Kismet

di cowslipkkoch_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Steps (to your heart) ***
Capitolo 2: *** Muse(s) ***
Capitolo 3: *** Love is the cure ***
Capitolo 4: *** 11.446,57 km (far away) ***
Capitolo 5: *** His whisper was the Lucifer ***
Capitolo 6: *** The Fuzzy Remembrance of You ***



Capitolo 1
*** Steps (to your heart) ***


{ intro: Jongdae è all’ultimo anno di università e Joonmyun è il nuovo assistente della facoltà di scienze. }

 

 

STEPS (to your heart)




 

 

La prima volta in cui si incontrarono (o meglio, in cui Jongdae lo vide) fu a inizio settembre. Nonostante i corsi non fossero ancora iniziati ufficialmente, molti studenti dell'ultimo anno decisero di occupare sin da subito le loro stanze di dormitorio e fra questi vi era Jongdae. Arrivò il primo di settembre, com’era solito fare, e dopo aver sistemato i suoi effetti personali nella sua nuova stanza, decise di girovagare per il campus con il suo migliore amico, Baekhyun, anche lui all'ultimo anno. Il processo ormai era chiaro: prima si ritiravano le chiavi della stanza di dormitorio, si sistemavano vestiti e oggetti e poi si andava a ritirare i libri nell'edificio principale. Proprio lì, nell'edificio principale, Jongdae lo notò per la prima volta.
"Baekhyun?".
"Sì?".
"Quel ragazzo là è un nuovo studente?".
Seduto su uno dei divanetti posti davanti all'ufficio della segreteria, c'era un ragazzo, bello, estremamente bello, che catturò l'attenzione di Jongdae. La sua pelle era di un tono chiaro e risaltava perfettamente le labbra rosee, in quel momento strette in una linea retta, il naso era semplicemente perfetto, così come i suoi occhi piccoli e i suoi capelli neri ordinati e lisciati, l'unica imperfezione su quel viso angelico era una piccola cicatrice tra il ponte del naso e il sopracciglio destro. Per il resto, era stupendo.
"Non penso".
Ci fu un attimo di silenzio fra i due ragazzi, ancora in attesa per ricevere i libri di testo, e Jongdae occupò quei minuti osservando lo sconosciuto, il quale sembrava altrettanto perso nei suoi pensieri. A un certo punto qualcosa urtò il gomito del primo.
"Ora ricordo", iniziò l'amico, muovendosi come un che stava per spifferare un segreto di grande importanza, "E' Kim Joonmyun, il famoso assistente che doveva arrivare l'anno scorso", disse.



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Jongdae fra tutti i suoi amici era conosciuto come quello che per abbordare usava le tecniche più strane e mai viste, e nessuno ormai si sorprendeva quando egli iniziava a fare domande strane o a mandare messaggi in cui chiedeva cose particolari.
"Baekhyun-ah~", già da quello il diretto interessato capì che Jongdae doveva chiedergli qualcosa.
"Sì?".
"Sai dove alloggia Joonmyun?".
Appunto. Lanciò uno sguardo confuso all'amico, il quale era stranamente tranquillo per una domanda del genere. Perché mai Jongdae voleva sapere dove alloggiava Joonmyun? Non glielo chiese apertamente, lo pensò e basta, e si limitò a rispondergli in modo ovvio, "Alloggia dove alloggiano tutti i professori che vengono fuori da Seoul, ovviamente".
Nemmeno un minuto dopo e Jongdae aveva già abbandonato Baekhyun al dormitorio, solo per mettersi sulle scale antincendio e comporre il numero di un suo fidato compagno di corso.
"Jongdae? Lo sai che stavo studiando?", borbottò Chanyeol, appena rispose al telefono.
"No, non stavi studiando", ribatté Jongdae, calciando una foglia, "Lo sento che stai masticando, idiota".
"Dimmi cosa vuoi e basta, ti prego".
"Sedici porzioni di patatine fritte del Mc Donald's".
E Chanyeol non volle sapere altro.

Era passato circa un mese dall'inizio dei corsi, ovvero un mese da quando Jongdae vide per la prima volta Joonmyun nell'atrio dell'edificio principale, e lungo quel mese i due ebbero modo di incontrarsi "accidentalmente" una seconda volta. Da quel secondo incontro (primo, per l'assistente) il maggiore notò la continua presenza del minore, che, giorno dopo giorno, faceva di tutto e di più per parlargli anche per qualche minuto, e in qualche modo si ritrovarono pure l'uno con il numero di telefono dell'altro.
"Joonmyun, sei nella tua stanza?", chiese quella sera Jongdae, appena l'assistente accettò la chiamata.
"Buonasera anche a te, Jongdae", rispose l'altro, trattenendo una risata, "Comunque no, perché?".
A quanto pare, da come gli era stato detto, era una domanda fatta a caso. Lo studente lo intrattenne per tutto il tragitto via chiamata, parlandogli di come si fosse stancato quel giorno ai corsi e come il suo compagno di stanza fosse noioso, e lui non poté far altro che ascoltare per tutto il tempo, ascoltare e assorbire ogni informazione che gli veniva lasciata, finché non giunse davanti al suo alloggio. Jongdae parve sentire il rumore che fece la porta appena fu inserito il codice e finì il suo discorso.
"Che diavolo–".
"Joonmyun?".
"Chi mi ha mandato... sedici porzioni di patatine fritte nella mia stanza?".
Una risata si fece sentire dall'altra parte del telefono e non ci volle molto prima di capire chi avesse fatto tutto ciò; Joonmyun scosse la testa e si avvicinò a quei pacchetti, dispostiti in un ordine che visto dall'alto formava un cuore, e in mezzo ad esso raccolse un biglietto. Una delle vie per il cuore passa dallo stomaco.
"Se fossi stato io?"
"Jongdae–".
Non fece in tempo a continuare la frase, che la chiamata cadde.




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"Allora la prof. Lee si ferma, si avvicina a Sehun e come gli tocca la spalla lui cade dalla sedia e urla 'L'era Joseon inizia nel 1392!'".
Una risata si fece largo per tutta la stanza, soffocando il borbottio del povero Sehun che, nel vano tentativo di cambiare discorso, chiese se tutti si potevano concentrare di più sullo studio che sulle sue figuracce fatte durante l'ora della professoressa Lee; era un freddo venerdì d'inverno e Jongdae, in vista degli esami, era riunito insieme a tutta la sua combriccola per studiare.. o almeno era quello che avevano fatto per una buona ora e mezza, prima che Jongin iniziasse a raccontare cosa Sehun combinava durante le lezioni di storia, e lì tutti si erano distratti, dimenticandosi il motivo principale per cui si erano riuniti in aula studio. Occupata solo da loro, a quanto pare.

Da: Joonmyun
Tu non eri quello che doveva studiare questo pomeriggio?


Da: Jongdae
Io sto studiando!

Da: Joonmyun
Guarda fuori dalla porta.

Jongdae alzò lo sguardo dalla schermata del cellulare fino a portarlo sulla porta di vetro che dava al corridoio, lì, in piedi, con un piccolo sorrisetto a contornargli il viso, c'era Joonmyun con le braccia strette al petto e uno sguardo che diceva tanto "Stai studiando, eh?". Quando i due sguardi s’incrociarono, entrambi non riuscirono a non trattenere una risata e la voglia di alzarsi per andargli incontro colpì improvvisamente lo studente, ma poi si ricordò con chi era, e cancellò quel desiderio.

Da: Jongdae
E' un nuovo modo per studiare, vecchietto.

Da: Joonmyun
E' una vecchia maniera per non superare l'esame, giovinotto.

Per Jongdae fu complicato trattenere una risata, alzò lo sguardo e Joonmyun non c'era più. Sprofondò nella sedia, portando il telefono più in basso, così da non farsi vedere dagli altri, e velocemente prese a digitare sullo schermo. Baekhyun, nel frattempo, si era accorto della posizione dell'amico e con sguardo sospetto si avvicinò, non volendo vedere cosa stava combinando là sotto.
"Non gli stai mandando foto osé, vero?".
A Jongdae venne un colpo sentendo la voce dell'amico all'improvviso e questa volta non fermò la voglia di tirargli un pugno sul braccio, "Non farlo mai più".
"Non sono io quello che manda foto oscene a un docente", ammiccò.
"Non gli sto mandando foto oscene", sbuffò, tornando sullo schermo del suo cellulare, "Gli sto solo chiedendo di uscire".

Da: Jongdae
Hyung?

Da: Joonmyun
Sì?


Da: Jongdae
Ti va di uscire dopo gli esami?



"Wow, da quando il nostro Jongdae è così coraggioso?".
"Ah, smettila, è solo un'uscita, non gli ho chiesto di sco–".
"Okay, okay!", alzò le mani Baekhyun, scivolando al fianco di Chanyeol, che sembrava essersi addormentato sul libro di letteratura inglese, "Non ti ho chiesto di dirmi cos'hai intenzione di fare dopo".
L'istinto disse a Jongdae di tirargli un calcio sul polpaccio, ma tutto ciò fu fermato dalla vibrazione del telefono.


Da: Joonmyun
Con piacere. :)




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"Esami finiti, stronzi!", esclamò Jongdae trionfante, uscendo dalla struttura del suo dormitorio.
"Stronzi? C'è qualcuno oltre a me?", chiese Joonmyun con un'espressione corrucciata, facendo finta di essere confuso.
Con la fine di gennaio, era giunta anche la fine di tutti gli esami per tutti gli studenti del campus, che nonostante le vacanze dovettero sudare sette camice per guadagnarsi un buon voto in ogni esame. A differenza di Jongdae, che rimase chiuso nella sua stanza del dormitorio fino a quando non diede pure l'ultimo esame orale, Joonmyun partì per la sua città natale, Bucheon, non appena iniziarono le vacanze natalizie, il che era risultata una sfortuna per il povero studente, ma per sua fortuna il maggiore non si scordò della sua promessa e come finirono gli esami, subito gli propose un giorno in cui uscire. Ovviamente, un venerdì sera.
"Ah, era... rivolto alle molecole d'aria– Yah! Tu! Non farmi respirare!", era una pessima messa in scena per scherzare, ma nonostante tutto l'assistente rise e ciò fece sorridere il minore, che rilassò le spalle, "Quindi, dove andiamo?"
"Al fiume Han".
Jongdae non si aspettava nulla di che da quell’uscita: nessuna carineria, nessuna offerta per un gelato che non avrebbe pagato lui bensì l'altro e nessuna mano che stringeva la sua al ritorno dall'università. Doveva essere un'uscita come le altre, fra amici (proprio come aveva cercato di dire a Baekhyun, e a se stesso), ma il fiume Han... lui non voleva andare al fiume Han, ormai conosceva pure le piante che erano lì!
Andarono con la macchina di Joonmyun e poi, una volta giunti a destinazione, proseguirono a piedi, camminando l'uno affianco all'altro, mentre parlavano tranquillamente di qualsiasi cosa.
"Jongdae, posso chiederti una cosa?", domandò a un certo punto il docente, quando si sedettero su una panchina per riposare un po' le gambe.
"Cosa, hyung?".
"Perché ti sei avvicinato a me?".
Jongdae spalancò gli occhi davanti a quella domanda e la gola si fece all'improvviso secca, come se non bevesse da ore e ore. Che razza di domanda era quella? Anzi, perché proprio quella domanda? Non poteva chiedergli... com’erano andati gli esami? Non si era interessato agli esami, poteva perfettamente parlargli degli esami e dirgli quanto era sicuro in certe domande!
"Come mai... questa domanda, hyung?", chiese il minore, cercando di non balbettare e, quindi, non essere stupido.
"L'ho trovata una cosa curiosa. Tutti cercano di evitarmi come la pesta, proprio come fanno con i loro professori, mentre tu mi sei venuto letteralmente contro", rispose tranquillamente e una dolce risata uscì dalle sue labbra.
Jongdae rise insieme a lui, ricordandosi il modo con cui aveva fatto iniziare il loro secondo incontro: il maggiore stava tranquillamente camminando per il campus, guardando in alto, e appena lo scorse non ci pensò più di due volte prima di corrergli contro, facendo finta di essere in ritardo per un appuntamento. A causa dello scontro i libri che Joonmyun teneva sottobraccio caddero, e Jongdae ne approfittò per aiutarlo e parlargli.
"Ero curioso", ammise Jongdae, catturando l'attenzione dell'altro, "Il primo giorno ti vidi davanti alla segreteria e un mio compagno mi disse che eri un nuovo assistente. Ero curioso perché sembravi troppo giovane e volevo vedere se facevi sul serio o se eri un ultratrentenne con la faccia da ventenne". Poi diamine se eri bello.
Il diretto interessato rise davanti a quella risposta e annuì, come se comprendesse, "Conoscendomi hai sfamato la tua curiosità?".
"Suppongo di sì", rispose con un sorriso sincero il minore.
Passarono il resto della serata così, seduti, parlavano e guardavano il fiume, e solo verso la fine della loro uscita si alzarono per aggiungersi alla folla che, impaziente, attendeva lo spettacolo che ogni sera il ponte Banpo offriva. Non ritornarono molto tardi, appena parcheggiata la macchina nel parcheggio dell'università lo studente poté notare che erano appena le undici di sera, ma non gli dispiacque e non gli diede molta importanza. Anzi. Era un punto in più a suo favore per far vedere a Baekhyun che era un'uscita senza secondi fini.
"Oh Dio, già qua?", sbuffò il suo compagno di stanza, appena lo vide entrare con un piccolo sorrisino.
"Visto? Uscita normalissima!".
"Meglio se ti teneva un'altra ora, così finivo il mio videogioco in pace", ribatté Baekhyun, con la bocca piena di patatine.
Jongdae ignorò l'amico che imprecava contro lo schermo della tv a causa di una "mossa falsa e scorretta" e preferì buttarsi sul letto, non preoccupandosi del fatto che non si era cambiato i vestiti, pronto per armarsi di computer portatile e cuffie. Stava giusto un guardando un video sulle cadute epiche quando vide il cellulare illuminarsi e non ci pensò più di due volte prima di aprire la notifica. Davanti ai suoi occhi apparve una foto in primo piano di Joonmyun, stanco e sorridente, che faceva il simbolo della pace, e questo bastò per dichiararsi passato a miglior vita.


Da: Joonmyun
[allegato] E' stato bello passare la serata con te.



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"Jongdae, concentrati".
"Ma hyuuuung", sbuffò Jongdae, poggiando la testa contro il tavolo, "Io ho fame! Non riesco a concentrarmi a stomaco vuoto".
"Ma Jongdaaaeee", lo ricopiò l'altro, facendo gli stessi movimenti, "Non sono io quello che ha chiesto aiuto per studiare!".
Erano passati due o tre mesi dall'uscita al fiume Han e Jongdae doveva ammetterlo, gli era piaciuta, e non perché da quel momento in poi Joonmyun sembrava essere così in confidenza da mandargli addirittura autoscatti su autoscatti ogni settimana o perché aveva ammesso che gli piaceva stare con lui, ma perché si era trovato bene e il fiume Han non era poi così male, anche se c’era andato molte volte; ora, oltre ad essere il suo hyung preferito, Joonmyun era diventato anche una sorta di tutor che lo aiutava con lo studio quando non capiva certi concetti.
"Non possiamo fare una pausa?".
"Solo se mi prendi un bicchierino di thè alla macchinetta".
"E' ufficiale, siamo in pausa", disse di tutta fretta lo studente, alzandosi e andando fuori dall'aula studio, senza chiedere né soldi né indicazioni su come dovesse essere il thè al docente. Il maggiore si segnò mentalmente di rendergli i soldi, una volta che l'altro fu tornato.
Jongdae non ci mise molto, comunque, prima di tornare di nuovo rifornito di thè per il maggiore e un paio di merendine per se stesso, e l'assistente non seppe se sorprendersi o meno quando i suoi centesimi vennero rifiutati dal minore, il quale sostenne che per un paio di centesimi non sarebbe sicuramente andato in povertà – anche perché finché non avrebbe avuto un lavoro tutto suo e una casa tutta sua (da tradurre come "finché non finirò l'università"), i soldi li avrebbe sempre prelevati dai portafogli dei genitori; ci fu un momento di silenzio piuttosto imbarazzante per entrambe le parti, dove l'uno scriveva chissà cosa su delle schede mentre mischiava il suo thè caldo e l'altro divorava una barretta al cioccolato mentre passava lo sguardo dal libro di filosofia al volto della persona seduta davanti a sé.
"Mi piaci".
La mano che muoveva il cucchiaino di plastica all'interno del bicchiere si fermò in un istante e Joonmyun alzò lo sguardo dai fogli, voltandosi completamente verso il ragazzo, il quale lo guardava dritto in faccia con uno sguardo deciso.
"Hai... detto qualcosa?", chiese battendo le ciglia, con sguardo confuso. Non poteva averlo detto veramente.
"Mi piaci, hyung", ripeté egli, e questa volta nella sua voce si alzò un po' di timidezza, "Mi piaci davvero, tanto".
E come si confessò, un bigliettino scivolò fra i due, andando verso il lato in cui sedeva il maggiore. Il diretto interessato (perché quel biglietto era ovviamente per lui) prese il pezzetto di carta fra le mani e lo girò, dove vi era una scritta, per leggerne il contenuto: "Sei nato il 21 dicembre? No, perché sei la fine del mondo". Ora, l'assistente non sapeva se questa frase era migliore o peggiore del "Una delle vie per il cuore passa dallo stomaco", ma fatto stava che le tecniche di seduzione di Jongdae, anche se strane, lo facevano sorridere (e anche un cieco si sarebbe accorto delle intenzioni dello studente).
"Hyuuuung, non fare finta di niente!", lo rimproverò il minore quando lo vide scrivere nuovamente sui fogli, senza fare nessun commento, "Ho visto che non sei rimasto indifferente!", esclamò, puntandogli il dito contro come per accusarlo.
Il secondo continuò a scrivere e a tacere, senza nemmeno guardare di tanto in tanto il suo "seduttore", ed egli, dall'altra parte, non sapeva come interpretare questo silenzio. Aveva fatto un passo falso? A Joonmyun non erano piaciute queste attenzioni? Magari non ricambiava i suoi sentimenti e per non farlo soffrire aveva preferito tacere? E cosa diavolo stava scrivendo su quei fogli? Una lettera d'aiuto per essere salvato dalle grinfie di Jongdae? Cercò di sbirciare, ma nell'esatto momento in cui si allungò per vedere le scritte, il maggiore girò il foglio e lo allungò verso di lui.
"Il 70% del tuo corpo è composto d'acqua ed io ho sete".
"Hyuuuuung", lo richiamò con un piccolo lamento Jongdae, nascondendo il viso dietro il foglio, "Sei pessimo".
"Non era questo il modo esatto?", rise appena Joonmyun, inarcando un sopracciglio.
"Tutto questo è così imbarazzante".
"Mi piaci pure tu, tsk", ammise, prima di poter sorseggiare il suo thè e facendo tossire il minore, "E per la cronaca, il mio compleanno è il 22 maggio", precisò con un piccolo sorriso divertito, accompagnato poco dopo da un Jongdae imbronciato che, in un borbottio, diceva di saperlo già.


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"Hyung, hyung, Joonmyun, Joonie, Myunie, hyung... hyuuuung".
"Mmh?".
Jongdae si fece più vicino a Joonmyun, tirandolo contro di sé e poggiando il capo contro la sua spalla, "Grazie per ricambiare i miei sentimenti", mormorò, chiudendo gli occhi e lasciando che le sue narici fossero sopraffatte dall'odore di colonia.
Il maggiore sorrise teneramente e si chinò appena per lasciare un piccolo bacio sulla fronte del ragazzo, prima di potersi appoggiare nuovamente allo schienale del divano, "Grazie a te per essermi venuto addosso quella volta".
Una risata scappò a entrambi questa volta, mentre il minore intrappolava una mano dell'altro fra le sue, "Quindi... d'ora in poi posso mandarti foto osé?".
Silenzio.
"Solo se la smetti con le tue frasi pessime da rimorchio".
"Affare fatto".

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Capitolo 2
*** Muse(s) ***


{ intro: Jongdae deve trovare un nuovo soggetto da fotografare e Joonmyun cerca qualcuno che lo stimoli a scrivere nuove canzoni. }

 

MUSE(s)






Jongdae amava due cose: la fotografia e il mare. Per entrambe, fu amore a prima vista. Non aveva molti ricordi legati alla prima volta in cui ebbe il piacere di toccare la sabbia e sentire la brezza marina picchiare contro la sua pelle, poiché era appena un neonato di ventiquattro mesi, che a malapena riusciva a dire una parola sensata (anzi, non lo sapeva proprio fare), ma da un video, che la madre costudiva avidamente fra le vecchie cassette, si poteva benissimo capire che, per il piccolo Jongdae, quello fu un colpo di fulmine. Sin da quando iniziò a giocare con i granelli di sabbia, osservando ipnotizzato come lei scivolasse fra le sue piccole dita, fino a quando non lo portarono in acqua, dove prese a scalciare le piccole gambe robuste, felice, e divertito dagli schizzi d'acqua, che s'alzavano ogni volta che le gambe uscivano da essa. Diversamente dal suo primo colpo di fulmine con il mare, il ragazzo ricordava perfettamente quando tenne per la prima volta in mano una macchina fotografica e, come detto prima, anche lì fu amore a prima vista... o meglio dire, a primo scatto. Non era nulla di che, quella macchina fotografica. Non era nemmeno vera. Perché Jongdae a quell'età aveva solo sei anni. L'unica macchina fotografica che poteva maneggiare correttamente, secondo il padre, era una di quelle giocattolo, di plastica, che andava a pile, e per immortalare una scena dovevi necessariamente inserire un rullino o proprio non te ne facevi niente, ma andò così: dopo essersi procurato un rullino, da qualche piccolo negozio di fotografia, iniziò a fare scatti a qualsiasi cosa (pure una mosca era un soggetto perfetto da immortalare). Portò il giocattolo a ogni gita che faceva con la sua famiglia, stringendola fra le mani o mettendola dentro uno zainetto, e iniziò a tenerla con sé persino la notte, quando dormiva, finché non ricevette una vera macchina fotografica al suo dodicesimo Natale. Da lì, si aprì il mondo di Jongdae, il quale vedeva solo foto, che riprendevano per la maggior parte delle volte il mare, e il fatto che la sua famiglia andasse sempre a Seogwipo d'estate, non faceva altro che aumentare questo amore platonico per le due cose.




"Bella addormentata, sveglia!"
Un verso ancora non identificato dal genere umano uscì dalle labbra di Jongdae mentre tirava le braccia sopra il suo capo, per stiracchiarsi, nello stesso tempo in cui inarcava la schiena. Era così traumatico riprendersi da un sonno così profondo, soprattutto se si era stati svegliati da Park Chanyeol, che per la sfortuna di Jongdae era il suo coinquilino da quasi due anni.
"Quando ti stiracchi, sembri un vero gatto", commentò divertito il secondo, guardandolo dalla porta.
"Non fare commenti inutili, Park", sbuffò, mettendosi seduto di malavoglia, "Cosa c'è per colazione?", chiese, prima che l'altro potesse ribattere.
"Omelette", rispose eccitato, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.
"Bruciate?".
Chanyeol sbuffò a quel commento, preferendo non rispondere e tornare in cucina, e Jongdae lo seguì poco dopo con un piccolo sorriso stampato in faccia. Come sospettato, le omelette erano bruciate, se non carbonizzate.
"Mi farai morire un giorno di questi", commentò il più basso dal suo posto a tavola, mentre lo "chef" di casa andava a buttare le sue due creazioni fallite.
Ed ecco come quella giornata iniziò per Jongdae, che ogni volta era svegliato dall'amico e poi era messo sotto tortura, dovendo testare i piatti che Chanyeol ogni mattina cercava di fare, prendendo spunto da qualsiasi pietanza di qualche paese straniero, e non c'era volta in cui ne facesse uno decente, fallendo il novantanove per cento delle volte. Il più basso trovava buffo, e anche un po' testardo (forse un po' troppo), il più alto. In due anni trascorsi sotto lo stesso tetto, l’amico non aveva mai rinunciato ai fornelli, nonostante che le sue capacità in quel campo fossero scarsissime, se non nulle, e ogni volta, a ogni pasto, a ogni ora, entrambi si ritrovavano con uno strano gusto in bocca e con le pietanze nemmeno a metà, pronte per essere buttate nella spazzatura o essere servite al gatto grasso della vicina, che a differenza loro accettava di buon gusto quei piatti. Dopo quell'ennesima colazione mancata, in cui si limitarono a bere del latte al caffè, i due si sparsero per il piccolo appartamento, come sempre: Jongdae occupò il salotto, preparando la borsa per il mare, e Chanyeol fece un via e vai fra bagno e camera sua, almeno tre volte, prima di poter fare la sua comparsa in salotto, con lo spazzolino ancora in bocca e il dentifricio che gli sporcava parte del mento.
"Torni in spiaggia anche oggi?", chiese il secondo, poggiandosi contro la porta che dava al salotto.
"Sì. Tu non vieni?", chiese il diretto interessato, sistemando con cura la sua Sony RX10.
"Magari dopo, ora non ci tengo a vedere il fotografo Kim in azione".
Quattro anni. Era da quattro anni che sentiva quel soprannome uscire dalle labbra dell'amico (Jongdae e Chanyeol si conobbero nei primi giorni dell'università e al secondo anno decisero di abitare insieme, così da poter mettere da parte più soldi per le spese universitarie e per quelle che servivano per placare qualche sfizio, che qualche volta, ogni tanto, non faceva mai male), e ormai non sapeva più dirsi se gli piaceva o no quel soprannome. Certo, non era un fotografo, o almeno non ancora, ma sapere che le sue foto erano alla pari di quelle di un professionista faceva piacere, e si sentiva realizzato; dopo quella frase il più alto ricevette solo un piccolo sbuffo come risposta, ma non ci fece caso, preferendo sedersi sul divano piuttosto che stare in piedi.
"Sai dove trovarmi, comunque", accennò il più basso, sapendo che prima o poi anche l'amico avrebbe messo piede nel porto.
"Al porto, dal bar di Minseok", recitò l'altro, alzando gli occhi al soffitto. Jongdae era così monotono e andava davvero negli stessi posti ogni giorno.





Per Jongdae abitare a Incheon era sicuramente una fortuna, non avrebbe mai potuto chiedere città migliore nella quale abitare senza doversi allontanare troppo dalla sua città natale, Seoul. C'era tutto ciò che amava e che gli serviva per vivere al meglio nel suo modo. Un appartamento né troppo lontano dall'università né troppo lontano dal porto e dalla spiaggia, il bar-ristorante di Minseok, amico stretto di Chanyeol, dove prendere il suo frullato preferito durante la giornata e mangiare quando il coinquilino falliva nelle sue creazioni, un porto (per appunto) e la sua amata spiaggia, dove fare il bagno nelle stagioni più calde e dove passeggiare quando fuori non si congelava dal freddo. Alcuni giorni apriva la finestra della sua stanza, si affacciava, sentiva la brezza del mattino sfiorargli la faccia, guardava l'orizzonte, dove si poteva scorgere la striscia blu del mare e pensava che fosse quello il modo in cui aveva sempre voluto vivere, e mentalmente si ricordava di ringraziare in qualche modo il fratello maggiore, che gli aveva dato l'opportunità di trasferirsi lì.
Quel giorno il porto era più calmo del previsto. Non c'erano grandi navi pronte a salpare, per andare chissà dove a consegnare le merci, ma c'era solo qualche nave di media o piccola grandezza che andava al largo, magari per pescare con tutta tranquillità o solo per dirigersi verso un'altra costa più a sud. Il grido dei gabbiani era leggero e lontano, combaciava perfettamente con la calma che regnava, e il filo d'aria spettinava appena i capelli del giovane, che camminava con un sorriso sereno a contornargli il volto e le dita che distrattamente picchiettavano lungo il lato della sua macchina fotografica. Calma, quella cosa sconosciuta, la quale Jongdae non aveva mai potuto assaporare a pieno nella caotica Seoul, dove ogni due per tre c'era qualche clacson a risuonare per tutte le strade e le voci delle persone che si sovrapponevano continuamente. Alcune volte gli mancava tutto quel movimento della capitale, ma non rimpiangeva di essersi trasferito ("Forse tornerò a Seoul quando tutta questa tranquillità mi avrà stancato", diceva sempre alla madre, quando gli chiedeva se avrebbe vissuto lì pure dopo la laurea, ed entrambi sapevano la verità: il ragazzo non si sarebbe mai stancato veramente di vivere ogni giorno in quell’ambiente).
Solitamente, Jongdae si recava al porto a qualsiasi ora per un semplice motivo: scattare delle foto. Il soggetto in una giornata poteva variare come poteva essere lo stesso, e se il soggetto rimaneva lo stesso per ben cinque scatti, il ragazzo a fine giornata sedeva su una panchina, osservava le cinque foto e decideva fra sé e sé quale delle cinque foto era venuta meglio. Era tutto calcolato, nulla era fatto a caso.





"Questa no, no, no no―".
"Jongdae?".
"Questa nemmeno e... oh mio Dio, cos'è questa roba?".
"Kim Jongdae!", esclamò Chanyeol, avvicinandosi di più all'amico.
"Cosa?!", quasi urlò Jongdae di rimando, attirando l'attenzione di alcuni clienti, che si girarono verso di loro.
"Ragazzi, non urlate", arrivò Minseok, cercando di sorridere gentilmente verso i clienti del suo stesso bar.
"Non è colpa mia se Chanyeol non la smette di chiamarmi", sbuffò il ragazzo con la macchina fotografica in mano, tornando a studiare tutti gli scatti che quel giorno aveva fatto.
"Non è colpa mia se sto raccontando a Jongdae cosa mi è successo a lavoro e lui m’ignora perché deve controllare le sue stupide fo― guardalo! Lo sta rifacendo!", rispose questa volta il più alto dei tre, indicando poi l'amico, che con un gesto della mano gli fece capire che ne aveva abbastanza.
"Ormai lo so che il ragazzo dalle labbra carnose e dalla pelle ambrata scappa via da te perché lo spaventi con il tuo brutto sorriso―".
"Ah, voi due, smettetela. Chanyeol, Jongdae ha ragione: sorridi in modo inquietante quando ti interessi a una persona; Jongdae, Chanyeol non ha tutti i torti: per una volta staccati dalla macchina fotografica quando ti racconta qualcosa, anche se è la stessa cosa", riferì il terzo arrivato con un tono tranquillo, di chi ne sapeva molto (e a dirla tutta, Minseok ne sapeva davvero molto, data l'amicizia con entrambi i ragazzi).
Sul tavolino in cui sedevano ci fu una bolla di silenzio che durò pochi minuti, con Chanyeol che beveva il suo frappè, Jongdae che osservava da lontano la sua Sony RX10 (poiché l'aveva appoggiata per fare un favore ai suoi amici) con fare nervoso e Minseok che si rigirava i pollici, mentre si guardava intorno, tanto per accertarsi che tutto filasse liscio durante la sua piccola pausa-non-pausa.
"Ho un problema", la bolla di silenzio scoppiò proprio con quella frase da parte di Jongdae.
"Quale? Che sei ossessionato dalla fotografia? Perché sì, è un problema e fatti curare―".
"Taci!", ringhiò lui contro il coinquilino.
"Che caratterino", borbottò egli, prendendo la cannuccia fra le labbra.
Minseok, che osservò quella breve scenetta in silenzio, provò con tutto se stesso a non scoppiare a ridere o a non sospirare, esasperato, preferendo poggiare i gomiti sul tavolino lucido e rivolgersi al primo, "Di che problema si tratta?".
"Stamattina sono andato al porto per scattare delle foto, no? Ne avrò fatte dieci e tutte e dieci non mi piacciono. Non mi piacciono!".
Il più piccolo dei tre saltò sulla sedia, come per dire "L'avevo detto!", ma fu fermato da uno sguardo minaccioso di Minseok, che silenziosamente lo convinse a non dire niente e a non peggiorare le cose. Era bello vederli discutere fra loro su un argomento non troppo serio, il maggiore non poteva nascondere che si divertiva ed erano molto meglio di qualsiasi film comico, ma voleva assolutamente evitare che uno di questi battibecchi avvenisse nel suo stesso locale... a dirla tutta non doveva nemmeno essere lì con loro, quindi era un motivo in più per evitare tutto ciò. Nello stesso tempo, Jongdae si era bellamente accasciato sul tavolino e le mani stavano stringendo in modo possessivo la sua macchina fotografica, come se, in quel modo, all'improvviso l'ispirazione potesse colpirlo come un treno in corsa.
"Forse dovresti smetterla di scattare foto tutti i giorni ma ogni tanto", mormorò il più alto, con la paura che da un momento all'altro potesse arrivargli un pugno dritto nel naso.
"E ti serve un nuovo soggetto da fotografare!", aggiunse il barista, annuendo insieme a Chanyeol.
Il terzo alzò lo sguardo, poggiando il mento contro il materiale freddo del tavolino e passò lo sguardo da un volto all'altro, dubbioso, "Niente più foto al mare ogni giorno?".
Un altro cenno e Jongdae tornò con la fronte attaccata al tavolino. Stava vivendo un incubo.





Era incredibile come una cosa così piccola, per Jongdae, fosse gigante. Dal momento in cui Chanyeol e Minseok gli vietarono severamente di girovagare per il porto con la macchina fotografica, il mondo gli cadde addosso. La cosa fu ancora più devastante quando, tornato a casa, il coinquilino gli prese la sua adorata Sony RX10 e la nascose (proprio come se lui fosse un genitore e il più basso, il bambino che vuole giocare piuttosto che fare i compiti), e qualora iniziasse a cercarla, comunque, il più alto appariva dal nulla e gli faceva fare altro per occupare la mente.
E ora Jongdae si trovava lì, seduto sulla sabbia, solo, a guardare il sole tramontare mentre la brezza del mare gli spostava le ciocche dei capelli che fuoriuscivano dal cappuccio, alzato fin sopra la testa. Osservò le nuvole che passavano davanti al sole, scure, in contrasto con il tono chiaro del cielo, e senza accorgersene aveva già il telefono in mano, pronto per scattare una foto. Click. Aprì la galleria e schiacciò sulla nuova foto, la osservò più e più volte e alla fine si convinse che nemmeno quella era venuta bene. Quella nuvola era troppo bassa, quell'altra troppo grande, il mare sembrava nero, il sole lì nemmeno si vedeva, e altri problemi che si fece fra sé e sé. Schiacciò sull'icona per cancellarla e sospirò pesantemente, arrendendosi al fatto che doveva veramente cambiare il soggetto delle sue foto.
Jongdae stava giusto camminando lungo la riva quando sentì per la prima volta quella dolce melodia uscire dal nulla, per un attimo pensò che fosse tutto frutto della sua mente, ma pian piano capì che non era così, che quella melodia era vera e nemmeno tanto lontana. Ci vollero un paio di minuti, comunque, prima di trovare la fonte. Si guardò intorno e poi, lì, seduto a gambe incrociate sulla sabbia, poco più lontano da lui, lo vide. Notò subito due cose: il modo in cui le sue dita si muovevano sulle corde e la sua espressione, seria, che esprimeva tutto fuorché soddisfazione. Jongdae si sentì improvvisamente vicino a quel ragazzo, completamente sconosciuto, poiché sentiva di avere il suo stesso stato d'animo in quel momento: entrambi erano insoddisfatti di ciò che stavano facendo, e proprio come Jongdae, lo sconosciuto nonostante tutto provava e provava, senza accennare a un miglioramento; la melodia cessò, il fotografo se ne accorse solo quando si riscosse dai suoi pensieri, e in un attimo vide come il ragazzo si era fermato e come lo stava osservando, quasi impaurito.
"Tu! Non― non fermarti!", esclamò Jongdae, ad alta voce, così da farsi sentire, improvvisamente agitato. Non voleva fermarlo, non voleva che quella dolce melodia cessasse.
"Avrei dovuto fermarmi da molto..", disse lui, e il primo non seppe dire se gli stava rispondendo o parlava fra sé e sé.
Senza nemmeno accorgersene, si era fatto più vicino e l'altro aveva poggiato la chitarra sulla sabbia, vicino a lui. Non parlarono per un po' e Jongdae accolse l'occasione per tornarsi a sedere, con le braccia buttate sulle gambe, mentre ascoltava il suono del mare e il grido dei gabbiani. In qualche modo quel ragazzo lo incuriosiva, da una parte perché sembrava insoddisfatto di qualcosa quanto lui e dall'altra perché non l'aveva mai visto al porto. In quattro anni in cui abitava a Incheon, aveva avuto modo di conoscere tutti quelli che, giornalmente, visitavano il porto, per una ragione o l'altra, ed era assurdo quanto vero, ma aveva pure fatto in modo di conoscere i proprietari della maggior parte delle piccole barche che stavano lì. Tutti conoscevano Jongdae e Jongdae conosceva tutti, tranne il tipo con la chitarra, e nessuno avrebbe creduto al fatto che fosse lì per le vacanze, poiché l'estate era finita e oltre agli abitanti nessuno si azzardava a mettere piede in spiaggia, soprattutto a quell'ora; il cielo ora si stava facendo più scuro, e il fotografo a malapena riusciva a vedere in modo decente i dettagli che componevano il viso del secondo.
"Che cosa ci fai qui?", gli sfuggì, e volle colpirsi dritto in bocca.
Notò come egli girò il volto verso di lui, con un piccolo e strano sorriso stampato sul volto, prima di rispondere "Cercavo un po' d'ispirazione", e non sembrava per niente turbato o infastidito, "Tu?".
"Cercavo un po' d'ispirazione", ripeté e non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, che si aggiunse a quello dell'altro.
, si disse nella mente, siamo nella stessa situazione.





Lo sconosciuto in questione si presentò come Kim Joonmyun, Jongdae scoprì che era un anno più grande di lui, aveva studiato musicologia a Seoul e si era trasferito a Incheon quando capì che le strade di Hongdae non erano più per lui.
"Sei ancora un artista di strada?", chiese Jongdae col suo fare curioso, mentre si mordeva un'unghia distrattamente.
"No", rispose con una piccola risata Joonmyun, "Lavoro in un negozio di musica poco lontano dal porto".
Il minore si ricordava vagamente di un negozio di musica poco lontano dal porto, e quando chiese il nome, si sentì un completo idiota, perché il maggiore lavorava proprio in quel negozio. Ci era andato un sacco di volte con Chanyeol, per prendere chissà quanti CD di artisti di cui ormai si sentiva poco e niente, come aveva fatto a non vederlo? Ora, oltre a non saper fare più foto, non si accorgeva neppure delle persone. Fu piacevole parlare con lui, comunque. Sin da subito trovarono una cosa in comune e da completi sconosciuti iniziarono a parlare come due amici di vecchia data. Per quelle ore che passarono insieme nessuno dei due, si ricordò che avevano dei problemi con le rispettive passioni; quella sera, come gli fece notare Chanyeol (il quale si fece trovare stravaccato sul divano e con un pacchetto di patatine sulla pancia), tornò più tardi del previsto e nemmeno se ne accorse.
"Dove sei stato?", chiese curioso.
"Non sono affari tuoi", rispose semplicemente, prima di chiudere la porta della sua camera a chiave.

Il coinquilino rimase a fissare il vuoto per un paio di minuti, prima di chiudere gli occhi in due fessure e grattarsi il mento. Sbagliava o il più basso sorrideva un po' troppo, per essere uno cui era stata tolta la sua cara e amata macchina fotografica?





Per qualche motivo, come poté presto notare Jongdae, nessuno sapeva dell'esistenza di Joonmyun, nessuno lo conosceva.
"Kim Joonmyun?", ripeté confuso Chanyeol, quando il coinquilino gliene parlò per la prima volta nella metropolitana, dopo essere usciti dall'università, "Mai visto, né nel porto né nel negozio di musica", affermò.
"Sicuro che nel negozio di musica ci lavori un certo Kim Joonmyun?", poi fu pure il turno di Minseok, il quale sembrò confuso quanto Chanyeol, quando un giorno l'amico lo nominò, "Non l'ho mai sentito nominare dal proprietario".
Venne una sera in cui Jongdae si credette pazzo, poiché proprio nessuno aveva mai sentito parlare di Kim Joonmyun e nessuno aveva mai visto un ragazzo che suonava una chitarra in spiaggia, da solo, o un ragazzo di nome Joonmyun lavorare nel suddetto negozio di musica, eppure lui poteva giurare di averlo visto, di averlo sentito e di averci parlato, come faceva con qualsiasi altro essere umano presenta al porto.
Che ora avesse pure le allucinazioni e vedeva gente nella sua stessa situazione?






Se prima Jongdae andava matto per le fotografie e non riusciva più a staccarsi dalla sua Sony RX10, ora non riusciva più a togliersi dalla testa un pensiero fisso: Kim Joonmyun. Quel chitarrista era semplicemente... surreale, e non perché nessuno credeva alla sua esistenza (anzi, forse anche per quello), ma perché era semplicemente qualcosa di troppo complicato, era un qualcosa che il fotografo non era in grado di sostenere pienamente e con tutte le sue forze. Un giorno si presentava in spiaggia? Nel pomeriggio seguente non c'era più. Il minore gli chiedeva il numero di telefono? Il maggiore s’inventava di tutto e di più per non darglielo. Pensava di dire una cosa giusta e sensata? L'altro sembrava infastidito. Diceva qualcosa di sbagliato e senza senso? Joonmyun non sembrava poi tanto stranito e infastidito.
Nonostante il cambio di stagione e il freddo, comunque, i due continuarono a vedersi nello stesso punto (sempre se il maggiore lo degnava della sua presenza), e quel pomeriggio Jongdae ebbe l'onore di impugnare per la prima volta la chitarra del ragazzo, facendo passare le dita a corda a corda, delicatamente.
"Sai suonare la chitarra?", chiese Joonmyun, mangiando una merendina al cioccolato.
"No", rispose Jongdae, sinceramente.
Come quella negazione si disperse nell'aria, il chitarrista fu dietro al fotografo, e le mani altrui guidarono dolcemente e delicatamente le proprie, facendo sì che, messe in una posizione corretta, facessero uscire delle timide note, le quali si disperdevano per l'aria di quel freddo pomeriggio di dicembre. Dopo quel momento in cui il minore suonò la chitarra, grazie alla guida del più grande, entrambi tornarono seduti come prima, con la chitarra abbandonata in un angolo, e ripresero a parlare di tutto ciò che passava nelle loro menti, senza che i pensieri avessero per forza una connessione fra loro. Quella sera, sulla via che portava al suo appartamento, Jongdae pensò che conversazioni così semplici e fluide, dove poteva dire di tutto e di più, senza doverci pensare più di due volte, potesse averle solo con il maggiore, e ricordando come lo aveva aiutato a suonare la chitarra o a come quella sera lo guardava, con quegli occhi dolci e piccoli, che gli provocavano sempre uno strano calore all'altezza del petto, si disse che sì, pazzia o meno, era fortunato ad essere l'unico che conosceva Joonmyun.





Dopo circa quattro lunghi mesi, quando il sole tornò a farsi vedere di più e certi pomeriggi iniziarono a essere più caldi, Jongdae si trovava nuovamente sulla via che portava alla spiaggia. Per il ragazzo quelli erano stati i mesi più lunghi e stressanti di tutta la sua vita, e non perché non poteva più scattare foto con la sua Sony RX10 (anzi, si era completamente dimenticato di quel problema, ormai aveva smesso di cercarla ovunque), ma perché quando la temperatura iniziò ad abbassarsi in modo rilevante, dovette dire addio ai suoi incontri con Joonmyun. Era stato difficile ammetterlo, o sentirlo dire da Chanyeol, ma in quei pomeriggi vuoti, che dedicò completamente allo studio e alla cucina (se al non-più-fotografo era stato vietato di toccare la macchina fotografica, al coinquilino era stato severamente vietato di toccare i fornelli), il minore si rese conto che sì, c'era dell'interesse nei confronti del chitarrista, e gli mancava tutto di lui. La sua voce, i suoi sorrisi e le sue risate, il modo in cui certe volte guardava profondamente l'orizzonte, le sue dita che distrattamente accarezzavano le corde della chitarra e i suoi silenzi.

In modo forse un po' troppo frettoloso scese dalla piccola scalinata che dava al mare e un sospiro di sollievo uscì dalle sue labbra appena sentì le scarpe affondare nella sabbia. Gli era mancato quel posto, eccome se gli era mancato. S'incamminò verso il luogo in cui era solito incontrarsi col maggiore, e più si avvicinava e più sentiva il cuore battere velocemente.
"Jongdae?".
Quella voce; si girò, e con sua grande sorpresa beccò Joonmyun, che lo guardava dall'alto, ancora sul marciapiede del porto, e di certo non gli sfuggì il sorriso che illuminava il viso altrui. Era felice.
"Joonmyun! Che ci fai lì?", chiese sorpreso, dato che solitamente era in spiaggia, e non lì.
"Scrivevo", rispose semplicemente, picchiettando la matita contro il quaderno.
Non aveva mai visto il chitarrista scrivere, da quando si erano incontrati, e ciò gli fece corrugare le sopracciglia. Nemmeno si accorse che, ben presto, il maggiore lo raggiunse e in pochi minuti furono uno al fianco dell'altro, e, lì, in quel modo, poté notare un'altra cosa: tra le mani non stringeva un semplice foglio, ma svariati fogli, e nessuno di essi era legato ad un altro. La cosa gli puzzava un po', poiché sapeva che l'altro possedeva un quaderno dove teneva insieme tutti i testi che sapeva suonare e mai l'aveva visto con dei fogli così disordinati in mano; si sedettero nel loro posto, a gambe incrociate, e Jongdae guardò attentamente Joonmyun, mentre stava sistemando i fogli dentro uno zaino, il quale era posto di fianco la chitarra.
"Che cosa sono quei fogli?", chiese, preso dalla curiosità, mentre l'altro chiudeva lo zainetto e lo lasciava lì.
"Oh, nulla di che", rispose con un semplice sorriso.
Quella non fu l'unica volta in cui il minore vide l'altro con quei fogli in mano, e spesso, quando stavano in silenzio, vedeva che l'altro scriveva e scarabocchiava su quei pezzi bianchi, e certe volte, quando riusciva a sbirciare, i suoi occhi riuscivano a distinguere delle note musicali, prima che esse potessero venir coperte dal braccio altrui. Sinceramente, non sapeva come prendere tutto ciò. Da una parte era incuriosito. L’altro sembrava seriamente preso da ciò che stava facendo (e con l'espressione concentrata era piuttosto attraente, dovette ammetterlo), ma dall'altra provava una strana sensazione, sentiva come se non volesse sapere nulla dei fogli e di tutte quelle note a lui sconosciute. Un giorno, quando furono, di nuovo, sommersi dal silenzio, Jongdae si fermò più del solito a osservare il profilo di Joonmyun, e notò come la luce di quella sera definiva perfettamente i dettagli del viso altrui. Le mani si mossero in automatico verso le tasche dei jeans, un brivido famigliare gli percorse la spina dorsale e in modo frettoloso aprì la fotocamera. Click.
"Oh...".
"Mh?", mugolò distrattamente il maggiore, alzando lo sguardo sul minore.
"Niente hyung, niente", rispose velocemente il diretto interessato, bloccando con medesima velocità il cellulare.
Solo quando il maggiore tornò sui fogli e sulla sua chitarra, il fotografo decise di sbloccare nuovamente l'apparecchio e velocemente studiò la foto appena scattata.
Stupendo.






"Oggi devo fare una cosa, e tu sei coinvolto".
Furono queste le prime parole di Jongdae, quando s’incontrò due giorni dopo con Joonmyun; quella mattina, quando si svegliò, furono due le notizie che il fotografo portò a Chanyeol: uno, voleva riprendere in mano la sua Sony RX10, dopo quasi cinque mesi, e due, gli avrebbe fatto conoscere una persona speciale. A differenza del coinquilino, comunque, il chitarrista reagì normalmente a ciò che gli disse il minore.
"Di cosa si tratta?"
"Devi fare da modello".

Il maggiore non seppe precisamente cosa aspettarsi, dopo quell’affermazione, ma non si tirò indietro e accettò con un caldo sorriso quella richiesta. Non suonava male, dopotutto; la prima indicazione che gli fu data, fu quella di essere “normale”, di comportarsi come se nel frattempo non fosse inquadrato da una fotocamera, e il ché fu particolarmente difficile, poiché, secondo il suo parere, non era per niente fotogenico.

“Rilassati”, continuava a dire Jongdae, dietro alla sua Sony RX10, dopo un altro scatto.

A un certo punto il chitarrista, con quaderno e chitarra in mano, si girò verso il minore, così da potergli lanciare l’ennesima occhiataccia, e lì le dita di Jongdae non smisero di schiacciare il pulsante; la stessa sera, appena tornato a casa, il fotografo si buttò sul divano e accese la Sony RX10, così da poter osservare le foto scattate in spiaggia, e più le guardava e più sentiva il cuore scoppiare dalla felicità.

L’ho trovato.

 

“Ora tocca a me fare una cosa, e tu sei parzialmente coinvolto”.

Il giorno dopo il maggiore si presentò con questa frase, e il minore non sapeva proprio cosa aspettarsi dall’altro – nulla dire che la curiosità s’impossessò del suo corpo in un battito di ciglia, anche perché era “parzialmente coinvolto”. Si sedette a gambe incrociate davanti al chitarrista, il quale, nel frattempo, prese la chitarra e la sistemò sulle sue gambe, altrettanto incrociate. Una dolce melodia si disperse per l’aria, e già ai primi pizzichi di corda la riconobbe. Era la stessa melodia che Joonmyun stava suonando quando s’incontrarono per la prima volta; il fotografo non aveva mai avuto modo di ascoltare la voce del più grande, con l’aggiunta della chitarra, e ciò che stava sentendo era semplicemente straordinario. Non aveva mai avuto modo di sentire una voce così pura e limpida, e più le parole uscivano dalle labbra altrui, e più sentiva che avrebbe potuto fermarsi per ascoltarlo per sempre.

“Che cos’era questa?”, chiese stupidamente Jongdae, a fine della canzone, quando il suo sguardo s’incrociò con quello dell’altro.

“La tua canzone”, rispose Joonmyun.

Lo sguardo confuso impresso sul viso del minore parve troppo ovvio, a quanto pare, per questo l’altro prese il suo quaderno e, dopo averlo sfogliato per un po’, lo porse al diretto interessato, il quale prese l’oggetto in modo dubbioso. Lì, prima che il testo e lo spartito con le note potessero iniziare, nell’angolo, c’era scritto a matita un piccolo “per la mia musa ispiratrice, KJD”. Non disse niente, con le gote improvvisamente in fiamme, completamente sorpreso da ciò che i propri occhi vedevano, e con un gesto frettoloso aprì la giacca, prima di poter estrarre dalla tasca interna una piccola busta gialla, che porse all’altro.

“Che cosa è?”.

“Aprila”, lo spronò.

Presto la busta in questione fu aperta e delle foto scivolarono da essa, finendo nella sabbia tiepida. Joonmyun le prese, e Jongdae poté vedere come gli occhi altrui si spalancarono alla vista di tutti quegli scatti, che fece solo il giorno prima. Nel retro, scritto a pennarello blu, c’era un piccolo “il mio nuovo soggetto preferito” – scritta che, poi, fu letta del diretto interessato.

“Io–”.

Quella frase non trovò mai un continuo, perché, come il maggiore alzò lo sguardo, le sue labbra andarono a toccare quelle del minore, che lo sorprese in un piccolo, dolce bacio.

 

 

Quel lontano giorno di fine autunno, entrambi si erano recati in spiaggia per un motivo in comune: erano bloccati dalla loro stessa passione, privi d’ispirazione. Nello stesso giorno, però, conobbero la loro musa ispiratrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il tempo era l’ideale per trascorrere il tempo in spiaggia, quel giorno d’estate, e il bar di Minseok era colmo di gente recatasi lì per prendere una bibita rinfrescante, fra un bagno e l’altro; Jongdae tirò a sé Joonmyun, che, svogliato, l’aveva seguito fin lì dal negozio di musica in cui lavorava.

“Muoviti!”, diceva in un lamento, mentre tirava il fidanzato dentro il locale.

Si fecero largo fra la gente, facendo attenzione a non spingere coloro che in mano tenevano chissà quale drink, e il fotografo cercò velocemente il proprietario del posto e il coinquilino, i quali dovevano essere per forza lì, uno soprattutto. Li trovarono dopo pochi minuti, entrambi al bancone, mentre il più alto rideva con gusto per qualche cosa di divertente.

“Eccovi!”, esclamò Jongdae, appena li raggiunsero.

Minseok e Chanyeol si girarono, appena giunse alle loro orecchie la voce del nuovo arrivato. Le loro espressioni, inizialmente, erano normali, poi, quando notarono una quarta e nuova presenza, sui loro volti apparve il completo stupore.

“Minseok, Chanyeol, lui è il mio ragazzo”, annunciò con fare fiero il fotografo, stringendosi al fianco del maggiore.

“Piacere, sono Kim Joonmyun”, si presentò il diretto interessato.

Se prima erano stupiti, ora lo erano ancora di più e il coinquilino del terzo aveva la mascella a terra, contemporaneamente al proprietario del bar, il quale aveva gli occhi che a momenti uscivano dalle orbite.

“Allora era vero”, mormorò Chanyeol.

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Capitolo 3
*** Love is the cure ***


{ intro: Joonmyun è un medico con il cuore spezzato e Jongdae un tirocinante pronto a curare qualsiasi malanno. }

Love is the cure

 

 

 

Se c'era una parola per descrivere la vita di Kim Joonmyun, quella era sicuramente frenetica. Alzarsi alle cinque e mezza del mattino, prepararsi in meno di venti minuti, mettersi la camicia più bella, fare una colazione veloce e leggera, sistemarsi la cravatta e affrettarsi ad uscire senza perdere altro tempo (il traffico a Seoul era imprevedibile e anche due minuti in più potevano condannarti a stare bloccato nel traffico per più di mezz'ora), arrivare a lavoro con la speranza che non ci sia nessun collega a dire "Siamo in ritardo oggi, Kim" e iniziare subito con le visite da box a box, fino alla fine del turno.
"Dottor Kim, deve visitare un paziente nel box tre".
"Il dottor Kim Joonmyun è pregato di venire in terapia intensiva".
"Dottor Kim, il dottor Oh la vuole vedere nel suo ufficio".
"Oggi deve controllare i pazienti del box sei e del box otto".
Correre da un corridoio all'altro, passare da box a box, ricevere cartelle su cartelle e controllarle lungo il tragitto da un reparto all'altro, firmare fogli, firma lì e firma là, correre di nuovo da un box, rassicurare i paziente e affrontare quelli più testardi, magari quelli che non vogliono pagare le spese mediche per le cure. No, non aveva un attimo di pace, e tutto ciò si ripeteva giorno dopo giorno, sette giorni su sette, ogni mese di ogni anno, e Joonmyun viveva tutto questo da ben sei anni.
"Non ti stanchi mai di lavorare così tanto, ogni giorno? A momenti non vai nemmeno in vacanza", gli chiedeva sempre Yixing, un suo collega e suo vecchio compagno d'università, quando Joonmyun si degnava di fermarsi anche un misero minuto per prendere del caffè con i colleghi.
La verità? No, lui non si stancava mai di lavorare così duramente fino alla fine dei suoi turni. Anzi. Lavorare così duramente lo faceva stare in pace con se stesso, poiché sapeva che nelle sue ore non faceva altro che aiutare e salvare vite, e non c'era singolo momento in cui si ripeteva che aveva fatto la scelta giusta, che il suo voler diventare medico non era mai stato uno sbaglio.
"No, mi piace lavorare", rispondeva semplicemente Joonmyun, a quel punto, dopo aver preso un piccolo sorso di caffè e aver accennato a un breve sorriso.





"Abbiamo fatto gli ultimi controlli ed è in perfetta salute, può tornare a casa".
Ed ecco che l'ennesimo paziente della giornata veniva dimesso, dopo controlli su controlli. Lo seguì fino al bancone dell'infermiera, gli fece pagare le cure mediche e poi lo salutò con uno dei suoi calorosi sorrisi, quelli che servivano ad ogni tipo di persona che metteva piede in quel posto per farsi controllare. Quel sorriso non resse più di due minuti, cadendo nell'esatto momento in cui la figura del paziente scomparve dietro al muro, per lasciare il via libera a un pesante sospiro, che attirò l'attenzione dell'infermiera al bancone.
"Visita pesante?", chiese lei con un sorrisino divertito, vedendo come il dottore prese a massaggiarsi il ponte del naso.
"La gente ormai è così paranoica che per un semplice mal di testa pensa di avere il cancro", rispose Joonmyun scuotendo la testa. In sei anni dalla sua laurea ne aveva sentite di tutti i colori, eppure si sorprendeva ancora con persone del genere, che trovavano le diagnosi più violente nelle cose più piccole.
L'infermiera di turno non poté far altro che ridacchiare, capendo perfettamente come si sentisse il suo superiore, prima di poter tornare su dei fogli che stava controllando, silenziosamente. Joonmyun aspettò pazientemente la sua prossima cartella e rimase piuttosto sorpreso quando, dopo cinque minuti, non gli diedero niente. Si erano all'improvviso dimenticati dei pazienti?
"Jiyoo, la cartella del prossimo paziente?", chiese gentilmente, sporgendosi sul bancone.
"Oh? Non ci sono altri pazienti al momento, dottor Kim", lo informò lei, con il suo dolce sorriso stampato sul viso.
Non ci sono altri pazienti. Ecco, questi erano i momenti in cui l'uomo si annoiava pure a lavoro, non sapendo né cosa fare né dove andare. Girare come un cucciolo perso fino alla prossima visita? Occupare uno dei letti nelle stanze dedicate al personale, per riposare almeno una mezz'ora? Uscire per prendere una boccata d'aria fresca? Fermarsi alla macchinetta del caffè e magari parlare con qualcuno? Scrollò le spalle, salutò con gentilezza Jiyoo e mettendo le mani nelle tasche del camice girò sui tacchi, dirigendosi lentamente verso il corridoio vuoto che portava verso l'ascensore.
L'ospedale era sempre gremito di gente, non c'era corridoio in cui le persone non dovevano fare zig zag fra loro per andare da una parte all'altra, e più si scendeva di piano e più queste aumentavano, per via delle varie sale d'attesa e degli uffici, e non c’era per niente da sorprendersi se le macchinette del caffè erano sempre affiancate da delle persone, e nel caso dell'area riservata al solo personale, dai medici. Difatti, appena Joonmyun arrivò, trovò Yixing e un altro collega immersi in una conversazione con dei volti nuovi.
"Ma guardate un po' chi c'è!", esclamò Yixing sorridente, fissando gli occhi sul nuovo arrivato, che gli lanciò un'occhiata, "Qual buon vento ti porta qui, Joonmyun?".
"L'assenza dei pazienti", rispose il diretto interessato, scrollando le spalle e cercando il portafogli, così da poter prendere del thè.
"Anche tu in attesa, ah?", chiese il secondo collega, schioccando la lingua contro il palato, prima di poter prendere un sorso dal suo bicchiere.
"Ragazzi, avete già conosciuto il dottor Kim?", domandò poi Yixing, rivolgendosi alle persone che prima Joonmyun, al suo arrivo, aveva etichettato come volti mai visti.
La persona in questione subito si girò verso i nuovi arrivati, ricordandosi all'improvviso della loro presenza, e fece un breve inchino mentre loro, con la testa, negavano. Ovvio che non lo conoscevano, lui non era mica come i suoi due colleghi, che trovavano ogni occasione buona per fare una piccola pausa e andare alla macchinetta del caffè, lui se ne stava sempre nel suo reparto a controllare più pazienti possibili per poi tornare a casa appena finiva il suo turno. Osservò quei tre ragazzi che se ne stavano al suo fianco e che lo guardavano come se fosse un alieno, da com’erano vestiti poté capire facilmente che erano dei tirocinanti e soprattutto il terzo (orecchie leggermente a sventola e gli angoli della bocca all'insù, graziosa, secondo il dottore) sembrava sorpreso nel vederlo, tanto che i suoi occhi erano spalancati.
"Sono Kim Joonmyun, piacere", si presentò brevemente con un piccolo sorriso a contornargli il viso. Sapeva com'erano i tirocinanti, e il miglior modo per guadagnarsi la loro fiducia era sembrare amichevole sin dall'inizio.
Proprio come desiderato, i tre ragazzi si presentarono subito dopo, sembrando a loro agio: quello paffuto e con un orecchino all'orecchio sinistro si chiamava Kim Minseok, il secondo che se ne stava al centro era Byun Baekhyun e quello che alla sua vista sembrava essersi spaventato era Kim Jongdae. Parlare con quei tre ragazzi fu la cosa migliore e a fine della loro conversazione gli sembrò di aver preso una boccata d'aria fresca, poiché non pensò al lavoro e alle visite che dopo avrebbe dovuto fare, ma in mente crebbero solo pensieri piacevoli, ricordi di quando lui e Yixing erano al posto dei tre. Inesperti, eccitati dall'idea di poter vivere un'esperienza del genere e vogliosi d'imparare, di sapere tutto ciò che dovevano sapere del lavoro dai loro superiori. Forse, staccare qualche minuto dal lavoro non era stato poi così male.
Se ne andò con Yixing nell'esatto momento in cui entrambi furono chiamati per un paziente, lasciando il loro collega con Minseok, Baekhyun e Jongdae, e lungo il percorso per il quinto piano il primo non poté far altro che notare lo sguardo persistente dell'amico.
"Vuoi dirmi qualcosa per caso?", chiese il coreano.
Il cinese si lasciò andare a una piccola risata, mettendo in mostra le sue adorabili fossette, e scosse lievemente il capo, "Solo... è bello vederti di tanto in tanto in pausa".
"Non abituarti troppo".
"Lasciami sognare, Joonmyun!", esclamò egli, seguito a ruota da una risata che lasciò le labbra del coreano.





Il traffico era odioso, nessuno lo ama, soprattutto una persona che portava il nome di Kim Joonmyun. Lo odiava con tutto il cuore, soprattutto se quel giorno poi si metteva a piovere. Traffico e pioggia, era una combinazione mortale per il povero medico, che in macchina non poteva far altro che attendere e guardare i tergicristalli portare le gocce di pioggia ai lati del parabrezza, mentre provava a vincere una battaglia contro certi pensieri e ricordi che lo inseguivano da anni, dove, ovviamente, avrebbe perso. Il traffico che c'era per le strade di Seoul, a ritorno da lavoro, gli dava del tempo e quando aveva tempo pensava, ma non a cose completamente casuali, ma pensava a Lei, e solo lui poteva capire quanto fosse fastidioso. Lei che, a differenza sua, amava il traffico, lei che adorava le giornate di pioggia, lei che lo aveva affiancato a lavoro e lei che poi se n'era andata per colpa di ciò che aveva amato. Si chiamava Chorong, Joonmyun l'aveva conosciuta attraverso Yixing e sin dal primo momento ci fu un'intesa speciale fra i due, che durò anni e anni e non si spezzò mai. Anzi. Si fece ancora più forte quando si fidanzarono e insieme iniziarono a lavorare in ospedale, collaboravano perfettamente e il modo in cui riuscivano a mettere da parte la loro relazione, in ambito lavorativo, sorprendeva pure i dottori che lavoravano lì da molto più tempo.
"Voi due siete una squadra perfetta", diceva sempre il dottor Oh, alla fine di ogni visita piuttosto impegnativa.
E lui non aveva mai smesso di amarla e ammirarla, perché non aveva mai visto donna così forte e decisa, che faticava più di chiunque altro per aiutare la gente, per garantire il benessere anche al paziente più malato. Era così determinata a lavoro e lui era così determinato a continuare a vivere e a lavorare con lei, a sposarla... se non fosse stato per quel giorno. Joonmyun lo ricordava ancora perfettamente, come se non fossero passati tre anni, e ricordava ancora come quella notte preferì pensare che tutto quello fosse solo un brutto e lungo incubo. Capitò in uno di quei giorni in cui non avevano gli stessi turni, lui stava dormendo tranquillamente nel loro letto quando alle quattro del mattino sentì il telefono squillare, più e più volte, lo prese con fare stanco e lo poggiò contro l'orecchio, pronto per sentire la sua voce sottile (perché sul display aveva chiaramente visto il nome Chorong, accompagnato da un cuore), quando dall'altra parte del dispositivo non sentì altro che la voce del dottor Oh, dispiaciuta.
"Joonmyun-ssi?", lo chiamò, come per accertarsi che fosse lui.
"Sì?", rispose confuso il diretto interessato, ignaro di ciò che sarebbe capitato dopo.
"Potresti venire qui? E' importante".
Lì, l'uomo si ricordava perfettamente come si recò immediatamente all'ospedale in cui lavorava da ormai tre anni, e fu così rapido nell'andare che nemmeno si preoccupò di cambiare la maglia del pigiama, preferendo nasconderla sotto la giacca, o sistemarsi per bene i capelli. Incontrò il dottor Oh all'entrata e lo sguardo che ricevette dal superiore non gli piacque per niente, e non amò nemmeno in modo particolare come a bassa voce gli disse di seguirlo, fino al suo ufficio, dove lì trovò pure i genitori della sua fidanzata. Perché erano lì? Perché gli era stato chiesto di recarsi lì? Non dovette attendere molto prima di ricevere risposta, e la verità fu più dolorosa del previsto.
"Sarò breve e non porterò molto avanti questa cosa. La dottoressa Park questa notte, lungo il tragitto verso casa sua, ha avuto un incidente stradale. E’ stata riportata con urgenza in ospedale ed è stata sottoposta a vari interventi", sapendo già dove sarebbe andato a parare, Joonmyun desiderò con tutto se stesso di diventare improvvisamente sordo, "Aveva ferite gravi e perdeva molto sangue, i dottori hanno fatto di tutto per salvarla... ma purtroppo non ce l'ha fatta.". Solo Dio poteva dire quanto fece male quella notizia.
Da quel giorno, il medico cancellò dal suo vocabolario le parole "vacanze", "pausa" e "relazione" e prese a lavorare ancora più duramente, dedicandosi completamente al lavoro senza distrazioni, perché voleva evitare che una cosa del genere succedesse a qualcun altro, desiderava che nessun altro soffrisse come lui aveva fatto per Chorong, e non era ancora pronto a cancellarla dalla sua vita.
E ora, come ogni sera da quasi tre anni, dopo essere rientrato a casa e aver messo in modo ordinato le scarpe nella piccola scarpiera, si spogliava degli abiti che aveva messo a lavoro e s’infilava nel suo pigiama, per poi sdraiarsi nella sua parte del letto e pensare a come aveva lavorato bene, e a come l'indomani avrebbe fatto di più in modo migliore, prima di potersi addormentare.






Joonmyun non si ricordò dei tre stagisti che una settimana addietro incontrò finché il dottor Oh non apparve davanti a lui con tutti e tre a suo seguito, quella mattina. Aveva appena finito una visita impegnativa, in cui aveva dovuto occuparsi di un paziente che rammentava dei forti dolori allo stomaco dopo aver subito un intervento, quando, davanti al bancone dell'infermiera, mentre aspettava la prossima cartella, il suo vecchio tutor si presentò insieme a Minseok, Baekhyun e Jongdae, tutti e tre ordinati come l'ultima volta in cui gli aveva visti alla macchinetta del caffè.
"Dottor Oh, cosa la porta qui?", chiese gentilmente il dottor Kim, inchinandosi. Ne era passato di tempo da quando Joonmyun si poteva definire "medico alle prime armi", eppure portava lo stesso rispetto nei confronti del più anziano, il che lo rendeva di sicuro umile.
"Tu", rispose con un sorriso genuino, ridendo appena davanti all'espressione confusa del medico, "Oggi sto assegnando a ogni dottore un tirocinante, così che possano vedere com'è il lavoro in prima persona, e ho pensato che a uno di loro avrebbe fatto bene passare la giornata insieme a te", spiegò brevemente, prima di potersi girare verso gli studenti.
Lui avrebbe dovuto tenere con sé uno di loro per tutto il tempo? Non aveva mai lavorato con degli studenti prima di allora e quasi si sentì mancare, mentre pensava a come sarebbe stato lavorare con un principiante e a quanta pazienza gli sarebbe dovuta servire nello spiegare tutto. Perso nei suoi pensieri, nemmeno si accorse che il dottor Oh aveva già fatto la sua scelta e se n'era andato con i restanti, lasciandoli soli. Scrutò attentamente il ragazzo davanti a sé, e quella bocca con gli angoli alzati gli fece capire che per tutto il giorno avrebbe dovuto trascinarsi dietro Kim Jongdae. Fantastico, pensò, guardando come il minore sembrasse di nuovo terrorizzato davanti a lui, il tirocinante terrorizzato.
"Hai ... delle domande?", chiese incerto.
Il minore scosse la testa, energicamente.
"Perfetto".
Essendo uno che non sprecava nemmeno un secondo, il dottor Kim iniziò subito a lavorare, e il povero ragazzo si ritrovò subito a dovergli correre dietro da una parte all'altra, mentre cercava di non perdersi nemmeno un movimento da parte del maggiore, da visita a visita.
"Non possiamo fermarci un attimo?", chiese Jongdae, sentendo un dolore allucinante ai piedi (mettere delle scarpe nuove non era stato il massimo, e le avrebbe sicuramente evitate, se avesse saputo prima quale dottore avrebbe affiancato).
Come risposta, l'infermiera che stava al bancone informò Joonmyun che doveva controllare ben tre pazienti, ed egli non risparmiò al minore un piccolo sorriso (era provocatorio, per caso?).





"Minseok, Jongdae!", esclamò Baekhyun dall'altro lato del corridoio, prima di poterli raggiungere.
"Ecco il ritardatario", disse Minseok con un sorriso divertito.
"Scusate se un paziente era particolarmente carino e cercavo di fare il simpatico", sbuffò il terzo arrivato.
"Se uscirà da qui, sicuramente non sarà grazie a te", esordì Jongdae, guadagnandosi un cinque da parte del maggiore.
Baekhyun sbuffò scocciato e velocemente inserì le monete per prendere il suo thè senza zucchero, sotto lo sguardo attento dei due amici, che già gustavano la loro bevanda calda.
"A chi vi ha assegnato il dottor Oh?", chiese Jongdae, leggermente corrucciato.
"Il dottor Cho Yonggi", rispose brevemente Minseok, alzando le spalle, "Baekhyun?".
"La dottoressa Ahn Hanyu, se non sbaglio", disse il diretto interessato, e dopo l'occhiata che ricevette per colpa di quel "se non sbaglio" gemette, picchiando la testa contro il fianco della macchinetta da caffè, "Siamo stati per tutto il tempo intorno a quel paziente carino, okay? Non avevo tempo per concentrarmi su di lei".
Le risate leggere dei due e lo sbuffo che lasciò le labbra del terzo si sentirono per bene nel corridoio per una frazione di secondo, prima che tornasse il silenzio. Rimase così, a sorseggiare le loro bevande, prima che Byun potesse girarsi verso Jongdae, con aria corrucciata.
"Jongdae".
"Sì?".
"Tu non sei col dottor Kim Joonmyun? L'amico del dottor Zhang? Quello che è conosciuto da tutti per non fermarsi un secondo?", lo riempì di domande egli, guardandolo confuso.
E lo sguardo che il diretto interessato gli lanciò era altrettanto confuso, "Sì, perché?".
"Allora perché sei in pausa?", domandò il ragazzo paffuto, precedendo l'amico.
Altro minuto di silenzio e Jongdae sentì le mani sudare freddo, prima che, da qualche parte, si potesse sentire la voce di Joonmyun che lo chiamava. Beccato.





“Muoviti, Joonmyun!”, urlò con voce affannata Yixing, mentre continuava a correre sul posto.

“Non è colpa mia se le scarpe si slacciano sempre!”, rispose con lo stesso tono Joonmyun, ancora a metà strada, piegato in avanti e con le mani sulle sue ginocchia scoperte.

Il dottor Oh, come ogni due settimane, aveva notato che il coreano aveva superato le sue ore lavorative un’altra volta e, fermamente convinto che il minore avesse bisogno di riposo, lo aveva letteralmente cacciato dal suo posto di lavoro, per l’ennesima volta, dandogli una giornata libera e tutta per sé. Fortuna volle che pure Yixing fosse a riposto, quel giorno, e, nelle prime ore dell’alba, i due amici avevano deciso di andare a correre – un po’ per tenersi in forma, un po’ per prendere una boccata d’aria fresca quando le prime persone si svegliavano e un po’ per passare del tempo assieme, sicuri di non essere disturbati. Questa, era quasi un’abitudine, o meglio, una vecchia abitudine. Qualche anno fa, quando Joonmyun non esagerava col lavoro e Chorong era ancora in vita, il ragazzo era solito andare a correre col collega, quando i giorni di riposo coincidevano, e spesso correvano per le rive del fiume Han, passando per i parchi, o andavano in periferia, così da poter fare corse più “toste” sulle colline. Non avevano fatto un’uscita del genere per anni, il maggiore dei due non correva veramente da anni, e non seppe dire a se stesso se la sensazione di tornare alle vecchie abitudini fosse bella o brutta.

“Scusa poco credibile!”, lo informò il cinese, e questa volta si fermò, per sistemare le cuffie.

Forse l’idea di ricominciare, andando a correre in collina, non era stata una buona idea; prese un grosso respiro e si tirò indietro i capelli appena bagnati, prima di poter riprendere a correre e raggiungere l’amico, il quale lo aspettava con le mani sui fianchi.

“Piccola pausa?”.

In fondo era da minuti che correvano, e non erano nemmeno le sei e mezza di mattina.

“Piccola pausa”.

A quanto pare, l’idea di mettersi seduti su una panchina di legno isolata, al limite di quella stradina in collina, era la cosa migliore. Il sole era sorto completamente a quell’ora e in cielo si potevano distinguere perfettamente le nuvole, il cielo e tutto ciò che lo attraversava, gli uccelli e gli aerei. Per una volta ogni due settimane, il coreano doveva riconoscere che gli faceva bene respirare dell’aria pulita, lontano dal centro di Seoul e dai posti chiusi come gli ospedali. Lì era tutto tranquillo: nessun clacson, alcuna persona con cui potevi scontrarti lungo il cammino, zero pazienti da curare, zero lamenti… nessuno stress. Il cinese lo osservò con la coda dell’occhio, trattenendo uno di quei sorrisi furbetti, e presto una sua mano si poggiò su quella dell’amico.

“Un giorno di questi dovrò ringraziare il dottor Oh”, disse Joonmyun, senza che l’altro gli chiedesse a cosa stesse pensando. Dopo tutti quegli anni passati insieme, potevano dirsi le cose senza aspettare una domanda.

“Lavori troppo, lo sai?”, gli disse Yixing, rilassando le spalle.

“Lavoro il giusto”.

“Fai il doppio dei tuoi turni”.

In qualche modo, i due finivano sempre per parlare di quello, quando erano soli con nessun altro. Ormai, il maggiore era abituato a discorsi del genere. I genitori, il dottor Oh, i colleghi e gli amici gli dicevano che lavorava troppo.

“Mi piace solo lavorare, e a casa mi annoio”, disse il medico, poggiando la schiena contro lo schienale della panchina, cercando di mantenere un tono normale.

In seguito alla sua risposta, una piccola risata si disperse per l’aria, e subito l’attenzione fu spostata sulla figura del medico al suo fianco, che a sua volta lo guardava, con quello sguardo che tanto detestava – lo sguardo di chi sapeva, “Lo fai per Chorong”.

Dalle proprie labbra uscì un sospiro rassegnato, a quanto pare era troppo ovvio. In quel momento, sembrava tanto un bambino che era rimproverato dai genitori.

“Joonmyun, non puoi curare le persone in eterno. Non puoi fare quello che lei non ha potuto fare in questi anni”, disse con voce dolce Yixing, piegandosi leggermente sulle sue ginocchia, guardando verso la skyline di Seoul, “Sono passati tre anni, credi che–”.

“No”, il diretto interessato già sapeva cosa volesse domandargli, e la sua risposta fu un po’ ambigua. No, non voleva sentirla? No, credeva che Chorong avrebbe voluto che lui si riducesse così, a causa della sua morte?

Ci fu un attimo di silenzio, una macchina passò davanti ai loro occhi e si sentirono un paio di cinguettii, prima di poter udire il suono di voci in lontananza. I due medici rimasero in silenzio, entrambi con lo sguardo che viaggiava per tutta l’area; Yixing si tirò su, sistemandosi per l’ennesima volta le cuffie, prima di poter prendere in mano il cellulare.

“Andiamo?”, chiese e le fossette spuntarono fuori nell’esatto momento in cui sorrise.

Joonmyun lo guardò e non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, “Andiamo”.

“Quindi… il paziente dopo un incidente stradale ha un collasso, cosa fai?”.

“Io– devo drenare il pneumotorace”.

Un’infermiera spuntò da dietro la tenda, con un timido sorriso, “Dottor Kim, la sala per la risonanza magnetica è pronta”.

“Mh, bene. Jihoon, porta il paziente; Jongdae, tu seguimi”.

Erano passati un paio di mesi da quando Jongdae era stato affidato a Joonmyun, e dire che la situazione in fatto di lavoro non era affatto migliorata, era dire poco. Se prima doveva seguirlo da una parte all’altra come un cagnolino, correndo, ora doveva pure rispondere a delle domande a sorpresa su cosa-fare-in-determinata-situazione, le quali non c’entravano un bel niente su ciò che stavano facendo in quel momento. Quel giorno, poi, era più impegnativo del solito. Al dottor Kim era stata data la cartella di una paziente appena arrivata da un incidente stradale, e dopo controlli su controlli era stato deciso di farle dei raggi X. Jongdae credette che a quel punto sarebbero dovuti andare nella sala di risonanza magnetica, per seguire la paziente, e invece il dottore gli disse di seguirlo da un’altra parte; magicamente finirono per seguire un altro paziente, e proprio lì lo stagista dovette fare un drenaggio pneumotorace.

Joonmyun, da parte sua, sembrava essere molto soddisfatto nell’avere Jongdae come tirocinante. Il ragazzo era intelligente e obbediente, e nonostante le sue continue lamentele sul fatto che lavoravano troppo, vedeva in lui quella voglia di voler fare di più e di aiutare più persone. Quando finalmente andarono in sala di risonanza magnetica, vide come il minore sembrò affasciato dagli attrezzi, e un piccolo sorriso spuntò sul suo viso.

“La paziente ha un trauma cranico moderato, quindi–”.

“Si manda in terapia intensiva per la fase acuta finché non si stabilizza”.

Magnifico.

Fino a quando non terminò il turno del giovane, continuarono in quel modo: visite fra domande e risposte. Nonostante l’espressione altrui sembrasse ancora intimorita da tutto ciò che lo circondava, il maggiore poté notare come fosse più rilassato in sua presenza, e in fin di serata ricevette pure un sorriso da parte del ragazzo, mentre lo vedeva aspettare Minseok e Baekhyun.

Joonmyun fece una piccola smorfia mentre timbrava il biglietto per l’uscita e lasciava il camice nel suo posto; era così strano lasciare il lavoro senza essere forzato da Yixing o il dottor Oh. Appena uscì dalle porte scorrevoli dell’entrata dell’ospedale, si chiese cosa stesse facendo, perché non fosse ancora dentro a lavorare, quando, però, vide in lontananza la figura di Jongdae, che lo stava aspettando nel parcheggio. Ecco il motivo per cui stava uscendo senza essere forzato: lo studente.

“Questa sera ceniamo insieme?”, chiese il minore quel pomeriggio, sembrando fin troppo rilassato questa volta.

Al medico ci vollero un paio di minuti prima di capire che si stesse rivolgendo proprio a lui, e un altro paio di minuti per controllarsi e non strozzarsi con la sua stessa saliva. Ecco, quella sì che era stata una domanda del tutto inaspettata, e non perché nessuno glielo aveva mai chiesto, ma perché se la sarebbe aspettata più da Yixing o qualche altro collega, piuttosto che da lui; sorprendentemente aveva accettato, e non aveva sorpreso solo se stesso, ma anche il tirocinante e Jiyoo, che a quanto pare aveva sentito la domanda; ecco com’era finito lì.

“Joonmyun-ssi, ci hai messo un po’!”, esclamò Jongdae, appena furono l’uno difronte all’altro, “Mi ero quasi arreso all’idea che fossi rimasto a lavorare”.

Tutta quella formalità anche fuori dal lavoro gli fece un effetto strano, “Ho solo– ecco– avuto problemi con la macchinetta per timbrare”, s’inventò.

“Bene, quindi– si cena da te o da me?”.

Ci fu un minuto di silenzio da parte del maggiore, il quale passò tutto il tempo a sbattere le ciglia – non lo aveva veramente chiesto, vero? Si diede un pizzicotto attraverso le tasche, e, con dispiacere, dovette costatare che no, il ragazzo diceva sul serio.

“Oh, io aveva pensato a un ristorante, sai–”.

“Ah! No, no! Non voglio che tu spenda soldi”.

Davvero, davvero carino da parte sua ma ora il problema era uno: andare a casa sua o a casa dell’altro? Si morse nervosamente il labbro quando―

“Andiamo a casa mia”, disse, senza nemmeno pensarci.

Si poteva dire che il medico e il tirocinante ormai si conoscessero da un bel paio di mesi, e durante quei mesi avevano avuto conversazioni che li avevano portati a conoscersi meglio. Nonostante ciò, però, nonostante la piccola confidenza che in qualche modo entrambi cercavano di nascondere, anche se erano da soli, il maggiore si sentì tremendamente nervoso quando entrarono nel suo appartamento. Il minore, ignaro del nervosismo che provava il padrone di casa, poté costatare ad alta voce che l’altro viveva in un bell’appartamento. Prima ancora che Joonmyun potesse dirgli qualcosa, si offrì per fare la cena da solo.

“Dovrei offrirgli qualcosa?”.

“Perché offrirgli qualcosa mentre sta cucinando?”.

“Giusto, giusto – magari lo aiuto?”.

“Rilassati”.

“Oddio, ho pure l’appartamento disordinato–”.

“Joonmyun”.

“Forse dovrei proprio aiutarlo”.

“Kim Joonmyun”.

“O sistemare casa, no?”.

“In tutto questo, perché Jongdae è a casa tua e tu sei così agitato?”.

Il diretto interessato boccheggiò, poggiandosi contro il muro e cercando una risposta plausibile e di senso compiuto per la domanda che gli fu appena posta. Già, Joonmyun, perché sei così agitato?

“Sono io quello che doveva fare delle domande, non tu!”, fu l’unica cosa che riuscì a dire, sbirciando dentro la cucina.

“Aspetta”, disse Yixing dall’altra parte del telefono, per poi accennare una risata, “E’ un appuntamento il vostro?”.

Ora il coreano dovette trattenere il fiato e sperare che la voce non giungesse pure dove Jongdae stava momentaneamente lavorando.

“Oddio ma tu devi lavorare”, sbuffò, prima di potergli chiudere in faccia la chiamata. Annotazione: Yixing da quel giorno era un pessimo amico con cui non confidarsi.

Passarono pochi minuti dalla chiusura della chiamata prima che Jongdae potesse chiamarlo, informandolo che la cena era pronta. Da ben tre anni, da quando viveva di ramen istantaneo e di cibo riscaldato, Joonmyun poté sentire il delizioso profumo del cibo fatto in casa e cucinato al momento. In qualche modo, il minore riuscì a preparare più pietanze in poco tempo e presto i due si ritrovarono a tavolo, immersi nel pasto che stavano consumando. C’era silenzio, ma a nessuno dei due dispiaceva, e passarono in quel modo il resto dei minuti, finché nei piatti non rimase alcuna briciola, se non qualche goccia di salsa, di qua e di là, e qualche chicco di riso.

“Cucini molto bene”, si complimentò il medico, sorridendo in modo genuino.

Lo stagista sorrise a sua volta, però timidamente, mentre accettava i complimenti, “E tu mangi molto bene, a quanto pare”, rispose, con una piccola risata, “Sembrava non mangiassi da anni”.

“Mettiamola così: non mangio piatti del genere da anni”.

Questa volta scappò una risata ad entrambi, spontaneamente, e dopo aver riordinato le posate e i piatti, andarono a sedersi in salotto, con delle birre in mano e pronti per una chiacchierata. A quanto pare, da come poté notare il maggiore, trovava più facile intraprendere una conversazione con l’altro al di fuori dell’ospedale che dentro – se a lavoro si limitavano a parlare in breve tempo di pazienti, senza contare le domande per provare la conoscenza dello studente, lì trovavano buono ogni argomento e riuscivano a parlare di tutto e di più.

“Perché hai scelto di essere un medico?”.

“Ho visto che il tuo arredo non ha colori molto accesi – ti piacciono i toni scuri?”.

“Ah, mi ricordo quando…”.

Era tutto più spontaneo, come se i muri dell’ospedale ricordassero ad entrambi che dovevano mantenere una certa professionalità, quindi un certo distacco. Passarono i secondi, perciò i minuti e così le ore, e senza nemmeno accorgersene i due si trovarono con le bottiglie di birra finite e l’orologio che segnala più di mezzanotte.

“Ammiro il modo in cui lavori”, disse ad un certo punto Jongdae, quando il silenzio fra loro due cadde.

Joonmyun sembrò sorpreso da quella frase e si voltò, così da poterlo guardare in viso, con un’espressione che non lo tradiva e dava a vedere il suo stupore.

“Dico davvero!”, esclamò il primo, interpretando già lo sguardo che il secondo gli aveva lanciato, “Yixing mi ha parlato di quanto lavori, certe volte sforando gli orari dei tuoi turni, e io stesso ho potuto vedere di persona come ti muovi da paziente a paziente e come affronti ogni incarico con un sorriso e in modo deciso. Stai dedicando la tua vita per quella degli altri, per far sentire bene ogni tipo di paziente con qualsiasi sintomo, dal più piccolo al più grave. Quando riceverò la laurea, e inizierò a lavorare come vero medico, desidero essere tanto bravo quanto attento nel mio lavoro, come te... hyung”.

A quella confessione il cuore dell’altro perse un battito, sentendosi in qualche modo importante. Nessuno gli aveva mai detto cose del genere. Certo, nei suoi anni da medico aveva ricevuto vari complimenti, su come svolgeva il suo lavoro e come si comportava con i pazienti, ma mai in modo così diretto come aveva fatto in quel momento lo stagista. Sorrise dolcemente, tornando a posare il proprio sguardo sul viso altrui, e una mano andò a massaggiare la sua spalla.

“In questo momento sono capace di dire solo una cosa: sono felice di avere te come tirocinante. Sei bravo e intelligente, probabilmente sai fare cose che io, al tuo posto, non sapevo fare e sei paziente, forse fin troppo – scommetto che uno dei tuoi amici sarebbe già andato a lamentarsi con il dottor Oh, per quanto mi muovo velocemente”, scappò ad entrambi una risata all’ultima affermazione, “Sono sicuro che sarai un medico eccellente”.

Non c’era bisogno di dire grazie, perché nello sguardo di entrambi si poteva notare quel senso si gratitudine.

“Oh!”, esclamò dopo un po’ l’altro, e il sobbalzo lo fece avvicinare appena al corpo del più grande, “Questa mattina il dottor Oh mi ha detto una cosa, sai?”

“Davvero? Che cosa?”, chiese egli, curioso e allo stesso tempo confuso – perché sembrava così emozionato?

“Ci ha visti lavorare insieme, in questi giorni, e ha detto che formiamo un bel duo”, riportò, sorridente.

Il sorriso stampato sul volto del primo man mano si affievolì, nel frattempo che pensava a quelle parole, e un flashback breve quanto doloroso gli trapassò la mente.

“Tesoro! Ho appena parlato con il dottor Oh, sai? Ha detto che insieme siamo un bel duo!”, disse Chorong, appena incrociò Joonmyun nel corridoio.

All’uomo quasi non mancò il fiato, cercando di sembrare il più normale possibile, e, a disagio, si passò una mano fra i capelli, guardando l’ora sull’orologio da polso.

“Oh… guarda che ora è! E’ piuttosto tardi, non trovi? Penso – ecco, forse dovresti tornare a casa, domani hai un altro turno prima del weekend, no?”.

Forse aveva reagito male, forse era stato troppo impulsivo, ma in pochi minuti i due si augurarono la buonanotte – quello di Jongdae fu piuttosto confuso – e il medico si ritrovò nel silenzio del suo appartamento, per la prima volta in quella sera. Deglutì a fatica e cercò di non pensare a come la storia si stava ripetendo, a come il dottor Oh aveva detto la medesima cosa a due persone diverse, le quali erano comunque collegate – in qualche modo – a lui.

E’ solo una coincidenza, si disse fra sé e sé, mettendosi il pigiama, Una piccola stupida coincidenza.

L’atmosfera attorno a Joonmyun e Jongdae, dopo quella serata, si fece più fredda e rigida. In qualche modo il primo ancora non era riuscito a superare quella coincidenza e il secondo si accorse che qualcosa era cambiato dal momento in cui fu mandato via, in modo frettoloso e “gentile”. Durante le visite non si guardavano, non parlavano fra loro, il medico prendeva le decisioni con le infermiere e lo studente osservava, qualche volta aiutando le infermiere in certe operazioni in cui si dovevano effettuare incisioni o infilare gli aghi. Le domande a sorpresa c’erano, comunque, ma erano sempre più corte e venivano poste di rado, quando magari i due attendevano qualche cartella o il minore era a fine del suo turno; ad un certo punto, però, la freddezza nei loro piccoli discorsi era così fastidiosa che lo studente chiese di cambiare dottore e al maggiore, il giorno seguente, fu presentato un altro tirocinante.

“D’ora in poi ti seguirà lui”, lo informò un'infermiera.

Il medico non ebbe il coraggio di chiedere dove fosse finito Jongdae.

Una cosa che ogni medico sapeva, era quella che i giorni non erano mai uguali fra loro. Potevano essere simili, ma non uguali. C’erano i giorni in cui tutto filava liscio, quelli dove potevi iniziare col piede sbagliato e poi finire meravigliosamente e viceversa, e quelli in cui tutto andava male. Tutti cercavano di evitare il quarto tipo di giorno, preferendo puntare al primo tipo; tutti, nessuno escluso, e soprattutto Joonmyun. Poiché si era promesso di lavorare sempre bene, così da essere in pace con se stesso e garantire il benessere di tutti, così da non provocare incidenti e perdite, per lui anche il piccolo errore era grave, rivedere il paziente dimesso il giorno prima era imperdonabile e far terminare la vita di qualcuno era un reato da punire.

In tre anni aveva lavorato nella massima tranquillità e pace, pulito, poiché non aveva mai combinato qualcosa che potesse gravare sulla salute di un paziente, eppure, quel giorno, qualcosa andò storto.

Iniziò tutto con una cartella che presentava il bollino rosso, ciò era già qualcosa di grave, poiché bollino rosso stava a dire “emergenza”, poi la cosa andò a peggiorare man mano, lungo la visita. In tutta quella fretta, in tutti quegli ordini che dovette dare senza perdere la calma e il controllo, riusciva a ricordare solo una cosa: troppo sangue. Prima le ferite profonde e poi l’emorragia, e prima ancora che potessero bloccare ogni tipo di fluido, era tutto finito.

“Dottor Kim, non c’è battito”. Non c’è battito.

Quella frase non abbandonò la mente del medico, né quando abbandonò il box per andare dai parenti del paziente, già giunti in ospedale, né quando si mise in disparte, per avere un momento per sé. Aveva fallito e aveva mancato la promessi che si era fatto tre anni fa, dopo la morte di Chorong – mai lasciare che qualcosa del genere accadesse di nuovo sotto i suoi stessi occhi, mai lasciare che un’altra famiglia potesse soffrire per una cosa del genere.

Lasciò cadere la testa in avanti, poggiandola sulle mani, nel frattempo che stava piegato su se stesso, sulle sedie di quel corridoio vuoto, e ignorò i passi che man mano si facevano più vicini a sé.

“Tornerò subito, lasciatemi– aspettate solo qualche minuto, davvero”, disse lui, sicuro che fosse il nuovo tirocinante o qualche infermiera che in quel momento lavorava con lui.

“Le ferite erano troppo profonde e c’è stata una emorragia che nessuno è riuscito a controllare e fermare, purtroppo. Lo hai detto tu stesso, Joonmyun”, la voce di Jongdae rimbombò per il corridoio vuoto e sul volto coperto del diretto interessato si dipinse un sorriso amaro.

“Io―”, provò a dire lui, e odiò il modo in cui uscì la sua voce, spezzata.

“Tu niente. Per quanto tu possa essere bravo, per quanto tu ci prova, non riuscirai mai a controllare una situazione del genere, con ferite così gravi e emorragie che non si possono fermare, potrai fermare qualcosa, ma non tutto. Non è colpa tua se è arrivato in ospedale quando ormai era troppo tardi. Hai fatto solo il tuo lavoro”, nel frattempo che parlava, il ragazzo si sedette al suo fianco.

“Non volevo che accadesse di nuovo”.

“Di nuovo?”.

Joonmyun respirò profondamente, prima di alzarsi e voltarsi, mettendosi di profilo rispetto Jongdae, osservando la fine del corridoio, “Quando finisce il tuo turno?”.

“Tra un’ora. Perché?”, chiese confuso il minore.

Come lui, “Aspettami davanti la mia macchina”.

Le dita del medico cercarono velocemente l’interruttore della luce, nel momento in cui aprì la porta e fece accomodare lo studente. Entrarono in salotto insieme e si sedettero sul divano, l’uno di fianco all’altro.

Jongdae guardò attentamente Joonmyun, il quale si stava sfregando le mani con fare nervoso, nel frattempo che attendeva delle spiegazioni. Quel di nuovo non mollò la sua mente per l’intera ora in cui dovette aspettare.

“Il suo nome è Park Chorong, ed era la mia fidanzata”, iniziò, e non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, “Abbiamo fatto gli stessi corsi all’università e siamo finiti per lavorare nello stesso ospedale, andava tutto bene e prendevo il mio lavoro seriamente – e non seriamente seriamente come ora. Finivo i miei turni quando terminavano, e nonostante amassi come ora il mio lavoro accettavo volentieri i giorni di pausa, mi piaceva passare il tempo fuori dall’ospedale e spesso uscivo anche con Yixing, o con lei. Andava tutto bene, finché tre anni fa non successe l’immaginabile. Chorong ebbe un incidente, e mi informarono solo quando– quando non riuscirono a salvarla. Fu la notte peggiore della mia vita, e da quel momento decisi di dedicarmi di più al mio lavoro, di eseguire ogni incarico con più attenzione, di evitare ogni incidente che potesse portare qualcuno nella stessa situazione in cui mi trovai io, quel giorno”.

“Per caso questo ha a che fare con la tua reazione quando ti ho detto che il dottor Oh pensava fossimo un bel duo? Chorong c’entra qualcosa?”, chiese piano.

“Lo disse pure a noi”.

Ci fu un attimo di silenzio dove entrambi guardavano ovunque, tranne nella direzione dell’altro, pensando e tacendo. Jongdae ora capiva perché Yixing sembrava preoccupato, ogni volta che gli parlava di quanto l’altro medico lavorasse, e capiva perché il più grande reagì in quel modo per quei due episodi. Dall’altra parte, mentre il minore collegava ogni domanda con ogni risposta, Joonmyun si sentì improvvisamente… leggero, come se quella confessione lo avesse aiutato a liberarsi di tutto ciò che in quei tre anni si era portato dietro.

“Però, hyung”, disse ad un certo punto il minore, dopo un lungo silenzio, “Penso che, ecco, tu debba voltare pagina, tornare alla vita di una volta”, ammise.

Il diretto interessato lo guardò, con un sorriso che portava un misto di amarezza e ironia, “Come può una persona con il cuore tuttora infranto cambiare pagina?”.

L’altro si avvicinò, e gli prese una mano, stringendola, “Permettimi di guarire il tuo cuore”.


Dopo tre anni dall’incidente, per la prima volta, Joonmyun non pensò a Chorong – non pensò a lei mentre tirava a sé Jongdae, non pensò a lei mentre coinvolgeva il minore in un bacio pieno di sentimento. Per la prima volta dopo tre anni, pensò a qualcun altro, pensò a Jongdae. Pensò a lui mentre, nel bacio, lo trascinava in camera, pensò a lui mentre faceva combaciare i due corpi perfettamente. Dopo tre anni, Joonmyun si lasciò andare nelle braccia di qualcun altro.

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Capitolo 4
*** 11.446,57 km (far away) ***


{ intro: Jongdae e Joonmyun sono fidanzati da tre anni, ma la distanza fra Seoul e Atlanta li divide. }



11.446,57 km (far away)

 

 

 

 

 

 

Con respiro affannoso aprì la porta che dava alla sua camera, mollando in un secondo lo zaino per terra. Scalciò le maglie lasciate malamente al suolo e si sistemò i capelli, mentre recuperava la sedia della scrivania e la posizionava davanti a essa. Con un colpo secco aprì il computer portatile e lo accese, cercando di regolare il respiro. Maledetto Baekhyun, pensò sbuffando, nel frattempo che inseriva la password per accedere e tirava fuori dalla giacca le cuffie. Maledetto lui e League of Legends.

Era in ritardo, eccome se lo era. Si era raccomandato di tornare a casa entro le nove di sera, così da poter cenare tranquillamente e prepararsi senza fretta per la videochiamata, aveva pure impostato la sveglia così da non dimenticarsi del piano – eppure l’aveva mancata, e se n’era accorto un’ora dopo. Ora, si sarebbe dovuto presentare davanti alla webcam con il viso rosso per il freddo e la corsa, e i capelli spettinati.

Dopo qualche minuto, che sembrarono essere ore, riuscì ad accedere a Skype e andò a controllare velocemente i contatti online.

 

kjsuho91

Qualcuno è in ritardo?

 

Jongdae non riuscì a mascherare un sorriso appena apparve quel messaggio. Scosse la testa ridacchiando, nel frattempo che iniziava a digitare.

 

jjjjjon.gaed

Qualcuno stava fissando la chat?

kjsuho91

Ugh, hai risposto a una domanda con un’altra

domanda. Non va bene!

jjjjjon.gaed

E tu non hai risposto alla mia domanda.

Stiamo cadendo in basso, Kim!

kjsuho91

Sì, stavo fissando la chat.

jjjjjon.gaed

Sì, sono in ritardo.

kjsuho91

Ancora al pc café con Baekhyun?

jjjjjon.gaed

Chiedimelo mentre facciamo la

videochiamata!

 

In men che non si dica, dal pc partì la solita musichetta di Skype nell’esatto momento in cui arrivò la richiesta di videochiamata. Il ragazzo accettò mentre infilava le cuffie e piegava leggermente lo schermo, così da poter essere rinquadrato.

“Ripeto: ancora al pc café con Baekhyun?”, chiese Joonmyun, appena le due immagini furono perfettamente chiare.

Il diretto interessato sorrise stancamente, annuendo, “Per colpa sua sto spendendo più soldi in pc café che in altro”, si lamentò, scrollando le spalle e poggiandosi contro lo schienale.

“E arrivi pure tardi!”, puntualizzò il ragazzo dall’altra parte dello schermo, “Ti ho aspettato per ore!”.

“Mi aspettavi da ore? Lo vedo che ti sei appena svegliato!”, protestò il minore, puntando verso le coperte disfatte e il pigiama che aveva ancora indosso l’altro.

“Sabato mattina”, si giustificò egli, alzando le mani.

A entrambi scappò una risata sincera; ovvio che era sabato mattina, o Jongdae non avrebbe mai chiamato a quell’ora e Joonmyun non avrebbe mai risposto – se fosse stato un altro giorno era già nella metro, diretto all’università.

“Che cosa farai oggi?”, chiese il più piccolo, dopo aver avuto una breve discussione col maggiore sul se i gatti dovevano essere portati a spasso o no, quando quest’ultimo gli raccontò quant’era imbarazzante la vicina con il gatto al guinzaglio.

“Prima sistemerò casa, poi dovrò prepararmi per andare a lavoro”, disse di tutta risposta l’altro, giocando con il filo di una cuffia.

“Ugh, lavori ancora in quel piccolo bar vicino al campus?”.

“Esattamente”.

“Licenziati”, fu quello che disse Jongdae, con un broncio.

A Joonmyun scappò una risata e l’altro lo guardò con un piccolo sorriso, inclinando appena il capo, “Troppe ragazze”, gli fece il verso lui, sistemandosi sul letto, “Stai tranquillo, ho occhi solo per te – o meglio, solo per la tua foto che ho come blocca schermo”.

Dopo quella frase un leggero rossore si fece presente sulle gote del primo e cercò di nascondere il tutto mettendosi le mani sulle guance, “Sarà meglio, o chiamo il tuo amico Chanyeol e gli chiedo di controllarti”.

“Da quando lo conosci così bene da chiedergli cose del genere?”.

None of your business”, fece il verso al ragazzo, ricordando tutte quelle volte in cui gli aveva chiesto qualcosa e lui se n’era uscito con un non sono affari tuoi.

“Ugh, il tuo inglese – spero di non doverlo mai sentire dal vivo”, si lamentò l’altro.

La videochiamata proseguì così fino a notte fonda, superando la mezza notte. Chiacchiere, qualche risata, provocazioni di tanto in tanto e minuti in cui stavano semplicemente zitti e si guardavano, sorridendo o provando a non sorridere; era una videochiamata come le altre, in un sabato come gli altri.

Dopo quasi due ore davanti allo schermo, a Jongdae scivolò lo sguardo sull’ora e allargò appena gli occhi, ridotti a due fessure per la stanchezza e per la luminosità del portatile.

“È domenica”, mormorò, “Hyung, ti sto parlando dal futuro!”.

“Domenica?!”, chiese in un’esclamazione di stupore il maggiore, rizzando la schiena, “Che ore sono, Jongdae?”.

“Uhm, l’una e un quarto di notte?”, rispose stancamente l’altro. Ora pure lui aveva capito che era piuttosto tardi.

“È l’ora della nanna”, decretò con tono scherzoso, non riuscendo a trattenere poi una risata quando vide il broncio sul viso del ragazzo.

“Ti mando un messaggio quando mi sveglio – attento alle galline”, lo informò, stiracchiandosi e iniziando già a sfilarsi le cuffie dalle orecchie.

“Attentissimo. Allora ci sentiamo più tardi”.

“Buonanotte, hyung”.

“Goodnight ~”.

 

 

Sforzati a chiudere la videochiamata, scrivi l’ultimo messaggio della buonanotte, disconnettiti da Skype prima ancora che lui possa rispondere, spegni tutto, prendi i primi indumenti vecchi e vai a dormire. Questo, è quello che Jongdae faceva da quasi tre anni, ogni sabato sera, prima di coricarsi a letto. All’inizio era stato difficile ( tant’è che spesso finiva per addormentarsi durante le videochiamate, e a quel punto, la domenica mattina si svegliava con la testa contro la tastiera del computer), ma poi iniziò a prenderci la mano, e ora era più difficile andare a letto che rimanere svegli.

Erano sforzi che mai si sarebbe immaginato di fare, finché  Joonmyun non gli scrisse dal nulla; ricordava quel giorno come se non fossero passati quattro anni e cinque mesi (e due settimane e quattro giorni).

“Sei tu Kim Jongdae?”, fu questo il primo messaggio. Le prime cose che il diretto interessato notò furono il numero telefonico palesemente americano e la lingua, coreana. (“Un americano che mi scrive in coreano?”, pensò).

Solo il giorno seguente scoprì che il mittente era un ragazzo che Baekhyun conobbe durante le sue vacanze in America, dopo gli esami di terza superiore. A quanto pare, Baekhyun aveva fatto amicizia con dei ragazzi asiatici ad Atlanta, ed a uno di loro – Joonmyun – aveva parlato dell’amico, e quando aveva costatato che lui e l’amico in Corea avevano delle cose in comune, gli aveva lasciato il numero, dicendogli di contattarlo al più presto. Oltre alle botte, dopo un anno l’artefice di tutto ciò ricevette pure un grazie, perché Jongdae e Joonmyun si erano trovati così in sintonia da fidanzarsi.

Mantenere una relazione a distanza da una città all’altra, nella stessa nazione, è già alquanto complicato, figuriamoci avere una relazione cui ci sono 11.446,57 km di distanza e un fuso orario che limita le chiamate e le conversazioni portate avanti via messaggio.  Era difficilissimo, eppure – nonostante le discussioni per le gelosie, i giorni cui non potevano sentirsi o parlavano poco per gli esami o per gli impegni al di fuori dell’università, i soldi spesi per tastiere rovinate (quando c’erano le videochiamate speciali) e per chiamate per l’estero – erano ancora lì, con la voglia di parlare, sentirsi, vedersi attraverso uno schermo e giurarsi l’amore che provavano l’uno per l’altro.

“Non hai mai voluto chiudere con lui?”, gli chiese una volta il fratello, quando Jongdae terminò l’ennesima chiamata “Insomma, non avete mai avuto un contatto fisico e la possibilità che―”.

“No”, lo interruppe il minore, sapendo già dove voleva andare a parare, “Non l’ho mai voluto”.

Perché nonostante i 11.446,57 km di distanza, era felice di avere Joonmyun nella sua vita.

 

 

 

×

 

 

 

Di domenica, la routine di Jongdae consisteva nel spostarsi dalla camera, al bagno fino alla cucina, per poi tornare indietro e ripetere tutto, almeno quattro volte ogni due ore, finché non arrivava l’ora di andare a dormire. Per lui, la domenica era il giorno del “resta a casa tutto il giorno e non mettere fuori di casa nemmeno il naso”. Insomma, non era facile studiare, uscire con gli amici – quasi – tutti i giorni e portare avanti una relazione a lunga distanza, una pausa chiuso fra le quattro mura del suo piccolo appartamento se la doveva pur concedere, no? Poi lì non c’era tutto quello smog della capitale, aveva ogni tipo di comfort e non doveva spendere soldi se voleva mangiare qualcosa – c’era il frigo e tutte le merendine ipercaloriche che teneva in una credenza.

Come ogni domenica mattina, come promesso  prima di chiudere la videochiamata, mandò a Joonmyun un messaggio, per informalo che si fosse appena svegliato (con tanto di foto in allegato, di lui che cercava di essere carino, aiutandosi con un filtro – più o meno – carino di Snow, nel frattempo che beveva il suo amato latte al caffè), e finì con calma il pasto. Nel frattempo che si lavava i denti ricevette la risposta da parte del fidanzato, la quale consisteva in un messaggio con scritto cute af e in allegato una foto, dove si poteva vedere metà del suo volto e dietro Chanyeol, che con un’espressione strana divorava un hamburger. A quanto pare il maggiore aveva già finito di lavorare. Di tutta risposta scrisse un “sempre cibi sani!” ironico, prima di bloccare il telefono e concedersi alla sua giornata di puro niente.

 

O almeno così credeva.

 

“Jongdae apri questa porta o la butto giù!”, urlò Baekhyun dal corridoio del condominio, per la quarta volta quella sera.

Il proprietario di casa sbuffò e lentamente si trascinò verso la porta, tenendo ben stretta la coperta sulle spalle, prima di poter sbloccarla e aprirla. Appena fu aperta, il ragazzo poté vedere come l’amico fosse a un metro di distanza e pronto per prendere la rincorsa.

“Ti saresti fratturato una spalla”, disse con tono stanco Jongdae, prima di fare dietrofront e andarsi a buttare sul divano, “Come osi disturbare la mia domenica, Baek?”.

“Ti avrò chiamato cinque volte!”, esclamò egli, parandogli davanti al viso lo schermo del cellulare, con tutte le chiamate effettuate senza risposta al numero del primo.

“Joonmyun sta dormendo, non ho motivo per stare attaccato al telefono per persone come te”, mormorò, prima di avvolgersi con la coperta, coprendo la faccia, “Sto bene, mi hai visto, puoi andare― buonanotte”.

“Buonanotte un corno, alzati. Andiamo al Noraebang con LuHan hyung”, decretò, prendendolo per i piedi prima di poterlo trascinare fino in camera.

E fu così che Jongdae si trovò chiuso dentro a una stanza claustrofobica, seduto su un divano mentre Baekhyun e LuHan cantavano a squarciagola una delle nuove hit del momento. Se non fosse per le luci led che gli andavano in faccia e la voce del secondo coreano che due volte su tre si spezzava – di proposito o meno –, sarebbe stato piuttosto piacevole.

 

jjjjjon.gaed

Voglio morire.

 

kjsuho91

Baekhyun e le sue serate al karaoke?

 

jjjjjon.gaed

Com’è che sai sempre tutto?

 

kjsuho91

Perché ti spio.

….

Scherzavo! Scherzavo!

Ho visto la sua storia su instagram, in un video

c’eri tu che cantavi Pick Me con il

vostro amico.

 

Da una parte rise per l’innocenza del ragazzo, dall’altra maledisse Baekhyun e la sua mania di fare video di nascosto.

 

jjjjjon.gaed

Hyung mi teletrasporto in Atlanta,

Baekhyun oggi vuole rompermi i timpani.

 

kjsuho91

Fallo.

Nel letto c’è troppo spazio per i miei gusti.

 

Jongdae sorrise leggermente guardando quel messaggio, magari poterlo fare; si scrissero finché l’altro non dovette uscire per delle commissioni, e per tutta la durata della serata il minore non fece altro che pensare a come sarebbe stato bello avere Joonmyun al proprio fianco; quel pensiero non lo abbandonò finché non dovette andare a dormire.

 

 

 

×

 

 

 

Secondo Jongdae, lassù c’era qualcuno che non provava tanta simpatia per la sua povera anima. Sotto sotto, era sempre stato un po’ sfortunato. A quattro anni si ruppe il braccio, a dieci anni si beccò un brutto voto in una materia in cui era sempre andato bene, a sedici anni il barbiere gli fece un taglio completamente diverso da ciò che aveva richiesto, al matrimonio del fratello non trovò il discorso che si era preparato su dei fogli e la sua giacca elegante e fatta su misura prese quasi fuoco; ora, aveva un ragazzo che viveva dall’altra parte del mondo (o oltre l’Oceano Pacifico, se si guardava nel modo inverso) e ogni volta che usciva vedeva coppie in ogni angolo. Non che fosse una sfortuna avere il ragazzo, ma lo era vedere ogni dieci secondi una coppia di fidanzati che camminavano mano per mano o che stavano su una panchina a baciarsi e farsi foto con un gelato in mano, e non poter fare la stessa cosa. Persino una volta, quando decise di andare al cinema per vedere un film per conto suo, finì incastrato fra due coppie, che per un’ora e quarantacinque minuti non fece altro se non imboccarsi, baciarsi e coccolarsi.

Il coreano voleva vedere il ragazzo dal vivo, eccome se lo voleva; certe volte sognava pure dei ipotetici incontri, dove uno dei due prendeva il volo per lo stato dell’altro, e colui che abitava nella città straniera lo aspettava all’aeroporto, pronto per accoglierlo ― ma non era possibile. Lui studiava, Joonmyun studiava; non lavorava, ma il ragazzo sì; le feste non coincidevano mai. Per questo si accontentava di alcune semplici videochiamate.

 

 

 

×

 

 

 

Dopo aver sistemato casa Jongdae strappò la pagina del calendario, poiché da febbraio erano passati a marzo, e sussultò appena vide il giorno. 3 Marzo, circondato da un cuore rosso accesso: l’anniversario dei tre anni con Joonmyun; si chiede uno schiaffo sulla fronte, maledicendo se stesso per non essersi ricordato di quel giorno e per non aver mandato gli auguri al ragazzo, che a quell’ora era a un minuto dalla mezza notte.

Velocemente prese il cellulare lasciato in cucina, si buttò sul divano e, nel frattempo che faceva il long-in nell’app di Skype, cercò di rendersi presentabile. Non fece nemmeno in tempo a vedere che era entrato, che gli arrivò la notifica della richiesta di videochiamata.

Happy third Anniversary, tesoro!”, esclamò Joonmyun nemmeno un secondo dopo, con un largo sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. Il modo in cui il maggiore passava dall’inglese al coreano lo colpiva sempre.

“Felice terzo anniversario anche a te, honey”, ricambiò il minore, scambiando le due lingue proprio come l’altro, e ciò non fece altro che aumentare il sorriso altrui.

Auguri a voi due, piccioncini!”, poté udire dall’altra parte del telefono, e corrucciò le sopracciglia quando identificò la voce come quella di Chanyeol.

“Chanyeol è con te?”, domandò il coreano.

“Sì ma―”.

“Jongdae-yaaah! Il tuo ragazzo è cattivo, prima ha fatto il carino e mi ha offerto una cena e ora mi vuole sbattere fuori dal suo appartamento solo perché è il vostro anniversario!”, all’improvviso sullo schermo apparve solo la faccia di Chanyeol, che protestava contro il maggiore, senza badare al fatto che parte dei suoi capelli rossicci gli coprivano gli occhi.

Non poté far altro che ridere, mentre sentiva il proprio fidanzato “litigare” con il migliore amico nello stesso momento in cui lo sbatteva fuori di casa, e l’unica cosa che poté distinguere per bene, fra tutte quelle parole inglesi, fu un ritornerò, urlato dal ragazzo dai capelli tinti di rosso. Ci fu un attimo di silenzio, dove il ragazzo in Atlanta tornava nella visuale della webcam, e si guardarono per pochi minuti senza spicciare parola, prima di ridere all’unisco.

“Scusa per Chanyeol”, ridacchiò il ragazzo, grattandosi il collo, “Comunque― hai ricevuto il mio regalo?”.

“Oh? Sì!”, esclamò il secondo, annuendo energicamente e con un grosso sorriso stampato in faccia, “Con quella provetta di profumo volevi dirmi che profumi in quel modo?”, chiese, ricordandosi di come nella maglia trovò quella provetta che conteneva lo stesso odore che la maglia portava, e bastò un semplice cenno per far aumentare il sorriso del minore, “Allora è una fortuna che tu non sia con me, o non farei altro che affondare la testa nel tuo collo per sentirlo”.

L’ennesima risata uscì dalle labbra del primo, “Io ho ricevuto i tuoi, invece”, disse poi, facendo vedere tutti i prodotti per cura della pelle, la maschera col tema della tigre e, infine, il bracciale, “Non pensavo che l’odore della crema all’uva fosse così buono”.

“Lo avevi chiesto te, se poi non ti piaceva erano problemi tuoi”, rispose l’altro, facendo poi la linguaccia.

Continuarono a parlare per un po’, commentando di tanto in tanto i rispettivi regali, e nessuno dei due si accorse che le ore stavano volando via in un batter d’occhio, tant’è che quando Jongdae si degnò di controllare l’ora, notò che era già sera, segno che Joonmyun era stato per tutta la notte sveglio e da lui era già mattina – fortunatamente quest’ultimo, come gli disse prima, quel giorno non aveva lezioni, quindi non glielo fece notare; stavano giusto ridendo su un aneddoto che il maggiore aveva raccontato, quando i suoi occhi si focalizzarono sul letto che l’altro aveva dietro alle spalle, e notò qualcosa di insolito.

“Uhm, Joonie?”, lo richiamò, ora confuso.

“Sì?”.

“Come mai ci sono dei borsoni sul tuo letto?”.

In qualche modo, il diretto interessato sembrò essere stato preso alla sprovvista quando gli fece quella domanda. Lo vide grattarsi il collo, nel frattempo che si girava verso i suddetti borsoni, e come ritornò a mostrare il volto alla webcam rise nervosamente. Sembrava così agitato.

“Oh, è per una cosa che avrei voluto dirti― ecco, io mi sto trasferendo in un altro appartamento, più vicino al campus”, lo informò con quel sorriso incerto stampato sul volto, e a quel punto l’altro si chiese perché sembrasse così nervoso, finché il ragazzo non riprese la parola, “E purtroppo non potremo sentirci da domani, sai… i vari spostamenti, gli impegni, varie cose”.

Da una parte il minore fu demoralizzato da quella notizia, perché già si sentivano poco durante le settimane, ma dall’altra era felice, poiché sapeva che l’appartamento in cui viveva attualmente l’altro era piuttosto lontano dall’università, tant’è che era costretto a prendere la metropolitana per raggiungerla. Finse un sorriso, cercando di non pensare a come sarebbero stati noiosi quei giorni senza il maggiore.

 

 

In qualche modo, come sparì Joonmyun, sparì pure Baekhyun. Jongdae riuscì a costatarlo il giorno dopo, quando chiamò (o provò a chiamare) l’amico per chiedergli se poteva passargli degli appunti di cinese. Prima chiamata, e non rispose; seconda chiamata, non rispose nemmeno a quella; terza chiamata, ancora la segreteria telefonica; sesta chiamata, e non rispose nemmeno ai due messaggi lasciati precedentemente, nella segreteria telefonica. Gli mandò pure un paio di messaggi (da leggere come venti, minimo), e non rispose pure a quelli.

Si poteva dire che, in quel momento, il ragazzo era fin troppo stressato; afferrò un pacchetto di patatine dalla credenza, si sedette sul divano e andò nella rubrica, scrollando fra i numeri finché non arrivò a quello del coinquilino del migliore amico: Kyungsoo.

“Pronto, Jongdae?”, rispose il ragazzo, con voce piatta.

“Kyungsoo, sai dov’è finito Baekhyun?”, chiese subito senza far alcun giro di parole. Il coinquilino di Baekhyun era conosciuto per essere un tipo che non amava più di tanto le chiacchere, ed era sorprendente come i due andassero ancora d’accordo, sotto lo stesso tetto.

“È uscito poco fa, perché?”.

Jongdae sbatté le palpebre incredulo, prima di guardare quando aveva effettuato l’ultima chiamata e quando aveva inviato l’ultimo messaggio. Erano appena passati tre minuti.

“Oh― niente, niente, fai finta che io non ti abbia mai chiamato”, affermò con una piccola finta risata, prima schiacciare sulla cornetta rossa.

Fantastico, non poteva parlare col suo fidanzato e il suo migliore amico lo stava pure ignorando.

 

 

 

×

 

 

 

Erano ormai passati tre giorni da quando Jongdae non riusciva a parlare con Joonmyun né con Baekhyun e le cose non potevano andare peggio di così finché la pioggia non beccò in pieno il ragazzo, mentre tornava a piedi da due interminabili ore di lezione; qualcuno lassù lo odiava a morte. Una piccola gioia c’era, almeno: poco lontano trovò un convenience store in cui ripararsi, e nel portafogli aveva abbastanza soldi per comprarsi del cibo da mangiare lì. Fu così che finì davanti alla vetrata con del ramen istantaneo al curry, due samgak gimbap, un pacchetto di ppusyeo ppusyeo e una lattina di soda, maledicendo il mal tempo e l’ombrello che aveva dimenticato a casa, sicuro che quel giorno non avrebbe piovuto.

I suoi occhi felini, ridotti a due fessure, scorrevano su ogni figura che, inconsciamente, gli passava davanti, nel frattempo che boccone dopo boccone finiva il ramen e prendeva qualche sorso dalla lattina, ignorando come il liquido gassato bruciasse contro la sua gola quando beveva troppo velocemente. Si sentiva un po’ ridicolo standosene così, e non perché fosse la prima volta che si chiudeva in un convenience store, a mangiare schifezze – pure alle superiori, quando non gli andava di tornare a casa subito dopo le lezioni o litigava con la madre, si fermava lì per “cenare” – ma perché sembrava così patetico e solo, con quell’espressione di chi era stato abbandonato, fradicio dalla testa ai piedi.

Esalò un sospiro, aprendo il primo samgak gimbap, e quando diede il primo morso gli occhi catturarono la figura di una persona fin troppo conosciuta: Baekhyun; quasi si buttò contro il vetro, picchiando il palmo ben aperto contro di esso, e fu grato quando il migliore amico, dall’esterno, se ne accorse, al posto del commesso. Il secondo sembrava confuso e sorpreso nello stesso momento, e prima ancora che potesse muoversi, il ragazzo all’interno del negozio gli fece segno di entrare. Ed ecco come Jongdae finì con un samgak gimbap e mezzo, il pacchetto di ppusyeo ppusyeo, una lattina quasi vuota di soda e Baekhyun al suo fianco, che ne aveva approfittato per prendere un dosirak, una scatola di biscotti al cioccolato e del succo, ancora davanti alla vetrata del negozio.

“Che ci fai qui da solo?”, chiese il migliore amico, mischiando le fette di carne con il riso.

“Come mai mi ignori da tre giorni?”, domandò di tutta risposa l’altro, dando l’ultimo morso al primo triangolo.

“Non si risponde a una domanda con una domanda”, affermò il primo, aprendo la bottiglia del succo, “Avevo da fare”.

“Non ho portato l’ombrello”.

“Idiota”.

Una risata scappò a tutti e due, prima di tornare nel silenzio nel frattempo che continuavano il loro “pasto” – o almeno fu così per Jongdae, poiché finì prima di Baekhyun.

“Cosa ti ha tenuto così impegnato da ignorare tutti i messaggi e tutte le chiamate?”, chiese dopo un po’ il ragazzo dagli occhi felini, mentre accartocciava ogni busta così da mettere tutto nella vaschetta del ramen.

“Mio fratello sta tornando in Corea dal suo viaggio in Cina e mi hanno incaricato di preparargli una festa a sorpresa”, spiegò brevemente, con la bocca piena di ravioli.

“Woah, davvero Baekbeom sta tornando?”, essendo suo migliore amico, ovviamente conosceva pure il fratello maggiore, ed era sorpreso di sapere che dopo due anni aveva deciso di mettere piede nel suo paese nativo, “Hai finito tutto o ti serve un aiuto? Potrei chiedere a Jong―”.

L’altro gli infilò in bocca dei biscotti al cioccolato, per farlo tacere, “Grazie ma ho già finito tutto. Semmai, visto che Baekbeom ha chiesto tanto di te in questi due anni, vieni anche tu, sono sicuro che gli farà piacere”.

Il diretto non ci pensò nemmeno un secondo che dalle sue labbra uscì un , e prima di andar via l’amico gli disse quando presentarsi a casa sua.

 

 

 

×

 

 

 

Era strano da dire, ma per la prima volta in quattro giorni Jongdae non pensò più di tanto a Joonmyun – non che si fosse scordato di lui, ovviamente, solo che aveva preferito metterlo un attimo da parte, così da potersi concentrare solo alla festa a sorpresa per il fratello maggiore di Baekhyun. Lui, insieme al fratello maggiore, era una specie di seconda famiglia per il ragazzo, e quando erano ancora degli studenti delle superiori, spesso pure suo fratello maggiore andava con lui a casa del migliore amico, così da poter passare del tempo con Baekbeom, mentre la coppia di fratelli minori stava insieme a giocare ai videogiochi.

Non avendo fretta – anche perché quel giorno non aveva avuto lezioni all’università – ebbe tutto il tempo per oziare nella gran parte della mattinata e nelle prime ore del pomeriggio, per poi iniziare a prepararsi, e finire alle sette di sera in punto davanti al condominio in cui abitava il migliore amico col coinquilino.

Camminò rapidamente, per non dire che corse, sulle scale, i passi rimbombavano per tutti i corridoio della palazzina, e fu grato di essere abituato a quella salita, poiché l’altro abitava al quinto piano in un palazzo privo di ascensore, con degli scalini che erano più alti del normale. Arrivò col fiato corto davanti alla porta e corrucciò le sopracciglia, quando notò che la porta era socchiusa e da essa usciva un filo di luce, probabilmente dal salotto.

“Baekhyun?”, richiamò l’amico dopo essere entrato, nel frattempo che si toglieva le scarpe all’entrata.

Camminò fino a raggiungere il salotto, già pronto per inchinarsi davanti alle altre persone – perché gli era stato detto che non sarebbero stati gli unici –, quando notò che in salotto non c’era nessuno. Strano. Richiamò di nuovo il proprietario di casa, insieme al coinquilino, mentre si faceva avanti verso la porta della cucina, e quando sbirciò dentro vide che pure quello spazio era vuoto.

“Yah, Byun Baekhyun, non è divertente. Lo so che sei in casa, mi hai aperto la porta!”, esclamò Jongdae, pronto per andare verso la stanza altrui.

Proprio quando si voltò, credette di poter morire a causa di un infarto; all’inizio non lo aveva notato, troppo preso dalla ricerca dell’amico, ma quando si sporse per sbirciare in cucina, qualcuno si era esattamente posto dietro di lui. Fu difficile da credere, ma d’impatto riuscì a riconoscere quegli occhi che da tre anni vedeva attraverso un schermo, quelle guance che sembravano brillare di luce propria e quelle labbra che aveva sempre sognato di baciare. Prima ancora che potesse reagire, dal corridoio spuntò pure un ragazzo fin troppo alto, con i capelli rossi e le orecchie a sventola, seguito da un Baekhyun tutto sorridente, un Kyungsoo non-così-tanto-sorpreso, Luhan, Beakbeom e persino Jongdeok con la moglie, urlando insieme “Sorpresa”.  Per un attimo rimase fermo, immobile, non sapendo cosa fare o cosa dire, poi, man mano, gli occhi si fecero sempre più lucidi, finché non si buttò fra le braccia di chi aveva davanti, nascondendo il volto che ben presto iniziò ad essere rigato dalle lacrime.

Doveva essere per forza un sogno, uno dei suoi tanti sogni, perché non poteva essere vero, non poteva essere veramente fra le braccia di Joonmyun e lui non poteva essere lì, mentre lo stringeva e rideva appena. Nemmeno Chanyeol doveva essere con loro e il cellulare in mano, mentre li riprendeva– che diavolo ci faceva Park Chanyeol lì?

“Tu― Joonmyun―”, era impossibile per il minore parlare quando mille singhiozzi gli spezzavano la voce e lo facevano tremare, e se in quel momento il maggiore non lo avesse tenuto probabilmente sarebbe pure caduto, poiché le gambe sembravano essere fatte di gelatina.

“In carne e ossa”, rispose lui, sorridendo in modo brillante e accarezzandogli le guance, andando a pulire le lacrime. Dal vivo era mille volte più bello.

Per un attimo sembrò che l’idea di baciarsi fosse ottima, finché Jongdae non scoppiò nuovamente a piangere, e Joonmyun non riuscì a far altro che stringerlo a sé e passare una mano lungo la sua schiena, per calmarlo. Alla fine il minore riuscì a calmarsi, così da poter abbracciare tutti gli altri (fu difficile con Chanyeol, poiché era fin troppo alto nel suo metro e ottantasette, e presto realizzò che il fidanzato non mentiva quando gli diceva che quando abbracciava l’amico, la faccia andava contro il petto altrui), e menare Baekhyun.

“Come hai osato dirmi che Baekbeom tornava oggi, quando era qui da un mese”, fu quello che disse mentre gli dava un pugno contro il braccio, sotto lo sguardo divertito del fratello maggiore.

 

 

 

×

 

 

 

“Quindi, ora che siamo finalmente insieme, cosa vorresti fare?”, chiese Joonmyun la stessa notte, quando finirono di sistemare la sua roba nella stanza di Jongdae e andarono a posizionarsi sul divano.

“Tutto ciò che in tre anni non siamo riusciti a fare”, rispose il proprietario di casa, andando a sedersi sulle gambe del fidanzato, nel frattempo che l’altro lo coinvolgeva già in un bacio lento e profondo.

“Ew, non davanti a me!”, esclamò Chanyeol, uscendo dalla cucina.

“Vattene tu, è già tanto se ti ho portato con me e Jongdae ti ha offerto di stare da lui!”, rispose il maggiore fra i tre, girandosi e dando un’occhiataccia all’amico.

Ben presto il più alto se ne andò, mormorando qualcosa in inglese, così da lasciarli soli.

“Dov’eravamo rimasti?”, domandò con un piccolo sorriso, prima di tornare con le labbra contro quelle altrui.

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Capitolo 5
*** His whisper was the Lucifer ***


{ intro: Jongdae non si era mai sentito sporco, peccatore, finché un giorno non incrocia gli occhi di un ragazzo dalla carnagione chiara e il volto angelico. }

 

 

His whisper was the Lucifer

 

 

 

«Il Signore sia con voi e con il tuo spirito. Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.»

 

Quando la messa raggiunse la sua fine, la chiesa man mano andò a svuotarsi, con un flusso di gente che si alzava dalle panchine e andava verso l’uscita, da cui filtravano i raggi del Sole, che brillavano più che mai per quella domenica mattina di primavera; Jongdae si infilò la giacca in modo frettoloso, nel frattempo che si alzava a sua volta dalla panca, prima di poter raggiungere la madre, che di tutta fretta aveva raggiunto il Don dopo il termine della processione.

Infilò le mani nelle tasche e si guardò attorno, ammirando la struttura della chiesa, le sue pareti di quel color crema e le sue decorazioni color oro, ogni cornice che costudiva al suo interno disegni legati alla Bibbia o ai personaggi importanti di questa. Era la prima volta in quattro anni che rimetteva piede in quella struttura – la madre, dopo la morte del marito, aveva deciso di cambiare aria, nonostante il dispiacere della comunità, ma quando si accorse che né lei né i due figli si sentivano a loro agio a Wonju, pensò di ritornare a Siheung, nella loro vecchia comunità –, e poté dire di sentirsi di nuovo a casa. Gli era mancato tanto quel posto, e quando quella mattina mise piede dentro la chiesa, sentì una piacevole sensazione nel petto.

“Jongdae!”, lo richiamò la madre, facendogli segno di avvicinarsi.

Il ragazzo incurvò le labbra in alto e salutò con tutto rispetto il prete, inchinandosi per poi stringergli la mano. Quando le due mani si unirono, per quella stretta, poté sentire il calore che emanava e l’affetto che l’uomo gli aveva sempre mostrato, da quanto poteva ricordare.

“Com’è cresciuto bene questo ragazzo! Ricordo il giorno in cui ho battezzato lui e Jongdeok come se fosse stato ieri”, disse, dando delle pacche dolci alle spalle del ragazzo presente.

Mentre l’uomo chiedeva alla madre dove fosse il figlio maggiore, ovvero Jongdeok, Jongdae si fece nuovamente da parte, così da poter osservare quella chiesa che in sedici anni della sua vita lo aveva accolto. La famiglia del ragazzo aveva sempre fatto parte di quella comunità, senza eccezioni; i genitori si erano persino conosciuti fra quelle panche e si erano sposati proprio in quella chiesa, e insieme ai figli, poi, avevano sempre prestato il loro aiuto, per ogni avvenimento. Il fratello maggiore aveva persino fatto da chierichetto e lui dai dieci anni aveva fatto parte del coro, e insieme erano entrati nel corpo dei boy scout guidati dalla chiesa, finché non dovettero trasferirsi per quei quattro anni. Per una famiglia perfetta come la loro, la perdita del padre era stata un duro colpo da mandare giù, sia per loro sia per chi li conosceva. Era sempre stato un marito fedele, un padre magnifico che aveva insegnato ai figli come essere uomini rispettabili e amava entrambi allo stesso modo, senza preferenze, e un membro della comunità da ammirare e rispettare: andava regolarmente a messa insieme alla famiglia, si offriva sempre come volontario alla Caritas di Siheung e i suoi assegni per donare soldi alle famiglie più bisognose non mancavano mai. Mancava, mancava a tutti, ma Jongdae non si era fatto abbattere da questa perdita, si era fatto forza e aveva deciso che non avrebbe mai fatto morire il ricordo del padre, portando avanti le azioni che aveva fatto in vita; Jongdae ormai all’età di venti anni era ancora un uomo casa e chiesa, se non più di prima, sempre pronto per offrire una mano a chi ne aveva bisogno, ed era il tipo di persona che ogni famiglia avrebbe voluto come figlio o vedere al fianco della propria figlia, come fidanzato e futuro marito.

Perso nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno della piccola mano posta sulla sua spalla e subito si girò, trovandosi faccia a faccia con la madre, più sorridente che mai. Non ci voleva un genio per capire che, finalmente, anche lei si trovava a casa, a suo agio.

Salutarono il Don con un inchino rispettoso, prima che la madre potesse prendere sottobraccio il figlio e uscire così dalla chiesa.

 

Quando a diciotto anni – quasi diciannove – Jongdae finì gli esami di terza superiore, non pianificò di andare in alcuna università, a differenza di Jongdeok, che con i suoi ottimi voti ottenne pure la possibilità di entrare in una delle SKY; essendo quindi un adulto senza alcun impegno scolastico, ebbe tutto il tempo per trovare un lavoro – anche se ci riuscì dopo appena due giorni, tutto grazie alle conoscenze che ancora possedeva a Siheung – e riprendere i contatti con i suoi vecchi amici delle medie e superiori, e aveva molto tempo da dedicare a se stesso quando aveva i giorni di riposo. Inoltre, erano circa passate tre settimane da quando lui e la madre erano tornati nella città natale dei figli, e il ritorno nella vecchia comunità della loro chiesta era stato più brillante che mai. Talmente brillante che, nell’ultima domenica, quando delle vecchie conoscenti della madre li raggiunsero fuori dalla chiesa, una delle donne riuscì a mettersi da parte con il giovane uomo e rifilargli nome e numero di telefono della figlia minore.

“Dovresti conoscerla! È una brava ragazza!”, affermò la signora con un grande sorriso, prima di congedarsi e dare un ultimo saluto alla madre.

Jongdae non era amante degli appuntamenti al buio e al momento non cercava nemmeno qualche donna con cui intraprendere qualche relazione, ma comunque, ci andò; quando si presentò nel luogo prestabilito poté notare come la figlia della signora Yoon, Bomi, però, non sembrava tanto convinta, e come le disse che nemmeno lui era interessato, tutto andò nel migliore dei modi.

Jongdae era probabilmente il ragazzo più semplice, simpatico e amichevole del mondo; sapeva bene quando e quando non scherzare, riusciva a tirarti su di morale con una semplice parola ed era sempre lì col sorriso stampato sul volto, gli angoli della bocca perennemente alzati, e solo con uno sguardo potevi dire che era un ragazzo allegro, che sapeva coinvolgerti dopo pochi minuti. Con questo suo carattere, lungo gli anni della sua vita, riuscì a stringere molte amicizie, e anche quella volta, in poche ore, riuscì a stringere un rapporto con la ragazza che prima era contraria a quell’incontro.

“È stato un piacere conoscerti”, affermò lei, a fine serata, con un sorriso stampato in faccia e la mano piccola già in avanti, pronta per salutarlo un’ultima volta. L’altro ricambiò, sorridendo e stringendole la mano, e presto rimase da solo in quel tavolino, a guardare un punto non definito davanti a sé.

Si riscosse dai suoi pensieri solo quando sentì il telefono vibrare contro la gambe e subito lo estrasse dalla tasca, controllando l’ID: Yixing.

“Jongdae, dove sei?”, chiese egli, appena accettò la chiamata.

“Uh, ad un bar ― perché?”.

“Sei mancato alla tua prima prova con il coro”, lo informò, e il diretto interessato sentì mozzarsi il fiato.

Vero, era stato così preso dall’incontro con la figlia della signora Yoon, indeciso se mantenere la sua promessa o rinviare l’appuntamento, che si era proprio dimenticato di quel secondo appuntamento per la giornata; l’ultima domenica, oltre all’incontro con quella donna, il giovane aveva pure avuto modo di parlare con il nuovo direttore del coro della chiesa, e quando seppe che il suo vecchio amico Yixing ne faceva ancora parte, accettò più che volentieri.

“Non sono ancora in tempo, vero?”, chiese, con ancora un briciolo di speranza.

“No”, e lì un sospiro rassegnato gli uscì dalle labbra, “Ma per rimediare puoi offrirmi un frullato”, lo informò l’amico, in parte scherzando e in parte no – se Yixing voleva un frullato, lo avrebbe ottenuto in qualsiasi modo.

Dopo quasi un quarto d’ora i due si ritrovarono nello stesso bar in cui Jongdae s’era visto con Bomi, seduto in un tavolino all’interno e con due frullati posti su di esso, uno al cioccolato e l’altro alla fragola. Iniziarono a parlare, l’amico gli raccontò un po’ com’erano strutturate le prove – e il minore poté costatare che non erano affatto cambiare – e il tempo volò. La conversazione scorse come un fiume in piena, veloce, secondo il coreano, finché l’altro non gli disse qualcosa che catturò la sua attenzione.

“C’è un nuovo organista, sai?”.

 

 

 

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Jongdae non era mai stato un peccatore― okay, forse tre o quattro peccati li aveva commessi, ma da ragazzino, quando era stato troppo irresponsabile e non era ancora a completa coscienza delle sue azioni. Ora, che era un giovane adulto completamente cosciente di ciò che compieva, sapeva bene a cosa poteva andare incontro e faceva di tutto per non commettere ancora dei peccati. Era pulito, aveva la coscienza pulita, e se sentiva di aver commesso qualcosa di sbagliato andava subito dal prete a parlare e a confidarsi, per capire se avesse sbagliato o no, e se il Don riconosceva qualche peccato nei suoi gesti, chiedeva perdono nel profondo del suo cuore.

I giorni, le settimane e i mesi passarono tranquillamente, e dalla primavera con il clima mite si passò all’estate, con l’afa e il sole che scottava, fino all’autunno e le foglie che cadevano dagli alberi, leggere. Nel pieno di ottobre, Jongdae si svegliò con in mano un lavoro importante, affidatogli dalla madre la sera prima. Quel giorno era il quinto anniversario dalla morte del padre e, poiché la madre non poteva recarsi in chiesa a causa di un impegno improvviso, chiese al figlio minore di andare al posto suo per accendere una candela e dedicarla all’uomo venuto a mancare. Sua madre era una donna che seguiva molto la routine, e ogni anno, da cinque anni, era sempre andata in chiesa per accendere una candela per il marito. Lui, comunque, non poteva deludere la madre e spezzare quella tradizione che la donna seguiva per il defunto, e quel gesto significava anche onorarlo, in fondo. Se non lo faceva, avrebbe peccato.

 

Entrato in chiesa, si avvicinò come suo solito all’acquasantiera e intinse le dita, così da bagnarle e poi portarle alla fronte, e fare il segno della croce. Solo quando riaprì gli occhi, andando dove c’erano le candele, si accorse di un piccolo particolare: qualcuno stava suonando l’organo. Fece finta di niente, non volendo curiosare. Anzi. Si godette quella dolce melodia, permettendo alle note di occupare i suoi pensieri sia mentre accendeva una candela sia quando andò a prendere un posto su una delle panche vuote, inginocchiandosi e congiungendo le mani, in un pugno chiuso, iniziando poi a pregare. Intorno a lui si creò una bolla di silenzio, immaginaria, nel frattempo che pensava e iniziava a pregare, per il padre (così che la sua anima potesse continuare a viaggiare in pace, ovunque essa fosse), per la madre e il fratello, per se stesso. Sperò per tutti e tre una vita felice, tranquilla, senza ostacoli fin troppo grandi e complicati da superare. Che la madre continuasse a essere felice, senza dimenticare l’amore che il marito le aveva donato e che il fratello rimanesse in salute, e sperò per lui di trovare la donna adatta per lui, da sposare e con cui iniziare una famiglia tutta sua.

Jongdae aprì gli occhi proprio quando sentì riecheggiare nell’aria un lungo Si e sospirò, slegando le mani e alzandosi. Si guardò attorno, vedendo che oltre a lui non c’era nessuno se non un’anziana, nella fila opposta, mentre accendeva una candela e pregava silenziosamente, per poi tornare con lo sguardo davanti a sé.

Il giovane era sul punto di andare, quando la melodia man mano andò ad abbassarsi, fino a cessare. Lì, fu difficile resistere alla curiosità e prima ancora che potesse accorgersene, alzò gli occhi, verso il piccolo balcone in cui era posto il vecchio organo; un improvviso ronzio si fece spazio in entrambe le orecchie e sentì come se qualcosa stesse premendo contro la sua gola, impedendogli di respirare in modo corretto.

Due occhi piccoli, che sembravano ricambiare il suo sguardo.

La pelle candida.

Le labbra piene e rosee.

 

Jongdae si era sempre sentito pulito, ma in quel momento si sentiva sporco.

 

La sensazione d’impurezza  che provò in un luogo così sacro, nella casa di Dio, fu straziante e orribile e sperò con tutto se stesso che fosse solo frutto della sua immaginazione. Pregò se stesso che quel peso al petto fosse solo un’allucinazione. Provò a chiudere gli occhi, così da staccare il contatto visivo con quelli altrui, ma non ci riuscì – quegli occhi così vispi, profondi, quei due pozzi neri in cui una persona poteva perdersi, erano come due calamite per i propri e la frustrazione si fece presente, quando non poté far altro se non guardarlo. Quell’uomo era riuscito a far fermare il tempo intorno a loro, a catturare e mantenere la sua completa attenzione e a farlo sentire inadatto in un luogo cui si era sempre sentito protetto, a casa.

Jongdae non seppe motivare quella sensazione, la quale premeva ancora gravemente contro il suo petto, nemmeno quando uscì dalla struttura, fin troppo velocemente – forse per scappare dallo sguardo dello straniero. Dalla chiesa a casa la sua mente fu annebbiata unicamente dall’ultimo ricordo che ebbe di quell’uomo, prima di dileguarsi: le sue labbra così rosee e all’apparenza morbide, s’incresparono in un ghigno tenebroso.

 

Il peggio arrivò quando tornò il giorno delle prove per il coro: stava scambiando due o tre parole con Yixing, in modo pacifico, finché con la coda dell’occhio vide qualcuno sedersi davanti all’organo; i due sguardi s’intrecciarono e Jongdae sussultò, sentendo un brivido scorrergli per tutta la spina dorsale.

Lui era l’organista.

 

 

 

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Jongdae continuò ad andare a messa finché non venne il giorno in cui il coro avrebbe cantato davanti a tutti. Sapeva che era egoista da parte sua, perché una persona in meno nel coro voleva dire – ovviamente – una voce in meno, e uno sforzo maggiore da parte degli altri, così da poterla coprire, ma non ce la fece. Lo realizzò quando s’infilò nelle morbide e candide coperte del suo letto, che non ce l’avrebbe fatta. Non era assolutamente ansia da prestazione, poiché non era la prima volta che cantava nel coro, davanti a chissà quante persone, né paura di sbagliare qualcosa e di mettere in difficoltà gli altri, anche perché avevano provato svariate volte tutto ciò che avrebbero dovuto cantare. Nessuno dei suoi problemi erano legati all’esibizione o alle canzoni da esibire, se non a chi avrebbe fatto da accompagnamento per tutto quel tempo.

L’organista; lui era il suo problema, ciò che lo bloccava e che lo aveva convinto a non andare, di non presentarsi. Perché? Semplice, il solo guardarlo lo faceva sentire peccatore. C’era qualcosa in lui che lo faceva sentire sbagliato, contaminato da qualcosa che alterava la sua mente – o ancora peggio, c’era qualcosa in lui che lo tentava. All’inizio non volle prestarci troppa attenzione, così da fare in modo che tutte quelle sensazioni andassero sempre più giù, nei meandri della sua mente, così che non potesse sentire niente, ma più gli incontri per il coro si fecero più presenti e più non riusciva a trattenere la verità. Lo sconosciuto (ancora non si era azzardato a chiedere il suo nome, non voleva saperlo) sembrava sempre guardarlo, quando volgeva anche solo un attimo il viso verso la sua direzione ecco che i due sguardi s’incontravano, e quando il secondo distoglieva lo sguardo, sentiva ancora l’attenzione dell’altro bruciare sulla sua pelle, insistente. Per non parlare delle sue labbra, e il giovane uomo voleva continuamente colpirsi quando finiva per guardarle, pensarci. Così rosee, perfette, lucide – tentatrici. Aveva poche certezze nella vita, e in quelle vi era la certezza che l’altro si mordeva le labbra o le umidificava proprio quando lo guardava, di proposito, così da poter attirare e mantenere la sua attenzione.

Forse, se quel giorno non fosse andato, fingendosi malato, i pensieri impuri si sarebbero placati, avrebbe trovato di nuovo la pace in se stesso e la domenica seguente avrebbe donato la sua presenza durante la messa.

 

O almeno così credette, stupidamente.

 

La verità, la realtà era un’altra: Jongdae non smise di pensare all’organista; i pensieri sui suoi sguardi, su come il corpo bruciasse sotto l’attenzione altrui continuarono, e i pensieri sulle labbra altrui non si fermarono, anzi. Aumentarono.

Il giovane volle strapparsi i capelli, piangere e sfogare la sua frustrazione su qualsiasi cosa, in qualsiasi modo, perché era incapace di togliersi dalla mente il viso di quell’uomo di cui non conosceva nemmeno l’identità. Non aveva mai osato fantasticare su ragazze e donne, né in tre anni di superiori né in quell’età – perché ora nella mente non aveva altro che il chiodo fisso dello straniero? Gli faceva solo ribrezzo ammettere che era andato ben oltre ai semplici pensieri, perché sì, certe notti, quelle più buie e silenziose, nella mente del giovane si formarono immagini di loro due, scenari lascivi in cui non si guardavano e basta, ma dove le mani dell’uomo scorrevano sul suo corpo, calde, e le labbra si scontravano contro le sue, fameliche.

Jongdae con riluttanza accettava la verità, quella dove faceva pensieri viziosi su un uomo, in situazioni ben lontane dal casto, dalla semplice quotidianità, ma presto avrebbe divaricato se stesso da quel flusso di pensieri.

 

“Dove stai andando?”, chiese un pomeriggio la madre al figlio, quando lo vide uscire di tutta fretta dalla sua stanza, già con indosso la giacca.

“Uhm― in un posto, mi devo vedere con un amico”, disse il diretto interessato, prima di prendere le chiavi e salutare la madre.

Non poteva dirle la verità.

Più deciso che mai, s’incamminò verso il luogo in cui era collocata la chiesa, e cercò in tutti i modi di rilassare le spalle, la mascella, quando allungò una mano per aprire la porta; come sempre, il posto era illuminato dai raggi solari che filtravano dalle spaziose finestre, costruite sui fianchi e in alto, e come previsto non c’era nessuno. Sorrise a se stesso. Si sistemò il colletto della giacca, prima di poter volgersi verso il confessionale e prendere posto, sicuro che il Don era già lì, pronto per accoglierlo e ascoltarlo.

“Non avrei mai pensato di vedere proprio te, qui”, quella frase uscì in un misto di sorpresa e divertimento, e il giovane non poté far altro che sospirare, facendo ricadere la testa in avanti, “Parla pure”.

“Non faccio altro che pensare a una persona”, rivelò.

“Non vedo nulla di male, in questo, tutti pensiamo a qualcuno”.

“Penso ad un uomo”, specificò, e come lo ammise cercò di mandar via quella brutta sensazione, “E non in modo casto. I miei pensieri sono… lascivi, viziosi”.

Jongdae riuscì a percepire la sorpresa nel Don, nonostante il suo volto fosse coperto e potesse sentire solo la sua voce; gli fu immediatamente suggerito di non pensare più in quel modo a un uomo, di trovare qualcosa che potesse occupare la sua mente – gli fu pure detto di iniziare a interessarsi alle giovani e intelligenti ragazze che facevano parte della comunità. In pochi minuti fu fuori del confessionale e con il cuore più leggero, la mente libera. Occupò altri minuti per rimanere all’interno della struttura e pregare, così che i suoi peccati fossero dissolti completamente, prima di uscire.

Stava camminando tranquillamente per strada, calpestando lo stesso cemento su cui era passato sopra circa mezz’ora fa, per dirigersi in chiesa, e un sorriso contornava il suo viso, illuminandolo. Svoltò giusto in una via, per imboccare la scorciatoia che lo portava in pochi minuti a casa, prima che una figura fin troppo famigliare potesse entrare nel suo campo visivo.

No, pensò, non lui.

I battiti cardiaci del suo cuore iniziarono ad accelerare, il muscolo involontario pompava velocemente il sangue e martellava contro la cassa toracica come non mai, e per una frazione di secondo ebbe paura che essa potesse rompersi. Prima ancora che potesse accorgersene i loro sguardi s’unirono e il secondo si stava già facendo strada verso di lui. Lo stava… raggiungendo? No, no― non poteva, non doveva; Jongdae, cercando di essere il più naturale possibile, si schiarì la gola, si passò la mano dietro al collo e si guardò velocemente attorno, prima di potersi girare. Sperò che l’altro non continuasse a camminare verso di lui. Giusto quando stava per muovere i primi passi, sentì qualcosa afferrargli il polso e un respiro caldo battere contro la pelle sensibile del suo collo. A quel contatto, sentì un fuoco accendersi nel suo stomaco. L’organista scottava.

Il giovane uomo si girò e con tutto se stesso provò a mantenere un finto sorriso, e i muscoli facciali facevano male per quanto si stava sforzando; cercò di sfuggire alla presa altrui e velocemente fece un piccolo inchino, indietreggiando di un passo. Visto da più vicino, il volto del secondo uomo era innocente, angelico.

“Uhm, ciao”, si ritrovò a salutare per primo, timidamente.

“Ciao”, era la prima volta che sentiva la sua voce ed era… perfetta, “Come mai non sei venuto a messa? C’era la prima esibizione del coro”.

Jongdae si era aspettato di tutto quando aveva realizzato che l’altro stava avanzando proprio per lui, meno che quello, “Uhm― ecco, io mi sono sentito male quel giorno, e ho preferito non presentarmi. Sai, i germi”, una strana sensazione si fece presente nel suo stomaco, quando disse apertamente quella scusa. Fino ad allora l’aveva solo pensata, e con la madre era servita una semplice recita.

“Mi dispiace. Spero che ora tu stia meglio”, e un dolce sorriso, diverso da quelli che gli aveva sempre rivolto, si fece strada su quel volto dolce.

“Oh, sì. Ora sto meglio, grazie”.

Ci fu un imbarazzante silenzio fra i due, dopo quella frase. Jongdae non faceva altro che guardare oltre la spalla dell’altro (cercava in tutti i modi di non finire con lo sguardo sulle sue labbra) e l’organista lo guardava, mantenendo quel piccolo sorriso. Avrebbe dovuto dirgli che doveva tornare a casa? Inventarsi un’altra scusa? Rimanere lì finché non fosse stato l’organista ad andarsene?

“Comunque”, iniziò l’altro, riscuotendo il giovane dai suoi pensieri, “Mi sono accorto che non ci siamo ancora presentati, ecco. Conosco ogni componente del coro, tranne te”.

Il diretto interessato fu pervaso da un brivido, che aumentò quando vide che ora, l’organista, aveva uno dei suoi soliti ghigni sulle labbra. Come poteva una persona dal volto così dolce avere un sorriso così oscuro?

“Hai― hai ragione!”, ridacchiò nervosamente, tendendo una mano, “Sono Kim Jongdae, piacere”.

“Joonmyun― Kim Joonmyun, piacere mio”, si presentò l’uomo, e come si strinsero la mano, si fece più vicino.

Altri minuti di puro imbarazzante silenzio, dove Jongdae non sapeva cosa fare e come comportarsi. Le mani continuarono a stringersi, nonostante la presentazione fosse finita, e Joonmyun non sembrava dell’idea di interrompere per primo quel contatto. Ancora un volta, sentiva la pelle di quest’ultimo scottare e il suo corpo non faceva altro che assorbire quel calore, forte quanto potesse esserlo quello della lava.

“Io― ecco, devo tornare a casa”, lo disse in modo frettoloso, togliendo con fatica la mano da quella morsa calda e resistente.

Joonmyun annuì, sorridendo e con un’espressione rilassata stampata sul suo viso, e prima che il giovane potesse accorgersene, aveva posato una mano sulla sua spalla, stringendola, prima di potersi sporgere verso il suo orecchio e soffiarci all’interno un “Ci rivediamo alle prove del coro”.

Anche se l’organista era andato, lasciandolo lì con quella frase, Jongdae non si spostò di un centimetro. Rimase immobile, fermo su quel punto e con lo sguardo perso nel vuoto. Il corpo era ancora scosso da mille e mila brividi, e nonostante s’iniziasse già a sentire il freddo di novembre, la pelle ardeva come se fosse sotto il sole cuocente di agosto.

 

 

 

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“Jongdae, stai bene?”.

“Sì mamma, sto bene. Tranquilla”.

 

La verità era che Jongdae non stava bene, affatto.

Era possibile odiare una persona di cui si conosceva solo il nome e ciò che faceva in determinati giorni della settimana, e con cui si era intrapresa una conversazione solo una volta? Perché se la risposta era sì, il giovane odiava Joonmyun. Non gli aveva fatto nulla di male. Anzi. Qualcosa di male lo aveva fatto: gli aveva fatto perdere la testa, lo aveva fatto sentire impuro e inadatto. Joonmyun aveva distrutto la sua purezza con tutti quei ghigni e con tutti quegli sguardi, per questo lo odiava – e lo odiava pure perché lo aveva portato all’odio. Quel sentimento così oscuro e maligno non faceva parte del vocabolario di Jongdae. Lui non aveva mai odiato, perché era male.

 

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori.»

 

Questo fu quello che gli insegnò il prete, quando era piccolo, e fu pure quello che gli disse il padre, quando divenne più grande. Aveva sempre rispettato quella frase, non aveva mai provato quel sentimento per qualcuno e aveva sempre amato, pure chi non provava simpatia nei suoi confronti e gli faceva del male, lo prendeva in giro.

Allora perché Joonmyun aveva fatto in modo che egli lo odiasse?

 

 

Seppure con riluttanza, alla fine, il giovane si presentò alle prove del coro e con fatica ricambiò il sorriso che l’organista gli mandò dall’altra parte della stanza, mentre parlava con due o tre ragazzi. Per tutto il tempo non fece che sentirsi nervoso, il cuore batteva velocemente e quando il suo sguardo s’incatenava con quello altrui – anche per una minima frazione di secondo – sentiva le gambe molli e la testa girare, il corpo bruciare. Furono le prove più frustranti della sua intera esistenza – e nemmeno alla fine di queste, ebbe pace.

Stava percorrendo la strada di ritorno dall’oratorio a casa sua, quando sentì una mano afferrargli il polso e trascinarlo in un vicolo cieco, scuro. Sussultò quando la sua schiena toccò il muro, ma sussultò ancora di più quando vide il volto di chi gli stava davanti. Joonmyun.

“Ehi”, lo salutò lui, con un piccolo sorriso stampato in faccia – insomma, se non c’era un ghigno, c’era sempre un piccolo sorriso.

“Ciao”, ricambiò Jongdae, cercando di evitare il suo sguardo, “Come― perché siamo qui?”, chiese, e la voce uscì tremante.

“Non so”, scrollò le spalle l’organista, “Avevo voglia di parlare con te”.

Jongdae corrucciò le sopracciglia, “Parlare con me? Beh, se volevi parlare non― potevi anche chiedermi di andare in qualche bar e― e― ecco, noi―”, provò con tutto se stesso a formulare una frase di senso compiuto, ma i suoi occhi ben presto furono attratti da quelli altrui ed egli tornò a sorridere in modo storto, iniziando a avanzare. Prima ancora che Jongdae potesse finire, Joonmyun gli stava baciando il collo.

Ora sì che il giovane poteva dire che il suo corpo stava andando in fiamme, bruciava sotto ogni bacio dell’altro e divenne troppo debole per resistere, per combattere così da toglierselo di dosso. Nella mente pensò a quando faceva pensieri viziosi sull’organista, a quando desiderava che lo baciasse e lo toccasse, e non seppe come reagire quando realizzò con le sue fantasie coincidevano con la realtà. Sentì le orecchie fischiare, proprio come quando i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta, e il capo si fece sempre più pesante, nel frattempo che le labbra del secondo uomo raggiungevano il suo lobo.

“Io so tutto”, iniziò con un ghigno a contornarli il volto, afferrando il mento del giovane fra due dita, “Volevi così tanto che io posassi le mie labbra sulla tua pelle, eppure ora sei teso come una corda di violino”.

Il diretto interessato deglutì e si lasciò andare a un lungo e forte mugolio, quando il proprio lobo venne morso. Avrebbe dovuto far male, ma gli piacque.

“Lasciati andare”, sussurrò.

E solo in quel momento, mentre Joonmyun tornava a baciargli tutto il profilo, stringendolo fra il suo corpo e il muro di mattoni, con le due dita a tenergli fermo il mento, Jongdae lo sentì.

 

Il suo sussurro era Lucifero.

 

 

 

Se prima Jongdae aveva pochissime certezze, ora ne aveva un paio; primo, era uno dei più grandi peccatori della comunità; due, Kim Joonmyun non era umano. Non che lo avesse visto fare cose strane, come arrampicarsi sui muri o far spuntare due ali dietro alla sua schiena. Lo sentiva e basta. Perché nessuno, e mai nessuno, poteva avere un volto angelico e indossare il ghigno di un diavolo, comportarsi delicatamente davanti gli occhi degli altri e essere uno dei più abili tentatori solo sotto gli occhi del giovane. Sin da subito lo aveva percepito, da quando i loro sguardi si erano incatenati e si era sentito impuro solo con quello.

Come se non bastasse, dopo una notte di continui sbagli dove Jongdae si lasciò andare ai tocchi e alle attenzioni dell’organista (e se si voleva peggiorare la situazione, sul materasso di quest’ultimo), dopo quella volta sembrava stranamente perso per lui.

Jongdae era solo con la madre, a casa loro? Joonmyun gli mancava e sentiva di aver bisogno dei suoi sussurri, delle sue mani che lo stringevano, dei suoi occhi che lo osservavano da capo a piedi e dei suoi sorrisi, la notte lo sognava ed erano sempre sogni lussuriosi, dove si perdeva di nuovo tra i suoi baci.

Si vedevano per le prove del coro o dopo la messa? (perché sì, il più grande aveva iniziato a presentarsi pure a messa) Non combatteva neanche sotto la presa altrui che, al termine di questi due incontri, lo trascinava nel solito vicolo stretto, e lo spingeva contro il muro, prima di poterlo coinvolgere in uno dei loro baci più profondi.

Ad un certo punto, il giovane uomo perse il conto di tutte le volte che lo desiderò, che lo baciò e che, dopo le prove del coro, finì per svegliarsi nel suo letto, col corpo umidiccio per il sudore e contro il petto dell’altro.

 

 

 

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Con quelle note gravi e delicate, con quell’aria autunnale che entrava dalle porte ogni volta che venivano aperte, quel giorno Joonmyun si mise a suonare l’organo. Non era la messa, né le prove del coro o una cerimonia, si era solo svegliato con la voglia di suonarlo e aveva avuto il consenso – e non c’erano nemmeno tante persone, quel giorno, occasione in più per suonare senza occhi discreti che lo osservano di spalle.

Comunque, sentì quando mise piede nella Casa di Dio. Stava riproducendo Aria Sulla Quarta Corda, quando lui entrò; con la coda dell’occhio, dall’alto, lo vide farsi il segno della croce dopo aver intinto le dita nella piccola bacinella di pietra, al fianco dell’entrata, e poi seguì i suoi movimenti finché non sparì poco sotto, dalle candele; solo quando ebbe finito di suonare quella melodia, seppe che era ora di tornare a casa, così da far cadere di nuovo il silenzio in quel posto sacro. Si alzò e si girò, verso le panche, e subito fece cadere lo sguardo sul volto del ragazzo che se ne stava fermo a guardarlo.

Il suo volto era così puro, come la sua anima. Gli occhi erano piacevolmente sgranati, le labbra deliziosamente socchiuse e poté notarlo: catturò la sua attenzione. Fece in modo mantenere la sua attenzione, inclinando di poco il capo, non battendo un ciglio, e solo quando avvertì il suo disagio, ghignò.

 

“La tentazione non è un peccato su cui si possa trionfare una volta per sempre e poi sei libero. La tentazione scivola nel letto con te ogni notte e ti aiuta a dire le tue preghiere. Essa ti sveglia al mattino con una tazza di caffè amichevole, e sa esattamente come prenderti.”, e se c’era una cosa su cui Joonmyun era un maestro, quella era tentare. Ormai, per lui, era uno scherzo e un gioco cui poteva giocare ogni giorno di ogni settimana, senza stancarsi.

Molti erano caduti nelle tentazioni, in tanti aveva ceduto a lui e tutto ciò, per egli, era successo in un battito di ciglia.

Con Jongdae, fu come bere l’acqua. Semplice, veloce.

Glielo leggeva negli occhi, l’uomo, che il giovane era terrorizzato ma al contempo attratto da lui; già dal primo giorno in cui i loro sguardi s’incrociarono per la seconda volta, nei primi minuti delle prove del coro. Notava le occhiatine che gli mandava, di tanto in tanto, e non poteva ignorare il modo in cui i suoi muscoli si irrigidivano, quando ricambiava quelle occhiate. Percepiva pure il suo calore, come il suo corpo bruciasse sotto i propri sguardi, e ciò in lui creava una certa soddisfazione.

Per anni aveva tentato persone, portato all’impurezza anime di donne e uomini, ma nessuno era caduto così facilmente nelle sue grinfie come quel giovane dagli occhi affilati.

Seppe di averlo in pugno un giorno, quando il coro si sarebbe finalmente esibito a messa, per cantare la gloria di Dio. Tutti rimasero scossi dalla notizia che la madre del ragazzo portò al Don, quel giorno: Jongdae non sarebbe venuto, perché era malato. Il disappunto era sugli occhi di tutti, il divertimento su quelli di Joonmyun, che nascose dietro a una smorfia.

 

“Lascia stare mio figlio”, gli intimò un giorno una voce, alle sue spalle, nel mezzo del suo cammino.

Un sospirò pesante si disperse per quella via stretta e cercò di ignorare quella voce, mettendosi le mani in tasca e continuando a camminare, l’espressione serena.

“Joonmyun, lo so che mi hai sentito. Lascia stare mio figlio”, ripeté l’uomo, e il primo si godette il tono disperato che la sua voce assunse.

“Perché mai? Non vedi come la sua anima è sporca? Come la tua”, presto un ghigno si fece spazio sul suo volto quando pronunciò quelle parole, e si beò dell’espressione esterrefatta di chi all’improvviso gli apparve davanti.

“Cosa gli hai fatto? Non vi è bastato ingannare me? Dovete rendere misere pure le vite degli altri?”.

“Tu stesso hai reso misera la vita della tua famiglia, uccidendoti. È un bene che siano tornati qui”, mormorò alzando il mento, con fare sfacciato verso la figura del più anziano, “Soprattutto che Jongdae sia tornato”, e sogghignò, prima di schioccare la lingua.

Più l’anziano cercava di convincere l’uomo, con tono e espressione disperata, supplicando di risparmiare la vita del figlio, più egli trovava piacere, ma presto dovette cacciarlo: il soggetto della loro conversazione era su quella stessa via, e poteva dire che era appena stato in chiesa; finse un incontro improvviso, e cercò di non sorridere quando lo vide fare dietrofront, come se avesse una speranza di scappare da lui.

 

“Parlare con me? Beh, se volevi parlare non― potevi anche chiedermi di andare in qualche bar e― e― ecco, noi―”.

Avanzò man mano, schiacciandolo contro il muro che gli stava dietro. La tensione era palpabile, densa, li circondava completamente e di certo stava soffocando il minore, intrappolato dall’organista e dal muro di quel edificio. Poteva leggere perfettamente il panico nei suoi occhi, il nervosismo che man mano stava crescendo nel suo corpo e il desiderio. Jongdae non era al corrente che Joonmyun sapeva ogni singola cosa, dalle sue prime sensazioni quando i loro occhi s’incrociarono, il suo sguardo che ogni volta cadeva sulle proprie labbra e i suoi pensieri impuri. Di come voleva essere baciato, toccato, stretto fra le mani del più grande e fra il suo corpo.

Se farlo cadere nella sua rete piena di tentazioni era stato facile, farlo sciogliere sotto i tocchi delle proprie labbra era stato altrettanto semplice.

“Lasciati andare”, e man mano i muscoli del giovane iniziarono a rilassarsi, finché non cedette completamente.

 

Nemmeno qualche ora dopo e egli era già contro il materasso dell’uomo, perso nelle sensazioni più lussuriose e con l’anima nera.

 

 

 

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Tutte le fondamenta su cui Jongdae aveva costruito la sua vita stavano cadendo a pezzi, lentamente, corrose da tutto ciò che ora stava compiendo – da tutti i suoi peccati. Pian piano, stava vedendo che la luce del suo futuro si stava oscurando, diventando sempre più nera, misteriosa.

Qualcosa in lui stava cambiando, iniziando dai meandri della sua anima.

Il tocco di Joonmyun ormai non bruciava più sulla sua pelle, creava solo una piacevole sensazione e nonostante non riuscisse ancora a tenere un contatto visivo con lui più di cinque secondi, il suo sguardo sul corpo non gli dava più fastidio. La sensazione d’impurezza man mano era andata ad affievolirsi, ora era suo agio intorno all’organista; diverse, invece, erano le sensazioni intorno alla madre o alle persone devote alla chiesa, più di quanto lo era lui.

Accadde un giorno, quando aveva dovuto passare un giorno intero con la madre: stavano girando per il centro di Siheung, in una via piena di negozi, poiché il compleanno del primo genito era ormai alle porte, e la donna gli camminava a fianco; era tutto normale, in fondo non sentiva nessun disagio stando con lei, non aveva mai provato nessuna sensazione sgradevole con lei. Quando entrarono in un negozio e iniziarono a guardare un paio di camice, però, il giovane poté notare che qualcosa non andava del tutto bene: quando alzò una gruccia per farlo vedere alla madre e lei gli sfiorò la mano, entrambi sussultarono. Bruciore. Nell’esatto momento in cui la donna gli sfiorò le dita, il giovane poté risentire quella sensazione di bruciore che all’inizio provava solo con Joonmyun – e da come lei si toccava le mani, sfregandole e flettendo le dita, poté capire che pure lei lo aveva sentito.

“Jongdae, stai bene?”, chiese la donna a un certo punto.

“Sì― sì, sto bene, perché?”, Jongdae sembrava così confuso, quando colei che gli stava affianco.

“Scotti”.

Calore ― Joonmyun una volta scottava.

 

Non fu la prima volta che il giovane sentì la pelle bruciare, quando aveva un minimo contatto fisico con qualcuno che non fosse l’organista. Un giorno Yixing gli diede una pacca sulla spalla, il pollice toccò la pelle scoperta dal colletto e una scarica si fece largo nel suo corpo, costringendolo ad allontanarsi appena; un altro, invece, ebbe il piacere di rivedere Bomi, casualmente, e quando si strinsero la mano ebbe l’istinto di ritirarla immediatamente.

Per non parlare del disagio che una volta ebbe incontrando il Don. Si sentiva strano, come se qualcosa di fastidioso premesse contro il suo petto, e stare con l’anziano era più irritante che piacevole – come era sempre stato. Non sapeva il perché, ma c’era qualcosa nel suo tono, nel suo sguardo, nei suoi piccoli sorrisi che lo avevano sempre fatto sorridere a sua volta, che in quel momento gli dava prurito, e una volta che terminò quella conversazione (se così si poteva chiamare, poiché questa volta solo il prete parlò, mentre il giovane non faceva altro che reprimere quella sensazione di fastidio), sentì come se potesse di nuovo respirare normalmente e si sentì in pace con se stesso, nessun prurito o irritazione. Stava bene.

 

 

 

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“Boyeong-sii?”.

“Sì?”.

“Controlla tuo figlio”.

“Perché mi dice questo?”.

“Perché qualcosa sta cambiando in lui”.

 

 

 

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L’aria di quella stanza era impregnata da un aroma forte, pungente. Il caffè uscì con uno sbuffo accompagnato subito dopo dallo sfrigolio che solitamente compieva il liquido. Il perimetro della cucina era illuminato dalla luce che penetrava dalla finestre, che, però, non era abbastanza per renderlo totalmente luminoso. Joonmyun si versò il liquido in una tazza, prima di poterci soffiare sopra così da raffreddarlo appena e sorseggiarne un po’; guardò la porta che dava al piccolo salotto e sorrise quando non vide alcuna ombra. Stava ancora dormendo. S’accomodò su una delle sedie, e questa volta lo sguardo scivolò al suo fianco, dove, poggiato sul tavolo, c’era il telefono del giovane che continuava a vibrare e mostrare l’ID con cui aveva segnato il numero della madre. Sorrise di nuovo, più apertamente, prima di nascondere la bocca dietro la tazza e prendere il secondo sorso.

Dopo pochi minuti un piccolo mugolio si fece presente vicino alla porta e presto Jongdae entrò nella cucina, ancora con i capelli spettinati e indossando solo i suoi pantaloncini.

“Buongiorno”, mormorò a fatica quest’ultimo, stropicciandosi gli occhi e prendendo subito posto davanti al maggiore, lo sguardo ancora assonato.

“C’è del caffè, se vuoi”, lo informò il primo, ma ricevette presto un no, segno che il minore non aveva voglia di caffè (in realtà non lo aveva mai accettato, ma continuava comunque a offriglielo), “Dormito bene?”.

“Mhh”, il giovane mugolò e basta, poggiando la testa contro la superficie piatta del tavolo.

“Tua madre ti sta riempiendo di messaggi e chiamate”.

Se prima Jongdae sembrava un morto vivente, ancora privo di energie, ora pareva essere in ottima forma. Alzò di scatto la testa, gli occhi spalancati per la sorpresa, e Joonmyun fece semplicemente scivolare il telefono dalla sua parte, osservando poi da sopra la tazza come afferrava di fretta il cellulare per poi portarselo all’orecchio. In pochi attimi la stanza si riempì unicamente della voce del più giovane che, con fare nervoso, sembrava voler spiegare alla madre nel modo più naturale possibile perché quella mattina non fosse a casa e dove si trovasse.

 

“Perché non mi hai svegliato?”, urlò contro Joonmyun appena chiuse la chiamata.

Era nei guai, eccome se lo era. Solitamente, quando finiva per restare a casa del maggiore, si preoccupava sempre di tornare nella propria il più presto possibile, quando ancora sapeva che la madre era nel mondo dei sogni, così da fingere di essere tornato appena dopo mezza notte. Quella volta, però, Jongdae era rimasto a dormire fino alle dieci di mattina, se non di più, e per colpa dell’amante, che non lo aveva svegliato, la madre aveva trovato la sua stanza vuota.

“Dormivi così bene, era un peccato svegliarti”, rispose con voce piatta il diretto interessato, non sembrando minimamente toccato dal suo urlo.

Il primo rimase completamente sbalordito e non sapeva se essere arrabbiato o no con l’altro. Senza dire niente, preferendo lasciarsi scappare dalle labbra solo un piccolo sbuffo, si alzò e tornò in camera, per poi donare di nuovo la sua presenza completamente vestito, già pronto per andarsene. Joonmyun lo guardò con un piccolo sorriso, prima di potersi fare avanti con le braccia strette al petto.

“Devi proprio andare?”.

“Mia madre vuole che torni”, dichiarò Jongdae.

L’altro sbuffò, ma non sembrò scocciato da ciò se non divertito, difatti riuscì a mantenere a stento un’espressione seria mentre si faceva più vicino al secondo corpo, “Jongdae”, lo richiamò con tono dolce, e i suoi sospiri arrivarono come delle carezze contro la pelle altrui, “Non hai sette anni, questo tua madre lo sa? Sei grande, sai proteggerti e hai la capacità di intendere e volere. Resta ancora un po’, di’ a tua madre che sei al sicuro e che tornerai più tardi”.

Prima ancora di poter pensare a ciò che il ragazzo aveva detto, il diretto interessato pescò il telefono dalla tasca della giacca e scrisse alla madre, dicendo che sarebbe probabilmente tornato dopo l’ora di pranzo.

 

“Kim Jongdae, dove ti eri cacciato?”, la voce della donna tuonò fra le quattro pareti del salotto nell’esatto momento in cui il secondo genito fece ritorno, con un’espressione felice e leggera.

“Oh, ciao mamma”, la salutò lui, come se non avesse notato l’evidente disappunto nel volto dell’altra, come se fosse tutto normale, “Ero da un amico”, s’inventò, cercando di non tradire quella bugia con un’espressione sospetta.

“Ti avevo detto di venire questa mattina, non di pomeriggio!”, lo rimproverò lei seguendolo da una parte all’altra, con quel tono che non usava da anni e che sapeva tanto di una madre che sgridava il figlio di sette anni.

Proprio quel tono fece bollire qualcosa nel corpo del ragazzo, il quale provò in tutti i modi di reprimere quella brutta sensazione. Non sapeva nemmeno come chiamarla. Forse era… rabbia? No, impossibile, Kim Jongdae non poteva provare odio nei confronti della madre, la donna che gli aveva sempre trasmesso amore, che lo aveva sempre sostenuto nelle sue scelte e che lo presentava con tanto orgoglio alle altre donne della sua età, felice di averlo come figlio. Era sempre stata una madre fantastica, il tipo di genitrice che ogni figlio vorrebbe, non poteva proprio provare odio per quella donna.

“Mamma, non sono ancora un bambino, posso rimanere dai miei amici quanto mi pare”, affermò tranquillamente e con un piccolo sorriso stampato in faccia.

Qualcosa, però, andò storto. Forse aveva misurato male il tono da utilizzare davanti alla madre, forse era stato quel sorriso che aveva fatto interpretare male il significato di quella frase, fatto sta che presto una mano andò a colpirgli la guancia, provocandogli un gran dolore contro di esso senza contare il bruciore che provò per tutto il corpo. Gli aveva dato uno schiaffo? Solo per averle disubbidito? Per essere stato con Joonmyun qualche ora in più e aver ignorato il suo volerlo a casa prima di pranzo? Questa volta non riuscì a fermare la rabbia che presto iniziò a ribollire nel suo sangue, e prima ancora che potesse rispondere delle proprie azioni prese con la forza la donna dalle braccia e la scansò, buttandola da una parte così da dirigersi a grandi passi verso la camera da letto, ignorando le sue urla e le sue minacce. Non mise piede fuori dalla stanza finché non si fece ora di cena, e per tutto quel tempo, seduto sul letto e al buio, pensò che aveva sbagliato quanto le sue azioni erano giuste. Insomma, qual era il punto di schiaffeggiarlo per una cosa così piccola e insignificante? Non riusciva a spiegarselo, non riusciva nemmeno ad accettarlo; il maggiore aveva ragione, era grande, sapeva proteggersi e aveva la capacità di intendere e volere, non meritava quel trattamento dal suo genitore.

 

 

 

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Se prima le fondamenta di Jongdae stavano lentamente cadendo, corrose da tutti i peccati commessi, ora si stavano velocemente sgretolando, divorate dall’oscurità; Joonmyun, l’aiutava.

 

 

 

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Il rumore delle lancette riecheggiava nella stanza risucchiata dal buio, le persiane erano completamente chiuse e nessun oggetto illuminava l’intero spazio, come se dentro quella casa non ci fosse nessuno se non il vuoto. Ad accompagnare questo rumore continuo, monotono, c’erano, però, dei leggeri respiri e di tanto in tanto si poteva sentire il rumore di suole che picchiettavano contro il pavimento di legno, o delle dita che toccavano leggermente il divano in pelle, senza un ritmo preciso. Joonmyun sospirò, fissando il vuoto, e piegò la schiena contro lo schienale del divano, prima di poter poggiare la tempia contro il palmo della mano aperta. La casa era così silenziosa, senza Jongdae, e da una parte gli piaceva come dall’altra sentiva un vuoto mai provato prima.

Il rumore di alcuni passi si fece presente alle sue spalle quando alzò la testa, abbassando leggermente il colletto con le mani.

“Kyungsoo”.

“Vedo che non riesco mai a fare un’entrata a sorpresa con te, Joonmyun”.

Nella stanza buia riecheggiò la risata di entrambi, l’una più calda dell’altra, e ben presto nel campo visivo del primo entrò l’amico che in mano stringeva una sedia, la quale fu sistemata davanti a lui, cosicché il secondo potesse sedersi. A vederla così, Joonmyun sembrava essere in attesa di Kyungsoo – e forse, era realmente così. Aveva potuto sentirlo dentro di sé, dopo che l’amante abbandonò la casa per tornare nella propria, pronto per affrontare la madre. L’aria si era fatta più fredda, il silenzio era più insistente del solito; i due si guardarono, l’uno seriamente e l’altro rilassato, come se fosse tutto okay.

“Abbiamo bisogno di parlare”, annunciò il nuovo arrivato, sistemandosi sulla sedia.

“Lo so”.

“Sai anche che il piano sta avendo dei problemi, quindi?”, domandò il minore con sguardo di sfida.

Ci furono dei secondi riempiti solo dal silenzio tombale che improvvisamente cadde fra di loro.

“Dei problemi?”

“Sì. Primo, qualcuno si è accorto di certi cambiamenti; secondo, tu stesso sei il problema”.

“Io sarei il problema?”, chiese stupito il maggiore, piegandosi in avanti e puntando l’indice contro il suo petto.

“Ti stai affezionando a Jongdae, lo stai tenendo troppo tempo stretto a te. A quest’ora doveva essere già fra noi. Se non farai le cose nel verso giusto, se ne occuperà qualcun altro”.

Il diretto interessato si sentì mozzare il fiato davanti a quell’avviso; stava fallendo? In un attimo sembrò che il tempo si fosse fermato intorno a loro, poteva vedere il collega che sbatteva tranquillamente le sopracciglia con quella sua espressione seria, ma non poteva sentire i rintocchi delle lancette. Se l’aria prima si era fatta fredda, ora era completamente gelida, come le mattine in pieno inverno, impossibili da affrontare se non con un buon cappotto caldo e una sciarpa che ti stringeva tutto il collo. Da una parte avrebbe dovuto saperlo, anzi. Ne era cosciente – eppure perché, secondo i piani più alti, stava fallendo a tal punto da mandargli un avviso, e sostituirlo se tutto non sarebbe filato nel verso giusto?

“Cercherò di completare il compito il più velocemente possibile”, rispose con tono piatto il maggiore.

Kyungsoo increspò le labbra in quello che doveva essere un piccolo sorriso soddisfatto, prima di tirarsi su, mettere la sedia al suo posto e scomparire nell’aria, dopo aver fatto un segno di saluto al proprietario di casa. Joonmyun, invece, rimase seduto per qualche minuto, meditando su cosa fare e come agire. Completare tutto entro domani o portarlo avanti per qualche giorno? Dopotutto non gli avevano nemmeno dato una data di scadenza, ma sapeva che, comunque, non volevano aspettare altro tempo, e che ora erano più impazienti di prima; sospirò e si grattò nervosamente la fronte, prima di potersi alzare e dirigersi verso la camera da letto.

Cosa dovremmo fare, Joonmyun, cosa?, si ripeté mentalmente più volte, nel frattempo che si sfilava la camicia. Non possiamo lasciarci scappare Jongdae, si ricordò con un leggero sospiro, fronteggiando lo specchio che rifletteva la sua immagine.

Il ragazzo chinò il capo e lentamente rimosse le lenti colorare, sbattendo poi le palpebre un paio di volte. Tornò eretto, e sorrise nel vedere i propri occhi nel loro colore naturale, scuri, rossi.

 

 

Sin dalla fioritura delle prime civiltà, nel mondo erano state intercettate persone di cui tutti dovevano tenersi alla larga; persone capaci di fare cose che nessun altro era in grado di fare; in grado di manipolare la mente come se fosse pasta modellabile; che stregavano a tal punto di poter usare un corpo altrui come il proprio, come un burattino; le quali con un solo sguardo ti sporcavano l’anima e ti facevano sentire cose mai provate. Streghe e maghi con le loro magie, le sirene con i canti ipnotici e la bellezza disumana e i demoni con ogni qualità e i mille difetti peccaminosi.

Sin dalla fioritura delle prime civiltà, Joonmyun c’era. I suoi occhi avevano assistito ad ogni cambiamento, dalla povertà alla ricchezza, la primitività della popolazione fino all’evoluzione in una nazione piena di tecnologia, moda e oggetti all’avanguardia. Il suo corpo aveva avuto modo di indossare ogni tipo di capo, al più vecchio, composto solo da fili intrecciati e pellicce di animali appena uccisi, agli hanbok fatti di stoffa pregiata degna di ogni ricco dell’età Goryeo, fino ai vestiti di marca e più in voga nella moda dell’odierna Seoul.

Nulla però, si poteva mettere a confronto di fronte al numero esorbitante di persone mandate alle più tristi delle sorti; a tutte quelle persone che con un semplice sguardo avevano iniziato a scrivere sulla propria pelle un contratto col diavolo, tramite lui, e portato a termine con una semplice firma: l’arresa, la morte. In tutta la sua esistenza, Joonmyun non aveva fatto altro che lavorare e divertirsi al contempo. Sporcare le anime era un suo compito come portare le stesse persone alla loro fine, ma il modo cui tutto procedeva era un puro piacere che poteva decidere lui, con le sue stesse mani.

Ancora ricordava tutte quelle vittime, quegli incoscienti che, ignari di tutto, si erano lasciati andare a lui, che avevano creduto di poter trovare un riparo in lui piuttosto che la rovina delle loro vite. Le ragazze che lo avevano riconosciuto come un eroe per le vite noiose che conducevano, i ragazzi caduti nella sua rete per pura curiosità o per vizi e voglie che li avevano sempre accompagnati. Come quella graziosa ragazza nobile del tempo gogoryeo, disposta a tradire il promesso sposo pur di trovare l’apparente felicità, o il padre di Jongdae.

Tra la lista delle sue innumerevoli vittime, Joonmyun non possedeva il nome del padre dell’attuale amante. Si poteva dire che, in quel caso, era stato un appoggio e da questo ruolo aveva comunque tratto qualcosa per sé.

 

“Joonmyun, eccoti!”, esclamò Kyungsoo alle sue spalle, improvvisamente.

Il diretto interessato si voltò e con un caldo sorriso accolse l’amico, per poi fare un profondo inchino davanti alla presenza di una seconda persona, molto più grande dei due giovani. Sembrava così teso.

“Kyungsoo, finalmente sei qui – la partita stava per iniziare senza di te”, si lamentò appena Joonmyun, facendo segno ai nuovi arrivati di sedersi.

“Ci dispiace, ma c’era un po’ di traffico – ah, comunque lui è un collega. Kim Chiwon”.

 

Sin da subito aveva capito che quell’uomo nascondeva qualcosa, che cercava in tutti i modi di cambiare il suo destino nonostante fosse stato già deciso.

 

“Ogni volta sembri così nervoso. Per caso a casa hai una famiglia e non dovresti essere qui per questo?”, lo stuzzicarono una volta i due ragazzi, ridacchiando fra loro.

“Io? No, ma figuriamoci!”.

 

“Penso che questa sia la mia ultima serata qui”, annunciò una sera.

 

“Hey, sei qui anche oggi!”, esclamò un non tanto sorpreso Joonmyun, nel vederlo di nuovo al tavolo.

 

Fortunatamente tutto filò liscio come l’olio, nessuno si accorse che stava commettendo peccati, lasciandosi andare allo sperperamento dei soldi, alla gola e alle bugie. I due logoravano la sua anima, e lui non faceva altro che aiutarli ignaro, fingendo di essere ancora il padre di famiglia perfetto e senza confessarsi nemmeno una volta.

Tutto finì con un semplice gioco, quando Kyungsoo ricevette tutti i soldi che Chiwon mise sul bancone, gli ultimi che gli rimasero in tasca, dopo che Joonmyun gli confidò che aveva le carte vincenti – ovviamente, mentendo. In un attimo disperazione e rimpianto si fecero largo nel corpo dell’anziano che, dopo aver scoperto la vera natura dei giovani, fuggì dal casinò prendendo una strada completamente diversa da quella che portava a casa. Il rimorso di non aver abbandonato prima quella vita, quando era ancora possibile, gli annebbiò la mente e ben presto non ci fu nient’altro da fare.

 

“Benvenuto fra noi, Kim Chiwon”, annunciarono i due colleghi in una grossa risata, con gli occhi di un rosso scuro che brillavano, guardando l’anima che con disperazione doveva fare i conti su ciò che era appena successo: aveva volontariamente fatto un incidente mortale, e la sua anima sporca non gli avrebbe dato il permesso di entrare nel Paradiso.

 

Sfortunatamente, però, l’uomo decise di essere uno delle tante anime che vagavano ancora sulla terra, ancora con la voglia di vedere la loro famiglia, e ciò influenzava anche parte dell’attuale lavoro di Joonmyun; ogni volta che usciva per vedere Jongdae, ecco che lui si presentava e lo pregava invano di non fargli niente, di lasciarlo stare.

C’era poco da fare, però, i granelli man mano stavano cadendo sempre più velocemente e il tempo, presto, per il giovane, sarebbe finito.

 

 

 

 

 

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“Kim Jongdae, cos’è questo!?”.

L’urlo della madre faceva male contro i propri timpani, bruciava dentro la sua mente e dovette resistere alla tentazione di farsi indietro, di allontanarsi dalla sua presa stretta e decisa, nel frattempo che gli teneva basso il collo della felpa e graffiava con le sue lunghe unghie il marchio sul suo collo. Cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto ciò? E dire che era stato così attento, aveva pianificato il suo abbigliamento meticolosamente, affinché i segni sul collo lasciati da Joonmyun non si vedessero, così da non dare nell’occhio della madre.

Eppure eccolo lì, impalato e rigido sotto la stretta ferrea della donna, miseramente scoperto da lei, come un bambino che invano aveva cercato di nascondere i biscotti che non avrebbe dovuto mangiare; si sentiva così affranto, debole. Non avrebbe mai dovuto sistemare il colletto al suo fianco.

“Niente―”, annaspò con voce tremante, ma prima che potesse finire la frase ecco che un palmo colpì la sua guancia.

“Il Don aveva ragione”, disse lentamente lei, con tono triste ma al contempo freddo, tagliente, “Ti dovevo controllare, sei cambiato – non sei più il mio Jongdae, sei la brutta copia plasmata da quel ragazzo malefico”.

Parola dopo parola, il diretto interessato poté sentire il mondo creparsi attorno a lui, nel frattempo che la voce della genitrice lo feriva e lo colpiva. Era cambiato, eccome se lo era. Lo aveva sempre saputo, in fondo, prima ancora che il Don potesse comunicarlo alla donna, nell’esatto momento in cui i propri occhi avevano stretto un contatto con quelli dell’amante. Dopo quelle sensazioni strane e mai sentite prima, il giovane sapeva che l’organista avrebbe portato qualcosa che non lo avrebbe diretto verso il lieto fine, fino alla pace che la comunità gli aveva sempre garantito fino a quel momento; Joonmyun era caldo, pieno di vizi e lussuria, le sue labbra così rosee erano peccaminose e allo stesso tempo dolci, più del miele, eppure aveva finito col cedere alle sue tentazioni una, due, tre… innumerevoli volte.

Delle lacrime salate iniziarono a rigare il volto di Jongdae nell’esatto momento in cui sentì le cinque parole peggiori che la madre avesse mai potuto dirgli, “Tu non sei mio figlio”.

 

Si sentiva perso, solo. Era come se una cupola di vetro fosse stata posta su di lui nell’esatto momento in cui si chiuse alle spalle la porta della sua, ormai, vecchia casa, così da renderlo completamente invisibile agli altri. Da quel momento in poi non avrebbe avuto una famiglia che lo avrebbe accettato, una chiesa e una comunità che lo avrebbe accolto a braccia aperte.

Per tutto il cammino non fece altro che singhiozzare, incurante degli sguardi curiosi e confusi, e tenere il capo chino, nel frattempo che più lacrime gli bagnavano le gote che, al freddo, bruciavano. Le spalle gli tremavano, sia per il freddo sia per i mille singhiozzi che lo scuotevano da capo a piedi. Non alzò il volto finché non giunse a destinazione, e allungò una mano tremolante, così da suonare il campanello.

“Jongdae?”.

Il diretto interessato sentì il cuore scaldarsi quando udì la voce altrui chiamarlo, come se non lo facesse da giorni, settimane, mesi e persino anni. Sembrava essere passato molto tempo dall’ultima volta, e seppur gli venne voglia di sorridere, non fece altro che corrucciare le labbra e lasciare un singhiozzo più sonoro degli altri. Bastò quello per far allungare le braccia di Joonmyun, così da stringerlo a sé nel frattempo che chiudeva la porta e lo portava in salotto, al caldo.

Calore. Era assurdo da dire, poiché era solo da pochi minuti che aveva abbandonato casa, che se l’era lasciata alle spalle come se quello non fosse il suo luogo di appartenenza, ma il giovane ora poteva provare il calore che gli serviva. Quel calore che solo una casa adatta per lui poteva trasmettergli. Joonmyun. Alzò lo sguardo, per vedere l’amante mentre tornava da lui, con in mano una tazza piena di thè, e dentro di sé amore e odio lottarono, nella continua voglia di avere la meglio sull’altra. Perché sì, Jongdae amava l’uomo, ma al contempo lo odiava. Lo odiava perché si era presentato nel momento più bello della sua vita, quando pensava di aver trovato il giusto equilibrio; perché avrebbe tanto voluto allontanarsi da lui, ma più lo baciava e più ne desiderava ancora, voleva disperatamente rimanere con lui per provare più sensazioni.

“Non ce la faccio più”, asserì il minore contro il petto altrui ad un certo punto, con la tazza abbandonata sul piccolo tavolino davanti al divano, “È un incubo― vero? Io― io ho ancora una famiglia, mia madre mi ama ancora, non è successo niente―”, la voce gli si spezzò e dovette portare una mano davanti alla bocca, così da trattenere ogni suono.

Ci fu un minuto interminabile di silenzio dove non faceva altro che trattenere i nuovi singhiozzi, mentre il maggiore gli accarezzava dolcemente la spalla, senza aprire bocca. Finché non sospirò; quel filo di respiro colpì il volto del più giovane, ed era caldo.

“È la vita, Jongdae”.

“No― non―”, sussultò quando sentì le mani dell’organista stringergli le spalle, facendo in modo che si girasse così da essere l’uno faccia a faccia con l’altro, e lo sguardo che aveva non gli permise di continuare.

“È successo, lo devi accettare. Non tutti hanno la vita che desiderano, e tu sei fra questi, perché hai deciso di essere te stesso”, disse decisamente lui, e il suo sguardo bruciava più che mai, ma in un modo piacevole e che non gli dava fastidio.

In un attimo, Jongdae si sentì la testa più pesante del solito, il petto gli faceva male e sentiva le palpebre anch’esse pesanti, tenere gli occhi aperti era faticoso. Portò lentamente una mano contro il petto altrui, strinse la stoffa della maglia in un pugno e fece l’amante più vicino a sé, così da tirarlo in un leggero e debole bacio. Si sentiva senza forze. Quando entrambi si ritirarono da quel contatto, finalmente poté vederlo. Gli occhi di Joonmyun non erano umani, nessuno poteva possedere quel colore rosso scuro, e si sentì attratto.

“Ti prego”, mormorò, provocando una strana sensazione nel corpo della seconda persona.

“Ti prego cosa?”, chiese con tono gentile lui, accarezzandogli le gote secche, gli occhi rossi che gli brillavano di una strana luce.

“Chiunque tu sia veramente, ovunque tu venga in realtà― Joonmyun, portami con te”, implorò, stringendo ancora di più la maglia nel pugno tremolante, “Ti supplico”.

Ci fu un attimo di silenzio da parte di entrambi, e il diretto interessato sembrava più serio che mai. Aveva per caso detto qualcosa di sbagliato? Forse era tutto frutto della sua fantasia, e in quel momento lo stava scambiando per un pazzo? Tutto ciò era possibile, in fondo, o come poteva spiegare quel improvviso cambio di colore? Dal marrone al rosso scuro? Non disse niente, finché non si sentì stringere di più e non vide l’amante sorridere soddisfatto.

“Lasciati andare”, come in un déjà-vu, quel sussurrò picchiò contro il proprio orecchio e non fece altro se non abbandonarsi alle labbra altrui.

Il corpo ardeva, come se in quel momento lo avessero messo sul fuoco acceso, e si faceva sempre più pesante, come se si stesse addormentando in un sonno profondo, infinito. Presto non ebbe più la capacità di stringere la maglia dell’uomo e come ultima cosa sentì un leggero, lontano, “Ti amo”, prima che il buio e il nulla potessero risucchiare la sua coscienza.

 

 

Silenzio. Buio. Calore.

Nella stanza si fece presente un piccolo respiro, il quale interruppe l’angosciante silenzio della stanza. Pian piano il giovane riuscì ad aprire le palpebre, e la prima cosa che vide furono gli occhi rossi di Joonmyun, più brillanti che mai.

“Benvenuto fra noi, Kim Jongdae”, sussurrò dolcemente, accarezzandogli la guancia.

 

Jongdae lo sentì.

 

Il suo sussurro era Lucifero.

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Capitolo 6
*** The Fuzzy Remembrance of You ***


{ intro: Joonmyun, in coma, sogna sempre la stessa scena: lui, in un letto in mezzo al bosco, che si sveglia e finisce per inseguire un ragazzo, il quale lo porta in una stanza piena di specchi. Dopo il suo risveglio, scopre due cose: ha perso la memoria e sotto il suo cuscino c’è un bracciale. Qualcosa, alla fine, non quadrerà mai. }

 

 


The Fuzzy Remembrance of You

Questa one-shot la dedico a Itsjdahere, che tanto ama l’angst; auguri vecchia. <3

 

 

 

Il bosco, come sempre, era freddo. Il vento soffiava leggero e spostava le foglie più resistenti che ancora stavano attaccate ai loro alberi, non ancora pronte per lasciare il ramo su cui erano cresciute e morire al suolo. Non vi era un punto verde, in quel bosco, dominava il marrone e il grigio.

Come ogni volta, Joonmyun si svegliava in quel bosco freddo, in quel letto posto misteriosamente al suo centro, dove gli alberi non erano fitti e il terreno era pianeggiante, e non curvo. Non sapeva il perché né sapeva cosa ci facesse lì, perché si trovasse lì, ma ogni giorno, ogni pomeriggio e ogni sera si risvegliava in quel posto misterioso e isolato, immerso nella natura.

Si mise seduto sul materasso, le molle scricchiolarono sotto lo spostamento del suo corpo e si guardò intorno, confuso e infreddolito. Un soffio di vento che proveniva da nord-ovest per finire a sud-est gli colpì il volto e i suoi lineamenti delicati, facendolo tremare appena, e lo costrinse a stringersi in quella giacca elegante. Il silenzio, di tanto in tanto, era spezzato dai piccoli respiri e sospiri che derivavano dalla bocca dell’uomo.

Scostò maggiormente le coperte, così da mettersi a lato del letto e poggiare i piedi a terra, guardandosi per l’ennesima volta intorno, come se stesse cercando di catturare qualcosa o qualcuno con lo sguardo; solo dopo pochi minuti, però, quel qualcuno si presentò. Sentì prima il rumore di passi svelti che schiacciavano e spezzavano le foglie e i rametti secchi, prima di potersi girare e captare con gli occhi i movimenti di una figura maschile, voltata di spalle rispetto a lui, il quale velocemente correva, allontanandosi sempre di più da lui.

Senza pensarci ulteriormente, si alzò e lo seguì, correndo a suo seguito. Nonostante le sue gambe sembrassero abituate a correre su quel tipo di terreno di montagna, il quale era pieno di salite e discese, perse quella figura e presto si ritrovò ad entrare in un tunnel, da cui provenivano delle luci artificiali. Ben presto, dal buio naturale passò a una luce giallognola, che proveniva da varie lampadine. Si girò, e intorno a sé non trovò altro che specchi, che ritraevano la sua figura e nient’altro.

La figura maschile? Sembrava essere scomparsa, e Joonmyun guardò il suo riflesso, di nuovo, nello stesso specchio di sempre, prima di poter guardare la sua stessa mano e non trovare niente, se non il buio che lo circondava.

 

“Joonmyun―”

 

 


 

 

I raggi del sole trapelavano dalle persiane e spezzavano il buio di quella stanza con varie strisce, che non raggiungevano, però, nemmeno la sua metà. La stanza era fresca, rispetto al caldo afoso che riscaldava la capitale in quella giornata di agosto e un leggero profumo di rose galleggiava nell’aria. Vari oggetti decoravano quella stanza: pacchi ancora chiusi e incartati, fiori finti e veri, cornici che contenevano foto sue, accompagnato da parenti o foto solo con volti a lui legati. Per qualche motivo a lui ignoto, poteva sentire in modo più chiaro i rumori provenienti dai corridoi, seppure la porta fosse chiusa, e riusciva a sentire l’odore chiaro delle rose – rose vere.

Le palpebre tremolarono.

 

La prima cosa che poté vedere fu una luce fastidiosa, artificiale. Per seconda cosa, apparì il sorriso largo e gentile di una persona, la quale indossava un camice bianco, una camicia ben stirata e una cravatta a strisce rosse e bianche, e intorno al collo teneva uno stetoscopio lucido e nero. Era un medico, non c’erano dubbi.

“Oh, buongiorno Joonmyun-ssi.”, lo salutò questa persona, e nella sua voce poté avvertire un misto di sorpresa e gioia, “È bello vederla sveglio!”.

Un forte mal di testa colpì il centro del suo capo e dovette chiudere con violenza gli occhi, così da reprimerne almeno un po’. Si sentiva così confuso, gli sembrava di essersi svegliato dopo un sonno durato anni e anni, e percepiva come se i suoi arti fossero pesanti, a malapena riusciva a muovere e piegare correttamente l’indice di una mano – quella priva di fili collegati ad essa. Si guardò intorno, e la sua confusione crebbe a dismisura quando notò tutti quei fiori, quelle foto che lo ritraevano con qualcuno e i regali, regali di cui non si ricordava; stava per proferire parola, quando sentì la gola secca e un improvviso schiocco lo distrasse dai suoi stessi pensieri, facendolo girare.

“È confuso, non è così?”, chiese l’uomo con un piccolo sorriso stampato in faccia, prima di giocherellare con un filo che sbucava dal camice, e quando Joonmyun annuì non riuscì a trattenere una piccola risata, “Immagino. Non è facile svegliarsi dopo nove mesi di coma.”, annuì egli, e non sembrò sorprendersi quando il paziente sembrò esterrefatto.

“N-nove mesi di― di coma?”, la voce uscì roca e secca, e il medico storse il naso udendo quella frase.

“Forse sono stato troppo diretto. Mi dispiace.”, si scusò, ma quel morbido sorriso non lasciò il suo volto dalla pelle ambrata, “Comunque io sono Kim Jongin, un medico che l’ha seguito per tutto questo tempo. Ora le lascerò del tempo per riposare, poi tornerò per ulteriori controlli.”, comunicò con tono sicuro, prima di potergli dare qualche pacca leggera sulla gamba e andarsene, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Kim Joonmyun, ventidue anni. Abitava in Sinchon-dong, Seodaemun-gu e frequentava la facoltà di psicologia all’università Yonsei ― era quello che ricordava. In realtà, Kim Joonmyun aveva ventisei anni, abitava in Daeheung-dong, Jung-gu e si era laureato da due anni nella facoltà di psicologia all’università Yonsei, e lavorava come psicologo in una scuola superiore.

A quanto pare, l’uomo aveva perso quattro anni della sua vita dopo un incidente che l’aveva portato in un coma di nove mesi. Il dottore forse era stato fin troppo diretto con una persona che si era svegliato da così poco tempo da un coma di quella durata, quindi non gli fu nemmeno detto che perse tutta questa memoria, decidendo solo di scrivere ciò che avevano scoperto e magari, riferire tutti ai parenti, che ancora speravano in un suo risveglio.

“Non è stato un incidente così grave”, dicevano sempre i dottori, quando loro venivano a trovare l’uomo e lui era ancora in quel letto, fermo e inerme, “C’è una percentuale che può garantire il suo risveglio”.

Il diretto interessato, comunque, sapeva che qualcosa in lui non andava. Guardando tutte quelle foto poste sui mobili della stanza, le quali lo ritraevano con alcune persone, certi volti potevano essere famigliari come altri potevano portare un gran punto interrogativo su di essi. Sentiva come se un suo pezzo mancasse, come se avesse perso un pezzo di puzzle importante e non poteva far altro che attendere, aspettare che quel pezzo tornasse indietro così che tutto potesse coincidere.

Nei primi giorni del suo risveglio non vide nessuno se non i dottori e le infermiere, che gli facevano visita per controlli o per portargli del cibo. I dottori non si fermavano dopo le visite, ma le infermiere sì, specialmente quelle che gli portavano il pranzo o la cena. Parlare con loro era un bene, non potevano restituirgli quella parte di vita che gli mancava, ma almeno lo aiutarono con la voce. Per tutto quel tempo non avevano fatto altro che farlo respirare grazie a macchine artificiali e il suo timbro ne risentì, difatti nei primi giorni aveva costantemente la voce roca e sottile, appena udibile. In pochi giorni però, riacquisì un tono “umano”, piacevole da ascoltare, e il paziente ricevette una piccola soddisfazione. Dopo quei primi giorni, poi, arrivarono pure le visite da parte di tutte quelle persone che dal suo risveglio aveva visto solo in foto. Prima vennero i genitori, e Joonmyun riuscì a riconoscerli appena varcarono la soglia della porta; erano due dei pochi volti che etichettò come “famigliari”. Se una quarta persona avesse visto la scena, avrebbe potuto dire che quello fosse un incontro piuttosto commovente: la madre iniziò a piangere appena incrociò lo sguardo con il figlio, mentre il padre si limitava soltanto a sorridere. Come i bambini piccoli, che capivano poco e niente, l’uomo sul lettino sembrò piuttosto confuso davanti alle lacrime della donna, e presto ne ebbe lui stesso negli angoli degli occhi – perché la madre stava piangendo, perché senza fatica era riuscito ad attribuire un nome a quei due volti che ora aveva davanti. Lo stesso giorno, nel frattempo che i genitori gli dicevano cosa non ricordava più della famiglia – senza dare troppe formazioni o andare nel dettaglio –, lo raggiunse pure il fratello maggiore. Assegnare un nome al suo volto fu più difficile, poiché era rimasto a un Siwon che come lui andava ancora all’università, non amava tenere la barba – nemmeno l’accenno –, vestiva ancora in abiti casual e non aveva così tanti muscoli come sembrava averne ora. Fu comunque piacevole, e ora sapeva che da quando si era laureato, non aveva sentito molto i genitori, a causa del suo lavoro, e aveva avuto occasione di vederli solo quando Siwon si sposò e in una delle tante cene di famiglia.

In seguito, vennero dei suoi amici e colleghi di lavoro. Fu difficile identificare alcuni, soprattutto i colleghi, che facevano parte della vita di cui non ricordava nulla, mentre metà degli amici riuscì a riconoscerli dopo qualche minuto. Tutti si presentavano con la stessa frase: ti ricordi di me? A quel punto Joonmyun sapeva che doveva ricordare qualcosa, e da come reagiva, gli altri potevano capire se ricordasse o no.

“Credo di poter ricordare qualcosa”, diceva, se si presentava un vecchio amico – come successe quando un certo Do Kyungsoo fece capolino dalla porta, un giorno. Era un suo vecchio compagno del liceo, e ricordava che erano soliti uscire spesso insieme, per andare al noraebang. Quando iniziarono l’università, però, non si videro più ogni sera come una volta.

“Uhm, no?”, invece, rispondeva così se un collega andava a fargli visita. Accadde svariati giorni, come quando due uomini che si presentarono come Park Chanyeol e Lu Han, e gli dissero che erano suoi colleghi. Da come imparò, poi, il primo era il professore di musica, mentre il secondo era il professore di educazione fisica. Con tono gentile gli raccontarono di come certe sere erano usciti insieme, o di come nel suo primo giorni di lavoro furono loro ad avvicinarlo; sfortunatamente lui non ricordava, ma loro gli dissero che era tutto okay.

“Hai tutto il tempo del mondo per ricordare!”, esclamò Chanyeol con un grande sorriso, prima di dargli delle leggere pacche sulla gamba destra.

Con sua sorpresa, si presentarono pure dei ragazzi sull’età dei sedici o diciassette anni, con delle divise scolastiche. All’inizio non seppe come reagire, davanti a quei volti giovani che lo guardavano con sorpresa e al contempo dispiacere, ma poi si ricordò del ruolo che ricopriva nella scuola in cui lavorava, di come Chanyeol e Lu Han gli dissero che era apprezzato nella sua scuola, poiché aiutava i ragazzi a superare il passaggio da scuole medie a superiori, e anche quelli che presto avrebbero dovuto scegliere un’università. Uno studente in particolare lo colpi: venne da solo, sembrava nervoso e notò come le sue mani tremolarono quando provò a salutarlo, o quando gli porse un piccolo pacchetto. Già dal primo sguardo capì che era uno che non parlava molto, difatti non aprì bocca finché non sistemò la cartella per terra e prese posto nella sedia di fianco al suo lettino, dove tutti si sedevano.

“Ciao, hyung”, lo salutò timidamente ma con voce piatta, guardandosi le mani. Aveva la divisa scolastica, eppure si era presentato a lui come un conoscente – di solito gli studenti si presentavano formalmente, rispettosi e chiamandolo Joonmyun-nim, psicologo-nim. Eppure quell’hyung gli lanciò un suggerimento, riportando cose confuse nella sua mente.

“Ciao”, ricambiò il saluto con un piccolo sorriso, prima di rigirarsi il piccolo pacchetto fra le mani.

“Non ti ricordi di me, non è vero?”, captò un po’ di delusione nel suo tono di voce, ma non sembrava triste. Anzi. Il volto del giovane era così serio che a malapena riusciva a dire se fosse lì di sua spontanea volontà o no.

“No”, a quella affermazione il ragazzo sorrise appena, ma non sembrò essere scoraggiato, “Ma dalla targhetta sulla tua divisa posso capire che ti chiami Oh Sehun. Questo è per me?”, quando lesse il suo nome, egli sembrò illuminarsi e subito alzò lo sguardo. Ora sì che vedeva la felicità nel suo volto, nel suo sguardo. Lo studente annuì, a riguardo del pacchetto, e si mise composto sulla sedia.

Quando Joonmyun lo aprì, al suo interno trovò una penna nera col tappo consumato. Tornò a guardare Sehun, che sembrava essere tornato nervoso, ed entrambi rimasero in silenzio per un po’.

“Sembra uno scherzo, non è così?”, ridacchiò appena il giovane, grattandosi il collo, “Ecco― ero uno dei tanti alunni che seguivi a scuola, per un problema o l’altro. Un giorno, molto stupidamente, ti chiesi se potessi prestarmi una penna, perché avevo un compito importante e non potevano farlo a matita, e non avevano avuto possibilità di comprarmene una da solo perché non avevo il coraggio di chiedere a mia madre dei soldi ― a quel tempo sapevi il perché, non pretendo che tu lo ricorda anche adesso. L’unica penna nera che avevi era questa, e me la desti. Non sono riuscito a dartela, perché non avevamo incontri quella settimana, e poi, beh, è successo quello che è successo e sono riuscito a portartela ora. Scusa se è ti ho illuso.”

Joonmyun non fece altro che ridere e ringraziò di cuore il giovane, anche se non ricordava nulla di tutto ciò. A quanto pare, da quello che l’altro gli raccontò, avevano un rapporto “speciale”. Sia per quell’hyung sia dal fatto che sembravano avere una certa confidenza, una volta. Diversamente dagli altri alunni, Sehun sembrò voler stare un po’ con il suo vecchio psicologo, e tra una parola e molti silenzi, il giovane tornò a raccontare la sua storia al più grande. Joonmyun non solo lo aveva aiutato dal passaggio fra la scuola media alla scuola superiore, ma anche in una fase di crisi, dove la famiglia del ragazzo aveva pochi soldi – come tutt’ora – e lui si sentiva colpevole, perché parte dei guadagni della madre andavano alle spese scolastiche. Per questo lo studente, quella volta, non ebbe il coraggio di chiedere alla donna quei pochi soldi che bastavano per comprare una penna. In quel momento era un po’ straziante non poter ricordare tutto ciò che Sehun gli aveva raccontato privatamente lungo il corso dell’anno scolastico, perché avrebbe voluto chiedergli se avesse altro da confessargli e se desiderava parlare di qualcosa in particolare, desiderava dargli altri consigli e chiedergli se quelli precedentemente dati fossero serviti almeno un minimo, ma nonostante ciò, comunque, in parte era felice. Perché? Perché con quel breve ripasso sulla propria storia personale, lo studente aveva permesso all’uomo di ricordare qualcosa che aveva perso, seppur non appartenesse a lui, e in quel modo aveva capito di essere stato importante nella vita di qualcuno. Lo aveva aiutato. Aveva raggiunto un obbiettivo che all’università si era segnato, prendendo quel corso di studi per diventare psicologo.

“Puoi tornare quando ti fa piacere, se vuoi”, gli disse Joonmyun, quando il ragazzo si preparò per tornare a casa.

“Davvero posso?”, fece sorpreso, e un piccolo sorriso apparve sul suo volto quando il primo annuì, “Allora tornerò, hyung!”.

Dopo quella frase il maggiore fu lasciato da solo, in quella stanza fresca e silenziosa. Abbassò lo sguardo sulla scatoletta, la quale conteneva al suo interno la penna vecchia, che ancora giaceva sulle sue gambe e sorrise. Non ricordava, ma comunque poteva ancora sentire che quel ragazzo, in qualche modo, era speciale nel suo piccolo.

 

 

 

Passarono vari mesi dal risveglio di Joonmyun, le cure e i controlli erano applicati giornalmente e con estrema attenzione e le visite proseguivano normalmente, con tranquillità. Di tanto in tanto si presentavano i genitori o Siwon, il quale un giorno portò pure i figli, un maschietto di tre anni e mezzo e una femminuccia di solo un anno, e la cara moglie, Liu Wen; i mercoledì e il sabato si presentavano Chanyeol e Lu Han, mentre gli studenti e specialmente Sehun si presentavano la domenica; i vecchi amici del liceo o i colleghi dell’università facevano una piccola visita quando più potevano, Kyungsoo era sempre il primo.

La memoria dello psicologo ora era aumentata del 70%, da come poterono notare tutti, e le sue condizioni sembravano migliorare particolarmente da settimana in settimana. Certo, c’erano episodi cui era più debole di certi giorni, ma non sembrava mai retrocedere per quanto riguardava la salute. Ora era in grado di muovere gli altri, di stare seduto e mangiare da solo, afferrando con sicurezza il bicchiere e le bacchette; di tanto in tanto lo aiutavano ad alzarsi e percorreva pochi metri in quella stanza, assistito dalle infermiere.

“Sei una forza della natura, Joonmyun!”, esclamò un giorno Jongin con un sorriso smagliante, mentre lo osservava camminare lentamente ma con una postura eretta lungo quel piccolo perimetro della stanza, reggendosi solo e grazie all’asta per la flebo.

Col passare dei mesi, inoltre, era migliorato notevolmente il rapporto col dottore che più lo visitava di frequente, Kim Jongin. Non che non avessero iniziato con un buon rapporto ma ora si potevano ritenere ... amici? Pure le infermiere potevano costatare che fra loro non vigeva il rapporto dottore-paziente, e ciò lo poterono verificare quando li beccarono a giocare a carte durante la pausa del medico o quando quest’ultimo si addormentò sulla sedia posta di fianco al letto del paziente, con la testa contro il materasso e la mano di egli fra i capelli, altrettanto addormentato.

 

 

 

Solo quando lo informarono che mancavano pochi giorni dal momento in cui lo avrebbero dimesso, Joonmyun si accorse che c’erano ancora dei pezzi di puzzle mancanti. Anzi. Dei punti interrogativi che richiedevano ancora delle risposte. Lo poté costatare quando si accorse che sotto il cuscino c’era qualcosa che premeva in modo fastidioso contro la sua schiena.

“Seungwan-ssi? Potrebbe alzare il cuscino e vedere se c’è qualcosa sotto?”, chiese gentilmente, appena una delle infermiere fece capolino dalla porta per dargli la solita dose di cibo.

Lei non rispose, sorrise semplicemente e annuì col capo, dopo aver sistemato il vassoio colmo di cibo caldo sul piccolo tavolino; le mani delicate afferrarono la stoffa candida del cuscino e poté sentire un leggero oh fuoriuscire dalle sue labbra, improvvisamente. Capì cosa provocò quel piccolo verso solo quando la donna si mise davanti a lui ed espose un bracciale di color argento, il quale vedeva delle piccole pietre gialle sopra di esso.

“Per caso e suo e l’aveva perso in questi giorni?”, chiese Seungwan con un’espressione curiosa, ma dal paziente non ricevette nessuna risposta positiva – o almeno, così sembrava date le sopracciglia corrugate, le quali esprimevano confusione.

Come se un fulmine si fosse appena scagliato sulla sua figura, prepotentemente, l’uomo avvertì una fitta al cranio e dovette tenere la testa fra le due mani, chinandosi di colpo e scatenando nervosismo nella figura davanti a sé. La donna, difatti, era già pronta a chiamare qualcuno per vedere se il paziente stesse bene, ma le bastò un piccolo cenno da parte dell’altro per tranquillizzarsi e lasciarlo solo col cibo, dopo vari “Stai bene?”.

In qualche modo, quel bracciale mai visto portava con sé un grande punto interrogativo, con tante domande legate a suo seguito che si collegavano tutte, insieme, in modo confuso; di chi era quel bracciale? Era suo? Chi l’aveva lasciato? Perché nessuno gli aveva mai nominato un bracciale? Da quanto tempo era lì, dapprima del suo risveglio? Era un oggetto importante o futile? Gli sarebbe servito a riportare alla mente qualche ricordo? – non trovò pace per molto tempo, dopo quella misteriosa scoperta. Lo studiò per tutto il tempo, durante il pasto e dopo, pure quando le infermiere vennero per ritirare il vassoio ormai vuoto. Lo nascose sotto il proprio corpo quando Sehun lo venne a trovare con un altro piccolo regalo – l’aveva comprato grazie a dei soldi che gli aveva dato una vicina, aveva detto, dopo averla aiutata nel suo negozio di fiori. Di cosa si trattava? Di una penna nuova, con sopra la figura di Ned sopra – il gattino blu di Kakaotalk. Era semplice, alquanto carino e gli sorrise ringraziandolo. Il ragazzino gli faceva sempre dei regali semplici ma che gli portavano sempre il sorriso sul volto.

“Quindi ti dimettono fra una settimana?”, chiese lo studente felicemente.

“Già”, rispose con altrettanta felicità lo psicologo, “Ma non tornerò a lavorare finché non mi sarò completamente ripreso”.

Dopo quella breve visita Joonmyun tornò a studiare il bracciale e non si accorse di un particolare finché non volle indossarlo. KJD, quelli erano i caratteri incisi al didietro e aggrottò la fronte. Che cosa volevano significare? Erano delle iniziali, per caso? Scosse leggermente il capo e lo ignorò, allacciando il bracciale e scuotendo leggermente il polso. Non era per nulla brutto e gli dava un senso di famigliarità, dopo di tutto.

Alzò il capo e tornò a studiare tutte quelle cornici piene di foto, ritraenti lui con i genitori, i colleghi e i vecchi amici. Riportò lo sguardo su una più piccola, che era anche la più appartata rispetto le altre. Notò come in quella foto portava i capelli biondo cenere e con un ciuffo che gli copriva tutta la fronte, era felice e al suo fianco c’era un ragazzo con un sorriso smagliante, i suoi capelli erano neri e corti, rasati ai lati.

Sgranò gli occhi quando si accorse di un piccolo ma importante dettaglio; quella persona non si era mai presentata in ospedale. Come quando vide per la prima volta il bracciale, una forte fitta sembrò aprirgli il cranio e dovette stringere gli occhi, portandosi una mano fra i capelli lunghi e neri.

“Joonmyun-hyung, ti piace?”, chiese una voce felicemente, e nell’ombra gli parve di scorgere un sorriso, grande e smagliante. Quella voce…

Riaprì di scatto gli occhi e tornò a guardare quell’ultima foto, osservò la figura e poi gli occhi scivolarono sulla cornice color ciano. Una semplice scritta in pennarello, frettolosa: kjd.

 

 

 

“Ben tornato a casa, tesoro!”, gioì la madre, portando le mani congiunte al petto mentre osservava il figlio minore varcare la soglia di casa. Be’, quella di certo non era la casa in cui aveva vissuto dopo aver conseguito la laurea, ma la madre temeva ancora per la salute del figlio e l’aveva convinto a passare dei mesi insieme con lei e il marito, così che potesse essere al sicuro in un ambiente che ben riconosceva.

Il diretto interessato fu coinvolto in un lungo abbraccio da parte della genitrice e poi da parte del padre, il quale – da come ricordava – era ancora piuttosto chiuso in sé e preferiva trasmettere le proprie emozioni attraverso abbracci o semplici sorrisi, piuttosto che parlare apertamente.

La casa era proprio come se la ricordava, nulla sembrava essere cambiato; abitavano ancora in una piccola casa in periferia, lontani dal chiasso che dominava nel centro della capitale. Il salotto era ordinato e spoglio, le uniche cose attaccate al muro erano il motto di famiglia – conosci te stesso – e un grande quadro dove all’interno vi era chiuso un grande foglio, ritraente il cognome Kim in caratteri Hanja, i colori dominante nell’arredamento erano il marrone chiaro e il bianco, così come nella piccola cucina. Quello a essere dominato di foto era il corridoio che portava alla lavanderia e il muro che affiancava la scala per salire al secondo piano. Foto che riportavano la famiglia felice al mare, in campagna e durante feste come il Natale, in alcune c’erano solo foto di Siwon e Joonmyun quand’erano piccoli o con il loro vecchio cane, in altre solo i genitori nei loro “tempi d’oro”.

Si sentiva a casa, e i ricordi erano così vividi e chiari. Era felice.

 

 

 

La tranquilla e ormai normale routine di Joonmyun, però, un giorno si spezzò. Anzi. Si spezzò una sera, quando si risvegliò e sentì gli occhi stanchi, gonfi e le guance secche. Si alzò goffamente dal suo vecchio letto, trascinò i piedi fino al bagno e gli bastò una semplice occhiata per riconoscere che aveva pianto – forse nel sonno, forse inconsciamente. Da quel giorno non passarono minuti in cui l’uomo non sentì il petto far male e ogni sera, quand’era solo e guardava il bracciale legato al polso, le lacrime tornavano a scorrere sulle guance lisce e candide. Era un dolore inspiegabile ma forte, molto forte; doleva quanto dieci pugnali infilzati nel petto, quanto lo schiaffo di una mano per niente leggera e un impatto provocato da una macchina.

L’impatto di una macchina…

Non sapeva nemmeno come, ma c’erano notti cui sognava sempre e solo la stessa cosa; lui che correva, questa volta per strada, sembrava inseguire qualcuno, con gli stessi abiti che indossava nei sogni durante il suo stato di coma, ma questa volta non finiva in alcun tunnel e non si trovava davanti nessuno specchio, in questi sogni finiva su delle strisce e l’ultima cosa che poteva vedere era un viso sfocato, nel frattempo che avvertiva un dolore lancinante – come se una macchina lo colpisse.

Dei sogni del genere, così sfortunati, non avrebbero mai dovuto sfiorare la mente di un essere umano, eppure perché Joonmyun continuava a produrli? E perché soffriva nel solo vedere quel bracciale misterioso?

“Tesoro, stai bene?”, chiese una volta la madre quando trovò il figlio ricurvo sul vecchio letto, mentre si stringeva il polso e guardava con tanta confusione l’oggetto. Quella fu la prima volta che lo vide in quello stato, la prima di tante.

I dottori avevano detto alla signora Kim che il risveglio non sarebbe stato facile, e che una perdita di memoria avrebbe reso le cose più difficili, soprattutto se Joonmyun assorbiva troppe informazioni in una volta o era avvicinato in posti che potevano fargli ricordare cose troppo pesanti da sopportare.

“Perché non trovo le risposte che mi servono?”, singhiozzò un’altra sera il figlio, sempre sul letto e, questa volta, col bracciale in mano.

“Le troverai, Joonmyun,”, lo rassicurò la madre, “Ti basta solo aspettare; arriveranno, ma lentamente”.

 

 

 

Non ancora del tutto pronto per tornare a lavorare, Joonmyun si prese altro tempo per riposare e provare a tornare “stabile”. Col tempo si calmò, lasciò da parte il bracciale e sembrò tornare quello di sempre – sorrideva e sembrava tranquillo. Come passatempo, giusto per riempire quelle giornate talmente monotone, decise di aiutare la madre nel piccolo giardino dietro casa e nei giorni di pioggia si metteva in salotto e leggeva qualche vecchio libro universitario.

Era un freddo pomeriggio di dicembre quando Joonmyun avvertì per la prima volta qualcosa di sospetto, come se la madre gli stesse effettivamente nascondendo qualcosa. Qualcosa che avrebbe dovuto sapere, in realtà. Stava scendendo le scale dopo aver riordinato tutti i libri nella sua piccola stanza, quando udì la voce della donna provenire dalla cucina e dal tono non sembrava alquanto allegra come suo solito.

“Per quanto altro tempo pensi di nasconderti? Di fingere di non esistere?”, quasi urlò e non gli bastò molto per capire che era al telefono, “Non giocare in questo modo con Joonmyun, che in qualche modo sa di te ma allo stesso tempo non sa di te; è complicato da spiegare, visto? Pensa come possa essere complicato per lui non ricordare qualcosa che sa esserci!”, corrugò le sopracciglia e senza nemmeno pensarci si presentò davanti la porta della cucina.

“Che cosa succede?”, chiese automaticamente quando la vide chiudere di fretta la chiamata, e dalla sua espressione non trapelava nessun sentimento positivo; rabbia, frustrazione, dispiacere.

“Sei qui da molto?”, chiese la madre, quasi ignorando la domanda del figlio, “Hai fame? Sete? Posso prepararti del thè se vuoi―”.

“Con chi stavi parlando e perché mi nominavi? È qualcuno che non conosco?”.

Quelle due domande non trovarono una risposta, e si aggiunsero a tutte quelle che, ormai, l’uomo aveva seppellito nella sua mente. Tutte quelle domande che riguardavano il bracciale e quel ragazzo che mai aveva visto, se non in foto, a quel kjd.

Non si rese conto che, però, le risposte le aveva tutte sotto il naso, a un centimetro di distanza.

 

 

 

Il 12 gennaio fu un giorno alquanto strano, e non seppe bene se definirlo pure un giorno importante o irrilevante.

Il 12 gennaio era il compleanno del suo vecchio compagno di liceo Do Kyungsoo e, come un buon amico che si rispetti e che non era più rinchiuso dentro un ospedale, Joonmyun decise fargli una visita, giusto per lasciargli il regalo e magari andare a fare delle commissioni per i genitori – continuava a non lavorare, doveva pur fare qualcosa per quei due anziani che si prendevano cura di lui come se avesse tre anni.

Perché fu, poi, un giorno alquanto strano? Semplice, quando fece la rampa di scale e si appostò davanti la porta dell’amico, con il regalo stretto in mano e dopo aver premuto il tasto per suonare il campanello, colui che non venne ad aprire non fu Kyungsoo né il fidanzato, il quale ebbe modo di conoscere un giorno, Kim Minseok, ma quel qualcuno. Lo riconobbe in un battito di ciglia, era il ragazzo della foto, quello che non si era mai presentato in ospedale.

Lo sconosciuto sembrò sorpreso nel vedere Joonmyun davanti la porta, ma non ebbero modo di parlare poiché Kyungsoo subito li raggiunse, con un’aria alquanto allarmata.

“Joonmyun-ah!”, lo richiamò con un caldo sorriso, facendogli segno di entrare.

Il diretto interessato, però, non si mosse di un centimetro finché non porse il regalo ed esclamò un “Buon compleanno, Kyungsoo-yah!”, accompagnato da un largo sorriso.

Seppur diede il massimo per non darlo a vedere, comunque, un’altra stranezza che compose quell’incontro fu che lo sconosciuto non fiatò per tutto il tempo, finché non arrivò il tempo di liberare la casa. Rimase tutto il tempo stretto in un angolo del divano, con gli occhi chini e le mani strette in due piccoli pugni, parve quasi una statuita piuttosto che un essere umano e non batté ciglio nemmeno quando il festeggiato di quel giorno provò a interpellarlo o comunque gli mandò delle occhiate. Joonmyun, dalla sua parte, avvertiva come se il disagio in quel momento lo stesse tenendo a braccetto, come se fossero migliori amici o qualcosa del genere. Non gli parve di poter avere una dolce tregue finché il terzo non decide di lasciarli soli, nonostante non si fosse intromesso in alcun tipo di conversazione.

Le lancette dell’orologio segnavano le 19:37 quando lo sconosciuto si alzò, recuperando la giacca, e porse un piccolo sorriso nella direzione di Kyungsoo.

“È ora di andare,”, annunciò in un filo di voce e Joonmyun poté sentire un brivido percorrergli tutta la schiena, “Ci vediamo presto, Kyungsoo”.

Alzò di scatto la testa, osservando bene la figura che si accingeva a raggiungere la porta d’ingresso, e il cuore perse un battito quando lo vide arrestarsi e girarsi, questa volta verso la propria parte.

“Ci vediamo presto, Joonmyun”.

Joonmyun…

 

 

 

Le risposte sembravano così vicine come lontane, la testa dell’uomo era carica di dubbi, di pensieri e di ricordi spezzati, i quali sembravano avere sempre un pezzo mancante che li rendeva incompleti, senza senso. Capì, poi, che quella persona misteriosa c’entrava, in qualche modo. Non poteva ricordarsi di quella voce per puro caso, giusto? Quelle iniziali e il suo volto non potevano provocargli un dolore così atroce. Era come se la mente, con quelle fitte che si presentavano puntualmente quando pensava a quelle due cose, volesse dirgli qualcosa; come se volesse lanciargli un segnale.

Ricorda… ricorda…

“Chi sei tu?”.

Fu una domanda improvvisa, nata nel vuoto e venuta alla luce in una semplice strada, fra il supermercato e un parco, dove i bambini stavano giocando ben coperti, con le madri o le nonne che li controllavano.

Joonmyun aveva rincontrato quella persona per pura casualità in quel modo, e la prima cosa che la mente gli disse di fare era afferrarlo per una spalla, fermarlo e porgergli quella domanda. Così fece e la seconda persona parve essere presa di sprovvista.

“Scusami?”, chiese confuso e gli occhi parevano due piatti per quanto erano stati allargati.

“Voglio sapere chi sei, il tuo nome”, rispose deciso il primo, stringendo appena la presa sul cappotto grigio dell’altro.

La bocca del diretto interessato tremò, si aprì ma si richiuse subito dopo, e un pesante sospiro prese posto delle parole. Non sembrava un sospiro di sollievo, ma un sospiro di rassegnazione… triste.

“Non ti ricordi di me, vero?”, domandò questa volta e gli occhi brillarono di una luce strana, sembrava quasi speranza.

“No,”, negò Joonmyun e sul volto dell’altro uomo poté scorgere un’ombra di delusione, “Però,”, iniziò e lì un’altra luce si accese, forse la stessa di prima, “Ricordo la tua voce, in qualche modo”.

Quell’affermazione bastò per far sorridere chi aveva fermato per strada e pochi minuti dopo si ritrovarono in un piccolo bar, vicino alla scuola media del posto. Davanti a Joonmyun c’era del thè caldo, fumante, mentre davanti allo sconosciuto c’era una tazza di caffè, il liquido era molto scuro e da quella distanza poteva sentire l’aroma.

“Kim Jongdae”, disse nel silenzio l’altro.

“Come scusa?”.

“Il mio nome è Kim Jongdae”, Kim Jong Dae?, era… lui?

“Ho visto la tua foto nella mia camera, in ospedale, e sotto il cuscino ho trovato questo,”, fiatò Joonmyun estraendo dal taschino della giacca il bracciale, “È tuo, vero? Kim JongDae”.

“Astuto come sempre, vedo”, ridacchiò Jongdae, prendendo poi un sorso del suo caffè e fece un verso soddisfatto, dopo aver sorseggiato il liquido scuro, “Sì, è mio”.

“Perché era sotto il mio cuscino?”.

A seguito di quella domanda seguì un sospiro e dovette aspettare vari minuti, prima di poter risentire la voce altrui. In qualche modo, sembrava in conflitto con sé, come se stesse decidendo se asserire la verità o nascondere tutto dietro una leggera, innocente menzogna. L’altro prese un altro sorso dalla sua tazza e incrociò le mani, puntando i suoi occhi felini sulla dolce espressione del più grande.

“L’ho messo io, ovviamente,”, ammise, e dal tono parve piuttosto ovvia come cosa, “Era un piccolo regalo che ti feci… quando? Penso al tuo ventiquattresimo compleanno, sì”.

“E― tu cosa saresti, esattamente, per me?”.

Parvero passare minuti infiniti dopo quella domanda, che uscì dalle labbra rosee di quest’ultimo quasi come un sussurro, come se avesse paura di fare una domanda simile.

“Un amico”, eppure non sembrava convinto.

 

“Chi hai incontrato tu?”, domandò stupita la signora Kim.

Joonmyun non nominò l’incontro fino al giorno seguente, quando tornato dalla spesa e mentre stava sistemando ogni busta sul tavolo, così da togliere una fatica in più alla madre, decise di intraprendere una semplice conversazione con lei. In qualche modo, aveva capito che parlare con i genitori degli incontri che compieva in giorno in giorno, poteva aiutarlo. Magari un dettaglio che non ricordava tornava oppure era per assicurarsi che ricordasse bene.

Nel nominare Kim Jongdae, eppure, sembrava aver commesso un grosso errore. Come se non avesse dovuto incontrarlo.

“Com’è andata, tesoro?”, improvvisamente la sua voce si fece più dolce, quasi preoccupata, e la vide mordersi distrattamente un’unghia mentre riponeva i guanti in una mensola.

“Be’, bene?”, intonò con tono piuttosto insicuro l’uomo, “È un amico in fondo, come doveva andare?”.

In qualche modo, la madre di Joonmyun sembrava possedere la capacità di cambiare espressione e umore in un battito di ciglia – anzi, nemmeno quello; in qualche modo, il figlio sembrava aver sbagliato nuovamente nel nominare Kim Jongdae. Da un’espressione preoccupata, insicura, la vide passare a un’espressione frustrata e gli occhi sembravano ardere di qualche sentimento negativo, come se nulla stesse andando nel verso giusto, come se ci fosse qualcosa che non stava prendendo la giusta piega e ciò non poteva far altro che farla arrabbiare. In un attimo l’anziana prese il piccolo telefono che costudiva sempre in tasca e, presto, in cucina non ci fu più quel viso carico di sentimenti negativi – c’era solo Joonmyun, confuso.

 

 

 

Venne Aprile e tutti, con felicità, poterono costatare che ora la memoria di Joonmyun era aumentata del 90%. In questo modo, con la venuta di quel mese lo psicologo poté riprendere il posto sul luogo di lavoro e l’accoglienza, il ben tornato, fu splendente. Tutti i colleghi erano felici di riaverlo fra loro, ma lo erano soprattutto gli studenti che per quei pochi anni aveva avuto modo di assistere e di aiutare. Sehun era quello che aveva mostrato più gioia, e il che fu sorprendente visto che il più delle volte era un ragazzo che sul viso teneva le labbra in una linea retta e gli occhi, spenti, coperti da una frangia che lo rendeva ancora più cupo – l’uomo se lo ricordava, nella sua memoria era impressa quell’immagine del giovane seppur ora avesse i capelli corti e gli occhi un po’ più sereni.

“Finalmente è tornato il mio collega preferito!”, cinguettò Lu Han, quando lo incrociò per i corridoi vuoti della struttura, e non perse tempo a circondargli le spalle con un braccio – lo psicologo poté notare come fra le labbra teneva il fischietto, senza però farlo suonare; qualcosa che aveva sempre fatto, lo ricordava.

“Fatti da parte, Han”, lo minacciò Chanyeol appena li raggiunse, e sul viso teneva sempre il solito sorriso smagliante, “Lo psicologo-nim è mio!”.

Affermare che qualcosa fosse sempre stato compiuto da altri, poter dire che certa persona aveva sempre tenuto una certa postura mentre l’altra s’era sempre comportato in un certo modo, era una grande soddisfazione per Joonmyun, che per mesi era stato privato di quella capacità per un brutto incidente.

Alla fine i genitori glielo spiegarono, gli raccontarono il motivo per cui finì in coma. Fu un pomeriggio di novembre, quando, per una grave distrazione, finì per strada e una macchina lo travolse in pieno, facendogli sbattere gravemente la testa contro il suolo. Si poteva dire che la sua era stata anche una grande fortuna, poiché un colpo del genere avrebbe potuto mandarlo dritto nelle braccia della morte.

Joonmyun, a quella spiegazione, si mostrò convinto e dispiaciuto anche per se stesso, senza lasciare nessuna ombra di dubbio. Eppure, però, dentro di sé, non era del tutto convinto. Sentiva come se qualcosa, alla fine, non quadrasse del tutto – come sempre. Un episodio del genere lo aveva visto sempre nei suoi sogni, come un flashback, ma c’era qualcosa che non si incastrava perfettamente. Qualcosa, nel racconto dei genitori, mancava e creava un grande vuoto.

Un viso sfocato… Joonmyun―

 

 

 

Joonmyun!

L’uomo si svegliò di colpo, sudaticcio e con la mente che vagava in ricordi sfocati; era da tempo che non aveva un sogno del genere, dove una voce lo chiamava per nome. Le altre volte era lontana, dolce, questa volta era vicina, forte.

In qualche modo, lo psicologo nella mente aveva un pensiero fisso: Kim Jongdae. Perché era fonte costante dei suoi pensieri, se lo aveva visto solo due volte e mai più?

Ormai consapevole che non avrebbe acquisito sonno facilmente e sicuro che la mattina stessa non sarebbe dovuto recarsi a scuola – il venerdì non lavorava –, Joonmyun si alzò e andò a recuperare il telefono, scoprendo che erano le quattro del mattino. Camminò lentamente verso la cucina e si fece un thè caldo, così da poter rilassare i muscoli e concedersi un momento per pensare, per decidere come risolvere quel vortice di pensieri che andava a concentrarsi unicamente su una persona così… anonima, si poteva dire? In fondo due incontri non gli erano serviti per recuperare ricordi sulla sua persona e la madre non sembrava poi così allegra, quando lo sentiva nominare. Le sue visite in ospedale, poi, erano sospette. Perché si era presentato quando lui era in coma, e non quando si era svegliato? Era pure lui un amico di Kyungsoo, e sicuramente quest’ultimo gli avrà detto qualcosa. Inoltre, perché nascondere in quel modo il bracciale, e perché era parso così afflitto nel dire che era suo amico? Proprio non riusciva a darsi una risposta.

Finito il thè e riposta la tazza nel lavabo, sicuro che l’avrebbe lavata una volta risvegliatosi, l’uomo tornò sui suoi passi e si diresse in camera, e non per dormire.

Si mise davanti alla scrivania e con lentezza aprì uno dei cassetti, lì, ci trovò il suo vecchio telefono. Gran parte dello schermo era rotto e la parte anteriore non era più applicabile, dando una bella vista alla batteria e alla vecchia Sim. Con sorpresa, scoprì che si poteva accendere seppur la carica fosse molto bassa – aveva il tempo di guardare qualche vecchia foto, e magari qualche vecchio messaggio.

Joonmyun si buttò sul letto e alzò il braccio, cosicché il telefono fosse ben sopra la sua testa; vide come non aveva nessun gioco e il promemoria era pieno di appunti.

Compleanno di Oh Sehun, compleanno di Park Sooyoung… cena di famiglia alle 20:30, e cose così, più qualche appunto su chissà quale lavoro; passò alla rubrica, e trovò tutti i numeri che aveva ora salvati sulla nuova sim― no, non tutti, poiché ce n’era uno che non ricordava di avere. Un numero salvato con un cuore. Schiacciò sull’icona dei messaggi e l’aria gli mancò, per ciò che scoprì dopo.

Hyung~

Sei sveglio?

 

Disturbi pure a quest’ora? kk

 

Scusa se voglio parlare con il mio ragazzo. >.<

 

Ragazzo?

 

Sei perdonato.

Grazie..

Quando ci vediamo?

Dobbiamo parlare, lo sai.

 

Me lo ricorderai a vita?

Lo so.

Domani, magari?

 

Sì sì sì sì!!!

Al solito bar, vicino la scuola media.

 

Il bar vicino la scuola media…

 

Oltre a doverti parlare, ho una sorpresa per te. ~

Spero per te che non sia nulla di grande.

Uff, sei sempre così rigido.

Ora vado hyung.

Ho sonno.

Buonanotte~

 

Buonanotte, Jongdae.

ily. <3

 

Ti amo pure io. >.<

 

Il cellulare cadde di colpo, sfiorando il viso di Joonmyun, mentre questo, senza nemmeno accorgersene, faceva uscire dagli occhi delle calde e salate lacrime, che andavano a rigargli le tempie, morendo poi sul cuscino azzurro. Se una volta quella a fargli più male era la testa, questa volta, il cuore doleva ancora di più e un peso quasi gli vietava di respirare. Nella mente mille ricordi, mille risposte per i suoi punti interrogativi ancora incompleti salirono a galla, dall’angolo più oscuro della sua mente, e il viso di Jongdae si fece più nitido, la sua voce che lo chiamava si ripeté mille e più volte. Improvvisamente, tutti i sogni che fece trovarono quel secondo volto sempre oscurato.

La figura che gli sfuggiva nel bosco si girò, mostrandosi di profilo, e riconobbe quegli occhi felini, gli zigomi definiti; era Jongdae.

Prima ancora che la macchina potesse colpirlo alzò lo sguardo, e in un secondo poté riconoscere l’espressione impaurita di Jongdae, che cercava di lanciarsi verso di lui, che urlava il suo nome.

“Joonmyun!”

Perché tutti lo avevano nascosto? Perché nessuno gli aveva detto niente ― perché Jongdae si era presentato come un suo amico. Era il suo ragazzo, non un suo amico.

Velocemente riprese il vecchio telefono e recuperò pure quello nuovo, sbloccò entrambi e velocemente salvo il numero.

 

Dobbiamo parlare.

 

 

 

Con passi decisi si diresse verso il bar scelto, quello vicino la scuola media, e già dalla grande vetrata poté vederlo, lì, seduto composto e già con una tazza di caffè stretta fra le mani. Non lo aspettava mai. Fece in modo che lo vedesse, tanto per fargli capire che avrebbe dovuto preparare molte risposte, complete e soddisfacenti, e si prese tutto il tempo per entrare, salutare cordialmente la ragazza alla cassa e raggiungerlo, senza staccargli gli occhi da dosso. Non si salutarono né fu Jongdae il primo a parlare.

“Perché?”, chiese immediatamente Joonmyun, appena prese posto davanti a lui, con un sopracciglio inarcato, “Perché non ti sei mai presentato? Perché mi hai mentito?”.

Il minore giocherellò distrattamente con la tazza e parve a disagio, e molto molto confuso.

“Avevo paura― ho ancora paura”, rispose con voce soffice, leggera, “È colpa mia se è successo tutto questo, forse tu non ricorderai tutto ma―”.

“Ricordo tutto”.

“Eh?”.

Ci fu un attimo di silenzio, nessuno dei due parlò, si guardarono semplicemente; per grande stupore di Jongdae, era vero, il primo ricordava tutto e ogni singolo dettaglio. La memoria era tornata, al 100%, mancava solo quella parte di vita che in quattro anni lo aveva reso felice come triste, togliendo quei ultimi mesi. Gli mancava semplicemente la loro relazione, per tornare il Kim Joonmyun che tutti conoscevano e avevano imparato ad apprezzare, a odiare.

“Se ricordi tutto perché non mi odi? Perché non mi vuoi vedere come vuole fare tua madre e tuo fratello? Perché sei qui con me, e vuoi parlarmi?”, era evidentemente scosso il secondo e il maggiore poteva scommettere che stava facendo di tutto, per non alzare la voce.

“Perché voglio darti un’altra chance”, fiatò con calma e sul suo viso apparve un piccolo sorriso, nel frattempo che alzava una mano, per mostrare lo stesso anello che l’altro possedeva ancora, legato al dito, “Come l’ultima volta”.

 

“Forse― è meglio se la chiudiamo qui, no?”, chiese debolmente Jongdae, stringendo la tazza e guardando il legno liscio del tavolino, gli occhi ormai non riuscivano più a reggere la vista di Joonmyun.

“No,”, affermò con sicurezza l’altro, perché nonostante tutti i casini che il ragazzo compieva, nonostante gli alti e bassi che dava alla loro relazione, lui era sempre pronto a perdonare.

“No? Perché―”.

“Perché voglio darti un’altra chance”.

 

Lo psicologo sorrise tristemente al ricordo, ma quel sorriso poi tramutò in uno felice, appena vide quello sul viso altrui e incrociò quegli occhi che brillavano di gratitudine, di riconoscenza. Il sorriso si allargò, poi, quando due labbra toccarono velocemente le sue.

“Sono felice che tu abbia riacquisito tutta la memoria”, affermò Jongdae in seguito, quando raggiunsero un luogo più appartato dove potevano essere loro stessi, come una volta.

“Sono felice di non avere più un ricordo sfocato di te”.

 

 

 

 

riuscirò mai a scrivere una one shot dove Joonmyun e Jongdae vivono felici e contenti? Lo scopriremo solo col tempo.

ps. probabilmente aggiornerò con più lentezza questa raccolta di one shot perché *rullo di tamburi* sto iniziando a lavorare a qualcosa di più grosso, a una vera fanfic con due o più capitoli. So... stay tunned. <3

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