Scorre la Senna, scorre lenta.

di _Agrifoglio_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Luigi XV ***
Capitolo 2: *** La Contessa du Barry ***
Capitolo 3: *** L’Oste di Arras ***
Capitolo 4: *** Pierre ***
Capitolo 5: *** Il Duca di Germain ***
Capitolo 6: *** Il Duca d’Orléans ***
Capitolo 7: *** Il Soldato del Royal Allemand ***
Capitolo 8: *** Maximilien de Robespierre ***
Capitolo 9: *** Louis Antoine de Saint-Just ***
Capitolo 10: *** Il Notaio Sigrade-Gellé ***
Capitolo 11: *** Bernard Châtelet ***
Capitolo 12: *** Rosalie Lamorlière Châtelet ***
Capitolo 13: *** Jeanne de Valois de la Motte ***
Capitolo 14: *** La Marchesa de Boulainvilliers ***
Capitolo 15: *** Nicolas de la Motte ***
Capitolo 16: *** Nicole Lamorlière ***
Capitolo 17: *** Il Cardinale di Rohan ***
Capitolo 18: *** Nicole Leguay D’Oliva ***
Capitolo 19: *** Antoine Laurent de Lavoisier ***
Capitolo 20: *** La Principessa di Lamballe ***
Capitolo 21: *** Carlotta de Corday d’Armont ***
Capitolo 22: *** Théroigne de Méricourt ***
Capitolo 23: *** Gérard Lasalle ***
Capitolo 24: *** Il Generale de Bouillé ***
Capitolo 25: *** Il Colonnello d’Agout ***
Capitolo 26: *** Alain de Soisson ***
Capitolo 27: *** Diane de Soisson ***
Capitolo 28: *** Charlotte de Polignac ***
Capitolo 29: *** La Contessa di Polignac ***
Capitolo 30: *** Il Duca de Guiche ***
Capitolo 31: *** Le tre Mesdames ***
Capitolo 32: *** Madame de Noailles ***
Capitolo 33: *** Il Conte di Mercy-Argenteau ***
Capitolo 34: *** Maria Teresa d’Asburgo ***
Capitolo 35: *** Victor Clément de Girodel ***
Capitolo 36: *** Hans Axel von Fersen ***
Capitolo 37: *** Madame Élisabeth ***
Capitolo 38: *** Luigi XVII ***
Capitolo 39: *** Luigi Giuseppe ***
Capitolo 40: *** Madame Royale ***
Capitolo 41: *** Luigi XVI ***
Capitolo 42: *** Maria Antonietta d’Asburgo Lorena ***
Capitolo 43: *** Il Dottor Lassonne ***
Capitolo 44: *** Il Pittore ***
Capitolo 45: *** Marie Grandier ***
Capitolo 46: *** Madame de Jarjayes ***
Capitolo 47: *** Il Generale de Jarjayes ***
Capitolo 48: *** André Grandier ***
Capitolo 49: *** Oscar François de Jarjayes ***
Capitolo 50: *** L’Eco di Parigi ***



Capitolo 1
*** Luigi XV ***


Luigi XV

Nacqui per essere Re e tale diventai,
all’età di cinque anni,
restando sul trono per oltre cinquanta.
Nipote del Re Sole,
lo Stato fu lui, lo Stato ero io.
Il mio regno nascondeva,
sotto una vernice di apparente splendore,
i nefasti segni di una crisi economica
sempre più profonda ed irreversibile,
ma io mi curavo quasi esclusivamente delle mie favorite
e delle mie numerosissime amanti,
tutte donne bellissime, alcune ancora delle bambine,
ma l’epoca lo consentiva ed io ero il Re.
Del resto, mia moglie, i miei figli, i miei nipoti
erano tutti bigotti o brutti o entrambe le cose
mentre io ero bello e colto
e, vivaddio, volevo vivere!
La piccola austriaca, invece, prometteva bene,
con quel suo labbro sensuale,
gli occhi vivaci,
il fuoco nelle vene,
il pepe nelle parole,
quella sua deliziosa ingenuità
e la bellicosa ostinazione.
Quel babbeo, imbelle, di mio nipote ci mise anni a deflorarla.
Avrei dovuto pensarci io e chiudere per sempre la questione.
La madre, l’Imperatrice Maria Teresa,
voleva farmene sposare la sorella,
l’Arciduchessa Maria Elisabetta,
una zitellona di venticinque anni, molto bella.
Intendeva spedirle qui entrambe,
una per me ed una per Luigi Augusto.
L’unione era caldeggiata dalle mie figlie
che mai disperarono di farmi pentire
dei miei molti e gravi peccati
e di sottrarmi alle spire della maliarda tentatrice,
ma il vaiolo deturpò il volto della promessa sposa
ed io colsi il pretesto per rompere il fidanzamento.
Fu il vaiolo ad uccidermi.
Provai, ad un certo punto, ad introdurre delle riforme,
ma fu un tentativo blando,
osteggiato dall’aristocrazia e dal clero
e presto accantonato.
D’altronde, ero già anziano e non volevo altri grattacapi.
Preferivo oziare e godermi Madame du Barry,
una cortigiana che sapeva il fatto suo,
che non mi tediava con pose da intellettuale
né pretendeva di ingerirsi nella vita politica.
Altrettanto interessante era vedersi aggirare,
per i corridoi della Reggia, in tenuta militare,
la figlia minore di quel vecchio pazzo di Jarjayes.
Per il resto, se la sarebbero vista gli altri:
dopo di me, il diluvio.

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Capitolo 2
*** La Contessa du Barry ***


La Contessa du Barry

Nacqui Marie Jeanne Bécu, bellissima e spiantata,
figlia, forse, di un monaco e di una donna nubile.
Quando si cresce nel degrado e nella precarietà,
il riserbo, il pudore, la verginità se ne vanno via in fretta,
neanche si ricorda di averli mai avuti.
L’onestà muliebre è un affare per poche privilegiate.
Fra una speranza ed una lacrima, crescevo e favoleggiavo di mio nonno,
bellissimo e povero plebeo che sposò una nobile vedova.
Lei morì presto, lasciandolo sempre plebeo e di nuovo povero.
Intanto, mia madre passava da un amante all’altro.
Uno di questi, un ricco banchiere, procurò a lei un lavoro ed un marito
ed a me una sistemazione in un convento.
Nove anni di rigide regole, ma anche di istruzione e di buone maniere
che tanto mi sarebbero state utili, in futuro.
Divenni commessa in una boutique e ninfa dei salotti parigini,
nota tanto per la mia bellezza quanto per la leggerezza dei miei costumi.
Uno dei miei tanti amanti, il Conte du Barry,
mi fece sposare suo fratello e mi presentò a corte.
Il resto è storia.
Divenni la favorita del Re e la padrona di Versailles,
ammirata ed invidiata e, soprattutto, odiata e temuta.
Poi, arrivò lei, l’Arciduchessa austriaca.
Non era una bellezza, col labbro sporgente degli Asburgo
e quei capelli crespi ed arancioni,
ma, col suo portamento e la sua grazia,
faceva sembrare me una guardiana di porci.
I miei detrattori ne approfittarono, prime fra tutti le figlie del Re.
Non volevano esporsi personalmente e mandarono avanti lei,
facendola sentire adulta ed importante
mentre era soltanto il loro burattino
di cui, alle spalle, sparlavano, mettendole contro lo sposo e la corte.
Divise in due la reggia e, per poco, non scatenò una guerra.
Si mise in mezzo il Re e vinsi io;
morì il Re e vinse lei.
La moralità, la cui mancanza ella mi rimproverava,
non le fu compagna per tutta la vita.
Fu fatta oggetto di libelli osceni ed infamanti
in cui le si attribuivano vizi e perversioni
che nessuno aveva mai pensato di affibbiare a me.
Tutto ciò che chiedevo era un po’ di umana considerazione,
che fossero almeno salvate le apparenze,
così da non essere umiliata pubblicamente.
In fin dei conti, non ero la favorita di suo marito
né avrei mai voluto o potuto scalfirne il ruolo.
Il destino beffardo volle affiancarmi nella morte ai miei vecchi nemici.
Alcuni soggiorni a Londra, per recuperare i miei brillanti rubati,
fecero di me una persona sospetta di aiuto agli emigrati.
Tornai in Francia contro ogni regola di buon senso:
non potevo permettere la requisizione del mio bel castello
di cui avevo adornato tutti gli angoli ed abbellito ogni nicchia.
Fui arrestata, processata e condannata a morte.
Sul patibolo, il mio coraggio vacillò
ed ancora una volta mi dimostrai inferiore alla mia antica rivale.
Piansi, supplicai, mi divincolai, tentai la fuga.
Ancora un istante, Monsieur, ancora un istante!”1) .
Non mi fu concesso e fui trascinata a forza sotto la spietata lama.

1) Si racconta, anche se non è storicamente provato, che Madame du Barry, negli ultimi istanti della sua vita, supplicò inutilmente il boia di concederle ancora un istante. Questa versione è narrata anche nel romanzo “L’Idiota” di Fëdor Dostoevskij.
 
Vorrei ringraziare cumulativamente i sette autori dei commenti che ho ricevuto, tutti favorevoli.
Trovo che sia molto importante ricevere valutazioni sia di stile sia di contenuto, perché il testo appare sempre ottimo all'autore che lo licenzia, ma tanti occhi vedono molto meglio di due. Ricevere dei commenti costruttivi è sicuramente un ottimo modo per migliorare le proprie prestazioni e per crescere come autori.
Confermo che ci sarà spazio anche per i personaggi minori.

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Capitolo 3
*** L’Oste di Arras ***


L’Oste di Arras

Di cosa parlano quelle due tombe,
abbarbicate in cima alla collina
che, ogni giorno, io rimiro dal mio sepolcro,
in mezzo al vecchio cimitero di Arras?
Una ospita i resti mortali di una singolare creatura,
la nobildonna – soldato, come da noi era chiamata
che comandò le Guardie di Sua Maestà
ed i rivoltosi che espugnarono la Bastiglia.
Salvò un bambino e fu munifica di doni
con i poveri che dimoravano in queste terre
ed Arras la ricambia col suo eterno abbraccio.
L’altra contiene le vestigia del suo attendente,
il suo servo più fedele ed eterno amore.
Dimenticò la propria vita per donarla a lei
che, per caso, l’accolse nell’ultimo giorno.
Sempre tesa come un arco lei,
dolcemente e malinconicamente folle lui.
Parlano d’amore quelle due tombe
oltre che di libertà, di speranza e di delusione,
perché anche qui giunsero gli orrori della rivoluzione
e, con essi, il tradimento e l’uccisione
degli ingenui slanci e dei più puri ideali.
Invitano a non arrendersi quelle due tombe,
perché il bene è più forte del male
e vince sulle ingiustizie e sulle rivoluzioni.
Sono attorniate da cespugli di rose bianche
quelle due tombe, spontaneamente cresciuti
dove, prima, era posato un fiore di stoffa,
macerato dalla pioggia, dalla neve e dai secoli
e divenuto un tutt’uno con la natura.
Che la terra sia lieve a quei due nobili Cavalieri
e che il Signore li accolga nell’Eternità.

Ringrazio anche questa volta gli autori delle recensioni, troppo buoni a sorbirsi le mie elucubrazioni. 
La du Barry è un personaggio controverso, per molti versi ostico ed io ho scelto di non demonizzarla, perché anche lei era un essere umano con il suo vissuto, ma anche di non farle eccessivi sconti, dal momento che la povertà è una sventura ed un grave ostacolo allo sviluppo dell'individuo, ma non è mai un'esimente.
Ho cercato di coglierla nella sua umanità sofferta e sempre dal suo punto di vista.

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Capitolo 4
*** Pierre ***


Pierre

Nacqui nei quartieri più poveri di Parigi,
in una suburra fetida, malsana e degradata,
con la fossa di acqua putrida in mezzo alle strade,
nella parte più emarginata della società,
da una famiglia che si era arresa alla miseria:
mio padre non aveva un lavoro e beveva,
mia madre chiedeva l’elemosina e faceva anche di peggio.
Io bighellonavo coi miei amici e vivevo di espedienti:
piccoli furti, raggiri, peripezie di ogni tipo.
Cosa non si fa, del resto, se si ha fame?
Una volta, scassinai pure la cassetta dell’elemosina in Chiesa.
Rosalie me lo diceva che queste cose non si fanno
e che l’onestà è un tesoro anche e soprattutto per i poveri.
Era buona Rosalie mentre Jeanne era cattiva,
ci sgridava, ci scacciava in malo modo
ed aveva sempre un diavolo per capello.
La verità, però, è che si fa fatica ad apprezzare certi tesori
quando lo stomaco è tormentato dai morsi della fame
ed i vestiti sono troppo pesanti d’estate,
troppo leggeri d’inverno e laceri in ogni stagione.
Vestiva sfarzosamente e con ostentazione quel Duca
ed aveva un cipiglio da lupo delle storie per bambini piccoli:
si vedeva che noi popolani non gli andavamo a genio.
Aveva una carrozza bellissima e di lusso
che, a momenti, era più grande di casa mia.
Pensai di sgraffignargli una moneta e di portarla ai miei.
In fin dei conti, ne aveva così tante, lucide e sonanti,
che non si sarebbe, di certo, accorto se una sola di esse,
per puro caso, avesse preso il largo dalle tasche del suo servo.
Rosalie avrebbe sicuramente disapprovato,
ma la decisione l’avevo già presa, l’occasione era troppo ghiotta
e, poi, quel Duca aveva pure la faccia antipatica.
Ovvio! Quando mai la morte ha la faccia simpatica?
Mi sparò alla schiena, dopo avere finto di perdonarmi.
Poco male: per i poveracci, la morte è una liberazione
e, tempo qualche anno, mi avrebbero appeso ad una corda.
Mi dispiace soltanto per la mia famiglia.
Spero che non si siano disperati troppo
e che abbiano colto il lato positivo della faccenda:
una bocca in meno da sfamare.
Gli intellettuali amavano pensare in grande:
libertà, uguaglianza e fraternità.
Io mi sarei sentito un re con una pagnotta calda ogni giorno.

Ringrazio ancora una volta tutti i miei commentatori, sia i fedelissimi sia quelli che, a mano a mano, si aggiungono.
Ho scritto che Oscar accolse "per caso" la vita di André in dono, perché il 12 luglio fu, per lei, il giorno dell'Armageddon, nel corso del quale, si susseguirono la diagnosi della tisi e dei sei mesi di vita (alla possibilità della guarigione con una vita tranquilla e ritirata, in un'epoca anteriore al XX secolo, nessuno ha creduto), la rivelazione della quasi cecità di André (in ordine alla quale nutriva dei grandi sensi di colpa) e, dulcis in fundo, lo scoppio della guerra civile e la conseguente fine del mondo da lei conosciuto. Sono convinta che, se non fossero successe tutte queste cose e, soprattutto, se avesse avuto di fronte a sé una lunga vita ed il tempo sufficiente per organizzarsi ed agire, Oscar non avrebbe disertato ed avrebbe trovato il modo per affrontare i problemi dall'interno, facendo opera di convincimento sui Reali e cercando la mediazione con Bernard. Soprattutto, credo che, se non fosse stata in punto di morte, Oscar, lupo solitario di natura, non si sarebbe mai fidanzata con André il quale, dal canto suo, non si sarebbe mai fatto avanti, consapevole della propria inferiorità socio - economica e della precarietà delle sue condizioni di salute. Avrebbero, in poche parole, tirato avanti more solito fino alla morte di vecchiaia.

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Capitolo 5
*** Il Duca di Germain ***


Il Duca di Germain

Nacqui da una delle famiglie più antiche e nobili di Francia,
ero molto vicino al Re, sedevo a tavola con lui,
il mio lignaggio e la mia ricchezza parlavano per me.
L’ordine costituito e la società si fondano sulle persone come me,
moralmente obbligate a fare pulizia dei delinquenti nati,
come quel bambino di strada che mi aveva derubato,
una natura corrotta che succhiò la scelleratezza col latte materno.
Fossero stati eliminati tutti da piccoli, sepolti sotto due metri di terra,
nessuna rivoluzione sarebbe scoppiata ed il mondo se ne sarebbe giovato.
Era pure compito mio mettere al suo posto quella creatura degenerata,
quel mostro travestito da soldato che calpestava le regole e sfidava la natura.
Come avrebbe potuto rispettare i nobili di rango superiore,
se neanche teneva in considerazione le condizioni del suo stato?
Avrebbe dovuto avere il buon gusto di vivere nascosta,
rinchiusa in una prigione o confinata in un manicomio,
celata agli occhi della società e dimenticata dal consesso civile.
All’epoca, era soltanto un tragico scherzo, un sollazzo della sorte,
un’arrogante dai modi prepotenti e con gli occhi da pazza,
ma già si scorgeva in lei lo stigma del tradimento.
L’avrei sistemata per sempre, un giorno o l’altro,
se non avesse goduto della protezione di quell’oca coronata,
l’unica persona al mondo che riuscì a conciliare quest’ossimoro:
essere decapitata senza mai avere posseduto una testa.
Per quelle due sciagurate ero un vecchio trombone, una spina nel fianco,
ma erano loro la gramigna della società mentre io ne ero il salvatore.
Allora, perché intorno a me c’è soltanto buio ed odo pianto e stridore di denti?

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Capitolo 6
*** Il Duca d’Orléans ***


Il Duca d’Orléans

Nacqui da un ramo cadetto della famiglia reale e fui cugino del Re.
Uomo colto, raffinato, ricchissimo, di idee moderne e liberali,
passai la vita all’ombra di quell’ebete ed inconcludente Luigi
e della sua frivola, ignorante, prodiga e stravagante consorte.
Che Re sarei stato, con la mia intelligenza e le mie ampie vedute!
Che regola sciocca quella che ancora la successione al trono
alla casuale primogenitura anziché ai meriti individuali!
I fondatori delle case regnanti non sarebbero ascesi al potere,
se avessero seguito pedissequamente le regole della successione dinastica.
Coltivai amicizie colte, politicamente impegnate, socialmente trasversali,
patrocinai giovani e valenti intellettuali, con il fine, da sempre accarezzato,
di uscire dal cono d’ombra in cui la nascita mi aveva relegato.
Continuavo a professarmi fedele al Re, ma strizzavo l’occhio al nuovo.
Finanziai ed aizzai le prime sommosse, tirando i fili dal mio angolo.
La rivoluzione portò una profonda crisi e, con essa, grandi opportunità:
bisognava cavalcare la bestia selvaggia, governare il cambiamento.
Smisi di utilizzare il mio titolo, facendomi chiamare Philippe Egalité.
Fui l’ago della bilancia per la condanna a morte del mio regale cugino:
senza il mio voto, quella testa non sarebbe caduta sotto la lama del boia,
ma, invece di ringraziarmi, quell’ipocrita di Robespierre finse lo sdegno.
Tutti i miei sforzi risultarono vani ed il progetto di una vita naufragò.
Membro di secondo piano della famiglia reale, rivoluzionario abortito,
si ricordarono che ero un Borbone e mi ghigliottinarono.
Del resto, che senso ha conservare la testa, se non vi si può appoggiare la corona?
Infido, menzognero, traditore, ambizioso, avventuriero, sodale di Caino,
chiamatemi come volete, poco me ne importa, io rispondo soltanto a me stesso.
Calcolai i rischi, tentai, fallii, ma mio figlio divenne Re dei francesi.


 
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno lasciato un commento ai miei lavori, sia gli habitués sia i nuovi recensori.
Vorrei spendere due parole sulla strana coppia Pierre – Duca di Germain, comparsa nei precedenti capitoli.
L’episodio dell’uccisione del bambino mi ha sempre lasciata perplessa, anche in età infantile, per la sua assoluta inverosimiglianza. Il Duca gli spara alla schiena, ad azione criminosa ormai terminata, in pieno giorno, al centro della città, davanti a decine di testimoni, una dei quali era addirittura il Comandante delle Guardie Reali. Non avrebbe potuto farla franca, perché alla legge erano soggetti anche i nobili. Similmente, mi è parso assurdo che un bravo bambino, “incensurato”, iniziasse la sua carriera criminale proprio da un pezzo grosso che incute maggiore timore e che è più difficile da raggiungere, in quanto circondato da molti servitori.
Per questo, ho immaginato che Pierre fosse una sorta di Gavroche, magari in versione attenuata, un monello di strada non cattivo, ma temprato precocemente dalla vita.
Parallelamente, per rendere più credibile la figura del Duca, ho voluto evitare di descriverlo alla stregua di un genio del male, cui mancava soltanto la risata luciferina, ma l’ho tratteggiato come un uomo tronfio e presuntuoso, autoconvinto di essere investito di chi sa quale missione, sprezzante verso chi non corrispondeva ai suoi canoni, estremamente noioso e pedante e con tratti grotteschi. Magari, uno così era deriso dagli altri nobili e, per questo, si sfogava sui più deboli.

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Capitolo 7
*** Il Soldato del Royal Allemand ***


Il Soldato del Royal Allemand
 
Ben pochi, da bambini, sognano di fare il mercenario,
soldato privo di patria, senza valori, voltagabbana,
servo prezzolato dal migliore offerente.
Io amavo mia moglie ed i miei figli
ed i miei unici valori consistevano nel provvedere a loro,
mantenendoli nel modo più dignitoso possibile.
Faceva un caldo infernale in quel dannato 13 luglio
ed a Parigi era in atto una guerriglia senza precedenti.
Chiunque, donna, bambino o vecchio decrepito,
poteva tirar fuori, all’improvviso, un fucile o un forcone
e, altrettanto improvvisamente, colpire ed uccidere.
Non si capiva chi era l’amico e chi il nemico,
perché moltissimi soldati avevano disertato
ed indossare una divisa, di qualsiasi foggia e colore,
non era garanzia di appartenenza alla nostra fazione.
Era ormai il tramonto, quando, da sotto un ponte,
sbucarono dei soldati della Guardia Metropolitana,
visibilmente dei disertori, a giudicare dal comportamento.
Mirai a chi li comandava, uno spilungone biondo ed effeminato,
ma quello evitò il proiettile, spostandosi con gran destrezza
e la pallottola colpì un altro soldato, indietro, nel mucchio.
Fulmineamente mi restituì lo sparo, quel tizio allampanato
ed io stramazzai a terra, ormai privo di vita.
Mia moglie ed i miei figli finirono in miseria.


Ringrazio quelli che hanno voluto commentare.
Confermo la presenza di Girodel nella galleria degli epitaffi, ma non subito.

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Capitolo 8
*** Maximilien de Robespierre ***


Maximilien de Robespierre
 
Nacqui nella città di Arras,
capoluogo della Contea dell’Artois,
da una famiglia di giuristi,
appartenente alla piccola nobiltà di toga.
Dotato di un’intelligenza notevole,
di una spiccata propensione allo studio
ed afflitto dalla scarsa empatia
e dalla tendenza all’isolamento
di chi non ha sperimentato l’affetto in tenera età,
crebbi nell’ammirazione degli Illuministi
e nel culto della Dea Ragione.
Del resto, come a tutti è dato sapere,
il mio non era il secolo dei prodi eroi o delle epiche gesta,
ma dei sentimentalismi e delle leziosità
e, allora, meglio il razionalismo che, seppur freddo,
porta al superamento della superstizione,
dei dogmi inconfutabili, dell’ipse dixit,
della sopraffazione del più debole, del potere feudale,
delle disuguaglianze fondate sui diritti del sangue
e di tutte quelle pastoie anacronistiche
che bloccano lo sviluppo dell’uomo
e del suo libero pensiero.
Mi misi al servizio della giustizia, del progresso e dei deboli,
difendendo gli oppressi, gli innovatori  
o, semplicemente, i più poveri.
L’affermazione dei lumi sull’oscurantismo
fu la più grande vittoria dell’umanità,
altro che la natura selvaggia, l’esaltazione dell’irrazionale,
gli istinti primordiali, il cielo ed il mare in tempesta,
le passioni assolute, l’io titanico
e tutte quelle fole pittoresche, esotiche  e visionarie
sulle quali i posteri versarono fiumi d’inchiostro.
Gli ottocenteschi, soprattutto i romantici, presero le distanze da noi,
affermando che l’astratto razionalismo illuminista
e l’egualitarismo indiscriminato ed acritico
furono alla radice di tutti i nostri eccessi
e portarono alla Rivoluzione, al terrore, alle stragi,
alla mortificazione dell’immaginazione e della spiritualità
ed al disconoscimento delle peculiarità individuali.
Non furono i soli, però, a criticarmi ferocemente.
Unendovi alle schiere dei detrattori, forse, anche voi affermerete
che la Rivoluzione non portò alcun utile effettivo alla gente comune,
ma servì unicamente la mia brama di potere ed il mio ego ipertrofico.
Direte che l’incorruttibile fu il primo a tradire i suoi ideali,
come il ripudio della pena di morte e di ogni forma di violenza.
Mi rinfaccerete di essermi trasformato,
da paladino dei deboli, in fanatico oppressore
e che la nobiltà, vessata e perseguitata,
fatta oggetto di pregiudizio e di cieco odio,
dismessi gli abiti sontuosi e le pose cicisbee,
andò a riempire le fila dei deboli da me trucidati.
Storcerete il naso ed obietterete che,
quando gli ideali non intercettano la concretezza,
la pietà non mitiga la giustizia
ed il buon senso non dialoga con l’utopia,
si fa presto a diventare Torquemada.
La ragione uccide se stessa,
la Rivoluzione divora i suoi figli,
sangue chiama sangue.
Prima di criticare, però, ditemi se è facile gestire il potere,
quando non lo si è mai detenuto,
se si ha scarsa propensione per i rapporti sociali,
se neppure si è mai avuta una famiglia propria
e, ciò non ostante, si ha l’arduo compito
di proteggere una Repubblica neonata dai suoi nemici!
La situazione fa presto a sfuggire di mano
ed è semplice oltrepassare il senso della misura,
ma l’invidia sociale non mi ha mai animato,
né volevo distruggere ciò che non potevo avere.
Credetemi, non ero un Saint Just!                
Rimasi, via via, sempre più isolato, chiuso nei miei sospetti,
consolato dall’unico svago di lunghe e silenziose passeggiate
in compagnia dei miei pensieri e del mio amato e fedele cane.
Quando furono stufi di me e della mia linea politica,
nauseati dalla vista e dall’afrore del sangue,
mi fecero salire i gradini del patibolo e mi ghigliottinarono.
Ingrati!
Senza di me non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione,
il feudalesimo avrebbe continuato ad imperversare
e nessuna svolta sarebbe stata impressa alla storia!
Saremmo rimasti sotto i Capeto!
Oltre che ingrati, furono anche intransigenti e spietati,
negandomi la possibilità di aggiustare il tiro e di rimediare.
Così come io la negai al re, alla regina,
ai nobili ed a tutte le vittime della spirale del terrore….
E’ pericoloso, oltre che poco onorevole, il diffuso gioco
di creare e consegnare all’odio del mondo un capro espiatorio,
perché quest’ingrato e poco invidiabile ruolo non appartiene ad alcuno
e può essere ricoperto da chiunque ed in qualsiasi momento:
una vera e propria conquista della democrazia.






Ringrazio coloro che hanno voluto recensire il settimo capitolo, dedicato ad un personaggio non facile, perché responsabile della morte di André e, di conseguenza, anche di quella di Oscar.
Questo soldato – che, essendo un mercenario, si sarà dedicato al mestiere delle armi più per necessità che per vocazione (piantonando una strada, sarà stato, probabilmente, poco importante) – si è trovato lì per caso ed ha fatto ciò che anche Oscar, André, Alain, Girodel, Fersen o lo stesso Generale avrebbero fatto al posto suo.
E’ paragonabile ad un frammento di specchio rotto che riflette una delle tante sfaccettature di questa storia.

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Capitolo 9
*** Louis Antoine de Saint-Just ***


Louis Antoine de Saint-Just
 
Nacqui sotto il giogo dei Capeto
che riuscii, infine, ad estirpare,
dando al barbaro ed usurpatore Luigi
la pena di morte che meritava,
giacché non si può regnare senza colpe
ed il solo fatto di essere re
è un crimine per il diritto delle genti.
La stessa meritata punizione toccò
alla sua dissoluta e snaturata consorte
che, col suo abominevole contegno,
aveva impresso alla parola “regina
un significato ancora più abietto
di quello che di diritto le spetterebbe;
alla sua superstiziosa ed oscurantista sorella
che invocava sul capo dei realisti la protezione
di quell’entità bugiarda, in nome della quale
la tirannide, per secoli, si era autoperpetuata;
agli iniqui e corrotti sacerdoti di quell’entità
che, con le loro inenarrabili nefandezze,
avevano consentito alla menzogna di pascere;
a quella pletora di nobili parassiti
che dissanguavano il popolo
con la loro avarizia ed alterigia.
Il sangue versato fu, purtroppo, pochissimo,
se paragonato al bisogno di cambiamento che c’era.
Gli aristocratici avrebbero dovuto finire
soffocati e strangolati nelle loro stesse viscere,
come monito per tutti i nemici della Repubblica
mentre i ricchi sarebbero dovuti annegare nelle tasse,
affinché, privati della loro rendita di posizione,
sperimentassero il lavoro, la fatica, la frusta
e la conseguente fine della loro supponenza.
Robespierre assumeva pose da intellettuale,
ma, alla resa dei conti, era uguale a me.
Fui uno dei Padri della Repubblica,
ma questo ruolo mi fu, alla fine, disconosciuto
e fui mandato a morire sulla ghigliottina,
accomunato, nella morte, a quei nobili presuntuosi
che non avevano voluto dividere con me
i privilegi e le fortune della loro vita.






Ringrazio Tetide e Kiara 69 per i commenti e quest’ultima anche per le bellissime parole spese per il mio lavoro.
Dopo l’incorruttibile, va in scena l’angelo della morte, il cui soprannome è tutto un programma. Rispetto alla caratterizzazione di Robespierre, qui, ho voluto sottolineare gli estremismi del personaggio ed una certa forma di invidia sociale verso chi aveva più di lui.
In questa galleria, ci sono moltissimi personaggi minori, alcuni dei quali molto antipatici, ma, se avessi dovuto rappresentare soltanto i personaggi più importanti, non avrei raggiunto le dieci unità. Quanto all’antipatia, la maggior parte dei personaggi secondari di Lady Oscar è composta da gente crudele o antipatica, ma anche sui personaggi principali non vi è concordia di opinioni. Soltanto Oscar ed André sono apprezzati quasi da tutti – e sottolineo il quasi, perché, in questo sito, ho letto aspre critiche anche contro di loro – mentre tutti gli altri personaggi di rilievo della storia (i genitori di Oscar, i sovrani, la nonna di André, Fersen, Girodel, Alain) non sono amati da tutti. Se avessi dovuto dedicarmi soltanto a personaggi maggiori e simpatici, quindi, non avrei dovuto proprio scrivere.
Continuate a lasciare commenti, se volete e, se vi avanza un po’ di tempo, leggete anche l’altra mia storia intitolata: “Incidenti e dintorni”. Ogni nuovo commento aiuta a migliorare.

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Capitolo 10
*** Il Notaio Sigrade-Gellé ***


Il Notaio Sigrade-Gellé
 
Nacqui nella piccola città di Blérancourt
di cui fui, per decenni, il Notaio.
Servitore della Nazione e delle Leggi,
passai la vita a portare l’ordine nei rapporti fra privati,
dando forma giuridica alla volontà delle persone,
presidiando il rispetto della legalità
ed imprimendo alle carte vergate con fatica
la pubblica fede promanante dallo Stato.
Di una cosa fui sommamente felice
e mai finirò di gioire per lo scampato pericolo!
Sottrassi la mia piccola, adorata, Thérèse
ad un destino peggiore della morte:
il matrimonio con un giovane scapestrato e perdigiorno
di cui, in gioventù, si era malauguratamente invaghita.
Un individuo privo di moderazione e di talento
che sfogava su coloro che considerava fortunati
le frustrazioni dei suoi mancati successi.
Incarcerato per avere rubato l’argenteria alla sua stessa madre
ed in perenne conflitto con l’autorità e con il mondo,
difettando dell’umiltà e della costanza per lavorare,
si dedicò alla politica, come agitatore e capopopolo.
Trasformò la Francia in un mattatoio,
fu un fabbricatore di orfani e di vedove
mentre la casa di mia figlia e del suo devoto sposo
fu un focolare d’amore e d’armonia,
dove regnarono la pace ed il timor di Dio.






Ringrazio chi ha voluto commentare anche l'ultimo capitolo, per l'impegno profuso e le splendide parole usate.
La galleria di personaggi prosegue. Buona lettura!

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Capitolo 11
*** Bernard Châtelet ***


Bernard Châtelet
 
Nacqui in un’epoca oscura che tentai di illuminare.
Quello che desideravo era aiutare la povera gente,
recare sollievo alle sofferenze degli ultimi e dei diseredati,
portare un po’ di giustizia là dove non ce n’era.
Mi misi sotto la protezione dell’individuo sbagliato
che a me era parso l’uomo della provvidenza
e che si rivelò nulla più di un volgare avventuriero.
Infervorato dalle gesta dell’eroe di Sherwood,
tentai di emularne le imprese e, per un po’, ci riuscii,
ma la realtà è cosa molto diversa dalle leggende
e finisce che ci va di mezzo chi non dovrebbe.
Abbandonai i panni del ladro mascherato
per una promessa che avevo fatto e che dovevo onorare
e perché la donna che conobbi e che, di lì a poco, sposai
non avrebbe voluto unire le sue sorti a quelle di un malfattore.
Continuai a servire la causa rivoluzionaria in un altro modo
e grande fu la mia gioia quando furono proclamati i diritti dell’uomo
ed allorché fu deposto il re e venne istituita la Repubblica!
Anche in quel caso, la realtà si rivelò ben diversa dagli ideali.
La fiera che avevamo scatenato ci sfuggì di mano
e tutto cominciò a girare vorticosamente
e ad andare in una direzione pericolosa e senza ritorno.
Il vecchio regime fu sostituito dalla dittatura
e tutte le nostre azioni spianarono la strada
ad un secondo avventuriero che, per brama di potere,
uccise ciò che era rimasto della nostra infelice Repubblica.
I nuovi padroni si rivelarono degli inesperti, dei sanguinari,
dei fanatici e, molto spesso, degli avidi approfittatori.
Come negare, infatti, che, dietro le decapitazioni di massa,
le stragi di settembre, i genocidi di Vandea
e le leggi eversive del patrimonio del clero,
si celasse l’intento rapace di chi volle farsi ricco,
sfruttando una delle pagine più tragiche della storia?
I poveri, intanto, continuavano ad essere tali
e, se possibile, le loro condizioni peggiorarono ulteriormente.
Oltremodo nauseato, anche per fare contenta mia moglie Rosalie,
presi le distanze dai miei vecchi compagni e ciò fu la mia salvezza.
I rivoluzionari finirono col diventare dei soggetti instabili,
altamente vendicativi e si annientarono l’uno con l’altro.
Con mio grande stupore, l’unica persona di mia conoscenza
che avrebbe avuto valide ragioni per covare propositi di vendetta
non indulse mai a questo poco nobile sentimento,
ma mi dimostrò una sincera e disinteressata amicizia
e, grazie al perdono di lui, divenni una persona migliore.
Se ne andò in silenzio, con dignità e compostezza,
come una flebile fiammella che si spegne per mancanza d’aria.






Ringrazio, anche questa volta, tutti coloro che hanno commentato il ritratto precedente.
Oggi, tocca al Cavaliere Nero.

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Capitolo 12
*** Rosalie Lamorlière Châtelet ***


Rosalie Lamorlière Châtelet
 
Nacqui Rosalie Lamorlière,
una donna come tante, più fragile di tante,
costretta ad essere forte in un’epoca cruda,
insidiosa come un placido lago
e violenta come il mare in tempesta.
Filo conduttore di una storia di dolore,
senza riscatto e senza redenzione,
di cui divenni depositaria finale
tramite la consegna di una rosa bianca di stoffa,
confezionata dalle aggraziate e stanche mani
di colei che fu la prima dama del Regno
e l’ultima reietta della Repubblica.
Nella mia lunga e travagliata esistenza,
conobbi molte persone di variegati censo e rango,
tutte munite di speciali doni,
ma anche divorate dal loro demone interiore,
probabilmente, bisognose di un sorriso amorevole
e di un’immensa, infinita comprensione.
La mia madre adottiva, in gioventù,
aveva trovato un ottimo posto come cameriera
e perse tutto nel darsi al padrone,
uomo di grande ricchezza e di nessuna moralità.
Mia sorella Jeanne mi sovrastava in bellezza ed intelletto
e, ciò non ostante, nulla mai le bastava,
niente placava la sua sete di splendore e di rivalsa
mentre io mi sentivo una regina
se soltanto riuscivo ad acquistare, contemporaneamente,
le medicine per la mamma e pane e patate per tutti.
Il piccolo Pierre aveva spirito ed intraprendenza
che preferiva impiegare nell’inseguire la via più facile
e morì ucciso dalla sua stessa imprudenza
e da un Duca che aveva tutto tranne l’anima.
La mia madre naturale, pur possedendo ogni dote,
intellettuale, fisica e materiale che una donna possa desiderare,
scelse di usare tutto nell’intrigo e nell’accaparramento
anziché esercitare un benefico e disinteressato ascendente
su colei a cui tanto doveva ed alla quale nulla diede.
Indifferente a tutto ciò che non le recava un’utilità diretta,
fosse stato anche un moribondo o un ferito grave,
passò la vita a programmare la sua ascesa sociale
ed a tramare la rovina di chiunque la ostacolasse.
Antepose gloria e ricchezza alla sua stessa famiglia,
ritrovandosi in esilio e col peso di un cadavere.
Mia sorella Charlotte aveva rango ed istruzione
che utilizzava per umiliare gli altri,
alla ricerca di un’effimera sicurezza,
mal conquistata e basata sul nulla
che non le servì a trovare una soluzione alternativa
al tragico annientamento di se stessa.
Mio marito Bernard aveva una vivace intelligenza,
un’approfondita istruzione ed un grande carisma
che non gli impedirono di perdersi nei suoi sogni irrealizzabili.
Era convinto che il fine giustificasse sempre i mezzi,
che un ladro a fin di bene non fosse un vero ladro
e che persone che non avevano mai gestito una famiglia
fossero, poi, in grado di abbattere e di ricreare
un intero ordine sociale, senza eccessi e spargimenti di sangue.
Mentre teorizzava libertà, uguaglianza e fraternità,
i nostri figli mangiavano poco ed indossavano abiti vecchi.
Mai trovò pace e consolazione per il fallimento dei suoi ideali,
naufragati nel terrore, nelle stragi di settembre,
nelle decapitazioni di massa e nei genocidi in Vandea.
Il Generale de Jarjayes era nobile e ricco,
godeva della benevolenza della Corona
e ricopriva un elevato grado nell’esercito.
Aveva un carattere energico e determinato,
un’amorevole, paziente, comprensiva e fedele sposa
e la più devota ed ammirante delle figlie
e, malgrado tutto, ebbe anima e mente devastate
dal tarlo corrosivo di quel figlio mai nato,
come se qualcuno gli avesse assicurato
che questi sarebbe stato forte, sano, intelligente, obbediente
o, semplicemente, un buon soldato.
André Grandier, pur avendo sconfitto le limitazioni del suo stato
ed avendo ottenuto un’educazione raffinata
ed il tenore di vita di un nobile,
consumò la sua esistenza dietro un amore impossibile
senza il quale, il suo dolore ancestrale sarebbe rimasto orfano.
Madamigella Oscar era, fra le mie conoscenze,
colei che più si avvicinava alla perfezione:
forte e generosa, onesta e leale, intelligente e carismatica,
ma anche testarda nell’inseguire un miraggio inesistente
e spietata nello sfuggire da se stessa.
Non comprese che questa negazione costante
l’avrebbe precipitata nel baratro della morte
e nella disperazione della solitudine.
Non era una creatura fatta per questo mondo.
Nobile di nascita e di animo, rifuggiva l’interesse personale
e disprezzava la meschinità, volgendole le spalle
e questo fu il suo secondo errore,
perché la meschinità va riconosciuta e studiata,
tenuta nella giusta considerazione e sottoposta a costante controllo,
per poterla relegare nel posto che merita: sotto i piedi.
Il Conte di Fersen aveva viaggiato l’Europa in lungo e in largo,
annettendo, in ogni stato che visitava, una nuova tessera al mosaico
della sua crescita umana, spirituale, intellettuale e mondana,
eppur trascurando, nel suo viaggio fisico e morale,
il tassello più importante:
la consapevolezza che anche chi può avere tutte le donne del mondo
non è autorizzato a sottrarre ad un Re la legittima consorte.
La Regina Maria Antonietta fu posta, dal destino,
all’apice del mondo ed avrebbe potuto usare la sua fortuna
per accrescere quella degli altri,
dedicandosi ad attività solide, pur se monotone
anziché a passatempi di immediata soddisfazione, ma effimeri.
Preferì annacquare le sue capacità nella dissipazione,
attorniata da adulatori e da parassiti che anestetizzavano il suo dolore.
Inseguì un amore cortese, avendo accanto un marito devoto
e dilapidò il suo patrimonio personale di ricchezza e di credibilità.
La odiai profondamente, in gioventù,
prima di averla conosciuta di persona
e di averla compresa ed accettata per quello che era e che era stata:
un’adolescente smarrita, una straniera male accolta,
una madre sfortunata ed una grande vittima della storia.
Fui lieta di avere contribuito a rasserenare i suoi ultimi giorni
con i miei modesti servigi e col ricordo di un’amica
perduta ed inascoltata, leale e sleale al tempo stesso,
ma che avrebbe dato la sua vita, ne sono certa,
per salvare lei dalla decapitazione e la Francia dalla rovina.
Molti di costoro, quasi tutti, erano migliori di me
e, non ostante ciò, io sopravvissi ad ognuno di loro,
con mio grande dolore e rassegnazione,
rimanendo solitaria testimone di un mondo disfatto
e di un altro che stentava a prendere forma.
Sublimai la vendetta nel perdono,
il rancore nella comprensione,
l’odio nella compassione.
Non lo feci perché più brava o più virtuosa,
ma perché le alternative sarebbero state la morte o la pazzia.
Credo che il segreto della vita sia tutto qui:
sapersi adattare ed accontentare,
accogliendo gli altri e perdonando se stessi.






Ringrazio tutti coloro che hanno recensito in modo lusinghiero Bernard Châtelet. In questo capitolo, ve ne presento la consorte.
Ritengo che, nel mese di agosto, la frequentazione del sito diraderà, ragion per cui, onde evitare di scrivere cose che potrebbero passare inosservate e per non costringere gli assenti a faticosi recuperi, "Scorre la Senna, scorre lenta" vi saluta per tornare a fine agosto - inizi di settembre. 
Per premiarvi dell'attesa, il prossimo personaggio che offrirò alla vostra lettura sarà estremamente buono, dolce, comprensivo, profondamente rispettoso della legge e del prossimo e per nulla vendicativo........ Jeanne.
Buone vacanze a tutti!

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Capitolo 13
*** Jeanne de Valois de la Motte ***


Jeanne de Valois de la Motte
 
Nacqui in Francia, nel diciottesimo secolo,
figlia di una serva e di un nobile di antico lignaggio,
ma, se sei povera, il nome serve a poco,
soprattutto se non ti appartiene, in quanto figlia naturale.
Ai tempi del feudalesimo, le possibilità di emergere erano poche,
praticamente inesistenti,
se si nasceva donne e figlie del popolo e povere e bastarde.
Mia sorella Rosalie si accontentava di poco
mentre io volevo vivere e non sopravvivere.
Scappai di casa e vissi di espedienti.
La mia vita fu il perfetto manuale dell’arrampicatore sociale.
Non mi fermai davanti a cosa alcuna,
non ci fu misfatto che mi restò ignoto,
ma cosa sono la disonestà ed il delitto
se non il silenzioso viatico del successo
o il roboante marchio d’infamia della sconfitta?
E marchiata fui davvero, come un animale,
ma ideai la truffa del secolo, volete mettere!
Di cui ancora si parla, ci vuole ingegno!
Fui gettata in carcere, a marcire in solitudine
e divenni l’emblema delle vessazioni inflitte dall’aristocrazia.
Recuperai presto la libertà, con una fuga rocambolesca
e scrissi le mie memorie, umiliando sia la Regina straniera
che aveva voluto processarmi pubblicamente,
nella vana speranza di una sua riabilitazione,
(uno dei tanti segni dell’acume di cui era dotata!)
sia quel superbo Comandante dall’incerta sessualità
che mi aveva sdegnata e redarguita,
sbattendomi in faccia la mia meschinità.
Tutto quello che volevo era un posto al sole
e, allora, perché la mia tomba è sita in un luogo umido e nascosto,
con la lapide annerita e ricoperta di muschio, di sterpi e di erbacce
e nessun ammiratore curioso viene a visitarla?






Ringrazio tutti coloro che hanno commentato il precedente ritratto.
Il personaggio di Rosalie è difficile, perché non ha un ruolo apparentemente importante, non ha un carattere ben delineato che offra spunti narrativi di rilievo, non lascia grandi segni nella storia e piange spesso.
Quello che mi ha colpito di lei è il ruolo da filo conduttore. Al pari di Oscar che, però è la protagonista, conosce tutti i personaggi della storia, tranne Luigi XV, la du Barry (che, comunque, è molto simile a Jeanne con la quale condivide il nome di battesimo) ed il Duca d’Orléans. Alla fine, Maria Antonietta le dà una rosa da poggiare sulla tomba di Oscar. E’ come se, con quel gesto, l’ultima protagonista rimasta, sul punto di morire, affidi la storia nelle mani di Rosalie, affinché la custodisca, la tramandi e ne metta a frutto gli insegnamenti. A me sembra che Rosalie, in quel memento, rappresenti il punto di vista della persona comune che non compie gesta eroiche, ma che sopravvive. Rosalie, in quella parte della storia, si identifica con lo spettatore. Diventa ognuno di noi che riceve in consegna la memoria di Oscar, di Maria Antonietta e di tutti gli altri personaggi.
Rosalie piange spesso, ma vorrei vedere! Non ha ricevuto un’educazione militare o degli insegnamenti da un filosofo stoico. È, invece, un ragazza del popolo, vissuta nei bassi fondi e nella miseria più nera che riceve delle proposte indecenti e che giunge a credere che l’unico modo per sopravvivere sia piegarvisi; che vede morire la madre in un incidente stradale in cui non viene soccorsa, salvo scoprire che quella non era sua madre e che tale ruolo spettava, invece, all’investitrice. Ha due sorellastre una peggiore dell’altra. La prima la fa frustare; la seconda la umilia in pubblico, durante il suo battesimo nell’alta società. Entrambe muoiono in circostanze dolorose. Si affeziona ad Oscar e ad André e li vede morire nel giro di dodici ore.
Oltre che una gran piagnona, però, Rosalie è anche il personaggio che migliora di più in tutta la storia: da ragazza popolana che era, impara a leggere, a scrivere e tutte le altre materie che le insegna Oscar. Impara le buone maniere e la danza, tanto da non sfigurare a Versailles. Anche Jeanne si migliora, ma mette tutto al servizio del male. Rosalie è l’unico personaggio che si evolve in modo significativo, più degli stessi Oscar ed André. E’ disposta a rivedere le sue posizioni ed a cambiare idea: rinuncia ai suoi propositi di vendetta verso la Polignac per aprirsi ad un pensiero più elevato; non esita a mutare opinione su Maria Antonietta, riconoscendo di avere sbagliato a nutrire dei pregiudizi, avendola giudicata senza, prima, averla conosciuta. Si adatta con naturalezza ad ogni ambiente sociale e, per far questo, bisogna essere dei grandi psicologi. Tutte queste doti fanno di Rosalie una persona matura e saggia che riesce a sopravvivere.

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Capitolo 14
*** La Marchesa de Boulainvilliers ***


La Marchesa de Boulainvilliers
 
Avete mai avuto un cuore ed un’anima
voi che ancora vi affannate nelle cose dei vivi,
voi che, oggi, calcate con passo sicuro
e con sguardo fiero la terra che vi diede i natali?
Se mai li aveste, conservateli ben chiusi sotto chiave,
non consentite ad alcuno di decifrarne la combinazione
e custodite come il più prezioso dei tesori
l’amorevolezza che stoltamente siete inclini ad elargire.
Tenete a bada il vostro istinto di protezione,
lasciate chiusi nei libri sacri i dettami religiosi        
e non sentitevi in colpa verso i meno avventurati.
Se proprio non riusciste a trattenervi
dall’aprire la vostra casa ed il vostro spirito
ad una creatura randagia che vi ispira compassione,
riservate il vostro slancio ad un animale abbandonato
che vi leccherà la mano ed agiterà la coda
per manifestarvi amore e riconoscenza
e che mai vi si rivolterà contro con disprezzo e furore.
Diffidate dei vostri simili, voi vivi, padroni del mondo
e mai concedete loro più della vostra buona educazione.






Grazie alle sette persone che hanno commentato Jeanne ed alle quali rispondo qui cumulativamente.
Sapevo che Jeanne sarebbe piaciuta e, del resto, un personaggio così si presta ad essere ritratto efficacemente, perché sprigiona passioni estreme. Ho voluto ritrarla con un epitaffio breve e veloce che dipingesse il ritmo agile e saltellante della sua vita, guizzante come la fiamma che la divorava.
Noto che il finale è piaciuto a molti e che sono state colte le caratteristiche fondamentali di questa eroina nera: la sete di rivalsa, la spregiudicatezza, la vendicatività e l’autolesionismo finale, frutto della consapevolezza che nulla avrebbe placato la sua sete.
Per Madame Anna: grazie dei continui spunti storici! Ho visto il film con Hilary Swank, dove era sostenuta proprio la tesi del desiderio di riprendersi il posto a Versailles. La Contessa, però, avrebbe dovuto presagire che lo scandalo della collana l’avrebbe costretta alla fuga.

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Capitolo 15
*** Nicolas de la Motte ***


Nicolas de la Motte
 
Appartenni alla nobiltà come un eretico alla fede,
ma un titolo fa sempre comodo ed io me lo inventai.
Vissi di macchinazioni e di delitti, sul filo del rasoio,
perennemente in bilico fra la vita e la morte.
Quell’esistenza era adatta a me e mi regalò mia moglie,
la donna ideale, la mente complementare, lo spirito affine  
che neanche un vero nobile, nella vita, riesce ad incontrare.
Era perfetta la mia Jeanne, con quell’intelligenza diabolica,
l’astuzia di un gatto e la determinazione di un segugio.
L’odio e la vivacità scintillavano in uno sguardo verde ed arguto,
il sorriso ammaliava ed uccideva, la bocca prometteva e negava
ed i neri capelli contornavano il volto di un demone con l’aureola.
Spietata e volitiva come poche altre, avida e corrotta, mai marcia,
amava il lusso, il potere, la bellezza e l’ostentazione
mentre detestava la compassione, la bigotteria, l’altrui arroganza  
e l’esclusione da tutto ciò che poteva darle piacere,
fosse pure una mano a carte o una gita sul fiume.
Animata, come me, da un’inestinguibile sete di rivalsa,
mai si sarebbe fermata neanche difronte al diavolo in persona.
Mi fu infedele, a volte, per necessità, altre, per suo piacere,
ma nemmeno io ero un santo e ci comprendevamo.
Provenendo entrambi dalla miseria ed essendo decisi a non tornarci,
nessun’azione ci pareva abietta, se rivolta ai nostri scopi.
Al fine di conseguire ricchezze, agi e comodità,
ognuno di noi avrebbe venduto la propria anima,
giammai quella dell’altro.
Quando le guardie vennero ad arrestarla,
disperando di raggiungere la propria salvezza, pensò alla mia.
Se fossimo riusciti a fuggire all’estero ed a goderci il denaro,
saremmo vissuti per sempre insieme ed avremmo avuto dei figli.






Ringrazio le quattro persone che hanno commentato il personaggio precedente, una figura particolarmente amareggiata e delusa, perché si è confrontata non soltanto con degli ingrati, ma con dei perfetti criminali che, alla fine, come evidenzia Kiara 69, sono andati incontro alla legge del contrappasso.
Jeanne pretendeva troppo e, quando la Marchesa le disse di non avere entrature a Versailles, se ne sbarazzò, non potendo più ottenere vantaggi da lei e, anzi, considerandola addirittura un ostacolo.
Ho anche la vaga impressione che Jeanne odiasse la Marchesa che era stata testimone della sua mendicità. In occasione del loro primo incontro, Jeanne si presentò in veste di pezzente ed è da lì che i ruoli delle due donne si definirono. Essendo una persona orgogliosa e malvagia e non essendo in grado di capire e di apprezzare i buoni sentimenti, Jeanne digerì male la generosità della Marchesa che le ricordava la sua inferiorità. Da persona crudele, nei gesti della Marchesa, non colse l’aspetto della bontà e dell’affetto, ma soltanto il proprio disagio di essere tanto povera. Anche dallo sgarbato rifiuto di Oscar, Jeanne percepì una sottolineatura della propria pochezza.
Prima di incontrare la Marchesa, Jeanne, chiedendo l’elemosina, si imbatté nel Duca di Germain che, con una sberla, per poco, non la fece volare in Alaska. In quel caso, aveva ragione il Duca di Germain….

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Capitolo 16
*** Nicole Lamorlière ***


Nicole Lamorlière
 
Nacqui in Francia, fra la povera gente,
ma ricevetti, pur sempre, gli insegnamenti necessari
per essere presa a servizio in una casa importante.
Il posto era rispettabile, la paga ottima, il cibo abbondante
e la sporcizia dei quartieri degradati un lontano ricordo.
Una signora mi sentivo nella linda divisa da cameriera
e con riguardo mi trattavano amici e conoscenti.
In mille ringraziamenti si profondevano i miei parenti,
per l’aiuto economico che fornivo loro,
quasi fossi diventata io il capo famiglia.
Guadagnai troppa sicurezza e persi il senso della realtà.
Restai ammaliata dai modi squisiti del padrone,
un nobile di antico lignaggio, così diverso dai miei pari.
Mi trovai incinta di lui e partorii una splendida bambina.
Non ero io l’unica amante di quel signore….
Lo scoprii qualche anno dopo, con mia grande delusione,
quando una nobildonna mise al mondo un’altra femmina.
Capii, allora, ciò che sarebbe stato chiaro a chiunque:
ero stata un’illusa, una sciocca avventata, una folle
e mai avevo avuto alcuna seria possibilità.
Morì subito dopo il padre di mia figlia,
lasciandomi senza un lavoro ed un tetto sulla testa.
Gli amici ed i conoscenti mi voltarono le spalle
ed i parenti, immemori dei precedenti aiuti,
mi sbatterono la porta in faccia, con grande clamore e poca pietà.
La mia rivale mi affidò sua figlia,
promettendomi una sistemazione adeguata
ed il sostentamento per entrambe le bambine,
ma, poi, sparì e di soldi neanche l’ombra.
Non ebbi cuore di sbarazzarmi di Rosalie che già consideravo mia
e le crebbi entrambe come fossero il mio sangue.
Tirai a campare con piccoli servizi e lavori occasionali,
facendo anche la sguattera, io che ero stata cameriera,
e mantenendo, sia pur tardivamente, una condotta specchiata,
perché avevo due figlie cui dare il buon esempio.
Crebbe dolce ed affettuosa la piccola Rosalie,
in apparenza fragile, ma forte nelle cose serie
ed amandomi teneramente, come una figlia vera,
bugia a cui ella credette, fino a che, in punto di morte,
le dissi la verità, turbandone la quiete.
Molto diversa e meno affezionata era la mia figlia carnale,
la bella, intelligente, testarda ed inquieta Jeanne.
In parte, per indole ed in parte perché più anziana della sorella
e, quindi, memore dei tramontati agi e della perduta abbondanza,
non si adattava all’indigenza e non voleva lavorare,
vanamente favoleggiando sui fasti di una famiglia che non era la sua.
Lungamente mi interrogai sulle ragioni del mio fallimento con Jeanne.
La malattia che mi colpì e che non potei adeguatamente curare
fu soltanto una pietosa giustificazione, una mesta, falsa spiegazione
della mia incapacità di tenerla a bada.
L’assenza di fermezza che avevo dimostrato
nel resistere alle lusinghe del mondo, della carne e del cuore
fu anche alla base del difetto di autorità su quello spirito ribelle.
Come avrei potuto imprimerle razionalità e buon senso
se io stessa, per prima, ero stata in errore nella mia vita passata?
Fuggì di casa la mia irriducibile ed ambiziosa figlia,
lasciando la sorella e me angosciate per le sue sorti.
Mentre quella santa di Rosalie era in cerca di lavoro,
io uscii di casa, delirante per la febbre eppure decisa a ritrovare Jeanne.
Proprio non mi accorsi di quella carrozza che era lesta come un fulmine
e che mi investì in pieno, scaraventandomi moribonda sul selciato.
Si rifiutò di soccorrermi la signora che sedeva nell’abitacolo,
mancando di compassione, ma non di risolutività,
giacché il mio destino era, oramai, segnato e la vita volgeva al termine.
Soltanto la consolazione di un ultimo saluto a Rosalie e, poi, il buio.
Negli ultimi istanti di vita, attraverso il finestrino,
riconobbi i lineamenti della proprietaria della carrozza
ed il cerchio si chiuse.






Grazie alle quattro persone che hanno commentato il personaggio precedente.
Dato l’aggiornamento bisettimanale, ho adottato un sistema di risposte misto, collettivo per i “puntuali” e personalizzato per i “ritardatari” che, per forza di cose, non sono compresi nel ringraziamento collettivo.
Anch’io, come françoise14, ho subito pensato alla coppia Jeanne – Nicolas come al contraltare, all’altra faccia della moneta della coppia Oscar – André. Uno stesso arazzo visto davanti e di dietro. La prima coppia è oscura, ma ufficiale. La seconda è virtuosa, ma non dichiarata finanche a chi la compone. In entrambe, la donna prevale per determinazione, carisma e carattere e l’uomo è soggiogato dalla personalità femminile.

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Capitolo 17
*** Il Cardinale di Rohan ***


Il Cardinale di Rohan
 
Nacqui da una delle Casate più illustri ed antiche di Francia
e, non essendo il primogenito, fui avviato alla carriera ecclesiastica.
Quella della mia famiglia fu una scelta di convenienza e non di fede,
come, allora, era in uso ed ascesi rapidamente la gerarchia della Chiesa.
Vescovo a venticinque anni, Cardinale poco dopo i quaranta,
fui anche Grande Elemosiniere, Vescovo di Strasburgo
membro dell’Académie Française ed Ambasciatore alla Corte di Vienna.
Dicono che, se l’ambizione smodata, di per sé, è una delle peggiori piaghe
e facilmente induce a commettere i peccati più gravi,
sfruttare l’appartenenza ai ranghi della Chiesa per progredire nel mondo
non è un semplice male, ma fonte conclamata di sicura dannazione.
La verità è che, durante la mia vita, peraltro non da me scelta,
mai vidi Dio in ciò che mi circondava e nelle persone che incontravo,
ma volti imbellettati, fiumi di vino e tanta, troppa corruzione.
Perché soltanto io sarei dovuto rimanere immune ai vizi del mio secolo?
L’ostilità che la Regina mi manifestava per l’amicizia con Madame du Barry
crebbe a dismisura a seguito della mia permanenza in Austria.
La Sovrana francese deprecava le mie esternazioni sul conto di sua madre,
come se l’intromissione di quella vecchia arpia bigotta fosse stata colpa mia.
In cosa l’avrei offesa partecipando, vestito da donna, a gaie feste viennesi
se, quotidianamente, adempivo tutti i miei doveri di Ambasciatore?
Un’amica di sua figlia non vestiva, forse, da uomo, in ogni occasione?
Il desiderio di recuperare il regale favore mi rese vulnerabile,
facile preda di lestofanti senza morale e privi di qualsivoglia ritegno.
Avendo aderito alla massoneria di rito egizio, fondata da Cagliostro,
conobbi i sedicenti Conti de la Motte che mi raggirarono come un infante.
Scoppiò uno scandalo enorme che mi costò lo screditamento definitivo:
fui arrestato davanti all’intera Corte, tradotto nella Bastiglia e processato.
Assolto da ogni capo d’accusa, fui, tuttavia, privato di tutte le cariche,
esiliato in un’Abbazia e gravemente sanzionato da Papa Pio VI.
Recai onta alla mia famiglia e mai più recuperai la posizione a Corte,
tutto per colpa di due prostitute e di tre avventurieri senza alcuna religione.






Ringrazio chi ha voluto commentare l’epitaffio precedente.
Siete rimaste tutte colpite dalle due sorelle a confronto che, in effetti, hanno ben poco in comune fra di loro e con le rispettive madri. Sarebbe stato più veritiero, in effetti, uno scambio di madri!
Per kiara 69: in una puntata, è la Contessa di Polignac a dire di avere affidato Rosalie a Nicole Lamorlière. Il fatto che la Lamorlière, dopo avere ottenuto un posto fisso, fosse riverita da parenti ed amici l’ho, invece, mutuato dai racconti di alcune persone anziane, in base ai quali, le cameriere, in passato, godevano di considerazione sociale nel loro ambiente di origine, perché uscivano dalla miseria, andavano a stare in una casa vera, con vestiti puliti e cibo abbondante, acquisivano modi più eleganti e potevano aiutare economicamente la famiglia. Nel cartone animato, Nicole Lamorlière non riconosce la Contessa, ma io ho inserito ugualmente il riconoscimento per una chiusa più ad effetto. Ho ipotizzato che la Lamorlière avesse riconosciuto la Polignac un istante prima di morire e dopo avere parlato con Rosalie.
Per françoise 14: la Contessa di Polignac non può mancare, ma comparirà un po’ più in là, nel settore “Versailles”.

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Capitolo 18
*** Nicole Leguay D’Oliva ***


Nicole Leguay D’Oliva
 
Cos’ha ancora da recriminare quello stupido Cardinale,
dopo oltre due secoli dalla sua morte
e pur essendo uscito indenne da un colossale scandalo
alimentato esclusivamente dalla sua totale inavvertenza?
Non ero, poi, così simile alla Regina
ed egli, che ben la conosceva,
avrebbe dovuto accorgersi della differenza
malgrado il velo che mi copriva il volto
e le tenebre che avvolgevano i giardini.
Perché mai la Sovrana, padrona della Francia e di tutti noi,
se avesse voluto incontrare il Grande Elemosiniere,
avrebbe dovuto dargli un appuntamento clandestino,
di notte, all’umido, presso il boschetto di Venere?
S’illude l’uomo e vede soltanto quello che vuole vedere.






Grazie a chi ha voluto commentare l’epitaffio precedente.
Tetide: sì, il Cardinale è un irriducibile e non ammetterebbe di essere nel torto neanche sotto tortura.
Kiara 69: io sono sempre stata convinta che il padre fosse lo stesso. Non ricordo bene se qualcuno lo disse esplicitamente, ma, in caso contrario, Jeanne e Rosalie non sarebbero state nemmeno sorellastre. Nella puntata finale, comunque, Rosalie, presentandosi a Maria Antonietta, dice di essere Rosalie “Balò”. Inoltre, come avrebbe fatto la Polignac a conoscere Nicole Lamorlière se non ci fosse stato già un legame?
Secondo me, il Cardinale non era un buffone. Non sarà stato un genio e l’ambizione lo ha accecato, ma un minimo più in su di quello del cartone animato doveva pur essere.
Le due prostitute sono il personaggio di oggi che, effettivamente, lo era e Jeanne de la Motte che aveva diversi amanti fra cui il Cardinale ed il suo segretario. E’ naturale che il Cardinale, vedendosi raggirato come uomo di mondo e come amante, abbia assegnato a Jeanne un epiteto poco lusinghiero.
I tre avventurieri sono Nicolas de la Motte, Cagliostro e Rétaux de Villette, segretario ed amante di Jeanne de la Motte.
Madame Anna: il Cardinale è il classico esempio di chi si è rovinato con le sue stesse mani. Gli starebbe proprio bene il detto: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”.
Lenovo2015 (recensione n. 100): il Cardinale del cartone animato sembra un vero pagliaccio. E’ disegnato come una caricatura. Anche il modo in cui i disegnatori lo fanno prostrare a terra davanti al Re è troppo giapponese. Un Cardinale, anche in difficoltà, non si sarebbe mai buttato a terra così. I personaggi di “Spoon River” e, quindi, anche i miei, sono portati a dire tutto senza riserve, perché, ormai, non hanno nulla da perdere. Il mio personaggio, poi, pretende di avere ragione su tutto e di autoassolversi completamente e, quindi, anche su questo. Sì, forse, vestito da donna, avrebbe avuto un suo perché. :-D 

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Capitolo 19
*** Antoine Laurent de Lavoisier ***


Antoine Laurent de Lavoisier
 
Nacqui a Parigi, il 26 agosto 1743, da una famiglia agiata
e fui un cultore delle scienze fisiche, naturali e sperimentali,
chimico, filosofo, naturalista, biologo ed anche uomo di legge.
Fui il fondatore della chimica moderna,
l’autore del “Traité Élémentaire de Chimie
e l’elaboratore di una nuova nomenclatura degli elementi.
Il diamante, per me, non era una pietra preziosa,
ma una forma di reticolo cristallino del carbonio.
L’ossigeno, l’idrogeno, l’azoto, l’acido solforico
portano questi nomi perché io glieli imposi.
Rivoluzionai la teoria della combustione,
alla quale ricondussi la respirazione animale e vegetale,
demolendo le obsolete ed oniriche teorie flogistiche
ed individuai la composizione dell’aria e dell’acqua.
Feci costruire bilance perfettissime
che utilizzai nei miei innumerevoli esperimenti.
La legge di conservazione della massa,
in forza della quale, nulla si crea e nulla si distrugge,
che tutti ancora studiate, porta il mio nome.
Supervisionai gli scavi geologici nell’Alsazia e nella Lorena.
Nominato membro dell’Accademia Reale delle Scienze,
grazie ad uno scritto sull’illuminazione stradale,
collaborai alla preparazione dell’atlante mineralogico di Francia
ed alla fondazione del sistema metrico decimale.
La donna che sposai mi fu di immenso aiuto nelle ricerche
e nel promuovere e sostenere pubblicamente il mio lavoro.
Nel corso della mia vita, fui anche esattore delle imposte,
circostanza alla base dei capi di accusa che mi portarono alla morte.
La furia iconoclasta dell’epoca ed il livore del mediocre Marat
determinarono l’ordine del mio arresto e di quello
di altri ex dirigenti della Ferme Générale.
Mi presentai spontaneamente davanti ai miei accusatori,
certo della mia innocenza e rassicurato dalla mia fama.
Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
scriveva il ghibellin fuggiasco, il sommo poeta fiorentino.
La République n’a pas besoin de savants!
tuonò il presidente del tribunale rivoluzionario
e, a quei tempi, quattro forsennati epuratori
contavano più dell’intera biblioteca d’Alessandria nell’antichità.
Desiderando servire la scienza allo stremo delle mie forze e possibilità,
portai avanti l’ultima sperimentazione fin sulla ghigliottina.
Giunta, per me, l’ora fatale, agitai le palpebre finché potei
ed il mio domestico annotò gli esiti nel suo taccuino.
Ci è voluto solo un istante perché gli staccassero la testa,
ma la Francia non ne avrà un’altra così neanche in un secolo
furono le parole del matematico ed astronomo Joseph Louis Lagrange:
commosso omaggio di uno scienziato ad un altro,
eterna damnatio memoriae per la rivoluzione francese.






Grazie a chi ha voluto commentare il precedente ritratto.
Ninfea Blu: Maria Teresa d’Asburgo aveva tuonato contro il Cardinale per la condotta dissoluta che aveva tenuto quando era ambasciatore a Vienna. Rohan, di rimando, aveva esternato pensieri non troppo lusinghieri nei confronti di Maria Teresa. Maria Antonietta era venuta a saperlo ed aveva iniziato a disprezzare il Cardinale che già le era inviso, in quanto amico della du Barry. Il Cardinale cerca alibi, riduce tutto al fatto di essersi vestito da donna e di avere partecipato a delle feste troppo allegre – cosa, di per sé, già grave – mentre non si rende o non vuole rendersi conto che il problema è proprio lui.
Oscar: Nicole Leguay D’Oliva era una prostituta e, quindi, anche se non fosse stata, come pare, eccessivamente intelligente, conosceva le brutture della vita. La versione italiana l’ha presentata come una povera ragazza cieca, ma l’originale giapponese non è così. Bisogna, poi, considerare che questo personaggio parla a posteriori e non a priori. E’ morta da oltre duecento anni ed ha subito un lungo processo, durato più di un anno, nel quale è stata imputata di un gravissimo crimine. Avrà subito decine di interrogatori, avrà assistito a tantissime udienze e, magari, in attesa di essere assolta, si è fatta anche qualche mese di carcere. Se anche non fosse stata un’aquila, dopo tante udienze e tanti interrogatori, suoi e degli altri, a bocce ferme, l’avrà pur capito il ruolo da lei giocato nella vicenda. Prima del processo, secondo me, dopo aver visto i soldi, non si è fatta troppe domande ed ha detto “Non olet”. :-D
Tetide: Meglio del Cardinale sicuro!
Kiara 69: Sì, infatti, in “Spoon River”, alcuni morti fanno botta e risposta. Quelli sono tutti sepolti in un unico cimitero di una piccola città mentre questi chi sa? Può darsi, però, che l’aldilà sia più piccolo del previsto. :-D
Madame Anna: Nicole Leguay D’Oliva aveva un sentire, ma, soprattutto, dopo un lunghissimo processo, il rischio di essere incarcerata per lungo tempo, interrogatori ed udienze, l’avrà anche capito in cosa era stata coinvolta, se no, sarebbe stata proprio senza rimedio! :-D
Françoise14: Sì, questi due epitaffi si parlano. Il personaggio di oggi si è stancato di sentirsi dare, sicuramente per l’ennesima volta, della prostituta dal Cardinale ed ha risposto definendolo un cretino ed un illuso. Fra tutti e due, facevano a gara a chi capiva di meno! :-D
Dopo i settori “Gioventù”, “Rivoluzione” e “Scandalo della collana”, inizia, con l’epitaffio di oggi, il settore “Stragi e terrore”.

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Capitolo 20
*** La Principessa di Lamballe ***


La Principessa di Lamballe
 
Nacqui dal ramo Carignano della famiglia Savoia
e crebbi lontana dalla corte sabauda, in tranquillità e pudicizia,
finché non fui scelta come moglie del Principe di Lamballe,
un giovane uomo dall’indole debosciata e dallo stile di vita dissoluto.
Numerosi vizi condussero il mio sposo ad una morte prematura
e diedero a me una precoce ed inattesa vedovanza.
In occasione delle fastose nozze del Delfino Luigi Augusto,
ne conobbi la neo sposa, la Principessa Maria Antonietta
che mi scelse come sua più cara amica e confidente.
Numerose gelosie scatenò questa predilezione
oltre alle voci sulla distorta ed ambigua sessualità della Delfina
e sullo scandaloso ed illecito legame che ci avrebbe unite.
Morto il vecchio Re e divenuta Sovrana la mia amica,
fui onorata di una carica prestigiosa che non sarebbe spettata a me
e che mi rese la dama più importante ed invidiata della Corte.
La mia sincerità e la mia totale assenza di opportunismo
non mi fecero conservare a lungo quella posizione privilegiata
e fui, in pochi mesi, soppiantata dalla Contessa di Polignac,
una donna scaltra e spregiudicata, molto malferma quanto a fedeltà.
Il mio affetto nasceva dal cuore mentre l’altra era un’avventuriera,
resa astuta dall’indigenza che non costituiva, invece, il mio motore.
Messa da parte come un abito vecchio o un paio di scarpe strette,
ripresi la vita di prima, delusa eppure immune al veleno del rancore.
Fui riavvicinata all’alba della rivoluzione, quando tutto era perduto.
E’ nel momento del bisogno che si vedono i veri amici
e, mentre Madame de Polignac, all’indomani dei fatti della Bastiglia,
fuggì all’estero per sempre, priva di rimpianti e senza voltarsi indietro,
io rimasi a fianco della mia cara amica, dimostrandole tutta la mia lealtà.
Mi recai all’estero due volte, contro voglia e su ordine dei miei Sovrani
e, in entrambe le occasioni, mi spesi per la loro salvezza,
a dispetto delle mie condizioni di salute e delle resistenze incontrate.
Fatto testamento, mi ricongiunsi alla Corte, alle Tuileries.
Quant’era opprimente e lugubre quello scomodo e vecchio palazzo,
se confrontato alla splendente e favolosa Reggia di Versailles!
A me, però, non importava, bastandomi essere di conforto e di aiuto.
Dopo la sanguinosa rivolta dei sanculotti, fui separata dalla mia Regina
ed imprigionata nella Petite Force ove rimasi fino alla morte,
avvenuta in un tragico giorno, tristemente assurto ad una tetra fama
a causa delle atrocità e delle barbarie che lo funestarono.
Una folla urlante ed assetata di sangue svuotò le carceri dagli aristocratici
e mise in piedi tribunali improvvisati ed esecuzioni efferate.
In queste tragiche circostanze, persi la vita, da me consacrata all’amicizia.
Strappata, a viva forza, dalla mia cella, da una masnada di indemoniati,
fui processata sommariamente e richiesta di giurare eterno odio ai Reali.
Rifiutato ciò che non albergava nel mio cuore e che non guidava il mio volere,
fui trascinata in un immondo cortile allagato di sangue,
ingombro di martoriati resti umani ed invaso da canaglie forsennate.
Mi stordirono a randellate, un colpo e dopo un altro ed un altro ancora!
Mi denudarono ed infierirono su di me con ferocia ed abiezione bestiali
prima di staccarmi la testa con un coltello e di proseguire nello scempio.
Issato il mio capo su una picca, lo portarono in processione per la città,
trascinandosi dietro, per le gambe, il mio corpo orrendamente mutilato.
Giunti alla Torre del Tempio, con grandi urla e schiamazzi,
chiamarono la Regina, insultandola e dileggiandola,
per farla uscire nel cortile ed esibirle il macabro trofeo.
Non vide i miei miseri resti, per fortuna, l’amata Sovrana,
ma comprese ugualmente e, straziata dal dolore e dal raccapriccio, svenne.
Quel che feci fu per amicizia e per devozione alla causa monarchica,
sentimenti che nascono dal cuore e che si alimentano di se stessi,
non necessitando di ricompense, di riconoscimenti o di corrispettivi.
Mille volte rifarei le stesse scelte cui seguirebbero le medesime azioni.
Fui apprezzata alla fine, nel momento del dolore e ciò mi fu sufficiente.






Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente.
Lavoisier pagò a caro prezzo la sua professione di esattore delle imposte e l’inimicizia di Marat a cui rifiutò l’ingresso nell’Accademia delle Scienze. Probabilmente, Lavoisier scontò anche una certa arroganza e mancanza di tatto. Anche Madame Lavoisier, dopo l’arresto del marito e del padre, andò a parlare con un giacobino, ma lo fece con molta arroganza, con l’effetto che ogni tentativo successivo di salvare i congiunti cadde nel vuoto.
Marat si sentiva un genio e non ammetteva di essere contraddetto. Incontrò Alessandro Volta e si innervosì moltissimo quando lo scienziato italiano ne criticò alcune teorie. Il rifiuto di Lavoisier se lo dovette legare al dito. Del resto, se noi ricordiamo Volta e Lavoisier come grandi scienziati e Marat soltanto come un taglia teste semi rognoso, pugnalato a morte, non dal membro di qualche intelligence, ma da un’inerme provinciale, un motivo ci sarà pure stato e Volta e Lavoisier avranno avuto le loro ragioni per tenerlo a distanza. Chi la fa l’aspetti e, quindi, pure Marat sarà conciato per le feste ed il prossimo epitaffio tratterà anche di questo.
Per Kiara 69: la mia raccolta non tratta soltanto dei personaggi di Lady Oscar. Qualche “imboscato” di rilievo c’è stato e ci sarà.
Per Françoise14: sì, sto procedendo a settori, per dare un minimo di ordine a questa galleria che, altrimenti, risulterebbe un po’ confusionaria. Grazie delle sempre belle parole.

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Capitolo 21
*** Carlotta de Corday d’Armont ***


Carlotta de Corday d’Armont
 
Mi ritrovai ritta, dinanzi ad un lago vermiglio,
lorda del sangue traditore che avevo versato,
gli occhi sbarrati e la testa colpita dai fendenti
dei mille pensieri che danzavano una macabra ridda.
Immagine cruenta e pagana di una furia ultrice,
io, nobile normanna, dai pochi denari e dai molti ideali,
stirpe rivoluzionaria di una schiatta ultrarealista,
erede del lirismo tragico del mio trisavolo,
scrutavo il corpo senza vita del sicario dei Girondini,
ulcerato dalle piaghe che l’avevano tormentato,
testimonianza, impressa nella carne, di un’anima putrida.
Più non gli sarebbe servita quella strana vasca
che il mio gesto aveva tinto di umor purpureo.
Nessun nuovo sollievo da piaghe, pruriti ed eczemi.
All’inferno avrebbe reso conto del suo tradimento.
Fate di me quel che volete, il mio dovere l’ho fatto”,
pensai, con aria assente, quando mi trascinarono via.
Mi fece tenerezza la premurosa sollecitudine del boia
e la paterna compassione per i miei venticinque anni,
quando, fino all’ultimo, tentò, per troppa misericordia, 
di occultarmi, con la sua mole, la ghigliottina.
Avrei dovuto vederla, prima o poi, mai ne avevo vista una
ed ero, pur sempre, una spietata assassina.






Grazie a chi ha voluto commentare la Principessa di Lamballe.
Per Ninfea Blu e Kiara 69: in effetti, anch’io ho avuto la sensazione che la Principessa di Lamballe sia sparita per fare largo ad Oscar. Entrambe furono le prime amiche di Maria Antonietta ed entrambe erano sincere, già ricche di famiglia e, quindi, non mosse dalla smania di arricchimento della Polignac; entrambe erano poco divertenti e troppo legate all’etichetta e, quindi, alla lunga, divennero strette all’esuberante Regina; entrambe furono devote fino al sacrificio. L’unica differenza è nel finale, coerente per la Principessa di Lamballe e sorprendentemente ribelle per Oscar.
Per queenjane – Jane Grey? :-D – La Lamballe fu molto fedele e tutta d’un pezzo, come lo fu Oscar fino al colpo di scena finale.
Per Tetide: quando ci sono questi eccidi, secondo me, la fame e la miseria non c’entrano. Si scatenano i disadattati che approfittano della confusione per dare sfogo ai loro istinti repressi. Un po’ come avviene nelle manifestazioni ove ai manifestanti si affiancano i facinorosi che ne approfittano per spaccare le vetrine e rubare. 

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Capitolo 22
*** Théroigne de Méricourt ***


Théroigne de Méricourt
 
Nacqui in Lussemburgo, da una famiglia contadina
e, nel dolore dei miei fragili cinque anni,
persi la luce della mia vita, restando orfana di madre.
Mio padre se ne lavò le mani, inviandomi ad una sconosciuta zia
che mi accolse con l’entusiasmo di un venerdì di Quaresima
e che, tosto, si sbarazzò di me, chiudendomi in un convento.
Non sentendomi tagliata per l’ora et labora,
oramai sedicenne, feci ritorno alla casa paterna
che mai era stata mia,
dove vissi un aspro conflitto con la matrigna.
Sei una pazza!”.
Con l’animo esaltato, la mente in perenne agitazione,
il cuore insoddisfatto, i nervi tesi e vibranti
ed i pensieri che si rincorrevano l’un l’altro,
frammentandosi, saltellandomi in testa come cavallette,
pedinando i miei giorni e le mie notti
e mai trovando posa,
difficilmente sarei stata una moglie ed una madre.
Datti una calmata, pazza!”.
Fuggii dalla mia famiglia e girai per l’Europa,
senza una casa cui far ritorno e mai ne ebbi una,
apprendendo ed assorbendo di tutto,
costruendo il mio essere, pietra su pietra.
Ebbi il mio lascivo e sregolato Grand Tour,
affiancando i miei numerosissimi amanti.
Fra di essi, ricordo un ufficiale inglese,
un marchese francese ed un castrato italiano.
Nessuno di loro volle sposarmi o restare a lungo con me.
Perché sei una pazza!”.
Mi stabilii in Francia, appassionandomi alle nuove idee.
Partecipai alla presa della Bastiglia
ed alle adunanze dell’Assemblea Nazionale.
Capeggiai le donne parigine che marciarono a Versailles,
facendomi portavoce delle loro sacrosante rivendicazioni
e trattando col disprezzo e l’inurbanità che meritava
l’infame austriaca con la corona francese.
Divenni l’amazzone rossa della libertà,
col cappello piumato e le armi in pugno,
la bella di Liegi che gestiva un vivace salotto,
membro infervorato del Club dei Cordiglieri
e strenua propugnatrice della liberazione delle donne
dal giogo millenario che le opprimeva e le umiliava,
ma fui anche invisa all’intransigente Robespierre
che, un triste giorno, mi zittì in malo modo,
buttandomi fuori da un’adunanza, senza troppe cerimonie.
Fuori di qui, pazza!”.
Finii ricercata dalla polizia regia e riparai nella mia Liegi,
col risultato di non essere arrestata dai francesi,
ma dagli austriaci, compatrioti di Madame Deficit.
Con l’accusa di avere attentato alla vita della cagna sul trono,
fui imprigionata, per un anno, in un castello tirolese.
Stattene rinchiusa, pazza!”.
Rimessa in libertà, tornai in Francia, la mia patria di elezione,
a creare scompiglio ed a dimenarmi in esso,
perché, ormai, la rivoluzione mi aveva accesa come una torcia.
Una torcia infernale che appiccava il fuoco al solo passaggio,
col cervello sovraeccitato, in costante subbuglio
e sul punto di esplodere per la continua esaltazione.
Un vulcano di collera repressa che eruttava e seminava morte.
E morte sprizzai, durante la rivolta dei sanculotti,
quando staccai di netto, con una sola sciabolata,
la testa di un giornalista monarchico che mi aveva derisa.
Mi ubriacai del sangue di cui ero lorda, nelle stragi di settembre,
strangolando un’aristocratica a mani nude,
con la forza della follia e l’incitamento del mio nuovo amante.
 “Pazza ed anche assassina!”.
Dopo tante peripezie, lotte, smanie e scelleratezze,
travolta dal turbinio di un vortice di violenza e di sangue,
la mia mente iniziò a dare segni di cedimento,
si ripiegò su se stessa e smise di strepitare,
anelando ad una pace che mai le era appartenuta,
come lo scheletro storto ed annerito di uno zolfanello arso.
Ti sei stancata, pazza?”.
Nauseata dagli eccessi e dalle stragi,
iniziai a predicare la pace e la moderazione
e questo fu il paradosso all’origine della mia rovina.
Mentre arringavo in pubblico, nel giardino dei Foglianti,
Marat mi scatenò addosso un gruppo di donne giacobine
che, invase da una furia di cui ben conoscevo il volto,
mi denudarono davanti a tutti!
Mi fustigarono!
Mi bastonarono!
Lasciandomi a terra più morta che viva….
Il corpo rimase vivo, ma lo spirito mi abbandonò.
Fui internata in un manicomio,
misero relitto di colei che ero stata
e, lì, trascinai, come un dannato la catena,
il resto dei miei disgraziati giorni.
Pazza……..






Ringrazio tutti coloro che hanno commentato il precedente personaggio.
Carlotta de Corday d’Armont era figlia dei suoi tempi ed era, pertanto, un’esaltata, una persona cresciuta sui libri, imbevuta delle nuove idee, ma con poca esperienza della vita pratica. Di fatto, il suo gesto non ha salvato la Francia, ma ha portato ad un muro contro muro, scatenando il terrore.
Io l’ho descritta come mi è venuta, un po’ dannata dantesca, un po’ furia pagana, ripresa nel momento intermedio fra l’acme emotiva dell’azione delittuosa ed il ripiegarsi su se stessa dovuto al calare della tensione.
Con questo personaggio, finisce il settore: “Stragi e terrore”.
Il prossimo settore sarà denominato: “Soldati della Guardia Metropolitana”.

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Capitolo 23
*** Gérard Lasalle ***


Gérard Lasalle
 
Qual è il prezzo di un fucile?
Qual è il valore di una vita umana?
Se la risposta a questa domanda
vi lasciasse tutti a dir poco stupefatti
ed un integerrimo Comandante
fosse costretto ad infrangere tutti i suoi principi
per far quadrare le conseguenze della risposta,
significherebbe che il vostro mondo è alla fine.
Morii ugualmente fulminato dalle fucilate,
si vede che era quello il mio destino,
ma lo feci da uomo libero,
auto immolatosi per un nobile ideale
e non come carne da macello,
misero ingranaggio di un congegno
che affamava me e la mia famiglia.






Grazie a tutti coloro che hanno commentato il personaggio precedente.
Dopo i settori “Gioventù”, “Rivoluzione”, “Scandalo della collana” e “Stragi e terrore”, inizia, oggi, il settore intitolato: “Soldati della Guardia Metropolitana” che ospiterà soltanto figure del cartone animato. Buona lettura!

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Capitolo 24
*** Il Generale de Bouillé ***


Il Generale de Bouillé
 
Nacqui nella prima metà del diciottesimo secolo
e fui un valoroso ed integerrimo Generale di Sua Maestà.
Rimasi sempre fedele alla Corona
e mai l’abbandonai anche quando le cose volsero al peggio
né tentai di trarre profitto dagli eventi
come fece quell’avventuriero di mio cugino Lafayette.
Fui ardimentoso nel combattere, solerte nel servire,
deciso nel comandare ed inesorabile nel reprimere
e di ciò si accorsero quelle male erbe dei rivoluzionari
per i quali, con miei grandi vanto e soddisfazione,
diventai un’autentica spina nel fianco, un incubo, una nemesi,
tanto da indurli ad inserire il mio nome
in quell’abominevole e deprecabile inno,
da loro denominato Marsigliese.
Ciò che più mi indispose non fu l’accanirsi dei nemici,
giacché da questi non ci si può attendere che il male,
ma il voltafaccia dei nostri, di quelli di cui ci fidavamo.
Peggio di Tarpea fu quella donna soldato
che mal ripagò la fiducia e l’affetto dei Reali
di cui io stesso, in anni di devozione, non fui destinatario.
Coprì di vergogna la sua antica ed irreprensibile famiglia
e deluse il suo eccentrico padre, il Generale de Jarjayes,
comportandosi da cane sciolto e da traditrice rinnegata.
Era una creatura diversa, strana e disadattata,
non perché una donna non possa essere soldato,
medico, giudice, contabile, architetto o finanche monarca,
dato che non è il lavoro, in sé, che crea l’aberrazione;
è il fatto di essere alfa quando tutti i propri simili sono omega
che porta, in prima istanza, all’isolamento, all’emarginazione,
all’estraniazione dal comune sentire
e, in un secondo momento, all’inaffidabilità ed ai colpi di testa.
Commise insubordinazione con studiata pervicacia
e, malgrado tutto, ottenne il perdono reale,
nonostante l’assenza di un sia pur lieve pentimento.
Non la persi d’occhio, da allora
e, quando fu necessario dare l’ordine di sparare sulla folla,
lo impartii a lei, per saggiarne la recuperata fedeltà.
La misi alla prova ed ella miseramente fallì,
come, del resto, avevo amaramente pronosticato.
A differenza di altri, ebbe il mondo servito su un piatto d’argento
e, per tutta risposta, gettò le serpi sul capo di chi le offriva i fiori.
A causa di quelli come lei, persi la famiglia, la casa, la posizione,
le ricchezze, le terre, la sicurezza, la Patria ed il mio Re.
Trascorsi gli ultimi anni di vita nella precarietà e morii esule
mentre coloro che conoscevo furono perseguitati ed uccisi.






Ringrazio chi ha commentato il personaggio precedente.
Va, ora, in scena il Generale de Bouillé. Il vero Generale de Bouillé non apparteneva alla Guardia Metropolitana. Quello di Lady Oscar non ho ben capito cosa facesse, ma Oscar ha a che fare con lui nell’ultima parte della sua vita e, quindi, ho ritenuto confacente questa collocazione.
Ninfea Blu: grazie dei complimenti e dell’apprezzamento per la raccolta. Lasalle è uno che fa un po’ pena. Sicuramente, la vita del militare non faceva per lui. Imbranato come soldato ed ancor più come ladro! No, un pezzo da novanta come André non me lo gioco adesso! :-D
gr_lady863: la parte della storia che ci mostra Oscar fra i soldati della Guardia non mi ha mai entusiasmata. E’ la fase discendente della vita della protagonista, quella della malattia, della malinconia, della solitudine (riuscì ad allontanare anche André che era l’unico a starle vicino), del disfacimento fisico e morale. In questa fase, Oscar prese coscienza della situazione in cui versava la popolazione, ma l’aveva già capito prima, quando salvò il bambino malato di Arras o quando conobbe Rosalie. E’ singolare come, ogni volta, Oscar si stupisca per le stese cose. Nell’episodio del fucile, un po’ mi è dispiaciuto per Oscar, costretta, suo malgrado, a rinnegare i suoi principi ed il suo rigore per coprire un grave reato, seppure “a fin di bene”.
Lady Minerva: grazie dei complimenti! Lasalle non era adatto a fare il soldato. La sua fu una scelta dettata dalla miseria e, per sfamare la famiglia, vendette il fucile. Al di là della contraddittorietà di alcuni punti (questi soldati si vendono le armi per sopravvivere, ma, poi, vanno a bere in taverna: o i soldi ci sono o non ci sono), la vicenda di Lasalle è simile a quella di Rosalie: una brava persona costretta ad accettare compromessi terribili.
Tetide: Lasalle, adesso, è un vecchietto di duecentocinquant’anni, naturale che sia più maturo! :-D
Madame Anna: I veri soldati della Guardia Metropolitana erano degli avanzi di galera. Questi, invece, sono contadini impoveriti o, comunque, gente modesta, un po’ rudi, un po’ tontoloni, ma, tutto sommato, inoffensivi. Quello che mi ha sempre lasciata perplessa è che questi soldati muoiono di fame al punto da rischiare il plotone di esecuzione, ma, poi, vanno a bere in taverna. L’oste li faceva bere gratis e, in cambio, loro chiudevano un occhio su qualcosa? Una delle tante sviste degli autori? Chi sa?

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Capitolo 25
*** Il Colonnello d’Agout ***


Il Colonnello d’Agout
 
Nacqui da una famiglia della media nobiltà,
figlio cadetto e, come tale, destinato all’esercito.
Temperamento mite e riflessivo,
poco adatto ai campi di battaglia
e, invece, molto incline a tenere a bada i soldati,
stemperando gli animi e mantenendo l’ordine.
Mi chiamavano “Testa di legno
e pensavano che non me ne fossi accorto,
ma a me non importava,
essendomi sufficiente adempiere il mio dovere,
evitando eccessivi protagonismi,
sconvenienti suscettibilità ed arroganze nocive.
La mia capacità di conservare la disciplina nei ranghi
fu messa duramente alla prova quando,
nella Caserma della Guardia Metropolitana parigina,
arrivò il nuovo Comandante:
grande aristocratico, altero, freddo, duro e…. donna….
Bizzarrie dell’alta aristocrazia.
Veniva direttamente dalla Guardia Reale,
dalla quiete e dall’ordine dei comodi,
eleganti e riscaldati quartieri di Versailles
e, francamente, non ho mai capito
cosa l’avesse indotta a lasciare quell’incarico.
Non una punizione, ne fui informato
e, anzi, aveva svolto un servizio impeccabile,
coprendosi d’onore in varie occasioni
e guadagnandosi l’affetto della Sovrana.
Nessun affetto, rispetto o considerazione
ricevette, invece, nella nostra Caserma,
da parte dei nostri indisciplinati e rudi soldati
eppure ciò non sembrava turbarla,
così distante e compresa nel suo ruolo.
Passato del tempo, fu molto apprezzata,
per la sua abilità, l’onestà e la dirittura morale
nonché per la sua profonda umanità
che teneva ben celata sotto una corazza adamantina.
Perché, in fondo, i soldati della Guardia Metropolitana
erano come i bambini: riottosi e recalcitranti,
ma dal cuore ingenuo e semplice,
estremamente fedele, una volta conquistato.
Non ebbi ben chiaro cosa la spinse a disertare
ed a tradire la nobiltà cui apparteneva
e la Corona che aveva così fedelmente servito,
portandosi dietro, col suo carisma, alcune decine di soldati.
Motivi di smarrimento e di angoscia ce ne furono tantissimi,
in quei drammatici, dolorosi frangenti
che cambiarono il corso della storia e capovolsero il mondo
eppure non è mandando tutto all’aria che si risolve il problema.
Non è esponendo la propria famiglia all’onta ed al disonore
né creando sgomento fra i propri conoscenti
né ferendo con l’ingratitudine i propri benefattori
che si serve la causa della giustizia.
Si può essere giusti e bene operare da nobili come da plebei,
perché le persone d’onore e di tempra  
esistono nell’aristocrazia e nel popolo nella stessa misura,
così come quelle disoneste, arriviste e spregiudicate.
Non era soltanto corruzione e prevaricazione
il mondo feudale da cui provenivamo;
fu foriero di morte e di terrore il regime che lo soppiantò.
Avrebbe dovuto combattere le sue battaglie,
seguire le sue convinzioni e realizzare i suoi progetti
da nobile, come sempre aveva fatto,
senza disconoscere ciò che le aveva dato, fino ad allora,
rifugio e sostentamento, accettazione e comprensione
ed evitando di mortificare, con l’abbandono e col rifiuto,
familiari, amici, conoscenti e protettori.
Non era mai stata, del resto, persona dalle mezze misure
né donna di grande equilibrio interiore,
ma di immenso ardimento e di molta avventatezza.
Avevo, poi, riconosciuto, su quel volto,
lo stigma inconfondibile del mal sottile
che aveva condotto alla tomba,
l’anno prima, la mia adorata moglie.
La vicinanza della morte e la perdita della speranza
possono produrre effetti inopinati, lo so bene.
Cercai di coprirne, più a lungo possibile, la diserzione,
nella speranza che si ravvedessero e che tornassero.
Piansi sinceramente la loro morte
e pregai per i superstiti,
perché non fosse fatto loro del male.
Io, dal canto mio, continuai a servire fedelmente
il mio Re e la mia Patria,
come Colonnello dell’Esercito, come francese,
come nobile, come cristiano, come essere umano.
Non mi vergognai mai di quello che ero
e non disprezzai mai quello che non ero.
Viva la Francia e pace ai caduti.






Grazie a chi ha voluto commentare il personaggio precedente. Oggi, ce n’è uno che ne condivide la posizione e lo schieramento, ma con un diverso carattere ed un differente atteggiamento nei confronti di Oscar.
Tetide: Bouillé perse tutto a causa della rivoluzione ed è comprensibile che odiasse chi a fece scoppiare e chi vi aderì. Ho, poi, intuito, in alcuni passi della storia, invidia per la posizione privilegiata di Oscar presso la famiglia reale.
gr_lady863: grazie per i complimenti al mio stile. Il voltafaccia di Oscar è poco comprensibile e troppo repentino, spiegabile soltanto con l’imminenza della morte e con la consapevolezza di non avere più tempo per mediare. André non le aveva mai chiesto di fare la rivoluzionaria o di macchiarsi di tradimento. Maria Antonietta fu molto dura e poco aperta al dialogo, ma bisogna capirla, essendole morti due figli, uno dei quali da pochi giorni, circostanza della quale a nessuno importava qualcosa. La stessa Oscar, prima, fece le condoglianze per la morte del Delfino e, pochi giorni dopo, partecipò alla presa della Bastiglia. Io credo che il finale ikediano, seppure poco logico, sia di grande impatto emotivo. La versione di Dezaki, col fuoco dei cannoni ed Oscar con la spada in pugno ed i capelli sollevati dallo spostamento d’aria, è superba. La morte della protagonista per difendere i reali, nel corso dell’assalto di Versailles del 6 ottobre 1789 o durante l’assedio delle Tuileries del 10 agosto 1792, sarebbe stata più coerente e leale, ma meno adatta ai gusti dello spettatore degli anni ’70.
Madame Anna: Oscar si sarebbe, sicuramente, addolorata per il destino riservato ai reali e, forse, si sarebbe anche pentita delle sue scelte avventate ed individualiste. Versailles non le era mai piaciuta e ciò che veramente voleva era una vita autonoma ed avventurosa. La carriera militare le dava maggiore libertà della vita da donna, ma io penso che a lei piacesse molto comandare e poco obbedire. Nel corso di tutta la storia, Oscar ebbe ben chiaro che soltanto rimanendo al suo posto avrebbe conservato il proprio stile di vita. In punto di morte, gettò tutto alle ortiche, liberandosi di ciò che le stava stretto. Nessun futuro in questa scelta, perché i rivoluzionari l’avrebbero sfruttata e, poi, scaricata, ma un futuro  non l’aveva.
françoise14: grazie dei complimenti. La visione che Lasalle e Bouillé hanno di Oscar è diametralmente opposta. Lasalle ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di Oscar, è giovane ed influenzabile ed è un uomo del popolo. Bouillé, al contrario, è un alto aristocratico e, per lui, Oscar è una traditrice mentre Lafayette è un opportunista. Il punto di vista di Bouillé è, tutto sommato, comprensibile, dato che perse tutto a causa della rivoluzione. Io, poi, ho voluto dare una lettura che mi è parso di intuire fra le righe della storia e, cioè, che Bouillé fosse invidioso dell’affetto che i reali nutrivano per Oscar e della fulminea carriera di lei. La visione di d’Agout è ulteriormente diversa, essendo quella di un aristocratico conservatore, ma galantuomo e non arrogante come il Bouillé di Lady Oscar.
kiara 69: grazie dei complimenti. Bouillé era infastidito dal tradimento di Oscar che aveva aderito ad una rivoluzione che gli fece perdere tutto e che condannò a morte o all’emigrazione i suoi parenti e conoscenti. Da certi atteggiamenti di Bouillé, poi, ho intuito una sorta di invidia per l’affetto che i reali avevano per Oscar. Periodicamente, nei commenti, indico quando inizia un settore e, di conseguenza, ne termina un altro. Per ora, si sono succeduti i settori: “Gioventù”, “Rivoluzione”, “Scandalo della collana” e “Stragi e terrore”. Ora, invece, siamo nel settore: “Soldati della Guardia Metropolitana”.

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Capitolo 26
*** Alain de Soisson ***


Alain de Soisson
 
Nacqui in un mondo tramontato e lontano,
da una famiglia di antica nobiltà e di moderna miseria.
Ricordo le persone che popolarono la mia giovinezza,
vissuta negli ultimi anni dell’Ancien Régime.
Mio padre che visse amareggiato per le perdute fortune,
da lui mai conosciute, della nostra famiglia
e che morì deluso e stremato dall’insoddisfazione,
con tanta amarezza nel cuore ed una bottiglia in mano;
mia madre che finì i suoi giorni inebetita dal dolore,
struggendosi nel ricordo di una figlia troppo fragile,
persa agli occhi di Dio e sepolta in terra sconsacrata;
la mia sorellina Diane, lieve coma una farfalla,
che sognava l’amore ed incontrò la morte;
un biondo e fiero Comandante, in fuga dalla sua menzogna;
un malinconico e generoso soldato
che, inseguendo i suoi sogni, dimenticò di vivere;
i miei commilitoni della Guardia Metropolitana,
dipinti come sbruffoni e frequentatori di luoghi perduti,
ma che, in realtà, giravano con le scarpe bucate
e mangiavano poco e male, solo quando potevano,
per mettere da parte il possibile e sfamare le famiglie;
un Re debole ed indeciso, manipolato dalla corte
ed in balia degli eventi;
una Regina straniera e lontana dal suo popolo
che compensava l’inadeguatezza con l’arroganza e la superbia.
Seguì la Rivoluzione con le sue fulgide promesse:
Libertà, Uguaglianza e Fraternità,
ma che portò il terrore, le stragi e la ghigliottina
(fortunato chi morì prima, senza vedere!);
dei trascinatori di folle che volevano cambiare il mondo,
con tutto il buon senso di cui può essere fornito
chi pretende di rinominare i mesi e di rinumerare gli anni;
un popolo stremato, deluso, strumentalizzato ed aizzato
che aveva perso la ragione, la misura e la compassione.
Poi, arrivò lui, l’eroe della Corsica,
il mezzo straniero che volle farsi Imperatore
e che inseguiva la gloria dell’Aquila di Roma.
Ubriacò la Nazione col miraggio della Grandeur
e ne sterminò i figli nella sconfinata steppa russa,
lasciando il popolo in ginocchio, sconfitto ed impoverito.
Il cerchio si chiuse all’insegna della Restaurazione
che lasciò tutti insoddisfatti:
gli uni, perché si era restaurato troppo,
gli altri, perché si era restaurato poco.
Così trascorse la mia vita, mai veramente vissuta
e sempre affrontata di tre quarti e con la maschera dello spaccone.
Soldato per necessità, ma non per inclinazione,
impegnato a fare il caporione in caserma,
non mi accorsi del mio dramma familiare.
André, almeno, ebbe il coraggio di amare
e di inseguire i suoi sogni fino ai confini della ragione.
Lei, dal suo canto, ebbe la forza e l’ostinazione
di forgiarsi intorno un mondo a sua misura.
I miei genitori formarono una famiglia
sgangherata eppure piena d’amore.
La mia sorellina tentò di spiccare il volo,
con le sue ali trasparenti e la leggerezza della gioventù.
I miei commilitoni tirarono a campare,
salvando le loro famiglie dalla morte per inedia.
Il Re fece quel tanto di cui fu capace
e la Regina resistette con altera fierezza
ad una corte ostile e ad un popolo infuriato.
Ma, quando la giostra si fermò e le luci del circo si spensero,
a me rimase la solitudine dello spettatore.






Grazie a chi ha commentato il Colonnello d’Agout.
Arriva, oggi, uno dei pezzi forti della storia.
Tetide e François79: il Colonnello d’Agout era un uomo buono ed irreprensibile ed era legato al suo mondo d’origine che non ebbe tutti i difetti, così come i rivoluzionari non ebbero tutti i pregi.
Ninfea Blu e françoise 14: in Oscar, il malessere per alcune ingiustizie c’è sempre stato, ma un conto, secondo me, sono i conflitti interiori ed un altro le prese di posizione e quella di Oscar di ribellarsi è stata molto manichea. Oscar, di fatto, iniziò a ribellarsi dopo l’insorgere della malattia: quando buttò dalle scale quell’ufficiale, in occasione degli Stati Generali, aveva già scoperto tracce di sangue sul guanto. Io non credo che il Re, la Regina ed i nobili volessero il male del popolo, così come non tutto il popolo era dalla parte del giusto e, in varie occasioni, Oscar ed André si trovarono sul punto di essere uccisi dalla furia dei popolani. Oscar, come tutti noi, dovette giocare una partita con le carte che aveva in mano, soltanto che, ad un certo punto, cercò di sparigliare quelle carte. Probabilmente perché malata, gettò tutto alle ortiche mentre, secondo me, sarebbe stato meglio adoperarsi per trovare una soluzione a tavolino, cercando di salvare il salvabile e conservando una posizione che le aveva dato tanto in passato e che non sarebbe stato corretto lasciare all’insorgere delle prime difficoltà. Ad Oscar, poi, non fu impartito l’ordine di sparare su una folla inerme o di mandare alla camera a gas gli ebrei (ordini manifestamente criminosi), ma di sedare i tumulti, sparando, all’occorrenza, su una folla armata a sua volta. Se a sparare ad André non fosse stato un soldato del Royal Allemand, ma un uomo della folla, Oscar non avrebbe dovuto rispondere al fuoco? Non sarebbero stati entrambi degli esseri umani? Le forze dell’ordine di oggi non sedano i tumulti dei black bloc e di altri facinorosi, ricorrendo anche all’uso delle armi? Siamo sicuri che il consiglio di ritirare le truppe da una città in preda ai tumulti fosse sensato? Io, al posto di Oscar, avrei consigliato di continuare a pattugliare la città e di sbrigarsi ad emanare una Costituzione ed a stanare, al più presto possibile, Robespierre, Saint Just & C.. Dico questo perché alcune parti della sceneggiatura di Lady Oscar mi sembrano commoventi, di grande impatto emotivo, ma poco logiche e perché non credo che sedare i tumulti sia criminoso e che ritirare le forze dell’ordine da una città sotto assedio sia sensato.
gr_lady863: d’Agout si mostra protettivo verso Oscar quando la invita a riguardarsi e quando cerca di coprirne la diserzione. Io ho voluto sottolineare il duplice aspetto della comprensione umana e della critica al metodo utilizzato.
Madame Anna: Oscar, dopo la diagnosi della tisi, smise di fare progetti ed iniziò a vivere alla giornata. Se André fosse sopravvissuto, forse, si sarebbe esposta di meno o, forse, ci avrebbe pensato André a farla ragionare.

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Capitolo 27
*** Diane de Soisson ***


Diane de Soisson
 
Nacqui in una famiglia della piccola nobiltà,
il cui capostipite, del quale si è persa la memoria,
si mise al servizio di un signore più importante di lui
e partì per le Crociate.
Conquistò  un titolo nobiliare, delle terre ed un maniero
di cui, nei secoli, si smarrirono le vestigia.
Poco illustri ed ancor meno ricchi,
non vivevamo da nobili, ma non mi importava:
avevo un’indole gioiosa e tutta una vita davanti.
Conobbi un giovane, nobile e povero come me.
Pensai di avere incontrato il principe delle favole
e, invece, mi imbattei nella Signora Nera.
Non credevo che, nel mercato matrimoniale,
una borghese ricca valesse più di una nobile povera.
Ignoravo, quasi, l’esistenza di un mercato matrimoniale.
Non svelerò mai se il mio promesso mi avesse disonorata
o “semplicemente” spezzata dentro.
Dirò soltanto che non dormivo più, non mangiavo più,
piangevo giorno e notte ed avevo la mente confusa.
Trovai una vecchia corda in cantina.
Non pensando al dolore che avrei inflitto
a mia madre ed a mio fratello,
per un uomo che non valeva le loro ombre,
un giorno, trovandomi da sola in casa,
indossai l’abito da sposa che mi ero cucita,
lanciai la corda intorno ad una trave del soffitto
e salii su una sedia.
Piangevo, tremavo, i suoni che mi giungevano dalla strada
rimbombavano ed erano quasi irreali.
Signore, perdonatemi! Madre di Dio, abbiate misericordia!
E saltai giù.






Con Diane de Soisson, ospitata, per ragioni di parentela, fra i “Soldati della Guardia Metropolitana”, si chiude anche questo settore. Il prossimo settore si intitolerà: “Versailles”.
Da oggi, per ragioni organizzative e di tempo, l’aggiornamento di “Scorre la Senna, scorre lenta” non sarà più bisettimanale, ma settimanale.
Buona lettura a tutti voi!

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Capitolo 28
*** Charlotte de Polignac ***


Charlotte de Polignac
 
Nacqui bambina e tale morii, da una nobile famiglia,
dimorante in un castello che aveva conosciuto fasti maggiori,
figlia di un padre distratto e di una madre ambiziosa.
La mia genitrice ostentava docilità e bontà d’animo,
ma celava un’indole fredda, calcolatrice e dispotica,
persino spietata, con quanti la ostacolavano.
Per lei, noi figli eravamo il mezzo e non il fine.
Inizialmente, non eravamo ricchi e vivevamo pressoché tranquilli;
poi, gli intrighi di mia madre ci portarono potere e ricchezza,
dimore meravigliose, carrozze dorate, abiti sfarzosi e tanta servitù
e, con essi, affanno, agitazione e nuove frequentazioni,
non sempre piacevoli, affabili e rassicuranti.
Un’instabilità diversa da quella di prima
e, se possibile, ancora più angosciante.
Divenuta, in poco tempo, la figlia dell’amica prediletta di Sua Maestà,
da oscura nobile di provincia quale, fino ad allora, ero stata
e null’altro essendo che una spaurita ed insignificante parvenue
che si aggirava negli sfavillanti salotti delle aristocratiche parigine,
sin dalla nascita, superiori per ricchezza, eleganza ed istruzione,
colmavo l’insicurezza che mi attanagliava con l’arroganza e la cattiveria,
ostentando una superiorità che non avevo
e vilmente umiliando chi, ai miei occhi, era più debole di me.
Arrivò, ben presto, il giorno in cui la vita mi presentò il conto.
Devi dare il tuo contributo”, mi disse, una mattina, mia madre,
Non puoi lasciare fare tutto a me”, aggiunse e, poi, si ritirò.
Il mio contributo era il matrimonio con un importante Duca,
molto ricco e vicino alla Corte, ma di trent’anni più anziano di me.
Non era l’età il problema principale, bensì la ripulsa che egli mi suscitava:
sembrava l’orco delle favole eppure era reale,
con quel suo sguardo lascivo e le maniere insinuanti.
Mi disgustava il suo modo di guardarmi e di sfiorarmi.
Non sapevo bene cosa ci si aspettasse da una giovane sposa,
ma intuivo che nulla di piacevole vi era in serbo per me.
Mi si accostò, un giorno, con fare molesto e mi baciò una mano!
La lavai freneticamente alla fontana, fin quasi a staccarmi la pelle.
Adesso è di nuovo pulita e candida”, urlai, con una risata selvaggia;
Adesso è di nuovo mia”, aggiunsi, fra me e me.
Mi precipitai, come una forsennata, in cima al palazzo e mi gettai giù,
alla feroce ricerca della libertà dei folli e dei disperati.






Dopo i settori: “Gioventù”, “Rivoluzione”, “Scandalo della collana”, “Stragi e terrore” e “Soldati della Guardia Metropolitana”, inizia, oggi, il settore “Versailles”.
Ad inaugurarlo, è chiamata Charlotte de Polignac, ideologicamente accostata a Diane de Soisson cui fa da tragico pendant: una si è uccisa perché abbandonata dall’uomo amato, l’altra si è tolta la vita per sfuggire al matrimonio con colui che la disgustava.
Charlotte de Polignac è un’invenzione ikediana. La vera figlia dei Conti di Polignac si chiamava Aglaé, non si suicidò e, a dodici anni (età neppure troppo precoce rispetto ad altre contemporanee), sposò, alla presenza dei Sovrani, il Duca de Gramont et de Guiche, un giovane poco più che ventenne, ricavandone il soprannome di Guichette. Data la giovane età della sposa, il matrimonio fu consumato soltanto quando la famiglia di lei diede il benestare.
Quando Napoleone era Primo Console, Aglaé de Polignac andò in missione diplomatica presso di lui, per chiedergli aiuto per la restaurazione della monarchia. Napoleone rifiutò, ma riconobbe il coraggio e la fermezza della sua interlocutrice.
Aglaé de Polignac ebbe tre figli, due femmine ed un maschio e, per salvare una di loro, fece una fine ben più raccapricciante di quella della storia di Lady Oscar. Trovandosi la famiglia ad Edimburgo, in una fredda giornata di marzo, un grande camino era stato acceso. Una delle figlie dei Duchi de Gramont et de Guiche vi si avvicinò troppo e prese fuoco. La madre corse a salvarla e fu avvolta, anch’ella, dalle fiamme, morendo dopo qualche settimana di atroce agonia e dando prova di coraggio e di rassegnazione cristiana. La figlia, invece, si salvò.
Grazie a chi ha letto e commentato il personaggio precedente e grazie a chi vorrà fare altrettanto con quello odierno!

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Capitolo 29
*** La Contessa di Polignac ***


La Contessa di Polignac
 
Nacqui da una famiglia di grande nobiltà e di scarse fortune
e sposai un uomo che mi eguagliava nell’una e nelle altre.
Ero bella, intelligente, astuta, carismatica,
capelli scuri, pelle bianchissima, occhi lilla, voce armoniosa.
All’apparenza docile, ma determinata come poche.
Abile a dissimulare e ad ammaliare sia gli uomini sia le donne.
Sentendomi predestinata all’eccellenza e desiderosa di primeggiare,
qualsiasi cosa avrei fatto per raggiungere il mio scopo,
con la tenacia e l’ostinazione tipiche degli spietati.
Mai avrei potuto accontentarmi di un casato in rovina
e dei fori delle tarme sotto un mantello di velluto.
Mio marito era buono, ma poco ambizioso e per nulla volitivo.
Fosse stato lui il capostipite della famiglia, essa sarebbe stata plebea.
Dovetti ingegnarmi da sola, come, del resto, da sempre ero adusa,
avendo perduto mia madre in tenera età e mai essendomi fidata di alcuno.
Non fu facile conoscere la Regina mentre lo fu capirne le debolezze:
era infelice, inquieta, insofferente, scalpitante, insoddisfatta, annoiata,
poco apprezzata dalla madre, trascurata dal marito, osteggiata dalla corte.
Fu oltremodo naturale unire la di lei solitudine alla mia necessità.
Aveva un immenso potere che non era capace di sfruttare
ed infinite possibilità che non sapeva gestire
e che financo ignorava di avere.
Per oltre un decennio, le fui inseparabile compagna,
fornendole evasione, plauso ed un simulacro d’affetto,
in cambio di potere, castelli, carrozze, sfarzo, lusso, decoro.
Avevo ai miei piedi una corte che mi detestava, un brulicar di astio
e, sopra ogni altro detrattore, vi era quella deprecabile creatura,
il Colonnello ermafrodito che distillava rabbia e pose da incorruttibile
dal disagio e dalla solitudine, naturali corollari della sua diversità.
Nessun aiuto ebbi dai miei congiunti:
di mio marito già ho detto,
i figli maschi erano troppo giovani ed inesperti
mentre le femmine furono una vera delusione.
Charlotte preferì darsi la morte di sua stessa mano,
prima ancora di sbocciare, facendo un volo al contrario
ed annientando se stessa in modo atroce e spettacolare,
per punirmi e perseguitarmi con l’imperituro ricordo del suo corpo straziato
piuttosto che godere di possibilità che io,
alla stessa età, mai avrei osato sognare
mentre Rosalie mi sbatté in faccia tutto ciò che le avevo offerto,
non avendomi mai perdonato la morte di quella sua madre adottiva,
una stracciona male in arnese e con un piede già nella fossa.
Non feci certo a posta ad investirla, ma non potevo soccorrerla:
avevo cose urgenti da fare e, fermandomi, avrei rischiato il linciaggio.
Fuggii dalla Francia all’indomani della presa della Bastiglia
e fui tacciata di viltà e di ingratitudine,
come le più abietta delle creature,
ma erano espatriati anche i Conti di Provenza e di Artois
e le zie del Re, quelle zitelle bigotte ed insopportabili
ed io non ero certo un cane fedele come Madame Élisabeth
né avevo la propensione al martirio della Principessa di Lamballe.
Mi limitai a fuggire, in fin dei conti,
senza, però, commettere alto tradimento
come fece, invece, quello spaventapasseri con l’uniforme
che tradì tutto e tutti nell’ultimo giorno della sua vita,
dopo averla trascorsa rifacendo il verso a Catone il Censore.
Scampai la ghigliottina, ma morii esule, in terra straniera,
dopo avere perso gran parte di ciò per cui avevo lottato,
a due mesi di distanza dall’esecuzione della Regina.
Fu facile, per i miei familiari, tirare in ballo la morte di crepacuore.
Tardiva riabilitazione, sostennero alcuni;
opportunista anche dall’oltretomba, sentenziarono altri.






Ed ecco uno dei personaggi più cordialmente detestabili di tutta la storia di Lady Oscar, perché, se la Contessa du Barry, Jeanne de Valois, il Duca d’Orléans, il Duca di Germain, Robespierre e Saint Just neppure scherzavano, essi, almeno, ebbero l’onestà intellettuale di presentarsi per quelli che erano mentre la Polignac celava la sua abiezione sotto la maschera dell’irreprensibilità.
La vera Contessa di Polignac non era una criminale, non consegnava le sue figlie nelle grinfie di orchi schifosi né aveva come sport preferito quello di investire con la carrozza popolane inermi. Era semplicemente una donna molto intelligente che, godendo del privilegio delle persone belle, ammaliava chi le stava intorno. Sfruttò la sua posizione come potè, senza ritegno e senza rimpianti, spremendo come un limone le già stremate casse dello Stato.
Io l’ho ritratta a metà strada fra quella storica e quella della finzione. Nella descrizione fisica, come nel ricordo della prematura perdita della madre e della morte a due mesi dall’esecuzione della Regina, mi sono rifatta ai dati storici. Per ciò che concerne il cinismo, l’utilitarismo con cui considerava le persone, l’odio per Oscar rasentante il disprezzo ed il cenno ad un marito buono, ma debole, ho utilizzato Lady Oscar.
Il cartone animato fa apparire il primo incontro fra Maria Antonietta a la Polignac quasi casuale e determinato dal vuoto affettivo causato nella neo Regina dai trenta giorni di allontanamento, per punizione, di Oscar. In realtà, la Polignac smosse mezzo mondo per entrare nelle grazie della Sovrana e, se a comandare fosse stato Luigi XVI, avrebbe mirato a lui, divenendone l’amante. Una favorita in tutto e per tutto.
Per brama di potere, fece da amministratore di sostegno e da claque ad una donna che, sostanzialmente, disprezzava, perché aveva un infinito potere che non sapeva usare. Non che il peso politico di una Regina consorte francese fosse granché, ma molte donne dell’epoca, senza essere Regine, acquistarono una grande influenza grazie alle conoscenze ed alle frequentazioni mentre Maria Antonietta era specializzata nell’inimicarsi tutti coloro che contavano.
Determinata nella sua corsa al successo e titanica nella sua malvagità, la Contessa non poteva che disprezzare chi non era al suo livello (la Regina ed il marito) e non comprendere chi, come le figlie, non era sulla sua lunghezza d’onda.
Alla fine, anche la Contessa sarà sconfitta, ma conserverà, anche nell’oltretomba, l’ambiguità e l’indecifrabilità che l’avevano sempre accompagnata.
Grazie a chi ha voluto commentare il personaggio precedente e grazie a chi vorrà gettarsi nella mischia per recensire questo: qui, di materia, ce n’è fin troppa.

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Capitolo 30
*** Il Duca de Guiche ***


Il Duca de Guiche
 
Nacqui da una delle più nobili e rispettabili famiglie francesi
e, oltrepassati i quarant’anni, mi risolsi ad impalmare una vergine.
Mi piacevano giovani e fresche, così come a tanti altri.
Sono affari miei e, poi, qual è il problema?
La sposa designata era incantevole e già affascinante
e, una volta cresciuta, sarebbe diventata una vera bellezza.
Quale bambina e bambina? Era già mestruata
e molto poco al di sotto della consueta età matrimoniale.
L’avrei elevata al rango di Duchessa, in cambio della sua innocenza.
E, poi, quale innocenza?
Era ignara di sesso, ma non candida e buona d’animo,
con quegli occhi scintillanti, ora sdegnosi, ora fieri
e quel sorriso pungente, altero, a tratti beffardo.
Superba nell’incedere e sferzante nel parlare,
non era una santa, come io non ero un asceta.
Che coppia saremmo stati malgrado la differenza d’età!
Ci saremmo tenuti testa con reciproci appagamento e dispetto.
Preferì non accettare la sfida e darsi la morte,
piuttosto che avere il privilegio di diventare mia moglie.
Peggio per lei!
Rimasi in vita, io e me ne scelsi un’altra.






Ecco un altro personaggio di rara antipatia.
Mi riferisco al Duca de Guiche di Lady Oscar, perché quello vero era un bel gentiluomo poco più che ventenne, sicuramente privo di tutti i difetti di quello del cartone animato.
Mi sono domandata se inserire o no questa figura, ma, poi, ho pensato che la sgradevolezza – anche estrema – non può essere un ostacolo alla rappresentazione di un personaggio letterario. Occorre accettare la sfida e mettersi alla prova.
Il Duca de Guiche di Lady Oscar mi è sempre sembrato un mezzo scemo che faceva battute insulse alle quali la gente rideva per ragioni di opportunità. Fin qui, sembrava piuttosto innocuo, ma la scena del baciamano ha mostrato una certa morbosità.
Il Duca era un pedofilo? Ci ho riflettuto e non ho saputo darmi una risposta adeguata. A quell’epoca, infatti, l’età matrimoniale non era elevata. Aglaé de Polignac si sposò a dodici anni. Maria Antonietta si fidanzò ad undici anni e si sposò a quattordici. La moglie di Lavoisier si sposò a tredici anni mentre Lavoisier ne aveva ventotto. Charlotte de Polignac, del resto, non è disegnata come una bambina, ma come un’adolescente ed esiste una differenza sostanziale fra pedofilia (attrazione per un minore impubere) ed efebofilia (attrazione per un adolescente pubere). L’adolescente ha già sviluppato le caratteristiche sessuali secondarie e, per quanto giovane, può esercitare un’attrazione sessuale che un impubere non può suscitare su una persona sana. La devianza, nei due casi, è profondamente diversa.
Probabilmente, mentre i bambini andavano rispettati in qualunque epoca storica, il concetto di efebofilia ha subito delle variazioni nel corso dei secoli.
Al di là di queste riflessioni, il Duca de Guiche del cartone animato era un soggetto sgradevolissimo ed io ho evidenziato questo tratto negativo. Allo stesso tempo, però, non si può negare che Charlotte ci mettesse del suo quanto ad antipatia: umiliò Rosalie, maltrattava le cameriere ed aveva un pessimo carattere. Mi sono, quindi, domandata se il Duca, oltre ad essere un cacciatore di vergini, non si fosse anche accorto che Charlotte era una sorta di anima gemella per lui, se non avesse fiutato la futura gran bellezza sotto quell’adolescente e se non fosse attratto anche dalla personalità al peperoncino di lei. Ferma restando l’antipatia del personaggio, ho voluto lasciare qualcosa in sospeso.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi vorrà cimentarsi anche con questo, per certi versi, ancora più controverso. 

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Capitolo 31
*** Le tre Mesdames ***


Le tre Mesdames
 
Nascemmo a Versailles e fummo le figlie di Re Luigi XV
e della sua devota ed onesta consorte, la Regina Maria Leszczyńska.
Diversamente da quanto avvenne per le nostre sorelle maggiori,
quando arrivò, anche per noi, l’età di contrarre matrimonio,
non si trovarono in circolazione Re o eredi al trono
e, col consenso paterno, decidemmo di rimanere in Francia
anziché occupare, per matrimonio, un posto inferiore
a quello che ci sarebbe spettato per diritto di nascita.
Nostro padre, da sempre molto affettuoso con noi figlie,
malvolentieri si era separato dalle nostre sorelle
e di buon grado accolse l’idea di farci rimanere al suo fianco.
Ricambiavamo col più sincero amore il nostro caro padre
e tutto egli ci concesse: considerazione, rango, agiatezza,
ma non ciò che sarebbe stato salutare per la sua anima immortale.
Invano tentammo di allontanarlo da quelle abiette favorite
che erano puro veleno per la salvezza di lui
eppure egli non demordeva, si ostinava, perseverava nell’errore
e, ogni volta che ne sceglieva una, precipitava sempre più in basso.
L’ultima, poi, sembrava uscita direttamente da un incubo:
con un passato da far rabbrividire ed un presente da detestare,
iniziò a spadroneggiare a Corte un anno dopo la morte di nostra madre.
Facemmo da genitrici ai nostri nipoti, rimasti orfani in tenera età.
La vita non fu benevola col maggiore dei sopravvissuti ed erede al trono,
dandogli una moglie totalmente inadeguata per cultura, tatto e pietà.
Più testarda che determinata, più insolente che arguta,
era maestra nell’arte di farsi nemici tutti coloro che contavano
e di circondarsi di soggetti improbabili ed approfittatori
che di Corte avrebbero potuto frequentare soltanto quella dei miracoli.
Molto divertente fu blandirla, attribuendole un’importanza che non aveva,
così da utilizzarla come parafulmine nella lotta contro Madame du Barry.
Il povero Luigi Augusto ne divenne, ben presto, succube,
da un lato, per debolezza e, dall’altro, per senso di colpa
e, anziché la criniera di un leone, si ritrovò in testa il palco di un cervo.
Divenuta ella Regina, creammo una nostra corte alternativa
dove ospitammo tutti coloro che erano stufi di tante intemperanze
o che erano stati allontanati dalla cerchia dell’Autrichienne.
Scoppiata la rivoluzione, che una Regina più saggia non avrebbe provocato
e che costò la vita a due dei nostri adorati nipoti e ad un pronipote,
le due di noi che erano vissute tanto a lungo da patirla ripararono all’estero,
sperimentando, in vecchiaia, i disagi e le amarezze dell’esilio
e mai più ritornando, nel corso della vita, sul sacro suolo francese.






Il capitolo odierno contiene il primo ed unico epitaffio composto, dedicato a tre personaggi cumulativamente. Le figlie di Luigi XV, del resto, ci sono sempre mostrate insieme mentre agiscono all’unisono e parlano in modo coordinato e, quindi, perché separarle dopo la morte?
Si chiamavano Maria Adelaide, Vittoria Luisa Maria Teresa e Sofia Filippina Elisabetta Giustina. Una quarta sorella, ad un certo punto, prese il velo e sia lei sia Madame Sophie morirono prima della presa della Bastiglia, evitando, quindi, gli orrori della rivoluzione. Le due maggiori, invece, ripararono all’estero e girarono esuli per l’Europa, stabilendosi, infine, a Trieste, nel Castello di Miramare, dove morirono ad un anno di distanza l’una dall’altra. Re Luigi XVIII, loro nipote, a restaurazione avvenuta, ne fece rimpatriare i feretri, inumandoli nell’Abbazia di Saint Dénis.
Furono fra le maggiori detrattrici della du Barry, prima e di Maria Antonietta, dopo ed appositamente per lei coniarono l’appellativo di Autrichienne, l’austriaca, parola che ne incorporava un’altra, chienne = cagna e che riecheggiava pure autruche = struzzo.
Da queste maldicenze inziali, oltre che dai libelli infamanti, prese vita e si alimentò l’odio verso Maria Antonietta, inizialmente ben voluta per l’ostilità mostrata alla du Barry.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi vorrà commentare anche questo.

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Capitolo 32
*** Madame de Noailles ***


Madame de Noailles
 
Avete mai avuto l’arduo compito di insegnare qualcosa
ad una creatura che da voi nulla voleva apprendere
e che ricambiava l’impegno e la dedizione profusi
con disattenzione, sbadigli, canzonature ed epiteti puerili?
La Delfina di Francia era una di queste persone
ed io fui la dama che ebbe l’ingrato destino
di insegnarle il protocollo della Corte francese,
materia che suscitò il fastidio e l’ilarità dell’augusta discente
anziché il dovuto e responsabile interesse
per ciò che l’avrebbe accompagnata in tutta la vita.
L’etichetta di Versailles, da lei tanto ridicolizzata,
aveva una grande utilità perché conservava gli equilibri.
Il complicato cerimoniale teneva occupati i cortigiani,
ne scandiva le giornate, stabiliva le precedenze ed i doveri
ed attribuiva ai nobili incarichi, onori e ragioni di vanto
sostitutivi dei poteri feudali che il Re Sole aveva svuotato.
Accompagnava la politica e la diplomazia
e, nell’osservanza di esso, noi tutti eravamo cresciuti.
La giovane Principessa, spavalda ed irriverente,
avrebbe dovuto assorbire le usanze della sua nuova Patria
anziché agitarsi per imporre le proprie ad un’intera Corte.
Ella, però, della sua privilegiata condizione,
accettava soltanto ciò che le dava piacere e non tutto l’insieme,
come sarebbe stato giusto, ragionevole e coerente.
Io non fui in grado di porle i dovuti freni,
essendole inferiore per rango e non avendo ascendente su di lei.
La colpa, in verità, non fu tutta della Delfina,
ma del suo cattivo genio, quell’oscuro Abate di Vermond
che le insegnò ad irridersi delle regole e degli anziani,
facendone emergere il lato ribelle e canzonatorio.
Ignoro, in tutta franchezza, in base a quali criteri
– se non quelli della disattenzione e della superficialità –
egli possa essere stato scelto per divenirne il precettore,
pur avendo, da sempre, coltivato idee pericolose e discutibili.
Preferii, ad un certo punto, ritirarmi a vita privata,
per godermi la famiglia e la pace del mio castello,
non sopportando più il quotidiano annientamento
dell’ordine e della disciplina, da me tanto amati.
Pace, ordine e disciplina furono definitivamente sovvertiti
dalla rivoluzione che uccise i miei familiari e me.
Una Regina più accorta, rispettabile e ligia al dovere
avrebbe sicuramente scongiurato o mitigato tale luttuoso epilogo.






Oggi, è la volta di Madame Étiquette, la prima dama di Maria Antonietta negli anni iniziali di permanenza di quest’ultima a Versailles.
Fra le due, non correva buon sangue, tanto che, divenuta Regina, Maria Antonietta non tardò a sbarazzarsi dell’ingombrante prima dama, sostituendola con la Principessa di Lamballe, a lei sicuramente più gradita.
E’ difficile trovare il responsabile di tale cortocircuito di simpatie. Se la Contessa, poi Duchessa di Noailles, non brillava per indulgenza ed era, al contrario, un capolavoro di severità e di pedanteria, Maria Antonietta sapeva rendersi estremamente irritante, affibbiando all’altra degli epiteti puerili e scoppiando a ridere quando, durante la cerimonia dell’incoronazione, la malcapitata inciampò e cadde a terra, fortunatamente senza farsi alcun male.
Essendo l’una ligia al dovere ed amante dell’ordine e l’altra ribelle ed in cerca di affetto e di emozioni, avevano due caratteri agli antipodi, destinati a scontrarsi.
Io non ho ravvisato in questa nobildonna l’astio delle tre Mesdames, ma soltanto un disagio, conseguenza del dileggio subito e della reciproca incomprensione.
Madame de Noailles, comunque, andava d’accordo con suo marito (che aveva sposato a dodici anni, come era d’uso all’epoca, ma partorendo la prima figlia quattro anni dopo le nozze, probabile indizio di una non immediata consumazione) e con tutti i suoi familiari e, durante la prigionia, i due Duchi si distinsero per dare conforto ai compagni di sventura.
Per ironia della sorte, Madame de Noailles fu imprigionata nel Palazzo del Lussemburgo, proprio dove era nata e fu ghigliottinata insieme al marito il 27 giugno 1794, un mese prima della decapitazione di Robespierre e di Saint Just e della fine del terrore. I due coniugi erano, ormai, malatissimi.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi farà altrettanto con questo.

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Capitolo 33
*** Il Conte di Mercy-Argenteau ***


Il Conte di Mercy-Argenteau
 
Nacqui a Liegi, da una nobile famiglia
e divenni diplomatico al servizio dell’Austria.
Alla mia abilità ed al mio indefesso impegno
fu dovuto il rafforzamento della nuova alleanza
del Sacro Romano Impero con la Francia,
culminato nelle imponenti e fastose nozze reali
che unirono i rampolli delle due Casate.
Un trattato internazionale più che un matrimonio,
ma, nelle Case Regnanti, era in uso così.
Non fu facile tenere a bada l’intemperante Delfina
né placare la scontentezza della di lei genitrice.
Non aveva tutti i torti quell’adolescente ribelle
né le riuscì naturale adattarsi ad un delicato ruolo
per il quale non era minimamente tagliata.
Le regole della Corte austriaca che le diede i natali,
senza compromettere la solennità e lo splendore
che circondavano gli Asburgo nelle pubbliche occasioni,
assicuravano ampi spazi alla vita privata dei Regnanti,
da dedicare alla famiglia, agli affetti ed agli svaghi.
Versailles era, invece, la sacerdotessa pagana
di una raffinatissima e complicata etichetta
che faceva sorridere le Corti di tutta Europa.
Essa esibiva su uno spietato palcoscenico
qualsiasi momento delle esistenze dei Sovrani.
Aperta al pubblico per tradizione, vedeva aggirarsi,
nei suoi corridoi, postulanti, viandanti o semplici curiosi,
di qualsiasi educazione ed estrazione sociale
che nulla lasciavano al riserbo ed alla spontaneità.
Oltre a ciò, la giovane ed inesperta Principessa
scontò novecento anni di inimicizia fra vecchia e nuova patria.
La prima, alla fine, l’abbandonò e la seconda mai l’accolse.        
A questa situazione, già estremamente complicata,
si aggiunse l’acuirsi di una crisi economica e di valori
che aveva radici lontane e fomentatori vicini.
Sarebbe stata auspicabile una Regina più saggia e prudente,
meno impulsiva e più versata nelle arti diplomatiche
mentre lei era sensibile, franca, ostinata,
poco preparata a fronteggiare intrighi e tranelli
e portata ad irrigidirsi di fronte all’odio ed all’ostilità.
Mi faceva tenerezza quella smarrita e fragile creatura
ed ella, di rimando, vedeva in me un amico ed un padre.
Fossi stato meno abile nel tessere la rete dell’alleanza,
il destino di lei sarebbe stato, forse, più felice
e, sicuramente, meno tragico e funesto.






Questa settimana, le luci della ribalta si accendono sul Conte di Mercy-Argenteau che, sebbene fosse nato a Liegi, guadagnò una posizione di prestigio nelle corti austriaca e francese e, grazie alle sue arti diplomatiche, rese possibile la distensione dei rapporti fra Austria e Francia, il capovolgimento delle alleanze ed il matrimonio fra Luigi Augusto e Maria Antonietta.
Il cartone animato lo mostra estremamente amichevole e quasi paterno nei confronti della Delfina che, dal canto suo, fu ben felice di rivederlo. Quello vero, probabilmente, più che nutrire affetto per Maria Antonietta, si sarà fatto i suoi interessi.
Il giudizio del Conte su Maria Antonietta è severo, ma equo e decisamente più benevolo di quello delle tre Mesdames – interessate soltanto a seminare zizzania – ed anche di quello di Madame de Noailles, bene intenzionata, ma poco incline a tollerare le intemperanze di Maria Antonietta. Di sicuro, il Conte fu una figura di maggiore spessore e di più brillante intelligenza, se paragonato a quelle dame e fu l’unico ad ottenere il risultato di indurre Maria Antonietta a più miti consigli.
Mi è sembrato naturale, partendo dal cartone animato, attribuirgli un’attitudine protettiva nei confronti di Maria Antonietta e mostrarlo dispiaciuto e quasi afflitto da un senso di colpa per la tragica sorte occorsale.
In tutto ciò, non ci resta che capire per quale ragione i disegnatori, in barba ad ogni più elementare regola della moda settecentesca, lo abbiano rappresentato come Radetzky. :-D
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi commenterà anche questo.

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Capitolo 34
*** Maria Teresa d’Asburgo ***


Maria Teresa d’Asburgo
 
Nacqui donna in un mondo di uomini,
erede dell’illustre dinastia degli Asburgo.
Intrisa di dignità imperiale e di formazione gesuita,
dotata di buon senso e di una spiccata personalità,
succedetti a mio padre, governai il mio Regno
e dominai il mio amato ed infedele marito.
Molte sanguinose guerre dovetti combattere
per far valere il mio diritto al trono,
ma io le vinsi tutte anche contro i miei congiunti,
risanando le finanze dell’Impero
ed avviandolo ad un’epoca di pace e di progresso.
E’ del tutto singolare come i figli,
sebbene amati e forniti di fulgide prospettive,
difficilmente riescano a replicare le attitudini genitoriali.
Uno di loro era troppo freddo mentre un altro era donnaiolo,
una mia figlia era autoritaria ed un’altra eccedeva in superbia,
ma quella che mi preoccupava più di tutti gli altri
era la mia penultimogenita, la Regina di Francia.
Troppo frivola ed incline ai piaceri ed ai divertimenti,
sembrava più un’attrice o un’amante reale che una Sovrana.
Eccessivamente impertinente ed insofferente all’etichetta,
si alienava le simpatie dei grandi nobili e degli anziani
dei quali avrebbe dovuto, invece, cercare il sostegno e la stima,
al fine di colmare il baratro della provenienza straniera e nemica
anziché circondarsi di parassiti e di adulatori,
la cui amicizia ella comprava a suon di cariche, terre e palazzi.
Glielo dicevo sempre che chi non eccelle in bellezza ed in spirito
deve compensare con la saggezza e la bontà di cuore.
La esortavo di continuo ad interessarsi di cose importanti,
così che suo marito, il Re, ne ricercasse il consiglio
e, quando fosse tramontata la gioventù e sfiorita la freschezza,
sarebbero rimaste la stima e l’indispensabilità.
Era imprudente ed inopportuna, danzava sull’orlo di un precipizio.
Sentivo, nel mio cuore di madre, che il suo destino
sarebbe stato assolutamente meraviglioso o totalmente disgraziato
e fui mille volte lieta di avere reso l’anima a Dio
prima di avere visto concretizzarsi la seconda opzione.






E’, oggi, la volta di Maria Teresa d’Asburgo, ospitata, per ragioni di parentela, nel settore “Versailles”.
Della madre di Maria Antonietta sarebbe superfluo parlare, essendo stata uno dei personaggi di maggiore spicco della sua epoca. Basti dire che, pur essendo l’erede legittima della dinastia Asburgo, il diritto di lei non fu riconosciuto da tutti, tanto che ne scaturì la guerra di successione austriaca. Maria Teresa ne uscì vittoriosa, ma dovette fare eleggere Sacro Romano Imperatore, al suo posto, il proprio consorte, il Duca Francesco Stefano di Lorena. Nonostante ciò, Maria Teresa fu, di fatto, il Capo di Stato e zittì spesso il marito nelle sedute del Consiglio. Dalla loro unione, originò la dinastia degli Asburgo Lorena e nacquero sedici figli di cui Maria Antonietta fu la penultima.
Maria Antonietta fu sempre fonte di preoccupazione per l’austera madre e destinataria delle periodiche e severe lettere di lei.
Grazie ai commentatori di questo personaggio e del precedente. La prossima settimana, arriverà un ritratto importante.

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Capitolo 35
*** Victor Clément de Girodel ***


Victor Clément de Girodel
 
Nacqui a metà del diciottesimo secolo,
figlio cadetto di una famiglia dell’alta aristocrazia.
Due strade mi si ponevano innanzi: la Chiesa e l’Esercito.
Per nessuna delle due sentendomi portato,
scelsi quella che meno dell’altra avrebbe limitato la mia libertà.
Giunto sul limitare dei venti anni,
si presentò l’occasione che mio padre, da sempre, aveva atteso:
farmi divenire Capitano delle Guardie Reali,
sottraendo la carica alla famiglia che, da lungo tempo, la deteneva
di cui si era esaurita la linea maschile, non era certo colpa mia.
Il Conte in carica, però, non demordeva e partorì l’insania
che fornì ai salotti materia di pettegolezzo per decenni.
Manca la linea maschile? E con ciò? Esiste un correttivo.
Di maschi nemmeno uno, ma di femmine ne ho ben sei.
Che ci si mascheri soltanto a Carnevale, poi, cosa importa?
Soltanto i contabili e gli sciocchi sono così intransigenti”.
La cosa amena è che persino il Re, anziché gridare al pazzo,
prese in considerazione la proposta, ancora ci si chiede il perché.
La regale inclinazione per le belle donne fece sicuramente il suo.
Fui costretto ad accettare di battermi in duello con una fanciulla,
per una carica della quale avrei tranquillamente fatto a meno.
Nessun onore in caso di vittoria, eterna derisione se fossi stato sconfitto.
Mentre mi crogiolavo in questi ameni pensieri,
vidi lei, sotto un albero, che mi aspettava.
Portamento fiero, occhi spavaldi, voce altera, piglio attaccabrighe,
volle battersi con me, lì, in aperta campagna anziché in regolare tenzone,
perché neanche lei ambiva alla carica (cosa l’avranno istituita a fare?),
ma non voleva passare per codarda, rinunciando tout court.
Non mi aspettavo tanta abilità, unita a leggiadria e ad eleganza senza pari.
Spadaccina perfetta, abile, veloce, eseguiva le mosse meglio di me.
Vinse lei, ma senza testimoni, evitandomi, così, la pubblica umiliazione.
Da uomo d’onore, accettai la sconfitta
e riconobbi in lei, di fronte al Re, il Capitano ideale.
Divenni, da quel giorno, il suo secondo, un eterno destino il mio.
Ebbi modo di apprezzarla, standole al fianco per vent’anni.
C’era sempre l’attendente di lei con noi, uno strano trio.
Quando se ne andò, con decisione repentina ed irrevocabile,
mi accorsi che mi mancava e che non avrei potuto più farne a meno.
Ne chiesi la mano al padre che, un tempo, mi era sembrato un folle
e folle ero diventato anch’io, dato il ginepraio in cui mi stavo cacciando.
Considerati il carattere, lo stile di vita ed i nostri trascorsi,
avrei dovuto tralasciare la via ufficiale e chiedere direttamente a lei,
ma non credo che il risultato sarebbe cambiato.
Mi rifiutò senza pensarci troppo, senza tentennamento alcuno
e chiuse per sempre la questione, in modo teatrale.
Io, dal canto mio, le lasciai libertà di scelta:
non si costringe il sole a brillare, il fuoco ad ardere ed il vento a soffiare.
Le rimasi, tuttavia, sempre devoto e quasi mi persi per lei,
in occasione degli Stati Generali.
Soltanto il tempestivo intervento della Regina ci salvò
e profondo fu il dolore della Regina – oltre che il mio –
nell’apprenderne la morte e le circostanze nelle quali era avvenuta.
L’aveva tradita – ci aveva traditi;
l’aveva rinnegata – ci aveva rinnegati;
l’aveva disistimata – ci aveva disistimati.
Ci era mai stata amica? I veri amici oltrepassano la barricata?
La Sovrana non pensava di meritare quel voltafaccia
– nessuno di noi pensava di meritarlo –
e, pur perdonandole, come sempre aveva fatto,
l’ennesima alzata d’ingegno, mai trovò completa consolazione.
L’eterea silfide era sempre stata molto abile con la spada,
ma mai nell’evitare di ferire i sentimenti di chi le viveva accanto.
Non era crudele, non era spietata, era Oscar François de Jarjayes.






Come avevo promesso, oggi, si sale di livello, con l’elegante Girodel, uno dei personaggi più importanti della storia di Lady Oscar.
Mi è venuto spontaneo rappresentarlo così: ironico, aristocratico e mai eccessivo. Sebbene, almeno all’inizio, egli appaia leggermente sprezzante nei confronti di Oscar, la signorilità dei modi, il carattere garbato ed il fatto di prendere la vita con una buona dose di filosofia hanno contribuito a stemperarne una certa albagia di fondo.
Girodel è una persona d’onore come Oscar, ma, a differenza di lei, ha il senso della misura e la capacità di capire quando la partita è finita e ciò gli va ascritto a merito. Non è mai entrato in competizione con la protagonista, probabilmente perché, diversamente da lei, provava poca attrazione per la vita militare e non aveva una grande attitudine al comando.
Come sempre, ringrazio chi ha commentato il ritratto precedente e chi farà altrettanto con quello odierno. Con questo personaggio importante, “Scorre la Senna, scorre lenta” vi saluta e va in vacanza, per tornare dopo l’Epifania, con un altro pezzo da novanta. Auguri di buone feste a tutti! 

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Capitolo 36
*** Hans Axel von Fersen ***


Hans Axel von Fersen
 
Nacqui nelle caligini della brumosa Svezia
che lasciai in giovane età, per il mio grand tour europeo,
ma fu ad una festa parigina che feci i due incontri
più importanti di tutta la mia vita:
la donna che amavo ed il mio migliore amico.
Malgrado il sapere che avevo accumulato,
non riuscii ad andare oltre l’apparenza delle cose
e non mi accorsi che una era la Delfina e l’altra una donna.
La prima mi folgorò per la bellezza del volto,
la voce incantevole e l’eleganza dei modi.
Nessuna dama era a lei paragonabile
e divenne, ben presto, la Regina del mio cuore.
Molte cose avevamo in comune
ed in molte altre ci completavamo:
l’allegria solare di lei faceva da contraltare
al mio malinconico temperamento nordico
eppure era una gaiezza, in larga parte, fittizia e forzata
che celava smarrimento, abbandono, ostilità subita e resa,
solitudine, scarsa autostima ed un immenso dolore.
La seconda mi colpì per la veemenza e l’arroganza dei modi
anche se si trattava soltanto di un’ispida facciata
che nascondeva un cuore puro, nobile, generoso ed indomito.
Non ho mai conosciuto una persona più coraggiosa di lei,
il fuoco della battaglia le ardeva negli occhi.
L’ho sempre ammirata molto, al di sopra di ogni altra creatura
e, nei momenti di maggiore difficoltà,
mi interrogavo su cosa avrebbe fatto al mio posto.
Mi onorò del suo amore che non potei ricambiare
e neppure lei, in fondo, mi avrebbe voluto come compagno di vita.
Tre temperamenti diversi, ma complementari,
tre aneliti all’infinito ed all’impossibile,
tre vite oltre l’ordinario, tre schegge di follia.
Nascemmo per incontrarci, morimmo soli
e travolti dal dolore, dalla violenza e dall’incomprensione.
Io: la paura di vivere e la sofferenza di amare.
Oscar: una rosa bianca, purissima, altera, indipendente ed orgogliosa.
Maria Antonietta: la leggiadria e la levità sublimate in una quarta Grazia.
Tutto a Lei mi guida.






Ben ritrovati e buon 2018 a tutti!
Come promesso, dopo la pausa festiva, sono tornata con un personaggio importantissimo.
Per il ritratto del Conte di Fersen, mi sono trovata di fronte ad un bel dilemma ed alla necessità di fare una netta scelta di campo, perché il personaggio della finzione e quello storico differiscono completamente l’uno dall’altro. Se il Fersen del cartone animato è un personaggio appassionato, malinconico, integerrimo, assolutamente e totalmente fedele che incarna l’eroe romantico ante litteram, quello vero era un libertino, gaudente, infedele e, sicuramente, molto più tiepido dal punto di vista sentimentale.
Alla fine, ho optato per il Conte di Fersen del cartone animato, perché questa non è un’enciclopedia storica, ma una rassegna su Lady Oscar ed il personaggio deve interagire con gli altri. Difficilmente Oscar, raro esempio di super io freudiano, si sarebbe innamorata di un libertino frivolo ed impenitente.
Grazie a chi ha commentato il precedente personaggio e grazie a chi si cimenterà anche con questo! Fatemi sapere cosa ne pensate, non rimanete silenti!

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Capitolo 37
*** Madame Élisabeth ***


Madame Élisabeth
 
Nacqui a Versailles, dall’antica dinastia dei Borboni,
ma, a due anni, avevo già perso entrambi i miei genitori,
giacché essere Principesse non salva dai lutti precoci.
Compensai l’immenso vuoto lasciato da quei trapassi
ricorrendo al sublime conforto della religione
e sviluppando un profondo attaccamento ai miei fratelli.
Per non separarmi da loro e non lasciare la mia casa,
rifiutai una prestigiosa unione con l’Imperatore d’Austria.
La Corte di Francia, del resto, nel bene e nel male,
era troppo diversa da tutte le altre,
un mondo a parte, uno specchio deformante,
tale da non consentire un facile adattamento altrove.
L’esempio di mia cognata mi aveva, inoltre, mostrato
che era sicuramente meglio essere zitella in casa propria
piuttosto che una straniera con la corona,
pegno vivente a garanzia di un patto,
infelice preda di guerra ipocritamente definita “Regina”.
Mio fratello mi negò il chiostro, ma fui monaca nel cuore.
Fui devota alla Chiesa, coltivai la mia anima ed il mio spirito,
senza trascurare l’intelletto, l’arte e la cultura
ed intrattenni degli ottimi rapporti con tutti i miei congiunti.
Mi misi al servizio dei miei parenti, dei poveri e dei bisognosi.
Prestai soccorso anche a quella strana ed inquieta donna
che tanto male fece a mia cognata ed alla Corona.
Dicono che lo svenimento fosse stato simulato ad arte,
ma io non ebbi modo di accorgermene e di verificare.
D’altra parte, se si facesse il bene soltanto alle persone degne,
si finirebbe con l’essere dei Cristiani a metà,
dei miseri surrogati dei veri seguaci di Nostro Signore.
Presagii molto presto la tragedia che avrebbe sconvolto la Francia
e dedicai i miei giorni alla preghiera ed alla protezione dei miei cari,
con l’esempio di una vita onesta, pudica e lontana dal lusso.
Arrivò la rivoluzione che scatenò un violento uragano,
la mia famiglia fu dispersa e la Chiesa perseguitata.
Uomini che accusarono mio fratello di incapacità,
indecisione, fiacchezza e malgoverno
non seppero, poi, fare meglio di lui
e finirono travolti dal mostro che essi stessi avevano scatenato.
E’ ciò che succede quando si pecca di superbia
e si perde il contatto con la propria anima e con Dio.
Non me la sentii di abbandonare, nell’ora della sventura,
coloro che avevo affiancato nei sereni giorni della letizia
e rifiutai la fuga all’estero che mi avrebbe messa al sicuro,
dedicandomi, con fermezza crescente, alla missione di consolatrice.
Fu la devozione ai miei familiari a farmi lasciare la terra dei vivi.
Accusata di deplorevoli crimini e delle più disgustose oscenità,
io che mai avrei fatto del male ad un insetto,
fui condannata allo stesso martirio inflitto a mio fratello.
Prima che arrivasse il mio turno di testimoniare col sangue,
sulla carretta e, poi, ai piedi del patibolo,
mi prodigai nel dare conforto agli altri condannati,
chiamandoli per nome ad uno ad uno,
sorridendo, abbracciando l’una, incoraggiando l’altro
e ricordando a tutti che, presto, sarebbero ascesi al Cielo.
Arrivò, infine, il mio momento e tornai alla Casa del Padre.






Il personaggio di oggi è la sventurata Madame Élisabeth, la più giovane dei fratelli e delle sorelle di Luigi XVI.
Molto attaccata alla sua famiglia d’origine ed estremamente religiosa, declinò le nozze con vari ottimi partiti europei fra cui l’Imperatore Giuseppe II, fratello di Maria Antonietta.
Essendosi rifiutata, a differenza dei fratelli maschi, all’indomani della presa della Bastiglia, di lasciare la Francia, seguì le sorti della famiglia reale alle Tuileries e, poi, alla Torre del Tempio.
Accusata di un cumulo di sciocchezze, fra cui atti osceni col Delfino, morì ghigliottinata il 10 maggio 1794 insieme ad altri ventitré condannati. Due mesi e mezzo dopo, con la decapitazione di Robespierre e di Saint Just, il terrore finì.
A partire dall’anno 1924, nei confronti di questa Principessa, è in corso un processo di canonizzazione che, però, non si è ancora concluso. La sorella maggiore Clotilde, Regina di Sardegna, fu, invece, dichiarata venerabile poco dopo la morte e beatificata nel 1982.
Grazie a chi ha commentato il Conte di Fersen ed a chi vorrà farlo anche con Madame Élisabeth.

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Capitolo 38
*** Luigi XVII ***


Luigi XVII
 
Nacqui secondo nella linea di successione, come mio padre,
morii quale il più sfortunato fra i Re, ancor più di mio padre.
Ero troppo giovane per essere processato e ghigliottinato,
ma troppo ingombrante e pericoloso per essere dimenticato.
Spietati aguzzini mi inflissero ogni sorta di vessazione e di plagio
per farmi firmare false ed infamanti accuse contro mia madre.
La mia reggia fu una cella lurida, malsana e senza luce,
la mia corte furono i parassiti che mi infestavano le carni.
Murato vivo, lì dentro, in completa solitudine,
da gente che aveva dimenticato di avere anima e vergogna,
costretto in uno spazio angusto, delimitato da pareti trasudanti acqua,
con l’odore di muffa nelle narici che scendeva e si depositava in gola,
l’umido che penetrava nelle ossa, nella testa, nei muscoli, nei polmoni,
sporco, lacero, malnutrito, divenuto scheletrico e quasi folle,
privato di ogni conforto, materiale e spirituale,
persino un mendicante sarebbe parso un Re al mio cospetto.
La salute non tardò ad abbandonarmi e come stupirsene?
Nessuna entità, concreta o astratta, avrebbe esitato a disertare quei luoghi.
Fui liberato da quell’inferno, dopo la fine del terrore,
da gente che si illudeva di avere ancora anima e vergogna
o che, più semplicemente, voleva usarmi per qualche suo fine,
ma, per me, era ormai troppo tardi: l’odio umano mi aveva annientato.
Non riuscii a rifiorire e morii di malattia e di stenti, a soli dieci anni,
in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.






L’epitaffio di oggi è quello più crudo di tutti, una pagina storica da dimenticare sia per le modalità della prigionia e delle vessazioni inflitte sia per le caratteristiche della vittima, un bambino già passato attraverso diversi traumi e, infine, strappato alle cure della famiglia.
E’ sbalorditivo constatare come la situazione possa sfuggire di mano quando si mette in moto un meccanismo troppo grande ed esplosivo per essere tenuto a bada.
Dopo la morte del giovane Re, si fecero avanti diversi mitomani che sostenevano di essere Luigi XVII miracolosamente sopravvissuto e che ne reclamavano il trattamento e la rendita.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi vorrà commentare anche questo.

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Capitolo 39
*** Luigi Giuseppe ***


Luigi Giuseppe
 
Nacqui Delfino di Francia, troppo debole per il mio ruolo
eppure estremamente desideroso di onorarlo con fermezza.
Ammalato fin dalla nascita, arrecai dolore ai miei genitori
mentre avrei voluto renderli orgogliosi e servire il mio popolo.
Finii i miei giorni a soli sette anni, nel castello di Meudon,
ma, in quei frangenti, sarebbe stato mio dovere tornare a Versailles.
Il periodo era, infatti, delicato ed io non feci che aggravarlo.
Si erano aperti gli Stati Generali e tutti discutevano
e lo facevano animatamente anziché in modo pacato,
come sarebbe stato, invece, giusto e naturale,
giacché eravamo tutti francesi ed amavamo la nostra Patria
e la amavamo in egual misura, sebbene da punti di vista differenti.
Per pagarmi i funerali, vendettero l’argenteria di Palazzo,
tanto era grave la condizione del Regno che, poi, precipitò.
La morte fece sì che non vivessi il dramma dei miei congiunti
mentre io avrei voluto contribuire a salvarli
oppure affrontare la prigionia e la morte insieme a loro.
L’erede al trono, dopo tutto, ero io e mie erano le responsabilità:
la terribile reclusione, la squallida cella e la morte dolorosa,
occorse a mio fratello Luigi Carlo, sarebbero dovute spettare a me.
Io ero più anziano di lui e mai, a costo di subire aspri tormenti,
mi sarei fatto costringere a dire cose abominevoli contro mia madre
che persone autoproclamatesi giuste usarono come capro espiatorio.
La vita è matrigna, perché percuote i meritevoli e gli innocenti
e la storia è un susseguirsi di tragedie e di prevaricazioni.
Malgrado tutto, un desiderio terreno lo coltivai anch’io:
avrei voluto rinascere sano e sposare Madamigella Oscar,
ma tutto ciò era un’illusione, perché lei aveva l’età di mia madre
ed io ero soltanto un bambino moribondo che mai sarebbe rinato.
Quant’era bella Madamigella Oscar, forte e gentile,
mentre sfidava il vento, in groppa al suo cavallo bianco!






E’, oggi, il turno del Delfino Luigi Giuseppe, secondogenito e primo figlio maschio di Luigi XVI e di Maria Antonietta, che morì di tubercolosi ossea a soli sette anni.
Mentre, per descrivere il fratello, ho attinto alla storia, per ritrarre Luigi Giuseppe, mi sono ispirata al cartone animato dal quale ho mutuato il profondo senso di responsabilità e la grande maturità di questo bambino, già consapevole – forse troppo – delle difficili condizioni in cui versava la Francia e dell’enorme peso gravante sulle spalle di un erede al trono. Nonostante fosse troppo giovane e malato e, quindi, più che giustificabile se avesse voluto estraniarsi da tutto, questo giovinetto avrebbe desiderato impegnarsi ed essere forte.
Probabilmente, il personaggio del cartone animato è idealizzato e poco veritiero mentre il Luigi Giuseppe storico sarà stato semplicemente un bambino sfortunato, ma questa figura è bella così.
Naturalmente, dal cartone animato, ho preso anche l’acerba e tenera infatuazione del piccolo Principe per Madamigella Oscar, da lui vista come forte e splendente ovvero come tutto ciò che egli non sarebbe mai stato. Per ironia della sorte, subito dopo la morte di Luigi Giuseppe, anche la forza e la salute di Oscar declinarono e, con esse, la fedeltà alla corona.
Una delle poche fortune capitate a questo Principe – ed anche alla di lui sorella Sofia Elena Beatrice che, essendo morta della stessa grave malattia prima di compiere un anno di vita, per forza di cose, non troverà spazio in questa raccolta – fu proprio quella di vedersi risparmiati i capitoli più bui della storia di Francia (ed anche il tradimento della tanto amata Oscar).
Grazie a chi ha commentato Luigi XVII e grazie anche a chi vorrà recensire Luigi Giuseppe.

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Capitolo 40
*** Madame Royale ***


Madame Royale
 
Nacqui Principessa Reale, Figlia di Francia, primogenita del Re.
Ci si aspettava un maschio, ma la mia nascita fu ugualmente festeggiata.
Ero molto orgogliosa e compresa nel mio ruolo, estremamente superba
e mia Madre si prodigò per smussare le mie asperità caratteriali,
assegnandomi, come compagna di giochi, la figlia di una cameriera.
Non comprendevo perché il mio sesso dovesse privarmi del trono:
in fin dei conti, la maggiore ero io e l’intelligenza non mi mancava.
La vita beffarda trasformò la mia capitis deminutio in un’ancora di salvezza:
l’irrilevanza della mia persona nella linea di successione mi conservò la vita
mentre il Fratello, da me invidiato, fece una fine atroce. Quanti rimorsi!
La mia infanzia spensierata si trasformò, ben presto, in un inferno,
a causa di una spietata ed inesorabile legge del contrappasso.
Più di una sommossa mise in pericolo le nostre vite, l’ansia ci attanagliava,
ogni nuovo rumore parlava di morte alla mia mente di bambina.
Divenimmo ostaggi, poi fuggiaschi, poi prigionieri, poi nemici del popolo.
La mia famiglia fu sterminata mentre io venni dimenticata nella mia prigione.
Solitudine, senso di colpa, desiderio di rivalsa, paura di demeritare:
questa è la sorte dei sopravvissuti, delle persone a pascolo abusivo sulla terra.
Divenuta ingombrante, scomoda prova vivente delle nefandezze del terrore,
orfana del Tempio, fui consegnata all’Austria e tolta di mezzo.
Rifiutato un matrimonio nell’ignava casa austriaca che ci aveva abbandonati,
divenni nuora di mio zio, il Conte di Artois e moglie di mio cugino.
Matrimonio rato e non consumato, per colpa di mio marito.
Amputata della mia famiglia di origine, privata delle gioie della maternità,
unico anello di una catena spezzata da entrambi i lati,
consacrai la mia vita alla causa della Restaurazione.
Divenni l’Eroina di Bordeaux che, come una novella Giovanna d’Arco,
incitava gli animi dei soldati mentre il Re si dava alla fuga.
Celebrata come l’eroica Antigone dell’era moderna,
l’anima della Monarchia, la Principessa - Soldato, la dea della guerra,
percorsi la Francia in lungo ed in largo, senza risparmiarmi,
per perorare la causa della Corona ed avvicinarla al popolo.
L’unico uomo di Casa Borbone mi definì Napoleone Bonaparte.
Una donna che svolgeva eroicamente compiti maschili c’era già stata
ed io l’avevo conosciuta ed ammirata, nei begli anni della mia infanzia,
quando camminava altera ed orgogliosa per i corridoi di Versailles.
Fui Delfina come lo era stata mia madre, ma molto ombrosa e poco mondana.
Allo scoppio della seconda rivoluzione, divenni Regina per pochi istanti,
dopo l’abdicazione di mio suocero cui seguì quella di mio marito.
Il trono passò agli infidi Orléans che realizzarono, così, il loro disegno di sempre.
A noi non restò che l’esilio, definitivo e senza ritorno,
dedicato ai tentativi di riconquista del trono, all’educazione dei miei nipoti,
alla preghiera, ai digiuni, alle devozioni, alle opere di bene
ed al perpetuo ricordo dei miei sventurati Genitori, degli infelici Fratelli
e della soave, fedele, incrollabile consolatrice, seconda madre, santa, Zia.
Fui l’unica sopravvissuta della mia sfortunatissima famiglia,
la sola che si prodigò, senza  remore, per far risorgere la Monarchia,
ma anche quella che abbandonò le proprie spoglie mortali in terra straniera.
All’estero riposano le mie ossa, lontane dal Sacro Suolo Francese.







Ed ecco uno dei personaggi più tragici di questa storia: Maria Teresa Carlotta, prima figlia di Luigi XVI e di Maria Antonietta.
Apparentemente più fortunata dei suoi familiari, in quanto rimasta in vita, a lei toccarono gli oneri e gli onori della sopravvivenza che molto dà e molto chiede, soprattutto a livello psicologico. Ho voluto tratteggiare questo personaggio nella costante tensione emotiva di sopravvissuta e di vittima alla perenne ricerca di un riscatto che non ci sarebbe mai stato, perché, se anche la posizione di Carlo X si fosse consolidata, nessuno avrebbe reso alla nuora di lui la famiglia e la serenità perdute.
Ho voluto, invece, omettere tutte le leggende sulla Contessa delle Tenebre e su improbabili sostituzioni di persona che sempre spuntano quando una famiglia reale va in frantumi ed i membri di essa si disperdono.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie a chi commenterà anche questo.

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Capitolo 41
*** Luigi XVI ***


Luigi XVI
 
Nacqui Principe Reale, non erede al trono,
morii da monarca detronizzato e da traditore giustiziato.
Persi, in giovane età, entrambi i genitori ed alcuni fratelli
e ciò acuì la timidezza e la goffaggine che mi invalidavano,
difetti impossibili da perdonare in una corte brillante
– guidata da un monarca spudoratamente libertino –
e che l’eccellenza negli studi non riuscì a compensare.
Usurpai il trono del mio fratello maggiore premorto,
un bel bambino che tutti avevano amato ed apprezzato.
Governai un popolo che non sapeva dove andare,
non riuscii a risollevare le sorti della Nazione
né ad alleviare le sofferenze dei miei sudditi
nonostante l’unzione nella Cattedrale di Reims
avesse fatto di me un Re consacrato ed un taumaturgo.
Me ne dolsi profondamente eppure non riuscii a far di meglio:
la mia costernazione mi accompagnò fino ai piedi del patibolo.
Perdonai cristianamente e sinceramente i miei carnefici,
augurando alla Francia di ritrovare pace ed unità.
Sposai una donna che non riuscii a rendere felice,
con mia profonda doglianza ed umiliazione.
Fui, in parte, causa dell’esecrazione di cui divenne vittima:
un’immediata maternità avrebbe evitato molte dicerie
e l’avrebbe tenuta lontana da errori, distrazioni e falsi amici.
Fummo totalmente schiacciati dal nostro ruolo,
essendo impreparati ad assumere il fardello
di cui, in giovane età, ci ritrovammo carichi.
La verità è che fummo completamente abbandonati.
Da mio nonno che anteponeva le gozzoviglie al trono:
avrebbe dovuto essere il Padre della Nazione,
ma preferì il ruolo di concubino di molte cortigiane.
Dall’austera e volitiva Imperatrice Maria Teresa
che redarguiva sempre la mia Consorte,
umiliandola e facendola sentire inadeguata,
dopo averne ignorato i sentimenti e trascurato l’educazione
ed usandola come una pedina da infiltrare in terra nemica,
per estendere il potere dell’Austria sulla Francia.
La mia Regina, con tutti i suoi difetti,
fu madre effettiva e non per corrispondenza.
Monarca adatto ai tempi di pace,
passavo il tempo libero nella fucina
mentre mia moglie si stordiva nelle feste e nel gioco d’azzardo,
passatempi molto dispendiosi e per nulla popolari,
in una società che stava affogando nella miseria.
Non fui capace di adeguatamente fronteggiare
il fermento dei nuovi ideali che agitavano i miei tempi.
Intuivo che era necessario un cambiamento
e, tuttavia, non seppi impormi con risolutezza,
non potendo convincere un Parlamento refrattario e conservatore
ed essendo circondato da una corte avida e corrotta.
Di sicuro, non ci giovò l’isolamento di Versailles.
Ci saremmo dovuti trasferire prima alle Tuileries:
un Re deve stare in mezzo al suo popolo.
Avrei dovuto prendere in mano la situazione,
però ero troppo mite, pacifico e melanconico
né potevo contare su un decisivo appoggio da parte della Regina
che di volontà ne aveva fin troppa,
ma male indirizzata e sconfinante nell’ostinazione.
Priva di acume politico e di diplomazia,
si inimicava i grandi nobili e gli anziani,
favorendo chi era immeritevole e la blandiva
e trascurando chi, a tempo debito, si sarebbe vendicato.
Avrebbe dovuto mostrarsi più pia e morigerata,
in un Paese che, fino a poco prima del nostro matrimonio,
era stato nemico dell’Austria e di lei
e del quale, sostanzialmente, era un ostaggio di guerra.
L’accento straniero, poi, non la aiutava
e contribuì a rendere più profondo il solco
che la separava dal cuore dei nostri sudditi
ed a consolidare il mito dell’Austriaca.
Agì per impulsi e per capricci, mai dietro ad un progetto
ed io non fui in grado di aiutarla e di consigliarla,
come sarebbe stato mio dovere di Re e di marito.
Eravamo diversi in tutto: nell’aspetto, nel carattere,
nella pietà religiosa, nei desideri, nelle inclinazioni.
All’inizio, mi metteva in soggezione;
successivamente, turbava la mia quiete,
perché ne percepivo l’insoddisfazione;
alla fine, ci unì un tenero e fraterno amore.
Fui grato, in tutta sincerità, al Conte di Fersen
che seppe darle un po’ di felicità e di compagnia,
senza mai mancarmi di rispetto e mostrandosi un buon amico,
uno dei pochi fedelissimi dell’ultim’ora.
Altri, invece, ci abbandonarono o ci si rivoltarono contro,
procurando alla mia sposa un grande dolore,
secondo soltanto alla perdita prematura dei nostri figli.
Me ne dispiacqui molto, ma non fui in grado di rimediare.
Volevo molto bene alla mia Regina, dopo tutto
ed ella ne voleva a me, a modo suo.







E’, oggi, la volta di uno dei personaggi più malinconici e sfortunati di questa storia: Luigi XVI, un brav’uomo dotato di buona salute, ma di un carattere poco risoluto e tendente alla depressione.
Disprezzato dalla madre, dal nonno, dai fratelli, dal cognato e da gran parte della corte, continuamente confrontato col fratello maggiore premorto che ebbe l’onere di sostituire, dovette fronteggiare uno dei periodi più difficili della storia francese mentre lui, parafrasando la definizione su Tom Hagen de “Il Padrino”, era un monarca per i tempi di pace e non di guerra.
Fu unito alla moglie da un’amicizia sempre più forte, ma, se avesse potuto scegliere, avrebbe, probabilmente, sposato una principessa più quieta e pia.
Grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie anche a chi commenterà questo.

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Capitolo 42
*** Maria Antonietta d’Asburgo Lorena ***


Maria Antonietta d’Asburgo Lorena
 
Nacqui a Vienna, culla del Sacro Romano Impero,
dalla nobilissima dinastia degli Asburgo,
la più potente d’Europa,
da poco unitasi con la casata dei Duchi di Lorena.
Nell’anno della mia nascita, mio padre prese un’amante fissa,
la Principessa von Auersperg e la tenne con sé fino alla morte,
allontanandosi da mia madre e ferendola profondamente.
In giovane età, persi mio padre e la mia sorella preferita,
partita dall’Austria per andare sposa al Re di Napoli.
Subito dopo, fui io ad abbandonare il sacro suolo natio,
per un matrimonio prestigioso, ma avvolto nelle nubi dell’ignoto.
La mia destinazione era il Regno di Francia e di Navarra
di cui, in futuro, sarei divenuta la Regina consorte.
Privata degli abiti, dei gioielli, del seguito
e persino dei miei cagnolini,
varcato il confine, fui consegnata alla mia nuova patria.
Vi trovai uno sposo buono e gentile, ma poco virile ed attraente;
una reggia meravigliosa ed imponente, decantata in tutta Europa
che, fra le venature dei marmi e lo scintillio dei cristalli,
le scalinate maestose e le grandi fioriere di pietra,
celava pericolose insidie ed infiniti rancori;
una corte schiava di una ridicola etichetta,
dominata dalle faide e dall’ipocrisia
e, anche qui, una repellente favorita
che neppure era una Principessa,
bensì una vile ed infima donna di strada, volgare ed oscena
che aveva fatto del vizio e dell’abominio
le uniche armi della propria affermazione!
Mio marito non adempì i suoi doveri,
l’agognato erede tardò ad arrivare
e la colpa fu gettata addosso a me, persino da mia madre
cosicché divenni l’Austriaca per il resto dei mie giorni.
Anzi, la cagna austriaca.
Mi sentivo insoddisfatta, pietrificata in un ruolo monotono,
non desiderata da mio marito, osservata con sospetto
e detestata dagli antichi nemici della mia stirpe.
Fu molto facile scivolare nella spirale degli eccessi,
del gioco d’azzardo, delle spese folli,
delle frivolezze e delle compagnie equivoche.
Rinnovai tutto, dalle tappezzerie all’entourage reale,
attirandomi il risentimento degli anziani e dei grandi nobili
che, già da Delfina, avevo flagellato con giovanile impertinenza.
In mezzo a tanti nemici ed avversari politici,
parassiti ed adulatori,
soltanto Madamigella Oscar era nobile e coraggiosa,
sincera e disinteressata, generosa ed incorruttibile,
ma anche taciturna e di scarsa compagnia,
grave come una centenaria
e, nonostante l’affetto che le portavo, a volte, mio malgrado,
mi trovavo a pensare che le dessimo tutti noia.
Più semplice era godere della vicinanza di Madame de Polignac
che, pur non avendo le virtù del Comandante delle Guardie Reali,
compensava con una maggiore apertura caratteriale.
Animi avvelenati iniziarono a screditare me e mio marito,
le calunnie spuntavano come i funghi,
i libelli satirici ed osceni pullulavano
e mia madre non smetteva di rimproverarmi
nel suo periodico e severo epistolario.
Non sono mai riuscita a renderla orgogliosa né contenta di me.
Ad esaudimento di innumerevoli preghiere,
i figli, finalmente, arrivarono
e, con essi, una gioia infinita ed il completamento umano,
unitamente ad una maggiore maturità
ed alla ferma determinazione di conquistare,
una volta per tutte e per il bene della mia prole,
l’affetto e la devozione del popolo francese.
Non vi riuscii e, per quanto mi sforzassi, tutto ciò che facevo
dava sostanzioso nutrimento ai miei detrattori
ed era inesauribile fonte di critiche e di fraintendimenti.
In tanta desolazione, un raggio di sole mi scaldò l’anima:
il Conte di Fersen, i cui fascino e bellezza
lo circondavano come una luminosa ed iridescente aureola.
Di lui amavo tutto: la gentilezza dei modi, la bontà del cuore,
la lealtà del carattere, l’empatia e la capacità di consolarmi.
Frattanto, l’astio nei miei confronti cresceva a dismisura,
correva in ogni angolo del Regno e si autoalimentava
come una valanga che scivola sui pendii delle belle Alpi austriache.
Non so cosa avessi fatto a quella Madame de la Motte
né al mio popolo, per guadagnarmi tanta esecrazione e crudeltà.
Non fui certo io a svuotare le casse dello Stato,
ma anni di guerre sanguinose, in Europa ed oltre oceano!
Neppure capivo che colpa avessero i miei due piccoli angeli,
il Delfino e la povera Sofia,
per meritarsi la malattia e la morte prematura.
Se ne andarono nell’indifferenza generale,
lasciando il loro padre e me col cuore a pezzi,
distrutti dal dolore e tormentati dai rimorsi.
Senza volere essere sacrilega,
ebbi, allora, una chiara idea
della natura del dolore effigiato
sul volto della Madonna delle Sette Spade.
La situazione economica non migliorò
e, anzi, al deficit cronico, si aggiunsero anni di cattivi raccolti
e la demagogia degli agitatori di popolo.
Scoppiò la rivoluzione che ci travolse tutti,
ponendo fine ai nostri giorni.
In quei tragici e dolorosi frangenti,
fui ferita atrocemente da due tormentosi strali:
l’abbandono e la fuga all’estero di Madame de Polignac
ed il terribile ed inspiegabile tradimento di Madamigella Oscar
che morì sotto le mura della Bastiglia,
crivellata dai fucili, rinnegandoci tutti.
Se la viltà e l’opportunismo della prima
non mi stupirono oltre misura,
il voltafaccia della seconda mi annientò,
lasciandomi annichilita,
perché la famiglia Jarjayes era molto devota alla Corona
e, malgrado alcune strane alzate di ingegno di lei,
eravamo state sempre buone amiche,
salvandoci vicendevolmente in più occasioni.
Arrivarono i tristi giorni delle rivolte, delle stragi,
del tentativo di fuga, della proclamazione della repubblica,
della prigionia e del patibolo.
Uccisero mio marito, dopo averlo destituito e processato.
Mi strapparono dalle braccia le mie sventurate creature
che sottoposero a plagi e tormenti, al fine di colpirmi:
sentivo mio figlio, il mio innocente bambino,
recluso nel piano superiore della prigione,
cantare sguaiate canzoni repubblicane
e bestemmiare come un carrettiere.
Mi coprirono di ingiurie e di crudeltà,
di calunnie e di villanie,
perseguitando chiunque mi usasse un minimo di gentilezza.
La salute e la vivacità mi abbandonarono
e divenni, ben presto, una pallida ombra
della splendida e raggiante Arciduchessa
che, quasi venti anni prima, aveva abbandonato la sua patria,
piena di speranze e di curiosità
e determinata a rendere fiera la propria madre.
Canuta anzi tempo, dimagrita, tormentata dalle emorragie,
finii con l’essere un vuoto simulacro di me stessa,
una vecchia, una larva, un’anima fuggita dal regno dei morti,
un povero animale in attesa di essere macellato.
E’ proprio vero che, nei momenti di maggiore tribolazione,
il Signore, nella Sua infinita misericordia,
ci viene in aiuto con tutto il Suo amore
e scopriamo dentro di noi illimitate risorse
che neanche immaginavamo di possedere.
In quest’ultimo periodo della mia vita,
fui tutto ciò che non ero mai stata prima.
Non fui così tanto Regina e figlia di Maria Teresa
come quando mi trovai in gramaglie, ai piedi della ghigliottina.
Avevo recuperato la sintonia con mio marito, con la mia anima
e con la memoria di Madamigella Oscar.
Mentre, in tribunale, mi accusarono dei peggiori crimini
anche contro il sangue del mio sangue,
io mi mostrai a tutti dignitosa ed imperturbabile
e quando la plebaglia, sulla via del patibolo,
mi urlò insulti così osceni da non augurarsi al peggior nemico
e, men che meno, ad un moribondo,
io camminai serena e coraggiosa verso l’Eternità ed i miei Cari,
con la mesta, ma statuaria grandezza degli eroi tragici e dei martiri.







Ed ecco uno dei personaggi più importanti di questa raccolta di epitaffi: Maria Antonietta di Asburgo Lorena.
Di lei si è detto e si è scritto di tutto: chiacchierata dai suoi contemporanei perché straniera e stravagante, considerata una Messalina ed una Fredegonda dai rivoluzionari e quasi santificata durante la restaurazione che creò il mito della “Regina martire”, quasi mai un personaggio diede vita a tante letture. In genere, le figure storiche si cristallizzano nel loro ruolo (vero o immaginario, meritato o immeritato) e non ne fuoriescono, così che Napoleone, Giulio Cesare ed Alessandro Magno saranno sempre dei formidabili condottieri, Cleopatra una regina geniale, colta, ammaliatrice ed un poco opportunista, Colombo e Marco Polo dei grandi viaggiatori, Caligola e Nerone due squilibrati sanguinari, Churchill l’uomo della provvidenza, Garibaldi un romantico combattente un po’ naif e Cavour un geniale statista. Maria Antonietta, invece, curiosamente, stenta a trovare una sua collocazione, da viva come da morta. Il revisionismo storico l’ha, in parte, riabilitata e, in parte, privata dell’aureola di “Regina martire”.
Nel descriverla, mi sono rifatta soprattutto al personaggio storico, molto più sfaccettato e, a tratti, irriguardoso ed indisponente della ragazzina amabile e combina guai della storia di Lady Oscar.
Mi sono presa una licenza poetica, parlando della fuga all’estero della Polignac che, in realtà, fu sollecitata dagli stessi reali che vollero mettere in salvo alcuni parenti e cortigiani all’indomani della presa della Bastiglia e, al contempo, allontanare dal trono i personaggi più controversi e detestati dal popolo, come la Contessa di Polignac ed il Conte di Artois. Ho pensato che, pur essendo la fuga all’estero della Polignac sollecitata dagli stessi reali, Maria Antonietta non poté che confrontare il comportamento della Contessa con quello della Principessa di Lamballe e, inoltre, mi serviva una figura da giustapporre a quella di Oscar con cui, anche a metà ritratto, Maria Antonietta aveva fatto un parallelo.
Con questo epitaffio, termina il settore “Versailles”. La prossima settimana, inizierà il brevissimo settore “Testimoni” e si inizierà a ballare.
Grazie a tutti coloro che hanno commentato il personaggio precedente e grazie anche a tutti coloro che commenteranno la di lui regale consorte.

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Capitolo 43
*** Il Dottor Lassonne ***


Il Dottor Lassonne
 
Nacqui nella Francia prerivoluzionaria e fui l’Archiatra di Corte.
Molti nobili curai e, fra questi, ci furono teste coronate e ministri.
Tornavano tutti bambini davanti a me, timorosi per la propria salute,
come se io ne fossi stato addirittura l’arbitro anziché il semplice custode.
Due fra i miei pazienti mi colpirono profondamente per la loro indole
ed entrambi furono accomunati dallo stesso tratto inusuale:
l’apparente assenza di ogni più elementare istinto di conservazione.
La sopravvivenza e la salute non erano all’apice delle loro priorità.
Il primo, un uomo, fu ferito gravemente ad un occhio, duellando di notte
ed avrebbe potuto salvarlo, osservando un periodo di assoluto riposo.
Disattese i miei consigli e rimase cieco da un’iride ed ipovedente dall’altra
eppure non ne ricavò un’afflizione proporzionata all’entità del danno subito,
come se ci fossero stati altri crucci ben più gravi a tormentarlo.
Continuò a condurre uno stile di vita non adatto alla sua menomazione
e questa testardaggine gli fu fatale, portandolo, in breve tempo, alla tomba.
L’altra era una donna, la più singolare che avessi mai conosciuto,
per scelte di vita, temperamento, forza morale, intelligenza e lungimiranza,
doti che non la salvarono dal triste destino cui va incontro ogni nato.
Aveva dimostrato, negli anni, una straordinaria resistenza alle ferite,
uscendo indenne da imboscate ed attentati, quasi fosse immortale.
Ebbe un sorprendente tracollo, il vigore l’abbandonò all’improvviso
e contrasse la consunzione, come tanti contemporanei meno forti di lei.
Diceva di non voler morire, di avere molte cose da fare, impegni da onorare
eppure rifiutò l’unica possibilità di lenimento a lei offerta,
ostinandosi a lottare anziché rassegnarsi ad un’inattività fatta di pace.
Erano due esseri così enigmatici che, in vita, mai compresi se la loro condotta
fosse ascrivibile ad una grande resilienza o ad un estremo autolesionismo.
Ad entrambe le condizioni, probabilmente, seppure in diverse fasi delle loro vite.
Capii, da morto, che le loro personalità erano sostenute da una chiave di volta
che nessuno, in vita, individuò e che li rese impermeabili alle avversità.
Nella chiave di volta, lo spirito di conservazione e l’istinto di sopravvivenza.
Senza di essa, il crollo rovinoso dell’intero edificio, fino alle fondamenta.
La chiave di volta di lui era lei, senza cedimenti e senza esitazioni.
Quella di lei era la fiducia in se stessa, ostinata ed incrollabile, fiera e spietata,
terrificante ed indomabile di cui il padre fu l’artefice e lui l’alfiere.







Dopo i settori: “Gioventù”, “Rivoluzione”, “Scandalo della collana”, “Stragi e terrore”, “Soldati della Guardia Metropolitana” e “Versailles”, inizia, adesso, il brevissimo settore “Testimoni”.
Il protagonista di oggi, da buon testimone, non parlerà di sé, ma dell’idea che aveva di altri personaggi, formatasi grazie al rapporto professionale.
Ringrazio chi ha commentato il personaggio precedente e chi dedicherà il proprio tempo a quello odierno.

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Capitolo 44
*** Il Pittore ***


Il Pittore
 
Nacqui nella Francia del diciottesimo secolo,
appartenni alla media borghesia e fui pittore.
Numerosi quadri dipinsi
nel corso della mia lunga e fortunata carriera,
per lo più nature morte, paesaggi agresti,
scorci arcadici e ritratti patrizi,
tutti impregnati di manierismo,
secondo il gusto dell’epoca e dei committenti.
Uno solo di essi, però, fu il mio capolavoro,
il migliore fra quelli da me dipinti,
unico nel suo genere e molto lontano
dall’indulgere nei clichés imperanti.
Diversamente non sarebbe potuto essere,
data la singolarità del soggetto.
Catturare il blu del cielo
ed imprigionarlo nelle iridi di un volto diafano;
afferrare i raggi del sole ed indurli a brillare
nel biondo di una chioma fluente;
impossessarsi del lucore dell’aurora
e del candore argenteo delle perle
e fissarli nella tela affinché scherzassero
in un sorriso che non era gioioso;
sublimare i segni della malattia
e l’ombra incombente della morte,
dando vita ad un’immagine ultraterrena
che fermasse il tempo, sconfiggendolo:
non furono queste le maggiori difficoltà
dell’incarico che mi ero assunto.
Decifrare l’essenza della modella,
far sì che l’anima di lei parlasse alla mia
e coglierne la mirabile sintesi di opposti,
quella, sì, fu la vera sfida.
Principi maschili e femminili,
in lei, si conciliavano e si combattevano.
L’ardore e la potenza di Marte si univano
alla razionalità della mente di Minerva.
Un’algida e signorile figura
faceva da involucro ad un ardente spirito ribelle.
Nella generosità di un’anima nobile,
si dibatteva l’egoismo di un cuore tormentato.
Nonostante la soavità
di uno sguardo limpido come l’acqua,
il desiderio della battaglia bruciava dentro di lei
come un fuoco incontenibile.
La vidi, per la prima volta,
durante la visita a Parigi della Delfina,
ma fu lei – e non la Principessa –
ad attirare la mia attenzione,
col bianco scintillante della sua divisa,
naturale estensione del candido incarnato
e la fierezza di un’esile figura
che sprigionava potenza ed inquietudine.
Il Generale, molto soddisfatto,
per non dire entusiasta, del mio lavoro,
affermava che ero perfettamente riuscito
a cogliere le due anime della figlia;
la vecchia governante ammirava
e quel servitore era addirittura estasiato
mentre lei, la musa ispiratrice,
serbava il silenzio, avvolta nel suo mistero,
imperscrutabile al pari di un oracolo
ed enigmatica come una sfinge.
Morì di lì a poco, Madamigella Oscar,
vinta dal tormento che le divorava l’anima,
così come le rose sfioriscono
dopo avere raggiunto l’apice della loro bellezza.
Il mio dipinto, invece, sfidò la rivoluzione,
resistette al trascorrere del tempo
ed ammaliò Napoleone che lo scelse
quale fonte di ispirazione del suo celebre ritratto.
Il pittore imperiale provò ad eguagliarne
la forza e lo spirito eppure non vi riuscì.
Eterne nei secoli rifulsero la bellezza, la grazia
e la forza dell’Amazzone di Francia.







Siamo giunti al ritratto (in ambo i sensi) del pittore che fa una descrizione di Oscar filtrata dall’animo di un artista.
Mi dispiace, ma, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare, sono costretta ad interrompere qui la galleria dei ritratti di “Scorre la Senna, scorre lenta” che, quindi, non potrà avere conclusione. Il motivo principale che mi spinge a desistere è…. ci siete caduti eh? Pensate che sadismo se vi avessi lasciati tutti ad un passo dalla fine!
In verità, lo scorso mercoledì, non avrei voluto pubblicare il ritratto del Dottor Lassonne e mi risolsi a farlo soltanto intorno alle 23.00, per non interrompere il ritmo della pubblicazione, tanto il pezzo – come tutti gli altri – era già pronto. Non era giornata, non è periodo, ma la buona accoglienza del capitolo mi ha resa felice, per cui ringrazio tutti i commentatori di quel ritratto ed anche di quello odierno.
Con la figura del pittore, termina anche il brevissimo settore “Testimoni”. La prossima volta, inizierà il settore “de Jarjayes” e, oltre a dover ballare, ci saranno anche i fuochi d’artificio. Buona lettura!

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Capitolo 45
*** Marie Grandier ***


Marie Grandier
 
Nacqui da una modesta famiglia contadina,
battezzata Marie, soprannominata Marron Glacé
neanche ricordo da quale buontempone,
nomignolo ridicolo e non adatto al mio carattere.
Mia madre morì che ero molto piccola
nemmeno più me la ricordo
ed io imparai molto presto a governare la casa,
a lavorare nei campi, a badare agli animali
ed a farmi obbedire dai miei fratelli
e persino da mio padre.
Crebbi due fratelli e due sorelle minori.
Nessuno di loro arrivò ai vent’anni:
i maschi morirono in guerra, le femmine di tifo.
Ero una bambina laboriosa, decisa, di buon senso
ed anche molto devota.
La sorella del Parroco mi prese in simpatia
e mi chiese di andare a trovarla, quando potevo.
Mi insegnò a parlare in francese corretto,
a leggere, a scrivere, a far di conto
e le belle maniere per trattare coi Signori.
Quando ero libera, aiutavo le fantesche del Parroco
e, così, poco prima dei trent’anni,
misi insieme la dote e mi sposai.
Ebbi un unico figlio, alto e ben piantato
che aveva quindici anni quando il padre morì.
Siccome una vedova ed un orfano non se la passano bene
e, a quarantacinque anni, rendevo meno nei campi,
lasciai mio figlio ad occuparsi della campagna
e, grazie all’anziana sorella del Parroco,
trovai un posto di governante nel palazzo di un Conte,
mettendo a frutto gli insegnamenti della mia benefattrice.
Ne succedevano di cose strane in quel palazzo!
Il Conte – Generale non era cattivo, ma balzano
e sua moglie non si intrometteva e lo lasciava fare.
Circa dieci anni dopo il mio arrivo in quella casa,
successe la stranezza più grande di tutte:
l’ultima figliola del Conte, una bellissima bambina,
con i capelli biondi, gli occhi azzurri e le guance rosa,
fu battezzata Oscar e destinata ad un’educazione militare.
Ci sarà stato pure un motivo se il buon Dio,
nella Sua infinita saggezza,
aveva inviato soltanto bambine!
Come si fa a disobbedire al Suo volere
ed a sperare, poi, di ricevere il Suo aiuto?
Ad una bambina non si addice un’educazione maschile,
finisce che disprezza le cose da femmina, non entra in società,
nessuno se la sposa e, poi, quando rimane sola, come fa?
E se qualche sporcaccione la fa oggetto delle sue attenzioni?
Ma i dolori, per me, non erano finiti
(troppi deve riceverne chi arriva a tarda età!):
il mio povero figlio morì di polmonite,
insieme a sua moglie, una così cara creatura!
Rimasi sola ad occuparmi di mio nipote André,
un bambino sensibile ed indifeso, tanto diverso da me.
Compresi subito che avrei dovuto proteggerlo da tutto.
Il Generale, per fortuna, lo accolse con favore,
decidendo di farne il compagno di allenamenti,
di studi, di equitazione e di giochi di sua figlia
(non aveva abbandonato il folle progetto!)
e, così, crebbero insieme, loro due, purtroppo.
Si, purtroppo.
Perché ad una nobile non si addice la compagnia maschile,
soprattutto se è quella sbagliata,
come per un popolano non va bene l’educazione da nobile.
Finisce che gli vengono i grilli per la testa
e che tutto ciò che è alla sua portata gli sembra brutto.
Cosa se ne faceva André del latino, della storia,
della geografia, dell’equitazione, della danza?
A cosa gli serviva tirare di scherma e maneggiare le pistole?
A morire in guerra, come i miei fratelli?
Sì, perché i popolani muoiono in guerra
e non ci fanno fortuna.
Gli sarebbe bastato conoscere quel tanto che occorre
per superare in cultura gli altri servitori
e diventare, un giorno, maggiordomo,
rispettato nella casa e con una buona paga.
Il Generale aveva progettato tutto,
ma, poi, aveva messo insieme la paglia col fuoco
e si sa, in questi casi, come va a finire!
Gliene vennero di grilli per la testa ad André!
Io me ne accorsi subito, ma non ero ascoltata né obbedita.
Il Generale si era affezionato al mio ragazzo
che, se fosse stato un po’ più furbo, si sarebbe sistemato,
ma lui no, preferiva poltrire, sgraffignare le mele,
scherzare, fare lo spavaldo e sognare l’impossibile.
Era geloso del Conte di Fersen, del Tenente Girodel,
della Delfina Maria Antonietta
e di tutti coloro cui Madamigella si dedicava.
Eppure era un così bravo ragazzo, buono e generoso,
ma troppo debole e troppo sognatore.
Stava quasi per affrontare il boia, una volta,
per non aver fermato il cavallo della Principessa….
Cosa gli avrebbero fatto, se solo avessero saputo?
Povero André, perse un occhio e finì col bere.
Chi non sta coi piedi per terra e non usa il buon senso
passa le notti in compagnia della bottiglia.
Ce ne erano tanti al mio paese,
tutti che lamentavano la crudeltà della vita,
come se questa facesse doni o belle promesse!
Ridursi così per un amore impossibile….
E cosa avrebbe fatto se gli fosse morto un figlio?
Non fui capace di aiutarlo né di correggerlo,
era come se fossimo vissuti in due mondi diversi.
Ebbi una stretta al cuore, quella sera,
quando i miei due bambini lasciarono il palazzo,
come se non avessi dovuto rivederli più
eppure io non ho mai creduto ai presagi,
sono sempre stata una donna solida, campagnola….
Poi, arrivarono quei soldati, stanchi, laceri,
sporchi e con la morte negli occhi.
E la morte annunciarono, lasciando a noi la disperazione.
Colpa di un mondo impazzito, caduto in frantumi,
dove più nessuno stava al suo posto e temeva Dio.
Sopravvissi a tutti i miei cari, ultima della mia famiglia,
destinata alla solitudine ed ai rimpianti.
Ero una roccia, facevo tutto da sola,
ma, quando, finalmente, chiusi per sempre gli occhi,
due volti avrei voluto vedere al mio capezzale.
I volti di due persone che, invece, mi avevano preceduta.
Non è normale né giusto né misericordioso né compassionevole
che i giovani scendano nella tomba prima dei vecchi.
E’ il castigo dei folli e di chi non ha saputo amarli,
proteggerli, indirizzarli ed educarli nel giusto modo.






E, così, dopo i settori:  “Gioventù”, “Rivoluzione”, “Scandalo della collana”, “Stragi e terrore”, “Soldati della Guardia Metropolitana”, “Versailles” e “Testimoni”, inizia il settore “de Jarjayes”, comprensivo non soltanto della famiglia in senso stretto, ma anche dei servitori.
Ad inaugurarlo è la nonna di André, la vecchietta più bisbetica e combattiva del reame. Aveva, sicuramente, delle buone ragioni per essere così ed io ho cercato di illustrarle, inventandomi anche una biografia del personaggio.
Rispetto alle altre figure, a questa ho attribuito un linguaggio meno ricercato e più semplice ed immediato, ma anche maggiore buon senso. Chi sa cosa avrebbe fatto la vecchia Marie se Fersen fosse stato suo nipote e se lo avesse sentito parlare di lenta e triste agonia. Probabilmente, gli avrebbe fracassato il mestolo in testa! :-D
Spero di essere riuscita a ricostruire il buon cuore ed il caratterino di questo personaggio che sembra, a volte, un po’ buffo e svagato, ma che, secondo me, in quella casa, aveva capito tutto meglio e prima degli altri. Quando si recò in caserma a portare la biancheria pulita ad André e gli annunciò il possibile fidanzamento di Oscar, infatti, lo guardò un po’ afflitta e preoccupata.
Grazie a chi ha commentato il pittore – che è proprio piaciuto! – e grazie anche a chi commenterà la nonna di André.
Buona lettura a tutti!

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Capitolo 46
*** Madame de Jarjayes ***


Madame de Jarjayes
 
Nacqui in un’epoca tranquilla e timorata di Dio,
in un antico e turrito castello,
adagiato sulla campagna della provincia francese,
accanto ad un limpido e placido lago,
da un’antica, nobile ed ossequiata famiglia
che, immune alle lusinghe del Re Sole,
non aveva abbandonato la cura delle proprie terre
per lo sfavillante sfarzo di Versailles.
Il mondo della mia infanzia si modificò, vacillò,
andò in frantumi e si ricostituì nell’arco di una sola vita.
Avendo raggiunto l’età da marito
e non essendoci, nei luoghi circostanti,
pretendenti con cui contrarre una conveniente unione,
la mia famiglia mi condusse, sedicenne, a Versailles.
Là conobbi il Capitano delle Guardie Reali,
splendido, nella sua candida uniforme
e nel bagliore vigoroso dei suoi vent’anni.
Il contratto di matrimonio fu prontamente stipulato,
la dote e la controdote fissate e la cerimonia celebrata.
La vita in comune evidenziò le differenti inclinazioni:
lui, volitivo e temprato dalla vita militare, disponeva;
io, accomodante ed educata in un convento, annuivo.
Ciò, inizialmente, agevolò la nostra armonia,
ma le contrarietà non tardarono ad arrivare
disunitamente dalla nascita dell’agognato erede.
Ogni nuova figlia lo gettava nella prostrazione
eppure mai cessò di trattarmi con garbo e cortesia.
Io, dal mio canto, divenivo sempre più malinconica
perché incapace di renderlo felice,
com’è sacro dovere di ogni sposa devota.
Fu così che, nata la nostra sesta creatura,
egli prese la malaugurata decisione
che attirò sui nostri capi la collera e l’esecrazione divina.
Non fui in grado di evitare quell’abominio,
perché la mia salute andava declinando,
il mio carattere era sempre più illanguidito
ed il sentimento di inadeguatezza mai mi abbandonava.
Avrei dovuto, invece, adoperarmi con fermezza e decisione
per porre fine alla follia di entrambi.
Sì, di entrambi.
Perché, se il mio sposo ebbe la malsana idea,
mia figlia, di certo, non la contrastò,
ma la accolse, anzi, con estremo entusiasmo.
Chi mai avrebbe potuto costringerla
a restare venti anni nell’esercito
o ad ascendere rapidamente nella gerarchia militare,
affrontando le imprese più rischiose
e coprendosi di gloria sempre crescente?
Volevo bene alla mia Oscar, così orgogliosa e taciturna,
ma mai riuscii ad esserle vicina come avrei dovuto.
Ella era così diversa da me e dalle altre mie figlie
né il calore e le manifestazioni di affetto
facevano parte dell’educazione di una nobildonna.
La mancanza di una dedizione reciproca, concreta e fattiva,
dovuta alla necessaria osservanza di una rigida etichetta
ed all’intermediazione di numerosissimi servitori,
non agevolava la vicinanza dei membri di una famiglia.
Per mio marito, Oscar era fonte di crescente orgoglio;
per me, di preoccupazione e di qualche disagio,
allorché ero testimone delle esternazioni di lei
o quando udivo, a corte, i maligni commenti,
livorosi ed insinuanti, di alcuni cortigiani.
Le nostre esistenze si allontanarono progressivamente
e questo ci consentì di conservare i reciproci equilibri:
mio marito era spesso in missione col suo reggimento
mentre io divenni dama di compagnia della Delfina
che mi volle con sé per fare dispetto a Madame du Barry,
più che per il desiderio ed il piacere della mia presenza,
essendo le principesche simpatie rivolte
a persone più giovani e brillanti di me.
Tuttavia, mi trattò sempre con rispetto e gentilezza,
in omaggio a mia figlia e per delicatezza interiore.
L’arrivo di Madame de Polignac fu l’origine di ulteriori disagi,
a causa dell’acerrimo contrasto insorto con Oscar,
ma la Regina fu estremamente ben disposta
e mai ci fece mancare la sua protezione.
Nonostante tutto, mi sentivo più a mio agio nella Reggia
che fra le pareti di Palazzo Jarjayes.
Morì giovane la mia ribelle e solitaria figlia
ed in accadimenti dolorosi e di difficile comprensione.
Allorché ella non fu più, fui sommersa dai rimpianti,
per la distanza mai colmata,
per le parole mai pronunciate,
per i tentativi mai esperiti.
Ricordai di quando fu ferita ed io rimasi alla Reggia
e degli sguardi che mi rivolgeva, carichi di un tacito amore,
che io, emotivamente trattenuta, non riuscivo a manifestarle.
Perché era affettuosa la mia Oscar e buona e giusta e protettiva
e mai avrebbe permesso che qualcuno mi facesse del male.
Senza di lei, tutto divenne più insicuro
e, anche a seguito della restaurazione del Re,
sempre conservai il segreto timore dei servitori,
dei vetturini di piazza, dei commessi, dei contadini
che avrebbero potuto sgozzarmi con ferocia,
se fosse scoppiata una seconda rivoluzione.
Sul finire della mia lunga e travagliata esistenza,
alle prese con i bilanci di chi sa di essere alla fine,
infinite volte, mi domandai:
I miei silenzi, la mia remissività, le mie assenze
dipesero dal sesso, dall’educazione, dal carattere,
dalla salute, dal senso di colpa, dal timor di Dio,
in poche parole, dai tempi in cui mi fu dato vivere
o furono, invece, il risultato, abilmente camuffato,
di anelito al quieto vivere, di ignavia e di ipocrisia?







Siamo proprio agli sgoccioli, i personaggi rimasti sono, ormai, pochissimi ed oggi è la volta di Madame de Jarjayes.
Come per la nonna di André, mi sono inventata una parziale biografia che facesse da prequel e, in questo caso, anche da sequel del cartone animato, al fine di dare maggiore spessore ad una figura altrimenti evanescente.
Una cosa che mi ha sempre stupito della madre di Oscar è l’atteggiamento dimesso ed austero, in contrasto con quello brillante, disinvolto e vivace delle gran dame di quell’epoca. Di sicuro, gli autori avevano in mente la nobile nipponica, taciturna e meditativa, ma, col mio personaggio, questa ricostruzione non andava bene. Ho immaginato, pertanto, che Madame de Jarjayes fosse una nobile proveniente da una famiglia importante ed all’altezza di quella del Generale, ma di provincia. Le nobildonne di provincia, essendo lontane dai fasti della corte e della capitale, saranno state sicuramente più austere delle altre.
Il punto più controverso di questo personaggio è, però, il rapporto fra madre e figlia.
Il cartone animato non evidenzia tale rapporto, se non dal lato di Oscar che è estremamente protettiva con la madre, in una sorta di ribaltamento dei ruoli. Madame de Jarjayes compare nelle prime puntate e, poi, sparisce.
Alcune fanfiction – probabilmente, per il desiderio di compensare l’eccentricità del Generale e di offrire ad Oscar un contrappeso consolatorio – fanno di lei una madre amorevole e premurosa. La realtà è che Oscar fu ridotta in fin di vita almeno due volte – per l’incidente equestre della Delfina e per l’imboscata tesa dagli sgherri della Polignac – e tornò a casa malridotta per il pestaggio di Saint Antoine e che, in tutti questi frangenti, la madre brillava per la sua assenza. Capisco il poco spazio a disposizione, ma cosa sarebbe costato disegnarla accanto al marito e farle dire due parole? Tutte le volte che Oscar è ferita, il Generale si precipita al capezzale di lei mentre della madre non c’è traccia. In realtà, l’unico genitore affettuoso e presente – seppure in modo sui generis – sembra essere il Generale. In occasione dell’incidente equestre, Maria Antonietta se la cavò con qualche graffio mentre Oscar rischiò la vita. Non credo che la Delfina, cui non facevano difetto le dame di compagnia, avrebbe avuto qualcosa da obiettare se Madame de Jarjayes, invece di restare con lei, fosse accorsa al capezzale della figlia che era anche la migliore amica di lei.
Ho, pertanto, cercato di dare un senso alla strana assenza di questo personaggio – forse, dovuta ad una distrazione degli sceneggiatori, ma, certamente, non ad un decesso che avrebbe indotto il Generale, fissato con la procreazione di un erede, a contrarre un secondo matrimonio – imputandola al disagio, al fallimento, al sentirsi di troppo, ma anche ad un egoistico desiderio di quieto di vivere e ad un impulso di evasione da una realtà fastidiosa e imbarazzante. Se si fosse trattato soltanto di sentirsi in difetto o di troppo, non si sarebbe spiegata l’assenza dal capezzale della figlia moribonda. L’assenza della figura materna, fra l’altro, è una delle concause della grande durezza e del precoce senso di responsabilità di Oscar.  
Poi, magari, sono tutte speculazioni e Madame de Jarjayes non si faceva vedere soltanto per la presenza a palazzo di Rosalie che l’aveva terrorizzata col tentativo di accoltellarla. :-D
Come al solito, grazie a chi ha commentato il personaggio precedente e grazie anche a chi commenterà quello odierno.

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Capitolo 47
*** Il Generale de Jarjayes ***


Il Generale de Jarjayes
 
Nacqui da un’antichissima e nobilissima Casata,
da sempre fedele alla Corona di Francia
e alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Schiatta di guerrieri indomiti e arditi,
non tardammo a coprirci di gloria
e ad essere insigniti di una Contea
e di numerosissimi altri titoli e onorificenze.
Terre, palazzi, castelli e, sopra ogni cosa,
l’incondizionata fiducia e l’infinita benevolenza
di Sua Cristianissima Maestà, il Re di Francia e di Navarra.
Educato in questi altissimi valori
e nella venerazione dei prodi antenati,
mai venni meno al mio onore e ai doveri del mio stato.
Una sola cosa il destino volle negami,
dopo essere stato tanto munifico con me:
un figlio, un erede, colui che, succedendomi,
si sarebbe distinto nei campi di battaglia
e avrebbe perpetuato, all’infinito, la nostra gloria.
Non potevo permettere a una sorte distratta
di porre fine a ciò che non era merito di lei,
ma di secoli di abnegazione e di ardimento
e, all’ultimo diniego, le forzai la mano.
La mia sesta figlia, l’ennesima femmina,
la trasformai d’imperio nel mio erede maschio,
ulteriore anello di una catena
che mai avrebbe dovuto interrompersi.
Non sbagliai valutazione: Oscar era l’erede agognato.
Fiera, indomita, nobilissima, incorruttibile,
abilissima spadaccina e perfetta cavallerizza,
servì la Corona e onorò il Casato
molto meglio di quanto feci io.
La vita che, secondo gli altri, io le avevo imposto,
le calzava, in realtà, come un guanto
e mai ella avrebbe voluto cambiarla con qualsiasi altra.
E, infatti, quando, in età avanzata,
tormentato dai dubbi e dai rimorsi,
volli proporle di tornare sui suoi passi
e di scegliersi un marito,
lei rifiutò, in modo sgarbato e plateale.
Compresi, allora, che non sempre la mossa più abile
è anche quella più saggia e lungimirante.
Cosa fatta capo ha.
Quale uomo, del resto, avrebbe potuto amarla,
capirla, onorarla, sopportarla, se non André
la cui devozione e il cui affetto sconfinavano nell’esaltazione?
Avrei caldeggiato una tale unione, ma egli non era nobile
e mai avrebbe potuto colmare l’abisso che li separava.
Quei ragionamenti sul rango difettavano di concretezza,
avevano la bellezza di una poesia e lo spessore di un sogno.
Il destino mi ha sempre posto innanzi realtà incomplete,
ma ha una caratteristica ben precisa: vince sempre
e, quando vince, non lo fa di misura
e, soprattutto, non prende prigionieri.
La mia ὕβϱις fu punita insieme a quella di mia figlia.
Più volte, durante gli incerti anni dell’emigrazione
e, più tardi, nell’estrema vecchiezza, quando,
recuperati Patria, titoli, terre, palazzi e castelli,
ebbi la gioia, prima di chiudere gli occhi,
di vedere la restaurazione del giglio dei Borboni,
più volte, mi chiesi:
Perché?
Perché non è dato rimediare ai propri errori
e avere una seconda possibilità?
Perché il Signore, nella sua infinita misericordia,
consente che i figli premuoiano ai genitori?
Perché mia figlia volle finire i suoi giorni
sotto le mura della Bastiglia,
coprendosi di disonore e di ignominia,
gettando alle ortiche anni di gloria e di fedeltà?
Cosa pensava di ottenere, lontana dalle sue radici
e dal baluardo dei suoi nobili natali,
in un mondo a lei ignoto e ostile,
ove qualunque spudorato villanzone
avrebbe potuto lapidarla con la sua insolenza,
a cagione della di lei diversità?
Ma, soprattutto, quando i ricordi mi assalivano,
più agguerriti dei mercenari che assediano una fortezza,
nelle notti insonni che accompagnano il triste epilogo dei vecchi,
io mi domandavo:
Se anche non fui un tiranno, un despota o un folle,
come i miei conoscenti insinuavano, sogghignando,
facendo a mia figlia magnifico, ma velenoso dono
di una libertà, di un’indipendenza e di un ruolo prestigioso
impossibili da lasciare andare una volta sperimentati,
ma il cui maligno prezzo era l’esclusione dal consesso sociale;
agevolandone la corsa a perdifiato verso una leggiadra follia
e rendendone irrealistico il ritorno ad una menomata normalità,
non mi comportai, forse, da serpente tentatore?







Dopo Madame de Jarjayes, è, oggi, la volta del di lei consorte, il Generale.
Questo personaggio, oltre a essere molto presente nella storia, rispetto al precedente, è anche meglio delineato dagli sceneggiatori e non si è reso, perciò, necessario lavorare troppo di fantasia con la biografia e con la visione che aveva della vita.
Ho voluto ricostruire il particolare rapporto con la figlia che, a detta del Generale de Bouillé, assomigliava molto al padre sia fisicamente sia caratterialmente.
Grazie a chi ha commentato Madame de Jarjayes e grazie anche a chi commenterà il Generale.
Infine, auguro buona Pasqua a tutti.

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Capitolo 48
*** André Grandier ***


André Grandier
 
Nacqui in un paesino sperduto nella campagna francese,
da una famiglia umile, ma unita e di sani principi.
A quei tempi, la gente laboriosa e assennata, seppur modesta,
riusciva ancora a guadagnarsi il cibo, le vesti e lo stretto necessario.
Si lavorava duramente, ma si sopravviveva.
Ero un bambino allegro, affettuoso, attento, curioso.
Conservo il ricordo del tavolo da cucina
con sopra i cestini, colmi di noci, di funghi,
di patate, di fragole,
secondo ciò che la stagione offriva
e dell’odore di menta, di timo,
di frutti di bosco e di finocchio selvatico
che si sprigionava dai pentoloni e si diffondeva negli ambienti.
Ricordo le passeggiate in compagnia dei miei genitori,
nei sentieri fuori dal paese,
costeggiati da rovi e da boscaglia,
da cui spuntavano bacche rosse e more.
Ricordo il noce alla destra della casa
e la grande quercia vicino alla Chiesa.
Durò poco.
Arrivò un inverno molto freddo
e i miei genitori caddero ammalati.
Resero l’anima a Dio a pochi giorni l’uno dall’altra.
Non conservo il ricordo dei loro volti,
ma soltanto dei loro sorrisi.
Fu un dolore immenso per la mia piccola anima.
Padrone del solo vestito che avevo indosso,
mia nonna, che conoscevo appena,
mi portò in un enorme palazzo,
molto lontano dal mio paese che mai più rividi.
Vi abitava una strana famiglia,
molto antica e importante, come diceva mia nonna,
i cui componenti erano vestiti con abiti sfarzosi e ingombranti.
Nella famiglia, c’era una singolare bambina,
bionda come il grano, ma vestita da ragazzo.
Non compresi, all’inizio, che si trattava di una femmina
e, per la verità, allora, neppure lei lo sapeva con certezza.
Volli subito bene alla mia Oscar,
così generosa e impulsiva,
intraprendente e spericolata,
già conscia delle enormi aspettative riposte su di lei
e delle  responsabilità connesse alla nascita in un nobile Casato.
Lei salvò me dal gorgo che mi stava risucchiando
ed io, più di una volta, la salvai da lei stessa.
Era spesso brusca e altera, la mia Oscar,
ma mi voleva bene e mi trattava da suo pari.
Mi donarono una spada, un cavallo, dei vestiti da nobile,
un’istruzione e un’educazione da gentiluomo.
Nobile in tutto, fuorché nei natali,
affiancavo una donna che viveva da uomo.
Non condividevo questa scelta e glielo dissi,
ma, sul punto, era molto irrazionale.
Credo di esserne stato innamorato da sempre.
Finita l’infanzia, altre persone si intromisero
e il nostro rapporto non fu più esclusivo.
Le nostre esistenze ebbero evoluzioni diverse:
lei a capo delle Guardie Reali ed io un attendente.
Sei come uno che ha una mano a poker
e che si lamenta di non avere una scala reale”,
mi diceva spesso il mio amico Alain.
Sei solo un servo, mantieni le distanze!”,
mi gridava severamente mia nonna
e, poi, cambiava bruscamente discorso
oppure aggiungeva:
Chi vuole la luna non avrà mai la terra”.
E figurarsi, io volevo il sole,
il mio bel sole di cui ero l’inseparabile ombra.
Se avessi voluto veramente una famiglia,
una moglie, dei figli,
avrei impegnato tutto me stesso per ottenerli,
con la cocciutaggine che mi aveva sempre contraddistinto,
ponendo fine, per tempo, a un sogno impossibile,
ma perché rinunciare a ciò che è bello,
per una realtà precaria e infida,
per un’esistenza che non fa promesse,
per una vita “vera” che, da un giorno all’altro,
può rivoltarcisi contro e scaraventarci a terra,
disarcionati e con le ossa rotte?
Quale moglie, nobile o popolana, sarebbe stata,
per me, un adeguato completamento?
Troppo diverso ero dagli aristocratici e dai plebei.
Soltanto lei con me s’intrecciava, ma non potevo averla,
non potevamo stare insieme.
Non era Fersen il vero problema….
Avrei potuto laurearmi e intraprendere una professione
e, tuttavia, nessuna posizione sarebbe stata così elevata
da rendermi degno di lei.
Oltretutto, non sono mai stato l’uomo delle grandi scelte,
o delle svolte improvvise: quelle le lasciavo a lei
né l’eroe dalle azioni eclatanti, se non quando occorreva salvarla.
In fin dei conti, non mi era mai pesata la condizione di servo:
dovevo seguire colei che amavo, aiutarla e ammirarla.
Quant’era bella la mia Oscar, con gli occhi azzurri
e i capelli biondi, scarmigliati al vento,
quando galoppava in sella al suo cavallo bianco!
Quanta armonia, se scorreva le dita sui tasti del clavicembalo
o quando faceva vibrare le corde del violino!
Come era nobile e fiera quando comandava la Guardia Reale!
Quanto mi apparve sublime e inarrivabile,
divinità inclita e benevola,
quando sfidò la collera del Re per salvarmi dalla morte!
Per lei avrei dato entrambi gli occhi, le mani, la testa,
non il mio cuore, perché già lo aveva.
La feci soffrire, invece, una sera, con un gesto sconsiderato,
figlio di un brusco congedo che ruppe gli argini
dell’energia sessuale e dell’aggressività
che, sublimate, per anni, nella cura di lei
si ritrovarono, improvvisamente, prive di meta e di controllo.
Il rimorso, da allora, mai più mi abbandonò.
Ne scaturì un oceano di silenzi e di solitudine,
una distesa di ghiaccio per lei e fiumi di vino per me.
Tutto si compose, col tempo
eppure un’ombra di sottile e strisciante disagio mai si dileguò.
Se ella avesse ricambiato i miei sentimenti,
sarei stato così reprobo e incosciente
da sottrarla a una nobile condizione,
in cambio della mia miseria?
Il cuore è generoso, ma la passione è egoista.
Se il Re ama una donna,
a chi deve chiedere il permesso per sposarla?
Io, però, non ero il Re.
Avrei avuto il coraggio di uscire dall’ombra
e di costruirmi una vita vera, affrancata dai miei sogni,
a dispetto delle mie condizioni sociali, economiche e di salute?
Avrei potuto infliggerle, per appagare il mio cuore,
quelle menomazioni di censo e di rango
che avevano fatto di me un umile servitore?
Per la mia bellissima Oscar, splendida amazzone,
nobile Comandante delle Guardie Reali,
i panni di Madame Grandier sarebbero stati stretti e inadeguati….
Alla fine, mi ricambiò, la mia Oscar e quasi non ci credevo
e mi domandai il perché e come avessi potuto permetterglielo.
Avvenne tutto all’improvviso, una parentesi creata dal caso,
in un bosco vicino al fiume, avvolto dalle lucciole e dalle stelle,
un’atmosfera onirica, sospesa nel tempo e lontana da ogni cosa,
dal vortice che stava risucchiando la storia,
dalla vacuità del mio sguardo cieco e dal mistero celato da Oscar,
giacché, negli ultimi tempi, c’era qualcosa di lei che mi sfuggiva.
Una chiesetta ad Arras, una cerimonia semplice,
nessuno dei due ci credette veramente fino in fondo
e, infatti, durò lo spazio di un giorno e, poi, tutto ebbe fine.
L’eco di uno sparo, urla disperate, una corsa a perdifiato,
un letto in mezzo a una piazza, una struggente e vana promessa,
la muta disperazione per l’accanirsi di un destino ingiusto e beffardo,
il volto appannato di Oscar impresso nell’iride come ultima immagine terrena.
Il resto fu librarsi nell’aria, allontanarsi dal mondo, ascendere al Cielo,
diventare un tutt’uno con le stelle e risplendere di pace.







E’ arrivato il turno di André, personaggio molto rimaneggiato, bistrattato dal fumetto e nobilitato dal cartone animato, nel corso del quale, però, avrà detto due parole, ragion per cui, in una sorta di legge del contrappasso e di compensazione, l’ho fatto parlare a lungo qui.
Ciò che colpisce di lui è la radicalità di una scelta di vita che lo indusse a dimenticare se stesso e a donarsi interamente a un’altra persona, senza avere la minima possibilità di successo, perché il destino cinico e baro non fu quello che lo fece morire ventiquattr’ore dopo la dichiarazione di Oscar, ma quello che, molti anni prima, unì i cammini di questi numeri primi. André è uno dei personaggi più sfruttati delle fanfiction, perché ben si presta: è empatico, generoso, tormentato, fedele, leale, affidabile, si strugge d’amore, ma, al dunque, sa tirare fuori coraggio e determinazione e, soprattutto, è sfortunato come ogni eroe tragico che si rispetti. Ecce par Deo dignum: vir fortis cum fortuna mala compositus. Tutto ciò fa di André l’eroe tragico per eccellenza, ma entrare nella testa di lui e comprendere la ragione di certe scelte auto annientanti e prive di un appagamento a breve o a lungo termine è stata un’impresa estremamente ardua. Il ritratto di André è stato il più difficile di questa galleria.
Ho ricostruito una piccola biografia che fungesse da prequel all’arrivo di lui a Palazzo Jarjayes che, poi, non sarà stata molto diversa dall’originale. Ho cercato di indagare il profondo legame con i genitori e il senso di sicurezza infuso dalla loro presenza, scandito dalle cose semplici e simbolizzato dal noce e dalla quercia. I genitori, però, morirono presto e ciò lacerò l’anima di un bambino sensibile, estirpato dal suo mondo e trapiantato sulla Luna da una nonna appena conosciuta. Ne seguì un senso di estraniazione e di precarietà della vita e un forte legame con Oscar con la quale condivise un destino da diverso. Il dramma di André fu quello di vivere in un eterno limbo: non nobile né popolano e disincentivato dal formarsi una famiglia dalla perdita precoce di quella d’origine e dalla consapevolezza che l’unica persona in cui si poteva rispecchiare era, per lui, irraggiungibile. Ho voluto anche evidenziare il tormento del personaggio, perennemente oscillante fra l’amore per Oscar e la consapevolezza di non avere alcunché da offrirle. Oscar andava protetta dai nemici, ma anche dalle conseguenze negative di un’unione che l’avrebbe privata di tutto: la classica mésalliance. Come avrebbe potuto André – che, sin dall’infanzia, si misurava con l’inferiorità socio economica – infliggere una pari menomazione alla persona che più amava al mondo? Ma come fare a rinunciarvi?
Come sempre, grazie a chi ha commentato il Generale e grazie a chi commenterà André.
 

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Capitolo 49
*** Oscar François de Jarjayes ***


Oscar François de Jarjayes
 
Nacqui donna per volere del destino,
fui cresciuta come un uomo per necessità del mio Casato.
Dovetti scegliere fra una vita normale, monotona e senza gloria
e un’esistenza libera e avventurosa, ai limiti della follia.
Il dilemma fu presto sciolto e il patto col diavolo stipulato.
Figlia di Minerva, novella Ippolita e Pentesilea,
più indomita di Camilla, eroica e inflessibile come Antigone,
guerriera imbattibile, cultrice delle arti.
Seguii la mia morale, obbedii soltanto a me stessa.
Rincorsi una chimera, io silfide sfuggente.
Affamata di giustizia e di libertà, ma non del cibo,
a esaltazione di un corpo androgino e filiforme.
Costruii me stessa e la mia indipendenza
e mi feci piacere il ruolo che me l’avrebbe procurata,
attribuendo alla Sovrana che dovevo proteggere e servire
pregi di cui, in cuor mio, sapevo essere in gran parte sprovvista.
Prima le giurai fedeltà, poi la tradii.
Strana fu l’amicizia che ci unì: due creature agli antipodi,
con lo stesso desiderio di fuggire la realtà.
Cercai il rispetto dei miei soldati con le arti militari,
lo conquistai chiudendo gli occhi sulle loro ruberie.
Dicevano che non bastava loro la paga,
ma, intanto, si ubriacavano in taverna.
Fedele soltanto a me stessa e ligia ai miei principi,
non ci fu, tuttavia, giorno in cui non rinnegai qualcosa di me.
Fuggii la mia femminilità, poi la mia nobiltà,
esteriorizzando, in tal modo, il disagio della mia menzogna.
Non riuscii mai ad accettarmi per intero.
La mia natura femminile, rifiutata e mai governata,
relegata nell’anfratto più oscuro della mia anima,
si impennò, in guisa di un cavallo selvaggio e imbizzarrito,
spuntò fuori a tradimento, nei momenti di maggiore debolezza
e mi fece smarrire per un falso sentiero, quello dell’illusione.
L’illusione di una perfezione che non era destinata a me.
Un’illusione creata ad arte da me e a mio stesso beneficio:
l’amante schermo dei poemi cortesi
sul quale convogliare i sentimenti, sviandoli dal vero destinatario.
La via della concretezza, offertami dal mio secondo nel comando,
la sdegnai seccamente, non essendo la normalità un affare per me.
Poi, c’era lui, l’amico di sempre, il fratello mai nato,
come io, per anni, mi ostinai a considerarlo.
André mi ricordava chi ero, risvegliava la mia sessualità.
Per questo lo trattavo con durezza e lo allontanavo,
fingendo di non capire e non volendo ammettere
che c’era proprio lui sulla linea retta oltre lo schermo.
Scontri fisici e verbali,
cavalcate e duelli,
sterminati silenzi e profondi sottintesi,
sguardi di ghiaccio e di fuoco,
questa fu la nostra storia.
Luce e ombra,
spade e rovi,
istinto e ragione,
attrazione e rifiuto,
due solitudini inseparabili,
questa fu la nostra essenza.
Ci dividevano il rango, il censo,
i miei miti, la mia ostinazione, la mia menzogna.
Ammisi ciò che provavo per lui sull’orlo del precipizio,
quando la tisi stava per uccidermi
e il mio mondo era in procinto di cadere a pezzi,
zolla dopo zolla, lasciandomi un appoggio sempre più esiguo.
Donai a lui il canto del cigno
e a me l’ultima bugia: la sopravvivenza.
Recisi il rapporto con un padre ammirato e ingombrante,
mio mentore, mio faro, mia immagine riflessa e rovesciata
che mi fece un dono splendido, ammaliante e avvelenato
che io non ebbi la forza e la volontà di rifiutare.
Fuggii la magione avita e tradii la Corona.
Pensai di ingannare il destino sparigliando le carte,
ma fu il destino a presentarmi il conto,
spezzando le mie radici,
facendomi franare la terra sotto ai piedi,
tagliandomi ogni via di fuga,
mettendomi con le spalle al muro
e costringendomi a guardare in faccia la realtà.
Di realtà si muore….
Non avrei potuto esistere senza essere imbattibile
e André non avrebbe potuto vivere senza di me,
ma, soltanto quando egli non fu più,
capii che ero stata invincibile unicamente perché amata.
Tramontato il sole, si sgretolò il semidio
e rimase una donna sola,
denudata dell’epica e dell’innocenza
e rivestita di disperazione e di follia.
Avrei dovuto squarciare prima il velo che mi copriva gli occhi.
Con André avrei vissuto momenti di amore intenso
e avrei anche conservato la vita di prima, ne sono certa.
Bradamante non amava, forse, il suo Ruggiero
e Clorinda il suo Tancredi?
Mi sarei riguardata, nutrita, non mi sarei ammalata.
Uniti e sani, senza vincoli temporali,
saremmo riusciti a forgiare un mondo migliore,
evitando la rivoluzione e gli spargimenti di sangue.
Avremmo tenuto a battesimo una monarchia costituzionale
e una società meritocratica, in una Francia rinata.
Progetti ambiziosi e utopistici?
Forse, ma il senso della misura non era cosa per noi.
Non avrebbe mai dovuto lasciarmi sola.
Ora, egli riposa qui, accanto a me, su questa collina di Arras.
Cuore generoso, anima pura, indole mite,
mente sognatrice, animo nobile, carattere leale,
adesso, è in pace, ne sono sicura.
Questa quiete, invece, non si addice a me.
Avrei voluto diventare Maresciallo di Francia;
combattere in Vandea per vendicare la mia Regina,
soffocando l’onta e il rimorso;
braccare Napoleone nella campagna di Russia,
sulle orme di Alessandro Magno;
pilotare un aeroplano, solcare i cieli
e duellare con Manfred von Richthofen, il Barone Rosso;
difendere la linea Maginot;
essere insieme a Charles de Gaulle,
quando liberava Parigi dall’insania di Hitler;
volare in Medio Oriente e umiliare la protervia dell’Isis;
brillare nel sole, ardere come il fuoco, cavalcare il vento….







Ed ecco la nostra Oscar che, dopo una lunga attesa, si racconta a noi.
Un po’ dea, un po’ amazzone, un po’ eroina dei poemi epici, un po’ Antigone, ma, alla fine, donna tormentata, avvolta dai rovi, all’inseguimento di un mito e in fuga da se stessa e dalla sua menzogna.
Il padre la volle diversa ed ella accolse questa diversità come fonte di libertà e di gloria, in un’età in cui non si possiedono tutti gli strumenti per ponderare bene le conseguenze di una scelta radicale e anomala. In questo, Oscar appare molto simile ad André.
Un destino fuori dall’ordinario e una vita brevissima, ma intensa e riempita di significato in ogni piega.
Oscar e il padre, Oscar e le amicizie, Oscar e gli amori, Oscar e la sete di giustizia, Oscar e l’epica gloriosa, Oscar e la ribellione all’autorità e alla morte, Oscar e l’ampia visione della politica e della storia, Oscar e il destino della Francia e del mondo.
Grazie a chi ha commentato André e grazie anche a chi vorrà commentare Oscar.
Vi attendo, la prossima settimana, con il gran finale.
Buona lettura a voi tutti.

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Capitolo 50
*** L’Eco di Parigi ***


L’Eco di Parigi
 
Scorre la Senna, scorre lenta,
sotto il cielo di Parigi, attraversando le regioni della Francia.
Quando il potere costituito e la classe dominante
non riescono più ad autolegittimarsi
e il popolo non trova in essi ascolto per le proprie doglianze,
il dialogo si interrompe e inizia il conflitto,
tramontano le società, si rovesciano i troni,
tutto crolla e si ricompone, in una continua girandola.
Cosa ne sapeva il popolo francese
dello splendore di Versailles dai mille specchi,
del Re che viveva di intenzioni e mai di azioni,
della Regina straniera e del suo amore per il bel Conte svedese,
dei cortigiani scaltri e dei politici corrotti?
Cosa ne sapevano costoro di un popolo affamato e orfano,
di Robespierre e della sua anima intransigente,
di Saint Just, dai grandi estremismi e dall’inesistente pietà,
del condottiero corso e della sua bulimia di gloria?
Scorre la Senna, scorre lenta,
testimone delle illusioni di chi sognava un mondo migliore,
ignorando che la vita ripropone sempre le stesse ingiustizie,
ripresentate sotto un diverso nome e con nuove dinamiche.
Scorre la Senna, scorre lenta,
accompagnando il cammino di un’umanità in perenne agitazione,
che sempre è in affanno e mai si placa, nelle bufere del suo cuore,
figlia di rimaneggiate mode e di perfezionate tecnologie,
seguace e propugnatrice di ideali all’apparenza nuovi,
ammaliata da condottieri sventolanti stendardi riadattati e ricuciti,
ma che, alla fine di un eterno carosello, è sempre uguale.
Un’umanità con le sue lotte e la sua storia,
la cui unica protagonista è la violenza.
Un’umanità violata, derisa, ingannata, delusa, sfruttata,
torturata, strumentalizzata, disprezzata, umiliata, ma mai doma.
Scorre la Senna, scorre lenta,
lambendo le teste recise del Re e di Robespierre,
della Regina e di Saint Just,
dei nobili, dei borghesi e dei popolani;
augurando l’eterno riposo alle ossa stanche
dei padri folli, delle madri assenti,
delle guerriere indomite,
degli uomini innamorati delle speranze e delle illusioni.
Scorre la Senna, scorre lenta….
Sotto questo angolo di cielo,
riflesso in un cucchiaio di fiume,
vissero e soffrirono, amarono e morirono
tutti i protagonisti di questa triste storia.
Nobili o plebei,
ricchi o poveri,
lealisti o rivoluzionari,
buoni o cattivi,
ora, sono tutti uguali(1).
 
(1) Queste ultime righe sono la parafrasi dell’epitaffio che compare alla fine del film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick.







Con il capitolo di oggi, giungiamo alla fine di questo lungo percorso che ci ha tenuti insieme per dieci mesi.
Questa galleria di anime tormentate e irrequiete che con la morte hanno acquisito una maggiore consapevolezza e una più ampia visione prospettica, ma difficilmente una vera pace – anche nell’Antologia di Spoon River, del resto, gli spiriti sereni e gioiosi come Lois Spears sono pochissimi mentre prevalgono quelli pieni di rimpianti, come George Gray o annientati dalla delusione e dalla rabbia, come la vedova McFarlane – ha fatto discutere. C’è chi ha apprezzato un personaggio e non ha gradito un altro e alcune figure, curiosamente, sono state le preferite di alcuni e le meno amate da altri. Ognuno ha ritrovato, nella raccolta, il personaggio preferito e quello detestato, leggendoci qualcosa di gradevole o di fastidioso.
Come tutte le cose della vita, anche questo viaggio volge al termine, la Senna sfocia a Le Havre e la barca ammaina le vele. Ciò che non finisce, però, almeno per adesso, è la mia presenza qui e, infatti, la prossima settimana, inizierà una nuova storia, ricca di sorprese e di colpi di scena. Sarà un racconto che, da un certo punto in poi, si rivelerà particolarissimo e che, da subito, mostrerà i protagonisti impegnati in un percorso di crescita e di riflessione, con un evento che, sin dal primo capitolo, modificherà i presupposti della storia originale.
Ringrazio chi mi ha seguita sin qui con elogi, suggerimenti e qualche critica e vi aspetto numerosi per il prossimo mercoledì.

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