Away from you

di KamiKumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. PROLOGO ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. PROLOGO ***






Buongiorno, buon pomeriggio, buona sera o buona notte. No, non sono Truman di The Truman show, è solo che non sono proprio sicuro di che ore siano in questo momento e, in realtà, saperlo non è la mia priorità.

Vi ricordate di me, vero? Sono proprio io: Nate Brown. Già, sono quel coglione che è tradito stato e piantato dalla sua ragazza. Che stronza. Cinque anni di fidanzamento e lei? Mi tradisce e mi viene sbattuto in faccia di non essere mai stata sessualmente soddisfatta. Oh, ma voi questo lo sapete già, non è così? Certo che lo è. Voi facevate il tifo per quel coglione, com'è che si chiamava? Dylan, Dorian...? Poco importa, Pezzo di merda sarà un soprannome più che adatto. Come si sposano bene i loro soprannomi: la Stronza ed il Pezzo di merda.

Si sposano... Già, oggi mi ha chiamato mia madre informandomi che presto si sposeranno. Buon per loro, davvero. Sono passati mesi da quando sono stato piantato, ma quanti? Sette, o otto? Non ricordo. Sono ubriaco un giorno si e due no da allora. È per questo motivo che ora sono seduto al bancone di uno di quei bar angusti di periferia che sembrano essere il rifugio preferito degli uomini di mezza età. Sempre per questo motivo non ho idea di che ore siano, o del perché io stia parlando con un vecchio dai denti ingialliti e l'alito pesante della mia vita insulsa e di come la Stronza l'abbia rovinata.

A causa sua sono costretto ad andare in terapia da uno psicologo (avrei dovuto persino frequentare un gruppo di sostegno per alcolisti anonimi) e a piangermi addosso per la piega inutile che ha preso la mia vita. Beh, perché io con lei immaginavo di avere un futuro, mi capite? Io non ero stanco di lei, mi fidavo ed ero soddisfatto di ciò che eravamo: io la amavo. Lei ha preso tutto questo, tutto ciò che ero, e l'ha gettato nel giro di quanto? Quindici minuti.

Credo sia stato il giorno peggiore della mia vita. Tutto ciò era stata la mia quotidianità in pochi istanti è svanito. Una coltellata in mezzo al petto, di quelle che ti mozzano il fiato e ti spezzano il cuore.

Sono uscito da quella casa totalmente svuotato, privo di qualsiasi sentimento che non fosse dolore. Dolore puro, cento per cento concentrato. Sono salito su un taxi, poi su un pullman ed infine su un aereo. Non ho preso niente di mio che fosse in quell'appartamento; non volevo saperne nulla, non volevo avere alcun ricordo.

È così che sono giunto in Minnesota, a Slayton: capoluogo della Contea di Murray che gode di ben novemila-centosessantacinque abitanti. Un milione-seicento ventisettemila-centotré persone in meno di Manhattan, decisamente ciò che mi ci voleva. Aria e pace. E qui ce n'è a volontà. Certo, le persone sono davvero ficcanaso e pettegole. S'interessano della vita privata di chiunque, a maggior ragione se si ritrovano tra le mani un forestiero che non fa altro che bere.

Fortunatamente il lato della mia vita che riguarda il sesso resta ben lontana dagli occhi indiscreti della gente e questo perché, fondamentalmente, quel lato non esiste. Si può dire che sapere di non aver mai procurato l'orgasmo ad una donna con cui sei stato e con cui hai convissuto per anni ti distrugge l'autostima. Mi arrangio con ciò che l'evoluzione mi ha concesso: quattro dita più un pollice opponibile.

«Ragazzo...» Gracchia il vecchio seduto sullo sgabello accanto al mio. Indossa una camicia a quadri macchiata d'olio e grasso, il che mi fa supporre che sia un meccanico, è arrotolata lungo le braccia che tiene appoggiate sulla superficie di legno appiccicoso del bancone. È curvo su se stesso quando si volta per guardarmi con gli occhi annebbiati dall'alcol «Vengo qui a bere tutti i giorni dalle otto di sera alle undici per sfuggire alle continue lamentele di quella vipera di mia moglie, che sta cercando in tutti i modi di ottenere il divorzio e la custodia del nostro cane.» Solleva il suo boccale di birra e ne trangugia un lungo sorso. Quando finisce lo sbatte sul bancone, il tonfo è coperto dal ritmo incessante della musica country che spara dalle casse del locale. «E quando sono qui a bere amo parlare di football americano e hockey. Non voglio di certo stare a sentire un'altra femminuccia lamentarsi.» Si alza barcollando dallo sgabello, sbatte una banconota da dieci dollari sul bancone, gira i tacchi e se ne va. Perfetto: piantato in asso persino da un ubriacone. Vi è chiaro ora quanto patetica sia la mia vita? Il lato positivo è che ora so che sono le undici di sera, noto con piacere che almeno è rimasto ad ascoltarmi fino alla fine della sua serata.

Sospiro amareggiato, poi lo imito. Mi alzo barcollando e sbatto una banconota dello stesso valore sul legno sudicio per uscire da quel posto chino su me stesso e con le mani in tasca.

Mi sveglio come sempre quando passo la sera prima a bere, ossia stordito e burbero. Schiudo lentamente gli occhi, nonostante il trillo insistente e fastidioso della mia sveglia. Sbatto il palmo della mano su quell'oggetto infernale e la prima azione che compio dopo averlo spento in malo modo è imprecare con lo sguardo fisso sulle crepe del soffitto giallognolo. Gli occhi mi bruciano e fatico a tenerli aperti, li copro dalla luce che filtra attraverso le tapparelle malconce ed infine sbuffo.

Mi scosto lo coperte di dosso, muovendomi come se ogni gesto fosse l'azione più difficile e pesante da compiere, mi metto seduto posando i gomiti sulle ginocchia per poi prendermi il viso tra le mani. La testa mi scoppia e gli occhi mi bruciano cercando di abituarsi alla luce dell'ambiente che mi circonda.

La stanzetta del mio motel è lurida, con vestiti ed immondizia sparsi ovunque sul pavimento. Si, proprio così: vivo in uno squallido motel, in quello che subaffitta le stanze al prezzo più basso e che non ha nemmeno un servizio in camera per le pulizie. Mi sta bene così, soprattutto perché col mio misero stipendio da ragazzo delle consegne non posso permettermi qualcosa di meglio.

Sbuffo un'altra volta prima di posare lo sguardo sull'orario indicato dalla sveglia digitale: sono le dieci e mezza, il che vuol dire che manca mezz'ora all'inizio della mia giornata lavorativa. E no, non sono in ritardo come potrebbe sembrare, perché trenta minuti sono più che sufficienti per prepararmi ed arrivare in pizzeria.

Quindi finalmente mi alzo e, dirigendomi verso il bagno, mi levo i boxer lasciandoli a terra e senza preoccuparmi di raccoglierli. Calcio un paio di calzini sporchi appallottolati lungo il percorso mentre raggiungo la mia meta, la prima tappa è la tazza del cesso.

Me l'afferro con una mano prendendo la mira con un'accuratezza non troppo scrupolosa, nel tentativo di domare la mia semi erezione mattutina, mentre allungo l'altra verso il pomello della doccia, iniziando a far scorrere l'acqua in modo che inizi a scaldarsi.

Il piccolo abitacolo si riempie di vapore mentre piscio. Alzo il viso verso il soffitto, così da sgranchirmi le ossa del collo, e la mia attenzione viene catturata da un ragno che cammina proprio sopra la mia testa. Seguo disinteressato il suo percorso con gli occhi , dopodichè do una scrollata all'uccello con noncuranza e m'infilo in doccia.

Il mio rituale igienico mattutino richiede quindici minuti scarsi. Sono una persona abitudinaria, con pochi bisogni e priva di aspirazioni, mi trovo bene coi miei tempi e mi piace il fatto di impiegare la minore quantità di tempo necessaria allo svolgimento di queste attività. Sarà anche il fatto che la mia igiene e la cura per il mio aspetto fisico lasciano un po' a desiderare, ma sono solo tre le cose che devo fare al mattino: pisciare, lavarmi e vestirmi esattamente in quest'ordine. Cinque minuti per ogni azione ed il gioco è fatto.

Dopo essermi infilato l'ultima felpa pulita rimastami nell'armadio mi passo un asciugamano sui capelli per dargli un'asciugata veloce, dopodichè prendo la giacca ed esco da quel porcile di stanza che è ormai la mia casa.

Tempo? Quattordici minuti. Un gioco da ragazzi.

Rabbrividisco a contatto con l'aria gelida con cui mi scontro all'improvviso, chiudo a chiave la porta alle mie spalle per poi percorrere il corridoio a balconcino che dà sul parcheggio cementato del Motel. E si, è triste proprio come lo si può immaginare. Tuttavia alzando solo di poco lo sguardo si può finire per ammirare l'orizzonte di case e fattorie dal tetto basso, circondate da stradine intrecciate nel bel mezzo di infinite distese di campi. Beh, da questo balcone non è che si veda proprio tutto questo. Perlopiù l'occhio arriva all'insegna posta sul tetto del benzinaio qua di fronte, che dice di offrire uno sconto sui menù della colazione, ma so bene cosa si potrebbe trovare se ci si spingesse oltre con lo sguardo.

Scendo le scale che mi portano alla reception ripensando alla differenza tra questo panorama e quello di Manhattan ed ogni volta mi sbalordisco realizzando l'incredibile differenza di questi due mondi, che fanno in realtà parte della stessa Nazione. Se prima uscendo di casa venivo accolto dagli assordanti rumori del traffico cittadino, dagli schiamazzi dei passanti e dall'odoraccio di smog, ora vengo travolto dal sibilo del vento invernale che soffia tra i rami degli alberi spogli tutt'intorno a me, dal suono di qualche taglia erba in lontananza e qualche gallo che canta o porco che grugnisce. Ogni giorno ripeto tra me e me che la differenza è tutt'altro che minima.

Eppure avevo dannatamente bisogno di questo cambiamento.

Mentre cammino sul marciapiedi m'infilo le mani in tasca per proteggermi dal freddo gelido di Gennaio e col fiato creo nuvolette di condensa nell'aria; nonostante siano quasi le undici del mattino non si vede molta gente per le strade. È il mio primo inverno qui, ma mi rendo conto che uscire di casa durante questa stagione comporta il dover affrontare il clima rigido coi suoi meno sei gradi attuali. Il cielo è plumbeo sopra la mia testa ed uno spesso strato di nebbia aleggia tutt'intorno a me, tutto ciò che vedo è circoscritto nel raggio di un metro.

Cammino a passo svelto per scaldarmi il più possibile, sentendo la punta delle dita raffreddarsi sempre più ad ogni minuto che passo all'aperto. In men che non si dica raggiungo l'incrocio del centro città ed attraversando la strada arrivo finalmente da Uncle Rick che, per chiarimenti, è la pizzeria per cui lavoro.

Mi fiondo verso l'entrata principale, quella destinata alla clientela, perché per quella di servizio dovrei aggirare l'edificio e mi toccherebbe affrontare il freddo almeno per altri due minuti. Chiaramente non è uno sforzo che sono disposto a compiere, quindi con grande coraggio espongo la mano intiepidita dal calore della mia giacca ed afferro la gelida maniglia in ferro della porta in vetro del ristorante, su cui sono riportate le lettere adesive che compongono lo slogan del locale: Rick pizza chic. Strano? Lo so, ma ditelo voi al capo.

Vengo immediatamente colpito da una piacevole ondata d'aria calda di cui mi beo sin dal momento in cui la porta si chiude alle mie spalle separandomi dal quel clima degno del Polo nord.

Mi guardo intorno cercando qualcuno che abbia iniziato a sistemare il locale, ma l'unico indizio di presenze umane che percepisco proviene dagli spogliatoi.

Attraverso la grande sala dal pavimento in assi di legno che scricchiolano sotto il peso dei miei scarponi guardandomi intorno mentre vado a posare la mia giacca. Il posto non è male, devo ammettere che mi piacerebbe lavorare qua dentro, piuttosto che la fuori. Qui ogni singola cosa è fatta in legno, al fine di ricreare un'atmosfera rustica. Lunghe tavolate si estendono per tutta l'area accanto a pareti di mattoni rossi, circondate da panche basse dello stesso legno. Probabilmente sono state intagliate qui in città, sarà anche un piccolo paesino, ma le persone sanno come essere autosufficienti e sostenersi economicamente a vicenda. Vanno tutti schifosamente d'accordo.

Quando raggiungo gli spogliatoi la persona che incontro è proprio chi temevo sarebbe stata: Vinnie Gaither, nipote di Rick Gaither, che è anche il proprietario del posto.

Vediamo se capite il motivo per cui mi è tanto insopportabile. E no, non è solo per via della mia intolleranza nei confronti di chiunque sia in grado di dare aria alla bocca.

Vinnie è il cameriere che lavora in sala ed è il ventenne più viziato e più insopportabile con cui si possa mai entrare in contatto. Un metro e ottanta di ragazzo pelle e ossa, capelli unti arricciati sulla testa e occhi sempre arrossati dall'effetto sballante della Marijuana. Un senza palle che sfrutta a suo favore la parentela con Rick, che chiaramente non può mal trattare il caro nipote.

Chi credete le portasse le pizze in giro per questa cittadina d'estate? Lui.

E chi si è tirato indietro tutto d'un tratto quando le temperature hanno iniziato ad abbassarsi? Lui.

E chi è il coglione che ha preso il suo posto ? Beh, io. Poco importa però, senza rivolgergli parola punto senza alcun remore verso il mio armadietto, con la vernice grigia tutta scrostata, per posare i miei effetti personali ignorandolo deliberatamente. Peccato lui non abbia le mie stesse intenzioni.

«Heilà, Brown! Luna storta anche oggi?» Fa' lui girandosi mettendosi in bocca una sigaretta, tenendola tra i denti storti, e stampandosi sul viso un ghigno strafottente. Gli lancio un'occhiataccia, ma non lo degno di alcuna risposta. Mi sfilo la giacca, poi sostituisco la mia felpa con quella della pizzeria, sui cui sono cucite in caratteri cubitali le lettere che compongono la frase Pizza's Uncle Rick in rosso sulla schiena.

Lui mi scruta con le sopracciglia alzate, come se fosse indignato per la mia non-reazione. Sono un uomo di routine, potrei mai interrompere le mie abitudini e smettere di ignorare qualcuno all'improvviso? La risposta è no: sono un uomo troppo coerente.

Schiocca la lingua infastidito prima di passarmi accanto dandomi una spallata, sparendo dalla mia vista. Inspiro forte, ignorando e reprimendo il prurito che ho alle mani. Non faccio a botte con qualcuno dal giorno in cui ho incontrato lui per strada a Manhattan. È stata la prima e l'ultima volta, ma questo ragazzino sta mettendo a dura prova la mia pazienza.

Chiudo l'armadietto con un colpo secco all'anta, il rumore sordo echeggia per pochi istanti nella stanza. Poso la fronte sul ferro freddo, stringo forte gli occhi lasciandomi avvolgere dal silenzio intorno a me, dopodichè do inizio alla mia giornata lavorativa.

Oltre a me e Vinnie a lavorare in questo posto c'è Jason un ragazzone tutto muscoli che ha giusto un paio d'anni in meno di me. Quando attacca a lavorare alle dodici e mezza lo si riconosce subito, le travi del pavimento cigolano implorando pietà al suo passaggio ed il suo vocione non può fare a meno che spaventarti anche con un semplice saluto.

Infine c'è Rick, il proprietario ed il pizzaiolo, il saggio uomo sulla cinquantina che ha avuto così tanta pietà per me da assumermi e salvarmi dalla totale disgrazia di alcuni mesi fa.

È lui a pagarmi le sedute dallo psicologo da quando mi sono presentato al lavoro sbronzo fino alla punta dei capelli facendo un casino dopo l'altro con le ordinazioni in sala e coi clienti. Rick è un brav'uomo, un tipo di poche parole con cui ci s'intende senza aver bisogno di parlare. Si può ben dire che una sua occhiataccia ed un suo pugno nello stomaco siano sufficienti a farti rigare dritto (e a farti vomitare tutto ciò che hai ingerito fino a tre giorni prima), lo garantisco. Non che sia cambiata granchè la mia vita da allora, la situazione è sempre la stessa, mi paga il minimo indispensabile, ossia il necessario per tenermi un tetto sopra la testa e per il cibo con cui nutrirmi, quando decido di non bere. Cosa posso farci? Ho delle priorità.

Sto posando a terra l'ultimo sgabello di legno scuro sollevandolo dal bancone appiccicoso, quando riceviamo la prima chiamata della giornata. E così inizio a lavorare.

Ora, vorrei davvero raccontarvi le mie avventure da ragazzo delle consegne, ma credete ci sia qualcosa di eccitante in un ventisettenne che va in moto con delle pizze nel sotto sella e suona ai campanelli delle persone di un piccolo paesino? No, infatti. 

 

C I A O

Rieccomi qui con l'inizio di una nuova storia!
Non so ancora in quanti capitoli si svilupperà, amo scrivere la storia di volta in volta, avendo in mente soltanto le linee guida della trama.
Spero che come inizio sia di vostro gradimento,
un bacione.
KamiKumi

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Capitolo 2
*** 2. ***


IL CAPITOLO PRECEDENTE È STATO MODIFICATO, CONSIGLIO UNA RILETTURA. GRAZIE.

 

Oggi è finalmente lunedì, ossia il giorno che per chiunque lavori nella ristorazione è domenica. La pizzeria è chiusa il primo giorno della settimana e, per quanto mi piacerebbe rimanere a letto a crogiolarmi nella solitudine/attaccarmi alla bottiglia con la mano destra nelle mutande, mi tocca dare una sistemata al mio aspetto malconcio per andare nell'ufficio del mio psicologo. Mio malgrado sono costretto ad andarci, dato che al lavoro sanno del mio problema con l'alcol. Per fortuna grazie alla mia esperienza nel campo e al mio carisma (o all'incredibile pietà di Rick) ho ancora un posto di lavoro. Tuttavia ce l'avrò solamente fino a che continuerò, e porterò al termine, questa inutile terapia. Questo è l'accordo.

Mi dirigo in bagno ancora barcollando ed entro in doccia evitando di guardare il mio riflesso allo specchio, voglio evitare di autocommiserarmi già dalle prime ore del mattino.

Come ben sapete, un quarto d'ora dopo sono pronto ed esco dalla mia stanza, ben poco felice di affrontare nel modo più inutile il mio unico giorno di riposo settimanale.

Quando oltrepasso la soglia dello studio vengo invaso da un fastidioso odore di fiori. Nemmeno riconosco quali siano, li odio negli ambienti chiusi. Appena li cogli appassiscono, stanno meglio in un giardino ben curato. Oltretutto mi chiedo come possano esser vivi, date le rigide temperature.

Comunque, entro nello studio senza bussare: la porta in ogni caso era aperta e la chiudo alle mie spalle solo una volta che sono entrato, poi prendo posto alla solita poltrona lasciandomici cadere a peso morto con un forte sospiro, proprio come sempre. Incrocio le mani sullo stomaco e tengo i piedi appoggiati saldamente a terra mentre aspetto di ricevere le attenzioni per cui mi sono presentato.

Nel giro di pochi istanti la sedia da ufficio che mi sta di fronte ruota, così che il soggetto smetta di osservare il paesaggio fuori dalla finestra per dedicarsi a me.

«Riconoscerei il tuo atteggiamento anche ad occhi chiusi.» Incontro i suoi occhi color nocciola nascosti dietro un paio di lenti da occhiali da vista dalla montatura fine ed elegante. La voce è decisa, velata di divertimento, quando sfugge alle sue labbra rosee. Oggi i capelli biondi sono sciolti intorno al suo viso latteo, e li tiene composti portandoseli dietro alle orecchie. Avrei dovuto dirvelo che il mio psicologo è una donna davvero attraente?

«Wow, i tuoi sensi devono essere davvero molto sviluppati.» Replico ironicamente, la dottoressa Olivia Craig di tutta risposta posa la schiena sullo schienale incrociando le braccia al petto. Con la coda dell'occhio noto che la camicetta rosa che indossa oggi aderisce perfettamente al suo seno, come se le fosse stata cucita direttamente addosso, ma distolgo velocemente lo sguardo. Non ci tengo ad alimentare inutili appetiti destinati a restare sopiti, tuttavia non nego che le stia davvero bene.

Le sue sopracciglia sono sollevate in due archi perfetti e le conferiscono un'espressione di sfida con una sfumatura di divertimento. Proprio così, lo vedete anche voi il sorrisetto stampato sul suo viso, no?

«Tutto qui?» Domanda con un tono di voce che non so se distinguere tra lo stupito o il deluso, quindi mi limito a guardarla con aria confusa. «Beh, sai di solito nelle tue risposte ironiche e scontrose ci metti più accidia. Brown, che delusione!» Esclama scuotendo la testa fingendo disapprovazione, così facendo i suoi capelli fini ondeggiano in sincronia al movimento del capo. Sono così lisci da sembrar finti.

E, in ogni caso, ha ragione: di solito, le rare volte in cui decido di aprir bocca, mi impegno davvero tanto per dare risposte del cazzo. È che questa cosa della terapia proprio non la concepisco. Parlare come può risolvere i miei problemi? Andiamo dai, siate ragionevoli.
La maggior parte degli psicologi nemmeno si prendono la briga di fingere di essere utili, intascano lo stipendio, prescrivono medicine e semplicemente fottono i soldi e le menti di coloro che si affidano alle loro "capacità". Oh si, si vede che sono contro a questo genere di cosacce? Se devo sborsare dei soldi almeno vorrei farlo per un dottore vero. Nah Freud mi dispiace, disapprovo categoricamente la tua psico-analisi.

«Non ho avuto una grande serata.» Brontolo poi senza troppi giri di parole ricordando come ho dato il via alla colossale, e abituale, sbronza della domenica sera. Lei mi osserva con aria compiaciuta, come se sapesse qualcosa che io non so. Quel sorrisetto irritante...

«Beh sai Nate, quando si beve come delle spugne può capitare.» A-ha, colto in fallo. È dunque a questo punto che voleva arrivare? Lei sapeva, voleva umiliarmi? Strega manipolatrice.

Aggrotto le sopracciglia guardandola con aria truce, senza darle la soddisfazione di poter udire una mia risposta. L'astio che trasmetto dovrebbe essere sufficiente a farle capire che il mio umore è appena peggiorato. Dev'essere per questo che riprende a parlare, volutamente in tono provocatorio oltretutto.

«Devi sapere che la nostra è una piccola cittadina. Le voci girano e soprattutto ci sono pochi bar.» Ed è attraverso questa frecciatina ben poco velata che, leggendo tra le righe, capisco che è stata lei stessa a vedermi ieri sera.

Valuto se risponderle o meno, non sono interessato ad avere una vera e propria conversazione. È solo che quell'aria di compiacimento proprio mi irrita... Per questo motivo, da buon adulto quale che sono, decido di continuare a rispondere in maniera assolutamente seria. O forse no.

«Poteva venire a farsi un bicchierino, avrei offerto io.» Cambio posizione sulla poltrona, incrocio le gambe posando la caviglia sinistra sul ginocchio destro mentre, appoggiandomi ad un bracciolo della poltrona, reggo il peso della mia testa sul palmo di una mano. Se è questo che vuole, questo avrà: la solita versione di me ironica, evasiva e spesso stronza. Resto in attesa di una sua risposta che, in realtà, non tarda ad arrivare.

«È proprio ciò che ho fatto: mi sono seduta accanto a te per farti un saluto.» Fa scorrere le rotelle della sua sedia da ufficio sul pavimento e si mette in piedi così da raggirare la scrivania. Si siede sul bordo guardandomi attentamente negli occhi ed è come se allo stesso tempo mi stesse rimproverando con lo sguardo e provando compassione nei miei confronti. È una sensazione che mi riempie di rabbia. Serro i pugni sui manici della sedia, mentre lei riprende a parlare scostandosi i capelli dietro l'orecchio e risistemandosi gli occhiali sul naso «Ti ho ritrovato semi-svenuto al tavolo di un bar,circondato da dodici bottiglie di birra, intento a maledire il profilo Facebook di una povera ragazza.» Alla pronuncia di quelle parole sbarro gli occhi. Che io abbia raccontato di lei? Stringo le labbra in una linea dura sistemandomi sulla sedia nell'inutile intento di non apparire teso. Ok, il fatto che mi abbia visto in quelle condizioni non implica che ci siamo necessariamente rivolti la parola. Con la Dottoressa Craig non ho ancora aperto bocca e gradirei poter continuare su questa strada. Come, mi chiedete il motivo? Oh beh, ve lo dico subito: potrei mai umiliarmi raccontando della mia patetica storia da cornuto, ritrovandomi a rivivere quei momenti che mi hanno tanto sconvolto? La risposta è no. E comunque parlarne non cambierebbe nulla, proprio per questo spero di non averlo fatto.

Lei sospira scuotendo il capo spazientita «Non ti capisco davvero, Brown. Potresti parlare e basta, sai bene che prima inizi questa terapia prima la finisci.» Sospiro di sollievo quando capisco che non sa nulla ma, come se mi avesse letto nel pensiero, ricomincia a parlare. «Basta guardarti negli occhi par capire quanto tu stia ancora male per questa Emily.» Il solo sentir pronunciare il suo nome accende in me una miccia di risentimento che nel giro di pochi istanti esplode come una bomba ad orologeria, inondandomi d'odio e rancore. M'irrigidisco immediatamente rimettendomi in piedi di scatto, lei sobbalza per il movimento inaspettato e improvviso. Mi squadra con sopracciglia aggrottate, i suoi occhi caramellati sono sgranati mentre scrutano con attenzione ogni mio movimento, sorpresa da questa mia reazione. Probabilmente questa rabbia è il primo sentimento che le dimostro di provare, e potrebbe essere anche l'unico. Il mio respiro è affannato mentre cerco di dominare le emozioni. Mesi e mesi per eliminare il suo viso dal mio cuore, quando solo sentirne pronunciare il nome mi stravolge al punto di non riuscire quasi a contenere la mia rabbia.

Lei si avvicina a me sedendosi su tavolino che mi sta di fronte. Ora siamo distanti solo un metro l'uno dall'altra. Ha stampata sul viso la compassione e non riesco a tollerarlo. Distolgo con un grande sforzo lo sguardo dai suoi occhi azzurri, nonostante sia un peccato disfarsi di una tale visione. Ora devo solo consolidare quel muro che ho eretto per non lasciar crollare di nuovo il mio cuore nell'abisso dell'umiliazione.

Resta in silenzio per qualche istante. L'unico suono che riesco a percepire è quello dei miei pensieri che da mesi affollano la mia testa senza trovar pace e che ora come ora vorticano incessanti, facendo riaffiorare ricordi e sensazioni che cerco ancora oggi di seppellire invano.

La situazione potrebbe avere due risvolti: in uno sono collaborativo, mi apro e parlo dando sfogo ai miei sentimenti ed iniziando davvero questo strazio di terapia; nell'altro continuo a tacere guardandola in cagnesco, senza pronunciare alcuna parola.

Vi lascio indovinare quale opzione scelgo. Di conseguenza continuiamo a fissarci, lei pazientemente in attesa ed io semplicemente irritato fino al midollo.

La dottoressa sospira scuotendo il capo «Che ne dici di iniziare a spiegarmi chi è Emily?»

Tuttavia se ció che la cara, dolce ed apprensiva signorina Craig voleva ottenere era una confessione tutto quel che ricava è il peggioramento della situazione.

«Smettila di pronunciare quel nome davanti a me.» Sbraito ancor prima di rendermi conto di aver reagito. Ho il respiro affannato ed il mio corpo si sta scaldando per la rabbia che, sopita, si sta risvegliando.

Si mette in piedi anche lei e solo in quel momento mi rendo conto di essermi alzato. Curva le sopracciglia assumendo un'espressione tra il contrito ed il preoccupato. «Nate. Ti presenti a queste sedute ormai da tre mesi. Una volta alla settimana, da allora, ti siedi su quella poltrona» e la indica «ed ammutolisci per un'ora intera, limitandoti a scaldare il posto e facendomi perder tempo.» La sua voce calma e dolce d'insinua dentro di me, placando per un attimo la mia ira. La guardo negli occhi, ascoltandola. «Nate tu hai bisogno di parlarne, ti serve aiuto per superare questa storia.»

Scuoto la testa passandomi le dita tra i capelli, come se fossi preda di un'isterismo incontrollabile «Non dirmi di cosa cazzo ho bisogno.» Sibilo a denti stretti in tono minaccioso, più di quanto probabilmente avrei voluto. Lei si limita a fissarmi da dietro le lenti dei suoi occhiali, ammutolendosi serrando le labbra in una linea dura. Inspiro dal naso abbassando e palpebre nel tentativo di riacquistare la mia calma. «Me ne vado.» Annuncio infine voltandomi verso la porta.

«Nate, aspetta. Parlami. Io posso aiutarti.» Esclama con determinazione, non perdendosi d'animo. L'ammiro. Dal suo sguardo capisco che non ha intenzione di arrendersi. Ma non mi riguarda. Se non sapessi che lo fa per lavoro potrei credere che le importi di me. La sua voce è quasi una supplica, ma me la lascio comunque alle spalle chiudendola nella stanza, dietro la porta del suo studio.

«Non ho intenzione di farmi giudicare.» Sbotto tra me e me, non riuscendo a tollerare oltre la visione impressa nella mia mente dei suoi grandi occhi chiari velati di apprensione nei miei confronti. Non voglio sentirmi che devo andare avanti, che devo superarla, che ci sono tanti pesci nel mare, che mi sto distruggendo e devo risolvere questo problema che sto alimentando giorno per giorno da mesi. Ma indovinate un po'? Non ho fottutamente intenzione di chiedere aiuto, di smettere di bere o di pescare un altro pesce dal mare. Ho l'alcol e anche se questo non risolve i problemi, quantomeno mi aiuta ad andare avanti schifoso giorno per schifoso giorno e se mai dovesse arrivare il momento in cui avrò bisogno di aiuto sarò semplicemente io a chiederlo.

Me ne vado da li a passo lento, come se camminando dovessi trascinarmi delle pesanti catene legate alle mie caviglie.

Me ne vado diretto al bar con l'obiettivo di dedicarmi all'attivitá che meglio mi riesce: bere.
 

S O N O    Q U I .

Quanto tempo per questo secondo capitolo! (Che in realtà è pronto dagli inizi di Agosto...)
Mi scuso per la confusione per lo scambio dei capitoli, in un secondo momento ho deciso di stravolgere i due invertendoli e smontandoli per il bene della trama.
Spero comunque vi piaccia!
Gli aggiornamenti per Away From You temo saranno più lenti del previsto, ma abbiate pazienza per favore!
Un bacione, 
KamiKumi

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