Miss Pierce - story of an old girl

di Warlock_Vampire
(/viewuser.php?uid=283862)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preambolo ***
Capitolo 2: *** Varna, 1413 ***
Capitolo 3: *** Varna, 1419 ***
Capitolo 4: *** Venezia, 1419 ***
Capitolo 5: *** Venezia, 1421 ***
Capitolo 6: *** Vienna, 1423 ***
Capitolo 7: *** Firenze, 1478 ***
Capitolo 8: *** Madrid, Malaga, 1519 ***
Capitolo 9: *** Cuba, 1519 ***
Capitolo 10: *** Tenochtitlàn, 1521 ***
Capitolo 11: *** Firenze, 1522 ***
Capitolo 12: *** Milano, 1522 ***
Capitolo 13: *** Urquhart, 1522 ***
Capitolo 14: *** Urquhart, 1522 (2) ***
Capitolo 15: *** Londra, 1522 ***
Capitolo 16: *** Inghilterra, 1562 ***
Capitolo 17: *** Versailles, 1683 ***
Capitolo 18: *** Versailles, 1683 (2) ***
Capitolo 19: *** Milano, 1815 ***
Capitolo 20: *** Chancellorsville, 1863 ***
Capitolo 21: *** Chancellorsville, 1863 (2) ***
Capitolo 22: *** 1865 ***
Capitolo 23: *** New Orleans, 1867 ***
Capitolo 24: *** New Orleans, 1867 (2) ***
Capitolo 25: *** New Orleans, 1920 ***
Capitolo 26: *** New Orleans, 1920 (2) ***
Capitolo 27: *** Chicago, 1960 ***
Capitolo 28: *** New York, 2000 ***
Capitolo 29: *** New York, 2000 (2) ***
Capitolo 30: *** Anno post-apocalittico 2124 ***
Capitolo 31: *** Ringraziamenti ***



Capitolo 1
*** Preambolo ***


PREAMBOLO

Sarebbe sciocco abbandonarsi a inutili sentimentalismi, pertanto sottolineo che queste memorie non sono che il frutto di una necessità; quella di ricordare gli avvenimenti più importanti della mia lunga vita.
Così dicendo metto inevitabilmente le mani avanti a qualsiasi deduzione vogliate trarne, voi che leggete. Sempre che qualcuno leggerà mai queste mie memorie.
Dunque io, Katherine Pierce, qui confesso la mia vita, senza omettere alcun particolare.
Io, che ho conosciuto molto presto cosa fossero dolore e odio e che solo dopo molto tempo ho compreso l’amore; io, che ho imparato ad uccidere prima ancora di saper vivere; io, che ho vissuto per secoli nella profonda convinzione che ognuno può ottenere ciò che vuole, sempre e comunque, sacrificando tutto, se necessario; dopo così tanto ho davvero bisogno di mettere nero su bianco i fatti.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Varna, 1413 ***



Varna – Regno di Bulgaria, 1413
 
L’anno in cui avvenne la mia trasformazione era il 1413. A quel tempo vivevo in un villaggio bulgaro circondato dai boschi, poco lontano da Varna, una città sulle sponde del Mar Nero di proprietà di un ricco vassallo del re che si vedeva poco in giro.
Mio padre era morto quando avevo cinque anni, nel 1398, colpito da un turco durante la Battaglia di Nicopoli.
Nel 1413 avevo vent’anni e, bellezza a parte, ero piuttosto infelice. Mia madre si era risposata poco dopo la morte di mio padre con un veterano di guerra, ex ufficiale; aggiungerei caduto in disgrazia per qualificarlo, ma questa è solo una mia idea.
Era vecchio e grasso, i muscoli li aveva persi dopo la guerra, proprio come il buonsenso. È crudele, questa descrizione? Se l’aveste conosciuto direste di no.
Dico che aveva perso il buonsenso perché, se ancora lo avesse avuto, non avrebbe sposato mia madre. Per quanto potesse esserne innamorato, non era neppure lei nel fiore degli anni e, a dirla tutta, una madre vedova sul lastrico non è poi quel che si dice un buon partito. Per me era chiaro che lei lo desiderava solo per interesse.
Fatto sta che si sposarono. Da lui mia madre ebbe altri tre figli, tutti maschi, per la gioia di quel deficiente del mio patrigno. Ivan, Paolo e Fëdor. Dei tre non ho amato nessuno e non mi sento colpevole o pentita nel rivelarlo. Erano semplicemente le copie del loro ottuso padre e assai poco avevano ereditato dell’eleganza di mia madre, che era stata in gioventù una donna splendida e di gran classe, benché la vita fosse stata crudele con lei. Fëdor, il più piccolo, fu l’unico che piansi almeno un poco, quando morì.
 
Dunque, 1413. Ho detto prima che ero infelice in quei giorni e non mentivo. Mia madre era sempre troppo indaffarata per potersi curare anche di me che ero ormai una donna fatta, destinata ad un veloce matrimonio.
Il mio patrigno mi odiava senza riserve. E per un’epoca in cui la famiglia è la cosa più importante, qualcuno dovrà ammettere che avevo ragione di sentirmi infelice.
Io non ero sua figlia e per giunta, ero una donna. Due motivi futili, ma sufficienti per essere disprezzati.
Era un giorno freddo, nebbioso e umido, quello che svegliò il villaggio quel lontano 1413 che cambiò la mia vita per sempre. La quiete del mattino autunnale fu presto sostituita dalle urla dei turchi che arrivavano dal bosco, pronti a fare razzie. Uccisero uomini, vecchi e bambini, mentre le donne vennero fatte prigioniere, con l’intento di trasferirle il prima possibile a Varna, dove si tenevano giornalmente mercati in cui venivano vendute prostitute.
Assistetti impotente al massacro della mia famiglia da parte dei turchi. Il mio patrigno andò incontro agli ottomani credendo di possedere ancora l’antico vigore della Battaglia di Nicopoli, invece venne passato a fil di spada in meno di un attimo.
Mia madre aveva sbarrato alla bell’è meglio la capanna in cui vivevamo e costretto me e i miei fratellastri in un nascondiglio di fortuna, proprio dietro alla dispensa. Quando i turchi fecero irruzione, lei non ebbe che il tempo di urlare prima di subire la stessa sorte toccata al mio patrigno.
I nostri nemici sapevano che non poteva essere finita così, che altri abitavano quella casa. Giusto il tempo di perlustrarla, e arrivarono a noi. Fëdor piangeva senza ritegno, Paolo pregava e Ivan, il maggiore, stringeva nel pugno un piccolo pugnale, nell’illusione che quello potesse salvarlo dalla furia degli ottomani.
Uccisi i miei fratellastri, presero anche me e mi scortarono fino alla piazzola centrale, dove le altre ragazze del villaggio erano già state radunate e legate.
Nel caos generale capii soltanto che i turchi si sarebbero accampati lì per l’intera giornata e che solo il giorno seguente saremmo ripartiti alla volta di Varna.
A dispetto del profondo vuoto che provavo per l’aver perso mia madre e la mia vita come l’avevo conosciuta fin lì, la mia mente lavorava febbrile alla pianificazione di una via di fuga. Ci avrebbero tenute legate per tutto il restante giorno e nulla ci sarebbe stato dato da mangiare o da bere, di questo ero sicura. Passata la novità, i nostri aguzzini si sarebbero anche stancati di ronzarci intorno coi loro apprezzamenti sconci e avrebbero finito col lasciarci sole e mal custodite, credendoci deboli e troppo spaventate per tentare di scappare.
Attesi il calare della notte per agire. Per tutto il giorno avevo scavato una fossa nella terra con le mani, nascondendola con la gonna quando i turchi erano nei paraggi. La sorte fu dalla mia parte, perché nessuno si accorse della pietra che avevo estratto dal terreno e che usai quella notte per tagliare la corda con la quale eravamo state tutte legate.
Quando le mie compagne di sventure si furono assopite, stremate da quella giornata di terrore senza fine, affamate e infreddolite, ne approfittai per fuggire. I turchi si erano anch’essi assopiti attorno al fuoco che avevano acceso poco lontano da noi, in modo da stare caldi e al tempo stesso controllarci. Uno di loro montava la guardia, ma l’avevo tenuto d’occhio per tutta la sera: aveva bevuto così tanto che di certo dormiva anche lui.
Nel buio della notte, rischiarato appena dalla Luna piena, lo vidi muoversi un poco. Strisciai verso di lui e con la pietra che avevo usato per recidere la fune che mi teneva prigioniera, lo colpii alla testa. Non lo uccisi, questo lo so di sicuro, ma almeno lo tramortii, cosicché non potesse dare l’allarme della mia fuga ai suoi compagni.
Dopodiché scappai a gambe levate verso il bosco e continuai a correre, tra i rumori sinistri delle creature della notte, gli ululati lontani dei lupi e gli scricchiolii delle foglie secche che calpestavo nella mia corsa furibonda e senza meta.
Col passare del tempo la mia corsa rallentò e il mio incedere si fece meno preciso, meno attento alle asperità del sottobosco. Caddi a terra, inciampando in una radice che non ero stata in grado di saltare, complici l’oscurità, la fame e il freddo che mi penetrava le ossa come una lama di coltello. Ansimai, cercando di riprendere fiato, e strisciai fino ad un cespuglio rigoglioso, alla base di un abete particolarmente robusto.
Mi abbandonai contro il tronco dell’albero, seminascosta dal cespuglio, e lì mi addormentai, sperando di essermi allontanata sufficientemente dal villaggio.
La caviglia infortunata pulsava dolorosamente e non ebbi nemmeno il coraggio di tastarla per valutare la gravità della situazione. Semplicemente, distesi la gamba davanti a me e poi dormii. La sorte era stata incredibilmente generosa con me quel giorno, nonostante tutto, e potevo solo sperare che mi assistesse ancora un altro po’.
 
Il mattino successivo fu un rumore di zoccoli a riportarmi alla realtà. Mi accucciai ancora di più sotto il cespuglio, nella speranza di non essere vista, ma il cavallo si arrestò proprio davanti a me e un uomo scese agilmente dalla sella. Erano i turchi venuti a riprendermi? D’istinto pensai che non fossero loro, ma qualcun altro.
Di lui non vedevo che gli stivaletti di ottima fattura, infangarsi tra le radici del sottobosco. Alzai la testa e incontrai gli occhi castani dello sconosciuto, studiarmi con curiosità.
«Salve» salutò, piuttosto sorpreso. Capii che non aveva idea di chi fossi e impercettibilmente tirai un sospiro di sollievo.
Era un bell’uomo, di al massimo trent’anni. Aveva un fisico atletico fasciato da un abito di bella foggia, i capelli castani raccolti in un codino alla base del capo. La mascella scolpita e le labbra carnose conferivano al suo volto un tratto duro e autoritario.
Si accucciò a terra e mi tese la mano, invitandomi ad alzarmi. In quel momento però il dolore alla caviglia era quasi insopportabile e la sentivo pulsare, gonfia e storta. Non dissi niente e non presi quella mano; tant’è che lui la ritrasse.
«Come vi chiamate?» domandò ancora, paziente.
«Katerina» dissi, infondendo sicurezza nel mio tono di voce.
«Che cosa ci fate qui in mezzo al bosco, Katerina?».
Non risposi.
«Non me lo volete dire? Forza, alzatevi da terra!» comandò, alzandosi a sua volta e rassettandosi gli abiti.
«Non posso» sibilai con rabbia. Lo sconosciuto tornò ad accucciarsi e mi chiese nuovamente per quale ragione fossi distesa nel bosco. Allora decisi di dirgli la verità: con molto più trasporto di quanto provassi in realtà, gli narrai il massacro della mia famiglia, la mia prigionia e la fuga nel bosco, fino a quando mi ero storta la caviglia inciampando in una radice.
«Mostratemi» ordinò subito, con la sua voce perentoria di uomo abituato a stare al comando.
Sollevai un lembo del vestito, incapace di non subire il suo atteggiamento autoritario, e fissammo insieme la caviglia gonfia e arrossata che mi doleva.
«Ehm… vediamo cosa possiamo fare per questo…» mormorava lo sconosciuto, parlando più a se stesso che a me. Sembrava titubante.
«Siete un dottore?» domandai, interrompendo i suoi bisbigli.
«Affatto» replicò asciutto, «ma vi voglio aiutare, Katerina».
Mi fissò intensamente negli occhi e usò la Compulsione su di me, benché in quel momento non lo sapessi. Mi ordinò di ubbidirgli, di non avere paura e di non scappare.
Si morse il polso e me lo porse perché bevessi le gocce di sangue che zampillavano dai due netti fori nella carne che si era procurato. Io ubbidii, come poco prima mi aveva ordinato e la mia caviglia, miracolosamente, guarì.
Mi alzai da terra, sporca di fango e trasandata per aver dormito tutta la notte nel bosco.
Mi offrì rifugio a casa sua e io, ancora una volta, lo assecondai.
Cavalcammo fino ad un massiccio podere, quasi un castello, circondato da un grande parco. Fu allora che capii che il mio salvatore era in realtà il vassallo di quelle terre.
Appena varcate le soglie della sua dimora, uno stuolo di servitori si fece avanti aspettando direttive e l’uomo non li fece attendere. Coordinò il lavoro di tutti e fu così che dopo meno di cinque minuti mi ritrovai in una stanza accogliente, con due servette pronte a farmi il bagno e a vestirmi per il pranzo.
Mangiammo in silenzio.
Quando lo sconosciuto ebbe finito la sua faraona, schioccò le dita e due camerieri si fecero avanti. Pensai che avrebbero portato via il suo piatto, invece fecero una cosa per me del tutto inaspettata. La Compulsione del Vampiro mi impedì di urlare o di spaventarmi.
I camerieri arrotolarono le maniche della loro veste fino al gomito, poi presero due coltelli e praticarono del tagli netti nella carne del polso, lasciando gocciolare il sangue in due coppe dorate vicine allo sconosciuto.
Io, dall’altra parte del tavolo, fissavo la scena a bocca aperta e l’uomo fissava me, quasi pensieroso o forse dispiaciuto per qualcosa che non sapevo indovinare.
«Basta così» mormorò poi, con un gesto della mano e i due camerieri si ritirarono.
Bevve dalle coppe a piccoli sorsi, assaporando il sangue dei due poveri uomini. Io lo fissavo ipnotizzata e iniziavo a chiedermi che cosa fosse. Avevo sentito parlare dei Vampiri, ma solo come leggende o piccole storielle tramandate dalla gente per spaventare i bambini; non avevo mai creduto che fossero vere.
«Che faccia avete, Katerina…» osservò l’uomo sorridendomi senza gioia.
«Chi siete?» domandai di rimando.
«Il vassallo di queste terre, chi sennò?».
«Non è questo che intendo».
«Il mio nome è lungo, ufficioso e inutile. Chiamatemi soltanto Nikolaj» continuò, come se non mi avesse sentito.
«Forse allora sarebbe meglio chiedervi che cosa siete».
«Mi sembrate intelligente, Katerina. Sicuramente avrete capito che sono un Vampiro».
«Voi vi nutrite di sangue umano e il vostro sangue cura le persone» osservai.
«Sì, esatto» sospirò Nikolaj senza guardarmi.
«Perché mi avete curata invece che nutrirvi di me?».
«Perché i vostri occhi sono meravigliosi, mia cara Katerina. La vostra bellezza mi ha stregato e vi ho voluta aiutare, in quel momento».
Mi sentii d’un tratto svuotata, indifesa e terribilmente esposta al pericolo. Tentavo velocemente di riflettere sul da farsi, ma la verità è che avevo già, in cuor mio, un desiderio.
 
Quella notte rimasi a lungo a guardare fuori dalla finestra la calma del parco immerso nell’oscurità e le fronde lontane dei boschi oscillare ai soffi di vento; poi presi una candela e uscii dalla camera, girovagando senza meta per il castello.
Capitai in una grande sala, spettralmente illuminata da portefinestre che davano su una terrazza spaziosa. Immaginai per un momento sontuosi ricevimenti e feste in grande stile, tutte cose di cui non sapevo nulla ma che mi affascinavano.
La ricchezza fa proprio questo: affascina; il lusso ammalia e tutto passa da irrilevante a fondamentale, da futile a indispensabile.
Uscii sulla terrazza e spensi la candela. La notte era chiara e la luna piena illuminava d’argento il bosco e si rifletteva sulla parete di pietra del maniero di Nikolaj. Un vento fresco mi scompigliava i capelli e chiusi gli occhi per un momento, beandomi di quella pace.
Ero tranquilla, ora. Di quella tranquillità che deriva dalla consapevolezza e dalla necessità di mantenere la mente sgombra e lucida per compiere il passo verso qualcosa di più grande di noi.
Avete capito bene; avevo un piano.
Come avevo previsto, Nikolaj mi raggiunse in terrazza.
«Non dormite, Katerina? Troppi pensieri per la testa?» domandò, amabile come lo era stato quel mattino.
Io gli davo le spalle e guardavo tre piani più in basso le fioriere poste all’entrata del castello, sporta dalla balaustra di pietra della terrazza.
«Penso alla mia vita» dissi.
«Sembrate triste» osservò lui, facendo un passo verso di me. Mi voltai e lo scoprii più vicino di quanto avessi immaginato; così vicino che potei notare le screziature ambrate delle sue iridi. Nikolaj socchiuse le labbra e si fece ancora più vicino.
Io non mi ritirai.
Quando le nostre labbra si sfiorarono bisbigliai: «rendetemi come voi».
Come avevo immaginato, Nikolaj si ritrasse di scatto, guardandomi quasi col desiderio di aver capito male. Io non distolsi lo sguardo e mantenni i miei occhi fissi nei suoi, determinata.
«Diventare un Vampiro?, è questo che volete, Katerina?» domandò Nikolaj fissandomi con un’intensità tale che mi era difficile sostenere il suo sguardo.
«Sì» dissi, avvicinandomi a lui e prendendogli il volto tra le mani. Quasi non mi rendevo conto del potere che avevo su di lui. Mi guardò, ammaliato e combattuto, tra ciò che suggeriva la prudenza e il desiderio di accontentarmi, di avermi per sé.
Mi allontanai di nuovo, appoggiandomi alla balaustra di pietra, e dissi: «la mia vita finora non è stata che una delusione. E il mio futuro non sarà da meno. Nella migliore delle ipotesi finirò sposata a qualche sconosciuto, in un paio di anni sarò circondata di marmocchi, metà della quale morirà prima di diventare maggiorenne, e poi invecchierò e a mia volta morirò. L’umanità è debolezza, Nikolaj; ecco cosa penso da quando vi ho incontrato. L’ho sempre pensato, a dire il vero, ma voi siete la prova che esiste una via di fuga».
«Lasciate che ve lo dica, state sopravvalutando il mio essere» replicò Nikolaj serio, «l’immortalità potrà ora sembrarvi una benedizione ma guardatemi, Katerina: direste che ho quasi trecento anni? Dopo un po’ il non invecchiare mai, il non mutare, diventa una maledizione. E che dire della brama di sangue che vi consumerà e degli atroci delitti che marcheranno il vostro passaggio! La coscienza della vostra bestialità vi tormenterà per sempre, fino a ché arriverete ad odiare voi stessa. È questo che volete diventare?».
«Io vedo la vostra forza, il vostro fascino immortale e il mondo ai vostri piedi. Potreste decidere di andarvene adesso e nessuno ve lo impedirebbe. Quanto alla brama di sangue, la vedo come un semplice effetto collaterale delle incredibili doti di cui disponete».
Nikolaj mi fissò ancora a lungo, quasi addolorato.
«Farò di voi un Vampiro e una dama, Katerina. Vi istruirò come meritereste e vi insegnerò ad essere un buon Vampiro e voi, in cambio, promettetemi di essermi fedele e di restare con me» disse Nikolaj dopo un po’.
Valutai la sua proposta. Lui mi avrebbe ricoperta di ricchezze e mi avrebbe istruita, cosa a cui non avevo mai pensato prima. Nessuna donna di mia conoscenza sapeva leggere o scrivere.
Ma restare con lui? Davvero volevo passare il resto della mia vita –il ché non era cosa da poco- con lui? Come doveva essere profonda la sua infatuazione per me, per farmi una proposta simile, aveva superato la ragionevolezza.
Accettai, ovviamente.
«Quindi?» domandai, d’un tratto impaziente.
«Quindi cosa?» chiese Nikolaj, avvicinandosi a me con passo felpato, da predatore.
«Come avverrà la mia trasformazione?» chiarii, in un soffio.
Nikolaj sorrise, malizioso.
«Be’ occorre che moriate. Dovreste bere il mio sangue prima, ma l’avete già fatto stamane» spiegò con tranquillità.
Non mi lasciò il tempo di riflettere; mi diede una spinta e il mio corpo volò al di là della balaustra di pietra della terrazza, cozzando a terra e restando là, immobile.







Guest Starring per questo capitolo: Andrew Lees nei panni di Nikolaj Ivanov

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Varna, 1419 ***



Varna – Regno di Bulgaria 1419
 
Quel mio accettare l’offerta di Nikolaj era stato un gesto scontato e assolutamente bugiardo. Avrebbe dovuto capirlo anche Nikolaj, che io non ero fatta per stare alle regole e che non avrei mai desiderato una vita immortale se ciò avesse significato la prigionia eterna. E checché volesse farmi credere Nikolaj, questo era ciò che mi offriva e nulla di più.
Ma forse non mi conosceva abbastanza da sapere cosa pensassi veramente.
Nel 1419, sei anni dopo la mia trasformazione, ero una donna diversa e lo affermo con orgoglio. Di questo, almeno di questo, devo dare merito a Nikolaj. Lui rispettò la sua parte dell’accordo e fece di me una gran dama; istruita, elegante e di ottime maniere.
Insomma, era tempo per me di lasciarlo. Ma occorreva un piano ben architettato, perché Nikolaj –da intelligente antico Vampiro- sospettava che prima o poi me la sarei data a gambe. La prova di questa mia supposizione sta nel fatto che ottenni un anello solare solo due anni dopo la mia trasformazione. Il ché, come avrete capito, significa che passai due anni segregata nel suo maniero, uscendo solo la notte.
Dopo che mi ebbe dato finalmente quel dannato anello solare, Nikolaj rimase a sorvegliarmi per settimane, aspettando di cogliermi nel punto di abbandonarlo. Ancora non aveva capito che io non sono persona da tali sventatezze. Io pianifico e poi agisco.
Adesso ormai Nikolaj aveva abbassato la guardia, si era convinto nell’intimo che avrei rispettato quell’accordo stretto sei anni prima da una Katerina sull’orlo della disperazione, che vide l’immortalità davanti a sé e non seppe rinunciarvi.
Come era sciocco da parte sua.
 
L’occasione si presentò un giorno d’inverno, quando Nikolaj mi informò che l’indomani sarebbe partito e sarebbe stato lontano per un po’. Non mi disse molto altro; era sempre piuttosto riservato riguardo i suoi affari.
Ma questa notizia da sola non sarebbe bastata ad attuare il mio piano. Mi occorreva qualcun altro, e nello specifico, Yuliya, la Strega più fidata al servizio di Nikolaj, nonché colei che aveva creato il mio anello solare. Il destino volle che Nikolaj la invitasse a cena proprio quella sera al preciso scopo di ordinarle di costituire una barriera magica intorno al maniero, così che “le minacce non potessero penetrarlo e diventare un pericolo per me”. In altre parole, Nikolaj voleva che Yuliya evocasse delle sbarre invisibili che mi avrebbero imprigionata fino al suo ritorno.
La Strega arrivò quello stesso pomeriggio e io mi offrii di accoglierla, visto che Nikolaj dopo il nostro pomeriggio d’amore doveva ancora finire di rivestirsi. Pensai che forse non me l’avrebbe permesso, che non si sarebbe fidato, ma sorprendentemente Nikolaj mi lasciò fare.
Fu così che lasciai le stanze del Vampiro e percorsi le infinite scale di pietra fino all’ingresso, dove già alcuni servitori aiutavano Yuliya a scendere dal carro che l’aveva portata fin lì.
«Signorina Petrova» mi salutò, chinando il capo con galanteria.
Era vestita poveramente, ma era molto bella. I suoi occhi di ghiaccio mi perforarono per un lungo istante, in attesa del mio saluto. Poi una ciocca dorata le finì davanti agli occhi e lei distolse lo sguardo.
«Chiamami Katerina» replicai, «è un piacere averti qui, Yuliya». Le sorrisi debolmente e lasciai che mi seguisse fino alla sala attigua, dove ci intrattenemmo fino all’arrivo di Nikolaj.
Aspettai impazientemente che i servitori si allontanassero da noi, ordinando loro di prepararci qualcosa per ingannare l’attesa del padrone come scusa. Non appena l’ultimo ci ebbe lasciate sole, presi Yuliya per un braccio, cogliendola di sorpresa, e la spinsi contro il muro, lasciando che il suo corpo cozzasse contro un aratro di antica foggia che mostrava le gesta di guerra di non so chi.
Yuliya non ebbe nemmeno il tempo di lamentarsi o di reagire.
«Ascoltami bene» sibilai al suo orecchio, parlando il più a bassa voce possibile, «io so cosa ti tiene legata a Nikolaj. Ti aiuterò, se tu aiuterai me».
Poi mi staccai da lei e lasciai che riflettesse sulle mie parole.
Nikolaj teneva suo figlio prigioniero nelle segrete –si, effettivamente aveva una passione particolare per la prigione-. Quel bambino era praticamente cresciuto in cella. Yuliya serviva Nikolaj e in cambio lui manteneva in vita il moccioso. Un metodo crudele ma estremamente efficace per piegarla al suo volere.
Avevo scoperto la cosa molti anni prima, ma mi erano sempre mancate le occasioni per servirmene. Non mi importava nulla del bambino, né tantomeno di Yuliya, ma avrei finto, avrei fatto di tutto pur di fuggire.
«Cosa vuoi?» sputò la Strega, fissandomi con sfida e un malcelato dolore.
Non potei rispondere perché Nikolaj apparve, vestito di tutto punto e pettinato, col suo solito sorriso bieco che era di potere e al tempo stesso di cortesia. Venne verso di noi, baciò appena le nocche della mano che Yuliya gli porse e poi mi mise un braccio intorno alle spalle col suo solito fare possessivo.
Arrivarono anche i servitori, portando del vino e qualche pasticcino.
E così si chiacchierò, fino a quando la governante non venne a dirci che era pronta la cena.
 
Seduti a tavola, io e Nikolaj ai capi del lungo e stretto tavolo, Yuliya sola a un lato, non si parlò molto fino a quando gli avanzi non furono portati via e come di consueto, due dei servitori si fecero avanti, offrendo il loro sangue a Nikolaj.
«Vieni qui, Katerina» mi disse il Vampiro. Obbedii e quando lo ebbi raggiunto, Nikolaj mi porse uno dei due calici di sangue che i servitori avevano versato per lui. Gli poggiai una mano sulla spalla e rimasi a guardare Yuliya, fissandola intensamente mentre Nikolaj le ordinava di evocare la barriera.
Per una frazione di secondo gli occhi chiarissimi di Yuliya saettarono dal suo padrone a me, per poi tornare a puntarsi sul Vampiro e acconsentire alla sua richiesta.
Nikolaj non poteva sospettare nulla. Non sapeva nemmeno che io avevo scoperto del figlio di Yuliya. Eppure, quando qualche ora dopo si apprestò a salutarmi prima di partire, per un istante le parole che mi rivolse mi fecero quasi credere che avesse scoperto tutto.
Yuliya aveva ormai evocato la barriera e stava in disparte a guardare Nikolaj e me salutarci.
«Mi mancherai, Katerina» confessò, le mani strette sul mio viso, gli occhi intensamente posati nei miei.
«Ci vedremo presto» replicai, più falsa che mai.
«Mi tranquillizza saperti qui, al sicuro» sospirò, rivolgendo lo sguardo al maniero alle nostre spalle, «anche se so che sei forte abbastanza da difenderti da sola».
Gli sorrisi, maliziosa, e posai le labbra sulle sue. Nikolaj mi strinse a sé per un lungo momento, prima di lasciarmi, montare a cavallo e ordinare a Yuliya di seguirlo sull’altro cavallo che aveva messo a disposizione per lei.
Yuliya lo seguì, diligente, ma prima di partire al trotto sulla scia di Nikolaj, mi rivolse un lungo sguardo carico di sottintesi.
 
Non dovetti attendere a lungo, prima di sentire gli zoccoli del cavallo sul viale di sassi che conduceva alla residenza. Uscii dunque all’aria aperta, col vento freddo dell’inverno che sferzava, innocuo per un essere immortale come me, un po’ meno per Yuliya, che saltò giù dal dorso dell’animale battendo i denti.
«Dovremo fare presto e non dobbiamo farci vedere» le dissi, sbrigativa, «i servi sono soggiogati e quando Nikolaj tornerà, gli racconteranno tutto».
«Lo so» ribatté, con una punta di amarezza che non mi interessò indagare.
Mi seguì dentro, nell’ingresso e poi nella saletta dove la sera prima l’avevo spinta contro il muro. Camminavamo svelte, temendo di incontrare qualche inserviente ancora sveglio, intento a risistemare chissà cosa.
«C’è una porta segreta… proprio qui» mormorai, palpando la parete di arazzi della sala da pranzo in cerca di quell’increspatura nella tela che mi aveva portata a scoprire la scaletta angusta e buia che conduceva alle stanze sotterranee.
La trovai. La spinsi appena, facendo leva sulle pieghe dell’arazzo, finché si aprì, con un cigolio sinistro, rivelando una stretta scaletta di pietra immersa nell’oscurità.
Yuliya evocò un fascio di luce che rischiarò l’area, e mi precedette, scendendo per prima le scale. Si fidava, questo dedussi. Si fidava che non l’avrei tradita. O forse era solo desiderosa di ritrovare suo figlio.
Non così in fretta, Strega” pensai.
«Di qua» le dissi, prendendo un corridoio a sinistra. I sotterranei erano una sorta di cimitero, ma non credo che gli scheletri lì sepolti fossero parenti di Nikolaj, né tantomeno Vampiri. In fondo poi, stavano alcune cellette sbarrate da pesanti portoni di ferro ormai arrugginito dal tempo.
«Eccoci» sospirai, bloccandomi davanti a una delle celle.
Yuliya si gettò sul portone, ma io l’afferrai prima che potesse arrivarci.
«Prima togli la barriera» sibilai.
«Prima voglio vederlo» ribatté, puntando i suoi occhi cristallini nei miei con una determinazione almeno pari alla mia. Sapeva giocare anche lei, in fondo.
«Io apro la porta e tu intanto togli la barriera» proposi.
Yuliya acconsentì, chiuse gli occhi e pronunciò l’incantesimo. Attesi qualche secondo e poi con un calcio a velocità vampiro buttai giù la porta della celletta, rivelando un interno piccolo e buio.
La Strega si gettò tra le braccia del figlio, dimentica di tutto, anche di me.
Li guardai abbracciarsi e riconoscersi a stento, tanto era passato dall’ultima volta in cui erano stati assieme. Scena commovente, che riportò alla mia mente ricordi lontani di mia madre. Ma non avevo tempo da perdere e li scacciai. Avevo fretta di andarmene e non tardai a ricordare a Yuliya che aveva degli obblighi nei miei confronti.
«Allora?» esclamai.
«Sei libera» biascicò lei tra le lacrime, ancora stringendo il moccioso di dieci o undici anni smilzo e pallido come un cadavere.
«Ti consiglio di scappare. Nikolaj ti cercherà». Detto questo, scomparii a velocità vampiro fuori dal maniero, raggiunsi la stalla, sellai un cavallo e galoppai lontano, libera per la prima vera volta nella vita.
 
Non mi fermai fino a quando non ebbi raggiunto il porto. Cavalcai nella notte buia e fredda, attraversando sentieri malmessi nel bosco, stradine deserte e villaggi addormentati.
Un grumo di capanne in riva al mare era ciò che costituiva un paesetto di pescatori, con l’aggiunta di una taverna. Di fronte, la spiaggia e il mare nero come la pece. Una nave era attraccata agli ormeggi.
La taverna era l’unico elemento da cui traspariva una parvenza di vita e lì mi diressi, lasciando il cavallo libero di riposare insieme ad alcuni altri che sostavano fuori dalla bettola.
Entrai. La luce soffusa delle candele rischiarava un ambiente povero ma accogliente e caldo, con i tavoli di legno, molti dei quali ancora occupati da gente del luogo e marinai di passaggio. Un cantastorie in un angolo suonava una triste melodia per alcuni spettatori già ubriachi.
Mi sedetti ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi e aspettai che la cameriera venisse da me. Le ordinai un liquore e attesi che me lo portasse, guardandomi attorno in cerca di una soluzione. Non avevo un’idea precisa sul da farsi, ma quel che era certo, era che avrei dovuto lasciare il Regno Bulgaro, se volevo avere anche solo la minima speranza che Nikolaj non potesse trovarmi.
«Buona sera, signorina» si presentò un uomo dall’accento straniero, che fino a qualche minuto prima era seduto al tavolo accanto al mio.
Chinai il capo in segno di saluto e rimasi ad osservarlo mentre prendeva posto davanti a me. Nel frattempo tornò la cameriera col mio liquore e l’uomo ne ordinò un altro per sé.
«Che ci fa una gran dama come voi in una taverna come questa?» chiese poi, desideroso di fare conversazione.
«Beve il suo liquore» replicai, con un sorriso bieco. In cuor mio meditavo se soggiogarlo subito o se più semplicemente ucciderlo.
«Dove siete diretta?» domandò.
Uomo arguto. Ci ripensai e decisi che non l’avrei ucciso.
«E voi? Non sembrate di qui» lo provocai.
«Sono veneziano, infatti. La mia nave è attraccata qui fuori. Riparto domattina».
Quale occasione migliore per me? Lo soggiogai perché mi obbedisse.
Katerina Petrova sarebbe andata a Venezia.




Guest Starring per questo capitolo: Alycia Debnam-Carey nei panni di Yuliya

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Venezia, 1419 ***



Venezia – Repubblica di Venezia 1419
 
L’indomani partimmo. Fu un viaggio di alcune settimane, ma non vedevo l’ora di arrivare a Venezia e quando la vidi profilarsi all’orizzonte, me ne innamorai. Era una città sospesa tra cielo e mare, pulsante di vita, e il porto era pieno di gente, di mercanti, pescatori e pescivendoli, mendicanti e funzionari della Serenissima intenti nei loro controlli.
Marcantonio lasciò che il suo equipaggio si occupasse della nave e mi invitò a prendere una gondola, con la quale percorremmo i canali della città fino a raggiungere l’elegante palazzo dove abitava con la sua famiglia.
Nikolaj mi aveva abituata al lusso ed ero soddisfatta di essere incappata in un uomo ricco come Marcantonio. Il lusso, gli agi, le ricchezze… queste sono le cose a cui, una volta sperimentate, non si sa più rinunciare.
Venne ad accoglierci all’uscio del palazzo una domestica piuttosto benvestita. Ci annunciò alla padrona di casa e poco dopo comparve ella stessa nell’ingresso, vestita elegantemente per l’occasione. Salutò il marito e mi rivolse un timido cenno del capo, guardando poi Marcantonio in cerca di una spiegazione.
Ma lui cos’avrebbe potuto dire? Non sapeva chi sono. Così mi feci avanti e, nel porgere la mano alla signora, soggiogai anche lei.
Si fece subito più amabile, mentre manipolavo la sua mente perché credesse che io fossi una sua amica venuta in visita, e mi invitò a seguirla al piano superiore, dove mi avrebbe mostrato la mia stanza.
«Sono certa che avrete bisogno di riposare dopo questo lungo viaggio» osservò, camminando distrattamente per la camera da letto in cui mi aveva condotta, coi lunghi capelli castani che ondeggiavano ad ogni suo passo.
«La cena sarà servita fra non molto; manderò qualcuno ad avvisarvi».
Poi si congedò e mi lasciò sola in quella che sarebbe stata la mia camera per qualche anno.
Per prima cosa guardai gli armadi, ma con sgomento scoprii che erano tutti vuoti. Io non avevo nulla con me, avevo lasciato tutto a Nikolaj. Avrei dovuto porre rimedio anche a questo.
Quando vennero a chiamarmi per la cena, seguii l’inserviente fino a una bella sala da pranzo, riccamente arredata, e presi posto ad un lato del lungo tavolo, già occupato dal resto della famiglia.
«Permettetemi, Katerina, di presentarvi i miei figli: Nicolò, Margherita e Andrea. E lei è Rose, la balia» intervenne Marchesina, la moglie di Marcantonio. Dedicai poca attenzione ai mocciosi, il più grande dei quali doveva avere al massimo sette anni, e puntai invece lo sguardo sulla balia, che mi fissava più intensamente del dovuto.
Qualcosa in lei non quadrava e questa sensazione crebbe quando Margherita, che era seduta accanto a me, iniziò a mostrare particolare interesse per il mio anello solare e la piccola pietra di lapislazzuli che vi era incastonata. La balia non smise per un attimo di fissarmi e studiare le mie reazioni, fino a quando la madre non le intimò di smetterla di importunarmi.
Dopo il dolce, Rose si alzò dalla sedia, come ad un tacito ordine, e invitò i bambini a seguirla. Quello era il momento giusto per agire; non sapevo ancora cosa aspettarmi, ma in una piccola parte del mio cervello era nato il seme del dubbio e della paura: e se fosse stata mandata da Nikolaj? Per quel che ne sapevo lui era ancora in viaggio, ma magari qualche missiva dei suoi fedeli servitori compulsi con la notizia del mio tradimento poteva essergli giunta.
Così con una scusa mi alzai anche io da tavola e seguii Rose e i bambini fuori dalla sala da pranzo. I bambini corsero a giocare in una stanzetta attigua, ma Rose rallentò il passo e rimase indietro, col chiaro intento di aspettarmi.
Come avevo fatto con Yuliya, mi scagliai contro la balia, volendo immobilizzarla per poi soggiogarla e farmi dire chi fosse veramente. Ma la reazione di Rose non fu quella dimessa di Yuliya e mi feci cogliere di sorpresa, soprattutto perché non avevo idea che anche Rose fosse una Strega.
Un istante prima che l’afferrassi, mormorò un incantesimo e mi mandò a sbattere contro il muro di pietra del corridoio. L’urto mi mozzò il fiato per un momento, ma mi riebbi subito.
L’avrei uccisa. Eccome se lo avrei fatto.
Ripartii all’attacco, ma Rose fu più svelta anche questa volta e il mio corpo cozzò nuovamente contro la parete.
«Chi sei? Ti manda la Congrega?» sibilò, venendomi vicino ma continuando a tenermi immobilizzata contro il muro. Ma cosa stava dicendo? Non capivo. Vedevo solo il malcelato terrore delle sue iridi castane e in cuor mio seppi di essere in paradossale, clamoroso vantaggio su di lei. Rose non sapeva controllarsi, io invece sì. Ero nata per essere una predatrice.
«Non giocare con me, Strega» l’apostrofai, «ti ha ingaggiata Nikolaj, vero? Non lo sa che ci vuole più di una streghetta per fermarmi?».
Sul suo volto furibondo passò un’ombra confusa, prima che tornasse ad attaccarmi.
«La Congrega adesso si allea coi Vampiri? E poi sarei io il problema…» esclamò, digrignando i denti per la rabbia, parlando più a se stessa che a me.
Lei non c’entrava niente con Nikolaj. Lei era lì per lo stesso motivo per cui c’ero io: nascondersi.
«Lasciami andare, Strega» le ordinai.
«T-tu non c’entri con la Congrega, vero?» biascicò.
«No» tagliai corto.
L’incantesimo si sciolse e fui libera di muovermi di nuovo. Con uno slancio improvviso presi Rose al collo e la tenni bloccata contro il muro come lei aveva tenuto bloccata me.
«Sia chiaro questo: io mi nascondo, tu ti nascondi. Viviamo in pace e non disturbiamoci a vicenda, va bene?» sibilai al suo orecchio.
«Promettimi che non toccherai i bambini» disse lei a sorpresa.
Credeva davvero che mi sarei nutrita di teneri marmocchi in fasce? Che mostro dovevo sembrare ai suoi occhi.
«Perché dovrei?» esclamai.
«I Vampiri sono malvagi».
«Tutti sono malvagi nel profondo» ribattei.
 
«La città è piena di Vampiri» mi disse Rose, mentre riavviava il fuoco nel camino e i bambini giocavano ad un angolo della stanza. Io stavo seduto sul sofà e studiavo i suoi movimenti.
Forse per la mia relativa inesperienza col mondo, o forse soltanto perché Rose sembrava totalmente sola e in qualche modo mi ricordava chi ero, ma si instaurò subito una certa complicità tra noi. Non voglio dire che mi fidassi di lei –dopotutto eravamo sconosciute l’una per l’altra-, ma l’istinto mi diceva che lei non mi avrebbe attaccata.
Volevo sapere da cosa fuggisse, questo sì. E glielo chiesi.
«Ho praticato la magia nera, ma alla Congrega non è piaciuto, diciamo… mi cercano per uccidermi. Sono scappata dall’Inghilterra circa un anno fa e sono venuta qui. Ma la Congrega non ha mai smesso di cercarmi, forse non smetteranno mai. E hanno Streghe e Stregoni in tutta Europa».
Infrangere le regole… interessante. Rose era una ribelle e dimostrava di avere uno spirito guerriero, così in contrasto col suo apparire un uccellino indifeso.
«Chi è questo Nikolaj, a proposito?» mi domandò.
«Il mio Creatore. Gli avevo giurato di stare con lui per l’eternità, ma io non sono il tipo di persona che ama le cose definitive. Io voglio quello che voglio, e voglio essere libera di fare ciò che voglio».
«Sei un Vampiro da molto?» azzardò, dopo un poco che restava in silenzio.
«Troppo poco» replicai. No, non era il caso di esporsi troppo. Come ho detto, non mi fidavo ancora di lei.





In questo capitolo abbiamo: Emma Stone come Rose Foster, Annabel Scholey come Marchesina, Tom Wlashiha come Marcantonio

            

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Venezia, 1421 ***



Entroterra veneziano – Repubblica di Venezia, 1421
 
Destino ha voluto che a tre anni dal mio arrivo, sia stata costretta a lasciare Venezia.
Mi manca già la città, col suo brulicare di vita, i colori, le feste dell’alta società e gli agi di casa Trevisan. Si ritorna ora alla fuga, a cui credo sarò costretta per il resto della mia vita.
Forse è questo che costituisce l’ordinarietà di un Vampiro: il non avere radici, il vagabondare per il mondo. Aggiunge pepe a questa eternità che altrimenti con l’andare del tempo diventerebbe noiosa.
Questa volta, però, non fuggo sola. Fuggo con Rose.
Qualche giorno fa è arrivata una soffiata al Tribunale dell’Inquisizione di Venezia e Rose è stata accusata di stregoneria e incarcerata. Tra lo scandalo generale, sono venuti sino a palazzo Trevisan e l’hanno catturata, come si cattura un criminale alla macchia o una bestia selvatica da condurre al macello.
Evidentemente qualche membro della sua cara Congrega ha pensato che fosse furbo e molto più comodo lasciare che l’Inquisizione si occupasse di una Strega ribelle, piuttosto che affrontarla a volto scoperto.
Tutti sanno come vanno queste cose: accusa, torture, confessione, rogo. O meglio, a Venezia l’Inquisizione non è mai stata feroce come in altri Paesi -almeno finora-, ma il putiferio scatenato l’altro giorno quando sono venuti a prendere Rose, mi ha fatto subito pensare che avessero prove certe della sua colpevolezza.
Mi sono interrogata a lungo sul da farsi. Salvarla oppure lasciare che venisse uccisa?
Se l’avessi soccorsa, poi sarei dovuta fuggire con lei, mentre se l’avessi lasciata morire, magari sarei potuta restare a Venezia un altro po’.
Ho deciso di aiutarla, ma non senza condizioni. “Le Streghe non fanno mai nulla per nulla”, questo me lo ha sempre detto Nikolaj, “e neppure noi dobbiamo”.
Così ho atteso il giorno del processo, in cuor mio speravo che fosse dichiarata innocente, ma Rose non ha avuto questa fortuna.
Il giorno della condanna, cioè ieri, mi sono recata sul luogo dell’esecuzione, già denso di veneziani curiosi. Rose era là, sopra una pedana di legno, in attesa. Era pallida e disordinata; i vestiti laceri erano li stessi che indossava giorni prima quando era stata arrestata, i capelli sporchi ricadevano in ciocche scomposte ai lati del viso, gli occhi segnati da occhiaie profonde. Qualche graffio sul viso e una ferita più seria sul sopracciglio confermavano che non aveva subìto un trattamento gentile.
Gli occhi di Rose percorrevano, sgomenti, la folla, e si sono bloccati quando hanno incontrato i miei. Gliel’ho letta in viso, quella domanda che mi sono posta anche io: “mi salvi, o mi guardi morire?”. Ho curvato impercettibilmente le labbra, in quello che voleva essere un mezzo sorriso di incoraggiamento, ma non so se Rose abbia capito che ero lì per salvarla.
«Venuta a goderti lo spettacolo, Vampira?» ha bisbigliato una voce al mio orecchio. Mi sono voltata di scatto, e ho incontrato gli occhi grigi di uno Stregone sulla cinquantina, più basso di me di qualche centimetro. Un ghigno soddisfatto si è disegnato sul suo volto, mentre io sono rimasta impassibile, non ancora del tutto riavutami dalla sorpresa.
«Esattamente. Come tutti gli altri…» ho risposto dopo qualche istante.
«Non ti conviene fare sciocchezze, Vampira. Non sono l’unico Stregone qui».
Quale blanda minaccia! Credeva forse di spaventarmi? Gli avrei riso in faccia. Povero illuso! Solo perché hanno il dono della magia, le Streghe tendono sempre a sentirsi un po’ superiori alle altre Creature, senza tenere in conto delle qualità che le altre possiedono.
Ho sollevato, sdegnosa, un sopracciglio e ho risposto:
«Davvero?». Ho allungato un braccio verso la donna che stava in piedi affianco a me, ignara di tutto, concentrata com’era a fissare il palco. Le ho strappato il cuore dal petto senza che neppure un gemito lieve uscisse dalle sue labbra.
Era il momento di agire.
«Ops, non era una Strega?» ho chiesto, retoricamente, sorreggendo il cadavere di quell’innocente che aveva avuto solo la colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’ho spinta tra le braccia dello Stregone e sono scattata a velocità vampiro sul palco, ho preso Rose per le braccia e l’ho trascinata via, riprendendo la mia corsa soprannaturale.
Tra il clamore generale ho scorto quattro figure inseguirmi, incantesimi scagliati a caso, nel vano tentativo di colpirci. Rose era un fagotto inerte tra le mie braccia e a malapena la sentivo respirare, forse ancora sconvolta per quel mio salvataggio avventato e senza preavviso alcuno.
Ho imboccato un vicoletto laterale, in cui quasi non riuscivo a passare, tanto era stretto. Era un vicolo cieco, se non si teneva conto del fatto che terminava nientemeno che sull’acqua di uno dei numerosissimi canali che scorrono fra gli edifici di Venezia.
Che fare? Mi avrebbero raggiunta e non avrei avuto scampo. Rose era debole e per di più, la sua magia era impedita da pesanti manette di ferro che avevo subito riconosciuto come un artefatto che aveva il potere di privare una Strega della sua magia fintanto ché venivano indossate.
Ho gettato Rose nel canale e mi sono tuffata subito dopo di lei. Il suo corpo ha toccato il fondo melmoso e lì è rimasto, la risalita impedita dal peso delle catene. Ho sperato che avesse preso fiato a sufficienza, perché non sapevo per quanto saremmo dovute rimanere lì nascoste.
Ho sentito le Streghe e gli Stregoni affacciarsi sul canale, senza indovinare che eravamo proprio sotto i loro piedi. Poi se ne sono andati e dopo qualche secondo, ho deciso di arrischiarmi a risalire.
E così ho salvato Rose e siamo scappate alla villa estiva dei Trevisan, nelle campagne fuori Venezia. Ho dovuto soggiogare tutta la servitù, affinché si dimentichino di noi nel momento stesso in cui usciremo di qui.
Rose riposa adesso. Le ho dato il mio sangue e pare essersi ripresa, almeno fisicamente. Non so –e forse non mi racconterà mai- di quello che è accaduto nei giorni di prigionia e delle torture subite. Non c’è nulla che io possa fare per il suo dolore spirituale, che solo il tempo saprà lenire.
Non so dove andremo adesso. Ma le ho detto ciò che voglio: voglio che sia la mia Strega. Un Vampiro ha sempre bisogno dei servigi di una Strega; Nikolaj ne aveva almeno tre o quattro al suo servizio.
Rose ha accettato. Non mi tradirà, di questo ne ho la certezza. Il suo animo è buono e poi resta il fatto che l’ho salvata e di questo mi sarà sempre riconoscente. Certi gesti non si dimenticano mai e sempre ci si sente in debito, non importa quanto tempo passi o i tentativi che si fanno per ripagare quel debito.
Sto pensando a Nikolaj? Forse. Anche lui mi ha salvata, eppure io l’ho tradito.
Non ho l’animo buono di Rose, io.


 
Cogliamo l'occasione per ringraziare di cuore chi segue questa storia e la recensisce, e chi legge in silenzio. La vita di Kath è un'avventura, nel vero senso della parola, e scrivere di lei è davvero stimolante! Quindi grazie a chi si è appassionato, a chi ci ha detto cosa ne pensa e a chi ancora non l'ha fatto.
Come sempre, siamo impazienti di avere un vostro parere!
Warlock&Vampire

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Vienna, 1423 ***



Vienna – Sacro Romano Impero, 1423
 
Una locanda tra le vie chiassose di Vienna è la nostra dimora –mia e di Rose- da alcune settimane. Il cibo è pessimo, gli ambienti poveri e sporchi, la gente stupida e ubriaca.
Purtroppo non abbiamo scelta. Rose è malata e non riusciamo a spostarci altrove.
Se solo l’aria di questa città fosse più salubre… ma c’è invece questo perenne sentore di morte, questa nebbia fina che opprime.
Porterei Rose al mare, se fossi certa che il viaggio non la ucciderebbe.
La peste nera del ‘47-‘48 ha mietuto vittime ovunque e solo ora pare quasi debellata. Il destino crudele ha voluto che Rose fosse vittima degli ultimi strascichi della pandemia che ha decimato l’Europa.
Con sgomento ho scoperto che il mio sangue, sangue di Vampiro, non è in grado di curarla. Quando ne offro qualche goccia a Rose, pare rimettersi subito, ma poi lo rigetta e risprofonda nei dolori della malattia.
La guardo ora agitarsi nel sonno e mi chiedo cosa posso fare ancora per lei, senza avere risposte. L’inutilità del mio sangue è stata una scoperta atroce, per me che credevo di potere tutto. Nikolaj non mi ha mai detto che esso funziona solo per alcune cose e per molte altre no.
Forse, essendo una malattia mortale, è troppo per i poteri soprannaturali del mio sangue.
Ma se io pugnalassi Rose al fianco e poi le dessi il mio sangue, lei guarirebbe… dunque perché con la peste non funziona?
Forse dovrei solo smettere di arrovellarmi su questo punto e pensare ad un’altra soluzione.
Rose mugugna parole sconnesse nel sonno, la fronte è imperlata di sudore, è pallida come se fosse già morta.
«Kat…» mi chiama. Vado da lei.
 
È sera ormai. Ho acceso il fuoco nel camino e ho portato una zuppa a Rose, sebbene lei non l’abbia degnata che di uno sguardo. Non è in grado di mangiare.
Sta semisdraiata sul letto, un secchio a portata di mano in caso di conati di vomito, una pezza umida nell’altra mano. È sveglia, mi guarda scrivere queste parole, forse si chiede cosa stia pensando veramente, al di là di ciò che dissimulo.
«Dovresti andare a caccia» mi sussurra con voce flebile.
È vero, dovrei. Sono giorni che non mi nutro e lo avverto, mi sto lentamente essiccando. Ma la verità è che ho paura; paura di andarmene e tornare trovando Rose morta nel letto di questa catapecchia, sola.
«Ho azzannato la cameriera poco fa, se ti interessa» ho mentito.
Anche lei lo sa, sa che ho mentito, ma non commenta.
Sento il suo cuore battere debole, il suo respiro affannoso, la vita che scivola via da lei ad ogni minuto che passa. Ha un sussulto e vomita senza ritegno nel secchio che stringeva tra le braccia.
«Porta via quella schifezza» sussurra, riferendosi alla zuppa fumante poggiata sul comodino accanto a lei.
 
Così ho sospeso la scrittura e sono andata da lei. Ho lanciato fuori dalla finestra quell’intruglio grigiastro i cui ingredienti resteranno per sempre un mistero e poi mi sono seduta sulla sedia di legno al capezzale di Rose.
Lei ha sorriso debolmente, i suoi occhi stanchi mi hanno fissato a lungo e io ho atteso. So che quando mi fissa, deve dirmi qualcosa.
«Che c’è?» le ho poi chiesto, visto che non parlava.
«Morirò, Kat» ha mormorato.
La voce le tremava appena, incapace di contenere l’emozione.
«Non voglio» ha aggiunto con un sospiro doloroso. Io non ho detto nulla, non avevo parole.
«Immagino che tu non voglia. Chi vorrebbe andarsene alla tua età?».
«Ho sempre voluto morire a casa mia, da vecchia Strega» ha detto, come se non avesse affatto sentito le mie parole, «poi mi sono arresa al fatto che non sarei più tornata in Inghilterra, ma non pensavo che sarei dovuta morire così giovane e a causa della peste, per giunta».
Le è venuto un attacco di tosse e ci è voluto un po’ perché si riprendesse.
«Ti avrei curata, se avessi potuto» ho mormorato, «perché non lasci che cerchi una Strega in città? E’ pieno di gente, qui. Ci sarà pur una Strega da ingaggiare. Magari ha qualche incantesimo, qualche intruglio schifoso da farti bere e con cui guarirai».
Su questo punto avevamo già discusso a lungo i giorni precedenti, ma ugualmente ho sentito di dover tentare di nuovo. Rose però è ferma sulle sue posizioni; non vuole che cerchi una Strega per le vie di Vienna, crede che sia pericoloso e inutile. Forse ha ragione, ma non voglio lasciarla morire senza aver tentato di tutto prima. Non me lo perdonerei mai, lo so per certo. Almeno a me stessa devo ammettere di tenere a Rose più che a chiunque altro.
«Kat» ha sussurrato, «trasformami».
Trasformarla? Quando me lo ha chiesto, non volevo crederci.
«Cosa hai detto?» ho esclamato, ben sapendo di non aver frainteso, di aver sentito bene.
«Hai capito, dai. Io non voglio morire e diventare come te è l’unica soluzione».
«Non sei fatta per essere un Vampiro!» ho protestato, «sei nata come Strega».
La mia mente intanto lavorava febbrile, immaginando un futuro in cui lei è un Vampiro, ma resta comunque al mio fianco, proprio come lo è sempre stata da Strega.
La verità è che Rose è troppo buona per essere un Vampiro, troppo sensibile, troppo gentile, troppo umana. Cosa ne sarà di lei una volta che l’avrò uccisa e si risveglierà guarita dalla peste ma definitivamente morta? Nessuno sa come reagirà. Potrebbe accettare la sua nuova natura, oppure potrebbe odiarmi per il resto dell’eternità.
«Non avresti più i tuoi poteri, non invecchieresti, saresti costretta a bere sangue… lo sai tutto questo, vero?» ho detto, come se volessi persuaderla a cambiare idea. In realtà, da quando me lo ha detto, voglio che lei sia un Vampiro. Non potrei sopportare di vederla morire adesso.
«Però vivrei… e poi non mi dispiace l’idea che tu sia la mia Creatrice. Un legame particolare ci legherebbe per sempre» ha mormorato, più a se stessa che a me.
Anche Nikolaj ha sempre parlato di questo presunto legame che legherebbe ogni Vampiro al suo Creatore. Esso non mi ha impedito però di lasciarlo. Ma forse questo legame è qualcosa di più profondo del semplice distacco fisico, qualcosa di molto più intimo e segreto…
«Dovrai cercarti un’altra Strega però. Io sarei inutile per te» ha aggiunto, asciugandosi poi la fronte madida di sudore.
Ci siamo guardate a lungo. Forse Rose avrebbe voluto che per una volta io la smentissi e dicessi che no, lei non sarebbe stata inutile per me. Invece ho taciuto, incapace di rivelarle quanto io profondamente tenga a lei.
«So che non vuoi che io muoia» ha bisbigliato, tra un rantolo e l’altro dei suoi faticosi respiri.
No, non voglio che muoia.
«Quando vuoi che ti trasformi?» le ho chiesto, un sorriso divertito che mi aleggiava sulle labbra. Spero che questo sia sufficiente a Rose per capire che lei è importante per me, che voglio che viva e soprattutto, che la voglio al mio fianco.
«Immagino che dovrai fare in fretta» ha mormorato Rose prima di ributtarsi sul secchio e vomitare anche l’anima.
Lo sforzo di parlarmi, di cercare di sostenere il suo spirito debole e il suo corpo malato l’hanno stremata e lei è tornata a dormire.
Se voglio trasformarla, devo farlo in fretta, sì. Il suo corpo rigetta il mio sangue come cura, quindi immagino che dovrà berlo e poi dovrò ucciderla subito, prima che possa rigurgitarlo.
È rischioso, potrebbe non funzionare, ma devo tentare comunque.
Appena si risveglierà, procederemo.
 
La trasformazione di Rose è stata veloce.
Sono andata da lei non appena ha aperto gli occhi e le ho detto che l’avrei trasformata senza aspettare un minuto di più. Le sue condizioni si aggravano molto velocemente e sono stanca di vederla stare male, stanca di stare qui.
E poi ho paura che cambi idea e non voglio lasciarle il tempo di farlo.
Rose non ha replicato alle mie parole; l’ho preso per un sì.
Così mi sono morsa il polso e l’ho posto a lei, che ha avvicinato le labbra e ha ingurgitato il sangue che zampillava dalla ferita. In un attimo il suo volto è cambiato: il dolore che le deformava i tratti ha lasciato posto al sollievo. Ha sospirato, beandosi per un attimo di quella sensazione passeggera, ma non avevamo tempo da perdere.
«Giusto perché tu sia avvisata, adesso ti uccido» ho detto.
Ricordo il modo violento di Nikolaj di uccidermi, così, senza alcun preavviso e ho ritenuto giusto dire a Rose quando sarebbe accaduto. Non importa se non ha avuto tempo di rendersene conto, forse è meglio così. In ogni caso, quando si risveglierà non potrà dire che non gliel’avevo detto.
Le ho spezzato il collo con un veloce movimento e ho fissato per qualche minuto il suo cadavere riverso sul letto. L’ho sistemata meglio e poi sono andata a fare “acquisti”.
Prima cosa: anello solare.
Giorni prima avevo avvistato una Vampira al mercato della frutta. In quel momento non mi era importato di sapere chi fosse o da dove venisse, ma adesso mi sarebbe tornata utile. Aveva un bellissimo anello solare al dito e a me serviva un bellissimo anello solare.
A Vienna c’è un pub frequentato da creature soprannaturali ed è proprio lì che mi sono diretta. Sapevo che l’avrei trovata lì e così è stato.
Sono entrata e lei era seduta al bancone, i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena. Il pub era piccolo, male illuminato eppure pieno di gente. Non avrebbero fatto caso a me.
Mi sono avvicinata a lei e subito ho notato il suo anello solare riflettere la luce delle candele del locale, richiamare la mia attenzione.
Ho estratto il coltello e a velocità vampiro le ho tagliato le dita e ho preso l’anello.
«Scusa, mi serviva» ho detto, «vienitelo a riprendere se sei capace».
E come sono apparsa, sono scomparsa, scappando di nuovo a velocità vampiro fuori da lì.
Non so cosa sia successo dopo, se qualcuno mi abbia inseguita, se la Vampira un giorno cercherà vendetta… non so nulla. Sono uscita dal pub e sono corsa via, imboccando stradine laterali e scorciatoie per ritornare alla locanda.
Seconda cosa: sangue.
Questo è stato molto più semplice. Alla locanda ho soggiogato una cameriera e l’ho portata nella camera che condivido con Rose. So che a lei non andrà l’idea di morderle direttamente il collo per nutrirsi, è troppo presto ancora, così ho chiesto alla cameriera di versare un po’ del suo sangue in un calice. Visto che c’era, le ho chiesto di versarne uno anche per me e l’ho trangugiato subito, ancora scossa per il mio “attacco” nel pub. Nikolaj sarebbe fiero di me.
Ora non resta che aspettare che Rose si svegli.
Non dovrebbe mancare molto. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Firenze, 1478 ***


#pazzisgoingtokillus ...detto questo, buona lettura!

Firenze, 1478
 
Io e Rose arrivammo a Firenze nel 1472, quando la città era già sotto il controllo di Lorenzo De’ Medici, poi chiamato Il Magnifico. Abbiamo girato per qualche tempo in Europa dopo la trasformazione di Rose, un po’ perché volevo che lei si abituasse alla sua nuova natura, un po’ perché le settimane di clausura in quella bettola di Vienna mi avevano esaurita e avevo bisogno di cambiare aria, vedere posti nuovi, godermi la vita insomma.
Avevamo sentito dire che Firenze sotto i Medici era fiorita e così ci recammo lì nel 1472. Sono passati un po’ di anni da allora, ma resta il periodo più bello della mia vita quello vissuto a Firenze. Perlomeno finora.
Ci stabilimmo presso una ricca famiglia della città, com’è ovvio, ma ben presto cambiammo residenza e ci spostammo dai Medici. Il motivo? Molto semplice. Ebbi l’occasione di conoscere Lorenzo e suo fratello Giuliano ad un ricevimento e da lì poi ad altri che seguirono, danzai e conversai con lui e finii col diventare sua ospite. Rose naturalmente mi seguì.
Lorenzo era bello e incredibilmente intelligente e acculturato, nonché un ottimo stratega politico. I numerosi tentativi nemici di sovvertire il suo governo sulla Repubblica non lo aveva piegato e continuava mirabilmente ad amministrare i suoi possedimenti.
Amava le arti, scriveva versi,… aveva un’anima romantica, nonostante il suo infausto matrimonio con una donna che non amava e che non avrebbe mai saputo comprendere la sua grandezza o anche solo apprezzare la vastità del suo sapere.
Si vociferò sull’arrivo a Palazzo Medici di Rose e me, ma Lorenzo non diede adito a scandali pubblici e seppe mantenere segreto il nostro rapporto. Forse anche per questo nostro “trasgredire le regole” fu molto divertente sin dall’inizio.
Quando dovetti andarmene con Rose da Firenze, fu un dolore indicibile che mi portò quasi a pensare che forse spegnere le mie emozioni avrebbe potuto curare il mio animo ferito. Ma avevo Rose e avevo gli insegnamenti di Nikolaj, che decenni prima mi aveva messa in guardia dallo spegnere le proprie emozioni. “Essere fuori controllo è il primo passo per divenire facili prede”, diceva.
Lasciai la città e il mio adorato Lorenzo il 26 aprile 1478, a seguito della Congiura che portò alla morte di Giuliano, suo fratello.
Quella mattina mi svegliai al fruscio delle coperte del letto di Lorenzo, che si era appena alzato e che se ne stava mezzo nudo in fondo alla stanza, bevendo a piccoli sorsi un bicchier d’acqua. I nostri occhi si incrociarono e gli sorrisi.
«Dovresti alzarti, pigrona» mi redarguì scherzoso, «abbiamo la messa a Santa Maria».
«Preferisco stare qui, se questo significa che potrò continuare a guardarti, così… a torso nudo» replicai, mordendomi le labbra per soffocare un sorriso.
Lorenzo scosse la testa e si scolò il bicchiere, poi andò alla finestra e rimase a guardare per un po’ la città di fuori. Una volta voltatosi di nuovo verso di me, disse:
«Sei bellissima, Katerina».
«Adulatore» ribattei.
«Vuoi dell’acqua anche tu?» mi domandò poi, dirigendosi nuovamente verso il basso tavolino che ospitava le bevande. Non attese una mia risposta e mi riempì un bicchier d’acqua.
Io lo guardavo muoversi, rapita dai suoi movimenti sinuosi, dal contrarsi quasi distratto dei suoi muscoli. Sarebbe potuto essere un predatore, un Vampiro eccezionale; ma a Lorenzo piaceva la sua umanità, l’idea del trascorrere del tempo. Me lo aveva detto molte volte e io avevo ormai deciso di rispettare le sue scelte.
Sì, lui sapeva che io e Rose eravamo delle Vampire. Inizialmente lo avevo soggiogato perché non ne fosse spaventato, ma lui era semplicemente interessato alla cosa, non la temeva. Aveva voluto sapere tutto di me e mi aveva concesso di bere il suo sangue in molteplici occasioni. Non so se lo facesse perché temeva che avrei ucciso l’intero Palazzo o perché era un gesto così intimo e di fiducia, da consolidare ancora di più il nostro rapporto.
«Mia signora» disse col suo solito tono scherzoso, porgendomi il bicchiere pieno.
«Vi ringrazio, mio signore» risposi, reggendo il gioco.
«Effettivamente, i ruoli dovrebbero essere opposti. Dopotutto sono io che governo Firenze» rifletté a voce alta Lorenzo.
Bevvi l’acqua e poi mi alzai dal letto, incurante della mia completa nudità, raggiunsi Lorenzo che era di nuovo alla finestra e lo strinsi a me.  I suoi occhi color del ghiaccio bruciavano ardenti di desiderio e mi baciò.
Facemmo l’amore un’altra volta, prima che Lorenzo si decidesse a rivestirsi e prepararsi per la messa a Santa Maria del Fiore col cardinale.
Io tornai nelle mie stanze per rivestirmi a mia volta, e poi attesi con Rose che tutta la famiglia fosse pronta per andare alla cattedrale.
Non immaginavo nemmeno del pandemonio che sarebbe scoppiato di lì a poco.
 
Giungemmo alla cattedrale già gremita di fedeli di tutte le classi sociali e prendemmo posto tra i primi banchi, che erano per convenzione riservati ai Medici e alle altre famiglie della Signoria.
Il cardinal Riaro Sansoni iniziò la messa. L’ultima funzione a cui avevo assistito era in greco, nel Regno Bulgaro; questa invece era in latino e non capivo molto, ma ciò non era della minima importanza per me, che non ero mai stata molto credente nemmeno da umana.
Tutto fu nella norma fino all’omelia. Quando Sansoni si mosse verso il pulpito, scoppiò quel putiferio di cui ho accennato prima.
Uomini sguainarono spade e pugnali e, prima che qualcuno potesse fare qualcosa, si avventarono su Giuliano de’ Medici e lo uccisero senza pietà. Il loro secondo obiettivo era proprio Lorenzo, ma i suoi fedelissimi erano ormai pronti a reagire e ingaggiarono una lotta furiosa contro i congiurati.
Tra urla e schiamazzi l’assemblea di sciolse, il cardinale fu portato via e nella cattedrale non rimasero che le fazioni dei Medici e dei Pazzi, a combattere duramente per il controllo di Firenze. Anche le donne erano fuggite, tutte meno che Rose e me.
Il mio pensiero era tutto per Lorenzo. Così ordinai perentoriamente a Rose di mettersi in salvo da qualche parte dove poi l’avrei raggiunta; lei ubbidì, correndo fuori dalla chiesa e lasciandomi sola. A quel punto mi gettai nella mischia per cercare Lorenzo.
Lo vidi combattere, vicino all’altare maggiore, aiutato da alcuni dei suoi. Fu ferito alla spalla e tentennò per un momento, preda del dolore. I suoi movimenti con la spada si fecero più lenti. Era diventato un bersaglio facile.
Scansai un po’ di soldati, senza sapere se fossero coi Medici o contro di loro, e corsi da Lorenzo. Sarebbe morto in quel momento, se un giovane non si fosse frapposto tra lui e la spada di uno dei traditori della Signoria, sacrificandosi per lui.
Lo avevo raggiunto ormai, non senza fatica, e dopo quello che avevo visto, avevo proprio bisogno di sfogare il mio raptus omicida. Mi avventai sul soldato che aveva tentato di uccidere Lorenzo, gli azzannai il collo e, una volta nutritami, gli strappai il cuore dal petto e con uno schiaffo a velocità vampiro gli staccai la testa, che volò sull’altare.
Senza guardare in faccia nessuno, col bel vestito, che Lorenzo mi aveva segretamente regalato qualche tempo prima, sporco di sangue, presi Lorenzo per mano e corsi fuori dalla chiesa, consapevole del fatto che tutti lì dentro avevano visto ciò che avevo fatto.
Una volta fuori, individuai Rose all’angolo di una via e la raggiunsi, Lorenzo al seguito.
Gli diedi il mio sangue per curare la ferita alla spalla e poi tornammo al Palazzo dei Medici.
«Ma sei pazza, Katerina?! Ti hanno vista tutti in chiesa» esordì Lorenzo una volta raggiunto il salone d’ingresso.
«Lo so. Dovrò andarmene adesso» replicai, quasi incapace di guardare il mio adorato Lorenzo negli occhi.
«Cosa? No, Kat… non puoi andare via. Io ti amo» mi pregò Lorenzo, facendosi più vicino e prendendomi le mani nelle sue. Le mie mani, che ancora erano rosse del sangue del nemico.
«Metterei in pericolo la mia vita e la tua, se restassi. Per non parlare della tua carriera. Alla Chiesa già non piace la tua famiglia, cosa succederebbe se si sapesse che il Gonfaloniere ha una relazione clandestina con una Vampira? Verresti accusato di eresia…».
Lorenzo tacque, riflettendo sulle mie parole. Ma non c’era proprio niente su cui riflettere; non c’erano alternative per me e Rose. Sapevo che prima o poi avrei dovuto lasciarlo, anche se mi aspettavo un addio diverso per noi. Eppure non avevo potuto resistere, ero dovuta intervenire per salvarlo.
«Katerina» mi richiamò Rose, della cui presenza mi ero quasi completamente dimenticata, «non abbiamo molto tempo».
«Va’, Rose. Prepara i bagagli. Ti raggiungo subito» le ordinai.
Tornai poi a guardare Lorenzo e gli presi il volto tra le mani, baciandolo con passione. Lui mi strinse a sé per quella che sarebbe stata l’ultima volta e per l’ultima volta fissai lo sguardo nei suoi occhi color del ghiaccio, che mai avrei dimenticato.
«Non dimenticarti di me» disse lui.
«Mai» risposi.
Poi lo lasciai andare, mi voltai e corsi verso le mie stanze, senza mai voltarmi indietro.
Era tempo per me e Rose di ricominciare daccapo, di trovare una nuova casa.



In questo capitolo, il bel Torrance Coombs nei panni di Lorenzo de' Medici

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Madrid, Malaga, 1519 ***


Madrid, Malaga, Cuba - 1519
 
Nel 1492 Cristoforo Colombo scoprì il continente americano e in Europa si sparse la voce delle immense ricchezze che custodiva, nonché di certe popolazioni selvagge che nei decenni successivi vennero trucidate dai conquistatori europei durante le loro spedizioni alla scoperta del Nuovo Continente.
Nel mondo soprannaturale, la scoperta dell’America portò al fiorire di innumerevoli leggende su creature magiche e oggetti oscuri che i selvaggi nascondevano. In particolare, si diffuse in tutta Europa una voce in merito all’esistenza di un Diamante Oscuro dai poteri non meglio identificati.
Ero in Spagna quando ne sentii parlare e maturò in me il desiderio di partire per l’America. Sarei stata forse se non la prima, comunque tra le prime donne europee a compiere un simile viaggio. Volevo quel Diamante, non tanto per usarlo, quanto perché era un oggetto oscuro e desiderato da molti, e avere un asso nella manica in più non ha mai fatto male a nessuno.
Rose in quegli anni non era con me. Aveva continuato a girovagare per l’Europa da sola dopo quanto accaduto a Firenze e la nostra precipitosa partenza. Io, del resto, avevo bisogno di tempo e del giusto spazio per riprendermi dalla burrascosa separazione da Lorenzo. Mi era inoltre giunta notizia della sua morte e questo non aveva fatto altro che incrementare il mio desiderio di separarmi da Rose e stare da sola per un po’.
Forse questo era ciò che volevo ottenere tramite il viaggio in America che avevo progettato; volevo sentirmi di nuovo viva, ritrovare la vecchia me, dimenticare il passato e soprattutto il dolore per Lorenzo.
Nel 1511 gli spagnoli avevano conquistato Cuba, nelle Antille, ed era ormai di dominio pubblico in Spagna che Hernan Cortés avrebbe guidato una nuova spedizione alla conquista del Messico. Era mia intenzione raggiungere Cuba e poi da lì iniziare la ricerca del Diamante.
Come di consueto, avevo preso alloggio presso dei ricchi nobili vicini alla famiglia reale spagnola, così da prendere parte con loro ai vari ricevimenti di corte. Si parlava spesso di Cortés e dell’America in quelle occasioni e del denaro che la corona spagnola avrebbe investito nelle spedizioni nel Nuovo Mondo, in particolare di una che sarebbe partita di lì a qualche settimana per Cuba, per portare rifornimenti alle truppe di Cortés già sul luogo e per consentire ad un gruppo di scienziati e intellettuali di raggiungere il Nuovo Mondo e iniziare gli studi di questa terra prima sconosciuta.
Era l’occasione perfetta per me per iniziare la ricerca del Diamante Oscuro.
 
Arrivai a Malaga qualche giorno prima della partenza, da dove sarebbe salpata la nave spagnola diretta a Cuba.
Quando mi recai al porto per intraprendere il mio viaggio era mattino presto e lì si trovavano solo i membri dell’equipaggio e coloro che sarebbero partiti, tra cui si contavano quegli scienziati e quei letterati curiosi di scoprire il Nuovo Mondo.
Il fatto di essere una donna mi aveva costretta a soggiogare tutti per poter salire anche io a bordo, questione di cui mi ero occupata nei giorni precedenti alla partenza.
Salpammo dopo poco. Le acque erano agitate e il vento sferzava, ma era assolutamente meravigliosa quella distesa blu che occupava tutto l’orizzonte. Mi rimandò al viaggio compiuto decenni prima per scappare da Nikolaj a Venezia, alla vita febbrile a bordo della nave, ai tramonti che coloravano il mare di arancio e alle albe rosate.
Non passarono molte ore, purtroppo, prima che una tempesta atlantica ci investisse in pieno. Fu un’esperienza terribile, a parte per il vento e la bufera, per tutta quella presunta virilità che era sulla nave con me e che era scossa da conati di vomito e urla. Li avrei volentieri ammazzati tutti.
Passata la tempesta il viaggio proseguì pressoché tranquillo e in un mese e mezzo circa sbarcammo sulle coste cubane, un afoso pomeriggio di settembre. Solo Dio poteva sapere quanta voglia avevo di nutrirmi come si deve.
Mentre il resto dell’equipaggio si occupava della nave e gli intellettuali si aggiravano stupiti sulle spiagge, io mi incamminai per raggiungere il villaggio più vicino.
Il colore di quel giorno era rosso. Non riuscivo a vedere altro. Rosso sangue.
Grazie ai miei sensi sviluppati individuai un villaggio che distava circa due ore da lì per un umano. Ma per me che ero un Vampiro, non ci vollero che pochi minuti. Senza che nessuno se ne rendesse conto –nemmeno io-, i muscoli si tesero al massimo e mi spuntarono i canini. Mi avventai su chiunque incrociasse il mio cammino, mordendo e succhiando avidamente il sangue delle mie povere vittime.
Il loro sangue aveva un nonsoché di diverso dal sapore del sangue di noi europei. Era buono.
Dopo un’ora non restava anima viva in quel villaggio. Avevo ucciso uomini e donne. I bambini li avevo visti fuggire via chissà dove, forse diretti al villaggio più vicino. Non vado fiera di quello che ho fatto, ma questa è la mia natura. Io sono un Vampiro, un predatore, e mi comporto di conseguenza. Inoltre non mi nutrivo così bene da molto tempo e il mio fisico iniziava a risentirne. Ora ero finalmente sazia, al massimo delle mie capacità, e potevo concentrarmi sul mio vero obiettivo.
Per prima cosa, cercai la dimora di Cortés. Era una residenza colonica piuttosto spartana, anche se era mille volte meglio delle capanne in cui abitavano gli indigeni. Vi entrai, indisturbata, e captai subito la presenza del Conquistatore.
Lo trovai seduto alla scrivania del suo studiolo e mi diressi subito verso di lui, con l’intento di soggiogarlo. Aveva i capelli raccolti in un codino sulla nuca, neri come la barba. La sua imponenza si indovinava già da seduto, le spalle larghe e i muscoli scolpiti sotto la sottile camicia di lino. Levò gli occhi scuri su di me e balzò in piedi, stupito.
Con uno scatto a velocità vampiro lo raggiunsi e dissi: «stai calmo, non ti farò nulla se mi aiuterai».
«No, mia cara. Questo con me non funziona» mi interruppe lui con nonchalance, la sorpresa ormai sfumata dai suoi tratti.
«Ah, prendi la Verbena» osservai, cercando di non mostrarmi stupita, «vorrà dire che ti dissanguerò».
Ma Cortés reagì d’improvviso; prese la candela che aveva sul tavolo e me la lanciò contro. La cera sciolta mi ustionò la pelle delle braccia e il vestito prese fuoco. Mentre ero intenta a spegnere le fiamme, Cortés prese un paletto di legno, mi trapassò lo stomaco e finii bloccata contro il muro. Mai nessun umano era riuscito a cogliermi così di sorpresa.
Il paletto era intinto nella Verbena e sentivo la carne a contatto sfrigolare, mentre il mio corpo si indeboliva sempre di più.
«Vorrei almeno conoscere la vostra identità, prima di uccidervi, mia signora».
«Katerina Petrova» replicai a denti stretti, «e solo un altro uomo è riuscito a mettermi al muro in questo modo, ma per ben altro…».
«Be’ effettivamente sarebbe un peccato sprecare un potenziale così alto...» disse Cortés, squadrandomi con occhio critico e malcelato desiderio.
Ne approfittai per reagire; con un calcio ben assestato lo feci volare dal lato opposto della stanza, poi estrassi il paletto dal mio stomaco e mi diressi verso Cortés, che era ancora a terra. Lo sollevai prendendolo per il collo e dissi: «già, sarebbe proprio un peccato. Ho cento anni, pensi davvero che un paletto intriso di Verbena possa bastare per sconfiggermi? Ma lo ammetto, bella mossa».
Cortés ghignò, forse indovinando già che non l’avrei ucciso. Non quel giorno almeno.
Allentai la presa e lui si divincolò, restando in piedi a fissarmi.
«Visto che non mi avete ucciso, deduco che vogliate qualcosa da me» esclamò, dopo un paio di respiri profondi che gli servirono a riprendersi dal mio contrattacco. Si diresse verso la poltrona della scrivania e mi indicò una sedia all’altro capo del tavolo. Presi posto e risposi:
«Sì, mi serve il tuo aiuto per trovare un oggetto occulto che, secondo ciò che si dice, si trova a Tenochtitlàn. Ne sai qualcosa?».
«Un momento. Perché vi dovrei aiutare?».
«Perché potrei accidentalmente aver scatenato le ire degli indigeni che tu faticosamente avevi portato dalla tua parte e potrebbe servirti il mio aiuto… un aiuto soprannaturale» risposi, fissandomi le unghie delle mani, perfettamente perfette, come se quello scontro avvenuto qualche minuto prima non fosse mai esistito.
«Che cosa avete fatto?» ringhiò Cortés, stringendo i pugni sui braccioli della sua poltrona.
«Ho sterminato un villaggio. Avevo fame, sai com’è» risposi, con un sorriso sfrontato.
«Sei completamente pazza, tu non sai quello che hai fatto! Avresti dovuto informarti sulle leggende locali prima di fare una cosa simile! Non hai solo messo a repentaglio i miei piani di conquista, ma le nostre stesse vite…» urlò Cortés, lisciandosi i capelli con le mani, quasi incapace di mantenere la calma.
«Cosa vuoi dire?».
«La gente del posto adora il Giaguaro. La leggenda narra che il Giaguaro protegga le persone dai demoni e dalle forze del male. Purtroppo per te, anche qui conoscono i Vampiri e pare che rientrino nella categoria di quelle forze malvagie. Tra non molto gli indigeni si mobiliteranno e chiederanno aiuto al Giaguaro».
«Questa è solo una stupida leggenda» ribattei, piccata.
«Molta gente crede che Vampiri e Licantropi siano solo leggende. Il Giaguaro, nel Nuovo Mondo, è il corrispondente del Licantropo in Europa… pensi ancora che sia una stupida credenza popolare?».
Effettivamente quello che diceva Cortés era plausibile, anzi, molto plausibile. E poi, chi è un Vampiro per dire che la leggenda del Giaguaro è mera finzione?
«Bene, abbiamo un accordo allora. Io aiuto te e tu aiuti me».
«Sì, un Vampiro mi farebbe comodo, considerando che l’ultima volta sono morti trenta uomini per ammazzare un solo Giaguaro» replicò Cortés, forse col vano intento di spaventarmi.
«Non mi fanno paura quei gattini» ribattei.
Cortés sorrise, un senso di sfida si leggeva nel suo sguardo.




Con questo capitolo vi auguriamo buone vacanze di Pasqua! Un grazie speciale a chi continua a seguire le avventure di Katherine, buona lettura e buona Pasqua <3

Warlock&Vampire

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Cuba, 1519 ***



Cuba - 1519
 
Sono passati tre giorni dalla battaglia contro gli indigeni e il Giaguaro e ci stiamo imbarcando alla volta di Tenochtitlàn. Perlomeno Cortés sta rispettando gli accordi presi.
Ma andiamo con ordine.
Due giorni dopo il mio colloquio con Cortés, c’è stata la Luna piena e gli indigeni si sono mobilitati contro di noi. Poco male, era tutto così prevedibile. Questi isolani non hanno molta inventiva. Sono arrivati marciando fino alla radura vicina alla villa di Cortés, dove l’esercito di spagnoli ed io li stavamo già aspettando.
Cortés, da bravo diplomatico, ha cercato prima di tutto di risolvere la faccenda pacificamente, ma questi cubani avevano sete di vendetta a quando pare, perché non hanno voluto sentire ragioni.
La battaglia è scoppiata sotto i miei occhi in men che non si dica e ho assistito al massacro dei due eserciti contrapposti. Dalla mia posizione in disparte riuscivo a vedere Cortés mulinare la spada con maestria. Io, d’altro canto, non mi sono immischiata. Ogni tanto qualche indigeno coraggioso veniva verso di me per attaccarmi, finendo spinto lontano per metri oppure morso e dissanguato dalla mia sete insaziabile.
Sono entrata nella mischia solo quando il Giaguaro si è fatto vedere.
Era un giovane alto almeno il doppio dei suoi compagni, mastodontico, di bell’aspetto. I suoi muscoli sembravano scolpiti nel marmo. Peccato dovessi eliminarlo, in circostanze normali lo avrei sedotto.
Camminava nella mia direzione scalciando gli uomini che incontrava nel suo percorso, spingendoli via con le lunghe braccia possenti. Man mano che si avvicinava scorgevo in lui i tratti del Giaguaro farsi più intensi ed evidenti. Gli occhi come due gemme gialle, fissi su di me, i muscoli tirati fino allo spasimo, gli affilati artigli ricurvi pronti a colpire.
Nikolaj, più di un secolo fa, mi mise in guardia dai Licantropi. Il loro morso è letale per un Vampiro. Essendo l’equivalente del Licantropo in America, anche il morso del Giaguaro avrebbe potuto essere mortale per me. Dovevo quindi stare molto attenta.
Non ho permesso alla paura di sopraffarmi, in ogni caso. Dopotutto, sono un Vampiro di oltre cento anni e negli ultimi giorni ho avuto modo di nutrirmi molto bene per questa battaglia.
Con un respiro profondo, sono partita a velocità vampiro verso di lui, l’ho afferrato al collo e ho cercato di buttarlo a terra. Peccato che questo tizio enorme abbia reagito prontamente al mio assalto. Mentre attorno a noi la battaglia infuriava ancora, il Giaguaro con una manata mi ha spinta via e il mio corpo ha cozzato contro un albero poco lontano. Decisamente poco cavalleresco da parte sua.
Dopo che la mia spina dorsale si è aggiustata, sono ripartita all’attacco, più forte che mai.
Con un ringhio animale il Giaguaro si è avventato su di me, ha stretto le sue manone intorno al mio collo e sono finita a terra, premuta contro il suolo umido dal corpo del mio nemico. Ha lasciato la presa sul mio collo un istante prima che perdessi i sensi e ha continuato però a tenermi schiacciata a terra con il resto del suo corpo. Le mani libere gli hanno consentito di agguantare un ramo spezzato, che ha pensato bene di usare come paletto per uccidermi.
Evidentemente non sapeva di preciso dove si trovasse il cuore, perché l’ha mancato, per mia fortuna. È stato comunque un colpo tutt’altro che piacevole.
La mia fine era vicina, sentivo quasi le fiamme dell’Inferno lambire il mio corpo schiacciato a terra dal peso del Giaguaro. Ma una cosa era sicura: lui mi avrebbe seguita nel fuoco eterno a qualsiasi costo.
Ho riaperto gli occhi, che avevo tenuti saldamente chiusi mentre il Giaguaro compiva il suo maldestro tentativo di farmi fuori. Ho afferrato con le mani un po’ di terra umida e mi sono preparata al contrattacco. Il tutto mi ha riportato al terribile giorno in cui la mia famiglia fu sterminata e io rimasi per ore ad aspettare il momento giusto di scappare, armeggiando con quella pietra trovata nella terra, che fu la mia salvezza.
Ho iniziato a divincolarmi sotto il Giaguaro, finché è stato costretto a muoversi anche lui per tenermi a terra. Nel frangente di secondo in cui il mio braccio è stato libero da qualsiasi costrizione, l’ho alzato e ho lanciato contro il Giaguaro la terra umida che avevo tenuto nel pugno fino a quel momento.
Distratto dal mio gesto, mi ha incautamente lasciata andare e ho potuto così ribaltare la situazione a mio favore. Mentre era ancora piegato, l’ho agguantato alle spalle e con tutta la forza soprannaturale di cui disponevo, gli ho premuto la sua testa all’indietro finché ho sentito il crac del suo collo spezzato. Il Giaguaro è stramazzato a terra, ma non era finita così. Di lì a poco si sarebbe ripreso, così come si riprende un Vampiro a cui si spezza il collo.
Ma io non lo avrei permesso. Con un calcio l’ho girato supino, ho sprofondato la mano nel suo petto marmoreo e l’ho ritirata col suo cuore stretto nel pugno.
Di colpo il clangore delle armi è stato sostituito da un silenzio di tomba, mentre tutti realizzavano quello che era appena accaduto, e cioè che io, Katerina Petrova, avevo appena ucciso il famigerato Giaguaro venerato dagli indigeni.
«Ops» ho detto, ironica, lasciando cadere a terra il cuore ancora caldo del Giaguaro con espressione annoiata, «l’ho già detto che odio i gatti?».
Gli indigeni se ne sono andati, terrorizzati e sconfitti, sparendo tra le fronde, e gli spagnoli superstiti si sono radunati attorno a Cortés in attesa di disposizioni. Li ha rimandati tutti agli accampamenti e siamo rimasti lì solo io e lui, se non si conta il cadavere del Giaguaro.
«Io ho fatto la mia parte, ora tocca a te» ho rimarcato a Cortés, mentre mi pulivo il sangue dalle mani con un fazzolettino che mi aveva dato.
«Certo. Domani stesso darò ordine di preparare la partenza per Tenochtitlàn» ha replicato il Conquistatore, sorridendo debolmente. Aveva le vesti intrise del sangue dei suoi nemici, ma gli occhi erano vigili e mi studiavano con interesse. Sicuramente non riusciva a credere ai suoi occhi; il Giaguaro a terra, morto, e io illesa e vincitrice.
Ho conquistato il suo rispetto, lo so, ma la cosa mi soddisfa solo in parte. Voglio il Diamante Oscuro. Quando potrò finalmente stringerlo tra le mie mani, allora sì che sarò pienamente soddisfatta.
In ogni caso, non posso che essere intimamente felice per come stanno procedendo le cose. La stima, l’interesse, di Cortés per me sono decisamente un vantaggio; so che farà di tutto per onorare gli accordi presi e darmi quello che bramo.



Special guest di questo capitolo: Jason Momoa, il grande Kahl Drogo di Game of Thrones, nei panni del Giaguaro.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Tenochtitlàn, 1521 ***



Tenochtitlàn, 1521
 
C’è un vento sferzante e freddo e il mare è in burrasca. La nave ondeggia pericolosamente e il mio equipaggio si lancia urli e ordini da prua a poppa. Sono in viaggio verso la Spagna.
Finalmente il Diamante Oscuro è in mio possesso, dopo tante difficoltà. C’è stata una sanguinosa battaglia e Tenochtitlàn non esiste più. Non che la cosa mi riguardi, io ho ottenuto ciò che volevo e questo mi basta.
Dopo lo scontro con il Giaguaro, sono partita con Cortés e il suo piccolo esercito alla volta del Messico. Lì non abbiamo incontrato resistenze; anzi, gli Aztechi ci hanno accolto come salvatori, credendo che Cortés fosse un dio. Che cosa ridicola.
Tuttavia, è arrivato il momento in cui la gente ha capito la falsità di tutte queste assurde credenze. Il popolo si è ribellato, ci sono state rivolte contro gli spagnoli, ma ormai era troppo tardi. Cortés aveva già preso controllo di alcuni territori grazie ai Toltechi, indigeni sottomessi dagli Aztechi schieratisi al fianco degli spagnoli, e si apprestava alla conquista di Tenochtitlàn.
La città si trova –o dovrei dire, si trovava- proprio in mezzo ad un lago e per Cortés non è stato difficile impossessarsene. L’assedio è durato pochi giorni ed io, nella confusione generale, ho cercato informazioni sul Diamante Oscuro.
Una volta visitata la città, con le sue viuzze di terra battuta, le capanne e poi quegli edifici di rappresentanza così mastodontici, non ho più avuto dubbi sulla collocazione del Diamante.
Il Templo Mayor, un luogo sacro.
Come ho detto, adesso Tenochtitlàn non esiste più. Cortés e i suoi uomini l’hanno rasa al suolo. Ha fatto distruggere il tempio per me, così che potessi avere accesso al luogo dove il Diamante era custodito. Devo dire che sono sorpresa della sua celerità nel rispettare gli accordi presi; non ho mai incontrato nessuno che sappia mantenere la parola data come lui ha fatto con me.
Sono entrata nel tempio già semidistrutto dai soldati, disseminato di cadaveri, ma nella stanza del Diamante c’erano ancora molti sacerdoti determinati a impedire che entrasse in mio possesso. Come se questo avesse potuto fermarmi. L’unico vero intoppo è stato uno Stregone, anch’egli sacerdote. Uccisi tutti gli altri è rimasto solo lui, che non si era mosso di un millimetro dal momento in cui avevo fatto irruzione nel tempio sacro.
Mi sono diretta a velocità vampiro verso di lui, ma ecco che ha reagito.
Mi ha fatta sbalzare via di qualche metro, ma mi sono subito ripresa; ho contrattaccato, ma lui di nuovo ha saputo fermarmi. Ho sbattuto la testa da qualche parte. Come minimo mi si è rotto il cranio o qualcos’altro, perché non sono più riuscita a mettere a fuoco le cose per qualche secondo.
Guarita, ho tentato il tutto per tutto. Questo tizio mi aveva proprio stancata. A velocità vampiro ho preso una delle torce che illuminavano l’ambiente e l’ho lanciata come se fosse stata una lancia contro lo Stregone, che è finito letteralmente impalato contro il muro.
Ripresami dagli sforzi, mi sono diretta verso il Diamante. Era custodito in uno scrigno di antica fattura e tutto in lui sapeva di magia oscura. Non so ancora a cosa serva, ma è un oggetto troppo potente e troppo prezioso perché io non lo abbia.
Brilla e riflette la luce del sole in strani giochi di colori. È grande come una noce o poco più ed è assolutamente indistruttibile. È chiaro che se lo lanciassi con tutte le mie forze contro un muro di mattoni, non si farebbe neppure un graffio.
Tornando a ieri; una volta recuperato l’oggetto oscuro, ho avuto giusto il tempo di scappare, prima che gli uomini di Cortés appiccassero il fuoco all’intero edificio.
Io ho abbandonato la città in fiamme, l’odore di morte e carne bruciata, le urla dei sopravvissuti e quelle dei soldati. Di Cortés non ho visto traccia e ora devo dire che sono contenta così. Chi mi dice che una volta preso il Diamante, non avrebbe voluto averlo per sé? Certo, non mi sarei lasciata cogliere di sorpresa a quell’eventualità, ma meglio non rischiare. Oppure magari avrebbe tentato di ingaggiarmi per nuove conquiste nel Centro-America. No, è stata una giusta decisione la mia.
A velocità vampiro mi sono diretta verso la costa, un tragitto che per un umano durerebbe almeno qualche giorno, mentre per me non è stata che qualche ora di corsa.
Arrivata lì, c’erano già la nave e l’equipaggio che avevo soggiogato tempo prima in vista di questo momento. Sono salita a bordo e ho dato ordine di salpare immediatamente.
Si torna in Europa. Sospiro.
Sì, ne sono felice.



 
N/A: ci teniamo a sottolineare che Tenochtitlàn è l'attuale Città del Messico (per chi non lo sapesse), e che i riferimenti storici sono frutto di ricerche, quindi sono eventi effettuatisi per d'avvero, naturalmente "arricchiti" di un po' di fantasia e soprannaturale. Perdonate il breve capitolo, si tratta più che altro di un "passaggio" per ciò che verrà dopo. L'avventura di Kat si fa interessante!
Buona lettura,
W&V

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Firenze, 1522 ***


Firenze - 1522

Passate le mie peripezie nel Nuovo Continente, torno in Europa decisamente più ricca di prima. In tutti i sensi.
Mi sono nutrita molto bene laggiù, ho visto luoghi meravigliosi e civiltà sorprendenti e misteriose, ho combattuto contro un Giaguaro mannaro maledettamente sexy, ho conosciuto il famigerato Conquistatore e inoltre, ho un Diamante Oscuro in mio possesso.
Chi l’avrebbe mai detto, che la mia pazza idea di partire per l’America avrebbe dato questi frutti? Sì, sono incredibilmente soddisfatta di me stessa.
Voglio trovare Rose, adesso. L’ultima sua lettera risale a quasi quattro anni fa e all’epoca era a Milano. Confido che non si sia mossa di lì senza prima avvisarmi. Io, del resto, non le ho detto di essere andata in America. Rose avrebbe di certo voluto seguirmi oppure persuadermi a restare in Europa ed evitare di correre “rischi inutili”, come li avrebbe definiti.
Ho deciso di fermarmi a Firenze per qualche settimana e da qui rintracciare Rose e riunirmi a lei. Ho scelto Firenze perché è il luogo in cui sono stata felice, il luogo in cui il mio amato Lorenzo è stato sepolto, nella Sagrestia Vecchia della Basilica di San Lorenzo.
Ho sentito dire che a Michelangelo è stata ordinata la progettazione di un nuovo luogo di sepoltura per Lorenzo e suo fratello Giuliano, più degno del loro nome.
La cosa mi rallegra e intristisce al tempo stesso; non credo che a Lorenzo sarebbero piaciuti tutti questi sfarzi. In ogni caso, ho voluto fargli visita prima che venga rimosso dalla Sagrestia Vecchia.
È stata la prima volta, per me. La prima volta che visito una tomba e avverto quel nodo alla gola che preannuncia le lacrime. Del resto, non ho mai avuto cari da poter piangere; chissà dove finì il corpo di mio padre dopo la guerra, e chissà dove quello di mia madre, uccisa dai turchi, o quello dei miei fratelli e del mio patrigno.
Ma davanti alla sepoltura di Lorenzo ho pianto. L’ho amato molto, in quei pochi anni trascorsi assieme, più di quanto avessi voluto o creduto possibile fare. Ho rivisto nella mia mente il suo volto aperto e bello, i suoi occhi color del ghiaccio, la sua parlata amabile e la spiccata intelligenza che traspariva da lui ad ogni parola.
È stato un attimo; il tempo di snebbiare la vista offuscata dalle lacrime, e qualcuno mi ha presa alle spalle e scaraventata lontano. Un Vampiro, certamente. Forse più di uno.
Mi hanno colta di sorpresa, ma mi sono riavuta in fretta. Ho captato almeno due Vampiri nella Sagrestia Vecchia e mi sono preparata all’assalto. Cosa vogliano da me, ancora non lo so, ma lo capirò presto.
«Vogliamo giocare a nascondino?» li ho provocati, stizzita. Si nascondevano infatti dietro le statue di marmo e mi studiavano da lontano, aspettando il momento giusto per agire.
Hanno attaccato nello stesso attimo e mi sono ritrovata bloccata contro la parete fredda dell’edificio, tenuta ferma da uno dei due.
Due Vampiri piuttosto ordinari, mai visti prima, neanche troppo attraenti e sicuramente più giovani, più inesperti e meno liberi di me. È chiaro infatti che sono stati mandati da qualcun altro. Nikolaj? No, non credo.
«Dov’è il Diamante, Katerina Petrova?» hanno sibilato al mio orecchio.
Come facevano a sapere del Diamante? Come facevano a sapere che ce lo avevo io? Come conoscevano il mio nome?
Avevo messo in conto la possibilità di essere in pericolo, avendo in possesso un oggetto oscuro di quel calibro, ma non pensavo che la voce si sarebbe sparsa così in fretta. Avevo taciuto a chiunque, persino alla mia fidata Rose, il mio viaggio in America; allora come potevano tutti sapere già la storia?
«Diamante? Quale Diamante?» ho replicato con sguardo fintamente sorpreso.
Con tutta la fatica che ho fatto per recuperarlo! Non lo avrei ceduto tanto facilmente.
C’è voluto un attimo per ribaltare la situazione, rompere il collo a uno dei due e strappare il cuore all’altro. Mi dispiace solo che ciò sia accaduto in una chiesa e vicino alla tomba di Lorenzo per giunta, tutto qui.
Ho sorriso davanti al suo sarcofago, ripensando a tutte le volte in cui Lorenzo mi pregava di mostrargli la mia forza e restava poi affascinato a guardarmi correre da un angolo all’altro delle sale a velocità vampiro. Sarebbe rimasto affascinato anche di questo scontro avuto con i due Vampiri sconosciuti.
Ho riassettato il mio abito, mi sono pulita le mani sporche di sangue e sono uscita dalla chiesa come nulla fosse. Proprio fuori ho trovato il custode e l’ho soggiogato perché si occupi dei Vampiri. Quello a cui ho spezzato il collo probabilmente ora si sarà già risvegliato dentro una bara e avrà dovuto scavare un bel po’ nella terra per riemergere dal mondo dei morti. Poco male, mi sembra la minima punizione per quello che ha tentato di fare.
 
Stamane ho individuato un impiegato delle poste fiorentine e mi sono servita di lui per contattare Rose. Non posso perdere un minuto di più ora che so di essere in imminente pericolo per via del Diamante.
Passeggiavo per la città con sguardo vigile e ho visto quest’uomo piuttosto carino scendere da cavallo ed entrare all’ufficio postale con un plico di lettere sottobraccio. Ho pensato che di certo si trattasse di un messaggero, uno di quelli che macinano chilometri a cavallo portando lettere e missive da una città all’altra. L’uomo perfetto per me.
Ho aspettato che uscisse dall’ufficio e, mentre sbrigliava il cavallo, mi sono avvicinata a lui.
«Lavorate per le poste, mio signore?» gli ho domandato.
«Sì, mia signora» ha risposto, chinando il capo con deferenza. D’altronde, ho “preso in prestito” questo magnifico abito blu notte dalla ricca signora di Firenze presso cui soggiorno, e tutto in esso sa di lussi e agi. Il messaggero avrà creduto di certo di avere davanti una nobildonna.
«Potreste consegnare questa lettera per me?» ho detto allora, fissandolo dritto negli occhi. Probabilmente la compulsione non sarebbe stata nemmeno necessaria; era così palesemente attratto da me che lo avrei piegato al mio volere solo con un sorriso. Tuttavia non posso correre rischi e devo fare in modo che Rose abbia questa lettera il più in fretta possibile.
«Io, veramente…» ha attaccato. Certo, voleva dirmi che dovrei dare la busta alle poste, aspettare i loro tempi infiniti, pagare, mettere chissà quali sigilli e poi aspettare e pregare che la mia lettera non vada perduta nel viaggio. No, non ho tempo per tutto questo.
«Monterete a cavallo e andrete a Milano, dove chiederete della signorina Rose Foster. Darete questa lettera a lei, e lei soltanto. Avete capito?
Ah, dimenticavo. Galopperete il più in fretta possibile e vi fermerete solo quando strettamente necessario. Difenderete questa lettera con la vita se necessario e non la perderete durante il tragitto. Tutto chiaro?».
Mi ha fissato come inebetito per circa un minuto, poi ha preso la lettera e il borsellino di monete che gli ho donato. È montato in sella ed è partito.
Ecco la mia lettera per Rose:
 
Rose,
ho molte cose di cui parlarti e desidero vederti. Sono passati quattro anni dalle ultime nostre lettere e credo sia tempo per noi di riunirci. Ti prego di venire in Piazza del Duomo, a Milano, alle 15 del 20 settembre di quest’anno.
Ti invito inoltre a stare attenta; per motivi che ti spiegherò siamo in pericolo, Rose, e non potrò proteggerti fino a quando non arriverò a Milano, cosa che avverrà, come ti ho detto, il 20 settembre, secondo i miei calcoli.
A presto, dunque.
Katerina
 
Partirò per Milano domani. Fino ad allora, ho tempo per godere del panorama di Firenze, di crogiolarmi nel ricordo di Lorenzo e di giocherellare con il leggendario Diamante Oscuro, che è proprio nelle mie mani.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Milano, 1522 ***


Milano – 1522
 
Piazza del Duomo era piuttosto affollata. Un caos di passanti, carrozze, povera gente e nobili famiglie. Il viaggio era stato piuttosto confortevole e non avevo avuto altri incontri con Vampiri sanguinari in cerca del Diamante, per fortuna.
L’oggetto era in quel momento –come sempre- riposto con cura nella borsetta da cui non mi separavo mai.
Il vetturino aveva lasciato il baule accanto a me, aveva preso un paio di monete di mancia per il suo servizio, e se ne era andato.
Io ero in anticipo per Rose, ma scrutavo ugualmente la folla in cerca di lei, dei suoi capelli rosso scuro e della sua aria così inglese. Passava il tempo -e passa tuttora- ma lei resta sempre uguale a se stessa. Sarà forse anche questo che mi piace di Rose, il suo non lasciarsi corrompere dalle brutture del mondo.
D’un tratto la vidi camminare a passo spedito e capo chino verso di me, proveniente da una via laterale. Indossava un abito di splendida foggia e i capelli erano raccolti in un’elaborata acconciatura. Alzò gli occhi e incontrò i miei da lontano. Se possibile, camminò ancora più in fretta e mi raggiunse.
«Katerina» mi salutò, facendo un breve inchino. Sorrise e sorrisero anche i suoi occhi verdi. Io mi inchinai di rimando e poi la abbracciai di slancio. Erano quattro anni che non la vedevo e, in barba a tutti i freni che mi ero sempre imposta nei suoi riguardi, avevo voglia di stringerla a me per un istante, di sentire il suo profumo, di farle sapere quanto mi fosse mancata.
Rose ricambiò la mia stretta e poi mi porse la lettera che le avevo fatto recapitare, quasi due settimane prima.
«E’ arrivata l’altro ieri» mi spiegò, «lo hai soggiogato, vero, quel pover’uomo? Ha voluto vedermi a tutti i costi e stava quasi per aggredire la domestica che voleva prendergli la lettera per portarmela».
«Mh, tutto nella norma, allora» risposi, tornando ad essere la Katerina distaccata di sempre; «spero che tu abbia scelto un palazzo sontuoso e non una bettola come a Vienna, Rose, perché ho davvero bisogno di un bagno caldo e di un letto comodo prima di ripartire».
«Ripartire?» chiese Rose, aggrottando le sopracciglia.
«Sì, ripartire. Non possiamo stare qui e tu verrai con me, che ti piaccia o no» dissi, forse troppo rudemente.
«Cos’hai combinato, Kat?» volle sapere.
«Te lo racconto dopo. Ora andiamo».
E così mi feci accompagnare presso la sua residenza, che si rivelò essere un palazzo di modeste dimensioni appartenente ad una famiglia piuttosto benestante.
Ne fui contenta. Voleva dire che Rose aveva imparato la lezione da quella volta a Vienna in cui a tutti i costi aveva voluto occupare una locanda e non mi aveva permesso di soggiogare un’intera famiglia con la servitù. Il risultato era stata la peste bubbonica che l’aveva costretta a diventare un Vampiro, contratta proprio tra le fetide mura di quella stamberga.
Rose fece gli onori di casa presentandomi alla famiglia, poi mi condusse presso le sue stanze e ordinò alle domestiche di prepararmi un bagno caldo e un letto per la notte.
«Ora mi vuoi dire cosa è successo?» domandò, fissandomi a braccia conserte.
Mi versai un bicchiere di vino dalla caraffa all’angolo della stanza, poi lanciai a Rose la mia borsetta. La prese al volo e l’aprì.
Trattenne il respiro quando il Diamante Oscuro scivolò tra le sue mani e brillò della luce riflessa del sole che entrava dalle finestre.
«Oh mio dio… è proprio…».
«…Quello che sembra? Sì, è il Diamante Oscuro» l’aiutai.
«Ma dove lo hai preso, Kat?!».
«Nel Nuovo Mondo, naturalmente» replicai, sorridendo appena alla sorpresa confusione dipinta sul volto della mia fedele compagna.
«Spiegami tutto immediatamente» ordinò Rose con gli occhi sbarrati.
E così le parlai del mio viaggio e di tutto quello che ho già fedelmente riportato in queste pagine a proposito di quegli episodi.
«E così ti inseguono per averlo?» chiese infine, dopo che le ebbi raccontato dell’incontro coi due Vampiri a Firenze.
«Già. Pensavo di lasciare la Penisola, andare a Est» azzardai.
«E dove? Io non voglio lasciare Milano» protestò Rose.
«Sono già quattro anni che sei qui, dovrai andartene comunque tra poco.
Non so dove, pensavo all’Est in generale, magari tornare in Bulgaria non sarebbe una cattiva idea».
«Quando vuoi partire?» si arrese Rose.
“Domani”, le avrei detto. Ma vedevo quanto a Rose dispiacesse l’idea di lasciare Milano, così dissi “la prossima settimana”, giusto per darle il tempo di godersi gli ultimi giorni nella città e darle un degno addio, seppur temporaneo.

 
***


Neanche il tempo di preparare i bagagli, che i miei piani furono sconvolti.
La sera stessa del mio arrivo a Milano, si presentò alla porta un uomo. Non volle parlare con le domestiche né con nessun altro membro della casa.
Voleva me.
Mi avvicinai a lui, ma emanava un tale profumo di sangue fresco che era di certo umano. Un umano soggiogato. Vestiva semplicemente e teneva a tracolla una bisaccia, da cui estrasse un bigliettino di pergamena, nel momento in cui mi vide e mi riconobbe per Katerina Petrova.
Mi porse il bigliettino, su cui lessi:
 
Mia cara Katerina,
quanto tempo è passato dall’ultima volta? Vieni domani alle otto in Piazza Mercanti, sola, e con un bagaglio possibilmente.
Non vedo l’ora di rivederti.
 
Nessuna firma. Ma non dovetti chiedermi chi fosse il mittente. Mi bastò rialzare gli occhi sullo sconosciuto per capirlo. L’uomo aveva estratto dalla bisaccia una coppa dorata, si era tagliato il polso con un coltellino e ora lasciava gocciolare il sangue nella coppa. Quando fu riempita me la porse, si strappò un lembo della camicia con cui fasciò la ferita, poi si inchinò ed uscì dalla casa in silenzio, senza mai guardarsi indietro.  
Nikolaj.
Il cuore prese a martellarmi nel petto.
Nikolaj. Dopo più di un secolo di lontananza, mi aveva chiesto un incontro.
Sentii che il Diamante Oscuro era solo una delle ragioni per cui voleva rivedermi.
 
L’idea che il giorno seguente avrei incontrato il mio Creatore dopo così tanto tempo, dopo l’inganno perpetrato a sue spese, mi catapultò in uno stato di eccitata agitazione. Avevo timore di lui, ma allo stesso tempo volevo disperatamente incontrarlo.
Rose mi raggiunse silenziosamente e mi ritrovò ancora così com’ero rimasta dopo la scomparsa del messaggero: con il bigliettino di Nikolaj stretto nel pugno e la coppa di sangue nell’altra mano, ancora intatta.
«Kat?».
Rose fissava la coppa di sangue con ardente desiderio. Lei, come Nikolaj, non apprezzava come me i colli freschi da mordere. Preferiva il sangue nella coppa, da dove poteva nutrirsi senza sporcarsi. Da quanto non si nutriva? D’un tratto mi parve stremata, il volto di un pallore grigiastro, le vene scure sotto gli occhi iniettate di sangue.
Le porsi allora la coppa e lei la trangugiò in pochi sorsi.
«Si tratta di Nikolaj» le dissi, dandole il bigliettino perché potesse leggerlo.
Iniziò subito a protestare che sarebbe venuta con me, un po’ perché voleva conoscere l’uomo che mi aveva trasformata in quella che ero, e un po’ perché voleva proteggermi da qualsiasi cosa Nikolaj avrebbe tentato di farmi.
«Dice chiaramente che devo andare da sola, Rose. E rispetterò i suoi ordini, se non altro perché so che sarebbe capace di ucciderti».
E poi per mille altre ragioni che non le spiegai. Che tra me e Nikolaj c’era un rapporto del tutto particolare, che volevo vederlo da sola e Rose sarebbe stata solo un impiccio, che volevo picchiarlo così selvaggiamente e poi baciarlo altrettanto forte, che volevo dirgli –o fargli capire, almeno- che non lo odiavo poi così tanto e che non l’avevo lasciato per fargli un torto, ma solo per me stessa. Che non aveva capito nulla di me e, allo stesso tempo, aveva capito tutto.
Rose non sarebbe mai venuta con me. Lei no, non avrebbe compreso tutte queste cose, di cui sentivo l’ardente bisogno di fare e di dire a Nikolaj.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Urquhart, 1522 ***



Castello di Urquhart, Scozia – 1522 (1)
 
Sono passati un po’ di anni da quel giorno di fine settembre del 1522, in cui mi recai all’appuntamento con Nikolaj. È ancora tutto impresso nella mia memoria e lo sarà per sempre.
Lo narro adesso, dopo tanto tempo, perché non ho avuto il coraggio di farlo prima; di scrivere nero su bianco i fatti di quei pochi giorni trascorsi col mio Creatore, che erano stati un misto di nostalgia, passione, odio, ricordi di tempi passati e racconti di avventure più recenti.
Mi recai in Piazza Mercanti, luogo stabilito da Nikolaj nel suo bigliettino di pergamena. Il cuore mi palpitava nel petto e riuscivo molto faticosamente a dissimulare lo stato di profonda agitazione in cui versavo. Stringevo la borsetta col Diamante in una mano e il manico del mio bagaglio nell’altra.
La piazza era deserta, non fosse stato per una carrozza in sosta ad un angolo e tre individui con abiti scuri che non avevano smesso di fissarmi dal momento in cui avevo messo piede nel piazzale. Nikolaj doveva per forza trovarsi all’interno della carrozza, o almeno così credevo.
Uno dei tre uomini si inchinò quando mi avvicinai, un altro mi prese di mano la valigetta, il terzo aprì la porta della carrozza e si sedette all’interno, in attesa.
«Mia signora, vi prego di prendere posto» disse il Vampiro che si era inchinato al mio arrivo.
«Dov’è Nikolaj?» domandai, stringendo forte il Diamante nel pugno, quasi fosse un amuleto.
«Vi prego di entrare nella carrozza» ripeté l’uomo, visibilmente in imbarazzo.
L’interno della carrozza era vuoto, se non si contava il Vampiro che si era seduto ad un angolo del divanetto. Nikolaj non era lì.
Una certa delusione si fece strada dentro di me, accompagnata dal nervosismo crescente e dalla paura. La sentivo serpeggiare nel mio petto e minacciare di stringermi nella sua morsa gelida. Trassi un profondo respiro nel tentativo di calmarmi e finii per ubbidire, prendendo posto nella carrozza di fronte al Vampiro.
Il tizio che mi aveva parlato si sedette affianco a me, mentre quello che si era occupato del mio bagaglio si mise alla guida dei cavalli. Li frustò appena e questi partirono.
«Dove siamo diretti?» domandai.
Nessuno dei due Vampiri mi rispose.
«Dov’è Nikolaj!» esclamai.
Niente.
«Potrei uccidervi tutti e tre e nel frattempo pettinarmi i capelli e incipriarmi il viso senza che neanche un’unghia mi si spezzi. Oppure potrei non creare alcun tipo di problema a voi o a Nikolaj Ivanov. A voi la scelta. Sono certa che siate persone intelligenti. Allora?» sibilai.
«Il signore ci aveva avvertiti che probabilmente avreste detto cose di questo tipo» fu l’unico commento di uno dei due, precisamente quello seduto di fronte a me. Mi lanciò un’occhiata divertita e non aggiunse altro.
Avrei voluto strappargli quel sorrisetto sornione dalla faccia con una mossa particolarmente violenta che immaginai sin nei minimi particolari, crogiolandomi nel pensiero che questo avrebbe saputo placare la mia rabbia in quel momento. Figurai la mia mano penetrare la pelle del suo petto, le mie dita stringersi intorno al suo cuore pulsante e poi estrarlo con un movimento veloce del braccio. Sarebbe stato incredibilmente spassoso.
«Sarà un viaggio lungo, mia signora. Vi consiglio di rilassarvi» disse l’altro, strappandomi ai miei gloriosi sogni sanguinari.
 
Fu un viaggio maledettamente lungo. Attraversammo l’Europa! Da Milano fino alla Francia e poi oltre il canale della Manica, poi tutta l’Inghilterra e ancora più su, fino alla Scozia degli Stuart. Un viaggio durato settimane e non del tutto confortevole, sia per la carrozza che per i miei fedeli compagni di viaggio che erano personaggi del tutto anonimi e di poche parole.
Arrivammo sulle sponde del Loch Ness una fredda notte di fine novembre. Poco lontano si scorgevano le luci del Castello di Urquhart, che avevo individuato essere la residenza attuale di Nikolaj. Scossi la testa, divertita. Era tipico di lui, scegliere una fortezza immersa nella natura, lontana dal caos delle città, con un grande parco per la caccia e uno stuolo di servitori ai suoi ordini.
Quando la carrozza si arrestò, uno dei Vampiri scese a terra con un balzo, poi mi tese la mano e mi aiutò a uscire dal mezzo. Gli altri erano già affaccendati a sistemare i cavalli e a occuparsi della mia valigia.
Vidi da lontano il portone poco illuminato del castello spalancarsi e una figura scura emergere dall’oscurità, rischiarata solo dal fascio di luce delle torce rette da tre o quattro servitori.
Nikolaj.
Camminai meccanicamente verso di lui, il Diamante nella borsetta, stretta nel pugno come unica ancora di salvezza, il cuore nel petto che minacciava di esplodere.
Fui finalmente davanti a lui; solo pochi metri ci separavano. Mi sorpresi di trovarlo sempre uguale. I capelli lunghi portati alla moda del tempo, i vestiti di ottima fattura, il portamento elegante e gli occhi castani che riflettevano la luce aranciata delle torce. Fissai quegli occhi incapace di guardare altrove.
Tutto il resto del mondo era sparito, non mi importava che di quegli occhi, di quel sorrisetto bieco e di quel viso che avevo tanto sfuggito, amato, bramato.
«Katerina» bisbigliò Nikolaj, assaporando il gusto del mio nome sulle sue labbra. Sorrise ancora di più e allargò le braccia in segno di benvenuto.
«Sei ancora più bella dell’ultima volta. Il vampirismo ti dona» aggiunse.
«Tu invece sei sempre lo stesso» replicai divertita, gettando uno sguardo al castello dietro di lui, «manieri di pietra, servitori soggiogati, Creature soprannaturali al tuo servizio. Non ti stanchi mai di tutto questo? Non ti viene voglia di cambiare? Mh, sarà vero che i vizi non si perdono».
«Mi mancava la tua lingua tagliente».
Dal canto mio, estrassi dalle pieghe del vestito la sua coppa dorata e gliela lanciai. Nikolaj la prese al volo e mi fissò ancor più divertito di prima, se ciò fosse stato possibile.
«Come ho detto, sei davvero poco originale».
«Oh, ammettilo che non vedevi l’ora di rivedermi» rise Nikolaj, depositando la coppa nelle mani di una servetta, che si prostrò in un inchino e si dileguò nel castello.
Nikolaj fece appena un gesto della mano e un’altra ragazzina sui quindici anni si fece avanti con una pelliccia marrone scuro piuttosto pesante, che sistemò proprio sulle mie spalle.
«Cos’è, pelliccia di Licantropo?» lo presi in giro.
Nikolaj scosse la testa e mi invitò ad entrare nel castello.
Era una residenza di modeste dimensioni, dalle fredde pareti di pietra grigia, ma splendidamente arredata e bene illuminata da moltissime torce e candele affisse alle pareti o pendenti da lampadari sul soffitto. La lunga tavola in legno massiccio era imbandita di ogni ben di dio, ma non era quella la tappa che Nikolaj aveva previsto per noi. Non subito almeno.
«Immagino sia stato un viaggio lungo e difficile…» attaccò.
«…noioso. Direi noioso» lo interruppi, «di tutti gli scagnozzi che potevi mandarmi, hai scelto i meno divertenti che la Storia abbia mai conosciuto. Non so cosa mi abbia trattenuta dall’ucciderli».
«Ho fatto preparare per te una stanza e un bagno caldo» disse Nikolaj, come se non avesse affatto sentito i miei commenti sui suoi adepti.
Fu così che abbandonai qualsiasi remora e mi lasciai scortare da un paio di cameriere fino alla mia stanza, dove un’altra ragazza stava già sistemando in un armadio le poche cose contenute nella mia valigia. Era una camera graziosa, dal soffitto alto, riscaldata dal fuoco che scoppiettava nel camino. Il letto a baldacchino era imponente e le cortine scure erano rischiarate dalla luce argentata della Luna, che filtrava dalla grande finestra che si apriva sul parco due piani più sotto e le acque placide del Loch Ness.
Lasciai che mi spogliassero e mi facessero il bagno in una vasca di pietra strabordante di acqua fumante e profumi. Mi rivestirono con un abito rosso rubino, mi acconciarono i capelli e mi fecero indossare dei gioielli abbinati al vestito. Per tutto il tempo non mi separai dalla borsetta col Diamante, riflettendo sul posto adatto in cui nasconderlo. Alla fine, però, decisi che lo avrei portato con me alla cena con Nikolaj, incapace di separarmi dall’oggetto oscuro che avevo tanto faticosamente recuperato da Tenochtitlàn. Così lo nascosi sotto la gonna del vestito e mi apprestai a tornare da Nikolaj.
«Siediti» mi ordinò il Vampiro una volta che ebbi fatto il mio ingresso nella sala da pranzo. Lui era già seduto a capotavola al lato opposto rispetto al mio e almeno due metri e mezzo di tavola imbandita ci separavano. Il tutto mi ricordò con una punta di orrore e allo stesso tempo di nostalgia, i tempi in cui io ero un Vampiro novello che aveva ancora molta strada da fare, e lui il mio rigido e sexy maestro di vita.
«Dove hai lasciato la pelliccia?» mi chiese con disappunto. La sua, del resto, era ancora placidamente appoggiata sulle sue spalle.
«Sapeva di cane morto» dissi, alzando sdegnosa un sopracciglio.
«E’ freddo».
«E io per quale motivo sarei un Vampiro? Per lagnarmi del freddo?» chiesi retoricamente.
Iniziammo a mangiare senza scambiarci che poche altre parole. Ma Nikolaj era determinato a riportare il buonumore tra di noi, così, come suo solito, fece venire due camerieri che versarono per noi il loro sangue nelle coppe che poi ci servirono.
Scossi la testa; «come ho detto, l’eternità ti rende noioso e abitudinario».
«Sono felice che per te non si possa dire lo stesso, Katerina. Hai viaggiato molto in questi cento tre anni».
Il mio cuore fece una capriola nel petto. Eccola, la prova. La prova che Nikolaj non mi aveva persa di vista in quel secolo passato lontani, che sapeva tutto di me, di Rose e soprattutto del Diamante Oscuro.
«A cosa serve essere immortali se non a vedere il mondo?» replicai cauta.
«Dove sei stata? Raccontami, su» mi incitò.
«Non fingere che non sappia che mi hai seguita, Nik».
Scoppiò a ridere e si risistemò la pelliccia che gli era scivolata; «ammetto le mie colpe, Kat. E sono contento di notare che sei sveglia come lo eri cent’anni fa. Tuttavia, c’è un certo lasso di tempo in cui ti ho persa di vista. È in quegli anni che vorrei sapere dove sei stata».
1519-1522. Queste erano le date di cui voleva sapere. Il mio periodo in America. Non avrei dovuto chiederglielo per esserne sicura.
«Non voglio guastarci la serata con questo argomento, Katerina» disse, come leggendomi nel pensiero, dopo qualche minuto di silenzio.
«Che ne dici di una passeggiata?» aggiunse, alzandosi in piedi e tendendomi la mano.
 
«E’ molto che sei qui?» gli chiesi. Camminavamo sulle sponde del Loch Ness, scortati da un quartetto di servi che reggevano le torce per illuminarci la strada.
«No, non molto. Solo qualche mese» replicò Nikolaj. Procedevamo lentamente, a braccetto.
«E i padroni del castello dove li hai lasciati? Aspetta, no! Lasciami indovinare… A marcire in qualche cella sotterranea?».
«In realtà sono proprio qui davanti a noi» rispose, indicando con un cenno della mano i due servi che procedevano in testa al gruppo.
«Hanno quattro figli. Due fanno gli stallieri, una la lavandai e l’altra è una delle serve al tuo servizio».
«Sei crudele» commentai.
«Sono geniale» mi corresse, «ogni tanto arrivano missive e ospiti vari. Mi basta soggiogare questi cari signori per far tornare tutto nella norma. Poi quando gli ospiti se ne vanno, riprendo il controllo della situazione».
Continuammo a camminare in silenzio per qualche minuto, poi Nikolaj mi chiese di Rose.
«Avrei voluto inviarle una lettera e dirgli che sarei stata via per un po’, ma i tuoi sgherri noiosi non me lo hanno permesso» dissi con una certa amarezza.
«Oh, non preoccuparti per quello. Ho inviato io uno dei miei “sgherri noiosi” a dirle che non saresti tornata per la cena. Non era questo ciò che volevo sentire, comunque».
«Che cosa allora?».
«Hai fatto con lei quello che io ho fatto con te. Sono contento di vedere che mi hai preso a modello, tutto sommato, nonostante ti sforzi così tanto di odiarmi».
«Io non ti odio. Non del tutto almeno» dissi.
Nikolaj si bloccò e si voltò verso di me, avvicinando il suo viso al mio.
«Allora perché mi hai lasciato?» sussurrò.
«Credevo l’avessi capito» esclamai allontanandomi da lui, «io voglio essere libera, voglio fare quello che voglio, quando e dove voglio. Non ti avrei mai seguita per l’eternità come uno dei tuoi adepti muti».
«Sì, immagino che sia stato un mio errore, quello di credere che avresti accettato le mie condizioni» bisbigliò lui, più rivolto a se stesso che a me.
«E comunque io non ho fatto a Rose quello che tu hai fatto a me. Io non l’ho costretta a restare con me dopo la trasformazione. Certo, sono stata contenta del fatto che mi abbia seguita, ma non l’ho trasformata perché diventasse il mio cagnolino. Finiamo per ritrovarci, per passare molti anni assieme, per vedere il mondo assieme, ma lei ed io siamo sostanzialmente libere di andare dove vogliamo».
Nikolaj sorrise tristemente.
«Eppure da Milano volevi a tutti i costi andartene, e non lei hai permesso di restare».
Mi colpì ancora una volta la quantità enorme di informazioni che Nikolaj aveva su di me.
«Questa volta è diverso».
«Non voglio parlarne adesso» replicò lui, liquidando la discussione con un gesto infastidito della mano.
Riprendemmo il cammino di ritorno al castello e Nikolaj prese di nuovo il mio braccio e lo appoggiò al suo, da vero gentiluomo quale era.
«Sono contento che tu sia qui, Katerina» sussurrò al mio orecchio, prima di depositarmi un bacio gentile sulla guancia.




N/A: questo è ciò che resta oggi del Castello di Urquhart, con il Loch Ness alle sue spalle

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Urquhart, 1522 (2) ***


                         
  Castello di Urquhart, Scozia – 1522 (2)
 

La mattina seguente mi svegliai a causa delle urla di qualcuno provenienti dal parco del castello. Mi alzai dal letto controvoglia, infilai una vestaglia e mi avvicinai alla finestra. Era una giornata fredda e nuvolosa, e Nikolaj era in sella al suo stallone due piani più in basso. Incitava una coppia di mastini a rincorrere una povera lepre che sfrecciava nel parco alla massima velocità consentita dalle sue zampette.
Sentì il mio sguardo su di lui e arrestò il cavallo. Sollevò in aria il frustino e lo agitò in segno di saluto.
«Smettila di fare la principessa nella torre e vieni giù» mi urlò.
Sorrisi e per tutta risposta mi lasciai cadere dalla finestra. Il mio corpo si sarebbe schiantato al suolo, ma non per nulla ero un Vampiro di cento nove anni. Atterrai placidamente sul tappeto erboso del parco e raggiunsi Nikolaj. Ero scalza, coperta solo dalla vestaglia che si alzava agli sbuffi del vento.
«Piccola, dolce, cara Katerina» attaccò Nikolaj con un sorriso birbante, «pensavi forse che sarei venuto a salvarti?».
«Oh, ti prego» risposi, «lo so che ti piace vedermi precipitare».
Nikolaj rise; «sei in vena di giocare, ho capito».
«Con te è facile vincere».
«Lo pensi davvero?» mi sfidò, poi frustò il cavallo e partì al galoppo spronandolo a correre più veloce.
Uno scatto e lo avevo raggiunto all’altro pendio della collina.
«Banale» commentai con le mani sui fianchi, quando Nikolaj mi raggiunse, ancora in sella al suo destriero affaticato dalla corsa.
«Volevo lasciarti vincere».
«Le tue sono solo scuse» replicai.
«Ti ricordo che sono molto più vecchio di te» mi rimbeccò.
«E con questo? Ti sei arrugginito a forza di lasciar fare tutto il lavoro sporco agli altri».
Scese da cavallo con un elegante movimento, gli diede una pacca sul fianco e quello partì al trotto, diretto verso il castello. Nikolaj mi fissava e nei suoi occhi scorsi una luce divertita e al contempo irosa.
«Il grande Vampiro cattivo Nikolaj si è arrabbiato… ops» lo provocai di nuovo. Sorrisi, maliziosa, e lasciai che fosse lui a fare la prossima mossa.
Con un fruscio si portò in cima alla collina che dominava la vallata e si specchiava sulle acque nere del Loch Ness. Il castello era un grumo di pietre poco lontano.
Quando raggiunsi Nikolaj, lui mi spinse a terra e premette il mio corpo sull’umido tappeto d’erba. Mi sporcai tutta la vestaglia color panna di terra.
Gli spinsi indietro la testa e fu costretto a lasciarmi andare. Giusto il tempo di rialzarmi ed ero io a troneggiare sul suo corpo schiacciato a terra.
«Sono più forte di te» disse Nikolaj, senza riuscire a impedirsi di sorridere.
Lo presi per il collo e lo lanciai lontano sfruttando tutta la mia forza. Nikolaj rotolò per qualche metro lungo il pendio della collina e si arrestò a poca distanza dalle sponde del lago.
Lo raggiunsi, ma lui mi prese per i fianchi e saltò oltre il lago, atterrando sulla sponda opposta, dove la sera precedente avevamo passeggiato, scortati dai padroni soggiogati di Urquhart.
Riprendemmo la battaglia, avvicinandoci sempre di più al castello. Era una lotta divertente e liberatoria, almeno per me. Potevo sfogare la mia rabbia nei suoi confronti e allo stesso tempo combattere con qualcuno che sapeva farlo veramente. Era tutto così eccitante.
Finii di nuovo a terra, schiacciata dal suo corpo, ma questa volta non lo respinsi. Gli occhi di Nikolaj brillavano di desiderio e lasciai che mi baciasse, schiacciandomi ancora di più contro l’erba umida del parco.
In qualche modo finimmo nella mia stanza, rientrando proprio dalla finestra da cui mi ero gettata appena mezz’ora prima o giù di lì. A Nikolaj bastò fare un salto per atterrare nella camera con me in braccio, depositarmi sul letto e continuare proprio da dove si era interrotto; da quel bacio ardente di desiderio datomi nel parco.
Com’era bello essere Vampiri.
 
«Vuoi dello Scotch?» mi domandò Nikolaj, versandosene un bicchierino per sé.
Annuii, ancora stordita da quella mattinata di guerra e amore. Mi tirai su dal letto distrutto, coprendomi con il lenzuolo, e tentai inutilmente di sistemare i capelli disordinati.
Raggiunsi il mio Creatore davanti al basso mobiletto degli alcolici che la sera prima avevo praticamente svuotato, tanto ero rimasta sconvolta da Nikolaj e dalle cose che aveva detto.
Mi guardò scolare il liquido ambrato in un solo sorso e mi attirò a sé, baciandomi dolcemente il collo. Era completamente nudo, ma la cosa sembrava non turbarlo affatto.
Si staccò da me quando una cameriera entrò nella stanza per avvisarci che il pranzo era pronto. La poveretta sbiancò quando ci vide; io coperta solo dal lenzuolo e tutta scarmigliata e Nikolaj, un dio greco senza veli. Ma Nikolaj la invitò a raggiungerci e le morse il collo, nutrendosi di lei. Io feci la stessa cosa, mordendo l’altro lato del collo della ragazza.
«E’ una delle figlie dei padroni del castello, non possiamo lasciare che muoia» disse Nikolaj, invitandomi a staccarmi dalla giovane che ormai rischiava di svenire tra le nostre braccia. Le diede una goccia del suo sangue e lei corse fuori dalla stanza, già guarita.
Nikolaj tornò ad avvicinarsi a me e mi pulì un rivolo di sangue colato sul mento.
«Dobbiamo parlare del tuo viaggetto in America, Kat» sospirò, come se fosse una cosa che non avrebbe voluto fare per niente al mondo ma vi fosse costretto.
«Non girarci intorno. Immagino già cosa vuoi» risposi, incrociando le braccia al petto.
Nikolaj si rivestì prima di attaccare il discorso; «so cos’hai preso laggiù. Anche se onestamente non capisco perché. Per un Vampiro è un oggetto inutile».
«Be’ però è bello» protestai, «e io sono capricciosa. Te l’ho detto, voglio quello che voglio e di solito lo ottengo».
«Si dà il caso che anche io lo voglia, Katerina. Voglio il Diamante Oscuro».
«Sono in molti a volerlo a quanto ne so. Motivo in più per tenermelo stretto».
Nikolaj fece una pausa.
«Ho fatto un viaggio lungo per prenderlo, ho combattuto contro un Giaguaro mannaro, ho ucciso un sacco di gente, ho sfidato un maledetto Stregone sacerdote azteco... non te lo darò, Nik. Te lo puoi scordare».
«E se ti dicessi che posso proteggerti?».
«Da cosa?» sputai.
«Da tutti quelli che lo vogliono! Credi che non sappia che sei stata attaccata a Firenze?
Ti uccideranno, Katerina. Prima o poi lo faranno, solo perché tu hai il Diamante e non sai come usarlo. Sono decenni che ti seguo a spasso per l’Europa, non sai quante volte sono intervenuto in tuo aiuto per difenderti; hai presente quella bella Vampira bionda a cui hai rubato l’anello solare a Vienna? Ho dovuto ucciderla per te, perché ti braccava, voleva vendetta».
Le sue parole mi lasciarono parecchio sorpresa. Davvero aveva ucciso quella Vampira? Davvero lei mi aveva inseguita per vendicarsi? Non me ne ero mai accorta. Ma, del resto, non mi ero mai nemmeno accorta dei seguaci di Nikolaj che mi stavano alle calcagna dal giorno in cui avevo lasciato la Bulgaria.
«Sei forte per la tua età, Kat, ma sei ancora molto inesperta» aggiunse poi.
«Lo hai detto anche tu, è inutile per un Vampiro. Allora perché lo vuoi?».
«Qui in Scozia ho tre Streghe al mio servizio. Loro sanno come usarlo e io so come usare loro» rispose Nikolaj, «dammelo, Katerina. Dammi il Diamante e io proteggerò te e la tua cara Rose Foster, la Vampira ed ex Strega bandita dalla Congrega per aver praticato la magia nera».
“Come vedi, so tutto di te e di lei”, avrebbe anche potuto aggiungere queste parole. Mi sentivo con le spalle al muro, sola e indifesa. Non sapevo più che pesci prendere. Mi sentii sconfitta per la prima volta nella vita, incapace di ideare un piano B da mettere in atto.
«Io ti amo, Kat. Sai che non ti farei mai del male. Accetta, e io ti proteggerò per tutto il resto dell’eternità, come ho sempre fatto in questi decenni passati lontani.
Rifiuta, e… be’ sai che lo avrò comunque, quindi…».
E io accettai. Cos’altro avrei potuto fare? Annuii piano col capo, senza riuscire a guardare Nikolaj negli occhi per la vergogna. Se non avessi accettato, Nikolaj sarebbe uscito per sempre dalla mia vita, non mi avrebbe più protetta, più cercata, più voluta. E anche se avevo vissuto cent’anni di falsa libertà, costantemente spiata dai suoi occhi, non volevo che finisse. Non mi importava che ciò volesse dire vivere ancora sotto la sua influenza, seppure lontana.
Le sue braccia mi strinsero; «l’eternità ti dona e ancora di più quando ammetti la sconfitta» bisbigliò al mio orecchio. Poi strinse le dita sul mio collo e lo spezzò.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Londra, 1522 ***



Londra – 1522
 
Quando aprii gli occhi, mi resi subito conto di non essere più a Urquhart. Indossavo il vestito rosso di Nikolaj ma non ricordavo assolutamente chi me lo avesse messo o quando ciò fosse accaduto. La testa mi doleva e gli occhi faticavano a mettere a fuoco le cose.
Perlustrai con lo sguardo la piccola stanzetta in cui mi trovavo: certamente era la camera di una locanda modesta del centro città, a giudicare dal gran caos proveniente dalla finestra spalancata su un cielo grigiastro. Mi trovavo su un piccolo letto di legno non proprio comodissimo, ma le coperte quantomeno erano pulite e profumavano vagamente di rose.
Sul comodino accanto alla testiera vidi la coppa dorata di Nikolaj, la stessa che mi aveva fatto recapitare qualche mese prima a Milano. Era colma di sangue. Non esitai a trangugiarlo e dopo mi sentii decisamente meglio.
Ai piedi del letto, la mia valigia. Sopra c’era un piccolo bigliettino di pergamena e una boccetta contenente un liquido ambrato.
Verbena.
 
Prendine un po’ ogni giorno, e diventerai immune col passare del tempo.
Forse ci rivedremo, in un altro castello, in un altro secolo, in un’altra occasione.
Nik

 
            La verità mi travolse come un fiume in piena. Nikolaj e il maledetto Diamante Oscuro! Dopo tutta la fatica che avevo fatto per averlo, lui me lo aveva soffiato, e tutto solo grazie a qualche avance ben macchinata, un sorso di Verbena e la mia sciocca buona fede.
Ma ero davvero stata in buona fede? Andiamo! Avrei dovuto sapere che Nikolaj non avrebbe giocato pulito. Dopotutto, da chi avevo imparato io, se non da lui? Tutte quelle stupide parole sul proteggermi e sul proteggere Rose non significavano niente; quello che Nikolaj voleva era solo il Diamante e la verità nuda e cruda era che mi aveva seguita in tutti quegli anni passati lontani solo per la gloria di quel momento, di vedermi sconfitta e tremante di rabbia in una locanda chissà dove.
Non odiai il mio Creatore mai così tanto come in quel momento.
Mi alzai dal letto, presi la boccetta di Verbena e uscii, determinata a sapere dove mi trovassi.
Mi bastò chiedere alla cameriera ed ella mi rispose subito: «Londra».
Londra! Questo voleva dire che avevo viaggiato per settimane, intontita dalla Verbena, fino alla città. Non so perché ma la cosa mi fece arrabbiare ancora di più. Che umiliazione! Magari mi aveva fatta scortare di nuovo da quei tre noiosi Vampiri taciturni e completamente privi di senso dell’umorismo che mi avevano portata a Urquhart.
Le strade erano affollate, l’aria umida e soffocante, i fetori delle fogne a cielo aperto a dir poco nauseabondi. Camminai senza mai fermarmi, quasi urtando i passanti distratti dalla loro quotidianità; un istinto assassino mi aveva colta come autodifesa alla rabbia ribollente che provavo per Nikolaj e per il suo tiro mancino.
Nel tentativo disperato di trattenere la mia furia omicida, mi rintanai in una viuzza secondaria, stappai con forza la boccetta di Verbena e ne bevetti un sorso. La sentii colare come lava nella gola e raggiungere gli organi interni del mio corpo. Bruciavano come se un vero e proprio incendio mi fosse divampato nel petto e stesse raggiungendo la pancia.
Mi piegai in due, incapace di reggermi in piedi e finii seduta per terra con la testa appoggiata alla pietra fredda del muro di un casermone.
«State bene, signorina?» chiese un uomo basso, sulla quarantina, molto ben vestito.
Purtroppo per lui, sarebbe diventato il mio spuntino.
Lo azzannai al collo prima ancora che potesse realizzarlo e cadde rovinosamente a terra quando succhiai l’ultima goccia di sangue nel suo organismo. Ora sì, che mi sentivo decisamente meglio.
Mi asciugai il viso sporco di sangue su un lembo strappato della bella giacca azzurra dell’uomo e poi tornai nella via principale piena di gente. Raggiunsi una piazza e fu lì che sentii una voce molto familiare chiamare il mio nome.
«Kat?… Katerina!».
Mi voltai. Rose era là, più carina che mai. I capelli rosso vivo erano raccolti in un’acconciatura alla moda, il vestito verde le calzava a meraviglia e il suo colorito era roseo come se la sua trasformazione in Vampiro non fosse mai avvenuta.
Mi sorrise, incredula.
«Ma che ci fai a Londra?» sospirò.
Io ero sconvolta. Ma che ci faceva lei a Londra!
«Potrei farti la stessa domanda» ribattei, un po’ troppo rudemente.
Il sorriso sulle labbra di Rose si spense subito.
«Sono arrivata una settimana fa circa» si spiegò subito.
«Credevo che la Congrega ti seguisse ancora».
«E’ così, infatti» disse, «ma sono venuti a Milano dei subordinati del tuo Nikolaj e mi hanno scortato attraverso tutta l’Europa fino a qui. Hanno controllato la zona per me e quando sono stati sicuri che non ci fossero pericoli, mi hanno condotta fino all’area in cui vivevo con la mia famiglia… ora la mia vecchia casa è solo un cumulo di pietre mangiate dal muschio, ma è stato ugualmente bellissimo tornare qui per la prima volta dopo… dopo anni!».
Io rimasi interdetta a guardarla. Nikolaj aveva fatto tutto questo per Rose? L’aveva riportata a casa, il più grande sogno di Rose, scortata attraverso l’Europa, protetta dalle Streghe… e io? Io ero stata ingannata e abbandonata in una locanda di Londra dopo essere stata sedata con la Verbena per settimane.
«Nikolaj mi ha rubato il Diamante» mi uscì detto.
Rose strabuzzò gli occhi e boccheggiò in cerca di qualcosa di saggio da dire. Evidentemente in quei mesi la sua considerazione per Nikolaj doveva essere del tutto cambiata. Prima lo odiava per il semplice fatto che mi aveva segregata nel suo maniero per sei anni, ma adesso, dopo quello che lui aveva fatto per lei, Rose doveva stimarlo almeno un po’ di più. Ma era ora che la distogliessi dai suoi sogni utopici; Nikolaj non era il buono e dolce Vampiro che credeva. Lui si era preso gioco di entrambe.
«L-lui ti ha rubato il Diamante?».
«Come pensi che sia arrivata qui?» sbottai, «mi ha uccisa, mi ha dato la Verbena e mi ha portata a Londra. E dire che avevamo appena concluso un accordo per quello stupido Diamante!».
Rose era molto sconvolta, ma a me non importava più di nulla in quel momento.
Avrei ucciso tutti gli abitanti della città e ancora non sarebbe bastato a placare la mia rabbia nei confronti del mio Creatore. Lo avevo tanto amato e tanto odiato; lo avevo desiderato e sfuggito, ci avevo fatto l’amore e la guerra, ma non era bastato. Tutto quello che avevo provato per lui nei cento nove anni della nostra conoscenza, non era niente in confronto all’umiliazione bruciante dell’essere stata sconfitta e oltraggiata.
«Io non capisco» biascicò Rose, chinando il capo per nascondere gli occhi lucidi di lacrime.
«Non saremo mai davvero libere, Rose. Questo c’è da capire; che io non mi libererò mai del suo controllo e nemmeno tu. Ha saputo conquistarti sfruttando la tua stupida debolezza per la tua Patria e ha saputo sfruttare il mio… quello che c’è tra me e lui… tutto a suo favore...».
«Katerina» mi richiamò Rose, guardandomi con una certa preoccupazione.
Si avvicinò, tese le braccia e mi strinse a sé. No, non avrei pianto sulla sua spalla per niente al mondo. Lasciai che mi stringesse ma non ricambiai il suo abbraccio. Probabilmente qualche ombra di Nikolaj era lì da qualche parte a immortalare la mia capitolazione per poi riferirgliela e io non gli avrei dato anche questa soddisfazione.
Com’era? “In un altro secolo, in un’altra occasione”… Nikolaj avrebbe pagato.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Inghilterra, 1562 ***


Inghilterra, 1562
 
Io e Rose lasciammo Londra qualche settimana dopo e riprendemmo a vagare per l’Europa senza una meta precisa. Ci separammo nuovamente nei decenni che seguirono e nel 1560 decisi di ritornare da sola in Inghilterra.
Mi stabilii presso la corte reale e nel tempo divenni intima conoscente della regina Elisabetta I. Era una donna spettacolare, la cui presenza o assenza si notava subito, catturava la scena e l’inghiottiva in sé. Figlia di due personaggi che la Storia non avrebbe mai dimenticato, Enrico VIII e Anna Bolena, aveva ereditato una certa perspicacia e un’ottima capacità di governo.
Nel 1560 era al trono da appena un anno, ma era già intricata in difficili rapporti con la rivale, sua cugina, Maria Stuart. Contestavano la sua legittimità al trono, le sue politiche in fatto di religione e mille altre cose. Alla fine, proprio nel 1560 la filofrancese Maria Stuart siglò un accordo col quale rinunciò al trono di Inghilterra, accontentandosi di quello che già possedeva: la Scozia.
Quanto a me, riuscii a diventare una delle dame di compagnia di Elisabetta I. Era una donna interessante, carismatica, portava sempre un certo cipiglio severo che la faceva apparire altera e superiore a tutto e tutti. In verità credo fosse il sintomo più evidente della sua grande solitudine, un cataclisma che colpiva –e che sempre ha colpito e colpirà- chi vive una vita costantemente alla mercé dell’opinione pubblica. E lei, che aveva così tanto da dimostrare al mondo, subì tutte le conseguenze di quegli occhi costantemente puntati su di sé.
Iniziarono sin da subito a spingere perché si sposasse, perché garantisse un erede al trono, ma Elisabetta era insensibile a queste pressioni. Aveva visto così tante donne attorno a lei morire di parto, e così tanti erano i rischi del matrimonio (basti citare la decapitazione di sua madre, voluta proprio dal marito), che Elisabetta non volle mai saperne di sposarsi. O perlomeno, questo è ciò che si dice, perché in verità lei non chiarì mai le ragioni per cui non volesse un uomo al suo fianco.
Trascorsero così due anni, fino a quando Elisabetta si ammalò. Contrasse il vaiolo e quasi ne morì. Si trovava presso Richmond Palace, una delle residenze reali, e lì rimase per molto tempo durante la convalescenza, ma anche dopo. Io ero ancora al suo fianco all’epoca e la assistetti nella malattia, sopportando i discorsi di chi già la dava per morta e le cospirazioni su chi avrebbe preso il suo posto. Il palazzo era un andirivieni continuo di medici da ogni dove, consiglieri riuniti in circolo a parlottare e via vai di servette che si davano il cambio nell’assistenza della regina ammalata.
Io, be’, avevo messo gli occhi su un dottorino molto piacente. Riccioli biondi, occhi azzurri, venticinque anni o giù di lì, decisamente poco esperto del mondo anche se gli piaceva vantarsi della sua professione di medico. Era malleabile però. Potevo piegarlo al mio volere semplicemente con un sorriso, senza nemmeno soggiogarlo.
Passava le sue giornate alternando consultazioni con gli altri dottori a strapazzate nel mio letto, che erano anche ottime occasioni per tirargli fuori di bocca i pareri dei suoi colleghi. Ma niente, secondo la totalità dei dottori per Elisabetta non c’era speranza.
Un giorno particolarmente grigio e piovoso del 1562, Elisabetta chiese di vedermi. Io ero a letto con James, il dottore, e fui costretta a rivestirmi in tutta fretta e ad andare dalla regina coi capelli sciolti e in disordine. Confidai nel fatto che fosse malata e che non avrebbe ritenuto il mio aspetto trasandato di importanza rilevante.
Attraversai le stanze fino ai suoi alloggi e superai i paggi davanti ai portoni della sua camera da letto. Quando entrai, percepii subito il tremendo odore di chiuso e il caldo opprimente della stanza. Le tende alle finestre erano tirate, il fuoco nel camino scoppiettava allegro attizzato da una serva, ed Elisabetta era trionfalmente adagiata sul letto a baldacchino, sostenuta da numerosi cuscini e tenuta al caldo da strati di coperte di lana.
Il volto era scarno, imperlato di sudore e pustole. Nel pallore mortale del suo incarnato scorsi l’ombra della morte, che mi impedì di fare un ulteriore passo avanti nella stanza. Gli occhi della malata erano socchiusi, tremendamente stanchi e sofferenti, eppure li sentii fissi su di me.
«Volevate vedermi, mia regina?» dissi.
Elisabetta tirò un greve sospiro e tentò di parlare, ma non vi riuscì subito.
«Volevo vedere qualcuno che non fosse un prete, un dottore o un leccapiedi che vuole rubarmi il trono» fu quello che uscì dalle sue labbra dopo molte fatiche, sospiri e colpi di tosse.
Le sorrisi, divertita.
«Raccontatemi una storia» mormorò.
Era qualcosa che facevo spesso, le parlavo dei miei viaggi intorno al mondo, di ciò che avevo vissuto con Rose e Nikolaj, senza ovviamente rivelare a Elisabetta che la protagonista delle storie, che tanto la divertivano e appassionavano, ero proprio io. Lei, del resto, grande donna incatenata ad una vita di dominio pubblico e di estrema solitudine, apprezzava i miei racconti di donne libere dal giogo maschile e dalle convenienze sociali, che si spostavano da una città all’altra e che facevano un viaggio rocambolesco nel Nuovo Mondo solo per vedere gli Aztechi coi loro occhi. 
Le raccontai proprio degli Aztechi, di quel che avevo visto di loro e di molte cose che inventai solo per allungare il racconto. Quando la storia terminò, Elisabetta si addormentò, proprio come una bambina a cui si racconta una fiaba prima della buonanotte.
Rimasi ancora nella sua camera, fissandola e pensando. Avrei potuto curarla? Era una domanda che mi assillava sin da quando Elisabetta aveva contratto la malattia. Se l’avessi salvata, avrei cambiato il corso della Storia. Una parte di me avrebbe voluto farlo, ma dall’altro lato temevo che il vaiolo fosse come la peste di Rose e che Elisabetta avrebbe ingurgitato il mio sangue per poi rigettarlo, senza trarre da esso il benché minimo beneficio duraturo.
Che fare? La guardai ancora, lì semisdraiata sul letto, morente e sola, e mi decisi. Soggiogai per prima cosa la serva che curava il fuoco, affinché non ricordasse nulla di quanto sarebbe successo, poi mi avvicinai al letto della regina. Se l’avessi uccisa avrei posto fine per sempre alle sue sofferenze e nessuno mi avrebbe ritenuta responsabile del fatto; se l’avessi salvata avrei garantito all’Inghilterra prosperità sotto la guida di una regina più che degna del suo titolo.
Mi morsi il polso e lasciai che qualche goccia di sangue cadesse tra le labbra semiaperte di Elisabetta. Il cuore mi palpitava nel petto, ma lei non dava segni né di miglioramento, né di peggioramento. Accostai la ferita ancora aperta alla sua bocca, di modo che fosse maggiore la quantità di sangue che dal mio corpo fluiva nel suo, e solo allora potei notare il rimarginarsi, appena visibile ad un occhio attento, delle sue pustole più superficiali.
Non rigurgitò il mio sangue; semplicemente gliene sarebbe servita una grande, grandissima quantità per guarire completamente. 
Elisabetta riaprì gli occhi spossati dalla sofferenza, ma io ero già volata fuori dalla stanza, lontano da lei e da quello che avrebbe rammentato del mio gesto estremo.
 
I giorni seguenti passai molto tempo in compagnia della regina. A volte era lei a chiamarmi, altre ero io ad andare nelle sue stanze. Vigilavo sui suoi miglioramenti, le davo il mio sangue e la soggiogavo affinché non lo ricordasse. Poi lasciavo la sua camera e raggiungevo i miei alloggi, mi divertivo con James, pranzavo o cenavo a seconda che fosse mattino o pomeriggio, e poi tornavo da Elisabetta oppure mi chiudevo di nuovo in camera con James.
Oltre a essere spassoso, era la mia sacca di sangue ambulante, il povero caro dottor James Qualcosa.
Il giorno in cui dovetti lasciare la corte reale britannica, era iniziato come tutti gli altri giorni: passai la mattina da Elisabetta e quando feci ritorno nelle mie stanze per cambiarmi d’abito, vi trovai James, assorto a guardare fuori dalla finestra.
«Che ci fai qui?» gli chiesi, sorpresa. Di solito era impegnato con le visite ai pazienti o con le riunioni con gli altri dottori della regina per discutere della terapia, e raggiungeva i miei alloggi sempre dopo di me.
«Ti aspettavo» rispose, «eri dalla regina?».
Annuii. Era vestito a modo e i riccioli biondi erano impeccabili. Avrei voluto mordergli il collo e nutrirmi del suo sangue, poi guarirlo e scaraventarlo a velocità vampiro sul letto, e poi divertirmi con lui fino a quando le cameriere sarebbero venute a chiamarci per il pranzo.
«Non è sorprendente il suo recupero? La terapia funziona» disse poi, sorridendo compiaciuto al suo riflesso sullo specchio della toeletta in un angolo della stanza.
«Dopotutto ha ottimi dottori al suo servizio» miagolai, avvicinandomi cautamente a lui per attuare il mio piano. Mi sentivo decisamente nel mio elemento di predatrice: così, camminando piano verso di lui, come si avvicina un ghepardo alla sua preda e poi compiendo lo scatto finale e cogliendola di sorpresa.
Poggiai le mani sulle spalle di James e gli depositai un bacio all’angolo della bocca. Sentivo il suo cuore palpitare nel petto, il sangue scorrere nelle sue vene, il mio desiderio di avventarmi sul suo collo sempre più impellente.
«Andiamo da lei» propose James, «voglio mostrarti la nuova cura che voglio sperimentare».
«Proprio adesso?» mormorai, le labbra a pochi millimetri dalla pelle chiara dell’incavo del suo collo. Avevo già estratto i canini e le vene scure intorno agli occhi erano in bella mostra, gli occhi iniettati di sangue.
«Sì, adesso» replicò, staccandosi da me e avviandosi alla porta.
Avrei voluto farlo a pezzi in quell’istante, ma mi trattenni. Ritrassi i canini, mi imposi un certo contegno e lo seguii diligentemente fino alla stanza della regina.
Quando entrammo, Elisabetta non era sola. Nella camera c’erano il prete, due consiglieri e un paio di paggetti. Tuttavia percepii chiaramente la presenza di qualcun altro nella stanza, qualcuno che restava nell’ombra senza mostrarsi.
Elisabetta era seduta sul suo letto come sempre, sorretta dai numerosi cuscini d’oca e coperta da molte coperte di lana. Il volto pallido era segnato dalle cicatrici delle pustole ormai rimarginate, cicatrici che sarebbero rimaste a imperitura memoria della malattia mortale a cui era scampata.
«Lady Katerina» esordì uno dei consiglieri, «anche oggi avete trascorso molto tempo in compagnia di sua Maestà la regina, mi dicono».
«Sono una delle sue dame di compagnia. È mio compito, quello di tenerle compagnia» ribattei. Qualcosa non andava, lo capii subito.
«E che ne pensate del suo recupero miracoloso?».
«Lo trovo straordinario» risposi.
Il consigliere piegò le labbra in un ghigno di sfida, «pensate un po’, milady, poco fa sua Maestà Elisabetta I si è confessata con un prete e ha raccontato una singolare storia. La regina afferma che voi abbiate compiuto un qualche rito satanico su di lei e che l’abbiate poi plagiata affinché non se ne ricordasse».
C’era un solo modo in cui Elisabetta potesse aver detto tutto questo: prendeva la Verbena e io non me ne ero accorta. La guardai, ma lei rimase crudelmente impassibile.
«Rito satanico?» esclamai scettica, nel tentativo di prendere tempo.
«Siete una Strega!» tuonò il consigliere puntandomi contro il suo indice ossuto, «vivete da due anni presso la corte di Inghilterra, siete una straniera, avete fatto in modo di entrare nelle grazie di sua Maestà per poi ripagare la sua generosità in questo modo abominevole! Chissà da quanto plagiate la sua mente e la piegate ai vostri sporchi voleri… prendetela!».
Dall’ombra emersero tre soldati, quel qualcosa che avevo percepito sin da subito senza però riuscire a vederli, e mi si avvicinarono. Due mi presero per le braccia e uno rimase dietro di me, pronto a bloccare ogni mia mossa.
Mi venne da ridere.
«Permettetemi di dire la mia» esordii per nulla intimidita, «per prima cosa, ci tengo a precisare che trovo estremamente offensivo che mi si dia della Strega. Lo sanno tutti che le Streghe non sono neanche lontanamente paragonabili ai Vampiri e io, modestamente, sono un Vampiro di quasi cento cinquant’anni.
Seconda cosa: io non plagio la regina e non ho compiuto riti satanici su di lei. Suppongo che le venga somministrata la Verbena…».
«…è una regina, ovviamente vengono prese tutte le misure necessarie per proteggerla dal Male» mi interruppe il consigliere.
«Già, be’. Mio errore» convenni. «In ogni caso, le ho dato il mio sangue affinché potesse guarire dal vaiolo. Immagino che sappiate delle proprietà curative del sangue di Vampiro. Ora, lo vedreste da voi, che ho solo aiutato sua Maestà a guarire e nulla di più».
«Voi avete compiuto atti sacrileghi sulla regina» si infiammò il consigliere, «avete fatto uso delle vostre arti magiche oscure su di lei, l’avete oltraggiata oltre ogni dire. Voi siete colpevole di tradimento e per questo verrete giustiziata, Lady Katerina».
«Che sciocchezza» esclamai, «credete davvero che tre stupidi soldatini possano fermarmi? Sono sopravvissuta a cose ben peggiori di questa».
«Siete voi la protagonista delle vostre storie?» mormorò Elisabetta, parlando per la prima volta.
«E’ naturale» le risposi, «ho visto la Storia, le guerre, gli accordi, i sovrani, gli anni di carestia e quelli di prosperità. Ora possiamo smetterla con questa sceneggiata?».
«Voi verrete imprigionata e giustiziata, Lady Katerina» ripeté James, lo stupido infido dottorino James Qualcosa, che aveva osato cospirare contro di me con quei fanatici da quattro soldi.
«Oh, caro» gli dissi, con voce melliflua, «dopo che mi sarò liberata di questi soldatini, sarai tu la mia prima vittima. Avanti! Credete davvero che io abbia cento cinquant’anni solo per farmi incastrare da una banda di poveri umani come voi? Potrei uccidervi tutti, uno dopo l’altro, e poi scappare gettandomi dalla finestra e sparire in pochissimo tempo senza farmi nemmeno un graffio… tra l’altro, il precipitare dal balcone è la mia specialità».
Nessuno parlò più, e così restammo in silenzio per qualche minuto, finché mi decisi ad agire. Con un movimento preciso spezzai le braccia dei due soldati che mi tenevano ferma e mi occupai un istante dopo di quello che stava ritto dietro di me. Non ebbe nemmeno il tempo di realizzarlo, che gli assestai una gomitata sotto il mento che lo mandò a sbattere contro la parete alle nostre spalle.
Come promesso, mi avventai sul dottorino James, la cui testa volò letteralmente all’altro lato della stanza e finì tra le fiamme del caminetto tra le urla di panico dei presenti. Prima però succhiai fino all’ultima goccia di sangue che aveva nelle vene.
Mi avvicinai al consigliere, canini in vista, volto sporco del sangue di James. Mi passai la lingua sulle labbra, pronta a colpire di nuovo, ma qualcuno alle mie spalle mi iniettò una siringa di Verbena nella schiena.
«Ah!» gemetti. Quando mi voltai, vidi il prete fissarmi con sgomento. 
«E così mi colpite alle spalle con un po’ di Verbena e credete di mettermi fuori gioco?» la sentivo bruciarmi nelle vene, ma avrei retto il suo potere. Grazie a Nikolaj e al suo oltraggioso comportamento sulla questione del Diamante, non mi ero mai separata dalla Verbena, da quel lontano 1522, e continuavo a prenderne ogni giorno. Rallentava di certo i miei movimenti, ma non aveva più la capacità di sottomettermi. Potevo ancora essere letale.
Li uccisi tutti: i due paggetti insignificanti, il prete e i due consiglieri. Alla fine rimase solo Elisabetta, sgomenta, seduta sul letto e madida di sudore.
«Come vedete, mia regina, se avessi voluto uccidervi lo avrei fatto molto tempo fa. Siete una donna intelligente, certamente non bella, ma intelligente. Vi auguro di regnare ancora per lungo».
«E adesso cosa dovrei fare?» mormorò, quando io già mi stavo avviando alla porta per andarmene.
«Dovreste ricordare che siete la donna più potente d’Inghilterra e che potete fare quello che volete. Non siete poi così in catene come vi piace credere. Intendo dire che potreste prendervi certe libertà e che non siete costretta a fare sempre quello che ci si aspetterebbe da voi».
La guardai a lungo e lei ricambiò il mio sguardo senza dire una parola.
«Mi avete salvata?».
«Sì».
«Perché?».
«Perché la Storia ha bisogno di voi».
Mi voltai e lasciai la camera, diretta alla mia.
Tornata nei miei alloggi, feci un bagno per pulirmi del sangue versato dei miei nemici e preparai i bagagli. Tre ore dopo la strage nella stanza della regina, lasciai Richmond Palace per sempre. Dove mi sarei diretta ancora non lo sapevo, ma mi accontentai per il momento di prendere una carrozza e allontanarmi dal caos della città.




Finn Jones nei panni del caro dottorino James Qualcosa

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Versailles, 1683 ***


Versailles, 1683
 
1683. Oh, una data che rievoca in me momenti tranquilli e paesaggi mozzafiato nella Francia del Re Sole. Mi ero riunita a Rose e avevamo girato assieme per un po’, ma adesso sentivamo parlare di Versailles e di quale magnifica reggia Luigi XIV stesse facendo costruire sui resti del Pavillon de Chasse dei suoi avi. E io, che avevo conosciuto grazie a Nikolaj lusso e ricchezza, potevo perdermi l’occasione di vedere coi miei occhi quella che un giorno sarebbe diventata una delle regge più belle d’Europa? Certamente no.
Nell’eccitazione del momento, organizzai tutto sin nei minimi dettagli.
Rose era un po’ titubante, ma io ero convinta di voler andare proprio a Versailles. Per la verità non si trattava solo di un mero capriccio: discendenti della Congrega di Rose, ancora assetati della vendetta mai consumata contro la mia fedele compagna, ci avevano attaccate a Torino ed eravamo state costrette ad una brusca ritirata fino in Provenza, da dove organizzammo il viaggio per Versailles. Lì di certo saremmo state al riparo da qualsiasi minaccia di tipo soprannaturale e, sebbene la cosa potesse ritorcersi contro di noi, ero disposta a correre il rischio.
Ci stabilimmo perciò in una città poco lontano da Versailles, presso una vecchia Marchesa rimasta vedova da tempo. Era la donna perfetta: di classe, ricca, anziana e sola, ma soprattutto, era parente della regina di Francia.
Quando arrivammo in casa sua, soggiogammo tutto il personale di servizio e poi la povera vecchia, affinché ci considerassero sue nipoti. Poi scrissi di mio pugno una lettera, mi firmai a nome di Maria Teresa d’Aragona e la inviai alla Marchesa.
Sostanzialmente, avevo inviato alla vecchia un autoinvito a Versailles per lei, me e Rose.
E così, tempo di fare i bagagli, ed eravamo in carrozza dirette alla reggia del Re Sole.
La Marchesa aveva una carrozza tutta per sé, mentre io e Rose ne condividevamo un’altra. La cosa era perfetta perché io e Rose potevamo parlare liberamente senza preoccuparci dell’anziana nobildonna. Rose rimase piuttosto silenziosa per tutto il viaggio e scrutava il paesaggio francese fuori dal finestrino della vettura con un cipiglio preoccupato che non sapevo interpretare.
«Che hai?» le chiesi dopo un po’ che la studiavo.
«Niente» replicò, «mi chiedevo quanto resteremo qui».
«Non lo so. Un mese, un anno… che importa?».
«Non ti stanca, questo girovagare senza scopo?».
                     
«Ma noi abbiamo uno scopo, Rose!» ribattei, «divertirci, fare conoscenze, proteggerci a vicenda da quei parassiti della tua ex Congrega… se non fosse per te, giuro che avrei dato la caccia a tutti loro molto tempo fa e li avrei squartati uno a uno. Vedi com’è la vita, Rose! Loro vogliono uccidere te e tu li vuoi salvare da me. Curioso. Sono sempre i buoni a pagare le conseguenze».
«Tu non sei dei buoni?» mi domandò sorridendo tristemente.
«Oh, no» risposi, «i buoni muoiono. I cattivi, muoiono anche quelli prima o poi. Io sono una che si fa i fatti suoi. È questo il segreto dell’immortalità».
Rose non disse altro e così il viaggio proseguì in silenzio, fino a quando Versailles si stagliò all’orizzonte e la reggia era una costruzione candida che si ergeva tra la folta vegetazione e i campi coltivati tutt’intorno. Non era ancora completa, i giardini non erano quelli che sarebbero stati di lì a qualche decennio, eppure emanava già un misto di lusso, potenza e pace, che stregava.
Attraversammo il lungo viale fino ai cancelli d’entrata, li superammo e arrivammo fino alla reggia dopo un altro lungo viale che serpeggiava fino alla zona dove le vetture si fermavano per far scendere i passeggeri e stuoli di inservienti arrivavano come api operaie sui fiori appena sbocciati, occupandosi di bagagli e ospiti.
Il fatto che il nostro invito reale fosse un’invenzione non mi preoccupava affatto. Versailles pullulava di nobili parassiti della corona francese e ce n’erano così tanti, che dubitavo fortemente che qualcuno si sarebbe accorto della clamorosa aggiunta di tre posti a tavola.
«Sarà divertente» sentenziai rivolta a Rose.
 
Rimanemmo a Versailles per sei o sette mesi. Non fu bello come a Firenze, non c’era nessun Lorenzo de’ Medici del resto, ma fu un periodo che scorse tranquillo e soprattutto, di divertimento.
La reggia era costantemente in festa e giornalmente si tenevano ricevimenti e banchetti ed era tutto molto spassoso. Era una vita ovattata, lontana dalla dura realtà del popolo francese, dalle proteste e dai malcontenti. Era un piccolo mondo felice.
E in quel piccolo mondo, trovai una preziosa compagnia: il Re Sole.
Lo avevo visto molte volte, naturalmente, ma non avevo mai avuto l’occasione di parlarci. Avvenne un pomeriggio tiepido di marzo, due mesi dopo il mio arrivo a Versailles. Stavo passeggiando nei giardini e mi ero fermata a osservare le statue di una fontanella. Mi voltai al crepitio dei passi di molte persone sul ghiaino del viale alle mie spalle, e vidi il re attorniato da una folla silenziosa composta da consiglieri, damerini e forse persino dottori. Veniva verso di me e camminava tutto impettito con quelle sue ridicole scarpe col tacco che andavano di moda all’epoca.
Mi inchinai immediatamente e altrettanto fece lui, anche se non si piegò tanto quanto me.
«Vi vedo molto interessata alle mie fontane» osservò per attaccare discorso.
«Incantevoli, Maestà» replicai e chinai nuovamente il capo verso di lui.
«Non vi ho mai vista, Mademoiselle» disse, «siete a Versailles da molto?».
«Un paio di mesi, Eccellenza. Sono nipote della Marchesa De Valençon, parente di vostra moglie, Sua Maestà la regina» risposi.
«Ah! La Marchesa… una donna di gran classe» commentò, «e qual è il vostro nome?, se mi concedete l’ardire di chiedervelo».
«Katerina. Chiamatemi Katerina». Gli sorrisi. Qualcuno della folla che seguiva il re strabuzzò gli occhi alla mia risposta, ma non proferì parola per commentare lo scandalo della mia affermazione. Davvero azzardato, farsi chiamare per nome da un re. Certo, come no; che mare di stupidaggini.
Il re comunque sorrise, per nulla turbato dal mio azzardo. Sembrava più che altro divertito. Mi passò per la mente che volesse propormi di diventare la sua amante. Non sarebbe stato di certo un pensiero stupido, visto che ne aveva molte.
«Continuate a passeggiare con me, Katerina?» mi propose.
«Con immenso piacere».
E così continuammo a camminare fianco a fianco e ogni tanto Luigi indicava alberi o altre piante e me ne spiegava l’origine. Altre volte ancora parlava delle fontane, delle statue e dei giochi d’acqua e si lanciava nel racconto di miti antichi e quasi dimenticati.
Era stranamente piacevole passare il tempo con lui e ben presto dimenticai l’idea che mi avesse avvicinata al solo scopo di trasformarmi in una delle sue concubine. Gli uomini invisibili che lo seguivano ovunque ci venivano dietro, ascoltavano le nostre chiacchiere e ogni tanto avevano come dei singhiozzi, quando io mi lanciavo in provocazioni o battute pungenti, che in fondo sono sempre state la mia specialità.
«Mi sembrate una donna a cui piacciano i viaggi» esordì dopo un po’. Ci eravamo parecchio allontanati dalla reggia, tanto erano grandi i giardini di proprietà della corona, ma gli uomini invisibili continuavano a seguirci. Avevo imparato a non far caso a loro e col passare del tempo erano diventati poco più di ombre per me.
«E’ così in effetti» gli risposi.
«Non vorrei sembrare sgarbato, Mademoiselle, ma viaggiare sola mi pare alquanto sconveniente per una dama come voi. Siete peraltro molto giovane e bella, i viaggi solitari sono di certo poco raccomandabili».
«Chi vi dice, che io viaggi da sola?» ribattei con un mezzo sorriso.
«Era solo un’ipotesi».
Restammo in silenzio per un po’ di tempo, ma il re di Francia era un uomo a cui il silenzio non piaceva affatto. O forse non ne era abituato e lo doveva riempire a qualsiasi costo.
«C’è un uomo nella vostra vita?».
«Siete curioso, Maestà» osservai per prendere tempo e stuzzicarlo un po’.
Lui ridacchio.
«C’è» aggiunsi quando l’ilarità scemò.
«Siete sposata?» volle sapere allora.
«Vedova».
«Alla vostra giovane età? Che cosa orribile» esclamò Luigi.
Io non risposi, persa nei ricordi.
«Amavate molto vostro marito a giudicare dallo sguardo che avete ora» disse il re, desideroso di mantenere viva la conversazione.
«Nessuno sa cosa sia l’amore, Maestà».
«Come si chiamava?».
«Lorenzo» risposi, «si chiamava Lorenzo».

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Versailles, 1683 (2) ***


Versailles, 1683 (2)
 
Da quel giorno, io e Luigi XIV passammo molto tempo insieme. Era una compagnia piacevole, la sua. Si parlava di amore, di vita, di morte, di cosa fosse l’esistenza e di tante questioni morali ed etiche. Immaginavamo persino come potesse essere la nostra vita se lui non fosse stato il re di Francia e io non fossi stata Katerina, nipote della Marchesa De Valençon.
«Io sono nato per essere re, Katerina» mi rispose, quando gli chiesi che ne sarebbe stato di lui se invece di nascere Luigi XIV fosse nato Jaques in una provincia dimenticata a sud del regno.
«Il mio futuro era scritto già da prima che nascessi. Dovreste allora piuttosto chiedermi cosa sarei adesso se la mia intera famiglia e tutti i miei antenati non fossero stati di stirpe reale».
E si continuava così, discorrendo, ipotizzando, fantasticando.
Rose, naturalmente, vide la pericolosità della cosa e affrontò il discorso un mattino di aprile, tre mesi dopo il nostro arrivo con la Marchesa.
«Sono certa che conosci già da te i rischi dell’essere… qualunque cosa tu sia per il re» mi disse, senza riuscire a nascondere un certo rimprovero nel tono di voce.
«Credi che io mi diverta col re di Francia?!» esclamai. Avevo le sopracciglia inarcate per lo stupore.
«Oh, be’, io non l’ho detto» balbettò Rose in evidente imbarazzo, «però ti conosco abbastanza da sapere che ne saresti capacissima. In fondo sei sempre stata con uomini potenti. Però vorrei farti notare –insomma, sono certa che lo sai già- che il re sicuramente prende la Verbena e che quindi è molto rischioso…».
«Oh, ti prego» la fermai, «io e Luigi XIV siamo solo confidenti».
«Cioè?».
«Parliamo. E basta» chiarii, «piuttosto, dimmi di te e di quel damerino che ti fa le fusa».
Era il giovane Duca di Nonsocosa e faceva la corte a Rose da quando eravamo arrivate. Dopo due settimane di banchetti e festini in cui lei non lo aveva degnato che di qualche sguardo imbarazzato, una sera le misi nelle mani un bicchiere di brandy e le ordinai di andare a parlarci. Ce lo avevano già presentato, per cui non sarebbe stato per niente sconveniente se Rose gli si fosse avvicinata anche solo per accettare di ballare con lui.
Non avevo rivisto Rose fino alla tarda mattinata del giorno seguente, quando era entrata nei miei alloggi col volto arrossato e una strana luce negli occhi.
«Mio Dio» avevo esordito, «non guardarmi con quella faccia».
L’avrei stuzzicata non poco per tutta quella faccenda che le creava un tale imbarazzo, ma che per me era spasso allo stato puro.
Quando l’avevo vista prendere fiato per parlare, l’avevo preceduta dicendo: «no no no no no! Non voglio i particolari! Non dirmi niente, Rose Foster, non voglio sapere delle tue perversioni! Credo che non riuscirei più a guardarti con gli stessi occhi».
«Oh, finiscila!» mi aveva redarguita lei, ridendo.
«Com’è che si chiama?» le dissi in quel momento, quanto mai desiderosa di allontanare la discussione dai discorsi tra me e il re di Francia, «Denis, Devis…».
«David!» mi corresse lei.
«David, sì». Poi aggiunsi: «sarà bene che anche tu faccia attenzione. Qui sono in tanti a sapere dei Vampiri e a prendere precauzioni al riguardo».
«Lo so», poi abbassò il capo e mi chiese a bassa voce: «lo ucciderai?».
La sua domanda mi sorprese, ma dissi solo: «se vuoi che lo uccida, lo farò».
«No, io non voglio che tu lo uccida!».
«E allora, perché mi fai queste domande?».
«Io… pensavo solo che… niente, lascia perdere».
«Credi che io voglia ucciderlo solo perché è un rischio tremendo avere una relazione con un umano che quasi certamente sa dei Vampiri? O pensi che io sia gelosa di te e non voglia la tua felicità?» la attaccai, «non sono un mostro, Rose. Cioè, fondamentalmente lo sono, ma non con te. Io sono felice, se tu sei felice, e non lo ucciderò mai a meno che tu non me lo chieda esplicitamente, capito? E poi, il rischio fa parte della vita e del divertimento. Se ci saranno problemi a riguardo in futuro, li risolveremo».
«Grazie, Kat» sospirò.
«Ringraziami per altro, non per questo. Ah, un attimo… Rose? Due cose: non lo soggiogare mai e non bere il suo sangue, ma soprattutto, non ti innamorare di lui».
Ci guardammo per un lungo minuto, poi lei annuì e lasciò la stanza. Io mi spostai verso la finestra, pensando a Lorenzo e a quanto mi mancasse in quel momento.
Fuori c’erano nobili che passeggiavano e poi Luigi XIV, seguito immancabilmente dagli uomini invisibili. Discorreva con un paio di Marchesi, Conti o quel che erano e parlava animatamente, gesticolando un poco e muovendo la testa di continuo. La sua parrucca sarebbe di certo caduta se continuava così. Che servissero a quello gli uomini invisibili? A raccoglierla da terra?
 
Col passare dei giorni i problemi divennero ben altri. Per la testa non avevo più solamente le riflessioni di Luigi e le diatribe amorose di Rose, ma anche la questione Verbena. Infatti, continuavo a prenderla ogni giorno per quella questione dell’immunità che era iniziata con Nikolaj quando mi aveva rubato il Diamante Oscuro. Ormai i suoi effetti sul mio organismo erano quasi del tutto annientati e dopo accese discussioni con Rose ero riuscita a convincerla a prendere anche lei la Verbena ogni giorno.
Il piccolo grande problema del vivere in un posto come Versailles, praticamente ermetico a qualsiasi minaccia soprannaturale, era l’impossibilità di rifornirmi proprio della Verbena che era necessaria per mantenere l’immunità del mio organismo al suo potere. Le scorte stavano finendo e non sapevo come fare per procurarmene dell’altra.
Razionai i dosaggi per me e Rose e intanto arrivai alla conclusione che quasi di certo in un posto come Versailles dovesse esserci almeno una pianta di Verbena. Come avrebbero potuto altrimenti fornire le dosi che giornalmente il re e tutta la corte assumevano per proteggersi dal soprannaturale? Per questo motivo, pensai che l’unico che poteva condurmi alla presunta piantagione di Verbena, fosse proprio il re di Francia.
Iniziai a fingere un estremo interesse per la botanica, nel tentativo di indurre il re a mostrarmi tutte le piante di Versailles, Verbena compresa. Ma i tentativi andarono a vuoto e fui costretta a razionare nuovamente i dosaggi per me e Rose, passando da un sorso ogni due giorni a un sorso ogni quattro.
Paradossalmente, fu la morte della regina a offrire l’occasione propizia.
Nel luglio di quell’anno infatti, Maria Teresa si ammalò e dopo una settimana di agonia, morì. Io e Rose non intervenimmo per evitare che accadesse –avevo già imparato con Elisabetta I che i regnanti vanno lasciati alla Natura- e, se anche avessimo voluto, non saremmo mai riuscite ad avvicinarci a lei. Per quella settimana di malattia, i suoi alloggi furono così affollati di medici, preti e dame in preghiera, che sarebbe stato del tutto impossibile fare qualcosa per aiutare la regina.
Io e Luigi XIV riuscimmo a riprendere le nostre passeggiate pomeridiane solo due settimane dopo la morte di Maria Teresa. Il re si era fatto pensieroso, scuro in volto, ma non triste nel senso vero del termine.
«Abbiamo qualcosa in comune, ora» mi disse un giorno. Camminavamo lentamente tra le piante di agrumi, seguiti come sempre dagli uomini invisibili a cui ormai non facevo più caso.
«Siamo vedovi entrambi» chiarì.
«Amavate la regina?» gli chiesi io.
«No, non l’amavo. Ma avevo grande rispetto per lei».
«Allora non abbiamo proprio nulla in comune, Maestà».
«Certo», sorrise con una certa malinconia, «voi amavate molto vostro marito».
«Nessuno sa cosa sia l’amore» gli ripetei, dicendo le stesse cose che gli avevo detto la prima volta in cui avevamo parlato.
«Immagino che lascerete Versailles» osservò Luigi, cambiando discorso.
«Dovrei?».
«La Marchesa non ha più motivo di rimanere qui, ora che la regina è morta. Voi ve ne andrete con lei e vostra cugina, Mademoiselle Rose, o sbaglio?».
Non ci avevo pensato. Ma sì, ora che la Marchesa se ne andava, di certo saremmo dovute andare via anche io e Rose.
«Non sbagliate, mio Re» convenni.
«Katerina, prima ho bisogno di mostrarvi una cosa» disse lui, facendosi serio d’improvviso.
Mi condusse fino a una zona dove non si vedevano nobili a passeggiare, ma solo guardie in perlustrazione. Oltrepassammo i cancelli di un’area recintata e preclusa agli ospiti della corte reale. Uno degli uomini invisibili si inchinò davanti al Re e gli chiese sottovoce se fosse saggio portarmi lì. Ma Luigi liquidò l’uomo con un gesto annoiato della mano, mi offrì il braccio e mi accompagnò fino ad una piccola costruzione dentro la quale stavano file e file di piantine coltivate in vaso.
Riconobbi diverse specie di Aconito, altrimenti conosciuto come Strozzalupo, e lì, in fondo, proprio cinque o sei piante di Verbena. Ebbi un tuffo al cuore e dentro di me esultai per la felicità. Eccola, la scorta reale. Una Strega avrebbe venduto l’anima al Diavolo pur di mettere le mani su tutte quelle piante.
Luigi mi condusse proprio verso le piante di Verbena. Ne staccò una fogliolina e se la passò tra le dita, ne annusò il profumo… temevo che me la porgesse per fare lo stesso. A quel punto sarebbe emersa la verità su di me, perché per quanta Verbena assumessi ogni giorno, la mia pelle non era di certo immune al bruciore da contatto.
Ma Luigi lasciò cadere a terra la fogliolina e si portò la mano alla giacca di broccato che indossava. Ne estrasse un pacchettino e, apertolo, mi mostrò cinque splendide fialette piene di liquido ambrato.
«Queste, cara Katerina, sono fiale di Verbena. Da questa pianta si ricava questo liquido e, se lo prendete ogni giorno, vi può proteggere dal Male» mi spiegò.
«E’ un dono molto prezioso» attaccai, ma lui d’un tratto si era fatto furtivo e sembrava voler concludere l’affare il più presto possibile.
«La scomparsa di mia moglie, la Regina, mi ha scombussolato. Lo so che il Male a cui mi riferisco non c’entra niente con la sua morte, però, ora che mi avete confermato la vostra volontà di partire, voglio farvi questo piccolo regalo perché fuori da Versailles è tutto molto pericoloso. Voi siete una viaggiatrice, Katerina, e viaggiando si incorre in molti pericoli. Non vorrei mai che mi giungesse la notizia della vostra morte. Abbiamo parlato molto in questi mesi, condiviso riflessioni… non vi dimenticherò mai».
Presi il pacchetto e lo misi al sicuro nella mia borsetta.
«Allora, ne prenderete un sorso ogni giorno?».
«Lo farò, ve lo prometto» gli risposi.
«Bene. Credo che non sia rimasto altro da dirci, allora».
Tornammo fuori in silenzio e riprendemmo il viale da cui eravamo venuti, diretti alla reggia. Quando venne il momento di separarci, gli diedi il mio ultimo addio:
«Il vostro nome è scritto nella Storia, Luigi. La Storia non vi dimenticherà e nemmeno io».
Uno degli uomini invisibili alle nostre spalle ebbe un singulto quando pronunciai per la prima volta il nome del Re, come se avesse ingoiato una nocciolina intera e gli fosse andata di traverso. Ma il Re, come altre volte, non dimostrò di rimanere sconvolto da tanta audacia.
«Un Re non ha amici; ma voi, per me, siete stata la cosa più simile ad un’amica che si possa sperare, considerata la mia posizione», fu il suo saluto.
Ci inchinammo reciprocamente e poi ci separammo definitivamente.
Il giorno dopo i miei bagagli erano già sulla vettura che avrebbe portato me, Rose e la povera vecchia Marchesa lontano da Versailles. 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Milano, 1815 ***


Milano, 1815
 
Il 1815 fu un anno molto importante per me, perché conobbi una persona che si sarebbe rivelata preziosa negli anni a venire. Non era solo questo, comunque. Per me divenne quasi un fratello.
Tutto iniziò al ricevimento organizzato per un matrimonio importante in famiglia Borromeo al quale furono invitate molte famiglie illustri della nobiltà milanese, tra cui anche io e Rose.
Durante il ricevimento, eravamo uscite nel giardino sul retro della villetta e un cameriere si era immediatamente avvicinato a noi con un vassoio di calici colmi di vino bianco.
Era alto e tarchiato, piuttosto giovane, stretto nella sua livrea bianca. Molto stretto, a dir la verità. «Vino, mie signore?» chiese con un tono servizievole.
«Ma certo» dissi, prendendo dal vassoio due calici. Gli sorrisi, maliziosa.
Il cameriere –a sorpresa- non rispose con un inchino, ma con un ghigno difficile da interpretare. Ci superò e si allontanò velocemente da noi. Il suo atteggiamento ci aveva insospettite, ma in fondo era solo un cameriere imberbe del tutto innocuo. Non finii nemmeno di formulare questi pensieri che i calici nelle nostre mani scoppiarono all’improvviso e ci sporcammo di vino. Un istante dopo i nostri vestiti avevano preso fuoco. Non c’era nessuno nei paraggi per fortuna e riuscimmo a correre a velocità vampiro verso il canale intorno al giardino per spegnere le fiamme con l’acqua.
Quel dannato cameriere era certamente uno Stregone e aveva smascherato Rose e me.
«La Congrega! Ci perseguita ancora dopo così tanto tempo!» esclamò Rose nel panico.
«Non ti preoccupare» ribattei, assetata di sangue, «lo troveremo e lo sottoporremo alle simpatiche torture che ho visto in Spagna nel millecinquecento, Rose. Confesserà anche cose che non sapeva di aver fatto».
«Sei sempre così perfida, Kat».
«Solo con chi osa sfidarmi» replicai.
Captammo il cuore pulsante del cameriere poco lontano da lì e lo raggiungemmo nel magazzino delle scorte dove si trovava. Questa volta non avrei sottovalutato il problema; ci aveva sfidate e avrebbe pagato caro il suo errore.
«Ce ne avete messo di tempo, mie care!» esordì il ragazzo.
«Chi sei?» sbottò Rose.
«Tu dovresti ancora giocare coi soldatini invece di occuparti di magia» rincarai.
«Sono un giovane intraprendente, sono dovuto crescere in fretta».
«Dicci chi sei! Chi ti ha mandato?» ringhiò Rose, spazientita. Le vene intorno agli occhi sporgevano, scure, sintomo della sua rabbia crescente.
«Sono Zaccaria Veronesi, cameriere per i Borromeo, ma soprattutto, sono uno Stregone» rispose fiero il giovane. Notai un certo risentimento quando disse di essere un cameriere e capii che la cosa non doveva piacergli molto. Forse non era poi così pericoloso come voleva far credere, forse era solo un bamboccio frustrato da una vita sprecata al servizio degli altri che aveva intravisto in me e Rose una possibilità di riscatto.
«Parla o ti strappo le corde vocali… e poi non dire che non ti avevo avvisato» aggiunse Rose. La paura della Congrega era l’unica cosa che riusciva veramente a far emergere il lato combattivo del suo carattere, il desiderio di sopravvivere a qualsiasi costo.  
Sul volto di Zaccaria comparve un’ombra di timore, ma il ragazzo si riprese subito. «Nessuno mi manda. Come ho detto, sono un semplice cameriere e uno Stregone. Investito dalla sfortuna, questo sì». Ecco, le sue parole avevano confermato il fatto che non fosse assolutamente pericoloso. Una cosa c’era da dire, però: coraggioso, ad affrontare due Vampire ultracentenarie come me e Rose. 
«Non è vero!» tuonò Rose e si lanciò contro di lui. Ma Zaccaria contrattaccò subito mormorando un incantesimo che la fece piegare in due dal dolore. Accorsi in sua difesa, ma Zaccaria scomparve prima che potessi colpirlo. Riapparve alle nostre spalle e ci colpì con una palla di fuoco che prontamente schivammo. Forse non era così innocuo, dopotutto…
«Piromane» esclamò Rose indignata.
«Vuoi giocare col fuoco? E allora giochiamo» ringhiai. Estrassi i canini e partii all’attacco. Questa volta Zaccaria non fu abbastanza veloce e riuscii a immobilizzarlo.
«A te l’onore, Rose». Girai Zaccaria verso di lei perché potesse ucciderlo più facilmente, ma lo Stregone prese ad agitarsi e urlare. Sinceramente, non credevo che fosse parte della ex Congrega di Rose; era troppo giovane e troppo inesperto per essere stato mandato da quei fanatici, ma era pur sempre uno Stregone che aveva osato attaccarmi e lo avrei eliminato molto volentieri. Tanto più che Rose era agguerrita e questo non capitava quasi mai. Era uno spasso vederla in azione.
«No no no no! Aspettate!» piagnucolò Zaccaria, «vi prego, aspettate!».
«Ultime parole?» gli dissi all’orecchio, pregustando dentro di me il momento in cui Rose gli avrebbe dato il colpo fatale. Immaginavo già che poi si sarebbe calmata e forse avrebbe persino provato compassione per lui e rimorso per se stessa, ma lo avrebbe tenuto per sé e avrebbe finto di essere felice di aver appena ucciso un nemico. Io le avrei fatto credere di averla bevuta e saremmo tornate a casa senza dire una parola.
«Non uccidetemi! Vi propongo uno scambio!».
«Uno scambio?» volli sapere. Il ragazzo non ne voleva proprio sapere di morire…
«Lasciatemi vivo e io vi servirò. Ai Vampiri servono sempre le Streghe» esclamò disperato.
«Ma tu sei della Congrega! Non possiamo fidarci» protestò Rose, ma non era più tanto sicura.
«Ma quale Congrega!? Io non conosco nessuna Congrega! Io e la mia famiglia siamo cresciuti lontani dal mondo soprannaturale. Porta solo guai. E se fossi parte di una Congrega, di certo non mi sarei ridotto a fare da schiavo a questi ricconi» ribatté Zaccaria amaramente.
Effettivamente uno Stregone poteva sempre tornarmi utile, soprattutto considerando che mi bruciava ancora il fatto di aver perso il Diamante. Zaccaria Veronesi mi avrebbe aiutata a recuperarlo dalle mani di Nikolaj in un modo o nell’altro.
Rose protestò a gran voce quando lo lasciai andare con la minaccia che gli avrei strappato il cuore e lo avrei dato in pasto ai cani se solo avesse osato tradirmi, ma era giusto così. Mi dispiaceva non aver potuto vedere Rose in azione, ma in fin dei conti, la nostra vita di eternità ci avrebbe dato molte altre occasioni di uccidere. 
Riflettei per lungo tempo quella notte, sulle possibilità che si aprivano ora che avevo uno Stregone ai miei servizi. Ora più che mai volevo il Diamante, sognavo di strapparlo dalle mani di Nikolaj, donarlo a Zaccaria e renderlo il mio Signore Oscuro. Avrei avuto il mondo soprannaturale in pugno grazie al suo impareggiabile potere e Zaccaria avrebbe fatto tutto il lavoro sporco al posto mio.
Zaccaria era il candidato perfetto, perché nonostante fosse solo e ignaro di molti aspetti della vita nel mondo soprannaturale, aveva un grande potere e molta ambizione. Sarebbe riuscito benissimo a gestire il potere oscuro del Diamante.
Ma le mie vaghe speranze cozzavano contro il risentimento di Rose nei miei confronti perché non avevo ucciso lo Stregone e contro il fatto che il Diamante era al momento inaccessibile per me. Non sapevo nemmeno dove fosse Nikolaj e che ne avesse fatto del potente oggetto oscuro che mi aveva sottratto quasi due secoli prima.
L’occasione propizia si sarebbe presentata prima o poi, di questo ero certa. Dovevo solo avere pazienza e aspettare. Nel frattempo però, dovevo gestire i capricci di Rose, che non mi perdonò per aver salvato dalla sua ira Zaccaria, né in quell’anno, né in quelli a venire e lasciò Milano da sola, separandosi da me, e solo molto tempo dopo ci riunimmo.





Special guest di questo capitolo, Mark Ruffalo nei panni di Zaccaria Veronesi (molto giovane, ovviamente!)

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Chancellorsville, 1863 ***


Chancellorsville (Virginia - USA), 1863
 
Pare che le battaglie vadano a favore dei Confederati stavolta, ma chi può dirlo con certezza? Odio questa situazione. Prenderei una nave qualsiasi e andrei in un posto qualsiasi, molto lontano da qui s’intende.
Ma Rose Foster ha deciso di salvare il mondo a quanto pare e gira tra i morti e i feriti come le api girano intorno ai fiori. Odio anche il fatto che sia qui e che io debba restarci di conseguenza. Certo, potrei andarmene anche adesso, ma no! Non posso… Rose è qui, in mezzo alla guerra, rischia la sua vita e io odio non essere in grado di lasciarla al suo destino. Ma, accidenti! Ho fatto così tanto per tenerla in vita in questi secoli, che non posso buttare tutto alle ortiche solo perché una spiaggia italiana, baciata dal sole, con un buon bicchiere di Bourbon, sarebbe più divertente.
Crocerossina. Crocerossina! Di tutte le cose che poteva fare con la sua immortalità, ha scelto di buttarsi a capofitto tra moribondi, appestati e feriti gravi, tutti danni collaterali di una guerra iniziata nel 1861 e di cui ancora non si scorge il capolinea. Ma Rose… a volte mi chiedo se non lo faccia per ripicca. Non la vedo dal 1815, da quando ho assoldato Zaccaria. Ma davvero brucia ancora di gelosia? Evidentemente, sì.
E poi ha questa sua nuova amichetta, Johanna. Un’umana del tutto ordinaria con un carattere terribile, strafottente ed eccessivamente sarcastica. Non capisco che ci trovi Rose in lei. La prima volta che l’ho vista ho subito pensato che sarebbe un Vampiro temibile, con quel caratteraccio. Ma l’ho vista coi malati, con le donne e coi bambini… non è cattiva come sembra. È vero che “can che abbaia, non morde”.
Sono arrivata qui due settimane fa. È una cittadina deludente, spoglia, provata dalla guerra in corso, teatro essa stessa di battaglie. La gente parla poco e non si diverte mai. Immagino che sia tutto parte del pacchetto “Vacanza di guerra” che ho scelto. Vorrei solo che Rose accettasse di venire via da questo brutto posto. E ci ho provato, a parlarle, ci ho provato, ma non mi darebbe ascolto nemmeno se le dicessi di aver trovato la cura al vampirismo, in questo momento.
Sono arrivata dopo settimane di viaggio, con un cavallo stanco e un bagaglio a mala pena riempito dell’essenziale, e Rose non si è fatta vedere in giro. Sono dovuta andare a cercarla e Dio solo sa che fatica ho fatto per trovarla e avere la sua attenzione soprattutto! Accampamenti ovunque, militari in divisa, puttane,… l’ospedale era stracolmo di feriti e brulicava di soldati e delle suddette Crocerossine e solo dopo molto girovagare tra i morenti e il puzzo infestante della morte, sono riuscita a scovarla, china su un uomo il cui braccio sembrava appena essere stato maciullato da un tritacarne. E Rose era lì, vestita di tutto punto da infermiera con tanto di cuffietta, e curava il disgraziato, immersa nei fetori di sudore e sangue, come se la cosa non la toccasse minimamente.
«Rose Foster!» l’ho richiamata. Dio, com’era sporca! Si è alzata di scatto, si è girata e mi ha visto. Era tutta ricoperta di terra e di sangue eppure era proprio lei, coi capelli rossi raccolti sulla nuca, gli occhi verdi e grandi, la pelle pallida.
Non l’ho di certo trasformata per vederla in queste condizioni! L’ho fatto per avere una compagna di avventure, perché le voglio bene… le ho insegnato le buone maniere, la classe della nobiltà, così come Nik le aveva insegnate a me… ed ecco come Rose mi ripaga! Rischiando la vita in un campo di battaglia inzaccherato di fango, ricoperta di terra e di sangue, in mezzo ai morti presenti e futuri.
«Non mi saluti? Che c’è, non ti ricordi di me? Sono Katerina, la sola e unica Katerina Petrova» ho detto. Ma credete che quella ingrata abbia avuto anche solo un briciolo di pentimento per avermi del tutto ignorata?
«Non sapevo fossi qui. Be’ Kat, ti consiglio di andare via. Non è sicuro e poi non credo che l’ambiente faccia per te». E dopo queste parole, eccola di nuovo ripiegarsi sul moribondo e continuare le sue inutili medicazioni, come se fosse una donna qualunque e non una Vampira ultrasecolare che potrebbe curare tutta quella gente soltanto con poche gocce del suo sangue. Assurdo!
Ma una cosa è certa, questo posto non fa proprio per me. E scrivo queste righe per sfogarmi, perché sono completamente sola e alle prese con una bambina viziata e capricciosa. Se avessi Zack almeno potrei parlare con lui, ma non posso di certo convocarlo qui solo perché ho bisogno di un difensore. No. Katerina Petrova trova sempre il modo di far funzionare tutto e questa volta non sarà diverso.
Ma, un attimo! Devo ancora parlare di quella Johanna, improvvisa nuova amichetta di Rose, con un’aspettativa di vita ridicola. Sì e no trent’anni. Oggigiorno si muore giovani, poco più vecchi di qualche secolo fa a dire il vero, e lei, a meno ché non si ammali prima, non sarà diversa.
Me ne stavo lì, a farmi rimettere a posto da Rose Foster (come se ciò fosse veramente possibile! Insomma, sono o non sono Katerina Petrova?), ed ecco spuntare dal nulla questa ladra di amiche. L’ho vista subito come una rivale, una donna scaltra, calcolatrice e ladra. Con quella sua faccia allungata, le labbra sottili, i capelli neri… insopportabile. E ladra. L’ho già detto? Be’ lo ripeto. Ladra di amiche, ladra di Rose! La detesto dal profondo del cuore.
«Oh, ma che bel vestito» ha detto, squadrandomi come se fossi una scultura di Michelangelo e lei dovesse valutarne il valore, «costoso, immagino…».
«Fatto a mano» ho rincarato.
«Be’ porta il tuo bel vestito fatto a mano fuori di qui, che non abbiamo tempo da perdere con queste stronzate, noi». E ha rimarcato quel “noi” così tanto che non so cosa mi abbia trattenuto dal staccarle la lingua e farne una collana. E Rose! Rose è rimasta impassibile, in silenzio. Non ha detto nulla, non una sola parola! Ingrata! Dopo tutto ciò che ho fatto per lei!
È venuta a cercarmi dopo. La sera me ne stavo alla locanda dove alloggio con una bella bottiglia di whiskey. Bevevo per tirarmi su il morale e pensavo alle vite che ho salvato. Forse non sono numerose come quelle di Rose, ma in fondo anche io ho fatto la mia parte, no? Ho salvato lei, in primis, ho salvato Yuliya ancora prima di conoscere Rose, ho salvato la regina Elisabetta I dal vaiolo, ho salvato Lorenzo dalla congiura, ho salvato Zack dall’ira malriposta di Rose… e vogliamo parlare di tutti quelli che non ho ucciso solo perché la dolce e innocente Rose è facilmente impressionabile? La scia di sangue dietro di me sarebbe molto più lunga se non fosse per lei.
Non sarò una Crocerossina della Guerra di Secessione americana, ma ho salvato anche io vite umane. E questo Rose lo sa e non dovrebbe dimenticarlo.
«Mi dispiace per Johanna» ha esordito. Come se questo bastasse.
«Solo per questo?» le ho chiesto.
Ha messo su uno sguardo duro. Certo! Il suo comportamento è stato impeccabile, no?
«Tu hai scelto Zaccaria al posto mio!» ha sibilato, «hai creduto alla versione di uno Stregone immaturo e bugiardo. Hai messo in pericolo la nostra copertura. Gli hai addirittura concesso di sopravvivere e di apprendere nuovi incantesimi! Lui dovrebbe essere morto dal 1815 e invece è vivo e vegeto e probabilmente dimostra la metà dei suoi anni con tutti quegli incantesimi contro l’invecchiamento che esistono!».
«Sì, be’, è un giovanotto niente male. Ci farei un pensierino se… be’, se non fosse il mio Stregone e se non sapessi che ha sessantacinque anni. Ma non è questo il punto; tu hai permesso che quell’umana mi umiliasse. Non hai fatto niente, non hai detto niente… Rose, io te lo dico, quella stronza morirà. E molto dolorosamente».
«Ti impedisco categoricamente di far del male a Johanna. Dico sul serio, Katerina! Non ti parlerò mai più se la toccherai anche solo con un dito. Lei è mia amica, chiaro?».
«Begli amici che ti scegli!».
«Begli amici come te?». Dio, le lacrime agli occhi, no! Stava per mettersi a piangere, come una bambina appena rimproverata, come se non avesse quattrocento anni di vampirismo alle spalle.
«Va’ via» le ho ordinato e lei ha lasciato la mia stanza.
Ho scolato tutto il whiskey rimastomi e ho preso un’altra bottiglia. Poi sono uscita a caccia. La città brulica di soldati e alcuni sono tutt’altro che da scartare. Anzi, ce ne sono di virili, giovani, forti e certamente buoni.



Guest starring: Jena Malone nei panni di Johanna Mason. Questo personaggio, ripreso da Hunger Games, si ritrova anche in The Last Challenge, opera che possiamo considerare il sequel di Miss Pierce.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Chancellorsville, 1863 (2) ***


Chancellorsville (Virginia –USA), 1863
 
La mia permanenza in questa cittadina triste sta per concludersi. Rinuncio. Rinuncio a far rinsavire Rose. Che resti qui, se proprio vuole. Io ci ho provato, ma ho ben altro da fare nella vita che inseguire i capricci di una Vampira.
È successo l’irreparabile e non posso tornare indietro. Non lo farei, a dire il vero, nemmeno se potessi. È giusto che sia andata così e sono sicura che un giorno Rose mi darà ragione.
Ero al bar della locanda quando degli uomini sono entrati dicendo che una carovana di feriti era stata colpita dal fuoco nemico. Lì per lì non ci ho fatto caso e ho pensato: “be’ se erano feriti, poco male. Sarebbero morti comunque prima o poi”. Ma poi ho capito: i feriti non si trasportano da soli. C’erano infermiere con loro. Il mio pensiero è andato subito a Rose e mi sono catapultata fuori dalla locanda e ho corso per tutta la città fino agli accampamenti dell’ospedale.
L’ho cercata ovunque ma lei non c’era. È vero che è un Vampiro e non dovrebbe morire per un colpo d’artiglieria, ma volevo accertarmi che stesse bene. Ho chiesto di lei, ma niente.
Ho recuperato un cavallo e sono partita verso il luogo dove i feriti erano stati attaccati.
Li ho visti da un’altura, i morti, i moribondi, i cavalli a terra, la carovana distrutta… ho cercato Rose ma non l’ho vista nemmeno lì. C’era Johanna per terra, con una ferita alla testa e la mano sul ventre che sanguinava copiosamente.
«Dov’è Rose?» le ho chiesto. Ma stava troppo male per poter rispondere e, spazientita, mi sono morsa il polso e l’ho curata col mio sangue. Ci mancherebbe altro che Johanna Mason muoia con me lì presente! E chi la sentirebbe poi, Rose?
«Che cosa hai fatto?» ha sbraitato Johanna, palpandosi la ferita alla testa ormai guarita e il sangue rappreso sul vestito. Oh, poverina. Be’ non sarò io a spiegarle dei Vampiri. È amica di Rose, bene! Che se ne occupi lei.
E poi l’ho vista. Rose. Ha lasciato il suo cavallo poco lontano dal mio ed è arrivata di corsa con un pacco di garze tra le mani.
«Katerina! Johanna! Ma che diavolo è successo qui?!».
«Ci hanno attaccati. Quelli dell’Unione» ha snocciolato la mia rivale.
«Si può sapere dov’eri?».
«Sono venuta incontro ai feriti con Johanna, ma poi ci siamo accorte di non avere abbastanza garze e sono tornata indietro a prenderle… tu che ci fai qui, piuttosto?».
«Sono venuta a cercarti appena ho saputo». Ci siamo guardate per un minuto, senza parlare. Rose si stupisce sempre quando penso a lei e la cosa mi infastidisce. È vero che non sono un esempio di bontà, ma per lei ho sempre fatto di tutto, ho messo la mia vita a rischio molte volte, e lei se ne sorprende sempre. Come se non pensasse che io sia capace di gesti altruistici.
«Johanna, sei ferita?».
La stupida umana si è guardata di nuovo la macchia di sangue sul vestito, ma l’ho preceduta dicendo: «illesa. Non vedi?». Non era proprio il momento di profonde chiacchierate sul mondo soprannaturale.
Sono tornata dal cavallo e ho ripercorso la strada verso gli accampamenti. I rinforzi erano già partiti dalla città per raggiungere i feriti e li ho incontrati a metà strada. Sono rimasta sull’altura dominante la vallata a guardarli raggiungere Rose e Johanna, caricare i feriti sulle barelle e i morti sulle carovane. E poi, ecco l’irreparabile; un unico colpo, un boato che ha echeggiato a lungo, una nube di polvere… quando la polvere si è abbassata ho visto una distesa di morti, le nuove carovane completamente distrutte, i cavalli stramazzati…
L’Unione aveva colpito una prima volta e atteso l’arrivo dei soccorsi per colpire di nuovo. Macabro, ma efficace. Una strategia apprezzabile.
Sono tornata nuovamente sul luogo del duplice disastro e ho individuato Rose, semisepolta dalle macerie di una carovana distrutta. Aveva schegge di legno conficcate nella carne e un arnese da dottore che le trapassava la coscia.
«Sta’ ferma» le ho ordinato. Le ho levato le schegge e l’ho aiutata a estrarre il ferro dalla gamba.
«Johanna… cercala».
Johanna era poco distante da Rose e fissava il cielo con occhi vuoti. Aveva uno squarcio tremendo sulla testa.
«Oddio. Johanna… JOHANNA!» ha urlato Rose quando l’ha vista.
«Rose…». Se Johanna era morta, allora era in transizione, considerando che le avevo dato il mio sangue poco più di mezzora prima.
«No no no no no! Non puoi essere morta, no, non puoi» piagnucolava Rose.
«Rose, ascoltami!» ho esclamato, dopo cinque volte che la chiamavo senza essere badata.
Intorno a noi i feriti gemevano e morivano e i pochi feriti lievi tentavano di rialzarsi e correre in soccorso dei compagni.
«Era ferita, prima. Sulla testa e sulla pancia. Sarebbe morta nel primo attacco se non fossi arrivata qui in tempo. Ho pensato che non volessi che morisse e così le ho dato il mio sangue…».
«Tu, cosa!?».
«L’ho salvata. Per quel che mi riguarda poteva morire, ma l’ho salvata. E poi non dire che non faccio mai nulla per te».
«E quindi adesso lei è in transizione!» ha detto Rose, e sembrava quasi una cosa orribile, «Dio, Katerina! Possibile che distruggi tutto quello che tocchi?!».
Questo era davvero troppo! «La prossima volta avvisami, ci vuole poco! Basta un “ehi, Katerina. Se la mia amica si ferisce mortalmente, tu lascia che muoia. Non salvarla”».
«Ma tu non capisci! Johanna voleva una famiglia, voleva dei figli, voleva sposarsi… adesso non avrà più niente!».
«Avrà l’eternità, non mi pare cosa da poco. Sai, Rose, dovresti smetterla di vedere nel vampirismo una maledizione. Vivresti molto meglio la tua eternità se non pensassi costantemente di dover ripagare un ipotetico debito nei confronti dell’umanità perché sei immortale. Il vampirismo è un dono di cui essere fieri».
«Non tutti hanno una scelta, come te».
«Oh, be’, se preferivi morire di peste a Vienna, dovevi solo dirlo. Ma chissà perché ricordo un certo “trasformami”, uscito nientemeno che dalle tue labbra… sì, ho quattrocento anni ma ricordo bene quello che dicesti».
«Johanna non avrebbe voluto questo».
 «E tu che ne sai?
Be’, vedi il lato positivo, Rose. Può ancora morire, se vuole. Quando si sveglierà, deciderà cosa fare».
Mi sono voltata, sono montata a cavallo e me ne sono andata. Sono passati secoli dalla sua trasformazione, ma Rose ancora non la accetta. I litigi tra noi sono sempre su questo, sul fatto che lei è un Vampiro e la peste ha deciso per lei il suo futuro. A volte vorrei non essere mai andata a Vienna nel 1423.
 
La notte, Rose è venuta a cercarmi. Mi ha portata nella tenda che condivide con Johanna appena fuori dall’ospedale. Lei era là, pallida come la morte, fredda e angosciata.
«Parla chiaro, Rose Foster. Perché sono qui?».
«Non lo so. Va’ e parla con lei».
Poi è uscita dalla tenda e si è allontanata.
«Tutto questo non ha senso» ha bisbigliato Johanna con le lacrime agli occhi, «fino a stamattina ero una ragazza normale, con una vita normale, e ora… non so più chi sono».
«Sei un Vampiro in transizione. C’è di peggio nella vita, fidati.  
La questione è questa, Johanna: vuoi l’immortalità oppure preferisci morire?» le ho detto, accucciandomi davanti a lei, che era seduta sulla sua branda e avvolta in numerose coperte.
«Io voglio sposarmi e avere una famiglia».
«Mh, non è tra le opzioni! Morte o immortalità? Rispondi».
«Allora preferisco morire… non voglio essere immortale e sola. Preferisco morire coi miei sogni irrealizzati…».
«Bla, bla, bla. Dio, come sei noiosa! Ora capisco che ci trova Rose in te! Siete uguali! Anche lei avrebbe voluto tutto quello che vorresti tu, ma si dà il caso che una Congrega di pazzi le desse la caccia e poi ci si è messa la peste a Vienna nel 1423 e lei si è ammalata. Sarebbe morta se non l’avessi trasformata e guardala ora! Guarda me, ora. Sono forte, sono una bella ragazza dal 1413, non avrò mai una ruga, non avrò mai la pelle cadente e non mi ammalerò mai… sono immortale e perfetta. Una macchina da guerra. Ho girato il mondo, ho visto civiltà estinguersi, ho visto sovrani salire al potere e poi morire…».
«Non mi importa! Non voglio vedere il mondo! Io voglio invecchiare con l’uomo che amo al mio fianco, e i miei figli, i miei nipoti...»
«Noiaaa!» l’ho interrotta, «aspettami qui, torno subito».
Sono uscita, ho cercato un soldato a caso negli accampamenti, l’ho soggiogato e l’ho portato a Johanna.
Davanti a lei, gli ho morso il collo e ho guardato la sua reazione alla vista del sangue.
Il suo cuore batteva più forte e i suoi occhi non potevano staccarsi dal sangue dell’uomo che zampillava dalla ferita aperta.
«Vedi, Johanna. È molto semplice; nutriti e vivi la tua eternità».
«No…» ha gemuto.
Ho lasciato cadere il soldato e mi sono gettata su Johanna. L’ho scrollata e ho detto: «non puoi sprecare un dono come questo! Al diavolo la famiglia e quelle stupidate! Pensa alla tua vita, pensa a te!». E lo penso davvero! Johanna è una ragazza particolare, caparbia e determinata, sarebbe un Vampiro splendido. Sarebbe molto più adatta di Rose all’eternità, per quel che vale.
Ho piegato la testa del soldato affinché la ferita aperta fosse ben accessibile alla nuova fame di Johanna e l’ho guardata con estrema soddisfazione, mentre lei affondava i denti nel collo fresco del pover’uomo e abbracciava indissolubilmente la sua nuova natura.
Rose non ne è stata felice. In cuor suo sperava che Johanna facesse la scelta giusta, che secondo lei era la morte. Ma Rose è incoerente e troppo legata agli ideali. Gli ideali non salvano nessuno, anzi! Gli ideali ti portano a morte certa. E poi, se fosse così piena di questi valori umani, perché mi ha chiesto di trasformarla quando è stata sul punto di morire?
Lei lo sa, ma non lo vuole ammettere. Che sul precipizio della morte siamo tutti disposti a tutto pur di non cadere.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 1865 ***


1865
 
Dopo oltre quattrocentocinquant’anni di vita da Vampiro mi è toccato anche un rapimento.
Ero ancora in America, nonostante la Guerra di Secessione non fosse ancora finita. Avevo lasciato a Chancellorsville Rose e Johanna al loro destino e mi ero spostata lontano dai campi di battaglia e dagli occhi verdi e pieni di risentimento di Rose. Scrivo di quel che avvenne ora, molti decenni dopo i fatti; ho avuto il tempo di rielaborarli dentro di me e di trarre tutti i vantaggi del caso. 
Il rapimento –il mio rapimento- avvenne molto velocemente e non me ne resi quasi conto. Quando mi svegliai, mi ritrovai in una cella angusta e poco illuminata. Era fredda e umida e puzzava di muffa. Sul momento pensai si trattasse di Nikolaj, ma non possedevo nulla che lui avrebbe voluto e poi era proprio accanto a me, legato ai ceppi come me.
Sì, io e lui… e Rose.
Rose e Nikolaj e me! Tutti e tre nella stessa cella!
Vederli entrambi lì mi sorprese parecchio anche se tentai di non darlo a vedere. Non capivo il perché di quello che stava accadendo e non capivo cosa mai potessimo avere in comune noi tre.  
«Ditemi che è un incubo» biascicai. Doveva essere uno scherzo e di cattivo gusto per giunta.
«Ciao, mia dolce, bella e cara Katerina… Mi chiedevo quando ti saresti svegliata» disse Nikolaj con un sorriso vago, ignorando totalmente il mio commento, «le sbarre sono imbevute di Verbena e l’aria è satura di incenso di Verbena. Non siamo poi così tanto immuni qui sotto» aggiunse poi con una smorfia di disappunto.
«Meraviglioso» commentai, «devono aver fatto una bella fatica per prenderti, sempre così circondato di noiosi omoni in nero come sei».
«Un traditore, infatti. Me ne sono già occupato, comunque».
«Chissà cosa gli hai rubato perché ti si ritorcesse contro così…» ringhiai, dimenandomi nel tentativo di raggiungere Nikolaj e colpirlo in qualche modo. Ma i ceppi intrisi di Verbena facevano il loro dovere e la pelle dei polsi si riempì presto di scottature e bolle rossastre.
«Mai noi due avevamo un accordo sul Diamante, o no?».
«No! Me lo hai rubato con le tue infide, ma efficaci, tecniche di seduzione».
«Oh, non dire che non ti sei divertita con me, Kat! Mentiresti» rise Nikolaj.
«Shhh! Ho sentito un rumore!» s’intromise Rose.
«A proposito» dissi senza badare a ciò che aveva detto, «Nikolaj e me rinchiusi: comprensibile dopo tutto quello che abbiamo fatto. Ma tu, Rose, che ci fai qui?».
«Mi hanno rapita senza dare spiegazioni» rispose Rose controvoglia, «so solo che ci tortureranno e ci uccideranno di sicuro».
«Ben detto!» disse una voce lontana e dopo qualche secondo apparve al di là delle inferriate un uomo imponente, non troppo giovane, che sorrideva con soddisfazione. «Oltre cento anni fa il fondatore della nostra confraternita è stato ucciso e i nostri sospetti sul colpevole ricadono su di voi. Abbiamo il dovere di vendicare il nostro fondatore secondo le sue ultime volontà. Sarebbe molto più facile uccidervi e basta, ma vogliamo una confessione pubblica e umiliante… cosa volete che vi dica? Questa è la tradizione». Incrociò le braccia al petto e si strinse nelle spalle come se tutta quella situazione non dipendesse da lui. Il loro fondatore? Non sapevo nemmeno chi fossero!
«Quali prove avete contro di noi?» sbottò Rose, anticipando la domanda che avrei fatto io.
«Prove schiaccianti. Comunque sappi che abbiamo fascicoli riguardanti quasi tutti i Vampiri più pericolosi del Pianeta».
«Oh, sono enormemente lusingata di essere considerata uno dei Vampiri più pericolosi del Pianeta» replicai.
«Gli interrogatori inizieranno all’alba di domani» sentenziò il Cacciatore prima di andarsene.
Bene, pensai, ho fino all’alba di domani per escogitare un piano.
 
«Perché “all’alba di domani” sarò certamente qui ad aspettarlo… come no» dissi ironica.
«Siamo troppo deboli per attaccare» si lamentò Rose. Come al solito, si faceva sopraffare dalle situazioni e non ragionava con lucidità. Era una cella, dannazione! Come eravamo entrati, saremmo anche usciti.
«La tua amica ha ragione» si unì Nikolaj. I polsi incatenati erano martoriati dalla Verbena che gli ustionava la pelle ad ogni minimo movimento. A giudicare dalle sue ferite, Nikolaj doveva essere in quella cella da più tempo di Rose e me. Forse persino da una settimana.
Rose gli lanciò un’occhiata truce ma non disse niente. Io, intanto, riflettevo sul da farsi. Uscire dalla finestrella sul soffitto sarebbe stato impossibile perché era troppo in alto persino per un Vampiro e le sbarre intrise di Verbena erano pressoché intoccabili se non si voleva bruciare vivi...
Ma forse avevo un altro piano… dopotutto il rapimento poteva diventare un’occasione per me, un’occasione che non potevo non cogliere.
Tirai un pugno contro la parete di pietra alle mie spalle e una manciata di schegge cadde a terra, ne presi una e mi graffiai l’avambraccio.
«Cosa fai, Katerina?» esclamò Rose allarmata.
«Ci salvo» ribattei.
«Come?» si intromise Nikolaj scettico.
«Aspetta e vedrai» risposi.
«Verrà mai il giorno in cui parlerai chiaro e rivelerai i tuoi piani?».
«Se lo facessi, dove sarebbe il divertimento?».
 
Passarono delle ore prima che qualcosa cambiasse. Furono ore interminabili, soprattutto a causa delle lamentele continue di Rose e Nikolaj. Si sentirono delle urla lontane e qualche tonfo e Rose esclamò: «cosa succede?!».
«Sta arrivando il mio piano» risposi io compiaciuta. Si udirono dei passi pesanti e qualche minuto dopo Zaccaria Veronesi apparve dall’altro lato delle sbarre.
«Oh, ma che bel quadretto! Ciao, Katerina» salutò, «e ciao a Rose e… oh, immagino tu sia Nikolaj Ivanov».
«Immagini bene» commentò Nikolaj confuso. Rose sbuffò, seccata. A lei Zaccaria non era mai piaciuto e il passare dei decenni non scalfiva il suo disappunto nei suoi confronti. «Non sei cambiato molto dall’ultima volta che ti ho visto» osservò. Suonava quasi come un rimprovero.
«Invecchio più lentamente grazie a degli incantesimi. Ma tranquilla, morirò prima o poi. Anche se credo che questo non ti dispiacerà affatto» ribatté lui.
«Ci hai messo meno del previsto per arrivare» esordii troncando il suo battibecco con Rose.
«Collegare la tua vita alla mia si rivela utile in casi come questo… ma vi ho rintracciati grazie a uno specchio».
«Uno specchio?» volle sapere Nikolaj.
«E’ un oggetto magico che mi permette di vedere le persone che mi interessano quando voglio» spiegò Zaccaria con lo stesso tono con cui si spiega qualcosa di ovvio a un bambino.  
«Hai collegato la tua vita alla sua?!» esclamò Rose fissandomi, arrabbiata. Era sconvolta e ferita da quella verità improvvisa che non faceva altro che ingrandire la voragine di risentimento e gelosia che ci separava da cinquant’anni. Zaccaria era mortale, anche se molto potente, e il fatto che avessi legato la mia esistenza alla sua, provava la grande fiducia che avevo nei suoi confronti. Era un rospo troppo grande perché Rose potesse ingoiarlo subito.
«Il tempo passa e l’esecuzione si avvicina. Possiamo rimandare questa discussione?» dissi. Sfuggii lo sguardo ferito di Rose e mi concentrai su Zaccaria e il da farsi.
«La magia ha sempre un prezzo. Vi tirerò fuori ma dovete darmi qualcosa in cambio» disse Zaccaria sollevando il sopracciglio con superiorità. Era intelligente, sapeva del Diamante e sapeva che io lo bramavo. Non mi avrebbe delusa.
«Vuoi un accordo?» sputò Nikolaj.
«Certo, io adoro gli accordi».
Finora procedeva come avevo previsto. Nikolaj brancolava nel buio, ma presto avrebbe saputo cosa ci si aspettava da lui. Probabilmente Zaccaria mi avrebbe salvata gratuitamente, ma non avrebbe prestato i suoi servigi a Nikolaj e Rose senza niente in cambio.
«Che cosa vuoi?» incalzò Nikolaj seccato.
Io e Zaccaria ci scambiammo una lunga occhiata d’intesa e lui disse: «voglio il Diamante Oscuro».
Nikolaj strabuzzò gli occhi per la sorpresa e mi fissò, furibondo. Ora aveva capito tutto:  che Zack era al mio servizio, che era una mossa astuta sfruttare il rapimento per il mio tornaconto e che in un modo o nell’altro, lui aveva bisogno di me per uscirne sano e salvo. «Questo mai!».
«A cosa potrebbe servirti, se ti lasciassi qui chiuso in una cella a morire?» lo canzonò Zaccaria.
«Ottieni sempre quello che vuoi alla fine» osservò amaramente Nikolaj rivolto a me.
«Il Diamante è mio e potevi immaginare che prima o poi me lo sarei ripreso» risposi, parlando francamente per la prima volta.
Nikolaj cedette.
«Abbiamo un accordo?» chiese Zaccaria con voce solenne.
Nikolaj annuì, sconfitto, e Zaccaria, con un gesto quasi casuale della mano, ci smaterializzò.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** New Orleans, 1867 ***


New Orleans, 1867
 
Be’ non che Zack abbia salvato me gratuitamente. Diciamo che abbiamo improvvisato e il gioco è riuscito bene, Nikolaj ci è cascato e abbiamo ottenuto il Diamante Oscuro. Ma Zack aveva il suo personalissimo piano e io alla fine sono stata al suo gioco. Non che la cosa mi sia dispiaciuta; in fondo, era quello che volevo anche io.
Zaccaria Veronesi il nuovo Signore Oscuro. Il mio Signore Oscuro. Era diventato lo Stregone più potente della Terra, ma in qualche modo mi era ancora fedele e questo significava che avevo tutto il diritto di chiamarlo quando ne avevo bisogno.
Rose non si fece più viva dopo che Zack ci ebbe smaterializzati lontano dalla sede della Confraternita di pazzi Cacciatori vendicativi. Sospetto che si sia riunita a Johanna e che insieme siano andate da qualche parte a vivere come se fossero state delle banali esseri umane, come se non avessero avuto l’eternità davanti a loro.
Quanto a Nikolaj, è tornato in Europa dopo il rapimento da quello che so. Meglio così, non lo volevo intorno. Soprattutto dopo che mi ero costruita una nuova identità. Sì, esatto: una nuova me. La Confraternita aveva davvero fascicoli su tutti i Vampiri più potenti e più antichi del pianeta e io e Zack ci premurammo di distruggerli. Diciamo pure che Zack fece saltare in aria l’archivio.
Per precauzione comunque, preferii abbandonare il mio vero nome e lo sostituii: Katherine Pierce. Ecco la mia nuova identità. Un bel nome tratto dall’originale, ma più moderno, più americano… un nome che avrebbe dato meno nell’occhio.
È come se da quando ho cambiato identità, sia cambiata anche io. È come se avessi svoltato l’angolo, cambiato percorso, seguito una nuova direzione rispetto a quella che percorrevo prima. Sono una vecchia Vampira con un passato lungo secoli e secoli, con molte storie da raccontare, una scia rossa di cadaveri alle mie spalle e un futuro tutto da vivere. Sono stanca di perdere tempo con Rose e i suoi capricci di gelosia, stanca di fuggire da Nikolaj, stanca di rincorrere qualcosa che non avrò mai. Voglio solo vivere. Vivere e divertirmi. E quale posto migliore di New Orleans? È una città perennemente in festa, piena di vita. E poi brulica di Vampiri e altre Creature e non ci si annoia mai.
Ci andai nel 1867 subito dopo il mio cambio di identità. Lì conobbi un Vampiro piuttosto affascinante. Si chiamava Elijah. Faceva tutto il misterioso ma così, solo guardandolo, avrei giurato che avesse visto il Secolo dei Lumi tanto quanto l’avevo visto io. Aveva proprio conservato le vecchie buone maniere e l’etichetta di quel secolo.
Ero in un pub a bere Bourbon quando mi si avvicinò per la prima volta. Non era l’unico Vampiro nei paraggi, ma fu l’unico a venire da me. La cosa non mi allarmava in realtà, il fatto che ci fossero molte Creature soprannaturali a New Orleans dico, perché è la caratteristica principale di quella città e il motivo per cui l’avevo scelta. Non era la sola ragione per cui ero lì, se proprio devo dirla tutta, ma non c’era molto che potessi fare per risolvere il piccolo inconveniente che si era creato con Zack. Stavo ancora elaborando il piano.
Il mio inconveniente si chiamava Marie Laveau. Era una Strega di mezza età (o almeno, quella era l’età che dimostrava) e aveva avuto la faccia tosta di catturare il mio Signore Oscuro e incatenarlo con quelle simpatiche manette che l’Inquisizione di Venezia aveva infilato anche a Rose nel 1421. Fatto sta che lui era imprigionato e non aveva modo di usare la magia per liberarsi. Credo che fosse estenuante per lui.
Venni a conoscenza di tutto questo perché le nostre vite erano ancora collegate e all’improvviso mi erano spuntate delle ferite sul corpo; ferite che qualcuno stava infliggendo a Zack. Su di me si erano rimarginate nel giro di pochi istanti, ma su Zack…
Quindi sì, ero a New Orleans per divertirmi, ma anche perché la cara Marie Laveau viveva nel Quartiere Francese e c’erano delle possibilità che proprio lì tenesse Zack imprigionato.
Potevo immaginare già ciò che la Strega avrebbe voluto in cambio della liberazione del mio Stregone: il Diamante Oscuro. Ma no, non  l’avrei mai ceduto. Avevo già fatto lo stesso errore in passato con Nikolaj e la storia non si sarebbe ripetuta. Il Diamante mi appartiene e non c’è niente con cui lo scambierei. Per questo non potevo semplicemente fare irruzione nell’abitazione della Strega e torturarla fino a costringerla a liberare Zack. Mi serviva un piano diverso…
In ogni caso, una mattina andai a parlarle. Avevo bisogno di vederla e di studiarla un po’, giusto per capire che cosa dovevo aspettarmi e che cosa volesse veramente. Magari c’era qualcosa che potevo offrire al posto del Diamante per la liberazione di Zack. Qualcos’altro che avrebbe potuto interessarle per i suoi giochetti da Strega.
Elijah ficcava troppo il naso nelle questioni che non lo riguardavano, comunque. Non sapevo quasi nulla su di lui, nemmeno dove alloggiava, ma da quando ci eravamo conosciuti passavamo molto tempo assieme. Soprattutto la notte… tralasciando i dettagli, quella mattina quando mi svegliai, lui non era già più a letto. Entrò nella stanza che avevo preso ad una locanda del centro poco tempo dopo e aveva una tazza fumante di tè in una mano e un giornale nell’altra.
«Buongiorno» mi salutò arzillo. Appoggiò il tè sul comodino accanto al letto e si sedette in terrazza a leggere il giornale.
«Che si dice?» gli chiesi, poggiando le mani sulle sue spalle, dopo averlo raggiunto nel piccolo terrazzino che dava su una delle vie principali della città. Avevo completamente ignorato la tazza di tè perché… be’, quella mattina ero assetata di sangue e di vendetta e il tè non mi avrebbe placata.
Elijah sollevò lo sguardo dal giornale e mi guardò con quei suoi occhi scuri e illeggibili. Non sapevo mai a cosa pensasse veramente e questo, seppur fosse affascinante, a volte mi inquietava.
«Niente di particolare» rispose, «cos’hai in programma per oggi?».
«Ho una Strega da scuoiare».
«Vuoi una mano?» replicò lui sorridendo. Era chiaro che non mi aveva presa sul serio.
«Puoi tenermela ferma mentre la torturo» risposi. Gli sfilai di mano il giornale e lo gettai via, poi mi sedetti cavalcioni su di lui. Che mi importava se la gente dalla strada ci vedeva? Anzi, meglio. Speravo proprio che qualche dama scandalizzata venisse a lamentarsi, così avrei avuto uno spuntino mattutino pronto da gustare e non sarei nemmeno dovuta uscire a cercarlo. Ma niente da fare, anche se qualcuno ci vide amoreggiare all’aria aperta, nessuno ebbe qualcosa da dire a me personalmente e quindi, quando un’ora dopo uscii per cercare Marie Laveau, ero ancora arrabbiata e affamata.
Il fatto è che Elijah mi seguì.
Andai nel Quartiere Francese ed entrai nel negozio di spezie della Laveau. Comparve dal retrobottega un istante dopo il mio ingresso e mi squadrò con superiorità. Aveva capito subito che ero un Vampiro, del resto.
«In cosa posso esserle utile?» esordì, cauta e guardinga.
«C’è qualcosa che vorrei acquistare in effetti» risposi.
«Di che si tratta?».
«Oh, niente di che. Uno Stregone, piuttosto dotato direi. Mi risulta che lei sia l’unica Strega in città a possederne uno, al momento». Ci guardammo per un lungo momento; io con un sorriso furbo e lei con l’espressione attonita e furibonda di chi è stato smascherato proprio sul più bello.
«Esci dal mio negozio, Vampiro» mi intimò.
«Non senza aver stabilito il prezzo dell’acquisto che voglio fare».
«C’è una sola cosa che puoi darmi in cambio, Katherine Pierce… sì, il Signore Oscuro mi ha parlato di te. Non volontariamente, certo. Ho dovuto faticare per estorcergli delle vere informazioni. Ma sai cosa voglio».
«Quello che vogliono tutti… peccato che il Diamante Oscuro non sia più in mio possesso» mentii di getto.
Questo no, che non se lo aspettava. La Laveau mise su una faccia stordita e confusa estremamente divertente.
«Mi è stato rubato».
«Ritrovalo. Altrimenti il tuo amichetto non farà una bella fine… e poi non dire che non ti avevo avvisata» mi ordinò. Ma che dico? Una Strega che mi dà ordini?! Inaccettabile. Marie Laveau l’avrebbe pagata cara per aver osato sfidarmi.
Uscita dal suo negozio, trovai Elijah ad attendermi.
«Mi segui adesso?».
«Oh, non fare l’offesa. Cosa stai tramando, piuttosto?» mi chiese mentre camminavamo sul marciapiede trafficato.
«Te l’ho detto che ho una Strega da scuoiare» gli dissi.
«Forse posso aiutarti sul serio».
Mi bloccai di scatto in mezzo alla strada e dei passanti dietro di noi quasi rischiarono di venirci addosso, ma io non li badai. «Elijah» esordii, mettendogli una mano sulla guancia e guardandolo fisso negli occhi, «sei un uomo affascinante, sei bravo a letto e ti piace il whisky; ma sei solo un divertimento, un passatempo per quando ho bisogno di distrarmi… accetta questa cosa oppure vattene. Non mi interessa».
Elijah non replicò e mantenne intatto il suo mezzo sorriso. Riprendemmo il cammino e andammo a pranzo in un locale niente male vicino ad un gruppo di artisti di strada che mi fecero il ritratto.
Nel pomeriggio, poi, incontrai un’altra Strega del Quartiere Francese. Si diceva che la Laveau fosse una Strega potente ma non molto amata a New Orleans. Credo che ciò fosse dovuto proprio al fatto che era potente. Le altre erano gelose di lei e si erano coalizzate per distruggerla.
Sapevano tutti del rapimento del Signore Oscuro, ovviamente, ma non tutti erano disposti a starsene con le mani in mano. C’erano anche suoi sostenitori in città, che sarebbero stati pronti a scendere in campo e a battersi per lui. Soprattutto se questo significava deporre Marie Laveau. Come si dice, due piccioni con una fava.
Per l’appunto, mi incontrai con una Strega che detestava la Laveau ed era disposta a stringere accordi con un Vampiro pur di farle un dispetto. Aveva anche altre Streghe che la seguivano e obbedivano ai suoi ordini, quasi fossero una piccola Congrega e la cosa, naturalmente, poteva giocare a mio favore. Ma dovevo comunque essere vigile, perché si trattava di un’arma a doppio taglio.
«Marie Laveau non vuole il Diamante per servirsene; lo vuole per distruggerlo» mi disse, «non che sia una cosa semplice… è un Diamante! Un oggetto già di per sé difficile da scalfire, figurarsi che è intriso di magia. Una magia molto potente. Praticamente non può essere distrutto».
«E perché una Strega che potrebbe sfruttarlo per aumentare il suo potere, preferisce togliere dalla circolazione un’arma così potente?».
«Perché lei vuole la parità tra le Streghe» esclamò la Strega indignata e schifata, «non vuole che esista nessun Signore Oscuro. Secondo lei, il Signore Oscuro è una figura troppo potente e difficile da contrastare in caso di necessità. Qualcuno potrebbe impossessarsi del Diamante e sfruttarlo per il proprio tornaconto, piuttosto che per il benessere della comunità delle Streghe. Ma Zaccaria ha fatto un buon lavoro finora… è rispettato, se non addirittura benvoluto!».
«Non cederò mai il Diamante. Che sia chiaro. Né a lei, né tantomeno a te. Quindi, qual è il tuo prezzo?» volli sapere. Allora parlava tanto di salvare Zack e distruggere la Laveau, ma che cosa avrebbe detto quando il gioco sarebbe finito e sarebbe tornata a riscuotere il prezzo dei suoi servigi? Ci avrei messo la mano nel fuoco, che sarebbe venuta a chiedermi il Diamante. Maledette Streghe doppiogiochiste.
«L’unica cosa che voglio è Marie Laveau. Lascia che sia io a ucciderla» mi rispose.
La guardai per un po’, ma non scorsi traccia di menzogna nel suo sguardo determinato. Speravo vivamente che non mentisse… lo speravo per lei. Perché se mi avesse tradita, giuro che l’avrei fatta a pezzi e l’avrei esposta in piazza. «E’ tutta tua» conclusi.
«Hai detto che il Diamante è indistruttibile. Allora come farà lei a distruggerlo?».
«Ci sono solo delle Streghe che hanno fatto ipotesi ed esperimenti al riguardo… una Congrega molto potente, che però è stata decimata dalla caccia alle Streghe di qualche secolo fa…».
«Le Bennett?» chiesi a bruciapelo.
«Proprio loro».
«Quindi la Laveau ha il loro Grimorio. È questo che mi stai dicendo?».
«Oh, no. Lei non ce l’ha» mi rispose con un sorriso eloquente.
«Significa che devo trovarlo io, prima che lo trovi lei».




Come già per altri personaggi, anche Elijah ritorna in The Last Challenge.

In questo capitolo abbiamo Viola Davis nei panni di Marie Laveau


 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** New Orleans, 1867 (2) ***


New Orleans, 1867
 
Missione compiuta. Grimorio delle Bennett recuperato. Un punto per Katherine!
Quel ficcanaso di Elijah alla fine venne a Salem con me e mi aiutò nelle ricerche. Dio, se dovemmo farne fuori di gente! Tra Vampiri e Streghe ho perso il conto… ma erano più le Streghe. In ogni caso, il librone adesso era mio.
Le pagine dedicate al Diamante erano parecchie, e c’erano numerose annotazioni e disegni e formule magiche strane. Rose sarebbe stata capace di mettere da parte il suo risentimento nei miei confronti pur di dare un’occhiata a quel Grimorio. Ma io so essere estremamente vendicativa e non le avrei detto di avere in pugno Marie Laveau e sotto il braccio il Grimorio di una delle Congreghe più potenti della terra nemmeno in cambio di un Lorenzo de Medici risorto.
Ora avevo un oggetto di scambio valido per poter salvare il mio Stregone e un piano B davvero niente male. Nikolaj sarebbe stato estremamente fiero di me. Come si dice, l’allievo supera il maestro e credo che nemmeno lui sarebbe stato capace –da solo- di attuare un piano come il mio. Probabilmente avrebbe semplicemente mandato un paio dei suoi noiosi omoni in nero a fare il lavoro sporco per lui, mentre a me ancora piace l’azione e ancora di più, la pianificazione. E gli accordi… e gli scambi, quelli equi solo in apparenza.
«Che ne dici di questo?» esordii una volta entrata nel negozio della Laveau con il Grimorio delle Bennett in mano. Elijah era proprio dietro di me. Se la Strega si fosse azzardata a fare qualche giochetto, almeno c’era lui a darmi man forte. Non che sapesse di cosa mi stavo occupando, sia chiaro. Più si parlava del Diamante e più correvo il rischio che qualcuno me lo portasse via ed Elijah era così misterioso e riservato, che non era proprio il caso di spiattellargli tutta la storia.
Marie Laveau strabuzzò gli occhi alla vista del Grimorio delle Bennett, con le lettere dorate in copertina tutte mangiucchiate dal tempo e il cuoio logoro della rilegatura.
«Davvero utile, non trovi? Sarebbe un peccato, se lo gettassi nel fuoco…».
«No!».
«Allora sai cosa voglio in cambio, no? Del resto, a cosa serve avere un oggetto che si vuole distruggere, se non si possiedono i mezzi per distruggerlo?» feci finta di riflettere.
E così organizzammo un incontro per il pomeriggio, nell’unico locale di New Orleans dove la magia è bandita. È un bar in cui ero stata un paio di volte, frequentato per lo più da Vampiri, perché è un posto impermeabile a qualsiasi incantesimo e sortilegio; una Strega che vi entra, si ritrova improvvisamente incapace anche solo di accendere una candela col pensiero.
Elijah non venne all’incontro. Non ce lo volevo. Ne sapeva già troppo di quella faccenda e non mi pareva stupido. Sicuramente aveva fatto due più due e collegato il Diamante Oscuro e Zaccaria Veronesi a me.
«Allora, dov’è il mio Stregone?» domandai alla Laveau una volta che la individuai, seduta ad un tavolo vicino alle finestre.
«Non così in fretta… prima voglio vedere il Grimorio».
«Hai paura che non sia vero? Mia cara, ho fatto un viaggetto non da poco per recuperarlo».
«Voglio accertarmi che le pagine riguardanti il Diamante siano al loro posto».
Aprii il Grimorio sul tavolo e sfogliai per lei i capitoli sul Diamante. Questa fase del mio piano era assolutamente necessaria e si svolse nel migliore dei modi.
«Ora consegnami Zaccaria».
Marie Laveau sospirò stancamente, guardandomi fissa. Valutava ancora le mie buone intenzioni, ma io sono brava a mentire e continuai a rivolgerle uno sguardo determinato e sì, un po’ insolente.
«Si trova in uno scantinato, in un palazzo fuori città. Ti servirà una chiave per entrare».
«Bene, dammela allora».
«Non ce l’ho qui con me. Devo andare a prenderla».
«E cosa stai aspettando?».
Si alzò lentamente dalla sedia e lasciò il locale. La Strega seduta al bancone mi rivolse uno sguardo eloquente e si avvicinò al mio tavolo. Le passai il Grimorio senza farmi notare dagli altri frequentatori del bar, lei me ne diede un altro in cambio e poi uscì sulla scia della Laveau.
Si trattava della stessa Strega che mi aveva dato informazioni sulla Laveau, con la quale avevo stretto un accordo estremamente rischioso per me. Non avevo garanzie se non la sua parola di rispettare l’impegno preso. Se mi tradiva… confidavo solo nel fatto che Zack sarebbe stato ormai libero una volta arrivati al punto cruciale del mio piano e che quindi sarebbe potuto venire in mio soccorso in qualsiasi momento.
Una decina di minuti e Marie Laveau tornò con la chiave del palazzo in cui Zack era rinchiuso. Gettò un’occhiata attenta al Grimorio sul tavolo, come volendosi accertare che fosse lo stesso di prima, cosa che non era più, ovviamente. Ma lei non notò differenze perché quello che avevo era una copia fedelissima dell’originale, con le pagine interne completamente bianche a dire il vero… ma questo era solo un dettaglio, no?
Mi spiegò precisamente dove si trovava Zack e poi uscii dal locale, lasciandola al Grimorio falso. Ci avrebbe impiegato pochi secondi a rendersi conto del raggiro, ma per allora io avrei dovuto essere lontano.
Fuori dal bar c’erano già le Streghe della mia alleata segreta pronte a colpire. Sparii a velocità vampiro e le lasciai al loro compito di distruggere Marie Laveau. Che lo facessero o no, non mi importava poi molto. Quel che mi premeva era che le pagine del vero Grimorio delle Bennett riguardanti il Diamante Oscuro bruciassero tra le fiamme di un bel falò il più presto possibile.
Liberare Zack non fu facile per via di quelle manette anti-magia che non sapevo come togliergli. Ma lui era il Signore Oscuro per un motivo e io ero una Vampira di cinquecento anni tutt’altro che sprovveduta. Unimmo le forze e distruggemmo le maledette manette.
Tornati in città, la battaglia tra Marie Laveau e le Streghe mie alleate era conclusa. La Laveau era in mezzo alla strada, stesa a terra priva di forze.
«Hai il Grimorio?» chiesi alla Strega che mi aveva aiutata a vendicare il mio Stregone.
«Eccoti le pagine sul Diamante» mi rispose lei, allungandomi un fascio di fogli sgualciti e ingialliti dal tempo. Controllai che fossero tutti prima di andarmene. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, non è così che si dice?
«E’ stato un piacere fare affari con te, Strega» le dissi, congedandomi.
«Lunga vita al Signore Oscuro» replicò lei con un mezzo inchino in direzione di Zack.
Lui mi parve compiaciuto.
«Sicuro di non voler approfittarne?» gli chiesi maliziosamente mentre ci allontanavamo dal luogo dello scontro.
«Sono il Signore Oscuro, Kat».
«E con questo? Il potere è sexy… le donne ti vogliono».
Lui rise; «grazie di avermi salvato, comunque».
«Ho solo ricambiato il tuo favore di qualche anno fa».
«Continua pure a fingere che non ti importi nulla di me!
E quel bel Vampiretto che viene verso di noi, chi è?».
C’era Elijah in fondo alla strada, perfetto nel suo completo grigio ferro e il cappello in testa.
«Il mio ormai-non-più-nuovo giocattolo» risposi con una smorfia.
«E io che pensavo di andare a Santa Barbara con te, adesso che tutta questa faccenda è finita!».
«Possiamo andarci quando vuoi, Zack».
«E lui viene con noi?» scherzò Zaccaria.
«Dio, no! Inizia già ad annoiarmi e lo conosco da una settimana».
«Non vuoi salutarlo prima di andare via?» mi domandò.
«Smaterializziamoci prima che sia troppo tardi» replicai io.
E così, Zack prese la mia mano e scomparimmo nel nulla. L’ultima cosa che vidi furono gli occhi sorpresi e confusi di Elijah, fissarmi da qualche metro di distanza. Si aspettava forse un addio? Ma io non sono tipa da addii.
Io sono Katherine Pierce e Santa Barbara mi stava aspettando.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** New Orleans, 1920 ***


New Orleans, 1920
 
Ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono stata qui. New Orleans è sempre una città brulicante di vita, estremamente divertente e interessante. Forse una delle città più belle per un Vampiro. Ti permette di essere quello che sei senza maschere e senza finzioni.
Questa volta non ho motivi soprannaturali per essere qui, se non il mio proposito di divertirmi e vivere la mia vita immortale senza pensare a nient’altro. Inoltre, sono completamente sola e questo mi fa sentire decisamente libera. Non ho nulla da dimostrare a nessuno se non a me stessa e credo che non ci sia niente di meglio nella vita.
E ora metto giù la penna e vado a bermi un meritato Bourbon nel Quartiere Francese. Stasera c’è una festa data dal Sindaco a cui mi sono autoinvitata… non vedo l’ora! Ho un vestito tutte frange e lustrini degno del mio nome.
 
Incredibile. Tutto questo è a dir poco incredibile.
Neanche il tempo di arrivare in città, godermi per qualche giorno la vita solitaria, ed ecco che tutto viene rovinato dall’uomo più bravo che esista a farmi saltare i nervi. Chi l’avrebbe mai detto che alla festa del Sindaco ci sarebbe stato anche Nikolaj Ivanov? Possibile che non possa trascorrere la mia eternità in pace?
Sono arrivata; ero perfetta. Ho soggiogato qualche maggiordomo e sono entrata nel lusso della villa del Sindaco, completamente a mio agio, ho pescato un calice di Champagne dal vassoio di un cameriere e ho fatto un giretto di ricognizione giusto per ambientarmi un po’. Ero nel giardino quando ho sentito la sua voce alle mie spalle e per poco non sono caduta nella fontana accanto alla panchina dove ero seduta.
«Tu sei la Bellezza, Katerina» ha detto con quel suo tono suadente che mi fa sempre attorcigliare lo stomaco, come se fosse ogni volta la prima volta.
Mi sono voltata ed era là. Nikolaj nel suo frac verde bottiglia, papillon e cappello.
«Katherine, chiamami Katherine».
Nikolaj ha estratto le mani dalle tasche dei pantaloni e si è seduto sulla panchina, allungando le braccia dietro di me in una posa totalmente rilassata. «Ho sentito, sì, di questo tuo cambio di identità. Saggia decisione, lo ammetto. Ma preferisco l’originale».
Mi ha fatto l’occhiolino ed è rimasto a guardarmi col suo mezzo sorriso di provocazione.
«Vorrei quasi chiederti come mai sei qui, ma qualcosa mi dice che tu sia ancora dedito al pedinamento dei tuoi Vampiri».
«Allora sei una mia Vampira, Katerina?».
«Hai capito cosa intendo dire». Perché deve sempre provocarmi? Sembra bere le mie parole come si beve ad una fonte d’acqua fresca dopo un lungo cammino. Le assorbe, le fa sue, le rielabora a suo piacimento e le utilizza contro di me.
«Pedino solo te, perché sei la mia Vampira più preziosa e quella che amo di più, come sai».
«Vuoi dire che non sono l’unica?». Mi sono finta offesa dalle sue parole e mi sono allontanata un poco da lui e dal suo profumo inebriante. In fondo, se Nikolaj vuole giocare, posso farlo benissimo anche io. Sono brava in questo.
«Del resto io non sono l’unico per te…» ha sussurrato e si è avvicinato pericolosamente. Fissava le mie labbra e mi avrebbe baciata se non mi fossi alzata di scatto dalla panchina.
«Ho voglia di ballare, Monsieur Ivanov».
«Ogni vostro desiderio è un ordine, Mademoiselle» ha risposto.
E così siamo tornati nell’ampio salone della festa e Nikolaj mi ha presa tra le sue braccia e abbiamo ballato sulle note di un jazz niente male. Le sue mani sfioravano le mie, i suoi occhi erano fissi nei miei, e così siamo andati avanti per un po’, finché la tensione fra noi è esplosa e siamo usciti dalla pista da ballo in tutta fretta.
«Altro Champagne?» mi ha chiesto, senza staccarmi gli occhi di dosso per un solo istante.
«Non ho sete di Champagne» ho ribattuto.
Neanche il tempo di arrivare al piccolo gazebo circondato di rose e edere rampicanti, che le mani di Nikolaj erano già sul mio corpo e le mie labbra hanno trovato le sue, dopo così tanto tempo.
Mi odio per la mia debolezza quando si tratta di Nikolaj, ma non posso negare quello che sento quando lui è nei paraggi. L’adrenalina, la tensione, il modo in cui tutto il mio essere mi implora di assecondarlo. Deve per forza c’entrare col legame tra un Creatore e il suo Vampiro perché non si spiega altrimenti questa mia patetica sottomissione all’uomo che più di tutti ha sfidato la mia pazienza.
 
«Per quanto resterai a New Orleans?» ha voluto sapere, mentre ci rivestivamo.
«Non lo so, finché ne avrò voglia suppongo».
«Sei di nuovo coinvolta in qualche affare con le Streghe?».
«Mmmh fammici pensare… ho chiesto a una Strega di trasformarti in un rospo, se proprio vuoi saperlo; questo vale?» ho scherzato.
Nikolaj ha riso. «Volevo solo sapere se hai bisogno di me».
«Io non ho mai bisogno di te» ho replicato, ma non è vero. E lui lo sa, almeno quanto lo so io.
 
Come se tutta questa faccenda di Nikolaj che rispunta all’improvviso dove meno te lo aspetti non fosse abbastanza, altra legna si è aggiunta al fuoco e sono pressoché certa che le fiamme ben presto mi bruceranno viva.
Stamane ho fatto una passeggiata lungo il Mississippi e poi sono andata a pranzo in un ristorante molto carino non troppo centrale. Avevo sete e volevo nutrirmi come si deve. E non potevo farlo nel centro città o nel Quartiere Francese, dove è pieno di Streghe e altre Creature che potrebbero avere qualcosa da ridire sui miei usi.
E così ho individuato un magazziniere sui venticinque anni e l’ho seguito nello stretto vicolo cieco dietro il locale. Sistemava alcune casse e non si era accorto di me. L’ho agguantato da dietro e l’ho sbattuto contro il muro di mattoni dell’edificio, poi l’ho girato e l’ho soggiogato. «Non avere paura e non urlare». E poi ho affondato i canini nel suo collo fresco e giovane e ho bevuto il suo sangue.
«La tua tecnica è sempre ammirevole» ha detto qualcuno.
Per poco non mi sono strozzata. Era là, all’imbocco del vicolo cieco, col suo completo grigio ferro e le mani nelle tasche e quel suo sguardo enigmatico che non avevo mai saputo leggere.
Elijah.
«Vai» ho ordinato al mio spuntino, ancora incredula e sbigottita.
Io ed Elijah siamo rimasti a guardarlo finché non è scomparso alla vista, inghiottito dal via vai di passanti della città.
Con un gesto misurato, elegante e allo stesso tempo quasi teatrale, Elijah ha estratto il fazzoletto dal suo taschino e me l’ha posto affinché potessi ripulirmi del sangue del giovane.
«Cosa ci fai a New Orleans?» gli ho chiesto.
«Mi piace il jazz, e tu?».
«E così vuoi dirmi che è un caso? Tu, qui, esattamente quando ci sono anche io?».
«Il mondo è più piccolo di quello che si crede» ha commentato Elijah stringendosi nelle spalle.
Siamo tornati nella via principale e abbiamo camminato per un po’ fianco a fianco.
«Beviamo qualcosa? Hai tante cose da raccontarmi… sei andata via così all’improvviso».
L’ho trattato malissimo, eppure Elijah è sempre l’uomo cortese e galante del primo giorno. Potrei staccargli un braccio, letteralmente staccargli un braccio, e credo che avrebbe ancora quel suo sguardo enigmatico di sempre, come se le emozioni non potessero davvero scalfire la sua corazza, né tantomeno le sensazioni o i sentimenti, per quel che valgono. 
«Oh, be’, mi aspettava un soggiorno a Santa Barbara in compagnia del Signore Oscuro… non che mi sia abbronzata molto, a dire la verità» ho scherzato.
Siamo entrati in un pub e abbiamo bevuto un paio di bicchieri di Bourbon. E poi ecco Nikolaj entrare nel pub a sua volta e dirigere i suoi occhi proprio verso me ed Elijah, seduti al bancone del bar. Deve essere vero che mi pedina.
«Sai, l’effetto sorpresa svanisce se continui ad arrivare di sorpresa. Dopo un po’ smette di essere una “sorpresa”» l’ho provocato quando ci ha raggiunti. Lui ed Elijah si sono studiati per un secondo in totale silenzio e a me sono toccate le presentazioni.
«Nik, questo è Elijah. Elijah, lui è Nikolaj».
«Nikolaj Ivanov?» ha chiesto Elijah, «uno dei più potenti Vampiri dell’Est Europa».
«Il più potente Vampiro dell’Est Europa, vorrai dire. Gli altri li ho uccisi» ha chiarito Nikolaj, «e tu devi essere Mikaelson… un nome importante in Nord America, da quello che so».
«Ognuno ha i propri interessi» ha replicato Elijah.
«E ognuno le proprie aree di influenza» ha concluso Nikolaj.
E io me ne stavo come inebetita ad ascoltare questi due che flirtavano. Non avevo idea che Elijah fosse un Vampiro conosciuto… come devo ripetermi ancora una volta, non so nulla su di lui. Non ci ho mai dato peso, ma adesso la cosa inizia a farsi frustrante.
Mi guardavano tutti e due e ho capito di essere un’area di comune influenza per loro.
Mmmmh… superata la sorpresa iniziale, inizio a credere che la cosa possa diventare interessante per noi.
«Come vi conoscete?» mi hanno chiesto quasi all’unisono.
«Elijah mi ha aiutata a risolvere un piccolo inconveniente nel 1867» ho spiegato a Nikolaj, prima di voltarmi verso Elijah e dirgli: «Nikolaj è il mio Creatore».
Sentivo solo io la tensione palpabile che si era dilatata tra noi? Non credo proprio. C’era aria di competizione, voglia di sfida.
«Immagino che avrete molto di cui parlare, è passato un po’ di tempo dal 1867 dopotutto… a presto, Katherine» ci ha salutati Nikolaj a sorpresa. Pensavo avrebbe lottato di più e invece si è arreso subito. Non che questa si possa chiamare battaglia; lo scontro vero e proprio deve ancora venire e l’unica cosa che so è che Katherine Pierce non è il premio di nessuno. Ho una vaga idea in mente e sono certa che sarà estremamente divertente. 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** New Orleans, 1920 (2) ***


New Orleans, 1920
 
Proprio come pensavo! La vita di un Vampiro non deve sempre per forza ridursi a qualche avventura soprannaturale e a fughe rocambolesche. La vita di un Vampiro è in primis divertimento. Se Rose e Johanna e tutti i Vampiri che non sanno accettare la propria natura capissero questo sottile ma essenziale dettaglio, allora davvero tutti al mondo non desidererebbero altro che essere Vampiri.
Ma forse questa strana legge della Natura per cui esistono anche persone a cui il vampirismo non va a genio deve esistere, perché altrimenti non ci sarebbero più esseri umani pronti a diventare snack per Vampiri assetati di sangue.
In ogni caso, il mio divertimento in questo mio soggiorno a New Orleans sono due bambolotti: Nikolaj ed Elijah. Si fanno la guerra tra loro per me come due lupi determinati a decidere il capobranco. E dire che sono Vampiri… non oso immaginare cosa avrebbero fatto da Licantropi. Nessuno dei due comprende però che io non sono un premio da vincere. Nikolaj non l’ha mai capito veramente e questo è il motivo per cui non mi ha mai avuta veramente; quanto ad Elijah, be’ lui mi conosce troppo poco e credo sia solo molto affascinato dalla mia aura di immortale perfezione.
No, non sono modesta. E non potrei esserlo. Sono Katherine Pierce, dannazione, e ho combattuto così tanto per essere quella che sono, per sopravvivere, che non mi pare proprio il caso di fingersi umili. Sarebbe un insulto alla mia persona.
Quando Nikolaj ha lasciato il locale, Elijah ha iniziato il suo attacco: «Nikolaj Ivanov è il tuo Creatore, eh?».
«Non sapevo che lo conoscessi» ho risposto, «e non sapevo che tu fossi un Vampiro, come dire… importante… qui in America».
«Non ti ho mai detto niente di me» ha osservato.
«E allora perché avrei dovuto farlo io?».
«Tra voi… c’è qualcosa».
«E’ una domanda o un’affermazione?» l’ho interrogato.
Elijah mi ha studiata per qualche secondo e poi ha sorriso, portandosi alle labbra il secondo bicchiere di Bourbon ordinato quasi venti minuti prima, ancora intatto.
«Pensavo usassi tutti per tuo personale divertimento. Mi fa piacere constatare che non è così» ha detto dopo un po’. «Temevo quasi che avessi spento le tue emozioni».
«Oh, no. Spegnere le emozioni, mai! Quella sì, che sarebbe una condanna a morte certa. In ogni caso, io e Nikolaj ci usiamo reciprocamente per divertimento personale. Sai, c’è stato un tempo in cui lui ha davvero creduto che sarei rimasta al suo fianco, ma io non sono mai stata tipa da cose definitive, né da umana né tantomeno adesso» ho chiarito.
«Un altro povero uomo finito tra le tue grinfie mortali».
«Non ho mai costretto nessuno a finire tra le mie grinfie mortali».
Abbiamo riso e d’un tratto ho ricordato quant’era stata piacevole quella settimana trascorsa insieme nel 1867 e poi quel nostro viaggio a Salem a caccia del Grimorio delle Bennett. Deve averlo ricordato anche Elijah perché nei suoi occhi ho visto un velo di nostalgia.
 
Quando sono uscita dal locale era ormai buio. Neanche il tempo di imboccare la via dell’albergo, che un uomo si è staccato dal muro in mattoni dell’edificio ed è venuto verso di me. Lo avrei riconosciuto ovunque, Nikolaj e la sua camminata da gran signore. O dovrei dire, vassallo del Regno Bulgaro o di chissà quale altro reame.
«Nikolaj, dico sul serio, i tuoi pedinamenti stanno diventando inquietanti» l’ho attaccato.
«Parliamo di Mikaelson, lascia perdere i miei pedinamenti» ha ribattuto, infilando le mani nelle tasche della sua elegante giacca nera.
«E’ sconvolgente che tu ammetta così di seguirmi; non ti sforzi nemmeno di negarlo».
«Elijah; ci sei andata a letto, vero?» ha continuato il mio Creatore imperterrito.
«Sono queste le domande che si fanno a una signorina?».
Nikolaj mi ha strattonato il braccio rudemente e ha fissato i suoi occhi millenari nei miei. Di nuovo è esplosa quella tensione nervosa tra di noi che non so spiegarmi.
«Sei geloso, Nik?» gli ho chiesto a bruciapelo.
«Oh, non ho la pretesa di pensare di essere stato il tuo unico amante» ha risposto.
«Nemmeno io per te, ma non faccio tutte queste sceneggiate».
Nikolaj ha lasciato il mio braccio e ha ripreso il cammino lungo la via semideserta e male illuminata da una manciata di lampioni.
«Parliamo sempre di questo. Non sai chiedermi nient’altro?» mi sono lamentata. Basta con gli scherzi e le provocazioni, dicevo sul serio. Chissà se Nikolaj però ha capito che non stavo più giocando.
«Vuoi sapere cosa ti chiederei?» ha detto. Io non ho replicato e così lui ha continuato: «ti chiederei di scappare con me, Katerina. Dimentichiamo questi secoli di sfide, di stregonerie, di imbrogli… ricominciamo d’accapo, io e te. Proprio da dove tutto è cominciato. Non vorresti tornare in Bulgaria? Lo so, che non ci sei più andata da quando sei scappata nel 1419… lascia perdere il Signore Oscuro, il Diamante, tutte quelle cose inutili, e vieni con me in Europa».
Per un secondo, davvero per un secondo, ho pensato a questa proposta sinceramente. Come se lui non fosse Nikolaj Ivanov, il Vampiro millenario che ha fatto di me quella che sono, che mi ha rinchiusa nel suo maniero per sei anni, che mi ha ingannata e seguita e osservata da lontano per oltre cinquecento anni. Come se io non fossi Katherine Pierce, non avessi fatto il giro del mondo per fuggire da lui e da qualsiasi altra minaccia alla mia sopravvivenza, come se non avessi un Diamante nella borsetta e un Signore Oscuro pronto ad accorrere ad ogni mio richiamo, come se non dovessi badare a Rose Foster anche quando è lontano mille chilometri da me, come se i ricordi di questi cinquecento anni di vita potessero essere inscatolati e nascosti in un anfratto oscuro del mio cervello.
E invece io sono tutto questo e Nikolaj è tutto quello che è. E i ricordi, purtroppo per noi, sono sempre lì ad aspettarci dietro l’angolo, ombre scure sulle pareti delle nostre esistenze che si dilatano e si restringono quando le fiamme delle nostre anime guizzano agli sbuffi di vento.
Mi sono avvicinata al mio Creatore e l’ho baciato sulle labbra. Nikolaj mi ha stretta tra le sue braccia forti e ha ricambiato il mio bacio con ancor più ardore.
«Vediamoci domani sera alle nove sul tetto del Rousseau’s» ho sussurrato prima di svanire.
 
E tutto questo perché io sono un genio del male. Nonché profondamente innamorata di me stessa. Lo ammetto, la proposta di Nikolaj avrebbe aperto mille porte per il futuro, ma non posso e non voglio fidarmi di lui. Ha già dimostrato troppe volte di essere bravo con le parole e molto meno coi fatti.
Sarei voluta tornare nella mia stanza, ordinare del Bourbon e scolarmi una bottiglia intera da sola, immaginando una vita che non avrò mai e che, in fondo, forse nemmeno vorrei. E invece lì ad aspettarmi nella hall ho trovato Elijah.
«Cosa ci fai qui?» gli ho domandato.
«Ho girato tutti gli alberghi di lusso del centro per trovarti» ha risposto.
«Anche tu mi pedini?».
Ha estratto da non so dove una rosa rossa e me l’ha donata, dicendo: «per te».
Ho annusato il profumo intenso del fiore appena colto, poi ho recuperato le chiavi della mia stanza e mi sono avviata senza dire niente verso le camere. Elijah mi ha seguita.
Ho lasciato la rosa sul cassettone affianco alla porta ed Elijah mi lanciata con forza contro il muro. Il mio corpo ha cozzato contro la parete e un gemito è sfuggito alle mie labbra socchiuse.
«Mi getto volontariamente tra le tue grinfie mortali, Katherine» ha esclamato e subito dopo era su di me e il suo corpo premeva il mio contro la parete della stanza. Le sue labbra hanno trovato le mie e le sue mani i miei costosi abiti alla moda, che sono finiti a terra, lacerati. 
«Chissà se è una saggia decisione» ho commentato ansimando.
«So per certo che me ne pentirò» ha ammesso Elijah spingendomi a velocità vampiro verso il letto. Mi ha raggiunta un istante dopo e ho ricambiato il favore di poco prima, strappando con violenza i bottoni della sua camicia di alta sartoria.
«Vorrei che venissi con me» ha sussurrato.
«Dove?».
«Ovunque».
 
Il mattino dopo, Elijah non era più nel mio letto. Uno sguardo al terrazzino della camera mi è bastato per vederlo seduto a leggere il giornale nel chiasso della città che si risvegliava.
«Sei terribilmente abitudinario» gli ho detto abbracciandolo da dietro, dopo essermi messa una vestaglia per uscire nella brezza fresca del mattino.
«Sono un Vampiro molto antico» si è difeso. Ha messo da parte il giornale e mi ha baciato le mani con gentilezza. «Hai pensato a quello che ti ho detto ieri?».
«Cosa?».
«Venire con me» ha specificato.
Mi sono seduta sulle sue gambe e con un sorriso ho risposto: «vediamoci stasera alle nove sul tetto del Rousseau’s e te lo dirò».
Insomma, non sono geniale!? Lui e quel povero illuso di Nikolaj si ritroveranno lì insieme e io intanto sarò libera di fare i bagagli e andare via, sparire veloce come il vento verso la mia prossima destinazione. Chissà che finalmente non mi riesca di liberarmi di questi segugi e di vivere la mia meritata solitudine immortale.
Per adesso comunque, mi basta rotolarmi un altro po’ nelle coperte con Elijah e poi, appena lui se ne andrà, inizierò a fare ordine nelle mie valigie e vedrò di prenotare una carrozza per stasera. La destinazione? Mmmh è questo il bello. Posso andare dove voglio.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Chicago, 1960 ***


Chicago, 1960
 
Zack era morto da pochi mesi e io dovevo ancora rendermene conto. Non riuscivo a credere che non ci fosse più il mio Signore Oscuro da qualche parte nel mondo, pronto ad accorrere in mio aiuto ogni volta che ne avessi avuto bisogno. Zack era anche un amico fidato, l’ultimo che mi era rimasto dopo Rose. Rose, che era sparita da quel lontano 1865 in cui eravamo finite rinchiuse assieme in una cella da un manipolo di Cacciatori balordi.
Quindi ero sola e depressa. Mi trasferii a Chicago nella speranza di trovare un po’ di conforto tra le vie trafficate della città, ma le cose andarono come sempre diversamente dai miei piani originali.
Una sera, due giorni dopo il mio arrivo in città, ero in un pub poco illuminato e decisamente sporco a bere un drink e a pensare ai bei tempi andati, quando mi si avvicinò una bella ragazza bionda che capii essere una Vampira.
«Quello che ha preso lei» ordinò al barista dietro il bancone.
«Pensavo che le bionde non reggessero l’alcol» commentai.
«Ma io sono una Vampira bionda» precisò.
«Appunto. L’effetto dovrebbe essere amplificato, no?».
La ragazza rise, una risata da usignolo, e si presentò: «Io sono Caroline».
«Katherine» replicai.
«Non ti ho mai vista da queste parti… cosa ti porta a Chicago?» mi chiese, prendendo posto sullo sgabello accanto al mio e sorseggiando il drink che il barista le aveva messo davanti.
«La depressione, suppongo».
Caroline rise di nuovo, «a questo ho io la soluzione! Vieni alla mia festa di fidanzamento. Ci saranno alcol, musica e la migliore gioventù di Chicago». Aveva detto tutto questo parlando ad una velocità incredibile, e quando finì il discorso, mi prese per le spalle e mi abbracciò.
Non feci neanche in tempo a replicare che aggiunse: «ho un sacco di cose da fare ancora, ora che ci penso, ciao!». E sgusciò fuori dal locale a velocità vampiro.
 
Comunque avevo preso il suo invito molto seriamente. Katherine Pierce non si sottrae di certo al divertimento e quale miglior distrazione di un party? Poco importava chi ci fosse e chi no, ero sola e libera e triste e tremendamente bisognosa di allontanare i pensieri dal corpo esangue di Zack.
E così il giorno dopo mi presentai nella sontuosa villa appena fuori il centro città che Caroline aveva scelto come location per la sua festa di fidanzamento. Quando arrivai, il maggiordomo all’entrata si mise a cercare il mio nome sulla lunga lista di invitati che aveva tra le mani, senza trovarlo.
«Lasciala entrare, Tom» ordinò la padrona di casa. Superai il maggiordomo e raggiunsi Caroline. Era splendente nel suo vestito rosa pastello e l’elaborata acconciatura dava forma alle sue ciocche bionde cotonate.
«Katherine, sei splendida» mi elogiò, prendendomi sottobraccio come se fossimo amiche da sempre. Avrei tanto preferito che non lo facesse, però non opposi resistenza all’esuberanza di Caroline e mi lasciai trascinare da una sala all’altra della villa, con lei che mi illustrava tutte le pietanze proposte, gli alcolici e gli invitati illustri.
«Li vedi quelli? Sono gli amici del mio Robert… oh! E ecco, quello che ci sta guardando ora è proprio Robert, il mio futuro sposo» mi spiegò Caroline, pilotandomi verso il gruppo compatto di giovani che attorniava il “suo” Robert.
«Ti chiedo solo una cortesia, cara» bisbigliò al mio orecchio, «evita di sbranare il mio fidanzato e il suo testimone di nozze, altrimenti dovrò sposarmi con un cadavere…».
Poi a voce alta parlò rivolgendosi agli altri: «questa è Katherine, ci siamo conosciute ieri sera in un pub e siamo diventate ottime amiche!».
«Perdonate la mia sposa, a volte è tremendamente esagerata… Molto lieto di conoscervi, Katherine» disse Robert. Allungai la mano e lasciai che ne baciasse le nocche.
«Voi siete tremendamente umano, invece» ribattei.
Caroline rise: «l’amore è l’amore».
«Caroline ha promesso di trasformarmi dopo il matrimonio» disse Robert. Dal suo sguardo capii che era qualcosa che voleva da molto tempo e che non vedeva l’ora di essere un Vampiro.
«Ci siamo conosciuti due anni fa a Parigi… sei mai stata a Parigi, Katherine? Una splendida città, davvero!» mi raccontò Caroline con gli occhi lucidi di emozione.
«Una volta, di passaggio» risposi.
«Oh, no, non di passaggio! Devi restarci almeno un mesetto per apprezzarla al meglio. Ti consiglio di andarci appena possibile».
«Ormai sono oltre centocinquant’anni che non torno in Europa e non ho molta intenzione di farlo… comunque l’eternità è lunga e potrei sempre averne voglia un giorno».
Caroline approvò e si congedò da noi per andare ad accogliere gli invitati appena arrivati, così io restai sola con Robert. I suoi amici si erano allontanati da noi per raggiungere la pista da ballo.
«Siete molto antica?» volle sapere Robert.
«Oh, ma che domanda carina» lo schernii, «sono un Vampiro da molto tempo, se è questo che intendete. Ho vissuto una parte di Medioevo, il Rinascimento, l’Illuminismo…».
Robert si mise una sigaretta tra le labbra e mi studiò in silenzio per un po’.
«E’ chiaro che desiderate molto ardentemente il Vampirismo».
«Oh, vediamo un po’… da quando ho saputo dei Vampiri, due anni fa. Appena ho capito cos’era Caroline, l’ho pregata di rendermi come lei, ma Caroline non è molto convinta di farlo».
Forse teme che la lascerai dopo la trasformazione, pensai. Ma non lo dissi.
«Siete pronto ad un’eternità di sete di sangue?» lo provocai.
«Non sembra schifarvi molto, quindi non vedo perché dovrebbe disgustare me» ribatté. Un ragionamento che effettivamente era accettabile.
Era un bell’uomo, Robert, sulla trentina. I capelli biondo scuro erano acconciati secondo la moda di quegli anni e il vestito che indossava era chiaramente di alta sartoria. Gli occhi castani saettavano da un lato all’altro della sala, studiando gli invitati con sguardi sfuggenti e quasi casuali.
«Non tutti i Vampiri finiscono per apprezzare la magia di una vena che pulsa sotto la pelle fresca del collo… conosco alcuni esempi in proposito» rimbeccai.
«Forse non volevano poi così tanto essere Vampiri, allora» rispose Robert tirando una boccata di fumo. Aveva sempre la risposta pronta e ostentava una certa sicurezza in se stesso che però aveva nascosto accuratamente quando Caroline era stata nei paraggi.
Il suo cambio di personalità me lo fece piacere ancora di meno. Flebile ma insistente, un pensiero si fece strada dentro di me: che Robert stesse raggirando Caroline in maniera mostruosa. Era possibile, in fondo, che tutto ciò che volesse da lei fosse il suo sangue di Vampiro e nient’altro. C’era un modo semplice per scoprirlo e decisi di attuarlo.
Continuai a conversare con lui e mi feci versare un paio di bicchieri di vino bianco, poi Robert propose: «venite con me sul tetto, Katherine. Si gode di una vista magnifica sulla città da lì».
«Volentieri» replicai e lo seguii sulle scale, sempre più su fino alla porta che conduceva alla terrazza sul tetto della villa. Avevo visto Caroline chiacchierare con alcune ragazze appena fuori dalla porta principale, ma lei era di spalle e non aveva notato me e Robert.
Al primo cameriere che incontrai ordinai un paio di bottiglie di Bourbon e le portai con me sul tetto. Robert di certo prendeva la Verbena, ma io avrei trovato un altro modo per fargli cantare tutte le verità che volevo estorcergli.
La terrazza sul tetto era buia, illuminata solo dal chiarore argentato della Luna e dalle luci dei lampioni sulle strade poco lontane. Il chiasso della città giungeva attutito alle nostre orecchie, ma il vento sferzava nella notte scura e mi scompigliò i capelli.
Porsi una bottiglia di Bourbon a Robert e l’altra la tenni per me. La stappai e ne ingurgitai subito un sorso freddo. Robert mi imitò, poi si accese un’altra sigaretta e disse: «è stupendo… non trovate anche voi che Chicago sia meravigliosa?».
«Non l’ho girata così tanto da poterlo dire. A primo impatto sì, direi che è un posto interessante».
«Dovete averne visti molti, di posti interessanti» commentò con una punta di amarezza.
«E’ così, in effetti» confermai. L’atmosfera tra noi si stava raggelando e io non potevo permetterlo, così mi avvicinai a lui e gli parlai di alcune città che avevo visitato nella mia lunga vita. Dovevo riportare la discussione sui Vampiri e sulla sua voglia di entrare a far parte del mondo soprannaturale.
Nel frattempo beveva a piccoli sorsi dalla bottiglia di Bourbon e ben presto il suo volto si fece più arrossato e il suo sorriso più lascivo.
«E così Caroline non vuole proprio saperne di trasformarvi, eh?» lanciai.
«Dannazione, no!» sbottò Robert, «e io non ho praticamente accesso al mondo soprannaturale perché lei mi taglia fuori da tutto… non credo che voglia farlo, in fin dei conti».
«Non conoscete altri Vampiri a cui chiedere in prestito una goccia di sangue?».
«Solo un paio di amiche di Caroline e loro hanno già tentato di persuaderla persino dallo sposarmi! Figurarsi se quelle due sarebbero disposte a darmi il loro sangue e poi a uccidermi» ribatté. Trangugiò una sorsata più lunga di Bourbon e ci mise un po’ prima di ricomporsi.
«Caroline mi sembra molto innamorata di voi; forse teme che la lascerete dopo la trasformazione» osservai. Robert si voltò a guardarmi e il suo viso era decisamente troppo vicino al mio. Non ebbe nulla da dire stavolta e, dopo avermi fissata lungamente negli occhi, tornò a voltarsi verso lo skyline di Chicago.
Il suo silenzio suonò molto come un’ammissione di colpa. Ma mi serviva ancora l’ultima, inconfutabile prova che avevo ragione io.
«Alloggiate qui per stanotte?» gli chiesi.
«Sì, una suite al secondo piano. Il bagno è enorme e il letto è decisamente imponente… volete vederla? È la migliore stanza di tutta la villa, forse persino di tutta Chicago!». Robert aveva riacquistato la sua baldanza e mi guidò nuovamente verso le scale e l’interno della villa. Raggiungemmo il corridoio deserto al secondo piano e procedemmo fino alla porta della suite, i nostri passi attutiti da uno splendido tappeto persiano che ricopriva interamente il pavimento del corridoio.
La suite era spettacolare come l’aveva descritta Robert. Era gigantesca e il letto a baldacchino pareva un trono drappeggiato di stoffe sontuose e farcito di cuscini di tutte le forme. Su un tavolino all’angolo erano posati bicchieri di cristallo e un cestello di ghiaccio dove era immersa una bottiglia di Champagne. Le vetrate in fondo alla stanza conducevano ad un terrazzino esterno da cui si godeva una splendida vista. Da una porta laterale si accedeva al bagno, che era veramente enorme come aveva detto Robert.
«Una suite da sogno» disse, facendo una piroetta nel mezzo della stanza.
«Mi versate un bicchiere di Champagne?» gli chiesi.
«Dimentico sempre che voi Vampiri avete una resistenza all’alcol decisamente superiore a quella degli umani» rise Robert.
Mi avvicinai lentamente a lui mentre mi versava lo Champagne, il passo leggero, misurato e silenzioso di un predatore all’attacco.
Quando si voltò per porgermi il bicchiere, si stupì di trovarmi così vicino a lui.
«Ottimo» commentai il vino, dopo averne bevuto un sorso senza staccare gli occhi dalla mia preda.
Robert mi fissò, ipnotizzato, e le sue labbra si schiusero per il desiderio.
«Perché non mi trasformate voi, Katherine?» sussurrò.
«Adesso?» risposi in tono mellifluo, «oh no, ho altri piani per adesso». E detto questo, posai il bicchiere sul tavolo e mi avventai su di lui. Lo spinsi sul letto monumentale e lo raggiunsi un istante dopo a velocità vampiro.
Avevo avuto tutte le conferme del caso, ma perché non divertirmi un po’ prima di eliminare quell’approfittatore dalla faccia della terra?
 
Più tardi, mi rivestii con calma e ripulii la testiera del letto da alcuni schizzi di sangue. Era stato un lavoro piuttosto pulito rispetto ai miei standard, ma comunque le lenzuola si erano sporcate e nemmeno la seta delle fodere dei cuscini era stata risparmiata. Un gran peccato, veramente.
Il corpo senza vita di Robert era ancora nudo e riverso sul letto così come l’avevo lasciato dopo aver succhiato fino all’ultima goccia del suo inutile sangue umano. Valutai il da farsi e decisi di rimetterlo a posto; così lo adagiai meglio tra le coperte, ma non mi presi la briga di rivestirlo.
Mi diedi un’ultima occhiata allo specchio e ripulii una macchia di sangue dal mento, poi recuperai da una cassettiera carta e penna e scrissi un messaggio per Caroline, confidando nel fatto che sarebbe stata lei a trovare il morto.
 
Cara Caroline,
il “tuo” Robert era un bastardo impostore. Non si è fatto problemi a venire a letto con me e ha persino osato chiedermi di trasformarlo. Probabilmente mi odierai, ma sono sicura che un giorno capirai che non ho fatto niente di male, in fondo.
Per la cronaca, noi non siamo amiche. Cavoli, ci siamo conosciute ieri sera!
Addio,
Katherine



Special guest di questo capitolo, Caroline Forbes, personaggio che si ritrova anche nel nostro crossover The Last Challenge.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** New York, 2000 ***


New York, 2000
 
È iniziato un nuovo millennio e io non riesco quasi a credere di essere qui per vederlo. Be’, in realtà è stata dura e certe volte ho creduto di non farcela, ma sono qui. E ho deciso di festeggiare questo 2000 in una città che da tempo sento definire come il sogno di ogni Vampiro.
Effettivamente, New York offre molte possibilità… senza contare il fatto che è così piena di gente, lavoratori, turisti e quant’altro, che un Vampiro può nutrirsi come e quanto vuole senza destare il minimo allarme.
Ieri è stato un pomeriggio tranquillo che ho dedicato interamente allo shopping. Ci sono negozi superbi da queste parti e boutique, e non devo nemmeno pagare. Mi basta soggiogare le commesse e il negozio –qualsiasi esso sia- diventa mio per tutto il tempo che voglio.
Mi sono abituata a questa ritrovata solitudine. Non vedo Rose da oltre un secolo e Nikolaj dal 1920. Ma sto bene! So che Rose è in Europa; dopo decenni passati senza sapere nulla su di lei, finalmente sono riuscita a rintracciarla. Quanto a Nikolaj, non ho bisogno di sapere dove si trova; se avrà bisogno di me si farà vivo lui stesso. Le mie giornate scorrono tranquille, mi nutro tanto e bene, faccio shopping, mi intrufolo ai party dell’alta società e mi crogiolo nel lusso della mia suite in uno degli alberghi più rinomati della metropoli.
O per lo meno, così è stato finora. Ieri, dopo il mio pomeriggio di compere, sono andata a bere qualcosa in un locale carino dell’Upper West Side e ho conosciuto un lupetto interessante.
Mi si è avvicinato mentre scolavo un bicchiere di Bourbon. Si è seduto vicino a me senza dire niente e ha ordinato uno scotch al barista dietro il bancone. L’ho studiato con la coda dell’occhio; un bell’uomo sulla trentina, capelli chiari e occhi verdi, quasi certamente britannico a giudicare dall’accento.
«Cosa ci fa una Vampira in un pub di Licantropi?» mi ha chiesto dopo un po’.
La sua domanda mi ha colto un po’ alla sprovvista. Dal battito forte del suo cuore e dall’odore invitante del suo sangue avevo dedotto che non potesse trattarsi di un Vampiro, eppure aveva nelle movenze e negli occhi un nonsoché che mi aveva fatto capire che quello che avevo affianco non era un semplice avventore di un semplice pub di New York. E ora ecco svelato il mistero: lui era un Licantropo.
Ne avevo conosciuti, di Licantropi. Loro e le loro regole ferree sul concetto di branco, lealtà verso i fratelli, onore, blablabla… che mucchio di sciocchezze. L’esperienza per un Licantropo non sarà mai abbastanza. L’esperienza in oltre seicento anni di vita mi ha insegnato che sopravvive solo chi conta su se stesso e sulle proprie forze, mentre i Licantropi non capiranno mai questa semplice e nuda verità. Il branco prevale sempre sugli interessi del singolo perché è il branco che conta. Immagino che Creature diverse, priorità diverse. In ogni caso, grazie al Cielo non sono nata con il gene della Licantropia; a quest’ora sarei morta e sepolta da tempo.
«Un pub di Licantropi?» ho ripetuto guardandomi intorno, «strano, perché sulla porta d’ingresso credo proprio di aver visto il cartello con scritto “vietato l’accesso ai cani”».
Lui ha sorriso brevemente, «solita vecchia battuta. Voi Vampiri non cambiate mai».
«Perché non invecchiamo mai» ho rimbeccato.
Il Licantropo ha ordinato un secondo scotch per sé e un bicchiere di Bourbon per me.
Carino.
«Chiamami Katherine» mi sono presentata con un occhiolino.
«Il mio nome è Klaus. Sono certo che avrai sentito parlare di me».
Klaus? Klaus, chi?
«Oh, sul serio!? Non sai chi sono?» è sbottato, ridendo, incredulo.
Il Licantropo Klaus… ma certo! Lui era il famoso, famosissimo, Alpha immortale. Il suo branco è costituito da soli Alpha e lui comanda su tutti grazie al suo potere di Licantropo immortale. Per mantenersi giovane uccide periodicamente Alpha di altri branchi, rubando i loro anni di vita, quasi potesse ritornare indietro nel tempo e rivivere d’accapo. Eppure è proprio questo che fa; invecchia come qualsiasi Licantropo del mondo, ma dopo aver ucciso un Alpha ringiovanisce e questo è il segreto della sua immortalità.
L’Alpha Klaus governa sulle Creature soprannaturali di New York da almeno cinquant’anni. Se sia un regnante giusto o spietato, non lo so. Ho solo sentito dire che l’attività magica delle Streghe è sotto stretta sorveglianza e che la convivenza tra Vampiri e Licantropi è dura ma possibile, finché ognuno si fa i fatti suoi.
 «Immagino che si debba fare attenzione... devo aggiornarti sulla lista di umani che ho ucciso da quando sono arrivata qui?» l’ho canzonato.
«Puoi fare quello che vuoi, Katherine, finché il tuo cammino non incrocia il mio».
«Uuuuh, guai in vista per me allora» ho commentato.
 
Klaus vive in un attico meraviglioso, enorme, lussuoso… è arredato con uno stile moderno, bianco, molto luminoso. Ha un armadietto degli alcolici che farebbe invidia a Nikolaj e una libreria piena di testi interessanti e tanti, tantissimi Grimori. Che se ne fa, lui che è un Licantropo, dei Grimori, è qualcosa che non gli ho ancora chiesto. Ma deduco che un grande potere comporti grandi responsabilità e lui ha tutta l’aria di avere spesso gatte da pelare.
È uscito da qualche minuto e sto pensando a come impiegare il mio tempo libero. Il mio tempo libero da lui. Klaus è insaziabile. Non sono abituata a riportare tra queste pagine le mie avventure amorose, ma Klaus è davvero un amante degno di me. È forte, è un Licantropo immortale e un Alpha, tiene testa al mio potere e mi ammalia con le stesse tecniche che uso io. Mi sono divertita così tanto solo con Nikolaj e sono sorpresa di aver trovato qualcuno di altrettanto interessante. Comunque sia, ho acceso lo stereo e la musica mi rimbomba nelle orecchie così forte che faccio persino fatica a pensare.
Meglio così, ora prendo una bottiglia di Bourbon dall’armadietto e non mi fermerò finché non l’avrò bevuta tutta.
 
Ho ballato per un’eternità nel mezzo del soggiorno, poi la musica si è spenta di colpo e quando mi sono voltata ho trovato Klaus a pochi metri da me, sulla soglia di casa con ancora la giacca addosso.
«Oh, ciao. Rimetti la musica e vieni a ballare con me» gli ho detto. La bottiglia di Bourbon era finita da tempo e giaceva per terra, vuota, assieme ad un paio di bottiglie di vino rosso.
«Vorrei farlo, ma ho questioni importanti da gestire. Raccogli quelle bottiglie e vai a farti un giro, Katherine. Mi serve che tu non sia nei paraggi per le prossime ore».
«Mh, ma che carino. Davvero gentile, Klaus». Ho raccattato da terra le bottiglie vuote e sono andata verso la porta. Klaus era ancora là.
“Perdonami” ha bisbigliato al mio orecchio prima che uscissi.
Ma quale giro avrei dovuto farmi!? Oh, no! Il mio posto era esattamente quello che avevo appena lasciato, e così sì, sono scesa fino al cestino più vicino dove ho lasciato le bottiglie vuote e poi sono ritornata al pianerottolo dell’attico di Klaus. Da fuori giungevano parole sconnesse e bisbigli che non riuscivo ad intendere bene. Dovevo rientrare nella casa, se volevo origliare come si deve.
E così ho aspettato un po’, ho captato i cinque cuori pulsanti all’interno dell’attico e tentato di indovinare le loro posizioni. Nello studio; erano tutti nello studio di Klaus.
Ho aperto la porta con la massima cautela e mi sono intrufolata nel soggiorno illuminato a giorno dai led sul soffitto. Poi mi sono spostata con un movimento a velocità vampiro sino alla camera da letto. Lo studio è nella stanza affianco e il muro ha tutta l’aria di non essere molto spesso, così ho potuto origliare parte della conversazione tra i cinque Licantropi.
«Quanti sono?» ha chiesto Klaus.
«Non abbiamo il numero preciso. Alcuni sono arrivati in città da poco, altri erano già qui. Ci sono state aggregazioni sospette nel Queens in giorni casuali e orari casuali».
«Il numero di umani assassinati in questi giorni è nettamente superiore alla media» ha rincarato un altro.
«Aggregazioni di Vampiri, omicidi… cosa devo pensare? Stanno davvero cercando di rubarmi New York?! Questa città è mia da cinquantasette anni».
«Signore, noi crediamo che stiano progettando un attacco» ha azzardato un quarto Licantropo che fino ad allora non era mai intervenuto.
Un colpo, un pugno sul tavolo. Probabilmente di Klaus. «Poveri illusi! Bene. Se è la guerra che vogliono, l’avranno».
«Forse dovremmo tentare con la diplomazia, mio Signore».
«La diplomazia è per i codardi. Se si arriverà al punto di dover combattere, combatteremo».
«I Licantropi della città sono al tuo servizio, Signore».
«Voglio un aggiornamento ogni tre ore sull’evolversi della situazione. Mettete i Licantropi del Queens in allerta e ordinate di segnalare ogni movimento sospetto. Comandate ai vostri branchi di essere vigili e di tenersi pronti alla battaglia. Tutto chiaro?».
«Sissignore» hanno risposto quelli che senza dubbio sono i quattro Alpha di New York.
«Trovate chi è a capo di tutto. Voglio una testa sulla picca entro questa settimana».
«Signore, c’è un’altra questione».
«Cosa?» ha sbottato Klaus.
«La Vampira che ospiti… è sicuro? Siamo certi che non sia una spia dei ribelli?».
«Concentratevi sui Vampiri del Queens e lasciate Katherine a me» ha concluso Klaus.
Movimenti improvvisi mi hanno confermato che i quattro stavano congedandosi da Klaus e così sono sgusciata fuori a velocità vampiro prima che potessero vedermi. Ho preso l’ascensore e mi sono precipitata in strada.
Devo capire chi sono questi Vampiri, contro chi sta combattendo Klaus ma, soprattutto, devo farlo con attenzione. Non vorrei proprio che entro questa settimana fosse la mia testa a finire su una picca.



Guest starring per questo capitolo Joseph Morgan come Klaus (ovviamente) 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** New York, 2000 (2) ***


New York, 2000
 
Dopo quanto ho sentito, ho deciso di farmi un giro nel Queens e capire chi sono questi nuovi Vampiri che stanno creando qualche problema a Klaus. Voglio accertarmi che non si tratti di Nikolaj.
Per quanto ne so, potrebbe ancora avere qualche spia fidata che mi sorveglia e gli riferisce ogni mio movimento, e in quel caso saprebbe di me e Klaus. Una guerra scatenata per gelosia nei confronti di una donna non sarebbe di certo il primo caso della storia. Quasi tutte le guerre scoppiano per soldi o per donne contese.
Ma Klaus è un nemico troppo potente persino per Nikolaj. Sarebbe uno scontro tra titani, una catastrofe dalla quale solo uno uscirebbe vincitore. Ho fiducia in Nikolaj, ma non scommetterei su di lui alla leggera.
Ho passeggiato un po’ tra le vie, ho dato un’occhiata ai negozi e ispezionato le zone più isolate, quelle in cui sarebbe più facile trovare Vampiri. Ma non ho incrociato Nikolaj da nessuna parte. Ho pensato di chiamarlo e così mi sono spostata verso la cabina telefonica più vicina (non voglio che rintracci il mio telefono, sempre che ciò sia possibile).
«Ciao, Nik».
«Katerina?». Sembrava sorpreso. Del resto sono passati un po’ di decenni dall’ultima volta in cui ci siamo visti, eppure mi sono abituata al fatto che per noi il tempo non passa mai. Figurarsi che la faccenda di Urquhart mi pare accaduta solo l’altro ieri.
«Proprio io» ho risposto, «allora, come stai? Ho pensato che, visto che esistono, tanto vale usarli questi mezzi moderni di comunicazione».
«Sono sorpreso che tu abbia il mio numero…».
«Non sei solo tu a tenere d’occhio me».
«Dove sei? Magari possiamo vederci».
«New York, e tu?».
«Ancora in America? No, io sono a Mosca al momento».
«Ancora in Est Europa?» l’ho rimbeccato.
«Sono un uomo d’affari che ha affari in Est Europa».
«E io una Vampira che ama l’America».
«E sei sola?» mi ha chiesto, apparentemente casualmente.
«Vorresti che lo fossi?».
«Sono curioso».
«Potrei farti la stessa domanda, Nik… ma lo so che tu hai sempre i tuoi noiosi uomini in nero a farti da ombra e un manipolo di Streghe ricattate che fingono di esserti fedeli».
«Che descrizione accurata dei miei ultimi mille anni di vita!».
D’un tratto ho visto, sulla strada di fronte a dove mi trovavo, Elijah, camminare spedito con le mani infilate in un cappotto grigio ferro in tinta col suo vestito di alta sartoria.
Ho liquidato Nikolaj e sono sgusciata fuori dalla cabina telefonica per raggiungere Elijah.
«E’ destino che ci rincontriamo, Elijah» l’ho chiamato. Lui si è bloccato in mezzo al marciapiede e si è voltato verso di me con studiata lentezza.
Ci siamo guardati per un lungo minuto, un tempo in cui ho rievocato i vecchi ricordi di New Orleans e le nostre avventure a Salem, fino al mio patetico inganno.
«Non so più se sia un bene o un male rivederti, Katherine».
«E’ sempre entrambe le cose».
«Come mai qui?» mi ha chiesto.
«Ho messo le mani sul Licantropo più potente di sempre… o dovrei dire che lui le ha messe su di me?».
«Sei sempre così… Katherine. Sei sempre così Katherine».
«Il fatto che mi ritieni unica, mi lusinga».
«Tu e Klaus, eh? La cosa potrebbe farsi interessante».
 
Elijah, questo sconsiderato, sta pianificando una sorta di colpo di stato contro Klaus e il dominio dei Licantropi a New York. Ed è stato così stupido da spiattellarmi tutto e pensare che avrei abbracciato la sua causa. Non so se mi consideri una sorta di spia, ma io non sarò il suo cavallo di Troia e non tradirò Klaus.
Non ho proprio alcuna intenzione di immischiarmi in queste scaramucce tra Creature diverse che devono provare chi è il più forte. Katherine Pierce è molto al di sopra di tutto questo. Se non altro perché farmi i fatti miei è stata la chiave vincente per tutta la mia lunga vita.
Perciò sono tornata da Klaus e dal suo attico e ho passato la serata a divertirmi, a bere e ballare e poi a rotolarmi nel letto con il legittimo proprietario di tutto questo lusso. Mi pare incredibile di aver parlato, oggi, con tre degli uomini più interessanti che abbia conosciuto in tutta la mia vita. Se ad essi potessi aggiungere anche Lorenzo de’ Medici e Zack, sarebbe una giornata davvero perfetta. Ma immagino che nella vita non sempre si possa avere tutto ciò che si vuole e quindi mi accontento di questo.
Ho fornito delle informazioni su Klaus a Elijah, però, e ora mi sentivo in dovere di pareggiare i conti con Klaus.
«So chi è il tuo Vampiro, quello che stai cercando» ho esordito. Mi era un po’ difficile concentrarmi, perché Klaus era disteso nel letto affianco a me e si divertiva a disegnare ghirigori immaginari sulla mia schiena nuda.
«Che cosa?!» è sbottato, tirandosi su di scatto. «E tu cosa ne sai?».
«Andiamo, Klaus. Pensi davvero che dicendomi “vai a farti un giro”, io obbedisca ciecamente? Non sono mica il tuo cagnolino». Sì, le mie battute a volte sono pessime.
«E quindi cosa sai?».
«Abbastanza… il tuo uomo è un mio vecchio giocattolino. Si chiama Elijah».
«Elijah, il Vampiro più potente degli Stati Uniti?».
«Precisamente».
«E vuole prendere New York?».
«Così pare».
«Cosa gli hai detto di me? E quali sono i suoi piani?».
«Gli ho solo detto che gli stai alle costole. Quanto ai suoi piani, non so nulla». Sì, be’, in realtà so qualcosa più di “nulla”, ma ho deciso di non rivelare niente a Klaus. Se Elijah deve morire –perché vincerà Klaus senza ombra di dubbio- perlomeno non voglio che sia una mia responsabilità. Non voglio sentirmi in colpa, insomma.
«Katherine, se stai cospirando alle mie spalle…».
Ho riso, «Klaus a volte vorrei che mi conoscessi meglio. Io non cospiro proprio un bel niente. E sai perché? Perché non mi importa! I tuoi problemi con la città non sono affari miei».
«Vorrei poterti credere».
«Devi. Ho solo un interesse al momento…». E così dicendo, l’ho spinto nuovamente a letto e l’ho messo a tacere a modo mio.
Non credo che resterò a New York ancora per molto. Quando scoppierà la guerra non voglio essere presente. Quindi meglio che mi goda i piaceri che questa metropoli ha da offrirmi, finché posso. E Klaus è uno di questi. Uno di quelli a cui non voglio rinunciare.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Anno post-apocalittico 2124 ***


AVVERTENZA. Questo capitolo è l'unico che fa veramente riferimento a The Last Challenge, il nostro crossover che in qualche modo segue le vicende post apocalittiche di Katherine. Vi invitiamo naturalmente a darci un'occhiata! 


Anno post-apocalittico 2124
Anno post-apocalittico. Non suona strano? Per me lo è.
Sono a bordo di un hovercraft diretto chissà dove. Sto fuggendo, ancora una volta. La Terra è cambiata molto ma io no, io sono sempre in fuga da qualcosa o qualcuno. La storia in questo caso è così lunga da raccontare, che un diario intero non mi basterebbe, così lascio che sia qualcun altro a farlo, se vorrà.
Il mare fuori dal finestrino –almeno quello- non è cambiato. È una distesa placida, blu, e i raggi del sole si riflettono sulle onde. È lo stesso mare che ho solcato nel 1500 per vedere Tenochtitlàn e prendere il Diamante Oscuro, lo stesso di quando sono tornata in America tempo dopo per non fare mai più ritorno in Europa. Fino a questo momento.
«Che fai?».
È la voce di Damon, in piedi accanto alla porta. L’ho guardato per un lungo momento, incerta sul da farsi. I suoi occhi sono così belli. Sono chiarissimi, sono gli occhi di Lorenzo de’ Medici.
«Niente di importante» gli ho detto.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Ringraziamenti ***


I ringraziamenti di Katherine (alias Vampire)
Arrivare a scrivere la parola “fine” a questa storia è una soddisfazione, ma mi rende anche un po’ triste, perché significa che io e Norman non passeremo più serate intere a progettare i nuovi capitoli, spulciando tra gli eventi storici di tutte le epoche in cerca di ispirazione per le avventure di Katerina. E’ stata un’impresa quasi titanica, l’evoluzione di un personaggio che copre un arco temporale di oltre seicento anni. Ma è di Katerina che stiamo parlando, di gran lunga una delle figure più interessanti di The Vampire Diaries e non solo.
Passando ai veri ringraziamenti, comunque, devo il mio primissimo grazie proprio a Norman, il mio migliore amico, la mia spalla, nonché esperto di storia… senza di te tutto questo non sarebbe stato possibile.
Il mio secondo grazie va naturalmente a tutti coloro che hanno letto questa storia, a chi ha commentato dandoci un suo parere e anche a chi ha criticato. Ognuna di queste persone è importantissima per noi, perché contribuisce a modo suo al mio piccolo grande sogno di vedere un giorno il mio nome in una libreria. Quindi grazie, grazie di aver dato fiducia a questi capitoli usciti spesso con ritardi imperdonabili! Purtroppo la vita è piena di altri impegni, non solo di bei libri e fogli di carta da riempire di parole.
Confido in Norman per le nuove storie in cantiere, perché possano iniziare a prendere forma in breve tempo. E confido in tutti quelli che hanno letto Miss Pierce e l’hanno trovata interessante, perché abbiano la pazienza di attendere gli sviluppi di Katerina.
A presto!
Kath
 
I ringraziamenti di Norman (alias Warlock)
Per me è motivo di grande soddisfazione aver potuto finalmente concludere questa fantastica storia assieme alla mia carissima collega di penna Katerina. Dico fantastica non per presunzione,
ma per il semplice fatto che all'interno vi sono racchiusi oltre che impliciti riferimenti alla nostra vita, bellissimi momenti passati della nostra adolescenza. Frequenti sacrifici a causa delle ristrette tempistiche hanno assicurato una grandissima assiduità nella nostra opera e spero vivamente che tutto il nostro lavoro possa essere ripagato e che, soprattutto, possa trasmettere ai lettori le emozioni che noi autori abbiamo provato nello scrivere e ideare la storia.
distinti saluti
Norman

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3646080