, se si fosse messa di nuovo nei guai, lontana dai suoi occhi, e tutti i suoi sforzi si fossero rivelati vani? Non poteva incolpare l’amico per la sua sollecitudine nei suoi confronti, ma nemmeno poteva sperare che la sua soluzione fosse la migliore. Aveva la sensazione che Sakurai fosse quel genere di persona che, una volta entrata nella vita di qualcuno, non ne usciva più.

~

«Ricapitoliamo: gli hai teso un’imboscata fuori dalla sua scuola, confermi?»
Megumi annuì con serietà, Shirabu proseguì.
«Poi gli hai chiesto scusa ma i suoi amici non erano molto entusiasti della cosa.»
«Non posso sapere se tutti e tre non lo fossero, uno mi detesta di certo.»
«Anche io ti odierei, al suo posto.» ammise il ragazzo con leggerezza, prima di centrare perfettamente il cestino della palestra con l’involucro accartocciato della merendina che aveva finito. Un lancio ammirevole, anche per un palleggiatore.
«Non si può dire che ti manchi la sincerità, grazie tante.»
Shirabu fece spallucce, Megumi s’infilò le mani nei capelli aggrovigliati.
«Anzi, non è che mi odi davvero? Visto che siamo in tema di confessioni.»
Il ragazzo trasalì, preoccupato. «Chi? Io? Perchè mai dovrei odiarti?» balbettò nervoso.
«Non so, hai anche tu un amico che ho offeso? O magari ti ho già offeso personalmente? Sai, mi pare di farlo spesso. Scoiattolo fa di me il ricettacolo di tutti i mali.»
«Acqua passata. Stai tranquilla che piaci a Hiroomi.»
«M’innervosisce l’ambiguità con cui lo dici.» commentò Megumi, prima di prendere la rincorsa e saltare. Questa volta colpì la palla sufficientemente bene: oltrepassò la rete ed atterrò nella metà del campo avversario.
Invece delle sue congratulazioni, Shirabu le rivolse un sorrisino indecifrabile. «Sei davvero ingenua.»
«In che senso, adesso?»
«In un senso che non puoi capire. Non vedi più in là del tuo naso, sarebbe inutile perdere tempo a spiegarti come stiano le cose.»
«Mi chiedo davvero a cosa debba questa prodigalità di complimenti, oggi.»
«A nulla in particolare, qualcuno deve pur farteli.» rispose l’altro con disinvoltura.
«Che dolce» sibilò sarcastica «Grazie dal profondo del mio cuore.»
Megumi afferrò un nuovo pallone dal carrello, e eseguì nuovamente il servizio. Dall’altro lato, l’amico recuperò quelli che aveva già colpito, con le maniche della felpa arrotolate per il caldo. Anche se l’autunno era già arrivato, il sole pomeridiano non si rassegnava allo scorrere delle stagioni e tormentava gli studenti dell’Accademia surriscaldando i corridoi. Sarebbe stato più divertente starsene in centro piuttosto che rinchiudersi in palestra.
«Piuttosto, parlami del resto della giornata di ieri. Che avete fatto?»
«Non ci sono riuscita, se è quello che vuoi sapere.»
«Nessuno ha detto che fosse facile. Ushijima non è uno che se la prende, comunque.»
«Con te, forse.»
Shirabu parve d’un tratto molto più interessato.
«Perché, può arrabbiarsi anche lui?»
«Perché ho l’impressione che la cosa ti faccia piacere?»
«No, è sola curiosità. Pura e semplice.»
«Certo. Lascia che ti faccia un complimento anche io: sei un pessimo bugiardo. Ad ogni modo lui è contento che ci stia mettendo della buona volontà. Continueremo nel fine settimana, quando torneremo a casa.»
«Tornate a Minamisaka?»
«Vuoi venirci a trovare? È un bel posto, se ti piacciono le erbacce e le vacche.»
«E gli scarafaggi.»
«Quelli solo d’estate.»
«Comunque se ci sei tu passo. Preferisco venire se posso trovare Ushijima da solo.»
«Santo cielo, Kenjiro…» ridacchiò Megumi «A volte sembri quasi gay.»
L’amico arrossì, e guardò altrove, come se le porte verniciate delle prime classi fossero troppo interessanti per poter battere le ciglia.
«A questo punto dovresti difenderti.» gli suggerì Megumi divertita.
«Non mi va di farlo, non con te.»
«Vuoi che io pensi che ti piacciano gli uomini?» scherzò ancora l’amica.
«Forse sì.»
Megumi si fermò prima di imboccare la rampa di scale che conduceva all’uscita. Incrociò le braccia al petto, questa volta seria e pensosa.
«In che senso forse? Forse vuoi che io pensi che ti piacciano gli uomini, o forse ti piacciono gli uomini?»
«La prima.» ammise imbarazzato «Non ci sono forse sulla seconda.»
Megumi restò in silenzio per qualche istante, una tempesta di pensieri infuriava nella sua testa: le sembrava un’affermazione così irrealistica da passare per uno scherzo. Ma Kenjiro non era il tipo da scherzi. Non ricordava di averlo mai visto con una ragazza, né di averlo mai sentito parlare di qualcuna che gli piacesse. Non esisteva nessun dato in suo possesso che potesse invalidare la sua dichiarazione; esisteva d’altro canto un insistente attaccamento a Wakatoshi, che doveva aver peggiorato le cose chiedendogli di far da balia a lei.
Avrebbe voluto osservare qualcosa di intelligente, ma le mancavano le parole. Preferì ritentare il servizio, fingendo che la fine della conversazione non fosse accaduta. Solo qualche minuto dopo, ancora perplessa, ma non sconvolta, osservò:
«Quindi mi consideri una tua rivale?»
Shirabu arrossì.
«In un certo senso…»
«Questo cambia qualcosa? Fra noi, intendo.»
«No, insomma… le cose sono sempre state così, dall’inizio.»
Megumi gli sorrise, di cuore.
«Bene così, perché nemmeno per me cambia nulla.» ammise rinfrancata.


NOTE FINALI

Voi ci credete? No? Nemmeno io.
Non cercherò neanche di giustificarmi, perché non ci sono scuse che tengano da parte mia. So solo che questo capitolo è stato davvero scritto in due anni, in cui sono successe una marea di cose. L'inizio ha un ritmo diverso dalla fine, il tempo che scorre si sente tutto. Mi sono laureata non una, due volte, ho scribacchiato qui e là niente di serio, ho iniziato nuove serie, scoperto nuovi fandom. Ogni volta che aprivo la cartella di Wild Card o ascoltavo la sua playlist mi piangeva il cuore. Grazie a chi è ancora qui ad aspettarmi, siete speciali. Grazie soprattutto a vale33ntina, che con il suo messaggio mi ha involontariamente dato la spintarella che mi serviva per chiudere questo capitolo. Davvero, non vi merito.

Promesse non ve ne faccio, perché di me non dovreste fidarmi, ma cercherò di essere alla vostra altezza. T_T

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12: Risorse ***


Capitolo 12

Risorse

Tooru era convinto avrebbe ricordato quell’anno come uno dei più brutti mai capitatogli: una straordinaria congiunzione di avvenimenti spiacevoli che si erano avvicendati uno dopo l’altro senza alcuna pietà. Di buono c’era che Yahaba ci sapeva fare e s’impegnava quanto più poteva per essere all’altezza del suo senpai, ma lui non sarebbe entrato in campo nemmeno una volta. A metà settembre aveva scoperto che Mizoguchi non gli avrebbe nemmeno permesso di sedersi in panchina e che gli sarebbe toccato seguire le ultime fasi dei preliminari dell’Harukou in mezzo agli spalti, con la parte del club che non era inclusa attivamente nella squadra e che si occupava perlopiù della tifoseria. Così aveva passato la penultima settimana di ottobre ad arrossire quando qualche rinomato rivale gli sfilava davanti tutto tronfio, pronto a giocarsi il tutto per tutto, mentre lui si stringeva il benedetto ginocchio che lo aveva costretto alla pacchia. Eppure adesso poteva camminare dignitosamente, bastava che riposasse di tanto in tanto e non si affaticasse troppo. Si era addirittura abituato al tutore, a volte non ricordava nemmeno di portarlo.
Il secondo giorno, con una stretta allo stomaco, intravide Megumi sugli spalti più lontani, tutta presa dallo scontro fra la sua scuola e la DateKo. Trovò carino che fosse poi passata a salutarlo e a chiedergli come stesse. Con lei c’era una ragazza alta e magra, dai capelli neri e lucidi, che li scrutava entrambi con interesse; era sicuro di averla già vista da qualche parte, forse proprio nella squadra di Megumi, quando a giugno le aveva viste giocare al completo. Megumi gli chiese come stesse andando il suo club, le rispose rapidamente che fino ad allora se l’erano cavata bene, ma temeva per il set successivo, perché Iwaizumi iniziava a sembrargli troppo stanco. La ragazza si prese un attimo per guardare in campo con attenzione, ma poi concordò con lui. Si disse tuttavia fiduciosa che il suo amico avrebbe fatto ugualmente un’ottima performance.
«Ad un certo punto» spiegò «Sei esausto, ma l’adrenalina fa tutto il lavoro.»
«Insomma, da un certo punto della partita in poi smetti di giocare col cervello.»
L’amica di Megumi parve trovare la cosa piuttosto divertente e lei le scoccò uno sguardo di rimprovero che non sortì il benché minimo effetto. Tooru era felice di constatare che Megumi era riuscita a stringere una nuova amicizia, e il fatto che la ragazza, che poi scoprì chiamarsi Mikoto, non fosse affatto intimorita da lei era un segnale decisamente positivo per la ripresa psicologica di Megumi.
Nel corso delle settimane precedenti, i due avevano molto parlato del processo contro Hattori. Quando le cose sembravano volgere positivamente per i Sakurai, soprattutto grazie alla preziosissima registrazione che Tooru aveva fornito come prova, l’avvocato di Hattori ed il suo assistito avevano iniziato il più subdolo dei contrattacchi. Hattori sosteneva ora con insistenza che Megumi fosse consenziente e che, banalmente, se la fosse cercata: la sua nuova versione dei fatti raccontava una realtà in cui Megumi aveva incoraggiato sin dall’inizio le sue avances, pur di rimanere in squadra. Incredibilmente, il giudice aveva preso in considerazione le sue dichiarazioni: i messaggi e la cronologia telefonica del vecchio cellulare di Megumi, tutti inviati da Hattori servendosi di un’applicazione che generava numeri fittizi, erano stati bollati dalla difesa come fasulli e Megumi era stata accusata di aver falsificato le prove. Quanto alla registrazione, tuttavia, Hattori ed il suo avvocato non erano stati ancora in grado di trovare una scusa abbastanza credibile.
La faccenda aveva inevitabilmente turbato la ragazza, che si era confidata con lui qualche sera prima, quando era ancora a Minamisaka. Lui non poteva dirsi meno stupito, ma ciò che provava era essenzialmente un grande disgusto per quell’essere perfido ed egoista. Quel giorno però Megumi sembrava più serena rispetto a come le era sembrata per telefono in quell’occasione ed era certo che gran parte del merito lo dovesse alla compagnia degli altri. Ad esser sincero, provava un pizzico di dispiacere nel rendersi conto che la sua presenza non poteva essere fisica e costante quanto quella dei suoi compagni di scuola o – peggio ancora – quanto quella di Ushiwaka, che aveva perfino la fortuna di abitare a pochi passi da casa sua. Quando simili pensieri lo assalivano, si consolava rammentandosi che di lì a pochi giorni avevano in programma quella giornata al luna park che lei aveva sorprendentemente accettato di buon grado: nel grigiore di quell’ottobre deludente, sembrava l’unico evento che valesse la pena aspettare.
«I vostri hanno vinto, immagino.» osservò per cambiare argomento prima che Megumi si azzuffasse con la sua amica per via dei suoi risolini incontrollabili.
«Intendi i ragazzi? Ovviamente.»
Il modo in cui Megumi lo diceva, come se fosse la cosa più naturale e semplice del mondo, comune a tutti coloro che frequentavano la sua stessa scuola, lo innervosiva tantissimo ma doveva sforzarsi di camuffare il disappunto. Immaginò che se Hajime, giù in campo, avesse ascoltato quell’affermazione spicciola, si sarebbe seccato tanto da segnare almeno dieci punti uno dopo l’altro.
«Oikawa, ti si legge in faccia il fastidio!» commentò lei vagamente divertita.
«Mi scoccia che lo diate tutti così per scontato.» ammise allora.
«Perché lo è. Scontato, intendo.» intervenne Mikoto con altrettanta semplicità.
«Ecco! Mi fate davvero arrabbiare! Voi e il vostro lavaggio del cervello!» protestò melodrammatico.
«Miko, lui crede che ci facciano il lavaggio del cervello in entrata all’Accademia, per convincerci che sia il meglio in ogni campo.» spiegò Megumi all’amica con un sorriso.
«Ipotesi affascinante, ma assolutamente poco valida. Hai letto le statistiche di entrata e di uscita? Non so, quelle del job placement? Le università che frequentano i diplomati? I nomi degli ex-studenti?»
«Statistiche e nomi: sono tutto quello che sapete ripetere a pappagallo. Dite tutti la stessa cosa, come si fa a non pensare che siate lobotomizzati?»
Mentre Mikoto e Tooru bisticciavano animatamente, Megumi si distrasse da quella scena bizzarra quanto bastava per notare Wakatoshi che la fissava da qualche fila più in basso. Lo salutò agitando la mano e gli indicò sommessamente che Oikawa era seduto lì e che stavano parlando con lui. Aveva forse immaginato che l’amico le avrebbe semplicemente rivolto un cenno disinteressato e si sarebbe allontanato con gli altri, invece si sorprese di vederlo salire le scale fino alla loro fila di sedute, sudato e stanco come lo aveva lasciato dopo la partita. Era piuttosto ingombrante e non poteva passare inosservato in mezzo ai ragazzi del club dell’Aoba Johsai, che si scoccarono sguardi confusi e innervositi. Per fortuna Tooru si era seduto ai margini del gruppo, perciò fu presto fuori dal loro campo visivo, anche se – di tanto in tanto – qualcuno si sarebbe voltato a guardarlo incuriosito. Il suo arrivo interruppe il singolare battibecco fra Mikoto e Tooru e quest’ultimo assunse, tutt’a un tratto, un colorito vagamente paonazzo. Aveva compreso che Megumi non l’aveva chiamato lì volontariamente e non riusciva davvero ad immaginarsi un motivo per cui uno come lui potesse infilarsi nel mezzo della tifoseria di noti rivali per raggiungere un’amica che aveva l’opportunità di vedere a tutte le ore del giorno. Invece, Ushiwaka riuscì a sconvolgerlo. Lo salutò con un rapido segno del capo e mormorò, col suo insopportabile vocione baritono:
«Mi dispiace per il tuo infortunio.»
Il ragazzo biascicò qualcosa, preso alla sprovvista da uno spirito solidale che non avrebbe mai potuto attribuire a Ushijima. Non si poteva dire che ne fosse contento, ma in qualche modo lo trovava piacevole.
«Quando ho saputo che non avresti giocato» e qui si tradì rivolgendo uno sguardo fugace a Megumi, che arrossì e finse di concentrarsi su quanto accadeva in campo «ci sono restato male, contavo che le nostre squadre si sarebbero scontrate, come sempre.»
Tooru non sapeva come giudicare quelle parole: da una parte, era grato che Ushijima lo tenesse tanto in considerazione come rivale da manifestargli tutta la sua solidarietà, dall’altra lo infastidiva il velato egoismo che accompagnava le sue affermazioni, insieme all’implicazione – quella piuttosto palese – che senza di lui i ragazzi non sarebbero mai riusciti a vincere abbastanza partite da incrociare la Shiratorizawa. Stava dunque per replicare con ostilità quando Megumi s’intromise per rimproverare l’amico, del tutto inaspettatamente.
«Waka-nii, il club di Oikawa se la cava egregiamente anche senza di lui!»
«Non credo proprio.»
«Innanzitutto credi male e poi non sono cose per niente carine da dire!»
«Senza di lui sono una squadretta mediocre, prevedibile.»
«Sei impazzito? Guarda che sei circondato dal nemico! Vuoi iniziare una rissa sugli spalti?»
«No.» replicò lui con la consueta serietà.
Era talmente irritante che lo avrebbe preso a pugni Tooru stesso, se fosse stato in grado di fare a botte. Per qualche istante si era illuso che fosse una persona tutto sommato normale e ora poteva confermare che si trattasse sempre del solito stronzo. Come si poteva collaborare con uno così? Sempre testardo e saccente, convinto dell’assoluta superiorità delle sue opinioni. Anche Megumi, che pure condivideva con lui la sua buona dose di cocciutaggine e presunzione, come riusciva a tollerare il confronto con una personalità altrettanto rigida? La osservò mentre cercava di farlo ragionare, tutta bianca in viso per la preoccupazione di star facendo una pessima figura davanti a lui.
«Era un complimento.» si giustificò Ushijima, che aveva l’aria di non aver capito quale fosse il nocciolo della questione «Volevo dire che se riesce tanto bene in una squadra così ordinaria, avrebbe potuto compiere miracoli se…»
«Non voglio sentire altro, grazie per la tua solidarietà. E anche dei complimenti.» lo interruppe lui prima che potesse completare «Sono sicuro che i ragazzi stiano facendo del loro meglio, ma per quanto riguarda me e te ci rifaremo quest’estate.»
«No, aspettate un attimo.» s’immischiò Mikoto, abbastanza intrigata dalla discussione «C’è qualcosa che mi sono persa?»
«Lui aveva ricevuto un invito, lo scorso anno. Non ha accettato.»
«Un invito dell’Accademia?» ripeté, adesso più convinta «Capisco, quindi ti sei pentito?»
«Assolutamente no! Sto bene al posto mio e i ragazzi sono straordinari, al contrario di quanto dice Ushiwaka. Nessun rimorso, neanche uno!»
Mikoto gli rivolse un sorriso ambiguo che non gli piacque troppo. Sentì le guance in fiamme quando con gli occhi gli indicò Megumi accanto a lei e gli strizzò un occhio. Non gli dispiaceva che le sue amiche lo avessero saputo, ma lo preoccupava Ushiwaka: probabilmente non avrebbe tollerato le sue mire su Megumi, nonostante lui avesse rifiutato ogni sua dichiarazione d’amore. Nell’agitazione, però, riuscì a leggere la domanda che Mikoto stava silenziosamente sillabando con le sole labbra: le sta bene la divisa, vero? Arrossì ancora di più di prima e si sforzò di fingere che quella conversazione muta non fosse mai avvenuta. Megumi invece, che pur se l’era persa, interpretò male il suo rossore e protestò con durezza che lo stessero mettendo a disagio quando di problemi lui ne aveva già abbastanza. Fu grato della sua ingenua preoccupazione, ma la rassicurò che andava tutto bene e che non si faceva influenzare dal giudizio di chi imparava a memoria il depliant dell’orientamento insieme all’inno della scuola.
«Non è vero.» rispose Ushijima, prendendo la cosa ridicolmente sul serio.
«Ushijima-kun, lascialo perdere.» ridacchiò Mikoto «Non c’è proprio verso di farglielo capire. Non ha nemmeno visto com’è dentro e pretende di saperla lunga.»
«Non è vero, ho visto com’è… più o meno fino ai dormitori! Era notte però.»
Mikoto scoccò a Megumi un’occhiata teatralmente incredula. Tooru credeva di detestarla.
«Davvero, Megumi? Con Scoiattolo nella stessa stanza?»
Questa volta fu il turno di Megumi di diventar rossa come un peperone. Completamente in imbarazzo, spiegò alla men peggio che Oikawa l’aveva soltanto riaccompagnata a casa qualche volta quando giocavano insieme al Galaxy. Ushijima, con grande sollievo di Tooru, sembrava non aver afferrato troppo della conversazione. Cominciava a pensare che ci fosse abbastanza materiale controverso perché lo prendesse di peso e lo lanciasse giù dalle tribune.
«Santo cielo, Megumi… scherzavo!» replicò la ragazza, poi si rivolse a Tooru «E comunque non conta aver visto il campus di notte un paio di volte. Hai mai pensato di farci un giro?»
«Neanche per sogno!»
«Vieni al festival, il mese prossimo.» li interruppe Ushijima, con la solita flemma seriosa.
Per un attimo, pur conoscendolo abbastanza bene, Tooru considerò che lo stesse soltanto prendendo in giro, che non fosse un vero invito. Ma poi l’altro aggiunse: «Ogni anno c’è sempre una gran folla, nessuno si accorgerà di te. Puoi fare un giro con Megumi.»
Ushijima a quel punto poteva essere o tremendamente intelligente o profondamente stupido. In cuor suo, Tooru sperò con tutte le sue forze che la deduzione giusta forse la seconda, perché nel caso la prima si fosse rivelata corretta, probabilmente lo stava solo invitando nella tana del lupo per fargli la festa.
«Waka-nii, non essere ridicolo. Chi gliela fa fare?» intervenne Megumi, tutta impacciata.
Ushijima però gli rivolse un durissimo sguardo di sfida, come se si trattasse di una stravagante prova di coraggio, e lui si ritrovò a ricambiare con altrettanta durezza. Non poteva dimenticare nemmeno che Megumi era andata a trovarlo a scuola per ben due volte e si era perfino esposta al chiacchiericcio dei suoi compagni di scuola. Così alla fine gli assicurò che sarebbe passato, nonostante le proteste di Megumi. Forse aveva firmato la sua condanna a morte, ma non aveva alcuna intenzione di dare motivo ad Ushijima di ritenerlo un codardo. Se poi lo avesse gonfiato di botte perché girava intorno alla sua amica del cuore, almeno si sarebbe fatto pestare con dignità.
Alla fine il terzetto si accomiatò da lui. Megumi gli chiedeva scusa con gli occhi, non avrebbe voluto che i suoi amici lo mettessero così tanto alle strette. Tooru le sorrise, sperando che capisse che non era arrabbiato con lei, le disse che le avrebbe scritto più tardi. Ushijima lasciò che le ragazze si avviassero e fossero abbastanza lontane, prima di rivolgergli la parola per l’ultima volta.
«Grazie per tutto quello che fai per Megumi.»
Non riusciva proprio a smettere di stupirlo quel giorno. Forse non c’era malizia nel suo invito, forse non era né estremamente intelligente né totalmente stupido: forse sapeva e gli andava bene così.
«Lo faccio volentieri.» riuscì a rispondere a malapena, in testa un groviglio di ipotesi.
Gli pareva quasi, ma era certo di sbagliarsi, che Ushijima stesse cercando di aiutarlo con Megumi: lo aveva esplicitamente esortato a visitare il festival scolastico con lei ed ora lo ringraziava per averla difesa, o almeno per aver cercato di farlo, quando Hattori aveva cercato di strangolarla. Quando ripensava al vecchio coach di Megumi, gli montavano repentinamente addosso rabbia e riprovazione: non aveva mai voluto chiederle cosa di preciso quel maiale l’avesse obbligata a fare e a farsi fare, ma il modo in cui le sue labbra tremavano quando di tanto in tanto Tooru cercava con lei il contatto fisico parlava chiaro. Era sicuro che perfino Ushijima doveva aver rilevato qualche comportamento simile da parte dell’amica, che prima era stata tanto appiccicosa e prodiga di manifestazioni d’affetto nei suoi confronti.  A quel punto l’altro si congedò definitivamente, con la solita espressione indecifrabile e indisponente dipinta sul volto.

~

Arisu aveva perso le altre in un battito di ciglia quando una delegazione di corpulenti ragazzoni con indosso una divisa di un fastidioso color canarino l’aveva travolta senza alcuna educazione. Quando quell’onda anomala fu rientrata e tutto quel giallo terminò finalmente di accecarla, scoprì che Kaori e Horie erano fuori dalla sua visuale. Ficcò le mani nelle tasche della felpa bianca con cui sostituiva il blazer della divisa, troppo largo per le sue spalle, e si rassegnò a doverle cercare per tutto il palazzetto. Le sarebbe andato bene anche ritrovare Mikoto o Megumi, che dopo la partita si erano allontanate in direzione delle tribune, purché avesse potuto accodarsi a qualcuno dietro cui nascondersi. Per sicurezza, s’infilò anche il cappuccio.
Quella mattina, quando gli studenti dell’Accademia erano appena arrivati al palazzetto per assistere alle partite del club di pallavolo maschile, aveva scorto da lontano, fra decine e decine di teste, il profilo di alcune conoscenze piuttosto dolorose da ricordare, almeno quanto l’inverno dell’anno passato. Nel mezzo di una macchia di colore scuro, fiere e felici delle loro divise verde e blu elettrico, c’erano almeno tre delle sue compagne di squadra delle medie, inseparabili come sempre. Un tempo, erano state anche sue amiche, prima dell’affaire Megumi. Da allora avevano preso ad escluderla deliberatamente da ogni loro uscita o momento di aggregazione: se si avvicinava al loro banco durante la pausa pranzo, quelle subito decidevano che fosse il caso di scendere in cortile. Allora lo aveva trovato un comportamento giustificabile: contavano su di lei e aveva tradito la loro fiducia, ma adesso, a distanza di tutto quel tempo, si rendeva conto della crudeltà di un simile trattamento. Arisu si era solo sentita fortemente demotivata, aveva avuto paura di non essere più all’altezza del suo ruolo, di non poter tener testa nel futuro a martelli del calibro di Megumi e nessuno, nemmeno una di loro o il loro allenatore, che pure fino al giorno precedente aveva avuto una grandissima considerazione di lei, si erano degnati di rassicurarla. Era forse tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno: se gliel’avessero dato, probabilmente anche lei in quel momento sarebbe stata lì con loro a chiacchierare serenamente, nella sua bella uniforme blu e verde dell’Istituto Kujakuhara. Si rese conto, tuttavia, mentre guardava Mayu tenere il suo consueto comizio e Kotone e Seiko pendere dalle sue labbra, di non provare alcuna invidia: un bel cambiamento rispetto all’inizio di quell’anno scolastico, che aveva trascorso spiando con rimorso le homepage dei loro social e addossandosi colpe che in realtà non aveva. Ma, sebbene non trovasse la sua condizione attuale meno valida della loro, mossa da una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza aveva preferito non farsi notare e nascondersi dietro Yoshida, che le aveva rivolto uno sguardo interrogativo e preoccupato.
«Ho visto qualcuno con cui non voglio parlare.» aveva spiegato semplicemente alla capitana.
L’ultima cosa che desiderava, dunque, era incontrarle ora che era rimasta sola. Dubitava che le avrebbero rivolto la parola, ma la spaventava l’idea di cosa avrebbero potuto confabulare fra di loro alle sue spalle, magari condividendo i commenti con le loro nuove compagne di squadra. Se poi non l’avessero vista in compagnia di nessuno, avrebbero pensato che era rimasta la stessa esclusa che avevano lasciato alla fine dei corsi e se ne sarebbero comunque compiaciute. Doveva assolutamente sbrigarsi, perciò svoltò nell’atrio principale per accedere nuovamente alle tribune, dove quantomeno dovevano ancora essere seduti alcuni dei suoi compagni di classe.
«Seiko-chan, non è Hiromi questa ragazza?»
Accanto ai distributori automatici di snack e bevande, proprio ad un palmo di distanza da lei, le sue vecchie amiche, che tanto aveva desiderato di non incontrare, la scrutavano incuriosite. Imprecò fra sé e sé e strinse forte i pugni nelle tasche.
Mayu si chinò su di lei per osservarle meglio il volto, indugiò sui suoi piercing e sul nuovo colore di capelli, di cui non avevano mai saputo nulla. Arisu si era premurata, infatti, che nessuna nuova informazione su di lei giungesse alle loro orecchie, non sapeva dirsi se per ripicca o per proteggersi.
«Non c’è dubbio, sei proprio tu Hiromi!» decise alla fine.
«Coi capelli di quel colore mi aveva quasi presa in giro!» commentò Kotone divertita.
«Ciao, ragazze.» mormorò Arisu con mestizia «Era tanto che non ci vedevamo.»
Le tre non risposero subito, le vide guardare con attenzione la sua divisa scolastica sotto la felpa, cercando di capire a quale scuola fosse iscritta. Gli occhi di Mayu passarono in rassegna il suo cravattino, la sua gonna e perfino i collant scuri sotto i quali s’intravedevano appena i cerottini sulle ginocchia.
«Quindi giochi ancora.» disse sospettosa ritornando a guardarla in faccia. «Avevi detto di aver chiuso.»
«Si dicono tante cose, nei momenti di sconforto.» sibilò innervosita.
«Un momento di sconforto.» ripeté Kotone seccata dal suo tono «Non mi sembrava affatto un momento. Piangi ancora quando vedi Sakurai?»
«Non essere cattiva, Kotone-chan!» intervenne Mayu con un sorriso. Arisu detestava tutta quell’ipocrisia, si chiese come avesse fatto a non notarla quando le frequentava ancora. Ed infatti, con crudeltà ancora maggiore, Mayu continuò: «Basta non incontrarla, non è così?»
«Be’, non che si senta tanto nominare, quest’anno.» aggiunse Seiko pensosa.
«Pensa, Hiromi, siamo in lizza per i Nazionali quest’anno e la Shiratorizawa non l’abbiamo nemmeno incontrata. Che peccato, che tu abbia avuto il tuo momento di sconforto! Se ti fossi iscritta con noi neanche l’avresti vista.»
Arisu digrignò i denti. Era furiosa, ma le mancavano le parole per rispondere. Le tre non erano riuscite a capire che si fosse iscritta proprio all’Accademia, né potevano immaginare che le cose fossero totalmente cambiate fra lei e Megumi. Eppure non riusciva a parlare, le bruciavano solo gli occhi.
«Tesoro, ti viene ancora da piangere?» rincarò la dose Kotone «Cos’è, tu invece l’hai rivista?»
Era esattamente quello che credeva che sarebbe accaduto, soltanto che nella sua testa Arisu rispondeva tutta tronfia e decisa che le cose non stessero come loro pensavano. Ma anche se provava ad aprire la bocca, dalle sue labbra non usciva alcun suono: ricordava soltanto la tachicardia di quel giorno, i loro sguardi colmi di cocente delusione, e Megumi che infieriva su di lei dall’altra parte della rete. Alla fine, l’impensabile accadde.
«Guarda, guarda, qualcuno sta disturbando il tuo Scoiattolo
Mai sentire la voce di Mikoto aveva provocato in Arisu tanto sollievo. La ragazza torreggiava alta sulle sue ex-compagne di squadra, con un sorriso per nulla rassicurante sulle labbra sottili. A dire la verità, era piuttosto spaventoso, ma Mayu e le altre sembravano più preoccupate dall’altra persona che si trovava con lei.
«Vuoi scherzare, Miko? Nessuno disturba il mio Scoiattolo, posso farlo solo io.»
Il tono di Megumi, che ad Arisu ricordò soltanto una pessima imitazione del modo di parlare di Mikoto, in qualche modo riuscì a mettere in guardia le sue vecchie amiche. Con un pizzico di soddisfazione, vide Kotone fare un passo indietro e boccheggiare senza risultato.
«Ci siamo già viste?» domandò Mikoto con modi decisamente troppo cortesi per i suoi standard. Era chiaro come il sole che la sua fosse una provocazione, lei e Megumi giocavano insieme alle medie e si erano scontrate con loro appena l’anno prima.
«Giocavamo all’Hanazono con Hiromi, l’anno scorso.» rispose Mayu innervosita.
«Ah già!» recitò la ragazza «Forse adesso ricordo qualcosina! Megumi tu le ricordi?»
«Io mi ricordo solo di Risu.»
«Voi tre… vi conoscete?» balbettò Seiko confusa. Occhieggiava preoccupata in direzione di Mikoto, la cui reputazione di iettatrice era celebre già dai tempi del liceo. Arisu rammentava che alcune delle sue compagne di squadra avevano attribuito la loro cocente disfatta allo zampino della strega. Forse sarebbe stato il caso di chiederglielo, prima o poi.
«Lei è in squadra con noi, è chiaro che ci conosciamo.» rispose Mikoto facendo spallucce.
«Io e Risu siamo anche compagne di stanza, se è per questo.» aggiunse Megumi con naturalezza.
Mayu e le altre si scambiarono sguardi sconvolti. Al loro posto, anche Arisu lo sarebbe stata: l’anno prima non sarebbe mai arrivata a credere alla realizzazione di uno scenario simile, era perfino grata a Mikoto che, insospettabilmente, aveva deciso di prendere le sue parti quando passava la maggior parte del tempo a stuzzicarla. Immagino che volesse dire che tutto sommato erano amiche.
«Non è possibile» obiettò infine Mayu decisa «Lei ti detesta.»
Megumi sollevò un sopracciglio, replicando che non le risultasse.
«Mi detesti, Risu?»
«Assolutamente no!» le assicurò prontamente.
«Andiamo piuttosto d’accordo, a dire il vero.» spiegò Megumi.
«All’inizio abbiamo avuto qualche attrito, ma è acqua passata.» convenne Arisu.
«Abbiamo parlato e chiarito.»
«È così che si dovrebbero affrontare i dissapori.» concluse Arisu, non risparmiandosi la frecciatina alle sue vecchie amiche «Parlandone.»
Mayu strinse le labbra. Ricacciò i capelli scuri dietro le orecchie e socchiuse gli occhi, con l’intenzione piuttosto audace di ferire.
«Quindi per la paura di scontrarti con lei hai preferito passare dalla sua parte? Accettate anche le vigliacche alla Shiratorizawa? Dovete essere davvero alle pezze!»
«Ma sentila! Almeno Scoiattolo ha cercato di fermare Megumi, mentre voi avete preferito lasciare che se ne occupasse soltanto lei, finché non si è stancata!» ribatté aspra Mikoto.
Arisu non aveva mai visto la vicenda da quel punto di vista: stando in campo si era sentita sola, in trappola, come se stessero sfidandosi solo lei e Megumi. Presa dal vortice di emozioni negative che l’aveva inghiottita quel giorno, aveva dimenticato che le altre non avessero mosso un dito per alleggerirle il compito, nemmeno quando la sua fiducia aveva cominciato a vacillare. Le avevano lasciato l’ingrata incombenza di ricevere e difendere ogni palla di Megumi, le stesse da cui loro erano spaventate, e quando tutto era andato male si erano sentite legittimate a scaricarle addosso tutta la colpa. Ma Mikoto era un’osservatrice scaltra, come Kaori; dall’altro lato aveva avuto una visione completa di cosa stesse accadendo fra le fila delle avversarie e aveva visto quello che Arisu non era stata in grado di notare: codardia.
«Ti sfugge che la tua amica puntava su di lei.»
«E a te sfugge che sei provvista di gambe.»
Mayu sbuffò furente. Arisu avrebbe trovato divertente, in un’altra situazione, che fosse stata proprio Mikoto a fare un’osservazione del genere. Lei, che in ricezione e difesa era penosa.
«Bene le cose devono essere cambiate, dal momento che noi siamo arrivate alle semifinali e voi da quanto ci risulta non vi siete nemmeno qualificate.»
«Volete forse che vi auguri il nostro vecchio coach? Vi avverto che non è una bella esperienza.»
«Non osare sputare malefici, strega!» intervenne Kotone inquieta.
«Risolviamo la cosa civilmente.» propose Seiko, che era sempre stata la più diplomatica delle tre «Al prossimo campionato, fate in modo di qualificarvi.»
Non era per niente il caso che qualcuno mettesse così tanta ansia da prestazione sulle spalle di Megumi, che peraltro al momento non sapeva nemmeno se nel prossimo campionato avrebbe giocato, perciò Arisu si preoccupò per lei. Avrebbe voluto intromettersi per mediare ma l’amica fu più veloce: accettò la sfida senza riserve e, per un istante, gli sembrò di essere ritornata la stessa bestia feroce dell’anno prima, con la stessa luce insaziabile negli occhi.
«Ragazze, io vi ringrazio ma non era il caso di attaccare briga con Mayu e le altre.» sussurrò quando si furono finalmente separate da loro.
«Ti stavano infastidendo.» tagliò corto Megumi «Non devono permettersi mai più.»
«Ma sentila! Scoiattolo, credo che Megumi si senta in colpa.»
«Mi pare giusto che mi senta in colpa, Miko. È accaduto tutto a causa mia, anche se quelle ci hanno messo del loro. Per quel che mi riguarda, ci tengo a difenderla.»
«Non ho bisogno di essere protetta, ma grazie.»
L’idea che Megumi intendesse aiutarla le procurava una sensazione pacifica, luminosa e calda come il sole. Non che non sapesse la ragione per cui la provasse, forse le era fin troppo chiaro, ma evitava accuratamente di accertarlo. Era felice di averla dalla sua parte, molto più di quanto lo fosse stata quando era con Mayu, Kotone, Seiko o chiunque altro.

~

Quanto aveva dormito? Megumi sperò che fossero trascorse almeno un paio d’ore dall’ultima volta che si era svegliata, invece – più lucida di quanto avrebbe voluto essere – scoprì che le lancette fluorescenti della sveglia sul suo comodino segnavano ancora le quattro meno un quarto del mattino: l’ultima volta che l’aveva controllata erano solo le tre e venti. Invidiava Arisu, che dormiva beata nel letto di fronte da quando vi si era lasciata cadere sopra, mentre a lei sembrava di essere tornata qualche mese indietro nel tempo: si era illusa che la storia di Hattori fosse finita quando lo aveva denunciato, aveva dato per scontato che il processo avesse dato semplicemente ragione a lei e alla sua famiglia, le era perfino sembrato che tutto sarebbe andato per il meglio. Il contrattacco non se l’era proprio aspettato, era la solita stupida. Si rimise seduta e si tirò indietro i capelli per scoprire la fronte. Non riusciva a decidere se provasse caldo o freddo: un attimo prima si scopriva nervosamente, quello dopo si stringeva addosso il piumone. Non vedeva via d’uscita, l’unico suo appiglio rimaneva quella registrazione di Oikawa, o almeno lo sarebbe stato ancora per poco: Hattori e il suo avvocato avrebbero trovato ben presto un cavillo del quale servirsi per smontarlo. Eppure a lei tutte quelle scuse sembravano incredibili, come poteva un giudice prestare ascolto a degli alibi tanto ridicoli?
«Signori, non è possibile negare che la ragazza se l’è cercata.»
Megumi sillabò fra le labbra l’assurda affermazione dell’avvocato, come un soffio silenzioso. Iniziava a crederci anche lei, dopotutto le avevano ripetuto più e più volte che aveva in effetti accettato il negoziato di Hattori: aveva sempre sostenuto di non aver avuto scelta, eppure adesso riusciva a comprendere di aver mentito. Cosa sarebbe accaduto se avesse rifiutato la proposta di Hattori quel giorno? Semplicemente sarebbe uscita dall’ufficio e tutto sarebbe proseguito in modo normale, si sarebbe guadagnata il suo posto in squadra onestamente e sarebbe stata felice. Non riusciva quasi più a udire quella voce che le ricordava che Hattori non avrebbe mai accettato un no come risposta, che le avrebbe ripetuto la proposta giorno dopo giorno, che anche se avesse giocato egregiamente, non l’avrebbe mai accolta in squadra per ripicca, che si sarebbe comunque sentito in diritto di molestarla e minacciarla, perché era la sua parola contro quella di una studentessa in cerca d’attenzioni.
Sentiva le dita formicolare per l’ansia ed una morsa gelida le stringeva il petto; non poteva prendere altre medicine, lo aveva già fatto prima di mettersi a letto ed era passato troppo poco tempo per giustificare una seconda dose. Valutò di svegliare Arisu, ma si vergognava troppo per farlo.
Le quattro del mattino erano troppo presto per una corsa? Forse sì ma in quel momento non vedeva altra alternativa che togliersi il pigiama ed infilarsi la tuta e le scarpe da ginnastica, poiché non aveva più alcuna speranza di rimettersi a dormire, ci aveva già provato invano troppe volte.
Così, infine, sgattaiolò fuori dal dormitorio, ben attenta a non svegliare il custode che si era addormentato durante il turno. Le luci dell’alba erano ancora lontane, ed un brivido freddo la costrinse a tirar su la zip della felpa ma inspirò profondamente e cominciò a camminare a passo svelto, sempre più veloce, finché i suoi muscoli non si furono riscaldati abbastanza da permetterle di correre lungo il perimetro interno dell’Accademia. Avrebbe voluto variare il tragitto, ma prima delle sei i cancelli rimanevano saldamente chiusi.
«È presto perfino per te.» la voce del ragazzo fermo nel buio del mattino autunnale, accanto alla fontana orribile del cortile la costrinse a fermarsi a sua volta.
«Anche per te, Waka-nii
Avvicinandosi, si accorse che poggiava una gamba alla volta sul bordo più alto della fontana, per tirare meglio il quadricipite; Wakatoshi era solito fare stretching solo alla fine del suo allenamento, perciò doveva essere uscito perfino prima di lei ed era curioso che non si fossero notati prima.
«Ti ho vista prima, ma tu no. Non volevo disturbarti.» spiegò come se potesse leggerle nel pensiero.
«A che ora hai iniziato?» gli domandò incuriosita correndo sul posto.
«Le due e mezzo… le tre, non lo so nemmeno io. Non riuscivo a dormire.»
Megumi smise di saltellare sul posto, turbata e l’altro interruppe lo stretching per farsi vicino a lei.
«Vieni» le disse «Facciamo un giro di defaticamento, non ti fa bene fermarti di colpo.»
Megumi lo seguì preoccupata, d’un tratto si era perfino dimenticata dei pensieri che l’avevano assillata fino ad allora: era raro che Wakatoshi fosse angosciato per qualcosa, e mai prima di allora qualcosa lo aveva tenuto sveglio fino al mattino successivo, se non il divorzio dei suoi genitori e la partenza di suo padre.
«È per il processo, non è così?» le domandò lui prima che lei avesse il tempo di chiedergli qualcosa «Tua madre ha raccontato a mia nonna cosa ha detto quel viscido davanti al giudice. Lo sai, vero, che lo fa apposta per costringerti a ritrattare?»
«Dice che l’ho voluto io, che me la sono andata a cercare.»
«Non è vero. Se anche gli avessi detto no, ti avrebbe assillata finché non avessi accettato.»
«Be’, non possiamo esserne sicuri.»
«Sì, invece, perché tu non gli hai mai dato il permesso di infastidirti oltre quel bacio. A prescindere da quello, avrebbe continuato a tormentarti.»
«Non possiamo saperlo.» ribadì nuovamente.
«Megumi-chan, non pensare nemmeno una volta che quello che ti è accaduto sia colpa tua. Sei stata ingenua, questo sì, ma anche se non avessi accettato quel bacio, se lo sarebbe preso come si è preso tutto il resto.»
Megumi gli rivolse un sorriso amaro. «Tutto il resto…» sospirò afflitta.
«Non è che per caso… lui…»
«No!» tagliò corto la ragazza, tutta tesa «Ma era questione di tempo, era da un po’ che ci provava, io ero sempre riuscita a scamparla, perfino quel giorno. L’ho fatto arrabbiare così tanto che se n’è scordato e ha preferito picchiarmi, o…» le sue dita sfiorarono il collo, mimarono il gesto di stringerlo.
Wakatoshi le cinse le spalle con un braccio, lei trasalì prima di rilassarsi: era solo il suo amico d’infanzia, non le avrebbe mai fatto del male.
«Ho pensato di morire.» ammise per la prima volta in tutti quei mesi «Mi era sembrata una soluzione praticabile per disfarmi di Hattori. Ero pronta, riesci a crederci?»
«Avresti dovuto parlarmene, come stai facendo adesso.»
Megumi fece per obiettare ma l’amico l’anticipò: «Sì, lo so che Hattori ti ha detto che non si sarebbe fatto scrupoli a prendersela anche con me, ma in due l’avremmo affrontato meglio.»
«Ti ho già promesso che d’ora in poi non ti nasconderò più nulla che mi preoccupi.» gli ricordò sorridendogli e dandogli un lieve colpetto di spalla. «Ma non credo che da parte tua sia reciproco.»
Wakatoshi la guardò un istante, non parve per niente sorpreso e distolse subito lo sguardo. Il loro passo era ormai diventato lento e il cielo più chiaro, segno inequivocabile che la notte avrebbe presto ceduto il posto al mattino.
«Cosa ti preoccupa?» lo incalzò allora Megumi, ansiosa di trovare risposte.
«Sono stato convocato per la nazionale juniores.» ammise allora. C’era un che di stonato nella sua solita cadenza distaccata, un tremore che vibrava più acuto della sua voce, piuttosto inedito per chi non lo avesse conosciuto da quanto tempo lo conosceva lei. Wakatoshi non parlava mai di paura e si poteva essere perfino tanto sconsiderati da azzardare che non ne avesse mai provata in vita sua, salvo poi riconoscere l’errore: non temeva la maggior parte delle cose che i più avrebbero trovato spaventose forse, ma conosceva anche lui l’ansietà ed era tutta in quel fremito sommesso che contaminava le sue parole.
«Ma è fantastico, Waka-­nii!» commentò felice come se fosse al posto suo «Sei solo al secondo anno e sei già dentro! Me lo sentivo da quando lo scorso anno sei stato selezionato per il ritiro nazionale!»
L’amico preferì non rispondere, lasciò che il suo entusiasmo si spegnesse nel silenzio dell’alba.
«Perché hai paura? La tua carriera sportiva vera e propria è sul punto di iniziare…»
Wakatoshi si mise le mani in tasca, si fermò a pochi passi dal punto in cui erano partiti.
«Non ho mai avuto dubbi sulle mie competenze a livello nazionale.» ammise tradendo appena la tensione «Ma adesso si parla di confrontarsi col mondo intero. Ho paura di restare deluso da me stesso ed ho paura di deludere mio padre.»
«Come potresti deluderlo? Piuttosto sarà felicissimo di poterti vedere giocare oltreoceano!»
«O potrei farlo vergognare in diretta mondiale.»
«E anche se sbagliassi qualche volta? Hai solo diciassette anni, è normale che tu abbia ancora tanto da imparare per migliorare… e sei già a buon punto! L’unica cosa che non sei in grado di fare è proprio deludere qualcuno dal punto di vista sportivo. Sono certa che tuo padre è fiero di te.»
Wakatoshi le sorrise appena.
«Dovrai chiedere a tua mamma di firmare qualche giustificazione per la scuola.» le annunciò.
Megumi si limitò a scoccargli un’occhiata confusa.
«Hai promesso di assistere a tutte le mie partite, non ricordi?»
Profumo di erba appena tagliata, di vernice fresca sulla terra battuta, polvere sul pallone rammendato, un cane che abbaiava non troppo lontano ma non abbastanza forte da coprire il canto delle cicale. I pensieri di Megumi tornarono al caldo umido di luglio in una frazione di campagna. Si chiese cosa si provasse a salire su un aereo.
«Non posso dimenticarlo.» rispose con un sorriso.
~
 
Mikoto era stata la prima, in tutto quel marasma delle ultime settimane, a portare a termine la missione del servizio in salto: silenziosa e incolore, era il cavallo su cui nessuno avrebbe mai scommesso ed invece aveva sbaragliato tutta la competizione, Megumi compresa. Quel giovedì sfortunato le aveva rivolto un sorriso compiaciuto e si era goduta i complimenti di tutte, perfino quelli di Kurihara. Alla fine dei conti – considerò Megumi – la sfortuna era una misteriosa alleata di Mikoto, che sembrava possedere il potere di piegarla alla sua volontà e plasmarla a proprio piacimento.
Era l’inizio di una giornata disastrosa: per tutto l’allenamento mattutino, uno dei più odiosi visto che precedeva l’inizio delle lezioni, non aveva fatto altro che chiedersi quando e come l’amica si fosse impratichita abbastanza da farle mangiare la propria polvere. Si rese infine conto di essere stata tanto presa da sé stessa e dal suo obiettivo, ogni giorno sempre più irraggiungibile, da dimenticarsi di guardarsi intorno. Non solo Mikoto era migliorata, ma anche gli sforzi di Kaori iniziavano a dare i primi frutti e così quelli di Hoshino e di Yoshida, che era diventata – se possibile – ancora più abile di quanto fosse mai stata. Ognuna delle sue compagne di squadra aveva mosso dei passi in avanti e gli ambiziosi piani della signorina Kato si facevano sempre più realizzabili, eccetto per una minuscola ma essenziale variabile: Megumi, che era rimasta indietro, con le gambe pesanti come piombo. Allora comprese che la sua nuova allenatrice, che in lei aveva riposto così tante speranze, non poteva essere affatto contenta di lei. Forse aveva ragione Hattori: Megumi non era nessuno e non aveva alcuna speranza di farsi strada se non quella di ricorrere a sotterfugi illeciti e sleali. Sapeva bene che non era il momento giusto per farsi prendere dallo sconforto, si disse che doveva concentrarsi sul piccolo match di allenamento che avevano improvvisato per l’ultima mezz’ora, che doveva rimanere concentrata, ma non fu capace di scacciare quelle dolorose riflessioni dalla propria testa e se ne accorse troppo tardi.
Qualcuno, forse Kato stessa, l’aveva chiamata per nome, ma la sua voce suonava lontana e ovattata, non riusciva a capire bene cosa le stesse dicendo. Faceva freddo, ma Megumi aveva le mani sudate; avevano appena iniziato la partita, ma le mancava il respiro come se avesse appena smesso di correre. Il gioco si era fermato? Non vedeva più la palla, la palestra era diventata una macchia sfocata. D’improvviso, il panico le esplose nel petto e come un’onda gelida, la privò di ciò che rimaneva della sua coscienza. Qualcuno gridò, mentre il suo braccio veniva saldamente afferrato per impedire che crollasse per terra. Infine tutti i suoni scomparvero e la macchia sfocata si ridusse al colore della pece.
Si era risvegliata ben lontana dalla palestra, nell’infermeria dell’Accademia, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. Naomi Kato era seduta accanto a lei, trafficava con il cellulare e sembrava preoccupata.
«Mi dica che non è successo.» mormorò Megumi, distogliendo l’allenatrice dai suoi pensieri.
La signorina Kato le rivolse un sorriso radioso, come se lei non fosse miseramente svenuta nel mezzo del suo allenamento, come se meritasse gentilezza.
«Come ti senti?» le domandò con dolcezza.
«Confusa… e stanca.»
«Comprensibile: Arisu dice che sei uscita presto stamattina.»
«Non riuscivo più a dormire.»
«Credo che tu abbia recuperato, in un modo o nell’altro: sono le dieci passate.»
«Lei… è stata qui per tre ore?»
«Se una mia ragazza non si sente bene, è mio dovere.»
«Non mi risulta sia una regola dell’istituto.»
Naomi rise. «Diciamo che è una mia regola. E poi ci hai fatto prendere un brutto spavento, cascare così all’improvviso... per fortuna stai bene, il medico ha detto che si è trattato di un attacco di panico.»
Megumi balbettò che lo sapeva e che non era la prima volta che le capitava, ma non era mai svenuta. Si vergognava tantissimo della figuraccia e le dispiaceva di aver messo in allarme tutte quante, si scusò con l’allenatrice, cercò di prometterle che non sarebbe mai più accaduto.
«Cosa c’è di male, Megumi? Può capitare a tutti, anche ai migliori. Anche se ricapitasse, non è una colpa: dopo tutto quello che ti è successo e che ti sta succedendo è più che normale che il tuo corpo ne risenta. Se vuoi proprio promettermi qualcosa, promettimi di essere meno severa con te stessa: non uscire a correre alle quattro di mattina, ad esempio, e per un po’ mettiamo da parte quella dieta proteica. Vai bene così come sei, non ho bisogno che tu la prosegua oltre, anzi spero tu possa perdonarmi per avertela richiesta, sono stata incosciente. Immagino che il preside abbia ragione quando dice che non sono adatta.»
«Lei è più che adatta, sono io che non vado bene.»
«Tu non hai nulla che non vada bene Megumi! Stai solo passando un brutto periodo ed è comprensibile che tutto si risolva in un batter d’occhio. Ascoltami, prendila più alla leggera: allenati il giusto, quanto basta per restare pratica, passa del tempo con gli amici, esci, oppure stai a letto e leggi un libro… ma divertiti, ritrova te stessa.»
«Le ho già detto tempo fa che non voglio sconti, è irritante che mi trattiate sempre come se ci fosse soltanto bisogno di compatirmi e assecondarmi. La verità è che, per quanto io possa sforzarmi, nulla mi riesce abbastanza bene: è oggettivo e lo sapete tutti, ma continuate a fingere. Ho trascorso le ultime settimane a esercitarmi su quel servizio ogni santissimo giorno, ma non ho mai ottenuto i risultati che Mikoto sembra aver raggiunto senza il minimo sacrificio, e mi sento colpevole perché ne sono invidiosa quando invece dovrei soltanto essere felice per lei. Sono una cattiva persona, non è così?»
Gli occhi della signorina Kato erano colmi di stupore e a Megumi parve quasi che stesse vedendo altro, oltre che la sua faccia di allieva penosa. Tutt’a un tratto le prese le mani.
«È normale essere invidiosi, Megumi. Lo siamo stati tutti, anche io. Può capitare perfino di esserlo nei confronti degli amici, come sta succedendo a te. Ed è vero, forse siamo tutti indulgenti con te, ma lo facciamo perché vogliamo aiutarti: quello che vorrei che capissi è che l’unico ostacolo che ti separa da quel che vuoi e che puoi diventare sei tu. Io li vedo, i tuoi sforzi, e allo stesso modo li vedono le ragazze e i tuoi amici, ma vediamo anche i tuoi tentativi di autosabotaggio.»
«Glielo giuro, io non faccio niente per sabotarmi!» protestò la ragazza.
«Non mi aspetto che tu lo riconosca, non lo fai consciamente: ma trovare ogni volta una scusa per giustificare la cattiva riuscita di un’azione, prima ancora che avvenga, è autosabotaggio. Decidere che non sei in grado di fare qualcosa senza nemmeno provare è autosabotaggio, convincerti che Noriko ti stia osservando per vederti sbagliare un servizio è autosabotaggio, continuare a pensare che Hattori avesse ragione sul tuo conto è autosabotaggio. E tu fai tutte queste cose, è vero o no?»
A malincuore, ma piena di una consapevolezza tutta nuova, Megumi fu costretta a confermare. Era piuttosto certa che sarebbe scoppiata a piangere di nuovo davanti a l’allenatrice e tentò in tutti i modi di impedire alle lacrime di venire fuori, ma alla fine fu la stessa Kato ad accorgersene.
«Se ti fa stare meglio, non vergognarti di piangere.» la rassicurò.
La ragazza non aveva mai voluto accogliere il suo invito, ma il suo corpo non obbediva più alla sua volontà, così si ritrovò a singhiozzare con gli occhi gonfi e lucidi, domandò all’allenatrice cosa avesse intenzione di fare con lei, ora che l’ansia aveva fatto di lei un essere così debole.
Kato le sorrise, stavolta non con pietà o con condiscendenza, ma con salda decisione.
«La paura può diventare una risorsa.»
Megumi avrebbe continuato a ripetersi quella risposta così insensata mentre dall’infermeria rincasava al dormitorio, con il benestare dell’infermiere e la firma del preside Kurihara che non si era nemmeno risparmiato di telefonare sua madre. Dopo aver bisticciato al telefono con la signora Sakurai, che si era offerta in tutti i modi di andare a prenderla per riportarla a casa, la ragazza aveva ottenuto l’esonero dalle lezioni per il pomeriggio e per tutto il giorno successivo, a patto che non ne approfittasse per ripresentarsi agli allenamenti. Più tardi, in mensa, il cuoco in persona provvide a servirle il doppio delle porzioni, sostenendo che fosse troppo sciupata per accontentarsi di quel che c’era; Megumi sospettava che ci fosse lo zampino della signorina Kato e del preside e non aveva nemmeno tutta quella fame, ma fu costretta a passare ugualmente sopra il disagio che tutte quelle attenzioni le procuravano.
Non aveva voglia di parlare con nessuno, nemmeno con Wakatoshi o con Arisu, perciò scelse il tavolo più lontano dagli occhi degli altri, in un angolino riparato a ridosso delle cucine e provò ad assaggiare il ramen di pollo che il cuoco aveva tanto diligentemente lodato, ma era così bollente che ogni tentativo di avvicinare le bacchette alla bocca finiva con una scottatura. In attesa che si freddasse il minimo necessario a mangiarlo senza ustionarsi il palato e l’esofago, tirò fuori il cellulare e prese ad esaminare le numerose notifiche che si erano accumulate da quella mattina. C’erano almeno dieci messaggi di Arisu, che non era riuscita a rientrare al dormitorio quando Megumi era tornata e le chiedeva insistentemente come stesse, due di Wakatoshi che aveva saputo l’accaduto da qualcuno e le chiedeva dove fosse, alcuni delle sue compagne di squadra, compresa Kurihara, che le aveva scritto che aveva insistito con suo nonno perché le fossero sospese le lezioni, e – aggrottò le sopracciglia nel vederlo – otto chiamate senza risposta da parte di Kenjiro. Megumi si chiese quando fosse stato in grado di farle, visto che non gli sarebbero nemmeno bastati tutti i cambi dell’ora.
C’era poi, in basso, il consueto messaggino di buongiorno di Oikawa, seguito dai consueti mille cuoricini molesti, tutti di colore blu. Quella mattina si era scordata di rispondere, dicendosi che lo avrebbe fatto prima di entrare in classe, ma poi a scuola non c’era andata più. Gli scrisse allora per scusarsi del silenzio, riassumendogli in poche parole quello che le era accaduto. Il ragazzo le rispose istantaneamente, chiedendole ulteriori notizie su come stesse e se avesse bisogno di qualcosa. Quando l’ebbe rassicurato che tutto quello che le serviva era una bella notte di riposo ed un po’ di relax, Oikawa si offrì, piuttosto perentorio in realtà, di accompagnarla a fare una passeggiata il giorno successivo, garantendole che non si sarebbero affaticati troppo. Lei, incredibilmente sorpresa da sé stessa e dall’emozione sconosciuta che l’aveva pervasa nel leggere l’invito, accettò.
«Eccoti qua, finalmente! Si può sapere dov’eri finita?»
Kenjiro era riuscito in qualche modo ad individuarla nella confusione della sala mensa all’ora di punta e la fissava con sguardo duro.
«Si può sapere dov’eri finita? Ho perso il conto delle volte in cui ho provato a chiamarti! Mentre eravamo in pausa mi sono perfino infilato in classe di Kawanishi e Nonaka mi ha detto che ti eri sentita male ed eri in infermeria! Ma indovina? Quando sono arrivato, in infermeria non c’eri!»
L’irritazione di Kenjiro era quasi divertente e bastava a riscaldarle il cuore.
«Il preside mi ha fatta uscire, sono tornata al dormitorio.»
«Sei una cogliona, ne sei consapevole, vero? Potevi scrivermi un messaggio, chiedere a qualcuno di avvertirmi, ed invece te ne sei stata due ore da sola senza dare segni di vita e poi ti sei nascosta dietro la porta della cucina! Lo sai che durante l’ora di coordinamento la capoclasse ha assegnato i ruoli per il festival scolastico? Ti avrebbero messo nel Maid Café se non fossi intervenuto io!»
Tralasciando il cattivo gusto di chi aveva pensato che le sarebbe stato bene un grembiulino bardato di fiocchi e fronzoli, Megumi non avrebbe mai accettato un’umiliazione del genere: piuttosto avrebbe marinato la scuola. Ringraziò perciò Kenjiro per la premura e quello, per tutta risposta, le intimò nervoso di non muoversi da lì perché sarebbe andato a prendere il suo vassoio dal tavolo dove si era sistemato e sarebbe tornato per continuare la ramanzina. Tuttavia, quando tornò indietro, non era più solo: con lui c’erano anche Mikoto e Kaori e un loro compagno di classe che giocava con Kenjiro e che ricordava chiamarsi Kawanishi. La presenza di Mikoto la metteva un po’ a disagio per via dei pensieri che aveva esternato alla signorina Kato e si considerò lieta del fatto che i poteri paranormali di Mikoto non prevedessero la lettura della mente altrui. Nei minuti successivi, si presentò al loro tavolo anche Arisu, che non volle sentire ragioni e si fece fare spazio fra Megumi e Mikoto. In men che non si dica, l’angolo più nascosto della sala era diventato anche il più rumoroso e la situazione non poté che peggiorare quando, alle costole di Wakatoshi, che li aveva raggiunti dopo che Megumi lo aveva informato di dove fosse, spuntò perfino Tendou che prese a tormentare Kawanishi per il resto della pausa pranzo. Per concludere, si buscarono una bella sgridata del professore di storia.
Quando le ragazze restarono sole, prima che Arisu, Mikoto e Kaori tornassero alle lezioni pomeridiane, Megumi riuscì finalmente a far virare il discorso su cosa facessero il pomeriggio di Halloween. Erano giorni che cercava di introdurre l’argomento senza alcun successo, ma questa volta Kaori parve cascarci in pieno, perché prese a raccontare di quanta roba il negozio dei suoi genitori smerciasse in quel periodo e di come ogni anno li avesse aiutati a servire la clientela. Da quell’anno, tuttavia, i signori Nonaka avrebbero dovuto fare a meno della collaborazione della figlia minore: da quando Kaori aveva iniziato il liceo, rimaneva al dormitorio fino al week-end, con buona pace di mamma e papà.
«Ah, io non so.» rispose Mikoto con una serietà che soltanto dopo si rivelò dissacrante autoironia «Ho questo incontro con le mie colleghe streghe, stiamo cercando di evocare un demone della vendetta. Personalmente, non sono convinta che funzionerà.»
Poi fu costretta a precisare, giurando solennemente sui suoi gatti, che stava scherzando, prima che Arisu fosse colta da un calo di pressione. Quando fu sufficientemente rassicurata che Mikoto non aveva in programma alcuna evocazione demoniaca per il trentuno del mese, bisticciando con un cerottino sul ginocchio, Arisu sospirò che non aveva nulla da fare ad Halloween.
A quel punto Megumi ritenne il momento adatto a introdurre la questione.
«Se non avete nulla da fare, ci sarebbe il parco divertimenti. È l’ultima apertura di questa stagione, e sono stata invitata ad andarci.»
«Invitata da chi?» la punzecchio Mikoto sospettosa.
Megumi strinse le labbra. «Non ve lo dico.» borbottò.
«Se un ragazzo ti invita al luna park, devi andarci da sola con lui!»
«Non è un appuntamento!» chiarificò l’altra con nervosismo.
«Se Oikawa ti invita al Luna Park e tu gli dici di sì è tecnicamente un appuntamento.» osservò Kaori, decisamente troppo entusiasta della situazione.
Megumi si affrettò a spiegare che Oikawa le aveva semplicemente esteso l’invito dei suoi amici, che avevano già programmato di trascorrere lì il pomeriggio di Halloween, dal momento che cadeva proprio nel giorno di riposo del loro club. Omise che non si spiegava come mai avessero deciso di includerla con così tanta tranquillità, visto che l’ultimo incontro con loro, risalente a qualche settimana prima, non era stato poi così amichevole. Questa incertezza, insieme al consueto imbarazzo che le prendeva ogni volta che rimaneva troppo tempo da sola con Oikawa, l’aveva spinta a sua volta a chiedere alle ragazze di accompagnarla.
«Chiaramente è una farsa per convincerti: è ovvio che sarete solo voi due.» affermò Arisu.
«Non mi importa: che sia solo lui o che ci siano anche gli altri, non mi va di andarci sola. Kenjiro non vuole venirci, e Wakatoshi ha insistito di non volerne assolutamente sapere nulla. Siete la mia unica speranza!»
«Piuttosto vorrai dire che siamo l’ultima scelta…» commentò Mikoto.
«Avevo pensato subito a voi, in realtà: loro sarebbero quattro e noi altrettante!»
«Ah no, a me queste cose non piacciono!» la interruppe Arisu tesa «Sia chiaro che io non ho intenzione di fare gli occhi dolci a nessuno, detesto gli appuntamenti combinati!»
«Scoiattolo, credo che tu stia viaggiando di fantasia, non penso che Megumi stesse programmando di trovarti il fidanzato, sta solo cercando una via di fuga nel caso le cose vadano male. Io ci sto: non ho niente di meglio da fare e ho troppa poca fiducia nel genere maschile per lasciarla senza paracadute. Se poi dovessero essere soltanto loro due soli soletti, scomparirò prima che Oikawa possa vedermi.»
«Grazie, Mikoto. In realtà mi farebbe piacere se rimanessi anche se fossimo soli, ma va bene lo stesso. Ricambierò il favore appena possibile.»
«Allora verrò anche io.» annunciò Arisu, un po’ rossa in viso «E se Oikawa dovesse infastidirti quando rimarrete da soli, verrò fuori e gliene dirò quattro.»
Kaori le guardava tutte e tre con un’espressione piuttosto sconsolata sul viso: stava considerando che, di quel passo, l’appuntamento di Megumi sarebbe stato un disastro irrimediabile. Mikoto avrebbe terrorizzato i ragazzi, ammesso sempre che ci fossero realmente stati, mentre Arisu avrebbe impedito a Oikawa anche solo di superare il metro di distanza dalla ragazza che aveva invitato ad uscire. Constatato che c’era l’inderogabile necessità di qualcuno che tenesse sotto controllo quelle tre irresponsabili, decise infine di unirsi al gruppo.
Megumi le fu immensamente grata: la signorina Kato le aveva consigliato di trascorrere del tempo con gli amici e lei era già riuscita a trasformare qualcosa che la spaventava – quell’appuntamento con Oikawa al parco divertimenti che aveva tanto incautamente accettato – in un’occasione per farlo.
Forse era proprio quello che intendeva Kato, quando parlava di trasformare la paura in una risorsa.


NOTE FINALI

Questo è uno di quei capitoli in cui succedono un sacco di cose, forse un po' troppo lungo e me ne dolgo, ma non volevo intaccare il prossimo, che si svolge su tutt'altri toni. Spero che tutta l'introspezione di Megumi non risulti pesante ma ci tenevo a mostrarvi che per lei lo spettro di Hattori non è affatto lontano e che, proprio come accade in questi casi nella vita reale, spesso alle vittime non viene riconosciuta la ragione per via di cavilli incredibili (e spesso anche offensivi). Sono riuscita finalmente ad introdurre le vecchie amiche di Arisu che, fra parentesi, frequentano una scuola che - dai colori della divisa al nome - fa riferimento al pavone. Il nome l'ho proprio inventato male, ma non avevo altre idee su come comporre la parola, quaero veniam!
Infine, prima di salutarvi, voglio ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato, nonostante non aggiornassi da una vita! Ogni segno del vostro passaggio, dall'aggiunta alle liste alle recensioni, è per me carburante preziosissimo, perché mi mettono così di buon umore che divento produttiva. Perciò vi chiedo, se vi va, di lasciarmene sempre una, anche piccina, per dirmi che ci siete e farmi sapere cosa vi è piaciuto e cosa vi aspettate.
Grazie per essere ancora qui, vi voglio bene!
Alla prossima (che sarà divertente!),
Lyra

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13: Vertigine ***


Capitolo 13

Vertigine

Il week-end prima di Halloween diluviò così tanto che furono soppresse tutte le corse dei mezzi da e per Sendai. Quello stato di emergenza metereologica obbligò una buona parte degli studenti dell’Accademia a rimanere nei dormitori anche nei giorni festivi, senza nemmeno la possibilità di spostarsi in centro per fare due passi o togliersi qualche sfizio, data l’entità delle precipitazioni e la frequenza con cui lampi e fulmini si alternavano fuori dalle finestre.
Più di ogni altra settimana, Megumi sarebbe voluta tornare a Minamisaka: la sua sorellina le aveva riferito al telefono che il fiume che costeggiava la loro proprietà era esondato, riversando sulle colture dei suoi genitori detriti e fanghiglia viscida. Parte della staccionata era stata abbattuta, il contenuto del magazzino era completamente perduto e in casa gocciolava acqua dal soffitto in prossimità della cucina. Himeka aveva puntualizzato che erano stati comunque più fortunati dei vicini, la cui stalla era stata travolta dal fiume, insieme alla vita della metà degli animali che allevavano. Nessuno, dunque, sarebbe potuto andare a prendere lei e Wakatoshi in auto: entrambe le loro famiglie avevano problemi ben più gravi da risolvere, nonostante Megumi avesse protestato di voler tornare per aiutare.
Così il sabato trascorse uggioso e lento, un tuono dopo l’altro. Nel pomeriggio, improvvisarono un gruppo studio in sala lettura, sotto la scrupolosa supervisione di Kenjiro e Kaori, che riuscirono ad ottenere che Megumi e perfino Arisu anticipassero i compiti fino al mercoledì. La domenica mattina, ragazzi e ragazze dei rispettivi club di pallavolo organizzarono un allenamento congiunto e piuttosto clandestino, vista l’assenza dei supervisori e dei responsabili. La carneficina iniziata da Wakatoshi si concluse con un nuovissimo cerotto a pois sulla fronte di Arisu, lividi sugli avambracci di Horie, e una inquietantissima sfida fra Tendou e Mikoto, dopo che quest’ultima l’aveva fregato sotto rete con una finta particolarmente fortunata. Il più grande si era poi rifatto in grande stile riprendendosi il punto perso con tutti gli interessi e a quel punto un tuono più forte degli altri era esploso proprio sopra le loro teste e la corrente era saltata, la centralina elettrica completamente bruciata. L’aneddoto della strega e del mostro sarebbe girato di bocca in bocca il giorno successivo, perfettamente in tema coi racconti dell’orrore di Halloween.
Nel pomeriggio spiovve, proprio quando Tooru stava per telefonare a Megumi per annullare i loro piani. Di punto in bianco, il sole riemerse dalle nuvole grigie e il vento scacciò via ciò che di esse rimaneva, le previsioni del tempo furono riaggiornate: portavano sole e temperature miti per i tre giorni successivi. Convintosi che fosse un’inequivocabile segno del destino, il ragazzo si rassegnò alla sincerità. Si guardò nello specchiò sul comò dei suoi genitori, si aggiustò gli occhiali sul naso e confessò:
«Gumi-chan, io non posso salire su questa giostra perché ho paura dell’altezza.»
«Tu non hai paura dell’altezza» scandì la voce di sua sorella dall’altra stanza «tu sei terrorizzato dall’altezza!»
Tooru cercò di ignorarla e continuò la sua prova, a voce più bassa.
«Soffro di vertigini.» ammise con decisione.
«Ti ricordi quando avevi dieci anni e mi hai vomitato sulle scarpe?»
«Vuoi smetterla?» gridò spazientito «Non vomiterò sulle scarpe di nessuno!»
Si passò le dita fra i capelli: non c’era affatto, rinunciare subito alle attrazioni che sfruttavano l’altezza sarebbe stato controproducente. Megumi l’avrebbe scambiato per un fifone e avrebbe subito perso tutti i punti che aveva faticosamente guadagnato. Si disse che aveva diciassette anni e che, a quell’età, era ora di mettere da parte le paure dell’infanzia. Se si fosse sforzato di affrontare tutto con razionalità, sarebbe andato tutto bene: tutte le giostre erano progettate per essere sicure, non era possibile cadere e farsi male. Doveva solo concentrarsi e pensare che sarebbe rimasto solo con Megumi, avrebbero mangiato insieme lo zucchero filato su una panchina di fronte al carosello, gliene sarebbe rimasto un po’impigliato fra i capelli e lui glielo avrebbe tolto con la mano, meritandosi un ringraziamento. Allora sarebbero stati così vicini e il momento sarebbe stato così perfetto e romantico che l’avrebbe baciata, e sarebbe stato un bacio magnifico, di quelli a cui non si poteva rimanere indifferenti nemmeno con tutto l’autocontrollo del mondo. Infine si sarebbero messi insieme e sarebbero tornati a casa mano nella mano. A quel punto il rating del suo sogno ad occhi aperti saliva repentinamente, perciò preferì frenare la sua immaginazione prima che fosse troppo tardi.
L’indomani pomeriggio, elettrizzato come non mai dal sole tiepido dell’autunno, si precipitò a casa dopo la fine delle lezioni, s’infilò sotto la doccia appena sceso dall’auto di suo fratello, s’infilò la cambiata che aveva tanto accuratamente studiato per l’occasione e spruzzò sul collo due gocce del nuovo profumo che aveva ricevuto per il suo compleanno. Quando si fu giudicato impeccabile, tornò al piano inferiore e prese a tempestare Hajime di chiamate.
Il piano era semplicissimo, forse un po’ troppo sleale, ma nel pieno stile di Hanamaki: i ragazzi avrebbero raggiunto il parco tutti insieme con anticipo e sarebbero entrati solo all’arrivo di Megumi, per poi eclissarsi nella folla di visitatori e lasciarli soli per il resto della serata. Era una strategia a prova di errore, non poteva fallire. O almeno, era quello che credevano.
Quella ad arrivare in anticipo fu Megumi: appena giunti all’ingresso del parco, la distinsero intenta a chiacchierare con altre tre ragazze, due delle quali già note a Tooru.
«Okay, cosa le hai detto quando l’hai invitata?» gli domandò Takahiro innervosito.
«Che voi avevate esteso l’invito anche a lei.»
«E…» lo incalzò l’amico, che già si aspettava una risposta disastrosa.
«… che avevate detto che più eravamo, meglio era.» ammise con un fil di voce.
Hajime si piantò le mani in faccia, sconfitto.
«Ma sei completamente rimbecillito?» sbottò assestandogli un bel colpo sulla schiena «Credevo che tu queste cose fossi in grado di farle!»
«Non puoi esserti già disabituato.» commentò Takahiro deluso.
«Certo che no! Fa ancora il galletto con le ragazze che vengono a vedere gli allenamenti, ma non è capace di invitarne una sola al parco divertimenti!» rincarò la dose Iwaizumi.
«Gumi-chan non è esattamente una di loro!»
«Ah certo, lei è un fiocco di neve speciale, continuo a dimenticarlo.» ribatté con sarcasmo l’amico.
Issei s’intromise fra i due prima che Tooru replicasse qualcosa di troppo stupido e Hajime lo prendesse a botte, mandando completamente a monte il pomeriggio che avevano tanto accuratamente pianificato. Suggerì ai ragazzi di avvicinarsi e di considerare la possibilità che le amiche fossero lì solo per caso.
«Può darsi che vadano via non appena raggiungiamo Sakurai.» spiegò.
Purtroppo, il suo raggiante ottimismo non trovò riscontro: quando ebbero salutato Megumi, tre sguardi diversi passarono in rassegna ciascuno di loro. Mikoto esaminò uno per uno i suoi amici, indugiò su di lui e sollevò un sopracciglio, seccata. Arisu Hiromi, per conto suo, strinse i grandi occhi nocciola e gonfiò le guance, in una smorfia che più che mai la faceva sembrare un piccolo scoiattolo. L’ultima ragazza, che Tooru non aveva mai avuto modo di conoscere direttamente, scosse il capo con rassegnazione e si scostò dalla fronte i capelli biondi del caschetto. Megumi, d’altra parte, era tesa come una corda di violino, ma lo accolse con un sorriso – per quanto forzato fosse – e per un istante i suoi occhi guizzarono preoccupati su Hajime, prima di ritornare su Tooru.
Fu Mikoto, infine, a prendere l’iniziativa. La ragazza bionda cercò in qualche modo di fermarla, ma lei chiarì subito:
«Noi siamo con Megumi.»
Sorprendentemente, la replica piccata non giunse dal già provato Iwaizumi, ma da Hanamaki:
«L’invito era solo per lei.»
Mikoto lo guardò con sufficienza e stava per ribattere qualcosa di piuttosto acido, ma il mea culpa di Megumi giunse prima che avesse il tempo di parlare.
«Mi dispiace» ammise timidamente «Mi sentivo troppo in imbarazzo per restare da sola con voi, allora ho chiesto alle ragazze di accompagnarmi.»
Tooru era piuttosto risentito che Megumi avesse boicottato in quel modo il loro appuntamento, per quanto sleale e meschino fosse stato il loro piano iniziale, rovinato da una banalissima variabile che non avevano messo in calcolo, ma trovava anche adorabile l’impaccio con cui la ragazza aveva confessato le proprie colpe. Era più carina di solito quel pomeriggio: i capelli scuri erano finalmente sciolti, il colore mogano sempre più sbiadito in favore del castano naturale, e portava un filo di trucco, qualcosa che le aveva visto fare rarissime volte da quando si conoscevano e mai per lui. Sapendosi osservata, si fece appena rossa sulle guance.
«Quindi che facciamo, piccioncini?» li esortò Mikoto più divertita di quanto dovesse «Vogliamo entrare o volete rimanere qui a guardarvi negli occhi?»
«Siamo solo amici!» protestò Megumi, con voce fin troppo stridula, ma le sue lamentele nei confronti di Mikoto rimasero piuttosto inascoltate: per quanto mal assortito fosse, il gruppo raccolse con entusiasmo l’esortazione e si avviò verso le biglietterie, curandosi di lasciare i due soli in coda. Mentre li ascoltava scambiare qualche battuta di presentazione con le ragazze, Tooru considerò di avere degli amici davvero in gamba.
«Sei proprio carina, oggi.» le disse approfittando dell’occasione.
Megumi aggrottò le sopracciglia.
«Intendi dire che di solito non sono carina?»
«Dai, sai cosa voglio dire!» ridacchiò lui cogliendo la provocazione «Sei sempre bella, ma oggi di più!»
Megumi gli sorrise lusingata dal complimento, anziché prenderlo a botte come avrebbe fatto di solito. Tooru dovette faticare per non incantarsi come un ebete nel mezzo della fila.
«Devi avere degli standard piuttosto bassi, perché me lo dici solo tu, che sono bella.»
«Allora te lo dirò io più spesso, per compensare tutte le volte in cui gli altri lo omettono.»
Seguì un silenzio teso, in cui Megumi, con le guance imporporate dalla vergogna, finse di interessarsi alla folla che si accalcava sul cancello. Pagarono i propri biglietti e si diressero all’ingresso. Solo quando l’ebbero oltrepassato, mentre percorrevano il viale costeggiato da negozietti di dolciumi e souvenir, in mezzo al chiasso dei visitatori e alla musica assordante che proveniva dalle attrazioni più vicine, Megumi gli si fece più vicina e ammise, con non poco imbarazzo: «Anche tu sei molto carino.»
Non poteva aver sentito bene, di certo doveva esserselo inventato: Megumi non era affatto il tipo di ragazza che potesse fargli elogi del genere. Eppure lo aveva udito perfettamente: anche tu sei molto carino; forse stava dando di matto, oppure era lei ad aver perso la testa, fatto stava che il suo cuore martellava all’impazzata, anche dinanzi ad una semplice illusione.
«Guarda che non lo ripeterò di nuovo.» lo ammonì Megumi ancora tutta rossa.
«Allora lo hai detto davvero?»
«Mi sono già pentita: sei brutto, orrendo, praticamente uno sgorbio.»
«Che cambia? Ormai l’hai detto. Grazie, Gumi-chan
Lei gli diede un buffetto risentito sul braccio, per niente vigoroso, solo un mezzo come l’altro per ricordargli che era sempre la stessa ragazza complicata. Seguirono gli altri senza farsi troppe domande sulla destinazione, mentre in realtà – in testa al gruppo – era in atto una discussione fra Iwaizumi e Matsukawa riguardo l’itinerario da seguire: Hajime insisteva per approfittare subito dell’assenza di persone all’autoscontro, Issei ribatteva che sarebbe stato meglio prender posto nella fila per la casa degli orrori. Alla fine, per alzata di mano, si decise si iniziare dalle macchinine da scontro prima che venissero prese d’assalto e, indecisi sulle coppie da formare, tirarono a sorte.
Tooru fu decisamente sfortunato: ad accomodarsi accanto a lui fu la minuscola Arisu, per la quale forse la macchina per adulti era troppo grande; lei gli rivolse un ghignetto soddisfatto per averlo separato da Megumi ed infilò il gettone nel cruscotto, tutta pimpante. Mikoto si sedette accanto ad Hajime, che sembrava piuttosto a disagio, mentre Megumi divideva l’autoscontro con Kaori, ed entrambe parevano non avere la più pallida idea di cosa stessero facendo. Qualche macchinina più in là, Takahiro e Issei affilavano le armi scoccando sguardi famelici agli amici. Al via, fu la guerra: i due ragazzi puntarono subito Megumi e Kaori; la prima, che aveva lo spirito di competizione di una bambina di cinque anni, con un tremendo testa coda ricambiò la botta con uno schianto altrettanto forte. Arisu piombò sui due come una punizione divina, Iwaizumi e Mikoto, ben più lontani, avevano attaccato briga con un branco di ragazzini delle elementari ma – non appena si accorsero dello scenario – cambiarono immediatamente traiettoria per tamponare Tooru e Arisu. Alla fine ne uscirono molto su di morale e perfino un po’ più in confidenza: Mikoto evitava accuratamente di parlare troppo con i ragazzi, ma Kaori e Arisu sembravano molto più loquaci. Anche Megumi sembrava più a suo agio, mentre sfotteva Takahiro per essersi fatto prendere in giro da due ragazze sulla pista.
La visita alla casa degli orrori ebbe ancora più successo: sebbene Arisu avesse passato tutto il tempo a stringere terrorizzata il braccio di Megumi, mentre Mikoto rideva a crepapelle avanti ad ogni elemento orrorifico, era stata un’esperienza abbastanza elettrizzante, anche se ben poco era risultato davvero spaventoso. Persero presto la cognizione del tempo: il sole si fece più vicino all’orizzonte, man mano che i ragazzi si impegnavano in attrazioni via via più audaci. Tooru sopportava in silenzio ed era abbastanza soddisfatto dei risultati dei suoi sforzi; ciò che invece lo frustrava era che non riuscisse a rimanere da solo con Megumi, che era sempre circondata dalla sua scorta cinguettante. Il rischio era che la giornata terminasse senza averci parlato se non appena all’inizio.
La situazione precipitò mentre la sfida al punching ball fra Hajime e Megumi volgeva al termine, vedendo il primo trionfare sulla seconda. Proprio oltre quella macchina si stagliava il profilo terrificante delle montagne russe sul cielo notturno. Rabbrividì quando udì le urla di chi c’era sopra e il treno discendeva a gran velocità dalla sua vetta più alta, coi binari che si torcevano su sé stessi. Sapeva che sarebbe stata la prossima giostra da provare e gli venne la pelle d’oca. Non poteva assolutamente tirarsi indietro: nemmeno i suoi amici sapevano della sua fobia per le altezze, perfino Iwaizumi la ignorava totalmente e non si era mai chiesto come mai – in tanti anni di conoscenza – lui e il suo migliore amico non avessero mai fatto visita a un parco divertimenti.
Il suo timore si concretizzò quando Matsukawa additò l’attrazione con sguardo famelico e annunciò che era giunta l’ora di mettersi in fila. Gli altri lo seguirono entusiasmati, mentre lui aveva la sensazione di avviarsi verso la fucilazione.
«C’è qualcosa che non va, Oikawa?» lo punzecchiò Megumi trovandolo innaturalmente silenzioso.
Lui trasalì preoccupato e scosse di fretta il capo, ma la ragazza non ne fu abbastanza convinta.
«Ti va di salirci o no?»
«Certo che mi va» mentì «Non vedo l’ora!»
Megumi lo osservò pensosa.
«Meglio così! Stavolta ci siederemo nello stesso vagone. Non abbiamo fatto nemmeno un giro insieme finora, non è divertente così.»
«A te piacciono? Le montagne russe, dico.»
«Certo! Sono fantastiche! Quando parte la discesa senti tutto lo stomaco che si contorce, le farei mille volte! Piacciono anche a te?»
«Cosa?» balbettò nervoso «Sì, certo… la stessa cosa che dici tu!»
«Oikawa, sei sicuro di volerci salire? Mi sembri un po’ teso…»
Sarebbe stato il momento giusto per confessare tutto: un pizzico di coraggio e decisione e avrebbe ammesso davanti alla ragazza che gli piaceva che era un fifone e non se la sentiva di fare un giro su una giostra del genere, nemmeno con lei, che gli piaceva più di ogni altra cosa al mondo. Tuttavia non riuscì ugualmente a farlo: era troppo orgoglioso per ammettere di avere delle debolezze ed il rapporto con Megumi lo stimolava proprio perché sembrava una sorta di continua sfida con lei, che lo elettrizzava e incantava al tempo stesso. Ricordò quel che si era ripetuto il giorno prima: che la giostra era sicura e che non darebbe potuto accadergli nulla di male, perciò non c’era alcun motivo di spaventarsi tanto.
«Nient’affatto.» le garantì «Sono solo stanco di stare in fila.»
In realtà, avrebbe voluto che la fila non terminasse mai.
Megumi fece spallucce.
«Se lo dici tu…»
Diversi minuti dopo, riuscirono a prender posto e allacciare le cinture. I suoi amici gli fecero cenni d’incoraggiamento mentre sedeva vicino a Megumi, con le mani che tremavano per il motivo sbagliato. Se avessero saputo che non era la presenza della ragazza a metterlo a disagio ma il supplizio che stava per patire, probabilmente Iwaizumi sarebbe saltato giù dal suo vagone e l’avrebbe obbligato a scendere. Era così terrorizzato che nemmeno l’idea di stare tanto vicino a Megumi riusciva a impressionarlo. Stava finalmente per confessarle che aveva paura e che voleva scendere quando, d’improvviso, il treno partì di scatto facendogli urtare la nuca sul poggiatesta. Con orrore, vide il vagone cominciare la sua scalata verso il vertice della prima parabola del tragitto e impalarsi proprio in cima ad essa: sotto c’erano almeno sessanta metri. Non era pronto, non sarebbe sopravvissuto nemmeno alla prima discesa, la meno alta, figurarsi all’ultima. Strinse gli occhi fortissimo, prima che il treno si tuffasse nel vuoto e urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, arpionando la barra di sicurezza con le mani. Il rumore del vento era più forte delle urla, ma non osò sollevare le palpebre per spiare se non parecchi secondi più tardi, quando si rese conto di trovarsi a testa in giù su una curva particolarmente spaventosa, serrò di nuovo gli occhi ripromettendosi di non aprirli più finché il giro non fosse terminato. Servì, in realtà, a ben poco: durante la discesa a picco dei cento metri, si sentì mancare e il senso di nausea aumentò tanto nello stomaco che credette di rimettere mentre erano ancora in movimento.
Poi, finalmente, finì: il treno ritornò al punto di partenza e lui fu libero di riaprire gli occhi. Megumi aveva i capelli scompigliati e le guance rosse: sembrava molto entusiasta. Lui doveva sembrare uno straccio per pulire il pavimento, dello stesso verde acido di quello che usavano in palestra dopo gli allenamenti. Ancora sconvolto e con le viscere sottosopra, fece per scendere dal lato sbagliato, buscandosi il rimprovero dell’addetto alla sicurezza e i risolini di Mikoto. Megumi lo seguiva con circospezione, forse l’unica che avesse fiutato la sua bugia.
Il punto del non ritorno lo raggiunse quando gli altri, per niente soddisfatti di essersi lanciati a 100km/h su una giostra infernale, si avviarono subito verso una torre a caduta libera altrettanto alta e temibile. Si sganciò silenziosamente dal resto del gruppo e si rifugiò sul retro dei bagni pubblici, per vomitare quel poco che aveva nello stomaco e che le montagne russe avevano trasformato in piombo. Una mano premurosa gli tenne la fronte e i capelli imperlati di sudore freddo.
«Che imbarazzo…» commentò con voce rauca.
Poteva andargli peggio, almeno non le aveva vomitato sulle scarpe come aveva preannunciato sua sorella.
«Non pensarci adesso.» lo rassicurò Megumi con gentilezza porgendogli un pacchetto di fazzoletti.
Tooru avrebbe voluto sotterrarsi per la vergogna e invece Megumi non sembrava affatto risentita dalla situazione, anzi, era piuttosto preoccupata. Gli offrì il braccio per appoggiarsi e lo accompagnò fin dentro il bagno degli uomini perché si desse una rinfrescata, ricevendo anche un mucchio di occhiate curiose da parte di coloro che ne uscivano. Infine insistette perché si accomodassero su una panchina libera e lui si riposasse a sufficienza prima di raggiungere gli altri.
«Va meglio ora?» gli domandò preoccupata.
«Mi gira ancora la testa…»
«Sdraiati, per un po’.»
«Non mi sembra molto comodo.»
Megumi si spostò all’estremità della panchina e batté con una mano sulle cosce.
«Puoi appoggiarti a me.» annunciò seriosa «Offerta lampo, valida solo per oggi.»
Tooru, che accusava fortissime le conseguenze delle montagne russe, non riusciva a capire bene cosa stesse accadendo. Probabilmente aveva già perso conoscenza e se ne stava adagiato sul lettino dell’infermeria del parco, sognando pacificamente che Megumi Sakurai, o qualcuno con le sue sembianze, gli stesse concedendo il permesso di appoggiare la testa sulle proprie gambe, come in uno shoujo manga per ragazzine delle medie. Pregando con tutte le poche forze che aveva che la trama del sogno non virasse repentinamente e che al posto di Megumi non apparisse nessun altro, il ragazzo acconsentì all’invito.
«Non farti strane idee.» borbottò lei con le guance in fiamme «Lo faccio solo perché stai male.»
Nei sogni si poteva avvertire la nausea? Si accorse di non averne la minima idea, eppure la sentiva comunque. Dovette, suo malgrado, chiudere gli occhi e sprecare la sua occasione di guardarla da quella posizione privilegiata, ma non riuscì a non sorriderle.
«Sei uno stupido.» continuò imbarazzata «Perché non mi hai detto subito che le montagne russe erano un problema? Sarei rimasta con te ad aspettare gli altri.»
Tooru non rispose, anche la sola idea di parlare era faticosa, ma fu molto rincuorato all’idea che Megumi avrebbe sacrificato il suo giro sulle montagne russe per lui. Peccato, avrebbe voluto offrirle quello zucchero filato e leccarglielo dalle labbra. Il parco attorno a lui si fece sempre più silente, tutto ciò che avvertiva era il calore del corpo della ragazza e delle sue dita che, con incertezza, avevano preso ad accarezzargli i capelli. Probabilmente – si disse – era convinta che si fosse già addormentato.

~

Hajime aveva capito che qualcosa non andasse quando si era voltato per chiedere a Tooru se avesse voglia di sedersi nuovamente accanto a Sakurai: semplicemente, non aveva più trovato né l’uno né l’altra. Scrutò la folla confidando che fossero rimasti indietro di qualche passo, ma gli parve presto chiaro che non sarebbero più ricomparsi. Sapeva che doveva essere un buon segnale: Oikawa aveva finalmente trovato il modo per sottrarla alla sua vigilissima scorta e al momento doveva aggirarsi tutto felice per il parco in sua compagnia, eppure aveva la spiacevole sensazione che non tutto fosse al posto giusto. Diede una gomitata leggera nel fianco di Matsukawa, gli sussurrò nell’orecchio la situazione e quello – come nel gioco del telefono senza fili – fece altrettanto con Hanamaki. Pochi passi dietro di loro non avveniva nulla di troppo diverso, Hajime ascoltava interessato le chiacchiere delle amiche di Sakurai.
«E dunque, alla fine, Oikawa ce l’ha fatta.» commentò Kaori con un sorriso appagato sulle labbra «Era ora che si decidesse a prendere in mano la situazione.»
«Era il loro piano dall’inizio, dopotutto.» osservò Mikoto alludendo risentita al gruppetto dei ragazzi «Maschi… sono tutti uguali e non brillano per intelligenza.»
«Non è affatto vero, Mikoto-chan, io trovo invece che siano stati molto furbi: hanno eluso con efficacia la nostra guardia, e se non è intelligenza questa…»
«Guardali, come se la ridono tutti soddisfatti di averci prese in giro!» borbottò l’altra, ferita nell’orgoglio «Spero che gli venga un attacco di dissenteria fulminante!»
«Non cominciare, per carità…»
«Ma se Megumi non volesse star sola con lui?» domandò Arisu preoccupata «Sono spariti senza nemmeno una parola, e se l’avesse costretta in qualche modo?»
A quel punto Hajime si accorse di non essere stato l’unico a seguire la loro conversazione, perché – come se fosse stata una questione personale – Takahiro intervenne in favore dell’amico assente e ne difese la posizione con particolare forza, senza curarsi di mitigare le parole.
«Oikawa non ha bisogno di costringere proprio nessuno, fidati! Mentre tu sei qui a preoccuparti per la tua amica, probabilmente quei due stanno limonando duro in qualche posticino appartato. E chi sta meglio di loro?»
«Stanno facendo che?» strillò Arisu agghiacciata.
«Senti, coso… non mi ricordo come ti chiami.» lo rimbeccò Mikoto innervosita «Te l’hanno mai detto che sei un tamarro assurdo? Ci sono modi e modi di dire le cose!»
«Chiedo perdono! Non sono abituato a frequentare signorine di buona famiglia!» la canzonò il ragazzo.
«Mikoto-chan, non vuoi davvero attaccar briga con gli amici di Oikawa…» cercò di calmarla Arisu, tutta nervosa.
«Signorina di buona famiglia un cazzo!» ripeté Mikoto ignorandola «Mi stai sul culo da stamattina ho visto per la prima volta la tua brutta faccia, potresti farmi il piacere di non infierire con la tua lingua disgustosa?»
«La tua non mi sembra tanto meglio!»
«Non osare paragonarmi a te!»
Arisu sperava che Kaori intervenisse per calmare Mikoto prima che lanciasse una delle sue iettature più malefiche su Hanamaki, ma l’amica era rimasta inspiegabilmente impalata mentre assisteva al litigio, la bocca mezza aperta. Infine la ragazza aveva perso penosamente il duello verbale e, come previsto, aveva incrociato le braccia e borbottato qualcosa di molto cattivo che eventualmente avrebbe travolto Hanamaki nel giro di una settimana. Si era poi chiusa in un mutismo selettivo ad oltranza ed aveva trascorso il resto della serata a stare ben lontana dagli amici di Oikawa, come se puzzassero di qualcosa di estremamente rivoltante.
Pressato dalle insistenze delle ragazze, Hajime fu costretto a telefonare Oikawa ma – come Issei e Takahiro avevano legittimamente immaginato – quello non sembrava avere la minima intenzione di rispondere al telefono.
«Ci stanno dando dentro proprio di brutto…» commentò Hanamaki a voce alta, con la chiara intenzione di fare un dispetto a Mikoto, che sbuffò e si voltò dall’altra parte.
Nemmeno Megumi sembrava voler rispondere alle numerose chiamate delle amiche, soltanto quando Kaori ebbe riprovato la sesta volta, la voce di Megumi sostituì la segreteria telefonica al decimo squillo. Dopo un rapido scambio di battute, la bionda allungò il proprio cellulare, carico di ciondoli colorati e tintinnanti, ad Hajime.
«Megumi-chan dice che ha bisogno di parlare con te.»
Seppur riluttante all’idea di parlare con Sakurai, Hajime accettò il telefono con una certa ansia. Quale motivo poteva avere quell’ingrata di cercare proprio lui? Gli balenò in mente l’idea che avesse nuovamente offeso Tooru o peggio ancora, che potesse avergli fatto del male. In un attimo, fu pronto a scoppiare d’ira.
«Iwaizumi-kun, non vorrei disturbarti ma non so a chi altro chiedere aiuto. Oikawa si è sentito male dopo il giro sulle montagne russe, tu sapevi che soffriva di vertigini?»
No, non ne sapeva assolutamente nulla, lo riferì a Sakurai, adesso allarmato.
«Ha rimesso, l’ho accompagnato in bagno a rinfrescarsi un po’ ma stava ancora male. Adesso si è addormentato, ma è molto pallido.» la voce di Sakurai tradì dell’angoscia «Non so cosa fare, per favore non dirlo agli altri… se non ne sapevi nulla probabilmente non vuole che ne siate a conoscenza…»
«Vuoi che venga lì?» sussurrò mettendosi una mano davanti alla bocca perché gli altri non afferrassero le sue parole.
«Non voglio disturbarti…» si schermì Sakurai, ma la sentiva piuttosto preoccupata.
«Dove siete?»
«A destra dei bagni, c’è una panchina vicino la ruota panoramica…»
«Ho capito, sto arrivando, invento una scusa.» la rassicurò prima di riattaccare.
Restituì il telefono a Kaori e biascicò distrattamente che aveva bisogno di andare urgentemente in bagno, cercando alla men peggio di glissare tutte le domande riguardanti la breve conversazione con Sakurai. Si allontanò di corsa ripercorrendo al contrario tutta la strada che avevano fatto dopo le montagne russe, si fermò col fiatone davanti all’edificio dei bagni e guardò a destra. Tooru era sdraiato di fianco sulla panchina, non lo riconobbe subito perché volgeva le spalle alla strada, ma poggiava la testa sulle gambe di Sakurai che, ancora tesa, gli accarezzava i capelli come per rasserenarlo. Quando incrociò lo sguardo di Hajime, sbiancò e nascose la mano dietro la schiena, quasi che lui non l’avesse chiaramente colta in flagrante. Suo malgrado, gli venne da ridere.
Si avvicinò ai due e diede un’occhiata all’amico: Sakurai aveva ragione, era un po’ pallido, ma dormiva con un’espressione così beata che quasi gli riusciva difficile credere che non stesse fingendo apposta per fare un pisolino appoggiato a lei.
«Forse dovremmo svegliarlo?» propose la ragazza, nervosa.
Hajime le rivolse un sorriso cattivello, aveva un’ottima idea.
«Direi che è meglio che riposi abbastanza, e poi ci sei tu con lui. Vedrai che quando si sveglierà si sentirà meglio.»
«Ma…»
«Niente ma, Sakurai. Dopo tutto quello che gli hai combinato da quando vi siete conosciuti, rimanere qui seduta ad aspettare che si svegli mi sembra il prezzo giusto da pagare per essere stata sempre tanto sgarbata. Continua pure ad accarezzargli la testa, vedrai che quando si sveglia sarà bello pimpante, gli stai regalando la serata più bella della sua vita.»
Sakurai divenne di una divertente sfumatura di rosso.
«Non è come sembra…»
«Certo che non lo è, sei solo una ragazza molto orgogliosa, come questo qui d’altro canto. Dio li fa e il diavolo li accoppia. Stai attenta perché quando dorme sbava, io ti ho avvisata.»
«Iwaizumi-kun, non puoi rimanere con noi?» piagnucolò in ansia.
«Temo proprio di no, o gli altri verranno a cercarmi e sapranno che Oikawa soffre di vertigini… Noi non vogliamo che lo sappiano, non è così?»
La ragazza scosse il capo, ma obiettò:
«Ma anche se rimanessi solo io si insospettirebbero comunque…»
«Affatto, voglio informarti che tutti pensano che stiate pomiciando in qualche posticino romanticamente buio.»
«No, ti prego! Di’ loro che non è vero!»
«Non me lo sogno neanche, trovare un’altra scusa sarebbe faticoso. Dai, non vuoi fargli questo piccolo favore? Dopo tutto quel che ha fatto per te…»
Sakurai si nascose il viso arrossato dietro le mani. Iwaizumi mise su un sorrisetto soddisfatto e girò sui tacchi, ben felice di aver trovato un castigo adatto per le malefatte della ragazza. Probabilmente Tooru non avrebbe nemmeno mai saputo che lui fosse passato di lì, ma gli aveva appena dato una delle spintarelle migliori che un amico potesse dargli, anche se Sakurai non gli stava affatto simpatica.
Ma Tooru – si disse – ne sarebbe stato contento.

~

«Non posso essermi addormentato sul serio…» mugolò Tooru scostandosi i capelli dalla fronte. Senza aspettare la risposta, quando vide le guance rosse di Megumi e il suo viso imbarazzato, rendendosi conto della posizione beata e aurea in cui si trovava, con la faccia spalmata sulle cosce di lei, ritrattò immediatamente:
«Ti prego, dimmi che mi hai baciato!»
«Ma sei scemo? Ma come può venirti in mente una cosa del genere? Scusa ma seduta qui, come avrei dovuto contorcermi per riuscire a…. che schifo! Dopo che hai vomitato, per giunta!»
«Però mi hai accarezzato la testa!»
«Allora fingevi di dormire! Rialzati immediatamente!»
«Non fingevo, dopo un po’ mi sono addormentato veramente!»
«Be’ lo facevo per farti stare più tranquillo!» balbettò Megumi tentando di trovare una giustificazione «Ho detto, rialzati subito, maniaco che non sei altro!»
«Un altro minuto, Gumi-chan… le tue gambe sono così morbide!»
«La pianti di fare queste affermazioni da pervertito?»
«Ma se ho appena iniziato!»
«Dai, rialzati, per favore!»
«Se sto zitto posso restare ancora così? Sei stata tanto gentile finora, non rovinare tutto.»
«Ti senti ancora poco bene?» domandò nuovamente preoccupata.
«Ho ancora lo stomaco sottosopra, ma sto meglio. E poi mi spiace essermi addormentato, vista da qui sei ancora più carina. È una vista rara, vorrei godermela.»
«Se continui così penserò che sei salito sulle montagne russe con il proposito di sentirti male.»
D’improvviso Oikawa fu colto da un dubbio repentino.
«Gumi-chan, non lo avrai detto mica agli altri? Avrei voluto che non lo sapessero, che vergogna!»
Megumi fece segno di no con il capo, poi aggiunse:
«Solo Iwaizumi, gli ho chiesto di venire a vedere come stavi e lui mi ha obbligata a rimanere qui sola con te per non insospettire gli altri. So di non piacergli» continuò arrossendo di nuovo «ma hai un buon amico, a quanto pare.»
Tooru scoppiò a ridere.
«Makki e gli altri penseranno che stiamo pomiciando da quanto?»
«Un’ora e mezza.» ammise imbarazzata.
«Un’ora e mezza!» ripeté lui arrossendo a sua volta «Non hai idea di cosa avrei potuto farti in un’ora e mezza…»
«Fingerò di non aver sentito!» protestò l’altra «Cielo, non riuscirò più a guardarli in faccia!»
«Dai, guarda che posso dirgli la verità se ti tormenti tanto.» propose premuroso.
«E rivelare il tuo segreto? Non ci sto, sopporterò in silenzio, non ho fatto tutta questa fatica per nulla.»
Il ragazzo si puntellò sulle mani e si rimise seduto; la testa gli girò per un istante ma rapidamente tutto ritornò alla normalità, era ancora frastornato e sentiva ancora un po’ di nausea, ma era percorso da una piacevole corrente di felicità che faceva esplodere ogni sua cellula di emozione. Era stato fra le braccia di Megumi per un’ora e mezza ininterrotta e lei insisteva per proteggerlo dal ludibrio degli altri. Forse era meglio di quel che aveva pianificato, anche se aveva sofferto le montagne russe. E poi era troppo carina, così imbarazzata come piaceva a lui, non riusciva a smettere di ripeterselo.
«Possiamo anche non tornare subito dagli altri.» le suggerì, in vena di rischi «Possiamo fare un giro su una giostra soltanto noi due, per recuperare qualcosa. Mi dispiace averti tenuto ferma qui per tutto questo tempo…»
«Io… io vorrei veramente, ma poi cosa penseranno gli altri?» obiettò incerta.
«Gumi-chan, sono venuti tutti sapendo che il nostro era un appuntamento, anche le tue amiche. Penseranno semplicemente che qualcosa è andato a buon fine. Ti vergogni tanto di passare del tempo da sola con me?»
«Non volevo sottintendere questo» spiegò preoccupata «io sto sempre molto bene con te, riesci a svuotarmi la testa di tutti i crucci e non so nemmeno come tu possa riuscirci. Solo, non voglio prenderti in giro…»
«Non prenderla troppo sul serio: uscire insieme qualche volta non implica necessariamente che siamo una coppia o che lo saremo in futuro. A te non è ancora mai capitato, ma mi è successo molte volte di uscire con qualcuna e poi semplicemente non è andata, non c’è niente di male. Anche se ti confesso che vorrei che questa volta funzionasse, perché mi piaci davvero troppo per lasciarti andare.»
Megumi arrossì e prese a torturarsi con le dita l’orlo della giacca di jeans che era già abbastanza sdrucita per conto suo.
«Ma se non dovesse andare» la rassicurò «Non è colpa di nessuno, né mia, né tua.»
La ragazza annuì, leggermente più convinta di quanto fosse stata prima. Tooru le rivolse un sorriso e si rimise in piedi, poi le tese una mano e la invitò a fare un giro sulla ruota panoramica, proposta che Megumi rifiutò saldamente per paura che potesse sentirsi nuovamente male. Acconsentì che facessero solo una passeggiata tranquilla in mezzo alle bancarelle e, incredibilmente, accettò di tenerlo per mano.
«Solo perché temo che tu possa di nuovo sparire senza dirmi nulla.» puntualizzò guardando dall’altra parte. Tooru ridacchiò: certo — le disse — ci credeva anche lui, non aveva mai avuto il minimo dubbio che quello fosse il motivo.
Si addentrarono nuovamente nella folla della tarda serata, scansarono venditori di bibite ambulanti e bambini troppo piccoli per essere ancora in piedi: se qualche anno prima lui fosse stato in giro a quell’ora durante il periodo scolastico, sua mamma lo avrebbe accolto in casa con una ciabatta in mano. Megumi rallentò il passo davanti a un tiro a segno particolarmente vistoso, ma privo di clienti in quel momento. La proprietaria, fino ad allora intenta a lucidare i suoi fucili truccati, colse subito l’occasione di attirare la sua attenzione, come se la sua riserva di peluche colorati e adorabili non avesse già fatto il proprio incantesimo.
«Sono sicura che il tuo ragazzo sarebbe molto contento di vincertene uno!» le disse.
Ottimo – si disse – assolutamente perfetto: era sempre stato penoso con quella truffa legalizzata, su venti tiri riusciva a centrare appena tre lattine, scatenando sempre l’ilarità degli amici, figurarsi quante ne avrebbe prese dopo l’episodio delle montagne russe. Certo, il peluche lo si vinceva nel momento stesso in cui si compravano i colpi, a prescindere da quante volte si centrasse l’obiettivo, ma la figura che ne sarebbe venuta fuori sarebbe stata comunque pessima. Tuttavia era innegabile che alle ragazze quella messinscena piacesse e Megumi non doveva essere troppo diversa.
Ed invece no, quando già si stava rassegnando all’ennesima figuraccia, Megumi annunciò alla signora che avrebbe voluto giocare personalmente. La proprietaria e Tooru si scambiarono uno sguardo perplesso e lui sollevò le spalle in segno di confusione. Alla fine la ragazza centrò diciotto bersagli su venti, perfino col fucile dalla canna truccata, e ripose tutta soddisfatta l’arma sul bancone, dove la signora riprese a lucidarlo, un po’ sorpresa dalla sua mira. Le indicò la fila di peluche fra cui avrebbe potuto scegliere il suo premio e, prima ancora che finisse di parlare, Megumi richiese un maialino rosa dai grandi occhi scuri ed il faccino dolce, piccolo e tutto sommato molto carino.
«Avrei potuto prendertelo io, se lo volevi tanto...» commentò quando lei lo ebbe raggiunto giù dalla pedana del tiro a segno, fingendo di essere offeso mentre in cuor suo ringraziava il cielo che Megumi sapesse ottenere da sola quel che desiderava.
«Ma poi non avrebbe avuto senso» spiegò l’altra con un sorriso sornione e gli porse il maialino «È per te, quando siamo passati lì davanti ho pensato che ti si addicesse.»
«Ovvero sono un maiale?»
«A dirla tutta mi ricorda i maialini del tuo pigiama... Però se me lo chiedi, sì, sei anche un maiale, oggi più che mai. Mi arrabbierò se non lo accetti.»
«Gumi-chan, non funziona così agli appuntamenti!» protestò, seppur segretamente lusingato «Di solito è il ragazzo che vince un peluche per la ragazza!»
«Non può esserci un’eccezione una volta ogni tanto?»
«Un’eccezione per cui ti sei addestrata? Sei un tiratore scelto o cosa? Io non avrei fatto nemmeno la metà del tuo punteggio!»
Megumi rise, una risata bellissima.
«Mio papà mi ha sempre fatto provare il tiro a segno da quando ero piccina, non che potesse fare diversamente, dal momento che battevo i piedi ad ogni fiera estiva. Adesso lo trovo rilassante.»
Tooru non poté fare altro che accettare il pensierino, per quanto anomalo e buffo fosse e la ringraziò, ripromettendosi di ricambiarla appena possibile. Poi le strinse di nuovo la mano e proseguì la passeggiata con il cuore ricolmo di una soddisfazione tutta nuova.
Furono ovviamente presi in giro, era inevitabile.
Avevano sciolto l’intreccio delle loro dita ben lontani dalla visuale degli amici, ma non era bastato a scoraggiare le battute maliziose di Hanamaki e Matsukawa. Iwaizumi, poi, non riusciva a guardare Megumi in faccia senza resistere alla tentazione di ridere. Lei, d’altro canto, dava l’impressione di una che volesse trovarsi da tutt’altra parte. Arisu la accolse con un abbraccio vigoroso, quasi non si vedessero da anni anziché da ore, e quasi in lacrime le fece ogni tipo di domanda su come stesse, se Oikawa avesse allungato le mani e se volesse che lo picchiassero.
«Non ha fatto nulla di male, davvero.» la rassicurò imbarazzata.
«Abbiamo soltanto fatto un giro per conto nostro, l’idea della torre non ci piaceva.» si giustificò Tooru per cavare Megumi dall’impiccio.
«Se non altro non hai fatto fatto nulla di male, Oikulo!» ridacchiò Hanamaki «Una passeggiata lunga quasi tre ore, a chi vuoi darla a bere?»
Mikoto se ne stava più in disparte dal resto del gruppo: più tardi Takahiro gli spiegò che avevano avuto un alterco dal quale era uscito vincitore e che la «signorina di buona famiglia» – così come la chiamava l’amico – non aveva saputo trovare difesa migliore che starsene zitta. Eppure, a guardarla, Tooru dubitava fortemente che la perdente fosse lei: con le sopracciglia corrucciate e le labbra strette, gli metteva quasi più paura di qualsiasi creatura avessero incontrato nella Casa degli Orrori qualche ora prima. L’argomento, tuttavia, fu utile per deviare la attenzione concentratasi su Megumi, che fu nuovamente rapita dal suo drappello cinguettante per un ultimo giro su un carosello colorato e scintillante, prima di tornare a casa.
I ragazzi rimasero in attesa oltre le barriere, chiedendosi cosa ci fosse di così tanto eccitante in una giostra con dei cavalli finti ricoperti di fiocchi, gioielli e specchietti luccicanti.
«Credo di doverti ringraziare.» bisbigliò nell’orecchio di Hajime.
L’amico rise piano.
«Te l’ha detto, vero?»
«Ovvio, sia mai fosse stata una sua idea… cosa mai avrei potuto pensare di lei!» scherzò, imitando il modo di parlare di Megumi.
«Certo, chissà cosa avresti pensato!»
«Tu che cosa pensi?» gli domandò. Nei giorni precedenti si era accorto che Megumi non si trovava affatto nelle grazie del suo migliore amico, ma desiderava che fosse diretto con lui circa le ragioni per cui non la trovava meritevole di fiducia.
«Penso che tu le piaccia.» rispose con serietà «Non fare quella faccia, dico davvero! Secondo me c’è una parte di lei, non so quanto consistente, a cui tu piaci. Questo non toglie che sia una bambina capricciosa che non ha il minimo rispetto per gli altri. Oggi però poteva piantarti lì, ma è rimasta con te, spero che tu non abbia trascorso tre ore in coma su una panchina.»
Tooru schiuse le labbra per raccontare, Hajime lo zittì premendosi l’indice sulle labbra.
«Non qui» lo ammonì accennando col capo a Matsukawa e Hanamaki «Risparmiamo a Sakurai l’imbarazzo di ritornare al centro dell’attenzione, oggi si merita una tregua.»
«E l’armistizio? Pensi di concederglielo, un giorno?»
La sua domanda si perse nella musica stridula della giostra, senza speranza di risposta da parte dell’amico. Da uno splendido cavallo scuro, Megumi lo salutò di soppiatto con la mano e gli sorrise, imprevedibile e complicata come sempre. Poco prima, aveva tenuto quella stessa mano nella sua: un segreto che l’atmosfera onirica e festosa del luna park faceva sembrare soltanto una fantasia. L’ultima volta che aveva preso la sua mano, era stato quando l’aveva trascinata via da Hattori ed erano entrambi ridotti male: si trattava di un ricordo così doloroso che lo aveva quasi cancellato dalla memoria e fu ben felice di poterlo sostituire con uno molto più piacevole.
Desiderando che per lei fosse lo stesso e che, davvero – come sosteneva Hajime – fosse anche solo in minima parte interessata a lui come ragazzo, le sorrise a sua volta.


NOTE FINALI

Un capitolo un po' più leggero, che personalmente non credo sia dei migliori, ma scriverne alcune parti perlomeno è stato divertente, così come lasciare carta bianca alla parte tsunderekko di Megumi. Al di là della vicenda principale, ho seminato qualche indizio o chicca tra i paragrafi, spero di scrivere abbastanza da farvi scoprire a cosa stavo preludendo.
Vi ringrazio di cuore per tutto il seguito che Wild Card sta avendo: so che non è tantissimo, ma mi rende felice leggervi e sapere che siete con me in quest'avventura strampalata che ormai non è più soltanto mia ma anche un po' di tutti voi.
Fatemi sapere che cosa pensate di questo capitolo oppure se ci sono errori o discrepanze (scrivo da cosi tanto che potrebbe sfuggirmi qualcosa)!
Spero di scrivervi presto per il prossimo aggiornamento, un abbraccio forte!

Lyra

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14: Tooru ***


Capitolo 14

Tooru

Al principiare del mese di novembre, il professor Tanji Washijou, dall’alto della sua pluriennale esperienza di babysitter per pallavolisti in erba, in fin troppi casi anche col moccio al naso, si trovava costretto a ricredersi sul giudizio che aveva espresso su Naomi Kato: la sua ex-allieva, senza troppi giri di parole, aveva stoffa da vendere. In appena un paio di mesi, quell’arrogante concentrato di energia aveva rimesso in sesto una squadretta fatiscente, rendendola quasi presentabile. Quasi, perché non era concepibile che le studentesse strillassero per ogni azione conclusasi in bene o in male: se qualcuna falliva il servizio e la palla rotolava tristemente al di sotto della rete, seguiva uno scoppio di ilarità ingestibile; se un attacco finiva entro le righe del campo, il crepitare degli applausi diventava insopportabile. Era evidente, a quel punto, che quelle ragazze – o almeno alcune di loro – non avessero mai fatto sul serio prima di allora.
L’improvviso guasto alla palestra B aveva obbligato i club di pallavolo femminile e maschile alla convivenza forzata per due pomeriggi a settimana finché non fosse terminato il lungo procedimento di riparazione dell’impianto elettrico che richiedeva – Washijou lo precisava sempre sogghignando – giusto un paio di telefonate noiose ed un mucchio di moduli che nessuno voleva firmare. Da allora, dunque, gli allenamenti del martedì e del venerdì si erano trasformati nell’esperienza più disastrosa ed estenuante che avesse vissuto da quando Kato si era diplomata. Non solo il chiasso era intollerabile, ma i suoi ragazzi erano continuamente distratti dalla paradisiaca visione di una quindicina di ragazze in calzoncini attillati e il livello di ormoni era tale che l’allenatore si chiedeva sempre se fosse il caso di asciugare loro la bava dalla bocca. La maggior fonte di problemi era che, ogni volta in cui uno di loro cercava di approcciarsi a una frequentatrice di quel gineceo roseo e seducente, Kato andava a lamentarsi da lui che le sue ragazze fossero svilite dalle continue avances dei suoi studenti e oppresse dal patriarcato in quanto oggettificate e tutte quelle cose seccanti che le donne amavano dichiarare quando faceva loro comodo. Come se non fosse stato poi vero il contrario, ossia che le sue adorate protette sbattessero le ciglia in direzione del club maschile nella speranza di adescare un fidanzato. Era semplice per loro correre a chiedere un cerottino, far rotolare la palla troppo vicino a Wakatoshi e fargli gli occhi dolci per scusarsi e magari complimentarsi per qualcosa a cui avevano assistito. Ciò che più lo dilettava era che quel povero ragazzo non ricambiava minimamente il loro interesse e che di tanto in tanto lo sorprendesse a fissare impunemente una delle poche ragazze della compagnia che si facevano i fatti propri. Sakurai – così si chiamava la ragazza in questione – era una di quelle che più di frequente venivano importunate; aveva appreso origliando conversazioni sommesse che su di lei circolassero voci insistenti che la volevano protagonista dello scandalo di Hattori e per questo motivo qualcuno aveva dedotto che fosse di costumi piuttosto facili. A conti fatti, doveva essere quello il motivo per cui ogni giorno Kato si lagnava con lui che la signorina non venisse mai lasciata in pace.
Il primo giorno era stato confuso, Wakatoshi non le aveva mai rivolto la parola, eppure Washijou era certo che in qualche modo la proteggesse: prendeva da parte chi la infastidiva e la volta successiva il disgraziato non avrebbe più osato nemmeno guardarla di sfuggita; la sorvegliava silenziosamente durante gli esercizi, senza commentare nulla con nessuno. Il secondo giorno li aveva visti lasciare la palestra insieme ed aveva capito che c’era qualcosa di intimamente diverso a legarli: nel modo in cui camminavano fianco a fianco, senza dirsi nulla, vicini al punto di scontrarsi spalla contro spalla, si nascondeva una relazione bizzarra e rara. Le coppiette di adolescenti passavano i tre quarti del loro tempo appiccicati l’uno all’altro, si tenevano per mano, si sorridevano come degli ebeti, e lui sapeva abbastanza di Wakatoshi per concludere che non fosse il tipo da smancerie, ma quello era ancora diverso. Non avevano bisogno di parole, ma solo di sapere che l’altro procedeva di pari passo, o poco più avanti, come suggeriva l’ammirazione reverenziale che Sakurai sembrava nutrire per lui. Se erano amici, erano la coppia di amici più singolare che avesse mai conosciuto; se erano altro, sapevano nasconderlo benissimo.
Al di là del vociare e delle sue disavventure sentimentali, sul campo squisitamente sportivo, Sakurai non era affatto male: Kato ci aveva visto giusto se aveva deciso di puntare su di lei, nonostante talvolta si comportasse come una mina vagante. Il fatto era – e la cosa lo lasciava a bocca aperta – che tirava fortissimo, più forte perfino di un paio di ragazzi navigati della sua squadra, il che non era affatto comune per una studentessa del primo anno. Aveva in repertorio un bel servizio in salto, non ancora perfetto ma piuttosto valido, che sarebbe stato temibile se la sua percentuale di riuscita avesse superato il 50% attuale. Si faceva prendere troppo dall’ansia in certi casi e finiva col combinare disastri, ma gli sembrava una condizione indotta da qualcosa, forse proprio dalla presunta relazione con Hattori o dal pregiudizio che ne era conseguito.
Kato non la viziava: era attenta ad intervenire ogni volta che la pressione si faceva troppo gravosa ed era indulgente quando sbagliava, ma in compenso la caricava così tanto di lavoro ed esercizi che era sorpreso che la ragazza non protestasse. Tutti gli indizi puntavano nella direzione indicata dai pettegolezzi e lui detestava ammetterlo, perché si professava sempre impassibile alle chiacchiere di corridoio, ma era curioso di accertarsene, segretamente motivato da quella connessione silenziosa con Wakatoshi. Così il secondo martedì di novembre aveva lasciato che Saito supervisionasse da solo gli allenamenti del club maschile e si era seduto sulla panchina dell'altra metà del campo, proprio accanto a Kato. L'allieva le aveva rivolto uno sguardo sorpreso ma l'aveva lasciato fare.
«C’è qualcosa che vuole, professore. Mi riesce difficile immaginare che avesse solo voglia di tenermi compagnia. Mikoto, per quella porcheria un arbitro qualsiasi ti avrebbe fischiato una doppia!»
La ragazza rimproverata rivolse loro uno sguardo innocente che non avrebbe mai convinto nessuno e sollevò le mani per dichiarare la propria innocenza.
«L’ho toccata una sola volta, giuro!»
«Certo, come no? Non cercare di prendermi in giro!»
Mikoto arricciò il naso e ripeté con voce stridula «Non cercare di prendermi in giro!» ripeté in una imitazione piuttosto scadente della sua allenatrice, poi riprese a concentrarsi sull’esercizio.
«Spero non sia la palleggiatrice.» osservò Washijou.
«È una centrale.»
«Una piccola te? Per questo si esercita col palleggio? Lasciati dire che l’attitudine c’è.»
Naomi rise.
«Io e Mikoto non potremmo essere più diverse, ma sì: sta cercando di fare qualcosa che io facevo molto bene. Il che non ci distoglie dall’argomento principale: professore, perché è qui?»
«Perché la palestra B è fuori uso.»
«Mi dica qualcosa che non so.»
«La mia è curiosità, sei libera di non rispondermi.»
«Allora devo preoccuparmi, oggi è troppo gentile.»
Washijou finse di non aver sentito.
«Megumi Sakurai» iniziò e la sua collega s’irrigidì all’istante sulla panchina, una risposta che arrivava prima ancora della domanda «ho sentito dire che è la ragazza di Hattori.»
Naomi fece schioccare la lingua. «Non è la ragazza di Hattori, non è proprietà proprio di nessuno. Al massimo è una mia ragazza.»
«Lascia perdere le ambiguità di linguaggio, è o non è la ragazza dello scandalo?»
Naomi sospirò, scosse il capo vinta. «Sì, è lei.» ammise «Ma lo tenga per sé, l’ultima cosa di cui quella poveretta ha bisogno è che le voci siano confermate.»
In realtà – avrebbe voluto obiettare – lo mormorava già l’intera scuola: che differenza poteva esserci nel confermare o nello smentire? Guardò Sakurai mettere a terra una bella palla, sul palleggio della stessa Mikoto che prima aveva fallito così clamorosamente: no, non era niente male, ma si tratteneva.
«Sai cosa sbaglia Sakurai?» domandò a Naomi indicandogliela col capo.
«Pensa troppo.»
Washijou scosse il capo. «Innanzitutto pensa male, e poi pensa troppo. Non c’è niente di male a ragionare durante il gioco, anzi, rincorrere la palla forsennatamente e colpirla senza troppi complimenti è peggio ancora che impantanarsi in un fiume di autocommiserazione. Sakurai si concentra troppo su obiettivi inutili: se faccio punto sarò utile, se ne segno un sacco e le faccio vincere mi rivaluteranno, la mia reputazione negativa sarà ripulita quando dimostrerò di essere davvero in gamba. Questo tipo di motivazioni, non ti portano mai da nessuna parte: a tutti piacerebbe essere universalmente riconosciuti, rispettati, amati ma non è così che funziona. Anche i migliori hanno almeno un detrattore, il giusto sta nello sbattersene. Se la meta a cui punta è irraggiungibile perché utopica, non c’è da stupirsi se si perde per strada.»
Naomi si mise in piedi, si chinò per riprendere un pallone sfuggito dal bagher maldestro di una ragazza e lo lanciò nuovamente in campo.
«Non era così prima.» spiegò voltandosi di nuovo verso di lui «Ho parlato con chi l’ha conosciuta prima della faccenda: era una di quelle che, come dice lei, se ne sbatteva. Forse anche troppo, non sono nemmeno sicura che fosse una brava persona.»
«Quella non è una persona che se ne sbatteva. Se dici che lo faceva anche troppo, è probabile che fingesse. La riflessione di fondo non cambia: se sono valida, sarò rispettata, altrimenti sarò solo una di tanti. Quella ragazza vuole la cosa sbagliata e, soprattutto, non sa cosa sia realmente disposta a soffrire per ottenerla. Perciò ha scelto la strada breve ed ha fallito.»
«E questo dove ci porta? In terapia ci va già.»
«Se non vuole uscirne lei, tutta la terapia del mondo sarà inutile.»
«Lei la fa semplice... Non basta mica schioccare le dita e dirle di non pensarci, che tutto andrà bene! Due settimane fa mi è svenuta in mezzo al campo, riesce a immaginare come mi sia sentita? Non mi era mai capitato nulla del genere!»
«Infatti non c’è niente che debba fare tu, o meglio niente che ti resti ancora da fare.»
Naomi gridò ad una ragazza di smettere di chiacchierare, poi portò la conversazione sulla strada che aveva desiderato che prendesse sin dal principio. «Quando sono stata assunta, Megumi aveva lasciato la squadra e non intendeva riprendere gli allenamenti, sono stata io a convincerla e l’ho fatto non perché le mie ragazze mi avessero raccontato di lei, ma perché lo aveva fatto uno dei tuoi.»
«Ushijima?»
«Già, curioso davvero. Per la cronaca, non mi ha detto di essere il suo fidanzato, quindi puoi stare tranquillo che non salterà gli allenamenti per uscire con una ragazza dalla reputazione cattiva.»
«Non mi sarebbe interessato affatto, anche se fosse stato il contrario.»
«Sul serio? Allora perché è venuto a chiedermi di lei?»
«Te l’ho detto, no? Ero curioso, né più, né meno.»
Naomi stette in silenzio per qualche minuto; per quanto bene la conosceva, Washijou sapeva che stava riflettendo su qualche spunto che le aveva dato. Sorrise fra sé e sé: era quel che voleva.
«Pensa male e troppo, quindi? È questo che vuole che io le dica?»
«Credevo non ci saresti arrivata.»
«E io credevo che lei non vedesse niente di speciale nei membri del club femminile.»
«Adesso» precisò «non vedo niente di speciale. Domani, chissà.»
La loro conversazione fu interrotta dall’intervento di Saito, che richiese l’intervento del professore per la firma di alcuni documenti necessari ai manager del club. Naomi ritornò a tormentare Mikoto sul palleggio, ottenendo – questa volta – più attenzione.
 


 

«No, non è l’intuizione del secolo.»
Eita Semi, di anni sedici, si dondolava pigramente sull’altalena del cortile antistante la palestra. Da dieci minuti, precisamente da quando erano usciti dagli spogliatoi dopo gli allenamenti, ascoltava Tendou illustrargli i suoi piani per l’imminente festival scolastico. Pregava che gli altri uscissero prima che gli prendesse una crisi di nervi, perché da solo non riusciva ad arginare l’ondata creativa che aveva travolto in compagno di squadra. Non aveva idea di come potesse apparirgli una buona trovata, anziché un enorme spreco di energie, quello di organizzare un torneo tutti contro tutti.
«Certo che lo è!» insisté ancora «Squadre miste, almeno tre femmine e tre maschi, più una settima persona indifferente.»
«No, voglio dire… ma le hai viste? E poi siamo troppo pochi, sia loro che noi.»
«Allora lo estenderemo a tutta la scuola. Chi vuole, può venire qui e iscriversi. Anzi, estendiamolo anche ai visitatori!»
«Certo, estendiamolo anche a mia nonna!» lo canzonò scocciato.
«Dai SemiSemi, è solo un modo per divertirsi e far conoscere un po’ i club! Non deve mica somigliare ad un campionato della league
«Allora organizza un campionato di ping-pong o di bocce, riceveresti più iscrizioni.»
«L’altro giorno, quando abbiamo fatto quell’amichevole con le ragazze, ci siamo divertiti.»
«Forse non ricordi, ma hai bisticciato con Ikeda e lei ha carbonizzato l’impianto elettrico della nostra palestra ed adesso siamo costretti a dividere la loro!»
Tendou piantò i talloni nella ghiaia e smise di dondolare. Assunse un’aria fin troppo pensosa.
«Dici che Ikeda può bruciare un impianto elettrico col pensiero?»
Eita fece spallucce. «Tutti dicono che può» disse.
«Se sapesse farlo davvero, sarebbe fighissimo.»
Lo conosceva da poco più di un anno, ma non smetteva mai di trovarlo sempre più strampalato. La maggior parte delle persone, all’idea che una studentessa del primo anno potesse far saltare la corrente a suo piacimento, sarebbe stata scossa dai brividi, Satori Tendou lo trovava fighissimo.
«Non vuoi davvero proporlo a Ushijima, lo sai che ti risponderà di no.»
Tendou gli rivolse un sorriso sornione.
«Quanto vuoi scommettere?» domandò, piuttosto sicuro di sé stesso.
Il portone della palestra si aprì. Eita s’illuse che fosse l’occasione giusta, ma invece dall’interno sciamò un gruppetto di ragazze chiacchierine. Ikeda era una di loro, impegnata a punzecchiare Sakurai su qualcosa di segreto, mentre Hiromi e Nonaka se la ridevano di gusto. Sperò che Tendou se ne stesse zitto e fermo come un bravo bambino, ma evidentemente quel giorno ogni sua previsione era destinata a fallire: il tempo di sbattere le palpebre e l’amico aveva già interrotto le loro chiacchiere ed era in piedi in mezzo a loro.
Ikeda avrebbe fatto saltare in aria l’intera scuola, ne era sicuro.
«Che vuoi, Tendou?» lo accolse diffidente la ragazza.
«Voi che fate per il festival?»
Così, diretto e senza spiegazioni. Eita si chiese come facesse a dare così tante cose per scontate.
«Intendi come club?» intervenne più pacata Nonaka «Penso quello che fate voi: assolutamente niente.»
«Io ho una proposta.» annunciò Tendou tutto tronfio «Torneo con squadre miste, aperto a tutta la scuola e ai visitatori, lo organizziamo noi. Che dite?»
Inaspettata, Megumi Sakurai saltò sul vagone in corsa di Tendou senza che nemmeno finisse di parlare.
«Facciamolo!»
«Vero, Megumi-chan? Tu ci staresti?»
«Tutto purché non mi ficchino nel maid-cafè della mia classe. Kenjiro ha negoziato la mia libertà, ma continuano a farmi un sacco di pressioni. Fra un grembiulino striminzito e giocare, preferisco giocare tutta la vita.»
«Potresti giocare col grembiulino, Megumi.» suggerì Hiromi visibilmente divertita dall’idea.
«Solo se lo fai anche tu, Risu.»
«Per te lo farei, lo sai.» replicò l’altra, poi mimò un bacio volante in sua direzione.
«Potresti fare un esperimento sociale, Megumi-chan. Magari Wakatoshi ti guarda le gambe.»
Al limite del paradossale, Sakurai parve valutare veramente per qualche attimo, prima di decidere che non ne valesse la pena e respingere il consiglio di Tendou.
«E voi ci state? Torneo misto?» ripeté Tendou, ansioso di conoscere anche il parere delle altre.
«Se non tirate forte come l’altro pomeriggio, sì.» rispose Nonaka massaggiandosi i polsi «Per poco Ushijima non faceva secca Arisu-chan
«Io ci sto solo se tirate forte come l’altro pomeriggio!» annunciò invece Hiromi entusiasta «La scorsa volta mi sono fatta male, ma ho imparato un paio di cose nuove.»
Tendou era sempre più soddisfatto. «Strega?» incalzò Ikeda.
«Io e te nella stessa squadra, e sono dentro.» concesse con un sorriso sornione.
«Posso dire di no ad una kohai così adorabile?»
«Aspettate, si possono esprimere preferenze?» intervenne Sakurai sorpresa.
«Megumi-chan» osservò Tendou con pazienza «Non sarebbe giusto che tu e Wakatoshi giochiate nella stessa squadra, nemmeno se cambi ruolo. Sareste troppo sbilanciati…»
«Ma io non voglio stare in squadra con Waka-nii.» obiettò seria «Io voglio Kenjiro come palleggiatore, senza offesa Kaori-chan
A quel punto Eita avvertì la necessità di prendere parte attiva alla conversazione. Abbandonò dunque la sua posizione di ascoltatore sull’altalena e si avvicinò al capannello di ragazzi, curioso di sapere perché Sakurai avesse per Shirabu una preferenza maggiore rispetto a quella che per Ushijima.
«Abbiamo giocato insieme durante l’ora di educazione fisica.» gli spiegò Sakurai «Ci siamo divertiti tantissimo e ci piacerebbe farlo di nuovo. Perciò, sì, chiedete il permesso alla signorina Kato e a Yoshida, sono sicura che non vi diranno no.»
«Washijou non accetterà mai.» borbottò Eita segretamente soddisfatto dell’ostacolo irremovibile che si parava davanti il progetto di Tendou, grande e pesante come una pietra tombale.
«Accetterà se glielo chiede Wakatoshi, in qualità di capitano e di studente prediletto.»
«Ma prima dovresti convincere Wakatoshi. Sicuro di avere un’influenza tale su di lui?» lo canzonò.
«Premesso che tu sottovaluti il mio potere, posso contare su un’alleata infallibile.» spiegò, facendo cenno a Sakurai che, pur presa alla sprovvista, fu pronta ad appoggiarlo.
«Se proprio serve, posso chiederglielo io.»
Ikeda dovette ricordarsi di qualcosa all’improvviso, perché prese il braccio di Megumi e le sussurrò una domanda che la fece arrossire nell’orecchio. L’amica replicò altrettanto silenziosamente e le diede una piccola gomitata, ma la strega continuò a ridacchiare sotto i baffi.
«È ancora in convalescenza per via del ginocchio, se anche volesse giocare glielo impedirei io. Deve star fermo fino a dicembre.»
«Di chi parlate?» trillò Tendou, tutto preso dal mistero.
«Un amico di Megumi, uno speciale.» spiegò Ikeda esibendosi in un occhiolino tutt’altro che smaliziato.
«Eh? Megumi-chan, credevo che ti piacesse Wakatoshi!»
«Infatti mi piace Wakatoshi.» protestò Sakurai irritata «Ma Mikoto s’è legata al dito un torto immaginario e per questo ora le va di scherzare.»
«Sei soltanto sparita per tre ore con il tizio con il quale dicevi di non voler rimanere da sola nemmeno un secondo e per il quale mi hai chiesto di sprecare la sera di Halloween a farmi insultare dai suoi amichetti cafoni. Non vedo perché dovrei essermi legata al dito un torto immaginario, se il torto esiste. Almeno ammetti che ti piace e saprò di non essermi sacrificata inutilmente!»
«Chi ha insultato la mia kohai preferita?»
«Lascia perdere, Tendou» intervenne Nonaka «Mikoto la fa grossa solo per attirare l’attenzione.»
L’altro agitò gli indici di entrambe le mani davanti a sé, nella grottesca imitazione di un cartone animato, e decretò: «No, no! Ormai avete tutta la mia curiosità!»
Ikeda ormai gongolava soddisfatta di ritrovarsi esattamente dove voleva essere: sotto i riflettori.
«Te lo dirò, senpai, quando capiterà l’occasione di mostrartelo.» annunciò «Megumi, perché non li inviti tutti quanti?»
Sakurai divenne di una violenta sfumatura rossa.
«Non inviterò proprio nessuno, anzi spero che se ne dimentichi! Lo ha invitato Waka-nii
«Il capitano ha invitato qualcuno al festival?» domandò Semi perplesso.
«Tooru Oikawa, Aoba Johsai… lo hai presente?» gli rispose Ikeda.
«Il palleggiatore?» commentò Tendou piacevolmente sconvolto «Megumi-chan, esci col palleggiatore della Seijoh? Questo sì che è un bel modo per far ingelosire Wakatoshi, altro che giocare col grembiulino!»
«Aspetta, tu pensi che possa essere geloso?» domandò Sakurai interessata.
«Forse l’unico ragazzo al mondo con cui potresti farlo ingelosire, dubito che se uscissi con qualcun altro funzionerebbe.»
«Non mi sembra affatto geloso, visto che l’ha invitato qui personalmente.»
«L’ha sfidato per la tua mano. Quest’anno il festival diventerà il campo di battaglia di un duello all’ultimo sangue! Forse dovrei scartare l’idea del torneo e montare una bancarella che vende popcorn.»
«Tendou, tu leggi troppi manga» obiettò Kaori seriosa «Ushijima non è affatto il tipo che architetta piani del genere, né mi è mai sembrato geloso di Megumi.»
«D’accordo, allora perché l’ha invitato?»
«Magari gli andava di farlo e basta. Sembrava volesse mostrargli l’Accademia.» osservò Megumi.
«Sbattergli in faccia ciò a cui ha rinunciato? Questo sì che è da Wakatoshi.»
«O magari» considerò Hiromi dubbiosa «approva.»

 

«Ushiwaka che approva che lui faccia il farfallone con l’amichetta del cuore!» ripeté Hanamaki senza riuscire a frenare la ridarella convulsiva che la fantascientifica ipotesi di Matsukawa aveva generato.
Si erano riuniti nel laboratorio di belle arti nel tardo pomeriggio, subito dopo la conclusione degli allenamenti, per ripassare gli argomenti del compito di storia, che Tooru aveva già svolto quella mattina. Lo sapevano tutti che il professore riciclava le stesse tracce per tutte le classi, e gli amici non avevano saputo proprio resistere alla tentazione di farsi anticipare le domande. D’altro canto, non riusciva a biasimarli: gli argomenti in programma erano immensi.
Com’era prevedibile, avevano fatto ben poco per quanto riguardava lo studio vero e proprio: dopo aver ricopiato scrupolosamente le tracce che Tooru aveva annotato sul quaderno, erano scivolati di discorso in discorso fino ad approdare al loro preferito.
«Dai, perché ridete? Non lo conosciamo così bene da poter trarre delle conclusioni così rigide! Magari fuori dal campo è uno zuccherino amichevole!» contestò Matsukawa con serietà fuori luogo.
«Chiedo scusa, Mattsun, ma forse hai dimenticato che vi ha offesi e che era convinto che non sareste mai arrivati in finale senza di me.» replicò Tooru.
«Ora non vorrei fare l’antipatico, ma il tempo gli ha dato ragione.»
«Ma che t’importa? È stata comunque una cosa cattiva da dire! E poi avete perso perché avete perso, non c’entra niente che ci fossi io o meno.»
«Il che ci riporta all’argomento principale» riprese Hanamaki asciugandosi una lacrima e riprendendo fiato «Ci andrai o no?»
Tooru fece ruotare distrattamente la penna blu sul dorso nella mano.
«Gumi se n’è dimenticata, fa come se Ushijima quel giorno non mi avesse detto nulla.»
«Evidentemente Sakurai, che pure è una stronza, ci tiene che tu non prenda altre botte a causa sua.» osservò Iwaizumi, riprendendosi la penna prima che l’amico la facesse schizzare giù dal banco.
«Iwa-chan, perché non m’insegni a fare a pugni?»
«Mi spieghi perché ti vengono in mente cose del genere? Fai schifo a fare a pugni e la questione si chiude qui.»
«Vuoi avermi sulla coscienza?»
«Non sei mia responsabilità, qualsiasi cosa ne pensi tu. Al massimo, se Ushiwaka ti fa la festa, la responsabilità è di quella schizzata di Sakurai. Chiedi a lei d’insegnarti a fare a pugni, se non ricordo male sa il fatto suo.»
«Sei cattivo, Iwa-chan
«Allora non andarci e basta, okay? Gioca al suo stesso gioco: sembra che non se ne sia ricordata, che stia fingendo o no non importa. Fingi anche tu di non aver ricevuto nessun invito.»
«Ma sarebbe come darla vinta a Ushiwaka. Non mi va di perdere contro di lui.»
«Senti che roba! Non sarebbe nemmeno la prima volta e no – continuò quando vide la fronte di Tooru aggrottarsi – non m’interessa che io stia toccando un nervo scoperto. Questa faida con Ushiwaka va avanti da troppo tempo e, per quanto mi riguarda, va bene che continui sul campo ma non accetto che si trasferisca anche nel quotidiano soltanto perché tu hai deciso di puntare l’unica ragazza al mondo con cui lui ha qualche legame. Sakurai non ti ha invitato al festival? Perfetto: non sei stato invitato, dimentica che lo abbia fatto lui. Se vuoi vederla ti basta chiederle di uscire, mi pare che abbiate superato quella fase, ormai.»
«Non mi va giù.» ribadì indignato «Ci andrò e lo affronterò.»
«D’accordo, scelta tua, ma poi non venire a piangere da me.»
«Quando mai l’ho fatto?»
«Fammici pensare… sempre?»
Matsukawa, che da qualche minuto giocherellava con un pezzo di argilla rimasto su un tavolo da lavoro dopo l’ultima lezione di arte, schioccò la lingua seccato.
«Piantatela, state tirando su una tragedia per nulla.» ripeté scettico «Ushiwaka non si filerà Oikulo nemmeno per sbaglio e lui potrà starsene con Sakurai tutto il tempo che gli pare. L’unico pericolo reale, se volete la mia umilissima opinione, sono le sue amiche: qualcuna potrebbe sbranare vivo il nostro maialino, per colpa di una persona qui presente.»
Appallottolò l’argilla come avrebbe fatto con una polpetta e la lanciò dritta nella mano destra di Hanamaki, che gli sorrise sornione.
«Ebbene qualcuno doveva mettere in riga quella vipera. Sei un tamarro assurdo a me! Non so, chi si aspettava di preciso? Il principe William? Era dall’ingresso che mi guardava male.»
«Potevi risparmiartelo: ho parlato con Guda e pare che Mikoto Ikeda abbia una certa fama fra le ragazze del club femminile. In breve, pare che ai suoi nemici capitino incidenti spiacevoli. La sorella di Guda racconta di influenze improvvise, infortuni, imprevisti vari... Magari voi a queste cose non ci credete, ma io sì.»
«La ragazza di buona famiglia? Dai, Issei, sono solo coincidenze. Queste cose non esistono.»
«Pensa quel che vuoi, ma secondo me abbiamo già addosso la maledizione.»
«Ma quale maledizione? Le cose mi vanno alla grande, dopo Halloween. Nel caso tu te ne sia dimenticato, questo tamarro sta attualmente uscendo con una ragazza...»
«... bellissima e dolcissima!» continuarono in coro gli altri tre.
«Lo sappiamo, Makki. Non è necessario che tu lo ripeta un’altra volta. La tua timida Natsuko è carina e anche affettuosa, la ragazza che tutti vorrebbero avere.» cantilenò Tooru, stanco di sentirglielo ribadire di continuo.
Natsuko Maeda era una studentessa del loro stesso anno, piuttosto anonima in realtà: Tooru la conosceva soltanto perchè era uscito con una sua compagna di classe. Si trattava di una ragazza minuta e mediamente carina, ma al di là di questo non avrebbe saputo dire granché su di lei, dal momento che era tanto schiva da risultare quasi inesistente in una conversazione. Da quanto raccontava Hanamaki, tuttavia, con lui si era rivelata piuttosto loquace e aveva perfino trovato il coraggio necessario a chiedergli di frequentarsi. Per quel che riguardava Tooru, quella era la prova schiacciante che Takahiro Hanamaki potesse far parlare anche i sassi.
Dunque, in quel momento, Hanamaki era l’unico ad avere una fidanzata. L’assurdo delle circostanze gli faceva venire il nervoso: il solo fatto che l’amico fosse seduto lì con loro era una concessione assai rara: la dolce Natsuko sembrava aver acquisito l’esclusiva assoluta su di lui e la quasi totalità del suo tempo libero era ormai dedicata a lei. Forse era così che si sentiva Iwaizumi ogni volta che Tooru gli tirava un bidone e tornava a casa con la nuova conquista anziché con lui. Si sentì una cacchina seccata sul marciapiede.
«A proposito, Makki, ma come mai oggi ci grazi della tua presenza?» domandò Iwaizumi.
«Natsuko aveva delle cose importanti da fare... Vi dispiace se condivido le tracce del compito di storia anche con lei? Non potrei mai dirle di no.»
«Poi prendevi in giro me per Sakurai.» ridacchiò Tooru «Potrebbe chiederti di lanciarti dal cornicione del terrazzo e tu lo faresti.»
«È così carina!» ripetè assorto Hanamaki «Ah, sono così fortunato! Mikoto Ikeda non può assolutamente nulla contro la mia felicità!»
«Se lo dici tu...» commento Matsukawa facendo spallucce «Io continuo a guardarmi le spalle, se non ti dispiace.»
«Fai pure, ma se ti fai influenzare dalle superstizioni delle ragazze del club femminile, non fai altro che complicarti la vita ingiustamente. Pensa, non avevo nemmeno capito che anche Ikeda giocasse con Sakurai. C’era quella volta che siamo rimasti bloccati al Gymnasium?»
«Credo proprio di sì, Makki. Se ci penso me la ricordo vagamente.» rispose Tooru.
«Ma quindi hai guardato anche altro, oltre il culo di Sakurai? Mi sconvolgi!» lo stuzzicò Hajime.
«Non sono mica così superficiale! Okay, ho guardato molto spesso Gumi, ma non tutto il tempo. So che Ikeda è una centrale e mi ricordo una centrale con i capelli neri e la coda di cavallo perfettamente piastrata.»
«Be’, corrisponde alla descrizione» approvò Takahiro «Sembra il tipo di ragazza che non esce di casa senza essersi sistemata di tutto punto. Natsuko non è così, invece, lei è genuina e spontanea.»
«Ma porca miseria, potresti smettere di ficcarla in ogni discorso?»
«Non arrabbiarti, Issei! Sono sicuro che riuscirai a trovare anche tu una ragazza come Natsuko.»
«Non mi serve una tipa noiosa come lei.»
«Non è noiosa, è solo timida!»
Issei sbuffò e finse di non aver sentito. Tooru controllò i messaggi sul telefono: Megumi era piuttosto preoccupata per un discorso che le aveva fatto la nuova allenatrice. Le aveva detto che pensava troppo e male e lui credeva che non ci fosse un modo migliore per raccontare quello che Megumi faceva nella vita in generale. Per quanto riguardava lo sport, non la vedeva giocare da troppo tempo per giudicare.
«Perché non andiamo a vedere una loro partita, uno di questi giorni?» propose.
«Una partita di Sakurai e delle sue amiche?» domandò Hajime «E perchè dovremmo, scusa?»
«Lo abbiamo fatto solo a giugno e, per giunta, nemmeno dall’inizio. Sarebbe un’occasione per rimediare alla figuraccia della scorsa volta.»
«Sakurai è un problema tuo, non nostro.»
«Se voglio far parte della sua vita, devo andare d’accordo con i suoi amici e lo stesso vale per lei con voi. Mi piacerebbe far funzionare le cose come si deve: ammettete che, al di là di Ikeda, le altre due sono ragazze tranquille.»
«L’unica normale è Nonaka: la ragazza coi capelli rosa morde ed ha una cotta per la tua Gumi-chan
«Per tua informazione, è stata lei a suggerirmi dove trovare Gumi quando era sparita improvvisamente dal club: mi ha dato una mano!»
«Solo perché era angosciata per lei e cercava di aiutarla!»
«Oikulo, apprezzo che tu abbia imparato a memoria il testo di If you wanna be my lover, ma se dovessi applicare a pieno la regola delle Spice Girls dovresti farti amico perfino Ushiwaka.» intervenne Takahiro sghignazzando «E non vale che tu faccia due pesi e due misure, quindi fai del tuo meglio al festival scolastico della Shiratorizawa.»
«Ushiwaka è l’eccezione: ogni sforzo di andarci d’accordo è sempre fallimentare. Andrò lì e fingerò che lui non esista.»
Una volta presa la decisione di andare al festival con la massima dignità possibile, il successivo problema da affrontare era come capire se Megumi fosse d’accordo o meno. Dal momento che non osava accennare alla questione, era d’obbligo che fosse lui a fare la prima mossa.
Lo schermo del cellulare non gli era mai sembrato così impietoso: non sapeva come introdurre l’argomento senza risultare opprimente. Si chiese se sarebbe stato più semplice parlargliene dal vivo, forse sarebbe stato in grado di stuzzicarla con qualche battuta piazzata strategicamente, magari dopo una bella serata al cinema. Mentre Hajime rimbeccava Takahiro perché con l’argilla aveva plasmato una forma fallica di dubbio pregio artistico e lui si sforzava di ricordare cosa fosse in programmazione per quella settimana, il telefono gli trillò fra le dita e la spia dei messaggi prese a lampeggiare.

 
Hai da fare domani pomeriggio? Ci sarebbero da guadagnare alcuni soldini, faccio volentieri a metà con te.

 
Di primo acchito temette che Megumi Sakurai, la stessa che fino a pochi mesi prima aveva stretto un patto con un maniaco, si fosse fatta coinvolgere in qualche affare losco e pericoloso.
 

Scherzo! Anzai mi ha chiesto di dare una mano col referto della partita di domani. Giocano quelli del Galaxy maschile… so che non è granché ma è pur sempre la terza divisione della lega e non è facile trovare i biglietti proprio il giorno prima.

 
Lo schermo non gli pareva più tanto crudele.
 

Ma segni i punti, sicura che ci sia spazio anche per me?

 

Quattro occhi vedono meglio di due, e poi Anzai ti conosce. Dai, non lasciarmi tutta sola, chi te lo trova di nuovo un posto d’onore come questo?

 

Sai, devo pensarci, non mi piace molto la pallavolo...

 
Presa alla sprovvista, Megumi scrisse qualcosa e la cancellò prima di inviarla. Tooru sorrise: per una volta l’aveva sorpresa lui, anche se era chiaro come il sole che stesse scherzando. Ma la ragazza non doveva avere troppa voglia di lasciargli l’ultima parola, così decise di mettere a dura prova il suo cuore.
 

Chi se ne frega della pallavolo? Pensavo di piacerti io ;)

 
«Perché sorridi come uno scemo, Oikulo? Sakurai ti ha chiesto di andare al cinema?» cantilenò Issei senza nemmeno cercare di interrompere il battibecco fra gli altri due.
«Vi ricordate quando mi prendevate in giro perché aspettavo la ragazza che si emozionasse per una partita della lega quanto le altre avrebbero fatto per un film romantico?» voltò il cellulare verso di loro perché leggessero «Eccola qui.»
Hajime gli strappò il telefono dalle mani e cominciò a scorrere gli ultimi messaggi, mentre gli altri due si sporgevano sulle sue spalle per leggere meglio. Tooru si godette lo stupore farsi strada sui loro volti e incrociò le braccia soddisfatto.
«D’accordo, cento punti per Sakurai.» sentenziò Hajime ancora incredulo «Porca miseria, ti ha invitato a stare praticamente a bordo campo, ti rendi conto? Se non fosse lei, chiederei se ci fosse posto anche per me. Sei il solito bastardo fortunato!»
«Possiamo parlare dell’ultimo messaggio? Mi ha fatto l’occhiolino, capisci?»
«Sembra che Sakurai voglia giocare un po’ con te.» commentò Issei.
«Ragazzi, io non credo di essere pronto. No, invece lo sono, eccome, solo che mi…»
«Ti ha proprio preso in contropiede.» concluse Takahiro «E chi se l’aspettava? Adesso sta a te: devi dirle che andrai al festival della loro scuola del cazzo e che vuoi stare con lei.»

Non era facile come presupponeva Makki uscirsene all’improvviso annunciando a Megumi: ehi sai, verrò al festival della vostra scuola del cazzo come mi ha chiesto il tuo amico del cazzo. Era troppo preso dal fatto che la ragazza fosse seduta proprio accanto a lui, così vicini che le loro gambe e le loro spalle si toccavano. Indossava una tuta nuova di zecca, forse acquistata proprio per l’occasione, e aveva parzialmente raccolto i capelli in un cipollotto disordinato, il resto le ricadeva mollemente sulle spalle. Non riusciva a smettere di pensare alla sera del parco divertimenti e al fatto che avesse dormito sulle sue ginocchia. Sapeva che anche lei era imbarazzata: esaminava da diversi minuti il modulo del referto, senza guardarlo davvero, era solo una scusa per giustificare il silenzio impacciato.
«Facciamo una scommessa, ti va?» propose allora, per rompere il ghiaccio.
Megumi lasciò perdere il foglio.
«Se stasera il Galaxy vince – circostanza assai improbabile data l’identità degli ospiti – io e te non torniamo subito a casa dopo la partita: ce ne andiamo in giro, solo noi due.»
La ragazza aggrottò le sopracciglia.
«Capisco, non vuoi uscire con me.» osservò seria «Perciò scegli la condizione irrealizzabile.»
Tooru le assicurò che non voleva intendere quello. Si complimentò con sé stesso per essere il più grande fallimento comunicativo del mondo, poi comprese che Megumi lo stava prendendo in giro e mise su il broncio.
«Dai, stupido! Lo so che vuoi uscire con me, altrimenti non saresti qui!» chiarì sorridendogli.
«Non è divertente, Gumi-chan! Mi hai fatto prendere un colpo!»
«Mi dispiace, davvero! Allora dimmi, che cosa facciamo se invece – come è probabile che accada – il Galaxy perde?»
«Se il Galaxy perde, verrò al vostro festival, come mi ha chiesto Ushiwaka.»
Megumi si rabbuiò e boccheggiò alcune volte prima di trovare le parole.
«Quello… speravo te ne fossi dimenticato.»
«Cosa? E perché?»
«Non credo che ti sentiresti a tuo agio, insomma, a scuola. Io ci sono venuta nella tua, ricordi? Mi hanno fissata tutti con disprezzo e non è una sensazione che tu meriti di provare. Oltretutto, con i ragazzi del club maschile abbiamo organizzato un torneo aperto, sarò impegnata lì per la maggior parte del tempo e non voglio che tu resti solo in mezzo agli studenti dell’accademia.»
Megumi non aveva rinnovato l’invito di Ushiwaka per delle ragioni così nobili che sentì le mani tremargli per l’emozione: anche se negli ultimi tempi era stata scostante e si era comportata in maniera aggressiva, in realtà lo aveva a cuore e ci teneva che fosse a suo agio.
«Non m’interessa dei tuoi compagni di scuola: sono solo dei cretini, a me interessa di te.» precisò «Un torneo aperto, dici? Ti serve per caso un palleggiatore?»
«Ne ho già uno e tu faresti bene a ricordarti che devi tenere a riposo il ginocchio.»
«Vorrà dire che resterò lì a tifare per te tutto il tempo.»
«Dalla padella alla brace! Ti ho appena detto che con noi c’è l’intero club di pallavolo maschile. Wakatoshi compreso, s’intende.»
«Mi ha invitato lui, non vedo dove stia il problema.»
«Sai dov’è il problema, Oikawa! Lo detesti e finiresti per rovinarti la giornata. Perché insisti? Ti ho appena spiegato che non potremo stare insieme come vorremmo, che cosa ci trovi di eccitante?»
Insieme come vorremmo, gli mancò il fiato per qualche secondo: qualche tempo prima, Megumi avrebbe detto come vorresti.
«È una specie di sfida silenziosa con Wakatoshi, non è così? Entri nella tana del lupo per fargli vedere chi ce l’ha più grosso.»
Tooru non riuscì a trattenersi dal ridere, nonostante l’atmosfera stesse diventando piuttosto seria: Megumi diventava giorno per giorno meno formale con lui ed era piacevole sentirla esprimersi senza contare o pesare le parole come faceva in precedenza. Anche il modo in cui, osservando la sua improbabile reazione, fingeva scherzosamente di esserne offesa era adorabile e sentiva che non avrebbe mai più potuto farne a meno. Aveva l’intima certezza che fosse proprio quella Megumi Sakurai e non la ragazza indisponente e bellicosa che aveva incontrato a giugno. Si sentiva fortunato e felice di poter sbirciare oltre la facciata dietro la quale si nascondeva ostinatamente. Se si fosse disfatta di quel guscio rigido e obsoleto, avrebbe goduto di molta più popolarità e lui si sarebbe ritrovato con molti più rivali che il solo Ushijima. Eppure, sarebbe stato disposto a sopportarlo e perfino a trovarlo divertente.
«Guarda che dicevo sul serio, vieni al festival per Wakatoshi, non per me.» sussurrò poco dopo il fischio d’inizio della partita.
«Sicura che non sia questo il vero problema?» le bisbigliò nell’orecchio «Guarda che mi piacciono le ragazze e, nel caso tu tenda a dimenticarlo come al solito, mi piaci tu. Voglio soltanto dare un’occhiata al posto in cui trascorri la maggior parte del tempo, conoscere le persone che frequenti, studiarti nel tuo habitat naturale.»
«O studiare i tuoi avversari nel loro habitat naturale.» replicò pianissimo.
L’arbitro scoccò loro uno sguardo di rimprovero, perché facessero silenzio. Privato della voce, Tooru fu costretto a trovare una soluzione più convincente per rassicurare Megumi che non ci fossero doppi fini dietro la sua insistenza. Certo, Ushijima gli aveva gettato il guanto di sfida e lui l’aveva raccolto, ma se non ci fosse stata lei di mezzo non gli sarebbe mai passato per la testa di varcare i cancelli della Shiratorizawa, avrebbe lasciato perdere e basta.
Megumi riempiva con scrupolo i campi del referto con qualsiasi avvenimento si verificasse in campo, ma teneva la mano sinistra sul ginocchio, a pochissimi centimetri dalla sua mano destra. Appuntava le note con le labbra strette e amarezza sul viso. Poteva essere una mossa suicida, ma lui era uno stratega oculato e sapeva che senza rischiare non si vinceva mai.
Così intrecciò il suo mignolo destro al sinistro di Megumi, lei trasalì e smise di scrivere ma non oppose resistenza. Allora intrecciò anche il suo anulare, e il medio, e l’indice finché la sua mano non fu stretta alla sua e le sue guance non si tinsero della tonalità del rosso che tanto amava.
«Mi farai sbagliare tutti i punti.» mormorò imbarazzata, ma non si sottrasse alla sua presa «Sei uno stupido.»
Tooru scoprì che era difficile concentrarsi su quel che accadeva in campo se l’istinto lo spingeva a spiare di tanto in tanto Megumi con la coda dell’occhio e, a quanto pare, nemmeno lei, che avrebbe dovuto prestare molta più attenzione, riusciva a resistere alla tentazione di guardarlo quando credeva di essere al sicuro. Finiva sempre che doveva affrettarsi ad annotare quello che si era persa perché aveva indugiato troppo su di lui. Eppure non lasciò mai andare la sua mano, fino alla fine dell’incontro. Chissà se le sarebbe andato bene che il Galaxy vincesse e avrebbe acconsentito a rimanere fuori con lui fino a tardi: se lo chiese quando, al quarto set, fu palese che la squadra in casa avrebbe perso e che lui sarebbe andato a quel benedetto festival. Megumi gli strinse la mano più forte al match point della squadra avversaria, come se sperasse ancora che la situazione potesse ribaltarsi e lui salvarsi.
«Ma guarda chi c’è qui con Megumi?» esordì il presidente Anzai tutto sorridente, quando la partita fu finita e fu libero di avvicinarsi alla loro postazione. Tooru lo salutò con un inchino educato e l’anziano signore gli diede una pacca sulla spalla.
«Così voi due adesso state insieme?» domandò facendoli arrossire entrambi, solo allora Megumi strappò in fretta la sua mano da quella del ragazzo, pur consapevole che Anzai non avrebbe mai potuto vedere attraverso la superficie del tavolo.
«Una domanda di riserva, signore?» cercò di salvarla lui. Anzai rise piano.
«Ah, questi giovani di oggi... Sono contento di vedere che vi frequentiate ancora, anche se avete smesso di giocare con noi. A proposito, come va il tuo ginocchio?»
«Decisamente meglio, fra qualche settimana riprenderò gli allenamenti col club.»
«E tu, Megumi? Come va con il tuo club? Ho saputo di Naomi Kato… molto più preparata e adatta di Isao Hattori. Da quell’uomo mi sarei aspettato qualsiasi tipo di nefandezza, ma mai avrei potuto immaginare che fosse un maniaco. Mi dispiace molto per la tua compagna che è stata presa di mira, come sta adesso?»
Tooru avvertì nuovamente la mano di Megumi afferrare con forza la sua, questa volta gelida. Era una richiesta d’aiuto, lui la strinse anche con l’altra mano.
«Sta… bene.» balbettò con voce malferma, ma senza guardare Anzai negli occhi «O almeno ci prova.»
Il presidente era vecchio, ma non sprovveduto.
«Capisco.» disse amareggiato «Spero che possa rimettersi in piedi al più presto, perché deve essere molto in gamba.»
«Lo è.» garantì Tooru, incapace di tenere a freno la lingua. Si pentì subito di averlo fatto, perché Megumi lo guardò atterrita, ma ormai il danno era fatto. «Una forza della natura.»
Anzai sorrise a entrambi e tirò fuori dalla tasca della giacca due biglietti colorati.
«Bene, forze della natura!» annunciò allegro «Ho per voi un premio per essere venuti a dare una mano oggi. Come certamente saprete il 24 dicembre ospiteremo un’amichevole molto speciale…»
«I Tachibana Red Falcons!» strillò eccitato Tooru. Erano la sua squadra del cuore da quando era bambino ed ammirava moltissimo il loro attuale coach.
«Proprio loro, contro gli Hornets. Ho due posti per voi, nel primo anello.»
«Sta scherzando, signore? Ho provato ad acquistare quei biglietti mesi fa ma era già tutto sold-out!»
«Sono il capo per una ragione, ragazzi!» spiegò Anzai porgendo loro i due biglietti.
Megumi era dispiaciuta, Tooru non riusciva a capire perché. Forse avvertiva ancora i postumi dei riferimenti a quel verme di Hattori, invece – esortata dal presidente – chiarì la vera natura del problema.
«Durante le vacanze invernali l’accademia chiude anche i dormitori. Quella sera sarò a Minamisaka e non esistono mezzi che possano riaccompagnarmi a casa a quell’ora. Se dovesse nevicare come tutti gli anni, poi, i miei genitori non se la sentirebbero nemmeno di venirmi a prendere.»
«Non hai amici a Sendai che possano ospitarti per la notte?»
«L’unica che avrebbe potuto è Mikoto, ma andrà in vacanza quella settimana.»
«Gumi-chan, guarda che anche io ho una casa.» suggerì offeso di non essere stato considerato.
«Ma sei un ragazzo!»
«E che t’importa? Sono un gentiluomo, lo sai. A casa mia c’è spazio a sufficienza e i miei genitori non dicono nulla se ospito qualcuno. Iwa-chan ci viene sempre.»
Megumi non era convinta, ma accettò il biglietto di Anzai e assicurò che avrebbe cercato una soluzione per non perdere quell’occasione.
Alla fermata dell’autobus, stretti nei loro cappotti pesanti contro il freddo della notte novembrina, bisticciarono come di consueto. Tooru non riusciva a comprendere perché Megumi fosse così restia all’idea di dormire in casa sua.
«Ci sono i miei genitori e mia sorella, ma non allungherei un dito su di te nemmeno se fossimo soli, lo sai benissimo!» protestò indignato.
«Alla luce degli ultimi eventi, non direi!» replicò lei.
«Ci siamo solo tenuti per mano, non ti ho mica infilato la lingua in bocca! E poi mi sembrava che tu fossi d’accordo, altrimenti non avrei insistito tanto. Ma d’accordo, non lo farò mai più! Credevo che ti piacesse, ma se non è così…»
«No!» lo interruppe «A me… a me piace.»
Si mise le mani nei capelli: quella ragazza lo avrebbe condotto alla perdita totale della sua sanità mentale. Se gradiva che la prendesse per mano, per quale motivo si lamentava che lo facesse?
«Ho paura.» ammise, abbassando la testa.
«Hai paura di me? Gumi-chan, io non ti farei mai del male.»
«Lo so, non è di questo che ho paura. Tu sei diverso e sto bene con te.»
«Questo è un complimento, non un motivo per cui avere paura.»
«Tu… tu mi confondi, non capisco perché sto così. Con Waka-nii non è lo stesso, so sempre cosa voglio o non voglio… con te è tutto ingarbugliato! E se stiamo insieme per così tanto tempo, potrei uscirne ancora più confusa. Ho paura di restarci male.»
C’era una piccola luce in fondo al tunnel: era calda e appagante, minuscola ma abbagliante. Una speranza che fino a pochi mesi prima, non avrebbe mai sperato di riuscire a nutrire: quella di essere ricambiato. La vedeva per la prima volta ed era bellissima quanto il primo germoglio di marzo che si faceva spazio nella neve di un inverno di ristrettezze, ma adesso lui non aveva i mezzi per impedire che il freddo lo bruciasse. Si sentiva come quando, qualche ora prima, gli era stato impedito di comunicare a parole: allora la sua audacia lo aveva premiato, ma adesso gli sarebbe stata utile?
Gli occhi di Megumi lo supplicavano di darle una risposta e non sarebbe riuscito a reggere quello sguardo triste nemmeno un secondo di più. Azzardò un passo in avanti, lei non si mosse, così ne fece un altro. Lentamente, perché avesse tutto il tempo di fermarlo, le avvolse le braccia attorno alle spalle e la strinse a sé con cautela. Il suo cuore era sul punto di scoppiare di gioia, quando a sua volta lei lo abbracciò. Affondò il viso nei suoi capelli, che profumavano di shampoo per bambini e gli venne da ridere. Grande e grossa, alta pochi centimetri meno di lui, lavava i capelli con lo shampoo per bambini. Restarono così in silenzio per qualche minuto, finché i fari dell’autobus di Megumi non comparvero alla fine della strada e furono costretti loro malgrado a separarsi, i cuori che battevano all’impazzata.
«Ti voglio bene, Gumi-chan, non devi avere paura.» le sussurrò nell’orecchio. Poi, carico di tutta l’adrenalina che aveva in circolo, prima di lasciarla andare, la strinse più forte e le stampò un bacio sulla guancia. Pregò tutti gli dei del cielo di non aver osato troppo, quando lei si sfiorò sorpresa il punto in cui l’aveva baciata.
«Signorina, sale?» la incalzò il conducente spazientito.
«Sì» balbettò lei «Solo un attimo!» e l’uomo si appoggiò coi gomiti sul volante roteando gli occhi al cielo.
Il ragazzo la fissava in attesa di chissà quale responso; tutt’a un tratto, Megumi era imperscrutabile con le sue guance rosse e i suoi occhi luccicanti. Infine gli prese entrambe le mani e gli sorrise.
«Anche io ti voglio bene, Tooru.»
Scomparve dietro le porte dell’autobus, lasciandolo solo a lottare con la felicità che esplodeva in ogni parte del suo petto e con la consapevolezza di essere diventato, a pieno titolo, solo Tooru.


NOTE FINALI

Ovviamente sono in ritardo, ma credo che questo capitolo sia più lungo dei soliti e spero scritto meglio. Rileggo i primi capitoli e mi accorgo che adesso li scriverei con alcune differenze, prima o poi, quando questa storia sarà conclusa, le darò una ripulita. Vi ringrazio per aver letto fin qui e mi trovo nella condizione di farvi alcune domande e premesse per quanto riguarda i capitoli successivi. In questo momento, Wild Card si trova nel novembre del 2011, con i prossimi due capitoli entreremo nel 2012. Finora vi ho raccontato dell'anno precedente a quello in cui la serie originale è ambientata, ma quando saremo arrivati ad aprile del 2012 e Megumi inizierà il suo secondo anno di liceo, ci ritroveremo nella stessa timeline di Haikyuu. Ciò significa che farò riferimento a fatti già accaduti nella serie ma non modificherò mai nulla di quello che è dato per canonico, mi muoverò solo nel non detto. Detto questo, come siete messi con gli spoiler? Seguite solo l'anime? Il manga italiano? O avete terminato come me me di leggere il manga di pari passo con le uscite giapponesi? Più in avanti potrebbero spuntare degli spoiler o dei camei di personaggi che appaiono a manga avanzato, se sarò brava, non vi accorgerete nemmeno che non sono frutto della mia fantasia, ma vorrei avvisarvi per tempo.
Alla prossima!
Lyra

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15: Tutti contro tutti ***


Capitolo 15

Tutti contro tutti

«Non posso credere che tu ne stia parlando con me invece che con le tue amiche!»
«Kenjiro, tu sei mio amico. E sei fin troppo felice della cosa.»
«Potrei non esserlo? Faccio il tifo per quell’imbecille di Oikawa, così il campo è libero.»
«Waka-nii non è gay.»
«Che importa? Sempre meglio che sapere che gli ronzi intorno come una mosca fastidiosa!»
«Dai, non essere crudele!» si lamentò Megumi lanciandogli contro il cancellino della lavagna, che Shirabu schivò con maestria «Ne parlo con te perché le altre non capirebbero, non deludermi.»
«Vuoi che reciti la parte dell’amico gay dei telefilm americani? Non ti metterò mai lo smalto sulle unghie.»
«Non mi serve l’amico gay dei film americani, mi serve un amico disinteressato.» precisò l’altra a braccia incrociate «Le ragazze non lo sono.»
«Va bene, Oikawa ti ha abbracciata e dato un bacio, rigorosamente non sulle labbra come dici tu.» riassunse in poche parole «Ma a te è piaciuto sì o no? Rispondi sinceramente o me ne vado e il turno di pulizie lo finisci da sola.»
Megumi esitò prima di rispondere. Ripensò al tepore dell’abbraccio della sera precedente, al profumo di Tooru, al velluto delle sue labbra sulla pelle, alle parole rassicuranti che aveva pronunciato. Forse quel ti voglio bene lo aveva ripetuto a tutte le ragazze che aveva avuto, eppure le ispirava così tanta fiducia che avrebbe messo la mano sul fuoco riguardo la sua sincerità. Fra le braccia del ragazzo si era sentita apprezzata e amata come non lo era mai stata prima e il cuore le scalpitava al solo ricordo.
«Mi è piaciuto.» ammise preoccupata.
«Bene» sentenziò Kenjiro lucidando maniacalmente il banco «Questo dice più di mille parole.»
«Ma mi piace anche quando lo fa Waka-nii!» puntualizzò allarmata.
Kenjiro lasciò perdere lo straccio e il banco e le rivolse uno sguardo seccato.
«Vuoi farmi credere che lo faccia?»
«Ci abbracciamo qualche volta, perlopiù perché sono io a volerlo. Ma lui non mi ha mai dato nessun bacio, di nessun tipo.»
Il ragazzo strinse i pugni e gli occhi. «Ah, che tu sia maledetta, Megumi Sakurai!»
«D’accordo, che io sia maledetta, ma non è questo il punto. Cosa faccio? Sono nel panico: io sono sicura di essere innamorata di Wakatoshi, ma questo sentimento che provo per Tooru…»
Kenjiro la interruppe puntandole contro l’indice.
«Quindi ammetti di provare qualcosa per il tuo bel palleggiatore!»
«Obiezione, vostro onore, non riesco ad identificare questo sentimento!»
«Obiezione respinta: le è appena stata diagnosticata una rarissima forma di innamoramento. La giudico pertanto incapace d’intendere e di volere.»
Megumi tirò una sedia da un banco e ci si lasciò cadere stancamente.
«Lo dice anche Kaori, ma io non credo sia possibile.»
«Saggia donna, Nonaka. Legge le persone come fossero riviste di gossip, dovresti ascoltarla più spesso. Sa più cose lei su di voi di quante ne abbiate capite da quando siete nate. E cosa dice che dovresti fare?»
«Che se non sono sicura, dovrei fare delle prove: uscirci ancora, parlarci ancora, abbracciarlo ancora. Mi ha perfino detto di accettare l’invito a casa sua.»
«Addirittura? Suggerimento temerario, vacci pure ma stai lontana dal suo letto. Che c’è? È un bel ragazzo, lo dico oggettivamente.»
«Ti sembro una che finisce nel letto di Oikawa?» commentò risentita.
«Mi sembri una con le idee confuse, non si sa mai.»
«Stronzo! Sai che faccio? Mi faccio baciare da Waka-nii così posso fare il confronto ed essere meno confusa.»
Kenjiro la colpì ripetutamente su una spalla con lo straccio, mentre lei se la rideva.
«Sei tu la stronza!»
«Kenjiro, che barbaro! Non ti hanno insegnato che le ragazze non si toccano nemmeno con un fiore?»
«Hai il coraggio di definirti una ragazza? Vuoi farmi ridere, forse?» la prese in giro l’amico.
«Diventi ogni giorno più perfido, devo pensare che sia colpa del fatto che io abbia preso un voto più alto del tuo in inglese? Si tratta solo di una materia su dieci, in tutte le altre regni incontrastato tu e le due sgobbone del primo banco.» lo stuzzicò lei «E lo sai benissimo che il resto dei miei voti non è tutto questo granché, raggiungo a stento la sufficienza in matematica e lo faccio grazie a te.»
«Non sono arrabbiato, è solo che non riesco a capire come sia possibile che tu sia tanto brava in inglese e faccia così schifo in tutte le altre materie, educazione fisica a parte.»
«Abbiamo gli stessi voti in educazione fisica, se contasse qualcosa, e me la cavo anche in giapponese e storia, anche se capisco che per te cavarsela significhi necessariamente prendere almeno A+.»
Kenjiro le rivolse uno sguardo di rimprovero.
«Hai preso una S in inglese ed è rarissimo che la Harris metta quel voto. Lo sanno tutti in questa scuola… si può sapere perché sei così brava? Non mi risulta che tu sia mai uscita da Minamisaka e men che meno dal Giappone!»
Megumi sollevò le spalle: non sapeva nemmeno lei perché riuscisse tanto bene in inglese, lo trovava semplice da studiare e le piaceva. Oltretutto era la lingua che la FIVB utilizzava regolarmente sui propri canali ed era sempre stata troppo impaziente per attendere una traduzione, così aveva preso un dizionario e la buona abitudine di far da sé. Se credeva che fosse abbastanza per meritarsi una S sul registro? Assolutamente no, ma era felice di non essere un totale fallimento in tutte le discipline scolastiche.
«Pensavo che l’anno prossimo potrei frequentare con la Harris il corso di letterature internazionali.»
Shirabu storse il naso.
«Quello sì che lo fanno solo gli invasati e i secchioni. Precisamente a cosa serve?»
«A nulla. Voglio dire, è il genere di corso che i miei genitori disapproverebbero: direbbero che sarebbe molto meglio seguire i corsi di potenziamento di economia o di informatica o di qualsiasi cosa che sia utile a superare il test d’accesso di una facoltà universitaria decente.»
«E non avrebbero torto: non puoi mica pensare di far soldi con Shakespeare, Blake o le sorelle Brontë.»
«Non si tratta solo di letteratura inglese.»
«Perfetto, ma conoscere anche Hugo non migliorerà la tua situazione.»
«Lo so, ma credo che mi piacciano le lingue straniere. E poi non ci voglio andare all’università, lo sai. Mai nella vita: una volta fuori dal liceo, brucerò tutti i libri!»
L’amico rabbrividì, ma non disse nulla.
In effetti, rabbrividì anche lei: qualche mese prima, l’idea di non proseguire gli studi oltre l’istruzione superiore le sembrava coerente, concreta, allettante. Megumi Sakurai voleva giocare a pallavolo per il resto della sua vita e avrebbe fatto di tutto perché il suo desiderio si realizzasse; dopo Hattori, aveva rinchiuso quell’aspirazione irrequieta nel cassetto delle cose da buttar via e aveva completamente perso di vista la meta. Durante l’estate si era chiesta che cosa volesse fare della propria vita e non era riuscita a darsi una risposta: aveva deluso la propria famiglia, perciò aveva deciso che sarebbe diventata la brava studentessa che si aspettavano e mantenuto un profilo basso. Era tornata al club spinta da una forza inconscia, ma priva dell’ambizione feroce e arrogante che fino ad allora l’aveva guidata, per quanto malsana fosse stata.
Non se n’era accorta. Era proprio quell’assenza di obiettivi che in campo la faceva sentire spaesata e insicura, che le riempiva la testa di pensieri e i polmoni di terrore. Aveva passato gli ultimi mesi a credere che le mancasse il talento, il cervello o il coraggio; capì in quell’istante che le mancava l’ambizione. Qualcosa che aveva sempre avuto!
Le sfuggì una risatina, Kenjiro le scoccò uno sguardo preoccupato.
«Ti sei ammattita? È proprio vero che i prediletti della Harris sono tutti da internare!»
«E dai, Kenjiro, piantala!» protestò lei improvvisamente su di morale «Ho appena realizzato qualcosa d’importante, proprio grazie a te.»
«Hai realizzato che è ora di lasciar perdere il capitano e buttarti a pesce su Oikawa?»
Megumi gli fece una smorfia.
«Non ci provare!» ribatté indispettita «Non farò niente del genere.»
«Non farai niente del genere ma intanto domattina lui sarà qui e qualcosa ti toccherà fare. Io sarò lì, tutt’occhi e tutt’orecchie. Che c’è? Sei stata tu a chiedermi di far squadra insieme, ovviamente sono furioso.»
«Perché ti ho tolto la possibilità di giocare con Wakatoshi come fai ogni santissimo giorno? Pensavo che, per una volta sola, avresti trovato lo scambio divertente.»
«Stai soltanto cercando di tenermi lontano da lui, così che tu possa tenere un piede in due scarpe.»
«Non è vero, non l’ho fatto apposta! Dai, Kenjiro, non prendertela!» si difese allarmata.
«Guarda che ti sto prendendo in giro. Con lui ci gioco tutti i giorni, l’hai detto tu, mi fa piacere provare qualcosa di nuovo. Mi offenderei, però, se il tuo bell’Oikawa s’iscrivesse e mi sostituisse, questo sì.»
«Gliel’ho proibito. Se ne starà buono buono a guardare, non sarò io ad accorciargli la convalescenza. Gli hanno detto che può ricominciare a dicembre e che dicembre sia.»
«Che masochista. Gli brucerà da morire, noi a gennaio andiamo all’Harukou e lui si guarda buono buono il nostro torneo fatto in casa. Deve essere proprio innamorato per sopportare un’umiliazione simile.» sospirò chiudendo gli occhi e stiracchiandosi verso l’alto, poi le scoccò uno sguardo malizioso «E anche tu.»
A Megumi dispiaceva per Tooru. Ancora nutriva dei dubbi sulle ragioni che lo avessero spinto ad accettare di presentarsi al festival, ma sapeva per certo che non sarebbe stato semplice per lui inserirsi nel contesto dell’Accademia. Uno che strappava l’invito formale del preside ad iscriversi ad una scuola tanto prestigiosa faceva scalpore e, quando due anni prima Wakatoshi gliel’aveva raccontato, lei stessa era stata sconvolta dalla sua mancanza di rispetto.
Si ricordava del tempo in cui Tooru Oikawa era solo il nome di un volto appena familiare, un ragazzino quasi tutt’ossa che aveva conosciuto quando lei indossava ancora ancora l’uniforme alla marinaretta delle medie e saltava le lezioni pomeridiane per sgattaiolare alle partite di Wakatoshi. C’era stato quel periodo in cui l’amico non aveva che il suo nome sulla bocca, coinciso grossomodo proprio con il suo rinuncia alla convocazione da parte dell’Accademia. Ricordava di averlo detestato così tanto da non voler sentirne parlare mai più, tuttavia le sue compagne di squadra continuavano a cinguettare di quanto fosse carino e in gamba e di quanto fosse un peccato che non s’iscrivesse alle superiori insieme a loro, e i ragazzi si lamentavano che fosse un ingrato a iscriversi ad un’altra scuola. Aveva maledetto lui e il nutrito seguito di esaltate starnazzanti che aveva acquisito da quando aveva iniziato a frequentare l’Aoba Johsai, le stesse che gridavano sempre il suo nome ogni volta che si scontrava con Wakatoshi, impedendole di concentrarsi. Aveva considerato lui vanesio e loro prive di cervello. Anni dopo, le martellava il cuore quando ripensava a quel bacio castissimo sulla guancia.
La verità, che ammise a sé stessa più tardi, mentre ai bordi del campo si riallacciava le scarpe da ginnastica, è che non stava più nella pelle all’idea di rivederlo. Sentiva le guance e le orecchie andarle a fuoco e un’irrequietezza diffusa in tutto il corpo: l’allenamento pomeridiano era servito a liberarle la mente per un paio di ore, ma a partire da quel momento Oikawa ritornava sovrano indiscusso dei suoi pensieri. Avrebbe voluto che le ore, i minuti e i secondi potessero essere compressi in un solo attimo e che il sole del giorno successivo spalancasse i cancelli dell’accademia in quello stesso istante. Si ostinava a ribadirsi che Kaori e Kenjiro non avessero ragione, ciò nonostante avrebbe voluto stringerlo di nuovo e godersi il suo tepore rassicurante.
La signorina Kato si accovacciò a gambe incrociate davanti a lei e le rivolse uno dei suoi sorrisi misteriosi; Megumi pregò che il rossore sulle sue guance potesse essere scambiato per semplice stanchezza. Naomi, dopo aver precisato ancora una volta che preferiva la si chiamasse per nome, si complimentò per come le era riuscita l’amichevole appena conclusasi. Era la prima volta che Megumi la vedeva tanto soddisfatta della sua performance e riconobbe i segni di una sensazione da tempo dimenticata: il compiacimento.
«Penso che tu sia pronta.» le spiegò fra una direttiva per lo stretching e l’altra «Negli ultimi tempi sei molto più concentrata e oggi eri quasi irriconoscibile, tanta era la grinta che hai tirato fuori. Ho deciso di fissare per l’inizio dell’anno prossimo un’amichevole con il liceo Ookamidani, lo allena una mia vecchia collega.»
«Il nome mi dice qualcosa» commentò Megumi allungandosi in avanti quanto più poteva «Ma non mi sembra sia da queste parti.»
«In effetti non lo è, sei mai stata a Nara?»
«Nara? Dove ci sono i cervi?»
Naomi rise e annuì, poi le chiese di spostarsi sulla gamba destra.
Il liceo Ookamidani di Nara, rifletté spingendosi sulla gamba destra e lasciando che il retro della coscia tirasse: era certa di averlo sentito da qualche parte. Le vennero in mente delle belle uniformi grigio freddo, percorse da intricate linee azzurro neon, una bella ragazza dai capelli scuri, lucenti di sfumature bluastre. «Yamanaka Jun, classe 1994.» bisbigliò fra le labbra senza ben sapere perché. No, lo sapeva! Si rialzò di scatto, sorpresa.
«Hanno vinto l’Harukou dell’anno scorso!» esclamò agitata «C’era quell’alzatrice, Yamanaka… faceva delle cose pazzesche, l’hanno convocata al ritiro nazionale! Era su Monthly Volleyball di luglio, un’intervista di due pagine intere!»
«Felice che tu ne sia tanto entusiasta.»
«Entusiasta? No, Naomi, ci mangeranno vive! Faremo una pessima figura!»
«Sta’ tranquilla, Megumi! Si tratta solo di un’amichevole e abbiamo ancora due mesi interi per prepararci: ne faremo molte altre prima, chiederemo la disponibilità alle scuole in zona. Vedila così: sarà un battesimo di fuoco. Adesso tira la gamba sinistra!»
A cena, Kaori spinse più avanti il proprio vassoio e sbatté la copia di Monthly Volleyball sul tavolo. Megumi e Arisu si scambiarono uno sguardo preoccupato.
«Non è una tragedia.» iniziò Arisu con cautela, ma Kaori la interruppe.
«Rideranno di me. Banchetteranno sulle nostre ossa e rideranno di me. Come può la signorina Kato aver pensato che siamo pronte per affrontare la squadra di Yamanaka? Siamo penose!»
«Teoricamente siamo sempre fra le otto migliori della prefettura.» osservò Arisu.
«Siamo le ultime delle prime otto, ad un passo dall’uscirne fuori!» precisò Kaori disperata «Sapete come ci chiamano quelli delle altre scuole?»
Kawanishi, seduto di fronte a loro, tossicchiò per mandar giù il boccone che gli era andato di traverso.
«Papere, vi chiamano le papere. E non solo quelli delle altre scuole, lo facciamo anche noi.»
Megumi non sapeva nulla di quel nomignolo e nemmeno Arisu, a giudicare dall’espressione sorpresa.
«Vi chiamano così perché siete goffe» spiegò Wakatoshi accomodandosi sulla sedia libera accanto a Megumi «e rumorose.»
«Waka-nii, lo pensi anche tu?»
L’amico la osservò pensoso per qualche istante, poi confermò.
«Le papere sono carine, però…» pigolò Arisu «Quanti animali posso essere contemporaneamente?»
Risero tutti, perfino Kaori, per quanto preoccupata fosse.
«Risu, tu sei uno scoiattolo al cento per cento, l’unica che valga davvero qualcosa fra noi. Insieme a Yoshida, s’intende. Ragazzi, questo fa di Naomi mamma papera?»
«Povera Kato!» esclamò Kaori «Da leonessa a mamma papera in meno di tre mesi.»
«Quindi giocate contro la squadra di Jun Yamanaka.» riprese Wakatoshi accennando alla rivista aperta sulla foto dell’incriminata.
«Ci facciamo sbranare dai lupi, esatto. Naomi dice che sarà il nostro battesimo di fuoco, io penso sia il nostro funerale. Conosci Yamanaka?»
«Io no, ma Yoshida sì. L’anno scorso è stata al campo anche lei e hanno giocato insieme nella nazionale under-18. Pare che sia un tipetto particolare, dovresti chiederglielo. Nella nazionale under-18 c’è anche il loro libero, Emiko Tsuji o qualcosa del genere.»
Mancava poco che Kaori si appuntasse tutto sul cellulare. Megumi sapeva che il giorno dopo avrebbe tartassato la senpai Yoshida di domande e che probabilmente sarebbe finita ancora più nel panico di quanto non lo fosse in quel momento. Anche Arisu, dal momento che Wakatoshi aveva menzionato un libero della nazionale giovanile, non sembrava più tanto calma quanto lo era stata fino ad allora. Quanto a sé stessa, avrebbe voluto farsi piccola piccola e sparire nel nulla: in nazionale non sapevano nemmeno chi fosse e la circostanza le faceva provare una frustrazione e un’invidia affatto indifferente. Ad aprile si era ripromessa che entro novembre avrebbe ricevuto l’invito ad un ritiro, invece piagnucolava aggrappandosi alle sottane di Naomi, in un recinto di papere. Wakatoshi le diede un leggero calcio sotto il tavolo, per farla ridestare.
«Comunque è una bella occasione.» ricominciò, per rassicurarla.
Apprezzava il tentativo, ma serviva molto più di quello.
«E anche quella di domani lo è.» continuò «Tendou è deciso, vi stracceremo.»
L’accenno al festival del giorno successivo bastò a riaccenderle le guance ed accelerare di colpo il battito del suo cuore. Tutto quel discutere di Yamanaka le aveva fatto dimenticare Oikawa e la sua stupida faccia, e il suo stupido profumo, e il suo stupido abbraccio. Kaori doveva aver capito quale fosse il filo dei suoi pensieri, perché ridacchiò dietro una mano.
«Megumi-chan, ti senti bene?» le domandò Arisu confusa «Ti sei fatta tutta rossa!»
Grazie al cielo Kenjiro era uno di quelli che la sera tornava a casa, se avesse cenato con loro in mensa sarebbe scoppiato a ridere così tanto da lacrimare. Almeno Kaori era più discreta e Arisu viveva in un mondo tutto suo.
«Tendou dice che tu esci con Oikawa, quindi suppongo che domani verrà.»
«Difficile che non venga, visto che sei stato tu ad invitarlo, Waka-nii! E poi Tendou… è inqualificabile, non ha capito proprio nulla: gli ho spiegato mille volte che non esco con lui nel senso che intende!»
Kawanishi, che fino a pochi minuti prima non aveva mai sentito accennare alla questione, sollevò un sopracciglio e si mise in attento ascolto, buscandosi un’occhiata di rimprovero da parte di Kaori.
«A proposito, che fine ha fatto quel pettegolo? Se lo prendo lo apro in due!»
«In punizione per aver distrutto metà delle provette del laboratorio di chimica. Ha cenato con un pacchetto di patatine del distributore nel corridoio. Deve ancora bilanciare cinque reazioni redox.»
«Ha fatto incazzare il professor Suzuki?» commentò Kawanishi «Eroe nazionale!»
Mentre la conversazione degli altri tre virava sui meriti di Tendou, Megumi tirò la manica di Wakatoshi per reclamare la sua attenzione e gli ribadì nell’orecchio che lei non usciva con Tooru nel senso che intendeva Tendou.
«Perciò, per favore, domani non metterlo in imbarazzo. Non puoi fingere che non esista?» continuò supplichevole.
«Megumi-chan, io fingo sempre che non esista. In genere è lui che accende il fuoco.»
«Allora perché lo avresti invitato?»
«Perché mi sembrava che volesse passare del tempo con te. Dopo tutto quel che ha fatto…»
«E tu che ne sai di cosa ha fatto per me?»
«Lo so che è il ragazzo che era con te e Hattori nella galleria, anche se tu ti ostini a non dirmelo.»
«Te l’ha detto qualcuno, non è così?»
«Non importa chi me l’abbia detto, prima o poi sarebbe comunque saltato fuori. Immagino che debba testimoniare.»
«Spero il più tardi possibile, ma l’avvocato sostiene sia inevitabile.»
L’amico la prese per un braccio e la invitò silenziosamente a seguirla, borbottando che aveva bisogno di mostrarle qualcosa. Si allontanarono fuori dalla sala mensa sotto lo sguardo perplesso di Kaori, Arisu e Kawanishi. Kaori protestò che la loro cena si sarebbe raffreddata, ma Wakatoshi sapeva essere irremovibile.
«Stai cercando di ricompensarlo perché testimoni?» obiettò Megumi nervosa «Vuoi che io lo intrattenga per ricambiare il fastidio di presentarsi a un’udienza?»
«Tu gli piaci, Megumi-chan
«E con questo? Se gli fosse piaciuta qualcun’altra avresti spinto lei fra le sue braccia? Mi hai presa per cosa? Una prostituta? Lo fa già mezza scuola! Pensavo che tu fossi diverso, di contare qualcosa per te!»
Wakatoshi aggrottò le sopracciglia, serioso. Non riusciva ad esprimersi come desiderava ed aveva ottenuto soltanto di far infuriare l’amica ancor più di prima. Detestava che fosse sempre così drammatica, quando lui invece era sempre placido.
«E poi cosa credi di saperne, di come è Tooru? Pensi che sia così superficiale e gretto da ragionare per convenienza? Se vuole testimoniare per me stai sicuro che lo farà senza chiedermi niente in cambio, non si fermerebbe nemmeno se glielo chiedessi: lui non è così e io non sono merce di scambio.»
«Tooru» ripeté l’amico pensoso «Anche a te lui piace.»
Wakatoshi aveva espresso la sua conclusione con una disinvoltura spiazzante: non era arrabbiato con lei e – soprattutto – non era geloso come Tendou aveva supposto. Megumi era sconfitta su tutti i fronti: non l’avrebbe mai spuntata contro di lui, era destinata a fallire ogni tipo di competizione.
«Non dire sciocchezze!» sibilò arrossendo «Lo sai che sono innamorata di te! E se solo tu mi dessi l’occasione di dimostrartelo e smettessi di ripetermi che io non ti piaccio, che sono solo un’amica qualsiasi…»
Quando quella mattina Megumi aveva scherzato con Shirabu, sostenendo che si sarebbe fatta dare un bacio da Wakatoshi per schiarirsi le idee, non immaginava che entro sera lui l’avrebbe afferrata stretta per le spalle, che si sarebbe chinato appena in avanti per pareggiare i centimetri di altezza che le mancavano e che avrebbe appoggiato goffamente le sue labbra sulle sue. L’ultimo bacio che Megumi aveva dato a qualcuno era stato di tutt’altra natura e si era sempre raccontata che con lui sarebbe stato diverso, che avrebbe sentito il cuore esploderle di gioia e che avrebbe desiderato che non finisse mai.
Ed invece restò rigida e impalata come una statua di cera. Eppure il suo migliore amico, Wakatoshi Ushijima, a cui si era dichiarata diciannove volte, l’aveva baciata. Il suo primo amore l’aveva baciata e lei non aveva sentito nulla, nemmeno un sussulto nel petto, nemmeno le farfalle nello stomaco.
«Spero che tu adesso abbia capito perché fra noi non funziona: perché tu sei mia amica e, qualsiasi cosa tu dica, io sono tuo amico e l’unico ragazzo a cui tu sia stata vicina finora.»
Megumi balbettò qualcosa di sconnesso, ancora sconvolta dalla rivelazione che l’aveva investita come un’onda anomala, ma il ragazzo non le lasciò articolare nulla che contenesse del senso.
«Sei importante per me e io so di essere importante per te, ma in modo diverso. Quello che voglio che tu capisca è che per me non è un tradimento, anzi non me ne importerà nulla se dovessi trovarti un fidanzato, a meno che non ti faccia soffrire. Quel giorno, quando l’ho invitato al palazzetto, io sapevo già che Oikawa fosse il ragazzo della galleria e sapevo già che avesse una cotta per te: lo avevo capito da quando a giugno vi siete azzuffati negli spogliatoi. Quello di cui non ero a conoscenza era il modo in cui tu lo guardi e, fidati, tu non guardi me in quel modo. Eri così preoccupata che io potessi offenderlo e, anche adesso, lo hai difeso con così tanta forza… Non dico che sia il grande amore della tua vita, ma farebbe comodo a tutti e due se almeno ammettessi che ne sei attratta.»
Megumi protestò che aveva torto, ma Wakatoshi la interruppe di nuovo.
«Hai promesso di dirmi sempre la verità. Puoi mentire a te stessa, ma non a me. Perciò, lui ti piace?»
Megumi si mordicchiò il labbro inferiore, cercò di sfuggire al peso del suo sguardo guardando a destra e a sinistra, nella speranza che qualcuno giungesse ad interromperli. Ma, quando fu chiaro che non avrebbe potuto in alcun modo evitare di rispondere, si rassegnò. La risposta la conosceva già, in cuor suo, ma la sola idea di pronunciarla la faceva tremare. Una vocina interiore, dispettosa e perfida, le sussurrava che sarebbe stato molto più emozionante se a baciarla sulle labbra fosse stato Tooru e lei non riusciva a farla tacere in nessun modo.
«Forse un po’.» confessò timidamente «Ma non sono sicura. Voglio dire, tu ce l’hai presente: ha sempre tutte quelle ammiratrici intorno, sono tutte così carine e femminili e fa sempre tanto il pavone con tutte. E io sono… mi conosci, io sono tutt’altro. Magari gli piaccio adesso perché gli sembro diversa, ma più in là potrebbe stancarsi di me e spezzarmi il cuore come ha fatto finora con le altre… sacrificherei un’amicizia preziosissima. Io non credo di poterlo sopportare, non dopo quello che mi è successo.»
Wakatoshi le sorrise e Megumi constatò che quel bacio impacciato non aveva cancellato i suoi super-poteri curativi: era risentita per il gesto ma si sentì ugualmente sollevata, nonostante il suo cuore fosse in tempesta.
«Ma adesso non sei più sola.» replicò, come se fosse la cosa più scontata del mondo «Ci sono sempre io, e Scoiattolo, Nonaka, Ikeda, Shirabu… se glielo chiedi, c’è anche Tendou. Tutti noi saremmo ben felici di dare a Tooru Oikawa una lezione, se dovesse farti soffrire. Sempre che non voglia farlo tu personalmente: mi riferiscono che picchi molto forte. Quindi prenditi i tuoi tempi: è per questo che l’ho invitato qui, per osservarlo e capire se ci tiene davvero.»
In quei pochi minuti erano accadute troppe cose e tutte insieme, tutte inedite. Wakatoshi che parlava così tanto, che si arrendeva a baciarla per dimostrarle quanto si fosse sbagliata. Lei che si accorgeva che qualcosa era cambiato: c’era stato certamente un tempo in cui lo aveva amato, in cui quel bacio l’avrebbe resa immensamente felice, ma non avrebbe saputo dire quando i suoi sentimenti fossero mutati, né quanto fossero durati: aveva continuato a dirsi innamorata di lui per abitudine e cocciutaggine. Quanto a Wakatoshi, ammirava la sua coerenza: dall’inizio alla fine era sempre stato cristallino per quanto riguardasse ciò che non provava per lei e aveva sopportato con pazienza tutti i suoi tormenti inopportuni. Si rese conto di avergli provocato non poco imbarazzo ogni volta che gli aveva teso un’imboscata per strappargli un segnale d’interesse, era stata irrispettosa e molesta, e Wakatoshi non aveva mai meritato un trattamento simile. Lo trovava un ragazzo maturo e affascinante e – ad onor del vero – la seccava comunque che non avesse interesse per lei, ma comprese quella sera che il loro legame, iniziato una decina di anni prima in mezzo a un campo di angurie pieno di cicale chiassose, era piuttosto lontano dall’amore romantico e molto più vicino a quello familiare.
«Adesso rientriamo» suggerì lui spingendola appena verso l’ingresso «O si raffredderà tutto sul serio.»

Breve elenco delle questioni che Megumi non aveva affrontato con Kenjiro.
Primo, i segni da usare durante il torneo: quelli classici? Qualcosa di più complicato per scongiurare il rischio di essere prevedibili? Oppure avrebbero semplicemente dovuto lasciarsi guidare dal dispiegarsi degli eventi in campo?
Secondo, cosa fare se malauguratamente la triade Tendou-Ikeda-Ushijima fosse stata accoppiata contro di loro? Per Tendou serviva una strategia, per Mikoto un esorcista in gamba, per Wakatoshi forse bastavano lei e Arisu, che al momento sembrava scoppiare di energia.
Terzo, Wakatoshi l’aveva baciata.
Quarto, erano solo amici.
Quinto – tanto per ribadirlo ancora una volta – era assolutamente certa che Wakatoshi non fosse gay. Lo conosceva da una vita e l’aveva baciata: non poteva essere gay.
In sintesi, quella era la domenica mattina peggiore che avesse mai vissuto fino ad allora. Negli anni successivi ne avrebbe avute di parecchio peggiori, ma non poteva ancora saperlo.
Alle dieci Kurihara e Tendou avevano già raccolto le adesioni per le squadre del torneo ed erano molto più numerose di quanto si fossero aspettati: c’erano genitori, curiosi, studenti di altre scuole, universitari, ex-alunni e dozzine e dozzine di ragazzi all’ultimo anno delle medie indecisi circa l’istituto da frequentare dopo gli esami finali, per lo più ragazzi. C’erano unità per almeno otto squadre e un sacco di confusione.
Tooru sarebbe arrivato in tempo per la pausa pranzo, perciò Megumi aveva tempo per almeno una partita e – se avessero vinto – anche per due. Non era così ottimista da vedersi in finale, ma in quel momento la preoccupava più del dovuto il fatto che lui la trovasse tutta sfatta e sudata. Le urtava i nervi che non si fosse mai posta prima quel problema: l’aveva vista in condizioni ben peggiori e l’aveva già vista tutta sudata e sfatta il primo giorno che si erano incontrati ma a lei non era importato proprio niente. Odiava quel sentimento irrequieto nello stomaco: le faceva sembrare tutto complicato e incerto, così complicato e incerto che si ricordò di non aver infilato le ginocchiere soltanto dopo essersi allacciata le scarpe.
Arisu nascose un risolino dietro la mano minuta.
«Volevo dirtelo, ma era troppo divertente: eri nel mondo dei sogni.» spiegò «Si può sapere perché sei così tesa? È solo un gioco per il festival.»
La ragazza valutò l’opzione di mentirle e di raccontarle che sperava di non scontrarsi mai contro Wakatoshi, ma si accorse da sola che era una scusa che avrebbe fatto acqua da tutte le parti. In tutta franchezza, non vedeva mai l’ora di scontrarsi con Wakatoshi e non aveva alcuna intenzione di perdere contro di lui nemmeno una partitella stupida organizzata da Tendou con otto squadre di fortuna. Era anche piuttosto risentita con lui per essere stato così brusco nel mostrarle quali fossero i suoi veri sentimenti e per averla messa nei guai con Kenjiro: non ci aveva dormito la notte. Perciò scelse la verità: Arisu non era Mikoto né Kaori ed era sempre tanto cara e comprensiva con lei.
«Tooru sarà qui all’ora di pranzo.» ammise, pronunciando le parole troppo velocemente.
Arisu sollevò un sopracciglio, fu costretta a riflettere qualche istante prima di capire a chi si riferisse, poi restò con la bocca mezz’aperta, il viso improvvisamente cinereo.
«Risu, ti senti bene?»
«Oikawa verrà qui? Alla fine hai deciso di lasciarlo venire?»
«Non sono riuscita a dissuaderlo. Sicura di non aver mangiato nulla di strano a colazione?»
«Quindi… voi due… è successo qualcosa?»
Ancora una volta le venne in mente l’abbraccio alla fermata dell’autobus e sentì di nuovo le guance e le orecchie scottare. Arisu non mancò di notare la sua reazione e tirò le labbra in un sorriso così teso da tremare. Aveva gli occhi lucidi e Megumi fu colta da una realizzazione spiazzante: a Risu piaceva Oikawa. Doveva essere quella la ragione per cui quella sera del luna park era così nervosa e le aveva fatto tutte quelle domande su come si fosse comportato con lei. Non doveva meravigliarsi: aveva ammesso perfino lei che Tooru fosse un bel ragazzo ed era opinione comune fra un sacco di ragazze oltre loro due, ma questo complicava ancor più la situazione. Proprio quando la ragazza cominciava ad accettare cautamente l’idea di poter essersi innamorata di lui, si accorgeva che una loro eventuale relazione avrebbe ferito Arisu.
Non voleva perdere Tooru e non voleva perdere Risu, Megumi aveva già fatto soffrire l’amica a sufficienza in passato e si sentiva perfida a portarle via anche la sua cotta dopo la fiducia delle sue amiche.
Il suo cellulare trillò senza pietà e sullo schermo apparve il nome di Tooru: nel messaggio c’era un selfie di lui davanti allo specchio, vestito di tutto punto per camuffarsi fra gli studenti dell’accademia. In realtà era così carino con gli occhiali da sole che avrebbe comunque attirato l’attenzione delle ragazze e forse perfino degli scout di qualsiasi agenzia di idol esistesse in Giappone e fuori. Sorrise ma poi si ricordò che Risu la stava guardando e si ricompose.
«È lui?» le domandò malinconica «Si vede, cambi espressione quando è lui. Be’, sono contenta che tu sia felice.»
«Risu, c’è qualcosa di cui vuoi parlarmi? Non devi vergognarti di me, io capirò.»
L’amica arrossì e strinse gli occhi e le labbra. Si asciugò rapidamente una lacrima per impedire a Megumi di accorgersene, ma fu inutile.
«Non c’è niente da dire, Megumi-chan. Siete una bella coppia.» disse piano, voltandole le spalle così che non potesse più guardarla in faccia.
«Non siamo una coppia!» si affrettò a puntualizzare Megumi.
«Non ancora.» ribatté l’altra «Ora scusami, mi sono ricordata di aver lasciato un… una…una cosa in camera.»
«Risu-chan, aspetta! Iniziamo tra poco!» protestò, ma Arisu era già scomparsa fra la folla e lei aveva di nuovo le scarpe slacciate e le ginocchiere ancora in mano.
Un ulteriore riepilogo degli scontri previsti per la giornata: Kenjiro contro di lei quando avesse scoperto del bacio, lei contro Wakatoshi sempre per colpa del bacio, Arisu contro di lei perché le aveva di nuovo soffiato qualcosa a cui teneva, Tooru contro Wakatoshi e l’intera scuola non appena avesse varcato la soglia del cancello. Era un tutti contro tutti senza pietà, altro che un torneo scherzoso per il festival!
Ma poi – si chiese arrabbiata – perché Risu non le aveva mai detto della sua cotta per Tooru? Se glielo avesse detto prima non si sarebbe concessa di affezionarsi tanto e avrebbe ammazzato subito quelle dannate farfalle nello stomaco prima che nascessero! Era così turbata da quel groviglio di problemi che, quando mise piede fuori dallo spogliatoio, inciampò in un povero ospite iscritto al torneo e rovinarono entrambi a terra, l’una sull’altro.
Terrificata dall’essere piombata addosso ad uno sconosciuto, Megumi si rimise in piedi all’istante e si perse in mille e mille scuse: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era aggiungere un’ulteriore conflitto alla sua già nutrita lista. Il malcapitato ragazzo, tutto rosso in viso sotto il bizzarro taglio a scodella in cui portava i capelli neri, si profuse in un altrettanto lunga litania di scuse. Era qualche centimetro più alto di lei e portava la sua stessa casacca rossa, perciò doveva essere stato inserito nella sua stessa squadra. Non sapendo come fermarlo, gli sorrise tesa e lui si fece dello stesso colore acceso della pettorina.
«Sembra che siamo nella stessa squadra.» gli disse per allentare la tensione «Sei di un altro liceo?»
«No io…» balbettò lo sconosciuto «Io mi diplomo alle medie quest’anno.»
«Uno studente delle medie?» ripeté Megumi sbigottita «Ma se sei più alto di me!»
Il ragazzo sorrise, chiaramente lusingato dall’osservazione.
«Anche tu sei alta, per essere una ragazza!»
«A mia discolpa, sono al primo anno: crescerò ancora, o almeno lo spero. Pensi di venire qui il prossimo anno?»
«Sono qui per farmi notare e ottenere una raccomandazione dall’Accademia.»
«E lo dici così? Se aspiri all’invito devi essere molto bravo, anche io ne ho avuto uno lo scorso anno! Sono impaziente di vederti in azione, come ti chiami?»
«Goshiki!» balbettò il ragazzo.
«È il tuo nome o il tuo cognome?»
«Il cognome, mi chiamo Tsutomu. Sono una banda, non te l’ho detto.»
«Io mi chiamo Megumi ma non so ancora bene cosa sono: fino a qualche mese fa ero una banda come te ma da qualche tempo sono la parodia di un’opposta.»
«Non puoi essere così male, hai detto di aver ricevuto l’invito!»
«Una vita fa e comunque non abbiamo la pretesa di essere al livello del club maschile.» confessò Megumi «A proposito, sei molto fortunato: il palleggiatore della nostra squadra è un membro titolare, è davvero molto in gamba. Sono certa che ti passerà dei bei palloni, vedrai! Alla fine della giornata di oggi, tornerai a casa con una bella raccomandazione.»
«A dirti la verità» spiegò «la maggior parte di noi oggi è qui per il mio stesso motivo. C’è una concorrenza spietata, il club maschile è molto popolare.»
Una folla di studenti delle medie in disperata attesa di una raccomandazione per l’iscrizione, la stessa che Tooru aveva rifiutato con così tanta nonchalance? Perfetto, quale migliore scenario per un appuntamento che non avrebbero mai dovuto avere?
«E tu perché vorresti fare parte proprio del club della nostra scuola?»
Gli occhi del ragazzo scintillarono d’eccitazione.
«Perché io supererò Ushijima!» annunciò confidente.
Quinto conflitto della giornata: Tsutomu, lo studente delle medie, contro Wakatoshi, il quale ignorava completamente la sua esistenza sulla faccia della terra. Avrebbe voluto dirgli, tanto per mettere i puntini sulle i, che Waka-nii era insuperabile ma le dispiacque troppo rovinare il morale del più giovane. Gli diede appuntamento a poco dopo, il tempo – gli disse – di recuperare il loro libero.
Il ragazzo, come scoprì nel corso della partita, sapeva davvero il fatto suo. La loro squadra era composta anche da una ex-studentessa e altri due ragazzi all’ultimo anno delle medie, ma Tsutomu spiccò più di chiunque altro, stampando nei tre metri delle parallele assurde. Per fortuna erano stati appaiati contro due squadre senza troppe ambizioni e vinsero due partite di seguito senza tirarla troppo per le lunghe: incredibilmente erano in finale. A fine partita, Arisu sfuggì ad ogni suo tentativo di prenderla da parte per parlare. Kenjiro, invece, era su di morale, anche se battibeccava un po’ con Tsutomu, troppo energico e vispo per i suoi ritmi nonostante gli ottimi risultati ottenuti in campo. Megumi non riusciva a guardarlo senza ricordarsi del bacio di Wakatoshi e provare una fitta di rimorso: certo, nessuno le impediva di mantenere il segreto, ma si sentiva una traditrice. Si sfilò la casacca, indossò nuovamente la felpa nera e viola del club femminile e si avviò in direzione dell’uscita della palestra B; il prossimo turno sarebbe stato nel pomeriggio e aveva tutto il tempo di andare ad accogliere Tooru al cancello prima che subisse il linciaggio. Non sapeva come comportarsi con lui: da una parte non vedeva l’ora di abbracciarlo nuovamente, dall’altra si sentiva in colpa nei confronti di Risu.
Mentre attraversava la calca di spettatori ammassati sulle pareti della palestra, qualcuno la prese per un braccio e la tirò a sé con una gentilezza tale da farle riconoscere il tocco dei suoi polpastrelli sulla pelle prima ancora di guardarlo in viso.
«Bella quella diagonale proprio sulla linea di fondo campo! Ho ancora la pelle d’oca, vuoi vedere?»
Megumi rise e per un attimo la matassa di pensieri ingarbugliati svanì nel sorriso di Tooru. La diagonale di cui parlava l’aveva schiacciata durante il primo set dell’ultimo incontro, perciò doveva essere arrivato molto prima di quanto le aveva preannunciato.
«Dimmi che non ti è riuscita per caso e dovrai raccogliermi da terra col cucchiaino.»
«Ti sorprenderà ma era tutto calcolato.» confermò compiaciuta.
«È stato… posso dirlo, non ti offendi? È stato erotico
«Sei sempre il solito maiale… non ti andrebbe di parlarne fuori di qui? Vorrei offrirti il pranzo.»
Lui le sorrise e le prese la mano, un gesto coraggioso che diventava ogni giorno sempre più automatico.
«Guidami.» le sussurrò nell’orecchio e questa volta la pelle d’oca venne a lei.
Oltrepassarono il cortile d’ingresso gremito dalla folla e si diressero chiacchierando verso l’ingresso principale dell’edificio scolastico, per quel giorno agghindato a festa e stracolmo di persone. A Megumi faceva uno strano effetto vedere quei corridoi così vivaci e allegri: durante i giorni di lezione regnava sempre sovrano l’ordine. Qualche studente doveva aver reclamato il possesso della sala mixer, perché in filodiffusione passava della musica molto più aggiornata del solito.
Tooru si guardava intorno curioso: non credeva – ammise – che l’Accademia fosse davvero così grande come raccontavano, né che avessero ben tre palestre coperte e un vero teatro. Era tutto così nuovo e ben tenuto che il denaro richiesto come tassa d’iscrizione assumeva un senso ben preciso. Le aule, in quel momento occupate dalle più disparate iniziative creative dei propri studenti, erano ampie e luminose, in ognuna le tradizionali lavagne a gesso erano affiancate da più nuovi proiettori, con uno di questi il club di cinema stava proiettando un film in lingua straniera.
Qualcuno salutava Megumi frettolosamente, qualcun altro la guardava con diffidenza o ridacchiava alle sue spalle, altri ancora riconobbero lui e presero a parlottare indignati. Mentre sia accingevano ad acquistare dei panini fumanti presso il chioschetto allestito da una terza, una figura familiare comparve per servirli e Megumi arrossì di colpo.
«Sakurai! È da tanto tempo che non t’incontravo, perché non passi mai a salutare le tue senpai
«Inoue-san? Non sapevo che questa fosse la tua classe!»
L’ex-capitana del club di pallavolo femminile aggrottò le sopracciglia.
«Questo è perché non parlavi mai con nessuna di noi, avrei voluto conoscerti molto di più prima di lasciare la squadra. Ormai noi del terzo anno eravamo andate via, ma ho pensato che se mi avessi parlato di quella certa questione… be’ io avrei capito, Sakurai. Vorrei scusarmi per non essermene accorta.»
Megumi strinse più forte la mano di Tooru.
«Non sono arrabbiata con voi, è stata una mia scelta non confidarmi e me ne rammarico: eri un’ottima capitana. Non fraintendermi, Yoshida è brava ma il polso fermo che avevi tu non ce l’ha nessuno.»
La più grande rise mentre tirava fuori i loro panini dalla piastra e li avvolgeva nei tovaglioli colorati; le porse il primo.
«Sai, il brutto dell’essere capitano è doversi spesso trattenere per dare il buon esempio. Ricordi quella volta a giugno quando hai attaccato briga con i ragazzi del liceo Seijoh? Allora ero terrorizzata all’idea che venissi sospesa o espulsa e ti ho rimproverata duramente, però adesso che sono fuori dal giro posso dirtelo: è stato memorabile, l’esperienza più epica che io abbia mai vissuto in tre anni. Arrivo lì e scopro che ce ne vogliono tre per tenerti ferma e che Oikawa è a terra con la faccia gonfia, che smacco gli hai dato! Si dà sempre così tante arie! Quando ci penso mi viene ancora da ridere! L’hai più rivisto? Spero di no, al posto suo metterei la faccia sottoterra.»
Megumi avrebbe voluto un razzo personale per volare su Marte e trascorrevi il resto della sua sfortunata esistenza in eremitica solitudine, vergogna e pentimento. Tooru, al suo fianco, tossicchiò nervoso.
«A dire la verità io sarei qui, ma continua pure Inoue-san.» osservò sarcastico.
Solo allora l’ex-capitana si soffermò sull’accompagnatore di Megumi e, sbigottita, si coprì con una mano la bocca semiaperta. Guardò la ragazza e poi lui e dopo di nuovo lei e poi ancora lui, ripetendo sommessamente «Oh mio Dio».
Megumi si fece rosso fuoco.
«Voi due state insieme adesso?» esclamò indicando le loro mani intrecciate. Un paio di ragazze si voltarono a guardare.
All’istante i due sciolsero la presa ed infilarono le mani in tasca.
«No!» si affrettò a rispondere Megumi «Inoue-san, non è come sembra!»
«Infatti» precisò ironico Tooru «Gumi-chan mi teneva la mano soltanto perché teme che io possa perdermi in questo castello.»
«Tooru!»
«Sei troppo carina quando ti imbarazzi. Che c’è?» continuò cogliendo il suo cipiglio minaccioso «Cercavo di sdrammatizzare!»
«Quindi state insieme sì o no?»
Megumi nascose il viso dietro le mani, perciò toccò a lui rispondere.
«Diciamo che ci frequentiamo ma non stiamo insieme. Va bene così, Gumi-chan
La ragazza sbirciò fra le dita per scoprire Inoue che annuiva impressionata.
«Quindi per trovarmi un ragazzo devo picchiarlo? Buono a sapersi!» commentò porgendo a Tooru il secondo panino, poi proseguì: «Sakurai, sei una vera scoperta!»
Per le ore successive, Megumi navigò nel panico più ineluttabile: mezza scuola l’aveva vista con Tooru, Inoue l’aveva offeso e credeva che fossero una coppia, il tempo che Arisu lo sapesse e si sarebbe scatenata la rivoluzione. Con quale coraggio sarebbe tornata in palestra per giocare l’ultimo turno? Per fortuna erano riusciti a trovare un posticino tranquillo e soleggiato alle spalle del dormitorio e si erano rifugiati lì per pranzare. Si scusò per come erano andate le cose, affermò che sarebbe dovuta essere più accorta nel scegliere il tragitto da percorrere.
«Cosa c’è di cui scusarti? È stato divertente! La faccia di Inoue quando ha capito che ero proprio io era impagabile.»
«Adesso crederanno tutti che stiamo per metterci insieme.» si lamentò Megumi prima di dare un ultimo morso sgraziato al panino.
«È questo il bello delle credenze: forse è vero, forse no. Ti preoccupi che lo sappia Ushiwaka? Puoi sempre chiarire con lui che sei ancora single e disponibile.»
Megumi smise di masticare e mandò faticosamente giù il boccone: non poteva riferirgli la conversazione avuta con Wakatoshi, né le deduzioni che ne erano seguite e soprattutto non poteva menzionargli quel bacio senza spezzargli il cuore. Inconsciamente si soffermò con gli occhi sulle sue labbra: quanto avrebbe voluto provare solo una volta a baciare lui e scoprire quali sensazioni avrebbe suscitato!
«Ho qualcosa in faccia?» le domandò lui strofinandosi il mento con il dorso della mano.
«No, è soltanto che stavo pensando che…» doveva trovare in fretta una scusa «… mi spiace averti aggredito quella volta. Ti eri confuso e io potevo anche lasciar perdere.»
Lui rise.
«Se sapessi perché avevo la testa fra le nuvole! Ero molto sconvolto dal tuo rifiuto, l’ho presa molto male, lo confesso. Però, se permetti, è stata una bellissima visione, ne è valsa la pena.»
«Sei stato crudele, il giorno dopo i tuoi amici ridevano ancora tutti delle mie mutande!»
Tooru arrossì.
«No, ridevano di me, ma non ti racconterò per quale motivo… mi vergogno di me stesso.»
«Tooru Oikawa si vergogna? Non ci posso credere.»
«Diciamo che non era stata una delle mie notti migliori.»
«Ora ricordo che avevi delle occhiaie scurissime e un pessimo colorito…»
«Possiamo parlare di altro?» tossì imbarazzato «Vorrei conservare un minimo di dignità ai tuoi occhi.»
«Dai, cosa mai potrà essere di così grave?» insistette approfittando per farsi più vicina al suo viso, lui deglutì nervosamente, la punta delle orecchie in fiamme.
Era troppo audace? Se ne sarebbe pentita dieci minuti dopo? Forse sì, ma aveva bisogno di chiarire la natura dei suoi sentimenti al più presto ed era decisa ad utilizzare la stessa moneta che Wakatoshi aveva usato con lei per comparare le esperienze. Sapeva che Tooru aveva un debole per le pubbliche manifestazioni d’affetto: prima ancora che le si presentasse lo aveva visto diverse volte sbaciucchiarsi con qualche ragazza senza alcun ritegno e, nemmeno un paio di mesi prima, aveva affermato con leggerezza che avrebbe voluto baciare anche lei. Nonostante questo, il ragazzo si ritrasse impercettibilmente. Megumi riusciva a sentirne il respiro caldo nell’aria frizzante di novembre, il suo cuore batteva così tanto che il petto sarebbe potuto esploderle.
Andiamo – si disse speranzosa – fai quello che hai sempre voluto fare, Tooru. Solo una volta.
«Gumi-chan» mormorò lui con voce tremante «Sei troppo vicina.»
«Ah, ecco dov’eravate.»

Quello era il giorno in cui Tooru Oikawa, distinto palleggiatore del club maschile di pallavolo del liceo Aoba Johsai, aveva deciso di morire. In realtà non l’aveva scelto lui ma Wakatoshi Ushijima, sorto alle spalle di Megumi come l’arcangelo protettore della sua purezza, proprio quando lui stava per cedere alla tentazione di baciarla e rovinare tutto quello che aveva faticosamente costruito con lei. Non sapeva con esattezza perché Megumi, che pure era sempre stata tanto restia a farglisi vicina, si fosse sbilanciata così tanto: probabilmente – considerò – non se n’era nemmeno accorta, presa com’era dalla volontà di scoprire cosa fosse accaduto la notte dopo il loro primo incontro. Ad ogni modo lui non gliene avrebbe mai parlato, visto che non era stata neanche lontanamente l’ultima volta in cui si era addormentato solo dopo aver pensato a lei. Perciò il fatto che lei stesse lì di fronte a lui e che gli fosse quasi addosso, proprio dopo avergli ricordato le notti solitarie in camera sua, metteva a dura prova tutte le resistenze opposte dalla sua ragione.
L’angelo della morte Ushijima, dunque, fu il deus ex machina che gli impedì di ricordare a Megumi i baci che Hattori le aveva strappato insieme a chissà quale altra malata pretesa. Tooru non voleva spaventarla: non avrebbe tollerato vederla tremare o piangere, amava troppo quella ragazza così dura e fragile insieme, pronta a spezzarsi come il cristallo più freddo e pregiato, e non avrebbe voluto mai e in alcun modo essere causa della sua sofferenza.
Poteva dunque morire con la coscienza pulita: Ushijima lo avrebbe ammazzato per essersi avvicinato troppo alla sua amica, ma lui avrebbe saputo in cuor suo di non aver sbagliato nulla.
Megumi trasalì e si voltò subito verso di lui.
«Shirabu ti sta cercando, tocca a voi.» annunciò l’amico senza però staccare di dosso gli occhi da Tooru, che fu percorso da un brivido freddo.
«Avete già finito?»
«Vinte entrambe.»
«Con Kurihara al palleggio?» commentò Megumi «Pensavo che lei avrebbe controbilanciato te e Tendou.»
«Ha fatto un lavoro discreto: quel che conta è che a me arrivasse un passaggio decente. Per la cronaca, un paio di doppie sono sfuggite all’arbitro.»
«Certo, e tu hai sparato senza pietà.»
Megumi ribatteva all’amico con una certa punta di freddezza che il ragazzo non aveva mai osservato prima: forse c’era stato un diverbio o qualche fraintendimento, ad ogni modo Ushijima fece spallucce e Tooru non riuscì a trattenersi, nonostante fosse consapevole di trovarsi già con un piede nella fossa.
«Che tristezza: quel che conta è che mi arrivi la palla. A qualcun altro è arrivata, tanto per cambiare, o bastava che attaccassi solo tu?»
L’altro aggrottò le sopracciglia ma, incredibilmente, non raccolse la provocazione.
«Non sono qui per litigare» tagliò corto «ma per riportare Megumi in palestra per la finale del torneo. Puoi seguirci o andartene, fai quel che vuoi.»
Tooru detestava la flemma spiazzante di Ushijima: la maniera indolente in cui si rivolgeva a chiunque e la schiettezza con cui apriva la bocca senza nemmeno pensare erano insopportabili. Si domandava ogni giorno come Megumi, di natura vivace e permalosa, potesse esserne attratta così tanto. Magari – rifletteva – poteva trattarsi di una pura questione fisica: il capitano della Shiratorizawa era robusto e diversi centimetri più alto di lui, e sapeva che alcune ragazze trovassero apprezzabili i suoi lineamenti. Chissà quale di quelle cose piaceva a Megumi e chissà se sarebbe mai riuscito ad eguagliarle.
Lei gli tendeva la mano, le guance ancora imporporate. Lui la prese e si rialzò, scoccando al rivale uno sguardo in cagnesco.
«Ovvio che vengo!» ringhiò nervoso «Sono qui per Gumi-chan
«Nessuno si aspetta altro da te.»
Avrebbe voluto saltargli addosso e picchiarlo di santa ragione per il tono irrispettoso con il quale continuava a rivolgerglisi, era così furioso che sentiva i pugni tremargli e la rabbia fluirgli fino alla punta delle dita. Scattò, ma Megumi gli si parò davanti e gli strinse i polsi con fermezza, aveva dimenticato quanto fosse forte.
«Ti prego» lo supplicò amareggiata «fallo per me.» poi si rivolse a Ushijima, l’espressione improvvisamente indurita «E anche tu, ne avevamo parlato!»
«Non ho fatto niente.»
«Ed invece hai fatto anche abbastanza. Vai, noi ti raggiungiamo fra poco.»
Tooru e Megumi lo guardarono sparire oltre l’angolo del dormitorio e, solo quando l’ebbe giudicato abbastanza lontano, la ragazza gli liberò i polsi. Una ruga di disappunto le era comparsa sulla fronte e stringeva i denti per il nervoso: fra quei due doveva essere certamente successo qualcosa, ma Megumi sembrava così furente che non ebbe il coraggio di chiederglielo. A dire la verità, gli ricordava la Sakurai che aveva conosciuto all’inizio: una miccia accesa pronta ad esplodere da un momento all’altro.
«Contro chi giochi adesso?» le domandò allora, per alleggerire l’atmosfera.
«Contro di lui, è la finale.»
Si accorse di non sapere cosa dirle. Aveva inconsciamente pensato: «Che sfortuna!», ma sentirsi dire una cosa del genere avrebbe fatto infuriare prima di tutto sé stesso. E poi, Megumi ardeva di violenta determinazione, era una visione completamente inedita di lei e lo intrigava così tanto da sentirsi eccitato. Forse Iwaizumi e gli altri avevano ragione: doveva essere malato o qualcosa del genere.
Si confuse fra gli spettatori dopo averle augurato buona fortuna. Nonostante fosse irritata, Megumi strinse le labbra in un sorriso tutto per lui. Se pensava che solo pochi minuti prima era stato ad un passo dal baciarle, gli veniva voglia di prendersi a schiaffi da solo. La guardò conversare con il ragazzo dai capelli neri in squadra con lei, quello che durante le partite precedenti aveva eseguito delle parallele impeccabili; trovava che fosse un po’ troppo su di morale e che le stesse troppo appiccicato, ma non poteva intervenire in alcun modo. Il palleggiatore della squadra di Megumi, lo stesso che era in campo durante gli interscolastici per il club maschile della Shiratorizawa, lo intercettò con lo sguardo fra la folla e si fissarono perplessi per qualche secondo, prima che il ragazzo decidesse di separare Megumi dal suo insistente ammiratore, lasciando Tooru ancora più dubbioso di prima.
Dall’altra parte della rete, Mikoto Ikeda tramava la distruzione del mondo parlando fitto fitto con Satori Tendou: forse avrebbe dovuto scattare una foto ed inviarla ai ragazzi. Se l’inferno avesse dei rappresentanti in terra – avrebbe sentenziato Mattsun serioso – sarebbero di certo quei due accoppiati. Ebbe un fremito quando entrambi si voltarono a guardarlo e presero a ridacchiare ambiguamente. Ushijima, dietro di loro, attendeva pazientemente il fischio d’inizio, sorvegliando Megumi con un’espressione indecifrabile sul viso. La palleggiatrice, Kurihara, sembrava più concentrata di quanto lo fosse l’unico giorno in cui l’aveva vista giocare. C’era poi un’altra ragazza del club femminile, coi capelli biondi e voluminosi, e una coppia di studenti delle medie in cerca di gloria.
La partita era appena iniziata quando si sentì picchiettare sulla spalla.
Kaori gli sorrideva cordiale, accompagnata da un ragazzo piuttosto alto che era certo facesse parte del sestetto titolare del club maschile, perché il suo viso non gli era affatto nuovo. Fu sollevato d’incontrare qualcuno che conoscesse e che non volesse la sua testa su un piatto d’argento.
«C’ero quando hai giocato durante lo scorso turno» le disse dopo aver ricambiato il saluto «E così sei una collega? Non lo sapevo.»
Kaori arrossì. «Ma quale collega!» ribatté ridendo tesa «Sono solo un’alzatrice apprendista!»
In campo, Megumi sbottava perché Tendou le aveva appena murato una diagonale: poteva capire la sensazione, ai suoi schiacciatori accadeva sempre quando si scontravano contro la Shiratorizawa. La ragazza restituì uno sguardo in cagnesco al centrale e lui gli rispose sollevando le mani fingendo resa.
«Non è vero, invece non sei per niente male come palleggiatrice.»
«Se lo dice anche Oikawa forse ci crederai, Nonaka.» intervenne il ragazzo che era con lei.
«Kawanishi-kun, Oikawa è solo educato.»
«No, dico sul serio! Sicuramente meglio di quella lì» spiegò Tooru accennando col capo a Kurihara «che fa tutto abbastanza meccanicamente. Capisco perché Megumi abbia tanto da ridire su di lei.»
«Macché, qui c’è davvero tanta gente molto più in gamba di me. Poco fa ha giocato contro la squadra di Mikoto un palleggiatore bravissimo, forse esigente, ma davvero mostruoso! Ed era un ragazzino delle medie, avresti dovuto vederlo! Un po’ m’innervosiva perché aveva la pretesa di controllare tutto il gioco, credo abbiano perso proprio per questo. Kawanishi-kun, tu eri nella sua squadra, com’è che si chiamava?»
«Kageyama, credo. Era qui per la raccomandazione, ma non credo abbia fatto tutta questa bella figura» spiegò il ragazzo frustrato, che adesso riconosceva come uno dei centrali della Shiratorizawa «giocava in un modo tutto suo.»
Arisu recuperò un servizio di Ushijima e il palleggiatore alzò per Megumi, che segnò un punto eccellente per recuperare il muro di qualche minuto prima.
«Kageyama non ha fatto una bella figura?» ripetè Tooru gongolando nemmeno troppo segretamente. Si guardò intorno, ma dello studente più giovane non c’era più alcuna traccia: ne dedusse che aveva abbandonato il campo di battaglia con la coda fra le gambe subito dopo essersi umiliato pubblicamente. Avrebbe voluto rigirare il dito nella piaga, ma a quanto pareva il ragazzo si era fatto più intelligente di prima.
Certo – si ricordò – aveva ben altro su cui indagare: la misteriosa tensione, a quanto pare unilaterale, fra Megumi e Ushiwaka lo intrigava non poco ed era deciso a scoprire di più: avrebbe potuto chiedere a Nonaka, che era sempre così aggiornata e prodiga di informazioni, ma non gli sembrava una mossa troppo prudente quella di essere diretto.
Di fatto, Megumi stava provocando l’amico. Lo faceva di proposito e giocava assecondando una fissazione personale che lui non aveva colto e che non ricambiava, o che almeno non aveva ricambiato fino a quel muro.
«Non ci posso credere, l’ha murato davvero?» commentò Kawanishi a bocca aperta.
«Come si trattiene un tiro del genere senza farsi spezzare le braccia o rompersi un dito?» domandò Nonaka sbigottita.
«Si può fare» spiegò Tooru sorpreso «Megumi conosce bene il gioco di Kurihara e suppongo che conosce quello di Ushiwaka ancora meglio: poco fa ha perfino ricevuto un suo servizio e difeso alcuni suoi attacchi senza scomporsi. Non è saltata a vuoto ed era pronta all’impatto: sapeva esattamente dove avrebbe colpito, quando avrebbe colpito e con che intensità lo avrebbe fatto: non ha lasciato al caso nemmeno uno virgola, è… terrificante. Lo fa spesso?»
Nonaka scosse il capo, più impressionata di prima.
«Era da un po’ che non la vedevo così aggressiva. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, mi mette i brividi.»
Con uno schianto che quasi fece vibrare i muri dell’edificio, la diagonale strettissima di Megumi piombò al confine fra la prima linea e quella laterale. Tooru era certo che all’inizio avesse intenzione di schiacciare una parallela, ma che il muro di Tendou l’avesse infastidita al punto di farle cambiare idea all’ultimo. Era impressionante quanto rapidamente riuscisse a riorganizzare i piani e adattarsi così bene. Il ragazzo coi capelli neri era in visibilio e Tooru non avrebbe potuto biasimarlo se se la fosse fatta sotto per l’emozione.
Così tronfia e fiera, Megumi riservava a Ushijima, che la rotazione aveva portato proprio di fronte a lei, uno sguardo di aperta sfida.
«Sembra perfino più furiosa di prima» osservò Nonaka aggiustandosi il caschetto biondo «è da ieri sera a cena che si comporta così. Sono usciti dalla sala mensa per dieci minuti e, quando sono rientrati, c’era qualcosa di diverso.»
«E di cosa stavano parlando prima di uscire, Kaori-chan?»
La biondina strinse le labbra, conscia di essere custode involontaria di quello che aveva tutta l’aria di essere un segreto. Kawanishi le diede una leggera spallata, mentre i giocatori cambiavano il campo e Megumi e Ushijima si sfidavano lanciandosi sguardi in cagnesco.
«Sono bravo a tenere i segreti.» le assicurò premuroso.
La ragazza inspirò profondamente, combattuta. Guardò Tooru e poi Kawanishi, che scosse il capo. Nonaka non era una spiona, ma solo una di quelle straordinarie persone che si facevano spontaneamente carico di risolvere i problemi degli altri.
«Parlavano di te.»


NOTE FINALI

 

Io che aggiorno dopo un mese esatto, come sarebbe dovuto essere all'inizio? Questo 2021 vorrebbe proprio aprirsi alla fantascienza! Mi chiedo se riuscirò a mantenere questo ritmo anche per il prossimo mese!

In questo capitolo ne succedono così tante che riassumerlo mi viene difficile, perciò fatemi sapere cosa ne pensate! Vi aspettavate qualcosa di ciò che è accaduto?
Ritornano anche alcune facce vecchie e nuove! Quello di Goshiki, come potete immaginare, non è un cameo eccezionale ma tornerà come studente a pieno titolo fra qualche capitolo.

Come al solito, se mi leggete vi invito a lasciarmi una piccola recensione. Confesso che controllo EFP ogni giorno, come quando aspettavo che caricassero i voti degli esami sul portale dell'università, ma ci resto sempre un po' male.

Vi voglio bene, spero a presto! 

Lyra

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16: Anche le brave ragazze vanno all'inferno ***


Capitolo 16

Anche le brave ragazze vanno all'inferno

La prima neve di quell’inverno cadde durante la prima metà di dicembre. Fiocchi leggeri e minuti danzarono indisturbati fuori dalle finestre dei dormitori dell’Accademia Shiratorizawa, finché l’urlo di giubilo di Satori Tendou non squarciò il sereno silenzio della sala comune in cui erano riuniti gli studenti e le studentesse del secondo anno. Decine e decine di ragazzi abbandonarono le poltrone accanto ai riscaldamenti e altrettanti balzarono in piedi in tutta fretta dai grandi tavoli affollati di libri e cancelleria per accalcarsi animosamente contro le finestre, come se non avessero mai visto in vita loro la neve nel cortile del dormitorio.
Wakatoshi restò al suo posto, il volume che avrebbe dovuto leggere per il progetto di giapponese ancora in mano. Guardò la folla di compagni spingersi sui vetri e si chiese cosa potesse esserci di tanto diverso da quel che avevano visto l’inverno precedente: i pini carichi di neve, la cupola della biblioteca avvolta da una spessa coltre, la fontana all’ingresso come un pugno nell’occhio nel bianco del parchetto, il campetto all’aperto invisibile sotto il manto nevoso. Niente di tutte quelle cose era una novità: le rammentava tutte perfettamente come se i mesi tra febbraio e dicembre non fossero mai trascorsi.
Chiuse un segnalibro fra le pagine del saggio e si arrese all’ozio: non aveva più alcuna voglia di studiare, quel libro era incomprensibile e c’era troppo chiasso nella stanza. Considerò di raccogliere i propri effetti personali e andarsene a letto, per godersi il calduccio del piumone pensando ai diversi gradi sotto zero che regnavano oltre le mura del dormitorio, poi si ricordò che l’anno precedente Megumi era rimasta diversi giorni a Minamisaka a causa della neve che aveva invaso le strade extraurbane e gli venne in mente che, in effetti, lei quella vista se l’era persa. Allora si alzò, ritenendo carino avvertirla, sempre che la notizia non avesse già raggiunto la sala comune del primo anno.
Dopo la cocente sconfitta al torneo del festival scolastico, appena tre settimane prima, Megumi non gli aveva rivolto che monosillabi impercettibili per cinque lunghissimi giorni, e lo stesso aveva fatto con Tendou e con la sua amica Ikeda. Aveva ragione a prendersela: agiocato così bene che lo stesso Wakatoshi aveva faticato a farle fronte e aveva perfino fatto fesso Satori un buon numero di volte. Non aveva capito cosa di quel che aveva fatto l’avesse infastidita tanto, ma quella sfida all’ultimo sangue era stata così stimolante che gli era venuta voglia di fare ancora meglio del solito, il che – visto l’imminente appressarsi dei campionati primaverili a Tokyo – non era affatto male.
Quel che contava era che l’amica d’infanzia era tornata normale, o forse anche meglio che normale: meno appiccicosa e più concentrata, trascorreva più tempo con le sue nuove amiche e non era più molesta quando si trovava con lui. A quanto pareva, riusciva negli allenamenti molto meglio di prima e il suo debutto ufficiale come opposta, durante un’amichevole contro l’istituto Kobayashi, era stato un meritatissimo successo. Del resto, non sapeva molto: la questione Oikawa rimaneva un mistero di cui Megumi non intendeva più metterlo a parte e le uniche informazioni razionate che riceveva erano una gentile concessione di Shirabu, che gli aveva lasciato capire che i due continuassero a frequentarsi con una certa costanza. Wakatoshi aveva incrociato di persona il rivale all’amichevole di Megumi, accompagnato da un paio di amici, e quello aveva subito voltato il capo dall’altro lato per fingere di non averlo notato.
S’incamminò attraverso il corridoio, lasciandosi alle spalle il cicaleccio della sala comune del secondo anno, e sbirciò oltre la soglia di quella del primo, che aveva imparato a conoscere bene nel corso dell’anno precedente.
I ragazzi non si erano fatti distrarre dal chiasso degli studenti più grandi: le spesse tende porpora erano ancora tutte tirate e loro erano impegnati in attività diverse: alcuni, seduti vicini al tavolo, confrontavano gli appunti presi durante le lezioni mattutine, un paio di nuovi membri del club di teatro mostravano alle loro amiche gli abiti di scena che avrebbero indossato durante il saggio natalizio, seduti in cerchio sul tappeto, tre o quattro ragazzi occhieggiavano in loro direzione con aria sognante, i compiti per il giorno dopo dimenticati come la dignità.
Megumi era seduta con Nonaka e Kawanishi sulle poltroncine in fondo alla stanza, fra le finestre serrate e la libreria, Scoiattolo si era adagiata sul bracciolo della sua poltrona, con la testa appoggiata alla sua e guardava assonnata lo schermo del cellulare. Gli altri tre chiacchieravano tranquilli del film trasmesso in televisione. Kawanishi si accorse di lui e lo salutò con una mano.
«Waka-nii, sei venuto a trovarmi?» lo accolse Megumi sorpresa.
Lui si sporse oltre la sua poltrone e scostò la tenda dalla finestra più vicina.
«Avete visto la neve?» annunciò.
«Nevica?» strillò Scoiattolo arrampicandosi sul davanzale ed ebbe immediatamente l’attenzione del resto dei compagni di scuola.
Megumi e gli altri due si alzarono a loro volta per controllare, mentre – esattamente come era accaduto pochi minuti prima nella sala comune del secondo anno – gli studenti correvano ad affacciarsi alle finestre per assistere per la loro prima volta ad uno spettacolo inedito. Kawanishi si azzardò perfino ad aprire un’imposta e porgere a Nonaka una manciata di fiocchi che si erano depositati sulla sua mano.
«Kawanishi, non puoi permetterti il raffreddore.» lo rimproverò Wakatoshi richiudendo la finestra «C’è l’Harukou il mese prossimo e non devi saltare gli allenamenti.»
Lo studente più giovane annuì, colto all'improvviso dalla sua premura. Megumi, con aria di sfida, la riaprì dichiarando che lei e Kaori non correvano alcun rischio di disputare incontri ufficiali nei mesi successivi, ma Wakatoshi la spinse via di peso e richiuse fermamente l’anta.
«No.» ribadì severo «Hai appena ripreso.»
«Ragazzi, facciamo una foto?» propose Scoiattolo agitando in aria il cellulare «Tutti insieme, anche tu senpai! Ce la facciamo scattare da qualcuno, altrimenti non ci stiamo tutti!»
Cinque minuti di tentativi dopo, Hiromi girava agli altri le numerose foto che un compagno di classe di Kawanishi e Nonaka aveva scattato: in ognuna qualcuno era venuto male per un motivo differente e dei fiocchi di neve non c’era alcuna traccia, ma alla fine scelsero la meno peggio da inviare a Ikeda.
«Andrà su tutte le furie quando la vedrà!» gongolò il libero.
«Credo di doverla mandare a qualcuno anche io.»
«Megumi-chan, non starai parlando di Oikawa?» suggerì Kaori divertita.
«Certo che no! Sappi che se nevica per tutto il resto del mese è colpa sua, sai… per via di quella… ehm… circostanza di cui ti ho parlato. No, credo proprio che la invierò a Kenjiro, per farlo scoppiare d’invidia. Così impara, a starsene a casa sua e a godersi la cena di mammina.»
«Non è colpa sua se ha la fortuna di abitare in città.» osservò Wakatoshi.
«Ma è colpa sua se a cena, mentre io mando giù del riso praticamente bianco, lui mi gira le foto del Sukiyaki di sua madre. Che abbia quel che merita!»
Mentre Megumi picchiettava coi pollici sullo schermo del proprio telefono, Tendou comparve all’ingresso della sala, facendosi strada in mezzo ai primini per raggiungerli.
«Wakatoshi-kun, ho indovinato dov’eri senza nemmeno sforzarmi!» spiegò allegrò « Megumi-chan come va con…»
«No. Non te lo dirò, capisci sempre a modo tuo.»
«Mi sembravate molto in confidenza l’altro giorno alla partita.»
«A me invece sembra che tu non ti faccia abbastanza i fatti tuoi. Davvero, c’è già Kurihara che non mi dà tregua, è sempre lì che sghignazza e fa allusioni. Siamo soltanto buoni amici, tutto qui.»
«Io vi ho visti di persona: eravate così carini, mano nella mano!»
Megumi arrossì, poi decise di ricorrere ai metodi di persuasione che padroneggiava meglio.
«Se continui te le suono.»
«Per carità, Megumi-chan» la canzonò Tendou divertito «Preferirei evitare, potrei innamorarmi, pare che accada ai ragazzi che prendi a calci.»
«Ti colpirà veramente.» lo ammonì Wakatoshi.
«No, non lo farà!» lo corresse Nonaka ridacchiando «Non dentro una stanza piena di studenti.»
Megumi li ignorò. «Tanti saluti da Kenjiro, insieme alla richiesta non troppo velata di fargli copiare i miei compiti di inglese. Salgo qualche minuto in camera per fare delle foto al quaderno.»
Arisu si appropriò a pieno titolo del posto sulla poltrona che Megumi aveva temporaneamente liberato. La compagna di stanza aggrottò le sopracciglia.
«Se quando torno insisti per rimanere lì giuro di sedermi addosso a te.»
L’altra fece spallucce.
«Sembra interessante, vorrei provare. Prima di scendere, ricordati di accendere il riscaldamento o stanotte congeleremo.»
Wakatoshi notò con piacere che i rapporti fra le due compagne di stanza sembravano essere tornati normali. Megumi le fece il verso, poi si diresse a grandi falcate fuori dalla sala comune, lasciando agli altri l’onere di commentare.
«Allora, Kaori-chan, esce con Oikawa o no?»
La palleggiatrice del club femminile socchiuse gli occhi e agitò un dito davanti al proprio volto.
«Non ti dirò nulla, Tendou-kun
«Dai, scommetto che Wakatoshi è geloso e vuole saperlo!»
«No.» replicò piatto lui.
Non riusciva a comprendere come mai tutti dessero per scontato che gli interessasse Megumi in senso romantico. Da parte sua non aveva mai fatto nulla di concreto per incoraggiare quelle voci e, per di più, le ragazze non erano affatto una sua priorità. Aveva ben altro a cui pensare: gli allenamenti, le materie facoltative da scegliere per il terzo anno, la causa che la famiglia di Megumi aveva intentato contro Hattori, il torneo primaverile a Tokyo, gli esami da superare entro la fine dell’anno scolastico, quella convocazione nella Nazionale juniores, il misterioso fenomeno per cui Shirabu entrava negli spogliatoi solo quando tutti gli altri ne uscivano.
Quando ne aveva parlato con Megumi, l’amica si era limitata a sorridergli e ad assicurargli che si trattasse solo di un caso: Kenjiro – gli aveva risposto – era lento perfino a raccattare le sue cose dal banco. Wakatoshi sapeva chiaramente che mentiva: la fossetta che compariva all’angolo destro della bocca di Megumi tradiva sempre nervosismo. Infine, il fatto stesso che l’amica infrangesse il suo giuramento di sincerità in favore di Shirabu aveva fatto sì che quella bizzarra circostanza lo intrigasse ancora di più, soltanto che ogni suo tentativo di estorcerle una nuova informazione veniva magistralmente eluso.
Osservò Kawanishi, ancora appoggiato al davanzale e incantato dallo spettacolo. Ricordava un suo diverbio con Shirabu, vecchio di mesi prima, scoppiato durante una pausa dagli allenamenti del club. Forse aveva solo bisogno di cambiare obiettivo.
«Kawanishi… vorrei farti una domanda.»
Il ragazzo trasalì e Tendou trattenne un risolino.
«Si tratta di Shirabu.» spiegò «Ho notato che trascorre con noi meno tempo possibile. Voi siete dello stesso anno e credo vi conosciate meglio. Mi chiedevo se tu sapessi darmi una spiegazione.»
Preso in contropiede, il più giovane si fece teso almeno quanto lo era stata Megumi quando gli aveva posto lo stesso quesito. Accanto a lui, Nonaka assunse un’aria allarmata e Scoiattolo perse ogni traccia di colorito.
«Ecco…» biascicò Kawanishi intimidito dall’attenzione che i due compagni di squadra più grandi gli stavano rivolgendo «...immagino che sia solo timido.»
«Taichi, ti hanno mai fatto presente che non sai dire le bugie?» commentò Tendou divertito.
Il ragazzo mise su un cipiglio offeso.
«No, sono onesto, non ne ho idea!»
«Tempo fa accennavi a delle voci di corridoio su di lui…» lo stuzzicò.
«Non riesco proprio a ricordare.»
«Kaori-chan, tu sai tutto di tutti. Non negare. Cosa sai?»
«Ufficialmente nulla, ho solo deduzioni e pettegolezzi privi di fonti che non divulgherò per etica professionale. Io diffondo solo informazioni certificate, dovresti saperlo.»
A quel punto, Wakatoshi e Tendou si rivolsero a Scoiattolo, che cercava – a quanto pareva – di mimetizzarsi con il tessuto della poltrona, impresa di difficile riuscita dal momento che il rosa prepotente dei suoi capelli c’entrava ben poco col resto dell’arredamento.
«Io lo conosco appena!» squittì allarmata.
I due amici si guardarono: Tendou si era appena unito alle personali indagini del capitano. Wakatoshi lo aveva appena autorizzato, con uno sguardo di assenso, ad usare qualsiasi trabocchetto per mettere in fallo i tre studenti più giovani quando Megumi rientrò in tutta fretta nella sala per riprendersi il suo posto, salvando involontariamente gli amici da un interrogatorio più difficile da sostenere.
Di fronte alle resistenze di Scoiattolo a renderle la poltrona, la ragazza fissò la preda con occhi famelici, le rivolse un sorriso tagliente e poi prese a solleticarla ferocemente finché non ebbe dichiarato la resa incondizionata.
«Megumi-chan» la biasimò Tendou mentre Hiromi si sistemava nuovamente sul bracciolo per farle spazio «Non ti sembra di tiranneggiare un po’ troppo?»
«E a te sembra che il mio sedere grosso stia comodo sul bracciolo quanto quello minuto di Risu?»
Tendou scoppiò a ridere, colpito dall’autoironica onestà della studentessa più giovane.
«Sta’ tranquillo, Tendou.» lo rassicurò Scoiattolo allungando le gambe a destra e scivolando dal bracciolo alle ginocchia di Megumi «A prima vista può sembrare che sia lei a dettare legge, ma in realtà sono io che comando: Megumi-chan deve smaltire diversi mesi di angherie ingiustificate. E poi si sta più comodi così che sul cuscino.»
«Stai insinuando che le mie gambe siano più molli del cuscino?»
«Ovviamente, Naomi ti ha sollevata dall’obbligo di seguire quella dieta e il cuoco continua ad avere un occhio di riguardo per te.»
Wakatoshi obiettò che, da quando Megumi aveva ricominciato a mangiare a pieno regime, aveva una cera molto migliore e che la signorina Kato aveva agito nel migliore dei modi quando l’aveva dispensata da quello sforzo infruttuoso. La sua amica aveva finalmente recuperato parte del peso che aveva perso nei mesi precedenti a causa del forte carico di stress: le sue guance non erano più scavate e non le servivano più diversi strati di trucco per coprire le occhiaie scure. Di certo non sarebbe più ritornata ad essere la ragazza paffuta che era stata ad aprile, dopotutto era pur sempre nell’età della crescita, ma chiunque avrebbe potuto facilmente notare la differenza rispetto ai suoi mesi più bui.
«Beata lei!» sospirò Nonaka, che aveva fin troppo generosamente acconsentito a rinunciare a gran parte dei suoi sfizi e perdere alcuni chili. In effetti, da un mese si era sfilata appena. «Non dovevo propormi per quel ruolo: corro sempre da una parte all’altra del campo, quanto odio la seconda linea!»
Kawanishi le lanciò un’occhiataccia: Wakatoshi osservò fra sé e sé che quel gruppetto del primo anno si conosceva meglio di quanto si fosse aspettato e, con tutta probabilità, anche Shirabu doveva esserne parte attiva. Era piuttosto scontato che si coprissero le spalle a vicenda, come era altrettanto scontato che Tendou non si sarebbe mai arreso.
«Megumi-chan, cosa sapete su Kenjiro che noi non sappiamo?»
La ragazza sollevò il sopracciglio mutilo e gli rivolse un sorriso enigmatico.
«Se non lo sapete significa che non sono affari vostri.»
«Non si risponde così a un senpai. Wakatoshi-kun, strigliala per bene!»
«Waka-nii, anche se mi sgriderai non ti dirò nulla di Kenjiro. Te l’ho detto: è solo timido.» ribadì decisa e Scoiattolo, spaparanzata sulle sue gambe e fra i braccioli della poltrona, annuì con solennità. Da quando la sua compagna di stanza era tornata aveva acquistato coraggio, come se Megumi fosse garanzia di protezione.
«Sto cercando soltanto di capire se non si trovi bene con noi.»
«Allora chiediglielo, no?» sospirò l’amica stanca.
«L’ha già fatto, ma non è cambiato niente.» intervenne Tendou, anche se non interpellato «Sostiene che sia tutto a posto ma continua a non entrare con noi negli spogliatoi.»
Kawanishi trattenne un risolino dietro la mano, Kaori gli diede una gomitata.
«Taichi-kun, cosa sai?» lo incalzò Tendou con un sorriso sornione.
«Non sa nulla!» replicò Megumi stringendo le labbra e rivolgendo al colpevole uno sguardo severo. «Nulla di più di quanto non ne sappiate voi o chiunque altro, la questione è chiusa. Nevica ancora?»
Davanti alla porta della sua stanza, poco più tardi, Wakatoshi e Tendou avrebbero conversato ancora riguardo il mistero di Shirabu. Tendou sosteneva, piuttosto fantasiosamente, che avesse qualche malattia cutanea imbarazzante da nascondere, ma Wakatoshi non ricordava di aver mai notato nulla del genere quando, i primi tempi, il ragazzo si comportava ancora normalmente: doveva essere accaduto qualcosa in seguito.
«Oh, e perché lo osservavi, Wakatoshi-kun
«Non lo so.» confessò, preso alla sprovvista «Forse mi ero incantato.»
«Incantato implica che tu non ricordi cosa abbia visto, invece mi sembra che tu lo sappia benissimo.» lo canzonò allegro il compagno di squadra appoggiandosi con le spalle alla parete e incrociando le braccia al petto.
«E con questo cosa vorresti dire?» domandò perplesso.
«Io? Nulla!» replicò con una certa patina di ambiguità «Solo che trovo il fatto singolare.»
Wakatoshi liquidò l’osservazione di Tendou come l’ennesimo dei suoi sproloqui incomprensibili e decise di congedarsi, ma non fece in tempo a raggiungere la maniglia della porta che l’altro gli si parò davanti.
«Davvero non t’importa che Sakurai esca con Oikawa?»
«No. Ti sembra forse il contrario?»
«Mi sembri onesto. Ma, di tanti ragazzi che esistono, proprio Oikawa! Non disapprovi nemmeno un pochino che esca con la concorrenza? Credevo ci fosse rivalità fra di voi e mi risulta che tu non l’abbia mai elogiato per la maturità. Hai sempre protetto Sakurai da chiunque altro abbia dimostrato dell’interesse per lei, perfino dai tuoi stessi compagni del club, e poi permetti che Oikawa si prenda il lusso di giocare con lei? Non mi sembri coerente, Wakatoshi-kun
Tendou non aveva tutti i torti: non era coerente come amava essere. Ad esser franco, quando Megumi si era azzuffata con Oikawa nei corridoi del palazzetto, aveva provato insofferenza per quel che lui aveva fatto e detto per umiliarla pubblicamente, e aveva insistito che si scambiassero in fretta delle scuse perché desiderava sottrarla per sempre al suo tiro. Nei giorni successivi, mentre Megumi ancora si lagnava con lui della mortificazione subita, era stato certo di aver compiuto la mossa giusta e che le strade dei due non si sarebbero mai più incrociate. Per questo, quando il signor Sakurai gli aveva fatto il nome di Oikawa, ne era stato sconvolto e aveva dovuto riconsiderare l’entità dei suoi sentimenti per Megumi. Hiromi gli aveva poi riferito che i due si erano rivisti nel tempo compreso fra la loro zuffa e l’aggressione di Hattori, e non era più riuscito a giustificare la condiscendenza di Megumi.
Non ci era riuscito finché non li aveva visti chiacchierare sugli spalti durante i preliminari per l’Harukou e si era accorto di quanto i modi di lei si addolcissero quando Oikawa era nei paraggi: aveva creduto che quella Megumi – la bimba gentile e vivace che rincorreva un pallone lercio in un campo di angurie – fosse stata uccisa e sepolta dalla smania sopraggiunta durante l’adolescenza e invece sorrideva a Tooru Oikawa con tutta la sua ritrovata serenità.
Non sapeva come fosse possibile, aveva sempre creduto che le abilità di Oikawa fossero squisitamente sportive, eppure aveva preso la Megumi peggiore che potesse mai incontrare, corrosa dall’invidia e dalle vessazioni, e ne aveva tirato fuori la versione migliore possibile. Aveva grattato via con pazienza e accortezza tutte le sue preoccupazioni, una alla volta, finché non aveva riportato alla luce la brillantezza dei suoi colori originali, quasi stesse restaurando un’opera d’arte dimenticata dall’umanità.
Tre settimane prima non era riuscito a spiegarlo a Megumi con le parole giuste: era stata solo in grado di farla infuriare, ma gli venne più semplice ammetterlo con Tendou.
«Le ha salvato la vita.» disse, e Tendou assunse un’aria sorpresa, perciò fu costretto a rettificare «Mi costa molto accettarlo, ma senza da lui Megumi non sarebbe mai tornata al club e nemmeno a scuola. Non avrebbe mai chiarito con me e prima ancora sarebbe morta in quella galleria. Non fraintendermi: ha fatto tutto da sola ma se lui non le avesse dato una linea da seguire, si sarebbe persa per strada. Perciò mi sta bene che si frequentino, purché Oikawa non le spezzi il cuore.»
«Quindi tu credi che lei sia innamorata?»
«Io non le capisco queste cose. Le emozioni e i sentimenti sono difficili.» confessò schietto «Ma quando Megumi è su di morale, mi viene voglia di fare ancora di più per superarla.»
«Come sei diventato profondo, Wakatoshi-kun!» esclamò l’altro allegro «Deve essere per via tutti quei romanzi che ti presta il tuo compagno di stanza, ti fanno male. Troppa cultura nuoce alla salute.»
«Dici?» domandò prendendo seriamente in considerazione l’ipotesi.
«Certo! Il prossimo anno facciamo domanda per la stessa stanza: ti presterò tutti i miei numeri di Jump e sia mai che qualcuno osi portare la cultura dove regna l’ignoranza!»

Mikoto era piuttosto soddisfatta dell’ammirazione reverenziale che le ragazze avevano manifestato per via del suo personale mezzo di trasporto. Tutta contenta, aveva ceduto il suo posto sul sedile posteriore alle tre amiche e poi si era accomodata sul sedile del passeggero accanto a Soichiro e il suo autista aveva pigiato sull’acceleratore. Un vero peccato che ci fosse la neve: avrebbe voluto mostrare loro quanto veloce poteva sfrecciare la sua auto personale. Si voltò per spiare con la coda dell’occhio il sedile posteriore: Megumi aveva la faccia di una che non aveva mai visto tanto lusso in vita sua e Mikoto ci credeva, dal momento che l’auto standard su cui viaggiava era un pick-up mezzo scassato.
Abbassò l’aletta parasole e si specchiò per controllare che l’eyeliner nero fosse impeccabile e che sul suo viso non ci fosse nessuna traccia del brufolo che aveva dovuto coprire con diverse mani di fondotinta e correttore. Con l’indice spazzò via dal rivestimento in pelle del sedile un pelo di gatto e assunse l’aria più fiera che avesse in repertorio: avrebbe scoperto, quel tamarro, contro chi aveva osato mettersi! Si sarebbe goduta tutta l’invidia sulla sua stupida faccia proletaria. Non c’era nessun altro motivo per cui si era offerta di accompagnare Megumi e le altre due amiche all’amichevole fuori casa dell’Aoba Johsai: voleva soltanto chiudere il conto con chi non l’aveva rispettata a sufficienza. Takahiro Hanamaki era il nome in cima alla sua lista nera, sottolineato diverse volte: era ora che pagasse l’affronto.
«Ha ricominciato a nevicare!»
«Di che ti stupisci, Scoiattolo?» replicò Mikoto pregustando in anticipo la vacanza che la sua famiglia aveva programmato «Poco più di una settimana ed è Natale!»
Megumi, seduta fra Arisu e Kaori, si coprì le orecchie con le mani.
«Ah, vi prego, non ricordatemelo!» protestò ansiosa.
«Deve essere dura» commentò Kaori «rinunciare ai Red Falcons di José Blanco.»
«Durissima. Mi piange il cuore! Ma perché il dormitorio deve chiudere? Uno studente del primo anno non può pensare di trascorrere una festività consumistica che non c’entra assolutamente nulla con la nostra cultura a fare i compiti delle vacanze nella propria stanza?»
Tutte e tre risero del lamento di Megumi e perfino Soichiro non riuscì a trattenere un sorriso.
«Voi ridete, ma io sarò a Minamisaka, attaccata alla stufa mentre il mio posticino in prima fila al Gymansium rimane vuoto. La mia vita è davvero un enorme scherzo.»
«Il tuo aitante cavaliere si è offerto di ospitarti, no?» ridacchiò Mikoto «Ti basta accettare. Certo, mi dispiace per la tua verginità, ma prima o poi succede.»
«Dovresti smetterla di farla preoccupare inutilmente!» la rimproverò Kaori con compostezza, mentre il colorito di Megumi si faceva di un rosso intenso «Oikawa non è solo in casa e le ha assicurato più di una volta che l’avrebbe sistemata in un’altra stanza. Non l’ha mai nemmeno baciata – Megumi divenne ancora più rossa – e le ha promesso che non la toccherebbe nemmeno con un dito. Ed è per questo che la qui presente Megumi Sakurai è una stupida.»
«Si tende ad essere stupidi quando si è innamorati. Io lo so bene: ma sta’ attenta, Megumi: i maschi sono tutti uguali, pezzi di merda dal primo all’ultimo. Scusami Soichiro, tu sei un’eccezione speciale.» commentò Mikoto per girare il dito nella piaga.
«Non sono innamorata, siamo amici.»
«Amici che si tengono per mano.» precisò Arisu prendendo finalmente parte alla discussione. «Amici che hanno avuto diversi appuntamenti.»
«Non erano appuntamenti» obiettò contrariata «erano contingenze!»
«Amici che, durante le contingenze, si tengono per mano.»
«Risu-chan, da che parte stai?»
«Da nessuna parte, mi diverto. Secondo me dovresti andarci, voglio dire… non ti ha mai fatto nulla. Oppure ci nascondi qualcosa?»
«Non vi nascondo niente!» balbettò tesa Megumi, lasciando invece intendere tutto il contrario.
Mikoto prese atto del maturo cambio di rotta di Scoiattolo: nei mesi precedenti si fiutava lontano un miglio la sua cotta per Megumi, se n’erano accorti tutti ad eccezione della diretta interessata. Dopo le tensioni del festival scolastico, in cui Arisu aveva definitivamente accettato che la compagna di squadra avesse altre preferenze, il piccolo libero aveva assorbito bene l’urto e si era rimessa autonomamente sulla strada della ripresa, migliorando il proprio umore. Il tutto senza mai aver fatto presente a Megumi né quel che era accaduto, né il fatto ovvio che le piacessero sia i ragazzi che le ragazze.
«Siamo due contro due.» sottolineò Kaori.
«Siamo tre contro una.» la corresse Mikoto «Che dice Ushijima?»
«Siete tre contro due.» sospirò Megumi.
«Davvero? Mannaggia, sembrava che fosse di vedute più ampie, invece è proprio un vile campagnolo come te.»
«Miko, puoi offendere me ma non Waka-nii
«Chiedo pietà per aver peccato! Ma anche tu peccherai, mia bella Giulietta, quando oggi vedrai il tuo Romeo e accetterai la sua ospitalità, contro la volontà del tuo Waka-nii
«Non accadrà niente del genere!»
«Mi duole contraddirti» intervenne Kaori trattenendo a stento un ghigno «Ma durante l’amichevole contro la Kobayashi, quando l’hai visto sugli spalti ti sei distratta e ti sei presa una pallonata in faccia. Non è stata la tua azione migliore, ma sei stata adorabile.»
«Naomi lo è stata un po’ meno!» aggiunse Arisu ancora divertita dal ricordo «Segnare un punto con la faccia! L’effetto sorpresa ha sconvolto l’altra metà del campo!»
«Perciò io spero che continui a nevicare.» concluse Mikoto solenne.
«Non sarà mica una maledizione?» domandò Megumi preoccupata.
«Non lo era, ma adesso lo è: spero che nevichi così tanto il ventiquattro che la neve ti arrivi fino alle ginocchia e le strade si gelino. Così non avrai altra scelta che rimanere da Oikawa.»
Megumi si mise le mani nei capelli: aveva sempre sostenuto di non credere alle dicerie sul suo conto, ma in fin dei conti anche lei ne era intimamente impressionata. Era l’ultima soddisfazione che Mikoto avrebbe potuto godersi durante la giornata, perché – a partire dal momento in cui arrivarono a destinazione – nulla seguì la direzione che aveva accuratamente pianificato.
Nessuno venne ad accoglierle: era troppo freddo perché – a pochi minuti dalla partita – il coach permettesse ai propri ragazzi di uscire nel cortile, perciò non poté sfoggiare la propria Mercedes a nessuno, tantomeno a quel maleducato di Hanamaki. Indossare un paio di calze leggere sotto la gonna non era affatto stata un’idea intelligente. Per fortuna qualche mese prima Kaori e Arisu avevano giocato un’amichevole contro il club femminile della scuola e ricordavano la strada per la palestra, altrimenti avrebbero battuto i denti al freddo per un tempo imprecisato senza trovarla.
La palestra era gremita di spettatori. Non aveva senso – osservò la ragazza – si trattava solo di una banale amichevole fra zotici, nemmeno un match ufficiale, eppure il soppalco era piuttosto affollato.
«Caspita, se è pieno di ragazze…» commentò Arisu mentre salivano le scale per raggiungerlo.
«È il debutto di Tooru dopo l’infortunio.» spiegò Megumi visibilmente tesa «Immagino che il fanclub sentisse la mancanza del suo bel faccino. Chissà con quante di queste è già uscito.»
In effetti, la maggior parte del pubblico era composto di ragazze ben vestite e agghindate, che strillavano il nome di Oikawa come se fosse stato il cantante belloccio del concerto di cui attendevano l’inizio. Mikoto conosceva i ragazzi abbastanza da poter appoggiare la teoria dell’amica: probabilmente era già stato con parecchie di loro e sarebbe stato con altrettante in futuro. Stando lì, loro quattro davano l’impressione di far parte di quel triste novero di aspiranti. Le venne un conato di disgusto e provò pena per Megumi.
«Vorrei sapere qual è la famosa Asuka.» mormorò malinconica.
«Quella con cui usciva quando siete stati al caffè?» domandò Arisu preoccupata.
«Magari ci esce ancora e io non lo so. L’altro pomeriggio si è lasciato sfuggire che gli ha regalato un orologio firmato per il compleanno, capite? Gli fa perfino regali costosi, quando io in tasca ho solo due spiccioli. Forse non dovremmo stare qui, forse dovremmo soltanto andarcene.»
«Megumi-chan, io ti proibisco di lasciare questo posto prima che l’amichevole sia terminata.» intervenne Kaori con durezza «Noi non ci muoveremo da qui per nessun motivo al mondo. E smettila di negare che t’interessi: tutta la scuola vi ha visto tenervi per mano al festival e, per giunta, tu sei qui a piagnucolare perché sei gelosa delle sue ammiratrici. Vorrei che la piantassi di trarre conclusioni affrettate e gli dessi qualche opportunità: è venuto a vederci, tu ricambi il favore, lo saluti e ce ne andiamo. Guarda almeno come si comporta!»
Megumi schiuse le labbra per rispondere ma Mikoto fu più rapida.
«Adesso fai così perché in macchina ti abbiamo presa in giro e quindi stai cercando una scusa per sottrarti alla resa dei conti senza perdere. Notiziona del giorno: non puoi sempre vincere, ma credevo che questo lo avessi imparato benissimo negli ultimi tempi.»
La ragazza strinse le labbra e si appoggiò rassegnata alla ringhiera della tribuna. Alla fine, prese a guardare Oikawa così intensamente che Mikoto non si sarebbe stupita se di tanto in tanto lui avesse avvertito un brivido freddo lungo la schiena. Avvertiva tutta l’indecisione e l’indignazione di Megumi: come aveva potuto tessere una rete così fitta di relazioni e mantenerla anche quando sosteneva così strenuamente di essere innamorato di lei?
I maschi – si ripeté il suo mantra – sono tutti identici.
Seguire la partita fu un supplizio dall’apparenza interminabile: quell’esercito di esaltate aveva reso impossibile dedicare abbastanza attenzione al gioco. Mikoto dubitava fortemente che ognuna di loro conoscesse anche solo i fondamentali della pallavolo e si chiese come facessero i ragazzi a portare a termine quattro set in mezzo a tutto quel baccano.
Oikawa, che aveva giocato oltre qualsiasi aspettativa che uno potesse avere su un infortunato appena uscito dalla convalescenza, agitò la mano verso di loro subito dopo l’inchino e la sua personale claque esplose in gridolini estasiati, ciascuna convinta che si fosse rivolto a lei.
Tuttavia lui si congedò con garbata fretta dalle coraggiose che gli si erano avvicinate e raggiunse le quattro spettatrici fuori dal coro quando erano ancora sulle scale. Le ringraziò educatamente per aver assistito all’amichevole e scambiò perfino alcune chiacchiere con loro, finché Kaori non ficcò i gomiti nei fianchi di Arisu e Mikoto e s’inventò la scusa che voleva uscire e prendere un po’ d’aria. Mentre veniva trascinata via dalla decisa intraprendenza dell’amica, Mikoto obiettò che fuori non ci sarebbe voluta andare per nessun motivo al mondo, con cinque gradi sotto lo zero.
Kaori la zittì con lo sguardo.
«Ma non ti sei accorta? Ci stava praticamente supplicando di lasciarlo solo con lei!»
«No, non ho colto. Sai, tutto questo trambusto riduce sensibilmente le mie facoltà intellettive. Deve essere per questo che qui dentro sono tutti così stupidi.»
Scoiattolo nascose un sorriso sotto la sciarpa bianca, per non irritare Kaori che nel frattempo si era appoggiata al muro dietro di lei, piuttosto lontano dall’uscita e dagli spifferi gelidi che ne provenivano. Mikoto rivolse le spalle al campo, controllò impaziente se i due fossero ancora sulle scale: la discussione sembrava aver assunto toni meno pacifici.
«Ne avranno per molto, immagino.» commentò una voce maschile che conoscevano.
«Ciao Iwaizumi-kun! Eri in perfetta forma oggi!»
Kaori faceva gli onori di casa meglio di una rodata conduttrice televisiva. Come facesse a sembrare sempre amica di tutti, Mikoto non riusciva a comprenderlo: doveva essere una sorta di super-potere mistico che le spalancava le porte della carriera nelle pubbliche relazioni.
«Confesso: avevo scommesso mille yen con Issei e Takahiro che non sareste mai venute a vederci. Ho perso, adesso mi tocca pagare, ma sono contento di vedervi.»
Al suo fianco, Matsukawa annuì solennemente e gli tese la mano in attesa del bottino pattuito. Iwaizumi borbottò che aveva il portafoglio nel borsone.
«Per cosa litigano oggi?» domandò preoccupato.
«Non direi che stanno proprio litigando, è più una conversazione accesa.» spiegò Arisu sollevando le spalle, ma stando attenta a non rivelare nulla di più. «Tutto questo rumore è per lui?»
«Ordinaria amministrazione, ci gioco insieme da anni. Tutte le ragazze in questa palestra sono qui per Oikawa, quanto è deprimente da dieci a dieci?»
«Be’, non tutte: noi tre tecnicamente non siamo qui per lui.» puntualizzò Kaori con un sorriso cordiale «Facciamo allora che siamo qui per te: Team Iwaizumi, chi se ne frega di Oikawa?»
I due ragazzi scoppiarono a ridere.
«In realtà» aggiunse Matsukawa «Siete in quattro: oltre voi, c’è la ragazza di Takahiro.»
Mikoto, che aveva seguito la conversazione in assoluto silenzio, agognando disperatamente un analgesico per il mal di testa e un bagno caldo, drizzò le antenne. Improvvisamente, il sangue le fluì al cervello in gran fretta e la cefalea si acuì: il suo piano di vendetta si ritorceva contro di lei.
«Adesso volete farmi credere che quel cafone possa piacere a qualcuno.»
Matsukawa si schermì. «Non è una bugia, lo abbiamo perso per sempre: guardalo, sono lì che si fanno le fusa da almeno dieci minuti.»
In effetti, dall’altro lato del campo c’era una coppietta tutta avvinghiata che si sussurrava vicendevolmente smancerie nelle orecchie e si scambiava baci colmi di tenerezza. La ragazza portava i capelli in un anonimo caschetto marrone ed era così scialba che memorizzare il suo viso le pareva una sfida ardua. Riconobbe il castano rossiccio dei capelli di Hanamaki e distolse subito lo sguardo, preoccupata che le venisse un attacco di orticaria.
«Questa ragazza è disperata o cosa?»
«No, è una brava ragazza. Molto normale in realtà: buoni voti, nessun episodio degno di nota a carico, mediamente carina.» spiegò Iwaizumi.
«Carina?» ripeté Mikoto aggrottando le sopracciglia «Ma se è una cozza?»
«Perdonatela!» intervenne in fretta Kaori tirandole una pacca aggressiva sulla schiena «Mikoto-chan è sempre così – ehm – esagerata!»
«Vorrei poter dire che stiano bene insieme» continuò invece quella, sempre più disgustata «Ma lei è così insulsa e lui così ridicolo che starebbero male a prescindere anche con qualsiasi altro essere umano al mondo.»
«Questa gliela riferisco.» annunciò ridacchiando Iwaizumi «Gli sta bene!»
«Non sarai un po’ crudele, Iwaizumi?» domandò Arisu divertita.
«Affatto: da quando si è messo con Maeda non si fa più vivo. È terminata, a quanto pare, l’era delle uscite di gruppo e delle abbuffate: vuole stargli sempre appiccicata.»
«La strada più semplice verso la totale perdita del libero arbitrio. Fatemi sapere quando lei reclamerà uno spazio temporale che vada oltre il semplice tempo libero, sarà il segnale che dovete trovarvi un nuovo laterale.»
«Esageri Mikoto-chan» ribattè Kaori, più ottimista «Non è detto che le regole che si applicavano al tuo ex funzionino ugualmente anche con la ragazza di Hanamaki.»
«In effetti, solitamente il problema sono i maschi.» sibilò indispettita «Ma conosco bene il genere. Com’è che si chiama questa benefattrice pronta ad accollarsi il peso di tutta la barbarie e l’inciviltà del mondo?»
«Natsuko Maeda.» rispose esitante Matsukawa.
A lei, quella Natsuko Maeda, puzzava. Non avrebbe saputo dimostrare, allo stato dei fatti, il motivo per cui non la convincesse: forse perché non riusciva a comprendere perché a qualcuno dovesse affascinare l’idea di frequentare un ragazzo rozzo come Hanamaki, oppure perché aveva visto troppe ragazze come lei tradire la facciata di normalità con qualche tiro mancino letale. Infine, desiderava distruggerlo: non poteva tollerare che la sua mancanza di rispetto restasse impunita. Mikoto aveva una bozza di piano, per quanto vaga fosse, da seguire a riguardo. Le servivano informazioni attendibili, da una fonte altrettanto affidabile che fosse poi disposta a spacciarle capillarmente. Era una ragazza fortunata, perché aveva tutto il necessario a portata di mano.
Infine, Megumi li raggiunse da sola. Con il viso rabbuiato, salutò Matsukawa e rivolse un cenno cauto a Iwaizumi.
«Hai giocato benissimo, Iwaizumi-kun.» si complimentò, seppur tesa «Belle parallele.»
Il ragazzo, lusingato, mormorò in fretta dei ringraziamenti. Si guardò intorno preoccupato e, non riuscendo a individuare Oikawa, le domandò dove lo avesse lasciato.
Megumi sospirò, in cerca delle parole giuste.
«L’ho perso per strada.» ammise, e indicò col capo un capannello particolarmente rumoroso sulle tribune, in mezzo al quale svettava Oikawa.
Iwaizumi sembrò dispiaciuto, nonostante in passato non fosse stato affatto cordiale con lei.
«Non avete litigato di nuovo, vero? Sembrava che andaste d’accordo ultimamente.»
«È solo per quella storia del ventiquattro notte, continua ad insistere.»
«Quale storia del ventiquattro? Non va a vedere i Falcons, quella sera?»
Dieci punti per Tooru Oikawa: mentre Megumi aveva disperatamente chiesto consiglio sul da farsi a tutti i suoi amici, lui non ne aveva fatto parola con nessuno. I ragazzi fanno presto ad essere maliziosi e, se lui avesse accennato loro che intendeva ospitare Megumi per la notte, sarebbe subito stato travolto da frecciatine provocanti di cui non aveva bisogno né lui, né la ragazza. Ovviamente, l’amica era stata così stupida da scavarsi la fossa da sola e vanificare tutti gli scrupoli di Oikawa. Megumi doveva essere arrivata, seppur con ritardo, alle sue stesse conclusioni e si fece subito bianca in viso.
«Ho capito: quel bastardo mi ha detto di avere solo un biglietto e invece ne aveva due. Dovevo aspettarmi che ne avesse dato uno a te, mi sembrava strano che ci andasse da solo e non piagnucolasse che voleva compagnia.»
«Dopotutto la vigilia di Natale è il giorno delle coppiette.» osservò Matsukawa, rivolgendosi all’amico «Avremmo dovuto unire i puntini, a meno che non lo volessi tu l’appuntamento romantico con Oikawa.»
«Dipende da quale Oikawa.» ridacchiò Iwaizumi «Se è lui, il traditore, passo volentieri oltre.»
«Ti prego, non prendetevela con lui. È la verità, ne ha solo uno: il presidente del Galaxy ce ne ha regalato uno per ciascuno. Ma, ad essere sincera, io non posso…»
«Tu puoi eccome!» intervenne con autorità Mikoto senza permetterle di terminare. Kaori, intanto, nascose il viso dietro le mani, disperata.
I due ragazzi rivolsero loro uno sguardo confuso.
«Durante la prima settimana delle vacanze invernali il dormitorio chiude. Io non sono di Sendai, abitiamo in campagna e la nostra macchina non è così affidabile.» spiegò Megumi.
«Quindi non ci saranno autobus disponibili quando la partita sarà finita.» osservò Iwaizumi ragionevole «Dovresti farti ospitare da qualcuna di loro.» continuò accennando alle ragazze.
«Lascia perdere, queste due vengono dalla provincia e i miei hanno prenotato una settimana bianca.» tagliò corto Mikoto.
«Non mi sembra un problema così insormontabile.» spiegò, come se fosse la cosa più semplice e scontata del mondo «Casa di Oikulo è grande, sua mamma cucina divinamente e hanno una stanza vuota da quando suo fratello si è sposato. Puoi chiedere a lui di ospitarti per la notte.»
Megumi recuperò in un battito di ciglia tutto il colorito: tutto il sangue dovette fluirgli alle guance, che le si accesero di un vermiglio colpevole. Iwaizumi e Matsukawa non se lo fecero sfuggire, perché si scambiarono un sguardo divertito.
«Ma certo! Ti ha già invitato lui!» esclamò il centrale «Figurati se quel ruffiano si lasciava sfuggire l’occasione!»
«Da questo deduco che lo faccia spesso.» borbottò accigliata la ragazza.
«In realtà non ci sono precedenti.» precisò Iwaizumi correndo ai ripari prima che Megumi si lasciasse prendere dallo sconforto «Noi ci siamo stati un sacco di volte, a casa sua, ma sono aggiornato abbastanza da poter affermare con certezza che non ci abbia mai portato nessuna ragazza. La sua famiglia è un po’ invadente, se si può dire così, e trarrebbero conclusioni affrettate e moleste. La genetica ha pur sempre le sue leggi da rispettare e da qualcuno deve aver preso.»
«E questo dovrebbe rincuorarmi?» si lamentò Megumi con le mani nei capelli, strappando una risatina alle amiche.
«Sta’ tranquilla! Le domande non saranno per te, ma per lui: se ti ospita, è consapevole di accollarsi tutto il carico dell’imbarazzo, probabilmente ha già pensato alle spiegazioni da dare. Di sicuro premetterà che siete solo amici – e qui scambiò uno sguardo complice con le ragazze – e la situazione sarà leggera sin dall’inizio. Sarebbe un peccato rinunciare ai Red Falcons soltanto per un problema immaginario.»
Megumi incrociò le braccia al petto e assunse un’espressione sospettosa.
«Tutta questa tua buona disposizione mi è nuova, Iwaizumi-kun: credevo di non esserti simpatica. Qualche mese fa mi hai fatto intendere di lasciarlo in pace, oggi mi chiedi di metterlo in imbarazzo. Dov’è la fregatura? Al parco divertimenti mi hai ricattato.»
«Ma lui ne è stato felicissimo. Tu ci hai perso qualcosa? Assolutamente no. Questa volta è anche meglio: ci guadagni una partita della League e io non ti sto obbligando.»
«Per quel che mi riguarda» s’intromise Kaori soddisfatta «Io la penso come Iwaizumi-kun: stai tirando giù una grande tempesta per due gocce di pioggia. Te lo abbiamo già detto un’infinità di volte in questi giorni.»
«Avrai una stanza tutta per te e ti assicuro che con l’ospitalità degli Oikawa non si scherza: servizio da hotel cinque stelle e cucina degna della guida Michelin.»
«Ti offriranno così tanto da mangiare che dovrai implorare pietà.» aggiunse Matsukawa.
Iwaizumi le aveva appena suggerito di andare a recuperarlo per accettare il suo invito e Megumi sembrava essere quasi sul punto di farlo, quando Oikawa riuscì a liberarsi del gruppetto strepitante che lo aveva rapito e li raggiunse tutto preoccupato.
«Gumi-chan, perché sei scappata?» si lamentò.
«Perché sembrava che avessi altro da fare.» replicò stizzita.
«Mi dispiace, non volevo che ci interrompessero.» si scusò, guardando ansioso i suoi amici e le ragazze «Ti va se continuiamo a discutere in privato di quella questione?»
«Lo sappiamo già!» commentarono in coro gli altri, così sincronizzati che nemmeno se si fossero messi d’accordo il risultato sarebbe stato tanto perfetto.
Oikawa arrossì appena, Iwaizumi gli piazzò una sonora pacca sulla spalla.
«Sei proprio uno stronzo, avevi l’opportunità di guadagnare un biglietto extra e nemmeno hai pensato a me. Se Sakurai non ce lo avesse raccontato, avrei creduto che ci andassi davvero da solo. Ci stava proprio dicendo che dormirà a casa tua e che è molto fortunata ad avere un amico come te.»
«Iwa-chan, la conosco abbastanza da sapere che almeno la metà di quel che mi hai appena riferito lo hai inventato di sana pianta. Non vuole nemmeno prendere in considerazione l’idea, forse» continuò scoccando a Megumi uno sguardo risentito «ha paura che me la mangi, o qualcosa del genere.»
«Dipende da qual è la parte di lei che intendi mangiare!» non riuscì a trattenersi Mikoto: quei due avevano accumulato una quantità di tensione fisica spropositata. Sì, lei non reputava Oikawa affatto migliore del resto dei ragazzi ed era certa che a lungo termine si sarebbe rivelato il primo dei disonesti, ma – se Megumi ne era così tanto attratta – avrebbe fatto bene a dar fuoco alle polveri prima entrambi perdessero interesse. Aveva maturato la solida convinzione, non solo per esperienza diretta ma anche osservando le disavventure di chi la circondava, che non esistesse un amore che durasse per sempre. Le bastava guardare i suoi genitori per accorgersi di quante fossero le bugie sulle quali la loro unione si reggeva barcollante: affiatatissimi durante le occasioni mondane, in letti diversi durante la notte. Stavano ancora insieme soltanto per affari, nemmeno per la figlia.
«Cazzo, questa Takahiro doveva sentirla!» protestò Matsukawa sorpreso «Ikeda, non eri quella beneducata?»
«Di’ al tuo amichetto quello che vuoi, se quando avrà finito di farsi consumare la faccia dalla signorina scialba avrà ancora della vita in corpo. Io sono stata elegante, lui è solo un cafone scadente e senza decenza. Questo, sì, riferisciglielo da parte mia.»
Nel frattempo, Megumi si era fatta rossa come un peperone e Oikawa le ripeteva più volte che non avrebbe fatto nulla di quanto pontificato da Mikoto. Infine, pressata da ogni direzione, Megumi capitolò e si ritrovò ad acconsentire: era stata una fatica immane e il suo mal di testa non smetteva di peggiorare. Quando furono di nuovo in macchina, immerse in un silenzio carico di pensieri, Mikoto accavallò le gambe e si adagiò sullo schienale del sedile.
«Kaori, trovami del marcio.»
«Prego?» ribatté la bionda non troppo convinta di aver capito correttamente.
La ragazza sbuffò e sollevò gli occhi al cielo.
«Voglio che tu mi trovi del marcio su questa Natsuko Maeda. Interroga la tua rete di fonti, fatti un giro sui social, non devo dirtelo io cosa fare, no? Sei la migliore sulla piazza.»
«Mikoto-chan, capisco che tu ce l’abbia con Hanamaki, ma questa Maeda sembra proprio una brava ragazza. Io lascerei perdere le vendette e mi concentrerei sui fatti miei.»
Mikoto fece schioccare la lingua sul palato, contrariata.
«Sciocchezze, anche le brave ragazze vanno all’inferno qualche volta! Magari ha dimenticato di restituire un libro alla biblioteca comunale, oppure è salita in metropolitana senza il biglietto, o forse si è liberamente ispirata al compito di giapponese del suo compagno di banco senza permesso e ha perfino preso un voto migliore del suo. Che vuoi con quella faccia? Il plagio è reato e i copioni sono feccia della peggior specie.»
«Anche se avesse fatto tutte queste cose insieme, sarebbero tutte minuzie. Che te ne fai?»
«L’ultima non è una minuzia, è furto con scasso!» contestò risentita «Ad ogni modo, Kaori, tu trovami qualsiasi cosa, anche la più stupida, su questa dolcissima creatura dal cuore d’oro e gli occhi da cerbiatta e io saprò perfettamente cosa farne.»
«Sei perfida, Mikoto-chan.» sospirò l’amica.
«Ma tu indagherai, perché adesso è venuto qualche dubbio anche a te, non è così? Lo so, che sei una ficcanaso.»
Kaori serrò gli occhi e le labbra, sconfitta.
«Ah, ti odio!» sbuffò estraendo dalla borsa il cellulare.
«Visto? Anche le brave ragazze vanno all’inferno!» sentenziò soddisfatta.

Tooru rientrò a casa sconvolto dalla felicità: lasciò le scarpe da ginnastica all’ingresso e salutò allegro suo padre in salotto, poi curiosò in cucina per tentare di indovinare cosa avessero in serbo per cena e si diresse a grandi passi nella propria stanza. Per poco; non gli prese un colpo quando trovò sua sorella che sfogliava assorta l’ultimo numero dell’edizione giapponese di Elle, sul suo letto e con una maschera idratante in tessuto sul viso.
«Bentornato mostriciattolo, carino da parte tua non inviare nemmeno un messaggio a tua sorella per farle sapere se hai vinto o perso o se il tuo ginocchio è di nuovo in terapia intensiva.»
Il fratello più giovane lasciò cadere il borsone nell’angolo fra la scrivania e il muro e appese al muro la giacca bianca della divisa scolastica. Infine si appoggiò di spalle alla scrivania e le rivolse un sorriso largo e luminoso.
«Sono successe tante cose dopo l’amichevole, che comunque ho vinto, puoi star serena. Se ora fossi così gentile da dirmi perché sei in camera mia e non nella tua…»
«Perché da quando mi sono trasferita a Tokyo hai pensato bene di rubare la mia stufa. Pensavi che quando sarei tornata non avrei sentito freddo?»
Tooru rise: in realtà non aveva immaginato che sua sorella sarebbe tornata dall’università tanto spesso, invece era una piacevole presenza fissa ogni due week-end e lo sarebbe stata per tutta la durata delle vacanze invernali.
«Dai, te la rendo se la vuoi.» propose divertito «Userò la mia.»
«E lasciare che il mio preziosissimo fratellino minore muoia di ipotermia? Non potrei sopportare la perdita, poi chi prenderà per me i jeans della nuova collezione dallo scaffale più alto del negozio?»
«Nobilissima osservazione: ti servo solo per lo shopping?»
«No, fai anche una manicure niente male.» ribatté con un sorriso mentre voltava pagina «Allora, che cos’è quella faccia da scemo?»
«Quale faccia da scemo?»
«Non fingere: ti brillano gli occhi, sei accecante. Se non me ne parli la prenderò sul personale.»
Tooru si sedette sul letto accanto a lei, di buon umore. Premise che gliene avrebbe parlato soltanto se lei gli avesse promesso di non intromettersi e non farne parola con il resto della famiglia. Sapeva benissimo che sua madre potesse inorgoglirsi fino al punto di diventare imbarazzante. Sua sorella, coi suoi lunghi capelli castano scuro e gli stessi occhi grandi, ne era la copia più giovane: chissà se da adulta avrebbe condiviso la stessa indole affettuosa.
«La ragazza dell’appuntamento al parco divertimenti.» iniziò.
La più grande si mise seduta a gambe incrociate; era difficile rimanere seri con uno strato di tessuto unticcio sul viso, ma a lei riusciva semplicissimo.
«Ci sono novità, quindi? Ero rimasta che le avevi vomitato sulle scarpe.»
«Sei rimasta indietro e non le ho vomitato sulle scarpe!» protestò con una punta di vergogna.
«Ma ti ha visto vomitare lo stesso, il che è già abbastanza per decidere di non uscire con te mai più. Se sono rimasta indietro, perché non mi hai aggiornata? Nulla ti vieta di prendere il telefono e chiamarmi, sei proprio un mostriciattolo cattivo.»
«Perché mi vergogno!»
«Come se non mi avessi già raccontato tutte le tue esperienze passate. Ma credo proprio che questa volta tu ti sia innamorato. Il mio fratellino sta crescendo! Ricordo ancora quando gattonavi in mezzo alle mie bambole e oggi una sconosciuta ti porta via da me!» commentò melodrammatica.
«Non puoi ricordartelo, perché quando io gattonavo tu non avevi nemmeno due anni.» precisò risentito «E comunque dubito che Gumi-chan abbia alcuna intenzione di portarmi via di casa.»
Le raccontò quanto più dettagliatamente possibile gli avvenimenti dell’ultimo mese: di come Megumi non temesse più il contatto fisico, di quanto si era fatta vicina il giorno del festival scolastico, di come avesse ricambiato la sua visita alla loro amichevole e – infine – di come Iwaizumi fosse riuscito a persuaderla ad accettare la sua ospitalità.
«Quindi verrà qui a Natale? Ti prego, quando lo dirai a mamma voglio esserci. Incontreremo la prima fidanzata di Tooru-chan! Ah, se sapesse che sporcaccione è il suo amato figlioletto minore!»
Tooru arrossì.
«Ecco, il punto è che mamma e papà non devono saperlo. Gli diremo soltanto che Megumi è un’amica appassionata di pallavolo che non vuole assolutamente perdersi i Falcons, il che è al momento tutta la verità. Gumi-chan si imbarazza facilmente e quando accade sbloccarla è impegnativo, perciò bisogna che si senta a suo agio o mi giocherò questa chance!»
«Ma sentiti, quanto sei serio! Sembra che tu stia pianificando la strategia della tua prossima partita per un compagno di squadra troppo timido. Voglio proprio conoscerla, questa ragazza.»
«Vale anche per te: per favore non essere inopportuna. E per l’amor del cielo, non menzionarle che sono uno sporcaccione o qualcosa di simile! Fra l’altro lo sa già, quindi gradirei che non glielo ricordassi.»
«Ma per chi mi hai presa? Guarda che gioco nella tua, di squadra.» promise stritolandolo in un abbraccio a sorpresa «Non capita mica a tutte le sorelle la fortuna di avere un fratellino così innamorato! Sono sicura che puoi farcela: si renderà conto presto di quanto la ami e capirà quanto sei speciale, dopotutto sei anche un bel ragazzo, che non guasta mai!»
«Non credo che a Gumi-chan piacciano i bei ragazzi nel senso convenzionale del termine, ma sono felice che abbia deciso di restare da noi.» sospirò «Dai, mi sporchi con quella roba che hai in faccia! Se vuoi abbracciarmi vai a toglierla!»
 


NOTE FINALI

Questo capitolo è lento e grossolano, lo so, ma: 1) ho avuto poco tempo per pensarlo e scriverlo; 2) avevo bisogno di introdurre due o tre questioni prima della tempesta. Quindi, sì, non succede nulla, ma spero che un giorno lo rileggerete e penserete: "Cavolo, non era proprio inutile!"
Nel prossimo capitolo nevica... tanto.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno lasciato una recensione e/o mi hanno aggiunta alle liste: siete fantastici/e! Lasciatemi una traccia della vostra lettura anche questa volta, se potete!
Un forte abbraccio e spero a presto!

Lyra

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17: Neve ***


Capitolo 17

Neve

L’ultima campanella del 2011 per Tooru ebbe un suono diverso e per diverso non intendeva la versione oscena di My lover is Santa Claus che Makki e Mattsun intonavano a turno nei corridoi durante i cambi dell’ora e che era costata loro un’eroica punizione. A quel proposito, il palleggiatore sospettava che Matsukawa avesse persuaso Hanamaki a farlo per sottrarlo per qualche ora ai tentacoli opprimenti di Maeda.
Avere un appuntamento alla vigilia di Natale non era una novità: i giapponesi, di quella tradizione europea, coglievano esclusivamente il lato romantico e così si era trasformata nella giornata degli innamorati. Non ricordava nemmeno con chi fosse uscito in quell’occasione l’anno precedente, ma era certo che la serata si fosse conclusa per lui nel più piacevole dei modi. Quest’anno – si rammentò con un fremito – tutto avrebbe dovuto svolgersi con molta più calma e, oltretutto, le previsioni del tempo non erano certo favorevoli alle passeggiate romantiche fra coppiette.
«Fa un freddo boia!» si lamentò Iwaizumi pigiandosi in testa il cappello di lana per ripararsi da una folata di vento gelido, gli stivali che affondavano nella neve fino al ginocchio.
Tooru richiuse l’ombrello: tenerlo aperto non serviva più a nulla, se non a tentare il vento perché lo rompesse. Lo appese al gomito e infilò le mani in tasca, perché nemmeno i guanti potevano nulla contro quella temperatura: aveva completamente perso la sensibilità delle dita. Immaginò di palleggiare in quelle condizioni e ringraziò che gli allenamenti fossero sospesi per la settimana successiva. Osservò il cielo plumbeo e trattenne un brivido.
«Sarà così anche domani.» sospirò triste «Ciao ciao passeggiatina mano nella mano fra i negozi del centro! Io e Gumi-chan siamo proprio sfortunati!»
«Non siete mica l’unica coppia ad avere un appuntamento a Natale!» protestò ad alta voce l’amico proseguendo a forza, il vento soffiava così forte che per farsi capire dovevano gridare «E poi non può andarti bene tutto! Prima fila per Falcons contro Hornets, con la ragazza che ti piace e che resta a casa tua per la notte! Cos’altro vuoi?»
«Avevo pensato di portarla a cena fuori!» ammise sovrastando il vento «Così i miei avrebbero avuto meno tempo per fare domande, ma con questa bufera di neve riusciremo sì o no ad andare a casa a piedi! Una bufera di neve a dicembre! Ma quando mai?»
«Non lamentarti e goditi la serata! A che ora la vedi?»
«Alle sei e mezza. Finisce di allenarsi alle cinque, ma ha bisogno di tempo per lasciare i suoi bagagli a Ushiwaka prima che parta il suo autobus. Ci vedremo alla stazione di Tomizawa
«E cosa sa Ushiwaka?» Hajime rise e lui fu contagiato dall’ironia.
«Non ne ho la più pallida idea! Ti va di essere la mia guardia del corpo?»
«Preferirei di no! Perciò cerca di tenere le mani a posto!»
«Sono un gentiluomo, non un animale, Iwa-chan, non farei mai una cosa del genere!»
«Certo, tu adesso vorresti farmi credere che se in casa tua non ci fosse nessuno e Sakurai fosse ben disposta, te ne staresti sereno e composto nella tua stanza mentre lei dorme nell’altra!»
«Se fosse ben disposta sarebbe tutto un altro paio di maniche, ma probabilmente non mi sarebbe piaciuta abbastanza! Mi piacciono le sfide, lo sai!»
«E io che m’illudevo che per una volta avessi intenzioni serie!»
«Iwa-chan, le ho!» ribadì sincero «Se dovessi vincere, non la lascerei andare mai. Ma non è questo il momento giusto, ha bisogno dei suoi tempi. E comunque, ti assicuro che non riuscirò comunque a dormire domani notte.»
«La tua mano rimane sempre la soluzione migliore.»
«E piantala, domani non posso di sicuro!»
«Sei così rumoroso? Fai sempre più schifo.»
«No! È una cosa diversa: è più l’idea che sia nella stanza accanto e ci separi solo un muro di cartongesso. Sono emozionato anche solo a pensarci: sono così felice che tutto quello che vorrei farci è dormirci abbracciato. Ma non ho affatto aspettative così alte: per me la serata sarà andata bene anche solo se non litigheremo e la mia famiglia non l’avrà messa a disagio. Non chiedo nient’altro, mi accontento.»
Intanto era consapevole di chiedere tantissimo: con Megumi mai nulla filava perfettamente secondo i piani, al contrario era più semplice che tutti i suoi progetti venissero scompigliati da cima a fondo. Ancora più probabile, poi, era che l’invadenza di casa Oikawa causasse incidenti di entità non indifferente.
«Andrà tutto bene!» urlò Hajime più forte del vento, come se potesse leggergli nella mente. Probabilmente lo faceva già, ma si ostinava a tenere il segreto.
Tra le fibre del suo cappello e della sua sciarpa si erano impigliate decine e decine di fiocchi di neve, come quella volta in cui – diversi anni prima – erano rimasti nella neve fino a tardi per tirar su un pupazzo di neve impeccabile. In realtà il loro capolavoro era bruttissimo e il giorno dopo uno spazzaneve lo avrebbe abbattuto, cosicchè a entrambi sarebbero rimasti solo la rabbia e diverse linee di febbre. Quanto avevano? Forse nove o dieci anni. Ricordava che, obbligati a restare a letto, si sentivano tutto il giorno al telefono e che Hajime aveva vinto la sfida a chi avesse la febbre più alta, dopo che la mamma di Tooru aveva fatto la spia rivelandogli la sua esatta temperatura. L’aveva presa molto male, quella sconfitta, quando anni dopo ne avrebbe riso.
«Pensavo che Gumi-chan non ti piacesse!»
L’amico annodò più stretta la sciarpa attorno al collo, lottando contro il vento che gliel’aveva sciolta per l’ennesima volta.
«Infatti a me non piace, piace a te. Farà meglio a non comportarsi da psicopatica, questa volta, o mi assicurerò personalmente che tu ci metta una pietra sopra e che lei ti stia alla larga per sempre. Le farebbe anche comodo fare la persona normale, dal momento che ricambia.»
Tooru scoppiò a ridere: condivideva solo in parte l’ottimismo dell’amico, che poco più di un mese prima aveva trascorso tutto il tempo del tragitto dal parco divertimenti a casa sua a sottolineare con dovizia ogni piccolo segnale che Megumi nutrisse un qualche interesse per lui. Quando gli aveva raccontato di come si erano abbracciati alla fermata dell’autobus, lui aveva sentenziato soddisfatto che i giochi fossero fatti. Eppure con Megumi i giochi non erano mai fatti davvero: era sempre imprevedibile e sorprendente, come il jolly di un mazzo di carte da poker. Lo tiravi fuori dal mazzo e poteva fingere di essere qualsiasi cosa: un asso di cuori, un fante di fiori, un due di picche. Al solo pensarci, fu percorso da un brivido piacevole, molto diverso da quelli causati dal freddo di quei giorni.
Ad esempio, Tooru non avrebbe mai creduto che sarebbe stato Hajime a persuaderla ad accettare la sua ospitalità: aveva tentato di rassicurarla senza successo in diversi modi e per lungo tempo, mentre l’amico era entrato a gamba tesa e, in pochi minuti, aveva ottenuto una risposta affermativa. Non aveva voluto riferirgli cosa le avesse detto, ma gli era tanto grato che si era ripromesso di offrirgli il pranzo per una settimana intera e moltiplicare il budget già piuttosto elevato del suo regalo di Natale. Sapeva benissimo che Iwaizumi non lo faceva aspettandosi qualcosa in cambio, spontaneo com’era, ma era il suo modo di ringraziarlo. Leggendogli ancora nel pensiero, l’amico gridò contro l’ennesima folata gelida.
«Non andrete certo in centro a prendervi una cioccolata calda, con questo tempo, ma almeno le hai preso un regalo?»
«Non volevo prenderle nulla… sai, non voglio metterla a disagio suggerendole di regalarmi qualcosa in cambio, visto che le sue finanze sono un disastro. Però alla fine ho deciso di farle un pensierino non troppo costoso, così non si sentirà in dovere di ricambiare. C’è una nella mia classe, sua madre dipinge a mano orecchini in legno: gliene ho preso un paio a forma di peonia, che è di buon auspicio. Sono l’unico accessorio che può tenere addosso quando gioca, quindi sono un ottimo portafortuna.»
L’amico sorrise impressionato.
«Quest’anno ti sei impegnato! Sei lo stesso che lo scorso Natale ha regalato alla sua ragazza una sciarpa qualsiasi all’ultimo momento?»
«Ah, ecco chi era! Stamattina non mi ricordavo con chi fossi uscito lo scorso anno a Natale. Sachiko era del liceo Akiyama, dall’altra parte della città… non ci vedevamo praticamente mai, ma la vigilia fu molto…»
«Non voglio saperlo perché non mi interessa!» tagliò corto l’amico.
«La settimana dopo ci siamo lasciati. Era carina e la sciarpa non era così male. Gumi-chan è molto meglio, ad ogni modo, e gli orecchini s’intonano perfettamente con i suoi colori.»
«Ed ecco svelato il mistero: hai consultato tua sorella!»
«Iwa-chan, l’idea degli orecchini è mia, lei mi ha solo aiutato a sceglierli. Se ne intende, sarebbe stato molto stupido non chiederle un parere.»
«Quindi adesso lo sa? Conoscendola ti avrà strapazzato come un peluche.»
Tooru rise perché Iwaizumi aveva ragione.
«Ah, che invidia! Se ti scoccia farti strapazzare, mi offro volontario.»
«Non ci pensare nemmeno! Mia sorella è troppo grande per te, e anche troppo bella e intelligente, Iwa-chan. Non ha nemmeno un difetto! Non a caso, io le somiglio tantissimo!»
Per tutta risposta, l’amico passò una mano inguantata sul parabrezza di un’auto parcheggiata ai bordi della strada e gli gettò una palla di neve in pieno viso. Il tempo che Tooru si ripulisse e ne aveva già una nuova pronta fra le mani.
«Ti sbagli» lo corresse sghignazzando famelico «tua sorella ha un solo difetto: suo fratello minore, per il resto è perfetta!»
«Iwa-chan!» protestò scrollandosi la neve di dosso «Potresti piantarla di essere sempre così cattivo con me?»
Schivò appena in tempo la seconda palla di neve e si chinò per prepararne una a sua volta. Doveva stare attento a non ammalarsi, perché il giorno successivo desiderava essere in piena forma, ma non poteva respingere una sfida aperta. Hajime appallottolò un nuovo pugno di neve: la strada verso casa non era mai stata così lunga.
 


Megumi si vide mettere in mano una vanga da Noriko Kurihara in persona, con l’ordine di liberare i gradini della palestra dalla neve. La scusa accampata dalla studentessa più grande era che suo nonno l’avesse convocata con urgenza nel suo ufficio, ma Megumi sapeva benissimo che si trattava soltanto di un pretesto per giustificare la sua pigrizia. Non era un lavoro difficile: lo aveva fatto un sacco di volte a casa sua e in più era troppo di buon umore perfino per seccarsi a causa di uno scaricabarile così spudorato. Mentre raccoglieva la neve in una montagnetta a destra dei gradini d’accesso, cercò di immaginarsi con indosso gli abiti che aveva scelto per quella sera, quelli che avevano passato il severo esame di Risu. Di certo avrebbe sofferto l’assenza del suo cappello di lana grigio tutto infeltrito, bocciato su due piedi dalla compagna di stanza. L’amara verità era che il suo guardaroba non presentava una scelta sufficientemente varia e che lei non se ne era mai preoccupata perché non aveva mai avuto bisogno di prepararsi per un appuntamento. E poi a Oikawa sarebbe certamente piaciuto se lei avesse indossato una gonna corta e un paio di calze sopra il ginocchio, ma seppure avesse avuto il fisico giusto per permettersele entrambe, non avrebbe mai acconsentito a morire di freddo per attirare l’attenzione di un ragazzo. Comunque – si ribadì – non intendeva in alcun modo attirare la sua attenzione: quel che le premeva era capire che cosa provasse veramente per lui. Allora perché sentiva addosso tutta quell’eccitazione? Piantò la pala nel mucchio di neve e infilò la chiave di Noriko nella toppa del portone di ferro. In palestra faceva tanto freddo quanto fuori, invidiò Mikoto e il fuoco scoppiettante nel caminetto del suo chalet di montagna. Mentre attendeva che le altre arrivassero, fece il giro della palestra e accese quante più stufette alogene trovò funzionanti.
Chissà se l’avrebbe abbracciata ancora, si chiese accovacciatasi di fronte all’ultima stufa e tendendo le mani per ritrovare la sensibilità. Era stato crudele a darle solo un assaggio di quel tepore così dolce e a non farglielo provare mai più. Se chiudeva gli occhi, ricordava distintamente ogni sensazione, dal suo profumo al contatto delle sue labbra sulla sua guancia. Voleva vederlo: desiderava spazzare via le ultime ore che la separavano dall’appuntamento e correre a Tomizawa. Il pensiero la faceva tremare, ma non stava più nella pelle e aveva paura.
I cardini della porta stridettero mentre veniva aperta dall’esterno.
«Lascerò un reclamo firmato sulla scrivania del preside, non è possibile allenarsi in queste condizioni!» si lamentava Naomi con Yoshida.
Megumi scattò in piedi all’istante, l’allenatrice e la capitana le rivolsero uno sguardo perplesso: si aspettavano di trovare Noriko come al solito, e – se fosse stata presente – Naomi le avrebbe anche chiesto di sollecitare la questione riscaldamenti con suo nonno, ed invece ad aprire e a spalare diversi centimetri di neve era stata una primina.
«Non è un gran problema.» spiegò la ragazza con sincerità «Alla fine non è stato un lavoro così faticoso.»
Naomi non doveva pensarla allo stesso modo, perchè pochi minuti più tardi – quando Kurihara le passò davanti furtiva – la prese da parte per una ramanzina sulle responsabilità. Kaori, imbacuccata in una pesantissima felpa di pile lilla che Megumi avrebbe tanto desiderato possedere, aggrottò le sopracciglia.
«Spero che la signorina Kato non le dia una punizione o qualcosa del genere.»
«E che t’importa?» le domandò Satsuki Hamasaki. Megumi provava sempre un fastidioso senso di colpa quando le era vicina, perché la nuova formazione ideata da Naomi aveva tagliato fuori l’opposta in suo favore. Hamasaki era una studentessa del secondo anno e Megumi si sentiva una ladra a soffiarle il posto, il che era curioso visto che solo pochi mesi prima l’avrebbe considerato per niente fuori luogo. Si vergognava non poco di essersi dimostrata così altezzosa e arrogante con le sue compagne di squadra: le parole dell’ex-capitana Inoue, durante il festival scolastico, le avevano offerto una versione dei fatti diversa da quella che ricordava, una prospettiva in cui era stata lei a farsi volontariamente escludere, senza dare alle altre la possibilità di esserle amiche.
«Preferirei che non la privasse del diritto di giocare titolare a Nara.» confessò la nuova palleggiatrice tremando nel suo felpone «Me la faccio sotto, dico davvero.»
«Non sei affatto male!» la rassicurò la studentessa più grande con un sorriso gentile «E Noriko non ha alcun diritto di prendersela, se dovesse accadere. Voglio dire, io so già che Megumi giocherà dal primo set, ma non me la prendo affatto. È una decisione di Naomi, e se l’ha presa significa che è per il bene della squadra.»
«Mi dispiace, Hamasaki.» si scusò Megumi, ma l’altra agitò una mano per suggerirle di non preoccuparsi troppo.
«Ragazze, non dovete pensarci così tanto. Da quando è arrivata Naomi sono cambiate molte cose, tutte in meglio. Siete solo al primo anno, ma siete forti! L’anno prossimo faremo scintille, ne sono sicura: prendetevi tutto il tempo di ambientarvi, ormai quest’anno è andata così.»
«Satsuki, non starai soltanto cercando di sfuggire ai lupi di Nara
«Kaori-chan, credo che tu mi abbia scoperta!»
Che Hamasaki raccontasse la verità o meno, Megumi non poteva biasimarla. Wakatoshi sosteneva che scontrarsi con delle avversarie così in gamba avrebbe giovato a tutta la squadra, ma più ci rifletteva, più le saliva lo sconforto. Certo, avevano sempre l’arma Mikoto, carica di malvagità come non mai, ma non le sembrava che ricorrere alle sua presunta abilità con le forze occulte fosse una decisione troppo sportiva. Forse avrebbe dovuto parlare della sua insicurezza con Tooru, ma non le sembrava il genere di argomento da affrontare durante un appuntamento.
«No, non è un appuntamento!» si ribadì un’ora più tardi davanti allo specchio del bagno.
Risu era già partita per Tagajo, ma Megumi avrebbe potuto giurare di aver sentito la sua voce confermare che, invece, quello era proprio un appuntamento di Natale. Prese la sua valigia con una mano e imbracciò il borsone più piccolo con l’altro, poi si avviò fuori dalla stanza. Wakatoshi l’aspettava proprio davanti alla sua porta e le tese il braccio per prendere il bagaglio più pesante, ma lei insistette di poter fare da sola.
Mentre camminavano, l’amico le rivolse uno dei suoi sguardi indecifrabili.
«Stai molto bene oggi. Quasi non sembri tu.»
Megumi arricciò il naso.
«Ripensamenti? Avresti dovuto farteli venire prima.»
«Non lo dico per quello. È solo un’osservazione: stai bene e basta. Gli piacerai.»
«Non sto cercando di piacergli.»
«Fai attenzione.»
«Waka-nii, me lo hai già detto mille volte e altrettante io ti ho promesso che lo avrei fatto. Andiamo a vedere i Falcons e gli Hornets e poi dormiremo in stanze diverse.»
«Per qualsiasi cosa, chiamami, terrò il telefono acceso anche di notte.»
«E ti teletrasporterai da Minamisaka?»
«No, ma te lo dico perché sei molto tesa. Forse se sai di potermi raggiungere in qualsiasi momento, sarai più serena. Se dovesse farti qualcosa… non ho mai picchiato nessuno in vita mia, ma c’è sempre una prima volta.»
Per qualche motivo, l’idea che qualcuno facesse del male a Tooru le stringeva dolorosamente il cuore, perciò Megumi si affrettò a ricordargli che non sarebbero stati soli in casa. L’orologio al polso destro di Wakatoshi segnava le sei e dieci, l’autobus per il centro passò prima di quello per Minamisaka. Si congedò dall’amico, poi filò su per la scaletta. Si lasciò cadere sulla poltroncina e strinse le mani sulle ginocchia: non stava più nella pelle. Per l’ennesima volta in quella giornata voleva vederlo.
 


 

Tooru si era detto «niente silenzi imbarazzanti», eppure era rimasto senza parole non appena aveva visto Megumi scendere dall’autobus. Era buio ma lui era riuscito a distinguerla immediatamente in mezzo al flusso di passeggeri che sciamavano fuori dal mezzo, tutti diretti come loro al palazzetto. Le andò incontro, attento a non scivolare sulla neve, Megumi lo vide a sua volta e alzò il passo, ma quando furono a un palmo di distanza rimasero impalati, incerti su come salutarsi, le guance rosse forse per il freddo, forse per l’imbarazzo, o forse per tutti e due. Tooru aprì le braccia e le sorrise incoraggiante: non vedeva l’ora di abbracciarla dalla prima e ultima volta in cui era accaduto. Megumi arrossì e, coi fiocchi di neve impigliati nei capelli scuri, gli sembrava ancora più bella del solito. Alla fine gli sorrise a sua volta e si lasciò stringere e perfino baciare nuovamente su una guancia. Gli martellava il cuore in petto mentre a malincuore scioglievano l’abbraccio e, ormai inconsciamente, intrecciavano le mani. Tooru si offrì portare il borsone che Megumi aveva con sé, che sicuramente conteneva il cambio per quella notte, nonostante lei protestasse che non ce ne fosse alcun bisogno. Alla fine glielo sottrasse con l’inganno e si avviarono insieme oltre la stazione. Dopo alcuni minuti di silenzio teso, iniziarono a chiacchierare quasi con naturalezza. Si misero a far pronostici sull’andamento della partita: entrambi concordavano che i Falcons avrebbero distrutto gli Hornets, ma Megumi era certa che sarebbe stato un match combattuto.
«La mia squadra del cuore sono i Mitsubishi Tigers, però – caspita! – nei Falcons c’è Kolanko! Tira certe parallele che mi fanno venir voglia di dirgli ti prego colpisci in quel modo anche me
«Conosco la sensazione!» commentò Tooru tirandole appena la mano e rivolgendole in tralice uno sguardo malizioso che lei intese subito.
«Se ci tieni tanto, posso picchiarti anche adesso!»
«Non lo faresti mai, ormai abbai ma non mordi.»
«Ah sì? E cosa te lo fa credere?»
«Perché sembra che tu ci tenga a me. Mi hai difeso da…» s’interruppe, non desiderava chiamare in causa Hattori in quell’occasione così speciale «… da Ushiwaka al festival. E probabilmente anche il giorno prima, non è così? Me lo ha detto Kaori, non negare.»
Megumi sembrò improvvisamente spaventata.
«Cosa ti ha detto di preciso Kaori?»
«Che stavate parlando di me e vi siete allontanati.»
«Quindi non ha visto cosa è successo dopo?»
«Oh no, e se lo ha fatto non mi ha detto nulla. Ma, se posso permettermi di indovinare, avete litigato. Il giorno dopo eravate entrambi molto nervosi, tu poi eri risentita. Potrei dirti che mi dispiace se è accaduto a causa mia ma Ushiwaka lo detesto, quindi non me ne importa.»
Megumi fu sollevata, per motivi che non riusciva a immaginare, e non se la prese troppo per quanto aveva detto. Lo informò invece che si erano riappacificati e che lui era perfino al corrente dei suoi programmi per quella sera. Tooru si domandò che cosa ne pensasse Ushiwaka del loro appuntamento, ma non ebbe il coraggio di chiederglielo, troppo spaventato dalla risposta. Chissà se era quel genere di persona che si lascia divorare dalla gelosia: Tooru lo era e si sarebbe tormentato nel pensare Megumi con un altro. Se Ushijima fosse stato ugualmente umano, Tooru avrebbe gongolato come non mai.
Oltre la soglia del palazzetto, lo staff era stato generoso con i riscaldamenti. La bolla di piacevole calore li accolse non appena furono all’interno, restituì la sensibilità alla poca pelle scoperta fra la sciarpa e il cappello. Megumi tirò giù il cappuccio del giaccone, che si era infilata lungo il tragitto per ripararsi dal vento. Aveva le guance e il naso arrossato dal gelo e quel colorito faceva risaltare le lentiggini e il marrone dei suoi occhi. Incantato, la guardò accomodarsi per prima, accavallando le gambe lunghe e sbottonandosi urgentemente il soprabito, troppo pesante per la temperatura all’interno. Sulle palpebre aveva disegnato una linea color pesca sfumata e brillante, le ciglia erano state sapientemente infoltite e arricciate con del mascara: era un modo di truccarsi che non le apparteneva – era probabile che ci fosse lo zampino di qualcuna delle sue amiche – ma che le donava tantissimo. Non sarebbe riuscito a staccarle gli occhi di dosso per tutta la sera, di quel passo si sarebbe perso anche José Blanco.
«Che ti succede, Tooru? Sai, potresti sederti anche tu, così chi ha pagato il biglietto per sedersi dietro di noi potrebbe – non so – guardare in campo.» lo esortò scherzosamente.
«Sei bellissima!» confessò distratto prima ancora di rendersene conto.
La ragazza arrossì e accennò un sorriso nervoso.
«Dai, piantala di dirmi queste cose. Lo so che non è vero e che lo dici a tutte.»
Imbarazzato, si affrettò ad accomodarsi al suo fianco. Erano di nuovo troppo vicini e lui aveva appena fatto l’ennesima figuraccia. Eppure i ragazzi erano stati chiari: niente affermazioni plateali. Perdono, ragazzi – dichiarò fra sé e sé rivolgendosi agli amici assenti – non l’ho fatto di proposito, mi ha fregato!
«Oggi non riesco a smettere di guardarti, ancora più del solito. Quando dico che sei bella, lo intendo davvero. E anche se tu pensassi il contrario, lo sei per me.»
Megumi non distolse lo sguardo come avrebbe fatto di solito. L’osservava con sincero interesse, con una scintilla negli occhi a cui Tooru non riusciva a dare un nome. E così, mentre in campo iniziavano i riscaldamenti e gli altoparlanti alternavano la musica assordante ai primi commenti dei telecronisti, la ragazza si convinse a parlare.
«Mesi fa» esordì incerta «In questo posto mi hai detto che ti piacevo.»
Si riferiva all’estate precedente, al giorno in cui si era presentato a sorpresa durante gli allenamenti dell’amatoriale ed aveva scoperto la ragazza in campo. Aveva anche fatto una pessima figura, perseverando nell’intento di stuzzicarla. Se ne vergognava abbastanza.
«Non riuscivo a capire: io ti conoscevo appena e ti detestavo, ti avevo umiliato davanti alle mie compagne di squadra e ai tuoi amici, eppure tu avevi perlustrato tutte le palestre di Sendai per chiedermi di uscire. Allora mi hai fatto un elenco di tutti i motivi per cui ti piacevo: mi erano sembrate tutte scuse stupide e scontate, ho pensato che volessi solo divertirti, spezzarmi il cuore e avere la tua rivincita su di me.»
«Gumi-chan, ero onesto.» le garantì, mortificato che lo avesse immaginato tanto meschino e superficiale. Certo non doveva godere di una reputazione rimarchevole.
«Adesso mi dispiace di averlo pensato: ti conoscevo poco. Certo, sono passati soltanto alcuni mesi, ma ne sono successe così tante che mi sembra un’eternità. Magari non t’importa niente, ma volevo che prima o poi lo sapessi.» Megumi inspirò profondamente, cercando il coraggio necessario per porgli la domanda successiva.
«Pensi ancora quello che hai detto allora, anche dopo avermi conosciuta per quel che sono e aver scoperto di cosa mi sono macchiata?»
«No.» replicò, più per godersi l’incredulità sul suo volto che per aggiungere altro.
Si dispiacque presto di averla allarmata, perciò si affrettò ad aggiungere:
«Adesso mi piace anche altro di te. So che sotto sotto sei una ragazza dolce e premurosa, che ti tiene la fronte quando stai male, che si preoccupa per te anche quando non ce n’è bisogno.»
«Sai che cosa ho fatto, che sono ricorsa a degli stratagemmi, che ho venduto la mia dignità.»
«So che non passa nemmeno un giorno da allora senza che tu te ne dispiaccia profondamente. So che non avevi idea dei guai in cui ti stavi mettendo. So quanto ti stai impegnando per rimediare con te stessa e con la tua squadra. Sei forte anche fuori dal campo e questa parte di te allora non la conoscevo: sono grato che tu me l’abbia mostrata.»
Megumi scosse lentamente il capo, le guance definitivamente in fiamme.
«Non mi abituerò mai ai tuoi complimenti.»
«Ti prego, non farlo mai! Imbarazzarti è troppo divertente!»
«Ti picchio e ti assicuro che non sto solo abbaiando.» scherzò lei in tutta risposta.
«Gumi-chan sei ossessionata dal picchiarmi! Non potresti farmi qualcos’altro?» si sentiva particolarmente ardimentoso quella sera «Non so, non potresti darmi un bacio per una volta?»
A quel punto, si aspettava un profluvio di obiezioni impacciate, una manata sulla spalla che lo avrebbe fatto ruzzolare giù dagli spalti fino alle panchine dei Falcons. Megumi, tuttavia, continuò a fissarlo coi suoi grandi occhi marroni e gli rivolse un sorriso affettuoso.
«Vedremo.» mormorò, quasi impercettibile sotto il fischio d’inizio della partita.
«Non lo faresti mai, Gumi-chan, è inutile che bluffi. Ormai ti conosco perfettamente.»
«Non ti picchierei mai, non ti bacerei mai… Non credi di star facendo troppe assunzioni?» lo riprese, ma non era né irritata né canzonatoria: gli parve semplicemente pensosa.
Si era dimenticato, nell’elenco dei motivi per cui si era innamorato di lei, del cortocircuito che Megumi scatenava nei meccanismi di perspicacia di cui andava tanto fiero: sei mesi gli sarebbero bastati abbondantemente per comprendere chiunque altro, ma Megumi era l’incognita dispettosa di un’equazione complicata. Lo aveva sospettato qualche settimana prima, quando per la prima volta gli aveva confessato di sentirsi confusa: in quei mesi, qualcosa era cambiato. Che le sue insinuazioni non fossero solo provocazioni ma fatti reali? Il solo pensiero era sufficiente a fargli martellare il cuore in petto.
«Allora sconvolgimi.»
«Se lo facessi a comando come potrei sorprenderti? Io mi concentrerei sulla partita, al posto tuo. Falcons-Hornets non capita tutti i giorni a Sendai.»
 


 

Tooru aveva ragione: Megumi, nemmeno pienamente consapevole di cosa stesse facendo, aveva bluffato. Stupida – stupida – Megumi, come ti viene in mente di metterti a flirtare apertamente con lui se poi non hai il coraggio di fare una cosa qualsiasi? Una litania mentale che continuò a ripetersi per tutta la durata del primo set, perdendosi gran parte del divertimento, e che proseguì quando lui si allontanò durante la prima pausa per poi ripresentarsi con una coppia di onigiri squisiti. Abbattuta, si rimproverò di aver rovinato tutto: doveva, con quelle poche battute audaci, avergli creato delle aspettative troppo alte che non sarebbe mai riuscita a soddisfare. E se anche fosse riuscita ad oltrepassare ogni suo limite e baciarlo – e l’idea la scuoteva dentro come una foglia al vento – cosa avrebbe fatto se, come aveva scoperto con Wakatoshi, si fosse resa conto di non esserne davvero colpita?
Così, seppur dimostrasse di non essere affatto tesa e commentasse con Tooru lo svolgimento delle azioni in campo, Megumi non riuscì nemmeno a guardar Kolanko bene come desiderava. Le sembrava che fosse più interessante il ragazzo che le sedeva accanto, il che per lei era piuttosto grave. Quando mai la sua scala delle priorità era stata capovolta in quel modo? Tooru, invece, sembrava aver preso alla lettera il suo suggerimento a concentrarsi sulla competizione.
«Blanco è incredibile.» osservò colpito quando il quarto set ebbe sancito la vittoria definitiva dei Tachibana Red Falcons «Fino allo scorso campionato, Yamazaki era disastroso, continuamente in ansia per questo o per l’altro motivo. Da quando è nei Falcons è rinato, il coach ha fatto un lavoro straordinario! Non sai cosa darei per farmi allenare da lui!»
«Vuoi dirmi che il tuo preferito è l’allenatore?»
Tooru rise e Megumi dovette sforzarsi per non restarne rapita.
«Quando ero bambino lui giocava ancora come palleggiatore, l’ho visto dal vivo una volta e mi è bastata per capire che volevo ricoprire il suo stesso ruolo. All’epoca era già relativamente vecchio ed è restato in campo per pochi scambi, ma il suo intervento è stato decisivo per risollevare le sorti dell’intera partita.»
«Forse ho capito… intendi Giappone-Argentina a Sendai. Io e Waka-nii ce lo siamo perso, abbiamo versato fiumi di lacrime senza commuovere nessuno dei nostri genitori. Non conosco molto Blanco, ma è un’istituzione e da quando c’è lui i Falcons hanno infranto il record dell’imbattibilità.»
«Deve bruciare, per una che tifa per i Mitsubishi Tigers
«Con tutto il rispetto per José Blanco ai suoi tempi d’oro, le mani Schmidt da quattro anni fanno cose che dovrebbero essere dichiarate illegali. Perciò Tigers tutta la vita!»
«Quindi sei una fan di Schmidt.» la stuzzicò poco dopo, mentre abbandonavano il caldo rassicurante del palazzetto per avventurarsi nell’ennesima nevicata della giornata.
Il vento si era fortunatamente calmato e soffiava meno intensamente di quanto avesse fatto quella mattina. Megumi, per quanto fosse ansiosa, accettò di prendere a braccetto Tooru perché entrambi fossero sotto l’ombrello. Si sentiva felice e la cosa la terrorizzava.
«Non avrei mai detto che t’interessasse il palleggiatore. Insomma, avrei giurato che ad attirare la tua attenzione fossero solo quelli che tirano bombe sul muro. Tipo il tuo Ushiwaka-nii o Kolanko.»
«Be’, mi piacciono quelli che tirano bombe come dici tu, a tutti piacciono! Ma sono un’attaccante con dei gusti piuttosto raffinati in fatto di palleggi e so riconoscere un alzatore eccellente. Poi posso dirti la verità? Se Schmidt bussasse alla mia porta di certo non lo lascerei fuori casa!»
«Se mi volevi geloso, ora sono geloso. E anche depresso.»
«Non serve essere geloso: fra qualche anno Schmidt sarà in pensione mentre tu – mi ci giocherei qualsiasi cosa – sarai sulla cresta dell’onda. Sei già promettente ora, non puoi fare altro che migliorare.»
«Non essere buonista, io non sono niente di straordinario. E poi Schmidt lo lasceresti entrare, a me sbatteresti la porta in faccia anche se nevicasse così!»
«Quanto a non essere straordinario, credi pure quello che vuoi, ma io con te ci ho giocato e mi sono fatta un’idea chiara di come funzioni. E, per la cronaca, i miei genitori mi hanno insegnato a ricambiare l’ospitalità, perciò ora come ora non ti chiuderei fuori nemmeno se fossi il ragazzo meno attraente del pianeta.»
«Mi interessa molto il corollario di quest’ultima affermazione: vuol dire che mi trovi attraente?»
«Forse sei un po’ magrolino rispetto ai miei standard.»
«Hai detto che mi avresti sconvolto, Gumi-chan.» la punzecchiò il ragazzo con un sorriso sornione «Sii diretta e ammetti per una volta che ti piaccio almeno un pochino.»
Appena risentita, Megumi inarcò un sopracciglio.
«Mi sembrava di averti spiegato che se faccio qualcosa su tua richiesta non posso sconvolgerti. Ma forse hai bisogno di rileggere un dizionario.»
«Guarda che se lo ammetti non cambia nulla fra noi!»
Eppure Megumi desiderava – lo sentiva scalpitare nel profondo del suo stomaco sotto la forma di uno sciame di farfalle irrequiete – che tutto cambiasse. Lottava contro se stessa perché non cedesse, era spaventata dall’eventualità di scottarsi, ma voleva chiarire il groviglio di sentimenti che le pulsava nel petto. Desiderava prendere Tooru a pugni per tutte le volte in cui l’aveva stuzzicata e se stessa per essersi fatta coinvolgere. Sapeva benissimo dov’era la risposta: a portata di mano, stretta al suo braccio destro, rossa e invitante come le sue labbra irritate dal vento gelido.
Non era in sé: non lo era quando piantò i piedi nella neve, impedendogli di proseguire oltre. Non lo era quando lo tirò anche per l’altro braccio, costringendolo a voltarsi di fronte a lei. Era completamente fuori di sé quando appoggiò finalmente le labbra su quelle del ragazzo, per scoprirle calde, soffici e lisce come il velluto.
Non avrebbero mai saputo raccontare bene cosa fosse accaduto, ma ad un tratto Tooru non reggeva più l’ombrello, perché entrambe le mani gli servivano per stringerla. Megumi si era ritrovata con le braccia avvolte attorno alle sue spalle senza nemmeno accorgersene. Di certo, fu un bacio abbastanza lungo da lasciarli senza fiato, audace al punto da vincere il freddo rigido della sera e, quando furono costretti a staccarsi per ritrovare il respiro, Megumi borbottò di non essere ancora troppo sicura che le fosse piaciuto e di voler riprovare di nuovo. In realtà il cuore le martellava così forte che ne sentiva l’eco nei timpani: non era mai stata così felice.
Tooru, completamente scombussolato dalla contentezza, non se lo fece ripetere un’altra volta.
«Sì, sì…» ridacchiò divertito «Non sei affatto sicura che io ti piaccia…»
Lei rise, si rese conto di sentirsi improvvisamente più sfrontata e suo agio. Strinse le guance rosse del ragazzo fra i palmi delle mani e riprese a baciarlo. Soffocarono una risata l’uno sulla bocca dell’altra, naso contro naso, fronte contro fronte. Tooru era gentile e delicato: aveva lasciato che fosse Megumi a prendere il controllo del bacio, senza forzarla, ma si accorse divertito che la ragazza non aveva alcuna intenzione di essere discreta.
Tooru non era Hattori: dopo mesi di effusioni sottrattele con la forza, Megumi scopriva per la primissima volta cosa si provasse a baciare qualcuno perché si desiderava farlo davvero. Era stordita dall’entusiasmo, elettrizzata dalla felicità: non aveva mai provato nulla di simile e ciò non faceva di lei un’esperta, ma era certa di aver conosciuto un sentimento importante.
«Allora, non sei ancora sicura e vuoi riprovare una terza volta?» scherzò lui stringendola più forte «No, perché io non mi tiro indietro, fai pure, sono a tua completa disposizione.»
«Credo di essere innamorata.» confessò, trainata da una potente scarica di adrenalina «Da qualche tempo, in realtà, non faccio altro che pensare a te e alla tua stupida faccia, al tuo modo di parlare quando siamo insieme, ai messaggi che mi invii ogni giorno, a quando mi abbracci. Quando ci diamo appuntamento, non riesco ad aspettare… anche oggi, il tempo sembrava non passare mai. Adesso, ti giuro, sono felice. Mi dispiace di averti respinto per così tanto tempo, di essere stata egoista e maleducata…»
«Sai Gumi-chan, io non sono così tanto sicuro di essere ancora innamorato di te.»
Per un istante, la ragazza sentì il cuore fermarsi, ma poi Tooru le sorrise.
«Perciò vorrei darti un altro bacio, tanto per essere sicuro. E, visto che non sarò sicuro nemmeno dopo il terzo bacio, ti anticipo già che vorrei dartene un quarto, un quinto e magari anche un sesto.»
«Tutti quelli che vuoi!»
«Ma come siamo meschine! Approfittare del cuore in tempesta di un povero ragazzo confuso come me! Gumi-chan, dovresti vergognarti!»
Ci misero altri dieci minuti buoni a decidersi a ripartire: Megumi strinse più forte il braccio di Tooru e ripresero ad avanzare a piccoli passi sotto l’ombrello. Persero il loro treno e furono costretti ad aspettare il successivo, ma nessuno dei due sembrava troppo dispiaciuto di poter rimanere abbracciati un altro po’ di tempo.
O almeno, era quello che avrebbero potuto fare se il cellulare di Tooru non avesse squillato. Il ragazzo rispose alla chiamata con il naso arricciato per il disappunto: qualcuno era venuto a prenderli in auto. Prima ancora di staccare la telefonata, prese Megumi per mano e la invitò a seguirlo all’uscita. Quando furono fuori, c’era una Toyota metallizzata ad aspettarli, con alla guida la ragazza più bella che Megumi avesse mai visto.
«Mostriciattolo, se mi avessi detto prima che nevicava così tanto sarei venuta a prendervi dal palazzetto.» spiegò in direzione di Tooru, seduto sul sedile del passeggero.
«Fa niente, è stato un percorso piuttosto piacevole. Anzi, non ci sarebbe dispiaciuto se ti fossi fatta i fatti tuoi.» si lamentò lui.
Poi la bella ragazza, le lunghe ciglia riflesse nello specchietto retrovisore, identiche a quelle di Tooru, la esaminò con curiosità.
«Tu devi essere Megumi, Tooru mi ha parlato molto di te: sono molto felice di poterti finalmente conoscere. Visto che è così rintontito da dimenticarsi di presentarmi, lo faccio da sola: io sono sua sorella maggiore, mi chiamo Asuka.»
Megumi avrebbe voluto diventare invisibile per la vergogna, soprattutto perché udì Tooru ridacchiare flebilmente. Ecco come si risolveva la faccenda della famosa spasimante Asuka, onnipresente nei racconti di Oikawa e prodiga di regali costosi: era sua sorella maggiore. A onor del vero, il ragazzo aveva provato diverse volte a chiarire la realtà dei fatti, ma lei si era sempre rifiutata – testona com’era – di starlo ad ascoltare. L’ennesimo criterio sulla cui base aveva sbagliato a giudicarlo: sperò che avesse avuto il buonsenso di non riferirlo alla sorella.
«Piacere di conoscerti, Asuka.» rispose tesa «Spero che ti abbia raccontato solo le cose migliori.»
Asuka rise mentre ingranava la seconda.
«Mio fratello mi ha raccontato di avere una cotta.»
Forse gli Oikawa si trasmettevano la schiettezza nel DNA: solo così poteva spiegarsi la lingua lunga che Tooru e sua sorella condividevano. Megumi vide Tooru arrossire mentre rimbeccava Asuka per quanto aveva detto, ma adesso le sembrava tutto più semplice: non avevano bisogno di negare proprio nulla.
«Allora, state insieme o no? Dai, prometto che non lo dico alla mamma!»
«Non sei credibile, non riusciresti a tenere la bocca chiusa nemmeno se t’impegnassi davvero!»
«E perché altrimenti avresti preferito che io vi lasciassi da soli su una panchina della stazione?» lo stuzzicò la più grande.
«Non sono fatti tuoi!»
«Dai, Megumi, dimmelo tu.» la pregò e Megumi sentì le mani sudare «State insieme?»
Si accorse che il riscaldamento nell’abitacolo era, a un tratto, insopportabile.
«Io…» balbettò, presa in contropiede «Credo di sì.»
Tooru si balzò di scatto e si sporse verso il sedile posteriore, con le labbra pronunciate in direzione del suo viso.
«Gumi-chan, non ci credo che l’hai ammesso davvero, baciamoci di nuovo!»
Asuka, divertito della situazione, svoltò una curva un po’ troppo larga, spingendo il fratello indietro al suo posto, con grande sollievo di Megumi.
«Ah, quanto siete giovani e carini!»
«Se lo dici alla mamma, mi riprendo la stufetta.»
«Mamma lo capirà da sola appena vi vedrà. E – per la cronaca – se volete starvene insieme stanotte, posso coprirvi.»
«Asuka!»  si affrettò a interromperla il fratello minore «Non siamo a quel punto lì!» poi si voltò allarmato verso Megumi «Gumi-chan, non starla ad ascoltare: dormiremo in due stanze diverse, come promesso!»
Ma Megumi riuscì ad afferrare ben poche delle sue parole, imbarazzata com’era dalla piega che la conversazione aveva assunto. Immaginarsi sola con lui in un contesto più intimo la spaventava e l’incuriosiva al tempo stesso, ma era certa che quell’argomento fosse troppo prematuro da trattare al momento. Era a malapena riuscita a vincere il timore di fidarsi di lui e di baciarlo, non voleva pensare agli step successivi.
Tooru si sporse di più oltre lo schienale del proprio sedile, abbastanza per rassicurarla piano, perché la sorella non sentisse:
«Davvero, non crederle: non accadrà nulla.»
Era del tutto irrazionale il modo in cui quelle parole ebbero il potere di calmarla: si accorse di fidarsi ormai così tanto di lui da considerarlo un punto di riferimento insindacabile. Quando era successo? E, soprattutto, quanto era rischioso? Aveva il presentimento che – prima o poi – l’impatto con la fredda realtà sarebbe stato durissimo, ma aveva deciso di smettere di rimuginare ed essere felice per quel poco che le spettava.
Mentre ascoltava i due fratelli bisticciare, Megumi non poté fare a meno di ridere dietro la sciarpa di lana: sembrava che tutte le sue conoscenze si divertissero a stuzzicare Tooru in un modo o nell’altro e non solo lo trovava il giusto scotto da pagare per tutte le volte in cui era stato lui a punzecchiarla, ma cominciava anche a capire perché fosse tanto divertente.
Casa di Tooru, come scoprì, non era troppo distante dal centro: un piccolo edificio su due piani racchiuso in un minuscolo giardino che al momento era sepolto sotto la neve. Seguì, un po’ ansiosa, i due fratelli all’ingresso e cercò di farsi un’idea mentre si sfilava gli stivali bagnati. Nella sua ingenua ignoranza di campagnola, era convinta che tutte le case di città fossero come quelle che si vedevano nei film: aveva immaginato una residenza moderna e sofisticata, che si addicesse al carattere patinato del ragazzo, invece fu molto più felice di scoprire un arredamento molto più spartano e un’atmosfera calda e familiare. Le sue narici si riempirono subito del profumo proveniente dalla cucina e arrossì quando lo stomaco le brontolò per tutta risposta. Oltre il corridoio, poteva sentire il chiacchierare distratto di diverse voci.
Asuka annunciò gettò le chiavi nello svuota tasche e annunciò a gran voce che erano rincasati e che avevano un’ospite. Era sempre così teatrale? Avrebbe voluto chiederlo a Tooru ma l’imminente incontro con il resto della sua famiglia la preoccupava al punto di paralizzarle la lingua: se fossero stati tutti come Asuka, avrebbe finito per strozzarsi con un boccone durante la cena. Chi avrebbe conosciuto per primo? Sua madre, che a detta di Iwaizumi doveva essere la cuoca dietro a quel profumino irresistibile? Oppure suo fratello maggiore, quello che aveva visto al suo fianco in pronto soccorso la sera in cui erano sfuggiti ad Hattori? E se invece fosse stato suo padre? Non aveva la minima idea di chi fosse e di cosa facesse: non aveva mai chiesto a Tooru nulla riguardo alla sua famiglia, mentre lui di domande gliene aveva fatte tante.
Infine, con uno scalpiccio concitato di piedi sul parquet, comparve dall’angolo del corridoio un ragazzino che doveva avere – ad occhio e croce – sei o sette anni. Il bambino, che aveva avuto tutta l’intenzione di balzare addosso a Tooru, rimase a fissarla pensoso.
«Takeru, lei è Megumi, una mia amica.» li presentò il ragazzo «Non essere sgarbato e…»
Megumi non poté udire il resto della frase, perché la piccola peste gonfiò il petto prendendo fiato e poi urlò:
«Nonna, zio Tooru ha portato la fidanzata!»
Tooru si piantò entrambe le mani sulla fronte, mentre Megumi cercava di capire quanto fosse fattibile imparare il teletrasporto nel giro di qualche secondo, appena in tempo prima che l’intera famiglia Oikawa si affacciasse nel corridoio per scoprire la sua identità. Asuka, dal canto suo, rideva così tanto che dovette reggersi al muro.
«Takeru, non è la mia ragazza!»
«È la tua ragazza.» replicò il nipotino socchiudendo gli occhi.
Troppo sveglio per la sua età: la storia della lingua lunga nel DNA Oikawa doveva avere un fondamento scientifico. Era certa che un buon numero di università giapponesi avesse tutto l’interesse a indagare su quel fenomeno genetico.
«Non dire scemenze!»
«Ma se avete tutti e due la faccia rossa! È ovvio che nascondete qualcosa!»
Tooru corse a tappargli la bocca con una mano.
«D’accordo, moccioso. Hai ragione tu, ma non peggiorare la situazione!»
«Lo dirò a papà!» mugugnò il ragazzino contro la sua mano.
«Va bene, allora scordati il regalo che mi avevi chiesto. Vorrà dire darò a un altro bambino!»
Takeru scosse il capo con urgenza.
«Allora promettimi che adesso dirai che era solo uno scherzo.» gli ordinò il più grande.
«Cosa era uno scherzo?» ripeté una voce femminile che Megumi non aveva mai sentito.
La signora Oikawa era una donna così giovane che mai nessuno avrebbe potuto immaginare che fosse già nonna. Portava i capelli scuri sciolti sulle spalle e, se non somigliava così tanto a suo figlio se non in alcuni dettagli, non si poteva dire lo stesso di Asuka: da ragazza doveva essere stata identica a lei.
La donna le rivolse un sorriso largo e li invitò ad entrare.
«Mamma, non credere a Takeru…» si lamentò Tooru.
«Piacere di conoscerti, io sono la mamma di questo mascalzone.» si presentò la donna con gentilezza, mentre li scortava al secondo piano affinché lasciasse il suo misero bagaglio nella propria stanza.
«Io sono Megumi.» rispose in un soffio, neanche troppo certa di aver scandito bene le parole.
«Non devi vergognarti, Megumi. Anche io sono molto emozionata: Tooru non ha mai invitato a casa la sua ragazza. Anche se – a dire la verità – mi aveva parlato di un’amica da ospitare…»
«In effetti» commentò imbarazzata «Le cose sono cambiate da pochissimo.»
«Davvero? Sono curiosa di conoscere la storia!»
«Mamma, potresti smetterla per favore? Stiamo insieme da meno di due ore, volete che mi molli entro la fine della cena?»
Megumi dovette ridere dietro una nocca: non avrebbe mai infranto un simile record di velocità, ma vederlo così preoccupato le faceva tenerezza.
La stanza in cui avrebbe dormito era spaziosa e ordinata: arredata in perfetto stile occidentale, era dominata dal colore blu che rivestiva il letto, le pareti e le finestre. Nella libreria erano riposti l’uno accanto all’altro decine e decine di testi di medicina. Apprese che il maggiore dei fratelli Oikawa, il padre di Takeru che lei aveva intravisto al pronto soccorso nella sera più triste della propria vita, aveva studiato odontoiatria.
Dopo aver garantito alla signora Oikawa che si sarebbe trovata benissimo (quella stanza, per lei che divideva una minuscola cameretta con sua sorella, era un’autentica reggia), Megumi seguì madre e figlio alla volta del salotto. Si ripeté che il peggio era passato: aveva resistito al ragazzino, ad Asuka e alla madre, la componente maschile della famiglia doveva essere più pacata.
In effetti, il signor Oikawa e il figlio maggiore la accolsero con più riservatezza. Shingo – così si presentò il fratello di Oikawa – si ricordava di lei da quella notte al pronto soccorso e si disse molto lieto di poterla incontrare in un’occasione molto più piacevole del loro primo incontro. Megumi, a dire il vero, ricordava il suo viso come una macchia indistinguibile: di quelle ore in ospedale e alla stazione di polizia ricordava soltanto dolore e paura. Con lui c’era sua moglie: una donna gentile e paziente di nome Yoshino. Una donna anche piuttosto fortunata, visto che Shingo – con i suoi occhiali con montatura a giorno e la barba appena accennata – era un uomo molto attraente.
“Chissà se crescendo Tooru finirà per somigliargli almeno un pochino!” Meditò fra sé e sé e poi si sentì una stupida: fra i due, quella che correva troppo forse era proprio lei.
Infine, quando si sedettero a tavola, scoprì che nonostante le proteste furiose del suo stomaco, mangiare le riusciva difficile. Iniziava appena a metabolizzare gli eventi accorsi nelle ultime ore e il fatto di trovarsi di punto in bianco in una riunione familiare in cui era l’unica estranea. Si sentiva osservata da più parti e cominciava a farsi scrupoli perfino su quanto mangiasse: se avesse preso porzioni troppo grandi sarebbe sembrata ingorda, se ne avesse preso troppo poco avrebbe finito per offendere la padrona di casa e la sua cucina del tutto ineccepibile. Iwaizumi l’aveva avvertita che resistere sarebbe stato difficile, ma la tensione sembrava in qualche modo aiutarla a non strafare.
Forse aveva sbagliato a baciarlo e a decidere di dichiararsi: un giorno se ne sarebbe pentita e allora si sarebbe vergognata di essersi perfino seduta al tavolo con la sua famiglia.
Proprio mentre l’ansia iniziava a logorare la bolla di felicità che le riscaldava il petto, sentì la mano di Tooru stringere la sua, senza pretese o parole inutili, e di nuovo riprese a respirare.
 

 

«Sei stanca.» le disse qualche ora più tardi nel buio della stanza di suo fratello. Non era stata una domanda, ma una constatazione sicura e fondata su prove solide e inconfutabili.
Eppure Megumi trovò il coraggio, tutto orgoglioso, di negare: era mentalmente stanca, ma così carica di adrenalina da non essere in grado di chiudere occhio. Lo stesso era valso per lui, che le aveva inviato un messaggio per chiederle se fosse ancora sveglia e se le andasse di chiacchierare. Aveva accettato l’invito perché credeva che sarebbe servito a conciliare il sonno, ma poi avevano scoperto che faceva troppo freddo per star fuori dalle coperte.
«Mi dispiace che ti sia sentita sotto esame, avrai notato che in famiglia abbiamo questa propensione a non farci i fatti nostri.»
Raggomitolati stretti l’uno all’altra nel letto troppo stretto per due persone, parlavano sottovoce perché nessuno si accorgesse che era sgattaiolato fuori dalla sua stanza.
Si erano detti che sarebbero rimasti così per poco ma adesso lei non aveva alcuna voglia di lasciarlo andar via. L’abbraccio di Tooru era caldo, rassicurante e profumava di buono.
«Tuo padre è in controtendenza, sembra molto tranquillo.»
Il ragazzo soffocò un risolino amaro fra i suoi capelli, le venne la pelle d’oca.
«Perché non gliene frega mai niente. Vuole soltanto che le cose si facciano come dice lui, tutto il resto non conta. Ma un giorno dovrà ricredersi.» annunciò, il tono di voce improvvisamente un po’ più grave.
«Mi dispiace.»
«Che non sia il migliore dei padri? Non si può mica avere tutto.» la strinse un po’ più forte e le baciò l’angolo delle labbra, mettendo a dura prova il ritmo cardiaco di Megumi. «Pensa che io ho già la ragazza più bella e dolce del mondo, non posso lamentarmi.»
«E chi è quest’altra? Io sono una stronza, perciò non può trattarsi di me.»
«Iwaizumi sottoscriverebbe questa tua affermazione con il sangue. Però almeno, dopo una giornata intera di tentativi falliti, hai accettato l’idea che io ti trovi bella.»
«O quella che tu debba tornare dall’oculista.»
Tooru sfilò il braccio sotto di lei e sciolse l’abbraccio, si puntellò sul gomito sollevando appena le lenzuola e facendola rabbrividire per il freddo. Con un piglio più rude e impaziente di quello a cui l’aveva abituata, l’afferrò per la nuca e le diede un bacio così feroce da lasciarla senza fiato e piena di domande.
«Invece sei fortunata che io riesca a trattenermi» le disse mentre si rialzava senza preavviso e le rimboccava le coperte «Ma sappi che è parecchio faticoso, perciò me ne vado prima di commettere errori.»
Nel buio, Megumi sentì il sangue fluire alle guance. Non voleva che andasse via, voleva un altro di quei baci affamati. Invece guardò la sagoma del ragazzo alzarsi e dirigersi verso la porta con lo stesso passo felpato con cui era arrivato.
«Buonanotte!» le sussurrò voltandosi prima di uscire.
La ragazza si voltò a pancia in giù e premette il viso sul cuscino, che ancora odorava del suo profumo.
«E adesso ti aspetti che io dorma?» mugugnò frustrata contro la federa «Razza di stupido!»

 


NOTE FINALI

Vabbè, un altro paio di giorni e per il titolo di questo disastro avrei dovuto pagare i diritti a Gigi D'Alessio. Sono stata davvero tentata di pubblicarlo la prima domenica di agosto, ma poi ho pensato che facessi già schifo abbastanza.

Vi voglio bene, anche se so che mi odiate.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3670292