Opus Magnum di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima - Nigredo ***
Capitolo 2: *** Parte seconda - Albedo ***
Capitolo 3: *** Parte terza - Rubedo ***
Capitolo 1 *** Parte prima - Nigredo ***
Riporto
come da prescrizione lo specchietto di presentazione della storia al
contest:
Nome
sul forum: OldFashioned
Nome
su EFP: Old Fashioned
Titolo:
Opus Magnum
Artista
e opera: Wallis, Chatterton
Genere
e rating: Genere Giallo, Sottogeneri Azione, Mistero, Storico. Rating
Giallo
Lunghezza storia: Il contatore di Libre Office mi
dà 23.774 parole. La storia è composta da 42
pagine suddivise in 3
capitoli.
Note: nonostante il soggetto fosse assai
evocativo in tal senso, ho preferito evitare tutte le storie
romantiche, sia perché il genere slash non veniva accettato,
sia
perché a prescindere da ciò il genere romantico
non è esattamente
il mio. Ho pensato di fare in modo che il quadro diventasse una
"scena del delitto", di quello che a prima vista appare un
suicidio ma poi si rivela non esserlo affatto. La storia è
ambientata nel 1752 in Prussia ed è un breve giallo che ha a
che
fare con società segrete e alchimia. L'investigatore
è un ufficiale
di Federico il Grande.
OPUS
MAGNUM
Parte prima – Nigredo
Espressione alchemica
che
indica il primo procedimento dell’Opera: consiste nella
soluzione o
liquefazione, cioè nella morte del Dragone. È il
Solve che
consentirà il Coagula.
Il roseto era in piena
fioritura.
Vi erano corolle di un bianco candido, vaporose come nuvole, altre di
un rosa carnicino, fiori in boccio tondi e compatti che lentamente si
schiudevano petalo dopo petalo, altre ancora di un colore sanguigno,
vellutato, che nella luce dorata del tardo pomeriggio diventava un
vermiglio sontuoso.
Una dama dal volto pallido e
fine, con l’acconciatura incipriata e un abito di seta sui
toni del
verde, si fermò davanti a una pianta un po’
isolata dalle altre,
raccolse un fiore nella coppa delle mani e si chinò ad
aspirarne il
sentore delicato. Poi si raddrizzò e sfiorò con
le dita i petali,
che erano bianco alabastro sul bordo e delicatamente rosati nella
parte più interna.
“Questa varietà
l’ho
chiamata come lui,” sospirò.
L’uomo che la
accompagnava, un
imponente ufficiale della Guardia che aveva i suoi stessi occhi
cerulei, le chiese: “Konstantin?”
“Sì, mi ricorda il
suo
incarnato.”
Fecero qualche passo lungo il
vialetto coperto di ghiaia. L’aria era tiepida, carica degli
effluvi della tarda primavera e vibrante del canto degli uccelli.
“È molto che non lo
senti?”
chiese l’uomo.
“Da Natale. Mi ha mandato una
lettera in cui diceva che stava bene e ripeteva che non aveva
intenzione di tornare a casa.” Si interruppe, emise un
secondo
sospiro. Si voltò a dare un ultimo sguardo al roseto, dove
la pianta
battezzata Konstatin brillava in un’aiuola tutta per
sé, poi
disse: “Ti ricordi quando era piccolo?”
L’ufficiale
annuì. Un
frugoletto dai capelli color fiamma, il cui massimo divertimento era
fare il cavalluccio sulle sue ginocchia. “Diceva che sarebbe
diventato come me.” Lo rivide girare per le sale della
residenza
agitando una spada di legno, con il suo tricorno che gli scendeva
fino agli occhi e lo costringeva a tenere una comica postura con la
testa rovesciata all’indietro.
“E adesso, invece...”
mormorò
la donna, sedendosi su una panchina di marmo. La voce aveva
un’incrinatura di pianto.
L’uomo si sedette
accanto a
lei, le prese una mano, la strinse fra le sue. “Gli
parlerò io,
Luise. Lo convincerò a tornare.”
L’altra estrasse un
fazzolettino dalla scollatura e si tamponò gli occhi.
“Non servirà
a nulla. Non ha mai risposto a nessuna delle mie lettere, tutti i
soldi che gli ho mandato li ha rispediti indietro. Dice che vuole
stare a Berlino e vivere delle sue poesie. Dice che non ha nessuna
intenzione di diventare ufficiale come Leopold e Gottfried.”
Alla frase fece seguito un
lungo
silenzio. Il sole stava calando e le ombre degli alberi disegnavano
sul prato lunghe strisce scure. Sulla linea dell’orizzonte il
cielo
cominciava a prendere un tono aranciato. “Sarà
meglio che
rientriamo,” disse l’ufficiale alzandosi. Porse il
braccio alla
sorella.
I due si incamminarono fianco
a
fianco verso un palazzo che si stagliava imponente dietro la
vegetazione.
†
La sala di marmo del Sanssouci
era occupata da un minuetto in pieno svolgimento.
In piedi vicino alla parete,
le
braccia dietro la schiena, il colonnello della Guardia Wilhelm von
Kleist seguiva distrattamente le evoluzioni delle coppie.
Ripensava al colloquio avuto
con
la sorella sul figlio di lei, ovvero il suo giovane nipote
Konstantin, che si ostinava nonostante ogni preghiera a vivere di
ristrettezze in una specie di topaia.
Considerò che se il
ragazzo
avesse avuto quella stessa determinazione nel diventare ufficiale, a
quel punto sarebbe già stato da almeno un anno
Fahnenjunker[1] nel
suo stesso reggimento, proprio come avrebbe tanto voluto fare da
piccolo.
Poi però si era
iscritto
all’Università, aveva conosciuto altri studenti,
si era riempito
la testa di idee strane e alla fine aveva abbandonato Potsdam e le
tradizioni di famiglia in favore di una solitaria vita da spiantato
nella Capitale.
Sospirò. Aveva
abbandonato la
disponibilità a comprendere certe ubbie giovanili dopo il
primo
fischiare di pallottole in campo aperto.
Mentre stava così
meditando,
fecero il loro ingresso nella sala tre donne. Il loro aspetto lo
colpì immediatamente, in primo luogo perché erano
tutte e tre molto
belle, e in secondo luogo perché la loro avvenenza aveva un
che di
vistoso e selvaggio, con una nota esotica che al tempo stesso
affascinava e spingeva sulla difensiva.
La più vecchia
poteva avere sui
quarant’anni. Era alta quasi come lui e asciutta come un
abete.
Aveva occhi neri dallo sguardo febbrile, che brillavano come braci in
un viso di eccezionale pallore. I suoi lineamenti erano severi ed
eleganti come quelli di una kore
greca. Portava un collier di rubini che sembrava uno spruzzo di
sangue. Nei generali toni pastello della sala, il suo abito scarlatto
impensieriva come un principio di incendio.
Le altre due dovevano essere
le
figlie, perché le somigliavano straordinariamente ma erano
molto più
giovani. Una aveva occhi verde acqua, l’altra li aveva neri
come la
madre. Nemmeno la meticolosa incipriatura riusciva a nascondere del
tutto l’ebano lucente delle loro capigliature.
Anch’esse avevano
abiti dai
colori sgargianti, una celeste e l’altra verde smeraldo, di
seta
lucida e frusciante.
Una voce lo distrasse dalla
contemplazione: “Anche voi siete incantato dalle nostre
ospiti, von
Kleist?”
L’ufficiale si
voltò e vide
von Bissing, un collega della cavalleria. “Chi
sono?” gli chiese
semplicemente.
“Non lo sapete? L’alchimista
e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.”
L’uomo ebbe un
sogghigno. “Pensate, la più vecchia, una certa madame
de Pfuel, si è
presentata a Sua Maestà sostenendo di essere in grado di
creare
l’oro a partire dai metalli vili.”
“E Sua
Maestà?”
Von Bissing fece
un’altra
risatina. “Invece di cacciarla come tutti si sarebbero
aspettati,
le ha concesso una rendita e una villa sul Templiner See. Pensate che
vi ha addirittura fatto allestire un laboratorio secondo le sue
richieste, in modo che madame potesse fare le sue trasmutazioni.”
Alzò le spalle e soggiunse: “Del resto, se quelle
due figliole
arrivassero nel mio reggimento con la pretesa di fare gli ufficiali,
pensate che mi libererei di loro?”
Von Kleist diede un altro
sguardo
alle giovani, che pur costrette nei rigidi passi del minuetto
sembravano delle nereidi intente a giocare fra le onde. “Non
credo
proprio,” concluse.
“Ecco, appunto. Ma ora basta
contemplare le grazie muliebri, collega. Di là ci sono von
Zieten e
von Falkenhausen che avrebbero piacere di rievocare qualche aneddoto
di guerra in vostra compagnia.”
Von Kleist si
staccò dalla
parete per seguirlo, ma nel movimento il bastone da passeggio col
pomolo d’argento che vi aveva appoggiato cadde a terra.
Al rumore del legno sul
pavimento, la ragazza in verde abbandonò le danze agile come
un
felino, raccolse l’oggetto e glielo porse. “A voi,
signor
ufficiale,” disse fissandolo negli occhi. La voce era bassa e
leggermente arrochita. Evocava la zampa di un gatto, morbida ma con
dentro gli artigli.
“Molte grazie, mademoiselle,”
disse l’altro accennando un inchino, ma la giovane stava
già
raggiungendo la sorella.
“Muovetevi, von
Kleist!” lo
richiamò alla realtà von Bissing, tirandolo
scherzosamente per una
manica.
Si spostarono in un salottino
in
cui il colore dominante era il blu scuro delle uniformi. La musica
giungeva ovattata e in generale la confusione del ricevimento era
solo un’eco lontana.
“Ve l’ho portato,
finalmente!” annunciò von Bissing ai presenti.
Tutti si voltarono nella loro
direzione.
“Buona sera!” disse
von
Kleist a voce alta. “Nel vedere lor signori tutti insieme mi
sembra
di tornare alla vigilia della battaglia di
Hohenfriedberg[2].”
“Il nostro ottimo von
Kleist!”
lo salutò un generale sollevando nella sua direzione il
calice che
teneva in mano.
L’ufficiale rispose
al saluto
con un cenno del capo. “Generale von Falkenhausen.”
“Venite qui, ragazzo mio.
Prendete un po’ di questo chiaretto, non
c’è niente di meglio
per scaldare il cuore di un vecchio soldato.” Fece una pausa,
che
utilizzò per bere un sorso. “Sebbene voi non siate
affatto
vecchio, dico bene?”
“Lo è quanto basta
per
abbandonare la sala senza rimpianti quando entrano le due ragazze von
Pfuel!” intervenne ridendo un altro ufficiale.
“Me lo ricordo quando era un
giovane sottotenente nella battaglia di Mollwitz,”
replicò von
Falkenhausen. “Quanto tempo è passato da
allora?”
Von Bissing fece il conto.
“Dieci
anni, signor generale.”
“Ne avete fatta di carriera in
questo decennio, ragazzo mio.”
Un altro ufficiale si
avvicinò
al gruppetto e disse: “Niente rende rapide le carriere come
le
promozioni per meriti sul campo.” Alzò a sua volta
il bicchiere in
direzione di von Kleist, poi aggiunse: “E per fortuna, presto
ci
sarà nuovamente questa magnifica occasione per tutti noi. Io
credo
che tra un po’ ci sarà una guerra.”
“Voi dite?”
domandò
qualcuno, con un tono a metà fra la preoccupazione e
l’aspettativa.
L’altro
annuì grave.
“L’arcinemica del nostro amato sovrano, Maria
Teresa d’Austria,
non rinuncerà facilmente alla Slesia.”
Si fece avanti von Zieten, un
colonnello di un reggimento di linea: “Non si è
ancora rassegnata?
Ha bisogno di un altra Kesseldorf[3] per capire come stanno le
cose?”
“Non si rassegnerà
mai. C’è
un odio personale tra lei e Sua Maestà. Del resto lo sanno
tutti in
che rapporti sono. Io credo che Maria Teresa tenterà di
allearsi con
Caterina di Russia per stringere la Prussia in una morsa.”
Il generale von Falkenhausen
vuotò il bicchiere e lo appoggiò sul tavolino,
poi solennemente
proclamò: “Io dico che finché il nostro
amato sovrano ci
comanderà in battaglia, sarà impossibile che
quella strega riesca a
mettere le mani sulla Slesia, o su qualsiasi altra parte del regno di
Prussia!”
Tutti approvarono
rumorosamente,
venne versato un nuovo giro di chiaretto, si brindò alla
salute del
Re.
†
Il colonnello von Kleist non
fece
in tempo a scendere dalla carrozza che già la porta del suo
alloggio
si era aperta e sulla soglia era comparsa la figura erculea del suo
valletto con un candelabro in mano.
“Bentornato,
Eccellenza,” lo
salutò l’enorme giovanotto con un inchino.
“Grazie, Franz.”
L’ufficiale
entrò nell’ingresso e si accorse che su una delle
mensole che si
trovavano sotto le specchiere c’era un vassoio
d’argento con una
busta. “Cos’è quella?” chiese.
L’altro
scattò sull’attenti.
“Una lettera, Eccellenza.”
Von Kleist sorrise.
“Una
lettera, di chi?”
“Non saprei,
Eccellenza.”
“Chi l’ha
portata?”
“Uno che ha detto di venire da
Berlino, Eccellenza.” Poi, dopo una pausa, con tono vagamente
incerto: “Dovevo trattenerlo, Eccellenza?”
“No, hai fatto bene a mandarlo
via. Gli hai dato un Groschen[4] di mancia come ti ho
insegnato?”
Franz annuì fiero.
“Sì,
Eccellenza.”
“Molto bene. Ora portami quella
lettera e va a dormire.”
“Sì,
Eccellenza.”
Von Kleist si
ritirò nella sua
stanza, quasi sollevato dal non sentirsi rivolgere l’epiteto
‘Eccellenza’ ogni tre parole. Kretschmer era un
bravo ragazzo, ma
faticava ancora a capire quando era il caso di usare le cerimonie e
quando invece sarebbe stato necessario un tono più
informale.
Prese la busta e lesse il
mittente. Sorrise fra sé e sé: lupus
in fabula. Forse
Konstantin dopotutto si era stufato di fare l’anacoreta.
Aprì la lettera e
subito sollevò
le sopracciglia perplesso. Se non fosse stato più che sicuro
di aver
riconosciuto la grafia di suo nipote, avrebbe giurato di aver a che
fare con un impostore che si spacciava per lui.
Ciò che stava
leggendo non aveva
nulla a che fare con il Konstantin che conosceva, tanto che la
seconda ipotesi che formulò fu quella della malattia. Forse
il
ragazzo non stava bene con la testa.
Rilesse la lettera:
Stimatissimo signor
zio,
è vero
senza menzogna, certo
e verissimo che voi siete il mio zio prediletto.
Mi rivolgo a voi
nell’ora
del bisogno, e non esito a dirvi che mai mi sono trovato, nella mia
breve vita, in una tale profonda e impellente necessità
della vostra
presenza.
Qualora voi veniste a
trovarmi
ma io non ci fossi, guardate con melancolia fuori dalla finestra:
allora ciò che era manifesto sarà nascosto e
ciò che era nascosto
sarà manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il
motivi
del mio turbamento.
Vi prego, caro signor
zio, non
indugiate: se voi non intervenite, il nostro sole potrebbe essere
spento per sempre da una luna invidiosa.
Il vostro devoto
nipote
Konstantin von Jagow
Von Kleist rilesse ancora una
volta la lettera, capendoci ancora meno. L’unica cosa chiara
di
tutta la missiva era che il ragazzo aveva bisogno di vederlo con
urgenza.
Trasse di tasca una chiave,
andò
a uno stipo e lo aprì: dentro vi erano vari sacchetti di
talleri. Ne
prese qualcuno. Sicuramente Konstantin si era messo in qualche guaio
che non aveva il coraggio di confessare ai genitori. Probabilmente
cercava di attirarlo a Berlino per intenerirlo facendo leva
sull’affetto che nonostante tutto sapeva di suscitare in lui.
Poco male: questa volta
l’avrebbe
riportato indietro. Con la forza, se necessario. Quello stupido gioco
di fare il poeta spiantato era già durato anche troppo a
lungo.
“Franz!”
chiamò.
Si udì un
tramestio, poi
comparve il ragazzone in camicia da notte.
“Eccellenza?”
“Prepara tutto, domattina
partiamo per Berlino.”
“Sì,
Eccellenza.”
†
Il giorno dopo, di buon
mattino,
Wilhelm von Kleist salì sulla carrozza portando con
sé cinquecento
talleri, il suo bastone animato, la sua spada e un paio di pistole
cariche. Non che pensasse di fare chissà cosa, ma il tono
della
missiva di Konstantin non gli era piaciuto per niente, e non voleva
rischiare di farsi cogliere alla sprovvista in nessuna situazione.
A cassetta con il cocchiere
sedeva il suo valletto, al quale probabilmente sarebbe bastata la
sola mano sinistra per ridurre all’impotenza il suo efebico
nipote.
Se il ragazzo si fosse ribellato ancora una volta alla voce del buon
senso, avrebbe dato ordine a Franz di caricarselo in spalla. Ormai
non ne poteva più di certi capricci da bambino viziato.
Sorrise fra sé e
sé
nell’immaginare la scena.
La carrozza si mise in
movimento.
Si lasciò in breve alle spalle la cittadina di Potsdam, e
dopo un
breve tratto di campagna giunse ai sobborghi di Berlino.
Da lì non fu
difficile arrivare
all’edificio in cui aveva trovato alloggio di Konstantin.
La carrozza vi si
fermò proprio
davanti, attirando lo sguardo di parecchie persone: non dovevano
passarne molti, di esponenti della nobiltà, da quelle parti.
Nella curiosità
generale,
l’ufficiale scese e rimase a guardarsi intorno con i pugni
puntati
sui fianchi. Se quello fosse stato un acquartieramento per le sue
truppe, avrebbe dato una bella strigliata a chi gliel’aveva
messo a
disposizione. “Franz!” chiamò.
“Eccellenza?”
“Va a vedere se
c’è qualcuno
in questa topaia.”
“Sì,
Eccellenza.” Il ragazzo
salì i gradini che conducevano al portone
d’ingresso e batté
qualche colpo sulla porta.
Von Kleist nel frattempo
osservava critico il palazzo: era un caseggiato di quattro piani, con
la facciata di mattoni scuri e le finestre piccole. Qualche vetro era
stato sostituito da tavolette di legno.
In generale aveva un aspetto
umido e fatiscente, che non invitava certo a prendervi alloggio.
Se mai ce ne fosse stato
bisogno,
quella era un’altra conferma della necessità di
portare Konstantin
in ambienti più consoni al suo rango e alla sua cultura.
Nel frattempo, il portone si
era
aperto e sulla soglia era comparsa una signora di
mezz’età corpulenta e bassa di statura, con un neo
posticcio sulla guancia e
un’elaborata parrucca di crine bianco. “Che
cos’è questo
fracasso?” inveì la donna, asciugandosi le mani
arrossate nel
grembiule che aveva addosso. Poi notò alle spalle di Franz
la
presenza della carrozza, ma soprattutto di von Kleist. Immediatamente
si ricompose e omaggiò quest’ultimo di una
riverenza. “Signor
ufficiale...” disse ossequiosa.
Il colonnello si fece avanti e
si
presentò, poi chiese: “Abita qui Konstantin von
Jagow?”
La signora rimase perplessa.
“Von
Jagow?” ripeté. Dall’espressione era
piuttosto evidente che il
nome non le diceva nulla.
“Un giovane di circa
diciott’anni, con i capelli rossi, snello, non
particolarmente
alto.”
La signora tirò
fuori dai
recessi del suo abito una lorgnette e squadrò con quella il
colonnello, come se il vederlo attraverso le lenti avesse il potere
di rendere più chiara la descrizione del misterioso
inquilino.
Infine disse: “L’unico che potrebbe corrispondere
alla vostra
descrizione è il signor Theophrastus.”
“Theophrastus?” fece
eco von
Kleist perplesso.
La donna si sciolse in un
sorriso
affettuoso. “Un giovanotto che sta all’ultimo
piano. Tanto
beneducato e gentile. Non fa mai rumore, non disturba mai. Qualche
volta non ha i soldi per l’affitto, ma io gli faccio sempre
credito, sapete? E immancabilmente dopo qualche giorno lui mi paga
fino all’ultimo Pfenning.”
“Vorrei parlare con
lui,”
disse l’ufficiale. Tirò fuori dalla tasca un mezzo
tallero
d’argento.
Alla vista della moneta, la
signora si illuminò in viso. “Vi faccio
strada!” esclamò, e
raccolte le gonne li precedette in un androne che sapeva di cavolo
bollito e salsiccia di fegato.
Dopo innumerevoli rampe di
scale,
l’ultima delle quali ripidissima e piuttosto tarlata,
arrivarono a
una soffitta. Nonostante la stagione, il luogo era freddo e
l’aria
umida. Refoli di vento si insinuavano dalle finestre con i vetri
rotti. Un piccione si alzò in volo con gran sbattere di ali
al loro
arrivo.
“Ecco qua,” disse la
signora,
con un po’ di affanno per via delle scale. “Un
posticino
tranquillo e confortevole per un giovane studente.” Poi si
avvicinò
a una porta e bussò con discrezione. “Signor
Theophrastus?”
Non le giunse risposta.
“Strano,”
constatò la donna,
poi bussò in modo più energico. “Signor
Theophrastus? Ci sono
delle visite per voi!”
“Konstantin!”
subentrò il
colonnello, “Sono io, lo zio Wilhelm! Apri la
porta!”
Ma di nuovo rispose solo il
silenzio.
“Siete sicura che non sia
uscito?” chiese l’ufficiale.
“Sicurissima, Eccellenza.
Probabilmente starà dormendo. Sapete come sono gli studenti:
fanno
tardi la sera, fanno baldoria, e poi...” Alzò gli
occhi al cielo.
Il colonnello bussò
di nuovo,
poi provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a
chiave.
“Konstantin!” ripeté, “Apri!
Sono tuo zio Wilhelm!”
Al protrarsi del silenzio, si
rivolse alla signora: “Aprite quella porta!”
La donna tirò fuori
dalle pieghe
del vestito una chiave universale e fece scattare la serratura,
quindi dischiuse l’anta e si affacciò
all’interno. Subito si
portò le mani al viso e strillò: “Mio
Dio!”
Franz fece appena in tempo ad
afferrarla prima che crollasse al suolo svenuta.
Von Kleist si
affacciò a sua
volta nella misera stanzetta: Konstantin giaceva immobile sul letto.
Aveva visto abbastanza cadaveri nella sua carriera da capire con
sicurezza che suo nipote era morto.
Fece qualche passo nella
camera.
Il ragazzo era posizionato su un fianco, con il capo abbandonato
sulle coltri e un braccio che pendeva verso terra. I capelli color
fiamma, sciolti, rendevano ancora più profondo il pallore
dell’incarnato. Aveva addosso una camicia bianca, un paio di
pantaloni color indaco, le calze e una sola scarpa. La marsina rosso
scuro era appoggiata alla spalliera di una sedia.
Accanto al letto
c’era un
piccolo baule aperto e pieno di carte strappate. Sul pavimento, poco
lontano dalla mano del giovane, si trovava una fialetta di vetro.
Si avvicinò, gli
toccò il
collo: la pelle era già fredda, non vi era più la
pulsazione delle
arterie.
Aggrottò le
sopracciglia: perché
mandargli quella lettera chiedendogli di raggiungerlo, se poi la sua
intenzione era quella di uccidersi? O quello di uccidersi era stato
un gesto impulsivo, dettato dal suo carattere irruente?
Si guardò intorno:
la stanza era
di una miseria sconcertante. A parte il letto, coperto da un semplice
panno marroncino, gli unici mobili presenti erano una sedia e un
tavolino con sopra una bugia. La candela doveva essersi consumata di
recente, perché dal piccolo oggetto si levava ancora un
lieve filo
di fumo.
Sempre sul tavolino
c’era
l’abbozzo di una lettera indirizzata alla madre.
Dietro il letto
c’era una
finestra aperta, sul davanzale c’era un vaso di terracotta in
cui
cresceva una piantina di rose.
Sospirò al pensiero
di quello
che avrebbe dovuto dire a sua sorella.
Si avvicinò al
ragazzo, lo
osservò con più attenzione. La prima cosa che lo
colpì fu la pace
che sembrava distendere i suoi lineamenti. La fialetta di vetro
suggeriva che per uccidersi avesse usato del veleno, ma nessun veleno
di sua conoscenza regalava una tale tranquillità nella
morte. Di
solito il trapasso avveniva fra atroci dolori, in mezzo a sbocchi di
sangue, vomito ed escrementi.
Konstantin invece sembrava un
Endimione. Peraltro non c’erano né macchie
ipostatiche né
rigidità cadaverica, sebbene non vi fosse ormai
più traccia di
calore corporeo.
E la camicia. Era aperta fino
alla cintura. Il ragazzo non l’aveva mai portata in quel
modo, lo
riteneva volgare. Scostò appena i lembi
dell’indumento e notò al
centro del petto, proprio alla fine dello sterno, una macchia scura.
Una delle mani di Konstantin si trovava proprio lì, come se
quell’alone fosse il segno di qualcosa che gli aveva in
qualche
modo provocato sofferenza.
Sotto il letto
trovò la scarpa
mancante, in una posizione in cui non poteva essere finita
perché
sfilatasi dal piede dopo la morte. Da quando in qua ci si suicida con
una scarpa sola, pensò?
Guardò le carte a
brandelli:
erano fogli scritti. Tutto suggeriva che il giovane li avesse
stracciati prima di porre fine alla propria esistenza.
Controllò in giro,
guardò nel
cassetto del tavolino, ma a parte la chiave della stanza non
trovò
nulla di rilevante, né soldi né oggetti preziosi.
Udì passi pesanti
su per le
scale e dopo un po’ si affacciò Franz, che
osservò la scena,
assunse un’aria costernata ed esclamò:
“Eccellenza! Povero
signorino...”
Quell’accorata
constatazione
ebbe il potere di spingere brutalmente von Kleist fuori dalla trincea
di distacco che era riuscito a crearsi. Di colpo realizzò
che il
corpo lì steso era quello del bimbo che gli saltellava sulle
ginocchia cantando ‘Hoppe
Hoppe Reiter’[5] e
del giovanotto per cui aveva immaginato una carriera nella Guardia.
“Sì, povero signorino,”
sospirò.
Lo rivide in uno dei suoi
atteggiamenti favoriti: chino su un libro, la mano a sostenergli il
volto, lo sguardo assorto. I capelli sciolti che gli ricadevano da un
lato come una cortina di rame lucente.
Diede un’ultima
occhiata al
corpo immobile, poi trasse un secondo sospiro e disse: “Bene.
Mettiamoci al lavoro, ci sono parecchie cose da fare. Vammi a
chiamare la padrona di questo posto.”
“Sì,
Eccellenza.” Franz
scomparve giù per la scala.
Rimasto solo, von Kleist prese
tutti i brandelli di carta che riuscì a trovare, sfilandoli
addirittura dalla mano gelida di Konstantin, e li ripose nel baule,
poi prese il fazzoletto e con esso raccolse la fialetta di vetro, che
poi si mise in tasca.
Guardò in giro una
seconda
volta, controllò anche le tasche della marsina abbandonata
sulla
sedia, ma non trovò nulla. Considerò fra
l’altro che non c’era
un Pfenning[6] in tutta la stanza, e che i miseri averi del ragazzo
ammontavano a pochi vestiti, qualche oggetto da toeletta, una penna e
un calamaio.
Rivolse una nuova occhiata al
corpo. Konstantin si era suicidato per disperazione? Forse aveva
pensato che nonostante la lettera nessuno sarebbe arrivato a
soccorrerlo? Cosa gli aveva impedito, se era in tali ristrettezze, di
tornare a Potsdam anche a piedi? L’orgoglio, forse? Ma allora
perché scrivere quella lettera?
Scosse la testa: in quel
suicidio
c’erano parecchie cose che non quadravano affatto.
Sentì di nuovo i
passi di Franz
salire le scale. Alle sue spalle una voce femminile diceva:
“Ah,
no! Io lassù non ci torno per tutto l’oro del
mondo! Signore
Iddio, non dimenticherò quello spettacolo campassi mille
anni!”
“Arriva la signora,
Eccellenza,” annunciò il valletto.
“Vi ho detto di no!”
si fece
udire la voce della donna dal piano di sotto. “Io
lassù non ci
salgo. Venite voi quaggiù, Eccellenza, se volete
parlarmi.”
Von Kleist emise uno sbuffo
infastidito. Si avvicinò alla tromba delle scale e in tono
severo
chiese: “Come vi chiamate, signora?”
“Hermine
Pfannenschmied.”
“Molto bene, signora
Pfannenschmied. Io ho appena perso mio nipote. Fatemi il favore di
non creare ulteriori turbative con le vostre paturnie.”
Il tono del colonnello
convinse
la signora a salire le scale senza replicare.
Quando furono faccia a faccia,
von Kleist le disse: “Ora voglio che voi chiudiate la porta e
la
finestra di questa stanza e che non facciate entrare nessuno fino a
che non verranno a prendere il corpo, cosa che succederà al
più
tardi domattina. Il ragazzo vi doveva qualcosa?”
La donna esitò.
“Allora?”
“Ecco…
l’affitto del mese,
Eccellenza.”
Von Kleist le diede un tallero
d’argento. “Prendete questo. Se seguirete le mie
istruzioni alla
lettera, quando tornerò ve ne darò un
altro.”
Alla signora Pfannenschmied si
illuminarono gli occhi. “Oh, grazie, Eccellenza!”
esclamò.
“State tranquillo, vigilerò io personalmente:
nessun altro metterà
piede in questa stanza.”
L’ufficiale
annuì soddisfatto
e disse: “Franz, prendi il baule del signorino e portalo
sulla
carrozza.” Poi, rivolto alla donna: “Come vi ho
detto, torneremo
al più tardi domattina.”
†
L’incontro
con la sorella
era stato più straziante del previsto. Von Kleist aveva
già avuto
l’ingrato compito di recare simili annunci alle famiglie di
giovani
ufficiali caduti del suo reggimento, ma nulla l’aveva
preparato
all’abisso di dolore in cui era sprofondata Luise nel
ricevere la
notizia.
Non aveva versato una
lacrima,
non aveva emesso un suono. Era rimasta immobile, aveva rifiutato gli
abbracci, si era lasciata scivolare addosso le parole di conforto.
Solo i suoi occhi chiari si erano incupiti come laghi che in inverno
si coprono di ghiaccio. Infine si era alzata dalla sedia lenta,
solenne, già un’ombra dolente di quello che era
stata. “Vado al
roseto,” aveva annunciato con voce incolore, ed era scomparsa
nel
parco.
Osservò il bauletto
che aveva
preso nella camera di Konstantin. Un semplice contenitore di legno,
del valore di pochi Pfenning.
Rivide il corpo adagiato, la
miseria delle poche cose che lo circondavano, lo squallore della
soffitta umida e sporca.
Nulla quadrava.
Il fatto che il ragazzo gli
avesse inviato una lettera in cui chiedeva il suo aiuto ma poi si
fosse comunque
ucciso. Il contenuto della lettera: frasi sconnesse, senza apparente
senso. Il contesto in cui aveva trovato il corpo: elementi che
deponevano a favore di un suicidio ma altri che sembravano negarlo
nella maniera più decisa.
Inspirò
profondamente. Forse era
il coinvolgimento affettivo che lo rendeva incapace di ragionare in
modo razionale. Forse la morte assurda del suo nipote prediletto gli
faceva desiderare e quindi immaginare che ci fossero persone a cui
poter attribuire la colpa di quanto era successo.
Aprì il baule,
rovistò
immergendo la mano fra i brandelli di carta straccia. Potevano essere
le sue poesie? Tirò fuori una manciata di frammenti,
cominciò ad
allineare sul tavolo i pezzetti di carta. ‘Mio caro
Theophrastus,’
lesse su uno di essi.
Alzò le
sopracciglia: dunque
erano lettere. O perlomeno c’erano anche delle lettere in
quel
mucchio di frammenti.
Liberò
completamente il tavolo,
vi rovesciò sopra il contenuto del baule, stando ben attento
a non
perdere nemmeno un brandello. “Franz!”
chiamò.
Subito comparve il valletto.
“Eccellenza?”
“Franz, va a preparare della
colla arabica e poi portamela assieme a dei fogli di carta.”
“Sì,
Eccellenza.”
Era stata necessaria tutta la
notte, ma alla fine von Kleist era riuscito a ricomporre il contenuto
del baule, che stava finendo di asciugarsi incollato su fogli
più
grandi.
Osservò il
risultato del suo
lavoro. C’era un disegno che rappresentava una donna alata in
posizione seduta, con una corona di fiori sul capo e un compasso in
mano, circondata da svariati oggetti. Nella figura si vedevano anche
un putto e un cane, un quadrato con dentro dei numeri e un solido
dalla forma strana.
C’erano dei versi.
Rime che in
apparenza non avevano alcun senso, con espressioni come sole
nero, lupo dei metalli
o bagno
dell’androgino.
Infine c’erano delle
lettere.
La grafia non era quella di Konstantin. Erano tutte indirizzate a
Theophrastus e firmate da un certo Basilius. In esse si faceva
riferimento fra le altre cose a una Grande Opera che doveva essere
portata a compimento e a una Regina che l’avrebbe resa
possibile.
In tutte le lettere ricorreva una specie di sigla, V.I.T.R.I.O.L.,
che si trovava sempre prima della firma, al posto dei convenzionali
saluti.
Se Konstantin era uscito di
senno, quindi, non era rimasto solo nella sua follia: c’era
perlomeno un’altra persona che aveva vaneggiato con lui, e
che
aveva scambiato con lui delle misteriose missive.
Immaginò che
Basilius fosse un
nome falso esattamente come Theophrastus, quindi non avrebbe avuto
alcun senso andare a cercarlo. Non come Basilius, in ogni caso.
Uno scambio di lettere,
ragionò,
presuppone che ci sia qualcuno che porta le suddette lettere avanti e
indietro. Sarebbe bastato trovare quel qualcuno.
†
Arrivò alla
pensione della
signora Pfannesnschmied proprio mentre stavano caricando su un carro
la bara di Konstantin. Per l’occasione, la donna aveva
indossato
uno scialle nero, e in piedi sulle scale seguiva il feretro con un
atteggiamento di serietà grave. Non appena lo vide
sopraggiungere
gli andò incontro e, a bassa voce per non turbare la
solennità del
momento, lo informò che aveva seguito le sue istruzioni alla
lettera, e che nessuno poteva aver messo piede nella stanza che era
stata del signor Theophrastus.
“Molto bene,” rispose
von
Kleist.
La signora lo
scrutò per vedere
se era in arrivo il tallero promesso, ma l’ufficiale disse:
“Ho
ancora una cosa da chiedervi, signora Pfanneschmied.”
L’altra
faticò per nascondere
il disappunto che quell’ulteriore complicazione le
comunicava,
tuttavia chese: “Che cosa, Eccellenza?”
“Il signor Theophrastus
riceveva lettere?”
“Sì, Eccellenza.
Tutti i
giorni.”
“Chi le portava?”
“Un ragazzo. Non lo conosco di
nome.”
“Ne ha portate in questi ultimi
due giorni?”
“No, Eccellenza.”
Von Kleist sollevò
le
sopracciglia. “Molto interessante,”
constatò. “E il signor
Theophrastus scriveva lettere?”
“Sì,
Eccellenza.”
“Le consegnava a quel
ragazzo?”
“No, Eccellenza, quelle le
portava il nostro Sepp.”
“Posso parlarci, con questo
Sepp?”
La donna era sempre
più in
apprensione per il compenso promesso che sembrava non arrivare.
“Sì,
Eccellenza.” La sua espressione diceva chiaramente: purché
non gli venga in mente di darlo a Sepp, il mio tallero.
Grazie alle indicazioni del
giovane garzone di nome Sepp, che in effetti aveva quotidianamente
recapitato lettere da parte del signor Theophrastus, von Kleist
arrivò a una villa circondata da un parco.
Il posto aveva uno strano
aspetto
fatiscente, i vialetti erano invasi dalle erbacce, le piante erano
lasciate libere di crescere a loro piacimento. Qua e là si
vedevano
strane statue, isolate o in gruppi. Lo colpì un gruppo di
quattro
donne, ognuna in piedi su una sfera e con una specie di fiasco in
equilibrio sulla testa. Più oltre c’era una grotta
con l’entrata
fatta come le fauci spalancate di un drago. L’ipotesi della
follia
condivisa si fece più consistente. Suo nipote era stato un
ragazzo
intelligente, ma ingenuo e cresciuto negli agi: quanto poteva essere
stato difficile suggestionarlo o plagiarlo? Magari era venuto in
contatto con le stranezze che stava vedendo e ancora inesperto del
mondo, senza una guida che lo sostenesse, ne era stato risucchiato,
perdendo in tal modo il senno.
Mentre stava così
ragionando, la
carrozza arrivò allo spiazzo davanti all’ingresso
della villa e si
fermò.
L’edificio, che
aveva porta e
finestre serrate, era nelle stesse condizioni del giardino. Se non
fosse stato per un filo di fumo che si alzava da uno dei comignoli,
si sarebbe detto abbandonato.
Al centro della facciata
c’era
un bassorilievo che rappresentava un serpente nell’atto di
mordersi
la coda.
Franz scese dalla carrozza e
andò
a bussare alla porta.
Passò forse un
mezzo minuto
prima che l’anta si schiudesse. Sulla soglia comparve un
giovane
uomo con i capelli neri e il volto soffuso di pallore. Non aveva
l’aria di appartenere alla servitù.
Von Kleist scese a sua volta
dal
veicolo e si avvicinò. “Sto cercando la persona
che si fa chiamare
Basilius,” disse.
L’uomo si
voltò verso di lui,
lo squadrò con occhi così chiari da sembrare
senza colore. Non
parve particolarmente impressionato dal trovarsi di fronte un
ufficiale della Guardia. “Con chi ho
l’onore?” domandò.
“Siete voi Basilius?”
chiese
di rimando von Kleist.
“Forse. E voi chi siete, di
grazia?”
Di nuovo si squadrarono.
Nessuno
dei due abbassò lo sguardo. Infine, l’ufficiale
disse: “Il mio
nome è Wilhelm von Kleist. E ora vorrei sapere il
vostro.”
“Rainer Brandt.”
“Siete voi che vi fate chiamare
Basilius?”
“Sì. Posso sapere
perché
siete qui?”
“Il giovane che si faceva
chiamare Theophrastus è
morto, e vorrei cercare di capire perché, dal momento che
era mio
nipote.”
La frase suscitò
nel misterioso
padrone di casa poco più di un’alzata di
sopracciglio. “Mi
dispiace molto,” disse dopo un po’, “e vi
faccio le mie
condoglianze per il lutto che vi ha colpito.”
“Sapevate che era
morto?”
Brandt abbassò gli
occhi. “L’ho
appreso adesso da voi.”
“Lo conoscevate da
molto?”
“Qualche mese.”
“Come mai quei soprannomi nelle
lettere? Che cosa significano?”
Il giovane fece spallucce.
“Un
gioco fra noi.” Si accorse che von Kleist stava cercando di
dare
un’occhiata all’interno della villa e si chiuse la
porta alle
spalle. “La morte fa parte della vita,” disse poi.
“Certo è
penoso perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi.
Ma
purtroppo sono cose che succedono, e bisogna farsene una ragione. Vi
consiglio di darvi pace, cercare di ripercorrere i suoi ultimi
momenti nella speranza di trovare una spiegazione al suo gesto
sarebbe solo una pena inutile.”
Il colonnello fissò
di nuovo
negli occhi il suo interlocutore, poi annuì grave.
“Ma certo. Vi
chiedo scusa per il disturbo e vi auguro buona giornata, signor
Brandt.”
Tornò alla carrozza.
Mentre il veicolo procedeva
verso
Potsdam, von Kleist rimuginava sulle parole del misterioso signor
Brandt: Certo è
penoso
perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi.
Non aveva mai detto in che
modo
era morto Konstantin.
E poi c’erano quei
nomi strani,
Theophrastus e Basilius, che Brandt aveva liquidato definendoli un
gioco, e c’era in generale la sensazione che
quell’uomo sapesse
molto di più di quello che gli aveva rivelato.
Tutta la vicenda, del resto, a
partire dalla lettera che Konstantin gli aveva inviato e finendo con
il suo misterioso suicidio, se tale era stato, sembrava necessitare
di una chiave di lettura, senza la quale era destinata a rimanere
incomprensibile.
C’era un filo
conduttore che
univa tutti gli elementi in suo possesso, ne era certo, ma con le sue
competenze da militare non riusciva a coglierlo. Ci voleva un altro
tipo di sapienza.
†
Von Kleist si
guardò intorno
incuriosito: ogni volta che andava a fare visita al suo vecchio
compagno d’armi, trovava qualche nuova meraviglia da
ammirare.
Era costumanza che nei palazzi
agiati ci fosse una Wunderkammer[7]
piena di oggetti misteriosi provenienti da paesi lontani, ma la
residenza di Johannes von Ruchel era diventata nel corso degli anni
un’unica, immensa e fantastica Wunderkammer, dove scheletri
di
animali esotici si mescolavano con manufatti di popoli sconosciuti e
conchiglie madreperlacee gareggiavano in splendore con minerali
colorati.
Franz, che seguiva il
colonnello
a rispettosi tre passi di distanza con la cassetta e le lettere del
povero Konstantin, come ogni volta si guardava intorno a bocca
aperta, e di certo al ritorno da quella visita avrebbe intrattenuto
il resto della servitù per giorni con i racconti di
ciò che aveva
visto.
“Johannes?”
chiamò von
Kleist, procedendo con attenzione lungo un corridoio con due file di
armature da samurai allineate lungo le pareti. Le orbite vuote delle
maschere di lacca sembravano seguire il suo passaggio con disappunto,
come se la sua presenza in qualche modo le disturbasse.
“Johannes?”
“Sono qui,” rispose
una voce,
“nella stanza dei fossili.”
Poi si udirono il raschiare di
una sedia che veniva spostata e un passo claudicante, accompagnato
dal ticchettio regolare di un bastone. “Eccomi
qui,” disse un
uomo sulla quarantina, di altezza media, vestito con una semplice
camicia dalle maniche rimboccate e un paio di pantaloni scuri e
impolverati. I capelli biondi erano legati in una coda.
“Scusa la
tenuta, stavo classificando delle ammoniti,” si
giustificò. Poi si
rivolse al valletto: “Salve, Franz. Come stai?”
Il ragazzo accennò
un inchino.
“Molto bene, Eccellenza, grazie.”
“Beh, venite qui,”
disse il
padrone di casa. Poi, rivolgendosi a von Kleist: “Hai detto
che
avevi bisogno della mia sapienza,
se non sbaglio.”
Sempre appoggiandosi
pesantemente
al bastone, precedette i due verso un salotto dove si trovavano un
tavolino e delle poltrone. Fece cenno di sedersi e prese posto a sua
volta. “Hai visto?” chiese a von Kleist.
Batté con le nocche
sulla sua coscia destra, producendo un rumore legnoso.
“Questa
volta hanno fatto il tutore secondo il mio disegno. Quando lo porto
riesco quasi a camminare senza il bastone.”
“Ti fa ancora male?”
chiese
von Kleist.
L’altro
alzò le spalle. “Ormai
sono passati più di dieci anni da Chotusitz[8], ci ho fatto
l’abitudine. Quello che mi fa più male
è che adesso la mia unica
possibilità di servire il Reggimento è aiutarti
con le traduzioni
in latino.”
“Eri il migliore di noi, se ti
può consolare.”
Von Ruchel si
limitò ad alzare
di nuovo le spalle. “Allora, questa faccenda
misteriosa?” chiese
poi.
“Si tratta di mio nipote
Konstantin,” esordì von Kleist. Gli
raccontò tutto, senza
tralasciare il minimo particolare.
Alla fine gli porse la lettera
del ragazzo.
L’altro la lesse con
attenzione, poi rialzò lo sguardo e chiese: “Che
tu sappia, tuo
nipote si interessava di alchimia?”
“Di che?”
replicò von Kleist
perplesso.
“Alchimia. Solve
et coagula, pietra
filosofale, creazione dell’oro a partire dai metalli vili. Ti
dice
nulla?”
Von Kleist scosse la testa.
Infine ripensò alla serata al Sanssouci e chiese:
“Come quella
tale von Pfuel e le sue figlie?”
“Ah, quelle.” Von
Ruchel fece
una risatina. “Ne ho sentito parlare. Non so se lo sappiano creare,
l’oro, ma di sicuro sanno come fare per
accaparrarselo.” Poi,
dopo una pausa: “Comunque, per tornare a noi, nella lettera
del
povero Konstantin ci sono chiare allusioni alchemiche.
L’incipit è
l’inizio della Tabula
Smaragdina, e anche
quella frase sulle cose nascoste che divengono manifeste è
un chiaro
riferimento all’Arte.”
“Sarebbe?”
“L’Arte, o
Ars Regia, è
l’alchimia. La Tavola di Smeraldo è uno scritto
sapienziale
attribuito a Ermete Trismegisto.”
“Ne so quanto prima.”
L’altro
sospirò. “È per
dire che tuo nipote ha citato testi basilari di questa disciplina.
Posso tenere la lettera per qualche giorno? Vorrei studiarla
meglio.”
“Fa pure.”
Von Ruchel indicò
la cartella
che Franz aveva sulle ginocchia. “E lì cosa
c’è?”
“Lettere che Konstantin
riceveva da uno che si faceva chiamare con un soprannome. E che
chiamava lui con un soprannome. Poi c’è un disegno
strano.”
Tirò fuori la
figura ricomposta.
“È la Melancolia di
Dürer,”
disse von Ruchel dopo averla osservata. “Anche questa
è
un’immagine con chiarissimi riferimenti alchemici. Vedi, ci
sono la
scala a pioli che rappresenta le tappe della sapienza, la clessidra,
gli attrezzi… e poi c’è un quadrato
magico a sedici caselle,
proprio qui sulla destra, sopra la donna alata.”
Von Kleist osservò
la figura,
poi si passò una mano fra i capelli emettendo un sospiro.
“Tu dici
che mio nipote aveva perso il senno?” chiese dopo un
po’.
L’altro scorse le
carte. “No,
ma penso che si sia trovato in una faccenda più grande di
lui.”
“Che cosa, ad
esempio?”
“Non lo so, devo studiare
meglio tutte queste lettere.” Sfogliò il contenuto
della cartella
e come parlando fra sé e sé soggiunse:
“Sembra una specie di
codice da decifrare. Questi nomi, Basilius e Theophrastus, hanno di
certo un significato.”
Ci fu qualche secondo di
silenzio. Von Kleist fece scorrere lo sguardo sugli innumerevoli
oggetti che coprivano le pareti. Si fermò a fissare
un’ampolla di
alabastro di epoca romana.
“Tu credi che si sia
ucciso?”
buttò lì.
Tirò fuori dalla
tasca il
fazzoletto nel quale aveva avviluppato la fiala di vetro, lo
spiegò
e mostrò il contenuto all’amico. “Hai
modo di controllare se qui
dentro c’è stato del veleno?”
“Certo. Ci metto dentro qualche
goccia d’acqua e poi la do a un topo. Dove l’hai
presa?”
“Era nella stanza di
Konstantin, sul pavimento vicino alla sua mano.”
Von Ruchel alzò le
sopracciglia.
“Ah, in bell’evidenza.”
“Già.”
“Molto sospetto. Beh, fammi
fare la prova in
corpore vili e poi
vediamo.”
†
Il mattino dopo, von Kleist
ricevette un biglietto che diceva: “Il topo sta
benissimo.”
A questo punto non
c’erano più
dubbi: Konstantin non aveva posto fine da solo alla propria
esistenza. Era stato ucciso.
Chiamò il valletto,
che subito
comparve sulla porta. “Eccellenza?”
“Fa preparare la carrozza,
partiamo per Berlino.”
“Sì,
Eccellenza.”
La signora Pfanneschmied
accolse
il ritorno dell’ufficiale con sentimenti contrastanti: da una
parte
le dava fastidio che quel ficcanaso girasse su e giù per la
sua
pensione facendo commenti. La voce del suicidio era corsa, i suoi
ospiti ne avevano parlato, e non certo in termini positivi. Qualcuno
aveva addirittura ventilato l’ipotesi di cambiare pensione. A
meno
che non fosse rivisto il costo settimanale della stanza, ovviamente.
Qualcun altro aveva parlato di passi e lamenti ai piani superiori.
Aveva dovuto far venire il reverendo per benedire la soffitta, e le
era costato ben cinque Pfenning di donazioni alla chiesa.
C’era da dire,
però, a
proposito di donazioni, che l’ufficiale le aveva
già elargito fra
una cosa e l’altra due talleri e mezzo, e quello era
sicuramente un
argomento a suo favore.
Si aggiustò la
parrucca
incipriata, si accertò che il finto neo fosse al suo posto
all’angolo esterno dell’occhio, nella posizione che
veniva
definita La
Passionnée,
e andò incontro a von Kleist.
“Caro signor ufficiale, che
magnifica sorpresa!” esclamò, omaggiandolo di una
riverenza.
L’uomo rispose al
saluto,
quindi senza preamboli disse: “Signora Pfannenschmied, ho
bisogno
di tornare nella camera del signor Theophrastus. Mandatemi
lassù
anche Sepp, per favore, ho delle domande da rivolgergli.”
La signora tirò
fuori la
lorgnette e lo squadrò dall’altro in basso, cosa
che lasciò von
Kleist perfettamente impassibile.
L’ufficiale
tornò alla
soffitta. Lo precedeva un garzone di circa sedici anni, con una
zazzera scomposta di capelli color paglia e una pipa che spuntava
dalla tasca della giacca.
Questi prese una chiave e
aprì
la piccola stanza. A parte il fatto che il corpo e gli effetti
personali erano stati rimossi, tutto era rimasto esattamente come la
prima volta che l’aveva vista. Von Kleist vi entrò
e si guardò
intorno, palpò le pareti e infine andò alla
piccola finestra, la
aprì e guardò fuori. Dabbasso, quattro piani
più sotto, c’era un
cortile lastricato nel quale stava passando un carretto. A parte le
finestre dei piani sottostanti, da quella parte la parete non offriva
appigli, ma a destra e a sinistra c’era il prolungamento del
tetto.
Una persona con una buona agilità avrebbe anche potuto
camminarci
sopra.
“Vossignoria era parente di
quel giovane, vero?” lo distrasse la voce del ragazzo alle
sue
spalle.
Von Kleist rientrò.
“Sì.”
“La signora ha detto che
Vossignoria deve farmi delle domande.”
Il colonnello
annuì. “Voglio
sapere se è possibile andare sul tetto”.
“Sul tetto?” fece eco
il
ragazzo, “E che ci va a fare Vossignoria sul tetto? A
rompersi
l’osso del collo?”
“Tu dimmi solo se è
possibile.” Gli mostrò una moneta.
“Oh, beh...” Il
ragazzo si
grattò la testa. “La padrona mi ammazza se sa che
ho portato
Vossignoria in quel posto pericoloso.”
“Sono stato sotto il fuoco
nemico, le cose pericolose non mi spaventano.” Le monete
divennero
due.
Il ragazzo guardò
rapido verso
la porta, come se temesse di veder spuntare la signora Pfannenschmied
all’improvviso, poi disse: “D’accordo.
Accompagnerò
Vossignoria dove vado sempre con Gretchen, ma non oltre.”
Lucido per le recenti piogge,
spruzzato qua e là da qualche chiazza di muschio, il tetto
ricordava
la groppa squamosa di qualche animale mitologico, e di certo il suo
andamento irregolare e i suoi fianchi ripidi non invitavano alla
scoperta dei suoi anfratti.
“Io l’avevo detto a
Vossignoria,” disse Sepp notando l’espressione di
von Kleist.
L’ufficiale
considerò che il
ragazzo aveva parlato di una certa Gretchen, quindi di qualcuno che
andava in giro con scarpette e sottane lunghe. “Tu come ti
muovi
qui sopra?”
“C’è un
percorso. Per andare
alla torre.” Indicò una torretta al centro del
tetto.
“È lì che
vai con Gretchen?”
Il ragazzo si strinse nelle
spalle. “Lì non ci disturba nessuno.”
“Lo credo bene. Ora fammi
vedere questo percorso. E avvisami quando passiamo sopra la finestra
della stanza di Konstantin.”
“Di chi, Vossignoria?”
“Del Signor
Theophrastus.”
A ben guardare,
c’era in
effetti un passaggio, più che altro uno scolo un
po’ più largo
degli altri con il fondo di rame verdastro, che serpeggiava lungo il
tetto. Da quello era possibile, con una buona dose di coraggio e
agilità, raggiungere gli abbaini che si affacciavano ai due
lati.
Presso la finestra della
stanza
di Konstantin il muschio era raschiato via in qualche punto,
esattamente come sarebbe successo se una suola avesse per un attimo
perso la presa.
“Ho visto
abbastanza,” disse
von Kleist, “ora torniamo dentro.”
Rientrò nella
cameretta e andò
al davanzale della piccola finestra, che controllò alla
ricerca di
tracce. Gli tornò in mente la frase della lettera: guardate
con melancolia fuori dalla finestra.
All’inizio aveva
pensato che
‘con melancolia’ si riferisse a un atteggiamento di
mestizia, ma
dopo aver scoperto che la stampa con la donna alata si chiamava in
quel modo, era certo che ci fosse una correlazione fra le due cose.
Cercò donne alate,
angeli,
clessidre, scale, cani accucciati. Provò addirittura a
mettersi
nella postura torva e ingobbita della donna dell’immagine, ma
non
vide nulla di interessante.
Poi gli tornò in
mente il
quadrato magico: sedici riquadri, esattamente come quelli in cui
erano suddivise le due ante della finestra.
Si avvicinò e
notò che negli
angoli della parte fissa c’era ancora un residuo
dell’umidità
della notte.
“Sepp, vammi a prendere una
tinozza di acqua bollente,” ordinò.
“Vossignoria?” gli
rispose la
voce stupefatta del ragazzo.
“Una tinozza d’acqua
bollente, scattare!” ripeté con tono duro von
Kleist, che non era
abituato ai tentennamenti quando impartiva un ordine.
Il ragazzo scomparve
giù per le
scale e tornò poco dopo reggendo con precauzione una pentola
fumante. Dietro di lui, la signora Pfannenschmied si lamentava a gran
voce del pranzo mandato a monte.
L’ufficiale dovette
faticare
per reprimere un moto di fastidio. “Forza con
quell’acqua,”
disse soltanto, ignorando le proteste della donna.
Pose il recipiente sotto la
finestra dopo averla chiusa. Subito i vetri si appannarono e nella
parte fissa apparve in ognuno dei riquadri una lettera tracciata con
le dita.
“Carta e penna!”
ordinò
secco von Kleist.
“Ma Eccellenza!”
piagnucolò
la signora Pfanneschmied.
“Carta e penna, presto. Devo
copiare quelle lettere.”
Riprodusse la sequenza e la
posizione delle lettere disegnando anche la griglia nella quale erano
inserite, poi tirò fuori il fazzoletto e sotto gli occhi
stupiti del
ragazzo cancellò dai vetri ogni traccia di scrittura.
†
La tappa successiva fu la
villa
misteriosa.
Questa volta fu von Kleist in
persona a scendere dalla carrozza per bussare.
Dopo alcune serie di colpi
sempre
più energici, l’anta si schiuse lentamente e il
volto pallido di
Brandt fece capolino. “Ah, siete voi,” disse
aggrottando le
sopracciglia.
“Noi dobbiamo parlare,
Basilius,”
replicò l’ufficiale per tutta risposta.
L’altro scosse la
testa. “No,
non c’è proprio niente di cui dobbiamo
parlare.” Fece per
richiudere la porta, ma von Kleist infilò il piede tra
l’anta e il
battente. “Non così in fretta.”
Il padrone di casa
tentò di
nuovo di serrare la porta, ma a questo punto subentrò Franz,
che
gliela strappò letteralmente dalle mani, mandandola a
sbattere
contro la parete.
Rainer Brandt si fece
indietro,
gli altri due lo seguirono all’interno
dell’abitazione e il
valletto riuscì ad afferrarlo per un braccio. Von Kleist si
avvicinò.
Il padrone di casa diede
qualche
strattone nel vano tentativo di liberarsi. Ansava leggermente,
continuava a guardarsi intorno. “Ho cercato di farvelo
capire,”
disse, “ma dovevo immaginare che il mio fosse un linguaggio
troppo
ermetico per un militare. Lasciate perdere, è meglio per
voi.
Dimenticate ogni cosa, nulla di ciò che avete in animo di
fare
riporterà in vita il ragazzo.”
L’ufficiale scosse
la testa.
Fissandolo negli occhi, lentamente gli disse: “Riportare in
vita i
morti non è in mio potere, purtroppo, ma assicurare alla
giustizia
gli assassini, sì. Farete meglio a dirmi quello che sapete
con le
buone, signor Brandt.”
Passarono lunghi secondi di
silenzio.
Infine, l’altro
emise un
sospiro. “D’accordo, ma non qui.” Si
guardò intorno con fare
significativo. “I muri hanno orecchie.”
Von Kleist fece girare a sua
volta lo sguardo nell’ingresso: una stanza oscura, dove la
poca
luce filtrava da tende di velluto mostrando una tappezzeria color
sangue e pesanti mobili neri. C’erano varie porte, tutte
chiuse, e
strani dipinti alle pareti. Tra essi notò draghi a tre
teste,
creature di forma umana ma con ali di pipistrello, che sembravano
l’unione di una metà maschile e una femminile,
rappresentazioni
del pio pellicano in atto di nutrire la prole e alberi che al posto
dei frutti avevano dei dischi solari.
“Lasciate stare, non
è cosa
per voi,” gli disse Brandt notando la direzione del suo
sguardo.
“Ci troveremo a mezzanotte presso il Teufelsee nel
Grünewald,
lontano da occhi e orecchie indiscreti. Poi però non voglio
mai più
sentir parlare di voi. E ora andate, siete già rimasto anche
troppo
tempo.”
Von Kleist fece cenno a Franz
di
lasciare il braccio di Basilius, quindi i due tornarono alla
carrozza.
†
La notte era scura e senza
stelle. Coperto da una spessa coltre di nubi, il cielo brontolava
promettendo tempesta.
La carrozza procedeva lenta,
preceduta dal chiarore tremulo delle lanterne. Sopra di essa, i rami
degli alberi secolari si intrecciavano formando una coltre
impenetrabile, che frusciava agitata dal vento.
All’interno
dell’abitacolo,
von Kleist sedeva poggiando il mento sull’impugnatura della
spada.
Di fianco a sé aveva le due pistole cariche. Quel Brandt non
gli
piaceva, e ancora meno gli piaceva il luogo
dell’appuntamento.
Cercò di
ricapitolare quello che
aveva scoperto fino a quel momento: Konstantin era stato ucciso, ma
qualcuno aveva allestito una messinscena per far credere che si fosse
suicidato. Prima di morire, il ragazzo gli aveva mandato una lettera
nella quale gli aveva lasciato delle informazioni in codice, quindi
evidentemente sapeva di essere in pericolo.
Chi lo minacciava? E
perché?
In quel momento
echeggiò un
colpo di pistola.
Un attimo dopo, i cavalli si
fermarono nitrendo di fronte a un tronco buttato attraverso la
strada.
Ci fu un secondo sparo, Franz
rispose al fuoco, poi lui e il cocchiere saltarono giù dal
veicolo.
Von Kleist scaricò
la prima
pistola dalla carrozza, poi scese con la spada sguainata e la seconda
pistola nella mano libera.
Nel cono di luce delle
lanterne,
reso corposo dai fumi degli spari, saettò una sagoma scura.
L’ufficiale sparò, si udirono un urlo e il rumore
di un corpo che
cadeva.
Si fece sotto un assalitore
dal
volto coperto, lo ingaggiò con una punta
dall’alto, von Kleist
parò e rispose con un tondo dritto. L’altro si
fece indietro
evitando il colpo, poi attaccò di nuovo con un fendente.
L’ufficiale
parò e rispose con un altro tondo dritto al corpo, riuscendo
a
tagliare la giubba del suo avversario.
Franz nel frattempo stava
duellando con altri due uomini dal volto coperto. Un groppo di
briglie girato intorno a un braccio, il cocchiere faceva del suo
meglio per trattenere i cavalli, e intanto ricaricava un moschetto.
Von Kleist abbatté
il proprio
avversario, quindi si mosse per aiutare il valletto, ma vedendolo
avvicinarsi i due assalitori abbandonarono la lotta e scomparvero nel
buio, facendo perdere in breve le loro tracce. Il cocchiere
puntò il
moschetto nella direzione in cui si erano allontanati e fece fuoco,
ma la palla si perse nella foresta.
L’ufficiale si
scambiò
un’occhiata col giovane servitore, poi rinfoderò
la spada e si
diresse verso il ferito, che era rimasto a terra ai margini del
cerchio di luce. Quando l’uomo lo vide arrivare, trasse di
tasca
una scatoletta tonda che conteneva una specie di tampone, si
strappò
la camicia mettendo a nudo il petto e prima che chiunque riuscisse a
fermarlo si premette sulla pelle il misterioso oggetto. Subito si
contrasse, ebbe due sussulti e poi si accasciò immobile.
Von Kleist andò a
prendere una
delle lanterne e si chinò per controllare le sue condizioni,
ma
dovette constatare che era deceduto. Notò che dove il
tampone
l’aveva toccato gli era rimasta una traccia grigia simile a
quella
che aveva visto sul petto di Konstantin.
“Dannazione!” ringhiò.
Poi, rivolto a Franz: “L’altro è
morto?”
“Sì, Eccellenza. Mi
dispiace.”
“Lascia, tu e Rudolph avete
fatto il vostro dovere. Aiutami a perquisirli, piuttosto, vediamo se
troviamo qualcosa.”
Raccolse con un bastoncino il
misterioso tampone e lo rimise nella sua scatola, che poi avvolse in
un fazzoletto e ripose nella tasca della marsina.
Successivamente si
infilò i
guanti di capretto e con quelli addosso cominciò a
inventariare le
tasche del cadavere.
Non trovò
assolutamente niente,
nemmeno un Pfenning, un fazzoletto o altro. Era come se il suo
aggressore avesse voluto deliberatamente presentare una tabula
rasa a un’eventuale
ispezione dei suoi effetti personali.
Gli aprì meglio la
camicia,
stando attento a non toccare l’alone grigio lasciato dal
veleno, e
vide che l’uomo aveva al collo una catenina da cui pendeva un
piccolo contenitore di metallo. La staccò con cura e disse:
“Va a
vedere se ce l’ha anche l’altro, Franz.”
Il ragazzo fece un controllo e
disse: “Si, Eccellenza. Ce l’ha anche
questo.”
“Bene, prendila. Controlla
anche le tasche.”
“C’è una
scatoletta tonda,
Eccellenza.”
“Non aprirla. Non
c’è
altro?”
“No, Eccellenza.”
“Porta tutto qui e
andiamo.”
[1] Grado intermedio fra
cadetto
e sottotenente.
[2] Battaglia della seconda
guerra di Slesia che vide la vittoria prussiana.
[3] Altra battaglia della
stessa
campagna, di nuovo a vittoria prussiana.
[4] La ventiquattresima parte
del
tallero prussiano.
[5] Canzone infantile.
[6] La dodicesima parte di un
Groschen.
[7]
Letteralmente ‘Stanza delle Meraviglie’, da noi
prende il
nome di Gabinetto delle Curiosità: una stanza dove si
raccoglievano
oggetti strani come conchiglie, rettili impagliati, manufatti di
altre culture e cose del genere. La pratica cominciò nel
Rinascimento ma si diffuse particolarmente in epoca barocca.
[8]
Battaglia della prima guerra di Slesia.
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Capitolo 2 *** Parte seconda - Albedo ***
Parte seconda – Albedo
Secondo
procedimento dell’Opera, che consiste nella
purificazione tramite il Fuoco della massa informe scaturita dalla
Nigredo al fine di prepararla alla fase successiva.
Seduti
a un tavolo, von Ruchel e von Kleist stavano studiando gli
oggetti riportati dall’escursione berlinese.
“Che
ne pensi?” chiese il colonnello.
L’altro
sollevò una delle catenine e osservò il
contenitore, un
cilindretto di metallo grande come l’ultima falange di un
mignolo.
Vi fece scorrere sopra le dita, ne palpò ogni
asperità e infine
fece cenno all’amico di passargli il tagliacarte che teneva
sulla
scrivania.
Con
la lama smussata fece leva in un punto dove si vedeva una piccola
intaccatura, e il cilindro si aprì in due metà
per il lungo,
rivelando un cartiglio arrotolato.
I
due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel distese il piccolo
pezzo di carta e subito apparve una sequenza di lettere:
V.I.T.R.I.O.L.
(V.M.)
Nel
secondo contenitore c’era la stessa cosa.
Von
Kleist osservò perplesso i biglietti e chiese: “Tu
sai cosa
significa questa serie di lettere?”
L’altro
annuì. “Visita
Interiora Terrae Rectificando Invenies
Occultum Lapidem, Veram Medicinam. Ovvero,
visita le profondità
della terra e attraverso la purificazione troverai la pietra segreta,
vera medicina. È un motto dei Rosacroce attribuito a
Basilius
Valentinus, fa riferimento alla necessità di scendere nelle
viscere
della terra, ovvero negli anfratti oscuri dell’anima, per
conseguire l’iniziazione.”
L’ufficiale
aggrottò le sopracciglia. “Aspetta un attimo. Hai
detto Basilius?”
“Basilius
Valentinus, frate benedettino e alchimista vissuto nel
secolo scorso.”
“È
come si fa chiamare quello là. Dici che può
esserci un
collegamento?”
Von
Ruchel annuì. “Penso di sì. Del resto,
anche Theophrastus
proviene dallo stesso ambito, dal momento che era il nome di
Paracelso.”
Il
colonnello si alzò e fece qualche passo per la stanza.
“Tutto
questo non ha senso,” disse. Andò alla porta
finestra e per un po’
stette a guardare fuori. Infine, con voce dura riprese: “Ma
qui
niente ha più senso. Credevo di avere a che fare un nipote
un po’
eccentrico, che invece di diventare soldato voleva fare il poeta, ed
ecco che mi trovo alle prese con società segrete, frasi
incomprensibili e codici cifrati.” Tirò fuori di
tasca il pezzo di
carta su cui aveva copiato la sequenza di lettere trovata nella
camera di Konstantin e lo mostrò all’amico.
“Guarda cosa c’era
nei vetri della finestra, una lettera per ogni riquadro.”
Von
Ruchel osservò il foglio:
S S A I
M L O M
F C U R
U U B V
“Passami
la Melancolia,” disse dopo qualche secondo.
Brontolando
qualcosa di inintelligibile, von Kleist si alzò,
andò a
un tavolo ingombro di fogli, scartabellò un po’ e
infine estrasse
il disegno. “Eccola qui,” disse porgendola a von
Ruchel.
L’amico,
cui si era acceso lo sguardo come accadeva solo in
occasione delle scoperte più interessanti, disse:
“Ora proviamo a
leggere queste lettere seguendo la sequenza del quadrato magico che
c’è nell’immagine.”
Il
risultato fu:
VASUM CUM
FLORIBUS
Von
Kleist aggrottò le sopracciglia. “Vaso con fiori?
Cos’è, un
codice segreto anche questo?”
L’altro
scosse la testa. “Non direi, sembra più un
messaggio per
te.”
“Per
me?”
“Nella
lettera c’era scritto di guardare fuori dalla finestra con
melancolia, giusto? E
tu mi dici che sui vetri c’erano queste
lettere disposte a quadrato. Secondo me tuo nipote ti stava
suggerendo il modo di leggerle nella giusta sequenza.” Si
alzò con
fatica, andò alla ricerca della lettera di Konstantin che si
trovava
ancora sulla sua scrivania, la aprì e citò: allora
ciò che era manifesto sarà nascosto e
ciò che era nascosto sarà
manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il motivi del mio
turbamento.
“Sì,
ma ‘vaso con fiori’ non significa
niente,” disse von Kleist
dopo un po’.
“Che
tu sappia, c’era qualche vaso da fiori che avesse un
particolare significato per lui?”
L’ufficiale
ci pensò su. “L’unica cosa che mi viene
in mente
sono le rose di sua madre, ma non sono nei vasi. Stanno in
terra.”
“E
allora perché avrebbe parlato di un vaso?”
“Lo
chiedi a me?”
“Beh,
sì. Il messaggio è indirizzato a te, quindi
dovrebbe fare
riferimento a qualcosa che conosci.”
Von
Kleist scosse la testa. “Abbiamo sempre parlato di tante
cose,
io e lui, ma mai di fiori. Non so come possa essergli venuta in mente
una frase del genere.”
I
due si scambiarono un’occhiata delusa: la pista che avevano
cominciato con tanto entusiasmo a percorrere rischiava di rivelarsi
un vicolo cieco.
Si
udì tossicchiare. Entrambi si voltarono verso Franz, ovvero
la
provenienza del rumore. Vagamente imbarazzato da
quell’improvvisa
attenzione, il valletto disse: “Ecco, Eccellenza…
Vi chiedo
scusa. Non per mancarvi di rispetto, ma nella camera c’era un
vaso
con dei fiori. Forse era di quello che parlava il povero
signorino.”
Von
Kleist rivide la stanzetta di Konstantin: il letto, il tavolino.
Il davanzale. E sul davanzale c’era un vaso di terracotta in
cui
cresceva una piantina di rose.
“Maledizione,
è vero!” esclamò. “Il vaso
con i fiori, ecco a
cosa si riferiva.” Poi, alzandosi bruscamente:
“Torniamo a
Berlino!”
“Wilhelm,
ragiona,” intervenne von Ruchel, “tra un
po’ sarà
buio.”
“Motivo
in più per sbrigarci. Quello che sappiamo noi, lo sanno
anche loro.”
“Loro
chi?”
“Quelli
che hanno ucciso Konstantin. Gli stessi che ci hanno
assaliti sulla via per il Teufelsee. I Rosacroce, o quel che diavolo
sono. Dobbiamo arrivare prima di loro, o possiamo dire addio al
nostro unico indizio.”
†
La
signora Pfannenschmied comparve sulla soglia in camicia da notte
ma con la parrucca. In mano aveva la lorgnette, attraverso la quale
scrutava con disappunto i nuovi arrivati. “Credevo che ci
fossimo
salutati ieri mattina,” proclamò sussiegosa.
“Abbiamo
bisogno di dare un’occhiata alla camera,” disse von
Kleist per tutta risposta.
“A
quest’ora?”
“È
cosa della massima importanza. Siate così gentile da farci
strada.”
La
signora fissò l’ufficiale costernata.
“Ma sono in
déshabillé,”
protestò.
“Per
reggere un lume e accompagnarci in soffitta non
c’è bisogno
dell’abito da sera.”
La
donna sospirò. “Voi dovete ringraziare che sono
una persona di
buon cuore e che voglio essere gentile perché avete subito
un
terribile lutto,” brontolò, poi prese una candela
e cominciò a
salire le scale.
Von
Kleist mantenne il silenzio.
“Se
no vi farei tornare domattina, ecco cosa farei.”
Continuò a
ciabattare su per le rampe scricchiolanti reggendosi la gonna con la
mano della lorgnette.
Arrivarono
finalmente alla soffitta. L’ufficiale spalancò la
porta
già vedendosi davanti agli occhi il vasetto di terracotta
con dentro
la piccola rosa.
Sul
davanzale non c’era nulla.
Si
voltò costernato verso la signora Pfannenschmied e chiese:
“Dov’è
il vaso?”
“Che
vaso?”
“Quello
che era sul davanzale.”
La
donna mollò le sottane e inforcò la lorgnette,
scrutando poi
l’ambiente come se lo vedesse per la prima volta. Infine
chiese:
“Parlate forse del mio vaso di
rose, che avevo lasciato
nella camera del giovane signor Theophrastus per allietarlo nelle sue
giornate solitarie?”
Von
Kleist sospirò: ci sarebbe stato da contrattare.
“Proprio
quello,” rispose.
“Beh,
si dà il caso che io nutra una profonda affezione per quelle
rose, dal momento che le ho coltivate con le mie mani...”
“Signora
Pfannenschmied...”
“...Ed
erano quelle che crescevano sulla tomba della mia povera
madre. Le ho trapiantate io stessa un giorno di dicembre, con il gelo
che mi piagava le mani.”
“Signora
Pfannenschmied, le do un tallero per quel vaso.”
“Quanto
siete prosaico, signor ufficiale. Credete forse che l’amore
si possa comprare con i soldi?”
“Qualsiasi
soldato che sia stato in una città di guarnigione sa
che si può, signora.” La donna lo fissò
costernata, inforcando la
lorgnette per sottolineare il suo sdegno. “Due
talleri,” concluse
poi l’ufficiale, “non un Pfenning di
più. Se non accettate,
quant’è vero Iddio da domani in poi
verrò a trovarvi tutti i
giorni fino a che i due talleri non me li darete voi per convincermi
a togliermi di torno.”
†
Von
Kleist e von Ruchel rimasero a osservare per un bel po’ il
piccolo vaso posato sul tavolo. Era un semplice contenitore di
terracotta, non aveva scritte, motivi decorativi o qualsiasi altro
tratto distintivo. La pianticella era una semplice rosa rossa, senza
altre particolarità che la grazia di un piccolo fiore che si
stava
schiudendo.
“Proviamo
a guardarci dentro,” propose alla fine von Ruchel.
L’ufficiale
annuì, poi disse: “Non rovinare la pianta, se
puoi.
La voglio portare a Luise.”
“D’accordo.”
Si
spostarono in un laboratorio, andarono a un tavolo e ricavarono
uno spazio libero fra le innumerevoli cose che vi erano posate sopra,
quindi von Ruchel distese uno strofinaccio e vi rovesciò
sopra il
contenuto del vaso. Tra le radici della rosa apparvero una chiave di
bronzo decorata con elaborati ornamenti e una scatoletta non
più
grande di una tabacchiera, con il coperchio sigillato dalla pece.
I
due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel prese il piccolo
contenitore e con la lama del tagliacarte lo aprì: dentro
c’erano
una chiave più piccola e un foglio ripiegato su cui era
scritta una
frase:
Cerca
l’Ouroboros presso cui si trova il Custode delle Dodici
Chiavi. Passa attraverso le fauci del drago, cerca i Sette Sigilli di
Paracelso. V.I.T.R.I.O.L.
“Oh,
no,” si lamentò l’ufficiale,
“degli altri enigmi.”
Osservò
il foglietto: la grafia era senza dubbio quella di suo
nipote. Ma perché anche in quello che evidentemente doveva
essere un
messaggio per i suoi eventuali salvatori aveva usato quel linguaggio
incomprensibile? Emise un sospiro desolato e poi disse: “Va
bene.
Cos’è un Ouroboros? E chi è il Custode
delle Chiavi?”
“Delle
Dodici
Chiavi,” lo corresse l’altro.
“Che
siano Dodici o Ventiquattro non mi interessa. Quando
finalmente riuscirò a mettere le mani addosso a chi ha
ucciso
Konstantin, gli farò pagare anche tutto questo.”
Von
Ruchel rilesse il foglietto. “Le Dodici Chiavi hanno
sicuramente a che fare con Basilius.”
“Ah,
sì?”
“Le
Dodici Chiavi della Filosofia è il suo libro più
famoso. Non
riesco a capire cosa c’entri l’Ouroboros,
però.”
“Sarebbe?”
“Il
serpente che si morde la coda. Simbolo di eternità, indica
la
natura ciclica di tutte le cose. È uno dei simboli
più usati
nell’alchimia.”
Von
Kleist annuì assorto. Man mano che il suo amico li
enumerava,
tutti quegli elementi pian piano stavano componendo un quadro nella
sua mente. Rivide la villa con le statue misteriose, cosa
c’era
sulla facciata?
“Ci
sono!” esclamò alla fine. “So
dov’è.”
“Dove?”
“Nella
villa di quel tale Basilius. C’è anche una specie
di
grotta fatta come la bocca di un drago.”
“Hai
intenzione di andarci?”
“Si
capisce che ci andrò,” rispose l’altro,
come se fosse la
cosa più ovvia del mondo. “Questa sera
stessa.”
Von
Ruchel emise un sospiro. “Non sai cosa darei per poter venire
con te.”
L’ufficiale
si girò verso di lui e vide che aveva lo sguardo fisso
sulla propria gamba. Gli appoggiò una mano sulla spalla e
stringendola piano gli disse: “E tu non sai cosa darei per
averti
al mio fianco come ai vecchi tempi. Mi sentirei più
tranquillo
sapendo che ci sei tu a coprirmi le spalle.” Poi, dopo una
pausa:
“Come a Mollwitz, ti ricordi?”
L’altro
ebbe un lieve sorriso. “Già.”
“Lì
mi hai praticamente salvato la vita.”
“Sì,
una volta combattevo. Ora non posso fare altro che stare qui
come un povero invalido a scartabellare vecchi libri.”
Afferrò il
bracciolo del divanetto con tanta forza che lo fece scricchiolare,
poi si alzò con fatica e si allontanò con un
movimento brusco
dandogli le spalle. Von Kleist rimase in silenzio per un po’,
poi
disse: “Questi sono i casi della vita, Johannes, non possiamo
farci
niente. Non te lo meritavi di certo, ma lo sai meglio di me come
vanno le cose sul campo di battaglia.”
Von
Ruchel emise un altro lungo sospiro, sembrò ricomporsi.
“Già.
È successo e non serve a niente lamentarsi. Ora dammi un
pezzo di
carta, sii gentile, così ti disegno quei sigilli di
Paracelso che
dovresti cercare.”
“Sì,
è meglio, perché io non li riconoscerei nemmeno
se ci fosse
scritto sotto che cosa sono.”
L’altro
tracciò su un foglio dei segni che a von Kleist parvero
scarabocchi di bambini, poi sotto a ognuno si essi scrisse il nome di
un metallo: oro, argento, rame, piombo, stagno, ferro e mercurio.
†
La
notte stessa, a cavallo, in borghese e armato, Wilhelm von Kleist
si diresse alla misteriosa abitazione. Lo accompagnava
l’immancabile
Franz, anche lui armato fino ai denti.
Si
fermarono a circa un quarto di miglio dalla villa e
l’ufficiale
disse: “Tu aspetta qui con i cavalli. Se fra un paio
d’ore non
sono di ritorno, corri ad avvisare il signor von Ruchel.”
“Eccellenza!
Non vorrete andare da solo!” esclamò il valletto
allarmato.
“In
due ci faremmo notare troppo, e poi ci vuole qualcuno che
faccia la guardia ai cavalli.”
“Ma
Eccellenza...”
“Non
discutere, Franz.” Il tono era di quelli che non ammettevano
repliche. “Sai cosa devi fare. Mi aspetto che tu lo
faccia.”
Il
ragazzo chinò il capo. “Sì,
Eccellenza.”
“Molto
bene. Ricorda: due ore.” disse l’ufficiale, poi
prese
dalla sella una lanterna cieca, l’accese e si
incamminò.
Per
evitare di essere visto abbandonò la via battuta dopo la
prima
curva e si addentrò nella macchia.
Avanzò
per un po’ in mezzo a un fitto sottobosco, poi la
vegetazione cominciò a diradarsi per lasciare spazio alle
vestigia
di aiuole e siepi. Si imbatté in una stele di pietra
consumata dalle
intemperie, sulla quale si riconoscevano al tatto delle antiche
incisioni.
Schermò
completamente la lanterna e procedette affidandosi alla luce
delle stelle. Ben presto distinse nel buio la sagoma delle quattro
donne con le ampolle sulla testa.
Si
acquattò nel buio e rimase in ascolto per lunghi minuti, ma
a
parte i rumori degli animali notturni e il lieve frusciare del vento
sull’erba incolta, il luogo era perfettamente silenzioso. Si
avvicinò piano e subito riconobbe la voragine nera della
bocca di
drago.
Strisciò
in avanti un altro po’, rimase ancora in ascolto, ma
l’ambiente di nuovo gli rimandò un messaggio del
tutto
rassicurante. I suoni della natura gli parlavano di
tranquillità, il
che significava che non c’erano presenze umane. Si
arrischiò a
produrre un piccolo pennello di luce, col quale ispezionò
l’interno
della grotta.
Quello
che trovò lo lasciò piuttosto perplesso. Si era
aspettato di
vedere da qualche parte dei sigilli, fra i quali magari anche quelli
di Paracelso, invece si trovava in una piccola stanza di pietra nuda,
senza alcun ornamento, dalla quale partiva una scala che conduceva
verso il basso.
Rimase
in ascolto, ma da sotto non proveniva alcun rumore.
Cominciò
a scendere. La scala era di pietra, ricoperta di una
leggera patina di umidità. Sulle pareti c’erano
delle nicchie a
intervalli regolari, probabilmente per metterci dei lumi. La fine
della scala si perdeva nel buio.
Dopo
parecchi gradini arrivò a una seconda stanza, sulla quale
questa volta si affacciavano tre porte. Da una di esse partiva un
corridoio, le altre due invece davano su scale, una che andava verso
l’alto e una verso il basso.
Von
Kleist ripensò alle parole del motto alchemico, Visita
Interiora Terrae, e scelse
quella che andava verso il basso.
Ancora una volta si mise in ascolto, ma da essa non sembrava
provenire alcun rumore.
Percorse
di nuovo una quantità interminabile di gradini, poi
finalmente arrivò a un vestibolo con una porta chiusa.
Trasse di
tasca la più grande delle chiavi e la provò nella
serratura. La
porta si aprì senza nemmeno un cigolio, rivelando una stanza
che si
intuiva molto grande, con la volta sostenuta da colonne. Decise di
arrischiare un po’ più di luce e aprì
completamente il diaframma
della lanterna: si trovava in effetti in un locale che rammentava la
navata di una chiesa. In fondo c’era una specie di altare
sormontato da un’immagine di una rosa sovrapposta a una
croce. Ai
lati c’erano due statue che rappresentavano un pellicano e
un’aquila.
Lungo
le pareti laterali si aprivano delle porte sormontate da archi
variamente decorati. Von Kleist si avvicinò alla prima e
sollevando
la lanterna guardò dentro. Illuminò una piccola
stanza quadrata,
che aveva le due pareti laterali occupate da librerie cariche di tomi
antichi e quella di fondo affrescata. Ancora una volta rimpianse che
Johannes non fosse lì con lui, perché non era in
grado di dare un
senso a quello che stava vedendo: c’era uno scheletro in
piedi su
un sole nero, con un corvo appollaiato su una mano e due angeli ai
lati, poi c’era un’ampolla tutta nera nella quale
giacevano un
uomo e una donna nudi.
Scosse
la testa perplesso e passò oltre.
Nella
stanza successiva c’erano di nuovo due librerie e la parete
di fondo dipinta. L’affresco rappresentava un re e una regina
che
si davano la mano. Ai loro piedi c’era un leone con due corpi
e una
testa sola, con una specie di torrente che gli usciva dalla bocca.
Andò
avanti per un po’ a controllare, tutte le stanze erano
strutturate nello stesso modo, suggerendo che quel luogo fosse una
specie di biblioteca. Alla fine, proprio nella stanza più
vicina
all’altare, trovò un affresco che rappresentava un
vecchio re con
la corona e la barba bianca assiso sul trono e dinnanzi a lui sei
giovani uomini in atteggiamento di postulanti. Ognuna delle figure
era sormontata da uno dei simboli che stava cercando.
Si
guardò intorno. A questo punto, ci sarebbe dovuto essere da
qualche parte un buco dove infilare la chiave piccola.
Osservò
dapprima con attenzione l’affresco, ma nulla sembrava
suggerire la presenza di una serratura. I simboli non erano mobili
né
in rilievo, non c’erano asperità di sorta sulla
superficie della
pittura, e in definitiva, a parte il soggetto, sembrava in tutto e
per tutto un normalissimo dipinto.
Guardò
l’orologio: erano già passati tre quarti
d’ora. Si
augurò che Franz fosse ancora dove lo aveva lasciato.
Capacissimo di
decidere che aveva bisogno di aiuto e correre al suo salvataggio,
creando più problemi che altro.
Estrasse
un libro e lo sfogliò: di nuovo figure strane, qualche
chiosa in latino. Lo rimise via.
Con
un sospiro di frustrazione si guardò intorno. Aveva studiato
l’arte della guerra, la tattica e la logistica. Nessuno
l’aveva
mai preparato ad affrontare enigmi e templi sotterranei.
Cercò
di ragionare: se il luogo era quello – e lo era, dal momento
che la prima chiave aveva funzionato perfettamente – ci
doveva
essere in quella stanzetta qualcosa che stava trascurando.
Come
farei per nascondere qualcosa qui dentro?, si
chiese. Gli
unici mobili presenti erano gli scaffali. Tenendo in mano la
lanterna, cominciò a estrarre libri e a controllare cosa
c’era
dietro. Trovò per parecchio tempo solo muro grezzo, poi
finalmente
si imbatté in una fenditura verticale. Tolse un altro libro,
la
fenditura piegava in alto e in basso ad angolo retto, suggerendo la
presenza di uno sportello.
Impilò
libri sul pavimento fino a che non mise a nudo una specie di
rozzo tabernacolo munito di serratura. Infilò la chiave
più piccola
nella toppa e anche quella girò senza sforzo, rivelando una
cavità
nella quale si trovava un quaderno rilegato in pelle.
Von
Kleist lo estrasse e lo sfogliò: la grafia di Konstantin.
Se
lo infilò in tasca, richiuse lo sportello e rimise i libri
al
loro posto, quindi schermò la lanterna fino ad avere solo un
sottilissimo fascio di luce e tornò sui suoi passi.
Quando
arrivò alla stanza con le quattro porte si fermò.
Tirò
fuori l’orologio e controllò l’ora:
aveva ancora tempo.
Sollevò
la lanterna illuminando il corridoio pianeggiante.
Considerata la posizione della bocca del drago e
l’orientamento
della prima scala che aveva disceso, calcolò che portava
alla villa.
Probabilmente era un passaggio per raggiungere il tempio
dall’interno.
Secondo
il principio che più informazioni si raccolgono sul nemico,
più efficacemente viene condotta l’offensiva, vi
si inoltrò.
Percorse
un tratto che nel buio gli riuscì difficile valutare, ma
che gli parve abbastanza lungo, tanto che ad un certo punto si chiese
se per caso non avesse già oltrepassato la villa.
Poi
finalmente il sottile pennello di luce della lanterna gli
rimandò
l’immagine di un panneggio rosso scuro.
Si
avvicinò. Il corridoio era chiuso da una pesante tenda di
velluto.
Di
nuovo schermò completamente la lanterna e rimase in ascolto,
cogliendo dopo un po’ un lieve ribollire come di acqua sul
fuoco.
Spostò
la stoffa producendo una piccola fessura: al di là
l’aria
era calda e umida, gravata di odori che gli ricordavano la bottega di
un farmacista. C’era una debole luce.
Si
affacciò cauto. Oltre la tenda c’era una stanza
così grande
che la scarsa luce non permetteva di apprezzarne i confini. Il
soffitto era altissimo, e da esso pendevano tre lampadari di ferro
battuto, uno solo dei quali parzialmente dotato di candele accese.
Nel
centro del locale troneggiava una struttura tronco-conica a
più
piani, alta più di un uomo, dotata di vari sportelli di
ferro, al
cui interno rombava di sicuro un fuoco, perché emanava un
intenso
calore. Da essa si dipartivano dei tubi. Sui ripiani c’erano
ampolle che ribollivano e riversavano il vapore all’interno
di tubi
di vetro serpentiformi.
Tutt’intorno
a quell’immensa fornace c’erano tavoli, strumenti
e scaffali carichi di vasi e libri.
Sembrava
che non ci fosse nessuno, ma l’ufficiale non fu per nulla
rassicurato da quella constatazione: il forno doveva essere
alimentato, non funzionava da solo. E qualcuno di certo doveva
occuparsi di tutti quegli alambicchi pieni di roba che bolliva.
Quindi
qualcuno in realtà doveva esserci, in quel posto.
Scivolò
oltre la tenda, si appiattì contro una parete. Di nuovo si
guardò intorno, ma non vide anima viva.
Cominciò
a esplorare il posto alla ricerca di un passaggio che
portasse all’interno della villa. Il caldo nel frattempo si
era
fatto opprimente, tanto che dovette allentarsi il colletto. Si terse
il sudore dalla fronte. Anche l’odore era malsano: prendeva
alla
gola, rendeva addirittura difficile respirare.
Si
aggirò per qualche tempo nel misterioso laboratorio, poi si
imbatté in una porta chiusa. Abbassò la maniglia
ed essa cedette
senza sforzo.
Si
affacciò e si trovò davanti un’enorme
cisterna di vetro nella
quale guizzavano dei pesci di una specie che non aveva mai visto
prima. Contro la parete c’era un retino. Al suo apparire, i
misteriosi animali si gonfiarono diventando delle palle irte di
aculei. L’ufficiale aggrottò le sopracciglia.
Rimase a osservarli
perplesso per qualche secondo, di nuovo pensando a quanto gli avrebbe
fatto comodo avere Johannes con sé, poi uscì e
richiuse la porta.
Guardò
di nuovo l’orologio: avrebbe fatto meglio a ritirarsi in
buon ordine.
In
quel momento sentì dei passi. Subito si nascose sotto un
tavolo
in un angolo particolarmente buio. Da lì vide sopraggiungere
Rainer
Brandt, come al solito pallido e vestito di nero. L’uomo
andò alla
fornace, spalancò uno sportello e ci buttò dentro
numerosi pezzi di
legno, facendosi indietro ogni volta per evitare le lingue di fiamma
che ne uscivano. Poi aggiunse qualcosa nelle ampolle che stavano
bollendo, raddrizzò un tubo un po’ storto e infine
controllò un
vaso che si trovava ad un’estremità di un tubicino
di vetro dal
quale un liquido denso e trasparente stava colando goccia a goccia.
Si
mise un paio di spessi guanti di pelle, sostituì il
recipiente
mezzo pieno con uno vuoto, tappò quello che aveva tolto e
fece per
andarsene, ma qualcosa sembrò attirare la sua attenzione.
Scrutò
in giro per un po’, poi fissò lo sguardo sulla
porta della
stanza con i pesci. Von Kleist represse un’imprecazione: era
rimasta socchiusa.
Brandt
si sfilò i guanti e andò a controllare, si
affacciò
all’interno, quindi richiuse accuratamente, con un movimento
che
avrebbe potuto fare solo chi sapeva di doverlo fare. Si udì
uno
scatto metallico e la porta rimase bloccata al suo posto.
A
questo punto, l’uomo andò verso la tenda e la
scostò, rivelando
un cancello di ferro. Lo chiuse sul corridoio e diede due giri con
una chiave che poi si fece scivolare in tasca, quindi uscì
da dove
era entrato.
Von
Kleist rimase per un po’ immobile nel suo nascondiglio.
Non
era del tutto certo che l’uomo si fosse accorto che
c’era
qualcuno. La chiusura del cancello dava più l’idea
di una
precauzione. In ogni caso, di lì non sarebbe più
potuto passare, a
meno di non lasciare chiare tracce della sua presenza scardinando la
serratura.
Si
voltò nella direzione in cui Brandt si era allontanato: si
trattava di entrare nella villa e uscire da quella parte.
Ponderò
che se per caso Brandt aveva chiuso il cancello perché
immaginava che nel laboratorio ci fosse qualcuno, probabilmente
sarebbe stato da qualche parte ad aspettarlo.
Riguardò
l’orologio: poteva fare tutti i ragionamenti del mondo,
ma come aveva imparato sul campo, la sorte delle battaglie non si
decide a tavolino. Doveva uscire di lì e doveva farlo in
fretta: le
due ore stavano per scadere, ed era sicuro che Franz non sarebbe
affatto andato da von Ruchel come gli aveva ordinato, ma si sarebbe
messo sulle sue tracce con l’intento di salvarlo.
Guardò
un po’ in giro alla ricerca di un’altra uscita, ma
trovò
solo la porta da cui era passato Brandt. Vi appoggiò contro
l’orecchio: non sentì alcun rumore, ma la cosa non
lo rassicurò.
Abbassò
comunque la maniglia e spinse l’anta, che cedette con un
lieve cigolio. Al di là era buio.
Von
Kleist andò a prendere la lanterna e di nuovo si
affacciò con
cautela. C’era un vestibolo senza mobilio, con le pareti di
pietra
grezza. Da esso una scala conduceva verso l’alto.
Estrasse
dalla cintura la pistola che si era portato dietro, e
tenendo quella nella destra e il lume nella sinistra,
cominciò a
salire i gradini.
Ancora
una volta, non incontrò nessuno. Non c’era un
rumore, se
non avesse visto con i suoi occhi Rainer Brandt giungere a
sorvegliare le preparazioni alchemiche, avrebbe giurato che la casa
era disabitata.
Arrivò
a un’altra porta. Di nuovo rimase in ascolto, poi la
aprì,
la varcò e si guardò intorno: era sbucato in una
specie di
salottino con le pareti dipinte a scene pastorali. Constatò
che la
porta che aveva appena chiuso alle proprie spalle era stata fatta in
modo da confondersi con le pitture e gli stucchi del muro.
Non
sapendo che c’era, sarebbe stato piuttosto difficile trovarla.
Continuò
a camminare nella casa buia. Due o tre volte si voltò di
scatto convinto di aver udito un rumore, ma invariabilmente non
trovò
nessuno alle sue spalle.
Dopo
un po’ che girava ritrovò l’ingresso con
i mobili neri e le
stampe misteriose. Da lì fu facile aprire il portone di
ingresso e
uscire.
†
Mentre camminava svelto nel
sottobosco augurandosi che Franz fosse ancora dove l’aveva
lasciato, von Kleist ragionava fra sé e sé sulla
propria fuga.
Sembrava quasi che qualcuno gli avesse indicato la via per
allontanarsi, come si fa nella foresta per far arrivare gli animali
da cacciare esattamente dove è stata allestita la postazione
dei
tiratori.
Si guardò intorno,
anche se nel
buio sarebbe stato impossibile scorgere eventuali nemici. A parte lui
il bosco sembrava immobile, addirittura disabitato: le quinte di un
teatro, esattamente come la misteriosa villa.
Raggiunse finalmente il punto
in
cui aveva lasciato il valletto con i cavalli, Franz era dritto in
piedi e teneva in mano le redini degli animali. Von Kleist poteva
immaginare l’espressione ansiosa con cui scrutava il buio
aspettando di vederlo ricomparire.
“Franz!”
chiamò.
Il ragazzo si voltò
di scatto.
“Eccellenza!”
“Tutto tranquillo
qui?”
“Sì, Eccellenza.
“Allora andiamo.” Si
palpò
la tasca della giacca controllando che il prezioso contenuto fosse
ancora al suo posto. “Dobbiamo arrivare alla residenza prima
possibile.”
Quando giunsero a
destinazione,
il cielo stava cominciando a schiarirsi. I due smontarono da cavallo,
il ragazzo prese in consegna gli animali e si mosse per portarli alle
scuderie, ma von Kleist gli fece cenno di immobilizzarsi. Estrasse la
pistola.
“Vieni fuori con le mani
alzate,” ordinò puntando l’arma verso
una macchia di
vegetazione.
Una giovane voce maschile
implorò: “Non fatemi del male, per
favore.”
“Vieni fuori,”
ripeté
l’ufficiale senza abbassare l’arma.
Si udì un fruscio
di foglie e
una figura smilza si alzò lentamente. “Vossignoria
non mi faccia
del male, per favore,” ripeté.
Von Kleist fece un passo nella
sua direzione. “Sepp?”
“Sissignore, sono io.”
Azzardò un passo
avanti,
entrando nel cerchio di luce dei lampioni che si trovavano ai due
lati della porta d’ingresso. Aveva gli abiti insanguinati e
strappati, il volto pesto e una fasciatura di fortuna a una mano.
“Che ti è
successo?” gli
chiese l’ufficiale.
Zoppicando lievemente, il
ragazzo
fece qualche altro passo. “Sono arrivate delle persone,
Vossignoria. Erano tre uomini e una giovane donna.” Represse
un
brivido.
Von Kleist lo prese per le
spalle, lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Sono arrivate,
dove?
Chi erano?”
“Dalla signora Pfannenschmied.
Non lo so chi erano, Vossignoria.”
“Che cosa volevano?”
Il ragazzo deglutì.
“Chiedevano
del signorino. Volevano sapere dov’era la sua roba.”
“A chi lo hanno chiesto? A
te?”
“A me e anche alla signora
Pfannenschmied.” Deglutì di nuovo, e dopo qualche
secondo
soggiunse: “Chiedo perdono a Vossignoria, ma ho detto tutto
quello
che sapevo, che voi eravate venuto, che avevate voluto vedere il
tetto, che avevate chiesto l’acqua calda. Ogni volta che non
rispondevo a una domanda, mi...” s’interruppe
scosso da un
brivido.
“Sono stati loro a procurarti
queste ferite?”
Il ragazzo annuì.
“Sissignore.
La donna.”
“Com’era fatta questa
donna?”
“Alta e magra, con i capelli e
gli occhi neri. Vestiva come un uomo.”
L’ufficiale lo
scrutò pensoso.
“Perché ti hanno lasciato andare?” gli
chiese.
“Non mi hanno lasciato andare,
Vossignoria. Sono scappato. Mi avevano chiuso nella conserva, ma io
sono abbastanza magro da passare per lo scolo della neve, e
così
sono andato via prima che mi ammazzassero.”
“Come fai a sapere che volevano
ammazzarti?”
“La signora l’hanno
ammazzata.”
Von Kleist si
scambiò
un’occhiata con il suo valletto e poi disse:
“Franz, porta questo
ragazzo da Gertrud. Dille che medichi le sue ferite e gli dia
mangiare. Io devo andare subito dal signor von Ruchel.”
“Come ordinate,
Eccellenza,”
disse Franz. Mise una mano sulla spalla del nuovo arrivato, che in
piedi accanto a lui sembrava ancora più magro e
più piccolo di
quanto non fosse.
L’ufficiale prese il
cavallo e
montò in sella. “Tieni gli occhi
aperti,” raccomandò al
valletto. “Se lo stanno cercando, non ci metteranno molto a
capire
dov’è scappato.”
“Non dubitate,
Eccellenza.”
†
Mentre galoppava a briglia
sciolta verso l’abitazione dell’amico, von Kleist
rifletteva
sulle parole del giovane Sepp.
Posto che fosse tutto vero, la
misteriosa organizzazione contro cui si stavano misurando sembrava
essere sulle tracce del diario di Konstantin.
Sicuramente il tale che si
faceva
chiamare Basilius sapeva della sua esistenza, e aveva riferito
quell’informazione a chi di dovere.
Di nuovo la mano
andò alla tasca
e attraverso la stoffa ripercorse la forma del piccolo quaderno.
Se quei tizi avevano
interrogato
la signora Pfannenschmied con gli stessi sistemi che avevano usato
con il ragazzo, senza dubbio erano riusciti a sapere di lui e del
vaso di fiori.
Arrivò alla villa
di von Ruchel,
percorse il parco lasciandosi alle spalle le serre di piante rare e
le voliere di uccelli esotici. Ormai albeggiava, ma in giro non
c’era
nessuno. Neppure il vecchio giardiniere di nome Michael, quello che
di solito si alzava quando era ancora buio.
Si diresse verso la parte
posteriore dell’edificio, ai quartieri della
servitù. Anche lì,
silenzio.
Una porta era socchiusa.
Von Kleist smontò
da cavallo ed
estrasse la pistola. Si avvicinò adagio, tenendosi rasente
al muro,
e con la canna dell’arma spinse l’anta della porta
in modo da
poter guardare dentro.
Il locale era una lavanderia,
c’erano lenzuola e abiti stesi ad asciugare, e vasche piene
d’acqua. L’aria era umida e aveva odore di liscivia.
Una cameriera giaceva a terra
supina. L’ufficiale si avvicinò cauto e pur nella
scarsa luce notò
che la ragazza aveva sul collo una macchia grigiastra come quelle che
aveva già visto su Konstantin e sull’aggressore
del Teufelsee.
Proseguì verso
l’interno del
palazzo. Tutto era silenzioso, nelle cucine i fuochi erano spenti,
non si udiva da nessuna parte l’usuale cicaleccio delle
ragazze
della servitù.
Arrivò nella parte
nobile
dell’edificio, si diresse verso la camera da letto
dell’amico.
Non appena vi si affacciò, notò i segni di una
furiosa
colluttazione: c’erano soprammobili rovesciati, le coperte
erano
sparse a terra e spruzzate di sangue. La spada di von Ruchel,
inconfondibile per la lama damascata, spuntava da sotto il letto. Un
pesante candelabro di bronzo doveva essere stato gettato contro
qualcuno e aveva esaurito la sua inerzia sulla parete, si vedeva
l’intaccatura che aveva prodotto nella tappezzeria.
Il tutore che
l’amico doveva
portare per poter usare la gamba destra era per terra, così
come il
suo bastone con l’impugnatura a forma di testa di levriero.
Si avvicinò al
letto. Sul
cuscino c’era un foglio arrotolato e chiuso con un sigillo
che
rappresentava una croce con sopra una rosa.
Lo aprì e lesse:
Se volete rivedere
vivo il
vostro amico Johannes von Ruchel, tornate senza indugio a casa vostra
e attendete. Un nostro emissario verrà a recuperare un
oggetto di
nostro interesse. Dopodiché non dovrete uscire di casa e non
dovrete
comunicare con nessuno fino a domani al tramonto.
Se allo scadere di
questo
tempo avrete fatto ciò che vi chiediamo, all’alba
successiva un
nostro emissario vi farà sapere dove potrete trovare von
Ruchel. Se
non lo avrete fatto, ritroverete ugualmente von Ruchel, ma un pezzo
per volta, a partire dalla gamba che per colpa vostra non
può più
utilizzare.
Non c’era firma.
Si costrinse a rileggere la
lettera con lo stesso spirito scientifico che avrebbe animato
Johannes. Primo, la stoccata finale lasciava capire che qualcuno
aveva raccolto informazioni su di lui, sulla sua amicizia con
Johannes e sulle battaglie che avevano combattuto insieme. E che
volesse far leva, oltre che sul suo affetto per lui, anche sul suo
senso di colpa nei suoi confronti.
Era vero, infatti, che von
Ruchel
era rimasto ferito a causa sua: nel corso della battaglia di
Chotusitz un eccessivo entusiasmo lo aveva portato a farsi troppo
avanti, e se non fosse stato per il suo più saggio amico,
che
l’aveva afferrato e buttato al coperto, avrebbe trovato una
prematura morte tagliato in due da una palla di cannone.
L’ordigno
però aveva rovinato
per sempre la gamba destra del maggiore Johannes von Ruchel,
costringendolo ad abbandonare una carriera che si preannunciava delle
più brillanti.
Rammentò che
all’epoca Sua
Maestà in persona aveva espresso il proprio rammarico per
una tale
perdita.
Abbandonò i ricordi
per tornare
alla realtà contingente.
L’oggetto che quella
gente
stava cercando non poteva essere che il diario di Konstantin. Si
chiese cosa potesse contenere di così importante da
giustificare
tutto quello che stava succedendo.
Andò al laboratorio
di Johannes,
a soqquadro al pari della camera. La pianta di rose giaceva sul
pavimento in mezzo a cocci e terra sparsa. L’ufficiale
dapprima la
raccolse e la avvolse in uno straccio bagnato, poi si sedette alla
scrivania, trasse di tasca il quaderno e lo aprì.
Le prime annotazioni erano
vecchie di circa un anno, ed erano piuttosto generiche. Il ragazzo
enumerava i motivi per cui aveva deciso di andarsene dalla dimora
avita, ove conduceva un’esistenza di agi e
tranquillità, per
vivere dei proventi delle sue poesie a Berlino.
Von Kleist sospirò:
se
Konstantin fosse stato suo figlio, gli avrebbe fatto passare lui
certe ubbie. Invece Luise era sempre stata troppo buona con lui,
troppo permissiva. Forse perché era così bello, e
di aspetto così
delicato. Magari, con atteggiamento del tutto materno,
l’aveva
assecondato perché inconsapevolmente temeva che la dura vita
militare sarebbe risultata troppo pesante per quell’efebico
fanciullo.
Il padre non era stato in
grado
di opporsi a quel comportamento protettivo, forse perché
anche lui
in realtà considerava Konstatin come una specie di statuetta
di
ceramica incapace di reggere gli urti della vita.
E quelli erano stati i
risultati.
Con un sospiro,
continuò a
leggere.
Ecco che comparivano i
Rosacroce.
Konstantin ne parlava come di un gruppo di studiosi dediti alla
poesia ermetica e alla ricerca. Trovò per la prima volta
l’acronimo
V.I.T.R.I.O.L., al quale il ragazzo attribuiva un significato del
tutto simbolico ed introspettivo.
Lesse poi
dell’arrivo dalla
Sassonia di una donna che a quanto pareva era un personaggio di
spicco nell’ambito dei Rosacroce. Il linguaggio di Konstantin
non
sempre era chiaro, spesso era inquinato da ermetismo o figure
retoriche, ma in generale il ragazzo faceva allusione a lei
chiamandola di volta in volta la Luna, l’Argento o la Regina.
La donna era sempre
accompagnata
da due misteriose figure, che nel diario venivano chiamate Atalanta
Fugiens e Aurora
Consurgens.
Non riuscì a capire
se si
trattava di persone reali o se anche quei nomi erano espressioni
ermetiche per indicare qualcos’altro.
Il ragazzo scriveva poi di
Rainer
Brandt. Ne parlava come di una specie di mentore che avrebbe dovuto
accompagnarlo nel suo percorso all’interno della setta dei
Rosacroce. Spiegava che era stato lui ad attribuirgli in nome di
Theophrastus, in omaggio a Paracelso e al suo homunculus, in quanto
anche lui era un homunculus, un piccolo essere frutto
dell’ingegno
e non della procreazione, che avrebbe dovuto crescere e apprendere
grazie a un maestro.
Di nuovo,
l’ufficiale scosse la
testa come di fronte a qualcosa di incomprensibile e fondamentalmente
stupido.
“Ach,
Konstantin, Konstantin,” mormorò fra sé
e sé, “se tuo padre ti
avesse raddrizzato quando era il momento...”
Tornò alla lettura.
Seguivano, nei giorni
successivi,
varie considerazioni sulla bellezza dell’ermetismo e
dell’alchimia,
e sul loro valore come simbolo della ricerca interiore.
Scorse rapidamente le pagine
imponendosi di ignorare il fastidio che il panegirico di quella
sottospecie di filosofia gli suscitava.
Si imbatté in un
foglio bianco.
Poi Konstantin scriveva:
Mea culpa, mea culpa,
mea
maxima culpa!
L’Opus
Magnum che vogliono
portare a compimento non è certo la realizzazione della
Pietra
Filosofale, reale o simbolica che sia, come ingenuamente credevo.
Basilius lo nega, ma io ho messo le mani su alcune delle lettere che
la Regina nasconde nella sua casa, ovvero quella villa nascosta sulle
rive del Templiner See che tutti credono essere solo il salotto
più
alla moda di Potsdam.
Solo Iddio, o forse
il
Diavolo, sa che cosa succede nei suoi sotterranei.
Io però ho
capito che la Luna
intende divorare il Sole, e lo farà in occasione del
concerto. E ho
capito che la donna di nome Maria che la istiga è ben altri
che la
Profetessa[1].
Devo avvertire lo zio
prima
che succeda l’irreparabile.
L’ufficiale rimase
pensoso.
Visto così, quel diario gli sembrava troppo poco per
giustificare un
omicidio e un rapimento. Era solo una raccolta di frasi senza senso,
messe su carta da un nobilotto adolescente fuggito di casa. Nessuno
avrebbe dato importanza a dichiarazioni del genere.
Ci doveva essere qualcosa di
più.
Sfogliò
di nuovo il quaderno pagina per pagina, lo scosse, osservò
ogni
foglio controluce alla ricerca di segni o fori in posizioni
particolari. Poi palpò la copertina: sembrava piuttosto grossa.
Andò alla ricerca
di una lente
di ingrandimento e controllò le cuciture, notando subito che
avevano
un’aria recente, che non si adattava alla generale patina di
tempo
che rendeva la pelle della rilegatura lucida per l’uso.
Prese una lama, la
infilò in una
cucitura e fece saltare qualche punto: l’anima rigida della
copertina era stata tolta, e al suo posto c’erano dei fogli
ripiegati.
Finì di scucire la
pelle, tirò
fuori tutto e quando ebbe visto che cosa c’era nei fogli
sollevò
le sopracciglia stupefatto.
“Non
è possibile,” disse a mezza voce.
Si trattava di lettere. Un
carteggio tra due donne, la destinataria delle missive era una certa
Diana, mentre l’autrice si firmava Maria.
Una frase lo colpì
particolarmente:
Voi lo ucciderete,
mia cara,
con quel veleno del quale conservate il segreto. Vi consiglio di
metterlo sul suo flauto, è un oggetto dal quale non si
separa mai.
Alla prova della sua morte io verserò in una banca di vostra
fiducia
diecimila dei miei talleri.
L’allusione al
flauto lo fece
riflettere. Sua Maestà suonava il flauto. E Konstantin nel
diario
parlava di un concerto.
E, neanche a farlo apposta,
Sua
Maestà dava concerti per flauto al Sanssouci.
Cominciò a sentire
una specie di formicolio addosso, come gli succedeva ogni tanto alla
viglia di battaglie dall’esito incerto.
Il veleno, i talleri...
Diana, rimaneva da scoprire
chi
fosse quella Diana.
Pensò a cosa
avrebbe fatto
Johannes al posto suo ed emise un sospiro sconsolato. Probabilmente
gli sarebbe bastato attingere alle sue immense conoscenze per citare
senza alcuna difficoltà almeno dieci personaggi della storia
e della
mitologia di nome Diana.
Fece girare lo sguardo sulla
stanza, letteralmente tappezzata di libri. Si alzò e scorse
rapidamente i titoli, senza trovare altro che trattati di scienze
naturali, astronomia e geologia.
Si trasferì in
biblioteca alla
ricerca di libri di storia e mitologia, ed ebbe un attimo di sgomento
nel contemplare l’immensa raccolta di volumi, disposta su tre
piani
di scaffali in un locale che da solo era grande quasi quanto la sala
di marmo del Sanssouci.
Dopo
qualche ricerca, trovò fra i libri di più
frequente consultazione
una copia del Lexicon
Universale
di Hofmann. Lo aprì, lo sfogliò febbrilmente fino
alla sezione
dedicata alla mitologia. Alla voce ‘Diana’ lesse: Artemide-Diana,
dea della caccia, della verginità, del tiro con l'arco, dei
boschi e
della Luna.
Posò il libro.
Ripensò alla donna
di cui
parlava Konstantin, quella che di volta in volta il ragazzo chiamava
la Luna, l’Argento o la Regina.
Diana poteva essere la Luna?
“Diamo
per scontato che lo sia,” disse a voce alta, imitando il modo
di
ragionare dell’amico. “Questo a cosa ci
porterebbe?”
Ci pensò su, quindi
si diede
anche la risposta: “Alla conclusione che la donna alla quale
sono
indirizzate le lettere e la Regina di cui parla Konstantin sono la
stessa persona.” Annuì soddisfatto, poi
però fece una pausa e
soggiunse: “Il che comunque ci riporta all’inizio
del gioco. Se
non riesco a sapere chi si nasconde dietro questa Regina, e chi
è la
donna di nome Maria che le scrive, la partita finisce prima di
cominciare.”
†
Incapace di dare ulteriori
spiegazioni al criptico contenuto del diario, von Kleist si risolse a
rientrare alla propria abitazione, anche solo per rimanere in attesa
del misterioso emissario che avrebbe dovuto contattarlo.
Cosa
fare, poi, con il suddetto, era un altro problema che sembrava non
avere soluzioni. Aspettarlo
e obbedire ai suoi ordini senza creare problemi, o catturarlo e
cercare di ottenere in qualche modo delle informazioni?
Non voleva rischiare di
mettere
in pericolo Johannes. Gli aveva già distrutto
l’esistenza, sebbene
non volontariamente, e per quanto fosse certo che l’amico
avrebbe
preferito mille volte vedere salva la vita del Re piuttosto che la
propria, quel pensiero lo faceva esitare.
Si sistemò il
diario, la
richiesta di riscatto e le lettere in tasca, tornò in
cortile,
rimontò in sella e fece la strada a ritroso.
Sulla porta delle scuderie
c’era
Franz che lo aspettava.
“Tutto
bene?” chiese l’ufficiale.
“Sì,
Eccellenza. Tutto come avete detto. Il ragazzo è in cucina
con
Gertrud.” Poi, dopo una pausa: “Quella signora
Pfannenschmied non
doveva dargli molto da mangiare. È da quando siete andato
via che
sta divorando di tutto e non ha ancora smesso!”
Von Kleist sorrise.
“Buon pro
gli faccia. Se si comporterà come si deve lo
raccomanderò a qualche
mio collega come valletto.”
“Penso
che ne sarebbe felice, Eccellenza, anche perché adesso
è senza
lavoro.”
“Vedremo.
È venuto nessuno mentre ero via?”
“No,
Eccellenza.”
Von Kleist non
replicò. Qualcuno
lo stava evidentemente tenendo d’occhio e si sarebbe
presentato una
volta sicuro di trovarlo.
Rientrò in casa
immerso in cupi
pensieri, indeciso sul da farsi. Andò nel suo studio e gli
cadde
l’occhio sul bastone da passeggio con l’impugnatura
d’argento.
Dopo la serata al Sanssouci era ancora sulla scrivania, mobile dal
quale la servitù aveva l’ordine di non rimuovere
mai nulla.
Vederlo e rievocare
l’episodio
in cui la ragazza von Pfuel l’aveva raccolto e
gliel’aveva
restituito fu tutt’uno.
Gli
tornarono in mente le parole del suo collega von Bissing:
L’alchimista
e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.
Fu come se di colpo gli
cadesse
una benda dagli occhi: ecco chi era la Regina, e chi erano Atalanta
Fugiens e Aurora Consurgens.
Invece di cacciarla
come tutti
si sarebbero aspettati, le ha concesso una rendita e una villa sul
Templiner See.
Tutto corrispondeva.
In quel momento, qualcuno
bussò
alla porta.
Ma ora von Kleist sapeva anche
cosa fare.
Spostò la pistola
in modo che
fosse coperta dalla marsina, poi ordinò a Franz di aprire.
Sulla soglia c’era
Basilius.
Portava un manto nero e un tricorno dello stesso colore. Il volto era
talmente pallido da apparire quasi diafano.
“Le
parti si invertono, vedo,” lo salutò il colonnello.
L’altro non rispose.
Si limitò
a fissarlo serio, poi si tolse il tricorno e con uno scatto del capo
spostò all’indietro le ciocche corvine che gli
ricadevano sulla
fronte. “Avete ciò che vi chiediamo?”
domandò freddo.
Von Kleist annuì.
“Ovviamente.
Ma non lo tengo certo qui.”
“E
dove, allora?”
“Nel
mio studio. Venite, vi accompagno.”
“No,
portatelo qui voi.”
L’ufficiale lo
fissò beffardo.
“Pensate che metterei a rischio la vita del mio migliore
amico per
quella cosa?”
“Io
non penso nulla. Sono qui per prendere ciò che ci dovete e
andarmene. Quindi ora portatelo qui.”
Von Kleist alzò le
spalle.
“D’accordo, se proprio ci tenete.”
Andò nello studio,
strappò la
copertina dal diario e la mise su un fascio di fogli bianchi, poi
prese altri fogli e li piegò come per imitare le lettere. Le
carte
originali le ficcò in una cartella di giornali vecchi e
fogli
d’ordini del Reggimento, poi tornò dal suo ospite.
“Eccolo qui,”
disse mostrando il simulacro che aveva costruito.
Basilius lo stava aspettando
con
una mano in tasca. “Bene. Datemelo.”
“Prima
voglio una prova che Johannes stia bene.”
L’uomo rispose con
un ghigno.
“Nessuna prova. Dovete fidarvi di noi.”
“Che
sarebbe come dire che devo infilare la mano in un nido di serpi e
confidare sul fatto che non mi morderanno.”
Di nuovo calò fra i
due un
silenzio teso, poi Brandt si avvicinò e ripeté:
“Il diario.”
“Certo.”
Von Kleist allungò l’oggetto verso di lui, ma non
appena questi
estrasse la mano di tasca per prenderlo, egli sfilò la
pistola che
si era nascosto dietro la schiena, la puntò e fece fuoco.
L’uomo cadde a terra
e vi
rimase immobile. Nella mano che aveva allungato verso di lui
stringeva ancora un tampone di stoffa.
Ci fu qualche secondo di
silenzio, poi von Kleist ordinò: “Franz,
dì a Rudolph di
attaccare immediatamente, ci servirà la carrozza. E poi
chiama
Jürgen e digli di mandare gente a casa di von Ruchel, ci sono
alcune
cose da sistemare.”
Il valletto, che aveva sentito
fischiare le pallottole più di una volta assistendo il suo
padrone
sul campo di battaglia, tranquillamente rispose:
“Sì, Eccellenza.
Devo far pulire il pavimento, Eccellenza?”
“Buona
idea. Porta con te
le pistole e la spada, ci sarà da combattere.”
“Sì,
Eccellenza.”
[1] Maria la Profetessa, detta
anche Maria Prophetissima o Maria d’Alessandria, è
stata una
filosofa e alchimista vissuta nel terzo secolo d.C.
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Capitolo 3 *** Parte terza - Rubedo ***
Opus 3
Parte Terza – Rubedo
È l'ultima
fase della Grande
Opera, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche, che
culminano con la realizzazione della Pietra Filosofale e la
conversione dei metalli vili in oro.
Partirono non appena fu pronta
la
carrozza. Si lanciarono lungo la strada frustando i cavalli e si
inoltrarono nel folto della foresta che circondava il Templiner See.
Von Kleist ordinò che il veicolo procedesse per sentieri
secondari,
in modo da celare il più possibile la sua presenza agli
uomini che
sicuramente dovevano essere stati inviati a sorvegliare i dintorni.
Conosceva la villa in riva al
lago: era stata vuota per molto tempo, dal momento che si credeva
infestata dagli spiriti dopo che vi si era svolto un fatto di sangue.
A quel pensiero non poté impedirsi di sogghignare: se nelle
dimore
nobiliari vi fossero stati fantasmi in proporzione diretta ai fatti
di sangue che vi avevano avuto luogo nel corso dei secoli, non
conosceva palazzo in cui non ci sarebbe stata un’autentica
legione
di trapassati.
A quanto si diceva nei
salotti,
comunque, l’eccentrica signora von Pfuel l’aveva
scelta proprio
per quel motivo. Nelle notti di luna piena era solita organizzare
delle cacce al fantasma in compagnia delle nobildonne di Potsdam, le
quali la mattina dopo giuravano di essere state sfiorate da gelide
mani di spettri o di aver udito misteriosi sussurri nelle sale buie.
Non era raro che qualcuna
cadesse
in deliquio nel rievocare le emozioni delle terribili serate.
Guardò fuori.
Già fra i tronchi
secolari appariva e scompariva la superficie calma del lago. Fece
fermare la carrozza, quindi scese e si guardò intorno. Lungo
la
riva, seminascosta dagli alberi, si intravedeva la mole grigia della
villa. Si protendeva da essa un molo al quale erano legate alcune
imbarcazioni a remi.
Sul molo comparvero due uomini
che lo percorsero completamente. Uno di essi estrasse un cannocchiale
e cominciò a sondare i dintorni con quello.
“Maledizione,”
ringhiò von Kleist ritornando nel folto della vegetazione.
“Non
potremmo avvicinarci di notte,
Eccellenza?” propose Franz.
“No,
non abbiamo tutto quel tempo. Avanzeremo nel folto della vegetazione,
tenendoci nascosti.” poi, rivolto al cocchiere. “Tu
ci aspetterai
qui, Rudolph. Hai il tuo moschetto, non è vero?”
“Sì,
Eccellenza.”
“Molto
bene. Nel caso, usalo. Non far avvicinare nessuno.”
“Contate
su di me, Eccellenza.”
Seguito dal suo valletto,
l’ufficiale prese a muoversi cauto. Mentre si manteneva al
coperto
nel sottobosco, concentrava i suoi pensieri all’avanzare,
senza
indugiare troppo sul piano che aveva elaborato.
Non c’era nemmeno un
piano, in
realtà. Aveva pensato di entrare nel palazzo e cercare
Johannes.
Posto che Johannes fosse lì, ovviamente.
In ogni caso, scelte non ce
n’erano molte. Rainer Brandt aveva preparato un tampone per
ucciderlo, e l’avrebbe fatto, se lui non fosse riuscito a
precederlo, il che significava che anche rimanere fermo e buono per
il giorno richiesto non avrebbe portato a nessun risultato positivo.
Avrebbero ucciso anche Johannes, o forse l’avevano
già fatto.
Alzò la testa: le
cuspidi
coniche delle torri ornamentali poste ai quattro angoli della villa
erano già in vista.
Controllò per
qualche decina di
secondi se vi si scorgeva qualcuno, ma gli parvero vuote.
Arrivò al limitare
del parco e
si fermò in una fitta macchia di conifere. Da lì
rimase a osservare
i dintorni: la villa, un massiccio finto medioevo che ricordava un
maniero delle favole, aveva porte e finestre chiuse. Se non avesse
saputo per certo che vi abitava la signora von Pfuel con le figlie e
che ogni settimana vi si tenevano sontuosi ricevimenti, avrebbe
pensato di trovarsi di fronte a un edificio vuoto.
Guardò il tetto:
dai camini
principali non usciva fumo, ma da una canna fumaria seminascosta fra
i rampicanti si levava una strana caligine verdastra.
Si voltò verso
Franz, che gli
restituì uno sguardo a metà fra lo stupore e il
disgusto.
Udirono dei passi. Si
appiattirono tra le fronde e videro arrivare due uomini armati, che
camminarono lungo tutto il lato dell’edificio, quindi
svoltarono
l’angolo e scomparvero alla vista.
Von Kleist e Kretschmer li
seguirono a distanza e li videro scomparire in una piccola porta di
servizio porta alla base di una delle torri.
Si scambiarono
un’altra
occhiata e annuirono in segno di intesa. Subito dopo, attraversarono
di corsa lo spiazzo coperto di ghiaia che separava la villa dalla
vegetazione e si appiattirono contro la parete.
Von Kleist abbassò
la maniglia,
che cedette senza rumore. Socchiuse appena la porta.
Al di là
c’era silenzio.
Intravide una vaga penombra, percepì odore di cera per
mobili e
candele. Si arrischiò ad aprire un po’ di
più, ma di nuovo non
incontrò che silenzio. Scivolò dentro e fece
cenno a Franz di
seguirlo.
†
La luce che arrivava dai
finestrini della torre consentiva a malapena di vedere i contorni
delle cose. C’era una scala a chiocciola che andava verso
l’alto,
da essa proveniva la fioca eco dei passi di due persone. Sotto la
scala c’era uno scaffale che sembrava carico di barattoli e
scatole.
Nella parete opposta
c’era una
porta. Von Kleist provò ad aprirla, e anche quella cedette
senza
opporre resistenza, e senza emettere il minimo rumore.
Si affacciarono su un
corridoio.
Si trattava chiaramente di un ambiente di servizio, funzionale e
disadorno. Vi regnava un silenzio greve, sospeso, che dava una penosa
impressione di attesa.
I due lo percorsero fino a che
non sbucarono in un androne con il pavimento di ciottoli. Il soffitto
alto e il lieve odore di sterco di cavallo facevano capire che si
trattava di un ambiente nel quale entravano le carrozze.
Si scambiarono
un’occhiata poi
Franz, molto più a suo agio di von Kleist nelle stanze della
servitù, gli disse: “Di là,
Eccellenza.” Indicò una piccola
scala a chiocciola che si intravedeva in una nicchia seminascosta in
un angolo del locale. “Con quella si arriva di sicuro in
qualche
posto interessante.”
Cominciarono a salire. Man
mano
che procedevano, la già scarsa luce scemò del
tutto e dopo poco si
trovarono completamente al buio. Von Kleist, che procedeva davanti,
appoggiò una mano al muro e continuò a muoversi
facendo affidamento
su quella.
Arrivarono in quel modo a un
pianerottolo. Ormai abituati all’oscurità
completa, i loro occhi
furono immediatamente colpiti da una sottilissima fessura dalla quale
filtrava la luce.
L’ufficiale vi si
avvicinò:
sembrava uno spioncino. Fece scorrere le mani sulla parete e
percepì
che era di legno. Palpandola con attenzione trovò anche un
meccanismo d’apertura.
Stava per farlo scattare
quando
dall’altra parte si udirono dei passi. Avvicinò
l’occhio alla
fessura e rimase a osservare.
Entrarono nella stanza la
signora
von Pfuel e le sue figlie. La prima aveva un frusciante abito di seta
nera, e al collo la stessa collana di rubini che le aveva visto al
ricevimento. Acconciati ma non incipriati, i capelli erano una
lucente cascata d’ebano.
Una delle ragazze, quella con
gli
occhi verdi, aveva un abito simile a quello della madre, mentre la
ragazza con gli occhi neri era vestita da uomo.
Tutte e tre avevano al collo
una
catenina con un ciondolo simile a quello che avevano trovato sugli
assalitori del Teufelsee, solo che era d’oro.
“Io
credo che sia morto, madre,” disse la ragazza dagli occhi
neri. “Ho
detto a Basilius di usare su di lui una dose di morte
d’acqua,
non può essere sopravvissuto.”
La più anziana si
voltò verso
di lei in un gesto altero. “Ne sei certa? L’hai
visto con i tuoi
occhi?”
L’altra
aggrottò le
sopracciglia mentre un guizzo di rabbia le attraversava lo sguardo.
“No, madre.”
“Che
cosa vi ho insegnato? Non bisogna lasciare nulla al caso.
Quell’uomo
è ficcanaso e testardo esattamente come il mocciosetto coi
capelli
rossi che piaceva a tua sorella.”
Chiamata in causa, la ragazza
dagli occhi verdi abbassò lo sguardo con fare contrito.
“È
stata lei a farlo venire qui!” proseguì la madre.
Si rivolse
direttamente alla colpevole: “Sei stata tu! Tu
l’hai portato qui
e l’hai lasciato curiosare in giro.”
“Mi
dispiace, madre,” rispose la ragazza a testa bassa.
“Mi
dispiace, mi dispiace!” fece eco la più anziana.
“Ormai il danno
è fatto!” Poi, rivolta all’altra figlia:
“E quindi, dove sono
le mie lettere? Perché quel tuo amichetto non le ha ancora
portate?”
“Io
penso che arriverà presto, madre.”
“Non
vorrei che quell’ufficiale si fosse salvato.”
“Come
potrebbe, madre? La morte
d’acqua
uccide istantaneamente.”
“Bah.”
La più anziana fece un gesto di spregio. “Certo
è facile usarla
su un ragazzetto immobilizzato, o su se stessi. Tutt’altra
cosa è
usarla su un uomo adulto e robusto, che si aspetta
un’aggressione e
sa come difendersi.”
Le due rimasero a fissarsi
negli
occhi per qualche secondo. Il nero delle iridi e il pallore dei volti
squadrati dava a quel confronto una connotazione singolarmente
drammatica. Alla fine fu la più giovane a distogliere lo
sguardo.
Abbassò la testa e chiese: “L’altro?
L’avete ucciso?”
“Non
ancora. Può servirmi per i miei esperimenti.”
“Non
avevate mai pensato di liberarlo, vero?”
La donna si limitò
a un’alzata
di spalle. “Sa troppe cose. E ora andiamo,” disse
poi, “dobbiamo
preparare tutto. Sarà meglio che quel Basilius arrivi in
fretta.”
Attraversarono la stanza,
passando così vicino allo spioncino che von Kleist
riuscì a
percepire il vago sentore di erbe officinali che emanavano, poi
uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.
Von Kleist aspettò
qualche
minuto, poi armeggiò nel buio alla ricerca del meccanismo di
apertura che aveva trovato prima e lo fece scattare. Una porta si
aprì silenziosamente consentendo l’accesso a un
salottino dalle
pareti coperte di pannellature di legno laccato.
Una volta richiusa, la porta
di
accesso alla scala diventava completamente invisibile tra gli stucchi
e le decorazioni.
Andò alla porta
dalla quale
erano uscite le tre donne, vi appoggiò contro
l’orecchio:
silenzio. Abbassò la maniglia, arrischiò uno
sguardo al di là e
vide una camera in penombra, con un’altra porta sulla parete
opposta.
Attraversò varie
stanze che
immettevano l’una nell’altra e infine giunse a uno
studio con le
pareti rivestite di librerie. Non c’erano altre porte, ma nel
picciolo locale non c’era nessuno. “Ci
dev’essere un altro passaggio segreto,”
mormorò guardandosi intorno.
Lo colpì un mobile
secrétaire
in legno pregiato, intarsiato con simboli simili a quelli che aveva
visto nell’ingresso della villa di Brandt. Si
avvicinò e aprì la
ribalta, rivelando un piano di scrittura e
un’infinità di cassetti
di varie dimensioni. Febbrilmente prese a scorrere con le dita in
ogni anfratto, alla ricerca delle cavità segrete che
venivano celate
in tutti i mobili di quel genere.
“Ci
deve essere,” disse fra sé e sé.
Sapeva dove normalmente
venivano
collocati i nascondigli, ma in nessuno di quei posti riuscì
a
trovare meccanismi o rientranze. Nessun cassetto aveva un doppio
fondo, e nella nicchia centrale non c’erano parti mobili.
“Dannazione,”
imprecò fra i denti, mentre i suoi gesti di facevano sempre
più
nervosi. Gli sfuggì di mano un cassettino che aveva estratto
e cadde
sul piano di scrittura spargendovi il suo contenuto, consistente in
stecche di ceralacca e sigilli con vari monogrammi.
Mentre si dava da fare per
raccogliere gli oggetti e riporli, percepì un lieve
movimento sotto
le dita. Abbassò lo sguardo e vide che uno dei pannelli
intarsiati
si era leggermente spostato, rivelando quella che finalmente sembrava
essere una cavità nascosta.
La aprì quel tanto
da poter dare
un’occhiata all’interno e vide che conteneva dei
fogli piegati
esattamente come quelli che aveva visto nel diario di Konstantin.
Ne estrasse uno.
“Altro
che Maria la Profetessa!” proferì ad alta voce
dopo averlo letto.
Franz lo fissò
perplesso.
“Eccellenza?”
“Maria
Teresa d’Austria! Questa specie di strega infernale si
scambia
lettere con Maria Teresa d’Austria!”
Avrebbe voluto aggiungere
altro,
ma in quel momento un’anta della libreria si
spalancò come una
porta e da essa uscirono due uomini con la spada in pugno.
Von Kleist estrasse
immediatamente la pistola e fece fuoco, abbattendo uno dei due, poi
lasciò cadere l’arma scarica e sfoderò
la spada.
Subentrò anche
Franz con la
propria pistola, ma in quel momento la porta dello studio si
aprì e
da essa entrarono altri uomini armati.
“In
alto le mani,” intimò quello che sembrava essere
il capo dei nuovi
arrivati.
†
Una volta che li ebbero
disarmati, gli uomini legarono loro le mani dietro la schiena e li
spinsero verso la porta segreta. Da essa si dipartiva una scala a
chiocciola che conduceva verso il basso.
Von Kleist pensò
che sarebbe
sbucata nell’androne come quella che avevano percorso per
salire,
ma essa si rivelò molto più lunga del previsto:
continuarono a
scendere fino a che la testa non cominciò a girargli
lievemente e
fino a che, a suo giudizio, non si trovarono ben al di sotto del
piano terra.
A questo punto la scala
terminò
in quello che a prima vista parve all’ufficiale un girone
infornale: l’ambiente, enorme e dal soffitto a volta, era
illuminato da fiaccole e candele. Vi regnava un caldo soffocante.
Odori di ogni genere colpivano le nari, alcuni per la loro
sgradevolezza, come lo sterco o il grasso rancido, altri
semplicemente per la loro violenza. Distillati di erbe officinali
rilasciavano effluvi così forti da causare il mal di testa.
Al centro della sala vi era un
enorme forno, più grande di quello che aveva visto nella
villa di
Brandt, e da esso scaturivano fiamme. Sulla sua superficie
innumerevoli ampolle e bottiglie stavano ribollendo.
Intorno al forno erano
disposti
dei tavoli, sui quali erano allineati strumenti di ogni genere,
crogioli, alambicchi, mortai, vasi e libri. Da una parte
c’era
anche una grande vasca con dentro alcuni di quei pesci che potevano
trasformarsi in palle irte di aculei.
La signora von Pfuel, con
addosso
un grembiule lungo fino a terra e un paio di spessi guanti di pelle,
li stava prendendo uno ad uno con un retino, e man mano che li
catturava, li decapitava e li buttava in un secchio.
Quando sentì
arrivare gente
interruppe il suo lavoro, si girò e chiese: “Li
avete presi?”
Uno degli uomini si fece
avanti e
si inchinò profondamente. “Sì, Regina.
Sono qui.”
La donna si
avvicinò. Il
bagliore igneo delle fiaccole conferiva al suo volto duro una
connotazione demoniaca. Gli occhi brillavano come giaietto. Si pose
le mani sui fianchi e alzò le sopracciglia. “Siete
un po’ troppo
curioso, signor ufficiale,” sentenziò.
Von Kleist non rispose.
“Sarò
costretta a mettervi in gabbia con il vostro amico, allora,”
proseguì l’altra, “e poi, a cose fatte,
vedremo di trovare anche
per la vostra inutile esistenza uno scopo. Fungere da
corpus vile
per i miei esperimenti, ad esempio.” Sollevò una
mano, gliela pose
sotto il mento e gli sollevò il viso. “Siete
piuttosto robusto,
credo che resisterete molto di più dei ragazzini e dei
vagabondi che
sono costretta a usare di solito.” Si voltò verso
Franz. “E il
vostro servo, qui, mi pare ancora più adatto di voi a
sopportare
certe prove.” Poi, a voce più alta:
“Portateli via, perquisiteli
e buttateli nella gabbia!”
Vennero sospinti verso una
zona
del laboratorio particolarmente buia. Lì c’era in
effetti una
grande gabbia con le sbarre costituite da pali di legno sagomati in
modo da avere una sezione quadrangolare. Ogni giuntura era rinforzata
in ferro e vi era una porta d’ingresso chiusa da un pesante
lucchetto.
Al suo interno si intravedeva
nella penombra una figura rannicchiata.
Dopo averli palpati in tutto
il
corpo alla ricerca di armi o oggetti nascosti, uno degli uomini
aprì
la porta e senza slegare loro i polsi li spinse dentro, quindi
richiuse con un tonfo e fece scattare il lucchetto nuovamente al suo
posto.
Buttato dentro come un sacco,
von
Kleist non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde
al suolo.
Rotolò sulle pietre masticando un’imprecazione,
poi si raddrizzò,
mise a fuoco ciò che lo circondava ed esclamò:
“Johannes! Stai
bene?”
La figura rannicchiata era il
suo
amico. Per quello che poteva vedere, non sembrava ferito o
sofferente.
L’altro emise un
sospiro e
disse: “Me lo sentivo che avresti finito per combinare
qualcosa di
molto stupido.”
“Venire
a salvarti la chiami una cosa stupida?” replicò
l’altro piccato.
“Se
siamo tutti qui, direi che lo è stata.”
“La
von Pfuel sta progettando di uccidere Sua Maestà,”
disse von
Kleist ignorando l’osservazione tagliente,
“è in combutta con
Maria Teresa d’Austria.”
“Stai
scherzando?”
“Ho
visto le lettere.”
Von Ruchel non rispose.
Finalmente, dopo un tempo che all’amico parve interminabile,
a
bassa voce disse: “Dobbiamo trovare il modo di uscire di
qui.”
“Perché,
se non fosse stato per quello che ti ho detto saresti rimasto qui
dentro a subire tutte le angherie che quella strega avrebbe ritenuto
di farti?”
“Diciamo
che non mi sarei mosso con tanta precipitazione. Hai le mani
legate?”
“Sì.”
“Allora
vieni qui che ti libero. E anche tu, Franz.”
“Sì,
Eccellenza,” rispose il valletto.
†
Una volta liberi dalle corde,
i
tre rimasero a guardare quello che la signora von Pfuel stava
facendo.
Dopo aver pescato tutti i
pesci
che c’erano nella vasca e averli uccisi e buttati in un
secchio, la
donna prese il recipiente e andò a un tavolo.
Sempre con i guanti, a ogni
pesce
aprì l’addome e ne estrasse qualcosa di scuro.
Quando ebbe fatto
ciò con ognuno degli animali, pose ciò che aveva
raccolto in un
contenitore di vetro.
Aggrappati alle sbarre, i tre
seguivano perplessi quella procedura. “Che starà
facendo?”
chiese sottovoce von Kleist.
Von Ruchel si strinse nelle
spalle. “Non lo so. Sembra che le interessi un certo organo
di quei
pesci.”
“Li
hai mai visti?”
“Solo
nei libri. Non so come faccia ad averli qui, sono pesci dei
tropici.”
“Stanno
in mare?”
“Anche
in acqua dolce.”
La donna prese il contenitore
e
se ne andò.
I tre rimasero per un
po’ in
silenziosa attesa, ma la von Pfuel non ricomparve. Arrivarono un paio
di uomini ad attizzare la fornace, poi di nuovo calò il
silenzio.
“Siamo
soli?” chiese dopo un po’ von Kleist.
“Così
pare,” fu la risposta dell’amico.
“Bene,
allora cerchiamo il modo di uscire di qui, bisogna fermare quella
donna. Quand’è il concerto di Sua
Maestà, a proposito?”
“Che
giorno è oggi?”
“Il
venti.”
“Allora
è stasera.”
“Dannazione,
dobbiamo sbrigarci!”
Von Ruchel si
sollevò
aggrappandosi alle sbarre. “Fammi dare
un’occhiata,” disse poi.
Rimase in osservazione per un
tempo desolatamente lungo. Al suo fianco, von Kleist non osava dire
nulla per timore di disturbare la sua concentrazione. Dopo un
po’
comunque chiese: “Hai qualche idea?”
“La
chiave è appesa a un gancio sulla parete di fronte. Dobbiamo
solo
trovare il modo di arrivarci.”
L’ufficiale
guardò il punto
che l’amico aveva indicato, ed effettivamente notò
una grossa
chiave di ferro, nera nella scarsa luce, che pendeva da un anello.
Calcolò la distanza
dell’oggetto
e le conclusioni furono piuttosto sconfortanti. “Non possiamo
restarcene qui dentro mentre quella là va ad avvelenare il
Re!”
esclamò comunque, come a ribadire la sua ferma intenzione di
evadere.
“Ci
vorrebbe una canna da pesca,” disse von Ruchel alle sue
spalle.
Von Kleist si
guardò intorno,
riuscendo a individuare dopo un po’ un bastone che veniva
usato per
spostare i recipienti sulla fornace rovente.
Purtroppo era stato messo a
distanza di sicurezza dalla gabbia.
L’ufficiale
recuperò i pezzi
di corda che erano rimasti per terra e li legò fra loro, poi
si
sfilò la marsina, si strappò una manica della
camicia e ne fece
lunghe strisce, che poi annodò fra loro. Con il colletto, i
polsini
e lo jabot fece una palla che assicurò a una delle
estremità
dell’improvvisata corda.
“Ora
andiamo a pesca,” disse poi. Si spostò
più vicino possibile al
bastone e cominciò a tirare in quella direzione la palla di
stoffa
cercando di agganciarlo.
Per un tempo imprecisato, gli
unici rumori che si udirono furono i tonfi soffici della palla,
accompagnati di tanto in tanto da qualche imprecazione.
Il tempo passava inesorabile.
La
fornace continuava a funzionare a pieno regime, il che significava
che presto qualcuno sarebbe arrivato ad alimentarla.
L’ufficiale
inspirò cercando
di non farsi prendere dall’eccitazione. Fece finta di essere
su un
campo di battaglia, in procinto di ordinare un assalto.
Tirò la palla, che
finalmente
portò il laccio ad avvolgersi intorno al bastone. In quel
momento si
udirono dei passi.
Von Kleist si
immobilizzò: non
poteva rischiare di fare rumore e attirare l’attenzione.
Scambiò
un’occhiata furtiva con gli altri, che gli rimandarono la
stessa
preoccupazione.
Arrivarono due uomini.
Parlavano
fra loro, sembravano piuttosto rilassati ora che la signora von Pfuel
non era più in vista. Andarono a prendere due gerle di legna
e
cominciarono a gettare i pezzi dentro gli appositi sportelli.
Quando ebbero finito, uno dei
due
si terse il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte e disse:
“Ci sarebbero da spostare quei vasi.”
Indicò le ampolle che
bollivano.
L’altro scosse la
testa. “No,
lascia. Lo sai come fa quella là quando vai a toccare le sue
cose.
Capace che ti usa per i suoi esperimenti.”
“Sì,
ma poi traboccano e si arrabbia lo stesso. Ci metto un
attimo.”
Fece per muoversi verso il bastone. Von Kleist sentì un
brivido
freddo lungo la schiena. Se l’uomo si fosse avvicinato un
altro po’
avrebbe visto la corda di stoffa e avrebbe distrutto la loro unica
possibilità di fuga.
“Aspetta,
questo è più lungo,” disse
l’altro.
“Ah,
meglio. Quell’affare è caldo come
l’inferno.”
L’ufficiale
sospirò di
sollievo. Aspettò che i due se ne fossero andati, poi prese
a tirare
pian piano il bastone verso la gabbia.
Ci vollero molta cautela e
svariati momenti di angoscia, ma alla fine il bastone arrivò
abbastanza vicino alla gabbia da poter essere afferrato. Von Kleist
lo prese e con quello ricominciò lo stillicidio di
tentativi, questa
volta per agganciare la chiave e farla arrivare a portata di mano
senza lasciarla cadere.
Protendendo il braccio al
massimo, riuscì dopo innumerevoli prove a sollevare
l’anello e a
farlo scorrere lungo l’asta. La chiave arrivò.
“Meno
male,” sospirò.
Aprì il lucchetto,
ma quando fu
sul punto di uscire si rese conto che Johannes non avrebbe potuto
camminare. Non aveva il suo tutore, e anche se fossero riusciti a
trovargli un bastone o una stampella, non avrebbe potuto fare altro
che arrancare penosamente.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, von Ruchel disse: “Devi andare.”
“Ma
non posso lasciarti qui.”
“Al
momento sono quello che corre meno rischi. Va, prima che sia troppo
tardi.”
Von Kleist deglutì.
Di colpo si
sentiva pesante come il piombo. Di nuovo, l’altro
sembrò intuire
perfettamente i motivi del suo turbamento. “Devi
andare,” ripeté,
“pensare al passato non servirà a nessuno.
Né a te, né tanto
meno a me.”
Pur nella scarsa luce, i due
si
scambiarono una lunga occhiata. Infine, von Kleist disse:
“Franz,
resta qui con il signor von Ruchel.”
“Sì,
Eccellenza.”
Uscì senza
aggiungere altro.
Tornò rapido alle
scale dalle
quali era arrivato, le salì fino allo studio della von
Pfuel. Il
secrétaire era aperto, lo scomparto segreto vuoto.
“Le ha portate
via!” imprecò.
Ma aveva ancora il diario, e
le
lettere che aveva preso Konstantin. Inoltre non escludeva di riuscire
a recuperare anche quelle ancora in possesso della donna.
Guardò fuori: ormai
il sole si
stava dirigendo verso l’orizzonte, presto gli ospiti
avrebbero
cominciato ad affluire al Sanssouci per presenziare al concerto di
Sua Maestà, che nessuno voleva mancare, perché si
trattava di un
evento di importanza molto più politica che musicale.
Sentì un galoppo di
cavalli sul
viale. Guardò in basso e vide uscire dal palazzo una
carrozza di
gala con nappe e piume: la von Pfuel si stava dirigendo alla
residenza della famiglia reale.
Fece per abbandonare la
stanza,
ma gli si parò davanti la ragazza dagli occhi neri.
Impugnava una
spada, e dal modo in cui lo faceva era chiaramente in grado di usarla
per uccidere. L’ufficiale arretrò.
Si guardò intorno
rapidamente
alla ricerca di qualcosa che gli permettesse di affrontare una lama e
non poté fare altro che strappare un tendaggio e
avvolgerselo
attorno al braccio. Si mise in guardia.
La ragazza rimase immobile.
Non
aveva neppure bisogno di attaccare, le sarebbe bastato tenerlo a bada
per un tempo sufficiente e sua madre avrebbe già vinto la
partita.
I due si scambiarono
un’occhiata.
“Mademoiselle, fatemi passare,” le disse serio von
Kleist. “Ho
fatto troppa guerra per non considerare le donne pericolose quanto
gli uomini, quindi non aspettatevi da parte mia delle remore nel
colpirvi.”
“Voi
mi lusingate, signore,” rispose la ragazza con un sorriso
beffardo,
quindi buttò indietro i capelli con uno scatto del capo e
alzò la
lama.
L’ufficiale strinse
gli occhi.
La tenda che si era arrotolato intorno al braccio lo avrebbe protetto
dai fendenti, ma non dalle punte, e questo la ragazza lo sapeva molto
bene.
Fece una finta spingendo in
avanti il braccio protetto, e mentre la sua avversaria scattava per
colpire, con la mano libera afferrò la sedia del
secrétaire e
gliela buttò addosso. Ella intuì la minaccia e
riuscì a schivare
parzialmente il colpo, ma perse la compostezza e aprì la
guardia.
Von Kleist ne approfittò per dare un secondo colpo, ma la
sedia non
resse e nell’impattare sulla ragazza si frantumò.
L’altra riprese
immediatamente
il controllo di sé, attaccò con una punta al
petto. L’ufficiale
sottrasse bersaglio spostandosi di lato, poi le afferrò il
braccio
della spada e impossibilitato a fare altro la colpì con un
pugno
alla mandibola. La ragazza cadde a terra con un mugolio che sembrava
il soffiare di un gatto inferocito, rotolò, si
rialzò con uno
scatto delle reni e scrollò la testa un paio di volte.
“Ripeto,
signore: voi mi lusingate,” disse. I suoi occhi erano accesi
di
sfida.
L’ufficiale raccolse
da terra
una gamba della sedia e si mise in guardia. La ragazza
attaccò con
un’altra punta, lui parò e con
l’improvvisato randello le
assestò un colpo sulla nuca. La sua avversaria gemette, un
rivolo di
sangue prese a scorrerle sul collo niveo. Von Kleist non le diede il
tempo di riprendersi: la incalzò con un colpo alla tempia.
La
ragazza cadde di nuovo, ringhiò, in un ultimo sforzo si
lanciò in
avanti e lo ferì al fianco, poi si afflosciò al
suolo e vi rimase
immobile.
Ansante, con il sangue che dal
fianco gli scorreva lungo la gamba, l’ufficiale si terse il
sudore
dalla fronte, poi raccolse la spada, scavalcò il corpo
esanime e si
lanciò di corsa lungo la teoria di stanze che aveva
attraversato per
raggiungere lo studio.
Ritrovò il pannello
che
conduceva alla scala segreta, la discese, riprese la corsa attraverso
l’androne. Un paio di uomini gli si fecero incontro. Von
Kleist non
perse tempo: attaccò il più vicino con un tondo
rovescio
squarciandogli la gola, poi incalzò sul secondo con una
punta, gli
trapassò la spalla, estrasse la lama e lo finì
con un fendente
dritto al corpo.
Passò oltre.
Si inoltrò nella
foresta
incurante del fitto sottobosco. Raggiunse la carrozza.
“Presto, al
Sanssouci” cominciò a gridare prima ancora di
raggiungerla.
“Rudolph, partiamo immediatamente!”
Il cocchiere montò
di corsa a
cassetta e prese in mano le redini. I cavalli, che stavano brucando
un po’ di biada, alzarono la testa con uno scatto.
Il tempo di salire a bordo e
già
il veicolo procedeva alla massima velocità verso la reggia.
†
Al Sanssouci c’era
la folla
delle grandi occasioni. Carrozze di gala con tiri a due, a quattro e
addirittura a sei, piene di piume di struzzo e stucchi dorati, si
susseguivano scaricando sulla soglia della reggia tutti i nobili di
Potsdam e di Berlino che avevano avuto l’enorme onore di
ricevere
un invito.
Le
signore facevano a gara sfoggiando le toilettes
più eccentriche e le parrucche più incipriate,
gli uomini, a loro
volta in parrucca bianca, davano il braccio alle dame e si guardavano
intorno controllando a quanti altri fosse stato accordato il
privilegio di un invito. Gli ufficiali erano tutti in alta uniforme.
Von Kleist arrivò
al gran
galoppo, con i cavalli schiumanti. Scese di corsa, spettinato, sporco
di sangue, con una camicia che aveva una manica sola, le scarpe
infangate e i pantaloni strappati.
Fu fermato dai valletti.
“Fatemi
passare!” esclamò, strattonando per liberarsi.
“Vi
prego di non insistere, signore!” gli disse un valletto
più
robusto degli altri.
“Sono
il colonnello von Kleist, fatemi passare!”
“Non
è possibile, signore. Sua Maestà
comincerà a suonare fra poco.”
“Vi
dico di farmi passare, Sua Maestà è in
pericolo!”
Nel frattempo si stava
formando
un capannello. Signore vestite a festa lo osservavano curiose con la
lorgnette. I più credevano si trattasse di un pazzo.
Von Kleist si
guardò intorno con
l’aria di un cinghiale aizzato. Vide passare von Bissing. Lo
chiamò, poi con uno spintone mandò a gambe
all’aria il valletto
che lo stava trattenendo e raggiunse il collega.
Questi lo fissò
stupito. “Von
Kleist? Ma che diavolo...”
“Non
c’è tempo,” lo interruppe il colonnello,
“Venite con me!” Si
lanciò di corsa lungo il corridoio.
“Mi
volete dire che accidenti vi prende?” insisté von
Bissing cercando
di tenere l’andatura dell’amico nonostante
l’uniforme di gala.
“Muovetevi!”
Arrivarono alla sala della
musica, von Kleist spinse il collega dietro una tenda e vi si
occultò
a sua volta.
Nella sala c’erano
solo alcuni
valletti impegnati negli ultimi preparativi. Le candele ardevano
già
nei lampadari, riflettendosi nelle alte specchiere. Gli stucchi dei
pannelli rococò mandavano bagliori dorati. C’erano
già il leggio
di Sua Maestà con gli spartiti e il suo flauto traverso di
avorio.
Comparve la donna.
L’ufficiale
non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscita a entrare
nonostante la sorveglianza, tuttavia era lì. Vestiva un
abito nero e
aveva al collo, oltre la catenina d’oro con il pendente a
forma di
cilindro, un’opulenta collana di ametiste dal colore
particolarmente intenso e ricco. I capelli erano come sempre color
dell’ebano.
Si avvicinò con
l’aria di chi
è nel suo pieno diritto. Osservò lo spartito,
mosse appena il dito
nell’aria come se ne stesse seguendo la melodia e sorrise
compiaciuta. Un valletto le disse qualcosa e lei gli lanciò
un’occhiata da sopra la spalla con aria complice, con tutta
l’aria
della signora che riesce a rubare uno sguardo più intimo
alle cose
di Sua Maestà e non vede l’ora di vantarsene il
giorno dopo con le
amiche.
Il valletto le sorrise, fiero
di
poterle concedere quel piccolo attimo di felicità.
La signora riprese a seguire
la
melodia dello spartito.
Sottovoce, von Bissing disse:
“E
allora? Mi avete trascinato fin qui correndo come se avessimo il
Diavolo alle calcagna per vedere la von Pfuel che curiosa in
giro?”
“Tenetevi
pronto.”
“Tenetevi
pronto a che? Siete diventato matto per caso?”
La donna estrasse dalle pieghe
dell’abito una scatoletta, e da quella tirò fuori
un tampone di
stoffa.
“Ecco
che lo fa, guardate!”
“Fa
cosa?”
La signora von Pfuel
passò il
tampone sulla boccola e intorno a tutti i fori del flauto.
Von Bissing si
voltò verso il
collega con aria interrogativa, questi semplicemente gli disse:
“Appena esco per agguantare lei, voi prendete quel flauto,
senza
toccarlo con le mani nude, e fate in modo che non lo tocchi nessun
altro.”
“D’accordo.”
In quel momento, la donna si
voltò verso il tendaggio. I suoi occhi di giaietto ebbero un
guizzo,
ella si slacciò un nastro che aveva in cintura e in un
attimo si
liberò dell’ampia gonna, rivelando pantaloni e
stivali da caccia.
Scavalcò agilmente l’ammasso di stoffa ai suoi
piedi e si lanciò
fuori dalla sala con insospettata velocità.
Von Kleist scattò
al suo
inseguimento.
“Aiuto!
Aiuto! Mi uccidono!” strillò la signora, e per
prima cosa
l’ufficiale fu intercettato dal valletto. “Che cosa
volete fare a
quella donna?” chiese l’ignaro cameriere. Lo
afferrò a mezzo
corpo per trattenerlo.
Von Kleist proferì
un’imprecazione e abbatté l’uomo con un
pugno, quindi riprese
l’inseguimento.
La donna lo vide arrivare e
senza
rallentare si buttò dietro le spalle una piccola ampolla di
vetro.
Il contenitore si ruppe e da esso cominciò a sprigionarsi un
fumo
denso e acre, che faceva lacrimare gli occhi e bruciare la gola.
L’ufficiale si
costrinse a non
indugiare, ma quando finalmente smise di tossire e la vista gli si
schiarì di nuovo, fece appena in tempo a vedere la signora
von Pfuel
che usciva da una porta secondaria, montava a cavallo e scompariva al
galoppo.
Il buio la
inghiottì.
†
“Dov’è?”
chiese von Bissing, sopraggiunto alle sue spalle. Teneva in mano il
flauto avvolto in un fazzoletto ed era seguito da un nutrito gruppo
di guardie.
Von Kleist emise un sospiro.
“Andata. Se non fosse stato per quel dannato valletto
l’avrei
presa.” Poi, dopo una breve pausa: “Mi serve un
cavallo.”
“Dove
volete andare?”
“Alla
villa sul Templiner See. Forse riusciamo ancora a prenderla.”
A voce alta, von Bissing
ordinò:
“Un cavallo per Sua Eccellenza il colonnello von Kleist,
presto!”
Poi, rivolto al collega: “Io vi raggiungo con uno squadrone
dei
miei.”
“D’accordo.”
Pochi minuti dopo, in sella a
un
robusto baio, von Kleist sfidava le tenebre galoppando verso la
dimora della signora von Pfuel.
Nel frattempo ragionava sulla
situazione. Una delle figlie era fuori combattimento,
dell’altra
non sapeva nulla. L’attentato era fallito, ma la Regina era
ancora
viva e vegeta.
Se glielo avesse permesso,
quelle
specie di erinni sarebbero fuggite facendo perdere le loro tracce e
l’erinni peggiore di tutte, ovvero Maria Teresa
d’Austria,
sarebbe uscita dalla faccenda più pura della madre di Cristo.
Spronò il cavallo.
Immersa
nell’oscurità, la
villa aveva un’aria spettrale.
Von Kleist smontò e
si guardò
intorno. Sotto i raggi della luna, il maniero dava
l’impressione di
essere disabitato da anni. Solo guardando attentamente si coglieva
nella canna fumaria nascosta fra i rampicanti un fioco bagliore
rosso, come di braci che covano sotto la cenere.
L’ufficiale non si
perse nella
contemplazione della notte di primavera. Si diresse risoluto verso
l’ingresso di servizio alla base della torre e
penetrò
silenziosamente nella sontuosa dimora.
Facendo affidamento sui deboli
raggi della luna, seguì il percorso della mattina e
tornò al
piccolo studio. La ragazza dagli occhi neri era ancora lì.
Era stata
rivoltata sulla schiena, e qualcuno le aveva strappato dal collo il
ciondolo fatto a cilindro.
Il secrétaire era
stato vuotato
di ogni suo contenuto, i cassetti giacevano sparsi sul pavimento.
Il passaggio segreto della
libreria era semiaperto.
Von Kleist lo
osservò dubbioso:
anche quello sembrava un invito.
Si avvicinò,
constatando che dal
basso saliva una colonna d’aria torrida. Scese cauto alcuni
gradini: la temperatura diventava sempre più alta. Gli parve
di
sentire odore di fumo.
Percorse il resto della scala,
e
quando arrivò in basso temette di essere finito nel bel
mezzo
dell’inferno: la fornace stava divorando un enorme carico di
legname e le sue strutture surriscaldate stavano portando a
temperatura di combustione tutto ciò con cui si trovavano in
contatto. L’odore di fumo, come di legno e stoffa bruciati,
era
così intenso da far lacrimare gli occhi. Tutta la vetreria
era
sparsa al suolo in frantumi, liquidi di varia natura scorrevano fra
le pietre del pavimento, frammisti a polveri ed erbe officinali.
“Johannes!
Franz!” gridò l’ufficiale guardandosi
intorno angosciato.
La gabbia era aperta, dentro
non
c’era nessuno. Il corpo di uno dei guardiani giaceva riverso.
“Johannes!
Franz!” ripeté.
“Siamo
qui, Eccellenza!” gli rispose la voce del valletto. Proveniva
dalla
zona in cui si trovava la vasca dei pesci.
L’ufficiale si
voltò in quella
direzione e vide che con l’ausilio di una trave il giovanotto
stava
per rovesciare il serbatoio d’acqua. Lo raggiunse.
“Dov’è il
signor von Ruchel?” gli chiese per prima cosa.
“Sono
qui,” rispose la voce dell’amico. Poi, rivolto al
valletto:
“Forza con quella cisterna.”
“Sì,
Eccellenza.”
la vasca finalmente si
rovesciò,
inondando il pavimento e riversandosi all’interno della
fornace,
dalla quale cominciarono ad uscire sibilando getti di vapore.
I tre si diressero verso le
scale.
“Avete
visto la von Pfuel?” chiese il colonnello.
“È
venuta qui e ha fatto distruggere tutto, poi se
n’è andata,”
rispose Johannes.
“La
figlia?”
“Non
l’abbiamo vista.”
Abbandonarono il laboratorio.
Arrivarono al piano nobile
ansanti ma incolumi. Guardando dalla finestra, von Kleist si accorse
che il cortile era occupato da uno squadrone di cavalleria. Con un
sorriso di sollievo disse: “Ecco von Bissing.”
I soldati erano smontati da
cavallo e avevano acceso delle fiaccole per illuminare la zona. Due
di essi tenevano per le braccia la ragazza superstite, che imprecava
e scalciava tentando di liberarsi.
Un altro aveva recuperato il
cavallo con cui la signora von Pfuel aveva raggiunto il palazzo. Di
lei non c’era traccia.
Von kleist si diresse verso il
collega e gli chiese: “Avete scorto la donna?”
L’altro scosse la
testa. “Solo
il cavallo, come vedete. Ma ci sono pattuglie dappertutto, se si
fosse allontanata l’avremmo vista.”
Il
primo annuì pensoso, poi disse: “Se si fosse
allontanata via
terra,
sì.”
“Cosa
volete dire?”
“Il
molo.”
“Accidenti,
avete ragione!” Poi, a voce più alta:
“Sergente! Prendete otto
tiratori e venite con me!”
Corsero tutti verso il lago.
Alla
tremula luce delle fiaccole videro che l’acqua era appena
increspata dal movimento di una piccola imbarcazione. A bordo
c’era
una figura intenta a remare con vigore.
“Puntate!”
ordinò il sergente.
I soldati si posizionarono
quattro in piedi e quattro in ginocchio, mirando in direzione della
barca.
“Fuoco!”
Partì la scarica di
fucileria.
Il fumo degli spari rese dapprima impossibile vedere cosa fosse
accaduto, ma quando esso si fu diradato, apparve la barchetta a
chiglia in su. L’acqua era tornata immobile.
“È
fatta,” disse von Bissing.
†
Accanto alla pianta battezzata
Konstantin, Luise aveva sistemato la piccola rosa recuperata dalla
soffitta.
In mezzo ai fiori pregiati, la
piantina da pochi Pfenning era fuori posto in maniera commovente, ma
Luise sembrava non farci caso. Era proprio a lei, anzi, che tributava
le cure più affettuose.
“È
stata l’ultima a vedere Konstantin vivo,”
mormorò rincalzando la
terra intorno allo stelo. Prese un piccolo innaffiatoio che una
cameriera le stava porgendo e bagnò la pianta.
Si alzò in piedi.
Von Kleist accorse per
offrirle
il braccio. Nel breve volgere di poche settimane, sua sorella
sembrava invecchiata di vent’anni. Si era temuto per la sua
salute,
inizialmente, e una volta scongiurato il rischio della malattia
fisica, si era temuto per i suoi nervi.
Se già prima
passava ore nel
roseto, dopo quello che era successo era diventato difficile vederla
in posti diversi. Fuggiva gli eventi mondani, rifiutava di incontrare
amici e conoscenti. A parte il marito e i figli, accettava di vedere
solo lui.
Si incamminarono lentamente
per
uno dei vialetti. Per un po’ rimasero semplicemente in
silenzio,
ognuno immerso nei propri pensieri, poi Luise domandò:
“Come vanno
le indagini?”
“Ancora
niente,” rispose von Kleist.
“Quindi
è riuscita a fuggire?”
L’ufficiale
lasciò passare
qualche secondo, poi rispose: “Oppure è
morta.”
La
donna scosse la testa. “Io non credo.” Poi si
voltò verso le
piante di rose, che la brezza del tardo pomeriggio faceva ondeggiare
lievemente. “Lo sentirei se fosse morta. Lui
me lo farebbe sapere.”
L’altro non rispose.
Sapeva che
la sorella ogni tanto parlava con la piantina, convinta che dentro ci
fosse l’anima di Konstantin, ma aveva sempre fatto finta di
niente.
“Gli uomini della setta li hanno presi tutti,
però,” disse,
anche solo per stornare il discorso dalla china inquietante del
contatto con gli spiriti. “Era una branca dei Rosacroce. Hai
mai
sentito parlare dei Rosacroce?”
La domanda sembrò
cadere nel
vuoto. Passarono diversi secondi prima che la sorella rispondesse:
“Si finisce sempre per parlare di rose, vedi? E di
croci.”
Lui le circondò le
spalle esili
con un braccio. “Lo so. È terribile quello che
è successo. Io
stesso non me ne faccio una ragione.”
Lei annuì in
silenzio. Era
diventata una sottile dama di ghiaccio, che sembrava sciogliersi
lentamente, una goccia dopo l’altra, una lacrima dopo
l’altra,
sotto il sole primaverile.
Von Kleist non aggiunse altro.
Era un uomo d’azione, sapeva spingere i soldati
all’assalto,
infiammare gli animi con parole esaltanti, ma aveva ritegno di quel
dolore silenzioso come un paesaggio invernale, che nulla al mondo
avrebbe mai più potuto lenire.
“Andiamo
dentro,” si limitò a proporle. La sospinse
delicatamente lungo il
vialetto.
†
Seduto nella serra di von
Ruchel,
von Kleist stava osservando una vasca nella quale nuotavano lenti i
pesci misteriosi trovati nel laboratorio di Brandt.
Si
avvicinò e picchiettò il vetro con le nocche, e
subito una delle
creature più vicine si gonfiò trasformandosi in
una palla irta di
aculei. “Ach!”
commentò l’ufficiale, facendosi leggermente
indietro.
“Ti
piacciono i miei nuovi amici?” chiese Johannes alle sue
spalle. Si
avvicinò con la sua andatura claudicante finché
non fu accanto a
lui, poi disse: “Li volevano ammazzare, pensa che
spreco.” Prese
un piattino che conteneva pezzetti di carne e lo rovesciò
nella
vasca, poi si sedette e rimase a contemplare con espressione
soddisfatta i pesci che si nutrivano.
“Che
fine hanno fatto quelle lettere che avevi conservato?” chiese
dopo
un po’.
“Ce
le ha la Polizia di Sua Maestà,” rispose von
Kleist sedendosi
accanto a lui, “per le indagini. Spero solo che mi ridaranno
il
diario di Konstantin alla fine, Luise ci sta facendo una
malattia.”
Von Ruchel si
rigirò il bastone
fra le dita con fare pensoso. “Devi capirla,” disse
dopo un po’.
“Secondo me Konstantin era il suo figlio
prediletto.”
“Sì,
sono convinto anch’io che lo preferisse. In realtà
non le sono mai
piaciute le uniformi.”
Per un po’ di tempo
rimasero in
silenzio a contemplare i pesci, poi von Ruchel buttò
lì: “Comunque
ti ringrazio, Wilhelm.”
“Per
cosa?”
L’altro ebbe un
sorriso velato
di mestizia. “Per avermi fatto sentire vivo ancora una volta.
Ero
un po’ stufo di fare il topo di biblioteca storpio.”
“Senza
di te non ce l’avrei mai fatta. Non avrei neanche capito di
cosa
stava parlando il povero Konstantin.” Rimase per un
po’ a
contemplare i pesci, poi soggiunse: “Pensavo che avesse perso
il
senno.”
Con un sospiro, von Ruchel
disse:
“La sua disgrazia non è stata perderlo, ma
ritrovarlo. Appena
hanno capito che era rinsavito dalla follia ermetica e voleva
avvisarti del crimine che stavano preparando, quei maledetti lo hanno
ucciso.”
Calò di nuovo il
silenzio.
Arrivò con passo grave un pavone, li fissò
sussiegoso e fece la
ruota esibendo il piumaggio variopinto. “Vuoi fare a gara con
la
mia uniforme?” gli chiese von Kleist. L’uccello
storse la testa e
lo guardò con un occhio solo, quindi richiuse la coda e se
ne andò.
Von Ruchel rimase per un
po’ a
guardare il pavone che si allontanava, poi disse: “Ci
vorrebbe una
fenice.”
“Ma
la fenice non esiste.”
“Sei
sempre il solito pragmatico. La fenice rappresenta il compimento
della Grande Opera, e visto che anche noi abbiamo portato a termine
un Opus Magnum,
penso che ce la meriteremmo.”
Von Kleist
sogghignò e disse:
“Visto che qui tutti parlano per simboli, per una volta lo
farò
anch’io: fa lo stesso se non abbiamo catturato una fenice.
Abbiamo
spennato l’aquila bicipite[1], e tanto basta.”
[1] L’aquila
bicipite è il
simbolo dell’Impero austro-ungarico.
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