L'elisir della gitana

di Ardesis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il bordello ***
Capitolo 2: *** La ballata ***
Capitolo 3: *** Devozione ***
Capitolo 4: *** Fedeltà ***
Capitolo 5: *** Il ladro eroe ***
Capitolo 6: *** Più scuro ***
Capitolo 7: *** Scacco ***
Capitolo 8: *** Fantasmi ***
Capitolo 9: *** Luce ***
Capitolo 10: *** Tragica fatalità ***
Capitolo 11: *** La tempesta ***
Capitolo 12: *** I nodi ***
Capitolo 13: *** Ombre ***
Capitolo 14: *** Come porcellana ***
Capitolo 15: *** Sfioritura ***
Capitolo 16: *** Distanza ***
Capitolo 17: *** Cambiamento ***
Capitolo 18: *** Differenti prospettive ***
Capitolo 19: *** Fortuna ***
Capitolo 20: *** Compromessi ***
Capitolo 21: *** L’elisir ***
Capitolo 22: *** Grigio ***
Capitolo 23: *** Dialoghi spinosi ***
Capitolo 24: *** Sirene ***
Capitolo 25: *** Un buon comandante ***
Capitolo 26: *** Coscienza ***
Capitolo 27: *** Qui gladio ferit ***
Capitolo 28: *** Saint’Antoine ***
Capitolo 29: *** Fuoco ***
Capitolo 30: *** Amore e morte ***
Capitolo 31: *** Donne e veleni ***
Capitolo 32: *** Il cuore dei soldati ***
Capitolo 33: *** Ritorni ***
Capitolo 34: *** Torta di mele ***
Capitolo 35: *** Memoria ***
Capitolo 36: *** Un corvo ***
Capitolo 37: *** Scommetti? ***
Capitolo 38: *** Fiducia ***



Capitolo 1
*** Il bordello ***


-Le puttane migliori di Parigi!-

Gridava ai passanti un uomo massiccio e senza collo, che masticava tabacco sull'uscio di un bordello.

André tirò le redini e sollevò gli occhi sulla facciata di quel grigio edificio di pietra, brutto e tozzo come l’uomo sulla soglia. Vide una schiera di prostitute di ogni età e di ogni aspetto che si protendevano dai davanzali delle finestre per fargli piovere addosso un coro di grottesche e spudorate lusinghe. Si chiese se quelle ragazze allestissero la stessa vivace accoglienza per ogni potenziale cliente che si avvicinava o se fosse un privilegio riservato a chi, come lui, sembrava essere benestante.

-Ho solo uno scudo con me.-

Si giustificò a bassa voce con l'uomo sulla porta. Il tenutario lo guardò con un sorriso divertito e André si rese conto di aver risposto ad una domanda che nessuno gli aveva fatto. Deglutì e abbassò gli occhi imbarazzato.

-Per mezzo scudo ti faccio tutto quello che vuoi, bel giovane.-

Una donna alta e mora si concretizzò sulla porta scoprendosi i seni con la disinvoltura di un bottegaio che mostra la propria merce ai passanti. Quell’offerta sfacciata fece rimescolare le viscere di André. Ne fu disgustato e attratto al medesimo tempo, ma si ostinò a far prevalere il senso del pudore e distolse gli occhi. Il pericoloso languore che gli era nato nello stomaco, tuttavia, non se ne andò. E non se ne andò neanche lui. Rimase pietrificato, lungi dai suoi pensieri l’idea di colpire il ventre del cavallo con gli speroni per farsi portare via.

La coscienza protestava, la ragione era indignata, ma uno sbuffo di vento profumato di cannella le fece tacere entrambe. La brezza abbracciò André da dietro e lo sospinse con dolce insistenza verso la porta del bordello.

Cedette come se non avesse avuto alternative. In silenzio smontò da cavallo e legò le redini ad un anello di ferro accanto all'ingresso. 

Il tenutario, che aveva seguito con un sorriso sghembo e occhi maliziosi l’evolversi della sua indecisione, gli fece un cenno con la testa e sparì all’interno dall’edificio attraverso delle leggere tende color lavanda. André lo seguì, con le mani dietro la schiena e lo stomaco ingarbugliato. Quando superò la soglia, si trovò immerso nella foschia fuligginosa di numerose candele e nell’odore pungente di un miscuglio di fragranze speziate. L’atrio traboccava di cianfrusaglie di ispirazione esotica ammassate tra pesanti tende logore e colorate tappezzerie d’ogni foggia. Si guardò intorno incuriosito. Non aveva mai provato ad immaginare come potesse essere l’interno di un bordello, ma di sicuro non si sarebbe mai aspettato che assomigliasse al polveroso retrobottega di un negozio di oggetti antichi. Ogni cosa sprigionava un fascino arcaico e dissoluto.

-Le mie ragazze soddisfano qualsiasi desiderio dei clienti.- 

Spiegò il tenutario con sguardo fiero, fermandosi sotto un lume appeso alla parete.

-Quali sono le tue richieste?-

Chiese con gentilezza artificiosa, posando una mano grassoccia sulla spalla di André. Il ragazzo avvampò e scoprì di non aver parole per descrivere ciò che il corpo chiedeva. Tacque, ma il suo silenzio fu eloquente. Il tenutario annuì come se avesse ricevuto un’istruzione precisa, si schiarì la voce e chiamò un nome. 

-Cerise!-

Da una porta laterale si affacciò una ragazza bassa e snella, che indossava un vestito arancione di stoffa lucente e un sorriso di una dolcezza che sembrava in tutto e per tutto genuina. La sua pelle aveva una curiosa tonalità ambrata, una tinta di incarnato che André non aveva mai visto in vita sua. Ne fu ammaliato.

Lei, più che osservarlo, lo misurò con gli occhi da testa a piedi, poi gli fece un cenno e lo condusse con sé al piano di sopra. Salite le scale, si ritrovarono in un corridoio lungo e stretto, dove alcune prostitute sfaccendate, appoggiate agli stipiti di una serie di porte, si stavano sventagliando pigramente.

-Sei bello. Tutte ti vogliono.-

Gli spiegò la ragazza, rivelando un forte accento straniero, mentre si aggrappava con entrambe le mani al suo braccio, gelosa e orgogliosa del suo nuovo cliente. Ma se per lei quella breve sfilata tra due ali di spettatrici semi svestite sembrò essere una marcia di trionfo o forse di rivalsa, per lui fu una tortura. E il sollievo fu breve anche quando si infilarono finalmente in una porta aperta. La stanza che li accolse era piccola, male illuminata e decisamente troppo sobria. Un ambiente che non aveva proprio nulla a che vedere con l’opulenza barocca dell’atrio. Gli unici mobili erano un letto senza cuscini né coperte e una cassettiera tarlata.

-Niente moglie?-

Gli domandò lei con una risatina, mentre chiudeva la porta. André scosse la testa e si sedette sul materasso, guardandosi intorno senza vedere niente. Era terrorizzato come un coniglio nella tana della volpe, non poteva nasconderlo né a quella donna né a se stesso. Le ginocchia tremavano, la fronte era calda e sudata, la gola arida. Doveva andar via, si ripeteva, e mentre aspettava di trovare la forza di alzarsi e disertare, si sfilò con furia la giacca e si allentò il bavero per far entrare più aria nel petto.

Lei intanto non aveva perso di vista neanche un suo battito di ciglia. Lo aveva osservato con gli occhi stretti e la piccola bocca rossa arricciata, poi, tratte le sue conclusioni, era svolazzata verso il mobile con i cassetti e gli aveva chiesto candida:

-Vergine?-

André serrò le mascelle e avvertì un capogiro. Non provò nemmeno a negare.

-Sono brava insegnante.-

Dichiarò lei con voce lieve, estraendo una boccetta d’olio profumato da un cassetto e spalmandosene una goccia sul collo.

-Per aiutarti.-

Spiegò indulgente.

André deglutì a vuoto. Sentiva di apparire ridicolo, seduto con le mani sulle ginocchia come uno scolaretto impacciato, fin troppo consapevole del rossore diffuso sul proprio viso e dell’espressione smarrita dei propri occhi. Non aveva la minima idea di come si sarebbe dovuto comportare, di cosa lei si aspettasse da lui. Sperò solo che la vergogna durasse poco e che la disinvoltura della ragazza in qualche modo lo contagiasse.

Non avvenne. Le sue tempie cominciarono a pulsare allo stesso ritmo frenetico del cuore, quando lei si sfilò il vestito. La sensazione fu quella di precipitare in un infinito burrone.

L’ansia gli aveva gradualmente compromesso tutti e cinque i sensi e lo faceva sentire sul punto di perderli da un momento all’altro. Forse non sarebbe stato del tutto scomodo svenire, pensò quando la ragazza cominciò ad avvicinarsi con quel suo incedere leggerissimo. Guardò la porta e poi lei. Andarsene o restare, di cosa si sarebbe maggiormente pentito?

Non aveva più importanza, perché in un attimo lei era già seduta sulle sue ginocchia. Lasciò che quelle piccole mani esperte si arrampicassero senza timore sui suoi vestiti, spostando stoffa, sfilando bottoni e slacciando stringhe. In breve tempo il sapore salato dei suoi baci riuscì a placarlo, la piacevolezza delle profonde carezze trascinò via la sua mente come una barca sospinta al largo dalla corrente. 

Ad un tratto spalancò gli occhi, che non ricordava nemmeno di avere chiuso, e si ritrovò nudo, disteso di schiena sopra quel letto duro, prigioniero di due cosce soffici e sconosciute. Era decisamente troppo tardi. Si arrese.

 

 

Cerise mantenne la promessa e si rivelò, effettivamente, una brava insegnante. Lo guidò su di sé, dentro di sé, con pazienza e tenerezza.

André oscillò per lunghi minuti tra il pentimento e la soddisfazione e, mentre si lasciava scuotere da quel terremoto di emozioni contrastanti, avvertì distintamente una parte molto profonda di sé che si spezzava. I residui dell’ingenuità dell’infanzia si sgretolarono, si staccarono dal suo corpo come ciottoli da un crinale roccioso e rotolarono via. Se ne rese conto in un guizzo di lucidità. “Ora sono un uomo?” Si chiese. “È questo il rito d’iniziazione all’età adulta?”

Subito dopo aver raggiunto l’estasi, capì con una sfumatura di amarezza, che qualcosa in lui era cambiato, sì, ma soltanto in superficie. Se ne accorse quando, al culmine del piacere, un nome, un nome preciso, gli esplose tra le labbra, restituendogli bruscamente il dolore da cui aveva tentato di sottrarsi.

Crollò sul materasso col volto inondato di lacrime e rimase immobile e in silenzio, finché la ragazza non gli porse i vestiti, dicendogli che sarebbe potuto tornare quando voleva.

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Capitolo 2
*** La ballata ***


[circa dieci anni dopo]

 

 

Un gruppo di quattro uomini con gilet di cuoio e braghe larghe si riversò nella locanda come una mandria di tori agitati. Dai loro schiamazzi si poteva facilmente dedurre che quella taverna fosse l’ultima tappa di una lunga maratona di bevute. Era brutta gente in cerca di divertimenti immorali, glielo si leggeva in faccia.

L’uomo più massiccio del gruppo ordinò da bere per sé e per i compagni a voce alta, un modo poco elegante ma assai efficace per assicurarsi di non passare inosservati. L’oste annuì senza guardare nessuno dei quattro in faccia e gli altri avventori si sforzarono di ignorarli. Mentre il gruppo si addentrava rumorosamente tra i tavoli per trovare posto, lo stesso uomo che aveva chiesto da bere si guardò intorno come un cacciatore in cerca di una preda e infine puntò il dito verso due giovani ben vestiti seduti in disparte accanto ad una colonna.

-Ragazzi, guardate cosa c'è a quel tavolo. Un giovane Adone!-

Sbraitò indicando la testa bionda di Oscar. Lei percepì il peso di uno stormo di sguardi che le si posava sulle spalle. Tenne gli occhi fissi sul bicchiere mezzo vuoto e finse di non aver sentito. L’indifferenza, in situazioni simili, era la scelta più assennata. Si permise soltanto di sollevare un poco lo sguardo verso André, che le sedeva di fronte. Notò che le mani dell’amico si stavano stringendo con forza intorno al boccale. Lo guardò negli occhi e scrollò debolmente la testa. “Non voglio avere rogne, André.”

-Lascia che ti offra una birra fresca, ragazzo!-

In pochi passi, l’uomo raggiunse il loro tavolo e, con la sfacciataggine di chi crede che tutto gli sia dovuto, allungò la mano verso il viso di lei per invitarla a mostrarglielo. 

-Voglio brindare alla tua bellezza!-

Oscar non riuscì ad ignorare l’istinto di reagire. Balzò in piedi -riflessi veloci da felino contro riflessi fiacchi da bue ubriaco- e con un gesto precisissimo, quasi meccanico, gli prese il polso e gli torse il braccio. L’uomo si ritrovò piegato su se stesso, faccia a faccia con il ripiano del tavolo.

-Avete messo le mani sulla persona sbagliata.-

Ringhiò lei feroce.

-Sei vivace, questo mi eccita!-

Grugnì l’altro, per niente intimorito, sputando saliva sul tavolo. Oscar fece pressione sul suo gomito e le giunture delle ossa schioccarono, ma l’uomo non colse la minaccia e continuò a sorridere sprezzante.

-Posso pagarti bene...-

Riuscì a dire prima che André gli svuotasse il boccale di birra in faccia. L’uomo annaspò, si divincolò dalla presa di Oscar e si passò la manica della camicia sul volto, ma non appena ebbe riacquisito la posizione eretta, un paio di mani forti e indignate gli diedero una violenta spinta. La caduta fu inevitabile. Le assi di legno dello sfortunato tavolo dietro di lui non ressero l’urto e i bicchieri che vi stavano sopra schizzarono in alto finendo poi col frantumarsi rumorosamente per terra. Nella locanda calò un silenzio assoluto.

-Se vi prendo, vi fotto come si deve, bastardi!- 

Imprecò l’uomo, trattenuto sul pavimento dalle assi del tavolo. I suoi tre compagni, che avevano assistito alla scena come instupiditi, sembrarono tutt’a un tratto tornare in loro stessi. Il più anziano dei tre, un brutto ceffo calvo e con gli occhi chiarissimi, raccolse il collo di una bottiglia spezzata e la rivolse contro André digrignando i denti come un mastino.

Il silenzio nella locanda prese consistenza, divenne soffocante. Oscar cercò di mantenere la calma. Osservò prima le lame di vetro della bottiglia puntata verso di loro poi il polso di André teso e rigido e il suo pugno serrato. Al momento giusto gli avrebbe afferrato il braccio e via, si sarebbero fiondati fuori da quel tugurio a gambe levate. Ed ecco, dall’altro lato della locanda all’improvviso arrivò l’urlo preoccupato dell’oste. 

-Niente risse! Niente risse!-

Nell’attimo in cui il tizio calvo si distrasse a guardare il locandiere che si avvicinava, Oscar afferrò il polso di André e trascinò l’amico in fuga con sé verso il retrobottega. Sbucarono nella notte fresca con i respiri spezzati, montarono in fretta sui rispettivi cavalli e partirono al galoppo inseguiti da un’eco di insulti.

Cavalcarono per le strade buie col fiato sospeso finché non raggiunsero la piazza del mercato dei fiori, uno slargo vuoto e silenzioso a pochi passi dalla Senna. Allora fecero gradualmente rallentare i cavalli e li arrestarono sotto un lampione. Provarono a guardarsi indietro. Nessuno si era disturbato a seguirli.

La corrente umida che saliva dal fiume rinfrescò i loro volti accaldati.

André inspirò, si riempì bene i polmoni e si voltò verso di lei aspettandosi di trovare il suo sguardo, ma fu deluso. Il volto di Oscar era sollevato, gli occhi buttati nelle profondità del cielo, come quelli di un marinaio in cerca della stella giusta. Non osò interromperla. La osservò come non avrebbe mai potuto fare se lei fosse stata attenta. La calda luce del lampione metteva in evidenza il fantasma di una ruga sotto i suoi occhi, segno di chi dorme poco, legge molto e osserva tutto.

Sì, pensò ispirato, Oscar era un magnifico quadro in perenne evoluzione, così complesso e ricco di dettagli da poterci perdere la vista a volerne osservare tutte le sfumature.

Nella larga piazzola deserta, le raffiche di vento cominciarono a quietarsi fino ad esaurirsi del tutto. Sopraggiunse un silenzio tranquillo, soporifero. André vide le labbra di lei incurvarsi, schiudersi e liberare d’improvviso una sonora risata che sembrò riecheggiare in tutta Parigi. Una risata genuina, forte, di pancia, non come quelle risate composte, educatamente smorzate con una mano davanti alla bocca, che già raramente Oscar si lasciava sfuggire. La guardò rapito e sorrise di riflesso.

-Non mi rendevo conto di aver nostalgia di queste serate, André. Quanti anni sono passati dalla nostra ultima zuffa da osteria?-

Esclamò lei, facendo muovere il cavallo verso la Senna.

-Tanti, Oscar. L’ultima volta avevamo, credo, venticinque anni.-

-Sì, hai ragione. Impossibile dimenticarla.-

André sogghignò e scrollò la testa per sciogliere i ricordi.

-Eh sì, è vero, era il giorno della nascita del Delfino, dico bene? Quante ne abbiamo prese quella sera! E mi sembra di ricordare che avessimo giurato di smettere con queste avventure notturne.-

-Oh, André, che giuramento sciocco. Ti prego, ora giurami che non smetteremo mai! E se capiterà che io me ne dimentichi, portami fuori a bere come questa sera. Promettimelo!-

Si incamminarono a passo lento, con i volti sorridenti e gli sguardi chini sulle redini lasciate morbide. Condussero i cavalli verso il ponte che terminava sulla riva destra della Senna, proprio davanti all’imponente struttura azzurrognola del Palazzo del Louvre, e lo attraversarono gettando gli sguardi tra i flutti fangosi del fiume.

La Senna cantava placida la sua malinconica ninna nanna a Parigi, spezzando le proprie correnti sui massicci pilastri del ponte. Le fiammelle affaticate dei lampioni stavano per concludere la loro silenziosa guardia notturna e verso est il cielo si preparava ad accogliere l’alba.

Oscar e André cavalcavano vicini, fianco a fianco. Si sorridevano sereni, riconoscenti l’uno all’altra, inebriati dal vino e dal sonno. Si chiesero entrambi, al medesimo tempo, intimamente, se la gradevole sensazione di benessere che provavano potesse essere definita felicità.

Ai primi rintocchi mattutini delle campane di Notre Dame, qualche pigra finestra cominciò a spalancarsi sul nuovo giorno. Una vettura con le tende tirate si fermò davanti ad una fontanella e un uomo panciuto, vestito con abiti da provinciale, scese per abbeverarsi, poi risalì e la carrozza continuò il suo viaggio. A quell’ora Parigi era uno spettacolo per privilegiati. Pochi rumori, niente urla, niente fracasso, solo il piacevole suono della vita che si rinnovava, promettendo freschezza e nuove occasioni.

Mentre costeggiavano le mura del Palais Royal, Oscar fece segno ad Andrè di fermarsi. C’era nell’aria un leggero e distante canto, simile all’eco impalpabile di una preghiera in una cattedrale.

-Lo senti anche tu?-

Gli chiese. Sollevò lo sguardo verso la serie di finestre incastonate sulla facciata del palazzo, ma si accorse che la voce non proveniva dall’alto. 

Avanzarono lentamente, stregati da quelle fragili parole sospese nell’aria, finché nel timido chiarore dell'aurora non emerse la figura di una vecchia seduta sul selciato ad un angolo della strada. Aveva tutta l’aria di essere una povera mendicante a cui la miseria aveva tolto anche gli ultimi lumicini di ragione. I suoi occhi erano vitrei e ciechi, fissi in un punto indefinito del cielo.

La vecchia rimase immobile, con la bocca spalancata, simile ad una mostruosa garguglia, poi cominciò a muovere piano le labbra raggrinzite e riprese a cantare.

-Tu, nel mentre che Insidia è affaticata
e che la vedi sonnecchiare stanca, dammi dimora in mezzo alle tue braccia e un dolce bacio mandami. 

Mio Dio, non la svegliare questa Insidia, falsa, che ci reca dolore; ah, che non possa 

mai svegliarsi! Fa’ svelta, parla piano: dammi dimora in mezzo alle tue braccia!- *

Oscar e André le sfilarono davanti in silenzio, mentre la donna ripeteva le due strofe della poesia in una lenta e meccanica cantilena, come un carillon umano a cui qualcuno aveva dato troppa corda. La voce della mendicante continuò a seguirli per un lungo tratto finché non si perse nel rumoroso sbadiglio della città che si destava.

Dall'interno di una bottega di un fornaio venne un vivace tramestio e l'aria intorno alla bottega si impregnò in fretta del profumo fragrante delle prime pagnotte della mattina. Parigi apriva con fatica gli occhi su una nuova giornata. 

Oscar e Andrè tornarono a casa stanchi, ma senza fretta. Quando raggiunsero i cancelli di Palazzo Jarjayes, il sole aveva già iniziato a scalare il cielo e ad intiepidire l’aria.

-Ah, sono proprio pronto ad offrirmi a Morfeo.-

Esclamò Andrè entrando in casa.

-Morfeo dovrà attendere, mio caro!-

Esclamò la vecchia governante, che in quel momento stava scendendo le scale con le braccia strette attorno ad una cesta di biancheria da lavare larga quanto il suo torace. Oscar sorrise divertita e guardò l’amico sollevando le spalle. Con Marron non si discuteva.

-Abbi pietà, nonna.-

-Mi serve il tuo aiuto, non ci vorrà molto.-

Oscar gli posò una mano sul braccio e fece pressione con le dita, un gesto che sapeva di “mi dispiace”, ma anche di “grazie”, poi salutò Marron con un sorriso cortese e si ritirò al piano di sopra.

André rimase a fissare i gradini vuoti della scalinata, finché la nonna non richiamò la sua attenzione spingendogli la cesta di biancheria contro il petto.

-André, dobbiamo parlare.-

Borbottò cupa. Lui, docile, prese tra le mani il paniere e seguì la nonna fino al retro dell’ampia cucina, dove un paio di cameriere stavano preparando un catino d’acqua tiepida, liscivia di cenere e sapone. Marron le ringraziò frettolosamente e le sollecitò a congedarsi. Quando fu certa di essere rimasta da sola col nipote, gli indicò dove posare la cesta e lo invitò a prestarle attenzione con un colpo di tosse.

-André, mi duole ogni sacrosanta volta farti questo discorso, ma devo.-

Cominciò a dire, estraendo i panni dalla cesta e lasciandoli affogare nell’acqua del catino. Il sapone sfregato sulla stoffa emise subito un buon profumo di lavanda e André se ne riempì volentieri i polmoni.

-Devo ricordarti cosa sei?- continuò lei guardandolo da capo a piedi -Queste uscite notturne non si convengono.-

“Convenienza...” André sapeva quanto sua nonna amasse giocare quella carta. Si sedette su una sedia di vimini e incrociò le gambe, senza rispondere. Alla nonna non serviva il suo aiuto, era evidente che fosse stato solo un pretesto per parlargli con la garanzia che le orecchie di Oscar fossero ben lontane.

-André, quello che vedo nei tuoi occhi quando la guardi mi fa paura.-

Lui chinò la testa e si lasciò sfuggire un sospiro. Nonostante non avesse mai confessato a nessuno i segreti del proprio cuore, era tranquillamente consapevole che la nonna li conoscesse da anni, che li avesse visti nascere e crescere e che alla fine li avesse fatti anche un po’ suoi. Continuava, comunque, a godere dell’illusione di essere impenetrabile a chiunque e quando la nonna, come quel mattino, gli ricordava il contrario, sprofondava nel malumore più tetro.

-Anche un’amicizia può essere pericolosa.-

Borbottò Marron immergendo le braccia robuste nell'acqua fino al gomito. André si alzò e andò alla finestra. Il primo sole del mattino inondava di luce il parco e nel verde vivo dell’erba le gocce di rugiada brillavano come piccoli cristalli.

-So stare al mio posto.-

Parlò con voce neutra, ma con i pugni tanto stretti nelle tasche da sentire le unghie affondare nel palmo.

-Ragazzo mio, vorrei soltanto vederti felice.-

-Non voglio che tu ti dia pensiero per me. Io sto bene così.- Disse sorridendo al riflesso indistinto della nonna sul vetro della finestra, consapevole di non sembrare credibile nemmeno di spalle. -Se non hai bisogno del mio aiuto, andrei a riposare.-

Gli arrivò il suono di un sospiro, poi la stanza tornò a riempirsi del fruscio ritmato dei panni inzuppati e strofinati. La nonna si era arresa. “Missa est”.

-Certo, André, perdonami se ti ho trattenuto inutilmente. Prima che tu vada, però, devo proprio farti una domanda.-

Lui era già sulla porta, si voltò appena.

-Oscar ti ha detto che il Conte di Fersen è tornato in Francia?-

 

 

 

 

*Da una chanson di Charles D'Orleans.

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Capitolo 3
*** Devozione ***


Il Conte Hans Axel von Fersen aveva deciso di stabilirsi definitivamente sul suolo francese dopo sette anni trascorsi prima in America e poi in viaggio per l’Europa. Il suo ritorno a Parigi aveva colto la corte alla sprovvista ed Oscar, distante da Versailles per un periodo di meritato congedo, ne era venuta a conoscenza soltanto tramite sua madre. 

La gioia che aveva provato nel ricevere quella notizia era stata violenta come la scarica di un fulmine ma si era esaurita altrettanto velocemente. Perché Fersen non l’aveva informata di suo pugno? Dov’era finita quella confidenza, tanto simile all’amicizia, che avevano condiviso anni prima?

Mai prima di allora Oscar si era trovata nella sgradevole circostanza di sentirsi prigioniera nella propria dimora e di voler fare ritorno a Versailles al più presto. Voleva vederlo, apprendere dei viaggi e degli incontri che aveva vissuto, conoscere la trasformazione del suo animo e del suo cuore. Amava ancora la Regina?

Gli interrogativi erano troppi, la curiosità bruciante e trascorrere le giornate alla finestra, con gli occhi piantati sulle cancellate d’ingresso, sperando che in un qualsiasi momento si spalancassero per far entrare la carrozza di Fersen, le aveva logorato la mente e l’umore.

Aveva cominciato a trascurare gli allenamenti con la spada, a disertare i pasti e a guardarsi allo specchio più spesso e in modo diverso. Il giovanotto efebico con il corpo asciutto che vedeva nello specchio, improvvisamente non le piaceva più. Se davvero la mela d’oro finisce sempre per essere consegnata ad Afrodite -niente di più tristemente vero, lo vedeva tutti i giorni con i propri occhi- Oscar, così credeva, non poteva avere speranze.

Per la prima volta nella sua vita, si era scoperta a desiderare di essere desiderata e desiderabile in un modo che, a pensarci, la faceva arrossire. Solo dopo aver cercato, risoluta, di combattere quell’impulso, che le sembrava tanto contrario ai principi su cui aveva costruito la sua persona, alla fine aveva deciso di cedere.

 

 

 

 

 

Una brezza tiepida e profumata d’erba umida smuoveva dolcemente le lunghe tende che incorniciavano le finestre e riempiva l’ampio spazio della biblioteca facendo fremere le fiammelle delle candele. 

Oscar si accomodò sul divano di velluto verde di fronte alle finestre affacciate sul parco mentre André stappava la bottiglia e versava il vino nei bicchieri.

-André, sei silenzioso.-

Lo provocò Oscar a bassa voce, assaggiando il vino con la punta delle labbra.

-Oggi sono stato a Parigi.- Spiegò lui con un tono sommesso, mentre le si sedeva accanto -Ho visitato la tomba dei miei genitori, poi mi sono attardato in città per svolgere qualche commissione.-

Oscar stirò le labbra e conservò un cortese silenzio.

-L’arsura del primo pomeriggio mi ha spinto a cedere al richiamo di un boccale di birra fresca.- continuò lui -Nella locanda in cui mi sono fermato c’erano degli uomini che lanciavano coltelli su un ritratto della Regina. Sono rimasto in disparte ad ascoltare ciò che dicevano e, parola mia, non ho mai udito una rassegna di insulti tanto volgari. Ne ho persino imparato di nuovi.-

-Imprecavano contro Sua Maestà?-

André si rigirò il calice tra le mani.

-Sì, Oscar. Le hanno attribuito i più svariati e sconci epiteti. Alcuni piuttosto fantasiosi, devo riconoscerlo. Pare che il popolo non veda di buon occhio la permanenza della sovrana al Trianon, lontano dalla Reggia e dai suoi doveri.-

Le nocche della mano con cui Oscar stringeva il bicchiere sbiancarono e André ebbe timore che il cristallo esplodesse da un momento all’altro tra le sue dita.

-Le disgrazie della povera gente non dipendono certamente dalla permanenza della Regina al Trianon.-

Lui annuì e si strinse nelle spalle.

-Siamo d’accordo, Oscar, ma la gente ha bisogno di un capro espiatorio. La miseria dilaga e, dove arriva, infonde insofferenza. La gente è convinta che i soldi delle imposte finiscano nelle tasche dell’aristocrazia e che alimentino gli eccessi della corte.- 

Oscar arrossì visibilmente e non disse nulla. Con un sospiro profondo si avventò sul bicchiere e bevve un lungo sorso di vino senza respirare. André, incuriosito, la osservò assottigliando lo sguardo. Oscar era come la superficie di uno stagno, era evidente quando qualcosa la toccava. Ma per quanto fosse semplice intuire quando la sue mente era turbata, tanto era difficile, d’altra parte, indovinarne le cause. In quel caso, cosa poteva aver causato quelle insolite increspature? Dissapori con suo padre? Voci di lutti o di disgrazie? La notizia del ritorno di Fersen? 

Non riuscì a concludere la propria indagine. A catturare la sua attenzione fu un’impertinente goccia di vino che sfuggì dalle labbra di lei per cadere a macchiarle il colletto della camicia candida. Gli occhi e i pensieri di André si concentrarono su quella piccola chiazza sanguigna che si spandeva tra le fibre della stoffa, e poi scivolarono per effetto della gravità lungo lo scollo e sui lacci morbidi che non congiungevano a dovere i lembi della camicia. Si riscosse subito, paonazzo in viso, e tornò in fretta all’argomento interrotto.

-Non si può negare che Sua Maestà abbia perso molte simpatie da quando si è allontanata dalla Reggia.-

Mormorò con gli occhi nel bicchiere. Oscar gli diede ragione con un cenno della testa e prese a battere un dito su un lato del calice seguendo il ritmo delle proprie riflessioni.

-Quando riprenderò servizio a Versailles, mi spingerò fino al Trianon e oserò chiederle di fare ritorno alla Reggia.-

André sorrise sardonico e inclinò la testa fino ad appoggiarla sul proprio braccio disteso sopra lo schienale del divanetto.

-Temo che non si lascerebbe persuadere nemmeno da te, Oscar. C’è solo una persona che ha su di lei un’ascendente più grande del tuo. E non mi riferisco alla Polognaç.-

Oscar sbatté le palpebre più volte poi abbassò gli occhi.

-Fersen.-

Disse e, mentre si sfiorava distrattamente le labbra con un dito, si accorse che il proprio viso era bollente, le guance scottavano. Guardò allarmata André, che sorseggiava il vino ad occhi chiusi, ignorando o fingendo di ignorare il calore febbrile che lei sentiva di emanare.

Un‘improvvisa mancanza d’aria la spinse ad abbandonare in fretta il divano e a raggiungere la finestra. Mentre guardava la luminosa falce di luna sospesa nel cielo, prese atto di non poter più nascondere ad André i sintomi di quella passione dolorosa che la consumava ormai da giorni, né di volerlo fare. Optò per una mezza confessione.

-André, già lo sai, tu sei il mio più caro amico, siamo cresciuti insieme e abbiamo condiviso momenti importanti della vita. Mi hai sempre ascoltato e dato buoni consigli.-

André allontanò il bicchiere dalle labbra e deglutì a vuoto. Era raro che Oscar assumesse quel tono di voce, languido e mite.

-Io vorrei capire cos’è l’amore, cosa comporta, come lo si riconosce. E credo che tu mi possa aiutare.-

Si voltò verso di lui solo dopo aver terminato la frase e scoprì che André la guardava senza fiato, con due linee nette sulla fronte, tra le sopracciglia.

-Sono stata troppo brusca, André? Perdonami, so che è un tema delicato, io stessa sto facendo fatica ad affrontarlo. Sono certa che tu abbia conosciuto l’amore, anche se non me l’hai mai confessato, forse per paura che parlarne con me potesse essere sconveniente.-

André si sistemò sul divano, raddrizzando la schiena come se per rispondere fosse stato opportuno assumere una posizione composta. Si schiarì la gola e si preparò ad adottare un atteggiamento sincero e allo stesso tempo distaccato. “Mi chiedi uno sforzo notevole, Oscar.”

-Come faccio a spiegarti l’amore, Oscar? Non sono sicuro di riuscire a trovare le parole giuste, anzi, preferirei non provarci nemmeno. D’altra parte, ognuno descriverebbe l’amore a modo proprio, perciò ti risponderò, ma sarò inevitabilmente approssimativo. Per me l’amore è ciò che infonde il coraggio di sacrificare se stessi per il bene altrui.-

-Come una forma di devozione?-

-Per quanto mi riguarda, Oscar, sì.-

Lei annuì e fece indietreggiare le braccia fino ad appoggiare i gomiti sul davanzale. Rimase in silenzio a lungo, con gli occhi fissi nel vuoto e il respiro lento e leggero.

-Grazie, André, sento di avere le idee più chiare. Ora ti toglierò dall’imbarazzo di questo discorso chiedendoti un favore.- disse infine -Domani mattina dovresti procurarmi l’elenco di tutti i balli che si svolgeranno a corte nei prossimi giorni. È importante.-

 

 

 

 

 

Dopo aver ricevuto da Andrè la lista dei ricevimenti che si sarebbero tenuti a Versailles e dopo averne accuratamente scelto uno in cui fossero garantite la presenza di Fersen e l’assenza della Regina, una mattina a colazione, senza preamboli né giri di parole, Oscar chiese a Marron di fornirle entro tre giorni un abito femminile da ballo e lo fece col tono pacato di chi commenta svogliatamente il tempo atmosferico.

Nonostante in un primo momento Marron fosse stata assalita dal dubbio che non si trattasse d’altro che di uno scherzo, si impegnò con la sua solita solerzia a soddisfare la richiesta di Oscar e riuscì a procurarle il vestito in anticipo di un giorno, un bell’abito bianco, ricco di finissimi ricami, appartenuto in passato alla prima delle sorelle Jarjayes -la più simile ad Oscar per fisicità- e ritoccato qua e là per aggiustarne le proporzioni. “Indosserò una tovaglia” aveva scherzato Oscar non appena l’aveva visto, ma con un sorriso compiaciuto sul volto.

 

 

 

 

Quando giunse, infine, il giorno del ballo, Marron si mostrò molto più agitata e trepidante di quanto non fosse Oscar. Stabilì severa che la toeletta sarebbe cominciata nel primo pomeriggio con un bagno caldo e che sarebbe continuata fino a sera davanti allo specchio. E non fu ammesso neanche un fiato di replica.

-Bisogna sistemare questo groviglio.-

Annunciò solenne brandendo la spazzola. Lisciò e pettinò con energia le arruffate ciocche lucenti di Oscar, soffermandosi a lungo sui nodi, numerosi e tenaci, tirando e strattonando i capelli come se non considerasse il fatto che ci fosse una testa attaccata ad essi.

-È un supplizio.-

Si lamentò Oscar a bassa voce, stringendo gli occhi ad ogni violenta spazzolata.

-Il corsetto ti piacerà ancor meno, Oscar.-

Replicò aspra la governante, trionfando sull’ennesimo garbuglio di capelli. 

Il corsetto, per l’appunto, ad Oscar non piacque affatto. Rimpianse amaramente la leggerezza della camicia e la comodità dell’uniforme, mentre Marron la imprigionava in quella gabbia di stecche dure, tirando i lacci con la stessa energia con cui le aveva pettinato i capelli.

-Finalmente avrai l’aspetto della contessina che sei.-

Cinguettò la governante, invitandola ad alzare le braccia per indossare la crinolina. Oscar arricciò il naso e sbuffò infastidita. Il titolo di “contessina” le stava più stretto del bustino.

La vestizione richiese molto tempo e Marron non si risparmiò di far notare quanto fosse stato saggio cominciare la toeletta con largo anticipo. Il cielo si era ormai fatto buio oltre le vetrate delle finestre, quando finalmente la governante, dopo aver aggiustato un fiocco e vaporizzato un ultimo sbuffo di profumo sul collo di Oscar, esclamò eccitata:

-Sei un incanto, cara!-

E tutta tremante di emozione, la prese per mano e la condusse davanti allo specchio. Oscar scambiò un lungo sguardo con il proprio riflesso. Non riusciva a credere ai propri occhi. La sconosciuta che si affacciava dall’altro lato del vetro non assomigliava affatto ad un ridicolo spaventapasseri agghindato, come lei aveva previsto. Era, invece, una donna elegante e sensuale, di cui Oscar stessa si invaghì. 

-Persino le statue di Versailles si volteranno per ammirarti, Oscar.-

La voce di André fu poco più di un sussurro, ma riempì la stanza. Oscar lo vide nello specchio dietro di sé, fermo sulla soglia della porta, con una spalla appoggiata sullo stipite e una mano in tasca, e, senza voltarsi verso di lui, provò nervosamente a cercare una traccia di derisione sul suo viso. Non trovarla fu un sollievo tale che il nodo alla sua gola si sciolse.

-Mi sentirei più a mio agio se al posto di un ventaglio avessi in mano una spada.-

Gli disse. Lui si addentrò in silenzio nella stanza, attratto da quella bianca schiena scoperta che richiamava continuamente il suo sguardo. Quando fu vicino ad Oscar, però, si accorse di provare uno strano miscuglio di emozioni, quasi lo stesso sentimento che gli era capitato di nutrire nei confronti degli elaboratissimi dolci che venivano presentati in pompa magna sulla tavola del re, ricoperti da ninnoli di zucchero, mosaici di canditi e colate di glassa che seducevano la vista ma annoiavano la gola, annullando il sapore del dessert vero e proprio. Ne era attratto e al contempo nauseato.

-Il ventaglio non sarà una spada, ma non dubito che nelle tue mani possa essere un’arma ugualmente letale.-

Scherzò, sperando che lei non percepisse il suo vero umore, e si sentì sollevato quando intravide l’ombra di un sorriso sulle sue labbra.

-Per l’amor del cielo, si farà tardi!- esclamò Marron, ricordando a tutti la propria presenza -André, caro, accompagna la Signorina alla carrozza.-

Ci fu un lungo, soffocante attimo di silenzio. Oscar trattenne il fiato, André si sentì prudere le mani, ma nessuno dei due osò emettere un suono. Mai prima di allora avevano avuto tanta consapevolezza dell’abisso tra i propri ruoli. Lui le offrì il braccio e lei lo accettò come se fosse il gesto più naturale del mondo, come se avessero sempre fatto così.

 

 

 

 

 

 

La carrozza di Oscar non aveva ancora lasciato il cortile di Palazzo Jarjayes, quando André salì in sella al proprio cavallo con l’intenzione e l’urgenza di raggiungere al più presto Parigi. Galoppò a briglie sciolte nella notte fresca e profumata, senza fermarsi nè rallentare, finché non si trovò davanti all’ingresso del bordello. Appena prima di entrare, esitò a chiedersi se Oscar avesse già raggiunto Versailles, poi le voci e le risate delle prostitute affacciate alle finestre si presero tutta la sua attenzione e il puzzo di perversione gli riempì il petto e i pensieri. Entrò nella casa di piacere col passo pesante e, lontanissimo dall’essere il ragazzo impacciato di dieci anni prima, chiese di Cerise, la ragazza della prima volta -e delle volte successive. La timidezza e l’imbarazzo che aveva provato in passato erano ormai un ricordo sbiadito.

-Il mio bel André.-

Miagolò lei quando lo vide entrare nella stanza.

-Ho bisogno di te, Cerise.-

Con un gesto della mano Cerise lo invitò a sedersi sul letto mentre lei chiudeva la porta, poi lo raggiunse, lenta e sinuosa, padrona di ogni singolo movimento del proprio corpo e perfettamente consapevole dell’effetto che scatenava.

-Oh, io capisco perché soffri.-

Mormorò accucciandosi sopra le sue gambe.

-La donna di tuo cuore vuole un altro uomo.-

Gli prese il volto tra le mani e gli posò un bacio appena sopra l’angolo della bocca. 

-È molto sciocca.-

Aggiunse con voce leggera, premendo le labbra carnose sulle sue.

Gli diede un bacio lungo, di una lentezza struggente. Succhiò via a minuscoli sorsi tutta la sua amarezza e gli riempì la bocca di dolci promesse.

Il dolore di André si mitigò, divenne semplice malinconia e infine si sciolse in puro desiderio fisico, prepotente e doloroso. Cerise se ne accorse. Gli guidò le mani sulla propria veste, morbida e senza l’ingombro di lacci da sciogliere, e se la lasciò sfilare dalla testa. 

Non c’era alcuna incertezza nei suoi gesti e nemmeno volgarità, eppure lui ancora non riusciva a non vacillare di fronte a quel corpo nudo che gli si offriva generoso e senza vergogna.

Le sfiorò la schiena liscia e si chinò sul suo collo per assaggiare la sua pelle scura, profumata di essenze orientali. Che sapore aveva, si chiese, la pelle candida di Oscar? Quale bocca avrebbe mai avuto il privilegio di scoprirlo? Non la sua, ne era certo.

Si distesero sul letto spingendosi a vicenda con carezze sempre più profonde. Lei scivolò sotto di lui, lo aiutò a liberarsi dei vestiti e schiuse le cosce sorridendo a labbra strette. C’era dell’amaro nella dolcezza di Cerise, una punta lievissima, come in un candito d’arancia. André si trattenne a scrutare nel baratro profondo di quei limpidi occhi neri che brillavano nel chiarore delle candele e vi trovò panorami notturni di luoghi lontani e sconosciuti. A quale Paese apparteneva? Dov’era cresciuta? Cosa l’aveva portata a vendersi per denaro?

-Cerise, mi aiuterai a dimenticarla per almeno un’ora?-

Le domandò. Lei scosse la testa e allargò il sorriso.

-Se vuoi dimenticare devi bere, ma tu non vuoi dimenticare. Chiudi gli occhi, mio bel André, e immagina che Cerise è lei* e Cerise lo sarà.-

 

 

 

 

*mancanza di congiuntivo voluta! Gli “errori” nelle battute di Cerise evidenziano il fatto che lei non sia francese.

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Capitolo 4
*** Fedeltà ***


Camminò nel buio dei giardini seguendo il richiamo dell’acqua che zampillava in una fontana. Aveva bisogno di sciacquare il viso dal sale delle lacrime e di guardarsi negli occhi, riappropriarsi di sé. Trovò la fontana dietro ad un muro di siepe, ma un passo falso le impedì di raggiungerla. Un lembo dello strascico finì sotto la suola di una delle sue antipatiche scarpette e, quasi senza rendersene conto, Oscar si ritrovò in ginocchio sulla ghiaia. La bottiglia di vino che aveva in mano, rubata e ormai vuota, le sfuggì dalle dita e si infranse contro il bordo della fontana con uno schiocco acuto. 

Incurante dei danni irreparabili che avrebbe causato alla delicata stoffa dell’abito, Oscar si trascinò fino al bordo della vasca e si protese sullo specchio d’acqua per rivedere il proprio viso.

Inebriata com’era dalla delusione e dal vino, quasi non riconobbe se stessa nel riflesso tremolante della fontana. Di fronte a lei c’era un volto a pezzi come i resti della bottiglia sparsi ai suoi piedi.

-Che cosa volevo dimostrare?-

 

 

Aveva sperato di riuscire a confondersi tra le altre dame come una rosa in un bouquet, invece, quando era arrivata al ricevimento, gli occhi dell’intero salone l’avevano lapidata con sguardi stupefatti.

Era rimasta immobile sulla porta d’ingresso, convinta di apparire ridicola e grottesca, e il suo piede si era istintivamente mosso all’indietro, pronto alla fuga. 

Poi di colpo aveva visto lui, quasi nascosto in mezzo alla folla, ma sfolgorante di raffinata bellezza. Tutti gli altri erano diventati presenze superflue, fantasmi.

Senza smettere di stringere il ventaglio tra le mani per provare a fermare il tremore delle dita, si era addentrata nel salone accompagnata da un silenzio irreale.

Un piede avanti all’altro. Passi brevi, movimenti aggraziati. Quel breve tratto di sala le era sembrato un supplizio interminabile. E quando infine si era trovata ad un passo da lui, non era nemmeno riuscita a guardarlo negli occhi. Gli aveva teso semplicemente la mano e si era abbandonata tra le sue braccia per il tempo di un minuetto, senza mai alzare lo sguardo.

-Il mio cuore si commuove nel vedere ciò che siete diventata, Oscar.-

Le aveva sussurrato Fersen, accostando le labbra al suo orecchio mentre le stringeva un braccio intorno alla vita. 

Era stato come ricevere un pugno nello stomaco.

 

 

 

Intinse un fazzoletto nell’acqua della fontana e se lo strofinò con rabbia sul viso. L’acqua fresca attenuò l’avvisaglia di emicrania che si era presentata sulle sue tempie e lavò via i residui di cipria e di belletto che le avevano appesantito la pelle. Con uno sbuffo immerse le mani nell’intreccio contorto dell’acconciatura per sciogliere i capelli e quando finalmente sentì le ciocce ricadere morbide e libere sulle sue spalle nude, cercò di nuovo con lo sguardo il proprio riflesso sull’acqua. Questa volta si riconobbe, ma non si piacque per niente.

 

 

 

-Venite, voglio parlare con voi al riparo da questi sguardi cattivi ed indiscreti.-

Le aveva detto lui con un sorriso accattivante e, senza aspettare una risposta, aveva impugnato il suo polso sottile per condurla con sé fuori dalla sala. 

Avevano attraversato quasi di corsa gli ampi corridoi di Versailles, schivando qualche servo assonnato e qualche guardia incurante, per raggiungere i giardini, dove avevano trovato rifugio nella discrezione delle siepi profumate del labirinto.

-Sette anni sono passati, vi sembra possibile, Madamigella?-

Lei l’aveva guardato finalmente in viso ed era rimasta in silenzio ad assaporare la sua presenza. Nel limpido chiarore della luna il suo volto le era sembrato più duro e consumato, ma ricco di un fascino nuovo, più maturo.

-Non sapevo, non immaginavo, che aveste scelto di rinunciare all’uniforme.-

 

 

 

L’alba non era lontana, pensò guardando il cielo grigiastro. Si staccò dal bordo della fontana e con uno sforzo si alzò in piedi per dirigersi verso i cancelli della Reggia, dove avrebbe trovato ad attenderla la sua carrozza. Si tolse le scarpe e camminò scalza. Sentire i ciottoli ruvidi sotto i piedi paradossalmente le diede sollievo.

 

 

 

-Solo per questa sera, Fersen, solo per voi.-

Era stato arduo non far tremare la voce e tenere lo sguardo allacciato a quello di lui. Il profumo del Conte la confondeva, era impregnato di aromi intriganti e sconosciuti. Aveva l'odore dell'America, forse, della guerra e dell'oceano.

-Devo confessarvi che io vi ho pensato molto in questi anni, talvolta con malinconia, talvolta con angoscia. Ma questa dolorosa nostalgia mi ha condotta a riconoscere finalmente il forte sentimento che nutro per voi.-

 

 

 

Prima di salire sulla carrozza, si voltò indietro e osservò le poche finestre illuminate che punteggiavano la facciata scura della Reggia. Si chiese se una di quelle luci fosse il riverbero delle candele della stanza di Fersen. Scrollò la testa e prese posto sul cocchio.

Versailles era stato il teatro della sua giovinezza, ma lei era stanca di recitare in quella commedia. Era tempo di uscire di scena e di dare una direzione alla propria vita nel mondo reale.

 

 

 

Da un momento all’altro, si era ritrovata con le labbra impegnate in un bacio. Un bacio! Il suo cuore era stato tramortito dallo stupore ma la sua bocca si era subito felicemente arresa. Baciare era come ballare, aveva scoperto. C’era ritmo, armonia, intesa, solo che a muoversi erano parti diverse del corpo e non serviva la musica.

In quel momento lui era stato tutto suo, ma l’illusione della conquista era durata davvero poco. Il Conte era diventato sempre più esigente, le sue mani si erano fatte audaci, la sua bocca avida. Qualcosa nella prepotenza del suo desiderio le aveva risvegliato il buon senso e la prudenza.

-Vi prego, abbiate pazienza.- gli aveva detto allontanandolo -Ho necessità di domandarvi un pegno della vostra buona fede: solo poche parole.-

Aveva premuto la lingua sul palato per stringere nella bocca il gusto di quel bacio interrotto e aveva fatto appello a tutto il sangue freddo che aveva in corpo.

-Siete disposto a mettere da parte i vostri sentimenti per Maria Antonietta?-

Il lampo che era passato negli occhi di Fersen aveva parlato per lui. “No.”

Oscar aveva avvertito un fremito alle ginocchia e un dolore profondo, come una stilettata nello stomaco. Ma aveva rimandato le lacrime e aveva provato ad improvvisare un atteggiamento stoico, pur essendo consapevole di apparire poco credibile, forse addirittura ridicola, con gli occhi lucidi, le labbra gonfie e le guance arrossate.

-Molto bene, Fersen, capisco.-

La mano del Conte si era posata sulla sua guancia con un tenerezza quasi paterna, sgretolando, al medesimo tempo, il suo cuore e il suo orgoglio. 

-Perdonatemi, Oscar. Voglio essere franco con voi ed evitare di farvi promesse vacue, a nome del legame d’amicizia che ci univa in passato. Nel mio letto c'è spazio per voi, come per altre donne. Ma non nel mio cuore. Posso offrirvi un po’ di piacere e divertimento, nulla di più.-

Gli occhi di lei avevano cominciato a bruciare come se d’improvviso non avessero più potuto sopportare il vento fresco della notte.

-C’è... un favore che devo chiedervi.- aveva sentito dire dalla propria voce -Dovreste parlare con Sua Maestà al più presto e convincerla a tornare a risiedere Corte. È di fondamentale importanza per la sua reputazione e per l’immagine pubblica della Corona. A voi darà ascolto.-

Fersen aveva annuito e si era chinato su di lei per stampare un casto bacio sulla sua fronte, il colpo di grazia. Poi le aveva dato le spalle ed era tornato al ballo, lasciandola da sola in mezzo alle siepi.

 

 

 

-Ingenua.-

Si accusò, aprendosi il corsetto con uno strappo. I bottoni schizzarono sullo sportello della carrozza e la stoffa fragile dell’abito si lacerò, permettendole però di riempire i polmoni con una benefica dose d’aria. 

Una sottilissima pioggia aveva appena iniziato a cadere da un cielo grigio perla adagiandosi in piccole sfere sulla superficie del vetro. La livida luce che penetrava le nuvole suggeriva che il sole si apprestava a sorgere.

Oscar cercò il proprio riflesso nel vetro del finestrino e vide il fantasma di ciò che aveva provato ad essere, prima un uomo e poi una donna, e capì di aver fallito in entrambi i casi. Allungò la vista per togliersi dagli occhi la propria immagine e scorse in lontananza la sagoma di Palazzo Jarjayes. Si sentì sollevata. Voleva soltanto raggiungere il proprio letto e annegare tutto nell’oblio del sonno per qualche ora.

Marron la attendeva sulla soglia dell’ingresso con le mani incrociate in grembo e con il suo solito sorriso composto e benevolo, ma non appena la vide scendere dalla carrozza non riuscì a trattenere un’esclamazione di stupore.

-Oscar, cosa ti è successo? Perché l’abito è in queste condizioni?-

Oscar le sfilò davanti a passo di marcia.

-Non ha importanza. Gettalo nel fuoco o ricavane degli stracci.-

Marron balzò all’indietro come se mani invisibili l’avessero spinta e si sciolse in un pianto silenzioso coprendosi il volto con il grembiule. Oscar si fermò e le rivolse uno sguardo severo.

-Sono spiacente di aver rovinato il vestito, ma non posso proprio più vederlo, né tantomeno indossarlo. Ecco, io...-

Troncò la frase e si guardò intorno col fiato sospeso, in cerca dell’unica persona che voleva davvero vedere. Il vuoto lasciato dall’assenza di André era palpabile.

-Dov’è tuo nipote?-

Marron sollevò le spalle e con la voce rotta rispose che era uscito a cavallo la sera prima e che non aveva ancora fatto ritorno. 

Oscar non ne fu sorpresa, ma provò un vago senso di tradimento che si obbligò subito a reprimere. Con un sospiro si aggrappò alla balaustra della scala e sollevò gli occhi sui gradini. Detestò l’idea di dover affrontare quella scalinata con l’intralcio della gonna e con quelle scarpette strette e scomode. Ripensò con amarezza a quando li aveva scesi al braccio di André, piena di radiose aspettative. Scosse la testa per disperdere quei pensieri.

-Mandalo da me non appena fa ritorno.-

 

 

 

 

 

 

Tornare a casa fu un calvario. La testa gli faceva male come se il cavallo l’avesse più volte calpestata e le gambe faticavano a reggere il peso del corpo. Si fermò e si piegò su se stesso per vomitare in un angolo. Doveva essere la terza volta, fece notare a se stesso.

-Ho proprio esagerato.-

Biascicò passandosi un fazzoletto sulla bocca. Per un momento pensò di ripiegare nuovamente verso il bordello o verso la taverna, ma tastandosi le tasche della giacca scoprì di non avere più un soldo. Non gli restava altro da fare che tornare a casa e sperare che nessuno lo vedesse in quello stato.

Si aggrappò alle briglie del cavallo per reggersi e continuò a camminare. 

Non aveva percorso molta strada quando d’improvviso il silenzio che lo circondava fu spezzato da una serie di strani rumori. Urla, vetri rotti, zoccoli di un cavallo al galoppo e un brusio nervoso.

André constatò di essere troppo ubriaco per potersene preoccupare. Preferiva concentrarsi sul non cadere in mezzo al fango della strada. E poi di notte a Parigi era sempre meglio stare alla larga da tutto ciò che puzzasse di guai. Anche con tutte le buone intenzioni del mondo, ci si poteva ritrovare immischiati in brutte faccende.

Mentre con un sospiro tornava ad autocommiserarsi, da una strada laterale si palesò tutt’a un tratto il viso barbuto di un uomo che, non appena vide André, spalancò gli occhi e congiunse le mani come se avesse visto un santo.

-Fuggi, ragazzo! E che Dio ti benedica!-

André non fece nemmeno lo sforzo di provare a capire. Rivolse a quell’uomo un breve sguardo senza espressione e si allontanò senza dire nulla, ben deciso a non interrompere il proprio pellegrinaggio verso casa.

Parigi era proprio un covo di matti, pensò.

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Capitolo 5
*** Il ladro eroe ***


Il cielo era un campo di nuvole grigie e gonfie. La pioggia cadeva ad intermittenza e alcune gocce si rincorrevano sui vetri delle finestre, frammentando l'immagine del parco del Palazzo. Verso est una luce soffusa indicava che il sole era sorto.

-Buongiorno, André.-

Oscar era seduta sullo sgabello del pianoforte, ma dava le spalle alla tastiera. 

La tenue luce che si insinuava tra i lembi delle tende tirate a metà era pallida e ferma e dava all’atmosfera un’opacità polverosa. Ogni cosa nella stanza sembrava priva di profondità, come in un mediocre dipinto di un mediocre pittore, anche se qualche ombra stinta cercava a malapena di suggerire un po’ di volume. Oscar era un soggetto perfettamente coerente con il contesto in cui era immersa. Se ne stava seduta immobile sullo sgabello, dritta come un fuso e vivace come può esserlo una statua esposta alle intemperie. André pensò distrattamente che fosse bellissima, molto più bella che in quell’abito tutto scollo e merletti.

Lei gli rivolse uno sguardo spento, mentre la sua mano sfiorava i tasti in una carezza leggera e distratta.

-Buongiorno, Oscar. Mia nonna mi ha detto che volevi vedermi.-

André cercò di mostrarsi gentile, disinvolto e soprattutto lucido, nonostante fosse perfettamente consapevole del proprio pessimo aspetto. Gli strascichi della sbornia che si era procurato con ostinazione gli rendevano il corpo fiacco e la mente torbida. In quello stato, gli fu veramente difficile tenere sotto controllo l’ansia che gli torturava il cuore e simulare un atteggiamento distaccato. Di solito era bravo a disciplinarsi, si disse. “Fossi sobrio...” 

La guardò con attenzione, ma gli occhi di lei tacevano. “Trionfo o sconfitta, Oscar?”

Lei si alzò dallo sgabello del pianoforte e avanzò fermandosi ad un passo da lui, troppo lontana per essere sfiorata, ma abbastanza vicina da non potergli nascondere nemmeno un piccolo fremito delle ciglia.

-Hai una pessima cera. Dove hai passato notte?-

Inquisì.

-Sono stato a Parigi.-

Oscar gettò lo sguardo di lato e socchiuse gli occhi.

-Sarebbe stato meglio venire con te.- Prese fiato e soggiunse: -Devo dimenticare Fersen.-

Il sollievo di André fu così forte e profondo che il cuore gli fece male.

-Cos'è successo?-

Domandò, tentando di dominare la voce. Lei esitò, senza riuscire a guardarlo negli occhi. Schiuse le labbra e poi le serrò, per un paio di volte, incerta se raccontare ogni cosa o se tenersi tutto dentro.

-Preferisco non parlarne.-

Decise infine.

-Come vuoi, Oscar. Sappi che mi dispiace.-

Ed era sincero, almeno in parte, ma decise che non le avrebbe offerto amichevoli e disinteressate parole di conforto o chicche di saggezza prese in prestito da qualche romanzo. Non aveva né la voglia né la lucidità di fingere un dispiacere che di fatto non provava. Di sicuro non avrebbe nemmeno esultato, perché la delusione e la sofferenza di Oscar per lui non sarebbero mai potute essere una vittoria. Provava troppe emozioni contrastanti per riuscire a sceglierne una da esternare. Si concesse soltanto di godersi il dolce senso di liberazione dalla morsa della gelosia.

Dopo un breve sospiro, Oscar gli diede le spalle e tornò a sedersi al pianoforte.

-Sento di avere le idee chiare.-

Mormorò, premendo con rabbia le mani aperte sui tasti. 

-Io so cosa sono, ma so anche cosa voglio essere.-

André si massaggiò la fronte per provare a tamponare l’emicrania e conservò un cortese silenzio.

-Mi piacerebbe che tornassero i tempi in cui credevo di essere un maschio e in cui tu mi trattavi come un tuo amico, André. So che non sarò mai un uomo fuori, ma voglio esserlo dentro, voglio sentirmi uomo.-

Ad André non sfuggì affatto il lieve tremore nella sua voce. Osservò la linea rigida delle sue spalle e le sue belle dita affusolate che continuavano a spingere sui tasti del pianoforte ormai muti.

-Se spiove, potremmo andare a fare una cavalcata più tardi.-

Mormorò gentile. Oscar annuì senza voltarsi e cominciò a suonare, furiosa, veloce. Scelse di getto un Bach, poi cambiò su un D’Agincourt, che trasformò all’improvviso in un Rameau. Non si accorse quando André lasciò la stanza e non si accorse nemmeno di aver bagnato i tasti con un paio di lacrime. Si fermò di colpo -il respiro corto, le dita doloranti- gettò la testa indieto e si coprì gli occhi con le mani.

Doveva ritrovare in se stessa l'uomo che aveva creduto di essere vent’anni prima. Rivoleva quell’illusione, a costo di sembrare folle, più folle di suo padre.

Si voltò per cercare il volto dell’amico che poco prima era alle sue spalle, ma trovò solo uno spazio vuoto. “Da quanto tempo sono sola?”

Sospirò. Le mancavano i momenti di spensieratezza dell’infanzia, quando il cuore non avanzava pretese, quando tutto ciò che contava era di diventare l’orgoglio della casata e soprattutto quando tra lei e André non esistevano né differenze né segreti. 

“E, invece, ora André ha una donna.”

Non aveva dubbi. Il profumo che aveva sentito sui suoi vestiti era senza dubbio un’essenza femminile.

“Dunque avevo intuito bene” si disse, ripensando alla conversazione che avevano avuto solo qualche sera prima davanti ad un bicchiere di vino, “André è innamorato.”

-È un uomo adulto, ha la libertà di fare ciò che vuole della propria vita.-

Lo disse ad alta voce, ma non riuscì a rassegnarsi. Il pensiero che forse, di lì a poco, avrebbe dovuto fare a meno anche di lui fece contorcere il suo cuore già dolorante. 

D’altra parte, non poteva negare che André non avesse più niente del ragazzino con la brama di rincorrere i brividi dell’avventura. Era un uomo maturo e gli uomini maturi -Oscar lo sapeva- desideravano avere una moglie nel letto e qualche bambino intorno alle gambe. Di sicuro non meritava di condividere con lei la vita amara che si sarebbe scelta.

“Devo imparare a vivere da sola.”

 

 

 

 

 

-Generale Bouillet, avete richiesto la mia presenza. Ai vostri ordini.-

Oscar, sull’attenti, osservò l’imponente Generale accomodato sulla sua imponente sedia intarsiata e attese di ricevere l’urgente comunicazione per cui era stata mandata chiamare.

-Colonnello Jarjayes, devo mettervi al corrente di una questione che mi sta provocando non pochi fastidi. Nelle ultime settimane, Parigi è stata teatro di alcune gravi rapine ai danni della nobiltà cittadina. L'ultimo furto si è verificato ieri notte. Le testimonianze ci fanno pensare che il ladro agisca sempre da solo e che indossi una maschera e un abito nero. È molto abile a farla franca e ad irritare i miei nervi.-

Oscar increspò impercettibilmente le sopracciglia.

-Signore, con tutto il rispetto, non è compito dei miei uomini occuparsi di queste faccende.-

Il Generale si sollevò dalla sedia e si appoggiò al proprio bastone.

-Sto chiedendo a voi personalmente di indagare, non come Colonnello della Guardia Reale, ma come mio fidato collaboratore. Non vorrei sollevare un inutile polverone. Un dispiego importante di forze darebbe alla questione più visibilità del dovuto, capite?-

Oscar esitò un momento, poi annuì.

-Come avrete già intuito dalla mia premessa, quest’uomo non è un normale ladruncolo. Oltre ad essere maledettamente sfuggente, è riuscito a conquistarsi la stima del popolo. La gente lo ritiene un eroe.-

-Capisco, in questo caso comprendo la vostra ansia di risolvere la faccenda in fretta e con discrezione.- rispose lei -Comincierò immediatamente a raccogliere informazioni. Intanto mi permetto di approfittare di questo incontro, per manifestarvi il mio desiderio di abbandonare il comando della Guardia Reale.-

Sul volto impassibile del Generale si tratteggiarono spesse rughe di sorpresa. Congiunse le mani sul pomo del bastone e scrutò con sospetto gli occhi di Oscar.

-Per quale motivo?-

-Per una ragione strettamente personale, Signore. Non chiedo una promozione, chiedo solo l’assegnazione di un incarico diverso, lontano da Versailles.-

-Dovrò presentare la questione a Sua Maestà, la Regina, prima di accogliere la vostra richiesta. Farò il possibile per accontentarvi.-

-Vi ringrazio, Signore.-

Il Generale scrollò i grossi baffi spioventi sul labbro superiore e batté un colpo di bastone sul pavimento.

-Molto bene, se è tutto, potete andare, Colonnello Jarjayes.-

Oscar si congedò con un inchino e scivolò fuori dalla stanza salutando con un cenno garbato il paggio dall’aria annoiata che le aprì la porta.

Quando fu da sola nel corridoio, liberò un sospiro profondo. Quell’ultima missione che Bouillet le aveva affidato sarebbe stata un degno epilogo dei suoi lunghi anni di fedele servizio nella Guardia reale. E anche un ottimo modo per tenere il cuore e la mente impegnati. 

Mentre si sfilava i guanti riflettendo sul da farsi, ebbe la sensazione di essere osservata. Sollevò lo sguardo e si ritrovò addosso quello di Fersen, che era a pochi passi da lei, appoggiato con la spalla ad una parete. I ricordi della sera precedente le invasero la mente, come uno sciame di api agitate.

-Così vi riconosco.-

Le disse lui con un filo di voce e un mezzo sorriso. Oscar strinse i guanti nel pugno e gli si avvicinò senza abbassare lo sguardo.

-Voi qui, Fersen?-

Chiese aggrappandosi con una mano all’orlo della propria uniforme.

-Sono stato nominato Colonnello, credevo che ne foste al corrente. Presidio gli appartamenti del Generale Bouillet.-

Oscar annuì e ripose i guanti nelle tasche.

-Avete già conferito con la Regina?-

-Sì, questa stessa mattina. Sua Maestà tornerà a risiedere a Versailles a breve.-

-Bene. È un sollievo, per me, saperlo.-

Un sorriso sicuro e vagamente sfrontato piegò le labbra rosse del conte, che tese una mano e prese quella di Oscar, per sollevarla all’altezza del proprio petto. Lei non si oppose, ma si irrigidì.

-Nessuno al ballo vi ha riconosciuta.- le disse abbassando la voce di un tono -La vostra bellezza ha abbacinato tutti. E ammetto di essermi lasciato abbagliare anche io... se soltanto non mi fossi accorto di un dettaglio!-

Le aprì con gentilezza la mano e le accarezzò il palmo seguendo con la punta dell’indice la mappa di linee disegnate su di esso, alla maniera di un chiromante in cerca di qualche presagio.

-Abbiamo gli stessi calli sulle mani, marchi indelebili per chi maneggia la spada.-

Spiegò infine. Lo sguardo di Oscar crollò sulle proprie mani e le fissò in silenzio.

-Ah, Madamigella, consideratela una fortuna. Siete cambiata molto in questi anni e forse un paio di guanti sarebbero stati sufficienti ad impedirmi di riconoscervi.-

Oscar ritirò bruscamente la mano e si accigliò.

-Volete gettare sale sulla ferita, Fersen?-

-No, non è questa la mia intenzione. Vorrei soltanto farvi comprendere quanto sia meschina la mia natura e quanto sia stato meglio per voi che io non vi abbia presa tra quelle siepi. Oh Oscar, vedete, non posso che essere spietatamente sincero con voi, perché mi siete cara e desidero solo il vostro bene. Vi avrei fatta mia senza tanto riguardo, se solo voi foste stata un’altra. Ma io di voi ho un grande rispetto.-

Oscar prese fiato e tese le braccia lungo il corpo, stringendo le mani a pugno.

-Dunque dovrei ringraziarvi per esservi preso la briga di salvaguardare la mia virtù?- 

-Non intendevo...-

-Ho compreso perfettamente cosa intendevate. Ma vorrei mettere in chiaro che non mi avete salvata né da voi né da me stessa, perciò non dovete prendervi questo merito.- scrollò la testa e sospirò -Siete diverso, Fersen, o forse fingete soltanto di essere diverso, non lo capisco. L’uomo che conoscevo sette anni fa non mi avrebbe mai parlato così. Il modo in cui state giustificando il vostro rifiuto mi ferisce più del rifiuto stesso. Credevate che io avessi bisogno di disprezzare una superficialità, che so non appartenervi, per zittire il mio cuore? Allora avete un’idea molto distorta di me. In ogni caso, non ha importanza. In nome della nostra antica amicizia, Fersen, non torniamo mai più sull'argomento.-

Il conte annuì e la sua aria spavalda evaporò in un istante dal suo viso incipriato.

-Certo, Oscar.-

Sostennero in silenzio il reciproco sguardo per qualche momento, provando entrambi ad ricordare ciò che c’era stato tra loro in passato e ad immaginare ciò che ci sarebbe potuto essere in futuro.

-Ci vedremo spesso qui a Versailles.-

Mormorò lui, abbassando gli occhi per primo.

-Non così spesso, credo.-

 

 

 

 

Oscar decise di addentrarsi in città prima di tornare a casa, in modo da fare un sopralluogo nei pressi della residenza cittadina del Duca di Marmont, il nobile che per ultimo aveva subito un furto da parte del Cavaliere Nero.

Si fermò presso i cancelli della sua residenza e osservò con attenzione le finestre rotte del primo piano. Uno stuolo di servi si stava affaccendando nel cortile, mentre sulla strada alcuni curiosi seguivano i loro movimenti attraverso le inferriate dei cancelli, parlottando animatamente tra loro.

Oscar smontò da cavallo e si avvicinò al gruppo di pettegoli, preoccupandosi di coprire con cura la propria uniforme col mantello.

-Perdonatemi, ho saputo che c'è stato un furto qui. Sapete dirmi cos'è accaduto? Hanno preso il colpevole?-

Un uomo col cappello a tesa larga sputò per terra e grugnì:

-Nessuno riuscirà a catturare il Cavaliere nero. Quello sa il fatto suo.-

Una donna rise a bocca aperta e incrociò le braccia sul petto prosperoso.

-I nobili hanno paura di lui. Finalmente anche i gran signori hanno qualcosa da temere!-

Oscar scrutò con attenzione i volti di quella gente e le sembrarono maschere di puro compiacimento. Il fatto che un nobile avesse subito un danno li entusiasmava. “Bouillet aveva ragione, non sarà una passeggiata.”

Sospirò e non fece commenti di sorta. Rivolse un vago cenno di saluto e rimontò a cavallo.

Passando accanto all'insegna di un'osteria le venne in mente che André era stato a Parigi la notte del furto, perciò poteva aver visto o udito qualcosa di insolito. Decise che la sera successiva sarebbero tornati in città insieme: lui era molto bravo ad ispirare fiducia nelle persone e a farsi raccontare i fatti altrui.

-Devo impormi di non pensare ad altro che a questo ladro. Forse non pensare mi aiuterà.-

Mormorò tra sé con un sospiro.

-Ci vorrà tempo.-

Gracchió una voce rauca alla sua destra. Oscar si voltò di scatto.

Una vecchia cieca stava intrecciando cerini per candele seduta su una sedia instabile sull’uscio di una casa. I suoi occhi appannati vagarono verso Oscar come a volerne catturare la figura a tutti i costi.

Oscar dedusse che l’anziana donna fosse una zingara, forse una di quelle ambigue veggenti che abbindolavano i passanti più superstiziosi, e diede un colpo alle redini per proseguire verso casa.

-Un cuore tanto grande, eppure tanto freddo!-

Le gridò la vecchia con disprezzo. Oscar tiró le redini indignata e si voltò indietro, ma scoprì che la donna non c’era più.

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Capitolo 6
*** Più scuro ***


-No, non ho notato niente di insolito in città.-

Borbottò André tra un boccone e l'altro, poi si pulì le labbra col tovagliolo e aggiunse sorridendo:

-Se devo essere sincero, ho i ricordi un po' annebbiati, quindi temo di non poterti essere utile.-

Oscar annuì poco convinta e seguì con lo sguardo la forchetta di Andrè che affondava in un pezzetto di stufato. Pensò distrattamente che cenare con lui fosse senza dubbio più piacevole che cenare con suo padre.

Prese il calice di vino e lo avvicinò alle labbra, ma non bevve neanche un sorso.

-Mi è concesso sapere, di grazia, che cosa ha combinato il mio attendente per una notte intera?-

André inghiottì il boccone di carne senza averlo masticato e con voce strozzata rispose:

-Nulla di nuovo rispetto al solito.-

Nervoso, si avventò sul vino e bevve due sorsi senza respirare. Quando Oscar assumeva quel tono di voce e assottigliava in quel modo lo sguardo, lui si sentiva anatomizzato. Quei due occhi azzurri sapevano affondare nella sua mente affilati come i coltelli di un chirurgo. Ma lui non intendeva affatto permetterle di scoprire dove fosse realmente stato la sera precedente. Non lo considerava come qualcosa di cui vergognarsi, ma preferiva tenerlo per sé. Era convinto che Oscar non si sarebbe scandalizzata, e neppure che avrebbe provato ad approfondire i motivi per cui regolarmente lui andasse ad infilarsi tra le cosce di una prostituta. In ogni caso, non voleva correrei il rischio.

Le lanciò un sorriso teso e si sforzò di farsi venire in mente qualcosa da dire per colmare il silenzio, prima che lei provasse ad intraprendere una delle sue cavillose inquisizioni. Ma quando Andrè cominciò a considerare l’idea di arrendersi e di sciorinare tutta la verità, Marron apparve nella stanza come deus ex machina.

-Mi raccomando, siate prudenti con le vostre indagini questa notte.-

Li ammonì la nonna appoggiando un vassoio di frutta accanto ad Oscar, che, distratta dalla sua presenza, liberò André dalla minaccia di una torchiatura.

-La reputazione di questo ladro non mi piace per niente. Adesso vado a sprangare le porte nel retro. E voi due, state attenti, per l’amor di Dio!-

Esclamò Marron tragica e abbandonò la stanza borbottando tra sé qualche incomprensibile litania. Oscar la seguì con lo sguardo e, ridendo senza allegria, le assicurò che sarebbe andato tutto bene, poi afferrò una mela rossa dal vassoio, la lucidò sulla manica della camicia e la lanciò ad André dall'altro lato del tavolo.

-Dunque, André, come ti ho già anticipato, questa sera andremo a caccia di notizie sul Cavaliere nero nelle locande nel quartiere di Chaussée-d'Antin, che pare sia la zona in cui è stato registrato il maggior numero di furti. I nostri informatori dovranno essere uomini ubriachi, senza freni sulla lingua, e noi dovremo essere molto cauti nel porre le domande.-

André addentò la mela e ne strappò un morso.

-Va bene, Oscar, ma ti devo confessare che non capisco perché te ne debba occupare proprio tu.-

Lei sospirò e si concesse il piccolo capriccio di appoggiare una gamba sul bracciolo della sedia.

-Seguo gli ordini.- spiegò -Ad ogni modo, le informazioni che posseggo su questo ladro sono poche e insufficienti. So soltanto che si tratta di un uomo istruito, abile con la spada e quindi probabilmente di buona famiglia o comunque avvezzo a frequentare ambienti aristocratici.-

André gettò il torsolo di mela nel piatto e si alzò da tavola.

-...ed è il paladino della giustizia sociale.-

Concluse.

-Non è detto, André. Così lo dipinge il popolo e non dimentichiamoci che la gente comune ha la straordinaria capacità di ricamare grandi fandonie sulla reputazione di chi suscita il suo interesse. Dobbiamo scoprire se questo Cavaliere nero sta giocando a fare dispetto alle famiglie più abbienti o se agisce per un mero profitto personale.-

 

 

 

 

 

Bernard Chatelet era un uomo umile e gentile e si guadagnava da vivere scrivendo articoli per un giornale molto sottovalutato. Abitava da solo in un’umida e chiassosa via di Parigi fra la Senna e il mercato, ma non era mai a casa. Preferiva trascorrere le sue giornate nei salotti di quei nobili parigini, visionari e liberali, che, disprezzando tanto la nobiltà di Versailles quanto i ceti più miserabili, offrivano le proprie risorse e la propria solidarietà alla gioventù colta della borghesia, con l’intento di permettere alle menti fresche e ferventi della nuova generazione di riunirsi e progettare insieme un mondo migliore. Bernard partecipava con sincero entusiasmo a quei dibattiti di giovani illuminati ed era felice di potersi far trasportare da quell’onda di rinnovamento.

Durante la notte, però, smetteva di essere un giovane e anonimo cittadino e assumeva un’altra identità, quella del famoso ladro a cui il popolo aveva dato il nome di “Cavaliere nero”. 

Forte dei propri ideali e sostenuto in segreto dai suoi amici influenti, faceva regolare visita alle più lussuose abitazioni di Parigi e portava via formidabili bottini. Prima dell'alba distribuiva alle famiglie più disgraziate della città tutte le ricchezze su chi era riuscito a mettere le mani, dopodiché si sfilava la maschera e rientrava nei panni del mite e cortese giornalista squattrinato. Per sé non teneva mai nulla.

 

 

 

 

 

Quando il sole cominciava a tramontare dietro ai tetti di Parigi, Bernard raggiunse la piazza di Notre Dame, che trovò deserta e inondata da una morbida luce rossastra. Entrò nella Cattedrale attraverso il Portale della Vergine e si concesse qualche istante per ammirare la poetica magnificenza del rosone e delle vetrate che spruzzavano bagliori variopinti sui pavimenti e sugli alti pilastri. Attraversò la navata laterale a testa china, cercando di evitare gli sguardi dei pochi fedeli che vagavano annoiati in attesa dei Vespri, e raggiunse la piccola cappella dedicata a San Carlo Borromeo, dove due uomini vestiti di nero lo stavano aspettando accanto ad un cero.

-Eccomi.-

Si annunciò a bassa voce. I due uomini si voltarono verso di lui e lo accolsero con un sorriso amichevole.

-Bernard, amico.-

Mormorò il più alto, posandogli una mano sulla spalla.

-Abbiamo saputo della tua recente impresa nel Palazzo del Duca di Marmont. È stato un colpo clamoroso!-

Bernard sogghignò compiaciuto.

-E non sapete la parte migliore...- disse -Alcuni servitori del Duca mi hanno colto sul fatto, ma non hanno dato l’allarme. Anzi! Ci credete se vi dico che, dopo avermi riempito le tasche di monete, mi hanno perfino aiutato a svignarmela?-

L'uomo che fino a quel momento era rimasto in silenzio scoppiò violentemente a ridere. La sua voce rimbalzò sulla volta ed echeggiò nella navata turbando il solenne silenzio della Cattedrale e attirando le occhiate torve di due suore sedute ai banchi.

-Sai, Bernard, credo che se tu avessi avuto il coraggio di sgozzare quel maiale imbellettato del Duca di Marmont nel suo stesso letto, la servitù ti avrebbe fornito volentieri un pugnale.-

Disse in tono sprezzante. Bernard gli rispose disgustato:

-Forse, ma io non sono un assassino, Saint Just.-

-Bernard, qual è il tuo prossimo obiettivo?-

Intervenne l'uomo più alto, premendo le dita sulla sua spalla per richiamare l’attenzione su di sé. Bernard indossò un sorriso orgoglioso e sollevò il mento.

-Ho intenzione di superarmi.-

Annunciò.

-Ho sentito dire che la famiglia Jarjayes è molto ricca e molto influente...-

 

 

 

 

 

-È già la quarta locanda.-

Le ricordò André accomodandosi insieme a lei ad un tavolo un po’ discosto. Oscar fece spallucce e appoggiò un gomito sul legno lercio e appiccicoso di birra per prendersi il viso con una mano, mentre André sollevava il braccio verso il bancone dell’oste. Subito una prosperosa cameriera dall'aria tronfia si avvicinò al loro tavolo per raccogliere le ordinazioni.

-Qualcosa da bere, signori?-

André rispose senza consultare Oscar.

-Due boccali di birra scura. E che sia fredda, per cortesia.-

Sul volto paffuto della ragazza si allargò un sorriso giallognolo e malizioso.

-Oh, ma che bei modi che avete! Buon cielo, siete anche bello! Una birra fresca è proprio quel che ci vuole. Fa così caldo questa sera! Sapete, la mia stanza è qui sopra la vostra testa ed è la più fresca di tutta la casa. Sarò felice di condividerla con voi più tardi, se vorrete.-

André avvampò e fece rimbalzare più volte gli occhi tra Oscar e la cameriera. Impose al proprio sguardo di non indugiare sul florido e sfacciato seno della ragazza che traboccava dallo scollo e le rispose senza rinunciare ai modi cortesi della sua buona educazione:

-L'invito è allettante, lo prenderò in considerazione. Per ora mi accontento della birra.-

La cameriera si accarezzò il petto per allargare lo scollo ben oltre il limite del pudore, poi fece la parodia di un profondo inchino e mormorò languida:

-Al vostro servizio.-

Mentre la donna svolazzava via senza alcuna grazia, Oscar notò che André aveva le guance in fiamme. Si intenerì, ma trattenne il sorriso e non fece alcun commento. Continuò a parlare del Cavaliere nero, come se l’intermezzo della cameriera non avesse avuto luogo.

-Abbiamo raccolto davvero poche informazioni, André. Questo ladro sa essere celeberrimo e al contempo del tutto oscuro.-

Disse sottovoce. Non appena terminò la frase, un uomo con la barba grigia e gli abiti logori irruppe nella locanda sbracciandosi come un mulino a vento. Si fiondò sopra il bancone e afferró il locandiere per il grembiule.

-Sta avvenendo un furto qui vicino! Il Cavaliere nero! Il Cavaliere nero!-

Gridò a pieni polmoni sulla faccia paonazza dell’oste. 

Oscar e André scattarono in piedi, ma lei gli fece segno di non seguirla e corse immediatamente fuori dal locale insieme ad altri curiosi. 

André rimase immobile accanto al tavolo, con un piede avanti all’altro, pronto ad intervenire al minimo segnale di pericolo.

Uno strano silenzio teso caló nella locanda. Tutti fissavano la porta con il fiato sospeso. Tutti, tranne l’uomo che aveva dato l’allarme. I suoi occhi erano incollati addosso ad André. Quando il ragazzo se ne accorse, tornò a sedersi imbarazzato e, per cercare di sottrarsi a quello sguardo insistente, convogliò l’attenzione sulle proprie mani incrociate sul ripiano del tavolo. Quando risollevò gli occhi per scoprire se l’uomo con la barba grigia avesse rivolto il proprio interesse a qualcun altro, scoprì con stupore che quel tizio strambo gli stava venendo incontro con un ampio sorriso stampato sul volto e con un boccale traboccante di birra in mano.

-Questo è solo un piccolissimo omaggio. Sappi che molta gente ti è grata.-

Spiegó l’uomo appoggiando il boccale sul tavolo sotto il naso di André.

-Io non capisco a cosa vi riferiate, signore.-

Rispose lui scrollando le spalle. L’uomo con la barba grigia gli strizzò l’occhio e si protese verso di lui per sussurrargli in tono confidenziale:

-Certo, certo, capisco. Il tuo segreto è al sicuro.-

Poi si allontanò con aria compiaciuta, senza portar via il boccale di birra.

André rimase a fissare quell’inaspettato omaggio con la mente così confusa da non riuscire nemmeno a porsi domande e quando risollevò lo sguardo trasalì nel trovare Oscar, ad un passo dal tavolo, che lo fissava con la fronte aggrottata. Le rivolse un sorriso teso mentre lei si sedeva sul proprio sgabello sbattendo i palmi aperti sul ripiano del tavolo.

-Un falso allarme, pare.-

Disse. Guardò André, guardò il boccale di birra e non aggiunse altro.

La cameriera tornò portando le bevande che avevano chiesto e mandò un bacio ad André con la mano. Oscar le lanciò uno sguardo ostile, agguantò il boccale e bevve di fila un paio di sorsi avidi, come se una sete spietata la stesse divorando.

-Ho capito perché il popolo ama tanto il Cavaliere nero.-

Mormorò allontanando il bicchiere dalle labbra e pulendosi un angolo della bocca con la manica della giacca.

-Egli dona ai poveri tutto ciò che ruba. Me l'ha detto uno degli uomini che sono usciti dalla locanda con me. Mi ha mostrato un anello d'argento e mi ha spiegato che è stato il Cavaliere nero in persona a portarglielo una settimana fa.-

André passò distrattamente la punta del dito indice sull'orlo del boccale ormai quasi vuoto e borbottò:

-Dunque ruba per una buona causa.-

-Resta comunque un ladro.-

Ribatté Oscar con un tono più alto e più acuto di quanto non avesse voluto, poi abbassó gli occhi sul bicchiere, umiliata dal poco controllo che aveva dimostrato di avere sulla propria emozione, e continuò con voce grave:

-Avrà modo di esporre le sue buone intenzioni in tribunale. Io ho solo il compito di portarcelo.-

Tacque e cominciò a bere ininterrottamente tanti piccoli sorsi che non la dissetarono.

“E se...?” pensò osservando André attraverso il vetro del bicchiere.

“Moro, occhi chiari, piuttosto alto, dai modi raffinati.” Perché, perché quelle parole con cui l’uomo fuori dalla locanda, poco prima, le aveva descritto il Cavaliere nero, sembravano invece adattarsi perfettamente ad André? E poi, quel tizio con la barba grigia, che motivo aveva avuto per offrirgli quel boccale?

“E se fosse lui il Cavaliere nero?”

Un sorso di birra le andò di traverso e dovette tossire forte per liberare la gola. Abbassò gli occhi e si chiuse in un silenzio assorto per provare a trovare un neo in quell’ipotesi orribile, ma non ci riuscì e sentì la fronte coprirsi di sudore.

André aveva dei segreti, questo lei l’aveva capito, ma quanti erano? Nascondeva solo una relazione con una donna o qualcosa di più grave? Possibile che il caro, onesto e tranquillo André avesse una seconda vita? Possibile che anche l’impeccabile e ineccepibile attendente col sorriso gentile celasse un rovescio della medaglia?

Oscar finì la birra buttandosela in gola come se servisse a spegnere un fuoco che le ardeva nel petto, senza preoccuparsi dei rivoli che scendevano dagli angoli della sua bocca.

André la guardò esterrefatto. Era insolito vedere Oscar manifestare segni così evidenti di turbamento. L’intuìto gli suggerì che fosse ancora scossa per il rifiuto di Fersen, così spinse verso di lei il boccale di birra che gli era stato offerto e le sorrise con dolcezza. 

-Oscar, ascoltami, non è necessario che ti avveleni lo spirito rincorrendo in lungo e in largo questo ladruncolo che sembra fatto più di leggende che di carne ed ossa. Tutto sommato, non è un criminale pericoloso.-

Oscar si alzò si scatto e colpí il tavolo con un pugno.

-Perché lo difendi?-

André fu turbato dalla sua reazione, ma non si scompose e ribatté stoico:

-Che cosa ti prende, Oscar?-

Lei sollevò la mano dal tavolo e se la appoggiò sulle labbra per succhiare le nocche arrossate.

-Andiamo a casa, ho bevuto troppo in fretta, mi gira la testa.-

Mormorò. André fiutò la menzogna, ma non osò indagare. Si limitò a tacere e ad assecondarla.

 

 

 

 

 

 

Bernard aveva impiegato diversi giorni per convincersi a compiere quell’audace progetto. Aveva deciso che sarebbe stata la sua ultima impresa e voleva che il Cavaliere nero uscisse di scena con clamore.

Guardò il proprio riflesso nello specchio opaco che pendeva dalla parete e si sistemò la maschera sul viso. Era consapevole di correre molti rischi, ma era anche convinto che valesse la pena tentare. 

Aveva trascorso intere giornate a pescare qua e là informazioni sulla famiglia Jarjayes, sulla planimetria del Palazzo, sull’ampiezza del parco. Aveva fatto perfino un cauto sopralluogo. Si era preparato al meglio.

Sospirò e allacciò il mantello sotto il mento. Era arrivato il momento di agire e non poteva permettersi esitazioni.

 

 

 

 

Quel venerdì era stato l’ultimo giorno di una lunghissima settimana, densa e sfibrante, ma del tutto sterile. 

Oscar si lasciò cadere di schiena sul letto, che la accolse in un soffice abbraccio, e mentre osservava distratta i raffinati intagli floreali sul legno del baldacchino, ripensò a tutti gli inutili sforzi compiuti per trovare informazioni sul Cavaliere nero e a tutto quell’infruttuoso turbinare senza sosta ogni sera per le osterie di Parigi. 

Erano passati molti giorni dall’ultimo furto e altrettanti da quando lei aveva cominciato a sospettare di André, ma in quel lasso di tempo non era accaduto niente di rilevante. Nessun furto, nessun avvistamento, nulla. Era una coincidenza che anche le uscite notturne di André, fino a poco tempo prima frequenti, in quegli ultimi giorni fossero cessate?

Si alzò a sedere tremando di nervosismo e si prese la testa tra le mani. Il dubbio la consumava. Ma se anche avesse scoperto che “era ciò che sembrava”, non avrebbe mai consegnato André nelle mani della Giustizia, decise. Non avrebbe mai potuto guardarlo pendere da una forca con la consapevolezza di essere stata lei stessa a spingergli la testa nel cappio.

Toc.

Tac, toc.

Spazzò via bruscamente le sue riflessioni e drizzò le orecchie. Silenzio, ancora silenzio, poi, ecco, altri due leggeri colpi.

Lasciò il letto e raggiunse la porta a piedi scalzi. Aprì subito, ma trovò il corridoio deserto e silenzioso.

-André? Marron?-

Provò a chiamare con voce tesa. Nessuno rispose. 

Toc, tac..

Si voltò di scatto verso la porta a vetri che si affacciava sul balcone. I rumori provenivano dall’esterno. 

Sforzandosi di dominare i battiti agitati del cuore, staccò una candela dal braccio d’argento di un candelabro e camminò a passo lento verso il terrazzo. Uscì nella notte scura e tiepida e si guardò intorno con il respiro bloccato nei polmoni. Fece scorrere lo sguardo sui giardini bui, sul cortile di fronte alle scuderie e sul viale che conduceva allo spiazzo con la fontana. Tutto fermo, tutto quieto. Poi improvvisamente fu attirata dall’ombra di una sagoma snella e allungata -una corda!- che dal suo balcone calava fino al cortile sottostante. Trasalì, balzò istintivamente all’indietro e la sua schiena si scontrò con il corpo solido di uomo. Non ebbe il tempo di reagire. In meno di un attimo, un braccio robusto le si strinse intorno al torace e una mano ampia e callosa le coprì la bocca, impedendole di urlare. La candela le sfuggì dalle dita e quando toccò il pavimento si spense. Il buio della notte la travolse, convincendola di essere preda di un incubo piuttosto che di un’imboscata.

Si impose di rimanere calma e lucida e provò cautamente a divincolarsi, ma lo sconosciuto alle sue spalle la cinse più forte e affacciando il volto sopra la sua spalla le stampó un bacio umido sul collo. Oscar percepì con disgusto le labbra del suo assalitore che le scivolavano sulla mandibola fino a raggiungere e succhiare il lobo dell’orecchio, mentre la sua mano la invitava ad inclinare la testa per offrirgli un lato del viso. Il fiato caldo dell’uomo le solleticò la guancia -rideva?- poi in un sussurro, fievole come uno sospiro di vento, le disse:

-Ecco il bene più prezioso di Villa Jarjayes.-

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Capitolo 7
*** Scacco ***


Bernard riteneva di aver maturato una certa esperienza con l’intimidazione dei flaccidi nobiluomini e delle leziose nobildonne dell’alta aristocrazia. Di solito gli bastava minacciarli appoggiando filo della spada sulle loro gole bianche di cipria per convincerli ad alleggerirsi di qualche costosissimo gioiello.

Oscar François de Jarjayes, invece, rappresentava un’eccezione. Ciò che avrebbe potuto ottenere da lei, sarebbe stato il bottino più prezioso mai conquistato: il suo appoggio.

L’anonimato gli avrebbe permesso di parlarle senza la seccatura dei convenevoli e delle formalità. Un vero privilegio. Sarebbe stata una chiacchierata a tu per tu che, nei panni di Bernard Chatelet, non si sarebbe nemmeno potuto permettere di immaginare. Decise di concedersi anche lo sfizio di sfiorare la sfrontatezza.

Tenne la ragazza stretta contro di sé, chiudendo saldamente nell’incavo del braccio quel corpo esile e affusolato che gli dava l’idea di poter scivolare via dalla sua presa da un momento all’altro, sinuoso come un’anguilla. Malgrado ciò, di fatto, Oscar François de Jarjayes, non dava segno di volersi liberare. Si limitava -con spregio, pensò Bernard- a respirare calma.

-Adesso tolgo la mano. Se provate ad urlare vi taglio la gola.-

Le sibilò nell’orecchio. Oscar accettò il compromesso con un cenno del capo e Bernard le liberò la bocca.

-Il Cavaliere nero, suppongo.-

Disse subito.

-In carne ed ossa.-

”Parla camuffando la voce” pensò lei “Potrebbe essere... e se fosse?”

-Se mi mostrate il vostro volto, giuro sul mio onore che non avrete nulla da temere da me.-

Gli comunicò provando a voltarsi verso di lui.

Il Cavaliere nero non perse tempo a valutare la sua richiesta. Le rispose scoppiando a ridere e stringendola più forte. Oscar ignorò il fastidio di essere costretta a subire la pressione di un corpo maschile sulla schiena e assaporò ad occhi chiusi il suono di quella risata del tutto sconosciuta

“No, non puoi essere André.”

-Ho sentito dire così tante storie su di voi, Madamigella, che non so a cosa credere, così ho deciso di venire qui a scoprirlo di persona.-

Il Cavaliere nero le parlò con voce gentile, ma la fece voltare senza alcuna delicatezza e la spinse all'interno dei suoi appartamenti, rimanendo cautamente alle sue spalle.

-Qualche lingualunga sostiene che voi siate l’uomo più uomo di tutta Versailles.-

Oscar rabbrividì, mentre la mano sfacciata di quello sconosciuto scivolava sul suo fianco e accarezzava la seta sottilissima della sua camicia. Lo tollerò a denti stretti, ma quando le dita di Bernard arrivarono a sfiorare il confine dei suoi pantaloni, con uno scatto strinse forte le cosce.

-L’istinto, però, è innegabilmente quello di una donna.-

Commentò lui, lasciandola andare e spingendola a qualche passo di distanza.

-Vi prego, sedetevi, Madamigella.-

Aggiunse, assumendo all’improvviso un tono pacato e cortese.

-Cosa volete?-

-Soltanto conversare con voi.-

Oscar lo guardò scettica e si accomodò su una poltroncina.

-Conversare?-

Gli fece eco, premendo i gomiti sui braccioli e intrecciando le dita. Il ladro si appoggiò di schiena alla parete di fronte a lei e la fissò serio.

-Sì, conversare. Non sono qui per intraprendere con voi una guerra di provocazioni. Innanzitutto, voglio chiedervi perdono, per il disturbo innanzitutto e se vi ho offesa, mi dispiace. Questa maschera, sapete, mi rende sfrontato.

Fece una pausa e aprì le labbra per mostrarle un sorriso. 

-Non sono qui per derubarvi, né per farvi del male. Di tutto ciò che è vostro, non mi interessa altro che la vostra attenzione.-

Con una mano, un po’ soprappensiero, prese e scosse un piccolo scrigno che, dalla mensola sopra il camino, aveva attirato il suo sguardo. Il tintinnio sonoro gli fece venire voglia di infilarsi quel piccolo manufatto d’argento in tasca, ma si trattenne.

-Io penso che ci intenderemo bene. D’altra parte, voi ed io siamo molto simili. Entrambi abbiamo bisogno di travestirci per muoverci in questo mondo. Sotto la maschera, però, siamo persone autentiche.- 

Mentre lo ascoltava, Oscar studiò l’inatteso ospite con attenzione. Quell’uomo parlava in tono entusiasta, sceglieva bene le parole, scrollava spesso la testa, agitando un groviglio di capelli scuri, e non riusciva a tenere ferme le mani. Prese mentalmente nota di ogni suo gesto e formulò qualche ipotesi. “Un giornalista, un attore o un uomo di legge” si disse.

-Guardatevi intorno, Madamigella, il Paese è al collasso e la monarchia sta fallendo, dovete riconoscerlo. Il popolo è scontento. L’insofferenza è diffusa, ha radici profonde e ribolle come lava in un vulcano.-

Mentre diceva così, Bernard aprì le braccia, mimò il gesto di un’eruzione esplosiva, con enfasi, come se dalla sua testa stessero schizzando fuori lapilli, poi cominciò a calpestare nervosamente il tappeto, camminando avanti e indietro di fronte a lei.

-Al popolo non basta avere pane, medicine, legna per l'inverno. La gente ha bisogno di considerazione!-

Finalmente si fermò, le rivolse uno sguardo acceso, sfavillante, e strinse i pugni.

-Il popolo ha una voce e vuole essere ascoltato, ma necessita che qualcuno porti questa voce fino ai vertici della società, una persona stimata dai Sovrani e dalle alte cariche e che creda nel valore dell’uguaglianza.-

Oscar si inumidì le labbra e appoggiò il mento sulle dita intrecciate.

-Sono d’accordo e mi sento onorata per la fiducia che mi dimostrate. Ma non sarò io la vostra arma, non posso.-

Rispose semplicemente. Bernard strinse forte le mandibole poi emise un ringhio, quasi un ruggito, e sfoderò la spada con un gesto solenne.

-Non cambieranno le cose finché non le cambieremo. Gli uomini sono eguali; non la nascita, ma la virtù fa la differenza.-

Oscar gli sorrise.

-Voltaire.-

Disse. Il Cavaliere nero le fece eco annuendo:

-Voltaire.-

Poi si dileguò, in un guizzo fluido di stoffa nera. Volò agile verso il balcone e si fuse con il buio, lo stesso buio da cui era emerso poco prima, silenzioso e inafferrabile, come un’ombra figlia della notte stessa.

Oscar restò ad osservare con le labbra schiuse il quadrato nero della finestra in cui il ladro si era immerso, poi si alzò dalla poltrona e camminò verso il balcone. Scoprì che la notte si era schiarita. Uno spicchio sottilissimo di luna galleggiava in uno stagno di cielo tra le nuvole.

Mentre appoggiava le mani sul freddo parapetto di marmo, provò a considerare l’ipotesi che quella visita fosse stata frutto della sua immaginazione, magari un’allucinazione causata dalla stanchezza.

Abbassò la testa e fece dei lunghi respiri profondi per decidere se credere a ciò che era appena accaduto. Poi, ad un tratto, ecco un bagliore. Si sporse oltre la balaustra per scandagliare con lo sguardo il muro della facciata, aiutata dalla fioca luce della luna, e quando finalmente riuscì ad individuare la fonte di quell’insolito scintillio, le mancò il fiato.

Un pugnale! Un pugnale infilato di punta in un incavo del cornicione. Doveva essere servito al ladro per scalare la facciata. 

Ecco la prova che era stato tutto reale.

 

 

 

 

 

-Che cosa? Il Cavaliere nero è stato qui? Qui, a Palazzo?-

Oscar annuì e premette le labbra sul bordo della tazza. Prese un piccolo sorso di tè e intanto ammirò con un sorriso la buffa espressione dipinta sul viso di André.

-Incredibile...-

Commentò lui stupefatto, portandosi una mano sulla fronte per sollevare i ciuffi di capelli che la ombreggiavano. 

-Davvero incredibile, André.-

Oscar studiò la scacchiera, fece una smorfia e appoggiò la tazza sul piattino.

-È stata una visita molto cortese, sai, quasi galante. Il ladro si è persino preoccupato di lasciarmi un dono.-

Sollevò un angolo della bocca e mostrò ad Andrè il pugnale che il Cavaliere nero aveva dimenticato nell’incavo del muro.

-Guarda lo stemma.-

Suggerì indicandogli il manico.

-È lo stemma degli Orleans.-

-Esatto.-

Oscar si decise a muovere la regina di un paio di caselle, poi incrociò le braccia sul petto e gli cedette il turno.

-Abbiamo già avuto modo di conoscere bene l’antipatia del Duca d'Orleans nei confronti di suo cugino, il Re. Nel caso in cui fallisse la monarchia di Luigi XVI, il Duca diventerebbe il candidato favorito per la successione o quantomeno per la reggenza.-

Gli occhi di Andrè si ridussero a due fessure e precipitarono da Oscar alla scacchiera, come a voler cercare in quella partita una rappresentazione emblematica della situazione politica di cui stavano parlando. Concentrò lo sguardo sulla pedina del re, provando ad immaginare che avesse le sembianze di Luigi XVI, e azzardò:

-Il Cavaliere nero è al soldo del Duca D’Orleans.-

Oscar prese in mano uno dei pedoni neri e se lo rigirò tra le dita.

-Sì, in un certo senso. Sono propensa a credere che il ladro sia soltanto una pedina, insomma un giovane di grandi vedute e piccole risorse, che ha plausibilmente trovato nel Duca D’Orleans un finanziatore e un protettore.-

-Non può essere che questo pugnale sia frutto di una rapina ai danni del Duca?-

Oscar si riempì nuovamente la tazza di tè e scrollò la testa.

-No, André. Il Duca non ha mai denunciato alcun furto e poi pare che il ladro non tenga mai nulla per sé di ciò che ha rubato. Ha dei valori morali piuttosto saldi.-

-Quindi tu come intendi agire?-

Oscar diede la precedenza alla partita. Le sue dita guidarono un alfiere bianco a conquistare un paio di caselle, poi sorrise ed esclamò, con il tono un po’ annoiato e un po’ arrogante di chi sa di avere la vittoria in tasca e la soluzione a tutti i problemi: -Scacco, André. Penso che mi servirò di questo rocambolesco personaggio mascherato per tenere sotto controllo le pericolose ambizioni del Duca d'Orleans.-

André annuì e rivolse gli occhi alle alte finestre, aperte sul parco. Uno stormo di rondini passò sopra le fronde dei faggi, creando un’elegantissima coreografia di piroette tra le impetuose correnti d’aria. Stava esplodendo la primavera.

-Devo farti una confessione, André. Ti riguarda. E sappi che non intendo offenderti, ma nemmeno lusingarti!-

André sorrise incoraggiante.

-Credevo che il Cavaliere nero fossi tu.-

Ammise lei e non riuscì a contenere una risata. André la fissò allibito, incerto se considerare quelle parole come una confessione sincera o come un semplice scherzo, poi si ritrovò a sorridere di riflesso.

-L'uomo che ti ha offerto il boccale di birra, quella sera, di sicuro si è ingannato come me: anche lui ti ha scambiato per il Cavaliere nero.-

Argomentò lei, servendosi di qualche sorso di tè per placare il sottile imbarazzo che le aveva suscitato quell’ammissione.

-Immagino di sì, Oscar. Ah, non credevo di avere un fascino così tenebroso!-

Oscar sorrise divertita, poi si fece di nuovo seria.

-André, ascoltami, non è il caso che qualcuno sappia che il Cavaliere nero è stato qui.-

-Certo, non ti preoccupare.-

-Ora aiutami a pensare. Come posso incastrarlo?-

Il ragazzo scrutò le pedine sulla scacchiera. Spostò la torre, ci ripensò, mosse il cavallo.

-Questo ladro non ha un’identità ma ha un nome, il ché implica anche il fardello di una reputazione. E sono sicuro che lui ne vada fiero.-

Oscar arricciò le labbra e continuò il ragionamento di André:

-Da come si pavoneggiava con me, sì, sicuramente l’umiltà non è la sua più grande virtù. Dunque la soluzione potrebbe essere pungolare il suo orgoglio. Ma come? E se gli rendessimo pan per focaccia? Ma sì. Il ladro sarà derubato di ciò che ha di più prezioso: la sua maschera! Scommetto che si farebbe subito avanti per difendere il buon nome del suo personaggio... Scacco matto!-

Esclamò gioiosa, quando la sua regina incastrò in un angolo della scacchiera il re di André. Lui ignorò la sconfitta -che peraltro aveva previsto ormai da diverse mosse- e allungò la mano verso di lei per arrotolare tra le proprie dita una ciocca bionda dei suoi capelli.

-Penso che anche al buio si capirebbe che hai i capelli biondi, Oscar. Potrei vestire io i suoi panni, se è vero che gli somiglio tanto. Di sicuro sarei molto più credibile di te.-

Oscar scrollò la testa con decisione, poi rifletté un momento, lo guardò e i suoi occhi si addolcirono.

-E sia, André, ma temo che dovrai accorciare i capelli.-

Lui le rivolse uno sguardo deciso e con gentilezza sfilò dalle sue mani il pugnale del Duca d’Orleans.

-D’accordo.-

Si portò la lama dietro la nuca e con un colpo netto recise la coda di lunghi capelli scuri che gli scendevano sulla schiena.

-Non ti ho mai visto con i capelli così corti, André.-

-Come sto?-

Oscar sorrise, accarezzando con i pollici i bordi della tazza che teneva tra le mani.

-Molto bene.-

-Beh, a questo punto, il minimo che puoi fare è concedermi una rivincita!-

 

 

 

 

 

Esattamente dieci giorni dopo la visita del Cavaliere nero a Palazzo Jarjayes, Bernard ricevette da un amico, per lettera, la notizia più raggelante che potesse aspettarsi. Qualche ignoto lestofante di Parigi aveva approfittato della sua decisione di abbandonare la carriera di ladro, per impossessarsi dell’identità del Cavaliere nero e compiere grossi furti nelle case dei nobili più abbienti, senza però ridistribuire i bottini tra la povera gente.

Furioso, incredulo e con l’orgoglio insultato, Bernard bruciò la lettera e si precipitò in chiesa. Non c’era niente di meglio della luce soffusa, del silenzio e del profumo d’incenso per stimolare la riflessione e poi i Santi, che si affacciavano dalle pale e dagli affreschi, spesso, pur senza parlare, davano ottimi consigli.

Entrò in una cappella laterale e si inginocchiò davanti ad una statua della Madonna circondata da gigli freschi. Congiunse le mani e provò a cercare un segno di compassione nel viso dolce e sereno che qualche anonimo scultore aveva attribuito alla Vergine. Gli occhi liquidi e tristi della statua sembravano abbracciare con un unico sguardo tutto ciò che la circondava, eppure lui si sentì ignorato. Avvertì un dolore al petto e lasciò la chiesa più nervoso e avvilito di prima. 

Mentre si inoltrava tra la confusione del mercato mattutino del quartiere, pensò che la scelta più saggia fosse andare immediatamente a chiedere consiglio al Duca D'Orleans.

-Lurido impostore.-

Imprecò tra i denti, camminando a passo spedito verso il Palais Royal e sgomitando tra la gente che si accalcava tra i carretti.

-André! Aspetta!- 

Una mano, piccola ma forte, si aggrappò alla manica della sua giacca per trattenerlo. Bernard si voltò con un ringhio, pronto ad vomitare tutta la propria frustrazione sul malcapitato proprietario di quella mano, ma quando scoprì che apparteneva ad una ragazza bionda dai lineamenti familiari, il suo sangue smise di bollire e si raffreddò di colpo. Col fiato sospeso la osservò schiudere le labbra e abbassare in fretta i grandi occhi azzurri.

-Perdonatemi, io... vi ho scambiato per qualcun altro.-

Balbettò, mortificata, poi ebbe un sussulto e risollevò in fretta lo sguardo con un’espressione luminosa sul viso.

-Ma voi siete Bernard Chatelet...-

Bernard le sorrise, si guardò intorno e fece una smorfia. Non era il luogo adatto per una tranquilla conversazione. La prese per mano e la condusse con sé in una via laterale, al riparo dal chiasso e dalla folla.

-Sì, sono proprio io. Voi siete Rosalie, dico bene? Sono davvero felice di rivedervi. Come siete diventata bella!-

Rosalie avvampò. Il rossore si diffuse sulla sua pelle pallida dal collo fino alla radice dei capelli e i suoi occhi precipitarono sul misero contenuto del cestino che pendeva dal suo gomito.

-Non vi ringrazierò mai abbastanza per ciò che avete fatto per mia madre, Monsieur.-

Gli disse, concedendogli uno spiraglio sui propri occhi attraverso i ciuffi che le cadevano sulla fronte. Bernard, intenerito, raccolse la sua mano tra le proprie.

-Rosalie, non dovete ringraziarmi, piuttosto, ditemi, cosa vi è accaduto dopo la morte di vostra madre?-

Rosalie si spostò la frangia dagli occhi con uno sbuffo e il suo viso ritrovò la luce.

-Sono stata accolta in casa di Madamigella Oscar François de Jarjayes. L’avete mai sentita nominare?-

Bernard deglutì.

-Sì, so chi è.-

-Allora saprete anche che è una persona squisita, gentile, intelligente e molto buona. Mi ha aiutato tanto, non potrò mai sdebitarmi con lei.-

-Rosalie,- la interruppe lui con un largo sorriso -Vi prego, lasciate che vi accompagni, ovunque stiate andando. Mi piacerebbe che mi raccontaste tutto ciò che vi è accaduto in questi anni.-

Rosalie arrossì di nuovo, si prese un momento per riflettere poi annuì con un sorriso dolce e si lasciò prendere sottobraccio. Il cuore di Bernard fu travolto dall’entusiasmo. La questione del falso Cavaliere nero sbiadì dalla sua mente, perse importanza, gli parve un problema di pochissimo conto, un‘inezia. Si dedicò con tutto se stesso ad ascoltare quella voce dolce e leggera che elogiava allegramente tutti i pregi e le qualità di Oscar François de Jarjayes.

“Forse è stato Dio a mandarmi questo angelo.”

Pensò, incapace di smettere di sorridere.

 

 

 

 

 

L’alba conquistò lentamente il cielo notturno e un lucore celeste invase il parco del Palazzo. Una leggera foschia profumata di erba e di terra vestiva il giardino come un evanescente mantello di tulle e il sole, appena sorto, era un disco di luce bianca sospeso sopra l'orizzonte e coperto da un velo di nuvole. 

André conficcò la punta della spada nel terreno umido di rugiada e mentre si rimboccava le maniche della camicia per prepararsi ad un solitario allenamento mattutino, sollevò lo sguardo verso le finestre della stanza di Oscar. Il suo pensiero volò verso quei vetri, li trafisse, aggirò le pesanti tende e si insinuò nell’intima penombra della stanza. Immaginò Oscar distesa nel suo letto, immersa in un sonno tranquillo, abbandonata su una collina di cuscini di piume, con le labbra schiuse, i capelli scomposti intorno al viso e la forma del seno che si imprimeva sulla stoffa sottile della camicia ad ogni respiro.

-Dio mio, cosa mi viene in mente?-

Si stropicciò gli occhi col dorso delle mani per stroncare quelle fantasie prima che la sua mente tentasse di approfondirle.

“Quanto è grave peccare col pensiero?” si chiese triste, fissando con occhi vuoti l’elsa della spada.

-Benedicimi, Signore, e assolvimi perché ho avuto, e continuerò ad avere, fantasie impure per una donna.-

Mormorò con un filo di voce, guardando il sole.

-Ti prometto che starò sempre al mio posto, non sarò altro che la sua ombra scialba e non oserò mai mostrarle il mio amore di uomo, ma abbi pietà di me e di questo desiderio che non so arginare.-

Con un sospiro lungo e profondo, tornò a concentrare la propria attenzione sulla spada.

Si sarebbe tenuto un ballo nel Palazzo della Baronessa Millet quella sera. Lui avrebbe indossato il travestimento da Cavaliere nero e si sarebbe addentrato nella stanza della Baronessa per rubare i suoi gioielli, mentre Oscar, appostata nel giardino della Villa, avrebbe teso una trappola al vero Cavaliere nero, nel caso in cui questi avesse deciso finalmente di farsi vivo. Fino a quel momento, tutti i finti furti che avevano commesso erano stati inutili.

Impugnò la spada e la sfilò dal terreno. Provò ad immaginare che il Cavaliere nero gli fosse davanti ed esplose in un solenne:

-En garde!- 

Cominciò a sferrare una serie stoccate e fendenti nel vuoto, volteggiando sull’erba umida, ringhiando e gemendo ad ogni sforzo. Continuò ad infilzare l’aria finché non perse le forze.

Stremato ma soddisfatto, abbassò la spada e si passò una manica della camicia sulla fronte madida di sudore. Mentre nutriva i polmoni di aria fresca e lasciava che il cuore riconquistasse un ritmo calmo e regolare, ebbe la sensazione di essere osservato. Alzò gli occhi verso la facciata del Palazzo e scoprì che Oscar era affacciata alla finestra. Teneva una tazza di té tra le mani e lo fissava immobile come il soggetto di un dipinto.

André si chiese da quanto tempo fosse lì. Aveva osservato ad ogni sua mossa? Aveva giudicato i suoi errori, approvato i colpi buoni, immaginato di essere lì con lui?

Si sentì fiero, quasi euforico. Avrebbe voluto gridarle “Hai visto, Oscar? Ogni mio movimento, ogni mio fiato, ogni mio sforzo erano per te!”, ma si limitò a lanciarle un ampio sorriso, poi si piegò in avanti per enfatizzare ironicamente un inchino. Quando risollevò lo sguardo, la finestra era un rettangolo vuoto.

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Capitolo 8
*** Fantasmi ***


Il bianco immacolato del foglio steso sul ripiano dello scrittoio infastidiva la vista di Bernard. 

Intinse la penna d’oca nell’inchiostro e appoggiò il pugno sulla carta tentando di costringersi a formulare un inizio convincente. Fu tutto inutile. Le parole nella sua testa ronzavano e si rimescolavano confuse e inafferrabili come uno sciame di insetti agitati. Circostanza molto insolita, nonché irritante, per un giornalista che amava considerarsi un pozzo inesauribile di sentenze.

Prima che l’inchiostro colasse sul foglio, tracciò la data sull’angolo sinistro della pagina con movimenti lenti ed annoiati, poi abbandonò la penna sulla scrivania e decise di arrendersi.

Gettò la testa all’indietro e seguì con gli occhi il tragitto di una mosca che volava in cerchio a pelo del soffitto.

Da quando si era alzato dal letto, riusciva a pensare soltanto al sogno che aveva fatto quella notte. Per la prima volta dopo molti anni, aveva rivisto sua madre e quell’immagine onirica gli si era incastrata nella mente, inceppando i meccanismi del suo ingegno e impedendogli di trovare la dose giusta di concentrazione. 

Aveva creduto per tanto tempo di essere riuscito a relegare il ricordo di sua madre in un angolo polveroso e remoto del proprio cuore. Invece, quel fantasma della sua infanzia era riaffiorato dal baratro dei ricordi, senza alcun preavviso e senza un’apparente motivazione. 

Di lei, comunque, rammentava soltanto vaghi ed inutili dettagli. Ricordava che aveva i capelli neri e gli occhi grandi e chiari, che cantava quando lavava i panni e che calzava sempre un paio di zoccoli larghi e rumorosi.

Si alzò e andò ad aprire la finestra per ricevere sul viso una folata del tiepido vento mattutino. Ma i ricordi, invece che essere spazzati via, cominciarono ad accumularsi e a sovrapporsi incontrollati.

-La bellezza di tua madre è stata la sua rovina.-

Aveva grugnito zio Jacques Chatelet con la sua voce cavernosa, quando era venuto a Parigi da Rouen per assistere al funerale della sorella e per portare via con sé il nipote orfano.

Erano passati davvero molti anni prima che lo zio si decidesse a smettere di fare commenti ambigui e vaghi su sua madre e a raccontargli per filo e per segno la sua storia. Seduto su uno sgabello storto nella bottega dello zio, Bernard aveva scoperto che la vita di Cecile Chatelet era stata una vera e propria concatenazione di tragedie. Cresciuta dal fratello nelle campagne di Rouen, non appena aveva compiuto diciassette anni, era stata data in moglie ad un giovane falegname di Parigi che l’aveva portata con sé nella capitale. Dopo un solo lustro di matrimonio, il marito era morto di vaiolo, lasciandola vedova ancora nel fiore degli anni. Distrutta dal dolore ma troppo giovane per sopportare il fardello di un lutto, Cecile aveva trovato conforto nel vivace corteggiamento di un giovane soldato della marina francese. Forse per ingenuità o forse semplicemente per bisogno d’amore, Cecile si era lasciata convincere dalle promesse di quell’uomo, sottovalutando, o meglio, trascurando del tutto le conseguenze. Quando lui era salpato per il nord, Cecile era rimasta ad attendere invano il suo ritorno, seguendo nel frattempo, di giorno in giorno, il lento gonfiarsi del proprio ventre. La consapevolezza di essere stata ingannata era arrivata troppo tardi e nonostante lei avesse tentato di riguadagnarsi l’affetto della famiglia del defunto marito, era stata ripudiata e respinta da tutti. Il figlio era venuto alla luce in un piccolo convento di Parigi, dove Cecile era riuscita ad ottenere un lavoro come sguattera. Aveva accudito il piccolo Bernard per pochi anni, finché una malattia non le aveva portato via prima la salute, poi la ragione e infine la vita.

Bernard picchiettò le mani sul bordo dello scrittoio perdendosi ad osservare il nero profondo dell’inchiostro nella boccetta.

-Dio ha punito tua madre con la sifilide per essere stata viziosa e infedele.-

Quante volte nella sua gioventù era stato costretto a sentire quella frase! Ma quanto più lo zio aveva ripetuto quelle parole, tanto più Bernard si era convinto della loro infondatezza. D’altra parte, Jacques Chatelet era appartenuto ad una non rara specie di cattolici rigidi e cocciuti, che non osavano mettere in discussione nessuno di quei pregiudizi di stampo medievale che avevano assorbito durante l’infanzia. In ogni caso, nonostante zio Jacques non fosse mai riuscito a digerire l’idea che Bernard fosse stato concepito al di fuori del matrimonio, si era preso cura dell'inaspettato nipote, tenendolo lontano dalla miseria che dilagava a Parigi e impartendogli una valida istruzione. Nel corso degli anni, a dispetto delle aspettative di entrambi, erano riusciti perfino ad affezionarsi l’uno all’altro. 

Avevano avuto un rapporto strano, talvolta complice talvolta conflittuale, ma Bernard non poteva che sentirsi riconoscente nei confronti di quel grosso e burbero Gargantua, con la testa dura e il cuore tenero. Lo zio era morto per problemi di gotta l’anno stesso in cui lui si era trasferito a Parigi per cercare lavoro come giornalista.

Bernard si accese la pipa ritenendo che un po’ di fumo sarebbe stato in grado di scacciare quei tristi pensieri dalla sua testa, come vespe da un alveare.

-Sono anni che non porto un fiore sulla tomba di mia madre.-

Borbottò liberando un rivolo di fumo dalle labbra. Forse quel sogno gli aveva voluto suggerire che fosse giunto il momento di farle una visita.

Ricordava ormai a mala pena in che posizione del cimitero si trovasse la sobria croce di legno che recava umilmente il nome di Cecile Chatelet, sepolta, per convenzione, accanto al marito. 

Decise di uscire di casa e recarsi al cimitero, sperando, in quel modo, di poter esorcizzare i demoni che infestavano la sua testa.

Camminò fino al campo santo e rimase ad osservare le due croci di legno con le braccia incrociate sul petto. Ai piedi di ciascuna croce giaceva una rosa bianca con i petali ingialliti e grinzosi, e Bernard dedusse, con un certo sollievo, di non essere l’unico a conservare la memoria di quei due defunti. Forse qualche parente del marito di sua madre aveva portato loro quei fiori qualche giorno addietro. 

Sospirò e rivolse un compassionevole sorriso alle due tombe. Suo zio aveva sempre sostenuto che, attraverso la Morte, i due sfortunati coniugi Grandier si fossero finalmente riconciliati e che riposassero insieme in pace. Bernard scrollò la testa e sospirò. Non riusciva ad ammettere che ci potesse essere vita oltre la morte, però credeva che i defunti potessero sopravvivere nella memoria dei vivi. Perfino quella comune coppia di sposi, che si era lasciata alle spalle due piccole esistenze anonime e passeggere, meritava di essere ricordata.

Guardò le due rose e gli sfuggì una lacrima. 

 

 

 

 

 

 

Il mantello scuro della notte avvolse il cielo soffocando lentamente le ultime timide frange di sole. La fulgida luce di Venere brillò per prima nella volta celeste, sospesa sopra l’orizzonte, annunciando una notte chiara e limpida.

Di colpo, la siepe di ginepro che separava il cortile dal giardino emise un fruscio. Oscar si voltò di scatto e tese il braccio puntando la canna della pistola verso la pianta. Il suo sguardo era pronto a catturare ogni minimo movimento e il suo dito sul grilletto era carico come l’arma che teneva in pugno, ma dal cespuglio si levò in volo soltanto un uccello. Oscar lo osservò planare nel cielo color lapislazzulo e appollaiarsi sul davanzale di una delle alte finestre di Villa Millet. 

Abbassò l’arma e rimase a guardare la facciata del palazzo. Dai vetri trapelava la calda luce ambrata dei grandi lampadari del salone da ballo e le note ovattate di un vivace minuetto attraversavano le pareti disperdendosi nel cortile.

Con un profondo sospiro, tornò ad appoggiarsi al muro esterno della Villa, guardandosi intorno, mentre il buio calava leggero come un tulle scuro. La luna piena sorse dall’orizzonte e cominciò ad inerpicarsi nel cielo. La sua luce bianca inghiottì tutti i colori del rigoglioso giardino, dando l’impressione che sopra ogni cosa si fosse posato uno strato di ghiaccio. Tutto era immobile. Non soffiava neppure un alito di vento, come se ogni cosa fosse in attesa insieme a lei.

 

 

 

 

André entrò nella camera della Baronessa Millet attraverso la porta del terrazzo e si sorprese di trovare l’ambiente fiocamente illuminato da un lucignolo. Qualche cameriera sbadata aveva lasciato accesa una candela sul comodino della Signora. 

Cominciò a vagare nella stanza finché la sua attenzione non fu catturata da uno scrigno dorato che troneggiava sul mobile della toilette, accanto ad una schiera di colorate boccette di profumo. Per quanto breve, la sua esperienza di ladro gli aveva insegnato che le nobildonne tendessero a conservare i propri gioielli in cofanetti simili, rigorosamente tenuti in bella vista e a portata di mano. Vi si avvicinò e sollevò il coperchio, immaginando di trovarsi davanti ad un eccitante sfavillio di ori e di pietre preziose, invece non vide altro che la fodera di velluto rosso che ricopriva l’interno dello scrigno. Vuoto. 

Ebbe il tempo di prendere atto di esser stato preceduto, poi di colpo la candela si spense. Il buio pesto che gli crollò addosso gli tolse il fiato. D’istinto sollevò gli occhi in cerca di un punto di riferimento, ma ciò che vide gli fece venire la pelle d’oca. C’era una sagoma scura proprio davanti a lui. La sua fronte si coprì di sudore freddo ma fu questione di pochi secondi, perché quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, riconobbe che quella sagoma era il suo stesso riflesso sullo specchio. Ritornò con sollievo a respirare.

-Mi sono calato troppo nella parte.-

Scherzò per rincuorarsi, ma senza immaginare di ottenere una risposta.

-Concordo.-

Sibilò una voce alle sue spalle. Il cuore gli tornò in gola. 

-Chi è là?-

Chiese, con l’addome contratto e gli occhi incollati sullo specchio. Silenzio. Non poteva essere stato uno scherzo della sua fantasia, si disse. Il Cavaliere nero era lì, da qualche parte dietro di lui, protetto dal buio.

-Impostore...- la voce del ladro fece vibrare l’aria -Se questa non sarà la tua ultima notte da Cavaliere nero, allora sarà l'ultima della tua miserevole vita!-

Nel nero riflesso sulla superficie dello specchio, André fece in tempo a vedere un bagliore sottile di luce che squarciava il buio. Si tuffò di lato e riuscì per un soffio ad evitare un colpo di spada spietato come lo slancio mortale di una ghigliottina. La lama del Cavaliere nero calò con una tale violenza sul ripiano della consolle, che si conficcò tra le fibre solide del legno. André approfittò di quei pochi attimi di vantaggio per fuggire sul balcone. Scavalcò il parapetto con un balzo e atterrò sul cornicione, appena prima che un nuovo colpo di spada lo raggiungesse.

-Ti stavo aspettando, figlio di puttana!-

Esplose Bernard, mentre André, con la schiena addossata al muro, si allontanava da lui a piccoli passi sulla sottile sporgenza del muro. 

-Ti stavo aspettando anche io!-

Gli rispose. Quand’ebbe conquistato il balcone vicino, si guardò indietro e scoprì che il ladro non aveva nemmeno provato ad inseguirlo. Era immobile e lo fissava in silenzio, forse turbato dalle sue parole. Allora estrasse dalla cintola il pugnale con lo stemma del Duca D'Orleans e lo sollevò verso la luce della luna:

-Riconosci questo pugnale?-

Il Cavaliere nero gli rispose mostrandogli i denti come un cane inferocito. “Sì, lo riconosci, vero?” André gli lanciò un sorriso di sfida e saltò dal parapetto, atterrando su un muro coperto di edera che si sollevava sopra il giardino della Villa. Da lì raggiunse facilmente il cortile. Fece un discreto cenno ad Oscar per comunicarle di stare all’erta e lei gli rispose facendo brillare la canna della pistola alla luce della luna. “Tutto procede secondo i piani.”

Bernard si calò dal balcone con una fune, toccando terra a metà strada tra il nascondiglio di Oscar e il punto in cui stava André, e sguainò la spada.

-Chi sei? Perché fai tutto questo?-

Gridò facendo mulinare il fioretto.

-Rinuncia alla tua maschera e ai furti.- rispose André, fedele al proprio copione, mentre rinfoderava il coltello nella guaina della cintura -Se non lo farai, consegnerò questo pugnale alle autorità e il Duca D'Orleans verrà pubblicamente accusato di essere tuo complice.-

Bernard si avvicinò.

-Battiti con me e dimostra che la tua lama è affilata quanto la tua lingua.- lo apostrofò -Se vinci tu, mi costituirò personalmente. Ma se vinco io, mi consegnerai il pugnale e smetterai di infangare il mio nome.-

André lanciò uno sguardo ad Oscar, ben nascosta nell’ombra, e ripensò a quella stessa mattina, quando l’aveva vista affacciata alla finestra con una tazza di tè in mano, bella, luminosa, baciata dal primo sole del giorno. Quanto desiderava dimostrarle di essere pronto a misurarsi in un vero combattimento! 

-Molto bene.- gridò fiero -In guardia!-

 

 

 

 

Le bocca di Oscar si schiuse ma la sua mano corse a coprirla prima che la voce provasse ad uscire. Il “no!” che le era salito su per la gola si bloccò contro le sue labbra serrate. Non poteva gridare, non poteva farsi scoprire. Cercò di ideare in fretta un modo per impedire che il duello cominciasse, ma non fece in tempo. Le scie luminose delle spade sfolgorarono nel buio della notte e le lame si scontrarono con un crudo fragore di metallo, richiamando l’attenzione degli ospiti della Baronessa, che si accalcarono alle finestre del Palazzo per assistere a quello spettacolo imprevisto.

-Sono in due!-

Strillò eccitata una giovane donna, puntando un dito verso di loro.

Oscar rimase immobile contro il muro a seguire con lo sguardo le mosse dei duellanti. Caricò la pistola, ma tenne lontano il dito dal grilletto per evitare di cadere nella tentazione di premerlo. Per quanto la sua mira potesse essere precisa, col buio e con la dinamicità del duello era troppo difficile distinguere quale dei due fosse il vero Cavaliere nero. 

Decise di fidarsi dell’abilità di André, pur sentendosi morire ogni volta che la lama del ladro sfiorava il corpo dell’amico. Pregò in silenzio che la sorte non facesse scherzi e cercò di ignorare il pessimo presentimento che le stringeva lo stomaco.

 

 

 

 

 

Bernard si pentì quasi subito di aver lanciato quella sfida. Aveva creduto che l’avversario fosse solo uno spaccone con pochi fondamenti di scherma e invece si era trovato davanti un abile spadaccino. Provò a tenergli testa, ma alla lunga si accorse di essere in difficoltà. Il fantasma della sconfitta cominciò a fargli paura.

Ad un tratto, nel pieno del duello, qualcuno tra il pubblico affacciato ai finestroni propose di intervenire. Oscar cominciò a sudare freddo.

-André, disarmalo prima che gli ospiti della Baronessa si intromettano.-

Sussurrò tremando di impazienza e stringendo l’impugnatura della pistola con entrambe le mani. Con stupore e sollievo si trovò ad assistere proprio in quel momento ad una svolta decisiva. Con una mossa perfetta, André era riuscito a far saltare l’arma dalle mani dell’avversario. 

Bernard sentì una voragine aprirsi dentro di lui, mentre guardava la propria spada che volteggiava nell’aria, sempre più distante, fino a diventare irraggiungibile. Davanti ai suoi occhi, ciechi per lo sgomento, si tratteggiò la visione mostruosa di un ciclopico giudice che leggeva con voce solenne la sua condanna a morte.

Crollò in ginocchio, svuotato dalla sensazione di sconfitta, aprì le mani in segno di resa e sollevò la testa, offrendo il volto alla luce della luna. In quel preciso istante, Oscar vide André indugiare e capì con terrore che quell’attimo di esitazione gli sarebbe costato caro. Alzò in fretta la pistola e prese la mira in linea con la canna, puntando direttamente alla schiena del ladro, ma la mano di Bernard fu più veloce della sua.

Accadde tutto troppo rapidamente.

Bernard afferrò il manico del pugnale che André portava alla cintura e si rialzò da terra con un balzo. La lama dello stiletto brillò come una stella cadente nella notte e squarciò il buio disegnando la traiettoria curva del suo braccio che si sollevava rapido verso il cielo.

Oscar premette il grilletto e il proiettile si conficcò dritto nella schiena di Bernard. Ma lo slancio della sua mano era ormai inarrestabile. La lama affilatissima del pugnale non riuscì a raggiungere la gola di André, ma incise un taglio verticale su un lato del suo volto, lacerando la maschera e la carne. Bernard perse i sensi ancor prima che il suo corpo ferito crollasse a terra. Quando toccò il suolo, il pugnale schizzò fuori dalla sua mano e rimbalzò distante sui ciottoli.

André non si rese nemmeno conto di aver urlato. Cadde in ginocchio, senza fiato, e la notte gli sembrò diventare di colpo più nera.

Il dolore che gli attraversò la faccia risucchiò tutte le altre sensazioni. Era come se una lingua di fuoco gli stesse divorando il volto, scavando la pelle. Si portò una mano sulla guancia e la trovò viscida di sangue.

Devastato dall’orrore, riuscì ad udire solo un borbottio confuso di esclamazioni e di passi che gli si avvicinavano e distinse a malapena la voce di Oscar che chiamava ripetutamente il suo nome. Alzò il viso, ma scoprì di non riuscire a vederla. Ebbe la vaga percezione di un paio di mani che gli prendevano le spalle, poi le forze scivolarono fuori dal suo corpo insieme a quel fluido di fuoco che colava dalla ferita. Si accasciò tra le braccia di lei ascoltando l’eco confusa della sua voce dolce e disperata.

-Sono qui, André, andrà tutto bene.-

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Capitolo 9
*** Luce ***


Luce, bianca e aggressiva.

André sbatté le palpebre più volte poi si arrese e richiuse gli occhi. Tentò di sprofondare di nuovo nel sonno, ma la luce continuò a bussare con prepotenza sulle sue palpebre chiuse... su una palpebra, una sola. Un improvviso bruciore si impadronì della metà sinistra del suo viso e con esso si risvegliarono tutti i ricordi.

Spalancò gli occhi. Luce a destra, buio a sinistra. Sollevò la mano per raggiungere la sorgente di quel dolore insopportabile, ma le sue dita si scontrarono col tessuto di una fasciatura che avvolgeva completamente un lato della sua testa.

Rimase a fissare il soffitto finché l’occhio destro non accettò di restare aperto. Allora provò a guardarsi intorno. Era nella propria stanza, nel proprio letto, e la luce che entrava dalle finestre non era affatto intensa come gli era sembrata svegliandosi. Notò che al di là dei vetri la cupola opalescente del cielo era cosparsa di brandelli di nuvole rosa. Era l’alba.

-André!-

La voce di sua nonna gli esplose nella testa come uno sparo. 

-Oh, ragazzo mio...-

Gemette Marron. André inclinò il capo verso di lei, ma il suo sguardo scavalcò le spalle della nonna e finì sulle facce di tre vecchi dottori, raccolti in gruppo, che lo guardavano come se stessero aspettando il suo risveglio da molto tempo. I medici si scambiarono tra loro qualche occhiata complice e, senza consultarsi verbalmente, annuirono tutti insieme.

Uno di essi si avvicinò al letto con le mani congiunte e le dita incrociate e chiese:

-Provate dolore? Vertigini?-

André gli rispose con un’altra domanda.

-Ho perso l’uso dell’occhio sinistro?-

Un secondo medico tossì per richiamare l'attenzione e si fece avanti, spostando con una leggera gomitata il collega che si era avvicinato per primo.

-Noi abbiamo fatto del nostro meglio.- Si bloccò e rivolse un’occhiata eloquente agli altri due per cercare la loro approvazione. -La ferita era molto profonda. Ci auguriamo che con le dovute cure possiate recuperare almeno in parte la vista, ma è ancora troppo presto per avere delle certezze.-

André annuì nascondendo sotto le lenzuola i pugni serrati e borbottò un rauco grazie, poi tornò a rivolgersi a sua nonna.

-Oscar?-

Chiese inspessendo la voce.

-È uscita poco fa, ma tornerà a momenti.-

Marron allungò una mano e sfiorò la guancia del nipote con una carezza. “Un uomo può vivere e lavorare anche con un occhio solo” si disse, ammirando il raro colore turchese della sua iride scoperta. André aveva ereditato lo stesso colore e lo stesso taglio degli occhi di sua madre. Occhi dolci, profondi e attenti, ma anche molto tristi. 

-André...-

La voce di Oscar riempì la stanza come un accordo musicale di note basse. Gli occhi di tutti i presenti ruotarono verso di lei e la osservarono mentre oltrepassava la soglia e si inoltrava quasi timidamente nella stanza.

-Signori, vi ringrazio della vostra sollecitudine. Ora potete lasciarci.-

Disse stirando le labbra in direzione dei medici.

-Anche tu, Marron, per favore, vai a riposare. Vorrei restare da sola con André.-

Le teste si chinarono in un educato saluto e la stanza si svuotò al suono di un leggero fruscio di abiti, che si interruppe nel momento in cui lo scatto della serratura dichiarò che la porta era stata chiusa. Quando furono soli, nel silenzio, Oscar alzò finalmente gli occhi verso il viso dell’amico.

-Mi dispiace, André.-

Riuscì a dire, nonostante il nodo in gola. Camminò fino alla finestra, attratta dal chiarore rosato e rilassante del cielo, e gettò lo sguardo oltre il vetro.

-Avrei voluto essere io al tuo posto.-

Disse secca. Si sarebbe volentieri cavata un occhio per darlo a lui, se solo fosse servito a qualcosa. Appoggiò la fronte sul vetro freddo e un raggio di sole le posò un bacio caldo sulla guancia.

-Io sono contento che non sia successo a te, Oscar.-

Gli sentì dire in un sussurro. Le si inumidirono gli occhi, ma piangere era fuori questione. Sapeva che André non se ne sarebbe fatto nulla delle sue lacrime.

Con un sospiro, aprì la finestra e socchiuse l’anta in modo da far entrare soltanto un alito d’aria fresca. Qualche passero nel parco stava cinguettando allegro per dare il benvenuto al nuovo giorno.

-Ti devo ringraziare, Oscar. So che non spareresti mai ad un uomo di spalle. Mi hai salvato la vita.-

Oscar rivide nella propria mente il bagliore letale della lama che aveva sfiorato la gola di André e strinse le mandibole per contenere un brivido di orrore.

-Non devi ringraziarmi.-

Si avvicinò al letto e si sedette sul bordo.

-Lui per primo è stato sleale, non meritava di ricevere un trattamento diverso.- 

-L’hai ucciso?-

Oscar scosse la testa.

-No. L’ho solamente ferito. È qui a Palazzo, ora. Ho chiesto ai medici di occuparsi di lui, ma è ancora privo di conoscenza.-

Uno sbuffo d’aria si intrufolò nella stanza portando il delizioso profumo di erbe aromatiche dell’orto di Madame Marguerite.

André fece scivolare la mano sopra il lenzuolo e la posò su quella di Oscar. Con un sorriso a labbra strette provò a farle intendere di essere felice, davvero felice, che quei suoi splendidi occhi di fiordaliso fossero incolumi.

In un altro momento, in un’altra vita, avrebbe accompagnato la sua mano sulle proprie labbra e le avrebbe detto l’amava.

Si permise di ammirarla a lungo senza preoccuparsi di apparire insistente. Era così bella avvolta nella limpida luce del primo mattino e così inconsapevole del fascino che sprigionava.

Se soltanto il sole dietro di lei non avesse cercato con tanta prepotenza di attraversare la stoffa troppo sottile della sua camicia, facendogli intuire la sagoma del suo seno, non avrebbe mai smesso di guardarla. Fu costretto a distogliere lo sguardo per buona creanza e a rivolgerlo altrove.

-Dunque il Cavaliere nero ora è nelle tue mani, Oscar.- ritirò la mano e si sistemò in una posizione confortevole -Quando parlerai con lui, vorrei essere presente.-

Oscar smise di fissare i ricami delle lenzuola e lo guardò in faccia con aria vagamente stupita, poi, dopo un momento di esitazione, promise:

-D’accordo, André, come vuoi.-

 

 

 

 

 

Fu un dolce e sensuale profumo a risvegliare i suoi sensi intorpiditi. Un profumo di rose.

Bernard aprì con fatica gli occhi e si ritrovò a fissare un alto soffitto di stucchi. Non era decisamente nella squallida stanzetta del proprio appartamento di Parigi, si disse.

Roteò il viso sul cuscino e scoprì che un misterioso individuo circondato dalla luce livida del crepuscolo era in piedi davanti ad un’enorme finestra che si affacciava su chiome folte di alberi. Assottigliò gli occhi, ma la penombra non gli permise di riconoscere i tratti del volto di quella figura. 

Provò a cercare rapidamente qualche indizio nell’ambiente che lo circondava. Tappezzerie damascate, tinte tenui, candelabri d’argento, mobili dalle linee eleganti. Suppose di essere ospite del Duca D’Orleans. Quale altro nobile si sarebbe mai preso la briga di curare il ladro più celebre di Francia e di sistemarlo con tutti gli onori in una stanza simile?

Eppure quel profumo... Riportò lo sguardo sulla figura immobile in controluce e di colpo realizzò.

-La pallottola ti ha sfiorato il cuore.- lo ammonì la voce di Oscar François de Jarjayes -Se ti alzi da questo letto prima che il medico abbia dato il suo consenso, potresti rischiare di morire.-

Quando terminò di parlare, Oscar si avvicinò al letto offrendo il volto alla luce delle candele e si sedette sul bordo del materasso, facendo roteare tra le dita un pugnale. A Bernard bastò un solo sguardo per riconoscerlo.

-Prega Dio che il mio amico non abbia perso del tutto la vista dall’occhio ferito.-

Ringhiò lei appoggiandogli la lama sullo zigomo.

-In caso contrario, io stessa ti ripagherò con la stessa moneta.-

Bernard sgranò gli occhi, ma non fiatò. Percepì il filo della lama affondare piano nella carne della sua guancia senza incidere la pelle e d’istinto immerse la testa dentro il cuscino nel tentativo di sottrarsi all’incedere del pugnale. Oscar si protese sopra di lui stringendo le mandibole, come se non riuscisse a trattenersi dal desiderio di sfregiarlo, poi di colpo ritirò la lama e gli lasciò solo un lievissimo segno rosso sul viso.

-Ti avrei lasciato andare.- Gli disse con voce cruda -Se solo tu avessi collaborato.-

 

 

 

 

André corrugò la fronte e si concentrò sull’alone luminoso che vedeva fluttuare davanti a sé, sperando inutilmente che quella macchia di luce opaca si decidesse ad assumere i contorni e i colori di una fiammella.

Il dottore insistette a far ondeggiare la candela accesa davanti al suo volto, chiedendogli ogni poco tempo di descrivere cosa riuscisse a vedere. La risposta di André era sempre la stessa:

-È come se stessi guardando una piccola luce mobile che filtra attraverso una tenda nera.-

Il dottore posò la candela sul tavolo ed esalò un sospiro che arrivò a colpire André dritto sullo stomaco, come un pugno.

Il ragazzo abbassò la mano con cui si era coperto l’occhio sano e osservò i gesti pesanti del dottore che sistemava i propri strumenti nella borsa, mentre Oscar, che aveva assistito alla visita in disparte e in silenzio, riapriva le tende per lasciar entrare nella stanza la luce del giorno. 

Il vecchio dottore se ne andò bofonchiando qualche consiglio, ma André non ascoltò nemmeno una parola. Era stanco di sottoporsi a visite mediche e a sperare che uno dei tanti improbabili rimedi che gli venivano proposti avesse un effetto positivo. In realtà, dentro di sé, aveva già accolto l’idea che non ci sarebbe stata soluzione e, come era nella sua natura, avrebbe preferito cominciare a farsene una ragione piuttosto che continuare ad inseguire una chimera. Oscar, invece, sembrava intenzionata a convocare uno per volta tutti i medici del regno. Era lei quella che non riusciva a rassegnarsi.

Mentre il dottore spariva nel corridoio, André si dedicò in silenzio a detergere l’occhio ferito con un tampone di cotone bagnato, trovando nella freschezza dell’acqua un po’ di sollievo dal bruciore, ma quando le sue dita sfiorarono per sbaglio la ferita, subito le ritrasse, inorridito.

Lo squarcio sul suo volto si estendeva dalla fronte fino a metà della guancia. Doveva essere una ferita impressionante e André non aveva ancora trovato il coraggio di guardarsi allo specchio. Non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima che il taglio si fosse rimarginato, ma era sicuro che la cicatrice non avrebbe mai smesso di ripugnarlo. Considerò nel pensiero che una benda non sarebbe stata sufficiente per coprirla. Forse avrebbe dovuto servirsi di un ciuffo di capelli come sipario sul proprio viso.

Mentre pensava a come nascondere ciò che sarebbe rimasto di quella spiacevole esperienza, sentì i passi di Oscar che si avvicinavano.

-Quell’uomo la pagherà, André, te lo giuro.-

Mormorò lei posandogli le mani sulle spalle, leggera e decisa. André lasciò cadere il tampone nella ciotola d’acqua e scosse la testa.

-Non voglio avvelenarmi la vita col rancore, Oscar. L'abbiamo catturato: questo è tutto ciò che conta. Quando ho accettato il duello, ho accettato anche i rischi che un duello comporta.-

“...e poi la vendetta è un maledetto circolo vizioso” aggiunse nel pensiero. 

Abbassò le palpebre e si lasciò coccolare dal calore di quelle mani che premevano sulle sue spalle. C’era qualcosa di portentoso nelle dita di Oscar. Quando lei lo sfiorava, il dolore si addolciva. Ma non era come l’effetto di una medicina. Era piuttosto come l’effetto del vino. Stordiva, sedava, confortava, ma prima o poi si esauriva e lasciava insoddisfatti.

-Ti voglio bene, André.-

Stordito da quelle poche parole impreviste, pronunciate a bassa voce vicino al suo orecchio, quasi non si accorse che lei lo stava stringendo in un abbraccio. Una cascata di capelli biondi si riversò sulla sua spalla destra e un intenso profumo di rose gli esplose nei polmoni. Rimase senza fiato.

Pensò distrattamente che avrebbe dato anche l’altro occhio per avere l’audacia di alzarsi dalla sedia, guardarla in viso e ricambiare quell’abbraccio. Stringerla tanto da sentire le sue forme imprimersi sul proprio corpo. Baciarle i capelli, il collo, la bocca e dirle che quell’affetto che lei gli offriva, per lui non era abbastanza. Ma rimasero fantasie, destinate a sciogliersi in nuova malinconia.

 

 

 

 

 

Calò il crepuscolo e si affacciò nel cielo una notte scura, senza luna.

Bernard se ne stava disteso in quel grande letto profumato di lavanda, senza la minima intenzione di alzarsi, e assisteva alle faccende dei domestici che andavano e venivano nella stanza per sistemare la biancheria, per rassettare e per accendere le candele. C’era un’armonia nei loro gesti che gli dava serenità. L’inattesa visita di Oscar lo privò bruscamente di quel piacevole senso di pace. Quando lei apparve sulla soglia, con il suo sguardo azzurro e gelido, la servitù si disperse in pochi secondi e l’atmosfera nella camera si raffreddò come se una folata di vento invernale fosse entrata dalla finestra. Ma il vero motivo dello stupore di Bernard, fu il fatto che lei non fosse da sola. Al suo fianco c’era un uomo alto e moro, con la testa fasciata per metà, che sembrava essere suo coetaneo. Il giornalista fece un breve calcolo a mente e trasse con facilità le sue conclusioni. “Il falso Cavaliere nero.”

Oscar si sedette su una poltroncina di velluto rosso accanto al letto e accavallò le gambe. Gambe davvero lunghe, registrò Bernard.

-Qual è il tuo vero nome?-

Esordì lei, glaciale. Il giornalista non pensò nemmeno per un istante di mentire.

-Mi chiamo Bernard, Bernard Chatelet.-

André, rimasto in disparte accanto alla porta, emise un timido verso di stupore, di cui nessuno degli altri due si accorse. "Chatelet?"

-Abiti a Parigi?-

Continuò Oscar.

-Sì. Sono un umile giornalista stanco di scrivere ogni giorno articoli sulla sofferenza del popolo francese.-

-Oscar, perdonami.- si intromise André avanzando di qualche passo -ti dispiace lasciarci soli per qualche minuto?-

Lei sembrò sul punto di protestare e invece annuì, si alzò dalla poltrona e abbandonò la stanza senza dire una parola.

-Noi già ci conosciamo, giusto?-

Bernard prese parola per primo, mentre André occupava il posto lasciato libero da Oscar. 

-Permettimi di fare qualche osservazione.- continuò -Tu tiri di scherma in modo eccellente, parli come un aristocratico e ti rivolgi alla figlia del Generale con rara confidenza. Addirittura, tu le chiedi di lasciare la stanza e lei lo fa, senza nemmeno fiatare. Sarei propenso a credere che tu sia un nobile, o qualche uomo di chiesa, eppure indossi una vecchia camicia di cotone consumata sui gomiti e non hai croci o rosari appesi al collo. Devi essere un uomo comune, forse un servo.-

-Mi chiamo André.-

Rispose l’altro a mezza voce.

-Mi ha stupito che il Colonnello Jarjayes, noto modello di disciplina ed integrità, mi abbia sparato alle spalle. Pare che sia affezionata più a te che all’onore. Perciò mi chiedo, sei soltanto un servo?-

Sul volto di André si disegnò la linea di un sorriso. Doveva riconoscere di avere davanti a sé un uomo con una lingua piuttosto affilata.

-Sono l’attendente di Oscar.- spiegò calmo -Frequento questa casa fin dall’infanzia e, grazie al mio lavoro, frequento anche Versailles. Rimbalzo in continuazione tra gli ambienti aristocratici e gli ambienti più umili. A Corte si chiacchiera molto ed io ho il privilegio di ascoltare sia i pettegolezzi dei nobili sia quelli dei servi. Oscar fa parlare molto di sé, non c’è dubbio, ma le cattiverie su di lei non reggono mai più di un giorno. Di altri nobili si raccontano storie alquanto stravaganti. Il Duca D’Orleans, ad esempio, è molto discusso.- Fece una pausa per godersi l’aria allibita di Bernard. -Pare che il Duca abbia inclinazioni insolite e che ami organizzare nella sua residenza serate dissolute.-

Bernard impallidì e non trovò parole per ribattere. 

-Trovo che sia inutile che io mi sforzi di difendere la limpidità del mio rapporto con Oscar, quando il mio interlocutore appartiene alla cerchia di un uomo con una reputazione così ambigua.-

Bernard aggrottò la fronte e finalmente si decise a ribattere:

-Menzogne.-

-Il Cavaliere nero è stata un’idea del Duca d'Orleans?-

-È soltanto questo che tu e quella donna volevate sapere?-

André lo guardò senza scomporsi e scosse leggermente la testa.

-In un certo senso, sì. Ma non è così semplice. Oscar ha il dovere di sapere. La conoscenza è potere. Forse non avrebbe mai puntato pubblicamente il dito contro il Duca, ma l'avrebbe tenuto sotto controllo.-

-Il Duca è un uomo di larghe vedute, ma ha più nemici che amici.-

-Il Duca ha dimostrato più volte di essere un abile ingannatore, un voltafaccia e un opportunista. Mette in discussione l’autorità di Luigi XVI per un interesse personale.-

-Forse è vero, il Duca non è un uomo pio, ma ha una forma tutta sua di generosità. Mette la propria biblioteca a disposizione di tutte le giovani menti interessate a studiare e a confrontarsi. Io faccio parte del gruppo di intellettuali che si ritrova tra le librerie di quella biblioteca. L’idea del Cavaliere nero è nata durante uno di quegli incontri.-

-Il Duca organizza “orge” filosofiche, quindi.- Scherzò André grattandosi il naso. -Mi piacerebbe partecipare.-

Bernard lo guardò perplesso.

-Non desterei sospetti. Tu potresti presentarmi come un tuo parente.- continuò André -A quanto pare ci assomigliamo molto.-

 

 

 

Oscar si appoggiò di spalle al muro opposto del corridoio e rimase a fissare il pomello della porta torturandosi un unghia tra i denti. 

Attese che una coppia di domestiche attraversasse il corridoio, quindi tornò verso la porta della stanza di Bernard e vi appoggiò l’orecchio. Trattenne il fiato per cogliere meglio i suoni, ma riuscì a riconoscere soltanto poche frasi e a stento fu in grado di distinguere la voce di André da quella del giornalista. 

I due parlarono a lungo. Oscar intuì che André stesse cercando di guadagnare qualche informazione sul Duca D’Orleans e fu contenta di aver lasciato a lui quel compito. L’empatia di André avrebbe sicuramente dato i suoi frutti. Ad un tratto, però, i due uomini cambiarono argomento e il loro tono di voce si fece più basso. Il dialogo durò ancora per diversi minuti, ma Oscar riuscì a cogliere solo qualche parola confusa. Quando si accorse che nella stanza era calato il silenzio, fuggì in fretta nella propria camera per evitarsi l’umiliazione di venir sorpresa ad origliare.

Si lasciò cadere su una poltrona e si prese il volto tra le mani. Quel poco che aveva udito era stato sufficiente. Non poteva dubitare delle proprie orecchie, ma non riusciva a credere a ciò che avevano sentito.

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Capitolo 10
*** Tragica fatalità ***


La pioggia aveva reso inattuabili le passeggiate pomeridiane nei giardini di Versailles, perciò Oscar trovò i saloni della Reggia straripanti di cortigiani annoiati. 

Il suo passaggio inatteso diede una scossa a quegli animi pigri accasciati sulle poltrone e sui tavoli da gioco. Tutti si incantarono a guardarla, come se la sua presenza fosse un avvenimento eccezionale, e si sforzarono di notare in lei qualcosa che fosse fuori posto: un’incertezza nell’andatura, una rotazione furtiva dello sguardo, uno scatto nervoso delle mani, un bottone della giacca slacciato o una macchia sospetta sull’uniforme. Qualsiasi tipo di impurità su cui poter costruire fantasiosi pettegolezzi.

Ma l’impeccabilità di Oscar lasciò le malelingue a corto di spunti.

Lei attraversò la foresta di sguardi senza incrociarne nemmeno uno, solenne e disinvolta come aveva imparato ad essere tra quelle mura, e poi scomparve con discrezione in un passaggio segreto dietro ad una parete. I cunicoli nascosti che costituivano i capillari dell’edificio erano bui, umidi e maleodoranti, ma erano comunque una scorciatoia che consentiva di raggiungere gli appartamenti della Regina in fretta e senza la seccatura di dover attraversare gli ambienti più affollati.

Quando raggiunse l’ala sud del Palazzo, abbandonò la rete di cunicoli e riemerse nella luminosa e pulita anticamera degli appartamenti di Maria Antonietta. Un paggio con gli occhi annacquati da bracco la osservò richiudere dietro di sé la porta-parete da cui era sbucata e senza dire una parola la fece accedere alla camera privata della Regina.

Maria Antonietta era seduta da sola ad un tavolino, avvolta in un’ampia veste color grano, con il volto disteso e un sorriso bonario stampato sulle labbra. Sorseggiava té caldo e guardava un po’ il cielo grigio oltre le finestre e un po’ i figli, che giocavano sul pavimento con delle trottoline d’argento insieme a due giovani dame di compagnia, figlie o nipoti di qualche famiglia di alto rango.

-Lieta di rivedervi, Colonnello.-

Maria Antoniette salutò Oscar con gioia trattenuta e tese la mano verso di lei per ricevere il suo omaggio. 

-Maestà, avrei necessità di conferire con voi in privato.-

La Regina fece un lieve cenno d'assenso e si rivolse ai bambini.

-Andate nella stanza attigua, per favore.-

Le due dame di compagnia si piegarono in un inchino e portarono via i bambini prendendoli per mano.

-Maestà, vi ringrazio per avermi ricevuta senza preavviso.- cominciò Oscar in tono grave -Desidero mettervi al corrente di alcune voci che mi sono giunte a proposito di Jeanne de Valois...-

La Regina non riuscì a dissimulare un moto di disgusto nel sentir pronunciare il nome di quella donna. Sfiorò il bordo della tazza che teneva in mano con un dito e lanciò un'occhiata cupida ai biscotti. L'etichetta le impediva di mangiare in pubblico fuori dai pasti ufficiali, perciò distolse lo sguardo e si strinse le mani in grembo.

-Forse non tutto è perduto, Maestà.-

Maria Antonietta fece un sorriso mesto.

-È già storia ormai, Madamigella Oscar.-

Il suo sguardo cadde di nuovo sui biscotti e non riuscì più a resistere alla tentazione. Allungò la mano e ne scelse uno.

-Ho sempre appetito da quando è nato Louis Joseph.-

Si giustificò. Oscar le sorrise con indulgenza, poi tornò seria.

-Maestà, io credo di avere tra le mani informazioni interessanti. Ho ascoltato per caso una conversazione in cui è stato fatto riferimento alla Valois e ai diamanti. Devo indagare più a fondo per trovare indizi concreti.-

-Temo che nulla possa ormai cambiare l’opinione che il popolo ha di me.-

-Eppure, se ci fossero nuove prove e testimonianze a vostro favore, la vostra immagine ne gioverebbe.-

La Regina annuì, senza entusiasmo, mostrandosi molto più interessata ai biscotti che all’argomento.

-Come credete, Madamigella, ma, per l’amor di Dio, vi prego, fate in modo che le vostre ricerche si svolgano con discrezione. Non sopporterei che si ricominciasse a chiacchierare di quella faccenda.-

 

 

 

 

Con un gemito di soddisfazione, Oscar immerse un piede nell’acqua bollente della vasca da bagno. Un brivido caldo scalò i muscoli della sua gamba e corse lungo la spina dorsale fino a sedurre ogni fibra del suo corpo. Mentre si abbandonava all’abbraccio di quel piacere liquido, la tensione che le aveva torturato i nervi per tutta la giornata si sciolse come zucchero nel té. Chiuse gli occhi e assaporò la delicata fragranza di rose sprigionata dall’acqua. Non c’era nulla di più appagante dell’immergersi in un bagno caldo.

Marron svolazzò allegra intorno alla vasca, mormorando tra sé un ritornello popolare mentre metteva in ordine la stanza.

-Ricordati che non ti fa bene restare nell’acqua calda a lungo.- 

Disse posando su uno sgabello una pila di teli bianchi.

-Se hai altre faccende da sbrigare, vai pure, Marron. Non ho bisogno che tu mi assista.-

Il volto della governante si accartocciò.

-D’accordo, ho capito, me ne vado,- concesse -ma tornerò qui non appena avrò sistemato i panni in lavanderia. E mi aspetto di trovarti fuori dalla vasca.-

Oscar accarezzò il pelo dell’acqua con la punta delle dita e le sorrise a labbra strette. “Sai già che mi troverai ancora immersa nell’acqua, Marron” le disse col pensiero.

Rimasta finalmente sola, si concesse un respiro profondo e sistemò i gomiti sui bordi della vasca per non scivolare nell’acqua. Il vapore danzava davanti al suo viso in trasparenti spirali perlacee che ipnotizzarono per qualche momento il suo sguardo.

Aveva molte cose su cui riflettere e la vasca da bagno era il luogo ideale per farlo. 

Risuonavano ancora senza sosta nelle sue orecchie le poche parole che era riuscita ad ascoltare della conversazione tra André e Bernard Chatelet, la sera prima.

“Ho diffuso io le Memorie di Jeanne Valois. È così che l'ho conosciuta.”

Aveva detto il giornalista. Era stata l’unica frase di senso compiuto che Oscar fosse riuscita a sentire, di tutto il resto aveva raccolto solo frammenti. "... una lettera a Rohan", "ho preso i diamanti", "tragica fatalità".

Dal momento in cui aveva staccato l’orecchio dalla porta, Oscar non aveva mai smesso di rimuginare su quella manciata di indizi. Provò a cucirli e ricucirli assieme e, prima ancora che Marron tornasse, si ritrovò con una serie di ipotesi, tutte piuttosto convincenti.

Forse Bernard Chatelet era stato un complice di Jeanne de Valois. Forse Nicolas de la Motte aveva consegnato o venduto a lui i diamanti o forse il giornalista li aveva rubati a sua volta. 

Oscar si sentì ad un passo dalla soluzione. C’era soltanto una cosa che non riusciva proprio a spiegarsi, una domanda che la tormentava.

“Perché André non me ne ha parlato?”

 

 

 

 

André immerse la forchetta nel pezzo di carne che aveva appena finito di tagliare e se lo portò alla bocca. Mentre masticava il manzo burroso cucinato con sapienza dalla nonna, sollevò gli occhi su Oscar e notò che lei non aveva ancora toccato la sua porzione. Se ne stava a braccia conserte, con gli occhi chiusi, trincerata in uno dei suoi silenzi. André ingoiò il boccone senza smettere di osservarla. 

-Oscar?-

Lei schiuse gli occhi, ma non lo guardò. Perseverò nel tacere e non slacciò le braccia dal petto. André si passò il tovagliolo sulle labbra piegate in un sorriso divertito e le rivolse contro la forchetta dalla parte appuntita.

-Ti sei accorta della cena?-

Lei abbassò gli occhi sul proprio piatto. Fissò per un po’ il filetto adagiato su un letto di tenerissimi asparagi e aggrottò la fronte, come se ce l'avesse a morte con quel pezzo di manzo.

-Oscar, che ti prende?-

Lei afferrò il coltello e infilzò la carne con un colpo secco.

-Tu vuoi dare il tuo sostegno a quel dannato ladro, anche dopo quello che ti ha fatto!-

Urlò scattando in piedi come una molla e appoggiandosi al ripiano del tavolo con i pugni serrati. André deglutì a vuoto.

-Hai origliato quando ho parlato con Bernard?-

Chiese sfidando il suo sguardo. Oscar colpì il tavolo con forza. I bicchieri furono scossi da un fremito e un po' di vino finì a macchiare la tovaglia.

-Hai preso le sue difese. Perché?-

Ruggì sprizzando scintille dagli occhi. André non si scompose. Sventagliò via le parole di Oscar con una mano e le rispose con la sua solidissima calma:

-Se tu avessi sentito tutto il discorso non parleresti così.-

-Se non è nulla di ché, perché non me ne hai parlato? Da quando ci sono segreti tra noi?-

André avrebbe voluto ribattere che i segreti tra loro c'erano sempre stati, ma tenne per sé quel pensiero.

-Se ti tengo all'oscuro di qualcosa, Oscar, c'è un buon motivo, non credi?-

In quel momento Marron entrò nella stanza con una caraffa di vino tra le mani. Oscar tese il braccio e le indicò la porta.

-Lasciaci soli, per favore. Io e André abbiamo una questione importante di cui discutere.-

Detestava essere così sgarbata con la cara governante, ma l’indole da comandante spesso prendeva il sopravvento sulle buone maniere. Marron strabuzzò gli occhi e rivolse uno sguardo interrogativo ad André, poi si ritirò senza protestare.

Gli occhi taglienti di Oscar tornarono ad infilzare André. Fece scorrere lo sguardo sulle bende che gli fasciavano l’occhio e si strofinò una mano sul viso.

-Aiutami a capire, André.-

Lui si alzò e fece il giro del tavolo per raggiungerla. Le sfiorò il gomito con le dita e la sentì sussultare appena.

-Hai ragione, Oscar. È giusto che tu sappia. Ti prego, ora dimmi esattamente cos’hai sentito, in modo che io ti possa spiegare.-

Oscar guardò André affondando nel tranquillo ruscello di smeraldo che circondava la sua pupilla e ripetè con precisione le parole che aveva sentito pronunciare da Bernard.

-Oh, Oscar, Bernard non ha nulla a che vedere con l’affare della collana.-

Mormorò lui accennando un sorriso.

-Allora come spieghi il fatto che abbia conosciuto Jeanne de Valois?-

Ribatté lei incrociando le braccia sul petto. André si ravvivò i capelli come per sollecitare la propria mente.

-Non mi ricordo in che modo abbia formulato esattamente la frase, in ogni caso non si riferiva a Jeanne. Quello che intendo è che lui l'ha citata, è vero, ma solo per spiegarmi come ha conosciuto la sua sorellastra...-

Oscar sgranò gli occhi.

-La piccola Rosalie.-

André annuì e tornò a sedersi a tavola. Oscar lo osservò riprendere in mano coltello e forchetta e dopo un attimo di esitazione si riaccomodò anche lei.

-L'ho sentito riferirsi a Rohan, il cardinale coinvolto nello scandalo.-

Borbottò appoggiando le mani sul tavolo.

-C'è una spiegazione molto semplice anche per questo.- André bevve un sorso di vino e riprese -Bernard non ha detto Rohan, bensì Rouen, la città dove ha studiato.-

-E i diamanti?-

Lo incalzò lei.

-Si riferiva a quelli rubati nei suoi furti.-

-E cosa mi dici della "tragica fatalità"?

André rimase in silenzio e fissò la macchia rossa di vino che si stava allargando sul bianco candido della tovaglia. Lui e Bernard avevano concordato di tenere quella faccenda segreta, almeno finché Bernard fosse rimasto a Palazzo Jarjayes, ma, per come si erano messe le cose, era meglio che Oscar sapesse tutta la verità, piuttosto che se ne facesse un’idea sbagliata.

Trattene a lungo gli occhi sulla macchia scarlatta poi prese una decisione. Appoggiò i palmi aperti sul tavolo e guardò Oscar negli occhi, serissimo.

-Domani ti porto in un posto e ti prometto che lì capirai ogni cosa.-

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Capitolo 11
*** La tempesta ***


Le gocce di pioggia erano spesse e abbondanti e nel cielo nerastro i tuoni rombavano e rullavano come furiosi tamburi da guerra.

André si coprì la testa con il cappuccio preparandosi ad affrontare la pioggia e sollevò lo sguardo. Scrutò le nuvole striate di verde che si scontravano nell’impeto del temporale, sfasciandosi e mescolandosi tra loro, e pensò che tutto quel rumoroso pandemonio non sarebbe potuto durare molto, anzi, di certo si sarebbe esaurito prima che loro due avessero raggiunto Parigi.

Oscar emerse leggera e discreta dall’atrio e affiancò André sulla soglia della porta, stringendo il laccio dei propri guanti di cuoio nero intorno al polso.

-La pioggia sta già diminuendo.-

Le annunciò André indicandole il cielo con un cenno della testa. 

-Allora andiamo.-

Un impercettibile accento di impazienza le sporcò la voce e André abbozzò un sorriso. Non aveva dubbi che Oscar dentro di sé scalpitasse come i nuvoloni che si agitavano sopra le loro teste per la smania di conoscere quel succulento segreto. Presero i cavalli dalle scuderie e si avviarono in direzione di Parigi, lasciandosi accompagnare dall’uggiolio grave del vento. 

Quando giunsero nei pressi dei sobborghi della città, le nuvole più grosse si erano sgonfiate e la pioggia era diventata tollerabile.

Si addentrarono in città attraverso Neuilly e si diressero verso sud passando per le vie secondarie finché non giunsero davanti alle mura di nord-est del convento di Chaillot. 

André fece rallentare il cavallo e Oscar lo imitò, senza porgli domande. Aggirarono l’imponente struttura fino ad un largo cancello di ferro che interrompeva un muro di pietra senza aperture. Oscar riconobbe la sagoma di alcune lapidi al di là delle inferriate, attraverso la patina opaca della pioggia sottile che non accennava a cessare.

-Non è il clima ideale per visitare un cimitero, André.-

Lui alzò le spalle e scese da cavallo. Aprì un ala del cancello e legò Alexander ad una sbarra di ferro.

Oscar esitò un momento stringendo le cosce sulla sella, poi smontò da cavallo e lasciò Caesar accanto ad Alexander.

André la precedette nel piccolo cimitero seguendo il sentiero di ghiaia tra le tombe. I loro stivali affondavano nel terreno morbido e il fruscio delle pioggia ingoiava il rumore dei loro passi.

-André, è in questo cimitero che sono sepolti i tuoi genitori?-

Chiese Oscar in un sussurro. 

-Sì.-

Un tuono ruggì nel cielo e i rami di un cipresso sfiorarono il braccio di Oscar facendola trasalire. Affrettò il passo e raggiunse il fianco di André.

-Siamo arrivati.-

Le disse lui appoggiando una mano sul suo braccio per fermarla. Si trovarono davanti a due semplici croci di legno conficcate in una zolla di terra erbosa. 

André sospirò appena e puntò l'indice verso la croce di sinistra. Oscar assottigliò gli occhi. Le gocce di pioggia sottili e il legno consumato rendevano difficile la lettura dell'iscrizione. Piegò la schiena e si protese verso la croce senza muovere un passo in avanti per non calpestare la tomba e lesse a voce alta:

-Qui giace Cecile Chatelet, vedova Grandier.-

I suoi occhi si trattennero increduli su quel nome. Lo ripeté un paio di volte tra i denti in un borbottio sommesso poi roteò di scatto la testa verso André scorgendo immediatamente l’ombra della verità sulle sue labbra. Lui concesse alla mente di Oscar il tempo necessario per lasciar sedimentare l’intuizione e infine dichiarò con voce ferma:

-È il mio fratellastro, Oscar.-

Lei raddrizzò la schiena e lo guardò come se il significato di quella parola le fosse sconosciuto.

-Pare che mia madre l’abbia concepito da vedova con un uomo che non l’ha mai sposata.-

Gli occhi di Oscar tornarono a posarsi sulla croce di legno, mentre André continuava a spiegare:

-Io e Bernard abbiamo pensato che la faccenda dovesse rimanere segreta, almeno per il momento.-

-Io non ho parole, André.- Mormorò lei chiudendosi il mantello sulla gola. -Tu non... non ne sapevi nulla?-

André scrollò la testa.

-Non prima che Bernard ci svelasse il suo cognome. In quel momento sono sorti i miei primissimi dubbi.-

Si fece il segno della croce per prendere commiato dai suoi defunti e passò un braccio dietro la schiena di Oscar invitandola a tornare verso i cavalli.

-Quando si è presentato come Chatelet ho sospettato che fossimo parenti. Mia madre aveva origini di Rouen e non credo che ci siano molti altri Chatelet a Parigi. Inoltre sapevo che lei aveva un fratello, quindi ho supposto che io e Bernard fossimo cugini. Quando invece gli ho detto il mio cognome, lui ha capito la verità. Sapeva che Cecile Chatelet era la vedova di un certo Grandier.-

Raggiunsero i cavalli che sbuffavano nervosi e infastiditi dalla pioggia e dall’odore sgradevole emanato dal terreno. 

-Hai fatto bene a portarmi qui, André. Avrei fatto fatica a crederti se me l’avessi raccontato ieri a cena.-

André richiuse il cancello preoccupandosi di non far stridere troppo i vecchi cardini per non turbare il riposo dei morti e montò a cavallo.

Si allontanarono dal convento fianco a fianco affrontando gli ultimi gocciolii di pioggia.

-Comunque, Oscar, non ti ho portata a Parigi solo per farti leggere il cognome di mia madre sulla sua tomba.- 

Ammise André quando raggiunsero la riva della Senna. Lei gli rivolse uno sguardo perplesso e aggrottò la fronte.

-Speravo che saremmo tornati a casa, ora. Ci prenderemo sicuramente un malanno se continuiamo a vagare nel temporale.-

André sogghignò e scosse il capo.

-Non preoccuparti. Stiamo andando a far visita ad una persona che sarà lieta di ospitarci al caldo e all’asciutto finché non tornerà il sereno.-

Oscar inclinò la testa e spiò sotto il cappuccio di André cercando inutilmente di leggere un indizio sul suo viso, poi enfatizzò un sospiro e brontolò:

-Quanti segreti, André.-

 

 

 

 

Le dita sottili e agili di Rosalie Lammoliere erano perfettamente adatte al cucito e al ricamo. 

Sollevò l’ago e il filo davanti al volto e si  protese verso la finestra per sfruttare al meglio la poca luce che trapelava dalle nuvole. Chiuse un occhio e avvicinò lentamente il bandolo alla cruna, ma la sua mira si rivelò imprecisa. Il filo sfuggì all’ago e lo sguardo di Rosalie vi inciampò scivolando sul vetro della finestra.

-Piove ancora...-

Borbottò soffermandosi ad osservare le increspature sulle pozzanghere di fango disseminate lungo la strada. Dal lato opposto della via, sotto una tettoia, un vecchio curato discuteva animatamente con un uomo basso e panciuto come un otre. Un carretto di legno arrancò nella strada interrompendo per qualche momento il frenetico via vai di persone che camminavano svelte sotto la pioggia per raggiungere un riparo. Rosalie sperò che qualcuno rallentasse davanti alla sua bottega e si fermasse per portarle qualche capo da rammendare o una qualsiasi banale commissione, ma la gente filava dritta e a testa china, senza avvicinarsi alla sua porta.

Premette il naso sul vetro e il suo sguardo fu attratto da due figure avvolte in pesanti mantelli che avanzavano lente, facendosi largo tra i passanti e guardandosi intorno come se cercassero un indirizzo preciso. I cappucci calati sui loro volti non permettevano a Rosalie di identificarli, ma le bastò uno sguardo attento per riconoscere i cavalli che essi conducevano per le briglie.

Il cuore di Rosalie perse un battito quando li vide fermasi davanti alla propria porta. Abbandonò il lavoro e schizzò in piedi sistemandosi nervosamente i capelli dietro le orecchie. Al secondo colpo di nocche sul legno della porta, Rosalie la spalancò allargando le braccia.

-Oh, che sorpresa, che sorpresa!-

Esclamò chiudendo le mani a conchiglia sul volto per contenere i singhiozzi di gioia.

-Ero alla finestra e vi ho visti arrivare.-

Oscar e André legarono i cavalli fuori dalla porta e varcarono la soglia sfilandosi i mantelli.

-Perdona questa nostra sgarbata intrusione, Rosalie.-

Disse André stringendo la ragazza in un abbraccio affettuoso.

-Perdonare? Oh, che sciocchezza! Non mi

sembra vero che siate qui.-

Oscar le sorrise e agganciò il mantello sul braccio di un appendiabiti accanto alla porta, poi si guardò discretamente attorno. “La bottega di una sarta” dedusse osservando il mobilio e i rotoli di stoffa colorata che ingombravano uno scaffale. Un triste manichino vuoto aspettava in un angolo di farsi imbastire addosso un abito destinato ad un cliente e qualche forbice giaceva sparpagliata su un lungo tavolo di legno grezzo. Era chiaro che in quella bottega non germogliassero i pomposi abiti dell’aristocrazia di corte, e forse nemmeno gli indumenti della borghesia benestante cittadina.

Oscar spostò l’attenzione su Rosalie, che stava scambiando qualche parola con André. Indossava un grembiule azzurro tanto largo da avvolgere completamente il suo corpo asciutto e nell’ampia tasca che si apriva sul davanti abbondavano gomitoli, metri e altri strumenti a cui Oscar non avrebbe saputo dare un nome.

Rosalie trascinò tre sedie accanto al tavolo e fece segno ai due ospiti di prendere posto.

-Accomodatevi, ve ne prego. Mi auguro che vogliate perdonare il disordine e il mio aspetto. Se solo avessi saputo che...-

-Non sentirti in imbarazzo, Rosalie.- la interruppe Oscar con un sorriso garbato -So bene che non è stato molto cortese da parte nostra irrompere qui in questo modo.- si accomodò sulla sedia e sospirò a fondo, lanciando uno sguardo ad André -Nemmeno io avevo previsto di trovarmi qui.-

Con un eloquente colpo di tosse, André prese la parola:

-Per essere sinceri, venire a farti visita è stata una mia idea, Rosalie. Ho recentemente saputo che abiti e lavori qui, perciò...-

-Oh, André! Che cosa è accaduto al tuo occhio?-

Esclamò Rosalie con un misto di orrore e sorpresa notando, solo allora, le bende che gli coprivano il volto sotto i capelli.

-È una lunga storia.-

Replicò cupo. Dalle labbra di Rosalie scivolò solo un debole oh. L’espressione tetra di André la dissuase dal chiedergli ulteriori spiegazioni. Svolazzò verso un basso mobiletto di legno e aprì un’anta per estrarre una teiera di rame.

-Temo di potervi offrire solo una tazza di té.-

Oscar accavallò le gambe, accettando di buon grado l’allettante proposta. Non diceva mai di no ad un’aromatica bevanda bollente in simili giornate, in cui la pioggia riempiva le grondaie.

La ragazza annuì e versò l’acqua nella teiera da una brocca di ceramica laccata, poi la sistemò sul gancio sospeso sopra il fuoco nel caminetto.

-Mi dispiace non avervi più fatto avere mie notizie, ma la Contessa di Polignaç mi ripeteva sempre che una corrispondenza tra noi vi avrebbe potuto causare delle noie.- spiegò smuovendo le braci con un attizzatoio -Avrete saputo che da molto tempo ormai ho lasciato la casa della Contessa. Inizialmente speravo che la morte di Charlotte avesse ammorbidito il suo cuore, ma è stata un’illusione veloce a dissolversi.-

Le dita di Rosalie si incrociarono sul suo grembiule.

-Non sarei mai potuta tornare a Palazzo Jarjayes, Madamigella Oscar. Non volevo essere un peso per voi e poi, in fondo, desideravo tornare nell’ambiente da cui provenivo, nonostante fossi consapevole delle sfide a cui Parigi mi avrebbe sottoposta. Ho cercato di mettere in pratica i vostri insegnamenti per dimostrare a me stessa che so cavarmela.-

Oscar sollevò gli angoli della bocca in un sorriso orgoglioso.

-È tua questa bottega, Rosalie?-

-Oh no, Madame Blanchard è la proprietaria, ma mi ha assunto e mi ha permesso di alloggiare nella stanza sul retro.-

La teiera emise un fischio e Rosalie aprì il coperchio per gettarvi dentro le foglie di tè.

-Ma è una sistemazione momentanea.- Aggiunse arrossendo. -Vedete io... presto mi sposerò.-

Il viso di Oscar si rischiarò con un ampio sorriso. Dischiuse le labbra per congratularsi, ma André fu più svelto e la precedette.

-Sono molto felice per te, cara Rosalie. Vedi, io conoscevo già questa bella notizia.-

Mormorò seguendo con la punta del dito indice una venatura del legno del tavolo. Oscar si voltò di scatto a guardarlo ed ebbe un’illuminazione.

-Bernard Chatelet?-

La sua voce cupa si perse nel gorgoglio del té che Rosalie stava versando nelle tazze. 

-Oh, lo conoscete?-

Chiese la ragazza portando il vassoio verso il tavolo. Nessuno dei due le rispose.

André prese la tazza con entrambe le mani e soffiò piano sulla superficie del té.

-Fallo per Rosalie, Oscar.-

Sussurrò allusivo avvicinando la tazza alla bocca. Oscar comprese subito a cosa si stesse riferendo.

-Rosalie potrebbe portarlo via da Palazzo Jarjayes senza destare sospetti.- spiegò lui dopo aver assaggiato il tè con la punta delle labbra. -Potresti dichiarare che è morto in seguito alla ferita e lasciare che faccia ritorno a Parigi di nascosto. In questo modo la questione si chiuderebbe una volta per tutte e ne usciremmo tutti quanti illesi e contenti, non credi?-

 

 

 

 

 

La pioggia era cessata, ma il cielo non accennava a voler schiarire. Oscar si tolse il mantello e lo appoggiò davanti a sé sulla sella lasciando che sgocciolasse ai lati della cavalcatura. Si passò il dorso della mano sotto il naso offeso dal nauseabondo fetore di fogne e di fango che aveva sostituito il gradevole odore della pioggia. Sbuffò e scrollò la testa all’indietro per liberare i capelli nel vento.

-Hai preso la decisione giusta, Oscar.-

Borbottò André senza guardarla.

Lei non gli rispose. Non aveva voglia di iniziare una conversazione. Preferiva un po’ di sano silenzio. La mattinata era stata già abbastanza rumorosa.

Il rompicapo era risolto, ogni tassello aveva trovato la sua giusta collocazione e, per quanto la Sorte avesse abbozzato quello che aveva tutta l’aria di essere il canovaccio di una bislacca commedia teatrale, la logica aveva chiarito ogni dubbio e non c’era più spazio per qualsivoglia interpretazione.

Tuttavia, quel miscuglio di sbalorditive scoperte le era scrosciato addosso con la stessa fastidiosa prepotenza della pioggia e le aveva inzuppato la mente rendendola pesante e gonfia come il mantello che giaceva davanti al suo grembo.

Un pensiero su tutti strideva nella sua testa come una lama su un brunitoio. 

La vicenda si avviava ad un finale ma non era sicura di poterlo definire lieto. André aveva guadagnato un fratello, in cambio di un occhio. Oscar, invece non aveva ottenuto nulla, ma si sentiva come se anche lei avesse dovuto rinunciare ad una parte di sé. Guardò il suo amico con la coda dell’occhio e pensò che l’ingresso in scena di Bernard nelle loro esistenze avrebbe reso sempre più profondo il burrone che li divideva. André non era più solo, non aveva più soltanto sua nonna, ora sapeva di condividere lo stesso sangue con un uomo che poteva chiamare fratello. 

L’orgoglio di Oscar scalpitava. C’era sempre meno spazio per lei nella vita di André. Da quando aveva sentito il profumo di una donna sui suoi vestiti, non riusciva a liberarsi dall’impressione che il loro legame si stesse assottigliando giorno per giorno, che si consumasse come i crini dell’archetto di un violino. Prima o poi si sarebbe rotto. Era solo questione di tempo. 

Oscar rabbrividì. Non voleva rimanere da sola, non voleva. Scrollò la testa per sopprimere sul nascere un germoglio di inquietudine.

L’unico uomo che lei avesse mai voluto, l’aveva respinta e l’unico amico con cui aveva condiviso fino all’ultima briciola della sua anima, le stava scivolando via tra le dita come acqua. 

La sua vita stava attraversando un momento delicato e sul suo orizzonte aleggiava una nebbia infida e minacciosa. Stava per lasciare la Guardia Reale, il suo saldo e consolidato ruolo a Corte, per essere sbattuta in chissà quale caserma. Forse sarebbe stata messa al comando di un vascello o forse avrebbe calcato un campo di battaglia ai confini della Francia. Per trent’anni la sua vita si era ripetuta uguale a se stessa e lei si era adagiata sul comodo cuscino dell’abitudine, ma ora che la Sorte aveva deciso di rimescolare tutte le carte in tavola, ad Oscar non rimaneva molta scelta. Doveva imparare a cavarsela come aveva fatto Rosalie. Doveva abituarsi a vivere da sola, senza André, un po’ come lui si sarebbe dovuto abituare a vivere senza un occhio. Sarebbe stato difficile all’inizio, ma col tempo avrebbero entrambi raggiunto un equilibrio. 

 

 

 

 

Tornarono a casa prima di mezzogiorno. André si attardò nelle scuderie ad abbeverare i cavalli, mentre Oscar scivolò in casa senza rompere il suo silenzio. Fece una tappa nei propri appartamenti per cambiarsi gli abiti umidi, poi si diresse verso la stanza occupata da Bernard. Diede due leggeri colpi sulla porta ed entrò senza attendere di avere il suo permesso.

-Madamigella, qual buon vento?-

Oscar raggiunse la finestra e la spalancò lasciandosi travolgere da una folata di brezza fresca, in cui rintracciò ancora un piacevole sentore di pioggia.

-Un vento molto buono per voi, Monsieur Chatelet.-

Pronunciò il suo cognome come se il suono la infastidisse e si lasciò cadere seduta sulla poltrona accanto al letto.

-Morite dalla voglia di sbattermi in cella, eppure mi tenete ancora qui in questo letto morbido e profumato. Qualche volta penso che mi stiate avvelenando lentamente con l’ottimo cibo che mi fate portare.-

Mormorò Bernard ironico, ma sulle labbra di Oscar non rintracciò nemmeno un’avvisaglia di sorriso. “Stoica come una pietra.”

-A Versailles vi vorrebbero impiccato, a Parigi vi vorrebbero santo. Io farò in modo di accontentare tutti.-

Dichiarò Oscar, tamburellando le dita sui braccioli intarsiati della poltrona. Bernard la ascoltò incuriosito.

-Annuncerò la morte del Cavaliere nero e faremo seppellire un cadavere anonimo. Così Parigi avrà il suo martire e Versailles la sua vendetta. Non avrete la gloria, ma almeno tornerete a Parigi da un uomo libero.-

Sul viso di Bernard si delineò una ruga di sorpresa.

-La libertà è il dono più grande.-

Rispose a bassa voce, stupito da quella svolta imprevista.

-Faccio tutto questo per Rosalie.- Si affrettò a puntualizzare Oscar -Fate in modo di meritarvi il suo affetto.-

Bernard annuì e Oscar si alzò dalla poltrona, avviandosi verso la porta con le braccia tese lungo i fianchi. La voce di Bernard la raggiunse quando lei era già sulla soglia:

-Forse un giorno potrò sdebitarmi con voi, Madamigella Oscar.-

 

 

 

 

-Ah, André, grazie.-

Il profumo del té raggiunse le narici di Oscar invitandola a chiudere il libro che stava leggendo per dedicarsi alla squisita bevanda che sprigionava quell’aroma. André appoggiò il vassoio sul tavolino accanto alla poltrona su cui Oscar era seduta e si chinò per versare il té nella tazza di finissima porcellana bianca. 

Oscar gli rivolse un sorriso grato mentre pescava una zolletta di zucchero con la pinzetta d’argento.

-L’occhio sinistro... qualche miglioramento?-

Gli chiese immergendo il cucchiaino nel té.

-No, nulla.-

André sospirò e attese di essere invitato ad accomodarsi accanto a lei, ma Oscar si limitò ad intingere le labbra carnose nel té caldo, in silenzio.

-Posso fare qualcosa per te?-

Le chiese, un po’ sperando in una risposta affermativa. Lei scosse la testa.

-No, puoi andare, ti ringrazio.-

Deluso, ma determinato a non dimostrarlo, le diede le spalle e si incamminò senza fretta verso la porta.

-Ah, André.-

Lui si voltò a guardarla, sperando con tutto se stesso che lei intendesse offrirgli il permesso di riempire la poltrona vuota accanto alla sua. “Ti prego, dimmi che vuoi che io resti qui con te.”

-Avrei bisogno che domani mattina all'alba il mio cavallo sia sellato.-

Disse lei con forzato distacco, riaprendo il libro e chinando lo sguardo sulle pagine.

-Ho deciso di trascorrere un periodo in Normandia... da sola.-

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Capitolo 12
*** I nodi ***


Le ombre della notte lentamente strisciarono negli angoli e si nascosero dietro ai mobili cedendo il passo al chiarore dell’alba. I raggi rosa del sole che sorgeva si adagiarono con rispetto sul fianco dell’uniforme che riposava immobile sopra il manichino.

Oscar schiuse gli occhi e il suo sguardo fu attratto dalla sottile linea di luce che disegnava il contorno della giacca. Se ne stava perfettamente sull’attenti, la sua uniforme. Silenziosa e solenne sentinella del suo sonno. Quasi non aveva necessità che un corpo la riempisse: la sua foggia regalava dignità e prestigio perfino al manichino.

Oscar riabbassò le palpebre e si strinse addosso le coperte, poi con uno sbuffo si alzò a sedere sul letto e rimase ferma per permettere al proprio corpo di scrollarsi di dosso l’intorpidimento del sonno. Avrebbe dormito volentieri per un altro paio di ore.

Guardò il quadrante dell’orologio poi guardò ancora una volta l’uniforme che si offriva con fierezza alla luce del primo mattino e le sussurrò dolcemente addio. Se l’era guadagnata, quella divisa, e vi era affezionata.

Era stata una seconda pelle e spesso anche una solida armatura. 

Mentre si alzava dal letto, si sentì pesate come pietra. Si trascinò verso il mobile della toilette ed evitò accuratamente di guardarsi allo specchio, per non vedere quelle gote levigate e quelle ciglia lunghe che ogni mattina erano lì a ricordarle la sua colpa. Si sciacquò il volto e indossò abiti da viaggio, comodi e anonimi. Si pettinò con rabbia i capelli arruffati, insistendo senza pietà sui numerosi nodi reduci dalla notte, poi gettò la spazzola sul ripiano del mobile con uno sbuffo stizzito e si avviò fuori dalla stanza. 

Il corridoio era vuoto e silenzioso, vestito da un velo di luce gialla. I soggetti pallidi e austeri dei ritratti, che si affacciavano dalle cornici in fila sulla parete, si godevano il calore e il colore dei primi raggi di sole che entravano quasi orizzontalmente dalle finestre.

Quando Oscar raggiunse la grande e luminosa sala da pranzo, non si sorprese di trovare suo padre già sveglio e in abito da giorno, seduto con solennità ad un capo della tavola. Il Generale consumava senza fretta la propria castigata colazione e intanto elencava le disposizioni settimanali al giardiniere, un uomo canuto e ossequioso che lo ascoltava con la schiena curva e le mani congiunte. Salutò la figlia limitandosi a scandire il suo nome, senza sprecare il calore di un buongiorno e senza rivolgerle lo sguardo. Oscar si accontentò di essere stata notata e si accomodò dall’altro lato del tavolo, sufficientemente distante per non dover subire di prima mattina la sgradevole voce del giardiniere.

-Té, mia cara?-

Le chiese Marron avvicinandosi con la teiera. Oscar sorrise e annuì.

-Per quale motivo improvvisamente hai deciso di andare in Normandia?-

Tuonò di colpo suo padre abbassando sulla punta del naso i piccoli occhiali rotondi per mettere a fuoco una lista che gli aveva consegnato il giardiniere.

-Ho voglia di vedere il mare.-

Evase Oscar osservando le piccole onde originate dal movimento del cucchiaino nel tè. Era la versione più semplice e più fedele della verità.

Il Generale borbottò qualcosa al giardiniere che si ritirò piegato in un inchino esagerato e, sollevando gli occhi su Oscar, liquidò l’argomento con un verso labiale.

-Ah Oscar...- riprese bighellonandosi con le posate -...so che hai espresso a Bouillet il desiderio di rinunciare alla divisa della Guardia reale.-

Nel tono severo del padre, Oscar intuì un velato avvertimento: “Ciò che riguarda la tua carriera, riguarda anche me, Oscar.”

-È così.-

Rispose candida e assaggiò il té caldo e fragrante. Continuò a bere ad occhi chiusi, un po’ temendo e un po’ sperando che suo padre mostrasse interesse per quella faccenda. Ma la sua tazza si svuotò senza che il Generale avesse pronunciato un’altra parola. Quando Oscar risollevò gli occhi, scoprì che il padre si era dedicato alla lettura di un malloppo di fogli.

Comprese così di aver già ricevuto la propria dose quotidiana di considerazione e, come sempre, fu costretta a farsela bastare. Si sfiorò le labbra col tovagliolo e si alzò da tavola. Era chiaro che qualche questione urgente meritasse di ricevere la completa attenzione del Generale. Decise che fosse meglio così.

Mentre scivolava fuori dalla sala da pranzo, chiuse forte i pugni per reprimere il prurito alle dita e cercò di pensare solamente al lento e rilassante sciabordio del mare che la attendeva in Normandia.

 

 

 

 

Oscar avrebbe cavalcato da sola per tre giorni interi. Avrebbe attraversato le brulle campagne del nord, le brumose paludi lungo il corso della Senna, gli squallidi villaggi e le infide boscaglie. Avrebbe dovuto proteggere con cura la propria identità e soprattutto celare la propria natura, per non attirare l’attenzione di ladruncoli e sciacalli appostati sui cigli delle strade in attesa delle prede giuste. E infine avrebbe dovuto affrontare qualche normale disguido durante il viaggio. Tutto da sola. André non aveva dubbi che Oscar fosse in grado di cavarsela, ma prima di allora non aveva mai compiuto un viaggio tanto lungo senza nessuno -senza lui.

André prese tra le mani il muso bianco e affusolato di Caesar e mentre lo accarezzava divagò nei ricordi delle lontane vacanze in Normandia. Ripercorse nella memoria i sentieri ghiaiosi che dalla Villa sul fianco della collina serpeggiavano fino alla spiaggia di sabbia fine. Ricordò il respiro lento e ritmico del mare che si fondeva con quello possente e armonioso del vento. E le lunghe cavalcate sulla battigia, le gare con Oscar e le passeggiate con Rosalie.

Quanto gli sarebbe piaciuto rivedere il mare! Bagnarsi tra i flutti e poi stendersi sulla sabbia sotto un sole gentile e sentire sulla pelle il calore dei suoi raggi e il pizzicore della salsedine.

Non c’era posto migliore della costa normanna per ritrovare se stessi e rinvigorire corpo e spirito. E André ne aveva bisogno quanto Oscar. 

Ma lei aveva espressamente dichiarato di voler partire da sola.

André non se la sentiva di biasimarla, né di definirla egoista, perché lei non poteva sapere che gli stessi tormenti che le agitavano il cuore, lui li sopportava già da anni.

-E così Oscar ha deciso di andare in Normandia a leccarsi le ferite...-

Sussurrò a Caesar seguendo con le dita le linee sinuose del suo muso. Sospirò e andò a recuperare i finimenti per preparare il cavallo. Si prese una buona dose di tempo per sellarlo con cura e controllare attentamente la condizione dei ferri sotto gli zoccoli. Gli fece indossare il morso e sistemò le briglie in modo che non le trovasse scomode. 

-Abbi cura di lei e non fare il testardo.-

Gli mormorò lisciando il pelo lucido del suo collo massiccio con la mano aperta.

-Buongiorno, André, hai già finito?-

Nel quadrato di luce bianca della porta aperta si disegnò la sagoma scura e snella di Oscar. André si voltò e la accolse con il suo sorriso più garbato.

-Buongiorno, Oscar. Sì, Caesar è pronto.-

-Bene, parto immediatamente.-

Oscar si avvicinò a passi lunghi e ripose nella borsa sul lato della sella un fagotto di viveri per il primo giorno di viaggio. Fece segno ad André di non aiutarla a salire a cavallo e, mentre si issava sulla sella, disse:

-Domani Rosalie verrà a prendere Bernard. Preoccupati che nessuno li veda. Io ho già provveduto a convincere il Generale Bouillet che il Cavaliere nero è morto in seguito alla ferita. La faccenda può considerarsi risolta. Fortunatamente ne sono uscita con le mani pulite e tutti sono illesi e contenti, come hai detto tu.- 

Avrebbe voluto aggiungere "Tranne te, André” ma si limitò a stirare le labbra e a sbirciare sotto il ciuffo di capelli che André si era calato sul viso.

-Hai tolto le bende.-

Constatò brusca. Lui annuì e abbassò la testa per tenere in ombra il viso. 

-Resterò in Normandia finché non mi verrà assegnato un nuovo incarico.-

Sentenziò lei afferrando le redini e facendo voltare Cesar verso la porta.

-A presto, André. Scrivimi, ti prego.-

Lui risollevò piano gli occhi e la accompagnò con lo sguardo verso l’uscita, senza trovare la forza di muoversi o di dirle Arrivederci. Una strana tristezza, bruciante come la rabbia, ma strisciante come l’angoscia, si impadronì del suo cuore. Realizzò che Oscar stava davvero partendo senza di lui. Chiuse i pugni finché non sentì le unghie affondare nei palmi e cercò di muovere un passo verso di lei, ma i suoi piedi rimasero inchiodati al suolo. 

“Portami con te, Oscar!” L’orgoglio e il buon senso bloccarono quella supplica a metà della sua gola prima che gli esplodesse tra le labbra. Non era il caso di umiliarsi.

-È inutile fuggire, Oscar, credimi.-

Per un momento credette di aver formulato quelle parole nella propria mente, ma quando vide Oscar tirare le redini e irrigidire le spalle, comprese di averle pronunciate ad alta voce. Il silenzio intorno a loro si fece liquido, denso e consistente, come acqua. Oscar girò appena la testa, quel tanto che bastava per mostrargli il profilo armonioso del viso. Schiuse le labbra, poi cambiò idea e deglutì ingoiando la risposta.

Con un deciso colpo di redini, spinse Cesar fuori dalle scuderie, conservando il suo aristocratico silenzio.

Quando lei non fu più visibile, André sentì che gli ingranaggi del proprio organismo riprendevano con fatica a funzionare. Riuscì a smuovere i piedi e a camminare verso la porta. Si appoggiò allo stipite con il gomito e lanciò lo sguardo nel cielo terso, che, man mano che il sole si staccava dall’orizzonte, assumeva una tonalità di azzurro sempre più brillante. Solo allora, il nodo nella sua gola si sciolse.

-Buon viaggio, Oscar.-

La sua voce fu così flebile che Oscar non l’avrebbe potuta udire nemmeno se fosse stata a pochi passi. André sorrise ad un colombo che scavalcava il cielo planando sopra il cortile e affidò quelle parole al vento gentile che soffiava da sud e che avrebbe accompagnato il cammino di Oscar fino a sera. Quasi gli parve, così, di poterla seguire.

 

 

 

 

Bernard si lasciò cadere sulla sedia e fece correre lo sguardo al di là delle vetrate per ammirare, rapito, l’ampio parco della Villa che si apriva come un lago di vegetazione di fronte alle finestre. Gli alberi erano gonfi di foglie verdi e tenere e le chiome pulsavano nel vento tiepido del pomeriggio. Dietro la fontana, un quadrato di parco era occupato da un rigoglioso roseto. Bernard non ebbe dubbi che la rosa bianca che aveva trovato sulla tomba della madre provenisse da quel giardino.

-Ebbene, assaggiamo questo nettare per nobili!-

Esclamò riportando gli occhi su André, che gli sedeva di fronte. Si scambiarono un sorriso e rivolsero entrambi l’attenzione alla bottiglia di vino appoggiata sul tavolo accanto a due calici. Avevano molte cose da dirsi.

-Questo Merlot ha bisogno di respirare.-

Spiegò André, mentre estraeva con disinvoltura il tappo di sughero. Bernard sollevò le sopracciglia impressionato e si protese verso la bottiglia per sentire il profumo del vino.

-Madamigella Oscar?-

Chiese di colpo, senza tanti giri di parole. 

-Questa mattina è partita per la Normandia.-

-Ah, mi sorprende che non ti abbia portato con sé.-

Sul viso di André non si disegnò nemmeno una sottilissima ruga. Era troppo bravo a dominare le proprie espressioni. Si limitò a stringersi nelle spalle, come se non ci fosse nulla di strano nel non essere insieme a lei. 

-Tu nutri sentimenti profondi per quella donna.-

Sentenziò il giornalista, per niente distratto dal gorgoglio del vino che André gli stava versando nel calice.

-Non è di questo che dovremmo parlare.-

Replicò André, senza scomporsi e senza negare.

-Per quanto tempo rimarrà in Normandia?-

-Resterà finché non le assegneranno un nuovo incarico.-

Bernard annuì e sollevò il bicchiere per osservare i bagliori rossi del vino alla luce del sole.

-E perché è partita?-

Insistette. Gli occhi di Andrè non nascosero un lampo di insofferenza.

-Perdonami, non sono affari miei.- si affrettò a riabbottonarsi Bernard -Mi porto appresso le abitudini del mio mestiere e tendo a tempestare le persone di domande. Vedi, André, io sono una persona a cui piace sapere.-

André annuì. “Lo avevo capito.”

-Assaggia il vino, assaporalo e dimmi cosa ne pensi.-

Gli disse riempiendo il proprio bicchiere. Bernard seguì il consiglio e immerse le labbra nel vino. Ne stillò un piccolo sorso, lo trattenne in bocca per qualche istante poi strofinò la lingua sul palato e fece schioccare le labbra.

-Decisamente meglio dalla robaccia che gira a Parigi.-

Commentò.

-Già, non c’è paragone sul gusto. Ma se ci si vuole prendere una sbronza con i fiocchi,  è molto più efficace la robaccia di Parigi.-

Più che la risposta, a colpire Bernard fu il tono con cui André la pronunciò. Lo osservò in silenzio, imponendosi di non infastidirlo con altre domande. In fondo, tutto ciò che c’era da sapere, André ce l’aveva scritto in faccia. Il suo cuore soffriva, probabilmente da anni, per un amore non corrisposto e per giunta impossibile.

Bernard tornò sul vino e pensò con una sfumatura di tristezza che il fratellastro avesse ereditato dalla madre la stessa sfortuna in amore. Si augurò con tutto il cuore che ad André venisse almeno risparmiata una fine ugualmente tragica.

-Mi dispiace, André. Mi dispiace molto per ciò che ti ho fatto.- Mormorò ad un tratto tra un sorso e l’altro. -Spero che tu possa perdonarmi.-

André sorrise e gli riempì nuovamente il bicchiere in segno di amicizia, poi si voltò verso le ampie finestre.

-Ti ho perdonato, Bernard, e allo stesso modo spero che tu possa perdonare me per averti teso una trappola. Ammiravo la generosità e i buoni propositi del Cavaliere nero.-

Nel cielo si allungavano candide strisce di nuvole che scorrevano sopra il sole assorbendone a tratti la luce. Uno stormo di uccelli si sollevò dai rami di un faggio e si librò in aria insieme ai pensieri di André che guizzarono liberi nell’azzurro sporco del cielo, perdendosi nella malinconia dei ricordi.

-Quando mia nonna mi portò in questo Palazzo, io avevo poco meno di cinque anni. Mio padre era morto da più di un anno e la nonna mi disse che mia madre... ecco, nostra madre, era molto malata e che aveva deciso di ritirarsi in convento per trascorrere in pace e in preghiera gli ultimi mesi di vita.-

-...E, invece, portava in grembo me, un figlio illegittimo. Sono certo che ti abbia affidato a tua nonna per garantirti una vita migliore.-

Concluse Bernard con un sospiro. Le dita di André accarezzarono distrattamente il contorni del calice.

-Sì, immagino che sia così. Per poter essere affidato a mia nonna, mia madre doveva eclissarsi dalla mia vita. Per me è morta molto prima di morire davvero. Le dissi addio piangendo tanto che ancora conservo un vago ricordo del tremendo bruciore agli occhi. Nel mio caso, essere orfano di entrambi i genitori era una condizione sufficientemente dignitosa per convincere il Generale ad accettarmi ed assumermi.-

André si voltò di nuovo verso Bernard e svuotò il bicchiere tutto d’un fiato.

-Sai André, dovresti lasciare questo posto e venire a Parigi con me.-

-Prego?-

-Sei un uomo sveglio e intelligente e sono certo che su molte questioni la pensi come me. Potresti imparare il mio mestiere, non ti piacerebbe?-

Il sorriso triste di André lasciò intuire a Bernard che era inutile insistere.

-D’accordo, ho capito.-

Si arrese il giornalista, sollevando le mani. Riempirono nuovamente i calici e rimasero per qualche minuto in ascolto del piacevole stordimento suscitato dal vino.

-Senti, André, io credo che ogni uomo che abbia sbattuto la testa su quella donna si sia invaghito di lei.- Bernard si premette una mano sul petto e continuò -Anche io! Sì, lo ammetto, sono profondamente affascinato da Madamigella Oscar. Mio Dio, perfino la Regina si toglierebbe la corona per mettergliela sulla testa, se solo lei glielo chiedesse.-

Fece una pausa per bere e per osservare la tinta cupa dell’espressione di André.

-Madamigella Oscar non ha bisogno che tu le faccia da balia. Se decidessi di trovare un lavoro a Parigi, potresti scoprire che un po’ di sana distanza farebbe bene ad entrambi, a te e a lei. E nessuno ti impedirebbe di tornare qui un giorno.-

André svuotò il terzo bicchiere e si sorprese della calma con cui stava affrontando quel discorso. Il buon Merlot lo aveva reso tollerante, mentre Bernard, calice dopo calice, si era fatto sempre più invadente. Se fosse stato sobrio, pensò André, avrebbe fatto in modo di troncare quell’argomento sul nascere. Ma non ne era certo, forse avrebbe comunque permesso a Bernard di affacciarsi sulla sua sofferenza e di indagarla. In fondo, per quanto insidiosa come l’estrazione di un dente, quella conversazione gli aveva cavato via buona parte di quel dolore che lo torturava da anni. Condividere il suo segreto gli aveva alleggerito la testa, o forse era semplicemente l’effetto del Merlot. Ubriacarsi con un vino tanto raffinato aveva i suoi pregi e i suoi difetti, lo sapeva. Ci si immalinconiva molto e non ci si stordiva abbastanza. Il sapore dolce lasciava sempre un retrogusto molto amaro. “Meglio la robaccia di Parigi.” 

-Se la soluzione fosse fuggire,- borbottò infine -sarei fuggito da lei molto tempo fa, Bernard.-

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Capitolo 13
*** Ombre ***


Seduto di fronte a Bernard, ad un tavolo un po’ discosto in un angolo della locanda, André sentiva gravare sulla propria schiena i fianchi robusti di una donna che a sua volta era stretta in mezzo ad una mandria di persone ammassate tra i tavoli e le panche.

-Basta tasse! Basta ingiustizie!-

La voce baritonale dell’oratore che teneva comizio scatenò un boato di esclamazioni tra il pubblico di parigini.

Bernard aveva appena finito di dire che non si sarebbe mai aspettato di trovare così tante persone ad assistere a quel comizio. André gli aveva fatto notare che la folla si agitava euforica ogni volta che veniva citato e deriso un membro della famiglia Reale.

Un po’ per noia, un po’ per l’arsura, André tornò a stringere tra le dita il boccale mezzo pieno di birra ancora fresca. Poi ci ripensò, ritrasse la mano come se si fosse scottato e la bloccò sotto il mento, assegnandole il compito di reggergli la testa che iniziava a farsi un po’ troppo pesante. Aveva bevuto troppo. Nonostante fosse uno spreco non finire quel mezzo boccale di birra, preferiva tenersi la sete  piuttosto che perdere la lucidità.

-Versailles prospera con i soldi che escono dalle nostre tasche!-

L’uomo che teneva comizio doveva essere un giovane energico, entusiasta e carismatico, ma la gente ammassata negli anfratti tra i tavoli formava una barriera così compatta, che André e Bernard, seduti, non riuscivano a vedere altro che una muraglia di schiene e nuche.

-Luigi XV è stato un puttaniere, Luigi XVI è una puttana!-

La battuta fu accolta da un coro burrascoso di risate e nella sala si diffuse una contagiosa smania di inventare l’insulto più originale.

Bernard borbottò sottovoce un’imprecazione e si alzò di scatto afferrando il polso di André, che si trovò all’improvviso con la testa priva di un sostegno. Per impedirgli di sbattere la fronte sul tavolo, Bernard lo tirò bruscamente verso di sé e in un attimo André si ritrovò in piedi, mentre le prosperose terga della donna che avevano pesato sulla sua schiena fino a quell’istante, precipitavano con un tonfo sul suo sgabello vuoto. 

I due fratelli si addentrarono nella foresta di corpi accaldati e nevrotici che affollavano il locale e facendosi largo con i gomiti guadagnarono l’uscita.

Quando finalmente si ritrovarono nel cristallino silenzio delle strade, André ebbe l’impressione di ricevere addosso una secchiata d’acqua. L’aria della notte era fresca, quasi gelida in confronto al clima soffocante della locanda.

-Che baraonda.-

Brontolò Bernard ficcandosi in bocca una pipa e scavando nervosamente nelle tasche per cercare un acciarino. André si abbottonò la giacca fin sotto il mento e seguì docilmente Bernard verso Saint Eustache, senza porre domande e senza nemmeno farsene venire in mente. Le sue tempie pulsavano e il silenzio non gli dispiaceva.

Osservò il fratello e notò che il suo volto era accartocciato. Bernard sembrava abbastanza sobrio da riuscire a intraprendere riflessioni complesse. Gli sbuffi di fumo che buttava fuori dalle labbra ad intervalli regolari profumavano di tabacco buono e André si domandò quanto potesse guadagnare un umile giornalista come lui, poi scrollò la testa e rivolse gli occhi al cielo limpido senza pensare a nulla di preciso.

-Quel Desmoulins dice solo quello che le persone vogliono sentirsi dire.- borbottò ad un tratto Bernard, dando voce ai propri pensieri -Poi vedi che succede? Si scatena un’orgia di voci in cui tutti parlano di tutto e nessuno ascolta niente. Però questo fa capire molte cose, no? La gente è piena di rabbia trattenuta.-

Una carrozza aristocratica li superò a gran velocità e corse verso il ponte. I due fratelli si scansarono appena in tempo per non essere travolti dagli schizzi di fango delle ruote. André si accorse di avere i riflessi lenti e fu contento di non aver finito quel boccale di birra.

Ripresero a camminare senza fretta, osservando con scarso interesse i volti delle rare persone che incontravano nelle vie.

-Sono felice di averti conosciuto, André.- Disse improvvisamente Bernard. -Dimentichiamo per un momento la beffa di cattivo gusto che ci ha riservato la vita. Io sono certo che prima o poi le nostre strade si sarebbero incontrate in un modo o nell’altro. E, figurati, io nemmeno ci credo al destino.-

André gli rivolse un sorriso.

-Ho la tua stessa impressione, Bernard.-

Svoltarono in una piccola piazza attraversata da una corrente fredda e umida che proveniva da nord e d’istinto aumentarono il passo. Bernard gli appoggiò una mano sulla spalla.

-Voglio che tu venga al mio matrimonio, naturalmente. Non sono sicuro di avertelo già detto, lo davo per scontato.-

-Non mancherò, Bernard, ti ringrazio.-

-Suppongo che Rosalie sarebbe molto contenta se venisse anche Madamigella Oscar.-

-Sono certo che Oscar accetterà volentieri.-

-A proposito, è tornata?-

Puntualmente, come accadeva ogni volta in cui mettevano piede in quell’argomento, la voce di Bernard assunse una sottile variazione di tono, minima ma rintracciabile come qualche goccia di limone in un bicchiere d’acqua.

-Pare che torni tra un paio di giorni.-

Rispose André asciutto. Bernard spostò la pipa in un angolo della bocca e liberò un alito di fumo denso dalle labbra socchiuse.

-È rimasta a lungo in Normandia.- osservò -Ricordo che è partita il giorno prima che Rosalie venisse a prendermi a Palazzo Jarjayes.-

André si strinse nelle spalle e immerse le mani nelle tasche.

-La Normandia è una regione piacevole.-

Sperò che Bernard non avesse intenzione di scavare più a fondo e allungò il passo per superare una pozzanghera in cui si rifletteva un pezzo di cielo stellato. 

La mancanza di Oscar era stata dura da sopportare, ma preferiva non ammetterlo davanti a Bernard. Quel senso di abbandono, di vago tradimento, aveva continuato a perseguitarlo malgrado lui avesse tentato di sottrarvisi, riempiendo le giornate di lavori impegnativi. Le aveva scritto regolarmente, come lei gli aveva chiesto di fare, senza però riuscire ad usare un tono leggero. Si era limitato a poche righe garbate in cui aveva parlato più che altro del tempo e della salute degli abitanti di Palazzo Jarjayes. Tutte notizie inutili e superficiali che malcelavano il suo rancore per non essere sulla costa normanna insieme a lei. Le lettere di Oscar non erano state né più interessanti né più calorose delle sue, ma lui le aveva lette e rilette più volte avvicinandole al naso con la folle speranza di percepire un tenue sentore di rose o di mare.

-Oh lo so!- gli rispose Bernard, divagando nei personali ricordi della Normandia -È una regione molto bella. Come ti ho già raccontato, io ho vissuto a Rouen con lo zio Jacques, il fratello di nostra madre, e lui spesso mi portava a vedere il mare.-

Si interruppe per godersi una tirata di fumo, poi cambiando bruscamente tono chiese:

-Credi che Madamigella Oscar approverebbe queste nostre serate?-

André si massaggiò la mascella come se quelle parole l’avessero percosso in pieno volto e decise di rispondere con un semplice sospiro.

-Beh suppongo non ne saprà mai nulla.-

Indovinò Bernard. 

-Un segreto in più, uno in meno, che differenza fa?-

Rispose André scrollando al testa. 

-Abbiamo tutti bisogno di avere i nostri segreti.-

-Sì, forse hai ragione, però i segreti hanno un peso e se si accumulano diventano un fardello.-

Bernard rise senza allegria.

-André, se vuoi toglierti qualche sassolino dalla scarpa, sarò volentieri il tuo confessore personale.-

“Perché no?” si disse André con un mezzo sorriso. Ricordava bene la piacevole sensazione di leggerezza che aveva provato quando a Palazzo Jarjayes lui e Bernard avevano chiacchierato davanti a quel buon Merlot. Si prese un momento per scegliere il segreto di cui liberarsi.

-Bernard, vorrei far visita ad un bordello.-

Disse infine. Il volto di Bernard si impietrì.

-Non stai dicendo sul serio.-

-Non sto scherzando.-

-Forse non ti ricordi che mi sto per sposare.-

-Vorrei soltanto salutare un’amica che non vedo da molto tempo.-

Spiegò André con un sorriso candido.

-Un’amica, André? In un bordello?-

André si strinse nelle spalle.

-Sì, è una prostituta. L’unica prostituta con cui io sia mai stato, beh, l’unica donna con cui io sia mai stato, per essere sinceri. Di volta in volta mi ci sono affezionato.-

Bernard si fermò in mezzo alla strada e si tolse la pipa dalla bocca. Scrutò serio il volto altrettanto serio di André, poi si lasciò sfuggire un sorriso e riprese a camminare.

-A dir la verità, non credevo che tu avessi avuto bisogno di spingerti fino a Parigi per soddisfare certi bisogni. Capirei se tu mi dicessi che a Palazzo Jarjayes il senso del pudore ti ostacolava, ma, mi chiedo, Versailles non offriva pasticcini di tuo gusto?-

-Non si tratta di questo.-

-Ah, allora capisco. Non volevi farlo in un posto che fosse frequentato da lei, vero?-

Continuarono a vagare apparentemente senza meta nelle strade, in silenzio, finché non si ritrovarono in mezzo al chiasso notturno del quartiere di Saint-Honore. All’incrocio tra due vicoli bui André annunciò:

-Siamo quasi arrivati.-

L’edificio del bordello si concretizzò quasi dal nulla in un rettangolo tra i muri delle case e André ebbe subito l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso. Diede la colpa alle numerose nuove crepe della facciata e al colore delle tende dell’ingresso che un tempo erano lavanda e ora erano rosse.

-Questo di certo Oscar non lo sa.-

Dedusse Bernard incrociando le braccia sul petto con aria critica.

Si avvicinarono all’ingresso fianco a fianco. Uomini di ogni sorta attraversavano la porta in un flusso incessante e variopinto. Entravano con le spalle curve e uscivano con un sorriso in volto, snocciolando monete nelle mani grassocce del proprietario che presidiava l’ingresso su una piccola e sbilenca sedia di vimini. Gli occhietti scuri e arzilli del tenutario seguivano il via vai dei clienti e le sue labbra si stiravano in ampi sorrisi che gli gonfiavano le guance carnose. Quando vide André che si avvicinava all’ingresso, si incupì e si aggiustò nervosamente la consunta cravatta intorno al collo.

-Cerise non c’è.-

Rugnò scrollando la testa. Bernard vide gli occhi di André cristallizzarsi e il suo viso sbiancare. Qualcosa nel tono sbrigativo di quell’uomo rubizzo malcelava qualche brutta notizia.

-Cos’è accaduto?-

Chiese André severo. La faccia grassoccia del tenutario si accese. Essendo, evidentemente, del tutto digiuno di buone maniere, tentennò e agitò le mani in aria come se stesse cercando di scacciare una mosca. Prese a borbottare qualche parola sconnessa e infine sbuffò, infastidito dalla briga di dover riferire una notizia spiacevole in una serata redditizia.

-È morta. Deve aver ingerito veleno per topi.-

Dichiarò infine sollevando le spalle. Bernard guardò André e gli parve che si fosse fatto rigido e fragile come una statua di gesso.

-Quando è successo?-

-Quasi un mese fa.-

“Quasi un mese fa...” André sollevò lo sguardo verso l’alto, seguendo gli incavi serpeggianti tra le pietre del muro, finché non trovò una finestra con le imposte chiuse. Vi lesse un’amara conferma.

-Andiamo, André.-

La voce di Bernard gli sfiorò l’udito come un’eco distante. Annuì distratto e si lasciò trascinare via dal braccio confortante del fratello.

Si trovarono a ripercorrere lo stesso tragitto al contrario, quasi inconsapevolmente, finché non raggiunsero lo spiazzo in cui il vento tra i vicoli creava una forte corrente d’aria.

André si fermò a guardare una piccola chiesa di pietra scura incastrata tra le case basse. La magra torre campanaria sorreggeva il peso di una grossa e imponente croce di ferro, così alta e distante da sembrare appoggiata al cielo.

-”Cerise” era solo un soprannome. Credo che la chiamassero così per via delle sue labbra rosse e carnose. Non le ho mai chiesto come si chiamasse davvero.-

Spiegò a bassa voce, sorprendendosi di quanto profondamente si sentisse in colpa per questo.

-Non so dirti quante volte lei abbia addolcito le mie serate più amare. È stata una presenza preziosa per me e non merita di essere ricordata con un nome fittizio. È come se qualcuno l’avesse inventata e lei non fosse mai esistita veramente.-

Continuò staccando gli occhi dalla croce di ferro per cercare lo sguardo del fratello.

-Sai, André, con la morte molte vite e molti nomi spariscono dalla faccia della Terra come se coloro a cui appartenevano non fossero mai esistiti. È triste, lo so, ma questo folle mondo funziona così. Siamo tutti uguali nella morte, si dice, eppure qualcuno viene gettato in una fossa comune e qualcun altro, invece, viene sepolto ai piedi di un altare con il proprio nome su una lapide, eternamente sotto gli occhi dei posteri. E spesso, purtroppo, non è che una questione di denaro o di fortuna.-

Bernard gli si avvicinò e raccolse il suo corpo in un abbraccio. Lo sentì rilassarsi e sospirare e a quel punto chiuse i pugni intorno ai lembi della sua giacca per scuoterlo lentamente.

-Il mondo è ingiusto, André. Bisogna ribellarsi, bisogna reagire. E anche tu devi reagire o ti consumerai fino a sparire come se non fossi stato altro che un’ombra. Non lo sei, non sei un’ombra, come non lo era Cerise. Ti prego, non dimenticarlo.-

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Capitolo 14
*** Come porcellana ***


Ancora poche ore di cammino e i suoi occhi si sarebbero finalmente posati sul familiare panorama dei tetti di Nanterre. Solo a quel punto avrebbe avuto la piacevole sensazione di essere vicina a casa.

Si lasciò alle spalle la modesta locanda in cui aveva consumato un pasto veloce e procedette in direzione di Parigi spronando Cesar a mantenere un’andatura sostenuta.

Aveva percorso meno di un miglio quando cominciò a sentire nell’aria un pungente sentore di pioggia. Sollevò lo sguardo verso lo squarcio di cielo che si apriva tra le chiome degli alberi e storse la bocca contrariata. Le nuvole candide del primo pomeriggio si stavano condensando in grappoli densi e dal colore poco rassicurante e la luce del sole cominciava ad ingrigirsi. Alle prime gocce di pioggia che trafissero l’aria, le colline boscose a ovest assunsero l’aspetto un po’ offuscato e diluito di un acquerello.

Oscar sollevò il cappuccio della cappa, tirandolo fin sopra la fronte, e accarezzò il collo di Cesar per chiedergli un ultimo sforzo. Diede un colpo di talloni sul suo ventre e il cavallo aumentò il passo.

L’odore aspro della pioggia impregnò subito l’aria e il diluvio lavò via il profumo di mare che Oscar si era portata addosso. Non le dispiacque di essersene liberata. Tornare a Parigi era come bere una tazza di té amaro dopo aver succhiato a lungo una caramella e lei sapeva che prima ci si liberava del sapore dello zucchero, prima ci si abituava alla sua assenza.

Abbassò gli occhi con un sospiro. Le sarebbe piaciuto rimanere sulla costa normanna fino all’inverno. Quando aveva ricevuto la lettera di Bouillet che le descriveva il suo nuovo incarico, aveva fatto di tutto per temporeggiare, ma era riuscita a rimandare la partenza solo di un paio di giorni.

Quella villeggiatura, comunque, era stata un’ottima idea. Ora si sentiva una persona nuova. Prendere distanza da tutto e da tutti, anche un po’ da se stessa, le aveva permesso di mettere finalmente ordine nella mente e di aggiustare le crepe del cuore. 

Tornare a Parigi significava caricarsi le spalle di nuove responsabilità, più numerose e più pesanti di quelle che aveva sopportato in passato. Doveva pensare alla carriera, al lustro della famiglia, alla reputazione, alla serenità. E per quanto riguardava il suo cuore, lo avrebbe tenuto a bada, ben chiuso nel petto, al sicuro come un vaso di ceramica in una credenza, perché troppo prezioso per essere rovinato o per rischiare di finire in frantumi.

Quando finalmente intravide nella grigia foschia della pioggia i primi sobborghi di Parigi lungo la riva curva della Senna, si sentì sollevata.

-Siamo quasi arrivati, Cesar.-

Mormorò, consolando più se stessa che il cavallo. La pioggia aveva raddoppiato la sua stanchezza e triplicato il suo desiderio di arrivare a casa. Superò il bivio per Versailles e chinò la testa per ripararsi meglio dal diluvio. Da quel punto la strada per Palazzo Jarjayes era tutta dritta e Cesar non doveva far altro che seguirla.

-Oscar!-

Un grido lontano la strappò alla sonnolenza suscitata dai movimenti del cavallo e dal fruscio della pioggia. Quando sollevò gli occhi, le sue labbra si piegarono in un sorriso spontaneo. A mezzo miglio di distanza, un uomo incappucciato in sella ad un cavallo nero era fermo sul ciglio della strada e agitava un braccio sopra la testa.

-André.-

Un groppo le si formò in gola non appena ebbe finito di mormorare il suo nome. 

La Normandia le aveva aperto gli occhi anche su di lui. Ogni sera, guardando il mare scuro dalla finestra della propria stanza, lo aveva immaginato cavalcare contento verso Parigi per correre a gettarsi tra le braccia di quella sconosciuta che marchiava i suoi vestiti col proprio profumo. E leggendo le sue lettere, freddi resoconti della monotona vita di Palazzo Jarjayes, aveva cominciato ad accettare l’idea che, tutto sommato, André stesse bene -se non meglio- anche senza di lei.

Loro due erano sempre stati legati in modo profondo, ma quell’affetto col tempo era diventato quasi morboso. Erano come l’edera su un muro. Oscar non voleva più dipendere tanto da una persona quanto, fino ad allora, le sembrava di essere dipesa da lui. Ma, soprattutto, non voleva tenerlo incatenato a sé, soffocando le sue ambizioni e i suoi desideri di uomo adulto e libero.

Era giunto il tempo di prendere strade diverse. Per quanto doloroso, col tempo si sarebbe rivelata la soluzione migliore per entrambi. Oscar aveva già deciso che a compiere lo strappo sarebbe stata lei e che lo avrebbe fatto al più presto, prima di avere il tempo di ripensarci.

Quando gli fu abbastanza vicina da riuscire a scorgere il sorriso sul suo volto, prese atto che rinunciare a lui sarebbe stato più difficile di quanto avesse previsto.

 

 

 

 

Dopo cena, André si ritirò nella biblioteca e trovò la stanza ancora tiepida dei fuochi rimasti accesi per tutto il pomeriggio. Scelse un libro e si accomodò sulla poltrona accanto al caminetto. La copertina del volume che aveva preso era di un bel blu profondo ed era decorata con sottili arabeschi dorati. André la accarezzò a lungo con la punta delle dita, poi sospirò e gettò la testa indietro. Il soffitto gli parve più basso e opprimente che mai. Diede la colpa alla luce pulsante delle candele e alla tendenza del proprio occhio a distorcere le profondità quando si trovava in penombra.

Non aveva lo spirito giusto per leggere, né abbastanza luce per farlo.

E poi, la testa rimbombava di lei. 

Da quando Oscar aveva messo piede a Palazzo Jarjayes poche ore prima, lui aveva avuto l’impressione che ogni stanza si fosse riempita della sua presenza fino ai soffitti. C’era il suo profumo, la sua voce e il suo respiro in ogni angolo.

Ripensò a quanto gli aveva fatto male il cuore per la gioia che aveva provato, quando l’aveva vista apparire in fondo alla strada, avvolta nel velo tremolante della pioggia. Ripensò al sorriso stanco ma riconoscente che lei gli aveva offerto e ai suoi sospiri lunghi mentre cavalcavano insieme verso Palazzo Jarjayes. Si erano separati nelle scuderie e non si erano più rivisti. Era come se le pareti del palazzo l’avessero assorbita.

All’improvviso, un tonfo sordo gli rubò un battito di cuore. Riaprì bruscamente gli occhi e scoprì che il libro era scivolato sul tappeto. Lo lasciò giacere a terra e alzò la testa, ritrovandosi a scambiare un sorriso con il sobrio ed elegante ritratto di Madame de Jarjayes che troneggiava sopra il caminetto. Si chiese se Oscar avesse mai pensato di farsi fare un ritratto, poi realizzò che lei non avrebbe mai avuto la pazienza di posare immobile per ore.

-Oh Oscar, chissà se esiste un pittore abbastanza abile da riuscire a catturare il tuo spirito e a sintetizzarlo in un’immagine.-

Chiuse di nuovo gli occhi e si divertì a ritrarla con la fantasia. Immaginò di avere di fronte a sé una tela bianca e col pennello del pensiero disegnò uno schizzo. Sorrise, intenerito dal prodotto del proprio estro, guardando con gli occhi della mente una Oscar in camicia e pantaloni, seduta sulla poltrona della propria stanza, con le gambe accavallate, la destra sopra la sinistra, e un calice di vino rosso tra le dita. Non sarebbe stato certamente un quadro maestoso, ma sarebbe stato fedele. D’altra parte, Oscar non aveva bisogno di pose solenni, orpelli o allegorie per risaltare. Lei era già magnifica nella sua schietta e quotidiana semplicità.

 

 

 

 

Quando entrò nella sua stanza, la trovò nell’esatta posizione in cui, poco prima, si era immaginato di ritrarla e gli venne da sorridere. Era seduta comodamente sulla sua poltrona, con le lunghe gambe accavallate e una tazza di té nella mano desta. Aveva gli occhi persi tra i vapori che si sollevavano dalla bevanda calda e un’espressione indecifrabile sul viso pallido.

La sua bocca era serrata e tesa tanto che le labbra piene e carnicine avevano perso le loro naturali increspature e le sopracciglia leggermente incurvate avevano tracciato due lievi rughe parallele sopra il suo naso, due segni apparentemente innocui, che un estraneo avrebbe scambiato facilmente per un cipiglio di rabbia. Ma non era rabbia, André lo sapeva, era altro, qualcosa a cui non sapeva dare un nome, ma che non gli piacque affatto.

Rimase pietrificato sulla soglia e tutto l’entusiasmo, quasi infantile, che aveva provato dal momento in cui era stato invitato, tramite sua nonna, a presentarsi nelle stanze di Oscar, si spense come una candela al vento.

-Hai bisogno di me, Oscar?-

Non mosse un passo verso di lei, ma non osò nemmeno tentare la fuga. La sua mano rimase immobile sul pomello freddo della porta mentre la sua mente rimpiangeva il tepore e la solitudine della biblioteca.

-Entra, André, vorrei parlare con te.-

La voce di Oscar non tradì alcuna emozione.

-Certo, Oscar.-

Si avvicinò misurando i passi e si trovò immerso in una nuvola di profumo di rose. Gli tremarono le gambe.

Le si sedette di fronte incapace di guardarla negli occhi. Preferì osservare le sue labbra umide che baciavano il bordo della tazza per poi immergersi piano nel té bollente.

-Tua nonna mi ha riferito che Rosalie e Bernard ci hanno invitato al loro matrimonio.-

André si costrinse a sollevare lo sguardo per incontrare quello di Oscar.

-Sì, è così.-

-Hanno stabilito il giorno?-

-Non che io sappia.-

-Si sposeranno in città, immagino.-

-Sì, suppongo di sì.-

Oscar annuì e guardò la tazza.

-Che incarico assumerai, Oscar?-

Lei abbozzò un sorriso stanco e rispose calma:

-Mi hanno assegnato al comando della Guardia di Parigi. Pare che, per negligenza delle autorità e nell’arco di un lungo periodo, si siano succeduti diversi Comandanti incompetenti. Ora il reggimento si è trovato nell’urgenza di avere qualcuno in grado di raddrizzare la situazione.-

André non provò nemmeno a chiederle se fosse contenta del nuovo ruolo, perché era evidente che non lo fosse. Incrociò le braccia sul petto, mormorò un verso labiale e tacque.

Il ticchettio regolare dell’orologio sopra la mensola del camino divenne in fretta l’unico suono nella stanza. André guardò il quadrante e scoprì che le lancette stavano per combaciare sulla mezzanotte. Era tardi e probabilmente tutta la servitù di Palazzo si era ritirata per la notte.

Tornò a guardare lei che beveva tranquilla il suo buon té caldo e gli parve che ad ogni sorso lei gli rubasse un po’ di lucidità. La trovò bella da morire e fu turbato dal piacere che provava soltanto nel guardarla. Valutò l’idea di prendere commiato e andare a placare il bollore del sangue nel proprio letto, regalandosi qualche squallida consolazione prima di prendere sonno. Ma non si mosse.

-Si è fatto tardi.-

Mormorò lei ad un tratto, in tono allusivo, mentre appoggiava la tazza vuota sul vassoio. 

André si alzò come se non stesse aspettando altro e borbottò un frettoloso “buonanotte”. Oscar aveva dell’altro da dire, lui lo percepiva, glielo leggeva in faccia, ma preferiva non farle domande. L’intuito gli suggeriva di scappare.

-André,- soggiunse lei alzandosi a sua volta e guardandolo negli occhi -d’ora in poi passerò la maggior parte del mio tempo in caserma, perciò non avrò più bisogno di un attendente. Da questo momento sei libero, non esiste più nessun vincolo che ti lega a me.- Gli voltò le spalle e con un cenno della mano indicò il servizio da té. -Ti chiedo solo un ultimo favore. Ti dispiacerebbe portare via il vassoio?-

Lui non si mosse e non disse nulla. Non respirò nemmeno. Il pavimento gli parve franare sotto i suoi piedi. Avrebbe preferito di gran lunga ricevere uno schiaffo o una pugnalata.

-Non farmi questo, Oscar.-

Sentì dire dalla propria voce. Vide le spalle di lei farsi rigide e i suoi pugni chiudersi, ma non riuscì ad attendere che si voltasse da sola. Le afferrò il polso e nello slancio colpì il tavolino con il ginocchio. Il vassoio precipitò a terra e tutto il delicato servizio di porcellana esplose sul marmo del pavimento.

Si trovarono a guardarsi negli occhi e nessuno dei due riconobbe l’altro. Le labbra di Oscar mimarono una parola senza senso e senza suono e i suoi occhi, prima indignati e poi attoniti, precipitarono sul suo polso prigioniero. André stringeva, stringeva forte e continuava a chiudere il pugno come se avesse in mano un limone da spremere.

-Mi fai male...-

Mormorò con un filo di voce, sollevando gli occhi.

-Io lo so perché mi vuoi allontanare, Oscar. Tu mi temi, non è vero? Mi temi perché sono il custode di tutte le tue debolezze. Io ti conosco troppo bene, ti vedo dentro, per me sei trasparente come acqua. E tu questo lo odi, non lo sopporti, perché vorresti mentire a te stessa, ma non puoi farlo sapendo che ci sono io a ricordarti che non sei perfetta.-

Lei impallidì, cercò goffamente di liberarsi, ma anche l’altro polso venne catturato dalla mano di André.

-Ascoltami, per Dio, tu non sei fragile perché sei donna, sei fragile perché sei umana, Oscar. Non sei fatta di pietra e non puoi pretendere di non soffrire. Pensi che un uomo non soffra, non pianga e non ami quanto una donna?-

Oscar indietreggiò finché la sua schiena non incontrò la parete e quando capì di essersi messa in trappola cominciò ad avvertire distintamente la morsa della paura.

-Guardami, Oscar, io sono un uomo, mio Dio, te ne sei mai accorta? E ho un cuore, un cuore di carne, proprio come il tuo, ugualmente forte e ugualmente fragile. Credi forse che il mio cuore non si possa spezzare?-

La voce di André era un lamento di rabbia e di dolore, il suo sguardo era una lama affilata. Le inchiodò i polsi contro il muro e affondò il viso nell’incavo della sua spalla. Mai, mai, pensò lei, lo aveva sentito così vicino e allo stesso tempo così distante come in quel momento. Quando sentì i suoi denti morderle piano la pelle tenera del collo, tuttole fu brutalmente chiaro, come se una nebbia antica di colpo si fosse diradata. Rabbrividì di orrore. Avrebbe voluto implorarlo di smettere, di tornare in sé, di non spingerla contro il muro in quel modo, ma sentiva che sarebbe stato inutile come chiedere ad un temporale di fermare la pioggia.

Il bacio non fu una sorpresa. Arrivò puntuale e agghiacciante come un tuono dopo un lampo.

Lei strinse gli occhi e due gocce di lacrime le rotolarono sulle guance mentre le labbra di André violavano le sue. Non riuscì a pensare a nulla, a percepire nulla se non quella bocca avida e arrabbiata che la puniva per aver frainteso tutto. Non riuscì nemmeno a fare nulla. Anni e anni di addestramento si rivelarono inutili. Non trovava la forza di ribellarsi.

Riuscì soltanto a girare la testa abbastanza velocemente da liberare le labbra.

-Cosa vuoi farmi ora, André?-

Tollerò il suo respiro caldo che le flagellava il collo e strinse le labbra doloranti e umide della sua saliva e delle proprie lacrime. Invocò ancora il suo nome in un sospiro e lo sentì fremere.

-André, ti prego...-

La presa intorno ai suoi polsi si fece più lenta e dopo un lungo, infinito attimo di silenzio, lo sentì mormorare:

-Mio Dio, cosa sto facendo?-

In un istante fu lontano da lei, stravolto, con la fronte madida di sudore, gli occhi lucidi, le guance in fiamme. Un altro uomo. Mentre indietreggiava verso la porta su gambe instabili, i cocci di ceramica sparsi per terra gemettero sotto le sue suole ricordandogli il danno che aveva causato. Sussultò e guardò smarrito il macello di schegge bianche sul pavimento.

-Perdonami.- disse senza voce -non accadrà più niente di simile, te lo giuro...-

 

 

 

 

 

Prima di partire per la Normandia, Oscar aveva abbandonato il pugnale del duca d’Orleans sul ripiano della cassettiera e se n’era dimenticata. Lo notò per caso quando sollevò la testa dopo aver passato più di un’ora a raccogliere, uno ad uno, tutti i cocci del servizio da tè distrutto.

Si alzò dal pavimento e raggiunse la cassettiera, stregata dal luccichio della lama. Prese tra le mani il pugnale, lo osservò con attenzione, se lo rigirò tra le dita, ammirandone il perfetto bilanciamento e il filo tagliente. Poi sollevò gli occhi verso lo specchio che le stava di fronte e guardò i lunghi e lucidi capelli biondi che a corte avevano sempre attirato complimenti e invidia. Accarezzò una ciocca, la arrotolò tra le dita tirandola sempre più forte e infine la tagliò col pugnale. Quel gesto le diede un fremito di sollievo profondo e inaspettato.

Si asciugò con la manica della camicia le righe di lacrime sulle guance e cominciò ad accorciare i boccoli biondi finché l’immagine che le restituì lo specchio non le ricordò la se stessa di vent’anni prima, quando i capelli non arrivavano nemmeno a sfiorarle le spalle.

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Capitolo 15
*** Sfioritura ***


Trascorse la notte disteso sul letto a fissare il soffitto, circondato da un esercito di candele accese. L’idea di rimanere al buio lo atterriva.

Si stropicciò con forza l’occhio destro che implorava il riposo del sonno. Ma di dormire lui non ne voleva sapere. Aveva bisogno di rimanere aggrappato alle confortanti e familiari forme della realtà che lo avvolgeva. Non voleva cadere vittima delle fantasie irrazionali dei sogni. Preferiva rimanere sveglio a macerarsi nei sensi di colpa piuttosto che rivivere negli incubi ciò che era appena accaduto. Ma era davvero accaduto? La sua mente era confusa. I suoi pensieri avevano la stessa consistenza vacua dei bagliori dei lucignoli accesi che danzavano sul muro liscio del soffitto, disegnando tremolanti e opachi cerchi di luce. Luce, che privilegio sottovalutato, la luce! Non l’aveva mai apprezzata a sufficienza finché il pugnale di Bernard non gliene aveva portato via metà.

Rimuginò sulle parole del dottore incontrato appena dopo la partenza di Oscar, ricordò la sua diagnosi e i suoi ammonimenti, tutte parole annotate con scrupolo nella mente e poi quasi del tutto dimenticate. Non avrebbe dovuto sforzare tanto l’occhio destro in quelle ultime settimane, lo sapeva, ma il vuoto che lei gli aveva lasciato aveva preteso di essere riempito. Così aveva scelto di rifugiarsi nel lavoro, nella lettura e nell’osservazione attenta della realtà quotidiana, così ricca di distrazioni, senza mai prestare la dovuta importanza alle indicazioni del medico. Curare la vista era stato l’ultimo dei suoi pensieri, almeno fino a quando non erano iniziati i primi fastidi. Allora aveva cominciato ad intimorirsi e a prestare attenzione.

In quel momento, però, non gli importava nulla del suo occhio. Sentiva solo un peso che gli schiacciava il petto come se qualcuno fosse seduto sul suo torace.

Provò ad essere razionale. Bernard glielo diceva sempre: “Affidati alla ragione.” Ma quanto poco potere aveva la ragione sul sentimento e sull’istinto?

Si tastò il viso. Aveva l’impressione che la propria pelle avesse la fragilità di un guscio d’uovo e si chiese quale fluido o sostanza sarebbe uscito fuori dal suo corpo, se quell’involucro sottile si fosse sgretolato. Pensò che anche la persona più compatta, solida ed inflessibile non avrebbe potuto sopportare facilmente l’idea di essere abbandonata dalla persona amata. L’abbandono di Oscar, ecco, quello lo terrorizzava molto più della cecità.

Rinunciò a cercare conforto nella ragione e congiunse le mani per pregare. Non si rivolgeva a Dio da molto tempo. Premette con forza i palmi l’uno contro l’altro ma non riuscì a formulare una supplica coerente. Rimorso, angoscia, rabbia e delusione si mescolavano con troppa furia dentro il suo cuore.

Aprì le braccia e le distese sul materasso.

Forse sarebbe stato più semplice ignorare le stilettate che lei gli aveva inflitto e ritirarsi in silenzio a morire in un angolo, piuttosto che reagire. E invece l’aveva fatto, aveva reagito e aveva perduto il controllo e così facendo aveva provocato ancora più dolore, sia a lei che a se stesso.

Scoprire quel lato di sé lo aveva spaventato molto. Mentre a parole aveva provato a persuaderla che uomini e donne fossero ugualmente deboli e forti, a gesti si era smentito, le aveva imposto il proprio vigore, l’aveva dominata, spinta e schiacciata contro una parete e infine le aveva rubato un bacio violento, che non aveva neppure una vaga traccia della tenerezza dell’amore che provava. 

Ebbe orrore di ciò che avrebbe potuto farle se non avesse ritrovato subito la ragione. Ne sarebbe stato capace? Non lo sapeva, ma non poteva negare che in quel momento aveva avuto in odio i suoi vestiti.

Si premette il cuscino sulla faccia e soffocò un urlo, poi si ritrovò a piangere in silenzio.

 

 

 

 

 

Le scuderie erano il posto più adatto per parlare di argomenti scomodi. La presenza discreta dei cavalli era confortante e il profumo di paglia piacevolmente familiare.

Oscar si sarebbe recata a Versailles nel tardo pomeriggio. André l’aveva saputo da sua nonna, perciò aveva deciso di attenderla proprio nelle scuderie. Le doveva chiedere perdono guardandola negli occhi.

Attese con pazienza che lei venisse a prendere Cesar, seduto a gambe larghe su una panca di legno, con un paio di vecchi stivali in grembo e uno straccio per pulirli in mano. Un’attività inutile, in realtà, un mero pretesto. Quegli scarponi erano destinati al lavoro nella stalla e non avevano affatto bisogno di essere lustrati.

Passarono i minuti e André cominciò ad avvertire il peso di dei pensieri che dalla sera precedente si accumulavano nella sua testa. Il fantasma della malinconia che si presentava puntuale da lui ad ogni imbrunire gli suggerì di abbandonare lo straccio e gli scarponi e di sostituirli con una bottiglia di vino e un bicchiere. Ma proprio mentre era sul punto di cedere al richiamo di quella subdola sirena, sentì i passi di Oscar bloccarsi sulla soglia della porta. 

Strinse le dita sullo straccio, ma non interruppe lo strofinio, né staccò lo sguardo dal proprio riflesso sul cuoio ormai lucido. Il respiro gli divenne lento e pesante, mentre i battiti del cuore veloci e forti come il rullo di un tamburo.

Sollevò la testa solo quando un lieve scricchiolio di paglia gli suggerì che Oscar aveva deciso di avvicinarsi. La guardò camminare verso di lui mentre la sua mano continuava per inerzia a sfregare lo scarpone, sempre più lentamente, fino a bloccarsi del tutto. 

Poi di colpo furono i passi di Oscar a bloccarsi, come se poco oltre la punta dei suoi stivali si fosse aperto un burrone. André provò una fitta al cuore. Si sentì una belva pericolosa da cui fosse meglio mantenersi ad una debita distanza.

“Quanto male ti ho fatto, Oscar?”

Si perse nelle sue iridi, rese chiare, grandi e limpidissime dal fascio di luce dorata che irrompeva da una finestra. I segni rossi intorno alle ciglia e le ombre scure sotto agli occhi denunciavano una notte senza sonno e con molte lacrime. Eppure lo sguardo era sempre lo stesso, fiero, fermo, freddo.

Quel contrasto tra fragilità e forza regalava una bellezza poetica ai suoi occhi di mare, ma André non riuscì a guardarli a lungo. I ricordi della sera prima, ancora freschi, vi si riflettevano troppo nitidamente. Nell’istante in cui distolse lo sguardo da lei, realizzò di aver notato qualcosa di diverso nel suo aspetto. I suoi capelli erano più corti. Provò a risollevare timidamente gli occhi e capì di non essersi ingannato. I bei capelli lucenti di Oscar non erano trattenuti dentro il colletto della divisa, erano stati tagliati. Schiuse le labbra sorpreso, ma non disse nulla.

Con uno sbuffo e un colpo di zoccolo, Cesar sgretolò d’improvviso quella fragile atmosfera di cristallo. Oscar mozzò il fiato, come se si fosse appena ricordata il motivo per cui era lì, e il suo petto si sollevò gonfiando l’uniforme. Le fasce intorno al seno, più strette del solito, non ne lasciarono intravedere minimamente la forma. Attraversò le scuderie aggirando la panca di André e raggiunse il cavallo, che la accolse spingendo dolcemente la testa contro il suo petto per cercarle addosso l’odore di una mela o di una carota. Lei gli sorrise e gli porse una zolletta di zucchero rubata nelle cucine.

-Stai andando a Versailles, Oscar?-

-Sì.- rispose lei dopo un momento, mentre sistemava le briglie sul muso di Cesar -Vado a prendere commiato dalla Regina. Devo ringraziarla per avermi fatto l’onore della sua amicizia.-

Le sembrò un pessimo tentativo di instaurare una conversazione normale. Era chiaro che André volesse parlare di ciò che era successo la sera prima, e gliene riconobbe il coraggio, ma lei non si sentiva pronta ad affrontarlo di nuovo, non così presto. La ferita era troppo fresca e le faceva ancora molto male.

-Perché sei qui, André? Non abbiamo più nulla da dirci.-

Un altro pessimo tentativo per respingerlo. 

Lo sentì alzarsi dalla panca.

-Non è vero, Oscar. Ci sarebbero molte cose da dire.-

Gli occhi di lei continuarono a rincorrere il movimento delle proprie mani sui finimenti. Per un momento fu tentata di salire in sella in silenzio e scappare più in fretta che poteva.

-Ti chiedo perdono, Oscar. Ti chiedo perdono per quello che ti ho fatto, ma non per quello che ti ho detto.-

Oscar si aggrappò alle redini e strinse gli occhi.

-André io... io non...-

-Se non puoi perdonarmi, Oscar, ti prego almeno di provare a dimenticare. So di non avere giustificazioni...-

Oscar salì in sella e lo guardò avvicinarsi.

-Perché?-

Gli chiese con un filo di voce, poi girò gli occhi dall’altra parte, pentita di aver formulato quella domanda. Il suo cuore già conosceva la risposta e le sue orecchie non volevano sentirgliela pronunciare. 

-Oscar, io ti voglio molto bene, molto.- mormorò lui regalando a Cesar carezze lente e leggere. -Per vent’anni ho provato un affetto profondo per te, soloper te.- 

Oscar si portò una mano sulla bocca per nascondere i fremiti delle labbra, ma si accorse che anche la mano tremava. Con lui era inutile provare a contenere le emozioni. André non la guardava, ma di sicuro percepiva il terremoto che la stava scuotendo. “Avevi ragione, André, per te sono trasparente.”

-Questa notte...- mormorò con voce friabile, tirando le redini per far sollevare la testa a Cesar e sottrarre il suo muso alle mani di André -...questa notte non è accaduto nulla e questa conversazione non è mai avvenuta.-

André si spostò a lato per lasciarle libero il passaggio e abbassò lo sguardo.

-Certo, ti ringrazio.-

Oscar fece avanzare Cesar lentamente e prima di raggiungere l’uscita si voltò appena. L’ultimo sole della giornata, caldo e dorato, entrava parallelo dalle finestre e innaffiava i suoi capelli di riflessi di fiamma. Incorniciato nel quadrato di cielo della porta, il profilo di Oscar assomigliava molto a quello della ragazzina che si era diretta a Versailles per la prima volta, pensò André e in quel momento capì esattamente che cosa lei stesse tentando di fare. Nonostante di quel periodo lontano fosse rimasto davvero poco -quasi nulla- Oscar sembrava determinata a non riconoscerlo. Voleva ripartire da zero, lasciarsi alle spalle le delusioni e gli errori di quei vent’anni e darsi una nuova occasione. Lui la capiva. Se ci fosse stato un modo per cancellare gli ultimi due giorni, avrebbe venduto l’anima al diavolo. “Temo che non ti basterà cambiare colore dell’uniforme e accorciare i capelli per ritornare indietro, Oscar.”

La guardò immergersi nel mare di sole del cortile e si rese conto che non l’avrebbe più vista con indosso la divisa scarlatta. Sotto i raggi di luce bionda che preannunciava un maestoso tramonto, la stoffa non gli era mai sembrata tanto rossa, brillante e viva. “Ho sempre pensato che il rosso ti donasse, Oscar, ma forse ora è il bluil tuo colore.”

 

 

 

 

 

Un sospiro di vento fresco le solleticò la nuca insinuandosi tra i capelli e il colletto. Tollerò un prepotente brivido lungo la schiena senza scomporsi e si incamminò verso l’ingresso della Reggia attraversando il cortile reale a passo svelto. Sollevò gli occhi sulle file di finestre rivolte ad est che riflettevano l’indaco brillante di quella porzione di cielo che non era stata contaminata dai colori rosati del tramonto e sospirò.

La Reggia aveva un aspetto triste, rassegnato, come una vecchia dama sfiorita e stanca che si è dimenticata di aver avuto una giovinezza dissoluta e vivace. Tutto lo sfavillante splendore che quel palazzo trasudava quando Oscar aveva cominciato a frequentarlo, si era annacquato, stinto, ingrigito. La bellezza della Reggia non sbalordiva più. Tendeva piuttosto a dare un senso di nausea. E ormai si respirava solo aria di insofferenza. Versailles era diventato il palcoscenico di una commedia mediocre, e per chi vi abitava era sempre meno casae sempre più gabbia. Tutti tentavano di fuggire, come anni prima aveva fatto perfino la Regina, rintanandosi nel Trianon e nel suo villaggio.

Nel piccolo spiazzo davanti all’ingresso Oscar vide Victor de Girodelle nella sua impeccabile uniforme verde acquamarina che conversava insieme ad un gruppo di ufficiali, con i quali Oscar, in tanti anni, non aveva mai scambiato più di qualche striminzito convenevole. Passò loro accanto e chinò la testa per salutare, poi corse a rifugiarsi all’interno della Reggia, infastidita dalla scintilla che aveva intravisto nei loro sguardi.

 

 

 

 

Maria Antonietta aspettava l’arrivo di Oscar rigirandosi gli anelli sulle dita. Lanciava occhiate ansiose al quadrante dell’orologio con i putti d’oro che troneggiava sul caminetto e sospirava spesso, perché la lentezza delle lancette era logorante.

Al più piccolo rumore che annunciava il passaggio di qualcuno nell’anticamera, lei si irrigidiva, ascoltava con attenzione e poi sbuffava quando udiva quei passi anonimi allontanarsi.

Si guardò intorno cercando qualcosa con cui ingannare il tempo, ma quando i suoi occhi si scontrarono con la sua stessa immagine nello specchio, ebbe un sussulto. Com’era invecchiata! Si vide prosciugata, pallida, inaridita. Pensò di imbellettarsi le guance per rendere il viso più vivace, ma proprio quando stava per raggiungere il mobile della toeletta, riconobbe al di là della porta i passi regolari di un‘andatura inconfondibile e tornò a sedersi, stringendo le mani in grembo.

Oscar si fece annunciare da un paggio ed entrò piegandosi subito in un impeccabile inchino.

-Vostra Maestà.-

-Madamigella Oscar, sono molto felice di vedervi. Vi attendevo.-

Maria Antonietta sfoggiò un sorriso cortese e le tese la mano per ricevere il suo omaggio.

-Maestà, sono qui per porgervi i miei più sinceri ringraziamenti per avermi concesso di lasciare la Guardia reale e assumere un nuovo incarico.-

Gli occhi della Regina si incupirono e un fremito scosse le sue lunghe ciglia. Gettò lo sguardo di lato. Si chiese se qualche lacrima sarebbe stata decorosa e si portò una mano sul petto per bloccare un lieve singulto.

-Continuerò a servire con dedizione Voi e la Vostra famiglia, mia Regina.-

-Temo che sapendovi lontana, non mi sentirò più al sicuro, Madamigella.-

Oscar avanzò di un passo verso di lei. Avrebbe desiderato prenderle la mano e stringerla con affetto per rincuorarla, ma fu costretta a sostituire quel gesto, innocuo ma inopportuno, con un semplice sguardo caldo e compiacente.

-Maestà, ho avuto modo di conoscere e apprezzare molto il valore e l’alacrità con cui il Visconte Girodelle mi ha affiancato per tutti questi anni. Vi servirà con grande sollecitudine e non avrete nulla da temere con lui al comando delle Guardie reali.-

La Regina rimase in silenzio e guardò verso la finestra, perdendosi ad ammirare le striature sanguigne del cielo. Il cuore le suggeriva di ammettere che non era il problema della propria incolumità a darle pensiero. Non le importava poi molto, per la verità. Tra le mura di Versailles, tutto sommato, si sentiva al sicuro. Sapeva bene che le vere insidie stavano altrove.

Tornò a guardare Oscar con gli occhi ancora pieni delle tinte del tramonto e ritrovò lo stesso rosso del cielo nella stoffa della sua uniforme e lo stesso oro del sole nei ricchi ricami che impreziosivano la sua giacca.

-Cosa mi consigliate di fare, Madamigella, per essere una Regina degna di essere amata dal popolo?-

Oscar schiuse le labbra, meravigliata dall’ingenuità della domanda, e si prese un momento per pensare ad una risposta. Esitò ad osservare il volto bianco e scavato di Maria Antonietta, così diverso dal viso pieno e roseo di quando era Delfina. Era molto cambiata. C’era molto poco in lei della ragazza vivace e volubile che per la prima volta aveva posato le preziose scarpette di raso sul lastricato del cortile della Reggia. La malinconia e la solitudine scaturite dai profondi dolori e dai gravosi doveri della sua vita l’avevano consumata e avvilita, proprio lei che da ragazza era sembrata immune al tormento della noia e della tristezza.

Oscar sorrise con amarezza e socchiuse gli occhi. Maria Antonietta sarebbe stata amata dal popolo, un giorno. Stava diventando una donna matura, saggia e responsabile, senza più vizi né leggerezze. Oscar strinse nel cuore quella tenera convinzione e le rispose con tutta la dolcezza che poteva permettersi di esternare:

-Nulla che non stiate già facendo, Maestà.-

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Capitolo 16
*** Distanza ***


Da quando Oscar era passata a pochi passi dal lui, diretta verso l’ingresso della Reggia, Victor de Girodelle aveva perso ogni interesse per la conversazione a cui stava partecipando -fino ad allora- con una certa vivacità. Tornò a osservare i giovani Ufficiali intorno a lui che continuavano a chiacchierare sereni come se nulla fosse e provò un senso di indignazione. Come potevano essere così calmi e indifferenti? Non avevano notato con quanta eleganza camminava? Non avevano provato nemmeno un piccolo brivido nella pancia quando avevano ricevuto il suo discreto saluto? Lui si sentiva tremare fin dentro l’anima. Fu inutile tentare di inserirsi nuovamente nel discorso, il suo pensiero era rimasto aggrappato a lei.

Si distrasse ad ammirare i veli di nuvole rosa che striavano il cielo e presto non provò più alcun interesse per l’argomento in discussione. Decise di prender commiato prima di iniziare a sbadigliare. 

Mentre il colore del cielo si faceva più caldo e luminoso, Victor si incamminò da solo verso le scuderie col passo lento e col cuore pesante. I soldati che presidiavano i cancelli lo salutarono battendo i tacchi e augurandogli una buona serata, ma il suo orgoglio gli fece notare che nei loro sguardi non ci fosse lo stesso profondo ossequio che riservavano ad Oscar. Ebbe l’amara certezza che sarebbe stato molto difficile sostituirsi a lei nei cuori dei soldati.

-E temo che sarà impossibile cancellarla dal mio cuore.-

Mormorò rivolgendosi alle proprie scarpe.

Giorno per giorno, anno per anno, Oscar gli era entrata nel sangue ed ora era come un pezzo della sua carne, una parte viva di lui. L’idea di doversene privare non era piacevole.

L’iniziale invidia nei suoi confronti col tempo si era trasformata in stima e poi in qualcosa di simile ad un profondo affetto. Per vent’anni, la certezza di incontrarla ogni giorno non era stata soltanto un buon motivo per alzarsi dal letto la mattina. Ogni suo sguardo, ogni sua parola e ogni suo sorriso avevano assunto un valore sempre più alto, fino a diventare gioie inestimabili da raccogliere e collezionare. Lui le portava dentro di sé, le conservava gelosamente nel petto come rari cimeli esotici. Un piccolo segreto condiviso solo con se stesso. La sera, quando era solo, si sedeva sulla poltrona, apriva il cuore e stringeva tra le braccia tutte le piccole tracce di lei che gli erano rimaste della giornata trascorsa fianco a fianco.

Entrò nelle scuderie e si appoggiò ad una trave. Mentre aspettava che il proprio attendente gli sellasse il cavallo, ammirò il palafreno bianco di Oscar che sgranocchiava una manciata di fieno poco lontano. D’improvviso fu colto da un profondo malumore. Si premette una mano sul petto all’altezza del cuore e posò l’altra sulla fronte. La pelle bollente e i brividi freddi che gli attraversavano il corpo assomigliavano ai sintomi di una strana e violenta febbre. “Oscar, voi mi fate morire!”

Il suo attendente gli lanciò uno sguardo un po’ preoccupato e un po’ perplesso e gli domandò se si sentisse bene. Girodelle esitò, per un momento ebbe timore di aver pronunciato quel pensiero ad alta voce, poi scosse la testa.

-Siete pallido, signore.-

-Ho solo bisogno di una boccata d’aria. Ti aspetto fuori.-

Disse allargandosi il colletto della giacca con due dita. Quando si girò verso il portone, uno sbuffo di brezza gentile lo raggiunse, gli entrò nel petto riempiendogli i polmoni e lo fece sentire meglio. Si incamminò verso l’uscita con lo sguardo basso e la mano stretta contro il torace, seguendo con la coda degli occhi i movimenti dei lunghi boccoli castani che ondeggiavano ai lati del suo volto al ritmo sempre più veloce dei passi. Quasi senza rendersene conto, si ritrovò a marciare spedito verso lo spiazzo bagnato di luce rosata come se stesse nuotando da un abisso verso la superficie. Gli sfuggì un gemito tra i respiri affannosi. La spada che percuoteva sempre più forte il lato della sua coscia cominciò a fargli male. 

Era così concentrato su di sé, che non fece in tempo ad accorgersi del corpo che gli si concretizzò davanti all’improvviso, interrompendo bruscamente la sua corsa verso l’uscita. Nel breve momento dello scontro gli si spezzò il respiro, ma si ricompose subito con grande contegno e, prima ancora di sollevare lo sguardo su colui che aveva così malamente urtato, cominciò ad imbastire le prime scuse. Poi si scostò di un passo e solo allora la vide.

Oscar lo fissò seria, ma non torva, ed estrasse lentamente da una tasca i propri guanti di cuoio.

-Andavate di fretta, Girodelle?-

Chiese con calma. Lui deglutì ma scoprì di non aver più saliva, così provò a sorridere mentre si spostava dalla fronte qualche capello sfuggito dai boccoli ben definiti.

-Ero distratto, Comandante, vi chiedo perdono.-

Oscar sbuffò impercettibilmente dal naso e si sistemò i guanti sulle dita.

-Capisco. Ad ogni modo, Girodelle, vi rammento che potreste, anzi dovreste, chiamarmi per nome. Ormai io non sono più un vostro superiore.-

Girodelle lo sapeva, ma gli riusciva ancora troppo difficile accettarlo. Annuì, tirando le labbra in un sorriso forzato, mentre dentro di sé combatteva in silenzio contro l’amarezza. Prese atto che non avrebbe più avuto modo di vederla, se non in qualche occasione ufficiale. Chissà quando, chissà dove. 

Gli stava sfuggendo via. Si sentì tremare le ginocchia.

-Ora devo salutarvi. Vorrei tornare a casa prima che faccia buio. Vi auguro buona serata e spero di avere occasione di rivedervi presto.-

Mormorò Oscar con un sospiro lungo.

-Posso accompagnarvi a Palazzo Jarjayes, Madamigella.-

Più che una proposta gli sembrò di aver formulato una supplica, ma proprio non riusciva ad abituarsi all’idea di non sapere quando l’avrebbe rivista. Si aggrappò al pretesto del buio e della pericolosità delle strade, poi, temendo di averla offesa, aggiunse che avrebbe desiderato chiederle qualche consiglio sul ruolo che avrebbe ereditato da lei.

Oscar non si prese neppure il tempo di riflettere. Scrollò la testa e si strinse nelle spalle.

-Sono spiacente, Girodelle, ma questa sera ho bisogno di cavalcare in compagnia dei miei soli pensieri. Spero comprendiate. Sarò lieta di accogliervi a Palazzo Jarjayes, quando gli impegni ve lo consentiranno. Parleremo allora con più calma.-

 

 

 

 

Aveva trascorso buona parte della sera a corteggiare con gli occhi una bottiglia di vino che si pavoneggiava sopra una mensola della cucina, pur sapendo che per soddisfare il desiderio di bere fino a dimenticare il proprio nome, sarebbe stato necessario svuotarne ben più di una.

Così, senza farsi vedere dalla nonna e senza dichiarare le proprie intenzioni a nessuno, André sgattaiolò fuori dal retro del Palazzo, prese il cavallo e si diresse verso Parigi, dove avrebbe potuto bere quanto gli pareva, anche fino a perdere conoscenza, senza doversi preoccupare di salvare la faccia o di rendere conto a qualcuno.

La notte che lo accolse e lo inghiottì appena oltre i cancelli del Palazzo era limpida, tiepida e profumata, una bellissima notte, “perfetta per due amanti” pensò con un sorriso amaro. Lasciò che il cavallo seguisse la strada da solo e non sollevò mai lo sguardo dalle redini, per non scoprire che il suo occhio non vedeva quasi nulla in quella densa penombra.

Di tanto in tanto, la sete di vino scadente gli faceva schioccare le labbra. Per tutto il tragitto, nel silenzio della campagna, fu costretto ad ascoltare i capricci del proprio cuore che pretendeva un immediato sollievo e quando raggiunse i sobborghi della città fu grato all’allegro borbottio di Parigi che lo aiutò a distrarsi. Si addentrò nelle vie illuminate male dai lampioni anneriti e si sentì un po’ meno fantasma di se stesso. Riconobbe la zona e diresse il cavallo verso Place Louis le Grand, dove si trovava una piccola locanda che gli aveva fatto conoscere Bernard tempo prima. 

Si guardò intorno meno che poté. La strada fino alla locanda era tutta dritta perciò non gli sarebbe servito vedere che direzione prendere. Lanciò di tanto in tanto qualche sguardo distratto ai passanti, trasalendo ogni volta che la vista gli si appannava. Mentre provava a guardarsi intorno per capire a che punto del percorso fosse arrivato, notò una vecchia signora seduta sui gradini d’ingresso di una casa, vestita con abiti dai colori particolarmente vivaci. Quando le fu abbastanza vicino, si accorse che era la zingara cieca che spesso aveva visto mendicare in quella zona di Parigi. La donna stava mormorando qualcosa di simile ad una preghiera e intanto si rigirava tra le dita scarne un grosso ciondolo. André tirò le redini, prese fiato e formulò una domanda di cui lui stesso si sorprese:

-Buonasera madame, posso chiedervi da quanto tempo siete cieca?-

La donna interruppe il proprio borbottio e sollevò la testa, mostrandogli un’ampia fronte ricamata di rughe. Mosse gli occhi lattiginosi verso di lui e rispose:

-Quasi dieci anni, ragazzo.-

-E che cosa rimpiangete?-

-Nulla. Ora vedo molto meglio di chiunque altro.-

André rimase stupito e deluso dalla risposta, poi scrollò la testa, rimproverandosi per aver creduto che quella strana vecchia avrebbe potuto soddisfare la sua curiosità. Riportò lo sguardo sulle redini, pronto a proseguire il suo viaggio verso la locanda.

-Non è scritto il tuo destino, ragazzo.- esclamò ad un tratto la donna, prima che lui incitasse il cavallo a muoversi -Tu temi il futuro perché lo immagini nero, ma il futuronon esiste, è solo un’idea nella tua testa che avvelena il tuo presente. Il presente! Il presente sì, esiste! Il futuroesisterà solo quando sarà presente.-

André aggrottò la fronte sempre più meravigliato e anche vagamente intimorito. Schiuse le labbra ma non disse nulla. “È follia ma c’è del metodo in essa”, pensò accarezzando le redini con i pollici.

-Un’ultima cosa, ragazzo. Ricorda questo: se vuoi vedere un dettaglio devi avvicinarti, ma se vuoi vedere qualcosa per intero, devi guardarlo da lontano.-

Concluse la mendicante appena prima di piombare di nuovo nella sua incomprensibile cantilena. 

 

 

 

 

La locanda era molto più affollata di quanto avesse previsto, ma non aveva alcuna intenzione di perdere tempo a cercarne un’altra. Il cuore gli faceva troppo male, languiva e si contorceva come un soldato mutilato, doveva somministrargli al più presto un sedativo. 

Si addentrò tra gli avventori del posto, tutti troppo impegnati a godersi la leggerezza comprata con una bevuta per far caso a lui e alla sua faccia triste. Si fece notare soltanto da una cameriera, alla quale chiese una bottiglia di vino forte e un bicchiere senza sprecare tante formule di cortesia. Trovò posto ad un piccolo tavolo addossato al muro e si incantò a fissare i graffi e le iscrizioni sulla parete finché non ricevette la propria ordinazione, allora si aggrappò al bicchiere sporco e opaco che la ragazza aveva spinto fin sotto al suo naso e si affrettò a riempirlo fino all’orlo.

-Buonasera.-

Esclamò una voce grossa e viziata dall’alcol a poche spanne dal suo orecchio sinistro. André buttò giù il primo sorso di vino e si voltò svogliatamente, convinto che il saluto fosse stato rivolto qualcun altro.

Si trovò davanti un ragazzone alto e con le spalle larghe il doppio dei suoi stessi fianchi che gli sorrideva -sì, costatò perplesso,

stava sorridendo proprio a lui- e che si prese la libertà di trascinare uno sgabello fino al suo tavolo e di adagiavi il posteriore. André cercò di fargli intendere con lo sguardo di non essere in vena di fare conversazione e tornò subito a dedicarsi al vino, sperando che un po’ di normale scortesia avrebbe annientato quel tentativo di approccio. Non era venuto alla locanda per farsi degli amici. Ma l’altro non diede segno di capire.

-Ti dispiace se mi unisco a te per un po’?- disse -I miei commilitoni, laggiù, stanno per scannarsi su questioni di politica di cui non capiscono niente e non sai quanto sia irritante ascoltare quei caproni che discutono come donnette di cose che non sanno.-

André non rispose e continuò a sorseggiare il vino in silenzio. L’altro si batté una mano sul petto.

-Mi chiamo Alain, sono figlio di un nobile decaduto e mi guadagno il pane come soldato semplice della Guardia cittadina.-

“Guardia cittadina?” pensò André, mascherando l’improvvisa curiosità con una semplice stirata di labbra. Sollevò la testa fingendo di voler solo svuotare il bicchiere e, mentre si versava in gola l’ultimo sorso di vino, osservò di sottecchi quel marcantonio così ostinato. Indossava la divisa, ma era evidente che non fosse di turno. La giubba malconcia era orfana di buona parte dei bottoni, sia sul davanti che sulle maniche, e solo un consumato foulard di cotone rosso provava, senza successo, a coprire lo spicchio di petto villoso lasciato scoperto dai lembi della giacca. Niente camicia. 

Mentre riappoggiava il bicchiere vuoto sul tavolo pensando a quanto dovessero essere abissali le differenze tra la caserma della Guardia di Parigi e quella della Guardia reale, Alain afferrò la sua bottiglia. André reagì scoccandogli uno sguardo rabbioso e poco mancò che gli mostrasse i denti come un cane che vuole proteggere il proprio osso. Alain gli rispose con un sorriso calmo. Sollevò lentamente la bottiglia, la inclinò e riempì il bicchiere di Andrè fino all’orlo, poi la posò di nuovo sul tavolo senza permettersi di assaggiare nemmeno una goccia di vino. André lo fissò attonito.

-Scusami, credevo... grazie.-

Borbottò, rosso di imbarazzo.

-Ah, non ti preoccupare.-

-Comunque io mi chiamo André e sono figlio di un falegname.-

-Ah, pensi che io sia fesso? Non ci credo neanche un po’ che sei un falegname.-

replicò Alain con un’allegria che André non riusciva a giustificare. “Sarà il suo giorno di paga” pensò e si portò il bicchiere alle labbra.

-Ho detto che sono figliodi un falegname, non che sono un falegname.- precisò -Sono un attendente. Ecco, eroun attendente. Fino a ieri.-

-Ah quindi bevi perché sei stato licenziato! Lasciami dire che nella tua situazione non ti conviene buttare i soldi in questo modo. Il giorno in cui non avrai denaro per il pane, ti pentirai di averlo speso per il vino.-

André scrollò le spalle e bevve in un unico sorso metà del contenuto del bicchiere.

-A volte una bella sbronza aiuta a sentirsi più vivi... o meno morti.- 

-A dirla tutta,- agganciò Alain col tono di chi la sa lunga -dalla tua faccia giurerei che stai bevendo per una donna.-

André abbassò le palpebre e sollevò appena le sopracciglia.

-Complimenti, Alain, hai un occhio attento. Se devo essere sincero, bevo per entrambi i motivi.-

-Oh io so cosa di cosa hai bisogno. Non serve a nulla riempirsi di vino, dovresti invece cercare di svuotarti. E c’è solo un modo per togliersi un peso: parlarne con qualcuno. Io sono la persona giusta. Mi piace ascoltare le sventure degli altri, mi aiuta a dimenticare le mie.-

Esclamò incrociando le braccia sul petto.

-Avanti, André, figlio di un falegname, confessami i tuoi peccati. Sappi che se non avessi fatto il soldato, forse sarei diventato un prete.-

André guardò il volto spigoloso ma gentile di Alain e gli sorrise. Sentì di potersi fidare e decise di farlo. Non aveva molto da perdere se non qualche briciola di dignità. Finì il vino che gli restava nel bicchiere e raccontò tutto, fin da principio.

Quand’ebbe concluso, il dolore nel petto c’era ancora ma assomigliava più alla malinconia che all’angoscia. Alain, invece, aveva perso del tutto l’aria spiritosa con cui si era presentato. Il suo unico commento fu cupo e assorto mmh.

-Quindi Oscar François de Jarjayes, il mio nuovo Comandante, è una donna.-

Borbottò infine, grattandosi il collo.

-Sì, è una donna...-

-Beh, se vuoi starle vicino, a questo punto non ti resta che arruolarti.-

-Arruolarmi?-

Esclamò André con sdegno, poi si irrigidì e il suo sguardo si perse nel vuoto.

-Arruolarmi...- ripeté con un altro tono -Non é un’idea malvagia.-

-Caro il mio attendente, figlio di un falegname... io stavo solo scherzando! Il mio non è un bel mestiere, non lo è affatto. Noi non siamo dei bei soldatini che girano come ballerine in un carillon dorato quando qualcuno dà un po’ di corda. La nostra caserma è un porcile, i soldati puzzano e si mangia malissimo... quando si mangia.- sfilò da una tasca interna della propria giacca uno stuzzicadenti e cominciò a masticarlo come se fosse una stecca di zucchero -Tu hai tutta l’aria di essere un damerino ben educato e pulito, perciò non penso che la vita da soldato ti possa piacere.-

-La mia vita non mi piace a prescindere, Alain.-

Il ragazzone sollevò le spalle e aprì le mani in segno di resa.

-Va bene, allora ti aiuterò ad arruolarti se proprio ci tieni.-

André annuì e abbassò gli occhi. Era mezzo cieco, ma non gli era sfuggita la scintilla di compassione negli occhi dell’altro, quel tipo di pietà mista ad indulgenza che si prova nei confronti di un pazzo o di un uomo disperato.

Spinse la lingua sul palato. Quel vino pessimo gli aveva lasciato in bocca un retrogusto d’aceto. 

-Scherzavo, Alain.- si sentì dire -Non mi voglio arruolare davvero.-

Alain lo fissò scettico, poi scoppiò a ridere rumorosamente e, mentre si passava il pollice sotto l’occhio per spostare una lacrima, affermò di non aver creduto allo scherzo nemmeno per un momento. André si sforzò di simulare una risata e intanto continuò a bere.

“Non sarò io il cappio intorno al tuo collo, Oscar” le disse col cuore, chiudendo gli occhi e conservando un’ombra di sorriso sulle labbra. Se vuoi vedere qualcosa per intero, devi guardarlo da lontano, aveva detto la vecchia mendicante. Non gli era nuovo come concetto: Bernard aveva provato a farglielo

accettare molto tempo prima, quando la matassa non era ancora così ingarbugliata. “E forse avrei dovuto dargli ascolto già da allora.”

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Capitolo 17
*** Cambiamento ***


-Dunque è questa la tua decisione, André?-

-Sì.-

Marron sollevò l’orlo della gonna e con tutta l’elegante lentezza della sua età si sedette accanto al nipote sui gradini delle scale di pietra nuda nel retro del palazzo. 

C’era un’aria piacevole, quella sera, un’aria tiepida, pulita. I colombi bianchi gremivano il cortile prima di ritirarsi a dormire e si affaticavano a beccare in fretta le briciole di pane sparse sui ciottoli, come se temessero di vederle sparire. “Ingordi” pensò André, ma non si sentì di biasimarli. Anche lui, ultimamente, si sentiva mosso da un istinto simile. Da quando la vista dell’occhio destro si era indebolita, lui aveva cominciato a divorare con un‘avidità esasperata ogni dettaglio, ogni linea e ogni colore di tutto ciò che lo circondava, come se da un momento all’altro non potesse più vederli. 

Scrollò la testa pensando alla frivolezza di quella similitudine. Di fatto lui sentiva di avere davvero ben poco in comune con un colombo.

Si mise, così, ad osservare il cortile con lo sguardo di un pittore che deve imprimere l’immagine di un paesaggio su una tela. La luce dell’imbrunire aveva donato una calda sfumatura color miele al bianco delle piume dei colombi. I cipressi bassi, spruzzati d’oro, in fila intorno al cortile, fremevano nel vento leggero, sprigionando un buon profumo di resina. “È davvero una bella serata.”

Si accorse solo allora del silenzio della nonna, ma non si sorprese e non si dispiacque. Era certo che non le servisse chiedergli il perché della sua decisione apparentemente improvvisa. Dal suo respiro profondo e perfettamente calmo, André capì che lei aveva già intuìto ogni cosa. Marron aveva un naso infallibile per fiutare le situazioni. L’esperienza della vita le aveva insegnato a riconoscere i sintomi di ogni tipo di circostanza e i lunghissimi anni di servizio a Palazzo l’avevano resa parte integrante delle mura stesse. Lei era le mani, la mente, gli occhi e le orecchie di Palazzo Jarjayes e ne deteneva silenziosamente tutti i segreti, discreta e sfuggente come un prete nella sua cattedrale.

-Sono sicura che tu sappia ciò che fai.-

Gli disse accarezzando con dolcezza la sua spalla. 

-Credo di sì. Una cosa è certa, il cambiamento era inevitabile.-

Rispose lui abbozzando un sorriso senza alzare lo sguardo. Non aveva bisogno di guardare la nonna. Lei c’era, la sentiva vicina col cuore. La sua presenza era calda, confortante, preziosa come il tepore di un fuoco in una sera d’inverno.

-Che lavoro farai a Parigi?-

-Assisterò un avvocato, un lavoro d’ufficio. Dovrò rinforzare la mia conoscenza della legge e della giustizia, ma tutto sommato penso che possa essere una professione stimolante.-

Con la coda dell’occhio, vide che la nonna annuiva piano mentre osservava la danza scoordinata dei colombi di fronte a loro.

-Oscar sa che lasci Palazzo Jarjayes?-

Chiese candida.

-No, no, non lo sa. Non proprio.-

Marron annuì ancora come se lui le stesse dando informazioni che già conosceva, come se la loro conversazione non fosse nemmeno necessaria.

-Vedi, André,- mormorò Marron sfiorando con le dita la piccola croce che teneva al collo -il vostro legame non si è assottigliato col tempo, semplicemente avete maturato una visione diversa del vostro rapporto, vi siete accorti di avere desideri e necessità che non coincidono. Io penso che abbiate soltanto bisogno di capirvi, cominciando dal capire voi stessi e, in un secondo momento, l’un l’altro. Un giorno, quando le vostre vite si saranno riassestate, vi ritroverete.-

André liberò un lungo sospiro dalle labbra che terminò in un debole gemito.

-Ascolta, André, andartene non è ciò che vuoi, ma forse è ciò di cui hai bisogno. Te ne accorgerai. Vai e fa’ un po’ ciò che ti va di fare, per l’Amor di Dio! Esplora, indaga, rischia. Ritrova te stesso.-

-Quindi non ti dispiacerà non avermi più nei dintorni?-

Le chiese André mostrandole il dolce sorriso da fanciullo che sfoggiava solo con lei. Marron gli passò una mano tra i capelli con lo stesso immutato affetto di quando lui era un bambino e le sue dita amorevoli si portarono via un po’ di quella cenere che anneriva i suoi pensieri.

-Sì, André, certo che mi dispiacerà, ma mi dispiacerebbe di più averti qui e saperti infelice.-

 

 

 

 

 

 

La caserma era un tozzo edificio dalle linee semplici e senza alcun decoro e la luce biancastra di quel pomeriggio brumoso la rendeva ancora più grigia, triste e scialba di quanto non fosse di per sé. 

Oscar sentì la gola annodarsi e le sue mani tirarono d’impulso le redini fermando Cesar in mezzo al cortile. Si concesse un momento per contemplare l’austera facciata e accogliere l’idea che quel posto sarebbe presto diventato la sua seconda casa. 

Notò allora che il Colonnello D’Agoult, il suo nuovo vice, la aspettava sulla soglia dell’ingresso, rigido e stinto come il personaggio di una grisaille. Il suo aspetto era tanto coerente con l’architettura della caserma che Oscar si trovò a domandarsi quanto tempo gli fosse voluto per assorbire il grigiore di quel posto e restituirlo attraverso la proprio immagine e contemporaneamente si chiese se a lei sarebbe capitata la stessa cosa.

Lo lasciò in attesa e condusse Cesar nelle scuderie, senza fretta. In fondo era in anticipo, larghissimo anticipo a dire il vero. L’impatto con le scuderie non fu migliore dell’impatto con la caserma. Non appena vi mise piede, si sentì oltremodo offesa dall’idea di dover lasciare il proprio cavallo in quel posto lercio. Cercò uno stalliere, ma quando ne trovò uno che spazzava il pavimento grugnendo e fischiettando, non gli disse nulla e preferì fare da sé. In quel posto, a quanto pareva, la gente assumeva le sembianze del luogo in cui passava le giornate. Uscì a passi lunghi e nervosi stringendo i pugni lungo i fianchi, accesa da un’irrefrenabile impazienza di sedersi al suo nuovo scrittoio e cominciare a darsi da fare per riportare la caserma a delle condizioni dignitose.

-I cavalli sono stati strigliati?-

Fu la prima domanda che rivolse a D’Agoult, dopo un breve scambio di formali saluti.

-Non saprei, Comandante Jarjayes. Non sono io che dirigo il lavoro nelle scuderie.-

-Chi se ne occupa?-

D’Agoult si schiarì la voce e parlò come se la risposta fosse ovvia.

-Il Comandante.-

Oscar sollevò le sopracciglia e gonfiò il petto.

-Allora suppongo che il vostro precedente Comandante abbia avuto troppo lavoro per pensare alle scuderie. Lo trovo inammissibile. Le condizioni della struttura e dei cavalli sono pessime. Questo influisce sicuramente molto sull’efficenza degli interventi della Guardia.-

Sul viso di D’Agoult non si mosse neppure una ruga. Lui conservò un’espressione indolente e liquidò l’argomento con un lungo sospiro stanco.

-Secondo quanto mi avete scritto,- riprese con voce lenta e profonda -non ho comunicato ai soldati la notizia del vostro arrivo anticipato.-

-Bene.-

-Vi accorgerete che gli uomini hanno molto più bisogno di essere strigliati rispetto ai cavalli.-

 

 

 

Quando si ritrovò di fronte ai soldati schierati nella camerata, Oscar comprese il significato dell’affermazione di D’Agoult.

Mentre il suo secondo la presentava, elencando i suoi titoli e i suoi meriti, Oscar osservò contrariata l’aspetto scomposto e trasandato di quegli uomini. Se non avessero indossato le divise -per giunta disordinate e sporche- non le sarebbe mai venuto in mente che potessero essere dei soldati. Staccò gli occhi da quei volti grotteschi e fece scorrere lo sguardo sulla camerata. “Questo posto è più simile ad un accampamento che ad un dormitorio.”

Avvistò il luccichio verdastro di una bottiglia di vino protetta sotto un cuscino e notò una carta da gioco stesa per terra, orfana del mazzo a cui apparteneva, probabilmente occultato in fretta e furia al suo arrivo. 

-Una donna?-

Borbottò ad un tratto una voce in mezzo al gruppo.

-Colonnello D’Agoult! Noi non prendiamo ordini da una donna nobile!-

Tra le file si alzarono diverse voci di protesta finché le frasi non iniziarono a confondersi in un brusio agitato. D’Agoult, incapace di dare espressione al proprio volto di marmo, bloccò a metà un respiro e i suoi occhi non riuscirono a decidere se guardare il nuovo Comandante o i soldati. Oscar rivaleggiò con successo con l’impassibilità di D’Agoult e senza scomporsi decise di tentare un cauto intervento:

-Silenzio.-

Come aveva previsto, l’effetto fu un burrascoso moltiplicarsi delle voci e un deciso innalzamento dei toni. Allora, con la calma che contraddistingue i gesti più semplici ed innocenti, Oscar estrasse la pistola dal fodero e la puntò in alto. Nessun preavviso e sparò. La pallottola si conficcò in una trave del soffitto e il boato del colpo riempì la camerata inghiottendo tutti i rumori.

Conquistato il silenzio, Oscar approfittò dello smarrimento che leggeva negli occhi dei soldati per parlare. Si schiarì la voce e si strinse il polso in una mano dietro la schiena.

-Ogni volta che non mi presterete attenzione, ogni volta che noterò mancanza di disciplina, ogni volta che mi mancherete di rispetto, io sparerò a quella trave. E per ogni pallottola che mi farete sprecare, applicherò una punizione.-

Fece un passo in avanti e sfidò con uno sguardo di ghiaccio gli occhi sbigottiti di un soldato in prima fila.

-Ci saranno dei sostanziali cambiamenti, d’ora in avanti. Mi auguro che collaborerete.-

Lasciò che le proprie parole fermentassero nelle teste dei soldati e diede loro le spalle per uscire dalla camerata.

-Posso contare anche sulla vostra collaborazione, Colonnello D’Agoult?-

Gli domandò quando si trovarono da soli nel corridoio. Si sorprese di trovare un lieve mutamento di espressione su quel volto duro e spento, qualcosa di simile all’ammirazione e ne fu segretamente compiaciuta.

-Sì, Comandante. Comunque- aggiunse lui in tono più confidenziale -Sono sicuro che i soldati abbiano solo bisogno di abituarsi... alle novità. Il cambiamento è una questione di pazienza.-

Oscar sospirò e scosse piano la testa.

-Il cambiamento è una questione di sopravvivenza.-

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Capitolo 18
*** Differenti prospettive ***


Il sole era tramontato da poco e aveva lasciato dietro di sé uno strascico di magnifici colori. Larghe nuvole blu cobalto galleggiavano su un brillante cielo che sfumava dal magenta all’ocra.

Oscar fece fermare Cesar in mezzo alla strada deserta che serpeggiava tra piccoli boschetti e prati di erba alta. Si prese qualche momento per respirare l’aria buona e profumata della sera e per ammirare la bellezza spontanea e gratuita della natura, che sembrava aver dipinto quel crepuscolo per consolare e alleviare le sue inquietudini.

-È stata una lunga giornata, Cesar.-

Mormorò con un sospiro triste.

La tacita diffidenza di D’Agoult, l’aperta riluttanza dei soldati, le condizioni disperate della caserma... non si era illusa di trovare un’accoglienza diversa, eppure si rendeva conto che, in quel periodo, le acque della sua vita non erano abbastanza calme per permetterle di affrontare gli inevitabili ostacoli del nuovo incarico con la fermezza che avrebbe voluto avere.

-Forse ho solo bisogno di ritrovare un equilibrio.-

Mormorò invitando dolcemente Cesar a proseguire verso casa. 

Non sarebbe stato semplice. Si sentiva come il solitario capitano di una nave, costretto ad affrontare una tempesta senza nessuno che ammainasse le vele o che offrisse un paio di mani per stringere il timone.

-Sopravviverò.-

Disse ad un merlo appollaiato su un ramo.

Si lasciò cullare dal lento dondolio del cavallo e si consolò con la seducente prospettiva di immergersi in un lunghissimo bagno, per poi sprofondare nell’avvolgente abbraccio delle lenzuola e soffocare quella sferzante emicrania in un buon sonno.

Raggiunse i cancelli della propria dimora con un involontario sorriso sulle labbra, ma la dolce ansia di arrivare fu di colpo inquinata da un fastidioso presentimento, al quale le sembrò di trovare conferma nell’insolito comportamento di Marron, che la attendeva sulla porta e non riusciva a stare ferma. La governante le sorrise senza alcuna naturalezza e si azzardò a proporle qualche impacciata domanda su come avesse trascorso la giornata. 

-Sono molto stanca.- Glissò Oscar aggrappandosi al corrimano della scalinata, poi aggiunse con voce teatrale ma fiacca -Il mio regno per un bagno caldo!- infine cambiò registro e tornò seria -Più tardi vorrei che tu mandassi André nelle mie stanze, ho bisogno di chiarire alcune incomprensioni con lui.-

Le guance di Marron persero tutt’a un tratto il loro colore.

-André non c’è.-

-È uscito?-

Indagò Oscar severa.

-No, lui...-

Marron si guardò intorno come una mediocre attrice che dimentica una battuta nel bel mezzo di una rappresentazione e che cerca disperatamente dei suggerimenti.

-André non lavora più qui.-

Borbottò infine.

-Che significa?-

La incalzò Oscar protendendosi verso di lei.

-Ecco, ha trovato un lavoro in città. Vi si è trasferito oggi stesso.-

Le labbra di Oscar si staccarono l’una dall’altra e i suoi occhi si cristallizzarono.

-Cosa? Perché nessuno me l’ha riferito?-

Marron scrollò piano la testa, come se sapesse tutto ma non potesse dire nulla.

Oscar sentì una voragine aprirsi nello stomaco. “Che cosa ti aspettavi, Oscar?” chiese la sua coscienza al suo orgoglio. Guardò Marron che farneticava qualcosa agitando le mani e non riuscì a seguire il suo discorso.

“André, se n’è andato...” Il suo sguardo si perse nel vuoto e la voce di Marron che parlava rimbombò nelle sue orecchie come un boato distante.

-...tuo padre ti vuole parlare con urgenza.-

In mezzo al fiume di parole che sgorgava dalla bocca della governante, Oscar colse quella frase quasi per caso, con una punta di orrore.

-Mio padre? Per quale motivo?-

Marron sollevò le spalle fingendo ancora una volta di non avere molte informazioni da darle. “Proprio una mediocre attrice”, pensò Oscar.

-Non… non saprei. Suppongo, cara, che abbia qualcosa a che fare con il Visconte de Girodelle.-

 

 

 

 

 

Oscar attraversò il corridoio a passo lento, con la leggerezza di un felino. L’acustica di quell’androne del Palazzo era terrificante, ogni minimo scricchiolio del pavimento di legno aggravava un po’ di più il suo mal di testa.

Quando si trovò davanti alla porta dello studio del padre, si concesse un momento per distendere i nervi e spogliarsi delle emozioni, poi diede un colpo leggero sul legno della porta, come di rito, e attese.

-Entra, Oscar.-

Le sembrò di udire un ordine piuttosto che un permesso, ma non se ne risentì.

Oltrepassò la soglia e le venne da sospirare. Suo padre ormai la convocava solo per motivi particolarmente importanti o per metterla al corrente di notizie di un certo peso, cioè sgradevoli. “Il mio presentimento era giusto, dunque” pensò inoltrandosi nello studio, immerso in una penombra densa e terrosa. Le uniche candele accese svettavano sul candelabro d’argento sopra lo scrittoio e si sforzavano invano di illuminare l’intera grande stanza. 

Il Generale era in piedi dietro la scrivania, accanto al suo seggio, fermo e dritto come un filo a piombo, con una mano appoggiata sullo schienale intarsiato e l’altra aggrappata all’orlo della propria giacca.

-La governante mi ha riferito che desideravate parlarmi.-

Esordì Oscar congiungendo i piedi e gonfiando il petto. Sceglieva sempre di assumere una posizione militare quando si trovava al cospetto del genitore, perché padreGenerale per lei erano sinonimi.

-Sì, Oscar, puoi sederti.-

-Preferirei di no, a dire il vero, anzi, vi sarei grata se fosse una conversazione breve.-

Il Generale stirò le labbra e annuì.

-Certo, Oscar. Non faccio fatica ad immaginare che sia stata una giornata molto impegnativa per te.-

Nel sentire quel tono insolitamente cordiale, Oscar rabbrividì. Il Generale non mancava mai di farle inghiottire una zolletta di zucchero prima di somministrarle una medicina amara.

-Il Visconte Victor de Girodelle si è presentato qui a Palazzo questo pomeriggio...-

La breve pausa del Generale le diede il tempo di formulare qualche ipotesi sul proseguimento della frase, ma la sua immaginazione non fu in grado di prevedere la notizia che venne subito dopo.

-Egli mi ha chiesto la tua mano. Desidera prenderti in moglie.-

L’ultima parola -moglie- si impresse nella mente di Oscar come un timbro. Indecisa se mostrarsi indignata o se scoppiare a ridere, tacque e non lasciò emergere nessuna emozione. Un brivido corse al di sotto della sua pelle. Dimenticò per un istante la stanchezza, il cerchio alla testa e il senso di frustrazione. Riuscì a pensare soltanto ad una parola, una semplice sillaba. “No.”

-Oscar, parlando con lui mi sono reso conto di doverti delle scuse.-

-Delle scuse...-

Gli fece eco lei.

-Sì, Oscar. Sono stato un tiranno nei tuoi confronti. Ti ho negato il diritto di vivere secondo la tua natura e ti ho imposto un’esistenza gemella alla mia per puro egoismo. Sei una bella ragazza, Oscar, sei davvero bella. Hai una mente brillante e un buon cuore. Girodelle mi ha aperto gli occhi. Che sciocco che sono stato a non accorgermene da solo!-

Oscar si lasciò distrarre per qualche momento dal riflesso tremolante delle candele sul marmo del pavimento, poi sollevò lo sguardo e scoprì che gli occhi del padre, così straordinariamente simili ai suoi, erano umidi di lacrime. Se avesse visto piangere uno dei busti di marmo che affollavano la biblioteca non sarebbe stata meno turbata.

-Non avete motivo di scusarvi, padre.- Replicò calma. -Nulla di ciò che sono mi è stato imposto. Voi mi avete concesso la preziosissima opportunità di decidere cosa essere e che genere di vita condurre ed io, se dovessi tornare indietro, sceglierei mille volte ancora l’uniforme.-

Il Generale la guardò a lungo attraverso il velo di lacrime che gli appannava la vista e, quando parlò di nuovo, non provò nemmeno a nascondere l’emozione.

-Vorrei vederti felice, Oscar, vorrei che anche tu sperimentassi la gioia di essere amata come meriti e come io non sono stato capace di fare.-

Oscar posò le mani aperte sul ripiano dello scrittoio e rivolse gli occhi alle rose bianche, quasi sfiorite, che riempivano un vaso azzurro accanto al candelabro.

-Padre, vi ripeto che non dovete rimpiangere nulla. L’affetto che mi avete elargito con parsimonia è stato sufficiente a farmi conoscere quale foggia abbia l’amore e vi assicuro che non sono del tutto estranea a questo sentimento.- raccolse una rosa e ne infilò il gambo in un’asola vuota della giacca- Ora che sono adulta mi rendo conto che le carezze che non ho ricevuto mi hanno resa più forte.-

-Più forte, ma meno felice!-

Il Generale quasi urlò mentre copiava il gesto della figlia e premeva i palmi sullo scrittoio. 

-Non intendo sposarmi.-

Scandì lei con voce ferma, poi la sua testa ricominciò a pulsare più forte di prima. Voltò le spalle a suo padre e a quella assurda situazione e si incamminò verso la porta concentrandosi solo sui propri passi.

-Girodelle mi ha confessato di volerti molto bene, Oscar. Insieme a lui vivresti nell’agio e per me sarebbe un sollievo sapere che un brav’uomo come lui si prende cura di te.-

Oscar continuò a camminare in silenzio prestando con rabbia il tappeto. 

“Non ho bisogno di un uomo” ringhiò nel pensiero.

-Oscar!-

Lei si girò solo quando la sua mano ebbe raggiunto la maniglia della porta. 

-Ti invito a ponderare attentamente la tua delcisione.-

Lei gli rispose con un cenno neutro della testa e si affrettò a lasciare lo studio chiudendosi subito la porta alle spalle. Quando fu finalmente nel corridoio, i suoi polmoni cercarono d’impulso una grossa boccata d’aria come se fosse appena riemersa da molti minuti di apnea sott’acqua. Appoggiò la fronte sul legno fresco e liscio della porta e chiuse per un attimo gli occhi.

In quel momento ebbe l’impressione di non essersi mai sentita tanto sola.

Rabbrividì e sollevò in alto un pugno, pronta a colpire la porta, ma si fermò appena prima di farlo.

Tornò calma con un solo respiro profondo e prese a camminare verso la propria stanza a passo svelto, perseguitata dagli scricchiolii del corridoio, ma impaziente di sciogliere i nervi nell’acqua calda della vasca da bagno.

-Se non fossi nei miei panni, penso che la mia vita mi sembrerebbe solo una mediocre farsa.- 

 

 

 

 

 

L’alloggio che Bernard era riuscito a procurare ad André per un affitto onesto era una stanzetta angusta, situata nell’umido sottotetto di una casa a due piani, poco distante dal Priorato di Saint-Martin-des-Champs, in un quartiere centrale e tranquillo. Al pianterreno abitava la proprietaria, una donna corpulenta e loquace, vedova e madre di una bambina piccola. Aveva un volto squadrato, gonfio e butterato come il granito, sempre accigliata e assai poco affezionata all’igiene. Questo poco interesse nei confronti della pulizia era saltato subito all’occhio di Andrè non appena era entrato nella stanza. Polvere, vetri opachi, ragnatele stese come arazzi tra le travi, pungente odore di muffa.

Intuendo fosse infruttuoso lamentarsene, si era limitato a chiedere in prestito una ramazza e qualche straccio per rassettare da sé l’alloggio. A quella richiesta, evidentemente per lei insolita, la donna si era piegata in due dalle risate, ma erano bastate un paio di monete snocciolate nella sua mano perché il ghigno diventasse un larghissimo sorriso. “Per tutto ciò che vi serve, non dovete far altro che chiedere, Monsieur.” Così André ne aveva approfittato per garantirsi anche il libero utilizzo di un catino per lavarsi.

La mattina seguente era uscito di buon’ora con una lista di libri da comprare per riempire la piccola libreria vuota della propria camera. La proprietaria l’aveva trattenuto appena prima che uscisse e si era scusata di non averlo informato che nelle due stanze al piano intermedio alloggiavano uno studente e una prostituta e che, perciò, non si sarebbe dovuto scandalizzare se occasionalmente avesse sentito dei rumori equivoci.

“Buffo come in un’unica abitazione siano riunite persone tanto diverse!”

Aveva pensato lui mentre si inoltrava nelle affollate strade di Parigi.

Ogni cosa gli appariva come un’eccitante e succulenta novità. Vedeva Parigi e i suoi abitanti con occhi diversi e si meravigliava di tutto, con uno stupore simile a quello di un giovane provinciale ignaro di quanto può essere generosa o esigente una grande città. Si era trovato completamente immerso nel variegato mondo delle persone comuni e smaniava per conoscerne tutte le sfumature, come un appassionato di botanica dentro un orto.

Compì le proprie commissioni con calma, esplorando ed insinuandosi nelle viscere di Parigi. Vissuta da dentro, la città aveva tutto un altro aspetto, un altro sapore, un altro odore. Ne scoprì un fascino inedito, subdolo, quasi perverso.

Quando fece ritorno a casa, si sedette al piccolo scrittoio e annotò una breve frase sul taccuino, mormorandola tra le labbra mentre la scriveva:

-Parigi, sotto la scorza, è un ribollente purgatorio.-

Gettò la piuma sul ripiano e chiuse gli occhi. Si premette due dita contro le palpebre abbassate, mentre un pensiero si faceva largo nella sua mente e poi scendeva a stuzzicargli il cuore.

“Devo parlare con Oscar.”

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Capitolo 19
*** Fortuna ***


Non credeva che l’avrebbe visto lì, accanto ai cancelli d’ingresso della caserma, avvolto nella morbida luce rosata dell’imbrunire, immobile e dritto come un soldato di guardia.

André aspettava lei. Oscar non lo sapeva, ma ne era certa. 

Gli andò incontro a passo lento, misurato, soppesando attentamente le proprie emozioni mentre conduceva Cesar per le briglie. Si sorprese della propria calma. Il ritmo del cuore non era aumentato, le guance avevano conservato il loro freddo pallore e nessun nodo le aveva chiuso la gola. Scoprì di percepire soltanto una gradevole serenità, simile a quella che per molti anni aveva provato dopo le interminabili giornate a Corte, quando trovava André ad attenderla pazientemente nel cortile di Versailles per tornare a casa insieme.

-André.-

Lo salutò pronunciando il suo nome con una dolcezza spontanea e lui fece lo stesso.

Si incamminarono in silenzio, fianco a fianco, accompagnati dalla stessa naturale confidenza che avevano sempre avuto e che sembrava non avere motivo di mancare. Si guardarono intorno con aria distratta, sospirarono spesso e solo quando raggiunsero la riva della Senna, Oscar ruppe il silenzio.

-Ti sei sistemato bene qui in città?-

-Sì. L’alloggio è decente e il quartiere tranquillo. Domani inizierò a lavorare per un avvocato di Parigi.-

Con la coda dell’occhio, André vide che Oscar annuiva mentre fissava con occhi stanchi la strada davanti a sé. Indovinò senza sforzo che lei gli avesse posto quella domanda solo per semplice cortesia.

-Ti ricordi cosa mi hai detto appena prima che io partissi per la Normandia?- chiese lei ad un tratto, senza guardarlo -Mi hai detto che fuggire è inutile.-

André sospirò. Ricordava bene quel giorno e quelle parole che gli erano uscite senza controllo dal cuore. Non si sarebbe sorpreso di ricevere ora da lei lo stesso rimprovero.

-Anche tu sei fuggito.-

André accettò la presagita accusa con un altro sospiro.

-Ho sbagliato a non parlartene.-

Ammise voltandosi verso di lei per cercare il suo sguardo, ma Oscar sembrava molto più interessata a seguire la trama del selciato che scorreva sotto i loro piedi. Si permise allora di osservarla, come aveva fatto spesso in passato nei momenti in cui lei era distratta. La trovò bella, bella da far male, in quell’uniforme nuova e lustra, molto più bella che nel succinto abito bianco da contessa che le aveva visto indossare la sera in cui tutto aveva cominciato a cambiare. Il blu e l’oro le donavano.

-Non eri tenuto a farlo.-

Asserì lei ad un tratto e si fermò in mezzo al ponte che stavano attraversando per voltare la faccia e offrirgli uno sguardo fermo ma non severo.

-Oscar, abbiamo entrambi bisogno di tempo e di spazio. Non posso fingere che non sia accaduto nulla tra noi e non voglio fingere di essere ancora tuo... amico.-

-Mi stai proponendo di fingere di essere due estranei?-

-Mettiamola pure così. Penso che se ci intestardissimo ad imitare le persone che eravamo e che non siamo più, rischieremmo soltanto di farci del male a vicenda. Ancora.-

Oscar annuì e allungò una mano per accarezzare il muso di Cesar.

-Se avrai bisogno di me, non devi far altro che cercarmi, Oscar.- aggiunse lui, gentile -La nonna conosce il mio indirizzo, chiedilo a lei se hai necessità.-

-Va bene, ti ringrazio. Vale lo stesso per te. Puoi tornare a Palazzo quando desideri, ma ti prego di non cercarmi in caserma, almeno finché non te lo dirò io.-

Ripresero a camminare nell’aria d’oro dell’imbrunire finché non raggiunsero l’ombra gettata dagli edifici sulla riva opposta del fiume, dove le botteghe degli artigiani stavano ormai chiudendo i battenti per la notte. A quel punto, un grosso topo nerastro passò a pochi passi dai loro piedi per correre verso un canale di scolo, innervosendo Cesar, che inchiodò con un nitrito cupo. Seguendo l’eco delle vecchie abitudini, Andrè tese una mano verso il muso del cavallo per regalargli una carezza di conforto, ma Oscar gli afferrò di slancio il braccio come se volesse impedirglielo. L’atmosfera tranquilla che li aveva accompagnati si frantumò e André si sentì congelare fin dentro l’anima. Mentre tentava in fretta di capire cosa ci fosse di inopportuno nel proprio gesto, si preparò istintivamente a scusarsi.

-Oscar...-

La guardò negli occhi e intravide un cielo nero di tempesta oltre il bordo delle sue iridi cristalline. Capì che quelle dita forti e sottili che ancora gli stringevano il polso non volevano respingerlo, ma aggrapparsi a lui.

Rimasero entrambi immobili per qualche istante, occhi negli occhi e con i respiri trattenuti, ignorando gli sguardi dei passanti incuriositi da quella loro innaturale posizione. Poi Oscar di colpo parlò con voce ferma, priva di qualsiasi sfumatura. 

-Girodelle ha chiesto la mia mano.-

In quel momento una carrozza passò rapida e rumorosa nella via e gli schizzi di fango delle ruote insozzarono qualche passante, scatenando un coro di proteste.

-Girodelle... Girodelle ha chiesto la tua mano?-

Ripeté André.

-Sì, è così.-

Lui si sentì trafitto da parte a parte.

-Ascoltami, Oscar, mi fa male dirlo, ma preferirei vederti sposata con chiunque altro.-

Oscar increspò le sopracciglia e gli liberò il polso.

-Perché?-

-Perché il Visconte ama i tuoi pregi, ma non vede i tuoi difetti.-

I rumori della strada riempirono il silenzio che calò dopo quelle parole, ma André riuscì ad udire soltanto il suono amplificato e assordante del proprio cuore che gli batteva forte nelle orecchie. Lei non disse più nulla, mise un piede nella staffa e salì in sella con una certa fretta, come se si fosse ricordata all’improvviso di avere un impegno importante. André capì di aver toccato qualche corda sensibile del suo spirito. Forse si era spinto oltre. Non dovevano fingere di essere due “estranei”? E poi doveva capirlo, si rimproverò, se Oscar non riusciva ad accettare che un uomo innamorato pretendesse di darle consigli da amico. E non poteva di certo darle torto.

-Devi scusarmi, André, ma ora devo proprio andare. Vorrei tornare a casa prima che faccia buio. Non c’è luna stanotte.-

Andre si sentì rimesso in riga e fece un passo indietro, abbassando servilmente gli occhi. Con un sospiro si chiese se avrebbe mai veramente smesso di essere il suo attendente.

-Non dimenticarti che la prossima domenica c’è il matrimonio di Rosalie.-

Mormorò senza avere né la voglia né la forza di guardarla.

-Me ne ricordo. A presto, André.-

 

 

 

 

 

Si sentì morire quando vide Oscar allontanarsi a cavallo, lasciandogli addosso la gelida sensazione della solitudine. Il sangue smise di scorrere nelle sue vene e poi ricominciò subito dopo, veloce e bollente, salendo dritto alla testa, oscurando del tutto la sua lucidità.

Si convinse, senza ragione, di aver bisogno di uno sfogo, il più basso, fisico e immorale che potesse ottenere.

Tornò a casa quasi correndo, ignorò del tutto le domande indiscrete della padrona di casa e si precipitò al primo piano, verso la stanza della prostituta. Colpì la porta con entrambi i pugni, poi si allontanò di un passo e si strofinò le mani sui vestiti per eliminare qualche traccia inesistente di polvere.

La donna che gli aprì la porta dopo qualche secondo non aveva affatto l’aspetto di una prostituta. Era piccola di statura, con un volto magro, segnato da un’eta matura e da una vita evidentemente poco felice. L’abito color cenere che indossava era accollato, largo e mostrava molta meno pelle di quanto André si fosse aspettato.

La donna guardò il ragazzo con aria diffidente e indispettita, poi si appoggiò allo stipite piantandogli addosso un paio di eloquenti occhi grigi.

-Buonasera, mi chiamo André. Alloggio nel sottotetto.-

Borbottò lui provando ad abbozzare un sorriso, che dovette assomigliare più ad una smorfia, perché la donna sollevò in alto un sopracciglio e sbuffò appena.

-Ah, desiderate?-

Il demone che si era impossessato di André di colpo lo abbandonò.

-Perdonatemi, io non avevo intenzione di disturbarvi.-

La donna fece schioccare le labbra e sghignazzò divertita.

-Oh, capisco, cercavate un po’ di svago, ma vi aspettavate di trovare qualcosa di più accattivante!-

André sentì che il proprio volto si scaldava, minando da principio la credibilità di qualsiasi suo tentativo di difesa. Provò a pensare ad un modo galante per scusarsi, invece ebbe un’idea.

-Posso farvi una proposta?-

Domandò titubante. Lei acconsentì con un cenno altrettanto incerto della testa.

-Se vi venisse offerto un lavoro come domestica in un palazzo nobiliare fuori Parigi, accettereste?-

La donna accolse quella domanda incrociando le braccia sul petto e riducendo a fessura gli occhi grandi e rotondi.

-Forse.- 

Concesse, inclinando la testa.

-Potrei raccomandarvi.-

-E per quale motivo fareste una cosa simile, di grazia?-

-Sono il nipote della governante di Palazzo Jarjayes. Posso assicurarvi un lavoro, un lavoro onesto, pulito, ben pagato. In cambio, voi dovreste riferirmi tutto ciò che dice e fa la figlia del Generale.-

Perfino Andrè non era convinto di quella offerta, né era sicuro che fosse attuabile, perciò non si stupì di non essere preso sul serio. Lasciò che la mente della donna assorbisse le sue parole, quindi provò ad essere più persuasivo.

-Vi assicuro che sono in buona fede. Io stesso sono disposto a fidarmi di voi, madame. Non rischiereste nulla, in cambio vi chiedo solo di ascoltare e riferirmi.-

Nessuna risposta.

-Potrebbe essere un’occasione per voi di avere una vita più... dignitosa.-

Azzardò mostrandole un sorriso caldo e sperando di sembrare rassicurante.

-Vi posso lasciare un giorno per pensarci.-

Insistette. La donna sciolse le braccia dal petto e appoggiò le mani sui fianchi, rivelando un corpo esilissimo sotto la stoffa abbondante del vestito.

-Se mi assicurate che non è uno scherzo, io accetto anche subito.-

-Ve lo assicuro!-

Esclamò lui di rimando e in uno slancio di riconoscenza prese le sue mani piccole e ossute tra le proprie.

-Bene, allora scrivete alla vostra parente per assicurarmi il lavoro che mi promettete, poi consegnerò io stessa la lettera. In questo modo sarò sicura che non si tratti di una burla.-

-Come desiderate. Scriverò a mia nonna stasera stessa e già domani potrete consegnare la lettera di persona.-

Rifletté un momento, poi chiese:

-Perdonatemi, madame, qual è il vostro nome?-

-Annette, mi chiamo Annette. Per favore,- soggiunse lei abbassando il tono -non dite a vostra nonna che sono una prostituta.-

-Sarò discreto.-

Assicurò lui.

-Sarò discreta anche io.-

Promise Annette e chiuse la porta.

 

 

 

 

 

Lo studio dell’avvocato era un ambiente austero e poco luminoso, quasi come un seminterrato, sebbene si trovasse al livello della strada. L’atrio era ampio e completamente spoglio e l’aria che vi si respirava era pesante e fuligginosa a causa delle numerose candele che riempivano i cantucci, pur senza riuscire ad illuminare la stanza a dovere. Entrando, André ebbe l’impressione che il pavimento e le pareti scure assorbissero e trattenessero ogni bagliore di luce. Nell’angolo vicino alla porta d’ingresso, il punto più luminoso, c’era un basso scrittoio, sopra cui un ragazzo con i capelli neri se ne stava curvo a controllare un grosso libro di annotazioni. André intuì che fosse il garzone. 

-Buongiorno.-

Gli disse in tono cordiale, mentre accompagnava la porta.

-A voi.-

Rispose il ragazzo, studiandolo da testa a piedi.

-Sono André Grandier, sto cercando l’avvocato Basil Moreau.-

-Ah Grandier, vi aspettavo!-

Un uomo basso, magro e scuro come le pareti dell’atrio emerse da una porta di legno altrettanto scura, sfregandosi le mani e sfoggiando un ampio sorriso.

-Sono Basil Moreau e sono lieto di conoscervi. Bernard mi ha parlato davvero bene di voi!-

Esclamò. André gli strinse la mano vigorosamente e stirò le labbra. Valutò a occhio che l’avvocato dovesse aver superato i quarant’anni da almeno un lustro.

-Bernard mi ha riferito, inoltre,- soggiunse Moreau con un tono più discreto -che eravate l’attendente di Oscar François de Jarjayes.-

-Sì, sono stato suo attendente.-

-Mmh.- commentò l’avvocato, prendendosi il mento tra le dita -Voi non avete studiato la legge, dico bene?-

-No, ma ho ricevuto un’istruzione completa.-

-Per concessione del Generale?-

-Sì.-

-Insolito che un servo ottenga questo privilegio da una famiglia aristocratica. Siete stato molto fortunato, ne convenite?-

-Lo sono stato, è vero.-

André fiutò l’obiettivo dell’indagine dell’avvocato, ma lo lasciò parlare fingendo di non aver capito.

-Io sono ben propenso ad assumervi, perché ritengo che un uomo maturo e istruito come voi mi sia più utile di un normale studente principiante, tuttavia vorrei che mi chiariste le idee sul rapporto che intercorre tra voi e la figlia del Generale Jarjayes.-

“Ecco il punto”, pensò André, e decise di propendere per la sincerità, ma senza sbilanciarsi.

-Eravamo in confidenza.-

-Eravate?-

-Siamo cresciuti insieme, ma per diversi motivi non era accettabile che fossimo sentimentalmente legati, in amicizia, si intende.-

L’avvocato sorrise con un’espressione indecifrabile e si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla, gesto che André trovò un po’ troppo confidenziale.

-Siete un uomo libero, Grandier, siate felice per questo, e considerate che la vostra istruzione e la vostra intelligenza vi salveranno dalla miseria. Siete una persona davvero fortunata, ho l’impressione che non ve ne rendiate conto.-

La coscienza di André rimase molto colpita da quella affermazione. Lui, un uomo fortunato? Di sicuro era stato più fortunato di molti altri, questo lo sapeva e sua nonna non aveva mai smesso di rammentarglielo. Dunque la sua infelicità era solo una questione di arroganza? Se avesse imparato a farsi bastare ciò che la Fortuna aveva deciso di concedergli, sarebbe stato un uomo felice?

Continuò a rimuginarci sopra per tutto il giorno, anche mentre tornava stanco verso casa. Salì a capo chino le scale per raggiungere la propria camera, perso tra pensieri che gli rimescolavano la testa ed emozioni che gli rimescolavano lo stomaco, quando un giovane con i capelli color nocciola e gli occhi piccoli e affilati, uscì di fretta dalla stanza di fronte a quella di Annette e gli si parò di fronte.

-Voi dovete essere l’inquilino che risiede proprio sopra la mia stanza, dico bene?-

Domandò il ragazzo con un sorriso stretto e freddo. André si fermò sul pianerottolo e, mentre si presentava senza entusiasmo, analizzò l’aspetto ricercato del proprio interlocutore, osservando tra sé che egli indossasse abiti di fattura un po’ troppo raffinata per essere un semplice studente. 

-Io mi chiamo Louis, Louis de Saint-Just, lieto di conoscervi, André.- disse quello -Mi fermerei volentieri a parlare con voi, ma ho impegni urgenti che mi aspettano. Vi auguro buona serata.-

 

 

 

 

 

Alain se ne stava disteso sulla branda con le mani dietro la nuca, in attesa di cominciare il proprio turno di guardia. Avrebbe dovuto fare la ronda notturna e l’idea non gli dispiaceva. Aveva ormai preso l’abitudine di approfittare dei turni di notte per spingersi nei quartieri malfamati di Parigi e cercare tabacco di contrabbando. In genere, gli era sufficiente vendere un paio di bottoni della divisa per acquistarne una quantità bastevole per una settimana.

Di notte gli eventi gravi erano rari, tutt’al più gli capitava di dover intervenire per sedare qualche disordine da osteria o qualche piccola rissa in strada. Ad un soldato grosso come lui bastava mostrare il fucile per quietare gli animi.

Rimase a lungo a fissare il soffitto umido e pieno di ragnatele, pregustando il sapore del tabacco che si sarebbe procurato a breve. Proprio sopra la sua testa vedeva il solco del proiettile che il comandante aveva sparato il giorno in cui era arrivata. 

-Non ho alcuna intenzione di partecipare alla parata in onore del nuovo Comandante.-

Borbottò in quel momento uno dei suoi compagni mentre staccava croste di fango dai propri stivali, seduto su uno sgabello. Gli altri uomini affermarono subito con voci fiacche di provare lo stesso sentimento.

Alain abbandonò le proprie fantasticherie e si sollevò sui gomiti per mettersi ad ascoltare il mormorio della camerata.

-Oltre che nobile, è pure una donna. È ridicolo.-

-Ridicolo? No, non è solo ridicolo, è proprio una presa per i fondelli. Non ho alcuna intenzione di calarmi le brache davanti a lei e offrirle il mio posteriore.-

-Ah, no? Ma tu l’hai vista bene? Io me le abbasserei le brache davanti a lei, eccome!-

-Idiota, quella vergine di ghiaccio ti abbasserebbe i pantaloni solo per infilarti la canna della pistola tra le chiappe.-

-Ah beh, partecipare alla parata sarebbe un po’ come dirle che mettiamo a sua disposizione i nostri culi.-

-Ah, io ve lo dico, non mi vedrete in piazza d’armi domani.-

-Nemmeno a me!-

-Beh, nemmeno io mi presenterò! Quella ha bisogno di un bel maschio che le spieghi la differenza tra uomo e donna.-

-Potremmo minacciarla.-

Alain si tirò su a sedere, dimenticandosi che quella branda era troppo debole per fare da poltrona. Il materasso si avvallò pericolosamente sotto il peso importante del suo posteriore e lui si vide costretto ad alzarsi per non rischiare di rompere la rete. Tutti tacquero e gli rivolsero lo sguardo, credendo che si fosse alzato per intervenire.

-Ehi ragazzi, calmiamoci!-

Esclamò lui, quando si vide addosso tutti quegli occhi. Non aveva alcuna intenzione di costruire un’arringa a favore del Comandante, ma non poteva permettere che quel branco di teste vuote si cacciasse in qualche pasticcio con lei.

-Nessuno di noi è felice del nuovo Comandante, ma non facciamo stronzate, d’accordo? Non vi passi per la testa di toccarla o di minacciarla e nemmeno di farle la corte, o finirete sulla forca. Sono certo che basterà rifiutarsi di eseguire i suoi ordini. Può sparare a quel soffitto quanto vuole ma prima o poi finirà i colpi. E sarà costretta a tornare da dove è venuta.-

Tutta la camerata proruppe in un applauso entusiasta e Alain sorrise godendosi quel piccolo momento di gloria.

“Che banda di caproni.”

Pensò sogghignando, mentre si avviava verso l’armeria a prendere il fucile per il turno di guardia.

Ammetteva senza imbarazzo di provare affetto per quella compagnia di uomini grezzi e analfabeti, quasi un sentimento fraterno, ma non si sentiva uno di loro.Sebbene ora fosse povero e miserabile quanto uno qualunque di quei soldati, Alain da bambino aveva ricevuto un’istruzione, umile ma buona, quando la sua famiglia poteva ancora permetterselo. Ricordava con nostalgia gli anni sereni della sua infanzia. Allora, qualche volta mangiava carne e, nelle occasioni di festa, perfino dei dolci. Vestiva abiti cuciti da un sarto, comodi e duraturi, caldi d’inverno e freschi d’estate. Ma di quei tempi non gli rimanevano altro che ricordi.

Si appoggiò di schiena a gambe incrociate sul muro esterno della camerata per attendere il compagno con cui avrebbe dovuto affrontare il turno. Era una bella notte, limpidissima e profumata di fresco.

Sollevò gli occhi per guardare il cielo e si ritrovò a fissare le grandi finestre dell’ufficio del Comandante al di là delle quali era tutto buio. Il Colonnello doveva essere tornata a casa.

Pensò a lei e alle parole cattive che erano uscite dalle bocche dei suoi compagni e si accorse di non provare rancore nei confronti di quella donna, piuttosto compassione. Non volle trattenersi a ragionare su quel sentimento che sentiva nel cuore, perché sapeva che si sarebbe potuto trasformare in rabbia. 

Non odiava lei, odiava il mondo in cui lei viveva, quello stesso mondo da cui invece lui era stato escluso.

D’altra parte, di chi era la colpa per quell’ingiusta differenza di privilegi?

Lei, lui, gli altri, tutti subivano i capricci della Fortuna e nessuno poteva scegliere da quale grembo venir fuori.

Sbuffò e sorrise amaro. Si convinse che, tutto sommato, fosse meglio vivere nel mondo reale, quello grezzo e sporco del popolo, piuttosto che sul palcoscenico della nobiltà.

-Dimostrateci quanto valete, Comandante.-

Borbottò a voce alta.

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Capitolo 20
*** Compromessi ***


Una flotta di nuvoloni cupi invase il cielo, portando con sé la minaccia di un violento temporale. Oscar, con sollievo, riuscì a raggiungere la caserma appena prima che si scatenasse il pandemonio.

Si installò nel proprio ufficio in attesa che smettesse di piovere e decise di sfruttare quel ritaglio di tempo libero per parlare con il Colonnello D’Agoult. Era necessario cominciare al più presto a progettare degli interventi per rimettere in sesto quella Caserma.

-Voi ricoprite questo ruolo da molto tempo, perciò il vostro parere è fondamentale.-

Gli spiegò quando il vice le fece notare che lei, in quanto Comandante, aveva il diritto di prendere le decisioni senza doversi confrontare con nessuno.

Discussero a lungo dei turni, delle scuderie, dei soldati, delle munizioni, dei ranci e delle paghe. Oscar apprezzò molto la franchezza e il tatto che quell’uomo dimostrò di avere. D’Agoult parlò molto, ma senza sprecare le parole, e le fece capire che le rogne erano all’ordine del giorno. Conservò sempre la sua aria indolente e si astenne dal fare accuse. Lasciò, però, intendere che le difficoltà elencate derivavano principalmente da un dato di fatto: buona parte delle risorse, di qualsiasi genere, era da sempre destinata ai corpi militari più vicini alla nobiltà. Oscar riconobbe, con una contrazione di stomaco, di averlo sempre saputo, ma di non aver mai dubitato che fosse giusto così.

Promise -più a se stessa che a D’Agoult- che si sarebbe prodigata per attirare la considerazione delle autorità, poi aggiunse con voce cupa che sarebbe stato necessario chiedere ai soldati uno sforzo per dimostrarsi in grado di competere con l’ordine e la disciplina della Guardia reale. 

-Colonnello D’Agoult, pretendo che mi vengano assegnati gli stessi turni dei soldati. Inoltre, desidero che mi sia servito lo stesso cibo che consumano i miei uomini. D’ora in avanti in questa caserma mi sarà negato qualsiasi trattamento di favore. L’unico privilegio che intendo conservare è quello di dormire nella stanza destinata agli ufficiali.-

D’Agoult la lasciò parlare. 

-Informate i soldati che non ci saranno punizioni corporali, ma solo castighi utili per il bene della caserma. In ultimo, desidero che ogni soldato si occupi del cavallo che gli verrà assegnato, come io farò personalmente con il mio. In questo modo risparmieremo tempo e denaro.-

-Agli ordini, riferirò tutto immediatamente.-

-Comunicate solo le disposizioni che riguardano il reggimento e la caserma. Non è necessario che i soldati conoscano le decisioni che hanno a che fare con la mia persona.-

 

 

 

Il cielo cominciò a rasserenarsi solo nel primo pomeriggio. Qualche raggio di sole sfondò la barriera compatta di nubi e la pioggia si ridusse fino ad esaurirsi. Le nuvole, da grosse e grigie, si fecero bianche e sottili come veli sciolti nel vento.

Oscar si rasserenò insieme al cielo e si preparò per assistere alla parata che avrebbe consacrato il suo ruolo. Ma proprio mentre stava per lasciare l’ufficio, il Colonnello D’Agoult si presentò alla porta, nervoso e trafelato, e la informò che i soldati si rifiutavano di lasciare le camerate e di schierarsi in piazza d’armi. L’unica reazione di Oscar fu un brusco cambio di tono del suo incarnato, che si fece pallidissimo. Non disse nulla. Si prese qualche secondo per riflettere, poi aggrottò le sopracciglia e senza pronunciare nemmeno una parola si lasciò alle spalle D’Agoult e si diresse a passo svelto verso le camerate.

-Ritenete che non sia degna del mio ruolo senza nemmeno conoscermi?-

Ruggì spalancando la porta.

-Osate giudicare il mio valore senza criterio, mancandomi di rispetto. Almeno lasciate che ve lo dimostri. Se qualcuno tra voi desidera di sfidarmi in duello, sarò felice di battermi. Pistola o spada, per me è indifferente.-

I soldati si accesero e presero ad incitarsi l’un l’altro ad accettare la sfida. Un omone lungo e largo emerse dal gruppo sbuffando dal naso e avanzò verso Oscar con lo sguardo duro e la bocca tesa in una smorfia di superbia.

-Spada.-

Disse feroce, fermandosi a meno di un passo da lei con il chiaro intento di intimorirla. Oscar sostenne lo sguardo del soldato e parlò con voce fiera:

-Se vinci tu, lascerò il comando. Se vinco io, tutti quanti sfilerete nella parata.-

Gli uomini risposero in coro che accettavano le condizioni e qualcuno cominciò a proporre scommesse sull’esito del duello. Tutti puntarono senza esitazioni sulla vittoria del proprio commilitone, ridendo come iene al pensiero che una donna esile e leggera potesse sperare di sconfiggere un uomo massiccio come un toro in uno scontro corpo a corpo. Soltanto Alain, che aveva assistito alla scena in disparte e in silenzio, si fece avanti e, fingendo di scherzare, disse che scommetteva metà della propria paga a favore del Comandante. 

Raccolte le puntate, tutti si riversarono in gregge nel cortile, dove i due sfidanti si erano già preparati ad affrontarsi.

-Al primo sangue.-

Decretò Oscar estraendo la spada dal fodero con un gesto aggraziato. L’avversario la imitò, ma senza sforzarsi di eguagliare la sua eleganza. 

Il duello cominciò con un attacco quasi simultaneo di entrambi gli sfidanti. Le spade di incrociarono, si sfregarono e si evitarono più volte in una successione di fendenti e stoccate, mentre il metallo delle lame, continuamente sollecitato e colpito, emetteva una melodia ipnotica di suoni vibranti. 

La sfida fu breve, come gli uomini avevano previsto, ma l’esito deluse le loro aspettative. Nessuno riuscì a dissimulare il proprio stupore nel vedere il soldato cadere in ginocchio sul selciato umido di pioggia, con un taglio sottile ma visibilissimo appena sotto la clavicola e con la spada del Comandante a due dita dalla gola.

-Bene, soldati, mi aspetto che rispettiate gli accordi!-

Esclamò lei con voce pulita, senza traccia di affanno né di alterigia, mentre allontanava la spada dal collo dello sconfitto, che, come instupidito, seguitò a stare in ginocchio sui ciottoli con lo sguardo basso.

I volti dei soldati cangiarono espressione tutti al medesimo tempo. Le facce stupefatte si gonfiarono di rabbia e divennero rosse come maschere di ferro rese incandescenti da una fiamma. Oscar rispose lanciando loro sguardi di ghiaccio. Ma lo scontro di occhiate tra lei e i suoi uomini durò meno del duello con le spade. 

Alain si staccò dal gruppo di soldati con le braccia incrociate sul petto e un sorriso largo stampato sul volto. Avanzò fino a trovarsi ad un passo da Oscar e, mentre la fissava in silenzio, diede un calcio al fianco del proprio compagno, che si alzò subito e si ritirò a spalle curve. 

Alain si prese il tempo di analizzare da vicino il viso accaldato del Comandante come se lei non potesse accorgersi di essere osservata. Le sorrise con sarcasmo e pensò amaro “Che intollerabile spreco di bellezza.”

-Avete vinto, Colonnello. E avete dimostrato il vostro valore. Ma non cambia il fatto che noi non vi vogliamo come Comandante. Sfileremo nella parata, perché un patto è un patto, ma non aspettatevi che diventiamo un gregge docile e ubbidiente. Non accetteremo mai ordini da una donna aristocratica, mettetevelo in testa.-

Poi, rivolgendosi ai propri compagni, forzò di proposito il piglio da Ufficiale ed esclamò con voce grossa:

-Avanti, adesso schieratevi.-

 

 

 

 

 

Per qualche giorno si instaurò nella caserma un clima teso, ma tranquillo. I soldati erano in apparenza mansueti e si limitarono ad avanzare qualche timida protesta per l’ispessimento dei turni e la moltiplicazione delle mansioni che toglievano tempo ai momenti di gozzoviglia. 

D’Agoult confidò ad Oscar di essere convinto che, dopo il duello, si fossero ormai rabboniti. Oscar non si pronunciò a riguardo. Aveva la sensazione che i soldati non avessero affatto sepolto l’ascia di guerra ma l’avessero solo conservata. E poi, non le bastava rabbonirli. Oscar voleva conquistarli, farsi accettare e ricevere fiducia. 

Quando venne sabato, decise di tornare a casa per farsi un lungo bagno profumato, spogliarsi delle preoccupazioni e riordinare le idee.

Lasciò la caserma prima di mezzogiorno e cavalcò tra le strade di Parigi sotto un bel sole brillante, ma non appena oltrepassò il confine urbano per addentrarsi tra i boschetti della periferia, si ritrovò investita da un vento gelido e spietato che la colpì in faccia facendole lacrimare gli occhi. 

Il sollievo che avvertì quando varcò i confini della propria residenza ebbe vita breve. Non appena mise piede nelle scuderie, vide e riconobbe subito lo stallone grigio di Girodelle circondato dagli stallieri di Palazzo Jarjayes che lo ammiravano e lo accudivano quasi con ossequio. Lasciò anche Cesar nelle loro mani e con lo stomaco chiuso, più per la sorpresa che per l’ansia, si incamminò a passo di marcia verso casa, affrontando le raffiche sferzanti di vento che, come un monito, insistevano a spingerla lontana dall’ingresso.

 

 

 

 

Il Generale Jarjayes, in una lettera di squisita cortesia, aveva comunicato a Victor de Girodelle di aver chiacchierato con la figlia e l’aveva, infine, invitato a presentarsi di persona a Palazzo Jarjayes per dichiarare ad Oscar i suoi sentimenti guardandola negli occhi. Victor aveva seguito il suggerimento e per tre mattine di seguito aveva fatto visita a Palazzo, invano. Oscar non si decideva a lasciare la caserma e a tornare a casa.

In quei tre giorni di tentativi vani, si era alzato all’alba per abbigliarsi, aveva disertato i propri doveri di Ufficiale e si era presentato a Palazzo Jarjayes a testa alta, convinto di avere un aspetto impeccabile. Per l’occasione, si era fatto confezionare un abito speciale. Un capolavoro di broccato color pesca. Eppure, nonostante tutto, ogni volta che metteva piede in quel Palazzo gli piombava addosso, puntualissima, la sensazione di essere inadatto. Un elemento di stonatura in un contesto di armonia.

La sua sicurezza si sgretolava e lui finiva per trascorrere tutto il tempo dell’attesa a tentare di convincersi che lo specchio del salotto di Palazzo Jarjayes non fosse affidabile.

Nella tarda mattinata di quel terzo giorno di visita, un sabato chiaro e ventoso, Victor vagava con le mani dietro la schiena nella raffinata sala da pranzo di Palazzo Jarjayes, lieto che la servitù l’avesse lasciato da solo con la propria agitazione. Quando non guardava lo specchio per assicurarsi -e convincersi- di essere attraente, lanciava occhiate nervose fuori dalla finestra sperando di vedere il cavallo di Oscar attraversare il cortile.

Proprio quando cominciava a rassegnarsi a riprovare il giorno seguente, Oscar si concretizzò sulla soglia della porta senza farsi annunciare da nessuno.

-Madamigella Oscar, buongiorno, ben tornata a casa.-

La salutò con voce roca, tirando le labbra in un sorriso esagerato. La ammirò da capo a piedi e si sentì svuotato di se stesso, perdutamente sedotto.

-Buongiorno, Girodelle. Vi trovo bene. Siete un ospite molto gradito. Mi è stato riferito che mi aspettate da qualche ora, perciò spero che accettiate di restare a pranzo.-

Victor accettò, ma l’emozione gli impedì di udire il suono della sua stessa voce. Si accomodò a tavola con movimenti rigidi, precisi, terrorizzato dal poco controllo che aveva sui propri nervi.

Oscar prese posto di fronte a lui e solo allora Victor riuscì a vederla davvero. Ebbe l’impressione che lei avesse un fascino più virile di lui, ma non se ne risentì, perché la trovava coerente con se stessa e squisitamente provocante. Indossava ancora l’uniforme, aveva il viso e gli occhi arrossati dal sole e dal freddo, l’espressione stanca e i capelli biondi impregnati di vento. La ascoltò scusarsi per il proprio aspetto disordinato e scomposto e le rispose con un sorriso assente, pensando a malincuore che anche così lei facesse una figura migliore di lui, che invece aveva passato ore a prepararsi.

Conversarono a lungo, mentre Marron e un paio di domestiche entravano e uscivano dalla sala in silenzio e con occhi bassi per servire le portate.

La disinvoltura del comportamento di Oscar convinse Victor di essere caduto in un tranello del Generale. Forse Oscar non sapeva nulla della proposta di matrimonio. Lì per lì, tra una chiacchiera e una battuta leggera, Victor non riuscì a valutare se potesse essere un bene o un male.

Il pranzo procedette sereno e terminò con un sobrio dolce alle more inzuppato di rum. Victor fissò la pietanza ben disposta sul piattino e capì che era giunto il momento di dichiararsi. Sollevò gli occhi e notò, con una sorta di perversa gelosia, che Oscar si era incantata ad osservare la pasta tenera e scura del dolce che cedeva sotto l’assalto della sua forchetta. Così, prima che quella leccornia gli rubasse del tutto la scena, le disse d’un fiato:

-Oscar, io sono qui per un motivo molto serio.-

Lei si impietrì nel sentir pronunciare il proprio nome di battesimo, orfano del rispettoso titolo di Madamigella. Riappoggiò la forchetta con il boccone di dolce ancora intatto e guardò Victor sbattendo più volte le palpebre, incredula.

-La vostra assenza da Versailles ha lasciato un vuoto doloroso e profondo nelle mie giornate. Quando sono lontano da voi, il mio cuore sembra non trovare la forza di spingere il sangue nelle vene. Ma dovreste sentire con quanto vigore mi pulsa nel petto ora che mi siete di fronte!-

Si era lanciato in quella dichiarazione come un cavallo al galoppo e non aveva minimamente considerato il disagio delle cameriere che si erano immobilizzate attorno al tavolo, come spaventate, indecise se fingere di non sentire o se lasciare subito la stanza.

-Il sentimento che nutro per voi mi consuma, Oscar. Mi sono accorto di non aver mai posato gli occhi su un’altra donna senza paragonarla inconsciamente a voi.-

Oscar continuò guardarlo in silenzio come se fosse stata parte di un pubblico di teatro che ascolta con distacco un attore che lancia provocazioni alla platea.

-Vi amo, Oscar, con passione, rispetto ed infinita tenerezza.-

Concluse lui cercando nel suo sguardo una qualsiasi reazione e si sentì avvampare quando la vide schiudere le labbra. Dovette, però, ridimensionare la propria emozione perché lei non si rivolse a lui, bensì alle due cameriere per congedarle. Soltanto quando si trovarono da soli, Oscar finalmente gli rispose.

-Dovete dimenticarmi, Girodelle.-

Mormorò fievole ma decisa. Il volto del Visconte si fece pietra.

-Mi dispiace.- Aggiunse lei chinando la testa. -Ammiro l’audacia e l’onestà che mi avete dimostrato venendo ad offrirmi di persona i vostri sentimenti, nonostante io abbia già rifiutato la vostra proposta.-

Victor udì chiaramente lo schiocco del proprio cuore che si spezzava. “Dunque vengo respinto per due volte?”

-Non sono adatta a voi.-

Concluse lei con voce stanca, sollevando lo sguardo quasi a fatica.

D’improvviso, una nuvola di passaggio offuscò la luce intensa del sole che aveva invaso la stanza fino a quel momento. Il volto di Oscar si incupì, perse colore, svelò nell’ombra una spossatezza e una malinconia che Victor trovò quasi poetiche. 

Si convinse che lei avesse parlato per umiltà e provò l’impulso di assicurarle che nemmeno lui si sentiva adattoa lei. Ma appena prima di aprire bocca, comprese che le sue parole avevano un significato molto più complesso. Oscar gli aveva velatamente fatto intendere che le loro due vite non sarebbero mai combaciate.

“Guardatevi e guardatemi, Girodelle. Ciò che siamo -come ciò che indossiamo in questo momento- ci fa sentire inadeguati l’uno all’altra. Non ci sentiamo a nostro agio con noi stessi quando siamo insieme, ecco perché il nostro matrimonio sarebbe un tremendo errore” gli disse lei col pensiero.

Rimasero in silenzio, lui con la sua delusione e lei con la sua misteriosa malinconia, finché la servitù non invase la sala per sgomberare la tavola. Allora si alzarono di scatto, quasi contemporaneamente.

Girodelle guardò per qualche istante fuori dalla finestra per darsi il tempo di ricacciare indietro le lacrime che gli avevano riempito gli occhi, poi si lasciò accompagnare da Oscar nell’atrio del Palazzo, mentre una domestica li seguiva per porgergli il mantello e il bastone. 

Nessuno osò rompere quel fragile silenzio. Victor si limitò a rivolgere ad Oscar un sorriso triste e complice con il quale la assicurò di non provare alcun rancore, poi le diede le spalle e uscì nel cortile assolato per lasciare la magione.

Oscar rimase sulla porta a guardarlo entrare nelle scuderie, poi si voltò verso la domestica che aveva gli portato il mantello e le disse con voce gentile:

-Non ti ho mai vista. Devi essere una nuova arrivata.-

Quella si irrigidì e abbassò gli occhi.

-Sono qui da due giorni.-

-Per chi lavoravi prima?-

-Non ho mai lavorato per nessuno prima d’ora.-

-Capisco. Sei stata brava a servire il pranzo per non averlo mai fatto.-

-Imparo in fretta.-

Oscar sorrise indulgente e sospirò.

-Bene, ora, per favore, vai da Marron e chiedile di prepararmi un bagno con acqua bollente. Ah, e dille anche di conservare quel dolce alle more. Può essere che mi venga voglia di mangiarlo più tardi.-

 

 

 

 

 

Da quando André aveva cominciato a lavorare per l’avvocato Moreau, le sue mani erano sempre sporche di inchiostro e il suo occhio sempre più affaticato. Per questo motivo un giorno Bernard aveva deciso, con commovente premura, di fargli un regalo. Un paio di occhiali. 

André si era ostinato a non indossarli per qualche giorno poi però aveva gradualmente ceduto, fino ad arrivare ad ammettere che quello strumento non gli fosse soltanto utile ma addirittura indispensabile.

Moreau stesso si era preoccupato di disporre nello studio lo scrittoio di André vicino alla finestra in modo che fosse benedetto dalla luce del sole per tutto il corso della giornata.

Tra un impegno e l’altro, si fece sabato e André si attardò nello studio di Moreau fino al tardo pomeriggio. Poco prima del tramonto, l’avvocato alzò gli occhi dalle scartoffie e guardò André assottigliando gli occhi già piccolissimi.

-Stai lavorando bene, ragazzo.-

Gli disse serio.

-Puoi andare a casa, ma ti devo chiedere un’ultima cortesia. Dovresti portare una lettera al Marchese di Nardien, la sua residenza non è distante. Il garzone ti indicherà la strada. Mi raccomando, insisti affinché ti sia concesso di consegnare la lettera al Marchese in persona, non lasciarla alla servitù.-

André accettò la commissione ed eseguì fedelmente le indicazioni che gli aveva dato Moreau.

-Sono molto indaffarato. Domani tornerò nelle mie campagne per gestire alcuni affari.-

Gli spiegò il Marchese senza nemmeno guardarlo in faccia, quando lo ricevette nel proprio salotto. Prese la lettera che André gli aveva portato e la divorò subito con occhi attenti, poi chiese al ragazzo di attendere che scrivesse la risposta. Buttò giù solo poche righe, in fretta e furia e con mano nervosa, come se avesse una pistola puntata alla tempia, appose il suo sigillo e consegnò la risposta ad André, che si affrettò a portarla subito a Moreau. Poi finalmente fu libero.

Mentre camminava verso casa con le mani affondate nelle tasche, si ricordò che la mattina seguente si sarebbe celebrato il matrimonio di Rosalie e Bernard e si sorprese che i giorni fossero passati tanto in fretta.

Dall’ultima volta che aveva visto Oscar, pensare a lei lo faceva puntualmente sprofondare in una malinconia dolorosa, ma in quel momento, all’idea di rivederla presto, provò soltanto una piacevole impazienza. Decise che non le avrebbe chiesto nulla di Girodelle, per non rovinare la giornata né a lei né a se stesso. Dopotutto, non sarebbe nemmeno stato necessario.

Annette, la prostituta che abitava nella sua stessa casa, due giorni prima era stata assunta come domestica a Palazzo Jarjayes e, grazie a lei, André contava di sapere tutto ciò che riguardava la vita di Oscar, senza che lei ne fosse al corrente e senza darle l’impressione di essere controllata. Lo riteneva un buon compromesso tra ciò che voleva lui e ciò che voleva lei. Sentiva di aver trovato in Annette un metodo efficace per sentirsi accantoad Oscar, come aveva sempre fatto, ma restando fisicamente a distanza.

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Capitolo 21
*** L’elisir ***


I pochi abiti che possedeva erano stati confezionati appositamente per essere indossati dall’attendente di un conte e perciò erano ben fatti, resistenti, comodi, ma anche spietatamente sobri. 

Nessuno di quei vestiti stinti e grossolani, si disse, era adatto per partecipare al matrimonio di un consanguineo, tantomeno per assistervi al fianco di Oscar, che André già immaginava avvolta in quel raffinato abito bordeaux attillato in vita e ricchissimo di ricami dorati, che le aveva visto indossare nelle occasioni più particolari.

-Beh, se anche ci scambiassimo i vestiti, lei apparirebbe comunque superba ed elegante ed io inadeguato e di cattivo gusto.-

Borbottò amaro.

Si sedette con aria scontenta sul bordo del letto e si trovò a divagare in un limbo di riflessioni, mentre accarezzava distratto la stoffa ruvida dei propri calzoni.

L’estetica, l’aspetto esteriore, l’indole hanno a che fare col sangue? Nascere nobile, piuttosto che nascere contadino, marchia una persona a vita? La superiorità e l’inferiorità dipendono dal grembo da cui si viene al mondo? Esistono davvero? Si celano in qualche tratto particolare del viso o forse nel modo di sbattere le palpebre? Un popolano resta popolanoper sempre, anche se lo si lustra, lo si educa e lo si istruisce? Un nobile spogliato di abiti, parrucca e belletto e costretto ad abbronzarsi la pelle bianca arando i campi, conserva la sua dignità di aristocratico?

Scosse la testa per rimandare quei pensieri complessi ad un altro momento e si decise ad afferrare, con un gesto stizzito, una giacca celeste con qualche semplice ricamo sugli orli e molti bottoni sui polsini delle maniche.

Aggrappandosi al dolce pensiero di rivedere Oscar a breve, scacciò via i malumori, piegò l’abito scelto su un avambraccio e si precipitò al pianterreno.

Il retro della casa accoglieva una piccola stanza che la padrona usava come magazzino per gli utensili e per le conserve e in cui teneva -quasi inutilizzato- un catino di legno.

André sistemò la tinozza al centro della stanza e vi trascinò accanto una piccola sedia di vimini sfondata su cui adagiò gli abiti puliti e la giacca cerulea, poi uscì nel piccolo cortiletto fangoso chiuso tra le schiene degli edifici e raccolse un paio di secchi d’acqua dal pozzo. 

Tornò nello stanzino, appoggiò i secchi accanto alla tinozza e prese a spogliarsi, in fretta, con rabbia, come se la stoffa gli urticasse la pelle. Calciò i vestiti lontano da sé in malo modo, sbuffando compiaciuto per essersene liberato e si mise in piedi dentro il catino.

Il fondo di un calderone di rame appeso alla parete gli restituì una vaga e distorta immagine di sé, del suo corpo nudo, del colore dorato della sua pelle tinta dalla luce ambrata del primissimo mattino. Distolse lo sguardo. 

Agguantò gli orli del secchio con entrambe le mani, lo sollevò sopra la testa e, senza darsi il tempo di pensare, se lo rovesciò addosso. L’acqua gelida lo travolse da capo a piedi con un’irruenza spietata. Gli mancò il respiro, tutti i muscoli si contrassero e, mentre gli ultimi rivoli d’acqua scorrevano lungo il suo corpo, gli sfuggì dalle labbra un rantolo soffocato. Spalancò gli occhi e strinse forte i denti, poi la tensione dell’impatto lentamente si sciolse e ogni muscolo del suo corpo cominciò a fremere. 

Un perverso senso di piacere fece vibrare i suoi nervi tesi, al di sotto della pelle d’oca. Ebbe come l’impressione di essersi svegliato bruscamente dopo giorni di sonnambulismo.

Quanto tempo era passato da quando Oscar gli aveva gettato addosso quella secchiata gelida di parole -Girodelle ha chiesto la mia mano- aggrappandosi al suo braccio? A cosa aveva pensato lui nei giorni successivi? Cosa aveva fatto?

Vuoto. Giorni vuoti.

Aveva trascorso le ore perseguitato da pensieri sconnessi, aveva affogato i turbamenti tra i libri e le scartoffie dello studio di Moreau e aveva ricacciato a forza in un angolo della mente le parole di Oscar, la sua voce, la sensazione della sua stretta. E solo in quel momento si era finalmente svegliato.

-No,- si ripeté più volte sottovoce -Oscar non potrebbe mai accettare di sposare Girodelle.-

Mentre osservava con sguardo assente le piccole semisfere liquide e trasparenti sparse sulla propria pelle, d’improvviso realizzò di essersi negato, per giorni, il permesso di soffrire.

Prese il sapone e cominciò a strofinarselo sul corpo, lentamente, per godere della sua scivolosa carezza.

-Se si sposa, mi uccido.-

Mormorò tragico e mentre si massaggiava la schiuma biancastra sul petto avvertì il proprio cuore compiere un balzo. 

“Sarei davvero capace di piantarmi un pugnale tra le costole se Oscar si sposasse?”

Pregò che non fosse necessario scoprirlo.

-Oscar non sposerà Girodelle.-

Decise infine, un po’ per consolarsi un po’ per convincersi. Afferrò il secondo secchio d’acqua, lo sollevò, raccolse un profondo respiro nel petto e strinse forte le mandibole, poi lasciò che l’acqua gelida lo investisse, sciacquando a fondo sia il suo corpo che la sua mente.

 

 

 

 

 

La chiesa era quasi vuota. I pochi invitati, tutti pressapoco dell’età dei due sposi, erano sparsi nei primi banchi e nessuno di essi, osservò André con sollievo, indossava broccati o merletti.

Alcuni uomini vestiti di nero, con sguardi vividi e lineamenti spigolosi, confabulavano tra loro coprendosi la bocca con la mano come se stessero parlando di argomenti che Dio non dovesse ascoltare. Si interruppero un momento al passaggio di André, poi ricominciarono a borbottare con arie misteriose.

Un chierichetto bruno e magro prese a spargere i fumi profumati dell’incenso intorno all’altare e un altro accese uno ad uno tutti i ceri, mentre l’organista riempiva il vuoto della chiesa di note lunghe e solenni.

André scelse di prendere posto nel primo banco di destra, accanto ad un uomo panciuto che lo salutò con un verso gutturale e un gesto stanco della mano. Si sedette e incrociò le mani in grembo.

Rosalie e Bernard avevano scelto una chiesa semplice per una cerimonia altrettanto semplice. Non si erano preoccupati di smorzare l’austerità dell’architettura con qualche festosa decorazione. L’unica nota di colore era concessa da un sobrio mazzo di fiori bianchi e gialli collocato sopra l’altare. 

Ad André venne spontaneo pensare, con un accento di amaro sarcasmo, che se Oscar avesse sposato Victor de Girodelle, le due famiglie si sarebbero ostinate ad organizzare un matrimonio di pomposità memorabile. Quale chiesa sarebbe stata scelta? Quanti fiori sarebbero stati recisi? Quante persone sarebbero accorse ad assistervi? Forse avrebbero partecipato alla cerimonia i Sovrani, oltre alla crema dell’aristocrazia e ad uno stuolo incalcolabile di curiosi di ogni rango. Quel matrimonio sarebbe potuto diventare un evento clamoroso quasi quanto un matrimonio reale, con un trionfo di sete, pizzi, veli, fibbie dorate, parrucche eccentriche, gioielli, ciprie, fiori freschissimi, pianti commossi, congratulazioni, pettegolezzi, maldicenze, musiche solenni, canti in latino.

Per qualche motivo, quelle fantasie non lo avvilirono, ma riuscirono a confortarlo. Oscar non avrebbe maipotuto accettare di subire una pantomima simile.  

Così, mentre si osservava distrattamente intorno, assorto nel suo fantasticare, il suo sguardo si imbatté in quello di una giovane donna con un abito verde e una fascia azzurra in vita che subito gli sorrise civettuola. André non si preoccupò di notare i suoi lineamenti graziosi e le rispose con un sorriso cortese ma incolore. La ragazza assottigliò gli occhi, offesa dal suo disinteresse, e sollevò il piccolo naso rotondo enfatizzando un broncio arrogante. André non vi diede alcun peso. La sua mente era presa da altri pensieri. 

“Perché Oscar non arriva?”

I ritardi non erano contemplati nello spettro delle sue consuetudini. “Che le sia accaduto qualcosa?”

L’eccitante brivido dell’attesa si sporcò inevitabilmente di apprensione. 

Prese a giochicchiare nervoso con i bottoni che decoravano i polsi della sua giacca finché il filo non cedette e non se ne ritrovò uno in mano. Allora provò a rivolgere la parola al proprio vicino domandandogli se egli fosse amico o parente degli sposi, ma quello replicò vago che conosceva bene Bernard, senza specificare né come né perché. André desistette e tornò a tormentare i bottoni mentre lanciava occhiate nervose alle proprie spalle. 

Gli fu impossibile trattenere i sospiri e a stento riuscì a sopportare i battiti del cuore che risuonavano in ogni fibra del suo corpo con la stessa potenza delle note dell’organo nell’ampio spazio della navata.

Si convinse che fosse accaduto qualcosa di grave. L’assenza di Oscar non poteva essere giustificata altrimenti. Balzò in piedi di scatto, seguendo l’antico impulso di correre al fianco di Oscar, ovunque si trovasse, a costo di fuggire dalla chiesa e disertare il matrimonio del proprio fratello. Si voltò, pronto ad imboccare la navata, ed ebbe un fremito di stupore quando vide che tutti i presenti si erano alzati insieme a lui. 

Erano apparsi gli sposi sul portone della chiesa, fianco a fianco, affiatati, emozionati e raggianti e André fu costretto ad ammettere che sarebbe stato troppo sconveniente scappare sotto i loro occhi. Decise a malincuore di restare, pur sentendo i carboni ardenti sotto i piedi.

La coppia indugiò qualche istante sulla soglia della chiesa, poi Rosalie si aggrappò fiduciosa al braccio di Bernard ed entrambi si incamminarono verso l’altare seguendo il ritmo possente delle note dell’organo.

André indossò un sorriso composto, costringendosi ad inghiottire l’amarezza e la preoccupazione per l’assenza di Oscar, e seguì con lo sguardo il lento avanzare dei due sposi. Deglutì appena prima che gli occhi dolci e luccicanti di Rosalie incontrassero i suoi e quando lei lo vide lì, da solo, il suo passo si fece incerto, lo sguardo si intristì e il sorriso si spense. 

André la osservò rallentare fino a fermarsi a pochi passi dall’altare e intuì chiaramente la sua delusione mentre i suoi due occhioni azzurri sembravano chiedere “Perché Madamigella Oscar non è accanto a te?”

André le rispose scrollando la testa e lei si incupì ancora di più, come se, data l’assenza ingiustificata di Oscar, il matrimonio non avesse motivo di essere celebrato.

Ma la sua esitazione non passò inosservata e fu fraintesa. La ragazza con l’abito verde e la fascia azzurra che aveva sorriso ad André sussurrò ad una vicina “Che succede?” con una smorfia cattiva e il prete provò a richiamare l’attenzione con un eloquente colpo di tosse. 

Prima che la chiesa si riempisse di altri mormorii, Bernard si affrettò a tirare verso di sé con dolcezza il braccio di Rosalie, invitandola a raggiungere l’altare insieme a lui.

Il rito ebbe regolare inizio, ma André non riuscì ad ascoltare nemmeno una parola.

 

 

 

 

 

Oscar aveva appena finito di infilare l’ultimo bottone della sua giacca di morbido raso bordeaux, quando il viso tondeggiante di Marron fece capolino dalla porta della sua stanza per informarla che era giunto a Palazzo un soldato della Guardia con un messaggio urgente per lei.

-È stato assassinato il Marchese di Nardien, Comandante Jarjayes. Si richiede la vostra immediata presenza.-

Le comunicò il soldato sull’attenti nell’atrio inspessendo la voce, quando Oscar si affacciò dalla balaustra delle scale.

Fu costretta a trattenere tra i denti il disappunto e a rispondere che si sarebbe presentata in caserma il prima possibile. 

-Il dovere prima di tutto...-

Si ripeté più volte sottovoce, mentre tornava nella propria camera, nervosa ma rassegnata. Si sfilò il bell’abito da cerimonia con un sospiro ed scivolò dentro l’uniforme con un altro sospiro. 

Arrivò in caserma meno di mezz’ora dopo e fu accolta sulla porta delle scuderie da un pallido e tesissimo D’Agoult.

-Il Marchese è stato ucciso nei pressi di Gentilly, appena fuori dal Parigi, sulla strada verso le sue tenute in Borgogna.-

Le spiegò con l’aria piccata di chi è stato buttato giù dal letto presto in un giorno di riposo, mentre la accompagnava nel suo ufficio. Oscar annuì.

-Radunate un esiguo gruppo di uomini. Ci recheremo subito sul luogo dell’omicidio. Prima, però,- soggiunse fermando lo sguardo nel vuoto davanti a sé -mandate nel mio ufficio un soldato che ritenete affidabile e sveglio. Ho bisogno di qualcuno che esegua una commissione per me.-

 

 

 

 

 

André fu vittima di un terremoto interiore per tutta la durata della cerimonia. Si concentrò a tal punto sul contenere il fermento della sua ansia, che non riuscì a provare nessun’altra emozione e quando finalmente Rosalie e Bernard furono dichiarati marito e moglie, si trovò travolto da una violenta mescolanza di commozione e di impazienza che ebbe sul suo corpo lo stesso effetto della secchiata d’acqua fredda che si era versato addosso quella stessa mattina. La dolorosa tensione che gli aveva impedito di seguire la liturgia, si allentò non appena il prete pronunciò il rituale Missa est, ma gli rimase addosso uno spiacevole senso di angoscia. L’incertezza sulla sorte di Oscar lo faceva impazzire.

Scivolò rapidamente fuori dal banco della chiesa e raggiunse i due sposi accanto all’altare prima che gli altri invitati si accalcassero intorno a loro per congratularsi.

Li abbracciò forte, sorridendo con una dolcezza artificiosa, e trovandosi a corto di parole, prese a complimentarsi con Rosalie per il suo sobrio e grazioso abito bianco, che senza dubbio si era confezionata da sola.

-André, grazie di essere qui.- 

Rispose lei con un sorriso dolce, ma chiaramente triste.

-Madamigella Oscar?-

Chiese abbassando la voce, come se temesse di aver formulato una domanda indiscreta. André sospirò, pronto ad inventare qualche scusa plausibile per tamponare la delusione di Rosalie e al medesimo tempo per non metterla in allarme, ma prima che riuscisse ad articolare una risposta, la chiesa si riempì del suono di una voce grossa e squillante che chiamava il suo nome.

-André Grandier!-

L’interpellato sobbalzò e si voltò verso la parte posteriore della chiesa. Alain stava avanzando baldanzoso nella navata con un sorriso vispo sul volto e la divisa aperta sul petto. Tutti i presenti si accigliarono, infastiditi dai modi guasconi del nuovo arrivato, e rivolsero ad André sguardi di biasimo come se la colpa di quel baccano fosse sua. 

Alain si fece largo tra la piccola folla e si piantò a gambe aperte davanti ad André, riempiendosi il petto col profumo dell’incenso prima di parlare.

-Mi manda il Comandante Jarjayes.-

Cominciò a dire con l’aria tronfia di chi è orgoglioso di essere stato scelto per eseguire un compito importante.

-Il Colonnello vi porge le sue scuse per non essere stata presente alla celebrazione. Questa mattina è stato assassinato il Marchese di Nardien, perciò è stata trattenuta dal dovere.-

-Ah ecco, ora si spiega.-

Commentò Bernard con un sorriso distratto accarezzando la spalla della moglie. Le ansie di André si dileguarono e il suo cuore si concesse finalmente una tregua dopo aver galoppato a ritmo folle per quasi un’ora intera.

-Ti ringrazio, Alain.-

Tacque un momento e poi riprese incredulo:

-Hai detto “il Marchese di Nardien”?-

Alain annuì e spiegò che l’aristocratico era stato passato a fil di spada nella sua stessa carrozza mentre viaggiava verso la Borgogna.

-Di sicuro, un tentativo di furto.-

Concluse, poi passò a scusarsi con gli sposi per la propria intromissione e lasciò la chiesa senza preoccuparsi di farsi il segno della croce.

-Oh, che bell’impiccio! Mi spiace per Madamigella Oscar.-

Mormorò Rosalie con un tono leggero, sistemandosi sulla testa la coroncina di fiori d’arancio. Si staccò dal braccio del marito e si inoltrò tra i suoi invitati che la accolsero festosi per porgerle gli auguri. Bernard, invece, non la seguì. Cupo in volto, posò una mano sul braccio di André e avvicinò le labbra al suo orecchio.

 -André, hai conosciuto Louis de Saint Just? Abita nella tua stessa casa, nella stanza al piano intermedio.-

-Sì, l’ho incontrato una volta. Perché me lo chiedi, Bernard?-

Il fratello guardò la moglie che dispensava sorrisi e ringraziamenti e sembrò indeciso se rispondergli o raggiungere lei. Poi disse d’un fiato, in tono perentorio:

-Non dargli confidenza.-

André sollevò le sopracciglia e non capì quale nesso potesse mai esserci tra Bernard, se stesso, Nardien e Saint Just. Fece un cenno di assenso con la testa e pensò tra sé che molto spesso, con quel genere di atteggiamenti, Bernard sembrasse convinto di essere lui il fratello maggiore.

-D’accordo.-

Gli promise.

 

 

 

 

 

Al ritorno dal matrimonio di Bernard e Rosalie, André decise che fosse giunto il momento di fare una visita a Palazzo Jarjayes. Pur dubitando di trovarvi Oscar, pensò che almeno avrebbe potuto approfittare delle doti culinarie della nonna per riempirsi lo stomaco di buon cibo.

Ma soprattutto, avrebbe finalmente parlato con Annette.

Giunse a Palazzo poco prima del tramonto, nel momento in cui tutta la servitù entrava in fermento per i consueti riti serali -i preparativi della cena, l’accensione dei camini e dei lampadari, la predisposizione delle camere da letto dei signori- a cui anche lui fino a poco tempo prima aveva preso regolarmente parte.

Non appena si trovò nell’atrio del Palazzo, tutti coloro che passavano, lo salutarono con sorrisi gentili e sguardi ammirati, come se lui fosse un ospite di riguardo. Rispose educato, ma non si fermò a parlare con nessuno. 

Scivolò discreto verso l’ala di servizio, guardandosi intorno con la sensazione di essere stato lontano per anni e provò a sfidare se stesso a rintracciare qualche cambiamento. Ma ogni cosa, notò, era rimasta esattamente uguale a come l’aveva lasciata, anzi, realizzò con sgomento che tutto fosse sempre stato uguale. Gli stessi mobili, gli stessi oggetti, le stesse collocazioni, gli stessi pieni, gli stessi vuoti, gli stessi colori, le stesse luci e le stesse ombre. 

Chissà, si disse, forse un servo di cento o duecento anni prima aveva visto le stesse identiche cose che ora vedeva lui e forse sarebbe stato così anche per un servo di cento o duecento anni dopo.

In tanti anni non era cambiato mai nulla e lui non vi aveva mai fatto caso.

Mentre attraversava i corridoi, provò un languore allo stomaco che chiamò nostalgia, ma che nostalgia vera e propria non era. Prese atto che quel Palazzo si conservasse immutato nel tempo come un trancio di carne sotto sale, cristallizzato nella sua stessa tradizione.

Al di fuori, invece, il tempo scorreva veloce, travolgendo uomini e cose nell’impetuoso fiume della Storia. Il mondo subiva una costante metamorfosi, si rinnovava, si evolveva e tutti avanzavano verso il progresso. 

André ebbe la sensazione che se non si fosse sottratto alla legge di conservazione di quel Palazzo, non avrebbe mai potuto sperare di essere qualcosa di più di ciò che era sempre stato.

L’allegro brontolio che arrivò dalle cucine lo salvò dalle sue divagazioni e non appena mise piede nel regno indiscusso della nonna, fu accolto da un coro di esclamazioni gioviali. La sovrana della cucina abbandonò i calderoni di rame che stava maneggiando e gli saltò al collo per stampargli un forte bacio sulla guancia.

-Oh, il mio ragazzo! Che bella sorpresa!-

Gli catturò il braccio e lo trascinò a sedersi con sé all’ampio tavolo nel centro della stanza, su cui i cuochi trituravano verdure e impastavano focacce.

-Come sono contenta che tu sia qui.-

André le sorrise e si accomodò su una sedia.

-Come stai? Mi sembri dimagrito.-

-Io sto benissimo, nonna. E tu?-

-Ah! Ogni giorno mi sveglio con un dolore nuovo, ma che ci vuoi fare? È l’età!-

Ridacchiò allegra poi allungò le mani rugose verso di lui e gli sistemò il colletto della giacca con un gesto nervoso.

-Oggi si è sposata la nostra Rosalie, dico bene?-

-Sì.-

-Una cara ragazza...-

Commentò Marron con un sospiro nostalgico.

-Sai, nonna, Oscar non ha partecipato al matrimonio.-

-Oh sì, lo so.-

-È in casa ora?-

Marron scosse la testa. 

-Non è tornata. Penso che il dovere la terrà lontana da qui per qualche giorno.-

Sbuffò e cominciò a spiegare quanto poco le piacesse il nuovo regime di vita di Oscar.

-È sempre così pallida.-

Si lamentò con aria tragica, passando ad elencare tutti gli insoliti comportamenti che Oscar aveva iniziato ad assumere. Mentre la ascoltava,André agganciò lo sguardo alle mani grassocce del cuoco che stendevano la pasta della focaccia su una teglia cosparsa d’olio e pensò amaro che quelle parole confermassero tutte le sue recenti riflessioni. Palazzo Jarjayes non digeriva facilmente le novità.

-Madame Marron, il maggiordomo vorrebbe parlare con voi.-

Disse ad un tratto una voce fiacca alle spalle di Andrè. La governante rispose che sarebbe arrivata subito e mentre si alzava dalla sedia, promise al nipote che al proprio ritorno gli avrebbe cucinato un piatto speciale.

Non appena la nonna ebbe lasciato la stanza, André sentì una mano posarsi leggera sulla sua spalla. Sollevò gli occhi e si trovò davanti il viso smunto e spigoloso di Annette.

-Buonasera, André.-

Mormorò languida con un sorriso sottile.

-Vieni con me.-

André non esitò a seguirla e si lasciò condurre nella stanza della dispensa, al riparo da orecchie e sguardi indiscreti.

-Dunque, Annette, come ti trovi a Palazzo?-

Lei glissò la domanda e gli lanciò un sguardo malizioso.

-Non mi avevi detto che la figlia del Generale gioca a fare il soldato.-

Lui non rispose.

-Beh, ieri si è presentato qui a Palazzo il Visconte Victor de Girodelle. Un bell’uomo, molto raffinato.-

Cominciò a raccontare lei, sistemandosi i ciuffi di capelli dietro le orecchie con un gesto civettuolo.

-Ha consumato il pranzo insieme a Madamigella Oscar e, durante il dessert, si è dichiarato. L’ho sentito con le mie orecchie. Ero presente nella stanza.-

-E lei?-

Annette si protese verso il suo viso e ridusse gli occhi a due sottilissime fessure.

-Tu ne sei innamorato.-

Dedusse leggendogli la verità nel nero delle pupille. Lui sospirò e non smentì.

-Ebbene,- continuò lei abbassando la voce di qualche tono -Madamigella Oscar non ha detto una parola mentre il Visconte cinguettava di amarla “con passione, rispetto ed infinita tenerezza”, parole sue. Ma quando è arrivato il momento di rispondergli, ha guardato noi cameriere e ci ha chiesto di rimanere da sola con lui.-

André provò a prendere aria ma il respiro gli si bloccò in gola, dandogli l’impressione di soffocare.

-Nient’altro?-

Mormorò con voce rauca.

-Dopo il pranzo, lei lo ha accompagnato nell’atrio, in totale silenzio. Non si sono nemmeno salutati, si sono scambiati solo un sorriso.-

-Un sorriso?-

-Un sorriso complice.-

Precisò Annette. André si portò una mano sulla fronte e indietreggiò finché la sua schiena non incontrò il muro.

-Annette, dimmi, ti prego, qualcuno qui a Palazzo ha fatto riferimenti ad un eventuale matrimonio?-

-Oh beh, si sentono tanti mormorii. Le altre domestiche sostengono che il Generale non faccia altro che discutere con Madame Marguerite di quanto sarebbe vantaggiosa un’intesa con la famiglia Girodelle.-

André si sentì svuotato. Abbandonò la testa contro la parete e sollevò gli occhi verso il soffitto basso.

-Si sposerà...-

Quella consapevolezza divenne veleno nel suo sangue. Le immagini del pomposo matrimonio di Oscar, che si era disegnato nella mente poche ore prima, sembrarono sfondare i confini della sua fantasia e concretizzarsi intorno a lui. Si vide ad assistere alle solenni nozze della donna che amava, rintanato in un angolo, solo e inadeguato con la sua sciupata giacca celeste.

E mentre si faceva consumare da quelle allucinazioni, avvertì le mani di Annette prendergli il viso, il suo respiro caldo lambirgli la guancia e poi le sue labbra baciargli la bocca. Non reagì, non rispose, non chiuse gli occhi, non mosse le mani.

Udì, vago, il rumore metallico della cinghia della propria cintura che veniva sganciata e la voce roca di Annette che gli soffiava sulle labbra parole spezzate, sensuali, ma fredde.

-Rilassati, voglio darti po’ di conforto.-

Ma non fu conforto ciò che sentì quando la mano di Annette si insinuò sotto la stoffa dei suoi pantaloni per regalargli qualche carezza audace. Provò solo ribrezzo. Ribrezzo per quel piacere sporco e ribrezzo anche per tutte le illusioni di cui si era nutrito, per il suo ingenuo e sfiancante inseguimento di una felicità fittizia e impossibile, per le regole del mondo in cui era costretto a vivere.

Sollevò le mani a fatica, come se avesse dei pesi di piombo legati ai polsi, e respinse Annette gentilmente. Le spiegò con voce fragile che non voleva quel genere di conforto e mentre si riallacciava i pantaloni aggiunse che aveva già provato quei palliativi in passato, ma che non avessero mai avuto alcuna efficacia.

Annette gli rispose che capiva, ma in verità sentiva di non poter davvero comprendere quanto fosse profonda e dolorosa la passione che bruciava dentro il corpo di quell’uomo giovane e ben fatto. Il suo concetto d’amore era stato compromesso dal mestiere che aveva esercitato per anni, si era annacquato e inquinato, mescolandosi con la bassezza della pura soddisfazione dei bisogni fisici. Sebbene il suo cuore appartenesse segretamente ad un uomo, Annette prese atto che non sarebbe mai stata amata con la stessa forza e determinazione di André.

Con un respiro profondo, il ragazzo ripristinò l’aria mite e serena con cui si era presentato a Palazzo. Controllò i propri vestiti per assicurarsi di essere in ordine e, sforzandosi di sorridere, ringraziò Annette della sua solerzia. Poi si avviò verso la porta con la testa alta e i pugni stretti, ma appena prima di uscire si fermò e senza voltarsi disse:

-Annette, per favore, dì a mia nonna che verrò a farle visita un’altra volta. E dille anche che le voglio bene e che la abbraccio.-

 

 

 

 

Cavalcò nelle strade di Parigi a lungo, senza meta, a testa china, come un pupazzo senza vita legato sulla sella. 

Gli soffiava addosso un vento gelido a cui i suoi abiti non erano per niente adatti, ma decise comunque di non tornare subito a casa. Il freddo lo aiutava a tamponare il dolore del cuore. I brividi erano più efficaci di una sbronza, sebbene non lo facessero sentire meglio. 

Gli venne in mente che presto sarebbe stato Natale, ma sembrava che Parigi non se ne ricordasse. Si percepivano nelle strade scarsamente illuminate solo mormorii fiochi, cigolii, timidi brandelli di frasi ovattate, l’odore gradevole di legna bruciata e quello pungente delle fognature. Nessuna aria di festa.

-Vuoi che ti predica il futuro?-

Gracchiò ad un tratto una voce acuta e stridula imponendosi sul silenzio della notte. André sollevò la testa svogliatamente e vide una vecchia zingara sull’angolo della strada avvolta in un mantello logoro, circondata da tre ragazzini magri e storti, tutti coperti di fuliggine.

-So già cosa mi aspetta.-

Rispose aspro.

-Ti dissi che non devi temere il futuro!-

La vecchia mandò via i marmocchi come se fossero mosche e arrancò sulla fanghiglia della strada verso il cavallo di André.

-Poiché so che hai un buon cuore, vorrei farti un dono. Ecco,- gli disse estraendo una mano dal mantello e porgendogli una fialetta azzurra -prendi, è un elisir d’amore.-

Le labbra di Andrè si arcuarono in un sorriso di sdegno, dietro cui nascose un senso di inquietudine ma anche una vaga tentazione di accettare.

-Non credo a queste sciocchezze.-

La zingara continuò a parlargli con voce melliflua, come se non lo avesse udito:

-Una goccia sulla pelle o in un bicchiere d’acqua aiuta a suscitare il desiderio. Ma fa’ attenzione. Questa essenza non va trattata con leggerezza. Con un uso eccessivo e sconsiderato diventa un veleno.-

André tese la mano, ma prima di prendere la boccetta borbottò:

-Non ho denaro con me.-

La vecchia scrollò la testa.

-Ti ho detto che è un dono.-

Gli lasciò la fiala nel palmo della mano e gli diede le spalle per andare a sparire nello stesso vicolo in cui si erano inoltrati anche i tre ragazzini.

André provò l’istinto di sbarazzarsi subito di quello strano ed inaspettato regalo, ma la curiosità prevalse e stappò la boccetta.

Mentre intorno a lui cominciava a volteggiare qualche solitario fiocco di neve, il profumo dell’elisir salì a stuzzicargli le narici e la memoria e di colpo la sua mente sprofondò nel passato. Si rivide da ragazzo, impacciato e insicuro, seduto sul letto del bordello mentre Cerise si profumava il collo. “Per aiutarti” gli aveva detto.

Un brivido doloroso corse lungo la sua schiena. Tappò la fialetta, la gettò nella tasca della giacca e incitò il cavallo al galoppo. Si diresse subito verso casa, tagliando velocemente l’aria gelida e lasciando che il vento freddo e la malinconia gli facessero lacrimare gli occhi.

-Forse è questo il veleno che ha ucciso Cerise.-

Se ne convinse, senza una vera ragione, e ne fu sopraffatto.

Quando giunse a casa, lasciò il cavallo sotto la tettoia nel cortile sul retro e salì nella propria stanza con i vestiti bagnati di nevischio e la testa pesante come se avesse bevuto un’intera botte di vino. Si lasciò cadere di schiena sul letto senza nemmeno togliere gli stivali e senza accendere la stufa.

Rimase immobile e sveglio a fissare una ragnatela sul soffitto fino all’alba.

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Capitolo 22
*** Grigio ***


Gli era capitato molto spesso in vita sua di arrivare sveglio ad assistere allo spettacolo dell’alba, a quel lento, fiacco e struggente incedere della luce del sole. Ma quel giorno, quando il nero della notte aveva cominciato ad evaporare e lui era riuscito ad intravedere le prime sagome opache degli oggetti, invece che sentirsi rincuorato, aveva provato un senso di vertigine, di vuoto.

Come osava il sole sorgere ancora, costringendolo ad alzarsi dal letto per vivere un’altra grigia giornata di nulla?

Rimase immobile sul materasso rigido a guardare i contorni sempre più nitidi delle travi del soffitto.

Pensò con asprezza che d’ora in avanti se ne sarebbe fatto ben poco di una vista buona. Si era preso tanta cura di quell’occhio superstite, ma a quale scopo? Solo per poter vedere Oscar camminare verso un altare?

-Ti giuro, Oscar, che il giorno delle tue nozze con Girodelle io farò in modo di essere o cieco o morto.-

Promise fissando un piccolo ragno che tesseva la tela nell’angolo del soffitto.

In pochi secondi, la stanza fu inondata da una soffusa luce grigiazzura, perlacea, che filtrava attraverso la finestra appannata. 

André sospirò e si portò le mani sopra gli occhi irritati dal chiarore celeste dell’alba ed ebbe un fremito quando le sue dita sfiorarono la fronte. Era calda, rovente, e madida di sudore.

“Febbre”, una gran bella seccatura. Attribuì poeticamente la colpa del malanno alla propria tristezza, poi scelse di credere ad un’ipotesi più scientifica: il freddo.

Comunque, febbre o non febbre, non poteva permettersi di rimanere a casa ad affliggersi. Si obbligò a lasciare il letto spostando le gambe oltre il bordo del materasso e si issò a sedere con un gemito. Nessun muscolo gli faceva la grazia di non provocargli dolore e le ossa gli sembravano fragili come vetro. Si alzò, ma gli ci volle qualche secondo più del solito per trovare l’equilibrio. Si avventò sulle ante della finestra, le spalancò per prendere una boccata d’aria e trovò il davanzale coperto da un cuscino di neve fresca, bianchissima e invitante. Vi immerse di slancio la faccia, godette del beneficio del freddo sulla fronte, poi si tirò su, si ricompose, si vestì in fretta e uscì di casa per recarsi a lavoro.

Raggiunse lo studio di Moreau a cavallo, perché non era certo di avere abbastanza forza per camminare. Gli ci volle, comunque, un considerevole sforzo per tenere dritto in sella quel corpo fiacco e pesante dentro cui si era svegliato quella mattina.

-Hai un’aria stanca oggi. Non ti senti bene, André?-

Inquisì Moreau, non appena lo vide, con l’aria di chi crede che nulla gli possa sfuggire.

-Ho dormito poco.-

Glissò André, lasciandosi cadere sulla sedia del proprio scrittoio e chinandosi subito sulle carte.

-Hai saputo che il Marchese di Nardien è stato ucciso, André?-

Una scintilla di interesse fece subito scattare la testa del ragazzo verso Moreau.

-Hai proprio una pessima cera.-

Commentò l’avvocato con un sorriso storto, come se si fosse servito di quella domanda solo per poter esaminare la faccia di André. Poi però tornò serio, quasi cupo, e ribadì:

-Ebbene, hai sentito la notizia?-

André si limitò ad annuire e solo allora si ricordò dello scambio di lettere tra Moreau e Nardien. Quando Alain gli aveva dato la notizia dell’omicidio, non si era soffermato molto sulla corrispondenza tra i fatti. Non ne aveva avuto il tempo. Era stato troppo occupato a preoccuparsi per il matrimonio di Oscar.

-Ti sarà sembrato strano che io abbia mandato una lettera al Marchese proprio la sera precedente al fatto.-

Lo provocò Moreau, con finta noncuranza.

-Una coincidenza, immagino.-

Rispose André, sincero.

-Sei sempre molto cauto nelle tue risposte, André.- borbottò Moreau dopo un mugolio -Per questo ancora non comprendo se tu sia bianconero.-

André corrugò la fronte.

-Non capisco a cosa vi riferiate.-

-Intendo dire che sono assolutamente convinto che tu non sappia scegliere da quale parte della scacchiera stare.-

Gli occhi arrossati di Andrè si ridussero a fessure. Moreau gli stava forse facendo intendere che non si fidava di lui, che lo riteneva volubile, doppiogiochista, indolente? Gli stava chiedendo una garanzia di affidabilità per capire se avrebbe potuto confidargli il vero significato di quelle lettere? Quello scambio epistolare era stato più di una semplice coincidenza, forse? O era una tutta una messa in scena?

-Permettetemi di provare a tradurre la vostra metafora, signore.- Azzardò André passandosi una mano sulla fronte. -Con bianco intendete designare l’aristocrazia e con nero il popolo, giusto?-

Moreau non batté ciglio. André prese il suo silenzio come una conferma e continuò:

-Io sono nato nero e sono cresciuto tra i bianchi. Perciò credo di essere... ecco, un po’ grigio.-

-Il grigio non esiste, ragazzo.-

André scrollò la testa esasperato.

-Non capisco il senso di questo discorso, signore.-

Non aveva la forza né la voglia di decifrare le allusioni di Moreau. Era seviziato da continui brividi in tutto il corpo, aveva le labbra secche, gli occhi stanchi, la vista debole e fastidiosi ciuffi di capelli continuavano ad appiccicarsi sulla sua fronte bollente e sudata.

Mentre aspettava che Moreau si degnasse di dargli una spiegazione per quei suoi strani giochetti di parole, il garzone si affacciò dalla porta e informò l’avvocato che “un riguardoso ospite” era nell’atrio in attesa di essere ricevuto.

Moreau scattò in piedi come se un insetto l’avesse punto, raggiunse André e gli prese le spalle con una stretta nervosa.

-Tu non stai bene, ragazzo, quindi ora vai a casa. Non mi servi a nulla in questo stato. Rimettiti in senso per l’udienza di mercoledì.-

André lo guardò perplesso, ma non si fece pregare.

-Vi ringrazio.-

Biascicò sollevandosi dalla sedia. Gli sembrò evidente che quello sfoggio di premura servisse a Moreau solo per garantirsi un colloquio privato con la persona che attendeva nell’atrio, ma André non si risentì per la scarsa fiducia. Fu felice di aver ottenuto qualche giorno di riposo. 

Mentre usciva dallo studio, urtò la spalla dell’uomo che entrava. Lo scontro fu breve, i due si scambiarono delle scuse distratte e si guardarono di sfuggita solo per mormorarsi un educato saluto. André notò che l’ospite di Moreau era un signore distinto, alto, accigliato e con dei tratti che gli sembrarono familiari. Non si sforzò di ricordare dove l’avesse già visto. Ipotizzò che fosse qualche noto personaggio incrociato in passato a Versailles, probabilmente un illustre cliente di Moreau con qualche segretuccio scomodo che l’avvocato aveva il compito di custodire con la discrezione di un confessore.

Salutò distrattamente il garzone e uscì sulla strada. Attraversò il pantano di fango e neve della via e si infilò sotto la tettoia del maniscalco che aveva accettato di custodire il suo cavallo.

-Un decotto di mia nonna e mi riprenderò nel giro di una notte.-

Mormorò all’orecchio di Alexander mentre gli lisciava il pelo lucido del muso con la mano.

Era stato un buon affare chiedere al Generale quel cavallo come unica ricompensa per tutti gli anni di fedele servizio accanto ad Oscar. Certo, non era un animale giovane e nemmeno molto bello, ma era solido, robusto e docile. Spesso, in passato, André aveva fatto osservare scherzosamente ad Oscar quanto loro due fossero simili ai rispettivi cavalli, ma a ben pensare non c’era niente di buffo in quel paragone. E, inoltre, sarebbe stato più corretto ribaltare i termini dell’analogia. Erano i cavalli ad essere simili, o meglio, adeguati a coloro che li cavalcavano.

Diede due monete al maniscalco e salì in sella.

Le strade di Parigi erano affollate, rumorose e caotiche, come tutte le mattine e forse anche più del solito. Alle imprecazioni dei passanti per il fastidio della neve si sommavano insulti, lamentele, sfuriate, cigolii, tonfi. Nessun suono allegro, niente che presagisse la festosità del Natale ormai prossimo, in quel groviglio di rumori.

Avvolto nel mantello e schiacciato dal suo malessere, André riuscì a stento a dirigere il cavallo, che, per sua fortuna, aveva buona memoria. Prese la strada che portava ad est, verso il sobborgo di Neuilly, in direzione di Palazzo Jarjayes, e lasciò morbide le redini.

Nella turbinante giostra di corpi, carri, merci e cavalli che lo circondava, non riuscì a distinguere quasi nulla. Fu attratto solo da una disputa particolarmente accesa tra un uomo a cavallo e un uomo sulla strada. Quest’ultimo ruggiva e gesticolava con rabbia investendo il giovane in sella con acide accuse e fantasiose bestemmie.

-Il tuo dannato ronzino mi ha urtato e mi ha fatto cadere la legna! Ora è tutta impregnata di neve!-

Sbraitava indicando una serie di ciocchi sparsi nella fanghiglia grumosa della strada.

André si passò il dorso della mano sull’occhio per schiarire la vista appannata e quando guardò di nuovo, riuscì a riconoscere il ragazzo a cavallo. Era Louis de Saint Just, lo studente della stanza al piano intermedio, l’uomo da cui Bernard aveva detto di tenersi alla larga.

André rallentò e gli dedicò tutta la propria attenzione.

Dopo aver replicato con calma stoica alle invettive, Saint Just diede un colpo di talloni al ventre del proprio cavallo e si inserì nel flusso della strada, dando le spalle ad André e cavalcando anch’egli verso Neuilly. 

Per un motivo che lui stesso non riuscì a spiegarsi, André decise di ignorare i consigli di Bernard. Si coprì al meglio il volto con il cappuccio del mantello e si tenne dietro Saint Just ad una cauta distanza.

 

 

 

 

 

-Ah, Jarjayes!-

Esclamò con voce grossa il Generale Bouillet mentre scendeva le scale del cortile reale di Versailles, appesantito da un grosso mantello grigio orlato di pelliccia e sorretto dal suo inseparabile bastone.

-Vi cercavo.-

Aggiunse quando gli fu abbastanza vicino per non dover alzare troppo il tono.

Il Generale Jarjayes stirò le labbra in un sorriso freddo quanto il vento nordico che soffiava leggero sullo spiazzo e osservò Bouillet con malcelata impazienza mentre questi arrancava verso di lui sul suo ginocchio guasto.

-Stavo facendo ritorno a casa.-

Spiegò calmo, quando Bouillet lo raggiunse.

-Allora permettetemi di accompagnarvi sulla mia carrozza, Jarjayes. Scambieremo due parole durante il tragitto.-

Jarjayes acconsentì con un rigido gesto del capo e seguì Bouillet verso la sua carrozza. Provò una punta di fastidio nel dover costringere le proprie gambe, ancora agili e sane, ad adeguarsi all’andatura lenta e difficoltosa del compagno. Detestava camminare piano, soprattutto quando faceva freddo.

-Devo parlarvi di Oscar.-

Borbottò cupo Bouillet mentre affondava passi goffi nella neve fresca.

Jarjayes fece una smorfia cortese per far intendere che quell’anticipazione non era necessaria. Lui e Bouillet non avevano mai parlato di altro.

Rimasero entrambi in silenzio finché non si trovarono chiusi nel cocchio, che Bouillet definì con ironia e soddisfazione  “il proprio confessionale da viaggio”, per poi elencare, senza che Jarjayes gli avesse chiesto di farlo, tutti i vantaggi del riservare le conversazioni più intime ai viaggi in carrozza. 

-Comodità e impareggiabile segretezza. Non ci sentirà neppure il cocchiere.-

Jarjayes abbozzò un sorriso deducendo senza sforzo che Bouillet avesse già sperimentato quei vantaggi in gioventù, durante gli occasionali incontri amorosi. Mise subito da parte quei pensieri e rabbrividì.

-Ebbene?-

Lo sollecitò sfregandosi le mani per riscaldarle.

-Vedete, Jarjayes, ieri ho ricevuto una lettera molto esplicita da parte dei soldati della Guardia di Parigi. Non vogliono accettare il comando di Oscar.-

Jarjayes si mosse sul sedile come se dita invisibili l’avessero pizzicato, ma non disse nulla.

-Non posso ignorare le proteste dei soldati, ma non posso nemmeno ripristinare il ruolo di Oscar nella Guardia Reale. Non ve lo dico per sfiducia nei confronti di vostra figlia, ma spero che capiate che è una situazione complicata e sono in dubbio su come gestirla. Se Oscar non riuscisse a farsi accettare dai suoi uomini, io sarei costretto a trasferirla e a degradarla.-

-Forse posso offrirvi una soluzione.-

-Ve ne sarei grato.-

-Oscar potrebbe sposarsi.-

Il collo di Bouillet sparì dentro il bavero di pelliccia.

-Sposarsi...- ripetè piano, come se fosse una parola straniera dal suono impronunciabile -Sposarsi con... con un uomo?-

Jarjayes sbuffò e sorrise, sforzandosi di alleggerire l’imbarazzo.

-Certo, certo! Con un uomo.-

 

 

 

 

Neuilly era un sobborgo tranquillo, sereno, con tante belle case di villeggiatura sparse tra i parchi e molte botteghe di mercanti che sfruttavano il commercio fluviale. Subito oltre il porticciolo sulla Senna, dopo il ponte, la via diventava più stretta e sterrata e si tuffava in una fitta boscaglia fino a raggiungere e sfociare in un’altra strada, quella che, costeggiando un canale parallelo alla Senna da Sèvres fino a Saint-Denis, congiungeva Versailles alle campagne di nordest di Parigi, dove si trovava Palazzo Jarjayes. Saint Just prese proprio quella direzione.

Superati gli ultimi edifici di Neuilly, la strada si spopolò e André fu costretto, per prudenza, a concedere a Saint Just un netto vantaggio. Lo perse di vista nel candore accecante della neve e dovette rassegnarsi a seguire la successione di orme lasciate dal suo cavallo, che fortunatamente erano le uniche tracce che deformavano la patina compatta di neve sulla strada. Poi, però, all’altezza dell’incrocio con la strada che collegava Versailles al nord di Parigi, si materializzarono, ad un tratto, altre due scie di solchi di zoccoli, che si originavano dagli arbusti a lato della strada, come se due cavalli fossero emersi dal boschetto per proseguire ai fianchi di Saint Just. 

Dunque due uomini si erano uniti a lui?

André provò a sollevare lo sguardo e si portò una mano sulla fronte per proteggere gli occhi dalla luce e dagli sbuffi d’aria fredda, ma non riuscì a vedere altro che sagome distanti, scure e sfocate, immerse in una distesa di bianco accecante.

“Se io non vedo loro, non è detto che loro non vedano me.”

Non poteva rischiare di essere notato, così decise di addentrarsi tra i tronchi spogli del boschetto, riguadagnare terreno e pedinarli quasi lateralmente, protetto dagli arbusti e dalla foschia opalina. Conosceva bene la zona tra Versailles e Palazzo Jarjayes, era stata teatro di buona parte della sua vita.

Proseguì con sicurezza nella boscaglia e si avvicinò al gruppo di Saint Just favorito dal velo di nebbia e dalla neve soffice e spessa che attutiva il rumore degli zoccoli di Alexander. Concesse un po’ di riposo alla vista e si lasciò condurre soltanto dal rumore cadenzato e regolare degli zoccoli dei tre cavalli e dallo sciabordio del canale che essi stavano costeggiando.

Aveva percorso un buon tratto, nascosto nel bosco quasi come un furfante in agguato, quando un’improvvisa e acuta fitta alle tempie gli fece rimpiangere di aver intrapreso quella strana avventura. A che proposito, poi? Stava pedinando un uomo soltanto sulla base di una vaga allusione di Bernard e di un proprio brutto presentimento? Non era nemmeno nelle condizioni adatte. Era infermo, disarmato e solo. Per giunta non aveva idea di dove fosse diretto Saint Just né per quanto tempo avrebbe dovuto stargli alle calcagna e nemmeno se ne sarebbe valsa la pena, e intanto riusciva a stento ad impedirsi di perdere i sensi. Se, svenendo, fosse caduto da cavallo, in breve tempo e senza neanche accorgersene sarebbe morto assiderato nella neve e forse il suo corpo sarebbe stato ritrovato solo dopo diversi giorni. Sarebbe stata una fine piuttosto ingloriosa e perfino imbarazzante.

Il suo buon senso cominciò a rimproverare severamente la sua avventatezza. 

-Avrei dovuto prendere la scorciatoia per Palazzo Jarjayes quando ero ancora a Neuilly e senza pensarci due volte! Ora mi troverei davanti ad un bel fuoco, con una ciotola di buon brodo caldo tra le mani e una pezza umida sulla fronte.-

 

 

 

 

 

-Jarjayes, voi avete la straordinaria capacità di lasciarmi senza parole.-

Borbottò Bouillet con un tono che non aveva nulla di sarcastico. I suoi mustacchi grigi ondeggiarono più volte per esibire il suo turbamento per quella bizzarra novità, e anche una sfumatura dissenso.

-Vorreste che vostra figlia si sposasse? Farei meno fatica a credere che stiate scherzando, pur conoscendo molto bene la vostra rigida opinione in merito alle burle.-

-Sto invecchiando, Bouillet.-

Ammise Jarjayes, determinato a non concedersi il minimo tremito della voce, mentre osservava le acque opache del canale che scorreva a lato della strada.

-Vedete, ormai la mia mente è scattante quanto lo siete voi con il vostro ginocchio, mio caro amico, eppure ho scoperto che ragionando lentamente, si ragiona meglio.-

-E a quale conclusione vi hanno condotto le vostre caludicanti riflessioni?-

-Mia figlia Oscar è molto sola.-

Bouillet emise un sospiro assorto e incrociò le dita sullo stomaco prominente. 

-Comprendo la vostra preoccupazione, Jarjayes, ma siete certo che Oscar desideri sposarsi?-

-Ebbene, non ne ho la certezza. Ha già rifiutato una recente proposta.-

-Se non vuole, che farete? Pensate di costringerla? Mi sembra una contraddizione bella e buona.-

-Non ho alcuna intenzione di obbligarla. Le vorrei soltanto offrire la possibilità di trovare un compagno. Che si scelga l’uomo che più le piace!-

-E lascereste che il vostro illustre cognome si estingua insieme a voi?-

-Pare che questo sia il volere di Dio. Il nome degli Jarjayes comunque non sopravviverebbe oltre Oscar, per ovvi motivi. Forse riuscirò a guadagnarmi un po’ di pace nella tomba se toglierò questo peso dalle sue spalle e lascerò che resti sopra le mie. Così deve essere.-

Jarjayes tacque e si perse a seguire la sfilata di tronchi spogli che scorrevano dietro ai vetri dello sportello. 

Gli venne in mente, senza un apparente motivo, Victor de Girodelle. Ripensò ai suoi occhi affilati, duri e limpidi come tormaline, che si erano fatti cupi e timidi quando gli aveva confessato i suoi sentimenti per Oscar. Mai, assolutamente mai, da quando Oscar era venuta al mondo, l’immaginazione del Generale era stata sfiorata dall’idea che, un giorno, il rampollo di una ricca e prestigiosa famiglia potesse spingersi al suo cospetto per chiedere, con voce tremante e guance arrossate, la mano della sua ultima figlia. Girodelle era un uomo stimato dalla corte, ambito dalle donne, erede di un casato illustre e avrebbe potuto -anzi, dovuto- scegliere una moglie giovane, con un corpo e un’educazione approntati per dargli molti figli e poche noie. Invece, lui voleva proprio Oscar e la voleva moltissimo. 

Il Generale ripensò anche al proprio imbarazzo di fronte all’emozione e al fervore con cui Girodelle gli aveva intessuto le lodi di Oscar. Con le sue parole intrise di entusiasmo, quel giovane Visconte gli aveva inconsapevolmente dato uno schiaffo alla coscienza. Da quell’incontro il Generale Jarjayes ne era uscito stravolto, completamente ribaltato, e aveva compreso che fosse giunto il momento di dimostrarsi fiero della propria straordinaria figlia e più attento alle sue necessità più intime.

-Potrei organizzare un ballo a corte, in onore di Oscar...- propose Bouillet interrompendo i pensieri del compagno e ravvivando il pelo di volpe che gli incorniciava il collo -Sono certo che parteciperanno numerosissimi gentiluomini di alto rango interessati a trovare una consorte, se Oscar acconsentirà ad indossare un abito da donna.-

Il volto del Generale Jarjayes si illuminò. 

-Mi sembra un’ottima idea, Bouillet.-

 

 

 

 

-Ho avuto proprio una pessima idea, Alexander.-

Mormorò André chinandosi ad accarezzare il collo massiccio del cavallo. Tirò le redini e lo fece rallentare.

-Lasciamo che loro vadano dove devono. Su, bello, ora torn...-

Lasciò cadere la frase e abbandonò l’intenzione della resa, quando, di colpo, il lento e regolare rumore di zoccoli che proveniva dalla strada si trasformò in un rullare impetuoso di cavalli al galoppo. Un secondo dopo riecheggiò tra i tronchi lo schiocco cupo di uno sparo e poi subito un altro. 

Lo spirito di Andrè si infervorò. Con la mente improvvisamente lucida e i muscoli tesi e reattivi, spronò con foga il cavallo ad affrontare la neve alta e ad uscire dal bosco. Sgusciò fuori dalla vegetazione, gettò lo sguardo in lontananza e riuscì a scorgere una carrozza di aspetto nobiliare che procedeva veloce sulla via sbandando ora verso il bosco ora verso il canale. Saint Just e i suoi due compagni avevano compiuto un agguato? Era stato lui ad aver assassinato, alla stessa maniera, il Marchese di Nardien?

Incitò Alexander a galoppare più veloce dei cavalli imbizzarriti che trainavano la carrozza e quando finalmente la raggiunse vide sul fianco della vettura lo stemma della famiglia Bouillet.

-Sono qui in soccorso!-

Gridò, senza sapere se qualcuno all’interno potesse ancora sentirlo, e si staccò dalla sella con un balzo per lanciarsi sul corpo inerme del cocchiere, freddato con un colpo alla testa. Agguantò le redini, le arrotolò intorno ai palmi per non farsele sfuggire, chiuse forte i pugni e le tirò, invocando l’aiuto di Dio. La carrozza sbandò ancora verso il fiume, una delle ruote emise un grido stridulo e sembrò volersi staccare dall’assale, ma i cavalli si arrestarono e il cocchio terminò la sua folle corsa lontano dal bordo del canale.

Con uno sbuffo di sollievo, André scese dalla cassetta ma, non appena posò i piedi a terra, le ginocchia cedettero e si trovò ad accasciarsi sulla neve, ansimante e frastornato, mentre lo sportello della carrozza si spalancava con uno schianto. Ne emerse un pallido e furioso Bouillet, che si avventò su di lui agitando una pistola carica. Lo infilzò con occhi feroci e iniettati di sangue e, puntandogli sul petto la canna dell’arma, sbraitò:

-Tu chi sei?-

-Mi chiamo André Grandier, signore. Non ho cattive intenzioni, voglio solo aiutarvi. Siete ferito?-

Il volto di Bouillet fu attraversato da un fremito che sgretolò la maschera di aggressività e ne esibì tutto lo spavento che aveva trattenuto. Puntò un dito tremante verso l’interno della carrozza e faticando a trovare un suono da dare alla propria voce, esclamò:

-Non io, ragazzo!-

 

 

 

 

 

Oscar cavalcò verso casa spingendo Cesar ad una velocità folle, tagliando l’aria gelida e tollerando gli schiaffi brutali del freddo sul viso. Riusciva a pensare soltanto “Più veloce! Più veloce!” e non tirò le redini finché non fu davanti al portone di Palazzo Jarjayes. 

La sua mente era vuota, lo stomaco sottosopra, gli occhi incapaci di vedere. Percepì la propria corsa furiosa nell’atrio, sulle scale e nel corridoio come uno stralcio confuso di un incubo e quando raggiunse la stanza di suo padre, non osò superare la soglia della porta. 

Nell’istante in cui si fermò, prese atto del bruciore nei polmoni, nella gola, negli occhi e in ogni muscolo del corpo. Non riuscì ad emettere altri suoni che non fossero profondi ansiti. Poi il velo nero che le oscurava la vista finalmente cadde e il suo sguardo attonito si insinuò sotto l’ombra del baldacchino del letto in cerca di un segno di vita sul corpo disteso e rigido di suo padre. Notò prima di tutto le bende sul suo petto e la macchia di sangue che rivelava in quale punto fosse stato colpito dal proiettile, poi si accorse che il torace si sollevava e si abbasta piano, seguendo il flusso lento e regolare del respiro.

-Tuo padre è vivo, Oscar.-

La voce di sua madre sembrò emergere quasi dal nulla per rispondere ad una domanda che Oscar non osava formulare nemmeno nel pensiero. Mosse gli occhi in cerca del dolce volto materno e lo trovò alla propria destra accanto a quello di Marron, entrambi distesi in sorrisi rincuoranti e illuminati dalla luce argentea che proveniva dalla vicina finestra. La serenità che vide nei loro occhi le diede la forza per inoltrarsi nella stanza fino a raggiungere il letto del padre. Lo chiamò in un sussurro e trasalì quando egli aprì gli occhi. 

-Oscar, non temere, gli Jarjayes hanno una fibra forte.-

Qualche lacrima salì a velarle gli occhi.

-Sono accorsa non appena ho saputo.-

-Dio mi ha assistito, Oscar.-

Mormorò il Generale, sollevando la mano per prenderle il polso.

-La ferita non è grave, ma se non fosse stato per André, io e Bouillet ora giaceremmo in fondo al canale.-

Oscar avvampò.

-André?-

-Sì. Che dono del Cielo! Pare che si trovasse sulla nostra stessa strada quando siamo stati assaliti. Si è precipitato in nostro soccorso, ha fermato i cavalli imbizzarriti prima che ci trascinassero nel fiume e poi ci ha condotti qui a Palazzo.-

Gli occhi lucidi di Oscar si affannarono invano a cercarlo nella stanza.

-Dov’é?-

-È a letto, nella sua stanza. Ha una brutta febbre.-

Si intromise Marron con voce tenue.

Oscar la guardò e annuì, poi prese la mano di suo padre tra le proprie e la strinse forte per comunicargli quanto fosse vigoroso il sollievo che provava e per confermargli che sì, gli Jarjayes avevano una fibra forte. Poi la riadagiò sul lenzuolo, gli sorrise con garbo, come se volesse scusarsi, e disse:

-Devo vedere André.-

 

 

 

 

 

Le finestre erano alti rettangoli di luce grigia che arrivavano a sfiorare il soffitto. Il cielo al di là dei vetri era un uniforme fondale d’argento brillante. Forse avrebbe nevicato ancora, pensò Oscar richiudendo lentamente la porta per non far cigolare i cardini. Rimase un momento sulla soglia a guardare quella piccola stanza silenziosa invasa dal lucore perlaceo del cielo che smorzava i colori verdi e azzurri dei mobili e dei tendaggi.

Il respiro lento e profondo di Andrè era l’unico palpito di vita in quel grigio regno di malinconici ricordi. Lui dormiva, supino, al centro del suo piccolo letto. Si era scostato il lenzuolo dal petto -Oscar vide che ne teneva ancora i lembi tra le mani- e si era aperto la camicia per tollerare meglio le vampe di calore della febbre. 

-Ti sono grata, André.-

Gli sussurrò con voce lieve, mentre raggiungeva il suo capezzale.

 -Mi chiedo se potrò mai estinguere l’enorme debito che ho con te.-

Sollevò la pezza umida che gli copriva la fronte e la intinse nell’acqua del bacile accanto al letto per restituirgliela fresca. Esitò un momento a guardare le sue palpebre chiuse, aspettando di scorgervi un fremito che preannunciasse il suo risveglio, ma André doveva essere davvero esausto e non ebbe la minima reazione. Oscar decise di restare comunque. La presenza fisica di André era confortante, stemperava l’agitazione dei suoi nervi ancora tesi. Si sedette sul bordo del letto, facendo attenzione a non sfiorarlo né a muovere troppo il materasso. Vegliò sul suo sonno in silenzio, studiò i suoi lineamenti di uomo maturo e fu attratta dalle sue mani aggrappate morbidamente al lenzuolo. Gli prese la destra con dolcezza, gli dischiuse le dita e notò che il palmo era attraversato da una striscia rossastra, testimonianza della forza che aveva esercitato per tirare le redini dei cavalli imbizzarriti.

Mentre gli accarezzava la mano col police, avvertì un’improvvisa ed irrefrenabile necessità di ringraziarlo, non solo per aver salvato suo padre, ma anche per aver provato a salvare lei da se stessa, giorno dopo giorno, per tutti quegli anni. 

Sollevò gli occhi sul suo volto rilassato, si protese sopra di lui e allungò la mano verso la sua spalla, ma non lo toccò. Fu turbata da un caldo sentimento di tenerezza che si irradiò nel centro del suo petto. Anziché toccargli la spalla, gli sfiorò la mascella con la punta delle dita per dagli una leggera carezza. Non voleva strapparlo a quel sonno così dolce e profondo, ma non avrebbe saputo come sopprimere quell’impulso a dimostrargli riconoscenza. Avvicinò il viso al suo e gli baciò la bocca. Non fece altro che premere le labbra sulle sue e trattenersi su di esse, che trovò caldissime, umide e gradevoli. Non ebbe timore che si svegliasse. Aveva l’inspiegabile certezza che André non avrebbe aperto gli occhi.

Quando le labbra di staccarono, produssero un breve e debolissimo schiocco. Quel suono, così intimo e inequivocabile, la intimidì e il suo cuore prese a battere con irruenza improvvisa. 

Si alzò dal letto senza la delicatezza che aveva usato nel sedervisi e si tastò le labbra, disorientata dalla piacevolezza dell’impronta calda lasciata dalle labbra di lui. 

Si rese conto d’improvviso che quella bocca aveva già incontrato la sua, ma dopo un primo momento di sconcerto ritrovò la calma. Le parve che tutto fosse tornato in equilibrio, che quel bacio palliativo avesse finalmente sanato la ferita che André aveva aperto molte sere prima. Si riempì i polmoni e fu come respirare per la prima volta dopo mesi.

Ma il freddo e l’ansia che l’avevano accompagnata nella sua corsa verso il Palazzo di colpo manifestarono su di lei i loro effetti. Era meglio ritirarsi a riposare e a ritrovare la lucidità. Così cominciò ad indietreggiare verso la porta, attenta a non produrre il minimo rumore. Ma, nonostante tutta la sua cautela, quando la maniglia della porta cigolò sotto la spinta della sua mano, dalla gola di Andrè emerse un mugolio che la fece trasalire. Lo guardò aspettando nervosa che lui si destasse, poi capì che anche questa volta non sarebbe successo. Era stata solo un’innocua turbolenza del sonno. Rimase ad assistervi col fiato sospeso, come se stesse ammirando un raggrumarsi di nuvole grigie prima di una tempesta. André inclinò la testa sul cuscino, emise un suono simile ad un singhiozzo e mosse pianissimo le labbra borbottando parole confuse ma comprensibili:

-...non ti sposare, Oscar, ti prego...-

Lei percepì un guizzo di sofferenza nella sua voce rauca e, mentre lo guardava sprofondare di nuovo in un sonno quieto, sentì germogliare nel cuore lo stesso senso di tenerezza che aveva provato poco prima. Questa volta, però, le fece male.

-Credo che non mi sposerò tanto presto, André.-

Mormorò in un soffio. Esitò ancora un momento a guardarlo e sperò che le proprie parole risuonassero nei suoi sogni. Poi, con il cuore e la testa in subbuglio, uscì.

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Capitolo 23
*** Dialoghi spinosi ***


Scoccò la mezzanotte. Il Palazzo già dormiva, tiepido delle ultime braci dei camini.

Annette si avvolse in un lungo mantello di lana insufficientemente pesante e sgattaiolò nel cortile sul retro, uscendo dalla porta delle cucine. Camminò in fretta affondando gli stivaletti usurati in uno strato spesso di neve e raggiunse i cespugli di rose che segnavano il perimetro del parco.

L’aria era gelida, ma il vento era debole. In quel momento non nevicava.

Affidandosi più alla memoria che alla vista, Annette individuò quella precisa zona di siepe dove i rami più radi permettevano, durante il giorno, di intravedere i boschi che si stendevano al di là del parco. Tremando di freddo e di ansia, si accucciò accanto a quel muro di vegetazione e rimase in attesa. 

Erano passati solo pochi minuti quando udì, dall’altro lato della siepe, un fruscio di stoffa, un rumore di passi ovattati dalla neve soffice e poi una voce roca che chiamava il suo nome in un sussurro:

-Annette!-

-Louis?-

-Sì, sono io!-

Annette si accese come un ciocco secco colpito da una scintilla e si dimenticò completamente del freddo che le stava arrivando alle ossa.

-Ho ricevuto il tuo messaggio, Annette, ed eccomi qui. Che informazioni hai per me?-

Premendo il volto contro i rami spinosi della siepe, Annette diede il suo resoconto con voce eccitata:

-André Grandier, il ragazzo moro che abita nel sottotetto, sopra la tua stanza, ha rapporti stretti con la famiglia Jarjayes e in modo particolare con Oscar François. È intervenuto per salvare la vita del Generale Jarjayes e del Generale Bouillet ed ora è qui a Palazzo.-

Quando concluse, le sfuggì un risolino compiaciuto e tese l’orecchio per ricevere un grazie o un complimento. Il lungo silenzio che seguì le fece male. Cominciò a pensare con angoscia che Saint Just fosse rimasto deluso, che forse non sapesse cosa farsene di quell’informazione, ma mentre si mordeva le labbra, tormentata, udì uno scalpiccio di foglie e di rami e intravide, nella penombra, la mano di Saint Just che emergeva dalla siepe, sfidando le spine, per cercare di raggiungerla. Commossa da quel gesto, che le sembrò un’appassionata dimostrazione di affetto e gratitudine, Annette intrecciò le dita alle sue, le strinse forte e vi posò le labbra.

-Sei stata brava, Annette.-

Le sussurrò lui con una voce di miele, per poi subito aggiungere, duro:

-Nessuno deve sapere che mi conosci.-

-Lo so.-

-Bene, ora torna a Palazzo.-

-A presto, Louis.-

-A presto.-

La mano di Saint Just si ritirò e Annette tornò di colpo a sentire il freddo. Doveva tornare subito a Palazzo. Ripercorse a ritroso il sentiero di impronte che aveva fatto per arrivare alla siepe, smuovendo la neve col mantello per cancellare le orme che lasciava dietro di sé.

Poco prima di raggiungere la porta delle cucine, si accorse che aveva ricominciato a nevicare. Sorrise come una bambina. Indugiò qualche istante sulla soglia a contemplare i fiocchi di neve, con le mani premute contro il petto e gli occhi sognanti. Poi, quando il freddo divenne intollerabile, mandò un bacio verso il buio della notte, immaginando che sospeso nell’aria potesse raggiungere Louis, e finalmente rientrò.

 

 

 

 

André aggiunse un pezzo di legno nel camino per nutrire la fiamma e si sedette con un sospiro stanco sulla poltrona. La biblioteca era sempre stata la sua stanza preferita in inverno. Il clima che vi si respirava era come intriso di saggezza antica. Il silenzio, la luce fumosa, l’odore della polvere, la compagnia discreta dei libri, il colore cupo e rilassante del legno, il porpora dei tendaggi. Tutti quei dettagli, nell’insieme, gli regalavano un raro senso di calore e di pace.

Appoggiò i talloni sul bordo della poltrona e si abbracciò le ginocchia, avvolgendosi nella coperta come in un bozzolo. La febbre era calata, ma il fisico era ancora debole.

Il sonno profondo che lo aveva accompagnato per tutta la notte precedente era stato un farmaco efficacissimo e svegliarsi immerso nei colori della propria vecchia stanza gli aveva dato l’impressione di essere tornato indietro negli anni, quando il suo corpo era un po’ più giovane e molto più energico. Così aveva lasciato il letto carico di questa impressione di gioventù e aveva attraversato il Palazzo fino a raggiungere le stanze del Generale Jarjayes per avere notizie sulle sue condizioni.

Una volta raccolti i ringraziamenti del Conte, e dopo aver rimediato qualche biscotto in cucina e un’umile bottiglia di vino dalla cantina, si era accomodato nella solitudine della biblioteca secondo vecchie abitudini e aveva finalmente permesso ai propri pensieri di rivolgersi ad Oscar.

Non l’aveva ancora incontrata da quando aveva lasciato la propria stanza, anche se, camminando nei corridoi, aveva avuto l’impressione di sentire il suo profumo e di percepire la sua vicinanza, come se lei fosse nascosta, in agguato, dietro qualche tenda, come quando giocavano da bambini.

Non aveva chiesto a nessuno di lei né aveva provato a cercarla. Palazzo Jarjayes non era immenso come poteva essere Versailles, prima o poi l’avrebbe incontrata. Un po’ sperava, poi, che la sola forza del proprio desiderio di vederla, fosse sufficiente ad attirarla a sé. 

Stappò la bottiglia e si passò il tappo di sughero sotto il naso per sentire l’aroma che lo impregnava. Versò il vino nel calice fino a un dito dal bordo. Il gorgoglio cupo di quel fluido rosso sangue che sgorgava dalla bottiglia era un suono sensuale, eccitante, quasi erotico. Sollevò il calice pressoché pieno, lo avvicinò alle labbra lentamente e prese un sorso ad occhi chiusi.

-Sapevo che ti avrei trovato qui.-

La voce di Oscar emerse dal silenzio, d’improvviso, come se fosse sempre stata appartata in qualche angolo della stanza ad osservarlo. 

Il vino gli si bloccò in gola. Tossì per riprendere fiato, battendosi più volte la mano sul petto, e si voltò verso la porta col viso in fiamme. 

Oscar era entrata nella biblioteca silenziosa come un felino e se ne stava sulla soglia della porta, in attesa di ricevere il permesso di entrare, come se la padrona della casa non fosse proprio lei.

-Spero tu non abbia intenzione di finire quella bottiglia da solo.-

Gli disse con voce liquorosa. André le rivolse un sorriso teso e si alzò.

-Ti prendo un bicchiere.-

Oscar scosse la testa e chiuse la porta.

-Non ti preoccupare, ci penso da sola.-

André si riaccomodò sistemandosi la coperta sulle spalle e, mentre Oscar apriva l’anta di un mobile per procurarsi un calice, si chiese quale ruolo, da quel momento, dovesse attribuirsi. Chi era ora per lei? Era regredito alla tiepida condizione di “amico d’infanzia”, poco più di “conoscente”? Oppure, più banalmente, non esisteva una definizione unica e precisa che riassumesse tutto?

Seguì Oscar con lo sguardo mentre gli si avvicinava con un sorriso cortese sulle labbra e notò che dissimulava un imbarazzo latente, tentando di comportarsi con leggerezza, come se gli ultimi mesi delle loro vite non fossero esistiti. Si sedette sul tappeto di fronte a lui e vicino al camino, proprio come amava fare da ragazzina, forse per dimostrargli che la loro confidenza era rimasta integra e che il legame tra passato e presente era ancora saldo.

Indossava i suoi soliti abiti comodi e informali. Un paio di pantaloni di stoffa lucente e una camicia di lino bianco. Non si era preoccupata di chiudere a dovere il laccio del colletto, cosicché dal punto di vista di André si potevano intravedere con facilità le fasce che le stringevano il seno. Lui si affrettò a mettere in salvo lo sguardo spostandolo sul suo viso. I bagliori rossastri del fuoco danzavano sulle sue guance di ceramica e le accendevano gli occhi. Nonostante l’atteggiamento confidenziale e quella postura così poco adatta al suo titolo e al suo ruolo, della ragazzina che Oscar era stata non le erano rimasti addosso che pochi frammenti. Il suo volto era compatto, indurito, segnato da molte parole non dette e molte emozioni trattenute. Ad André sembrò di intuire che fosse stanca, stanca dentro. Stanca, forse, di continuare a graffiarsi il cuore nei vani e ostinati tentativi di sfuggire alla morsa della foresta di rovi in cui era stata deposta da suo padre quando era nata.

-Ti senti meglio oggi?-

Gli chiese lei con un sorriso gentile, mentre si versava il vino nel bicchiere.

-Sì, ti ringrazio.-

-Mi fa piacere.-

-Tu come stai, Oscar?-

-Sto bene.-

Bevvero entrambi un sorso e si dedicarono con molta concentrazione ad assaporarlo.

-Hai salvato la vita a mio padre.-

Disse lei di colpo, come se si trattasse di una notizia di cui lui non fosse al corrente, e tuffò gli occhi nel vino.

-Non trovo parole per esprimere la mia gratitudine, André.-

-Ho soltanto...-

-No! Non sminuire l’importanza del tuo gesto. Non ho mai sopportato questa tua ostinata modestia.- 

Lui sorrise e piegò il busto in avanti fino ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia.

-Lasciami dire che la Provvidenza ha fatto la sua parte. Mi sono trovato nel posto giusto al momento opportuno.-

Gli angoli della bocca di Oscar si sollevarono, ma gli occhi rimasero aggrappati al bicchiere.

-È strano...-

Mormorò.

-Che cosa?-

-Tu, io, il vino, il fuoco.-

-Sì, capisco cosa intendi.-

Oscar si spostò i capelli dalla fronte e sospirò.

-È come se il presente non riuscisse a combaciare con il passato, nonostante ogni cosa sembri immutata.-

Gli spiegò.

-Noi siamo cambiati, Oscar. Non combaciamo più con noi stessi.-

-E tra di noi?-

Alzarono entrambi gli occhi per guardarsi.

-Tra noi?-

Ripeté Andrè.

-Sì. Riusciremo a combaciare tra noi come un tempo?-

-Non lo so, forse, ma in modo diverso.-

Oscar sospirò e premette le labbra sull’orlo del calice.

-Ho commesso molti errori, André. Il peggiore di tutti è stato quello di arrogarmi il diritto di scegliere per la tua vita e importi ciò che io credevo fosse giusto per il tuo bene.-

-Io ho commesso lo stesso errore con te. Pretendevo che tu avessi bisogno di me, del mio appoggio, solo perché temevo di perderti.-

-Anche io temevo di perderti.-

Si guardarono, occhi negli occhi, a lungo. Il lieve senso di disagio che avevano provato all’inizio della conversazione si era dileguato. Il velo di cordiale distacco era scivolato via e si accorsero che una forza quasi magnetica li attraeva l’uno verso l’altra, l’uno dentro l’altra.

-Smettiamo di fingere di essere vecchi amici, ma anche di essere due estranei. D’accordo?-

Oscar annuì.

-Va bene, da questo momento, niente più mezze verità.-

Stabilì a bassa voce e lui le rispose con un profondo sospiro d’assenso.

Cominciarono a svuotare e riempire i bicchieri in silenzio. I loro sguardi presero a cercarsi, a rincorrersi, a sfuggirsi, mentre i pensieri nelle loro teste si disordinavano e le coscienze nei loro petti si alleggerivano. 

Mentre si leccava il vino dalle labbra, Oscar si ricordò del bacio che gli aveva rubato nel sonno. Le parve di riuscire perfino a rintracciarne, sulla propria bocca, un lievissimo, gradevole sapore pepato, come di zenzero, che non aveva di sicuro a che fare con il vino. Quel bacio aveva esercitato uno strano potere sulla sua mente, l’aveva offuscata, arruffata, confusa. Era stato un momento di nitidissima realtà, in mezzo ad un guazzo di emozioni e sensazioni sbiadite e fumose come le immagini dei sogni. Realtà che emerge dal sogno. Come le parole scivolate dalle labbra di André mentre dormiva, quella supplica che lui avrebbe sicuramente preferito che non rompesse gli argini dell’incoscienza per fuoriuscire nella realtà. 

Nel mezzo del raggrumarsi di quei pensieri nebulosi, Oscar ebbe l’impressione di dover rispondere ad una domanda rimasta sospesa a lungo. Niente più mezze verità, si erano appena promessi. E così, senza un’apparente continuità logica, gli disse seria:

-Non sposerò Girodelle.-

Si accorse che le sopracciglia di André si stropicciavano, allora ripeté, più piano, con la stessa voce carezzevole con cui gli aveva risposto il giorno prima senza che lui avesse potuto udirla:

-Non sposerò Girodelle.-

La fronte di Andrè si distese, i suoi occhi si dilatarono. Oscar non capì con chiarezza quali pensieri e quali emozioni lo stessero attraversando, comprese soltanto di averlo lasciato senza parole, così continuò a parlare lei, ma con un tono più duro, quasi cinico.

-Girodelle non ha bisogno di una donna come me e io non ho bisogno di un uomo come lui.-

Rifletté un momento sulle proprie parole, bevve un sorso di vino e approfondì:

-Ho una teoria. Ritengo che lui abbia bisogno di due donne diverse: un’alleata con cui perpetuare il nome della famiglia e un’amante con cui condividere gli slanci lirici della sua indole. Credeva forse che io fossi un buon compromesso tra dovere e sentimento, ma non sarei stata adatta ad interpretare nessuno di quei due ruoli.-

Sorrise con una sfumatura di tristezza e concluse stringendosi nelle spalle:

-E io non ho bisogno di un uomo, né di un marito né di un amante. Mi comporterei da ipocrita con entrambi e sarei solo una fonte di fastidi e sofferenze.-

Ci fu un breve silenzio, in cui entrambi assimilarono quelle considerazioni.

-È vero...-

Borbottò André. Lei lo guardò come se non si fosse affatto aspettata una sua conferma, poi gettò lo sguardo nei guizzi delle fiamme, mordendosi il labbro.

-È vero,- ripeté lui facendosi cadere nel bicchiere le ultime gocce di vino rimaste nella bottiglia -tu non hai bisogno di un uomo. Però hai bisogno di amare.-

Fece una pausa e attese di ricevere il suo sguardo.

-E forse hai anche bisogno di accettare di poter essere amata.-

-L’amore mi fa paura.-

Rispose lei con voce fioca ma ferma, poi abbassò gli occhi e sospirò. Con uno sguardo ringraziò il vino per averle sciolto la lingua, permettendole di navigare in quel discorso burrascoso, senza vacillare troppo.

-L’amore rende schiavi. Promette tutto, toglie molto e non dà nulla. Non è forse così, André?-

-Ti sbagli. Per quanto lenta e triste sia l’agonia, l’amore fa sentire vivi come nient’altro al mondo.-

Oscar tacque e gli diede ragione con il silenzio. Guardando i suoi occhi, prese atto che lui sapesse molto bene di cosa stava parlando e capì di non avere abbastanza competenze in materia per replicare. Per di più, il vino, validissimo alleato per sostenere quel difficile esercizio di onestà, era ormai terminato e Oscar decise di essersi esposta a sufficienza. 

Osservò con un guizzo di curiosità l’occhio cieco di André. La pupilla sembrava piombo fuso e l’iride il bordo di un crogiolo.

Percepì la passione che bruciava silenziosa nel cuore di lui, la percepì con la stessa intensità di quella sera in cui si era trovata con i polsi stretti nei suoi pugni, la schiena contro il muro e le labbra prigioniere della sua bocca. André la amava e non si sforzava di dissimularlo, non ne aveva più bisogno. Il suo sentimento era come il calore del fuoco, astratto ma palpabile.

-C’è qualcos’altro che vuoi dirmi, Oscar?-

Lei lo guardò come se si fosse dimenticata della sua presenza.

-Per la verità, sì.- rispose rinforzando il tono di voce -Ho fatto visita a mio padre questa mattina e mi ha comunicato che Bouillet organizzerà un ballo in mio onore, prima di Natale.-

-Un ballo?-

-Precisamente. Un ballo a cui dovrò partecipare in abito da donna, in modo da potermi sottoporre al corteggiamento di uno stuolo di nobili scapoli in cerca di moglie.-

Una sfumatura di sarcasmo sciupò le sue ultime parole e André capì che Oscar aveva intenzione di soddisfare il volere del genitore, ma facendo di testa propria.

-Vorrei che tu mi accompagnassi, André.-

-Io? Per quale motivo?-

Le labbra di Oscar si piegarono in un sorriso sottile e complice. Appoggiò il bicchiere sul tappeto accanto alla propria coscia e spiegò:

-Da sola non sarebbe divertente.- 

Lui si aggiustò la coperta sulle spalle e sorrise tra sé, scrollando la testa, in un modo che voleva significare “Sei incorreggibile”.

-Dicevi le stesse parole, Oscar, quando, da bambini, mi trascinavi in una delle tue marachelle.-

 

 

 

 

Nell’ampia aula del tribunale, la sentenza riecheggiò con una solennità quasi religiosa. André rabbrividì di orrore quando il giudice decretò la condanna a morte dell’imputato.

-...e sarà giustiziato mediante impiccagione, domani a mezzodì.-

Il colpo di martelletto sancì irrevocabilmente la decisione. Tra il pubblico che assisteva al processo da una balconata di legno sospesa sopra l’aula, si levò il grido acuto di una donna. Mentre l’ambiente si colmava fino al soffitto di brusii, invettive e dissensi, l’accusato crollò a terra privo di sensi, con un tonfo sordo. I carcerieri lo raccolsero per le braccia e lo trascinarono fuori come fosse uno spaventapasseri pieno di segatura. 

Il giudice si alzò dal suo seggio con aria affaticata e soddisfatta, trascinandosi dietro l’ingombrante toga scura e uscì dall’aula seguito da un coro di voci, in cui gli insulti non si distinguevano dalle grida di approvazione.

Moreau battè sul tavolo una pila di fogli per metterli in ordine e sospirò sinceramente dispiaciuto. Aveva tentato con grande solerzia di difendere l’imputato dall’accusa di furto, ma le prove erano schiaccianti, i testimoni numerosi e la giuria non si era preoccupata di considerare le cause che avevano spinto quell’uomo a rubare. 

-È una condanna pesante per un semplice furto.-

Commentò André sfilandosi gli occhiali dal naso. 

-Ah, ragazzo, hai ragione, eppure sappi che ho visto uomini impiccati per molto meno.-

André inorridì e uscì dal banco seguendo da vicino Moreau, mentre la folla di uomini di legge e di portacarte che affollava l’aula si disperdeva in un brulicante flusso di corpi.

Mentre si avviavano verso l’uscita, tra schiamazzi e gomitate, una voce profonda ma sonora si distinse dal rumorio nervoso e febbricitante della folla e chiamò il nome di Moreau. André e l’avvocato si fermarono in mezzo all’aula mentre un uomo alto, vestito interamente di nero, emergeva dalla calca per raggiungerli. André lo riconobbe subito. Era il distinto signore che aveva fatto visita a Moreau, il giorno in cui lui aveva dovuto lasciare lo studio per via della febbre.

-Maximilien, ero certo di trovarti qui!-

Esclamò Moreau cordialissimo.

-Ho seguito questa vicenda con apprensione, Basil, come sai, e sono addolorato per l’esito.-

-Io ho fatto del mio meglio.-

-Oh lo so, amico mio.-

Dialogarono tra loro con una cortesia al limite dell’artificio e ignorarono completamente la presenza di André, finché lui, colto da un’improvvisa illuminazione sull’identità dell’interlocutore di Moreau, si inserì nel loro scambio, fissando quell’uomo dritto negli occhi.

-Maximilien de Robespierre?-

Diede alla sua convinzione la forma di una domanda solo per pura cortesia e sorrise tentando di esibire disinvoltura, caratteristica che sembrava essere un requisito fondamentale per presenziare in quell’aula. 

-Ci conosciamo?-

Chiese l’altro con sufficienza, guardando André come se si fosse concretizzato davanti a lui all’improvviso. Moreau intervenne con uno slancio teatrale di entusiasmo.

-André Grandier, il mio assistente. È un ragazzo brillante e industrioso, farà strada.-

Robespierre assottigliò gli occhi per analizzare il volto del ragazzo e si soffermò sul ciuffo di capelli che ombreggiava il suo occhio cieco.

-Potrebbe essere che io abbia già sentito il vostro nome?-

-Sono parente di Bernard Chatelet.-

Robespierre mozzò il respiro per la sorpresa, ma lo fece con grande contegno.

-Sì, ma certo. Siete il falso Cavaliere Nero. Conosco tutta la storia.-

André annuì piano, chiedendosi se fosse un bene o un male avere la fama di falso Cavaliere Nero. Intanto Robespierre continuò con espressione più solenne:

-E mi ricordo anche di avervi incontrato, molti anni fa, sulla strada per Arras, in compagnia di Oscar François de Jarjayes. Sono lieto di vedere che avete smesso di essere l’ombra di un’aristocratica.-

Andrè strinse la mascella e decise di lasciare che la conversazione tra loro si estinguesse con quell’affermazione. Robespierre, come se gli avesse letto nel pensiero, tornò a rivolgersi a Moreau.

-Potremmo conferire in privato?-

-Non ho segreti.-

Replicò Moreau senza esitare. André fu sorpreso e orgoglioso di quell’inaspettata dichiarazione di fiducia.

-Ebbene,- cominciò Robespierre, sottilmente contrariato -l’affare di Nardien non è andato a buon fine. Non era previsto ciò che è accaduto, ma ormai il danno è fatto. Ora le terre del Marchese passeranno nelle mani della moglie, che non le gestirà meglio di lui. Cercherò, comunque, di occuparmene io. Tu hai fatto quello che hai potuto.-

Moreau fece un lieve inchino con la testa e ringraziò. Si salutarono con una calorosa stretta di mano, poi Robespierre, algido e distaccato, diede loro le spalle e si fece riassorbire dalla foresta di schiene. 

-Non ho più intenzione di tenerti all’oscuro della vicenda, André.-

Disse con calma Moreau mentre si avviavano verso l’esterno dell’edificio. Quando raggiunsero la strada, l’avvocato allungò una moneta al vetturino di una carrozza e scandì con voce aspra l’indirizzo del proprio studio.

Mentre saliva sul cocchio, cominciò a spiegare:

-Nella lettera che scrissi al Marchese di Nardien lo esortavo ad eliminare l’assurda tassazione che aveva imposto ai contadini nei suoi possedimenti. Insomma, non aveva il diritto di farlo, stava violando la legge. Io l’ho avvertito che rischiava una denuncia oltre che una probabile ribellione dei contadini.-

André si sedette di fronte a lui e lo ascoltò in silenzio.

-Ecco, questa fu la sua risposta.-

L’avvocato estrasse da un faldone di cuoio la lettera del Marchese e la porse al ragazzo. André riconobbe il sigillo di cera spezzato che recava il simbolo della casata di Nardien. La aprì e lesse a mente le poche righe.

-Dice di aver imposto le tasse col favore della Corona.-

Rifletté ad alta voce.

-Esattamente, ma se anche fosse stato vero, il Re non aveva alcun diritto di concedergli la facoltà di infrangere la legge con quelle modalità. Robespierre mi aveva assicurato che avrebbe chiesto ad un uomo di sua fiducia di persuadere il Marchese a regolarizzare le imposte, ma pare che quest’uomo abbia frainteso le nostre buone intenzioni.-

La carrozza imboccò un ponte e prese a sobbalzare sui ciottoli. André restituì la lettera a Moreau e incrociò le dita sulle ginocchia.

-Che cosa sapete del tentato omicidio del Generale Bouillet e del Generale Jarjayes?-

Chiese freddo. Moreau sospirò e gettò lo sguardo oltre il finestrino per osservare il fiume verdastro e opaco che si spezzava contro l’Île de la Cité.

-Ah, per questo temo di non poterti essere utile.-

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Capitolo 24
*** Sirene ***


Era una mattina fredda ma gradevolmente profumata di muschio e di rugiada. Il silenzio placido della campagna era guastato solo dall’uggiolio distante dei cani nel recinto. Mentre camminava sull’erba umida del parco, Rosalie capì di essersi assuefatta a tal punto all’aria viziata di Parigi da aver dimenticato quanto fossero dolci e penetranti quelle fragranze agresti.

Spesso, mentre rattoppava abiti nella bottega della sarta o sistemava cassette di frutta al mercato, le capitava di ripensare con nostalgia agli spazi ampi e agli odori buoni di Palazzo Jarjayes. Tornarvi ora, dopo anni, la riempì di una profonda malinconia che le fece male e bene al medesimo tempo. 

Il suo corpo, in genere costretto a non sentire e a non vedere, si fece allora ipersensibile. Udito, olfatto e vista si nutrirono avidi ed entusiasti di ogni minima sfumatura che coglievano. Tutto in quel parco verdissimo e profumato riportava la mente di Rosalie ad un passato in cui era stata davvero felice, senza saperlo. 

Da quando era tornata a Parigi -dopo la breve parentesi nella casa della Polignaç- la sua vita era cambiata molto. Si era dovuta riadeguare alla povertà e per diverso tempo si era arrangiata a mantenersi da sola. Bernard era stato un dono del cielo e si era dimostrato un compagno prezioso. Ma nulla era semplice e lei non aveva mai un momento di pace, nemmeno quando dormiva. Aveva l’impressione che il fantasma della miseria fosse dietro l’angolo e si prodigava con tutte le sue forze per tenerlo lontano da se stessa e da suo marito. Le giornate iniziavano e finivano senza che se ne rendesse conto e la sua mente era costantemente preda di inquietudini. Si teneva stretti tutti i piccoli lavori che aveva avuto la fortuna di trovare qua e là, ma i soldi non bastavano mai, il cibo era costoso e difficile da reperire, l’appartamento in cui abitava era piccolo e scomodo e lei si affannava a tenerlo sempre lindo perché aveva il terrore che la disgustosa sporcizia di Parigi trovasse il modo per contaminarlo. Bernard rincasava sempre a tarda sera e le taceva i suoi affari per non darle pensiero, causandole, così, ancora più ansie. Si mettevano a letto, entrambi esausti e pensierosi, lui la abbracciava, ma senza slanci di passione, e lei lo assecondava, ma, per quanto desiderasse avere un figlio, si tormentava con l’ansia di non essere in grado di accudirlo bene o di non avere denaro sufficiente per garantirgli un’infanzia dignitosa, per lo meno migliore di quella che aveva avuto lei.

Doveva ricordare spesso a se stessa di aver attraversato periodi peggiori -le difficoltà della propria infanzia, la velenosa persecuzione della Polignaç. In quel modo si dava coraggio e riusciva a sentirsi contenta di come viveva con suo marito. Ma quando ricordava gli anni trascorsi a Palazzo Jarjayes, il suo stomaco si contraeva per la nostalgia.

Le capitò di provare proprio quella dolorosa sensazione alla pancia mentre camminava verso l’ingresso del Palazzo aggrappata al braccio robusto di André, che era venuto a prenderla a Parigi, su richiesta di Oscar. 

Guardò il suo accompagnatore con la coda dell’occhio e si chiese se anche lui stesse pensando al passato, se stesse condividendo in silenzio la sua stessa malinconia. Ma André sembrava completamente immerso in pensieri molto lontani da lei e da quel luogo. I suoi occhi erano socchiusi, cupi e vitrei, le pupille fissavano un punto indefinibile davanti ai suoi piedi, ma era come se il suo sguardo fosse rivolto verso l’interno della sua testa. André aveva sempre avuto la tendenza alla malinconia, nonostante in gioventù avesse spesso mostrato slanci di giocosa leggerezza con cui faceva divertire lei ed Oscar. Forse la perdita dell’occhio sinistro o forse qualche attrito segreto con Oscar l’avevano reso un uomo meditabondo e tenebroso, sempre gentile e cordiale, ma molto diverso dal ragazzo brioso che era stato.

Rosalie decise di scacciare quell’atmosfera cupa e provò a ripescare dalla mente qualche buffo aneddoto della loro fanciullezza. Gliene sovvenne uno e si mise a raccontarlo con una risatella allegra. Lui la ascoltò in silenzio, sorridendo benevolo, ma alla fine ammise di non ricordare quel particolare episodio e sembrò impaziente di tornare alle sue elucubrazioni. Rosalie, un po’ delusa, si sforzò di mantenere viva la conversazione.

-André, non mi hai detto per quale motivo Madamigella Oscar ti ha chiesto di accompagnarmi qui a Palazzo.-

-Desidera rivederti, scusarsi di persona per non aver partecipato al tuo matrimonio e consegnarti il suo regalo.-

-Il suo regalo? Oh, André, se tu me l’avessi detto prima non sarei venuta. Dopo tutto quello che Madamigella Oscar ha fatto per me, come posso accettare anche un dono?-

André sogghignò e le rispose come se non l’avesse udita e stesse parlando da solo:

-Penso proprio che Oscar abbia bisogno di parlare con un’amica.-

Entrarono dal portone principale e trovarono Oscar in attesa nell’atrio, con le mani dietro la schiena e un bel sorriso cordiale già disposto sulle labbra.

-Rosalié, ben arrivata!-

Esclamò con quel suo particolarissimo tono di voce che riusciva ad essere festoso e composto al medesimo tempo. Rosalie la salutò arrossendo e fece un inchino più per tentare di nascondere il porpora delle guance che per ossequio.

-Oh ti prego, questo proprio non è necessario, Rosalie.-

Le disse Oscar divertita, posandole una mano sulla spalla. Rosalie sollevò gli occhi, come un penitente assolto da un confessore, e le sorrise nervosa. Com’era bella, Oscar! Profumava di rose appena colte, la sua pelle opaca e bianca sembrava marmo levigato e i suoi occhi brillavano di intelligenza.

-Sei un vero incanto, Rosalie.-

La lodò Oscar, prendendole le mani. Rosalie arrossì ancora e scrollò la testa. Nonostante tutti i suoi sforzi per darsi un aspetto gradevole, si sentiva brutta e disordinata, come se una traccia indelebile della lordura di Parigi le si fosse appiccicata addosso.

-Perché avete tagliato i vostri bellissimi capelli lunghi, Madamigella?-

Fu tutto ciò che le venne da dire e si diede mille volte della sciocca. La lusinga di Oscar avrebbe meritato in risposta un complimento altrettanto cortese, o quantomeno un decoroso “Vi ringrazio”. Invece lei era riuscita a formulare solo quella domanda al limite dell’educazione, come una ragazzetta sgarbata e indiscreta. 

Oscar sollevò impercettibilmente le sopracciglia, ma sembrò più divertita che irritata. Le venne spontaneo consultare Andrè con lo sguardo, lasciando intendere a Rosalie, senza volerlo, che il taglio dei suoi capelli aveva a che fare con una questione segreta tra loro, poi sorrise indulgente e minimizzò:

-È stato un colpo di testa. Ricresceranno!-

Prese Rosalie sottobraccio e la trascinò con sé sulle scale, dicendosi impaziente di consegnarle i suoi doni per le nozze. Rosalie la seguì docile, borbottando frasi imbarazzate.

-Non dovevate. Siete troppo gentile. Non era necessario.-

Oscar la ascoltò sorridendo e camminando a ritmo deciso sulla gradinata, finché improvvisamente non si bloccò a metà della rampa, come se si fosse accorta di aver dimenticato qualcosa. Guardò indietro con aria serissima e i suoi occhi si fermarono su André, immobile nell’atrio.

-André?-

Disse semplicemente, facendogli un lieve cenno con la mano. Lui stirò le labbra e scosse la testa.

-Vi raggiungerò più tardi.-

Disse e sparì dietro ad una porta.

-Madamigella, mi permettere di fare una considerazione?-

Mormorò Rosalie mentre riprendevano a salire le scale.

-Certo.-

-André è molto tetro.-

Oscar non rispose subito.

-Le persone cambiano.-

Rosalie non osò indagare più a fondo, nonostante quella frase enigmatica le avesse acceso la curiosità. Inaspettatamente, fu Oscar stessa, quando raggiunsero il pianerottolo, a sbottonarsi di propria iniziativa, come se sentisse la necessità di giustificarsi con lei:

-Io voglio molto bene ad André, Rosalie, davvero molto.-

Rosalie la ascoltò in silenzio.

-Ma non posso permettermi di provare più di un tenero affetto fraterno. Capisci?-

Si incamminarono nei lunghi corridoi inzuppati di luce bianca e, mentre Rosalie si guardava intorno sovrapponendo le immagini dei ricordi alla realtà che aveva sotto gli occhi, Oscar continuò a parlare a bassa voce, come se stesse ragionando tra sé.

-Se si potesse scegliere chi amare, se si potessero razionalizzare i sentimenti come accade con i pensieri, la vita sarebbe semplice.-

Entrarono in un lussuoso salotto con mobili di legno scuro e tendaggi dorati, un ambiente intimo e molto luminoso. Oscar fece accomodare Rosalie su un divanetto damascato, poi andò ad aprire una cassapanca di mogano e ne estrasse un lungo e sottile involucro di cuoio.

-Rosalie, questa è la spada che usavi quando ti insegnavo a tirare di scherma. Te la ricordi?-

Spiegò mentre tornava verso di lei, estraendo il fioretto dalla custodia.

-Mi auguro che tu non abbia mai la necessità di rivolgere questa spada contro nessuno, ma ti prego di accettarla soprattutto come monito, per non dimenticare che sei una donna forte e indipendente e che sei in grado di difenderti da chiunque e da qualunque pericolo. E per ultimo...-

Oscar si sfilò un anello d’oro da un dito e glielo consegnò insieme alla spada.

-Questo anello mi appartiene da sempre e voglio che lo abbia tu. Vi è incisa una rosa con le spine. Mi è servito per ricordarmi che anche le cose più belle possono avere delle insidie, ma che non per questo bisogna apprezzarle di meno. Credo che l’amore e il matrimonio seguano questo principio.-

Rosalie si appoggiò la spada sulle ginocchia e tenne l’anello tra la punta delle dita, ammirando la rosa incisa sulla placca dorata. Mentre il suo cuore esplodeva di commozione, la sua mente abituata al pragmatismo provò a quantificare il valore in denaro di quei due preziosissimi oggetti. Le salirono le lacrime.

-Apprezzo davvero molto questi doni, Madamigella. Vi ringrazio.-

Mormorò e non riuscì a trattenere il pianto, disprezzandosi per aver pensato, anche solo per un istante, a quanto avrebbe potuto ricavarne vendendoli.

-Vuoi un bicchiere di liquore, Rosalie?-

Chiese Oscar accarezzandole la spalla. Rosalie annuì e biascicò:

-Solo un goccio, Madamigella, grazie.-

Oscar andò ad aprire un mobile e poco dopo tornò verso il divano con le mani strette intorno a due finissimi bicchieri di cristallo dentro cui ondeggiava un liquido ambrato e brillante come oro fuso. 

-Sei felice con Bernard?-

Domandò sedendosi al suo fianco.

-Sì.-

-Mi fa molto piacere.-

-Madamigella, voi... voi siete un angelo.-

Oscar rise.

-No, non direi proprio!-

-Vi sbagliate. Io non ho mai conosciuto una persona più buona di voi. Avete aiutato me e poi avete salvato la vita del mio Bernard. E continuate ad essere così generosa!-

La risata allegra di Oscar si affievolì fino a spegnersi e nonostante le sue labbra fossero rimaste piegate in un vago sorriso, il suo volto si fece cupo e lo sguardo assorto e triste.

-Non ho fatto solo del bene, a qualcuno ho fatto anche del male, molto male, senza nemmeno accorgermene.-

Rosalie assaggiò il liquore con la punta delle labbra: era piuttosto forte. Oscar ne prese un lungo sorso come se fosse acqua.

-Com’è il matrimonio, Rosalie?-

Chiese d’improvviso, dando alle parole una sfumatura ironica.

-Impegnativo.-

Le labbra di Oscar si piegarono in un sogghigno mentre la sua lingua le ripuliva dalle tracce di liquore.

-E se anche io mi sposassi? Che ne penseresti, Rosalie?-

-Voi?!-

Oscar scoppiò nuovamente a ridere, ma Rosalie non percepì nessuna allegria nella sua voce, solo nervosismo e un duro sarcasmo.

-Provo il tuo stesso stupore a questa idea, cara Rosalie, tuttavia mio padre insiste affinché io mi scelga un marito.-

Rosalie arrossì senza apparente motivo, ma Oscar non vi fece caso e continuò a parlare rivolgendosi al bicchiere.

-A Versailles si terrà un ballo questa sera, un ballo in maschera in mio onore, ed io sarò l’unica donna presente. Sembra uno scherzo, non trovi?-

Rosalie annuì in imbarazzo, nonostante Oscar continuasse a non guardarla. Le fu chiaro che, tutto sommato, il proprio parere fosse abbastanza superfluo. Oscar aveva solo bisogno di una silenziosa presenza che ascoltasse con indulgenza il suo sfogo.

-Ho intenzione di opporre burla a burla.- aggiunse Oscar, sollevando il viso -Per una volta, voglio prendermi gioco della corte come la corte si è sempre presa gioco di me. E sono sicura che sarà piuttosto divertente.-

 

 

 

 

 

Gli occhi di Girodelle si fecero sottili come spilli. I buchi stretti della sua ingombrante maschera gli rendevano difficile capire dove stesse mettendo i piedi, mentre attraversava a passo svelto il salone gremito. Urtò e fu urtato, trattenne qualche imprecazione tra i denti e infine si mise in salvo dalla folla appoggiando le spalle ad una parete tra due alti finestroni. Da quella posizione sicura, si dedicò ad osservarsi intorno. 

Tutti gli uomini che popolavano la sala erano bardati con gran lusso. Sfoggiavano travestimenti eccentrici e variopinti e si salutavano con fredda cordialità, ma senza istaurare conversazioni. Ognuno si aggirava guardingo come un predatore in mezzo ad altri predatori rivali e fremeva sotto la propria maschera, impaziente di giostrare per conquistarsi il cuore della donzella.

Il Visconte Girodelle roteò gli occhi verso l’alto e sbuffò sdegnoso. Non aveva previsto tanta concorrenza. Si voltò distrattamente verso la finestra e vide un ragazzo -gli parve di dedurre che fosse piuttosto giovane, a giudicare dal fisico asciutto- che sorseggiava champagne da una coppa di cristallo e guardava fuori dai vetri come se fosse del tutto estraneo alla frenesia che animava gli altri.

-Che bell’imbroglio, ne convenite?-

Gli disse con un garbo sprezzante. Quello si voltò verso di lui, ma non fiatò.

-Mi chiedo con quale criterio si possa scegliere un marito in questa colorata babilonia.- continuò Girodelle -Madamigella Oscar è una donna di tale spessore! Che ambisca un uomo di fine intelletto e di buon cuore, non lo metto in dubbio, e per questo le concedo che la maschera possa essere lo strumento ideale per cogliere le qualità dello spirito, senza lasciarsi ingannare dall’apparenza. Ma che lei non abbia alcuna considerazione per l’aspetto del proprio eventuale consorte, mi sembra proprio una bella stravaganza!-

L’uomo accanto a lui accennò ad una flebile risata, ma non disse una parola. Girodelle, incuriosito, lo studiò con attenzione. Era di poco più basso di lui, snello e longilineo, di certo un buon tiratore di scherma. Indossava un abito piuttosto interessante, fatto interamente di un bel velluto blu oltremare. La stoffa preziosa era spruzzata di tante piccole stelle ricamate con filo d’oro che brillavano alla luce dei lampadari come veri astri celesti. Sulla maschera bianca e tondeggiante, che gli avvolgeva il viso, lasciando scoperti, ma in ombra, soltanto gli occhi e le labbra, era dipinta la faccia personificata della luna piena. La parrucca, infine, era un ampio e pretenzioso garbuglio argentato.

Mentre Girodelle valutava con una sfumatura di invidia la ricercatezza dell’abbigliamento del proprio rivale, gli giunse all’orecchio il colpo di bastone che annunciava l’arrivo di Oscar. Nel salone si fece subito un silenzio eccitato. Le porte d’ingresso si aprirono e accolsero una dama con un ricchissimo ed ampio abito azzurro. La maschera che ne proteggeva l’identità aveva il volto sibillino di una sirena ed era impreziosita con una trama fitta di lucide scaglie turchesi. 

Si levarono numerose esclamazioni di stupore. Nessuno si aspettava che Oscar esibisse tanta lussuosa bellezza. La dama mascherata si addentrò nella sala, camminando lenta per lasciarsi ammirare, e tese la mano ad un uomo robusto, infagottato in un grigio travestimento da lupo. Lui la strinse a sé e l’orchestra cominciò a suonare un minuetto vivace. 

Girodelle rimase in disparte ad osservare sbalordito la bellissima sirena blu che volteggiava disinvolta, passando in continuazione tra braccia diverse. Pareva che la ninfa di un affresco avesse deciso di prendere vita staccandosi dal muro. Era incantevole. Quel vestito scollato e stretto valorizzava un fisico statuario che l’uniforme lasciava solo intendere. Sembrava quasi non essere Oscar. Forse, ipotizzò Victor con un sogghigno, lei avrebbe pensato lo stesso di lui. L’avrebbe riconosciuto? Girodelle sperava di no. Lo divertiva molto l’idea che Oscar, a fine serata, potesse scegliere proprio lui, dopo averlo già rifiutato per ben due volte!

Quando notò che la folla di pretendenti in attesa del loro turno per le danze si stava assottigliando, si avvicinò anche lui con cautela. L’uomo vestito da Notte, come un’ombra silenziosa, lo seguì.

Il minuetto non era ancora terminato, quando la sirena si staccò dall’uomo con cui stava danzando per offrire la mano proprio a Girodelle, che si sentì esplodere il cuore nel petto. Quando la prese tra le braccia, ebbe l’impressione di essersi completamente dimenticato come si danzasse.

-Ah, che effetto mi fate!-

Le disse sforzandosi di camuffare la voce. Folle di emozione, danzò con lei senza tacere nemmeno per un secondo. Si profuse in ambiziosi complimenti, scherzò molto sulla singolarità di quella serata e le lasciò intendere con sottigliezza di essere molto ricco. La cedette poi a malincuore al giovane uomo vestito da Notte e tornò ad occupare il suo posto sicuro accanto alla parete, con le mani che ancora tremavano. 

Le danze si conclusero presto, ma l’orchestra non smise di riempire il salone di gradevoli melodie. Oscar, regina assoluta di quel buffo carnevale, prese a conversare con i suoi corteggiatori, che le giravano intorno come falene. Girodelle si rifiutò di prender parte a quelle chiacchiere e preferì tener d’occhio lo strano ragazzo vestito da Notte che era tornato a scrutare assorto fuori dalla finestra. “Sicuramente un provincialotto poco abituato al fermento della corte” valutò Girodelle.

La serata scivolò placida verso il termine e l’ansia di tutti per la scelta di Oscar divenne via via sempre più palpabile. Quando la sirena blu prese commiato dal gruppetto di petulanti corteggiatori con cui stava conversando senza entusiasmo, fu chiaro che fosse giunto il momento del verdetto. Tutti i corpi si paralizzarono e le chiacchiere si spensero in un istante.

Lei prese a camminare nella sala, ignorando la delusione di chi veniva escluso dal suo tragitto. Ebbe una lieve incertezza, poi si diresse con passo sicuro verso la parete a cui si sorreggeva Girodelle. Il Visconte si sentì come un vulcano sul punto di esplodere. Il suo sangue si fece magma e il cuore gli risalì su per la gola. “Sono vostro!” 

Ma la sua gioia fu brutalmente breve. La sirena, ambigua per definizione, lo stregò e poi illuse. Gli passò accanto, ad un soffio, smosse l’aria intorno a lui provocandogli una bufera nel cuore, ma non gli rivolse nemmeno uno sguardo e si fermò davanti al giovane mascherato da Notte. Eccolo, dunque, il fortunato. I due si sussurrarono qualcosa, poi lei si voltò verso la folla e annunciò con voce squillante ma irriconoscibile per via della maschera:

-Costui è l’uomo a cui Oscar François de Jarjayes offre la sua mano.-

L’orchestra ammutolì e nel silenzio si levò un freddo applauso di congratulazioni. La sirena si inchinò per ringraziare, incrociò le dita in grembo e, senza togliersi la maschera, abbandonò in silenzio la sala.

Girodelle si sentì come un vaso di porcellana in bilico sull’orlo di un tavolo, mentre seguiva con gli occhi il suo desiderio avvolto in stoffa azzurra che si allontanava. Nonostante non si fosse fatto grandi illusioni sull’esito di quella serata, dovette prendere atto che ora ogni speranza era definitivamente perduta. Si sfilò la maschera con un gesto stizzito e si rivolse all’uomo travesito da Notte, con garbo, ma in modo che lo udissero tutti:

-Ora potete palesarvi, signore. Rivelateci chi siete e permetteteci in questo modo di invidiarvi e di congratularci con voi!-

Il ragazzo annuì e, sotto gli occhi curiosi e impazienti dei propri spettatori, si liberò della maschera e della parrucca e le lasciò cadere a terra. Immerse le mani tra i capelli biondi per scioglierli sulle spalle e ruotò il viso da un lato all’altro del collo per mostrare a tutti il suo sorriso compiaciuto. Tutta la sala mozzò il fiato.

Il volto di Girodelle, già esangue di suo, divenne bianco come calce e sembrò sul punto di creparsi. Quell’uomo, quell’uomo era Oscar!

-Madamigella, ma se voi siete... dunque, chi era la donna con cui tutti noi abbiamo danzato?-

Oscar sfruttò la sua domanda come pretesto per parlare al suo pubblico allibito.

-Signori, la donna con cui avete danzato, chiaramente non ero io. Ella rappresentava soltanto una vostra fantasia, tradotta in carne ed ossa. Nessuno di voi si è disturbato ad indagare sulla sua identità. Non vi è sorto nemmeno il più pallido sospetto?- si interruppe un momento, si schiarì la voce e si godette lo stupore che aveva suscitato -Nessuno di voi desidera me.- allargò il sorriso e si piegò a raccogliere la maschera e la parrucca. -Perdonate la stravaganza di questa serata. Confido che ognuno ne possa trarre educative conclusioni. Per quanto mi riguarda, tra tutti voi, io ho scelto me stessa!-

Guardò Girodelle, lo salutò con un tiepido sorriso a labbra strette e abbandonò la sala. Nello scompiglio che si creò nel grande salone, nessuno si accorse che uno dei presenti, un uomo alto, con una semplice maschera nera e i capelli scuri, la affiancò e uscì insieme a lei.

 

 

 

 

 

 

 

[Ringrazio Lenovo2015 per il gentile suggerimento, con cui ha contribuito a migliorare l’efficacia del capitolo.]

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Capitolo 25
*** Un buon comandante ***


Gennaio fu governato da un inverno severo, ma non turbolento. Nei primi giorni del mese, i Francesi si convinsero, attraverso un superstizioso passaparola, che l’anno nuovo avrebbe portato una grande svolta per il Paese. Ma febbraio era arrivato alle porte senza che si fosse ancora palesata alcuna novità che confermasse quelle fulgide previsioni. Le quantità e i prezzi del cibo, del legname e dei medicinali erano pressoché uguali a quelli degli inverni precedenti, le condizioni della città e delle istituzioni non erano mutate di una virgola e il Re perseverava nel suo silenzio scostante. Non ci furono peggioramenti, ma nemmeno miglioramenti. Era chiaro -pensò Oscar, scrutando il cortile deserto dalla finestra del proprio ufficio- che tutta la rabbia della popolazione fosse causata proprio dall’insofferenza per quella perenne situazione di staticità. Il volgo rimaneva impantanato nel fango della propria mediocrità, senza nessuna speranza di ascesa, eppure, a differenza dei secoli precedenti, ora ne era cosciente e questa consapevolezza produceva rabbia.

Oscar sospirò forte. I pochi mesi che aveva trascorso al comando della Guardia di Parigi erano stati molto educativi. Lei aveva insegnato ordine e disciplina ai soldati e i soldati le avevano insegnato a guardare la realtà senza filtri. Aveva finalmente compreso su quali basi si fondassero le pretese del popolo, era entrata nelle viscere della miseria e aveva preso atto, come non aveva mai fatto in vita sua, di quanto fosse effettivamente squallida e tremenda.

-Se il Re potesse vedere quello che vedono i miei soldati tutti i giorni...-

Guardò la propria immagine riflessa nel vetro della finestra e le sembrò di notare delle rughe nuove intorno agli occhi. Era invecchiata molto in quell’ultimo anno. I conflitti vecchi e nuovi tra cui doveva destreggiarsi la rimodellavano giorno dopo giorno. Il fisico era ancora atletico, ma il volto non mentiva. Era diventato spigoloso e la pelle aveva perso lucentezza. Certo, lei aveva ben poco tempo per curarsi del proprio aspetto. Ed oltre al tempo, le mancava anche lo stimolo. Nel clima effervescente di Versailles essere di gradevole presenza, soprattutto per gli Ufficiali di alto rango, era un obbligo. Nella caserma della guardia di Parigi, invece, era quasi una colpa.

Sbuffò. Guardò il quadrante dell’orologio sullo scrittoio. Aspettava André, ma non era ancora ora che arrivasse. Tornò a scrutare il cortile diviso dall’ombra lunga e dritta gettata dall’angolo dell’edificio.

Le visite di André erano una consuetudine che avevano inaugurato da poco tempo, ma a cui entrambi si erano subito abituati con facilità. A giorni alterni, non appena lasciava lo studio di Moreau nel tardo pomeriggio, André si presentava in caserma, saliva nell’ufficio di Oscar e si tratteneva con lei per qualche ora. Le portava giornali, libri, pamphlet e qualsiasi altro genere di materiale su cui in un paio di giorni riusciva a mettere mano. Leggevano, discutevano insieme, si confrontavano, sovrapponevano le parole dei testi agli eventi della realtà con cui venivano a contatto, ognuno col proprio mestiere. Erano ore di conversazione, ma anche di scoperta. Si distraevano dal grigiore della quotidianità e si stimolavano a vicenda, come facevano da ragazzi quando ripetevano le lezioni. Parlavano di tutto, tranne che di loro stessi, ma, intanto, il loro legame riprendeva lentamente spessore.

Oscar era molto affezionata a quegli incontri. Le piaceva apprendere le dinamiche della realtà, senza lasciarsi ingannare dall’inaffidabilità delle chiacchiere annacquate di corte. Le piaceva la voce di André, il suo tono caldo, il suo lessico, la sua limpidezza. Le piaceva porgli domande e farsene porre a sua volta. E le piaceva l’interesse sincero che muoveva i loro discorsi. 

Ragionando sul mondo, si sentivano più coinvolti nella sua fitta trama. E più prendevano atto di quanto fosse friabile la società in cui vivevano, più si fidavano di loro stessi e del loro legame.

Oscar rimase ferma accanto alla finestra a seguire con lo sguardo il lento spostarsi dell’ombra della caserma sul selciato del cortile, finché finalmente non vide un uomo avvolto in un mantello nero che entrava dai cancelli. Lo riconobbe senza sforzo.

Guardò l’orologio e sorrise. “Puntualissimo” pensò sollevata. Attese solo qualche altro minuto, poi André bussò con discrezione alla porta.

-Avanti.-

-Buonasera, Oscar.-

-Buonasera a te.-

-C’è un gelo impietoso oggi.-

-Siedi accanto al fuoco e riscaldati.-

-Grazie.-

Oscar lo osservò con attenzione mentre si sfilava i guanti e il mantello e si sedeva su una poltrona accanto al camino. Anche André era invecchiato. Il volto di ragazzo dai lineamenti dolci si era indurito. Il taglio degli occhi si era allungato e intorno alle ciglia erano comparse ombre scure e linee morbide di rughe che rendevano il suo sguardo penetrante e assorto. Si era trasformato in un uomo con la stessa velocità con cui da bambino si era trasformato in un ragazzo.

Andò a sedersi di fronte a lui, senza distogliere gli occhi dalla sua figura. Com’era gradevole la sua presenza. Le parve che la stanza si fosse scaldata solo ora che era arrivato. 

Per settimane, era stata convinta che le acque tra loro non si sarebbero mai davvero calmate, invece era accaduto. Guardarlo negli occhi era ogni giorno più semplice. L’amore paziente e silenzioso che lui le dimostrava con estrema discrezione non le infondeva imbarazzo o timore come si era aspettata. André amava bene. Amava in un modo difficile e garbato, con la maestria di un funambolo. Per questo lei non solo lo ammirava, ma gli era perfino grata. 

Lui le sorrise gentile ed estrasse dalla propria borsa di cuoio dei giornali spiegazzati, sfogliò rapidamente qualche pagina e infine le indicò un articolo di Bernard.

-La salute del Principino Joseph è cagionevole e la Regina pare sia sempre al suo capezzale. Si dice che verrà trasferito a Meudon per essere curato, non appena il Principe Aldelos in visita a Versailles non farà ritorno in Spagna.-

Le spiegò sfregandosi le mani per scacciare il freddo dalle dita.

-Mmh.-

Commentò lei disttatta, guardando le righe stampate di fresco ma senza leggere nemmeno una parola.

-A proposito del Principe Aldelos...-

Mormorò ad occhi bassi.

-Sì?-

-Tra un paio di giorni dovrò partire per scortare il Principe spagnolo e la sua famiglia fino a Bordeaux.-

André tamburellò le dita sulle cosce e borbottò crucciato:

-Non è un compito che spetta ai tuoi soldati.-

Oscar si strinse nelle spalle.

-È vero, ma Bouillet sostiene che per questa missione sia necessaria una scorta militare più consistente del solito.-

-E tu sei preoccupata?-

-No. Spero soltanto che ai soldati non vengano grilli per la testa e che abbiano voglia di seguire i miei ordini.-

-Tu cerca di essere morbida.-

-Ci proverò.-

Rimasero in silenzio. André si voltò verso il fuoco, lasciandosi incantare dai guizzi alti e vispi delle fiamme, e Oscar riportò gli occhi sull’articolo di Bernard. Fin dalle prime righe ebbe come l’impressione di conoscere già quel testo. Continuò a leggere con la fronte corrugata, finché non individuò la ragione di quel sospetto e storse la bocca con uno scatto di indignazione. Nell’articolo firmato da Bernard c’erano concetti e opinioni che lei e André avevano dato alla luce insieme nelle loro discussioni, idee che appartenevano alle loro due menti. Sollevò gli occhi stretti a fessura verso l’amico, che fissava ipnotizzato la danza del fuoco, ma non appena posò lo sguardo sul suo profilo, si costrinse ad ingoiare immediatamente tutte le rimostranze che le avevano riempito la bocca. Sospirò e strinse le labbra. André aveva fatto bene ad affidare i loro pensieri a Bernard, affinché lui potesse darvi voce e diffonderli. Si sentì in imbarazzo con se stessa per essersi fatta condizionare da un sentimento pericolosamente simile alla gelosia.

-Oscar, io sono preoccupato.-

Mormorò André, emergendo all’improvviso dai suoi pensieri distanti. Lei lo guardò perplessa, inclinando la testa.

-Per cosa, esattamente?-

-Per te. Per questa missione.-

-Sarò in grado di gestire i miei uomini, André.-

-Oh, sì, su questo non ho dubbi. Ma ci sono altre questioni che mi preoccupano.- 

-André, cosa stai cercando di dirmi?-

Lui si mosse nervosamente sulla poltrona e si schiarì la voce. Non le aveva mai parlato di Saint Just, ma era giunto il momento di farlo.

-Io so chi è l’uomo che ha ferito tuo padre e che ha ucciso il Marchese di Nardien.-

“Sono stato troppo brusco” pensò, quando vide il volto di Oscar sbiancare.

-Il suo nome è Saint Just, è uno studente. Occupava una stanza nella mia stessa abitazione. Per questo motivo lo conosco.- prese fiato e continuò -Bernard ha frequentato questo Saint Just in passato e sostiene che sia un giovane assetato di rivolta che crede di agire nel nome della giustizia, falciando membri dell’aristocrazia. Il giorno in cui Saint Just ha assalito la carrozza di Bouillet e ha sparato a tuo padre, io lo stavo pedinando. Non mi trovavo su quella strada per caso.-

Oscar annuì piano con un’espressione smarrita. I ricordi dei fatti citati da André, recenti anche se ormai quasi del tutto sbiaditi, ripresero di colpo solidità e limpidezza nella sua mente. Ripensò a suo padre ferito, disteso nel letto sotto l’ombra del baldacchino, con le bende bianche e la macchia di sangue che si era fissata nei suoi ricordi come una piccola chiazza di un rosso brillantissimo.

-Perché non me ne hai mai parlato?-

Chiese rigida.

-Perdonami, so che avevamo detto “niente più mezze verità”.-

-Infatti.-

-Vedi, il fatto è che Saint Just è sparito, si è dileguato prima di Natale. L’ultima volta che l’ho visto è stato proprio il giorno dell’aggressione di tuo padre. Nemmeno Bernard ne sa più nulla. Deve aver lasciato Parigi.-

Oscar piegò la schiena per appoggiare i gomiti sulle cosce e sporse le mani in avanti quasi fino a sfiorare il ginocchio di André. Immersa nel suo flusso di pensieri, nemmeno se ne accorse, lui, invece, si ritrasse un poco.

-Che motivo aveva di lasciare Parigi? Forse quel giorno ti ha visto e ha creduto che tu potessi denunciarlo.-

-Lo escludo. Era già fuggito quando io ho raggiunto la carrozza di Bouillet.-

Lei annuì assorta.

-Vedi, Oscar, serpeggia tra il popolo una collera nera, di cui persone come Saint Just si servono per innalzarsi a paladini della giustizia, promettendo ai poveri un riscatto attraverso il sangue dei ricchi. Sono certo che Saint Just non si sia arreso. E, più ci penso, più mi convinco che il Principe Aldelos sarà un suo bersaglio.-

Oscar prese aria e la rilasciò in un sospiro amaro.

-A quanto pare, molti conoscono la pessima reputazione di questo soggetto, ma tutti tacciono. È protetto da qualche uomo potente come è stato per il Cavaliere nero in passato, non è così?-

Guardò Andrè che a sua volta guardava le proprie mani.

-André, una volta ho accettato di scendere a compromessi per risparmiare la forca a Bernard, perché, nonostante tutto, non la meritava. Ma con questo individuo che ha quasi ucciso mio padre, non sarò altrettanto tenera.- Allungò la mano destra e la adagiò su quella dell’amico. -Fosse anche sotto l’ala del Re o del Papa!-

I nervi della mano di André diventarono tesi come corde di violino, ma lei esitò comunque ad interrompere quel contatto. Le piacque sentire, sotto le proprie dita, le gobbe dure e sporgenti delle sue nocche e la pelle calda e piacevolmente ruvida della sua mano. Lo guardò in viso e scoprì che era pallidissimo. Si intenerì. Nonostante André sembrasse essere un uomo solido e compatto, fatto di ferro, difficile da piegare e impossibile da rompere, aveva un fragile tallone d’Achille, ed era lei. Si rischiarava come un cielo all’alba quando lei gli era vicina, ma bastava un semplice ed innocente contatto come quello e il suo viso sembrava prendere la consistenza friabile di un biscotto.

Il loro era un rapporto molto più complesso di quanto non sembrasse all’apparenza. Gli equilibri erano precari. Capitava -raramente, ma capitava- che le loro nuove consapevolezze irrompessero senza preavviso e senza apparente motivo in brevi scariche di tensione. Qualche volta colpivano lui, qualche volta lei. In quei momenti tutto ciò che li circondava diventava improvvisamente angusto. Il loro affetto resisteva a quegli attimi di terremoto interiore, ma loro si trovavano inevitabilmente ad domandarsi se non fosse un atto di ipocrisia accettare la verità e poi tentare di ignorarla.

Oscar sospirò e ritirò la mano. Dovevano imparare a convivere con quella situazione di instabilità, senza far oscillare troppo la bilancia. Mentre le menti potevano fondersi e mescolarsi senza scatenare turbamenti, bisognava prestare attenzione a mantenere sempre una cauta distanza tra corpi e cuori. Il loro equilibrio funzionava così.

Lasciò che la sensazione del contatto lentamente evaporasse dalle loro mani, poi guardò André negli occhi e decise di passare ad argomento molto più leggero:

-André, non ti ho ancora chiesto se al ballo in maschera ti sei divertito.-

Lui si rilassò visibilmente e aprì le labbra in un largo sorriso.

-Oh sì, Oscar, moltissimo.-

 

 

 

 

 

 

Per cinque lunghi giorni aveva trattenuto sulla punta della lingua così tante imprecazioni che ora si sentiva la bocca amarognola. Faceva freddo, un freddo del diavolo che toglieva la voglia di parlare e perfino di lamentarsi. Il mantello era uno straccio inutile e la divisa logora si impregnava di tutta l’umidità delle campagne. Quel viaggio era un vero calvario.

Guardò il Comandante Oscar che cavalcava dritta e impassibile sul suo cavallo bianco e si domandò se il suo essere femmina potesse in qualche modo tornarle comodo nell’affrontare le lunge cavalcate. Lui, invece, da un paio di giorni, non sopportava più il contatto con la sella. Il suo corpo, dalla cintola in giù, implorava costantemente una tregua.

-Alain, quanto manca al villaggio di Alancourt*?-

Gli chiese lei all’improvviso.

-Un paio d’ore, Comandante.-

Le rispose imbronciato. Un paio d’ore erano un’eternità, considerando che dovevano precedere la carrozza del Principe Aldelos, ma viaggiando alla sua stessa velocità, praticamente a passo d’uomo. Almeno -pensò- una volta giunti al villaggio, si sarebbero finalmente fermati a riposare.

-Sei stanco, Alain?-

Lui la guardò di sbieco e non si fece problemi ad ammetterlo.

-Sì.-

-Temo di dover mettere alla prova la tua pazienza. Dobbiamo perlustrare quell’edificio.-

Alain rivolse fiaccamente gli occhi nella direzione verso cui puntava il dito teso di Oscar e scorse la sagoma irregolare di un castello diroccato che si stagliava nel cielo celeste stinto del pomeriggio.

-Sì, Comandante.-

Borbottò cupo. Oscar fece fermare la sua squadra di soldati e ordinò con voce energica di non muoversi per nessuna ragione, poi diede un colpo di speroni al ventre del cavallo e partì al galoppo verso il castello. Alain la seguì malvolentieri.

Quando raggiunsero la rocca, lasciarono i cavalli nel cortile coperto di erbacce e di pietre cadute dalle torri e si guardarono intorno. Non c’era il più piccolo indizio che suggerisse la presenza o il recente passaggio di qualcuno. Il silenzio era denso e assoluto.

-Qui non c’è anima viva, Colonnello, torniamocene con gli altri.-

-Lo decido io se questo posto è davvero deserto. Tu controlla gli ambienti che si affacciano sul cortile, io perlustro le torri.-

-Agli ordini.-

Alain la guardò arrampicarsi sulle scale con l’agilità di un grillo e si chiese come facesse ad avere sempre tanta energia. “Quella donna non si stanca mai” pensò Alain, sputando per terra un grumo di saliva.

Pur essendo certo di non incontrare nessuno se non qualche ratto, si mise a girovagare svogliatamente nel cortile, entrando e uscendo dai diversi locali che vi si affacciavano. Provò a rendere proficuo quell’inutile sopralluogo, impegnandosi a cercare oggetti abbandonati da raccattare e poi magari rivendere a Parigi, ma riuscì a rinvenire soltanto un vecchio forcone mozzo e arrugginito. Mentre osservava contrariato i denti aguzzi di quel vecchio attrezzo valutandole l’eventuale utilità, udì dei passi nel cortile. Gioì pensando che il Comandante avesse concluso la sua ispezione, ma quando tornò nello spiazzo, pronto a riprendere immediatamente la strada per Alancourt, scoprì che il cortile era deserto, ad eccezione dei tre cavalli. “Tre cavalli?”

Si guardò intorno. La terza cavalcatura apparteneva ad un soldato del suo reggimento, ma non riuscì a spiegarsi per quale motivo uno dei suoi commilitoni potesse aver deciso di disobbedire agli ordini del Comandante ed essersi scomodato a venire fin lì. Ad aggravare le sue perplessità, si aggiunse il botto improvviso di un colpo di pistola. 

“Guai” pensò subito, puntando gli occhi in alto. Qualcuno aveva sparato da una delle torri, forse il soldato, forse il Comandante, ma in nessun caso poteva significare qualcosa di buono.

Si precipitò sulla prima rampa di scale che trovò e prese a salirla di corsa, calpestando gradino dopo gradino, senza nemmeno riuscire a vedere dove stesse mettendo i piedi. Udì un altro sparo e accelerò il passo finché non si ritrovò di colpo su una terrazza ariosa e vuota. Prese fiato e udì delle voci. Le riconobbe subito. Guardò oltre il parapetto, restando cautamente nascosto dietro ad un merlo. Vide il Comandante e un soldato, l’una di fronte all’altro, sulla terrazza della torre adiacente, in atteggiamenti tutt’altro che amichevoli.

-Chi ti ha ordinato di uccidermi? Dimmelo e non ti denuncerò!-

Urlava lei, in piedi accanto al parapetto, con la pistola fumante in pugno.

-Non me ne frega niente di essere condannato! Ho giurato che vi avrei ucciso, ed è ciò che intendo fare, fosse anche l’ultima azione che compio.-

-Tu non sei un sicario, non riuscirai mai ad uccidermi con quella ferita!-

Alain puntò gli occhi sul compagno e si accorse che con una mano reggeva il fucile e con l’altra si premeva il petto per contenere un flusso copioso di sangue.

-Addio, mio odiatissimo comandante!-

Sbraitò il soldato sollevando l’arma e cominciando a sparare come un pazzo una raffica di colpi alla cieca verso di lei.

Alain reagì d’impulso. Imbracciò il proprio fucile, prese la mira e premette il grilletto. Il boato dello sparo ingoiò tutti gli altri rumori. Con le orecchie che fischiavano, Alain guardò il corpo del compagno che crollava con un tonfo a terra, sotto gli occhi del Comandante.

Abbassò l’arma e d’istinto si guardò le mani. Non aveva mai tolto la vita a nessuno prima di allora, mai. Gli era rimasta impressa sulle dita la brutta sensazione dello schiocco del grilletto. Realizzò di aver appena ammazzato un proprio commilitone per salvare la vita ad un’aristocratica, e senza nemmeno essere certo che lei se lo meritasse. Fu divorato dal dubbio. Avrebbe potuto sparare al Comandante, toglierla di mezzo, forse perfino dare inizio ad una rivolta. Aveva davvero colpito la persona giusta?

Sentì salire la nausea. Alzò lo sguardo su di lei che lo fissava da lontano con gli occhi vitrei. Osservò i suoi capelli biondi scompigliati dal vento e le mani bianche chiuse a pugno lungo i fianchi snelli. Bella era bella. Di una bellezza garbata, fine. Sparare ad Oscar François de Jarjayes sarebbe stato come sparare ad un cerbiatto. C’era dell’innocenza nel suo aspetto, nel suo sguardo pulito, nel suo portamento. 

Alain sperò solo di non doversi pentire del proprio gesto in futuro.

 

 

 

 

 

La disavventura nel castello diroccato era costata parecchio tempo. Era stato necessario segnalare l’accaduto e rimuovere il corpo del soldato, prima di riprendere il cammino.

Gli altri soldati ne erano rimasti turbati, qualcuno aveva assunto un’aria torva, ma tutti si erano ciecamente fidati del racconto di Alain, che sapeva bene come accattivarsi i compagni.

Malgrado l’imprevisto, il contingente comandato da Oscar riuscì a raggiungere Alancourt prima che facesse buio e, soprattutto, prima della carrozza del Principe.

Quando arrivò anche il primo manipolo della Guardia reale, Oscar e i suoi uomini furono invitati, senza troppi complimenti, a piazzare le tende al di fuori del paese, tra i tronchi spogli di un bosco sul crinale dolce di una collinetta, con il pretesto che da quella posizione fosse ben visibile buona parte di Alancourt e soprattutto la residenza in cui la famiglia nobile spagnola avrebbe trascorso la notte.

Il sole era già tramontato, ma il cielo era ancora luminoso, quando la carrozza del Principe varcò finalmente le porte della cittadina. Oscar rimase ad osservare il lento incedere del cocchio nelle strade, mentre alle sue spalle gli uomini sistemavano l’accampamento e accendevano i fuochi.

-Perché non passate la notte con gli altri Ufficiali, in una branda bella comoda, al caldo e senza questa dannata umidità?-

Chiese Alain con evidente sarcasmo, comparendo al suo fianco.

-Preferisco rimanere con voi.-

-Ho scoperto- esclamò lui sferzante, come se la precedente domanda fosse stata solo un pretesto per avviare il dialogo -che vi piace rinunciare agli agi.-

Oscar tacque.

-Ditemi, Comandante, perché un Colonnello con un bel titolo altisonante come il vostro e con la prospettiva di una carriera d’oro ai vertici della sciagurata piramide sociale dovrebbe preferire il pantano di Parigi al lusso di Versailles? E ancora, mi chiedo,- la incalzò con un tono sempre più allusivo -perché avete scelto di rinunciare ai vostri privilegi di Comandante non appena siete arrivata nella nostra caserma?-

A questo punto, Oscar si voltò verso di lui con il volto colorito.

-Come lo so?- la precedette Alain -Io so tutto della caserma e quindi anche di voi.-

-Sai tutto di me?-

Il soldato strinse le labbra, poi le fece schioccare. 

-No, forse non tutto, ma sicuramente molto e comunque troppo poco per potermi fidare di voi.-

-Però sei intervenuto in mia difesa questo stesso pomeriggio.-

-Voglio credere che possiate essere un buon Comandante.-

Oscar sospirò e incrociò le braccia sul petto.

-Diciamo che vi siete sottoposta ad una prova di coraggio ammirevole.- continuò Alain con ironia -Nessun Comandante prima di voi aveva avuto il fegato di accettare lo stesso rancio di noi soldati!-

Scoppiò a ridere e Oscar non riuscì a trattenere un sorriso, ma l’atmosfera lieve fu spezzata di colpo dal rombo di un’esplosione nelle strade del villaggio. Oscar e Alain piantarono gli occhi su Alancourt. Sui muri esterni della residenza che ospitava il Principe si diffuse un bagliore rossastro di fiamme e quando il boato dello scoppio si affievolì emerse un chiasso distante di voci agitate.

Oscar scattò come un congegno a molla e si rivolse ai soldati ad alta voce:

-Cinque di voi con me!-

Nonostante i postumi di quella giornata intensa, Alain si ritrovò d’impulso a seguire Oscar, quasi come se, dopo l’episodio al castello, si sentisse in dovere di rimanere appiccicato al suo fianco. Presero in fretta i cavalli e si precipitarono in paese.

-Qualcuno ha fatto esplodere una botte di polvere da sparo sotto la carrozza, ma il Principe e la sua famiglia sono in salvo nel Palazzo.-

Spiegò ad Oscar un Ufficiale delle Guardie reali con un’aria arrogante che sembrava voler dire “Non abbiamo bisogno di voi”, mentre un gruppo indaffarato di soldati gettava secchiate d’acqua sulla carrozza in fiamme.

-Vado ad accertarmi che il Principe sia ben protetto.-

Dichiarò lei. L’Ufficiale si sciupò il viso con una smorfia di disapprovazione e borbottò acido:

-Non è necessario.-

Oscar non gli diede retta. Rimbombavano nella sua mente gli avvertimenti di André e sentiva bruciare sottopelle un pessimo presentimento.

Ordinò ai propri uomini di aiutare gli altri a domare il fuoco e li avvertì di tenersi in allerta, quindi entrò nella residenza che ospitava la famiglia del Principe. Trovò due soldati che parlottavano tra loro davanti all’ingresso dell’appartamento. Li interpellò brusca, quelli fecero spallucce. 

-Qui è tutto calmo, Comandante Jarjayes.-

Ma Oscar non si sentiva tranquilla per niente. Li fece spostare e bussò alla porta. Silenzio.

-Sono il Comandante Oscar François de Jarjayes. Vorrei accertarmi che stiate bene.-

Ancora silenzio. 

-Buttate giù la porta!-

Ordinò allora ai due soldati che la fissavano smarriti. Il più grosso dei due colpì la porta con una spallata e i cardini cedettero con uno schiocco.

L’appartamento era buio, la finestra spalancata sulla notte luminosa. Un uomo con una maschera bianca teneva la lama di un coltello sulla gola della figlia più piccola del Principe, sotto gli occhi terrorizzati della famiglia, che si stringeva tremante in un angolo della stanza. Non appena Oscar e i due soldati fecero irruzione, l’uomo spinse la bambina sul pavimento e fuggì verso la finestra.

Oscar si lanciò attraverso la stanza, mentre la madre della bimba raccoglieva la figlia da terra, mormorandole tra i singhiozzi parole in spagnolo, e i due soldati agitati chiamavano aiuto.

L’uomo sgusciò fuori dalla finestra e con un balzo atterrò su un tetto poco distante. Oscar lo seguì e lo guardò arrancare in equilibrio sulle tegole umide e scricchiolanti. Non ebbe dubbi che fosse Saint Just e fu accecata da una rabbia viscerale. Prese a camminare sul tetto a passo svelto per raggiungerlo prima che venisse ingoiato dal buio della notte. I coppi d’argilla stridevano e traballavano sotto le suole dei suoi stivali, ma riuscì a non inciampare. Non appena fu abbastanza vicina, gli si gettò addosso con un ruggito. Cadere fu inevitabile. Scivolarono insieme lungo il lato obliquo del tetto finché non si ritrovarono faccia a faccia col vuoto. Oscar riuscì a piantare i piedi sull’orlo della grondaia e afferrò il braccio di lui appena prima che precipitasse.

-Voi non avete onore!-

Gli urlò, stringendo il suo polso.

-E voi ne avete troppo, Jarjayes!-

Saint Just estrasse dalla cintola il pugnale che poco prima aveva premuto sulla gola della bambina e affondò la lama nella mano di Oscar. Non appena lei aprì le dita liberandogli il braccio, si lasciò scivolare oltre il bordo della grondaia. 

Stordita dal dolore e dallo sgomento, Oscar si sbrigò a legare un fazzoletto intorno alla mano per bloccare il sangue, poi si sporse oltre il bordo del tetto. Ebbe un capogiro. Le immagini davanti ai suoi occhi tremolarono come increspature su una superficie liquida.

-Non è il momento di perdere i sensi.-

Si disse con la fronte coperta di sudore freddo. Mantenne le palpebre abbassate, finché uno sbuffo di vento non le schiaffeggiò il volto restituendole la lucidità. Riaprì gli occhi e scoprì che il salto di Saint Just non solo era stato breve, ma perfino attutito da un covone di paglia. Lo vide salire in sella ad un cavallo nero e fuggire insieme ad altri due uomini. 

Non si diede il tempo di riflettere. Si gettò anche lei sulla collina di paglia e urlò il nome di Alain, che emerse all’istante da una strada, in sella al suo cavallo e con le redini di Cesar in una mano, come se non stesse aspettando altro che essere evocato. Si lanciarono entrambi all’inseguimento di Saint Just, oltre la cinta di case di Alancourt, lungo un canale che attraversava le campagne. 

Mentre galoppava tagliando il buio freddo della notte, Oscar sentì che le forze defluivano dal suo corpo come se le vene si stessero svuotando. Si chinò sulla sella, con la coscienza ormai opaca. Non fermò Cesar. Li stavano raggiungendo, non poteva rallentare. Le si chiusero gli occhi. Le mani abbandonarono le redini. Non fu più in grado di sentire altro che vaghe percezioni. I sobbalzi del cavallo, un forte tuono, vampe di calore, fuoco, poi vento freddo, una botta alla spalla, alla testa, erba, fango e poi buio.

 

 

 

 

Quando Alain riprese i sensi, si trovò disteso di pancia su un prato umido. Prima ancora che la vista gli si schiarisse, percepì l’odore pizzicante del fumo, il sapore agre di sangue in bocca, il gorgoglio del canale. Provò a muoversi. Dolore, dolore in ogni parte del corpo, e freddo fin dentro alle ossa di piombo. “Quei maledetti”, imprecò nel pensiero piantando le mani aperte al suolo per sollevarsi. Ripensò all’esplosione, a quella tremenda bolla di fuoco che gli era scoppiata davanti agli occhi e che aveva garantito la fuga a quegli uomini. Era stato tutto così breve, eppure così chiaro. Ricordava il nitrito stridulo dei cavalli terrorizzati, la violenza dello slancio delle loro impennate e poi la caduta, l’impatto col terreno, il rullo degli zoccoli degli animali che scappavano per lo spavento. 

-Comandante...-

Sollevò la testa, la cercò con lo sguardo e la intravide nel chiarore celeste della luna. Era ad una decina di passi da lui, distesa tra i sassi e la fanghiglia come se qualcuno l’avesse delicatamente adagiata a terra. Occhi chiusi, labbra aperte. Troppo fango e troppa poca luce per capire se respirava ancora.

Alain la raggiunse arrancando sui gomiti e sulle ginocchia, bestemmiando e mugolando per le fitte di dolore. Le prese il polso per cercarle il battito. Sì, era viva, ma non sembrava aver intenzione di riprender conoscenza. Notò un pezzo di stoffa imbevuto di sangue che le stringeva il palmo, glielo tolse e lo sostituì in fretta con il fazzoletto rosso che portava intorno al collo.

-È proprio una pessima giornata per voi, Comandante.-

Mormorò passandole le braccia sotto la schiena e provando a sollevarla. Non potevano restare lì. La notte era ancora lunga, il freddo crudele e lei era ridotta davvero male. Dalla mano continuava a sgorgare sangue e la ferita andava curata subito.

-Per vostra fortuna, ci sono io con voi.-

Si alzò da terra, ma gli ci volle tempo per riuscire a trovare una stabilità, dovendo reggere il corpo esanime di lei.

-Mi dovete come minimo un aumento della paga.-

Disse, pur consapevole di non poter essere udito, mentre faceva in modo che lei appoggiasse la testa sulla sua spalla. Si concesse un minuto per prendere fiato e ne approfittò per guardarla da vicino. Non capitava tutti i giorni di stringersi al petto la donna più chiacchierata di Francia, l’austera ed integerrima amazzone di Versailles. Solo poche ore prima guizzava energica sulle scale di quel castello, ora il suo corpo inerte assomigliava ad una marionetta coi fili tagliati. Eppure conservava ancora lo stesso fascino e la stessa dignità dell’incrollabile Comandante che cavalcava eretto e fiero a capo della sua squadra di soldati, dopo giorni e giorni in sella, senza mostrare la stanchezza.

C’era qualcosa in lei che gli piaceva. Non ne era attratto fisicamente, o meglio, non sentiva il bisogno di possederla come gli capitava con altre belle donne. Era intrigato dai suoi modi, dalla sua fredda razionalità, da suo senso antico dell’onore. Ma era troppo difficile circoscrivere le sensazioni che lei gli suscitava. Una cosa era certa, quella donna sprigionava una forza e un carattere che Alain non aveva mai percepito in nessuno dei Comandanti che l’avevano preceduta.

-Sì,- le sussurrò, prendendo a zoppicare verso Alancourt -tutto sommato, penso che siate un buon Comandante.-

 

 

 

 

*Alancourt non esiste nella realtà. Ho immaginato di collocarlo indicativamente a cinque giorni da Parigi, verso Bordeaux.

 

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Capitolo 26
*** Coscienza ***


Con una lunga lista di spezie e aromi da comprare al mercato e un paio di lettere da recapitare per conto di Marron, Annette tornò a Parigi per la prima volta da quando lavorava a Palazzo Jarjayes. Pierre, il cocchiere, la accompagnò in carrozza fino a Place Louis le Grand e le chiese di farsi trovare nello stesso posto due ore dopo. Annette promise con aria civettuola che sarebbe stata puntuale, nonostante fosse sicura che avrebbe tardato, e gli soffiò un bacio da lontano mentre si incamminava verso il mercato.

-Povero ingenuo Pierre.-

Si disse tra sé con una risatella. Pierre aveva la sua stessa età, o forse era poco più vecchio. Era il tipico brav’uomo senza pretese, molto composto, molto perbene, e, soprattutto, palesemente infastidito dalla propria condizione di scapolo. Per Annette era stato semplice attrarre il suo interesse e trasformarlo poi in un vantaggio per se stessa. Il discreto corteggiamento di Pierre consisteva sostanzialmente in una servizievole e totale messa a disposizione della propria persona. Ogni desiderio di Annette, per lui aveva lo stesso valore di un ordine del padrone. Ma Annette ne era solo intenerita, nulla di più. Il suo cuore, ormai, apparteneva ad un’altro.

Estrasse dalla scollatura del vestito il biglietto giallognolo che le era arrivato quella stessa mattina da un mittente anonimo e lo rilesse per l’ennesima volta. Vi erano scritti in una bella calligrafia solo un indirizzo e due lettere “SJ”, ma era stato sufficiente per farle capire che si trattava di un invito.

Sospirò e sorrise con aria trasognata, mentre superava le bancarelle del mercato senza fermarsi a comprare nulla. Prima di tutto si sarebbe recata a quell’indirizzo, le commissioni per conto di Marron potevano attendere. E poteva attendere anche Pierre. Louis no, non poteva attendere. 

Fu scossa da un brivido lungo. Non avrebbe mai immaginato che, giunta alla rispettabile età di quarant’anni, si sarebbe innamorata in un modo così profondo. Nel corso di tutta la sua squallida esistenza non aveva mai conosciuto l’affetto e la tenerezza. Ne aveva posseduto solo una vaga nozione distorta. Quando la sua giovinezza era sfiorita e la fila di clienti davanti alla sua porta si era diradata, la solitudine le era franata addosso soffocandola. Louis, a modo suo, l’aveva inconsapevolmente salvata. Quando quel giovanotto fresco e carismatico, cosi pieno di idee, di sentimento e di energia, era arrivato ad occupare la stanza di fronte alla sua, lei aveva sentito nuova vita scorrerle nelle vene. Louis era bello, colto, autorevole, propenso all’eccesso in ogni tipo di passione. Tanto giovane, eppure tanto maturo, nel corpo e nella mente. Era stato gentile con lei, aveva perfino avuto la pazienza di insegnarle molte cose, leggere, ad esempio, e poi anche tanti bei concetti di uguaglianza tra poveri e ricchi.

Sgusciò fuori dal chiasso del mercato e si incamminò nei vicoli stretti e scuri del quartiere del Grand Chatelet, impregnati del nauseante odore di sangue e di grasso che proveniva dalle numerose macellerie. Trovò facilmente l’indirizzo scritto nel biglietto e non si sorprese di scoprire che fosse un edificio cadente e abbandonato. Louis doveva essersene servito come rifugio. Entrò da una finestra senza scuri e si ritrovò in uno stanzone buio e silenzioso.

-Louis?-

Chiamò cauta. Udì dei rumori ovattati, poi degli scricchiolii di suole e infine, da una botola nel pavimento, apparve prima il chiarore giallastro di una candela e poi il viso di Saint Just, illuminato dal lucignolo.

-Annette, ti aspettavo. Vieni.-

Col cuore in gola per l’eccitazione, Annette lo raggiunse, scese delle strette scale di legno e si ritrovò in uno scantinato umido e illuminato da poche candele.

-Vivi qui ora?-

Gli chiese guardandosi intorno. Un braciere con tizzoni ardenti scaldava a stento un angolo della stanza in cui era sistemato un giaciglio arrangiato, mentre qua e là sul pavimento erano gettati armi, bottiglie, libri, fogli e diversi tipi di oggetti.

-È una sistemazione provvisoria.-

Borbottò lui vago, poi la afferrò per la vita e la fece girare verso di sé con uno slancio esagerato.

-Ho bisogno di te, Annette.-

Esclamò tragico e spinse le labbra sul suo collo, appena sotto l’orecchio. Annette sobbalzò per la sorpresa. L’accenno di barba ruvida che gli copriva le guance le pizzicò la pelle, facendola rabbrividire, ma tutto sommato le piacque quel contatto e il modo in cui lui la stringeva a sé.

Conosceva bene l’irruenza di Louis, vi era abituata, e l’idea di essere desiderata con tanto ardore la lusingava. Di ardore lui ne aveva parecchio in ogni singola goccia di sangue. Gli era difficile governarlo e spesso gli esplodeva nel corpo, facendo diventare il suo organismo tutto un vibrare di muscoli e nervi. Era come se covasse sempre dentro di sé una violentissima febbre di cui, solo in determinate circostanze, mostrava esteriormente i sintomi.

Saint Just la liberò in fretta del vestito e calciò l’abito come se temesse che la stoffa riuscisse a ritornare autonomamente sul corpo da cui era stata tolta. Impose ad Annette di stendersi sul pagliericcio con la voce che tremava. Tremava tutto, dal labbro alle ginocchia. L’urgenza gli si leggeva in faccia. Si abbassò i pantaloni solo quel tanto che bastava e si distese tra le sue cosce senza guardarla in viso. Le bloccò il bacino stringendole i fianchi magri e la prese con un ringhio di soddisfazione, come se per anni non avesse ambito altro, e Annette, nonostante quell’irruzione brusca, gioì al pensiero di essere la destinataria di una passione tanto forte. Rispose alle sue spinte violente con carezze affettuose, senza ottenere in cambio alcuna blandizia. Louis non era mai stato tenero, ma in quell’occasione fu più aggressivo, veloce e convulso del solito. Quando raggiunse il culmine, emise un guaito e fu scosso da un forte fremito, poi si quietò di colpo. Tutto il turbolento desiderio che l’aveva scombussolato, scivolò fuori dal suo corpo insieme all’orgasmo. Annette attese immobile che lui riprendesse fiato e sbuffò infastidita dalla sgradevole sensazione che le aveva lasciato quell’amplesso rude e incompleto, ma quando lui le stampò un bacio sulla bocca, gli sorrise dolce.

-Perdona la mia foga, Annette. Sono state settimane difficili.-

Lei si illuminò.

-Oh Louis, anche per me è stato difficile senza di te.-

“Povera ingenua Annette” pensò lui esibendo un sorriso obliquo. 

-Vivo nascondendomi come un ratto da dicembre. E per questa lussuosa stanza e per questo sontuoso talamo su cui ti ho presa, devi essere grata alla tua padrona.-

-Madamigella Oscar?-

Saint Just annuì con una smorfia di disprezzo sul viso e si alzò per sistemarsi i pantaloni. Annette lentamente si mise a sedere, piegò le gambe e si abbracciò le ginocchia, guardando il braciere con aria assorta.

-So cosa che è successo ad Alancourt e so che tu eri lì, Louis. Mi dispiace che la tua impresa non sia andata come speravi. Sai, Madamigella Oscar era ridotta davvero male quando l’hanno riportata a Palazzo. Ho sentito che è stata quasi travolta da un’esplosione e che l’ha salvata uno dei suoi soldati.-

-Beh, la sua presenza ad Alancourt non era affatto prevista. Avevo snocciolato parecchio denaro per corrompere uno dei suoi soldati in modo che la ammazzasse prima di arrivare in quel paesello di villici analfabeti, invece quel buono a nulla ha fallito. Mi ha procurato una montagna di rogne.-

-La odi tanto?-

-Sì, odio perfino l’idea che quel vestito che indossi le appartenga. Lo brucerei se non ti servisse.-

Annette recuperò l’abito e prese ad indossarlo con scatti nervosi, come se Saint Just le avesse trasmesso il suo stesso odio nei confronti di quell’innocuo pezzo di stoffa.

-Madamigella Oscar non sembra una cattiva persona.-

Constatò a bassa voce, ma subito aggiunse decisa:

-Però se tu credi che vada tolta di mezzo, ci penserò io.-

Saint Just rise sprezzante.

-Tu? E come, di grazia?-

Annette si strinse nelle spalle sorridendo, poi si alzò e andò ad abbracciarlo.

-Nessuno sospetta di me, sono praticamente invisibile. Agirò in segreto. Voglio esserti utile, ma non solo come informatrice. Fidati. Qualcosa farò.-

 

 

 

 

Al terzo tentativo vano di stringere a pugno le dita della mano destra, Oscar cominciò ad intuire quale amarezza doveva aver provato André, quando si era reso conto di aver perso la vista di un occhio. 

Affondò i denti nel labbro inferiore e provò per l’ennesima volta ad imporre un movimento alle proprie dita, ma le falangi si rifiutavano di piegarsi, come se le giunture delle ossa si fossero arrugginite.

-Riprovate.-

Insistette il dottor Lassonne.  

-È inutile, non riesco a muovere la mano.-

Rispose lei e deglutì per soffocare un gemito.

-La lama di quel pugnale deve aver reciso qualche nervo. Voi continuate ad esercitare le dita, forse col tempo otterrete dei risultati migliori.-

Oscar smise di ascoltarlo subito dopo le prime sillabe. Si fissò il palmo destro fasciato, ebbe un’impressione di vertigine e si sentì soffocare. Il suo futuro, la sua carriera e la sua quotidianità le traballarono davanti agli occhi come un castello di carte esposto al vento. “Non posso perdere l’uso di questa mano.”

-Consideratevi fortunata ad essere sopravvissuta a quell’esplosione, Madamigella. Immagino che sarete grata al soldato che vi ha portata in salvo.-

Oscar mosse la testa in un cenno distratto e senza significato. La presenza del dottore aveva cominciato ad irritarla ormai da diversi minuti. Non le servivano parole di conforto, le servivano cure, e se il medico aveva esaurito le proprie risorse per aiutarla a ripristinare l’agilità delle dita, allora era meglio che la lasciasse sola. Aveva bisogno di riflettere, di quietare i pensieri che le spaccavano la testa e di provare ad immaginare in che modo e fino a che punto sarebbe cambiata la sua vita. 

D’istinto lanciò un’occhiata al pianoforte e decise che non avrebbe più provato a confrontarsi con la tastiera. Non voleva scoprire di non poter più suonare.

-Bene, io devo tornare a Parigi ora. Vi auguro di rimettervi presto, Madamigella, e per qualsiasi cosa non esitate a contattarmi.-

Oscar stirò le labbra in un sorriso cortese, ma

freddo e accompagnò il dottore alla porta solo con lo sguardo. Quando finalmente il medico chiuse la porta dietro di sé, Oscar sentì che due gocce di lacrime calde rompevano gli argini degli occhi e le cadevano lungo le guance. Guardò l’imponente vaso di fiori che troneggiava sul tavolo a cui era seduta e con entrambe le mani lo spinse per terra. Il grido della ceramica che si infrangeva le diede un brivido di sollievo amaro. I cocci celesti schizzarono e si dispersero sul pavimento di legno come un’onda di piccole schegge e arrivarono a raggiungere le scarpe del Generale Jarjayes, che era entrato nella stanza non appena ne era uscito il dottore.

-Calmati, Oscar!-

Tuonò severo.

-Comprendo il tuo turbamento, ma non ti ho forse insegnato ad esercitare anche la mano sinistra fin dall’infanzia?-

Lei guardò in basso, imbarazzata per essere stata sorpresa dal padre durante quell’impeto irrazionale di collera. Osservò pentita i cocci sparsi sul parquet e si chinò a raccogliere uno dei fiori sfuggiti dal vaso. Poi si ricompose, in silenzio, sulla sedia su cui era seduta ormai da ore, avvolta nella larga vestaglia azzurra che Marron l’aveva costretta ad indossare per tenere il corpo al caldo.

Pur senza sollevare gli occhi dal fiore che teneva in mano, percepì che il padre esitava a guardarla, tollerò a stento i suoi occhi inquisitori che la trafiggevano di nascosto, poi udì i suoi passi che si avvicinavano lentamente calpestando i cocci.

Il Generale prese posto di fronte a lei, sulla sedia ancora tiepida della presenza del dottor Lassonne e incrociò le dita sul tavolo.

-Mi dispiace che ti sia capitato questo, Oscar.-

Lei raddrizzò la schiena e lo guardò con occhi spenti. Il rituale della conversazione tra loro seguiva uno schema sempre uguale a se stesso: il Generale cominciava col rivolgerle parole gentili, talvolta perfino affettuose, e poi senza pietà calava la scure. Sospirò rassegnata e lo lasciò parlare.

-Sono davvero felice che tu sia viva. Io e tua madre siamo stati molto in pensiero. Tutte le tue sorelle hanno scritto spesso per avere tue notizie.-

-Mi dispiace di avervi fatto stare in pensiero, padre.-

Il Generale stese le labbra pallide e si schiarì la voce per rendere i suoi toni baritonali ancora più profondi. Oscar si preparò a ricevere il preannunciato boccone amaro.

-Ho alcune notizie da riferirti, Oscar. Sua Maestà il Re sta prendendo in considerazione l’ipotesi di convocare presto gli Stati Generali, secondo la proposta di alcuni membri del suo consiglio.-

Oscar schiuse le labbra per lo stupore. Non era la brutta notizia che si era aspettata di ricevere.

-Voi siete favorevole?-

Chiese incerta.

-Potrebbe essere rischioso, qualcuno penserà che il Re abbia allentato la mano. Ma sono propenso a credere che la Francia ne abbia bisogno.-

Ci fu un momento di silenzio. Oscar appoggiò il fiore sul tavolo e si posò le mani sulle cosce per non dover guardare le bende che le fasciavano la destra.

-C’è altro?-

Chiese, notando gli scatti nervosi dei pollici del padre. 

-In effetti, sì, c’e altro che devi sapere. Due giorni fa, gli uomini di Bouillet hanno scoperto che uno dei tuoi soldati ha venduto illegalmente il proprio fucile d’ordinanza.-

Oscar spalancò gli occhi. “Ecco la notizia cattiva.”

-Come sai,- continuò il Generale - questo è un reato molto grave. Il soldato meriterebbe la forca o la fucilazione.-

-Potrebbe esserci stato un equivoco.-

Mormorò lei premendosi i palmi aperti sulle cosce per sfogare la tensione. Il dolore alla mano destra diede una scossa brusca a tutta la sua nervatura.

-Nessun equivoco. Il soldato a cui apparteneva il fucile non ha dato alcuna spiegazione per giustificarsi.-

-Perché non sono stata informata subito della faccenda?-

-In tua assenza, Bouillet si è assunto le tue responsabilità e ha fatto imprigionare il soldato. Non c’era altro che si potesse fare, d’altra parte.-

Oscar chiuse gli occhi per imporsi di trattenere la disappunto.

-Il Generale Bouillet poteva comunque sprecare un biglietto, anche solo di poche righe, per mettermi al corrente.-

-Non voleva turbare la tua convalescenza, Oscar.-

Lei sospirò dal naso. Le ripercussioni della disinvoltura di Bouillet nella decisione di incarcerare quel soldato sarebbero ricadute inevitabilmente tutte su di lei, solo su di lei, e le avrebbero causato molte noie indesiderate.

Fin dai primi giorni in quella caserma di Parigi, Oscar aveva capito che tra i suoi uomini vigeva la legge del branco: se uno di loro veniva bistrattato, l’umiliazione ricadeva su tutti quanti. In quella circostanza, dovevano essersi sentiti traditi, ignorati e offesi dal silenzio e dall’assenza del proprio Comandante e di certo non avrebbero esitato a riprendersi le briciole di stima che le avevano parsimoniosamente concesso con tanta riluttanza.

Si mosse nervosa sulla sedia. Doveva precipitarsi al più presto a Parigi per riprendere in mano le redini del proprio ruolo e rattoppare al più presto quella falla. Si alzò, fissò ad occhi stretti la propria uniforme sul manichino e chiese al padre con la voce limpida di determinazione:

-Il nome del soldato?-

-Lassalle Gerard.-

 

 

 

 

 

Oscar fermò il cavallo davanti all’edificio che avrebbe dovuto ospitare l’appartamento di Andrè e storse la bocca. Diede uno sguardo al biglietto su cui Marron aveva segnato l’indirizzo del nipote, poi tornò a fissare la facciata del palazzo e constatò che non si era sbagliata. L’indirizzo era corretto, André abitava proprio in quel tugurio laido e decadente.

Dopo un momento di incertezza, scese da cavallo e si avvicinò alla porta conducendo Cesar per le redini. Bussò senza sapere da chi sarebbe stata ricevuta e attese con pazienza, ascoltando perplessa il baccano che si era originato all’interno dell’edificio non appena le sue nocche avevano colpito il legno. Dopo qualche minuto, una bambina scura e magrissima si affacciò alla porta.

-Desiderate?-

Chiese con voce timida, dopo aver fissato per qualche secondo con gli occhi spalancati quel bellissimo e imponente militare biondo che sembrava fuggito da un dipinto.

-È qui che abita André Grandier?-

Domandò Oscar assumendo un tono cordiale per non spaventarla. La ragazzina abbozzò un sorriso, ma non appena aprì le labbra per rispondere, una mano gonfia e con le nocche rosse la afferrò per la spalla e la spinse dietro la porta, facendola sparire dalla vista di Oscar. Al suo posto, si concretizzo sulla soglia una donna bassa e massiccia, con un grembiule unto e un’espressione indispettita che faceva apparire il suo viso più sciupato di quanto già non fosse.

-Chi lo cerca?-

Grugnì, studiando attentamente le mostrine e i gradi che scintillavano sul petto di Oscar.

-Sono il Colonnello Oscar François de Jarjayes. André è un mio amico.-

-Ah, amico, eh? André non è in casa.-

La donna fece per richiudere la porta, ma Oscar la trattenne con una mano e insistette:

-Dove posso trovarlo?-

-Sarà nello studio dell’avvocato Moreau, lavora lì.- rispose la donna seccata -E se lo trovate, ditegli che non gradisco che dei militari vengano a bussare alla mia porta, soprattutto se si tratta di un Ufficiale.-

E sbatté la porta prima che Oscar riuscisse a formulare un “Grazie.”

 

 

 

 

 

Moreau era solito sfoggiare un atteggiamento mite e conciliante in ogni occasione. Non alzava mai la voce, non inveiva contro nessuno, era sempre molto abbottonato in qualsiasi genere di reazione. Quel giorno, però, André scoprì che l’avvocato aveva un equilibrio emotivo più fragile di quanto non cercasse di mostrare.

-Sei uno stolto!-

Urlava Moreau al giovane garzone, che subiva remissivo la sua rabbia, e intanto gli scuoteva sotto il naso un libro con la copertina annerita dalla fuliggine. Erano entrambi rossi fino alla radice dei capelli, uno per la collera e l’altro per l’imbarazzo.

-Avevi un compito molto semplice: riporre i libri sulla mensola e invece guarda! Questo è rimasto vicino al camino per tutta la notte!-

André osservò la scena restando in disparte, incerto su come comportarsi. Quell’esplosione di bile incontrollata lo sbalordiva. Moreau aveva sempre dimostrato di possedere un impeccabile senso di misura e non aveva mai avuto una parola scortese né per lui né per il garzone. Il motivo di tanta ira, poi, era obiettivamente ridicolo. Il libro in questione non era che un vecchio codice di legge, un volume di scarso valore, e comunque solo la copertina si era annerita, le pagine erano rimaste intatte. Nulla che un buon rilegatore non potesse aggiustare, insomma.

-Sei pigro e distratto, fai un errore dopo l’altro! Non vali quanto ti pago. Da questo momento non lavori più per me.-

A quella sentenza, il garzone crollò sulle ginocchia singhiozzando senza versare lacrime e congiunse le mani davanti al viso.

-Vi prego, signore, non posso perdere questa occupazione. Sono l’unico maschio della mia famiglia.-

-Non cercare di impietosirmi, Jean.-

-Vi supplico...-

Moreau scosse la testa e aprì la bocca per ribadire la propria decisone, ma prima che riuscisse a pronunciare una sillaba, André si intromise:

-È stata colpa mia, signore.-

Moreau si voltò verso di lui.

-Cosa intendi dire, André?-

-Sono stato io a lasciare il libro vicino al camino. Jean, è andata così, non è vero?-

André rivolse al garzone uno sguardo eloquente e quello fece un timido cenno di assenso con la testa. Moreau sporse le labbra pensieroso, guardò prima André, poi il ragazzo genuflesso e infine borbottò aspro:

-Farò finta di credere che sia la verità.-

Jean ritrovò il respiro e provò a domandare cautamente:

-Non sono più licenziato?-

-No.-

Rispose Moreau, ma con gli occhi fissi su André. Il garzone si alzò dal pavimento, si passò le mani sui calzoni impolverati e se ne tornò zitto e mesto al proprio scrittoio.

Moreau, invece, camminò verso la stanza del proprio studio e, ripristinando quell’aria bonaria che gli era solita, chiese ad André di seguirlo. Non appena ebbe chiuso la porta, sbuffò e gli puntò l’indice contro il petto.

-La generosità è una bella qualità, André, ma non abusarne. Che cosa hai guadagnato ad aiutare Jean? Se io ti avessi creduto, ti avrei licenziato. Ti saresti ritrovato per strada senza avere colpa, e per cosa poi? Per avere la coscienza pulita, per la gratitudine di quel ragazzo? Ascoltami, forse un giorno sarai un uomo di legge come me, o forse no, comunque ricordati ciò che sto per dirti: difendere un uomo da un’accusa fondata è giustizia, ma immolarsi al suo posto è stoltezza. Mi sono spiegato?-

-Vi siete spiegato, signore.- 

-Bene, ora rimettiamoci a lavorare.-

André si sedette allo scrittoio e indossò gli occhiali, ma fece soltanto finta di leggere. Si prese qualche attimo per riflettere. Il cinismo pratico di Moreau talvolta lo irritava, eppure gli dava da pensare. Essere magnanimi con gli altri significava davvero essere meschini con se stessi? Il proprio bene aveva la precedenza sul bene degli altri? E aveva davvero agito per il bene di Jean, o soltanto per sentirsi a posto con la propria coscienza? Non ebbe il tempo di rispondersi. Il cigolio della porta d’ingresso che si apriva attirò la sua mente nuovamente nell’atrio, ascoltò senza troppo interesse quel suono familiare che annunciava l’arrivo di un cliente e si sentì sfiorato dalla solita, tiepida curiosità di scoprire di chi si trattasse. Ma non appena vibrò attraverso la parete una voce conosciuta che rivolgeva al garzone un cortese “Buon pomeriggio”, scattò in piedi, rosso in viso, e, ignorando le occhiate e le domande di Moreau, si precipitò verso l’ingresso.

-Oscar!-

Lei era ad un passo dalla porta, con il volto segnato dalle tracce del freddo di quella grigia giornata. 

Guardandola mentre porgeva il mantello al garzone, André sentì che il proprio sangue iniziava a correre veloce facendo pulsare le vene del collo. Quindici giorni senza vederla. Si sentì tremare le gambe al pensiero che durante quell’infinito lasso di tempo aveva addirittura rischiato di perderla, senza poter essere al suo fianco. Grazie a Dio, Alain era stato un suo buon sostituto e le aveva salvato la vita. Sulle labbra gli esplose un sorriso.

-Buon pomeriggio, André.-

Lo salutò lei, rubandosi qualche battito del suo cuore.

-Mi fa piacere vederti, Oscar.-

“Ah, la stanza sembra più luminosa ora che ci sei tu!” avrebbe voluto dirle. Per qualche secondo credette davvero nella fantasia che lei potesse irradiare una propria luce, poi comprese che quell’effetto di nitidezza era soltanto merito degli occhiali che si era dimenticato di togliere. Arrossì, un po’ per il timore di sembrarle ridicolo, un po’ perché le aveva sempre negato di avere difficoltà con la vista e gli occhiali erano la prova che le aveva mentito. Li sfilò in fretta e mentre li riponeva in una tasca della giacca, notò per caso le bende che fasciavano la mano destra di Oscar. Non ebbe il tempo di farle domande. Lei nascose subito entrambe le mani dietro la schiena nello stesso modo in cui lui aveva fatto sparire gli occhiali e glissò:

-Non è nulla di grave.-

In quell’istante Moreau si affacciò dalla porta del proprio studio e salutò la nuova arrivata con cortesia diffidente. Oscar prese aria per gonfiare il petto e gli si rivolse con la sua solita compostezza fredda e garbata.

-Salve, monsieur Moreau, avrei necessità della vostra consulenza. Uno dei miei soldati è stato accusato di aver venduto illegalmente il proprio fucile ed è stato arrestato. Voi che conoscete i cavilli della legge, forse potete aiutarmi a trovare un modo per risparmiargli l’esecuzione. Dietro compenso, si intende.-

-Accomodatevi- rispose Moreau, accendendosi alla parola “compenso” e spalancando la porta dello studio per invitarla ad entrare -Spiegatemi meglio questa faccenda e valuteremo se posso esservi utile.-

 

 

 

 

 

Sul finire del pomeriggio, avvolto nella patina opaca della pioggia che cadeva incessante da un paio d’ore, apparve ai cancelli della caserma il cavallo bianco del Comandante. 

Alain strinse i pugni lungo i fianchi. Sapeva che sarebbe arrivata. La stava aspettando in piedi sull’ingresso da prima che cominciasse a piovere, ascoltando i fiati nervosi, simili ad ansiti di tori inferociti, degli altri soldati alle proprie spalle. Ma ad affrontare Oscar François de Jarjayes sarebbe stato lui, doveva essere lui, da solo. Era, prima di tutto, una questione intima, personale, che prescindeva tutto il confuso contesto. L’incarcerazione di Lassalle, le vicende di Alancourt, il rancore dei propri commilitoni e tutti gli altri impulsi che in qualche modo lo stavano spingendo a confrontarsi con lei, perfino la propria amicizia con André, erano solo dettagli mescolati su uno sfondo trascurabile. Pretesti, che alimentavano il fuoco di un unico sentimento che gli doleva nel petto: la delusione per essersi ingannato. Non riusciva a smettere di rimproverarsi per la propria ingenuità. Si era lasciato sedurre da quel corpo di donna tanto perfetto, da far credere che dovesse essere perfetto anche dentro. Aveva avuto fiducia in lei. Si era augurato che dopo il susseguirsi sconfortante di tanti Comandanti incompetenti e boriosi, quell’angelo disceso dagli ordini più alti della sgangherata società francese portasse uno spiraglio di sole in quella topaia di caserma. Ma si era illuso ed ora era furioso, forse non tanto con lei, quanto con se stesso.

Oscar lasciò Cesar nelle scuderie e camminò verso l’ingresso, curva e a testa bassa sotto la pioggia affilata. Alzò il viso solo quando si trovò vicino alla porta dell’edificio e si fermò, turbata dalla gelida accoglienza dei soldati.

-Devo supporre che non vogliate darmi il benvenuto.-

Disse loro con voce stanca, poi agganciò gli occhi agli occhi di Alain, il più cupo di tutti, e intuendo il suo ruolo di mediatore si preparò ad essere investita dalle sue accuse. In silenzio, il soldato abbandonò la protezione della tettoia e avanzò nella pioggia finché non fu ad un passo da lei. Si fermò un momento a fissarla, respirando profondamente ad una spanna dalla sua fronte, poi le afferrò la giacca e la strattonò con una violenza tale che le suole di Oscar si staccarono da terra.

-Che razza di Comandante vende i propri uomini?-

Le ruggì furioso in pieno volto.

-Vendere?-

Ripeté lei smarrita. Non ebbe il tempo di realizzare la portata della furia di Alain né il peso di quell’accusa. La mano di lui si abbatté sulla sua faccia in uno schiaffo tanto forte che Oscar sentì uno schiocco nella mandibola e un fischio acuto nelle orecchie.

-Lassalle è il vostro capro espiatorio, forse? È la vittima sacrificale per ottenere il favore dei vostri superiori?-

La voce di Alain era più brutale del suo schiaffo.

-Io non ho venduto nessuno!-

Disse lei con voce bassa e tuttavia urlata.

-Non ho venduto Lassalle Gerard. Prima di oggi non sapevo nemmeno che lo avessero incarcerato.-

Ribadì. Lui la spinse lontano da sé con disprezzo.

-Vi sfido a duello!-

Sbottò sguainando la spada. Oscar si portò d’istinto una mano sul viso per accarezzare la guancia offesa e scosse piano la testa.

-Alain, non mi batto contro di te. Non dopo ciò che hai fatto per me ad Alancourt.-

Ma non appena terminò di pronunciare quelle parole, dovette prendere atto che Alain e tutti i suoi compagni sarebbero stati ostinatamente sordi a qualsiasi cosa lei dicesse. Provare a dare una spiegazione non sarebbe servito a mitigare il loro rancore, erano uomini abituati ad agire, non a dialogare. Solo con uno scontro fisico, forse, le loro orecchie si sarebbero stappate.

Dunque non le rimaneva altra scelta che accettare la sfida. Sfoderò la spada con la sinistra e strinse forte l’elsa. Com’era fragile ed instabile quella mano in confronto alla destra. Per la prima volta dopo tanti anni, si sentì vulnerabile. Ma d’altra parte, si disse, vincere o perdere quella sera non era importante. Il duello doveva soltanto essere un palliativo per placare la rabbia dei soldati.

-Non mi importa se siete una donna e non mi importa se sarete costretta ad usare la mano sinistra!- ringhiò Alain con gli occhi gonfi -Ho bisogno di misurarmi con voi per ripulire la mia coscienza doppiamente macchiata. Vedete, sono stato io a convincere Gerard a vendere il fucile durante una ronda notturna, prima di partire per la missione, perciò sono io che dovrei rischiare la forca, non lui. Ma ditemi, Comandante, è più spregevole chi vende un fucile o chi vende un uomo?-

Oscar lo fissò in silenzio.

-Io ho salvato la vita a voi, e voi l’avete distrutta ad un mio compagno. Ecco la mia seconda colpa, Comandante. Avrei dovuto lasciavi morire ad Alancourt.-

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Capitolo 27
*** Qui gladio ferit ***


Quando le spade si incontrarono nel primissimo colpo, Oscar percepì la vibrazione della lama come se il proprio braccio ne fosse stato la continuazione. No, non doveva essere così. I muscoli non avrebbero dovuto imitare il fremito del metallo. Il braccio, il gomito, la mano sarebbero dovuti rimanere saldi. Il suo umore si fece scuro come le nubi sopra la sua testa. “Non è un buon momento per farsi prendere dallo sconforto” si disse scrollando i capelli fradici.

Guardò Alain attraverso i fili d’argento della pioggia e oltre le scie di luce tracciate nell’aria dalle spade in movimento. Lui era abile e impetuoso, una combinazione di elementi che per lei, nelle condizioni di svantaggio in cui si trovava, sarebbe potuta essere fatale.

Mentre si affannava a parare i colpi selvaggi di Alain, decise di non fare altro che continuare a difendersi. Era inutile provare a prevalere sulla forza bruta di quell’uomo, ma soprattutto era necessario lasciare che lui si stancasse, così che la rabbia e il risentimento smettessero di accecargli la ragione. Poi, al momento giusto, lei si sarebbe lasciata battere. Vincere non le importava, anzi, non lo desiderava affatto.

Il duello continuò con la stessa foga con cui la pioggia continuava a precipitare dal cielo. E Alain continuò a non dare alcun segno di cedimento. Era implacabile. Oscar cominciò a credere che fosse la propria passività ad alimentare la collera dell’avversario. Così decise di reagire con cautela, stabilendo un equilibrio oscillante ma stazionario, per dargli l’illusione di non essere l’unico a combattere davvero in quello scontro.

Il duello divenne una lunga e vorticosa danza di corpi e lame, un approfondito dialogo fisico dal sapore erotico, che ipnotizzò gli altri soldati, spettatori immobili e silenziosi. 

Diminuì la pioggia, ma nessuno se ne accorse, tantomeno Alain che da quando il duello era iniziato non riusciva a percepire altro che lei. Tutto il resto -il combattimento, la rabbia, la pioggia, gli altri soldati- era opaco, come se ciò che stava facendo il suo corpo non avesse a che fare con le intenzioni della mente. E mentre si lasciava confondere da se stesso, sentì che la punta della lama di lei gli scalfiva il petto. Ebbe un sussulto. Le due realtà tra cui si sentiva diviso, di colpo combaciarono. La guardò, ma fu sufficiente meno di un instante per comprendere che lei non si era accorta di averlo colpito. Riprese ad attaccarla, più feroce e più lucido di prima e finalmente riuscì a farle perdere la presa sull’impugnatura.

-Bene, Alain,- mormorò Oscar fissando la propria spada distesa in una pozzanghera -hai vinto. Ti faccio i miei complimenti, sei molto abile. Ora, ti prego di darmi ascolto. Datemi ascolto tutti. Mi dimetterò, se è questo che volete, ma vi prometto che non me ne andrò senza aver provato a restituirvi il vostro compagno Lassalle Gerard.-

Alain abbassò la spada e si tastò con discrezione la ferita che gli bruciava sul petto. Lanciò uno sguardo ai suo compagni, poi tornò a fissare lei e le fece cenno di spiegarsi.

-Ho chiesto un parere ad un noto avvocato.- continuò Oscar -Egli mi ha suggerito un modo efficace per convincere il Generale Bouillet che tutta questa faccenda altro non è che un malinteso. Dichiarerò che il fucile è stato perso durante la missione per scortare il principe Aldelos e mi assumerò personalmente la colpa di non averlo segnalato, appoggiandomi alla valida scusa della mia convalescenza. Confido che si risolverà tutto per il meglio, temo solo di non potervi dare ancora certezze, per il momento.-

-Perché non ce l’avete detto prima?-

Mormorò Alain rinfoderando la spada.

-Mi avreste creduto?-

Nel silenzio sbigottito dei soldati, Oscar raccolse la spada e si avviò verso la porta.

-Comandante!-

La richiamò lui.

-Non credo di essere abile quanto credete voi!-

Oscar si voltò e scoprì che Alain si stava aprendo la giacca per mostrare a lei e agli altri un sottile taglio rosso sul proprio petto.

-Confesso che mi avete colpito, Comandante, perciò mi avete battuto, nonostante vi foste tanto impegnata a non farlo. E volete ascoltare un’altra confessione? Non c’è nessuno tra noi che non abbia mai venduto qualcosa illegalmente! Fucili, uniformi, stivali... abbiamo venduto parecchia roba per pochi soldi, senza che nessuno se ne accorgesse. Con la misera paga che ci viene data, a mala pena riusciamo a dar da mangiare alle nostre famiglie. Vi chiedo di riflettere su questo, Comandante. Ma intanto, se è vero ciò che avete fatto, devo ringraziarvi.-

Oscar lo ascoltò in silenzio, guardò gli altri soldati e trovò nell’espressione dei loro volti la conferma che le parole di Alain non erano solo menzogne esibite per spartirsi la colpa di Gerard Lassalle. Nessuno di loro era innocente, Lassalle era stato solo meno furbo o più sfortunato. Ma si poteva davvero parlare di “colpa”? Sospirò e annuì piano per lasciare intendere che aveva capito. In quanto Colonnello e Comandante non poteva permettersi di mostrarsi solidale ed esternare compassione. Probabilmente quegli uomini nemmeno l’avrebbero voluta la compassione di una donna che non conosceva la miseria, né la fame, né l’angoscia per l’incertezza sulla sorte dei propri cari. Si limitò a dire con voce composta e indulgente:

-Vai a farti medicare la ferita, Alain.-

 

 

 

 

 

Oscar appoggiò la spalla sullo stipite della finestra e lasciò cadere lo sguardo sul cortile. André sarebbe comparso a momenti.

Mancava poco al tramonto e il sole basso sull’orizzonte spandeva nella piazza d’armi della caserma un lucore dorato che donava una calda sfumatura ambrata al grigio cupo della pietra di cui era lastricato lo spiazzo. Sparpagliate qua e là, alcune pozzanghere reduci dalle recenti piogge formavano delle lucide macchie celesti di cielo riflesso, mentre qualche colombo vagabondo punteggiava il cortile con piccoli tocchi di bianco. Un pittore sarebbe arrossito di emozione all’idea di dipingere uno scorcio con una tavolozza tanto gradevole e ben equilibrata di colori.

Mentre divagava in fantasie artistiche, godendosi il silenzio malinconico di quell’ora del giorno, d’improvviso Oscar avvertì un tonfo nel petto e il suo cuore cominciò a galoppare veloce, sbattendo contro le costole come se volesse aprirsi un varco tra di esse. Le ci vollero diversi respiri profondi, prima di sentire la cadenza dei palpiti affievolirsi. Aprì un poco la finestra e inalò una buona boccata dell’aria fresca del tardo pomeriggio. Le sarebbe servito un bicchiere di liquore forte per alleggerire quel peso nel petto, ma da qualche tempo non teneva più alcolici nel proprio ufficio. Recentemente aveva cominciato a notare in sé una pericolosa e insistente attrazione verso il cognac, così si era imposta di non abusarne e per farlo sapeva che era importante starne lontano. Condividere l’ufficio per intere giornate con un corredo di pregiati liquori portati da Palazzo Jarjayes sarebbe stata una tentazione troppo grossa perfino per lei. In quel momento, però, si scoprì a valutare l’idea di scendere nelle camerate e attaccarsi al collo di una delle bottiglie scadenti, che i soldati si scolavano di nascosto credendo che lei non lo sapesse. “Datti un contegno, Oscar” si rimproverò stringendo le mandibole.

Era un periodo pieno di tensioni, d’altra parte, perciò non poteva biasimare se stessa con troppa durezza. Ormai le capitava sempre più spesso che il cuore di colpo impazzisse e tentasse di fuggirle dal petto. Il medico aveva detto che era colpa della stanchezza, ma lei si era data autonomamente una diagnosi più accurata. Il suo cuore, quello sciagurato mantice di carne che avrebbe dovuto limitarsi a pompare sangue nelle vene e nient’altro, si stava ribellando, aveva ricominciato ad avanzare pretese, chiedeva di essere ascoltato e così, di tanto in tanto, si metteva a fare baccano. Che cosa volesse quel cuore di donna, Oscar l’aveva intuito, ma preferiva ignorarlo.

Sospirò e cercò di concentrare i pensieri sulla questione di Lassalle. Ne aveva parlato a Bouillet il giorno dopo aver duellato con Alain, come promesso ai soldati. Il Generale si era limitato ad ascoltarla, annuire e mormorare mugolii assorti, ma alla fine aveva tergiversato, lasciando Oscar nell’incertezza. Così, ora lei non poteva far altro che aspettare notizie, cosa che le torturava i nervi. Detestava attendere con le mani in mano, eppure in quella circostanza sapeva di non poter fare altrimenti.

Mentre oscillava tra la preoccupazione e la voglia di bere, si accorse che nel cortile stavano entrando degli uomini, alcuni a piedi, alcuni a cavallo e tutti avvolti da lunghi mantelli. Notò che le guardie ai cancelli li avevano lasciati passare mettendosi sull’attenti, così suppose che si trattasse di una  squadra di ispezione. “Se ne occuperà D’Agoult.”

Mentre riportava gli occhi sui cancelli notò che uno degli uomini del gruppo si era staccato dai compagni e si stava dirigendo sotto le finestre del suo ufficio. Lo seguì lo con sguardo e lo riconobbe solo quando questi sollevò il viso verso l’alto lasciandosi cadere sulle spalle il cappuccio del mantello. Era André.

-Buone notizie, Oscar! Vieni giù!-

Le gridò con una bella voce limpida che non lasciava dubbi sul valore positivo delle novità che aveva portato con sé. “Una buona notizia è meglio di un bicchiere di cognac” si disse lei con un mezzo sorriso, mentre lasciava l’ufficio. Scese in fretta la rampa di scale, attraversò l’androne cupo dell’atrio e trovò André ad attenderla sul primo dei tre scalini del portone d’ingresso.

-Il Re ha annunciato che verrà disposta una riunione degli Stati Generali il 5 maggio. Ne eri al corrente?-

Esordì lui con un’espressione luminosa sul viso.

Oscar si fermò sulla soglia e si permise di osservarlo con il vantaggio di quei due gradini di altezza in più. Non ricordava che le fosse mai capitato di osservare André dall’alto in basso-in senso letterale- e così da vicino. Di solito per poterlo guardare negli occhi, era lei a dover alzare la testa. Si stupì di non aver mai dato peso a quella differenza così lampante, ma dovette riconoscere che, in realtà, qualsiasi diversità fisica tra loro non era mai stata motivo di turbamento o imbarazzo per nessuno dei due.

-Mio padre me ne aveva parlato.-

Gli rispose appoggiando la spalla al muro.

-Il Re è un uomo saggio e con questa decisione ha dato modo al popolo di riconoscere le sue buone qualità di sovrano. In piazza e nelle taverne non si parla d’altro.- disse André alzando il viso per cercare il suo sguardo -Trovo che sia il segnale che la Francia è pronta per evolvere in meglio. Tu non credi, Oscar?- 

Mentre pronunciava il suo nome, con un gesto irriflessivo le prese la mano destra e la chiuse tra le proprie. Oscar trattenne il respiro e la questione degli Stati Generali sbiadì del tutto dalla sua mente. 

Si domandò quale singolare forza di attrazione spingesse occasionalmente le loro mani a cercarsi. Era un enigma a cui non era certa di voler trovare soluzione. Non era la prima volta che si manifestava tra di loro un torbido desiderio di toccarsi, di percepirsi sotto le dita, di prendere atto della reciproca concretezza e della reciproca presenza. Non le sembrava di ricordare che in tanti anni di amicizia avessero mai provato un impulso simile. Le mani si raggiungevano prima ancora che la coscienza lo approvasse. E, nonostante il contatto fosse del tutto innocente, il piacere che provocava in entrambi era un piacere squisitamente erotico, come un fuoco liquido che entrava dentro le vene per raggiungere e scaldare ogni zona del corpo. 

Si guardarono, stupiti del fatto che nessuno di loro si fosse ritratto e timorosi che uno dei due intendesse farlo davvero.

-La tua mano è guarita?-

Le chiese lui con voce tesa, ricordandosi che nello studio di Moreau aveva notato delle bende intorno al suo palmo. Oscar abbozzò un sorriso incerto. Ritirò lentamente la mano, la tenne sospesa davanti a sé e cominciò a chiudere e aprire piano le dita come se stesse grattando l’aria.

-Mi sono ferita durante la missione.- spiegò continuando a flettere le falangi con evidente difficoltà -Ormai non è rimasta che una banale cicatrice, qui sul dorso, ma il danno è tutto dentro. Le mie dita non reagiscono più come prima. Non riesco ad afferrare nulla e temo che non ci riuscirò più.-

André non poté far a meno di notare l’amarezza nella sua voce.

-L’ennesima burla del destino, André.- aggiunse lei con un sorriso amaro e ironico -Io ferii il Duca de Germain alla mano, e a mia volta sono stata ferita. Qui gladio ferit, gladio perit.*-

-A quanto pare, alla sorte piace molto giocare con noi.- 

Oscar sospirò e annuì assorta. Non sapeva se credere alla sorte o se ricondurre tutto alla semplice casualità. Preferiva pensare che la propria vita fosse un’ordinata concatenazione di scelte e risultati su cui lei aveva il pieno controllo, e non un filo teso tra le mani delle Parche. Guardò André, guardò il suo occhio opaco seminascosto dal ciuffo di capelli. Ah, di lui la sorte, se davvero esisteva un’entità simile, si era presa crudelmente gioco.

Servo, ma con un animo nobile. Accecato a metà da un uomo che era per metà suo fratello. Innamorato di una donna che non voleva essere donna, e comunque l’ultima tra le esponenti del gentil sesso di Francia che lui avrebbe potuto amare.

Gli posò una mano sulla spalla, vi si aggrappò, cedendogli un po’ del proprio peso, e scese gli scalini. Sollevò il capo per guardarlo negli occhi dall’altezza della sua statura normale e pensò che, destino o no, André era stato ed rimaneva la spalla più solida, affidabile e preziosache lei avesse mai potuto desiderare di avere accanto. Nonostante le differenze fisiche e sociali, con lui, come con nessun altro, Oscar si sentiva bene.

-Vieni con me, Oscar,- mormorò André mostrandole un sorriso enigmatico -Facciamo una visita alle camerate. Le buone notizie non sono finite.-

 

 

 

 

 

Erano sempre state rare le giornate in cui Alain era riuscito ad apprezzare il fatto di essere un soldato della guardia, ma quel giorno ne fu addirittura felice. 

Gerard Lassalle era stato rilasciato e ora vagava nella camerata dispensando abbracci e pacche sulle spalle. La sua gioia era la gioia di tutti.

Quando Lassalle era entrato nel dormitorio scortato da un gruppo di uomini di Bouillet, solo pochi minuti prima, molti dei suoi commilitoni non l’avevano nemmeno riconosciuto, un po’ per via del suo aspetto arruffato, un po’ perché nessuno, in realtà, si immaginava che Gerard sarebbe tornato per davvero. E invece eccolo lì, goffo e timido come sempre, a ridere e commuoversi guardando la propria branda, che aveva temuto di non rivedere più.

-Alain, ti ringrazio per quello che hai fatto.- Gli mormorò Gerard con la voce rotta per l’emozione e le mani intrecciate in una stretta convulsa -Ho saputo del tuo duello col Comandante. Se tu non l’avessi sfidata, io ora...-

-Non mi devi ringraziare, Gerard, tu mi dovresti solo maledire. È colpa mia se sei finito in quell’inferno e... beh, io e gli altri eravamo pronti a tutto pur di farti liberare, ma siamo stati preceduti. Il Comandante è intervenuto ancor prima che io le gettassi il guanto della sfida. È a lei che devi essere grato.-

Gerard sorrise, ma con aria smarrita. Forse, pensò Alain, non credeva che il Comandante avesse agito di propria iniziativa o forse non si aspettava che le venissero assegnati così apertamente tutti i meriti. 

-Bentornato, soldato Lassalle.-

La voce pacata, ma limpida di Oscar spaccò di colpo il brusio della camerata. Tutti ammutolirono e le rivolsero lo sguardo, mentre lei superava la soglia e avanzava nello stanzone, seguita discretamente da André, che si tenne in disparte.

Gerard avvampò e scattò sull’attenti.

-Vi devo la vita, Comandante Jarjayes!-

Esclamò mentre i suoi occhi si velavano di emozione.

Oscar si fermò a pochi passi da lui e lo osservò, abbozzando un sorriso composto. Quel ragazzotto basso e impacciato non era certamente un pendaglio da forca. Quanta disperazione e quali urgenti necessità avevano portato un uomo tanto timido e schivo ad infrangere una severa regola del codice militare per pochi soldi, pur sapendo che rischiava la vita? Oscar si chiese quale fosse la sua storia, chi fosse lui al di fuori delle mura di quella caserma. Aveva debiti da saldare? Aveva una casa, una famiglia, genitori, moglie, figli a cui provvedere?

Fece scorrere lo sguardo su tutti gli altri uomini. Li conosceva come soldati, ma non conosceva le loro storie e i loro dolori. Dovevano avere alle spalle delle esistenze segnate da disgrazie e miseria se era vero, come le aveva confessato Alain, che, in un modo o nell’altro, ognuno di loro aveva commesso delle gravi trasgressioni pur di guadagnare qualche spicciolo in più. 

-Colonnello!- esclamò Alain facendosi avanti -Vi parlo a nome di tutti: saremmo molto felici se voi voleste rimanere il nostro Comandante.-

Oscar sentì il petto riempirsi di orgoglio. Annuì e contenne l’emozione dietro ad un sorriso composto. Guardò ad uno ad uno tutti i suoi uomini e finalmente riuscì a sentirli veramente suoi. Si concesse qualche secondo per assaporare il piacere della conquista, poi soffocò in fretta il senso di trionfo per non peccare di arroganza. In fondo, non sentiva di avere grandi meriti, aveva solo declinato il proprio potere nel verso giusto.

-Bene, mi auguro che non crediate che io d’ora in avanti sia meno severa.-

Disse con un tiepido sorriso. Alain ad rise alta voce e diede un amichevole colpo alla spalla di Gerard che gli era accanto, facendolo sobbalzare.

-Ci andate benissimo così come siete, Comandante.-

 

 

 

 

 

L’ufficio di Oscar si era ormai intiepidito e nel camino non erano rimaste che poche braci ancora ardenti. Tutta la stanza era avvolta in un’uniforme luce turchese e al di là delle finestre si stendeva un cielo sfumato che aveva già perso le tinte calde del tramonto.

André si avvicinò al camino con l’intenzione di rianimare il fuoco e tese una mano verso l’attizzatoio, ma Oscar lo fermò toccandogli il braccio. 

-Non è necessario, André.-

-La stanza si raffredderà presto.-

-Lo so.-

-Accendo qualche candela?-

-No, non serve.-

André corrugò la fronte perplesso e si avvicinò alla finestra. Era quasi sera ormai. A breve le prime ombre della notte avrebbero conquistato del tutto la stanza.

-Che intenzioni hai, Oscar?-

-Questa sera Bouillet andrà all’Opera.-

Mormorò lei a bassa voce, mentre frugava tra le scartoffie dello scrittoio per trovare chissà cosa. André  mormorò un mmh assorto e decise di non insistere. Sapeva bene come funzionava la mente di Oscar: più domande riceveva, meno spiegazioni era disposta a dare. Perciò non gli restava altro da fare se non attendere che lei sbloccasse la lingua e gli chiarisse le idee.

-Ti devo ringraziare, André.-

Disse lei all’improvviso, con voce fredda, come se avesse appena letto quelle parole su uno dei fogli che le passavano tra le dita.

-Mmh? Ringraziarmi?-

-Sì.-

André si voltò verso di lei e assottigliò gli occhi. La luce tenue e opaca del crepuscolo si stava già mescolando alle ombre blu che lentamente emergevano dai cantucci per occupare la stanza. In quella penombra azzurra il suo occhio non riusciva a distinguere nulla se non il colore latteo dell’incarnato di Oscar e l’oro dei suoi capelli.

-Questa è la richiesta di dimissioni che ero pronta a presentare nel caso in cui quel soldato fosse salito sul patibolo. Sono contenta che non sia più necessaria.- gli disse lei e André riuscì a notare che Oscar gli stava mostrando un foglio -Mi dà un grandissimo sollievo sapere che questa faccenda spiacevole si sia risolta per il meglio, ma non mi illudo che i problemi siano finiti. Tu mi hai aiutato tanto.-

André abbozzò un sorriso.

-Comunque, Oscar, non mi devi ringraziare. Non ho fatto proprio nulla.-

-Hai fatto molto più di quanto tu non voglia riconoscere.-

Quella frase, quel tono di voce duro e al contempo dolce gli disordinarono le idee e le emozioni. Rimpianse l’incapacità del proprio occhio di cogliere l’espressione sul viso di Oscar. Stava sorridendo? Gli parve che gli angoli della sua bocca fossero leggermente sollevati, ma non ne fu sicuro. E i suoi occhi? Erano socchiusi per dare morbidezza allo sguardo o erano stretti per aguzzare la vista? Deglutì e fuggì dall’imbarazzo riportando gli occhi sui vetri della finestra.

Trattenendo il respiro, ascoltò i suoi passi che si avvicinavano e trasalì quando si accorse che le maniche delle loro giacche si stavano sfiorando.

-Vorrei ringraziare personalmente il Generale Bouillet per aver concesso la grazia a Lassalle.- la sentì mormorare -Ti andrebbe di accompagnarmi all’Opera questa sera, André? Le strade di notte mi fanno paura.-

Lui non trovò il fiato per rispondere. Quell’atmosfera di intimità lo confondeva, la penombra cerulea lo immalinconiva, il dolce profumo di rose che sprigionava Oscar lo stordiva e lo seduceva. Si ritrovò a desiderare di prenderle la mano, stringerla, intrecciarvi le dita, baciarla. Chiuse i pugni per impedirsi di cedere alla tentazione.

“Sì, sì, ti accompagno ovunque tu voglia, Oscar, ma ti prego andiamocene da qui prima che io impazzisca.”

-Hai ragione, Parigi è pericolosa di notte. È meglio che io venga con te. Andiamo.-

 

 

 

 

* ”Chi di spada ferisce, di spada perisce.”

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Capitolo 28
*** Saint’Antoine ***


La notte era stellata ma scura. I timidi lampioni anneriti di Parigi concedevano a mala pena ai passanti di riconoscere le strade e i profili dei palazzi.

Oscar si chiuse con scrupolo nell’ampio mantello per nascondere l’uniforme e tenne gli occhi fissi davanti a sé. Non aveva mentito ad André quando gli aveva confessato che Parigi di notte le faceva paura. Si sentiva addosso sguardi sinistri che la spiavano da ogni pertugio dei muri. Sobbalzava se udiva rumori improvvisi. Percepiva ostilità, le sembrava quasi di poterla respirare nell’aria mescolata allo sgradevole odore che emanavano le vie della città. 

André le cavalcava accanto su un cavallo preso in prestito dalle scuderie della guardia di Parigi. La sua presenza tiepida e silenziosa le infondeva un prezioso senso di conforto, eppure anche lui, notò Oscar, stringeva forte i pugni intorno alle redini come se condividesse la sua stessa inquietudine.

Quando giunsero nell’ampia piazza dell’Opera, furono rincuorati dal vivace brusio e dall’allegro via vai di carrozze.

Oscar smontò da cavallo e affidò le redini di Cesar ad André, chiedendogli di aspettarla davanti all’ingresso e promettendo che sarebbe stata una questione di pochi minuti. Sicuramente Bouillet non l’avrebbe trattenuta in inutili chiacchiere.

Quando entrò nell’ampio salone dell’atrio, si guadagnò immediatamente l’attenzione di tutti i presenti. Qualcuno la indicò borbottando frasi all’orecchio di qualcun altro, altri provarono ad avvicinarsi per tentare di instaurare una conversazione, ma lei attraversò il vestibolo a passo di marcia, limitandosi ad elargire freddi sorrisi di circostanza.

Mentre saliva l’imponente scalinata di granito, una donna pingue con un abito ocra, che stava scendendo insieme ad un uomo ossuto, la osservò sottecchi e sussurrò al suo accompagnatore:

-Sarà vero che l’unico essere maschile che ha tenuto in mezzo alle cosce sia stato il proprio cavallo?-

Oscar capì senza sforzo di essere il bersaglio di quella sottile provocazione. Ma l’orgoglio non protestò, non ne fu nemmeno solleticato. Forse vent’anni prima lei si sarebbe lasciata sfuggire una replica piccata, ma ora non ne avvertì il minimo bisogno. Ne aveva sentite di allusioni cattive sul proprio conto, ormai ci aveva fatto il callo. La Reggia di Versailles era stata un’ottima palestra per esercitarsi a non lasciarsi turbare dalla malizia altrui. Per gli esponenti dell’aristocrazia sbeffeggiare il prossimo era uno sport.

Pochi minuti dopo, quando raggiunse il corridoio su cui si affacciavano le porte del primo ordine di palchi, si era già scordata della donna con l’abito ocra e della sua battuta maliziosa. Mentre camminava verso il palchetto di Bouillet, assaporando le note energiche di un Haydn che filtravano attraverso la parete alla sua sinistra, le si concretizzò davanti agli occhi il corpo slanciato del Conte di Fersen, ormai fiero Colonnello delle Guardie reali francesi, che presidiava l’ingresso del palchetto del Generale. Lui non la vide subito, sembrava perso in pensieri profondi e accarezzava distrattamente l’elsa della spada, appoggiato di schiena alla parete del corridoio.

Era passato molto tempo dal loro ultimo incontro e i ricordi di quel momento sembrarono ad Oscar vecchi di almeno dieci anni. Forse perché Fersen stesso appariva invecchiato di almeno dieci anni. 

Inchiodò gli occhi su di lui mentre gli si avvicinava e intanto ascoltò con curiosità le sensazioni del proprio corpo, certa di percepire almeno uno fremito che le parlasse del vecchio amore doloroso che aveva provato per lui. Eppure, constatò con stupore, non percepiva brividi, né contrazioni di stomaco, né gola secca, né languore nel bassoventre. Interpellò il cuore, ma quello continuò a palpitare placido. Fersen la vide e le sorrise con la sua solita limpida cortesia e lei sorrise a sua volta, ma con fatica. Era in presenza dell’uomo che aveva creduto di amare più di se stessa e non provava assolutamente nulla

 

 

 

 

 

André non riconobbe subito l’Ufficiale con l’uniforme azzurra che uscì dal teatro al fianco di Oscar. Il suo occhio era troppo affaticato per poterne distinguere i tratti e non osò fissarlo con insistenza, per non sembrare scortese.

-Il Generale Bouillet ha chiesto al Conte di Fersen di accompagnarci fino alla caserma, André. È preoccupato per la mia incolumità.-

Spiegò Oscar, avvicinandosi a lui per riprendere le redini di Cesar. 

André salutò Fersen sporcando di proposito la voce con un po’ di cordiale imbarazzo e scusandosi per non averlo riconosciuto subito. Mentre guardava il volto ingrigito del Conte che lo salutava a sua volta con educata freddezza, André ebbe la sgradevole impressione che l’entrata in scena di Fersen avrebbe inevitabilmente sbilanciato il gradevole equilibrio tra lui ed Oscar. Si incupì, ma cercò di non darlo a vedere.

-Sono di troppo, Oscar?-

Osò chiederle in un sussurro discreto, approfittando del momento in cui Fersen si era allontanato per riprendere il proprio cavallo. Lei gli rivolse uno sguardo prima meravigliato e poi vagamente risentito.

-Tu non sei mai di troppo, André, ricordatelo.-

André si rilassò, ma continuò a sentirsi fuori luogo. Per quanto il tono e le parole di Oscar l’avessero rassicurato, la presenza di Fersen gli imponeva senza scampo di rispolverare i vecchi comportamenti da attendente. Un passo indietro alla destra della padrona, rispondere solo se interpellato, occhi umilmente bassi. Si rassegnò.

Quando Fersen fece ritorno in sella al suo palafreno grigio, si incamminarono subito verso la caserma.

-A corte si è parlato molto della vostra impresa ad Alancourt, Madamigella.-

Cominciò a dire Fersen, lanciando uno sguardo discreto alla mano destra di lei, abbandonata sulla sua coscia.

-Dite davvero? Non immaginavo che a Versailles ci si intrattenesse con argomenti così noiosi.-

Fersen sogghignò.

-A corte siete ancora ritenuta un argomento succoso. Vi sento nominare spessissimo, come se non aveste mai lasciato la Guardia reale.-

-Non mi entusiasma l’idea di essere ancora sulla bocca dei cortigiani. Che parlino pure di me, se le mie scialbe vicende li divertono tanto, ma preferirei che discutessero soprattutto

degli attuali problemi della Francia, a cui mi sembra che non si presti la dovuta attenzione.-

Fersen si disse timidamente d’accordo, poi lasciò che un breve silenzio segnasse la fine di quel filo di conversazione, che evidentemente lo metteva in imbarazzo. Cominciò poi a parlare di sé con sguardo assente e molti sospiri, come se stesse rispondendo malvolentieri ad una domanda scomoda ed invadente. Oscar lo ascoltò in silenzio e con condiscendenza, accennando solo qualche lieve movimento col capo per fargli intendere che lo stava ascoltando.

-I pettegolezzi sulla natura del mio rapporto con la Regina Maria Antonietta si sono ormai estinti.-

Confessò, infine, sottovoce e guardò Oscar per cercare la sua approvazione. Lei si limitò a stirare le labbra.

André osservò di sfuggita il loro scambio di sguardi, poi tornò a fissare le redini del proprio cavallo. Forse era vero che i pettegolezzi su Fersen e Maria Antonietta si fossero estinti, ma era evidente che i sentimenti del Conte non avessero subito la stessa sorte.

“Mio caro Fersen, con noi Cupido ha dimostrato non solo di essere cieco, ma anche ubriaco” avrebbe voluto dirgli “Siamo impigliati tutti nella stessa contorta ragnatela di sentimenti sbagliati.”

-D’altra parte,- riprese a dire il Conte -incontrare la Regina è un raro privilegio per chiunque. Maria Antonietta rivolge la sua completa attenzione alla salute malferma del Principe Joseph ed è giusto che sia così.-

Oscar sospirò e scuotendo lentamente il capo disse:

-Sono molto addolorata per la sorte del nostro Principe. Nessun bambino merita di soffrire tanto. Purtroppo, però, forse voi non sapete, Fersen, che il popolo non riesce a provare la mia stessa compassione. A tal proposito, vi vorrei raccontare il punto di vista dei miei soldati, che sento rimbombare tra le pareti della caserma da settimane. Tenete presente che essi sono uomini del popolo, gente umile, e che molti di loro hanno visto morire figli e familiari per le cause più diverse, perciò sanno cos’e il dolore. Questo è il loro pensiero: Se la Regina è la madre di tutti i francesi, è ingiusto che si preoccupi per uno solo dei suoi figli. Vedete, Maria Antonietta non trascura soltanto voi, Fersen, trascura anche il suo popolo. E un popolo che si sente dimenticato, può diventare pericoloso.-

Fersen accolse quelle parole col fiato sospeso e un‘espressione che sembrava preannunciare una replica, invece tacque e chinò la testa.

Svoltarono in un largo stradone che spaccava a metà il miserabile quartiere di Saint’Antoine e si ritrovarono a passare davanti ad una piccola locanda aperta. Un gruppo di uomini vestiti per lo più di stracci si stringeva attorno ad un braciere acceso, accanto all’ingresso dell’osteria. Borbottavano tra loro a bassa voce, ma le loro parole erano perfettamente udibili. Lamentele, imprecazioni, bestemmie e insulti indecenti nei confronti dei Sovrani, tutto vomitato in un lessico che sembrava aver poco della melodiosa delicatezza della lingua francese.

Mentre superavano a cavallo quel gruppo di uomini, Oscar e André ritrassero lo sguardo e non fiatarono. Ignorare per essere ignorati, era la sacrosanta legge notturna di Parigi per chi non voleva avere rogne. Fersen, invece, forse per sdegno o forse per l’illusione di essere intoccabile, non seppe trattenersi e scuotendo la testa sibilò sprezzante:

-Villani.-

Una parola sola, ma letale come può esserlo una sola pallottola. Oscar gli lanciò uno sguardo di rimprovero, ma il danno era già stato fatto. Nonostante il Conte avesse parlato con un tono basso, quegli uomini avevano sentito benissimo. Uno di loro, un grosso bue con i capelli rossi, si avventò sul primo dei tre cavalieri che gli capitò sotto tiro.

-Ripeti quello che hai detto, damerino!-

Sbraitò afferrando André per la giacca e tirandolo verso di sé.

-Avete frainteso.-

Replicò lui, aggrappandosi alle redini per non essere trascinato giù dalla sella. Fersen intervenne col petto gonfio di chi è certo di non avere torto, si addossò la colpa, ma non rinunciò all’orgoglio e non negò di disapprovare le parole che aveva udito né si scusò.

L’uomo con i capelli rossi diede un violento strattone ad André, come se a parlare fosse stato lui, e lo attirò verso di sé. Oscar tentò con uno scatto della mano destra di afferrarlo prima che venisse trascinato a terra, ma le dita sfiorarono il suo braccio senza riuscire afferrarlo. Umiliata e delusa dall‘inettitudine della propria mano, non fece nemmeno in tempo a rendersi conto che il proprio mantello si era aperto svelando l’uniforme.

Fu riconosciuta e, a catena, fu riconosciuto anche Fersen.

-Quello è l’amante della Regina! E quello è il Colonnello Jarjayes!-

Il cuore di Oscar si fermò per un momento. Guardò André bloccato da un paio di braccia robuste, guardò Fersen pallido come un cencio e non riuscì a decidere in che modo comportarsi. Di colpo si sentì in bilico su un filo teso sopra un burrone. Doveva agire in fretta, ma se avesse fatto una mossa sbagliata, avrebbero potuto tagliare la gola ad André prima che lei riuscisse a pronunciare per intero il suo nome. 

Si portò una mano sul cuore e provò a spiegare con finto distacco che André non era nobile e che perciò non meritava di subire violenze da uomini suoi pari, ma quell’affermazione servì solo a garantirgli un pugno nello stomaco. 

A quel punto, Oscar ebbe la netta impressione di precipitare in una voragine che l’avrebbe condotta direttamente all’inferno.

Le persone in strada cominciarono a moltiplicarsi come teste di idra recise. Presto Oscar non fu più in grado di contarle. Si ritrovò circondata in brevissimo tempo da un fiume di uomini e donne furiosi che scuotevano bastoni, bottiglie e qualsiasi altro genere di potenziale arma.

Cercò con lo sguardo il volto di André. Lo vide poco prima che venisse risucchiato dalla folla.

Lo chiamò per nome, cercò di spingere Cesar a farsi largo in quel mare di corpi, ma il cavallo era nervoso e la folla formava una barriera compatta che lo bloccava. 

A pochi passi da lei, Fersen minacciava a squarciagola di respingere con la pistola chiunque si fosse avvicinato, ma le sue urla fiacche suonavano ridicole e nessuno di quei cittadini inferociti si mostrò intimidito. Qualcuno rovesciò il braciere davanti alla locanda e molti incendiarono i bastoni di legno per spaventare i cavalli col fuoco. Oscar non ebbe il tempo né la lucidità di stringere le cosce sulla sella né di aggrapparsi alle redini. Cesar si impennò, terrorizzato dalle fiamme, e lei precipitò nel fango della strada.

-Oscar! Oscar!-

Fersen tentò di avvicinarsi per soccorrerla, ma non appena lei toccò il suolo, fu assalita da un’orda di mani che la catturarono.

-Fersen, vi prego, cercate André, salvate il mio André!-

Gridò mentre dita sconosciute si stringevano intorno alla sua gola. Anche Fersen sparì tra la folla e la sua voce si perse nella confusione di centinaia di altre voci. Oscar si sentì smarrita. In ogni punto del corpo avvertiva una pioggia incessante di colpi, sputi, bastonate. Tentava di divincolarsi, ma veniva trattenuta. Cercava di proteggersi con le braccia, sferrava calci e pugni a sua volta, ma le sembrava di sprecare le forze a colpire l’aria.

-Sistemiamo questo bel viso!-

Ruggì una voce, distinguendosi per un attimo dalle altre, appena prima che qualcuno le sferrasse una violenta mazzata in pieno volto. Lei percepì lo schiocco del setto nasale che si spaccava e il sapore del sangue nella bocca. Respirare divenne difficile. Crollò a terra, stordita dal dolore, incapace di arrendersi, ma priva di forze per reagire. Si riscosse dal torpore della paura, solo quando qualcuno le tirò bruscamente la manica della giacca. Le cuciture della divisa si strapparono e lei ebbe l’impressione che un lupo le avesse azzannato il braccio. Realizzò con orrore che se quelle belve avessero continuato a lacerarle i vestiti, sarebbero arrivati a scoprire in fretta che sotto il costume da uomo si nascondeva una donna e di certo non le avrebbero risparmiato di subire l’offesa più barbara. Si contorse e si dimenò, ma i suoi sforzi furono vani. I lembi di stoffa continuavano a staccarsi dal suo corpo, stretti nei pugni della gente, per diventare simbolici trofei della loro battaglia selvaggia contro il potere dell’uniforme. 

Pregò che un bastone calasse sulla sua testa e le facesse perdere i sensi o che addirittura la uccidesse. Sì, tanto valeva morire. La divisa era quasi distrutta e la camicia sarebbe stata l’ultimo, insufficiente scudo. Non avrebbe potuto sopportare l’onta dell’umiliazione peggiore, se fosse sopravvissuta a quella notte. E poi, forse, da qualche parte in mezzo a quella marea di corpi furiosi, André era già morto. 

Decise che fosse ormai tardi per avere speranza.

-Uccidetemi, uccidetemi!-

Gridò e continuò a ripeterlo finché la voce non le raschiò la gola e gli occhi non si riempirono di lacrime. Poi di colpo, quando ormai la morte le sembrava l’unica grazia a cui poter auspicare, le mani che la stavano massacrando si ritrassero. I diavoli che avevano animato quell’inferno persero ogni interesse per lei e la lasciarono cadere nel fango melmoso della strada, per poi cominciare a disperdersi urlando e correndo. Mentre la folla si agitava, Oscar riuscì a trascinarsi al sicuro in un vicolo laterale. Si nascose nell’ombra e si abbandonò contro il muro di una casa, osservando discosta il trambusto da cui era appena fuggita. Una squadra di soldati di Bouillet era intervenuta per sedare il disordine e la gente ora scappava di fronte ai fucili come galline minacciate dalle volpi.

Oscar scivolò a sedere per terra e provò a respirare, ma l’aria le fece male alla gola e le squarciò il petto dall’interno, come una lama. Era viva. Si tastò il corpo incredula. Sì, era viva: il dolore che provava ovunque ne era un’incontrovertibile conferma. Si assicurò che al di sotto della divisa stracciata la camicia fosse ancora integra e sospirò per il sollievo.

Quando gli ultimi cavalli dei soldati si allontanarono e nel quartiere ritornò il fermo silenzio della notte, riuscì finalmente a sentire lo scalpitio del proprio cuore che lentamente e con fatica tentava di riprendere un ritmo regolare. Appoggiò la testa al muro e rivolse gli occhi al rettangolo di cielo stellato incorniciato tra i tetti sopra la sua testa. Era viva, ma sola. L’angoscia annullò bruscamente ogni timido sentimento di sollievo. “Il mio André”. Quelle parole si fermarono a metà tra il petto e la bocca e la voce non fu in grado di esprimerle. Si sentiva impotente. Era troppo stanca e troppo debole per tornare in strada a cercarlo, ma soprattutto aveva troppa paura di trovare un cadavere. Chiuse gli occhi e pianse due lacrime. Pregò in silenzio che Fersen, Dio o la sorte l’avessero salvato, poi si sentì avvolgere da un buio freddo e pesante come nebbia e cadde nell’incoscienza.

 

 

 

 

 

Jean, il garzone, era un ragazzo piuttosto gracile, ma si impuntò perché André si appoggiasse alla sua spalla per camminare. Mentre i soldati di Bouillet disperdevano la folla, lo accompagnò in una strada laterale, dietro ad una catasta di botti nel retro di una bottega e lo invitò a sedersi su un gradino di pietra.

-Brutto affare, Grandier. Grazie a Dio ero lì in mezzo e ti ho riconosciuto prima che quelli ti ammassassero di botte.-

Gli disse incrociando le braccia. André gli rivolse uno sguardo spento e annuì lentamente, riconoscendo un po’ a fatica quel dato di fatto, che gli appariva ancora come un miracolo. Jean continuò con un sogghigno:

-Ora siamo pari. Tu hai impedito che Moreau mi togliesse il lavoro, io ho impedito che quelli ti togliessero la vita.-

-E gli altri due che erano con me?-

-Il Conte di Fersen è stato portato via dai soldati. Ma il Colonnello Jarjayes non l’ho visto.-

André rabbrividì.

-Devo cercarla.-

Borbottò sollevandosi pesantemente dal gradino di pietra.

-Ti ringrazio per il tuo intervento, Jean. Va’ a casa ora.-

-Va’ a casa anche tu, Grandier, prima che qualche topo di fogna riemerga dal suo buco e abbia voglia di pestarti ancora.-

André gli fece un cenno distratto di saluto e tornò verso la strada principale. Si guardò intorno, senza riuscire a vedere altro che una penombra vuota e immobile. Del pandemonio che si era scatenato in quel quartiere non sembrava essere rimasta alcuna traccia. Parigi si era già riassopita.

Si fermò sotto un lampione che ciondolava nella gelida brezza notturna, sospeso sul proprio gancio.

-Oscar...-

Provò a chiamarla ma la voce inciampò sulla sua lingua e perse vigore. Come poteva sperare di trovarla in quel buio fitto se, anche guardando le proprie mani alla luce del lampione, riusciva a malapena a distinguerne la sagoma? 

Pregò di avere la benedizione di un segno che lo indirizzasse sulla strada giusta e credette di sognare quando il suono di un nitrito sommesso vibrò nella notte. Il suo sguardo prese a scivolare nervoso sui tratti di strada illuminata e setacciò l’ombra densa oltre il riverbero del lampione. Era stato un verso di Cesar? Sì, sicuramente. Cesar era un cavallo fedele e addestrato, per quanto potesse essersi spaventato non sarebbe mai fuggito abbandonando la sua padrona. André si accese di speranza.

Tornò a percorrere avanti e indietro la strada, ripetendo il nome del cavallo come se si aspettasse di ricevere una risposta.

-Cesar. Cesar.-

Era sicuro che se avesse trovato il cavallo, avrebbe trovato Oscar. Avvertiva la sua vicinanza e percepiva il suo bisogno di essere raggiunta e salvata, proprio come quella volta, molti anni prima, quando lei aveva rischiato di restare uccisa insieme a Jeanne Valois e di Nicolas de la Motte in quel convento sconsacrato in mezzo alla campagna.

Mentre la mente gli riproponeva quei lontani ricordi, il suo sguardo catturò una scia candida nell’ombra di un vicolo. Si avvicinò esultante. Era la coda di Cesar che si muoveva in guizzi sinuosi. Quando fu abbastanza vicino il suo occhio riuscì a scorgere il corpo possente del cavallo, che vegliava a testa china sulla sua padrona, accasciata contro la parete di pietra dell’edificio, con gli occhi chiusi e i vestiti stracciati. Le si inginocchiò accanto e tremando le toccò le labbra appiccicose di sangue ancora fresco. Il calore del suo alito era lieve ma percepibile. “Respira.” Deglutì per ricacciare in gola un esclamazione di sollievo e provò a destarla. Mormorò con dolcezza il suo nome e la scosse piano per le spalle come quando da ragazzini la svegliava da un quieto sonnellino pomeridiano, dopo un allenamento in riva al fiume. Lei schiuse gli occhi con fatica e lo fissò a lungo con uno sguardo blu opaco, poi le si mozzò il fiato e le sue ciglia ebbero un fremito.

-André, tu...-

-Va tutto bene, Oscar.-

Le assicurò accarezzandole i capelli.

-Ti porto al sicuro.-

Passò un braccio dietro la sua schiena e la aiutò ad alzarsi da terra. Mentre la sollevava per farla salire in sella a Cesar, pensò a quanto le esperienze della vita spesso si ripetessero simili a se stesse. Erano passati tanti anni dalla morte di Jeanne Valois nell’esplosione di quel convento. Nella mente di André i ricordi persistevano sbiaditi, come i rimasugli di un sogno. In quel momento, però, fu sicuro di provare le stesse sensazioni di allora e si stupì di ricordarsene con tanta nitidezza. 

Salì in sella dietro di lei, le coprì le spalle con la propria giacca e passò le braccia sopra suoi fianchi per prendere le redini. Molte volte nella sua vita aveva sognato che il corpo di lei aderisse al proprio, poche volte era successo che fosse accaduto davvero e sempre per caso, per necessità o per errore. Ma per quanto gli piacesse quel contatto -non tentò nemmeno di negarlo a se stesso- non intendeva imbarazzarla premendole addosso le proprie forme maschili, così cercò di concederle un margine di spazio, a costo di rinunciare alla propria comodità. 

Diede un colpo di talloni ai fianchi di Cesar e il cavallo si incamminò a passo lento nelle vene scure e vuote di quella Parigi dormiente.

-Dove andiamo, André?-

-A casa mia. È troppo rischioso provare a raggiungere la caserma.-

“I soldati mi cercheranno”, pensò lei, ma non lo pronunciò ad alta voce. Non aveva poi molta importanza essere ritenuta morta o dispersa, si disse. Il giorno dopo sarebbe ritornata a casa e l’episodio sarebbe stato presto dimenticato. E poi, in fondo, era certa che una parte di sé fosse davvero morta nel fango di quella strada, tra la furia del popolo. Si sentiva molto diversa, come se avesse cambiato pelle.

Appoggiò la schiena sul petto di André, lentamente ma senza timidezza. Assaporò il calore del suo corpo solido, il suo respiro controllato, il suo odore virile, buono. Lui era vivo, meravigliosamente concreto ed era con lei. Una larga porzione dei loro corpi si toccava in un modo che avrebbe fatto indignare suo padre e impallidire Marron, ma lei non provava né fastidio né imbarazzo, solo piacere, un piacere simile a quello che avvertiva quando si immergeva in un bagno caldo. Un sollievo liquido. 

Le palpebre le si fecero pesanti, ma resistette e non chiuse gli occhi.

-Non immaginavo che la gente di Parigi covasse dentro di sé una simile rabbia.-

Mormorò per non cedere al torpore.

-I parigini sono ormai infiammabili come legna secca: è sufficiente la più piccola scintilla per accenderli.-

Con un sospiro André le intiepidì la base del collo.

-Non ho saputo proteggerti, non sai quanto mi dispiace, Oscar.-

-Tu non hai nessuna colpa. Piuttosto, sei ferito?-

-No. Ma sono stato fortunato. Tra quella gente c’era un uomo che mi conosceva. Ha assicurato che io fossi un figlio del popolo e mi ha risparmiato una stilettata nella pancia.-

Oscar prese fiato per rispondere, ma le tremò il respiro e le parole rimasero incastrare nel suo petto. Ebbe una vertigine, abbandonò la testa sulla spalla di André, chiuse gli occhi. Rimase in ascolto delle sensazioni del proprio corpo, che tanto raramente si era permessa di esaminare. La carne pulsava lì dove aveva ricevuto le botte, il sapore amaro del sangue le impregnava la bocca e nelle orecchie rimbombavano ancora le urla e gli insulti della gente, eppure si sentiva bene, il suo cuore era in pace. 

Senza rendersene conto, si assopì. Le sembrò di aver chiuso gli occhi solo per pochi secondi quando udì la voce di André annunciare in un sussurro:

-Siamo arrivati.-

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Capitolo 29
*** Fuoco ***


Addossata al retro della casa c’era una piccola costruzione di legno, simile ad una tettoia recintata da assi saldate l’una all’altra. André scese da cavallo, sollevò la sbarra che teneva chiusa la porta e prese le briglie di Cesar per condurlo all’interno di quel bugigattolo adibito a stalla. Nella penombra scura a stento si riconosceva la sagoma nera di Alexander che riposava in un angolo. Quando il cavallo li sentì entrare, alzò la testa e André tese la mano verso di lui indovinando la forma del suo muso per lasciargli un’affettuosa carezza.

-Aggrappati a me, Oscar.-

Le disse, offrendole il braccio. Lei si appoggiò alla sua spalla e scivolò con cautela giù dalla sella finché i suoi piedi non atterrarono sul pagliericcio sparso per terra.

-Spero che a Cesar non dispiaccia trascorrere la notte qui. Non è confortevole come le scuderie di palazzo, ma Alexander non si è mai lamentato.-

Scherzò lui prendendole il gomito per aiutarla a camminare.

La accompagnò nell’atrio della casa, attraverso uno stretto passaggio rischiarato da una lampada a olio fissata sulla parete tra la rampa di scale e l’uscio dell’appartamento della padrona. Mentre Oscar osservava in silenzio quell’ambiente squallido e tetro, André si avvicinò alla porta, tossì per schiarirsi la voce e bussò. La padrona aprì quasi subito con un grugnito di stizza, pronta ad imprecare contro l’inatteso disturbatore, ma non appena si trovò davanti il proprio affittuario sporco e malridotto, la sua faccia si tinse di sincero stupore. Osservò con attenzione il ragazzo da testa a piedi, poi piantò gli occhi su Oscar. Ricordava bene il viso effemminato di quel bell’Ufficiale biondo che si era presentato qualche giorno prima in cerca di André. Preferì non provare nemmeno ad ipotizzare quale genere di relazione potesse esistere tra quei due giovani.uomini.

-Siete stati assaliti da un branco di lupi?-

Gracchiò.

-Non ci siete andata molto lontano, madame. Abbiate la cortesia di fornirmi una candela e un secchio d’acqua.-

Replicò André sfoggiando la sua irriducibile cortesia. La padrona sollevò un sopracciglio folto, tentennò, indisposta dalla presenza di Oscar, poi parve ricordarsi di quanto fosse raro un affittuario preciso e puntuale come André e decise di esaudire la sua richiesta. Si ritirò nell’appartamento e si riaffacciò poco dopo alla porta con il secchio e la candela.

-Voi non me la raccontate giusta, André!-

Brontolò aspra e richiuse la porta. 

-Una donna di carattere.-

Commentò Oscar con un mezzo sorriso, cercando sostegno sul corrimano per intraprendere la salita verso la stanza di André. Lui agganciò un braccio al suo e la accompagnò un gradino per volta.

-Sono certo che dietro al suo atteggiamento ruvido, si nasconda una persona buona con un passato doloroso.-

Oscar sospirò.

-Lo si può dire di molti parigini.-

-Lo si può dire molti francesi-

Quando conquistarono il primo pianerottolo, decisero, senza consultarsi verbalmente, di prendere un momento di pausa per recuperare le forze. Avevano ancora una ventina di gradini con cui confrontarsi, le comunicò André mentre lei studiava con occhi stretti le porte chiuse che si erano ritrovati di fronte.

-In quale stanza abitava Saint Just?-

-Questa qui.-

-E quest’altra porta?-

-Lì ci abitava una prostituta, ora credo che la stanza sia occupata da un mercante. Non l’ho mai incrociato.-

Oscar annuì e lasciò che André la conducesse sull’ultimo tratto di scale. Non appena raggiunsero il sottotetto, si gettò di lato contro la parete per reggersi in piedi, mentre André illuminava la serratura della porta con la candela in cerca della toppa. 

Era diverso da Fersen, constatò Oscar osservando il gioco di chiaroscuri che la luce creava sul volto di André. Molto diverso. C’era una speciale eleganza nei suoi tratti, pur essendo più duri, più severi rispetto a quelli del Conte. Era sempre stato così ben fatto? La sua mascella aveva sempre avuto una linea così armoniosa? E le sue mani, erano sempre state così attraenti?

Un brivido le rimescolò prima lo stomaco e poi la testa, quando lui fece scivolare la chiave dentro la toppa. Di colpo, Oscar prese atto di ogni cosa: di quanto fossero stati vicini alla morte, di quanto fosse precaria la vita, di quanto fosse prezioso l’attimo.

Varcò la soglia in fretta, senza attendere che lui la invitasse ad entrare, assalita da quella tempesta di emozioni, e nel buio della stanza si ritrovò ad urtare contro lo spigolo di un mobile -una libreria?

-Tutto bene, Oscar?-

“Non lo so.”

-Sì.-

“Non lo so, André, non so se sto bene”. Nascose le mani dietro la schiena per impedire che lui notasse i fremiti delle dita. Si sentiva bruciare. Il cuore era un sole incandescente. 

Deglutì più volte a vuoto, respirò profondamente, pregando che lui non si accorgesse di nulla.

“André, che mi succede?”

In silenzio, lo osservò chiudere la porta e raggiungere un piccolo scrittoio per accendere alcune candele già mezze consumate su un vecchio candelabro. Non appena gli stoppini si incendiarono, le fiammelle diffusero nella camera un confortante chiarore dorato, rivelando l’aspetto umile e modesto dell’ambiente. La luce le diede sollievo. Ritrovò la calma. Il suo corpo riassorbì le emozioni, cuore e respiro tornarono nei ranghi e lei riuscì a staccare gli occhi da lui e a guardarsi intorno. 

-È sicuramente molto diversa dalla camera che occupavo a Palazzo Jarjayes.-

Spiegò lui mentre si accucciava accanto ad una piccola stufa per accendere il fuoco.

Oscar annuì distratta. Era vero, quella scura ed angusta soffitta non assomigliava affatto alla luminosa camera che aveva occupato a Palazzo Jarjayes.

Eppure, nonostante le innegabili differenze, anche quella piccola, poco pretenziosa stanzetta era gradevole e accogliente, perché era satura di lui. C’era un po’ di André in ogni oggetto, in ogni asse del pavimento e in ogni trave del soffitto. Tutto sembrava appartenergli, nonostante, di fatto, lui non fosse proprietario di nulla. Cosa aveva mai posseduto lui, in fondo? Da sempre tutto ciò che chiamava convenzionalmente “suo”, in realtà era solo una concessione di qualcun altro. Che strano concetto l’appartenenza, pensò Oscar. Si possiede qualcosa solo per diritto di nascita o se lo si compra col denaro o col favore? André non aveva nulla, se non la straordinaria ed invidiabile capacità di lasciare una traccia di sé su tutto ciò con cui veniva a contatto. Doveva essere una conseguenza della sua naturale inclinazione a prendersi cura di tutto ciò che gli capitava tra le mani, che fossero oggetti o persone. Dunque, si chiese lei, prendersi cura di qualcosa, amare qualcosa, equivaleva a possederla? Oscar non gradì le spigolature di quel pensiero grezzo. E quella parola -possesso- la infastidì.

Piantò gli occhi sulle spalle di lui, curve verso la stufa.

Amore, possesso. Una strana e stonata coppia di parole. Nessuno sarebbe mai dovuto essere proprietà di qualcun altro, eppure il mondo era costituito da una gerarchia di “mio” e “tuo”. Re e sudditi, mariti e mogli, genitori e figli. Tutti tendevano a ritenersi padroni l’uno dell’altro in nome dell’amore e a pretendere e pretendere e pretendere.

Sospirò e si appoggiò di schiena alla parete.

Forse l’amore non era possesso, bensì l’esatto opposto. Ma era possibile amare e offrirsi, senza rischiare di annullarsi nella cieca devozione?

Nella pancia della stufa una timida fiammella cominciò a lambire il ceppo già mezzo consumato che André aveva inserito e pian piano le lingue di fuoco cominciarono a guizzare vivaci. 

-Avvicinati, Oscar, devi scaldarti.-

Lei mosse qualche passo incerto e andò a sedersi sullo sgabello davanti allo scrittoio, abbastanza vicina alla stufa e abbastanza lontana dal corpo di André. Non sapeva spiegarsi il motivo, ma una voce nella sua testa le suggeriva che se si fosse avvicinata troppo all’uno o all’altro si sarebbe in ugual modo scottata. 

Puntò lo sguardo sulle volute rosse delle fiamme e sentì su di sé gli occhi di lui. Le piacque molto e non le piacque affatto. 

-Bisogna ripulire quel taglio, Oscar.-

“Quale taglio?” André si avvicinò e con la punta delle dita spostò il colletto della sua camicia fino a metà spalla. Sfiorò col pollice la ferita che le solcava la pelle e lei prese atto che sì, un taglio c’era. Strinse i denti, ma non per il dolore.

-Aspettami qui.-

Mormorò lui, senza specificare dove intendesse recarsi, e lasciò la stanza.

Quando Oscar si ritrovò da sola, il suo sguardo cadde sul taccuino aperto che faceva bella mostra di sé sul ripiano dello scrittoio. “Un diario”, dedusse dalla data tracciata in alto sulla pagina e dalle poche righe di testo, indubbiamente figlie del pugno di André. Senza alcuna malizia, si ritrovò a leggere.

 

Sono ormai sulla soglia della seconda metà della mia vita. Tra qualche mese compirò trentacinque anni. Dovrei essere grato a Dio per avermi fatto dono di una vita piena e in salute, e di avermi concesso l’inestimabile privilegio di non aver mai dovuto subire la fame e la miseria. Sono stato un uomo fortunato, ma non un uomo completo.

Se mi guardo intorno, mi sembra chiaro che siamo un popolo di infelici. Io ho avuto l’occasione di frequentare i più disparati ambienti, dai più lussuosi ai più umili, e ho constatato che nessun uomo o donna, di qualsivoglia estrazione sociale, è immune a questa piaga. Siamo tutti, indistintamente, servi di qualcuno o di qualcosa. E credo che senza libertà, non possa esistere realizzazione. Ma la libertà è libertà solo se è di tutti. 

Sento che questo mondo marcio sta cambiando, mi accorgo che una nuova brezza sta portando via la polvere dagli occhi offuscati delle persone. 

La notizia della convocazione degli Stati Generali mi inebria di una nuova speranza. Avverto sempre più prossimo il tempo in cui ogni uomo sarà padrone di se stesso, e prego Dio di concedermi abbastanza vita da vedere quel giorno e di poterlo condividere con lei.

 

 

Oscar chiuse il diario, ignorando la tentazione di sfogliare qualche altra pagina. 

Libertà. Molte volte quella parola era comparsa nei loro discorsi, pronunciata sempre con riguardo, quasi con ossequio, come se il termine stesso fosse prezioso. La libertà era un concetto suggestivo e misterioso come una religione. Forse il mondo stava davvero cambiando, ma quanto tempo e quanti sacrifici ci sarebbero voluti?

Con un lungo sospiro, Oscar sollevò dal pavimento il secchio d’acqua, lo bloccò tra le cosce e chinò il capo per pulire il volto e i capelli dalle tracce di sangue e di fango. Provò a tastarsi il naso dolorante e non ebbe dubbi che l’osso fosse rotto. Un bel fastidio, pensò, ma accettabile. Tutto considerato, dovette riconoscere che se l’era cavata piuttosto bene.

Il cigolio discreto della porta annunciò il ritorno di André.

-Dovresti toglierti quegli stracci luridi.-

Le disse dopo un momento di silenzio. Aprì un cassetto ed estrasse una camicia pulita e ben piegata.

-Puoi indossare questa, ma prima ripuliamo quella ferita.-

Oscar annuì. Prese tra le mani il bianco indumento di cotone che lui le stava porgendo e se lo posò sulle ginocchia. 

-Ho chiesto alla padrona un liquore per disinfettare il tuo taglio.-

Spiegò lui appoggiando il fianco al ripiano dello scrittoio.

-Mi ha dato questa bottiglia senza alcuna riluttanza, perciò immagino che non sia affatto roba pregiata.-

Oscar abbozzò un sorriso, prese la bottiglia e bevve un lungo sorso. Non appena quel brodo alcolico le attraversò la gola, il suo viso si contrasse in una smorfia di disgusto. L’acqua putrida della Senna non doveva avere un sapore molto diverso. “Sempre meglio del sapore di sangue” pensò.

Si scoprì la spalla e la offrì alle cure di André, consapevole che il dolore, per quanto intenso, sarebbe durato solo qualche minuto. Lui si chinò su di lei, le posò una mano sul braccio per tenerla ferma e con l’altra versò un filo di liquore sul suo taglio. Mentre l’alcol bruciava sulla ferita aperta purificandola, Oscar mormorò tra i denti stretti:

-Pessimo da bere, ma eccellete come antisettico.-

Lui sollevò un angolo della bocca. Conservò per sé l’ultimo goccio di liquore e lo bevve davanti a lei senza batter ciglio.

-Ti confesso che ho bevuto di peggio.-

Ammise, pulendosi le labbra col dorso della mano.

-Ora dovresti cambiarti la camicia, Oscar.-

Lei annuì e attese che André si voltasse a guardare il fuoco che crepitava nella stufa, quindi, per pudore più che per sfiducia, gli diede anche lei le spalle e si sfilò in fretta gli stracci infangati che le erano rimasti addosso. Sciolse le fasce intorno al seno, le intinse nell’acqua del secchio e le strofinò piano su tutto il busto, scoprendo che la maggior parte delle macchie nerastre sulla sua pelle erano lividi. Quando ebbe finito, esitò a rivestirsi. Si coprì il petto con un braccio e si girò sullo sgabello quanto bastava per riuscire a vedere la sagoma immobile di André davanti alla stufa. Lui era concentrato sul fuoco. Respirava pianissimo e profondamente. Le sue spalle si sollevavano e si abbassavano ad un ritmo lento e costante, le braccia erano incrociate sul petto, la testa era piegata in avanti e i capelli sciolti e folti gli coprivano la nuca e i lati del viso.

Sperò e contemporaneamente ebbe timore che lui si voltasse e provasse a spiarla. Voleva e non voleva il suo sguardo, pur sapendo già che lui, in ogni caso, non avrebbe osato guardarla.

Non era mai stata nuda, nemmeno in parte, in presenza di un uomo che non fosse un medico, eppure in quel momento si trovò a desiderare di essere guardata. Perché quella improvvisa assenza di pudore? Perché stava aspettando con tanta ansia di veder brillare l’occhio sano di André appena oltre il sipario dei suoi capelli neri? Come si sarebbe comportata se fosse accaduto?

Non accadde nulla, naturalmente, e dovette decidersi ad indossare quella camicia. Il cotone ruvido ed umile della stoffa scivolò sulla sua pelle nuda regalandole un brivido di piacere che assaporò ad occhi chiusi.

-Puoi voltarti André.-

Quando ebbe il suo sguardo si sentì a disagio come se fosse stata ancora svestita. Cercò in fretta qualcosa da dire e infine mormorò:

-Penso che mi abbiano rotto il naso.-

-Ti fa male?-

-No, non molto.-

I loro sguardi indugiarono l’uno dentro l’altro finché un grosso nodo del legno dentro la stufa non scoppiò nel fuoco. Allora gli occhi di Oscar precipitarono sulle assi del pavimento.

-So a cosa stai pensando Oscar.-

-Lo sai, André?-

-Non devi preoccuparti per lui. Il Conte di Fersen è stato soccorso dai soldati di Bouillet. Sono sicuro che sia stato condotto incolume a Versailles.-

Oscar si prese i gomiti e si accarezzò le braccia attraverso la stoffa consumata della camicia.

-Non stavo pensando a Fersen.-

Ammise, con voce fiacca.

-Hai freddo?-

Le chiese lui, con quel suo premuroso tono da fratello maggiore dietro cui per anni le aveva nascosto un sentimento molto più tenero. Oscar non lo guardò e non rispose. Freddo? No. Aveva avuto freddo per tutta la vita, ma non in quel momento, non in quella stanza.

-Oscar, sei sicura di sentirti bene?-

Tre passi e la raggiunse, pronto a soccorrerla da qualunque fosse il suo malessere. Le posò una mano sulla spalla, le sfiorò i capelli con le dita e si chinò verso di lei invitandola a rivolgergli lo sguardo.

-Noi due abbiamo rischiato la vita moltissime volte,- disse lei a bassa voce -ci hai mai pensato, André?-

Lui tacque.

-Beh, nemmeno io. Non ho mai dato molto valore alla mia vita né ho mai temuto la morte, perché, in fondo, non sentivo di aver qualcosa da perdere.-

-Che cosa vuoi dirmi, Oscar?-

-Voglio dirti che questa sera ho avuto paura.-

-Questa volta avevi qualcosa da perdere?-

-Sì, tutto.-

Oscar sollevò lo sguardo verso di lui. André era calmo, granitico, consapevole. Aspettava una spiegazione con la stessa aria mite di quando anni prima aspettava di ricevere gli ordini e la fissava con entrambi gli occhi, sì, anche con quello cieco, e la vedeva, lei ne era certa, fin sotto la pelle, ben oltre il visibile. Ebbe l’impressione di essere fatta di vetro, fragilissima e trasparente. Procedette a parlare con cautela, perché il suo cuore batteva troppo forte e lei temeva di potersi infrangere da un momento all’altro.

-Io ho vissuto ad occhi chiusi, me ne rendo conto soltanto ora. Ho preferito non vedere nulla, piuttosto che riconoscere qualcosa che avrebbe potuto spaventarmi o ferirmi. Mi sono lanciata ad occhi bendati nel mondo e a tutti sembravo impavida, mentre sotto la maschera ero la più vigliacca di tutti.-

Guardò gli occhi fermi di André, due specchi d’acqua immobile, e si aggrappò alle sue mani grandi e calde, le strinse per prendere un po’ della loro forza e sentirsi più stabile.

-André, io questa sera ho temuto di perdere non qualcosa che avevo, ma tutto ciò che non ho mai avuto. Non voglio più negarmi di vivere. Non voglio più negarti di vivermi.-

La voce tremava, le labbra tremavano. Premette la bocca semiaperta sulla mano di lui e vi impresse un bacio anch’esso tremante. Sentì che il proprio corpo si crepava, sul punto di esplodere in mille piccoli pezzi e le piacque moltissimo quell’intenso miscuglio di tensione e sollievo.

-André, io senza di te sopravvivo, ma solo quando siamo insieme sento di vivere. Credo di saperlo da sempre e di non essermene mai resa conto fino ad ora.- Sollevò lo sguardo, prese fiato. -André, io ti offro il mio amore più profondo e sincero e con esso la promessa che mi prenderò cura di te e di noi. Ma se mi dirai che è troppo tardi, io... ecco, io lo capirò.-

Lui esitò un momento, poi si piegò sulle ginocchia finché non arrivò a sedersi sui propri talloni. Incontrò il suo sguardo nudo e vibrante su una linea retta e attese un po’ prima di parlare, perché in quel momento lei non gli era mai sembrata tanto bella e avrebbe voluto che il tempo si dilatasse permettendogli di ammirarla più a lungo.

-Oscar, io non ho mai smesso di volerti bene.-

L’azzurro ghiaccio degli occhi di lei si fece acqua.

-Tu mi ami ancora?-

-Sì, Oscar, certo.-

Lei sbatté le palpebre liberando due gocce di pianto.

-Io scenderei con te perfino all’inferno, Oscar.-

Le prese il volto tra le mani e con i pollici asciugò la scia umida delle sue lacrime. Guardò ancora i suoi occhi, lucidi e dolci, e la sua bocca pallida e schiusa, che desiderò con tutto se stesso. Si protese verso di lei, fin troppo consapevole del suo profumo e del calore invitante che emanava il suo corpo, e si spinse a catturare in un bacio leggero il suo carnoso labbro superiore. La sentì fremere e credette di impazzire. La baciò ancora, lentamente, pianissimo e quando lei accennò a stringere le proprie labbra sulle sue, fu travolto da una gioia soffocante. Osò farle scivolare le mani dietro la nuca, sotto la chioma dei suoi capelli e continuò a premere le labbra sulla sua bocca morbida e timida, follemente felice di essere vivo.

Percepì vagamente le mani di lei prima adagiarsi e poi premere sulle proprie spalle. Ascoltò il suono dei loro respiri mescolati, il crepitio discreto del fuoco alle proprie spalle, i timidi schiocchi dei baci sempre più profondi, sempre più esigenti e si rese conto che era tutto vero.

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Capitolo 30
*** Amore e morte ***


Le candele consumavano l’ultima rimanenza di stoppino e lentamente si lasciavano soffocare dalla cera che vi si scioglieva intorno. Il fuoco nella stufa si era estinto ormai da diverso tempo, ma la stanza era piccola e il tepore avrebbe resistito ancora per qualche ora. 

Oscar spostò gli occhi da una ragnatela incastrata tra le travi del soffitto alle fiammelle affaticate delle candele. 

Si sentiva leggera, più leggera dell’aria. Era sicura che avrebbe raggiunto il soffitto fluttuando, se solo non fosse stata trattenuta su quel materasso dal corpo di André, che, al contrario di lei, sembrava aver acquisito più consistenza. Non le dispiaceva sentirlo abbandonato sopra di sé, vinto da quel sonno profondo e beato, che un po’ gli invidiava. Gli accarezzò i capelli mentre ascoltava il suo respiro lento che le si infrangeva contro il collo.

Com’era bello sentire la sua pelle nuda che premeva contro la propria, senza barriere di stoffa, con le forme dei corpi annullate nella pressione, un po’ come se si fossero fuse l’una nell’altra. E lui era caldo e solido e il suo peso non solo era tollerabile, ma perfino gradevole. La faceva sentire protetta e la faceva sentire concreta. 

Ma non riusciva a prendere sonno. Aveva l’impressione di essere rimasta incastrata in un limbo tra sogno e realtà. Il suo corpo rilassato dormiva, ma la sua mente eccitata pretendeva che lei rimanesse vigile. Sapeva che non era il dolore per le botte ricevute in strada né il lieve bruciore nel ventre a tenerla sveglia. Da quando André si era assopito, il cuore le si era riempito di una dolceamara malinconia. Forse, si disse, il motivo di quel vago senso di malessere era proprio la consapevolezza di non essere mai stata tanto vicina alla felicità. 

Sperò che lui fosse felice, abbastanza felice da non aver bisogno di sognare nulla. 

-André, voglio che tu sia felice.-

Gli sussurrò affondando le dita tra i suoi capelli lunghi.

Pensò che avrebbe tanto voluto svegliarlo, farsi accarezzare ancora dalle sue mani e dai suoi occhi e ripiombare nella stessa dolcissima nebbia della passione. Ma lo lasciò dormire e lei ne approfittò per pensare. Non le era mai capitato di pensare così poco come nelle ultime ore, nemmeno durante la sbronza più pesante della sua vita.

Chiuse gli occhi e provò a rievocare tutti quei gesti d’amore che aveva dato e ricevuto seguendo un istinto che non sapeva nemmeno di avere. 

Si erano spogliati a vicenda, si erano guardati a vicenda. Specchiandosi nuda nei suoi occhi si era sentita un po’ più giovane, un po’ più ingenua, ma non aveva provato imbarazzo, solo un dolce tremore, come un senso di sospensione sopra un precipizio, il brivido caldo tipico di ogni prima volta. Si era affidata a lui con il cuore in delirio e le era piaciuto arrendersi, con la consapevolezza di non aver nulla né da vincere né da perdere, soltanto da dare e da ricevere, per naufragare insieme a lui in un tenero dialogo di corpi, in cui nessuno dei due doveva né subire né dominare.

E così, l’amore si era rivelato un meccanismo meravigliosamente semplice e intuitivo. Molto più semplice dell’odio, molto più travolgente della cruda libidine. Spietato nell’esigere l’esasperazione di tutto, corpo e anima, ma anche immensamente generoso.

Oscar ricordava ogni gesto, ogni sensazione, i suoni, gli odori, i sapori, tutto, ma non come se l’avesse vissuto di persona. Più si tratteneva su quelle reminiscenze, più si convinceva che i due amanti che si erano presi su quel letto duro, riempiendo di sospiri quella soffitta cupa, non fossero stati loro due, ma un uomo e una donna che si erano amati e desiderati da sempre in un modo inconcepibilmente folle. Forse valeva per André, ma per lei?

Si chiese se loro non fossero stati amanti già da tempo, senza rendersene conto. “Forse perfino da sempre.”

Di certo quella notte era stata l’epilogo inevitabile di un lungo romanzo insolito, un epilogo rimandato per troppi capitoli o forse, come tutte le cose del mondo, giunto semplicemente a suo tempo. E dopo? Come sarebbe proseguita la narrazione?

Oscar prese atto che dopo quel salto nel vuoto, dopo quella lunga e faticosa immersione in se stessa per scoprire le profondità della donna che era e dopo aver scoperto che il proprio cuore era forte e fragile come quello che sentiva battere nel petto di lui, ora doveva tornare in superficie, alla realtà. 

Mentre pensava al nuovo giorno, con timore e speranza, fissando il riflesso immobile delle candele sul vetro della finestra, si accorse che il respiro di André aveva cambiato ritmo. Smise di accarezzargli i capelli e attese con pazienza che lui sgusciasse fuori dalle braccia di Morfeo per tornare tra le sue. Lo sentì irrigidirsi ed esitare un momento col fiato sospeso, probabilmente impegnato a riordinare le idee e a realizzare di essere sveglio.

-Mi sono addormentato.-

Constatò André con la voce impastata. Si puntellò sui gomiti con un gemito e aggiunse:

-Scusami.-

-Non ti scusare.-

Si trovarono a guardars negli occhi e Oscar capì che nella mente di André si stavano affollando gli stessi pensieri che erano appena passati nella propria testa. I suoi occhi verdi, cupi, ancora lucidi di sonno e appagamento la fissavano con lo stesso sguardo premuroso che le rivolgeva da ragazzino quando, dopo averla vista sbucciarsi le ginocchia per una caduta, correva ad assicurarsi che lei non si fosse fatta male.

Gli sfiorò la guancia abbozzando un sorriso.

-Le candele si stanno consumando. È rimasta poca luce.-

Mormorò lui sfregandosi l’occhio sano.

-È vero.- 

-Vuoi che accenda un’altra candela, Oscar?-

-No, non ti preoccupare. Credo che non manchi molto all’alba.-

-Ho dormito a lungo?-

-No, non tanto a lungo, credo.-

-Tu hai dormito?-

-No.-

-Per colpa mia?-

Oscar scosse la testa e gli spostò un ciuffo di capelli dall’occhio cieco.

-Devo andare via prima che sorga il sole.-

Mormorò ruotando gli occhi verso la finestra. La notte al di là dei vetri era ancora scura, ma lei era certa che il buio non sarebbe durato ancora per molto.

-È meglio che io mi faccia trovare in caserma prima che i soldati di ronda facciano ritorno nelle camerate per il cambio di guardia.- continuò a spiegare a bassa voce -Dirò che sono tornata in caserma subito dopo l’aggressione a Saint Antoine. Nessuno potrà smentire le mie parole se nessuno mi vedrà rientrare.-

-Certo, capisco. Dobbiamo stare attenti.-

-Sì.-

André sollevò una mano per raccogliere un lato del suo viso nel proprio palmo e appoggiò le labbra su un angolo della sua bocca, baciandola con struggente lentezza, come se stesse assaggiando un dolce troppo buono per essere divorato in fretta.

-Sono consapevole che d’ora in avanti la nostra vita sarà molto più complicata, Oscar- le sussurrò piano -ma non ho dubbi che sarà anche molto più bella.-

 

 

 

 

 

 

Oscar scrutò attentamente la strada immersa nella penombra turchese dell’aurora. Non c’era nessuno. Nessun rumore. Era sola.

Montò in sella a Cesar e uscì dal buio del vicolo per inoltrarsi nella via deserta. Soffiava un vento gelido da nordest, brutale come uno schiaffo, ma indispensabile per mantenere cristallini i pensieri. 

“Com’è freddo il freddo oggi.”

Pensò, stringendosi forte negli abiti che le aveva prestato André. La stoffa era grossa e ruvida, ma il freddo riusciva ugualmente a penetrarla.

Guardò il cielo. Anche lo scintillio delle stelle più luminose stava ormai svanendo nel chiarore dell’alba. A breve il sole sarebbe sorto, ma Oscar era sicura che sarebbe riuscita a raggiungere la caserma in tempo per veder brillare i primi raggi di luce direttamente dalle finestre del proprio ufficio.

Passò davanti alla bottega di un fornaio e sollevò il naso aspettandosi di percepire il profumo della prima infornata di pane, ma, quando fu abbastanza vicina, notò che il negozio era sprangato e i vetri erano distrutti. Evidentemente era stato saccheggiato da qualche banda di Parigini affamati.

“Dunque ora anche il pane è un privilegio per ricchi.”

Pensò triste. Il senso di appetito che le aveva fatto desiderare una robusta colazione dopo aver trascorso l’intera giornata precedente senza toccare cibo, di colpo fu sostituito da un senso di nausea.

Alimenti di ogni genere, in spropositate quantità, invadevano giornalmente le tavole di Versailles e lì nessuno -nemmeno lei, quando ancora frequentava la Reggia- si dispiaceva se un tozzo di pane caduto sul pavimento veniva buttato via. A Parigi probabilmente anche un tozzo di pane raffermo o muffito era sacro come una particola.

“Ed io? Quanto cibo ho sprecato nella mia vita? Quante persone si sarebbero potute sfamare con tutti gli avanzi del mio piatto?”

Un ricco poteva mangiare quanto voleva, quando voleva, qualsiasi cosa volesse, mentre un povero il pane doveva guadagnarselo con la fatica. Oscar, personalmente, di fatto metteva poco cibo sotto ai denti, più per mancanza di tempo che di denaro, ma non conosceva l’ansia di dover lottare, rubare, vendersi o perfino uccidere solo per introdurre qualcosa nello stomaco. La fame, la fame vera, quella dei crampi nella pancia, quella che toglie il sonno e la ragione, Rosalie gliel’aveva raccontata e lei ne era rimasta impressionata, ma -non si illudeva diversamente- solo provandola sulla propria pelle l’avrebbe potuta davvero capire.

Scoprì di essere amareggiata, ma non sorpresa. I mesi nella Guardia di Parigi le avevano insegnato, tra le altre cose, a non stupirsi più di nulla. Aveva ormai accettato l’idea che la città fosse un’arena in cui si doveva combattere anche all’ultimo sangue per sopravvivere. Aveva visto di persona scene raccapriccianti, altre ne aveva lette nei resoconti delle ronde dei soldati. E infine lei stessa aveva subíto sulla propria pelle la rabbia cieca della popolazione solo una manciata di ore prima. Il malcontento impregnava l’aria come minuscole particelle di polvere da sparo. Tutta la Francia era una gigantesca polveriera.

-Forse non è un tempo adatto per vivere un amore.-

Mormorò tra sé. Ma, in fondo, c’era mai stato un tempo adatto per lei e André? 

No. Se anche quel genere di sentimento fosse emerso molti anni prima, la situazione sarebbe stata simile, forse perfino peggiore. Ora capiva, sì, capiva con sincera compassione la tragedia dell’amore di Fersen e Maria Antonietta, costretti ad amarsi nell’ombra e in silenzio, nei ritagli di tempo rubati alle loro vite impegnate, perseguitati dalle malelingue e dal fango pronto a ricoprire le loro reputazioni come una spada di Damocle sospesa sulle loro teste. Un amore corrisposto, ma impossibile era drammatico quanto un amore non corrisposto, ma possibile. 

-Oh, André, cosa possiamo fare? Rintanarci in un angolo ad aspettare che giunga il tempo in cui ogni uomo sarà padrone di se stesso?-

Mormorò ripensando alla pagina di diario che aveva letto la sera prima. No, non bastava aspettare e sperare. 

“Forse posso sfruttare la mia influenza, il mio denaro e il mio ruolo per uno scopo più nobile della semplice ascesa nella carriera militare.”

Si chiese se ne sarebbe stata capace, se sarebbe stata abbastanza forte.

Si piegò in avanti sulla sella, affondando il più possibile nei vestiti di André ed ebbe l’impressione di rintracciarvi un po’ del suo buon odore di cuoio e lavanda. 

Finché si era trovata tra le mura di quel tiepido sottotetto trasformato in alcova, la bruttura del mondo le era parsa innocua, i problemi rimandabili, la legge frangibile e le convenzioni superficiali. Ma in quel momento, nel silenzio gelido di Parigi, si rese conto che l’amore, per quanto profondo e sincero, tendeva ad offuscare la coscienza e che da solo non era affatto sufficiente a procurare la felicità completa. Era difficile avere un cuore così traboccante di belle sensazioni e doverlo ammansire con la frusta della ragione, eppure andava fatto.

“Amare et sapere vix Deo conceditur.” *

-Ah, quanto è vero.-

Sospirò e abbandonò in avanti la testa, pensando che, forse, il tempo in cui lei e André sarebbero stati finalmente liberi, sarebbe arrivato dopo molto tempo, o chissà, con la vecchiaia, magari, oppure non sarebbe nemmeno mai arrivato. 

 -Mio Dio, non la svegliare questa Insidia, falsa, che ci reca dolore; ah, che non possa mai svegliarsi! Fa’ svelta, parla piano: dammi dimora in mezzo alle tue braccia!-

Oscar trasalì e tirò le redini. Cesar si fermò all’istante come se anche lui fosse rimasto turbato da quelle parole che d’improvviso erano vibrate nell’aria.

Quella voce, quella poesia... un ricordo sbiadito di un’alba di moltissimi anni prima. Si guardò intorno. Non aveva motivo di credere di esserselo immaginato. 

Scavò con gli occhi nell’oscurità bluastra dei vicoli, finché non notò un’ombra nera staccarsi dal buio di una strada e strisciare verso la luce fioca. Un’esile vecchia avvolta in un ampio mantello scuro si affacciò sulla via e scoccò ad Oscar uno sguardo maligno mostrandole un paio di occhi bianchissimi e opachi.

-Tu porti con te amore e morte.-

Gracchiò la vecchia con una voce rauca da corvo. Oscar la fissò col fiato sospeso, faticando a trattenere Cesar che scalpitava nervoso, poi diede un colpo secco alle redini e il cavallo scattò in avanti portandosi al trotto.

“Amore e morte?”

Strinse gli occhi e scrollò la testa per scacciare dalla mente quella visione inquietante. Si concertò sul percorso verso la caserma, impaziente di arrivare a destinazione, per potersi cambiare gli abiti e medicare il naso rotto. I doveri quotidiani sarebbero stati un buon modo per piantare di nuovo i piedi per terra dopo quella breve visita notturna nei pressi del Paradiso.

Mentre sobbalzava sulla sella al ritmo serrato del cavallo, si accorse per caso che qualcosa tintinnava nella tasca sinistra della giacca di André. Incuriosita, vi immerse la mano e si ritrovò tra le dita una boccetta di vetro azzurro piena di un liquido cristallino. Fece rallentare Cesar in vista dei cancelli della caserma e tolse il tappo della fiala.

“Un’essenza” pensò non appena ne percepì l’intenso profumo speziato. Le sembrò un odore familiare, ma non riuscì ad associarlo a nessun ricordo preciso. Si domandò per quale motivo André conservasse una boccetta di essenza in una tasca della giacca, poi scrollò il capo e pensò “Non è affar mio.”

Ripose la boccetta dove l’aveva trovata e sollevò gli occhi sulla facciata grigia e sobria della caserma. L’aurora pallida stava tingendo di rosa le sottili nuvole che percorrevano il cielo e il vento si era calmato. 

Era il primo giorno di una vita nuova, si disse sospirando, “più complicata, ma più bella”.

Il silenzio nel cortile della caserma era assoluto, le ombre gettate dall’edificio erano lunghe e violacee sulla piazza d’armi. Nessuno la vide arrivare.

 

 

 

 

* “Bisognerebbe essere un dio per poter avere contemporaneamente amore e saggezza.”

Publilio Siro

 

 

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Capitolo 31
*** Donne e veleni ***


Cinque gocce d’essenza di rose. Non una di più né una di meno. Marron era stata molto chiara a riguardo. Il bagno era un momento sacro per Madamigella Oscar, un vero rito, e necessitava di essere preparato con la massima cura. La dose di essenza nell’acqua doveva essere precisa, in modo che la fragranza sprigionata arrivasse carezzevole e non nauseante alle sofisticate narici della padrona. 

Annette seguì tutte le indicazioni che aveva ricevuto da Marron e, dopo aver svuotato l’ultimo calderone d’acqua calda nell’elegante vasca di ceramica, inclinò la boccetta di essenza e contò cinque gocce.

“Mi piacerebbe sapere cosa si prova a fare un bagno caldo distesa comodamente in una bella vasca come questa.”

Pensò mentre riponeva la boccetta di essenza nel cassettino della toilette. Quando risollevò gli occhi, si trovò davanti la propria immagine riflessa nello specchio del mobile. Aggiustò dietro all’orecchio una ciocca di capelli sfuggita dalla cuffia e si osservò per bene. Dal giorno in cui era entrata in servizio a Palazzo come domestica, non aveva mai smesso di sentirsi ridicola con quegli abiti lisci e scuri e quella cuffietta da scolara. Eppure -doveva ammetterlo- quell’abbigliamento severo era l’unica vera nota dolente del suo nuovo mestiere. Lavorare a Palazzo Jarjayes le piaceva. Le era piaciuto fin da subito. L’ambiente era sereno, le persone cordiali, i padroni non erano quasi mai in casa e quando c’erano quasi non ci si accorgeva della loro presenza. La paga era onesta e garantita, così com’era garantito il cibo -umile ma buono- e un letto -umile ma comodo.

Parigi non le mancava affatto, Louis però sì. Non si era dimenticata della promessa che gli aveva fatto e aveva tutta l’intenzione di mantenerla. Ma aveva scoperto con disappunto che non era affatto facile trovare un modo per uccidere una persona e poi sperare di farla franca.

Cercò ancora la propria immagine sullo specchio mentre il vapore cominciava ad appannarne la superficie. 

La sera precedente, quando a Palazzo era giunta voce che Madamigella Oscar fosse rimasta coinvolta in un linciaggio nei vicoli di Parigi, Annette aveva segretamente gioito, sperando che quella sventura le avesse tolto l’impiccio di dover pensare ad un omicidio. Per tutta la notte non si era saputo nulla della figlia del Generale, finché quella stessa mattina Oscar non si era presentata di persona a Palazzo sul suo cavallo bianco, scortata da un paio dei suoi soldati. Il Generale aveva convocato immediatamente un paio di dottori, ma non si era rivelata una mossa così necessaria. Madamigella Oscar contava un naso rotto, una ferita sulla spalla e parecchi lividi, ma niente di grave. Tutto il Palazzo aveva tirato un sospiro di sollievo, tranne Annette.

“Deve essere fatta di ferro.”

Si disse con uno sbuffo stizzito.

-Annette, dico bene?-

La voce di Oscar, secca come un colpo di pistola improvviso, la fece trasalire. D’istinto compì un rapido mezzo giro su se stessa, che terminò con un profondo inchino. Mentre fissava il pavimento con le ginocchia piegate, sperò di non aver pronunciato ad alta voce i pensieri in cui stava indugiando. Il vapore sullo specchio le aveva impedito di accorgersi che Madamigella Oscar era entrata nella stanza.

-Hai messo cinque gocce di essenza di rose?-

Le chiese Oscar esaminando l’acqua nella vasca con un’occhiata critica. 

-Sì, ho fatto tutto come mi ha spiegato la governante.-

Oscar stirò le labbra e sospirò compiaciuta.

-Avvicinati.-

Annette avanzò con gli occhi bassi e le mani incrociate in grembo.

-Desidero che. d’ora in avanti, sia tu ad occuparti di preparare i miei bagni, Annette, a patto che tu non rimanga ad assistervi. Sono stanca di avere qualcuno che mi svolazza intorno mentre sono nella vasca. Marron proprio non vuole capire che è un momento in cui io ho bisogno di stare da sola. Oggi in modo particolare.-

Annette si limitò ad annuire senza alzare lo sguardo.

-Per la prossima volta, ti chiedo di sostituire l’essenza di rose con quest’altra.-

Aggiunse Oscar estraendo da una tasca del pantalone una piccola boccetta azzurra. La consegnò ad Annette che se la lasciò cadere subito nella tasca del grembiule.

-Molto bene, Madamigella, come desiderate. Posso esservi utile ora?-

-Aiutami a togliere la camicia, per favore. Faccio fatica ad alzare un braccio.-

Annette prese i lembi dell’indumento con la punta delle dita e glielo sfilò c delicatamente dalla testa. Per un istante, mentre il capo di Oscar spariva nella stoffa per attraversare il collo della camicia, Annette posò gli occhi sul suo busto snello e chiazzato di lividi e sui suoi seni piccoli e pieni. Fece in tempo a riconoscere che no, Madamigella Oscar non era fatta di ferro proprio per niente, poi deviò in fretta lo sguardo verso il caminetto.

-Bene, ti ringrazio. Sei libera di andare.-

Disse Oscar in tono sbrigativo avvolgendosi il seno tra le braccia e voltandosi verso la vasca.

Annette piegò le ginocchia in un’ultima riverenza e scivolò fuori dalla stanza senza alzare lo sguardo. 

“È solo una donna come me” si disse mentre attraversava il corridoio. Si fermò davanti ad una finestra che si affacciava sul parco della villa e sospirò osservando il cielo spruzzato di bianco.

Una donna, solo una donna. Una donna adulta, senza un marito, libera di cavalcare da sola, di stare da sola in una stanza con un uomo, di rispondere ad un uomo, di dare ordini ad un reggimento intero di uomini. 

Annette era abituata a credere alla formula biblica della donna creata dalla costola dell’uomo e perciò proprietà dell’uomo stesso. Non che avesse mai letto la Bibbia, lei sapeva leggere a stento. I passi del Vecchio Testamento glieli raccontava sempre il prete che, quando Annette era ancora una bambina, aveva prestato un alloggio a lei e a sua madre, per pochi soldi e qualche favore. Oh, se lo ricordava bene quell’uomo di chiesa, grosso e rubicondo, che settimanalmente si presentava per riscuotere il pagamento dell’affitto e intanto dava lezioni di catechismo. “Una donna non è nulla senza un uomo. Il mondo è dei maschi.” Il succo era quello, ma formulato attraverso solenni frasi in latino che lei, una bimba ingenua e spaventata da tutto, aveva percepito come una tremenda sentenza divina impossibile da contestare. Dopo aver visto per anni la propria madre vendersi per disperazione e dopo averlo fatto lei stessa, suo malgrado, per mestiere, Annette aveva distillato la sua esperienza di vita in un solo basilare insegnamento: l’unico modo per una femmina di sottomettere un maschio, era fargli desiderare il proprio corpo.

Madamigella Oscar, invece, rappresentava una straordinaria eccezione. Lei non aveva bisogno di rivolgersi all’istinto animale maschile per essere presa in considerazione. Annette aveva notato benissimo gli sguardi di ammirazione che le avevano rivolto i due soldati che l’avevano accompagnata a casa quella mattina. Gli uomini le ubbidivano, la stimavano, qualcuno la amava perfino con sincero slancio, come il malinconico André e come il bel Visconte che aveva chiesto la sua mano poco tempo prima.

Tutto considerato, Madamigella Oscar era più maschio di un maschio. Aveva l’intelligenza, il carisma e la disinvoltura di un uomo del suo rango, ma non le stesse debolezze carnali né la stessa prepotenza nei confronti del gentil sesso. Una personalità così forte, in un corpo apparentemente così delicato.

“Tanto forte da rappresentare una minaccia per Louis!” pensò affondando le mani nella tasca del grembiule.

Annette doveva ammettere che la ammirava, sì, la ammirava molto. Madamigella Oscar era la prova che in un mondo di proprietà dei maschi, una donna poteva valere quanto -o addirittura più di- un uomo, se le si accordavano gli stessi diritti e le venivano affidate le stesse responsabilità.

Si pentì della promessa fatta a Louis. Non voleva essere responsabile della morte di una persona tanto speciale. Eppure era anche convinta che fosse un atto necessario per garantire la libertà di azione al proprio amante. Che fare quindi? E, comunque, come fare?

Mentre divagava, quasi senza accorgersene estrasse la boccetta di essenza dalla tasca, la stappò soprappensiero e prima ancora di avvicinarla al naso, ne riconobbe la fragranza.

-Oh, questa è proprio bella!- 

Esclamò ad alta voce. Una pingue cameriera dall’aria bonaria si affacciò da una porta e chiese ad Annette con chi stesse parlando. Annette fece rapidamente sparire la boccetta nella tasca del grembiule e sfoggiò un largo sorriso.

-Nulla, nulla! Pensavo ad alta voce!-

Minimizzò. Il volto paffuto della cameriera si tese in un’espressione stupita e poi si dileguò, permettendo ad Annette di tornare alle proprie riflessioni.

Oh, lei conosceva bene le proprietà di quell’olio profumato, in passato se n’era servita per attrarre alcuni clienti. Era un afrodisiaco piuttosto efficace e molto particolare.

“Dunque anche Madamigella Oscar ha i suoi trucchi per farsi apprezzare!”

Annette sorrise divertita. Forse aveva esagerato nel celebrare l’eccezionalità di Oscar François de Jarjayes. Poteva essere che anche lei, per conquistarsi il cuore degli uomini, giocasse con il loro desiderio? Annette scosse la testa indecisa. In verità, lo riteneva improbabile. Forse la giovane Jarjayes nemmeno si rendeva conto di voler fare dei bagni di afrodisiaco, di quell’afrodisiaco in particolare, per giunta. Anzi, di certo ne ignorava completamente gli effetti collaterali. Se avesse saputo quanto poteva essere letale una dose eccessiva di quell’elisir d’amore, forse non le sarebbe venuto in mente di usarlo in quel modo.

Annette tornò a guardare il cielo oltre i vetri. In lontananza, verso Parigi, le nuvole si stavano raggrumando ed ingrigendo. Prima di sera avrebbe piovuto. 

Si chiese se il veleno dell’elisir agisse anche per inalazione, attraverso il vapore del bagno. Ah, se così fosse stato, sarebbe stata una soluzione elegante e pulita per mandare al Creatore la figlia del Generale, senza sporcarsi le mani. Forse non si sarebbe nemmeno dovuta sentire in colpa, avrebbe ricordato a se stessa di aver soltanto eseguito una richiesta della padrona. E se quel metodo si fosse rivelato inefficace, la faccenda si sarebbe potuta risolvere facilmente con qualche goccia in un bicchiere di vino. Un giochetto da nulla.

Quell’elisir doveva essere giunto fino a lei per mano della provvidenza. Era evidente che il destino stesse dalla parte di Louis, perciò non le restava altro da fare che assecondarlo.

Prese un respiro profondo e ricominciò a camminare verso l’ala della servitù.

“Madamigella Oscar, vi siete procurata la corda per il vostro cappio.”

 

 

 

 

 

Il vento freddo di fine febbraio graffiava i volti appassiti dei cittadini che si erano riuniti in un piccolo spiazzo non lontano dall’Abbazia di Saint-Germain-des-Prés. Bernard teneva comizio in piedi su un carretto di legno, agitando le braccia per dare enfasi alle parole. La gente lo ascoltava, borbottava e annuiva ad sua ogni affermazione e, quando egli alzava la voce per rimarcare i concetti, partecipava con esclamazioni e apprezzamenti. 

André si strinse nel proprio mantello e rimase in disparte, appoggiato al muro umido di una casa. Mentre ascoltava in silenzio le parole del fratello, scrutava i volti cupi degli astanti, trovandovi solo denti digrignati e sopracciglia aggrottate. 

Il discorso di Bernard era come lui, arguto ed brillante, un po’ colto e un po’ rozzo nel linguaggio, ma molto equilibrato nei concetti. Parlava di giustizia, fratellanza, equità, conciliazione. Tutte belle parole e nobili princípi, eppure -notò André- la gente si scaldava solo quando venivano nominate le tasse, la Regina o qualche brutto fattaccio di cronaca.

“Il popolo comprende solo ciò che vuolecomprendere.”

Pensò André con un sospiro. 

Bernard concluse il suo comizio al tramonto, appena prima che qualcuno cominciasse a sbadigliare per la noia o per la fame. I comizi, anche quelli più accesi, diventavano indigesti se tirati per le lunghe. I Parigini erano gente pratica, abituata ad ascoltare le parole di un tizio su un carretto per il tempo di una messa e non oltre.

Mentre la folla cominciava pigramente a disperdersi, Bernard scese con un balzo dal suo palco improvvisato e si aggregò ad un gruppo di uomini che si stava dirigendo verso la Senna. 

André lo seguì.

-Bernard!-

Il giornalista si arrestò, fece un mezzo giro su se stesso e accolse il fratello con un largo

sorriso.

-Ah, André, non mi aspettavo di vederti.-

Gli disse, stampandogli un’energica pacca sulla spalla, poi si voltò verso i compagni che si erano fermati ad aspettarlo e li invitò a proseguire senza di lui.

-Lo sai, avevo deciso che sarei venuto a farti visita questa sera o al più tardi domani mattina.-

Esclamò Bernard allegro.

-Buone notizie, immagino.-

-Oh sì.-

-Ti ascolto.-

-Ah, fa troppo freddo qua fuori per parlare in santa pace e poi ho fame. Vieni a cena da me. Non accetto un rifiuto.-

André sorrise e annuì.

-Rosalie sarà molto contenta di vederti.-

Si avviarono insieme sul ponte verso la sponda opposta del fiume, mentre il cielo si preparava ad accogliere un luminoso crepuscolo opalino.

-Ti trovo bene, André. Ti è accaduto qualcosa di buono ultimamente?-

-No, niente di particolare.- mentì lui lanciando un’occhiata distratta alle acque grigie del fiume -Anche io ti trovo bene. Mi è piaciuto molto il tuo discorso poco fa.-

-Ti ringrazio.- Bernard esitò un momento poi continuò scrollando le spalle -Sai, André, a volte mi sembra che la gente sia stanca di ascoltare i miei sermoni. Le persone hanno voglia di agire, sono piene di rabbia. Lo sai bene anche tu che è così, l’hai visto tu stesso a Saint Antoine. Disordini come quello in cui sei finito in mezzo tu sono sempre più frequenti.-

André rivolse lo sguardo ai propri stivali che affondavano nella fanghiglia nerastra della strada e confermò con un cenno della testa e un mugolio assorto.

-A proposito, come sta Oscar?-

Gli occhi di Andre rimasero bassi.

-Sta bene, mi ha scritto che si è rimessa in fretta. Però non so dirti altro di lei. Non la vedo da quella sera.-

“Non cercarmi nei prossimi giorni, André, ti cercherò io. Perdonami, ma è un periodo difficile. Spero che tu capisca.” gli aveva detto lei in un sussurro, appena prima di fuggire dal suo appartamento. Lui aveva accettato quelle condizioni senza discutere, un po’ come se le avesse già messe in conto da sé. D’altra parte lei gli aveva solo chiesto di avere pazienza e lui si era esercitato per una vita intera ad essere paziente, perciò non aveva fatto storie. Andava bene così. Era abituato ad aspettarla.

Oscar poteva sembrare impulsiva e imprevedibile, ma, in realtà, aveva una coerenza tutta sua e anche dei tempi tutti suoi. Era fedele alle proprie abitudini, come una rondine che ogni primavera -né prima né dopo- torna sempre nello stesso nido. 

André lo sapeva. Quando nella quotidianità di Oscar irrompeva una novità, cercata o casuale che fosse, lei si sceglieva un eremo in cui ritirarsi e non ne veniva fuori finché quella novità non smetteva di essere nuova. Per la sua testa rigida e disciplinata, i cambiamenti erano eventi drammatici come terremoti e lei aveva bisogno di tempo per riassestarsi. L’ultima volta che si era innamorata, ad esempio, aveva preso Cesar e poche provviste e si era isolata per diversi mesi in Normandia ad anatomizzare il proprio cuore in completa solitudine.

André era sicuro che tra turni sfiancanti e pile di documenti da firmare, Oscar stesse gradualmente trovando un posto all’interno dei propri schemi di vita per tutto ciò che comportava quell’amore complicato, da cui era era stata travolta -senza dubbio- contro ogni sua previsione. 

E lui aspettava, cosa che gli riusciva ormai piuttosto bene. Sperava soltanto che questa volta il suo isolamento non durasse dei mesi. 

E mentre pensava a lei, che forse in quel momento stava facendo mettere in riga i soldati per leggere loro i turni della giornata successiva, gli venne da formulare una domanda che non aveva nulla a che fare con le immagini che gli passavano per la mente:

-Bernard, credi che si potrebbero ripetere qui in Francia gli stessi avvenimenti dell’America?-

Bernard si voltò verso di lui con un’aria vagamente stupita.

-Una rivoluzione, dici?-

-Esatto.-

Bernard si strinse nelle spalle e sospirò.

-Non lo so, André. La popolazione francese è scontenta e astiosa ma non ha né i mezzi né l’intelligenza per organizzare una vera rivoluzione. Francamente non lo ritengo possibile, però, se dovesse avvenire, temo che le acque della Senna non si colmerebbero di foglie di tè come a Boston, ma di sangue.-

L’immagine macabra della Senna tinta di rosso accompagnò il loro silenzio finché non raggiunsero l’appartamento di Bernard e ci volle il dolce e fresco sorriso di Rosalie per alleggerire i loro pensieri.

-André, tu qui. Come sono contenta.-

Cinguettò allegra facendosi consegnare i mantelli.

-Spero di non recarti disturbo, Rosalie.-

-Oh, non dirlo nemmeno, André! Le tue visite sono sempre gradite. Non siamo forse una famiglia?-

Gli disse sorridendo e abbassando poi la testa per cercare di nascondere una lacrimuccia salita a velarle gli occhi. André finse di ignorare la sua commozione. Aveva imparato col tempo, conoscendola, che la sua tendenza al pianto non era sintomo di debolezza, ma di buon cuore. Dietro l’apparenza fragile, Rosalie nascondeva un carattere molto determinato.

-Spero che Madamigella Oscar sia in salute.-

Disse lei riprendendo la parola, mentre riponeva i mantelli sullo schienale di una sedia.

-Sì, grazie, Oscar sta bene. È solo molto impegnata.-

-Salutamela, mi raccomando.-

-Lo farò.-

Rosalie annuí e strinse le labbra come se cercasse di trattenere una risata, poi lanciò un’occhiata di intesa a Bernard che a sua volta  la guardò complice.

-Gliel’hai detto?-

Chiese al marito, ad alta voce, ma col tono di chi non vuole farsi sentire. Bernard scosse la testa e sollevò una mano per grattarsi la nuca come un ragazzino timido a cui viene chiesto di recitare una filastrocca di sua invenzione.

André osservò incuriosito i loro atteggiamenti, notò i loro sorrisi un po’ euforici e un po’ nervosi e trasse in pochi secondi le sue conclusioni.

Raccolse le mani di Rosalie tra le proprie e con un sorriso emozionato le disse:

-Rosalie, tu aspetti un figlio, non è così?-

 

 

 

 

 

Oscar curvò le labbra in un freddo sorriso di circostanza, sforzandosi di dare un tono cordiale alla voce per non tradire l’impazienza.

-Vi dispiace se lo aspetto qui?-

La padrona di casa appoggiò un braccio allo stipite della porta del proprio appartamento e sbuffò dal naso.

-Se vi preme di restare, restate. Però sappiate che non gradisco affatto che un soldato si aggiri per casa mia a quest’ora della sera.-

Oscar stirò le labbra e si portò una mano sul petto.

-Madame, sono un Ufficiale.-

Puntualizzò gentilmente, esibendo il proprio ruolo come una garanzia di buona condotta. Ma la bellicosa massaia fraintese.

-Oh, certo, un Ufficiale. Perdonatemi se non ho riconosciuto il vostro grado, Colonnello.-

Oscar provò a spiegarsi ma l’altra non glielo permise.

-Se André non torna entro un’ora, vi pregherei di andarvene.-

Esalò tutto d’un fiato senza sforzarsi di essere cortese e richiuse la porta con un colpo secco.

“Un‘indole da Generale.”

Pensò Oscar con un sogghigno, mentre si sedeva sul terzo gradino della rampa di scale, sotto la fioca luce della lanterna ad olio appesa alla parete. Posò accanto alla propria coscia la bottiglia di vino che aveva portato con sé e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, imponendosi di dimenticare, almeno per il momento, la mole di impegni che si era lasciata alle spalle in caserma. 

Il suo sguardo fu attratto dalle proprie mani. Si sfilò i guanti candidi e provò a chiudere a pugno la mano destra. Per settimane si era esercitata con costanza e ormai era in grado, senza particolare fatica, di piegare le falangi abbastanza da riuscire a toccarsi il palmo con la punta delle dita. Ma non c’era più forza, né agilità in quella mano. Deglutì per non lasciarsi sopraffare da un senso di amarezza. Non riusciva ad afferrare più nulla in modo saldo, nemmeno una piuma d’oca. Aveva dovuto imparare a firmare i documenti con la mano sinistra ed era stata costretta a chiedere a D’Agoult di ricoprire, all’occorrenza, la carica di scrivano per suo conto. Quando D’Agoult non era disponibile, Oscar si affidava ad Alain, l’unico tra tutti i soldati capace di scrivere sotto dettatura con una calligrafia comprensibile e in modo pressoché corretto. 

Pensare ad Alain la incupì. Estrasse da una tasca della divisa un sacchetto di cuoio e se lo passò tra le mani soppesandolo con attenzione. 

“Piuttosto leggero per essere la paga di un intero mese.”

Osservò tra sé mentre si portava una mano sulle labbra per contenere un colpo di tosse.

“Quest’atrio è pieno di spifferi.”

Affondò il collo nel bavero della divisa.

“Spero che André non abbia in progetto di passare la notte fuori.”

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Capitolo 32
*** Il cuore dei soldati ***


Per più di un’ora Oscar si consumò gli occhi a fissare la punta infangata dei propri stivali. 

“Avrei dovuto avvisarlo.”

Pensava amareggiata, mentre scandiva il tempo battendo nervosamente i tacchi sul legno del gradino.

Aveva freddo, era stanca. La giornata era stata faticosa -come del resto tutta la settimana - e lei non desiderava altro che spegnere i pensieri e godersi il piacere di condividere un bicchiere di vino con lui. André, il quieto, gentile André, forse l’unica nota dolce della sua vita aspra, pensò mentre un accenno di sorriso le piegava le labbra. Richiamò alla mente il ricordo di quel bambino malinconico che suo padre aveva fatto cucire nella trama della sua vita, con quei suoi due limpidi occhi verdi da lince, con le sue premure da fratello maggiore e con i suoi consigli da amico maturo.

Sospirò mordendosi un unghia. Doveva essere ormai quasi mezzanotte. Non dubitava che la padrona della casa non vedesse l’ora di affacciarsi dalla porta del proprio appartamento per intimarle di togliere il disturbo. Cominciò a valutare l’idea di andarsene di propria volontà pur di risparmiarsi l’umiliazione di essere cacciata, quando di colpo dal retro della casa risuonò un tintinnio di chiavi, seguito dallo scatto di una serratura e da un cigolio di cardini. Si alzò dal gradino con un tuffo al cuore.

André varcò la soglia della porta del retro, ma non si accorse subito di lei. Aveva gli occhi bassi, un’espressione serena e distratta sul viso. Non appena sollevò per caso lo sguardo e la vide, trasalì come se si fosse imbattuto in un fantasma e a stento riuscì a tenere le dita salde intorno al gancio della lanterna che aveva in mano.

-Oscar?-

Dopo un attimo di smarrimento, avanzò verso di lei con un sorriso sulle labbra e la voce prigioniera dello stupore.

-Ho pensato che sentissi la mancanza del buon vino di Borgogna, André, così te ne ho portato una bottiglia.-

Spiegò lei con un sorriso dolce, cullando la pregiata bottiglia tra le mani. André le sfiorò la guancia con le nocche e a bassa voce ammise di non aver sentito la mancanza soltanto del vino.

-Sai, Oscar, capiti a proposito: abbiamo qualcosa di bello a cui brindare.-

-Buone notizie?-

-Sì, buone notizie.-

La precedette sui gradini tenendo sollevata la lanterna sopra la testa per farsi strada nel buio della rampa delle scale. Non appena raggiunsero la stanza nel sottotetto, lui si dedicò ad accendere il fuoco ed Oscar andò a sedersi sul bordo del letto.

-Ecco,- annunciò lui quando la scintilla dell’acciarino colpì la legna -la stanza si scalderà presto.-

Lei annuì e si portò una mano davanti alla bocca per smorzare un cupo colpo di tosse.

-Non stai bene, Oscar?-

-Sto bene. È da qualche giorno che si è presentato questo fastidio alla gola…Ma non è nulla, davvero, deve essere la conseguenza di un colpo di freddo preso dopo un bagno caldo.-

André annuì piano.

-E sicuramente aspettarmi in quell’atrio pieno di spifferi non ti ha giovato. Se avessi saputo che saresti venuta qui...-

Lei fece ondeggiare la testa e mormorò tra le labbra un frettoloso non preoccuparti.

-Dimmi, piuttosto, quali sono queste buone notizie?-

Soggiunse, rinvigorendo la voce. André si limitò a sorridere enigmatico. Rigirò tra le mani la bottiglia di vino e incurvò all’ingiù gli angoli della bocca con aria compiaciuta scrutando il liquido scuro attraverso il vetro. 

-Hai scelto un’ottima annata.-

Commentò.

-Una delle migliori, André.-

Lui si sedette accanto a lei, versò il vino in un bicchiere e, mentre glielo porgeva, le annunciò con voce morbida:

-Rosalie aspetta un bambino.-

Oscar trattenne il fiato, poi prese il bicchiere tra le mani sfiorandogli le dita e sorrise.

-Davvero?-

Lui annuì.

-Sono stato ospite di Rosalie e Bernard per cena. Dovresti vederli, esplodono di gioia.-

-Mi fa davvero piacere.-

-Anche a me. Rosalie merita di avere una famiglia vera.-

Fecero scontrare la bottiglia e il bicchiere nel brindisi e presero un sorso di vino ciascuno.

-Sai, ho sempre amato molto l’inverno.- disse lui ad un tratto, con occhi bassi e un sorriso distratto  -L’inverno... ti assomiglia.-

Oscar abbozzò una risata a labbra strette e sfiorò il suo braccio con il gomito, un contatto di stoffe.

-Anche a me piace l’inverno. Mi piace la neve, la cioccolata calda e le serate trascorse a bere vino con te davanti ad un fuoco.- rispose e chinò la testa -In fondo, non è cambiato molto.-

La sua destra si staccò dal bicchiere e scivolò sulle lenzuola per raggiungere la mano di lui. Esplorò con le dita i suoi calli ruvidi e sorrise all’idea che fossero proprio quei piccoli rilievi di pelle dura a rendere eccitanti le sue carezze.

I pensieri che le affollavano la testa lentamente si dispersero, lasciandole la mente sgombra e leggera. Chiuse gli occhi, in ascolto. Loro due, un fuoco, un buon vino, il silenzio. In così poco, c’era così tanto.

Si sentiva bene. Azzardò l’ipotesi di non essersi mai sentita meglio. Non avrebbe potuto desiderare niente di più di ciò che aveva in quel preciso istante. Eppure c’era un tarlo nella sua mente che le impediva di definirsi “felice”.

Abbassò gli occhi sulle loro mani unite e osservò le dita intrecciate, libere da anelli che testimoniassero la loro unione, poi sollevò lo sguardo su di lui, impegnato a sorseggiare il vino dalla bottiglia.

-E tu, André?-

Lui le lanciò un’occhiata perplessa, poi le sorrise leccandosi il vino dalle labbra.

-Io cosa?-

Oscar rimase serissima.

-Tu vorresti una famiglia?-

Il viso di André si rabbuiò e i suoi occhi scivolarono verso il pavimento. Oscar fece un respiro profondo. Non era una questione semplice, lo sapeva, ma prima o poi doveva essere affrontata e lei preferiva farlo subito, prima che il vino li stordisse troppo.

Ritirò la mano e si alzò dal letto per raggiungere la finestra. Guardò fuori. La notte era chiara e la luna era una falce sottile sospesa appena sopra il profilo nero dei tetti delle case.

-Vorrei sapere quello che vuoi, André. E non dirmi che vuoi soltanto me, io non basto.-

Si portò il bicchiere alle labbra e cercò con gli occhi il riflesso di André sul vetro della finestra. Bevve un sorso.

-Ho riflettuto molto da quando... dall’ultima volta in cui sono stata qui. Ho capito che l’amore è come un oppiaceo. L’amore confonde, pretende un abbandono totale. E questo mi spaventa. La nostra situazione è troppo delicata. Serve lucidità e cautela, non possiamo permetterci nessun passo falso, perché se questo dovesse accadere, entrambi perderemmo tutto. Dobbiamo compiere delle scelte molto precise ed essere consapevoli dei rischi che corriamo, per poterci prendere cura di noi, per tutelarci.-

André si alzò dal letto. Lasciò la bottiglia di vino sul ripiano della scrivania e si avvicinò alle sue spalle in silenzio.

-André, faccio fatica a distinguere ciò che voglio da ciò che posso e da ciò che devo. Io voglio te, ma...-

-...io non basto.-

Scherzò lui bonariamente, prendendole i fianchi tra le mani e accostandosi alla sua schiena, poi con un sospiro tornò serio.

-Condivido i tuoi timori, Oscar. La mente diventa la marionetta del cuore quando si ama. Io lo so bene.-

Lei annuì, godendosi il tocco piacevolmente possessivo delle sua presa.

-Come ti ho detto poco fa, André, ho riflettuto molto. Per come stanno le cose, non abbiamo molta scelta, ma io non posso decidere da sola. Ho bisogno di sapere quello che vuoi tu. Siamo ad un bivio.- svuotò il bicchiere in un unico sorso, lo abbandonò sul davanzale e posò le mani su quelle di lui -Potremmo fuggire ad Arras, o in qualsiasi altro luogo lontano e sereno, sposarci, avere figli e vivere una vita umile e tranquilla.- lasciò cadere la testa all’indietro finché non incontrò la sua spalla -Ma io non sarei né una buona moglie, né una buona madre, ammesso che il mio corpo sia ancora in grado di concepire una creatura, e poi sono certa che saremmo perseguitati da mio padre e dal suo onore offeso.-

André le cinse il busto e la strinse contro di sé, affondando il viso tra i suoi capelli.

-Oppure,- riprese lei, pratica - potremmo rimanere a Parigi, ognuno con il proprio ruolo, la propria casa, il proprio cognome, due amanti che si vedono occasionalmente per conversare di politica, bere vino e fare l’amore.- fece una pausa e mosse la testa sulla sua spalla -In questo caso, però, dovremmo abituarci a vivere in equilibrio su un filo di lana, come Fersen e Maria Antonietta, sempre preoccupati di tradirci e con la sensazione di essere incompleti, in perenne attesa che il mondo cambi e che ci permetta di essere liberi.-

André la cullò piano tra le braccia.

-Io ti sposerei anche domani, Oscar, ma non mi piace l’idea di dover fuggire per farlo, come se fosse un crimine.- disse calmo -E poi ci sentiremmo un po’ incompleti anche ad Arras, perché in fondo, nessuno dei due vuole davvero avere una vita anonima e tranquilla.- la strinse più forte e la sentì rabbrividire -Quando ti ho detto che con te sarei sceso anche all’inferno, non volevo fare retorica. Parigi é in fermento e il cambiamento è dietro l’angolo, non dobbiamo aspettarlo, dobbiamo prenderne parte, dovesse anche scatenarsi un pandemonio.-

Oscar si sciolse in un sospiro di sollievo.

-Dunque, rimarremo a Parigi.-

-Sì.-

-D’accordo.-

Le mani di André raggiunsero il bavero della sua uniforme e sfilarono dall’asola il primo bottone.

-Dovremo essere pazienti.-

Disse lei distratta.

-Ci siamo esercitati per una vita ad essere pazienti, Oscar.-

Le slacciò un altro bottone e le sfiorò la gola nuda con la punta delle dita. La sentì deglutire.

-Pensi... pensi che ci riusciremo? Che sarà sufficiente?-

-Non lo so.- Si sporse per baciarle il collo -In questo momento, Oscar, qui, ora, non riesco a pensare che ci sia un fuori o un dopo. Oh, non senti come ci trascina il presente? - rise nervoso -Perdonami, cosa sto dicendo? Oscar, quanto hai ragione, l’amore è un dannato oppiaceo.-

Lei chiuse gli occhi. La foschia del desiderio calò sulla sua mente come un vapore caldo e si diffuse lentamente in ogni punto del suo corpo. Compì un mezzo giro su se stessa e gli prese il viso tra le mani. 

-Spogliati.-

Mormorò in un soffio cupo, accarezzandogli la mascella coi pollici. Lui annuì.

Come due immagini speculari, si avventarono sui bottoni e sugli alamari dei rispettivi abiti. I respiri accelerarono e la fretta rese le dita sempre più impacciate. Giacche, panciotti, camicie e cinture caddero sul pavimento. Quando fu il turno dei pantaloni, lei arrossì, gettò lo sguardo da un lato e li sfilò in fretta. Per ultimo liberò il seno dalla stretta delle fasce, che scivolarono morbide ai suoi piedi. Il suo corpo si coprì di pelle d’oca. Tra loro non era rimasta altra barriera che una spanna di aria.

Lo guardò e si lasciò guardare, finché non le bastò più avere addosso solo i suoi occhi. Gettò la fronte contro la sua spalla e gli cinse il busto in un abbraccio. I corpi si trovarono, aderirono, si strofinarono l’uno sull’altro impercettibilmente producendo invisibili scintille. Oscar fu sicura che il calore che emanavano avrebbe scaldato la stanza più del fuoco nella stufa.

Prese un respiro profondo e si lasciò stringere. La pelle di André profumava di tante cose buone, pensò. Ne riconobbe qualche nota. Pane, legna, lavanda, anice.

-Ti prego, baciami.-

Mormorò sollevando il viso e offrendogli la bocca. Lui la esaudì senza esitare e succhiò a lungo le sue labbra impregnate di vino finché lei non gli prese la mano per condurlo con sé verso il letto. Vi si sdraiò senza fretta e, sfidando il pudore, si spostò i capelli dal petto e li sparse sul cuscino. André rimase in piedi a riempirsi gli occhi di quel sensuale paesaggio di pelle bianca, fatto di valli, colline e pianure lisce e immacolate che esigevano con insistenza di essere ammirate. Quando il suo occhio fu sazio, la raggiunse. 

Mentre si sistemava tra le sue cosce, ripensò alla notte in cui si erano spogliati della veste di amici e avevano indossato quella di amanti, e gli sembrò che fossero passati mesi. Allora aveva scelto di arginare la passione che si era portato per anni nell’anima, di essere delicato e premuroso, cauto nei baci e parsimonioso nelle carezze, lento ad affondare dentro di lei e veloce a concludere per liberarla presto dall’inevitabile dolore della prima volta.

Le posò un bacio rassicurante sulla fronte, cercando di non mostrarsi impaziente, e la guardò negli occhi. La luce delle candele le illuminava un lato del viso, arricchendolo di morbidi chiaroscuri. Non c’erano rughe di timore sulla sua fronte, il suo respiro era profondo, ma controllato, gli occhi liquidi, socchiusi, frementi.

Le accarezzò il fianco con una mano, poi scese sulla coscia e conquistò l’inguine. Lei si schiuse sotto le sue dita, i muscoli del suo addome si contrassero, le sue gambe gli si strinsero contro i fianchi. Non smise mai di guardarla. Il suo petto si gonfiava di respiri profondi, le sue labbra umide lo chiamavano a bassa voce e le dita gli stringevano con forza i capelli. Quando le scivolò dentro, il suo respiro inciampò in un singhiozzo di stupore e di delizia. Nessun dolore questa volta, nemmeno un fastidio.

Oscar sollevò il bacino verso di lui per sentirlo di più, chiuse gli occhi, trattenne un gemito in gola.

-André, tu mi fai stare bene.-

Cercò di nuovo i suoi occhi, due pozze verdazzurre come il cielo prima di un’alba limpida. Si mosse con lui nella sua prima spinta. E poi si arrese a quel carosello di gesti e sensazioni. Un sospiro. Un bacio. I suoi capelli tra le dita. La sua mano sul collo. La frenesia del cuore. Il crepitio del fuoco. Il cigolio del letto. Il rumore dei suoi colpi.

Ogni cosa la stupì come se fosse del tutto nuova. Si ritrovò a domandarsi quanto fosse ricco e variegato il mondo dell’amore carnale, quanti segreti celasse. Forse ogni volta sarebbe stata una prima volta.

Si aggrappò alla nuca di André e sentì sotto i palmi la contrazione ritmica dei suoi muscoli. Provò una fitta di piacere e le sfuggì un lamento. Non poteva esistere nient’altro, nient’altro al di fuori, né dopo, pensò. E loro non avevano contorni, erano un magma che si fondeva e si spandeva in tutta la stanza, in tutta Parigi.

Lo strinse a sé ricacciando in gola un grido, mentre il suo corpo esplodeva in migliaia di schegge. “È questo che si prova” pensò con le lacrime agli occhi, premendo le mani sulla sua schiena e poi abbandonandosi contro il materasso per aspettare che lui la raggiungesse. Ruotò il viso verso la stufa e sorrise al fuoco ormai quasi spento, mentre lui ansimava sul suo collo e si muoveva impetuoso tra le sue cosce. Seguì con gli occhi lo struggersi dell’ultima fiammella tra le braci e nel momento in cui il fuoco si estinse del tutto, lui si interruppe, la lasciò, ebbe un fremito e poi crollò su di lei.

-Te ne andrai prima dell’alba anche questa notte?-

Le chiese quando il fiato glielo permise.

-No.-

-Davvero?-

-Sì, resto.-

-Non devi tornare in caserma domattina?-

Lei gli accarezzò i capelli.

-No, ho una commissione da sbrigare in città.-

André fece uno sforzo per sollevarsi e la guardò in viso con gli occhi appannati.

-Tempo fa- mormorò lei prendendogli un lato del volto in una mano -mi dicesti che conoscevi Alain Soissont.-

Lui spinse dolcemente la guancia contro il suo palmo e annuì.

-Sì, è così. Si può dire che siamo amici.-

-Ho intenzione di recarmi a casa sua domani mattina.-

André si fece serio.

-È accaduto qualcosa?-

-Ho uno strano presentimento. Alain è assente ormai da più di una settimana. Aveva preso un paio di giorni di licenza per il matrimonio della sorella, ma da allora non è più rientrato in servizio e non ha nemmeno ritirato la paga. Vorrei accertarmi che non gli sia capitato nulla di spiacevole e consegnare di persona, a lui o alla sua famiglia, il suo salario.-

-Certo.- le spostò un ciuffo di capelli dagli occhi e tornò a sdraiarsi accanto a lei, adagiando la testa sopra la sua spalla -Verrò con te.-

 

 

 

 

 

Le lame di luce e polvere tagliavano di netto la penombra violacea insinuandosi nell’appartamento attraverso le fessure delle imposte chiuse delle finestre.

La prima cosa che Oscar vide entrando fu una signora curva e magra che si cullava su una cigolante sedia a dondolo. Il volto della donna era in ombra ma gli occhi spalancati e immobili erano lucidi e brillanti come pezzi di vetro.

Oscar respirò piano. C’era davvero uno strano odore in quella casa, forte, sgradevole, quasi insopportabile. Evitò di coprirsi il naso con la manica solo per educazione.

-Perdonateci, madame, siamo amici di Alain. Non lo vediamo da qualche giorno e volevamo accertarci che stesse bene. Gli abbiamo portato la paga.-

Fu André a parlare, calmo, gentile, opportuno come sempre. La donna non li guardò nemmeno.

-Non cercatelo. Alain non c’è.-

Oscar trasalì. La risposta non era stata pronunciata da quella donna ma da una voce fragile e cavernosa che era emersa da un punto un po’ più distante dell’appartamento, al di là di una spessa tenda bluastra che divideva in due ambienti l’unica grande stanza. Guardò la donna, muta e impassibile, poi si avvicinò titubante al drappo. Fu André, però, a scostarlo.

Si irrigidirono entrambi. La mano di Oscar corse a cercare il braccio di André e vi si aggrappò arpionando con le dita la stoffa della giacca.

Una ragazzina giaceva supina e immobile su un letto, col volto spento e gonfio rivolto al soffitto. La sua pelle era violacea e il vestito di pizzo bianco era ingiallito, come i fiori d’arancio appassiti che le coronavano la testa in una ghirlanda. 

-Alain...-

Sussurrò André fissando allibito le spalle larghe dell’amico curve verso quel corpo senza vita.

Alain era in ginocchio sul pavimento, ai piedi del letto. Gettato per terra e gobbo come un sacco di farina mezzo vuoto. Un soldato grosso come una quercia, piegato come un giunco.

-Alain non c’è.-

Ripeté con voce vuota.

Oscar si inumidí le labbra e attese che un brivido le attraversasse il corpo prima di parlare.

-Cosa è accaduto?-

Le spalle del soldato furono scosse da un fremito. Non si era reso conto che ci fosse anche lei. Si voltò appena, roteando la testa, e offrí ai loro occhi il profilo di un viso smunto che sembrava sul punto di sbriciolarsi. Non c’era traccia del soldato spiritoso e sprezzante, non c’era traccia di Alain. I suoi occhi vitrei si fermarono per un momento sulla mano di Oscar aggrappata al braccio di André, poi si sollevarono a cercare i loro volti.

-L’ha abbandonata il giorno prima del matrimonio.-

Alzò le mani per mostrare loro il cappio che teneva in grembo.

-Se almeno cadendo si fosse spezzata l’osso del collo...-

Aggiunse con un rantolo.

Il ritmico cigolio della sedia a dondolo, che fino a quel momento aveva riempito la stanza, si interruppe e fu sostituito da un mesto singhiozzare.

-Un cognome non fa nobiltà. Quel bastardo aveva un titolo, ma non aveva un cuore. Se l’è preso dalla mia Diane. Da quell’altra si è preso i soldi.-

Ringhiò Alain con la voce impregnata di dolore. Tornó a fissare il cadavere della sorella e affondó le unghie nel legno del pavimento grattandolo con rabbia fino a scorticarsi le dita. 

Oscar deglutí ma la saliva le si bloccó in gola impedendole di portare a termine un respiro. Estrasse lentamente dalla giubba il sacchetto con la misera paga di Alain e lo posó su una cassettiera senza fare rumore.

-Mi dispiace, Alain. Mi dispiace tanto. Ecco io... prenditi tutto il tempo che ti serve.-

Sussurró, traendo forza dal braccio di André per non far tremare la voce. Si sentì triste e arrabbiata, un misto di sentimenti molto simile a quello che aveva provato assistendo al volo di Charlotte de Polignac dal tetto di quel palazzo molto tempo prima. Charlotte non aveva compiuto dodici anni, allora; Diane, di anni, doveva averne forse diciassette, ma non di più. Vite così tenere, spezzate proprio nel loro periodo più verde.

Oscar accarezzò il viso livido della ragazza con lo sguardo, certa che quell’immagine le sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria.

-Se c’è qualcosa che possiamo fare per te, Alain, ti prego, non esitare a chiedere.-

Mormorò André con la voce trattenuta su toni bassissimi, cupa come un tuono di un temporale lontano. Alain non rispose e non si mosse. Rimase a fissare la sorella con le punte delle dita insanguinate ancorate alle assi di legno, poi, mentre nella stanza il cigolio della sedia a dondolo tornava a scandire i secondi, sussurrò con voce urlata, ancora una volta: 

-Alain non c’è. Non cercatelo.-

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Capitolo 33
*** Ritorni ***


Chiedo scusa per la lunga assenza. Il titolo del capitolo fa riferimento anche al ritorno di questa storia, che finalmente può proseguire dopo un restyling totale e approfondito.

 

 

 

 

 

“Un principio di tisi.”

Era l’ipotesi peggiore, le aveva assicurato il medico in tono indulgente dopo aver esaminato il suo petto e ascoltato il suono cavernoso della sua tosse. “E se anche così fosse, non sarebbe troppo tardi per rimediare.” 

Nella solitudine del suo ufficio, ora Oscar scuoteva la testa ripensando a quanto fossero impraticabili per lei le cure prescritte dal dottore, ovvero “Completo riposo, niente emozioni forti, un’alimentazione corretta con pasti regolari e al più presto una buona dose di aria di mare.” 

Nulla di inaudito, comunque nulla che lei potesse effettivamente attuare. D’altra parte il buon vecchio dottore aveva conservato l’irritante abitudine di parlarle come ad una ragazzina senza vincoli e senza brighe, dimenticandosi di andare oltre, di considerare che gli anni erano passati e che l’uniforme che lei indossava esigeva moltissimo. La posizione e le relative responsabilità di Oscar non le permettevano di indugiare nella seducente prospettiva di una vacanza, tanto meno in un periodo così delicato. Non se ne parlava proprio di abbandonare i soldati ai loro turni sfiancanti per ritirarsi, con l’animo in pace, in villeggiatura.

E poi c’era una passione nuova che la animava, un senso di benessere e di potenza. Nonostante il tormento della tosse e del mal di gola, Oscar si sentiva esplodere di vita. Per quanto il medico avesse presagito per la sua salute un futuro nero, Oscar era troppo immersa nel vortice del presente per riuscire a preoccuparsi di qualcosa di così astratto come l’avvenire. Si sentiva forte, come non le era mai accaduto, così tanto che non ammetteva l’idea che il proprio corpo stesse cominciando a morire.

Era primavera, dappertutto. Lei, la natura, la Francia, ogni cosa si trovava in un tiepido fermento di rinascita. 

In quegli ultimi giorni aveva piovuto molto e quasi ininterrottamente, perciò la maggior parte delle sere Oscar aveva preferito rimanere a dormire in caserma, evitandosi il fastidio di dover cavalcare sotto la pioggia per tornare a casa. Inoltre c’era un fatto insolito che la spingeva a preferire la caserma. Aveva notato che tra quelle mura respirava meglio, nonostante i molti odori sgradevoli che perseguitavano il suo olfatto sofisticato. Quando era in caserma, il bruciore alla gola era tollerabile, i polmoni non le dolevano e nel corso di alcune giornate riusciva a contare non più di cinque colpi di tosse in totale. Quando tornava a casa, invece, a volte tossiva tanto che guardandosi le mani temeva di trovare tracce di sangue insieme alle gocce di saliva. 

“Fate un uso eccessivo della vasca da bagno, Madamigella. L’acqua calda dilata i pori della pelle e i fluidi del corpo si scompensano.”

Le aveva spiegato Lassonne, ma lei non sapeva proprio dire di no ad un bagno caldo quando tornava a casa dopo le sfiancanti giornate trascorse in mezzo alla polvere della caserma e al lerciume delle strade di Parigi.

Quella mattina di metà aprile non pioveva. Nella coltre di nuvole grigiastre si era aperto uno squarcio che faceva intravedere un bel cielo celeste profondo. 

“Mi conviene tornare a casa questa sera. Magari scriverò ad André di raggiungermi a Palazzo.”

Si disse alzando gli occhi dalla pila di documenti e rivolgendoli alle finestre. Sentì un brivido caldo nel basso ventre e sospirò. Gli impegni le portavano via gran parte del tempo che avrebbe voluto dedicare a lui, eppure doveva ammettere che erano proprio i giorni di distanza tra un’incontro e l’altro a rendere quegli incontri più intensi.

Comunque, se da una parte non poteva permettersi una rilassante vacanza, dall’altra non poteva nemmeno anteporre il piacere al dovere lasciandosi ammorbidire da troppo sentimento.

Si stava avvicinando rapidamente la data dell’apertura dell’assemblea degli Stati Generali e ogni dipartimento militare aveva il compito di prepararsi al polverone che si sarebbe sollevato. I dispacci e le scartoffie sulla scrivania di Oscar si erano moltiplicati e le esercitazioni dei suoi soldati erano state intensificate da quando Bouillet le aveva lasciato intuire che avrebbe affidato a lei e ai suoi uomini il compito e l’onore di presidiare la sala in cui si sarebbe tenuta la riunione. 

Non era per niente il momento di una vacanza, si disse massaggiandosi la gola dolorante.

Mentre riprendeva la lettura del lungo e dettagliatissimo resoconto sui rifornimenti che aveva sotto gli occhi, qualcuno bussò alla porta. Diede il permesso di entrare senza nemmeno sollevare lo sguardo dalle cifre che si susseguivano sul foglio. Non poteva che essere D’Agoult che per l’ennesima volta veniva a portare nuovo materiale da sottoporle.

-Ebbene, Colonnello D’Agoult?-

Chiese secca mentre lasciava una firma sbrigativa sul foglio. 

-Buongiorno, Comandante.-

Oscar alzò il viso di scatto e schiuse le labbra per la sorpresa.

-Alain...-

“...o ciò che ne resta” aggiunse nella propria mente. Lo osservò in silenzio, sforzandosi di non dare alcuna espressione al proprio volto. Non credeva che l’avrebbe mai più rivisto e fu sinceramente contenta di trovarselo di fronte in carne ed ossa -più ossa, in effetti. Era dimagrito molto. I vestiti logori che indossava non erano ben riempiti dal corpo tonico e muscoloso che apparteneva al vecchio Alain. E, sebbene entrando nell’ufficio egli l’avesse salutata con la sua caratteristica voce disinvolta e un po’ sfottente, il suo viso assomigliava davvero poco a quello a cui Oscar era abituata. Gli zigomi sporgevano appuntiti sotto gli occhi stretti ed incavati, la pelle aveva una tinta smorta, la barba non era curata, i capelli lunghi erano disordinati e unticci. 

-Non nego di essere sorpresa di vederti, Alain.-

Lui abbozzò un sorriso storto e avanzò verso la sua scrivania stringendo un brutto berretto marrone tra le mani.

-Perdonate il mio aspetto inadeguato, Colonnello Jarjayes.-

-Accomodati.-

Alain si sedette su una poltroncina e tenne lo sguardo fisso sul proprio cappello.

-Mia madre è morta di dispiacere.- cominciò a spiegare a bassa voce, rivolgendosi al berretto -La sua malattia non era così grave, ma il dolore l’ha distrutta. Come poteva resistere? Figuratevi, io ero sano e in forze e ora sono vivo a stento. Le ho seppellite su una collina in riva al mare. È stata la prima volta che mi sono trovato davanti al mare, sapete. Loro invece non l’hanno mai visto.-

-Ti faccio le mie più sentite condoglianze, Alain.-

Mormorò lei incrociando le dita sullo scrittoio e aspettando di ricevere il suo sguardo, ma Alain continuò a negarglielo. Non guardava più nemmeno il berretto, i suoi occhi fissavano il nulla e forse vedevano il mare.

-Ho pensato che, se non volevo ammazzarmi, dovevo trovarmi qualcosa da fare per vivere. L’idea di diventare un contadino, lì sulla costa, magari comprandomi un piccolo campo da cui si potessero vedere le lapidi, non mi dispiaceva. Poi però mi sono detto che, tutto sommato, forse mi era rimasto ancora qualcosa di simile ad una famiglia, ovvero i miei compagni di camerata. E inoltre c’è da dire che io non so come si ara la terra o come si semina, so solo come si marcia e come si tiene un fucile. Così sono tornato a Parigi qualche giorno fa.-

-Dunque, sei qui per riprendere servizio?-

Finalmente Alain la guardò.

-Sì...-

-Molto bene, farò in modo di prepar...-

-...ma non solo per quello.-

La interruppe lui in tono brusco. Oscar lo invitò con un cenno della mano a spiegarsi.

-Vedete Comandante,- borbottò Alain con una sfumatura di imbarazzo -io ho apprezzato molto il vostro gesto... mi riferisco a quando siete venuta a casa mia con André per portarmi la paga. E mi vergogno di dover ammettere che, da quando sono tornato a Parigi, ho passato il mio tempo a spendere quei soldi in attività poco... pulite. Non vi dico questo solo perché ho voglia di essere spudoratamente onesto, ma soprattutto per spiegarvi in che modo ieri sera mi sono ritrovato in mezzo a qualcosa che vi deve interessare.-

Oscar corrugò la fronte, incuriosita.

-Ero in una taverna,- cominciò lui -una di quelle che non consiglierei a nessuno. Pessimi odori, pessima compagnia, pessimo vino. Avevo bevuto Dio solo sa quante bottiglie e me ne stavo seduto in disparte, mezzo svenuto con la faccia sul tavolo e ignorato da tutti, come uno straccione povero e ubriaco a cui non si fa caso. Ma sapete, quando si viene considerati alla stregua delle pezze per il sedere, qualche vantaggio c’è: nessuno si preoccupa di dover essere discreto. Insomma, ad un certo punto, nella confusione del locale, ho sentito chiaramente un uomo menzionare Alancourt. Non ho alzato la testa, ma d’istinto mi sono interessato al discorso di quel tizio. Non so con chi stesse parlando, con un altro uomo suppongo, comunque erano abbastanza vicini a me perché io riuscissi a sentire qualche pezzo del discorso.- fece una pausa per riprendere fiato, poi scrollò la testa e continuò -Mentirei se vi dicessi che ricordo parola per parola di ciò che è uscito dalla bocca di quel tale, ma, lo giuro sulla tomba di mia madre e di mia sorella, ne ho capito benissimo la sostanza, anche perché, come vi dicevo, quello non si è affatto posto il problema che un ubriacone come me lo stesse ascoltando. Vi prego di credermi, Comandante, non mi sono immaginato nulla. Ero quasi sobrio dallo stupore.-

-Ebbene, Alain?-

Lo sollecitò lei.

-L’uomo che parlava, quello che aveva menzionato Alancourt, si riferiva a voi, diceva che siete una spina nel fianco e che dovete essere eliminata.-

Lei assottigliò gli occhi.

-E sono certissimo che si riferisse a voi, Comandante, perché parlava di un Colonnello e ne parlava al femminile. Insomma, non era necessario che vi nominasse.-

Oscar si mosse sulla sedia e appoggiò i gomiti sul ripiano dello scrittoio per incrociare le dita sotto il mento.

-Mi stai dicendo che quel tizio stava progettando con un altro uomo di uccidermi? Non sarebbe la prima volta che qualcuno fantastica su come togliermi di mezzo, Alain. Pare che io abbia diversi nemici. Forse erano solo chiacchiere da osteria.-

Alain si fece cupo.

-Non vi ho detto ancora tutto, Colonnello, ed è la parte più preoccupante. Sarò sintetico. Ho capito che qualcuno vi sta avvelenando, già da qualche tempo pare, e che questo qualcuno è la persona che parlava con il tizio che vi dicevo. Non ho sentito la sua voce, perché sussurrava come se avesse avuto paura di essere udito, al contrario dell’altro suo compare.-

Il viso di Oscar si fece pallido, ma lei non ebbe alcuna reazione. 

-Avete avuto fastidi di salute ultimamente?-

Inquisì Alain tormentando il proprio berretto con le dita.

-In effetti, sì.-

Rispose lei portandosi d’istinto una mano sul petto. Rifletté un momento, poi si alzò, camminò fino alla finestra e gettò lo sguardo oltre i vetri.

-Mi credete, Comandante?-

-Sì, Alain, non faccio molta fatica a crederti. E ho anche un’idea di chi potrebbe essere l’uomo della taverna.-

Alain lasciò la poltrona e la raggiunse. Si prese qualche secondo per assaporare il buon profumo che emanava quella folta chioma di capelli dorati in cui avrebbe volentieri affondato la faccia e chiese:

-Chi?-

-L’uomo che ha attentato alla vita del Principe Aldelos ad Alancourt.-

Alain ebbe un sussulto. Lei tossì appena e proseguì:

-Tempo fa sono venuta a conoscenza dell’identità di quell’uomo. Dopo i fatti di Alancourt, però, pare che egli sia sparito. Io non potevo permettere che l’avesse avuta vinta.- mentre parlava, lanciò un breve sguardo alla propria mano destra -È un assassino e come tale deve rispondere dei suoi crimini. Ma è anche furbo e ben protetto. Negli ultimi mesi ho cercato informazioni su di lui e ho accumulato qualche testimonianza sulle sue deplorevoli azioni, materiale sufficiente per dargli molte rogne, nel caso in cui dovesse rifarsi vivo. Ho affidato tutto ad un avvocato di fiducia, che in passato ha avuto a che fare con questo criminale personalmente.-

-Siete certa che si tratti di lui?-

-Sì, se mi assicuri che il tizio della locanda parlava di Alancout, allora non può che essere l’uomo che intendo.-

Alain incrociò le braccia sul petto.

-Se solo avessi alzato la testa da quel tavolo, forse ora saprei che faccia aveva il suo complice, l’uomo che in qualche modo vi sta avvelenando...-

Oscar scrutò seria il cielo. Seguì con lo sguardo il volo elegante di uno stormo di rondini di ritorno dalla migrazione e disse:

-Alain, non è detto che sia un uomo.-

 

 

 

 

 

André rincasò al tramonto. Sulla scia dell’abitudine, lasciò Alexander sotto la tettoia sul retro dell’edificio, gli mise a disposizione un secchio d’acqua e una buona dose di fieno e infine entrò in casa. Le sue narici catturarono immediatamente uno stuzzicante profumo di minestra. La padrona stava cucinando la cena.

Mentre batteva i piedi sullo scalino davanti all’ingresso per liberare gli stivali da qualche grumo di fango, sentì lo stomaco gorgogliare. Decise che sarebbe salito nella propria stanza a rinfrescarsi e poi sarebbe andato a consumare una parca cena alla locanda La Brique Rouge, dove aveva la certezza di trovare cibo modesto e vino decente ad un buon prezzo, ma soprattutto un’atmosfera tranquilla.

Quando raggiunse l’atrio scoprì che una lettera in busta bianca, non sigillata, lo stava aspettando appoggiata sul corrimano delle scale. La prese. In una calligrafia elegante, ma un po’ stentata lesse il proprio nome sul retro della busta e non ebbe dubbi sull’identità del mittente. Sorrise senza rendersene conto, mentre estraeva il biglietto per leggerlo. Il contenuto, a prima vista, non lo sorprese. Il testo era brevissimo, solo due righe secche. C’era la data di quello stesso giorno in alto a sinistra e una firma di iniziali in basso a destra. Il minimo spreco di inchiostro. Il sorriso di André si allargò. Oscar, fin da ragazzina, aveva sempre tenuto pochissima corrispondenza con chiunque e le rare lettere che scriveva erano sempre ridotte al numero minimo di parole utili per comunicare l’indispensabile. Recentemente, da quando era stata costretta a scrivere con la mano sinistra, le sue già brevi e sporadiche lettere erano diventate occasionali biglietti stringati.

André lesse in fretta, sorrise di nuovo poi ripose con cura la lettera nella sua busta e la infilò in una tasca della giacca.

Prese a salire le scale ad occhi bassi e con la mente piacevolmente stordita dalla manciata di parole che aveva trovato nel biglietto di Oscar. Non si accorse subito di non essere solo. Quando si trovò a pochi gradini dal pianerottolo su cui si affacciava la propria stanza, qualcuno dall’alto della rampa pronunciò il suo nome -nome e cognome- con garbo sprezzante.

André sollevò la testa e si bloccò a metà scala.

-Voi.-

Sibilò incredulo.

-Vi ricordate di me.-

Constatò Saint Just compiaciuto, osservandolo dall’alto, fermo in cima alle scale davanti alla porta della stanza di André, vestito completamente di nero.

-Mi ricordo.-

Confermò secco André stringendo i pugni e assottigliando lo sguardo.

-Temo che la mia visita non vi sia gradita.-

-Che cosa volete da me?-

Saint Just incrociò le braccia sul petto e gli mostrò una stretta lamina di sorriso.

-So che lavorate per l’avvocato Moreau. Ho bisogno che facciate qualcosa per me.-

André rabbrividì.

-Sarò breve e chiaro.- promise Saint Just con aria nervosa facendogli cenno di raggiungerlo sul pianerottolo -So che Moreau possiede una serie di documenti con cui potrebbe facilmente procurarmi molte rogne. Quei documenti devo averli io e voi dovete procurarmeli.-

André si accigliò. 

-E se io mi rifiutassi?-

-Non dubito che ne siate tentato.-

-È così, ma temo che abbiate validi argomenti con cui persuadermi, dico bene?-

Lo sfidò André con sguardo fermo. 

-Siete sveglio.- commentò Saint Just con quel sorrisetto malizioso di chi si compiace di avere il coltello dalla parte del manico -Sapete, ho chiacchierato un po’ con la padrona di casa, prima che voi arrivaste. Immagino che sappiate quanto sia sciolta la sua lingua. Tra le tante sciocchezze che mi ha costretto ad ascoltare, ha manifestato alcune interessanti perplessità nei vostri confronti. Sostiene che abbiate delle tendenze che ella giudica contro natura.- si interruppe un momento per godersi l’espressione diffidente di André, poi spiegò -Madame mi ha raccontato che un bel Colonnello biondo dall’aria effemminata ha trascorso qualche notte insieme voi nel vostro alloggio. Né io né lei ci illudiamo che voi due vi siate soltanto guardati negli occhi. Madame è convinta che il vostro amante sia un uomo, io invece credo di sapere la verità. Voi avete una relazione, illecita ma di sicuro non “contro natura”, con l’ultima figlia del Generale Jarjayes, Oscar François, per cui avete lavorato a lungo come attendente.-

André strinse le mandibole e d’istinto sfiorò con una mano la tasca che conteneva il biglietto di Oscar.

-Non avete alcuna prova per dimostrare ciò che affermate.-

Ringhiò.

-Oh, questo lo so bene e non mi interessa accusarvi pubblicamente. Per quanto mi riguarda, potete fornicare con chi vi pare e piace, dove e come preferite. Chi sono io per giudicarvi? Questa informazione, però, è utilissima per il mio scopo. La consapevolezza che voi nutriate per quella donna un affetto più profondo di una semplice amicizia, mi dà la garanzia che eseguirete ciò che vi ho chiesto senza protestare troppo.-

Le mani di André gli afferrarono di getto il bavero della giacca.

-Qualsiasi cosa vogliate, non mettete in mezzo lei.-

Gli ruggì in faccia, dandogli uno strattone.

-Calmatevi, André Grandier. Temo che la vostra bella Oscar sia già stata messa in mezzo. Qualcuno la sta avvelenando. E io so chi e anche come.-

-Cosa? Avvelenando?-

-Avete capito bene. Se vi interessa sapere chi sta lentamente uccidendo la vostra amante, dovrete consegnarmi a breve i documenti di cui vi ho parlato. So che fareste di tutto per lei,- si fermò per prendere fiato e continuò in tono allusivo -per esempio perdere un occhio. Perciò non dubito che soddisferete senza indugio la mia piccola, banale richiesta.-

André lo spinse ad un passo da sé e sbuffò dal naso, imponendosi di restare calmo.

-Come faccio a sapere che non state mentendo?-

Saint Just si strinse nelle spalle.

-Chiedete alla vostra amante se ultimamente ha accusato qualche disturbo di salute e constatatelo da voi.-

André ripensò al contenuto del biglietto e lo reinterpretò alla luce di ciò che aveva appena appreso. Deglutì a vuoto e fissò il grigio torbido degli occhi sottili di Saint Just. “Non sta mentendo” pensò, mentre sentiva la fronte coprirsi di sudore freddo.

-Io non ho idea di dove Moreau possa conservare questi documenti.-

Azzardò.

-Moreau è un uomo prevedibile e ripetitivo. Mi ricordo che un tempo era solito nascondere i documenti importanti tra le pagine dei suoi libri. Non vedo perché debba aver interrotto questa consuetudine. Vi basterà esaminare qualche volume e sono sicuro che troverete quello che cercate.-

Detto questo, Saint Just sollevò il colletto del mantello ai lati del viso e si incamminò senza fretta sulle scale.

-Quando... quando avrò quei documenti, a quale indirizzo dovrò portarli?-

Chiese André cupo. Saint Just si fermò a metà della scala e si voltò.

-Per motivi che vi lascio immaginare, non posso rimanere nello stesso posto per più di due giorni, perciò quando avrete i documenti tra le mani, chiedete a Bernard. Lui saprà come rintracciarmi.-

Fece un cenno di saluto e riprese a scendere le scale. André restò ad ascoltare il suono dei suoi passi finché non udì il tonfo della porta che si chiudeva al pianterreno. Solo allora si ritirò all’interno della propria stanza. 

Un fascio di luce rosata che entrava in orizzontale dalla finestra illuminava il pulviscolo sospeso in aria e disegnava un rettangolo di chiarore sulla parete opposta. André cominciò ad attraversare la stanza avanti e indietro, lasciando crescere dentro di sé quel germoglio di rabbia che era nato durante la conversazione appena conclusa. L’appetito sparì. Tutto il suo corpo era un contrarsi di nervi.

Si fermò di colpo davanti alla finestra, la spalancò con un gesto brusco per l’urgenza di prendere aria e sferrò un pugno contro la parete a lato dell’infisso. La scarica di dolore che vibrò nelle ossa della sua mano gli fece stringere forte i denti, ma non servì a placare la sua agitazione. Estrasse dalla tasca il biglietto di Oscar e lo rilesse a bassa voce:

 

Sarò a casa per qualche giorno, ho urgente bisogno di riposo. Sarei felice se tu mi raggiungessi a Palazzo, non appena i tuoi impegni te lo consentiranno.

 

André avvicinò la carta alle labbra e chiuse gli occhi. Per Oscar, il riposoera quasi un concetto estraneo. Lei non avrebbe mai ceduto al richiamo dell’ozio con tutte le incombenze che le gravavano sulle spalle, perciò se aveva deciso di concedersi quella parentesi di riposo, il motivo doveva essere grave.

André rabbrividì e fu tentato di prendere il cavallo e volare a Palazzo immediatamente. Poi scosse la testa e appoggiò le mani sul davanzale della finestra, permettendo al vento leggero di rinfrescargli il volto accaldato. Non era il caso di allarmarsi, né di allarmarla. L’avrebbe raggiunta l’indomani nel tardo pomeriggio, dopo aver lasciato lo studio di Moreau. Intanto avrebbe passato la giornata a cercare quei dannati documenti. Se il suo presentimento era corretto, non avrebbe fatto molta fatica a trovarli.

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Capitolo 34
*** Torta di mele ***


Le sensazioni che Oscar percepiva quando si addentrava nel beato mondo delle cucine di Palazzo Jarjayes erano sempre le stesse, sensazioni calde e fragranti, come le focacce appena sfornate che riposavano sulle teglie appoggiate in fila sul tavolo. Da ragazzina trascorreva parecchio tempo in quella zona del Palazzo, molto più che nelle proprie stanze. Ora, invece, vi faceva visita raramente, così raramente che, non appena apparve nel quadrato dell’ingresso, tutti coloro che popolavano quell’opificio di prelibatezze sprofondarono in un tangibile senso di disagio. Le cameriere interruppero bruscamente i loro cinguettii e i cuochi e i garzoni abbassarono gli occhi. La servitù la vedeva in modo diverso, constatò amara. Provò a salutare e a sorridere con calore. Detestava l’idea che gli ambienti in cui entrava si raffreddassero d’improvviso come accadeva in genere all’ingresso di suo padre.

Mosse un passo sul pavimento di piastrelle di coccio bianche e blu e si addentrò tra i fumi e i vapori profumati che si sprigionavano dai forni e dalle pentole.

-Maggiorana e finocchio?-

Domandò ad un cuoco, protendendo il naso verso la focaccia alle erbe appena sfornata. Il rubicondo cuciniere si irrigidì.

-Sì, Madamigella. Volete favorire?-

-Volentieri.-

Sotto lo sguardo teso dell’altro, Oscar affondò i denti in un pezzo di quella semplice ma promettente opera culinaria. Subito ne fu sedotta. Il gusto era equilibrato, l’aroma della maggiorana e del finocchio si sposava benissimo con quello appena accennato della legna che aveva cotto l’impasto. Le sembrò di non aver mangiato nulla di così buono da anni.

-È una delizia.-

Sentenziò, quasi commossa. Il petto massiccio del cuoco si sgonfiò di tutto il fiato che aveva trattenuto mentre Oscar masticava.

-È merito del lievito, me ne occupo personalmente.- spiegò, impacciato ma orgoglioso -Il lievito è come una moglie, sapete. Necessita di attenzioni, di pazienza e di tenerezza... notte e giorno.-

Oscar sorrise e si concesse un altro morso. 

Non era mai stata una persona golosa, ma sapeva apprezzare i sapori. Aveva avuto in passato un leggero debole per la cioccolata, ma da quando aveva conosciuto la miseria di Parigi e il valore che il popolo attribuiva al cibo, il solo profumo di quella lussuosa bevanda le faceva contorcere lo stomaco.

-Dimmi un po’, è molto difficile reperire la farina di questi tempi?-

Chiese ad un tratto, riemergendo dai propri pensieri. Il cuoco consultò con lo sguardo un ragazzo tarchiato che doveva essere il suo aiutante e scosse la testa.

-No, Madamigella.-

-No? Credevo che la farina scarseggiasse.-

-Non saprei dirvi se è vero che la farina scarseggi, certo è che il prezzo è più alto. Voi non avete sicuramente di ché preoccuparvi. Ci sarà sempre pane in abbondanza sulla vostra tavola.-

Oscar abbassò lo sguardo. L’ultimo boccone di focaccia le sembrò insopportabilmente amaro.

-Mi sapreste dire dov’è Marron?- 

Domandò. Il cuoco scrollò le spalle. Le rispose un garzone seduto accanto al camino spento, chino sopra un mucchio di fagioli. Con voce pigra disse che la governante era in dispensa.

Oscar ringraziò per l’informazione e rifiutò altra focaccia con la scusa di voler preservare un po’ di appetito per il pranzo e si incamminò verso la zona della dispensa, poco oltre i lavabi.

La voce squillante di Marron trapelava ovattata attraverso la spessa porta di legno che divideva l’ambiente caldo e animato della cucina da quello fresco e intimo della dispensa. Oscar la trovò a dirigere con la sua solita energia un gruppo di domestiche che maneggiavano verdure.

-Oh, Oscar cara, quando sei arrivata?-

-Proprio ora.-

-Oh, ma guarda, che pelle pallida e che occhi lucidi! Fammi sentire se la fronte è calda, potresti avere un poco di febbre.-

-Sto bene. Ho solo un leggero mal di testa.-

Glissò Oscar salutando il trio di cameriere con un sorriso affabile, ma stanco. Si soffermò un secondo di più sul volto spigoloso di Annette, quindi tornò a rivolgersi a Marron simulando con efficacia uno slancio di buon umore, non del tutto finto.

-Ho chiesto ad André di venire in visita a Palazzo. Ho ragione di credere che si presenterà qui domani sera. È passato del tempo dall’ultima volta che lo hai visto, dico bene? Ho pensato di suggerirti di accoglierlo con una delle tue mitologiche torte di mele.-

Il viso di Marron si illuminò e Oscar ebbe la rassicurante certezza di essere riuscita a scrollarsi di dosso le troppo acute attenzioni della governante.

-Quel disgraziato!- esclamò Marron allegra, ma drammatica -Non si fa più vedere. Chissà cosa combina a Parigi.-

Oscar tese le labbra in un sorriso.

-Non essere ingiusta con lui. Tuo nipote ha la testa sulle spalle, lo sai bene, e poi ha un lavoro che lo impegna molto.-

Marron le diede ragione con un cenno della testa e intanto fece segno alle altre domestiche di portare i panieri di viveri in cucina.

-Gli farò una torta così buona che gli verrà voglia di farmi visita più spesso.-

Esclamò spingendo gli occhiali sulla cima del naso.

-Madamigella Oscar,- si intromise con discrezione Annette mentre le passava accanto con una cesta di rape in grembo. -Desiderate che vi prepari un bagno caldo dopo cena?-

Oscar la fissò in silenzio, assottigliando lo sguardo senza nemmeno rendersene conto. Sondò il grigio azzurrognolo dei suoi occhi e infine rispose:

-Sì, ti ringrazio...-

-Molto bene, con permesso.-

Ma Oscar non la lasciò andare. La sua mano si agganciò come un arpione al paniere di rape e lo tirò un poco verso di sé.

-Per cortesia, Annette,- disse con garbo freddo -questa volta vorrei che tu usassi l’essenza di rose. Ne ho nostalgia.-

Annette, impassibile, sostenne il suo sguardo e annuì piano, poi abbassò gli occhi sulle dita agganciate al bordo della sua cesta. Deglutì e non osò chiedere il permesso di andare. Una vampa le bruciò le guance e un groppo le chiuse la gola. Ma fu questione di pochi istanti. La mano bianca di Oscar si staccò subito dal paniere e Annette poté scappare da quegli occhi di ghiaccio.

-Marron, dimmi una cosa.- attaccò Oscar, quando rimasero da sole -Chi è Annette? E perché l’hai assunta?-

La governante, che non aveva potuto fare a meno di notare lo scambio ambiguo di sguardi tra Oscar e la domestica, trovando quella circostanza già di per sé significativa, impallidì come se avesse ricevuto un rimprovero.

-Pare che fosse una donna sola e che avesse bisogno di un impiego.-

Oscar non si accontentò.

-È parente di qualche membro della servitù?-

Insistette. Marron scrollò la testa. Per qualche inspiegabile motivo, aveva l’impressione che nominare André potesse essere pericoloso. D’altra parte, non era facile gestire la curiosità di Oscar, né la sua tendenza a pretendere dagli altri assoluta trasparenza.

-Come mai questo interesse, Oscar?-

Provò a ribattere cauta.

-Semplice curiosità.-

“Tutt’altro che semplice.” Constatò Marron appena prima di arrendersi.

-È stato André ad indicarmela.- ammise -Pare che Annette fosse una… squattrinata donna nubile che abitava nel suo stesso edificio. Sai com’è lui, un irrefrenabile altruista. Sapeva che io non avrei disdegnato il supporto di un paio di braccia in più per governare la casa, così ha pensato di aiutare me aiutando questa poveretta.-

L’ombra che calò sul viso di Oscar le fece intendere che non solo non si fosse aspettata quella risposta ma che soprattutto non le fosse piaciuta. “Chissà cosa mai c’è dietro!” pensò la vecchia donna rabbrividendo.

-Annette ha forse combinato qualche guaio?-

Azzardò incrociando le braccia sul petto. Oscar scosse la testa, lo sguardo cupo e assorto come quello di chi prova a compiere un complicato calcolo a mente.

-Te l’ho detto.- dichiarò infine -Semplice curiosità.-

 

 

 

 

 

Un tappeto omogeneo di erba alta e gonfia, d’un verde brillante, copriva il suolo di terra inzuppata dalle recenti piogge. Una corrente impetuosa rimescolava la acque fangose del canale che costeggiava la strada e gorgogliava con arroganza logorando gli argini fragili. Alcuni uccelli saltellavano tra le fronde degli alberi sparsi, in silenzio, come sfuggenti sentinelle intente a tener d’occhio i passanti.

André guardò le lunghe nuvole dorate che vestivano il sole basso sull’orizzonte. Non era ancora l’ora del tramonto, ma la luce già cominciava a tingersi di tonalità calde e lanciava ombre sempre più lunghe sui campi. 

Di riflesso controllò la borsa, una breve occhiata solo per assicurarsi che i documenti che conteneva non fossero magicamente scomparsi. Li vide, rabbrividì e richiuse la cinghia. 

L’indicazione di Saint Just, alla fine, si era rivelata esatta: Moreau si serviva dei libri meno interessanti della propria biblioteca come cassaforti per le carte di una certa importanza. Uno stratagemma astuto, di cui André non aveva mai sospettato nulla. Grazie all’indizio di Saint Just, trovare quei documenti scottanti era stato semplice e, in un certo senso, perfino comico. La sua bocca si era riempita di una risata amara quando aveva scoperto che quei documenti non erano stati occultati in un libro qualunque, bensì proprio tra le pagine del vecchio codice di diritto la cui copertina portava ancora i segni di un atto di negligenza del garzone Jean. André non aveva mai dimenticato quell’episodio. Se quel giorno non avesse difeso Jean con Moreau, Jean non avrebbe poi difeso lui a Saint Antoine. Un curioso incastro di coincidenze, avrebbe detto Bernard con fare pratico. Ma André ormai tendeva piuttosto a credere di essere il giocattolo preferito di una Sorte capricciosa.

Ogni avvenimento della sua vita sembrava essere regolato da un buffo disegno provvidenziale, contorto ma perfettamente logico. Persuaso di ciò, non aveva avuto dubbi che le carte di Saint Just dovessero trovarsi proprio all’interno di quel particolare volume. E, infatti, così era stato. Non gli era servito consultare altri libri della corposa schiera che si affacciava dagli scaffali. In pochi istanti, prima che Moreau rientrasse in studio e lo sorprendesse a ficcanasare, aveva fatto sparire nella propria borsa quel vecchio codice con la copertina annerita e se n’era andato.

Ora, mentre percorreva a cavallo la strada per Palazzo Jarjayes, sentiva che la tracolla della borsa gli scavava la spalla come se quel libro rubato fosse fatto di piombo. La coscienza gli faceva male, ma ancor più male gli faceva la paura di arrivare a Palazzo e scoprire che le minacce di Saint Just erano reali. Gli si contrasse lo stomaco.

La facciata imponente e pallida di Palazzo Jarjayes emerse da dietro le fronde frementi degli alberi quando il sole aveva ormai raggiunto una tonalità ambrata e le nuvole erano grossolane pennellate di rosa antico su un cielo di carta da zucchero. André sorrise d’istinto e prese atto del tenero sentimento di pace che quella visione familiare gli infondeva nel petto. Il suo cuore, nonostante tutto, avrebbe sempre chiamato quel luogo “casa”.

La nonna lo accolse nel cortile sul retro con un sorriso dolce ed un abbraccio energico. Mentre lo stringeva a sé, gli tastò il viso, il petto e i fianchi con lo scrupolo di un medico per assicurarsi che non fosse dimagrito e infine gli annunciò che proprio in quel momento nel forno stava cuocendo una torta di mele con il suo nome sopra.

-Hai letto nei fondi del tè che sarei venuto a farti visita?-

Chiese André ridendo. La nonna lo invitò a seguirla verso l’ingresso della servitù.

-Oscar mi aveva detto che forse saresti arrivato questa sera.-

Varcarono la soglia e trovarono le cucine in fermento. I fuochi scoppiettanti e i corpi che si mescolavano in un aggrovigliato via vai rendevano il clima caldo e gioviale. André lanciò qualche saluto e si mise a fiutare l’aria come un bracco nel tentativo di rintracciare, in mezzo alle tiepide fragranze che impregnavano l’aria, il dolciastro profumo della preannunciata torta di mele.

-Dov’è Oscar?-

-Credo che si trovi in cima alla torre. Le piace rifugiarsi lassù, è un’abitudine nuova che ha preso da te.-

André sorrise, poi si fece subito serio.

-Dimmi nonna, hai notato qualcosa di strano in lei negli ultimi tempi?-

Il viso tondo di Marron divenne una maschera tragica.

-È taciturna e tende ad isolarsi. Ma è comprensibile. Ha così tanti pensieri per la testa!-

André rubò una mandola da un canestro e la masticò soprappensiero.

-Lascerò la borsa nella mia stanza e la raggiungerò sulla torre.-

Decise.

-Bene,- agganciò la nonna -dal momento che hai voglia di salire fin lassù, avvertila da parte mia che la cena sarà pronta a breve e che a tavola sarà presente solo Madame Marguerite. Il Generale è stato trattenuto a Versailles.-

 

 

 

 

 

La loggetta in cima alla torre era un piccolo spazio arioso, invaso di luce rosata. Il panorama che si apriva a ventaglio da lassù offriva allo sguardo di arrivare distante, molto oltre i confini della magione. 

André scavalcò l’ultimo gradino ed emerse dalla botola delle scale. Fece scudo con la mano al proprio occhio destro, sano ma sensibile, e gli concesse qualche istante per abituarsi alla luce, poi strinse lo sguardo e gradualmente mise a fuoco la vista. In lontananza, verso sudovest, al di là dei campi e della fitta boscaglia, si intravedeva la sagoma scura e allungata della Reggia di Versailles, mentre verso est, sotto il manto violaceo del cielo, brillava Parigi.

Oscar gli dava la schiena e assisteva in silenzio al declino del sole, in piedi, appoggiata di spalla ad una colonna, con un libro in mano e le dita infilate tra le pagine a tenere il segno di una lettura interrotta da molto o forse nemmeno iniziata. I suoi capelli si gonfiavano ad ogni sbuffo di vento mandando bellissimi bagliori d’oro e di rame.

-Ti ho visto arrivare.-

Gli disse senza voltarsi, ancora prima che lui si facesse riconoscere, con una raucedine nella voce che si affrettò subito a correggere con un colpetto controllato di tosse. André fece un passo verso di lei, ma fu distratto da un improvviso frullio d’ali. Una coppia di colombi bianchi si infilò in volo in un’apertura tra le colonne e andò a cercar rifugio per la notte sopra le grosse travi scure che sorreggevano il tetto.

-Mi ricordo che venivi spesso quassù, André.-

Lo sguardo di lui abbandonò i due piccioni e calò su Oscar. Scoprì che si era voltata e che ora lo guardava con un sorriso mite e uno sguardo languido. Gli parve pallida, pallidissima, nonostante la sfolgorante tavolozza di colori caldi del tramonto in cui era immersa.

-Non ho mai condiviso con te la passione per questo posto.- continuò lei socchiudendo gli occhi -Ora ho scoperto che mi piace stare qui, l’aria, il silenzio, la solitudine...-

Andrè la raggiunse e, mentre lei gettava lo sguardo di lato, verso il cielo, lui si dedicò a decifrare i segni di fiacchezza sparsi su quel viso d’avorio, nelle ombre intorno agli occhi, sotto le palpebre pesanti, sulla pelle tesa, tra le screpolature delle labbra esangui. Le sfiorò una guancia con le dita e volle credere che il suo aspetto stanco e stinto fosse solo una spiacevole conseguenza delle lunghe giornate senza sole che trascorreva rinchiusa nel suo ufficio.

-Qui venivo a conservare tutte le mie gioie e le mie malinconie.-

Le rispose, lanciando uno sguardo intorno a sé per indicare con gli occhi lo spazio della loggetta.

-Forse è per questo che mi piace qui, André. Ci trovo un po’ di te.-

Mentre parlava, Oscar si staccò dalla colonna e gli si appoggiò addosso con la stessa grazia con cui i colombi si erano appollaiati sulle travi, gli cinse il busto con le braccia senza stringere e posò un lato del viso sul suo petto, appena sotto la spalla, in modo tale da non dover distogliere gli occhi dal panorama. 

-Da quassù Versailles e Parigi non sembrano distanti tra di loro, eppure lo sonoSono molto molto distanti, Andrè.-

Lui la ascoltò, ma le sue parole lo sfiorarono appena, e non rispose, distratto da una nube di pensieri che si rimescolava nella sua testa. Era consapevole delle braccia di lei che lo circondavano, del suo corpo caldo in cui forse scorreva il veleno di quel serpente di Saint Just, che se ne stava rintanato in qualche buco a Parigi, mentre la sua mente pensava al volto livido di Moreau di fronte al vuoto lasciato dal libro rubato, e poi alla torta di mele di Marron che cuoceva nel forno e infine ad una favola tedesca che parlava di una bella fanciulla pallida e di mele avvelenate. Si accorse quasi per caso che lei stava tossendo e quel suono rauco che emergeva dalla sua gola non gli piacque affatto.

-Ancora quella tosse?-

Le chiese.

-Un innocente malanno di stagione che l’estate si porterà via.-

-Hai parlato con un medico?-

Oscar gli rispose con un silenzio dal sapore ostile, quel genere di silenzio di cui ci si serve per non dover mentire quando non si vuol dire la verità. In molte altre occasioni lui aveva lasciato che lei seppellisse in quel modo i suoi piccoli segreti, ma questa volta non poteva impedirsi di scavare più a fondo.

-Nel biglietto mi comunicavi di avere urgente bisogno di riposo.-

-È la verità.-

-Si tratta di questa tosse?-

-No.-

“A me non puoi proprio mentire, Oscar” pensò con un sospiro. Ormai aveva naso per le menzogne, le fiutava come un cane barbone fiuta i tartufi, ma sapeva anche quanto fosse arduo riuscire a cavar di bocca ad Oscar qualcosa che lei aveva deciso di non dire. Leale con se stessa fino al midollo.

Insistette ancora a tastare con garbo l’argomento, cercando i punti giusti da oliare per scioglierle la lingua, ma Oscar passò dai monosillabi ad una serie di sbuffi e André si trovò costretto alla resa.

Lasciò che il lento incupirsi del cielo e il calore dei corpi li cullassero in un dolce, gradevole torpore. Si ritrovarono così a fissare in silenzio l’ultimo spicchio rosso di sole che trascinava via con sé le luci del giorno, ognuno con i propri turbamenti e i propri segreti ingarbugliati nello stomaco.

-È un bel tramonto.- commentò lei, con una voce così fievole da sembrar provenire da qualche punto distante del parco o da un momento lontano del passato. -Sono contenta di averlo visto con te. Non mi sarebbe sembrato tanto bello se tu non fossi stato presente.-

Lui annuì, mentre lambiva con la mano la curva della sua nuca sotto i capelli, su e giù, dolcemente, chiedendosi se si sarebbe mai abituato al privilegio di poterla toccare in quel modo.

-Dovremmo tornare ad Arras o in Normandia insieme, André, non credi? Tutta quella bellezza ci sembrerebbe infinita.-

Lui annuì ancora, un po’ perso tra i suoi pensieri confusi, poi di colpo si irrigidì.

-Facciamolo.- mormorò incerto, poi ebbe uno scatto e avvampò.

-Facciamolo!- ripetè ad alta voce, in un tremore di nervi eccitati, turbando il riposo dei colombi sulla trave, che protestarono scrollando sonoramente il piumaggio. -Partiamo, Oscar, domani stesso.-

Lei sollevò il capo e lo guardò con gli occhi un po’ commossi e un po’ confusi.

-Forse un giorno...-

-Un giorno, Oscar, ha il sapore di un mai.-

“È la soluzione! Se soltanto potessi spiegarti.” esclamò lui dentro al cuore.

-Andiamo ad ubriacarci di bellezza, di vino, di mare, di tutto ciò che vuoi, Oscar, senza vincoli, senza pensieri...-

“...senza ricatti, senza veleni!”

L’ombra di un sorriso smosse le labbra di Oscar, che sospirò e abbassò le palpebre. I contorni della torre e i colori del tramonto si sciolsero e si confusero nella sua mente fino a perdere forza, creando nuove forme, nuove immagini. Si ritrovò a galoppare sulla spiaggia d’oro, sconfinata, della costa normanna, tra gli spruzzi verdi delle onde, guardando ora la criniera di Cesar sciolta nel vento, ora il volto raggiante di André che le cavalcava accanto, in una gara senza competizione, su una battigia scintillante di sole. Riaprì gli occhi e trovò sul viso di lui lo stesso vigoroso sorriso che gli aveva attribuito nella propria fantasia.

-Che follia, André.- gli disse con voce dolce e occhi tristi -Non è proprio possibile.-

-Perché?-

-I nostri mestieri ci impongono obblighi a cui non possiamo sottrarci con tanta leggerezza.-

“Oh Oscar, temo che presto io non avrò più un mestiere.”

-E poi,- fece lei, spostandosi i capelli dalla fronte -a giorni Bouillet renderà ufficiale la decisione di assegnare a me e ai miei uomini l’incarico di garantire la sicurezza durante gli Stati Generali.-

André si freddò di colpo. I guizzi verdi che gli avevano acceso gli occhi si ritirarono dietro al fondo cupo del suo sguardo e le sue spalle si incurvarono all’ingiù, insieme agli angoli della sua bocca.

-La tentazione di prendere il cavallo e di lasciarmi portare più lontano che può mi solletica il cuore, André, ma non posso permettermelo. Il dovere mi grava sulle spalle e la terra sotto i miei piedi trema in continuazione. E ci sono faccende… che non capisco e che annientano la mia serenità.-

-A cosa ti riferisci?-

Non gli rispose. André la vide rabbrividire e stringere gli occhi come a voler scacciare un pensiero molesto, e capì che la sua mente, abituata al metodo e all’ordine, era davvero in subbuglio. Si sentì preso in causa, senza riuscire ad immaginarne il motivo.

-Ora sarebbe meglio scendere, Oscar.- le disse con voce calda e profonda -La cena sarà servita a breve. Trascorreremo qualche momento insieme più tardi.-

Oscar riaprì gli occhi, lo fissò a lungo con sguardo ombroso, poi si protese verso di lui e spinse le labbra sulla sua bocca.

-Ho bisogno di te, in un modo che faccio fatica a concepire e che non saprei esprimere.-

Gli disse in un sussurro, prima di indietreggiare di un passo, lasciandogli sulle labbra l’ impronta di quel forte bacio. Tornò quindi ad assumere la sua solita aria dura, fredda e solenne da cariatide e si avviò verso la botola delle scale, per poi bloccarsi e voltarsi indietro, come se di colpo le fosse venuto in mente qualcosa di importante:

-Marron ti ha preparato la torta di mele?-

Chiese, seria, quasi severa, come se l’argomento della domanda fosse di tutt’altra natura.

-Sì. È stato un tuo suggerimento?-

Oscar annuì piano, poi diede un’ultima occhiata ai colori sempre più scuri del cielo e prima di andarsene, stabilì:

-Nella tua stanza.-

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Capitolo 35
*** Memoria ***


Guardò il piatto di stufato quasi intatto che si stava raffreddando sotto i suoi occhi, poi guardò sua madre, seduta a tavola di fronte a lei, che descriveva con genuino entusiasmo i colori e i profumi che aveva avuto modo di apprezzare quel pomeriggio nell’Orangerie di Versailles. Si incantò ad osservare le sue labbra sorridenti che si muovevano e la luce che brillava nei suoi occhi e si dimenticò di ascoltarla.

Madame Marguerite faceva onore all’etimologia del proprio nome di battesimo e trasudava amore per la botanica, lo indossava perfino -non possedeva un solo abito che non avesse riferimenti al mondo vegetale nei ricami o nella stampa della stoffa. Il giardinaggio era per lei molto più di un semplice passatempo da nobildonna. Affondava di buon grado le mani nella terra, si confidava con le piante come se si aspettasse delle risposte, le chiamava per nome, le nutriva, le medicava, le piangeva se morivano. Mon fleur, così l’aveva ribattezzata il marito, stando ben attento ad usare quel tenero soprannome soltanto nell’intimità di casa. Oscar aveva più volte pensato che la botanica fosse l’unico interesse che i genitori avevano in comune e l’unico argomento di cui parlavano volentieri tra loro. Nonostante suo padre non avesse mai dissimulato il proprio disappunto per la generazione di femmine che Marguerite aveva messo al mondo, egli aveva onorato la nascita di ogni figlia con una serie di doni che avevano reso omaggio all’anima verde di Marguerite: un orto, una serra, un bonsai, un frutteto, una piccola vigna e infine un roseto.

-Quest’anno sulla tavola del Re le arance abbonderanno. Gli alberi si stanno preparando ad una spettacolare fioritura.-

Stava dicendo Madame. Oscar le sorrise, ma il suo pensiero si impigliò nel ricordo della coroncina appassita di fiori d’arancio che aveva visto sulla testa della sorella di Alain e non riuscì più ad avvicinare la forchetta allo stufato.

-Gradirei fare una passeggiata nel roseto prima di ritirarmi per la notte.-

Mormorò Madame, aspettando di ricevere lo sguardo della figlia, perso tra i bagliori rossi del vino nel calice.

-Mi accompagneresti?-

Insistette con dolcezza. Oscar sollevò gli occhi e increspò le sopracciglia.

-Dove?-

-Nel roseto, Oscar.-

-Nel roseto?-

Madame sorrise e annuì con la grazia di un fiore accarezzato dal vento. Oscar si chiese da quanto tempo avesse smesso di parlare dell’Orangerie.  

-È una bella serata per passeggiare tra i fiori.-

Spiegò Madame tamponandosi le labbra col tovagliolo. 

-Sì, è una bella serata.-

Convenne Oscar, raggiungendo con lo sguardo il cielo scuro oltre i vetri delle finestre, incorniciato dalle tende cremisi. I colori del tramonto si erano spenti in fretta, pensò.

-È il caso di godersi le cose belle finché se ne ha l’opportunità.-

Sentì dire da sua madre. Oscar le rispose con un sospiro. Non poteva essere più d’accordo. Le cose belle tendevano a svanire davvero troppo in fretta.

Conclusero il pasto e si trasferirono subito nel roseto, sotto la luce celeste della luna piena che di tanto in tanto si nascondeva dietro ad un velo di nuvole. Il profumo delle rose era forte e seducente. Il fruscio delle foglie un sussurro conturbante. Camminarono in silenzio, l’una accanto all’altra, lungo il sentiero di ghiaia che serpeggiava tra le aiuole, accarezzando di tanto in tanto qualche fiore addormentato. I petali erano vellutati e freschi.

-Marron mi ha detto che André è in visita a Palazzo.-

Oscar sollevò gli occhi e li condusse verso la sagoma scura del torrione.

-Sì, è arrivato al tramonto.-

-Quando era ragazzo, gli piaceva aiutarmi ad accudire le rose.- ricordò Madame con voce morbida -Seguiva con attenzione la crescita delle piante e trascorreva molte ore a disporre le guide in modo che i rami prendessero la direzione che voleva lui.-

Oscar fece correre lo sguardo sull’arco di siepe sotto cui stavano passando e si chiese quanti graffi di spine dovesse essere costata alle mani di André quell’architettura vegetale. Ad osservarla da vicino era chiaro che non fosse opera di un giardiniere esperto, eppure aveva una linea aggraziata e un’apparenza di stabile leggerezza.

-È bravo a prendersi cura di ciò che gli capita tra le dita.-

Commentò.

-È bravo, perché ama ciò di cui si prende cura.-

Rispose Madamecon quel tono caldo e dolce che le altre dame di corte spesso provavano inutilmente ad imitare.

Superarono una fontanella e si ritrovarono a costeggiare le alte ed intricate siepi di rose bianche. Si fermarono ad ammirarle, incantate dal candore spettrale dei petali illuminati dalla luna.

-Quando tuo padre mi mostrò questo roseto per la prima volta, tu avevi pochi giorni, Oscar. Ricordo la neve, il silenzio e una muraglia di rose bianche. Fu un bel momento. Mi sembrò un miracolo che dei fiori così fragili avessero avuto la forza e il coraggio di fiorire durante un inverno tanto rigido.-

Uno sbuffo di vento smosse i cespugli e il profumo di rose nell’aria si fece più intenso. Oscar provò ad immaginare con quale spirito sua madre fosse entrata per la prima volta nel roseto in quel lontano inverno, dopo aver deluso le aspettative del marito per la sesta volta. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo.

-Questo profumo mi dà un tale senso di pace.-

Disse.

-Ti circondavo di rose quando eri nella culla. Ogni mattina venivo qui e raccoglievo per te i fiori più belli e profumati.-

Oscar guardò sua madre e le sorrise.

-Dicono che la memoria sia sensibilissima alle percezioni dell’olfatto.-continuò Madameriprendendo a camminare -Gli odori risvegliano in noi sensazioni che credevamo di aver del tutto dimenticato. È straordinario il potere di un profumo.-

Oscar si irrigidì. “Il potere di un profumo”. Da quelle poche parole germogliò in un attimo nella sua mente un’intricato garbuglio di idee che finì per soffocare quel gradevole stato di quiete che era riuscita a raggiungere.

Si incantò a guardare gli intrecci dei rami delle rose, metafora perfetta dei suoi pensieri, finché non udì distrattamente la madre chiederle se si sentisse bene.

-Un leggero capogiro.-

Mentì, tornando in sé.

-A cena hai mangiato poco e bevuto molto.- Le fece osservare sua madre con gentilezza. -Sarà meglio rientrare.-

 

 

 

 

 

La curiosità della nonna l’aveva trattenuto nelle cucine di Palazzo più a lungo di quanto avesse previsto. Marron si era divertita a rimpinzarlo di torta e di domande finché una cameriera non le aveva ricordato che era giunta l’ora di raggiungere le stanze di Madame Marguerite per aiutare la signora a prepararsi per la notte. Nonna e nipote avevano concluso la chiacchierata con un bicchierino di liquore di frutta e poi si erano separati seguendo gli echi di antiche abitudini. 

Ora, mentre camminava verso la propria stanza ascoltando il ritmo severo dei propri passi, André si permise di mettere da parte per un momento la faccenda di Saint Just e di compiere un breve viaggio tra le memorie della sua vita a Palazzo. Quelle pareti, ricordò, avevano conosciuto i suoi stati d’animo più diversi. Mentre passava accanto ad uno specchio sospeso al muro, rallentò per osservare il proprio riflesso che scorreva sulla superficie lucida. Quella breve finestra sul proprio presente gli bastò per riconoscere di essere davvero molto diverso dal ragazzo gonfio di vino che barcollava a notte fonda in quel corridoio, piegato in due per tenersi lo stomaco e oppresso dal fantasma della solitudine. La sua vita, allora, gli era sembrata un Inferno, col senno di poi preferiva limitarsi a definirla un Purgatorio. Tutto sommato c’era stato del buono anche in quei giorni, soltanto che non era riuscito a vederlo. Forse, pensò, c’era sempre del buono nella vita, e anche del cattivo. D’altra parte, il Paradiso, se esisteva, non stava sulla Terra, e sicuramente non in Francia, soprattutto in quel periodo.

Quando si trovò finalmente davanti alla porta della propria stanza ebbe un momento di esitazione. Lei era appena oltre quella soglia, ne era consapevole. L’istinto gli suggerì di bussare per annunciarsi, poi scartò l’idea sorridendo e abbassò la maniglia. 

La stanza era più fredda e più scura rispetto al corridoio. Fu costretto a fermarsi sulla soglia ad aspettare che l’occhio si adeguasse alla poca luce che la illuminava. Quando finalmente i contorni della camera gli si mostrarono nitidi, la prima cosa che vide fu proprio Oscar. Era in piedi davanti alla finestra, in camicia e pantaloni, con le mani nascoste dietro la schiena e il viso rivolto verso di lui, illuminato a metà dalla tenue luce arancione di un’unica candela sull’attenti sopra il comodino. 

Il cuore esultò tanto da fargli male.

Ecco, dentro di lei c’era un’idea di Paradiso, pensò.

-Sei qui da molto?-

Le chiese, scegliendo una voce pacata e gentile. Oscar negò con la testa e non disse nulla. Le luci e le ombre scivolarono avanti e indietro sopra il suo volto serissimo.

-La nonna mi ha trattenuto.- spiegò lui, mentre chiudeva la porta con un giro di chiave -Voleva sapere tutto di me, di quello che faccio, di quali posti frequento, di chi incontro...-

-Ti sei goduto la torta?-

Si voltò e la guardò avanzare verso di lui. La luce alle sue spalle dava ai suoi capelli l’effetto di aureola dorata, ma l’ombra celava l’espressione del suo viso. Poteva distinguere soltanto gli occhi, due gemme chiare e brillanti fisse su di lui. Prese fiato per risponderle, ma non riuscì a portare a termine il respiro. Un’aroma intenso e speziato aggredì il suo naso e scese dritto a pugnalare il suo stomaco per poi lievitare verso la testa provocandogli una vertigine. Fece un passo verso di lei, tese le mani e le appoggiò sulle sue braccia.

-Oscar... perché indossi questo profumo?-

La voce gli uscì tremante e vagamente aggressiva. “Perché indossi il profumo di Cerise?”

Lo sguardo di Oscar scivolò verso il basso e gli occhi di André lo seguirono. Si trovò a fissare il luccichio di una piccola boccetta azzurra che, nonostante l’ostilità della penombra, riconobbe all’istante. Rabbrividì nel vederla sul palmo della mano di Oscar.

-Ho trovato questa essenza nella tasca della tua giacca. Mi è sembrata gradevole, intrigante. Ne ho messo una goccia sul collo...-

-Nella tasca della mia giacca?-

La interruppe lui sbigottito.

-Sì. Non ricordi? Il giorno dopo l’aggressione a Saint’Antoine, mi prestasti i tuoi abiti.-

Il viso di André divenne bianco.

-Mi ero dimenticato che...- borbottò, respirando piano, nel tentativo inutile di respingere quel profumo dalle narici e dalla memoria -Ti prego, Oscar, non usare più questa essenza.-

-Volevo appunto restituirtela.-

-Non mi interessa riaverla. Avrei dovuto liberarmene subito.-

-Liberartene?-

Lui aprì la bocca per rispondere, poi ci ripensò e la richiuse. Guardò gli occhi di lei farsi sottili e provò un doloroso senso di nausea alla bocca dello stomaco. Si aggrappò alle sue braccia senza stringere troppo. Avrebbe voluto che un profumo potesse essere strappato di dosso come un vestito.

-Appartiene ad un’altra persona?-

Insistette lei, calma, quasi fredda.

-Appartiene ad una parte del mio passato di cui non vado fiero e che volevo rimanesse lontano da te.-

-André, vorrei sapere.-

Lui sospirò esasperato e prese la boccetta.

-Non è un profumo comune.-

-Non capisco.-

-È un unguento che viene usato nei bordelli, Oscar.-

Lei non sembrò né sorpresa né impressionata.

-È un afrodisiaco?-

Chiese impassibile, inclinando un poco la testa. André vide nei suoi occhi un lampo di sfida, molto simile a quello che le accendeva lo sguardo quando tirava di scherma.

-Sì.-

Rispose, in guardia. Il viso di Oscar divenne duro e le sue dita invitarono le mani di lui con fredda cortesia a scostarsi.

-Nient’altro, André?-

 

 

 

 

 

Quando giunse davanti al muro di pietra che segnava il confine delle proprietà degli Jarjayes, Annette si fermò e provò a guardarsi indietro. Non vide altro che una distesa di quieti campi azzurri immersi nella penombra del crepuscolo e la sagoma snella di qualche albero sparso. Palazzo Jarjayes brillava in lontananza adagiato su un ampio lenzuolo d’erba, come una residenza incantata sospesa tra due leggerissime ali di bruma celeste. 

Si riempì gli occhi di quella vista, consapevole che non ne avrebbe più avuto occasione, poi tese l’orecchio. Poteva udire solo il timido fruscio della vegetazione e il canto distante di qualche civetta, niente voci o scalpitii di zoccoli. Era sola, era libera. Si concesse un respiro profondo e una pausa per fare qualche valutazione pratica. La gonna e le calze erano impregnate di umidità e le scarpe affondavano in uno strato denso di fanghiglia. Doveva lasciare i campi e raggiungere la strada immediatamente. Non poteva permettere che il buio della notte la sorprendesse a vagare in aperta campagna, si sarebbe persa. Fortunatamente la strada per Parigi, subito oltre i possedimenti degli Jarjayes, si immergeva in un bosco abbastanza fitto da permetterle di nascondersi in fretta tra gli alberi, nel caso in cui qualcuno avesse provato a cercarla. Non aveva dubbi sul proprio vantaggio.

Si aggiustò intorno al busto la tracolla della borsa di André e costeggiò a passo svelto il muro di pietre fino alla strada. Quando mise i piedi sullo sterrato, guardò ancora una volta indietro. 

Non aveva motivo di preoccuparsi tanto, pensò. André si sarebbe potuto accorgere del furto solo a tarda sera tornando in camera per trascorrere la notte o forse, appesantito dalla cena e dal sonno, non avrebbe nemmeno fatto caso all’assenza della borsa.

Annette respirò profondamente. “Ho preso la decisione giusta” si disse per farsi coraggio “In questo modo non soffrirà più nessuno.”

Diede le spalle al Palazzo e alla sobria e gradevole vita da cameriera che quel luogo e quelle persone le avevano regalato e si affrettò verso Parigi.

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Capitolo 36
*** Un corvo ***


Oscar studiò a lungo il volto di André, la mascella serrata, la pelle tesa sugli zigomi, le sottili rughe sulla fronte. Dentro di lui c’era un inferno eppure la sua espressione lo lasciava a mala pena intuire. Era sempre sempre stato dannatamente bravo a dominarsi, sempre misurato, sempre calmo. I pensieri che gli passavano per la testa e le emozioni che gli scuotevano il cuore per quanto forti raramente riuscivano a spaccare il solido guscio che li conteneva. Gli occhi, però, non sapevano mentire. E di certo quelli non erano gli occhi di un ipocrita.

-Devo farti una confessione, André,- Oscar abbassò le palpebre per concentrarsi su un lungo sospiro -ho dubitato della tua lealtà.- tornò a guardarlo -Ma non riesco a smettere di fidarmi di te, per questo ho scelto chiederti personalmente ciò che ho bisogno di sapere. So che non mi mentirai.-

-Non ti ho mai mentito, Oscar. Ma non capisco di cosa stiamo parlando.-

-Sì, tu sei sempre stato sincero, André,- continuò lei con voce più dolce -eppure non sempre sei stato onesto. Ci sono molte cose che avrei dovuto sapere e che non mi hai detto.-

-A cosa ti riferisci?-

-Tu a cosa pensi che mi riferisca?-

Lui si prese un momento per riflettere, ma quando aprì la bocca Oscar lo fermò posando un dito sulle sue labbra.

-André, io sono pronta a scommettere che in questo maledetto ginepraio ci siamo finiti per una serie di errori e di strane coincidenze, ma che forse avremmo potuto evitarlo, se fossimo stati entrambi più trasparenti.-

Oscar ascoltò il lungo sospiro controllato che scivolò fuori dalle narici di lui e, nel silenzio che seguì, contò i rintocchi del proprio cuore che pulsava lento ma con una violenza inaudita, scuotendo tutto il suo corpo ad ogni battito. Era una sensazione che lei conosceva già. L’aveva sperimentata molto tempo prima, quando aveva sospettato che André fosse il Cavaliere nero. Sperava solo che, come allora, scoprire la verità si rivelasse un sollievo.

Prima che lui formulasse una risposta, gli prese il polso e lo invitò a seguirla verso il letto. 

-Procediamo con ordine. Sono molte le lacune che dobbiamo riempire.-

Si sedettero di sbieco sul bordo del materasso, a favore della tenue luce della candela, e allacciarono gli sguardi l’uno all’altro. 

-Sarò diretta.- lo avvisò lei -Ti cacciato in un guaio con Saint Just?-

Nell’udire quel nome, André la guardò smarrito come se avesse appena ricevuto uno schiaffo.

-Come sai di Saint Just?-

-Prima rispondi alla mia domanda, André, per favore. Un passo per volta.-

Lui annuì e accettò il compromesso con un’alzata di sopracciglia.

-Non vedevo Saint Just dal giorno in cui tuo padre è stato ferito né avevo più avuto sue notizie.- cominciò -Ieri sera è uscito dalla tana ed è venuto a farmi visita. L’ho trovato davanti alla porta del mio appartamento quando sono tornato a casa. Un dannato uccello del malaugurio.-

-Cosa voleva?-

-Voleva che io rubassi alcuni documenti dallo studio di Moreau. Roba calda che lo riguardava.-

Oscar tossì e gettò lo sguardo di lato. “I miei documenti.”

-E tu l’hai fatto?-

-Sì.- ammise lui con lo sguardo basso e il tono sommesso -L’ho fatto, perché quel corvo non mi ha lasciato scelta. Oscar,- si passò una mano sul volto e infilò le dita tra i capelli -a quanto pare qualcuno ti sta avvelenando. È quello che sostiene Saint Just. Lui mi ha promesso che se avessi esaudito la sua richiesta, mi avrebbe rivelato l’identità di quella persona.-

Oscar chiuse gli occhi e si morse il labbro. Saint Just aveva organizzato una congiura contro di lei pur non darle la soddisfazione di vederlo davanti ad un tribunale. Quei documenti, quel mazzetto striminzito di carte non erano che poche, timide dichiarazioni di debiti non saldati, roba da qualche giorno di carcere per un uomo che avrebbe invece meritato la forca. Quel criminale aveva le mani sporche di sangue ma voleva una reputazione pulita e immacolata come neve fresca.

-Non era necessario che tu cedessi al ricatto.- mormorò lei facendo ondeggiare la testa -Io credo di sapere già chi ha provato ad avvelenarmi e anche come.-

Ci fu un lungo istante di silenzio. La stanza sembrò diventare di colpo più fredda, come se qualcuno avesse spalancato la finestra. 

-Tu lo sai, Oscar? Come...?-

André la invitò a guardarlo, sfiorandole il mento con la punta delle dita.

-Non ha più molta importanza ormai.-

-Ne ha eccome! - la mano di lui si distese con gentilezza sulla sua guancia- Oscar, ascoltami, io ho sottratto quei i documenti a Moreau, ma non li ho consegnati a Saint Just. Non ancora.-

Gli occhi di lei si rianimarono.

-E dove sono ora?-

Domandò. Il dito di André si tese verso un angolo della stanza, dove l’ombra nascondeva un modesto scrittoio con una sedia. 

-Sono lì, nella mia borsa.-

Oscar rivolse lo sguardo verso quel punto e strinse gli occhi.

-Quale borsa?-

-La borsa che c’è sopra la sedia.-

-André,- Oscar sollevò la candela per gettare un po’ di luce in quel cantuccio buio -Non c’è nessuna borsa.-

 

 

 

 

 

Parigi era una palude. Il suolo faticava ad assorbire tutta l’acqua che il cielo aveva sputato in quei giorni e c’era fango ovunque, perfino sui muri delle case.

Annette camminava a passo spedito, tormentata dall’umidità che aveva ormai raggiunto ogni strato dei suoi abiti e tentando inutilmente di ignorare il fetore sprigionato dai canali di scolo intasati che costeggiavano le strade. 

Parigi dopo la pioggia era non le era mancata proprio per niente. Sembrava una città fatta solo di fango ed escrementi.

La notte poi era arrivata troppo in fretta e per le strade di quel miserabile quartiere non c’era quasi più nessuno. I pochi passanti che frequentavano la zona erano uomini dei bassifondi che tornavano a casa dopo una giornata di lavoro, affondando fiaccamente le scarpe rotte nel fango, logorati da chissà quanti e quali problemi e troppo ubriachi di infelicità per far caso a chi stava loro attorno. Annette non fu da meno. Per tutto il tragitto tenne gli occhi fissi sulla strada che le scorreva sotto i piedi, temendo di udire da un momento all’altro un rumore di zoccoli alle spalle. Giunta all’angolo di un vicolo, si nascose dietro le mura di una casa e provò a guardarsi indietro. Non l’aveva più fatto da quando aveva oltrepassato il confine dei terreni degli Jarjayes e, come quella volta, si ritrovò a sospirare di sollievo. I lampioni illuminavano una strada vuota, ma non era il caso di rilassarsi. Non correva soltanto il rischio di essere braccata da André o da Madamigella Oscar. Quel quartiere pullulava di persone disperatamente povere che all’occorrenza si trasformavano in canaglie e lei era una donna sola, con abiti dignitosi e una borsa dall’aspetto succulento. Rabbrividì e tornò subito sui propri passi.

La locanda in cui sapeva che avrebbe trovato Saint Just era una bettola seminterrata e poco visibile, perché soffocata dagli alti palazzi popolari ammassati l’uno sull’altro. Quando Annette la raggiunse, infilò la porta senza guardarsi indietro e solo allora riuscì a sentirsi al sicuro. Le salì su per la gola una risata nervosa, che soffocò prima che le esplodesse in bocca. 

L’ambiente all’interno della locanda non aveva un odore più gradevole rispetto a quello che si respirava nelle strade, ma almeno era caldo e asciutto. Il locandiere, un omone con la pelle giallastra e lucida di sudore, la studiò con sospetto da dietro il bancone, poi di colpo diede segno di riconoscerla e con un movimento discreto della testa le indicò la porta del retrobottega.

Saint Just alloggiava temporaneamente in un cantone del modesto magazzino dell’osteria, tra botti, conserve e varie cianfrusaglie. Annette lo trovò appollaiato su una panca davanti ad un tavolo basso, avvolto in un ampio mantello nero di lana e impegnato a giocare a carte con un uomo che lei non aveva mai visto. Nessun braciere intiepidiva la stanza e l’unica fonte di luce era una lampada ad olio con il vetro sbeccato appoggiata nel centro del tavolo. 

Annette si annunciò con un colpo di tosse. Lo sguardo di Saint Just si staccò dal mazzo di carte e si scagliò affilato su di lei.

-Mi sembrava di essere stato chiaro, Annette: non devi mai venire a cercarmi a meno che non sia io ad invitarti a farlo.-

La sua voce era aspra come lo stridore di una lama sulla cote.

-Lo so,- rispose lei abbozzando un timido sorriso -ma quando vedrai cosa ti ho portato, mi ringrazierai.-

Saint Just sollevò un sopracciglio e lanciò uno sguardo al compagno, che si limitò a stringersi nelle spalle.

-Ebbene?-

Gracchiò. Annette si sfilò la tracolla dalla spalla e ribaltò la borsa sopra il tavolo, con la spavalderia di chi ha fretta di dimostrare di essere stato sottovalutato. Precipitarono sotto gli occhi perplessi di Saint Just una manciata di oggetti: una custodia di cuoio per occhiali, un sacchetto di stoffa, un quaderno e un mazzo di fogli tenuti insieme da uno spago. L’attenzione di Saint Just fu immediatamente catturata da quelle carte. Le liberò dal cordino e le sfogliò in fretta soffermandosi di tanto in tanto a leggere qualche frase.

-Sono i documenti di cui ti parlavo, Georges.-

Borbottò a bassa voce mostrando al compagno uno dei fogli. L’altro appoggiò sul tavolo il mazzo di carte che aveva in mano, senza scoprirle, e si accese la pipa con un gemito rauco.

-Non immaginavo di riceverli da te.-

Questa volta Saint Just si rivolse ad Annette, ma non con il tono di voce che lei si era aspettata di ricevere. 

-Non ho avuto scelta.- spiegò Annette, lanciando un’occhiata inquieta allo sconosciuto che fumava la pipa -Madamigella Oscar sospettava di me.-

-Come avrebbe potuto sospettare di te?-

Insistette Saint Just.

-Non lo so, ma ti dico che è cosi. Forse si è accorta di qualcosa. È piuttosto scaltra, lo sai anche tu. In ogni caso, quando ho saputo che André sarebbe venuto in visita a Palazzo, ho avuto paura. Se quei due avessero messo insieme ciò che sanno, avrebbero potuto tirare le somme e scoprirmi.- prese fiato e diede un paio di colpetti alla borsa di André con la mano -L’ho visto arrivare a Palazzo con questa borsa e dal suo atteggiamento ho intuìto che contenesse qualcosa di importante. Continuava ad aggiustarsi la tracolla sulla spalla e ad allungare la mano per controllare che la cinghia fosse chiusa.-

-Vai al sodo, Annette.-

-Sì, insomma, André ha lasciato la borsa nella propria camera per andare a salutare Madamigella Oscar e, quando lui è uscito, sono entrata io. Ho sbirciato nella borsa e i documenti erano lì. E non solo quelli.-

Saint Just guardò il sacchetto di stoffa che giaceva accanto alla custodia per occhiali, lo prese in una mano e lo soppesò.

-Sono solo pochi spiccioli.-

-Non mi riferivo a quello.-

Annette raccolse il quaderno che era precipitato sopra il mazzo di carte di Saint Just e lo aprì su una pagina a caso.

-Io non sono molto brava a leggere ma credo che si tratti del diario di André Grandier.-

Saint Just si mise a leggere con attenzione alla luce della lampada il breve testo che riempiva la facciata. Quando risollevò la testa, le sue labbra erano piegate in un sorriso, che scaldò il cuore di Annette.

-Questo potrebbe essere davvero utile.-

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiedo umilmente perdono per il ritardo dell’aggiornamento. Forse la brevità del capitolo non ha nemmeno rispettato la lunghezza della vostra attesa, ma spero almeno di averla ripagata col contenuto. Vorrei potervi promettere che con il prossimo capitolo sarò più veloce, ma preferisco non farlo, perché non vorrei rischiare di non riuscire a mantenere la parola. Comunque sarà l’estremo sforzo di pazienza che vi chiedo, perché il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo. 

Grazie grazie grazie di essere arrivati fin qui

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Capitolo 37
*** Scommetti? ***


Più di un anno.
Non so come, ma sono riuscita a superarmi. Penso di non aver mai pubblicato con un ritardo simile.
E non finisce qui. Non so se ne sarete felici o se vi cadranno le braccia, ma devo annunciarvi che l’ultimo capitolo non è questo ma sarà il prossimo.
Scusatemi, davvero. Sono un’autrice difficile, credo che ormai sia evidente, mi dispiace aver messo a dura prova così spesso la vostra pazienza.
A chi ha seguito questa storia dal principio -e parlo di cinque anni fa- non posso che essere grata per la fiducia, così come a chi mi ha incoraggiata e stimolata. In questa storia c’è tanto di voi.

 
La Senna era un nastro di frusciante velluto nero che curvava per raccogliere tra le sue pieghe gli edifici pallidi di Parigi. Sullo sfondo del cielo notturno, le torri silenziose di Notre Dame vegliavano il sonno nervoso della città, con distacco, con boria. Annette si guardò intorno. Di poetico, in quel freddo panorama, non c’era un bel niente, osservò, cercando un’emozione nel cuore. Nulla.
Si fermò, immerse tre dita nell’esiguo spazio tra il corsetto e il proprio petto ed estrasse una boccetta -il frutto di un furtarello di poco conto, un petit souvenir. La aprì e il tappo produsse uno schiocco sordo che le accese finalmente una scintilla di emozione nel cuore, un’emozione però amara. I suoi pensieri ritornarono alle serene giornate trascorse a Palazzo, a quell’insipida spensieratezza che si era stoltamente lasciata alle spalle. Una scelta infelice, una scommessa persa.
Il rimorso la colpì con inaspettata violenza e con un’intensità tale da provocarle un dolore fisico, acuto come una trafittura. Si piegò su se stessa, sopraffatta e rimase così, a premersi la mano sullo stomaco, finché il rammarico non scemò in malinconia. Allora si accorse della sensuale fragranza di rose che sgorgava dalla boccetta sovrapponendosi all’olezzo del fiume e della città e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
-Chissà che un lungo bagno...-
Disse salendo sul parapetto del ponte e affacciandosi sul vuoto. Contò cinque gocce, come le aveva insegnato Marron, e le osservò precipitare in piccole perle di luce dal vetro lavorato della fiala fino alla corrente nera del fiume. Poco dopo fu il suo turno.




 
-Sei sicuro di aver lasciato qui la borsa?-
Oscar camminava in cerchio con la candela in mano, annaffiando di luce ogni angolo della stanza.
-Sì, ma certo. L’avevo lasciata sulla sedia.-
André si era alzato dal letto ed era rimasto in piedi, rigido, con gli occhi puntati verso lo scrittoio ma con lo sguardo perso nel vuoto. Mentre Oscar gli camminava intorno disordinando con furia le ombre della stanza, lui ripercorreva ancora e ancora nella mente ogni gesto che aveva compiuto da quando aveva messo piede a Palazzo. Ne avrebbe saputo dire con precisione perfino la sequenza. Concluse che, se la borsa non era su quella sedia -e non c’era davvero- l’aveva presa qualcuno.
-È stata Annette.-
L’affermazione di Oscar turbò la sua mente tanto quanto la luce della candela turbò la sua pupilla buona, quando lei la fermò di colpo davanti al suo viso.
-Annette.- le idee nella sua testa si riordinarono all’istante come un reggimento di soldati al comando di mettersi in riga. -È stata Annette.-
-André, devi dirmi tutta la verità.- lo mise alle strette lei abbassando il lucignolo -Perché se tu non fossi tu e io non mi fidassi ciecamente di te...-
D’istinto André indietreggiò e si ritrovò nuovamente seduto sul bordo del letto a fissare la boccetta di elisir che fino ad allora non aveva mai abbandonato la stretta del suo pugno.
-Il veleno che ancora mi circola nelle vene proviene da quella fiala e quella fiala proviene dalla tua tasca, André. Tu sapevi che questo afrodisiaco può essere anche un veleno?-
-Lo sapevo.-
Si sentì dire lui a bassa voce.
-Annette è stata complice di Saint Just e ha provato ad avvelenarmi con quello.- Oscar indicò la fiala -Che strana concatenazione di coincidenze.-
-È stata colpa mia.-
André parlava alla boccetta.
-Colpa, colpa!- gli fece eco Oscar, massaggiandosi la fronte -Non serve adesso decidere su chi deve ricadere la colpa. Non c’è tempo. Bisogna agire.- lasciò la candela sul comodino e gli toccò la spalla con la punta delle dita. -Di logica, Annette deve aver lasciato il Palazzo per dirigersi a Parigi. Se è fuggita da poco e sulle proprie gambe, forse possiamo intercettarla prendendo i cavalli. Ma dobbiamo darci una mossa.-
André annuì smarrito, poi prese un respiro profondo, si cacciò la boccetta in tasca e, con un macigno nel petto, seguì Oscar che si era già lanciata fuori dalla stanza.
-C’è una domanda che devo farti, André.- lo avvertì lei mentre marciava svelta nel corridoio dandogli la schiena. -Perché l’hai fatta assumere qui? E perché non me ne hai parlato?- Non ricevendo una risposta, proseguì: -Quella notte, dopo l’aggressione a Saint Antoine, mentre salivamo le scale mi dicesti che l’appartamento di fronte a quello di Saint Just era stato occupato da una prostituta. Me lo ricordo. - Lo ascoltò mozzare il fiato poi riprese -Proprio ieri ho scoperto da Marron che Annette abitava nella tua stessa casa e che sei stato tu a mandarla qui. Ed io credo di aver capito.-
Il ginocchio di André fece per cedere, ma lui ebbe la prontezza di riaggiustare in fretta il passo prima di ritrovarsi a baciare il pavimento. Oscar, persa nel suo ragionamento e nel suo incedere marziale, non se ne accorse neppure.
-D’altra parte è stata un’intuizione semplice.- continuò lei inarrestabile -Annette ha a che fare con quella parte del tuo passato di cui non vai fiero, dico bene? L’hai fatta assumere qui per sdebitarti con lei. O per pietà, magari. Forse è stata proprio lei a regalarti questo afrodisiaco.-
André schiuse le labbra per negare ma le parole gli morirono in gola. No, Annette non aveva mai condiviso il letto con lui né tantomeno gli aveva rifilato quel maledetto elisir. La verità era ben lontana dalle congetture di Oscar eppure era anche molto meno credibile. Lui stesso, se fosse stato nei suoi panni, ad ascoltarsi non si sarebbe preso sul serio. Boccheggiò indeciso. Forse non era il momento giusto per scoprire le carte. Ci sarebbero state troppe spiegazioni da dare e troppo poco tempo per farlo.
-In ogni caso, non ha molta importanza.- decise lei, togliendolo dall’imbarazzo del dubbio -Ora pensiamo a sbrigarci. Voglio prendere quella donna prima che metta piede a Parigi.-
-Oscar, ascoltami.- André tossì e fece uno scatto in avanti per mettersi al suo fianco -Se anche Annette si trovasse ancora lungo la strada, sentendoci arrivare a cavallo si nasconderebbe nella boscaglia. E ormai fuori è buio. Non la troveremmo mai.-
-Abbiamo forse altre possibilità?-
-Sì.-
Oscar rallentò senza fermarsi e gli offrì la propria attenzione.
-Lasciamo perdere Annette e andiamo direttamente da Saint Just.-
Propose lui. A quelle parole, Oscar si arrestò di colpo e nello stesso istante tese il braccio di lato in modo da bloccare anche lui.
-Tu sai dove si trova?-
Chiese con aria stupita e sospettosa. Lui sostenne il suo sguardo e scosse leggermente la testa.
-No, ma conosco qualcuno che lo sa.-


 
Rosalie non fu sorpresa, ma sicuramente non entusiasta, quando sentì bussare alla porta di casa a pochi minuti dallo scoccare della mezzanotte. Lanciò uno sguardo seccato all’orologio e poi i suoi occhi si ritrovarono a roteare verso le travi del soffitto. “L’impegno civile non ha orari”, pensò amara, ricordando tutte le volte in cui quelle parole erano uscite dalla bocca fiera di Bernard.
Si lasciò sfuggire uno sbuffo contenuto, per poi tornare ad immergersi nella confortante ritmicità del lavoro di rammendo a cui si stava dedicando, mentre con la coda dell’occhio seguiva la sagoma di Bernard che attraversava la stanza. Non aveva alcuna intenzione di sprecarsi ad accogliere ospiti, a cui interessava soltanto ed esclusivamente l’attenzione di suo marito. Si concesse solo la frivolezza di fare una scommessa con se stessa. Provò ad immaginare quale dei numerosi e gagliardi compagni del marito avesse avuto la faccia tosta di presentarsi alla porta della loro dimora a quell’ora di notte, magari pretendendo di avere qualche notizia troppo calda e fragrante per lasciarla ad attendere il sorgere del sole, o più probabilmente per il semplice gusto di esibire un po’ di lessico forbito davanti ad un bicchiere di vino cortesemente offerto.
Quando udì il cigolio della porta che si apriva, la curiosità le fece sollevare gli occhi e allora scoprì di aver decisamente preso un granchio. Mai si sarebbe potuta sognare di ricevere quella visita. In un istante fu in piedi e il suo lavoro di cucito sul pavimento.
Sotto l’ombra degli ampi cappucci dei loro mantelli neri, i volti pallidi di Oscar e di André sembravano due mascheroni di pietra appesi al buio piatto e bluastro del pianerottolo. Lei appariva stanchissima e allo stesso tempo divorata da un fuoco feroce, lui invece irrequieto e cupo come il mare in un giorno di pioggia.
Rosalie esplose in un irrefrenabile e sincero “Qual buon vento!”, ignorando il presentimento che ad averli portati lì non fosse stato niente di buono.
Oscar avanzò verso di lei tirando con sforzo le labbra in un sorriso gentile.
-Come stai, cara Rosalie? Mi spiace non avervi potuto avvertire del nostro arrivo. Spero tu possa perdonare la nostra scortese intromissione.-
Le disse prendendole le mani. Rosalie, senza parole, si limitò a sorridere e ad arrossire.
-Bernard, non allarmarti,- mormorò André, immobile oltre la soglia, con la voce di un temporale -ma abbiamo bisogno del tuo aiuto. Devi condurci da una persona.-
Pochi istanti dopo, Bernard era al suo fianco, con il mantello piegato sul braccio e le scarpe ben allacciate ai piedi.
-Ti sottraiamo a tua moglie e alla tranquillità della tua casa per poco tempo.-
Disse Oscar con voce lieve e vagamente rauca, parlando a Bernard ma guardando Rosalie.
-Cosa succede?-
Chiese l’altra.
-Nulla per cui tu debba darti pensiero. Un malinteso da risolvere, niente di più.-
La mandibola di Rosalie si strinse per un istante. Guardò gli occhi profondi della donna che aveva di fronte e pensò con malizia e amarezza “una questione tra uomini?”.
-Vorrei avere il tempo di spiegarti.- recuperò Oscar tirando verso di sé i polsi dell’amica come se desiderasse sinceramente portarla con loro. Rosalie annuì e abbassò lo sguardo sulla finissima rosa incisa sopra l’anello d’oro che cingeva il suo anulare destro. La vicinanza di Oscar, il suo profumo, la stretta decisa delle sue mani la disorientavano, impastavano insieme pensieri ed emozioni. Si chiese se fosse inopportuno provare quel genere di sentimento in presenza di suo marito, se tutto quel terremoto interiore arrivasse a infastidire il figlio che portava in pancia. Nel dubbio, indietreggiò di un passo e si accorse di non trovare più così sgradevole l’idea di rimanere lì da sola.
Ascoltò i saluti sbrigativi e il fruscio della stoffa degli abiti che per un minuto riempirono la piccola stanza, poi il tonfo della porta le restituì il silenzio. Un instante dopo Rosalie era alla finestra a guardare l’onda dei mantelli delle persone più care della sua vita che sparivano in fretta nel buio dei vicoli, lasciandole in eredità il ricordo fresco dei loro volti e una stretta alla bocca dello stomaco.


 
Di corpi annegati la Senna ne restituiva con agghiacciante puntualità almeno uno al mese. Lungo tutto il suo corso, laddove la corrente era più gentile o dove qualche ostacolo si sporgeva sull’acqua, finiva l’ultimo viaggio di qualche infelice. Il fiume raccoglieva la disperazione della gente dal primo ponte sulle montagne fino all’ultimo verso la foce, si prendeva le vite di coloro che gliel’offrivano e poi risputava i cadaveri da qualche parte lungo le sponde o li consegnava all’immensità del mare.
Quella notte, sulla riva opposta rispetto al Palazzo del Louvre, due mendicanti, padre e figlio -ma talmente malridotti da sembrare entrambi ugualmente vecchi-, avevano trovato il corpo esanime di una donna, sbattuto dalla corrente contro la sporgenza di una piattaforma per imbarcazioni appena più alta del livello dell’acqua su cui erano soliti rifugiarsi per riposare durante la notte. L’avevano tirata all’asciutto e poi si erano affacciati sulla strada.
-Ehi, voi soldati.- aveva chiamato uno dei due notando un gruppo di militari che passava per la via pattugliando la zona. -La Senna ci ha fatto un macabro regalo. Ve ne occupate?-
Se n’erano occupati, ma solo in due. Il terzo era rimasto in disparte. Alain lo stomaco di ferro per affrontare la vista di un morto annegato ce l’aveva, se l’era fatto con gli anni. Gli era già capitato di avere a che fare con dei cadaveri rigurgitati dalla Senna e aveva imparato a non farsi impressionare. Ma era sicuro di non essere ancora pronto a guardare il volto di un’altra suicida, nonostante si trattasse di una sconosciuta. Non era passato abbastanza tempo da quel maledetto giorno, l’immagine del viso livido della sorella non gli era ancora sparita dagli occhi. Credeva, poi, che il condividere la scelta di darsi la morte creasse tra persone diverse un tenue ma concreto legame. In qualche modo, la disperazione che le aveva condotte a tanto, a prescindere dal motivo da cui era scaturita, doveva finire per farle assomigliare un po’ tutte.
Tenne al sicuro lo sguardo osservando il cielo. Era una notte triste, tremendamente adeguata alla circostanza. Il blu del cielo tendeva al grigio e c’erano poche stelle.
-Perdonate, signore.-
La mano magra del mendicante che sembrava più giovane tirò timidamente la manica della sua giacca. Alain gli rivolse uno sguardo paziente.
-Vi devo consegnare una cosa.- l’uomo estrasse dal gilet un sacchetto di cuoio e lo adagiò sulla mano di Alain. -Era incastrato nel corsetto. Mio padre non vuole tenere i soldi di una persona che si è data la morte.-
“Spirito maledetto, soldi maledetti.”
Sembrava dire la sua espressione. Alain strinse la mascella. Pensò a Diane appesa alla trave poi scrollò la testa e la visiond nella sua mente svanì come fumo che si disperde in uno sbuffo di vento. Avrebbe tanto voluto svuotarsi in gola un bicchiere di liquore.
Fece un cenno con la testa per far intendere che comprendeva e si versò il contenuto tintinnante del sacchetto nel palmo. Pensò amaro che con i soldi che aveva sotto gli occhi si sarebbe potuto garantire almeno tre belle sbronze, ma che nemmeno lui avrebbe avuto il fegato di spenderli, tantomeno per uno scopo così bieco. In quanto a quella fiala di vetro con l’aspetto di una boccetta di profumo, o qualcosa di simile, che brillava tra le monete “beh, deve avere poca importanza”. Si ficcò tutto nella tasca della giacca e si allontanò per accendersi la pipa. Voleva avere a che fare il meno possibile con quella faccenda e dimenticarsene in fretta. Avrebbe sistemato tutto quanto sulla scrivania del Comandante il mattino seguente insieme al resoconto della ronda e avrebbe lasciato che diventasse un suo problema. Lei avrebbe saputo che farne.


 
C’era tensione, Dio se c’era. Tanta che la si sarebbe quasi potuta tagliare a fette, pensò Bernard.
-Per di qua.-
Disse, svoltando in un vicolo buio. Gli altri due lo seguirono in silenzio.
La storia che avevano appena finito di raccontargli aveva dell’incredibile. Li guardò di sfuggita, prima l’uno e poi l’altra. Davvero quella donna, quella semi divinità, come la vedeva Rosalie, aveva deciso di scendere dal suo Olimpo di porcellana nel lerciume della città, di notte, percorrendo quelle stesse vie in cui poco tempo prima aveva rischiato di morire in un modo tanto lontano da quello che probabilmente le avevano fatto sognare, per tentare di recuperare dei semplici documenti? Anche molti altri elementi del racconto, a dir la verità, non si spiegavano. Su una cosa, però, Bernard non aveva dubbi: avrebbe soltanto sprecato il fiato se avesse provato ad elemosinare qualche dettaglio in più. Doveva tenersi la curiosità e farsi bastare ciò che aveva saputo. Il “questo è quanto” di Oscar era stato definitivo, come lo scatto di chiusura di un lucchetto.
-Arriveremo alla locanda a breve.-
Annunciò e gli sembrò di parlare al vento, le sue stesse parole gli parvero prive di suono. Ripeté la frase. Finalmente gli arrivò all’orecchio un mugolio, segno che l’informazione fosse stata acquisita da almeno un paio di orecchie. Rallentò fino a fermarsi e si voltò verso Oscar.
-Da qui in poi continueremo io e André.-
Il viso di lei divenne, se possibile, più scuro di quanto non fosse stato fino a quel momento, ma Bernard richiamò a sé un po’ dell’ormai polverosa spavalderia del Cavaliere Nero per non lasciarsi intimidire e spiegò:
-Non ne vado fiero, ma Saint Just si fida di me. Se gli porto la volpe dentro la tana, rischio di perdere questo vantaggio. E non converrebbe a nessuno.-
Oscar aggrottò la fronte e guardò di sfuggita André.
-D’accordo.- concesse infine con una voce venata di sarcasmo -La volpe aspetterà qui. Per favore, portate i miei saluti al roditore.-
Così mentre lei con un sospiro si appoggiava a braccia conserte al muro umido di un edificio, i due uomini, in silenzio, proseguirono.


 
Di tutte le osterie di Parigi che negli anni André aveva visitato, quella gli parve la più squallida. Il soffitto era basso, le sottili travi a vista avevano una curvatura preoccupante e le pareti, dove l’intonaco non era caduto, erano un orribile arazzo di macchie di muffa. E l’odore, l’odore era un meraviglioso miscuglio di tutte le tipologie di olezzi che un naso può trovare sgradevoli.
-Dov’è?-
Chiese brusco Bernard al locandiere, un uomo il cui aspetto era del tutto conforme al luogo che lo ospitava.
-Sta nel retro.-
Rispose quello con voce belante.
Il retro, scoprì André poco dopo, era uno stanzone incredibilmente più accogliente del locale vero e proprio. Pareti di legno, poco mobilio -un tavolo e due panche- tante botti e scaffali mezzi vuoti, ma ordinati. Le finestre senza vetri che si susseguivano lungo la parete che costeggiava la strada buttavano dentro aria fredda, ma almeno impedivano il ristagno di cattivi odori.
Saint Just era seduto a gambe larghe su una delle panche, col busto proteso verso il braciere che gli stava di fronte e gli occhi stregati dal lento logorio dei tizzoni.
-Credevo di dover attendere di più.- alzò la testa e mostrò un sorriso a cui la luce del fuoco diede qualcosa di inumano -Lieto di costatare che tu sia più sveglio di quanto avessi previsto.-
André si sentì prudere le mani. Quella canaglia stava parlando con lui. Gli si avvicinò quanto bastava per poter all’occorrenza tirare un calcio al braciere e rovesciargli i tizzoni roventi in pieno volto.
-Sono qui per consegnarti quei documenti.-
Annunciò. Il sorriso di Saint Just si inclinò.
-Bel tentativo, ma ti devo informare che Annette è stata più veloce.-
I piedi di André fremettero e la voce fece fatica ad uscirgli dalla gola.
-Davvero? Dov’è ora?-
-Non ne ho idea e non mi interessa. L’ho ricompensata per il servizio che mi ha reso e poi ho lasciato che andasse per la sua strada. E dato che mi trovavo a corto di denaro, sono stato costretto a pagarla con quei due spiccioli che stavano nella tua borsa, spero non ti dispiaccia.-
Anche questa volta, André dovette fare uno sforzo per resistere alla tentazione di fargli mangiare un po’ di quelle braci che facevano luce al suo ghigno sardonico.
-Io so perché sei qui veramente, Grandier. Non certo per queste inutili cartacce.- continuò Saint Just rivelando la borsa che aveva nascosto sotto la panca -Le hai rubate a Moreau e me le avresti consegnate senza pensarci due volte, non è vero? A te non interessano, sai che sono solo pinzillacchere.-
Le mani di André si chiusero a pugno mentre lui guardava quelle di Saint Just che affondavano nella sua borsa. Come aveva potuto essere tanto ingenuo da non pensare che Saint Just avesse in serbo una strategia, un asso nella manica? Ecco che, come avrebbe dovuto prevedere, quel perverso gioco continuava, evolveva sotto i suoi occhi, prendendolo ancora una volta alla sprovvista. Ecco un altro peso pronto a sbilanciare nuovamente i piatti.
-Scommetto che sei qui per questo.-
André si ritrovò a fissare senza fiato la copertina nera del proprio diario. Tra quei brevi sfoghi di inchiostro ce n’era davvero qualcuno che avesse lo stesso prezzo della libertà per Saint Just? Si rivide da solo, nella propria stanza, ad intingere la penna dentro il proprio cuore per poi guidarla su quelle pagine alla tenue luce di qualche amica candela e scrivere la tristezza, la speranza, la gioia, l’amore.
Quando capì, desiderò di non aver mai imparato a scrivere.



 
Le finestre erano alte, ma senza vetri. Se soltanto avesse trovato qualcosa sopra cui salire, come una botte o una cassa, sarebbe riuscita a gettare uno sguardo all’interno, ma nel vicolo non c’era nulla, il Caso non le aveva fornito alcuno strumento utile. Non le rimaneva altro che provare ad ascoltare.
Un rapido sguardo intorno per accertarsi di essere da sola, poi si appoggiò al muro e tese l’orecchio. Per qualche istante udì solo il rimbombo martellante del proprio cuore nelle tempie poi finalmente delle voci.
Non poteva vedere, ma non le era andata tanto male. Il silenzio piatto della notte e l’assoluta desolazione del quartiere le garantirono di non perdersi nemmeno una parola.

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Capitolo 38
*** Fiducia ***


-Ho sempre pensato che i diari fossero degli oggetti mostruosi, abominevoli, nient’altro che una raccolta di frivolezze partorite da menti drammatiche e invece mi sono dovuto ricredere.- apparentemente neanche una punta di sarcasmo nelle parole di Saint Just -Mai avrei immaginato di trovare tanto interessante leggere i momenti e i pensieri più salienti di quindici anni di vita di una persona qualunque come sei tu, Grandier... Non penso che il tuo caro fratello, qui presente, possa affermare di conoscerti tanto profondamente come ti conosco io ora. Ho sfogliato la tua anima.-

Le labbra di André si strinsero e le mani ebbero un fremito e Saint Just, astuto, non si risparmiò di fargli notare, con un movimento eloquente degli occhi, di essersene accorto.

-Avrei potuto fare di tutte queste carte un bel fuoco per scaldarmi,- continuò aguzzo, spostando l’attenzione sui fatidici fogli che avevano attirato André fino a lui -ma se devo essere onesto, sopporto più facilmente il freddo che la noia. E in questo periodo sono molto annoiato.- Un punta di boria sporcò la sua voce sull’ultima frase, le sopracciglia si incurvarono sulle palpebre socchiuse, la bocca si arricciò appena. -Tu puoi riprenderti questi documenti, ridarli al tuo amato Colonnello o farne ciò che più ti aggrada. Ma io, io mi tengo il tuo diario. Così, se quei documenti venissero destinati al fine per cui sono stati raccolti, se insomma dovessero procurarmi dei fastidi, anche solo un accenno di solletico…-

André chiuse gli occhi e sentì che la tagliola  che fino a quel momento gli aveva morso lo stomaco si era aperta. Ora capiva, ma non per questo si sentiva sollevato. Pensò al fratello che stava assistendo da quieto spettatore a quel caotico melodramma, ma non si voltò verso di lui, non avrebbe staccato gli occhi da Saint Just per nessun motivo. Si chiese se effettivamente Bernard fosse ancora lì alle sue spalle. Sì, ne avvertiva la presenza, ne avvertiva la confusione e il desiderio di comprendere. Cosa stava pensando? Fino a che punto aveva capito? Senza dubbio si stava mordendo le guance a sangue da parecchi minuti pur di tenersi prudentemente fuori dalla conversazione. “Ti devo tante spiegazioni, fratello, ma a tempo debito.”

-Non sei convinto, Grandier?-

Le carte che Saint Just gli stava tendendo ondeggiarono nella sua mano muovendo l’aria e le braci mandarono un timido bagliore arancione.

-Mi fido di Bernard.- riprese Saint Just come se il soggetto della frase non gli fosse letteralmente di fronte -Ma sono sicuro che non esiterebbe a tradirmi se tu glielo chiedessi. Questa consapevolezza mi conduce, con dispiacere, a mettere anche lui sul piatto della bilancia.-

-Di che diavolo parli, Louis?-

La voce di Bernard, rauca perché a lungo trattenuta in gola, prese la scena come la voce di un attore che inizia a recitare il suo pezzo da dietro le quinte prima di presentarsi sul palco.

-Ascoltate. E se- mentre parlava Saint Just guardava il vuoto -Oscar François de Jarjayes non avesse ucciso per davvero il Cavaliere nero? Se fosse stata tutta una messa in scena?- il suo tono si accese, divenne teatrale, ironico e allusivo, finse con più veemenza di ragionare tra sé e sé -Gli avrebbe risparmiato la forca per poi aiutarlo a scomparire nell’anonimato! Ma perché mai? Forse perché il castiga-nobili mascherato altri non era che il fratellastro del suo attendente, nonché amante! Oh, sarebbe una storia strabiliante, da mozzare il fiato, uno scandalo piccante quasi quanto quello della Valois.-

Nonostante il tepore del braciere, André si sentì attraversato da un brivido freddo. Non era stato necessario che Saint Just formulasse in modo esplicito la sua minaccia perché essa era comunque nitidissima. Chiuse gli occhi per preparare il proprio orgoglio alla resa. 

In fondo, la scelta era amaramente semplice. La vita e la reputazione di Oscar, come quelle di Bernard e di Rosalie, non avevano prezzo. Doveva accettare il patto. Il proprio diario per dei fogli senza più valore. Nessun vincitore, nessun perdente.

“Il giorno in cui quest’uomo pagherà per le sue azioni è solo rimandato” promise a se stesso.

Riaprì gli occhi e finalmente prese le carte tiepide sia per il calore del fuoco sia per il loro contenuto. Non appena le ebbe in mano cominciò ad indietreggiare per impedirsi di cedere alla tentazione di dare un calcio al braciere.

-Fermo un po’, Grandier! Dal momento in cui spero che questo sia il nostro ultimo incontro, non posso lasciarti andare senza che tu abbia soddisfatto la mia curiosità.- lo richiamò Saint Just accarezzando il diario sulle proprie ginocchia -L’ho letto quasi tutto mentre ti aspettavo. Per mia fortuna possiedi il dono della sintesi.-

-Per l’amor del Cielo, Saint Just, cosa vuoi sapere?-

-Hai scritto che una sera d’inverno una vecchia gitana ha avuto compassione della tua disperazione e ti ha voluto donare questo elisir per curare il tuo mal d’amore.-

-È così.- 

-Perché non lo usasti?-

-Perché lo avevo già conosciuto in passato e mi spaventava. Ma tu questo lo sai, devi averlo letto.-

-È vero. Mi sorprende quanto immenso sia stato il viaggio compiuto da quella disgraziata miscela per tornare a tormentarti. Ah, l’inesplicabile gioco della fatalità.-

André rimase in silenzio e si voltò. Gli mancava l’aria, doveva andarsene. Con un braccio del fratello intorno alle spalle si mosse svelto verso la porta. La voce di Saint Just lo accompagnò:

-Pace, pace, Grandier, e addio! Che ognuno di noi vada per la propria strada. E tu riversa su quella vecchia strega del passato il tuo rancore, non su di me!-

Esclamò battendo un piede a terra e cominciando a ridere così forte che André e Bernard, andando via, furono perseguitati dall’eco di quel suono fin oltre la porta della locanda.

 

 

 

 

 

 

 

Alain scrutò il cielo. Le nuvole si diradavano, ma la notte pareva più scura, l’aria più ferma, e lui si trovò a realizzare che finalmente il mattino -e con esso, la fine del suo turno di guardia- non fosse poi così lontano. A scanso di imprevisti, l’alba l’avrebbe trovato già assopito nella sua branda. Quel pensiero lo tirò su di morale.

Era solo e si sentiva stanco. Non era riuscito a trovare la forza di accompagnare i commilitoni all’Ospedale della Carità dove avrebbero condotto il cadavere della poveretta annegata, perché in fondo era consapevole che pendere le distanze da quella faccenda fosse il modo migliore per non dare problemi a nessuno, compreso se stesso. Così aveva deciso di continuare il turno di ronda da solo e, senza ricevere rimostranze da parte degli altri, si era addentrato nelle vie della città, borbottando nervoso.

-Quei due mendicanti si sarebbero dovuti fare i fattacci loro e limitarsi a restituire il corpo alle braccia della corrente, senza coinvolgere noialtri. Quella sventurata si era scelta una tomba dignitosa, tutto sommato. Ora le toccherà una miserabile fossa comune.-

Continuò a camminare senza guardarsi troppo attorno. Non si era prefisso un posto da raggiungere, sapeva solo da cosa voleva allontanarsi. Eppure, nonostante col suo passo veloce in poco tempo avesse già raggiunto un punto da cui si potevano scorgere nitidamente le torri di Notre Dame, continuava ad avere l’impressione di essere ancora troppo vicino al punto di partenza. Gli sembrava di sentire incombere dietro di sé la marcia funebre dei suoi compagni con il loro triste fardello e allora un nodo gli stringeva la gola e le gambe si facevano più solerti. Soltanto quando oltrepassò la zona circostante a Saint-Germain-des-Prés si rese conto che buona parte di tutta quell’inquietudine gli veniva trasmessa dal ritmico tintinno che il sacchetto legato alla sua bandoliera produceva collidendo, ad ogni passo, contro il suo fianco.

Deciso a trovare al più presto il modo per liberarsi di quel denaro disgraziato, si guardò intorno in cerca di idee. Ridarlo al fiume? Non se ne parlava di tornare indietro. Andò avanti. Il quartiere sembrava deserto, ma giunto ad un incrocio Alain vide una figura gobba, seduta sul ciglio, con una ciotola scura ai propri piedi, che mormorava, forse cantando, una famosa ballata popolare. Camminò deciso in quella direzione. Aveva fatto la sua scelta.

Elemosina. Il gesto cristiano per eccellenza. Se Dio esiste, di sicuro apprezzerebbe che questi soldi finissero nella saccoccia di un bisognoso.”

E così, senza lanciare nemmeno uno sguardo al mendicante, svuotò il contenuto del sacchetto nella ciotola e passò oltre, gonfiando il petto per godersi quella sensazione di sollievo.

-Ehi tu!-

La voce era quella aspra di una vecchia. Alain si voltò indietro e scoprì che sotto il cappuccio del mendicante c’era una donna anziana.

-Fin troppo generoso!- continuò lei -Mi tengo volentieri i soldi, tu riprenditi pure la fiala.-

Nella penombra il soldato vide un volto rugoso sorridere e una mano bianca e ossuta che gli tendeva ostinatamente la boccetta di vetro appena ripescata dalla ciotola. Lui si avvicinò e la prese senza protestare. Capiva bene che alla mendicante quella roba potesse interessare assai poco. La gettò in tasca e tornò subito sui propri passi.

-Vecchia furba.- commentò tra sé quando fu certo di non essere udito -Sicuramente cieca, a giudicare dal candore delle pupille, ma con un udito formidabile: è riuscita a distinguere il suono del vetro da quello delle monete!-

Mentre diceva così, sogghignando, svoltò in una via la cui lieve pendenza gli confermò che si stava definitivamente allontanando dalla Senna. Era nel cuore del quartiere dell’Università e sufficientemente distante da ciò che lo aveva turbato. Si fermò e si guardò intorno per orientarsi.

“Non sono più abituato a passare le nottate in giro per la città, solo e lucido.” 

Per ironia della sorte dovette prendere atto che quelle stesse strade poche settimane prima lo avevano visto ciondolare tra un’incrocio e l’altro, ubriaco perso, zuppo d’alcol come un frutto sotto spirito, spesso in lacrime e vestito peggio di un vagabondo.

-Ed ecco la dannata osteria.-

Si disse riconoscendo la fatiscente facciata del locale in cui una notte aveva sentito quei due sconosciuti cospirare contro il Comandante. Sulla scia di un sentimento di rabbia chiuse i pugni nelle tasche e si ritrovò, così, a stringere tra le dita la boccetta di vetro che la mendicante gli aveva restituito. Soprappensiero la estrasse e tolse il tappo. Nessun pugno l’avrebbe potuto colpire tanto duramente nello stomaco quanto il profumo di rose che ne fuoriuscì. Più svelto di Pandora col proprio vaso, Alain richiuse la fiala, ma il danno ormai era compiuto. Sentire il profumo di Oscar era stato come evocarla. Un giramento di testa lo costrinse a cercare appoggio contro un muro, mentre l’immagine di lei brillava nella sua fantasia come un’abbagliante stella cadente. Per l’ennesima volta Alain fu sul punto -ma non lo fece- di ammettere a se stesso che, settimane prima, fosse stato proprio quell’astro nella notte buia del suo dolore a infondergli l’animo di ritornare a Parigi dopo i funerali della madre e della sorella e a riprendere l’uniforme.

Quando tornò in sé, prese a camminare in fretta, ma si accorse subito che questa volta non sarebbe riuscito a fuggire facilmente da ciò che lo aveva turbato. La fantasia su di lei lo inseguì, non svaniva. L’impressione lasciata da quel profumo di rose -“la donna della Senna non poteva aver con sé un’essenza di violetta? O di mughetto? Proprio di rose?”- non si decideva ad abbandonare le sue narici. Per di più, man mano che procedeva in quel quartiere antico, Parigi gli si chiudeva sopra, le case si ammassavano le une sulle altre. Un fluido di calce e di mattoni che minacciava di ingurgitarlo.

La fronte di Alain cominciò a sudare, la gola si prosciugò, le mani tremavano. La città era un labirinto, il minotauro incombeva. Poi ecco, all’apice di quella frenesia, gli comparve davanti, ad una decina di passi, una figura con i capelli biondi. Alain la vide sgattaiolare nel buio e infilarsi rapida in un vicolo. Fu sicuro che si trattasse proprio di lei, ma allo stesso tempo non dubitò che fosse stato uno scherzo della sua mente delirante. 

“Mio Dio, ora ho le allucinazioni?” Così si fermò, cercò di riprendere fiato. Non poteva permettersi di affaticare troppo il cuore, quel povero organo ne aveva passate tante ultimamente. Un minuto di respiri lenti e profondi gli restituì una dose di calma e di lucidità sufficienti per per metabolizzare quegli attimi di smarrimento e tornare alla realtà. Ma fu di fatto lo spalancarsi improvviso di una porta sulla strada e il diffondersi di un olezzo di vino cattivo a riportarlo con i piedi per terra. Due uomini con mantelli neri furono rigurgitati da quel rettangolo di luce, a pochi passi da Alain. Il soldato fu travolto da una convinzione improvvisa: quei due erano le canaglie che avevano progettato l’omicidio del Comandante. Il destino gli stava offrendo la possibilità di riscattarsi, di scoprire le loro identità, di salvare Oscar.

Li raggiunse di corsa, ne afferrò uno per le spalle e lo fece voltare verso di sé, pronto ad esaminarne i tratti e soprattutto ad ascoltarne la voce, che era certo di ricordare. Quando, però, sentì l’estraneo pronunciare il suo nome - “Alain!” - la nebbia di rancore che gli aveva oscurato la vista si disperse. Riconobbe la voce, sì, ma non quella che si era aspettato di sentire. Allibito, dovette constatare che il volto che aveva davanti a sé non solo gli era ben noto ma gli era anche caro. 

-André! Che mi venga un colpo, sei proprio tu!-

Un occhio torbido e un occhio limpido lo fissarono entrambi sgomenti.

-Mio Dio, Alain, potrei dire la stessa cosa. Ho creduto fossi qualcuno che intendeva derubarmi.- André si ricompose dallo spavento e abbozzò un sorriso teso -Comunque, se tu fossi stato un ladro, non avresti trovato pane per i tuoi denti. Quel poco denaro che avevo se n’è andato in altre tasche.-

-Sai, André, fino a poco fa anche io avevo in mano un piccolo gruzzoletto, che ora sta in altre tasche. Ma ti dirò, mi sta bene così!-

 

 

 

 

 

Aveva sentito tutto, Oscar, fino all’ultima parola, troppo coinvolta per accorgersi dell’umidità che risaliva dal terreno impregnandole gli abiti e del tipico sgradevole odore che infestava la zona circostante di ogni retrobottega della città. Ne aveva preso atto bruscamente non appena aveva intuito che la conversazione fosse terminata, così era scappata di corsa per tornare nel vicoletto in cui sarebbe dovuta restare, trovandolo non meno umido e non più profumato.

Quando i suoi compagni la raggiunsero, rimase impassibile, anche se nelle sue orecchie, come in quelle degli altri due, risuonava ancora la risata sprezzante di Saint Just. Finse di non notare l’espressione smarrita di Bernard e quella crucciata di André, ma la comparsa del faccione spigoloso di Alain insieme a loro fu troppo inaspettata per non provocarle un moto di stupore.

-Sono di ronda.-

Si affrettò a spiegarle Alain non appena notò il lampo nei suoi occhi.

-Da solo? Qui? E i tuoi compagni?-

Una punta di rimprovero nella voce di lei.

-Si stanno occupando di una faccenda spiacevole.-

-Ovvero?-

-Un suicidio nella Senna.-

Oscar comprese e non indagò oltre. 

-Mi perdonerete,- si intromise Bernard serissimo -ma mi preme far ritorno a casa. Rosalie sarà in pensiero ed io sono molto stanco.-

-Certo, Bernard, ti siamo grati dell’aiuto.-

-Potete contare sempre su di me. André,- il

giornalista mise una mano sulla spalla del fratello e lo fissò con due occhi così fermi da sembrare di vetro -non mi devi nessuna spiegazione, ma se me ne vorrai dare ti ascolterò volentieri, domani o quando sarà.-

André rispose con un cenno affermativo del capo, poi alzò gli occhi verso il cielo, che il chiarore dell’alba cominciava a tingere di celeste, e sospirò:

-Faremmo bene a tornare tutti a casa.-

Anche Alain si mostrò d’accordo, tenendo a bada con un sorriso il senso di disagio che la parola casa immancabilmente gli suscitava. Mai avrebbe pensato di associare quel dolce concetto al grigio e freddo casermone della Guardia di Parigi, ma la vita aveva dimostrato di essere imprevedibile. E anche un po’ crudele. Mentre salutava, notò con la coda dell’occhio che la mano Oscar si aggrappava alla manica della giacca di André e in quel gesto vide qualcosa che gli fece male, qualcosa che aveva già visto, senza rendersene conto, il giorno in cui erano andati a cercarlo per portargli quello stipendio mai ritirato. Decise di esserne contento. Non gli rimaneva altro da fare se non ripromettersi che avrebbe fatto il possibile per proteggerli. Era l’unico modo che gli rimaneva per amarla.

 

 

 

 

 

 

Mentre il sole si affacciava sopra le campagne, Oscar apriva la porta della propria stanza. Non l’avrebbe mai ammesso apertamente e sperava di non averlo dato troppo a vedere, ma si sentiva davvero stanca. Il sonno che per molte notti le era mancato sembrava esserle piombato addosso di colpo. Era così sollevata di essere finalmente a casa ed impaziente di gettarsi nell’abbraccio fresco delle lenzuola che ebbe un lieve sussulto quando si sentì sfiorare la mano. Quasi aveva dimenticato che André, discreto come sempre, le era accanto. 

-Mi dispiace.-

Mormorò lui mentre le cingeva il polso con le dita in una stretta gentile. Oscar ruotò la mano e fece la stessa cosa, tirando con gentilezza il suo braccio verso di sé per invitarlo ad entrare.

Le tende erano chiuse, ma la stanza non era del tutto buia e c’era nell’aria un piacevole profumo di legna, cera sciolta e rose fresche, il profumo di casa. Oscar si tolse la giacca e la abbandonò sullo schienale di una poltroncina. Altri indumenti scomodi trovarono posto sul pavimento.

-È tutto finito.- Gli disse scostando le coperte -E forse è finito nel modo migliore possibile.-

-Oscar, quei documenti…-

-Riportali a Moreau, André. Se si è accorto della loro assenza, digli pure che sono stata io a chiederti di prenderli. Dubito che oserà farti domande a riguardo.-

-E l’elisir?-

-Lo terrò.-

-Lo terrai?-

Oscar si rimboccò le maniche della camicia e si sedette sul materasso. Al contatto con il letto, ogni fibra del suo corpo si rilassò, la mente si spogliò di ogni pensiero. Non desiderava nient’altro che dissolvere l’amaro di quella vicenda nella più dolce e profonda delle dormite. Arrendendosi a quella prospettiva, finalmente si distese e nemmeno si rese conto che gli occhi si erano chiusi prima ancora che la guancia avesse raggiunto il cuscino. Indistintamente, poco prima che il sonno la vincesse, avvertì un braccio intorno alla vita e la stoffa della propria camicia frusciare contro un tessuto gemello. 

-Mi fido di te, André. Tu ti fidi di me?-

Riuscì a dire sforzando la voce.

-Sì.-

Gli prese la mano, la accompagnò sulle proprie labbra.

-Non può bastare?-

Chiese in un sospiro, anche un po’ a se stessa. Non ci fu risposta, solo una distesa infinita di acqua e di luce e il canto malinconico del mare di Normandia.








Gentilissimə, non mi sembra vero -e ancor meno lo sembrerà a voi- ma ecco l'ultimo capitolo. La storia è finita. Siete liberə di fermarvi qui con me o di andare avanti nella vostra fantasia, arrivando fino alla Rivoluzione e magari oltre.
Vorrei ringraziare ogni persona che ha dato una possibilità a questa storia, anche chi si è fermato semplicemente a considerarla; abbraccio chi l'ha sentita, chi ci si è perso, fosse anche un solo lettore.
Alla prossima.
Ardesis

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