THE GREEN BLADE: Legacy - PARTE 1: Il passato

di Alvin Miller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1: La prima battuta di caccia ***
Capitolo 2: *** 2: Un cambiamento radicale ***
Capitolo 3: *** 3: Contratto a Supervisione ***
Capitolo 4: *** 4: Un Nuovo Cacciatore ***
Capitolo 5: *** 5: L'Uragano che Vola ***
Capitolo 6: *** 6: Viaggio alla Schiena del Drago ***
Capitolo 7: *** EPILOGO - PASSATO: Catene ***



Capitolo 1
*** 1: La prima battuta di caccia ***


THE GREEN BLADE: Legacy



Prima di cominciare, un attimo di attenzione: questa storia è stata pensata e scritta con l’intenzione di simulare un racconto dal vivo; immaginatevi di stare seduti intorno a un falò e di raccontare la vostra storia ad un gruppo di persone in ascolto. Errori nell’uso dei tempi verbali, distrazioni e oscillazioni nella descrizione dei dettagli e nel ritmo potrebbero essere la norma, e questo racconto non si fa scrupoli nel mostrarli in tutta la loro vivida naturalezza.

Uno stile sperimentale che spero gradirete, come anche spero gradirete la storia che sto per raccontarvi...




PARTE 1: Il passato

Nove anni prima di una presa di coscienza

1: La prima battuta di caccia

Alla luce dei fatti, se dovessi riassumere la vita che ho trascorso ad Uruma nel corso degli anni, penserei che da sempre sia stata un continuo viavai di eventi che non ero mai stato in grado di controllare.

Si dice che se un pony abbia sufficiente forza di volontà, non esiste niente a questo mondo che non sia in grado di conquistare. Ebbene, io posso affermare con certezza che non è questo il mio caso.

Intendiamoci, non voglio puntare lo zoccolo contro mio Zio e verso il metodo che ha scelto per educarmi. Col tempo ho imparato sulla mia pelle le difficoltà del suo stile di vita, e ripensando al modo in cui mi ha cresciuto, sono convinto che non abbia potuto fare niente di meglio.

Se devo raccontarvi la mia storia dal principio (voglio dire, da dove comincio a ricordare), probabilmente inizierei da un sogno che ho fatto una notte.

Ero piccolo allora, credo di avere avuto a malapena otto anni. Di quel periodo ho pochi ricordi, ma alcuni avvenimenti ce li ho impressi così bene in testa che mi sembra quasi siano successi ieri, e potrei pure citarvi le conversazioni!

Quello che è successo quel giorno lo ricordo molto bene: in pratica nel sogno c’eravamo io e la mia famiglia. O meglio, dei pony che nel sogno associavo ai miei genitori, dato che io non li ho mai conosciuti per davvero.

Non ricordo cosa stesse succedendo, ma ricordo bene il senso di protezione che mi dava immaginarmeli vicini. Era bello… era rassicurante.

Poi c’è stato quel rumore.

Vi sarà capitato qualche volta di essere risvegliati bruscamente e di ritrovarvi completamente spaesati dalla situazione. Vi fissate intorno confusi, cercando di ricordare chi siete e dove vi trovate, era come mi sentivo io.

Avevo aperto gli occhi in stato confusionale. Dalla stanza in cui dormivo, nella nostra baracca, sentivo delle voci provenire da fuori, e la prima cosa che avevo fatto era di controllare se mio Zio fosse presente.

Era un’abitudine. Lui mi metteva sempre in guardia dicendo che i predatori potevano attaccarci in qualunque momento, e se fosse successo davvero, volevo che lui fosse lì con me, pronto a proteggermi.

Comunque mi tranquillizzai quando capii che la situazione era sotto controllo.

Uscii per controllare la fonte e non mi sorpresi più di tanto quando vidi i due stalloni che discutevano con lui davanti alla recinzione di casa nostra.

Come vi ho detto, non ho mai avuto un’infanzia come quella che presumo abbiano i pony normali, quindi non ho mai avuto l’occasione di legare con dei veri coetanei (non che a Capo Unicorn ce ne fossero mai stati molti, a dire la verità), in compenso ero abituato a vedere molti adulti andare e venire nella nostra baracca. Erano per lo più Cacciatori, come mio Zio, e avevo riconosciuto facilmente i due che si erano presentati quella mattina prima dell’alba, dato che già in altre occasioni li avevo visti prendere parte con lui a una missione.

Erano entrambi più giovani di lui (anche se non so esattamente di quanto) e non sono sicuro di sapere come si chiamassero, ma ricordo bene com’erano fatti, perché come tutti i Cacciatori avevano quello strano modo di vestirsi che in qualche maniera li caratterizzava, distinguendoli tra loro; quella mescolanza di strumenti del mestiere e bizzarria che col tempo avrei finito per adottare anch’io.

Vediamo di fare mente locale, perché corro il rischio di confondere le caratteristiche di uno con quell’altro:

Il primo dei due era un unicorno, come mio Zio. Aveva un manto scuro e una criniera… no, scusate! Piccolo lapsus. Era l’esatto contrario!

Manto blu turchese e CHIOMA scura. E di lui ricordo bene la grande stazza e il fatto che molto spesso lo vedevo caricarsi sui fianchi un gran quantitativo di equipaggiamenti per la squadra.

Spesso si presentava con una sella sul dorso, che a sua volta era anche il suo Simbolo di Virtù sul fianco, e ancora oggi devo capire a cosa mai gli potesse servirgli.

Aveva con sé la sella anche quel giorno, ma a parte questo, non indossava pesanti bardature. Suppongo che la sua massa bastasse da sola a compensare tutto il resto. In compenso, l’enorme mazza chiodata che levitava intorno a lui con la magia, doveva garantirgli un potere d’attacco invidiabile.

Ricordo anche che il suo muso schiacciato, e le rughe intorno alla bocca gli davano sempre un grugno un po’ ridicolo, sembrava che fosse andato a sbattere con il naso contro un muro.

Parlando del secondo stallone, la prima cosa che dovrei accennare su di lui è che era un pony di terra.

Lo so che sembra strano: “Un pony di terra con un Contratto da Cacciatore?!” Il fatto è che lui era speciale. O almeno doveva esserlo, o non mi spiegherei la considerazione che avevano gli altri di lui. Evidentemente il Borgomastro gli doveva qualche favore…

Non ricordo se avesse un manto ocra oppure arancione, ma non mi dimentico la particolarità dei suoi crini, che alternavano righe orizzontali di bianco a segmenti grigi, come anche l’orribile cicatrice che gli segnava il viso di traverso: quattro artigliate che partivano dall’attaccatura sinistra della chioma e scendevano fino al sottomento, tracciando un percorso che solo per miracolo non lo aveva privato dell’occhio. La Dea mi è testimone, quel pony m’incuteva una paura fottuta!

La bardatura che indossava era fatta di semplice cuoio (sempre che non fosse di qualche altro materiale che non conosco), e così su due zoccoli non appariva molto resistente, specie tenuto conto che la sua stazza non si avvicinava neppure lontanamente a quella del collega, ma avreste dovuto vedere le lame che montava sulle zampe anteriori! Erano attaccate alla parte esterna degli arti su un supporto fisso retrattile, che dalla punta del gomito scendeva lungo i ginocchi fino a poco sopra gli zoccoli. Se le aveste viste, avreste detto che assomigliavano a quelle che uso io ora, con la sola differenza che le sue non si collegavano a un meccanismo scorrevole come nel mio caso.

Più tardi vi spiegherò come le utilizzava.

Adesso, però, vorrei un attimo parlarvi di mio Zio. Credo sia doveroso vista l’influenza che ha avuto su di me.

Il suo nome era Brave Lion. Altisonante, ma mai così calzante a un pony come nel suo caso.

Di lui conosco solo ciò che ho imparato stando al suo fianco: era un unicorno in grado di fare virtù di ogni contesto, e che sapeva levarsi dai guai con la stessa facilità con la quale ci si infilava.

Non ho ricordi della mia infanzia prima di conoscerlo, e per quanto provi ad andare a fondo nel mio passato, la sola cosa che riesco a ricordare sono i momenti che abbiamo vissuto insieme in quegli anni. È stato lui a insegnarmi tutto quello che so e che mi ha svezzato quando non ero ancora capace di articolare una frase da solo.

Come vi ho detto, era un Cacciatore, e forse per fedeltà al suo nome era solito partire per una missione con indosso un pesante mantello, dal colletto del quale sporgeva un folto pellicciotto arancione, che inevitabilmente rimandava per associazione alla criniera di un felino. Anche la sua capigliatura era dello stesso colore (lui la teneva sempre raccolta all’indietro con degli spaghi, a formare una specie di coda da cavallo) e il manto grigio scuro si abbinava alla perfezione con la sua cappa. Il suo Simbolo era un trofeo di caccia, una testa di leone per l’esattezza.

Quella mattina, in particolare, faceva uno strano effetto osservarlo da lontano, con i colori caldi della testa in contrasto sul resto del corpo, mentre il sole che sorgeva lo illuminavano da dietro.

Ai miei occhi era sembrato come un’entità delle tenebre, pronto a scendere su Uruma per confondersi tra i pony diurni.

Credo che in quel momento mi stessi stiracchiando le ali, quando il Cacciatore pony di terra, vedendomi emergere dalla baracca, toccò la spalla di mio Zio facendolo girare verso di me.

«Spirit, sei già sveglio? La colazione è sul fuoco, vai a mangiare.» Mi disse.

Lui mi chiamava sempre così, anche se in realtà, lo sapete, il mio nome esatto è Liberty Spirit. Ma nessuno mi chiama mai Liberty…

Tornando a noi, forse avrei dovuto sorprendermi dopo aver sentito l’invito di mio Zio: la veglia per me di solito veniva più tardi, con il sole già alto e in certi casi, quando lui partiva presto per una missione, dovevo trascorrere il resto della giornata da solo, in attesa del suo ritorno, curando il mio piccolo orticello e giocherellando con le creaturine che vedevo strisciare fuori dalle rocce prima che la grande siccità si prendesse tutto.

Ero piccolo e ingenuo, allora, ma forse ero anche intontito dal sonno, altrimenti avrei capito al volo che quel giorno mi aspettava un cambiamento epocale.

Mi ero seduto a mangiare davanti al piccolo falò acceso all’aperto, e intanto i tre pony più in là stavano affilando le lame discutendo l’incarico che avrebbero svolto quel giorno.

La Green Blade di mio Zio era adagiata contro lo steccato, immobile nella sua letale bellezza; unica arma che non aveva bisogno di essere affilata dopo l’utilizzo. Brave diceva sempre che per quante carni assaggiasse, essa manteneva sempre i suoi bordi intatti, come se fosse ogni volta alla sua prima battaglia. Spesso mi perdevo a osservarmi riflesso su di essa, specchiandomi contro l’anima di cristallo verde. Aveva un reticolo di venature che scorrevano sulla sua lunghezza, e questo le infondeva sempre un non so che di organico, che contribuiva ad alimentarne l’aura di mistero.

Quella mattina, i primi raggi del sole si alzavano al di là della Schiena di Drago, e avevano scelto la Green Blade per mettere in scena la loro esibizione di luci e colori. I miei occhi erano stati catturati dallo spettacolo che si era riflesso contro di essa. Vedere come i riverberi ne attraversavano il filo, cambiandosi in una gradazione che aveva un qualcosa dei grandi prati erbosi che oggi sono soltanto un lontano ricordo di Uruma, mi aveva completamente estraniato dalla realtà, mi aveva abbacinato con il suo fascino.

Mentre mangiavo, non ascoltavo niente di ciò che si dicevano gli stalloni vicino a me, neppure quando per un momento sembrava che i toni si erano fatti più accesi, come se qualcuno avesse parlato di qualcosa che era stato assolutamente irripetibile e folle.

Me ne stavo tranquillo e osservavo la Green Blade, convinto che da un momento all’altro me ne sarei tornato a dormire.

Dovevo aver pensato che più tardi mi sarei svegliato di nuovo e avrei svolto le mie solite faccende mattutine: pulire la baracca, curare l’orto, oppure leggere gli appunti sul diario di mio Zio per passare il tempo. Avrei giocato un po’, o magari avrei tentato il mio quotidiano esperimento di volo, per poi fallirlo miseramente.  Invece mio Zio mi venne in contro al termine della loro discussione.

Si era seduto vicino a me e aveva un’aria mite. Mi sorrise. Forse mi accarezzò anche la criniera, ma su questo non ci scommetterei i miei Argenti.

Lo confesso, a quel punto il suo comportamento mi mise in allarme, ma non avevo modo di prevedere che cosa mi avrebbe detto.

Alle sue spalle, i due Cacciatori ci fissavano immobili, e non sembravano contenti della decisione che stava per prendere.

I nostri sguardi s’incontrarono, e per quel poco che consentiva la debole luce ambientale, vidi i miei occhi rispecchiarsi nei suoi.

Mi aveva chiesto se mi sentivo sazio, e io che non sapevo come rispondere mi ero limitato ad accennare un “Sì” (con la testa. Non credo di aver parlato).

A quel punto ricordo molto bene le parole che mi disse:

«Bene Spirit, oggi verrai con noi.»

Per tutto il tempo non facevo che farmi domande tra me e me. Trottavo alle loro spalle, faticavo a seguire il ritmo della loro marcia, ed ero convinto di essere un peso per tutti meno che per mio Zio.

Onestamente, non so perché decise di portarmi con loro proprio quel giorno. Non mi ricordo di averlo mai desiderato apertamente e, a dire la verità, avevo paura di quello che poteva succedermi.

Sapevo (perché me ne parlava spesso) di scontri ferocissimi contro creature enormi dai denti affilati, sapevo anche di Contratti finiti in tragedia con intere squadre sterminate, e sebbene nei tempi più recenti i Cacciatori non facevano che lamentarsi della crescente penuria di incarichi e di mostri di grandi dimensioni, non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare io se avessimo dovuto affrontare una situazione simile.

Gli altri due stalloni approfittavano delle sue distrazioni per lanciarmi occhiate infastidite. Quello più grosso in particolare non poteva soffrirmi.

Decisi di fare finta di niente, per non gravare ulteriormente sulla squadra.

Ricordo che mentre marciavamo, misi uno zoccolo sul posto sbagliato e finì per inciampare su una roccia. Ruzzolai a terra sparpagliando dappertutto il piccolo carico di attrezzatura che mi avevano affidato, e dovetti sorbirmi le grasse risate dell’unicorno turchese intanto che mio Zio mi aiutava a raccogliere tutto.

Non prese le mie parti mentre l’altro mi umiliava.

Per farmi trascorrere la marcia più in fretta, mi ero fatto coraggio e avevo tentato di chiedere qualche informazione sul Contratto che stavamo svolgendo. Speravo così di scoprire se era previsto per me un compito preciso.

Dopo aver aspettato un po’, il pony di terra con le lame alle zampe mi fece un rapido resoconto. In seguito, ascoltando anche i commenti del collega unicorno e di mio Zio, riuscii a ricostruire a grandi linee la natura della missione:

Lungo il sentiero che stavamo percorrendo, attraverso le colline dove si estendevano i campi coltivati di allora, una famiglia di bovini aveva trasmesso una richiesta di aiuto all’ufficio dello Sceriffo di Costa perché sospettavano di essere assediati da qualche predatore misterioso.

Una delle loro giovenche era scomparsa, e il capofamiglia (un toro che, a quanto mi risulta, mio Zio conosceva) aveva raccontato di aver udito nella notte presenze inquietanti attraversare il loro campo di mais.

Doveva trattarsi di qualcosa di piccolo, almeno a giudicare da alcune delle creature che erano state avvistate negli anni precedenti, ma anche così, era necessario che qualcuno intervenisse tempestivamente. E quel qualcuno eravamo noi.

A quei tempi era insolito per dei mostri di piccola taglia spingersi così vicino alle campagne, così vicino a Capo Unicorn, ma a parte constatarlo, nessuno di loro sembrò dare grande importanza alla cosa.

Una volta lì, avrebbero setacciato la zona in cerca di tracce che potessero ricondurre al misterioso predatore, e una volta stanato e messo alle strette, lo avrebbero tolto di mezzo salvando le mucche. Un lavoretto da niente a sentir loro, e forse fu questa la ragione che spinse mio Zio ad arruolare anche me.

Abbiamo marciato per circa due ore, senza mai prenderci un attimo di respiro, e ormai il sole stava già illuminando la nostra strada.

In tutta la mia vita avevo faticato davvero poche volte come quella mattina. Se solo le mie ali fossero state capaci di sorreggermi in volo, avrei potuto dilazionare gli sforzi riposando ogni tanto le zampe. Sfortunatamente, la natura ha deciso che io non ho il permesso di usarle, come se già l’arrivare all’età adulta senza un proprio Simbolo di Virtù non è abbastanza per umiliarmi…

La fattoria delle mucche che avremmo dovuto raggiungere quella mattina si accostava ad un piccolo appezzamento di mais (se dovessi trarre una stima presumo non fossero più di due acri di terra) con alle spalle un piccolo albereto e un florido orto dove le colture stavano crescendo vigorosamente, pepate e mature. Vederlo mi aveva messo di malumore, perché pensavo al mio, che per quanto mi sforzassi non era in grado di darmi più di qualche occasionale prodotto per volta.

Abbandonato sul bordo del campo c’era un aratro, vicino un carretto pieno di stoppie e tutoli dal precedente raccolto, e alcuni mucchi di fieno secco di cui una parte doveva probabilmente essere destinata alla sistemazione del tetto, che a sua volta era fatto di fieno.

Intorno alla proprietà eravamo circondati da una folta boscaglia, che pareva pronta a vomitarci addosso qualsiasi genere di orrore.

In tutta onestà, non so come facesse quella famiglia a vivere tranquilla considerato quanto erano isolati. A questo punto non mi sorprende più di tanto che qualche predatore avesse fiutato il loro odore.  

«Ma i contadini non dovrebbero essere mattinieri?» (O qualcosa del genere) Aveva commentato il pony di terra dopo che per un po’ avevamo gironzolato intorno alla proprietà senza trovare anima viva.

L’unicorno con la mazza chiodata aveva premuto il muso già schiacciato di suo contro una delle finestre impolverate della stalla, e aveva sbirciato dentro battendo alcune volte sul vetro. «Non si vede un cazzo qui, porca puttana!» Commentò di seguito. Chissà perché questa frase me la ricordo bene…

«Lavati la bocca quando sei in sua presenza!» Lo rimproverò mio Zio, riferendosi a me.

Presero a battibeccare tra loro, perché all’unicorno non andava proprio giù che quella mattina fossi con loro, ma poi il pony di terra si mise di mezzo riportando l’attenzione sul Contratto che dovevano svolgere.

«Hai detto di averci parlato?» Chiese il pony con lo sfregio sul volto.

«Infatti» Rispose Brave. «Avremmo dovuto trovarci a quest’ora per decidere il da farsi.»

«E allora dove sono?!» Irruppe l’unicorno.

«Che vuoi che ne sappia, datti una calmata!»

Io nel frattempo ero in disparte. Guardavo il piccolo aratro abbandonato per terra, c’erano dei ciuffi d’erba ingiallita su tutto il contorno, altro particolare che ricordo bene.

Ad un certo punto mi parve di udire un suono provenire dal campo di mais, non molto distante da dove mi trovavo. Trattenni il fiato e cercai di ascoltare meglio. Cercavo di capire se era solo la soggezione o se davvero avessi sentito qualcosa.

Qualcuno di loro esclamò «Guardate qua!» e la mia attenzione si spostò subito in quella direzione.

Era stato l’unicorno, che vidi chinarsi a terra, a indicare qualcosa.

Quello che notai io fu soltanto dell’erba schiacciata, ma i loro occhi più esperti avevano chiaramente riconosciuto delle tracce dei predatori, che invece a me sfuggivano.

Mio Zio si fece scuro in volto. Andò verso la stalla e ricominciò a bussare alla porta. «Ehi, ci siete?!» (Disse anche dei nomi, ma non riesco a ricordarmeli.)

Un colpo più deciso fece spalancare l’accesso, e poi si aprì lentamente, facendo scricchiolare i cardini.

«Che cos’è questa puzza?!» Si lamentò il pony di terra.

«Sono vacche, tu cosa pensi?» Fu subito pronto a commentare l’altro unicorno. Quanto lo odiavo.

Io ero più là, non potevo sentire ciò di cui parlavano, ma a giudicare dal modo in cui il pony con la cicatrice si copriva il naso, doveva essere disgustoso.

«Questo non è letame… » fece mio Zio. Si allungò in avanti col collo e annusò l’aria.

L’altro unicorno lo imitò, esclamando: «Che la Dea mi prenda!»

All’improvviso vidi tutti e tre sguainare le loro armi.

La Green Blade fu sfilata dalla spalla di Brave Lion e levitò alla testa del gruppo.

«Andiamo a controllare.» Disse mio Zio.

A quel punto si girò verso lo stallone turchese e gli disse di badare a me mentre loro entravano.

«Io?! Cosa ti fa pensare che mi frega qualcosa di lui… » ma venne interrotto subito.

«Fallo e basta! Avevi il doppio dei suoi anni quando mi rompevi le scatole trascinandoti dietro di me!»

Lo devo confessare: godetti non poco a vedere quello sbruffone azzittito così.

Brave e il pony di terra oltrepassarono con prudenza l’entrata della stalla, mentre io me ne restavo fermo al mio posto, fissando timidamente il muso ingrugnato dell’unicorno.

«Vieni qui, schiappa!» Mi aveva ordinato di colpo, battendo la mazza per terra.  «Ci manca che passo dei guai per colpa tua!»

Io ubbidii. Qualcosa mi disse che sarebbe stato meglio ascoltarlo.

Quando venni più vicino, in effetti, percepii che qualcosa di cattivo stava filtrando fuori dalla costruzione.

Comunque non dovemmo aspettare troppo per scoprire cosa fosse.

Il pony di terra emerse di corsa qualche secondo dopo, e galoppando di fretta verso il retro della casa andò a vomitare proprio nel bel mezzo dell’orto.

Mio Zio uscì per ultimo, più calmo. Lui e l’unicorno che mi aveva “tutelato” si fecero dei cenni reciproci, ma nessuno parlò per descrivere ciò che avevano visto all’interno.

Più tardi venni a sapere che l’intera famiglia era stata divorata, e che all’interno dell’abitazione erano rimaste solo le loro ossa e poco altro.

L’assalto doveva essere avvenuto quella stessa mattina, colti di sorpresa probabilmente al risveglio.

Il pony di terra tornò da noi asciugandosi la bocca.

Era visibilmente imbarazzato per quell’esibizione di debolezza, ma faceva il possibile per non darlo a vedere.

«Non può essere successo da molto» disse «potrebbe essere ancora nei paraggi.»

«Non è stata una sola creatura.» Puntualizzò mio Zio. «Un essere così piccolo non può mangiare così tanto da solo e andarsene sulle sue zampe.» Si chinò a terra, tornando ad esaminare le tracce. «E poi guarda, sembra che ci sia passato un intero branco qui!»

Io, spinto dalla curiosità, mi ero affacciato sul ciglio della porta per curiosare all’interno. Fui investito dall’odore ferroso del sangue, mischiato ad altre esalazioni. Mi penetrò nel cervello, trapassandomi il naso.

Nel buio più totale ero riuscito a vedere i chiari segni della lotta che c’era stata all’interno. Avevo visto le artigliate sui muri, le macchie scure sul pavimento, e i resti di quei corpi, che avrebbero finito per segnarmi profondamente, peggio di quanto abbia mai fatto qualsiasi battuta di caccia.

Poi sussultai, quando vidi pararsi di fronte l’antipatico unicorno turchese. Lo stronzo si era infilato dentro mentre noi non guardavamo, e non si era fatto scrupolo a sbucare dal buio, facendomi saltare dallo spavento.

Rise forte e a lungo, gli piaceva proprio far vedere quanto fossi insignificante per lui.

Mio Zio non disse ancora niente, lui e il pony di terra erano tutti concentrati sul perlustrare i dintorni del bosco.

«Ci avresti mai creduto se te lo avessero raccontato?» Avevo sentito chiedere al Cacciatore sfregiato.

«A che ti riferisci?»

«I bovini. Un’intera famiglia divorata in una mattina, e per giunta in casa loro.»

«Non è così strano.» Aveva dichiarato l’unicorno turchese. «Quando hanno fame, agli animali gli frega poco di portarsi via il cibo. Costa fatica, e rischiano anche di farselo fottere da sotto il naso.»

Io nel frattempo non potevo fare altro che trotterellare lì intorno ascoltando i loro discorsi. Non m’intendevo di caccia, quindi non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare per rendermi utile.

L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era l’orrore in cui mi avevano trascinato.

L’idea che lì dentro si fosse compiuto un simile delitto mi aveva fatto contorcere le budella, per non parlare della puzza che stava uscendo dalla stalla.

Mi salì un conato, e stavo quasi per rimettere la colazione, quando d’improvviso sentii un altro rumore levarsi dal campo di mais. Identico a prima!

C’era qualcosa laggiù, e se prima potevo anche giustificarlo come uno scherzo della fantasia, stavolta ne avevo la certezza!

«Zio!» Urlai immediatamente e Brave Lion scattò verso di me con l’arma al suo seguito.

«C’è qualcosa là dentro!» Gli feci cenno con lo zoccolo verso il campo di mais.

«Resta qui.» Mi disse e si addentrò nel campo di granturco… da solo.

Il pony di terra e l’unicorno mi spinsero dietro di loro e mi fecero scudo con i loro corpi. Il loro senso di responsabilità era prevalso sul fastidio che covavano per me.

Questo avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma la verità è che quell’atteggiamento mi aveva fatto intuire che la situazione sarebbe precipitata tra breve, e io non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare se mi fossi trovato nel mezzo della battaglia.

Un forte richiamo aveva attraversato il campo di mais ed era arrivato fin da noi.

Poco dopo vidi alcune fronde della piante smuoversi con violenza, e alcuni fusti volare per aria, affettati dalla tagliente lama della Green Blade. Poi, per alcuni istanti, tutto si azzittì.

I colleghi di mio Zio chiamarono il suo nome ad alta voce, ed io trattenni a stento le lacrime quando la risposta non arrivò.

Per nostra fortuna lo vedemmo saettare fuori dal campo a gran velocità.

Sopra di lui la Green Blade stava volteggiando bagnata del sangue della creatura.

Urlò un nome: «RAZORGOR!» Che ben presto avrei imparato ad associare alla forma di una bestia.

Non credo che ne abbiate mai incontrato uno in vita vostra.

Non so molto delle terre al di fuori di Uruma, ma dalle voci che circolano, la nostra regione sembra essere l’habitat di creature che sono uniche nel loro genere (immagino ve ne siate accorti). E di queste, i Razorgor erano una comunità abbastanza numerosa ai tempi.

Queste creature sono come una via di mezzo tra dei sauri e dei volatili terresti a zampe lunghe.

Sono alti come due pony, e muniti di un lungo becco dentato col quale dilaniano le prede. Ormai dovrebbero essere estinti del tutto, ma se mai vi capitasse di incontrarne uno, non preoccupatevi di questo dettaglio, tantomeno degli artigli che culminano sulle loro esili zampe. Invece, guardatevi attentamente dalle lunghe lame a rasoio che sporgono dalle loro braccia (sono presenti a gruppi di quattro-cinque, disposte tra radio, ulna e metacarpo come nelle ali degli uccelli, e in alcuni esemplari possono arrivare ai due metri di lunghezza) e, parallelamente, sulle loro vertebre dorsali, biforcandosi ai bordi del cranio.

I Cacciatori sanno bene che un singolo Razorgor non rappresenta una seria minaccia per il combattente allenato. La loro struttura ossea infatti è fragile a causa del loro scheletro molto sottile, e la muscolatura secca è quasi priva di tessuti adiposi. Questo li rende molto agili nella corsa, ma al contempo deboli; sono facilmente ammazzabili con una sferzata di spada.

Sfortunatamente (e io direi anche “per lo stesso motivo”), questi animali hanno l’abitudine di cacciare in branchi, che sono capitanati da un maschio Alpha il quale è facilmente riconoscibile poiché di solito è personificato da un Razorgor vecchio e segnato da decenni di combattimenti.

Un po’ come appariva Brave Lion quella mattina, quando era uscito dal folto del campo, gridando ad alta voce quel nome.

«Quanti?!» Domandò il pony di terra allarmato.

«Non ne ho idea! Ne ho seccato uno ma quel maledetto ha fatto in tempo a chiamare la torma. Non vi so dire!»

«L’Alpha?» Domandò l’unicorno, nascondendo malamente la sua impazienza di lottare.

«Ti piacerebbe.» Rispose secco mio Zio.

I tre mi circondarono come un tesoro da proteggere.

Non escludo che in quel momento Brave Lion si fosse pentito di avermi portato con sé.

A quel punto ricordo che intorno a noi la natura fu come se si animò. Sentivo fruscii terrificanti provenire dal campo, e allo stesso tempo acuti strilli gutturali (che mi sembrarono tanto dei singhiozzi) che rispondevano al richiamo del loro compagno abbattuto, rimbalzando da un capo all’altro del bosco.

«Da quando si sono fatti così audaci?!» Aveva domandato il pony di terra.

«Fame. L’ho detto io, prima.» Gli rispose l’unicorno turchese.

Il bifolco lanciò la sua mazza nel folto della boscaglia, forse sperando così d’intimorirne qualcuno.

Mio Zio mi sussurrò qualcosa, ma la mia attenzione era troppo votata a quanto ci stava succedendo intorno per ascoltarlo. Allora mi batté sul garrese e mi chiese se avevo sentito. Io mi ripresi solo allora, e balbettai suoni senza senso. Imprecò, e io capii di averlo fatto innervosire.

«Ne conto sette.» Disse l’unicorno turchese. Credo lo avesse capito ascoltando i passi delle creature.

Qualcosa aveva poi scosso un cespuglio, e mio Zio sfilò dalla sua bandoliera un grosso pugnale che scagliò con la magia.

In quel preciso istante un Gor emerse dalla fratta con un balzo, e si ritrovò col collo perforato dalla lama. Il suo corpo cadde a terra, e io lo guardai mentre si contorceva in modo osceno e scavava solchi per terra con i suoi rasoi.

«Ora ce n’è uno in meno.» Disse Brave.

Non ero sicuro se ammirarlo per il suo sangue freddo oppure temere che quell’atteggiamento ci avesse portato a fare la fine delle mucche.

I tre pony intorno a me si misero ad organizzare un piano di fuga per metterci in salvo.

Un attimo dopo tre di noi stavano correndo via. Eravamo io, Brave e il pony terrestre, mentre l’unicorno antipatico era rimasto indietro a farci da diversivo.

L’idea era folle ma a modo suo semplice: creare un’esca isolata che concentrasse su di sé la maggior parte del branco, nel frattempo che noi tagliavamo per il bosco.

Mi voltai solo per un istante e vidi un Gor balzare sulla schiena del massiccio stallone turchese, strappargli via la sella di dosso e ferirlo con le sue lame. Non durò però a lungo. L’unicorno scalzò il predatore di dosso e gli fracassò la testa con la sua mazza.

Arrivati a una certa distanza, mio Zio tornò indietro ad assistere il suo compagno, e intanto il pony vicino a me m’incitava costantemente a correre e non fermarmi.

Il problema era che avevamo sottovalutato la caparbietà del branco.

Ben presto anche noi dovemmo fare i conti con alcuni Razorgor che ci stavano addosso. Due precisamente, che ci stavano affiancando a distanza dai lati.

Ci fermammo.

Vidi il pony allargare le zampe anteriori, quindi premere con la punta del naso una specie di pulsante sui dispositivi che aveva agganciati a esse. Le lame retrattili si sguainarono con tutta la loro grinta.

Vedemmo manifestarsi dinanzi a noi il primo Razorgor, e… ci credereste? Era l’Alpha, grande e famelico!

I suoi rasoi (uno delle quali mi pare di ricordare che era insolitamente lungo) sfregarono tra loro producendo delle scintille.

«Mettiti al riparo, piccolo.» Mi esortò a fare, senza distogliere lo sguardo dallo spaventoso animale.

Io ero bloccato da mille dubbi. Avrei voluto ascoltarlo, scappare via e nascondermi da qualche parte. Ma voi non potete capire il senso d’impotenza che si prova la prima volta a trovarsi di fronte ad una di quelle creature. Ti sembra che qualsiasi cosa tu possa fare, alla fine non sarà mai abbastanza.

Gli altri Cacciatori potevano anche essere abituati a sfide di quel tipo, per loro sgominare branchi di quei mostri era un gioco da puledri. Ma non lo era per me.

Odiai mio Zio per avermi trascinato in quel guaio.

«Che stai aspettando, dannazione! Muoviti!!» Non me lo chiese più. Questa volta mi allontanò con un calcio.

La mia prima ferita di caccia me la procurai così: un taglio sul labbro inferiore provocato da uno zoccolo.

Bastò questo per convincermi a non indugiare oltre.

Mentre correvo via, l’Alpha roteava con uno scatto in avanti estendendo le sue lame, il pony di terra si difese usando le sue per bloccarlo.

Non vi saprei dire come si svolse lo scontro.

Correvo in mezzo al bosco senza sapere quando fermarmi. Ero sicuro che se l’avessi fatto, mi sarei ritrovato contro l’intero branco.

Commisi l’errore di allontanarmi dagli altri, non sapendo né dov’ero né che cosa avrei fatto qualora mi avessero attaccato.

Così fuggivo, e mentre osservavo la natura che mi avvolgeva tutt’intorno, supplicai la Dea che mi facesse svegliare nella mia comoda branda sull’altura dove abitavamo.

E di colpo udii quel verso. Quel maledetto verso che mi fece bruciare il cuore! Il Razorgor che aveva accompagnato l’Alpha nel nostro inseguimento. Quello che con abile strategia e manifestando un notevole spirito d’iniziativa, aveva deciso che sarei stato io la ricompensa per i suoi sforzi!

Chissà, forse era tutto premeditato. Forse ero io il loro bersaglio fin dal principio. Dopotutto era cominciato così l’assedio alle mucche: da prima si erano portativi via una delle loro giovenche, per rifocillarsi con le sue carni, e a quel punto si erano presi il resto della famiglia prendendoli alla sprovvista.

Solo che con noi sarebbe andata leggermente diversa: mio Zio e i suoi soci avrebbero vinto la battaglia, non si sarebbero fatti schiacciare da delle creature così deboli.

Ma io non ero più con loro, e questo per poco non mi costò la vita.

Il Razorgor con cui mi trovai a confronto era molto più giovane dell’enorme Alpha da cui ero fuggito, ma era più che sufficiente per sottomettere un puledrino di otto anni che voleva soltanto tornarsene a casa.

Una delle poche cose che sapevo già allora, perché è una regola che avevo dovuto imparare per quando mi sarei imbattuto in qualche piccolo predatore, era che di fronte ad essi non bisogna mai scappare.

Percepiscono la cosa come un’ammissione di debolezza, e i loro istinti di caccia impazziscono. Così me ne stetti fermo.

Tremavo dalla testa agli zoccoli e non riuscivo a dare freno al mio corpo, il mio stomaco poi si contorceva come se lo stessero strappando via.

Stavo perfino cominciando a temere che i Gor avessero poteri telecinetici come gli unicorni e che quel male me lo stesse provocando lui.

Sentii la paura aumentare, e di conseguenza il dolore.

Le mie ali, forse obbedendo a qualche primitivo spasmo degli animali braccati, iniziarono a ronzare senza essere in grado di sollevarmi da terra.

Porca Dea, ero l’essere più inutile di tutta Uruma!

Non so quale ragione particolare avesse convinto la creatura che quello era il momento giusto per sbranarmi, fatto stava che mi corse incontro, e io come al solito mi trovai nell’orribile situazione di non sapere che cosa fare!

Schivai la prima sferzata di rasoi, che se fosse andata a segno mi avrebbe aperto la pancia in due.

Girai in tondo, alla ricerca di qualsiasi cosa che potessi usare come scudo.

All’inizio addentai un alberello, che fu costretto a sua volta a lottare per la sopravvivenza mentre io mi ostinavo a cercare di sradicarlo. Lo so che può sembrare divertente, ma in quegli istanti non lo era. La paura può trasformare anche la più docile delle creature in una macchina da combattimento, ma lasciatele superare il confine e vi annienterà il cervello, rendendovi inermi come delle larve.

Fortunatamente, io mantenni ancora un po’ di sale in zucca per capire che stavo facendo una cazzata madornale. Dovetti ripiegare su qualcosa di diverso: un grosso ramo spezzato, caduto a terra da tempo e ricoperto dalla vegetazione del sottobosco. Se me lo chiedeste, sarei in grado di descrivervi le forme e i colori esatti dei licheni che vi crescevano sopra!

Lo afferrai con la bocca, ma dato che era pesante, ricadde a terra prima che avessi tempo di consolidare il morso.

Feci per recuperarlo, disperato, ma quel Razorgor non era certo uno sprovveduto. In un attimo mi gettò a terra, schiacciandomi col suo peso.

Ora non chiedetemi come, ma tra le sue fetide zanne e il mio viso si parò di mezzo il mio ramo prezioso. Lo avevo recuperato, senza rendermi conto come, ed ero riuscito a frapporlo tra me e il predatore prima che fosse troppo tardi per farlo.

Sentii delle ferite aprirsi sul mio petto. Erano gli artigli del mostro, che mi segnarono tre solchi sul manto, perché le lame dei suoi rasoi mi avrebbero inferto lesioni ben peggiori.

Quelli erano stati la mia seconda ferita di caccia, e i primi in battaglia.

Ad ogni modo, c’era ben poco che potevo fare ormai. Avevo evitato per un soffio i suoi denti, ma il suo peso era troppo elevato perché potessi scacciarlo da me. A quel punto avevo esaurito ogni genere di scelta, e intanto la bava dell’animale mi stava già entrando in bocca e imbrattandomi il viso.

A soli otto anni, ero letteralmente a pochi centimetri dalla morte.

Volete sapere come mi salvai? Semplice, non lo feci.

O meglio, non avvenne per zoccolo mio.

Neanche il tempo di vedere la luce alla fine del tunnel, che un altro tipo di luce (un alone di magia azzurra) circondò la creatura allontanandola da me.

Il Gor fu scagliato lontano dal pony turchese, che in seguito mi aiutò a rialzarmi.

Il carnivoro bipede finì falciato senza alcuna pietà da una sferzata della Green Blade (quella lama non risparmiava proprio nessuno).

«Stai bene, piccoletto?» Mi aveva chiesto lo stallone massiccio, la prima ed unica forma di gentilezza che mi avrebbe mai concesso.

In verità avrei dovuto chiederlo io a lui: era ricoperto da profondi tagli e segni di morsi su tutto il corpo. Tra tutti era quello che aveva subito più danni. Nulla a che spartire con i piccoli rigagnoli di sangue che bagnavano il mio petto.

Il pony di terra aveva riportato insignificanti lesioni agli arti anteriori con i quali si era battuto, ma a vedere i rimasugli di squame che scivolavano sul filo delle sue lame, si direbbe che l’Alpha aveva avuto decisamente la peggio. La ferita più grave lo stallone l’aveva riportata nell’animo, e anche da piccolo, a quell’età, fui in grado di capire che qualcosa nel suo intimo si era spezzato.

Avrei avuto conferma dei miei sospetti la sera di quello stesso giorno.

Mio Zio rimase per un momento fermo.

Lo guardai tirare fuori dalla tasca qualcosa, e m’incuriosì osservare i movimenti che compiva con la magia di levitazione. Qualsiasi cosa teneva per aria, la scaraventò a terra con violenza, e una specie di fiammata schizzò verso l’alto superando le fronde degli alberi. Esplose nel cielo, propagando una nube rossa visibile da tutto il territorio: erano le Rose della Vittoria.

Non era la prima volta che le vedevo, ma fino a quel giorno non avevo idea di come i Cacciatori le generassero.

Quello che più mi avrebbe sorpreso dell’atteggiamento di Brave Lion dopo quella missione, era che non si mostrò per nulla addolorato dall’avermi quasi perso in battaglia. Al contrario, sembrava orgoglioso di me, e di come mi ero comportato nel mio piccolo per sfuggire all’assalto del Gor.


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Capitolo 2
*** 2: Un cambiamento radicale ***


2: Un cambiamento radicale.

Non ho detto alcuna parola mentre mi riportavano a casa, non so come avrei potuto.

Più ci pensavo e più l’immagine di quelle zanne mi ritornava alla mente e mi paralizzava i nervi.

Avevo il petto in fiamme, lì dove ero stato graffiato dal Razorgor, mi avevano medicato con un bendaggio provvisorio mentre aspettavamo di fare rientro alla baracca.

Una volta lì, ci siamo separati dai compagni di mio Zio e avevo lasciato che lui si prendesse cura delle mie ferite.

Non erano lesioni serie, mi diceva di tranquillizzarmi, e una semplice magia di guarigione elementare, unita a un po’ di riposo avrebbe rimesso le cose a posto.

Non era stato del tutto onesto con me, però. Un medico competente avrebbe rigenerato i tessuti senza lasciare la minima traccia dell’aggressione. Invece, quando finì lui mi rimase un marchio indelebile che avrebbe rigato il mio corpo per sempre.

Per non so quanto tempo fissai quelle cicatrici, che erano diventate per me una specie di ossessione.

«Io ne sarei orgoglioso se fossi in te.» Mi aveva detto dopo aver notato la mia malinconia.

«È orribile… » risposi io, e fui sul punto di piangere ancora.

«Allora ti troverò qualcosa da mettere addosso, non disperare… »

E poi che cosa fece dopo averlo detto…? Uhm, non ricordo. Comunque mi arrivò vicino, e quasi mi sussurrò questa cosa all’orecchio: «Sappi che per quelli come noi le ferite di caccia sono allo stesso tempo sia un monito che un trofeo. Ci ricordano le sfide che abbiamo superato e che siamo ancora vivi. Sii lieto di poterne esibire una.»

Per lui la caccia era qualcosa di sacro, una vocazione alla quale non avrebbe rinunciato per tutti gli Argenti del mondo.

Allora non capii il significato delle sue parole, ma immagino che cercasse di dirmi che era qualcosa con cui avrei dovuto imparare a convivere. Altre ferite si sarebbero aggiunte a queste mie prime tre cicatrici, e ben presto avrei smesso di preoccuparmene. Sarebbero diventate parte di me, come le sue erano ormai diventate un suo tratto distintivo.

Mi ricordo una delle più impressionanti che esponeva alla vista degli estranei quando si sfilava il mantello. Era una specie di squarcio malamente ricucito sulla parte sinistra del ventre, che (pensavo sempre) doveva essergli stata inferta da un animale veramente gigantesco e selvaggio.

Un giorno avrei scoperto la verità sul suo conto, ma allora pensavo solamente che i miei tre graffi di Razorgor erano la cosa peggiore che potesse capitarmi.

Alla fine di un Contratto c’era la tradizione, che onoravamo sempre, di dirigerci entrambi al “Brocco Randagio”, giù a Capo Unicorn, dove Brave mi ci portava già da prima che decidesse di trascinarmi con lui in missione, e anche quella sera, malgrado tutto, non fummo da meno alle convenzioni.

A quei tempi la taverna era molto diversa dal buco di culo puzzolente che è diventata adesso. Quando ancora il paese era abitato, oltre che dai pirati, anche da semplici famiglie di bottegai e contadini, il Brocco era un punto di ritrovo abituale per gli stalloni che venivano a rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro alla baia.

C’erano tavoli adibiti al poker e gli unicorni potevano addirittura dedicarsi a un gioco che consisteva nel bendarsi gli occhi, mentre si cercava di centrare con la magia un bersaglio con delle freccette appuntite (e se poi erano pure ubriachi, si formavano intorno delle bische per scommettere su quanto sarebbe stato preciso il loro tiro).

Non era strano che di tanto in tanto vi si trovassero anche dei muli e dei bovini, ma erano una netta minoranza, e come si diceva, se ci entravano se le andavano a cercare.

A gestire il posto c’erano Dirty Rag e sua moglie Rose Stalk.

Rose era una giumenta grossa e mascolina, dal manto lavanda e una criniera che sapete… è difficile a dirsi, non era né gialla né verde… comunque, il suo Simbolo di Virtù era una “rosa servita su un piatto d’argento” (dico sul serio).

Col passare del tempo mi aveva preso in simpatia, immagino perché era decisamente raro vedere altri puledrini bazzicare da quelle parti (e noi eravamo degli habitué del posto), e ogni volta che ci presentavamo mi faceva trovare pronta qualche leccornia che non era presente nel menù. Piatti speciali intendo, vere ricette da buongustai! Aveva la passione per la cucina, e mi aveva eletto come suo critico personale. Ancora mi mancano i suoi involtini di palme ripieni di crema di margherite…

Sfortunatamente, da lì a qualche settimana avrebbe discusso con suo marito sull’idea di lasciare Capo Unicorn per sempre, e quando lui si rifiutò, Rose sarebbe partita da sola, lasciandolo da solo alle prese col Brocco.

Eravamo seduti al nostro solito posto.

Rose Stalk mi aveva appena servito un bicchiere di succo di pomodoro (a quei tempi lo bevevo a litri. Ripensarci oggi mi da la nausea) e vedendo le mie cicatrici le era pigliato un colpo.

Se la prese con mio Zio per questo, accusandolo di sconsideratezza, ma era stata una discussione dai toni scialbi, perché sapeva che prima o poi quello stile di vita mi sarebbe toccato per forza.

Si direbbe che tutti fossero consapevoli della cosa meno che il sottoscritto.

Dirty Rag arrivò dopo di lei, servendo a mio Zio la sua solita “prima pinta”, prima di fermarsi a scambiarci insieme due chiacchiere.

Vi racconto questa: lui e Brave amavano intrattenersi spesso insieme con barzellette e vari aneddoti delle rispettive attività. Talvolta a Rag capitava che sfuggisse qualche parola più spinta del solito, e prontamente veniva richiamato sia dalla moglie che da mio Zio, che se non altro si trovavano d’accordo quando si trattava di tutelare le mie “delicate orecchie da puledro”. Rose era di mattarello facile, ed è successo almeno una volta che uno di questi fu sbattuto così forte sulla capoccia del marito, che finì per spezzarsi a metà.

Andavo matto per questi piccoli siparietti di allegria, e anche Rag a quei tempi era molto più magro e curato di quanto non sia adesso. I baffi, che ora pendono dalle sue labbra e che sembrano dei tentacoli grassi e viscidi, allora erano tenuti con cura doviziosa e gli davano sempre un certo Appeal, che Rose raccontava: “Sono stati una delle tre ragioni che mi hanno convinta a sposarlo”.

È un vero peccato che la loro storia si sia arenata. Erano una bella coppietta. Bizzarra, sì. Ma allegra e divertente.

Dopo la separazione, Dirty Rag non avrebbe più ritrovato lo stesso vigore di un tempo.

Perdonatemi se ho divagato, ma in un certo senso anche questo faceva parte dei cambiamenti che da quel giorno avrebbe iniziato a prendere zoccolo nella mia vita, ma tornando a noi:

Insomma, anche quella sera era cominciata all’insegna delle battutine e dei punzecchiamenti reciproci tra Rag e mio zio, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a proseguire oltre. Le voci correvano a Capo Unicorn e anche se nessuno ne voleva parlare apertamente, tutti sapevano che nella missione di quella mattina qualcosa era andato storto.

Qualcuno era morto. Erano solo dei bovini, certo. Praticamente qualcosa di meglio dei pony di terra perché più robusti, ma a malapena degni di abitare entro i confini del paese. Eppure faceva un effetto sgradevole pensare che da lì in poi non li avremmo più rivisti bazzicare quei paraggi.

Rag e mio Zio ne discussero tra loro fino a quando nella locanda non era entrato un altro avventore: il pony di terra che ci aveva accompagnato in missione quella mattina.

Si sedette con noi ignorando gli sguardi di quelli che lo fissavano in cagnesco e ordinò a Rag di portargli (presumo) del rum. Disse poi di farsi lasciare la bottiglia sul tavolo, cosa di cui il barista non era affatto entusiasta, meno che mai sua moglie, ma la protesta quasi patetica che aveva sollevato il pony di terra, spinse entrambi i proprietari ad arrendersi.

Lo stallone a quel punto trangugiò il suo primo goccio in silenzio, e da quel momento in poi fu un continuò vuotare e riempire il bicchiere.

La prima volta che aprì bocca per parlare, fu per rivolgersi a me. «Come ti senti, piccolo?» Mi chiese.

E io mentii, dicendo che era tutto a posto, quando oramai avrete capito che in realtà non era affatto così.

«Lui dov’è?» Aveva chiesto mio Zio, riferendosi all’unicorno turchese.

Lo stallone sfregiato bevé il suo secondo bicchiere e quindi cominciò una lunga discussione tra i due.

«È andato da Colton Nyx a riscuotere la nostra parte. Non è dei nostri stasera.» Disse lui.

«Uhm, potevate farlo domani, perché tanta fretta?» Chiese Brave.

Il pony di terra lo osservò in silenzio per un po’, e sospirò.

«Suppongo che l’avresti saputo prima o poi… » cominciò a dire «ce ne andiamo, Brave.»

A questo punto mio Zio esordì con: «Cosa?», ed in effetti anch’io mi feci più attento alla questione.

In pratica, il pony di terra ci parlò di una goletta che era pronta a salpare per l’oriente all’alba, e che lui e il suo partner erano intenzionati a essere a bordo, quando le vele si sarebbero spiegate. Dal suo tono di voce, mentre spiegava, e dall’espressione che si corrugò sul volto di Brave nel frattempo, mi ero reso conto che non era la prima volta che quella discussione veniva intavolata.

Mio Zio sostenne il suo sguardo a lungo, e io vedevo che lo sfregiato aveva le labbra che gli si stringevano, e le zampe tremare dal nervosismo.

«Quindi è deciso?» Gli domandò Brave a un certo punto.

Avreste dovuto esserci: mio Zio, benché si vedesse che nel profondo era offeso, non faceva una sola piega nei riguardi dell’altro, mentre lo sfregiato sembrava ansioso di levare le tende il più presto possibile.    

«È deciso, sì. E… » poi guardò di nuovo me «se accetti un consiglio, credo che vi converrebbe fare altrettanto. Potete unirvi a noi se volete, sarà più semplice se partissimo… »

Ecco, qui non terminò la frase, perché subito mio Zio fece «“Conveniente”, tze. Da quanto tempo lavoriamo insieme?»

«Tre anni… quattro, credo.»

«Quattro, esatto. E ora volete mandare tutto in malora?!»

«Abbiamo fatto il culo a tanti mostri, sì. Ma le cose non sono più come un tempo… persino tu dovresti essertene accorto!»

Allora Brave aveva sollevato le braccia come per mandarlo a quel paese. «Ancora con questa storia?» Disse poi.

«Eh certo che sì, cazzo! Non a caso siamo rimasti solo noi tre a tirare avanti la carretta! Solo il mese scorso se ne sono andati in sette! Sette Cacciatori, Brave!  È finita, il libro paga di Nyx è vuoto! Ormai alla Congrega non c’è rimasto più niente per cui valga la pena di restare!»

Mio Zio si era ritirato con la testa, dicendo: «Mi sembra di essere stato chiaro sull’uso delle parolacce in presenza di mio nipote.»

Sembrava incredibile, ma di tutte le cose che erano uscite dalla bocca del pony di terra, l’unica che sembrava avere superato le barriere di mio Zio era stato il turpiloquio, e non per niente il terrestre s’incazzò per questo: «Lascia che le senta allora! Anzi, se proprio vuoi tirare in ballo anche lui, guarda che è successo stamattina!» Lo disse indicando il mio petto, dove vi ricordo, le cicatrici erano ancora fresche e bene in vista.

«Sono i rischi del nostro mestiere, doveva viverlo sul campo se un giorno si aspetta di diventare un bravo Cacciatore!»

Io a quel punto avrei voluto dire la mia, giusto perché ero chiamato in causa. Dirgli che francamente non morivo dalla voglia di seguire le sue orme, ma i toni si erano scaldati così velocemente he non mi sarei mai azzardato di lasciar trapelare qualcosa.

Il pony di terra batté uno zoccolo con così tanta forza sul nostro tavolo che Rose Stalk, dall’entrata della cucina, lo intimò di darsi una regolata.

Mi accorsi che avevamo gli sguardi di tutti puntati addosso.

«Tu proprio ti rifiuti di capire!» Continuò poi. «Uruma sta impazzendo! C’è qualcosa di completamente sbagliato che sta succedendo da queste parti! I Razorgor non attaccano in quel modo la gente! Non affrontano a viso scoperto degli avversari che sono in grado di tener loro testa! Per l’amore della Dea, oggi “Lui” lo hanno quasi ammazzato perché ci desse il tempo di scappare!» (Piccola parentesi: Quando dico “Lui”, intendo il pony turchese, di cui continuo, malauguratamente, a scordarmi il nome).

«Hai finito?» Ecco, quando Brave disse questo, il terrestre si ammutolì di colpo.

Una cosa che mi sono dimenticato di dirvi era che Brave Lion era dotato del dono dello Sguardo. Non so se ne avete mai sentito parlare: è una dote di natura di certi pony che permette loro d’intimorire le creature selvagge, anche quelle dieci volte più grosse di loro, semplicemente fissandole negli occhi. Questa era poi una capacità che si sposava benissimo con gli incantesimi di caccia nei quali mio Zio eccelleva.

La cosa più incredibile era che talvolta era capace di esercitare questa innata capacità anche nei confronti degli esseri senzienti, come altri mammiferi e perfino i draghi. E in quell’occasione non escludo che se ne fosse servito per raffreddare anche i bollori del pony di terra.

«Sei proprio uno zuccone! Così facendo metti solo in pericolo la tua vita e quella di tuo nipote!» Disse lui, che ancora non voleva darsi per vinto.

«Lascia che ti dica una cosa: prima di tutto non parlarmi come se non conoscessi il mio mestiere! Sono in questo giro da prima che imparaste come si maneggia una lama! In secondo luogo, sei tu che ti rifiuti di vedere il quadro attuale della situazione: è proprio perché le cose stanno andando a rotoli che abbiamo il dovere di metterci in prima linea e affrontare la situazione! Oggi dei Gor hanno ucciso delle mucche, una famiglia, tra l’altro, con cui io ero in buoni rapporti! Domani un Rogueshar potrebbe decidere di mettere sotto assedio l’intera Capo Unicorn. E CHI DIFENDERÀ LA CITTÀ SE NON NOI?!»

Questa parte la scandì ad alta voce. Voleva accertarsi che tutto il Brocco lo sentisse.

«Tanto prima o poi se ne andranno tutti da questo buco di salsedine… » Il pony di terra era stato sconfitto dalla ferrea fede di mio Zio, forse tramortito anche dal rum che si stava scolando.

«Vorrà dire che resteremo qui fino ad allora e aiuteremo l’ultimo di loro a salire sulla nave.» Lanciò uno sguardo a me, forse perché cercava la mia complicità.

Il terrestre dal volto sfregiato aveva completamente svuotato la bottiglia e subito pretese che gliene fosse portata un’altra. Dirty Rag si rifiutò, e questa volta senza lasciare spiragli di trattativa, gli portò invece un qualche tipo di spremuta analcolica, che non avevo idea di cosa fosse. L’accettò con riluttanza e una punta di rammarico. Non doveva essere male, a vedere come si era messo a vuotarla.

«Speravo di convincerti, ma non sono mai stato bravo in queste cose.» Disse intanto che con gli occhi si perdeva a fissare l’interno del bicchiere.

«Non ci saresti riuscito comunque, neppure da sobrio.»

«Già, immagino sia così.»

Sembrava che la conversazione fosse giunta al capolinea, ma poi mio Zio se ne uscì con questa domanda: «Dov’è che avete intenzione di andare, giusto per sapere?»

Lo sfregiato aveva vuotato il bicchiere dell’intruglio e lo aveva adagiato bruscamente sul tavolo.

«Approderemo sulla costa est di Equestria. Nella ex-Terra dei Pegasi. Il capitano dice che col vento a favore dovremmo arrivare lì in meno di un mese.»

«Equestria? Ma non c’è niente lì, solo una discarica puzzolente! Tanto varrebbe continuare la vita da erranti qui!»

Comunque, quella fu la prima volta che sentii parlare di quei posti.

Ma riprendiamo:

«No, c’è una città a Nord, almeno così ho sentito dire. Stanno istituendo una specie di organo di controllo e c’è bisogno di combattenti che tutelino i terreni. Almeno non perderemo il nostro smalto.»

«Trovo che sia una cazzata…» poi si era voltato verso di me per scusarsi. Anche a lui capitava ogni tanto di lasciarsene sfuggire qualcuna.

«Può darsi, Brave. Ma per quanto ci riguarda, Uruma ha finito di esigere il nostro sangue.» Tornò ad osservare i miei sfregi (per fortuna a Capo non c’era traccia di menestrelli da tempo, o ci avrebbero scritto canzoni per anni). «Un segno sul corpo non vale la pena se il prezzo che devi pagare è una vita vissuta nella violenza.» E si alzò dal tavolo.

Dovevate vederlo, la risolutezza con cui l’aveva fatto spiegava meglio di qualsiasi cosa come si sentiva.

«Spero che lo capirai anche tu prima che sul vostro corpo non ci sia più spazio per le cicatrici.» Aveva concluso.

Intorno a noi, credo, qualcuno aveva annuito in silenzio. Ci stavano ancora ascoltando.

Lo sfregiato aveva barcollato fino al banco per pagare il suo conto, e quindi si era congedato da noi.

Non so se Brave era mai andato a dare l’addio ai suoi ex-colleghi, ma quella serata sarebbe stata l’ultima in cui io avrei visto quel pony di terra.

Eravamo rimasti in due. Io e mio Zio.

Certe volte mi chiedo se non facesse parte di un suo piano per evitare la pensione. Forse mi aveva voluto con sé perché intuiva che la divisione con i suoi compagni era già nell’aria da un po’, anche se non escludo che gli eventi di quel giorno avessero accelerato di molto i tempi.

Io non ero pronto a prendere in zoccolo le redini del suo lavoro, ma a quel punto non me la sentivo di tirarmi indietro, visto ciò che faceva. Avevo avuto un assaggio della pericolosità della caccia, e sapevo che non sarebbe mai riuscito a tirare avanti da solo. Oltretutto, non avevo ancora un Simbolo di Virtù, e pensavo che così avrei potuto intraprendere la strada migliore per ottenerlo.

Aravamo rimasti a lungo in silenzio. Io ero in un angolo della panca, e fissavo il vuoto davanti a me riflettendo sul futuro che mi aspettava, lui invece scolava litri di alcolici come se si trovasse sotto una cascata. Reggeva l’alcol meglio di chiunque altro e quindi poteva permettersi di bere a volontà.

Ad un certo punto si girò verso di me, e io sentii che il mio disagio saliva esponenzialmente, perché voleva significare che stava per dirmi qualcosa d’importante.

Mi disse che era orgoglioso di me, di come mi ero comportato quel giorno, e mi chiese se ne ero consapevole.

«Sì.» Avevo risposto. Certo che lo sapevo, non aveva fatto altro che ripetermelo da quando avevamo lasciato il bosco, anche se non capivo cosa esattamente avessi fatto di tanto speciale per meritarmi quei complimenti.

In cuor mio, speravo che si sarebbe limitato solo a quello, invece parlò ancora:

«Capisci l’importanza di questo lavoro, vero?» Mi chiese, senza però guardarmi negli occhi.

«Credo di sì.» Gli risposi, ed era vero, in un certo senso. Sapevo che i Cacciatori operavano per la sicurezza degli abitanti di Capo Unicorn, tenevano lontane le creature più grandi dalle campagne abitate e proteggevano il lavoro dei contadini sul quale si basava l’economia del paese. Erano una concreta arma di difesa contro i pericoli che correva Capo Unicorn, che in cambio di una ricompensa mettevano se stessi al servizio degli altri pony. Erano eroi… in un certo senso.

«Purtroppo per gli altri non è così.» Mi disse. «A loro importa soltanto fare i loro interessi. Giocano a fare la guerra finché pensano di avere i fianchi al sicuro, ma appena le cose cominciando a farsi difficili, vedi tu stesso come si comportano.»

Io annuì.

Per tutta la serata fu come se un muro si fosse eretto tra me e lui, ma mentre parlavamo, sentii che quel muro si stava sgretolando un mattone per volta. Poco dopo eravamo già in grado di fissarci negli occhi senza che vi fosse imbarazzo reciproco.

«Se quello che dicono di Uruma è vero, presto le cose si faranno toste. Io non posso tirare la carretta da solo, Spirit. Avrò bisogno di un partner… »

«Io… ho paura… » trovai il coraggio di confessargli.

Lui fece di sì con la testa, e proseguì: «Lo so. Le prime volte è sempre così, ragazzo. Ma imparerai. Ti insegnerò tutto quello che ho imparato io negli anni, e finché non sarai pronto, ti guarderò le spalle. Te lo prometto.»

Poi si era abbassato verso di me e mestamente mi disse: «quello che voglio sapere è se tu le guarderai a me, quando arriverà il momento.»

Il modo in cui mi fissò mi mise l’amaro in bocca al solo pensiero che potessi dirgli di no. Fino ad allora non avevo mai creduto di potergli essere così indispensabile.

Mi rese felice da una parte, ma d’altro canto la promessa di ricevere un addestramento nella stessa arte in cui eccelleva lui non mi era stata sufficiente per trovare un appiglio nella tempesta in cui mi voleva trascinare.

Mi diede del tempo per prendere una decisione, e può darsi che sia stato questo ad “incatenarmi”, alla fine.

Non sapevo a che cosa sarei andato incontro, ma comunque fosse andata, “saremo rimasti insieme” avevo pensato, e quindi accettai la sua proposta.

Dormimmo lì quella sera, nella locanda del Grotto Randagio. Perché c’eravamo trattenuti fino a tardi e c’era ancora qualcosa da fare prima di dare il via alla mia nuova vita da aspirante Cacciatore.

Quando ci svegliammo, la mattina seguente, dopo aver fatto colazione alla locanda, la prima cosa che facemmo fu di raggiungere l’ufficio dello Sceriffo di Costa.

Colton Nyx non era poi così diverso da come si presenta oggi. Era già borgomastro di Capo Unicorn da prima che me ne ricordi, e si mostrava occasionalmente con qualche camicia elegante quando doveva presiedere a qualche comitato paesano, o prendere parte ad eventi di natura formale, altrimenti, per il resto del tempo, portava indosso solo il suo gilet da sceriffo, che gli calzava sulla pelle come un secondo strato di pelliccia.

I segni del tempo gli hanno scolorito il manto onice, e la criniera che un tempo era bianca, ora è diventata argentea, ma se lo guardate oggi e pensate che sia un grullo stagionato, vi posso assicurare che ai tempi era anche peggio: uno stronzone dalla punta della coda alla cima della criniera!

Lui e mio Zio non andavano d’amore e d’accordo, anzi, il più delle volte se ne dicevano peste e corna. In effetti, sono il primo a biasimare Brave per certi suoi atteggiamenti: lui per primo non aveva mai fatto niente per porgere al nostro primo cittadino l’altra guancia.

Ci trovavamo entrambi nel suo ufficio, quando era arrivato il momento di siglare la chiusura del Contratto. Io ero lì di fianco, che cercavo di seguire quel che stavano facendo. Avevo capito che se dovevo prendere parte al lavoro di Brave Lion, tra le tante cose avrei anche dovuto imparare come ci si comporta prima e dopo un ingaggio.

Nell’aria c’era una forte tensione, la percepivo in particolare su mio Zio.

In un certo senso, aveva fallito la sua missione, e quindi era tutto da vedere se avrebbe percepito la somma pattuita (o anche solo una parte), oppure no.

Colton compilò una lista di schede, batté dei timbri, e quando terminava qualcosa, passava il malloppo a mio Zio perché vi ponesse la sua firma.

Tentai di sbirciare alcune di quelle carte, ma era come se Brave facesse l’impossibile per impedirmi di leggere.

Non voleva che suo nipote leggesse i rapporti che testimoniavano il suo fallimento, forse.

Il tutto fu poi messo in archivio, e quindi Colton gli consegnò la sacca con dentro gli Argenti. Non chiedetemi quanti fossero di preciso, ma avevo capito che contenevano il Bonus Condottiero, meno la penale per non aver rispettato i vincoli di missione, che in questo caso erano: “Assicurare la salvezza della famiglia”. Semplice, e allo stesso tempo, il vincolo più critico di tutti.

«Detto personalmente, avrei preferito che andasse diversamente.» Commentò Colton Nyx da dietro la scrivania, rimproverandolo.

«Lo so. Se lo avessi saputo prima… »

«Sì. “Sarebbe andata diversamente”, non è vero?»

Solo adesso vedevo quanto mio Zio era mortificato da quella sconfitta. Mi si strinse il cuore a guardarlo, provai pena per lui.

«E per giunta i tuoi ragazzi ci hanno appena dato il benservito.»

L’espressione, prima addolorata, gli si indurì. «Non potevo certo obbligarli a restare!»

«Il problema è che adesso non abbiamo più Cacciatori a parte te. Pensi di riuscire ad accollarti da solo tutto il fardello?»

Beh, ora penso che possiate indovinare cosa rispose…

«Non sarò da solo.»

Ed ecco che entrai in scena io.

Per tutto il tempo era come se Colton Nyx non mi avesse neppure visto. Ero semplicemente invisibile ai suoi occhi. Ma non appena Brave fece cenno a me, ecco che magicamente diventai il pony più interessante del momento.

«Vuoi farlo per davvero?» Aveva chiesto lo Sceriffo, e io mi ritrovai ad annuire con tanta incertezza sulle spalle, che se le mie ali fossero state un poco più fragili, si sarebbero staccate. Non fosse che in realtà la domanda era stata rivolta a Brave, non a me.

«Sono convinto che abbia del talento. Ieri in missione ha dimostrato di sapersela cavare contro i mostri. Basterà indirizzarlo nella giusta via e sono convinto che diventerà un ottimo Cacciatore.»

“Sì, come no.” Stavo pensando io.

Tra l’altro fu divertente il siparietto che si aprì subito dopo:

Colton aveva sporto il muso per osservarmi meglio, ed è stato come se d’improvviso avesse collegato le mie cicatrici alle parole di Brave. Inorridì.

«Tu hai portato un civile in una missione ufficiale?! Per giunta minorenne e incapace di volare?!?»

«L’ho fatto.» Annuì lo Zio. «Per fortuna ho aspettato il compenso prima di parlartene.»

Anche allora trovai la cosa un tantino, sadicamente, divertente.

«Dovrei sbatterti in gabbia per questo, lo sai?»

«Per l’autorità che ti sei auto-conferito, probabilmente sì, ma poi chi terrà le bestie lontane da Capo?»

Lo stava decisamente tenendo per le palle, e Colton ne era consapevole.

Quando ci si metteva, Brave Lion era una vera spina nel fianco per lo sceriffo…

All’inizio Colton era rimasto fermo nella sua posizione: per nessuna ragione al mondo avrebbe abilitato un puledro alla caccia, per giunta il nipote di Brave. Il fatto poi che fossi incapace di volare (il che mi rendeva agli occhi della gente qualcosa di veramente simile a un pony di terra) non faceva che degradare la mia già precaria posizione a un gradino ancora più basso. Eppure in qualche modo, Colton Nyx doveva aver capito che neppure mio Zio, da solo, era sufficiente per contrastare le minacce future a Capo Unicorn.

In qualche angolo sperduto del suo sistema uditivo, qualche vocina doveva avergli suggerito che quella era migliore possibilità per tentare di risanare la situazione che si era venuta a creare con l’abbandono degli altri Cacciatori.

«E sia, posso munirlo di una licenza straordinaria per Contratti a Supervisione finché non avrà raggiunto l’età per emanciparsi. Ma fino ad allora, ti avviso che è sotto la tua completa responsabilità! Qualsiasi cappella dovesse combinare, ricadrà sulla tua testa. E francamente non vedo l’ora che accada.»

Ecco fatto, da quel momento ero diventato un Cacciatore (a supervisione), anche se avrei dovuto mangiare montagne di fieno prima di potermi mettere sullo stesso piano di Brave Lion.

Ma attenzione, perché adesso arriva il bello:

«Mi assicurerò che righi dritto, non preoccuparti per questo… » disse mio Zio, che fu subito interrotto dal nostro caro capomastro.

«Sarà meglio per entrambi.»

«Invece, prima di andare, ho bisogno di un'altra cosa.» Aggiunse.

«Sentiamo.»

«Un nuovo Contratto.»

Io drizzai le orecchie e Colton Nyx strizzò gli occhi in maniera torva.

«Non ho niente per te ora. Almeno fino al prossimo periodo dei raccolti. Se fossi in te, mi terrei stretto il denaro che ti sei intascato oggi.»

Ma evidentemente mio Zio stava pensando a tutt’altro: «Non intendevo per me» m’indicò con lo zoccolo «ma per lui!»


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Capitolo 3
*** 3: Contratto a Supervisione ***


3: Contratto a Supervisione

In pratica funzionava così:

Ai tempi, prima di prendere parte a una missione, ogni Cacciatore doveva sottoscrivere un accordo con l’ufficio municipale di Capo Unicorn, nel quale s’impegnava ad esercitare la professione secondo i Vincoli previsti dal caso.

Tale Contratto era completo di clausole che indicavano quali requisiti doveva rispettare per portare a termine l’obbiettivo nella maniera corretta.

Se volete metterlo in termini più semplici, era una paraculata del municipio di Capo Unicorn per tutelarsi “lecitamente” da chiunque avesse deciso di accusare il borgomastro di condotta negligente.

Si trattava pur sempre di mandare a morire dei pony in uno scontro diretto contro creature riconosciute mortali, per poi essere ricompensati con una somma di denaro (non poi così fruttuosa) se fossero stati abbastanza in zampa da riportare a casa la pellaccia.

Si cominciava nominando un Condottiero, che avrebbe adempiuto al compito di leader del gruppo. Egli sarebbe dovuto essere un Cacciatore veterano esperto, che con le sue esperienze avrebbe guidato la squadra accollandosi le responsabilità dell’esito della missione. In seguito, si nominavano dei compagni che lo avrebbero affiancato.

Ora, nulla impediva a un lupo solitario di lanciarsi in battaglia da solo, specie quando una grave minaccia incombeva sugli abitanti e non c’erano partner abbastanza coriacei per assisterlo nell’incarico. Egli sarebbe andato quindi da solo, e in caso di successo, si sarebbe intascato tutta la commissione senza doverla spartire con nessuno.

Ho parlato dell’esperienza, perché infatti il municipio istituiva una sorta di graduatoria a livelli su chi si poteva intascare i Contratti più fruttuosi. In base ai tuoi progressi e al livello di pericolosità dell’entità che dovevi affrontare, potevi avere accesso a missioni più remunerative, ma allo stesso tempo era anche più facile che te ne uscissi letteralmente a pezzi.

Per questo vietavano tassativamente la partecipazione di pony esterni a quelli assegnati dall’ufficio del borgomastro, addirittura imponendo sanzioni legali ai trasgressori. Né lui né lo Sceriffo (quando ancora erano due figure distinte) ne avrebbero risposto in alcun modo, e tutto sarebbe ricaduto sul garrese del Condottiero registrato per quel Contratto.

Detto questo, potete facilmente immaginare perché nessuno sembrava entusiasta di avermi tra gli zoccoli nella battaglia contro i Gor.

Lo statuto di cui vi ho parlato era applicato prevalentemente su missioni in cui era alto il rischio di lasciarci le penne, o comunque nella maggior parte dei Contratti che comprendevano l’abbattimento di una creatura.

C’erano però delle eccezioni, che comprendevano una lista davvero variegata di missioni di livello inferiore, alle quali tu potevi accedere anche se il tuo livello di esperienza era ancora agli inizi. Come lo ero io, sostanzialmente.

Aiutare una famiglia di contadini con la raccolta, andare in giro a raccogliere ingredienti nelle regioni selvagge di Uruma, scacciare piccole creature. Erano missioni che qualunque abitante di Capo poteva completare anche da solo, ma erano anche l’ideale per i neofiti che volevano fare un po’ di esperienza sul campo prima di addentare le armi.

I vincoli erano tutto sommato gestibili, e non c’era bisogno di una squadra per assicurarsi la riuscita (del resto sarebbe stata una follia, poiché i compensi erano davvero ridicoli).

Dato che era lampante che mio Zio voleva fare di me un potente guerriero, il mio primo Contratto ufficiale mi vide ancora alle prese con delle creature da cacciare.

Ero stato ingaggiato per un Contratto a Supervisione, valeva dire che me la sarei vista da solo, mentre Brave si sarebbe limitato a fare da osservatore, elargendomi al più solo qualche consiglio a debita distanza. Lui aveva anche posto la sua firma sotto quel Contratto, come se l’incarico fosse stato assegnato direttamente a lui, ma il mandatario ero io, a tutti gli effetti.

Doveva tenerci molto alla cosa, perché in tal modo lui non avrebbe percepito alcuna parcella, ed io, essendo un supervisionato, non avevo diritto al tipico bunus da Condottiero.

Mi disse che da quel giorno avrei dovuto imparare ad amministrare il mio denaro, mi fece una lunga raccomandazione sull’importanza di avere sempre con sé dei fondi da investire per nuovi equipaggiamenti, e per tenere ben fornite le proprie scorte di viveri e medicinali.

«Medicine?!» Mi ero allarmato sentendo quella parte.

«Medicine, sì.» In pratica m’introdusse ai primi rudimenti delle infezioni e dei veleni, che nei mesi e negli anni seguenti avrei imparato a conoscere e sperimentare sulla mia stessa pelle.

Stavamo percorrendo il molo che costeggiava il paese, quando gli domandai di che tipo di creature mi sarei dovuto occupare stavolta.

«Bubbleloc.» Ottenni come risposta, detti anche “granchio-scimmie” da alcuni abitanti.

Mettiamola in questi termini:

Messi a confronto con il tipico bestiario di Uruma, sono tra le creature più mansuete che potreste sperare d’incontrare nelle vostre scorribande nelle terre selvagge, ma non significa che dobbiate esserne contenti se dovesse succedere.

Hanno un corpo ovale affusolato, rivestito da una corazza segmentata che non arriva a più di un metro di lunghezza, e hanno tre occhi a periscopio che consentono loro di avere una visione quasi globale del paesaggio circostante.

Sono creature principalmente acquatiche, ma talvolta non disdegnano di uscire dall’acqua per andare in cerca di cibo, ed è proprio in questa circostanza che imparai a conoscere la loro indole bisbetica.

Raggiungemmo un vecchio magazzino nell’area meridionale di Capo Unicorn.

Ce n’erano molti in quella zona a quei tempi. I marinai li usavano per scaricare le merci che importavano dall’esterno, tessuti e barili di olio di alghe grezzo principalmente, e allo stesso tempo compravano ed esportavano i prodotti della terra degli acri fuori città.

Quell’anno i raccolti erano stati scarsi a causa della siccità; gli Skinflai erano letteralmente scomparsi dalla circolazione, e senza le loro nubi, solo la Dea poteva dirci quando sarebbe tornato a piovere. Ogni singolo grammo di cibo era una risorsa preziosa, e andava protetto a ogni costo!

Caso voleva che le granchio-scimmie avessero preso di mira proprio uno dei depositi cerealicoli più carichi, rischiando di fare terra bruciata di un intero ciclo produttivo.

Intere famiglie di Capo riponevano la loro sopravvivenza su di me e quanto sarei stato abile a sbarazzarmi di quei crostacei. Quindi potete immaginare la pressione che gravava sulle mie spalle.

Parlammo con due pegasi davanti all’entrata, loro avevano già tentato di fare qualcosa per scacciare le granchio-scimmie, ma ce n’erano ancora quattro all’interno, e sembrava che niente potesse convincerle a sloggiare.

«Da adesso ci pensiamo noi.» Disse mio Zio mandandoli via, prima di farmi cenno di seguirlo dentro.

Se vi state domandando perché le chiamino granchio-scimmie, vi sarebbe bastato vedere come si dondolavano tra una trave e l’altra del soffitto e avreste capito tutto della situazione in cui mi trovavo.

Si servivano dei sette tentacoli che avevano al posto delle zampe e della coda per balzare di qua e di là, rovesciando ovunque sacchi di frumento e granturco. Talvolta si fermavano, e potevi vedere bene le loro mandibole verticali muoversi, mentre sgranocchiavano qualcosa o strappavano pezzi di legno con le grandi chele anteriori.

Le chele, appunto, mi avevano fatto una paura dannata, ma Brave mi assicurò che non venivano usate per la difesa, ma solo per la locomozione sul pianterreno (in effetti, quando si trovavano all’altezza del pavimento, vedevi che deambulavano come delle creature azzoppate degli arti posterioli, mentre i tentacoli venivano trascinati dietro come appendici inermi).

Non avevo proprio idea di come avrei fatto per liberarmene; in seguito scoprii che i pegasi del magazzino ci avevano preparato una grossa cisterna in metallo (credo ricavata da un voluminoso boiler) nella quale avrei dovuto infilarli uno per uno per poi rinchiuderli con un coperchio. In seguito, sarebbe bastata una semplice magia di telecinesi di Brave per portarli lontano dalla costa e rispedirli in alto mare. Ma per quanto un Cacciatore competente avrebbe trovato l’incarico triste e umiliante, io ero tornato a sentirmi come il giorno prima, quando mi trovavo davanti al Razorgor affamato.

Non ero entusiasta del Contratto, e Brave, a parte mormorarmi qualche piccolo consiglio da un angolo del capannone (sedeva sopra una cassa di legno e disegnava qualcosa su carta con il corno, ricordatevi questi dettagli), si era attenuto al suo compito di farsi da parte limitandosi a guardare.

Io nel frattempo tentavo di fare del mio meglio, ma quelle creature di merda, rifiutate dalla loro stessa madre, si prendevano gioco di me zampettandomi intorno, rifiutando di farsi prendere!

Si nascondevano dietro i sacchi e tra le casse, e quando mi distraevo, si arrampicavano sulle pareti fino al soppalco, costringendomi più volte ad andare su e giù per la scala nel vago tentativo di stargli dietro, ma era un’impresa IMPOSSIBILE!

Mentre tentavo di scendere, una di esse stabilì che farmi correre a destra e manca non era abbastanza divertente, e cercò di farmi cadere scuotendo la scala.

Riuscii ad evitare il peggio mollando la presa e rotolando bruscamente a terra.

Mi rialzai lanciandole maledizioni: «Adesso cominciate davvero a stufarmi…! »

«Accecale.» Mi aveva suggerito Brave in tono indifferente, continuando a disegnare.

Allora io, ispirato dalle sue parole, presi un mucchietto di semi vari che c’erano per terra e con un colpo di zoccoli li frantumai tra le zampe. Li lanciai dunque verso la creatura che avevo davanti.

La granchio-scimmia non se l’aspettò, e io non mi aspettai la sua reazione, perché reagì come se le avessi appiccato fuoco con un incantesimo (vi spiego: fuori dall’acqua i loro occhi si seccano molto rapidamente, e anche se sono dotate di una sorta di ghiandole lacrimali per tenerli costantemente umidi, basta davvero un niente per causare in loro reazioni di dolore intenso. Questa cosa l’avrei imparata solo a suo tempo).

Mi buttai con tutto il mio corpo su di essa, e pregai in tutti i modi la Dea che le loro chele fossero davvero inoffensive. La afferrai tra le zampe anteriori e la trascinai fino alla cisterna, spostandomi, per la prima volta in vita mia, solamente sugli zoccoli posteriori.

Brave questa volta mi guardò, contento di come mi stavo comportando.

Così misi nel sacco il mio primo Bubbleloc. Avrei potuto gioire, non fosse che me ne restavano altri tre che scorrazzavano a zampa libera.

Capii ben presto che non erano creature così inoffensive come mio Zio stava cercando di spacciarmele.

Subito dopo aver intrappolato la prima granchio-scimmia, mi sentii rinato e speranzoso che le prossime sarebbero state più facili da catturare, così mi misi subito a galoppare verso la più vicina che trovai.

Adagiati lì accanto c’erano dei sacchi di iuta bucati, con dell’avena che usciva dai fori. Ne raccolsi una manciata pensando di ripetere lo stesso stratagemma di prima, ma avevo sottovalutato la scaltrezza del Bubbleloc.

Lo sapete cos’ha fatto quel piccolo bastardello?! Si era chiuso in se stesso! Cioè… si è schiacciato a terra nascondendosi gli occhi sotto le chele, che a quanto pare un’utilità oltre alla deambulazione ce l’avevano eccome, e si era ancorato alle assi del pavimento senza che io potessi far niente per smuoverlo da lì! Era inutile che gli tirassi addosso della roba o che tentassi di spostarlo, non aveva intenzione di staccarsi!

Quello che Brave si era ancora dimenticato di dirmi era che i Bubbleloc hanno nella parte inferiore del ventre una serie di ventose che utilizzano per aderire alle superfici, o come in questo caso, per difendersi dalla cattura dei predatori. E a questo proposito: mentre tentavo di sradicarlo dal pavimento, il tentacolo caudale – più duro rispetto a quelli che hanno per “zampe”, s’incurvò in aria a mo’ di coda di scorpione e mi frustò sul viso catapultandomi a terra.

Provai a rimettermi in zoccoli, confuso e frastornato, e le altre granchio-scimmie decisero di fare qualcosa che probabilmente neppure Brave si sarebbe mai immaginato.

Gli altri due Bubbleloc saltellarono verso di me e mi presero per le zampe posteriori. Strinsero le loro code prensili su di me e mi trascinarono per tutta la stanza verso il muro più vicino.

So che può sembrare assurdo, ma credo che volessero issarmi per poi farmi precipitare dall’alto. Non so se la iella mi perseguiti o se quel giorno Brave aveva preso un abbaglio colossale, fatto stava che si era sbagliato, e di brutto!

Per lo meno a quel punto aveva capito che avevo davvero bisogno di uno zoccolo.

Voltai la testa e notai che mio Zio si stava stagliando fermo a pochi metri da me. I suoi occhi, spalancati e immobili, gelarono i Bubbleloc obbligandoli a fermarsi.

«Vi ordino di liberarlo, SUBITO!» Disse per intimidirli, e quelli gli obbedirono come se fossero stati degli animaletti addestrati.

«Ora saltate dentro» indicò la cisterna «e smettetela di fare casino!»

Anche adesso obbedirono ai suoi comandi come cani al guinzaglio. Il modo in cui li serrava con il suo Sguardo era veramente incredibile!

Mi porse lo zoccolo e mi fece rialzare.

Io mi sentivo male. Non dolorante per la fustigata che avevo appena ricevuto, ma abbattuto, deluso di me stesso e della mia incapacità di affrontare la situazione.

«Così non è giusto però… io non ho lo Sguardo come te.» Mi lamentai, credendo, perlomeno, di avere dalla mia le argomentazioni giuste.

Come risposta, lo sentì ghignare, e in un angolo della sua bocca si era formato un sorrisetto che non mi piacque per niente.

Il suo corno si accese, e tirò fuori dal cinturino un paio dei suoi coltelli da lancio, che portava con sé dovunque andasse. Li indirizzò verso l’alto, sulla trave dove l’ultima granchio-scimmia stava oscillando.

Il primo si conficcò su un tentacolo, impalandola, il secondo invece trapassò la sua testa, dandole il colpo di grazia.

Guardai quello spettacolo inorridito, e mi domandai se era stato necessario arrivare a tanto. Sapete, mi sarei aspettato di vedere qualche dimostrazione del suo grande talento, qualcosa che differisse dai tipici trucchetti che qualunque unicorno sarebbe capace di fare, ma quella era stata violenza gratuita, una cattiveria che proprio non mi piacque.

«È così che funziona.» Iniziò a spiegare. «Vedi Spirit, non conta ciò che distingue gli altri da te. Ogni buon Cacciatore deve saper fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse. Sfruttare al meglio le capacità che LUI possiede. E tu, come mio futuro compagno, non dovrai pensare a me come a qualcuno con una marcia in più, bensì, a quello che TU potrai dare per essere migliore di ME.»

Mentre parlava, mi sembrava che le sue parole fossero scarne, come se mancasse qualcosa. Oppure completamente sbagliate. Di recente aveva commesso diversi errori, quindi che ragione aveva di farmi la predica?

«Ancora non ti ho convinto? Non hai imparato niente dall’ultima volta?»

Provai a seguirlo, e in effetti, mentre mi lamentavo, non avevo considerato il pony sfregiato e ciò che gli avevo visto fare malgrado fosse un semplice pony di terra. Questa conclusione, invece di aiutarmi, mi mise ancora più giù.

«Forse non sono adatto a fare il Cacciatore allora… » gli dissi, e lui di risposta mi mise uno zoccolo sulla spalla.

«Imparerai a esserlo. Abbi solo fiducia nelle tue potenzialità. “È per questo che non ti ho messo in guardia sui Bubbleloc e ti ho costretto a catturarli senza preparazione”

La seconda parte, lui… non la disse per davvero, me la sono inventata. Ma nella mia testa fu come se lo facesse. Io VOLEVO pensare che lui me lo stesse dicendo, e ho finito per immaginarmela fino a renderla vera.

Questa invece è autentica: «Perché credi che Colton Nyx mandi i Cacciatori a fare il lavoro sporco per lui? Perché ha bisogno di pony come noi, di guerrieri che sappiano valutare da sé le situazioni e adattarsi a ogni contesto. Imparerai che nelle missioni non conta la tecnica, e nemmeno la preparazione. Devi guardare agli scenari come se fossero dei manuali che ti dicono tutto e allo stesso tempo niente. Starà a te imparare come adeguarti a ogni circostanza.»

E quello che avevo vissuto in quel capannone era stata una prova lampante della coerenza delle sue parole. Se anche avessi saputo per tempo tutto quello che avrei appreso negli anni seguenti, non sarei stato comunque capace di catturare le granchio-scimmie da solo, perché “non sapevo leggere il manuale”.

Imparare a estrapolare le informazioni da ogni contesto, osservare il momento e quindi sentirlo dentro di me. Se dovevo diventare un valido supporto per mio Zio, avrei dovuto imparare questi tre mantra a memoria e farli miei. Come quando vidi quel bastone per terra, che mi evitò le zanne del Razorgor. Non sarei qui ora se non fosse stato per quell’istante di acume che mi salvò la vita.

«E comunque, la mossa di prima con i chicchi mi è piaciuta. Hai improvvisato bene.» Si complimentò, e questo mi tirò un su pochino. «Ora andiamo. Dobbiamo dire al nostro caro borgomastro che siamo in grado di cavarcela anche da soli. E poi, abbiamo delle commissioni da sbrigare.»

Questo ci porta inevitabilmente alle due personalità che hanno maggiormente determinato la mia carriera di Cacciatore negli anni a venire.

Cominciamo con Cuttersmith, il fabbro di Capo Unicorn. Se c’è mai stato un unicorno che abbia fatto fortuna dall’attività dei Cacciatori su Uruma, quello è senz’altro lui.

Ci rivolgevamo sempre a lui quando avevamo bisogno di riparare le nostre attrezzature o richiedere nuovo equipaggiamento, in più, ha anche insegnato a mio Zio come scolpirsi da sé la lama della Green Blade (o perlomeno, era quello che mi era parso di capire quando ne aveva parlato con lui).

Quel giorno pensai che saremmo dovuti andare per ritirare gli spallacci e gli schinieri di metallo che Brave aveva danneggiato nell’ultima missione, invece, finii per scoprire che aveva qualcosa in serbo per me.

Ricordate i disegni? Venni a sapere che mentre io giocavo ad acchiapparella nel magazzino dei cereali, lui aveva preparato un progetto per una bardatura da combattimento che presto sarebbe stata destinata a me.

Era una sua abitudine disegnare schizzi per attrezzature da Cacciatore, e la cosa non mi sorprese più di tanto, ma faceva uno strano effetto scoprire che tra non molto avrei indossato una “corazza” tutta mia.

Mentre loro si persero in una discussione che non seguii (stavano parlando con animosità, fatto che oramai avete capito, era la consuetudine nelle discussioni di Brave Lion), avevo dato un’occhiata alle tre pagine di disegni che aveva abbozzato su carta, ma poiché erano tracciati con il carbone e orribilmente pasticciati, capii ben poco della sua idea.

Avrei dovuto attendere diverse settimane prima di scoprire cosa mi aveva preparato.

Nell’ora che seguì, passai il tempo a farmi prendere le misure da Cuttersmith.

Lui sembrava turbato da qualcosa, i dubbi che mal celava si rispecchiavano nel modo in cui si arrovellava per appuntarsi ogni più piccola informazione che poteva trarre dal mio corpicino.

In più di un’occasione tornava a rivolgersi a Brave, ripetendogli frasi del tipo: «Non funzionerà!» E mio Zio rigettava prontamente.

Venne nuovamente cavato fuori il nome dello sfregiato, che Brave usava come esempio per la bardatura che indossa il suo ex-collega, ma Cuttersmith asseriva con convinzione che non era la stessa situazione, che IO non sarei mai stato capace di indossarla. “Non avevo la giusta costituzione”. E non capendoci niente, li guardai bisticciare senza sapere da quale parte schierarmi.

Naturalmente, il tempo avrebbe dato ragione all’ostinazione di mio Zio.

Andammo a riscuotere il mio primo compenso da Cacciatore: Dieci Argenti.

Era inutile negarlo, si trattava di una paga quanto mai simbolica, se penso che un mozzo su una nave ne fa quattro in un’ora e fino a cinquanta in una sola giornata di lavoro.

Eppure io ne fui emozionato, erano soldi miei, che – almeno in parte – mi ero guadagnato con il sudore della mia fronte. Questo mi diede una spinta che prima mi era mancata: potevo fare il Cacciatore anche per me stesso; aiutare Brave era solo la ragione del mio esordio, ma coll’avanzare del tempo avrei anche potuto farne una mia motivazione personale. Ed ero sempre più convinto che quella strada mi avrebbe portato, un giorno, ad ottenere un Simbolo di Virtù.

Colton Nyx accolse la mia vittoria con cauto sorriso. Naturalmente non sapeva dell’intervento di Brave, ma la prossima volta, m’impuntai, avrei fatto il possibile per cavarmela da solo.

Comunque, prima di tornare a casa, c’era ancora una tappa che dovevamo raggiungere.

Il Bazar di Malaika, era chiamato così perché a quei tempi lo gestiva lei. Suo nipote Duka ne avrebbe preso le redini solo in un secondo momento.

Che cosa si può dire di lei? Quella zebra è stata da sempre e per tutti un mistero, che si alimentava da sé anche grazie all’aura di misticismo che le girava intorno.

Qualcuno diceva che era scappata dal suo paese natio imbarcandosi di nascosto in una nave pirata insieme a Duka, per fuggire così da un non meglio precisato conflitto che stava imperversando nella regione. Altri invece sostenevano che era stata cacciata dal suo villaggio perché praticava la negromanzia e altre forme di arti oscure, e che si trovasse su Uruma da più tempo di chiunque altro.

Entrambe le teorie non avevano senso, obbiettivamente, ma era affascinante notare come tutte le mistificazioni che si dicevano sul suo conto non tenevano la clientela lontana dal suo negozio, ma anzi, era quasi una tappa obbligatorio per qualunque Cacciatore che voleva prepararsi per una missione. Come Cuttersmith, anche lei aveva fatto la sua fortuna grazie all’andirivieni dei Cacciatori che abitavano a Capo.

I guerrieri si rivolgevano a lei quando avevano bisogno d’impiastri particolari per le loro missioni, veleni e pozioni di ogni tipo, ma all’occorrenza sapeva anche imprimere su pergamena incantesimi utilizzabili da pegasi e pony di terra. Le sue conoscenze delle rune antiche e dei linguaggi per il dominio degli elementi della natura spesso superavano in competenza persino l’intelletto dei maghi unicorni più arguti.

La sua bottega, poi, era piena delle spezie più variegate e degli ingredienti più fantasiosi: ossa di Ibis, lacrime di Drago, cristalli di Idra, peli di cinocefalo. Alla fine non erano altro che infiorescenze essiccate, semi di frutti e polveri setacciate dal terreno, che potevano produrre effetti specifici se mescolate insieme e cotte alla giusta temperatura.

Entrammo dentro e fummo accolti dal profumo d’incenso, che allora si poteva annusare anche da fuori.

Malaika arrivò ad accoglierci subito nelle sue vesti lunghe e colorate. Particolare che spiccava era il grande ciondolo di ossidiana e corallo che portava al collo, magnetico e probabilmente intriso di qualche forza arcana.

Una personalità che affascinava chiunque la vedesse.

«Miei cari, le stelle che nuotano nel mare splendente vi accolgono, che il ciel sia lodato!» Esordì lei da dietro il banchetto, e malgrado l’età aveva ancora una vitalità che non avrebbe sfigurato neppure in battaglia.

«Sono passato per sapere se le calzature sono pronte, signora.» Rispose Brave, intanto che io ero stato attirato da alcuni tarocchi esposti in una teca.

Da una stanza sul retro, avevo notato che Duka guardava verso noi con un filo di noia. Malgrado sia più grande di me di diversi anni, ho sempre pensato che io e lui abbiamo diverse cose in comune, nonostante nessuno dei due si sia mai impegnato per davvero a stringere dei rapporti con l’altro. Anche lui, come me, si era ritrovato a dover aiutare sua nonna in un’attività che non l’aveva mai coinvolto del tutto, e proprio come me, la sua maschera nascondeva il bisogno di scappare, per rincorrere una libertà che diveniva sempre più confusa via via che trascorrevano gli anni.

Malaika annuì con calore alla richiesta di mio Zio, e domandò a Duka di andare nel retrobottega per recuperare le Calzature per il Galoppo Verticale.

Fu la prima volta che le vedevo, e in quel momento mi sembrarono solamente degli strani stivali con la suola scolpita nella pietra.

Mio Zio le aveva avvicinate a sé e le aveva esaminate da cima a fondo, per poi riconsegnarle alla vecchia zebra.

Malaika le girò all’insù, scoprendo le rune che c’erano state incise sotto con preciso lavoro di scalpello. Fu allora che compresi di essere stato troppo precipitoso a giudicarle.

Prese una strana polvere molto sottile e la soffiò sulle incisioni, cantando una nenia nella sua lingua natia mentre le particelle si depositavano sopra. Ai tempi pensavo che questa polvere era indispensabile perché l’incantamento funzionasse, ma non è così in effetti.

Fatto questo, le calzature sarebbero anche state pronte per l’utilizzo, ma prima di riconsegnarcele, la zebra si cimentò nella recita di un monologo nella lingua dei pony, che finì per restarmi impresso nella memoria: «E che non risenta più l’effetto del suo volere, di Lei. Che le carni non siano più schiave degli elementi, i Suoi. Sollevati Brave Lion, e non temere la Sua ostilità. Malaika te lo concede, oggi e domani, e che il ciel si lodato!»

Trovai strano ciò che disse, perché le zebre basano la propria fede sul culto delle stelle e degli astri, ma quel sermone era stato indirizzato espressamente alla Dea. Non feci domande, anche perché Brave era rimasto completamente impassibile durante la cerimonia.

Raccolse le calzature e pagò l’anziana fattucchiera con gli Argenti del suo compenso, quindi ce ne andammo.

Ah, dimenticavo di dirvelo: prima di uscire anche lei notò le mie cicatrici, il suo commento a riguardo è stato: «Oh stelle, le ferite di questo piccolo cucciolo! Che cosa ti è successo, dimmi? Che il ciel sia lodato!»


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Capitolo 4
*** 4: Un Nuovo Cacciatore ***


4: Un nuovo Cacciatore

Dunque, se siete d’accordo vi racconterò questa parte in maniera più sbrigativa.

Successero diverse cose in un arco di tempo molto più ampio, e nemmeno io so esattamente da quale punto sia più giusto iniziare. Spero solo di non tralasciare niente di importante.

L’altra volta ci siamo interrotti alla mia vittoria parziale sui Bubbleloc. Da quel giorno era arrivato per me il momento di cominciare ad allenarsi sul serio. Sapevo benissimo che combattere le granchio-scimmie era stato molto più simile a un gioco di quanto io stesso fossi disposto ad ammettere.

La penuria d’incarichi spinse mio Zio a trascorrere molto più tempo con me, in un periodo che spendemmo per piantare le basi di quello che sarebbe poi diventato il mio programma d’addestramento.

Mi svegliava all’alba tutte le mattine, e mi costringeva a galoppare con lui ad ampie falcate nella prateria, per poi sottopormi ad estenuanti esercizi di rinforzo muscolare che misero a dura prova la mia resistenza.

In quel periodo, di animali ne vidi ben pochi, ma in compenso fui costretto a dire addio alle comodità dell’infanzia e a svezzarmi al difficile mondo degli adulti. E guai a lamentarmi, altrimenti mio Zio arrivava con delle ramanzine che impiegavo giorni per farmi passare.

Brave era severo e non transigeva su niente, e avevo scoperto che la gentilezza che aveva avuto i primi giorni era solo un’apparenza, ed è svanita nel momento in cui entrambi abbiamo cominciato a fare le cose sul serio.

Poi, un giorno, arrivò il suo primo incarico dopo settimane di nulla assoluto, ed io tornai a stare da solo, con in zoccolo solo uno straccio delle indicazioni su come proseguire i miei allenamenti.

Ricordo che la pigrizia si era impadronita di me, e trascorsi quel pomeriggio a lavorare nell’orticello vicino alla baracca. Non mi andava di allenarmi, detto sinceramente.

Curai le piantine con poco interesse, perché tutto il mio pensiero era indirizzato a come la mia vita stava cambiando dall’oggi al domani, senza che io potessi in alcun modo dire la mia.

Poi mi fermai, e mi accorsi di non essere in alcun modo stanco, non com’era solito succedermi prima che cominciasse l’addestramento. Ero diventato più forte. Sentivo che il mio corpo non si affaticava più come un tempo, anche se sapevo di non avere speranza di rivaleggiare con mio Zio.

Per la prima volta in vita mia stavo vedendo i risultati di qualcosa che avevo iniziato, e che adesso dovevo solo scegliere se proseguire.

Improvvisamente fui colto dalla smania di andare a galoppare, così come Brave mi aveva ordinato di fare, osservando tutto il suo programma con fedeltà assoluta. Feci anche di più: quando tornai, decisi di provare ad arrampicarmi sulla parete rocciosa dietro casa. Guardai un punto sopra di me, che sarà stato sì e no a dieci zoccoli da terra, e cercai di salirci servendomi di tutta la mia nuova energia.

Ci riuscii con grande sforzo di volontà, e probabilmente lo annunciai a tutta Uruma, gridandolo a squarciagola.

L’unico problema fu che nella foga dell’istante, non pensai affatto a come avrei fatto a scendere. Ero più sicuro di me di quanto non lo fossi in passato, ma ciò non tolse che quell’altezza continuava a incutermi una paura dannata.

Decisi di mettere alla prova le mie ali. Da piccolo e ingenuo ipotizzai che, se tutto il mio corpo si era irrobustito, anche le mie ali sarebbero dovute esserlo altrettanto.

Quindi osai buttarmi dal costone… e finii per schiantarmi a terra.

Il dolore fu accecante, la Dea mi è testimone, e parlando con schiettezza, non so come feci a uscirne tutto intero. Mettendomi il cuore in pace, capii che per le mie ali non avrei potuto fare niente, qualsiasi allenamento le avessi sottoposte per rinforzarle. Erano troppo piccole per il mio peso, e come tali, avrei dovuto imparare a convivere con questa deformità. Ma per quanto riguarda il resto, sapevo di dovermi impegnare per superare i miei limiti, e diventare così il Cacciatore che mio Zio desiderava.

Una mattina di primavera era il mio nono compleanno e Brave, quel giorno, mi fece trovare pronte due sorprese. La prima fu una vecchia camicia ingiallita, della stessa tonalità della mia criniera, con almeno una taglia superiore, ma che accolsi con gioia, dato che finalmente avevo qualcosa con cui coprirmi le cicatrici sul petto. La seconda, invece (dovetti tenermi forte quando la vidi) fu la mia prima bardatura da combattimento!

Nella sua versione iniziale era formata da due protesi compatte in legno che si legavano alle mie zampe anteriori tramite dei cinturini. Avevo anche la possibilità d’innestare dei bastoni intagliati a forma di spade per servirmene in allenamento (o per una battaglia di basso livello, se mai ne avessi avuto bisogno).

«Provale.» M’invitò, ed io mi trovai subito in una situazione di disagio: i bastoni s’innestavano lungo le protesi e, quando retratti, si estendevano di almeno due zoccoli sopra le mie spalle. Per sguainarli avrei dovuto per prima cosa mettermi in posizione bipede, e quindi farli scorrere, manualmente, attraverso di esse.

Quando lo feci notare a mio Zio, lui sorrise, asserendo che era proprio quello che si aspettava che facessi.

Insomma, voleva che mi muovessi in posizione bipede, e questo fu ufficialmente l’inizio.

Capii presto da che cosa erano derivate le preoccupazioni del fabbro: i pony di terra, che saranno anche inadatti per la maggior parte delle mansioni più semplici delle altre razze, hanno però una costituzione fisica più robusta rispetto a pegasi e unicorni, quindi l’idea che uno di loro si cimentasse in uno stile di combattimento così “innaturale” non era poi difficile da concepire. Il pony sfregiato, dopotutto, ne aveva data una chiara dimostrazione.

Ben diverso fu quando toccò a me, che oltre ad essere un “pegaso terrestre”, ero ancora troppo inesperto per sapere come muovermi bene in quel modo.

Ogni mio tentativo si concludeva con una caduta umiliante, cui seguiva l’insistenza di mio Zio di riprovarci di nuovo. Ancora, ancora e ancora.

Imparare a volare rimaneva ancora il mio traguardo più inarrivabile, ma usare la bardatura si poneva proprio sotto di esso in termini di difficoltà.

Più mi sforzavo di abituarmi e più avevo la sensazione che qualcosa in essa non andasse bene. Le cinture, per esempio, mi stringevano troppo sugli stinchi, e quando le allentavo, le protesi dondolavano senza controllo lungo le zampe. Per di più, non potete immaginare quante volte mi sia accidentalmente colpito in testa con i due bastoni.

Realizzai che dovevo apportare delle modifiche, ma per farlo avevo bisogno di Argenti. Molti Argenti.

Mio Zio era via per altre missioni. Trovatosi come unico Cacciatore di Capo Unicorn, aveva cominciato ad assentarsi sempre più spesso per portare a compimento gli incarichi che gli venivano assegnati.

Io potevo scegliere se chiedere a lui i contanti per rifinire la bardatura, o fare da me per avere un assaggio della vita da Cacciatore adulto, ma sapevo che se avessi scelto la prima, lui non l’avrebbe presa bene. Così decisi di fare da solo.

I vincoli della mia licenza m’impedivano di accettare incarichi da Colton Nyx, perciò cominciai a rivolgermi ai privati cittadini: aiutare qualche contadino con i raccolti, o dare uno zoccolo agli scaricatori del porto, per esempio. Il fatto che fossi il nipote del famoso Brave Lion mi aiutò a fare presa sui pony, e anche se maldestro e probabilmente una palla al zoccolo per molti, raramente mi sbattevano la porta in faccia.

Erano tempi diversi quelli, dove anche se il decadimento era già captabile nell’aria, la città godeva ancora dell’influenza positiva del passato.

Andai avanti così per giorni, fino a quando non raccolsi abbastanza denaro da permettermi di migliorare la bardatura.

Una settimana di attesa e Cuttersmith mi sostituì i vecchi cinturini con delle nuove stringhe di cuoio. Notai subito che la stretta era molto più salda e allo stesso tempo confortevole. Finalmente non dovevo più temere le piaghe da costrizione che mi si formavano sotto gli strati del manto.

Ricominciai ad allenarmi, e malgrado la postura eretta restasse un’utopia per me, ero già diventato più preciso nei movimenti e nelle reazioni.

I mesi trascorrevano.

La carriera di Brave era piombata in una nuova fase di magra.

Da un lato era confortante sapere che Capo Unicorn e i suoi abitanti potevano godere di una stagione di tregua, ma d’altra parte stavano succedendo delle cose molto strane: gli Skinflai erano diventati rari, e portavano con loro solo poche gocce di pioggia alla volta, troppo poche per idratare i terreni e sostenere l’ecosistema, che era diventato sempre più debole e incapace di sostenere la vita, per non parlare delle specie apparentemente più popolose che via via svanivano senza lasciare alcuna traccia. Se ci si fermava a riflettere, era chiaro che a Uruma stava succedendo qualcosa, anche se nessuno era in grado di spiegarsi che cosa.

Per lo meno, ciò permise a Brave di supervisionare alcuni miei Contratti.

Nel tempo che trascorse, posso dire che feci veramente di tutto.

Alcune cose non si discostavano più di tanto da ciò facevo nel tempo libero, quando andavo a bussare porta a porta per offrire i miei servigi agli abitanti. In altri casi, invece, mi occupavo della cattura di piccoli animali invasivi come i Bubbleloc e altre creature che più che una minaccia erano un fastidio per la popolazione.

Un giorno, però, mi proposero d’imbarcarmi su una goletta che doveva far approdo su una baia a Nord; c’era un’intera stiva che non aspettava altro che di essere riempita di alghe da olio.

Cazzo, sarei bugiardo se vi dicessi che l’opportunità non mi aveva gasato non poco!

Ero così entusiasta di salpare per la prima volta per mare, che dimenticai completamente la ragione del mio ingaggio: proteggere il veliero dall’assalto di un banco di pesci volanti carnivori.

Anche quel giorno, la presenza di Brave si rivelò vitale. Fu grazie alla sua competenza se riuscimmo a terminare il nostro viaggio sani e salvi.

Quella era stata, a dirla chiaro e tondo, la mia ennesima figura di merda.

Ad un certo punto mio Zio pretese di cominciare ad addestrarmi nel combattimento. Per farlo, voleva che imparassi una volta per tutte a padroneggiare la bardatura.

Avevo compiuto dieci anni, e avevo già sostituito parte del telaio con una più pesante ma resistente scocca in lega di ferro, tuttavia, l’uso sul campo si era limitato a ben poche missioni, che di sicuro non mi avevano aiutato a fare pratica con l’attrezzatura.

Così, iniziò il periodo in cui, oltre agli allenamenti quotidiani che già ero tenuto a rispettare, dovevo anche regolarmente battermi con Brave in un duello di lame.

La postura eretta era già diventata più accessibile rispetto agli esordi, ma considerato chi avevo come Maestro, non avevo molte possibilità di cavarmela, ma piuttosto, di beccarmi un sacco di mazzate in testa.

Dal canto suo, mio Zio cercava di venirmi incontro bandendo l’utilizzo della propria magia, ma anche così, era una battaglia che perdevo sempre in partenza; si serviva di un bastone, che faceva danzare tra gli zoccoli dando esibizione di una padronanza dei gesti e dell’equilibrio che io potevo solo sognarmi. Più mi rovesciava a terra, facendomi lo sgambetto o semplicemente affondando contro di me l’asta, e più mi risultava difficile sperare che un giorno sarei riuscito ad eguagliare il suo livello.

Considerata la crudeltà che sapeva mettere in combattimento, dovevo sentirmi fortunato se non aveva mai deciso di utilizzare contro di me la Green Blade (non durante quei combattimenti, almeno).

Ciononostante, continuavo ad allenarmi. E mentre le mie abilità crescevano un po’ alla volta, così anche il mio rango da Cacciatore aumentava.

Avevo raggiunto gli undici anni, e per tre anni non avevo svolto altro che missioni di poco conto.

Non avevo mai preso parte a una delle epiche battaglie che descriveva mio Zio nel suo diario, le stesse che avevano reso famosa l’intera congrega dei Cacciatori di Mostri, e anche se in principio questa cosa era per me un inconveniente decisamente gradito, presto avvertii che qualcosa interiormente stava cominciando ad andarmi stretto. E non era la mia bardatura, o il fatto che il mio corpo stesse cominciando a plasmarsi in quello che poi sarei diventato da adulto.

No. Il punto era che volevo mettermi in gioco.

Avevo faticato tanto nel corso degli anni, e poco o nulla di quello che avevo svolto mi aveva regalato emozioni come la prima volta che spesi i miei Argenti per sostituirmi le cinture.

Non potevo fare nulla con quella licenza, e le uniche occasioni che avevo per salire di grado erano quando Brave aveva del tempo libero da investire su di me.

Quando poi cominciai a diventare insofferente verso quello che svolgevo, al punto di rifiutarmi perfino di svolgere certi incarichi, venni a sapere che d’improvviso ero stato elevato al rango successivo. Quello che avevo bramato da ormai diverso tempo.

Se ciò fu possibile, non lo devo ai miei sforzi, ma a una circostanza che cadde dal cielo come un dono della Dea. Una missione di vitale importanza che richiedeva l’intervento forzato di due Cacciatori, e dato che non c’erano altri Cacciatori sotto la graduatoria, Colton Nyx si convinse, in via straordinaria del tutto straordinaria, di farmi bruciare le tappe.

Ora potevo dare la caccia ai mostri di rango maggiore.

La notizia me la diede Brave, il giorno in cui mi fece il terzo più importante dono che mai mi ha fatto.

Non era una ricorrenza particolare, non dovevo compiere di nuovo gli anni.

Se mi fece quel regalo era solo perché sapeva che mi sarebbe tornato utile nella missione che stavamo per compiere.

Me lo consegnò con un’espressione che era grave; forse riteneva che non ero ancora pronto per un passo del genere. In effetti, le mie precedenti esperienze non avevano votato a mio favore, ma la via dei Cacciatori spesso t’impone dei vincoli che tu puoi solo scegliere di accettare, o morire rifiutandoti.

La mia vita stava per cambiare una seconda volta, e il fallimento, stavolta, non era contemplato.

La siccità era ed è tutt’ora la più grande piaga che Uruma abbia mai affrontato.

Presto capirete che parte della responsabilità forse si dovrebbe imputare anche a me, ma allora la questione era diversa.

Senza regolari piogge, e con le acque che stavano via via scomparendo da Uruma, le fattorie non avevano più modo di coltivare i loro prodotti. Quella che un tempo manteneva un’economia florida e basilare per la città, stava diventando mese dopo mese un’agricoltura di sussistenza, dove ben poche famiglie producevano abbastanza da permettersi di vendere i propri raccolti. Così succedeva che molti se ne andavano, impoverendo ancora di più le ricchezze di Capo Unicorn, e chi restava doveva ingegnarsi per trovare una soluzione.

La Lacrima di Drago rimaneva l’unica fonte d’acqua da cui si poteva attingere, ma ben presto anche i suoi snodi (in particolar modo quelli che convergevano nella campagna) si disseccarono, e il letto principale divenne l’unica alternativa alla siccità incalzante. Ma c’era un problema: le terre selvagge.

In quegli anni il fiume percorreva, in tutta la sua lunghezza, i territori incontaminati, e non c’era modo per avervi accesso, se non percorrendo interi chilometri di pianura nelle stesse zone battute dalle creature selvatiche.

Per raggiungere quella fonte, era necessario estendere i confini della campagna, sottraendo in tal modo territori agli animali; costringerli ad allontanarsi, in modo da consentire la bonifica dei nuovi terreni, tramutandoli così in campi di coltura.

So che suona poco bene, ma era una questione di sopravvivenza, e la scelta era tra noi o loro.

Ad ogni modo, ciò ci porta all’aneddoto che sto per raccontarvi.

Era un’altra mattina, il giorno seguente al regalo di mio Zio.

C’incontrammo con Colton Nyx e un secondo unicorno.

L’unicorno, il suo nome era Deep Root, era uno dei più influenti proprietari terrieri di quegli anni, ed era stato anche il principale finanziatore della Barricata; la ragione del perché ci trovavamo lì quel giorno.

Quando arrivammo, lui mi guardò con sospetto, come se volesse scacciarmi. Forse perché non mi reputava in grado di adempiere al Contratto, forse perché il mio fianco bianco non era degno della sua vista. Alla fine non l’ho mai capito.

«È mio nipote, è in zampa!» Asserì mio Zio, spingendo Colton Nyx a fare spallucce di risposta.

Superato il momento, notai subito i lunghi pali della Barricata che si estendevano lungo il mio campo visivo, distanti quindici zoccoli gli uni dagli altri. Visto che sono diverse le cose che vi devo riassumere, e francamente non so bene da che cosa iniziare, credo che comincerò parlandovi proprio di questo:

Nelle distese della Savana, dove le zebre hanno i loro villaggi natii, per proteggersi dai predatori, e più in generale dagli animali pericolosi, le sciamane istruiscono le giovani discepole a creare queste barriere magiche incise su palizzate e alte barricate resistenti nel tempo, che quindi collocano intorno ai loro villaggi per un raggio di alcuni chilometri (questo a seconda delle necessità di ogni tribù, mi pare di aver capito). Le barriere, poste quindi in quel modo, hanno la capacità di tenere alla larga le minacce fintanto che i contorni delle rune son ben delineati nella materia scolpita.

Mettere gli zoccoli su artefatti del genere non era poi così difficile se si avevano i contatti giusti, e Colton Nyx a quanto pare, li aveva.

Non c’era stato bisogno di scomodare le vecchia Malaika per procurarseli: una nave che percorreva la rotta tra Uruma e la terra natia delle zebre era stata la soluzione ai problemi del nostro borgomastro. Dopo una trattativa e la stipulazione di un accordo vantaggioso, la stiva, carica di pali con le rune incise sopra, era stata svuotata nel molo di Capo Unicorn.

Una pila di questi pali era accatastata in un punto. Erano stati abbandonati di gran fretta dai manovali di Deep Root, dopo che la squadra chi li stava disponendo era stata attaccata da alcuni Rogueshar.

Ci fu riassunta la situazione in poche parole:

Colton ci mostrò il punto in cui gli operai si erano fermati, dove uno dei pali risultava spezzato a metà e riverso per terra, interrompendo la processione che altrimenti avrebbe dovuto avanzare per altri due chilometri, fino agli acri coltivati di Capo. La Barricata, infatti, avrebbe dovuto creare una cinta protettiva dalla riva della Lacrima, fino ai confini della campagna.

Alla conversazione, cui prese parte anche Root, si aggiunse che: «quelle bestie sono venute e hanno massacrato cinque operai. Quelli che sono scampati hanno riferito di averne visti tre (Rogueshar). Un assalto a tutti gli effetti. Una vera strage.»

Io l’avevo capito da tempo che quelle macchie scure che impregnavano i dintorni e la stessa Barricata erano il sangue di quei pony. Ero giovane, ma già allora sapevo di che colore diventava il sangue quando si  seccava.

«Da quale parte sono venuti?» Interrogò mio Zio, dopo aver studiato una serie d’impronte. Si era già messo all’opera.

«Loro dicono da nord» rispose Root «dalla Schiena del Drago!»

«Come pensavo, significa che il loro territorio di caccia è da quella parte. Siete certi che queste bastino per contenerli?» Domandò intanto che esaminava una delle colonne.

«Le zebre le usano per tenere lontani anche i Popobawa che attaccano i loro villaggi la notte, sono inviolabili sia da cielo che da terra!»

«A patto che si stia dalla parte giusta del recinto» ironizzò Brave «significa che se dovessero tornare, convergerebbero qui, dove la Barricata è ancora incompleta. Ti è andata di lusso, Nyx. Sembra proprio che i tuoi business continueranno indisturbati.»

«È con quelli che ci paghi il tuo grano, non te lo scordare!» Sbottò l’altro offeso.

Deep Root intervenne per sedare gli animi. «Sentite, non mi frega un culo di Dea se sono arrivati da nord, da est, o anche dal mare! Ho investito una montagna di Argenti per questi terreni, quindi voglio sapere se si può fare qualcosa, o se invece ho buttato via i miei soldi!»

Dovrei forse dirvi che Brave se la prese a male per la bestemmia che ci fu rivolta?

Dopo aver probabilmente riflettuto sull’entità dell’incarico, ricordo che disse:

«Per questa cosa vogliamo il doppio, oppure non se ne fa niente.»

«Il doppio di che?!» Obbiettò Nyx.

«Parlo della nostra parcella, i soldi che ci dovrai alla fine del lavoro, sai? In più, devi annullare la licenza a supervisione di mio nipote e consentirgli di prendere parte a missioni solitarie!»

Nyx puntò lo zoccolo verso di me e rispose incazzato: «Per quanto me ne importi, potrebbe anche farsi una camminata in un nido di Tygrus… » (disse proprio così, buffo.) «ma te lo sogni se pensi che andrò oltre il regolare compenso!»

Mio Zio gli fece una smorfia stizzita e quindi si girò dall’altra parte. «Allora siamo spiacenti, ma non possiamo accettare. Il “solito” non basta per ciò che ci chiedi. Non è colpa mia se prendi iniziative e vendi appalti senza prima consultare gli esperti. O così, oppure zampe in spalla e ce ne torniamo a casa!»

Qui devo per forza pensare che Brave abbia giocato con i loro cervelli a una partita che non sapevano di disputare, perché immediatamente fu proprio Deep Root ad accettare l’accordo con noi: «sentite, ve la pagherò io la differenza, basta che mi garantiate che libererete la zona da quei mostri!»

E quanta soddisfazione mostrò mio Zio a quell’offerta. «Su questo puoi metterci uno zoccolo sul fuoco.» Aveva risposto con un ghigno.

«Avido bastardo.» Sentì sibilare tra i denti a Colton.

I due stalloni se n’erano andati lasciando noi due da soli. Mezz’ora dopo, io ero intento a fare commenti sulle incisioni impresse sui pali. Malgrado fossi un giovane pegaso, e di magia ne sapevo meno che niente, riuscivo a captare molto bene la forte energia esoterica che trasudava attraverso il legno.

«Guarda Zio, assomigliano ai segni che ci sono sotto le tue calzature verticali!»

«È la magia delle zebre. Devo ammetterlo, la maggior parte di loro saranno sì delle tipe strambe, ma ci sanno proprio fare con gli incantesimi.»

Mentre mi parlava, aveva sguainato la Green Blade e la stava facendo danzare intorno a sé usando la telecinesi. Era un rituale di riscaldamento che lo vedevo fare ogni volta che stava per prepararsi a un’ardua battaglia. Lo aiutava ad acuire i sensi e a tarare la magia che avrebbe utilizzato in seguito.

«Cosa devo fare io?» Gli chiesi allora, sapendo che di certo non potevo buttarmi a testa bassa in uno scontro insieme lui, poco importava quanto mi avesse allenato.

«Questa volta si fa sul serio, piccolo. Non è più come andare a caccia di Bubbleloc o cercare di stanare ratti giganti delle cantine. I Rogueshar sono belve pericolose. Forse tra le peggiori che Uruma ci abbia mai scagliato contro! Per questo voglio che tu faccia attenzione. Sbagliare oggi, significa rimetterci la vita, quindi nessun margine di errore!»

«Ho capito.» Annuii da fuori, anche se in realtà dentro di me stavo deglutendo piombo fuso.

«Bene, allora ascoltami, vedi queste rocce per terra» me ne mostrò alcune «vai in giro e raccogline quante più che trovi, e portale qui. Una ventina basteranno.»

Io lo guardai strano, senza capire se stesse scherzando o cosa.

«Rocce, sul serio?»

«Assolutamente, vengo a darti uno zoccolo anch’io tra poco, ma intanto inizia da solo.»

«E che ci faccio poi?»

«Lo vedrai a suo tempo, ora sbrigati.»

Così feci come mi aveva detto, anche se il suo fine mi era completamente oscuro.

Poco dopo mi aveva illustrato come avrei dovuto collocarle nello spazio, ossia singolarmente, distribuite in modo disordinato un po’ qua e un po’ là, tra gli spazi della Barricata e la sua estremità interrotta.

Verso la fine, lui mi aveva dato uno zoccolo, come promesso, e quando ritenne che ne avessimo raccolte abbastanza, beh, mi fece cenno di allontanarmi.

«Stai a vedere ora.»

Lo osservai mentre accendeva il suo corno e irradiava ciascuna delle pietre con un qualche tipo d’incantesimo. A quel punto spalancai la bocca dalla sorpresa: delle sagome di pony, anonime e indefinite nei contorni, si erano manifestate dalla base dei ciottoli.

Stavano ferme sulla posizione, e si muovevano in modi strani, dando l’illusione di star interagendo tra di loro. Il mio stupore era cresciuto ancora di più quando sentii che da quelle sagome eteree uscivano anche dei suoni. Parole nella nostra lingua, oppure pezzi di frasi incomplete, che ascoltate nell’insieme, però, non avevano alcun senso.

«Questo incantesimo si chiama “Incanto Esca”.» Spiegò Brave, anticipando la domanda che ero pronto a fargli. «Di solito gli unicorni lo utilizzano per pescare, ma in questo caso io ho voluto strafare.»

Non mi soffermai sul chiedergli perché mai un pony dovrebbe pescare, ma capii qual era il suo intento.

«Così i mostri dovrebbero venire da noi, no?»

Lui annuì. «Gli Shar sono animali territoriali, molto protettivi verso i loro confini di caccia. È per questo che hanno attaccato quegli operai, e ora noi sfrutteremo questa caratteristica a nostro vantaggio.»

Cercò qualcosa nelle bisacce dell’equipaggiamento, e ne cavò fuori un binocolo.

«Sali su quello sperone di roccia laggiù, oltre la Barricata, prendi questo con te e mettiti di vedetta. Non appena vedi avvicinarsi qualcosa, avvisami con un grido.»

«Aspetta, devo… arrampicarmi fin lassù?» Ecco, vi dirò che l’altezza era considerevole, ben oltre le pareti di roccia che ero abituato a scalare per allenarmi.

Mio Zio invece la prese sul ridere. «Non posso certo prestarti le mie calzature, non sono nemmeno della tua misura!»

«Sì ma… non potresti andarci tu?» Davvero, ero preoccupatissimo per l’altezza.

«Vuoi stare in prima linea quando i Rogueshar caricheranno?»

In effetti…

«E poi, devo stare qui per badare all’esca, non posso allontanarmi più di tanto dalla zona.» Terminò.

Gli dissi che avevo capito, ma non che la cosa mi facesse piacere. Per lo meno, il mio entusiasmo nel mettermi alla prova mi venne in soccorso motivandomi un po’.

«Un’ultima cosa, Spirit.» Mi fermò prima di procedere. «Quando quelli attaccheranno, io li bloccherò con lo Sguardo. A quel punto cercherò di ingaggiare lo scontro: se se ne dovesse presentare uno solo, non avrò problemi ad eliminarlo, ma se l’alternativa è l’altra, cioè: se dovessero arrivare in gruppo… »

«Dovrò aiutarti io… »

«Sì. Farò tutto il possibile per impedirgli di muoversi. Tu a quel punto corri più velocemente che puoi, e quando sei arrivato, punta subito al collo e sgozzali.» Usò queste parole.

Stravolsi gli occhi e lo guardai smarrito.

Mi arrampicai con grande fatica, e finii per trascorrere lì il resto della mattinata.

I miei occhi si muovevano costantemente lungo tutto l’orizzonte, in cerca di un indizio sull’avvicinarsi degli Shar.

Udivo gli echi delle finte-voci delle esche sull’estremità della Barricata, e mio Zio, in attesa, contribuiva di quando in quando battendo sui pilastri con la lama della Green Blade.

«Vedi niente?» Mi chiedeva a intervalli di tempo, ad alta voce, enfatizzando le grida, e io gridavo a mia volta ancora più forte.

Durante quelle ore riflettei molto, per tutto il tempo che vi rimasi.

Il sole era arrivato allo zenith e batteva forte sulla mia testa, così tanto che ero stato costretto a svestirmi per coprirmela (ma tanto ormai mi stavo abituando a quelle cicatrici sul petto, e presto cominciai a non avere più un bisogno così impellente di coprirmele). Avevo pure sete, e la scorta che avevo in borraccia era arrivata agli ultimi sorsi.

Per fortuna, Brave mi chiamò di nuovo, e stavolta mi disse di scendere giù per l’ora di pranzo.

Mangiammo, cercando di non fare caso alla calura di quel giorno, e mentre mangiavamo ricordo che gli chiesi: «Zio, qual è stato il mostro più grande che tu abbia mai sconfitto?»

Se non sbaglio, lui stava mangiando delle patate in quel momento, e smise subito appena glielo chiesi.

«In paese lo chiamavano il “Leviatano”, anche se tecnicamente non lo abbiamo sconfitto…»

«Ed era… grande?»

«Beh, è successo quindici anni fa, anche di più forse; tu non c’eri ancora quando si manifestò. Era emerso dal mare portando con sé la tempesta più catastrofica che Capo Unicorn ricordi da generazioni.»

«Una tempesta? Era uno Skinflai?»

«Una specie, presumo, ma le dimensioni erano aberranti: cento metri di apertura alare come minimo. Quando volava generava una tale quantità di nubi che avrebbe potuto affondare l’intera costa se solo non l’avessimo fermato in tempo. Ma non credo che fosse un esemplare anomalo, come sostenevano tutti i pony. Un Flai normale non arriverebbe mai a quella taglia, neppure se fosse sottoposto a un incantesimo d’ingigantimento.»

In effetti, io per primo posso affermare di non averne mai visto uno che superasse i dieci metri, neppure quando da piccolo li guardavo trasportare le nubi in cielo, sognando di unirmi a loro.

Ve lo immaginate, un pegaso a controllare il meteo insieme a quelle creature…

Comunque, ero rimasto gelato dalle descrizioni di mio Zio, e rimasi in quello stato mentre lo ascoltai.

Scoprii in questo modo alcuni retroscena di cui fino ad allora non avevo mai sentito parlare.

Praticamente, un essere di quelle dimensioni era troppo grande perché un solo Cacciatore potesse batterlo, così Colton Nyx, che era sceriffo ma non si era ancora montato la testa con i più recenti complessi da politico ignorante, aveva convinto il borgomastro di allora ad appendere una cospicua taglia su chiunque fosse riuscito a liberare Uruma dalla presenza del Leviatano. La seconda mossa che fece fu di spingere tutti i Cacciatori di grado alto a collaborare insieme per portare a termine quella che era stata la più vasta mobilitazione di guerrieri al soldo di un solo Contratto della storia.

«E poi che è successo?»

«Beh, siamo andati a cercarlo. Eravamo tutti Cacciatori esperti, ma non è mai facile seguire le tracce di una creatura che vola, soprattutto quando ha le dimensioni di un Leviatano. E se noi eravamo costretti a terra, i pegasi che ci affiancavano facevano fatica a mantenere la rotta a causa dei venti che il mostro provocava sbattendo le ali. Alla fine, dopo averlo inseguito fino in capo a Uruma, lo abbiamo affrontato, ma purtroppo… »

Si era fermato e si era assorto in qualche pensiero, io allora lo avevo incitato a continuare.

«Alcuni di noi sono morti cercando di abbatterlo, tutti gli altri riuscirono solo a ferirlo. Ho motivo di pensare che questo lo abbia spaventato, perché aveva ripreso a muoversi e se n’era andato. Da allora non abbiamo più avuto notizie di lui. Ogni tanto qualche ciurma sostiene di essersi imbattuta in lui durante una tempesta, ma non saprei. Alberi abbattuti e vele spezzate non sono prove sufficienti per confermarlo.»

La mia curiosità, però, non era ancora sazia.

«Ed è stato lì che ti sei fatto… ehm, quella.» Allusi alla grande cicatrice che lo segnava sul ventre.

«Questa? Oh no. Diciamo che… » esitò ancora, prima di rispondermi «il Leviatano non è stato la cosa peggiore che abbia affrontato. Un giorno te lo racconterò, ma ora sbrigati a mangiare.»  

Fui tentato di chiedergli di parlarmene ora, avrei potuto insistere per delle ore sulle origini criptiche di quello sfregio, così come per la Green Blade. Ma quando ci provavo, lui semplicemente cambiava argomento, o trovava modi ingegnosi per eludere la mia domanda.

Ero in zoccoli accanto alle colonne della Barricata.

Il limite del mio campo visivo continuava a essere vuoto, e non si vedeva traccia di creature nel raggio d’interi chilometri.

Lo feci notare a mio Zio dopo aver sgomberato il pranzo.

Lui si guardò intorno e valutò la situazione. «Per quanto ne sappiamo, forse hanno trovato un passaggio e l’hanno attraversato… ma no, sarebbero comunque dovuti essere attratti dalle esche… »

«Hai in mente qualcos’altro?» Chiesi, più altro perché speravo di non dover tornare su quell’altura.

«Forse sì.»

Estrasse dalle bisacce le Rose della Vittoria, che come saprete avremmo dovuto utilizzare solo quando la missione sarebbe stata conclusa.

Immaginate, quindi, a che punto era arrivata la mia confusione quando lo vidi lanciarle per aria come se niente fosse.

Insomma, come, quando, e soprattutto perché l’aveva fatto??

Gli chiesi: «E adesso?» Sì, perché lui non mi diceva mai niente, quindi potevo solo starmene buono e fare come lui mi diceva.

«E adesso aspettiamo.» Rispose con orgoglio. E naturalmente mi chiese di tornare di sopra, cosa che io, ovviamente, dovetti fare.

Salto direttamente al momento in cui mi resi conto che il suo piano aveva funzionato: in pratica, dove delle semplici sagome di pony non erano state sufficienti per gli Shar, lui li aveva attirati sfruttando la loro propensione per l’odio verso i Cacciatori.

Altra cosa che avrei scoperto solo più avanti.

In quel momento, attraverso le lenti del mio binocolo stavo vedendo il primo di loro avvicinarsi di corsa. O almeno, era ciò che credevo fosse un Rogueshar.

Le due coppie di corna, lunghe e distese in avanti, che scintillavano sotto i raggi del sole, e la coltre di polvere che si sollevava ai lati del corpo… erano la sola cosa che distinguevo da quella distanza.

Urlai a mio Zio di fare attenzione, e scesi più velocemente che potevo per tornare da lui. Fu la prima volta che mi balenò l’idea di aggiungere all’attrezzatura un’estensione artificiale per le mie ali atrofiche, ma non avevo tempo di fermarmi per elaborare la cosa bene.

Come scesi, sembrò che lo Shar avesse deviato la carica verso di me, reputandomi la preda più indifesa e facile da raggiungere.

In fondo alla mia visuale, Breve urlava a pieni polmoni di sbrigarmi, di oltrepassare la Barricata.

Ci avevo messo troppo a toccare terra, contrariamente a quanto mio Zio mi aveva raccomandato, e il mostro era ormai a poche decine di metri dal saltarmi addosso.

Io correvo, galoppavo a più non posso su quattro zampe, e tenevo gli occhi socchiusi senza neppure guardare cosa avevo di fronte a me. Udivo solo i passi sempre più vicini dello Shar, insieme al battito del mio cuore, che non sapevo se pulsava di paura, emozione, o fatica.

Per il fatto che non guardai dove stessi andando, finii per inciampare su una delle colonne della Barricata, e rovinare per terra, e quando i miei occhi si aprirono, vidi solo sabbia dovunque mi girassi.

Mi voltai di scatto, e potei ammirare da una distanza veramente privilegiata il Rogueshar che aveva tentato di acciuffarmi, il primo in assoluto che vedevo.

Non potevo immaginare che avesse una bocca così grande; avrebbe potuto ingoiare una carovana per intero e trovare spazio per il bis. E quella forma poi, a taglio verticale (aveva una forma un po’ equivoca, perdonate la battutaccia), mi fece domandare quale disegno della Dea avesse mai concepito uno scempio simile.

Con mio grande sollievo, il mostro non mi attaccò, ma questo perché la Barriera stava veramente funzionando. Le rune brillavano di un intenso rossore incantato, e lui non riusciva neppure ad avvicinarsi di un passo.

Sentii nuovamente la voce di mio Zio chiamarmi.

Correvo in parallelo alla Barricata, mentre il Rogueshar mi accompagnava dall’altra parte. Non ero sicuro di fare la cosa giusta a condurre quella bestia verso mio Zio, dove vi ricordo, non c’erano più pali a delimitare il confine. Ma lui mi aveva assicurato che sarebbe riuscito a ucciderla.

Come arrivai, mi ordinò di mettermi al riparo e di farlo il più in fretta possibile. Poi affrontò la creatura con il suo Sguardo.

«Hai corso abbastanza per quanto mi riguarda!» Disse, per quindi sguainare la Green Blade.

La lama verde dal filo inscalfibile tagliò con una precisione netta il collo della creatura, proprio nel modo in cui aveva spiegato a me. Il problema era che quella creatura non aveva un vero e proprio collo. Era un’enorme bocca, con quattro corni che sembravano zanne, attaccati a un corpo con quattro zampe. Chi poteva immaginare che il punto giusto dove incidere era proprio sotto quelle mandibole?

Riprendemmo entrambi il fiato mentre il Rogueshar finiva di contorcersi.

Il sangue usciva fuori a litri inondandoci gli zoccoli, ma non riuscivo ad inorridire di fronte a quella scena. Ero troppo sollevato dal sapere che me l’ero cavata senza neppure un graffio.

«Beh, è stato facile, non sei d’accordo?»

«Oh già… » e intanto annaspavo «divertentissimo… non vedo l’ora di rifarlo.»

Ridemmo entrambi, poi le sue orecchie si mossero, e tornò a guardare in direzione della Schiena del Drago. Anch’io lo feci.

«È il tuo giorno fortunato, mi sa.» Commentò lapidario.

Altri due Shar, i due restanti. Correvano in processione con la stessa grinta del loro compagno caduto. Non è illogico pensare che fossero attirati dall’odore del sangue.

Mio Zio, sicuro di sé, si era già messo in attesa per accoglierli, mentre io avevo solo pochi secondi per assimilare le ultime esperienze e tornare a concentrarmi sul lavoro. Avevo compreso che non aveva senso indugiare. Quando sai che un mostro ti sta per caricare, le uniche cose che puoi fare sono osservare… e combattere.

«Finché aspetto voi, faccio in tempo a morire di vecchiaia.» Una volta detto questo, mio Zio, in barba all’organizzazione che lui stesso aveva pianificato, si mise a galoppare verso il primo Shar.

Lanciò la Green Blade verso una delle sue zampe, recidendola a metà. Il mostro quindi cascò a terra per alcuni metri. Brave passò al secondo in rapido avvicinamento. Voleva placarlo con gli occhi, ma qualcosa andò storto.

Non capii cosa, ma lo sentii imprecare rumorosamente.

In effetti, era proprio una giornata per incazzarsi.

Insomma, mio Zio si vide obbligato a scansare la carica del mostro, che tuttavia non si fermò su di lui, ma proseguì.

E il Rogueshar che aveva atterrato prese a muoversi di nuovo.

In una tale situazione, mi trovai di nuovo a dover fare i conti con quelle assurde creature.

Quando si fece più vicino, mi accorsi di un particolare che prima avevo solo intravisto. I suoi occhi non c’erano. O meglio, si vedevano due profondi squarci al posto delle cavità dei bulbi. Ed erano freschi ed umidi, con il sangue che ancora gocciolava fuori da ferite che erano state inferte… da qualcosa di simile agli artigli delle loro stesse zampe.

E questo mi fece balenare un’ipotesi raggelante: che l’altro Shar avesse deliberatamente accecato il suo simile per permettergli di sfuggire allo Sguardo di Brave?

Riuscii a schivare la carica anch’io, probabilmente solo grazie alla sua menomazione. Ma il Rogueshar, stavolta, non sembrava puntare su di me.

Proseguiva la sua corsa risoluto, come se da quella parte ci sarebbero state chissà quali ricompense.

E io che altro riuscivo a fare, se non di starmene lì a guardare?

«Gli Shar hanno una rigenerazione accelerata, non lasciartelo sfuggire!!» Gridava Brave, costretto a restare immobile per bloccare la belva azzoppata.

La cosa più intelligente che mi venne da chiedergli fu: «Cosa?!»

E questo mandò mio Zio su tutte le furie. «Prendi quel dannato mostro prima che sparisca oltre la Barricata!!»

Risvegliatomi allora dalla catalessi, partii all’inseguimento.

La prima volta che ero io ad inseguire un predatore, e non il contrario.

Lo Shar, malgrado accecato, sembrava decisamente sicuro della sua meta, e accumulava metri su metri nel frattempo che io cercavo, al massimo, di non accumulare distanze.

Mi sforzavo di non pensare a quello che avrei fatto in seguito, e ripetevo a me stesso, come un mantra, che dovevo dimostrare il mio valore. Sapevo anche che se avessi fallito, questa volta mio Zio non sarebbe intervenuto a rattoppare i danni. Questa volta ero io il suo zoccolo, e quindi non dovevo deluderlo.

Ma la bestia correva come se per lui non ci sarebbe stato un domani, e vi posso assicurare che malgrado la stazza, i Rogueshar sono tra i predatori più veloci che galoppano su Uruma, superati solamente dai Razorgor.

Anch’io cavalcavo a pieno regime; gli allenamenti di Brave Lion avevano plasmato i miei muscoli, e i miei polmoni potevano resistere al caldo e alla fatica per quanto il mio corpo lo richiedesse. Ma la velocità era una questione a parte, e quel mostro era molto più veloce di quanto io sarei mai stato capace di diventare.

La Dea, però, scelse di stare dalla mia parte anche stavolta.

Qualcosa di piccolo, forse una pietruzza sporgente dal terreno, fece inciampare il Rogueshar, che si schiantò a terra.

Io lo raggiunsi prima che potesse rimettersi in zampe.

Brave mi aveva avvertito della loro capacità rigenerativa, ma non avrei pensato fosse così rapida: potevo già osservare i nuovi bulbi oculari riformarsi al posto di quelli vecchi, e la ferita lentamente ricucirsi.

Era ancora cieco, ma non escludo che potesse già intravedere alcune ombre attraverso la grana pallida, o comunque avere consapevolezza degli spazi e delle distanze degli oggetti che lo circondavano.

Di certo percepiva la mia presenza, e tentava di tenermi a distanza agitando le zampe davanti a sé. Guizzava la sua lingua (vi ricordo che hanno una lingua prensile), cercando di ghermirmi.

Io cercai di far uscire da me Mr.Coraggio, che da tempo voleva mettersi in gioco, ma si era sempre trovato contro un muro di mattoni.

Mi alzai sugli zoccoli posteriori – la mia prima battaglia in posizione bipede – e feci scorrere le leve sulle protesi, facendole uscire. La mia prima volta con delle spade vere. Il regalo che mi fece Brave il giorno precedente, ce l’avete presente?

Erano lame katana, come quelle che ho adesso, ed erano sottili, ma anche affilate.

Non posso mentirvi dicendo che sapevo esattamente come utilizzarle, perché non erano qualcosa a cui ero abituato, non erano bastoni di legno. E io non ero ancora abituato a combattere su due zampe, perché non avevo mai combattuto per davvero.

L’unica cosa che potevo fare era osservare i movimenti del mio nemico e stare attento ad anticipare le sue mosse. Capire quando era in guardia e quando abbassava le difese.

Feci finta, fin dove mi era possibile, di avere di fronte a me mio Zio, di stare ancora seguendo una mera lezione all’arma bianca. In fondo, anche quella di adesso era una lezione, l’insegnamento era: se sbagli, muori.

Mandai dei colpi a vuoto, spaventato dalle zampate del Rogueshar, ero tutto fuorché un Cacciatore in quel momento. Ero solo un puledrino spaventato, che s’immaginava di essere Mr.Coraggio-da-Vendere.

Ma non era così proprio per niente.

Affondai di nuovo una lama sullo Shar, e incredibilmente, la punta aveva cominciato a trapassargli la carne.

Senza pensare a dove miravo, sferzai l’altro braccio all’incirca sul punto del collo che avevo visto fare a Brave.

Ci fu del sangue che uscì fuori, e la bestia emise suoni gutturali.

Mi allontanai subito, non sapendo cos’altro fare a quel punto.

«Ottimo lavoro!» Disse mio Zio, che era comparso alle mie spalle. Dallo scatto di paura che ebbi, quanto fui teso, gli avevo sferzato contro una spadata, che lui fermò nell’aria con la magia.

«Ci stai prendendo gusto, eh?»

Dalla mia bocca uscirono solo versi sconclusionati. Più in là, un altro cadavere stava colorando la terra con i suoi fluidi.

«Per un attimo stavo credendo che te lo saresti perso. Invece sei riuscito ad abbatterlo! Molto bravo, figliolo!»

“Sì, ehm… grazie”. Era più o meno ciò che pensavo.

«Ora però, finiscilo.»

Che cosa voleva dire con quello?

Mi girai, e notai che il “mio” Shar si stava ancora muovendo. Aveva perso molto sangue, ma combatteva ancora. La ferita non era stata sufficientemente profonda per provocargli una lesione mortale.

Deglutì altro piombo fuso.

«Devo proprio?» Gli chiesi.

«È quello che vuole il Contratto, ed è giusto che sia tu a farlo. È la tua preda. L’onore spetta a te. Solo, stai attento. Anche se è moribondo, non significa che sia inoffensivo.»

C’è un modo di dire che si adegua bene alla circostanza: ormai c’ero dentro fino al collo. Tanto valeva andare fino in fondo.

Mi mossi cautamente su due zampe, facendo attenzione alle sue.

Cercai i suoi occhi vitrei, che erano però del tutto ricostruiti. Credo che a quel punto, il Rogueshar avesse deciso di lasciarmelo fare. Come se mi supplicasse di concedergli quella grazia, anche se non aveva senso, pensandoci.

Mio Zio mi parlò ancora, ma non credo di avere ascoltato le sue parole. Seguii solo le sue indicazioni su dove quella creatura dalla grande bocca nascondesse il cuore. Un punto pulsante nel petto, che una volta raggiunto, avrebbe siglato la fine della missione, e della sua vita.

Quando fui sicuro di averlo localizzato, agii meccanicamente e d’impulso, facendo ciò che le parole di Brave Lion mi guidavano a fare. Infilai la lama nel suo costato e premetti fino in fondo, con tutta la mia forza. Il tutto, mentre ignoravo i suoi guaiti sommessi.

Qualche istante di dolore, e la carcassa non si mosse più. Era morto.

Avevo undici anni, e quella era stata la mia prima uccisione.


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Capitolo 5
*** 5: L'Uragano che Vola ***


5: L’uragano che vola

Niente più Shar, in pratica, significava niente più ostacoli al completamento della Barricata.

Dopo essere tornati, ed essere stati pagati col doppio dell’onorario, così come erano rimasti d’accordo Brave e Deep Root, gli operai dell’imprenditore (quelli rimasti, insomma) poterono riprendere e terminare il progetto che in tal modo avrebbe donato nuovi terreni alla campagna di Capo Unicorn.

Deep Root, tra l’altro, si era dimostrato un eccellente pony d’affari, facendo costruire la stazione di pompaggio attraverso cui, da quel momento in poi, si faceva pagare (anche profumatamente) per canalizzare l’acqua della Lacrima di Drago direttamente in paese. Liquidi in cambio di liquidi.

Come unico proprietario terreno in grado di permettersi l’acquisto di quegli appezzamenti, mise poi in zoccoli un vero e proprio monopolio agricolo, che sarebbe diventato ancora più netto non appena le altre fattorie cominciarono a vendergli le proprie terre in cambio del denaro per lasciare Uruma. Nessuno, a parte lui, riusciva più a sostenere i costi di gestione.

Ora che niente dall’esterno riusciva a oltrepassare le difese della Barricata, quello che restava a noi, era di accertarsi che nessuna creatura all’interno potesse infastidire il nuovo “padrone di casa” nei suoi affari futuri.

Questo ci diede lavoro ancora per alcune stagioni, ma come Deep Root stesso avrebbe presto scoperto, i nuovi terreni divennero presto sterili e inadatti a sostentare le coltivazioni.

Come vi dicevo, era stato lungimirante, e con la privatizzazione dell’acqua del fiume (che vendeva sia alle poche fattorie che ancora resistevano, sia a Capo Unicorn) era riuscito ad evitare la bancarotta, ma il suo grande progetto di espansione territoriale finì drasticamente per naufragare.

Va di buono che ora io avevo una licenza da Cacciatore indipendente, e questo, considerato che presto avrei compiuto dodici anni, aveva fatto di me il più giovane professionista dell’intera storia della Congrega.

Vi racconterò di quella prima volta in cui scoprii lo “Zoccolo duro”.

Caso vuole che quel giorno fosse anche teatro di una serie di fatti significativi per la mia vita.

Quell’anno Capo Unicorn stava scoprendo un nuovo tipo di popolazione. I pirati, che un tempo erano solo una netta e poco gradita minoranza, stavano via via prendendo il posto degli abitanti regolari, i quali settimana dopo settimana erano salpati in cerca di nuove opportunità per ricominciare da zero. Le case restavano vuote dei proprietari, e quando questo succedeva, briganti e fuorilegge arrivavano e si prendevano il posto abusivamente, spacciandolo spudoratamente per “loro”.

Capo Unicorn si stava trasformando in un covo di filibustieri e pericolosi ricercati, che trovavano in paese un piccolo angolo di paradiso dove poter mangiare e bere senza preoccuparsi delle autorità locali.

Colton, difatti, aveva scelto di non fare nulla contro quel tipo di presenze, perché secondo lui, i loro Argenti tenevano viva la città, e chi tra noialtri (i locali) decideva di restare, doveva imparare a convivere con questi loschi figuri.

Lo Zoccolo Duro era un’attività che io non conoscevo, perché appunto era praticata solo dai pirati di passaggio, ed io mi trovai ad assistervi quella volta che ci trovammo a rilassarci al Brocco Randagio.

Era un pomeriggio. Guardavo questi zotici che si sfidavano a chi riusciva a rovesciare la zampa dell’altro sul tavolo in cui sedevano, e pensai che non fosse poi così diversa da altri tipi di sfide che vedevo fare da tempo alla locanda.

Regolarmente, il Campione in carica stabiliva una puntata che si alzava a seconda della disparità tra i due, e lo sfidante che si assumeva il rischio poteva quindi o diventare improvvisamente ricco, in caso di vittoria, o vedersi ripulire del proprio contante se – cosa più probabile – veniva sconfitto.

Il pegaso che stavo guardando (il capitano di una nave, a giudicare dalla giubba che indossava) si era dimostrato un Campione sotto tutti i punti di vista, sconfiggendone altri tre e capitalizzando l’attenzione intorno al suo tavolo. C’era persino la dama di un bordello aperto di recente, che gli ronzava intorno nella speranza di rimediare un cliente facile e abbiente.

Dirty Rag, imbolsito come non mai dopo la partenza della moglie, arrivò al tavolo con un vassoio pieno di caraffe di birra (e qualcosa di più potente in una tazza più piccola) che servì tutte al tavolo dello stallone.

Si accorsero di me quando la folla si aprì intorno al tavolo, e il capitano incrociò i suoi occhi con i miei.

«Vuoi provare, ragazzino?» Mi aveva allora chiesto, con un fare scaltro, dove io nel momento non fui in grado d’intuire il pericolo che mi attendeva.

«Non ho molti soldi con me… » ammisi colto alla sprovvista. Era così, poiché in genere il mio ricavato lo univo alla cassa comune con mio Zio, oppure lo spendevo per l’attrezzatura da caccia.

Questo pony, ricordo che sorrise, e si scolò senza tante cerimonie un’intera pinta di birra mentre lo fissavo in silenzio.

«Non ti preoccupare per questo. Te li farai dare da mamma e papà poi, o da chi si prende cura di te. Ce l’hai qualcuno che si prende cura di te, vero?» Mi chiese.

Risposi di sì, e per dovizia di particolari, devo aggiungere che intorno al tavolo c’era anche qualche faccia a me nota, ma in quel momento era molto più probabile che costoro avessero scelto di starsene in silenzio per osservare come me la sarei cavata.

«Allora, orsù figliolo! Vieni qui e prova un gioco da grandi!» Aggiunse alla mia risposta, parlando con quella pesante cadenza che hanno i briganti di mare. «Per te la vincita sarà… pentuplicata, voglio essere generoso! E poi mi sembri anche bello rigido con quelle spalle, corpo di una sirena! Lo vedo che sei uno abituato a sgobbare!»

Per qualche ragione mi ero lasciato abbindolare dalle sue parole, e la posta in gioco che aveva messo era il doppio di quella che aveva imposto a tutti gli sfidanti che mi avevano preceduto, quindi pensai che volesse davvero essere generoso con me. Quello che non sapevo era a quanto ammontava la puntata di base, e inoltre… credo che dopo tutto quello che avevo trascorso, mi sentivo veramente nelle condizioni di poterlo sconfiggere.

Mi sedetti al suo tavolo, con la folla che ci circondava, quasi volesse nascondermi alla vista di Brave, che era lì intorno, da qualche parte.

Il capitano davanti a me si mise a fissarmi con degli occhi che io riconobbi all’istante come quelli che avevo visto in altri predatori che avevo affrontato, come quel Razorgor di alcuni anni prima. Ma era troppo tardi per tirarmi indietro, sapevo di essere caduto in una trappola, e nonostante ciò, restavo fedele al mio retaggio da Cacciatore. Volevo portare fino in fondo il mio impegno.

Cominciammo a lottare per determinare chi era il più forte. Io cercavo di sfruttare la velocità per schiacciarlo prima di dargli il tempo di reagire, ma lui era un predatore, e come ogni predatore che si rispetti, si era messo a giocare con me fin da subito. Mi aveva lasciato sperare che per qualche secondo avrei potuto avere la meglio, solo per poi partire alla carica quando uno sforzo di troppo mi aveva sfibrato i tendini della zampa.

Il suo zoccolo rovesciò il mio e lo portò in men che non si dica in vantaggio.

Cercai di resistere con tutte le mie forze, e forse riuscii anche fargli scendere una goccia di sudore dalla fronte, ma era superiore a me sotto tutti i punti di vista.

Persi la sfida, e la folla si perse in un coro di fischi e schiamazzi. Come immaginate, non era certo lo spettacolo che si sarebbero aspettati di vedere dal nipote del prode Brave Lion.

«Arr, peccato pulce, la prossima volta ti conviene lasciare ai grandi il gioco dei grandi! Ora sgancia, e vedi di non farmi insistere!»

Quel bastardo. Gli chiesi a quanto stava la base, e persi quasi la lucidità quando mi disse che ammontava a cento Argenti, che moltiplicati per cinque, raggiungevano una cifra che io non mi sarei potuto neppure sognare.

Quando glielo dissi, lui non volle sentir ragioni, e giusto per rinforzare le sue minacce con qualcosa di concreto, prese da una fodera un grosso coltellaccio e lo conficcò sul tavolo. «Questo è per te, se non paghi il tuo debito.»

Tentai di convincerlo a darmi del tempo, giusto quanto mi serviva per trovare mio Zio e chiedere i soldi a lui. Il capitano non volle ascoltarmi, ma si dovette ricredere quando dalla folla qualcuno gli spiegò chi fosse Brave Lion. Ciò lo convinse a concedermi qualche minuto, ma non dimenticò di chiarirmi che cosa mi avrebbe fatto se avessi provato a fuggire.

Sperai solo che mio Zio non se prendesse con me dopo quello che avevo fatto.

Lo avevo trovato accanto all’uscita, in compagnia di uno strano unicorno che ora che ci penso, aveva un che di familiare, e che anche quella volta avevo considerato curioso, per il fatto che aveva i suoi stessi colori di manto e criniera, incredibilmente simili a quelli di mio zio. Vedendoli da fuori, avreste detto che erano fratelli (e con questa possiamo dire che sono già due le volte nella vita in cui mi è capitato di assistere a una coincidenza del genere, come se la Dea, nella scorsa generazione, si fosse impigrita e avessi distribuito qualche sosia di troppo nel mondo).

Il caso volle che sentissi la loro conversazione praticamente dal principio. Lui, il secondo unicorno, aveva chiesto qualcosa a mio Zio, e questi lo aveva invitato ad appartarsi in un angolo.

«Sei un pirata per caso? Sei sceso con questi tizi?» Gli domandò Brave di risposta. In effetti, non aveva l’aria di uno di quegli zotici: portava con sé un’imbragatura piena di tasche e scarselle ingombranti, e aveva un’aria molto più mite e signorile di qualsiasi altro pirata avessi mai visto, eppure doveva essere attraccato per forza con uno dei loro vascelli.

«Preferisco definirmi un viandante giramondo.» Gli spiegò infatti, aggiungendo: «ai nostri amici, laggiù, è sufficiente offrire la giusta cifra per assicurarsi un trasporto sicuro e senza tante domande.»

Oh Dea, non ci avrei messo gli zoccoli sul fuoco per la “sicurezza” di viaggiare su quelle navi, e a questo proposito, sentivo che il capitano stava cominciando a spazientirsi, cimentandosi in un arcobalenica sequela di improperi, che se mio Zio l’avesse sentito, lo avrebbe sicuramente rivoltato da dentro come se fosse stato un calzino. Per fortuna, era troppo concentrato a discutere con il secondo unicorno, per fare caso alle grida.

Brave disse qualcosa: «Lo sai, vero, che la storia della Camera del Tesoro è tutta un’invenzione messa in bocca per attrarre qui la gente?»

E quella fu la prima volta che sentii parlare della Camera del Tesoro. Avrei quasi potuto pensare che fosse un argomento inedito, introdotto a Capo così come era successo per lo Zoccolo Duro, ma Brave ne parlò come se ne fosse al corrente da anni, e lo fece con toni duri e scettici.

«Sono sicuro che tu abbia ragione» disse il secondo unicorno, ridendosela piacevolmente «ma sono uno a cui piace sognare, mettiamola così.»

Qui mio Zio decise di troncare la conversazione: «Non saprei cosa dirti. Io mi occupo di fatti veri, non di favole.»

«Apprezzo comunque il tuo tempo, vorrà dire che riprenderò presto il mio viaggio.»

Terminato di discutere, mio Zio si affrettò ad allontanarsi da lui, come se temesse di continuare a parlarci. Allora venne verso di me.

«Cos’è quell’aria truce?» Mi domandò, ben sapendo che in realtà domanda avrei dovuto porgliela io.

Dietro di me, il capitano ubriaco scagliò un boccale contro la testa di un altro avventore, e si era poi cimentato in uno spettacolo patetico: «Per mille spingarde, io lo rompo quel sorcetto verde!!»

«Con chi ce l’ha quello?» Mi domandò Brave, così gli dovetti spiegare in quale casino mi ero cacciato.

Ero pronto a scommettere che dopo di quella avrei passato un mare di guai, ma una strana luce baluginò nei suoi occhi quando finii.

Andò a sedersi al tavolo del capitano, e quando lo fece, il silenzio calò intorno alla folla degli spettatori.

«Ho sentito che mio nipote ti deve dei soldi.»

«Yahrr! Quel moscerino ha perso una grossa scommessa con me! Una scommessa giusta! E ora mi aspetto che voi due mi paghiate da bere! Che paghiate da bere a tutti! Aye, ciurma?!» Si era alzato e si era rivolto a tutti i membri del suo equipaggio, che stavano scazzottando nel Brocco, ubriachi marci.

«Aye, capitano! Aye!» Risposero in coro, sollevando i loro boccali. Ma se l’intento era quello di mettere Brave Lion in soggezione, era chiaro che dovevano inventarsi qualcos’altro.

«Che ne dici di giocarcela allora?» E così dicendo, aveva appoggiato il gomito sul tavolo.

Il capitano esitò per un istante, ma durò ben poco, non era il tipo di pony che diceva di no alle sfide.

«Ci sto, per la barba di Hoofbeard! Lo posta è decuplicata per te, ma se vuoi ritirarti adesso, preparati ad assaggiare la mia lama!»

«Mi sta bene.» Annuì Brave «Ma la base la decido io: cinquecento Argenti. La quota dei soldi che ti deve mio nipote.»

Il capitano esplose in una risata isterica. «AHAHAHAH se proprio ci tieni va bene! Avevo proprio voglia di riempirmi le tasche oggi!» Nel frattempo vuotò anche la tazza più piccola, con dentro lo sciacquabudella, che evidentemente aveva lasciato per ultima.

Ci fu qualcuno che provò a metterlo in guardia, parlandogli all’orecchio, e come ringraziamento si trovò a terra con i denti sfondati da una zoccolata.

Il capitano non era tipo che diceva di no alle sfide.

Durò meno di quanto avessi sperato! Neanche il tempo di godermi l’angoscia dello stallone nel momento in cui si rese conto di non avere alcuna speranza, che la sua zampa si trovò schiacciata contro il tavolo con un unico tonfo.

Brave lo aveva paralizzato con lo Sguardo, dimostrando che le voci che circolavano su di lui – che poteva davvero usarlo sui pony – erano tutte fondate, e a quel punto era stato in grado di predominare su di lui con evidente facilità.

Poco dopo, nel silenzio generale, stavamo contando i soldi che la vittoria ci aveva fruttato. Cinquemila Argenti, che l’intera ciurma era stata costretta a scucire, moneta per moneta, di tasca propria. Il capitano sedeva ora immobile sul suo posto, con la faccia sconfitta e intenta a fissare il nulla.

«Tieni, questi sono tuoi.» Mi disse mio Zio, porgendomi un piccolo borsello di monete. Mi disse che erano cinquecento Argenti, ossia quelli che mi ero “guadagnato”.

«Chi l’avrebbe detto» commentò infine, tutto entusiasta «qualche volta dovremmo rifarlo.» In effetti erano davvero parecchi soldi, ma non avrei mai pensato che l’avrebbe presa con tanta filosofia.

Dopo dieci minuti – non credo fosse trascorso più tempo di così – tutto era tornato a una certa normalità, quando ecco che la vecchia Malaika galoppò fino all’entrata della locanda gridando, come se si stesse preparando alla fine del mondo (e in effetti…):

«La pioggia! Arriva la pioggia che bagna le nostre anime, che il ciel sia lodato!!»

E con la stessa fretta con cui era entrata, uscì, farneticando sul fatto che la pioggia stava arrivando e che noi tutti eravamo salvi.

Il suo sbraitare, naturalmente, attirò l’attenzione non solo di chi si trovava nel Brocco Randagio, ma anche degli altri abitanti di Capo (i nativi e i non).

Tutti insieme ci incontrammo all’aperto, e tutti con gli occhi puntati a est, guardammo la linea dell’orizzonte oceanico.

Stormi di Skinflai (più di quanti ne avessi mai visto) volavano verso di noi passando a centinaia di metri sopra le nostre teste, e il cielo in pochi secondi si riempì di nuvole grigie e gonfie di acqua. La pioggia annunciata dalla zebra arrivò subito dopo, e noi potemmo sentire sui nostri manti una freschezza che oramai ci stavamo dimenticando come fosse.

Ci sentivamo rinati, come se la vita stesse risorgendo dalle polveri e lo spirito di Uruma ci travolgesse con la sua energia. La grande migrazione degli Skinflai si era fatta attendere per troppo tempo, ma sembrava che ora fosse arrivato il momento di ricominciare. La siccità era finita.

I pony, che per necessità o senso di nostalgia non erano riusciti a seguire l’esempio degli altri e salpare, ora festeggiavano e si abbracciavano tra loro ringraziando la benevolenza della Dea, che ci stava facendo quel dono. Cantavano e danzavano, e per qualche minuto tutti si vollero bene.

Ma era un idillio che sarebbe durato poco.

Eravamo fradici fino alla suola dei ferri. Qualcuno, tornato sobrio, aveva deciso di rientrare in casa, ma Brave continuava a restare all’aperto, ed io con lui.

Vi dirò di più, qualcosa lo turbava, e anch’io, in effetti, condividevo le stesse sensazioni. Non so se fu la sua influenza o il fatto che la vita da Cacciatore avesse alterato in maniera irreparabile il mio modo di recepire le cose. Ma qualcosa stava per succedere, e indovinate un po’? Anche Colton Nyx lo aveva intuito. Ben presto potevamo anche vederlo, sotto forma di una parete di cumulonembi che stava ricoprendo il panorama del mare, e che si approssimava come un grande continente sospeso verso il porto di Capo Unicorn. Era diverso dalle nubi che ci piovevano in testa, immaginatevi un’onda gigantesca che catturava la luce e tutto ciò che la attraversava, fatta di vapor acqueo, e resa incandescente delle folgori dell’elettricità statica che vi tuonavano all’interno. Qualcosa di così compatto, in apparenza, che volandovi contro avreste rischiato di schiantarvi.

Fenomeni del genere sono insoliti in natura, ma non quando sono gli Skinflai stessi a generarli.

«Qualcuno mi dica che è uno scherzo… » stava difatti obiettando il borgomastro, scuotendo la testa in simultaneo alle parole.

«Nessuno sta ridendo… » ribatté mio Zio.

Poi Colton Nyx esclamò questa frase: «Quindici anni, merda… » ed io, che al solito ero il terzo incomodo della discussione, aveva sentito quel numero, e quindi mi ricordai di ciò che mi disse mio Zio, quella volta che ci trovammo alla difesa della Barricata.

Pensateci anche voi un attimo, cosa successe quindic… scusate… ventiquattro anni fa?

Ebbene, prima cominciarono a stagliarsi i contorni delle ali, attraverso la muraglia di nubi che egli stesso aveva creato, e quando fu abbastanza vicino da farci capire che veniva verso di noi, fu allora che fummo in grado di vedere la sua sagoma per intero.

Era il Leviatano, e non mi servii una lezione di Brave per capirlo, perché aveva proprio l’aspetto di uno Skinflai gigantesco, dalla livrea bianca e spettrale, forse un albino, che la Dea stessa sembrava aver partorito tra atroci dolori e sofferenze.

Con lui vennero i venti, che spinsero contro la terraferma i velieri dei pirati, spaccando in due gli alberi e sfasciando le vele. C’erano sartie che si spezzavano, polene che si schiantavano contro gli scafi delle altre navi, facendo più danni di quanti potesse mai farne una raffica di cannonate, allagando il porto con onde anomale, che trascinavano verso gli edifici le imbarcazioni più piccole e distruggevano i pontili di legno come se fossero fatti di erba secca. Chi poteva si rifugiava in casa, gli altri si presero in faccia tutta la dirompenza dell’uragano che il mostro aveva generato al suo passaggio.

Ricordo l’immagine di un fulmine che si abbatté contro il faro del porto, e il boato dei tuoni che si univa a quello dei tetti che si scoperchiavano, ai muri più vecchi e deboli che crollavano e che si arrendevano alla furia della Dea.

Il passaggio del Leviatano sopra il cielo di Capo Unicorn durò pochi secondi, e quando ci oltrepassò, i venti si ammansirono lasciando solo un conglomerato di nubi che vomitavano litri di acqua e rombi di tuoni, che danzavano nell’aria come dame eleganti e chiassose…

Sì, forse adesso ho un po’ esagerato, ma quando assisti a qualcosa di così immenso, la testa fatica a collocare negli spazi giusti le informazioni che hai raccolto (sì, anche se sei un Cacciatore), e ti ritrovi a riempire quei vuoti inspiegabili con l’immaginario che hai dentro di te.

Nel tempo che seguì, la gente stava cercando di creare intorno alle proprie case degli argini con tutto quello che riuscivano a trovare, che potevano essere sacchi pieni di scorte alimentari, cumuli di terra, come pure capi stracci appallottolati e spinti con forza sotto le porte.

Com’era prevedibile, il suolo secco di Capo non era in grado di assorbire tutta l’acqua che scendeva dal cielo. In più, trottando in giro per le vie, poteva capitarvi di imbattervi nel corpo di qualche Skinflai di taglia normale, caduto vittima dei venti impetuosi dell’esemplare più grande. Vidi, per esempio, alcuni pony intenti a far scendere il cadavere di uno di loro dalla cima di ciò che restava del tetto.

Per quanto riguarda me, ero preoccupato di come avremmo trovato la nostra baracca una volta tornati a casa, ma questo era un problema che Brave non si poneva.

Andava in giro sotto la pioggia a chiedere se qualcuno avesse visto in che direzione si era diretto il Leviatano, e sentii qualcun altro fare il nome della Gola del Mostro Titano.

«Fermo lì, che hai intenzione di fare?!» Corse da lui Colton.

«Proprio te cercavo! Abbiamo bisogno di un Contratto di caccia, lo dobbiamo beccare prima che ci scampi di nuovo!»

«E cosa ti fa pensare che intenda lasciartelo fare?»

Questa domanda stupì anche me, e Brave si irrigidì a tal punto che sembrava stesse per fare lo Sguardo. Mi disse di tornare al Brocco Randagio, imbastendo una scusa per convincermi ad andare. Sapevo che stava per scatenarsi una tempesta perfino peggiore di quella appena passata.

Così obbedii, e prima di svanire dentro la locanda feci giusto in tempo a sentire mio Zio gridare a Colton, più forte dei tuoni stessi: «VUOI LASCIARTELO SFUGGIRE DOPO QUELLO CHE È APPENA SUCCESSO?!»

Poco dopo tornò dentro incazzato come un cane rabbioso, e quando mi accorsi che era da solo, ricordo di aver pregato che non ci fosse scappato il morto.

Dalle finestre della locanda vedevo che le strade si erano rapidamente svuotate, e che ora tutti aspettavano solo il finire della pioggia. Se anche fosse successo qualcosa, agli altri pony non importava. Se non altro, non vidi segni di colluttazioni quando venne a sedersi con me.

Lo osservai a lungo e in profondità. Avevo imparato a riconoscere in Brave Lion i tipici atteggiamenti che manifestava a seconda delle situazioni, e quella volta aveva la tipica aria di chi voleva uccidere qualcosa. Così me ne stetti buono lasciando che la sua rabbia sbollentasse.

Poco dopo vidi comparire qualcuno che, pensai, non avrei rivisto una seconda volta. Era l’unicorno dal “manto-uguale-a-mio-Zio”.

Si mise con noi, dimostrando una spavalderia che io (e probabilmente chiunque conoscesse Brave) non avrei mai osato.

«Vi dispiace se mi siedo qui?» Chiese quando ormai si era già messo comodo.

I miei occhi presero a volare tra il volto di mio Zio e quello dell’altro unicorno, pensando che, se prima si era schivato lo scontro diretto, ora nulla avrebbe impedito allo stallone con cui condividevo la mia vita di compiere qualcosa per la quale ce ne saremmo pentiti entrambi. Gli occhi di Brave erano invece, apparentemente, persi nel silenzio (non saprei come altro descriverli).

«Mi sono permesso di offrirti da bere, spero non ti dispiaccia.»

Aveva fatto levitare davanti al suo muso una pinta di bevanda all’aroma di mela fermentata, e una seconda che si era tenuto per sé.

«Sidro?» Rispose mio Zio, dopo avergli dato un’annusata sospettosa. «Non prendertela, ma io sono più tipo da whiskey.» Eppure la accettò lo stesso. In fondo, si trattava pur sempre di una bevuta gratis.

«A me invece non dispiace. Quando passi dei mesi circondato da gente che non fa che affogare i propri dispiaceri nel grog, dimentichi quali sono i veri piaceri della vita.»

Chiesi cosa caspita fosse il “grog”, e quando l’estraneo mi spiegò che era un diluito di rum con acqua rancida di stiva, giurai a me stesso che non l’avrei mai assaggiato per nessuna ragione al mondo.

Avevo chiesto e poi ottenuto, invece, il permesso di farmi un sorso di sidro. E questa fu la prima bevuta di qualcosa di alcolico che mi concessi, e mi piacque parecchio.

«Pensavo che te ne fossi andato.» Chiese Brave all’estraneo, in un modo che non riuscii bene a capire quanto fosse effettivamente scazzato.

«Ci sono state delle difficoltà, come avrete notato.» Poi si era accorto di non essersi ancora presentato, e quindi ci disse il suo nome…

Uhm… credo che fosse Fire… o Flame… qualcosa del genere. Aveva a che fare col fuoco. Credevo di ricordarmelo, ma adesso come adesso è una di quelle cose che proprio mi sfugge.

Erano molte le cose che mi sfuggirono di lui. Il nome per cominciare, poi l’età che poteva avere, cosa rappresentasse il suo Simbolo di Virtù. Probabilmente ero troppo stupefatto dalla somiglianza tra i due per fare caso a questi dettagli, ma credo di poter affermare con un certo margine di sicurezza che avesse almeno qualche anno in più di Brave.

Tornando al discorso, io fui l’ultimo a presentarmi, o meglio, lo fece mio Zio per me.

«… lui invece è mio nipote.» Disse «Liberty Spirit.»

«Sì, ma tutti mi chiamano Spirit.» Mi sbrigai a precisare, per abitudine di vecchia data, sapete.

L’unicorno, sì insomma… Lui, si disse onorato di fare la nostra conoscenza.

Dopo le presentazioni ci rivelò che era consapevole che fossimo Cacciatori, e poi aggiunse: «Non ho potuto fare a meno di ascoltare la… “discussione” che avete avuto un attimo fa all’aperto.»

L’invidia che provai dopo che lo disse, merda, non so cosa avrei dato per tornare indietro nel tempo e suggerire al piccolo me stesso di affacciarsi alla finestra e origliare.

Dal suo atteggiamento, sembrava parecchio incuriosito di avere a che fare con noi. Aveva un sorriso che denotava una certa padronanza di sé, non di certo quello che vi sareste aspettati di trovare da un sempliciotto qualunque.

«Per caso ci stavi spiando? O devo pensare che anche tu sia interessato a dare la caccia al Leviatano?» Chiese mio Zio, giustamente sospettoso.

«Niente di tutto ciò, tranquilli, il mio carro marcia su altri sentieri.» (questa me la ricordo bene).

«Come quella che conduce alla Camera del Tesoro, ammesso che tu sappia dove andare?»

Ed ecco che per la seconda volta sentii parlare di questo fantomatico “tesoro”.

«È corretto.» Annuì, e poi: «Ma le parole del vostro sindaco mi hanno fatto riflettere su ciò che vorreste fare. Pensate davvero di avere qualche possibilità di abbattere quel titano?»

Parlava al plurale, ma l’interlocutore era senza dubbio Brave.

«È diverso da allora… » disse mio Zio, a denti stretti «non avevo lo stesso talento di oggi, e in più mi mancavano le attrezzature che ho ora.»

Per lo meno, stavo raccogliendo informazioni su ciò che mi ero perso di fuori.

Mio Zio affermò che il punto era un altro: secondo Colton, noi saremmo dovuti restare al sicuro, evitare di farci ammazzare, perché altrimenti non ci sarebbe stato più nessuno a difendere Capo Unicorn da successive minacce, ma poi, aggiunse: «Sono tutte balle! Lo capiresti se fossi di queste parti, tutti qui sanno che è più facile credere alle parole del Dracunequus (non ho idea di chi sia), che non a Colton Nyx!»


A conferma di ciò, vi ricordo che non si sarebbe fatto problemi a mandarci in una tana di Tygrus, se questo non avesse compromesso i suoi affari.


«E non hai il sospetto che forse la ragione sia un’altra?» Proseguì con questa frase il nostro Lui.

«Sarebbe a dire?»

Ci spiegò, l’unicorno che se fosse stato il preposto delle leggi in una città come Capo, avrebbe pensato che la pioggia avrebbe portato un toccasana per le nostre campagne, e quindi: «Starei ben cauto su quale approccio adottare verso quelle creature che voi chiamate Skinflai.»

Mio Zio si esibì in un ghigno frustrato, scuotendo anche la testa. «Le esatte parole di Colton, ma si sbaglia. Vi sbagliate entrambi.»

«Ne sei proprio convinto, Brave Lion?»

«Completamente! Gli Skinflai portano la pioggia» disse «il Leviatano porta solo la distruzione! Non esiste un singolo aneddoto nei racconti dei marinai che narra di una sua comparsa benevola! È un animale che devasta le coste con i suoi uragani, e abbatte senza pudore ogni singolo vascello che abbia la sfortuna di imbattersi in lui…»

Ricordo bene l’intonazione che usò: «… quella volta… Dea, eravamo così vicini all’abbatterlo, ed io guardavo i miei compagni venir ammazzati uno ad uno da quell’essere… »

Ecco, avevo già visto Brave abbattuto in altre occasioni, ma mai così, MAI. Non so se fosse per il disonore, o se si struggesse per i rimorsi verso chi non ce l’aveva fatta.

«Tu che cosa ne pensi, Liberty?» L’estraneo si era rivolto a me, proprio quando mi ero abituato, come al solito, ad essere messo in disparte.

Me ne restai inebetito, guardandolo fisso negli occhi.

«Voglio dire: ti piace essere un Cacciatore, seguire le orme di tuo Zio?»

Brave si mise subito in mezzo, proprio come era solito fare. «È chiaro che gli piace! Se non fosse per lui, sarebbe un vero casino stare dietro a tutti gli incarichi che ci affidano!»

L’ennesima bugia. Non avevamo poi così tanti incarichi, non da quando eravamo rimasti da soli.

L’unicorno lo guardò con degli occhi che se avessero parlato avrebbero detto “lascia che sia lui a rispondermi”. Quegli stessi occhi che tornarono subito da me.

«Faccio del mio meglio… » borbottai io senza un’oncia di convinzione.

E Brave si affrettò ad aggiungere: «Ed è anche svelto a imparare!»

Per l’amor della Dea, Brave. Cosa ti passava per la testa in quei momenti?

«Non hai risposto alla mia domanda.» Incalzò Lui, l’estraneo.

“Non l’avevo fatto?” Mi domandai io.

«Ti ho chiesto se ti piace ciò che tuo Zio ti fa fare.»

Successe qualcosa, che ebbe la rapidità di una saetta, e la stessa potenza distruttiva. Un brusco cambiamento dei toni, che destabilizzò la situazione.

«Ora basta, lascialo in pace! Si può sapere chi ti credi di essere e cosa vuoi da noi?!» Mio Zio batté sul tavolo e gridò queste parole.

«Sto solo cercando d’intavolare un discorso con tuo nipote.» Si giustificò l’altro, in modo davvero molto sereno.

«Beh, non abbiamo più niente da dirci, puoi anche andartene ora! Vai a cercare il tuo tesoro, sparisci!»

Restarono per qualche secondo in silenzio. Adesso potevo vedere il famoso “muro” ergersi tra di loro.

L’estraneo si alzò, scusandosi con noi: «Va bene, non avevo intenzione di essere indiscreto, ma se le cose stanno così, tolgo il disturbo.»

Mio Zio continuò a serbare il silenzio imperterrito, non l’aveva ringraziato neppure per il sidro che gli aveva offerto. Fui tentato di farlo io per entrambi, ma avevo paura delle ripercussioni; sebbene Brave non avesse mai alzato gli zoccoli contro di me, temevo che quella volta avrebbe potuto farlo.

«Prima di andare, vorrei raccontarvi un aneddoto. Posso?» Chiese, poco prima di andarsene.

«Fai come ti pare.» Disse mio Zio, anche se poco rispettosamente. Gli fui grato per questo, volevo ascoltarlo. Così l’unicorno iniziò a recitare, in un modo che mi ricordò la performance di un poeta errante, questa storia:

Parlava di un pony, che un giorno conobbe un altro pony, che andava in pellegrinaggio, portando con sé un vecchio cagnone tenuto al guinzaglio.

-Salve, è tuo questo cane?- Domandò il pony.

E il pellegrino rispose: -Lo è! Lui veglia sul mio capezzale, e allieta le mie giornate quando la Dea è impietosa con me!-

-E perché quella corda, se quindi dici che è tuo?-

-È così che fan tutti, quando hanno qualcosa che temono di perdere! Lo legano a sé, con grosse catene!-

-Tu quindi dici di aver paura, ma cosa ti spaventa, tanto da spingerti a imprigionare questa creatura?-

-In verità, signore, ho paura scappi, se mai decidessi di lasciare questa corda!-

La curiosità solleticò il pony, che si spinse oltre, domandando al pellegrino: -E tu pensi che lui te ne voglia, di bene altrettanto?-

E il pellegrino, certo della risposta: -Di sicuro me ne vuole, signore. La Dea lo può giurare qui, davanti alla parete del mio cuore!-

-Di questo nei sei sicuro?-

-Di questo ne son sicuro, sì!-

- Allora – esclamò il pony –Non averne timore, slega il tuo cane, e se lui sarà qui quando ciò sarà fatto, di bene è sicuro, te ne vorrà tanto.-

Così il pellegrino si fece convincere a liberare la sua bestia, e non appena lo fece, il cane scappò, lasciandolo da solo.

Il pellegrino si accasciò a terra. Scuotendo la testa, e si rifiutò di credere a ciò che era successo.

-Io non capisco- fece il pellegrino, mentre osservava la sagoma del vecchio compagno che scompariva all’orizzonte, -è stato sempre fedele a me. Perché ora fa così?

-Perché- gli rivelò il pony -ora poteva scegliere.-

Finito il racconto, mio Zio si alzò dal tavolo bruscamente, tanto più che ne fui spaventato anch’io, e mi disse che dovevamo andare. Anzi, praticamente me lo ordinò.

Inasprì le parole in un tono che sapeva di minaccia, e le rivolse all’estraneo, che ci guardava senza emozioni. «Fai buon viaggio.» Gli disse.

Allora uscimmo dal Brocco, senza pagare le consumazioni, e senza dire niente a nessuno. E nessuno tentò di fermarci.

Come immaginavo la baracca era tutta a soqquadro. Le conseguenze del volo del Leviatano avevano fatto sì che tutto l’impegno che avevo speso negli anni per preservare il mio orto, andasse sprecato in un battito d’ali. Solo una piantina era rimasta miracolosamente intatta. Quella che poi sarebbe cresciuta fino a diventare il mio albero di fichi.

Era un vero miracolo che le pareti di casa nostra avessero retto, considerato quanto era stata brutale la tempesta, ma ciò nonostante gli interni non se l’erano passata meglio che di fuori.

Dovetti buttare via diverse cose, e quando provai a mettere un po’ in ordine, mi accorsi che solo il diario di mio Zio (lo teneva in un cassetto) era uscito incolume dal disastro.

Sarebbe stato difficile riportare tutto com’era un tempo, e mentre pulivo mi domandavo se ne sarebbe davvero valsa la pena. Voglio dire, avevamo i soldi e una scusa, cos’altro serviva a mio Zio per convincersi a cambiare aria, provare magari a prendersi un’abitazione in paese?

Ma no, con la scusa di tenere Capo al sicuro da predatori vendicativi, continuava a imporci di vivere lassù, lontani dalla civiltà, isolati e soli.

Lui non c’era mentre pulivo. Arrivò qualche ora dopo, e sembrava pronto a spaccare Uruma con i suoi zoccoli.

Mi disse che avevamo un incarico, senza girarci troppo intorno; aveva convinto Colton Nyx a sottoscrivergli un Contratto per abbattere il Leviatano. Questo aveva detto, e mi disse che dovevamo prepararci a partire.

Io non gli chiesi niente. Né come l’aveva convinto, né se in qualche modo c’entrasse il discorso che avevamo avuto con l’estraneo alla locanda.

Eri orgoglioso, Brave? Volevi dimostrare a tutti che nessun animale poteva farti i ferri di cavallo?

Quando partimmo, dovetti lasciare le pulizie della baracca a metà. Il lavoro che mi restava da finire fu soppiantato dai preparativi per la partenza.

Brave mi spiegò che avremmo dovuto viaggiare per tutto il resto della sera, se volevamo arrivare alla Gola del Mostro Titano per tempo.

«In tempo per cosa?»

«Per l’alba.»

Avremmo marciato senza fermarci per tutto il percorso, forse accampandoci per un paio di ore nel cuore della notte per recuperare le forze. Ma dovevamo essere al canyon prima che la Dea levasse il sole nel cielo.

Gli Skinfai dormono all’alba, accumulano parte della condensa mattutina per rifocillare le loro scorte idriche interne. Era quella l’ora ideale per cogliere di sorpresa il Leviatano.

Così partimmo. Io avevo indosso la mia bardatura da combattimento, Brave la sua Green Blade, e ad accompagnarci, una sensazione strana che mi pizzicava al cervello e che avrei scoperto solo la mattina seguente.

Come stabilito dal programma, ci accampammo per riposarci nel bel mezzo della prateria, una scena familiare in effetti, e provai a parlare con lui per rompere la parete di mattoni che ci separava.

Gli chiesi della Camera del Tesoro. Volevo saperne di più, ma temevo che la domanda gli ricordasse cos’era successo il giorno prima. Corsi comunque il rischio.

Ma Brave fu molto più avido di parole del solito. Le risposte che mi diede furono vaghe, mi invitavano indirettamente a lasciar perdere.

Mi disse solo che era una leggenda comune tra i pirati del mare dell’est, che si scambiavano falsità su una sorta di camera ricca di gioielli preziosi, nascosta in una località segreta di Uruma. Qualcosa che, ovviamente, non esisteva.

Come dubitare di lui, che conosceva Uruma come le fodere della sua cintura?

Il programma fu pienamente rispettato. Arrivammo alla Gola alle prime luci dell’alba.

Di essa e di come si presentasse, io ne avevo solo sentito parlare, ma vederla da lontano, o anche solo immaginarla, non poteva paragonarsi al fatto di trovarvisi al cospetto dal vivo.

Mentre scendevamo un sentiero, cautamente, per non destare il caos tra le creature, mi persi nell’osservare i fori scavati nelle pareti di roccia, dove gli Skinflai riposavano, così come fanno certe specie di uccelli marini.

C’era uno strato di nebbia che ricopriva le cime del canyon, e una leggera umidità che ci impregnava i manti come in una fredda sauna. Era come se le creature condividessero tra loro l’acqua di cui i loro corpi necessitavano.

Come vi dicevo, la maggior parte di loro dormivano all’interno delle loro nicchie, ma qualcuna era sveglia, e le potevate vedere mentre volavano pigramente per qualche meta sconosciuta.

Mi ero sporto dal ciglio del sentiero per guardare la Lacrima del Drago che scorreva sotto di noi, quando mio Zio mi afferrò per il collo spingendomi verso la parete, neanche il tempo di gemere, che uno Skinflai passò molto vicino alla nostra posizione; ci avrebbe sicuramente scoperto, se non ci fossimo nascosti per tempo.

Mio Zio mi rimproverò aspramente, ricordandomi quanto era di vitale importanza che non si accorgessero di noi, quindi ricominciammo ad avanzare.

Notai subito una cosa, e anche Brave deve averlo pensato, perché ci rendemmo conto che c’erano molte più creature di quante pensavamo di trovarne.

Nessun dubbio che alcuni degli esemplari erano giunti con il Leviatano, ma quelli che contammo in quei nidi erano ben oltre le decine che pensavamo di trovare. Da dov’erano usciti? Sembravano una flotta venuta al solo scopo di ripristinare gli equilibri idroclimatici di Uruma, e noi eravamo venuti a dare la caccia al più grande dei loro esponenti.

Trovammo il Leviatano che dormiva aggrappato alle due pareti del canyon, tenendosi sospeso con le grandi ali.

Il corpo era sospeso nell’aria, che ora eravamo in grado di osservare in tutti i suoi dettagli, perché nessuna coltre lo stava ricoprendo.

La sua coda penzolava come una lunga liana bianco latte e s’immergeva nei flutti della Lacrima come una proboscide. Allora non sapevo perché lo facesse, ma un giorno scoprii che quello era uno dei metodi che usano gli Skinflai per raccogliere grandi volumi di acqua in poco tempo. Chiaramente, un essere così grande aveva bisogno di una riserva idrica praticamente immensa.

Ci arrampicammo su una sporgenza che dava all’entrata di uno dei nidi. Mio Zio andò per primo, salendo con le calzature verticali, per poi sollevare me con la magia. Il che era un bene, perché mi sarei aspettato di dovermi arrampicare da solo.

Controllò all’interno per assicurarsi che la grotta era disabitata, e non vi trovò nessuno. Terminava in un vicolo cieco ed era profonda sì e no quanto il piano terra del Brocco Randagio.

C’erano tracce di guano di Skinflai un po’ dappertutto, ma niente di vivo a parte noi due. Tenetele bene a mente queste parole.

«Vado in avanscoperta.» Disse Brave, e aveva sguainato la Green Blade completando il suo solito rituale di riscaldamento (sapete, quello di farla piroettare intorno a sé per un po’).

«Ed io?» Chiesi in fretta e nervoso.

«Non fare rumori, di nessun tipo.» Poi senza aggiungere altro, aderì alla parete con le calzature e corse via, verso il gigante addormentato, saltando da un muro all’altro, balzando come un agile Tygrus, impenitente nel suo scopo personale.

Ed io?

Era tornata la sensazione di essere un peso morto; un inutile esserino. Perché tutto questo, se poi voleva fare tutto da solo? Ma poi, perché spendere tanto tempo ad addestrarmi, se poi le imprese più ardue le doveva compiere lui?

Certo lo avevo aiutato in altre occasioni. Per esempio, avevo ucciso un Rogueshar da solo...

Quell’uccisione. Ci stetti male per giorni, anche se non ero sicuro di capirne la ragione. In fondo quel mostro mi avrebbe divorato se non avessi fatto qualcosa! Ed era… sì, era anche abbastanza brutto da meritarsi solo per questo la pena di morte! Ma la cosa non mi aiutò a far pace con la mia coscienza.

Essere Cacciatore da tutto questo tempo e non aver ancora il mio Simbolo di Virtù… sono cose che fanno riflettere, così come feci quando mi trovai in disparte, mentre guardavo mio Zio che metteva in pratica il suo talento nella caccia.

Non sapevo come lo avrebbe ucciso, né se più tardi era prevista una parte attiva per me, ma malinconia e frustrazione cedettero presto il passo alla mia più infantile curiosità, al voler sapere cosa avrebbe fatto per rispondere alle mie domande.

Di certo, lui aveva le risposte, perché si muoveva con l’atteggiamento sicuro di chi aveva pianificato tutto fin dall’inizio. Avreste giurato, vedendolo, che se foste potuti entrare nella sua testa, vi avreste trovato una pergamena con su scritto tutte le istruzioni, passo per passo, di ciò che si doveva fare per conseguire l’obbiettivo, e chissà, non si poteva escludere che suddetta lista fosse proprio contenuta nei vincoli contrattuali previsti dal nostro Contratto.

Ma poi, in effetti, mi ricordai di non aver visto nessun Contratto, il che era sospetto. Insomma, da quando divenni Cacciatore effettivo, avevo firmato personalmente diversi Contratti, e quando dovevo collaborare con Brave Lion, sapevo di dover porre la mia impronta anche nei suoi, come compagno di missione, anche se era sempre lui il Condottiero. E dovevo prendere visione dei vincoli per evitare di commettere errori durante la caccia.

Non mi accorsi della presenza che mi stava vicino fino all’ultimo momento, fino a che, per non so quale motivo – un sospetto magari – mi ero allontanato dai mille pensieri che mi danzavano in testa, e avevo guardato alla mia destra.

C’era uno Skinflai che mi studiava con circospezione, e che prese a indietreggiare non appena mi voltai.

E di nuovo mi domandai: da dove diavolo era emerso?!

Ero certo che non fosse planato in volo da fuori, ma la caverna era vuota, e questo ve lo posso giurare a cuore aperto. Ma allora come aveva fatto a comparire lì, alla velocità di un flash di magia, praticamente dal nulla?

Non c’era tempo per le domande, la situazione stava per complicarsi di nuovo.

Estrassi le mie spade e tentai di azzittirlo, non c’era altro che potessi fare, ma l’animale era stato più veloce di me. Si tuffò nel vuoto, spalancando le ali. In quel momento avrei potuto seguirlo, se solo le mie me lo avessero permesso, invece fui costretto a restare lì, in quell’insenatura sulle pareti di Uruma, mentre l’animale volava via per avvisare i suoi compagni della minaccia che incombeva sul clan.

E quindi, non poteva essere altrimenti, il caos prese la forma di membrane sottili, che si levavano nel cielo e lo riempivano di nubi tempestose.

Ben presto il chiasso delle creature finì per svegliare anche il gigantesco mostro albino.

Il Leviatano emise un verso che sembrò un lamento della Terra. Poi vennero i fulmini e la tempesta, quella che si scatenò quando esso si librò sopra la Gola.

Gli Skinflai più piccoli dovettero presto fare ritorno alle loro tane, perché i venti li avrebbero uccisi, e io non sapevo che fine avesse fatto mio Zio.

Sì, insomma, vorrei potervi descrivere cosa fece quando si era reso conto che (per colpa mia) il suo piano era fallito. Forse imprecò. Per lo meno, so che lo faceva quando era lontano da me, ma poi cos’altro?

Uscii, cercando di salire la parete con la sola forza delle mie zampe, non fu facile. Gli appigli erano pochi, e la tempesta cercava di farmela pagare cara per averla svegliata. Ma dovevo esserci, dovevo rimediare al mio ennesimo casino, non potevo lasciare che Brave Lion, da solo, si confrontasse con il Leviatano. Era troppo anche per lui.

Non arrivai alla cima, devo confessarvelo. Dopo essere quasi caduto nel vuoto, il mio cuore pompava a mille, e mi era presa un’impressionante paura di cadere in basso. Così, trovai un rifugio in un punto della parete a strapiombo, dove potevo schiacciarmi per resistere.

Staccai le lame insieme a tutte le protesi dalla bardatura e mi disfai di ogni pezzo di metallo che avevo indosso, gettandoli nel vuoto, pregando di non diventare bersaglio di qualche saette pirata.

Sopra la coltre di nuvole basse, al di sopra di me, sentivo il lento e costante sbattere delle ali del Leviatano, che rinvigoriva i venti e mi avvicinava sempre di più a una morte tragica e pietosa. A quel punto se anche avessi potuto volare, probabilmente sarei colato a picco, e le mie ali sarebbero state fatte a pezzi dalla burrasca, o peggio, avrei perso stabilità e mi sarei spezzato il collo contro qualche colonna di roccia.

Per un istante, mi sembrò di vedere qualcosa di ben poco definito oltre la cortina plumbea, attraverso la pioggia: mio Zio.

Fu come un granello di polvere che ti attraversa gli occhi, una stella cadente che taglia la notte. Brave stava proprio sotto la pancia del Leviatano, a testa in giù, retto saldamente grazie alle calzature per il galoppo verticale.

Poi sparì di nuovo.

Poi sentii un urlo provenire dal mostro, e dopo, quello che sembrava uno scossone del gigante, il corpo di mio Zio che sopra i miei occhi increduli precipitava nel cielo.

Ma quel bastardo era pieno di risorse. Anzi, più si trovava nei guai, più era capace di trovare soluzioni per uscirne: con non so quale forza, strappò per aria, mentre cadeva, un enorme blocco di roccia dal canyon (e per giunta da un’altezza ragguardevole) e lo sollevò fino al suo livello atterrandovi sopra. Quindi, come se nulla fosse (io poi non so quanta forza richieda a un unicorno per sostenere un carico simile, ma non deve essere una passeggiata, suppongo) tornò tra le nuvole usandolo come mezzo di trasporto, e riprese a combattere la sua nemesi bianca.

E tutto questo mentre io lottavo contro la gravità per non cadere di sotto. Ed ero il pegaso!

Passò un tempo che aveva le stesse probabilità di essere un’ora, quanto pochi minuti.

Ogni cosa, dal punto in cui mi trovavo, appariva distorta e inesatta. Talvolta mi sembrava che il precipizio desse su un baratro infinito, dove non c’era una fine e dove se fossi caduto, avrei fluttuato nel nulla, a metà tra l’eternità e il mio presente.

In un altro momento, invece, mi sembrò addirittura plausibile tentare di tuffarmi all’interno della Lacrima per sfuggire dalla trappola in cui mi ero cacciato.

Nel frattempo continuava a piovere, così tanto – ed io ero così fradicio – che fu come se ad un certo punto non esistesse più acqua e nemmeno le nubi.

I miei sensi erano assuefatti da ogni genere di stimolo, che si marchiava su di me come una ferita di caccia. Forse è anche per questo che ricordo così bene quei minuti (od ore).

D’un tratto si spense tutto, fu come se la parte di me che stava perdendo il senno, avesse deciso di abbandonare il mio corpo per andare a nascondersi altrove. Mi accorsi di non aver paura di niente, di poter affrontare Uruma con la forza dei miei soli zoccoli, e anche se una premonizione mi avesse anticipato che sarei morto nel tentativo di sfidarla, questo non mi avrebbe dissuaso dal provarci!

Ricominciai a salire la parete, e la sensazione che provai era come se qualsiasi metro che compivo non mi allontanasse minimamente dal mio punto di partenza. Anche dopo, quando avevo scalato la maggior parte del canyon, mi sembrò che, se fossi caduto, sarei semplicemente atterrato incolume sulla nicchia in cui mi trovavo prima.

Così facendo ero arrivato alla cima senza quasi accorgermene, e solo ora compresi la reale entità della mia impresa.

Il fatto di essere circondato dalla nebbia, e per questo non vedere niente, mi “aprii” gli occhi sulla situazione.

Poi un ruggito gigantesco del Leviatano riattivò anche il mio udito, spingendomi a provare a capire dove fossero i due combattenti. Fu facile trovarli, seguendo gli spostamenti dell’aria (opponendosi ad essi) e il boato sordo del volo.

Vedevo poi la sagoma colossale che oscurava la luce, proiettando sopra di me un’ombra spettrale. Stava perdendo quota.

A quella che era semplice pioggia, acqua condensata che cadeva al suolo, si unì un nuovo tipo di precipitazione: era rossa e pitturava le nubi di una tinta cremisi. Delle volte la vedevo scendere a piccoli sprazzi, altre volte in vere e proprie cascate.

Il Leviatano tentava di innalzarsi sbattendo le ali più forte, schiacciandomi a terra, riempiendo l’aria di così tanta umidità che temevo sarei annegato sotto la stessa pioggia.

I fulmini, poi, erano come se tuonassero in conseguenza dei suoi lamenti, e quando mi sforzai di mettere a fuoco qualcosa nella confusione dell’uragano, riuscii a vedere mio Zio che gli correva sul fianco del colossale corpo.

La Green Blade affondava nelle carni dello Skinflai, aprendo piccoli squarci nell’animale.

Si spostò sul suo dorso, e lo stesso animale virò verso l’alto in un disperato appello alla vita. In quel momento persi di vista mio Zio.

Se prima mi sentivo inutile, ora lo ero di certo. Brave Lion se la cavava benissimo da solo.

Mi raggomitolai a terra, perché sapevo che in uno spazio aperto, questo è il modo migliore per evitare di attrarre a sé i lampi, e visto che non potevo fare altro, né avevo ricevuto tante istruzioni, né avevo mai letto un Contratto a riguardo, aspettai. Aspettai abbastanza da cominciare a diventare insofferente della situazione. E quando il Leviatano cominciò nuovamente a scendere di quota, stavolta senza far nulla per scalare il cielo, capì che per lui era giunta la fine.

Si era schiantato, vi dirò, un chilometro più in là, sul ciglio della Gola, con un’ala che pendeva nel vuoto come un vessillo stracciato dalla sua asta.

Raggiunsi il punto dell’impatto galoppando come un forsennato, e quando arrivai, mio Zio era nella beatitudine più totale. Davvero. Sembrava aver trascorso una nottata in compagnia della stessa Dea.

Sedeva sulla testa del Leviatano, con un piccolo scudo magico sopra la criniera che lo proteggeva dalla pioggia, e rideva. Guardarlo faceva una certa impressione.

Il Leviatano, invece, non si muoveva, non respirava, e non faceva nulla che lasciasse presagire che fosse ancora vivo.

Tutto il suo corpo, coda, ali, dorso e ventre, collo e testa, erano lacerati da tanti piccoli tagli dai quali scendevano rivoli di sangue confusi alla pioggia. Ma il colpo mortale era stato inferto attraverso un occhio, perforato dalla Green Blade.

«Dov’è la tua attrezzatura?» Mi chiese Brave Lion, a bassa voce, appena percepibile attraverso lo scrosciare della pioggia, ed io, ingoiando la bile, gli spiegai le ragioni che mi avevano spinto ad abbandonarla.

«Scelta intelligente.» Si limitò a dire lui, annuendo con un cenno. «Quando torneremo, dirò a Cuttersmith di preparartene una nuova.» E questo fu tutto. Nessuna considerazione sul fatto che mi aveva lasciato alla mercé del nubifragio. Non che mi aspettassi dei complimenti per le mie azioni, anzi mi sarei sentito offeso se pure quella volta mi avesse lodato per qualcosa che non avevo fatto. Ma sapete, allo stesso modo mi dispiacque per come si era mostrato indifferente nei miei riguardi, senza rimorso e senza pentimento alcuno. Un atteggiamento che, solo ora che sono stato così vicino a morirci sul serio, mi rendevo conto di quanto fosse ingiusto.

«Torniamo a casa, il nostro lavoro qui è finito.»

Brave Lion era sceso con la leggerezza di una piuma, pronunciando questa frase così fredda e distaccata. Sorrideva ancora a occhi chiusi.

Né la pioggia né il mio smarrimento riuscivano a distrarlo dalla sua serenità. Posso solo immaginare la soddisfazione che provò nello sapere di aver sconfitto la sua nemesi, quando molti anni prima la stessa preda lo aveva lasciato con un pugno di mosche e il peso della sconfitta.

Eppure c’era qualcosa che mi premeva chiarire. Non la sua azione in solitaria, non la sua indifferenza, no.

«Non usi le Rose della Vittoria?» Gli domandai.

Era il Contratto il problema. Volevo sapere se quel cazzo di Contratto esisteva, e se in caso, quali erano i suoi vincoli.

«Non c’è nessuna Rosa stavolta.» Mi rispose lui. E poteva significare solo una cosa. Se fossi stato più piccolo, più stupido, o magari più inesperto, avrei passato giorni ad interrogarmi sul significato, senza venirne a capo. Ma quella volta mi era stato chiaro fin da subito.

Dal mio racconto, sapete che Brave Lion era abile a nascondere la verità quando gli faceva comodo, e quella risposta, beh, era stato il suo modo di confessare ciò io già sospettavo: Colton Nyx non lo aveva mai incaricato di niente. Nessuno lo aveva fatto, a parte Brave Lion stesso. Con il suo orgoglio da Cacciatore, la sua sete di sangue, e tutti quei tratti che presto, molto presto, lo avrebbero condotto alla morte.

Ed io gli stavo dietro, avevo seguito e continuavo a seguire la strada che lui aveva tracciato, senza capire quanto tutto questo mi rendeva cieco alla vita…

Io… non lo so perché quella volta non reagii. Vi giuro che lo desideravo. Mi ero addirittura costruito delle fantasie nella testa, in cui lo affrontavo a testa alta e lo sconfiggevo in duello, ma nessuno dei due poteva prevedere le conseguenze di una simile azione se mai lo avessi fatto.

Con i zoccoli che affondavano nel fango, un silenzio che mi ero imposto per sottomissione, e le lacrime che mi scendevano dagli occhi e che si scioglievano nella pioggia, lo seguii fino al ritorno a Capo Unicorn.

Non gli parlai per due giorni.


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Capitolo 6
*** 6: Viaggio alla Schiena del Drago ***


6: Viaggio alla Schiena del Drago

La scorsa volta mi ero dimenticato di dirvi che quel giorno, quando mio Zio uccise il Leviatano, gli Skinflai svanirono di nuovo alla stessa velocità con cui erano apparsi.

Non so esattamente cosa spinse le creature a manifestarsi in quel determinato momento, ma dopo la caduta del loro “sovrano”, la situazione di Uruma tornò come prima. La pioggia aveva dissetato la campagna, rallentando la siccità, ma non passò molto prima che il deserto riprendesse ad avanzare.

Poco dopo i fatti della Gola del Mostro Titano, io avevo una nuova attrezzatura, e stavo giusto facendo ritorno alla baracca, trasportando con me un carretto carico di legna (era destinata alle riparazioni della nostra casa) quando ecco che una nuova figura fece capolino nella mia vita.

Ciò che sto per raccontarvi rappresenta l’epilogo della storia.

Avevo detto a più riprese quanto la mia vita fosse cambiata nel corso delle varie tappe che vi ho riassunto, ma nessuna di queste, neppure sommate, potrebbe rapportarsi alla gravità dei fatti di quei giorni.

È il periodo in cui mio Zio morì, ed io dovevo ancora compiere dodici anni.

Mi ero fermato alla base del pendio che porta alla baracca, volevo solo riprendere un po’ il fiato prima di iniziare la salita.

Non mi ero accorto della presenza di quel pony prima che mi parlasse.

«Ohilà, si lavora?» Mi fece lui, ed io m’impennai per lo spavento che mi fece prendere.

Lo esaminai: aveva delle ghette di spessa pelle di drago alle zampe, un piccolo tricorno in testa, e il suo corpo era stretto in un intreccio di cinturini, fibbie, cinghie e bandoliere, pieni di fodere e guaine vuote, pronte ad accogliere ogni genere di armi bianche, non in quel momento, però.

Il suo manto era giallo, con uno schema di colori rossi e verdi su criniera e coda, ed era un pony di terra.

Rimasi a fissarlo in silenzio mentre lui si avvicinava.

«Ti dispiace se ti chiedo una cosa?» Recitarono le sue labbra. «Sai nulla dello stallone che vive lì sopra.»

Io gli rivelai che era mio Zio, e il pony di terra fece un sobbalzo all’indietro, come se volesse ostentare sorpresa. Mi disse che era sorpreso di scoprire che Brave Lion avesse addirittura una famiglia.

«È un suo collega?» Gli chiesi io, essendo stata la prima cosa che mi era venuta in mente.

«Lo ero.» Mi rispose. «Sono stato suo principale commilitone fino a quindici anni fa.»

Il mio cuore si dimenticò di pompare quando sentii quel numero. Lo spettro del Leviatano continuava a perseguitarci.

Lui mi chiese se mio Zio fosse in casa. Io gli risposi di sì e gli spiegai cosa stavamo facendo. Avevo un brutto presentimento su quel tipo, ma non avevo timore per come lo avrebbe affrontato Brave. Mi chiese se potevo fargli strada, e si offrì di portare il carretto per me, offerta che declinai, non volevo che mio Zio pensasse che stessi battendo la fiacca.

Quindi salimmo insieme il pendio.

Trovammo Brave che stava piantando i nuovi pali della recinzione, quindi potete capire che lui si accorse del nuovo arrivato prima ancora che avessi tempo di annunciarlo.

Fermò ciò che stava facendo e fissò il pony di terra a bocca spalancata.

«Che la Dea mi affoghi nel sonno… »

«Da come reagisci, devo pensare che ti ricordi di me.» Disse l’altro.

Spiegai in quale modo c’eravamo incontrati, ma le mie parole lasciarono il tempo che trovarono.

«Dopo tutto questo tempo… perché sei tornato?» Chiese mio Zio, a voce cupa.

«Avevo fatto un giuramento, se ti ricordi. Sono qui solo per questo.»

E ne seguì un silenzio incolmabile.

«Spirit, vai ad allenarti da basso, ora.» Mi ordinò Brave, ma questa volta io non volli ascoltarlo: «No, io resto qui!» Battei lo zoccolo a terra. Insomma, dopo ciò che era successo alla Gola del Mostro Titano, non avrei accettato di essere messo all’angolo per l’ennesima volta!

Per un attimo mi guardò torvo e pensai che stesse per farmi lo Sguardo, ma poi si convinse a non insistere.

Tornò al pony di terra e lo invitò a sedersi. Gli chiese se poteva offrirgli qualcosa da bere. Non avevamo molto in dispensa, ma c’era ancora qualche sorso di whiskey in una bottiglia che si era salvata dal nubifragio.

Eravamo seduti intorno alle braci spente del focolare, dove di solito cucinavamo. Io ero di fianco a mio Zio ad ascoltare.

Il pony di terra vuotò il bicchiere prima di mettersi a parlare: «non hai qualcosa di meglio? Con questo non mi ci pulisco neppure il rasoio con cui mi rado.»

«La situazione è cambiata da quando cacciavamo insieme, anche se il lavoro non manca, il numero d’incarichi importanti è calato drasticamente. I soldi non crescono sugli alberi. Non da queste parti almeno.»

«Sì, Colton mi ha aggiornato sui recenti sviluppi. Sembra che finalmente sia riuscito a diventare borgomastro, eh?»

Andarono avanti con chiacchiere di questo tipo per diversi minuti. In apparenza poteva sembrare una rimpatriata qualsiasi tra vecchi compagni di ventura, ma c’era qualcosa che chi come me era abituato a osservare, poteva scorgere attraverso le rughe d’espressione. I muscoli si tendevano, come se fossero pronti a saltarsi addosso a vicenda, ma gli anni di distanza li stavano trattenendo dal farlo.

«Ho saputo del ritorno del Leviatano.» Disse il pony di terra. Questo diede loro tempo di divagare ancora un po’ sulla questione. Ma il punto si stava ormai avvicinando con urgenza, e fu sempre il pony di terra a scoprire le carte per primo. Naturalmente, Brave avrebbe fatto di tutto per non parlare di quella storia:

«Te lo ricordi quindici anni fa?» Cominciò il terrestre, facendo sospirare mio Zio.

«Non ho mai smesso di pensarci da quando siamo tornati… » Brave spiegò ciò di cui ero già a conoscenza: di come avevano inseguito il Leviatano fino a dove la mappa di Uruma estendeva i suoi confini, e di come avevano assistito alla dipartita dei loro compagni senza poter fare nulla per evitarlo.

«E del “dopo”, Brave? Ci pensi mai al dopo?» Proseguì l’altro.

Ora, giustamente vi domanderete se “c’era un dopo??”… beh sì, c’era, ed io in quel momento ero tipo “senti senti, questa non me la perdo”. Della cosa era anche consapevole mio Zio, che a quel punto non aveva altra scelta che lasciare che ascoltassi. Si potrebbe insinuare che lo stallone giallo stesse facendo tutto ciò di proposito: far sì che io sapessi ciò che Brave mi teneva nascosto da anni. Per ripicca forse, per far sì che gli arrecasse fastidio.

Ma Brave Lion, per buona pace del pony terrestre, era sempre un combattente, e non avrebbe mai mancato di rispondere per le rime a un attacco alla sua persona. «Ricordo bene le tue farneticazioni.» Disse. «Ricordo che eri stato tra i primi a fare fagotto e ad andartene.»

Questo scatenò le ire dell’altro stallone. «Idiozie! Ancora insisti a negare i fatti! Per quanto ancora andrai avanti a nasconderlo?!»

«Fino a quando ci sarà qualcuno che mi accuserà di cose che non ho fatto.» Gli rispose così, o perlomeno, mi pare di ricordare che rispose così.

Mi ci volle un po’ per mettere insieme i vari tasselli di quella conversazione. Se, in effetti ve li riportassi per filo e per segno, così come li ascoltai allora, voi probabilmente fatichereste a seguire il discorso.

Per semplificare la faccenda e andare avanti veloci, credo che potrei proseguire così: il pony terrestre, dopo aver capito che la strategia iniziale non era stata sufficiente per oltrepassare le forti difese di Brave Lion, si alzò sugli zoccoli e dopo aver guardato non so cosa verso l’orizzonte, in un modo solenne che per inciso era ridicolo proprio come può sembrare, iniziò questo monologo, che anche stavolta, proverò a recitarvi così come me lo ricordo:

«Lascia che ti rinfreschi la memoria Brave: avevamo appena perso il Contratto di caccia, e il Leviatano era volato via svanendo nel nulla. Del nostro gruppo, chi non era morto, era disperso per tutto l’entroterra, e noi due, che eravamo rimasti insieme fino alla fine, così come sempre restavamo insieme (questo te lo ricordi, vero Brave?) avevamo deciso – insieme – di fare ritorno attraversando la Schiena del Drago. Seguire il fiume era sempre stata la scelta migliore per fare ritorno alla costa… »

Fermandoci un momento, vi avviso che mio Zio cercò di dissuaderlo dal proseguire oltre. Gli disse: «So che cosa cerchi di fare, è meglio per te se ti fermi.» Ma per il pony di terra, a quel punto, era un po’ come tentare di spegnere un falò gettandovi dentro dell’olio di alghe. Continuò stoicamente come se dalla bocca di Brave non fosse scaturito alcun suono:

«… stavamo attraversando la Schiena, quando ecco che d’un tratto mi giro, e scopro che anche tu sei sparito. Ti ho cercato per delle ore, ricordi? E ti ricordi che ti ho detto che avevo anche provato a gridare il tuo nome? Ma niente, di te non c’era traccia! Non avevo neppure il modo di seguire le tue impronte, perché non sapevo in quale punto ti avessi perso. E quando, dopo un’attesa interminabile, finalmente ti sei fatto vivo da non so dove, sei scappato via senza preoccuparti di tornare indietro a cercarmi. Io ti chiamavo, e tu non sei venuto a recuperarmi. Mi lasciasti tornare a Capo Unicorn da solo, e mentre viaggiavo, ho riflettuto a lungo su quali fossero le motivazioni che ti avevano spinto a comportarti così. Poi finalmente avevo capito. Mi ci era voluto un po’ per arrivarci, perché ti consideravo un amico, e non avrei mai sospettato che ti saresti spinto a tanto per avidità… la verità, Brave, è che quel giorno tu trovasti la Camera del leggendario Tesoro, e una volta trovato, avevi deciso di tenerlo per te! Il fatto stesso che vivi ancora in questa topaia mi dà da pensare che non hai ancora avuto modo di recuperarlo… o forse temi solo di rivelarlo. La gente accorrerebbe in massa se scoprissero cosa nascondi!»

C’ero io che fissavo rimbambito mio Zio, in attesa della sua contro-risposta, e c’era lui che scuoteva la testa ghignando sottovoce.

«Quindici anni, e ancora non ti sei lavato la testa da queste cazzate?» Disse proprio così, imprecare davanti a me, e questa volta da una distanza molto ravvicinata. Poi continuò: «Non c’è NESSUN Tesoro laggiù! Te lo dissi allora e te lo ripeto anche adesso!»

«Ciò non di meno Brave, da quel niente te ne sei uscito con un omaggio.» Il pony di terra mi aveva guardato, e mi aveva confessato questa cosa: «quella spada lì» indicò la Green Blade, posta in un angolo all’esterno della baracca «lo sai che tuo Zio trovò la materia prima per forgiarla proprio quel giorno?»

Continuò rivolto a lui: «Un materiale che non si scalfisce nel tempo, e che spuntò fuori, guarda un po’ il caso, proprio quando io ti avevo perso di vista!»

«Sì, e questo secondo te prova che abbia trovato una camera piena di oro e gioielli?»

«Spiegami allora questa: perché quando eri riapparso quel giorno, avevi quella ferita sul ventre? Chi è stato a procurartela?!»

La cicatrice! Stava proprio parlando di QUELLA cicatrice!

«Ho seguito la scia del tuo sangue praticamente fino in paese.» Insistette il terreste. «Mi sarei aspettato di trovare il tuo cadavere disteso per strada, ed ero pronto a caricare su di me la tua salma, ma tu ti salvasti! Eri vivo e vegeto, ti eri fatto curare, e quando ci ritrovammo, avevi iniziato a comportarti in modo elusivo, come se stessi nascondendo qualcosa. Non era proprio da te, ed io non me ne accorsi subito. Tu non sei tipo da rivelare così distrattamente quando stai mentendo. Se quella volta ti trovai così, è chiaro che ti era successo qualcosa, e oggi come allora, io avevo giurato che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei tornato e ti avrei fatto sputare la verità, a costo di farmi divorare l’anima dalla Dea! Voglio sapere, Brave, che cosa trovasti alla Schiena del Drago?! Chiunque si sia mai spinto abbastanza all’interno da arrivare dov’eravamo arrivati noi, ha finito per non fare più ritorno, e noi le avevamo attraversate quelle montagne! Negli stessi posti dove altri erano morti! Che cosa c’è veramente alla Schiena del Drago? CHE COS’È IL TESORO, BRAVE LION?!?»

Ok… scusatemi. Forse… mi sono lasciato trasportare. Non fu proprio così che lo disse. Credo che buona parte di questa invettiva me la sia inventata di sana pianta, ma del resto tutti noi meritavamo una risposta da parte sua, non solo il pony giallo.

Quel giorno sperai che rispondesse, lo volevo con tutto me stesso, e davo fondo a tutta la mia fede affinché ciò accadesse.

Credo che dopo quelle accuse (qualunque sia la forma in cui furono dette) lui ci abbia pensato a fondo e avesse deciso che non aveva senso dire semplicemente “no, non è vero”, e aspettare che noialtri ci stancassimo.

Lo avevo già visto, in altre occasioni, lasciarsi trasportare per alcuni secondi nei suoi pensieri, mentre dava forma a qualche idea di cui si sarebbe servito una volta sceso in battaglia. Non aveva tic di nervosismo, non mostrava segni corporei che qualche professionista poteva contraddistinguere tra “verità” o “menzogne”, era semplicemente neutrale e privo di emozioni. E quando terminò di riflettere (che come l’atto di oscillare la spada, poteva essere considerato alla stregua di uno dei suoi riti di preparazione) arrivò il suo turno di parlare, e lo fece senza manifestare agitazione o alcun tipo di turbamento.

«Non so esattamente cosa accadde quel giorno.» Cominciò, capitalizzando la nostra attenzione. «Ti confesso che buona parte della mia memoria ha dei vuoti per quanto riguarda quei fatti. Ricordo per esempio che questa cosa mi mise sotto pressione, ed è per la stessa ragione che probabilmente ero così indisponente verso gli altri. Quando eravamo ancora insieme e stavamo attraversando le montagne, mi era sembrato, per un momento, di aver scorto qualcosa dietro una collina, così ero andato a controllare. Ero certo di non metterci più di qualche secondo per tornare, e devo aver supposto che ti avrei raggiunto poco dopo aver verificato. Poi… non ricordo quanto tempo sia passato, né che cosa aveva provocato il mio ritardo. Forse ero inciampato da qualche parte e avevo sbattuto la testa, perdendo la memoria. Ho qui tra i peli della criniera proprio una cicatrice frutto di una ferita che non avevo prima di quel giorno… »

Qui mi prendo una pausa, e vi dico che effettivamente una cicatrice in quel punto ce l’aveva eccome. Anche se non so da che cosa fosse dovuta.

In effetti è buffo, ma ciò che disse assomiglia tantissimo a qualcosa che successe anche a me qualche tempo dopo.

Poi vi dirò.

Intanto riprendiamo:

«… questa ferita, sì. Ricordo che a un certo punto stavo galoppando via. Avevo paura di qualcosa, anche se non so per quale ragione. Era come se mi stesse inseguendo un mostro, forse un’allucinazione. Ma è anche vero che tu non hai visto niente, quindi forse era davvero una fantasia prodotta dal trauma. Non saprei dirti, invece, dove trovai la lastra da cui poi avevo forgiato la Green Blade, né che cosa mi aveva, a momenti, aperto in due la pancia. Però ti posso rivelare che dentro di me sentivo il bisogno di conservarla, mi piace pensare che dopo essere caduto – se ero caduto – devo essere atterrato proprio su questa cosa (la misteriosa lastra della Green Blade), e che il trauma mi aveva spinto a prenderla e portarla con me. Quando ripresi il senno, ero già arrivato in paese. Cercai qualcuno che mi potesse guarire, e da quel momento in poi non ho più pensato a cosa mi fosse successo alla Schiena del Drago. Forgiai la Green Blade solo perché pensai che un materiale così poteva tornarmi utile in battaglia.

Questo fino a quando tu non sei tornato e hai cominciato ad accusarmi di stare nascondendo il Tesoro (di cui io non ne sapevo assolutamente nulla). Avevamo discusso, e io volevo spiegarti la situazione per filo e per segno, per farti capire. Ma quando ti cercai, scoprii invece che te ne eri già andato per mare. Allora ho deciso di andare avanti per la mia strada, e fare quello che da sempre sapevo fare meglio: cacciare per vivere. Questa è la sola verità che posso darti. Tutto il resto, il Tesoro, un tempio ricolmo di ricchezze, una mappa con una X contrassegnata in un luogo segreto della Schiena del Drago, sono solo fantasie da marinai ignoranti. Niente di reale, niente di niente!»

Finito il discorso, beh, non c’era molto altro da aggiungere. Brave Lion era stato convincente, in un modo che la mia interpretazione probabilmente non sarebbe mai riuscita ad eguagliare.

A conferma di ciò, il pony di terra non aveva più tentato di mettere in discussione le sue parole (e vorrei ben vedere), e infatti, dopo averci riflettuto per un tempo sufficiente e stabilire come comportarsi, disse a mio Zio: «Voglio crederti, Brave. In memoria dei vecchi tempi e della nostra amicizia, voglio farlo.»

Sarebbe potuta finire così, e in effetti DOVEVA finire così. Ma un punto in comune a tutti membri della Congrega dei Cacciatori di Mostri era la determinazione, che era vitale per uscire salvi dagli scontri più estenuanti, ma che spesso implicava il non sapere mai fino a che punto spingersi prima di mollare.

A conferma di ciò, lo stallone giallo gli porse uno zoccolo per consolidare un’intesa reciproca, e quindi gli propose: «Ti va di scoprirlo insieme?» Voleva che partissero per un viaggio, la cui meta sarebbe stata la Schiena del Drago. Voleva che tornassero in quel posto in cui tutto era iniziato, e svelare il mistero che si celava nelle montagne di Uruma.

Brave lo fissò a lungo e con grande intensità, e alla fine rifiutò l’offerta.

Io non mi ricordo se litigarono ancora o se invece fu un allontanamento spontaneo.

Il pony di terra pieno di cinture se n’era andato, questo era evidente. E nel frattempo io ero quello che covava più di tutti delle riserve, sulle parole di mio Zio. Vi avevo spiegato che non si era tradito in alcun modo. Se anche lo avesse fatto, era successo in un modo talmente sottile e velato, che di certo io non fui in grado di notarlo.

Eppure c’era qualcosa in tutta quella faccenda che continuava a puzzarmi, come una carogna lasciata a marcire al sole. Chiamatelo intuito, chiamatelo esperienza o istinto, chiamatelo come volete, ma Brave non l’aveva raccontata giusta, e questo nonostante si fosse dimostrato abilissimo a contarla. Ma quali prove avevo a sostegno della mia tesi? Non avevo neppure degli indizi, a parte la mancanza di fiducia, che a sua volta poteva essere associata al risentimento per il suo comportamento recente.

Un errore del genere non lo farei oggigiorno, ma allora ero giovane e molto meno cauto. Sì, insomma, andai da lui e gli chiesi: «È vero quello che hai raccontato a quel pony?»

Lui stava proseguendo nelle ristrutturazioni in casa nostra. Credo che stesse applicando una copertura di rinforzo su uno dei muri, quando sentendo la domanda che gli rivolsi, gettò via il martello che stava reggendo magicamente e mi rispose: «Oggi vi siete messi d’accordo per farmi impazzire?»

Temevo che se la sarebbe presa di brutto, invece tornò subito alla sua opera.

Io allora gli feci: «Voglio solo essere sicuro di sapere cosa è successo, credo di avere il diritto di chiedertelo!» Non rispose, così insistetti. «Insomma, ho sempre fatto quello che mi dicevi di fare, non c’è stata mai una volta che abbia protestato! Perché non puoi essere onesto con me, almeno per un giorno?!»

«La storia ve l’ho già raccontata, Spirit. Non ti basta quello che hai già sentito? Non sei stato attento prima?»

Mi mozzò la parola in quel preciso istante.

Sì, io ero stato attento, anche troppo in effetti. Allora perché ero così sicuro che Brave Lion stesse mentendo. “Forse perché gli riusciva così facile e naturale?” Pensai.

Cosa c’era di vero io ciò che ci aveva raccontato, dove si nascondeva il falso?

«Che problema hai, Spirit?» Mi chiese poco dopo.

Lo guardai, senza però dirgli niente. Al posto di rispondergli, cercai di eludere il discorso andandogli a prendere un po’ della legna che avevo portato per le ricostruzioni. La presi con le zampe anteriori. Cercavo di sfruttare ogni occasione che potevo per tenermi in posizione bipede ed evitare così di perdere l’abitudine a quel particolare modo di ambulare.

Girandomi, me lo trovai davanti al muso. Se stavo su due zampe le nostre altezze si eguagliavano.

Il bagliore della sua magia mi accecò la vista per un istante, prima di comprendere che se n’era servito per sottrarmi la legna ed adagiarla a terra.

«Ok, parliamo.» Mi disse, ma se pensate che si riferiva a quella verità che ero convinto ci stesse nascondendo, devo darvi una delusione: voleva che parlassimo d’altro, e forse era proprio quello di cui io avevo veramente bisogno.

Gli dissi che ero deluso dal come mi aveva lasciato in disparte nel corso della battaglia contro il Leviatano, e gli dissi che ero ancora più deluso del fatto che mi avesse coinvolto in qualcosa di così illecito.

Lui inizialmente si prese gioco di me, facendomi notare quanto sia stato buffo il fatto che mi fossi appena contraddetto (perché se avessi voluto prendere parte allo scontro con il titano sarei per forza dovuto diventare suo complice), e di risposta lo beccai su tanti altri piccoli punti, come quelli che vi raccontai nei giorni scorsi. In poco meno di mezz’ora avevo vuotato il sacco su tutto ciò che mi ero tenuto nascosto in quattro anni di carriera come Cacciatore di mostri al suo fianco: le volte che mi costringeva a fare ciò che non volevo, quelle in cui mi attribuiva meriti che sentivo non appartenermi. Gli dissi questo e tanto altro.

Non era cattivo, mio Zio, ma era uno stronzo, del tipo peggiore. Non di quelli che nascondono la bontà d’animo dietro una maschera di acidità, ma quelli che mettono se stessi al primo posto, e gli altri in fila alle loro spalle.

Finii di protestare quando sul suo viso si manifestò una desolazione che non mi sarei mai aspettato.

Lo avevo ferito?” Chiesi a me stesso, mentre riflettevo se rincarare la dose o farmi bastare ciò che gli avevo già detto.

Rimasi ancora più perplesso quando cominciò a scusarsi con me. Iniziò con un mai troppo stantio: «Scusami, hai ragione su tutto.» E lo sapete, quando uno fa così, voi di solito lo lasciate parlare. «Non me ne ero mai reso conto… perché non me lo hai detto prima?»

E io giustamente: “Eggià, perché non l’ho fatto?”

«Non lo so… » gli risposi. “… avevo paura di te, o ti rispettavo troppo? Ero solo uno stupido?

Boh.

Continuò lui: «Senti, non è mai stato facile prendersi cura di te. Ho fatto del mio meglio per quel che potevo, ma io non sono mai stato un buon genitore…» e poi si corresse «anzi, per la verità non sono mai stato affatto un genitore!»

Forse gli chiesi qualcosa riguardante la mia famiglia, ma non ricordo cosa rispose, comunque non è importante.

«Anch’io credo di avere delle responsabilità.» Gli confessai. «Non mi sono mai voluto impegnare per davvero a fare il Cacciatore.»

«È un lavoro difficile, specie per chi inizia così giovane.» Ricominciò lui. «Ma sbagli a pensare di non esserci portato. Insomma, guardati…» (parlandogli, stavo ancora in posizione bipede) «… guarda dove sei arrivato dopo quello che hai passato! In questi anni ti ho visto crescere e completare imprese nelle quali qualsiasi altro pony sarebbe finito all’altro mondo, eppure te ne sei uscito incolume! E probabilmente sei perfino migliore di me su questo!» (Era inevitabile che alludesse alla sua cicatrice).

«Allora perché io non ho ancora un Simbolo di Virtù?» Chiesi a testa bassa, cercando di non dare a vedere quanto stessi male per questa mancanza.

«Forse sei solo tardivo.» Mi rispose. «Magari hai solo bisogno di fare pace con la metà insicura di te. Ma non ti preoccupare per questo» appoggiò i suoi zoccoli sulle mie spalle. «Ricordi cosa ti dissi quella volta al Brocco Randagio? “Guardami le spalle, Spirit…” »

«“E tu le guarderai a me.”» Terminai la sua frase.

«Esatto!» Annuì lui con un sorriso che gli sbocciava sulle labbra. «Facciamo che da oggi in poi si cambia di nuovo: ricominciamo da capo! Cerchiamo di collaborare come si deve! Ti prometto che da oggi non ti lascerò mai più da solo!»

Quelle parole mi avevano scaldato il cuore e – inconsapevolmente – mi avevano intrappolato per sempre. Senza che me ne rendessi conto, me ne stavo fermo e in silenzio, mentre Brave Lion finiva di forgiare intorno al mio collo le catene che ci avrebbero tenuti legati per sempre.

Gli ho voluto bene, e sono certo che anche lui me ne voleva molto, ma quando era arrivato il momento, quelle parole m’impedirono di capire quale fosse la strada giusta da prendere.

In ogni caso, ormai il nostro tempo era scaduto.

Ora vi racconterò di come Uruma si riprese ciò che Brave Lion le aveva sottratto per anni.

Allora, io… non è facile parlare di questo, ragazzi…

Il luogo dove stiamo per andare è lo stesso in cui lui perse la vita quel giorno. Ripensarci mi fa male ancora oggi, quindi cercate di essere comprensivi, e vi avviso: voi siete gli unici a cui abbia mai raccontato questi fatti.

Erano trascorse due settimane dall’incontro con lo stallone giallo.

Ero sempre in casa quel giorno, un pomeriggio che non preannunciava niente di fenomenale. Non ricordo neppure cosa facessi, quando Brave Lion salì il percorso manifestandosi di fronte a me.

Lo vedevo nervoso e agitato, e sapevo che non aveva motivo di esserlo, perché era andato in paese solo per fare rifornimenti, approfittando della giornata di libertà per sbrigare le faccende. Probabilmente aspettavo il suo ritorno per proporgli di accompagnarmi agli allenamenti giornalieri, ma dopo di quello dovetti cambiare i miei piani.

Trottava di qua e di là in maniera sconclusionata, con lo sguardo assorto in pensieri che solo la Dea conosceva.

Così feci la cosa più naturale che potevo, gli chiesi «Zio, che succede?», e lui mi rispose «Un casino, uno di quelli VERI!», o comunque qualcosa del genere. Gli chiesi di parlarmene, così forse avrei potuto aiutarlo, e lui – che ricordava il nostro recente battibecco – stavolta lo fece senza esitare un istante.

Del suo racconto ho finito per plasmare col tempo una sorta di rappresentazione personale di ciò che poteva essere successo. Ora non so se quello che sto per raccontarvi ha una qualche valenza nella realtà, ma i dialoghi sono autentici, o perlomeno, le informazioni contenute in essi (perché me li ripeté lui stesso poco tempo dopo, quindi so per certo che sono corretti!).

Se siete d’accordo, ho messo nero su bianco questa parte della storia, per essere sicuro di non trascurare niente. Da parte vostra, fate finta che tutto quello che vi leggerò da questo momento in poi, fino alla prossima pausa, sia l’avvenuta realtà. Ciò ci condurrà al momento topico della storia, quindi fate attenzione:

Dopo essere uscito dalla bottega di Malaika, a Brave Lion non restò altro da fare che tornare a casa con le scorte appena acquistate.

Sulla via incontrò Colton Nyx, che salutò cordialmente, malgrado gli attriti che dividevano i due.

«Non mi aspettavo di vederti da queste parti oggi.» Disse il borgomastro, restituendo al Cacciatore solo una cortesia di facciata.

«Mi conosci, non sono in grado di starmene fermo in un posto senza far niente, a dispetto di qualcuno di nostra conoscenza.»

«Ognuno ha il lavoro che si merita, Brave.» Controbatté fulmineo lo stallone dal manto onice. «Sai, mi domandavo se hai notato che ultimamente il tempo sembra essersi fatto particolarmente bello. Non lo trovi curioso?»

«Può darsi, forse la Dea è di buon umore questo mese.»

Il borgomastro abbozzò un finto sorriso, che non avrebbe ingannato nessuno. «Magari sta festeggiando la dipartita del Leviatano.»

All’affermazione, Brave Lion esitò. «Il Leviatano?»

«Beh, è da un po’ che non lo si vede in giro, e un animale come quello, insomma, non scompare facilmente.» Quindi strizzò gli occhi con atteggiamento sospetto. «Tu ne sai qualcosa, non è vero Brave?»

L’effetto della domanda fu lo stesso di un chiodo in una ferita, che inasprì l’animo del Cacciatore di mostri.

«Non saprei. Come hai detto tu, se fosse ancora nei paraggi sarebbe impossibile non vederlo. Dev’essere volato verso nord, magari ne risentiremo ancora parlare tra quindici anni.»

«Il tempo ce lo dirà, immagino.»

«E in effetti anch’io ora devo andare.» Si affrettò a dire. «Mio nipote mi aspetta a casa, dobbiamo proseguire gli allenamenti oggi.»

«Chi sono io per interferire con lo sviluppo delle nuove leve? Vai, vai pure e fammi sapere se scopri qualcosa.»

Il Cacciatore si girò, e a quel punto nulla gli avrebbe impedito di tornarsene verso la sua dimora e riprendere come se non fosse successo nulla.

Il borgomastro mantenne lo sguardo su di lui, ma sicuramente non lo avrebbe fermato. Niente sarebbe cambiato, se avessero deciso di agire così. Ma Brave ricordava la disputa con suo nipote, e di seguito anche le promesse che gli aveva sancito quel giorno; malgrado tutto, era un pony d’onore, e non sarebbe venuto meno alla parola data.

Cambiò la sua idea iniziale e fece ritorno dallo stallone onice. Questi non si era allontanato di un passo. «Ti va se la smettiamo di fare i puledrini e cominciamo a fare un discorso da adulti? »

Colton Nyx mostrò finalmente una reazione sincera, era sorpreso della decisione del pony. «Allora sei stato tu? Ci sei andato nonostante te l’avessi proibito?»

Brave Lion annuì contrito. «Non voglio giustificarmi per quello che ho fatto. Ho lasciato che il rancore prendesse le decisioni al posto mio, e mi sono lasciato trascinare dal momento. Ma è stato come se un pezzo di me sapesse che cosa stavo facendo. Lo sai? Spirit mi aveva accompagnato quel giorno, ma durante lo scontro ho fatto sì che stesse alla larga dal pericolo. È stata dura, ma alla fine sono riuscito a sconfiggerlo. Non sentiremo più parlare del Leviatano, da oggi in poi.»

Finito di parlare, se ne stette in silenzio, accettando con riluttanza il biasimo rivoltogli dal capomastro.

«Seguimi, Brave» Lui gli fece cenno, e insieme camminarono fino al porto, dove si fermarono a osservare a distanza di discrezione l’attività sui pontili.

«Apprezzo la tua sincerità, sul serio. Di questi tempi non è facile per me trovare qualcuno di cui mi possa fidare, e sono lieto che tu sia uno di loro.»

«Sei preso così male?» Domandò il Cacciatore, pensando così di scioglierlo un po’.

«Tu ci scherzi, ma io non la vedo con il tuo stesso spirito. Sì, è vero, potrei rinchiuderti in gabbia per quello che hai fatto. Con la morte del Leviatano forse hai condannato tutto il paese alla carestia. Non avrei nemmeno bisogno di prove per sistemarti, se volessi farlo.»

«E allora perché non lo fai?»

«Dovrei in effetti.» Rispose sospirando «Potrei metterti alla gogna e dire a tutti per quali colpe ti condanno, e godermi la reazione della gente quando sapranno che li hai rovinati. Ma sinceramente… »

«Sinceramente?»

«Il problema è che non c’è più un paese a cui rivolgersi, Brave. Certo una volta era diverso. C’erano contadini, artigiani, c’erano medici. Potevi uscire di casa e salutare con un cenno la massaia che stendeva il bucato; i puledrini correvano per le strade e tu dovevi rimproverarli di fare attenzione. Avevamo addirittura una piccola testata giornalistica! Lo sai che come primo lavoro a Capo Unicorn feci lo strillone?…»

Piccola precisazione, poi continuerò: questa cosa la appresi anni dopo la morte di Brave. Mi piace pensare che in un momento di condivisione il nostro borgomastro gli abbia rivelato questo piccolo particolare su di sé, ma proseguiamo.

«Ma adesso… » per un breve istante lo stallone onice guardò i marinai chiassosi sulle navi, e nitrì dolente «la brava gente di qui se ne va, e a noi ci tocca badare a questi ronzini. Sesso, alcol e razzie. Ecco quali sono i temi caldi della nuova Capo Unicorn. Ed io sono quello che ha lasciato che tutto ciò accadesse.»

Brave Lion guardò lo stallone con la coda dell’occhio, cogliendo le delusioni che si tracciarono sul suo viso. «Non è stata colpa tua, Colton.» Disse a bassa voce, e il borgomastro lo ascoltò taciturno «la verità è che questo posto stava andando allo sfascio da prima che arrivassimo noi. Uruma è sempre stata così, fa quello che vuole lei. E i pony, per abitarla, possono solo accettare di sottostare ai suoi vincoli.»

«Pena: il fallimento?»

Brave Lion scosse la testa. «Pena: la morte. È questa la filosofia dei Cacciatori. Viviamo per affrontare questa terra, e sappiamo che il giorno in cui falliremo, sarà il giorno in cui torneremo alla Dea.»

Colton Nyx, quindi, sbuffò di nuovo. Al contrario di Brave Lion, la sua storia sarebbe continuata ancora per diversi anni. Doveva accettarlo e abituarsi ai cambiamenti.

«Il tuo vecchio amico ti manda i suoi saluti.» Bofonchiò di sfuggita lo stallone onice, facendo per tornare in paese.

«Chi?»

«Quello con cui hai lavorato anni fa, e che poi è salpato dopo che siete tornati dalla Schiena. Vi siete già incontrati se non sbaglio. Pony di terra, manto giallo. È arrivato con un galeone due settimane fa.»

Brave Lion aggrottò la fronte. «Credevo che fosse ripartito da un pezzo!»

«Tutt’altro. È rimasto qui per alcuni giorni e per tutto il tempo non ha fatto che rompere le scatole ai bottegai. Credo che si stesse preparando per un viaggio importante. Ora ricordo! Mi ha detto di dirti che “La sua proposta è ancora valida”. Mi ha detto che avresti capito, di più però non so dirti». Mentre attendeva la sua risposta, notò due cose: la prima fu che Brave Lion sbiancò di colpo, quasi che il suo manto avesse perso colore, la seconda, che d’improvviso sembrò avere una gran fretta di andare da qualche parte.

«È partito due giorni fa. Chissà, forse fai ancora in tempo a raggiungerlo, se ti affretti… » aggiunse, sperando così di potergli essere d’aiuto.

«Grazie.» Si limitò ad esclamare il Cacciatore, tenendo però dentro di sé la maggior parte delle emozioni.

Dopo quell’annuncio, i due si separarono.

Brave Lion galoppò di gran carriera verso le varie botteghe. Dalle domande che fece a ciascuno degli esercenti, apprese che il pony di terra aveva acquistato un quantitativo considerevole di pozioni curative, veleni e altri impiastri dalla bottega di Malaika; da Cuttersmith scoprì che ne era uscito con diverse attrezzature fatte apposta per combattimenti privi di magia, più una scorta di coltelli da lancio, sufficienti per abbattere il volo uno stormo medio di Skinflai; infine, Dirty Rag gli rivelò che nel corso di quelle giornate lo stallone era uscito più volte dalla stanzetta che aveva affittato al Brocco Randagio, portando con sé di volta in volta le attrezzature che acquistava. Solo due giorni prima, così come dichiarato da Colton, aveva restituito la chiave e saldato il debito residuo assicurando che da quel momento poteva liberare la stanza.

A quel punto Brave Lion non aveva più dubbi su quali fossero le intenzioni del suo ex-collega. Uscì dalla città e corse a tutta lena fino a casa, dove lo attendevo io, e dove adesso riprenderemo alla maniera tradizionale ciò che ci rimane del racconto.

Parte di quello che vi ho letto mi fu ripetuto da lui dopo il suo ritorno. Il resto lo appresi nei giorni seguenti, quando per passare il tempo, ci facevamo compagnia parlando di questo e tant’altro.

Ma torniamo all’inizio, quando lui era appena rientrato alla baracca.

«Un casino!» continuava a ripetere, e dal suo modo di fare capii che era indeciso sul come comportarsi. Doveva corrergli dietro (al pony di terra) e tentare di fermarlo, oppure lasciarlo andare, lasciando che se la vedesse da solo con i guai che lo attendevano?

Come già vi dissi prima, sospettavo che Brave Lion non era stato del tutto sincero quel giorno di due settimane prima, e ora quel piccolo dubbio era tornato ad incalzare proprio come allora.

Mi guardò con occhi angosciati, che supplicavano sostegno. Non sembrava nemmeno “Brave Lion, che sconfisse il Leviatano tutto da solo”. Era invece, “Brave Lion della Schiena del Drago”, terrorizzato da un segreto che solo lui conosceva. «Non so che fare, Spirit.» Mi ripeté di nuovo «Capisci che lui era stato il mio fedele compagno, proprio come ora lo sei te? Lui era la mia famiglia, proprio come ora lo sei te!»

Non posso biasimarlo, probabilmente anch’io mi sarei comportato così se avessi saputo per tempo a cosa saremmo andati in contro. Ma allora avevo con me solo la fiducia che riponevo in lui. Forse non come pony, ok, ma come Cacciatore, Dea Santissima, era pur sempre il Grande Cacciatore Brave Lion!

Sapere di avere lui al mio fianco mi faceva sentire come se nessuna minaccia al mondo potesse rappresentare un problema per noi, e se quindi da me voleva solo il mio sostegno, Dea Santissima, avrei fatto qualsiasi cosa per farglielo avere!

Andai da lui, lo colpii delicatamente con lo zoccolo – un gesto molto affettuoso – e una volta fatto questo gli ricordai una frase sentita qualche anno prima, e che aveva pronunciato lui stesso: «Una volta mi avevi detto che i Cacciatori devono stare in prima linea» lui mi guardò ed ascoltò con attenzione «non è importante chi di noi vivrà e chi morirà. Se ci sono dei pony da difendere… o anche muli, o mucche… abbiamo il dovere di proteggerli!»

Mi rivolse uno sguardo i cui occhi erano lucidi e tremavano da dentro le cavità. In effetti anch’io fui sorpreso dalle parole che pronunciai.

«Quello che ci aspetta laggiù è diverso, ragazzo. Ce la seria probabilità che da questo viaggio non torneremmo mai più. Io sarei anche pronto a morire, se è così che la Dea vorrà, ma tu?»

Internamente deglutii un quantitativo impressionante di bava, ma da fuori feci lo sforzo di non darlo a vedere. «Guardami le spalle, Zio!» Gli dissi, mettendomi in posizione eretta, sguardo fisso sul suo.

«E tu le guarderai a me… » completò lui, da prima mostrandosi indeciso, ma quando gli vidi incurvare le labbra in un solido sorriso, capii di averlo convinto del tutto. «È deciso! Andiamo a recuperare quell’imbecille!»

«E poi ce ne torneremo a casa?»

«Sì cazzo, e fanculo questo cesso di posto!» Esclamò. «Appena torniamo, prendiamo le nostre cose e ce andiamo, fanculo Uruma, fanculo ‘sto schifo!»

«Sìì cazzo!!» Sbattei le ali per la gioia, e per un momento riuscii quasi a sorreggermi in volo.

Questo… a modo suo, è stato il momento più bello che trascorsi con lui…

Trovammo tracce del nostro stallone durante le prime ore del viaggio. Si facevano più o meno nitide a seconda della composizione del terreno, ma anche così, studiandole attentamente, mio Zio era in grado di constatare che il pony aveva trottato con un’andatura regolare e spedita.

Aveva decisamente fretta di arrivare a destinazione, e non sembrava particolarmente disposto a farsi raggiungere, malgrado in principio avesse dichiarato l’esatto contrario. Anzi, secondo Brave cercava in tutti i modi di nascondere il suo passaggio. Forse, alla fine, aveva intuito che non lo avremmo lasciato proseguire, qualora lo avessimo raggiunto, e allora aveva cercato di confonderci.

In diverse occasioni incontrammo piste sbagliate e svolte che lui stesso aveva preso per depistarci, camminando poi a ritroso sulle sue stesse impronte.

In certi punti, addirittura, svanivano del tutto, e non potevamo capire se avesse guadato la Lacrima del Drago, oppure se aveva trovato altri metodi per nascondere il suo passaggio.

In ciascuno dei casi, non aveva importanza ciò che faceva, e anzi, la cosa andava a nostro favore. Mio Zio sapeva che la sua meta finale era quel punto preciso tra le montagne della Schiena del Drago, dove quindici anni prima le loro strade si erano divise. Lo stallone giallo avrebbe anche potuto ricorrere ai metodi più raffinati per portarci sulla strada sbagliata, ma alla fine avrebbe solo accorciato il distacco che lo divideva da noi.

Marciammo per due giorni e mezzo, durante i quali coprimmo la distanza che ci separava dalla nostra destinazione in metà del tempo che avrebbe richiesto di solito.

Per essere più precisi, la mattina del giorno seguente alla partenza, eravamo arrivati alla Gola del Mostro Titano, e lì fui ghermito da un senso di déjà vu, che riguardava la battaglia tenutasi con il Leviatano, la metà di un mese prima; il suo cadavere giaceva come lo avevamo lasciato allora, in stato di decomposizione e liberando nell’aria una cortina di gas venefici. Quella fu senz’altro la parte più sgradevole del viaggio, e l’unica in cui ci trovammo costretti a interrompere il nostro regolare ritmo per prendere le distanze dal fiume.

Era veramente insopportabile quell’odore, difatti nella zona non ci fu traccia degli Skinflai più piccoli, che sarebbero riapparsi in piccoli stormi solo dopo che il cadavere si sarebbe ridotto a un cumulo di ossa.

Per cercare di muoverci quanto più velocemente possibile, facemmo veramente poche pause durante il viaggio. Di solito marciavamo per tutto il giorno consumando i nostri pasti in movimento. Se dovevamo bere, avevamo alla nostra sinistra la Lacrima del Drago, e per bisogni più impellenti, lasciavamo semplicemente che uno si distanziasse dall’altro, per quindi espletare…

Non so perché ve l’ho detto…

Ok, comunque… dormimmo solo poche ore per notte, durante le quali ci dividemmo in due turni di guardia, fino a quando la Dea non avesse deciso di levare sull’orizzonte i primi sfavilli del sole, quindi riprendevamo.

Arrivati al tardo pomeriggio del primo giorno completo, capimmo che oramai non c’era più speranza di trovare lo stallone. Mio Zio contava sul fatto che la nostra velocità ci avrebbe permesso di ridurre la distanza tra noi, ma arrivati a quel punto, sapevamo che anche volendolo con tutte le nostre forze, non saremmo mai riusciti a raggiungerlo in tempo.

Di galoppare non se ne poteva nemmeno parlare. Già a quel punto eravamo provati ed eravamo a poco più di metà del viaggio, e anche se io stavo tenendo duro cercando di fare PIÙ di quanto Brave Lion si sarebbe aspettato da me, le difficoltà che ci attendevano alla Schiena – secondo lui – non avremmo dovuto affrontarle con il fisico prostrato dal viaggio.

Così, di comune accordo, decidemmo di continuare mantenendo un ritmo più equilibrato, senza affaticarci più del necessario.

Parlare con mio Zio fu molto piacevole quei giorni. Lui rispondeva alle mie domande ed era disponibile a darmi spiegazioni, ma non gli chiesi nulla sulla Schiena del Drago o sulla Green Blade, né sulla cicatrice. Ero convinto che a queste domande avrei trovato una risposta una volta arrivati a destinazione, e temevo di spezzare quel clima idilliaco qualora mi fossi spinto troppo in là del famigerato muro.

Programmammo le ore di riposo e il ritmo di traversata in relazione alla strada che ci mancava, in modo che alla fine potessimo giungere alle montagne con il favore della luce.

Per la prima volta in vita mia, avevo modo di vedere da vicino come fosse la Schiena del Drago. Era nettamente diversa da come me la immaginavo: tra le vette più alte era nascosto un paesaggio fatto di asperità di ogni tipo, punte rocciose che s’innalzavano da terra come se volessero toccare il cielo. Capivo perché i pony avessero deciso di chiamare quel posto così, sembrava davvero di trovarsi sul dorso di un enorme dragone addormentato.

Quando entrammo nel territorio, e quindi circondati da cunei e speroni rocciosi, Brave si fermò e mi disse che potevo riposarmi, lui nel frattempo usò le calzature per il galoppo verticale per salire su una ripida parete e studiare il paesaggio dall’alto.

Non gli ci volle molto, e infatti quando scese stavo a malapena riprendendo il fiato dal viaggio.

«Da questa parte.» Disse con aria ansiosa, e allora ci addentrammo più a fondo in quel labirinto roccioso.

C’erano delle ossa di pony, ma prima di allarmarvi, vi dico subito che non appartenevano al nostro Cacciatore. Erano pallide e levigate, totalmente prive di carne, e prova che si trovavano lì da molto tempo (trenta o quarant’anni, a giudicare dalle condizioni dei pochi rimasugli di tessuto che gli restavano attaccati). Avevamo scoperto uno dei tanti viaggiatori che avevano trovato la morte dopo essersi avventurati in quel territorio sperduto. Lo scheletro aveva delle ali, ma Brave mi fece subito notare che le ossa erano crepate, e che dal modo in cui l’omero era spezzato, la frattura doveva essere avvenuta prima della morte (e probabilmente era stato proprio questo a impedire la fuga al povero bastardo). Non ci era stato possibile identificare chi poteva essere in vita, e per giunta non avevamo tempo da dedicargli.

Lo lasciammo lì, a rimuginare per l’eternità sui suoi errori.

Stavamo ancora marciando, quando notai qualcosa di particolare incastonato tra due sassi. Subito chiamai mio Zio.

Ci fermammo entrambi a esaminarla, e cosa scoprimmo? Che era uno dei pugnali da lancio in possesso del pony terrestre. Lo si capiva di certo, poiché la lama – al contrario dello scheletro di poco prima – era chiaramente nuova e ancora lucida, priva di scalfitture, con i bordi che non presentavano segni di usura del tempo.

«Probabilmente gli è caduto dalla cintura.» Suppose Brave, mentre nel frattempo – notai – si guardava intorno, costantemente in allerta.

«Credi che ce la faremo a trovarlo?» Chiesi invece io.

«Dipende se lui vuole farsi trovare da noi.»

Stavo per chiedergli se avesse qualcosa in mente, quando lo vidi estrarre dal mantello una Rosa della Vittoria. Non provai nemmeno a pormi il problema di come avesse fatto ad averla.

La lanciò in cielo e quindi aspettammo che svolgesse il suo compito.

«Adesso sa che stiamo arrivando.» Spiegò. «Spero per lui che non abbia voglia di giocare a nascondino.»

Proseguendo, notai che mio Zio sapeva esattamente come muoversi. Conosceva i sentieri più praticabili, prendendo le direzioni sicuro di sé, e ogni tanto si fermava solamente per verificare se c’erano segni lasciati sul terreno, degli indizi del passaggio dello stallone giallo, o se invece si trattava dell’opera di qualche creatura. Ma non era mai così, non c’erano tracce di altre creature, non un nido d’uccello, né un piccolo mammifero, o qualche animale comparabile al tipico bestiario di Uruma. Per la verità non c’erano neppure piante, a parte qualche ciuffo d’erba qui e lì che andava bene come stuzzichino per distrarsi mentre trottavamo.

Ciò ci portò al passo successivo, quando trovammo una pista d’impronte di zoccoli fresca. Si vedeva come il contorno delle zampe avesse scavato nel terriccio riarso, segno che chiunque le aveva fatte (e le circostanze auspicavano al nostro stallone) si era messo a correre a perdita di fiato, inseguendo (o inseguito da) qualcosa. Il “cosa” lo avrei scoperto tra non molto.

Scendemmo in un breve avvallamento.

Se prima eravamo leggermente in apprensione, ora eravamo agitati. Le impronte erano diventate un’ampia striscia di terreno, dove il pony, discendendolo, doveva probabilmente aver perso stabilità ed essere rotolato giù in modo brusco.

Vidi Brave che tremava sotto il manto, nonostante s’impuntasse di sembrare impavido e coraggioso come sempre.

Lo chiamai per sincerarmi del suo stato.

«Siamo vicini al punto in cui c’eravamo separati quindici anni fa.» Spiegò, con la voce che a malapena riusciva a non vacillare, e poi: «Laggiù, oltre quel costone, è dove mi sono allontanato da lui.»

Scendemmo giù a passo lento, stando attenti a non ripetere l’esperienza del fuggiasco.

Il cuore di entrambi si fermò, quando scorgemmo delle macchie di sangue secco che rigavano la terra sotto alle nostre zampe, e che seguivano come un’inquietante ombra le tracce del pony.

Ma non erano solo queste a inquietarci: qualcosa di più grande aveva lasciato segni del suo passaggio in quella valle; una serie d’impronte enormi, della taglia di un Rogueshar direi io, circoscritte in quei dintorni. Come se chi le avesse lasciate fosse piombato dal cielo, oppure chissà… comparso dal nulla?

Io e mio Zio ci guardammo a vicenda. Poi ci fu dell’altro.

A distanza di trenta zoccoli dietro una formazione rocciosa c’era qualcosa, a malapena visibile, che sporgeva da un lato.

«Resta qui.» Mi disse Brave, costringendomi a stare fermo a guardarlo, mentre si avvicinava lento e rigido alla cosa che sporgeva.

Era lui, era il nostro pony di terra, l’ex-commilitone e vecchio e caro amico di mio Zio.

Io… non vidi subito ciò che invece vide Brave, il mio turno sarebbe arrivato più tardi, quando una circostanza particolare mi avrebbe costretto a doverlo fare.

Comunque sia, eviterò di descrivervi in che condizioni vessava il corpo. Mi limito a spiegarvi che qualcosa aveva combinato lo scempio con il suo cadavere. Non un altro equino, non la conseguenza di una qualche sventura, ma bensì un animale che, dalla ferocia con cui si era accanito, doveva sprizzare puro odio da tutte le parti… ammesso e non concesso che questa cosa ce l’avesse un naso. Non so che cosa poteva essere stato, ma nessun predatore mostrava mai tanto risentimento verso gli altri esseri viventi. Gli Shar, i Gor, i Tygrus, loro uccidono per mangiare, la loro natura li spinge a comportarsi così per sopravvivere, ma non si sarebbero mai accaniti deliberatamente per far soffrire la loro vittima. Questa cosa invece, beh, sembrava proprio non avesse puntato ad altro che a fare del male al nostro pony.

Era ciò che terrorizzava mio Zio? Ora capivo perché avesse tanta paura di tornare sulla Schiena.

Non disse una parola mentre gli occhi si fissavano sul suo vecchio amico, non un’emozione sul suo viso freddo, neppure quando lo chiamai per vedere come avrebbe reagito.

Chi lo sa che cosa stava pensando in quel momento.

A un certo punto fece qualcosa di inaspettato, si sfilò il suo mantello e lo usò per coprire il corpo. Non so cosa significasse esattamente quel gesto, ma doveva essere importante. Voi direste che l’avrà soltanto usato solo per coprirlo? Io non ne sarei così sicuro invece. Secondo me doveva significare qualcos’altro. Forse dietro quel mantello c’era una storia che non conoscevo?

Ad ogni modo, dopo di questo si piegò sulle ginocchia in silenzio, e si mise a fare qualcosa che io interpretai come una preghiera.

Mi sembrò sbagliato rimanere lì a fissarlo, così decisi di fare un giro dei dintorni, aspettando che finisse.

“Non mi sarei allontanato più di tanto” dissi a me stesso.

Camminavo bipede, la mia attrezzatura da combattimento sguainata. Ero pronto a reagire se la situazione me l’avesse richiesto, ma speravo in cuor mio di poterlo evitare. Che speranze avrei potuto avere contro un nemico che a quanto pareva, neppure Brave Lion aveva il coraggio di affrontare?

Poi a un tratto, la mia attenzione fu richiamata da un fruscio che mi mise in allerta. Mi voltai verso la sorgente del suono, e fu allora che mi accorsi che qualcosa di piccolo mi stava osservando da dietro le rocce.

Prudentemente, con molta attenzione mi avvicinai, le lame puntata in avanti in posizione di guardia. Ma prima che potessi avvicinarmi abbastanza, la piccola cosa sgattaiolò via impedendomi di esaminarne anche di poco le forme.

Un po’ ingenuamente le gridai «Aspetta!», e mi lanciai al suo inseguimento.

Era stato molto poco prudente da parte mia, ma non credevo che quella piccola creaturina potesse mai essere stata la responsabile del ponycidio dello stallone giallo (almeno sulla base della taglia delle impronte che avevamo trovato). E poi ero troppo curioso di vedere quella cosa da vicino. Non avevo mai visto niente di simile, su questo ne avevo la certezza assoluta!

La seguii fino a quando non la bloccai in una gola cieca, circondata da alti scogli, dove la creatura si nascose nello spazio tra alcuni massi rotondi. Non sarebbe mai riuscita ad uscire da lì, pensai.

Allora mi mossi con calma. Prima di tutto tirai in dentro le lame, e mi misi a quattro zampe gattonando quatto quatto verso di essa. Le parlai, come penso si farebbe ad un cucciolo spaventato, pensando di convincerla in questo modo a fidarsi di me (posto che non fosse essa stessa la minaccia).

La creatura cacciò fuori la testa dal suo nascondiglio e mi guardò, poi si nascose di nuovo, e poco dopo ci riprovò. Non mi ero mosso di un solo centimetro mentre questo succedeva.

Quando la sua testa fece capolino la seconda volta, potei esaminare poco meglio com’era fatta. Un corpo stranissimo, vi dirò, che assomigliava a tante cose diverse e allo stesso tempo a nessuna.

Ma no, non era una chimera. Non mi riferisco a specifiche parti di animale assemblate insieme in un corpo condiviso. Sembrava piuttosto un ibrido a livello evolutivo, un animale adattatosi per apparire bizzarro agli occhi di chi lo guarda.

Aveva grandi occhi e una testa simile a un puledrino, ma senza pelliccia. Era poco più bassa di me, e sembrava a sua volta giovane, date le proporzioni della testa rispetto al corpo. E che altro? A un certo punto emerse leggermente di fuori dal rifugio, e allora vidi le zampe e capii che non poteva essere una mutazione: erano composte e segmentate come quelle degli insetti. Eppure non erano zampe da insetto, non vi saprei proprio dire di che genere di animale fosse.

Le dissi qualcosa sperando così di allacciarvi un contatto. Non mi sembrò una creatura tipica di Uruma, i suoi occhi erano molto fluidi e vivaci, ed erano a dir poco espressivi, pur appartenendo a una bestia selvatica. Ciò le conferiva un’aria molto acuta, e non escludo che fosse pure dotata d’intelletto (per questo provai a parlarci).

Stavo per fare qualcos’altro, forse cercare di toccarla, e credo che pure la creatura stesse per fare altrettanto, quando la voce di mio Zio mi fece arretrate.

«Allontanati subito!!» Gridò a squarciagola, e quando mi girai, lo vidi lanciarmi contro la Green Blade.

Fu così veloce il suo gesto, così rapido, che se anche fossi stato preparato a evitarlo, non avrei potuto fare nulla per deviarne la traiettoria. Ma la Green Blade – mi accorsi dopo – non voleva me. Certo mi passò a un tiro di schioppo dalla spalla, ma questo, se vogliamo, poteva essere imputabile a me, che tentai inutilmente di farmi da parte.

Allora sentii uno strillo, e girandomi vidi che la lama aveva mozzato con un taglio netto e preciso una delle zampe anteriori dell’animaletto. Questi corse subito dietro le pietre, dove teneva il nascondiglio, e mio Zio rincarò poi la dose lanciandogli addosso una mitragliata di Colpi Magici Dirompenti, che finirono per sbriciolare le rocce (alcuni frammenti colpirono anche me) e sollevare per aria un cumulo di polvere che per un po’ m’impedì di vedere le conseguenze della sua azione.

Aspettammo in silenzio che il pulviscolo si disperdesse.

Ora al posto delle rocce c’era solo un cratere e qualche piccolo cumulo di pietruzze. Fino a poco prima mi sarei aspettato di trovarmi a quel punto una carcassa carbonizzata e probabilmente fatta a pezzi dai colpi magici, invece non ci fu proprio nulla (a parte, questo sì, ciò che restava della zampetta dell’esserino).

Era svanito nel nulla, così come hanno dimostrato di saper fare le altre forme di vita di Uruma.

«Dannazione, Dea lo maledica, dannazione!!» Mio Zio imprecò furiosamente, pestando il terreno con le zampe.

Richiamò a sé la Green Blade e quindi, subito, mi disse che dovevamo andarcene. Me lo impose. «Muovi il sedere, corri!»

Lo seguii.

Certo, mi fidavo di lui, considerando ciò che aveva passato (e ciò che avevamo trovato dentro quella vallata), e se era giunto alla conclusione che quello strano animale rappresentasse una minaccia che richiedesse un uso così massiccio della magia per essere annientata, allora dovevo prendere per buone le sue azioni e prestargli il beneficio del dubbio.

Ma se di dubbio vogliamo proprio parlare, che cos’era quell’essere? E perché Brave Lion si era scaldato così tanto non appena lo aveva visto? “Non sarà stato lui ad averlo quasi ammazzato quindic’anni prima?” Mi domandai correndo. No, non poteva esserlo, non con quelle enormi tracce, almeno. “A meno che non sia stata la sua Mamma a farlo. In fondo quell’essere sembrava un cucciolo, no?”

Abbiate pazienza ancora per un po’, che tra poco ci arriviamo.

«Da adesso in poi, ti proibisco di allontanarti da me. Almeno finché non saremo fuori dalla Schiena. Sempre insieme, ricordi?»

Io annuii, in silenzio e frastornato.

Sebbene accettassi tutto ciò che mi succedeva intorno, dentro di me uno stallone imbizzarrito stava scalciando nel suo recinto per liberarsi.

Risposte, volevo delle cazzo di risposte!

Volete scusarmi un minuto? Mi… mi serve una pausa. Devo riordinare le idee.

Allora, siete pronti? Riprendiamo da qui:

A quel punto non era più importante cosa eravamo andati a fare alla Schiena del Drago. Il pony che cercavamo era morto, e quindi la nostra “missione” era da considerarsi fallita e stracciata.

Iniziammo a galoppare di gran fretta, o sarebbe meglio dire, correvo ansimando, mentre mio Zio galoppava come un ratto in fuga.

Mentre gli chiedevo, con la bocca impastata, «ti prego, rallenta!», lui mi faceva intendere che non aveva alcuna intenzione di farlo, e che anzi avrei dovuto allungare le falcate. Dovetti farlo per forza, richiamare a me il ricordo di tutte le volte che avevamo corso insieme per allenarci.

Se anche avessi voluto porgli delle nuove domande, non sarei riuscito in quelle condizioni a mettere insieme neanche una frase.

Stavamo per allontanarci dalla zona, quando udimmo entrambi un suono, non poi così distante: un verso prodotto da un essere vivente. Qualcosa di veramente gigantesco, perché l’eco inondò tutto territorio, rimbalzando tra le montagne per poi giungere, alla fine del viaggio, nelle nostre orecchie. Se dovessi descriverlo, direi che era molto acuto e con delle modulazioni metalliche.

Conoscete qualche creatura che fa versi del genere? No, eh?

Mio Zio si stoppò, ed io per poco non gli andai a sbattere contro.

Ricordo che lo guardai negli occhi, e vidi che le sue pupille si erano ristrette. Dalla bocca spalancata non stava emettendo neppure un fiato.

Scrutai insieme a lui il paesaggio. Non vi saprei dire se c’era qualcosa, non so se stava udendo dei passi, o se invece aveva riconosciuto – in qualche modo che solo lui sapeva – l’avvicinarsi dell’ entità ignota.

Avevo il respiro affannato e tutta la mia attenzione era occupata da quello.

«Spirit» bisbigliò coi nervi a fior di pelle «ora ti chiederò due cose. Quando avrò finito, devi assicurarmi che manterrai la promessa!»

«Zio?» Lo interpellai, ma la mia voce, apparentemente, non arrivò alle sue orecchie.

«Promettimelo!» Lui incalzò, e allora che altro potevo fare io, se non fare un cenno e rispondere: «S-sì, lo prometto…»

Il suo corno si circondò di magia, e quindi avvolse anche me sollevandomi da terra.

«Prima richiesta: giurami che farai di tutto per restare al sicuro. Sfrutterai le conoscenze che ti ho donato per sopravvivere, e non ti farai schiacciare dalle minacce che incontrerai. Giuramelo!»

«Sì, sì lo giuro! Combatterò, non deluderò le tue aspettative!»

Quando gli risposi, lui mi regalò un sorriso meraviglioso.

«Lo so che lo farai. Sei un bravo nipote.» Poi si acquietò, allarmato dal rumore di qualcosa che stava caricando verso di noi, qualcosa che io non riuscii a vedere.

«La seconda promessa che mi devi fare, piccoletto… è che volerai.»

Ogni cosa nella mia testa si arrestò in quell’attimo, e con la voce del pensiero chiesi a me stesso: “Aspetta, che cosa?!”

«VOLA, SPIRIT, VOLA COME NON HAI MAI VOLATO IN TUTTA LA TUA VITA!!»

E quando terminò di dirmi questo, prima che potessi obbiettare, mi lanciò per aria spedendomi lontano. Attraverso il vuoto dei cieli della Schiena.

Così di fretta e senza alcun preavviso…

Gridai «NOO!» con tutto il fiato che tenevo nei polmoni.

Per un po’ mi ritrovai tutto in subbuglio, ruotando su me stesso senza essere in grado di trovare una stabilità, ma poi compresi che stavo via via perdendo quota, e che la spinta della catapulta magica si era ormai esaurita. Stavo precipitando!

Guidato dall’istinto, spalancai le ali, e cercai di sbatacchiarle per riprendere il controllo della discesa, ma il problema era un altro: non sapevo come sfruttare le correnti del vento, e anche se lo avessi saputo, in ogni caso non sarei mai riuscito a volare come avrei dovuto!

Così la mia azione si limitò a un disperato tentativo di planare, nel quale mi prese pure il dubbio che forse, agitandomi, avrei solo accelerando la velocità con cui scendevo. Rimpiansi come non mai di non avere già brevettato l’Attrezzatura per le Planate. Quel giorno mi sarebbe stato molto utile. Forse avrebbe pure cambiato il corso degli eventi.

Ma no, invece non potevo fare niente. Potevo solo precipitare e cercare di rallentare la discesa attutendo la velocità. Erano così sotto sforzo i miei muscoli, e così fuori allenamento per giunta, che non me lo spiego come non si siano strappati per lo sforzo.

Dopo un po’ ottenni quel tanto di bilanciamento che mi serviva per schiarirmi le idee e mettere a fuoco, per lo meno, l’area sotto di me in cui alla fine mi sarei schiantato.

Sapevo che mi sarei fatto male ancora prima che succedesse, e temevo che dall’impatto non ne sarei uscito vivo. Le mie ali ronzavano disperate, come quelle di una mosca che si mette in salvo dopo essere miracolosamente scampata a un tentativo di schiacciarla.

Chissà che sarebbe successo una volta toccato terra? Che sensazioni avrei provato? E che cosa avrei fatto poi? Ma poi, era mai giusto che queste domande dovessero scaturire proprio dalla mente di un pegaso? Che fine di merda sarebbe mai stata quella del “pony alato che perde la vita cadendo”? Potrei raccontarla a qualche fesso pirata al Brocco Randagio, e probabilmente lo farei smascellare dalle risate. Allo scheletro del pony morto, incontrato poco prima, non avrebbe certo dispiaciuto avere un po’ di compagnia.

Ora, non ha senso che la tiri per le lunghe, tanto lo sapete com’è andata a finire. Sono ancora qui, no?

Alla fine, come potete immaginare, la mia faccia incontrò il suolo roccioso.

Le ali sfibrate e ormai in fiamme avevano rallentato la caduta quel tanto che bastava per salvarmi la pelle e impedirmi di restare paraplegico a vita, ma di quello che successe quando smisi di cadere, ricordo solo vagamente il flash che precedette l’impatto, e il buio assoluto che seguì subito dopo.


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Capitolo 7
*** EPILOGO - PASSATO: Catene ***


EPILOGO – PASSATO

Catene

Mi svegliai con un gran mal di testa e metà del viso impregnato da qualcosa di appiccicoso. Alzandomi di poco, vidi una chiazza rossa nel punto in cui la mia guancia destra si era appoggiata al terreno. Mi ci volle poco per capire che quel sangue era mio e che mi era uscito da una ferita sulla fronte (un po’ come quella di mio Zio, capite che cosa intendevo prima?).

Tuttavia me ne dimenticai quasi subito, perché non appena la nebbia del risveglio si era allontanata, mi accorsi che per giunta avevo una frattura alla zampa anteriore (la destra). L’osso dello stinco si era rotto ed era uscito dalla sua collocazione, ma per fortuna non dalla carne. Non ce l’avrei mai fatta, altrimenti, se avessi dovuto combattere anche contro un’emorragia.

Nel mezzo del dolore che stavo provando, cercai di capire quanto tempo fosse trascorso da che persi coscienza, guardai in alto in cerca del sole, ma sinceramente non ricordavo in quale posizione si trovasse prima di svenire.

Questo però mi fece ricordare di mio Zio, che era chissà dove ad affrontare l’entità.

Ribadisco una cosa: ero tramortito, con in testa mille sensazioni diverse e nessuna delle quali piacevole, per questo non ero in grado di trarre le dovute conclusioni su cosa fosse successo. Sapevo che mio Zio mi aveva allontanato dallo scontro per risparmiarmi dal combattere, ma poi?

Avevo una grande confusione in testa. Era come se il ricordo della battaglia contro il Leviatano si fosse sostituito ai fatti di quel giorno, e pensai che se fossi tornato sui miei passi, avrei trovato Brave Lion intento ad aspettarmi in cima al corpo dell’entità, fiero del suo ultimo successo.

Avevo riconosciuto il paesaggio che mi circondava, perché mio Zio, nella sua scelleratezza, era stato abbastanza saggio da scaraventarmi proprio sulla stessa via che avevamo percorso all’andata, così pensai di riprendere il sentiero e raggiungerlo.

Liberai la zampa fratturata da una parte dell’attrezzatura da combattimento, tenendo solo la lama sinistra con me. Per facilitarmi nello spostamento, sfruttai la mia abilità tutta speciale di deambulare su due zampe e mi misi in cammino. Sarebbe stato un vero casino, altrimenti, se avessi dovuto attraversare quelle asperità rocciose su sole tre zampe.

Man mano che procedevo (non dovevo essere poi così distante da dove ci dividemmo), iniziai pian piano a riordinare parte dei fatti. Ora che avevo compreso ciò che aveva fatto Brave, beh, ero incazzato come non lo ero mai stato. Mi aveva fregato per l’ennesima volta, dimostrando quanto poco in verità si fidasse di me.

Il che era illogico, a pensarci un momento. Ero io quello che doveva essere diffidente, quello che non doveva dare retta alle sue promesse! Invece, come un povero mulo ingenuo, non facevo che dire “sì” ad ogni suo delirio, consentendogli di farsi beffe di me ogni volta che gli girava!

“Oh ma questa volta gliel’avrei fatta vedere!” pensai.

Gli avrei lasciato aggiustarmi la zampa, mi sarei fatto bastare che l’osso ritornasse alla sua collocazione originale (e delle eventuali ripercussioni postume me ne sarei occupato poi), e a quel punto, costasse quel che costasse, se anche la Dea stessa fosse scesa in campo per cercare di fermarmi, io lo avrei affrontato!

Ma ero arrivato in ritardo, ormai non c’era più nessuno su cui potessi accanirmi…

Prima di tutto tornai alla vallata e mi affacciai dal costone. Non c’era nulla di diverso a dispetto di come l’avevamo lasciata. C’erano, al più, le tracce lasciate da noi.

Scesi con attenzione, cercando di non sbilanciarmi, ed osai pure avvicinarmi al corpo del Cacciatore morto, che una probabile folata di vento aveva in parte scoperto dal mantello esponendone alcune parti, così che potei vedere con i miei occhi ciò che gli era successo.

Non fu un bello spettacolo. Un conato di vomito mi suggerì che forse era un buon momento per fare la femminuccia, ma lo respinsi con vigore. Allora cercai le tracce della nostra fuga, e provai a ripercorrerle sperando di trovare mio Zio (e a non incappare nell’entità).

Ci volle un po’. Non mi resi conto di quanto c’eravamo distanziati finché non mi ero messo a ripercorrere quella stessa strada.

Mi arrestai quando mi sembrò di essere ritornato nel punto in cui – allo stesso modo – c’eravamo fermati io e lui.

Non cercai tracce del passaggio dell’entità (anche se ce n’erano, i miei occhi le vedevano, ma non il mio cervello), invece, chiamai a gran voce mio Zio.

Una volta, e poi anche un’altra, ma l’eco che si ripeteva per tre-quattro volte dopo ogni mio richiamo mi suggerì che Brave Lion non era il solo che li avrebbe potuti udire.

Il problema principale era la conformazione del terreno, che con le sue scaglie di roccia appuntita non mi consentiva di vedere al di là di brevi distanze, e che quindi mi costrinse a muovermi per tentativi, sperando di non perdere la via.

Il silenzio tutt’intorno mi provocava più dolore mentale di quanto non ne facesse quello fisico alla zampa, e a esso si stava per aggiungere quello emotivo…

Trovai mio Zio a qualche decina di zoccoli più in là.

Può sembrare strano che non l’abbia visto da lontano, ma il fatto fu che la mia stessa mente non era pronta ad accettare una realtà in cui Brave Lion potesse presentarsi in quello stato…

Aveva combattuto contro l’entità, ed aveva… no, scusatemi… posso fare di meglio…

Prima gli corsi incontro, quando capii che era lui quello che giaceva in quella posizione.

Gli presi la testa tra le zampe e tentai di sollevargliela. Il mio braccio smise di essere un problema quando costatai le ferite che aveva riportato sul corpo.

Tumefazioni, gonfiori ed ecchimosi erano solo la facciata di ciò che aveva subito; mi bastò toccarlo un po’ per scoprire che probabilmente non aveva un solo osso integro. La faccia contorta in una smorfia, che mi risparmiò, per lo meno, l’orrore di osservargli gli occhi, che erano nascosti dietro le palpebre.

Fui davvero fortunato a non vederlo conciato allo stesso modo dell’ex-collega. Brave Lion, almeno, aveva dimostrato fino all’ultimo di che pasta era fatto. Forse era persino riuscito a ferire il mostro… forse perfino a ucciderlo, anche se non vedevo il cadavere.

Comunque sia, in quel momento non m’importò di niente.

Pensavo soltanto a gridare il suo nome, e a supplicarlo di svegliarsi. Lo scuotevo ripetutamente, ascoltando senza volerlo le sue ossa scricchiolare da dentro il corpo.

Poi gli aluscut… auscul… come si dice?! Va beh, provai a sentire se il cuore gli batteva ancora, o se stesse respirando, ma non ebbi notizia né di uno né dell’altro!

Provai a rianimarlo invano, col poco di competenza che mi aveva insegnato negli anni precedenti, e neppure questo servì a qualcosa per riportarlo da me.

Così mi misi a piangere…

Lasciai andare le emozioni e piansi. C’era un po’ del dolore, e c’era un po’ della rabbia. Poi c’erano le domande a cui non avevo avuto delle risposte, e c’era la consapevolezza che da quel momento in poi sarei rimasto da solo.

Tante piccole goccioline che m’inumidivano le guance, mi lavavano via un po’ del sangue che mi sporcava, e ognuna rappresentava, a modo suo, uno stato emotivo differente che mi scendeva giù dagli zigomi.

Che cosa avrei fatto adesso? Come avrei fatto ad affrontare quello che mi sarebbe aspettato? E poi che cosa mi aspettava? E quando? E perché? Perché non mi hai permesso di aiutarti, Brave?!?

Domande, domande e solo domande! Porca Dea Brave, perché?! Perché?!? Avevi detto che ci saremo guardati le spalle a vicenda, che saremo stati insieme per sempre!!

Non vogliatemene, ma devo finire alla svelta. Comincio ad averne davvero abbastanza.

Quindi…

Stetti per non so quanto tempo a piangere sulla sacca di carne che un tempo era stato mio Zio. Quando finalmente un barlume di lucidità tornò a illuminarmi la via, capii che non potevo starmene lì per sempre.

La cosa che chiamavo “l’entità” sarebbe potuta tornare da un momento all’altro, e io non avevo alcuna intenzione d’incontrarla. Per giunta, c’era la promessa che avrei cercato di non mettermi nei guai, e che avrei fatto di tutto per cercare di salvarmi. E allora dovevo muovermi.

Mi tolsi l’attrezzatura dall’altra zampa, e dopo aver recuperato delle forniture mediche da una delle sacche che portava indosso mio Zio, presi la sola cosa rigida che disponevo in quel momento – la mia lama gemella di sinistra, e la usai per bloccarmi la frattura.

Il lavoro che svolsi fu rozzo e approssimativo, e non avrebbe medicato neppure una piccola lussazione, ma questa fu la sola cosa che riuscii a fare.

Mentre giudicavo il risultato della fasciatura, osservando la punta della lama che sporgeva oltre le bende, mi ricordai solo allora che da quando avevo trovato il corpo, non avevo visto da nessuna parte che fine avesse fatto la Green Blade.

So che voi non avete idea di come fosse fatta, ma fidatevi se vi dico che non era il tipo di arma che passava inosservata.

Pensai di cercarla, almeno per onorare la dipartita di mio Zio, ma fu una causa persa in partenza.

Se non si trovava nei paraggi (e non si trovava), avrei potuto vagare per l’eternità attraversando quelle scaglie di roccia, e non ne sarei mai venuto a capo. “Un giorno forse sarei tornato, e allora l’avrei ritrovata” mi dissi in quegli attimi; forse quel momento sorgerà tra breve, quando avremo finalmente fatto ritorno sulla Schiena. Ma quando la cercai allora, mi arresi semplicemente troppo presto.

Ero stanco e distrutto, sconfitto nell’animo, ferito nell’orgoglio, come nel corpo, così nella mente. E privato dalle poche certezze che l’esistenza di Brave Lion poteva garantirmi quando trottavo al suo passo.

Tornai alle sue spoglie e gli feci l’onore di una sepoltura che sarebbe parsa dignitosa persino agli occhi della Dea.

Mi presi il tempo che serviva per raccogliere le pietre migliori e dall’aspetto più nobile. Fu un processo lungo e difficoltoso, svolto con una sola zampa e il viso perennemente segnato dal pianto opulento.

Gli lasciai addosso quasi tutti i suoi averi, scegliendo di recuperare per me solo le scorte di acqua, cibo e medicinali necessarie per il mio ritorno, e le Calzature per il Galoppo Verticale, che ritenni troppo importanti per lasciarle all’ingordigia del tempo.

Un cumulo di quelle pietre che io con tanto riguardo avevo scelto, ora copre i resti di quello che fu e sarà sempre il più grande Cacciatore di Mostri della storia di Uruma.

Senza più nulla, accettando che la Green Blade sarebbe giaciuta a lungo in un luogo sconosciuto della Schiena del Drago, insieme al ricordo di mio Zio, presi la direzione che avevo imparato a memoria, e dopo aver recuperato la spada gemella di destra dal luogo del mio schianto, mi avviai in silenzio nella direzione per Capo Unicorn.

Mangiai quando avevo fame, bevvi dalla borraccia e dal fiume quando avevo sete, e dormii accasciandomi a terra quando ero stanco.

Non c’era nessuno a vegliare su di me quando ero assopito, e la cosa non mi faceva alcun effetto. In ogni momento ripetevo a me stesso che se qualche creatura avesse voluto aggredirmi, per quanto m’importava, poteva benissimo farsi avanti e buon appetito.

L’universo che avevo intorno lo percepivo distaccato e inconsistente, come se io stesso non ne facessi più parte. Stavo sì tornando alla civiltà, ma non avevo ragioni concrete per volerlo fare. Nessuno stava lì ad aspettarmi con trepidazione.

E intanto piangevo, piangevo sempre, e anche quando ormai ero disidratato e completamente disinteressato dal rifocillarmi di fluidi, piangevo a occhi inariditi.

Si dice che le lacrime alleggeriscono il cuore, ma io più piangevo e più mi rendevo conto del perché continuassi a farlo, e così piangevo ancora di più, in un circolo vizioso che s’incatenava al mio collo e non mi lasciava andare.

Non seppi proprio quanti giorni trascorsero prima che Liberty Spirit, un tempo conosciuto come “il nipote di Brave Lion”, facesse ritorno alla soglia della civiltà, con un viso così cavo e macilento da sembrare, allo sguardo altrui, la descrizione di una pianta appassita, la ponyficazione della malattia stessa di Uruma.

Era un pomeriggio. Capo Unicorn mi sembrò così bella d’improvviso, anche con i suoi fuorilegge che impestavano le strade che un tempo erano appartenute ai discendenti di coraggiosi pionieri dei mari. Eppure non riuscii a sentirmi completamente lieto di avervi fatto ritorno. Tutto mi sembrava così diverso ora, così privo di colore e di scopo.

Doveva incutere una certa impressione vedermi attraversare le vie in posizione bipede e con una zampa sporca, gonfia e frollata, come una grassa spugna imbevuta di fango, fasciata con una spada che fungeva da sostegno. Chissà quanti, fermandosi ad osservarmi, non si fossero domandati “di chi era” quella povera anima sperduta e lercia, che vagava per la strada tutta sola e smarrita.

Sapete, no, che intendo? Quel genere di domanda che ti fa la gente di paese, che se tu rispondi “sono nipote di…”, loro ti diranno subito di aver capito chi sei, battendosi la fronte, solo perché si ricordano dei tuoi parenti.

Io li ignorai tutti uno per uno, mentre mi dirigevo verso il posto che allora reputai il più familiare di tutta Capo, il solo che ero capace di riconoscere in quella città guasta e affamata: Il Brocco Randagio.

Quando mi affacciai all’entrata, fui investito dagli schiamazzi della gente che stava gremendo la locanda già a quelle ore, ma tutto si silenziò quando ad entrare fui io.

Occhi di ogni tipo e di ogni statura morale si fermarono su di me, chissà che effetto dovrei aver suscitato a persone come loro.

C’era sempre un posto libero nel Brocco, anche quando la sala era piena, ed era il posto riservato a me e a Brave, che nessuno osava mai occupare. Fu lì che mi andai a sedere, e lo feci senza guardare in faccia nessuno.

Quando mi fui accomodato, con un gesto meccanico guidato principalmente dai sensi/non dalla testa, ordinai del whisky, domandandomi perfino se non stessi sognando tutto quanto… e il tono della mia voce suonò nella sala, ed era così simile a quella di mio Zio, che sentendolo non avreste notato la differenza.

Fu chiamato Colton Nyx per primo. Si sedette di fianco a me e mi tempestò di domande alle quali non provai neppure a rispondere.

Il Brocco fu chiuso, e i lamentosi clienti mandati via dall’oste a suon di parolacce. Due soli equini, oltre a noi tre, furono ammessi nella sala: Malaika e Duka vennero chiamati per curare le mie ferite e medicarmi il braccio, e mentre lo facevano, l’anziana zebra mi sussurrava all’orecchio frasi tipo: «Ora sei salvo, tutto si è aggiustato, oppure presto lo farà, che il ciel sia lodato!»

Già, ero salvo. Lode al cielo e lode alla Dea.

Ma vaffanculo.

Verso sera mi fu offerto di stare da loro, almeno fino a quando non mi fossi deciso a parlare e a dire chiaro e tondo cosa ci fosse accaduto. Cosa che feci la mattina seguente.

Avevo dormito su una stuoia ispida e pungente, portata direttamente dalla loro terra natia qualche migliaio di secoli prima (o che ne so io), eppure – o forse proprio grazie a questo – mi risvegliai finalmente con le idee chiare in testa. Forse avevo solo bisogno di trovare qualcuno che mi facesse tacere il dolore alla zampa, e ora che era fasciata per bene e gli impiastri lenitivi alle erbe della zebra stavano facendo il loro effetto, potevo finalmente spiegare i fatti e cominciare a riflettere sull’avvenire.

Andai da Colton Nyx e gli riassunsi del viaggio alla Schiena del Drago, e quindi di come trovai mio Zio ucciso dall’entità.

Mentre parlavo, lui mi ascoltava con le zampe anteriori afflosciate lungo i braccioli della sedia, scuotendo la testa di tanto in tanto, incapace di credere alla notizia che gli stavo dando (e come dargli torto).

Quando conclusi, trascorso un periodo in cui gli diedi tempo di mettere al proprio posto i vari pezzi dei suoi pensieri, lui balbettò un po’ di frasi che ora non ricordo, ma poi riuscì a finalmente a domandarmi: «E ora che cosa farai?»

E qui cascò l’asino.

Già, che cosa avrei fatto io?

Mio Zio era morto proprio nel momento in cui finalmente stavamo imparando a legare. Parlandone con voi in questi giorni, ho capito che in qualche modo quel rapporto interrotto mi aveva costretto a rimanere ad Uruma più di quanto potessi permettermi. Mi sentivo in debito verso di lui, sapete? Bisognoso di onorare la sua fama riprendendo da dove “Brave Lion il Cacciatore” aveva interrotto.

Consideratelo, se volete, il suo lascito. L’eredità data in dono alla generazione successiva; toccava a me riassestare la Congrega e far sì che vivesse negli anni a venire.

Dopo aver trascorso la convalescenza dalle zebre, quando la zampa era finalmente guarita, feci fagotto delle poche cose che mi ero portato dietro e decisi di tornare alla nostra baracca (che era diventata mia a tutti gli effetti). Non una sola volta avevo appoggiato le zampe anteriori a terra per più di qualche minuto, e questo aveva finito per influire in via definitiva sul mio modo di camminare futuro; la postura bipede era ormai diventata parte di me come il colore del mio manto, e mi riusciva quasi più spontaneo muovermi così che non trottando come gli altri a quattro zampe.

A Colton Nyx dissi che avrei continuato a lavorare come Cacciatore al suo soldo, quindi poteva parlare con me ogni qualvolta ci fosse stato un problema da risolvere. Non ne fu entusiasta, ma dopotutto avevo una licenza che mi consentiva di farlo. E per quanto riguardava la questione del vivere da solo, se potevo provvedere a me, potevo anche decidere di emanciparmi del tutto. C’erano crimini ben più gravi di cui preoccuparsi a Capo Unicorn, che non di lasciare un dodicenne a badare a se stesso.

Non posso dire che fu facile. Non lo fu neppure per un giorno. Io non ero Brave Lion, e il mio fianco non decantava le mie abilità nella caccia come invece faceva quello di mio Zio, anzi non decantava un bel niente.

Dovetti letteralmente campare sui suoi risparmi durante tutti i primi mesi. I soldi che aveva accumulato nel tempo e mai speso, come quelli della scommessa contro il pirata alla locanda, mi avevano garantito il sostentamento quando non avevo alcun incarico da svolgere.

Nel frattempo, ripresi anche a fare ciò facevo un tempo, dando uno zoccolo a chiunque garantisse qualche Argento in cambio di un po’ di sgobbo e qualche litro di sudore. E a questo riguardo, devo riconoscere che lavorare sui vascelli dei pirati, pagava lo sforzo.

Il diario di mio Zio, quello che era solito riempire di appunti e annotazioni sulle sempre più rare creature di Uruma, divenne il mio faro di speranza per tutti i Contratti che avrei dovuto svolgere in futuro. Da esso imparai tutto quello che so oggi, e ciò mi permise di andare avanti sebbene non avessi ancora scoperto il mio Simbolo di Virtù.

Forse un giorno, quando capirò come liberarmi delle catene che mi legano a Brave Lion, troverò anche il mio sentiero, e allora sarò finalmente libero.

Ma quel giorno deve ancora aspettare. Uruma mi sta ancora cercando. Il suo richiamo – quello che mio Zio chiamerebbe l’istinto del Cacciatore – mi mormora dentro la testa e mi dice di tenere duro e resistere.

E io non posso che annuire e dargli ragione. Ci sono delle cose che devo scoprire. Quei segreti che si sono uniti all’eredità di Brave, cui sento di dover rispondere per spezzare la catena che mi tieni imprigionato a queste terre brulle e dimenticate.

Quando finalmente saremo di nuovo alla Schiena, ho deciso che completerò ciò che a quei tempi lasciai in sospeso, e finalmente – forse – sarò libero di andarmene.

Fino ad allora, la mia attrezzatura sarà sempre pronta a combattere.



CONTINUA IN


THE GREEN BLADE: Legacy - PARTE 2: Il presente


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