Novelle

di SMes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Amor vincit omnia ***
Capitolo 2: *** Il pescatore leggendario ***
Capitolo 3: *** Gli occhi del demone di Atlantide ***
Capitolo 4: *** Boutique de fleurs ***
Capitolo 5: *** La casa di Alfred ***
Capitolo 6: *** Sogno di un matrimonio in campagna ***



Capitolo 1
*** Amor vincit omnia ***


Caro lettore, stai per essere travolto da un turbine di emozioni e riflessioni che ti lasceranno senza fiato.
Immagina di scendere per strada, fra i vicoli della città e di riuscire a vedere davvero per la prima volta: guarda negli occhi ogni singola persona e risali alla sua storia, senti le sue paure, le sue speranze e i suoi desideri…  Guarda il cielo, mille anni prima era già lì ad osservare il mondo dall’alto. Guarda la terra, chissà quanti uomini vi avranno camminato sopra prima di te.
Torna qui. Siediti e allaccia le cinture perché io ti condurrò in un viaggio oltre il tempo, lo spazio e la fantasia.  Leva il piede dal freno dell’immaginazione e rilassati.
ATTENZIONE! Questo libro è sconsigliato agli ignoranti, ai realisti e a chi soffre di mal d’auto.
E’ severamente vietato dare da mangiare ai personaggi delle storie.
Nessun babbuino, semidio, mostro o manichino è stato maltrattato per la redazione di questo libro.
Le uscite d’emergenza sono in fondo a destra.
Grazie per aver scelto “Novelle


AMOR VINCIT OMNIA

Ai tempi in cui re e regine spadroneggiavano sulla terra e l'Europa era frammentata da sanguinose guerre indotte dalla sete di conquista e dall'odio, amore vero sopravviveva ancora, fragile, nei sospiri di due innamorati.
Sebbene i due amanti non abbiano avuto il celebre lieto fine che certamente meritavano, la loro storia deve restare impressa nelle menti di coloro i quali credono che un tale disio possa scomparire con la morte corporale.
Sia giusto, quindi, raccontare dal principio e lasciare che a farlo sia uno dei personaggi del racconto, che inizia così:

"Due regni limitrofi, ormai in conflitto fra loro, avevano siglato finalmente un accordo con il quale si impegnavano a favorire un’unione matrimoniale fra i diretti discendenti dei due sovrani nemici al fine di unificare i regni e portare la pace. Il principino e la principessina erano, quindi, cresciuti consapevoli dei loro doveri ed educati a governare un regno nuovo e diversificato.
Quando i due giunsero all’età di vent’anni iniziarono la frequentazione presso la corte del principe. I servi li seguivano e riverivano in passeggiate, partite a scacchi e nella caccia col falcone assistendo giorno dopo giorno alla nascita di un rapporto sempre più confidenziale: ma non è questa la storia d’amore che intendo raccontarvi.
Un giorno di primavera, la principessa fu malauguratamente costretta, a causa di un dolente mal di testa a ritirarsi nelle proprie stanze lasciando il principe solo nelle consuete occupazioni.
Pertanto, alle prime luci dell’alba, il principe si recò al paese per acquistare alcuni gioielli. Si rivolse al miglior orefice che vendesse la più fine collana per la più incantevole principessa.
In quel giorno il mastro orefice approfittava del prezioso aiuto della figlia maggiore, di raffinata bellezza ed egregia maestria. Così come accade che due metalli al contatto si fondono per creare un gioiello prezioso, quei due giovani incrociavano gli sguardi e si innamoravano e non temevano alcun impedimento …che non fosse il dovere verso il proprio regno.
I giorni che seguitarono furono un tripudio di sentimenti ed attenzioni. Il principe affrontava quotidianamente il proprio dissidio interiore e combatteva contro l’angoscia per un amore impossibile fra due mondi distanti e invalicabili.
I tramonti al lago sotto l’ombra di una quercia entravano in collisione con le partite a scacchi e gli affari del regno. Il principe si sentiva sul filo di una lama che ben presto gli dilaniò il petto. L’amante urlò stringendo il proprio ventre. Una congiura, nessuna pace sarebbe stata ristabilita. La principessa venuta a conoscenza della notizia della quale era all’oscuro, vi si gettò, e terminò la propria vita con un tonfo...Silenzio.
Questa potrebbe sembrare la fine della romantica storia, un traguardo a cui segue un vuoto ricco di disperazione, ma se nasce una vita non è mai la fine. Io venni alla luce là dove il buio strappò mio padre dalle braccia di mia madre, e racconto questa storia dal trono di un unico, pacifico regno: il mio.
Amor vincit omnia. “
 
 
 

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Capitolo 2
*** Il pescatore leggendario ***


In un paesino di pescatori, situato nel sud Italia, più precisamente laddove la sirena Partenope si arenò per dare vita ad una terra splendida, il più giovane di una famiglia di pescatori, chiamato Mimmo, decise di dare una svolta alla sua vita.
In una calda mattina d’estate, mentre Mimmo, della notte appena trascorsa, raccoglieva il prodotto della pesca, senza ausilio alcuno, dacché l’equipaggio non aveva lasciato il porto, nel silenzio quasi assordante del focoso e azzurro mare, che cullava la Serena, un pensiero tartassava di Mimmo l’animo.
Erano già cinque mesi che il pensiero si era tramutato in desiderio e il desiderio ,quel giorno, divenne inevitabilmente ossessione. In quel periodo né il lavoro, né le amicizie, né la famiglia, riuscivano a distrarre il giovane pescatore dalla sua ossessione.
 Mimmo, infatti, non era soddisfatto della sua vita monotona e priva di stimoli, sicché decise di partire per una impresa straordinaria che nessun uomo aveva mai pensato di compiere; salpò in quell’istante stesso, senza neanche issare a bordo le reti di una notte insonne passata a gettarle in mare .
 Il ragazzo aveva preso una decisione drastica e sapeva benissimo che sarebbe tornato in patria solo dopo aver pescato il più grande mostro marino che riposava nelle profondità delle grotte di Palinuro, oppure, né il giovane, né la Serena sarebbero tornati in quel porto che fu l’arrivo e la partenza di numerosi viaggi.
Tra gli uomini di mare è noto che compiere un viaggio da soli in mare è complicato indipendentemente dal tragitto da percorrere, ma questo non fermò il ragazzo, che decise di continuare il suo viaggio anche quando di fronte a lui si manifestò una burrasca, il ragazzo per evitare la tempesta offrì come tributo una ciocca di capelli nella speranza di calmare gli spiriti del mare; quest’antico rimedio tramandato da marinaio in marinaio funzionò e Mimmo interpretò questo segno come un invito a continuare la sua impresa che avrebbe portato il giovane pescatore in cima alla lista dei marinai più famosi al mondo in grado di pescare dei mostri marini.
 Il resto del viaggio fu tranquillo ma faticoso tanto che Mimmo più volte fu assalito dal desiderio di mollare tutto e tornare indietro, ma il suo orgoglio e il suo desiderio di gloria gli impedivano di compiere un gesto così meschino e scellerato. Arrivato alla grotta tanto bramata, rimase stupito e incantato dallo spettacolo che offriva la natura con l’alternarsi di stalagmiti e stalattiti. La conformazione naturale delle rocce calcaree faceva presagire che quella parte di grotta era inutilizzata da molto tempo, quindi il nostro pescatore ipotizzò che ci dovesse essere per forza un’altra cavità utilizzata come uscita ed entrata. Mimmo decise di addentrarsi nella grotta solo quando il sole si sarebbe tuffato nel mare azzurro e cristallino di Palinuro. La grotta, illuminata di sera dai raggi lunari che si rifrangevano sull’acqua per poi stagliarsi sulle formazioni calcaree, sembrava prendere vita ed ipnotizzare l’equipaggio ridotto della Sirena. Il capitano quasi ammaliato da questo spettacolo decise di entrare, spegnendo le luci per non interferire nel magico e surreale spettacolo offerto dalla natura. Il marinaio era guidato, all’interno della gotta, dalle stesse luci che l’avevano spronato ad entrare, il giovane coraggioso ed ignaro si addentrò  sempre di più nella grotta fino a quando i raggi lunari evidenziarono una zona della grotta circolare che non presentava alcuna uscita. Mimmo rimase alcuni istanti ad osservare la parete che segnava la sconfitta del giovane, ma allo stesso tempo la vittoria dell’uomo che era riuscito a compiere un viaggio immane, da solo, alla scoperta di queste grotte magiche ed inesplorate. Improvvisamente le acque iniziarono ad agitarsi un suono assordante paralizzò il pescatore che fu assalito da qualcosa che fece rollare la nave dopodiché tutto tacque. L’uomo si preparò ad un altro imminente attacco, chiedendosi da dove fosse sbucata una cosa così potente ed enorme da riuscire quasi a ribaltare un peschereccio di medie dimensioni. Il mostro riapparve dal basso, solo allora il nostro eroe intuì l’esistenza di grotte sotterranee, che conducevano all’esterno, probabilmente scavate dal mostro per uscire e cibarsi di navi di pescatori o di banchi di pesce che popolavano quelle acque. L’unica cosa ad entrare ed uscire da quella grotta, oltre al mostro, fu una bottiglia nella quale il pescatore scriveva :”un piccolo pescatore, che appartiene ad un villaggio di piccoli pescatori, ha trovato la morte seguendo un sogno irraggiungibile, ma se dei pescatori come l’uomo morto, raccontassero cos’è accaduto nelle grotte di Palinuro, allora l’uomo non sarò morto invano, poiché avrò raggiunto il mio obiettivo”.
 

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Capitolo 3
*** Gli occhi del demone di Atlantide ***


La storia che andrò a raccontarvi, ha come scenario uno dei miti più famosi ed emblematici della cultura occidentale: la città perduta di Atlantide.
 Primo luogo a cui si volge il pensiero sentendo parlare di città perdute, tesori mai ritrovati e civiltà forse mai esistite, ma che in ogni caso stuzzicano i nostri pensieri e affascinano la nostra immaginazione. “Nostra”, una parola che racchiude tanti volti illustri: da Aristotele, che la archiviò come pura fantasia platonica, a Jules Verne, che fantasticò nei suoi romanzi di una misteriosa isola mai scoperta in precedenza, fino a Isaac Newton, che cercò di trovare un collegamento tra le proprie teoria e Atlantide….E potrei continuare per ore ad elencarvi nomi, fino a far toccare la mia barba, alle punte dei miei piedi…
I nostri protagonisti sono una coppia che potrebbe risultare ad un primo sguardo più per caso che per scelta, ed in effetti, le peripezie che portarono a tale accostamento (che miei cari, non starò a narrarvi, altrimenti potrei scrivere un libro) furono proprio dettate dalla nostra cara e vecchia dea bendata. La nostra signorina, Alexandra, una giovane esploratrice per conto del  British Museum, amante della storia e personaggio estremamente meticoloso, in contrapposizione al nostro Julisseis , un uomo con un suo fascino nel suo essere rozzo e immischiato in una serie di intrallazzi con individui poco raccomandabili, tuttavia un gran sognatore, in contrapposizione col razionalismo e scetticismo di Alexandra. Ma più non sono in intenzionato a parlare se non della storia, quindi buon ascolto a tutti i compagni miei.
-Julisseis, so che sarà difficile per te credere alle mie parole, ma se esiste una persona di cui posso fidarmi e che potrebbe prendere seriamente queste parole, questa persona sei tu.- Esordì l’anziano che sembrava avesse molta fretta e Julisseis rispose in maniera piuttosto cauta: “Kuba, dopo la scoperta del 51° uovo di Fabergè credo che potrei credere a qualsiasi leggenda “vivente” di cui tu creda l’esistenza.
” –Oh mio caro, ma io non credo nell’esistenza della città sommersa, ne sono più che convinto.- “Cosa? Non ti riferirai mica ad Atlantide? Sicuro di quello che dici?” -Tanto quanto sei stato convinto tu in quel sobborgo malfamato turco a scappare a tutto gas dopo aver vinto una fortuna a dadi…- “Beh, sì, diciamo che era gente piuttosto irascibile ma…ora dimmi: cosa hai scoperto?”
 –Bene, arriva proprio qui la parte interessante, ma prima dimmi una cosa…tu conosci Platone e il suo mito riguardo Atlantide?-
“A dire il vero oltre il fatto che Platone era un filosofo greco e che narrava nel “Crizia” di questa città misteriosa su cui vi era una statua gigante di Poseidone, completamente in oro zecchino, più qualche credenza popolare.. non so che altro dirti..”

–Julisseis, quel che tu sai mi sorprende molto, in fondo c’è tanto di cui devo parlarti, ma almeno una base c’è.- “Bene, allora racconta che nel frattempo prendo una birra.” –Tu conosci le Colonne d’Ercole?-
“Certo, lo Stretto di Gibilterra, è li dove dovrebbe essere situata, questa è una delle credenze di cui ti parlavo.”
–Bingo, proprio in questo ti sbagli, tu e le credenze popolari…c’è un particolare delle Colonne d’Ercole che fornisce un indizio fondamentale, ed è la scritta posta su di esse “Non plus ultra”, ovvero “Non più avanti”; se la tua testona bacata fosse a conoscenza dei legami tra Platone e Socrate per me sarebbe tutto più facile, ma non lo è, quindi visto che il tempo stringe e non voglio annoiarti con lunghi discorsi filosofici, versami della sambuca e siediti, che inizio a raccontarti.- Julisseis prese un bicchiere lercio, specchio della catapecchia in cui si erano ritrovati i due, e vi versò una generosa dose di distillato, che al contrario era in una confezione pressoché nuova, quasi non avesse il tempo di invecchiare prima di essere sostituita; non che l’anziano Kuba fosse un abitué dell’alcool, come si poteva vedere dalle vecchie bottiglie di Gin e di Poteen che sembravano quasi risalire all’epoca dei Moonshine, semplicemente era un inguaribile amante del sapore intenso dell’anice e dei suoi derivati. Non appena l’americano sedette assieme alla sua lattina di birra ancora a tre quarti iniziarono le spiegazioni di Kuba.
–Platone era un allievo di Socrate, nonché suo grande amico e fervido seguace della sua dottrina, egli riteneva infatti, Socrate l’uomo più giusto e sapiente del tempo.- Esordì prendendo un abbondante sorso dal bicchiere.
 “E riguardo la scritta e il luogo?”
–Julisseis, vedo lo scorrere degli anni non ti ha reso più paziente; dunque la nostra chiave di volta è da ricercarsi nel significato metaforico della frase “Non plus ultra”, non solo un confine fisico del mondo, ma soprattutto il limite della conoscenza.- Julisseis ritrovava una gran confusione in quelle parole spiegate in maniera rapida e apparentemente sconclusionata, e avrebbe tanto desiderato che il vecchio arrivasse al punto: “E perché Socrate avrebbe un collegamento con Non plus ultra? Insomma non mi è chiaro…”
 –Ho capito.. taglierò corto, questo è il mio ragionamento: le Colonne d’Ercole sono identificabili come il limite della conoscenza, e Socrate era visto come l’uomo più sapiente da Platone, il non plus ultra della conoscenza, inoltre sappiamo che Socrate operò esclusivamente in Grecia, inoltre sono tanti gli indizi che Platone ci fornisce nella sua filosofia, nelle sue frasi, nei suoi miti!- L’americano sembrò alterarsi .
“Quindi io dovrei partire per un viaggio alla ricerca di qualcosa che forse neanche esiste e di cui non so praticamente nulla?!” L’espressione di Kuba si oscurò e disse in tono cupo: -Julisseis, in nome della nostra amicizia ti chiedo di fidarti, ora non posso aggiungere altro.- Prese un volume impolverato del Crizia platonico, uno ancora più vecchio e logoro della Repubblica VII e un taccuino di appunti e studi compiuti da egli stesso, si girò intorno con fare circospetto, prese una paletta e uccise con un colpo secco quello che sembrava una mosca o un insetto del genere, poi blaterò qualche imprecazione in dialetto irlandese con fare disprezzante , apparentemente eccessivo per un piccolo insetto, infine consegnò i volumi all’amico e aggiunse -Ora va’, se necessiti di aiuto nelle tue ricerche presta molta attenzione a chi ti rivolgi, e ricorda, stai lontano dagli occhi del demone.- In quelle ultime parole Julisseis notò quasi un’implorazione, tuttavia non comprese a pieno il significato di quelle parole, nonostante ciò, non proferì parola e si allontanò dalla catapecchia.
 Nel frattempo dall’altra parte dell’Europa Alexandra Linn-Parkinson era al British museum, svolgendo il suo lavoro di analisi delle opere e catalogazione dei reperti, quando squillò il cellulare: -Wood- così era conosciuto Julisseis da Alexandra, -cosa vuoi ora?- L’uomo neanche le diede il tempo di finire la frase che esclamo: “Alex, devi subito venire in Grecia, ci vediamo tra due giorni al Phaedra ad Atene” –Wood sei ubriaco?! Perché dovrei venire ad Atene?!-
 “Ora ho bisogno che ti fidi e basta, hai conoscenze su Platone?”
–Certo che lo ho ma non riesco a ca…- Non ebbe tempo di finire la frase che dall’altra parte Julisseis attaccò il telefono. Alexandra sapeva che Wood non fosse nuovo a questi comportamenti e decise con una certa riluttanza di partire , prenotò un volo last-minute e due giorni dopo arrivò allo squallido ostello ad Atene, luogo di incontro con l’americano. Julisseis non tardò e aveva l’aria di chi aveva passato intere giornate a fare qualcosa a cui non fosse abituato, in effetti aveva consumato quel taccuino di studi e aveva letto il libro in tempo record. –Wood! Mi spieghi cosa diavolo succede?!-
 “Shh, Alex entriamo che ti spiego..” I due entrarono e Alex rimase sbigottita, per certi versi indignata da racconto di Wood.
 –Quindi io sono qui per aiutarti nella ricerca di una città perduta che nemmeno esiste, e tu ti sei fidato delle parole enigmatiche di un vecchio?!-
 “Alex di Kuba posso fidarmi, ero scettico anch’io come te, tuttavia ho scoperto dei collegamenti e ho bisogno del tuo aiuto per portarli avanti..”
Nel mentre in cui diceva ciò aveva chiuso tutte le finestre e controllava ogni angolo della sudicia camera, Alex se ne accorse e chiese cosa stesse facendo ora, Julisseis sentì come un colpo quella domanda e si affrettò a spiegare le sue paure dopo aver compreso le implorazioni di Kuba nella frase “stai lontano dagli occhi del demone”.
“Alex, come ben sai Atlantide è stata cercata in continuazione nei secoli e tutt’oggi c’è un gruppo alla costante ricerca della città sommersa, è conosciuto con il titolo Tamàtoudài, pseudonimo di Ta màtia tou dàimona, letteralmente Occhi del demone, chiamati così poiché hanno cimici e spie ovunque, Kuba ne ha scovata una in casa sua, ma poteva non essere l’unica, ecco perché non mi ha potuto dire di più..” –E qui non ce ne sono? Come fai a saperlo?- “Secondo te perché sto rivoltando tutta la camera? Sono piccole, simili a delle mosche, tuttavia sono difficili da utilizzare in ambienti isolati, dove c’è silenzio, poiché sono dotate di un piccolo motore che è udibile e chiaramente riconoscibile nel silenzio, quindi shh..”
I due rimasero nel silenzio totale per un paio di minuti, poi Wood tirò un sospiro di sollievo; nella camera c’erano solo loro due.
“Alex, ora ho bisogno del tuo aiuto.” Disse Wood con il tono di chi non accetta obiezioni.
 L’americano le spiegò le teorie del vecchio irlandese; tutto quel farfugliare di parole apparentemente confuse era perfettamente esposto in quel vecchio taccuino di pelle nera, che non solo risultavano quanto più plausibili, ma portavano ad un luogo ben preciso: l’isola di Santorini, più nello specifico la porzione sprofondata dopo l’eruzione del vulcano Thera, 1600 anni prima della nascita di Cristo. Del resto la cosa non stupì Alexandra; non era una novità infatti collegare la città perduta con l’isola sprofondata, d’altronde hanno storie analoghe, entrambe crollate in pochissimo tempo, un giorno e una notte vuole il mito di Atlantide, dopo che fallì un tentativo di conquistare Atene.
 –Wood, quel sito non è nuovo a ricerche..ti rendi conto che per quanto riguarda queste affermazioni stiamo perdendo tempo?!-
“Alex, ti ho chiamato per avere un aiuto, ma se sei qui, solo per ripetermi che Kuba è un bugiardo puoi anche andartene.”
–Wood, come al solito trascuri i dettagli più importanti…quello a cui voglio arrivare è che Platone non fornisce solo un luogo sulla cartina geografica, ma va letteralmente molto più in profondità, e Kuba lo sapeva…-
“Alex, Kuba sapeva? Cosa?” –Wood, immagina solo quante tonnellate di lava può aver eruttato quel vulcano assieme alla cenere e ai lapilli, ricorda che è sprofondata un’isola e chissà quanti metri bisogni immergersi per trovare Atlantide, in effetti è plausibile che a causa di tutto quel materiale di roccia lavica mista a minerali e massi abbia reso impossibile una scansione dalla terraferma con le moderne tecnologie, il problema e che ora non abbiamo un punto di partenza nemmeno noi, se solo avessimo un anfratto, una caverna da dove partire…”
 A sentire queste parole a Julisseis si accese una lampadina e si drizzò come se avesse visto un fantasma: si affrettò a cacciare il vecchio volume settimo della Repubblica platonica donatagli da Kuba.
-È qui la soluzione! Esiste ed è una caverna, vi è un mito che ne parla!- “Wood, ti stai riferendo al celeberrimo mito della caverna di Platone, ma come sai che possa riguardare le ricerche? E poi pensaci, se pure fosse un riferimento, come potremmo mai trovarla? Ricordi quello che ti ho detto prima?” Lo scetticismo di Alexandra non scoraggiò Julisseis, che per tutta risposta iniziò una spiegazione non proprio erudita e piuttosto grossolana, ma in ogni caso efficace: -Inizialmente, dopo averlo letto, pensavo che Kuba mi avesse donato questo libro per depistare delle eventuali spie, e quella storia della caverna mi sembrava molto fantasiosa ma nulla di più… ma c’è qualcosa di più in quel mito, le metafore e la stessa caverna… forse hai ragione tu, ma pensaci, se non avessimo dei dati o delle speranze di trovare qualche indizio sul luogo non saremmo qui ora…e se fosse il sole a identificare quel punto? In fondo è il sole la metafora della conoscenza nel mito-
“Perfetta la conoscenza come è perfetto il sole a mezzogiorno nel cielo! La città è sepolta dove il sole picchia a mezzogiorno sotto l’isola di Santorini! Però Wood…non è più di un’ipotesi..” –Alex, per secoli sono partite esplorazioni e sono stati trovati tesori con non più di qualche indizio; pensa ad esempio al tesoro del Capitano Morgan, per secoli sottoterra, con un solo pezzo di carta strappato e logoro come indizio.- La conversazione si fermò dopo poco, Julisseis riuscì a convincere Alexandra e il giorno dopo si ritrovarono a immergersi nei pressi della costa sud del Nea Kameni: vulcano ormai spento dell’isola di Santorini, in una zona particolarmente ricca di materiale piroclastico. È mezzogiorno in punto quando i due arrivarono sul luogo dell’immersione, accompagnati da una guida locale su di un gommone abbastanza vissuto, dopo venticinque minuti di viaggio dal porto di Athinios; il loro equipaggiamento era piuttosto semplice: una tuta da sub con ricetrasmittente per entrambi con una scorta di pesanti bombole d’ossigeno ovviamente piene, quante più ne riuscirono a portare, d’altronde non avevano idea della profondità a cui avrebbero trovato qualcosa. “Wood, e se non avessimo abbastanza ossigeno? Se pure trovassimo questa “caverna” ma non fosse alla nostra portata?” Julisseis abbassò lo sguardo e rimase a riflettere qualche secondo, poi lo rialzò e disse in tono estremamente calmo: -Esiste un antico detto sui pescatori greci : quando questi si immergevano e entravano in una insenatura a caccia di aragoste, una volta arrivati a un punto in cui non avrebbero avuto abbastanza fiato per tornare indietro non potevano fare altro che continuare a nuotare sperando in un’uscita.-
Detto ciò guardo Alex per un paio di secondi e si gettò in mare. Alexandra rimase impietrita da quella risposta e al contempo sbigottita per la velocità con cui era avvenuta l’intera azione, tuttavia dopo pochi secondi, seppur con incertezza decise di tuffarsi. I due non persero tempo e subito si avvicinarono alla massiccia struttura di lava solidificata; la maestosità con cui si presentava quella distesa enorme era eufemisticamente disarmante e dopo un quarto d’ora di ricerche i due non avevano scoperto nulla, anche l’impavido americano sembrava scoraggiato, iniziò a pensare che forse questa volta Alex avesse ragione e che Kuba fosse totalmente uscito fuori strada nelle sue ricerche a causa di alcune ingannevoli coincidenze. Tuttavia mentre si convinceva che forse la cosa migliore da fare fosse risalire in superficie, dall’auricolare sentì un’esclamazione: “Wood! Guarda i riflessi del sole, portano a quella serie di strutture laviche a forma di stalattiti!” In effetti Julisseis aveva già notato quella strana struttura vicina alla superficie, causata dall’immediata solidificazione della pioggia lavica, tuttavia non vi trovava nulla di interessante fin quando nell’avvicinarsi intravide un piccolo foro del diametro di circa settanta centimetri, troppo stretto per entrarvi con tutta l’attrezzatura; per questo Julisseis non esitò a sganciare le bombole d’ossigeno e collegò il respiratore ad una piccola riserva che in circostanze normali sarebbe servita per risalire nel caso di un malfunzionamento delle bombole, ma ora era diventata fonte di vita per l’esplorazione e letteralmente per Julisseis che aveva calcolato di avere non più di cinque minuti: tre della riserva più due di fiato, senza alcun indugio si apprestò ad esplorare quell’anfratto. Spese i primi trentacinque secondi di ossigeno nuotando all’interno dell’oscurità, quando la sua torcia illuminò un’altra serie di stalattiti laviche, questa volta disposte a mo di barriera come se fossero le sbarre di una cella, vi era una piccola apertura dove poter passare, ma si sarebbe immerso nel buio di nuovo, un buio ancora più fitto. Titubante, al punto di tornare indietro rivide in un flashback immaginario la scena della distruzione di Atlantide, con a capo Poseidone, punito per aver osato attaccare la città più bella e fiorente della Grecia: Atene. D’un tratto l’illuminazione. Non perse tempo Julisseis e si immerse nel buio, ripensando ad un punto cruciale del racconto platoniano: la punizione di Poseidone. In effetti la forma delle stalattiti laviche sembrava veramente quella delle sbarre di una cella, e qualunque cosa si fosse trovata immersa nell’oscurità sarebbe sembrata come imprigionata nella montagna; mentre ripensava a tutto ciò sentì i polmoni iniziare a cedere erano passati circa 90 secondi dall’immersione senza bombole, Julisseis cominciò a pensare che forse la sua resistenza non fosse così eccezionale, fece per prendere la sacca di sicurezza che sarebbe significato l’annullamento della missione; tuttavia lasciò accidentalmente cadere la torcia, che illuminò con un fascio di luce una superficie lucida, poiché il riflesso accecò per un attimo l’americano. Carico di adrenalina Julisseis compì un balzo in avanti verso quel bagliore ed in un attimo fu solo luce. Un secondo che racchiuse tutte le ore di studio di Kuba, che smentì le pereplessità di Alexandra, Julisseis nonostante avesse i polmoni in piena riserva, lanciò un forte urlo liberatore, che si spense poco dopo, seguito da un forte respiro affannato: era di fronte ad un dio, e non perché fosse all’altro mondo…anzi, questa divinità era completamente materiale, totalmente scolpita nell’oro massiccio, con tre punte di diamante sul proprio tridente e uno sproporzionato numero di ametiste, topazi, smeraldi e rubini su quella che doveva essere la sua corona e due zaffiri come occhi, che solenni incrociavano quelli di Julisseis. Aveva trovato la caverna sottomarina e purtroppo non vi era alcuna città sommersa, ma la bellezza di quella statua ripagò pienamente gli sforzi di tutte le menti che vi erano dietro la mirabile scoperta. Julisseis rimase qualche minuto ad osservarla, poi si ricordò di Alex e decise di correre a raccontarle la scoperta. Gli occhi di Poseidone erano tornati a brillare, illuminati dalla torcia dell’uomo, ma dall’altra parte della scogliera erano ormai spenti e senza vita gli occhi di cinque subacquei, anche loro imprigionati, ma da una rovinosa frana, durante l’esplorazione di un anfratto. Il loro peccato? L’imprudenza e l’ignoranza forse, l’unica certezza è che gli Occhi del Demone non hanno potuto vedere la luce del sole nella notte oscura.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Boutique de fleurs ***


Avrei piacere a narrarvi del canto gioviale degli usignoli, della fragranza gagliarda dei fiori di Maggio, del calore rassicurante della cerea luce solare che batte sulla mia nuca, mentre mi accingo or ora a far da portavoce ad un'accorata novella, ch'io non posso fare a meno di rimembrar con occhio querulo.
Giaceva in una fulgida vetrina un manichino, bello, d'avvenenti forme, vestito degli abiti più anelati; lo qual semplice manichino non era, ma da acume intelletto e puri sentimenti animato. Accadde un dì che, siccome piovoso e torbido, una donna leggiadra d'aspetto e angariata nell'animo varcò la soglia del negozio ove il manichino posava; e questi, vedendo l'onirica creatura apprestarsi alla ricerca del nido impermeabile alla tempesta, non poté scampare dal rivolgerle repentinamente uno sguardo profondo ed indefesso di compassionevole affetto.
Fortuna volle che il tormento si scagliasse sulla città per i due, tre, quattro giorni successivi, durante i quali la donna altra consolazione non ebbe se non la vista del giovane manichino. E così perpetuarono nella
inter-contemplazione, incuranti totalmente degli oneri cui Sorte destinati li avea; finché, ormai consci del prodigioso sentimento che li legava, premeditarono una fuga, la quale l'indomani avrebbero realizzato. Ma la donna, perplessa ed angustiata dalle conseguenze che l'esodo avrebbe potuto comportare, cominciò a singhiozzare.
«Julian, sei certo di voler correre un sì grande rischio? Tu sai bene che...»
Repentinamente interrotta fu e rassicurata altresì dalle parole del giovine, che così cantavano: «Catherine, io voglio che i nostri sguardi si ibridino in eterno, che non sian contaminati dalle occhiate funeste dei maldicenti; desidero un ameno campo tutto nostro, giammai valicato da costernazione; e seppure angosciosi arbusti dovessero il tuo corpo inerme cingere ed il tuo volto venereo lordare, io desidero essere alla tua destra, sempre.
Amor mi sostiene, Amor mi anima. Null'altro.»
A suggellare le carezzevoli parole un bacio, così lieve che le labbra, come separate da un velo latente, parvero sfiorarsi candidamente senza mai unirsi.
Dalla vetrina Julian scorgeva i volti ilari degli innamorati; né invidia né malinconia opprimevano il suo petto, bensì fermezza, ché egli sempre più determinato ad abbattere la frontiera era. D'altra parte come avrebbe potuto voltar le spalle alla sua amata? Un tal gesto avrebbe significato respinger la vita, la qual era fiorita in quel meraviglioso giorno di pioggia, ed il cui richiamo, ora che Catherine ne faceva parte (ed era anzi la parte), era appetibile oltremodo per esser misconosciuto.
Un brio sinistro, turpe, aveva adombrato i deboletti spiriti della giovane.
Ab origine la vita si era rivelata coriacea con lei: dapprima con la morte della madre Eveline e della zia Jules, avvelenate dallo stesso padre, e in seguito con la tragedia dell'adorata sorellina, martoriata dal padre snaturato, costretto, in seguito alla scomparsa della moglie, a guerreggiar con alienazione mentale acuta.
Da allora la sua funerea esistenza si era tramutata in una fuga perenne e straziante dal destino: cane inferocito fiutava la sua presenza e correva, correva veloce, tenendola col fiato sospeso.
Soffio vitale l'aveva poi condotta alla "Boutique des fleurs", dove Cath aveva finalmente degustato l'idea di libertà, immune al baubare stridulo del destino, al quale ella adesso temeva ineluttabilmente di tornare. Eppure ab imo pectore continuava a ripetersi che restare in compagnia di quei fiori non sarebbe stata certamente la scelta più saggia, siccome tristemente appassiti sarebbero divenuti; fintantoché il tentativo di auto-persuasione, persuasione pura divenne e Catherine, vezzeggiata dallo sguardo attento di Julian, s'impegnò ad ultimare i preparativi.
Lieta come non mai era, sconfinatamente speranzosa ed ottimista; per la prima volta in assoluto sentiva che nulla avrebbe potuto contro il suo ardore di vita.
Gli occhi ridenti e fuggitivi le illuminavano il volto, incorniciato dai morbidi capelli raccolti in sottili trecce color mogano.
Cath sembrò rimuovere per un istante il passato lugubre da lo qual sempre era stata perseguitata; orbene si abbandonò ad una giuliva danza in compagnia di Julian e, volteggiando spensierati per tutto il salone, si ritrovano tutt'a un tratto sotto il cielo grigio piangente.
Perpetuarono per ore senza mai averne abbastanza, sorretti da Amore che essi giurarono eterno. Eppure quel foedus non fu così longevo. Nessun tradimento, nessun sacrilegio, che sia ben chiaro! Il Fatale era stato, anzi, più fedele che mai, benché lievemente in ritardo; ché proprio mentre i due innamorati si accingevano a pronunziare "Addio" alla città, un fulmine squarciò l'orizzonte colpendo la sventurata Catherine.
L'imperscrutabile destino l'aveva raggiunta dopo anni di seguimento; così come raggiunto avea il manichino, lo qual manichino fu.

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Capitolo 5
*** La casa di Alfred ***


 Non ci crederete mai, ma io in una vita precedente fui un ebreo, che fuggiva dalle persecuzioni dei nazisti chiedendo ospitalità nelle case di campagna dei miei compatrioti. Vivevo in una zona campestre dell’ Ungheria con la mia famiglia: mia moglie, i nostri due bambini, lo zio Jeremia e un vecchio cane randagio che abbiamo adottato quand’era solo un cucciolo. Eravamo una famiglia timorata di Dio, vivevamo in pace con i nostri fratelli, il nostro unico peccato era quello di essere nati Ebrei. Quando ci vennero a prendere fu come se avessero bloccato il tempo per un giorno intero e cancellato i precedenti. I ricordi di una vita spazzati da uomini in divise che usavano violenza e strappavano a forza i miei bambini dal loro padre. Quel giorno io ero in campagna, a lavoro, rientrai la sera sul tardi portando con me il mio cane. Il dolore fu tale che io svenni cadendo sulla terra bruciata. Al mio risveglio Josuè, il mio meticcio, abbaiava forte e fu difficile calmarlo. Ci avviammo in città in cerca di una casa che potesse nascondermi dalle sofferenze che stavano sopportando i miei poveri bambini e il resto della mia famiglia. Nessun rifugio mi venne offerto nella mia stessa città. Gli stessi cittadini che incontravo in Chiesa, adesso mi voltavano le spalle e frettolosi mi allontanavano. Il terrore che echeggiava fra le vie era tale da aver distrutto ogni pio sentimento di bontà e carità umana. Tentai presso l’ultima casa, pregando Dio di ricevere aiuto. Mi aprì la porta un uomo alto, con folti capelli biondi, occhi azzurro ghiaccio ed una cicatrice sulla guancia destra. Indossava un ricercato completo viola a scacchi dalle maniche logorate e pantaloni che gli lasciavano scoperte due ossute caviglie. -Szia.- salutò. – Ma che bel cagnolino che hai, come si chiama?- -Giosuè, io invece, sono Mortdecai, avrei bisogno di un posto dove dormire…per un po’- -Oh Mortdecai e Giosuè, che nomi deliziosi. Prego, entrate e restate tutte il tempo che volete.- Accompagnò le sue parole con un largo gesto del braccio ed un sorriso sghembo. Francamente, avrei voluto scappare, ma quel posto era sicuramente migliore di un campo di concentramento, quindi entrai. -Oh, che sgarbato, non mi sono presentato, io sono Alfréd , e faccio l’avvocato.- L’inquietudine che si accompagnava alle sue parole era un brivido lungo la schiena. Supposi che la rima fosse casuale e mi spinsi controvoglia fino a quella che sembrava essere una cucina. -Ora vi mostro la vostra stanza, dove potrete ristorarvi in abbondanza. Potete servirvi di ogni ambiente, ma per voi la soffitta è sconveniente.- Ci fece segno di seguitargli, e salimmo al primo piano dove ci attendeva una vecchia stanza, malamente arredata, dal pavimento logoro. - Grazie mille, che Dio ti benedica!- “ E che mi aiuti” pensai. Trascorsi dei giorni alquanto tranquilli, dopo tutto avevo cibo, vestiti, sicurezza e mi era permesso avere il mio cane il quale veniva premurosamente portato a spasso da Alfrèd ogni giorno al calar della notte. Proprio in uno di questi giorni tranquilli, a cena Alfréd mi chiese :- Mortdecai, tu sei mio amico?- -Certo, come potrei non esserlo.- Risposi alquanto stranito dalla domanda. -Vuoi che ti racconti la mia storia?- insistette. -Come preferisci, però lascia che prima prenda Giosuè, così ci fa compagnia.- - Il mio amico peloso è al sicuro adesso, lascia quindi che ti racconti il mio successo.- Mi pervase una strana sensazione, mai come in quel momento desideravo andarmene scappando lontano. -Non sei l’unico che scappa da uomini cattivi, io come te sono fra i fuggitivi, scappo da loro per diversi motivi. Questi uomini cattivi erano molto eccentrici e non volevano che stessi con i miei amici. Mi portarono in una casetta per bambini, ma non mi facevano fare dei giochi carini; mi vestivano con una bianca camicia e mi rinchiudevano in una stanza sudicia. Tu mi capisci, io volevo solo stare con i miei compagni e così li rapì e li portai nei miei bagni. Preparai una grande vasca e vi gettai dentro l’esca, i miei amici corsero per acciuffarla, di gioia sentivo le loro urla e quando furono un tutt’uno volli gettarmi anch’io, ma gli uomini fermarono il mio disio. Mi posero mille domande :” cos’è quella sostanza che fonde?” Ed io rispondevo placido “ quello che fonde è l’acido, ma non abbiate timore, esso miscela i corpi con l’amore! Ora fatemici buttare, con i miei amici voglio stare.” Mi tennero prigioniero per anni, finchè non scappai dopo mille affanni. Da quel momento vivo solo, ma non proprio solo, di sopra ci sono i miei amici d’infanzia. Giocano con Giosuè.- Mi scappò un urlo di terrore puro, non sapevo cosa fosse più inquietante: la mancanza di una rima finale? No, era la storia. Anzi, era la morte del mio cane, l’ultimo membro della mia famiglia. -Tu sei mio amico, vero?- Ancora quella domanda, la risposta stavolta sarebbe stata diversa. -TU sei pazzo!- Mi arrivò qualcosa in testa e l’ultima cosa che vidi furono le scale e poi la soffitta. Mi risvegliai, per triste scherzo del destino, proprio mentre Alfrèd mi gettava nella vasca e mi seguiva. Fu un dolore accecante, poi vidi un volto familiare e un corpicino mi si strinse attorno. -Papà! Sei tornato!- Eravamo di nuovo insieme.

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Capitolo 6
*** Sogno di un matrimonio in campagna ***


Nell’Europa del 1800 viveva una di quelle giovani coppie che per dovere verso la famiglia, mantenere un titolo o preservare il patrimonio si uniscono secondo combinazione e sopperiscono alla necessità di amarsi l’un l’altro.
 Non era insolito, quindi, che uno dei due se non entrambi dovessero nel bel mezzo della loro puerile vita abbandonare i loro romantici sogni con altre persone per dedicarsi alla dura esistenza coniugale impegnandosi a rispettare quelle esili promesse pronunziate dinanzi all’Altissimo e ad una compiaciuta società.
Ebbene, la giovane donna di cui andremo a parlare si era prima della cerimonia dell’anellatio invaghita di un altro uomo, il cui nome era Tristan , e la cui famiglia non poteva garantire una dote sufficiente affinchè gli fosse concesso di sposare Soledad. Pertanto, dopo la triste notte in cui il matrimonio fu effettivamente consumato, Tristan dovette rassegnarsi e tornare alla sua vita di privazioni e miseria.
La coppietta si era trasferita in campagna e raramente tornava nella caotica città o attraversava i campi in cui Tristan lavorava, ed per questo per entrambi fu più facile soffocare in fondo al cuore il reciproco ricordo. Passarono i giorni, che divennero mesi che trascinarono via gli anni ed ormai Soledad era diventata madre di una bellissima bambina che era il riflesso del padre ad eccezione degli occhi color ghiaccio come quelli della madre .
Tristan, invece, aveva fatto fortuna ed ora viveva in una discreta villetta che contava un appezzamento di terreno di modiche dimensioni coltivato quotidianamente dalla sua persona e dal figlio pressoché dodicenne.
Un giorno particolarmente umido che aveva seguito una notte impregnata di costanti ed incessanti piogge , Tristan si alzò, com’era solito fare, per lavorare il suo appezzamento di terra, ma ciò che vide non aveva niente di ordinario: una carrozza giaceva in mezzo al campo completamente ribaltata.
Un cavallo era ferito, l’altro agonizzante, il cocchiere invece era già passato a miglior vita.
 Chiamò a raccolta la propria famiglia affinchè l’aiutasse a tirar fuori i passeggeri dall’interno. Erano tre cadaveri. Una donna, un uomo e una bambina.
Il suo cuore riconobbe la prima: era Soledad, gli occhi vitrei lo osservavano freddi mentre un tempo erano animati da fiamme incandescenti d’amore.
Le chiuse le palpebre e passò al cadavere di quello che doveva essere suo marito. Lo depose a terra accanto a quello della moglie e raccolse dolcemente il corpicino della bambina, quando improvvisamente ella aprì gli occhi di un grigio intenso e tossì violentemente.
 
 
Passarono circa vent’anni da quell’infausto giorno e Tristan era diventato nonno. La neonata in braccio al padre reclamava con disperazione il seno della madre, aveva certamente ereditato dal padre la grande fame e dalla madre…un bel paio di occhi grigi.
 

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