So Baby, Be Mine - Color of my soul

di FairLady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Speechless is how you make me feel ***
Capitolo 2: *** Santa Ana brought me to you ***
Capitolo 3: *** I've been looking around, in the lost and found of my heart ***
Capitolo 4: *** Come together, right now, over me ***
Capitolo 5: *** Faith is found in the wind All we have to do is reach for the truth ***
Capitolo 6: *** When it gets dark and cold We hold each other till we see the sunlight ***
Capitolo 7: *** I close my eyes Just to try and see you smile one more time ***
Capitolo 8: *** Love me more, never leave, me alone by house of love ***
Capitolo 9: *** You give me butterflies inside ***
Capitolo 10: *** So Baby Be Mine ***
Capitolo 11: *** For this good love I’m receiving I’ll go anywhere Just as long as you are there ***
Capitolo 12: *** I'll be loving you, that's what I want to do ***
Capitolo 13: *** You took away the rain and brought the sunshine ***
Capitolo 14: *** I'm from a world of disappointments and confusions but I want her to be mine ***
Capitolo 15: *** Why, why, tell 'em that it's human nature Why, why, does he do me that way ***
Capitolo 16: *** I was afraid of life and you came in time You took my hand and we kissed in the moonlight ***
Capitolo 17: *** I would walk around this world to find her, And I don’t care what it takes I’d sail the seven seas to be near her. ***
Capitolo 18: *** It’s you that make me happy, Whatever happens don’t you let go of my hand ***
Capitolo 19: *** He's the living dead, the dark thoughts in your head, He knows just what you said, That's why you've got to be threatened by him ***
Capitolo 20: *** Before you judge me, try hard to love me, the painful youth I've had, Have you seen my childhood? ***
Capitolo 21: *** Everywhere I turn, no matter where I look The systems in control, it's all ran by the book I've got to get away so I can clear my mind, Xscape is what I need, Away from electric eyes ***
Capitolo 22: *** Seems that the world's got a role for me, I'm so confused will you show to me You'll be there for me ***
Capitolo 23: *** It was cloudy before but now it's clear You took away the fear You brought me back to life ***



Capitolo 1
*** Speechless is how you make me feel ***


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Dicembre 1991
 
Il sole che abbracciava Los Angeles era fin troppo caldo per una giornata di dicembre. Le vie della città erano addobbate a festa; le luci e il clima natalizio in California stridevano sempre con la sua temperatura mite, ma non per questo Aura sentiva meno lo spirito magico di quel periodo.
Aveva sempre amato particolarmente il Natale, molto più di qualsiasi altra festività, e appena passava Capodanno non vedeva già l’ora del dicembre successivo per tornare a sognare un po’, come quando era bambina. Di certo in Illinois si passavano quei giorni a fare pupazzi e a tirarsi palle di neve, ma in cuor suo poco importava se ci si dovesse bardare come in Alaska o se si passasse la vigilia in spiaggia a surfare, l’importante era sempre stato altro: la bontà d’animo, i bambini in festa, l’amore e la gioia di stare con le persone importanti.
A proposito di persone importanti…
In quel periodo era solita tornare a casa, a Burlington, ma quell’anno gli introiti al negozio erano andati peggiorando di giorno in giorno e, tolte le spese dell’attività, l’affitto e il sostentamento personale, non le sarebbero rimasti molti soldi per permettersi un viaggio simile, per cui, per la prima volta nella sua vita, avrebbe passato le feste lontana da mamma, papà, dai suoi fratelli e da tutta quella pazza combriccola di parenti che si riunivano sempre a casa Mitchell.
Per cercare di riempire quel vuoto aveva organizzato insieme al suo piccolo, ecclettico gruppo di amici – conosciuti i primi tempi dopo il trasferimento, alla scuola di moda e design – la vigilia e il Natale più strambi che avesse mai vissuto: sulla spiaggia a prendere il sole, con tacchino arrosto, pudding e le mince pies della sua migliore amica Tanisha.
Stava ancora riflettendo su quanto sarebbe stato strano quell’anno senza la sua famiglia intorno e considerando che, nonostante questo, non aveva voglia di farsi rovinare il Natale – nemmeno dal pensiero di un possibile fallimento del negozio che aveva tanto desiderato – quando, dopo ore di silenzio, il campanello dell’ingresso tintinnò nuovamente.
«Non ci posso credere – pensò tra sé -, finalmente un cliente!» si alzò dallo sgabello di cui ormai il suo di dietro aveva preso la forma, si sistemò metodicamente la camicetta prendendo un respiro e s’incamminò dal retro verso l’ingresso.
Due uomini camminavano pigramente nella sezione dei salotti, uno sempre dietro all’altro. Il primo, quello che apparentemente studiava con più attenzione gli articoli esposti, incedeva con una camminata aggraziata e composta, con le mani unite dietro la schiena. Indossava un paio di pantaloni neri, una giacca sportiva rossa, degli occhiali scuri e un cappellino da baseball. Di quando in quando accarezzava con le dita sottili qualcosa che probabilmente lo aveva colpito particolarmente, e poi passava oltre.
Aura si avvicinò sempre di più, notando che il secondo uomo – piuttosto ben piazzato – seguiva sempre il primo a distanza di un passo, senza mai togliergli gli occhi di dosso.
Nel negozio calò un silenzio quasi reverenziale; persino la radio che gracchiava pigramente dal retro sembrò essersi spenta, o forse era solo che lei si era persa totalmente sulle mani grandi e affusolate di quell’uomo e non percepiva più lo spazio e il tempo intorno a sé.
«Buongiorno signorina, vorrei sapere quanto costa questo, per favore…»
Aura, nel sentire la voce di quell’uomo, ebbe un fremito che diventò brivido quando egli si girò a guardarla, mentre ancora teneva la mano sul mobile del quale aveva domandato il prezzo.
Non era una fan, non lo era mai stata di nessuno, ma certamente uno come lui non passava inosservato; e di sicuro tutti – proprio tutti – sapevano chi fosse. Era normale provare emozione di fronte a colui che il mondo intero riconosceva come il Re del Pop!
«S-Signor Jackson – in che modo avrebbe dovuto chiamarlo? Signore andava bene? Sua Maestà? –, quel comò fa parte di un tris d’arredamento, come può vedere dall’esposizione. La bellissima credenza che ha adocchiato, in effetti, è accompagnata da questi due comodini…»
Aura, mano a mano che parlava – e mano a mano che notava l’interesse di Michael crescere verso le sue spiegazioni riguardo quei mobili – prese più sicurezza e, mentre parlava di ciò che conosceva meglio – i suoi articoli “rari” – dimenticò per un momento anche l’identità dell’uomo che le stava di fronte.
«Bene! Signorina…?» la interruppe lui, forse saturo di informazioni, o già persuaso ad acquistare quell’arredamento tanto elogiato dalla giovane donna.
«Oh, mi scusi. Mitchell, Aura Mitchell, signor Jackson…» Si era presentata e non gli aveva porto la mano, anche se nemmeno lui l’aveva fatto. Avrebbero dovuto stringersela come fanno due estranei al primo incontro? O forse no? Ma perché si stava facendo tutte quelle paranoie? Mentre divagava su cose di dubbia importanza, Michael le stava sorridendo.
E a lei, per un momento, mancò la terra sotto i piedi.
«Niente signor Jackson, per favore. Chiamami Michael» le disse con quel sorriso ancora dipinto sulla bocca perfettamente disegnata. «Che bel nome Aura – continuò poi togliendosi gli occhiali da sole con un gesto fluido del braccio e scoprendo uno sguardo intenso che lei non seppe descrivere altrimenti – Che cosa significa?»
Mentre attendeva la risposta, riprese a camminare placidamente tra il mobilio, scrutando, sfiorando, accarezzando tutto ciò che al suo occhio attento poteva risultare apprezzabile.
«Significa “veloce come il vento”. Deriva dalla mitologia greca…» rispose lei per la milionesima volta da che ne aveva memoria. Era una domanda comune, che tutti le ponevano dopo aver saputo il suo nome, ma quella volta rispondere non le pesò poi tanto.
Michael si fermò nuovamente di fronte ad un sofà del tardo Ottocento, alzò il viso e le regalò uno sguardo sorprendentemente amichevole, dolce.
«Avevo ragione, allora: Aura è proprio un bellissimo nome» sentenziò riprendendo a camminare. Il sorriso, constatò lei con tenerezza crescente, non aveva più lasciato quel viso perfetto.
Lo seguiva quasi in punta di piedi; non gli si avvicinava troppo, provava una certa soggezione verso la sua persona e pensava che forse non avrebbe avuto piacere di averla troppo vicina, abituato com’era alla calca dei fan che in ogni dove desideravano un qualsiasi contatto fisico.
Senza rendersene conto, aveva praticamente completato il giro dello showroom e Michael non aveva fatto alcun accenno a voler comprare qualcosa. Stranamente, nonostante le condizioni traballanti della sua attività, Aura non se ne rammaricò troppo. Non gliene era mai importato granché di Michael Jackson, come della musica in generale, ma ammise con se stessa di essere stata colpita dal fascino di quell’uomo dagli occhi innocenti. Sì, era quello l’aggettivo che cercava poco prima, quando lui aveva sfilato gli occhiali da sole: innocenti.
«Devo farti i miei complimenti, hai davvero un negozio molto interessante. Non sono i soliti mobili che si vedono ad LA»  si complimentò per poi guardarsi intorno un’ultima volta.
«Se sei ancora interessato a quella credenza bianca con i pomelli in Swarowski posso fare uno strappo alla regola e vendertelo singolarmente per milleottocento dollari.»
«Veramente avevo intenzione di comprare tutto il set, Aura, e penso che acquisterò anche il sofà in broccato dell’Ottocento con la poltrona e le due lampade gemelle vicino all’ingresso»
Aura rimase a bocca aperta. Solo il sofà costava quindicimila dollari! Cercò comunque di non scomporsi, anche se già pregustava il pudding all’inglese di sua madre la notte di Natale.
Per l’ennesima volta in pochi minuti Michael l’aveva lasciata senza parole.
«Me li potresti spedire? Altrimenti, se è un problema, mando qualcuno a ritirare» le chiese, forse per aiutarla a uscire dall’imbarazzo, intuendolo dal suo sguardo attonito.
«No, no, non ti preoccupare, M-Michael, te le farò recapitare.»  
Di lì a poco Michael Jackson, dopo aver pagato profumatamente gli acquisti – anche più del dovuto – e aver lasciato l’indirizzo della sua casa, fece per andarsene, ma prima regalò ad Aura un ultimo sguardo carico di qualcosa simile all’affetto che lei ricambiò con tutto il cuore.
 
Erano trascorsi dieci minuti – forse venti – da quando quell’uomo e quella che doveva essere senz’altro la sua guardia del corpo erano usciti dal negozio e a lei mancava ancora il respiro. Il cuore probabilmente aveva smesso di battere a quel primo sorriso e non aveva ancora ripreso.
Si ritrovò a fissare la firma che Michael aveva apposto sull’assegno e a sperare nel profondo di avere presto un’altra occasione di rivederlo. 

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Capitolo 2
*** Santa Ana brought me to you ***


 

 

Erano passati alcuni giorni da quell’insolita, gradita, emozionante visita, e Aura non aveva mai smesso di cercare tra i suoi ricordi il riflesso ancora nitido di quello sguardo magnetico e profondo.
Natale era ormai alle porte e, se fino a un paio di settimane prima il suo unico desiderio era stato quello di riuscire a raggiungere la famiglia per le feste in Illinois, ora se n’era aggiunto un altro, forse anche più impossibile da realizzare che non quello di partire. Anzi, partire sarebbe stato elementare ormai, con l’assegno che Michael le aveva fatto! Di ora in ora la voglia di rivederlo cresceva a dismisura, tanto che iniziava a pensare di essere impazzita. Il pomeriggio dopo quell’incontro aveva addirittura chiuso il negozio, era corsa al centro commerciale e aveva fatto il pieno di musicassette e vhs, nel tentativo di recuperare quello che si era persa in quegli anni – e anche un po’ per il gusto di poterlo vedere.
Fu proprio mentre guardava Moonwalker che incontrò di nuovo quel giovane uomo dagli occhi innocenti e, proprio come la prima volta in cui lo aveva incrociato, le mancò la terra sotto ai piedi.
 
Seduta sul divano di casa sua, dopo l’ennesima giornata infruttuosa in negozio, Aura rigirava tra le mani il biglietto dove Michael aveva scritto l’indirizzo per la consegna dei mobili. Da qualche giorno le era balenata nella testa l’idea di farsi un giro, giusto per vedere dove abitasse una pop star di quel livello, ma tutte le volte aveva accantonato l’idea. Troppo codarda, troppo indecisa, troppo… impaurita, in primis da se stessa che non si era mai invaghita così di qualcuno, fosse famoso o meno. Negli ultimi anni aveva pensato solo al lavoro, al sogno di avere un negozio tutto suo e diventare interior designer, lasciando indietro il resto del mondo; poi di colpo il risveglio, e Michael ne era stato l’artefice. Forse era quello il motivo per cui provava tutto quel trasporto verso di lui. Non c’era nulla di romantico o sentimentale: Michael era semplicemente la prima persona che avesse visto appena riaperti gli occhi!
Stropicciò il foglietto con la reale intenzione di buttarlo e non pensarci più, eppure c’era qualcosa che ancora la bloccava. Sapeva di dover lasciar perdere, in fondo lui era una superstar internazionale, che cosa poteva aspettarsi? Le sue mani, intanto, avevano preso quel pezzo di carta e lo avevano chiuso tra le pagine di “Il vecchio e il mare”, il suo libro preferito, uno di quelli che leggi e rileggi ma non ti stancano mai.
«Sarà il caso che la smetti, Auralee, o impazzirai!»
Il fatto che cominciasse anche a parlare da sola la diceva davvero lunga sul suo stato mentale, ma non si fermò troppo ad analizzare la questione, si alzò e si decise finalmente ad andare a letto.
 
Passarono altri giorni e Aura cercò con tutta se stessa di concentrarsi sul lavoro e accantonare quei nuovi pensieri che le avevano invaso la testa da quando Michael aveva fatto la sua comparsa al negozio. Ascoltava spesso la sua musica, adorava la sua voce piena, angelica; spesso si sorprendeva commossa dalla capacità che quell’uomo aveva di tramutarsi in tigre sul palco e poi essere tanto dolce e delicato nella vita – per quel poco che le era stato possibile constatare. Tutto sommato, comunque, si sforzò di andare avanti, fingendo quasi di non averlo mai incontrato.
Fu un paio di giorni prima di Natale, l’ultimo che avrebbe passato a Los Angeles prima delle feste, che quei sentimenti affiorarono nuovamente.
Il Santa Ana(*) soffiava più forte che mai quella mattina, e Aura aveva fatto non poca fatica per raggiungere a piedi il negozio. Quando finalmente vi giunse, sovrappensiero si chinò per aprire la serratura della saracinesca e si accorse di un foglio piegato, incastrato nello stipite del portoncino. Lo prese con noncuranza, convinta di avere a che fare con la solita pubblicità, entrò e si dedicò subito alla routine di apertura, abbandonando quel pezzo di carta sulla scrivania nel retro.
Solo più tardi, quando ebbe terminato i suoi compiti e decise di dedicarsi alla posta abbandonata da giorni in ufficio, lo aprì e il cuore le si fermò nel petto. La cosa che spiccava su tutto era la firma in basso a destra: era quella di Michael. Con una grafia tenera e irregolare le aveva lasciato un messaggio:
 
“Mi sono affacciato alla finestra e guardavo l’orizzonte, quando il Santa Ana mi ha raggiunto. Lo so, è strano, è sembrato anche a me, ma sentivo la necessità di seguirlo e vedere dove mi avrebbe portato. E sono finito qui: il vento mi ha condotto da te…”

Appena dopo l’ultima parola c’erano delle macchioline d’inchiostro. Le analizzò attentamente, sembrava come se lui avesse voluto scrivere altro, ma poi si fosse bloccato.
Aura aveva il cuore in gola, perché non poteva credere che Michael fosse davvero stato lì, che avesse scritto quelle parole a lei, lei che non era qualcuno di importante, che era… a lei che era nessuno, Michael aveva dedicato un pezzo di sé.
Continuava a fissare la carta, incredula, inebetita, emozionata, esaltata, sorpresa, eccitata da quella mole enorme di sensazioni a cui non sapeva dare un nome esatto. Si sentiva sopraffatta. Sedette lentamente su uno dei divani esposti, sempre con gli occhi puntati su quelle parole, incapace di muovere anche un solo dito, finché il telefono non prese a suonare.
Avrebbe dovuto alzarsi e andare a rispondere, per cui con quanta più forza riuscì a trovare, si diresse nel retro e con mano tremante alzò il ricevitore.
«Furniture Love, buongiorno, in cosa posso esserle utile?»
«Il nome del tuo negozio è stata la prima cosa a colpirmi» una voce come quella era impossibile da dimenticare. Le ginocchia si fecero budino e Aura dovette trovare un appiglio al quale tenersi per non cadere. Perché diamine le faceva quell’effetto?
«M-Michael, ciao…» l’emozione tangibilissima nella voce e nel solo modo di pronunciare quel nome.
«Ciao Aura, hai trovato il mio biglietto?» le chiese anch’egli evidentemente un po’ impacciato.
«Io, io sì, l’ho trovato. Io lo stavo leggendo e, beh… veramente, non so che cosa dire. È davvero bellissimo.»
Aura percepì che Michael stesse sorridendo a quelle parole; non sapeva come, ma se lo sentiva. Il suo cuore si riempì di tenerezza crescente, e più quella aumentava, più la voglia di rivederlo si faceva incontenibile. E alla fine quel desiderio esplose, sfacciato.
«Senti, Michael, io… - dovette prendere un lungo respiro prima di trovare il coraggio per arrivare alla fine della frase, ma sapeva di non aver nulla da perdere, doveva provarci – a me piacerebbe venire a trovarti.»
Lo disse velocemente, per evitare di cambiare idea e sostituire il tutto con un «Spero che con i mobili sia tutto ok», per esempio.
Per un istante lui non proferì verbo, cosa che fece temere ad Aura di aver completamente sbagliato tutto.
«Scusa, scusami, non volevo fare la sfacciata… è che…»
«Ti va se vengo io da te?» chiese lui con la medesima urgenza che aveva avuto lei di domandare, forse con la stessa paura di non riuscire ad arrivare fino in fondo alla frase.
Aura deglutì. Non si era resa conto di aver trattenuto il fiato perciò si lasciò andare lentamente e un sorriso ebete si fece largo sul suo viso.
Michael le aveva chiesto se potevano vedersi da lei… e lei non vedeva l’ora di averlo di nuovo di fronte a sé.
«Ma certo, ti do l’indirizzo.»




 
(*) forte vento asciutto e caldo tipico delle zone sud della California

 

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Capitolo 3
*** I've been looking around, in the lost and found of my heart ***




 
Aura si guardava allo specchio e non poteva crederci; non riusciva a convincersi che di lì a poco Michael sarebbe stato a casa sua, davanti a lei, loro due da soli. Insieme.
Si era fatta la doccia e lavata i denti. Aveva preparato qualcosa da mangiare, cercando di renderlo commestibile – la sua arte culinaria aveva sempre avuto poco a che fare con quella della madre. Si era cambiata i vestiti almeno dieci volte, sempre meno convinta di stare bene, di essere abbastanza elegante oppure troppo formale. Non riusciva a decidersi, ma alla fine si arrese al suo armadio che non aveva più molto da offrire: indossò per l’ennesima volta i suoi Levi’s, una camicetta bianca morbida e le sue inseparabili scarpe da ginnastica; essere se stessa era l’unica carta che avrebbe avuto un senso giocare, ammesso e non concesso che Michael fosse arrivato veramente. E se non si fosse presentato?
Tornò a guardarsi allo specchio e, per un attimo, nei suoi occhi vide riflettersi quelli di lui, con quello sguardo innocente che le era entrato sotto pelle quel giorno al negozio: no, non poteva averle mentito, non con quel paio d’occhi; non dopo quelle meravigliose parole.
Intanto, il tempo passava. Scoccarono le otto, la tavola era pronta e a lei sudavano le mani. Da un momento all’altro sarebbe arrivato e, benché lei non avesse mai avuto un appuntamento che potesse anche minimamente ritenersi tale, sapeva che in qualche modo quello lo era. Era un appuntamento e, non solo non sapeva cosa le sarebbe convenuto fare o non fare, ma non aveva nemmeno idea di cosa aspettarsi da quell’uomo. Mentre i minuti ticchettavano inesorabilmente – e di lui ancora non si vedeva l’ombra – finì con l’analizzare la situazione e porsi qualche domanda.
“Perché mai uno come Michael desidera rivedermi?”
Iniziò a pensare che, alla fine, non si sarebbe presentato, e un po’ si dava della stupida per averci creduto; per aver recitato il ruolo della patetica ragazza da film romantici, preparandosi, cucinando e facendo l’isterica per decidere cosa indossare. Erano quasi le nove e ormai era chiaro che non sarebbe mai arrivato.
Sì alzò con l’aria sconfitta, senza nemmeno sapere se a farle più male fosse la sua stupidità o il fatto di non averlo potuto rivedere. Era convinta che di lui non gliene importasse poi tanto, che lo avesse semplicemente idealizzato come il suo salvatore da una vita priva di vere emozioni, ma perché allora stava piangendo?
Quando già stava rassettando la cucina, però, il campanello avvisò dell’arrivo di qualcuno. Aura alzò il viso verso la porta per poi buttare un occhio all’orologio. Erano le nove e dieci, e oltre a Michael non aspettava nessuno. Cercò di non correre al citofono come una pazza, non voleva dare l’aria di quella rimasta per ore sulla soglia, in attesa – anche se, in effetti, era stato più o meno così. Prese la cornetta con mano tremante.
«Sì, chi è?»
«Sono Michael – sussurrò l’altro con quella sua voce inconfondibile, che già riconosceva così bene, leggermente trafelata –, posso salire, per favore?»
In quel momento Aura si sentì sopraffatta dalle emozioni. Non riusciva a capire se essere più arrabbiata per il ritardo, sollevata perché alla fine era comunque arrivato o semplicemente estasiata dal fatto che fosse senza fiato e che, quindi, avesse fatto le corse per raggiungerla. Si limitò comunque a un più neutrale: «Ciao! Sì, Sali… secondo piano»
Prima di aprire si diede un’ultima veloce occhiata nello specchio, soprattutto al trucco: non era certo al massimo della sua forma, ma se si fosse degnato di arrivare puntuale – pensò con una punta di sarcasmo – forse avrebbe trovato qualcosa di meglio! Così era e così si sarebbe presentata.
Quando aprì la porta, però, quel principio di risentimento svanì completamente.
Era un po’ sudato, con un lieve fiatone. Indossava dei semplici jeans scuri, una maglietta bianca sotto a una camicia azzurra e un paio di mocassini neri. Era semplice. Semplicemente stupendo. Aura non solo sentì mancarle la terra sotto i piedi, ma il cuore perse qualche battito. Ogni volta, la sua mente si faceva sempre più confusa. Non aveva mai provato niente del genere prima di allora e non riusciva davvero a comprendere perché quell’uomo le facesse un effetto simile.
Lui le sorrise – dio quanto gli era mancato quel sorriso, quanto la faceva sentire felice –, lei si mosse un po’ goffamente verso destra per lasciare libero l’ingresso e lui entrò.
Quando Aura ebbe chiuso la porta si volse a guardarlo, ancora incredula che alla fine si fosse presentato davvero, emozionata e incapace di trovare qualcosa da dire. Le veniva solo da sorridere in risposta a quelle labbra perfette dolcemente increspate.
«Ciao Aura – si chinò leggermente per baciarle una guancia e le porse un pacchettino con un fiocco rosso fatto a regola d’arte –, scusami tantissimo per il ritardo, e anche per il contenuto del pacchetto, è parecchio tempo che non ho un appuntamento. Non ricordo cosa dica il galateo riguardo a come ci si comporta e ai regali da fare.»
“Bene, io di appuntamento non ne ho mai avuto uno, sei comunque avvantaggiato” si ritrovò a pensare lei.
«Non ti preoccupare. E non c’era bisogno del regalo, ma sono sicura che sarà perfetto.»
A lei, onestamente, di quello che le aveva portato non importava granché, tanto che lo appoggiò su una mensola senza aprirlo; lei era semplicemente felice che lui fosse lì.
«Accomodati pure, mi spiace solo per la cena. Si è raffreddata, e riscaldata non sarà il massimo. Già appena fatta non era un granché», ammise con un lieve imbarazzo.
«Sono sicuro che sarà perfetta» e quella frase arrivava giusto a confermare quanto la dolcezza fosse un suo tratto caratteristico; Aura lo aveva capito sin dalla prima occhiata.
 
Poco dopo, seduti uno di fronte all’altro, mangiavano in silenzio. Entrambi imbarazzati da quella situazione, ma in qualche modo curiosi di scoprire come sarebbe andata.
Aura realizzò solo in quel momento di aver messo in tavola hamburger e patatine fritte, e un po’ se ne rammaricò. Avrebbe potuto fare qualcosa di più salutare ed elaborato. Poteva una pop star mangiare quelle schifezze?
«Scusa per il menù, ma non sono un granché come cuoca. Spero non sia un problema.»
Michael, in tutta risposta, prese una patatina, la mise in bocca – sempre con quel suo tipico, tenero sorriso - e la masticò con gusto.
«Io adoro le schifezze! – annunciò ridendo di una risata leggera e morbida – So che non mi fanno bene, ma ogni tanto posso concedermi qualche strappo alla regola.»
Mentre Aura lo ammirava, seduta dall’altra parte del tavolo, non riuscì a non pensare a quanto quelle poche sensazioni che lui le aveva trasmesso la prima volta, si stessero ripresentando, e con una forza almeno cento volte maggiore. Lo osservava mentre le parlava, convinto che lei stesse veramente seguendo quello che diceva, e ogni minuscolo movimento trasudava eleganza, grazia e dolcezza. Non c’era una nota stonata in lui, un dettaglio fuori posto. Un difetto.
«Se ti sto annoiando, non hai che da dirlo – le disse d’un tratto, riportandola coi piedi per terra –, quando sono nervoso mi capita di iniziare a dire cose senza senso. Perdonami…»
«Oh, no, no! Anzi, è molto bello sentirti parlare… - e Aura lo disse così genuinamente che quasi non se ne rese conto finché non vide Michael arrossire, abbassare leggermente il capo e sorridere. Sulla guancia sinistra si formò una deliziosa fossetta che aggiunse altri brividi a quelli che già lei stava provando. Era bellissimo, di una bellezza innocente e pura che mai aveva trovato in qualcuno in tutta la sua vita.
Non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino a fine serata sana di mente. Non era abituata a dover gestire certe emozioni ed ebbe paura di soccombere a quella potenza.
 
Più tardi, dopo aver rassettato la cucina insieme, si accomodarono sul divano.
«Cosa ti va di fare, ora?» gli chiese. Si era sentita un po’ in imbarazzo all’inizio ma, mano a mano che parlavano, presero più confidenza e quel lieve disagio sparì quasi completamente.
«Non lo so, cosa va di fare a te?» le rispose. Se ne stava seduto nell’angolo del divano, con il corpo rivolto verso di lei e il gomito appoggiato alla spalliera. Lei era seduta completamente dalla parte opposta, nella medesima posizione. Non che il suo sofà fosse grandissimo, ma i loro corpi non si sfioravano neanche, e Aura, per la prima volta in vita sua, smaniava un contatto, soprattutto con le sue mani, grandi, affusolate e – immaginava - delicate.
«Parliamo un po’, ti va?» c’era qualcosa che non andava nel modo in cui gli aveva posto la domanda, e sperò che non fosse come pensava: stava flirtando? Stava facendo la civetta con lui?
«Certo che mi va, ma prima – disse lui, alzandosi e prendendo il pacchettino dalla mensola sulla quale Aura lo aveva appoggiato –, non ti va di aprire questo?»
Se l’era pure dimenticato, impegnata com’era a registrare ogni minimo dettaglio di quel viso, di quel sorriso.
«Oh, già, è vero – sussurrò quasi a se stessa, alzandosi per raggiungerlo – vediamo cosa nasconde!»
Gli prese il pacchetto dalle mani, sperando in un contatto fortuito, ma anche in quel caso non si sfiorarono neppure. Lo aprì velocemente, tirando un’estremità del fiocco rosso e alzando il coperchio della scatola. Fu immediatamente divertita dal contenuto: una confezione enorme di M&M’s.
«Che buoni! – li aprì e gliene offrì a Michael che immediatamente infilò la mano dentro al pacchetto e ne prese qualcuno – Ecco a lei servito il dessert!» annunciò ridendo. Non poteva crederci che le avesse portato delle caramelle, ma da una parte fu una cosa che apprezzò davvero, anzitutto per l’originalità, e perché fu un altro indizio che confermava la tesi di quanto fosse diverso dagli altri – anche se con altri non aveva paragoni, ma dalle esperienze delle sue amiche ne aveva avute di informazioni cui attingere!
«Dai, fammi vedere cosa sai fare!» le disse all’improvviso lanciandole sopra la testa una caramella, sfidandola a prenderla al volo. Risultato: M&M a terra.
«Ah! Sei fuori forma, forza, ritenta!» la incitò tirandone un’altra, finita a terra come la prima. «Ci vogliono tanto esercizio e costanza» sentenziò lanciandone una sopra la propria testa, altissima; muovendosi come un funambolo, riuscì a prenderla al volo tra le labbra, masticando poi allegramente e atteggiandosi un po’ per il bel colpo riuscito.
Entrambi scoppiarono a ridere. Aura si alzò per raccogliere ciò che era caduto a terra, continuando a ridere divertita.
«Dovrò fare molta pratica, evidentemente!» ammise. Michael la guardava con uno sguardo dolcissimo, sorrideva ancora e, di punto in bianco, lanciò un’altra caramella, più in alto ancora. Aura si mosse velocemente seguendo l’oggetto con lo sguardo e posizionandosi con la bocca aperta per tentare di prenderla. Finalmente ci riuscì e iniziò a saltellare per la cucina come una bambina di cinque anni. Sì sentiva soddisfatta, leggera e… felice.
«Sì!!! Hai visto che ci sei riuscita!»
Continuarono a giocare in quel modo per un po’, finché entrambi non furono stanchi – e anche sazi di M&M quasi a scoppiare. Sedettero sul divano, ridendo come due ragazzini; quella volta però nessuno si preoccupò delle distanze.
Le loro ginocchia si toccavano, erano seduti come poco prima, con i gomiti sulla spalliera del divano e rivolti l’uno verso l’altra. Si guardavano con ancora quell’espressione ebbra da bambini spensierati.
«Michael, perché hai accettato di rivedermi?» glielo aveva chiesto a bruciapelo, senza aver deciso coerentemente di farlo, ma era un dubbio che avrebbe voluto sciogliere già ore prima, e forse quello era il momento adatto per provarci.
Lui rimase un po’ spiazzato – era evidente da quei suoi occhi scuri spalancati –, ma non ci mise molto a riacquistare la sua tipica espressione tenera e gentile.
«Sono circondato da migliaia di persone meravigliose, Aura, in tutto il mondo, ma non c’è una persona speciale per me, fra queste. – le disse, tutto d’un fiato, come se volesse togliersi un peso dal cuore – A volte mi sento estremamente solo.»
Sembrava aver finito, e Aura non seppe cosa rispondere. Era andato lì solo per sentirsi meno solo? Per carità, le sarebbe andato bene tutto ugualmente, ma…
«E, sai, quando quel giorno al negozio ti ho guardata negli occhi – continuò, come se in quella pausa avesse voluto mettere insieme il coraggio per esprimere ciò che provava, e timidamente, prese ad accarezzarle con due dita il dorso della mano – improvvisamente, ho sentito la mia solitudine volare via con il vento.»
 

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Capitolo 4
*** Come together, right now, over me ***




 
Con il suo placido dondolio, l’autobus stava accompagnando Aura all’aeroporto da dove sarebbe partita per raggiungere Burlington.
Guardava fuori dal finestrino la città dormire ancora e non poteva fare a meno di pensare che solo poche ore prima era in compagnia di Michael; sognava ad occhi aperti di essere con lui, di sentire ancora le sue dita affusolate e perfette tra le proprie.
Erano rimasti tutta la serata sul divano, con le mani nelle mani. Avevano parlato parecchio, più o meno di tutto e di niente; lui le aveva raccontato molti aneddoti divertenti, talvolta commoventi, della sua vita da pop star; avvertì grazie a essi quanto cuore e quanta anima mettesse in qualsiasi cosa facesse. Lei, invece, benché non avesse avuto una vita interessante quanto quella di Michael, lo intrattenne raccontandogli della sua vita a Burlington, di quanto fosse stata sempre sicura di quello che avrebbe fatto da grande e di quanto, negli anni del liceo, le fosse costata a livello di vita sociale quella sua determinazione: vivere come una normale adolescente le veniva difficile, ed era una cosa che i suoi coetanei non erano riusciti a comprendere. 
Michael e lei erano stati seduti talmente vicini che era riuscita a percepire perfettamente quel suo profumo dolce, buono, rilassante. Avrebbe tanto voluto abbracciarlo per poter meglio respirare quell’essenza, per imprimersela addosso cosicché avrebbe potuto ricordarla anche quando fosse stata a centinaia di miglia lontana lui; ma non si azzardò mai a varcare quei confini, a fare l’intraprendente. Michael, ormai le era chiaro, non era come gli altri – ci avrebbe messo le mani sul fuoco – e lei non sentiva il bisogno di uomini come tanti: lei aveva sviluppato molto velocemente il bisogno di lui. Come fosse possibile che anche Michael avesse in qualche modo necessità di lei, questo ancora lo ignorava, ma l’idea di averlo nella sua vita – e il come non le sarebbe importato – la rendeva estremamente felice.
 
«Mi sarebbe piaciuto passare il Natale insieme, sai? Sarebbe stato il più bello dei regali per me, Auralee.»
«Non scherzavo quando ti ho detto che non sparirò, che ho già così tanto bisogno di te nel caos che è la mia vita.»
«I tuoi occhi, per me, sono come la quiete dopo la tempesta.»
«Grazie per la splendida serata, era da tanto che non stavo così bene con qualcuno.»
 
Ripensava alla timidezza che traspariva dalla sua voce mentre le diceva quelle cose; aveva un tono delicato e morbido, come un cuscino su cui riposare e trovare pace: qualunque altro uomo sarebbe stato frainteso – troppa sensibilità per l’animo di un uomo medio –, Aura avrebbe potuto pensare che avesse secondi fini, ma Michael le aveva pronunciate con un candore e una genuinità tali che non potevano essere che autentiche, sentite. Vere. Non c’erano mire particolari, non era una tattica per entrare nelle sue grazie e ottenere chissà cosa. Lui era così, puro e innocente, come un bambino. Era ciò che gli aveva letto nello sguardo sin dalla prima volta che lo aveva incrociato.
 
Sarebbe stata dura stare lontana da Los Angeles anche solo per un paio di settimane, adesso che lui era entrato nella sua vita, ma in cuor suo Aura sapeva che non lo avrebbe perso, che in qualunque posto fosse andata, sarebbe sempre rimasta dov’era il suo cuore.
Ovviamente i suoi genitori, come tutto il resto della famiglia, non avrebbero potuto non accorgersi di quanto Aura fosse cambiata in un anno, e non di certo a livello fisico. Aura era cambiata nel cuore, e quell’essere così diversa, lì dove la vita pulsa, dove nasce e si evolve, si rifletteva immancabilmente negli occhi, nei sorrisi, nei gesti. In ogni cosa.
Auralee aveva vissuto una vita mediamente tranquilla, con gli alti e bassi che la crescita porta con sé, certamente, ma la sua infanzia era stata serena e spensierata come avrebbe dovuto essere quella di ogni bambino; l’adolescenza aveva causato qualche crisi esistenziale dovuta ai cambiamenti fisici della pubertà, ma era una ragazzina equilibrata, pacifica e studiosa.
Era sempre stata una bella bambina, solare e sorridente, che da grande si era trasformata in un’incantevole adulta, ma aveva sempre avuto in testa l’idea di costruirsi un futuro, di farlo nel campo dell’interior design, e così era andata. Non era mai uscita con un ragazzo – da quel che ne sapevano i suoi genitori –, e se anche ci aveva provato, era finito tutto ben prima che qualcosa potesse cominciare davvero. La sua mente e le sue forze erano tutte concentrare sulla scuola e su quello che essa le avrebbe permesso di costruire.  
Non era fatta per i rapporti di coppia, lei. Non si era mai immaginata con un uomo accanto – almeno non lo aveva mai fatto fino ad allora; per cui, la sua famiglia non riuscì a capire immediatamente cosa stesse succedendo.
La sorprendevano spesso con la testa fra le nuvole e gli occhi trasognati; ascoltava musica, lei che, della musica, non gliene era mai importato niente; passava le ore a scrivere su un quaderno, e nessuno sapeva cosa scrivesse. Era un’altra Aura, sicuramente meno seriosa, più sciolta, più rilassata. Sembrava più… felice.
I suoi genitori non erano di quelli che tartassavano di domande fino allo sfinimento: vedevano che era contenta e quella era la sola cosa importante; si fidavano ciecamente e lei sapeva bene che, se e quando ne avesse avuta voglia, avrebbe potuto raccontare loro ogni cosa.
 
La notte di Capodanno il paese usava riunirsi in un enorme tendone nella grande piazza principale per dare il benvenuto al nuovo anno tutti insieme, tra canti, balli e buon cibo. Aura aveva sempre adorato quella tradizione, anzi, ne era sempre stata una delle organizzatrici, ma quella volta… quella volta, guardandosi intorno e vedendo le sue amiche di vecchia data accompagnate da fidanzati e mariti, non percepiva altro che quel posto immaginario accanto a sé più vuoto e freddo che mai.
Le feste, che di solito passavano troppo velocemente, quell’anno invece non volevano saperne di finire.  Era certamente contenta di essere a casa – quanto le era mancata la cucina di sua mamma –, ma non vedeva l’ora di tornare a Los Angeles.
Avrebbe tanto voluto sentire la voce di Michael in quel momento, e un po’ si dava della stupida: fra loro non c’era niente, se non una nuova amicizia tutta ancora da costruire, invece lei per quell’uomo dolcissimo che, per quanto ne sapeva, poteva essere sbucato solo da un regno incantato, sentiva dentro già qualcosa di così grande che non riusciva più a pensare ad altro.
I suoi sensi appannati l’avevano resa una menomata sentimentale per tutta la vita e adesso che finalmente era in grado di sentire, di vedere, di odorare, gustare e toccare si sentiva sopraffatta, eccitata, smaniosa. Era come se ormai non riuscisse più a farne a meno. Quel treno era partito a tutta velocità e non esisteva qualcosa in grado di farlo tornare indietro. Aveva solo bisogno di Michael, ma in un modo che nemmeno lei comprendeva.
«Cosa c’è, sorellina? È tutto ok?»
Era stata così tanto immersa nei suoi pensieri che non si rese nemmeno conto della festa intorno a lei che allegra esplodeva con il solito tripudio di luci, colori, suoni e odori a lei così familiari e cari.
Guardò suo fratello come se avesse dormito per ore e si fosse appena svegliata in un letto che non fosse il suo.
«Sì, Danny, perché? Va tutto bene…»
Lui, con un gesto delicato delle dita, guidò il suo viso fino a farlo voltare verso il centro del tendone: lì un numeroso gruppo di persone di ogni età, un po’ ubriaca e tanto felice, ballava il tradizionale ballo folkloristico.
«Di solito tu sei là in mezzo, Aurie – lui era l’unico che la chiamasse così –, invece te ne stai qui trasognata, con un mezzo broncio su quella tua bellissima bocca e non ti stai godendo niente di questo ultimo giorno dell’anno.»
Aura, con due dita, eseguì sul viso del fratello lo stesso suo gesto di poco prima e guidò il suo sguardo sorpreso al tavolo delle vecchie compagne di scuola.
«Le vedi quelle, Dan? – gli chiese retorica – Hanno la mia età! Non avranno una carriera folgorante, che nemmeno io ho, dopotutto; non avranno preso una laurea e non avranno un negozio di antichità ad LA, ma… hanno un uomo accanto.»
«Come si chiama? Dai, sputa il rospo.» Danny guardava sua sorella con rinnovato interesse e con un affetto nel cuore che si percepiva attraverso le pupille castane. Lei non seppe cosa rispondere; sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato e, in un certo senso, fu contenta che fosse con lui. Il problema, però, era che non si sentiva ancora pronta per condividere qualcosa che nemmeno lei comprendeva.
«Non c’è proprio nessun nome da fare o qualcosa da raccontare, Dan. È solo che mi sto accorgendo del tempo che passa e forse inizio a sentire che manca qualcosa nella mia vita.»
 
«E vorrei tanto sentire la voce di Michael, adesso.»
 
Non aveva raccontato di Michael a nessuno, nemmeno a Tanisha che, rimasta sola ad LA, aveva deciso di tornare ad Haiti dalla famiglia per il Capodanno, e che quindi era praticamente irraggiungibile. Avrebbe tanto voluto confidarsi con qualcuno, ma aveva timore a farlo: si trattava pur sempre di un personaggio famoso a livello planetario, non del vicino di casa, per cui attese pazientemente la resa di suo fratello e si unì al resto del paese in mezzo all’improvvisata pista da ballo.   

 
*** 

Mancavano circa quaranta minuti allo scoccare della mezzanotte, tutti si stavano raggruppando intorno al grande abete, vicino al palco dove la The Sixth Band stava suonando una cover di Come Together dei Beatles; Aura ascoltava rapita, ricordando di aver sentito quella canzone cantata da Michael nel film Moonwalker, e il suo cuore si riempì di malinconia: quell’uomo stava diventando un’ossessione vera e propria! Cosa cavolo le aveva fatto?
Qualche secondo dopo, intorno a lei scoppiò un tumulto generale, di cui però non riuscì proprio a capire la causa; la band smise di suonare e i componenti iniziarono a guardarsi gli uni gli altri con sguardo attonito. Passarono solo pochi istanti e il signor Rogers, vicesindaco e organizzatore dello spettacolo, salì sul palco visibilmente emozionato e pieno d’orgoglio.
«Cari concittadini, ho appena scoperto che la nostra splendida Auralee ci ha fatto un regalo davvero sensazionale. Non ha detto nulla fino a ora perché non era sicura di riuscir…»
Aura lo fissò incredula, mentre tutte le persone si girarono a guardarla, sorridendole; non riuscì davvero a capire che cosa avesse fatto di così straordinario finché…
«È con immenso piacere che vi presento il nostro ospite d’onore, inaspettato e davvero gradito, qui per festeggiare con noi questo nostro Capodanno 1992: Michael Jackson!»
Aura fu sul punto di perdere i sensi mentre la folla acclamava il Re del Pop tra grida e applausi scroscianti. Sembrava che Burlington stesse per esplodere: probabilmente avrebbero avvertito il boato fino a Chicago! Tutti iniziarono ad abbracciarla e baciarla, passò di persona in persona, e senza rendersene conto si ritrovò sotto al palco. Michael, accompagnato dalla The Sixth Band, aveva ripreso a cantare “Come Together”, sorridendole come solo lui sapeva fare e facendole mancare per l’ennesima volta la terra sotto ai piedi.
Non poteva credere che Michael fosse veramente lì a casa sua, a Burlington.
Non poteva credere che l’oggetto del suo unico desiderio si fosse appena materializzato sotto i suoi occhi meravigliati, come se le fosse bastato chiederlo, per averlo lì per lei.
Non poteva credere al pensiero che, mentre lo ammirava nel suo habitat naturale – così sciolto e sicuro e selvaggio – le si era appena formato nel cuore:
“Io lo amo.”                                                                

 
 “Come together
Right now
Over me”

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Capitolo 5
*** Faith is found in the wind All we have to do is reach for the truth ***



 
Gli occhi di Aura non perdevano un movimento, le sue orecchie registravano la voce calda e sensuale di Michael e, nota dopo nota, l’emozione si faceva via via sempre più incontenibile.
Lo aveva incontrato la prima volta in un negozio di mobili, vestito come una persona qualunque, con l’atteggiamento tipico di una persona qualunque – fatta eccezione ovviamente per la guardia del corpo che lo seguiva a vista –, e successivamente aveva imparato a conoscerlo una sera come tante, a casa sua, davanti a un hamburger e a una manciata di patatine fritte. Non era pronta ad assistere personalmente all’esplosione di quel suo prorompente talento; nonostante Aura avesse poi guardato le sue esibizioni, vederlo dal vivo era tutta un’altra cosa. Le faceva strano – uno strano meraviglioso – vederlo muoversi su quel palchetto – troppo piccolo per una grandezza come la sua –, così sicuro di sé, così appassionato, così… fantastico. Mentre impugnava il microfono e lasciava che voce e corpo seguissero il richiamo sanguigno di quel ritmo che solo lui era stato in grado di creare, diventava un altro: la timidezza, l’imbarazzo, la paura di essere giudicato svanivano come fumo nell’aria e lui tirava fuori tutto quel meglio che lei aveva intravisto sotto a quella giacca sportiva rossa, quel pomeriggio al suo negozio.
In quel momento Aura vide Michael come un essere quasi mistico, perfetto. Unico. Come fosse tanti uomini in un solo corpo… tante emozioni in un solo, sfaccettato, poliedrico cuore.
Pianse di meraviglia di fronte alla consapevolezza ormai innegabile che quell’uomo un po’ bambino, in così poco tempo, le fosse entrato sottopelle, nelle vene, diffondendosi in modo capillare in ogni parte del suo corpo, raggiungendo profondità che non sapeva nemmeno esistessero dentro di sé.
Aura non si era nemmeno accorta del tempo che passava, perché Michael lo riempieva con la sua presenza, con i suoi occhi innocenti e con quel sorriso che avrebbe sciolto anche il più duro dei cuori. Quando poi intonò le prime note di “Smile”, la diga tracimò.
Era una di quelle canzoni che la legavano indissolubilmente alla sua infanzia, a quando suo nonno Jack la prendeva in braccio sull’amaca che avevano in giardino e la dondolava per farla addormentare: i suoi pomeriggi estivi erano quelle due braccia forti, le note di quella canzone e il fresco delle larghe foglie del loro grosso platano americano che mitigava i raggi del sole d’agosto.
Michael era lì adesso, a pochi passi da quello stesso platano, che cantava con dolcezza disarmante quella stessa melodia. In quel momento avrebbe voluto scoprire quanto potessero essere forti le sue braccia, ma si limitò a sorridere fra le lacrime, ripensando al suo nonno perduto, ma mai dimenticato. Ci pensò poco dopo un altro uomo a stringerla, mentre Michael cantava ancora: suo padre. Lui sapeva cosa significassero per lei quelle parole e si era avvicinato per condividere con la figlia quel ricordo tristemente agrodolce che li accomunava. Quando le ultime note si spensero e gli applausi scoppiarono nella piazza, il signor Mitchell si avvicinò di più ad Aura e le sorrise.
«Poi mi dirai cosa ci fa Michael Jackson a Burlington e cosa c’entri tu con tutto questo, vero?»
Avrebbe tanto voluto rispondergli d’istinto, ma quello che avrebbe voluto raccontare di loro non era la verità, per cui rispose al sorriso con affetto e gli piazzò la classica frase a cui tutti fingono di credere, ma che nessuno si beve mai veramente – anche se in quel caso era la pura e semplice verità –, prima di allontanarsi verso il palco.
«Siamo semplicemente amici, papà, non sapevo che sarebbe venuto. Ha fatto a tutti una sorpresa, a me per prima.»
Mentre pronunciava quelle ultime parole si rese conto che davvero Michael aveva lasciato Los Angeles per passare il Capodanno in un paesino sperduto dell’Illinois, e di nuovo si domandò come fosse possibile che lui – proprio lui – avesse così voglia di vederla da non poter aspettare qualche giorno che lei facesse ritorno in California.
D’un tratto una mano strinse la sua, e poco dopo il proprietario di quella mano la stava trascinando fuori dalla folla. Non era possibile che ogni volta si perdesse tanto nei suoi pensieri da perdere il contatto con la realtà! Non si era nemmeno accorta che la band aveva ripreso a suonare le solite cover e che Michael non era più sul palco!
Certo che non lo era, era lui che la stava conducendo fuori dalla piazza!
Le loro dita non erano state mai così saldamente intrecciate e quel contatto la fece rabbrividire, non per il gesto in sé, ma per quanto in profondità quel tocco era riuscito ad arrivare.
«Michael!» lo slancio e la gioia con cui Aura pronunciò quel nome non davano spazio al dubbio: lei era felice, estremamente felice che lui fosse lì. Avrebbe voluto abbracciarlo, saltargli al collo, stringerlo e non lasciarlo più andare fino a che non fosse riuscita a trasmettergli perfettamente anche la più piccola emozione; invece non si mosse, si limitò a guardarlo adorante e a lasciar scorrere qualche lacrima di felicità, mentre lui con il pollice si preoccupava di asciugarle.
Lui era sempre stato a disagio di fronte a una donna in lacrime, anche se con il tempo ci aveva fatto l’abitudine: gli capitava spesso di avere a che fare con fan rotte nel pianto a causa sua. A volte gli veniva difficile capire il motivo per cui piangessero – contentezza, tristezza, soggezione, shock? –, ma se c’era una sola cosa che aveva compreso era che ognuna di quelle lacrime sgorgava in una pura dimostrazione d’affetto nei suoi confronti e, benché gli dispiacesse vederle in quello stato, una parte di sé traboccava di gratitudine e amore.
Nel caso di Aura, invece, si trovò disarmato, in primis da se stesso e da quello che sentiva crescergli dentro da quando l’aveva incontrata. A quel primo sguardo, qualcosa, molto in profondità, gli si era mosso dentro con un’intensità agghiacciante mai provata sino ad allora. Come avrebbe potuto gestire quel caos emotivo che era esploso senza alcun tipo di preavviso?
Lei lo guardava negli occhi con quel suo sguardo aperto, sincero e pulito, e tutto quello che lui riusciva a fare era restituirgli quello sguardo con l’agglomerato indistinto che erano diventati i suoi sentimenti.
Avrebbe voluto tuffarcisi in quegli occhi verdi pieni di vita, avrebbe voluto essere più coraggioso, più sicuro, meno vulnerabile; ogni volta che aveva deciso di fidarsi di qualcuno ciecamente, il suo bisogno d’affetto si era puntualmente trasformato in un’arma a doppio taglio che aveva sempre portato alla rovina di cose meravigliose come l’amicizia, la bontà e la lealtà.
Aveva una paura incredibile del suo stesso cuore, in quel momento, ma le lacrime di cui le sue dita erano bagnate gli infusero una strana audacia: si sentì per la prima volta incautamente desideroso di assecondare quei sentimenti prepotenti che, non solo non volevano saperne di spegnersi, ma che addirittura lo avevano condotto in un posto sperduto dell’Illinois la notte di Capodanno, abbandonando all’improvviso le prove del tour. Come avrebbe potuto il verde cristallino di quegli occhi prendersi gioco di lui?
 
«Auralee!»
Che gioia provò lei nel sentire quella voce pronunciare così teneramente il suo nome! Avrebbe voluto fargli mille domande, raccontargli un milione di cose! Si sentiva un vulcano in eruzione, senza contare il desiderio quasi spaventoso di abbracciarlo che provava!
Erano lì una di fronte all’altro, con le mani unite, che si guardavano come due ragazzini delle elementari, senza sapere dove si trovasse la linea immaginaria da non oltrepassare, se c’era. Eppure, entrambi, quella linea avrebbero tanto voluto cancellarla, solo che nessuno aveva il coraggio di farlo; forse quel limite era stato già superato e non se n’erano nemmeno resi conto.
Era come se tra i due corpi persistesse un’azione antimagnetica che impediva loro di congiungersi finalmente in un abbraccio tanto agognato.
«Ma, ma Michael, cosa ci fai qui? Come sapevi dove…» Aura cercò di demonizzare quelle voglie che sentiva di non poter palesare, sputando fuori le domande che senza dubbio Michael si aspettava. Infatti, lui sorrise – e ogni volta che lo faceva lei si sentiva le ginocchia sempre più molli –, abbassò di poco il capo per cercare di mascherare l’impaccio che provava in quella situazione a lui normalmente non congeniale, poi rispose con il suo tipico candore:
«Non è stato difficile trovarti, ho i miei mezzi!» la logica di quella risposta fu per Aura un tantino imbarazzante. Era davvero semplice: lui era Michael Jackson – anche se a volte tendeva a dimenticarlo –, doveva essere stato per lui un gioco da ragazzi trovarla, senza contare che era stata lei a dirgli dove aveva vissuto prima di trasferirsi a Los Angeles!
«Io… – Aura sapeva di dover tenere per sé certe cose, ma mentre viaggiava in quel suo sguardo profondo si sentì come in balia di un incantesimo difficile da contrastare – Io…»
«Tu cosa, Auralee?» a quella voce avrebbe detto tutto, avrebbe dato tutto.
«Io ti ho desiderato – riuscì a rendersi conto che detta in quel modo poteva essere fraintesa e, attenta com’era stata sino ad allora, non voleva di certo accadesse. Sorrise, imbrigliata nella confusione della sua testa – Ho desiderato vederti, sentirti…» continuò, cercando di togliersi d’impaccio, mentre lui, angelicamente arrossato in volto – e non era colpa solo del freddo dicembrino –, ancora sorrideva.
«…e io sono arrivato a esaudire il tuo desiderio?»
Aura annuì con il volto in fiamme: erano senza dubbio la coppia di persone più imbranate del mondo, e su di lei non era sicuramente una grande notizia, dato che aveva raramente avuto a che fare con gli uomini, ma su Michael – il grande e unico Michael Jackson –, poteva sembrare davvero una cosa atipica.
«Perché sei venuto fino a qui?» gli domandò mentre impercettibilmente stringeva le mani più forte alle sue – forse per la paura di vederselo scivolare via dalle dita e accorgersi che stava solo sognando.
«Perché ho espresso anche io il mio desiderio e quel desiderio eri tu.»
Non si capacitava neanche lui di quello che aveva appena detto. Non sapeva nemmeno dove avesse trovato il coraggio di abbattere la sua proverbiale timidezza e pronunciare quelle parole, eppure lo aveva fatto. Si sentiva vulnerabile più che mai, Michael, come se fosse stato un nervo scoperto in balìa degli eventi, ma non aveva paura, anzi: si sentiva euforico come non gli era più capitato da troppi anni.
Aura continuava a sorridere tra le lacrime; Michael non mancava di asciugare quel pianto che a breve avrebbe sopraffatto anche lui: sentiva il magone lambirgli la gola. Si schiarì la voce e le accarezzò una guancia.
«E poi ho sentito dire che quel che fai a Capodanno lo fai per tutto l’anno: voglio provare e vedere se è vero!»
Dalla piazza sopraggiunsero le voci della gente contare a ritroso, la mezzanotte era ormai vicina.
«Cinque! Quattro! Tre! Due! Uno! Auguri!»
Mentre in piazza i festeggiamenti avevano definitivamente preso il via, tra bottiglie di birra e abbracci di gruppo, Aura sentì le lunghe braccia di Michael circondarle delicatamente la vita, mentre ancora si fissavano con addosso il velo di un sentimento riconoscibile, ma ancora impaurito di palesarsi. Lei, dal canto suo, non aveva sognato altro che stringerlo a sé, così, incoraggiata dalle mani di Michael strette dietro la propria schiena, alzò le braccia e lo abbracciò a sua volta, facendo attenzione a non sconfinare in terreni ancora incerti: l’ultima cosa che voleva era mettere Michael a disagio, e anche lei, dopotutto, si era addentrata in un campo sconosciuto, non avrebbe mai rischiato di sbagliare qualcosa, non con lui.
«Felice anno nuovo, Auralee.» sussurrò Michael mentre, un po’ insicuro ma certamente desideroso di scavalcare quelli che erano sempre stati i suoi recinti sentimentali, chinò leggermente il viso verso quello di lei. Avevano entrambi il fiato corto, ma non si lasciarono fregare dall’emozione. Aura compensò la distanza che ancora li separava e quando già le loro labbra si sfioravano rispose:
«Felice anno nuovo a te, Michael.»
 
 
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Capitolo 6
*** When it gets dark and cold We hold each other till we see the sunlight ***



 

Aura, Michael e quell’amaca un po’ consumata dal tempo, i cui ganci scricchiolavano appena, forzati dal peso dei loro corpi, era ciò che si poteva vedere nel giardino di casa Mitchell, quella notte del primo Gennaio 1992. Faceva un freddo pazzesco, ma bardati nei loro cappotti e vicini com’erano, la temperatura esterna non si stava affatto rivelando un problema, anzi.
Dopo quel primo, imbarazzato, caldo, morbido bacio si erano accoccolati uno vicino all’altra sotto al platano americano – spoglio a causa della stagione –, con la guardia del corpo che da qualche passo di distanza continuava a sorvegliarli.
C’era silenzio, un silenzio pacifico e pieno di tante parole che non avevano bisogno di essere pronunciate. Stavano bene lì nei loro pensieri, che sicuramente erano per entrambi gli stessi, e non esisteva alcun motivo per interrompere quello scambio discreto di emozioni, possibile semplicemente ascoltando il cuore dell’altro battere a un ritmo più incalzante del normale. L’unico problema sarebbe stato l’arrivo a casa della famiglia di Aura: di certo avrebbero trovato strano vederli abbracciati sull’amaca come due fidanzati; non aveva avuto modo – o voglia – di prepararli all’eventualità che una simile circostanza si potesse presentare. In realtà, anche lei non era stata preparata a quello che stava vivendo; comunque, rifletté tra sé, fintanto che in piazza ci fosse stata birra a sufficienza sarebbero stati tranquilli.
«A cosa stai pensando?» con la sua voce carezzevole Michael ruppe il silenzio, non che ne sentisse la necessità, ma la mente delle donne era sempre stata per lui un tale mistero che, dopo gli ultimi avvenimenti, avrebbe voluto sapere cosa passasse per la mente di Aura.
Lei, presa di sorpresa, inizialmente non seppe cosa rispondere, poi sorrise nel buio stringendo più forte le braccia intorno al torace di Michael.
«Pensavo che a mio padre verrebbe un colpo se la birra finisse alla festa e, costretto a rientrare a casa per fare scorta, ci trovasse qui così.»
Istantaneamente il moro s’irrigidì; non gli capitava da tempo immemore di trovarsi in una situazione del genere – davvero non ricordava nemmeno cosa volesse dire avere a che fare con una persona che non facesse parte del suo modo patinato, e comunque, più in generale, era passato del tempo da quando aveva provato qualcosa di forte per una donna, e le cose non erano andate granché bene –, cosa avrebbe dovuto fare?
«Rilassati – lo rassicurò però lei, dopo aver percepito la tensione nei suoi addominali –, è tutto ok. Capita molto di rado che la festa s’interrompa per mancanza di beni di primaria necessità.»
Michael cercò di tranquillizzarsi, ma la rigidità non lo aveva abbandonato.
«È che non vorrei farti finire nei guai – ammise lui, confermando quanto ancora fosse preoccupato –, mi dispiacerebbe.»
Aura si tirò un po’ su facendo leva sul gomito e improvvisamente l’amaca iniziò a vacillare pericolosamente; entrambi allargarono le braccia per cercare di nuovo l’equilibrio e scoppiarono a ridere.
«Piano! – la redarguì teneramente – così ci fai ribaltare!»
Quando riacquisirono una certa stabilità, per evitare altri imprevisti Aura tornò alla posizione di poco prima – la sua preferita –, abbracciata a lui, che con la mano sinistra le accarezzava il braccio.
«Non credo che finirei nei guai, in effetti. Alla fine dei conti ho ventotto anni, penso che si aspettino che prima o poi riesca a trovare un ragazzo.»
A quell’ultima affermazione Michael avvampò e sorrise un po’ in imbarazzo. Se non fosse stata notte fonda probabilmente Aura avrebbe visto il suo viso incendiarsi di ogni tonalità di rosso conosciuta, e ringraziò il cielo che così non fosse. Non amava particolarmente mostrarsi vulnerabile, anche nella vita professionale preferiva ridurre al minimo i momenti in cui doveva parlare davanti al pubblico; aveva sempre preferito comunicare attraverso le canzoni e i passi di danza. Quello sì che gli veniva bene. Era chiaro, però, che lei conoscesse già più di quanto lui stesso avrebbe voluto svelare. Quando si era trasformato in un libro così facile da leggere?
«Scusa, non volevo metterti a disagio – furono infatti le parole di Aura –, hai capito cosa volevo dire.»
«Scusami tu, Auralee, non sono pratico di queste cose, non so mai cos’è la cosa giusta da fare.»
Lei riuscì ad alzare il capo cercando i suoi occhi scuri nel buio di quella notte tanto luminosa per lei; straordinariamente li trovò che la fissavano con intensità.
«Vorrà dire che impareremo insieme» gli rispose con un soffio di voce, perché quegli occhi grandi ed espressivi le toglievano il fiato ogni volta. Il sorriso un po’ imbarazzato di Michael, ma visibile anche nell’oscurità del giardino, era l’unica risposta che Aura avrebbe potuto aspettarsi e quella che avrebbe sicuramente sentito più sincera.
 
«Michael, – Miko, appostato vicino alla veranda, si fece avanti nel buio – dobbiamo andare, il tragitto per l’aeroporto è lungo.» La guardia non avrebbe voluto interrompere quel momento, era troppo tempo che non vedeva il cantante così interessato a una ragazza tanto da portarlo a mollare per due giorni le prove e ad avere anche un piccolo diverbio con John, che ovviamente non era d’accordo riguardo quella partenza improvvisa.
Michael si era persino rifiutato di specificare all’entourage la destinazione di quel viaggio: si era visto costretto a dirlo a Miko, sua guardia del corpo e suo confidente da anni. Glielo aveva dovuto confessare perché, come era ovvio, John e Suze lo avevano obbligato a portarselo dietro – ormai gli era quasi impossibile andare persino al bagno, senza di lui.
«Te ne vai di già?» la voce di Aura, sorpresa ed evidentemente un po’ delusa, arrivò all’orecchio di Michael come una stilettata.
«Piccola, credimi, vorrei restare, ma ho fatto già una gran fatica ad allontanarmi per queste poche ore», la tristezza e il rammarico di doversene andare era perfettamente udibile dalla sua voce, si sentiva il cuore in pezzi all’idea di ripartire, ma se non voleva finire in qualche guaio più grosso – e, soprattutto, se non voleva attirare troppa attenzione su Auralee –, avrebbe dovuto agire cautamente, tenendo un basso profilo, per quanto possibile; già poteva immaginare l’interrogatorio che gli avrebbero fatto una volta tornato a Los Angeles, avrebbe fatto meglio a rientrare in fretta per non aggravare ulteriormente la situazione.
Aura capì immediatamente, e conscia del grande regalo che aveva già ricevuto vedendoselo piombare a Burlington senza preavviso la notte di Capodanno, si rassegnò all’idea di vederlo andare via. Dopotutto, prima di imbarcarsi in quella strana crociera tumultuosa, sapeva con chi aveva a che fare – e, tutto sommato, entro qualche giorno sarebbe tornata in California anche lei. Forse non avrebbe dovuto aspettare poi così tanto per rivederlo. Forse.
 
***
 
Era rientrato in tutta fretta a Neverland, con Miko che tentava con le sue solite frasette sottili e ambigue di farlo parlare e con la voglia strana e prepotente di fare dietrofront e tornare da lei. Da Aura.
Appena messo piede a Santa Ynez nel pomeriggio, John gli piombò accanto come un condor, con l’espressione tirata di chi si sta trattenendo dall’esplodere e gli occhi fintamente amichevoli. Era un brav’uomo, per carità, ma a volte Michael mal soffriva la pressione talvolta troppo forte del ruolo che ricopriva, e iniziava a sentire dentro la necessità di prendersela con un po’ più di tranquillità.
«Non che qualche ora di stop ci abbia fatto male, Michael, e sono sicuro che il motivo del tuo viaggio è stato sicuramente di una certa rilevanza, ma…»
«John, amico, non siamo in ritardo. È tutto ok, da domani mi rimetto al lavoro e non ti accorgerai nemmeno che ho saltato quasi due giorni di prove. Non ti preoccupare.» lo interruppe Michael con la sua proverbiale, delicata gentilezza.
L’uomo in giacca e cravatta non se la sentì di ribattere, anche se ne avrebbe avuta voglia; sedette sul divano vicino al camino continuando a parlare con Suze e uno degli elettronici, seguendo con lo sguardo il cantante che si allontanava verso la cucina.
Dalla finestra aperta sentiva le risate gioiose dei bambini che approfittavano della splendida tiepida giornata di sole per giocare all’aria aperta, e istantaneamente si sentì il cuore leggero.
Chissà come sarebbe stato avere lì fuori dei bambini suoi… e magari di Aura.
Scosse la testa come a scacciare quel pensiero fuori luogo e azzardato, non da lui, non da Michael. Eppure negli ultimi giorni faticava a riconoscersi, forse erano diventati proprio da lui. No?
«A cosa stai pensando così intensamente, con così tanto turbamento?»
La voce di Liz lo riportò sul pianeta, si volse verso di lei e gli sorrise grato e sollevato che fosse lì. Aveva proprio bisogno di un’amica con cui parlare.
«Michael, tesoro…» la donna, bellissima ed elegantissima, lo strinse come la chioccia che era sempre stata, si lasciò baciare in fronte da lui e lo abbracciò di nuovo. «Te lo avevo detto che a un certo punto sarei arrivata.»
«Dov’è Larry? È venuto con te?» le chiese mentre fingeva di voler preparare del the pur non essendone in grado. Elizabeth gli si avvicinò e gli prese dalle mani il bollitore guardandolo con affetto.
«Non voglio il the, voglio che mi dici cosa succede. Quando sono arrivata John era un fascio di nervi.»
A quelle parole Michael ricambiò lo sguardo dell’amica, sentendo nel cuore che a lei – e soltanto a lei – avrebbe davvero potuto dire qualunque cosa; nonostante i timori che provava, si decise a parlare, sussurrando appena. Le guance s’imporporano forse per l’emozione, o per l’imbarazzo di stare per dire veramente quello che aveva in mente. Fece un profondo respiro e velocemente pronunciò quelle poche parole:
«Liz, penso proprio di essermi innamorato.»
 
 
When it gets dark and cold
We hold each other till we see the sunlight
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** I close my eyes Just to try and see you smile one more time ***


 
Los Angeles, la città degli angeli.
Da quando Michael era entrato nella vita di Aura, lo era di sicuro.
Lasciare Burlington, salutare la sua famiglia – con la promessa di rivedersi da lì a un anno – non le era sembrato mai così poco doloroso. Il suo cuore non era mai stato così trepidante nell’attesa di qualcosa, di qualcuno. Traboccava di desideri inespressi, ma così nitidi e determinati che quasi le facevano paura.
La sua vita era stata per troppo tempo chiusa in un bozzolo dal quale non era nemmeno mai stata interessata a scappare, e ora si ritrovava a voler strappare via con le unghie quei fili e volare via libera. Il bruco si era finalmente trasformato in farfalla.
 
La mattina in cui riaprì il negozio si sentiva così energica, così diversa dalla solita lei, che decise in un attimo di rivoluzionare lo showroom. Chiamò l’impresa che si era occupata dei lavori per l’inaugurazione qualche anno prima, prendendo appuntamento per la settimana successiva, e iniziò a buttare giù qualche idea su come avrebbe voluto che fosse.
Era talmente immersa nel lavoro che a stento si accorse del telefono che squillava, e quando giunse all’apparecchio questi smise di suonare. Per un istante non se ne curò, certa che non fosse particolarmente importante, ma quando rimise piede alla scrivania e l’occhio cadde sulla ciotolina di M&M’s – di cui ormai non poteva più fare a meno – si maledisse a voce alta.
«E se fosse stato Michael?!»
 
***
 
«Aura, dove sei?»
Michael l’aveva cercata al negozio più volte e, non avendo ottenuto risposta lì, anche a casa. Aveva un bisogno disperato di sentire la sua voce, da quando era tornato non l’aveva più vista, né sentita. Sapeva che era rientrata a Los Angeles, ma non aveva avuto modo di andare di persona in città: John e Frank avevano messo il turbo e le prove per il Dangerous Tour lo stavano tenendo costantemente impegnato. 
«Mike, riprendiamo. Stanno arrivando Pete e Merle con il progetto finale delle luci…» Suze lo stava richiamando. Sospirò di frustrazione, guardò il telefono un’ultima volta e tornò all’interno della sala.
Riprese a lavorare con la solita dedizione e professionalità, quel tour era l’impresa più ardua, impegnativa e mastodontica che avesse mai cercato di mettere in piedi e tutti in quella stanza ci avevano investito sudore, risorse e denaro. Lui per primo. Non poteva permettersi errori, di nessun genere; ma Aura non era un errore e se avesse potuto condividere quello che stava vivendo con lei, tutto avrebbe avuto un gusto senza dubbio migliore. Il problema era che, seppur odiasse ammetterlo, lei non faceva parte del suo mondo e, presto o tardi, avrebbe potuto pagare le conseguenze dello stargli vicino… e avrebbe sofferto. Un brivido lo percosse al solo pensiero di vedere Aura stare male, soprattutto se lui e il suo essere Michael Jackson “Il Re del Pop” ne fossero stati la causa.
 
«Una delle cose che più mi fa star bene è che non mi sento un personaggio, quando sto con lei.
Sono solo Michael,
un uomo timido, un po’ imbranato che non sa mai cosa dire quando guarda i suoi occhi verdi
e spesso si ritrova imbambolato a fissare le sue labbra,
sperando che lei gli permetta di baciarle.»
 
Lo aveva confessato a Liz, il giorno del suo rientro a Neverland. Avevano fatto una passeggiata, arrivando fino allo zoo – mentre i bambini dell’orfanotrofio di Chino, in visita al parco divertimenti, continuavano a chiamarlo – e le aveva raccontato di Auralee, di come si fossero incontrati e di quanto bene si sentisse soltanto al pensiero che lei ci fosse, che esistesse. Si era aperto come non avrebbe mai creduto di riuscire a fare, scoprendo lungo il racconto cose che non pensava nemmeno di provare. E Liz li aveva benedetti con le sue solite, delicate, amorevoli parole.
«Michael, capisco che temi di rovinarla, di macchiarla con la sporcizia che il nostro mondo riserva alle anime pure» Elizabeth aveva alzato una mano verso il volto serafico del cantante, cercando di cancellare qualche ruga di preoccupazione che gli si era formata sulla fronte, poi gli aveva sorriso. «Ma non pensi che la faresti soffrire di più se la estromettessi? Se l’allontanassi?»
In quel momento Michael ripensò al sorriso raggiante che aveva illuminato il volto di Aura quando lo aveva visto a Capodanno, al calore che gli aveva trasmesso quando poco dopo si erano abbracciati al chiaro di luna; anche attraverso i vestiti pesanti era riuscita a donargli il piacevole tepore tipico solo dei sentimenti genuini – come quelli del bambino che gli stava stringendo una mano e gli ripeteva “Signor Michael Jackson, vieni, vieni con noi a giocare. Andiamo al carosello!”
Adesso, lei sembrava sparita – o forse era semplicemente impegnata –, e a lui non era permesso nemmeno uscire per andare a vedere dove si trovasse, se fosse tutto ok. Era frustrante!
Se solo fosse stato un uomo normale, avrebbe preso l’auto e sarebbe corso in città a cercarla come un disperato.
«… poi Michael, lo vedi qui in questo punto? Le botole si apriranno e, quando tu darai il via, i ballerini salteranno fuori. Bisognerà costruire il palco qui, per far provare i ragazzi. Le pompe idrauliche…»
Era seduto al tavolo con Frank, John, i tecnici che Kenny aveva chiamato apposta e che avevano sputato sangue per portargli in tempo i progetti rivisti e corretti, e lui non aveva ascoltato quasi nulla.
«Ok, - riuscì a dire quando si accorse che tutti i presenti lo fissano in attesa di un cenno – direi che ci siamo, potete iniziare a montare il palco di prova.»
Probabilmente nella mente dei suoi collaboratori aleggiava il dubbio: quando Michael era diventato di così poche parole e, soprattutto, non aveva alcun tipo di appunto, modifica o semplicemente cambio repentino di idea riguardo le correzioni delle correzioni? Nonostante questo pensiero, però, lui si alzò e si diresse verso Siedah, che era appena arrivata per provare con i coristi.
Aveva bisogno di cantare e di ballare, di sfogarsi, così la prese e andarono verso il teatro.
 
***
 
Aura passeggiò nervosamente per circa mezz’ora nel piccolo ufficio del negozio, girando intorno alla scrivania e fissando il telefono come una pazza invasata; sperava di obbligarlo a suonare con la sola imposizione del pensiero, ma non aveva poteri cinetici o altre diavolerie simili; infatti, l’apparecchio rimase muto e lei si maledisse la successiva mezz’ora per essere stata così distratta da non sentirlo in tempo.
Quando più tardi fu tempo di chiudere, corse a casa e la prima cosa che fece una volta nell’appartamento fu prendere dallo scaffale il suo libro preferito, Hemingway, e sbatterlo fino a far cadere il foglietto che un mesetto prima vi aveva lasciato dentro.
L’indirizzo di Michael.
Non sapeva quanto tempo ci volesse a raggiungere Santa Ynez, né cosa vi avrebbe trovato una volta là. A dire il vero, non sapeva nemmeno se Michael si trovasse ancora a Los Angeles e iniziò a farsi prendere dall’ansia perché, in effetti, da Capodanno non si erano più sentiti.
E se al telefono non fosse stato lui? Se dall’ultima volta che si erano visti Michael non l’avesse mai cercata? Se… - rabbrividì al pensiero – se l’avesse già dimenticata, inghiottito nuovamente dalla frenesia della sua vita da star?
No, non poteva essere! Non Michael, non dopo le parole che si erano detti, dopo… dopo quei pochi, ma intensi momenti passati insieme. Avranno pur contato qualcosa anche per lui, vero?
Mentre la sua testa vorticava intorno a congetture e scenari per lei disastrosi, afferrò di nuovo la borsa e si decise a prendere in mano la macchina – che, tra l’altro, non guidava mai.
L’orologio digitale dell’auto segnava le 7.33 e, se riusciva a interpretare almeno a spanne quell’odiosa cartina, la collina di Michael si trovava a più di due ore dalla città; mentre percorreva la statale, colta da un istante di lucidità, realizzò che, se non si fosse persa, sarebbe arrivata con il buio. Non sapeva neanche se fosse possibile vederlo, se…
Inchiodò al semaforo rosso appena in tempo; si guardò nello specchietto e si accorse che lo spauracchio della disperazione amorosa le si leggeva in ogni pagliuzza dorata degli occhi verdi.
Fu allora che ricordò nitidamente perché l’amore le aveva sempre fatto paura: soffrire per un uomo era tutto fuorché una cosa delicata, romantica e dolce. Chi lo aveva detto che essere innamorati era così fantastico? Non lo era affatto!
Nonostante questi pensieri, comunque, quando la lanterna divenne verde ripartì, diretta fuori città. In qualche modo, si disse, lo avrebbe visto.
 
***
 
Erano da poco passate le dieci e Michael era stanchissimo. Tutto sommato sfogarsi sul palco era stata proprio una bella idea, si era divertito, e anche John sembrò essersi rilassato nel vedere il cantante tornare il solito stacanovista: non si era fermato un attimo da quando aveva iniziato le prove al teatro dopo pranzo.
«Vado a farmi una doccia, John, vuoi restare o vai via?» gli aveva chiesto prima di sparire in bagno.
«Penso che resterò, sono troppo stanco per guidare – confermò versandosi un bicchiere di whiskey – Frank e gli altri se ne sono andati da un pezzo.»
Michael sorrise all’amico. «La strada la sai, io poi vado a dormire. Buonanotte.»
Mentre camminava lungo il corridoio fino alla sua stanza, Michael scosse la testa, sogghignando, pensando tra sé e sé.
»Lui è stanco? Non ha fatto nulla tutto il giorno oltre che starmi con il fiato sul collo.»
Quando passò accanto al telefono, vi si soffermò un attimo con lo sguardo.
«Chissà se è sveglia?» senza preoccuparsi di dare una risposta a quella domanda e sospinto dalla voglia che aveva di sentirla, alzò la cornetta e compose il numero di Aura, che già conosceva a memoria, ma ancora una volta suonò a vuoto.
 
In quel momento…
 
Il custode del ranch chiamò al telefono interno. John rispose.
«Signore, al cancello secondario c’è una signorina che si chiama Auralee, dice di essere un’amica del signor Jackson e vorrebbe parlargli.»
Il manager non aveva mai sentito parlare di quella ragazza. Improvvisamente, senza un apparente motivo valido, la collegò agli strani comportamenti di Michael dell’ultimo periodo e prese istantaneamente una decisione, per qualcuno forse dolorosa, ma sicuramente a fin di bene.
«Le dica pure che il signor Jackson è molto stanco e non vuol essere disturbato. E aggiunga che domani partiamo per le prove generali del tour e con buona probabilità staremo fuori Los Angeles per almeno un anno e mezzo.»
 

 
I close my eyes
Just to try and see you smile one more time
But it’s been so long now all I do is cry
Can’t we find some love to take this away
Cause the pain gets stronger every day
 
 

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Capitolo 8
*** Love me more, never leave, me alone by house of love ***




 
Michael non era mai stato un grande dormitore, pensava che sprecare troppe ore nel letto a dormire gli avrebbe tolto del tempo per fare cose più interessanti, più produttive. Aveva sempre avuto un sonno piuttosto leggero e movimentato. Spesso si svegliava nel cuore della notte e rimaneva lì a fissare il soffitto; altre volte si sedeva sulla chaise longue e scriveva.
Quella notte non era riuscito nemmeno a prendere sonno. Forse era troppo stanco persino per dormire – o forse era semplicemente il pensiero di Aura che lo faceva impazzire. Sentiva da sotto le lenzuola il richiamo pressante del telefono, ma sapeva che era troppo tardi. Non solo le avrebbe fatto prendere un colpo se l’avesse chiamata all’una, ma probabilmente si sarebbe pure fatto insultare per averla svegliata. O forse no.
Scostò le coperte con un gesto secco delle gambe e si decise a correre il rischio di farla arrabbiare; se non l’avesse sentita, il colpo al cuore sarebbe venuto a lui senza ombra di dubbio. Non sarebbe riuscito a dormire mai più, finché non avesse di nuovo sentito la sua voce.
Si avvicinò lentamente al telefono della camera da letto, alzò la cornetta e compose il numero al buio – ormai le dita lo facevano in automatico -, il cuore sembrò uscirgli dal petto, nella trepidante attesa di sentirla rispondere con la voce impastata dal sonno, dolcissima e disarmante.
 
***

Aura stava guidando lentamente lungo l’autostrada ormai deserta. Si era dovuta fermare un paio di volte, i singhiozzi e le lacrime non le permettevano di vedere bene le strisce della corsia e aveva paura di fare un incidente.
Era ancora abbastanza lucida per ragionare, ma non lo era abbastanza per smettere di piangere.
Michael si era rifiutato di vederla, poteva essere vero?
Mai, dal momento in cui i propri occhi lo avevano visto al negozio, avrebbe pensato che una cosa del genere potesse capitare. Il suo sguardo, il suo modo gentile di parlare, il suo sorriso le avevano trasmesso delle sensazioni meravigliose che discostavano troppo dal comportamento bizzarro che aveva mostrato quella sera, e lei non riusciva a farsene una ragione.
Più di un anno e mezzo fuori città, lontano da Los Angeles.
In che modo sarebbe sopravvissuta, se non poteva neanche salutarlo prima della partenza? Se non poteva nemmeno abbracciarlo un’ultima volta prima di vederselo risucchiare dal mondo, in quel vortice spaventoso che era il suo successo?
Piangeva e si dava della stupida perché stava piangendo. In fondo lo aveva appena conosciuto, tra loro non c’era stato niente di importante; avrebbe dovuto saperlo che certe cose accadevano solo nei film, e soprattutto non a una semplice ragazza dell’Illinois.
 
Eppure, sì, ci avevo sperato e avevo anche iniziato a crederci.
 
Quando finalmente arrivò a casa e si chiuse la porta alle spalle, improvvisamente le sembrò così grande, così vuota. Sentì come se, tutto a un tratto, quel posto una volta caldo e confortevole fosse diventato di ghiaccio.
Erano passate le due, fuori dalla sua finestra Los Angeles sonnecchiava pigramente, scossa di quando in quando da qualche sirena isolata, sinonimo di una città che non dormiva mai veramente. Lei avrebbe dovuto farlo, vista l’ora. Avrebbe dovuto infilarsi sotto le coperte e chiudere gli occhi, sperando che quella sensazione di sconforto che sentiva nel cuore, al risveglio, si potesse rivelare solo l’ombra di un brutto sogno.
Rimase in silenzio sul divano per un tempo indefinito, cercando di riportare alla memoria i ricordi della sera in cui Michael era stato tra quelle stesse mura; immaginandolo seduto accanto a lei, con il gomito sulla spalliera e quegli occhi da bambino sempre pronto a giocare e sorriderle con dolcezza. Alla fine, senza rendersene conto, su quello stesso divano si addormentò, trasportata dalla stanchezza e da quei sogni che sentiva lentamente scivolarle via dalle dita, ma che con caparbietà tentava di trattenere.
Non sapeva se Michael ci sarebbe stato nel suo futuro, ma almeno per quella notte voleva immaginare di sì.
 
***
 
Girovagava per casa da molto prima che il sole sorgesse, a piedi nudi e con l’espressione pensierosa, troppo pensierosa. Era stato in cucina già cinque o sei volte, finendosi una scatola di ciambelline glassate ed esaminando attentamente ogni minimo spostamento d’aria.
Non sapeva cosa fare, non sapeva a chi rivolgersi. Non voleva mettere in mezzo Frank o, peggio ancora, John; e nel modo più assoluto voleva evitare che Aura venisse troppo esposta.
Però aveva una voglia di vederla che lo stava mandando al manicomio.
D’un tratto sentì dei passi appena dietro l’ingresso della sala. Nel buio sentì la voce di Miko chiamarlo.
«Michael, ho sentito dei passi e sono venuto a vedere. Cosa ci fai qui? Sono le cinque.»
Il cantante raggiunse il suo bodyguard e amico, e gli mise una mano sulla spalla. Poteva intravedere, grazie ai bagliori provenienti dalle luci esterne, i suoi occhi buoni e comprensivi, sapeva che di lui poteva fidarsi.
«Mik, ho bisogno di un grosso favore» gli disse accorato come poche volte si era sentito «Stamattina dovresti andare da Aura, in negozio o a casa, e controllare se è tornata in città. Ti darò un biglietto da recapitarle.»
Il suo amico lo guardò un po’ strano, non capendo il motivo di tanto mistero.
«Non puoi telefonarle, semplicemente?» le chiese, infatti, con tono ovvio.
Michael sedette sulla poltrona – quella che aveva comprato al negozio di Aura – e sospirò.
«Ci provo da due giorni, Mik, ma non riesco a rintracciarla. Non risponde a casa e nemmeno in negozio. Non so se le è successo qualcosa, o… o magari non vuole più sentirmi…»
Mentre lo sentiva pronunciare quelle parole, Miko riuscì a percepire nello sguardo scuro del suo cantante – a cui tanto si era affezionato, come fosse un fratello – una vena di tristezza infinita. Non lo aveva mai visto così per una donna che non fosse Brooke, e anche per lei aveva sofferto come un cane. Odiava vederlo in quello stato, per cui gli sorrise comprensivo e gli diede una debole pacca sulla spalla.
«Ok, ci penso io, Mike… - confermò – Ora vado a dormire ancora un po’, preparami il biglietto.»
Michael si alzò di slancio e lo abbracciò forte. «Grazie, Mik, davvero. Grazie di cuore.»
  
Più tardi, quella mattina, Michael fece colazione silenziosamente, da solo. John, da che si era svegliato, se ne stava nello studio al telefono con alcuni produttori esteri ed era uscito solo per prendersi un caffè, per poi tornare a rintanarsi, tutto concentrato. Poco dopo Miko sbucò nella sala da pranzo, già pronto per uscire; si avvicinò al tavolo, prese la busta che Michael gli stava porgendo – e che aveva tenuta nascosta piegata in due nella tasca della vestaglia –, agguantò un donut e lo salutò con un occhiolino complice prima di sparire al di là della porta d’ingresso. Uscì di volata, per evitare che Suze o peggio, John, gli facessero qualche domanda. Prese l’auto e partì, diretto a Los Angeles.
 
***
 
Come diceva quella canzone dei Queen che aveva sentito l’altra notte alla radio?
Lo spettacolo deve continuare?
Esattamente come il mondo continuava a girare sul proprio asse, così anche la vita di Aura – con o senza Michael – avrebbe dovuto proseguire sulla rotta che si era imposta, anche se nemmeno i chili di trucco erano riusciti nell’intento di coprire il corredo di occhiaie e borse che si era ritrovata in faccia quella mattina. Non riuscendo più a dormire – non essendoci riuscita comunque molto bene nemmeno nelle ore precedenti -, aveva deciso di uscire presto, fermarsi a fare colazione nel bar vicino al negozio, per mettersi poi il più presto possibile al lavoro. Era l’unica cosa che evidentemente riusciva a deviare la sua mente dal pensiero di Michael, e il suo scopo era proprio quello: non pensare più a lui.
Quando, finalmente, la sua concentrazione le aveva permesso di focalizzarsi solo sul progetto dei lavori di ristrutturazione erano già passate un paio d’ore. Il silenzio regnava sovrano. C’era solo il suo respiro a scandire i secondi a cui, poco dopo, si aggiunse lo scampanellio della porta d’ingresso che veniva aperta e la riportò alla realtà.
Si alzò di scatto e, come di consueto, si sistemò la camicetta, pronta a fare il suo dovere con il cliente appena entrato. Quando, però, varcò la soglia dello showroom, rimase senza fiato. Di fronte a lei c’era Miko, la guardia personale di Michael, e sembrava fosse venuto lì appositamente per lei.
«Buongiorno Auralee» esordì l’uomo, sorridendole educatamente. «Come stai? È tutto ok?» la sua domanda risultò di semplice cortesia, eppure lei sentiva gli occhi chiari di lui penetrarle il viso. Si ricordò del disastro che doveva essere e abbassò il volto.
«Buongiorno Miko. Sì, è tutto ok. Lei sta bene?» rispose senza però fare un passo verso di lui.
«Sì, grazie, è tutto ok» rispose cortesemente, avvicinandosele un po'.
«Michael si è ripreso? Sta bene oggi?»
Miko non capì come mai gli facesse quella domanda, ma lasciò correre. Non era andato fino a lì per fare conversazione.
«Sì, Michael sta abbastanza bene, ma mi ha mandato qui per darti questa. Ti cerca da due giorni senza risultato e voleva assicurarsi che fosse tutto a posto, che tu stessi bene.»
Michael le aveva scritto. Michael l’aveva cercata?
Aura non riuscì più a trattenersi e, viste le cose che la guardia le aveva appena detto, non si fece problemi a parlare.
«Se mi cercava ed era così tanto preoccupato per me, perché ieri sera mi ha mandata via? Perché non mi ha fatta entrare in casa? Mi sono fatta quasi tre ore di auto per venire a Los Olivos, e altrettante per tornare in città, e lui mi ha fatto dire dal custode che era troppo stanco e che comunque sarebbe partito oggi per il tour…»
Miko non sapeva cosa rispondere, non sapeva nemmeno di cosa la donna stesse parlando. Lui era semplicemente lì per portare a termine un compito che gli era stato assegnato.
«Non so risponderti, Aura, mi dispiace. Io dovevo solo accertarmi che stessi bene e darti quella lettera. Non ho altre informazioni.»
La ragazza abbassò il capo di nuovo, perché dire quelle cose a voce alta le aveva fatto male e sentiva gli occhi pizzicarle dalle lacrime ancora non piante.
Stropicciò brevemente la busta che conteneva la lettera di Michael; infine, con un po’ di coraggio e tanta curiosità, l’aprì.
La grafia graziosamente disordinata era sempre lì, a riempire quel foglio bianco un po’ spiegazzato.
 
“Ho vagato come un’anima in pena per tutta la notte
alla ricerca di risposte a domande che nemmeno credevo di essermi posto.
Ho provato ad ascoltare il mio cuore e lui mi diceva solo una cosa: cercala!
Spero ora di esserci riuscito, spero di averti trovata e che tu stia leggendo queste poche parole.
Mi manchi e ho bisogno di te.
Affidati a Miko, per favore.
Aspetto sempre il mio alito di vento, lo aspetto ogni sera.
Con amore.
MJ”
 
Senza accorgersene, Aura aveva iniziato a piangere, ancora. Teneva stretto fra le dita il foglio, in uno stato di totale confusione.
La sera prima l’aveva mandata via, le aveva detto che sarebbero partiti, e ora il registro era totalmente cambiato. Non sapeva cosa pensare, cosa credere, e un sottile timore si stava facendo largo dentro sé: sarebbe sempre stato così? Ogni giorno un continuo cambio di rotta?
Certamente non poteva sapere la risposta, non in quel momento. L’unica cosa che sapeva per certo era che il bisogno fisico di rivederlo si stava facendo più forte di qualsiasi reticenza.
Alzò il viso verso Miko, che la guardava con un’espressione ancora più interrogativa di quella che poteva avere lei, infilò il biglietto nella tasca dei jeans e disse:
«Prendo la borsa, mi dia solo un attimo.»
 

 
I remember, you and I, walking through the park at night
Kiss and touch, nothing much, let it blow just touch and go
Love me more, never leave, me alone by house of love

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Capitolo 9
*** You give me butterflies inside ***



 
Aura non pensava che avrebbe percorso di nuovo quell’autostrada semideserta – non così presto, almeno.
Non era affatto pratica di questioni di cuore, non lo era per niente, ma dopo il comportamento di Michael della sera prima, pensava che in qualche modo quella strana storia avesse inaspettatamente subìto un arresto – e si era disperata per questo.
Invece, in quella tarda mattinata di Gennaio, come una pioggia insperata dopo un periodo di siccità, Miko la stava accompagnando a Neverland.
L’aveva invitata ad accomodarsi sui sedili posteriori, ma non le piaceva l’idea di essere scarrozzata in giro da una persona che in qualche modo conosceva, così aveva insistito per occupare il posto del passeggero accanto a lui.
La guardia l’aveva lasciata fare, sorridendo impercettibilmente sotto ai baffi brizzolati.
«Quindi, partirete oggi per l’Europa?» gli chiese, più che altro per fare conversazione e riempire quel silenzio che la metteva un po’ a disagio – e, sì, anche per indagare su cosa sarebbe successo di lì a poco.
Miko, fermo al semaforo rosso, volse lo sguardo verso di lei, interrogativo e perplesso.
«Non so chi abbia detto una cosa simile e perché, ma non partiremo prima di fine maggio» rispose placidamente lui. «Michael sta ancora provando e ci vorrà un po’ per finire di organizzare le cose. Penso che ci sposteremo quando tutto sarà completato e pronto per il tour.»
L’uomo si stava sbottonando con la ragazza già troppo; avanti di quel passo, chissà cos’altro avrebbe potuto dire?
Non sapeva per quale motivo, ma Auralee gli ispirava fiducia, simpatia. Gli ricordava l’idea di figlia che avrebbe voluto, ma che, soprattutto per via del lavoro che svolgeva, non avrebbe mai potuto avere. Inoltre, c’era da considerare quanto positivamente la sua presenza influisse sul buon umore di Michael. Teneva a quel ragazzo molto più di quanto avrebbe dovuto e vederlo felice rendeva contento anche lui.
«Poi, c’è da dire che più tardi partiamo, meglio sarà per tutti. Quando Michael non ti vede o non ti sente inizia a fare cose strane come svegliarsi nel cuore della notte per svuotare il frigorifero. Non piacerà a nessuno un Moonwalker in sovrappeso.»
“A me sì, piacerebbe lo stesso.”
I pensieri infantili, romantici e dolci che gironzolarono per la testa di Aura appena udì quelle parole le fecero completamente dimenticare il perché fosse quasi arrabbiata con Michael, e un po’ spaventare perché più andava avanti quella storia, meno riconosceva se stessa – e non era ancora riuscita a capire se la cosa fosse positiva o meno.
Non era nemmeno in grado di rispondere, presa com’era dall’emozione di sapere che in qualche modo lui ci teneva e soffriva la lontananza tanto quanto lei.
«Sarà il caso che Michael non sappia che ho spifferato tutto», aggiunse Miko, sorridendole. «Vorrei tenermi il mio posto di lavoro.»
«Resterà un segreto tra noi due…» lo rassicurò lei, regalandogli un occhiolino complice.
Il resto del viaggio proseguì senza che nessuno dei due sentì più il bisogno di parlare. Ogni tanto Miko canticchiava la canzone che la radio trasmetteva in quel momento, sorprendendosi che anche Aura non facesse lo stesso.
«Non ti piace la musica?» le chiese infatti, mosso dalla curiosità.
«Mh, non particolarmente – rispose di getto –, non tutta, almeno. Sinceramente non sono mai stata una patita; non ho un genere preferito o un interesse verso una canzone o cantante particolare.»
L’uomo non seppe come prendere quella confessione – sicuramente strana per una ragazza così giovane –, ma le sorrise mentre elaborava una domanda che fino a pochi minuti prima avrebbe considerato assurda.
«Tu sai chi è Michael, vero?» le domandò a bruciapelo, sentendosi terribilmente idiota l’istante successivo.
«Ma certo che so chi è Michael, accidenti! Lo conoscono anche i sassi! Ho detto che non sono patita di musica, non che ho vissuto in un bunker.»
Miko tirò un sospiro di sollievo e inserì nell’autoradio una cassetta.
«Magari questa ti dice qualcosa…»
Le prime note di Rock with you si diffusero nell’abitacolo, mettendo istantaneamente a proprio agio Aura che iniziò ad accennare qualche nota a bassa voce.
«Questa ti piace, eh?!»
Proseguirono il viaggio ascoltando e cantando a tutto volume le canzoni di Michael, mentre Aura pensava con il sorriso stampato in volto che a breve lo avrebbe riabbracciato.
 
***


Michael si era appena preso una pausa dalla riunione con i costumisti in cui avevano definito gli ultimi dettagli di Thriller. Greg, il direttore musicale, stava prendendo gli ultimi accordi mentre il cantante si preparava per l’odierna sessione di prove corali.
Nonostante fosse completamente assorbito dai lavori, però, un pensiero continuava a ronzargli in testa: Auralee. Chissà se Miko l’aveva trovata, se stava bene. Chissà se prima o poi l’avrebbe vista varcare la soglia di casa insieme a lui o se, per qualche motivo sconosciuto, lei aveva deciso di non seguirlo. Chissà se era arrabbiata?
Analizzò mentalmente, per la milionesima volta, le loro ultime interazioni e, per la milionesima volta, non riuscì a capire se avesse fatto qualcosa di sbagliato al punto tale da farla arrabbiare; eppure qualcosa continuava a non tornargli.
«Mike, è tutto ok?» Siedah aveva fatto il suo ingresso in cucina, insieme a Darryl e Dorian che lo avevano raggiunto per il sound–check; solo in quel momento si rese conto di essere seduto con i gomiti arpionati al tavolo e le mani nei capelli.
«Oh, sì, sì» rispose, cercando di risultare meno confuso di quanto già non sembrasse. «Stavo, io stavo riflettendo su alcune cose di cui abbiamo parlato prima in riunione e, insomma…»
La donna, però, che lo conosceva abbastanza da notare quando qualcosa lo turbava, gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
«È qualche giorno che sembri su un altro pianeta, sei sicuro che vada tutto bene? Hai mal di schiena?»
Era vero, aveva avuto negli ultimi giorni un po’ di lombalgia, ma niente di preoccupante; stava solo sollecitando troppo alcuni muscoli che iniziavano a fargli un po’ male. Dopotutto, erano passati quasi quattro anni dall’ultimo tour, ma di certo il problema non era quello.
«No, tranquilla, va molto meglio ora. È tutto a posto, davvero. Sono solo un po’ pensieroso» ammise, senza però avere il coraggio di raccontarle di Auralee e di quello che in cuor suo sperava accadesse.
 
***
 
Quando finalmente sopraggiunsero a Neverland e si trovarono di fronte all’imperioso cancello, Aura ebbe un fremito. La prima e ultima volta che era stata lì – la sera precedente – era stata praticamente invitata a togliersi dalle scatole dalla voce annoiata e indifferente di un uomo qualsiasi che, senza troppi preamboli, le aveva comunicato che Michael non aveva né voglia, né tempo di vederla; un po’ quel ricordo le bruciò dentro.
«Eccoci qui!» sentenziò quasi solenne Miko, sorridendole. Non ci fu alcun bisogno di avvisare qualcuno dell’arrivo: non appena furono in prossimità dell’entrata le meravigliose inferriate si spalancarono e poco dopo furono all’interno del magico mondo di Michael.
Aura rimase per un attimo inebetita da quello che vide: in lontananza si scorgeva una ruota panoramica svettare tra le cime degli alberi, accanto a un’altra giostra spaventosamente alta, e poco più in là, vicino al lago – che riuscì a immaginare grazie al riverbero dei raggi del sole sullo specchio d’acqua –, un elefante africano che, chissà come, era finito a gironzolare in quel prato verde e invitante.
Quando l’auto si fu fermata, Miko scese e fece il giro per poterle aprire la portiera. Aura, incantata da ciò che i suoi occhi stavano ammirando intorno a sé, mise una gamba dopo l’altra fuori dall’abitacolo senza nemmeno averlo deciso autonomamente; poi, immobile, in piedi vicino al suo accompagnatore, si guardò intorno con infantile stupore.
«Vuoi entrare e incontrare Michael o preferisci restare qui e, magari, andare a fare un giro sul carosello?»
Aura, richiamata dalla guardia alla realtà– che poi non era niente male comunque – gli sorrise raggiante.
«Avete un carosello?!» domandò sempre più colpita. «Ok, hai ragione – continuò, assecondando lo sguardo perplesso dell’uomo – prima Michael, è più importante!» Ovviamente stava scherzando. Si era lasciata risucchiare per un attimo dalla magnificenza di quel luogo fiabesco, ma mai – nemmeno per un istante – aveva perso di vista lo scopo di quel viaggio: togliersi di dosso l’orrenda sensazione di vuoto che provava quando Michael non era con lei.
Poi, dal nulla, sentì di nuovo quella voce angelica chiamare il suo nome.
«Auralee!»
 
***
 
Dopo aver bevuto del succo d’arancia e aver cercato di smettere di tartassarsi il cervello con pensieri inutili – senza comunque riuscirci –, Michael si convinse a unirsi a Siedah e gli altri che nel frattempo erano già andati a prepararsi in sala prove per dare inizio al sound–check.
Uscì dal retro per raggiungere più velocemente il teatro e, passando di corsa attraverso il prato, scorse con la coda dell’occhio l’auto di Miko.
Inchiodò di colpo sul posto, tornò di qualche passo indietro per avvicinarsi e non riuscì a credere a ciò che vide: Aura in piedi vicino all’auto che si guardava in giro con una meravigliosa espressione di gioia dipinta sul volto, a cui i suoi ricordi non rendevano affatto giustizia.
«Auralee!» il sollievo che gli tolse dal cuore quel peso ormai insostenibile che da troppi giorni si portava addosso lo fece sentire così leggero che credette di volare.
Riprese a correre finché, pochi istanti dopo, non le fu accanto.
Non gli sembrò vero, continuava a fissarla così intensamente che ebbe paura di consumarla.
«Aura… – disse di nuovo, mentre sentiva crescergli dentro la voglia di stringerla, per rassicurarsi che fosse vera, che fosse veramente lì –, non sai quanto sono felice…»
Non gli fu possibile arrivare in fondo alla frase, perché lei lo stava già abbracciando così forte da riuscire a mettere insieme quei pezzi di se stesso che nei giorni scorsi, passati senza poterla vedere o sentire, erano andati via via sgretolandosi. Il bisogno di dire qualsiasi cosa era stato cancellato da quello di provare di nuovo quelle emozioni che solo lei era stata capace di regalargli.
L’agonia che gli aveva stretto lo stomaco in quei giorni venne sostituita da una miriade di bellissime crisalidi librate in volo. 
 
***
 
Quei due occhi così profondi e limpidi la fissavano con un’intensità tale da farle girare la testa.
Non aveva scordato la sensazione di vulnerabilità e alienamento che sentiva ogni volta che lui la guardava – perché lui la guardava davvero. Riusciva a leggerle l’anima, Aura lo percepiva.
Chissà cosa sarebbe stato in grado di trovare in quei crepacci di cui nemmeno lei conosceva l’esistenza?
Michael era di fronte a lei, poteva sentire il suo profumo particolare, dolce, disarmante. Poteva vedere la sua pelle nivea, le sue labbra rosa e perfette. La sua essenza era palpabile anche se ancora non si erano nemmeno sfiorati, ma lei sentiva il desiderio ormai irrefrenabile di concretizzare quell’incontro, di stringerlo a sé per raccontarsi che non era più un sogno, che era tutto reale, che Michael era davvero lì.
«Aura… – le sussurrò con un candore capace di farle piegare le ginocchia –, non sai quanto sono felice…» e a quelle parole non le fu più possibile trattenersi: il suo corpo agognava sollievo.
Si alzò sulle punte dei piedi e lo strinse così forte da aver quasi paura di romperlo, ma comunque incapace di mollare la presa.
Finalmente Aura si sentiva di nuovo a casa.

 
 
You give me butterflies inside and I
I just wanna touch and kiss
And I wish that I could be with you tonight
You give me butterflies inside

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Capitolo 10
*** So Baby Be Mine ***





 
Aura era incantata.
Forse il termine “incantata” non sarebbe stato sufficiente a spiegare come si sentiva in quel momento.
Seduta in una comoda, morbida poltroncina di velluto rosso – in cui ci si sarebbe potuta anche addormentare – assisteva completamente rapita alla magia che si sprigionava intorno a Michael: era impossibile spiegare come ci riuscisse, ma ogni volta che ascoltava la sua voce meravigliosa, questa le infondeva una serenità tale da farla sentire in pace con il mondo.
Non aveva ancora deciso se essere arrabbiata con lui, almeno un po’. Non c’era stato nemmeno il tempo di parlare, in verità; poco dopo essersi incontrati, uno dei coristi era uscito in cerca del suo cantante per riportarlo all’ordine… e l’ordine era che tornasse a lavorare.
Così, qualche minuto più tardi, Aura si ritrovò nel teatro costruito in mezzo al grandioso parco di Neverland, insieme a Michael e a un’altra manciata di persone che stavano provando le vocalità per i cori.
La musica che ribalzava sulle pareti insonorizzate la ovattò in un mondo nuovo, che fino a quel momento non avrebbe nemmeno mai immaginato; mentre i suoi sensi venivano rapiti da suoni e colori cui non erano abituati, il verde dei propri occhi era tutto per lui. Non vedeva altro, non cercava altro. Solo lui, il suo sorriso e quella voce celestiale.
«È inusuale vederlo così a suo agio mentre prova di fronte a qualcuno che non sia un addetto ai lavori…» la voce che la sorprese riportandola nella dimensione terrena stava diventando pericolosamente familiare. Sorrise istantaneamente voltandosi, sapendo che dietro sé avrebbe trovato il volto barbuto e pacioso di Miko.
«Probabilmente io ispiro fiducia e tranquillità» rispose arricciando il naso in un’espressione buffa e gongolante.
L’uomo prese posto accanto a lei portando lo sguardo su Michael che stava armonizzando con Siedah qualche nota di I just can’t stop loving you.
«Probabilmente» assentì la guardia, poi la guardò negli occhi. «O forse è solo che per lui conti più di quel che credi.» Le sorrise un po’ imbarazzato e si volse di nuovo verso Michael.
«Altro punto da aggiungere alla lista di cose che il tuo capo non deve scoprire che mi hai spifferato: registrato!» lo prese in giro ricambiando di cuore il sorriso dell’uomo. Ci si stava affezionando davvero e, comunque, avere un alleato che tifava per lei avrebbe potuto tornarle utile, in futuro.
«Vedo che siete diventati amici! Mi fa piacere…» né Aura, né Miko si erano accorti che Michael aveva smesso di cantare e si era avvicinato a loro. «Adesso posso rubartela?» chiese lui alla propria guardia del corpo.
«Mi costerà lasciartela per un po’, inizia a starmi simpatica – ammise Miko -, ma per te sono disposto a sacrificarmi» concesse, infine, congedandosi dai due ragazzi e incamminandosi verso il retro del teatro dove lo attendevano dolciumi e leccornie varie, le sue preferite.
«Adesso si ritirerà per una mezz’oretta nel negozio di caramelle. Quando non è a portata di mano ti basta cercarlo lì e sei certa di trovarlo.»  
Aura non stava nemmeno ascoltando quello che diceva, si era di nuovo incantata a fissare quegli occhi scuri che tanto le erano mancati.
«Che c’è?» domandò infatti lui, fissandola di rimando e lasciando che, come sempre più spesso accadeva, gli sguardi parlassero per loro.
«Mi sei mancato, Mike.»
 
***
 
Michael rimase per un istante in silenzio, gustandosi il suono di quelle quattro lettere uscire dalle labbra rosa di Aura che tanto aveva sognato e che desiderava baciare più di qualunque altra cosa.
Sapeva perfettamente che c’era dell’altro lavoro da fare, come era conscio di non aver ancora completato la tabella della giornata. Era solito fissarsi una routine da seguire ogni mattina, ma da quando la ragazza che aveva di fronte era entrata nella sua vita, quello schema sembrava non funzionare più così bene. Ogni pensiero era assorbito dai suoi occhi verdi, dal desiderio di sentire la sua voce, di vedere il suo sguardo perdersi in quelle loro conversazioni silenziose.
Lavorava duro. Come sempre, dava il meglio di sé, ma quando lei non era con lui, l’idea della sensazione inebriante di stringerla tra le braccia diventava un chiodo fisso difficile da ignorare.
«Ti va di fare una passeggiata per il ranch? Sarò la tua guida personale…» la invitò offrendole il braccio e regalandole un sorriso luminoso, chiara manifestazione di quanto finalmente fosse felice, potendola stringere e avendo di nuovo la possibilità di parlarle guardandola negli occhi.
«Molto volentieri» assentì Aura, accettando il suo braccio e lasciandosi guidare fuori dal teatro.
Michael, mentre uscivano, sentì chiaramente gli sguardi di Siedah e degli altri perforargli la nuca; sapeva che le domande sarebbero arrivate veloci come il lampo, ma in quel momento aveva altre cose più importanti a cui pensare come, per esempio, la propria felicità.
 
(…)
«Qualche settimana fa è arrivata Elizabeth qui, si è presentata in elicottero e io sono corso ad accoglierla. Parlava con una delle persone che stava con lei, a bassa voce, e sapevo che ne stava per combinare un’altra delle sue…»
Avevano camminato per parecchio tempo e non avevano mai smesso di parlare; Michael le aveva raccontato un sacco di aneddoti divertenti riguardo quel posto a lui tanto caro e, avendole mostrato anche lo zoo, in quel momento le stava parlando del mastodontico regalo che Liz gli aveva fatto qualche tempo prima.
«… e, insomma, quando sono tornato da lei solo qualche minuto più tardi, l’ho vista arrivare al fianco di questo enorme elefante. Credimi – continuò, ridacchiando al ricordo di quanto fosse spaventato -, all’inizio ero davvero intimorito. Poi, però, mi sono tranquillizzato e l’addestratore mi ha spiegato come interagire, così ho iniziato a darle da mangiare. Elizabeth è proprio una persona fantastica. Fantasticamente imprevedibile.»
Aura lo ascoltava rapita, gli teneva stretta la mano. Ogni tanto si guardava in giro esplorando con lo sguardo lo spazio sconfinato intorno a loro, poi tornava a guardarlo e si lasciava sorprendere dalle sue parole.
Michael si rese conto che Aura non aveva ancora aperto bocca, se non per qualche manifestazione di stupore e una manciata di sorrisi. Se ne domandò il motivo, ma senza essere in grado di darsi una risposta. Quando si decise a dar voce al suo interrogativo, lei parlò.
«Per il decimo compleanno, dopo averli pregati tanto, i miei genitori mi regalarono un Border Collie. Ero così minuta che, accanto a me, sembrava un elefante.»
E in quell’istante Michael capì.
«Scusami se parlandoti di tutte queste cose ti ho messa a disagio, non era mia intenzione» e nel suo sguardo c’era verità assoluta. «Comunque il Border Collie è davvero un bellissimo cane. Dicono sia particolarmente intelligente.» Non sapeva perché lo avesse detto, voleva semplicemente togliere dallo sguardo di Aura quella muta costernazione che non avrebbe mai dovuto appartenerle.
«Oh, sì, Oregon era davvero il cane più intelligente che avessi mai incontrato – assentì, sorridendo teneramente -, e comunque non ti devi scusare. Questo sei tu e non devi mai dispiacerti di essere te stesso e di quello che fai.»
Il sole stava scomparendo dietro le colline e un’arietta fresca appena percettibile smosse lievemente i capelli scuri della ragazza. Erano giunti al Carosello e Aura lo ammirò con lo sguardo che sorrideva.
«Me l’aveva detto Miko… - si volse a guardare Michael, che istantaneamente sentì quelle solite farfalle salirgli per lo stomaco –, tu sei così tante cose.» Lo disse quasi sussurrando, con una punta di qualcosa di indecifrabile nella voce. Rassegnazione, forse?
L’uomo, di slancio, infilò le dita tra i suoi capelli mossi. Lo voleva fare da così tanto! Chiuse gli occhi al contatto con quella straordinaria morbidezza e si lasciò trasportare da quella carezza.
 
***
 
I suoi occhi non avevano mai visto o anche solo lontanamente immaginato che potesse esistere un mondo come quello in cui Michael la stava catapultando.
In tutta la sua vita non era mai stata in uno zoo, impossibile da credere. Era stata al luna park forse un paio di volte, quando alla fiera degli agricoltori avevano impiantato un autoscontro e un piccolo ottovolante che per salirci aveva dovuto fare due ore e mezza di coda; e nemmeno avrebbe potuto chiamarlo luna park, quello.
In poche ore aveva visto per la prima volta in vita sua tigri, giraffe e scimpanzé; ne aveva persino accarezzato uno, Bubbles! Era salita con Michael sulla ruota panoramica e si era quasi fatta venire la nausea sull’ottovolante – uno di quelli veri, mica quelle ridicole imitazioni nelle campagne del nord. E non aveva dovuto fare coda.
Era tutto così… surreale!
Il sole stava ormai tramontando quando, dopo aver camminato ancora un po’, si erano fermati davanti al Carosello. Era davvero magico, tutto lì dentro lo era. Forse troppo per lei.
«Me l’aveva detto Miko – gli disse, indicando i cavalli colorati nella giostra, per poi voltarsi a guardarlo negli occhi -, tu sei così tante cose.» Quell’enorme dislivello tra di loro c’era sempre stato, ma prima di allora Aura non ci aveva mai fatto caso, non gli aveva mai dato peso.
In quell’istante fu come trovarsi di fronte a un muro invalicabile; a un guado impossibile da oltrepassare, eppure, per un istante, le dita di Mike tra i suoi capelli che l’accarezzavano delicatamente riuscirono a far sembrare tutto possibile.
Ma come? Come poteva anche solo immaginare di poter far fronte a tutte quelle mancanze che di fatto rendevano lei e Michael abitanti di due pianeti così differenti?
«Me ne rendo conto solo adesso» continuò con un filo di voce. «Che stupida.»
Il cantante sciolse l’intreccio che aveva creato con i morbidi fili castani nelle sue mani e aprì gli occhi, che non nascondevano un’espressione allarmata.
«Tu sei Michael Jackson, e per tutto questo tempo io ti ho visto solo come Michael, speravo che lo fossi, ma mi sono raccontata solo delle bugie. Tu non puoi essere solo questo…» i suoi soliti discorsi mentali stavano prendendo pericolosamente piede. Il problema era che di solito accadeva nella solitudine del suo appartamento, invece in quel momento Michael era davanti a lei e la fissava preoccupato.
«Cosa stai dicendo, Auralee?» le domandò carezzandole una guancia. «Non ti far ingannare dall’oro, quello luccica e a volte, sì, spaventa un po’, ma tu devi guardare solo quello che arriva dopo il bagliore: alla fine è solo un pezzo di metallo.»
«Tu non sei solo un pezzo di metallo, Michael. Vali molto, molto più dell’oro. Sei tu a non doverti lasciar ingannare da chi dice che non vali granché… Il fatto è che non si tratta di te: tu sei ciò che sei. Sono io che con il tuo splendore non c’entro niente.»
Michael le prese il volto tra le mani e ci fu un’istante in cui Aura sentì le ginocchia cedere. Non solo per quell’improvviso, inaspettato contatto, ma perché si stava quasi convincendo a lasciare andare tutto quello che finalmente era arrivato a dare un senso alla sua vita: lui.
Fissò lo sguardo implorante e smarrito dell’uomo che la stava stringendo nelle sue mani con profondo trasporto, come se la stesse sentendo scivolargli via dalle dita e stesse cercando di impedirlo con tutte le sue forze.
Sentì il cuore bruciarle nel petto. Non voleva allontanarlo, non lo avrebbe tollerato, ma non riusciva nemmeno a comprendere come la sua presenza in quella vita già piena e soddisfacente potesse fare la differenza per lui.
«Guardami, Aura. Guardami negli occhi e dimmi cosa vedi.»
Una lacrima scese sulla guancia della ragazza.
«Sapevo che farti venire qui sarebbe stato un rischio. – continuò senza attendere una risposta – Non ero preparato a dirti addio, non lo sono nemmeno adesso e credo che non potrei sopportarlo, ma sapevo che avresti potuto sentirti in questo modo. Lo capisco.»
«Michael…»
«No, aspetta. - la interruppe, continuando a tenerle il volto in quelle sue mani così grandi eppure così straordinariamente delicate – Lasciami finire.»
In quell’attimo lo sguardo dell’uomo assunse un’espressione nuova che Aura non gli aveva mai visto prima. Era… tenero, supplicante. Innamorato?
«È assurdo anche solo pensarci, Aura. Ci conosciamo così poco, non sappiamo molto l’una dell’altro.»
Prese un breve respiro prima di continuare, come se dovesse trovare il coraggio di andare avanti con un discorso per cui si era già preparato.
Aura sentiva le guance scottare e non aveva forza di muovere un muscolo.
«Il fatto è che io non ho avuto una vita normale, non ce l’ho ancora e purtroppo non l’avrò mai. I miei amici mi regalano elefanti e ho un luna park nel giardino di casa. Ho tanti soldi e qualsiasi cosa tu potrai mai immaginare io posso dartela, ma nel mio cuore, nella mia anima io sono solo Mike, tesoro.»
Aura ormai piangeva, sopraffatta dalla verità che traspariva da ogni parola che gli aveva sentito pronunciare. Era un uomo ferito, insicuro nonostante tutti i suoi successi e incredibilmente fragile.
Michael - lei lo vedeva - si sforzava di trattenere le lacrime anche se i suoi occhioni scuri luccicavano.
L’ultima cosa che avrebbe voluto era fargli del male. Non poteva tradirlo, non lei. Ogni cellula del corpo della persona che aveva di fronte glielo stava urlando a gran voce.
«Solo Mike: un ragazzo come tanti che sta davanti a una ragazza meravigliosa e le sta domandando un po’ d’amore. Una cosa così preziosa che, anche con tutti i soldi del mondo, non sono mai riuscito ad avere veramente.»
Nell’attimo in cui Aura si alzò sulle punte per raggiungere la bocca di Michael nel tentativo di trasmettergli quell’amore che stava cercando tanto disperatamente, comprese che sarebbe stato un viaggio tutto in salita. Aveva paura, una paura tremenda, ma probabilmente anche quella, alla fine, ne sarebbe valsa la pena. 

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Capitolo 11
*** For this good love I’m receiving I’ll go anywhere Just as long as you are there ***




 
Michael camminava lentamente attraverso la cucina per raggiungere Aura che lo stava aspettando in salotto. Le aveva fatto visitare il ranch nel pomeriggio e, dopo aver goduto del magnifico tramonto californiano dalla collina ai margini orientali del parco, avevano fatto ritorno alla villa.
La maggior parte dello staff del Dangerous Tour aveva levato le tende come ogni sera; restavano solo cinque o sei persone che abitavano troppo lontano per poter andare e tornare in tempo e che, per questo, avevano preso residenza temporanea nella depandance del ranch, dove di solito Michael si rintanava per provare nuovi passi di danza, scrivere o semplicemente estraniarsi per un po’ dal cicaleccio solito di quel porto di mare.
Il suo angolo di pace era momentaneamente indisponibile, ma quando si affacciò silenziosamente all’ingresso del salotto e vide Aura con lo sguardo perso sulle tante foto appese al muro – quelle che lo ritraevano con alcune delle celebrità che aveva incontrato nella vita –, si rese conto che non aveva bisogno della depandance se lei era lì con lui. Auralee era il suo paradiso. 
Michael la scrutava in silenzio; più che altro la contemplava, totalmente inebetito dalla bellezza pura e semplice di quella ragazza che, chissà come e chissà quando, si era trasformata nella sua più grande debolezza.
«Com’è conoscere tutte queste persone famose?» la domanda lo prese alla sprovvista, credeva di essere stato così silenzioso da non farsi sentire.
«Lo so che mi stai spiando da qualche minuto…» continuò Aura melliflua, rispondendo ai taciti pensieri dell’uomo.
Sempre lentamente, Michael si mosse per avvicinarsi di più a lei, che era rimasta immobile di fronte alla credenza bianca con i pomelli in Swarovski – che aveva senza dubbio riconosciuto – e teneva in mano la foto che lo ritraeva con Brooke ai Grammy’s del 1984.
«Non ti stavo affatto spiando» sussurrò, sicuro che da quella distanza sarebbe riuscita a sentirlo. Ormai era così vicino che poteva toccarla, cosa che fece, alzando le mani sulle sue spalle per poi stringerla in un abbraccio. «Ti stavo solo guardando cercando di convincermi che non sei un sogno, che sei qui davvero.»
Quando aveva visitato per la prima volta quel posto che poi sarebbe diventato Neverland – la trasposizione materiale di tutti i suoi sogni –, e aveva messo gli occhi su quel camino, non aveva avuto dubbi: intorno a esso avrebbe trascorso i momenti più felici, quelli più veri, quelli unici che gli avrebbero riempito la vita. Ogni tanto gli era capitato di perdersi con lo sguardo tra le fiamme scoppiettanti, immaginando di esservi seduto vicino, con la donna giusta tra le braccia e magari, più in là, con qualche paio di piedini scalpiccianti che gironzolavano intorno a loro; in quel momento, mentre teneva Aura stretta a sé, il viso di quella donna con lui davanti al camino – nella sua mente senza lineamenti e identità – assunse lentamente, ma inesorabilmente, i suoi bellissimi connotati. 
Sarebbe stato volentieri così per l’eternità, perché completo come in quell’istante non si era mai sentito. Non c’era stadio gremito, folla urlante, premio o cifra che avrebbe mai potuto reggere il confronto con le emozioni che provava: anche solo un attimo di lei, valeva tutto l’oro del mondo.
Improvvisamente, però, un brontolio sospetto ruppe il silenzio pacifico che era calato nel salotto.
«Hai fame, tesoro? – le chiese Michael, sorridendo e invitandola a voltarsi per guardarlo – La cuoca dovrebbe aver già preparato qualcosa per noi prima di ritirarsi.»
Lo aveva specificato, non sapeva nemmeno lui perché, e ad Aura la cosa non era sfuggita, le si leggeva nello sguardo leggermente confuso.
Prima di ritirarsi.
«Ho pensato che sarebbe stato carino restare un po’ insieme senza scocciatori, non ci vediamo da un po’…»
Aveva deciso senza curarsi se le avrebbe fatto piacere stare da soli. Aveva dato per scontato che anche lei lo avrebbe desiderato, e ora tentava di giustificare la propria scelta senza nascondere l’impaccio e l’imbarazzo: era tutto inutile, non era affatto bravo nelle questioni amorose.
Però, per l’ennesima volta, la ragazza lo sorprese: mentre mentalmente lui cercava un altro modo di scusarsi vide il viso di Aura aprirsi in un delicato, luminoso sorriso. Il rossore su quelle guance morbide era un chiaro indizio della sua timidezza – adorava quel lato di lei, molto simile al proprio –, ma gli accarezzò una guancia con il tipico sguardo adorante che gli riservava sempre e disse:
«Sono felice di passare del tempo insieme a te. Non vedevo l’ora.»
 
***
 
Non era la prima volta che Aura stava da sola con Michael e, pur essendo stata sempre piuttosto timida, non si era mai sentita in imbarazzo… prima di quella sera.
Non provava disagio, ma non riusciva comunque a rilassarsi come al solito.
Forse era per quei profondi occhi scuri che, dall’altra parte del tavolo, la osservavano, registrando ogni suo gesto, ogni suo sguardo; o molto più probabilmente era colpa dell’effetto che quegli occhi avevano su di lei, sul suo corpo, sulla sua mente. Si sentiva rapire, annegare in essi. Ogni sua cellula rispondeva con una reazione non solo mentale ed emozionale, ma anche – e soprattutto – chimica che le impediva di respirare normalmente.
Stavano cenando in cucina, così come aveva deciso Aura, ed erano seduti uno di fronte all’altra. Dopo i primissimi attimi, pregni di un leggero imbarazzo – forse causato anche dal suo quasi abbandono che aveva agitato non poco Michael –, erano entrambi riusciti a tornare quelli di sempre, sebbene sopra le loro teste aleggiasse una cappa indecifrabile, una tensione incomprensibile che li portava per lunghi istanti a fissarsi senza dire una parola.
Mentre l’uomo raccoglieva con la forchetta il cibo dal piatto, un paio di ciocche scure sfuggirono alla coda e gli scivolarono davanti al viso; Aura dovette trovare qualcosa da dire per contrastare l’irrefrenabile voglia di alzarsi, raggiungerlo e perdere le mani in quei ricci neri, come tante volte aveva già sognato di fare. Il suo corpo reagiva a Michael in un modo che mai aveva sperimentato in vita sua, e più passava il tempo con lui, più quelle sensazioni s’intensificavano rendendola schiava di qualcosa che non aveva mai imparato a controllare.
«Non hai risposto alla domanda che ti ho fatto prima…» disse, inforcando un pezzo di enchiladas e portandoselo alla bocca.
«Quale domanda?» le chiese lui, con l’ombra di un sorriso sul volto. Non seppe decifrare bene la sua espressione, ma poteva giocarsi il negozio che era pensieroso. Per un momento si sentii in colpa per essere stata così egoista, quel pomeriggio; per averlo messo di fronte a una colpa che fondamentalmente non era sua e averlo fatto soffrire. Si sarebbe presa a schiaffi, ma ormai era andata così; avrebbe fatto di tutto per cancellare quella preoccupazione dal suo volto.
 
Non diamo mai per scontato il pensiero altrui:
l’animo umano è una scoperta senza fine.
 
***
 
«Oh, ti riferisci alla domanda sui personaggi famosi?» le disse poi, ricordandosi improvvisamente.
Non riusciva a connettere normalmente, purtroppo: il connubio Aura–cibo era senza dubbio il più sensuale che avesse mai avuto occasione di testare, e non era mai stato capace di rapportarsi naturalmente con certe sensazioni. Le rare volte che gli era capitato di arrivare così in là con una donna aveva finito con lo scappare, terrorizzato da ciò che non riusciva a controllare; il problema era che, anche in quel momento – mentre un’ignara Aura se ne stava di fronte a lui a mangiare cibo messicano, guardandolo con quegli occhi verdi che lo stendevano – il suo primo istinto era la fuga.
Più la osservava, più la studiava, più quella donna lo rendeva succube di emozioni che non aveva mai avuto il coraggio di affrontare; aveva sempre scelto di ignorarle, di soffocarle, ma da lei, da Aura, non avrebbe potuto scappare, era troppo tardi ormai: il dolore causato dalla sua assenza avrebbe superato di gran lunga la paura di amare e lasciarsi amare che provava, uccidendolo.
Si decise a prendere un respiro, nel tentativo di regolare i battiti del cuore che minacciavano di portare troppo presto allo scoperto i suoi pensieri. Le sorrise, come sapeva che a lei piaceva, e prese dal piatto un altro boccone senza però addentarlo.
«Beh, vedi… la maggior parte delle celebrità che ho conosciuto hanno fatto parte della mia vita da molto prima che diventassi famoso io stesso: Elizabeth Taylor, Liza Minelli, James Brown, Stevie Wonder, Ray Charles… erano i miei idoli. È davvero fantastico, davvero un onore per me averli conosciuti e poterli adesso chiamare amici.» Fece una breve pausa per prendersi il tempo di ammirare Aura rapita dalle sue parole: era meravigliosa.  
«Alla fine di tutto, comunque, la cosa più emozionante del conoscere dei personaggi noti arriva quando ti rendi conto che non sono molto diversi da te, che sono dei semplici esseri umani, con i loro difetti, i loro pregi e l’unica differenza che vi distingue è che tu puoi andare al supermercato e loro no.»
Probabilmente Michael stava parlando di se stesso più che degli altri, e percepì come una muta comprensione da parte di Aura, che gli sorrise pulendo gli ultimi rimasugli dal piatto per poi bere qualche sorso di acqua.
«Non che tu ti perda chissà cosa: i supermercati nella maggior parte dei casi sono sporchi e troppo affollati, credimi.» Sussurrò, continuando a sorridergli. «E quello che cerchi non lo trovi mai.»
«Quello che cerco io ce l’ho già: è davanti a me in questo momento.»
Michael udì le parole uscire dalla sua bocca con una tale semplicità e naturalezza che non gli sembrò neanche vero. Non era certo abituato a esternare in quel modo i propri sentimenti, sempre per colpa della sua riservatezza che troppe volte gli aveva impedito di viversi veramente determinati rapporti.
Lasciarsi andare, con Aura, stava diventando incredibilmente facile, come respirare, come ballare… come scrivere canzoni.
 
***
 
Stavano rientrando alla villa dopo aver smaltito le enchiladas con una bella camminata al chiaro di luna.
Fino a quel momento tutto era stato perfetto e Aura si sentiva così felice che non avrebbe mai voluto andare via; odiava pensare che a breve tutto sarebbe dovuto finire – anche se, in effetti, non sapeva nemmeno come avrebbe fatto ritorno in città, dato che Miko sembrava sparito dalla circolazione.
«Hai ancora fame? Hai sete? Hai bisogno di qualcosa?» le domandò Michael mentre oltrepassavano la porta di casa.
«No, grazie, per ora sono a posto così.» rispose guardandolo nella penombra. Non avevano ancora acceso le luci dell’ingresso, ma gli occhi scuri di Michael erano così grandi e luminosi da essere perfettamente visibili anche al buio.
Aura si sentiva un po’ stanca, dopo tutte quelle emozioni e quei chilometri all’interno del ranch, ma non aveva il coraggio di aprire bocca per richiedere lo chauffeur che l’avrebbe riaccompagnata a Los Angeles: il suo corpo già soffriva al solo pensiero di allontanarsi da quello di Michael; inoltre, temeva che una volta tornata alla propria realtà, le occasioni di rivederlo si sarebbero fatte sempre più rade fino a scomparire del tutto. Non voleva svegliarsi da quel sogno.
«Sei stanca?» le domandò allora, sussurrando quasi, e avvicinandosi di più a lei.
Il flebile chiarore che dall’esterno entrava nella villa forse l’avrebbe aiutata a sfoggiare un po’ di audacia, anche se in verità era tutto fuorché coraggiosa. Quei ricci… quelle labbra erano così vicine e, in fondo, avevano già abbattuto tanti muri, perché quell’ultimo passo era così difficile da compiere?
Fin dalla prima volta aveva provato una certa soggezione nei suoi confronti, quasi reverenziale. Era sempre in preda a qualche strana ansia, in primis quella di essere invadente, di prendersi libertà e confidenze che non le competevano; ma si erano già baciati, pensò, che male ci sarebbe stato se avesse alzato una mano, magari lentamente, per affondare le dita in quei capelli neri così invitanti che la tentavano da settimane?
Prese un respiro, mentre ancora lui la fissava in attesa di una risposta, e decise che non avrebbe più riflettuto. Non ci avrebbe più pensato, avrebbe semplicemente agito.
Il braccio fluttuò con lentezza esasperante verso l’alto per appoggiarsi sulla spalla di Michael; la mano già cercava i primi ricci scuri, ormai stanca di attendere oltre quel contatto tanto desiderato.
«No, sto bene» gli sussurrò in risposta, e sapeva di aver assunto quell’espressione adorante che la faceva sentire fin troppo vulnerabile; ma cosa poteva farci se lui era così incredibilmente perfetto?
 
***
 
Michael smise di respirare nell’istante in cui le dita di Aura s’insinuarono tra i suoi ricci; quando poi quelle stesse dita scesero ad accarezzargli il viso e sentì la voce delicata della ragazza dire «No, sto bene», credette di non reggere a tutte quelle emozioni.
Si sentiva un ragazzino alle prime armi e, andava detto, nonostante i suoi trentatré meravigliosi anni, era proprio quello: un giovane adolescente innamorato che si apprestava a vivere la sua prima vera storia d’amore.
Non aveva la benché minima idea di cosa fare, di come cominciare e, soprattutto, di come si sarebbe conclusa quella serata, ma aveva deciso che non si sarebbe fatto più mille problemi.
Le donne lo consideravano un sex symbol – e lui proprio non aveva mai capito perché, men che meno in quella situazione, in cui una sola carezza data dalla persona giusta e al momento giusto era stata in grado di stenderlo definitivamente –, doveva decidersi a fare l’uomo.
Scese piano verso il suo viso, appoggiando le labbra a quelle di lei. Aveva già potuto sperimentare quanto i suoi baci fossero perfetti, quanto riuscisse a sentire quel contatto in profondità, quanto lo facesse stare bene, e sperò che per Aura fosse lo stesso.
Si ritrovò improvvisamente sopraffatto dalla voglia di renderla felice, come mai aveva desiderato rendere felice qualcuno in vita sua. La strinse forte a sé cercando di trasmetterle almeno in parte quello che stava provando e lei lo lasciò fare, lo accolse. Lo stava scegliendo ancora.
Non avrebbe più permesso che Aura desiderasse ancora allontanarsi da lui, non avrebbe più lasciato aperta la porta con la paura che lei scappasse. Voleva darle quello che aveva sempre cercato, desiderava lui stesso trovare quel qualcosa che gli era sempre mancato:
un camino, dove erano arrivati, tra i baci e le carezze;
il fuoco scoppiettante, che li stava scaldando, tra la paura di non essere abbastanza, l’imbarazzo di scoprire nuove sensazioni e la gioia di comprendere quanto la loro inadeguatezza fosse solo frutto dell’inesperienza;
e la donna giusta tra le braccia, che lo avrebbe completato, come l’ultima tesserina di un puzzle meraviglioso, che avrebbe condiviso con lui i momenti più felici, quelli più veri, quelli unici che avrebbero loro riempito la vita.
 
 
 
For this good love I’m receiving
I’ll go anywhere
Just as long as you are there

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Capitolo 12
*** I'll be loving you, that's what I want to do ***


 

 

Gli occhi scuri spalancati su un mondo nuovo,
sensazioni a cui nemmeno le fantasie più dolci avrebbero saputo rendere giustizia.
Emozioni così vivide e potenti da poterle toccare con mano.
É questo l’amore?
Accarezzo la tua figura con uno sguardo che, ne sono certo, non ho mai indossato prima,
mentre sospiri appena nel tuo sonno delicato e ristoratore.
Sorridi, hai il volto serafico rilassato e abbandonato a una placida tranquillità.
L’insonnia che di solito mi tortura non è più un peso,
l’accolgo con gioia se grazie a essa posso starmene qui
a contemplare la tua adorabile vulnerabilità notturna.
Mi stai sognando?
Soffice fiocco di neve su cui temevo di posare le mani
perché non avrei sopportato l’idea che potessi scioglierti tra le mie dita,
ti stai rivelando invece una roccia.
L’amore non rende deboli come in molti dicono, l’amore fortifica.
Ci rende capaci di azioni coraggiose, di scelte difficili.
Sono sveglio, ma ti sto sognando.
Sogno i tuoi occhi verdi determinati quando hai messo da parte il tuo dolore per non causare il mio.
Sono stato egoista, me ne rendo conto.
Ho preferito un noi complicato, ad un io amaro e desolato.
È vero, sono abituato a soffrire, la mia vita è un susseguirsi di lacrime e sorrisi.
Di enormi folle e solitudini interiori.
Eppure, io lo so, sono sicuro come è vero che il sole sorge ogni mattina,
con la tua assenza non potrei mai fare i conti.
Farebbe sempre male, il primo giorno come l’ultimo della mia esistenza.
Io…
 
 
Michael scorse un movimento nel letto, chiuse lentamente il suo piccolo quaderno consunto – quello che teneva solo per sé, quello dei pensieri notturni disconnessi, a volte deliranti – e si alzò dalla poltrona, voltandosi brevemente giusto il tempo di posare sul tavolino ciò che aveva in mano.
In quegli ultimi istanti il braccio di Aura aveva vagato nel sonno, sfiorando il lenzuolo dove avrebbe dovuto esserci lui; non trovandolo aveva faticosamente aperto gli occhi.
Ora lo stava fissando nel buio, difficile non percepire quel verde smeraldo penetrante e straordinariamente caldo. 
«Cosa ci fai sveglio?» gli chiese, la voce impastata dal sonno e da quel velo d’inquietudine che probabilmente le aveva causato non facendosi trovare al suo fianco.
Con una mano l’uomo alzò il lembo della coperta e vi si infilò sotto; si avvicinò ad Aura prendendola tra le braccia, lasciando che appoggiasse il capo al proprio petto, e la strinse con tutta la forza di quei sentimenti da cui aveva deciso di lasciarsi guidare totalmente.
«Io, beh, non sono una persona che dorme molto» le sussurrò, accarezzandole i capelli e comprimendosi un po’ di più al suo corpo morbido. «Non ci ho mai fatto caso veramente, ma credo di non riuscire a riposare più di due ore a notte.»
«E come mai?» la domanda gli arrivò flebile, come se Aura si stesse riaddormentando; gli fece una tenerezza incredibile.
«Dormi tesoro, è ancora notte fonda. Se ancora vorrai saperlo, ti racconterò domani delle mie notti senza sonno.»
Aveva deciso – nemmeno lui sapeva quando – che con lei non si sarebbe nascosto. Non ci sarebbero mai state mezze verità, inconsapevoli omissioni o bugie bianche.
Negli ultimi anni aveva perso poco a poco la fiducia negli altri – erano veramente poche le persone per cui avrebbe potuto mettere le mani sul fuoco. Lo aveva imparato con l’esperienza: buono sì, incosciente no; ma Auralee valeva tutto il coraggio di cui era capace perché sentiva nel profondo del proprio cuore che non lo avrebbe mai tradito.
«Stavi scrivendo una delle tue meravigliose canzoni su quel taccuino?»
Era convinto davvero che si fosse riaddormentata, per cui si stupì non poco di sentirla parlare ancora e soprattutto gli dispiaceva tenerla sveglia con le sue chiacchiere: almeno lei avrebbe dovuto dormire. Pensò un istante alla risposta da dare, poi sorrise nella penombra.
«Più o meno, appunti diciamo. Ora chiudi gli occhi e riposati. Io starò qui, non me ne andrò.»
«Stai così, non mi lasciare. Prova a dormire anche tu, non me ne andrò.»
 
Con lei tra le braccia Michael riscoprì per la prima volta dopo tantissimo tempo cosa volesse dire abbandonarsi completamente a un sonno profondo e sereno.
 
***
 
Quando Aura aprì gli occhi qualche ora più tardi il sole sembrava già alto fuori da quelle mura. Strizzò le palpebre un paio di volte in più nel tentativo di rimettere insieme i pensieri e, soprattutto, cercare di focalizzare la sua attenzione sulla persona che in quel momento le stava accanto.
Michael era coricato su un fianco con il viso rivolto verso di lei; un braccio le cingeva i fianchi, mollemente, una mano stringeva la sua. Respirava piano, profondamente. Dormiva beato con un’espressione angelica dipinta in volto. Aura non poté fare a meno di sorridere a quella vista: era senza dubbio l’immagine più dolce che le fosse mai capitata davanti agli occhi.
Il primo istinto fu quello di avvicinarsi e baciargli le labbra – che la notte precedente si erano rivelate calde, abili e appassionate come non avrebbe potuto immaginare –, ma si rese conto che avrebbe finito con lo svegliarlo e non voleva assolutamente accadesse. Se era vero che di solito dormiva non più di due ore per notte, avrebbe dovuto lasciarlo riposare ora che sembrava così pacifico.
Un po’ se ne compiacque: non era certo da lei peccare di presunzione, ma in cuor proprio sperò che la sua presenza gli avesse infuso una serenità tale da rilassarlo completamente.
Senza compiere movimenti bruschi, cercò di sgattaiolare fuori dal letto nel tentativo di raggiungere il bagno e permettere a Michael di dormire ancora un po’. Quando fu in piedi accanto al letto lui si mosse appena, cambiando leggermente posizione e allungando il braccio nel vuoto lasciato dal suo corpo.  
Aura si ritrovò imbambolata a fissarlo, così come si resta immobili di fronte a un magnifico panorama… un’alba mozzafiato, un tramonto sul mare.
L’uomo che ami che ti sorride felice appena apre gli occhi, come se tu fossi il suo sole.
«Ehi…» sussurrò lui con la voce flebile, disarmante e ancora impastata dal sonno.
«Ehi…» rispose la ragazza, cercando di non preoccuparsi del sorriso beota che sicuramente doveva avere stampato in volto.
«Cosa fai lì impalata? Vieni qui e baciami. Mi avevi promesso che non te ne saresti andata.»
«Una donna deve fare quello che deve fare – sentenziò, fingendo di allontanarsi verso il bagno per poi correre indietro e saltare sul letto –, ma per qualche secondo con te sono disposta a rimandare qualsiasi cosa.»
Lui la strinse forte, facendole dimenticare anche il motivo per cui aveva deciso di abbandonare quel posto che ormai sentiva suo come se lo fosse stato sempre.
 
 Rimanere abbracciati.
A non dire nulla, ma a sentire tutto.
 
«Che cosa ti va di fare oggi?» Michael si era spostato per guardarla negli occhi. «Vuoi andare a fare un giro? Vuoi giocare? Vuoi…» lo sguardo provocatorio e un po’ buffo che le lanciò a quel punto la fece scoppiare a ridere.
«Michael Joseph Jackson! Cos’è quell’occhiata che mi hai dato?» gli berciò contro fintamente indignata, ma continuando a ridere – anche lievemente imbarazzata.
«Quale occhiata, tesoro? Non ti ho dato nessuna occhiata! Volevo solo…» si difese lui, alzando le mani sopra la testa.
«Non fare il finto tonto, signor non–mi–sognerei–mai–di–fare–strani–sguardi–allusori.»
L’uomo l’attirò a sé ridendo a sua volta e iniziando a farle il solletico.
«Perché tu vuoi farmi credere che l’idea di restare qui da soli tutto il giorno, a coccolarci, a ridere, a giocare… ad amarci come stiamo facendo ora non ti alletta nemmeno un po’?»
Eccome se l’allettava!
Non si era mai sentita così leggera e felice prima di allora, avrebbe voluto che quel momento durasse in eterno.
Finse di pensarci su qualche istante, poi lo baciò sulle labbra – la loro bontà era commovente – e gli accarezzò i ricci scuri sui lati, vicino alle tempie.
«Non puoi sapere quanto… – sospirò, sorridendogli dolcemente –, ma tu hai un tour da mettere in piedi e delle persone che contano su di te, sul tuo genio, le tue idee. Non voglio distoglierti dai tuoi impegni, anche se mi piacerebbe rapirti e tenerti sempre con me.»
Michael stava per dire qualcosa, ma lei glielo impedì abbassandosi di nuovo sulla sua bocca per rubargli un altro bacio.
«E, soprattutto, non vorrei che mi vedessero come un ostacolo per la tua carriera. Vorrei che capissero che so stare al mio posto, forse così, con il tempo, non mi guarderanno più con l’occhio storto.»
«Nessuno ti guarda storto! Tu sei la mia ragazza e sono io qui che stacco gli assegni – sorrise appena, piegando il capo –, metaforicamente parlando, per cui…»
Ma Aura non lo stava più ascoltando.
La sua ragazza.
Suonava così stupido a trent’anni, eppure era un sogno.
Il suo sogno.
 
Poco più tardi, quando si decisero a lasciare quel letto, Aura prese dalla poltrona una camicia bianca di Michael e un paio di pantaloni neri della tuta che le aveva preparato; lui indossò il suo pigiama rosso e uscirono dalla stanza per andare a fare colazione.
Quando giunsero in cucina c’era già un po’ di movimento: un paio di tecnici del suono stavano prendendo un caffè, mentre la cuoca preparava qualcosa da mangiare. Miko leggeva il giornale seduto sul divano vicino al camino e Benny parlava al telefono. Si erano aggiunte anche due donne che lei non aveva visto il giorno prima e una di loro doveva sicuramente essere Janet.
Nel momento in cui fecero il loro ingresso tutti smisero di fare ciò che stavano facendo e li fissarono inebetiti, ma Michael, noncurante, la prese per mano e la fece accomodare al tavolo da pranzo per fare colazione insieme. Sembrava stranamente sicuro e a suo agio, cosa che l’aiutò a non curarsi troppo di quegli sguardi estranei.
Qualche minuto dopo, mentre mangiavano in silenzio con l’imbarazzo generale che sembrava non volerne sapere di dissolversi, Aura abbassò il capo sul tavolo e si avvicinò all’orecchio di Michael, sorridendogli mestamente.
«Nessuno mi guarda storto, eh?»
La sola risposta che ricevette fu una carezza sul viso e un bacio sulla guancia; poi le sorrise, in quel suo modo speciale che sapeva farla impazzire.
Dopotutto – pensò allora Aura – chi se ne importa se mi guardano storto!

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Capitolo 13
*** You took away the rain and brought the sunshine ***




 
Aura uscì dalla doccia, dopo esserci stata una buona mezz’ora. Si sentiva piuttosto rilassata e felice, ma quando dovette vestirsi provò un certo disagio: non aveva nulla di pulito con sé. Era partita da Los Angeles insieme a Miko così, di fretta e furia, e non aveva pensato a portarsi un cambio.
Certo, chi avrebbe detto che si sarebbe fermata a dormire da Michael?
Chi avrebbe detto che le cose sarebbero andate come alla fine erano andate?
Prima di salire sull’auto della guardia del corpo di Michael, il giorno prima, il suo umore non era certo da “ti strapazzerei di coccole”; piuttosto, molto più da “adesso io e te facciamo due conti”, per cui non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello l'idea che si sarebbe fermata da lui. Senza contare che, in un certo senso, la voglia di chiarire la situazione era troppo pressante per poter usare un po’ di lucidità.
Risultato: avrebbe dovuto rimettersi la biancheria del giorno prima.
Proprio mentre stava infilandosi gli slip borbottando a mezza voce di quanto ogni tanto facesse le cose senza pensare, qualcuno bussò alla porta.
«Auralee? Sei qui?» era una voce femminile che la stava chiamando, ma così simile a quella di Michael che doveva per forza essere sua sorella.
Avevano scambiato solo due parole in cucina, prima che il padrone di casa si eclissasse nello studio a lavorare e lei decidesse che era giunto il momento di darsi una lavata, e le era sembrata subito una persona molto affabile e dolce, ma non sapeva cosa ci facesse lì e perché la stesse cercando.
«Sì, Janet, arrivo…» infilò velocemente l’accappatoio per non farla aspettare troppo alla porta e andò ad aprirle. Quando se la trovò davanti, per un momento le sembrò di vedere Michael.
Nel loro sorriso c’era lo stesso cuore.
Sul braccio aveva un paio di jeans e quella che aveva tutta l’aria di essere una maglietta, mentre in mano stringeva un sacchettino bianco dal contenuto ignoto.
«Ho portato il kit d’emergenza per gli imprevisti fuori porta!»
Senza troppi preamboli Janet entrò nella camera e ripose sul letto ciò che aveva portato per Aura, sedendosi poi sulla poltrona nell’attesa che la ragazza si vestisse.
Aura la scrutò per qualche istante, leggermente in imbarazzo; sperò che non dovesse prepararsi lì di fronte, mentre lei la guardava?!
«Dai, sbrigati, che oggi ti faccio da chaperon!» la invitò Janet, sdraiandosi mollemente sul letto e sospirando. Aura corse in bagno per liberarsi dell’accappatoio – e di quegli slip usati – ripresentandosi poco più tardi davanti alla sua accompagnatrice occasionale.
«Cosa si fa oggi?» le chiese poi, con entusiasmo eccessivo, sicuramente sfoggiato per coprire il lieve disagio di dover passare il resto della giornata con una persona che conosceva appena.
«Stai tranquilla – la rassicurò infatti Janet, capendo immediatamente cosa frullasse nella testa della ragazza in quel momento –, non mordo e so essere estremamente divertente. Ci divertiremo!»
E così fu.
Mentre Michael lavorava alle prove del suo show, Aura e Janet avevano trascorso tutta la giornata al parco del ranch accompagnando un gruppo di bambini provenienti dall’ospedale pediatrico di Encino, luogo in cui parte della famiglia Jackson viveva ancora – Janet compresa.
Avevano giocato con loro, riso e ballato fino a farsi mancare il fiato; con alcuni avevano ingaggiato una battaglia di palloncini d’acqua – perdendo miseramente –, mentre con altri avevano assistito a uno spettacolo di marionette organizzato apposta per l’occasione.
La cuoca aveva allestito una super merenda per tutti nel prato adiacente la villa e quando le ragazze videro i bambini stanchi a sufficienza, decisero che era giunto il momento di fermarsi.
 
***
 
Michael uscì dal teatro dopo qualche ora di lavoro ininterrotto: avrebbe dovuto recuperare ciò che aveva lasciato a metà il giorno prima, se non voleva sentire le lamentele di John quando sarebbe rientrato da Chicago.
Stava dirigendosi verso la villa alla ricerca di qualcosa da mangiare – dato che la cuoca sembrava essersi dimenticata della loro presenza nel ranch e li aveva lasciati anche senza pranzo – quando, sorpassando i garage, l’occhio gli cadde sul prato adiacente dove un gruppo di bambini, Janet e Aura sedevano, ridendo e mangiando qualcosa tutti insieme in allegria.
Era senza dubbio un quadretto meraviglioso, e vedere Aura imboccare teneramente un bambino con il braccio rotto gli fece provare nel cuore una dolcezza incredibile, che per un istante gli spezzò il fiato.
«Michael, Michael!» abbassò lo sguardo verso lo scricciolo che gli stava pizzicando i pantaloni con le manine paffute e lo stava richiamando a gran voce, tanto che anche gli altri dal prato si voltarono a guardare. Avrà avuto forse cinque anni, a dire tanto, e gli sorrideva come se avesse scovato il suo regalo di Natale più bello. «Vieni a mangiare con noi! Vieni! Vieni!» continuava, tirandolo con tutta la forza delle sue braccine.
L’uomo si lasciò trascinare di buon grado, senza neanche fargli fare troppa fatica. Prima ancora di giungere al prato lo prese in braccio e gli sfiorò la guancia rosa con un bacio, cercando e trovando subito lo sguardo di Aura che lo fissava estasiata.
Aveva su di lei lo stesso effetto di cui lui era vittima quando la vedeva? A giudicare da quegli occhi incredibilmente verdi spalancati e dal suo sorriso disarmante poteva dire di sì.
«Cosa state combinando voi qui?» domandò, voltandosi a guardare tutti i bambini presenti.
Uno di loro, forse il più intraprendente, si alzò subito, raggiungendolo e accarezzandogli una mano.
«Abbiamo giocato con i palloncini d’acqua e abbiamo preso in braccio Bubbles, che faceva i dispetti ad Austin rubandogli il cappello; poi abbiamo ascoltato Smooth Criminal e Janet ci ha fatto vedere i tuoi passi. Sai che sono riuscito a farli bene, proprio come li fai tu? Guarda!» sentenziò, imperioso e gongolante, mettendosi a ballare lì, in mezzo all’erba, tutto fiero di quello che aveva imparato.
«Ma sei davvero bravissimo! Penso che quando sarai un po’ più grande ti farò venire a ballare nei miei video!» gli disse regalandogli un occhiolino complice e scompigliandogli i capelli. Il bambino guardò i suoi compagni, poi Janet e Aura, sfoggiando uno sguardo orgoglioso e felice che fece sentire Michael così bene che quasi si commosse.
«Avete sentito? Ballerò con Michael Jackson!» a quell’ultimo annuncio i bambini si scatenarono in grida e salti eccitatissimi, alzandosi e correndo in tondo intorno alla piazzola allestita per la merenda.
I tre adulti che stavano assistendo alla scena si guardarono l’un l’altro sorridendo soddisfatti.
«Basta davvero così poco per fare un bambino felice…» sussurrò Michael. Aura, che nel frattempo gli si era avvicinata, gli accarezzò la guancia dove poi posò un bacio delicato.
«Come sta andando il lavoro?» gli domandò poi con noncuranza, come se quei gesti d’affetto fossero ormai familiari e abituali, senza rendersi conto di cosa gli scatenavano nel cuore. Cercò di darsi un contegno e di non lasciarsi sempre guidare dalla sua immancabile timidezza, prese un respiro e rispose sorridendo.
«Oh, il lavoro sta andando davvero bene, stiamo facendo grandi cose e siamo molto carichi.»
Si lanciò anche in alcune anticipazioni dello spettacolo, che in verità avrebbe voluto tenere per sé – vista pure la presenza di sua sorella che spesso “prendeva in prestito” le sue idee, soprattutto quelle più geniali –, ma aveva bisogno di parlare e sciogliersi, o avrebbe finito con l’imbarazzarsi e inventare una scusa qualunque per eclissarsi con Aura da qualche parte. E sapeva bene che non avrebbe dovuto: c’era ancora del lavoro da sbrigare e voleva tenersi il meglio per quella sera.
 
***
 
Janet, dalla prima volta che aveva visto Michael insieme a quella ragazza, aveva capito che qualcosa in suo fratello era cambiato. Non era qualcosa di descrivibile correttamente, ma le era bastato vederlo entrare in cucina in pigiama mano nella mano con Aura, per comprendere quanto lei gli facesse bene. Era sicuramente ben lontano dall’acquisire la sicurezza di cui aveva sempre avuto bisogno nella vita privata – ché di certo, nella sua arte, di sicurezza ne aveva da vendere –, ma sapeva che quei sorrisi e quelle caste carezze che si erano scambiati erano solo l’inizio di un percorso che avrebbe portato a quel suo fratello speciale – la persona più bella e vera che avesse mai conosciuto – un po’ della felicità che aveva sempre meritato e mai era riuscito a toccare con mano.
Aveva soltanto una paura, un timore lontano a cui non sapeva dare nome. Era quasi un presentimento, una sensazione recondita che non la faceva stare tranquilla.
Tutti intorno a Michael gli volevano bene e desideravano ogni bene per lui, ma in quel loro mondo pazzo e incasinato c’era anche tanta avidità e tanto interesse personale, e suo fratello era visto molto spesso come la classica gallina dalle uova d’oro. Così, guardandoli mentre si sorridevano come due adolescenti alla prima cotta – e fondamentalmente erano proprio questo –, janet si chiese quanto quella felicità di cristallo sarebbe durata.
Sperò per sempre, ma non poteva affatto giurarci. 

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Capitolo 14
*** I'm from a world of disappointments and confusions but I want her to be mine ***


Aura aveva trascorso quella giornata a Neverland nella più totale spensieratezza e felicità. Erano state ore davvero stupende, e anche se Michael era stato impegnato praticamente sempre non aveva mancato di far notare la sua presenza. Lui c’era, seppur non fosse lì personalmente ad ammaliarla con quel suo sguardo puro e meraviglioso.

Era ormai l’imbrunire sulle colline della Sycamore Valley, Janet era dovuta partire per tornare al lavoro – nemmeno a dirlo anche lei era una specie di genio della musica, certo non come il fratello… -, e Aura stava aspettando di capire cosa Michael avesse in mente per quella sera. Era stato tutto talmente perfetto la notte precedente che non poteva minimamente immaginare qualcosa di ancora migliore. E infatti…

«Michael, sei qui? Sono tornato…»

Un uomo esile e tutto incravattato fece il suo ingresso nel grande salone. Era entrato a passi veloci e sicuri, ma vedendola inchiodò di colpo assumendo uno sguardo affettato: quei due occhi piccoli e curiosi la mettevano in soggezione.

«Michael è a fare la doccia, arriverà tra poco.» Aura non sapeva cos’altro dire. Come avrebbe dovuto comportarsi con quel perfetto sconosciuto? Sul momento decise di sfoggiare la sua proverbiale buona educazione e si dipinse un sorriso tirato sul volto.

Quell’uomo le piaceva proprio poco…

«Comunque, piacere di conoscerla, io sono Auralee Mitchell… – sospirò, cercando di non dare a vedere il nervosismo – un’a…, la ragazza di Michael.»

Aveva fatto bene a presentarsi così? Dopotutto lui l’aveva definita la sua ragazza, per cui qual era il problema? Eppure, quando intercettò del misterioso stupore nello sguardo affilato dell’uomo, una bruttissima sensazione le causò dei brividi lungo la spina dorsale.

«Piacere mio, Auralee. Io sono John Branca, il curatore amministrativo di Michael, penso che ti abbia già parlato di me.»

La ragazza finse di pensarci per qualche istante, essendo praticamente certa di non averlo mai sentito nominare, ma non fece in tempo a dire qualcosa: Michael fece il suo ingresso in cucina, sorridente e rilassato come lei amava vederlo, e li interruppe.

Grazie a Dio!

«Oh – proruppe il cantante vedendo John ancora sulla porta – sei tornato! Come è andata a Chicago? Perché resti lì sulla soglia? Vi siete già presentati? – aggiunse, avvicinandosi ad Aura e poggiandole con naturalezza il braccio sulle spalle – Lei è Aura, la mia…»

«…ragazza. Sì, Auralee… me lo stava appunto dicendo. Interessante scoperta, direi, Mike. Ti lascio single e, al mio ritorno dopo solo un paio di giorni, ti ritrovo… fidanzato.»

La ragazza rimase agghiacciata dal tono di voce stranamente distaccato che quel John aveva usato con Michael; considerato il ruolo che ricopriva e il modo gentile e confidenziale che il cantante aveva usato con lui, dovevano essere amici oltre che collaboratori. Si sarebbe aspettata molto più calore, invece sembrava seccato, quasi irritato.

E chiaramente Michael aveva avuto la stessa impressione.

«È tutto ok, John? Ti trovo leggermente sconvolto, stai bene?» gli chiese infatti facendosi più vicino e poggiandogli poi una mano sulla spalla.

«Sì, sì.» rispose con un filo di voce, scuotendo la testa e guardandolo poi con un sorriso appena accennato sulle labbra sottili. «È che in aeroporto ci sono stati dei ritardi e sono stanco morto. Sono in viaggio da un giorno interno…»

Benché Aura non si fosse bevuta quel repentino cambio di registro da parte di quell’uomo all’apparenza un po’ ambiguo, fece buon viso a cattivo gioco. In fondo, lei non lo conosceva affatto e se Michael si fidava si sarebbe fidata anche lei.

«Stavamo per mangiare un boccone, signor Branca. Vuole unirsi a noi?» gli chiese quindi, melliflua.

«No – le rispose prontamente, regalandole un sorriso quasi credibile –, ma grazie. Penso che approfitterò come al solito della camera degli ospiti, mi farò una doccia e andrò a dormire. Sono davvero a pezzi.»

Fece per voltarsi e congedarsi, ma tornò subito sui suoi passi.

«Sempre che la camera non serva a lei…» la domanda inutile e fuori luogo fece arrossire Michael, che gli sorrise leggermente a disagio e si limitò a un veloce «Non preoccuparti, dorme con me.»

Idiota.

Aura si convinse che la prima impressione era sempre quella giusta. Non sbagliava mai sulle persone e di certo quel John non gliela stava raccontando giusta.

 

***

Michael e Aura stavano cenando alla penombra del camino; avevano deciso che si sarebbero serviti del tavolino vicino al divano e avrebbero mangiato seduti sul grande tappeto.

In realtà era stato lui a proporlo, aveva sempre preferito starsene comodo piuttosto che a tavola, tutto impettito e composto. Aura apprezzò immediatamente quel piacevole cambio di abitudine, lo adorava spontaneo e naturale: era il Michael che l’aveva colpita e fatta innamorare.

Parlavano amabilmente del più e del meno quando alla ragazza tornò in mente lo strano comportamento di John.

«Che tipo è il tuo collaboratore?» gli aveva chiesto improvvisamente. «Mi è sembrato un po’ schivo, un po’… particolare, ecco.»

«Di solito è molto più socievole di così, tesoro. Scusalo…» le rispose, rubandole con un sorriso l’ultimo pezzo di pollo dal piatto. «È che probabilmente è davvero molto stanco, è stato in Illinois a… – s’interruppe brevemente, forse nell’incertezza di stare per dire qualcosa che non avrebbe dovuto, poi però riprese – a discutere i termini dell’affidamento di sua figlia.»

Chiaramente Aura non seppe cosa dire, la vide cambiare improvvisamente espressione e farsi più morbida, dispiaciuta. Era vero, John si era comportato in modo un po’ insolito, ma non era mai stato maleducato o distaccato: sicuramente quel momentaneo cambiamento c’entrava qualcosa con i mille pensieri che gli ronzavano in testa.

«Ho capito.» sussurrò la ragazza, accennando un sorriso comprensivo. «Mi dispiace, queste cose sono sempre difficili. Chissà quella povera bambina…»

Michael conosceva Jessica. John l’aveva portata spesso a Neverland negli ultimi tempi, forse anche per distoglierla da tutta la tensione che sicuramente respirava normalmente. Era una ragazzina davvero intelligente e sveglia, e lui le era molto affezionato. Il cantante sperò in cuor suo che tutta quella situazione potesse risolversi presto per il meglio, soprattutto per lei.

Prima di chiudere quell’argomento in un cassetto – almeno per quella sera – si ripromise di parlare presto con il suo amico, per chiedergli come fosse andata e offrigli il suo sostegno fraterno.

«Gli devi volere molto bene, vero?» la domanda gli arrivò inaspettata, ma aveva imparato presto che Aura riusciva a leggerlo come poche altre persone erano in grado di fare, per cui si limitò a guardarla con occhi adoranti.

«Sì, certo. È un buon amico, oltre che valido appoggio professionale. Mi conosce, mi da sempre ottimi consigli. Lui sa cosa è meglio per me…»

 

***

 

John aveva appena fatto una doccia lunga e ristoratrice. Si era rilassato quanto necessario a permettergli un lungo sonno, quella notte, ma era ben lontano dall’essere sereno.

La situazione con la sua ex moglie era sempre più tesa – anche se, grazie a un giudice magnanimo, gli era stata concessa la possibilità di vedere Jessica una volta al mese –, e in aggiunta a tutti i problemi che già doveva affrontare era arrivata anche quella ragazza di cui credeva di essersi sbarazzato qualche sera prima!

“Chi dice donna, dice danno.”

Durante la sua vita lo aveva provato sulla sua pelle più e più volte, e certamente con Michael le cose non sarebbero andate diversamente. Fino a che si trattava di amiche di qualche sera, poteva anche accettarlo, ma un brivido di terrore lo aveva percorso da capo a piedi quando l’aveva sentita dire “Sono la sua ragazza”. Come se fosse possibile per uno come Mike avere una partner fissa!

Quella morettina non sapeva nemmeno cosa significasse stare al fianco di una popstar – della Popstar!

Non si rendeva conto del guaio in cui si era ficcata, e lui era certo che, presto o tardi, quella storia sarebbe finita molto male per tutti, mettendo a repentaglio l’intera vita di Michael, non solo la sua carriera.

John fissò la sua immagine riflessa nello specchio e uno strano ghigno gli deformò il volto.

«Non ti permetterò di arrivare tanto in fondo da poter rovinare una vita di duro lavoro, ragazzina. Se Michael non aprirà gli occhi, lo farò io per lui.»

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Why, why, tell 'em that it's human nature Why, why, does he do me that way ***



 
QUALCHE TEMPO DOPO…
 
Non era mai stata così bella la sua vita, prima di Michael. Finalmente, per la prima volta da quando si era trasferita a Los Angeles, quel sole perpetuo che nei giorni di malinconia era solito prendersi gioco di lei, non le faceva più male. Finalmente, il suo cuore viveva in uno splendore perenne. La luce che Michael era stato in grado di portare sui suoi giorni – anche quelli più banali, o quelli più monotoni in negozio – l’aveva rimessa al mondo.
Era diventato meraviglioso persino il giorno di pulizie. Passare lo straccio a terra o spolverare i suoi preziosi mobili non aveva mai avuto un appeal così forte; sì, perché, mentre rassettava, spostava e rendeva immacolati quei pezzi di antiquariato pregiato, ascoltava quella voce meravigliosa… e la mente vagava verso i giorni spensierati e felici accanto a lui. C’erano momenti in cui riusciva quasi a sentire le sue dita affusolate sfiorarle le guance; quelle labbra morbide l’avevano marchiata così profondamente che ancora poteva percepire il loro tocco in quegli angoli del proprio corpo in cui si erano posate.
Non c’era molto da fare, Michael la possedeva completamente, anche e soprattutto quando non era con lei. Le aveva rapito non solo il cuore, ma anche mente, corpo e spirito; con ogni suo piccolo gesto si era assicurato ogni parte di lei, per sempre.
Dopo quella settimana fantastica vissuta a stretto contatto, Aura era stata costretta suo malgrado a fare ritorno in città: le bollette chiamavano e il negozio non si sarebbe gestito da solo. La vita vera la stava chiamando e ignorarla non era più possibile.
Non che la vita a Neverland con Michael le fosse sembrata irreale, tutt’altro, ma durante quell’incantevole vacanza aveva provato emozioni così forti e nuove – a cui non era proprio abituata – che aveva finito con il sentirsi quasi la protagonista di una favola.   
Poi, però, le favole finiscono. La bellissima carrozza torna a essere una zucca, gli eleganti destrieri bianchi dei topolini e la principessa se ne torna alla sua bettola, nella speranza che il bel principe abbia trovato la scarpetta e, prima o poi, arrivi a rapirla per vivere insieme felici e contenti.
Erano passate settimane da quei giorni a Neverland; ne era trascorsa una da quando lo aveva rivisto, lì a Los Angeles.
Michael era fuggito dalle prove per il tour, non senza qualche difficoltà, ed erano stati tutto il pomeriggio a Venice. Si era divertita nel vedere come si camuffava quando desiderava passare qualche ora in mezzo alla gente comune – meno divertente era stato il momento in cui un paio di ragazze lo avevano riconosciuto, ma grazie a Miko la cosa si era risolta velocemente. Avevano cenato con hamburger e patatine nell’appartamento di Aura, come la prima volta, chiudendo per una notte il mondo fuori dalla porta. Era tutto più bello quando lui era con lei. La sua vita assumeva forme e colori che Aura non immaginava neanche esistessero. Quando si guardavano negli occhi e lo vedeva illuminarsi di quel suo sorriso pulito si sentiva completa.
La parte peggiore arrivava quando permetteva alle sue insicurezze di affollarle la mente; quando lasciava che le differenze tra loro s'insinuassero nelle crepe del suo fragile ego; quando vedeva affiorare in superficie l’espressione contrita di John Branca e il sorriso tirato con cui l’aveva accolta.
Sapeva quanto Michael gli volesse bene e non voleva certo immischiarsi nel loro rapporto, ma da quella sera in cui aveva incontrato il manager la prima volta infausti presentimenti la torturavano, soprattutto quando era sola, e non sapeva proprio come farseli passare.
L’unico antidoto per quel veleno che chiamava ansia era sentire la voce di Michael, così, come altre volte aveva fatto, prese il telefono per assicurarsi la sua dose di pace.
 
***
 
Il momento più bello nelle giornate di Michael Jackson, il grande Re del Pop, era la sera tarda, quando finalmente riusciva a farsi una doccia e a coricarsi, perché solitamente coincideva con una lunga telefonata ad Aura. Era davvero assurdo abitare nello stesso stato e non riuscire a vedersi spesso, come era assurdo provare ogni volta la sensazione del cuore che si strappa dal petto non appena riagganciava la cornetta, eppure sembrava vivere solo per quello.
Più volte aveva tentato di organizzare una gita in città, ma alla fine c’era sempre stato qualcosa ad impedirglielo: un appuntamento dell’ultimo momento con qualche organizzatore, delle riunioni urgenti per sistemare qualche intoppo praticamente inesistente e una serie infinite di cavolate varie che a lui parevano di poca importanza, ma che per John sembravano essere assolutamente inderogabili. Probabilmente la sua insofferenza verso tutte quelle incombenze burocratiche, che solitamente lo assorbivano anima e corpo, era dovuta all’enorme vuoto che l’assenza di Aura aveva lasciato, e John aveva ragione. Il dovere chiamava e lui avrebbe dovuto rispondere.
Ma cosa posso farci se senza lei mi sento un corpo vivo a metà?
Aveva appena finito di parlarle, era tardi ed era stanchissimo, eppure non riusciva a prendere sonno; si alzò e fece un giro per la casa, in silenzio.
«Fai ancora le ore piccole?» la voce di John lo fece sobbalzare. «Scusa, non volevo spaventarti, ero venuto a prendere dell’acqua.»
«Oh dio, amico, mi stavi facendo venire un infarto!» il cantante sedette sul gradino appena prima della cucina e prese fiato. «Non farlo mai più!» continuò cercando un tono severo che poco gli si addiceva e sorridendo nel buio.
«Scusami, scusami!» furono le parole del manager, che ora stava sorridendo anche lui. «Se ti prende un infarto io perdo il lavoro!»
Michael scoppiò a ridere a quella battuta; John, ridendo a sua volta, cercò e trovò l’interruttore. Poco dopo luce fu.
 
«Allora, come va con Auralee?» gli chiese con voce calma e curiosa.
Per la prima volta da quando aveva conosciuto la ragazza, il suo manager gli stava domandando di lei e di come andassero le cose. Michael ne fu sollevato, c’erano stati dei momenti in cui gli era sembrato poco interessato alla questione, quasi indispettito da quella “presenza” – che purtroppo non era presente quanto il cantante avrebbe desiderato. Quella sensazione gli aveva fatto tornare alla memoria alcune parole della donna, e per un istante si era chiesto se John avesse qualche problema al riguardo.
Michael s’illuminò al solo pensiero di lei, esalò un sospiro – quasi di beatitudine – e sorrise al suo amico.
«Va benissimo, John, grazie. Sono davvero felice», ammise con la solita, infantile timidezza che lo aveva sempre contraddistinto. «Sarebbe tutto perfetto se riuscissimo a vederci di più, ma tra il suo negozio, le prove del tour… – sbuffò mestamente – insomma, è difficile far coincidere le cose come vorremmo. Nemmeno abitasse in Sudafrica!»
«Capisco - disse John -, però dovevi mettere in conto che non sarebbe stato facile portare avanti una relazione basata su, cosa? Poche ore insieme, lunghi periodi lontani?» Poi, con un sospiro che a Michael parve un po' troppo compiaciuto, il manager aggiunse: «E tra poco inizia il tour… starai via più di un anno. Come pensate di fare?»
«Ci telefoneremo ogni giorno e, appena possibile, Aura ci seguirà in tour. Devo ancora chiederglielo, ma vorrei che stesse con noi almeno durante la prima leg.»
«Sarebbe bello, sì. Solo non vorrei che tutta questa cosa, il tour, lei sempre presente… non vorrei che tutta questa faccenda ti mettesse troppo sotto pressione, Mike. Sai che la tua salute poi ne risentirebbe. Sei proprio sicuro di quello che stai facendo?»
«John, io l’amo, cosa c’è da essere sicuri?
»






Brevi note

Chiedo scusa a coloro che seguono questa storia e che, come me, l'hanno amata fin dai primi capitoli, se questo capitolo è breve e forse non pregno di tutto quel sentimento che forse si aspettavano. Chiedo scusa se non è probabilmente all'altezza dei precedenti (momento presunzione :p), ma è un periodo davvero difficile per me. Spero che riprendere in mano i miei personaggi mi aiuti a superare il dolore che sto provando. Lo spero di cuore e spero anche che, tutto sommato, vogliate proseguire con me il cammino di Michael e Aura. 
A presto, lo prometto.

Fair






 
 
 
 

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Capitolo 16
*** I was afraid of life and you came in time You took my hand and we kissed in the moonlight ***





 
Passò l’inverno, con giornate così felici che Aura si domandò più volte se non stesse sognando.
Ogni tanto qualche lieve nube sembrava far capolino su quel cielo sempre terso e di un azzurro così limpido da sembrare quasi trasparente, ma per lei e Michael spazzare via quel sottile strato di incertezze stava diventando fin troppo facile, che quasi ne erano divertiti.
Nei momenti in cui il cantante doveva concentrarsi di più sulle prove e sugli ultimi ritocchi a quello che sarebbe stato uno dei tour più impegnativi di tutta la sua carriera, Aura restava in città, si dedicava al suo negozio – che stava incontrando uno dei suoi periodi migliori – e usciva con gli amici. Tanisha e gli altri si lamentavano sempre più spesso di quanto poco tempo dedicasse loro e del fatto che, prima o poi, avrebbero dimenticato anche il suono della sua voce, così – un po’ per accontentarli e un po’ per bisogno – pensò che avrebbero potuto avere ragione e che, con tutta probabilità, svagarsi insieme a quella banda di pazzi non le avrebbe fatto poi tanto male.  
Venne la primavera, guidando quel rapporto che si andava consolidando sempre più verso l’estate. E verso l’inizio della prima leg del tour.
 
Doveva ammettere che nelle ultime settimane riuscire a vedere Michael era stato davvero un gioco da ragazzi, e più tempo passavano insieme, più lei si innamorava. Quando si trasferiva al ranch per qualche giorno, la sera dopo cena avevano preso l’abitudine di camminare in silenzio per i prati della proprietà, mano nella mano, respirando la tranquillità dell’imbrunire che diventava notte; a un certo punto si sedevano, ai piedi del grande platano dove Michael amava spesso ritirarsi; le raccontava che quei rami e la meravigliosa vista della Valley gli avevano ispirato le sue canzoni più belle, e lei adorava perdersi tra le sue parole che lui riusciva a trasformare in favole meravigliose. Apprezzava il fatto che riuscisse a trovare il lato positivo di ogni cosa e che, nonostante i periodi duri passati, non avesse mai perso la fiducia nel prossimo.
Amava profondamente, perdonava in fretta.
Non lo aveva mai visto perdere il controllo; si arrabbiava di rado, e anche quando accadeva riusciva comunque a restare calmo. A volte, agli occhi di Aura, quell’uomo si trasformava in un vero e proprio mistero, sebbene fosse per lei ormai un libro aperto. Non riusciva a spiegarsi come, ma quell’uomo riusciva a farle vedere il mondo sotto un’altra prospettiva, del tutto nuova, quasi rassicurante. Perfino John aveva assunto un profilo più morbido, meno austero, grazie alle parole di Michael. C’era da dire che quell’uomo strano, che all’inizio le aveva fatto proprio una brutta impressione, si era comportato molto meglio con lei, specie in quelle ultime settimane; qualche volta si erano trovati soli a tavola, mentre Michael parlava al telefono o controllava delle scartoffie, ed erano riusciti a parlare in tranquillità. Non che ci fosse un vero e proprio rapporto di amicizia – o reciproca simpatia –, ma doveva essere sincera: Michael aveva ragione, Branca non era poi malaccio.
 
Vivere quella vita che mai si sarebbe sognata si rivelò più facile del previsto e l’uomo che le aveva spalancato il cuore sembrava destinato a sorprenderla sempre più ogni giorno che passava. Le si riempiva il cuore di tenerezza quando, mentre raccontava qualche aneddoto imbarazzante, si sfiorava la punta del naso con le dita e abbassava la sguardo, per sfuggire ai suoi occhi e nascondere quanto fosse intimidito; era orgogliosa di lui e del rapporto che stavano cercando di costruire.
Era felice che si fidasse di lei a tal punto da aprirsi anima e corpo.
Ricordava con estrema dolcezza – e una punta di malinconia – la notte in cui le parlò dei suoi problemi di salute.
 
***
 
La vera difficoltà per Michael era parlare dello stato precario in cui la sua salute verteva. Alternava periodi di relativo benessere, ad altri in cui anche alzarsi dal letto poteva diventare una vera e propria impresa; eppure non si era mai lamentato, non si era mai arreso. Teneva sempre acceso sulle labbra quel suo sorriso ormai famoso e stupiva tutti i suoi cari con quella capacità di nascondere anche il minimo fastidio. Chi non lo conosceva, non avrebbe potuto indovinare quanto sforzo gli ci volesse per essere quello che era.
Ma anche i più duri, prima o poi, cedono.
In quell’ultimo periodo non aveva grandi motivi per essere triste, in effetti. Anzi, se anche ne avesse avuti, la sola presenza di Auralee nella propria vita, sarebbe bastata a cancellare ogni malumore, ogni dolore. Probabilmente, non aveva mai vissuto una serenità così completa, così profonda. Per questo motivo, in una notte apparentemente come tante, ma segnata dall’amore che lui e Aura si erano appena dimostrati tra le lenzuola del suo letto, si ritrovò con una voglia matta di condividere con lei anche l’ultimo brandello di sé.
«Sei stanca, tesoro? Vuoi dormire?» Michael la teneva tra le braccia, beandosi del contatto di quel viso delicato, ancorato nell’incavo del collo. Le accarezzava una spalla con le dita, coccolandola e accudendola come il più prezioso dei doni. Ormai Aura sapeva che dormire non era un’attività che gli riuscisse bene, e sperò che gli tenesse compagnia; voleva parlarle, ma anche assicurarsi che a lei stesse bene: non era il tipo da imporsi sulla volontà altrui.
«Mh, direi sì alla prima, ma no alla seconda… non ancora, almeno» la sua voce gli stava dicendo tutt’altro. Era molto vicina all’addormentarsi, ne era certo; sorrise intenerito e la strinse ancora di più.
«Ti va se parliamo un po’? Ci sarebbero… beh, vedi… ci sarebbero delle cose che penso dovresti sapere. È arrivato il momento…»
Aura mosse appena il capo, abbastanza da poterlo guardare nella penombra. Aveva l’aria preoccupata.
«È successo qualcosa, Mike? È tutto ok?» gli domandò, con nel tono della voce una punta d’allarmismo.
Per l’ennesima volta quella ragazza meravigliosa, che mai si sarebbe sognato di meritare, le stava dimostrando quanto ci tenesse.
«Sì, - le rispose, invitandola a coricarsi di nuovo sopra il proprio petto – è tutto ok. Ci sono solo cose che fino adesso non ho avuto il coraggio di dire, cose mie personali che però penso tu debba sapere, tutto qui.»
Lei sembrò calmarsi appena, prese ad accarezzarlo con delicatezza, deponendogli piccoli baci sui tratti di pelle scoperta appena sotto la scapola.
«Parla, ti ascolto…» lo invitò, cercando di tenere a bada quell’ansia che a volte diventava fin troppo molesta. Allora, Michael, lasciandosi andare in un profondo sospiro – forse atto a dargli un po’ di coraggio – iniziò a raccontarsi, più calmo di quanto avesse immaginato.
«Vedi, tesoro, soffro di alcuni problemi di salute piuttosto importanti, come dire… non userei il termine “gravi”, ma di certo è qualcosa che mi porterò dietro per tutta la vita.»
L’uomo percepì il corpo della donna irrigidirsi; indovinò che volesse dire qualcosa subito, fare mille domande, ma decise di impedirglielo. Ora che si era deciso voleva arrivare fino in fondo.
«Aspetta, fammi finire… poi potrai chiedermi tutto ciò che vorrai.»
Le loro labbra si sfiorarono in un tocco quasi impercettibile, lei gli obbedì e si accoccolò di nuovo sul suo petto, in silenzio.
«Ho sempre avuto una salute piuttosto cagionevole, in realtà. Stanchezza strana, febbri a volte inspiegabili, ma per quanti esami io facessi non riuscivano mai a trovare il problema; poi, circa dieci anni fa, dopo l’ennesimo periodo difficile, finalmente qualcuno si decise a indagare in modo più approfondito, insospettito anche dalle macchie che ho sul corpo…» Michael sapeva perfettamente che Aura le aveva notate, e le era grato per non aver mai chiesto nulla.
Più si raccontava, più si sentiva leggero, come se a ogni parola quel peso che lo aveva sempre oppresso diminuisse fin quasi a sparire del tutto.
E fu in quegli attimi di profonda intimità – quelli in cui non conta se sei nel letto o seduto a un tavolo in un bar, quelli in cui le anime si connettono e tutto diventa così semplice che è quasi più difficile respirare – che Michael si rese conto di un’innegabile verità: ormai senza lei non avrebbe più potuto vivere.
 
Passò anche la primavera. Michael e Aura erano diventati una persona sola, anche quando non erano insieme c’erano sempre, uno per l’altra. Giunse l’estate e con essa il momento per loro di salutarsi.
«Mi rifiuto di piangere e mugugnare come una ragazzetta, per cui non mi guardare con quegli occhioni da cerbiatto indifeso, perché tanto lo so che ci vedremo tra poche settimane.»
Quelle parole fecero sorridere Michael, perché vedeva la sua donna con le lacrime lì, già sulle lunga ciglia, pronte a straripare. Le accarezzò una guancia e la baciò con dolcezza, cercando di infondergli quel marasma di emozioni che il solo starle accanto gli faceva provare.
«Allora chiuderò gli occhi mentre ti saluto e, quando ti sarai voltata e ti vedrò sparire dietro l’angolo, piangerò io per entrambi. Va bene?»
«Io non voglio saperti triste, per cui non ti azzardare a versare nemmeno una lacrima o dovrai fare i conti con me!» berciò lei, indossando la maschera della cattiva, senza riuscirci.
«Ok, signorina, ci proverò, ma lo faccio solo per te», acconsentì lui, stampandole l’ennesimo bacio su quelle labbra che avrebbe tanto voluto portare con sé in tour.
«E poi tanto lo so che, non appena avrai preso il volo e ti ritroverai di nuovo faccia a faccia con lo stuolo di donne impazzite che ti circondano sempre, io diventerò solo un vago ricordo», lo disse tutto d’un fiato, con un’ombra sorniona nel sorriso appena accennato.
«Lo sai che non è così, in te ho trovato tutto ciò di cui ho bisogno… – le sussurrò, sapendo che era la verità e tutto ciò che Aura voleva sentirsi dire – non diventerai mai il mio passato; sarai per sempre il mio futuro.»
 
 
 
I was afraid of life and you came in time
You took my hand and we kissed in the moonlight

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Capitolo 17
*** I would walk around this world to find her, And I don’t care what it takes I’d sail the seven seas to be near her. ***




 


Quanto era difficile far passare quei giorni che dividevano la partenza di Michael dal momento in cui si sarebbero rivisti?
Aura non aveva mai sperimento delle sensazioni così forti; non aveva mai saputo, sino ad allora, cosa volesse dire stare senza una parte di cuore.
Aveva certamente vissuto il distacco dalla famiglia, ma quella malinconia, quella mancanza non erano niente in confronto al vuoto che sentiva ora.
Passare le giornate con lui le faceva perdere la percezione di ogni cosa, viveva come se il tempo non esistesse, come se non avesse affatto importanza. Le bastava lasciarsi cullare da quella voce delicata e candida, lasciarsi stringere da quelle braccia calde e amorevoli per credere che al mondo niente avrebbe potuto ferirla o rattristarla.
Michael le bastava. Non sentiva bisogno di altro.
Peccato che in quei momenti di beata spensieratezza, benché sapesse che il giorno del distacco sarebbe arrivato, non avesse affatto calcolato la sensazione di perdita che avrebbe provato, e non era pronta ad affrontarla.
Eppure, ripensando alla sua vita del “prima” – dell’amore, della dolcezza, della completezza –, si rese conto che da sola se la cavava alla grande: lei, il suo negozio e i suoi amici. Tutto era sempre andato a gonfie vele. Perché ora, da sola, non riusciva a decidersi nemmeno sul piede da usare per scendere dal letto?
«È che quando trovi la persona che ti completa e riempie tuoi spazi vuoti, senza è come se fossi vivo a metà… e non basta più.»
Tanisha, nonostante le sue pazzie e la sua vita sempre un po’ fuori dalle righe, riusciva a partorire sempre la frase giusta al momento giusto, ma di certo quelle consapevolezze non sarebbero riuscite a riempire quegli spazi vuoti.
Michael era l’unico; era stato messo al mondo su misura per la sua anima.
Le due ragazze sedevano su una panchina all’interno del Griffith Park, aspettando insieme ad altre persone l’arrivo dell’istruttore di pattinaggio: Tanisha era riuscita a convincere Aura a partecipare a quelle lezioni per svagare la mente e smettere di pensare almeno momentaneamente al suo ragazzo lontano. Certo, forse avrebbe smesso per un paio d’ore, concentrata come sarebbe stata sulla paura di cadere da quei trabiccoli e spaccarsi l’osso del collo!
«Senti, ma non mi hai ancora detto niente di questi fantomatico Mister X, dimmi com’è, raccontami un po’ di lui!»
L’amica prese Aura in contropiede, e improvvisamente calò su di loro un velo di imbarazzo.
«Beh, che dire? – era terrorizzata all’idea che le potesse scappare qualcosa che non avrebbe dovuto – Si chiama Jack…» sorrise goffamente, sperando che l’amica desistesse intuendo la sua poca voglia di condividere.
«Questo me lo hai già detto! Avrà un cognome, un carattere, un lavoro! Come ha i capelli? Gli occhi? Dai, sono o no la tua migliore amica?!», Aura si maledisse per aver creduto anche solo lontanamente possibile che la curiosità del “Tanisha Post” si sarebbe spenta così presto.
«L… London, si chiama Jack London» soffiò fuori senza riuscire a capire da dove le fosse venuto fuori quel cognome idiota. «É… lui è un rappresentate di… antichità, sì…» stava sudando da morire, e non aveva ancora indossato i pattini!
Aura era parecchio preoccupata perché non aveva mai parlato a Tany di Michael e si sentiva un po’ in colpa per questo. In fondo, erano migliori amiche dai tempi dell’università e Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto raccontarle ogni cosa, nei minimi particolari!
Non aveva affrontato l’argomento con lui, quindi Aura non sapeva se gli avrebbe fatto piacere che Tanisha sapesse; d’altro canto, conosceva bene la sua amica e la sua bocca un po’ troppo larga. Aveva di certo un buon cuore, ma tendeva a non filtrare molto le informazioni, soprattutto quando si trattava di certe questioni.
«Eh, su! Mica dovrò strapparti le informazioni di bocca, vero?» l’amica non desisteva, non ne aveva la benché minima intenzione.
Aura, a quel punto, cercò un modo per raccontarle la verità senza dover svelare troppo della reale identità dell’uomo e, per la prima volta dal loro primo incontro, riportò alla memoria il ricordo di quel pomeriggio in cui la sua vita cambiò.
«Quel pomeriggio me ne stavo nel retrobottega, immersa nei conti ancora in rosso del negozio. Non entrava un’anima da ore e stavo quasi accarezzando l’idea di abbassare la serranda e andare a casa, quando ho sentito il campanello della porta tintinnare…», la ragazza s’immerse totalmente in quel ricordo specifico, quello del momento in cui…
«… gli stavo illustrando i pregi di alcuni pezzi che aveva adocchiato e lui, di punto in bianco, mi chiese come mi chiamassi e mi sorrise…» Sapeva perfettamente di aver dipinta in volto un’aria trasognata da quindicenne, ma era proprio il potere che Michael aveva, di farla sentire meravigliosamente leggera, che lei amava di più.
«Quel sorriso non potrei mai dimenticarlo, come non scorderò mai ciò che ho provato in quel momento…» disse infine, quasi in un sussurro, lasciando scappare un sospiro di beatitudine al sono ricordare quel viso incantevole.
«Fermi tutti, ragazzi! Questa è proprio innamorata cotta del signor Sorriso!»
Tanisha aveva proprio ragione, e ormai niente avrebbe potuto cambiare quel sentimento: Aura era proprio innamorata.
 
***
 
La vita in tour era qualcosa cui Michael era sempre stato abituato, fin da piccolissimo, quando con il furgoncino sgangherato del padre, lui e i suoi fratelli macinavano migliaia di chilometri da un capo all’altro degli Stati Uniti.
La vita in tour era per lui una realtà, l’unica che conoscesse veramente.
Era pesante, sì, a volte così tanto da diventare quasi insopportabile – specie nei momenti in cui la sua salute faceva i capricci –, ma l’aveva sempre amata, grazie alla forza che riceveva ogni giorno dai fans.
Eppure, per la prima volta in quasi venticinque anni, l’entusiasmo dei fan non gli bastava più.
«Ho bisogno di tornare a casa qualche giorno, John. Sono esausto», lo disse a bruciapelo, mentre tornavano in albergo a Londra, a bordo del minivan della produzione.
Aveva appena mandato letteralmente a fuoco il Wembley Stadium con il penultimo di una lunga serie di concerti; era stata una serata fantastica, dove il calore del numeroso pubblico accalcato all’interno della struttura lo aveva davvero mandato su di giri. Ma… c’era un “ma”.
Gli mancava Aura, tremendamente.
Quando finalmente fu in camera, il suo primo pensiero fu aprire il taccuino e sfilare quel biglietto, quello che teneva con tanta cura e continuava a fargli compagnia nelle sere di quel lungo viaggio, quando il vuoto lasciato da Aura faceva troppo male.
C’erano delle righe in particolare che non poteva fare a meno di leggere e rileggere:
 
“Quando sorridi il mio cuore si riempie di gioia.
Dalla prima volta in cui ho incrociato il tuo sguardo e
ho visto le tue labbra aprirsi in quel modo tanto dolce,
non sono più stata in grado di trovare qualcosa di altrettanto meraviglioso.
Vorrei vederti sempre così, sorridente e spensierato.
Vorrei vederti sempre così, un po’ bambino, giocoso e divertente.
Non spegnare mai quella luce, quella che traspare dai tuoi occhi scuri in cui mi sono persa.
In cui mi perderei all’infinito.”
 
Lei era in grado di dargli tutto ciò di cui avesse bisogno, gli dava tutto senza voler in cambio nulla, se non amore. Quelle parole riuscivano a commuoverlo ogni volta, sino al pianto.
Non si vergognava di quella tristezza, non si vergognava di piangere. Quelle lacrime erano il frutto di un amore che aveva cercato per così tanto tempo… e ora che ce l’aveva non poteva goderne.
Si erano promessi di raggiungersi, ma il tempo era passato senza che nulla accadesse.
Era giunto il momento, non sarebbe stato più in grado di aspettare: doveva rivederla.
 
«Miko, avrei bisogno che facessi prenotare un volo per Aura al più presto. Le telefonerò per avvisarla quando avrai la data. Il più presto possibile, per favore.»

 
 
 
I would walk around this world to find her,
And I don’t care what it takes
I’d sail the seven seas to be near her.

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Capitolo 18
*** It’s you that make me happy, Whatever happens don’t you let go of my hand ***




 
Le gambe ancora le tremavano, ed erano già passati due giorni dalla meravigliosa, brevissima telefonata di Michael. Quelle quarantotto ore le aveva trascorse in febbricitante attesa, tra crisi di panico per la preparazione della valigia e ansiose raccomandazioni da parte di sua madre, che al telefono non smetteva di impartire veloci lezioni sullo stare al mondo e sugli estranei per strada. Aura, invece, non riusciva a pensare che a una cosa sola: Michael. Lo avrebbe rivisto dopo parecchio tempo, lo avrebbe riabbracciato. Avrebbe ancora avuto per sé quel suo profumo di buono e di innocenza e, cosa più importante, avrebbe finalmente potuto dirgli quel ti amo, che nel cuore pesava ormai come un macigno, guardando dritto nei suoi occhi scuri.
«Quindi mi abbandoni per una settimana?», Tanisha aveva fatto un salto a casa di Aura per salutare l’amica prima della partenza. Ormai sapeva tutto su come aveva conosciuto Michael e sui sentimenti che la legavano a lui – certo, non conosceva la sua vera identità, ma quello era un piccolissimo dettaglio.
Molto PICCOLO.
La bionda, però, continuava imperterrita a snocciolare domandine infime qua e la, perché la curiosità di conoscerlo per lei andava oltre ogni ragione umana.
«Beh, amica mia, quando l’amore chiama tocca rispondere!», l’imbeccò Aura, sorridendole sorniona.
«Sì, ma conviene che mi lasci un recapito o il nome dell’albergo dove alloggerai, caso mai dovesse succedere qualcosa.»
«Tany, starò via solo qualche giorno, e comunque sarò al sicuro, te lo prometto!», la redarguì dolcemente, convinta che la sua amica stesse semplicemente cercando un qualsiasi pretesto per arraffare quante più informazioni possibili su Mister Sorriso. «Ti chiamo appena arrivo, stai tranquilla.»
Un’ora più tardi le due ragazze si stavano salutando all’ingresso dell’aeroporto e, poco dopo, Aura scomparve al di là delle porte scorrevoli.
Più tardi, sull’aereo, avrebbe voluto dormire un po’, ma era così elettrizzata all’idea di ciò che sarebbe successo – all’idea di stare per raggiungere Michael – che gli occhi non volevano saperne di chiudersi, o quando lo facevano era solo per sognare.
«Come si chiama il suo ragazzo?», Aura si volse in direzione della voce. Era la sua vicina di posto, un’anziana signora dal visetto vispo e gli occhi di un incantevole verde brillante, con qualche pagliuzza dorata. La guardava e sorrideva. «Si capisce dal tuo sguardo, stai raggiungendo il tuo amore, vero?»
Il viso di Aura si illuminò all’istante, ebbra di gioia, felice che alla signora fosse bastata un’occhiata per indovinare quello che aveva nel cuore. Era felice di sapere che l’amore che provava ce l’avesse scritto addosso.
«Sì, signora, è esatto. Sto raggiungendo il mio ragazzo che sta lavorando a Londra», le rispose ricambiando il sorriso e accarezzandole delicatamente la mano, leggermente consumata dal tempo, che la donna le aveva posato sul braccio. «Si chiama Michael…», dopotutto, pensò, era un’estranea a cui non avrebbe dovuto svelare troppi dettagli e di “Michael” era pieno il mondo.
«Che bel nome! E tu, come ti chiami?»
«Auralee, signora, piacere di conoscerla.»
«Il piacere è mio piccola, chiamami pure Maggie.»
Le due donne parlarono praticamente per tutto il viaggio, e si scambiarono confidenze che probabilmente nessun altro avrebbe mai saputo. Margaret raccontò ad Aura del suo grande amore, mancato qualche anno prima, e di come distanze e differenze spesso uniscano piuttosto che dividere. Dal canto suo, la ragazza si aprì con la signora riguardo le sue ansie e le sue paure; le parlò delle sue insicurezze e di quanto temeva di essere inadeguata per l’uomo che amava.
Arrivarono a Londra senza nemmeno accorgersi di essere partite – e dire che erano pure in ritardo; entrambe avevano guadagnato un’amica, Aura molto di più: la consapevolezza che forse non sarebbe dovuto andare sempre tutto storto. La speranza concreta che anche per lei avrebbe potuto esserci il tanto agognato happy ending.
 
***
 
Guardare la folla e non riuscire a distinguere il volto delle persone, vederne sempre e solo uno, è un chiaro sintomo di essere vicini alla pazzia. Così si sentiva Michael. Aveva un bisogno incontrollato di vederla.
Quella sera, Aura sarebbe arrivata dagli Stati Uniti, probabilmente era appena atterrata anche se lui non sapeva perfettamente che ore fossero – dall’inizio dello spettacolo, aveva perso il senso del tempo, come accadeva sempre. Miko era partito già da un po’, diretto all’aeroporto, e con tutta probabilità sarebbero arrivati a concerto già finito.
Non appena gli ultimi riflettori si spensero la prima cosa che fece fu correre oltre il backstage fino ai camerini, nella speranza di vederla sostare lì, di fronte alla sua porta e poterla stringere: non c’era nessuno. Solo addetti ai lavori, staff e altra gente che in quel momento avrebbe voluto vedere sparire.
Forse hanno avuto un imprevisto, sicuramente il volo avrà tardato.
Cercò di calmare la smania che sentiva, di darsi una controllata. Sembrava un pazzo.
In quel momento John lo avvicinò e gli sorrise.
«Anche stasera sei stato grandioso! Non ho altre parole per descrivere cosa sei riuscito a fare Michael! Forza, sarai stanco… andiamo in albergo.»
«Sì, andiamo John – perché non gli stava dicendo di Aura e del fatto che sarebbe arrivata da un momento all’altro? – Per caso Miko ti ha telefonato?» gli chiese, già sicuro della risposta. La sua guardia del corpo non avrebbe mai telefonato a John, lui lo mal sopportava.
«No, a proposito, ma dov’è?»
Michael non seppe cosa rispondere, non era affatto abituato a mentire, ma sapeva quanto il suo manager fosse contrario alla presenza di Aura in tour e, soprattutto, John odiava che si agisse alle sue spalle – com’era normale che fosse. Ma cosa poteva farci lui se davvero sentiva dentro di non essere in grado di farcela senza di lei?
«Non so onestamente, per questo ti ho chiesto se sapessi qualcosa», gli rispose poi, con tono ovvio, più prontamente di quanto si aspettasse. «Va beh, andiamo… si sta facendo tardi», aggiunse poi, impossibilitato ad aspettare oltre. Stava impazzendo!
 
Fece le scale due a due, perché l’ascensore era troppo lento e il suo desiderio non aveva tempo da perdere, aveva bisogno di essere realizzato. Sentiva i battiti accelerare, ed era un crescendo, fino a sentire i muscoli intorpiditi, ma non era certo stanchezza, era voglia di ricominciare a vivere – di smettere di sopravvivere. Non era nemmeno sicuro che lei fosse lì, ma ormai era l’unico luogo che gli fosse rimasto, l’unica speranza. John per fortuna si era fermato al bar dell’albergo e lui, insieme a Susie e a un altro paio di persone si era incamminato verso la stanza. Gli altri si erano persi lungo le rampe di scale. Lui era già su.
Percorse l’ultimo tratto di corridoio con il cuore in gola, il passo felpato dalla pregiata moquette. Inserì la chiave nella toppa e fece scattare la serratura. Mosse un passo all’interno, con la paura di scoprire che non era lì, che non era ancora arrivata. Non ce la faceva più, non si sentiva più padrone del suo corpo e delle sue emozioni. Non si riconosceva, eppure si sentiva perfettamente se stesso.
Quando ormai fu nella stanza si volse verso la finestra e lì, in piedi davanti al vetro sul quale la sua figura si rifletteva, c’era lei. Attraverso quel riflesso poteva già morire in quel suo sguardo verde come il mare… Dio, era sempre stata così bella?
«Aura!», non ebbe forza di dire altro, l’ultimo briciolo di se stesso si era fiondato verso di lei e la stava stringendo come se da ciò ne dipendesse la sua salvezza, la sua intera vita.
«Michael...»
Ma forse non c’era nemmeno bisogno di parlare, avrebbero avuto tempo più tardi. In quel momento, l’importante era esserci, stretti nell’abbraccio dell’altro.
Si erano mancati troppo per sporcare quel momento con parole senza senso, quando i loro respiri erano già così chiari e inequivocabili.
 

 
It’s you that makes me happy
Whatever happens don’t you let go of my hand
 
 

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Capitolo 19
*** He's the living dead, the dark thoughts in your head, He knows just what you said, That's why you've got to be threatened by him ***


 

 
 
Aura e Michael avevano passato la notte insieme, nascosti agli occhi del mondo.
Nessuno – eccetto Miko che l’aveva accompagnata all’albergo – immaginava che lei fosse lì, per cui non fu una sorpresa la reazione attonita di John quando, l’indomani, la vide scendere nella hall mano nella mano con Michael; quest’ultimo provava un visibile imbarazzo all’idea di ciò che il suo manager avrebbe potuto dirgli riguardo la presenza della ragazza. Sapeva bene di aver agito alle sue spalle; non era certo un atteggiamento da lui, e John lo avrebbe mal digerito, ma averla lì accanto gli infondeva il calore e la forza necessari ad affrontare qualsiasi cosa. Anche un’eventuale scenata.
John li osservò arrivare da lontano, con uno sguardo sorpreso, vagamente accigliato, dipinto sul volto. Il cantante, che lo conosceva bene, poteva quasi riuscire a immaginare i pensieri contorti e fumanti che gli passavano per la testa, e gli sfuggì un sorriso quasi divertito.
«Non sapevo che si sarebbe unita a noi, Auralee», l’uomo non attese neanche che fossero vicini. Dovette alzare un po’ la voce per farsi sentire. «Che sorpresa, quando è arrivata?»
Miko, che camminava dietro a Michael di qualche passo, li sorpassò e si poggiò al banco della reception; aveva dipinto in volto un sorrisetto che lo fece divertire ancora di più. A breve sarebbe scoppiato a ridere, lo sentiva.
«Ieri sera, John. È un piacere rivederla», fu proprio lei a parlare, contraddistinta dalla sua proverbiale educazione. Michael la vide porgere la mano al suo manager – che non sembrava smaniare dalla voglia di ricambiare, ma si trovò costretto a farlo – e sorridergli genuinamente.
«Estasiato», fu l’unica risposta dell’uomo, che cercando di farsi vedere dai presenti, lanciò a Michael uno sguardo carico di disappunto.
«Avresti potuto avvisarmi del suo arrivo, Mike. Avremmo fatto preparare le cose per bene.»
«In verità, non lo sapeva nemmeno lui. È stata tutta farina del mio sacco. Per fortuna, avevo tenuto il biglietto con il numero di Miko, così l’ho chiamato appena arrivata in aeroporto, per farmi venire a prendere.»
Michael si volse verso la donna con un’aria che dire interrogativa era poco; si scambiarono uno sguardo d’intesa e Aura gli sorrise. Le dita delle loro mani, che non avevano mai sciolto la presa, si strinsero ancora di più e Michael si rasserenò all’istante.
«Non è una donna meravigliosa?!», chiese al suo manager, con aria trasognata.
«Idilliaca, non c’è che dire!»
 
Ma a John, tutta quella storia, non piaceva per niente.
 
***
 
Dal primo momento in cui Aura aveva incontrato John, delle strane sensazioni le avevano smosso il cuore. La sua incredibile voglia di stare con Michael temeva potesse venire ostacolata da quell’uomo, che non le sembrava certo una cattiva persona, ma che, secondo lei, non era del tutto sincera con lui.
Era stato proprio Michael, qualche tempo prima, a raccontarle di più su quell’uomo – e a farle credere che probabilmente quelle sensazioni su di lui erano solo paturnie mentali inutili –, ma quel giorno, quando si incrociarono nella hall dell’albergo, quegli oscuri presentimenti erano tornati a galla più forti che mai.
«Non ti è sembrato un po’ strano, John? Non pareva molto felice di vedermi», soffiò fuori lei, quando riuscì a trovare il coraggio di parlare. Non voleva certo essere scambiata per una che metteva zizzania a tutti i costi, lei non era quel tipo di persona.
Con sua somma sorpresa, il cantante, dopo aver esalato un lungo respiro, le regalò un sorriso incerto e disse: «In effetti, non sembrava fare i salti di gioia, ma conosco il motivo: lui non sapeva nulla del tuo arrivo. Gliel’ho tenuto nascosto e se c’è una cosa che proprio non sopporta è di essere lasciato fuori, di non avere le cose sotto controllo.»
Se qualcuno le avesse chiesto quale lato di Michael era quello preponderante, avrebbe detto l’ingenuità. Lei non era certo da meno, ovviamente, ma quel ragazzo era davvero un campione nel trovare a ogni costo il buono nel prossimo. Se poi era una persona alla quale teneva, non concepiva proprio l’idea di poter essere preso in giro.
Eppure, nel comportamento di John qualcosa non andava, ma decise di non insistere con Michael, non voleva agitarlo e preoccuparlo più del dovuto; era già sufficientemente stressato di suo, con il tour e tutto il resto, non aveva certo bisogno di un carico maggiore ad appesantirlo.
Poco più tardi, si recarono tutti insieme allo stadio per le prove, e Aura desiderava con tutte le sue forze potersi godere in santa pace quei momenti impagabili, per cui moltissime persone avrebbero fatto carte false. Aveva solo una settimana da passare con il suo Michael, prima di dover far rientro a casa, e tutto ciò che voleva era assaporare ogni istante un po’ come se dovesse essere l’ultimo.
 
Poco più tardi, dalle quinte Aura assisteva rapita all’inizio del concerto.
Ogni volta riusciva a meravigliarsi per quanto il Michael della vita privata e quello del palco fossero diversi, eppure così simili. Poteva leggergli negli occhi un’ardente passione, quella stessa che portava con sé in ogni cosa che faceva, eppure della sua timidezza, della sua adorabile dolcezza, c’era ben poco. Sul palco diventava una bomba a orologeria pronta a esplodere per i suoi fans, e ogni giorno di più comprendeva perché tutti lo chiamassero il Re.
«Difficile competere con quello che vedi, cara Auralee.»
La voce di John le s’insinuò nell’orecchio, nonostante il frastuono e il vociare grosso della folla, la fece trasalire. Somigliava molto al sibilo di un serpente – si odiava quando faceva certi paragoni infimi, ma le sue sensazioni difficilmente sbagliavano -, e Aura sapeva che non aveva ancora finito. Non emise un suono.
«Ora sei la novità, il nuovo passatempo. Una distrazione che rischia di costare cara. Si stancherà presto di te perché, per quanto carina tu possa essere, il suo unico vero amore saranno sempre la sua musica e il suo pubblico…»
Aura non riuscì a impedire agli occhi di inumidirsi, ma non voleva certo dare a quell’uomo la soddisfazione di vederla vacillare. Niente l’avrebbe convinta a farsi da parte, a meno che non fosse stato lo stesso Michael a chiederle di farlo.
John si allontanò senza dar segno di aspettarsi da lei la benché minima risposta.
Nessuno aveva sentito le sue parole, aveva scelto proprio il momento migliore per fare la sua mossa; Auralee in cuor suo sapeva che quella storia non era destinata a finire con un “e vissero per sempre felici e contenti”, ma di certo non avrebbe permesso a nessuno di scrivere la parola “FINE” per loro. 



 
He's the living dead, the dark thoughts in your head,
He knows just what you said,
That's why you've got to be threatened by him




 

Angolo dell'autrice

Dico solo un paio di cose...
Mi spiace per il ritardo spaventoso, ma è stato un periodo incasinato in cui non ho avuto tempo nemmeno di preoccuparmi per la mancanza d'ispirazione.
Il capitolo è corto, volutamente. L'ho usato per sbloccarmi e riprendere a pigiare i tasti del mio amato pc. Speriamo riesca a non far passare troppo tempo prima di pigiarli di nuovo. :)
 

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Capitolo 20
*** Before you judge me, try hard to love me, the painful youth I've had, Have you seen my childhood? ***



 
Michael era da poco rientrato in albergo dopo l’ennesimo concerto. Era sfiancato e più di una volta aveva dovuto ricorrere al fisioterapista; la schiena continuava a peggiorare ed era stato costretto a posticipare un paio di date, ma non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello di annullare il resto del tour. Lui doveva tenere duro per tutta quella gente che lo stava aspettando da mesi! Prese l’ennesimo antidolorifico e si buttò sotto la doccia, anche se sapeva bene che c’era una cosa sola capace di farlo sentire meglio: la voce di Aura.
«Dopo la chiamo…», pensò, sorridendo soltanto all’immaginare quella voce che tanto gli mancava.
Da quanto non la vedeva? Forse un paio di mesi, ma sembravano molti di più.
L’ultima volta era stato l’agosto passato.
Avevano potuto trascorrere una settimana intera insieme, da soli. John era tornato al nord dalla figlia e, mai come in quella settimana, aveva visto Auralee rilassata e felice. La presenza del suo manager la metteva sempre un po’ a disagio – ogni tanto se ne usciva anche con qualche teoria di cospirazione dell’uomo nei confronti della loro relazione, ma Michael non poteva credere a una cosa simile. Sì, talvolta poteva sembrare leggermente dispotico e petulante, ma il cantante era sicuro che non avesse nulla a che fare con la presenza della ragazza nella sua vita, aveva una semplice mania, tendeva a voler tenere sempre tutto sotto controllo.
Certo era che, senza John, lui e Aura si erano sentiti decisamente più liberi e sereni, e quella settimana insieme a lei a Neverland, sgombra di impegni e lavoro, era stata una delle più belle che avesse mai vissuto.
Fu durante quei pochi giorni che Michael trovò perfino il coraggio di aprirsi totalmente a lei, raccontandole quelle cose che a volte non riusciva nemmeno a raccontare a se stesso, tanto lo facevano vergognare. Michael sentiva che Auralee era in grado di capirlo davvero ed era ormai chiaro che gli volesse bene veramente, con tutto il cuore. Per questo motivo, un pomeriggio come ne avevano passati tanti, in giro per il ranch, riuscì ad abbattere anche l’ultimo muro.
«Da quando mio padre si accorse del nostro potenziale artistico, a me e ai miei fratelli fu proibito qualsiasi svago. Ci alzavamo presto la mattina per andare a scuola e, non appena mettevamo piede in casa, erano subito prove e lavoro.»
Aura lo ascoltava, totalmente abbandonata alle sue parole. Michael percepiva la sua commozione e lo sforzo che faceva nel tentativo di trattenere le lacrime. L’empatia di quella ragazza verso di lui era stata una delle prime cose che lo avevano colpito di lei. Ogni volta che condividevano qualcosa delle loro vite assaporava la chiara percezione delle loro anime fondersi sempre più l’una nell’altra.
«A volte mi capitava di osservare i bambini che dopo scuola si fermavano al parchetto vicino casa per giocare… – si regalò una pausa, perché quei momenti strappati alla sua infanzia gli facevano ancora così male da togliergli il respiro – e di sognare. Desideravo così tanto poter passare con loro anche solo pochi istanti, tirare un calcio al pallone o, semplicemente, dondolarmi due minuti sull’altalena…», Aura alzò la mano per accarezzargli il volto, gli asciugò una lacrima che non si era accorto di aver lasciato scivolare giù. «Tutto quello che ricordo della mia vita, da che ne ho memoria, eccetto che per qualche sporadico momento precedente ai Jackson 5, sono prove, prove e ancora prove, oltre che punizioni, anche corporali, se non lavoravamo come diceva nostro padre.»
Erano tempi lontani che avevano lasciato i loro strascichi, ma che in qualche modo era riuscito a elaborare; di acqua ne era passata sotto i ponti da allora, e Michael si era addirittura convinto che suo padre, in un modo che lui non riusciva bene a comprendere ma in cui credeva, li avesse amati davvero. Joe era sempre stato sicuro di stare facendo il meglio per i propri figli, e in un certo senso il tempo gli aveva dato ragione. Ma a quale prezzo?
«Percepisco il tuo dolore, Mike», lo faceva sorridere ogni volta che lo chiamava così; gli suonava sempre strano, ma gli faceva anche piacere. Solo lei lo chiamava Mike e quella piccola esclusiva li rendeva più intimi; infondeva nel suo cuore sempre troppo insicuro la tenera presunzione di far parte di qualcosa di solido e meraviglioso. «Allo stesso tempo, però, riesco a sentire anche la tua rassegnazione.»
Il cantante sospirò, prendendosi qualche secondo.
«Il rancore è un sentimento che non mi è mai appartenuto, e mai mi apparterrà. E comunque, in fondo, credo che io debba a mio padre un po’ di gratitudine. Se non ci avesse aperto la strada con tutta probabilità ora non sarei dove sono.»
«Già – continuò lei, guardandolo in quei occhi scuri che a ogni sguardo la facevano tremare – però, forse, avresti avuto un’infanzia normale. Avresti giocato ad acchiaparella con i tuoi compagni di scuola e, al pomeriggio, avresti fatto dei goal da capocannoniere a uno dei tuoi fratelli, in un porta arrangiata con bottiglie di plastica e bastoncini. O ti saresti legato un calzino nero in testa, a coprire l’occhio, e avresti corso come un pazzo per casa con una gruccia in mano a mo’ di uncino.»
Risero entrambi a quei sogni a occhi aperti – anche se in quelli di Michael una malinconia senza tempo tentava di fare capolino.
«Avrei sicuramente preferito essere Peter Pan.»
 
***
 
I lunghi periodi di distacco erano per Aura così difficili da sopportare che ogni volta temeva non avrebbe retto da sola, senza Michael. La prima lag del tour era terminata a fine gennaio e non avrebbe ripreso fino a settembre, ma nonostante questo era sempre complicato vedersi. Troppo impegnato, troppo preso. Interviste, video, lavoro. Lavoro, sempre lavoro. Si sentivano appena possibile – appena lui riusciva a trovare un momento libero –, ma la situazione andava facendosi via via sempre più insostenibile. Non solo erano lontani e le comunicazioni sembravano troppo difficili da gestire, ma ci si metteva sempre qualche altro “strano” intoppo o imprevisto a mettersi di mezzo. Non voleva assolutamente passare per la paranoica, ma ci avrebbe scommesso il negozio: c’era lo zampino – per non dire il forcone – di John. Quell’uomo, lo sentiva, sarebbe stata la loro spina nel fianco; la cosa peggiore era che Michael ancora non se ne rendeva conto.
Erano passate ormai settimane dall’ultima volta che avevano avuto la possibilità di stringersi; quelle braccia, quelle labbra, le emozioni che solo con Michael riusciva a provare le lasciavano un vuoto che né il negozio, né Tanisha con le sue tanto bizzarre quanto pericolose idee per passare del tempo insieme, riuscivano a distoglierla più di mezzo secondo dal pensiero del suo amore lontano.
Ovviamente, la sua migliore amica non era ancora riuscita a estorcerle di bocca la vera identità dell’uomo misterioso, ma Aura sapeva che il momento di sputare il rospo sarebbe arrivato presto. Aveva ormai usato tutte le tattiche a disposizione per sventare gli attacchi psicologici di quella pazza, il suo armamentario ormai prevedeva solo fughe a gambe levate e tentativi di persuasione su due gambe – con gli occhi azzurri e un sorriso da pubblicità di dentifricio.
«Tany, guarda quello!», stavano percorrendo la pista ciclabile sulla costa, in rollerblade – che, a dirla tutta, dopo i primi traumi cranici, le erano diventati simpatici e si erano trasformati nel suo passatempo preferito – e dopo l’ennesimo assalto verbale della sua logorroica amica, Aura stava cercando di depistarla cercando di farle conoscere un ragazzo. La scusa ufficiale era di trovarle un uomo per una possibile uscita a quattro con lei e “Mister X”, così lo avrebbe finalmente conosciuto e, forse – in realtà, molto improbabilmente –, avrebbe smesso di torturarla con miliardi di domande.
«Ma chi? Quella brutta copia di Jon Bon Jovi? Forse non lo hanno avvertito che si è tagliato i capelli! Non vorrei quel coso neanche se fosse l’ultima imitazione di uomo vero disponibile sulla faccia della terra!»
Insomma, per l’ennesima volta la sua cara amica si era ritrovata a minacciarla che, in un modo o nell’altro, avrebbe scoperto chi era il fortunato a cui tanto Aura teneva, senza aver necessariamente bisogno di trovare un fidanzato tra i pompati sul lungomare. Solo che lei non si aspettava certo che quel momento sarebbe arrivato così presto.
 
Avevano deciso di andare dal parrucchiere quel pomeriggio, ché i capelli di Aura non si potevano assolutamente guardare – a detta di Tany – e anche a lei una spuntatina non avrebbe affatto guastato. Nel salone che frequentavano di solito c’era inspiegabilmente una lunga attesa – ché l’avevano scelto proprio perché era sempre disponibile, a qualsiasi ora –, per cui lei e l’amica si afflosciarono sui divanetti in attesa del loro turno, sfogliando le riviste ormai consunte, lasciate su quei tavolini da tempo immemore; alcune vecchie anche di anni.
«Mel, non sarà il caso di fare un po’ di rifornimento? Per questo giornalista Reagan è ancora Presidente!», Tanisha stava già facendo l’inventario dei giornali da buttare mentre Melania sogghignava, divertita dalla proverbiale impenitenza della ragazza.
Aura non poté evitare di sorridere, rassegnata al fatto che certe cose non sarebbero mai cambiate – e, in effetti, non avrebbe mai voluto che la sua amica fosse diversa. Quando stavano insieme riusciva quasi a dimenticare la malinconia e la tristezza che provava a causa della lontananza di Michael.
Ed ecco che quel nome, non appena le vorticava nella mente, tornava a farla stare male. Non lui, no di certo, ma l’idea di non sapere quando avrebbe potuto vederlo – addirittura, sentirlo – di nuovo la faceva soffrire da morire.
«Eh, no, Aura… ero riuscita a toglierti quel muso lungo, mica avrò sudato per niente. Togliti quella faccia da funerale di dosso!», bastava un respiro fatto diversamente che Tany chiamava il pronto intervento. «Andiamo in edicola a prendere qualche rivista per Mel, sono curiosa di scoprire se Bill Clinton è ancora alla Casa Bianca!»
E fu pochi istanti dopo, in quella minuscola edicola di Melrose, che il mondo di Aura le crollò addosso.
File e file di riviste patinate e quotidiani riportavano tutti gli stessi titoli:
«Wacko Jacko e gli abusi sessuali ai danni di bambini innocenti.»
«Michael Jackson: Evan Chandler accusa la popstar di aver abusato di suo figlio.»
«Michael? Il mio Mike? Violenze sessuali sui bambini? Lui… no, impossibile… Mike…», i pensieri sconnessi della ragazza si susseguirono in un vortice infernale che la stavano facendo impazzire. Non poteva credere a quelle parole, non poteva assolutamente pensare che anche solo una virgola di quanto c’era scritto su quelle copertine fosse vero.
Tanisha la chiamava, ma chissà perché Aura sentiva solo un vociare insensato che le vibrava accanto all’orecchio. Sentiva le ginocchia molli, le mani tremanti. Il cuore pompare furioso nel petto. Le lacrime inondare le pupille fino a farle soccombere. Non aveva in corpo neanche la forza per piangere. Rimase lì di fronte a quel chiosco, pallida e immobile come una statua di sale, mentre quelle lacrime sorde toccavano terra senza nemmeno essere state piante.

 
 
Before you judge me, try hard to love me
The painful youth I’ve had
Have you seen my childhood?

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Capitolo 21
*** Everywhere I turn, no matter where I look The systems in control, it's all ran by the book I've got to get away so I can clear my mind, Xscape is what I need, Away from electric eyes ***




 
Aura non poteva credere davvero a quello che leggeva sui giornali. Non poteva perché semplicemente non riusciva a concepire l’idea che Michael potesse in alcun modo ferire un altro essere umano, figurarsi un bambino!
Aveva acquistato uno svariato numero di riviste, con il solo scopo di togliere quell’immondizia dalla circolazione, ma ormai il danno era fatto! Camminava con alcune copie di quelle volgarità nella borsa, mentre Tanisha la guardava stranita. Ovviamente, Aura non aveva ancora proferito verbo da quando si erano fermate al negozio e, nonostante le domande insistenti dell’amica, continuava a camminare in silenzio, cercando per quanto possibile di trattenere le lacrime.
Non tornarono al salone, ma percorsero la strada in direzione dell’appartamento di Aura, dove, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe dato a Tani tutte – o quasi – le informazioni del caso.
Per prima cosa, però, avrebbe dovuto chiamare Michael. Chissà quanto doveva stare male in quel momento! Non avrebbe potuto nemmeno immaginarlo alla prese con una falsità così grande, così pesante! Sottopelle, scivolavano viscidi dei terribili presentimenti e solo quando sarebbe stata in grado di risentire la sua voce avrebbe potuto respirare di nuovo.
Lasciò l’amica sul ciglio della porta guardarla inebetita, totalmente ignara di ciò che stava accadendo – che era accaduto prima di allora –, e si fiondò direttamente al telefono, componendo quasi a occhi chiusi il numero di Michael.
Nessuna risposta.
Nessuna risposta.
Dal ricevitore continuava a provenire lo stesso bip cacofonico e inquietante. Un rumore che Aura desiderava presto venisse sostituito dalla voce del suo Mike che le diceva “Sto bene”, “È tutto ok”, “Non ti preoccupare”.
Invece, NESSUNA RISPOSTA.
Il respiro andava via via facendosi più corto e le mani, strette entrambe intorno alla cornetta, le formicolavano pericolosamente. Le lacrime, che fino a quel momento era riuscita – nemmeno lei sapeva come – a trattenere, strariparono silenziose lungo le guance, cadendo a terra dove poco dopo finì anche lei, in ginocchio. Impotente.
Solo in quel momento si ricordò della presenza dell’amica, che si era tenuta a debita distanza, ma che vedendola in quello stato le si era avvicinata e la stringeva tra le braccia.
Aura sapeva che l’ora di raccontarle tutto era ormai giunta, ma non riusciva nemmeno a respirare, come avrebbe potuto trovare la forza di parlare?
«Non voglio forzarti, non mi interessa sapere qualcosa che non vuoi dirmi, e se non vuoi avrai sicuramente i tu…»
«Da un po’ di tempo a questa parte ho una storia con quest’uomo», Aura parlò, la voce flebile come un alito di vento, ma parlò. Fissava un punto imprecisato del pavimento, cercando in qualche modo di non crollare definitivamente. «Lui è stato, è stato capace di cose che… Vedi, Tany, lui mi ha presentata a me stessa. È tutto ciò che credevo un uomo non potesse essere, tutto… tutto quello che fin da piccola sognavo di trovare, ma che ormai credevo fosse solo polvere impalpabile.»
Le parole che pensava di non essere in grado di pronunciare strariparono come un fiume in piena, uscendo come sussurri, ma con una forza emozionale degna di uno tsunami. Gli occhi erano così umidi che non riusciva a tenerli aperti, le mani si sfregano l’una dentro l’altra, sudando, ma Aura poteva distintamente sentire il suo cuore, confessione dopo confessione, alleggerirsi come un palloncino lasciato libero nell’aria.
Quando finalmente le palpebre si alzarono, Aura vide Tanisha accovacciata accanto a lei, lo sguardo sbarrato, pieno di stupore, di incredulità. Per un istante si fissarono senza poter proferire alcunché; poi, finalmente, l’amica parlò.
Aura credette di stare per ricevere una lavata di testa in piena regola, invece l’amica le prese la mano e la guardò negli occhi; per la prima volta da quando l’aveva conosciuta anni prima, non trovò irriverenza in quell’espressione, vide comprensione, empatia. Vide il suo cuore pronto a offrirle sostegno.
«Credi davvero che Michael sia innocente?», le chiese in un sussurro, quasi fosse un segreto da custodire.
Aura ricambiò lo sguardo, questa volta dipinto coi colori forti della fierezza.
«Sarei pronta a giocarmici la vita!»
«E allora vai da lui e stagli vicino, sono certa che ne avrà bisogno e in questo momento vorrebbe che tu fossi lì.»
 
***
 
Stava impazzendo, letteralmente.
Le porte non erano mai troppo blindate, gli alberghi mai troppo isolati, le persone mai troppo affidabili, le notizie poi, quelle non erano mai vere. La vita mai troppo giusta, neanche con lui che di fortuna ne aveva fatta parecchia.
In quel momento avrebbe barattato tutta la buona sorte del mondo per un po’ di tranquillità, per un po’ di silenzio… un po’ di fiducia.
Il letto, sgualcito e disastrato dalle notti insonni che ci aveva trascorso nell’ultima settimana, non era ancora stato rifatto. John non permetteva neanche al personale di servizio di entrare per fare le pulizie. In un angolo della camera troneggiava una pila di piatti sporchi – da cui aveva mangiato solo lo staff, ché Michael non era stato in grado di ingurgitare niente, se non qualche sonnifero e una barretta di caramello.
Non gli era permesso telefonare, nemmeno affacciarsi alla finestra, che tanto poi cosa avrebbe visto una volta spostata la tenda? Uno stuolo di giornalisti pronti a massacrarlo – come se già non lo stessero facendo sulle prime pagine di ogni giornale mai pubblicato.
«Domani partiamo e ci fermiamo a Chicago», gli stava dicendo John – o meglio, ordinando. Continuava a chiamare gente al telefono, organizzare, sbrigare pratiche. Aveva chiamato anche l’avvocato, ma non aveva permesso a Michael di parlare con lui, come se fosse stato John quello sotto accusa!
Ma il cantante stava perdendo le forze, si sentiva tradito, violentato nei suoi valori e nelle cose semplici e vere in cui credeva, come aiutare il prossimo, i bisognosi, coloro che le sue fortune poteva solo sognarle. Lui aveva vissuto fin da bambino con l’ideale di rendere il mondo un posto migliore e ora? Ora quello stesso ideale gli si stava rivoltando contro.
Se ne stava seduto alla scrivania della suite e sfogliava le decine di riviste che Miko aveva portato dentro. Ormai non faceva altro da giorni, tutto il tempo a mangiarsi il fegato sulle false oscenità stampate nere su bianco, come in un film orribile che purtroppo era realtà.
Come formiche operaie, alacri e fiere, quel circuito di moderni Pinocchio proseguivano la loro personale battaglia contro di lui, montando sulla patina dorata di quel mondo costruito principalmente su menzogne, storie sulla sua vita che nemmeno lui conosceva.
«Potrei almeno avere il permesso di chiamare Auralee? Ne ho davvero bisogno… bisogno di sapere se almeno lei è immune da tutta questa spazzatura o anche lei mi ha voltato le spalle», la sua stava diventando quasi una supplica.
John sembrò pensarci un po’, esaminando fin troppo attentamente dei fogli appena presi dal tavolo. Michael si sentiva sfibrato, frustrato anche dal suo manager che sembrava più fargli la guerra che cercare di aiutarlo. Non che pensasse male di lui, quello no, ma l’unica cosa che probabilmente avrebbe avuto la forza di tiragli almeno un po’ su il morale era Aura e John sembrava non essere molto convinto di voler che Michael le telefonasse.
Stava impazzendo senza di lei; stava impazzendo senza di lei in qual mare di dolore che gli stava piombando addosso.
«Michael, non voglio infierire», esordì d’un tratto l’uomo. Sembrava avesse appena ripreso il filo di un discorso che in realtà non avevano mai cominciato. Rivolse al cantante un sorriso mesto, con una punta di commiserazione che Michael non avrebbe voluto notare. «Ma non ti sei chiesto come mai lei non abbia provato a mettersi in contatto con te neanche una volta? I nostri telefoni non hanno mai suonato… Forse è meglio se aspetti che le acque si siano un po’ calmate, torneremo a Los Angeles, e allora potrai incontrarla e spiegarle. In questo momento forse è spaventata e potrebbe non aver voglia di parlare con te. E comunque è sempre meglio chiarirsi faccia a faccia»
Michael sapeva che John poteva avere ragione, ma non voleva credere fino in fondo al fatto che Aura lo conoscesse ancora così poco, non si fidasse di lui al punto tale da evitarlo completamente e lasciarlo a marcire nel suo brodo.
Doveva parlarle a qualsiasi costo, e ci sarebbe riuscito. In un modo o nell’altro.
 
Quella notte, quando John si fu addormentato, Michael andò da Miko.
Avevano riesumato dal fondo della valigia il vecchio travestimento che utilizzava spesso per andare in giro, mischiandosi alla gente che passeggiava per le strade. Dovette convincerlo, non senza fatica, ché per la prima volta il suo autista – e amico – aveva avuto qualche remora nei confronti di John, il quale era stato piuttosto categorico sul fatto di evitare qualsiasi esposizione.
«Mi ha fatto anche cambiare tutti i numeri di telefono!», aveva aggiunto, mentre in sordina e grazie all’aiuto di un paio di portieri, stavano raggiungendo i garage.
Michael restò senza parole per qualche secondo, cercando di non sembrare troppo scioccato perché in quel momento non c’era affatto tempo per discussioni e chiarimenti al riguardo. Certo era, pensò camminando verso l’auto che lo avrebbe portato all’aeroporto, che prima o poi avrebbe desiderato da parte del suo manager un chiarimento in merito, nella speranza che fosse il più esaustivo e sincero possibile.
Forse, Aura non aveva avuto tutti i torti a pensare male, e Michael se ne stava rendendo conto solo ora.


 
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Capitolo 22
*** Seems that the world's got a role for me, I'm so confused will you show to me You'll be there for me ***



 
Michael stava attraversando il periodo forse più buio della sua intera esistenza. Al momento, l’unico amico che avesse al suo fianco era Miko, che lo stava portando all’aeroporto di Citta del Messico, nella speranza di trovare quanto prima un aereo per Los Angeles, e che John si accorgesse più tardi possibile della loro assenza.
Quando furono giunti a destinazione, prima di scendere Michael si sistemò il travestimento. Era nervoso, ansioso che qualcuno lo potesse riconoscere – con quello che i giornali dicevano di lui, avrebbe dovuto aspettarsi il peggio dalle persone, a giudicare dal caos che aveva visto sotto il suo albergo. Alla gente non interessavano le prove di colpevolezza, non ne avevano bisogno, per loro era già diventato un mostro.
«Miko, posso farti una domanda? – chiese Michael, prima di scendere – Perché, secondo te, mi stanno facendo questo? Perché ogni cosa che faccio, o che voglio fare, viene messa in discussione? Perché quando cerco di fare del bene, la cosa mi si rivolta sempre contro?», parlò con un tono così triste, si sentiva così triste, che gli venne quasi da piangere.
L’autista volse il capo verso Michael, che era seduto al suo fianco in auto, così camuffato da essere totalmente irriconoscibile.
«Non lo so, Michael. Non so perché ti abbiano fatto questo, ma io so che tu non faresti mai qualcosa di simile, nemmeno le penseresti cose del genere. Ed è questo che conta, che la gente che ti conosce e ti ama sappia che tu non sei quel tipo di persona, che sia certa di quel che sei senza aver bisogno di titoli sul giornale o prove di innocenza.»
Michael chinò il capo, gli venne subito in mente Auralee. Lui era convinto che quando lei gli aveva confessato di amarlo fosse sincera. Ma adesso? Ora che il mondo lo voleva distruggere, gli voleva togliere tutto ciò in cui aveva sempre creduto, quell’amore sarebbe bastato?
«Vorrei che anche Aura ne fosse convinta.» poi fece una pausa e guardò l’amico. «Ma ho paura, Miko. E sei lei mi credesse uno schifoso stupratore di bam…» le parole gli uscivano dalla bocca come lame affilate. Gli si rivoltava lo stomaco solo a pronunciarle. «Un orribile approfittatore?»
Il telefono satellitare di Miko suonò, ed entrambi sapevano chi c’era dall’altra parte. Non risposero. Parcheggiarono la vettura,  presero le due borse che avevano portato e corsero verso la biglietteria.
Il primo volo sarebbe partito in un’ora. Miko consegnò i documenti di Michael e i propri, espletò la pratica e, subito dopo, si diressero al controllo bagagli.
Il cantante sperò proprio che John lasciasse loro margine di tempo sufficiente a decollare. Del resto si sarebbe preoccupato poi.
 
***
 
Per la prima volta da quando si conoscevano, Tanisha era stata in grado di starle veramente vicina, di sostenerla e consigliarla. Auralee non riuscì ad esprimerle la gratitudine che provava per averla compresa e per aver creduto alle sue parole riguardo Michael. Ci sarebbe stato il forte rischio di ritrovarsi sola contro il mondo, quando i suoi genitori avrebbero scoperto ciò che la stampa diceva di lui e, in quel caso, un volto amico in mezzo ai lupi le avrebbe fatto davvero comodo.
La prima cosa a cui pensò quando vide albeggiare dalla finestra fu di chiamare Neverland; i numeri di contatto di Michael non erano più raggiungibili da giorni, non sapeva nemmeno se era rimasto a Città del Messico o se aveva fatto ritorno a casa, quindi chiamò per controllare, ma anche lì non rispondeva nessuno. Non le restò che chiamare l’aeroporto per prenotare il primo volo disponibile per Città del Messico.
Subito dopo aver riattaccato, il telefono squillò. Le bastò un nano secondo per riprendere in mano la cornetta e rispondere, concitata e ansiosa di sentire finalmente la voce di Michael che le assicurava di star bene.
«Aura, sono il papà. Cosa diavolo solo quelle sconcezze che ho letto sul giornale stamattina?»
Evidentemente, il momento di rimanere sola contro il mondo era già arrivato.
Il tono di suo padre raccontava tutta la vergogna e l’oltraggio che aveva provato leggendo quelle idiozie. Forse lui lo aveva già condannato, ma non lo conosceva bene come lei. Non aveva letto nel cuore di Michael tutta la purezza che invece lei aveva scoperto e assaporato standogli accanto, ascoltandolo, guardandolo negli occhi. Sì, molto spesso capiva di più guardandolo in quello sguardo profondo che attraverso le parole.
«Papà, stai calmo. Non c’è niente di vero in quello che c’è scritto sopra quella spazzatura, ne sono sicura.»
Tanisha, che era rimasta con lei per la notte, la fissava incredula e le faceva gesti con le mani, sussurrando parole sconnesse.
«I tuoi… loro sapevano… io…? Tuo padre…», ma finì con l’arrendersi presto, alzando le braccia al cielo e sedendosi con in viso l’espressione di quando si sentiva offesa.
«Non dirmi che tu sai, che tu capisci, che tu ignori quello che dicono i giornali. Sono accuse pesantissime e non si muovono così per gioco, senza un fondamento di verità! Devi assolutamente smettere di frequentare quell’uomo! È chiaro? Te lo proibisco!»
In tanti anni, Auralee era sempre stata la figlia dal buon carattere, la cocca di papà, e Dio solo poteva sapere quanto le sarebbe costato quello che stava per dire, ma non c’era cosa al mondo che l’avrebbe distolta dal cercare Michael, dallo stargli accanto, dall’amarlo. Nemmeno suo padre.
«Mi dispiace, papà. Non posso fare quello che mi chiedi. So che tu ora credi che Michael sia una specie di mostro, ma io so che non è così. O almeno voglio dargli il beneficio del dubbio. Cosa che dovresti fare anche tu.»
«Auralee!» sbottò il padre dall’altro capo degli Stati Uniti.
«Non chiamarmi Auralee con quel tono! Sono adulta, sono una persona responsabile e ragionevole e… »
Fu in quel momento che qualcuno bussò alla porta. Due, tre, quattro colpi. Aura fece segno a Tani di andare ad aprire.
«… e lo amo, papà.» proseguì. «Non gli volterò le spalle come probabilmente farà la maggior parte della gente. Io credo in lui!»
E all’improvviso, volse lo sguardo verso la porta e Michael era lì. Sconvolto, gli occhi rossi di chi non aveva mai smesso di piangere. Lui era lì in casa sua, con Miko dietro le spalle. Avevano entrambi l’aria di non aver dormito, ma quello che più la colpì fu quello sguardo innocente negli occhi di Michael e che fin dalla prima volta l’aveva colpita. Nonostante tutto quello che stava succedendo, non lo aveva perso.
«Io credo in te.» lasciò cadere e penzolare dal muro la cornetta del telefono e si affrettò tra le braccia di Michael, in lacrime. Lui l’abbracciò forte, così forte da rimettere insieme tutti i pezzi del suo cuore che si erano frantumati nell’attesa di rivederlo.
«Auralee, ma che sta succedendo? Sei ancora lì? Auralee!», il gracchiante suono della voce del padre di Aura, ancora in linea, proveniente dall’apparecchio distolse Tanisha dalla commozione per quella scena. Prese la cornetta e parlò con il padre per un istante.
«É meglio che vi sentiate in un altro momento. La faccio richiamare, signor Mitchell.»
 
Everyone's taking control of me
Seems that the world's got a role for me
I'm so confused will you show to me
You'll be there for me
And care enough to bear me

 

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Capitolo 23
*** It was cloudy before but now it's clear You took away the fear You brought me back to life ***



 
Un abbraccio tra due persone non era mai durato così a lungo.
Mai.
Miko e Tanisha, raccolti in disparte, parlavano a bassa voce mentre Aura e Michael, seduti vicini sul divano, si stringevano l’uno all’altra. Entrambi avevano per troppo tempo aspettato conforto, sollievo, comprensione. Entrambi erano stati male da morire; preoccupati l’una dell’altro, in ansia. Disgustati, rammaricati e arrabbiati con il mondo intero che stava cercando di distruggere una delle poche persone che davvero si occupava degli altri con il cuore colmo di generosità e altruismo.
Forse gli esseri umani non erano ancora pronti ad avere in mezzo a loro una creatura tanto pura: era questa l’unica ipotesi a cui Auralee riusciva a pensare.
«Non so proprio come sia possibile che le persone si bevano certe stronzate, non lo so proprio.»
Mentre loro due se ne stavano lì in silenzio, Miko stava spiegando all’amica di Auralee quello che avevano vissuto a Città del Messico nelle ore precedenti.
«Gli ultimi concerti sono stati annullati, Michael non è in grado di affrontare una fatica simile, dopo i problemi che ha avuto alla schiena e tutto questo casino che gli si è abbattuto addosso ingiustamente.»
Cercava di tenere un tono di voce basso, non voleva angustiare Michael più di quanto già non fosse, ma più spiegava a Tanisha la situazione, più la rabbia gli montava nel corpo, come un fiume in piena pronto a esondare.
«L’unica cosa che mi è venuta in mente è stata portare Michael da lei…», entrambi si volsero verso i due ragazzi, ancora stretti.
«Hai fatto forse l’unica cosa che potevi fare.» Gli rispose lei. «Aura mi ha raccontato tutta la storia in queste ultime ore, aveva tenuto il segreto perché non voleva esporsi, non voleva mettere in luce la loro relazione per proteggere l’unica cosa che ancora Michael era riuscito a tenere per sé.»
Entrambi si avviarono verso il lavandino della cucina. Miko sedette al piccolo tavolo e Tanisha riempì il bollitore.
«Vuoi un tè?», gli chiese, con un mezzo sorriso mesto stampato in volto.
«Non hai qualcosa di più forte? Mi servirà per quando arriverà John, probabilmente mi licenzierà.»
«Credo che questo John avrà ben altro a cui pensare che licenziare te. Hai fatto solo la cosa giusta per Michael, e per Aura.»
La ragazza spense il bollitore e prese dalla dispensa dell’amica l’unica bottiglia di superalcolico che aveva in casa. Era una vecchia e impolverata bottiglia di Cognac, che nemmeno sapeva come ci fosse arrivata lì, perché non aveva mai visto Auralee bere un goccio di qualcosa di più forte di una birra.
Ne versò un paio di dita a lei e altrettante al suo nuovo amico e si sedette, alzarono appena i bicchieri, facendoli tintinnare, brindando silenziosamente a qualcosa che nemmeno loro sapevano. Tanisha si volse a guardare Aura e Michael, che avevano sciolto l’abbraccio, ma ancora si stringevano con lo sguardo. Si fissavano con gli occhi lucidi, in silenzio. Erano così in profondità l’uno nell’altra che Tani arrossì, imbarazzata per aver invaso quel loro momento così intimo.
«Da quello che mi ha raccontato Aura ho intuito che fra loro ci fosse qualcosa di grande, ma a guardarli qui ora, così perdutamente uniti, mi rendo conto che non avevo proprio capito un bel niente.»
 
***
 
Auralee aveva fatto portare dalla rosticceria qualcosa per pranzo, giusto per mettere qualcosa nello stomaco, anche se nessuno di loro aveva dimostrato granché appetito. Michael aveva toccato appena il pollo, bevendo solo grandi quantità di succo di mela. Solo Miko aveva mangiato nel vero senso del termine, finendo ciò che era avanzato negli altri piatti. Tre paia d’occhi lo fissavano con stupore.
«Cosa avete da guardare? Quando sono nervoso mi viene fame, cosa ci posso fare?»
Si accese una flebile risatina tra i commensali. Flebile, ma sincera.
Non che servì a molto, quantomeno distese, seppur lievemente, la pesantezza che tutti avevano sentito sulle spalle da qualche giorno a quella parte.
Quando un paio d’ore dopo suonò il citofono i brutti pensieri si erano lievemente dissipati; Michael era riuscito – quasi – a ridere, raccontando qualche aneddoto divertente del tour. Tutti avevano rimosso – quasi – che da lì a poco sarebbe arrivato John – perché ci avrebbero scommesso qualsiasi cosa, sarebbe arrivato di certo.
 
***
 
«Non posso credere che tu sia sgattaiolato così, come un ladro, senza nemmeno consultarmi! Accidenti, Michael, cosa ti dice la testa, ultimamente? Lo sai che se per caso qualcuno ti avesse seguito, ora anche Auralee sarebbe esposta a tutto questo casino? Non ci hai pensato?»
John era un fiume in piena. Aveva parlato solo lui per minuti interi, senza dare a Michael la possibilità di dire niente, o forse non aveva proprio parole. Restò lì in silenzio fino a quando John non ebbe pronunciato quell’ultima frase. Alzò lo sguardo e lo puntò dritto in quello di John per la prima volta dopo giorni.
«Non venire a dirmi che adesso ti interessa la sicurezza di Aura e che ti preoccupi che lei possa venire coinvolta nei miei problemi o altre stronzate del genere, John!»
L’aria si fece davvero tesa, erano tutti ammutoliti, compreso il manager che non aveva mai sentito Michael alzare la voce o dire qualcosa di anche solo lontanamente scurrile.
Il cantante se ne accorse e capì subito il motivo che li aveva portati a quella reazione, anche lui non si capacitava di come si era appena posto con il suo manager, ma si sentiva così frustrato che non se ne curò.
«Scusa, John, non volevo gridare… è che mi sono proprio stufato. C’è già tanta gente che non so per quale motivo ce l’ha con me, non vede l’ora di affossarmi, e adesso sembra che anche tu abbia deciso che merito di essere punito per qualcosa che non ho fatto.»
«Michael...», John abbassò gli occhi al pavimento con un’espressione mesta, poi rialzò il viso per guardare il suo cantante. Per la prima volta dopo mesi Michael sembrò ritrovare John, quello vero, quello che gli era sempre stato vicino, quello che si sarebbe buttato in mezzo al fuoco per lui. Quello che per certi versi, negli ultimi tempi, era diventato un po’ come un padre per lui e a cui si era sentito legato come un figlio.
«Hai ragione, Michael. Non mi sono comportato nel migliore dei modi ultimamente… - John prese una pausa -, è che, beh, ecco, ti ho sempre visto così fragile sotto tanti aspetti che ho sviluppato questo morboso senso di protezione, quest’ansia che mi porta a credere che nessuno sia sinceramente interessato a te e a come stai; che tutti si avvicinino a te solo con lo scopo di ferirti. »
Michael e Auralee si alzarono dal divano, da dove non si erano quasi mai alzati se non per mangiare. Lui teneva lei per la mano, stretta.
«Forse hai ragione, John. Tante persone stanno tentando di ferirmi, di screditarmi, di abbattermi… e ti ringrazio per essermi così affezionato. Ti ringrazio per arrivare fin dove io non riesco, per cercare di sopperire alle mie mancanze da eterno Peter Pan, ingenuo e infantile. Io sono forte sul palco, ma per il resto, me ne rendo conto, non mi rendo conto di ciò che mi circonda.»
Michael si volse infine verso Auralee e di nuovo il suo sguardo si perse in quello di lei; tutti poterono toccare con mano il sentimento profondo che li legava, persino John…
«Ma Aura, John… lei non potrebbe mai farmi del male, non mi userebbe mai, ne sono sicuro. Fidati di me per una volta. Lei è vera, delicata, travolgente nelle sua semplicità, come il Santana, quando ti sorprende con le sue lievi carezze per poi diventare vento caldo e seducente. Lei conosce il vero Michael e lo accetta così com’è… con i suoi pochi pregi e i mille difetti. »
Aura gli baciò appena le labbra, per pochi millesimi di secondo perché sapeva che a lui non piacevano tali dimostrazioni d’affetto in pubblico, gli scosto una ciocca riccia dal viso e gli sorrise.
«Smettila, Applehead… tu di difetti non ne hai. »
 


 
 It was cloudy before but now it's clear
You took away the fear
You brought me back to life

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