Broken Souls

di michaelgosling
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Henrich Bauer ***
Capitolo 2: *** Preston Walker ***
Capitolo 3: *** Giovanna Marconi ***
Capitolo 4: *** Colton Harrington ***
Capitolo 5: *** Kira Radenich ***
Capitolo 6: *** Pierre Dumont ***
Capitolo 7: *** James Bowman ***
Capitolo 8: *** Sogni Spezzati ***



Capitolo 1
*** Henrich Bauer ***


CAPITOLO 1. HENRICH BAUER

Dopo giorni e notti di un lavoro e di una fatica incredibili, riuscii a scoprire la causa della generazione e della vita; anzi, di più ancora, divenni io stesso capace di dare animazione alla materia morta.”

Mary Shelley, Frankenstein



Il senso di colpa ha uno strano effetto sulle persone. Può far riavvicinare chi a causa dell'orgoglio si è allontanato da chi amava, può far fare cose che nessuno, tanto meno tu, ti saresti aspettato di compiere o dire. Può logorarti, distruggerti. Può essere la tua ancora di salvezza dopo una vita passata a fare errori su errori. Oppure puoi esserne del tutto privo. Puoi non sentirlo, non percepirlo nemmeno. Persone che hanno il lusso di non doversene preoccupare e di poter vivere serenamente senza mai concepire nemmeno per un istante cosa significhi averlo, persone che la polizia a volte classifica come sociopatici, apatici, incapaci di provare rimorso, non tutte naturalmente, gli attori migliori sono in grado di simularle portando delle maschere, maschere che con il tempo che passa sono sempre più integrate con il resto del corpo, diventando un tutt'uno. Persone che finiscono con il non vivere davvero, che nei film vengono definite “cattive” da tutti, ma che se le incontri per strada le trovi amichevoli e gentili, o peggio, finisci col diventare come loro.
Henrich lo sapeva bene, ne aveva conosciute tante, e col tempo, alcune era anche riuscito a riconoscerle. E le riteneva fortunate. Fortunate perché non dovevano preoccuparsi dell'enorme peso del senso di colpa, e lui lo sapeva bene, quel peso lo portava da tutta una vita, e il passare degli anni non l'aveva aiutato a rendere il tutto più sopportabile e meno pesante.

Quel peso che era come un'ombra, che non lo lasciava mai da solo, che gli ricordava sempre che era lì per lui,
per quello che aveva fatto, e per non farglielo dimenticare mai. E lui non avrebbe mai dimenticato. Non fino a quando avrebbe avuto un cuore che batteva, anche se vecchio e dolorante come lo era lui, del resto.

Si grattò la fronte incerto sul dà farsi, ma poi sospirò e si alzò. Era tardi, aveva dormito anche troppo, già era deprimente alla sua età rimuginare sugli sbagli del passato, ma passare i pochi anni che gli rimanevano in un pulcioso letto era fuori discussione.

Prima di lasciare la camera da letto, si guardò nello specchio che teneva vicino alla porta. I suoi settantacinque anni li dimostrava tutti, forse anche un paio di più. Era piuttosto alto e snello come lo era giovane, il viso magro come il resto del corpo, e due occhi azzurri scavati sul viso che apparivano stanchi, ma ancora vivi di qualcosa, come se in mezzo alla stanchezza ci fosse anche una piccola e flebile fiammella dentro lui, anche se Henrich non sapeva come mai fosse ancora accesa. I capelli bianchi, un tempo biondi, corti e leggermente mossi, erano gli stessi della sera prima. Ma aveva davvero dormito quella notte? Non lo sapeva, anche perché se l'aveva fatto, erano stati sogni tormentati.

Si cambiò, sostituendo un vecchio pigiama a tinta unita con una polo blu, una maglia a cappuccio grigia, dei jeans e due scarpe da ginnastica color marrone scuro. Poi, finalmente, lasciò la stanza per raggiungere Frank, la ragione principale per cui si era cambiato. Non voleva che si preoccupasse per lui, cosa che avrebbe fatto se lo avesse visto in pigiama.

Lo trovò inerte sulla sua poltrona come se fossero una sola cosa, e i cavi elettrici e i circuiti che collegavano l'impianto lì accanto alla poltrona, e a Frank, non facevano che confermare quest'idea.

Henrich buttò una rapida occhiata al monitor, e fece un piccolo sorriso.

“Tre minuti.”

Ne approfittò per dargli una rapida occhiata con il computer. Sistemi vitali ottimali. Resistenza accettabile. Energia in caricamento. Tutto sembrava normale.

Quando sentì i circuiti e i cavi elettrici staccarsi dalla poltrona, e da Frank, constatò che i tre minuti dovevano essere passati.

Frank si alzò con la rigidità di un militare, ed Henrich non si aspettava niente di diverso.

“Buongiorno, Henrich. Sei già sveglio.” fece Frank con voce meccanica.

“Beh direi. Sono le undici di mattina. Ho dormito anche troppo.”

Le undici? Confermo. Sono le undici e nove minuti e trentadue virgola ottantacinque secondi.” continuò Frank, iniziando a camminare a tratti.

“Preciso come sempre.”

Sto solo adempiendo ai miei compiti, signore.”

Henrich sbuffò.

“Frank, ne abbiamo già parlato. Niente signore. Henrich.”

Lei mi ha programmato. Mi ha creato. Sono frutto del suo lavoro e delle sue ricerche. Non esisterei senza di lei. La mia esistenza è legata a lei. Ogni cosa che sono, e che sono in grado di fare, è merito suo, perché lei mi ha dato le informazioni necessarie per poter adempiere ai miei compiti. Io sono stato creato per servirla. Dunque la sua intenzione di rendermi informale nei suoi confronti è illogica. Frank non capisce.”

Io ti ho creato perché necessitavo di un assistente, qualcuno che potesse aiutarmi in quello che sto facendo, ma ciò non significa che sei il mio domestico o il mio servitore. Tu non sei il mio schiavo. Sei un abile collaboratore.. e un amico.”

“Se è questo che desidera, potrebbe apportare le dovute modifiche al mio programma. Posso suggerirle..”

Non importa, Frank. La verità è che non sono così sveglio e intelligente come una volta, e temo che se apportassi delle modifiche al tuo programma, beh, ho paura di fare più male che bene. Non voglio danneggiarti. Sei perfetto così, come lo sei stato negli ultimi quarantacinque anni.”

“Perfetto? La perfezione è illogica. Inoltre vorrei ricordarle che anche lei..”

“Frank, era solo un modo di dire. Intendevo che.. vai bene così. Che apprezzo ciò che sei.”

Secondo i miei dati, quello che ha detto era un complimento. Il mio database dice che quando si riceve un complimento si ringrazia. Frank ringrazia.”

Henrich rise divertito e si diresse verso una terza stanza nell'angolo della casa, ma qualcosa gli impedì di proseguire.

Un dolore lancinante, insopportabile a dire poco, partì dal suo cuore e si diffuse per tutto il suo corpo, come un virus, come un veleno che si era attivato dentro di sé, intenzionato a danneggiargli tutti gli organi interni. Si strinse con le braccia, come se volesse abbracciarsi da solo, nel folle ed inutile tentativo di porre fine a quel dolore, che aveva raggiunto anche il cervello.

Frank lo aveva chiamato. Oppure no? Era tutto così confuso, anche la vista era annebbiata. Lottava per resistere, per restare in piedi, ma il dolore era troppo, e si rese conto che a poco a poco le ginocchia si erano piegate, fino a quando non si stese sul pavimento, contorcendosi dal dolore.

Sentì la voce meccanica del suo assistente, questa volta ne era certo. Si sforzò di aguzzare la vista e lo vide accanto a lui. Non capii ogni cosa che diceva, solo qualche parola. Parlò di infarto. Ictus. Ospedali. Voleva portarlo all'ospedale. Facendo appello alla forza che gli restava, Henrich scosse la testa.

Nessun infarto. Nessun ictus. Nessun ospedale. Non ce n'era bisogno. Sapeva benissimo cos'era. Cosa stava avendo. E perché.

E il saperlo rendeva tutto più difficile. Perché sapeva cosa significava. Cosa avrebbe dovuto fare. Sperava che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Gli ritornò alla mente l'ultima volta che aveva avuto quell'attacco. Come dimenticarlo? Aveva cambiato la sua vita.

A poco a poco il dolore scomparve, e con il passare dei minuti, Henrich prese consapevolezza della situazione. La sua testa era nel caos, tanti pensieri, troppi. Pensieri su di lui, su cosa avrebbe fatto non appena si fosse alzato dal pavimento, pensieri su cosa stava accadendo là fuori, pensieri su cosa sarebbe successo negli anni a venire, pensieri sulle sei persone che lo avrebbero aiutato a portare quel peso enorme, quelle sei persone che ancora non avevano né volto né nome, persone che presto avrebbero visto la loro vita sconvolta,
da lui.

“Frank.” mormorò, con un filo di voce, ancora stordito da quanto era successo.

“Frank è qui.”

Henrich lo guardò. Frank se ne stava chino su di lui, come solo un robot poteva fare, ma non era un robot. Non era neanche umano. Frank era.. un essere cibernetico. Metà macchina e metà umano. La sua pelle era bianca quanto un pezzo di carta, le labbra viola, e per la metà del corpo era circondato da circuiti cibernetici, macchine, cavi, che gli permettevano di muoversi, parlare, comprendere. Henrich avrebbe voluto dilungarsi di più a pensare a Frank, al suo passato e a come era nato, ma non era quello il momento.

“Aiutami ad alzarmi.”

L'androide obbedì, e quando Henrich fu in piedi, entrambi si diressero verso il computer, non tanto distante dal luogo in cui Frank si rigenerava.

“Frank, ho bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo fare
quella cosa.”

“Signore, lei aveva detto che l'avremmo dovuta fare solo in caso..”

Lo so. Ricordo cosa ho detto. Ma questo è il caso. Quel caso.”

“Ai suoi ordini. Sono pronto a procedere.”

Forza, allora. Dobbiamo procedere con la selezione, prima che lo faccia il sistema. Abbiamo un'ora, no, quarantacinque minuti. Non possiamo permetterci errori. Schema DTDPDA 82 integrato con il BHHP 176.”

Eseguito. Ci vorranno dieci minuti per il registro dati.”

Forse possiamo accelerare il processo con un altro schema. Aggiungi 945 P. E BHH 136.”

Sei minuti.”

Henrich iniziò a sudare freddo. Non riusciva a credere a quello che stava facendo. Stava condannando sei persone che neanche conosceva ad una vita pericolosa, movimentata, che forse, anzi sicuramente, li avrebbe uccisi.

“Frank ha il permesso di parlare?”

L'uomo anziano annuì, continuando a tenere le mani sul viso.

“Non aveva altra scelta.”
“Ah, sì?”

Se non avesse fatto nulla, sarebbe stato il computer a scegliere, in modo del tutto casuale. Sei persone sarebbero state scelte comunque.”

E che succede se ho scelto le persone sbagliate? E non le ho scelte. Abbiamo solo applicato dei parametri per diminuire la possibilità di scelta, la scelta, quella definitiva, è stata fatta dal computer. Di nuovo.”

“Lei è stato scelto dal computer."

"E ho fallito. E ora, per colpa mia, per colpa della mia ingenuità, della mia gioventù e della mia incapacità di adempiere a ciò per cui sono stato scelto, sei persone dovranno riparare i miei errori, rischiando la vita."

"Hai dato loro capacità che non avrebbero mai avuto in altre circostanze."

"Già. Ma a che prezzo?"




NOTE:

Ehm.. *entra in punta di piedi* salve!

Sono nuova in questo fandom, non mai letto romanzi di questo genere (né libri né racconti pubblicati qui), quindi si può dire che sono una novellina!

Questa storia mi è entrata in testa da tipo due anni (già, due anni), e sebbene avessi già in mente la trama, i personaggi, lo sviluppo etc., non avevo mai scritto un solo capitolo prima d'ora, perché ero spaventata da non riuscire a gestire una storia complessa, di fantascienza tra l'altro. Ma ho deciso di provarci.

Quindi spero che questo inizio vi piaccia (è stato un parto decidere come iniziare), che vi incuriosisca ad andare avanti e soprattutto spero di non perdermi lungo il percorso, cercando in ogni capitolo di tenere alto il livello della storia, per quanto mi sarà possibile. Spero di non rovinarlo. Lo spero davvero.

So che è presto trattandosi di un solo capitolo, ma fatemi sapere che ne pensate, se vi ispira, se non vi ispira, se vi incuriosisce, o se vi sembra una schifezza! Ogni commento sarà apprezzato e gradito, parola mia!

Cercherò di aggiornare il prima possibile, I promise!















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Capitolo 2
*** Preston Walker ***


CAPITOLO 2. PRESTON WALKER


“Ah, sa, abbiamo vissuto qui per ben trent'anni. Siamo arrivati qui dall'est. La terra non era mai stata colonizzata. Per 10 anni abbiamo combattuto gli indiani. Gente dura. Poi sono arrivati i fuorilegge, la siccità, abbiamo sofferto il vaiolo, sopportato inverni terribili, il colera. Ho seppellito più bambini di quanti ne ho cresciuti. Ho visto uomini forti appassire e morire, sotto quel sole spietato. Intere mandrie di bestiame ammalarsi e crepare. Ma nemmeno una volta ho messo in dubbio la mia vita qui.”

Red Dead Redemption







E fu così che lo uccisi. Un solo proiettile. Centrai il bersaglio.”


Cuore.”

“Ma quale cuore. Quella è roba da gente di città, tutti quei pagliacci che credono di essere migliori di noi solo perché vestiti come degli idioti. Parola mia, loro non sanno niente su cosa significhi essere uno di noi. Non sei un uomo se non hai un'arma e se non la sai usare. La testa, Terrence. E' quello il bersaglio per uccidere un uomo. Rod, un altro giro!”


Il proprietario del saloon si avvicinò al tavolo camminando al ritmo a cui era abituato, e sentire i scricchiolii del pavimento ogni volta che avanzava di un passo, gli dava un senso di pace, una tale pace a cui era abituato da anni, e a cui era difficile rinunciare.

Arrivato al tavolo, porse agli uomini i boccali fumanti di alcool, per poi riporre lo sguardo su l'unico dei quattro che non aveva ancora parlato.


Walker, non mi aspettavo di vederti oggi.”


Preston Walker alzò lo sguardo verso di lui, lentamente, quasi a rallentatore.

“Ah, sì?” si limitò a dire, la voce era impastata, un po' per l'alcool, un po' per il sigaro che teneva in bocca, ma d'altra parte era un uomo di poche parole, il genere d'uomo che preferiva far parlare i fatti, ma quando parlava lo faceva in modo chiaro e lento, quindi riusciva a farsi capire comunque. Da chiunque.

“Non dopo quello che è successo ieri.”

“Perché cosa è successo?” intervenì Terrence, sinceramente curioso.

“Nulla che ti riguardi.” rispose prontamente Walker, sempre lentamente, come se gli costasse fatica pronunciare ogni singola lettera e cercasse quindi di parlare il meno possibile.

“E' caduto. Svenuto, per la precisione.” fece il barista.

“Giura!”

Sua figlia è passata di qui. Sono sorpreso che ti abbia permesso di uscire.”

Preston fece un piccolo sospiro, cercando di mascherare tutta l'irritazione che si sentiva addosso.

“Johanna dovrebbe smettere di raccontare i cazzi miei in giro.”

“Si preoccupa per te.”

“Mm.. certo.” concluse Walker, mettendosi il cappello e uscendo dal saloon, per poi montare sul suo cavallo, affrettandosi a lasciare la zona.


Cosa gli stava succedendo? Fino a un paio di giorni prima, nonostante i suoi cinquantacinque anni, era pieno di energia, come lo era sempre stato per tutta la sua vita. Nel giro di una giornata visitava diversi luoghi, incontrava diverse persone, faceva cose su cose. Era sempre stato lento nei movimenti così come nel parlare, tranne quando si trattava di sparare o difendersi da un pericolo imminente, quindi faceva le cose al suo ritmo, ma le faceva, e ne era sinceramente soddisfatto.

Ma poi? Poi era svenuto. Svenuto. Lui. Lui che aveva affrontato sparatorie, banditi, che gestiva un ranch. E perché poi? Non lo sapeva nemmeno lui. Il caldo? La stanchezza? Il clima era sempre stato quello e la stanchezza era fuori discussione, non aveva fatto praticamente nulla per stancarsi quel giorno. Ricordò il viso preoccupato di sua figlia e quello del medico, che concluse di non avere idea del perché fosse svenuto, azzardò solo ipotesi. Ipotesi inaccettabili per Preston.


Si era alzato dopo ore. Stordito. Con il mal di testa. Non era estraneo a queste sensazioni, d'altronde beveva spesso e questi erano tutti effetti di una sbornia colossale, e di quelle lui ne aveva avute tante. Ma non aveva bevuto. Né fumato, nonostante lo facesse molto spesso.

Così era andato al saloon alla ricerca di distrazioni, di qualcosa da fare, qualcos'altro a cui pensare, ma le chiacchiere dei suoi vecchi amici erano sembrate così lontane, e il dolore alla testa, che non se n'era mai andato e che non aveva fatto altro che aumentare, diventava sempre più forte, così forte che gli era impossibile pensare ad altro.

Iniziò a grattarsi la fronte, sentì sempre più caldo, così tanto che gli sembrava di avere dietro di sé il Sole che gli dava la caccia, alla sua destra, una zona d'ombra. Bene. Mosse le redini per cambiare strada al cavallo, ma ciò che vide lo spaventò ancora di più.

Vide sé stesso. Il suo volto. Vide i suoi tratti duri, i suoi piccoli occhi blu, i suoi baffi che si stavano ingrigendo poco a poco, i suoi capelli scuri e corti, che si nascondevano sotto il cappello. Com'era possibile? Non c'era un fiume, uno specchio, o qualcosa che giustificasse una cosa del genere. In più, il suo cavallo non si vedeva nell'immagine, che si faceva sempre più sfuocata. Un' allucinazione? Forse.

“Arh. Devo aver bevuto più del previsto.”


Si mise una mano sulla testa, di nuovo, voleva solo che il dolore si fermasse. Chiuse gli occhi. Li riaprì. Ripeté questo processo una decina di volte, e dopo l'ennesima volta in cui aprì gli occhi, vide di nuovo la sua immagine, ma non solo. Intorno ad essa, vide delle ombre, ombre di altre persone, altre cinque persone. Era impossibile capire chi fossero, dato che si vedevano solo i contorni. Li conosceva? Non li conosceva? A primo impatto gli sembrava di non averle mai viste, eppure sentiva che erano vicino a lui, una parte di lui, parte del suo corpo.

Poi si sentì ancora più stordito. La vista iniziò a calare, lo percepì dal fatto che vide, o gli sembrò di vedere, quelle ombre unirsi al riflesso del suo viso.

Ricordò un rumore, era il suo cavallo che nitriva, e lui lo vedeva dal basso. Era caduto? Probabile. Poi, l'oblio.





                                                                                               . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .








Quando Walker capì di essere cosciente, ne fu molto sorpreso. Conosceva persone che erano morte per molto meno di uno svenimento e un po' di dolore alla testa, e quando era svenuto per la seconda volta in due giorni, cadendo dal suo cavallo e nel mezzo del nulla lontano sia dal paese che aveva lasciato sia da quello verso cui era diretto, pensò seriamente che la sua fine fosse giunta.

Però sentiva i suoi arti perfettamente funzionanti e il dolore alla testa svanito, come se fosse stato solo un lontano ricordo. Effettivamente, si sentiva addosso un'energia tutta nuova. Non si sentiva così bene, fisicamente almeno, da anni.

L'unica cosa che lo preoccupava era la certezza di non trovarsi più nel punto in cui era svenuto. Non era nemmeno all'aperto. Non sentiva il caldo dell'aria, né il rumore di animali selvatici e cavalli. Niente uccelli. Niente piante che si muovevano aiutate dal vento del tardo pomeriggio. Niente. Tutto quello che sentiva era un assoluto silenzio, un silenzio quasi inquietante, e sotto di sé, una superficie. Un pavimento probabilmente, ma di certo non era legno. Doveva essere fatto di un materiale che non conosceva. Continuando a tenere gli occhi chiusi, continuò a tastarlo con le mani, fino a quando un'altra voce lo fece sussultare.

“E' marmo.”


Una voce maschile, apatica, ma calma e apparentemente serena. Sembrava la voce di un insegnante mentre spiega qualcosa ai giovani studenti con pazienza.

Walker si decise ad aprire gli occhi, e dovette inspirare un paio di volte per focalizzare il luogo in cui si trovava. Era effettivamente a terra, su un pavimento bianco e liscio, le pareti della stanza bianche, anche il soffitto bianco. Se non fosse stato per il senso del tatto che aveva usato per toccare il pavimento, avrebbe pensato ad un sogno, ma per quanto sembrasse reale, c'era ancora qualcosa di strano, di ambiguo, non solo in quella stanza ma in quell'uomo, ed era presto per scartare l'ipotesi di non essere vivo. Poteva essere morto. Poteva trovarsi al.. Purgatorio? Paradiso? Inferno? Quella situazione non gli piaceva per niente. Avrebbe preferito essere ancora incosciente. Voleva risposte.

Guardò di nuovo l'uomo che in quel momento gli dava la schiena, e ne approfittò. Cercò la fondina con qualche riluttanza, ma quando constatò di averla ancora, sospirò sollevato ed estrasse la sua pistola, per puntarla verso l'uomo, il quale non si era nemmeno accorto che si fosse alzato.

“Hai dieci secondi per dirmi chi cazzo sei e che posto è questo, altrimenti, giuro su Dio, ti faccio saltare il cervello.”


L'uomo voltò leggermente la testa, e scoppiò a ridere, una risata lontana e spontanea, come se volesse prenderlo in giro.

Walker si infastidì ancora di più.

“Guarda che non scherzo! Non è mia abitudine uccidere un uomo disarmato, ma lo farò se non mi dai le risposte che cerco. E guardami quando ti parlo, cazzo!”


L'uomo si voltò, smise di ridere, ma era ancora compiaciuto. Fece un piccolo passo verso Walker, tenendo le mani alzate.

“D'accordo. Spara.”


Come?”


“Non è quello che volevi fare? Sparami. Ricorda, il cuore sta qui, quindi.. ah non aspetta.. volevi spararmi al cervello, vero? Spara dove vuoi, non ho nulla da nascondere.”


Walker non sapeva davvero cosa pensare, mai si sarebbe aspettato una simile reazione, quasi senza accorgersene abbassò la pistola, ma quando vide l'uomo avvicinarsi nuovamente a lui, gli sparò d'istinto. Cuore.

Ma quell'uomo se ne stava ancora in piedi. I suoi occhi scuri erano ancora aperti e divertiti, i suoi abiti, bianchi ed insoliti, che Walker non aveva mai visto, erano puliti e asciutti, non c'era neanche una goccia di sangue. E l'uomo, naturalmente, era ancora in piedi.

Era come se avesse sparato al vuoto.

“Tu non sei reale.”


L'uomo, o qualunque cosa fosse, si avvicinò nuovamente a Walker fino ad arrivargli vicino, e così poté vederlo meglio. Aveva chiaramente l'aspetto di un uomo normale di massimo trent'anni, capelli scuri, occhi scuri, la pelle bianca quasi quanto le pareti e gli abiti. Eppure, qualcosa in lui non quadrava. Tutta quella situazione era poco chiara.

“Sì e no. Lo sono stato un tempo, e si può dire che lo sono ancora in un certo senso, ma ora, ciò che vedi davanti a te, non è un uomo. Ma non devi avere paura di me.”

“Chi ha detto che ho paura?”


Quell'essere sorrise, quasi divertito.

“Non volevo dire questo.”

“E allora che cosa sei? Basta parlare per enigmi! Voglio la verità!”


Mi sarebbe impossibile spiegarti cosa sono senza usare enigmi. Ma non è di me che ti devi curare. Io sono solo uno strumento. Uno strumento per aiutarti in questo tuo viaggio. E la verità.. la verità è che quello che ti aspetta, non è facile.”

“Ti ho detto di smetterla di fare discorsi inutili. Vuoi aiutarmi? Inizia con il parlare chiaramente, come i veri uomini fanno. Se sei mai stato un uomo una volta, dovresti saperlo.”

“Immagino sia inutile tergiversare. Prima o poi dovrai conoscere la verità. Ogni volta cerco di raggiungere la verità passo dopo passo pensando che sia meglio, ma forse dovrei smetterla e arrivare subito al nocciolo della questione.”

“Lieto di constatare che parliamo la stessa lingua. Ora, sputa il rospo.”

“Il tuo nome è Preston Clayton Walker. Sei nato il 12 febbraio 1852 a Dallas, Texas. Hai passato i primi anni della tua vita in orfanotrofio, e all'età di sei anni sei stato adottato da Theodore e Annelyse Walker di Austin, che gestivano un ranch, ranch che è diventato tuo alla loro morte, nel 1873, quando avevi ventuno anni. L'anno seguente hai sposato Bernice Hopewell. Avete avuto sette figli, e quattro di loro sono morti di malattie prima di diventare adulti. Dei tre restanti uno è morto in un duello, un altro si è trasferito, e l'ultima rimasta gestisce il ranch che hai ereditato insieme al marito e ai figli. Tua moglie Bernice Hopewell è morta nel 1900 a causa di una tempesta nel centro di Austin.”


Walker non si era mai sentito così nudo in vita sua. Come faceva quel tizio a sapere tutte quelle cose? Nessuno sapeva che era stato adottato. Neanche sua moglie, e nemmeno la figlia Johanna, e tanto meno i suoi compagni di avventure. Quello sarebbe stato un buon momento per puntargli la pistola contro, ma si ricordò subito che non sarebbe servito a nulla.

“Ti stai chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose, vero?” disse, come se gli avesse letto nella mente.

“Mi hai spiato. Non so come, ma l'hai fatto. Non c'è altra spiegazione.”


In effetti una spiegazione ci sarebbe.” fece, indicando un oggetto, sempre se era un oggetto, che Walker non aveva mai visto.

Era color grigio, stava su un tavolo, e l'uomo non poteva fare altro che fissarlo cercando di capire cosa fosse, ma non somigliava neanche lontanamente a qualcosa che avesse già visto. Era una specie di grande cubo, con un contorno chiaro, mentre all'interno era nero. Davanti a lui, sempre sul tavolo, un oggetto dalla forma rettangolare con sopra numeri, lettere e simboli che Walker non conosceva. I due oggetti, erano collegati da dei fili color grigio scuro, come lo era un terzo oggetto alla loro destra, più piccolo e nero, anche lui collegato ad un filo.

“Che razza di diavoleria è mai questa.”


Si chiama computer. E l'unico motivo per cui non lo conosci è che non è ancora stato inventato.”


Questa volta fu Walker a soffocare una risata.

“Stai dicendo che quel coso viene dal futuro? Che TU vieni dal futuro?!? Non me la bevo.”

Sarebbe stato strano il contrario. Vieni. Ti dimostro che ciò che dico è vero.” fece l'uomo.

Walker era ancora parecchio scettico, e soprattutto era riluttante ad avvicinarsi a quello strano aggeggio che non gli piaceva per niente quindi se ne stava a debita distanza, ma al tempo stesso era curioso così cercava di allungare il viso per vedere cosa stava succedendo.

Vide l'uomo, o essere, o qualunque cosa fosse, inchinarsi su di esso quando sentì all'improvviso un rumore. Spaventato, tirò fuori la pistola puntandola contro quel aggeggio, dal quale, guarda caso, era arrivato il suono.

“Non è niente! Si sta solo accedendo!”


Accedendo cosa? Dei proiettili?!? Se ti aspetti che me ne stia qui aspettando di essere ucciso da una macchina, ti sbagli di grosso.”


Ecco, vieni. Guarda tu stesso. Leggi. Sai.. sai leggere, vero?”


Walker ignorò la domanda, e si avvicinò con la dovuta cautela. La parte centrale del cubo non era più nera, anzi, aveva una luce accecante, il colore bianco, e.. c'era qualcosa scritto.

Ci mise un po' a capire di cosa si trattasse dato che non leggeva da quando era bambino, ma non gli ci volle molto per capire che si trattava di lui. Era un documento su di lui. C'era tutto. Data di nascita, la sua vita, i nomi dei suoi amici, dei membri della sua famiglia, cosa aveva fatto in un determinato giorno. C'era persino una sua immagine. Il suo volto. Lo stesso volto che aveva visto vicino alle altre cinque ombre prima di cadere da cavallo e svenire.

“Il mal di testa.. lo svenimento.. sei stato tu! Tu me l'hai causato!”

“Mi dispiace, ma era inevitabile.”


Che cosa cazzo mi hai fatto?!?”


Sei stato scelto.”

“PER COSA?!?”


Questo mondo è infettato da delle.. cose. Esseri geneticamente modificati. La loro origine è incerta, non si sa cosa siano esattamente e da dove arrivino. Le prime notizie che ho rintracciato su di loro è che sono stati trovati da degli scienziati, e usati per degli esperimenti in alcuni laboratori del Governo. A causa di questi esperimenti devono aver assunto capacità che gli hanno permesso di distruggere i laboratori e fuggire. Possono assumere qualsiasi aspetto, l'aspetto di un uomo, un animale, una pianta, possono assumere anche l'aspetto di qualcosa di astratto, come un sentimento, una paura, una sensazione, uno stato d'animo. E possono viaggiare nel tempo. Se non vengono fermati, possono alterare la storia dell'umanità, in modo irreparabile. Sono anche molto intelligenti, potrebbero benissimo creare un virus e generare un'epidemia senza precedenti.”

“Bella storia. Dovresti scriverla. Verrebbe fuori un libro molto venduto.”


E' la verità, Walker. E' per questo che sei qui. Tu devi fermarli.”


Preston scoppiò a ridere, come non rideva da tempo.

“Io? E cosa dovrei fare? Cosa pensi che possa fare? Scienziati? Esseri che che cambiano aspetto? Viaggi nel tempo? Io ho solo un cavallo, una pistola e un ranch. Hai sbagliato uomo. Ora vedi di riportarmi a casa.”


Non sei solo.”


No, certo che no! Ci sei tu e quel dannato aggeggio!” esclamò Walker quasi divertito, indicando il computer.


“Cinque.”


Cinque? Cinque cosa?”


Non sei solo in tutto questo. Cinque persone ti aiuteranno. Cinque persone che sono state scelte come te. Che in questo momento stanno vivendo quello che stai vivendo tu. Io non sono reale, Walker. Sono un'immagine. Un'immagine creata nella tua testa che scomparirà tra poco. In questo momento, mentre stiamo parlando, una persona reale sta muovendo i fili che mi permettono di stare qui con te. In questo momento io sto dicendo le stesse cose, anche alle altre cinque persone.”

“Ma cosa cazzo stai dicendo?!? Chi sono queste cinque persone? E i fili di cosa? Dove sono io? Che mi stai facendo?”


Ti stiamo dando ciò che ti serve per combattere quegli esseri. A te e agli altri cinque. Sì, hai visto le loro ombre prima di cadere da cavallo. Le vedrai sempre. Ormai loro sono parte di te, e tu sei parte di loro. Siete legati da qualcosa che nulla potrà mai spezzare. Il vostro futuro, il vostro destino, è legato l'uno all'altro. Loro vengono da luoghi ed epoche lontani e diversi, e sarà questa la vostra più grande forza. Tu hai cercato di spararmi quando mi hai visto, una reazione normale suppongo. Anche uno di loro l'ha fatto, sai? Due volte. Sono sicuro che andrete molto d'accordo.” la voce dell'essere era sempre più lontana, più bassa, più difficile da comprendere, come se stesse scomparendo poco a poco.

“Non capisco una sola parola di quello che stai dicendo. Cosa ci stai dando?”


Non mi aspetto che tu capisca. Come potresti? Ci vuole tempo per queste cose. Ti sto solo informando. Sarai tu a constatare la veridicità di questi fatti, una volta sveglio. Il nostro tempo è quasi scaduto. Presto avrai le risposte che stai cercando.” sussurrò quasi, e la sua immagine iniziò a scomparire.

“Aspetta! Perché? Perché noi?”

Perché siete anime spezzate.”





NOTE:

SALVE DI NUOVO, CON IL SECONDO CAPITOLO! IL PRIMO HA AVUTO TANTE VISITE QUINDI GRAZIE GRAZIE GRAZIE!

E GRAZIE A CHIUNQUE LEGGERA' ANCHE QUESTO CAPITOLO E A CHI LASCERA' UN COMMENTO, CHE SONO SEMPRE GRADITISSIMI!

SPERO VI SIA PIACIUTO E.. ALLA PROSSIMA!

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Capitolo 3
*** Giovanna Marconi ***


CAPITOLO 3. GIOVANNA MARCONI

“Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale della società.”

Rita Levi – Montalcini




Il cielo si oscurava sempre di più come in attesa di una tormenta, le nuvole si univano e arrivarono i tuoni, tanto terrificanti da aver spaventato almeno una volta ogni bambino, e tanto rumorosi da riuscire ad interrompere sogni beati riportando gli addormentati alla realtà, quasi bruscamente.

Non era il caso di Giovanna Marconi, i cui sogni erano ben lontani dall'essere beati e anzi, erano tormentati e agitati, e quando i suoi occhi azzurri si aprirono nel mezzo della notte al ritmo dei fulmini, fu quasi grata al temporale di averla scossa abbastanza da dargli la forza che gli serviva per svegliarsi.

Iniziò a respirare affannosamente sia con il naso che con la bocca, come se fosse rimasta a lungo senza la capacità di respirare, mentre i suoi occhi non la smettevano di roteare in ogni direzione. Non si muoveva, sia il viso sia gli arti erano fermi, inerti, come pietrificati dalla paura come lo era lei, e per quanto sforzasse il suo udito, gli unici rumori che sentiva provenire dal suo corpo erano i suoi sospiri e i suoi lunghi capelli biondi, le cui ciocche si muovevano delicatamente sulle sue spalle, mossi dal vento.

Non poteva assolutamente farsi prendere dal panico, soprattutto se voleva restare viva. Aveva già affrontato situazioni pericolose, più di quante una donna di ventisette anni come lei avrebbe mai dovuto avere a che fare, ma se c'era una cosa che aveva imparato nel corso della sua vita era che se voleva sopravvivere, doveva mantenersi lucida, o sarebbe stata la sua stessa paura a distruggerla.

Inizierò a muovere molto lentamente il suo corpo, aspettandosi di trovare braccia e gambe legate al letto, ma erano libere come l'aria. Nessun laccio, nessuna catena. Nulla la teneva legata al letto, e per quanto ne fosse da una parte sollevata, dall'altra ne fu confusa.

Sollevò le mani verso l'alto: le sue dita affusolate erano sporche di terra, la sua terra. Sì, ricordava. Ricordava di aver lavorato nella terra di suo marito. Giacomo era un contadino, ma era anche cagionevole di salute, e come a volte capitava, era stato male e non era in condizione di lavorare, così era andata lei al posto suo, come faceva ogni volta che lui non riusciva.

Ma a quando risaliva questo ricordo? Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare risposta. Era un ricordo recente, accaduto poco tempo fa, ma quando di preciso non lo sapeva. Due ore prima? Il giorno prima? Una settimana prima? Il mese prima?

Ricordò il sole accecante che in passato non l'aveva mai fermata ma quel giorno era stato insopportabile, il mal di testa. Le sagome. Le sagome di sei persone come dipinte sul terreno arido in cui coltivava le verdure. E poi, lo svenimento.

E poi c'era stato quello strano sogno. Quel Frank. E tutte quelle strane cose di cui parlava. Cose a cui Giovanna non credeva, cose di cui era terrorizzata, cose che un po' la incuriosivano.

Ora si ritrovava in quella stanza. Una stanza accogliente, più grande e sicuramente più curata della camera da letto sua e di Giacomo. Il pavimento era in legno, c'era qualche armadio, uno scaffale, un piccolo tavolo all'angolo e una sedia. Non era legata. Non aveva ferite, e il mal di testa era completamente sparito. Non era nemmeno nuda, perché si tastò il corpo con le mani e sentì la vecchia stoffa del suo abito. Era come se qualcuno l'avesse trovata e salvata. Eppure non era tranquilla. Per niente.

Pensò alla sua famiglia. A suo marito Giacomo. Ai loro figli, che voleva assolutamente riabbracciare. No, doveva tornare subito da loro. Sarebbe sopravvissuta per loro.


Ma quando si alzò dal letto, capì che forse non stava bene come inizialmente aveva pensato. Sentì qualcosa sulla sua testa. Non era una ferita perché non sentiva dolore, era come se ci fosse qualcosa di nuovo, qualcosa che premeva. Infilò le dita tra i capelli cercando di capire con il tatto di cosa si trattasse, e quando arrivò al punto dal quale proveniva il fastidio sentì come un puntino. Un neo. Eppure, non aveva mai avuto niente di simile.

Nel preciso momento in cui allontanò le dita dalla testa perché arrivata alla conclusione che toccandolo più a lungo non avrebbe comunque capito di cosa si trattasse, vide la porta aprirsi. Si alzò frettolosamente allontanandosi il più possibile, maledicendosi per non essere uscita quando poteva farlo.

Sulla soglia apparve un uomo anziano, ma con addosso degli abiti che Giovanna non aveva mai visto, eppure aveva uno sguardo rassicurante. Aveva i capelli bianchi e corti, era molto magro, e due occhi azzurri chiari come i suoi. In mano aveva un vassoio, con del latte su un piatto grigio. Sul viso, i segni indelebili di un trauma, una ferita, un dolore passato ancora presente dentro di lui.


Va tutto bene, non devi avere paura. Ecco..” disse, mettendo il vassoio sul tavolo e aggiunse “..avrai fame.”


La ragazza iniziò a muovere gli occhi sempre più velocemente. Prima erano sul vecchio e poi sul vassoio, poi di nuovo sul vecchio poi ancora il vassoio.


L'uomo tirò fuori un cucchiaio che teneva in quegli strambi abiti, lo infilò nel piatto e prese un sorso di latte che bevve davanti alla ragazza, per dimostrarle che non era avvelenato e che poteva fidarsi.

“Vedi? E' buono.”


Giovanna sospirò. Non si sentiva ancora al sicuro, ma l'uomo era gentile e l'unica cosa sensata che potesse fare era rispondere con la stessa gentilezza, ma senza abbassare la guardia.

“Non posso accettare.”


Perché?”


Non ho monete, o niente di valore da darle in cambio.”

“Non voglio niente. E' gratuito.”


Giovanna lo guardò sorpresa.

“Non capisco.”


L'uomo prese il piatto e lo porse alla ragazza.

“Se volessi qualcosa in cambio, non te lo offrirei gratuitamente. So che non mi conosci, che non hai motivo di fidarti di me e che sei spaventata, ma non hai nulla da temere.”

La ragazza lo fissò per un minuto abbondante, ma poi prese il piatto e iniziò a bere il latte, prima lentamente, poi tutto d'un fiato.

“Perché non vieni con me nel soggiorno? Scommetto che avrai molte domande. Cercherò di rispondere.”


Giovanna lo seguì continuando a guardarlo sospettosa come se si aspettasse da parte sua un gesto inaspettato, mentre continuava a tenere il piatto ormai vuoto.


Quando raggiunsero l'enorme stanza, Giovanna si pietrificò. Era davvero grande, quella sola stanza era il triplo più grande della sua intera casa, inoltre gli oggetti al suo interno erano pochi se paragonati alle dimensioni del soggiorno, il che dava l'idea che la stanza fosse anche più grande di quanto fosse in realtà. C'era un vecchio e polveroso tappeto, e nell'angolo c'erano una serie di grandi oggetti, alcuni mobili, altri erano oggetti che Giovanna non aveva mai visto. Uno in particolare attirò la sua attenzione: era alto ma stretto, e completamente bianco. Sul davanti c'era una specie di maniglia, simile a quelle che trovi sulle porte.

Ma fu ciò che era lungo la parete alla sua destra che la lasciò di sasso. Un lungo tavolo e un paio di sedie. Il tavolo sembrava bianco, ma era difficile esserne sicuri perché non era facile vederlo dato che sopra c'erano talmente tanti oggetti da coprirlo quasi del tutto. Gli oggetti in questione erano qualcosa che Giovanna non avrebbe mai pensato di vedere, non sapeva neanche come classificarli, come descriverli. C'erano tre grossi cubi, al centro erano neri ma nei bordi bianchi. Davanti a loro, un oggetto dalla forma rettangolare con dei simboli disegnati sopra, e il tutto era unito da dei grossi fili neri. A rendere il tutto ancora più inquietante agli occhi della donna ci pensava una grande poltrona accanto al tavolo, vuota.

L'uomo accorse subito in suo aiuto.


Non ti spaventare. E' un oggetto che da dove vieni tu non esiste ancora, è per questo che non lo conosci. Vieni, sediamoci.” disse, prendendola gentilmente per un braccio e accompagnandola verso alcuni divani al centro della stanza, che Giovanna non aveva neppure visto.

“Da dove vengo io?”

“Ti ricordi di una certa chiacchierata con.. Frank?”


La ragazza sgranò gli occhi e si alzò immediatamente, facendo cadere il piatto che andò in mille pezzi.

“E'.. è stata opera sua?”


Si può dire così, sì.”


Giovanna iniziò ad agitarsi. Tutta la calma che aveva fino a quel momento se ne andò all'istante e rimase solo la paura. Non le piaceva quella situazione. Affatto.

“Ti prego, lasciami andare. Riportami a casa. Riportami dalla mia famiglia.” fece in tono supplichevole, sperando nella bontà dell'uomo.

Voglio mio marito.
Voglio i miei figli.
Voglio la mia vita.


Gli occhi dell'anziano si fecero lucidi, forse l'aveva commosso. Forse l'avrebbe aiutata. Forse l'avrebbe portata a casa.

“Sei libera di andare, potrai farlo non appena sarai pronta.”


Non capisco.”


L'uomo andò verso un grande portone, probabilmente l'ingresso della casa. Per un momento, Giovanna pensò che l'avrebbe chiusa per impedirle di scappare, ma non lo fece. Fece l'unica cosa che non si aspettava. La aprì.

“Non sei una mia prigioniera, e questa non è la tua cella. Vuoi andare via da qui? Vai. Ma uscendo da questa porta, non riuscirai mai a tornare a casa. E se ti ricordi di Frank, credo che una parte di te sappia già il perché.”

Frank.
Creature da combattere.
Viaggi nel tempo.
Sei persone.
Anime spezzate.

Da quando era cominciata quella storia assurda, per la prima volta, Giovanna iniziò seriamente a considerare che fosse tutto reale. Che ciò di cui aveva parlato Frank era vero. Non era mai stata una persona particolarmente credulona, ma quella era l'unica spiegazione possibile. E se davvero aveva viaggiato nel tempo, quell'uomo aveva ragione. Non era varcando quella porta che sarebbe tornata la casa. E l'ultima cosa che voleva era perdersi in un luogo e tempo lontano da quello che conosceva.

Si sentiva inconsciamente stupida a pensare davvero una cosa del genere, ma quella situazione era troppo assurda e poteva avere solo una spiegazione altrettanto assurda.

“Dove siamo?”

“Dusseldorf, Germania. Sai dov'è la Germania?”


La donna scosse la testa.

“E' sopra l'Italia. A Nord.”

“E dov'è l'Italia?”


Questa volta era il turno dell'uomo ad essere sorpreso, ma poi rifletté un momento e si colpì la fronte con la mano destra.

Cazzo Henrich, questi sono errori da principianti!
Non fai altro che confonderla!
Come ho fatto a dimenticarmi che nel 1817 non c'era nessuna Italia?
E' lei viene dal 1817!
E' naturale che non capisca!
Stupido stupido stupido!
Pensa Henrich, pensa!
Com'è la sua Italia?
Eppure avevo cercato informazioni al riguardo mentre li aspettavo!
Ah, già! Il Congresso di Vienna!
Lei viene dalla zona Nord, Piemonte se non sbaglio, quindi era nel..

“Regno di Sardegna?”

Giovanna annuì con la testa.

“Devi perdonarmi. Il fatto è che, un giorno, il Regno di Sardegna e altri territori vicini si uniranno e diventeranno l'Italia. Mi sono confuso per questo.”


E finiranno tutte le guerre?”

Ehm.. No.
Ne inizieranno di peggiori.
Che faccio?
Non voglio illuderla, ma non voglio neanche farla stare male per un futuro che non vivrà nemmeno.

“Non divaghiamo.. comunque sì, questa è la Germania. Anno 2086.”


La donna dovette sedersi.

“Due.. duemilaottantasei?”


Ora sai perché ci sono così tanti oggetti che non conosci. Possiamo fare una pausa, se non te la senti..”


No. Voglio sapere. Come sono arrivata qui? Ho.. ho viaggiato nel tempo?”


Ti ho portato io qui. Per salvarti. Ricordi.. ricordi un forte mal di testa? E un successivo svenimento? E' successo perché nel tuo corpo è stato inserito un fluido che altera le tue cellule, e che ti dà questa capacità. La capacità di viaggiare nel tempo. Essendo una cosa che comporta grossi cambiamenti e che va ad influire sul mondo passato, presente e futuro, il tuo sistema immunitario non ha retto lo sforzo, ecco perché il mal di testa e lo svenimento.”


La donna ascoltava l'uomo con attenzione, mentre muoveva ovunque le braccia per il nervosismo.

“Una volta svenuta, avresti dormito per tre giorni, e durante questo tempo il tuo sistema immunitario si sarebbe adattato al fluido. Una volta sveglia, avresti già potuto viaggiare nel tempo, ma non sapevi come, ed era un rischio troppo grande. E' come mettere un bambino che non sa nuotare in una piscina. Finirà con l'annegare. Avresti potuto finire per caso in un epoca e in un luogo che non conoscevi, magari pericoloso. Avesti potuto essere arrestata perché senza documenti. Rinchiusa in un manicomio per i tuoi abiti che rispecchiano la tua epoca e non quella in cui ti ritrovi. Per questo sei qui. Io aiuterò te e gli altri cinque. Vi insegnerò come viaggiare nel tempo e vi spiegherò cosa dovete evitare per non alterare l'umanità.”

Tutto iniziava ad avere un senso, e Giovanna ammise a sé stessa che ciò che diceva l'uomo era sensato, per quanto potesse essere sensato viaggiare nel tempo, e che sembrava davvero che volesse aiutarla, ma c'erano ancora tanti vuoti, e la donna voleva riempirli.

Stava per fare un'altra domanda, ma si sentì un suono provenire dal tavolo con sopra tutti quegli aggeggi strani. Giovanna sobbalzò, ma l'uomo la rassicurò immediatamente.

“Stai tranquilla, non è niente! Questo suono significa che un altro dei tuoi compagni si sta per svegliare. Meglio che vada ad accoglierlo come ho fatto con te, vorrei evitare che si spaventi e scappi dalla finestra. A breve si sveglieranno tutti uno dopo l'altro, quindi non spaventarti se senti ancora questo rumore.” fece l'uomo, andando verso i mobili e aprendo quell'oggetto bianco con la maniglia e prendendo dal suo interno quello che sembrava del cibo, per poi metterlo sul vassoio e dirigersi verso una stanza, ma la donna gli andò incontro.

“Aspettate! Io ho altre domande!”


Quando saranno tutti svegli, risponderò ad ogni vostra domanda, così non dovrò ripetermi per certe cose. Farò con ciascuno di loro quello che ho fatto con te, e quando sarete tutti insieme, riprenderemo il discorso.”

“E io cosa faccio?”

“Quello che vuoi. Aspetta qui nel divano, oppure se hai ancora fame vai in cucina. Presente quel grosso oggetto bianco con la maniglia da cui ho preso il cibo? Si chiama frigorifero. Se lo apri, ogni cosa che troverai dentro è cibo. Serviti pure. Magari evita di avvicinarti al tavolo dal quale provengono i rumori, ed evita anche di uscire di casa. Una donna vestita come te non passerebbe inosservata.”


La donna annuì, e si sedette nuovamente nel divano.

“Comunque il mio nome è Henrich. Henrich Bauer.”

“Giovanna Marconi.”


Lo so.” fece Henrich con un mezzo sorriso, salutandola con il capo e dirigendosi verso uno dei compagni della ragazza.




Ok, tanto per cominciare mi scuso per l'enorme ritardo con cui aggiorno. Avrei voluto farlo prima ma sono stata impegnatissima, e inoltre questi primi capitoli sono piuttosto difficili da scrivere perché sono quasi un "prologo" alla storia vera e propria, quindi confido che i prossimi aggiornamenti saranno più rapidi.


Ci tengo a ringraziare tantissimo chi ha letto i primi due capitoli (e chi leggerà anche questo) e un grazie speciale a sissyaot01 per la recensione, spero apprezzerai anche questo capitolo!


E niente, ci risentiamo al prossimo capitolo (che spero non tarderà ad arrivare) e ricordate, ogni recensione sarà molto gradita! A presto.




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Capitolo 4
*** Colton Harrington ***


CAPITOLO 4. COLTON HARRINGTON

“Nei marine c'è una gerarchia da rispettare. Anche lì si commettono errori, ma si possono gestire. Sai per cosa combatti e tutti fanno parte della stessa squadra. Lottare contro la corruzione, invece, è come inseguire le ombre. Non sai mai chi è sul libro paga dei cattivi, magari è il tuo partner, oppure il comandante di turno.”

                                                                                                                                                                      (L.A. Noire)




Non gli piaceva quel posto.

Non gli piaceva quella situazione.

Non gli piaceva quel Bauer.

Era troppo misterioso, sapeva parlare solo per enigmi, parlava e parlava senza mai rispondere a nulla, senza mai dire qualcosa di concreto. E se c'era una cosa che aveva imparato da quando era entrato in polizia era che non c'era mai da fidarsi delle persone che non rispondevano direttamente ad una domanda.

Aveva una vita perfetta. Prestava servizio nel Dipartimento di Polizia di Los Angeles come agente anche se ancora per poco dato che era ad un passo dalla promozione a Detective e come ciliegina sulla torta, aveva da qualche mese una relazione sentimentale con una ragazza che riteneva essere quella giusta, viste le loro molteplici affinità e tutte le cose che avevano in comune.

Insomma, la sua vita non poteva andar meglio.

E ora questo. Un incubo dal quale desiderava svegliarsi ad ogni costo. Viaggi nel tempo? Ma chi li ha mai voluti?!? Lui stava benissimo nel suo mondo, nella sua città, nel suo ambiente, non era minimamente interessato a viaggiare nel tempo e nello spazio. Per combattere delle creature disgustose poi? Ma perché? Chi glielo faceva fare? Assolutamente no.

E se questo vecchio pensa seriamente di convincermi con il senso di colpa che solo io posso e stronzate varie sull'essere scelti, si sbaglia di grosso. Io rischio la vita tutti i giorni inseguendo ladri, delinquenti e assassini per servire e proteggere la popolazione di Los Angeles, e poi non sono sopravvissuto alla guerra e tornato nel mio paese per finire in una farsa assurda. Con questi tizi poi? Sembrano usciti da un circo!

“Bene, ci siamo tutti. Io ehm, ecco,.. scusate ma è tutto nuovo anche per me, ma cercherò di essere il più chiaro possibile..”

Tu chiaro? La vedo dura.

“.. immagino che siate tutti un po' imbarazzati..”

Puoi giurarci.

“.. è normale all'inizio, ma penso che le cose cambieranno..”

Tu vivi nel mondo dei sogni.

“.. ma cercate di andare d'accordo. E' questa la parte più difficile. So che non sarà semplice per nessuno di voi. Siete diversi per mentalità, epoca, nazionalità. Ma sono certo che con il tempo, e con un po' di tolleranza, riuscirete a trovare un punto in comune. Il mio consiglio è di allargare i vostri orizzonti, di cercare di capire l'altro prima di giudicare..”

Quello che capisco io è che questi li voglio ben lontani da me.

“Ci tengo subito a spiegarvi che le diverse lingue che parlate non saranno un ostacolo, non per la vostra comunicazione, almeno. Vi ho messo un microchip nel corpo che..”

TU COSA? Che hai fatto?!? Che mi hai messo dentro? E dove? Come hai osato? In un ospedale psichiatrico devono metterti, brutto bastardo.

“.. non agitatevi, vi prego. E' minuscolo, ed è talmente piccolo che è del tutto innocuo per il vostro corpo. E' come un piccolo neo. Ne ho uno anch'io, sapete? Non vi accorgerete neanche di averlo. Quel microchip vi permettere di comprendere, e farvi comprendere, in ogni lingua del mondo. Io sono tedesco..”

Tedesco? Hitler? Perfetto. Davvero magnifico.

“.. e sto parlando nella mia lingua, eppure voi riuscite a comprendermi benissimo. Grazie a quel microchip, ogni volta che qualcuno vi parlerà in qualunque lingua voi capirete, perché qualunque cosa dica, voi la sentirete nella vostra lingua. E quando sarete voi a parlare con qualcuno di un'altra nazionalità, avviene la stessa cosa. La persona che avrete davanti sentirà cosa direte nella sua lingua. A questo serve il microchip. E' una specie di traduttore personale.”

Quindi non ho scusanti. Devo per forza socializzare con questi plebei.

“Torno subito, devo controllare una cosa. Voi intanto fate due chiacchiere.. parlate.. cercate di fare amicizia..”


Cos'è una battuta? Hai sul serio detto “fare amicizia”? Scherzi, vero?

Henrich lasciò il soggiorno per andare in un'altra stanza, e per la prima volta dopo tanto tempo, Colton si sentì veramente a disagio.

Aveva ucciso, vissuto per una ragionevole quantità di tempo con la possibilità di morire da un momento all'altro, aveva visto cadaveri in ogni stato, cadaveri di suoi compagni in guerra, cadaveri di americani uccisi da un assassino che lui avrebbe dovuto trovare in patria, eppure nulla, assolutamente nulla di quello che aveva passato, poteva essere equiparato all'imbarazzo che provava in questo momento, almeno a quanto ricordasse.

Colton Harrington aveva molti difetti: era serio, sarcastico, superficiale come pochi, e sempre pronto a puntare il dito contro chi non rispecchiava i suoi altissimi standard, ma era sempre sicuro di sé. Sicuro su cosa fare, cosa dire, in ogni situazione. Eppure ora, era disorientato. Iniziò a guardarsi i piedi, le gambe, le dita delle mani, l'uniforme da agente che ancora indossava. Ogni cosa gli sembrava più interessante.


Il tempo scorreva lentamente, quasi a rallentatore, cinque di loro iniziarono a guardarsi intorno, ansiosi di rivedere Henrich per porre fine a quella situazione imbarazzante, ma lui non arrivava e il disagio ormai aveva raggiunto livelli impressionanti.

Solo uno di loro era rimasto come.. indifferente? Colton pensò fosse una motivazione valida per vederci chiaro, così alzò lo sguardo e guardò il diretto interessato.

Si trattava di un uomo alto e magro di massimo trent'anni, il viso era come sciupato, segnato da qualcosa di indelebile che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. Aveva un accenno di barba appena visibile color oro, esattamente come i capelli corti, rigorosamente pettinati, quasi come una madre pettina i capelli del figlio ancora piccolo prima che esca per andare a scuola. Indossava una camicia a righe chiusa fino all'ultimo bottone a mezze maniche, dei comunissimi jeans accompagnati da una comunissima cintura, delle scarpe ormai troppo vecchie e un orologio al polso sinistro.

Era indubbiamente un uomo attraente, forse il più bello dei quattro riuniti in quella stanza, e dai vestiti che indossava, Colton ipotizzò che doveva provenire da un'epoca simile alla sua, ma comunque non si sentì affatto rincuorato.

C'era qualcosa in quell'uomo.. qualcosa di strano. Qualcosa di inquietante. Era come se gli mancasse una parte. Il suo sguardo era come perso nel vuoto, come se nulla gli stesse accadendo, come se non valesse la pena prestare attenzione alla sua situazione. Gli occhi chiari erano come smarriti, stanchi, sul punto di chiudersi, ma la cosa più inquietante in assoluto era la sua espressione. Vuota. Smarrita, come gli occhi e il suo sguardo. Come se non avesse un anima. Come se fosse una macchina. Come se non avesse niente dentro. Niente sentimenti, emozioni. Un guscio vuoto.

Non mi piace affatto questo tizio, istinto di poliziotto. Altro che farci amicizia, questo è da tenere d'occhio.

Vicino a lui, c'era una donna. Una giovane donna bionda e con gli occhi chiari, molto magra. E bella. Proprio il tipo di donna che piaceva a Colton. Bionda. Occhi chiari. Magra. Era proprio il suo tipo di donna. Ma l'idillio non durò a lungo per il poliziotto: non appena si rese conto di quanto fosse sporco e rovinato il vestito che indossava, così come le dita, l'interesse romantico che nutriva per lei sparì in un colpo solo.
Ma quando è stata l'ultima volta che si è fatta un bagno? Deve essere proprio una poveraccia. Peccato, era così attraente.

Vicino a lei c'era un uomo che sembrava uscito da uno di quei film Western che a volte Colton aveva visto al cinema con la sua ragazza. Un uomo che sprizzava Far West da ogni parte, dai baffi scuri ai piccoli occhi azzurri, dal cappello nero rovinato alle mani segnate dal lavoro. L'unica differenza era che i protagonisti dei film erano giovani e belli, mentre l'uomo che aveva davanti sembrava più l'ubriacone che veniva ucciso subito.

Di bene in meglio. Riconfermo ciò che pensai prima. Un circo. E della peggior specie.

Accanto al cowboy c'era un uomo sulla quarantina piuttosto pallido, alto e magro, dall'aspetto regale e con indosso quella che doveva essere un uniforme di qualche tipo, anche quella all'apparenza regale, lasciando intendere che avesse un ruolo importante. Forse un ammiraglio? Un capitano? Un commodoro? Gli occhi erano piccoli e color verde scuro, e il colore dei capelli era ignoto, dato che indossava un parrucca bianca, che sembrava quasi reale, ma quell'uomo era troppo giovane per avere i capelli così bianchi, quindi era impossibile.

Da qualsiasi paese venisse, doveva vivere in un palazzo, un castello, un ambiente nobile a cui doveva essere abituato dalla nascita, a giudicare dalle mani bianche e lisce come se non avesse mai fatto un lavoro manuale in vita sua, e un ulteriore conferma arrivò quando Colton vide come guardava la bella donna bionda. Con disprezzo, forse per essere seduto vicino a lei, perché la riteneva inferiore, quasi una subordinata, perché se aveva avuto a che fare con persone così, dovevano per forza essere sue subordinate che gli dovevano rispetto, e che al minimo errore sarebbero state buttate fuori.

Ecco, con questo forse potrei andare d'accordo. E' un nobile di sicuro. Composto, pulito, e forse ha un minimo di cervello.

Spostò lo sguardo per osservare l'ultimo, ma quando lo fece, non riuscì a trattenere un espressione disgustata. Davanti a lui c'era un ragazzo.. o una ragazza? Non riusciva a capirlo. Non sapeva nemmeno se fosse umano. O umana. Certo ne aveva la sembianze, ma tutto il resto era sbagliato, tutto il resto era fuori posto, e Colton si sentì come sull'orlo di una crisi.

I suoi capelli scuri che arrivavano fino alle spalle erano un autentico disastro. Sporchi, spettinati, pieni di nodi. Orribili. Aveva due enormi occhi scuri, dello stesso colore dei capelli, nascosti dietro un paio di vecchi e grandi occhiali, così come le sopracciglia a gabbiano, per niente curate e non abbastanza sottili.

Così come la zona tra il naso e la bocca, piena di peli orribili e assolutamente inguardabili, lì da chissà quanto tempo. Il viso, seppur molto angelico e dai lineamenti dolci, era rovinato un po' per quei peli che avrebbero dovuto essere rimossi e un po' anche per qualche brufolo, sparso qua e là, e la totale mancanza di trucco non aiutava certamente le cose.

Le labbra erano screpolate e..

Oddio! Cos'è quello? Un taglio? Ma è enorme. Questa c'ha un enorme taglio su entrambe le labbra. Che schifo. Orrore!

Cercò di guardare altrove, freneticamente, quando ritornò sui suoi occhi, che sembravano così profondi da rendere la presenza degli occhiali del tutto irrilevante. Occhi pieni di rabbia, freddi, gelidi. Pieni di rancore represso che non voleva più essere tale, una furia che stava per esplodere da un momento all'altro. Ed erano puntati su di lui.


Ma che ha da guardare questa? Sono io che dovrei guardarla male, non lei a me. Ma ha visto come è conciata?

E lo fece. Continuò a guardarla. Male. Con giudizio. Con disgusto. Persino i suoi abiti erano fuori luogo. Una maglietta nera con una specie di logo, che non riusciva a leggere. Dei jeans e delle scarpe. Era chiaramente una donna, ma non ne aveva affatto l'aspetto. Non era femminile, non era bella, non era curata, e invece che nascondere i suoi difetti come ogni donna rispettabile, lei li mostrava quasi con orgoglio. Quale donna sana di mente si comporterebbe così?

Lei fece altrettanto. Lo aveva guardato male dal momento in cui si era seduto per ragioni a lui ignote, ma in parte il poliziotto ne era soddisfatto. Soddisfatto che la loro antipatia fosse reciproca, così non si sarebbe trattenuto nei loro litigi futuri, e il primo era dietro l'angolo, quasi conclamato, ma qualcuno parlò, impedendolo.


Dovrebbe essere più femminile, signorina. Non troverà mai marito se persiste nel mantenere un aspetto tanto lascivo.”

Era stato il nobile a parlare, il primo dei sei a parlare. La sua voce era seria e fredda, ma non c'era cattiveria in essa. Guardò la ragazza con gli occhiali, aspettandosi una risposta. Lei lo guardava, cercando di trattenersi dal fare un piccolo sorriso. Nessuno riusciva a capire se fosse arrabbiata o divertita.

“Fortuna che me l'hai detto, è proprio lo scopo della mia vita trovare marito.”


Il nobile annuì leggermente con la testa.

“Lieto di essere stato d'aiuto.”


La ragazza si mise una mano davanti alla bocca forse per nascondere un sorriso, mentre il biondo che appariva assente per la prima volta si voltò verso il gruppo, come se fosse finalmente interessato a cosa stesse succedendo.

“Da dove vieni tu non esiste il sarcasmo, bigodino?” bofonchiò il cowboy, lanciando uno sguardo d'intesa e ammirazione alla ragazza.


Non desiderate trovare marito?”

La ragazza fece finta di pensarci, e dopo qualche secondo rispose con un secco “No”.


Ma se rimarrete nubile, diverrete un peso per la vostra famiglia.” continuò il nobile, non riuscendo a concepire come una donna potesse avere un altro scopo di vita se non essere moglie e madre.

“Non ti preoccupare di questo. Lo sono già. E posso assicurarti che la cosa non cambierà.”


Lascia perdere..” mormorò Colton, rivolgendosi al nobile, per poi voltare lo sguardo di nuovo verso la ragazza “.. anche se volesse un marito, non lo troverebbe. I capelli potrebbero anche essere aggiustati, ma quell'orrore sulla labbra? Per non parlare di quei disgustosi peli intorno alla bocca. Una scimmia che si veste d'oro, rimane comunque una scimmia.”


Quell'atmosfera colloquiale e rilassata che poco a poco si stava creando, sparì di colpo. La ragazza guardava Colton con occhi nuovamente gelidi, furiosi, mentre il poliziotto neanche la considerava più. Gli altri quattro puntarono gli occhi su loro due, sbigottiti, guardando prima l'uno e poi l'altra, un po' dispiaciuti per la ragazza, e un po' curiosi di vedere la sua reazione.

“Mi vuoi baciare?” chiese tranquillamente la ragazza, con un tono sereno e dolce, tanto da fare quasi paura.


Tutti si gelarono e la guardarono sconvolti. Nessuno si sarebbe aspettato quella risposta. Colton la fissava con occhi che sembravano essersi fatti più grandi da quanto era rimasto sorpreso. E disgustato.

“Cos.. come.. che.. che schifo, no! Neanche se fossi l'ultima donna sulla faccia della Terra!”


E allora cosa cazzo te ne frega di cosa ho sulla bocca?!?” urlò lei, trionfante e soddisfatta, e anche compiaciuta di urlare contro quel poliziotto.

Colton la guardò sorpreso. Incredulo. Non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Sentì qualcuno ridere, probabilmente il cowboy dato che aveva preso in simpatia quella maledetta ragazzina.

“Cazzo? Questa parola mi è sconosciuta. Qual'è il suo significato?” chiese il nobile, ansioso di avere una risposta e sentendosi un po' stupido per non averne capito il senso.

“E' un rafforzativo.” mormorò il cowboy, senza però smettere di guardare la ragazza e il poliziotto.

“Come osi parlarmi in questo modo, ragazzina? I tuoi genitori non ti hanno insegnato a portare rispetto agli adulti? Io faccio parte del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, sai? Anzi, a dirla tutta, sto per diventare Detective, quindi vedi di chiudere la b..”

“Cosa? Detective? Non sei un po' troppo giovane?” chiese il cowboy, mantenendo la sua solita espressione imbronciata.

“Non se sei corrotto..” bofonchiò la ragazza.

Sei finita, ragazzina.

“Scusa che cosa hai detto?!?”


Hai capito.”


Colton strinse i pugni con rabbia, tanto che sentì le unghie delle dita premere contro la sua pelle. Respirò a fondo, cercando di mantenere la calma.

“Anche se non ne hai l'aspetto, a quanto pare e per ragioni a me sconosciute, sei una donna. E io quando sono entrato in polizia mi sono promesso che non avrei mai picchiato una donna, quindi considerati fortunata. Ma sappi questo, non finisce qui.” mormorò Colton stringendo i denti, con un tono che non lasciava spazio a dubbi.

Lei lo guardò con aria di sfida, ma non rispose. E di nuovo, un silenzio glaciale, rotto poi dalla ragazza bionda, che si rivolse alla bruna.

“Se posso chiedere.. come è successo?” chiese, riferendosi al taglio sulle labbra.
La ragazza fece un timido sorriso dovuto alla gentilezza della contadina, ma poi tornò nuovamente seria, per poi voltarsi nuovamente verso Colton.

“E' stato uno sbirro.”

Colton alzò lo sguardo su di lei, e fece un piccolo sorriso, un po' compiaciuto e un po' divertito.

“Si vede che te lo sei meritato.”


La ragazza si pietrificò. Era impossibile dire se ne era rimasta ferita o se era la rabbia che cresceva di nuovo, ma di qualunque cosa si trattasse, doveva essere qualcosa di grosso, perché la sua espressione era fredda. Tutti gli occhi erano puntati su di lei, tranne quelli di Colton, che preferiva guardare nella direzione opposta.


Dopo qualche secondo, la giovane si alzò, ma non fece in tempo a fare qualche passo che subito Colton parlò di nuovo.

“Ecco brava. Vattene via che è meglio.”


Poi tutto successe in un attimo, e alla velocità si aggiunse la sorpresa. Colton si voltò alla sua destra, e neanche il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo che si ritrovò un pugno sulla faccia che gli colpì forte il naso, tanto da farlo sanguinare. Un colpo non particolarmente forte, ma preciso e veloce, e talmente inaspettato che neanche un poliziotto come lui riuscì a fermarlo.



Note.


Dopo davvero tanto, troppo tempo, eccomi con un nuovo capitolo e un nuovo personaggio. Il suo nome, Colton, vuole essere un tributo a Cole Phelps, poliziotto anche lui e protagonista del gioco L.A. Noire, da cui proviene la citazione. Probabilmente non interessa a nessuno, ma ci tenevo a dirlo.

Ho voluto impostare questo capitolo in maniera diversa. Nei precedenti c'era più descrizione, e in questo ho voluto inserire più dialoghi e pensieri, anche perché il luogo in cui si trova Colton è lo stesso già descritto nel primo e nel terzo capitolo, e non volevo diventare ripetitiva. In compenso ho voluto farvi un regalino di Natale anticipato. Una descrizione rapida dei tre prescelti rimasti. Ovviamente ancora non sappiamo i loro nomi e da quali paesi ed epoche arrivano, ma ci tenevo a darvi un piccolo assaggio di loro, quel che basta per presentarveli, starà a voi decidere l'impressione che vi hanno fatto.

Ah un'altra cosa. Come avrete notato, il capitolo è tutto impostato dal punto di vista di Colton. Per questo non ho inserito i nomi di Preston e Giovanna, ma li ho sostituiti con cowboy e contadina. Voi sapete i loro nomi, ma Colton no. E dato che il capitolo è raccontato dal suo punto di vista, mi è sembrato corretto raccontarlo in questo modo.

Un grazie speciale a koan_abyss e alessandroago_94 per le bellissime recensioni che mi hanno lasciato per il capitolo precedente. Spero che apprezzerete anche questo, e sono curiosa di sapere cosa ne pensate!

Un bacio a chiunque leggerà questo capitolo, a chi segue la storia, e soprattutto a chi mi lascerà una recensione! Alla prossima!










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Capitolo 5
*** Kira Radenich ***


CAPITOLO 5. KIRA RADENICH


“A volte sono le persone che nessuno immaginava che possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.”


                                                                                                                                   (The Imitation Game)



Non aveva mai fatto a pugni in vita sua.

Non aveva mai iniziato una rissa, né aveva usato la forza per difendere sé stessa o gli altri, e bastava conoscerla un minimo per saperlo. Lei si arrabbiava, urlava internamente, si sfogava, ma non faceva a pugni, mai.

Aveva sempre risposto ad un'aggressione fisica o verbale con delle parole, ma nella maggior parte dei casi si limitava a ricorrere al silenzio non per codardia o per paura, ma perché si ritrovava quasi sempre ad arrivare alla conclusione che chi aveva davanti non meritasse nient'altro.

Eppure.. eppure quella volta fu diverso.

Le era già capitato parecchie volte che qualcuno la ferisse, la insultasse, le facesse venire voglia di reagire, ma aveva sempre taciuto e represso i suoi istinti con la stessa forza che usavano i Vulcaniani(1) per reprimere le emozioni.

Era stata zitta quando i professori a scuola le avevano dato della stupida basandosi esclusivamente sul suo rendimento scolastico, era stata zitta quando le coetanee, tra le quali anche delle amiche, l'avevano umiliata pubblicamente, era stata zitta quando anche la sua famiglia sembrava vergognarsi di lei.

Ma tutti avevano un limite, e il suo era stato oltrepassato da anni ormai, eppure non era mai arrivata alle mani. Non con qualcuno più grande di lei, un uomo soprattutto, un poliziotto, che ad un simile gesto avrebbe potuto benissimo risponderle con maggiore cattiveria, o arrestarla. Non era nemmeno certa di esserne capace. Di poter fare una cosa del genere. E la parte più incredibile era che.. non ne era affatto pentita. Neanche un po'. Anzi. Altre emozioni sentiva dentro di sé. Emozioni tutt'altro che spiacevoli.
Soddisfazione. Gratificazione. Vittoria. L'unica cosa di cui era pentita era di non avergliene dati altri, di pugni.

E poi perché mai avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Gli stava bene. Quel tizio era la personificazione umana di tutto ciò che disprezza in una persona. Quel tizio rappresentava ogni individuo che aveva incontrato nel corso della sua vita e l'aveva fatta arrabbiare per qualche ragione. Ad un tratto arrivò a chiedersi come avesse fatto a resistere tanto a lungo. Come avesse fatto a restare per così tanto tempo civile con una persona del genere.

Avrebbe gongolato ancora per un po', se non avesse sentito un leggero fastidio al naso. Si guardò intorno, e tutti erano messi come lei. Tutti avevano le mani al naso cercando di capire a cosa quel fastidio fosse dovuto, tranne il poliziotto, che aveva tirato fuori un fazzoletto per pulirsi il sangue, mentre si rialzava.

Nello suo sguardo, Kira riuscì a leggere tutta l'ira che stava provando, ma invece che spaventarsi, era quasi divertita.

Pensa di farmi paura questo stronzo facendo l'espressione alla DeNiro? Ha una tale faccia da pirla. Non riuscirebbe a spaventare neanche un cucciolo.

Il poliziotto stava per dire qualcosa, ma venne interrotto da un'altra voce, che si avvicinava al gruppo.

“Ma che è successo? Sono stato via cinque minuti!” esclamò Henrich, allargando le braccia.

Questa psicopatica mi ha dato un pugno! A me! Un agente del Dip..”

Il cowboy sbuffò esasperato.

“Ti prego, taci! Abbiamo capito sei uno sbirro, ma anche se nessuno te lo sta dicendo, sappi che ci siamo tutti rotti il cazzo di sentirtelo dire. Ogni volta che hai aperto bocca, hai detto stronzate. E se proprio vogliamo dirla tutta, la ragazzina ha fatto più che bene. Posso assicurarti che io non ci sarei andato così leggero.”

Colton si arrabbiò ulteriormente, ma non proferì parola. Si sedette e volse lo sguardo altrove.

“Avete finito?” chiese Henrich a braccia incrociate, come se avesse a che fare con dei bambini.

Nessuno parlò, mentre qualcuno annuì.

“So che è difficile andare d'accordo all'inizio, sarebbe stato strano il contrario. Ma come potete vedere..” e indicò tutti e sei che si tenevano le mani sul naso “se uno di voi si fa male, si ripercuote su tutti gli altri.”


Nel senso..”

“Nel senso che voi tutti siete legati l'uno all'altro. Magari adesso vi odiate, vi disprezzate, non vi comprendete, ma non potete cambiare questo fatto. D'ora in avanti, se uno di voi si fa del male fisico, di qualsiasi tipo, tutti gli altri sentiranno parte di quel dolore. Mi spiego meglio. Se uno di voi si rompe una gamba, gli altri sentiranno un sesto del dolore dell'infortunato. Potranno camminare, muovere la gamba che l'altro si è rotto, ma sentiranno il dolore. Quindi se siete abbastanza furbi, e sono certo che lo siete, non proverete mai più ferirvi. Sarebbe come ferire voi stessi.”


Ma è una cazzo di condanna.” borbottò Walker.

“C'è il risvolto della medaglia. Se uno di voi è debole, mentre gli altri forti e riposati, possono ricaricare il primo dividendo la loro energia. Può essere una condanna o un aiuto. Dipende dalla situazione.”


Tu non avrai un solo grammo della mia energia, sappilo.” sibilò a denti stretti Colton a Kira.

“E chi la vuole la tua cazzo di energia? Io no di certo.” rispose lei, ricambiando lo sguardo d'odio.


Henrich li ignorò, come il resto del gruppo.

“E se uno di noi morisse? Morirebbero anche gli altri?” chiese Giovanna.

In quel momento lo sguardo di Henrich si incupì. L'Henrich che avevano conosciuto, quello gentile e solare, sparì, e rimase solo un Henrich quasi depresso, triste, come se sopra di sé avesse una nuvola nera che non lo abbandonava mai. Tutti si preoccuparono per lui, persino Colton e Kira smisero di bisticciare per guardarlo.

“No. Se uno di voi morisse, gli altri sopravviverebbero. Ma a che prezzo..” sospirò come per trovare la voce, per poi deglutire “vivrete, ma con un enorme peso dentro di voi. Come se qualcuno vi avesse strappato un pezzo della vostra anima. La vostra vita non sarà mai più la stessa. Mai.” concluse con voce grave.

Ora sembrava che il nuvolone avesse avvolto tutti. Un senso di angoscia riempì la stanza. E poi disagio. Tristezza. Ansia.

Henrich se ne accorse poco dopo, e dopo un finto colpo di tosse, tornò ad essere l'uomo che avevano conosciuto, con sorrisi e gentilezze, per rasserenare gli animi.

“Ma io sono sicuro che sarete pronti. Domani inizieremo a lavorare sulle vostre nuove capacità. Per oggi credo che sia sufficiente.”

“Abbiamo dormito per giorni. Pensi davvero che siamo stanchi?”

“Forse non lo siete, ma dovete assimilare molte informazioni e soprattutto, dovete conoscervi meglio. Anche se foste preparatissimi nelle esercitazioni, se non siete uniti come gruppo, non andrete da nessuna parte. Il legame che si è instaurato tra di voi vi danneggerà se non sarete uniti. Se lo sarete, vi salverà. Anche perché non è ancora completo.”


Cosa significa che non è completo?”


Funziona già nel piano fisico. Come vi ho già spiegato, se uno di voi si ferisce fisicamente, gli altri lo sentono sula propria pelle. Ma solo sul piano fisico. Manca quello mentale.”


Aspetta aspetta..” fece Kira in tono nervoso “mi stai dicendo che sapranno quello che penso? Tipo professor X(2)?”


Io non ho la minima idea di chi sia questo professor X, ma puoi stare tranquilla. Nessuno saprà quello che pensi. E' più generica la cosa. Se uno di voi soffre dentro, anche gli altri soffrono, in maniera minore. Può essere un cuore spezzato dovuto ad una delusione romantica, può essere il tradimento di un amico che vi ha ferito, un lutto, qualsiasi dolore non fisico, mentre se uno di voi è particolarmente felice per un fatto, gli altri proveranno parte di questa felicità. Ma è un tipo di legame che ancora non esiste. Esiste solo il legame fisico, perché non è dipeso da voi. E' dovuto al vostro corpo, che è entrato in connessione con quello degli altri, e voi non potete fare niente al riguardo. Questo legame sarà diverso. Questo legame dipende esclusivamente da voi. E' il legame delle vostre anime, e non nascerà se non sarete uniti.”

Henrich scandì bene le parole per essere certo che tutti capissero l'importanza di quello che stava dicendo, per poi andarsene in camera sua per lasciarli soli.




. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .





Da quando Henrich aveva abbandonato la stanza lasciandoli nuovamente soli, i sei viaggiatori del tempo avevano ricominciato ad interagire tra loro, e con il luogo che li circondava.

Mentre Giovanna e Walker ispezionavano ogni oggetto facendo espressioni sempre più sorprese, Colton e quella specie di nobile se ne stavano sul divano a parlare delle loro esperienze in guerra.

Il taciturno se ne stava sulla poltrona completamente perso nei suoi pensieri, quasi a suo agio con sé stesso. Kira provò a sorridergli timidamente quando vide i suoi occhi su di lei. Lui non ricambiò, ma lei lesse nel suo sguardo una sorta di.. Ammirazione?

Stanca di quel ridicolo siparietto che durava da troppo per i suoi gusti, Kira si alzò per andare verso l'unica persona lì dentro che le interessava davvero conoscere più a fondo.

Bussò delicatamente un paio di volte sulla porta della stanza in cui era andato Henrich, e non appena sentì avanti, entrò con sospetto.


Vieni pure.” fece Henrich, alzandosi per chiudere la porta dietro di lei.
Kira si ritrovò in una stanza spoglia. Un vecchio letto, una finestra impolverata, un armadio, un tappetto, una scrivania, una sedia e una piccola lampadina, che avrebbe dovuto dare luce all'intera stanza ma in realtà ne illuminava solo una piccola parte. Non c'era altro.

“Non avete fatto di nuovo a pugni, vero?”


Non ancora. Ma non posso garantire nulla in futuro.”


Henrich sorrise, poi dopo un sospiro “c'è qualcosa che volevi sapere?”


Ci sono tante cose che vorrei sapere.”


Lo so. Lo capisco, ma penso che per oggi sia abbastanza. E poi non sarebbe giusto dire certe cose a te, e tenere all'oscuro gli altri. Domani vi parlerò più dettagliatamente delle vostre cap..”


Smise di parlare quando vide Kira scuotere la testa.

“Non mi riferivo a questo. Parlavo di te.”


Henrich la guardò sorpreso.

“Di me?”

“Sai più di quanto vuoi farci credere. Tutte le cose che hai detto e fatto. Il legame. Il microchip che traduce istantaneamente quello che diciamo. Non puoi conoscere tutte queste cose, se non ci sei passato.”


Henrich continuò a guardarla, non sapendo cosa dire.

“Non siamo i primi. Ci sono stati altri sei, vero? Altri sei di altri tempi e luoghi, con gli stessi poteri acquisiti, gli stessi obbiettivi, gli stessi problemi iniziali di comunicazione.”

“Cosa te lo fa credere?”


Kira fece un piccolo sorriso, come se dentro di sé non aspettasse altro di poter rispondere a quella domanda.

“Il fatto che tu sei uno di loro. Uno dei primi sei.”


Henrich si mise una mano davanti alla bocca come indeciso su come reagire a quella situazione, ma poi prese la sedia e si avvicinò a Kira, che era seduta sul letto.

“Al diavolo, sono troppo vecchio per mentire su queste cose.”


Kira sgranò gli occhi.

“Allora.. allora è vero? Cioè ovvio che è vero, io lo sapevo.” balbettò la ragazza.

Henrich sghignazzò, ma poi tornò serio.

Quando l'hai capito?”


Dei sospetti li ho avuti fin dall'inizio, ma la conferma l'ho avuta quando hai risposto alla domanda sul legame in caso di morte di uno di noi. In ogni parola che hai detto si leggeva il dolore che provavi. Un dolore del genere poteva significare solo una cosa. E cioè che tu ci sei passato.. quindi significa che qualcuno del tuo gruppo..”

Henrich annuì pesantemente con la testa.

“Mi.. mi dispiace.”


Questa volta fu l'uomo a scuotere la testa.

“No. E' a me che dispiace. Noi.. noi sei avremmo dovuto essere gli unici. Dovevano essere noi a distruggerli definitivamente, ma abbiamo fallito. Abbiamo fallito perché siamo stati stupidi e perché li abbiamo sottovalutati e ora, a causa nostra, a causa mia, sta a voi rimediare ai nostri errori.” fece Henrich a fatica, con gli occhi lucidi.

Kira mise una mano sulla sua spalla con l'intento di consolarlo, anche se nel farlo appariva chiaramente a disagio, come se non fosse da lei consolare gli altri o toccarli.

La ragazza era seriamente tentata di chiedergli cosa ne era stato degli altri, ma pensò che non fosse il momento, che Henrich non era pronto e lei non voleva ferirlo ulteriormente.

“E quindi.. tu di che luogo e tempo sei?”

“Berlino, Germania. Ma non ero là quando è successo.” spiegò brevemente Henrich, alzando la manica sinistra della maglia mostrando alla ragazza dei numeri neri marchiati sulla pelle.

“Mi stai dicendo che quando sei svenuto e hai ottenuto le capacità di viaggiare nel tempo..”


Ero ad Auschwitz. In fila per la camera a gas. Non mi avevano ritenuto idoneo. Sarei morto quel giorno se non fossi stato scelto. A volte mi chiedo se sarebbe stato meglio.”


Aspetta.. sei svenuto e nessuno se ne è accorto? Chi è venuto a prenderti se tu sei venuto a prendere noi? E una volta che te ne sei andato i nazisti non si sono accorti di nulla? E po..”


Henrich si alzò e mise le braccia davanti a Kira, facendole segno di fermarsi.

“Calma, ragazza! Direi che per oggi hai saputo anche troppo. Domani, prima delle esercitazioni dirò tutto a te e agli altri, è giusto che sia onesto anche con loro. Ora dovresti occuparti di altro, tipo interagire con gli altri. Dopotutto siete voi i sei ora, ed è tutto quello che conta.”


D'accordo..” fece la ragazza dirigendosi verso la porta “..ma con lo sbirro non voglio avere niente a che fare.”


Troverete una connessione, basta sapere dove cercare.”


Kira fece una smorfia e subito dopo aprì la porta, ma poi si voltò di nuovo verso Henrich.

“Un'ultima cosa.”


Sì?”


Perché vuoi a tutti i costi che iniziano domani? Non è per il legame, vero? E neanche perché pensi che non riusciamo a reggere altre informazioni.”


Henrich sorrise.

“Può darsi.”


E allora.. perché?”


Non posso fare questa cosa da solo. Ho bisogno dell'aiuto di qualcun altro per istruirvi. Qualcuno che ora non può esserci.”


Chi?”


Frank.”


Note dal testo:


1) I Vulcaniani sono una specie aliena della serie Star Trek. Reprimono le emozioni con la logica e la ragione per mantenere il controllo e impedire che le emozioni guidino le loro azioni.

2) Il Professor X è Charles Xavier della saga X-Men, mutante con capacità mentali tra le quali leggere nella mente delle altre persone-

PS: il nome del personaggio, Kira, vuole essere un tributo a Kira Nerys, personaggio femminile forte ed indipendente di Deep Space Nine che personalmente adoro.
 

Note dell'autrice:


Dopo tantissimo tempo, eccomi di ritorno. Mi scuso nuovamente con voi.

Che dire di questo capitolo? Avrete notato che di Kira non ho messo la nazionalità, ma potete arrivarci da soli, soprattutto per via del cognome, non è difficile.

Di questo personaggio ho intenzionalmente detto molto poco, proprio perché come tutti gli altri personaggi, voglio renderli come le cipolle. Uno strato alla volta. Di lei sappiamo solo che è una Nerd, ecco il perché delle citazioni a Star Trek e a X-Men, entrambe saghe tipicamente nerd.

Ma da voi voglio sapere cosa ne pensate della rivelazione di Henrich. Lo avevate capito? O è stata una sorpresa? Susu ditemi, sono curiosa. E' forse uno dei personaggi più misteriosi, e c'è ancora molto da scoprire su di lui.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e come al solito ci tengo a ringraziare chiunque leggerà e commenterà!

Alla prossima!



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Capitolo 6
*** Pierre Dumont ***


CAPITOLO 6. PIERRE DUMONT

                                                                                              “Noi serial killer siamo i vostri figli, i vostri mariti, siamo ovunque.”
                                                                                                                                              Ted Bundy



Bianco. Il bianco è l'inizio. L'inizio della vita, l'inizio dell'universo, l'inizio del tutto. Il bianco deve stare al centro. E' quello il suo posto. I colori scuri? Lontani, lontani. Blu, nero, marrone. Lontani. Lontani dal bianco. Non possono stare vicino al bianco. Vicino al bianco i colori chiari. Il giallo. Il giallo va bene vicino al bianco. Ma quale giallo? Solo se è chiaro. Il giallo scuro lontano, lontano dal bianco. E' l'ordine delle cose. Devo mantenere il controllo. L'ordine delle cose. Dipende da me. L'ordine. Bianco. Il bianco con il chiaro, il nero è scuro. E' l'ordine delle cose. Il bianco ora è vicino ai colori chiari. Il nero ai colori scuri. Ottimo. Ordine delle co--

“Ti abbiamo chiamato, ma non hai sentito. Potresti venire?”

Pierre non si voltò neanche, tanto la voce di Henrich era inconfondibile. Preferiva ammirare il suo lavoro.


Ho sentito. Ho sentito. Sento tutto. Ogni cosa. Gli alimenti della tua cucina erano nel caos. Io non- non posso vivere nel caos. Ordine.

Vide Henrich guardare il risultato del suo disturbo ossessivo – compulsivo, ma contrariamente a quanto si aspettava, l'uomo era tutt'altro che sorpreso. Doveva sapere. Ma certo che sapeva. In fondo lui era lì a causa sua. A causa dei parametri che lui aveva inserito nel computer. Deve averli studiati tutti al microscopio.

“Ti senti meglio?”

...Sì. Molto.


“DOC*? Lieve o grave?” domandò Henrich, mentre mi indicò con una mano dove sarei dovuto andare.

“E' tutta una questione di punti di vista.”


Henrich annuì. Si fece bastare quella risposta. Tanto meglio, perché Pierre non avrebbe aggiunto altro sull'argomento, almeno per il momento.

Arrivarono nel salone principale della casa dove gli altri li stavano aspettando. Tutti stavano guardando Pierre. Curiosi? Forse. Forse si chiedevano perché si era messo a riordinare gli alimenti in cucina mentre loro lo stavano aspettando.

Pierre li invidiava. Nel profondo. Si struggeva dentro di sé. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere come loro. Un arto. Un pezzo delle sue memorie. Sarebbe stato disposto a vendere anche la sua stessa anima, se solo ne avesse avuta una. Tutto per avere ciò che gli mancava e che mai avrebbe avuto nel corso della sua vita. Qualcosa che loro avevano. Qualcosa che magari ritenevano scontato e banale, ma che per lui era il mondo. L'obbiettivo di una vita. Un obbiettivo irraggiungibile. Qualcosa che gli consentiva di avere una vita normale e dignitosa. E lui quella, non l'aveva mai avuta. No, lui aveva ricevuto delle brutte carte dal destino con cui avrebbe dovuto convivere fino al giorno della sua morte.


Notò il poliziotto che lo guardava in modo strano, diverso dagli altri. Lo guardava con sospetto, e una piccola dose di rabbia, come se Pierre fosse un sospettato da interrogare. Come se lo conoscesse nel profondo.

Come se conoscesse ogni atto disumano che ho compiuto.

“Ok. Vi ho convocati qui perché prima di iniziare l'addestramento, devo presentarvi una.. ehm.. persona. Il suo aspetto potrà spaventarvi, e magari a qualcuno di voi non sembrerà nemmeno umano, ma dovete ricordare e tenere a mente che è qui per aiutarci, e non è sua intenzione farvi del male..” borbottò Henrich, anche se nella sua voce si leggeva una sorta di ansia.

Il poliziotto continuava a guardarlo. Ancora più sospettoso. Pierre ricambiò lo sguardo con la sua solita espressione spenta e disinteressata, cosa che fece insospettire ancora di più il detective.

“Vieni pure.” mormorò Henrich ad una porta aperta alla sua destra dalla quale uscì..

Pierre non riuscì a vederlo. Era il più lontano, e i cinque davanti a lui si alzarono di colpo, forse sorpresi, bloccandogli la visuale.


Mise le mani sul tavolo facendo forza sulle braccia per alzarsi, e si avvicinò per vedere cosa potesse sconvolgerli tanto. Mentre si avvicinava, tutto quello che riusciva a sentire era il rumore delle sue scarpe che facevano scricchiolare il pavimento legnoso. In tutta la casa non volava una mosca.

Appena prima di raggiungere gli altri, vide qualcuno di loro cadere all'indietro, svenuto. Lui era appena dietro e dato che i suoi riflessi, contrariamente a quanto si potesse pensare, erano ottimi, riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra.
O meglio.. afferrarla. Era una donna. La contadina. Pierre non fece in tempo a chiedersi cosa fare che subito Henrich gli andò incontro, prendendo la donna con delicatezza. Gli altri quattro erano ancora pietrificati, immobili, come statue di certa.

Deve esserci qualcosa di grosso là dietro se non si sono nemmeno accorti dello svenimento di Giovanna. Oppure molto più semplicemente sono più stupidi di quanto pensassi.

“Penso io a lei. Tu vai.”


Pierre non se lo fece dire due volte. Si avvicinò, cercando di passare tra il cowboy e lo sbirro, e.. si trovò davanti...

.. la cosa migliore che avesse visto in tutta la sua vita.

Sentì i suoi occhi accendersi di interesse, una cosa che capitava alquanto raramente a causa della grave forma di apatia che lo affliggeva dalla nascita, perciò Pierre sapeva che doveva godersi quel momento fino a quando fosse durato, per tutto il tempo che gli era concesso, e l'avrebbe fatto.

Era come se il resto del mondo fosse scomparso. Nessun mobile, nessun'altra persona nella stanza. Solo lui.. e la perfezione.

Un cadavere umano vivente in tutto e per tutto, grazie agli elementi cibernetici che avvolgevano metà del suo corpo. Cavi elettrici, circuiti, tutti collegati e perfettamente funzionanti per rendere possibile l'impossibile. Ridare la vita alla morte. Neanche nei suoi sogni e desideri più profondi, Pierre avrebbe pensato ad una cosa del genere. Immaginato ad una cosa del genere. Che fosse possibile. Che funzionasse.

Cosa è esattamente quel mostro?!?

Che stia lontano da me!

Non sono sopravvissuto tanto a lungo per assistere a questo!

Oltretutto cos'è questo odore?

Orrore!

Tante voci, una dopo l'altra, che nascondevano preoccupazione e paura, e che Pierre sentiva come fossero dei sussurri in lontananza, come se lui fosse lontano.

Il suo nome è Frank. E' qui per aiutarci.

Henrich. La sua voce invece era calma e dolce, come quella di un nonno che assiste dolcemente il nipote o almeno, così sembrava. Non che a Pierre fosse mai capitato di sentire qualcuno parlargli così dolcemente. E poi..

Frank?


Frank non era il nome di quell'uomo che gli era apparso in sogno? Quel sogno surreale che faceva da ponte tra la sua vita passata e ciò che stava vivendo ora?

Pierre lo guardò con attenzione, e non gli ci volle molto per rispondersi, anche se una parte di lui non ne aveva bisogno.


Era Frank. Era lo stesso Frank apparso in sogno. A lui e a tutti gli altri. Certo, quello apparso in sogno aveva un aspetto diverso, più umano, più standard, più comune, una scelta fatta per non spaventarli, probabilmente, ma era lui. I tratti del visto, gli occhi, persino l'altezza corrispondeva al Frank del sogno che Pierre rammentava.

Straordinario. Assolutamente straordinario. Henrich deve avere i dati dell'uomo che un tempo abitava questo corpo nel computer, e con essi deve aver creato una proiezione olografica da trasmettere nei nostri sogni. Come avrà fatto a trasmetterla? Ci ha collegati ad una macchina? Ha i nostri dati nel computer, che avesse fatto tutto lì? Oppure delle onde sonore? O un altro oggetto usato per compiere l'opera? Ma soprattutto.. chi era quest'uomo? Come ci è finito il suo cadavere in quel modo? Perché era qui?


Ancora quelle voci. Sentiva gli altri parlare. Sentì qualcuno nominare Frank. Evidentemente devono aver capito anche loro che era lo stesso uomo del sogno. Oppure è stato Henrich a dirglielo. O Pierre stesso preso dall'euforia e l'interesse per la creatura che gli stava davanti lo aveva detto ad alta voce senza accorgersene.

Una volta sparita la paura, il gruppo si avvicinò con cautela, mentre Giovanna era ancora svenuta, sdraiata sul divano lì vicino.

“Sembra un Borg*!”


Ma è pelle umana? Oppure è un altro materiale? Se è così, è incredibilmente realistico.”


Pierre sospirò, appena prima di dire l'ovvio.

“E' pelle umana. E' un cadavere che vive grazie ai circuiti cibernetici intorno al suo corpo.” dichiarò, non riuscendo a reprimere del tutto l'interesse che stava provando in quel momento.

Interesse che qualcuno non vide di buon occhio.

“.. e tu come fai a saperlo?” borbottò Colton, a denti stretti.

Nella stanza si sentì come un vento gelido. Il resto del gruppo si fece da parte, permettendo a Pierre e Colton di stare uno davanti all'altro, a qualche metro di distanza. Se fossero stati all'aperto, tutto avrebbe fatto pensare ad un duello in pieno stile Far West.

“Non ho capito la domanda.”


.. e invece l'avevo capita anche troppo bene, ma non volevo rispondere. Potevo immaginare cosa sarebbe successo se avessi risposto. Avrei potuto mentire, ma non ne ero capace. Non ero mai stato in grado di farlo. Sono un autentico genio, ho un quoziente intellettivo superiore alla media, ma mentire? No.


Ma davvero? Allora proviamo con questa. Come mai tutto questo entusiasmo? E' un cadavere. E' disgustoso. E' la cosa più malata che abbia mai visto. E tu sembri qua..”


Più malata che tu abbia mai visto? Aspetta di conoscere me. I miei impulsi. Le mie azioni. Gli atti di cui mi sono macchiato. Il mio mondo. Non hai. Ancora. Visto. Niente.


A quel punto intervenne Henrich.

“Forse dovremmo prenderci una pausa, non credo che questo sia il mom..”


Pierre lo bloccò con un gesto.

No. Non intervenire. Rimandare questa conversazione? A quando? E perché? Attendere peggiorerebbe solo le cose. No. Ho una possibilità. La possibilità di vedere come reagiscono le persone normali a me. A noi. Pochissimi nel mio mondo hanno avuto questa occasione. Io ce l'ho.

“So che è un cadavere. Lo so perché.. perché mi è già capitato di trovarmi vicino ad uno di essi.”


Silenzio.

“Sei un becchino?” chiese qualcuno del gruppo, ma Pierre non riuscì a capire chi fosse.

Sentiva il sangue al cervello pulsare.

Henrich si decise ad intervenire di nuovo, e questa volta non fu fermato.


Colton, la questione è molto più complicata di quanto sembra. Pierre.. Pierre viene da un mondo molto diverso dal vostro. Tutti voi, anzi noi, proveniamo da luoghi ed epoche diverse quindi può sembrare che tutti veniamo da mondi diversi, ma il suo, il suo è di tutt'altro tipo. Qualcosa che nessuno di voi non può neanche lontanamente immaginare. Lui viene.. dal 3207.”

Tutti iniziarono a farsi più interessati, e Colton divenne più curioso che arrabbiato. Anche Giovanna, che si era appena risvegliata, sembrava molto attenta.


Ma è impossibile! Indossa degli abiti stile 1950! Come fa a vivere in un futuro tanto remoto, indossando degli abiti così antichi?” chiese Kira.

Pierre non rispose. Avrebbe voluto spiegare la sua situazione, ma gli era difficile. Come faceva a spiegare una cosa del genere? E anche se avesse tentato, non sarebbe stato abbastanza soddisfacente, perché lui poteva raccontare solo una parte della storia. La parte che aveva vissuto. Il suo punto di vista. Non aveva altro modo di esporla, e mai si era posto il problema su come fare in una situazione del genere semplicemente perché non pensava si sarebbe mai trovato in una situazione del genere.

“Questo.. questo perché Pierre non vive nel mondo libero. Lui vive nel reclusorio francese. Giusto?”

Pierre annuì.


“Reclusorio? E' sinonimo di prigione. Sei in prigione?”


Non la prigione che conoscete voi. Dal 2754 verrà abolita in tutto il mondo la pena di morte, e al suo posto, il governo di ogni paese ha creato e costruito i reclusori. In pratica, quando viene commesso un reato violento, come un'aggressione o un omicidio, oppure viene diagnosticato a qualcuno una malattia mentale potenzialmente pericolosa, questa persona viene trasportata, tramite dei tubi, in una grande zona all'interno del paese in cui si trova, in cui è condannato a stare per il resto della vita. Si tratta di zone molto grandi ed estese in cui un tempo sorgevano molte città libere, con alberi, animali, insomma, una parte del territorio normale, dal quale però, è impossibile uscire. I tubi con i quali il prigioniero ci arriva, quando non devono funzionare, si ritirano in un box fatto di un materiale impossibile da scalfire. In pratica, chi finisce lì può comprarsi una casa, sposarsi, avere figli, fare gran parte delle cose che poteva fare anche nel mondo libero, ma si corrono grandi rischi. Queste zone sono interamente abitate da malati mentali e assassini. Non c'è una sola persona sana di mente o non pericolosa che viva lì. Sono molto pochi quelli che ci arrivano dai tubi, la maggior parte nascono lì da genitori che ci vivevano già da tempo, e ci passano la vita senza avere idea di come sia il mondo esterno. Pierre è uno di questi. Lui ci è nato, senza aver mai visto il mondo esterno.”


Un grande silenzio calò nella stanza. Pierre si guardava i piedi. Henrich continuò.

“Per questo indossano abiti stile 1950. Sono molto indietro rispetto al loro tempo perché devono costruirsi tutto da soli, dall'inizio. Quando i reclusori sono nati, non c'era nulla. Solo foresta, e vecchi materiali usati. Si sono costruiti case, scuole, edifici. Sembra a tutti gli effetti una città normale un po' datata. Sono le persone che ci abitano il problema.”


E se.. se un bambino nato in questo posto poi non diventa pericoloso?” chiese ingenuamente Giovanna.

Questa volta fu Pierre a rispondere.

“Non succede. Non è mai successo e non succederà mai. Quasi tutti ereditano le malattie mentali dai genitori alla nascita, altri le sviluppano con traumi nel corso dell'infanzia, cosa che capita molto spesso considerando la popolazione, ma la maggior parte dei bambini muoiono prima di impazzire del tutto o capire cosa sta succedendo.”


Le parole di Pierre erano fredde e distaccate, come se descrivesse qualcosa che non lo riguardava, come se descrivesse qualcosa di cui non gli importava nulla. Come uno scienziato parlerebbe del dolore che i suoi esperimenti causano alle cavie.

“E tu che problema hai?” chiese Kira.

“Disturbo ossessivo – compulsivo in forma lieve, apatia in forma grave, necrofilia e cannibalismo.” fece Pierre, con la sua solita voce distaccata.

Vide il gelo e il terrore sugli occhi dei suoi compagni. Ma come biasimarli?

La maggior parte di loro erano combattuti, combattuti tra la tristezza e la compassione che provavano per lui e per quello che aveva passato e l'orrore che provavano nell'immaginare che lui avesse fatto delle cose tanto orribili.

In verità il cannibalismo è stata più una necessità che un problema vero e proprio. Ci ricorro solo se sono affamato e non ho altro cibo o se devo sbarazzarmi di un cadavere per via della puzza. Sono le prime tre il problema. Tuttavia ho commesso cannibalismo, quindi era meglio dirlo fin da subito piuttosto che nasconderlo. La carne umana non è così terribile, somiglia al manzo e al pollo, ma c'è di meglio da mangiare.

Si sentì un forte rumore.

Era Colton.

Fece qualche passo verso Pierre pieno di rabbia, anche se quest'ultimo non sapeva se la rabbia era dovuta al poliziotto o all'uomo.

Sembrava volesse colpirlo, ma poi ci ripensò. Deve aver ricordato ciò che era successo quando Kira lo aveva ferito e quello che Henrich aveva detto, quindi preferì uscire di scena. Ritornò in una delle camere in cui avevano dormito, e sbatté violentemente la porta dietro di sé.

“Andrà meglio.” fece Henrich, mettendo una mano sulla spalla sinistra di Pierre, come un padre amorevole fa con il figlio.

“Come facevi a conoscere così dettagliatamente..” cominciò Pierre.

Henrich deglutì, come se rispondere gli costasse più fatica di quanto volesse ammettere.

“Uno dei cinque del mio gruppo.. proveniva dal tuo stesso mondo. Reclusorio polacco, anno 3012. Lui era.. il miglior amico che abbia mai avuto.”


Note (*):

1) DOC = diminutivo di Disturbo Ossessivo - Compulsivo

2) Borg = esseri cibernetici incapaci di pensare autonomamente e singolarmente della saga Star Trek


Eccomi tornata! Questo capitolo ha richiesto più del previsto, anche perché mi sono documentata un minimo sul DOC prima di iniziare a scriverlo. Anzi, se qualcuno di voi, che magari studia psicologia e ne sa più di me, nota delle inesattezze in questo ambito, che me lo dica pure.


Per quanto riguarda il Background di Pierre, l'idea proveniva da un vecchio mio racconto ambientato proprio in queste prigioni del futuro abitate da malati mentali e serial killer. Avevo scritto solo qualche capitolo e poi ho lasciato perdere, pensando di usare l'idea per un'altra storia. Una storia come questa.


Come al solito ringrazio ogni anima pia che leggerà il capitolo fino alla fine e ancora di più che si prenderà del tempo per lasciarmi una piccola recensione.

Vi è piaciuto? Non vi è piaciuto? Che ne pensate di Pierre? Fatemi sapere, e noi ci vediamo con il prossimo capitolo! A presto!











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Capitolo 7
*** James Bowman ***


CAPITOLO 7 JAMES BOWMAN


Se un piatto o un bicchiere cadono a terra senti un rumore fragoroso. Lo stesso succede se una finestra sbatte, se si rompe la gamba di un tavolo o se un quadro si stacca dalla parete. Ma il cuore, quando si spezza, lo fa in assoluto silenzio.”


                                                                                                                                                     Cecelia Ahern



“Non mi direte che state ancora dormendo, Ammiraglio Bowman. Siete sempre il solito.” mormorò una voce famigliare, così dolce da sembrare una dolce melodia.

James sorrise d'istinto, mentre imperterrito persisteva nel tenere gli occhi chiusi, come se volesse convincere quella voce che stesse effettivamente dormendo. Non ci stava riuscendo molto bene, lo sapeva lui per primo, ma non importava.

Sentì delle labbra posarsi sulla sua guancia, poi sul collo. Baci dolci e profondi, piccoli ma anche grandi, corti ma anche lunghi.

“Un povero uomo non può mai riposare in pace. Nemmeno dopo essere stato promosso.” borbottò James, allungando la mano verso la sua uniforme da Ammiraglio senza riuscirci, dato che stava dall'altra parte della grande stanza, e solo se si fosse alzato l'avrebbe raggiunta.

“Soprattutto dopo essere stato promosso.”

Un altro bacio, sulla fronte questa volta, più lungo degli altri.

“Tuttavia, avete ragione. E' il vostro giorno. La vostra promozione. La vostra festa. Se desiderate riposare in totale solitudine rimuginando sul vostro nuovo ruolo, posso togliere il disturbo..”


James bloccò quella voce con un bacio sulle labbra, breve ma disperato.

“Non è quello che ho detto.” mormorò, non appena si staccò.

Attese come se si aspettasse qualcosa, ma quando quel qualcosa non avvenne, parlò di nuovo.

“E non ho nemmeno detto di smetterla di baciarmi.”


Sentì un viso affondare nel suo collo.

“Lo supponevo..”


Avete smesso per torturarmi, vero? Siete senza cuore.”


Un altro bacio sul petto.

“James..”



James? James mi senti?”


L'uomo si svegliò come da uno stato di trance, trovandosi davanti Henrich.

“Oh mi dispiace, preferite essere chiamato Ammiraglio Bowman? Nel vostro ambiente si danno tutti del voi quindi posso..”


Qui non siamo nel mio ambiente.

“Non occorre. James va bene.”


Mi sembravi un po' sovrappensiero.. va tutto bene?”


Sì. Io.. io stavo ricordando un momento del mio passato e temo di essermi lasciato trasportare..”

“Perché non vai a riposare e a liberare la mente? I tuoi compagni sono già nelle loro stanze.”


Riposare? Come? Perché? Ma non avremmo dovuto iniziare oggi? Qui passano le giornate e non succede nulla. In tutta la mia vita non mi era mai successo di sprecare le giornate in questo modo.
Nemmeno ai miei figli permetto di sprecare così il loro tempo. Quando erano piccoli, almeno. Ora sono grandi e non posso più occuparmi delle loro vite come prima, ma penso di avergli insegnato che il tempo è prezioso e non lo si può sprecare a dormire.

“Lo so che avevo detto che avremmo iniziato oggi, ma la presentazione di Frank e il segreto svelato di Pierre credo siano abbastanza per un giorno.” mormorò Henrich, come se gli avesse letto nel pensiero, poi aggiunse “e io ho bisogno che siate al massimo delle forze e della concentrazione per il prossimo passo.”

James scrutò Henrich a lungo, come se volesse capirne di più solo guardandolo.


E qual'è il prossimo passo?”


I viaggi nel tempo.”




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Un altro bacio, l'ennesimo di quella giornata, sulla guancia.

“Non riuscite proprio a smettere. Non che mi dispiaccia..”


E' colpa vostra, Ammiraglio. Non riesco a tenere le mani a posto quando ci siete voi.”


Si scambiarono un lungo sguardo particolarmente intenso. Entrambi sapevano che quello sguardo significava il tornare seri dopo aver giocato e scherzato per tutta la giornata come facevano da bambini. Entrambi sapevano che quello sguardo significava un altro addio, sempre più doloroso del precedente. Un addio che nessuno dei due avrebbe mai voluto fare, ma che era necessario. Per tornare alle loro vite, alle loro famiglie, ai loro figli, quella parte della loro vita che non avrebbe mai dovuto venire a conoscenza di quegli incontri, sempre nello stesso capanno, sempre con le stesse modalità, incontri troppo brevi e troppo rari, ma a cui non riuscivano proprio a rinunciare.


“Promettimi.. promettimi che ci vedremo ancora prima della tua partenza.”


James annuì tristemente.

“Non sarei mai partito senza darti un adeguato saluto. Lo sai.”


Si tennero stretti per un tempo che parve infinito, questa volta con addosso i loro vestiti. Poi, un bacio sulle labbra. Dolce e passionale al tempo stesso.

“Ti amo, James.”


Erano ventitré anni che era incastrato in quella relazione extraconiugale che non riusciva ad interrompere, che gli causava dolore, rabbia, frustrazione, malinconia e tensione, eppure, ogni volta che sentiva quel “ti amo” da quella voce, tutto appariva di poca importanza, tutto spariva in un lampo, tutto gli faceva capire che.. ne valeva la pena.

“Ti amo anch'io.”



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Domani.. domani viaggeremo nel tempo?”

“Non proprio.. Domani acquisirete ciò che serve per viaggiare nel tempo.” fece Henrich, accomodandosi sul divano.

Ma perché non può mai parlare chiaramente? Perché sempre questi misteri? Non abbiamo il diritto di sapere? Si aspetta davvero che io riposi tranquillo e sereno dopo quanto mi ha detto? Calma, James, calma. Ricorda che sei un nobile. Un Ammiraglio. Non puoi permetterti di perdere il tuo portamento. Sii superiore. Sii diplomatico. Come sei sempre stato.

“Signor Henrich, una maggiore chiarezza sarebbe altamente apprezzata.”

Henrich guardò l'Ammiraglio e scoppiò a ridere. James non ne fu molto contento.

Come potete mancarmi di rispetto in codesto modo? Ma lo sapete chi sono io?

“Sei sicuro di stare bene? Mi sembri molto.. rigido.”


.. rigido?

“Non che il poliziotto tuo amico non lo sia, ma almeno lui, come posso dire, lo è per carattere. Tu invece.. sembra quasi ti senta costretto ad essere così rigido. E' perché sei nobile e i tuoi genitori ti hanno educato così, immagino.”


Se state cercando di farmi arrabbiare, ci state riuscendo.

“I miei genitori mi hanno dato i migliori insegnamenti possibili.” borbottò James facendo di tutto per essere diplomatico, fallendo miseramente dato che la sua rabbia sarebbe stata visibile a chiunque.

“Ecco, vedi? E' questo quello di cui sto parlando. Un altro avrebbe risposto con altrettanta insolenza, avrebbe lasciato parlare la rabbia, ma tu no. Tu ti sforzi di essere gentile e composto anche quando sei palesemente arrabbiato.”


James guardò l'uomo più confuso di prima.

“Se vuoi un mio consiglio, e so per certo che non lo vuoi ma te lo darò lo stesso, dovresti lasciarti andare. Qui puoi farlo. Ti sentirai meglio. Fallo quando ti sentirai pronto.”


Henrich si alzò, per poi dirigersi nella sua stanza. James avrebbe voluto fermarlo per sapere a cosa si riferisse, sia su quel discorso del lasciarsi andare sia per quanto riguardava i viaggi nel tempo, ma tutta quella discussione lo aveva lasciato.. senza parole? Si ritrovava incapace di dire o pensare a qualsiasi cosa.

“Comunque se ci tieni tanto a saperlo, per viaggiare nel tempo occorre conoscere ogni luogo e ogni tempo, altrimenti non potrete focalizzarvi su di essi e non potrete viaggiare nel tempo e nello spazio. Questo faremo domani. Vedrete migliaia e migliaia di immagini che voi non ricorderete se vorrete descriverle, ma verranno immagazzinate nel vostro cervello così da permettervi di viaggiare dove vorrete. Buona serata.” concluse l'uomo, chiudendo la porta della sua camera una volta entrato.





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Bentornato, Ammiraglio Bowman. Vostra moglie desidera parlarvi. Vi attende in soggiorno.” fece il maggiordomo, poi continuò “sistemo il vostro cavallo nella scuderia, signore?”


James annuì brevemente, e mentre il maggiordomo usciva per adempiere ai suoi doveri, Bowman andò verso il soggiorno. Al suo interno vi trovò sua moglie Mary, suo figlio Jonathan, sua figlia Helen e suo genero Henry.

L'Ammiraglio ci rimase di sasso. Doveva essere successo qualcosa di importante, se la sua intera famiglia era riunita per parlargli. E perché George gli aveva detto che solo Mary lo aspettava? Probabilmente era stata sua moglie a ordinarglielo.

Prima che potesse reagire e dire qualcosa, Mary si alzò, gli prese la mano e lo avvicinò, per chiedergli dolcemente di sedersi.

“Lo abbiamo appena saputo. Mi dispiace tanto, caro.”


James guardò la moglie ancora più confuso.

“Mi dispiace che vi dispiace. Ma di cosa vi dispiace?”


Aveva intenzionalmente fatto un gioco di parole per vedere le reazioni della sua famiglia, ma il silenzio era glaciale. Non era uno scherzo. Doveva essere successo qualcosa di molto brutto.

“Ma come padre.. non l'avete saputo?” chiese Helen.

“Saputo cosa? Io sono appena tornato da una missione navale. Non mi sono fermato a Londra per aggiornarmi su quanto è successo in mia assenza, pensavo solo a tornare il prima possibile senza dover utilizzare una carrozza. Ditemelo voi cosa è successo, deve trattarsi di qualcosa di importante.”

Thomas Butler.. il vostro amico d'infanzia, che incontravate ogni tanto per cacciare insieme.. è morto. Quattro giorni fa. Polmonite. Mi dispiace caro, era un vostro amico da tanto tempo.”

Niente. Non sentiva assolutamente niente. L'unico che l'avesse mai conosciuto davvero, l'unico che avesse mai amato e da cui era realmente amato, l'unico che lo capiva davvero, che aveva sempre creduto in lui quando neanche lui credeva in sé stesso, era morto. Niente più baci sul collo, niente più incontri segreti nel capanno quando alle mogli avevano detto che sarebbero andati a caccia, niente più carezze. Non avrebbe più rivisto i suoi occhi dolci e i suoi capelli ricci e dorati come il sole. Tutto era finito. In un attimo.

Quando veniva ferito in battaglia sentiva un dolore fisico, che a poco a poco scompariva come la cicatrice che si faceva più piccola, ma ora.. il vuoto. Tutto quello che riusciva a percepire era il cuore, che prima batteva, rotto in un angolo inerme. La sua anima, spezzata. E quella luce negli occhi che aveva e che rispendeva quando era con lui, sparì senza tornare mai più, lasciando spazio solo ad una tristezza che non l'avrebbe mai abbandonato.

James sospirò, preparandosi a dire l'ultima grande bugia per nascondere un amore che era riuscito a spezzarlo.

“Sì, lui era... era un buon amico.”



Note: 

Eccomi di nuovo, dopo più di due mesi! Mi dispiace per il ritardo, ma purtroppo ho avuto dei seri problemi di connessione Internet che hanno ritardato tutte le mie attività, tra cui questo racconto. E' un miracolo che sia riuscita a scriverlo entro dicembre, ma ci tenevo a pubblicarlo prima dell'anno nuovo dato che questo era l'ultimo personaggio da "analizzare" mentre dal prossimo capitolo inizia la vera storia, quindi mi sembrava carino concludere la presentazione dei personaggi nel 2017 e iniziare il 2018 con la storia.

Quando ho pensato al racconto, volevo mettere assolutamente un personaggio LGBT, e mentre tracciavo il carattere dei personaggi, ho pensato che il più adatto fosse proprio il nobile del 1700. E come regalino di Natale (e anche per farmi perdonare del ritardo) ho voluto incentrare il capitolo sul perché James è "un'anima spezzata". Ad inizio storia, Henrich ha ribadito più volte che il computer ha scelto loro perché erano "anime spezzate". Degli altri ancora non sappiamo perché sono "anime spezzate" (o meglio voi non lo sapete mentre io sì LOL), ma James sì. Tranquilli, anche per gli altri si scoprirà perché sono tormentati, prima o poi..

Come al solito ringrazio chiunque leggerà il capitolo e grazie a tutti quelli che prenderanno 5 minuti per lasciarmi un commentino! Alla prossima e Buon Natale!














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Capitolo 8
*** Sogni Spezzati ***


CAPITOLO 8. SOGNI SPEZZATI

“L'ignoranza conduce alla paura, la paura conduce all'odio, l'odio conduce alla violenza.”

Averroè


Splendide, splendide notizie!” esclamò Henrich tutto gongolante, avvicinandosi al gruppo che se ne stava ad un tavolo intento a fare colazione.

“Possiamo finalmente lasciare questa topaia e andarcene?” fece con sufficienza Preston, accendendosi un sigaro.

“Meglio! Siete pronti per un primo ufficiale viaggio nel tempo. Da soli.”


Ma l'abbiamo già fatto.” disse timidamente Giovanna.

“Non proprio. Quello che avete fatto è stato teletrasportavi da soli in un altro luogo e tempo per poi ritornare qui nello stesso modo un istante dopo. Questa volta lo farete insieme. Andrete nello stesso luogo e tempo, e non tornerete subito indietro. Resterete lì per almeno un'ora. Il vostro corpo deve abituarsi alla vostra presenza nel passato o nel futuro e non può farlo se continuate con una toccata e fuga.”

“E' tutto molto interessante, ma non potevamo farlo oggi pomeriggio? Io ho sonno.” borbottò Kira, mangiando un biscotto mal volentieri.


Io non vedo l'ora. Insomma, lo so che siamo tutti stanchi e che vogliamo tornare alle nostre vite e al tempo a cui apparteniamo, ma possiamo esplorare un luogo e un tempo diverso dal nostro grazie ad una capacità che abbiamo solo noi. E' come scoprire qualcosa di inesplorato. Non è fantastico?” esclamò Giovanna, beccandosi un'occhiataccia da James.

“Sì, è davvero fantastico. Lasciamo un posto di merda per visitare un altro posto di merda per poi ritornare alle nostre vite di merda.” fece Kira in tono annoiato.

“Ma non sai neanche dove e quando andrete.” disse Henrich, confuso.

“Beh ho uno spoiler per te, caro professore. Ogni luogo e ogni tempo è una merda.” insistette Kira.
James si avvicinò a Colton.

“Mi sono perso. Perché usare gli escrementi come aggettivo? Qual'è il suo significato?”


Colton sghignazzò, ma gli rispose comunque.

“Schifo. Soggetto più la parola merda usato come aggettivo significa che il suddetto soggetto fa schifo.”


Schifo?”


“Sì, schifo. Orribile. Disgustoso. Il contrario di bello. Un po' come lei, del resto.”


Il poliziotto si aspettava di vedere uno sguardo ferito sula ragazza, ma non trovò altro che irritazione.

“Non mi sembri proprio nella posizione di giudicare l'aspetto fisico degli altri, Harrington. Soprattutto considerando la faccia di merda che ti ritrovi. Dio, persino Frank è più attraente di te ed è composto da pezzi di cadavere.”

Tutti si voltarono verso Frank che se ne stava in un angolo del grande salone quasi in stand by, e il quale ci mise un po' per capire cosa si stessero dicendo.

“Grazie, Kira. Apprezzo molto i tuoi complimenti, sono assai graditi.” fece Frank in tono metallico, facendo un piccolo inchino alla ragazza.

Calò un imbarazzante silenzio, fino a quando James non si sporse verso Kira.

“Vi piace davvero molto usare questo aggettivo. Interessante.”


Vuoi sapere cosa non è affatto interessante, sottospecie di ammiraglio o qualunque grado tu abbia? Questa sensazione di disagio che mi viene ogni volta che mi dai del voi. Dacci un taglio.”


Un taglio a che cosa?” chiese James, sempre più confuso.

“Avete finito di mangiare? Bene, perché nel frattempo ho deciso dove andrete. Madrid, 1970. Vi teletrasporterete nella Puerta del Sol. E' una delle più importanti, vedrete vi piacerà. Potrete passarvi l'ora come volete, passeggiando o stando in un bar a mangiare qualcos'altro se la colazione non vi è bastata. Nelle vostre stanze troverete un po' di soldi e un abito da indossare adatto all'epoca. Ricordate, l'importante è passare inosservati.” fece Henrich, tutto soddisfatto.


Tutti si alzarono per fare quello che aveva chiesto, ma Kira non si mosse.

“Andiamo, io ho ventiquattro anni, sono nata negli anni novanta, che è solo vent'anni dopo. Gli abiti che indosso vanno più che bene, direi.”


Henrich la squadrò dall'alto in basso.

“Di certo non passeresti per pazza, ma neanche inosservata. Meglio andare sul sicuro.” fece Henrich, facendole pat pat sulle spalle.

Sbuffando, Kira ritornò in camera sua, dove trovò un abito intero color azzurro. Un abito molto più femminile di quelli che era abituata a portare.

“Ma che cazzo?!? Una gonna?? Questa sarà l'ora più lunga della mia vita.”


Esasperata, si accinse ad indossare quell'abito, che oltretutto stringeva pure ai fianchi.

“Che vita di merda.”




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La vita è meravigliosa.” sorrise una più giovane Kira, tenendo un peluche di Pikachu tra le braccia con orgoglio.

“Tutto per un peluche?” scherzò un ragazzo accanto a lei, un giovanotto alto e con la pelle più scura, incrociando le braccia.

“Sei solo invidioso perché avresti voluto vincerlo tu, ma ho vinto io e ora lui viene a casa con me. Lo chiamerò Nobby e io e lui passeremo tante belle serate insieme. E ci faremo delle maratone infinite di Friends.”


Ma.. ma Friends è una cosa nostra!” fece il ragazzo, fingendosi geloso.

“Non temere, se farai il bravo io e Nobby ti permetteremo di essere presente, ma solo se farai il bravo.”


I due scoppiarono a ridere, e poi il ragazzo mise una maso sulla testa del peluche, come per accarezzarlo.

“Sembra che non abbia scelta, non è vero Nobby?”


In quel momento arrivò una pimpante e allegra ragazza dai capelli rossi e lentiggini, che stava bevendo un succo alla frutta.

“Oddio ragazzi, Kamal sta per esibirsi. E questa bibita è fuori dal mondo! E... e tu hai un peluche di Pikachu? Com'è possibile?!? Dimmi dove l'hai preso!”


Chiedilo al tuo ragazzo. L'ho stracciato e grazie alla mia eccezionale bravura, ora sarà mio per sempre.”

La rossa guardò il ragazzo con finta delusione.

“Jozef!”


L'ho fatta vincere.” fece spallucce lui.

Kira lo colpì amichevolmente ad un braccio.

“Ok, non avevo chances.”

Sul serio Jozef, da quando il tuo quartiere è diventato così figo? Io non voglio più andare a casa!” fece Kira.

“Ehy, è sempre stato figo! Solo che non ve ne siete mai rese conto! Devo spiegarvi sempre tutto io?!? Ah, le donne.”


Stronzate. Siamo amici da quando avevamo sei anni. Ti assicuro che me lo ricorderei se fosse stato sempre così.” continuò Kira.

“Confermo.” aggiunse la rossa.

Lei e Jozef si avviarono nella piazza principale per assistere alla musica di Kamal, un albanese vicino di casa di Jozef che suonava magicamente la chitarra. Kira però non si mosse, così i due amici si voltarono verso di lei.

“Non vieni?”


Non.. non volete stare da soli?”

Kira amava passare del tempo con Jozef e Valeriya, erano i suoi migliori amici, li conosceva da sempre, erano le due persone più importanti della sua vita, ma ora loro erano una coppia. Kira era felice per loro, aveva fatto anche da cupido per aiutarli a mettersi insieme quando avevano iniziato a capire di provare qualcosa di più dell'amicizia l'uno per l'altra, ma a volte quando uscivano tutti insieme si sentiva come un terzo incomodo. Loro non l'avevano mai fatta sentire così, ma lei sotto sotto pensava che avrebbero voluto avere più privacy. E all'ennesimo tentativo da parte sua di dargliela, loro reagirono come tutte le altre volte.

“E ora chi è a dire stronzate?” fece Jozef, mentre Valerija le andò incontro, per trascinarla nella folla insieme a loro.

Camminarono una decina di minuti, e arrivarono in una piccola piazzetta dove Kamal aveva già iniziato a deliziare le persone con la sua musica allegra e spensierata.

Jozef prese Valeriya per una mano e si buttò con lei nella folla a ballare, ma non prima di sussurrare a Kira di non muoversi perché il prossimo ballo l'avrebbe fatto con lei.

Kira sorrise e guardò i suoi migliori amici ballare. Quando la musica si fece più lenta e romantica, smise di guardarli per dargli quella benedetta privacy che meritavano, e iniziò a guardarsi intorno, incuriosita. C'erano davvero tante persone quella sera, giovani, anziani, famiglie, bambini. Russi come lei e Valeriya e immigrati o comunque persone appartenenti ad altre entie, come Jozef. Poi vide due poliziotti che pattugliavano la zona. Se ne stavano negli angoli, e avevano gli occhi fissi sulla folla come se li stessero studiando. Ogni tanto guardavano l'orologio, e tenevano il manganello dietro la schiena. Entrambi erano pallidissimi, e biondi. Perché c'erano ben due poliziotti ad una normale festicciola in un piccolo quartiere di immigrati? Kira pensò che fossero lì per controllare che nessuno si facesse male, considerando quanta gente era presente, e smise di pensarci per tornare alla musica.





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Tutti pronti?” fece Henrich, non appena vide il gruppo in piedi e vicino pronti per il teletrasporto.

Tutti gettarono un'occhiata di disappunto a James.

“Cos'è quello?” chiese Henrich, indicando il parrucchino che James portava ancora in testa.

“E'.. è la mia parrucca.” fece l'ammiraglio, come se dovesse dire l'ovvio.

“E perché è sulla tua testa?”


E' sempre sulla mia testa.”

“Se ti fai vedere con quella specie di gelato in testa nella Spagna degli anni settanta, ti sbattono in manicomio prima che tu possa dire parrucca.” fece Kira.

“Quindi.. quindi devo rimuoverlo?”

“Direi di sì.” fece Henrich.


James lo fece, ma molto mal volentieri.

“Credo.. credo tu abbia anche la camicia al contrario.” fece Giovanna allungando la mano, ma James si allontanò da lei disgustato.

“Ho capito, ma non toccarmi.”


Giovanna non ci rimase benissimo, ma non aggiunse altro. James andò un momento in camera sua, poi ritornò subito con il gruppo, senza parrucchino e con la camicia a posto.

“Sembri più giovane senza quell'orribile parrucca.” fece Colton, indicando i capelli corti e scuri dell'ammiraglio, poi si rivolse a Kira “tu invece sembreresti quasi una donna con quell'abito, se solo non avessi quei disgustosi peli nelle gambe.”


Kira guardò il poliziotto con sufficienza come se quel commento non le facesse nessun effetto, ma non rispose.

“Ah e se ne approfittaste per socializzare e legare sarebbe fantastico, visto che dovete creare tra voi un legame emotivo oltre che fisico.” puntualizzò Henrich, beccandosi un paio di occhiatacce.

Si misero tutti in posizione, uno fianco all'altro, mentalmente focalizzarono la loro meta. Spagna. Madrid. Puerta del Sol, 1970. Spagna. Madrid. Puerta del Sol, 1970. Spag-

Kira iniziò a sentire il suo corpo come sovraccaricarsi di energia ed ebbe come la sensazione di muoversi, nonostante fosse ferma. Chiuse gli occhi. Percepì le stelle, lo spazio, la galassia. E poi percepì con i piedi la pietra. Aprì gli occhi, e si ritrovò nella maestosa Puerta del Sol, con il resto del gruppo.




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Allora?” esclamò Valeriya, buttandosi a pesce su Kira per abbracciarla da dietro.

“Allora cosa?” sorrise Kira, ricambiando l'abbraccio. Jozef camminava vicino a loro, e guardava le amiche sorridendo.

“Come cosa? Tra un mese è il tuo compleanno! Si compiono diciassette anni una volta sola. Hai già pensato a cosa fare?”


Penso che mi butterò su Star Trek. Non sarebbe male passare il giorno del mio compleanno con Spock.”


Sai che Spock e Star Trek è la Bibbia anche per noi, ma è il tuo compleanno! Dovresti organizzare anche una grande festa! Magari invitare i tuoi compagni di classe!”


Non mi piacciono. E io non piaccio a loro. Rimango con Spock.”


A te e a Spock dispiacerebbe avere un po' di compagnia?” fece Valeriya.

“E qualcuno deve pur badare a Nobby! Tu sarai troppo concentrata su Star Trek e lui si sentirebbe offeso. Non va bene.” aggiunse Jozef.

Kira sorrise dolcemente.

“Volete davvero venire? A me farebbe piacere, ma in questo momento casa mia è un casino.”


Non ci interessa di casa tua. Ci interessa di te. E ti sbagli se pensi che ti permetteremo di passare il giorno del tuo compleanno da sola.” fece la rossa, abbracciandola di nuovo.


Kira abbracciò i due amici forte, stringendoli a sé. Loro ricambiarono.


Che carina che sei Kira, la nostra principessa Disney.” fece Valeriya.

“Cosa? Principessa Disney?”


Oh andiamo, sotto sotto sai anche tu di esserlo. Sei sempre troppo buona. Troppo gentile. Vedi sempre del buono negli altri. Noi ti invidiamo un po' sai, vorremmo avere la tua fiducia nell'umanità.” continuò la rossa.

“Onestamente non credo di es..”


Ma Kira non riuscì a terminare la frase. Si sentì una grande botta, un rumore assordante, provenire da dietro di loro, più precisamente dalla piazzetta in cui si era esibito Kamal.


I tre si voltarono di scatto spaventati.

“Cos'era? Un petardo?” ipotizzò Kira.


I petardi non fanno quel rumore.” fece l'amica.

“Allora cos'era?” fece Jozef, che forse era il più preoccupato del trio.

Sentirono qualcuno parlare in lontananza in modo fiero. Era tedesco, non capirono quasi nulla. A Kira parse di sentir nominare Hitler. Poi qualcuno, anche se non sapeva se si trattava dello stesso che aveva parlato in tedesco, urlò “A Morte!”.


Si sentì un'altra botta. Più forte della precedente. La folla iniziò ad andare nel panico, e a correre avanti e indietro, in ogni direzione. Si sentirono grida, urla di terrore, disperazione e paura provenienti da persone di ogni età, come se ogni grido rappresentasse ogni persona che si trovava lì.

Kira cercò con lo sguardo uno dei due poliziotti che aveva visto prima. Erano poliziotti. Erano lì per proteggerli. Loro avrebbero saputo cosa fare. Riuscì a riconoscerne uno, il primo dei due che aveva visto, ma sentì il cuore fermarsi e il sangue nelle vene gelarsi quando vide che nelle mani teneva un grosso fucile. Un fucile che di certo non danno alla polizia. Un fucile con cui iniziò a sparare sulla folla terrorizzata.


La musica che si era sentita per tutta la serata tacque, per fare spazio all'unica colonna sonora di quel momento, le urla della folla, sempre più disperate, spaventate. E l'unico rumore che si sentiva diverso da quelle urla erano altri botti, altri spari. Che sapevano di morte.




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Nessuno aveva voglia di fare una passeggiata, così si ritrovarono in una tavola calda, e ordinarono qualcosa. Se ne stettero lì, seduti ad un tavolo, intorno a loro un silenzio imbarazzante, rotto solo dalle persone intorno a loro.

“Ancora mezzora.” fece Preston, dando un'occhiata all'orologio della tavola calda.

“E' molto accogliente questo posto. E Madrid. E' così maestosa. Non avevo mai visto una città così grande.” fece Giovanna, l'unica entusiasta a quanto pare.

“Lieto che tu ti diverta tanto, bellezza.” commentò Preston.


Colton accavallò le gambe, e facendolo fece cadere la sua pistola d'ordinanza. La raccolse prontamente e la tenne sotto il tavolo per nasconderla, intento su dove metterla con quei pantaloni blu strani e attillati che doveva portare, ma James se ne accorse.

“Henrich vi ha restituito la pistola?” chiese.

“Anche a te.” fece Colton, notando che sotto la giacca l'ammiraglio teneva una bella pistola d'epoca, ricca di particolari e molto maestosa “Posso vederla?”


James la prese per mostrargliela meglio, ma continuò a tenerla. Non si fidava abbastanza da dargliela, e Colton lo capì, lui avrebbe fatto lo stesso.


Kira gli gettò un'occhiata, e quando vide entrambe le pistole, i suoi occhi si infuocarono dalla rabbia. Pierre se ne accorse, e la guardò preoccupato.

“Cosa cazzo state facendo?” sbottò, con un tono talmente alto che alcuni dei presenti si voltarono verso il loro tavolo.


Il gruppo la guardò con gli occhi fuori dalle orbite, tutti tranne Pierre.

“Abbassa la voce.” fece Colton digrignando i detti, cercando inutilmente di reprimere la rabbia.


Sono delle pistole quelle?!?”


Fai silenzio o ci scambieranno per dei pregiudicati!”

“E per fare in modo che non accada, voi avete avuto la brillante idea di tirare fuori le vostre cazzo di pistole in un luogo pubblico!”


James mise la sua dentro la giacca immediatamente, spaventato sia dalla reazione della ragazza sia dagli sguardi sbigottiti degli spagnoli intorno a loro che stavano ascoltando tutto.

Colton invece era tutt'altro che spaventato. Era furioso. Con Kira. Più del solito.

“Ma si può sapere che razza di problema mentale hai?!?”


Metti subito via quella cazzo di pistola o giuro su Dio, te la infilo su per il culo.” sbottò Kira, ignorando totalmente il commento del poliziotto.


Per Colton fu la goccia che fece traboccare il vaso.

“Ti farò pentire amaramente di quel-”


La frase di Colton venne interrotta da un forte rumore provenire dalla strada, che agli altri clienti della tavola calda risultò indifferente. Doveva trattarsi di qualcosa a cui erano abituati.

Una botta? Un tonfo? Un rumore assordante ed insistente.

Kira iniziò ad agitarsi più di prima. Iniziò a tremare quasi involontariamente, le sue gambe si fecero rigide e le sue mani premettero sulle sue orecchie, tutto per interrompere quel rumore. Iniziò a dondolarsi nella sedia, facendo qualche verso con la bocca, un misto tra pianto e paura, ma il rumore non cessava e i suoi occhi erano ancora puntati su quella maledetta pistola, e gli sguardi allibiti del gruppo che la guardavano sconvolti.

“Rilassati, è solo l'orologio.” fece Preston, mantenendo il suo solito tono annoiato.


Orologio? Pistola d'ordinanza? Orologio? No, botta. Pistola d'ordinanza? No, arma. Botta e arma. Arma e botta. Spari e botte. Botte e spari. Percepì quasi un urlo in lontananza, ma nel suo inconscio sapeva che non era reale. Che se lo stava immaginando lei.

E poi il tempo intorno a loro si fermò. L'orologio non suonava più, il resto delle persone ferme come statue di cera, tutto era come bloccato tranne loro. In pausa.

“Che diavolo succede adesso?” fece Preston.

“Sono stato io.” fece Pierre riferendosi chiaramente al tempo che si era fermato. Si incamminò verso Kira dandole una rapida occhiata “Andiamo via. Adesso.”

Ogni membro del gruppo annuì e, uno ad uno, sparì dalla tavola calda, teletrasportandosi altrove. Rimasero solo Kira e Pierre.


Ehy.. va tutto bene.” fece Pierre cercando di sembrare il più empatico possibile, fallendo miseramente “adesso ce ne andiamo da qui” aggiunse.


Si preparò per il teletrasporto, e all'ultimo momento mise delicatamente una mano sul braccio sinistro della ragazza, per teletrasportare anche lei con lui. Date le sue condizioni, optò che non era il caso che si teletrasportasse da sola, sempre se ci fosse riuscita, e non poteva neanche afferrarla con forza, perché qualunque trauma del suo passato stesse affrontando, doveva avere a che fare con la violenza, così la toccò il più delicatamente possibile, quanto bastava per portarla via con lui. Lontana da quel luogo, e da qualunque incubo o demone del suo passato stesse affrontando.


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E' più difficile di quanto si creda descrivere a parole una situazione in cui sai di poter morire da un momento all'altro, soprattutto quando è inaspettato. Soprattutto quando esci per divertirti, per passare una serata spensierata con amici per dimenticare i problemi di tutti i giorni, problemi che ad un tratto diventano così piccoli, così insignificanti. E poi arriva quel momento, quell'esatto momento in cui realizzi che sono più alte le possibilità che tu muoia, quel momento in cui la tua sopravvivenza è legata esclusivamente alla fortuna e mentre cerchi disperatamente un modo per salvarti, ti ritrovi circondato da persone come te, persone che urlano, dalla paura e dal terrore, tutte con la stessa consapevolezza, tutte con quegli sguardi disperati consapevoli di essere finiti nel posto sbagliato al momento sbagliato, consapevoli che la maggior parte di loro non avranno la possibilità di tornare nelle loro case ad abbracciare le loro famiglie, consapevoli che molti di loro quel luogo e quelle urla di dolore e disperazione, saranno le ultime cose che vedranno e sentiranno, e che le stesse strade in cui avevano ballato felicemente quella sera si sporcheranno del loro sangue.

Gli spari erano iniziati, il terrore si stava diffondendo e le prime vittime caddero inermi per terra prive di vita e grondanti di sangue, ed erano passati solo pochi secondi dai primi spari, eppure a Kira sembrava essere passata un'eternità.


Faceva ancora fatica a credere a quello che stava succedendo, al fatto che fosse reale, l'unica cosa di cui era consapevole era che non voleva morire, e che aveva paura. Sentiva una fitta allo stomaco e il suo sangue pulsare sotto la pelle. Lei, Jozef e Valeriya iniziarono a correre, ma quando sentirono degli spari anche nella direzione in cui stavano andando, si bloccarono e si guardarono disperatamente intorno alla ricerca di un nascondiglio, ma trovarono solo cadaveri.

“Sono morti. Oddio, sono morti! Sono morti davvero!” iniziò ad urlare Valeriya, da sempre la più emotiva.


Kira scosse l'amica per farla riprendere. Avrebbe voluto dire qualcosa ad esempio “noi non siamo ancora morti” e “mi servi tu se vogliamo sopravvivere”, ma si limitò a scuoterla. Non riuscì ad aggiungere altro, perché nonostante cercasse di negarlo, Kira stava urlando esattamente come Valeriya, ma internamente. Urla di terrore.

Jozef afferrò le due ragazze per le braccia e le spinse in un vicolo lì vicino, per poi prepararsi a correre nella stessa direzione in cui stavano correndo prima, ma questa volta fu Kira ad afferrarlo per un braccio.


Dove diavolo vai?!? Sei impazzito?!?”


Jozef indicò con la testa un edificio lì vicino, dall'altra parte della strada.

“C'è mio fratello lì dentro.. Ha solo sette anni.. Io non-” fece una pausa, poi aggiunse “devo andare da lui.”


Jozef, no! E' un centro sportivo quello! Un edificio pubblico. Uno di loro potrebbe entrare e..” balbettò Kira.

Jozef scoppiò in lacrime, nonostante facesse di tutto per cercare di impedirlo.

“Lo so.” ammise, lasciando che le lacrime gli attraversassero le guance “ma non lascerò che muoia da solo.”


Jozef..” lo chiamò Valeriya, singhiozzando “se mi ami davvero, ti prego, ti scongiuro, non andare.” disse, cercando di trascinarlo nel vicolo.


Jozef si chinò sulla ragazza e la baciò rapidamente, sapendo che con ogni probabilità quello sarebbe stato l'ultimo bacio che sarebbe stato in grado di darle “ti amo.” le sussurrò non appena si staccò, poi pianse di nuovo “ma devo farlo”aggiunse, staccandosi definitivamente da entrambe le ragazze e correndo verso l'edificio per poi entrarci.

Valeriya fece per inseguirlo, ma Kira la bloccò e la spinse nel vicolo.

“Lasciami! Lasciami io devo..” fece Valeriya, divincolandosi, per poi calmarsi poco a poco.

Quando si calmò definitivamente, Valeriya si accasciò al muro, senza smettere di guardare l'edificio. Kira le prese la mano.

Poi, la cosa peggiore che potesse capitare, è successa.

BOOOOOM

L'edificio andò in mille pezzi, a causa di una bomba all'interno probabilmente causata da un kamikaze che si era fatto esplodere per distruggere la struttura e far saltare in aria tutte le persone nell'edificio, incluso Jozef.

Non c'era la minima possibilità che si fosse salvato, ed entrambe le ragazze lo sapevano.

Kira urlò internamente, così forte che se lo avesse fatto con la bocca avrebbe perso la voce, probabilmente. Delle lacrime silenziose iniziarono a bagnarle il viso, viso che rimase impassibile, serio, rendendole impossibile manifestare l'immenso dolore che si sentiva dentro.

Valeriya invece il suo dolore lo fece uscire come un vulcano che erutta. Iniziò a correre verso l'edificio lasciando il nascondiglio, e giunta esattamente a metà strada, dove alcuni pezzi dell'edificio erano arrivati a causa dell'esplosione si inginocchiò quasi cadendo e urlò disperata. Urlò forte, così forte che quell'urlo sembrava sentirlo tutto il pianeta. Urlò il suo nome, e un lungo e doloroso “NO” che raccontava tutto quello che provava per lui.


Kira corse verso l'amica, ricorrendo a tutte le sue energie per alzarla e riportarla nel nascondiglio, per toglierla dalla strada. L'amica si ribellò, ma Kira non volle sentire ragioni. Aveva appena perso il suo migliore amico, non avrebbe perso anche la sua migliore amica.


Giunte quasi al marciapiede, Valeriya si buttò sull'amica, l'abbracciò forte, un po' per supporto e un po' per ringraziarla di essere uscita dal nascondiglio per andarla a riprendere, consapevole che lei da sola non ce l'avrebbe fatta.

Socchiuse gli occhi, e vide dall'altra parte della strada, vicino all'edificio ormai distrutto, uno degli attentatori. Ripeté di nuovo qualcosa in tedesco, e iniziò a sparare a delle persone lì vicino. Senza neanche pensarci due volte, Valeriya strinse forte l'amica, forzando entrambe a spostarsi di centottanta gradi. Così facendo, Valeriya si ritrovò tra l'amica e il terrorista, facendole da scudo. Quando Kira se ne accorse, era troppo tardi.


Quattro, cinque, sei proiettili raggiunsero il corpo di Valeriya. L'ultimo, quello fatale, alla testa, facendo schizzare il sangue sugli occhiali di Kira, che vide l'amica morire tra le sue braccia per salvarla.

Questa volta urlare solo internamente non era neanche lontanamente sufficiente. Kira urlò, tanto da avere male alla gola, mentre poggiava delicatamente il corpo sanguinante e senza vita della persona che era morta per lei.


Anche se al solo pensiero di abbandonarla lì per strada come spazzatura le provocava disgusto, Kira lo fece. Lo fece perché la sua Val era morta per salvarla, e non avrebbe reso vano quel sacrificio. Sarebbe sopravvissuta. Per lei. E per Jozef.

Iniziò a correre alla cieca, non sapendo bene dove andare. Sentiva ancora degli spari, e tutto quello che vedeva era il sangue della sua amica, che era rimasto sui suoi occhiali e le copriva totalmente la vista, e senza occhiali non avrebbe visto niente comunque. E non aveva tempo di fare altro. Poteva solo correre.

Inciampò un paio di volte, e con le mani capì che si trattava di cadaveri. Con la poca energia che le rimase, si rialzò ogni volta e continuò a correre.


Aiutandosi con il tatto, e con un enorme fortuna che non credeva di avere soprattutto dopo quanto era successo, riuscì ad infilarsi in un vicolo, diverso da quello in cui le aveva trascinate Jozef.

Sempre con le mani, riuscì a percepire quello che sembrava essere un bidone della spazzatura pubblico. Senza neanche pensarci, lo aprì e ci si buttò dentro a pesce, e fu un grosso errore.

Insieme a qualche sacchetto della spazzatura, sul lato destro poggiato verticalmente su un lato, c'era un coltello affilato rivolto verso l'alto. Quando Kira entrò nel bidone, il suo viso finì proprio dove stava quel coltello, che le provocò, oltre ad un notevole dolore fisico, un enorme e permanente taglio sulle labbra, che iniziarono a sanguinare.

Nonostante il dolore, Kira non emise un suono. Non poteva. Non ci riusciva. Se ne stette lì, immobile, con ancora quel coltello conficcato nelle labbra, rannicchiata come un bambino piccolo, senza muoversi tenendo le mani sulle orecchie per cercare di coprire quanto poteva i rumori, mentre fuori udiva ancora le urla, gli spari e la morte che avevano alimentato quella sera e trasformato un bel momento nel peggiore degli incubi.


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Quando Kira e Pierre tornarono nel loro consueto salotto con il teletrasporto, il resto del gruppo se ne stava lì, seduto nei divani, ad aspettarli. Alcuni di loro avevano lo sguardo fisso su Kira, uno sguardo colmo di rabbia, di irritazione, altri evitavano lo sguardo della ragazza, un po' delusi e un po' timorosi di averla intorno.

Kira, per la prima volta davanti al gruppo, si mostrò imbarazzata.. e dispiaciuta, per quanto era successo.

Gli animi erano davvero troppo tesi, così intervenne Pierre.

“Poteva.. poteva andar peggio.”


Colton scoppiò in una finta risata.

“No. Non poteva andare peggio. Non poteva proprio.”


Siamo qui. Siamo tornati. E nessuno di noi ha avuto ripercussioni per quanto è successo.” insistette Pierre.

“Sì, ma ci mancava davvero poco.” fece Preston.

Colton si alzò e si avvicinò a Kira. La guardò dritto negli occhi.

Vattene.”


Cosa?”


Ho detto. Vattene. Sei fuori.” disse in tono risoluto Colton.

“Non sei tu a decidere chi se ne va e chi resta.” fece Pierre.

“Vuoi che facciamo a votazioni, pazzoide? Ottimo.” fece Colton, avvicinandosi al resto del gruppo “Quanti di voi vogliono che la svitata dalle labbra storpie continui a venire in missione con noi rischiando di mandare a puttane non solo la missione, ma anche le nostre vite?”


Nessuno parlò. Preston, Giovanna e James guardarono ovunque tranne Kira, dando chiaramente una risposta. Provavano pena per lei, per qualunque problema mentale avesse, dato che ormai erano tutti convinti che fosse mentalmente instabile, ma non la volevano intorno. Nessuno la voleva. Tranne Pierre, che la difendeva a spada tratta.

“Tutto questo perché ha avuto un attacco di ansia?” fece Pierre, quasi sbigottito da quelle reazioni.

“Quella non era ansia! Quello è essere mentalmente pazzi e avere chiari squilibri alterati nel cervello. Dio, ho arrestato assassini con meno problemi mentali.” continuò Colton.

“E se ricapitasse? Magari durante una missione pericolosa? Se per un suo errore ci rimettiamo tutti?” aggiunse Preston, poi guardò Kira “mi dispiace per te tesoro, mi dispiace davvero, ma non posso rischiare di morire per farti da babysitter”.

“La verità è che qui tutti abbiamo un'utilità, qualcosa con cui riuscire a vincere. Io so sparare e ho buon intuito dato che sono un detective, James e Preston sanno combattere. Giovanna ha un ottimo senso dell'orientamento” fece Colton “e persino il nostro mostro personale ha dimostrato di avere qualche utilità grazie al suo quoziente intellettivo alto.” aggiunse, indicando Pierre.

Poi si mise davanti a Kira.

“Tu, invece, sei solo un enorme palla al piede. Gli unici ad accorgersi di una tua eventuale morte saremmo noi a causa di questo cazzo di legame. Scommetto che non mancheresti a nessun altro.”


Kira continuò a guardare Colton, ferita, distrutta per la prima volta da qualcosa che lui le aveva detto. Sentì le guance bagnarsi di lacrime.

Pierre stava per ribattere, e anche James sembrò voler dire qualcosa per farla sentire meglio dopo le parole di Colton, ma lei non lo permise a nessuno di loro.

Si focalizzò su qualcosa. E poi sparì, teletrasportandosi chissà dove, e quando.



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Kira non ebbe idea di quanto tempo passò in quel bidone. Il tempo era una di quelle cose difficili da calcolare, dopo quanto successo, e quando sentì qualcuno aprirlo, sussultò dalla paura e dal terrore, ancora vividi nella sua mente e nei suoi ricordi.

“Ehy, ehy tranquilla. Va tutto bene, siamo qui per aiutarti. E' tutto finito.”

Due soccorritori entrarono nel bidone per assicurarsi che stesse bene. Uno di loro le tolse delicatamente quel coltello che ancora premeva sulle sue labbra, mentre l'altro la prese in braccio.

“Sei stata molto fortunata. Se quel coltello fosse stato pochi centimetri più a destra, ti avrebbe trapassato un occhio.”


Già.. Fortunata. E' proprio ciò che sono.

Quando uscì dal bidone, sempre tra le braccia di uno dei soccorritori, sentì la sirena dell'ambulanza e dei vigili del fuoco. Quello che le aveva tolto il coltello le coprì gli occhi, per impedirle di vedere alcuni dei cadaveri che erano ancora a terra.

Come se facesse la differenza, dopo quello che è successo.

La portarono dentro un'ambulanza, e la visitarono brevemente, considerando i tanti feriti presenti. Dopo un po' di tempo, vide in lontananza arrivare i suoi genitori. Avevano gli occhi rossi da quanto piangevano, e corsero verso di lei abbracciandola forte. Le dissero qualcosa.

“Grazie al Cielo stai bene.”


La mia bambina.”


Sei stata così coraggiosa.”


Kira non disse niente. Si limitò a lasciarsi abbracciare, il suo sguardo perso nel vuoto, come se la sua anima non ci fosse più. Come se fosse morta quel giorno, insieme ai suoi sogni.

Arrivarono i primi giornalisti, prontamente cacciati dai vigili del fuoco. Iniziarono ad elencare il numero dei morti e dei feriti, come se non fossero altro che numeri.

Poi, vide arrivare la madre di Valeriya. Vide che parlava con un vigile del fuoco. Poi la donna scoppiò in lacrime urlando il nome della figlia, mentre l'uomo cercava di darle un sostegno morale aiutandola ad alzarsi.

Tutto apparve sfuocato, lontano, come un sogno antico, come i giorni che Kira passò in ospedale per alcuni accertamenti.

Quando tornò a casa, vide sul suo comodino una foto. Una foto che teneva lì da sempre, e che quando la vedeva il mattino quando si alzava e la sera quando andava a letto la faceva sorridere. Una foto di lei, Jozef e Valeriya da bambini, che giocavano e ridevano, ma questa volta, quando la guardò, non rise.


La prese, la guardò un'ultima volta con quello sguardo perso e vuoto che non l'avrebbe mai lasciata, e la strappò, buttando ciò che ne restava nella spazzatura.



“I terroristi, i kamikaze, non ci ammazzano soltanto per il gusto di ammazzarci. Ci ammazzano per piegarci. Per intimidirci, stancarci, ricattarci. Il loro scopo non è riempire i cimiteri. Non è distruggere i nostri grattacieli, le nostri Torri di Pisa, le nostre Tour Eiffel, le nostre cattedrali. I nostri David di Michelangelo. E' distruggere la nostra anima, le nostri idee, i nostri sentimenti, i nostri sogni.”


Oriana Fallaci





Note:


Ciao! Sì, non sono morta -.-' Lo so, il mio ritardo per questo capitolo è vergognoso, ma ho avuto problemi di tempo e anche al Computer. Inoltre, questo capitolo è stato modificato tantissime volte. All'inizio doveva essere ambientato a Parigi e doveva essere molto comico e ironico, giusto per darvi un'idea di quante modifiche ha ricevuto. Una ventina, minimo.
Anche perchè questo capitolo è strettamente legato a ciò che avverrà d'ora in avanti fino alla fine del primo e quindi dovevo pensare bene anche ai capitoli successivi prima di scriverlo. E per scusarmi dell'eccessivo ritardo, è anche più lungo del solito.


Spero che vi sia piaciuto, nonostante sia tutto tranne allegro. Per prepararmi a scriverlo, mi sono ascoltata alla nausea "Non mi avete fatto niente", ma vi prego, siate clementi, non so molto di attentati terroristici ed è la prima volta che ne scrivo uno in un racconto. Ho fatto del mio meglio e spero che sia venuto decente.


PS: i personaggi di Jozef e Valeriya sono ispirati a due miei amici, che fortunatamente stanno benissimo e godono di ottima salute :)



Grazie a tutti quelli che leggeranno il capitolo e soprattutto per quelli che lasceranno una recensione, nonostante l'enorme ritardo. Spero che il prossimo capitolo arrivi prima! Un bacio.

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