Bring me the horizon

di Luana89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Brotherhood ***
Capitolo 2: *** Everybody is a book of blood; wherever we're opened, we're red. ***
Capitolo 3: *** Singing in the rain. I'm singing in the rain. And it's such a fucking glorious feeling. ***
Capitolo 4: *** Stolen Kisses ***
Capitolo 5: *** Decomposition ***
Capitolo 6: *** Stops and Starts ***
Capitolo 7: *** Strong ties make us feel good, make us feel that we belong, but they also constrict our worldview ***
Capitolo 8: *** Be bad, but at least don't be a liar ***
Capitolo 9: *** Remember ***
Capitolo 10: *** Criminals do not die by the hands of the law. They die by the hands of other men. ***
Capitolo 11: *** It’s a crossroads not a dead end ***
Capitolo 12: *** Faith ***
Capitolo 13: *** I feel like Job ***
Capitolo 14: *** Sinners ***
Capitolo 15: *** I'm not upset that you lied to me, I'm upset that from now on I can't believe you ***
Capitolo 16: *** So who is the traitor in our midst? ***
Capitolo 17: *** So tell me, my dear, can a heart still break when it’s already stopped beating? ***
Capitolo 18: *** When is a monster not a monster? ***
Capitolo 19: *** Puškin ***
Capitolo 20: *** I Want To Believe ***
Capitolo 21: *** Believe the Lie ***
Capitolo 22: *** Bring me the horizon (ending) ***



Capitolo 1
*** Brotherhood ***


 

 

 

 

 

 

ACT I
 

Arizona, 2005
 

 
Respirai profondamente tenendo le labbra appena schiuse, era come si i polmoni stessero prendendo fuoco. Misha sputò a terra imprecando «Voglio tornare a Mosca, col ghiaccio, la neve e la vodka. Dove cazzo siamo nel deserto? Il deserto lì…»
«Sahara, Misha. Sahara» me la risi alle sue spalle, era una vita che non facevo altro.
   «Grazie della spiegazione piccolo geologo, ma indovina? Non me ne frega un cazzo. Mi sto sciogliendo… da dentro. Shùra, DA DENTRO. Non so se mi spiego.» Si spiegava, ma era divertente dargli contro.
«Ma smettila di lamentarti, questo posto è bellissimo, dio mio! Papà ha fatto bene a portarci in vacanza qui». La voce di Sophia suonava eccitata, in maniera probabilmente eccessiva per una diciottenne che si trovava in mezzo al nulla; le donne hanno una sensibilità tutta loro. La vidi voltare il capo verso di noi e gli occhi sembrarono brillarle. «Avete idea di quante piante ci siano qui attorno? Le ho viste già tutte su internet.
«Ah, riesce a crescere qualcosa qui? Me ne stupisco». Il mio tono indolente non sembrò piacerle, a differenza di Misha che sembrò approvare.
«Aleksander Belov, non sei per niente divertente» - secondo lei chiamarmi col nome completo le dava un tono da ‘’mamma’’ - «Piuttosto massaggiami la schiena, ce l’ho a pezzi, quanto manca per l’albergo?»
«Dovresti preoccuparti dei serpenti più che della tua schiena.» Misha sapeva sempre dove colpire.
«Taci… Oh! Guardate il panorama, il sole sta per tramontare, è spettacolare, Dio mio…»
«La smetti di nominare Cristo?» sbuffai ormai rassegnato accendendomi una sigaretta, ero sicuro che se l’avessi messa due secondi in una roccia non avrei avuto bisogno dell’accendino.  «Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
 

 

Mosca, 2016
 
Il corridoio in penombra e deserto portava l’eco dei miei passi, come il rintocco di una campana a morto. Ho sempre visto in questo modo le mie entrate in scena, porto morte e distruzione ovunque mi volti, persi l’umanità una fredda notte di Gennaio, in una squallida viuzza di San Pietroburgo mentre fissavo gli occhi più bonari e malvagi che condizionarono la mia vita profondamente.
Oltre la porta in legno spesso potevo sentire il borbottio insistente di due voci, non bussai limitandomi ad entrare col mio solito sorriso affabile e carismatico, voltandomi verso uno dei due uomini: mio padre. Definirlo ‘’padre’’ non è completamente esatto, mi sottrasse dalle strade nella quale compivo piccoli furti per sopravvivere portandomi nella sua grande dimora. L’uomo in questione è  Syergyej Mihajlov 'Mikhas conosciuto da tutti come il ‘’Vor’’, colui che anni prima fondò quella che ad oggi è l’organizzazione criminale più potente in Russia, e una delle più influenti nel mondo: La Bratva. La ‘’Fratellanza’’ o ‘’Brigata del sole’’, i nomi sono vari ma la merda è uguale. Il mio nome è Aleksandr Belov, il suo uomo di fiducia, la sua opera migliore, il suo piccolo mostro come amava sempre definirmi.
Accanto a lui vi è Tyler Stevens, un trafficante di origini americane a cui ci siamo recentemente affiliati, lo stolto non ha ancora capito di aver siglato un accordo con il Diavolo in persona.
«Shùra – questo il mio nome all’interno della famiglia – sei arrivato finalmente, prendi posto». Sorrisi ambiguamente sedendomi alla destra del Vor. L’americano mi fissò con timore, probabilmente si stava chiedendo se un viso come il mio abbia commesso sul serio tutte le atrocità di cui il Boss si vanta. Le mie dita picchiettarono contro il legno lucido del tavolo mentre ascoltavo in silenzio la conversazione, non era ancora il momento per me di intervenire.
«Syergyej, tutti i ragazzi pensano che dare il 40% degli incassi a voi sia eccessivo». L’aria sembrò arrestarsi mentre la risata rauca del più anziano si spandeva come nube tossica, la sentivo attorno a me.
«Hai sentito Shùra? Sembra che l’accordo salterà» Tyler si pose improvvisamente nervoso, persino un porco come lui era in grado di capire quanto fosse nocivo perdere il favore del Vor. Scrollai le spalle come se la cosa non mi importasse.
«Oh no .. no. E’ solo che vorremmo .. contrattare». Il pugno di Sergej fu udibile lungo tutto il corridoio probabilmente.
«Noi forniamo puttane e droga, e tu mi dici di contrattare?» mi fissò con uno strano bagliore, la mia mano si mosse lentamente estraendo la pistola incastrata nella cinta, la poggiai sulla superficie liscia e pulita in maniera silenziosa osservando l’americano divenire paonazzo. «Che dici Shùra, dovremmo contrattare?». I nostri occhi si soppesarono, spostai i miei sull’uomo basso e tarchiato.
«L’agenzia di copertura aprirà tra qualche giorno a San Francisco, il primo carico arriverà nella notte e sarò io ad occuparmene. Inoltre .. San Francisco sembra aver dato rifugio a parecchi rifiuti tossici che devo eliminare, dì un po’ Tyler .. vuoi unirti alla massa?». Il Vor rise nuovamente senza aggiungere altro, la discussione poteva considerarsi definitivamente chiusa.
Mi alzai afferrando l’arma che tenni con la mancina pronto ad andarmene, ma la voce del vecchio mi bloccò sul posto «Sophia ti raggiungerà tra una settimana, proteggila e bada alla discrezione. Il mio angelo deve rimanere  puro. Porta con te Misha, in coppia lavorate bene ed inoltre non ho tempo di occuparmi di quella testa calda, star senza di te lo porta sempre a comportamenti impulsivi e stupidi». Annuì senza ribattere, a che pro? La sua parola era da sempre legge.
Il corridoio ospitò nuovamente i miei passi solitari, caricai l’arma con un colpo secco ed un sorriso arcigno.

 
 

 
San Francisco, due giorni dopo.
 

 
 
La berlina scura sostava vicino l’aeroporto, sentii Misha accanto a me sbuffare insoddisfatto il che non era una particolare novità, quel ragazzino che anagraficamente aveva 25 anni, ma mentalmente spesso non arrivava ai 7, sembrava essere cresciuto perennemente schiacciato dal comune mal di vivere. L’ingresso all’interno dell’autovettura ci diede un piccolo riposo dalla calura e dall’afa che aveva reso la mia camicia bianca completamente zuppa.
«Per quanto staremo in questo posto di merda?» Misha attaccò immediatamente, la sua voce quasi nasale sembrava perennemente incazzata e incisiva, graffiante in maniera quasi affascinante, mentre la mia bassa e roca somigliava più al miele sciolto nella lingua, con una punta di veleno abbastanza letale da ucciderti dolcemente.
«A parte scoparti le puttane prima di darle ai clienti, hai altri impegni che esigono la tua presenza a Mosca?». Lo vidi fissarmi in cagnesco prima di sorridere beffardo, nulla lo scalfiva e tutto lo uccideva.
«E tu? Il guinzaglio che ti ha regalato il Vor non ti dona molto, credimi Belov». Roteai gli occhi con fare scocciato, era sempre la stessa storia con lui. Se io avevo fatto delle regole Bratva uno stile di vita, per lui erano solo imposizioni che il suo animo ribelle non riusciva a concepire. Odiava la mano dalla quale mangiava giorno dopo giorno, questo feriva il suo orgoglio ed il suo capro espiatorio ero ovviamente io. Io che avevo condotto la mia ascesa al potere in maniera magistrale e a soli 30 anni ero non solo il braccio destro del Vor, uno dei pochi ad esercitare ascendente e potere pur non condividendo con lui una singola goccia di sangue. Nessuno più di me si teneva aggrappato a quel concetto di ‘’famiglia’’ che a molti sarebbe sembrato sbagliato, perverso e crudele.
«Tra una settimana ci raggiungerà anche Sophia, avremo il tempo di sistemarci in casa e in agenzia, vedi di non creare problemi come tuo solito». Non gli diedi il tempo di rispondermi, l’auto si fermò nei pressi della villetta che avevo comperato, scesi superandolo per entrare in quella che era appena divenuta a tutti gli effetti la nostra casa.

 
 
 

 
 
 
L’insediamento non portò grossi problemi, tramite manovre apparentemente legali divenni il presidente dell’Élite, un’agenzia di moda, e Misha il modello di punta. Tramite questa nascondevamo il giro di prostituzione e droga che iniziò ben presto a portare soldi a palate. I soldi in fondo sono il motore del mondo, il vero cancro dell’umanità, tutti finiscono con l’avere un prezzo ed essere venduti al migliore offerente.
La porta si aprì improvvisamente ed il viso di colui che consideravo a tutti gli effetti un fratello, la metà del mio cuore, fece capolino con il suo solito fare sbruffone e indolente. Si sedette sulla poltroncina accavallando le gambe, guardandosi attorno con interesse.
«Misha non ho tempo di giocare con te, devo rivedere alcuni conti». Lo liquidai con un gesto della mano sperando andasse via, ma questo non sembrava del medesimo avviso.
«Dobbiamo parlare». Il tono lasciò trasparire un sadico divertimento.
«Ma non mi dire .. e di cosa?». Lo beffeggiai togliendo gli occhiali da vista per concedergli la mia totale attenzione.
«Di noi. Pensi che essere il presidente ti ponga diritti su di me?». Era quello il problema quindi. Mi alzai sedendomi di fronte a lui.
«Arriva al punto, cos’è che vuoi», ci fissammo in cagnesco. Nessuno avrebbe creduto al profondo amore che ci legava. Un amore iniziato vent’anni prima.
«E’ molto semplice, non farti venire manie di comando, sai che mi piacciono poco». Allargò le braccia scrollando appena le spalle. La mia risata interruppe il momento.
«E’ una scala gerarchica Misha, dovresti ormai saperlo, i miei ‘’ordini’’ sono gli ordini del Vor. Non ubbidire è una tua scelta, te ne prenderai le conseguenze al massimo. Invece di preoccuparti per cose simili, dovresti solo pensare a far bene il tuo lavoro, sai quanto a Sergej dispiacciano i lavori fatti male .. e per ironia a te piacciono troppo». Mi sorrise, il discorso poteva dirsi concluso.
«Sophia arriverà tra meno di un’ora, vieni con me?». Lo vidi aggrottare la fronte per poi scuotere il capo.
«No. Inizierebbe subito a rompere i coglioni con le sue pretese da principessina del mio gran cazzo, lascio a te l’onore. La vedrò comunque a casa». Annuì senza la forza di dargli torto. Sophia, la figlia adottiva del Vor, la principessa della Russia. Cresciuta nello sfarzo, in una bolla di purezza e cecità della quale probabilmente neppure lei si rendeva conto. Era ignara dei traffici del padre, considerandolo un eroe integerrimo, un uomo che era riuscito a farsi con le proprie mani, mani linde e non sporche. Capricciosa e svampita abbastanza da cadere ai suoi piedi senza rendertene conto. Entrai in casa sua all’età di 9 anni, lei ne aveva 6, e da quel momento fummo inseparabili. Misha ci raggiunse un anno dopo, aveva solo 5 anni, ed il trio divenne completo.

 

Il giorno in cui decisi di vivere in sussistenza loro non sapevo ancora quanto ne sarei rimasto contaminato.
 
 

(Il piccolo intro non è altro che un omaggio ad un'opera alla quale sono parecchio affezionata, e che mi ha offerto scorci della Russia impagabili tanto da farmi decidere di chiamare il protagonista allo stesso modo del personaggio presente nel libro)
 



 

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Capitolo 2
*** Everybody is a book of blood; wherever we're opened, we're red. ***




ACT II
 
 
San Pietroburgo – 1996
 
Eleazar Petrov venne prelevato dalla propria dimora nel cuore della notte, con le manette ai polsi diede un ultimo sguardo al piccolo Aleksandr, rimasto adesso solo, consapevole che non lo avrebbe mai più rivisto.
 
Eleazar Petrov incontrò Inna Morozova all’età di vent’anni, una bellissima russa per la quale perse la testa. Il loro fu un amore travolgente, o almeno questo è ciò che mio padre raccontava spesso quando la malinconia della sua vita distrutta diveniva troppo da sopportare. Lasciò tutto per lei, mollò Perm la sua città natale e si trasferì a San Pietroburgo ricominciando insieme all’amore della sua vita. Venni concepito pochi mesi dopo il matrimonio, diciamo che la fretta è sempre stata un vizio di famiglia. Entrambi i miei genitori conducevano una vita regolare, papà poliziotto e mamma casalinga, penso che nessuno di loro due seppe mai bene quando tutto andò in pezzi.
Mio padre mise le mani in fascicoli che un semplice agente non dovrebbe mai e poi mai toccare, probabilmente si fidò della gente sbagliata ma il suo desiderio di un mondo migliore, di un mondo adatto al suo preziosissimo figlio fu più forte di qualsiasi riserva. La Russia ci tradì, ci calpestò senza alcun riguardo frantumando la nostra pace.
Ricordo il grande specchio nella mia camera, avevo otto anni e sistemavo il nodo della piccola cravatta con uno sguardo corrucciato e compunto, mia madre entrò in quel momento «Il mio bellissimo bambino ha bisogno di aiuto?». La sua voce dolce e mai severa è un eco ormai lontano, così come il suo viso che non riesco più a ricordare.
«No mamma, posso farcela da solo». Fiero persino nel mio metro e trenta d’altezza, mamma diceva avessi preso questo lato da mio padre.
«Perché quel viso imbronciato allora?». Sospirai insoddisfatto e i nostri occhi verdi così simili si soppesarono.
«Non dovresti bere tanto mamma, non ti fa bene». Il suo viso smunto ed emaciato divenne un pallido riflesso di ciò che era stato per una frazione di secondo. Ecco, probabilmente io fui l’unico a sapere l’esatto momento in cui tutto andò in pezzi: quando mio padre iniziò a farsi prendere dalla smania del lavoro, quando mamma finì la vodka in dispensa e suo marito finse di non notarlo. Quando con mani tremanti mi passò una collezione di poesie chiedendomi di nasconderla.
«Alexander, amore mio, dentro questo libro vi è la tua salvezza. Se .. se dovesse succedere qualcosa a mamma e papà non esitare ad usarlo». L’avevo vista scollare con perizia la carta ed infilarvi dentro parecchi soldi, rilegando il tutto con cura.
«Se papà la trova.. » non riuscii a finire il discorso, la sua espressione terrorizzata valse più di mille parole. Per la prima volta mostrava sfiducia nei confronti del marito, aveva sottratto i risparmi di una vita, li aveva rubati. Sapevo che lasciandole quel libro il denaro sarebbe evaporato con la vodka.
«Nascondiamolo nella mia libreria mamma». Le sorrisi affabile e i suoi occhi si illuminarono. Mi promise che non avrebbe bevuto più ma la sera dormiva sotto i fumi dell’alcool, mentre papà la fissava in silenzio.
La prima ad andarsene fu lei, uscì e non tornò più. Io so che furono loro a portarla via, lei non sarebbe mai scappata. Tre giorni dopo presero mio padre, le manette brillarono nella notte, le vidi nascosto dentro l’armadio.
In quella casa ormai impolverata resta l’eco delle nostre risate, ed il mio riflesso in quello specchio dalle mille crepe, incastrato per l’eternità. Quel bambino di otto anni giace ancora lì, e aspetta che io torni a riprenderlo da ben ventidue anni.
 

 
 
San Francisco – 2016
 
Sophia apparve nel suo metro e sessantacinque di capriccio a braccia incrociate, fissandomi con un sopracciglio inarcato di fronte le porte dell’aeroporto. Le andai incontro con un mezzo sorrisino e l’aria di chi sa già cosa lo attende.
«Hanno perso una mia valigia, dovrei querelare l’aeroporto. O magari San Francisco? O perché no .. gli Stati Uniti?». La voce cristallina e acuta, con una lieve sporcizia di stress, trapassò le mie orecchie. Le afferrai il braccio trascinandola verso l’auto nella quale stavano già caricando i bagagli.
«Sonech’ka, non iniziare già adesso con le tue manie da megalomane, te ne prego». Il mio tono fintamente disperato non la convinse neppure un po’. Salì sbattendo la portiera, rintanandosi nell’angolo più lontano a braccia incrociate. Mi bastò sedermi per sentire il suo odore familiare, Sophia odorava di lillà e primavera, i lunghi capelli castani avevano la consistenza della seta e gli occhi color del miele sembravano scandagliarti l’anima e rivoltarla, peccato poi parlasse. Un difetto doveva pur averlo. Ma a lei avrei perdonato tutto. Tutto.
«Non inizio nulla, non mi importa molto di quella valigia». Mosse in aria la mano con noncuranza, rendendomi curioso.
«No? E’ avvenuto quindi il miracolo finalmente? Ti sei decisa a crescere?». La beffeggiai beccandomi un’occhiata astiosa.
«No.. lì dentro c’erano le vostre cose. Tue e di quell’animale che non è venuto a darmi il benvenuto». La voce divenne improvvisamente serafica. La fissai in cagnesco allargando le narici.
«Sei idiota? Come diavolo hai fatto a perdere le nostre fottute cose?». Cambiai la marcia iniziando a guidare con gesto rabbioso.
«Ooooh, adesso sarei idiota? Vuoi sul serio che ti strappi ogni capello e ti renda calvo? Ricorda che parli con la tua principessa, ti taglio quella linguaccia che hai piccolo bast.. » non finì la frase, le parolacce non le piacevano molto, era convinta la rendessero meno ‘’regale’’. Sophia è qualcosa che non puoi descrivere a parole, devi viverla.
Passammo la restante mezzora litigando, come sempre. Se Misha era il suo adorato ‘’bambino sperduto’’ – e le restanti volte lo zotico animale – io ero la feccia, lo stronzo insensibile. Uno stronzo insensibile che per lei avrebbe dato la vita, e Sophia lo sapeva bene.
 
«Dov’è il mio Misha?». La voce cinguettante superò l’atrio arrivando fino al soggiorno da dove fece capolino la testa bruna del soggetto in questione che sorrise andandole incontro.
«Sophì». Sophia odiava quel nomignolo, e probabilmente lui lo usava al solo scopo di urtarla.
«Non ti decidi a divenire un essere umano?». Gli diede un pizzicotto, li ignorai iniziando a portare le valigie in soggiorno.
«Vi sono mancata? Quanto? Sento uno strano odore… avete portato delle sgualdrine qui dentro?». Ci fissò minacciosamente, io sbuffai lasciandomi ricadere sul divano. Si ricominciava.
«Si deve pur scopare a questo mondo». Il tono melanconico di Misha mi fece ridere, ma l’espressione della principessa mi fece desistere dal proposito.
«Shùra in che modo ti occupi della faccenda? Non lo capisci? Sta crescendo come un animale». Si sedette accanto a me togliendosi le scarpe. Dimenticava spesso che ormai il ‘’bambino’’ aveva venticinque anni suonati.
«Non lo capisci? Lui è nato animale». Sollevai la mano ricevendo il cinque in cambio.
«Parli tu? Sophì, non lo sai? Shùra scopa più di me e te messi insieme». L’aria si fermò, venni sbalzato nel gelo di Mosca.
«E’ la verità?». Fissai entrambi alzandomi.
«Ovvio che no … tu non scopi Sonech’ka». La risata di Misha echeggiò per la casa seguita dai passi dell’uragano Sophia che provò a colpirmi mancandomi per un pelo. Mi chiusi in camera lasciando i mocciosi da soli.
Il nostro rapporto era così, vi era una gerarchia persino nella nostra amicizia. Una linea di confine da non oltrepassare mai. Sophia restava intoccabile per entrambi, non bisognava sconfinare mai e poi mai. Il telefono squillò, fissai il numero sedendomi sul letto per poi rispondere:
 
  • Mi mancava la voce del mio Shùra.
  • Il Vor mi sta diventando sentimentale di questi tempi – una risata ed un sospiro –
  • Soonech’ka è arrivata?
  • Si è appena chiusa in camera sua, vuoi che te la passi?
  • No, ho chiamato per te. Ricordi Larisa? – la puttana del Vor è difficile da dimenticare, soprattutto se fugge facendo perdere le sue tracce insieme a documenti vitali –
  • Si, è stata trovata?
  • Si, è a San Francisco. Voglio che sia tu ad occupartene, puoi farlo?
  • C’è qualcosa che io non possa fare?
  • Mi ha sempre colpito questo di te, le tue ginocchia sembrano rivestite di titanio. Non ti pieghi mai.
  • Dimmi solo dove trovarla.
  • Non voglio qualcosa di eclatante, dobbiamo mantenere un profilo basso.
  • So già come eliminarla – sorrisi –
  • La tua mente machiavellica è sempre una fonte di gioia per me. Ti manderò tutto, voglio un lavoro pulito. Voglio che sia Misha a disfarsene.
  • Sergej..
  • No Shùra. Deve imparare a compiere lavori puliti e meticolosi. Se fallisce puniscilo.
  • Va bene.
 
 
Ricaddi stanco e spossato sulle lenzuola fresche, fissavo il tetto senza vederlo sul serio. Misha, il mio Misha, non era mai stato bravo a compiere quel tipo di lavori. A lui dovevi solo mettere in mano un’arma, lasciargli sfogare la rabbia lavandola via col sangue e tutto andava bene. Tempo prima aveva lasciato un cadavere sul lago ghiacciato, laddove tutti avrebbero potuto vederlo. Fece così scalpore che per poco la sua testa non penzolò dalla Cattedrale Rossa. Perché Sergej lo tiene ancora con se? Perché lui è il classico uomo che non ti lascia finché anche l’ultima goccia della tua anima non si perde inghiottita dalle sue spire.
 
«Abbiamo un lavoro da fare». Misi in bocca del bacon masticandolo lentamente, sentii gli occhi azzurri di Misha scrutarmi.
«Che tipo di lavoro?». Sorrisi mandando giù il boccone, pulendomi con un tovagliolo.
«Hanno trovato Larisa, è qui. Io mi disferò della sua vita e tu del suo corpo – lo soppesai in silenzio, la forchetta si scontrò col piatto mentre il sordo rumore dello sgabello graffiò le mie orecchie. Lo bloccai per un polso guardandolo in cagnesco – Un lavoro pulito Misha. Non una merda delle tue». Fissò le mie dita e poi me sorridendo.
«Ho capito, non c’è da preoccuparsi». Sul serio? Non ne ero molto sicuro.
«Me lo auguro, le cazzate andavano bene a diciotto anni, non adesso». Il suo viso si oscurò, mollai la presa.
«Perché ti affanni tanto? Famiglia? Non hai neppure idea di cosa sia una famiglia testa di cazzo boriosa. Io sono la tua famiglia». Sorrisi. Sapevo molto bene cosa fosse una famiglia, solo che avevo rivisto le mie priorità pur di restare con lui e Sophia.
«Larisa …». L’entrata in scena di Sophia stoppò le mie parole, ci fissò con occhi assonnati ficcandosi un biscotto in bocca.
«Parlate di Zia Larisa?». L’unico modo per definire la sua costante presenza in quella casa era stata quella di farle credere fosse una cugina del padre. Annuii abbassando lo sguardo sul mio piatto.
«Beh? Di che parlavate?». Ci fissò dubbiosa sbriciolando il biscotto sul marmo scuro dell’isola.
«Del fatto che zia sta male – Misha mi fissò interdetto – quindi preparati al peggio, non credo supererà la settimana». Il silenzio assordò tutti e tre. La mia rudezza e freddezza veniva perennemente scambiata per indifferenza, Sophia mi fissò disgustata chiudendosi in camera, probabilmente a piangere. Perché erano quelli i dolori che a lei era concesso avere. Perché era cento volte meglio vederla piangere per la mia insensibilità. Era cento volte, anzi no mille volte meglio vederla guardarmi disgustata perché pensava fossi uno stronzo insensibile, piuttosto che uno schifoso assassino. Le mie mani erano ormai contaminate, vi scorreva sangue in abbondanza, ogni cosa che toccavo marciva .. ma lei no. Non lo avrei permesso.
 
 
 
Varcai la soglia di casa con leggero ritardo, la figura di Misha mezza nuda mi si palesò dinanzi con espressione indolente «Sei tornato?». A lui piaceva dir cose ovvie, di quando in quando.
«Come vedi – annuì bevendo la birra, lo fulminai con un’occhiata – abbiamo Sophia in casa, potresti anche evitare di sfoggiare gli addominali, o pensi parta la ola?». Lo beffeggiai ancora sulla soglia, avevo come l’impressione che sarei uscito di lì a poco.
«Sei geloso che lei possa notarmi?». I suoi occhi azzurri divennero ancora più chiari.
«Dovrei? Misha questi trucchetti da quinta elementare funzionavano da mocciosi». Mantenni il controllo in maniera magistrale, il mio solito tono scocciato non sembrava scalfirsi.
«Tu dici? A me sembra propri di si … - trattenne una risatina, probabilmente sicuro di aver vinto il round – Comunque, Sophia non è ancora rincasata».
Lo fissai incredulo scuotendo il capo, due ore di stronzate prima di dirmi la cosa più importante? Tipico di lui. Gli voltai le spalle gettando la ventiquattrore sul pavimento, uscendo per andare alla ricerca di quella piaga che conoscevo ormai da vent’anni. La trovai venti minuti dopo nei pressi di un minimarket, giocava in una di quelle macchinette idiote nella quale lo scopo ufficiale era vincere pupazzi afferrandoli con una pinza, quello ufficioso fotterti i soldi. Leccai le labbra improvvisamente secche poggiandomi con la spalla al vetro della macchinetta, fissando le sue dita muoversi febbrili.
«Ti ho chiamato trenta volte, per quanto ancora mi toccherà ripeterti che alle mie chiamate devi sempre rispondere?». Non mi guardò continuando a giocare, sapeva come farmi incazzare d’altra parte mi conosceva bene.
«Sotto quale ordine? Chi sei per ordinarmi cose simili?». Mi correggo, lei mi conosceva benissimo. Non bene.
«Va bene, è ovvio che tu sia incazzata con me, possiamo parlarne?». Mi chinai per avere il suo viso alla mia stessa altezza, si voltò repentinamente cogliendomi di sorpresa. Sentii il suo respiro in faccia, e mi persi un po’.
«Pensi sia giusto il tuo atteggiamento? Zia Larisa ha cresciuto anche te in un certo senso, è così semplice per te … accantonare la gente? Lo farai anche con me?». I suoi occhi pieni di giudizio mi destabilizzarono, odiavo quando smetteva i panni della ragazzina viziata per indossare quelli della donna insicura. Sophia voleva solo primeggiare nel cuore di tutti.
«Che cazzate stai dicendo esattamente? Potrei mai accantonare ..te?». Sillabai quelle parole ad un centimetro dal suo viso, respirando profondamente, costringendola a seguirmi e abbandonare quel giochino idiota.
«Volevo vincere il pupazzo.. » la sua voce malinconica mi fece sentire colpevole. Con lei andava sempre così, ogni volta che la fissavo mi sentivo un verme. Bugie e sangue, bugie e sangue. Bugie e sangue.
«Ti comprerò l’intera macchina con tanto di pupazzi dentro se è questo che vuoi». Misi le mani in tasca camminandole a fianco. Non sembrò entusiasta come suo solito.
«No, voglio quello». Sbuffai spazientito allargando le braccia tornando indietro verso quel dannato gioco. «Quale? Qual è questo dannato pupazzo?». Mi fulminò con un’occhiata dandomi un calcio nello stinco, imprecai con una gran voglia di far scendere tutti i santi.
«Non permetterti di fare l’aggressivo con me. Non sono quei falliti che frequenti e comandi a bacchetta». Incrociò le braccia al petto con il tipico sorriso di chi pensa di saperla lunga, carezzai l’interno della guancia con la punta della lingua tirando su col naso.
«Va bene, quindi?». Mi fissò con sospetto, il mio improvviso tono bonario non convinceva neppure me.
«E’ quello..». Indicò una sottospecie di unicorno dall’aria morbida e stupida. Annuii prendendo il portafoglio.
«Okay, te lo compro – Le sue mani si aggrapparono alla pelle del mio braccio graffiandola, scuotendo il capo – Che diavolo hai?».
«Non ti permettere. Devo vincerlo. Anzi devi vincermelo..» ci fissammo e seppi che l’avrei accontenta. Passai le due ore seguenti a rimpinzare quella macchina di monete, tra le incitazioni di Sonech’ka e gli sguardi dei passanti. Sorrisi perdendo nuovamente, non mi interessava davvero vincerle quello stupido pupazzo a me interessava vederla serena. Almeno per quella sera. La portai sulle spalle fino a casa, e quello fu il nostro modo di chiarire. Aveva ventisette anni suonati, un brillante futuro nel campo delle lingue e un’immaturità derivata dall’ignoranza. L’ignoranza di una vita costruita su fondamenta scadenti, sabbie mobili infide che prima o poi avrebbero ingoiato tutti.
 
 
 
***
 
 
La cantina ospitava tutti i miei oggetti, mi ero laureato in chimica e biologia solo per la composizione di veleni ed esplosivi. In quel momento stavo preparando qualcosa di letale solo per Larisa, non c’era modo migliore di affrontare una donna ai miei occhi. Gli scalini scricchiolarono sotto il peso dei passi, ero sicuro fosse Misha visto e considerato che Sonech’ka non sapeva neppure l’esistenza del luogo. Affilai lo sguardo fissandolo dal vetro della boccetta.
«Piccolo chimico, a cosa stai lavorando?». Il sorrisino strafottente entrò prima dei suoi occhi di ghiaccio.
«Vuoi provarlo? Stimo che in base al tuo peso ne basti la metà per mandarti al creatore». Lo guardai in maniera angelica scuotendo il liquido trasparente all’interno della boccetta.
«No grazie, passo. Ma lo sai comunque, sei tu che avrai il privilegio di ammazzarmi alla fine». Alzò le mani in segno di resa ed una smorfia alterò i lineamenti del suo viso. Annuii senza prestargli ancora attenzione, ero già in ritardo senza che ci si mettesse anche lui.
«Quindi … - la sua voce tornò a farsi sentire, era come se esigesse la mia attenzione – tu uccidi e io seppellisco?». Sollevai il viso togliendo la mascherina e i guanti che gettai sul tavolo.
«Disfatene come vuoi, tranne appenderla alle travi di un teatro a mo di trofeo. Sai si chiama ‘’disfarsene silenziosamente’’ perché lo scopo è non far rumore tra la gente». Scrollai le spalle sedendomi sullo sgabello, accendendo una sigaretta. La nicotina era come balsamo lungo la gola perennemente chiusa in quel periodo.
«Voglio sapere perché siamo qui. Anzi perché tu sei qui. L’agenzia è solo la punta, dimmi la verità». E così lo immaginava, me ne compiacqui.
«Devo uccidere Yuri». Colui che ci aveva fatto da mentore per anni, il fratello di Sergej. Aveva commesso l’errore di farsi arrestare, e si sa qual è la legge e la pena per coloro che vengono chiusi dietro le sbarre. Solo la morte può rendere tranquilli i piani alti, persino se eri il fratello del Vor. Lui lo sapeva, ed era fuggito in tempo.
«Assurdo, persino suo fratello ..». Sentii il suo sbuffo e lo sdegno che permeava come un sudario perenne. Provava sdegno per la sorella che aveva perso da bambino, e che ancora cercava. Per lui – e probabilmente anche per me – sporcarsi le mani col sangue dei propri cari era aberrante.
«Lo uccido io, non lui». Scrollai le spalle con fare ironico, non se la bevve.
«Gran bella consolazione della minchia». Mi voltò le spalle e la discussione morì, come la brace della mia sigaretta ormai dimenticata.
 
 
*** 
 
 
Il corpo di Larisa ruzzolò giù, spinto gentilmente dalla punta della mia scarpa. La vidi sollevarsi a fatica provando a fuggire, la mia mano però fu più lesta nell’afferrarle i capelli rudemente trascinandola verso il fiume.
«Non urlare Larisa, una donna come te i coglioni non può averli solo per provare a fottere La Bratva, non trovi?». Le sue unghie si conficcarono sul mio polso, imprecai scrollandola con violenza. Mi fissò come impazzita.
«Non farlo Shùra, non … non ascoltare le sue parole. Lui mente». La voce spezzata trasudava terrore da ogni poro. I miei occhi freddi abbracciarono il fiume alle sue spalle, le mani sul fianco e l’espressione fintamente stanca.
«Pensi mi piaccia? Andiamo, sei Larisa». La indicai con uno dei migliori sorrisi e un singhiozzo represso fu tutto ciò che ricevetti in risposta. Tornai ad afferrarle i capelli inginocchiandomi vicino la riva.
«Dove cazzo sono i documenti Lora? – usai il diminutivo di proposito ficcandole il viso dentro l’acqua, mosse le braccia come se volesse appigliarsi a qualcosa e solo quando pensai stesse per svenire la tirai fuori – Quindi? La memoria ti è tornata?»
«Se ti dico .. se ti dico dove sono, mi lascerai andare?». Ci guardammo senza vederci sul serio, tornai ad annegarla nel fiume zittendo ogni suo urlo.
«Allora, dove sono?». La feci respirare, era divertente dare e togliere. Un imperatore senza corona.
«Il pavimento di casa mia .. nella mia camera da letto, sono lì». Respirava affannosamente fissandomi impaurita. Estrassi la boccetta porgendogliela.
«Bevi, ti calmerà». Le sorrisi affabile, ma lei mi conosceva troppo bene per fidarsi del mio bel viso.
«Aspetto un figlio Aleksandr, non capisci? Vuole uccidermi per questo.. non vuole un erede scomodo che porti via a Kolia tutto». Allargò le narici e le lacrime uscirono fuori da quelle iridi celesti. Ammetto che la notizia non mi lasciò indifferente, ma che si poteva fare al riguardo? Erano tutti carne da macello. La vidi bere e finalmente mi alzai voltandole le spalle.
«Hai circa trenta secondi prima che il veleno faccia effetto, c’è qualcosa che vuoi dirmi?». Il silenzio venne interrotto solo dalle fronde degli alberi, la sua mano afferrò la mia caviglia mentre i dolori iniziavano a corrodere il suo corpo. Strisciò come un serpente sull’erba boccheggiando. Mi voltai chinandomi, accarezzandole i capelli rossicci con un sorriso di pietà; le sue labbra si mossero come se volessero dirmi qualcosa, affilai lo sguardo tendendo le orecchie. Il vento mi portò il suo sussurro e dopo l’ultimo alito di vita: «Marcisci all’inferno, lurido bastardo».
Larisa non sapeva che io all’inferno c’ero giunto da molto tempo ormai. Mi alzai e Misha apparve accanto a me, non dissi nulla limitandomi ad andar via. Adesso toccava a lui.

 
 
 
Mikhail POV
 
Fissai gli occhi vacui di Larisa, somigliavano a quelli di un pesciolino. Era un segno di Dio che voleva dirmi di prenderla e gettarla sul fiume? No, credo proprio di no. O stavolta le mie palle sarebbero penzolate dalla cattedrale. E i coglioni sono la cosa migliore da poter perdere in un mondo come questo.
«Okay puttana, siamo soli io e te – la indicai gesticolando come se potesse sentirmi – adesso andiamo in un bel posto. E tu mi farai la cazzo di cortesia di non apparirmi più davanti».
Il cadavere all’interno del cofano non mi poneva chissà quali problemi, afferrai la fiaschetta che tenevo dentro la tasca interna del giubbotto bevendone una generosa sorsata. Era tutta una merda. Tutta una lurida merda, e dopo quasi vent’anni non avevo ancora capito il segreto di Aleksandr. Io prendevo fuoco per nulla, lui ponderava come se le nostre vite fossero delle fottute partite a scacchi, e infine faceva la sua mossa.
«Ma vaffanculo». Il fiatone mi impedì di continuare ad imprecare come avrei voluto, mentre gettavo quel corpo morto dentro una grande tanica vuota. Gettai l’alcool della mia fiaschetta su di lei prima che lo zippo facesse il resto. Avete mai visto un corpo bruciare? Beh io si, almeno adesso. Solitamente me ne fotto di coprire le prove, siamo la Brigata Del Sole porca puttana, siamo intoccabili. Entriamo nei teatri, nelle cattedrali la domenica, tutti ci guardano e temono. Ma Sergej, quel vecchio di merda, non sembra essere d’accordo. E Shùra insieme a lui. Odio quando mio fratello inveisce contro di me, rende la mia inutile e patetica esistenza ancora più vuota e miserabile.
Il telefono squillò, osservai il numero deviando la chiamata. Che cuocesse ancora un po’ nel suo brodo.
Sputai per terra lasciando il capannone abbandonato mentre l’alba insorgeva prepotente e inesorabile. 

 

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Capitolo 3
*** Singing in the rain. I'm singing in the rain. And it's such a fucking glorious feeling. ***


 
 


ACT III
 
 
Mikhail POV
 
 
( Mosca, 1997 )
 
 
«Misha, vieni da papà». La sua voce suonava disgustosa, batteva come un tamburo contro le mie orecchie, ogni volta. Irina giocava con le sue bambole nella camera rosa che le era stata dedicata. Io e mia madre ci battemmo fortemente per fargliela dipingere in quel modo, anche se ci costò caro.
«Misha, ho detto vieni da papà». Non si stancava mai lui. Era un uomo apparentemente calmo, sempre. Mia madre era una bella donna, aveva la pelle bianca e luminosa, sembrava quasi perlata.
"Sei pura come il latte", le dicevo sempre sperando di farle qualche buon complimento. Quella sera lavava i piatti e la sua figura appariva ancora più triste del solito. Mi sollevai dal mio posto e con quella t-shirt malandata e bucata mi avvicinai all'uomo con i pantaloncini bianchi, perfettamente stirati e profumati.
«Stai crescendo troppo in fretta, non credi?». Le sue mani, in un modo per nulla paterno presero a toccarmi il petto.
«Papà vuole che tu vada nella sua stanza, d’accordo?» annuii. In quella casa bisognava fare solo quello.
Chiusi prima a chiave la camera di mia sorella ed entrai in quella dei miei genitori. Mio padre poggiò la pistola sul comodino, bastava quella ad intimorire tutti, e guardò mia madre ordinandole di mettersi sulla poltrona di fronte al letto, posizionata in modo strategico per il solito teatrino. Era sempre la stessa storia, voleva che piangessi e a me non risultava difficile in quei momenti e soprattutto all’epoca. Mia madre sembrava non provare emozioni se non fosse stato per quella solita lacrima che le rigava il viso ogni volta, certi giorni credevo le si fosse formata una piaga sulla guancia a causa mia e questo era ancora più insopportabile, per me.
Ogni  notte venivo svegliato nel sonno quando le mie lenzuola erano già tutte bagnate, mia madre era costretta a mettermi su quella poltrona e così arrivava il mio turno da spettatore. Non ho mai visto i cartoni, l'unica scena a cui ero abituato era quella di lui che le faceva del male, anche se il peggio lo riservava a me.
 
Avrei voluto vedere i cartoni animati, qualche volta.
 
 
 
San Francisco, Élite
 
 
La mia scarpa ondeggiava ferendo l’aria, mentre sedevo sui comodi divanetti della hall aspettando i nuovi giocattoli. Guardai l’orologio che segnava le 2:00 in punto, fuori vi era una luna piena e grande, maestosa ed immensa .. e questo probabilmente mi avrebbe colpito se fossi stato un poeta o cazzate simili, ma io ero Misha e me ne fottevo.
Un rumore attirò la mia attenzione e capii che il momento era finalmente arrivato, con ben mezzora di ritardo cosa che mi premurai di far notare alla donna incaricata di scortare le merci.
«Il prossimo ritardo coinciderà con l’espianto dei tuoi organi, dicono al mercato nero servano dei reni». La fissai con un sorriso inespressivo che servì a farmi probabilmente prendere sul serio. In realtà non mi occupavo io di quel traffico, e il massimo che avrei potuto fare coi suoi organi sarebbe stato darlo in pasto ai cani. La donna, parecchio cessa a giudicare dai miei canoni, si scusò frettolosamente aprendo il portello del furgoncino. Nove ragazze vi scesero, nove nuove puttane per la precisione. Mi ero offerto volontario nel gestire questo traffico, a differenza di Shùra che provava disgusto per loro a me piacevano. E pure parecchio. Le fissai con attenzione camminando lentamente, piazzandomi di fronte ad ognuna. Erano i loro sguardi ad interessarmi, dopo le tette ovviamente, sceglievo solo quelle con l’aria spenta e vacua perché erano coloro che avrebbero portato meno problemi.
«Loro cinque, delle altre disfatene in qualche modo». Feci segno alle prescelte di seguirmi ignorando le quattro scartate e i loro occhi felici. Povere idiote, erano convinte di essersela scampata, non sapevano del bordello che gestivo in quella città da due anni e nella quale sarebbero state parcheggiate.
Solitamente ne sceglievo una, quella che mi eccitava di più, e me la scopavo in esclusiva prima di cederla ai clienti e ai ‘’ragazzi’’ che gestivano il traffico nelle strade. Avevo un rapporto complesso col sesso, non facevo molte distinzioni e secondo Shùra mi sarei scopato pure le prese d’aria. Aveva ragione. L’unica pura ai miei occhi era Sophia, neppure nelle mie più depravate immaginazioni avevo osato mai metterla, era qualcosa che non potevo sporcare, qualcosa per la quale avrei cambiato la mia sporcizia provando a divenire l’uomo che meritava di avere. Quei pensieri non mi garbavano per nulla, mi facevano sentir debole. Non lo avevo mai confidato a nessuno, neppure a Shùra ma ero sicuro che lui lo sapesse. Lui sapeva sempre tutto. Mi sarebbe piaciuto guardare coi suoi occhi almeno una volta, e vedere come gli appariva Sophia, anche se avevo una mezza idea al riguardo.
 
 
***
 
 
Quando il cellulare squillò stavo giusto riabbottonando la camicia, la voce dall’altro capo del telefono mi lasciò interdetto.
«Sasha? Che succede?» Sasha è un angioletto biondo dalla pelle diafana che molti uomini, soprattutto sposati, richiedono con frequenza. Potremmo definirlo il mio diamante di punta, per quanto l’omosessualità venga mal vista in Russia e in altre mille parti del mondo, loro ci sono e occupano una porzione spaventosa dei nostri guadagni.
Voci di corridoio mi avevano annunciato l’arrivo di un certo Toshio Ozaki (che nome di merda, ne sono cosciente) membro di spicco della Yakuza, con la quale ci saremmo messi in affari presto. Per dargli il benvenuto mandai proprio Sasha, secondo queste ‘’voci’’ al tipo i maschietti non dispiacevano.
«Che succede? Come mi ripagherai le due settimane di ricovero?». Aggrottai la fronte fissando la donna ancora nuda sul mio letto, aveva deciso di mettere su casa lì?
«Frena non ti capisco, che è successo?». Appresi con parecchio mal contento che il giapponese dei miei gran coglioni non era sceso a compromessi, e aveva pure picchiato il mio angelo. Ora, di fronte a queste situazioni di merda mi domando il motivo per cui Shùra si ostini a non capire il mio essere perennemente incazzato. Se io faccio un regalo, non puoi sgualcirlo e pisciarci sopra mi spiego? A meno che tu non abbia tendenze suicide, ma in quel caso consiglierei un cappio veloce. Sospirai uscendo dalla camera, sapevo di star per fare una mega stronzata colossale ma non sono mai, e dico mai, riuscito a frenare quel carattere di merda che nostro Signore sembra avermi gentilmente donato.
«Sai dove alloggia il cinese no?» fissai Pasha intento a lucidare il vetro dell’auto.
«E’ giapponese». Mi avvicinai con un sorriso che a mio dire doveva dirla lunga, ma Pasha non è mai stato un tipo sveglio.
«Portami da lui e non rompere i coglioni professore di questa minchia». Una pacca sulla spalla prima di salire in auto, la discussione era conclusa. Almeno per me.
San Francisco non era particolarmente attraente ai miei occhi, non me ne fregava un cazzo di essere in America, la città di occasioni e possibilità, di cosa poi? Se hai una vita di merda tale resterà sempre. Prendiamo me, ho soldi, puttane, vodka eppure eccomi qui l’insoddisfazione fatta uomo. La tragicità della mia vita. Dovrebbero scriverci un cazzo di libro.
L’ascensore mi portò dritto al piano che cercavo, accarezzai l’arma sotto la giacca continuando a camminare, come mi aspettavo la porta era ostruita da due coglioni messi lì per puro abbellimento. Avrei dovuto portare il silenziatore con me, Shùra lo avrebbe fatto. Ma io non sono lui e cinque minuti dopo due fori fumavano sulle loro fronti. Il mio ingresso non è stato dei più trionfali lo ammetto, ho trovato il cinese seduto sulla tazza del cesso insomma poteva accogliermi in maniera diversa.
«Hai picchiato il mio angelo?. Le mie puttane non si toccano, capisci ciò che ti dico?». No che non capiva stavo parlando russo, risi come un coglione mentre lo vedevo ricomporsi e sbraitare contro di me.
«Chi cazzo sei tu?». Questo lo avevo capito, insomma stava ferendo anche il mio orgoglio?
«L’ultima persona che vedrai suppongo, quindi memorizza questo nome: Mikhail Volkov». Mi fissò in maniera confusa e poi decisamente più consapevole mentre afferravo la mia arma, non avevo l’autorizzazione per ucciderlo e mentre il proiettile perforava il suo cranio vidi l’accordo di Shùra sfumare miseramente. Ma io ero Misha .. e Misha fa solo stronzate.
 
 

 
Aleksandr POV
 
 
Versai la vodka nel bicchiere scolandola tutta d’un fiato mentre fissavo la casa silenziosa e in penombra. Misha aveva passato la notte fuori come sempre e Sophia dormiva ancora, probabilmente non aveva preso sul serio lo stage nella mia agenzia; aveva ottenuto quel posto solo per le pressioni del padre e neppure si presentava. Sospirai bevendo ancora, qualcosa di recente mi turbava ma non ero sicuro del fattore scatenante, alle volte mi succedeva venivo perseguitato dai miei mostri, da tutto ciò che ero e che non sarei mai stato, mi bastava poco per sentire la mia coscienza agonizzante morire svariate volte nell’arco di una sola giornata. Mi chiedevo perché non si decidesse a trapassare e fine. Fissai la cattedrale russa tatuata sulla mia mano, flettei le dita sorridendo arcigno mentre il terzo shot scivolava lungo la mia gola. Mi alzai chiudendomi in camera, togliendo la maglia al solo scopo di osservarmi nel grande specchio angolare. Il mio corpo era interamente ricoperto di tatuaggi, semplice inchiostro che macchiava la mia pelle o almeno questo era ciò che pensava la gente comune. Ogni simbolo aveva un suo significato, la stella a sei punte marchio della Bratva spiccava sul mio petto e sembrava illuminarsi come a volermi dire: colpevole. Ma io sapevo di esserlo, quindi che bisogno aveva di ricordarmelo? L’eco della voce di mio padre si spense non appena l’uscio si aprì palesando la figura di Sophia. Fissai le cosce nude coperte da pantaloncini che a mio parere non potevano definirsi tali, e una canotta semplice in cotone. Le braccia incrociate e gli occhi assonnati.
«Hai bevuto ancora». Le sorrisi dandole le spalle, lasciando che ammirasse la croce e il teschio marchiati dall’inchiostro.
«Vuoi punirmi? Credo non sia più illegale per me bere, sai?». La rimbrottai affettuosamente tornando a fissarla.
«Dormi con me?». Mi fissò con quel solito sguardo, lei sapeva che alla fine avrei ceduto. Eppure ogni volta provavo a resistere.
«Non siamo più dei bambini Sonech’ka, a tuo padre non piacerebbe comunque». A me non fotteva nulla dell’opinione di Sergej in quel preciso momento, ma usarlo come scusa mi aveva sempre fatto comodo.
«Mio padre non è qui, e io voglio dormire con te». Si avviò verso il letto nella quale si stese battendo il palmo della mano proprio accanto a se. In un’altra vita non credo sarebbe stata lei ad invitarmi, ma io a trascinarvela. Sospirai sedendomi tra le lenzuola per poi stendermi, spegnendo la lampada che sembrava improvvisamente eccessiva e indiscreta. Le sue piccole mani mi strinsero, sentii il respiro solleticarmi il braccio e la fronte poggiarsi a esso.
«Non stai prendendo sul serio la tua venuta qui Sophia. Devi fare esperienza e lavorare». Non la guardai né mi mossi.
«Voglio lavorare nella tua agenzia ma come tua segretaria, così staremo insieme io tu e Misha». Chiusi gli occhi trattenendo un sospiro, ai suoi occhi sembrava dovessimo vivere in simbiosi e probabilmente lo avevamo fatto davvero in tutti quegli anni. Ma ci sono cose che non possono durare per sempre, cose che prima o poi devono finire e io stavo provando a recidere quel cordone ombelicale che troppo a lungo mi aveva tenuto suo schiavo. Dovevo mollare la presa su di lei, consapevole di aver già fallito in partenza.
«Ho già una segretaria, ne abbiamo parlato Sophia. Devi iniziare dal basso, tuo padre ha capito che essere la principessa di ogni situazione non ti ha aiutato». La sentii lamentarsi e scalciare, sorrisi nel buio chiudendo gli occhi.
«Siete tutti dei vermi». Mi diede le spalle e finalmente mi permisi di fissarla, nel buio della camera, con i miei veri occhi.
 
 
 
La grande vetrata nel mio ufficio rimandava uno scorcio di città che non ero dell’umore di osservare, le mani affossate nelle tasche e la schiena rigida, qualcosa mi disturbava. A dirla tutta credo che qualcosa mi disturbi da ben vent’anni solo che non ho mai capito ‘’cosa’’. Qualcuno bussò, sentii l’odore di Anastasia, la segretaria che mi ero portato direttamente da Mosca, tossì per attirare la mia attenzione costringendomi a voltarmi nella sua direzione. Non è mai stata particolarmente avvenente, e anche se lo fosse non sarei interessato alla cosa.
«Capo, abbiamo un problema». Annuii sporgendo appena il labbro inferiore, quando mai non avevamo problemi?
«Che succede Nastia?». Mi venne incontro a mani giunte e un lieve nervosismo.
«Mikhail ha fatto un casino ieri notte – si bloccò dandomi il tempo di assimilare una notizia che non era poi una grande novità – A quanto pare ha ucciso due uomini della sicurezza di Ozaki, e per finire.. ». Ascoltai tutto il discorso cercando di non ridere, so che non era il modo giusto di affrontare la situazione ma la tragicomicità di quel bastardo non poteva lasciarmi indifferente.
«Lui lo sa? – mi fissò scuotendo appena il capo – Non dirgli nulla per ora, né dovrai informare nessuno della cosa. Ti dirò a tempo debito cosa fare, al momento dobbiamo risolvere il problema». Tolsi gli occhiali sfregandomi gli occhi con forza, non avevo dormito per niente quella notte; la porta si richiuse lasciandomi nuovamente solo. Tornai a fissare il panorama diurno che San Francisco mi offriva, i guai stavano arrivando ad ondate e bisognava prepararsi a non affondare con tutta la barca. Tornai alla scrivania allungando una mano verso l’interfono: «Chiamatemi Mikhail».
 
Entrò col suo solito passo indolente sedendosi sulla poltrona in pelle, fissandomi con apparente disinteresse. Voleva quindi giocare? Lo soppesai per qualche istante ed infine presi posto di fronte a lui.
«Perché mi hai convocato?». Inarcò un sopracciglio fissandosi con insistenza le unghie.
«Non posso chiedere di te? Volevo sapere come te la stessi passando, ho saputo che ieri è arrivato un carico». Mi sorrise in maniera adesso rilassata, avevo una gran voglia di scaraventarlo giù dalla finestra quel lurido bastardo inutile.
«Si, ed è anche un gran bel carico». Annuì soddisfatto di se stesso, il suo entusiasmo per le puttane era qualcosa che mai avrei concepito. Provavo ribrezzo per quelle donne, erano sporche, volgari e contaminate.
«Si sono stato informato, mi hanno detto che come tuo solito hai provato la merce. Sei sempre molto professionale». Lo beffeggiai velatamente, lui colse e tacque. «E’ successo altro?» I suoi occhi si assottigliarono, era evidente cercasse di capire quanto sapessi.
«Definisci ‘’altro’’.. » il suo commento laconico mi fece ridere, scossi il capo scrollando le spalle.
«Non saprei, sei mancato tutta la notte ieri». Sorrise.
«Non sei contento? Ti ho dato l’opportunità di restare solo con Sophì». Non so bene da dove gli sia derivata la convinzione che io volessi solo per me Sophia, a torto o ragione, è un’idea che gli è entrata in testa durante l’adolescenza e mai più sono riuscito a modificarla.
«Allora suppongo dovrò ricambiare il favore. Stasera ho qualcosa da fare, dovrai rimanere a casa con lei». Mi fissò e io sviai, da bravo infame.
«Hai trovato Yuri?». Era bravo il piccolo ratto ad intuire le cose. Mi mantenni vago con un sorriso forzato.
«Tu non dici a me ogni tuo lavoro, perché io dovrei farlo?»
 
 
 
***
 

 
La viuzza stretta e maleodorante mi ricordava quella di San Pietroburgo da bambino, probabilmente la povertà ha il medesimo e nauseabondo odore da tutte le parti. Un uomo dalla corporatura robusta giace rannicchiato in un angolo, la bottiglia di vodka stretta nella sua mano brilla quasi nell’oscurità e io sapevo di aver trovato ciò che cercavo.
«Un posto simile non si adatta al fratello del Vor – Yuri si girò lentamente, consapevole di essere appena stato beccato – Come stai.. zio?» non si alzò né si mosse.
«Mandare te a disfarsi di me ..è tipico di quel sadico bastardo». La voce impastata da alcool e stenti suonava ancora poderosa come nella mia infanzia. Lo rividi nel giardino di casa, mentre insegnava a me e Sophia come giocare a ‘’guardie e ladri’’, Misha ci osservava da un angolo finché la voce di Yuri non lo costringevaa sempre ad unirsi a noi.
«Se fosse venuto qualcun altro non te la saresti cavata con una morte semplice e veloce» mi sorrise nel fulgore della notte mentre la mia pistola veniva estratta dalla giacca.
«Non capisci Shùra? Lui esigerà sempre di più, finché non sarai in grado di accontentarlo. Ieri Larisa, oggi io ..domani Misha?». La risata rauca ferì le mie orecchie. Pensava fossero cose della quale non ero a conoscenza? Ero conscio di chi fosse Sergej, del suo potenziale e di ciò che mi aspettava. Ci avrei pensato a tempo debito. Puntai alla fronte con un sorriso triste e il volto di Sophia si intromise tra me e lui. Yuri la portava a cavalluccio lungo il corridoio della villa, lei urlava deliziata stringendo ciocche dei suoi capelli. Serrai la mascella chiudendo per un secondo gli occhi finché il ricordo non scomparve.
«Ci vediamo all’inferno, zio». Nessuno sparo venne udito, solo il tonfo del corpo ormai morto, rovistai tra le sue tasche prendendo i documenti per poi afferrare il cellulare componendo un numero «Sapete cosa fare, a Mosca è tutto già pronto, proseguiremo secondo i piani». Un ultimo sguardo all’ennesimo brandello di umanità che lasciavo su di un freddo asfalto, prima di allontanarmi da lì.  
Non andai a casa, mi diressi in uno dei nostri alberghi, presi la solita camera e feci una lunga doccia provando a togliere non solo la mia pelle ma ogni minima traccia di me stesso senza però riuscirvi. Qualcuno bussò proprio in quel momento, aprii osservando i suoi lunghi capelli rossi e le labbra turgide e lucide. Andare con donne sposate era più nel mio stile, non chiedevano nulla e avevano le mie stesse esigenze, un po’ come Serena la donna di fronte a me.
La cerniera del suo abito scivolò giù insieme al mio asciugamano, mentre le sue mani curiose e febbrili andavano alla ricerca della prova, la prova del mio desiderio che non tardò presto ad arrivare. Le mie labbra sul suo collo, aveva un profumo forte di quelli che ti entravano dentro. Non profumava di Lillà e Primavera. La sua bocca ingorda viaggiò sul mio corpo fino a poggiarsi sul membro che ingoiò senza alcuna riserva, osservavo la sua testa muoversi quasi ritmicamente mentre mi lasciavo andare a quel piacere troppo a lungo represso. Quando affondai dentro di lei non emisi alcun gemito a differenza sua; le afferrai i polsi con una mano bloccandole qualsiasi movimento inutile e con l’altra tappai ogni possibile suono, odiavo la sua voce. Era solo un corpo nella quale riversarmi, non vi era altro. E mai ci sarebbe stato. I miei movimenti divennero incalzanti mentre sentivo le sue cosce avvolgersi attorno ai miei fianchi, dovevo ammettere che ci sapeva fare, sapeva come sedurre e come ottenere ciò che voleva da se stessa e dagli uomini. La scopai finché le prime luci dell’alba non mi ricordarono chi fossi e cosa dovessi ancora fare.
 
 
 
Lavorai tutto il giorno senza fermarmi un attimo, osservando l’orologio con uno scarto di dieci minuti alla volta. La notizia della morte di Yuri sarebbe arrivata quella sera in casa, e per qualche motivo sentivo di doverci essere. Il telegiornale parlò di un cadavere trovato nei sobborghi, un barbone secondo loro senza alcun documento, lo avrebbero probabilmente sepolto tra gli ignoti mentre a Mosca veniva organizzato un maestoso funerale con una tomba vuota. Questa era la Bratva.
Evitai Misha tutto il giorno, se lui veniva da destra io automaticamente andavo a sinistra, per quella volta era meglio evitare i nostri stupidissimi giochini mentali e comunque pensavo ancora a come risolvere il problema di Toshio Ozaki senza consegnare la testa di quel coglione dentro un contenitore d’argento.
Arrivai di fronte casa alle 21:00, la chiave girò nella toppa lentamente e quando l’aprì il primo suono che mi colpì fu una specie di lamento o guaito, non avrei saputo descriverlo altrimenti. Con lentezza varcai l’ingresso, tutte le luci spente ad eccezione di quella del soggiorno laddove giaceva a carponi Sophia scossa dai singhiozzi. Misha mi fissò dalla cucina e senza dire nulla andò a chiudersi nella sua camera. Per la prima volta nella mia vita non riuscii a consolarla, non andai da lei né dissi nulla limitandomi a fare dietrofront e chiudermi la porta d’ingresso alle spalle. Un tuono squarciò il silenzio soffocando le urla di Sophia adesso isteriche. Mi sedetti sul primo gradino del giardinetto mentre la pioggia lenta iniziava a cadere inzuppandomi.

 
Passai così quella notte, ascoltando i lamenti di Sonech’ka, ed il rumore della pioggia all’interno della mia anima distrutta. 
 

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Capitolo 4
*** Stolen Kisses ***


 
 
 
ACT IV
 
 
San Pietroburgo, 1996
 
 
L’infanzia incastrata tra le mura ormai vuote di casa salutò la mia schiena ricurva mentre fuggivo nel cuore della notte, due ore dopo l’arresto di mio padre portando con me null’altro a parte il mio dolore. Sapevo che sarebbero venuti a prendere anche me, e non li avrei certamente attesi al varco, la famiglia Petrov ormai era carne da macello e nessuno avrebbe potuto aiutarmi. Girovagai per le strade della città giorni e giorni, mentre le mie scarpe ormai bucate facevano un male cane e il mio stomaco non la smetteva di brontolare. Mio padre guardandomi aveva sempre sostenuto che un bambino come me non lo trovavi in ogni dove, che ero un uomo relegato in un metro e trentatré d’altezza. Memorizzai quelle parole e provai a sopravvivere come potevo, iniziai con i piccoli furti nei minimarket della zona chi mai avrebbe sospettato di un nano da giardino con la faccia d’angelo? Posso dire con certezza che crescendo le cose non sono cambiate, la gente vede la corazza quella bella pelle che mi riveste ed ignora la putrescenza del mio intero essere.
Rubare i portafogli altrui non era poi così difficile, mi aiutò un certo Ivan quattordicenne senza casa né famiglia che aveva sperimentato il riformatorio parecchie volte.
 
La vita è una questione di scelte e quelle scelte portano conseguenze.
 
Alle volte mi chiedo cosa sarebbe successo se non mi fossi dato ai furti, forse oggi non sarei neppure vivo ma probabilmente ancora in possesso della mia integrità.
Una sera vidi un uomo alto e composto, puzzava di denaro a chilometri di distanza era la preda perfetta per le mie giovani e ingorde mani. Gli sfilai il portafoglio urtandolo con destrezza, ma se lui sembrò non notarlo l’uomo accanto a se lo vide eccome. Quell’uomo era Yuri e il piccolo Aleksandr Petrov aveva appena provato a fottere Sergej, il boss della Bratva.
«Sai cosa facciamo noi ai ladri?». Mi sentii afferrare per il bavero della giacca stinto e consunto, provai a mordergli il braccio e ricevetti in cambio uno scossone talmente forte da farmi ricadere contro alcuni sacchi dell’immondizia abbandonati in un angolo. Pattume con pattume. All’epoca non lo sapevo ancora. Lo fissai senza avere il coraggio di dire una singola parola, mentre l’uomo accanto a se continuava a tacere.
«Conosci la bibbia moccioso? – ancora silenzio, mio padre me la leggeva sempre la domenica – Occhio per occhio, dente per dente. La tua mano ha commesso un peccato e verrà recisa». Il mio respiro divenne affannoso, portai indietro le braccia ma Yuri fu più lesto ad afferrarla.  
«Occhio per occhio, dente per dente. Verrò a cercarti e ti taglierò la mano che ha reciso la mia». Lo fissai con odio mentre la lama del coltello scintillava alla luce dei lampioni. Strinsi con forza le palpebre, avrebbe fatto male? Una risata rauca, la stessa che avrei sentito nei ventidue anni a venire bloccò tutto, persino l’aria attorno a noi.
«Yuri lascia questo ragazzino, mi piace». Sergej parlò per la prima volta e il mio asse terrestre subì uno scossone che non riuscii a percepire in quel momento. Si chinò accarezzandomi i capelli lisci e scuri, fissandomi dritto negli occhi.
«Come ti chiami?». Aprii la bocca ed una nube di vapore uscì invece delle parole. Deglutii ricordando la cosa più importante: nessuno doveva sapere chi fossi.
«Aleksandr, signore». Mi fissò con uno strano luccichio.
«Non hai un cognome?». Scossi la testa con vigore e lui capì. Ha sempre avuto un ottimo fiuto nel captare chi ha bisogno. E’ la gente più disperata quella, e come tale quella più fedele, salvo rari imprevisti.
«Belov, ti piace come cognome?». Yuri sbuffò iniziando a spazientirsi, cercando di capire dove volesse andare a parare il fratello. A dirla tutta avrei voluto capirlo pure io, e pensai di esserci riuscito quando la sua mano si tese stringendo la mia.

 
Era una stronzata. Non avevo ancora capito nulla.
 
 
 
 
San Francisco
 
 
La morte di Yuri aveva portato il nulla per settimane, era come se su tutti noi fosse calato un sottile strato di polvere simile a quello che ristagna sui mobili abbandonati. Sedevo sul divano fissando le immagini dentro la televisione senza vederle sul serio, mentre i borbottii di Misha mi giungevano ovattati. La porta d’ingresso si aprì e richiuse, Sophia era appena tornata dalle sue ‘’compere terapeutiche’’ le avevo ceduto la mia carta di credito dandole l’autorizzazione a spendere. Patetico come provassi a compensare col denaro una perdita simile, una perdita che avevo provocato io tra l’altro, iniziavo a dare un prezzo anche a lei e questo mi dava la nausea. Mi voltai a fissarla, era stranamente di buon’umore mentre si chiudeva in bagno, fissai Misha che scrollò le spalle, per lui capire le donne era impossibile. A mio modesto parere per lui era difficile capire e basta in troppe situazioni, e probabilmente se glielo avessi detto non avrebbe neppure negato.
«Misha, guardami!». La voce di Sophia arrivò come un tornado, simile alla sua presenza tra la cucina ed il soggiorno. La guardai senza particolare attenzione almeno finché non notai gli occhi, mi gelai.
«Cosa dovrei guardare?» il tono di Misha suonò fintamente annoiato, ma riuscivo a percepirne il divertimento.
«I miei occhi, mi sembra ovvio». Indicò le iridi adesso di un color ghiaccio identico a quello di lui. Sentivo le gambe anchilosate.
«Sono uguali ai miei?». Lo vidi sporgersi verso di lei per fissarla meglio.
«Ovvio, adesso siamo uguali. Io e te». Sentii lo schiocco delle sue labbra sulla guancia e sorrisi arcigno. Misha aveva sempre mal visto il proprio colore d’occhi, forse a causa di quell’azzurro così chiaro da sembrare spettrale, si era sempre sentito diverso.
«Hai visto Shùra? Sophì mi ha fatto una sorpresa». Mi guardai le mani alzandomi da lì e senza dire nulla mi chiusi in camera mia.
La questione di Toshio Ozaki restava ancora in sospeso, afferrai il cellulare digitando un numero, due squilli e la voce femminile si palesò.
 
– Capo è successo qualcosa?
– Nulla, quando dovrai versare i soldi sul conto di Mikhail?
– Tra due settimane, perché?
– Non versarli – silenzio dall’altro capo, potevo sentire l’ansia pressarla –
– Aleksandr.. se non verso quei soldi Mikhail diverrà furibondo.
– E’ un mio ordine, dovrà sottostare alle mie regole. Imparerà a sue spese cosa voglia dire far di testa propria. Tirare la cinghia per un po’ non gli farà male.
– Va bene, stavo comunque per chiamarti.
– Che succede?
– Hanno visto Artur Golubev qui a San Francisco. Pensiamo stia cercando te, e forse è il caso di aumentare la sicurezza.
– Lo penso anch’io, tenetemi aggiornato sui suoi spostamenti.
 
Artur Golubev e io avevamo un conto in sospeso da circa due anni, più o meno da quando avevo messo a segno l’agguato ai suoi danni, uccidendogli il fratello e recidendo a lui l’orecchio destro. Mi grattai la fronte sospirando, sentii la porta dell’ingresso chiudersi e uscii per capire chi fosse rimasto. Trovai Sophia intenta a passarsi lo smalto in cucina, mi fissò con quegli occhi glaciali.
«Togliti quelle lentine, fai schifo». Il tono mi uscì più ispido di quanto avrei voluto.
«Perché? Trovo mi donino.. » soffiò sull’unghia fissandomi con un mezzo sorriso.
«Far cose inutili e stupide sembra essere diventata la tua prerogativa di vita Sonch’ka». Il sorriso si spense sostituito da un’occhiata carica di risentimento.
«Qual è il tuo problema Aleksandr?». Dovevo elencarglieli? Avremmo fatto notte.
«Non ho problemi, ma presto li avrai tu. Se domani non ti presenti allo stage sei licenziata». Le voltai le spalle tornando in camera mia, lasciandola lì a sbraitare contro di me. Ad occhi esterni il mio comportamento vantava tracce di infantilismo cronico, me ne rendevo conto da solo. La porta si aprì di colpo, la vidi entrare come una furia illividita dalla rabbia.
«SEI SOLO GELOSO». Il fatto che neppure lei sapesse fino a che punto ci fosse andata vicina mi destabilizzava.
«Esci dalla mia camera». La spinsi senza troppa forza e mi beccai una sberla in pieno viso. La fissai in silenzio.
«Tra i due ho sempre pensato il bambino fosse lui, in realtà è probabilmente l’opposto. Non capisci? Lui ha bisogno di cose simili, lui ne ha bisogno. Ha bisogno di me». Il sorriso che feci ben presto si tramutò in una risata. Mi piegai su me stesso poggiandomi allo stipite della porta che strinsi con forza tra le dita, avrei potuto spaccarlo a mani nude volendo. Il punto era quello la consapevolezza di non essere mai visibile ai suoi occhi, il volere persino la sua commiserazione. Era una cosa disgustosa.
«Non ridere …». Mi fissò arcigna sentivo la seconda sberla in arrivo, ma stavolta le bloccai il polso torcendolo dolorosamente, le sue urla mi perforarono un timpano, la spinsi fuori sbarrandole l’ingresso. Ci fissammo con astio.
«Con me hai chiuso». Mediamente diceva questa frase con una frequenza settimanale, l’ultima volta a causa di Larisa.
«L’unica cosa che chiuderemo noi due è la porta, buonanotte principessa». Le sbattei l’uscio in faccia lasciandola a crogiolarsi nel suo veleno. Ero bravo a rovinarmi con le mie stesse mani.
 
Quand’è che avrebbe capito il bisogno che sentivo di avere anch’io?
 
 
 ***
 
Sophia mantenne la parola ignorandomi nei due giorni a venire, mancavano poche ore alla riunione degli azionisti e sentivo una strana sensazione crescere dentro di me, era come se fossi turbato senza saperne il motivo. Mi guardai intorno entrando nell’atrio dell’agenzia, milioni di visi sconosciuti schizzavano da una parte e l’altra eppure mi sentivo ugualmente osservato. Assottigliai lo sguardo voltandomi, una sagoma familiare sparì tra la folla. Mi bloccai superando il gruppo di gente che mi accerchiava ma era ormai troppo tardi. Sparito nel nulla.
«Cerchi qualcuno?» Misha apparve accanto a me cercando di fissare il medesimo punto.
«No, avrò visto male. Ti sei degnato di venire qui finalmente?». Non tornava a casa da due giorni, farglielo pesare era il minimo.
«Mi trovavo a passare per caso». Dimenticavo spesso che era impossibile fargli pesare qualcosa, conoscendolo. Annuii placidamente mettendo le mani nelle tasche.
«Non bazzicare alla riunione, vorrei star tranquillo per una volta». Non udii la sua risposta riprendendo la direzione interrotta poco prima, sentendo i suoi occhi perforarmi la schiena.
 
Due ore dopo eravamo nel vivo della riunione, tutti gli uomini presenti possedevano una minima percentuale delle quote, ma io detenevo la maggioranza assoluta e questo mi permetteva di distrarmi e vagare col cervello rovistando il mio stesso caos. Picchiettavo con la punta della penna la carta completamente bianca, non avevo scritto un cazzo da quando avevamo iniziato e mi auguravo nessuno se ne accorgesse. Qualcosa continuava a turbarmi, una sensazione strisciante, sentivo occhi scrutarmi e sapevo non fosse semplice paranoia. Quando la porta si aprì ne ebbi la conferma.
Tutti i visi presenti nella sala si voltarono verso di lui, alcuni giurai di averli visti rabbrividire mentre scrutavano il viso deturpato a causa dell’orecchio mancante. Un moto di rabbia sfrecciò lungo i suoi occhi castani, non potevo perdere la calma non di fronte a gente completamente estranea alla cosa. Mi alzai attirando l’attenzione su di me.
«La riunione finisce qui per oggi.. – sorrisi affabile, ma i mormorii divennero sempre più insistenti, infastidendomi. I miei occhi si affilarono mentre il palmo della mano si abbatteva sulla superficie in legno zittendo tutti – Ho detto che la riunione è finita. ADESSO».
Li vidi alzarsi di buon ordine uscendo, lasciandomi solo con l’uomo che probabilmente meditava di divenire l’assassino di Aleksandr Belov. Mi mossi con cautela mantenendo una distanza di sicurezza, era ovvio io fossi disarmato a differenza sua che si premurò di uscire la pistola. Voleva enfatizzare un concetto ovvio? Ma soprattutto: come diavolo era riuscito ad entrare lì?
«Ti cerco da tanto Alksandr». Mi sorrise con falsità muovendo un passo verso di me.
«Ti ho strappato l’orecchio, non gli occhi, vedermi era semplice». Allargai le braccia senza arretrare, farlo incazzare non era probabilmente una mossa saggia ma dovevo quantomeno perder tempo. Attendere che tutti avessero lasciato il piano delle conferenze, in modo che nessun rumore fosse udibile.
«Sono qui per ricambiare la cortesia, dovrei iniziare dal tuo orecchio?». Mossi un passo lateralmente tenendo d’occhio la porta chiusa, leccandomi fugacemente le labbra.
«Dovremo discuterne in separata sede.. ». Non ebbi l’agio di continuare, vidi la pistola carica puntarmi con sicurezza. Respirai profondamente e non sentii alcuna paura. Era quello il prezzo dei miei peccati quindi? Non potevo credere che sarebbe stato un ratto come Artur a scrivere la mia condanna spedendomi al creatore. Anzi, all’inferno.
«Non discuteremo di un cazzo Aleksandr Belov. Manda i miei saluti a mio fratello, sono sicuro sarà felice di rivederti». Mi mossi velocemente e lateralmente ma questo non bastò a schivare il proiettile. Sentii la mia camicia inzupparsi ed un dolore lancinante mi tolse il respiro. Mi piegai serrando la mascella con forza, fu in quel momento che la vidi, la porta prima chiusa era adesso aperta anzi spalancata. Uno sparo e Artur cadde riverso a terra.
«Porca troia, inutile figlio di puttana». La voce di Misha mi riportò su quella terra, sospirai pressandomi la ferita mentre mi aggrappavo a lui sostenendomi per poter camminare.
«Prendi le scale antincendio». Lo fissai sentendo il sudore imperlarmi la fronte, il pavimento sporco del mio sangue ed il cadavere riverso a pochi metri non erano la scenografia migliore. Così come la faccia di Misha, era da sempre terrorizzato di vedermi morire.
«Smettila di pensare, ho già chiamato Boris e Anastasia puliranno tutto loro. Dobbiamo andare dal medico noi». Annuii trovandomi per una volta d’accordo con lui, osservando la ferita e giudicandola con mezza occhiata.
«E’ superficiale, basterà qualche punto di sutura, quel coglione ha una mira pessima. Come lo sapevi?». Entrai con fatica in auto, aspettando che prendesse posto accanto a me.  
«Non lo sapevo. Mi hai solo detto ‘’stai lontano dalla riunione’’ ..sai quanto odio gli ordini». Mi fissò con l’espressione più innocente di cui era capace e le nostre risate si mischiarono all’odore ferroso del sangue adesso sparso nell’aria.
 
Anthony Walker suturava ferite per la malavita americana da anni, a quanto sembrava l’essere stato radiato dall’albo non lo aveva fermato dal continuare il proprio mestiere. Come diceva ormai da mezzora: ognuno deve darsi da fare come può.
«Hai sei punti in corpo, non so se rendo Belov, nonostante sia una ferita superficiale devi stare a riposo per qualche giorno come minimo». Anuii facendo cenno a Misha di pagarlo e mandarlo via. Attesi che tornasse da me osservando la camera d’albergo nella quale avrei alloggiato per il momento.
«Okay dammi gli ordini, so che vuoi farlo». Sembrava sempre che nella sua mente io mi divertissi a fare il tiranno. Per lui era sempre tutto semplice, come se la nostra copertura non fosse importante, o semplicemente si cullava consapevole che io avrei protetto entrambi.
«Dirai a Sophia che sono in riunione per i prossimi due giorni.. » lo vidi sbuffare interrompendomi.
«Punto primo ti schifa, non ho capito bene perché, e non chiederà di te. Punto secondo ..due giorni? Sei serio?». Mi soffermai più sulla prima parte che sulla seconda, ma non risposi.
«Lascerò ad Anastasia le incombenze dell’ufficio, tu limitati a fare meno casini possibili e tener d’occhio Sonech’ka. Puoi farlo?». Lo fissai rilassandomi contro i cuscini, sentendo la stanchezza prevaricare sulla mia psiche.
«Si posso farlo, verrò a trovarti domani allora». Non risposi limitandomi ad annuire stancamente, sentendo la porta chiudersi pochi istanti dopo. C’era un pensiero che martellava nella mia mente: Artur aveva agito solo?
 
 
Due giorni, poi tre, e alla fine quasi una settimana ma di Sonech’ka neppure l’ombra. Né una chiamata, né un messaggio era come se fossi sparito dall’elenco dei suoi pensieri. Infilai dei jeans e una semplice polo a maniche corte, stare dentro quella stanza iniziava a farmi impazzire. Gli unici contatti umani che avevo avuto erano stati quelli con Misha e Anastasia, dovevo muovermi. O almeno questa fu la scusa che mi diedi mentre prendevo l’auto guidando con sicurezza diretto a casa; non avevo alcuna intenzione di farmi vedere, volevo solo accertarmi che tutto andasse per il meglio. Probabilmente volevo anche scusarmi, chiarire forse, ma sapevo di non poterlo fare. Vivevamo tutti incastrati nei nostri tormenti, un effetto domino che bastava poco per innescare. Mi ritrovavo da ben vent’anni a reprimermi pur di non ferire Misha, e Sophia. Parcheggiai poco distante scendendo con cautela dall’auto, i punti continuavano a tirare forse perché in procinto di asciugarsi, diedi una rapida occhiata all’ambiente attorno a me finché due sagome non attirarono la mia attenzione: Misha e Sophia. Di ritorno da chissà dove non si erano accorti della mia presenza, ma soprattutto della presenza di qualcuno nella camera di lei. Lo vidi muoversi nell’ombra attraverso la finestra aperta e raggelai. Afferrai il cellulare componendo frettolosamente un numero, mentre facevo il giro della casa passando dal retro, Misha rispose al quinto squillo: «Non entrare in casa. Non entrare finché non ti chiamo». Riattaccai senza aspettare risposta intrufolandomi dalla finestra semi aperta. Ero sicuro non fosse un semplice ladro, né credevo alle coincidenze del vederlo nella camera di Sophia.
Aprii lentamente la porta, non sembrava esserci nessuno ma poi lo vidi, un riflesso una sorta di ombra deformata che mi si avventò addosso senza preavviso, sbattei la spalla con forza ed il dolore si diramò lungo il braccio rendendomelo quasi narcotizzato. Calciai il suo addome con forza scaraventandolo contro la scrivania, il rumore degli oggetti caduti fu a mio parere assordante.
«Chi cazzo sei?». Parlai in russo, ero sicuro per qualche motivo mi avrebbe capito.
«Ti mando i saluti dei Lupi di Tambov, Belov». Conoscevo quella voce ma non seppi dove catalogarla in quel momento. Aveva appena confermato il mio sospetto sul fatto che Artur non avesse agito da solo. La lama del suo coltello brillò nella penombra, aspettai si avventasse contro di me per afferrargli il polso torcendoglielo dolorosamente, ignorando la ferita allo stomaco che continuava a pulsare.
Le voci di Sophia e Misha mi giunsero attutite per un istante, quella di lei era nervosa e acuta, quasi concitata. Dovevo sbrigarmi, e dovevo farlo adesso. Serrai la sua mano tra le mie dirottando la lama verso di lui, sentii la resistenza disperata ma la mia forza partiva da una disperazione ben più profonda. Radicata in me la paura che Sophia scoprisse tutto. Vidi la lama affondare nel suo stomaco, ricadde a peso morto su di me facendomi perdere l’equilibrio.
 
«Misha fammi entrare. Voglio sapere cosa sta facendo Shùra». La voce di Sonech’ka raggiunse livelli intollerabili. Avevo chiuso l’uomo nel bagagliaio e le apparvi alle spalle.
«Sono qui». Misha mi fissò nervosamente chiedendomi silenziosamente cosa avessi fatto,  lo ignorai fissando quella nana con le mani sui fianchi.
«Ti degni di venire adesso? Ma che bravo. Misha ha detto che saresti mancato due giorni, ed è da una settimana che non ti fai vedere». Lo vidi allargare le braccia, sorrisi annuendo.
«Il meeting si è prolungato, vieni ti porto a cena fuori. Misha.. domani devo parlarti di un servizio». Annuì rapidamente mentre trascinavo Sophia lungo il marciapiede lontano dalla sua camera devastata.
 
 
La musica in sottofondo riempiva i profondi silenzi di quella cena, la fissavo mangiare senza che spiccicasse neppure una parola. Sospirai poggiando la forchetta sul piatto, lasciandomi andare contro lo schienale mentre sentivo la ferita pulsare dolorosamente.
«Sei ancora arrabbiata con me?» - mi guardò in tralice limitandosi ad un cenno secco del capo, evidentemente il mutismo era la sua nuova arma – «Pensi mi scuserò?». Mi sporsi verso di lei con un lieve sorrisino, mi fulminò con un’occhiata pulendosi le labbra col tovagliolo gettandolo con poca grazia sulla tavola.
«Dovresti farlo. Porto ancora i segni delle tue dita sul mio polso sai?». Mi fece vedere ‘’le prove’’ che ovviamente non esistevano, visto che ero abbastanza sicuro di aver dosato la mia forza con lei.
«Entro la settimana traslocheremo». Il mio brusco cambio d’argomento la destabilizzò, estrassi alcune banconote dalla tasca gettandole sopra la mensa prima di alzarmi e farle cenno di seguirmi.
«Dove? Perché? Non voglio». Iniziò così a bombardarmi, come sempre del resto, mentre mi godevo l’aria fresca di novembre. Erano già passati tre mesi dal nostro trasferimento.
«Sono entrati dei ladri in casa Sophia, il quartiere non sembra essere sicuro». Si bloccò strabuzzando gli occhi, mi faceva ridere quella faccia da pesce palla che metteva su e anche quella volta non fece eccezioni.
«Cosa diamine ridi. Non posso crederci .. un ladro nella MIA casa?». Adesso era solo sua? La fissai senza dire nulla, continuando a camminare.
«Entro la fine della settimana faremo il trasloco, quindi inizia a fare le valigie, intesi?» mi voltai a fissarla, i suoi occhi bassi e l’aria costernata mi turbarono.
«Non ti scuserai con me?» i suoi cambi improvvisi come montagne russe, simili a palle ad effetto.
«Per cosa? Per la stretta al polso? Okay, mi dispiace». Le sorrisi senza l’ombra di pentimento.
«Alla tua età essere geloso è imbarazzante». Lo disse più per farmi innervosire, con quella punta di dispetto di chi non pensava lo fossi davvero.
«E anche quando? Se io fossi geloso di te, cosa faresti al riguardo Sonech’ka?». Mi voltai fermandomi del tutto, i suoi occhi sbigottiti valsero più di mille parole. Avanzai costringendola ad arretrare e addossarsi al muro di cinta di una casa. «Ho detto ..cosa pensi di fare al riguardo, Sonech’ka?» la vidi aprire e chiudere la bocca più volte. Sorrisi divertito scuotendo il capo.
«Sei ..geloso?». Mi fissò incredula, l’ombra del sospetto non la lasciava mai ogni volta che conversava con me. Questo avrebbe dovuto dirmi tante cose, ma io ero cieco e sordo a qualsiasi cosa non fosse lei.
«Lo sono. Non mi hai mai visto sul serio. Ti ho raccontato di mio padre anni fa, non hai mai mostrato un briciolo di tenerezza. Nulla. Niente di niente». Mi allontanai appena da lei mettendo le mani in tasca.
«Non sai quello che dici…». Scosse il capo e per la prima volta la maturità dei suoi occhi mise in me il seme del dubbio, l’avevo giudicata male?
«Dimmelo tu allora». La spronai a continuare senza smettere di fissarla.
«Tu non hai bisogno della mia continua preoccupazione, sei stato il primo ad aver votato la tua vita e le tue cure a Misha, e adesso critichi me?» la sua voce si addolcì. Mandai giù il bolo di saliva improvvisamente amaro.
«E se non fosse gelosia fraterna?». L’aria sembrò fermarsi, così come il suo respiro mentre ponderava il peso letale di quelle parole. Sorrise insicura scuotendo il capo.
«Non dici sul serio .. No?» il mio sguardo la zittì. Sorrisi annuendo.
«Hai ragione, non dico sul serio. Torniamo a casa». Le voltai le spalle sentendo pochi istanti dopo la presa leggera e insicura sul mio polso. Mi fissava come se cercasse spiegazioni e allo stesso tempo le temesse. Mi trovai nuovamente in bilico, e allora decisi di essere crudele per la seconda volta. Con Misha, con Sophia e anche con me stesso. Ancora giurando che sarebbe stata l’ultima.
Mi chinai e le mie labbra sfiorarono le sue, venni sbalzato a Mosca in una mattina di aprile dei miei diciassette anni:
 
La campanella delle lezioni era suonata ormai da un po’, stavo ancora rintanato sotto l’albero a mangiare e bere vodka portata nel thermos del caffè. La vidi arrivare saltellando, aveva quattordici anni.
«Dì la verità, hai baciato Marina in terrazza ieri, lurido porco?». Per poco non mi strozzai col tramezzino che Viktor aveva fatto per me. Deglutii a fatica scuotendo appena il capo. Mi sorrise arcigna battendo il piede sulla ghiaia umida come se scandisse il tempo.
«Anche quando? Cosa sei mia moglie?». Portò indietro i capelli col suo solito modo di fare altezzoso fissandomi inacidita.
«Ovvio che no. Ma noi siamo ‘’fratelli’’ e viviamo in simbiosi, quindi per essere pari bacerò qualcuno anch’io. Ma chi .. » si guardò intorno come se stesse sul serio pensando a quell’ipotesi. Fu quella la prima volta in cui mi mostrai egoista, mi alzai afferrandole il viso con entrambe le mani, e mentre la brezza primaverile sfiorava i nostri giovani corpi, le rubai il suo primo bacio. Inutile dire che mi beccai calci pugni e tirate di capelli pochi istanti dopo.

 
Lasciai che le nostre labbra restassero sigillate, erano come pezzi del medesimo puzzle, combaciavano alla perfezione ma allo stesso tempo sembravano destinati a vivere divisi. Quando mi staccai il mio fiato era lievemente spezzato, e le sue gote arrossate. Non parlammo più limitandoci a tornare a casa.
 
 
Vivo con la costante paura che i baci rubati e i nostri silenzi siano tutto quello che mi rimarrà di te.
 

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Capitolo 5
*** Decomposition ***


 


 

ACT V

 
 
Mosca, 1997
 
 
Abitavo nell’ala ovest della dimora di Sergej da quasi un anno,  mi accudiva Viktor il maggiordomo un uomo stempiato e dall’aria bonaria, lui aveva cura di me mentre il Vor pagava le mie rette, i miei abiti, la mia intera vita e Sophia colorava la mia infanzia spezzata.
«Shùra guardami! Ho imparato a fare la ruota». Ricordo la sua gonnellina a fiori che volteggiava nell’aria e la sua risata cristallina ancora oggi intrappolata tra le pareti del mio cuore. Riuscivo a dimenticare mio padre durante il giorno, erano bei tempi quelli.
Misha arrivò qualche mese dopo, ricordo ancora i suoi occhi chiari fissare il pavimento mentre Sergej lo presentava. Venne a vivere anche lui nell’ala ovest con me.
Era un bambino smilzo e impaurito da tutto, diceva cose strane e pisciava il letto ogni notte; mi svegliò per la prima volta dopo svariati giorni, le sue piccole mani strattonarono il mio pigiama costringendomi a forza ad aprire gli occhi.
«Ho .. ho sp-sporcato le le-lenzuola». I suoi occhi terrorizzati mi avevano sempre colpito, nonostante Viktor non lo avesse mai neppure una volta rimproverato quel ragazzino sembrava aspettarsi violenza da un momento all’altro.
«Smettila di balbettare o non cambierò le tue lenzuola». Lo ammonii alzandomi da lì, nonostante avessi solo dieci anni sembravo suo padre in molte occasioni, molto tempo dopo mi resi conto che per Misha avevo represso il bambino ferito che era in me in favore di un disegno distorto di un adulto.
«No-non lo faccio di pr—proposito.. ». Si torturò la giacca a scacchi che usava come pigiama, era sul punto di piangere e quegli occhi ghiaccio in quei momenti divenivano ancora più spiritati. Gli diedi uno schiaffetto in testa e cambiai le sue lenzuola. Da quel momento divenne la mia ombra. Mi seguiva ovunque, stava a distanza di sicurezza per paura di infastidirmi, mi chiedeva di aprire i suoi barattoli, di allacciare le sue scarpe, di cambiargli il letto e infine di dormire con lui. I primi tempi me lo ritrovavo nel cuore della notte sotto le mie coperte all’altezza dei piedi, si rintanava lì sotto sperando di non essere visto. Mi urtava parecchio, più lo cacciavo e più lui tornava. Alla fine il fastidio divenne bisogno, e se non veniva lui ero io ad andarvi. Smise di balbettare un anno dopo, e mentre io prendevo lezioni da Yuri maneggiando la mia prima pistola lui stava a fissarmi da dietro l’albero applaudendo ogni mio successo. Quando crebbe toccò a me addestrare lui. Era qualcosa che non avrei mai dovuto fare, qualcosa di sbagliato, qualcosa che lo avrebbe condotto come me alla disperazione, ma che altro potevo fare? Gli ordini erano ordini, e preferivo comunque essere io a sgridarlo piuttosto che un perfetto estraneo.
A quindici anni ebbi il mio battesimo del fuoco, uccidere per la prima volta un uomo. Fu lì che iniziai a perdere la mia umanità, un’umanità che ritrovavo solo specchiandomi nei suoi occhi.
 
Più affondavo nella melma e annegavo, più quelle pozze ghiacciate mi riportavano in superficie.
 
 
Novgorod, 2013
 
Fissavamo la grande chiazza d’acqua di fronte a noi, Marzo era agli sgoccioli ormai e le temperature nonostante fossero ancora rigide avevano permesso al Lago Ill’men’ di mostrarsi in tutta la sua bellezza.
«Se ti butti lì dentro e stai almeno un minuto, ti darò diecimila dollari». La voce di Misha suonò eccitata e beffeggiante, la pubertà gli aveva decisamente fatto male. Lo fissai in tralice e un brivido mi percorse la spina dorsale. Iniziai a spogliarmi sotto gli occhi increduli dello stronzo che iniziò ad incitarmi e applaudire.
L’acqua mi trapassò la pelle come migliaia di aghi incandescenti, sentivo la sua voce attutita ed ebbi solo la forza di sollevare il dito medio in sua direzione. Uscii tremante e con le labbra viola.
«Porca troia. Dicono che questo lago ti risucchi l’anima talmente è gelido». Mi fissò bevendo dalla fiaschetta, gliela rubai provando a riscaldarmi con l’alcool.
«Per perderla dovresti prima averla, coglione, e adesso sganciami i diecimila dollari».
 

Aspetto ancora quel denaro, e un pezzo della mia anima probabilmente intrappolato tra quelle acque gelide.
 
 
 
***
 
 
 

San Francisco, Élite

 
Quel bacio non ne aveva portati altri con se, mi trincerai nel mio solito mutismo evitando di restare ancora solo con lei. Mai come in quel momento mi rendevo conto della pericolosità insita nelle mie azioni, e mai come in quel momento cercavo un modo per porvi rimedio. Ascoltai l’insistente ticchettio dell’orologio, la pausa stava per finire e io non avevo ancora pranzato, uscii lungo il corridoio puntando lo sguardo su Anastasia china su alcuni fascicoli.
«Pranziamo insieme?» mi sorrise annuendo. Venti minuti dopo rientrammo in agenzia, camminavo un passo davanti a lei e la voce di Misha mi arrivò dritta alle orecchie.
«Sgorbio, vedi di fermarti». A giudicare dal nomignolo era evidente parlasse con la mia segretaria, e seppi con certezza avesse visto il suo estratto conto completamente in rosso. Non mi fermai pigiando il bottone dell’ascensore.
«C’è qualche problema?». La voce insicura di Anastasia mi fece quasi ridere, non era mai riuscita ad imporsi con lui.
«Il problema c’è e sarà meglio per te risolverlo». A quel punto mi girai, volevo godermi la scena a braccia incrociate ed espressione neutra.
«Dovremmo andare in ufficio magari .. » provò a prender tempo, sapeva anche lei non serviva a nulla. Avevo colpito Misha laddove sapevo avrei fatto male.
«Non andremo in nessun cazzo di posto. Dove sono i miei soldi? Perché non li hai versati, sgorbio?». Sibilò quelle parole ad un centimetro dal suo viso, il mio sospiro non venne notato.
«Sono ordini del capo, se hai problemi parlane con lui». Mi indicò ed io arcuai un sopracciglio, Misha mi ignorò sorridendo beffardo.
«Se il capo ti chiede di pisciare in piedi tu lo fai? Capisco vorresti essere sbattuta in ogni angolo dell’ufficio da lui ..ma non è un buon motivo per accordare ogni suo capriccio». Adesso iniziavo ad incazzarmi, mi avvicinai spintonandolo rudemente.
«Dacci un taglio». Misha conosceva bene i miei vari toni, non ne avevo molti e lui li aveva ascoltati tutti nell’arco di quei vent’anni. Insistette nell’ignorarmi continuando a fissare Anastasia adesso scarlatta.
«Facciamo così, se mi versi quei soldi farò il sacrificio di scoparti al posto suo, okay? Sono avvenente anch’io, e a differenza sua non mi faccio problemi.. Solo ..non dirlo a Sophì». Portò l’indice alle labbra obbligandola al silenzio, e la mia vista si offuscò al sentire pronunciare quel nome e soprattutto in una situazione simile.
«Sei un figlio di puttana». Il mio cazzotto arrivò potente e deciso contro il suo zigomo, lo vidi barcollare e poi cadere. Se l’aspettava comunque vista la rapidità con la quale si fiondò su di me. La sua testa colpì il mio addome ancora dolorante e cucito, imprecai iniziando a colpire la sua schiena col gomito, in maniera secca e precisa mentre Anastasia provava a dividerci senza grossi successi. Perdemmo l’equilibrio arrivando a terra, si mise a cavalcioni su di me colpendomi col pugno chiuso della mano, quando ribaltai la situazione sentii il sangue invadere la mia bocca. Ricambiai con la medesima forza finché delle braccia non mi afferrarono spingendomi via.
«Ti spacco la faccia». Ansimai indicandolo, si rialzò asciugandosi il sangue dalla bocca.
«Dammi i miei soldi». Pensava solo a quelli quindi?
«Che diritto hai di averli, lurido bastardo ingrato? Hai ucciso il braccio destro di Toshio Ozaki pensando fosse lui. Hai quasi mandato a monte i miei affari, quindi dimmi .. che cazzo di diritti pensi di avere?». Mi avvicinai pronto a colpirlo di nuovo, ma Boris fu più veloce a riafferrarmi. Gli occhi di Misha ebbero un lampo di sorpresa, si era appena reso conto di non aver portato a termine la sua opera. Si allontanò senza dire altro, tamponando il sangue che usciva copiosamente dalle labbra.
«TORNA QUI BASTARDO». Mi liberai dalla presa ansimando ignorando la gente intenta a fissarci, il viso di Anastasia tornò ad occupare il mio campo visivo.
«Capo stai sanguinando, vieni con me». Provò ad afferrarmi senza successo, mi liberai con rabbia dalla sua presa andando via. Mi erano appena saltati dei punti allo stomaco, cosa cazzo poteva fregarmene del viso?
 
 
 
***
 
 
«Hai fatto a pugni con Misha?». Ci mancava solo la paladina della giustizia per completare quella serata, come se l’emicrania non fosse stata abbastanza. Presi la pasticca ignorando il taglio sul labbro.
«Restane fuori». Pensai di averla fissata in maniera abbastanza eloquente, ma evidentemente né quello né il mio tono lapidario vennero compresi.
«Come ti è saltato in mente? Misha è tuo fratello». Il mio pugno contro il tavolo la fece trasalire e zittire.
«Il fatto che sia mio fratello non lo esonera dal comportarsi decentemente. NON LO ESONERA DAL PROVARE A NON ESSERE UN COMPLETO COGLIONE. E SMETTILA UNA BUONA VOLTA DI GIUSITICARE OGNI SUA CAZZATA, PER DIO». Le mie urla la pietrificarono sul posto, inutile dire che me ne pentii immediatamente. Mi passai le mani tra i capelli sospirando «Sophia ..» l’uscio della sua camera sbattuto con forza fu una risposta chiara. Mi alzai dirigendomi nella medesima direzione, aprendole la porta senza bussare trovandola intenta a fare i bagagli.
«Possiamo parlare?». Non rispose continuando a mettere insieme vestiti gettati poi a casaccio all’interno. Quante volte lo aveva fatto? Persino con suo padre, la scena madre del trasloco era la cosa che gli veniva meglio.
«Mi dispiace di aver alzato la voce, ma Sophia .. restane fuori. Ci sono cose che tu non sai». Deglutii e le sue mani si fermarono, mi piantò quelle iridi dal colore indefinito dritte in faccia.
«Io non so perché voi mi tenete sempre fuori. Pensi non sappia? Siamo uniti, ma tu e Misha siete un nucleo a parte, per quanto ancora avrete segreti con me?». Per quanto? Finché non sarei morto, o almeno questo era il piano. Mi sedetti sul letto afferrandole il polso, trascinandola accanto a me.
«Misha ha fatto un casino in agenzia, un accordo ha rischiato di saltare e per punirlo non ho versato il suo stipendio». Avevo in fondo detto la verità, omettendo i fatti più espliciti, e probabilmente fu per questo che sembrò credermi guardandomi in viso. Si alzò in silenzio tornando poco dopo con la cassetta dei medicinali.
«Stai fermo – mi ammonì con un’occhiata, iniziando a disinfettare la ferita sul labbro – ho rimproverato anche lui, che credi? Le disparità che vedi nel nostro rapporto sono frutto della tua immaginazione». Avevo smesso di ascoltarla distratto dal suo profumo, lei se ne accorse e pressò la ferita facendomi male.
«Mi hai fatto male». Mi scostai appena schioccando la lingua contro il palato, tornando a guardarla.
«Smettila..» mi ammonì con occhi severi riponendo nervosamente il disinfettante dentro il contenitore.
«Di far cosa?». Sapevo a cosa si riferiva, ma fingere iniziava a venirmi bene.
«Di guardarmi così ..» alzò una mano come se bastasse quella a compensare le parole mancanti.
«Così come?» mi chinai con un mezzo sorriso divertito.
«Come se mi vedessi nuda». Sibilò quelle parole ad un centimetro dal mio viso. Le rubai un bacio allontanandomi poco dopo.
«Ti ho già vista nuda, non eri granché..» storsi le labbra beffeggiandola. Si alzò provando a darmi un calcio.
«Avevo nove anni idiota – mi diede le spalle pronta ad andar via, ma si bloccò sull’uscio voltandosi – oggi sono stata in camera tua, mi mancavi..». Avevo come l’impressione che non fosse quello il punto, iniziai a pensare a cosa potesse aver visto ma non mi veniva nulla in mente.
«E..?» la incitai celando l’ansia che iniziava ad attanagliarmi.
«C’era un fazzoletto sporco di sangue, mi sono preoccupata tutto qui». Mi sorrise uscendo da lì. Avevo scordato di gettarlo via dopo essermi medicato i punti. Tornò qualche minuto dopo stendendosi accanto a me, l’attirai contro il mio petto e lei non sembrò voler protestare mentre le accarezzavo i capelli sperando il sonno subentrasse presto e la lasciasse naufragare nei suoi sogni frivoli ed innocui.
 
 
Il cellulare squillò nel cuore della notte, lessi il numero non riconoscendolo almeno finché la voce di Nikita non si palesò:
 
– Che succede?
– Ho trovato la ragazza – mi alzai immediatamente, adesso del tutto sveglio –
– Dove?
– Non ti farà piacere credo, a quanto pare è stata venduta ad un piccolo trafficante d’armi anni fa. Il che non mi sorprende.. all’anagrafe compare come sua figlia.
– Dobbiamo trovare il modo di farla venire da noi.
– Non sarà difficile, a quanto pare lascia spesso book fotografici nelle agenzie di moda, la chiamerò domani per dirle se è interessata alla nostra.
– Voglio che parli con me.
– Lo farà, non temere. La manderò da te quando accetterà di fare il colloquio.
 
Chiusi così quella chiamata. La chiamata pregna di speranza, come l’avrei chiamata nei giorni a venire. La realtà era che da anni cercavo Irina, la sorella di Misha, continuando a fare però un buco nell’acqua dopo l’altro. San Francisco sembrava iniziare a darmi parecchi tasselli prima introvabili, mi chiesi se fossero semplici coincidenze quelle o il gioco di un qualche dio annoiato. Fissai Sophia ancora dormiente accanto a me, le accarezzai il viso e smisi di dormire.
 
 
 

 
Mikhail POV
 
Superai l’ennesimo semaforo rosso senza curarmi dei clacson incazzati al mio passaggio, sentivo il sopracciglio tirare e dolere, quel figlio di puttana sapeva tirar bene i pugni. Ma al momento non era questo a interessarmi davvero, ero più preso a crogiolarmi nella sensazione di vuoto e rabbia che scaturiva dal mio errore. Avevo ucciso un uomo scambiandolo per un altro, non era tanto la mia coscienza a pulsare dolorosamente quanto più il mio orgoglio. E la mia rabbia. Da qualche anno avevo preso il vizietto del poker, dilapidavo così le mie carte di credito, e il pensiero di non potervi giocare perché quel figlio di puttana mi aveva negato SOLDI MIEI mi faceva impazzire. Ero semplicemente pazzo, ecco.
Non mi ci volle molto a scoprire dove fosse quel verme di Toshio Ozaki, mi domandavo più che altro cosa si fosse inventato Shùra per tenerlo buono dopo l’omicidio di uno dei suoi uomini più fedeli, ma al momento era inutile pensarci.
Fissai l’insegna luminosa del night, gettai la cicca ancora a metà sull’asfalto lercio per poi fare il mio ingresso trionfale tra musica e caos. I miei occhi saettarono lungo l’intero perimetro, non era fattibile trovarlo in mezzo a quel casino di corpi, certo un cinese spicca tra miliardi di occidentali ma porca troia ce ne stavano centinai lì dentro. Bloccai un cameriere allungandogli una generosa mancia, dilapidare gli ultimi soldi che mi erano rimasti così lo reputavo parecchio intelligente. Cinque minuti dopo sapevo in quale privè si fosse chiuso il vecchio porco.
Quando vi entrai lo trovai insieme a due donne, quindi il mio informatore si era sbagliato sul serio. Avrei massacrato anche lui, nella mia mente era colpa sua se mi trovavo in quella situazione.
«E tu chi cazzo sei?». Oddio, dovevamo ripetere tutta la scenetta?
«Andiamo al punto, sei Toshio Ozaki?». La mia cadenza russa lo mise in allerta, evidentemente aveva già avuto modo di incontrare Aleksandr per i contatti preliminari. Il suo cenno d’assenso mi bastò per estrarre la pistola. Le due ragazze urlarono allontanandosi da lui.
«CHI CAZZO SEI». Era monotono e ripetitivo. Respirai profondamente ondeggiando il capo come fossi annoiato.
«Saperlo non ti servirà all’altro mondo. Sappi solo che questo è il prezzo da pagare per chi rovina la mia merce».
 
Uscii di lì con la consapevolezza di aver fatto una grandissima stronzata, era come se Dio la prima volta mi avesse dato l’occasione di rimediare facendomi sbagliare, ma io imperterrito ero tornato a strisciare nella merda. Pensavo di non poterne fare a meno, laddove sentivo odore di guai io mi ci tuffavo a spada tratta, le conseguenze non avevano importanza, importava solo il benessere momentaneo che questo mi dava.
Non tornai a casa quella notte rintanandomi nel night che gestivo, la mia mente continuava a pensare e ripensare alla faccia di Shùra quando avrebbe accolto la notizia della morte di quel cinese infame. Risi senza una ragione piegandomi in due contro il divanetto, i miei occhi iniziarono a lacrimare.
 
Il massimo scoppio di felicità concessami.
 
 
 
 

Aleksandr POV

 
La berlina scura si fermò davanti  l’agenzia, scesi con il mio solito passo sicuro e deciso varcando le grandi porte a vetro. La prima cosa che vidi fu il viso di Sophia che sventolava il suo cartellino, aveva finalmente deciso di prendere sul serio il suo lavoro quindi? Mi venne incontro mettendosi accanto a me, nessuno dei miei uomini le sbarrò la strada. Prima di essere i ‘’miei uomini’’ erano gli uomini di suo padre, tutti la conoscevano e tutti avevano paura di lei. Era l’unica a non rendersene conto.
«Qui dentro non sei autorizzata a prenderti confidenze, torna a lavorare Sonech’ka». Mi fissò mettendo su un lieve broncio che non sortì l’effetto sperato.
«Ti basta un po’ di potere per dimenticarti di me? Fai proprio schifo». Allargò le narici con sdegno, sentenziando quelle parole con un tono talmente convinto da farmi ridere.
«Non ti prolungherò la pausa pranzo». Si bloccò strattonandomi un braccio.
«Come cavolo facevi a sapere che volevo chiederti questo?». Spalancò la bocca come se avesse di fronte a se un veggente, e non qualcuno che l’aveva vista crescere.
«Quindi avevo ragione». Le sorrisi per nulla amabile avviandomi verso l’ascensore sentendo il ticchettio delle sue scarpe dietro di me.
«Ma dai, che ti costa prolungarmela un pochino?» giunse le mani a mo di preghiera, le porte si aprirono ed io vi entrai. Stavolta la strada le venne sbarrata.
«Sei una semplice stagista principessa, vivi come la gente comune.. magari scopri che ti piace pure». Le porte si chiusero mentre i nostri occhi non smettevano di scrutarsi.
Il mio buonumore comunque durò il tempo del mio ingresso in ufficio, Anastasia con un viso cadaverico mi annunciò ben cinque chiamate da parte del Vor. Non so perché nella mia mente il viso di Misha oscurò ogni altro pensiero.
Composi il numero aspettando che la sua voce familiare interrompesse ogni mio pensiero.
 
– Ti ho chiamato parecchio.
– Lo so, sono arrivato solo ora.
– Ho un compito per te.
– Dimmi tutto.
– Trova Misha e dagli una lezione. Ma non una semplice lezione delle tue, con lui usi sempre i guanti di velluto. Porta Boris e gli altri con te.
 
Il nodo della cravatta improvvisamente sembrò volermi strozzare, lo allentai.
Appresi in quel momento della morte di Toshio Ozaki, quel piccolo bastardo non si era neppure preso la briga di celare e curare l’anonimato presentandosi a viso scoperto di fronte a miliardi di persone. Chiusi gli occhi cercando febbrilmente una soluzione.
 
– Lascialo a me. Picchiandolo non otterrai nulla.
– Non dirmi cosa fare Shùra, sei bravo ad incantare con le parole, incanti spesso anche me .. ma non stavolta. Quindi, ti sto chiedendo: farai questo per me?
 
Mi tornò in mente Yuri. E mio padre lasciato a morire in Siberia. E mia madre. E il libro di poesie che adesso non possedevo più.
 
– Non lo farò. Non è il metodo giusto.
– Va bene. Sarà Boris a gestirla allora. Ci sentiamo.
 
La comunicazione si chiuse e il silenzio mi assordò. Scaraventai la cornetta insieme al telefono sul pavimento, e la stessa fine fecero tutte le cose sulla mia scrivania. Nessuno bussò né chiese se ci fosse qualcosa che non andava. Perché tutti sentivano l’odore della decomposizione iniziare ad invadere l’aria.
 
 
 
***
 

Una settimana era scivolata via dopo la chiamata di Sergej senza che nessuno muovesse un singolo muscolo. Avevo tenuto d’occhio Boris senza che se ne rendesse conto – o almeno così speravo –  ovunque lui andasse io dovevo esserne informato, e la stessa cosa valeva per Misha.
Alla fine c’eravamo persino trasferiti, la voce stupefatta di Sonech’ka ci accolse nel nuovo loft, mentre omettevo di dirle che l’intero palazzo apparteneva ai membri della Fratellanza. Tutti attorno al tavolo ci limitavamo a mangiare a capo chino, io e quel coglione non parlavamo dalla fatidica scazzottata ormai, e nessuno dei due sembrava prodigo nel rimediare. Francamente il mio al momento non era semplice orgoglio, avevo le mani in pasta a troppe cose e far la pace con lui non deteneva la priorità.
«Dovremmo giocare a carte? A Mosca lo facevamo sempre». Sophia interruppe il silenzio, nessuno dei due le rispose continuando a mangiare. «Quante volte dovrò ripetere che odio non essere considerata? Perché non fate la pace, andiamo..» la voce si perse travolta dalla nostra indifferenza.
«Ho del lavoro da finire, vado in camera». Pulii le labbra col fazzoletto alzandomi per poi chiudermi in camera, sentivo la voce concitata di Sonech’ka parlare ma nessuna risposta usciva dalla bocca di Misha.
 

Osservavo San Francisco dalla grande finestra del mio ufficio, improvvisamente il sordo bussare alla porta interruppe ogni mio pensiero, mi voltai.
«Aleksandr, Astrid Jensen è qui». A quelle parole il viso di una ragazza si palesò dinanzi a me. I suoi occhi ghiacciati mi bloccarono sul posto: Irina, la sorella di Misha, era appena entrata nel mio ufficio.
 
 
 

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Capitolo 6
*** Stops and Starts ***


 


 

ACT VI

 
 
Mosca, 1996
 
«Ciao!»
 
«…»
 
«Ho detto: Ciao!»
 
«…»
 
«Quando la principessa di casa ti parla, tu devi rispondere ..lo capisci?»
 
«Sparisci.»
 
«… Mi hai appena detto di sparire? Sono Sophia, la principessa di casa. Sei pure un nano da giardino, lo dirò a papà e ti farò cacciare.»

 
Incontrai Sophia nel periodo in cui tutte le certezze della mia vita andavano lentamente sgretolandosi, tutte le figure alle quali ero solito aggrapparmi erano andate via via sparendo senza lasciar traccia. In un mondo che stava lentamente cambiando, nel cuore di un bambino che si inaridiva sempre più, un sentimento caldo e familiare piantò le sue piccole radici lasciando una parte di umanità in quel me stesso ragazzino che presto o tardi si sarebbe trasformato in un mostro. 
Gli anni passarono, le vite cambiarono, divenni più alto di Sonech’ka, e Sonech’ka divenne sempre più ignara di ciò che succedeva intorno a lei. 
Solo una cosa restava immutata, almeno per il momento: l'affetto, come una sorta di tepore, di ciò che consideri ''famiglia''.
 
I don’t think of you as a monster. So don’t think of yourself that way. If you do, you are wrong.
 
 
***
 
 
«Misha sei in grado di mangiare il gelato con la bocca, anziché col naso?»
 
«Perché?»
 
«Perché fai schifo.»
 
«Perché?»
 
«Mangia e zitto.»
 
«Perché?»

«.... Vuoi che ti faccia contare gli scalini col culo?»
 
«Shùra, se ti dico un mio segreto mi dici tu il tuo?»
 
«Solo se ne vale la pena.»
 
«Ho una sorella, si chiama Irina .. mio padre mi ha venduto a Sergej, ma quando sarò abbastanza alto io la cercherò e vivrò con lei.»
 
«Se lo sapesse Sonech'ka non avresti pace.»
 
«NON DIRLO A NESSUNO. Adesso tocca a te..»
 
«Sono Alekdsandr Petrov.»
 
Aleksandr e Mikhail, Shùra e Misha, un rapporto che trascendeva la semplice amicizia, che superava la normale fratellanza, carne e sangue uniti insieme. 
‶La famiglia è sangue, e il sangue non si ingoia. Si mastica.‶ Così diceva Sergej durante i nostri colloqui, così plasmò le nostre giovani anime. 
Imparai a sparare, e a mia volta lo insegnai a Misha. Uniti indissolubilmente, mentre i tumulti di quel tempo cambiavano la nostra vita, due bambini intrecciavano i loro destini. Cresciuti nell'ala ovest del palazzo, imparammo ad essere l'uno la famiglia dell'altro, imparammo a bastarci.
Sempre in lotta tra di noi, uniti nella stessa identica battaglia, senza un perché e con l'unica certezza d'aver iniziato insieme e di dover finire allo stesso modo.
 
L’anima trema nell'enigma eterno; fratello, soffro la tua stessa pena: attendo un’Alba e non so dirti quale.
 

*** 
 
Siberia, 2003
 
Il duemilatre era appena arrivato, quell’anno portò con se due cose fondamentali che coincisero con la chiusura definitiva di quel ragazzino chiamato: Aleksandr Petrov.
Quell’anno uccisi per la prima volta un uomo, gli tolsi la vita ed ebbi il mio battesimo del fuoco, e sempre in quell’anno rividi per l’ultima volta mio padre.
Tramite vie traverse avevamo scoperto si trovasse in Siberia, un luogo dimenticato da Dio nella quale sarebbe stato giustiziato in pochi giorni. Ricordo il suo viso smunto ed emaciato, i lividi sbiaditi, ormai invecchiato. Solo il pallido riflesso dell’uomo che era stato, quello scintillio negli occhi così simili ai miei, mi convinsero di essere faccia a faccia con colui che mi aveva messo al mondo.
Mi diedero cinque minuti, cinque fottutissimi minuti per dire ancora una volta addio a mio padre. I suoi occhi vacui e spenti si posarono su di me, non sembrò riconoscermi mentre con mano tremante stringeva un libro dalla copertina consunta. Ripensai alla collezione di poesie datemi da mia madre che ancora tenevo nascosta nella famosa ala ovest a Mosca. Non dissi nulla, né lo fece lui che si limitava a fissarmi sospettoso, ormai convinto che tutti gli fossero nemici; non piansi. Non mi concedetti quel lusso mentre mi presentavo come Aleksandr Belov, figlio di un tipo che non esisteva neppure. Quando voltai le spalle pronto ad andar via la sua voce interruppe il silenzio: «Non temere i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco, diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire ..figlio mio.»
Non piansi, non dissi nulla, marcii solo un po’ dentro di me. Non ebbi più sue notizie, probabilmente raggiunse mia madre e da lassù piangono insieme il figlio divenuto un miserabile.
 
 
***
 
 

San Francisco, Élite

 
Irina apparve coi suoi occhi glaciali ed un modo di fare timido e dismesso che sembrava solo apparenza. Si sedette sul divanetto e io presi posto sulla poltrona accanto a lei mentre non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Sui documenti che ero riuscito a prendere tra le mani vi era un resoconto breve dei suoi anni lontano dal fratello, venne venduta all’età di sette anni circa tre anni dopo la venuta di Misha in casa di Sergej; apparentemente non sembrava ricordare nulla, ma io sapevo che un legame fraterno non poteva scindersi solo con tempo e dolore.
«Vuoi qualcosa da bere?». La mia voce suonava come una dolce nenia, mentre scrutavo a fondo in quelle pozze fin troppo simili. Era come parlare alla versione femminile di colui che per anni era stato mio fratello. La vidi annuire e acconsentire. Dieci minuti dopo sorseggiava il suo caffè fissandomi.
«Ho fatto alcuni scatti di poca importanza in questi anni, è più un hobby che un vero e proprio lavoro .. non mi aspettavo una chiamata simile, da un’agenzia simile soprattutto». Mi sorrise fiduciosa, e per una volta non mi sentii in colpa.
«A quanto pare questi scatti sono arrivati a chi di dovere, e sei piaciuta parecchio. Sei perfetta per una campagna che inizieremo a breve .. solo che non sarai la sola a lavorarvi». Le sorrisi e vidi la gabbia aprirsi, lei la fissava senza vederla sul serio.
«Intende dire che dovrò lavorare con un partner?». Mi fissò incuriosita mentre annuivo con espressione neutra, la migliore che riuscii a tirar fuori per l’occasione.
«Si, Mikhail Volkov – restai in silenzio osservandola assimilare quel nome, ma neppure un guizzo di sentimento passò sul viso che sembrava di porcellana – E’ il nostro modello di punta, se firmerai il contratto lo conoscerai». Annuì e sembrò entusiasta della cosa. Probabilmente si chiedeva quale santo ringraziare per una fortuna simile. Io la fissavo e provavo tristezza. Misha aveva passato gli ultimi vent’anni intrappolato nel suo ricordo, e lei non ricordava neppure il nome del fratello?
«Lo farò, ovvio che lo farò!». Poggiò la tazzina che tintinnò contro il piattino giungendo le mani con un sorriso felice, le venni dietro alzandomi poi da lì per farle strada fuori l’ufficio. Anastasia si alzò velocemente fissandomi con sospetto, scossi il capo silenziosamente per poi poggiarmi alla scrivania.
«La signorina Jensen inizierà a lavorare ufficialmente per noi dalla prossima settimana, mandale via mail tutti i fogli da compilare e firmare, la porto a conoscere Misha». Anastasia aggrottò la fronte ma restò stoicamente professionale limitandosi a raddrizzare gli occhiali da vista e distogliere totalmente l’attenzione da noi. Feci strada ad Irina, cercando di memorizzare il nome falso che il patrigno le aveva affibbiato.  
Sotto regnava il caos, le truccatrici volavano da una parte e l’altra in pieno fermento e seppi con certezza che Misha si era appena presentato. In notevole ritardo, come sempre. Evitai di urtarmi indicandolo con un cenno del dito alla ragazza, ancora una volta la guardai e ancora una volta restai deluso dalla sua espressione. Sembrava forzatamente composta, o magari era una mia stupida impressione, a furia di vivere col sospetto impari a non fidarti di nessuno.

 
Gli occhi di Misha si poggiarono su di lei e seppi con certezza di aver finalmente fatto qualcosa di buono per lui.
 
 

Mikhail POV

 
Quella mattina non volevo presentarmi a lavoro, di recente non mi andava di fare un cazzo di niente era come se fossi bloccato nel corpo di un morto. Sentivo di non stare andando da nessuna parte, quella fottuta città stava portando solo problemi. I rapporti si ingarbugliavano, le parole non riuscivano a trovare sbocchi, e le mie certezze – le poche che avevo – naufragavano senza aver neppure la decenza di avvisarmi.
Eppure ci sono scelte che compi senza un reale perché, cose minime che recepisci solo col senno di poi, i classici bivi che prendi ma non sai ancora dove ti porteranno. Una cena fuori o un film a casa, una serata in discoteca o una al parco, una corsa mattutina o restare a poltrire nel tuo letto fino allo sfinimento. Andare a lavoro o rintanarti in un bordello. La mia scelta fu andare a lavoro, una scelta che non avrei mai rimpianto.
Vidi Aleksandr, comparve dal nulla di fronte la porta, era con qualcuno ma non riuscivo a capire chi fosse perché altre persone oscuravano la sua presenza. Era strano vedere lì il presidente, inoltre il servizio che mi accingevo a fare non era neanche tra i più pagati o importanti, eppure lui era lì. Ero talmente concentrato nell’osservarlo da rendermi conto solo qualche istante più tardi della donna che lenta avanzava verso di me.
Il mio mondo tremò. Il tempo si fermò e i miei occhi così simili ai suoi sembrarono cristallizzarsi dentro le palpebre e rischiare di fuoriuscire e schizzar sangue e lacrime. Irina. Non era più una bambina con le trecce, era una donna di ventiquattro anni dai capelli neri come la pece e la pelle diafana come la luna alta nel cielo. Respirare divenne difficoltoso, persino ascoltare ciò che diceva era impossibile con le mie orecchie tappate da dolore e gioia. Ricordo di averle allungato la mano, di aver stretto la sua, di aver balbettato qualcosa mentre tornavo a guardare Shùra e la sua promessa mantenuta. Miliardi di parole passarono tra noi, miliardi di scuse, miliardi di ‘’grazie’’.
Irina non sembrava riconoscermi, nonostante i nostri occhi fossero talmente simili, persino la forma degli zigomi o delle labbra aveva un’aria familiare, appresi si chiamava ‘’Astrid’’ non sapevo ancora i retroscena della cosa, ma confidavo in Aleksandr.
Le chiesi il numero, la invitai ad uscire con me, non c’era malizia nel mio tono né nel suo mentre mi fissava sorridendo accettando di buon grado quel nuovo ‘’amico’’ che sembrava essersi fatta nel giro di poche ore. La mia bambina, la principessa che avevo protetto come possibile nell’inettitudine dei miei quattro anni, come avrei dovuto dirle chi ero? Spiegarle il perché di tutto questo? Più ci provavo e più le parole non uscivano mentre la fissavo bere un frappé a mio parere disgustoso. Seppi che aveva mollato l’università, quando le chiesi il perché glissò abilmente e io capii che qualcosa non andava. Avevo mille domande e per ironia non avevo ancora risposto a quelle poche certe che conoscevo. Le promisi ci saremmo visti il giorno dopo, ma quel giorno non arrivò.
Non me ne pentii comunque, presi la scelta giusta quella mattina.
 
***
 
«Misha». La voce di Boris mi arrivò alle spalle, fastidiosa come sempre. Con lui i rapporti non erano dei migliori, anche se pensandoci attentamente ..con chi ho rapporti decenti a parte Shùra? Mi voltai con le chiavi di casa ancora in mano.
«Ti serve qualcosa?». Vidi altri due ragazzi affiancarsi a lui, assottigliai lo sguardo decidendo se fosse il caso di estrarre o meno la pistola, ma il suo sorrisino me lo impedì.
«Abbiamo un messaggio da parte del Vor, vieni con noi dai». Una pacca sulla spalla fu tutto ciò che ricevetti prima di entrare dentro la berlina. Non so dire perché non collegai quella visita a Toshio Ozaki, forse Irina occupava il mio intero cervello e i pochi neuroni funzionanti, o semplicemente era così che doveva andare, perché quella notte mi portò dritto a metà del mio destino.
Il vicolo lercio e maleodorante mi accolse mezzora dopo, li sentivo alle mie spalle mentre con le mani in tasca scrutavo nel buio di fronte a me cercando di capire cosa diamine avesse in serbo per me Sergej.
«Allora, cosa diavolo volete.. » non riuscii a finire la frase, il primo colpo di spranga mirò alle ginocchia, le sentii piegarsi e caddi al suolo. Il secondo colpì l’addome facendomi sputare saliva, e gli altri ..non lo so, il dolore arrivava ad ondate e non mi dava neppure l’agio di assimilarne la provenienza.
«Questo è un messaggio da parte di Sergej, così magari la prossima volta ci pensi due volte prima di mandare a monte i lavori, coglione di merda. Sei un rifiuto della società e ti permetti anche di prendere decisioni simili?». Ancora un calcio ed un lamento, finalmente ci arrivai. Era la punizione per Toshio Ozaki, mi venne in mente Shùra due sere prima, nonostante non ci parlassimo era entrato in camera mia dicendomi ‘’Non farti vedere troppo in questi giorni’’, lui sapeva e aveva voluto avvisarmi. Come sempre non lo avevo ascoltato.
«Se può consolarti Shùra si è rifiutato di partecipare, magari lui avrebbe potuto inculcarti un po’ di giudizio». Sputai sangue misto a risate mentre sentivo i polmoni esplodere nel mio petto. Sollevai appena il viso fissando Boris, ero sicuro ci fosse andato così pesante perché mi odiava.
«E’ un fortuna lui ..non ci sia allora .. voi froci non siete bravi a menar le mani». Risi come un pazzo, o almeno ci provai. Vidi solo la punta della scarpa arrivare prima che colpisse con ferocia il mio occhio lasciandomi a terra agonizzante di dolore. Non vidi più nulla, né sentii altro, la testa era come esplosa lasciando il posto all’incoscienza.
 

 

Aleksandr POV

 
Un’altra notte da passare coi miei tormenti, chiuso in camera lontano da Sophia che recentemente era divenuta ingestibile per me. Il nostro rapporto sembrava aver oltrepassato la linea di confine che mi ero prefisso quando la pubertà mi aveva dato l’agio di comprendere quanti pensieri errati potessi fare su colei che definivo ‘’sorella’’.
Misha non era tornato come sempre, pensavo fosse con Irina in fondo era giusto così. Un sordo rumore interruppe le mie elucubrazioni mentali, altrimenti dette ‘’pippe’’, e la porta chiusa si aprì lasciandomi vedere il viso della donna per cui ormai nutrivo una malsana ossessione. Definirlo amore mi spaventava perché ero convinto che da quello non ne potessi uscire più.
«Dovremmo parlare, per quanto mi sforzi sento che non è più lo stesso ..». La voce le uscì a fatica, quasi come se stesse cercando di contenersi senza troppi risultati. Mi alzai dal letto e la superai diretto in cucina, sentii i suoi passi silenziosi venirmi dietro.
«Non c’è nulla di cui parlare, non potresti semplicemente ..dimenticare?». Dimenticare e lasciare a me il peso di tutto. In modo tale da potermi dare mentalmente del coglione e poi farmi i complimenti pensando ‘’ehy ti sei comunque fermato in tempo’’.
«Vuoi che dimentichi?». No non lo volevo, me ne resi conto mentre la fissavo, ritta nel suo metro e sessantacinque a piedi scalzi e occhi bassi. Io non volevo che dimenticasse, io volevo entrarle dentro, respirarle addosso. Non riuscii a rispondere, non so neppure per quanto stetti immobile a fissarla nella penombra della cucina scavandomi una fossa larga e profonda nella quale mi gettai consapevolmente. Sophia era la mia condanna, lo sapevo eppure non feci nulla per evitarlo, o meglio ciò che avevo fatto in quegli anni sembrò dissolversi come neve al sole mentre mi avventavo su quelle labbra che erano ormai divenute indispensabili come l’atto di respirare. Le nostre lingue si cercarono, si trovarono e si unirono. Ansanti e prostrati da tutte le parole non dette, mentre le mie mani vagavano sul suo corpo la issavano senza sforzo sopra il tavolo della cucina iniziando a toccarla nell’unico modo in cui un uomo poteva toccare la donna che desiderava.
La sentii ansimare mentre le mie labbra scendevano sul suo collo, le tolsi la maglia – la mia maglia che chissà quando aveva rubato – coperta adesso solo da slip e pelle nuda. La saliva sembrò prosciugarsi dentro la bocca mentre con la lingua disegnavo figure astratte, passando dalle clavicole e più giù fino al seno alto e perfetto, e sui capezzoli turgidi.
Le sue dita tra i miei capelli sembravano incitarmi a continuare, ancora inesperte ma ugualmente vogliose di qualcosa che probabilmente neppure lei sapeva. E io gliel’avrei dato. Perché non potevo negarmi, e non potevo negarla a me stesso, era qualcosa fuori dal mio controllo.
«Shùra..». Il mio nome, la sua voce, un colpo di frusta contro la mia schiena mentre le mie dita lasciavano la loro impronta sulle cosce seriche e nude. Non so cosa mi fermò in quel preciso istante, mi scostai e tutto il mio mondo perse senso. La fissai ansante, gli occhi lucidi e carichi di desiderio. Non dissi nulla, me ne andai lasciandola lì, chiudendomi la porta alle spalle. Provando a chiudere anche lei, consapevole di non esserci riuscito. Non ci sarei riuscito mai.
 
Mi rendo sempre più conto di una cosa, il ‘momento sbagliato’ non esiste. E con esso nemmeno il sentirsi sbagliati, o magari giusti in chissà quale galassia o vita.
Se una cosa non va è perché non deve andare.
Un po’ come quando senti la voce del treno che chiama la tua fermata, due prima del capolinea, e vorresti tanto arrivare fino in fondo ma non puoi fare altro che scendere.
Sul biglietto c'è scritto: questo è il tuo arrivo.
E’ il biglietto della tua vita, solo quando sei arrivato a destinazione ti rendi conto che non sempre è la stessa di chi ti sta vicino.
Alcuni si sono fermati addirittura prima, altri non sono neanche partiti. Poi ci sono quelli seduti in cabina con te. Li inizi a conoscere, ti appassioni alle loro storie; alle volte, capita di ascoltarne una davvero interessante.
Quei racconti sono pericolosi, c'è il rischio di innamorarsi delle parole, soprattutto quando si viaggia, soprattutto in treno.
Come quando da bambino ti leggevano le favole, sei lì ad ascoltare e viaggiare lungo i binari della vita. Incurante del fatto che ci saranno sempre e comunque una fermata ed un capolinea.
Uno, due, tre, lentamente la cabina si svuota.
Ma lei è ancora lì.
E anche solo l'idea di avere la stessa destinazione t'intriga.
Corrono i chilometri, le parole, gli alberi e le stagioni.
Le foglie, fuori, diventano spighe.
I prati, dapprima verdi, strabbondano di margherite.
Quando arriverà la sua fermata?
Eppure, se sono qui e se tu sei lì, un motivo ci deve pur essere. Nulla accade per caso, il principio di attrazione esiste. Dimmi la verità, tu stavi cercando qualcosa? Oppure, come me, vagavi in questa valle senza meta e senza una mappa del tesoro?
Io non stavo cercando nulla. Il mio biglietto mi ha portato qui, di fronte a te. E le albe, insieme ai tramonti, si alternano su questo vetro appannato. Sfumature di forse.
E’ bello sentirsi liberi di scegliere, anche se effettivamente saremo sempre influenzati da questi posti già assegnati.
 
 
***
 
Il telefono squillò, lo sentii diverso era un presagio funesto forse complice i tuoni che sentivo in lontananza.
 
– Pronto?
– Sono Boris.
– …
–Misha è qui, non sta molto bene se capisci ciò che voglio dire.
– Dove sei.
– Lo stiamo portando nella  clinica di Anthony, fatti trovare lì.

 
Neppure a distanza di anni avrei saputo descrivere il sentimento con la quale indossai i logori pantaloni di una tuta e un maglione nero come la mia mente in quel momento. Uscii come un ladro dalla mia stessa casa, non fissai il tavolo adesso vuoto per non sentirmi ancora più in colpa di quanto già non fossi. La fune oscillò pericolosamente e stavolta rischiai di cadere nel vuoto, ma sapevo. Io sapevo che quello non era ancora il momento di schiantarsi. Perché per quanto invocassi Dio, sapevo che per quelli come me non vi era fede né perdono. Ognuno traccia il proprio destino, il mio ero rosso cremisi.
 
Riverso sulla barella in un corridoio vuoto e spoglio, quella clinica ospitava solo casi simili e nessuno sarebbe venuto lì cercando spiegazioni, mi avvicinai a lui cercando di trovare in quei lineamenti tumefatti e stravolti una traccia del mio Misha. Serrai i denti con forza e la sagoma del medico mi apparve davanti. Lo afferrai per il collo sbattendolo contro il muro, lo vidi boccheggiare e strinsi ancora di più.
«Da quanto è qui abbandonato come un animale? Dammi un motivo per non ammazzarti, uno solo». Sibilai quelle parole mentre i miei occhi si tingevano di rosso. Solo il pensiero che quel verme era l’unico a potermi aiutare mi dissuase dall’idea di massacrarlo e sfogare la mia rabbia cieca.
«Devi aspettare qui fuori, quando lo avrò visitato ti farò sapere. E vedi di calmarti, cazzo». Mi sedetti su quella fredda sedia, le mani giunte e il capo chino, mentre il tempo scorreva sulla mia pelle simile all’acido, corrodendola pezzo dopo pezzo.
Lo vidi uscire solo mezzora dopo, mi alzai di scatto andandogli incontro.
«Costole fratturate, ecchimosi, fortunatamente nessuna emorragia interna in corso tranne.. – Lo vidi tentennare e mi congelai letteralmente sul posto, lo scrollai con mal grazia, volevo continuasse a parlare e alla fine lo fece – Aleksandr il problema è l’occhio, ha un grumo di sangue e io non riuscirò ad operarlo, non è il mio campo. Rischia di perderlo.»
Non ricordo il tipo di sentimenti che mi investirono in quel momento, ma ricordo la dolorosa intensità con cui lo fecero. Il telefono squillò, lessi il nome e un moto di rabbia per la prima volta offuscò il mio giudizio.
 
– Era necessario? Era necessario ridurlo così?
– Ti avevo detto di prendere in mano la situazione. Boris c’è andato giù pesante me ne rendo conto.
– Te ne rendi conto? Ti rendi anche conto che sta per perdere l’occhio?
– Mantieni la calma, Shùra. Arriverà una persona domani, lei si occuperà del nostro bambino capriccioso.
– Chi.
– Nadja. Nadja Morozova.
 
Nadja Morozova, il medico personale di Sergej che fortunatamente non avevo mai avuto il ‘’piacere’’ di conoscere. L’avevo incrociata a qualche festa, alcuni vociferavano fosse la nuova amante del Vor ma quando la venuta di Dasha – la sua nuova puttana – aveva smontato la tesi si era ripiegato sul semplice affetto. La sua famiglia lavorava per la bratva da generazioni, personalmente non avevo mai nutrito curiosità su di lei, la vedevo come una lecchina pronta a tutto per il favore del Vor, il che sotto un certo punto di vista faceva ridere: non eravamo forse tutti così? In lei però c’era qualcosa di diverso, persino il modo in cui guardava Sophia faceva rabbrividire, alle volte pensavo avesse voluto prendere il suo posto nel cuore di Sergej.
Eppure mi ritrovai ad attendere la sua venuta, seduto su una sedia scomoda accanto al letto di Misha, mi ritrovai a sperare .. anzi no a pregare di vederla apparire il prima possibile.
Relegai Sophia in un angolo del mio cuore, una bellissima immagine del suo viso muto e sorridente. La relegai lì giurando di non tornarvi ancora, sapendo di mentire in quel preciso istante. L’uomo è una creatura complicata, si lascia trasportare dalle emozioni del momento, e mentre fissavo Misha dormiente rivedevo la pelle nuda di Sophia. Avevano iniziato a picchiarlo mentre io tentavo di far l’amore con la donna della quale sapevo fosse innamorato, come me, da anni? Caddi e non mi rialzai.
 
 
Il momento giusto non esiste, come non è possibile dire se in quel momento eravamo sbagliati nel posto giusto.
Ma quello era un posto, e non ci sono finito per caso.
E il mio biglietto, che mi aveva portato lì, ora mi stava dicendo di andare via.
Come fai a convincerti a lasciare andare via un qualcosa che ti aveva fatto sentire in quel modo? Non giusto, ma vivo da sembrare giusto nel posto giusto al di là del tempo.
Nessuno può rispondere alle mie domande, come nessuno può dirmi se Lei, quando arriverà la sua fermata, sceglierà di continuare il viaggio con te.
E’ la vita.

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Capitolo 7
*** Strong ties make us feel good, make us feel that we belong, but they also constrict our worldview ***


 


 

ACT VII

 
 
 
San Francisco
 
Nadja Morozova arrivò alle otto del mattino successivo portando dietro di se la scia del suo profumo, pressante ed eccessivo come lei e la sua avvenenza. Capelli biondi una volta lunghi, adesso tagliati in un caschetto che di severo aveva poco o nulla, curve al posto giusto e una compostezza glaciale dalla quale le era derivato l’appellativo di: principessa dei ghiacci.
Ci squadrammo da capo a piedi senza proferir parola, lei sapeva già tutto era stata informata e sembrava camminare una spanna sopra me. Anthony arrivò giusto in tempo, in silenzio la scortò dentro la camera di Misha e io restai nuovamente solo con me stesso. Il mio peggior nemico al momento.
«Si è svegliato circa mezzora fa, gli ho visitato l’occhio». Esordì così gettando i guanti in lattice nella pattumiera, fissandomi con alterigia un quarto d’ora dopo.
«Puoi operarlo?» Le andai incontro a braccia incrociate e occhi stanchi, non avevo voglia di farle la guerra in quel momento.
«Posso, ma non assicuro la totale guarigione. L’occhio al momento è pressoché intoccabile, gli ho prescritto dei farmaci che prenderà per qualche giorno, lunedì vedrò di operarlo». Annuii senza neppure salutarla lasciandola ritta alle mie spalle mentre mi preparavo ad affrontare mio fratello. Sorretto da alcuni cuscini, una benda sull’occhio e l’aria incazzata, in pratica sempre e comunque Misha solo con qualche ammaccatura.
«Hai visto la sventola che è venuta a visitarmi?». Mi accolse così, con un mezzo sorrisino e l’aria di chi la sa piuttosto lunga nonostante la voce bassa e impastata di sonno.
«Non conosci Nadja?» Mi sedetti accanto a lui.
«La puttana del Vor?» Misha e i pettegolezzi non andavano d’accordo. Lasciai perdere sporgendomi verso di lui.
«Come ti senti?». Aggrottai la fronte cercando delle parole che non vollero uscire.
«Aleksandr.. » mi parlò con tono serio e io mi sentii improvvisamente colpevole.
«Cosa». Mandai giù il bolo di saliva improvvisamente amaro.
«Penso che quella Nadja voglia essere scopata da me. Mi ha fissato per un minuto buono negli occhi, intensamente». Scandì l’ultima parola sporgendosi verso di me.
«Misha .. hai l’occhio che a momenti ti pende, dove porca puttana doveva guardarti?». Stavo sul serio sostenendo quella conversazione?
«Shùra ad un certo punto ha fissato quello buono, è fatta. Vuole scopare». Sbatté le mani una contro l’altra, quantomeno adesso sapevo con certezza una cosa: era ancora il solito coglione.
 
Avrei trasferito Misha nell’appartamento sotto il nostro in gran segreto, chiamò lui stesso Sophia annunciandole che il suo servizio fotografico sembrava doversi prolungare per qualche giorno. La sentii lamentarsi dalla sua camera, ma a differenza delle altre volte non venne da me. La corda tesa si sfilacciò un po’ di più.
 
 
***
 
 
Sophia POV
 
 
E’ che sei adulta adesso. E la cosa più difficile dell'essere adulti è che lo sei prima di rendertene conto, e a quel punto hai già preso una decina di decisioni.
E non solo. Devi cominciar a dar peso ad ogni parola scappata di bocca e ad ogni gesto. Devi stare attenta a trovare sempre il momento giusto per aprire bocca. Devi rispettare tutti i tuoi obblighi e non puoi permetterti certi capricci perché si sa: "sei adulta". Non puoi più neanche parlare liberamente a quelli che consideri i tuoi fratelli perché "sei adulta". Devi trovarti un lavoro e tenertelo stretto "perché sei adulta". Non puoi fare questo, quello e quell'altro ancora "perché sei adulta".
Ricordo ancora che da piccola non vedevo l'ora di diventare grande e passavo ore ed ore a programmare il mio futuro.
"Voglio trovare un lavoro, comprarmi la macchina, poi trovare un rimedio per tutti i mali e far fare la pace a tutti i paesi che sono in guerra. E con i miei soldi voglio comprare del cibo a tutti quanti! E voglio rendere Shùra e Misha felici!" ripetevo in continuazione.
Ti rendi conto d'essere adulta quando nessuno di questi progetti si realizza e quando crei frontiere insuperabili tra una stanza e l'altra. Ti rendi conto d'essere adulta quando "tu sei una donna e lui è un uomo" diventa un ostacolo.
 
 
La casa completamente buia puzzava di malessere, o probabilmente ero io a emanare quell’odore insopportabile. Mi vestii in fretta abbandonando gli echi lontani di una serenità che in quel momento sembrava il miraggio della me eternamente bambina, scendendo i gradini in fretta.
Non avevo una meta prestabilita, mi ritrovai semplicemente a vagabondare finché i miei piedi non mi riportarono a quella famosa macchinetta carica di stupidi pupazzi. Il tempo è qualcosa di letale, quando lo vivi sulla tua pelle non te ne rendi conto davvero lui passa e ripassa e tu stai lì a sorridere senza neppure catturare un grammo di ciò che ti ha donato. La sera in cui Shùra provò a prendere il pupazzo per me ad esempio, se ci penso adesso mi sento una vera idiota. Avrei dovuto supplicare il tempo di fermarsi, di concedermi ancora quell’illusione di serenità prima che tutto si complicasse, e invece stupida come poche mi ero crogiolata in quell’attimo di benessere. Un attimo troppo breve.
Accarezzai il vetro della macchinetta, vi poggiai i polpastrelli macchindolo con le mie orme, osservando quei pupazzi spettatori silenziosi di un momento che non sarebbe tornato più. Quando mi voltai lo vidi seduto sulla panca poco distante, mi guardava ancora come quella notte in cucina. Bevvi dai suoi occhi finché non li vidi spegnersi e inaridirsi, anche in questo caso avevo usato male il tempo. Mi avvicinai a lui, mi sedetti in silenzio spalla contro spalla, mi piaceva anche star così. Shùra era il mio cavaliere dalla scintillante armatura, lo era stato sempre in fondo, era colui che accorreva in mio soccorso, che mi difendeva dalle bulle a scuola, dai ragazzi troppo intraprendenti. Lui era ciò che io avevo provato ad essere per Misha, riuscendoci molto male.
«Questo credo sia tuo». Mi porse un pupazzo, l’unicorno che quella sera avrei tanto voluto. Un groppo in gola mi impedì di parlare e ringraziarlo, afferrai il pezzo di stoffa rigirandomelo tra le mani, sollevando infine lo sguardo sul suo profilo severo.
«Hai le occhiaie, sembri stanco..». Non era una stanchezza derivata dagli impegni, era come se volesse spaccarsi a metà. Il mio cuore doleva, non sapevo neppure perché stesse così.
«Ti avevo promesso lo avrei preso per te». Il suo tono, la sua voce, erano così lontani. Odiavo vederlo in quello stato.
«Già.. mantieni sempre le tue promesse tu». Non trovai di meglio da dire mentre stringevo forte l’unicorno.
«Misha ti adora. Anzi no, Misha ti ama Sophia». Perché? Perché mi stava facendo questo in quel preciso momento?
«Lo amo anch’io, lo amo come si amerebbe un fratello». La mia voce aveva tremato?
«Lui vorrebbe altro, penso riuscirebbe a cambiare per te». Lo stava dicendo sul serio? Tremai visibilmente alzandomi di scatto.
«Perché non inizi a dirmi cosa vorresti tu? Pensi di potermi cedere come un pacco postale? Ricordi la promessa che mi facesti quando partisti in vacanza con zio Yuri? Dicesti che tu da me saresti sempre tornato. E cosa ti risposi io? Che ti avrei sempre aspettato». Non avevo più fiato, gli voltai le spalle andandomene via.
 
Rompere qualcosa di bello per vedere com'è fatto dentro. Perché l'evidenza, alla diffidenza, non basta.
 
 
 
 

 
Aleksandr POV
 
 
"Grazie"
 
Se ti ricordi di me come io mi ricordo di te, allora va tutto bene.
Se una sera per caso ci ritroviamo a parlare e non era previsto, ma le parole sembrano scorrere come non aspettassero altro che ci incontrassimo ancora, allora va tutto bene.
Grazie e poi grazie di che, e dire grazie forse è inutile, ma grazie.
E mi dispiace, perché quello che c’è con te, qualunque cosa sia, dura sempre troppo poco.
 

 
***
 
 
Mikhail POV
 
Rischiavo di perdere l’occhio. Lo sapevo, quella stronza bionda e frigida – ero certo lo fosse, nessuna poteva resistermi –  che era venuta a visitarmi non avrebbe sicuramente preso il premio in delicatezza. Probabilmente le fissavo insistentemente il culo per questo motivo, mi piacciono le stronze. Reclinai appena il capo fissando la gonna nera a vita alta, ero quasi sicuro indossasse un perizoma, persino con l’occhio bendato avevo intuito per certe cose.
Veniva a visitarmi almeno due volte al giorno, le ferite facevano un male fottuto, ma l’occhio ..cristo santo l’occhio sembrava volermi esplodere. Perderlo avrebbe significato la fine per me come membro della fratellanza, e se avessi avuto un po’ di sano giudizio ero certo che avrei dovuto compiacermene. Niente più armi, niente agguati, niente di niente. Mi avrebbero relegato in qualche ufficio, o accompagnato da un cane per ciechi a ritirare le mazzette dalla gente che ci riforniva. Era possibile per me una vita peggiore di quella che già avevo? Ebbene si. Nadja era qui per questo, lo sapevo io e lo sapeva anche Shùra; Sergej non si era mai preoccupato per me, figuriamoci, voleva solo accertarsi che io potessi servirgli ancora.
Avevo cercato Irina, le avevo propinato la stessa balla inventata a Sophì. Mi mancava quella testa vuota, avrei voluto averla lì con me a raccontarmi di come Shùra l’aveva rimproverata, di quale torta avesse bruciato quel giorno. Insomma l’avrei voluta qui.
«Fammi controllare l’occhio». Il tono tagliente di Nadja mi distrasse, o forse erano le sue tette non ne ero sicuro. Stetti immobile a fissarla, da quella distanza e concentrandomi solo sull’occhio buono riuscivo a distinguerne bene i lineamenti.
«Sei la puttana di Sergej vero?». Le sorrisi candidamente pensando che mi avrebbe ficcato l’unghia laccata di rosso sull’occhio malato, ma reagì meglio di quanto avessi sperato.
«Oh si, scopa da dio, un livello che tu probabilmente non raggiungerai mai». Era stronza, l’ho già detto credo.
«Provare per credere». Sorrisi ancora e la vidi allontanarsi, il mio fascino non sortiva alcun effetto quindi? Impossibile. Perché io ho fascino, Shùra diceva stronzate e non poteva apprezzarmi in quanto uomo. Ma giuro di avere del fottuto fascino.
«La tua mercanzia non mi interessa, Mikhail Volkov, ma grazie comunque per l’interesse. Preparati, mancano ventiquattrore alla tua operazione». Lo disse con un velo di sadismo, dovevo dire a Shùra di tenerla d’occhio magari voleva uccidermi nel sonno. Certo però che figata scoparsi la puttana del Vor, per quanto lei lo negasse io ero sicuro lo fosse. Avrei dovuto ragionarci su e far pagare a quel vecchio di merda ciò che mi aveva fatto.  
«Dormirò come un angioletto stanotte in attesa che le tue mani magiche mi tocchino». Aveva recepito l’allusione sessuale? Ero un tipo testardo.
«Se vuoi scusarmi ..» sospirò neppure fosse di fronte a una specie di piaga sociale. Cosa che poi in effetti ero.
«Shùra è qui..?». Tentennai nel chiederlo, lei mi fisso e alla fine scosse il capo. Annuii compiaciuto, non lo volevo attorno. Odiavo l’idea che mi vedesse debole.
 

 
Aleksandr POV
 
Nadja uscì dalla stanza dopo circa venti minuti venendomi incontro, un lieve sorriso increspava le sue labbra. Sembrava divertita da qualcosa, incrociò le braccia al petto inarcando un sopracciglio.
«Come sapevi che mi avrebbe chiesto di te?». Misi le mani in tasca provando a ridere, ma non credo ci riuscii benissimo.
«Perché lui è parte di me». Scrollai le spalle ambiguamente e lei capì che non era il caso di pormi altre domande. Avrei passato la notte in sala d’aspetto, ero sicuro fin dall’inizio che Misha non mi avrebbe voluto nei paraggi, il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di entrare sereno in sala operatoria sapendo che fuori vi ero io ad aspettarlo. Nonostante avessi avuto sempre parecchi ruoli nei suoi confronti, aveva vissuto in quegli anni con il costante desiderio di farmi capire che potesse farcela da solo. Inutile dire che falliva puntualmente e miseramente, ed era inutile dire che la mia parte egoista ne gioiva. Senza lui che senso avevo? Senza Sophia che senso avevo? A quel nome mi bloccai. La cancellai dai miei pensieri per il momento, dovevo solo pensare a Misha. Null’altro poteva avere la precedenza. Quando tutto sarebbe finito avrei provato a fare ordine.
Afferrai il cellulare componendo il numero di Anastasia:
 
– Capo, che succede?
– Nulla, devi fare qualcosa per me.
– Dimmi.
– Tieni d’occhio Boris, voglio sapere ogni suo minimo spostamento.
– Va bene.
– Ovviamente è inutile dirti che non sono ordini di Sergej, e nessuno dovrà saperlo.
– Ovviamente.
 
C’era una cosa con la quale né Sergej, né tanto meno quel coglione di Boris avevano fatto i conti. Quella cosa ero io.
 

 
Osservai la barella di Misha entrare in sala operatoria, mi nascosi nell’angolo fissando il suo viso disteso probabilmente a causa della mia assenza. Il cellulare vibrò, il nome di Sonech’ka spiccava sullo schermo. Deviai e spensi.
 Era dentro da circa mezzora, probabilmente era già stato anestetizzato, sedetti completamente solo nella sala d'aspetto cercando conforto in un Dio nella quale non potevo credere, un Dio che probabilmente mi aveva abbandonato tanti anni fa, un Dio della quale mio padre mi parlava e leggeva sempre; non trovavo pace né conforto ma solo striscianti rimorsi. Se quando Sergej mi avesse ordinato di picchiarlo avessi acconsentito Misha non si sarebbe trovato ora in una fredda sala operatoria con il rischio di perdere la vista permanentemente. Strinsi i pugni serrando la mascella con forza e nonostante premeditassi la mia vendetta quell'odio cieco non riusciva a placarsi. 
Nadja uscì due ore dopo dalle porte scorrevoli individuandomi subito e venendomi incontro, non mi ero mosso da lì neppure per andare a pisciare, fermo immobile seduto su una sedia continuavo a fissare il vuoto e poi lei. 
«L'operazione è appena finita» mi alzai respirando profondamente.
«Com'è andata? Il suo occhio..». Non riuscii a finire, a me il coraggio non era mai mancato, eppure quando si trattava di Misha e Sophia perdevo ogni fattezza d’uomo.
«Non posso dirlo con certezza, abbiamo rimosso l'ematoma, ma la vista.. lo sapremo quando riprenderà conoscenza» provai a capire dal suo tono se mentisse o meno, considerando però la sua attitudine ad essere rude non vedevo il motivo di dubitarne.
«E quando dovrebbe riprenderla?» mi fissò quasi scocciata e per un istante sentii sul serio il bisogno di ridere.
«Gli abbiamo somministrato altri sedativi, non aprirà gli occhi fino a stasera o il dolore post operatorio lo mangerebbe vivo, pezzo per pezzo» sospirai annuendo appena per poi superarla «Immagino sia inutile dirti che non puoi stare in stanza con lui, vero?» mi bloccai fissandola con un mezzo sorrisino.
«Sei sveglia, vedi?» la sua occhiata arcigna valse più di mille parole.
«Fai come ti pare, ci vediamo dopo». Non ci fu bisogno di dire altro, entrai nella sua camera sedendomi accanto a lui, afferrandogli la mano.


Se fossi sveglio probabilmente mi diresti di andarmene, se fossi sveglio probabilmente non potrei prenderti la mano, diresti qualcosa come 'sei frocio per caso?' e finiremmo per battibeccare come nostro solito. Sono stanco Misha, mi sento come se avessi fallito ogni singola cosa che ti riguarda, sono oppresso da tutti i ''se'' i ''ma'' gli ''avrei dovuto'' i ''vorrei ma non posso''; lo capisci? Sono stato accanto a te tutta la tua vita, o quasi, e cosa sono stato in grado di fare? Nulla. Da piccolo probabilmente invece di farti tenere una pistola avrei dovuto mandarti a giocare, quella sera avrei dovuto picchiarti io e non Boris, adesso saresti ancora in casa con me e Sophia. Mi dispiace fratello, non so davvero più come rimediare al male che ti faccio inconsapevolmente. In qualche modo ce la farò, ricordi cosa ti dissi tempo fa? ''Io ho te. Tu hai me'', però devi farmi una promessa: devi aprire i tuoi fottuti occhi, entrambi. Non uno, ma entrambi Misha. La senti la mia mano?
 
Probabilmente non la sentì.
 
 

 
Osservavo la vecchia Tamara fuori dal vetro della sua drogheria, mi guardò di rimando, mi sorrise e mi strizzò l’occhio invitandomi ad entrare. Avevo 8 anni, mi piaceva frequentare gli adulti, specialmente gli anziani così carichi di storie da narrare.
«Il mio giovane amico è venuto ancora a trovarmi?». Mi accarezzò i capelli con le sue mani rugose che odoravano di borotalco, mi piaceva.
«Nonna Tamara, aspetti ancora il tuo Fedor?» Fedor era il primo marito della donna, morto probabilmente nella seconda guerra mondiale, sotto i bombardamenti implacabili dei tedeschi. La donna aveva vissuto per trent'anni con un altro uomo, il poveretto si era sempre accontentato di quel po' d'affetto che la donna riusciva a donargli. Quando un pomeriggio le chiesi ''Perché non ti sposi col compagno?'' la donna semplicemente mi rispose ''E se il mio Fedor tornasse? Sarei proprio in un bel guaio!''
«Aleksandr hai visto il palazzo di fronte? E’ un bordello. Sai cos’è un bordello?». Mi fissò con quegli occhi vispi e verdi, io sorrisi e annuii orgoglioso. Io notavo e sapevo tutto, anche cose non adatte alla mia età.
«Molti ma molti anni fa nel medesimo punto vi era un altro bordello, che venne poi trasformato in un Hotel di lusso. Le prostitute una notte sparirono tutte misteriosamente». La fissai improvvisamente incuriosito sporgendomi sulle punte oltre il bancone.
«Vennero portate via per disturbo alla quiete pubblica e per deturpazione di beni pubblici. Pensa». Schioccò le dita ridendo rauca «E sai a quanto vennero condannate? Tre anni, giovane Aleksandr. I preti processati un anno prima, a sette. Quindi ricorda .. prostitute tre. Gesù Cristo sette» 
Mia madre entrò proprio in quel momento inveendo contro la vecchia Tamara che a suo dire traviava la mia giovane mente. Mi trascinò lontano da lì rimproverandomi.
«Aleksandr, potresti evitare di sentire storie di puttane da una vecchia pazza?». Si bloccò fissandomi in tralice.
«Ma mamma .. se non da lei, da chi dovrei imparare cose sulle puttane?»

 
Mi svegliai di soprassalto completamente sudato, fissando Misha dormire placidamente. Le nostre dita ancora intrecciate. Mi alzai andando a sciacquarmi il viso, pensando al sogno e al viso di mia madre che non ero ancora una volta riuscito a vedere con chiarezza. L’alba ormai si intravedeva dalla finestra della camera, guardai per un’ultima volta la sagoma dormiente e restai qualche istante a chiedermi se l'imbecille era lui, che la vita la pigliava tutta come un gioco, o se invece ero io che la pigliavo come una condanna ai lavori forzati.
 

 
 
Mikhail POV
 
 
Mosca, 1996
 
«Irina è scomparsa…» La voce di mia madre sembrò rotta, quasi come se qualcuno gli avesse spezzato le corde vocali.
 «La mia sorellina è sicuramente a giocare in camera. L’ultima volta le ho detto di nascondersi sotto il letto finché non mi liberavo di papà… mamma, hai controllato sotto il letto, vero?»
Alla mia domanda non vi fu risposta. Probabilmente mia madre pensò che non ne meritassi una e forse lo pensavo e lo penso anche io. Lei sapeva, a differenza mia.
Il pomeriggio passò piatto, inesorabile. Come se la cupola di vetro opaco in cui vivevamo si fosse rotta e non sapevamo più che fare, ritrovandoci completamente persi in quella foresta che altri non era che casa nostra.
Probabilmente il dolore di perdere Irina fu talmente grande che nemmeno le lacrime erano degne di essere considerate il giusto rimedio per scaricare tale supplizio. O forse le avevamo terminate entrambi. Erano le diciotto in punto quando la sua sciupata figura si mise in piedi, appena traballante, forse per aver passato tutta la giornata in ginocchio sullo scomodo sofà. Mi guardò e mi rivolse un cupo sorriso.
 «Solo mezzora, sopporta solo mezzora amore mio.»
Mezzora . Mezzora dopo era l’ora in cui mio padre era solito rincasare.
Mia madre mi fece promettere di non muovermi di lì, se lo avessi fatto… non mi avrebbe voluto più bene.
Mi diede le spalle e sparì attraverso il corridoio, tornò solo dieci minuti più tardi con due cinghie di cuoio legate tra loro. Erano quelle di papà. Non feci in tempo a dirle che lui si sarebbe arrabbiato, che mi zittì con un gesto – facendomi ricordare la promessa che avevo fatto poco prima. Spostò il piccolo tavolo al centro della stanza, mi stupii che così minuta potesse avere una tale forza. Vi mise al suo posto la sedia in legno buona, quella riservata all’uomo che aveva malauguratamente sposato.
Salì sopra quella sedia ed annodò la cinghia al lampadario e poi al suo collo, scalciò via la sedia e rimase sospesa a mezz’aria esalando l’ultimo prezioso e sofferto respiro.
Non riuscii a muovermi.
Non riuscii a scoprire se Irina si fosse realmente nascosta sotto al letto e non riuscii a far scendere mia madre di lì, perché le avevo fatto quella stupida promessa.
Quando mio padre rincasò tenevo in mano la sua arma e lo fissavo di schiena guardare il corpo penzolante di mamma. Sparai. Un’ora dopo gli uomini di Sergej mi vennero a prendere, non ricordo le loro espressioni ma so con certezza che il Vor si dimostrò compiaciuto facendo ripulire la casa dalla nostra presenza.
 

 
 
«Ciarlatana, quando mi toglierai la benda?». Ero tornato a casa da poche ore, o meglio ero tornato nell’appartamento sotto quella che doveva essere la mia casa. Il malumore era decisamente mitigato dalla bionda tutta curve che mi girava attorno a tutte le ore. Avrei voluto godermela decisamente di più, ma le mie veglie erano brevi e mai del tutto lucide. Mi stava bombardando di anestetici e antidolorifici, in pratica mi sentivo perennemente sotto l’effetto di droghe, odiavo questa sensazione, mi faceva dormire troppo spesso e il sonno generava sogni. Vedevo mio padre, le sue mani sporche su di me, e Irina coi suoi occhi di ghiaccio, quegli occhi freddi che non mi avevano neppure riconosciuto. E vedevo Sophia col suo ombrellino a passeggiare sul campo di Marte. Alcuni erano sogni piacevoli, altri erano incubi atroci che sembravano senza via d’uscita. Mi ero appena svegliato, sudato e ansante, sentivo la bocca impastata.
«Non è ancora il momento di togliere la benda Mikhail, vedi di riposare piuttosto». La fissai senza dire nulla, per la prima volta mi sentivo troppo spossato. Socchiusi le palpebre appesantite e rividi le scene del sogno in sala operatoria, rimembravo spesso il giorno in cui mio padre mi aveva venduto a Sergej. Dopo essersi preso tutto, dopo essersi stancato, aveva ceduto quello che pensava essere un contenitore vuoto solo per denaro. Aveva calpestato ancora una volta mia madre, gli occhi si chiusero e l’incubo ricominciò.
 
 
Ripresi conoscenza, sentendo voci attutite provenire dal soggiorno, le riconobbi subito erano Nadja e Shùra.
«Ha ripreso conoscenza poco dopo essertene andato a prendere i vestiti» la ciarlatana aveva una voce sexy.
«Lo so, mi sono allontanato per questo» sudavo, sentivo caldo.
«Ha chiesto di te e Sophia». Chiusi gli occhi, c’era Shùra adesso e andava tutto bene.
 
I legami che ci vincolano a volte sono impossibili da spiegare. Ci uniscono anche quando sembra che si debbano spezzare; ci sono legami che sono semplicemente destinati ad esistere.
 
 
Aleksandr POV
 
L’aspettavo ritto contro il muro del palazzo, fissando di tanto in tanto la strada solitaria. Contavo le auto che passavano catalogandole in base al colore, o al modello. Finalmente la vidi, camminava come suo solito con quell'incedere tra il regale e il saltellante, mi mossi andandole incontro. Mi fissò e restammo in silenzio, non ebbi la forza di dirle nulla a parte fissarla e tenderle la mano. Me la strinse.
 
«Sapevo saresti tornato, mantieni sempre le tue promesse»
 
Mantenere: a dieci anni era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere. A trenta forse non basta più.
 

 

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Capitolo 8
*** Be bad, but at least don't be a liar ***


  

 

ACT VIII

 
 
 
La mia scrivania era sommersa di carte, fogli da firmare, conti da revisionare e pratiche da rivedere. Allentai il nodo della cravatta, la mia fronte eternamente corrucciata temevo avrebbe scavato un solco che mai più sarebbe sparito. Misha era tornato al piano di sopra in gran segreto ormai da giorni, lo sentivo spesso per telefono e spesso passavo le notti in casa con lui adducendo scuse con Sophia, eternamente sospettosa che mi fossi trovato un amante dopo pochi giorni dall’inizio della nostra relazione. Ecco probabilmente era questo il pensiero costante causa dei solchi sulla mia fronte, mi ero gettato nelle fiamme consapevolmente, un atteggiamento che stava meglio a Misha che a me. Io sempre intransigente e rigoroso, seguivo una linea dritta e invalicabile che avevo appena sforato per amore. Usavo quella parola solamente nella mia mente, prendeva forma e consistenza e lì giaceva a fissarmi in un angolo. Non sapevo se mi spaventasse di più l’idea di affrontare mio fratello, o Sergej, entrambi ma per motivi diversi avrebbero probabilmente richiesto la mia testa su un vassoio d’argento; magari era la volta buona per loro d’allearsi e andar d’accordo? Qualcuno bussò alla porta, non ebbi l’agio di rispondere che ecco la testa bruna di Sophia far capolino con un sorriso complice. Sospirai poggiando la stilografica sui fogli.
«Sonech’ka..». Il suo nome venne accompagnato dal rumore della porta chiusa e dai suoi passi lungo il pavimento.
«Wow.. quindi questo è l’ufficio del boss? Ti tratti bene mio piccolo bastardo. Portami fuori a pranzo». Uscì fuori la lingua sedendosi sulla poltrona in pelle, sul tavolino di fronte giaceva il mio pc.
«Ho seriamente un casino di lavoro, eclissati e vai a giocare da un’altra parte». Quella parte del nostro rapporto non era cambiata poi molto, a parte le parentesi costituite da baci e carezze, eravamo ancora il gatto col topo.
«Ti capita mai di non fare così schifo?». Accavallò le gambe sorridendomi serafica.
«Come sei riuscita ad entrare? Hai corrotto Anastasia?». Tornai a scrivere, il metodo migliore per farla desistere era ignorarla.
«Due borse Chanel .. » tossì soffiandosi il naso, la guardai in tralice.
«E che altro?». Non mi fidavo di quella piccola mente diabolica.
«Una tua foto mentre dormi, sei così carino». Sporse il labbro tirando su col naso. Sbuffai decidendo di ignorarla almeno finché non la sentii armeggiare col mio pc, lì dentro vi era una cartella dei conti illegali e dei traffici. Mi alzai di scatto precipitandomi verso di lei.
«Non toccare cazzo». Le bloccai il polso, il pc aveva una password fortunatamente.
«Ci tieni i porno?» sospirai tornando a sedermi. Molto meglio pensasse quello che la realtà.
«No, ma ho cartelle di lavoro che non devono essere scombinate». La vidi fissarmi pensierosa e poi guardare nuovamente il pc, era comunque bloccato quindi sorrisi e mi rilassai. Il mio relax durò pochi secondi, più o meno finché non sentii il classico suono del pc sbloccato.
«Sei così prevedibile persino nelle password piccolo animaletto … e questa cos’è? Sono sicura sia un porno, hai la faccia del maniaco». Sbarrai gli occhi, era sul serio riuscita a sbloccarlo? Mi alzai con così tanta irruenza da scaraventare a terra carte e penne avventandomi su di lei. La bloccai un istante prima di vederla aprire la cartella.
«Andiamo fuori, ti offro il pranzo». Mi sorrise ambiguamente.
«Tailandese?» si alzò e io riuscii a respirare.
«Tailandese.. Come sapevi la mia password?». Mi guardò come se avesse di fronte un infermo mentale.
«La data della morte di tuo padre. Così prevedibile». Non dissi nulla, non credo ce ne fosse bisogno.
 
 
***
 
 
«Vorrei sapere che tipo di impegno tiene lontano Misha per così tanti giorni». Seduta sul divano con il suo immancabile broncio mi fissò con sospetto, a suo dire io sapevo più di quanto le avessi detto. E aveva ragione.
«Te l’ho detto, un servizio fuori città prende sempre tanto tempo. Smettila di lamentarti lo rivedrai presto». Mi sedetti accanto a lei sorseggiando la birra ghiacciata.
«Dovremmo dirglielo..». Mi passò improvvisamente la sete. Poggiai la bevanda sul tavolino di fronte a me girandomi verso di lei.
«E lo faremo, solo ..con calma». Calma. Era questo il problema? Il mio problema era più che altro la sua reazione, mi ero preso la donna della quale era innamorato, in che modo mi sarei potuto giustificare? Avevo infranto la tacita promessa fatta anni prima, quella di rendere Sophia intoccabile. Quel pensiero venne spazzato via nel momento in cui la sentii sedersi su di me, le afferrai i fianchi sporgendomi verso le sue labbra, baciandole con desiderio.
«Sei un uomo molto viscido Aleksandr Belov». Mi sorrise maliziosa. Alle volte pensavo che quell’aria da bambina capricciosa non fosse altro che un bel vestito indossato per l’occasione. Sophia era molto ma molto di più. Insinuai le mani dentro la maglia, sulle cosce tornite e fresche risalendo verso i fianchi, accarezzando il bordo degli slip che scostai appena. Le nostre lingue si cercarono ancora, unite al pari dei nostri respiri, l’attrazione e il sentimento che nutrivo per quella donna non mi lasciavano libero di respirare normalmente. Sentii le sue dita tra i miei capelli e poi più giù sulla gola, mentre le mie risalivano il suo ventre piatto accarezzandole i seni alti e sodi. Sophia era brava a giocare con me, mi concedeva quel tanto che bastava per far si che il mio desiderio mi prostrasse per poi tirarsi indietro. Credo avesse paura di fare l’amore con me, probabilmente la prima volta spaventava tutte le donne. Eppure mi accontentavo di dormire insieme a lei, le nostre dita intrecciate, il mio respiro sul suo collo mentre la fissavo sorridere ad occhi chiusi. In attesa di un’altra alba che ci avrebbe visti ancora insieme.
Quella mattina la lasciai dormiente sul mio letto sfatto, mi vestii in fretta e scesi a vedere Misha. Trovai lì anche Nadja intenta a visitargli l’occhio, attesi dietro la porta finché non la vidi uscire.
«Sembra si stia riprendendo, è parecchio sgonfio adesso anche se il rossore permane. Tra due giorni toglierò la benda e sapremo di più». Annuii lasciandola andare, entrando nella stanza dell’ammalato rompi coglioni.
«Stare chiuso qui mi snerva». Mi fissò col solito cipiglio incazzato mentre mi poggiavo al comò di fronte il letto a braccia incrociate.
«Devi portare pazienza». Quante volte glielo avevo detto?
«Devo vedere Irina. E Sophì». Abbassai lo sguardo, e quando lo risollevai incrociai il suo intento a scrutarmi.
«Senti..». Attaccai cercando di modulare la voce, volevo dirgli ciò che era successo ma non ci riuscivo.
«Si può sapere che cazzo hai? Sembri Cristo in croce». Sbuffò sistemandosi i cuscini, io continuavo a fissarlo in silenzio. «Mi devi dire qualcosa Shùra?». Qualcosa? Dovevo in effetti. Tossii e maledissi Sophia per avermi attaccato il suo raffreddore.
«No, solo di fare attenzione. Sto tenendo d’occhio Boris, vuoi avere tu il piacere di vendicarti?». Gli sorrisi affabile, lo vidi fissarmi felice come se gli avessi appena ceduto il pezzo di torta migliore.
«Tu si che sai come allietare le mie giornate»
 
 
Con Misha fuori gioco il traffico delle puttane era divenuto incombenza mia, fissavo le ragazze scendere dal furgone senza prestarvi particolare attenzione, ai miei occhi erano merce e per giunta avariata. Non scambiai neppure una parola con loro limitandomi a condurle nel solito posto, lasciandole alle cure dei ragazzi che avrebbero saputo sicuramente come intrattenersi a differenza mia. Il cellulare squillò, osservai il nome aggrottando la fronte.
 
– Misha che cazzo vuoi a quest’ora?
– Siamo nel pieno di una crisi.
– In che senso..
– La televisione mi ha appena mandato uno strano messaggio subliminale Shùra.
– Che messaggio? Ma la smetti di parlare in codice.
– E che cazzo ne so? Una puttana con l’ombrellino ha detto qualcosa come ‘’supercalifragilichecazzoneso’’, che devo fare?
– Misha quanti cazzo di sedativi hai preso?
– NON LO SO OKAY? L’OCCHIO MI FA MALE.
– Aspettami e stai fermo.
– No, chi cazzo ti vuole vedere? Perché mi chiami? Se metti un piede in casa ti sgozzo.
– Sei bipolare?
– Senti portami il gelato, appena arrivi giochiamo a chi piscia più lontano.
– Tu non stai bene.
 
 

Mikhail POV

 
 
«Vivrai nell’ala ovest del mio palazzo, ma non sarai solo. Sono sicuro che il nostro Aleksandr sarà contentissimo di avere un nuovo fratello. E di certo lo sarà anche Sophia» Sergej mi fece percorrere molte scale, pensavo d’essere in un castello come quello delle favole che mia madre ogni tanto mi raccontava quando mio padre non c’era. Ne sorrisi al pensiero, forse in quel castello avrei trovato Irina.
Sergej mi condusse in una grande sala delineata da un arco in legno, molto più grande dell’altezza dell’uomo stesso. Lì vedemmo un bambino intento a giocare con un elastico, era seduto su di una poltrona blu e sembrava annoiarsi tra i molteplici sbuffi. Aveva i capelli in ordine ed i vestiti sembravano nuovi di zecca, a differenza mia invece che parevo un trovatello – ed in fin dei conti lo ero.
 «Shùra, questo è Mikhail. Da oggi vivrà in casa con noi» Sergej parlò per primo, mi mise una mano dietro la spalla e spinse appena verso quel bambino che non ci degnò di uno sguardo.
«Molto… molto piacere, io sono Mikhail ma visto che vivremo insieme puoi chiamarmi Misha». Dissi frettolosamente, mi sistemai con le mani i capelli cercando in qualche modo d’essere alla sua altezza o qualcosa di simile. Mi misi in posizione perfettamente eretta, Aleksandr mi rivolse il primo sguardo da quando eravamo lì e restò qualche secondo a fissarmi, poi scoppiò a ridere senza motivo apparente.
«Suppongo andrete d’accordo» disse Sergej prima di congedarsi, lo guardai andar via e poi rivolsi lo sguardo vispo verso il mio nuovo amico.
 «Tu si che sei un tipo buffo, hai gli occhi assurdi e di un colore strano, fanno impressione» Aleksandr abbandonò l’elastico da qualche parte sull’immensa poltrona, come se lo trovasse improvvisamente noioso e scese di lì girandomi attorno con le braccia conserte  «Per non parlare di quelle guance… solo le ragazze ce l’hanno così grasse e rosse». Scosse la testa e sospirò quasi rassegnato, io non dissi molto ma mi limitai a seguirlo in ogni angolo e dopo qualche ora mi diede così il permesso di chiamarlo Shùra.
Quel giorno per me fu un bel giorno. Shùra ascoltò la mia storia e non provò ribrezzo per me, anzi, dopo tutte quelle lacrime che versai per mia madre e per Irina, mi prese per mano e mi portò nel grande bagno destinato a noi. Mi fece spogliare e per un attimo pensai che fosse come mio padre, ma fece un verso disgustato quando feci per togliermi i boxer, mi fermò subito tirandomeli su.
 «Oh Misha che cavolo fai! Non sono mica frocio… devi tenere i boxer» disse rimproverandomi, io guardai in basso e poi annuii. Lui sorrise, non so perché.
Shùra mi fece immergere nella vasca e mi insaponò la schiena, le gambe ed il petto. Mi fece sollevare le braccia per insaponarmi anche lì, dopodiché mi lavò i capelli.
 «Adesso metti le mani lì dentro e lavati il coso» lo disse con un’espressione quasi disgustata, io annuii per l’ennesima volta e gli porsi i palmi aperti aspettando che mi versasse un po’ di quel sapone colorato e profumato. Mi lavai e lui tenne per tutto il tempo il viso voltato da un'altra parte. Quando finii, picchiettai il dito sulla sua spalla per avvisarlo, mi sciacquò e mi fece uscire asciugandomi subito dopo.
«Se-sergej è il tuo pa…papà?» chiesi mentre l’aria calda e confortante del fon mi investiva il viso e scompigliava i capelli. Le mie gambe dondolavano spensierate su quella sedia dove Shùra mi aveva fatto sedere.
 «No» rispose secco.
 «D-dove sta il tuo papà?»
 «Perché diavolo balbetti? Dio che nervi»
 «N-non lo so…». Dissi sconsolato. Shùra spense il fon e mi sistemò i capelli con le dita, quando si voltò gli afferrai la maglia trattenendolo, mi fissò in attesa probabilmente di capire cosa volessi.
«C’è…qua-lche ciuffo ancora ba-bagnato…» mormorai.
«Me se sono… ho capito, abbassa la testa.»
 
Da quel giorno, io e Shùra non avremmo vissuto un solo istante l’uno lontano dall’altro.
 
 
 

‘’Hai venti minuti per venire immediatamente’’, inoltrai quel messaggio a Nadja e mi sedetti ad attenderla. Avevo fatto circa tre docce nell’arco di quella mattinata, continuavo a sudare senza sosta, poi a dormire, poi ad imbottirmi di antidolorifici e infine mi restava del tempo per commiserarmi.
Il campanello suonò quindici minuti dopo, mi avviai ad aprire e quando la figura sexy della donna si palesò davanti a me gettai un fischio.
«C’hai messo sul serio meno di venti minuti, sei così professionale». Lo sguardo che mi riservò non fu dei migliori, la feci passare seguendola in soggiorno.
«Che succede?». Si voltò verso di me fissandomi altezzosa. Non aveva un’altra fottuta espressione da riservarmi.
«Mi fanno male le mani». Le sorrisi sarcastico lasciandomi cadere sul divano. Che cazzo di domanda era quella? Se l’avevo chiamata, a parte molestarla, era evidente mi facesse male l’occhio. La sentii sospirare.
«Aleksandr mi ha detto che stai esagerando con i medicinali. Dì un po’ pensi ti abbia salvato per vederti morire coi farmaci?». Sporsi le labbra annuendo appena, era evidente non sapessi probabilmente spiegarmi bene.
«L’occhio mi fa un fottuto male. Vuoi un disegnino o pensi di arrivarci da sola?». Mi alzai avvicinandomi a lei, non la intimorii mentre rimaneva ritta e stoica a guardarmi.
«Credo sia giunto il momento di controllare la tua vista». A quelle parole mi bloccai deviando verso la cucina.
«Vuoi del vino? Ho solo alcolici in casa». Le sorrisi ambiguamente, sembrò bersela.
«Mi auguro sia decente almeno». No non l’aveva bevuta, stava solo acconsentendo ai miei capricci come si farebbe con qualsiasi idiota. La cosa mi intrigava.
«Se riuscirò a vedere bene potrò tornare a lavorare?». Le versai il vino senza guardarla.
«Suppongo di si». Pronunciò quelle parole in maniera cauta. Sorseggiammo in silenzio l’alcolico finché non mi fece cenno di sedermi sullo sgabello. Obbedii restando immobile mentre le sue dita affusolate iniziavano a togliere la benda, la cosa positiva era che avevo le sue tette in faccia. La luce infastidì il mio occhio ferito, provai a chiuderlo ma me lo impedì continuando a visitarmi.
«Quante dita sono?». Restai zitto un istante osservandola.
«Tre» mi guardò allontanandosi appena.
«Va bene». Va bene? Va bene cosa? C’avevo preso? Sentii un magone ostruirmi la gola. Vedevo sfocato.
«Quindi ho superato la prova? Te l’avevo detto che ci avrei visto benissimo». Provai a mascherare la tensione ma non fui sicuro d’esserci riuscito.
«Dovrai mettere dei colliri, la tua retina è ancora ferita». Non aveva risposto alla mia domanda. Non le dissi più nulla, feci solo ciò che mi veniva meglio: lasciai perdere. Non avrei detto a nessuno del peggioramento della mia vista, nessuno l’avrebbe scoperto.
 

 

Aleksandr POV
 

Nel parcheggio sotterraneo dell’agenzia mi attendeva Nadja, mi venne incontro senza neppure salutarmi.
«Non ci vede». Mi freddai sul polso sbattendo le palpebre.
«Che cazzo vuol dire». In realtà sapevo cosa volesse dire, semplicemente non lo accettavo.
«I casi sono due: o la retina è completamente danneggiata, o deve solo riprendere lentamente le sue normali funzioni. Ma Misha non collaborerà, ha mentito già oggi. Gli ho prescritto dei colliri, vedi di assicurarti che li prenda». Mi voltò le spalle pronta ad andarsene.
«Quanto vuoi per non dirlo a Sergej?». L’eco della mia voce si perse nel vasto parcheggio. Si voltò scoccandomi un mezzo sorrisino ambiguo.
«Tu e Misha siete convinti io sia qui per rovinarlo vero? Non ho bisogno di soldi, ho bisogno che lui prenda quei maledetti colliri Aleksandr. Gli do due settimane di tempo, se l’occhio non si sarà ripreso almeno un po’ saprò chi avvisare». Stavolta non la fermai. Non ne ebbi la forza.
 
Misha non era in casa, non mi lasciai sopraffare dall’ansia provando a chiamarlo al cellulare parecchie volte ma senza successo. Giravo in tondo nel suo soggiorno pensando a dove potesse essere a quell’ora della sera, mi auguravo non fosse andato a cercare Boris visto che non era ancora in grado di gestirla da solo. Alla fine mi rassegnai e salii l’unico piano che mi separava dal mio appartamento, quando la chiave girò nella toppa e la porta si aprì un odore di cibo mi investì seguito dalle urla di Sophia. Aveva bruciato tutto? Mossi qualche passo bloccandomi quasi all’ingresso non appena la figura di Misha mi venne incontro, i miei occhi lo sondarono in maniera eloquente senza potermi esprimere a parole.
«Sei qui finalmente? Guarda chi è tornato completamente malconcio? Ha avuto un incidente sul set, Shùra esigo tu non lo mandi più in posti simili. Poteva ammazzarsi». La voce isterica di Sophia mi colse impreparato, era evidente le avesse raccontato una stronzata così com’era evidente pensasse io ne fossi a conoscenza. Annuii per togliermi dall’impiccio.
«Misha vieni con me». Mi diressi in camera mia aspettando che mi raggiungesse. Sentii la porta chiudersi e le molle del letto cigolare, mi voltai aspettando quantomeno una spiegazione decente.
«Senti mi ero rotto il cazzo. Volevo tornare da Sophì». Allargò le braccia come fosse la cosa più logica del mondo e io sentii le budella aggrovigliarsi. Ancora una volta ebbi voglia di dirgli tutto, e ancora una volta mi mancò il coraggio. Poggiai una mano sulla sua spalla stringendola appena.
«No, hai fatto bene. Hai trovato una scusa decente per Sonech’ka?». Annuì con convinzione.
«Si, le ho detto che sono caduto con la moto mentre giravo alcuni scatti, l’ha bevuta senza sospettare». La sua risata non riuscì a coinvolgermi, avevamo ancora mentito. Era come un castello di mattoni ormai talmente alto da non vederne più la cima. Temevo il crollo. Tossii ancora tirando su col naso, lo vidi guardarmi in maniera strana, sapevo il perché: anche Sophia aveva il raffreddore.
«Domani arriverà un carico al molo, credo entreremo presto in affari con i colombiani». Sviai abilmente togliendo l’orologio che poggiai sulla scrivania.
«A che ora dobbiamo essere lì?» slacciai la camicia senza guardarlo togliendola poi del tutto per gettarla sul letto.
«Tu non verrai». Il mio tono neutro sapevo non l’avrebbe tenuto buono, mi fissò con astio.
«Mi vuoi far fuori anche tu?». Si alzò venendomi incontro rabbioso, non mi scomposi con lui era routine. Sembrava farlo apposta, ignorava spesso i miei gesti preoccupati vedendovi sempre il male.
«Se sarà necessario sarà ciò che farò, stronzo di merda. Pensa a mettere colliri e far bene la cura, o giuro su ciò che ho di più caro che ti farò relegare io stesso in una scrivania dimenticata da Dio». Ci fronteggiammo con astio finché la porta non si aprì di colpo. Sophia ci fissò aggrottando la fronte.
«Com’è che state sempre a litigare? Shùra smettila subito di infastidire Misha, non vedi come sta? Venite comunque, è pronta la cena»
 
 
   
 
 
– E’ tutto pronto per domani?
– Si, ho detto a Boris che dovrà venire insieme a te alla consegna.
– Perfetto, grazie Anastasia.

 
Chiusi il telefono scolandomi il bicchierino di vodka di fronte a me. La casa verteva nel silenzio totale mentre gli altri due inquilini chiassosi dormivano placidamente sui sacchi a pelo nella camera di Sophia. Per celebrare il bentornato a Misha avevano deciso di passare la notte insieme come ai vecchi tempi, quando andavamo al campeggio, inutile dire che non mi ero messo in mezzo quella volta né avevo voluto aggregarmi limitandomi a uscire il necessario dall’armadio sistemandolo per loro. Fissai il vetro trasparente del bicchiere adesso vuoto con occhi assenti, troppi pensieri inondavano la mia mente e nessuno di questi sembrava piacevole, a parte forse la trappola ai danni di Boris.
Respirai profondamente alzandomi nel totale silenzio, aprii la porta della stanza fissando le due sagome che dormivano vicine, i loro mignoli intrecciati come da bambini. Non so bene quanto stetti a fissarli, sapevo solo che gli occhi mi bruciavano, era come se bruciassi tutto ma da dentro. Un movimento attirò la mia attenzione, mi feci più attento e in quel momento vidi Sonech’ka fissarmi. Portò un dito alle labbra intimandomi il silenzio, guardandomi con quelle iridi piene di calore e amore. Mio padre diceva che quel pazzo sentimento, il folle innamoramento, poteva portare tanta gioia e tanta disperazione, io e Sophia sembravamo incarnare quei due sentimenti contrapposti. Mi chiesi il perché non riuscissi ad essere felice, poi capii: come potevo esser felice di un’intera vita fondata su bugie. Chi amava in realtà Sophia? Amava un certo Aleksandr Belov? Ma non ero io. Non ero neppure Aleksandr Petrov in effetti. Non sembravo avere più alcuna identità.
 
 
***
 
 
La trappola per Boris era scattata, avevo bisogno di un pretesto che mi fornisse un alibi rendendomi intoccabile quando avrei portato a termine la vedetta. Questo il motivo principale per la quale lo avevo portato al molo con me, gli avevo dato condizioni di trattativa errate e questo aveva generato una specie di rissa durante lo scambio. Riuscii a sedarla egregiamente con i miei soliti modi affabili, distendendo gli animi improvvisamente accaldati; non potevo di certo permettere che quei pezzenti uccidessero Boris al posto di Misha. Lui era già carne da macello: la nostra. Chiamai Sergej subito dopo, annunciandogli che il suo adorato Boris aveva avuto disguidi con i trafficanti, non si dimostrò felice della cosa ed io sorrisi nella penombra della mia stanza.
Esattamente dodici ore dopo percorrevo il corridoio scarsamente illuminato di un night, la musica giungeva ovattata alle mie orecchie e alcuni uomini mi superarono senza degnarmi di uno sguardo. Aprii la porta di fronte a me fissando la bisca clandestina formata da componenti che conoscevo bene, primo tra tutti Boris appunto. Ci soppesammo e io sorrisi, credo fu in quel momento che capì tutto.
«Sei venuto a giocare anche tu?». La sua voce perennemente strascicata dall’alcool suonò beffarda mentre lanciava alcune fiches sul tavolo verde. Continuai a sorridere scrollando le spalle.
«Si, ho portato anche un amico con me». Mi feci da parte lasciando entrare Misha, teneva già l’arma in mano e senza neppure una parola sparò ad ogni uomo presente a quel tavolo, compreso il bastardo che lo aveva quasi privato di un occhio. Osservai il suo modo di sparare adesso impreciso, dovetti aiutarlo io a finire il lavoro ma non dissi nulla. La vendetta era compiuta e nessun testimone avrebbe fatto i nostri nomi. Ci guardammo senza proferir parola e allo stesso modo uscimmo da quella camera adesso silenziosa.
 
 
– Boris è morto.
– Che cosa stai dicendo.
– A quanto pare gli uomini della scorsa sera non si erano rasserenati come pensavo.
– Trovali e uccidili.
– L’ho già fatto, non temere. Una vera perdita per noi.
– Se non ti conoscessi bene penserei abbia architettato tutto tu, è nel tuo stile.
– E invece mi conosci benissimo.
– Chi lo sa, mai dare nulla per scontato figlio mio.
 
Aveva ragione. Mi conosceva fin troppo bene.
 

 

Mikhail POV

 
Continuavo a rigirarmi nel letto senza riuscire a prender sonno, sudavo e faticavo a respirare. Suppongo fossi divenuto ansioso a causa della ferita all’occhio, avevo notato io stesso il modo impreciso in cui avevo sparato a quegli uomini. Senza Shùra a definire il lavoro, mi avrebbero probabilmente colpito. Mi misi a sedere respirando profondamente, stringendo le lenzuola tra le dita senza vedere sul serio la fantasia di quest’ultime. Forse ero solo iper eccitato per aver ammazzato quel figlio di puttana di Boris. Mi alzai in silenzio dirigendomi lungo il corridoio, avevo preteso di avere l’unica stanza al piano di sopra del nostro appartamento e Shùra mi aveva accontentato litigando con quella primadonna di Sophì. Il pensiero mi fece ridere. Scesi le scale a piedi scalzi ma dei sussurri mi bloccarono, aggrottai la fronte continuando a scendere in maniera ancora più silenziosa; una parte di me voleva andar via, come se sapesse. Un’altra mi spingeva sempre più avanti.
«Mi fai il solletico». La risata di Sophì sembrò riempire la mia mente, mi sporsi appena oltre il muro e la scena che vidi mi piantò al pavimento, come una fottuta e vuota statua di marmo. Sophì sedeva a cavalcioni su Shùra in una delle sedie della cucina, fissai le cosce nude e le mani di lui che continuavano ad accarezzarla. Mossi ancora un passo e finalmente lo vidi. Ciò di cui ero stato curioso per vent’anni: vedere finalmente Sophia con gli occhi di Shùra.
Lo vidi. Vidi il sentimento, vidi la debolezza, la passione, vidi l’amore. Vidi il tradimento alla fratellanza, vidi semplicemente Sophia con i suoi occhi. Avevo finalmente la mia risposta, adesso sapevo se i nostri sguardi in quei vent’anni avevano coinciso. Mossi ancora un passo e fui finalmente sotto la luce. Ci guardammo in silenzio per un tempo che mi parve interminabile, e quando lo udii pronunciare il mio nome con un tono che mai avrei dimenticato, sorrisi spezzandomi in due:
 
«Misha». 

 

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Capitolo 9
*** Remember ***


 
 
 

ACT IX

 
 
«Misha»
 
L’eco del suo nome fu l’unica cosa che restò quella notte nella nostra casa, ad accompagnarlo il rumore dei suoi passi verso la porta, il boato quando la chiuse, e i pianti isterici di Sophia fino all’alba.
«Dove può essere andato? Dobbiamo trovarlo Shùra, sta ancora male». Mangiava le unghie come se volesse cavarvi sangue, io in silenzio la fissavo senza riuscire a rassicurarla. In fondo sapevo dove si trovava Misha, era uscito a piedi scalzi e col pigiama, mi sarebbero bastati i pochi gradini delle scale per raggiungerlo ma non lo feci. A che pro? Cosa avrei potuto dire in quel frangente per giustificarmi? Quella notte non dormii, la passai sul divano accarezzando i capelli di Sophia finché non la sentii addormentarsi. Le diedi il giorno libero, mi vestii e tornai in agenzia come se non fosse successo nulla.
«Misha è per caso passato di qui?» Anastasia scosse la testa in segno di diniego, non la considerai più rintanandomi dentro. La punta della penna continuava a picchiettare contro la scrivania mentre il mio cervello si perdeva nei meandri del mio labirinto personale, non affrontare le cose non era nel mio stile; odiavo le questioni insolute, così come odiavo la consapevolezza di essere odiato da colui che deteneva una parte importante del mio cuore. La porta si aprì di colpo e il viso dell’uomo a cui stavo pensando venne seguito dall’affannata Anastasia che tentava di fermarlo. Aveva tolto la benda.
«Lascialo passare e chiudi la porta». Congedai la donna alzandomi e piazzandomi di fronte a lui, mi superò piantandosi di fronte la grande finestra.
«Voglio tornare a lavorare». Sospirai accarezzandomi l’interno della guancia con la punta della lingua.
«E’ di questo che vuoi parlare?». Lo vidi voltarsi e fissarmi astioso. Mi avvicinai allargando le braccia.
«Un altro passo e ti stendo lasciandoti prendere il posto del tuo costoso tappeto indiano della minchia». Lo guardammo nello stesso istante, mi venne quasi da ridere.
«Fallo se proprio ci tieni. Ma parliamo». Mi avvicinai ancora, le sue iridi azzurre divennero rabbiose mentre a palmi aperti mi spingeva lontano da lui.
«Tu sei un lurido figlio di puttana. Essere dei mostri, essere persone senza Dio, mi andava bene. Finché entrambi eravamo sinceri». Lo eravamo stati? Eravamo sempre stati totalmente sinceri l’uno con l’altro? Avevo come l’impressione che in quei vent’anni avessimo provato a celare tante cose, probabilmente a causa dell’affetto non c’eravamo riusciti benissimo. Sentii fastidio agli occhi, li chiusi mandando giù la saliva amara. Mi superò senza dire altro.
«Misha. Se vuoi la lascio. Per te, posso anche lasciarla andare». Lo fissai, la sua schiena si irrigidì, non si voltò. Ero davvero pronto a farlo?
«Pensi il mio problema sia questo? Pensi sia lo smacco del non aver vinto il suo cuore? Ti sbagli. Ragiona Aleksandr Belov, e quando lo avrai fatto torna a trovarmi. Ma fino a quel momento .. – si voltò indicandomi col dito, l’espressione disgustata e non capivo se da se stesso o da me – fino a quel momento .. stammi alla larga». Ancora una volta il rumore della porta fu tutto ciò che mi restò di lui.
 
Mi aveva lanciato una sorta di sfida, capire il nocciolo della questione. Tra i due ero sempre stato io quello più sveglio, eppure in quel caso mi sentivo di una stupidità unica nel suo genere. Non lo chiamai, gli affidai qualche incarico di minore importanza mentre tediavo Nadja per avere notizie sulla sua salute. Avevo appreso con sgomento non prendesse più i medicinali. Invece di arrabbiarmi feci ciò che da vent’anni mi riusciva meglio: giocai d’astuzia.
 
***
 
 
Fermo sull’ultimo gradino delle scale mi attendeva seduto fumando una sigaretta. Non ci vedevamo da circa una settimana.
«Mi servono cinquecentomila dollari, in contanti». Mi sorrise senza calore gettando la cicca, alzandosi. Accesi la mia sbuffando fuori il fumo.
«A che ti servono?». Ci fissammo in cagnesco per qualche istante.
«Il mio conto è in rosso per colpa di qualcuno, ho spese ed esigenze». Tutto gli era dovuto nel suo mondo, sorrisi.
«Seguimi». Gli feci un rapido cenno della mano conducendolo nel garage sotterraneo. Le luci si accesero mettendo in mostra ogni veicolo in nostro possesso. Indicai le due moto in disparte, erano identiche nel modello ma diverse nel colore. Io l’avevo scelta nera, lui rossa.
«Mi stai dicendo di vendermi la moto?». Mi fissò come fossi un demente. Cercai di non accecargli l’occhio buono.
«No, ti sto dicendo di correre contro di me, come a Mosca. Se vinci ti do il denaro». Come dicevo prima, il gioco d’astuzia era ciò che da sempre mi riusciva meglio. A differenza di Misha sempre impetuoso, comprendeva solo alla fine le lezioni e le trappole nella quale puntualmente lo incastravo.
«Ti darò una maestosa visione della mia polvere». Mi indicò sprezzante dirigendosi verso il veicolo, io sorrisi e lo seguii.
 
«Hai barato, sei un lurido bastardo e lo confermi ogni giorno». Gettò il casco a terra con rabbia, fissandomi come se volesse uccidermi.
«Non ho barato». Sorrisi seraficamente godendomi la vittoria.
«Ti tenevi sempre alla mia destra, non riuscivo a.. Vaffanculo» si stoppò e probabilmente capì in quel momento. Non avevo fatto altro che oscurargli la visuale dell’occhio buono, costringendolo a darsi da fare con quello malconcio e quindi a decelerare per non schiantarsi da qualche parte.
«Duecentocinquantamila». Diedi gas alla moto fissandolo.
«Devo dirti duecentocinquantamila volte vaffanculo?.» Risi chinando il capo.
«No, ti darò duecentocinquantamila dollari. Prendi i medicinali Misha, o diverrai un rottame». Diedi gas andando via senza dargli la possibilità di ribattere.
Nei giorni a venire casa mia divenne una pasticceria, Sophia preparava torte e dopo avermi estorto il fatto che Misha vivesse nell’appartamento sotto il nostro, si ostinava a recapitargliele. Dormiva sul pianerottolo ore e ore aspettandolo, tornando a casa stanca e prostrata. Battibeccammo e le nostre urla arrivarono al cielo, e probabilmente Dio ebbe pietà.
Due giorni dopo il litigio la vidi saltellare per casa col suo vestitino più bello.
«Dove vai?». Ero stanco e affamato.
«A cena con Misha! Mi ha chiamata poco fa ..». Non dissi nulla, ero comunque contento. Mi chiese di andare con loro ma declinai: non avevo ancora la risposta alla sua domanda. O forse mancava il coraggio.

 
 

Mikhail POV

 
Trovai il pacco sigillato di fronte la porta di casa qualche giorno dopo la sfida in moto con quel bastardo machiavellico. Odiavo il suo modo di inculcarmi il giudizio, doveva sempre farlo in maniera teatrale e umiliante. Lo odiavo. Presi la scatola e l’aprii seduto sul divano, banconote di medio taglio posizionate ordinatamente e alla fine sotto strati e strati di soldi: armi. Notai solo in quel momento un biglietto, riconobbi la sua grafia ordinata ed elegante, storsi la bocca leggendolo controvoglia: Non è il destino a fare l’uomo, ma l’uomo a fare il suo destino. Ricordi chi sei?
 
Lo avevo accartocciato miliardi di volte gettandolo, tre ore dopo lo fissavo messo in bella mostra sul tavolino, spiegazzato qui e lì ma talmente visibile da ferirmi persino l’occhio buono. Chiamai Sophì invitandola a cena, non estesi l’invito alla merda machiavellica. Non era ancora il  momento e non aveva risposto alla mia domanda. Mi allenai con le armi gentilmente donatemi, dovevo riprendere in mano la mia vita. Io ricordavo chi ero?
 
***
 
Conoscevo ogni espressione su quel viso da bambina con sfumature di donna, mi sorrideva ondeggiando lievemente i piedi mangiando il suo gelato preferito. Mi sedetti accanto a lei senza dire nulla, non ero mai stato un drago nelle interazioni sociali eppure Sophì sembrava non farci caso, anzi era l’unica ad apprezzare.
«L’incidente ti ha causato danni all’occhio, vero?». Mi bloccai e giurai di aver sentito i miei coglioni cadere a terra e frantumarsi.
«Che stai dicendo..» tergiversai soffiando fuori una risata da demente.
«Misha, io ti guardo. Forse pensi i miei occhi abbiano sempre e solo visto Shùra, ma ti sbagli – mi accarezzò i capelli e tornai bambino – io vedo entrambi, ma in maniera diversa. Non c’è nessuno alla quale voglia bene più di te. Neppure Kolia può competere, ed è mio fratello. Non è cambiato nulla per me, sei ancora il mio piccolo disadattato con manie depravate». Non seppi cosa dire, con lei non lo sapevo mai.
«Hai rotto il cazzo Sophì, non sono depravato». Mi fissò in silenzio e pensai non mi avesse sentito, almeno finché non tirò con forza i miei capelli facendomi urlare.
«E’ questo il modo di parlare alla tua principessa e padrona? Sei proprio un folle bastardino ignorante». Era ancora la mia Sophì, fine della discussione.
 
Mentre attraversavo la mia più grande crisi sentimentale, ero occupato dall’altro lato a riempire le mie giornate dando fastidio a Nadja. Senza rendermene conto era diventata un chiodo fisso. Fermo restando fossi ancora convinto si portasse a letto Sergej, volevo esibirla come un trofeo e vantarmene. Questo almeno fu l’input che mi spinse a chiamarla e farla venire con frequenza in casa ad ogni ora del giorno e della notte, poi qualcosa cambiò. Sentivo il bisogno di vederla. Probabilmente erano le sue tette paurose a darmi assuefazione.
«Scopiamo?». Era la mia proposta più ricorrente ogni volta che veniva in casa mia.
«No». Questa invece era la sua risposta più ricorrente ad ogni mia fottutissima domanda o proposta. Il giorno in cui le avrei sentito dire ‘’si’’ avrei fatto un cazzo di party.
«Sei poco credibile nei tuoi rifiuti, lo vedo come mi guardi». Le sorrisi ambiguamente e lei ricambiò.
«Ah ..quindi ci vedi?». Mi stava sul cazzo in una maniera che non avrei saputo descrivere. Osservai la sua schiena andar via, incontrò Sophì sul pianerottolo e io smisi di respirare. Quella piattola mi raggiunse due secondi dopo indicando la bionda tutte curve che era appena sparita in ascensore.
«Era una sgualdrina svedese?». Alle volte non sapevo come approcciarmi quando se ne usciva con cose simili.
«Non ricordi Nadja, il medico che spesso cura tuo padre?». Scosse la testa entrando in casa. Era tipico di lei, e anche crudele come pochi, la gente passava la vita ergendo e forgiando armi contro la sua persona e Sophì neppure ti ricordava. Non sapevo bene se ridere o commiserare Nadja.
«Quando farai pace con Shùra?» eccola alla carica, ancora.
«Non sono affari tuoi, dacci un taglio». Mi diede l’ennesimo pezzo di torta con la quale mi riempii la bocca istericamente.
«Siete due dementi. Io cerco di prendermi cura di voi .. ma è impossibile». Il suo viso affranto per poco non mi fece strozzare. Adesso era lei a prendersi cura di noi?
«Prenditi cura di te stessa, piuttosto»

 
 
 
Aleksandr POV
 
Restai con le chiavi a mezz’aria osservando l’uscio di casa socchiuso, era stata Sophia a dimenticarlo? Affilai lo sguardo entrando, vi era pace e silenzio finché un lieve rumore nella mia camera non mi disturbò. Chi c’era? A passo lento mi diressi in quella direzione, e quando aprii osservai le spalle familiari di un uomo. Si girò è lo riconobbi con sorpresa.
«Kolia?» Nikolaj il ‘’figlio inutile della bratva’’, veniva chiamato così nei corridoi a bassa voce in modo che nessuno potesse sentirlo. L’unico figlio biologico di Sergej, fratellastro di Sonech’ka e mio acerrimo nemico. Non aveva preso neppure un grammo della tempra del padre, mandava a monte affari a causa della sua arroganza e aveva siglato una tacita battaglia nei miei confronti più o meno da vent’anni. Credo non avesse mai approvato la mia venuta, né quella di Misha, terrorizzato dall’idea che potessimo usurpargli il posto. Inutile per me spiegargli che l’unico da temere era Dimitri Cernenko, ma di lui parlerò un’altra volta.
«Sei tornato». Mi squadrò da capo a piedi con aria annoiata, tutta apparenza fingeva di merda. Poggiai la giacca sul letto iniziando a spogliarmi, dandogli le spalle.
«Sophia arriverà a momenti, non hai avvisato». Lo sentii ridere.
«Dovrei? Sono il figlio di Sergej io non devo avvisare nessuno. Non sono qui solo per lei, volevo vedere te e quell’altro coglione ..dove sta?». Mantenere la calma con Kolia ormai era routine.
«Non so dove sia, gli farò avere il tuo messaggio quindi parla». Mi voltai afferrando una semplice maglia in cotone che indossai, fissandolo.
«Tra pochi mesi mi sposo». Lo guardai sorridendo divertito.
«Vuoi il regalo?». Mi fissò con astio.
«No, sono qui per dirti che se osi mettere un piede a Mosca quel giorno ti farò saltare quel cervello del cazzo che ti ritrovi». Chiaro e coinciso come sempre. Non partecipare alle nozze del figlio di Sergej era come escludermi dal giro, pensava non lo capissi?
«Perché pensi ambisca a partecipare a quella farsa che chiami ‘’matrimonio’’?». Era ovvio sposasse la figlia di un qualche boss per ampliare il potere della fratellanza.
«Il giorno in cui mio padre cederà il timone, fidati, coinciderà col giorno della tua morte». Il tonfo alla porta ci interruppe. Voltammo simultaneamente il viso accogliendo l’espressione stupefatta di Sophia e quella neutra di Misha.
«NIKOLAJ!». Lo vidi allargare le braccia e stringere la sorella con calore, almeno con lei non aveva mai finto. Fissai Misha che ricambiò interrogativamente, scossi il capo rimandando le spiegazioni a quando i due fratelli sarebbero stati lontani.
«Sono venuto a vedere come sta la mia sorellina preferita». Le accarezzò i capelli stringendola in un secondo abbraccio. Sophia gli afferrò la mano trascinandolo con se fuori dalla mia camera per ‘’raccontargli’’ tutte le sue avventure a San Francisco; conoscendola stimavo di perdere le tracce del bastardo arrogante almeno per tre ore buone. Una volta soli Misha si sedette sul letto, io sulla sedia vicino la scrivania.
«Che cazzo è venuto a fare il figlio inutile?». Anche lui conosceva il nomignolo, si.
«Tra due mesi circa si sposa, è venuto a dirmi di non presentarmi». Scrollai le spalle tamburellando le dita contro la superficie liscia e riflettente.
«Sei serio? E tu che gli hai risposto?». Mi fissò sbigottito, conoscendolo era già pronto a menar le mani.
«Pensi Kolia sia nella posizione di dettare ordini? Me ne fotto di ciò che dice. Anche se francamente andarci non rientra nelle mie priorità». Lo vidi annuire e poi fissarmi, l’argomento si spostò a noi due, era palese.
«Hai la risposta alla mia domanda?». Mi sorrise, che bastardo.
«Forse. O forse no». Gli sorrisi, che bastardo.
«Allora cercami appena deciderai, sai dove trovarmi. E grazie mille per i soldi, paparino». Uscì dalla stanza lasciandomi solo, sentii la sua voce scocciata ‘’SOPHI’ PIANTALA DI URLARE’’.
 
 
 
Nikolaj lasciò San Francisco dodici ore dopo il suo arrivo, sganciò semplicemente la bomba per poi eclissarsi.
Il piatto volò schiantandosi contro il muro, lo deviai prima che mi deturpasse il volto fissando basito quella furia cieca e inviperita con la quale avevo una relazione ormai da qualche mese.
«SEI PAZZA?». Era stupido chiederlo, per me lo era eccome. Afferrò il secondo piatto scaraventandolo contro di me. Si schiantò contro la credenza frantumando il vetro. Mi voltai sbigottito. Okay, ero nella merda.
«KOLIA E’ ANDATO VIA SENZA SAPERE DI NOI». Lo sapevo bene, le avevo proibito io stesso di parlarne. Kolia non aspettava altro per decretare la mia condanna a morte. Provai ad avvicinarmi alla biscia impazzita senza uscirne ferito.
«Ti calmi? Parliamone ..» le sorrisi affabile ma non sortì alcun effetto mi si avventò contro provando a graffiarmi, le bloccai i polsi «DEVI CALMARTI, CAZZO».
«Io.. NON MI CALMO. NON MI CALMO PER NIENTE. MI STAI PRENDENDO IN GIRO, VERO? Vuoi solo divertiti». La voce affannata si ruppe perdendosi tra i nostri respiri veloci e sommessi. Deglutii stringendola a me. Come avrei dovuto spiegarle che sapere della nostra relazione avrebbe fatto di lei una vedova precoce?
«Sonech’ka, non ti sto prendendo in giro, cristo santo. Potresti fidarti solo una volta?». La scrollai con gentilezza, i suoi occhi adesso erano calmi ma diffidenti. Faceva bene a non fidarsi, e la consapevolezza era più dolorosa di un piatto in pieno viso. Desiderai me ne lanciasse un altro, non mi sarei spostato.
«C’è qualche motivo per la quale nessuno dovrebbe saperlo? Shùra.. mio padre ti adora, credo non ci sarebbe notizia migliore per lui del sapere che sua figlia ama il ragazzo che ha cresciuto come fosse figlio suo». Mi accarezzò il viso e io desiderai urlare. Chiusi gli occhi leccandomi le labbra, tornando poi a fissarla.
«E lo faremo. Glielo diremo». Mi lasciò andare.
«Come lo avresti detto a Misha?». Che stronza, questo era un colpo mancino.
«No. Lo diremo sul serio, ma non attraverso Kolia sicuramente». Allargai le braccia provando ad abbracciarla ma sgusciò via.
«Non mi ami? Ora che ci penso.. non me l’hai mai detto». Mi fissò ferita e io non seppi cosa dire. Dirglielo era così importante? Sonech’ka era la mia vita presente e futura, avevo provato a costruire qualcosa di buono per lei sulle fondamenta distrutte della mia esistenza passata. Mi avvicinai ma lei mi rigettò chiudendosi in camera. Osservai il piatto, quello integro, lo afferrai scaraventandolo contro il muro. Che goduria.
 
 
Ricapitolando Sophia non mi parlava da due giorni, Misha da più di due settimane (i suoi grugniti e le battutine non valevano come discorsi, ma come istigazione all’omicidio), avevo una gran voglia di fermarmi nel bel mezzo della strada e urlare: c’è qualche altro stronzo che non vuole parlarmi?
Non lo feci proseguendo verso casa salvo poi fermarmi di fronte il portone, mi si prospettava l’ennesima serata di occhiate astiose e digiuno neppure fossi un bambino di merda in castigo. Ah giusto, io ero un bambino di merda in castigo. Senza rendermene conto risalii in auto allontanandomi a gran velocità da quel supplizio nella quale ero caduto volutamente.
Scesi i gradini del night prima ancora di rendermi conto dove fossi, disfarmi delle mie vecchie abitudini era difficile ogni volta che affrontavo un periodo ‘’no’’ dovevo stare con Misha. Sapevo lo avrei trovato lì, da quando lo aveva rilevato e fatto suo non vi era sera in cui non lo si vedesse bazzicare e fissare le spogliarelliste. Mi diressi al bancone, alle spalle del barman spiccava una M dai caratteri eleganti, scossi la testa: era così assurdamente egocentrico.
«Dove sta?». Il barman sapeva a chi mi riferissi senza bisogno di far nomi, mi indicò un divanetto poco distante, ordinai da bere e andai da lui. Mi sedetti di fronte, la sua espressione non mutò di una virgola e neppure la mia.
«Cosa ti porta nella tana del lupo?». Inarcò un sopracciglio prendendomi per il culo, il fatto che odiassi quella categoria di donne a suo dire faceva di me una specie di perbenista cattolico mezzo frocio, o che cazzo ne so, le sue idee rasentavano la psicosi.
«Non avevo altro posto dove andare». La cameriera mezza nuda mi interruppe poggiando il brandy sul tavolo di fronte a me, non la ringraziai afferrandolo per poi berne una lunga sorsata.
«Che succede, sicario?». Era da un po’ che non sentivo quel nomignolo, a conti fatti questo ero all’interno della Bratva. Traffici a parte, io uccidevo su commissione del Vor. Preciso letale e silenzioso.
«Ho litigato con Sonech’ka, mi ha lanciato il servizio di porcellana contro e non mi parla da due giorni». Lo vidi ridere, bevvi ancora.
«Perché?». Secondo me sapeva il perché, fingeva solo per estorcermelo.
«Perché le ho proibito di dire a Kolia di noi». La voce mi uscì stridente, non la riconobbi.
«Ah .. devo star qui a sentire i problemi amorosi tuoi e della donna che amo, sei proprio senza cuore – ci fissammo in silenzio, la sua risata mi costrinse a bere ancora – eddai sto scherzando. Hai fatto bene, non sono ancora pronto a piangerti in una bara. E poi lo sai che devo ammazzarti io e nessun’altro». Continuando di quel passo nella fossa ci sarei finito presto in effetti. Allentai il nodo della cravatta lasciandomi ricadere tra i morbidi cuscini in velluto rosso, era così pacchiano quell’arredamento.
«Lei non sa, e come tale non capisce. Devo solo trovare il modo di tenerla buona per un po’ ..» almeno finché non avrei ideato un piano per salvarmi la vita, e stare con lei. Aggrottai la fronte, un movimento dietro le spalle di Misha attirò la mia attenzione. Inizialmente pensai fosse il brandy, ma poi capii che no non avevo le allucinazioni. Nadja Morozova era appena entrata fasciata da un vestitino corto e rosso che lasciava poco spazio all’immaginazione.
«Che c’è?». La voce di Misha mi strappò dai miei pensieri, indicai il punto dietro le sue spalle e lo sentii imprecare.
«Perché è qui?». Si rigirò con espressione tra il martire e l’avvelenato.
«Per far piangere il mio cazzo. Scusami un istante». Lo vidi alzarsi e scoppiai a ridere senza motivo. Li guardai parlare concitatamente e infine vidi Misha trascinarla verso uno dei tanti privè. Ordinai dell’altro brandy.

 
 
 
Mikahil POV
 
La situazione con Nadja in quelle settimane era divenuta ingestibile. Avevo iniziato io la mia opera ‘’di seduzione’’, come l’avevo denominata, ma a conti fatti avevo finito col caderci dentro con tutte le scarpe. Quella donna era diabolica, almeno per i miei sensi, dava e toglieva alla velocità della luce. Qualche sera prima ero riuscito a baciarla, quelle labbra erano pura adrenalina, ma quando avevo provato ad andare oltre si era ritratta mollandomi con una gran bella erezione. Ed era successo altre quattro fottute volte. Non mi era ben chiaro il suo problema, inizialmente pensavo fosse frigida, ma i suoi occhi spesso freddi e addolorati la dicevano più lunga delle sue parole. Inizialmente era stato una sorta di chiodo schiaccia chiodo per dimenticare Sophì, ma adesso mi ritrovavo più coinvolto di quanto avessi voluto.
«Che sei venuta a fare qui?». Chiusi a chiave voltandomi verso di lei.
«Avevo voglia di bere qualcosa». Mi fissò con quella sua solita aria glaciale, nonostante l’atteggiamento del corpo esprimesse totalmente il contrario.
«Sei venuta a bere ‘’qualcosa’’, con quel vestito e nel mio night?». C’era bisogno di mettere sarcasmo nel mio tono per farle capire l’assurdità?
«Non ho detto cosa sono venuta a bere». Il suo tono suadente mi elettrizzò. Ecco perché mi stava sul cazzo (metaforicamente purtroppo), sapeva sempre dove colpire. Mi avvicinai e lei non si ritrasse, l’afferrai per i fianchi attirandola contro il mio petto.
«Stai giocando ad un gioco pericoloso Nadja». Le sfiorai le labbra col pollice, le schiuse di proposito mordendolo appena.
«Il pericolo è relativo Mikhail, non lo sai?». No non lo sapevo, che cazzo potevo saperne io che mi gettavo sul fuoco fottendomene del resto. Mi avventai sulle sue labbra dimenticandomi di Shùra che mi aspettava, del mio occhio ancora sofferente, di Sophì e di me stesso. La stesi sul divano nero circolare bloccandola col mio peso, le mie mani scivolarono sul suo seno e con uno strattone ne scoprii la biancheria minimale. Continuavo a baciarla senza darle possibilità di ribellarsi, bloccandole i polsi, mentre il mio ginocchio allargava le sue cosce.
«Mikhail..» non l’ascoltai, scesi sul solco tra i seni leccando avidamente la pelle morbida e tesa, la sentii ansimare e mi eccitai. L’avrei scopata di lì a poco, ma lo spintone che mi diede mi colse di sorpresa destabilizzandomi. La guardai affannato pronto ad aggredirla verbalmente.
«Non possiamo». La vidi rivestirsi frettolosamente issandosi sui tacchi eccessivamente sottili.
«Non puoi o non vuoi?». La guardai con espressione neutra alzandomi lentamente.
«Sono qui per curare il tuo occhio, non il tuo arnese. Ricordi chi siamo?» ancora. Ricordai il messaggio di Shùra e sorrisi.
«Io so chi sono, sei tu a non saperlo». Andai verso la porta aprendola, i suoi occhi feriti non mi commossero mentre la sbattevo fuori non solo dal mio night ma anche dalla mia mente. Almeno fino al giorno dopo.
Aleksandr era ancora seduto sullo stesso divanetto, presi posto di fronte a lui e lo vidi fissare Nadja andarsene frettolosamente. Guardò l’orologio inarcando un sopracciglio.
«Dieci minuti? Hai problemi d’eiaculazione precoce?». Molto ma molto divertente.
«Neppure se fossi un vibratore riuscirei a scoparmela». Sputai con veleno quelle parole beccandomi le sue risate di scherno.
«La principessa dei ghiacci ti fa ammattire, così patetico». Bevve e finì il suo brandy.
«Perché non pensi a te? Neppure se fossi uno spermatozoo umano te la scoperesti la mia Sophì.. o si? No guarda non voglio saperlo». Visioni raccapriccianti mi fecero storcere il naso.
«Non parlerò di sesso e Sophia nello stesso discorso con te» mi scoccò un’occhiata in tralice per poi sospirare «So la risposta alla tua domanda».
«Davvero?». Lo guardai divertito aspettando delucidazioni.
«Ce l’avevi con me perché ho mentito. Per quanto sbagliato o turpe possa essere, io avrei dovuto dirtelo». Ci guardammo.
«Più o meno. Perché pensi io non ti abbia ucciso quella notte?». Le mie domande assurde mi rendevano così simile a lui quando mi metteva sotto torchio.
«Per affetto?». La mia risata attirò l’attenzione di alcuni uomini, li fissai arcigno.
«No. Ho visto i tuoi occhi, ero invidioso. Per vent’anni mi sono sforzato di capire quale fosse il modo migliore per guardarla, per rendermi ‘’degno di lei’’. Arrivi tu e me lo mostri in pochi istanti. Lei ha scelto te perché ha visto i tuoi occhi prima di me, non avrei avuto speranze in ogni caso». Lo vidi cercare resti del suo brandy con gli occhi lucidi, se per l’alcool o per altro non lo sapevo. Si alzò improvvisamente fissandomi, sorrisi.
«Mi dispiace». Annuii bevendo la mia meritata vodka.
«Lo so. Ci vediamo domani.. no?». Ovvio che si. Ci saremmo sempre visti, ancora e ancora. Lo guardai andar via per poi alzarmi. Una di quelle troie lì presenti avrebbe dovuto curare il mio male di vivere, in assenza della stronza bionda.
 

 
 
Aleksandr POV
 
La casa era silenziosa, entrai cercando di non far rumore ma a pochi metri dalla sua camera, nella quale ero diretto senza rendermene conto, una voce familiare mi bloccò.
«Dove sei stato?». La sua voce cristallina e nervosa, così familiare e calda.
«Da qualcuno che non mi lancia piatti, e non mi guarda come fossi carne avariata portata in tavola per sbaglio». Incassò la freccia avvelenata avvicinandosi, la luna ne illuminò i contorni.
«Pensi io ti guardi così?». Lo pensavo? L’alcool non aiutava.
«Non lo so cosa penso, ma so cosa non penso. Non penso io stia con te per passar del tempo spassandomela, Sophia». Non usai il solito vezzeggiativo,  si avvicinò ancora.
«Devo fidarmi quindi?». La sua voce tremò appena, non le costava alcuna fatica credermi. Non faceva altro da una vita. Mi sarei volentieri frantumato lì potendo.
«Fidati ancora di me». La baciai trascinandola in camera con me. Respiro contro respiro mentre le mie mani febbrili scendevano le spalline della canotta, mi bloccò con un sorrisino.
«Non indosso le mutandine». Ci guardammo per un istante che mi parve interminabile, non ero io quello pericoloso. Era lei. Lo era sempre stata. Tornai ad accarezzarla, stesa su quel letto era bella come un quadro, era bella come l’incarnazione stessa della bellezza. Era ciò che di più perfetto i miei occhi avessero mai guardato. Quella notte non mi fermò, tra sospiri e ansimi fondemmo le nostre carni; mentre mi spingevo dentro di lei sentivo l’elettricità invadere l’aria, le sue unghie graffiarono la mia schiena, i suoi gemiti ferirono le mie orecchie. Nulla di più sublime dello scoppio di un attimo eterno. Eterno come me in quel momento. Eterno come lei. Eterno come noi, avvinghiati su quel letto tra le lenzuola madide.
 


 
Non amo spesso stare in compagnia, preferisco la solitudine. Anche se dicendo questo è un po’ come se mentissi. La gente comune mi definirebbe pazzo, folle, visionario ma loro non sanno. Non capiscono. E sopratutto non vedono.
Lui è sempre accanto a me, lo vedo, lo percepisco sento la sua voce: ''Aleksandr, mangia con la schiena dritta'', e il piccolo Aleksandr accanto a lui sorride e acconsente. Li osservo, seduti di fronte a me, e loro osservano me.
Ci sorridiamo mangiando tutti insieme. Io, mio padre e il piccolo Aleksandr.
Tutti insieme. Per sempre.
 
 
«Shùra». La voce di Sophia arrivò dalla cucina, mi sporsi dal grande arco con la maglia ancora tra le mani.
«Che c’è? Sophia sono in ritardo, arriva al punto e non provare ad uscirtene con la storia dell’aumento». Si voltò e io capii, capii che tutto era appena andato a puttane mentre la vedevo riporre il cellulare.
«Ho detto a papà di noi. Era felice!»
Non seppi bene il tipo di espressione che feci, e probabilmente non la seppe mai neppure lei mentre fissava la mia schiena che si allontanava chiudendosi in camera.
 
 
All stories have a beginning, a middle, and an end, but not always in that order.
 

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Capitolo 10
*** Criminals do not die by the hands of the law. They die by the hands of other men. ***


 

 
 

ACT X

 
Qualsiasi piano provassi ad escogitare perdeva immediatamente consistenza ai miei occhi. Chiamare Sergej era una tacita ammissione di colpevolezza, così come il non chiamarlo. Mentre osservavo il telefono posto sopra il comodino le mie iridi sembravano voler schizzare fuori dalle orbite; tutti erano adesso potenziali nemici, così come per Misha la mia punizione sarebbe arrivata come il rintocco preciso delle campane la domenica, il problema era capire quale mano l’avrebbe compiuta.
Tutto stava improvvisamente prendendo forma, e per ironia al tempo stesso sembrava perdere consistenza come se le mie mani non riuscissero più ad afferrare le briglie immaginarie della mia vita. Mi trovavo ad un bivio, quello che sapevo prima o poi mi sarei trovato a varcare, non appena i miei occhi e le mie sporche mani avevano afferrato qualcosa di inarrivabile come Sophia, il destino era stato tracciato. Passai una mano sul viso, il buio della camera non mi permetteva di vedere null’altro se non forme astratte di ciò che essa conteneva, un po’ come la mia mente in quel momento. Dovevo scegliere da che parte andare, e dovevo farlo in fretta. ‘’Tik tok Aleksandr’’ sentivo la voce baritonale di mio padre e il suo sguardo carico di pietà.
«Ti senti male?» Sophia entrò in quel momento, i suoi gesti cauti mi fecero capire che iniziavo a fingere male. La mia corazza scricchiolava.
«No, vieni qui». Le sorrisi apparentemente calmo, dopo l’annuncio fatto il giorno prima sembrava aver vissuto in una nuvoletta rosa sospesa a mezz’aria, a suo parere tutti i problemi erano finiti con l’ufficializzazione della nostra relazione.
«Oggi non sei andato a lavoro, Misha mi ha chiesto di te in agenzia» mi si sedette in grembo. A mio parere i problemi erano appena iniziati.
«Sonech’ka..» mi interruppi all’improvviso, la mia bocca era impastata.
«Che c’è?». Mi fissò sorridente accarezzandomi i capelli.
«Mi perdoneresti qualsiasi cosa?». Vidi i suoi occhi, il seme del dubbio per un attimo vi si insinuò.
«Ti perdonerei qualsiasi cosa». Mi baciò teneramente e sentii la presa delle mie mani sui suoi fianchi divenire più debole. Sostavo ancora a quel bivio, sapevo già quale strada prendere ma non ero ancora pronto. Mi avrebbe capito nella sua infinita ignoranza? Avrebbe saputo comprendere ciò che non le era mai stato mostrato?
 
***
 
 
«Mi ha cercato qualcuno?». Ero tornato in ufficio adducendo la scusa di un improbabile raffreddore per giustificare la mia assenza.
«No nessuno, a parte Ivor» Anastasia mi fissò interrogativamente, era sempre stata dalla mia parte dovevo aggiungere anche lei alla lista?
«Ti ha detto cosa voleva?». Scosse il capo in cenno di diniego, voleva solo lo richiamassi il prima possibile. Ivor era un altro dei ‘’ragazzi’’, lavorava per Sergej e la bratva da anni, era lui la mano scelta? Mi sedetti alla scrivania afferrando la cornetta, composi veloce il numero aspettando di sentire la sua voce familiare:
 
– Pronto?
– Ivor, sono Shùra.
– Porca troia dove stavi, ti cerco da ieri.
– Lo so, sono stato poco bene. Che succede?
– Succede che Kolia in sole ventiquattro ore ha fatto un casino.
– Ovvero?
– Ovvero mandare a monte l’affare con Smith, il tipo non vuole pagare il prezzo pattuito.
– Okay, quindi?
– Quindi dobbiamo fargli cambiare idea. Ha detto che vuole il 70% dei guadagni netti.
– E’ folle.
– Lo so. Sergej vuole che te ne occupi tu. Andremo mercoledì notte.
– Va bene.
 
Chiusi la chiamata fissando il telefono senza vederlo. Il fatto che Sergej volesse me per il lavoro non sapevo bene se fosse positivo o negativo vista la situazione. Lo conoscevo troppo bene, giocare al gatto col topo era qualcosa che gli riusciva magnificamente. Prostrarti mentalmente, giocare con le paure. Saperlo mi avvantaggiava, non sarei rimasto fermo immobile a farmi corrodere dai dubbi. Attendevo al varco l’ennesimo destino che avevo disegnato io stesso per me.
La porta si spalancò pochi istanti dopo, osservai Misha entrare come fosse il proprio ufficio e decisi di tacergli ogni cosa. Tenerlo fuori era vitale in quel momento, perché se fossi venuto a mancare io solo lui avrebbe potuto risolvere la situazione e fuggire. Salvare almeno lui era il minimo.
«Devi bussare, cosa cazzo non ti è chiaro?». Mi alzai sospirando stizzito.
«Me ne fotto, sono di buon umore fratello non farmi collassare i coglioni». Mi sorrise richiudendosi la porta alle spalle, sedendosi sulla sedia di fronte la scrivania. Lo imitai tornando a sedermi, fissandolo.
«Ti serve qualcosa?». Domanda inutile, a lui serviva sempre qualcosa.
«Il mio occhio si sta riprendendo, oggi ho sparato e il proiettile è finito giusto dove volevo». Sorrisi divertito di fronte il suo tono eccitato.
«Sono fiero di te. Ma risparmiami la storiella strappalacrime sui tuoi progressi per ammorbidirmi e potermi chiedere soldi». Come per Sophia, conoscevo benissimo anche lui.
«E’ stata una serata sfortunata al poker..» mi sorrise complice.
«Misha .. non avrai un centesimo». Gli sorrisi complice.
«Vai a farti fottere, si?». Sbuffò grattandosi spazientito la guancia liscia e rasata.
«Mercoledì notte vieni con me e Igor, a quanto pare Smith vuole il 70% dei profitti per la vendita di droga». La sua risata seguì la mia. Un attimo di silenzio e la sua espressione cambiò.
«Irina risponde freddamente ai miei messaggi, credo ce l’abbia con me per la sparizione improvvisa..». I suoi occhi affranti misero un peso sul mio petto.
«Falle un regalo e comprale del cibo, ti perdonerà». Ci guardammo seri per un istante, lo vidi annuire nonostante sembrasse poco fiducioso.
«Sophia ha detto che sei strano, è successo qualcosa?». Mi irrigidii negando poi con un cenno del capo.
«Non è successo nulla, sono solo stanco Misha. Piuttosto come vanno i progressi con Nadja?». Sorrisi beffardo cambiando argomento in maniera tattica, dalla sua espressione era ovvio stessi toccando un tasto dolente.
«Shùra, quella donna mi rende irrequieto. Prima mi fa impennare il cazzo e poi mi manda in bianco, ha senso?». Mi grattai la tempia cercando di non ridere.
«Ha abbastanza senso se il suo piano è farti ammattire, visto  come ci sta riuscendo .. ma ti piace sul serio?». Lo guardai interrogativamente, non riuscivo a comprendere come potesse piacergli una Nadja dopo una vita passata ad amare Sophia.
«Non lo so, non so se piace a me o al mio pene, appena capisco ti dico». Scosse il capo mandandolo mentalmente a cagare.
 

 
 

Mikhail POV

 
L’orso che Irina teneva tra le braccia era alto quasi quanto lei, le sue piccole mani faticavano a stringerlo mentre camminava felice accanto a me. Alla fine quel bastardo machiavellico di Shùra aveva avuto ancora una volta ragione. Le avevo offerto un gelato e regalato quel pupazzo immenso, il suo broncio era sparito mentre mi fissava con quelle iridi luccicanti e identiche alle mie. Era il sogno di tutta una vita, fin da quando nostro padre ci aveva separati, ero stato ossessionato dal pensiero di non poter fare cose simili insieme a lei. Adesso potevo ma non era ancora il momento di dirle chi ero. Indagando con Shùra scoprii che quel pezzo di merda alla quale l’aveva venduta non sembrava averla tratta coi guanti di velluto, aveva sicuramente mollato l’università per colpa di quel ratto. La mia vendetta sarebbe arrivata inesorabile anche su di lui.
«Sei stato gentile..» mi sorrise e il mio mondo prese colore.
«Dovevo farmi perdonare in qualche modo». Ad occhi indiscreti i miei atteggiamenti potevano essere scambiati per quelli di un innamorato, eppure nei suoi occhi non leggevo malizia né equivoci di sorta. Era strano. Non mi riconosceva eppure si fidava, che fosse il sangue a parlare al posto della ragione senza che se ne rendesse conto?
«Sei amico del presidente Belov?». Aggrottai la fronte ridendo.
«No, siamo..fratelli». Abbassò il capo annuendo lentamente.
«Non vi somigliate molto». Si bloccò e io la imitai.
«Non scorre lo stesso sangue, siamo semplicemente stati adottati dallo stesso uomo. Aleksandr è una persona a cui devo molto..» di fronte a lui non avrei detto quelle cose neppure sotto tortura.
«E’ fortunato ad averti». Era seria? Solitamente avevo sempre pensato il contrario.
«Verissimo». Ci guardammo scoppiando a ridere. Fu una bella serata.
 
La mia bella serata venne guastata dall’apparizione di Nadja ferma sulla soglia di casa mia. Mi bloccai con le chiavi ancora in mano per poi proseguire e superarla.
«Non sono in vena di giochetti, ciarlatana». Non la guardai aprendo la porta, la sentii entrare e richiuderla.
«Mi dispiace». La sua voce solitamente austera sembrò improvvisamente insicura.
«Per cosa?». Mi voltai e finalmente i miei occhi incontrarono quel corpo che sembrava essermi entrato nel sangue.
«Per tutto. Misha la mia vita non è semplice, probabilmente al pari della tua. Ho visto tante cose nei miei trent’anni, ma soprattutto le ho vissute e ho pagato caro ogni errore». Avevo come l’impressione di star per finire in una trappola che avevo forgiato io stesso.
«Perché me lo stai dicendo?». Restai immobile lasciando che fosse lei a colmare la distanza tra noi per una volta.
«Perché mi piaci. Non era nei piani farmi piacere un coglione come te, ma è successo. Vorrei solo che mi concedessi del tempo, se è davvero me che vuoi». Mi tornò in mente la domanda di Shùra quella mattina. Perché gli avevo mentito?
«E’ te ciò che voglio, si». Dirlo a lei e me stesso era semplice, ammetterlo con altri forse un po’ meno figuriamoci con quel maledetto ‘’so tutto io’’. Ero uscito da poco da quella crisi sentimentale che portava il nome di Sophia, un abisso divideva le due donne e lo stesso abisso divideva ciò che avevo provato per una e ciò che invece provavo per l’altra.
«Dormi con me stanotte?». Annuii senza rendermene conto. Dormire senza scopare? Ero fottuto vero?
 
Il cellulare squillò ad un’ora improvvisata del mattino, osservai il nome di Shùra sul display.
«Hai offerto dell’aragosta ad Irina? Non dirmi che l’hai portata al night… le sorelle non amano questo tipo di cose». La voce di Aleksandr era spenta, vuota, sembrò provasse a ridere, ma era evidente non ci riuscisse. Non mi posi altre domande, forse avrei dovuto.
«Hai presente quei vetri oscurati, dove all'esterno non si vede nulla, ma all'interno si vede tutto?». Lo sentii sospirare.
«Sì, e quindi?»
«I vetri della macchina di Irina erano fatti in questo modo quando l’ho vista andare via. Penso che tra di noi ci sia quel tipo di meccanismo – come una cazzo di macchina di lusso, solo che nella macchina ci sono io, lei sta fuori. Io posso vedere tutto, ma lei non mi vede affatto» la mia voce divenne graffiante.
«Ne sei sicuro Misha? Dovresti farle abbassare il finestrino allora»
«Aleksandr, a volte penso che sia un bene io mi nasconda talmente tanto da non farmi vedere, ma altre volte spero che sia proprio lei a riconoscermi per prima. E’ facile dimenticarmi?» Aleksandr sospirò, e a me mancò la voce. Il groppo che avevo in gola s’ingrossò a tal punto da non riuscire a dire nemmeno una singola vocale. Chiusi gli occhi, immaginai di sparire – per l’ennesima volta.
 
– Ti ho mai dimenticato?
– Sai ancora come mi chiamo quantomeno.
– Saprò sempre come ti chiami.
 
 
 

Aleksandr POV

 
Osservai la schiena nuda di Sophia, dormiente sul mio letto, la luna illuminava la curva perfetta che spariva oltre il lenzuolo celando le natiche per la quale mi ero scoperto pazzo. Tanto per cambiare. Mi alzai vestendomi in fretta, Misha mi attendeva già sotto e Ivor probabilmente sostava nascosto in nostra attesa. Continuavo a vivere la mia vita un passo dopo l’altro, consapevole potesse essere l’ultimo sulle mie gambe. Avevo provato a non far capire nulla a Sophia, ma sapevo di non esserci riuscito. Quando chiusi la porta alle spalle non la guardai, e probabilmente fu un errore ..se l’avessi fatto avrei visto i suoi occhi spalancati fissarmi dubbiosi.
«La prossima volta vieni tranquillamente all’alba». La voce scocciata di Misha mi accolse a pochi metri dalla macchina. Gli sorrisi ambiguamente.
«Sai ho una donna focosa accanto..». Attaccai con voce maliziosa e la sua occhiata di fuoco mi fece ridere.
«Sei molto spiritoso Belov, quando tapperò coi chiodi la tua bara voglio sentirti ridere in questo modo». Salimmo in auto senza più parlare, mentre la mia auto lasciava dietro di se una nube e l’eco della mia risata. Sarebbe stata l’ultima?
 
L’appuntamento era stato fissato nel retrobottega di un nostro locale. La camera in cui andammo era totalmente in penombra, le porte cigolanti annunciarono l’arrivo di colui che appresi praticamente subito non fosse Smith. Un uomo stempiato e avanti con gli anni, ma di indiscusso spessore stando al suo modo di incedere.
«Salve». Lo vidi trasalire colto di sorpresa, i suoi occhi provarono ad abituarsi alla poca luce, mi vide pochi istanti dopo e ammetto che il suo corpo non cedette restando ritto e stoico, aveva fegato considerando il suo essere un ‘’uomo di paglia’’. Il classico fantoccio mandato come prestavolto in vece di colui che avrebbe dovuto essere lì, in modo da beccarsi le conseguenze dell’ipotetico affare sfumato. Sorrisi indicandogli una sedia vicino ad un tavolo solitario. L’unico.
«Sediamoci». Lo imitai accomodandomi di fronte a lui.
«Sono qui per calmare le acque» la sua voce ebbe un lieve cedimento, il fatto di essere apparentemente solo con me anziché tranquillizzarlo sembrava innervosirlo. Avevo come l’impressione che non ci credesse molto visto come si guardava attorno.
«Io sono qui per smuoverle». Ancora un sorriso.
«30% a voi, il resto a noi» inarcai un sopracciglio, quindi non demordevano?
«Voi americani siete ammirabili, pure di fronte all'impossibile dettate legge. Ma io sono molto peggio» allargai le braccia come a volermi scusare.
«Allora cinquanta e cinquanta. U-ultima offerta» aveva appena decretato la sua fine, il lento sfumare di quell’affare. Erano bastate due semplici parole per rabbonirlo, insistendo che altro mi avrebbe dato?
«Doveva essere l'altra l'ultima offerta, evidentemente alla gente per cui lavori importa poco, vogliono solo salvarsi il culo. Ottanta a noi, e venti a voi». Lo vidi arrossarsi, l’esplosione era in arrivo.
«COSA?» non mi smentì compiacendomi. Mi alzai dalla sedia facendo il giro, afferrandolo per la bella camicia che indossava sollevandolo quasi di peso. Viso contro viso. Il vecchio sudava, leccandosi perennemente il labbro, mentre i miei occhi duri e canzonatori continuavano a scrutarlo.
«Hai mai giocato alla roulette russa?» insomma chi non la conosceva?
«..No» sorrisi ambiguamente.
«Giochiamo allora!». Sbattei il palmo della mano sul tavolo, la sala si illuminò rivelando decine di uomini intenti a fissarci. Il vecchio aveva avuto ragione sin dall'inizio a sospettare, non era mai stato solo con me. Eppure quella cosa sembrò consolarlo, ne restai ancora una volta stupito, tutto fuorché stare solo con me. Ero così spaventoso? Il sapore acre della consapevolezza non mi rese felice. Presi la mia pistola carica, tolsi tutti i proiettili tranne due. Uno per lui. Uno per me. La caricai passandogliela.
«Se il proiettile non esplode, faremo settanta per noi e trenta per voi» iniziò a tremare, il rischio evidentemente non gli piaceva.
«Se ..se muoio non ne ricaverai nulla. L'accordo salterà» tremò visibilmente fissando l’arma che non riusciva ad afferrare.
«Svegliati, non servi ad un cazzo o non ti avrebbero mandato in pasto al lupo. In pasto a noi. E adesso spara, altrimenti sparerò io e in quel caso non avrai alcuna percentuale di successo» gliela porsi e stavolta l’afferrò. Lo vidi portare l’arma alla tempia, serrando con forza le palpebre, il dito esitò qualche secondo prima di premere il grilletto. Il colpo andò a vuoto. Era salvo. Si accasciò quasi piangendo, gettando la pistola sul tavolo. Scoppiai a ridere piegandomi letteralmente in due.
«E' la tua giornata fortunata vecchio, vai da quegli stronzi per cui lavori e digli che il contratto è stato stipulato. E cambiati le mutande, ti sei appena pisciato sotto». Si alzò cercando di reggersi sulle gambe, fece l’intero tragitto correndo voltandosi diffidente verso di me, l’uomo con l’arma ancora in mano. L’ultima volta in cui i nostri occhi si incrociarono mi vide puntarmela alla tempia e fare fuoco. Nessun suono si udì, evidentemente non era ancora il mio momento.
«Lavorare con te non manca mai di suspense». La voce di Misha coincise col mio sospiro. Ci fissammo e tornai il solito Aleksandr. A quel pensiero la mia fronte si aggrottò involontariamente: esisteva un altro Aleksandr? O era semplicemente il riflesso dello spietato sicario? E Aleksandr Petrov?
 
L’alba mi accolse con un profumo di cibo e un lento canticchiare, mi sporsi fissando la schiena di Sonech’ka intenta a cucinare chissà cosa. Provai a superare l’arco e sgusciare nella mia camera preparandomi mentalmente una scusa decente.
«Dove sei stato?». Mi bloccai imprecando mentalmente.
«Poker. Con Misha». Si voltò afferrando il cellulare componendo veloce un numero, il fatto che lo conoscesse a memoria rendeva palese chi stesse chiamando.
«Misha dove sei? – mi guardò sorridendo apparentemente calma, annuendo – hai visto Shùra per caso?». Mi pressai con due dita la base del naso accanto gli occhi, volendo avrei anche potuto accecarmi. La chiamata venne chiusa e il silenzio regnò sovrano.
«Sonech’ka..» sorrisi e la vidi prendere il coltello fissandomi. Merda.
«Pensi non riesca a tagliarti le palle?». Mossi un passo indietro, era incredibile come non provassi terrore di nulla tranne che di lei. Era più spaventosa del padre.
«Sono stato con Misha sul serio, abbassa quel cazzo di coltello». Ringhiai nervoso quelle parole e stranamente mi obbedì. La fissai confuso.
«Lo so, me lo ha detto, ma la tua espressione era impagabile piccolo bastardino. Non uscire più come un ladro, odio quando ti comporti come se mi nascondessi qualcosa». Mi sorrise divertita e io desiderai urlare e far scendere tutti i santi che probabilmente se la ridevano alle mie spalle. Annuii riprendendo la normale respirazione.
«Che stai facendo?». Mi avvicinai cautamente, fissando il coltello adesso abbandonato.
«I blinciki». Mi fissò in maniera talmente eloquente che per poco non mi inginocchiai ai suoi piedi.

 
 

Mosca, 2004
 

«Perché sei triste, Shùra?». Si sedette accanto a me con l’aria affranta, era tipico di lei assimilare le emozioni altrui.
«Così». Quel giorno ricorreva l’anniversario della notte in cui avevano portato via mio padre.
«Ti mancano i tuoi genitori?». Lei aveva sempre la risposta per tutto, per ogni mia più piccola espressione, ogni minimo sospiro lei sapeva. O così sembrava, forse era solo brava ad intuire.
«Sai cosa faceva mia madre quando ero giù o quando voleva farsi perdonare qualcosa?». La guardai e lei mi sorrise.
«Cosa?» Sonech’ka si sporse verso di me incuriosita.
«Preparava i blinciki di carne, per me»
 

 
Il cellulare si illuminò brevemente, lo afferrai osservando l’icona lampeggiante dei messaggi, aprii e lessi: ‘’Smith non ha gradito, vediamoci al molo a mezzanotte, solito capannone’’. Lo aveva mandato Ivor.
Non avvisai Misha, mi vestii in silenzio lasciando un biglietto a Sophia che dormiva placidamente tra le lenzuola sfatte del mio letto. Mi chinai respirando il suo odore, sapeva ancora di Lillà e Primavera.
Quando arrivai al capannone io sapevo. Non vi era Smith, né nessun americano ad attendermi. Nessun accordo era saltato né lo avrebbe fatto di lì a poco.
Il laccio che mi stringeva e teneva ancorato a quella vita si serrò attorno a me mentre i miei passi rimbombavano all’interno del posto abbandonato, tra file di scatole impolverate e macchinari rotti.
Non li sentii neppure arrivare, probabilmente perché erano già lì. Chinai il capo sorridendo osservando la trappola nella quale ero caduto, mentre un colpo ben assestato feriva la mia tempia costringendomi in ginocchio. Sentii il sangue scorrere caldo e denso, accecandomi gli occhi al pari del dolore che arrivò come uno scoppio improvviso. Le mie gambe potevano anche piegarsi, ma non la mia anima; un secondo colpo arrivò a tradimento, lo bloccai con la mano facendo pressione sulla mazza, rialzandomi lentamente mentre incrociavo gli occhi di Ivor.
 
«Pensi sia così facile far cadere ME?»
 
Forse si, forse sarei caduto al suolo quella notte. Ma in quel preciso istante rividi il bivio trattenendo il respiro: era il momento di scegliere.
 

 

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Capitolo 11
*** It’s a crossroads not a dead end ***


 

 

ACT XI
 

 
 «Pensi sia così facile far cadere ME?»
 
 
Un ringhio cupo proruppe dal mio petto. Non sarei caduto così non senza reagire, ne valeva del mio orgoglio. Aiutato dal peso di Ivor che provava a piegarmi ancora mi rimisi in piedi, continuando a bloccare la spranga con entrambe le mani. Vidi le sue braccia tremare nello sforzo al pari delle mie, un suono mi distrasse, lo spinsi lontano e fissai il gruppo che aveva fatto cerchio attorno a me, non pensavano evidentemente dovesse finire velocemente. In fondo era normale, colui che erano venuti a picchiare – o forse uccidere –  non era un membro qualsiasi: era il sicario. E lui andava aggredito in gruppo mai da solo. Vidi uno degli uomini estrarre il coltello, il primo fendente mi colpì dritto alla spalla strappando la camicia e lacerandomi profondamente la pelle. Mi piegai in ginocchio gettando un urlo rabbioso, mentre il sangue iniziava a sgorgare copioso dalla ferita.
«Non lo penso, ecco perché siamo tutti qui Aleksandr Belov». La voce di Ivor era greve e tremante, nonostante la nostra vita riuscivamo a instaurare legami affettivi che vedevamo poi dissolversi come neve al sole.
Il secondo fendente squarciò il mio fianco all'altezza delle costole, provocando l'ennesima lacerazione; caddi rovinosamente a terra e stavolta non mi rialzai mentre pedate, pugni e sprangate iniziavano a percuotere il mio corpo. Nei miei occhi non vi era traccia di dolore ma solo una lenta consapevolezza, e uno strisciante odio. Chiusi il pugno della mano cercando di sollevarmi sui gomiti, ignorando il dolore delle ferite ma una voce mi fermò, anzi mi paralizzò letteralmente, era la stessa che sentivo ormai da vent’anni, quella per cui avevo dato la mia anima in pasto al demonio.
«Vi avevo detto di non toccare il suo viso, siete stupidi o solo folli?». Il Vor si piazzò di fronte a me, inginocchiandosi pochi istanti dopo, i nostri occhi si cercarono – trovandosi – e mille parole silenziose passarono tra noi. L'espressione di Sergej era un misto di rabbia e cupo dolore, la mia probabilmente un qualcosa di talmente spaventoso da risultare indefinibile. Vi era morte nelle mie iridi. Tossii e sputai sangue.
«Ti ho accolto in casa mia e come mi ripaghi tu? PRENDENDOTI MIA FIGLIA?». Le sue urla risuonarono per tutto il capannone, gli uomini attorno a me fecero un passo indietro spaventati.
«E’ da una vita che ti ripago, ho venduto pezzi di me stesso per poterlo fare». La voce uscì affaticata. L'espressione del Vor si tinse di un curioso divertimento, solo il suo Shùra poteva pensare di parlargli con tanta insolenza senza rischiare la perdita della lingua. Lo vidi estrarre il coltello afferrandomi il braccio, voltandomi il palmo della mano in su e tenendomi fermo il polso. Serrai le labbra in una linea dura, ero consapevole di cosa stava per accadere, vi era una via d'uscita? Mi tornò in mente Yuri e il nostro primo incontro, chi avrebbe potuto dire che la storia si sarebbe ripetuta? Sollevò il braccio, la lama del coltello brillò di una luce sinistra. 
«Ti farò una semplice domanda: hai toccato con queste mani Sophia? L’hai toccata da uomo e non da fratello? Rispondimi». Lo  guardai intensamente chinando poi il capo, ciò che lessi nei suoi occhi mi nauseò. Mi stava ponendo l'ennesima prova, mi stava istigando all'ennesima rinuncia, prima Yuri, poi mio padre e adesso Sophia. Respirai profondamente e con fatica, il bivio si palesò ancora una volta e stavolta non ebbi dubbi su quale strada prendere.
«No non l’ho mai toccata da uomo, non esiste niente di tutto questo». Le mie parole uscirono sorde e vuote, la momentanea sconfitta bruciante ostruì quasi la mia gola impedendomi di respirare e deglutire correttamente. Alle volte prendere la strada più tortuosa non ti ripagava col benessere istantaneo. L'urlo furioso di Sergej squarciò l'aria, la lama del coltello si abbatté sulla mia pelle, ma invece di tranciarmi l'arto di netto si limitò a scavare una ferita profonda sul mio polso. Non urlai. Non avevo né la forza per farlo, né tanto meno il diritto.
Rinnegare. Così come per mio padre in Siberia, nel giro di pochi anni avevo rinnegato anche la donna che amavo. Era il prezzo da pagare.
Gettò il coltello restando accucciato accanto a me: fu quello il segnale. Gli uomini lentamente si allontanarono uscendo da lì, mentre lui mi afferrava le spalle trascinandomi su una pila di scatoloni, sedendomi e mettendosi di fronte a me. Non c'era uomo che Sergej stimasse di più, non vi era ragazzo per la quale non avrebbe fatto qualunque cosa come per me. La fiducia è facile da spezzarsi, ma ancora più difficile da ripristinare, e nella Bratva avevano modi che la gente comune avrebbe definito barbari, abietti e orribili. Ci guardammo ancora negli occhi, sentivo la camicia inzupparsi di qualcosa di denso e viscoso, probabilmente sangue, e la coscienza divenire sempre meno presente. Sergej si strappò un lembo della camicia afferrando il polso che lui stesso aveva tagliato, mettendovi su una benda improvvisata per frenare l'emorragia.
«Hai idea di cosa io abbia provato a fare questo? Hai idea delle aspettative che ho per te? Non puoi tradirmi così, non per una donna, neppure se questa è Sophia. Anzi a maggior ragione se è lei. Ho già programmato il suo matrimonio..» non reagii minimamente alla notizia, il mio sguardo restò vuoto mentre lo sentivo continuare quel monologo. 
«Sarà un matrimonio fatto apposta per lei, darà benefici a tutti e le permetterà di vivere in quella bolla che tanto le piace. Pensi sia stato io a chiuderla lì, vero Shùra? Ti sbagli: si è chiusa da sola. Perché lei non vuole vedere Aleksandr, lei si rifiuta. Perché? Perché è meglio vedere una madre perfetta, un padre perfetto, una fratello amorevole. Misha strano ma buono..e poi tu. Siamo tutti perfetti nella sua mente perché lei ci vuole così, perché è egoista tanto quanto noi. Cosa pensi che farà quando scoprirà chi sei?» lo guardai inarcando un sopracciglio divertito, ci riuscivo ancora quindi? Sorrisi senza gioia consapevole di cosa volesse dirmi. 
«Esatto. Ti masticherà e sputerà via. Perché non ti adatterai più ai suoi standard, alla sua vita perfetta. Non commettere un errore simile, non ne vale la pena perdere la vita per questo. E poi.. lei resta intoccabile per chiunque, compreso te. Ti ho accolto come un figlio, sei l’uomo nella quale ripongo le mie più alte aspettative, il mio Shùra con quel viso d’angelo capace di commettere le peggiori atrocità senza batter ciglio, mi sei sempre piaciuto per questo. Cosa pensi che succederà ai sei uomini lì fuori? La pagheranno, uno per uno, perché ci sono andati pesante con te disobbedendo al mio ordine. Io lo farò per te. Quindi ripagami come hai sempre fatto, puoi farlo no?» Sergej si alzò allontanandosi da me, muovendo i primi passi verso l'uscita mentre la mia voce spezzò il silenzio risuonando letale e calma. 
«Posso farlo e lo farò». Ero certo stesse sorridendo compiaciuto mentre abbandonava finalmente quel luogo.
 
Urlai, urlai talmente tanto da graffiarmi la gola, le sue parole erano penetrate sottopelle scavando ferite larghe e profonde difficili da guarire. Non mi curai neppure di chiamare qualcuno, sapevo che di lì a poco l'aiuto sarebbe arrivato. Ma non era ciò che cercavo in quel momento. Non lo sarebbe mai stato dopo quella notte.
 
The trap had a ghastly perfection.
 
 
 

Nadja POV

 
Mosca, 13-11-1997
 
 
Quel giorno era senza colori. Tutto attorno a lei aveva assunto degli strani toni grigi, dal più chiaro al più scuro. Di tanto in tanto passava qualche ombra bianca, ma agli occhi di una piccola ed esile Nadja tutto ormai aveva assunto un sapore insipido, privo di ogni emozione, nemmeno una nota colorata.
Gli alberi erano grigi.
L'erba era grigia.
Le macchine erano grigio scuro.
Il suo vestitino era nero.
Ed il cielo... anche quello era grigio.
Lo sguardo di Nadja si era svuotato la sera stessa in cui aprì la porta aspettandosi il ritorno del padre, si ritrovò davanti un uomo mai visto prima, che la prese in braccio e la portò semplicemente via in una nuova “casa”.
«Il tuo papà non c'è più... E' morto come un eroe». Eppure quelle parole non riuscivano a consolare il suo cuore infranto. Aveva perso tutto, ai suoi occhi suo padre non aveva bisogno di sacrificarsi per proteggere un altra persona per essere un eroe. Ma il destino fu davvero sadico e perverso, lo chiamavano eroe, quando in realtà era solo un povero uomo che si era trovato nel posto giusto al momento giusto per beccarsi una pallottola destinata al suo capo.
«E' morto facendo il suo lavoro». Bugie, tutte bugie e lei lo sapeva benissimo.
Nonostante avesse solo dieci anni era ben consapevole dei reali desideri di suo padre. Voleva andarsene dalla Russia ed abbandonare quella “famiglia”, voleva crescerla nel paese di sua madre, libera di poter diventare una donna bella e dolce proprio come lei.
Ma tutto questo le venne portato via senza la minima pietà, lasciandola sola al mondo.
Rimase in ginocchio a lungo, a piangere davanti la tomba di suo padre anche quando il funerale fu terminato.
Anche il cielo piangeva quel giorno, la pioggia scendeva senza sosta bagnandola completamente, ma non le importava nulla. Tremava, ma non sentiva freddo. Piangeva, urlava, si disperava davanti a quella tomba dove pochi metri sotto terra vi riposava il grande amore della sua vita: suo padre.
Cos'avrebbe fatto senza di lui?
Il suo destino era segnato, l'aspettava un freddo orfanotrofio di una Russia degli anni novanta. Senza suo padre, sarebbe morta... E a dieci anni, desiderò davvero morire. Voleva raggiungere il suo amato padre, voleva conoscere sua madre che aveva dato la vita per metterla al mondo, pensava fosse giusto in fondo; ora che non aveva più nulla, per cosa avrebbe vissuto?
La pioggia improvvisamente terminò di abbattersi su di lei, eppure continuava a cadere nel paesaggio circostante. Smise di piangere e tra i singhiozzi sollevò il capo trovando così un uomo accanto a lei, che teneva un ombrello proprio sopra la sua testa.
Non l'aveva mai visto prima di quel giorno, non conosceva nessuno dei presenti a quel funerale, ma aveva capito subito che lui era qualcuno di molto importante data la scorta che aveva al seguito.
Si guardarono in silenzio, lei singhiozzava e lui sembrava non provare nessuna emozione inizialmente ma quando si chinò su di lei riuscì a vedere un piccolo sorriso malinconico sul suo volto e i suoi occhi verdi. Proprio come quelli di suo padre.
«Tuo padre aveva ragione... somigli molto a tua madre». Il tono di voce di quel russo era caldo, dolce così come la sua espressione che riuscì lentamente a farla smettere di piangere.
«Da oggi in poi, se vorrai, saremo la tua nuova famiglia». Una nuova famiglia. Quelle parole si ripetevano nella sua testa, mentre i suoi occhi chiari si spostarono sulla tomba del padre, pensò che non voleva una nuova famiglia la sua le andava benissimo... Ma non c'era più.
«Tuo padre vuole che tu viva, Nadja». Tornò a guardare quell'uomo che le stava porgendo una mano, in quel momento sentì freddo e le ginocchia doloranti a causa di tutto quel tempo passato su di esse. Aveva ragione, suo padre gliel'aveva sempre detto: “Cresci, vivi, sii felice, non permettere a nessuno di fermarti nemmeno a te stessa”, le ripeteva sempre.
Doveva vivere per suo padre. Doveva vivere per sua madre. Doveva vivere.
Si alzò in piedi, afferrando quella mano che in confronto alla sua era così grande e calda. Lui le fece un sorriso e la prese in braccio, fregandosene di quanto fosse fradicia o sporca a causa della pioggia, la strinse e la portò via lontana da quel cimitero.
Fu la sua ancora di salvezza, tendendogli la mano le offrì una famiglia ma sopratutto un motivo per vivere.
Nadja osservò in silenzio la strada che si lasciava alle spalle, dietro il finestrino dell'auto con gli occhi ormai asciutti. Tremava a causa dei vestiti del tutto bagnati e quell'uomo che si dimostrò essere il suo salvatore si tolse la propria giacca per poi coprirla con essa, stringendola a sé per tutto il tragitto.
 
Quella fu la prima ed ultima volta che Sergej l'abbracciò, ma fu abbastanza per lei.
 
 

 
Il cellulare squillò svegliandomi e io annaspai cercando aria, era sempre così in fondo. Incubi che mi inseguivano partoriti dal profondo della mia anima. Riconobbi il numero e risposi, la voce seria e greve di Sergej mi destabilizzò.
«Vai subito al molo, il solito capannone. Una parola a Misha e verrai punita». Mi chiuse in faccia il cellulare lasciandomi sbigottita, da un lato ero sollevata perché se aveva fatto accenno a Mikhail evidentemente ciò che avrei trovato lì non lo riguardava. Appena misi piede nel luogo indicatomi capii di essermi sbagliata.
L’odore del sangue impregnò subito le mie narici, mi sporcai le costose scarpe senza curarmene finché non vidi l’ombra di qualcuno, vi era un corpo semi disteso a ridosso di alcune scatole impolverate. I miei occhi gelidi si poggiarono sul viso tumefatto e all’apparenza svenuto di Aleksandr.
«E’ vivo?» Ivor sobbalzò a pochi passi da me sentendo la mia domanda, forse pensava non l’avessi visto.
«Lo è, e dovrebbe ringraziare il Dio nella quale non credo per esserlo». Sorrisi sprezzante indicandogli il corpo.
«Risparmiami le tue frasette da tragedia scadente e chiama gli altri, dobbiamo portarlo subito fuori di qui,  sta perdendo sangue… troppo sangue». Una punta d’ansia si insinuò nella mia voce per la prima volta da che ne avessi memoria,  non ero spaventata dall’idea di perderlo.. io ero spaventata dalla reazione di Misha se non l’avessi salvato. Mi chinai allungando una mano per tastargli la fronte, mi afferrò il polso così improvvisamente da strapparmi un urlo. I suoi occhi spiritati mi guardarono senza vedermi,  era zuppo di sangue e sudore.
«Ricuci bene e non rovinare il tatuaggio sul fianco.. Non dirlo a Misha, o ti ucciderò con le mie stesse mani».  Lo guardai confusamente annuendo senza la benché minima idea di cosa avesse voluto dire all’inizio, delirava forse?  Perse nuovamente i sensi e stavolta non li recuperò più.
Dopo averlo steso sul lettino di un motel gli strappai la camicia e capii: sul fianco vi era il tatuaggio della morte. Ebbi pietà di lui, che diavolo poteva aver passato quell’uomo per raffigurarsi in quella tetra figura tanto da volerla salvare? Persi ore a suturare, a travasare sangue nel suo corpo per compensare quello mancante mentre Ivor sostava fuori dalla porta con evidente nervosismo. Stando a quanto avevo capito se Shùra moriva parecchie teste sarebbero saltate: compresa la sua. Ironico come il mandante di quella vergognosa esecuzione si rivoltasse contro agli stessi aguzzini da lui chiamati. Ma quello era Sergej, quella era la Bratva. C’era stato un tempo molto lontano della mia vita in cui la figura del Vor aveva compensato la mancanza di mio padre, erano anni che adesso mi apparivano lontanissimi. Crescendo i miei occhi si erano aperti, avevo visto il suo vero volto e la mia invidia per Sophia si era tramutata in pietà.
«E’  vivo,  ma non riprende conoscenza. E francamente.. non so se lo farà». Erano passate ore e Shùra non si svegliava, vidi Ivor annuire e sudare. Sorrisi compiaciuta lasciando il motel.
 


Mikhail POV


Seduto sul divano continuavo a fissare la televisione senza vederla mentre Sophì dormiva accanto a me,  o meglio fingeva stando in posizione fetale ad occhi chiusi. Qualcosa non mi tornava. Shùra le aveva lasciato un semplice messaggio scritto a mano, lo avevo letto e riletto senza trovarvi un senso: ‘’Viaggio d’affari improvviso, aspettami e resta con Misha’’. Perché non ero stato informato di questo fantomatico viaggio d’affari? Avevo provato a cercarlo sia sul numero che tutti conoscevano,  sia su quello riservato agli ‘’affari’’, la segreteria telefonica aveva accolto le mie imprecazioni in entrambi i casi. In più persino quella stronza bionda di Nadja era sparita, mi ero addormentato con lei accanto e al mio risveglio non l’avevo trovata. Avevo ovviamente chiamato anche lei, e indovina? Ancora una fottutissima segreteria telefonica. Sarei impazzito.
«Quando torna lo uccido..» la voce sommessa di Sophì mi strappò dai miei pensieri, mi voltai sorridendole divertito.
«Sophì so che può sembrarti strano, ma vedi .. è così che va nel mondo del lavoro». Mi scoccò un’occhiata apatica senza il solito cipiglio ogni qualvolta la prendevo in giro.
«E se non torna?». Mi freddai e risi in maniera forzata.
«Ma che cazzo dici Sophì. Ovvio che tornerà». Il telefono squillò in quel momento e per poco non mi prese un infarto, ero troppo influenzabile da quella piccola ragazzina e prendevo per oro colato ogni sua parola incoerente e insensata. Si alzò andando a rispondere, a giudicare dal tono concitato ero sicuro fosse Sergej; qualcosa però sembrò cambiare, il viso divenne livido e nessuna parola uscì più dalle sue labbra. Mi innervosii alzandomi. Parlavano di persone e amici, ma amici di cosa?
«Che voleva?». Non mi guardò e la vidi spegnere il cellulare. Pessimo segno considerando che fino a cinque minuti prima lo teneva incollato al culo aspettando un chiamata di Shùra.
«Nulla, voleva solo salutarmi». Si chiuse in camera e sentii la chiave girare nella toppa. Cosa porca puttana stava succedendo?
 

Sophia POV

 
– Ricordati del matrimonio di tuo fratello.
 – Lo so papà, lo so. E puoi dire a Nikolaj che sono arrabbiatissima con lui. Dovevo essere la prima a sapere del suo matrimonio.
– Voleva farti una sorpresa, non biasimarlo.
– Certo, come no. La scusa della sorpresa è sempre buona.
 – A proposito di sorprese, quando verrai qui dovrò presentarti una persona. Sono certo che ti piacerà.
– Una persona? Chi? È simpatica? Un amico di famiglia?
– Un ragazzo, poco più grande di te. Te l'ho detto, te lo presento quando sarai qui. È un buon partito.
– Papà, ti prego, non m'interessa e po-
– Sophia, la mia non è una richiesta.
– Sì, ma Shùra..
– Aleksandr? Ancora con questa storia? Lascia stare quel povero ragazzo e smettila d'importunarlo con i tuoi capricci. Ti ho quasi creduto quando mi hai detto che era il tuo "fidanzatino". Quando gliel'ho chiesto si è fatto un paio di risate smentendo.
– Cos'ha detto?
– Che accontentava i tuoi capricci, come sempre. Devo smetterla di viziarti così, sai?
– Papà, ora sono proprio stanca. È tardi e domani devo svegliarmi presto. Ti richiamo io appena posso.
– Va bene, allora vai a letto. Mi raccomando, non essere un peso anche per Mikhail.
 
Era tutto un gioco e neanche me n’ero accorta?  Mi sentivo un tantino stupida e tarda. Eppure ci avevo creduto sul serio; avevo creduto a tutte le sue parole, alle promesse, a tutto. Era stato scorretto. Doveva dirmelo prima che era tutta scena, almeno mi sarei risparmiata la figura dell'idiota.
Già. Sophia, smettila di essere un peso per tutti.
Probabilmente ho sempre avuto la certezza di esserlo, semplicemente non me n’ero mai curata più di tanto. Nel mio mondo fatato tutto mi era concesso, e sempre nel mio mondo a nessuno dispiaceva sostenermi e sorreggermi, men che meno al mio Shùra. Forse avevo fatto i conti senza l’oste, forse era stato tutto un sogno – o incubo dipende da come la guardassi – eppure le immagini di noi in questo letto erano talmente vivide da farmi rabbrividire. Io sentivo ancora le sue mani su di me, così come il suo respiro, come poteva essere tutto uno scherzo? Non sentivo però il suono del suo ‘’ti amo’’ nelle mie orecchie,  forse perché quelle parole non le aveva mai dette.
Non riuscii ad arrendermi, non riuscii a capacitarmene e per la prima volta nella mia vita dubitai di mio padre. Avevo bisogno di vedere gli occhi di Aleksandr, e solo in quel momento avrei saputo cosa fare. Tutto però sembrò frantumarsi in me nel momento in cui un pensiero sfrecciò nella mente: mi fidavo davvero di Shùra? Quel pensiero sgradito mi lasciò tremante contro la porta chiusa, mentre provavo con tutte le mie forze a non cedere alle lacrime. Fallii su tutta la linea.
La mia bolla stava esplodendo, me ne accorsi tardi.
 

Aleksandr POV
 

Bloccato in un tunnel buio sentivo il rumore dei miei stessi passi come un eco che diveniva man mano più deciso e forte, mi guardai attorno non riuscendo a vedere nulla – neppure me stesso – mentre  continuavo a camminare senza curarmi di guardare oltre, attirato come una falena da quella luce che vedevo in lontananza. Delle ombre mi superarono, assottigliai lo sguardo cercando di metterle a fuoco, sembravano figure umane e pure familiari così allungai una mano provando ad afferrare la prima e quando mi sembrò di averla toccata ecco che la riconobbi: era mia madre.
Deglutii, la riconobbi  a causa del viso sfocato,  solo lei poteva avere dei contorni così poco delineati e questo perché io non ricordava più il suo viso. Non lo avevo mai ammesso, ma in quel frangente mi venne fin troppo semplice farlo. Io non la ricordavo più.
‶Mamma mi dispiace, sarei dovuto venire a salvarti, ma come potevo ..‶, la mia voce divenne quasi un lamento mentre la figura svaniva nel nulla lasciandomi da solo. Tornai a guardarmi attorno in maniera quasi furiosa, non volevo restare solo ed ecco altre due figure accostarsi di fianco a me e quelle le riconobbi molto bene: erano Misha e Sophia. Sorridevano tra loro e sembravano quasi non vedermi; mi limitai a restare immobile a guardarle mentre un persistente bruciore invadeva i miei occhi,  li stropicciai con forza ma non ne uscì nulla e il bruciore rimase. Le figure si allontanarono nonostante urlassi loro di restare, una delle due si girò guardandomi in maniera truce e delusa, mi zittii senza riuscire a dire altro. Lei non mi aveva mai fissato così.
Ero bloccato nel mio incubo personale e non sapevo come uscirne. Iniziai a correre poco prima che qualcosa mi sbarrasse la strada. La terza figura che mi comparve davanti era lui:  mio padre. Mi gettai ai suoi piedi singhiozzando, pregandolo – anzi supplicandolo –  quasi: ‶Indicami tu la giusta via, mi sono perso papà e non mi so più ritrovare‶. Mi accarezzò il capo senza dire nulla, indicandomi un punto non ben definito di quel lungo tunnel per poi sparire come aria:
«NON ANDARE, NON ANDARE»
Odiavo il buio, nonostante ci vivessi da anni e anni io lo detestavo. Era come se quel tunnel fosse stato forgiato per privarmi di ogni cosa, nulla era come prima lì dentro. Tutte le persone che amavano mi abbandonavano.
 
‘’Perché tu hai abbandonato noi.’’
 
Sentivo le loro voci sussurrarmi questa frase incessantemente. Avrei voluto dire loro che no, non l’avevo mai fatto. Ma come potevo? Come potevo spiegar loro il tipo di scelta che sentivo di avere intrapreso quando Sergej aveva ferito il mio corpo?
Improvvisamente il buio iniziò a non spaventarmi più, anzi era come se ne sentissi il richiamo, il bisogno di nascondermi tra le ombre e nascondere soprattutto ciò che non avrei potuto mostrare ad anima viva. In ginocchio mi asciugai le lacrime per poi alzarmi, fissando la luce in lontananza.

– Che cosa c’è in fondo al tunnel? Una luce, dei fuochi d’artificio o al contrario una rotonda che ci fa tornare indietro?
– E allora spegni la luce in fondo al tunnel, altrimenti mi troveranno.
 
 

Mikhail POV

 
«Dov’è Shùra?». La vidi sobbalzare con la chiave ancora tra le mani, mi guardò come sempre come se avesse di fronte un bambino discolo e impertinente.
«Cosa ti fa pensare io lo sappia?». Mise la mano sul fianco, non mi sarei fatto prendere per il culo.
«Quando perdiamo le tracce di qualcuno è sempre a te che è meglio chiedere, è triste non trovi?». Le sorrisi senza gioia poggiandomi alla porta ancora chiusa. Abbassò lo sguardo e infine mi parlò.
«Chiedilo direttamente a lui ..quando tornerà». Ci fissammo, io con astio e lei con un sentimento che non riuscivo a determinare. Stava succedendo qualcosa, era così e io non sembravo in grado di porvi rimedio. Il mio cellulare squillò, e dalla mia espressione stupefatta suppongo fosse stato semplice intuire il mittente: Sergej.
 
– Tu che chiami me?
– Io che chiamo te, pensa ai casi assurdi della vita Misha.
– Shùra non risponde nemmeno alle tue chiamate?
– Oh no, alle mie lui risponderà sempre Misha. Volevo parlare con te.
– Di cosa? E dove sta Shùra.
– Le due cose sono strettamente correlate.
– Ovvero?
– Ovvero prenditi l’incarico dei traffici e dell’agenzia per qualche giorno, Shùra è impegnato a causa mia. Puoi farlo senza mandare in malora tutto?
– Che impegno?
– Non sei autorizzato a sapere ogni cosa Mikhail, inizia a capire qual è il tuo posto
.
 
Qual’era il mio posto? Era una domanda che in effetti mi ponevo spesso e mentre fissavo il cellulare adesso muto iniziai a pormela in maniera ben più pressante. Lo posai tornando a guardare Nadja che non mise su alcuna espressione, cosa che mi insospettì più del dovuto.
«Io so che sta succedendo qualcosa, Nadja. E quando scoprirò tutto la pagherai anche tu». Le sorrisi dandole le spalle pronto per andar via.
«Le uniche parole che Shùra mi ha rivolto quando l’ho visto sono state: tieni fuori Misha da questo affare». Aggrottai la fronte tornando a fissarla, mi stava mentendo? A giudicare dal suo viso mortificato e ansioso sembrava di no. Non mi restava altro che attendere seduto e obbediente. Se era stato Shùra a dirlo allora lo avrei fatto. Ma se quella fosse stata una menzogna .. l’avrebbero pagata tutti.
 

 

Aleksandr POV

 
Sbarrai gli occhi improvvisamente, ero sudato e ansante come se invece di star steso avessi corso una specie di maratona infinita. Provai ad alzarmi ma il dolore lancinante me lo impedì, mi girò la testa e ricaddi sui cuscini. Respirai profondamente iniziando a guardarmi intorno, a giudicare dall’arredamento era un motel, piuttosto scadente anche. Provai ad alzarmi di nuovo, ero nudo a parte i boxer. Sicuramente avrei preferito esserlo per una nottata focosa, ma il dolore in tutto il corpo non lasciava spazio a molti dubbi.
Cautamente mi sollevai ignorando i continui giramenti di testa, aggrappandomi ai mobili e al muro riuscii ad arrivare di fronte uno specchio. La barba ispida copriva appena il livido sulla mascella, mentre era ben visibile quello all’occhio e al labbro completamente spaccato. Mandai giù la saliva scendendo verso il fianco, mentre le immagini di Nadja al capannone mi giungevano adesso alla mente come proiettili.
«Due giorni come un morto, pensavo ti avessimo perso. Ho fatto il possibile, e tu dovresti essere a letto». Incontrai la sua figura attraverso il riflesso non prima di aver controllato la grossa benda macchiata di sangue sul fianco.
«Vorrei sentire la mia cartella clinica, dottoressa». Le sorrisi tirato e la vidi osservarmi dubbiosa: sapevo il perché. Bastava guardarmi per capirlo. Strinse le labbra muovendosi verso la sedia nella quale si accomodò, mentre io a passo strascicato tornai verso il letto.
«La ferita sulla spalla era profonda, così come quella al polso. Ha rischiato di recidere di netto i tendini, è una fortuna che non sia successo o avresti potuto scordare l’uso della pistola». La fissai senza scompormi.
«Sono ambidestro, vai avanti». La vidi sbuffare scocciata, non sentii il bisogno di sorridere.
«Il tatuaggio è quasi intatto se questo è ciò che realmente ti importa. Ho provato a suturare al meglio delle mie capacità, ma non posso far miracoli Shùra». Annuii afferrando il bicchiere d’acqua sul comodino, lo fissai senza berne una singola goccia.
«Misha non sa nulla vero?». La vidi trasalire, evidentemente non ero il primo a chiederglielo. Si coprì il viso stancamente.
«No, Sergej me lo ha proibito e tu non sei stato da meno se ricordi. Ma dovrai farlo, guardati.. Pensi di stare rintanato qui per un mese?». Mi indicò come se fossi cieco. Lei non lo sapeva ancora ma quei due giorni di tunnel oscuro mi avevano permesso di vederci come mai nella mia vita.
«Un mese? Non è nei miei piani, anzi ho parecchia fretta .. vedi di darmi il tuo consenso entro sette giorni o tornerò per conto mio». Le sorrisi e la vidi spianare la fronte. Il suo turbamento aumentò mentre osservava il mio sorriso maligno delinearsi e deturpare il mio viso già ferito.
 

There must be a few times in life when you stand at a precipice of a decision. When you know there will forever be a Before and an After...I knew there would be no turning back if I designated this moment as my own Prime Meridian from which everything else would be measured.

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Capitolo 12
*** Faith ***


  

ACT XII

 

Continuavo a star seduto di fronte lo specchio fissandomi ossessivamente, cambiando l’espressione nei miei occhi a seconda delle immagini che scorrevano nella mia mente. Cinque giorni erano ormai passati da quando mi ero risvegliato in quel motel, non avevo cercato Misha né lui era riuscito a mettersi in contatto con me. Nadja mi aveva informato della chiamata di Sergej e degli ordini da esso dati per compensare la mia assenza. La principessa dei ghiacci entrò in quel momento, la stanza si riempì del suo profumo. Non era quello giusto.
«Stai consultando lo specchio per sapere se sei ancora il più bello del reame?». Il tono canzonatorio non sortì alcun effetto in me che restai seduto nella medesima posizione.
«Sei venuta a cambiare le bende?». Al suo cenno affermativo mi alzai con fatica dalla sedia piazzandomi sul letto. Le sue mani iniziarono a controllarmi, io osservavo la sua espressione decifrando qualsiasi pensiero non espresso a parole.
«I punti sono ancora freschi, devi fare il minimo indispensabile quindi piantala di alzarti dal letto quando pare e piace a te». Mi rimbrottò con occhi severi e io sorrisi per la prima volta. Indossai nuovamente la maglia sistemando i cuscini dietro la mia schiena, odiavo star disteso mi sentivo ancor più inutile di quanto già non fossi di mio in quel preciso momento.
«Hai visto Misha e ..» il nome di Sophia non uscì dalla mia bocca, ogni volta che ci provavo il magone ostruiva la mia gola, puntuale come un orologio svizzero. Avrei dovuto risolvere anche quel problema prima di fare la mia ricomparsa.
«Entrambi lavorano tutto il giorno va tutto bene, ma Misha non mi parla da giorni perché non gli ho detto dove stai». Fece un sorriso tirato e per la prima volta la commiserai. Chiusi gli occhi respirando profondamente.
«Lo chiamerò appena andrai via, vedrò di rassicurarlo». La sedia scricchiolò appena, la fissai inarcando un sopracciglio.
«Perché sei ridotto in questo stato?». Mi piantò gli occhi addosso sfacciatamente, quindi neppure lei sapeva.
«Perché? Perché mi hanno malmenato mi sembra chiaro». Le sorrisi affabile, non gradì la battuta vista la smorfia che mise su.
«Vorrei solo capire cosa potrebbe mai aver fatto Aleksandr Belov al Vor per farsi ridurre in questo stato. Gli ho visto tessere le tue lodi per anni, eri intoccabile». La indicai col dito sorridendo mestamente.
« ‘’Ero’’, ottimo uso del verbo dottoressa. Le cose cambiano, sono stato un bambino cattivo. Ho toccato uno dei suoi oggetti preziosi, e questo non gli è andato giù». La vidi irrigidirsi, non ci volle molto a capire di quale ‘’oggetto’’ parlassimo. Probabilmente era una vita che vedeva me e Misha andar dietro a Sophia come fosse la madonna in terra. Sospirò scuotendo il capo.
«Cosa potrà mai avere Sophia rispetto ad altre donne? E’ una bambina nel corpo di un adulta. E’ stupida, capricciosa e soprattutto egoista». La fissai truce per un istante e alla fine scoppiai a ridere.
«Nadja ..Naden’ka, non sei quindi immune alla gelosia? Dovrai convivere col fatto che Misha l’ha amata a modo suo per anni, fallo o diverrai come le donnicciole che tanto detesti». Non rispose, a che pro? L’avevo appena spenta su tutta la linea. Qualcuno bussò alla porta, ci voltammo simultaneamente con i medesimi occhi guardinghi.
«Chi è?». Feci cenno a Nadja di tacere mentre la voce di Anastasia mi faceva sospirare di sollievo o quasi. Mi alzai fermando la bionda tutta curve già pronta ad aprire, indicandole un angolo della stanza. Non potevo fidarmi di nessuno, neppure di Anastasia. Aprii uno spiraglio di porta incontrando gli occhi della donna attraverso le lenti dei suoi occhiali, provò a mettere un piede dentro ma le piantai la mano sulla fronte impedendole l’ingresso.
«Dove corri Anastasia, non puoi entrare qui dentro». Provò a far forza e io sentii i punti tirare, ma non cedetti.
«Capo ..ti ho cercato dappertutto hai idea di quanto fossi preoccupata?». Probabilmente lo era davvero.
«Come mi hai trovato?». Continuai a tenerla ferma nonostante forzasse il suo ingresso, sembrava un toro pronto ad incornare.
«Mi sembra logico ho rintracciato il gps del tuo cellulare, essendo spento mi ci sono voluti parecchi giorni». Il suo tono saccente, pure se affannato dallo sforzo, mi lasciò sbigottito.
«Chi cazzo sei la CIA?». Fece forza nuovamente e stavolta riuscì ad entrare, mi pressai il fianco imprecando silenziosamente. Nadja la squadrò avvicinandosi.
«E lei che ci fa qui?». Ci indicò come se avesse di fronte Satana e Gesù Bambino nella stessa stanza, non mi era chiaro se mi considerasse una specie di stupratore o cosa.
«Non ha importanza, dimmi cosa volevi e poi va via». Iniziai a spazientirmi.
«Si tratta di Mikhail. Capo ha preso il tuo posto e penso tu lo sappia, il punto è che ci manderà in bancarotta. Due finanziatori hanno appena ritirato i loro soldi, dicono di non volerci aiutare e questo dopo aver parlato con lui in ufficio. Ti dico solo che le parole più usate erano ‘’fottiti e culo’’ ..» fissai Nadja e lei chinò lo sguardo.
«Andava tutto bene vero? Uscite da qui. Entrambe». Gli ringhiai contro sbattendole fuori. Se ne andarono in silenzio e io afferrai il cellulare che riaccesi dopo una settimana di sparizione assoluta, ignorai i messaggi che continuavano ad arrivare componendo velocemente un numero.

– Qui è il presidente Volkov.
– Presidente dei coglioni, al massimo.
– Ma tu guarda chi si degna di chiamarmi.
– Spero tu sia pronto al mio ritorno Misha.
– Ovvio, dopo il lavoro andrò a comprare coriandoli e fuochi d’artificio.
– Fai bene, perché li scoppierò dopo aver ballato sul tuo cadavere.
– Ho come l’impressione di aver commesso qualcosa, ma cosa?
– Giuro che ti ammazzo Misha.
– Mi sei mancato fratello. Ehy non odiarmi, il lavoro era l’unica cosa che ti avrebbe fatto tornare.

Mi chiuse in faccia il telefono e io fissai sgomento lo schermo nero. Voleva mandarmi in bancarotta solo per vedermi riapparire? Purtroppo in vent’anni gli avevo insegnato di tutto, tranne che a comportarsi come ogni essere umano. Andava oltre le mie capacità. Steso sul letto fissavo il soffitto senza pensare a nulla, lasciando solo che immagini sconnesse scivolassero sul bianco immacolato di una tela improvvisata. Il mio rientro era ormai imminente, non potevo più posticiparlo né tantomeno lo volevo.

 

Mikhail POV

«Perché mi hai chiesto di vederci?». Accolsi così Nadja appena entrata nel mio appartamento. Avevo lasciato Sophì dormiente approfittandone e sgusciando fuori da quella casa che puzzava di depressione. Non mi parlava da giorni, non mi diceva che cazzo le avesse detto il padre. Niente di niente. Mi sentivo il protagonista di una sorta di gioco sadico: facciamo impazzire Misha.
«Se ti dicessi che voglio scopare, che risponderesti?». Mi sorrise furba, sapeva toccare i tasti giusti.
«Ti direi che mi sto già spogliando». Allargai le braccia passandole poi un calice di vino.
«Aleksandr tornerà tra pochi giorni». Affilai lo sguardo sedendomi su uno sgabello, bevendo lentamente senza staccarle gli occhi di dosso.
«Lo so, mi ha chiamato oggi». La vidi annuire e avvicinarsi, le nostre labbra si accarezzarono mentre le mie mani prendevano possesso dei suoi fianchi. C’era una sorta di disperazione e stanchezza nei suoi gesti mentre mi cingeva il collo avvicinandosi sempre di più; sembrava voler finalmente colmare le nostre distanze, la sentivo spaventata ma non riuscivo a capire da cosa.
«Ho speso la mia intera vita giurando lealtà a Sergej, mi sono resa conto troppo tardi che non ne valeva la pena». La sua voce era poco più che un sussurro mentre esponeva con parole chiare ciò che io pensavo da una vita. Non gli ero mai stato fedele, per me era solo un sacco di merda al pari di mio padre, ma a differenza dell’ultimo lui riusciva a cospargersi e ungersi di finta benevolenza. Mi dava il vomito. La cosa che più mi mandava ai matti era la consapevolezza che Shùra la pensasse come me, quindi perché non mi aveva mai assecondato? Per salvarmi la vita? Me ne fottevo della mia vita, non valeva comunque la pena viverla in queste condizioni. Eppure mentre spogliavo Nadja, mentre le sue dita si posavano sulla mia pelle dandomi piacere, il seme del dubbio si insinuò in me: forse un po’ iniziava a valerne la pena?

***

«Sgorbio portami il caffè in ufficio». Sorrisi ad Anastasia che mi fissò con una smorfia, mi odiava e non lo nascondeva neppure. Avrei dovuto usare un po’ dello charme che Shùra sfoggiava, restava un solo problema per mettere in atto quel piano .. che cazzo era lo charme?
«Amaro e bollente». Tirò su gli occhiali da vista porgendomi la tazza fumante, era seriamente un computer umano quella donna. Memorizzava dati, abitudini e tutto in pochi istanti, iniziavo e capire il perché Shùra la considerasse vitale e non l’avesse rimpiazzata con una bella figa.
«Ho appuntamenti per oggi?». Le sorrisi poggiandomi alla poltrona, avevo visto tutti i film del caso per dire le cose giuste e atteggiarmi a ‘’presidente’’ ma da come mi guardava lo sgorbio non sembravo riuscirci.
«Ieri ho visto Aleksandr, tornerà presto quindi facciamo che per i restanti giorni fingi di lavorare e resti chiuso qui giocando coi lego?». All’accenno su Shùra la mia schiena si raddrizzò. Lo aveva visto? Era qui?
«Dove cazzo è, se non vuoi che ti sfregi ancora di più quel viso da sgorbio .. ti conviene parlare». Mi sorrise furbamente, per la prima volta aveva il coltello dalla parte del manico. Questo ratto ignobile mi stava sempre più sui coglioni.
«Era in un motel.. – mi voltò le spalle allontanandosi, aprendo la porta per poi voltarsi – con Nadja». L’uscio si richiuse mentre aveva appena mosso uno scacco matto che mai più avrei dimenticato. Mi appuntai mentalmente: mai beffeggiare le sgorbie frigide, prima o poi ti avrebbero ripagato a caro prezzo.

 

Aleksandr POV

Rientrare in quella casa non mi era mai sembrato così difficile. Seduto in cucina attendevo gli altri due residenti che sembravano voler tardare come per farmela pagare, loro avevano atteso me per nove giorni e io adesso avrei dovuto attendere loro. Fissavo la punta delle mie scarpe in maniera ossessiva mentre il suono della chiave annunciava l’arrivo di coloro che attendevo.
«Sophì ti hanno truffata come cazzo devo dirtelo? Questo vaso non è in cristallo, è vetro di merda». Le loro voci concitate non erano cambiate di una virgola, sorrisi mio malgrado prima di sollevare lo sguardo su di loro. Il suono del vaso frantumato a terra seguì un singhiozzo di Sophia che si tappò immediatamente le labbra fissandomi inorridita. In effetti non potevo biasimarla, ero andato via integro e tornavo reduce da un incontro clandestino di lotta libera. Misha mi fissò senza sapere cosa dire, muovendo qualche passo dentro la stanza adesso troppo angusta.
«Shùra..» la sua voce cristallina era come sale nelle mie ferite. La guardai con freddezza per poi sorriderle.
«Non è nulla, solo una lite finita male». Scrollai le spalle versandomi del vino, lo bevvi avidamente deviando gli occhi di Misha che continuavano a scrutarmi. Lui sapeva che non c’era stata nessuna lite, ma non lo disse limitandosi a sedersi e ingozzarsi di blinciki. A quanto pare Sophia non aveva fatto altro in mia assenza.
«Hai idea di quanto fossimo preoccupati? Perché non hai chiamato? Ho sentito papà giorni fa, era preoccupato anche lui..» mi venne da ridere e quindi bevvi per sopperire la voglia annuendo poi con una gravità che non provavo.
«L’ho avvisato poco prima di venire, stai tranquilla». Mi si piazzò davanti sedendosi accanto a me, le sue mani afferrarono la mia e io non mi ritrassi continuando a guardarla.
«Papà ha detto ..papà ha detto che devo sposare un ragazzo. Qualcuno che conoscerò al matrimonio di Kolia, Shùra .. tu devi..» le parole gli vennero meno al solo guardarmi. Misha sputò il blinciki dandosi pacche sul petto, era evidente non lo sapesse fino a quel momento.
«Sposare chi? Cosa? Che cazzo state dicendo». Alzò il tono della voce e io mollai le mani di Sophia.Vidi i suoi occhi feriti piantarmi domande silenziose simili a coltelli, facevano più male delle percosse ricevute.
«Sono già stato informato anche di questo. Andrai a conoscerlo, non sposerai nessuno che tu non voglia Sophia..» Si alzò così repentinamente da rovesciare la sedia, vidi Misha fissarmi sgomento.
«Andrò a conoscerlo? Ma di che diavolo parli? Noi..» si bloccò fissando disperata Misha come se si aspettasse un aiuto da lui.
«Non esiste nessun noi per il momento, andremo tutti al matrimonio e tutti faremo la nostra cazzo di parte. Fine della storia». Mi voltai chiudendomi nella mia camera, alle mie orecchie mi giunse attutito il pianto di Sophia seguito dai cocci di vetro che venivano raccolti. Io stavo raccogliendo i miei, ma metterli insieme si stava rivelando più ardua del previsto.


Sophia smise di parlarmi, mi evitava come la peste nonostante la beccassi spesso a fissarmi come se non mi riconoscesse. Ero consapevole di ciò che vedeva, ma quella era l’unica soluzione se volevo mantenermi ancora in vita e far qualcosa di concreto per me stesso e soprattutto per lei.
«Parliamo». Misha entrò nel mio ufficio a passo di furia, si sedette senza invito scrutandomi con quelle pozze ghiacciate.
«Di cosa?». Continuai a firmare i documenti senza prestargli molta attenzione.
«Sei serio? Chi cazzo sei tu esattamente? Sono giorni che ti guardo senza riconoscerti.. voglio sapere cosa è successo in quei giorni». La sua voce era carica di tensione, poggiai la stilografica alzando gli occhi su di lui.
«Sergej ha scoperto di me e Sophia, quindi ..secondo te cosa può mai essere successo Misha?». Centellinai con cura quelle parole, snocciolandole col mio solito modo di fare calmo e pacato. Lo vidi pressarsi la fronte sbuffando.
«Perfetto. Quindi? Vuoi fermarti? Finisce così? MI SONO FATTO DA PARTE PER TE LURIDO BASTARDO, E TU VUOI MOLLARE TUTTO PER ESSERE IL CANE DI QUEL VERME?». Mi urlò quelle parole ad un centimetro dal viso, non mi scomposi limitandomi a sorridergli ambiguamente. Continuavo ancora a lasciarlo ai margini. Uscì dal mio ufficio sbattendo rabbiosamente la porta, pochi istanti dopo delle urla mi costrinsero a metter piede nel corridoio. Lo vidi sbattere al muro un nostro dipendente che tremava come una foglia cercando di rabbonirlo. Gli andai addosso, le mie dita si chiusero sulla sua giacca mentre lo scrollavo con veemenza.
«Quale cazzo di problemi hai?». Il malcapitato fuggì velocemente approfittando della mia comparsa. Le mie urla rimbombarono lungo il corridoio.
«Sei tu che dovresti dirmi quale cazzo di problema hai, Aleksandr». Mi spinse lontano da se, imprecai di dolore ma tornai ad afferrarlo per la giacca spintonandolo contro il muro.
«Non metterti in mezzo, so cosa fare». Sillabai quelle parole ad un centimetro dal suo viso.
«Scoparti Nadja fa parte del piano?». La sorpresa per quelle parole mi fece mollare la presa, ne approfittò per spintonarmi e allontanarsi.
«E anche quando? Sarebbe solo una scopata tra tante. O vuoi dirmi che ti piace? Condividiamola al massimo, abbiamo condiviso Sophia per vent’anni». Allargai le braccia sorridendo sghembo, mi si avventò contro pronto a sferrarmi un cazzotto, ma si bloccò.
«Ho mollato la presa su Sophia perché pensavo tu fossi molto più degno di me..inizio a pentirmi di quella scelta». Mi mollò disgustato andando via in fretta, mentre io restavo fermo a fissare la sua schiena guardandolo con occhi colmi di dolore. Finalmente un po’ di pace, almeno finché non lo vidi sparire in ascensore tornando quello di poco prima.

 

Sophia POV

Per darci un futuro migliore, mischiammo le nostre vite col demonio.

– La prego, mancano solo pochi dollari! Le posso dare tutto quel che vuole. La mia fede in oro, la vuole? La vuole?
– Tutto quel che voglio?
– Tutto quel che vuole. Lei chieda e le sarà dato, ma ci dia quei biglietti per Mosca.
– Non voglio niente in cambio. Dovrà solamente portare questa valigia e portarla all’ambasciata russa.
– Tutto qui? Non vuole altro?
– Tutto qui. E buon viaggio! Mi raccomando, la valigia.

Le ultime parole di mio marito, mentre tenevo in braccio la nostra piccola Sophia, prima di cadere a terra privo di vita, furono: ‘’Marina, andrà tutto bene’’.

Arrivammo a Mosca a stento, tutto grazie a quella misteriosa valigia nera che neanche ci apparteneva. Per un mese dormimmo nelle strade, sotto gli sguardi critici dei passanti russi che ci fissavano con superiorità. Era la prima volta che vedevo degli occhi blu così chiari e freddi nonostante le similitudini; così diversi da noi, strani, alieni. Sudici della nostra miseria decidemmo di partire con quella ventiquattrore decisi più che mai a trovare l’ambasciata, punto di riferimento e nostra unica speranza. Nessuno ci aiutò, nessuno provò a comprendere il russo povero di contenuti di due giovani di campagna che puzzavano di concime e paglia. Eravamo soli, noi.

Perdemmo il conto dei giorni. Ricordavo solamente d’aver assistito a sette albe e sette tramonti, poi cominciai a non badare più allo scorrere del tempo. Girammo in lungo in largo, a destra e manca senza farci scappare neanche il più piccolo ed insignificante indizio che potesse tornarci utile. Poi, quando il sole sorse per l’ennesima volta, riuscimmo ad intravedere dall’altra parte di una stradina, chissà dove, abbastanza visibile una bandiera. Mi fermai e mi fissai in giro, sospettosa.

– Non mi piace.
– Andiamo, stiamo girando da giorni. Ora che ci siamo perché devi rovinare tutto?
– Non andare.
– Marina, fidati di me. Andrà tutto bene. Aspettami qui, io torno subito.

Entrò e sparì dietro la porta, inghiottito da quell’edificio che di rassicurante aveva poco e nulla. Io, invece, mi cinsi il ventre ed aspettai dieci, quindici, venti, trenta minuti. Continuavo ad aspettarlo nel silenzio più totale poi mi decisi a muovere un primo passo per attraversare la strada che ci divideva, ormai impaziente e preoccupata.

Un passo,

un altro passo,

un altro passo ancora.

Uno sparo,

due,

tre,

cinque.

Urla poi il silenzio più totale. Qualcuno uscì di lì, giacca e cravatta, facendo finta di nulla. Tra loro c’era un uomo che per il suo portamento e l’aria autoritaria ed impassibile si distingueva da tutti gli altri. Lo guardai per una frazione di secondo, ancora inconsapevole. Non lasciai neanche per un secondo la vestaglia (quella che mi regalò mia nonna per affrontare le notti gelate) con la quale riparavo mi figlia di soli otto mesi dal freddo.
Ero sulla soglia della porta, con mezzo piede all’inferno. Mi bastò guardare quel paesaggio apocalittico per smettere di respirare e squarciare quel silenzio irreale e rumoroso.

«Возьмите ( prendetela )».

 

Cosa stava succedendo? Cosa stava succedendo a quella vita che pensavo di aver costruito su solidi affetti e verità indissolubili? Gli occhi di Shùra continuavano a tormentarmi da quella notte, non erano gli stessi era come se un velo vi fosse calato impedendomi di vedere. Di razionalizzare. Di capire quale fosse la strada più giusta da intraprendere. Nonostante la mia mente mi orientasse sull’epilogo più doloroso, il cuore sembrava rifiutarsi di seguirla. Non potevo credere fosse stata tutta una bugia, non potevo credere mi stesse semplicemente gettando via, e ogni volta che provavo a chiederglielo la voce non usciva, non riuscivo a guardarlo quando lo faceva lui, e continuavo a capo chino vivendo dei giorni di intima solitudine. Chi ero? Iniziavo a non saperlo più. Ero sempre stata sicura di me stessa, sicura della gente che mi amava e proteggeva da una vita, perdere loro equivaleva a perdere me stessa, non riuscivo a respirare a quel pensiero. Mi alzai uscendo dalla camera nella quale stavo rintanata, vidi Shùra seduto sul divano in silenzio a braccia incrociate, era come se mi aspettasse.
«Non sei andato a lavoro?». Non mi fissò, voleva forse ripagarmi con la stessa moneta?
«Sono tornato prima, volevo stare con te senza nessuno attorno». Il mio cuore perse un battito, mentre la mia mente si riempiva di confusione. Presi posto nell’angolo più lontano del divano portando le ginocchia al petto che cinsi con le braccia.
«Quindi vuoi ancora stare con me?». La mio voce uscì spezzata, non la riconobbi. Ma riconobbi per un istante i suoi occhi nel momento in cui si posarono su di me.
«Devi fidarti di me. Devi fidarti anche quando tutto appare senza speranza». Mi stava confondendo di proposito? Voleva tenermi buona dopo avermi mollato? Il mio cuore ancora una volta non ascoltò la mente e mi ritrovai a piangere in silenzio.
«Come puoi chiedermi questo.. non voglio sposare nessuno. Io voglio stare con te». Mi sentivo così patetica mentre asciugavo le mie lacrime rifiutandomi di guardarlo.
«Non sposerai nessuno che tu non voglia, Sophia». Era così sicuro di se, pure quando le mie speranze naufragavano.
«Non voglio parlare di altri. Voglio parlare di noi..  mio padre ha detto che ti sei fatto una gran bella risata parlando di tutti i castelli in aria che mi sono fatta su di noi. E’ così? Mi devi guardare e devi dirmi se è così». Lo afferrai per la maglia, le mie dita si strinsero sul tessuto convulsamente mentre provavo a scrutare quei pozzi neri e all’apparenza vuoti.
«Tu che dici? Ho detto sul serio quelle cose?». Ancora domande e nessuna risposta.
«Cosa vuoi esattamente? Vuoi che creda ciecamente? Vuoi che creda nonostante tutto mi porti a lasciar perdere? Nonostante tu mi porti a lasciar perdere». Avvicinò il viso lasciando unire le nostre fronti, chiuse gli occhi e io persi il mio baricentro. Da chi potevo avere la verità che tanto cercavo? Era sul serio così semplice? Dovevo sul serio seguire le mie emozioni e non dubitare ancora?
«Giobbe ha creduto, anche quando Dio gli ha tolto ogni cosa». Mormorò quelle parole respirando profondamente, lo faceva sempre quando voleva sentire il mio odore. Baciai le sue labbra ferite che si mischiarono alle mie lacrime, ero sicura bruciasse in quel momento ma non si scostò. Restammo avvinghiati nel  buio della notte finché la mattina persi ancora le tracce di lui, e con esse anche la mia fede. Volevo che qualcuno mi insegnasse ad averla. Iniziai a guardarlo con occhi diversi, iniziai a fissare i suoi tatuaggi che per anni mi erano sembrati solo scarabocchi di un’anima egocentrica. Iniziai a fissare le cicatrici sul suo corpo, erano sul serio semplici cadute senza importanza?

 

Mikhail POV

La casa in penombra accolse il ticchettio dei suoi tacchi, non mi notò finché non accesi la lampada sul comodino. La vidi sobbalzare fissandomi in tralice.
«Ti sei deciso a venire finalmente?». Mi si avvicinò e io non mi spostai lasciando che le sue dita carezzassero le mie guance.
«Ho avuto del lavoro da fare». Eri in un motel con Aleksandr? Hai scopato con lui? Volevo porle quelle domande, ma il mio orgoglio me lo impediva. Stava crollando tutto a pezzi e io sembravo l’unico a rendersene conto. Sophia era chiusa nella sua personale bolla di dolore, Nadja mi mentiva, e Shùra.. quando ancora non sapevo che fine avesse fatto mi auguravo solo tornasse vivo e vegeto. Ma quando i miei occhi avevano incontrato i suoi in cucina mi ero trovato di fronte un morto. Non riuscivo a riconoscerlo, per quanto mi sforzassi non riuscivo più a penetrare quella corazza che forgiava da una vita, quella corazza invalicabile per tutti tranne che per me. Tramava qualcosa, ma cosa?
«Ho saputo che hai di nuovo litigato con Aleksandr, Misha è ancora ferito ti prenderai tu la responsabilità se gli salteranno i punti?». Fracassai il mio bicchiere contro il muro e la vidi impallidire sgomenta. Le afferrai il polso strattonandola finché la punta del suo naso non toccò la mia.
«Da quanto ti preoccupi così tanto?». Le sorrisi ma il mio sorriso non arrivò agli occhi che restarono freddi e taglienti.
«Prima di essere la tua donna, sono un medico». Provò a divincolarsi ma non glielo permisi.
«Ho una domanda, anzi due. Hai scopato con lui?». Mi fissò come se fossi impazzito ma fu solo un secondo.
«Esci fuori da casa mia». Strattonò con forza il braccio allontanandosi da me, fissandomi inviperita. Suppongo avessi adesso la risposta alle mie domande. Non era stata lei a darmele, ma Shùra e come sempre me ne resi conto tardi. Lasciai il suo appartamento senza dire più nulla. Alla fine non le avevo neppure posto l’altra domanda.


Lo trovai a fumare sui gradini del palazzo, non sapevo se aspettasse me o fosse solo una casualità.
«Che ci fai qui?». Mi guardò brevemente tornando a fissare la strada di fronte a se, scrollando le spalle.
«Provo a stare in pace per qualche minuto». Non sapevo bene cosa avesse voluto dire, ma supponevo che la situazione con Sophia non fosse delle più idilliache.
«Perché mi hai fatto credere di aver scopato con Nadja». Sorrise e per un secondo rividi Shùra.
«Io non ti ho fatto credere nulla, sei tu ad aver creduto ciò che volevi Misha. Ti ho chiesto solo se potevamo dividerla.. ti costava tanto rispondere che stavolta la volevi tutta per te? Che era quella giusta in questo preciso momento della tua vita?». Quindi andava così, il bastardo machiavellico ordiva trappole e io continuavo a caderci come un coglione? Fantastico.
«Non puoi dire le cose come la gente normale? Gradirei non sentirmi sempre in un fottuto gioco mentale in tua presenza». La nube di fumo che uscì dalla sua bocca mi oscurò per un istante la figura seduta, mi sembrò di vederlo piangere ma quando sbattei le palpebre lui stava ancora lì, fermo e con gli occhi aridi. Mi sentivo a disagio.
«Vai a dormire Misha, tra poche settimane andremo a Mosca per il matrimonio. Inizierà un periodo duro per tutti..». Che cazzo voleva dire adesso? Dio santo perché mi era toccato vivere con Saw l’enigmista?
«C’è qualcosa che non mi stai dicendo?». Domanda banale lo ammetto, ma appropriata alla mia confusione.
«Ci sono tante cose che non ti sto dicendo, ed è inutile tu le chieda..». Gettò la cicca alzandosi e allontanandosi lungo la via, lasciandomi solo come uno stronzo. Come lo stronzo che ero da una vita probabilmente.
«POTEVI DIRMI PRIMA DI NON AVER SCOPATO CON LEI, BASTARDO INFAME.  PER COLPA TUA MI HA MOLLATO».  La colpa non era sua, e lo sapevamo entrambi. Sollevò il braccio sventolandolo a mo di saluto, mi sembrò quasi la sua figura divenisse evanescente.

 

Aleksandr POV

I problemi chiamavano problemi, era come un effetto domino difficile da fermare. Per la prima volta nella mia vita stavo pensando seriamente a come vedere affondare una nave ben collaudata, salvando una singola scialuppa prima che il resto dell’equipaggio si accorgesse della falla. Tutti erano ignari dei meccanismi ormai avviati nella mia mente, le percosse al capannone non avevano fatto altro che smuovere ciò che a lungo era rimasto sopito nel mio animo. Aleksandr Belov aveva scelto la sua vita una notte d’inverno a San Pietroburgo, e da quella vita ne uscivi solo da morto.  Lo sapevo bene e non mi sarei tirato indietro, bisognava attendere solo il momento giusto per tirare le fantomatiche cuoia.
«Chiamatemi Misha immediatamente». Mentre attendevo il momento propizio cercavo di risolvere i casini che ormai sembravano messi lì per ricordarmi bene chi mi fosse accanto. Lo vidi entrare con occhi carichi di sfida.
«Mi hai di nuovo prosciugato il conto, assurdo». Il suo modo di trovare la ragione ovunque non ci fosse era disarmante.
«Secondo me e Sergej l’unico modo di inculcarti giudizio è questo, toglierti il denaro piccolo bastardo avido». Gli sorrisi.
«Non ti stanchi mai di fargli da cagnolino?». Mi provocò avvicinandosi appena.
«Se denigrarmi ti fa star meglio continua pure». Scrollai le spalle con espressione vuota.
«Ti costa così tanto prendere le mie difese almeno una volta?». I miei occhi si affilarono.
«Le prendo sempre quando c'è da prenderle, se mi ammazzi un poliziotto non posso sicuramente farti applauso e balletto. Dovevi solo osservare e supervisionare .. hai ucciso un poliziotto. UN FOTTUTO POLIZIOTTO». La mia mano si schiantò contro la scrivania. Lo vidi irrigidirsi, non avrebbe comunque ammesso i suoi errori.
«Ha gironzolato nel posto sbagliato al momento sbagliato, devo proteggere gli affari». Tornò di nuovo sulla difensiva.
«Bisogna proteggerli usando anche il cervello, non solo le cazzo di armi Misha. Sapere maneggiare un’arma non fa di te un Dio .. quanto te ne renderai conto? Quando avremo entrambi metri di terra addosso?». Lo fissai ansante, ero stanco.
«Magari da morti un po’ di pace l’avremo». Non aveva detto qualcosa di completamente sbagliato, quello in fondo era il mio piano. Mi avrebbe seguito all’inferno?

*** 

«Sophia getta quel gelato, dobbiamo andare». Mi obbedì senza guardarmi, Misha si alzò superandomi in silenzio e io li seguii senza staccare gli occhi dalle loro schiene. Mosca ci stava aspettando. Sergej ci stava aspettando. Il misterioso uomo ci stava aspettando. Sorrisi; non sapevano che ero io ad attendere tutti loro nel varco immaginario che avevo creato.
Era passato un mese da quella fatidica notte, i punti si erano asciugati e i lividi andavano sbiadendo, ma le ferite nella mia anima continuavano a perdere materia infetta senza sosta.

 

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Capitolo 13
*** I feel like Job ***


   
 

ACT XIII

 
Mosca:


Nessuno di noi aveva parlato granché durante il volo, probabilmente condividevamo i medesimi pensieri posti semplicemente in modi e prospettive diverse. Misha fu il primo a scendere dalla berlina e prendere un taxi, ero sicuro fosse diretto da Nadja a quanto sembrava la bella bionda era arrivata col volo della notte e non sembrava propensa a perdonarlo. Per cosa era un mistero, anche se a giudicare dalla nostra ultima conversazione qualche idea me l’ero fatta. Non potevo comunque preoccuparmi molto della sua situazione sentimentale ed emotiva, non quando avevo di fronte Sergej che mi squadrava come a volermi entrar dentro e capire se ciò che vedesse in quel momento corrispondesse alla realtà.
«Siete arrivati finalmente?». Ci accolse con un sorriso bonario spalancando le braccia per poter finalmente coccolare la figlia che non vedeva da mesi. Sophia non se lo fece ripetere due volte, seppellì il viso contro il suo petto stringendolo forte. I nostri occhi si incrociarono e soppesarono, abbassai per primi i miei superandoli e dirigendomi nell’ala ovest che mi aveva visto crescere per vent’anni. Viktor adesso vecchio si alzò dalla sedia venendomi incontro con la schiena ricurva, i suoi settant’anni suonati sembravano pesargli dieci volte di più; probabilmente la consapevolezza dei propri sbagli col tempo diveniva un peso difficile da sopportare.
«Shùra, finalmente sei tornato. Dov’è Misha?». Mi accarezzò il viso con dita tremanti e finalmente sorrisi sinceramente.
«E’ andato a trovare una persona, sono sicuro che presto sarà qui ..non vede l’ora di vederti». Gli diedi un bacio sulla guancia prendendo la mia valigia e dirigendomi finalmente nella mia camera. Quando aprii la porta la prima cosa che vidi fu il letto dalle lenzuola candide, mi bloccai all’ingresso mentre una piccola Sophia di appena diciotto anni sfrecciava all’interno, superando il mio braccio teso per dirigersi verso un me stesso ventunenne stravaccato sul comodo materasso intento a leggere un fumetto.
 
 

«Andiamo al parco a fare la ruota?». Il letto cigolò muovendosi fastidiosamente mentre il suo corpo smilzo e adesso tondo in quasi tutti i punti giusti continuava a saltare eccitato.
«Sonech’ka.. non vedi che sto leggendo?». Mossi il libro che avevo tra le mani indicandoglielo in maniera ovvia.
«Oggi è il mio compleanno, sono appena divenuta maggiorenne..» ancora un broncio, uno dei tanti che metteva su e che puntualmente mi addolcivano.
«Allora dovresti avere desideri da adulta adesso, e invece continui a fare richieste da mocciosa». La presi in giro chiudendo il fumetto, girandomi a pancia in su per fissare il soffitto. La sua faccia fece capolino improvvisamente oscurandomi la visuale, i lunghi capelli scuri solleticarono le mie guance. Aveva un profumo così buono.
«Voglio il mio regalo, so che lo hai già comprato. Cos’è? Una collana? Un anello? Un’altra auto? Eh?». La sua voce eccitata mi fece ridere, allungai una mano piazzandogliela dritta in faccia tirandole il naso con forza finché il suo urlo non mi perforò un timpano.
«Avrai il tuo regalo prima della festa di stasera, promesso» la vidi massaggiarsi la punta arrossata del naso fissandomi malevola.
«Ti conviene sia perfetto e bellissimo, o la pagherai bastardino». Misha entrò in quel momento ruttando in maniera teatrale come suo solito. Sophia gli lanciò il cuscino e le nostre risate si mischiarono alle urla di Viktor che ci chiedeva di far silenzio.
 
Un altro bel ricordo.
 
«Che fai qui impalato?». Tirai su col naso sfregandomi gli occhi con forza, mi bruciavano come se avessi fissato il sole per ore intere. Misha stava poggiato contro il muro, l’aria scocciata e nervosa.
«Pensavo fossi andato a chiedere perdono in ginocchio a Nadja». Lo fissai con una punta di ironia e la sua smorfia valse più di mille risposte.
«Non ne avevo voglia, così sono tornato». Scoppiai a ridere.
«Non avevi il fegato cazzetto, ammazzi gente da anni e ti sciogli tremando per una donna». Lo vidi fissarmi astioso mentre gli sbattevo l’uscio in faccia. Suppongo pensasse fossi l’ultimo a poter parlare in quel preciso momento probabilmente..
Non lasciai la mia camera per tutto il pomeriggio, l’indomani avrebbe avuto luogo il matrimonio e francamente volevo godermi un po’ di respiro prima di affrontare gli occhi delusi della donna che amavo, e quelli del padre così perennemente attenti e pieni di cose che non volevo vedere. Non più.
 

Mikhail POV

 
Quell’infame aveva ragione, nonostante avessi preso un taxi diretto da Nadja lo avevo bloccato oltre i cancelli della villa per poi tornare indietro. Che cazzo avrei potuto dirle in fondo? Avevo toppato alla grande, mi ero fatto trascinare dalla mia solita gelosia insensata, avevo mostrato un’insicurezza che solitamente non mi permettevo di avere. O meglio solitamente riuscivo a nasconderla egregiamente. Chiamai Irina, parlammo per ore e la sua voce diveniva via via più spenta, le chiesi se ci fosse qualcosa che non andava ma la sua risposta negativa mi zittì. Francamente parlando da quando Shùra era scomparso  i miei brutti presentimenti non mi lasciavano vivere in pace, mi svegliavo nel cuore della notte fradicio di sudore e col respiro pesante come se qualcuno si fosse seduto sul mio petto comprimendolo a fissarmi in maniera ossessiva. E da quando era riapparso quel malessere sembrava addirittura peggiorato. Mi sedetti su una delle panche in pietra del maestoso giardino già addobbato per i festeggiamenti, il rumore di passi mi costrinse a voltare il capo e fissare una figura familiare.
«Perché ti nascondi qui?». Mi sorrise e io mi sciolsi, come sempre del resto. Sophì restava uno dei perni della mia vita, nessuno riusciva a farmi sentire amato e accettato come lei. A parte Shùra.
«Non mi nascondo, cercavo solo di star lontano dallo stress matrimoniale». La sua risata cristallina coinvolse anche la mia, le feci posto e si sedette accanto a me.
«Papà mi ha fatto confezionare un abito bellissimo, quasi più bello di quello dei miei diciotto anni». Era una smorfiosetta adorabile.
«Impossibile, quell’abito era il migliore in assoluto». Annuì soddisfatta delle mie parole, aveva parlato di quell’abito per i due anni successivi, non so se mi spiego.
«Esatto, l’unico idiota ad avermi preso in giro è stato..» la voce venne meno, probabilmente il suo nome se prima era una piacevole abitudine improvvisamente sembrava divenuto una condanna. Il silenzio calò tra di noi.
«Sophì, io penso Shùra ti ami. Non so quale tipo di problema mentale lui abbia al momento, visto che pensavo fossi io il pazzo della famiglia .. ma so per certo ch ti ama». Mi fissò con tenerezza accarezzandomi i capelli, anche quando ero io a consolare lei mi sentivo ugualmente un bambino che giocava a fare l’adulto.
«Misha, tu hai fede?». Aggrottai la fronte stringendo il cellulare tra le mani, da piccolo Shùra mi recitava spesso versetti di quel libro che ai miei occhi era più assurdo di qualsiasi storia fantascientifica mai scritta. Eppure annuii.
«Ho fede. Ho un tipo di fede di merda, ma credo di averla». La guardai e lei chinò il capo.
«Giobbe ebbe fede anche quando Dio gli tolse tutto». Recitò quelle parole e io capii da chi provenissero. Ogni volta che affrontavamo un momento ‘’no’’ da bambini, Shùra le ripeteva come una sorta di mantra. Mi sentii ancora più confuso, non capivo più quale fosse la giusta via da seguire. La voce di Kolia in lontananza ci interruppe.
«Vai da lui, io ho da fare». Le diedi un pizzicotto sulla guancia per poi alzarmi velocemente diretto ai cancelli. Piuttosto che la parabola su Giobbe, mi interessava più il ‘’Se Maometto non va alla montagna, sarà la montagna ad andare da Maometto’’. Le religioni erano tante, ma le lezioni ripetitive in fondo.
 
***
 
 I capelli sciolti e appena umidi di doccia, mi accolse con quel profumo familiare e gli occhi guardinghi. La superai entrando nella stanza lussuosa che Sergej le aveva prenotato.
«Sei ancora incazzata con me, ciarlatana?». La fissai sorridendo ambiguamente, ma lei non sembrava in vena di ridere e scherzare.
«Ti avevo detto di non farti vedere, hai serie difficoltà di comprensione». Incrociò le braccia al petto battendo il piede nudo contro la moquette in maniera nervosa.
«Non mi piacciono le questioni insolute». Allargai le braccia avvicinandomi, lei mi superò abilmente sedendosi sul divano. Avevo ampiamente capito l’antifona, si.
«Non c’è nessuna questione ‘’insoluta’’, ci sei tu e le tue accuse assurde nei miei confronti Misha». Era la prima volta che mi chiamava così.
«Vuoi biasimarmi? Ti ho rincorso per dieci fottuti giorni mentre tu ti divertivi a fare la misteriosa, e quando chiedo mi viene detto che la MIA donna è stata vista in un cazzo di motel con un altro uomo». Alzai appena il tono della voce avanzando verso di lei che si ritrasse nervosamente.
«L’altro uomo è Shùra, e come hai visto dal suo viso e dalle sue ferite il tempo per toccarmi le tette non lo ha avuto. E NON AVVICINARTI». La sua voce si inviperì, ormai avevo imparato a conoscerla un po’ e quando si schermiva aveva paura.
«Hai paura di me?». Non ci potevo credere. Restò in silenzio qualche istante che mi parve interminabile.
«Qui a Mosca conobbi un uomo, lavorava per Sergej.. intrecciammo una relazione che durò parecchi anni. Ho consumato la mia giovinezza con lui e con le sue percosse. Quando ti poni come la scorsa sera mi ricordi lui ..e mi dai la nausea». Se mi avesse schiaffeggiato probabilmente ci sarei rimasto meno di merda. Mi sentii un pezzente.
«Non ti toccherei neanche con un dito Nadja.. » era assurdo dovessi affrontare una conversazione simile. Okay, non ero uno stinco di santo, ma neppure nei miei momenti più feroci mi sarei mai sognato di picchiarla. Avevo sognato di sfregiare quello sgorbio di segretaria che aveva Shùra, ma non la catalogavo tra le donne quindi era irrilevante.
«Lui verrà ancora a cercarmi, me lo sento..» la sua voce divenne un sussurro appena udibile. Il mio viso una maschera impietrita.
«Ci sono io adesso, e tanto basta a chiudere questa discussione». Ci fissammo a lungo e in silenzio finché non la vidi avanzare verso di me. Non fu un abbraccio come gli altri, lei richiedeva – anzi no esigeva – protezione ..e amore. Qualcosa che per vent’anni ero sicuro di aver dato alla mia Sophì. Improvvisamente mi resi conto che più che darlo a lei, lo avevo cercato per me e per le mie insicurezze; e nonostante non fossi uno stratega delle relazioni mi bastò per capire quanto tempo avessi sprecato e quanto invece ne stessi guadagnando adesso.

 
 

Aleksandr POV

 
Il tanto atteso (da chi??) matrimonio era finalmente giunto, me ne stavo nascosto contro una delle grandi colonne in marmo dell’ingresso fissando ossessivamente le scalinate che conducevano all’ala principale della casa, laddove sapevo vi era la stanza di Sophia.
Avevo visto Sergej quella mattina, mi aveva affidato l’ennesimo incarico riponendo in me la sua cieca fiducia mentre io sorridevo ambiguamente e annuivo compiaciuto dal suo tono.
La vidi in quell’istante, aveva un abito bianco, stretto in vita e dalla gonna lunga che ne fasciava le curve armoniche. Le sue esili dita lo tenevano alzato scendendo con cautela i gradini e io venni nuovamente sbalzato ad un altro ricordo. Il più importante.
 
 
Indossava un abito rosa talmente pallido da risultare quasi trasparente, la consistenza vista in lontananza sembrava impalpabile come se accarezzassi le nuvole in cielo, e i piccoli diamanti che adornavano il corpetto aderente la rendevano scintillante. Assolutamente deliziosa. Assolutamente Sonech’ka.
‘’Shùra!’’ Mi salutò così dalle scale, io l’attendevo sul finale come suo cavaliere ufficiale alla festa. La sua festa, il giorno più importante – a suo dire – della sua intera vita: i diciotto anni.
«Come sto?». Fece un giro lasciando svolazzare la lunga gonna.
«Sembri un misto tra un lampadario e una bomboniera, sei raccapricciante». Annuii convinto scostandomi appena in tempo prima che la sua scarpina di seta non si schiantasse contro il mio stinco. Si morse il labbro nervosamente guardandomi truce.
«Avrai mai una parola buona per me? Ah .. lascia perdere, mi irriti, dammi solo il mio regalo su..» allungò la mano verso di me muovendo energicamente le dita. Le porsi un libro. Un libro di poesie smunto e consunto, dalla copertina sbiadita e le pagine ingiallite.
«Prenditene cura, è un libro importante per me». Le sorrisi ambiguamente mentre le consegnavo il libro di mia madre che al suo interno, rilegato con cura, conteneva ancora i famosi diecimila dollari intatti.
«Sei serio? Mi stai regalando un misero libro per il mio ..compleanno? Sei così avaro con tutti o riservi questo delizioso pregio solo per me?». Mi fissò risentita rigirandosi il libro vecchio tra le mani, risi a bassa voce prendendole la mano.
«Non lo sai? Non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina Sonech’ka: ‘’ Il nostro tempo fugge via. Tutto muta e porta via con sé, per il tuo poeta, diletta mia, di tenebra tu sei già vestita. E anche il poeta è morto per te’’». Mi fissò sbattendo le lunghe ciglia a bocca spalancata.
«Ma è così triste e struggente.. e comunque, sono ancora arrabbiatissima con te». La vidi arrossire e sorrisi.
«Non lo sai? Alle volte un libro salva una vita..». Io non avevo consegnato un semplice libro a Sophia. A soli ventuno anni le avevo consegnato tra le mani la mia vita: presente, passata e futura. Persino in quegli anni spensierati io sapevo, sapevo che lei era la custode della mia esistenza occulta. Era la custode di Aleksandr Petrov.
 

Stavolta non le andai incontro, la vidi bloccarsi sugli ultimi scalini e scandagliare con gli occhi felini ogni anfratto del grande ingesso alla mia ricerca. Al posto mio arrivò Sergej a darle il braccio, si sorrisero e io sentii la nausea invadermi.
«Sei bellissima, come sempre». Le diede un buffetto sulla mano continuando a camminare.
«Ti rendi conto di avermi preso un abito bianco? Solo la sposa dovrebbe usare quel colore oggi..». Lo punzecchiò con divertimento, non le dispiaceva poi molto conoscendola.
«Al diavolo la sposa, non ha la metà della tua bellezza. E poi sei mia figlia, il mio gioiello, e devi far sfigurare tutte. Andrej non vede l’ora di conoscerti». Mi allontanai in quel momento, era abbastanza per me.
Sophia fu la testimone di Kolia, teneva in mano un mazzo di rose e sorrideva al fratello che amava innocentemente. Non seguii neppure un singolo passo della cerimonia mentre i miei occhi bevevano come assetati la figura che spesso mi cercava con lo sguardo.
 
In quel tempo Gesù disse: "All'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne.
L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto’’.
 
Gli applausi decretarono la fine di quella che per me era a tutti gli effetti una farsa bella e buona, uscii dal patio adornato e Misha mi venne incontro.
«Bella merda, mi sono addormentato due volte ..qualcuno mi ha sentito russare?». Lo fissai scuotendo il capo spintonandolo verso il buffet.
 
Bagnai le mie mani schizzando l’acqua sul marmo pregiato del bagno, una delle porte si aprì e apparve Dimitri Cernenko, forse questo era il momento di spiegare chi fosse. Dimitri, Dìma per la famiglia, non è altro che il figlio di Felix Cernenko colui che insieme a Sergej fondò la Bratva ormai anni e anni fa. Felix morì in un agguato, e al giovane Dimitri toccò ereditare tutto; non che gli dispiacesse, in se lui aveva qualcosa che io neppure in mille anni avrei posseduto: l’oscurità di un’anima nata nera e malvagia fin dal primo vagito.
I suoi occhi irriverenti mi fissarono dallo specchio, ci sorridemmo con sincerità. Aveva capelli biondi, una stazza eccessiva che veniva spalleggiata dal suo metro e novanta d’altezza. Ogni volta che si muoveva sembrava voler dire ‘’Io sono invincibile e tu ..non vali un cazzo’’.
«I lividi ti donano Shùra». Mi canzonò bonariamente, era evidente fosse stato informato della cosa a differenza di Kolia che viveva perennemente ai margini.
«Ammetto di avere vagamente fascino». Stetti al gioco sistemandomi i capelli.
«Oltre ad avere fascino mi auguro tu abbia anche sale in zucca. La famiglia è il tuo sangue, non le donne». Per Dìma la fratellanza era tutto, cresciuto in quella casa disprezzando Kolia che a sua volta lo considerava un ‘’fratello’’, sapevo per certo meditasse di ammazzarlo e prendersi tutto il potere alla fine dei giochi. Annuii e venimmo interrotti da altre tre comparse: Sergej, Misha e ..Andrej.
«Oh eccovi qui entrambi, giusto in tempo per presentarvi Andrej». Un cenno secco del capo da parte di Dìma, e un mio sguardo freddo attraverso lo specchio. Misha restò in silenzio.
«Domani alla riunione vi dirò in che modo entrerà con noi in affari». Il ragazzo appena più basso di me e dai capelli rossicci sorrise, vidi la falsità nei suoi occhi ma non me ne curai.
«Lavorare per il Vor è un onore». La risata di Sergej echeggiò lungo la stanza, io continuai a non voltarmi.
«Non chiamarmi così, è un nome che odio ..preferisco ‘’imprenditore’’». Misha curvò le labbra all’ingiù, pensai pure di averlo sentito sbuffare. Andarono via sorridenti insieme a Dìma mentre i miei occhi carichi di crudeltà li seguirono finché la porta non rimbombò dietro di loro.
«Fai sul serio?» Misha finalmente parlò, eravamo adesso soli.
«Dipende a cosa ti riferisci». Mi voltai poggiandomi ai lavabi con le braccia incrociate al petto.
«Pronto? Quel coglione dovrà sposare Sophì, ripeto: pronto?». Imitò un cornetta con le dita, era così infantile.
«E quindi?». Mi fissò sbigottito scuotendo il capo lentamente.
«Vuoi sul serio lasciar correre? Shùra ma hai preso a drogarti o cosa?». Si avvicinò e io mi ritrassi superandolo pronto ad andar via.
«Ti ho detto di restarne fuori, perché cazzo non obbedisci in silenzio almeno per una volta?». Strinsi la maniglia della porta con rabbia.
«Perché sono appena diventato il tuo peggior nemico. Se continuerai a chinare il capo ..io ti ucciderò con le mie mani. Preferisco saperti morto piuttosto che un cane rognoso alle sue dipendenze. E non cederò Sophì a quell’esaltato, ha la faccia del bastardo e io me ne intendo». La sua voce disgustata mi fece sorridere, lo fissai in silenzio per poi mollarlo lì a sbraitare la sua rabbia contro il nulla.
 
La musica tediava la mia serata, il mio calvario personale, mentre sorseggiavo champagne fissando Sophia sorridere a quell’uomo. Non so bene se raggiunsi il punto di rottura all’annuncio del loro futuro quanto imminente fidanzamento ufficiale, o quando li osservai aprire le danze. A occhi esterni sembrava tutto perfettamente normale, i miei soliti modi affabili ma freddi, gli occhi falsi ma stranamente affascinanti, ottimo oratore con tutti e con il sorriso sempre pronto. Ma dentro le ferite continuavano a perdere sostanza infetta.
Poggiai il calice di vino, Sergej assimilava ogni mio più piccolo movimento ma stavolta nessun agguato mi avrebbe atteso al varco, non sarei uscito così da quel campo minato. Né avrei pestato alcuna bomba al mio passaggio. L’unico che sarebbe sparito era sicuramente il coglione che al momento stringeva Sophia tra le braccia a bordo pista.
«Balli con me?». Sorrisi a Nadja che mi fissò stupefatta, con la coda dell’occhio la vidi cercare Misha risi di gusto trascinandola con me. Non era lei quella che volevo, ma era lei che al momento mi serviva.
«Dovresti starmi lontano per il momento, diciamo che Misha è lievemente alterato». La feci volteggiare a bordo pista avvicinandomi alla coppia che miravo.
«Lascialo cuocere ancora un po’, è giusto così. Capirà quanto ci tiene solo con terapie d’urto». La voce vagamente assente si sporcò di divertimento mio malgrado.
«Aleksandr, Shùra… non sei quindi immune alla gelosia? Dovrai convivere col suo fidanzamento da oggi, o diverrai come gli ometti che tanto detesti». Mollai la presa su di lei con uno sterile sorriso.
«Hai studiato bene la lezione». Le feci un mezzo inchino uscendo fuori dalla pista, perdendomi tra la folla.
 

Sophia POV


I ricordi sono solo un combustibile per alimentare la vita. E se per caso quel combustibile non ce l’avessi, se il cassetto dei ricordi dentro di me non esistesse, penso che già da un bel po’sarei stata spezzata in due di netto. Sarei morta sul ciglio della strada, raggomitolata in qualche miserabile buco. Che si tratti di cose importanti o di cavolate, è perché riesco a pescare nel cassetto tanti ricordi, uno dopo l’altro, che posso continuare a modo mio a tirare avanti.
In quella sala da ballo eravamo in tre: io, Andrej e Shùra. Tutti gli altri erano spariti nel nulla. La sala ai miei occhi non era altro che una stanza immensa e silenziosa. La mia mano stretta a quella del cavaliere appena conosciuto, il mio corpo a qualche centimetro dall’altro, sguardi fintamente felici ( almeno per me era così ) e tante chiacchiere sterili. L’unica persona che avrei voluto era dall’altra parte della stanza a scambiarsi sorrisi e risate tra un bicchiere di champagne e un valzer. Mentre io stavo al centro della sala trotterellando e provando a non prestare attenzione agli altri. Non una parola, un cenno di dissenso, niente di niente; chi tace acconsente? Ad Aleksandr andava veramente tutto bene? Perché non stava mantenendo la sua promessa? Perché, ancora un’altra volta, m’aveva illusa? Neanche durante l’annuncio del fidanzamento aveva espresso la sua disapprovazione, al contrario fissava Andrej con indifferenza e me con altrettanta lontananza.  Magari da bambina avevo visto troppi film, e forse interrompere la cosa con un teatrale ‘’questa donna è mia’’ era eccessivo, ma addirittura fregarsene? Eravamo due perfetti sconosciuti che sembravano essersi amati una vita fa; comunque Andrej in fin dei conti non era così male, questo continuavo a pensare probabilmente per consolarmi dall’ennesima delusione. Alto, con gli occhi color ghiaccio, lo sguardo gentile, i capelli rossicci, la pelle chiara, bravo con le parole e con i gesti, elegante nel portamento e ottimo danzatore. No non era affatto male, ma i miei occhi continuavano a cercare involontariamente la figura del.. ? Come dovevo definirlo? Fratello? Amante? Ormai non contava neanche più. Lui era troppo impegnato a ballare con quella dottoressa uscita da qualche locale a luci rosse per degnarmi d’attenzioni, e nell’impeto di rabbia e gelosia decisi di far la stessa cosa. Accantonai tutto e mi rassegnai all’idea di un Andrej  fidanzato gentile, marito amorevole e padre dei miei figli. Mentre una risata isterica rimbombava nella mia mente per enfatizzare il tutto. Beh, alla fine mio padre non si era sbagliato: sarei diventata una regina proprio come aveva sempre desiderato.
La serata terminò con un “Sophia, è stato davvero un piacere. Ci rivedremo presto, vero?”, poi uno scambio di sorrisi, un inchino principesco e la lontananza finalmente. Lo vidi in seguito scambiare qualche chiacchiera con mio padre e tutta la bella compagnia di leccaculo che lo spalleggiava da che ne avessi memoria mentre io invece mi ritiravo frettolosamente nella mia stanza al piano superiore. Il silenzio della casa fu un toccasana. C’ero solo io, io e i miei foschi pensieri o almeno così credevo. Salii gli scalini tenendo tra le dita il tessuto fine e setoso dell’abito, finché non raggiunsi il piano superiore;  incrociai lì Shùra, diretto probabilmente verso l’ala ovest; perché era lì? Per me? Il sangue iniziò a galoppare lungo le vene a causa della tensione mischiata ad aspettativa; tremai mandando giù la saliva in eccesso e poi ..il nulla. Mi passò accanto e non parlò, non respirò neppure credo, rinchiudendosi ancora nel suo atroce silenzio e in quella freddezza che aveva riservato a tutti da una vita meno che a me. E io, stupida come non mai, speravo ancora in una qualche parola o una qualsiasi frase per poterlo perdonare immediatamente ricevendo solamente altra indifferenza. Non sapevo se essere furiosa o disgustata. Non sapevo se star zitta oppure scaricare tutta la mia rabbia contro di lui.
Le mie nocche divennero bianche, la seta s’increspò quando girai velocemente il mio corpo cambiando direzione. I tacchi si scontrarono con violenza sul parquet e la porta della stanza di Aleksandr si spalancò al mio passaggio cinque minuti dopo. Ignorai la sua nudità fissandolo con rabbia e disgusto, rammarico e disperazione, poi persi il controllo della lingua e della voce un difetto che purtroppo tenevo da una vita. Le parole iniziarono ad uscire come un fiume in piena e le mie labbra, dighe immaginarie, non riuscirono a contenerlo.
«Sei un fottuto stronzo. Mi hai fatto una promessa e non l’hai mantenuta. Hai detto che non avrei dovuto sposarlo e invece ora siamo ad un passo dal fidanzamento ufficiale. SEI SOLAMENTE UN BUGIARDO. Ah no, aspetta! – la mia voce si calmò appena un poco assumendo un tono strafottente e velenoso – devo essermi immaginata quelle parole, vero? Oppure sono solo il tuo passatempo? No perché mi fa davvero piacere sapere che quando non c’è la tua bella amichetta ci sono io a tirarti su il morale! Almeno servo a qualcosa! Non è così? Perché tanto Sophia è solo una ragazzina pazza, chi vuoi che le creda. Fai davvero schifo. Sei uno stronzo. Non hai neanche fiatato. Già che c’eri potevi anche farmi gli auguri per il matrimonio alle porte, non credi? Sappi che sarai invitato, te l’avevo già detto e ovviamente ti voglio come testimone! Me lo merito per il tempo sprecato e per ciò che ti ho dato. Me le porti tu le fedi?» Le parole mi si incastrarono in gola, provai a riprendere fiato. I miei occhi prima così carichi di rabbia lo guardarono con pietà qualche secondo. Provavo pena per lui o per me stessa?
«Ti ho persino dato il mio corpo.. Papà aveva ragione. Andrej è la scelta giusta per me e grazie a te l’ho capito». Il suo viso non mutò inizialmente d’espressione e probabilmente fu questo ad atterrirmi poco prima che la sua mano si avventasse sulla mia bocca tappandola, la schiena si scontrò con qualcosa di duro alle mie spalle facendomi trasalire di dolore, e per la prima volta vidi in lui qualcuno che stentavo a riconoscere. Era totalmente accecato da rabbia e dolore fusi insieme, qualcosa che non avevo mai visto prima.
 
Un altro tassello era appena stato aggiunto.

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Capitolo 14
*** Sinners ***


  
 
 

ACT XIV

 
Mi ero dileguato da quella festa prima di tutti gli altri, ero sicuro Misha non sarebbe tornato quella notte e nella penombra della mia camera iniziai a togliere la giacca, allentai la cravatta con gesti stanchi e sbottonai i primi bottoni della camicia bianca e linda. Fissai il letto vuoto stendendomi a fissare il soffitto mentre le immagini di quella sera si susseguivano come un disco rotto nel mio cervello, credo fu per questo che sentii il bisogno viscerale di vederla. Volevo fissare i suoi occhi tristi e dirle che sarebbe andato tutto bene; mi alzai strisciando fuori dalla mia stanza percorrendo i metri che mi separavano dall’ala nord, la sua. Il suono dei tacchi mi distrasse, mi voltai e incontrai quel viso che tanto avevo voluto vedere. Le parole sembrarono incastrarsi nella mia gola, che cosa avrei potuto dirle? Di aver fede ancora una volta nonostante i miei atteggiamenti sembrassero dirle esattamente l’opposto? Ci fissammo in silenzio e feci ciò che da una vita mi veniva bene con tutti: ignorai e passai oltre. Tornai nella mia camera strappandomi di dosso la camicia con un gesto rabbioso, la tenevo ancora in mano quando la porta si aprì di colpo lasciando entrare il suo corpo e la sua furia cieca. Mi versò addosso parole che ferivano come acido, corrodevano la mia pelle lasciandomi agonizzante al terreno. Le cose non sarebbero andate come io avevo previsto, non quella notte almeno. Una singola notte che avrebbe cambiato la mia intera esistenza, mi chiedo se col senno di poi avrei rifatto esattamente le stesse cose. Forse si, e questo è il prezzo da pagare per il più atroce dei peccati commessi in questa vita.
Tappai la sua bocca col palmo della mia mano, l’irruenza messa in quell’atto la portò a sbattere contro il muro accanto la porta ancora socchiusa e che richiusi con un boato. I suoi occhi spaventati non mi fermarono.
«Vuoi per caso che l’intera villa assista alla tua crisi di gelosia isterica? Sai chi alloggia qui accanto? Il tuo futuro marito, vuoi per caso venga qui e osservi tutta la scena?». Ringhiai quelle parole ad un centimetro dal suo viso, poggiando le labbra sul palmo della mia mano, alla stessa altezza delle sue ancora sigillate. Mi fissò muovendo istericamente gli occhi, mentre le piccole mani tentavano di scostarmi da lei.
«Sono mezzo nudo al momento, se venissero potrebbero fraintendere. O forse no. Forse non c’è nulla da fraintendere Sophia, e sai perché? Perché per me non è cambiato nulla, ti guardo ancora come quella notte in cui ti regalai il pupazzo, o quella in cui dormimmo abbracciati. Ti ho chiesto di avere pazienza .. PERCHE’ NON PUOI DARMI ASCOLTO ALMENO UNA SINGOLA VOLTA». Lei e Misha erano identici in quel senso. Mi spinse di nuovo e stavolta le diedi la tanto voluta liberà. Mi fissò ansante sfregandosi le labbra col dorso della mano mentre gli occhi lanciavano saette.
«Non toccarmi mai più, mi fai accapponare la pelle». La sua voce sembrava vuota, come l’eco di un barile il cui interno era stato svuotato da tutto. Le sorrisi arcigno avvicinandomi.
«Non vuoi che ti tocchi? E chi dovrebbe toccarti allora, forse Andrej? Ma aspetta .. – mi bloccai continuando a sorridere finché la mia espressione non mutò divenendo rabbiosa. Le afferrai il braccio spintonandola fuori dalla camera – lui alloggia proprio qui. Proprio in quella stanza». Provò a opporre resistenza senza riuscirci mentre la trascinavo esattamente di fronte la camera di quella feccia. La fissai.
«Quindi? Ti chiudo qui dentro e magari ti fai toccare da lui?». I suoi occhi si riempirono di lacrime, e io mi sentii ancora più furibondo. Con me stesso soprattutto.
«Chi diavolo sei tu..». La sua voce impastata dal pianto fu appena udibile in quel corridoio buio e vuoto. Chi ero io? Ero solo un miserabile che si era concesso il lusso di amarla e che adesso provava, con i soli strumenti in suo possesso, a salvare il salvabile.
«Sono Shùra, la persona che ti ama più di chiunque a questo mondo». Smise di singhiozzare e forse anche di respirare mentre mi fissava stralunata e confusa. La riportai in camera mia chiudendomi la porta alle spalle, la camera quasi totalmente oscura gettava ombre tutte attorno a noi. Le ombre erano anche dentro di noi.
«Chi ti dice non volessi farmi toccare da lui?». Mi provocò con occhi carichi di rabbia. La strattonai con forza.
«Se avessi voluto stai pur certa che ti avrei lasciato lì davanti. Smettila con questi giochini, non possiamo più permetterceli». I miei occhi carichi di dolore la soppesarono.
«Sono qui in questa stanza solo per ricordarti che sei un essere ignobile, una persona priva di coraggio che mi ha scartata come la più inutile delle scarpe». Mi spintonò con rabbia, le afferrai i polsi sollevandoglieli sopra la testa, contro il muro, lasciando aderire i nostri corpi.
«Lo sai che non è così, smettila. Ti ho chiesto pazienza, pensi per me sia semplice? Pensi che vederti con un altro uomo sia qualcosa che mi piaccia? Io ti amo Sophia, ti amo». Quelle parole probabilmente servirono a zittirla da qualsiasi altra cattiveria avesse in mente di dire. L'incontro con Sergei al capannone era stato decisivo per la mia mente, il piegarmi a forza, il rinnegare tutto l'amore che provavo per lei, il vedermi ancora una volta solo e malconcio a dover curare in solitudine quelle ferite  avevano provocato un taglio nella mia anima e nella mente difficile da curare o guarire. Sapevo di aver perso il senno, sapevo che le cose non sarebbero mai state facili, lo sapevo eppure continuavo quel cammino incurante di ciò che mi aspettava alla fine; magari avrei trovato la morte, ma era ben poca cosa se paragonata ai momenti con Sophia. La donna che amavo più di me stesso, colei che avevo protetto da tutto e tutti ogni giorno della nostra vita insieme. Era per questo che non potevo rinunciare a lei; neppure per Sergei, né per Misha  non potevo staccarmi da quell'amore nei suoi confronti così reale e forte, sebbene iniziasse a sporcarsi di morbosità e sangue. Ero assolutamente certo che mai nessuno avrebbe amato Sophia come avevo fatto io per anni, nessuno era degno di averla tanto meno quel fantoccio russo che pretendeva di averla e farla sua di lì a poco tempo. Non sarebbe finita così.
«Se mi ami davvero, allora dimostralo..» la fissai in silenzio, come potevo dirle che lo stavo già facendo? Nella mia vita avevo paura di due cose: della verità e di Sonech’ka. E per ironia queste due cose erano strettamente correlate tra loro.
«Balli con me?». Le sorrisi afferrando il cellulare, iniziai a scorrere la lista delle canzoni fino a sceglierne una. Lo stesso lento che avrei voluto ballare in sala con lei. Lo poggiai sul comodino afferrandole la mano, portandola di fronte la grande finestra che dava sul giardino. Non si oppose continuando a fissarmi, mentre le sue braccia cingevano il mio collo, e le mie mani i suoi fianchi. Persi cognizione di spazio e tempo, al chiaro di luna ballavamo in una notte che sembrava destinata ad essere senza tempo, o almeno così mi piaceva credere. L’illusione alle volte è l’unica cosa che ci permette di andare avanti.
Baciai le sue labbra, le saccheggiai totalmente fino ad essere sicuro che persino l’ultimo suo respiro fosse entrato dentro di me. Lei e quel suo odore, quell’odore di vita e libertà che emanava da una vita e mi permetteva di sentirmi umano, amato: una persona con delle speranze.
L’abito bianco cadde giù ai suoi piedi, mentre le mie dita toccavano quella pelle fresca e priva d’imperfezioni, lasciavo le impronte delle mie carezze quasi volessi entrarle dentro, dritto nelle ossa o anche nell’anima e lì restarvi. Riversai in lei ogni mio dolore insieme a quella passione che lentamente non avrebbe lasciato nulla di me stesso.
Ci amammo tutta la notte finché le luci dell’alba non ci videro stanchi e avvinti in un abbraccio che sembrava fonderci l’uno con l’altro, dormendo in apparente tranquillità. La sveglia suonò alle otto in punto, la spensi alzandomi in silenzio, iniziando a vestirmi per partecipare alla riunione che Sergej aveva indotto. La sentii muoversi tra le lenzuola, coprì il suo corpo nudo fissandomi assonnata.
«Ho la risposta alla tua domanda, più o meno». Mi fissò intontita aggrottando la fronte.
«Quale ..delle tante». Mi sorrise con tristezza e io chinai il capo finendo di abbottonare la camicia blu.
«Se io non avessi detto sul serio quelle parole, le parole che hai sentito da tuo padre. Se io non avessi mai detto del tuo essere una ragazzina capricciosa .. questo cosa vorrebbe dire?». La fissai intensamente, i suoi occhi presero consapevolezza e dolore. Allargai le braccia sorridendo in maniera rotta.
«Decidi Sophia, decidi a chi affibbiare l’aggettivo di bugiardo. A me, o a tuo padre? Il padre che da una vita consideri l’eroe senza macchia». Era ora che anche lei compisse delle scelte dolorose, le voltai le spalle uscendo finalmente da lì.

 

Sophia POV

 
La porta si richiuse e con essa svanì l’immagine della sua schiena larga e familiare. Stesa tra quelle lenzuola che odoravano ancora di noi chiusi gli occhi lasciandomi invadere da dubbi e pensieri. La notte appena trascorsa non era scivolata via inutilmente, avevo fissato ogni suo tatuaggio, ogni cicatrice persino le ultime che sembravano in rilievo quasi  a volersi far notare. Dovevo fidarmi quindi di Aleksandr nonostante le cose che iniziavo a notare mi confermassero quanto forse conoscessi poco la vita dell’uomo che amavo? O dovevo fidarmi di mio padre, l’uomo integerrimo che mi amava da una vita, che mi aveva viziata e curata come il gioiello più prezioso della sua corona. L’eroe della mia infanzia, coi suoi occhi verdi e buoni, così diversi dai miei ma ugualmente amorevoli.
Giunsi alla conclusione che probabilmente non mi fidavo più nemmeno di me stessa.
 

 

Aleksandr POV

 
Mi sedetti nella piccola cucina mentre Viktor preparava il caffè, fissai un punto non ben preciso della stanza osservando due bambini sbucar fuori e correre ansanti. Il più grande inseguiva il più piccolo:
 
–  Misha vieni subito qui e cambiati le lenzuola.
–  GIAMMAI, FALLO TU.
 
Sorrisi e l’odore del caffè li fece svanire in una nube fatta di ricordi e rimpianti. Bevvi la bevanda calda e dolciastra sorridendo all’uomo attempato che mi fissava con affetto. Ero passato dalla camera di Misha poco prima trovandola vuota, probabilmente lo avrei visto direttamente alla riunione.
Mi alzai dalla sedia uscendo da quella stanza, abbandonando l'ala ovest del palazzo, il luogo nella quale ero cresciuto e dove avevo vissuto gli anni della mia infanzia e adolescenza, sapevo comunque che il destino mi avrebbe ricondotto ancora lì presto o tardi. Bastava solo avere pazienza.
Gli uomini erano tutti radunati nella grande sala delle riunioni, mi guardai attorno puntando lo sguardo su Misha che a sua volta mi fissò con astio. Gli sorrisi in maniera sprezzante accomodandomi accanto a lui.
«Hai dormito bene Misha?» la mia voce suonava pacata, quasi affettuosa.
«Fottiti». Non mi guardò muovendosi lievemente sulla sedia.
«Non adularmi così, la gente potrebbe capire che sei pazzo di me». Il nostro adorabile battibecco venne interrotto dall'arrivo di Sergei, accompagnato da Nikolaj e Andrej. La mia espressione cambiò drasticamente, fu qualcosa di impercettibile agli occhi degli altri quanto un granello di sabbia che dentro di me però valse come una vera e propria tormenta. La riunione iniziò, tamburellavo le dita contro il legno scuro e laccato del tavolo, ascoltando i comandi dati dal Vor, mentre un angolo della mia mente incamerava altre informazioni di natura ben diversa: quante volte aveva sorriso, era destrorso, gestiva male l'ansia, si muoveva più lentamente di me, aveva lo sguardo attento e furbo e nelle sue mani vi erano i calli tipici di chi sparava abitualmente quindi con tutta probabilità era un bravo cecchino. Curvai le labbra in un sorriso sinistro mentre un brusio si levò nella sala sempre più pressante e fastidioso, la voce di Misha attirò la mia attenzione.
«Dovrò lavorare con Shùra?» sembrava quasi scocciato, schioccai la lingua contro il palato annuendo lentamente, sollevando la mano in un gesto eloquente.
«Per me va bene, faremo noi la consegna con i colombiani ho già trattato con loro. Il prezzo non sembrava andare bene all'inizio, ma con Misha abbiamo trovato il modo di essere convincenti». Calcai il tono sull’ultima parola e vidi Dimitri sorridere. La riunione sembrava finita, ma Sergei richiese nuovamente il silenzio. Io sapevo, sapevo che la bomba stava per essere sganciata.
«Lui è Andrej, ve l'ho presentato ieri verrà anche lui a San Francisco voglio che veda l'andazzo dei nostri affari lì. Shùra occupatene tu, fallo sentire come a casa, avvicinalo a Sophia e mettilo a conoscenza degli affari in agenzia». Quella era una chiara sfida nei miei confronti, strinsi la penna tra le dita sorridendo in maniera ambigua, quasi agghiacciante. Sentii lo sguardo di disapprovazione di Misha su di me, lo ignorai inarcando un sopracciglio.
«E' il benvenuto. Ti farò vedere come tratto io gli affari, Andrej». Sergei e quell’insetto schifoso, avrebbero scoperto presto che quella non era una dichiarazione di fratellanza. Era il preludio della morte.
 
***
 
Tre giorni dopo eravamo tornati tutti alle nostre vite, il che era paradossale visto e considerato che una vita ero sicuro di non averla mai avuta davvero. Non nel senso letterale del termine almeno.
Andrej aveva viaggiato con noi, e mentre si sprecava in complimenti seduto accanto a Sophia io sentivo gli occhi di quest’ultima mandarmi a fuoco la schiena. La ignorai ancora una volta. Misha dal canto suo si teneva alla larga da quel me stesso che stentava ormai a riconoscere; sapevo di stargli facendo male, ma ugualmente non trovavo una soluzione meno dolorosa per portare a compimento il mio piano. Non era ancora il momento di coinvolgerlo, lui in tutta quella faccenda era essenziale e soprattutto era vitale fosse fuori da ogni possibile colpa. Per una volta sarei stato io a sbagliare.
Lasciammo Andrej in albergo con la promessa fatta a Sophia di rivedersi il giorno dopo, la vidi fissarmi come a volermi dire ‘’vedi? Qualcuno che riesce a mantenere una promessa esiste’’. La nostra notte insieme non aveva cambiato le sue idee, forse ne avevo mitigato le paure per qualche ora ma queste erano tornate più forti di prima. A quel punto il bivio che le avevo posto non ero più sicuro sarebbe stato saggiamente ponderato da lei, probabilmente nonostante il mio ‘’ti amo’’ risultavo molto meno credibile dell’integerrimo padre. Non mi toccava poi molto quella consapevolezza, che mi credesse o meno io avrei mantenuto la mia parola: Sophia non avrebbe sposato Andrej né altri.
 
***
 
Avanzai a grandi passi lungo il corridoio diretto nel mio ufficio, Anastasia mi accolse con un sorriso alzandosi dalla sedia.
«Ti porto il caffè?». Annuii fermandomi di fronte la sua scrivania.
«Si, ti aspetto tra cinque minuti. Devo parlarti». Le sorrisi affabile, non tentennò neppure per un secondo e cinque minuti dopo mi sedeva di fronte a braccia incrociate.
«E’ successo qualcosa? Ho fatto male un lavoro..» una punta d’ansia si insinuò nella sua voce, risi scuotendo il capo.
«Per niente. Semplicemente ho degli incarichi per te Anastasia, anzi uno solo per la precisione». Ci fissammo con gravità e la vidi annuire.
«Dimmi tutto». Mi alzai dalla scrivania e feci il giro, piazzandomi accanto a lei poggiandomi proprio sul bordo, chinando il capo.
«La vita è fatta di scelte Anastasia, lavori per me da anni ..a chi va la tua lealtà?». Reclinai appena il viso sorridendole affabile. La vidi confusa.
«A te, è ovvio..» forse pensava di avermi contrariato in qualche modo visto come si torceva le dita.
«Ti ho assunto perché non c’è persona migliore di te quando si parla di roba informatica e altro, anzi .. probabilmente il lavoro di semplice segretaria lede le tue capacità». Non la stavo adulando, ma descrivendo. Anastasia era un hacker, aveva passato metà della sua vita rintanata in casa lavorando su commissione, finché non l’avevo scovata dopo un colpo ai danni della Bratva salvandole però la vita. Invece di ucciderla le avevo offerto un lavoro. Sapevo che un giorno mi sarebbe tornata utile. Perché non c’è un debito più grande di questo, se devi a qualcuno la tua vita quel qualcuno diverrà la tua vita stessa.
«Mi stai adulando?». Sorrise divertita per la prima volta e io la imitai.
«Dovrai sgranchirti le tue belle dita Anastasia, è arrivato il momento di ripagare quel debito che mi devi». Assottigliò lo sguardo sollevando le lenti spesse.
«E come dovrei fare..?». Si sedette ritta e composta, avevo la sua totale attenzione.
«Dovrai prosciugare alcuni conti che ti darò. Per un totale di ..settanta milioni di dollari senza lasciare alcuna traccia. Dieci andranno a te, che te ne pare?». Mi fissò sbigottita e il silenzio pesò su di noi.
«I conti di cui parli, sono… non saranno mica .. Oh Gesù». Annuii e un sorriso cattivo si disegnò sulle mie labbra. Sentivo l’odore della sua paura ma quegli occhi parlavano per lei: avrebbe accettato. Nessuno rifiuterebbe mai dieci milioni di dollari.

 
 

Mikhail POV

 
Che cazzo stava succedendo? Continuavo a ripetermelo mentre smistavo l’ultima partita di droga arrivata dalla Colombia. Un tipo dalla pelle scura e l’aria perennemente fusa mi si avvicinò passandomi due bustine di quella che sembrava cocaina.
«Prendile, è roba di prima qualità». Me le rigirai tra le mani sollevando una piede per dargli un calcio nel culo.
«Ho l’aria di un tossico, testa di cazzo?». Lo vidi chinarsi e ridere, mi auguravo non di me o l’avrei ucciso.
«E’ solo un regalo per voi russi, dalla anche al tuo amico». Osservai le bustine mentre mi rivedevo a darla a Shùra con aria complice. Come minimo mi sarei beccato un cazzotto tale da deformarmi i connotati. Misi quella merda dentro la tasca, l’avrei data a quel coglione di mio ‘’fratello’’ e se ne sarebbe disfatto lui. Al momento avevo troppi pensieri per la testa, come ad esempio il fatto che da tre giorni provavo a mettermi in contatto con Irina e mi rispondeva sempre la voce fastidiosa della segreteria telefonica. Altre volte squillava a vuoto ma di lei nessuna traccia. Questo silenzio mi portava parecchio nervosismo, e a me il nervosismo non faceva per niente bene, mi costringeva a fare cose stupide e poi pagarne le conseguenze. Provai a richiamarla, ancora una volta nessuna risposta arrivò a salvarmi dalla crisi di panico che sentivo arrivare di lì a poco. Osservai l’orologio, era quasi mezzanotte.
Presi l’auto parcheggiata poco distante dalla fabbrica abbandonata e a tutta velocità mi diressi nella casa dove sapevo vivesse mia sorella. Shùra mi aveva dato l’indirizzo quando l’aveva finalmente trovata, non ero però mai riuscito a vederne la dimora perché ad ogni mio appuntamento con Irina una berlina nera veniva a prenderla per scortarla in casa.
Spensi i fari fissando la villetta dallo stile eccessivo e pomposo, scendendo lentamente e con cautela, i miei sensi erano tutti all’erta in quel momento e non ne capivo il motivo. Vidi due uomini uscire dalla casa, parlottavano tra loro e uno dei due sembrava nervoso, l’altro semplicemente spaventato. Il tipo dall’aria nevrotica altri non era che Thomas Jensen, il patrigno della mia Irina.
«Voglio sapere dove cazzo sta». Spinse l’altro uomo sul ciglio della strada e io mi nascosi.
«E’ saltata dall’auto aggredendomi, l’ho cercata dappertutto». La sua voce disperata mi diede la nausea. Mossi un altro passo ma stavolta nella direzione contraria. Sapevo di chi parlavano in quel momento: la mia Irina era sparita. Dovevo trovarla prima che lo facessero loro.
Afferrai il cellulare e chiamai una persona che mai nella mia vita avrei pensato potesse essermi utile:
 
–  Pronto?
–  Sono Misha, senti sgorbio sto per mandarti un numero ..rintraccialo per me.
–  Mikhail è mezzanotte passata..
–  E che cazzo vuoi, lo spuntino? Anastasia trovami quel numero o ballerò sul tuo cadavere.
–  Va bene, mandalo e farò il prima possibile.
 
 

Irina POV

 
Le molle del materasso cigolarono, allungai il braccio toccando la parete spoglia con le dita, delineando i contorni di quelle rose appassite come la mia anima in quel momento. ''La fine di tutto'', non ho mai pensato al giorno della mia morte, e non intesa in senso fisico ma bensì spirituale, eppure da qualche tempo quel pensiero era divenuto un chiodo fisso nella mia mente; con la mano libera rovistai sotto il cuscino estraendo una foto. Il soggetto era un bel ragazzo, dal viso buffo e gli occhi simili ai miei. Il suo nome è Mikhail, Misha lo chiamano i suoi nuovi... fratelli. Era stato divertente vedere il sangue del tuo sangue definito tale da perfetti sconosciuti; una lacrima rigò la mia guancia, non la fermai lasciando che inzuppasse la fodera del cuscino. I ricordi sono tornati lenti alla mia memoria, settimane prima mi ero ritrovata a rovistare tra le carte di ''quell'uomo'', definirlo padre uccideva il mio orgoglio, avevo trovato le prove dei suoi traffici e notizie relative al mio Mikhail. Lo avevo sempre avuto così vicino, e mi ero sempre mantenuta così lontana.. che stupida. Ci sono tante cose che vorrei dirgli: ''come sei stato in questi anni?''; ''sono guarite le ferite della tua anima?''. Il sonno lentamente si impadronì del mio corpo, mi addormentai con la mano attaccata al muro e la foto contro il mio petto.
Il boato della porta mi fece sobbalzare, non ebbi neppure il tempo materiale di ritrarmi mentre la presa ferrea di Thomas Jensen mi trascinava lungo il pavimento, incurante dei miei strepiti. Mi stava vendendo come carne da macello. Ancora una volta.
«Lasciami. HO DETTO LASCIAMI ..ti prego!». A nulla valsero le mie suppliche, quell'uomo senza Dio aveva ormai deciso il mio destino, e sembrava io non potessi far nulla per sottrarmi. Strinsi la foto spasmodicamente tra le dita, quasi sperando che quel viso si materializzasse per salvarmi, ma questo non sarebbe successo. Ero completamente sola. Le sue viscide mani mi spinsero dentro la berlina nera, sentii la sua voce dare indicazioni precise mentre sbattevo le mani contro il vetro cercando di attirare la sua attenzione; era tutto inutile. Non si voltò nemmeno. L'auto partì talmente veloce da farmi rimbalzare sui sedili, rigettandomi contro di essi. Dovevo pensare. Pensa Irina. Pensa. La mia mente era come una matassa aggrovigliata, mi pressai le tempie e all'improvviso ebbi un'unica disperata idea. Mi tenni lo stomaco cercando di frenare i conati di vomito, non mi serviva neppure mentire.. stavo davvero per vomitare. L'uomo si girò a guardarmi dubbioso.
«Ti prego ..accosta, accosta l'auto io ..sto per vomitare». L'aria fresca punse il mio viso, l'uomo mi stava praticamente incollato al culo, neppure la mia ombra sarebbe stata così vicina. Osservai il paesaggio attorno a me, non avevo la minima idea di dove fossi e ormai era pure inutile chiederselo. Dovevo sparire da quel posto, almeno per il momento. Fu questione di pochi istanti, la punta della mia scarpa si scontrò con violenza contro la gamba del mio carceriere, lo spinsi facendolo ruzzolare a terra iniziando a fuggire più veloce di quanto non avessi mai fatto in vita mia. Presi un sentiero pieno di sterpaglie e rovi, le mie gambe si graffiarono, sentivo le sue urla dietro di me. Non poteva raggiungermi, se lo avesse fatto .. sarebbe stata la fine.
Persi il senso di spazio e tempo, ferma sul ciglio della strada tenendomi il petto con la mano girandomi verso il bosco appena passato, ero riuscita davvero a seminarlo..? Strinsi ancora la sua foto tra le mie mani, la sollevai guardandola, accarezzandone i contorni del viso.
«In un modo o nell'altro ci rivedremo. La vita ci sta separando di nuovo, ma adesso tocca a me. Mi hai ritrovata e mi sei stato accanto nonostante per me fossi poco più che un estraneo ..adesso sarò io a ritrovare te. Aspettami fiducioso, io tornerò». Notai poco distante una piccola strada secondaria, non feci in tempo a scrivere il messaggio sul cellulare che un rumore al di là del bosco iniziò a farsi spaventosamente sempre più vicino. Nascosi l’oggetto dietro un po' di sterpaglia, reprimendo le lacrime sollevai il braccio al passaggio di una macchina che si fermò qualche metro più in là. Salii indicando una meta a caso nel mio improvviso viaggio, e mentre la macchina si muoveva allontanandomi dalla mia casa, dai miei amici e da lui mi voltai osservando l'orizzonte che si tingeva dei colori di una calda alba. Ora sapevo. Questo non era un addio. Ma solo un arrivederci.

 
 

Mikhail POV

 
‘’Ho trovato la posizione, ti mando le coordinate’’. Anastasia ci mise ore che per me valsero quasi come un’intera vita.
Impiegai almeno venti minuti per raggiungere il posto isolato lungo la superstrada, scesi dall'abitacolo ormai scomodo ed attraversai la transenna che separava la strada da quello che sembrava un bosco cupo e fitto. Stavo per raggiungere la posizione di Irina a giudicare dalle coordinate, continuavo a chiamare il suo nome ma lei non rispondeva né appariva dinanzi a me.  
Il cuore mi salì in gola, non potevo permettere accadesse di nuovo. Mi fermai per qualche istante, le mie gambe non sembravano voler collaborare nel lavoro, come se fossero anchilosate divenendo arti non collegati al mio corpo. Una lacrima mi rigò il viso, non potevo permettermi il lusso di piangere non in un momento simile. Ripresi a camminare, con fatica sicuramente ma lo feci.
Un punto cieco, un burrone che lasciava intravedere solo le poche luci dei palazzi in lontananza. Chiamai il suo nome guardando giù senza vedere un cazzo.
«No, non sei caduta. Non può essere». Borbottai quelle parole guardandomi attorno e risi forte. La mia era una risata quasi isterica, spezzata dai singhiozzi che in quel momento non mi permettevano di respirare.
Vidi una sorta di riflesso farsi spazio al di là di un cespuglio, mi precipitai ansante. Il cellulare di Irina che annunciava l'imminente spegnimento a causa della batteria scarica.
"Ti voglio ben-", il messaggio incompleto lasciava intendere fosse stato scritto di tutta fretta, scossi il cellulare urlandogli contro, come se tutto ciò fosse possibile a darmi nuove risposte. Come se quell’oggetto infernale dovesse darmi le risposte che cercavo invano. Almeno una riuscì a darmela: il messaggio ero sicuro fosse per me, lei sapeva sarei venuto a cercarla.
Le mie ginocchia toccarono il suolo esauste. Mi voltai e dinanzi a me trovai solo il buio. Un buio che faceva invidia a tutti i miei incubi, a tutte le mie paure. Un buio che partiva dal centro esatto del mio petto.
 
Mi persi.
 

 

Aleksandr POV

 
Irina era sparita. Mi arrivò così quella notizia tra capo e collo, detta in maniera talmente normale e pacata da gelarmi il sangue nelle vene. Il fatto che non fosse stato Misha a chiedermi aiuto la diceva lunga su quanto i nostri rapporti si fossero deteriorati dal viaggio a Mosca. Fissai Anastasia con gli occhi che temevo potessero schizzarmi fuori dalle orbite mentre mi alzavo dalla poltrona nella quale ero rimasto la notte precedente, e tutto il giorno successivo solo per evitare Sophia. E mentre io provavo ad arginare il fiume da un lato, ecco che dall’altro mi si presentava un tornado di proporzioni devastanti.
«Dove sta Misha?». Le andai incontro fissandola con severità.
«Sa dove abbiamo perso le tracce di Irina, è probabile si trovi ancora lì Aleksandr». Annuii uscendo con foga dall’ufficio, ignorando i visi che mi si presentavano davanti.
Il bosco di giorno faceva sicuramente tutt’altro effetto, ma col tramonto ormai sul finire e l’oscurità che piano piano iniziava ad incombere, mi sentivo quasi il protagonista di un film thriller. La mia vita aveva assunto svariati colori da qualche mese a quella parte in effetti, e nessuno di questi presagiva prospettive rosee. Neppure il rosso della mia passione per Sophia.
«MISHA». Iniziai a chiamarlo a gran voce arrancando tra l’erbaccia alta e i rami appuntiti. Nessun suono a parte i versi di uccelli e il fruscio delle fronde. Dove diavolo era? Sapevo bene cosa potesse significare per lui perdere Irina, era già successo una volta e il pensiero che potesse ripresentarsi la medesima situazione mi destabilizzava. Odiavo vedere Misha sofferente. Un rumore attirò la mia attenzione, tesi le orecchie seguendolo finché una sagoma accucciata vicino ad un burrone non mi bloccò. Il sangue mi si gelò nelle vene quando la riconobbi. Era stanco, sporco e con gli occhi spiritati. Lo scrollai con foga costringendolo a guardarmi.
«Misha, che cazzo fai qui». Nessuna reazione, continuava semplicemente a fissarmi. I suoi occhi improvvisamente lasciarono me per poggiarsi sull’apertura oscura a pochi metri da noi.
«Non posso credere sia lì dentro». Non riconoscevo neppure la sua voce.
«Non è lì dentro Misha. Noi la troveremo, fidati di me. Irina non è morta». Ne avevo la totale certezza? No, probabilmente quelle erano parole che servivano solo a quietare le nostre paranoie e ansie. Mi fissò sgomento alzandosi lentamente, sorretto dalle mie braccia.
«Devo ritrovarla..» sembrava incastrato in una sorta di loop mentale. Lo scrollai finché i suoi occhi non iniziarono a dar cenni di vita.
«Non è morta. E adesso andiamo, abbiamo una persona a cui chiedere». Lo sentii afferrare il lembo della mia giacca mentre in silenzio raccoglievamo i cocci dei nostri cuori, uscendo da quel tugurio per entrare direttamente nel successivo.
 
–  Shùra, io ho paura del buio. Vacci da solo a prendere il gelato in cucina.
–  Quanto sei cagasotto? E' per te che vado a prenderlo, mica sono così pazzo da mangiarlo con questo freddo. Se accendiamo la luce ci scoprono.
–  E allora come facciamo a non avere paura?
–  Veramente sei tu che.... ah, lascia stare. Tieni, afferra il bordo della mia felpa e non lasciarlo, in questo modo saprai che sono sempre insieme a te. Se cadi ti aiuto a rialzarti.
 
 
***
 
Erano passate ventiquattrore dalla scomparsa di Irina, scolai il bicchierino di vodka fissando le braci ardenti del camino. Mi tornò in mente il duemilanove, anno in cui Misha venne ferito gravemente durante un agguato. Ricordavo il tragitto in ambulanza, le mie mani completamente inzuppate del suo sangue e la disperazione vera che per la prima volta attanagliava le mie viscere. Quando arrivammo davanti l’ospedale i medici ci misero da parte portandolo in sala operatoria, uno di loro uscì un’ora dopo scuotendo il capo.
«Stiamo facendo tutto il possibile, ma preparatevi al peggio ..ha perso troppo sangue, non troviamo donatori compatibili. Non credo ce la farà». Ricordavo di aver riso come un folle in quell’occasione, mentre Sergej mi fissava attonito. Prepararsi al peggio? Non era sicuro ce l’avrebbe fatta? Chi cazzo era lui per decidere chi poteva e chi non poteva vivere? Scoprii in quell’occasione di essere un donatore compatibile e mentre travasavo il mio sangue dentro di lui, pensai: adesso si che siamo davvero fratelli.
Fratelli, famiglia, un nucleo un qualcosa di indissolubile. Il cellulare squillò in quel momento lasciando svanire i miei ricordi.
«Misha è andato a casa di Irina». Sospirai alzandomi da lì. Fratello e famiglia, questo voleva dire che mai e poi mai avrei potuto lasciarlo indietro. Lasciai invece dietro di me l’eco della voce di mio padre, e di un me bambino:
 
– Sarò un duro papà. Da grande sarò un duro.
– Non voglio che tu sia un duro.. voglio che tu sia giusto.
 
La consapevolezza di non esserci riuscito è la ferita più profonda nel mio cuore.
 

 

Mikahil POV
 

Era giunto il momento di agire e di reagire. Dopo ore passate a crogiolarmi e disperarmi tra troppi "se avessi saputo", "se avessi potuto" qualcosa nella mente fece scattare il mio meccanismo di vendetta. Quel meccanismo sadico che a molti, incluso Sergej, faceva paura per quanto imprevedibile e insensato fosse. Il pensiero di alcune vicende passate mi fece sorridere  in modo raccapricciante, ma non era quello il momento di perdersi in inutili pensieri.
L'aria quella sera era particolarmente fredda,  ricordava la mia Russia, ringraziai il Cristo in cui credevo male per il fatto che Shùra mi avesse regalato quei silenziatori per il mio compleanno. Potei fare fuori in poco tempo e sopratutto in silenzio le guardie che sostavano ai cancelli della villa in cui mi ero diretto. La schifosa villa del padre adottivo di mia sorella.
Non mi ero preparato una piantina della casa, né tanto meno potevo procurarmela eppure non ci misi molto a trovare la camera di Irina. Era proprio come l’avevo immaginata, piena di poster di quei ragazzi che le piacevano tanto, molto rosa e con poche foto della sua vita.
Nella piccola libreria in fondo al letto stazionavano quelli che sembravano essere libri per bambini, un carillon però attirò la mia attenzione. Spostandolo di pochi centimetri vidi spostarsi anche quell'ammasso di infanzia passata.
Ciò che trovai mi spiazzò, una sorta di pannello segreto in cui c'erano soltanto foto, tantissime foto. Collage di me, di Shùra, di Sophia e di lei con me nelle poche uscite fatte.
Irina sapeva. Sapeva che chiamavo altri ‘’fratello’’ e ‘’sorella’’, sapeva che per tutta la vita probabilmente l'avevo cercata e forse nel frangente sostituita da altri affetti. Sentivo  le mani andare a fuoco mentre le strappavo tutte. Una ad una, fino all'ultimo urlo di rabbia che esplose dal mio corpo.
Uno scatto quello di una pistola appena caricata mi fece rinsavire. Mi voltai, il suo patrigno era proprio lì con un sorriso soddisfatto e la pistola che mirava alla mia testa.
«Sapevo saresti venuto a cercarla, quando ci si lascia trascinare dai sentimenti va sempre a finire così». La sua risata sguaiata mi infastidì.
«Dov’è Irina?». La mia voce suonò talmente calma da stupire per primo me.
«Irina chi? Conosco solo Astrid. E Astrid è morta». Avevo la vista annebbiata e la solita rabbia di chi non pensava mai. Avevo una pistola pronta a farmi saltare le cervella, ma quando vidi Shùra dietro a colui che tentava di umiliarmi sentii la paura albergare nella stanza. Quella paura però non era la mia.
«Te lo dico in maniera gentile, approfittane finché trovi il mio animo ancora ammorbidito. Getta la pistola, e non pensare a strampalate vie di fuga, perché prima che il tuo pensiero prenda corpo avrai già l’intero caricatore addosso». L’americano impallidì al suono di quella voce perennemente calma e affabile, metteva i brividi, mentre sentiva la pistola dietro la nuca. Cominciò a sudare e io iniziai quasi a sentire la sua schifosa puzza addosso. Gettò  la pistola come un cane obbediente, Shùra la calciò via col piede facendola scivolare sul pavimento nella mia direzione. Ci guardammo per un singolo secondo: ancora una volta era dalla mia parte.
«Uccidilo». La sua voce fredda, un comando crudele prima di vederlo sparire dalla stanza.
Quando Shùra varcò la porta d'ingresso sentì probabilmente il mio sparo che rimbombò in tutta la casa, dritto al cuore di quel figlio di puttana.
Riuscii ad immaginare il sorriso soddisfatto di mio fratello e la scia di malinconia che aveva lasciato.
 
 

Sophia POV

 
Ebbi il tempo di schizzare fuori dal mio letto e dirigermi in bagno prima di svuotarmi dell’intero contenuto di una cena con Andrej. Ansimai afferrando il bordo della tazza, gli occhi socchiusi vedevano tutto sfocato. Shùra era sparito da giorni, Misha anche, e io mi ritrovavo a recitare la parte della fidanzatina sottomessa che arrossisce ad ogni complimento. Un altro fiotto di vomito mi disgustò.
E la nausea saliva. Si faceva liquido sotto le palpebre. Diventava lacrime che volevo rapprese perché non scendessero a riaccendermi il cuore, riempiendolo di speranze e disperate convinzioni.
È un incubo, un sogno, una favola, una storiella, un romanzo, un qualcosa. Vorrei fosse tutto fuorché la realtà. Vorrei continuare a vivere in questa bugia, con gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Per sempre.

 

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Capitolo 15
*** I'm not upset that you lied to me, I'm upset that from now on I can't believe you ***


  
 

ACT XV

 
 
Osservai la scrivania della mia camera, disordinata come sempre, un moto di rabbia attraversò il mio corpo mentre scaraventavo ogni oggetto presente lungo il pavimento con un urlo. La mia Irina era sparita da tre giorni, con Thomas morto trovarla adesso sembrava impossibile. L’unico a poterci aiutare era Clyde, l’uomo che per ultima l’aveva vista in quella strada desolata. Peccato lo avessero arrestato dodici ore prima per possesso illegale di armi, parlargli adesso sembrava impossibile. Avevo cercato Shùra, mi ero aggrappato a lui nonostante lo detestassi in quei giorni, mi aveva liquidato velocemente dicendo di non disturbarlo. Diceva di sapere già cosa fare. Diceva che dovevo fidarmi e attendere. Era vero? La mia mente era confusa dal dolore,mi sentivo ancora più nevrotico del solito mentre mi fissavo allo specchio con i miei abiti sporchi e consunti che mi ero rifiutato di togliere da quella notte nel bosco. Conservavo il cellulare di Irina, avevo frugato tra chiamate e messaggi ma nulla era saltato fuori, perché non provava a mettersi in contatto con me? Se davvero era viva come credeva mio fratello, allora perché non mi cercava? Il petto mi si strinse in una morsa che sembrò volermi uccidere. Rovistai tra le tasche cercando il mio telefono e toccai qualcosa che non ricordavo di avere, estrassi quelle bustine piene di polvere bianca sollevandole alla luce. Mandai giù il bolo di saliva continuando a guardarle ossessivamente, forse queste sarebbero riuscite a darmi la tranquillità che cercavo?
La gettai sul ripiano della cucina rompendo in due una cannuccia, non mi ero mai sfondato di merda francamente lo consideravo solo un modo idiota per uscire ancora più fuori di testa; io ero già pazzo di mio, come ricordava sempre Shùra, da tossico che diamine sarebbe rimasto di me? Nulla. Ed era il nulla che volevo mentre mi chinavo contro la superficie inalando quella polvere che sperai fosse magica sul serio.  Restai chiuso in casa per due giorni, come un morto che prova a fingersi vivo.
 
C’era la tanto voluta pace adesso?
 

 

Nadja POV

 
Qualcuno bussò alla mia porta in maniera feroce, sembrava volesse sfondarne il legno pregiato, mi gelai restando impietrita. Gli occhi corsero al comodino della mia camera, tenevo lì la pistola, sarei riuscita a prenderla prima che la porta venisse sfondata? I miei battiti si calmarono nel momento in cui il mio nome venne chiamato a gran voce con tono familiare: c’era Misha oltre quella porta. Corsi ad aprire e ciò che vidi mi lasciò più impietrita di qualsiasi possibile ex violento. Il suo corpo sembrava avere convulsioni, su di giri e tremante con gli occhi spiritati. Si gettò addosso a me e per poco non cademmo entrambi contro il freddo pavimento sotto di noi.
«La mia bellissima bionda è in casa allora». Non lo vedevo da giorni, quella mattina ero stata informata della scomparsa di Irina e adesso davanti ai miei occhi avevo la risposta alla mia domanda: come l’aveva presa Mikhail? Puzzava d’alcool a chilometri, ma c’era altro. I miei occhi da medico fissarono le sue pupille dilatate mentre camminava in cerchio dentro il tappeto del salotto.
«Mikhail.. che cosa hai fatto». Andai verso di lui che mi spinse rabbioso, gli occhi sembravano lame pronte a ferirmi.
«NON MI TOCCARE CAZZO». Alzai le braccia in segno di resa, provando a sorridergli. Aveva assunto droghe.
«Non ti tocco, promesso..». Il suo sguardo vacillò cambiando ancora, mi si gettò nuovamente addosso farfugliando delle scuse con frasi sconnesse e un tono eccitato. Quella fu la notte peggiore della mia vita.
Due ore dopo stava accucciato in un angolo della stanza, lo fissavo seduta sul divano cercando di mantenere la calma. Da quanto aveva preso a farne uso?
«Mikhail.. quando hai preso quella roba?». Provai a modulare la voce ma lui non sembrò sentirmi. Scattò in avanti allungando una mano come a voler afferrare qualcuno.
«IRINA VIENI QUI. DOVE CAZZO SEI STATA, EH?». Mi alzai issandolo con le poche forze che avevo per trascinarlo sul divano, non oppose resistenza. Il suo umore era nuovamente cambiato, sembrava spaventato adesso mentre tremava abbracciato a me. Gli accarezzai i capelli scendendo sul collo, approfittando di quel momento per sentire le pulsazioni che notai fossero ancora veloci.
«L’ho vista morire, capisci? La stavano sezionando Nadja. Era .. in un lettino di metallo, c’era un uomo con un coltello ..NO». Si alzò in preda alle allucinazioni iniziando a colpire le pareti. Tornai da lui provando a calmarlo mentre la notte lasciava il posto all’alba e solo quando i primi raggi baciarono il letto lo vidi addormentarsi.
Afferrai il telefono componendo un numero.
 
– Nadja sono occupato al momento.
– Aleksandr, Mikhail non sta bene..
– Lo so. Credi non lo sappia? Non dormo né mangio da quasi due giorni per cercare Irina.
– Non intendo questo..
– Gli ho già detto di stare tranquillo, credo che tra qualche giorno riuscirò ad avere un permesso per la prigione. Troverò Irina.
 
Non riuscii a dirgli nulla e probabilmente commisi un gravissimo errore. Temevo di mettere ancor più nei guai Mikhail facendo la spia, temevo la reazione di Aleksandr se avesse saputo. Ma in qualche modo dovevo porre rimedio.
Si svegliò nel primo pomeriggio, i suoi occhi assonnati si spalancarono di colpo, sgusciò fuori dal letto e lo sentii vomitare per mezzora chiuso in bagno. Quando riapparve il viso livido e le occhiaie mi strinsero il cuore.
«Cosa hai fatto Mikhail..» mi fissò triste e quasi imbarazzato.
«Nulla. Non ricapiterà più, quindi per favore.. non dire niente a lui». Mentre sentivo la porta chiudersi ero consapevole delle sue bugie, lo ero eppure tenni fede alla mia parola. Provai a dargli fiducia, ma si sa .. la fiducia è qualcosa di estremamente relativo alle volte.
 

 

Aleksandr POV

 
Mi ostinavo a non guardare le nostre vite colare a picco, potevo affrontare un solo problema alla volta e al momento Irina deteneva la mia priorità assoluta. Ero convinto non fosse morta, nonostante le ultime parole di quel bastardo lasciassero presupporre fosse in decomposizione da qualche parte, io ero certo che loro non l’avessero ritrovata quella notte. Dovevo solo averne la conferma, e quella poteva darmela solo Clyde chiuso in prigione. Avevo smosso mari e monti, gettato soldi come fossero caramelle e alla fine sembravo esserci riuscito: quel pomeriggio sarei riuscito a parlarci per un colloquio informale, passando come un parente lontano dell’uomo.
Stavo varcando la hall dell’agenzia ma una voce bloccò i miei passi, la stessa che non aveva smesso di battere nel mio cervello. Sophia era sempre stata lì, nonostante tornassi poco a casa, nonostante non la cercassi né sentissi, lei era sempre lì. Niente poteva sradicarla dal mio cuore né dalla mente. Mi voltai e ciò che vidi mi mozzò il respiro: era pallida, aveva occhiaie appena pronunciate sotto gli occhi e mi sentii ancora più mostruoso di quanto già non fossi di mio. Che le stavo facendo?
«Stai andando a pranzo?». La sua voce era dura ma calma, annuii mio malgrado senza riuscire a spiccicare parola per i primi minuti.
«Pure tu?». Non trovai di meglio da dire mentre la vedevo annuire ed indicare la grande porta all’ingresso. Lì parato e fermo c’era Andrej.
«Pranza con noi, Aleksandr». Sentii la cattiveria in quelle semplici parole, e sorrisi. Sorrisi perché non c’era altro da fare, sorrisi per nascondere la morte dal mio cuore mentre i caldi raggi del sole pomeridiano non riuscivano a scongelare i miei arti intorpiditi.
 
«Sophia è una ragazza brillante» era da circa mezzora che Andrej ne tesseva le lodi, mi era chiaro il concetto ma evidentemente lui non sembrava capirlo.
«Quello brillante qui sei tu, Shùra sai che Andrej ha una laurea in ingegneria?». Sorrisi ambiguamente, mi chiedevo se non l’avesse comprata con i punti della benzina visto il soggetto.
«Il cinema per stasera è confermato?». Cercai di non ridere esasperato bevendo dell’acqua, mi aveva invitato solo per ignorarmi quindi? Tipico di lei dar vita a piani così infantili, che purtroppo però raggiungevano il loro scopo. Era difficile liberarsi dalle sue trappole, o semplicemente ero troppo debole per farlo. Continuavo a fissare i suoi occhi spenti e il colorito pallido, stava male per causa mia?
«Shùra non sa cosa sia l’amore, al liceo tutte gli andavano dietro ma lui le scartava e rifiutava freddamente». Sollevai il capo ammonendola con un’occhiata, quindi voleva giocare così?
«Le rifiutavo tutte perché ero già cotto di un’altra». Sorrisi con espressione dura, e lei si zittì. Andrej sembrò non notarlo mentre continuava a gustarsi il suo gelato.
«Sophia ha sempre poco tempo per le nostre uscite a causa del suo lavoro». La sua voce sconsolata mi fece quasi vomitare. Avevo sentito Sergej giusto la sera prima, quale modo migliore per annunciare il suo ennesimo comando? Adesso comunque avevo la conferma ai miei sospetti: era stato quell’infame di Andrej a proporlo.
«Penso che il problema verrà risolto presto, ci saranno tagli consistenti al personale che verranno fatti tra qualche giorno. Credo Sophia vi faccia parte». La vidi trasalire e fissarmi sbigottita, non ci poteva credere e neanche io a dirla tutta. Gettai il tovagliolo sul tavolo alzandomi.
«Vai già via?» Andrej si alzò pronto a stringermi la mano, io lo ignorai continuando a fissare Sophia.
«Si, ho molto lavoro. Non dormo da giorni a causa di questo». La vidi abbassare lo sguardo mortificata e allo stesso tempo delusa ancora una volta da me e dalle mie scelte, voltai loro le spalle pagando il conto per poi andar via.
 
 
La prigione non era un luogo che mi apprestavo a visitare spesso, né contavo di soggiornarvi nei miei futuri anni. Mentre ne varcavo le porte mi ritrovai a pensare a Yuri, ancora una volta c’era lui nei miei pensieri, era stato arrestato durante una retata e a distanza di anni nessuno riusciva a capire chi potesse aver fatto la spia. Era rimasto comunque stoicamente in silenzio mentre la polizia investigava, dalla sua bocca il nome di Sergej non uscì mai nonostante gli venisse citato ad ogni interrogatorio; eppure il fratello lo aveva ripagato con la morte.
«Avete mezzora». La guardia aprì la porta e io scorsi l’uomo seduto e ammanettato.
«Credo ci metterò anche meno». Sorrisi affabile entrando, aspettando che fossimo soli per poi accomodarmi di fronte a lui.
«Chi diavolo sei tu? Non ho nessun cugino io». Assottigliò lo sguardo e io mi sporsi verso di lui.
«Secondo te?». La mia cadenza russa gli fece capire chi fossi immediatamente, sorrise arcigno poggiandosi comodamente alla sedia.
«Non ho un cazzo da dirti, figlio di puttana». Immaginavo più o meno una risposta simile, quindi mi sporsi poggiando i gomiti sul tavolo e mi accinsi a distruggerlo. Pezzo dopo pezzo.
«Sono qui perché ho una storia da raccontarti.. La storia di Irina, una ragazza scomparsa misteriosamente, vuoi sentirla?». Lo vidi sorridermi, si credeva furbo.
«Questa storia.. la conosco già». Stavolta sorrisi io scrollando appena le spalle.
«Ne sei sicuro? Il finale potrebbe stupirti più di quanto pensi». Il seme del dubbio si insinuò in lui.
«Cosa stai dicendo». Restai in silenzio qualche istante, come a voler ponderare le mie stesse parole.
«Tuo figlio .. era molto giovane. Ma lo era anche Irina in fondo, e lo sai molto bene». I suoi occhi si affilarono, e la paura passò come un lampo sul viso pietrificato fino a quel momento. Si sporse verso di me ma lo bloccai.
«Prima che una singola parola esca dalla tua bocca, ti consiglio di dirmi tutta la verità. C’è poco da fare ormai». Lo fissai in maniera calma, quasi serena.
«Chi cazzo sei tu..». il suo tono cambiò improvvisamente.
«Sono il tuo incubo. Non sai neppure questo?». Sussurrai quelle parole e i nostri visi divennero ancora più vicini.
«Dimmi dove cazzo si trova Irina, figlio di puttana. Se non lo avessi ancora capito, chiedere adesso clemenza è tempo sprecato. Ciò che hai fatto è ricaduto sulle spalle di innocenti, e posso assicurarti che soffrirai come un cane per questo.  Ma nonostante ciò ..NON SCIOGLI LA TUA LINGUA, BASTARDO? – il pugno della mia mano sbatté con forza sul tavolo, mi ricomposi quasi subito puntandogli contro il dito, sorridendo – Vuoi sapere come ho ucciso tuo figlio?». Mi fissò con occhi lucidi ridendo.
«Pensi io ti creda? Thomas lo proteggerebbe a qualsiasi costo». Stavolta toccò a me ridere.
«Come tu hai strappato la vita di Irina, così ho fatto io con quella del tuo giovane figlio. Violentemente». Il suo viso si pietrificò.
«Non ti credo..» lo vidi tentennare, suppongo l’animo umano si aggrappi spesso alle speranze inutili.
«Chi scava una fossa vi cadrà dentro e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso. E’ un versetto della bibbia, gliel’ho recitato mentre lo facevo a pezzi. Tra urla e lacrime .. ma probabilmente non credi neanche a questo, vero?». Rise in maniera affannata.
«Tu sei solo un pazzo bastardo». Annuii rovistando nella tasca interna della mia giacca, estrassi un pezzo di carta che gli passai. Lo vidi scorrerla con occhi tremanti e angosciati, finché non lesse un nome. Ciò che gli avevo appena dato non era altro che il certificato di morte del figlio.
«Fammi vedere come soffri adesso bastardo, ho proprio voglia di godere oggi». Incrociai le braccia al petto ascoltando le urla e i singhiozzi disperati di quell’uomo.
«Mio figlio..il mio bambino..COME HAI POTUTO».  Questo è il senso del vivere ragionevolmente la propria esistenza: non fare mai agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. L’uomo in se è bizzarro, commette ogni genere di atrocità senza il minimo guizzo di pietà, ma quando la stessa lama si abbatte su di lui ..ecco che si risvegliano umanità e sentimenti. 
 
– Sono appena uscito dalla prigione, dove sei?
– Irina?
– Era come pensavo, Irina non è morta. Né lui né quel bastardo di Thomas Jensen sapevano dove fosse.
– Che vuoi dire?
– Che Irina è fuggita Misha, è riuscita a scappare. La ritroveremo sana e salva.
– Quel ragazzo ..lo hai ucciso davvero?
– Tu che ne pensi?
– Penso tu non l’abbia fatto. Non tocchi i bambini, sei cambiato ma non fino a questo punto.
 
 
Cercammo Irina senza sosta, ma sembrava essersi volatilizzata. Personalmente ero convinto fosse una sua scelta quella di non rendersi reperibile, probabilmente pensava che il patrigno fosse ancora vivo e pronto a catturarla,ma non ci arrendemmo. Avremmo continuato a cercare fino a che la sua figura non sarebbe riapparsa nelle nostre vite, e in quella di Misha che lentamente sembrava andare allo sbaraglio senza che io me ne rendessi conto. Almeno finché le voci dei suoi atteggiamenti bizzarri non arrivarono a me.
Lo vedevano cambiato, aggressivo e perennemente eccitato da qualsiasi cosa. Ammazzava gente anche senza che gli venisse richiesto durante i nostri lavori, bastava una singola parola messa male per farlo scattare. Più ci riflettevo e più mi rendevo conto che qualcosa non andava, ma cosa? I miei sospetti non fecero altro che aumentare, semplicemente non riuscivo a catalogarli. O forse non volevo. Non volevo avere la conferma dei miei sospetti, non volevo credere si fosse sul serio lasciato distruggere con i metodi che io per primo avevo sempre condannato. Gli avevo insegnato a compiere ogni genere di atrocità, ma anche a comportarsi alla stregua di un essere umano, a sopportare i dolori strenuamente senza lasciarsi piegare. Mi resi conto mentre varcavo la porta della sua casa di non esserci probabilmente riuscito. La puzza in quell’appartamento mi soffocava, da quanto non permetteva alla cameriera di pulire e riordinare?
«Misha?». Lo chiamai a gran voce ma nessuno rispose al mio appello. In fondo ero entrato di soppiatto nel suo appartamento proprio per quel motivo, io non volevo vedere lui: volevo cercare le prove dei miei sospetti. Era passato quasi un mese dalla scomparsa di Irina, e per quanto potesse essere sconvolto nulla giustificava quegli strani atteggiamenti.
Entrai nella sua camera, era silenziosa e buia, aprii le tapparelle lasciando circolare l'aria; da quanto non lavava anche lì? La puzza di stantio impregnava ogni mobile, ogni tessuto lì dentro, mi tappai le narici andando verso l'uscita ma qualcosa bloccò i miei passi. Guardai la scrivania assottigliando lo sguardo, il sole filtrando metteva in evidenza la polvere (Da quando la polvere è così fottutamente bianca?), mi avvicinai con passo malfermo ma la mano non tremò quando con il mignolo raccolsi un po' di quella sostanza portandomela alle labbra; l'assaggiai con la punta della lingua allargando appena le narici. Cocaina.
 Il fiume inarrestabile ruppe la diga. I pezzi del puzzle si incendiarono senza lasciare la minima traccia. Vidi la fine, vidi il fallimento e vidi Misha. Mikhail morto. Urlai a gran voce il suo nome, probabilmente persino Sergej da Mosca lo aveva sentito. Uscii come un tornado dalla stanza pronto a scovarlo in qualsiasi fogna si fosse rintanato ma andai a sbattere proprio contro il soggetto interessato. Era tornato quindi? Lo scrutai a fondo, aveva le occhiaie, sembrava stanco e tremava appena, gli occhi lucidi e quel fastidioso modo di tirare su col naso.
«Che cazzo ci fai nella mia stanza?» era nervoso e guardingo.
«Ricordi cosa ti dissi tempo fa vero?» mi avvicinai vedendolo arretrare.
«.. Cosa?» La voce di Misha vacillò, che avesse percepito la mia rabbia letale?
«Ti avevo detto che solo io avrei avuto il piacere di ammazzarti, e lo farò. Adesso». Non gli diedi neppure il tempo di replicare, caricai il peso sulla testa schiantandola contro il suo naso, lo vidi barcollare indietro. Il sangue iniziò ad uscire abbondante, lo guardai come se lo vedessi per la prima volta e fu lì che capì di essere stato beccato.
«Ti ho chiesto solo di non essere un coglione – un  calcio dritto sullo stomaco seguì quelle parole. Misha cadde e non si rialzò – ti  ho chiesto di avere cura di te mentre io mi facevo il culo per risolvere i fottuti casini al posto tuo». L'ennesimo calcio al basso ventre sferrato con forza, quasi cattiveria.
«TI HO CHIESTO DI DIVENTARE UN FOTTUTO ESSERE UMANO». La mia mano andò a serrarsi tra i suoi capelli iniziando a sbattergli la testa contro il muro, volevo sul serio ucciderlo. Continuava a non reagire, non ci provava neppure perché forse aspettava quel momento. Era convinto da sempre che con me riuscisse ad arrivare la pace, la consapevolezza e con essa la fine che tanto agognava da una vita. Lo vidi chiudere gli occhi stringendo i denti senza emettere il minimo lamento, lasciando che le mie parole lo colpissero più dei pugni. Era un paradosso, ma quella violenza era solo un modo per fargli capire che qualcuno lo amava. Ansimai di rabbia, sferravo calci uno dopo l'altro e mi fermai solo quando mi sembrò abbastanza.
«Oggi muori». Corsi nella sua stanza, il sangue gli colava dalla fronte, dal naso e dalle labbra ma lui continuava a non muoversi. Uscii con una delle sue pistole tra le mani, gliela poggiai sulla tempia lasciando che sentisse il gelo dell'acciaio.
«Tu vuoi morire no? Lo dici sempre, e adesso sto poggiando contro di te un'arma così verrai accontentato. Ripeto, vuoi morire? BENE CAZZO, MUORI ADESSO PAZZO BASTARDO» per la prima volta si mosse e mi guardò, le dita tremanti circondarono la canna della pistola fredda come le sue mani, la strinse singhiozzando.
«Ammazzami ti prego. Ammazzami perché non vedo la fine della sofferenza, ho fallito in tutto, ammazzami adesso prima di diventare ancora più feccia di quanto io già non sia». Iniziò a piangere e la sua voce sembrò rompersi come il cristallo gettato a terra. Lasciai fuoriuscire l'aria che avevo trattenuto tornando a respirare, gettando la pistola sul pavimento per accasciarmi contro il muro. Lo afferrai per il bordo della maglia avvicinandolo e abbracciandolo. Lo strinsi come in Russia da bambini. Continuavo a ripetergli ''Sssst, ssst'' e non seppi dire se tranquillizzassi lui o me stesso in quel momento. La fine era arrivata inesorabile, ma essa portò con se un barlume di pace in quella landa desolata che era la nostra vita adesso. Solo per cinque minuti.
 
Poi tornò la guerra.
 

 

Sophia POV

 
– Aleksandr è in un ufficio?
– Sophia! Ho saputo.. mi dispiace davvero tanto.
– Ma figurati, sono cose che capitano! Beh, allora, è in ufficio o no? Devo portargli qualche foglio e prendere delle cose che ho lasciato dentro.
– No, mi dispiace ma è fuori credo sia con Misha. Se vuoi puoi lasciarmi i fogli, a quelli ci penso io.
– No, no, molto gentile da parte tua ma preferisco far da sola.. posso vero?
– Non saprei, lo sai anche tu che non può entrare chiunque..
– .. Ti sembro chiunque?
– Sophia non puoi entrare, sul serio.
– Va bene, lo aspetterò qui allora.
 
Avrebbe dovuto intuire, ma non lo fece. Mi fissava di tanto in tanto finché qualcuno non la chiamò. La fissai serenamente dondolando le gambe e quando la vidi sparire lungo il corridoio i miei piedi si mossero veloci entrando nell’ufficio.
Un sorriso gentile, tanta calma in apparenza ed un tono pacato; non sono mai stata brava con le bugie, eppure questa volta mi sarei meritata un bel premio per la recitazione. Se mi sentivo in colpa? Un pochino, forse, ma nel peggiore dei casi sarei finita col dire tutto quanto a Shùra scusandomi dell’irruzione nel suo ufficio. A dire il vero in quel momento le scuse erano l’ultimo dei miei problemi. Non rientrava a casa da diversi giorni ed ormai non lo vedevo neanche più; da vero uomo aveva persino trovato il coraggio di licenziarmi per messaggio, come se la forza per dirmi certe cose in faccia fosse venuta a mancare all’improvviso. E lui che si vantava così tanto del suo cuor da leone e della sua sfrontatezza. Ovviamente fece il tutto senza lasciar nemmeno una spiegazione valida, a parte la stronzata del ‘’taglio di personale’’. E se le risposte non venivano da sé, beh, sarebbe stata Sophia ad andar da loro.
L’ufficio odorava di pulito. Sull’immensa scrivania non c’era neanche un granello di polvere. Tutto era perfettamente in ordine, tutto era così tipico di lui. Mi guardai in giro per qualche secondo, come se le risposte che cercavo fossero attaccate ed incorniciate sulle pareti sobrie ed eleganti, poi sospirai profondamente. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando esattamente, ma ormai che c’ero tanto valeva approfittarne al massimo. Mi sedetti sulla poltroncina in pelle, quella che “se ti siedi su quella sedia ti licenzio seduta stante”, parole sue, e posai le mani sulla superficie liscia e pulita, pronta a farmi gli affari altrui – un po’ come al solito.
Aspettai diversi minuti con la vana speranza di vederlo tornare e poter discutere con lui da persona “civile”, il ché implicava una gran forza di volontà da parte mia. La convinzione che mi stesse scaricando così, senza un motivo valido, banalizzando tutte le promesse che mi erano state fatte non mi rendeva di certo tranquilla e serena. Aspettai, sì, cinque minuti esatti e poi la mia pazienza si esaurì. Davanti a me il computer, quindi tutto quello di cui avevo bisogno. La prima cosa che mi chiese fu la password ed in quel momento non seppi se ridere o piangere; 28012003. 28 gennaio 2003, la morte di suo padre.
Una decina di cartelle macchiavano lo sfondo monocromatico e rigorosamente blu scuro del computer. Nessuna possedeva un nome particolare, ad eccezione di quella che attirò la mia attenzione: Семья, famiglia. Con un nome del genere mi aspettavo vecchie foto in bianco e nero passate allo scanner, qualche immagine con suo padre, magari il volto della madre, le nostre foto d’infanzia, Misha, papà, lo zio Yuri, la tata e così via. Ma non trovai nulla di tutto ciò. Non c’era nessuna foto, nessun ricordo felice, nessuna memoria malinconica; solamente tanti documenti, uno più strano dell’altro. C’erano nomi di donne, tabelle piene di numeri, “ore di servizio” per la precisione e “quote da versare a fine serata”. Altri documenti dicevano “armi”, “progetto in corso” ed alcuni erano persino in lingue che neanche comprendevo. Un nome solleticò però la mia memoria, ovvero: Bratva. Persino una povera idiota come me sapeva cosa fosse la mafia. La Russia ne era assurdamente prostrata, gente che veniva chiamata Vor o Imprenditore, spadroneggiava senza mai venir punita. Perché quel nome si ripeteva così spesso?
Passai alle mail con la speranza di capirci qualcosina di più; nella lista dei mittenti c’era quasi sempre il nome di mio padre: Syergyej Mihajlov 'Mikhas.
 
24 sᴇᴛᴛᴇᴍʙʀᴇ 2016.
— Occupati di Yuri e dì a Misha di sbarazzarsi del suo corpo. Sai già come fare con i membri della Famiglia. Non scordarti di Sophia. Conto su di te. La Bratva conta su di te, Shùra.

 
La bolla dove crebbi, che racchiudeva in sé un mondo utopico così perfettamente progettato, scoppiò lasciandomi priva d’ogni riparo. Le mie certezze scomparvero tutte, dalla prima all’ultima, rimpiazzate solamente da dubbi. Tutte le verità divennero copioni recitati alla perfezione, tutte le persone che stimavo o che, ancor peggio, amavo non erano altro che attori in quella vita così non mia. Quella era una commedia degna del drammaturgo Molière! Gli attori erano così bravi, così naturali e semplicemente perfetti che non sapevo più se stessi vivendo in una realtà o se fossi la protagonista – quella bigotta e stupida, ovviamente! – immedesimata sul palcoscenico dell’Opera di Mosca. Che siano diventati un tutt’uno con la loro maschera?
Shùra non era Shùra, Misha non era Misha e mio padre.. Mio padre, già, chi era? Chi erano? Chi ero?
Il respiro venne a mancare, la gola si seccò e le gambe rifiutarono di restare al loro posto. Mi alzai. Provai a respirare a pieni polmoni. Mi rifiutai di credere alla realtà dei fatti, scritta nero su bianco. Cacciai a forza ogni lacrima e provai a trovare una spiegazione logica a tutto ciò. “C’è sempre una spiegazione logica a tutto quanto”, continuavo a ripetermi convinta più che mai.
La verità è che le “spiegazioni logiche” erano proprio quelle che non volevo sapere.
La verità è che tutto quel che per me era fondamentale non era altro che un cumulo di merda nauseabonda.
La verità è che per anni mi ero rifiutata di aprire gli occhi.
A distogliere la mia attenzione ci pensò quel dolore all’addome appena accennato, un fastidio leggero ed inopportuno che inspiegabilmente mi turbò. Avvertii una sensazione di calore scorrere lungo le gambe, dall’altro verso il basso, accompagnata da uno strano senso di vuoto. Solleticava. Mi sfiorai la coscia ed il dito s’inumidì macchiandosi di un rosso cremisi così acceso e vivo da farmi venire il voltastomaco. Spensi quel dannato computer e mi poggiai nuovamente sulla sedia, pallida più che mai. Qualsiasi cosa avessi in quel momento rifiutava di fermarsi. La macchia di sangue continuava a diventare sempre più vasta ed il tessuto dei jeans sempre più intriso di quel liquido dall’odore acre. Il gusto acido del vomito invadeva il mio palato.
Effettuai una sola chiamata col poco fiato rimasto in gola.
«Aleksandr, credo di non stare bene » dissi. Poi buttai tutto fuori, come un fiume in piena.
Vomitavo disgustata da me stessa,
dagli altri,
da tutto quanto.

 

 

Aleksandr POV

 
Misha seduto sul divano continuava a tamponarsi le ferite che io stesso gli avevo procurato. Non mi sentivo sicuramente in colpa mentre fissavo lo zigomo lacerato, gonfio e adesso violaceo venir pressato dal ghiaccio.
«La prossima volta spaccami direttamente la faccia e facciamo prima». La sua voce appena strascicata mi fece ridere.
«Non ci sarà una prossima volta Misha ..la prossima coinciderà con la tua morte». La sua smorfia e il mio sorriso coincisero con lo squillo del mio cellulare. Mi alzai rovistando nelle tasche della giacca, fissai il nome di Sophia e per un secondo tentennai. Non so cosa mi portò a rispondere sinceramente, ma quando lo feci la vita nel mio corpo sembrò risucchiarsi totalmente al suono di quella voce flebile. Rimisi giù correndo verso l’ingresso.
«DOVE CAZZO VAI?» Misha si sporse allarmato, mi bloccai ansante.
«Non è successo nulla, Sophia ha un po’di febbre credo, torna a riposare». Perché non glielo dissi? I miei pessimi presentimenti sembrarono tapparmi la bocca rendendomi improvvisamente omertoso. Afferrai il cellulare chiamando Nadja.
«Sophia sta male. Vieni immediatamente»
 
 
Emergere da un abisso e rientrarci: questa è la vita.
 
 

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Capitolo 16
*** So who is the traitor in our midst? ***


  

 

ACT XVI

 
Sophia non era in casa, me ne resi conto con terrore quando varcai la soglia urlando il suo nome. Il mio cellulare squillò in quel momento, risposi affannato mentre Anastasia mi annunciava di aver trovato il soggetto delle mie ricerche svenuta nel mio ufficio. Mandai un messaggio a Nadja chiedendole di aspettarmi in casa, e corsi alla meta con il cuore che sembrava volermi esplodere nel petto. Avevo un pessimo presentimento, era come se mi stessi dirigendo a soccorrere un cadavere, e non l’amore della mia vita, perché?
 
❝ Tutti i fiumi si riversarono in mare..
 
Vedere il sangue era qualcosa alla quale sembravo fortemente abituato, pregno fino al midollo di quel liquido denso e viscoso che non riusciva a smuovere neppure un briciolo di pietà dalla mia anima. Quando però vidi Sophia giacere in una pozza di sangue, per la prima volta nella vita, sentii le gambe tremare e cedere. Mi precipitai cadendo in ginocchio, scuotendola con forza, chiamando il suo nome a gran voce ma l'unica cosa che ottenni fu un respiro da parte dell'esile corpo ed un movimento della mano. Le dita sottili si aggrapparono al mio collo macchiandolo di sangue. Non lo sapeva ancora, ma quel sangue avrebbe ufficialmente segnato la fine della vita che ero abituato a conoscere e manipolare. La presi tra le mie braccia assicurandomi che nessuno mi vedesse uscire col suo corpo dall’agenzia, e correndo come un pazzo ritornai nella nostra casa. Ogni semaforo rosso, ogni incrocio, ogni stop erano tutti piccoli avvertimenti che non percepii.
Nadja uscì dalla stanza due ore dopo, i suoi occhi furbi e chiari sostennero i miei senza che lasciasse trapelare nulla, mentre fissava la mia camicia imbrattata di un sangue che ancora una volta non era mio. Stavo poggiato al muro quasi mi stessi facendo aiutare nel sorreggermi, ma non appena la vidi scattai in avanti come impazzito.
«Come sta? Che cazzo ha? Tutto quel sangue, che cazzo ha Sophia» allungai una mano ma mi resi conto di avere sporca anche quella, non la toccai.
«Credo che in fondo tu lo sappia cos’ha» non sorrise, e io la odiai.
«Sono un cazzo di medico? Ti sembro in vena di indovinelli? Non.. non credo possa essere ciò che penso». Ed invece si, io lo sapevo bene, ma tra il pensarlo e il dirlo vi era un fiume di dolore in piena da superare.
Aborto spontaneo, così lo chiamò. Il mio cuore tremò frantumandosi in mille pezzi, le gambe cedettero ma non vi fu nessuno a sostenermi a parte il pavimento duro e freddo. Tutte le mie azioni mi avevano portato a quel punto e adesso da solo o soccombevo o provavo a tirarmene fuori uscendone come sempre vittorioso. Ma vittorioso di cosa? Che tipo di vittoria potevo mai ottenere? Mi sentivo un assassino – ironico a dirsi – avevo ucciso il frutto del nostro amore. Perché sapevo di essere stato io a farlo in qualche modo.
«Il destino te lo crei tu, ricordalo. Nessuno di noi sa cosa ci attende, eppure continuiamo a vivere in un terrore silenzioso che molto spesso non ammettiamo a noi stessi. E sai perché lo facciamo?» incrociò le braccia al petto guardandomi ambiguamente.
«Perché?» non riconobbi la mia voce.
«Perché siamo esseri umani. Le ho dato qualcosa per calmare i dolori e probabilmente tra poco si addormenterà.. tornerò domani. Buonanotte Aleksandr» mi fissò con compassione voltandomi le spalle. ‘’Siete esseri umani’’, avrei voluto tanto dirlo.
«Non dire nulla a Misha, non è il momento giusto per dargli anche questo peso» continuavo a non riconoscere la mia voce.
«Non glielo dirò perché non spetta a me, né tantomeno a te dirglielo ..l’unica che potrebbe farlo, credo proprio non lo farà. E tu Aleksandr? Mikhail non può portare altri pesi, tu quanti pensi di poterne portare? Non sopravvalutarti, cadrai anche tu». Non le risposi stavolta lasciando che sparisse insieme al tonfo sordo della porta.
Osservai  la porta socchiusa della mia camera, sentivo le gambe come piombo un po' come il condannato di fronte al patibolo, sa di dover proseguire perché non ha scelta eppure esita, rallenta, fa di tutto per mantenersi aggrappato a quella vita che sta perdendo. Entrai.
«Ehi..» ''Ehi'' fu tutto ciò che riuscii a mettere in piedi, all'interno vi erano più parole di quanto si potesse pensare, parole che solo io e lei potevano percepire. Ma lei non volle farlo, sollevando invece lo sguardo - la mano serrata sulla stoffa della maglia all'altezza dello stomaco - mentre le parole fluivano come un fiume in piena dalle sue labbra.
«Ah, eccoti! Mi chiedevo dove fossi.. mi passi un po’ d’acqua? Non ne bevo da questo pomeriggio» la fissai come se faticassi a sentire ciò che diceva.
«Come stai?» Parole vuote che ricevettero risposte altrettanto vuote. Non era mai stato un maestro nell'arte dell'oratoria, soprattutto con chi amavo perché manipolare loro era diverso dal farlo con estranei, ma quel giorno mi sentivo più simile ad un muto che si forzava a parlare provocandosi abrasioni alla gola. Le parole continuavano ad uscir fuori come schegge di vetro, mi sedetti sulla sedia accanto al letto prendendole la mano per coprirla con le mie, sforzandomi di guardarla.
«Smettila di fissarmi così, sappiamo entrambi che ho una pessima cera..» continuai a forzarmi.
«Come ti sto fissando Sonech’ka?» sentivo ancora la voce di un estraneo anziché la mia.
«Ti facciamo pena» mi gelai e smisi di fissarla.
«Perché usi il plurale, chi mi fa pena oltre te?». Quella domanda non ebbe alcuna risposta sensata, ed io neppure ne volevo una forse, tremavo all'idea che dicesse chi oltre lei poteva farmi pena.
Volevo urlare ‘’IO MI FACCIO PENA. IO. IO. IO.’’ Ma le parole si incastrarono nuovamente nella mia gola. Passarono i minuti, o forse erano ore.
 «Non mi guardare». Lo disse con una voce talmente soffocata da farmi venire la pelle d'oca, acconsentii quasi felice. Non la guardai. Sophia era appena stata uccisa da me.
Un'altra ora, un altro discorso, qualsiasi potessimo fare però finiva sempre con la frase da parte di lei ''E' stata colpa mia''. E io rispondevo: ''Non è così''. Cercavo di soffocare il mio dolore, ma forse non ci riuscii bene perché dopo il decimo ''Non è stata colpa tua'' sussurrato con voce rotta, Sophia smise di chiedermelo.
La luna era alta nel cielo ma io non riusciva neppure a vederla, mi sentivo cieco.
«Dormi accanto a me stasera?» la guardai mentendole ancora.
«Si..ovvio che si, appena ti sarai addormentata mi stenderò accanto a te». Era una bugia, Sophia era appena stata contaminata. Contaminata da ogni mia bruttura, dal sangue, da un bambino perso, dal dolore che urlava e non voleva uscire. Scottava e io non riuscivo a starle vicino senza prender fuoco insieme a lei. Fiamme dell'inferno. Erano queste?
«Stavo pensando che a volte sei dolcissimo. Non faresti del male ad un mosca» Sophia gettò l'esca, e io abboccai.
«..Con questa faccia, capirai a chi potrei far del male. Non posso fare del male a te, è questo che conta».
Parole e ancora parole, persi di nuovo il conto del tempo, continuavo a chiederle ‘’Hai sonno?’’ ma lei non dormiva, non voleva lasciarmi libero, voleva torturarmi.
«Secondo te ha sofferto?» Ah, evidentemente no non era ancora finito quel calvario, raddrizza le spalle Aleksandr il ballo è ancora all'inizio. Continuavo a motivarmi senza sosta.
 
Era passata quanto? Un'ora, due? Non lo sapevo più, mi sentivo sfinito e le mie spalle ricurve pesavano come fossero piene di cemento. Sophia vomitò, le asciugai il viso e le labbra continuando a non guardarla.
«Io credo nel destino, è lo stesso che quindici anni fa mi portò da te» cercai di usare un tono sicuro.
«È lo stesso che mi ha portato via il nostro bambino? Lo stesso che ci ha macchiato di peccati?» perché parlava così?
«Hai commesso peccati mia dolce Sonech’ka?». I discorsi apparentemente insensati continuavano a fluire fuori, Sophia mi faceva parlare controvoglia e io sempre sottomesso a lei non me lo facevo neppure ripetere.
«Hai mai fatto scelte sbagliate? Di che tipo?» non la guardai mentre tornavo indietro di vent’anni.
«Stavo per rubare il portafogli di tuo padre quando lo conobbi, avevo dieci anni». Mi rividi a San Pietroburgo avevo freddo e fame, avevo imparato presto come procurarmi il cibo senza elemosinare nulla ai russi sempre troppo presi da se stessi per guardare chiunque al di fuori della loro bolla (‘’Sophia, sei stata fino ad oggi una russa perfetta’’). Se non avessi rubato il suo portafoglio, oggi dove sarei? Lontano da lì, un uomo retto e ‘’giusto’’ ma senza Sophia. E senza Misha. Non sarei riuscito a pentirmi dei miei sbagli finché non avrei iniziato a vederli come tali. Lasciai perdere quegli stupidi ragionamenti, e venne la notte. E con essa il sonno e il respiro regolare di lei. Le lasciai la mano andando a mettermi sul pavimento nell'angolo opposto al letto mentre con gli occhi sbarrati stetti ad osservarla tutta la notte. Vidi mio padre (‘’Vai via, non voglio vederti, non stanotte’’) e vidi lei. Finalmente la vidi davvero. Lo capii all'alba: Sonech'ka non aveva mai lasciato andare il suo maglione dalle esili dita.
Qualcosa si frantumò, si distrusse in miliardi di frammenti e si cementò nuovamente. Più forte e sbagliato di prima.
 
… ma il mare non era ancora ricolmo. ❞
 
 
***
 
«Il cavaliere di bronzo narra di un impiegato, Evghenij, che perde la fidanzata nella terribile inondazione di Pietroburgo del 1825. Impazzito per il dolore, quando passa davanti al maestoso monumento di Pietro il Grande, leva il pugno contro la statua dell'Imperatore, causa di tutti i suoi mali.
Il cavaliere si stacca dal piedistallo e lo insegue per le strade di Pietroburgo. Il povero impiegato sarà poi ritrovato senza vita davanti alla casa di legno della fidanzata»
 
«E’ una storia orrenda Shùra, è nel tuo libro di poesie?»
 
Il bronzeo cavaliere mi insegue, urlando nella notte, io continuo a correre sperando e pregando di ritrovarla.
 
❛ E illuminato dalla pallida luna vede il Cavaliere di bronzo che con la mano levata in alto sul cavallo galoppante lo segue fragorosamente alle calcagna.
Per tutta la notte il povero demente, ovunque rivolgesse i passi, sempre sentiva dietro di lui galoppare il Cavaliere di bronzo col suo pesante calpestio.
 
 
Un passo, due passi. Un battito, due battiti. Contavo il mio cuore e i miei passi silenziosi, entrambi mi stavano conducendo al mio destino. Un destino che sembrava andare di pari passo con la decadenza nella quale era piombata la mia esistenza. Le note del ‘’Bel Valzer Del Danubio Blu’’ rimbombavano nella mia mente, insieme a due corpi abbracciati al chiaro di luna mentre il freddo di Mosca gelava i cuori tranne i nostri.
La donna accanto a me continuava a guardarsi attorno spaesata e spaventata. L’avevo pagata per dare appuntamento ad Andrej in quel bordello che a quanto sembrava era uno dei suoi preferiti.
«Non ..non verrò coinvolta vero?». Era la decima volta che lo chiedeva. Sospirai senza guardarla.
«No, ti ho appena dato dei nuovi documenti, l’aereo partirà stanotte». Sorrisi affabile e la sentii scrutarmi.
«Di quelli come te è meglio non fidarsi..» il mio sorriso divenne una risata vera e propria. Il fatto che riuscissi a fingere così bene era raccapricciante. Da quella fatidica notte di sangue e lacrime non erano passati che pochi giorni. Sophia era rimasta a letto immobile finché una mattina non l’avevo ritrovata in cucina a prepararmi la colazione. Sorrideva.
«Eppure ti sei fidata, quindi». Estrassi la pistola caricandola con un colpo secco e il mio viso si indurì divenendo come scolpito nella pietra, più mi avvicinavo e più le voci concitate della gente si facevano forti e chiare. Lui era lì. Osservai la porta chiusa mettendo una mano sul pomello, stringendolo con forza, le parole di mio padre urlarono nella mia mente ormai alla deriva: ''Voglio che tu sia giusto''.
«Mi dispiace papà, il mio destino è ormai compiuto. Non c'è giustizia se non la mia». Aprii la porta, la pistola nella mano destra mentre un lento sorriso arcigno curvava le mie labbra. Mi permisi il lusso di non guardare le sette persone all'interno del comodo salotto, avevano smesso tutte di parlare per fissarmi attonite. Tutte, nessuna esclusa, erano ignare della fine incombente. Il mio sguardo non si spostò mai dal ragazzo al centro della piccola folla, lui aveva già capito.
«Che cazzo ci fai qui» un ringhio rabbioso più che una domanda.
«Tu che ne pensi, Andrej?». Sussurrai appena quella parole alzando il braccio puntando la pistola verso la prima persona alla sua destra, facendo fuoco. La donna si accasciò priva di vita. Le restanti puttane iniziarono ad urlare cercando di sparire come per magia da quella stanza, erano capitati lì per caso e avrebbero pagato come fossero tutti colpevoli. Andrej sbarrò gli occhi, le mani gli tremarono e per un istante potei vedere e sentire la sua paura. Non mi fermai iniziando implacabile la mia personale crociata. Una, due, tre, quattro. Dopo pochi minuti le uniche persone vive eravamo io, la traditrice e Andrej.. o forse solo loro due lo erano davvero. Lo vidi portare lentamente la mano sulla schiena, cercava la sua arma, mirai al ginocchio sparando un colpo. Urlò accasciandosi, sollevando la testa con odio malcelato.
«Fottuto bastardo. Sergej farà festa sul tuo cadavere» risi ma nessun suono uscì dalla mia bocca.
«Pensi che me ne importi qualcosa? Non mi vedi? Sono qui a viso scoperto, forse pagherò ma tu morirai» scrollai le spalle come se la spiegazione appena data fosse semplice.
«Perché lo fai». Inarcai un sopracciglio fingendo stupore.
«Perché... – la mia voce divenne simile al rombo cupo che precede il temporale, gli occhi iniettati di sangue e fiammeggianti – perché  lei è mia. Solo io l’avrò, né un verme come te né nessun’altro». Sparai centrandolo in pieno viso. Il corpo esanime si accasciò, e fu silenzio. Finalmente.
La donna dietro di me singhiozzò tappandosi la bocca, fissandomi terrorizzata. Forse non si aspettava tutto ciò che aveva visto.
«Non te ne vai?». Non la guardai continuando a tenere gli occhi fissi sul cadavere di Andrej.
«S-si ..». Il rumore dei suoi tacchi scandì il tempo, al decimo mi voltai mirando alla nuca che centrai osservandola cadere a peso morto sulla moquette.
«Avevi ragione tu, di quelli come me è meglio non fidarsi». Afferrai il cellulare componendo un numero.
 
– Shùra.
– Dove sei?
– A casa, perché?
– Perché dobbiamo vederci, domani possibilmente.
– Dove?
– Al capannone 22, dove mi hanno teso l’agguato mesi fa.
– E’ successo qualcosa?
– No Misha, dormi sereno e domani sii puntuale.
 
Chiusi la chiamata fissando il sangue tutto attorno a me. Sarebbe stata una lunga notte quella.
 
E ti dico ancora: qualunque cosa avvenga di te e di me, comunque si svolga la nostra vita, non accadrà mai che, nel momento in cui tu mi chiami seriamente e senta d'aver bisogno di me, mi trovi sordo al tuo appello. Mai.
 

 

Mikhail POV

 
Il mio viso sembrava una maschera grottesca di carnevale, non odiavo comunque Shùra per avermi picchiato perché pensavo di meritarmelo. E lo pensavo con più forza in momenti come quello di adesso, dove mi accingevo a tirare l’ennesima striscia di coca incurante delle sue parole. Francamente avrei anche potuto farne a meno, mi piaceva il sentirmi vivo però e le volte in cui vedevo Irina; per quanto sapessi ormai fossero allucinazioni, alle volte raccapriccianti, era comunque vitale per me poterla vedere.
La chiamata ricevuta il giorno prima mi aveva destabilizzato, non lo so c’era qualcosa nel tono di Shùra ad avermi fatto accapponare la pelle, ma cosa? Fissavo l’orologio come se volessi spingerne le lancette, mentre attendevo che la mezzanotte scoccasse per potermi recare in quel fottutissimo capannone.
E la tanto attesa ora arrivò. E io mi pentii della mia fretta. Fissavo un cadavere col volto maciullato, cioè non riuscivo a capire chi porca puttana fosse anche se una parte di me urlava il suo nome a gran voce, semplicemente non potevo crederci. Lui non poteva averlo fatto. Pensai di essere in un altro dei miei trip assurdi, ma la voce di Aleksandr mi strappò da quelle utopiche convinzioni per riportarmi alla mia patetica realtà.
«Secondo te chi è?». Le ginocchia piegate e la pistola nelle mani, mentre sostava a pochi centimetri da quel corpo. Mi ritrovai a ridere e ci misi qualche istante a capire di star ridendo sul serio.
«Io sono il re delle cazzate ..ma tu». Non riuscii a finire. Mi fissò scrollando le spalle.
«Lo hai riconosciuto quindi». Come? La carne del viso sembrava come macinata, fortuna che ero di stomaco forte.
«Non posso crederci. Lo hai ucciso. E Sergej ucciderà te». Ecco, quella era una cosa per la quale valeva la pena vomitare.
«Non è ancora il momento per lui di scoprirlo». Non capivo, mi ero fottuto il cervello con la cocaina ma lui non mi aiutava.
«Non è il momento? Ma che cazzo dici ..Non dovrà scoprirlo mai, MAI. NON VOGLIO SEPPELLIRE ANCHE TE. ERA A QUESTO CHE PENSAVI QUINDI? VOLEVI AMMAZZARLO?». Lo vidi alzarsi e puntarmi la pistola contro.
«Sei con me o contro di me?». Mi fissò con una strana calma.
«Non so neppure che cazzo vuoi fare..». Sentivo la saliva prosciugata dalla mia bocca. Mi ritrovai a fissare ancora quella massa informe d’uomo a terra.
«Lo saprai. Voglio solo sapere se sei pronto ad uscirne Misha, vuoi uscire da tutto questo delirio?». Lo stava dicendo sul serio?
«Che cazzo di domanda è. Voglio sapere che cosa stai architettando». Mi superò avanzando verso l’ingresso. Lo rincorsi strattonandolo  costringendolo a voltarsi.
«Lo saprai a tempo debito». Mi spinse verso l’uscita, evidentemente voleva disfarsi lui del cadavere.
«Posso fare tutto per te. Non c'è cosa che non farei, ma non voglio vederti impazzire. Se impazzisci tu, tutto crolla.. compreso io». Chinai il capo allargando le narici, sentivo la rabbia dilagare nel mio petto insieme al dolore. Il dolore di troppe perdite.
«Non sono impazzito. Mi seguirai all’inferno, e ripagherò il mio debito con te». Aveva un debito con me?
«Di che cazzo parli». Mi avvicinai ma lui mi spinse ancora verso l’uscita.
«Quel giorno a Mosca, invece di una pistola avrei dovuto metterti tra le mani dei soldi e farti fuggire. Non l’ho fatto, ti ho tenuto con me per egoismo e me ne pento. Ma rimedierò, quindi tieni gli occhi aperti Misha perché presto avrà inizio la guerra». Mentre mi allontanavo barcollante sentivo il rimbombo delle sue parole nelle mie orecchie. Quindi aveva da sempre un piano? Perché non me lo aveva detto? Perché non sapevo mai un cazzo.. Mi voltai un’ultima volta scorgendo le fiamme guizzanti che sembravano voler toccare le stelle, mentre dentro prendeva fuoco il corpo di Andrej. Probabilmente la miccia che avrebbe causato la furiosa esplosione.

 
 

Sophia POV

 
Le carezze mangiano il cuore degli altri.
 

Così le sue avevano mangiato il mio poco alla volta. I miei occhi ormai lo seguivano ovunque, bevevano ogni sua parola o gesto, captavano persino le diverse intonazioni a seconda del suo umore. Lui soffriva e io precipitavo.
Come aveva potuto farmi questo? Anni di menzogne, partendo da mio padre e finendo da Nadja, persino lei era coinvolta. Chiusi gli occhi ascoltando i battiti del mio cuore, lui mi avrebbe magari saputo indicare la giusta via? La chiave girò nella toppa, mentre quel profumo così familiare per me invadeva le narici costringendomi ancora una volta ad amarlo.
«Sophia, come stai?». Mi mancava il nomignolo che solo lui mi dava, ma dopo la notte di una settimana prima sembrava provare sofferenza anche solo a pensarlo.
«Sto bene .. ti ho fatto una torta». Gli sorrisi allungando le braccia verso di lui, flettendo le dita in un gesto eloquente.
«Sei diventata brava, la mia nana è ormai una donna». Mi abbracciò come volevo, e mi chiesi se anche quella non fosse una schifosa bugia. Lo sentii sospirare contro il mio collo, mi vennero i brividi. E non seppi di quale natura.
«Sophia ..Andrej sembra sia sparito». Mi scostai fissandolo confusa, sparito in che senso?
«Sparito?». Ripetei quelle parole come se avessero assunto significato grazie al mio tono, ma questo non accadde.
«Già, sembra essere uscito la scorsa notte ma nessuno lo ha più visto. La criminalità qui è in aumento, la polizia non esclude una rapina finita male». Lo vidi scrollare le spalle senza la minima emozione in viso.
«Sei stato tu…?». Non riuscii a credere di averlo detto, e forse neppure lui visto il modo in cui mi fissò. Mandai giù il bolo di saliva, era assurdo ma mi aspettavo una risposta.
«Sophia che diavolo dici? Ero con Misha. Smettila di dire cazzate». Il suo tono rabbioso sembrava quasi accendere un neon sopra di lui con su scritto ‘’bugiardo’’. O forse ero io che ormai non riuscivo a vedere la sincerità. Tranne che in una cosa.
«Mi ami?». Attesi come un assetato attenderebbe l’acqua.
«Si che ti amo. Ti amo e ti amerò sempre».  Ecco, continuavo ancora a voler credere ai suoi ti amo. A quelli si, ma fino a quando? Fino a quando la mia sincerità non sarebbe vacillata? Lo abbracciai tra le lenzuola che odoravano di noi, talmente forte da farlo mugugnare di fastidio nel sonno. Vegliai su di lui, sul suo cuore in pezzi e l’anima nera a brandelli, soffiando sul viso un alito di vita che speravo cogliesse.
 

Aleksandr POV

 
L’incontro con i colombiani divenne finalmente realtà, prese consistenza e persino una data precisa. Noi avremo portato soldi, e loro la droga e le armi. Ce ne saremmo occupati io, Misha e Vlad. Mentre Sergej minacciava ogni suo uomo di morte se non avessimo ritrovato Andrej, io affilavo il mio coltello preparando l’ennesimo attacco ai suoi danni.
Sollevai gli occhi sulle grate sopra di noi, l’odore di fogna era nauseabondo e un persistente rumore trapanava i miei timpani. Come una goccia continua che lenta sbatteva sul pavimento lercio. La stavo immaginando? Sentii Misha e Vlad litigare come loro solito, che coglioni.
«Piantatela o vi sparo qui e non mi prendo neppure la briga di seppellire i vostri cadaveri». Portai la mano al naso con espressione schifata continuando a camminare, le mie suole pestavano pozzanghere d'acqua sporca mentre stringevo la valigia contenente i soldi; sarebbe stato uno scambio pulito e veloce, droga e armi in cambio di soldi. Pulito e veloce, così lo avevo definito duemila volte solo pochi giorni prima e persino adesso. Un brivido percorse la mia schiena, non riuscii a catalogarlo finendo con l’ignorarlo senza dargli importanza. Ci ritrovammo tutti in una stanza circolare e fin troppo illuminata, assottigliai lo sguardo piantandolo sull'uomo al centro. Misha e Vlad avevano la medesima espressione arcigna mentre i discorsi divenivano man mano più concitati.
«Fammi vedere le armi, e dopo avrai i soldi». Misha si avvicinò alla grande borsa che i colombiani porgevano estraendo una Colt, sorrise come un bambino di fronte al giocattolo di Natale preferito. Il viso di Vlad invece non mutò espressione ma gli occhi parlarono per lui. Fu in quel momento che accadde qualcosa, ne percepii il movimento mentre osservavo uno strano puntino rosso che vagava per la stanza fino a posarsi sulla spalla di Misha. Sgranai gli occhi sillabando a mezza voce ''Stai giù''. Ma lui non capì. Riempii i polmoni d'aria, aprendo la bocca e urlando un ‘’MISHA STAI GIU' CAZZO’’.  Ebbi il tempo di dire quelle parole vedendo Misha gettarsi a terra, prima che un proiettile forasse la borsa contenente le armi; poi accadde l'impensabile: la polizia era lì.
«Ascoltami bene, separiamoci, o ci prenderanno come cani in gabbia». Afferrai Vlad per il braccio sillabandogli quelle parole, lo vidi annuire lapidario allontanandosi velocemente. I colombiani però non sembravano pensarla allo stesso modo.
«Che razza di figli di puttana siete? Avete mandato gli sbirri qui?» non riuscivo a credere a quelle parole.
«Devo sul serio rispondere?» evidentemente si visto come si avvicinarono.
«Fallo adesso che ne hai l'occasione russo, perché tra poco sarai morto» afferrai Misha dandogli poi le spalle osservando gli uomini davanti a noi, ci accerchiavano come delle iene rabbiose incapaci di comprendere che la miglior cosa da fare in quel momento era fuggire. Un altro sparo silenzioso, un uomo cadde a terra. Io e Misha ci guardammo annuendo complici. I cunicoli interni erano la nostra unica - e ultima - speranza; se quei bastardi non si fossero messi in mezzo saremmo già stati fuori. La rissa era ormai scoppiata, mi gettai in mezzo liberando a modo mio la strada; Misha era meno desideroso di perdere tempo, afferrò una spranga iniziando a colpire chiunque gli si parasse davanti.
La luce del sole ci accecò cinque minuti dopo, intravidi il bosco poco distante e mi mossi automaticamente fermandomi dopo qualche metro.. Dove cazzo stava Misha? Lo vidi andare verso l'auto senza riuscire a crederci, corsi per raggiungerlo prima dell’irreparabile.
«Cosa cazzo pensi di fare?» Lo strattonai rabbioso. Mi guardò come se non capisse.
«Tu che pensi? Con l'auto ci muoveremo molto più veloci» aprii la bocca per parlare, le sirene della polizia mi distrassero, strinsi il suo braccio talmente forte da rischiare di strappargli la giacca, digrignai i denti nervosamente.
 «La stessa auto della quale hanno preso la targa, è questo che vuoi? Assistere al nostro arresto al primo posto di blocco presente sulla strada? Andiamo a piedi, il bosco ci renderà invisibili per un po'». Le pupille di Misha si dilatarono ancora di più, aveva finalmente compreso l'errore. Serrò la mascella senza dire nulla incamminandosi dietro di me. Gettai un ultimo sguardo al capannone adesso fin troppo ''movimentato'', una morsa serrò il mio stomaco, era fin troppo palese: qualcuno mi aveva tradito. Ma chi?

 

Mikhail POV

 
Ci rifugiammo nel bosco. Shùra camminava in avanti facendo sì che le erbacce non mi colpissero il volto vista la mia altezza. Era sempre così, pronto a proteggermi anche quando avrebbe dovuto uccidermi. Che diavolo credevo di fare dirigendomi verso l’auto? Mi resi conto che la merda di cui mi facevo ledeva persino quei pochi ragionamenti logici che riuscivo a fare. Ma Shùra continuava a proteggermi.
Non l'avevo mai ripagato. Non avevo mai ripagato nemmeno Sophia, in quel momento mi chiesi cos'avrebbe detto nel sapere che come un fallito avevo finito per tirarmi cocaina nel cesso di casa.
Presi la bustina che avevo nella tasca dei jeans, la gettai tra l'erba morta di quel fitto bosco prima che Shùra si girasse per chiedermi se andasse tutto bene.
«Alla grande». Gli risposi mentendo e probabilmente lui capì.
«Credi che qualcuno abbia parlato?». Domandai in cerca di una risposta, ma non la ricevetti. Vedevo la sua schiena rigida e sapevo cosa voleva dire.
Quel pomeriggio capii che non avevo più tanta voglia di morire, non senza lasciare Shùra o Sophia, o Nadja. Non prima d'aver trovato Irina.
Non me lo sarei mai perdonato.
 
Una volta tornato a casa mi liberai di ogni grammo di coca senza alcun rimpianto.
 
 

Aleksandr POV

 
‘’Respira Aleksandr, respira. Pensa Aleksandr, pensa’’. La schiena ritta, la mascella serrata ero il ritratto della tensione mista a furia cieca. Osservavo il cellulare sapendo che di lì a poco avrei ricevuto ''quella chiamata'', cosa restava? Quante altre macerie potevo raccogliere prima che il mio sacco si riempisse fino all'orlo? Sbattei il pugno della mano contro la scrivania nera e lucida del mio ufficio, in quel momento il telefono si illuminò. Il tunnel prese luce. Afferrai la cornetta mantenendo il mio tono di voce solito: neutro apatico e affabile.
 
– Sergej.
– Che cazzo è successo.
– Se usi questo tono suppongo sia una domanda retorica e il mio risponderti superfluo.
– NON GIOCARE CON ME ALEKSANDR, NON GIOCARE A QUESTO FOTTUTO GIOCO CON ME.
– Sono quasi finito in manette, pensi io abbia voglia di giocare?
– Sai benissimo cosa vuol dire questo.
– No, non lo so.
– Oh si che lo sai. Mikhail, Nadja, Vlad, nessuno escluso. Igor ..e tu. Chi mi ha tradito?
– ....
– E' stato il mio perfetto sicario? Così silenzioso e letale, assennato e coraggioso? E' stata Nadja, così volenterosa e amorevole? E' stato Misha.. così pazzo, folle e sempre incurante delle regole? A chi dovrei strappare la lingua e poi la testa, dimmelo tu.
– Cosa vuoi da me.
– Trova il traditore e uccidilo.
– E se fossi io quel traditore?
– Ucciderò Misha e così il tuo spirito, Aleksandr Belov. O dovrei dire Petrov? Sei già uno zombie in una terra di vivi.
 – Lascia stare Misha, sono sicuro non c'entri nulla.
– Ucciderai anche lui se è colpevole, o la tua testa penzolerà nella cattedrale di Mosca assieme alla sua.
 
La chiamata si interruppe così, scaraventai il cellulare contro il muro urlando la mia rabbia. Mi alzai dalla sedia rovesciandola, simile a una furia; entrai nel bagno guardandomi intensamente, osservando i lividi che mi avevano gentilmente regalato quel giorno i colombiani, cosa stava succedendo? Cos'era quella decadenza, quel livore di morte che si era insediato in noi? Chi era il traditore. Misha, Igor, Nadja, Vlad e altri russi tutti fidati compagni, chi cazzo ci aveva traditi? Mi resi conto di non volere risposte a quella domanda. Il mio pugno si sollevò schiantandosi contro lo specchio, distruggendolo mentre la mia immagine si sparpagliava in mille frammenti proprio come la mia anima.
Una voce femminile, familiare e calda attirò la mia attenzione. Sophia. Sorrisi a quel ricordo, dovevo mettere anche lei nella lista? Risi come un folle di me stesso accasciandomi sul lavabo.
 

 

Sophia POV

 
Accolsi la sua figura ricurva e i passi strascicati, era evidente avesse bevuto mentre si lasciava cadere sul divano coprendo il viso con una mano.
Quella notte lo aiutai a spogliarsi, passai un panno bagnato sulla sua fronte e lo coprii con le lenzuola sedendomi accanto a lui. Gli carezzai i capelli e i suoi occhi si aprirono.
«E’ stata una pessima giornata?». Mi fece il suo solito sorrisino ambiguo, era evidente lo fosse stata a giudicare dal suo aspetto.
«Mi tradiresti mai?». Quella domanda attorcigliò le mie budella.
«Mi hai mai tradito?». Quella domanda attorcigliò le sue budella, probabilmente.
«Dormi con me, è stata una pessima giornata». Annuii sorridendo, obbedendo ancora una volta a quelli che sembravano ormai dei comandi crudeli nei miei confronti. Più tempo passavo con lui e più mi sentivo incapace di fare ciò che ritenevo più giusto. Ripagare in qualche modo i miei debiti, e riprendermi una vita che non avevo mai avuto.
 
Non so cosa sarà di me, non so quanto potrò ancora resistere, so solamente che qualsiasi cosa accada, continuerò a cercare per sempre il candore di un bacio felice. Il suo.
 

 

Aleksandr POV

 
– Perché mi hai chiamato? Ti serve qualcosa?
– Devi scoprire qualcosa per me, prima che lo facciano altri.
– Ti riferisci alla storia con i colombiani? Aleksandr che diamine è successo.
– E' successo che qualcuno pagherà, e quel qualcuno non sarò io.
– Ho già quel lavoro da fare, dovrai attendere.
– No Anastasia, questo lavoro ha la priorità.
– Va bene, cercherò informazioni, so come connettermi al server della polizia.
– Entro quanto?
– Dammi una settimana almeno, non faccio miracoli.
– Ti do tre giorni, massimo quattro, e non farne parola con nessuno. O la tua testa diventerà un trofeo, e non sto scherzando.
– Aspettati qualsiasi nome.. compreso quello di Misha.
– Mettilo ancora in mezzo e digiterai sul tuo fottuto computer con la lingua.
– Andiamo Aleksandr, cosa ti aspetti da un cocainomane?
 
*** 
 
– Hai scoperto qualcosa?
– No, esattamente come dieci minuti fa. Hai sul serio intenzione di far così?
– Anastasia, forse non ti è chiara una cosa..
– Lo so cazzo, lo so.
– Mancano due giorni, pensa al tuo collo.
– Ah beh, con le minacce lavorerò sicuramente meglio.
 
Osservai il muro di fronte a me, il sonno sembrava non voler venire quella notte; la mia mente era piena di immagini, una più distorta dell'altra, sentivo di star perdendo contatto con la realtà e questo poteva solo causare altri danni.
Chi mi aveva tradito?
Chiusi gli occhi lasciandomi andare alla deriva senza rendermene conto, la tanto agognata incoscienza mi staccò dalla realtà scaraventandomi in un cunicolo buio, stretto e lurido. Mi tappai le narici lasciando saettare lo sguardo da una parte all'altra cercando di mettere a fuoco qualcosa ma niente, un suono però mi distrasse. Cos'era? Sembrava il lamento di un bambino, camminai ancora seguendo una luce fioca apparsa da chissà dove. Strinsi gli occhi osservando una figura accucciata, avrei riconosciuto quella sagoma tra mille.
«Sonech'ka..». Sembrava scossa dai singhiozzi, stava ridendo o piangendo? Si voltò a guardarmi, era completamente inzuppata di sangue e teneva un'ascia in mano. Rideva. Feci un balzò indietro, faticavo a respirare mentre scuotevo la testa provando a parlare senza riuscirci.
«Ricordi Aleksandr? Chi scava una fossa vi cadrà dentro, e chi rotola una pietra gli ricadrà addosso. La lingua bugiarda odia quelli che ha ferito, e la bocca adulatrice produce rovina» iniziai a piangere.
«No.. – scossi la testa come in trance – no .. NO» era ferita? Stava morendo?
«Guardati. Sei morto» Sophia sorrise abbassando lo sguardo, corpi ammucchiati formavano una piramide, vidi Vlad, Nadja, Sergej e ..Misha. Urlai andando incontro a mio fratello completamente squartato ma l'ultimo cadavere, colui che finiva quella piramide mortuaria, girò il capo per fissarmi. Aveva gli occhi spenti, era morto. Ero io.
L'urlo squarciò l'aria mentre balzavo a sedere fradicio di sudore.
 
Chi era il traditore?

 
 

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Capitolo 17
*** So tell me, my dear, can a heart still break when it’s already stopped beating? ***


      

ACT XVII

 
 
La notizia dell’agguato e del conseguente tradimento aveva smosso ingranaggi pericolosi tra tutti i membri della Bratva presenti a San Francisco. Ci fissavamo come cani rabbiosi, con gli occhi lucidi di sospetto e io temevo il momento in cui persino Shùra mi avrebbe fissato in quel modo. Ero io il principale sospettato, tutti pensavano fossi impazzito totalmente con la cocaina, ma soprattutto non era un mistero l’avversione nutrita per Sergej in tutti quegli anni. Avevo un movente perfetto, sentivo quasi il cappio attorno al mio collo. Passai una mano sul mio viso sudato fissando il cellulare muto, non aveva più squillato dopo la notte nel bosco. Non mi ero neppure presentato in agenzia per timore che qualcuno potesse dirmi qualcosa, temevo le mie reazioni. Avrei solo aggiunto altri sospetti a quelli già esistenti. Non ero io il traditore. O si? Magari avevo avvisato la polizia durante una delle mie allucinazioni? Il solo pensiero mi faceva accapponare la pelle. Per non parlare del viso sfigurato di Andrej, era quasi più nauseante del pensare al possibile traditore; se Sergej avesse scoperto ciò che Shùra aveva fatto non ci sarebbe stata alcuna speranza per lui, ma solo una fottuta condanna a morte. Coprii il viso con le mani oscurando i miei occhi, persino il mio appartamento iniziava a risultare insopportabile. Volevo vedere Sophia, la sua voce candida mi avrebbe dato la pace. O Nadja magari, la mia Nadja. Aveva deciso di trasferirsi nel mio appartamento, non si sentiva tranquilla in casa sua, nonostante Vlad e Igor la seguissero ovunque, a causa dell’ex che non avevo ancora avuto modo di incontrare. Avrei voluto ammazzarlo ogni volta che la vedevo tremare parlando di lui.
Il cellulare squillò in quel momento, sobbalzai per poi rilassarmi visibilmente quando mi resi conto che il soggetto dei miei pensieri sembrava essersi improvvisamente materializzato, quasi volesse esaudire il mio desiderio.
«Mikhail vieni subito qui». La sua voce tremante mi fece alzare di scatto, che diavolo era successo adesso?

 
 

Nadja POV

 
«Aleksandr, vieni immediatamente». Doveva essere qualcosa di veloce: entrare nel mio appartamento, riempire la valigia e trasferirmi momentaneamente nell'appartamento di Mikhail. Cosa poteva andar storto?
Il brutto presentimento mi perseguitava da almeno due ore, Vlad e Igor non rispondevano a nessuna delle mie telefonate o messaggi, la cosa mi mandò in paranoia. Non che ci volesse molto ormai; da quando un mese prima erano ricominciate le telefonate mute nel cuore della notte, bastava una banalità per farmi scattare e impazzire.
I due russi mi affiancavano ormai da due anni, ombre silenziose in difesa di una donna che fisicamente era fragile e vulnerabile, un regalo di Sergej per tenere al sicuro il suo miglior medico ma anche per controllarmi non ero stupida.
Non appena aprii la porta del mio appartamento capii immediatamente che qualcosa che non andava, ne ebbi la conferma dopo pochi secondi, quando raggiunsi la camera da letto.
Quello che mi si parò davanti fu un orrendo spettacolo fatto di sangue e morte. I cadaveri degli uomini che avevano l'incarico di proteggermi giacevano senza vita, brutalmente sfigurati e martoriati, uno sul letto l'altro a terra.
L'odore ferruginoso del sangue che ricopriva tutta la stanza, dai mobili ai muri mi obbligò a portare una mano tremante davanti la bocca nel vano tentativo di non vomitare. Non era la prima volta che mi trovavo davanti a scene come quella, ma sapere che quei corpi appartenevano ai miei due fidati Vlad e Igor riuscì a scuotermi nel profondo. Avevo condiviso innumerevoli viaggi con loro due, ero stata protetta e al sicuro per tutto quel tempo, mi erano stati vicini in ogni momento del giorno... e ora non c'erano più.
I miei occhi vagarono per la stanza, nella mia mente il volto di colui che aveva compiuto quel massacro diventava sempre più chiaro, finché non mi bloccai davanti allo specchio nel vedere la conferma ai miei atroci sospetti.
Le parole scritte con il sangue riuscirono a ferirmi come una lama dritta al cuore, la responsabile della loro morte ero io, Sasha era tornato per punirmi, ero andata con un altro uomo e quello era solo l'inizio delle conseguenze.
 
“Ti ho già portato via tutto, lo farò di nuovo se necessario.”
 
La fine stava giungendo anche per me. Mi venne da vomitare.
Quando Aleksandr entrò nella camera si immobilizzò davanti all'orrore di quei corpi così mutilati, vi era una ferocia in quelle ferite da far presumere che solo un pazzo psicopatico avrebbe potuto esserne l'artefice. Fissavo i corpi dei due russi con uno sguardo vuoto, seduta sulla sedia della scrivania presente nella stanza. Sembravo morta come loro, se non fosse stato per le dita della mia mano che continuavano a sfregare tra loro in lenti movimenti circolari. Ero stata la causa di altre morti, come aveva predetto quell'uomo, ero proprio come una rosa. Chiunque mi si avvicinasse finiva per farsi male. Chiamai Aleksandr e Mikhail, era vitale che entrambi sapessero.
«Che cazzo è successo?». La voce di Aleksandr arrivato per primo mi riportò alla realtà, smisi di torturarmi e chiusi gli occhi riuscendo comunque a vedere i due corpi martoriati: li avevo impressi bene nella mia testa, lì, nella mia memoria in maniera indelebile. Era un peso che avrei portato fino alla fine.
«Aleksandr... Non vi ho traditi. Non sono stata io ad avvisare la polizia». Furono le uniche cose che riuscii a sussurrare mentre gli passavo accanto. Ma sembrava non mi avesse ascoltata neppure mentre vagava per la stanza come in trance. In effetti adesso due dei sospetti erano stati appena fatti fuori in casa mia, il cerchio si restringeva sempre di più attorno al collo del mio Mikhail
Prima di lasciare definitivamente quella stanza degli orrori lanciai un'ultima occhiata allo specchio leggendo nuovamente quella scritta ed osservando il mio riflesso: “I'm watching you”. Tatuai anche quelle parole nel mio cervello, mentre una smorfia alterava i lineamenti del mio viso. La vera assassina ero io e lo specchio non mentiva.
«Cosa cazzo è successo».  Mi ritrovai davanti un Mikhail sbigottito che fissava ad intervalli regolari Aleksandr e i due cadaveri.
«Non li ho ammazzati io, se è questo che pensi». Aggrottai la fronte al tono acido usato per parlare, che stava succedendo tra quei due? Vidi Mikhail irrigidirsi visibilmente a quella frase.
«Non ho detto nulla». Li bloccai sollevando le mani, ero già abbastanza sconvolta di mio.
«E’ stato Sasha, è evidente. Quindi piantatela di battibeccare tra di voi». Li fissai inferocita e li vidi calmarsi improvvisamente. In fondo erano compagni anche loro.
«Fantastico, prima Andrej poi il tradimento e adesso loro due. Chiamare Sergej sta diventando un’agonia nelle mie giornate». Osservai Aleksandr pensierosa, avevo saputo della sparizione di Andrej ed ero certa che fosse lui il colpevole, ma lo tenni per me.
«Posso parlarti?» Mikhail indicò il terrazzino e io mi allontanai lasciando loro il tempo necessario per chiarirsi.

 
 

Aleksandr POV
 

L’incubo di quella notte aveva continuato a ripetersi senza sosta, quasi come se volesse avvisarmi di qualcosa. Ma cosa? Era forse un modo per dirmi che saremmo morti tutti e che la colpa era soltanto mia? Il sospiro di Mikhail mi strappò da quelle congetture costringendomi a fissarlo.
«Pensi sul serio li abbia uccisi io?». Misi le mani in tasca, correvo il rischio di rimettergliele in faccia e non mi sembrava il caso.
«Io non penso un cazzo, è la mia specialità se ricordi bene. Ricapitoliamo: Andrej è ‘’sparito’’ – calcò quella parola con ironia – qualcuno ci ha traditi, e ora muoiono pure Vlad e Igor.. sta diventando assurdo». Mi si avvicinò e io non mi scostai.
«Mi stai accusando di qualcosa?». Respirai profondamente cercando inutilmente di mantenere la calma.
«Hai parlato di un piano .. nel tuo piano c’era la soffiata alla polizia? Sei stato tu?». Lo afferrai per il bavero della giacca e lui mi imitò.
«O magari sei stato tu? . Ci fissammo rabbiosi per un secondo finché il senso delle nostre parole non ci colpì in pieno lasciandoci tremanti e sbigottiti. Eravamo sul serio arrivati a sospettare l’uno dell’altro? Noi eravamo Shùra e Misha, eravamo immuni a cose simili perché il nostro non era un rapporto comune. Lo guardai con dolore.
«Tra ventiquattrore saprò chi è il traditore..». La voce mi venne meno, Misha annuì fissandosi le scarpe.
«Magari è stato Vlad e non potrà più pagare..» era come se ci sperasse fortemente. Sospettava di se stesso adesso? Mi sentivo impazzire mentre gli voltavo le spalle e mi accingevo a comporre per l’ennesima volta il numero di Sergej dandogli ancora un’altra notizia di morte. Ero divenuto simile al cupo mietitore ormai.
 
 
***
 
«Vuoi andare a mangiare un gelato con me?». La fissai stesa sul letto intenta a guardare un punto non ben preciso del muro. Scosse il capo con aria stanca.
«Non voglio..». Era ormai così da giorni, sembrava vuota e priva di forze. Probabilmente il mio essere poco presente aveva favorito il peggioramento delle sue condizioni insieme alla notizia su Andrej.
«Facciamo qualcosa, qualsiasi cosa tu voglia fare». L’avrei accontentata su ogni cosa in quel preciso momento, vederla così faceva del male a me più che a lei.
«Ieri ho visto Misha». Si sedette sul letto invitandomi ad imitarla. Obbedii.
«Ah si? E dove?». Le scompigliai i capelli e la vidi accennarmi finalmente un sorriso.
«A casa sua, abbiamo fatto insieme i biscotti». Stavolta toccò a me sorridere e annuire.
«Scommetto saranno immangiabili». La sua espressione cambiò improvvisamente mentre con gli occhi scandagliava il mio viso.
«Hai avuto notizie di Andrej?». Scossi il capo consapevole della mia espressione neutra e insensibile. Non riuscivo a fingere anche in quello.
«La polizia dice che al 90% è morto» chinò il capo annuendo appena.
«E tu eri con Misha..». Sbuffai innervosendomi, perché diavolo se ne usciva così adesso?
«Mi spieghi che cazzo vuoi insinuare? Sono giorni che ci giri attorno». Sentivo la presa divenire sempre più debole.
«Tu non hai fatto nulla, giusto?». Ci fissammo per istanti che mi parvero interminabili.
«Stai dubitando di me?». Il solo pensiero mi atterriva.
«No, assolutamente» per la prima volta nella mia vita non le diedi fiducia.
«Non so nulla. Non c'entro nulla. Non lo vedo dalla sera prima della sparizione, quel giorno giocavo a poker con Vlad e Misha». Usai la solita scusa, la stessa che avevo propinato anche a Sergej. Poker con Misha. Poker. Poker con Misha, non dimenticare Aleksandr.
«Quella sera?» sapevo a quale sera si riferisse.
«Ero con Misha a giocare anche in quel caso» mentii ancora.
«Quindi quando Anastasia mi ha detto "ha del lavoro da sbrigare con Misha" in verità eri a giocare a poker» abbassai il capo respirando profondamente.
«E' un interrogatorio questo? Chiamo i miei avvocati nel caso. Stai dubitando di me. Okay, questa è bella, e se fossi io il colpevole?». Lo sono cazzo. Io sono il colpevole.
«No è che.. sai com'è, avrei preferito averti accanto quando.. niente, non fa niente. Lascia stare» i sensi di colpa tornarono a tormentarmi come quella notte.
«Lo so, mi dispiace non essere stato lì con te. Vorrei poterti dire che tornando indietro ti sarei stato accanto, lì in quell’ufficio» Bugia. Tornando indietro avrei rifatto la stessa cosa e questo mi avrebbe portato ancora una volta lontano da lei. Bugie e ancora bugie.
 
Per ogni ferita che io possa averti causato, ne ho causata una uguale a me stesso.
 
 
***
 
La porta dell'ufficio si aprì quasi stentatamente, sedevo sulla poltrona firmando fogli della quale neppure mi premuravo di leggerne il contenuto; a quel suono non distolsi lo sguardo limitandomi ad un cenno con la mano ed un ''entra'' sillabato quasi. Poggiai la stilografica sul foglio alzandomi, puntando lo sguardo su Anastasia appena entrata, il sorriso mi si congelò e le ginocchia cedettero facendomi ricadere sulla sedia. Aveva il viso tirato, gli occhi cerchiati di chi si era rigirato ossessivamente nel letto; le sue mani tremavano appena, e il bianco degli occhi era coperto da pagliuzze rosse che facevano pensare potessero esplodere da un momento all'altro. Provai ad aprire la bocca per parlare ma non uscì alcun suono, quindi mi schiarii la voce riprovandoci ancora.
«Che cazzo ti è successo..» Anastasia non disse nulla, aveva probabilmente cercato disperatamente le parole dalla notte prima, da quando finalmente il server della polizia era divenuto accessibile ma non vi era riuscita viste le occhiaie. Poggiò la busta sulla scrivania, le dita tremarono appena ed io la guardai per un istante iniziando finalmente a comprendere. Sentii il cuore serrarsi in una morsa, Anastasia era insieme a me da anni e se quella era la sua faccia dopo aver letto il contenuto, non osavo immaginare cosa potesse esservi scritto ...Misha, era lui davvero il traditore?
«Aleksandr, io...». Le parole non fuoriuscirono. Mi innervosii.
«TU COSA, COSA. MI STAI FACENDO IMPAZZIRE» la colpa non era sua ma dovevo pur sfogarmi con qualcuno.
«Capo, questa è la fine». ''Capo, questa è la fine?''. La vidi coprirsi il viso con le mani sussurrando frasi sconnesse, riuscii solo a captarne alcune: ''Non voglio vedere la sua testa appesa ad un cappio'', ''E' ancora così giovane..''. Improvvisamente sentii il bisogno di vomitare, c'era una nota stonata qualcosa che non sapevo e che il mio sesto senso aveva già capito. Ma cosa? Sollevò lo sguardo piantandolo su di me.
«Sergej verrà a saperlo entro pochi giorni, mentre cercavo mi sono imbattuta in qualcosa di strano. Credo abbia assoldato qualcuno anche lui per avere quel nome, è evidente non si fidi di te..». Girò sui tacchi lasciandomi seduto preda di una confusione che aveva con se un retrogusto doloroso.
 
Aprii la busta e all'interno vi era una sorta di confessione, lessi quelle parole e prima ancora di vedere la firma seppi già chi ci aveva traditi. Poggiai il foglio sulla scrivania, mi girava la testa mentre tentavo di sorreggerla con le mani quasi che temessi di vederla staccarsi dal collo. Mi tappai  la bocca soffocando un conato, alzandomi in maniera così rabbiosa da far rovesciare quasi la sedia; mi trascinai in bagno a stento rigettando tutta la colazione nel cesso, provando a svuotarmi da qualsiasi cosa mi comprimesse il petto in quel momento. Persino dai miei sentimenti. I miei inutili e fottuti sentimenti.
Mi accasciai a terra sentendo la guancia bagnata, la toccai: erano lacrime. Poggiai i palmi contro il viso, schiacciandolo talmente forte da annaspare quasi alla ricerca di aria, soffocando l'urlo disperato che fuoriuscì comunque dalla mia gola. Questa era la fine. La fine, nient'altro che la fottuta fine. Niente addii, niente sorrisi, niente baci o abbracci di commiato, la fine era arrivata lenta ed inesorabile. Come avevo fatto a non accorgermene? Adesso lo sapevo, vedevo ogni indizio che mi aveva lasciato in quei giorni. Dio quanto ero stato stupido. Il dolore al petto sembrava non volersene andare, la mia vita sembrava essersi improvvisamente fermata, non riuscivo ad alzarmi, non potevo neppure strisciare fuori. Fuori vi era la realtà, la guerra e la morte. Sentii la voce di Misha provenire dal corridoio, era arrivata la fine anche per lui solo che ancora non lo sapeva.
«Shùra sei lì dentro?». Non ero pronto a vederlo, non ancora.
«Non entrare». Provai a modulare la voce, ma ci riuscii male.
«Ti senti bene?». Bene? Potendo mi sarei decomposto al suolo a furia di ridere a dirotto.
«Vediamoci al campetto da basket stasera alle otto, ti aspetto lì..». Sentii la porta chiudersi mentre tornavo a strisciare e svuotarmi l’intestino.
 
 
***
 
Calpestai il suolo del campo da basket fissando il cielo nuvoloso, volsi il capo verso Misha che sembrava ansioso di disputare quella partita. ‶Non lo sai? Abbiamo già perso fratello‶, avrei voluto dirlo ma le parole sembravano incastrate in gola, mentre nella tasca dei pantaloni pesava come piombo la lettera.
''Sei il centro, Misha‶. Lui era il centro di ogni cosa per me, era il perno della mia vita ma allora perché il mio unico pensiero al momento era: ‶Avrei voluto fossi stato tu il traditore‶. Non dissi neanche quello, limitandomi a spiegare le regole del basket già sentite e risentite miliardi di volte. Come un disco rotto che trasmette sempre le stesse notizie.
‶Che notizie hai per me oggi?‶
‶Nulla di che, solo presagi di morte Misha.‶
‶E' lei, Misha‶. E' lei cosa? E' lei il veleno e l'antidoto al tempo stesso? E' lei la donna per la quale abbiamo litigato vent’anni? E' lei l'asse su cui ruotano le nostre vite? E' lei la lama affilata del coltello che ci trapasserà. E' lei la traditrice. Sophia. La sua firma spicca in nero a chiudere quel flusso di parole poste all'interno di una sterile lettera. Riuscii a contare tutte le sue lacrime, tutti i singhiozzi spesi facendo quella confessione, ma sopratutto riuscii a percepire l'odio che cospargeva il foglio, come un manto nero.
‶Ehi, non ha mai fatto il nostro nome però, è una consolazione no? Che dici Misha??‶, non dissi neanche quello, a testa china gli passai la lettera che iniziò a leggere. Conoscevo a memoria il contenuto, ma anche se così non fosse stato, mi sarebbe bastato guardare il mutevole cambio d'espressioni sul viso di Misha per capire a che punto fosse arrivato.
«Chi lo sa oltre noi..» la sua voce cadaverica non mi destabilizzò.
«Nessuno. Ho due giorni di tempo» come quella notte, ancora una volta, non riconobbi la mia.
«Due giorni ..per cosa, Aleksandr?» lo sapevamo entrambi.
«Per mandarla via e diventare il suo nemico. Non pensare minimamente di ammazzare Anastasia; non c’entra nulla, le ho chiesto io di indagare. Sergej ha smosso altre persone per arrivare al colpevole» supposi non ci fosse altro da dire.
«Cosa facciamo...» Mikhail annaspava alla ricerca di aria, cercava di aggrapparsi al suo perno, ma in quel momento ‶il perno‶ non riusciva a trovare il proprio baricentro. Lo vidi fissarmi per un istante e riuscii ad assimilare quasi il suo dolore.
«Avrei preferito fossi stato tu il traditore ..sono una cattiva persona per questo?» lo guardai senza vederlo, riuscendo quasi a sorridere.
«No, perché avrei preferito anch'io leggere il tuo nome». Non vi era bisogno di giustificazioni, lo sapevamo entrambi.
 
‶Misha lasciami qualche minuto, ho bisogno ..non lo so di cosa ho bisogno, ma so che devo stare solo. Se vedi il mio viso adesso non riuscirò più a salvarci‶, non dissi neppure questo ma lui capì, o forse aveva semplicemente i medesimi pensieri, si allontanò barcollando senza girarsi al rumore del tonfo sordo, il rumore del mio inutile corpo che cadeva inerme al suolo. Si sedette sugli spalti, così vicino eppure così lontano da me.
Iniziò a piovere ed ecco la prima cortina che si formò, come una barriera tra lui e me.
Iniziai a piangere, ecco la seconda. Non vidi nulla se non il dolore. Era ovunque, mi ammorbava soffocandomi, sentivo i singhiozzi di Misha o forse erano solo i miei. Il groppo che avevo in gola non andò via, stava lì a soffocarmi quasi a volermi dire ‶muori Aleksandr, muori‶. Ma come può morire un morto? Chiamai mio padre ma quel giorno lui non accorse, neppure un alito che faceva presupporre il suo pallido fantasma, niente di niente, mi aveva abbandonato anche lui. Mi rannicchiai a terra lasciando che la pioggia si mischiasse alle lacrime, quella era la fine o l'inizio della partita? A quel punto non ero più sicuro.
 
 -  Una delle mie paure più grandi è che tu mi veda come io vedo me stesso.
 
Alla fine era successo davvero. Ci eravamo visti tutti e tre, nudi e inermi per ciò che eravamo. Cosa aveva visto Sophia? Cosa Misha? E cosa io?
 
 

Mikhail POV

 
«Ok Belov, sono pronto. Ce la giochiamo e allora deciderò se perdonarti o meno per tutte le botte che mi hai dato in queste settimane». Io e Shùra avevamo sempre avuto un campo da basket in cui giocarci ogni faccenda, andavamo lì in pantaloncini ed un’aria insolita da ragazzini disegnata sul volto, forse un espressione che usciva fuori solo quando stavamo insieme e da soli. Quella volta Shùra non aveva la mia stessa espressione però. Fece un sorriso tirato ed abbassò la testa, come se l'avessi appena battuto ad una partita di play-off.
«Sei il centro Misha». Shùra mi guardò tirandomi la palla che presi al volo, la guardai quasi con diffidenza passandomela tra le mani, dopodiché alzai il viso e gli sorrisi fingendo di aver capito e gli ripassai la palla.
«Sei il solito idiota, ti ho persino insegnato a giocare a basket ma non ti sei mai degnato di imparare i ruoli. Il centro è il perno della squadra, uno dei ruoli standard della pallacanestro. Il centro, detto anche "cinque", è generalmente il giocatore più alto della squadra e preferibilmente il più massiccio dal punto di vista muscolare. Solitamente, ad un centro si richiede di saper sfruttare la sua grande massa soprattutto nei pressi del canestro. All'interno dell'area dei tre secondi deve saper segnare, difendere e stoppare i tiri degli avversari, cioè spazzare via con le mani il pallone mentre vola verso il canestro.. mi segui testa di cazzo?» «Sono tutto questo? O forse è un modo per persuadermi dal ridurti uno straccio?» avevo come l’impressione che non stessimo parlando più del basket.
«Sei tutto questo Misha, ma tu ancora non l'hai capito. Cosa devo fare per convincerti?». Fui certo di vedere delle lacrime negli occhi di Shùra. Mi avvicinai a lui e gli presi la palla tra le mani, la guardai attentamente e risi di me gettandola dietro le mie spalle. Io e Shùra ci guardammo, ma nessuno parlò. Quel silenzio tra noi mi fece avere le stesse lacrime che mio fratello aveva negli occhi.
«Tu sei il playmaker o la guardia tiratrice?». Cacciò un foglio dalla tasca, aveva tutto l'aspetto d'essere una lettera ormai maltrattata, come se l’avesse letta e riletta nel vano tentativo che il contenuto cambiasse. La guardai, poi guardai lui che rivolse lo sguardo oltre la mia figura.
«Vorrei essere entrambe, compresa l'ala grande». Quel giorno Aleksandr mi parve morto, finii per convincermi che stessi parlando con un fantasma o lo spirito sconsolato e dannato di quella che era, e sarebbe stata per sempre, la persona più importante della mia vita.
«Cos'è quella?». Mi sentii improvvisamente diffidente.
«E' lei, Misha». Le mie orecchie sembravano otturate.
 «Lei chi? Di cosa parli? Andiamo, se è una tattica per vincere te la stai giocando male». Non lo era, non c'era nessuna tattica e nessun imbroglio nel foglio che mi consegnò Shùra. Lo lessi svogliatamente, come se ciò che ci fosse scritto non rientrasse nei miei interessi. Ma via via, parola per parola e lettera per lettera cominciai a realizzare cosa avessi tra le mani. Gli consegnai il foglio senza andare oltre l'ultima riga, era inutile leggere il nome a quel punto.
Sophia.
La mia Sophia, la mia principessa. La donna alla quale avevo dedicato tante promesse, tante parole dolci che nemmeno mi appartenevano. La donna di cui mi cui mi ero innamorato a soli cinque anni, colei che io e Shùra avevamo sempre protetto, la donna alla quale avevamo costantemente mentito. Le avevamo fatto direttamente del bene e indirettamente del male.
Mi voltai di spalle, Aleksandr non parlò, non gli uscirono parole ma sentii il tonfo cupo di qualcuno che aveva appena perso la propria anima, il proprio cuore.
Andai a sedermi su quegli spalti e sul viso sentii il fuoco agghiacciante di quelle luci artificiali. Shùra era ancora in campo.
Piansi, piansi fino a sentirmi le pupille uscire fuori dalle orbite. La vista era completamente andata. Sentivo d'esser diventato cieco.
Da quegli spalti stavo assistendo alla partita ormai finita di quella che era stata la mia povera vita, quella di Shùra e quella di Sophia.

 
 

Sophia POV
 

( cinque giorni prima )

 
 
Quel giorno mi sono sentita una traditrice. Una vera traditrice.
Passai l’intera giornata a fissare la centrale di polizia dall’altro lato della strada, in silenzio. Ogni tanto ripercorrevo la lunghezza della stradina poco affollata alla ricerca del coraggio e della convinzione che non avevo mai avuto. Mi chiedevo se fosse la cosa giusta da fare, se fosse il momento più adatto ma non trovai la risposta da nessuna parte. A volte gli occhi ricadevano sulla figura che si rifletteva dalle vetrine dei negozi e più mi guardavo più provavo pena per me stessa. Avevo perso un bambino, il mio bambino, ed ora ero lì pronta perdere tutto quel che avevo. Certo, erano solo montagne di bugie dalle fondamenta marce, ma avevo paura di perdere anche quelle e rimanere col nulla tra le braccia. Allora distoglievo lo sguardo e guardavo altrove, in basso, piena di vergogna e a quel punto rivedevo le mie interiora defluire lasciando solamente un gran vuoto, una vasta ed imponente desolazione.
“Sophia, andrà tutto bene, dovrai solamente dire la verità e la verità è sempre la cosa giusta”, mi ripetevo con una convinzione così finta da far ridere.
Le ore passavano ed il sole iniziava a nascondersi rabbuiando tutto quel che mi circondava. Pensavo. Sì, pensavo a quanto la vita fosse stata paradossalmente ingiusta: ti da e poi ti prende tutto senza neanche lasciarti il tempo per capire cosa ti succede intorno. Mi aveva dato una vita perfetta, la famiglia dei sogni, persone meravigliose, l’amore, un bambino. Ed ora non avevo nulla, niente se non un rancore smisuratamente eccessivo nei confronti di Sergej Mikhailov, mio padre. Ci pensavo, realizzavo e il sangue ribolliva nelle vene dandomi finalmente quell’impulso a varcare il marciapiede della strada.
Armata del mio coraggio, pronta ad affrontare tutto e tutti fermai il primo agente e lo fissai cercando le parole giuste, parole che non trovavo.
 
— Signora, posso esserle d’aiuto?
— No.. cioè, sì, sì.
— E in cosa potrei aiutarla?
 

Beh, quella domanda. Mi ripiegai su me stessa, quasi volessi annullarmi e scomparire nel nulla, inghiottita dalle tenebre, e invece no ero ben illuminata dalle luci al neon bianche ed abbaglianti. Non c’erano parole sufficientemente adatte e non c’era neanche il coraggio per pronunciare il nome di certe persone. Ma dovevo, era la cosa giusta e poco importava se l’avrei rimpianto per sempre.
 
«Sono qui per parlare di una cosa delicata, ma non con lei. Magari con un commissario, insomma, qualcuno che possa fare qualcosa..». Perché quell’uomo dal viso scarno ed il ciuffo ondulato non mi pareva il massimo.
«Sta parlando col commissario di questa centrale, quindi credo proprio che si dovrà accontentare. Allora – cambiò discorso riprendendo l’argomento principale e a lui ancora ignoto – di cosa voleva parlare? Una denuncia?» "Sophia, sei sicura?", si sono sicura. Presi un respiro, contai i battiti del mio cuore ed afferrai la mia carta d’identità, unico documento che avevo addosso.
 «Sono la figlia di Sergej Mikhailov ‘Mikhas. Andrej Averin, figlio di Viktor Averin, è scomparso qui a Seoul qualche giorno fa. Mikhailov, mercoledì deve concludere una trattativa con un gruppo colombiano qui a San Francisco, so dove avverrà lo scambio di armi e droga. Non so altro al momento». L’uomo s’immobilizzò. Sulla targhetta leggevo ‘’commissario Garcia’’ mentre nelle orecchie rimbombava il rumore assordante del mio cuore. Non disse nulla, non si mosse, non reagì. Rimase fermo lì dove si trovava a fissarmi, a studiare il mio sguardo e i miei movimenti. Poi mi afferrò per un braccio e mi trascinò in una stanza, lontani da tutte le orecchie indiscrete che avrebbero potuto ascoltare le mie parole. Dalle mie labbra usciva oro colato, parole che valevano una fortuna.
«Calma, calma. Stiamo parlando dello stesso Mikhailov?». La carta d’identità finì a pochi centimetri dal suo naso.
«Parliamo dello stesso Mikhailov, ho capito. Lei sa quel che sta facendo in questo momento? Ne è consapevole? A quanto pare è suo padre». Annuii.
«Va bene. Vado a prendere il registro delle dichiarazioni e le faccio preparare i moduli per farla rientrare nel programma protezione testimoni». Annuii ancora una volta con un cenno del capo, poco convinta.
Uscii da quella centrale con la mente vuota, la mano sul ventre per proteggere quel che non c’era più. Ricordavo solamente un mare di parole, un fiume in piena che sfociava e non si fermava più. Le orecchie di chi mi ascoltava erano più attente che mai. Non pronunciai neanche una volta il nome di Aleksandr. Non osai nominare Mikhail e non fui neanche capace di mettere in mezzo Nadja, che così simpatica non era. Eppure sapevo che sarebbero risaliti anche a loro, io lo sapevo e non mi ero ugualmente fermata.
Ma ciò che avrei ricordato di più di quella giornata fu la fitta che provai, una morsa che mi fece singhiozzare tra una lacrima e l’altra.
   


 
Vedevo la mia testa pendere,

appesa dai capelli,

dalla cattedrale di San Basilio

tra curve e colori.

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Capitolo 18
*** When is a monster not a monster? ***


  
 

ACT XVIII

 
 
Quella mattina ricevetti una chiamata dalla centrale di polizia. Dall’altra parte della cornetta dicevano che non ero più al sicuro e che avrei dovuto lasciare casa – una gran parola – il più presto possibile. Cominciavo a soffocare tra quelle quattro mura domestiche, austere ma impregnate di ricordi; ascoltavo distrattamente il discorso del commissario Garcia mentre i miei occhi fissavano con timore la finestra. L’idea di mettere piede fuori mi terrorizzava: preferivo rimanere e soffocare anziché uscire e rischiare di non ritornare mai più. Varcare la soglia della porta significava abbandonare tutto quanto, chiudersi il passato alle spalle ed iniziare da capo, ed io non ero pronta. Nella mia testa mi dicevo “fingi, ignora, fai finta non sia successo niente, sii la solita Sophia”, ma era troppo tardi.
In pochi giorni ho imparato a mentire diventando una bugiarda provetta. Mentivo a me stessa, fingendo una triste felicità e disinvoltura,mentivo a quei pochi amici che avevo, mentivo a Shùra, a Misha, a mio padre. A volte sentivo il peso delle bugie sulle mie spalle e gravava così tanto da schiacciarmi. In momenti del genere mi sentivo particolarmente vulnerabile. L’aria circostante, satura di sconforto ed amarezza, m’intossicava ed io non riuscivo più a mentire. Ecco, quella mattina avevo il petto appesantito e la testa tremendamente dolorante. Troppi pensieri, mi dicevo, eppure avevo un chiodo fisso e nulla più.
Il commissario mi invitò nuovamente a passare in mattinata ma non ricevette alcuna risposta da parte mia.
Quella mattina fu proprio quella chiamata a svegliarmi riportandomi alla realtà. Passai la notte nel letto di Aleksandr. Passammo le ore notturne coperti dalle sole lenzuola, tra sporadiche parole e sterili promesse che sapevano d’amore. Mi diede un bacio e pensai che quello sarebbe stato l’ultimo. A coprire il mio volto triste ci pensarono le tenebre e le spalle dell’uomo che amavo mentre la fioca luce della luna carezzava le mie spalle. Aleksandr s’addormentò ed io rimasi a vegliare contando i suoi respiri, avida di ricordi. Mi sentivo una formica: gran lavoratrice, pronta a lavorare giorno e notte per raccogliere provviste in vista dell’inverno rigido che mi aspettava. Raccoglievo ricordi, cocci di felicità d’un vaso ormai a pezzi, e mi godevo quel poco tempo rimasto.
Quella mattina nessuno era a casa. Sola con i miei pensieri la prima cosa che feci una volta riattaccato il telefono fu scrivere a Mikhail. “Ti voglio bene”, scrissi. “Io molto di più, sicuramente”, mi rispose. Lessi il messaggio e, incredula, mi chiesi come potesse essere possibile. Sapevo tutto, o quasi. Sapevo del sangue che colava dalle sue mani, dei peccati che aveva commesso, del cappio che aveva al collo eppure continuavo a vedere un Misha che non rifletteva niente di tutto ciò. Ripensai alla casetta in legno che mi costruì e mi sentii appassire. Diceva d’essere l’uomo e ch’era suo dovere proteggermi; proteggermi da chi? Da lui? Da tutti? Oppure voleva proteggersi?
Quella mattina avrei voluto svegliarmi ed essere un fiore piantato a terra. Un meraviglioso fiore che risorge e sboccia all’infinito.
Quella mattina avevo il cuore a punta. Mi trapassava il petto ad ogni battito. Mi vestii. Presi quel poco che avevo tra le mani. Me ne andai. Camminai meccanicamente. Lo sguardo perso. Mi consolavo sussurrandomi ch’ero salva perché già persa e che peggio di così le cose non potevano andare. Poi arrivai davanti alla centrale e quel cuore a punta iniziò a battere ancor più rapidamente. Venni accolta e ricevuta in un silenzio surreale, fatta accomodare in una stanza bianca dove il vuoto era colmato da un tavolino sul quale vi erano posati dei documenti. La vedevo. Vedevo la pietà negli occhi del commissario Garcia. Si sedette di fronte a me, incrociò le dita e con tono solenne iniziò un discorso che non avrebbe mai ricevuto una risposta da parte mia.
«Siamo riusciti a mandare all’aria l’affare grazie al suo aiuto». La cosa doveva farmi piacere, eppure non era così.
«Abbiamo catturato buona parte del gruppo colombiano ma i russi hanno fatto perdere le loro tracce. Se ha qualche informazione che possa tornarci utile non esiti a comunicarcela. Il suo aiuto è stato indispensabile». Altre parole dette a vuoto.
«Bene. Come le avevo detto al telefono – proseguì rispettando il mio silenzio – deve lasciare il suo domicilio al più presto. Stando ai documenti, vive con due amici proprietari di un’agenzia. I registri contabili dell’agenzia sono puliti è tutto qui a quanto sembra. Articolò quel “sembra” masticandolo a dovere. Avesse saputo quante donne là dentro erano trattate come oggetti, buchi da riempire e gettare. Un groppo in gola si formò. Era la cosa giusta dire tutto, ma non ne fui capace. Sapevo comunque che avrebbero scoperto da soli gli stretti rapporti con Sergej.
«Ma passiamo ai due punti principali: a partire da oggi lei è ufficialmente sotto la protezione dello stato americano. La polizia federale statunitense sta provando ad identificare qualche ramo d’affari della Solntsevskaya per farla integrare nel programma protezione testimoni dell’FBI». Credevo che certe cose esistessero solamente nei film americani.
«Capisco. Quand’è che dovrò lasciare casa?»
«Domani». “Domani”. Avevo ancora qualche ora per osservarli.
«Sophia – questa volta mi chiamò per nome ma s’interruppe esitante – Abbiamo fatto anche qualche ricerca sulla sua famiglia, per contattare i suoi genitori biologici. Mi dispiace». Allungò una busta sotto i pugni che stringevo sul tavolo e mi carezzò le mani rifilandomi una triste consolazione. I miei genitori. Avevo davvero dei genitori? Mio padre era Sergej Mikhailov, lo era sempre stato. Papà non era un mostro, o meglio, non il padre affettuoso che avevo conosciuto. Mai una volta che non avesse soddisfatto i miei capricci; mi ripeteva sempre che io, Sophia Mikhailova, ero una principessa. Quando tornava a casa dopo una lunga riunione con “gli azionisti” passava in camera mia con un peluche nuovo per farsi perdonare per l’appuntamento “fiaba & favola” mancato. L’idea d’aver una madre ed un padre, qualcuno che non fosse lui, non mi aveva mai sfiorata. Ora, invece, qualche meccanismo s’innescò.
Uscii dalla stanza, in fretta e furia, e cercai sostegno contro la parete. Le mani esitavano, tentennavano tenendo quella busta. Iniziai a chiedermi come fosse “mamma”. Il loro nome, il cognome, la mia identità. Magari potevo andarli a trovare! Poi aprii la busta e ritornai con i piedi a terra, in un incubo vivente.
Leggevo: “corpo mai ritrovato”, “confine russo”, “sparatoria”, “alcun risconto negli orfanotrofi”, “Sergej coinvolto nell’omicidio”, “sospetti”, “perse le tracce della donna”, “Mosca”. L’ultima linea mi uccise: era morta, anche lei. Mi dissero che era morta.. Che nell'alba l'avevano vista galleggiare. Come un cigno. Nel Volga. Come zio Yuri.
Stropicciai quel foglio con rabbia e trattenni le lacrime. Mi allagavo l’anima e mi presentavo arida. Aleksandr mi chiamò.
 
— Sophia, dove sei?
— In farmacia. Sto tornando a casa! Passo a prenderti qualcosa per pranzo?

Non riconobbi quasi la sua voce. Tornai a casa.
 
Persa. 
 
 

Aleksandr POV

 
Se avessi dovuto descrivere le ventiquattrore che seguirono la scoperta del traditore, probabilmente neppure tutto il mio impegno, o tutto l’ingegno nella manipolazione oratoria sarebbero serviti a descriverle. Tornai a casa, nonostante ogni pezzo di me pendesse come carne putrida, io tornai in quel luogo nella quale giacevano i nostri ricordi, la fissai, ci sorridemmo e facemmo l’amore. Ogni affondo dentro di lei sembrava urlare ‘’addio’’, ogni bacio era una bugia, e quando finsi di dormire sentendo il suo respiro traditore sulle mie spalle non trovai più la pace. Forse perché non c’era mai stata. Mi concessi quel giorno per stare ancora insieme a lei, prima che la vita e le mie bugie, le mie scelte sbagliate degli ultimi vent’anni, non scavassero quel divario. Quel solco profondo che ci avrebbe posti al varco, uno contro l’altra.
Per quanto ci riflettessi, non mi restava altro da fare che sbatterla fuori e divenire il suo cacciatore ufficiale. L’avevo chiamata quella mattina:
 
— Sophia, dove sei?
— In farmacia, sto tornando a casa! Passo a prenderti qualcosa per pranzo?
— No, ho ancora i blinciki che mi hai preparato tu, torna.
 
Dovevamo dirci addio in grande stile, no?
 
Stavo seduto in salotto, il bicchiere di vodka nelle mani (‶Mamma, somiglio sempre più a te‶ ), che ora era? Solo un'ora qualsiasi in una domenica qualsiasi, nel bel mezzo di una tempesta qualsiasi. E' come quando ti prepari a morire, sistemi le ultime cose e prendi un bel respiro profondo contando i passi che ti separano dal boia, io feci  la stessa cosa osservando Sophia varcare la porta. Un passo, due passi, tre passi. Ne bastarono dieci per averla seduta accanto a me; bevvi una grande quantità di liquido alcolico sospirando rumorosamente, voltandomi poi a sorriderle. Riuscivo a fingere bene? Ne dubitavo. La vedevo guardarmi con doloroso affetto, era finto anche quello? Aveva sorriso anche tre giorni prima? Mentre osservava l'orologio pensando ‶Li avranno già arrestati?‶. Accarezzai il bicchiere, i blinciki di carne giacevano su di un vassoio, Sophia li guardò con ingordigia pensando già al lauto pasto che avrebbe fatto di lì a poco.
«Ho ucciso Andrej. Gli ho maciullato il viso con un colpo di pistola, qualche notte prima del tuo aborto» il silenzio urlò squarciandomi i timpani.
«Non.. non credo di aver capito bene». Il blinciki cadde dalle mani di Sophia che d'un tratto diventò pallida, o forse lo era già da prima. Mi ero sempre vantato di saper leggere a fondo la gente, perché non c'ero riuscito con lei?
«Non lo sai già? Non è questo che hai detto alla polizia sette giorni fa? ''E' scomparso'', così hai detto». Sorrisi malevolo cercando di ricacciare il groppo, ingollando un'altra spropositata quantità di vodka, versandone ancora nel bicchiere.
«Non so di cosa parli». Era così quindi? Voleva fingere?
«L'ho fatto per te. Non c'è nulla che non farei per te.. compreso uccidere.» Sophia tremò, arpionando con le piccole mani i braccioli della poltrona incapace di respirare
«Questo ..questo non si chiama amore, ma omicidio» dettaglio irrilevante per me, ma dovevo concederglielo e quindi tacqui.
«Perché mi hai tradito?» non riuscii a pronunciare bene quella frase, nonostante tutto per me era inconcepibile.
«Dimmi che le cose non stanno così. Dimmi che tu non hai nulla a che fare con questa merda. L’uomo che amo non è un assassino bugiardo. Dimmi che Misha non è coinvolto, che non ha mai toccato un’arma e che non ha mai fatto del male a nessuno. Dimmi che non hai mai saputo niente. Dimmelo, ora. DILLO» impazzì improvvisamente, e io la seguii subito dopo, allargai le narici fracassando il bicchiere di cristallo sul tavolino. Lo schianto rumoroso fece sobbalzare Sonech'ka che si rannicchio nella poltrona cercando di proteggersi, non dalle schegge ..ma da me. La guardai cercando di non provare disgusto per me stesso di fronte la paura della donna.
«ADESSO VUOI CHE TE LO DICA? DOPO AVERMI TRADITO. AVER SCHIACCIATO ME E MISHA, ADESSO VUOI UNA FOTTUTA CONFERMA?» qualcosa di caldo mi avvolse la mano, non ci badai.
«Non azzardarti ad urlare contro di me, Aleksandr Belov. Sei complice di mio padre, mi avete mentito tutta la vita... è stato bello prendersi gioco di una stupida come me?» la sua voce sembrava stranamente sicura, ma sorda come il solito barile col buco sul fondo.
«Lo abbiamo fatto per il tuo bene. Puoi credere almeno in questo?» mi ritrovai dalla pazzia alla disperazione nel giro di un battito di cuore.
«Hai ragione tu, mentire è sicuramente la cosa migliore da fare. Quando tornavate a casa con tutte quelle ferite mi mentivate, vero? Andavate in giro a spargere sangue e poi tornavate a casa trattandomi come una perfetta cogliona che non capisce un cazzo. “Avevo del lavoro da recuperare in ufficio”. Gestire un traffico di puttane è un lavoro?» sapeva anche quello.
«Se ti dicessi che no, non gestisco quel traffico suppongo la prenderesti come l'ennesima bugia. Non voglio raccontarti la verità, voglio continuare a darti la mia pillola quotidiana di cazzate, bagnata nello zucchero» il mio tono nauseò entrambi.
«Mi fate tutti schifo..» il suo nauseò solo me.
«Sei degna figlia di tuo padre, mi hai sorriso. Hai dormito con me. Nuda. E mi avevi tradito..» si ritrasse ferita, avevo per metà ragione in fondo.
«NON PERMETTERTI DI PARAGONARMI A QUELL'ASSASSINO. SIETE VOI I NEMICI, NON IO. Vorrei che per una volta mi dicessi la verità, c'è qualcosa su cui non hai mai mentito?» sperava ancora fosse tutto uno scherzo, nonostante non ci credesse neppure lei.
«Ogni ‶ti amo‶ era sincero. Vorrei non avere le mani macchiate del sangue altrui, vorrei essere la persona corretta che tu pretendi, vorrei non avere un passato, ma non posso dirtelo.. Puoi almeno credere al fatto che ti amo? Puoi almeno..» non mi lasciò finire.
«Ti ho amato. Ti ho amato fino a distruggermi per te. Ma oggi Sophia e tutto ciò che ti riguarda muore qui e adesso». Si alzò tremando appena, gli occhi aridi non sembravano mostrare la minima traccia di cedimento, a differenza di quelli miei pronti a fuoriuscire e schiantarsi al suolo.
«Non disturbarti ad accompagnarmi alla porta .. conosco la strada. Lui pagherà, e tutti quelli che si metteranno in mezzo ..compresi voi. Voglio riscattare anche la vostra dignità, non rendermi tutto più difficile» la sicurezza nella sua voce accapponò la mia pelle.
«Morirai. Lui ti ucciderà. Non voglio perdere anche te ..ti prego. Non ho mai supplicato nessuno in vita mia, neppure gli aguzzini di mio padre ..Sonech'ka..» si tappò le orecchie urlando.
«Non chiamarmi così». Mi guardò gelida mentre il divario tra noi diveniva sempre più profondo. Abbassai il capo sconfitto, la mano sanguinava e alcune schegge di vetro mi perforavano il palmo, perché non sentivo dolore? Ero forse troppo preso dall'ascoltare quello sordo nel mio petto.
«Se varchi quella porta, se te ne vai .. la tua strada si delineerà e io sarò al varco opposto, con le armi in mano» neppure quello sarebbe servito a fermarla, lo sapevo bene.
«Ti aspetto lì allora, al varco. Non tardare, ‶Shùra‶» le conferme facevano male.
«Chi dovrei sacrificare al posto tuo? A chi dovrei strappare la testa? Misha? Il mio Misha? Dorian, Nadja, Sergej? Chi» la guardai disperato, provavo ad aggrapparmi ancora a lei.
«Te» sentii il sangue congelarsi all'interno delle vene. Aveva sul serio detto ''te''? Qualcosa si distrusse, si frantumò e si ricompose, il tutto in una frazione di secondi.
«Ti amo davvero Sophia». Non trovai niente di meglio da dire.
«Un mostro può amare?» Sophia sorrise malevola, ma i suoi occhi erano gonfi di pianto e disperazione.
«Porta con te il mio libro, e leggilo quando penserai non ci sia più speranza». Non si voltò neppure una volta.
 
 
Un mostro può amare? Distrussi ogni mobile di quella stanza, urlando fino a restare senza voce mentre le schegge di vetro ancora conficcate nel mio palmo erano ben poca cosa rispetto al dolore che provavo. Mi inginocchiai afferrandomi i capelli, era quella la fine? La vedevo, mi vedevo. Vedevo entrambi e vedevo Misha, in un modo o nell'altro ci saremmo ricongiunti. Ma da morti.
Mikhail entrò in quel momento osservando orripilato il caos di quella stanza, e me. Un groppo sembrò serrare la sua gola impedendogli di parlare mentre sollevavo gli occhi: avevo lo sguardo di un morto.
 
‶ Sophia senza di te non c'è vita, come faccio a fare a meno di te?‶
 
‶ E non dovrai farlo, mai.‶

 
When is a monster not a monster? Oh, when you love it.
 
 
***
 
 
Avrei passato un’altra notte insonne, attendendo che Misha dormisse prima di sgattaiolare fuori dalla mia stessa casa come un ladro. Non mi aveva detto nulla dopo avermi guardato in quella stanza, aveva appreso da solo della scomparsa di Sophia ma non sapeva con esattezza cosa ci fossimo detti in sua assenza, né io mi premurai di dirglielo.
Capii subito che qualcosa non andava quando provai ad aprire l’auto e non successe nulla: era già aperta. Assottigliai lo sguardo guardandomi attorno, erano passati due giorni dal fatto e dall’addio a Sophia, Sergej ormai avrebbe dovuto saperlo, che avesse mandato qualcuno? A che scopo?
Sul cruscotto spiccava l'angolo di quella che sembrava una busta, o un foglio, lì dentro non vi era nulla del genere però, o almeno questo era ciò che pensavo. Mi sedetti e aprii la busta, estraendo quella sorta di messaggio che probabilmente risiedeva lì da poco:
 
‘’Io sono amato, credo: fiducia il cuore chiede. No, non può la mia cara illudere la mia fede. Tutto è sincero in lei: il fuoco dell'amore, e, dono delle grazie, il timido pudore, le vesti e i discorsi, negligenza gentile, e dei teneri nomi la mollezza infantile.'’
 
Le parole di Puskin rimbombavano nella mia mente, accartocciai quel foglio con rabbia. Non avevo neppure bisogno della firma. Sophia. Quello era esattamente il suo stile, Sophia era come il taglio al centro delle labbra, bastava stirarle appena per sentirne il dolore. Era come il gancio rotto del tuo orologio preferito. Come i freni dell'auto che non funzionano quando prendi lo slancio. Era morte ed era vita. Lasciava lì delle parole che sapeva io avrei compreso, mi voltai e la vidi accanto a me: sorrideva. Non era il suo sorriso bonario, vi era un pizzico di perfidia.
 
Te. Ricordi? Te.
 
Lo ricordavo perfettamente, le avevo chiesto chi avrei dovuto sacrificare al posto suo. Sophia era tornata dai miei incubi per ricordarmelo ancora una volta.
Sparì confondendosi con l’aria primaverile, lasciandomi solo e ancora più disperato di prima.
 
 Volevo starle vicino. Mi piaceva vederla mangiare un cioccolatino come una bambina e poi pulirsi con la mano. Quando tutti la chiamavano e lei diceva “sono fuori con il mio Shùra”. Non era come tutte le altre. Lei non mi amava come le altre. Lei mi amava sinceramente. E anche io. Lei era la mia bambina.
 

 

Mikhail POV

 
I ricordi sono semplici maschere di c’era.
 
Senti, Misha..
 
Mh?
 
 .. secondo te sono troppo grassa?
 
Sì.
 
Fai proprio schifo. Me ne vado. Addio per sempre. E non mi fermare. Il conto lo paghi tu. Sappi che il piatto che hai preso è orrendo. Sto andando. Anche se mi fermi me ne vado. VADO? VADO.
 
...
 
NON MI VUOI BENE NEANCHE UN PO'.
 
Mi chiedo da quale buco tu sia uscita.
 
Mikhail Volkov, attento a come parli. Stai parlando a Sophia la Meravigliosa. Meravigliosa con la emme maiuscola.
 
Ultima volta che mi faccio portare fuori a mangiare.
 
Lo dici sempre e poi..
 
E poi rompi il cazzo.
 
 Non sei mai carino con me.
 
Ma non mi dire.
 
Se non mi vuoi bene allora perché esci con me?
 
Vuoi sapere cosa ti leggo in faccia?
 
Giuro che se fai un commentino simpatico ti mando a dormire con Tata Deda, vedi tu. Lo giuro.
 
Sce-ma.
 
 Sei odioso..
 
 Ti voglio bene, Sophì.
 
 
‘’So che è un po’ presto per farti gli auguri di buon natale, ma non credo avrò l’occasione di farteli di persona quest’anno. Quindi ho deciso di rimediare così, con una lettera ed una bella torta al cioccolato, una di quelle che piacciono tanto a te.
Mi sono resa conto che per anni ho vissuto con due persone che credevo di conoscere ma che, in realtà, non sapevo neanche chi fossero. Per anni son rimasta con la convinzione che queste due persone fossero semplicemente strane e per anni ho amato queste persone. Ora che ci penso bene “anni” è riduttivo: qui si parla della mia vita, la mia intera vita.
Sin da piccola ho creduto che Misha, o meglio, Mikhail fosse un ragazzino un po’ troppo particolare. Antipatico, testardo, volgare; in pratica eri e sei esattamente l’opposto del principe azzurro eppure, nonostante tutto, mi sono affezionata a te. Ho imparato a conoscere Misha, quello che non ascolta mai nessuno, che fa la pipì fuori dai finestrini, quello che adora i dolci al cioccolato. Pensavo veramente d’essere la sola a saper tutto quanto di te (dopo Shùra, ovvio, visto che tra maschietti i segreti non esistono, giusto?) e mi sentivo terribilmente felice. Credevo proprio d’essere la sola ad aver avuto l’onore – chiamiamolo così – di conoscere quel lato dolce e nascosto, ed invece.. Poi, all’età ventisette anni ho scoperto che no, non sapevo proprio niente e che magari “Misha” è solamente un personaggio inventato da te, una maschera che ti porti addosso nel tempo libero, quando sei con me. E pensare che ci ho creduto davvero, ma proprio sul serio! Che stupida che sono, vero? Ma meglio tardi che mai.
Chi sei? Cosa sei? Una volta, mentre rileggevo la storia di Pinocchio, ho pensato “oh, ma il gatto e la volpe sono proprio Shùra e Misha!” e sai cosa? Mi sono sentita in colpa perché alla fine quei due erano “i cattivi” e per me Shùra e Misha non sono mai stati cattivi. Per me quelle due persone non esistono più; ti sei fatto portare via la parte più bella di te vendendoti così tristemente. Voi tutti, tutti quanti, mi avete strappato dalla vita, strappate vite ogni giorno e vi distruggete da soli giorno dopo giorno. Io non voglio ricordarvi così, non voglio più essere una spettatrice sorda, muta e cieca. Non posso stare zitta e fingere di niente. Voglio ricordarvi come una bella favola dal finale aperto, con un sorriso sulle labbra. Voglio ricordarmi del tuo broncio senza dover ripensare al traffico di prosistu-, ah, no, modelle che gestisci. Non voglio pensare a Zio Yuri, ad Andrej... ai miei genitori.
Grazie per tutto quello che hai fatto e per tutto quello che non hai detto e perdonami per non aver mantenuto fede alle mie promesse. Mi dispiace, ma non so se sono capace di perdonare una cosa del genere. Mi dispiace. Non perdonarmi. Odiami. Dimenticami.
Ci siamo amati come due fratelli ed è stato bello finché è durato. Sei stato una delle mie più grandi gioie.

 
Tua per sempre, Sophia.’’
 
Alla vista di quella torta al cioccolato non feci i conti con le parole che quella lettera aveva in serbo per me. L'aprii ed era come se avessi appena chiuso la mia vita. Avere la certezza che Sophia sapesse tutto, il giorno che io e Shùra avevamo sempre temuto, non faceva altro che mettere fango su fango su quello che già era un cumulo di merda marcia.
Poggiai i palmi contro il ripiano della cucina, come se le gambe non potessero reggermi a dovere.
Non sostenevano più la mia figura alta e slanciata, non sostenevano più quei pensieri troppo forti da essere udibili anche a un chilometro di distanza. Lentamente, avevo perso uno dei pilastri più importanti della mia inutile e vuota vita. Prima mia madre, poi Irina, poi Sophia. Il prossimo sarebbe stato Shùra? ...Anche Nadja alla fine avrebbe abbandonato quella vita schifosa che mi trascinavo dietro come se fosse un cadavere putrefatto?
La mia Sophì, la mia principessa. La stessa donna per cui io e Shùra avevamo litigato tante volte e allo stesso tempo ci eravamo messi da parte per lei, la donna per la quale mi ero improvvisato falegname facendomi venire i calli alle dita. L'unica donna alla quale davo la mano prima di dormire quando era triste, la stessa bambina che mi faceva indossare i suoi pantaloni quando avevo inzuppato troppo il letto - tormentato dagli incubi in cui mio padre era protagonista. La bambina che mi aveva raccontato fiabe che non conoscevo, ma io non avevo mai ascoltato perché la mia Sophì meritava più attenzione quando sorrideva leggendo. La stessa donna che ogni dannata sera mi proponeva orgoglio e pregiudizio, film odioso di cui non ero mai riuscito a vedere il finale senza russare su quel divano scomodo, eppure non le avevo mai detto di no. Quella donna, quella ragazza, quella bambina, lei che adesso mi stava riponendo nello scaffale delle cose vecchie. Quelle rotte che a guardarle fanno anche un po' pena. Come i carillon a cui si è rotto qualche ingranaggio fondamentale; ero appena diventato inutile.
"Il vero Misha?" biascicai flebilmente mentre le lacrime inzuppavano quella cioccolata che a me piaceva tanto, il piccolo sorriso macabro e malinconico probabilmente faceva di me una persona terrificante o una non-persona e basta.
Non riuscii a trovare risposta, chi era il vero Misha? Esisteva? Cosa sarebbe stato senza coloro che ritenevo i miei genitori adottivi? I miei amanti platonici e i miei fratelli adorati?
Non c'era risposta, perché non sarebbe rimasto nulla.
Forse Sophia l'aveva saputo. Aveva saputo quanto fossi sporco, quanto mio padre m'avesse macchiato e come avessi ucciso metaforicamente mia madre povera martire, così bella ma così debole. Forse Sophia voleva salvarsi e ci stava provando da sola, ma io ne ero capace? Io e Shùra potevamo farlo?
Non mangiai la torta, non avrei potuto farlo. Non in quel modo, non senza di lei e le sue lamentele su quanto fossi poco educato e irrispettoso.
Certezze inutili, promesse rotte, cuore che ormai non ero certo battesse ancora.
Mi accasciai sul pavimento freddo, era come galleggiare su un lago ghiacciato giocando a fare il morto. Eppure lì nessuno stava giocando.
In quel momento capii. Capii di non meritare tutto ciò che quella ragazza aveva da offrire ad uno come me.
 
 

Aleksandr POV

 
Vidi Misha sedersi accanto a me, aveva l’aria spiritata di qualcuno che non dormiva decentemente da giorni. Bevvi l’ennesimo bicchiere di vodka facendomi coraggio per entrambi.
«Sergej mi ha chiamato». Sapevo mi avesse sentito, lo capii da come trattenne il respiro.
«Che ha detto?». La voce fioca, afferrò la bottiglia imitandomi.
«Verrà qui domani – annuì senza guardarmi – Voglio brindare alla fine Misha. La fine delle bugie». Sollevai il bicchierino sorridendo.
«E l'inizio della morte?». Risi senza motivo.
«Quella è iniziata da tempo. Non lo vedi? Stiamo marcendo, pezzo dopo pezzo». Arrivare dritto al punto era da sempre una mia dote.
«Beh, però respiriamo. Adesso stiamo bevendo e domani ci sveglieremo». Cogliere la positività nelle cose invece non era mai stata una sua dote. Che avesse imparato?
«Non riesco neppure a respirare come si deve. Domani mi sveglierò, è questa la mia certezza e la mia condanna. Domani mi sveglierò. Siamo sempre noi due Misha, l'inizio e la fine di tutto; finisce e inizia tutto con noi. Soli». Bevvi ancora.
«Te lo ricordi come ti vedo io Shùra?». Non ricordavo nulla. Ero sordo e cieco.
«No, però in qualsiasi caso vorrei vedermi davvero con i tuoi occhi». Ma non con quelli di Sophia.
«Ti vedresti come un eroe. Mi hai cambiato le lenzuola alle tre di notte quando eravamo piccoli. Sei andato in cucina di nascosto a prendermi il gelato quando ancora eravamo ragazzini e io troppo impaurito da Sergej. Mi hai insegnato a difendermi. Mi hai spiegato che il pene non si usava come lo usava mio padre, mi hai consolato, mi hai protetto, mi proteggi. Mi dai cazzotti, mi curi quando sto male, mi permetti di stare al tuo fianco, mi hai reso importante per qualcuno, mi hai insegnato cos'è la fiducia, mi hai fatto il primo regalo di compleanno, mi hai sorriso, mi hai regalato le tue lacrime, mi hai permesso di stare da solo con Sophia, mi hai fatto abbracciare mia madre tante volte. Mi hai regalato una famiglia». Continuavo a non ricordare, mi sentivo un tale fallimento.
«Sei tu la mia famiglia Misha, questa è una cosa che non può cambiare. Ti racconto una storia, ascoltala. C'erano questi due bambini, uno dei due sopportava poco l'altro perché era un piagnone e pisciava il letto, iniziò a seguirlo per evitare che combinasse casini in modo tale da non dover essere sgridato anche lui; dopo un po' di tempo iniziò a sentirsi vicino a quel bambino, lo guardava la notte quando dormiva, cambiava le lenzuola al posto suo per poi dirgli ''non vedi? sono asciutte, hai immaginato tutto'', sai perché iniziò a farlo? Per lo sguardo di quel bambino ogni volta che faceva qualcosa per lui, lo guardava come un eroe, come un essere umano. Quel bambino iniziò ad essere avido, voleva sentirsi così e si legò indissolubilmente al più piccolo, era egoismo per se stesso e anche amore per l'altro. I bambini crebbero, le cose non cambiarono però, il grande continuava a specchiarsi negli occhi chiari del più piccolo, e il suo riflesso era così umano da permettergli di respirare ancora e ancora e dire ''sono vivo''. Sei sempre stato tu. E lei. Siete sempre stati voi a rendermi una persona». Non aggiungemmo altro, la sua sedia dopo un tempo che mi parve interminabile si mosse, sentii la porta della sua stanza chiudersi e tornai solo.
Continuavo a sedere in cucina, un bicchiere poi due, poi tre avevo perso il conto. Sentii nuovamente la sedia accanto alla mia muoversi, sapevo già chi fosse senza bisogno di girarmi. Mio padre mi fissava con pena, trangugiai la vodka senza muovere un muscolo.
«Vorrei chiederti cosa faresti tu in questo caso, ma probabilmente diresti ''Ricostruisci ciò per cui hai dato la vita con i tuoi arnesi ormai logori'', non ho ragione?» continuò a guardarmi in silenzio chinando il capo. Ingoiai il groppo che ormai sostava perennemente nella mia gola. L'altra sedia si spostò, incrociai gli occhi di Yuri, il foro sulla tempia sanguinava ancora.
«Ho detto a Sophia che eri annegato nel Volga ubriaco marcio, non so neppure perché mi ostini ancora a vederti ..sto impazzendo». Lanciai il bicchiere ancora pieno a terra, tenendomi il capo. Dovevo trovare un equilibrio o sarebbe finito tutto. Sergej in quel momento era sicuramente in volo verso San Francisco, sapeva già tutto, era solo questione di ore prima che il destino di Sophia si delineasse rendendomi incapace di proteggerla. Cosa dovevo fare? Ma sopratutto, era giusto cercare ancora una volta di proteggerla? La sedia di fronte a me venne occupata da un'altra figura, e i nostri occhi si incrociarono: era Andrej. Aveva il viso deturpato, mi guardava sorridendo in maniera arcigna. Voltai il capo per osservare le tre figure, sembravano opprimermi. Sentivo l'equilibrio della mia mente andare lentamente scemando, stavo impazzendo.
«Sergej scoprirà cosa hai fatto, e allora cosa farà il nostro sicario?» La voce di Andrej somigliava all'alito della morte, chiusi gli occhi serrando la mascella.
«Da una vita come la mia ne esci solo da morto, io morirò.. ma alle mie condizioni» Misha dormiva nella stanza accanto, potevo sentire il suo respiro attraverso la porta socchiusa; avrei salvato anche lui, se Misha sopravviveva lo avrebbe fatto anche il mio spirito. Sarei rimasto immortale attraverso lui.
Aprii gli occhi e mi ritrovai di nuovo solo.
 
I will walk among you and be your God, and you will be my people (Leviticus 26:12).
 
 

Sophia POV

 
«Allora, signora Mikhailova, giusto? Sono la dottoressa Hong, psicologa e mi occupo delle persone che più o meno si trovano nella tua stessa situazione. Le avranno già presentato a grandi linee in cosa consiste questo progetto e quali sono i nostri campi d’azione, come agiamo ed a cosa miriamo. Come ben saprà, prima di cominciare col programma, dobbiamo mettere qualche punto sul suo profilo psicologico e tracciare assieme un percorso di reintegrazione. A parole sembra qualcosa estremamente difficile e grave, ma non deve preoccuparsi, è più semplice di quanto possa immaginare. In seguito passeremo al resto, ma ora un passo alla volta. Ne approfitto per presentarle l’avvocato Jones, che si occuperà della parte prettamente burocratica e legale». Silenzio da parte mia.
«È un piacere. Più tardi potremo discutere meglio sulla sua reintegrazione e negoziare certi dettagli, come la professione, la formazione e così via. Io e la mia équipe faremo del nostro meglio per garantirle il massimo della sicurezza e della libertà. Per quanto riguarda l'alloggio per il momento dovrà accontentarsi di un monolocale in un piccolo centro. Una volta disegnata la sua nuova identità e la sua nuova vita potrà le troveremo un lavoro e potrà scegliere, quando si sentirà più sicura, d'andare a vivere da sola. Ma questo lo deciderà con la dottoressa Hong, ovviamente. Vedrà, tornerà alla sua vita normale. Ora vi lascio al vostro lavoro». Ancora il silenzio come unica risposta.
«Allora, Sophia, secondo il primo esame medico lei è reduce da uno spiacevole evento. Essere madre ed avere una famiglia è il sogno di molte donne. Mi dica, secondo lei come sarebbe stata la sua famiglia se Mikhailov non l’avesse adottata? Come si immagina la sua vera famiglia? Parlarne deve essere difficile, lo immagino, ma le farà del bene. Si sfoghi»
 
Ricordo il volto della donna che da piccola chiamavo tata, il volto rassicurante di Sergej, la voce calda di Aleksandr, il broncio perenne di Misha, ma niente di voi.
A volte penso sia stata la luna a partorirmi tra spasmi di cosce pallide sapientemente allargate tra le stelle proprio in alto. Così appesa sopra un concerto di David Bowie, lei si apriva lasciandomi cadere. Caddi e mi schiantai a terra. Non riesco ad immaginare i vostri volti, le vostre voci oppure la mia vita se voi foste stati al mio fianco. Probabilmente non avrei avuto una camera tutta mia, dei gioielli ed una vita piena di agi. Non ne ho davvero idea. Siete creature esoteriche, di dubbia esistenza.
A volte penso d’essere caduta in terra punita per i peccati che avete commesso, burattina dei vostri capricci. Ora dovrei dirvi che mi mancate, che vi voglio bene e che mi sarebbe piaciuto crescere con voi, in una casa piccola ma accogliente. La verità è che non penso niente di tutto ciò; non mi mancate, non vi voglio bene e non vi desidero accanto a me. Non siete mai esistiti ed io non credo più alle favole. Le persone che mi mancano, quelle che sono alla radice di ogni problema e che stranamente sembrano esserne anche la soluzione, sono gli orchi di questa fiaba. Le fate turchine non esistono, quelle che con un soffio di polvere di fata fanno sparire ogni paura, ma gli orchi sì, crudeli e mostruosi, esistono.
Dovrei chiamarvi “mamma e papà”, perché è quel che sareste dovuti essere; “sareste dovuti essere”. Mio padre ha ucciso mio padre. Mio padre ha ucciso mio padre e mia madre. Che ironia! Mia madre era una delle tante fiamme del momento, una bella bionda dagli occhi color ghiaccio, e mio padre non è mai morto: è vivo come mai prima d’ora, pronto a tagliarmi la testa perché “la famiglia viene prima di tutto”. È quel che ho imparato sin da piccola, la famiglia prima di tutto, ora prima di me. Papà è immortale: vivo o morto rimarrà ricordato per sempre perché il suo nome è una leggenda; vivo o morto lo ricorderò sempre come l'eroe della mia infanzia e la rovina del mio presente.
Nei registri sono “Sophia Mikhailova, figlia di Sergej Mikhailov e Aida Sokolova, sorella di Nikolaj Mikhailov”. Non mi avete lasciato neanche un nome, nulla che potesse salvarmi dal peso di una famiglia che, paradossalmente, sento mia più che mai. E quindi grazie. Grazie per avermi vincolata in questo modo. Grazie per avermi permesso di vivere una vita non mia.
Cara mamma, quella che non si è mai fatta viva, se ora fossi con me ti stringerei le mani e ti direi che mi dispiace. Non mi manchi e mi dispiace. Non commetterò i vostri errori, non di nuovo. Non abbandonerò chi amo. Non morirò senza aver ripreso tutto quel che mi spetta. Non me ne andrò senza aver strappato dalla "famiglia" chi ha subito.
   
Io sono Sophia, la luna è mia madre e mio padre è un grande stronzo.   
                         
   
«Sophia, allora? Mi sente? Qualcosa non va?»
«Mh? Ah, mi scusi, stavo immaginando! Una madre affettuosa, un padre presente ed una casa piccola.. Sarei stata sicuramente felice e spesso sento la loro mancanza. Già, mi mancano»
                         
   
ora aspettami nel tuo incubo,
ci vedremo davvero.

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Capitolo 19
*** Puškin ***


  
 

ACT XIX

 
 
La fine sembrava sempre più vicina, vivevamo le nostre vite aspettandola e per ironia era questa a dare quel retrogusto dolciastro che ci permetteva di non schiantarci al suolo senza risollevarci.
Osservai l'uomo in piedi all'entrata, sembrava improvvisamente invecchiato di vent'anni. Sergej non disse nulla, si limitò a superarmi entrando nella stanza adesso vuota di Sophia, chiudendosi a chiave. Misha uscì dalla cucina, teneva con i denti un blinciki, ci guardammo con aria complice e io fui sicuro riuscisse a leggermi nella mente, era come se gli stessi dicendo: ‶E' giusto che soffra anche lui.‶
I secondi passarono, seguiti dai minuti che divennero ore. Quando uscì il suo viso era stravolto, gli occhi iniettati di sangue, e lo sguardo di chi non dormiva decentemente da giorni.
‶Adesso sai cosa si prova a perdere chi ami, benvenuto nel mio mondo‶, non lo dissi ma lo pensai.
«Disfatevi delle sue cose, bruciatele, datele ai poveri non me ne frega un cazzo, dovete disfarvene» finalmente parlò sedendosi su una delle sedie.
«Pensi che se ce ne disfiamo lei sparisce automaticamente? Questa si che è una brillante idea, Vor» il tono ironico di Misha rimbalzò tra noi come boomerang.
«Misha non ho il tempo materiale di giocare con te, lascia parlare i grandi» Sergej sapeva sempre come zittirlo e umiliarlo. Il silenzio piombò nella stanza. Fissai Misha, aveva lo sguardo dell'animale pronto ad attaccare.
«Cosa facciamo?» si schiarì ad arte la voce sedendosi sul piccolo divanetto.
«Ciò che è giusto» quella frase mi irritò.
«E' giusto per chi? Per te?». Lo fissai inarcando un sopracciglio.
«Shùra, non seguire le orme di tuo fratello, non sono in vena dei vostri giochetti infantili. E' entrata nel programma di protezione testimoni, io non sono perseguibile, ma voi si. Non ci metterà molto a fare i vostri nomi» li avrebbe fatti davvero? A questo punto iniziavo sul serio a dubitare di lei.
«Mi sto già occupando dell'agenzia» lo vidi sorridere senza gioia.
«Saggia scelta. Io provvederò a cercare qualcuno..» Sergej non finì la frase, era troppo anche per lui. ‶Provvederò a cercare qualcuno che si disfi di lei, proprio come le sue cose. Sparirà come fosse un ricordo, un sogno dalla quale ci siamo tutti svegliati.‶
«Non ne hai bisogno». Misha mi fissò interdetto senza capire dove volessi arrivare, il suo sguardo era simile a quello di Sergej. Continuai senza fermarmi, senza mostrare alcuna traccia di sentimento.
«La ucciderò io». Un silenzio pesante calò tra noi, come una cortina di dolore che impediva anche solo di respirare. Mikhail sputò il cibo per terrà avventandosi contro di me, afferrandomi per la maglia.
«Dì un po' sacco di merda, ti sei fottuto il cervello?» non mi scomposi scrollandomi semplicemente dalla sua presa per poi voltarmi verso un Sergej incredulo. Si riprese quasi subito, annuendo lentamente. «Occupatene tu allora ..non farla soffrire» era una frase così tipica di lui, la sua sconvolgente prevedibilità avrebbe dovuto annoiarmi, invece no mi accapponava la pelle.
«OH BEH CERTO. NON FARLA SOFFRIRE SHURA. UN COLPO IN TESTA E SBAM. MI RACCOMANDO SHURA. CONTIAMO SU DI TE SHURA. VAI A FARTI FOTTERE SHURA». Le ultime parole furono pronunciate con odio e rancore, Misha girò sui tacchi sbattendosi la porta alle spalle. Restammo soli e Sergej mi sorrise.
«Lo vedi? Cosa ti dissi al capannone mesi fa? Ti avrebbe masticato e poi sputato, e lo ha fatto davvero. Per distruggere me distruggerà anche voi, è una fortuna tu sia rinsavito. Occupati di Misha, tienilo buono prima che mandi a monte i nostri piani» immagini sfocate di quella notte trapassarono il mio cervello.
«Non lo farà. Andrà esattamente come ho pianificato». Peccato neppure Sergej sapesse fino a che punto si fosse spinto il mio piano adesso.
 
Indossai una vecchia tutta dirigendomi al parco vicino casa, corsi a perdifiato, corsi fino a sentirmi esplodere il fianco e infine i polmoni per poi gettarmi sudato e ansante sul prato umidiccio. Cercai nella tasca il cellulare, composi un numero e attesi:
 
– Dove sei, Misha?
– All'inferno. E tu Shura?
– Accanto a te, probabilmente.
– Non ci credo. Non ci voglio credere.
– Non farlo allora, e abbi fiducia in me.
– Quante volte me lo ripeterai?
– Va tutto secondo i piani.
– E perché non sembri felice?
– Perché non sono felice e questi non erano i miei piani.
 
La caccia a Sophia era ufficialmente iniziata, e io mi ero arrogato il diritto di divenire il suo cacciatore.
I miei piani non erano cambiati, non del tutto almeno, diciamo che avevo dovuto apportare ovvie modifiche per correre ai ripari. Osservai il cielo pieno di stelle, mi chiesi se anche lei guardasse la medesima cosa ovunque si trovasse.
 
***
 
Arrivarono due giorni dopo simili a belve affamate.
Sentii il brusio della gente attorno a me, lo capii in quel preciso momento: erano arrivati anche da me alla fine. Osservai i poliziotti irrompere nell'agenzia, Misha accanto a me si irrigidì afferrandomi il braccio quasi volesse darsi alla fuga trascinandomi con se, mi voltai a guardarlo sillabando a mezza voce: «Sparisci da qui».
Cercavano un certo Aleksandr Belov. ‶Sei tu Aleksandr Belov?‶ avrei volentieri risposto ‶No, sono Aleksandr Petrov, avete sbagliato persona, ed io ho sbagliato vita‶. Avevo due possibilità concrete, o fuggivo da lì indicandomi implicitamente come colpevole di qualsiasi cosa fosse nelle loro menti, o restavo e mettevo in pratica ciò che mi riusciva meglio nella vita oltre a uccidere: mentire.
Restai.
«Abbiamo delle domande da farle, la prego di seguirci in commissariato». Poco prima di entrare nella loro auto vidi Anastasia osservarmi dalle vetrate, aveva lo stesso sguardo di Misha e forse anche il mio; tutti loro erano letteralmente terrorizzati dall'idea di finire in galera.  Continuai a guardarli sorridendo beffardo prima di entrare nel mio inferno personale.
Quante ore erano passate? Forse due, forse dieci, o forse una manciata di minuti. Guardai l'uomo slanciato seduto di fronte a me, non avevano alcuna prova per inchiodarmi e questo li innervosiva.
«Sergej Mikhailov è risultato essere il suo tutore legale fino alla maggiore età, è corretto?» sorrisi.
«Si» confondere bugie e verità era l’arma migliore.
«Non ha mai saputo nulla dei suoi traffici? Piuttosto strano non le sembra?» accennai una risata.
«Il fatto che sia strano lo rende automaticamente falso, commissario?» ci fissammo.
«Conosce Sophia Mikhailova?» il suo nome era una coltellata nel mio petto.
«Suppongo sappia già la mia risposta» cercai di non far vacillare il mio tono. Lei era il mio punto debole.
«In che rapporti è con lei?» non mi sarebbe bastata una vita per spiegargli i nostri rapporti.
«.. Amici, nulla di più. Abbiamo stili di vita diversi, lei è una viziata mondana con idee stupide nella testa, o almeno lo era». Rinnegare. Rinnegare e provare soddisfazione. Lei aveva schiacciato me, e io esorcizzavo il suo ricordo. Le domande divennero serrate e incalzanti, capi che volevano trovare tracce della mia colpevolezza.
«E' interessante sa?» lo vidi guardarmi furbo.
«Cosa esattamente» non mi scomposi fissandomi le mani.
«Il fatto che la suddetta Sophia Mikhailova sporga denuncia contro suo padre, che a quanto risulta è un socio della sua agenzia, e lei ne annuncia la chiusura. Sa, credo poco alle coincidenze» stavolta sorrisi sinceramente.
«E io credo sia il momento di chiamare i miei avvocati, o sbaglio?» mi fissò truce.
«La signorina Mikhailova, pensa abbia fatto anche il suo nome?» no, o avrei avuto già le manette ai polsi da ore.
«Se lo ha fatto dovreste arrestarla per falsa testimonianza, non so nulla e non c'entro nulla». ‶Falsa testimonianza‶. Dio era lì, sorrideva e aspettava di punirmi.
«Bei tatuaggi, hanno un qualche significato?» eccola la domanda che attendevo. Tutti sapevano quanto fossero importanti i tatuaggi nelle organizzazioni criminali russe.
«Nessuno, sono un vanitoso che ama sfoggiare tatuaggi per attirare l'attenzione» mi sporsi appena.
«Tempo fa vidi ad un carcerato russo la stessa cattedrale nella mano, sa cosa voleva dire?» lo sapevo bene.
«Si che lo so, vuol dire: dovrò stare più attento ai tatuaggi che scelgo in futuro» mi fissò astioso, aveva perso.
«Non si allontani troppo da San Francisco» mi alzai.
«Tornerò presto a Mosca, se vuole trattenermi qui mi porti un mandato, altrimenti dovremo salutarci»
 
Il corridoio era troppo stretto per tre persone, eppure i due poliziotti si ostinavano a ''scortarmi'' all'uscita. Fu lì che la vidi, era passato quanto? Una settimana? Dieci giorni? Sembrava sciupata e dimagrita, e io? Come apparivo io ai suoi occhi?
‶Sophia guardami negli occhi, dimmi se vedi ancora la vita albergarvi dentro‶. La vidi sussultare appena mi vide, gli sorrisi scostandomi dai due uomini per avvicinarla. Non le tolsi gli occhi di dosso per tutto il tempo, c'erano tante cose che avrei voluto dirle, ma dovetti limitarmi ad un divertente indovinello tutto per lei.
«Per tutta la notte il povero demente, ovunque rivolgesse i passi, sempre sentiva dietro di lui galoppare il Cavaliere di bronzo col suo pesante calpestio». I poliziotti ci guardarono incuriositi, continuai a sorriderle prima di superarla e dirigermi verso l'uscita. Seppi di aver fatto c'entro non appena sentii le voci concitate degli uomini dietro di me: ‶Signorina si sente bene? Signorina?‶.
Adesso sapeva a chi era toccato correrle dietro per portare in dono, simile a un trofeo, la sua testa.
 
Tu mi hai messo nella fossa più profonda, in luoghi tenebrosi, negli abissi.
 
***
 
– Mikhail, smettila di seguirmi.
– Chi cazzo ti segue, io no di certo.
– Non so se hai notato che sono al cesso, posso pisciare senza di te?
– Perché? Quella roba lì che gli uomini pisciano sempre in coppia non è valida per noi?
– Erano le donne. Levati dalle palle.
– Fammi capire, se voglio pisciare quando lo fai tu significa che ti seguo? Come sei egocentrico, bambino mio.
– Mi segui da quando sono tornato a casa, sei attaccato al mio culo ..dimmi quello che devi e poi lasciami pisciare.
– Non devo dire niente..
– ....
– NON TI STO SEGUENDO CAZZO.
– Mi è passato lo stimoIo.. LA PIANTI DI SEGUIRMI?
– E' passato anche a me, è un problema? Com'è andata in centrale?
– E' questo che ti preoccupa? E' andata bene, non hanno prove e non hanno neppure fatto il tuo nome.
– Figo. Hai scoperto dove abita Sophia vero?
– Perché, vuoi andare a trovarla e piangerle addosso?
– Oh ti prego, mi stai guardando? Io sono MISHA. E Misha fa piangere gli altri.
– ''Figo''.
– Vai a farti fottere, non ti seguo più.
– Allora mi seguivi davvero.
– NO. VAFFANCULO, TI RIGIRI SEMPRE LE COSE E MI CONFONDI.
– Ecco perché non posso ancora morire, uno stronzo come te a questo mondo non riuscirebbe a campare da solo.
– Ben detto. No aspetta ..Vai a farti fottere.
– Seriamente, sei un coglione. Appena scopro dove vive sarai il primo a saperlo.
 
Provammo a sopravvivere in un modo o nell’altro, adesso soli dovevamo bastarci e provare ad andare avanti. Ma come potevi quando una parte del tuo cuore sembrava ormai essere esplosa nel nulla? Eppure in qualche modo riuscii a fingere, fui ancora una volta il suo perno lasciandomi andare solo quando lo sapevo dormiente nel proprio letto. Mi sedevo accanto a lui, e lo fissavo. Quando Misha dormiva assumeva tutta un’altra espressione dalle solite, come se le difese calassero.
In quelle settimane continuai a vedere mio padre, e Yuri e Andrej, alla fine lo capii: Quando le persone compaiono nei tuoi sogni, non è perché vogliono qualcosa da te, è perché tu vuoi qualcosa da loro.
Avevo mentito a Misha, gli avevo detto di non sapere dove fosse Sophia quando in realtà era la prima cosa che avevo scoperto dopo essere uscito dalla centrale di polizia.
 
Presi la mia pistola e mi diressi da lei.
 
Gli occhi di Sophia sembravano perseguitarmi, continuavo a vederla di fronte a me alla stazione di polizia, così stoicamente ferma nei suoi ideali, nei suoi principi.
''Ti aspetto al varco'', era quello il varco? L'avevo pedinata per giorni, sapevo dove abitava, cosa faceva durante il giorno, sapevo tutto e ancora non trovavo la forza di affrontarla; affrontarla poi per dire cosa? Dovevo dirle di aver promesso a suo padre di ucciderla? Dovevo anche dirle del mio piano? No, quello era fuori discussione, ormai tra me e Sophia sembrava esserci un profondo abisso di disperazione a dividerci. Scesi dall'auto salendo i gradini a due a due, incapace persino di respirare, ritto di fronte la sua porta con il dito alzato pronto a suonare il campanello. Non lo feci. Respirai. Respirai ancora. Fumai una sigaretta, poi due. Passarono i minuti. Suonai. Non era udibile alcun suono dall'altro lato eppure ne percepii ugualmente la presenza mentre poggiavo la fronte contro la porta.
«Aprimi». Un rantolo ed un respiro strozzato furono l'unica risposta. Non vi era nulla di più terrificante di un uomo disperato, proprio come me. Sbattei il pugno contro la porta ripetutamente, una volta, poi due, lasciai perdere iniziando a calciarla e l'unica risposta che ricevetti fu un semplice e freddo ''Sparisci''. Afferrai l'arma caricandola con un colpo secco, sapevo ciò che stavo per fare eppure non mi fermai. Puntai la pistola contro la serratura sparando due volte, vedendola saltare; sfondai la porta con un calcio ritrovandomi finalmente all'interno del misero appartamento. Sonech'ka era a terra tremante, osservava me e l'arma in maniera compulsiva, ogni fibra del suo essere sembrava urlarmi ''ASSASSINO. MOSTRO''. Tra di noi si era formato un abisso di diffidenza e astio, riuscivo a percepirlo con ogni cellula del mio corpo, mi sarebbe bastato un semplice passo verso di lei per sprofondarvi dentro.
«Aleksandr, vattene.. Vattene o chiamo la polizia! VATTENE ORA» mi fissò spaventata. Adesso accanto a noi, anzi no, in mezzo a noi vi era solo la paura folle. Sophia aveva paura di me. E io avevo paura di perderla e di perdermi. Strinsi l'arma serrando la mascella, sentivo il rancore come un manto a sovrastarmi, coprendomi  fino a rendermi disumano. Dov'era finito l'uomo che riusciva a respirare solo sentendola accanto a se? Sophia lo aveva portato via con se. Guardai nei suoi occhi, ne percepii la paura e provai ancora una volta disgusto per me stesso. Avevo contaminato l'unica cosa bella della mia vita.
«Chiami la polizia? Erano qui sotto, una macchina sostava per tenerti d'occhio, puoi chiamare chi vuoi ..non verranno». Feci  una pausa significativa, volevo indurla a credere che li avessi davvero uccisi.
«Non emettere più neppure un suono, devi stare zitta. Tuo padr.. Sergej è ripartito poche ore fa per Mosca, è stato qui. Ho richiesto espressamente di poterti uccidere, e lui ha acconsentito credendomi. C'è ormai una taglia sulla tua testa. Quando ci rivedremo potrebbe essere tardi, quindi ti chiedo ..vuoi sul serio continuare con questa farsa? O vuoi afferrare la mia mano? Ti posso far sparire in due giorni, neppure Sergej saprà dove sei. Prendere o lasciare» tesi la mano verso di lei, nei miei occhi albergava un'emozione indefinibile; Sophia la osservò, quella mano tesa era la sua casa, lo era stata per anni: cosa era successo a quei due ragazzini spensierati? O meglio, io lo era mai stato?
Allungò la mano tremante verso di me afferrandola per un istante. Arrivò la pace. Ma durò poco, come se fosse stata colpita da una scarica di elettricità mi respinse sollevandosi quasi a fatica, schiaffeggiandomi con ferocia e rabbia.
«ESCI SUBITO DA QUI» Respinto. Ecco come mi sentii,  ero ancora un piccolo uomo per l'ennesima volta nella mia vita; gli occhi iniettati di sangue, faticavo persino a respirare talmente era la rabbia. Strinsi con forza la pistola senza emettere alcun suono, Sophia mi diede le spalle percorrendo pochi passi.
«Ti manca il coraggio per uccidermi, adesso vai». Fu questione di pochi secondi, sollevai l'arma puntandola contro di lei, Sophia sentì il rumore e il respiro le si bloccò nella gola. Sembrava tutto così surreale, simile a uno dei miei tanti incubi. Sparai deviando il colpo di pochi centimetri, il proiettile trapassò il muro mancando lei. La sentii riprendere a respirare osservando il foro a pochi centimetri con occhi increduli.
«La prossima volta potrei non sbagliare». Uscii da lì cercando di raccogliere gli ennesimi cocci del mio cuore, cercando di non lasciarmi andare a quella mostruosità che per ironia adesso, senza di lei, sembrava quasi confortante. L’ultima volta in cui mi voltai la vidi accasciarsi in terra tremante. Il varco era appena arrivato, ed era stato pure oltrepassato.
 
Darling, I forgive you after all.
Anything is better than to be alone.
And in the end I guess I had to fall.
Always find my place among the ashes.

 
Mikhail  POV

 
Passai molte delle mie notti con Nadja, che inevitabilmente venne a conoscenza di tutto. Ormai per lei ero  diventato una sorta di carta scoperta e per quanto mi riguardava risultava impossibile a quel punto omettere anche la situazione di Irina – che nonostante tutto continuavo a cercare ogni giorno. Ai miei occhi Nadja  era come un calmante, nonostante la pazzesca gelosia che travolgeva entrambi e la passione che ci portava quasi sempre a letto, aveva una buona influenza su di me e sul mio spirito e sicuramente era molto più razionale. Mi consigliò di parlare con Aleksandr  e magari di non infuriarmi come al solito prima di sentire le ragioni o spiegazioni dell’altro. Eppure io non ci riuscivo. Mi aveva detto di aver fiducia, ma come potevo star tranquillo sapendo che sarebbe toccato a lui premere quel grilletto contro la nostra Sophia? Iniziava a diventare tutto un fottuto casino, non vedevo la luce e non sapevo più dove sbattere la mia merdosissima testa in quelle fasi acute di disperazione.
Sapevo solo che non potevo permetter di veder morire Sophia, o Shùra. Semplicemente non potevo.
L’agenzia decise di chiudere i battenti, quella sera attesi Aleksandr nel parcheggio sotterraneo, volevo rilassami un po’ con lui, volevo ridere come un tempo. Ma quando la lama del coltello brillò di fronte ai miei occhi io giuro di aver visto le fauci dell’inferno spalancarsi sotto i miei piedi.
 

Sophia POV

 
Ho aperto gli occhi all’alba, incapace di ritornare al mio sonno. Fissavo le spoglie mura del soffitto mentre una sola immagine continuava a ripetersi all’infinito. Vedevo il corpo di mia madre fluttuare sul volga. Un corpo privo di vita e volontà. Un corpo senza volto, senza identità. Un corpo che non meritava una sepoltura, un fiore sulla tomba, una preghiera. Un corpo che non avrei mai potuto piangere. Il corpo di una madre che mi era stata portata via e che, allo stesso tempo, non era mai stata mia. Ecco cosa continuavo a ripetermi incessantemente. Ogni volta che chiudevo gli occhi la rivedevo, elegante come un cigno, ondeggiare sulle acque invernali. E accanto a quell’immagina calma e silenziosa vedevo in lontananza il volto di mio padre. Mi rivedevo tra le sue braccia, le sue labbra sulla mia fronte. E rivedevo Aleksandr e Mikhail, complici silenziosi. Per la testa non avevo altro. L’unico desiderio che sorse in me era quello della vendetta misto ad una strana forma di vergogna.
Rimasi sul divano che da diversi giorni mi ospitava durante la notte fino a mezzogiorno, inerme, fissando il foro sul muro che Shùra aveva lasciato in ricordo del nostro amore incastrato tra le grinfie del dolore. Poi qualche meccanismo decise di rompere quella staticità: mi alzai, fissai la porta della cucina con uno sguardo che di vivo aveva poco e nulla e varcai la soglia della porta. Sul tavolo un coltello di piccole dimensioni richiamava la mia attenzione. Lo afferrai, sentii la lama fredda tra le mie mani e uscii di casa riscaldata dal rancore e dalla sete di vendetta. Mi chiedevo se fossi più furiosa per mia madre o per la verità nascosta, dalla fiducia mandata a quel paese, da un amore che non sapevo più come gestire. Aleksandr aveva provato la stessa cosa? E Misha? Era quel sentimento a mantenerli in vita? Allora perché mi sentivo morire?
Arrivai di fronte alla sede dell’agenzia, sapevo dove tenevano di solito le auto e fu li che mi diressi aspettando. Aspettai in silenzio ed infine li vidi uscire. Sorridevano, entrambi. Vedevo i loro volti e non leggevo neanche un minimo di dispiacere, non un solo pizzico di rammarico, neanche l’ombra dei sensi di colpa. Era come se non fosse mai successo niente. Si spalleggiavano, camminavano spensierati, quasi contenti. Li guardavo e la rabbia saliva, la speranza lasciava spazio alla disperazione, l’amore diventava odio covato che mi spinse a fare l’impensabile. Si accorsero della mia presenza; si finsero stupiti e preoccupati. Già, preoccupati. Solo ora hanno cominciato a preoccuparsi. Insomma, Sophia non è mai stata un pericolo. Lei non sa niente, perché preoccuparsi? Ma ora che le carte in tavole erano cambiate, stranamente, ero diventata una preoccupazione. Chi mi aveva ferito, mi chiesero. Strinsi il coltello nel pugno della mano, tremante, e smisi di riflettere del tutto. Nelle mie orecchie risuonavano solamente rumori poco chiari ed i miei occhi avevano come obiettivo una sola persona.
   
Non volevo ferirli.
   
Non volevo avessero paura di me.
   
Desideravo sbarazzarmi di questo dolore.
   
Volevo provassero un briciolo della paura che ho provato io.
   
Volevo provare ad essere come loro: senza pietà, senza rimorsi, coraggiosa, impavida, crudele.

   
Il sangue chiama sangue! Occhio per occhio, dente per dente. Una vita viene vendicata solo con un’altra vita. Solo in questo modo mi sarei liberata dei mostri che la notte uscivano dall’armadio, o almeno così credevo.
Le mie mani si tinsero d’un rosso cremisi. M’immersi nel circolo vizioso e diventai una di loro. Sophia, come ti senti ora? Morta. Mi sento morta.
Avevo paura di me stessa, di quel che sarei diventata e quindi fuggii. Vigliaccamente scappai lontana da tutti e da me stessa. Poi chiamai Nadja e piansi. Ricordo d’aver detto solo una cosa: non volevo fargli del male.
 

 

Aleksandr POV

 
Le luci del sotterraneo erano cupe, una risata rimbombò tra le mura rischiarando quasi quei giorni di torpore: era Mikhail. Accanto a me continuava a ridere camminando allegramente, lo fissai con un cipiglio ironico, era bello vedere che riuscivo ancora a rasserenarlo.
«Potresti mostrare almeno un po' di tristezza, è il nostro ultimo giorno in agenzia questo». Misha aggrottò la fronte dandomi una spinta.
«E' proprio questo il motivo della mia allegria. Non dovrò più posare e mettermi addosso quei vestiti di merda, questo è un grande giorno, cazzo. Ti dovrei invitare a bere, ''Presidente''?» ci guardammo divertiti scoppiando poi a ridere, fu in quel momento che la percepii. Mi bloccai cercando di ascoltare attentamente da dove provenisse quel suono, sembrava un ..rantolo? O era un lamento? Aveva qualcosa di familiare, ma cosa? Afferrai Misha per la giacca strattonandolo appena, sentivo addosso un senso strisciante di disagio. I passi si avvicinarono, sembravano insicuri. Mi voltai e la vidi. Il mio corpo divenne come pietra, non un muscolo si mosse; Misha seguì la direzione del mio sguardo trattenendo un ansimo di sorpresa: Sophia era lì e ci guardava. C'era qualcosa di sbagliato però nei suoi occhi, la luce divenne appena più forte lasciando scintillare qualcosa nella sua mano, era un coltellino. Spostai Misha senza neppure rendermene conto, facendo un passo nella direzione della donna.
«NON AVVICINARTI, BASTARDO». Il tono rabbioso con cui lo disse ebbe il potere di farmi indietreggiare non di un passo, non di due, ma di un intero continente. O almeno era ciò che avrei desiderato. Misha fece un passo avanti.
«Sophì che cazzo fai? Posa quel coltello, ti ha fatto male qualcuno? Qualcuno ..ti ha aggredita?» la vidi guardarlo quasi divertita tirando su col naso, le lacrime non volevano smettere di scendere.
«Voi. Voi mi avete fatto del male, ho costruito castelli di carta vedendoli bruciare di fronte ai miei occhi ..mi sono detta ''posso sopportarlo, posso perdonare le due persone che amo di più al mondo'' – quelle parole le sputò fuori quasi con veleno, proseguendo senza neppure respirare – ma  ciò che non posso perdonarvi è la complicità. Da quanto lo sapevate? Da quanto sapevate che quel cane di Sergej ha ammazzato i miei genitori? DITEMELO, SIETE DEGLI ASSASSINI. TUTTI QUANTI». Urlò talmente forte da far rimbombare la propria voce, l'eco della disperazione colpì tutti e tre con potenza. Misha restò in silenzio quasi confuso guardandomi alla ricerca di una soluzione. Feci un passo verso di lei che a sua volta si avvicinò sollevando il coltello. La mano tremava.
«Misha non sapeva nulla. E neppure io fino a poco tempo fa, Sergej me lo ha detto quando ha saputo del tuo tradimento, sono io ad averti mentito quindi» vidi Misha fissarmi come se avessi delle antenne e una coda. Sophia alzò lo sguardo carico di rancore e debolezza inchiodandolo su di me,  sul viso del ''suo'' Shura.
«Voglio ucciderti...» sorrisi.
«Fallo, sono qui non mi vedi?» Misha si irrigidì afferrandomi il braccio con forza, cercando di spostarmi, la macchina era solo a pochi passi. Lo strattonai facendogli mollare la presa prima che tutto si consumasse in pochi secondi, Sophia urlò correndo verso di noi, il coltello stretto nella mano e gli occhi chiusi. Non voleva colpirci davvero, voleva solo sfogare il suo dolore. Spinsi Misha talmente forte da farlo cadere al suolo, mettendomi direttamente nella sua traiettoria.
«NO, SOPHIA NO. NON FARLO». Misha urlò e la lama mi colpì il fianco, solo in quel momento la vidi sbarrare gli occhi osservando il sangue uscire copioso dalla ferita. Scosse la testa come in trance.
«No.. Shùra..». Non disse altro barcollando indietro. Estrassi la lama senza emettere alcun suono, storcendo le labbra in un'espressione di dolore e amarezza.
«Il sangue chiama sangue, hai lavato il sangue dei tuoi genitori con altro sangue. Sei contenta adesso? Hai anche tu le mani sporche, come me. Come lui».Temetti che Misha potesse avere una crisi respiratoria da lì a poco, si alzò quasi barcollante aggrappandosi al mio braccio cercando di trascinarmi con se, si trovava anche lui ad un bivio. Che fare? Non poteva lasciare la sua Sophia lì. Ma fu lei stessa a risolvere il problema scappando, fuggendo via da noi e da quella realtà, dalla parte opposta lasciando noi e il sangue con la quale aveva contaminato la sua vita.
 
L'auto sfrecciava veloce, nell'abitacolo era udibile solo il mio respiro ansante e i continui pugni sul cruscotto di Misha. Quei colpi sembravano scandire quasi il tempo, come una sorta di orologio mentale; chiusi gli occhi cercando di mantenere la calma, mentre il sangue sporcava i sedili e la mia mano premuta contro l'addome.
«Dobbiamo andare da Nadja» Misha interruppe i miei pensieri con quell'esclamazione, non diceva altro da quando avevamo lasciato l'edificio.
 «Non ci andrò, te l'ho detto. Fermala da qualche parte..mi curerò da solo». Non volevo sprecare fiato, sentivo di non averne abbastanza; ero stato ferito molte volte e ormai ero in grado di riconoscere ferite gravi e non, fortunatamente (lo era davvero??) per me e sfortunatamente per Sophia quella non sembrava esserlo, il peso della donna era minimo nonostante mi avesse colpito con forza, il colpo era stato deviato all'ultimo e malgrado la ferita sembrasse profonda in realtà era più scena che altro. Continuavo a sudare, Misha parlava a ruota cercando di tenermi sveglio, o forse lo immaginai soltanto.
Osservai la superficie luminosa dell’acqua, avrei volentieri lasciato tutto per immergermi in quelle pozze oscure, senza più riemergere. La voce alterata di Misha attirò ancora la mia attenzione, avrei voluto chiedergli di non urlare ma non ne ebbi la forza.
''Mi credi un'idiota'', la pensava sul serio così? Mi sollevai cercando di tamponare l'emorragia storcendo le labbra in una smorfia.
«Non è così. Se perdo anche te è finita» Shùra e Misha, due opposti, due rette parallele che sembravano destinate a non incrociarsi mai eppure in linea perfettamente sullo stesso percorso.
«Non posso credere lo abbia fatto sul serio, questo è un incubo e domani mi sveglierò, troverò te sul bordo del letto che mi calci con quei fottuti piedi urlando ''Misha parassita di merda alzati, devi venire a lavorare'' e Sophia che dalla cucina urla ''Shùra smettila di infastidire Misha o dovrai vedertela con me'' per poi aggiungere ''RAZZA DI PARASSITA ALZATI SUBITO''». Ridemmo entrambi in maniera dolorosa, Misha strinse le mani contro il volante.
«PERCHE' LO HA FATTO. PERCHE'. NON RIESCO A CAPIRE, SONO TROPPO STUPIDO DAVVERO PER FARLO». Si interruppe, odiava sentire la sua voce incrinarsi a causa delle lacrime. Sospirai ritrovandomi a ridere a mezza voce, che cazzo avevo da ridere in effetti?
«Misha, ricordi quando quell'uomo mesi fa entrò in casa nostra?». Lo sentii sbuffare.
«Che cazzo c'entra questo?» proseguii come se non lo avessi neppure sentito.
«Quando fermai l'uomo, mi ferii alla spalla cristo se faceva male ..litigai con Sophia, sai che non ricordo neppure perché? Oh ma fu una litigata epica, mi piaceva litigare con lei ..comunque, scappò da casa e io la ritrovai, sai cosa fece? Mi colpì con cattiveria alla spalla, con il tacco della scarpa. Lei sapeva che ero ferito, eppure lo fece consapevolmente». Il silenzio calò di nuovo nell'auto, Misha riuscì solo a dire debolmente ''Smettila, non continuare'', ma io non lo ascoltai.
«Sai cosa avvenne poi? Si sentì in colpa, mi chiese scusa e tornò da me». Smisi improvvisamente di parlare, persino respirare sembrava farmi male. Mikhail mi strappò quasi la camicia di dosso gettandomi alcune cose sul sedile.
«Ti aspetto fuori, disinfetta la ferita». Non gridai stringendo il bavaglio con i denti. Avevo conosciuto da sempre solo un modo per sopravvivere: la violenza. L'unica persona che mi aveva insegnato a vivere da essere umano sembrava avermi abbandonato, e quindi dovetti ricorrere all'unico modo che conoscevo per riportarla accanto a me: la violenza. Ironico no? Il coltello aveva squarciato il mio fianco, ma in qualche modo avrebbe dovuto essere un collante per riunire le nostre anime ferite. O almeno questo era ciò che mi auguravo. Consumai il resto dell'alcool nella fiaschetta bevendo, bevendo ancora, e bevendo di nuovo. Mentre la radio suonava debolmente accompagnando quella serata.
 
 
Blurring and stirring the truth and the lies
so I don't know what's real and what's not
always confusing the thoughts in my head
so I can't trust myself anymore
I'm dying again
 

 

Mikhail POV

 
 Credetti di non aver mai visto così tanto sangue in vita mia e sopratutto uscire dal corpo della persona che più amavo al mondo e che più conoscevo. Sentivo gli arti paralizzati, eppure avevo tolto tante vite, avevo visto così tanto sangue, così tanto strazio, dolore e sofferenza. Mi risultava impossibile pensare che qualcuno potesse togliermi via la mia in quel modo tanto veloce e sofferente.
Provai a muovere le gambe, alzarmi da lì ma non ci riuscivo, lo feci troppo tardi forse. Pressai la mano contro il fianco ferito di Shùra, ma il sangue continuava a sgorgare tra le mie dita, finiva a terra sul pavimento lucido e lercio di quel fottuto garage. Un conato di vomito mi pervase completamente, riuscii a trattenermi a stento.
«Andiamo via di qui» Shùra sembrò supplicarmi mentre lo facevo aggrappare al mio corpo. Raggiungemmo l’auto, misi in moto dirigendomi chissà dove con la mente completamente in bianco. I tentavi di persuaderlo ad andare da Nadja furono vani ed inutili.
Non seppi dire quante volte picchiai quello sterzo mentre sfrecciavo tra le auto di quella metropoli troppo chiassosa per i miei standard, non sentii il dolore alle nocche, anzi, sembrò trasferirsi direttamente al petto - si concentrò nella vena principale e sembrò far pulsare dolorosamente quel cuore malandato, ma in modo più lento rispetto alla consuetudine. Avevo appena perso un battito che nessuno mi avrebbe mai più restituito.
«Scendi Misha». Quella piccola frase arrivò dopo quasi un minuto di silenzio, riusciva a trattenere così bene il dolore? Spensi le luci della macchina, il fiume da quel ponte sembrava persino più bello - nessuno dei due però ci fece caso. A quell'ora il posto era completamente desolato.
 «Quante cazzo di volte devo dirti che non sono un idiota. QUANTE SHURA? DEVI SMETTERLA DI PARARE I COLPI PER ME. NON SONO UN CAZZO DI BAMBINO STUPIDO». La mia voce si alzò gradualmente, avevo l'espressione infuriata e la rabbia si sostituì al dolore. Per Sophia, per Sergej, per Aleksandr.
«Non ti ho spinto via perché ti considero un bambino stupido - aveva la voce ansimante, non l'avevo mai visto così pallido - ....l'ho fatto perché senza di te non sarei riuscito a fare più nulla. E perché in fondo, ero io quello che voleva colpire». Ebbe il coraggio e la forza di sorridermi. Lo guardai per qualche secondo di troppo, la mia rabbia non sembrò scemare. Ciò che disse dopo sarebbe morto dentro quell’auto, avente me come unico testimone. Mi chinai su di lui e strappai quella camicia per facilitargli il lavoro. Dal cruscotto tirai fuori il disinfettante e con quello gli pulii le mani. Gli diedi l'ago ed il filo per cucire la ferita, l'accendino glielo lasciai sul sedile.
 «Brucia i punti quando hai finito». Gli ficcai un fazzoletto in bocca, e sperai che stringendo i denti avrebbe sentito meno dolore. Scesi dall'auto e non riuscii a godermi il panorama che San Francisco mi offriva. Era come se le luci notturne si fossero trasformate improvvisamente in piccole gocce di sangue, sparse un po' ovunque nella città. Come delle tracce che volevano essere trovare, rimesse insieme in qualche modo.
Riuscivo a vederlo. Riuscivo a vedere il sangue di Shùra, di Sophia, di Irina, di Nadja, riuscivo a vedere anche il mio - un po' più a destra, verso il punto più buio e lontano.  Faceva male, come se stessi ricucendo la mia pelle decadente in una cazzo di auto con un panorama da urlo, che non potevo osservare.

 

Sophia POV


Sciacquai le mani sul lavandino che si tinse di un rosso cremisi, portavo addosso il sangue del mio Shùra. Come c’eravamo arrivati? Com’ero arrivata a tutto quello? Ricordavo la mia rabbia, ma ricordavo perfettamente la mia intenzione a non far loro del male. Avevo chiuso gli occhi iniziando a correre con la certezza che di lì a poco mi sarei sentita afferrare da braccia forti che mi avrebbero scrollata fino a farmi rinsavire, urlandomi tutto il loro amore. E invece no. Quelle braccia si erano allargate mettendosi dritte sulla traiettoria della mia violenza. Avevo capito troppo tardi forse, troppo accecata dal mio dolore per poter comprendere quello di Shùra e Misha. Mi aveva dato una lezione eccessiva come suo solito, Aleksandr aveva un modo tutto suo per farti capire gli errori, per farti tornare sui tuoi passi, per farti vedere ciò che stavi diventando.
Mi ero chiusa in me stessa, ero divenuta il riflesso odioso della donna che ero sempre stata. Lo avevo rigettato, avevo confermato le parole di Sergej e tutte le sue convinzioni su quanto fossi una piccola e meschina donna attaccata solo a se stessa. Provavo una vergogna e un rifiuto tali per la mia persona che pensai di morire lì all’istante. Afferrai il cellulare componendo con dita tremanti un numero, sbagliai tre volte ma alla fine lo sentii squillare.

 
– Pronto.
 
Non riuscivo a parlare, sentire la sua voce mi tranquillizzava. Era ferito, ma non morto.
 
– Sophia, parlami.

Strinsi i denti per non scoppiare a piangere, mi sentivo così umiliata da me stessa.
 
– Troveremo il modo di uscirne, te lo prometto. Non morirai per mano sua, né per mano di nessun’altro.. avrai la vita che meriti, te lo giuro.
 
Sentii il bisogno di bere, io da sempre astemia, presi il portafoglio vuoto dirigendomi al primo bancomat disponibile, possedevo ancora decine di carte con la quale sopravvivere egregiamente per mesi. Mezzora e parecchie urla dopo, mi resi conto di essere una povera idiota. Tutte le mie carte erano bloccate, mi aveva tolto tutto, mi aveva cancellata rendendomi simile ad una barbona. Sentii le mie pallide speranze frantumarsi.

‘’Porta con te il mio libro, e leggilo quando penserai non ci sia più speranza’’
‘’Non lo sai? Mai giudicare un libro dalla copertina. Alle volte i libri salvano la vita’’

 
Corsi a perdifiato verso casa, volando sui gradini come se nelle suole avessi delle molle, iniziando a rovistare tra gli scatoloni impolverati che non mi ero ancora decisa a disfare. Perché in fondo io speravo lui tornasse a prendermi. E quando lo aveva fatto avevo rifiutato la sua mano tesa. Idiota. Stupida. Maledetta idiota.
Lo trovai sotto i miei vecchi libri, uno strato di polvere copriva la copertina consunta, era la terza volta che lo aprivo dopo averlo ricevuto in dono per i miei diciotto anni. Lo sfogliai febbrilmente senza notare nulla di strano, lasciandomi prendere dallo sconforto, finché le mie dita non tastarono la copertina interna notando un rigonfiamento sospetto. Passai i venti minuti successivi a staccare con cura e perizia la carta ingiallita e malconcia, alla fine li vidi: posizionati ordinatamente giacevano da chissà quanti anni diecimila dollari. Piansi, piansi con tutte le mie forze mentre stringevo quel libro che mi era stato regalato una vita fa. Una vita fatta di bugie, dove l’unica verità probabilmente era stata il nostro amore.
Quella notte la passai a fare bilanci, mentre il suo volto mi sorrideva seduto di fronte a me. 

 

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Capitolo 20
*** I Want To Believe ***


    

 

ACT XX

 
Il tempo mi era ormai nemico, lo sentivo scorrere tra le mie dita tremanti e capii che attendere oltre avrebbe solo nuociuto a tutti coloro che amavo. Dopo la strana chiamata nel cuore della notte, Sophia sembrava sparita. Continuavo a tenerla d’occhio, continuavo a preoccuparmi per lei ma non le apparvi più davanti agli occhi. Se avesse avuto bisogno, se avesse capito soprattutto, sarebbe stata lei stessa a venire da me. Il varco ormai non aveva più confini e linee, era stato oltrepassato e tutto ridefinito e rimischiato. Non restava altro che attendere.
Sergej mi chiamò, in piedi a fissare il panorama notturno dalla grande vetrata di casa mia risposi. Quella notte il mio piano iniziò ufficialmente.
 
– Hai scoperto dove si trova Sophia?
– Si.
– Non disfarti del suo corpo, fallo apparire come un incidente voglio che la salma venga portata qui; qui dove posso averla vicina.
 
C'era qualcosa di tremendamente sbagliato, quasi perverso, in quelle parole; un padre ordina di uccidere la figlia, quello stesso padre non vuole che soffra, e sempre lui la vuole morta ma abbastanza vicina da poterle portare dei fiori. Sorrisi.
 
– Ho ucciso io Andrej. L'ho ammazzato sfigurando il suo viso, e dopo mi sono disfatto del corpo. E lo farò ancora se necessario.
 
Il silenzio fu talmente prolungato da farmi quasi pensare che dall'altro capo non ci fosse più nessuno, poi ecco un sospiro.
 
– Perché mi stai facendo questo?
– Perché è arrivato il momento che io paghi i miei debiti. Mi sto ufficialmente licenziando.
– IL TUO DEBITO CON ME VERRA' SALDATO IL GIORNO DELLA TUA MORTE. O LO HAI DIMENTICATO?
– Affatto. Ecco perché sto accelerando i tempi, Sergej.
– Ti ha aiutato Misha, vero?
– No, non sa neppure che Andrej è morto, non me lo avrebbe permesso.
– Prima Sophia, ora tu. Quanti altri figli dovrò perdere?
– Mi stai dicendo che mi consideri un figlio? Ricordo bene le tue parole anni fa ''Alcune persone nascono semplicemente per essere dei mostri, e tu mio piccolo Shùra sei il migliore''. Hai allevato un figlio, o un mostro?
– Avevo grandi progetti per te.
– I nostri progetti si concludono qui, suppongo.
–  ‘’Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire’’. Lo ha detto tuo padre, e io aggiungo: Basterà che tu apra gli occhi e vedrai la ricompensa dei malvagi.
 
Ricordai il mio incubo e finalmente lo capii, capii in quel momento la differenza tra mio padre e l'uomo che ne aveva preso il posto; la capii con una chiarezza talmente disarmante da essere oltre che dolorosa anche liberatoria.
 
– Il varco. E' lì che aspetto anche te, non ho paura di morire perché sarò io a decidere come farlo.
 
Chiusi così quella chiamata, un’ambulanza passò in quell’istante col suo fragore, sembrava quasi un messaggio criptato tutto per me. Ascoltai il silenzio assordante della mia casa, ripensai al piccolo Aleksandr Petrov, colui che dovevo in qualche modo ritrovare, pensai alla mia morte imminente e alla liberazione di Misha e Sophia. Sarebbe andato tutto secondo i miei piani. Dopo vent’anni sarei riuscito forse ad essere un uomo ‘’giusto’’, e porre fine a qualcosa che non sarebbe mai dovuta esistere.
 
Ho posizionato talmente bene la mia trappola da non ricordarne più il luogo, e adesso mi chiedo ..cosa succederebbe se dovessi cadervi dentro anch'io?
 

Mikhail POV

 
Avvinghiato a Nadja sobbalzai al rumore fastidioso del cellulare. Mi ero concesso il lusso di non dormire a casa quella notte e tanto per cambiare qualcuno si prendeva la briga di rompermi i coglioni. Certo, il discorso cambiava lievemente se a rompermeli altri non era che Sergej. Fissai il numero e poi Nadja adesso sveglia, scosse il capo come a dirmi ‘’non so nulla’’ e allora risposi:
 
– Di solito mi chiami solo per rimproverarmi.
– Già Misha, chi avrebbe mai immaginato che invece avrei chiamato per farti i complimenti.
– A cosa devo la tua improvvisa adulazione? Per quanto ci pensi non è molto credibile.
– Sai cosa mi ha detto Aleksandr? ... Ha detto di avere ammazzato Andrej. E non mi pare di averlo mai inserito nella lista nera. O sbaglio?
 
Il silenzio fu interrotto da me, mentre deglutivo la mia stessa saliva che sembrò volermi fare scivolare l'ennesimo masso giù lungo la gola.
 
– ...Non sbagli, Sergej.
 
L'avevo detto sul serio?
 
– Ho sempre pensato che saresti stato tu il primo a tradirci Misha, poi Shùra avrebbe dato di matto e ti avrebbe seguito, Sophia se ne sarebbe fatta una ragione ma non avrebbe mai potuto voltarmi le spalle. E invece guarda cosa è successo... buffo, non trovi?
 
Sergej sembrava istericamente divertito, un sospiro qualche secondo più tardi sembrò invadermi l'orecchio. Lo immaginai dietro di me, con gli occhi pieni di vendetta e le lame che a furia di stringerle gli squarciavano le dita.
 
– Non va mai come ci aspettiamo che vada, vecchio mio.
–Non fare troppo lo spiritoso Misha. Per fortuna ho ancora te. Uccidi Aleksandr al posto mio.
– Sai anche tu che questo è improbabile. O dovrei dire impossibile?
 
Perché l'aveva fatto? Perché Aleksandr aveva detto la verità a Sergej? ...Mi aveva tradito. Si era preparato a lasciare tutto senza nemmeno avvisarmi. Parlava di piani, di strategie, ma non avevo messo in conto che la parola chiave di queste ultime fosse la morte. Fui costretto a rispolverare l'odio che tenevo dentro.
Non capivo, ma mi agitavo. Sergej poteva sentirlo.
 
– Nulla è impossibile per me, Misha. E tu lo farai, credimi. Non mi volterai le spalle stavolta e sai perché?
– ...Sentiamo.
– So dov'è Irina. Ce l'ho in pugno, a breve sarà in viaggio per Mosca, ah... le ragazzine sono così ingenue al giorno d'oggi. Mi è bastato fare il tuo nome.
 
La pausa che seguì fu estenuante. Sbarrai gli occhi, non riuscivo a ricordare quale fosse il movimento giusto per riuscire a respirare.
Non lo vedevo, ma sentivo il sorriso agghiacciante di Sergej provocarmi brividi lungo la pelle, poi continuò.
 
– ..Uccidi Shùra e la rivedrai senza nemmeno un graffio. Lascia quel serpente traditore vivo e la ragazzina morirà impiccata come tua madre.
 
Non mi diede il lusso di rispondere, non mi diede neppure il tempo di metabolizzare la notizia. Irina era nelle mie mani ed io in quelle di Sergej.
Non seppi dire cosa fosse peggio.
La morte, era quella la parola chiave. "Pensa Misha, pensa"; continuavo a ripetermelo come una cantilena.
Passò un po' di tempo prima che potessi capire la risposta, in quel momento tutto fu chiaro.
La morte.
Dissi quella semplice parola con la testa china puntata al pavimento ed una lacrima che scivolò lungo la guancia mi fece rinsavire, era l'unica fonte di calore che avevo in quel momento, seppure impercettibile sembrò volermi ricordare che avevo appena finito d'essere una persona, per iniziare ad essere un mostro.
Capii.
La morte, era quella a cui tutti agognavano e che tutti avrebbero avuto. Compreso me.
 
***
 
– Il mio Misha che mi chiama per primo? Quale onore.
– Lieto di vederti così di buon umore.
– Sono gli antidolorifici, è una pacchia.
– Aspetta che ti faccio tornare io dal fantabosco alla realtà.
– Misha, ti capita mai anche per sbaglio di non sentire l'impellente bisogno di rompermi il cazzo?
– Mi ha chiamato Sergej, dobbiamo parlare.
– Sbaglio o stai facendo l'ometto maturo?
– Sbaglio o vuoi farmi incazzare?
– Okay, dove e quando?
– A casa. Subito.
– Ora non posso, ho delle cose da sbrigare, se riesco nel tardo pomeriggio di domani.
– Vai. A. Farti. Fottere.
– La gente reagisce sempre come penso, finirò per annoiarmi.
– Parli di me?
– No, parlo di Sergej.
 
 

Sophia POV
 

Dopo aver trovato i soldi all’interno del libro passai le due notti seguenti a fissarlo,mi sorrideva e mi seguiva ovunque. La terza notte capii.  Ecco dove avevo sbagliato. Ecco dove avevo sempre sbagliato. Uscii di casa nel cuore della notte con addosso una felpa dai colori tristi ed una giacca altrettanto triste. Ai piedi portavo solamente calze bianche ormai nere per quanto sporche. Sentivo le piante dei piedi scontrarsi con violenza contro il cemento della stradine notturne di quella città silenziosa e mite. Il freddo risaliva lungo le mie gambe e mi faceva sentire viva più che mai. Fermai un taxi ma il conducente si rifiutò di farmi salire.
«Il venerdì sera riaccompagno ragazzini ubriachi a casa, non barbone». Fossi stata in un altro contesto quell’orgoglio da principessa viziata mi avrebbe portata a tirare i capelli a quel vecchio che di capelli neanche l’ombra aveva, ma mi limitai a tirar fuori una banconota da duecento dollari sventolandogliela davanti, con disperata convinzione.
«Ho detto che DEVO salire sul suo maledettissimo taxi». Si zittì, afferrò la banconota, la controllò e mi fece cenno di salire in macchina, cosa che non mi feci ripetere due volte.
Mi scaricò di fronte all’edificio che ospitava quel mucchio di ricordi felici. Le luci erano spente. Erano a casa? Non erano di certo così stupidi da rimanere sempre lì, no? No, certo che no. Esitai un momento.
ʺSophia, davvero lo vuoi fare? Vuoi ricominciare da zero per la terza volta? Scappa, torna indietro, sparisci per sempre e viviʺ.
Come avrei potuto vivere se quel peso mi opprimeva costantemente senza mai permettermi di respirare? Eppure ero lì ad esitare, ancora, con la paura di sbagliare di nuovo, di ferire qualcuno, di restare ferita, di scappare, scomparire, decompormi. Non era di certo la mia coscienza ad impedirmi d’avanzare, bensì la mia paura folle di non uscirne più. Avevo poco tempo a mia disposizione. Sapevo che il mattino dopo se non mi avessero trovata sul mio divano, pronta a ricominciare una lunghissima giornata fatta di sedute e colloqui, avrei solamente peggiorato la situazione. Il tempo era come oro. Il tempo non perdonava.
Mi addentrai nell’edificio. Salii gli scalini nostalgicamente ed arrivai davanti alla porta. Deglutii. L’indice si posò sulla tastiera mentre il mio cervello elaborava i ricordi: il codice della porta. Esclusi a priori quello che conoscevo già e mi concentrai su altre date, numeri a caso. Provai la prima volta e sbagliai.
La seconda volta e sbagliai ancora. Non rimaneva che un solo tentativo, l’ultimo prima dell’allarme. Digitai il vecchio codice: 12 12 9, ovvero S S M.
Lo spioncino verde s’accese, la serratura della porta si sbloccò e la porta si aprì per poi richiudersi alle mie spalle. Un odore di chiuso pizzicò il mio naso. Gli occhi si abituarono lentamente al buio. Quel telefono che risaliva al paleolitico si rese utile illuminando il corridoio che collegava le tre stanze alle cucina. Sul pavimento vedevo siringhe, bottiglie, polvere, accendini, vestiti sporchi ed avanzi di cibo andati a male da chissà quanti giorni. Quello che prima era un appartamento pulito ora non era altro che un cimitero di ricordi e rifiuti. L’unica stanza intatta, immacolata era la mia, la stanza di una ragazza chiamata Sophia.
Col cuore in gola attraversai il corridoio e mi diressi verso la cucina notando con tristezza che la desolazione aveva colpito persino il frigorifero. Ricordavo tutte le volte passate in cucina a sfornare torte, una più brutta e deforme dell’altra per far piacere a Misha. Ogni giorno che passava diventavo un poco più abile e ogni giorno che passava Misha mangiava la fetta che gli rifilavo senza mai far troppe storie. Poi divenni brava, o meglio, le mie torte divennero commestibili e quasi buone ma sparii senza poter continuare.
Nella tasca della giacca avevo mezza barretta di cioccolato fondente, il preferito di.. Misha? Volevo chiamarlo così tra i miei pensieri. La posai sul tavolo accuratamente coperta ed abbandonai anche quella stanza. Se solo avessi potuto avrei cucinato per lui, ancora e ancora.
A dividermi dall’ultima stanza c’era il salottino che attirò la mia attenzione. L’imponenza di Misha era come L’Empire State Building, impossibile da confondere, eppure quella notte non c’era. Nel silenzio più totale sparii inghiottita dal buio, diretta verso la camera più importante.
La conoscevo bene quella stanza. Quante notti passate nel letto di Aleksandr, tra una risata e l’altra, a contemplare i miei calzini dalle strane stampe o a parlare del più e del meno. “Shùra, posso venire a dormire con te?”, “Che domande”. Mi chiedevo se fosse ancora lì, se stesse bene, se quella ferita facesse così male. Mi chiedevo così tante cose che finii col perdermi nei miei stessi pensieri annegando nei sensi di colpa. Ecco da dove nasceva tutto, dove finiva tutto. Vedevo la sua figura stesa sul letto; sentivo il silenzio solenne interrompersi ogni due secondi a causa del suo respiro. Lo guardai per qualche istante accontentandomi di quel poco che i miei occhi riuscivano a vedere, poi mi ricordai del tempo rimanente, di tutto quel che non avrei potuto più permettermi una volta abbandonata nuovamente quella casa.
Mossi un primo passo e la distanze s’accorciarono. Mossi un secondo passo e le distanze si annullarono. Con delicatezza estrema mi poggiai sulle lenzuola fresche, fiancheggiando un corpo che non sentivo da troppo tempo. Viso contro viso. Se solamente Shùra avesse potuto vedermi probabilmente si sarebbe perso nei miei occhi che avrebbero parlato per me. Sentivo il suo alito fresco scontrasi contro le mie labbra così come sentivo la coscienza impaziente di voler prender voce. E così fu. In soffio impercettibile iniziai a parlare da sola, senza aspettare una risposta che probabilmente mai avrei ricevuto.
«Sono tornata a casa, anche se per poco. Sono qui con te, e vorrei non andarmene più via. Ho provato a ricominciare da capo, ho provato ad odiarvi, ma è stato inutile. Ho provato a ferirvi e.. mi dispiace. Mi dispiace per quella volta, per tutte le volte. Ora ho capito. Hai perso tuo padre, eri solo. È per questo che hai accettato di diventare un mostro? “Mostro” è sempre meglio di niente. Ci credi se ti dico che non volevo farti del male? Che non era mia intenzione ferirti così? Mi sono sentita così disperata che ho creduto di star meglio vendicandomi, e ho sbagliato. Perché non me l’hai detto prima? Perché non mi hai detto che si prova tutto quel dolore.. ?». Quel pallido riflesso di voce che mi usciva si spezzò per un breve istante cambiando immediatamente tonalità.
«Shùra.. ricordi quando venivo a bussare alla tua porta? Ti dicevo sempre che avevi il sedere così grosso che a furia di mangiare non saresti più entrato nei jeans. Ricordi quando guardavamo assieme il Lago dei Cigni? Mi dicevi sempre che non sarei mai potuta diventare una ballerina perché sono “una scimmia bassa, grassa e scoordinata”. E ti ricordi la prima volta al McDonald’s? O quando ti ho tirato i capelli in macchina. E l’Arizona? Io mi ricordo di tutto.. anche della tua faccia mentre mangiavo piccante e piangevo, al ristorante. Ricordo quando ti ho detto di amarti.. Shùra, ti amo. Perdonami per quel che ti ho fatto e per quel che ti farò. Perdonami»
 

 

Aleksandr POV

 
Quanto era passato dall'incidente? Continuavo a chiamarlo così: ''incidente''. Come se questo sottile eufemismo bastasse a cancellare gli occhi di Sophia carichi d'odio e disprezzo rivolti verso di me. ''Non alzi mai la voce tu, ma sai odiare benissimo con gli occhi'', questo avrei voluto dirle ogni notte insonne passata a rigirarmi nel letto, e questa era una di ''quelle'' notti. Mi alzai per andare in bagno, avevo curato la mia ferita da solo e a causa di questo era andata infettandosi, se continuavo a trascurarla la setticemia non me l’avrebbe tolta nessuno, e non potevo permettermi di morire, non adesso. Non quando Misha era completamente perso, ormai vi era solo Nadja con lui, e chi cazzo era quella? Una donna apparsa da poco, una che non sapeva nulla di lui di ciò che voleva, sperava, amava, sapeva solo ciò che poteva sapere qualcuno che condivide con te le lenzuola facendovi dentro delle belle capriole. Francamente preferivo screditare quella storia d'amore, forse per gelosia fraterna, o forse perché avevo visto la mia andare a farsi fottere. Era la consolazione di un povero coglione, la mia per la precisione. Spruzzai la soluzione direttamente sulla ferita imprecando sottovoce, osservandola allo specchio, guardarla mi affascinava e rendeva quasi catatonico; stavo lì ore a fissarla dallo specchio con la paura di sbattere le palpebre e vederla scomparire, era pur sempre una traccia di Sophia quella. Avevo pagato col sangue ciò che le avevo fatto, tutte le cose taciute per proteggere lei e anche Misha. Ma chi proteggeva me? Se neppure la donna che diceva di amarmi era riuscita a non odiarmi, a non guardarmi con disprezzo per poi tentare di ammazzarmi, chi altri avrebbe potuto proteggermi? Nessuno. Non avevo comunque bisogno della protezione di qualcuno. Osservai lo specchio rotto ormai da settimane, il mio viso scomposto apparve nei riflessi, gli occhi non cambiavano mai, che fosse il primo riflesso a destra o l'ultimo a sinistra: avevo gli occhi della morte. Misi la garza e il cerotto tornando nella mia stanza, senza neppure guardare il sudiciume nella quale eravamo piombati. Dormivo con l'arma sul comodino, adesso che il mio piano era iniziato non potevo neppure stare tranquillo in casa mia, Sergej voleva la mia testa e aveva già chiamato Misha, pur non avendogli ancora parlato ne ero certo. Come un gatto che aspetta il suo topo al varco, così attendevo Sergej.
Avevo chiuso gli occhi da cinque minuti, o forse erano cinquemila anni non potevo dirlo con precisione, quando sentii chiaramente dei passi nel corridoio. Socchiusi gli occhi osservando la porta chiusa, la mano andò dritta al comodino afferrando la pistola, la nascosi sotto il cuscino tenendola stretta, tornando a ''dormire''. Chiunque fosse entrato sarebbe marcito insieme a me nella casa. Sentii la maniglia abbassarsi, il mio cuore non provò alcun guizzo d'emozione, ormai non ne era più in grado: paura, timore, terrore erano cose sconosciute, se l'era portate via Sophia pochi giorni prima in quel parcheggio. Qualcosa nell'aria cambiò, riconobbi il profumo, come potevo confonderlo? Lillà e Primavera.
''Sono davvero andato in setticemia e ho le visioni?'' pensai anche a quella possibilità lasciando andare l'arma per poi uscire la mano da sotto il cuscino, poggiandola sulle lenzuola fresche. Il mio respiro divenne regolare, avrei persino potuto addormentarmi cullato da quell'odore che sapeva di tutto ciò che pensavo d’aver perso, tutto ciò per cui avevo lottato, tutto ciò che amavo e si era sgretolato davanti ai miei occhi. Poi la visione parlò. La sentii chiaramente, ogni sillaba, ogni promessa infranta, ogni rimorso, ogni dolore, scorreva dalla bocca di lei alla mia pelle come fosse acido. Mi corrodeva rendendomi agonizzante - eppure vi era la pace. Sophia portava sempre la pace. Avrei voluto aprire gli occhi, la sentivo così vicina, solo un altro po'. Ancora un po'. Non andare via, resta qui, resta in questa città desolata, le vedi le macerie? Resta qui con noi, anche noi siamo ormai macerie abbandonate senza di te.
Aprii lentamente gli occhi, Sophia stava ritta contro il letto, le ginocchia toccavano il materasso, pochi centimetri e avrei potuto toccare anche il suo braccio; voleva andar via, stava per lasciarmi di nuovo. Il movimento della mia mano fu talmente veloce da risultare invisibile nell'oscurità, le afferrai il polso strappandole un gridolino di sorpresa.
«Quando si fa visita a qualcuno è buona educazione salutare, non pensi?» la voce mi uscì bassa e roca, per nulla impastata di sonno così da farle capire quanto fossi sveglio al momento. Al tentativo di lei di scappare rinforzai la presa sul polso, stringendovi le dita incurante del dolore che potesse sentire, avrei preferito staccarglielo piuttosto che mollarla. La strattonai facendola cadere sul letto accanto a me, bloccandole le gambe con la mia, muovendomi lentamente ma in maniera decisa fino a sovrastarla completamente. Abbassai lo sguardo su di lei sorridendo nell'oscurità.
«Cos'è questo? Hai preso quest'orrenda abitudine di venire come una ladra, osservi e poi vai via. Ripetimi ancora quello che avevi da dire, e stavolta fallo guardandomi negli occhi. Io sono qui». ''Io sono qui'', lo avevo detto anche giorni prima mettendomi sulla traiettoria della lama, quale coltello mi avrebbe infilzato quella notte? La luna rifletté l'immagine di lei, delineando ombre sul suo corpo; a me non importava del buio, ero comunque in grado di vedere il suo viso perfettamente, era accecante come il sole. Lei era il mio sole.
«Ora sono qui. Ma per poco. Sono venuta per chiederti scusa e per dirti che..». La voce le si spezzò. Arricciò il naso come a voler nascondere il dolore che provava.
«Ti amo. Ti ho fatto tanto male, non è così.. ? Hai disinfettato la ferita? Cambiato le bende? Consultato Nadja?». Per una frazione di secondo il tempo si fermò e ci riportò al passato: nulla era cambiato. La mano di Sophia cercò la mia guancia. Le sue dita si posarono lì, lasciandovi una delicata e soffice carezza, nulla che avesse a che vedere con la coltellata infertami giorni prima.
«Sei venuta per darmi anche tu la pillola di bugie bagnata nello zucchero. Sei venuta per dirmi ''ti amo'', ''mi dispiace'' per poi varcare quella soglia e continuare a massacrarmi. Ieri la denuncia, oggi il coltello, domani cosa sarà? Ti resta solo da sparire e avrai raggiunto il tuo scopo, mi avrai massacrato del tutto». La mia rabbia come un fiume in piena sgorgava da quelle parole. Percepii ancora il palmo caldo della sua mano sulla guancia e chiusi gli occhi trattenendo le lacrime che sembravano volermi annientare; serrai con forza la mascella temendo di scheggiare anche l'altro dente. Nonostante la sovrastassi temevo comunque di vederla sgattaiolare via, o peggio dissolversi come fumo nei miei occhi. Non potevo permettermi di perderla, non di nuovo. Avevo sognato di tenerla stretta a me ogni notte, ogni lacrima versata per lei, ogni dolore sopportato, ogni pezzo di cuore che si era strappato senza potersi più ricomporre. A chi avrei dovuto chiedere lo scotto per tutto quello? Forse a lei, o forse a me stesso. Come quindici anni prima anche quella notte avrei dovuto dire addio ad un altro pezzo del mio cuore? Non riuscivo neppure a concepirlo: ''Papà ho trovato qualcuno che amo più di te, come faccio a mandar via anche lei''. Ma nessuno mi rispose lasciandomi in balia del dolore. Aprii gli occhi poggiandomi completamente sulla sua mano, godendomi quel contatto che mi era mancato. In quella carezza non avvertivo nessuna paura e negli occhi di Sophia non vedevo il terrore, non mi rivedevo come un mostro. Le mie dita allentarono la presa e scivolarono lungo la sua mano lasciando che le dita si unissero.
«Non andrai via da me, non ancora, finirai ciò che hai completato, stanotte. Non riesco a sopportare di vivere senza te. Non riesco a tollerare l'idea che tu mi abbia abbandonato così. Ho fatto tutto per te, avrei dato la mia vita per te.. Ma che posso farci? Sono un peccatore. Lo sei anche tu. Lo siamo tutti, in maniera diversa. Le mie colpe sono peggiori di quelle altrui, quindi se devo ricevere una punizione voglio che a darmela sia tu». Non dissi altro, non le lasciai neppure il tempo di replicare mentre mi avventavo sulle sue labbra incollandole alle mie, schiudendogliele quasi a forza, con violenza ed un pizzico di sadismo verso lei e me stesso. Un bacio sofferto, così lo avrei ricordato. Lo attendevo da così tanto e lo temevo con altrettanta intensità. La sentii esitare mentre cercava d’allontanarmi, ma alla fine cedette. Ricambiò ogni singolo movimento e non scappò, non in quel momento. Aveva bisogno di me e io di lei, ora più che mai. Scappare significava uccidersi, soffocare quell’amore malato e dolce al contempo. Scappare significava dirsi addio. Riuscii a vedere un pizzico del paradiso che Dio mi avrebbe negato in futuro, ma fu una questione di secondi. Tutte le cose belle dovevano avere una fine: la mia mano si mosse lenta arrivando sotto il cuscino, raggiungendo la revolver silenziosa che tenevo sempre a portata di mano. Continuavo a baciarla, a respirare dalle sue labbra, a guardarla come fosse l’ultima volta. Ero avido di ricordi, avido di lei. Estrassi la pistola che scintillò alla luce della luna, l’avvicinai al suo viso che si ritrasse spaventato,  le sorrisi scuotendo appena la testa.
«Non sono come te. Non riuscirei a scalfirti neppure con un fiore. Non potrei mai ucciderti, è per questo che mi sono offerto volontario .. volevo allungare la tua vita. Ma non è servito a niente, e io sono stanco, quindi finisci tu il lavoro. Completalo. Uccidimi tu perché non voglio vivere un'intera vita senza di te. Non riesco a dormire, non riesco a mangiare, non riesco neppure a respirare. E' proprio qui, mi comprime qui e mi sento morire». La mia voce si spezzò nel continuo tentativo di reprimere il pianto. Lo fece lei al posto mio. Afferrò la pistola con rabbia. L’afferrò e la portò all’altezza del mio cuore. Sul cuore dell’uomo che forse pensava l’avesse ridotta in quello stato. Aveva la possibilità d’uccidermi, di liberarsi una volta per tutte di quel gran peso che era il suo passato, di ricominciare da capo. L’occasione perfetta per lei, per i servizi anti-mafia. Abbandonò la mia mano e caricò l’arma, premette la canna sul torace, posò l’indice sul grilletto e.. con un gesto rapido mirò verso la parete in cemento armato che si presentava alle nostre spalle. Sparò. Le tre pallottole, le uniche tre, si persero sparendo nell’oscurità proprio come quella notte a casa sua. Lasciò cadere l’arma a terra e con rabbia, vera rabbia, portò le mani tremanti attorno al colletto della mia maglia strattonandomi verso di se. Urlava a piangeva, urlava e mi amava, urlava e tirava deboli pugni contro il mio petto.
«HAI PROMESSO CHE AVREMMO AVUTO UNA FAMIGLIA, NOI DUE. HO PERSO NOSTRO FIGLIO PER COLPA MIA E NON HO INTENZIONE DI PERDERE ANCHE TE. NON DEVI LASCIARMI MAI PIÙ DA SOLA. MAI PIÙ ALEKSANDR BELOV, CHIARO?». Avevo atteso la morte  credendo realmente che premere il grilletto avrebbe risolto tutto quanto.  
«I mostri non sono più mostri quando sono amati, ed io ti amo. Ho bisogno di te. Perdonami se ti ho fatto male, ti prego, perdonami.. Sono disposta a sopportare il peso del tuo dolore e tutte le loro responsabilità se me ne darai l’occasione». Per qualche secondo il silenzio si frappose tra noi. Era un silenzio particolarmente pesante.
«Sto provando disperatamente a mantenere la mia promessa, nonostante tu mi abbia abbandonato ho continuato su quella strada come se di lì a poco ti avrei vista apparire nuovamente sul mio cammino. Non c'è cosa che io abbia fatto, da quel pomeriggio, che non fosse un modo per permettermi di ritrovarti e ritrovarci. Sistemerò tutto, abbi fede in me Sophia». Non restava altro che quello: la fede. Fede in cosa? Nel Dio che avevo rinnegato, in me stesso, in Sophia, in Misha, nell'amore che provavo per entrambi, talmente diverso ma acuto e doloroso allo stesso modo.
«Sonech’ka vediamoci tra una settimana al parco, ti aspetterò lì alle tre del pomeriggio». La morte ci circondava perennemente. Lei era onnipresente, certa, ora più che mai. Eppure eravamo insieme adesso e ora la nostra vita non era altro che una questione di Fede.
 
“Suicidio”: lasciarmi andare al caldo abbraccio di Sophia. Questa era una prima interpretazione di quel concetto troppo complesso. Avessi potuto passare il resto della mia vita tra le sue braccia lo avrei fatto senza farmelo ripetere.
“Purgatorio”: l’agonia continua procurata dalla lontananza, dalla consapevolezza che forse quello sarebbe stato il nostro ultimo abbraccio. Nessuna scelta era facile e tutto quanto comportava dei sacrifici. Una vita per una vita.
 
«Tra una settimana al parco, alle tre. Ti aspetterò»
 
***
 
Il cielo si tinse di un rosso acceso, varcai la soglia di casa dirigendomi in terrazza, sapevo che lui stava aspettandomi in quel posto da ore; lo trovai lì effettivamente , le braccia conserte e l'espressione arcigna. Gli sorrisi divertito andandogli incontro.
«Bella maglia, è la stessa che indossi da due giorni animale, quando ti deciderai a lavarti?» Mikhail mi guardò torvo.
«Aleksandr che cazzo stai facendo?». La domanda non ebbe risposta mentre mi allontanavo lentamente, la ferita tirava da morire, sedendomi sul parapetto senza smettere di guardarlo.
«Sapevo avrebbe chiamato te, quel bastardo è fottutamente prevedibile» risi di gusto facendo dondolare i piedi, avrei voluto una voragine al posto del pavimento.
«Aleksandr che cazzo stai facendo?» mi ripeté la domanda come un disco rotto, sospirai incrociando le braccia, l'espressione stranamente serena.
«Cosa pensi io stia facendo? Non lo hai ancora capito?» Misha sbuffò inferocito portando le mani sui fianchi, fulminandomi con lo sguardo.
«Era questo il tuo piano? Farmi ordinare il tuo omicidio? Sai che non lo farò, non lo farò mai». Sorrisi osservando il cielo e quando riabbassai lo sguardo Misha aveva sette anni, mi guardava con la stessa espressione truce, aveva la maglia sporca e sbrindellata la mano sinistra tremava appena, lo faceva sempre quando era nervoso; un me stesso appena più grande gli andò vicino fermando quella piccola mano, muovendo il capo in gesto di diniego ''Non far vedere le tue debolezze Misha, o gli altri bambini se ne approfitteranno''. Sbattei le palpebre e la visione svanì, Misha era tornato uomo e la sua mano non tremava più.
«Abbiamo meno di due settimane circa, ci incontreremo nella nave mercantile che parte da San Pietroburgo, io sarò un fuggiasco e tu il cacciatore» lo vidi deglutire spaventato.
 «E poi?». Era chiaro che ormai ci fosse dentro fino al collo, mi avrebbe seguito anche nella tomba se necessario.
«E poi io ti sparerò, e tu mi sparerai. Morirà Aleksandr Belov insieme a Mikhail Volkov». Un attimo di silenzio spezzato solo dai nostri respiri intossicati dal dolore.
«E poi?» Misha ebbe la forza di chiedermi il continuo, mi venne da ridere, avrei volentieri risposto: ''e poi ritornerà Aleksandr Petrov, il bambino adesso uomo rimasto intrappolato in quello specchio del quinto Soviet in un giorno qualsiasi di un mese qualsiasi''.
«Ti fidi di Nadja?». La domanda non fu casuale e Misha lo sapeva, annuì semplicemente sicuro di se stesso, e anche della donna che adesso amava. Sorrisi scendendo dal parapetto.
«Vediamoci nel suo appartamento, ci servirà anche lei».
La clessidra aveva iniziato a scorrere e prima che tutti loro se ne rendessero conto saremmo arrivati all'atto finale. Ci saremmo incontrati, io e lui, a quel varco troppo spesso citato; quel varco che avrebbe donato la libertà o la morte. In entrambi i casi, saremmo comunque stati insieme.

 

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Capitolo 21
*** Believe the Lie ***


   

 

ACT XXI

 
La casa era silenziosa come sempre, Misha non era ancora tornato? Tutte le camere vertevano nell’oscurità, gli avevo detto circa trecento volte di lasciare almeno una luce accesa. Con Sasha ancora in giro il buio sembrava divenuto il mio peggior nemico. Secondo loro era fuggito dopo aver ucciso Vlad e Igor, consapevole che il Vor lo avrebbe stanato strappandogli la pelle dal corpo, ma io continuavo a temere un suo ritorno improvviso.
«Finalmente sei arrivata». Il suono di quella voce improvvisa mi fece urlare,le chiavi e il cellulare mi caddero in terra mentre fissavo due sagome sedute in cucina. Accesi tremante la luce fissando Mikhail e Aleksandr sorridenti e beffardi alle prese con la vodka.
«Che diavolo stavate facendo?». Sentivo l’isteria pronta a uscir fuori.
«Aspettavamo te, siediti». Gli occhi di Aleksandr mi inchiodarono al suolo. Le voci del suo tradimento erano ormai divenute ufficiali, persino io avevo ricevuto la fatidica chiamata. Obbedii ugualmente sedendomi di fronte a loro.
«Non dovresti stare qui, Sergej ti cerca». Sorrisero entrambi bevendo dai bicchieri.
«Lo so. Misha dice di fidarsi di te, dovrei farlo anch’io?». Fidarsi.. per cosa? Il mio sguardo lasciò trasparire probabilmente la natura dei miei dubbi.
«Sergej mi ha incaricato di uccidere Shùra se voglio rivedere viva Irina». Fissai l’uomo che amavo ad occhi sbarrati. E adesso? Sembravo l’unica preoccupata in quella stanza, o forse ero l’unica a non saper nascondere le emozioni.
«Okay parlate, è evidente state pensando a qualcosa». Vidi Mikhail indicare Aleksandr come a dirmi ‘’è lui la mente, parla con lui’’, lo ascoltai voltandomi nella sua direzione.
«Tra una settimana una nave mercantile partirà da San Pietroburgo diretta in Francia. Misha mi stanerà lì, uccidendomi». Inarcai un sopracciglio.
«Mi state prendendo per il culo?». La loro risata non mi coinvolse.
«Lui sparerà a me, e io ..sparerò a lui. Mireremo a punti non vitali, ma basteranno a lasciare dietro di noi la scia di morte che Sergej esige». Iniziavo lentamente a capire.
«Sarai tu ad accertare la nostra morte, pagherai alcuni uomini perché ci nascondano nei giorni a venire, in tempo perché avvenga il nostro funerale». Cercai di frenare il tremore alle mani, Misha se ne accorse e le coprì con la sua sorridendomi.
«Cosa dovrò fare dopo? Sarete due morti.. Mikhail non potremo più..» non riuscii a finire, il solo pensiero di vivere senza di lui mi dava la nausea. Aleksandr sospirò.
«Sei un medico, trovati una qualsiasi malattia e preparati a dare l’ultimo saluto a Sergej. Gli dirai che ti rimane un mese di vita se non meno, e vuoi passarlo viaggiando. Ti lascerà andare, non servirai più ad un cazzo ai suoi occhi». Lo fissai attonita. Da quanto escogitava quel piano?
«Siete sicuri funzionerà? Se sbagliate a mirare, se uno dei due sbagliasse…» mi guardarono entrambi.
«Lo sappiamo. Ma da una vita simile ne esci solo morto. E francamente non penso sia arrivata la mia ora. Ho dilapidato alcuni conti Bratva, non avremo problemi in futuro». Anastasia, ero sicura ci fosse lei dietro ai conti in rosso.
«Aleksandr, e se non funzionasse?». Un silenzio che mi parve interminabile. Lo vidi bere.
«Se non funzionasse .. moriremo. Non cercatemi più, fino a quando non ci rivedremo su quel mercantile non potrò avere contatti con voi». Sorrise bevendo ancora, godendosi gli ultimi momenti di ‘’pace’’, gli occhi del mio Mikhail erano pieni di insicurezza. Temeva che il suo occhio avrebbe ucciso il fratello. Il cellulare di Aleksandr squillò in quel momento.

 

 

Aleksandr POV

 
Il nome che apparve mi lasciò interdetto. Sergej aveva smosso l’artiglieria pesante: Dimitri Cernenko.
 
– Quando un membro della Bratva chiama un fuggiasco i motivi possono essere solo due: o vuole allearsi, o vuole ammazzarlo.
– Secondo te a quale delle due categorie appartengo?
– Senza dubbio alla seconda, cosa vuoi Dima?
– Ti aspetto alla fabbrica abbandonata, non tardare.
– Oh andiamo, pensi mi farò ammazzare così facilmente?
– Non si tratta di te, ho rintracciato Sophia e me ne sto occupando a modo mio. E tu sai in cosa consistono i miei modi, Shùra. Sarebbe carino se tu venissi qui a vedere con i tuoi occhi.
 
Tremai leggermente osservando Misha che a sua volta sembrava avere intuito qualcosa piantandomi uno sguardo eccessivamente attento addosso. Se Dimitri aveva preso Sophia questo poteva voler dire solo una cosa: stava per ammazzarla. Dopo averla torturata.
«Misha mi allontano per un po', se ci sono novità fammi sapere». Lo vidi scrutarmi assottigliando lo sguardo.
 «Dov'è che vai?». Quella domanda non ebbe alcuna risposta, scrollai le spalle sorridendo per poi andar via; che avrei potuto dirgli? ''Vado incontro al mio destino'' o ''Hanno preso Sophia''? Misha era già parecchio prostrato per mettergli anche quell'altro peso addosso, e inoltre mi fidavo poco di Dima, poteva anche essere una semplice trappola conoscendo il soggetto diabolico, eppure quel dubbio lacerante mi portò dritto alla tana del lupo. Osservai il palazzo abbandonato pensando alla mia di trappola, a quel punto potevo benissimo dire che i ruoli erano stati appena capovolti, quanto sarebbe durata? Entrai senza far rumore, era tutto al buio e puzzava di stantio e marcio, salii le scale estraendo la pistola; se dovevo morire avrei portato con me anche il mio carnefice. Aprii la porta in metallo per metà socchiusa, la prima cosa che vidi furono dei piedi. La seconda furono gli stessi piedi che penzolavano dal soffitto. La donna era stata impiccata. Repressi un conato di vomito osservando la figura sottile, era eccessivamente familiare talmente tanto da far tremare il mio cuore. Mi precipitai verso di lei, mi dava le spalle, osservandola bene in viso; l'aria venne risucchiata completamente dai miei polmoni: quella donna non era Sophia. I miei timori però non riuscirono a dissolversi nonostante avessi appena avuto la conferma dei miei sospetti: era una trappola. Mi guardai attorno era tutto deserto, non vi era neppure una minima traccia di Dimitri o Sergej, aggrottai la fronte camminando lentamente lungo la grande stanza, fu allora che lo sentii, era simile al bip di una sveglia; mi guardai spasmodicamente in giro e la vidi: la bomba stava piazzata in un angolo. La porta si chiuse dall'esterno con un tonfo sordo, ecco qual'era la trappola. Morire in quel modo? Sparai contro la serratura senza riuscire ad aprirla, avevano pensato anche a quell'evenienza, e il timer segnava ''00:15'', avevo esattamente quindici secondi prima di divenire parte dell'arredamento o concime dipendeva dalla potenza dell’impatto e dell’esplosione. Osservai le grandi lastre allontanandomi lentamente da loro verso la parte opposta, la ferita ancora tirava ma non vi prestai attenzione. Presi la rincorsa schiantandomi proprio su una di esse, fu in quel momento che pensai ''A che piano sto?'', ormai era troppo tardi e comunque preferivo di gran lunga morire con le mie di mani piuttosto che per una bomba piazzata da mani altrui. Caddi rumorosamente sul cassone di un camion rotolando poi al suolo emettendo un gemito di dolore, la ferita doveva essersi riaperta ma non ebbi il tempo di rifletterci oltre perché un boato mi distrasse, alzai gli occhi osservando l'esplosione. Mi allontanai velocemente prima che le sirene squarciassero il silenzio, i jeans si erano sdruciti all'altezza delle ginocchia facendomi sanguinare, la caviglia doveva essersi slogata appena visto che zoppicavo; Sergej aveva chiaramente dato l'ordine a Dima e cosa più importante avevano usato Sophia come esca. Era evidente non si fidasse neppure di Misha. Lo chiamai ore dopo.
 
– Dove sei?
– A casa, posso sapere che cazzo è successo?
– Chiama Sergej e digli che accetti l’incarico.
– Contavo di farlo domani..
– ADESSO MISHA.
 
***
 
‘’Ti aspetto alle 3 al parco, non tardare’’.
 
Volevo darle qualcosa di simile ad un addio ma che speravo fosse solo un ''Arrivederci'' un po' prolungato. Due ore prima ero già lì, quel posto non era stato scelto a caso il parco somigliava ai giardini di Peterhof, c’eravamo andati in gita tanti anni prima con tutta la famiglia; mi sedetti su una panca osservando il cielo terso e senza nuvole, per nulla simile al mio cuore in quel momento. L'aria si mosse appena, un profumo arrivò impetuoso alle mie narici e seppi con certezza che lei era lì. Sophia indossava un vestitino bianco, era assurdamente deliziosa come sempre mentre mi guardava e sorrideva timida, il tempo sembrò fermarsi, le voci attorno a me si spensero e persino le luci sembrarono concentrarsi tutte sulla sua figura che avanzava lenta verso di me. Camminammo fianco a fianco in silenzio per un po', le comprai un gelato e la guardai gustarselo come se fosse la cosa più buona mai assaggiata nella sua vita.
«Perché mi hai chiesto di vederci qui?» Sophia mi fissò interrogativamente, scrollai le spalle curvando un angolo delle labbra.
«Perché volevo tornare in Russia assieme a te. Non ti ricorda nulla questo posto?» e fummo nuovamente naufraghi l'uno negli occhi dell'altra per qualche istante, fui il primo ad interrompere il contatto visivo alzando gli occhi al cielo, il sole mi accecò e quando li riabbassai lo scenario era cambiato: avevo diciassette anni, Sophia quattordici ed eravamo in Russia. Lei mangiava lo stesso gelato in un'afosa giornata d'agosto sui Giardini di Peterhof camminandomi a fianco.
«Ho talmente caldo che potrei sciogliermi qui» le sorrisi divertito spingendola con la spalla.
«Stai pure zoppicando, perché non ti togli quelle scarpe?». La vidi arrossire per poi fulminarmi con un’occhiata, aveva indossato le scarpe di Larisa per darsi un ''tono'' come diceva sempre lei, per mostrarsi più grande agli occhi di quel ragazzo che era come un fratello senza sapere che quello stesso ragazzo era già pazzo di lei. Osservammo una coppia, erano avvinghiati talmente intimamente da fare imbarazzare chiunque li guardasse, tranne me probabilmente. La donna piangeva e l'uomo le asciugava le lacrime.
«Secondo te perché piange?» Sophia col cuore ancora pieno di giovinezza mi rispose con un sorriso felice.
«Lui le ha chiesto la mano, e lei si è commossa».  Scoppiai  a ridere scuotendo la testa.
«Lui le ha detto addio» restammo in silenzio qualche istante, la voce di Sophia divenne malinconica.
 «Si sono detti addio ..quindi non si rivedranno mai più?». Sembrai rifletterci fermandomi al centro del campo.
«Guardali, guarda lo sguardo dell'uomo. La fissa con una tale intensità, le sta mandando un messaggio non capisci? E' solo un ''Addio fin quando non ci rivedremo'', lei deve avere fede in quella sua promessa». Sophia leccò il gelato guardandoli affascinata.
 «Tu hai fede Shùra?» non risposi a quella domanda limitandomi a guardare per un'ultima volta la coppia prima di tornare a camminare. Quel pomeriggio Sophia si tolse le scarpe camminando per il campo scalza, sorridevamo giovani e felici. Niente avrebbe potuto scalfirci.

Sbattei le palpebre, ero tornato a San Francisco e avevo nuovamente trent’anni. Mi fermai accanto ad un albero mettendomi di fronte a lei.
«Oggi voglio che saluti Aleksandr Belov, quando ci rivedremo potrei essere cambiato» la vidi guardarmi perplessa allungando ugualmente una mano, sorrise stringendomela e io sentii come una scossa pervadere il mio corpo.
«Arrivederci Aleksandr Belov, arrivederci guerriero». Sorridemmo entrambi senza dire più nulla, il silenzio si caricò di mille parole, e quando sentii le lacrime pungermi gli occhi e forzarsi ad uscire mi schiarii la voce. «Adesso vai, in questi giorni sarò reperibile, ma tra una settimana potrei non esserlo più. Ho tante di quelle cose da sistemare.. tu lo sai» non disse nulla limitandosi ad annuire, per qualche oscura ragione quel commiato aveva tutta l'aria di dover durare in eterno. Si voltò pronta ad andarsene percorrendo pochi passi prima che la mia voce non la costringesse a fermarsi. Sembravo non averne mai abbastanza.
«Sonech'ka, ricorda i Giardini di Peterhof». ‶Ricorda i due amanti, ricorda lo sguardo di lui mentre guardava lei, ricordali e abbi fede‶, non lo dissi. Sophia aggrottò la fronte senza capire ma sorrise ugualmente annuendo mentre mi salutava insistente con la mano sparendo all'orizzonte.
Avevo pensato con attenzione a quale parola lasciarle per dirle addio. ‶Giardini di Peterhof‶ non era altro che ‶Fede‶.
‶Abbi fede Sonech'ka, abbi fede pensando che ci rivedremo, proprio come quei due amanti anni fa, ricordi lo sguardo di lui? Ti guardo con la stessa intensità, il mio non è un addio. E anche se lo fosse non sarà magari in questa vita, ma nell'altra ti ritroverò. Perché noi due resteremo legati in eterno, passeggiando su quel prato a piedi nudi in un'afosa estate senza tempo.‶
 
None of us knows what might happen even the next minute, yet still we go forward. Because we trust. Because we have Faith.
 
 
Mosca
 
«Oh Cristo mi è preso un colpo»
«Oh, sei qui.»
«Shùra che cazzo fai?»
«Passavo, e mi sono fermato»
«Sergej potrebbe controllarmi, se ci vede insieme siamo fottuti. Ci stanno zero gradi, cosa cazzo fai solo con la felpa?»
«Misha rilassati, non c'è nessuno»
«.. Che ci fai qui? Pensavo arrivassi domani»
«Ho cambiato idea e sono partito prima, dovevo finire delle cose. E volevo farti gli auguri di Natale anticipato.»
«Manca ancora un mese, e comunque.. Non l’abbiamo mai festeggiato, chissà perché..»
«Andrà tutto bene, Misha»
«Ne sei sicuro? Ti fidi del mio occhio? Se dovessi sbagliare potrei ucciderti.»
«Lo so. Ma preferisco morire per mano tua.»
«Non succederà, ce la caveremo entrambi.»
 
‶Buon Natale, Misha.‶
‶Buon Natale, Shùra.‶

 
The journey I’m taking is inside me. Just like blood travels down veins, what I’m seeing is my inner self and what seems threatening is just the echo of the fear in my heart.
 
 

Mikhail POV

 
Quel giorno mi illusi che non sarebbe mai arrivato, eppure si palesò dinanzi ai nostri occhi con prepotenza e prontezza. Arrivai su quella nave ancor prima che me ne rendessi conto.
Avevo la pistola carica come molte volte, ma la sensazione era ben diversa. Un singolo colpo. L’unico che avrei dovuto destinare a Shùra. Non erano ammessi errori in quell’unico colpo che mi ero imposto.
Un passo, due passi, il terzo si accennò soltanto ma venne interrotto dal volto di mio fratello che si girò per guardarmi, sorrise e lo feci anche io. Cosa c'era di così divertente? Di così felice e sereno?
"Uccidilo, o sarà Irina quella a pagare"; le parole di Sergej mi rimbombarono nelle orecchie come un disco rotto, abbassai appena la testa per un secondo come per scacciarle via dalla mente malandata.
«Finalmente ci puntiamo le pistole addosso». Era come se avessimo atteso e temuto questo momento per tutte le nostre schifose vite. Il mio tono aveva un nonché di nostalgico, malinconico e probabilmente anche un po' masochistico.
 «Ti ho sempre detto che sarei stato io il primo ad ucciderti». Aleksandr rise, per quanto potesse. Io scossi la testa facendo altrettanto. Poi calò il silenzio, la mia mano tremava e lui se ne accorse avvicinandosi di un passo. Ero come impietrito.
«Misha, hai dimenticato? Lo sai»
«Lo so». Risposi secco, in realtà avrei voluto dimenticare i suoi addestramenti. Feci un sospiro e caricai la pistola. La tenevo puntata contro di lui stavolta con la mano più salda. Ripresi a parlare.
«Questo è per avermi portato via Sophia, per non avermi versato lo stipendio tutte quelle cazzo di volte, per avermi rubato i suoi biscotti quando avevo sette anni. Per esserti preso il suo primo bacio rubandomi anche quello, pensavi non vi avessi visto in quel cazzo di cortile? E anche per avermi insegnato a sparare a dieci anni. Per aver detto a Sophia che mi pisciavo sotto quando ero piccolo, per non aver permesso allo scagnozzo di Sergej di fottermi l'occhio. Per avermi fatto credere di volerti scopare Nadja, per avermi rubato la cena quando tornai a casa dopo quella gita al liceo, avevo una cazzo di fame. Per aver preso tutti quei colpi al posto mio facendoti male. Questo è per tutto quello che avrei dovuto fare io a te, ma tu mi hai sempre preceduto. Ci rivedremo fratello, che sia all'inferno, in terra, in paradiso o in un altra vita... non ti libererai di me così facilmente, devi ancora pagare per tutte queste cose. Ci rivedremo, te lo giuro». In quel momento una lacrima bagnò il mio viso ed era terribilmente in contrasto col rumore assordante dello sparo di entrambi. Nello stesso momento, nello stesso punto ci infliggemmo un supplizio equo.
Ci guardammo negli occhi quando cademmo su quel pavimento umido. L'odore del mare misto a quello del sangue mi faceva formicolare le narici in modo fastidioso.
«Fidati di me» sibilai prima di chiudere gli occhi in un sorriso sporco.
Caddi a terra, sentii solo il dolore e la gioia di una vita portata a termine.
 

 

Aleksandr POV

 
Non vi era un filo di vento sopra quella nave mentre attendevo il compiersi del fato, quanto tempo era passato dall’inizio di tutto? Forse due settimane, o forse tre, preferivo non contarle perché, come se fosse qualcosa che andava alla rovescia, mi dava quasi la sensazione di un countdown finale; la fine era precisamente la mia morte, quella di Misha e quella metaforica di Sonech'ka. Chiusi gli occhi per un secondo sentendo dei passi dietro di me, non erano per niente cauti era quasi come se la persona volesse annunciare il suo arrivo, sorrisi sghembo voltandomi  e incrociando il medesimo sguardo negli occhi di Mikhail.
«Pensavo te la fossi fatta sotto e mi avessi dato buca». Lo vidi curvare le labbra in una smorfia schioccando la lingua contro il palato, era sempre stato così permaloso.
«Chi, io? Pensavo mi conoscessi meglio, non mi sarei mai perso l'occasione». Ci guardammo per un lungo istante, la nave oscillò dolcemente in contrasto col tumulto violento che sembravamo affrontare dentro i nostri cuori. Estraemmo le armi puntandole l'uno contro l'altro, quella era la fine; non vi erano altri posti, arrivati al capolinea non potevi fare altro se non accettarlo e scendere. Eccola la fermata. Caricammo guardandoci dolorosamente. Il mio cuore batteva come fosse impazzito, non perché temessi la morte, non la mia almeno. Mi concessi un ricordo, l’ultimo: Misha aveva dodici anni e io diciassette, eravamo in gita domenicale al lago e io cercavo di insegnargli come governare una barca usando i remi.
«Misha cazzo, cosa c'è di complesso? Devi muovere quelle fottute braccia smilze che ti ritrovi». Come sempre sbuffò contrariato, da qualche tempo a quella parte il suo caratterino aveva iniziato a plasmarsi per bene divenendo se possibile ancora più spigoloso.
«Pensi non lo stia facendo? Ah, ho caldo. Possiamo fare una nuotata e poi riprendiamo?» mi alzai facendo oscillare pericolosamente la barca.
«Che ne dici di una bella battaglia coi remi? Chi perde paga». Misha mi seguì di rimando, afferrando il suo, sorridendo.
«No, chi perde muore». Lo fulminai con lo sguardo, sembrava avere una sorta di debole per la parola ''Morte''. Iniziammo ma qualcosa andò storto, il mio remo colpì in testa e con forza Misha che cadde dalla barca direttamente nel lago, senza riemergere; lo chiamavo con forza ma niente, mi gettai anch’io riemergendo poco dopo col suo corpo svenuto tra le braccia. Provai disperatamente a rianimarlo finché nel momento in cui stavo per iniziare la respirazione bocca a bocca Misha aprì gli occhi scoppiando a ridere. «FESSO. MORIRAI TU, NON DI CERTO IO. Pensi basti un remo? ». Non gli rivolsi più la parola per un mese, Misha aveva sempre pensato fosse stato per il mio orgoglio ferito, in realtà per la prima volta in vita mia avevo rischiato di pisciarmi sotto per lo spavento di aver ucciso una delle due persone che più amavo.
Tik Tak. Il tempo tornò al presente, adesso eravamo l'uno contro l'altro, in quella sorta di capolinea della vita difficile da superare; Misha sillabò qualcosa con le labbra ma non riuscii a percepirlo. Sorrise. Sentii il rumore dello sparo, il suo. Poi un altro, e un acuto bruciore alla spalla vicino al petto. Cademmo entrambi in ginocchio, senza smettere mai di guardarci e allora capii. Misha mi aveva detto: ‶Fidati di me.‶
E io mi fidai, lo feci per tutte le volte in cui non lo avevo fatto abbastanza. Caddi inerme sul pontile con gli occhi semichiusi, non volevo si chiudessero del tutto, volevo continuare a guardare il corpo che giaceva poco distante da me; credetti di dire ‶Abbi fede‶ ma forse lo immaginai, in fondo quelle parole non sarebbero arrivate né a Misha, né tanto meno a Sonech'ka adesso lontana.
Chiusi gli occhi, e fu il buio.
 
 I've put my trust in you
Pushed as far as I can go
And for all this
There's only one thing you should know.
 
 
***
 
Sbattei le palpebre ripetutamente cercando di abituarmi alla luce che seppur poca continuava a ferirmi gli occhi, dove mi trovavo? Mi sollevai troppo velocemente sentendo una fitta lancinante alla spalla, cacciai in gola un urlo pressandola con una mano. La memoria iniziò lentamente a tornare, mi trovavo alla falegnameria abbandonata, Nadja avrebbe lasciato lì entrambi dopo essersi occupata dei nostri certificati di morte; quanti giorni erano passati? Il telefono giaceva a terra, lo afferrai con cautela osservando lo schermo: tre giorni. Mi alzai notando solo in quel momento di essere completamente solo, la brandina accanto alla mia era vuota, nessuna traccia di Misha.
Misha, dove sei?
Avevo chiamato al cellulare lui e Nadja talmente tante volte da aver perso ormai il conto, nessuna risposta era pervenuta e la paura iniziò a dilagare dentro il mio cuore. Avevo preso la mira male? Misha era ... No, non era possibile, non potevo essere arrivato fin lì per vedermi privare di tutto, non quando mancava ormai così poco alla meta. Mi vestii stando attento a non urtare la ferita alla spalla, accarezzando le bende e rivivendo quel momento ancora così vivo dentro di me, gli occhi di Misha socchiusi e i nostri sguardi intrecciati. Dove diavolo era Misha? Il groppo in gola divenne pesante; fuori un auto mi attendeva, le chiavi erano posizionate sul cruscotto, Nadja era stata lì quindi perché non mi aveva detto nulla? Quel silenzio poteva significare tante, troppe forse, cose che io stesso non potevo né volevo accettare. Sapevo dove dirigermi, e lo feci, ad ogni passo il mio cuore scendeva un gradino e appena vidi il corteo funebre farsi strada tra la neve del cimitero lo sentii arrivare sotto i piedi. Lo calpestai.
Osservai la gente raggrupparsi attorno alle due bare, vidi Sergej a capo di quella folla, ne scrutai lo sguardo trovando tracce di soddisfazione e anche di dolore. E allora capii: stavo assistendo al mio funerale.
Misha, dove sei?
Lente le bare scesero nella fossa, la gente lasciò un fiore iniziando poi a coprire entrambi con della terra. Il vento punse i miei occhi, per la prima volta dopo quindici anni mi feci il segno della croce, in quel momento stavo dicendo addio ad Aleksandr Belov, il sicario della bratva morto in una nave durante un agguato, accanto alla bara vidi mio padre, mi guardava e sembrava dirmi: Vedi figlio mio? Hai ricostruito le cose per la quale hai dato la tua vita con i tuoi arnesi ormai logori.
Spostai lo sguardo sull'altra bara, anche quella era vuota? Il dubbio mi provocò un conato di vomito, dov'era Misha? Osservai da lontano tutta la funzione, finché il sole non si nascose tra gli alberi annunciando l'inizio del tramonto e la fine di quella vita. Vidi Nadja accanto a Sergej, e alla sua sinistra un Dimitri Cernenko realmente addolorato.
Andai ugualmente al lago solo per fede, non ero certo di trovare Misha al mio arrivo eppure i miei passi e il mio cuore mi portarono lì. Avrei rispettato la promessa fatta una settimana prima e sarei andato a quell'appuntamento. Misha sarebbe apparso, in un modo o nell'altro avrebbe rispettato quella promessa. Bastava avere fede.
 
Ma fede in cosa esattamente?

 
 

Sophia POV

 
L'anima mia spera nella sua parola.
             
    
– Sophia, ricordi di cosa parla il libro? È la storia di un impiegato, Evghenij, che perde la fidanzata nella terribile inondazione di Pietroburgo del 1825. Impazzito per il dolore, quando passa davanti al maestoso monumento di Pietro il Grande, leva il pugno contro la statua dell'Imperatore, causa di tutti i suoi mali. Il cavaliere si stacca dal piedistallo e lo insegue per le strade di Pietroburgo. Il povero impiegato sarà poi ritrovato senza vita davanti alla casa di legno della fidanzata.
Io sono Evghenij, vengo perseguitato dal cavaliere di bronzo che non mi da pace. Continuo a correre alla ricerca della mia amata sperando di trovarla.
   
– Moriremo?
   
– No, tu sei immortale Sonech'ka. Finché ti amo non può scalfirti neppure la morte, resterai immortale nei secoli, qualsiasi cosa accada.
   
 – La verità è che neanche tu ci credi.
   
– La verità è che ci credo troppo.
    
              
    
Non pensavo potessi cogliere l’essenza della parola ‘’suicidio’’, ma per un attimo quella voglia mi venne, e a quella voglia diedi un nome: volare. Volare così come vola una persona che si butta da un ponte verso il nulla, perché il suicidio è un lancio verso quel nulla dove prima si speravano braccia. Un lancio nel vuoto, carezzata solo dalla pioggia. Libera da ogni peso. Libera da promesse non mantenute.
   
     ‶Sophia, sono morti. Torna a casa, sei ancora in tempo.‶
    
Un semplice messaggio. La misericordia di Sergej mi colpì in pieno stomaco. Erano morti, anche loro, così diceva. Io no. Guardavo la pioggia con i miei stessi occhi. Toccavo il vetro freddo, rabbrividivo. Respiravo. Sentivo il ticchettio della pioggia. Ero viva. Io ero viva.
Non versai una sola lacrima. Ci pensava il Cielo a piangere la morte di Aleksandr Belov e Mikhail Volkov. Io avevo di meglio da fare: aspettare, avere fede, mantenere la mia ultima promessa.
    
    E così mi sedetti,
    
            aspettai,
    
               imparai a sopravvivere.

 

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Capitolo 22
*** Bring me the horizon (ending) ***


   
 

 

ACT XXII

 
Cinque giorni esatti. Mi pareva che io ed Aleksandr non fossimo mai stati lontani tutto quel tempo, mi immaginai il suo viso invecchiato almeno di un anno. Mi immaginai tutte le cose che mi avrebbe detto e le parole che mi avrebbe tirato contro. Me l'immaginai mentre mi cercava ovunque, perché io sapevo che lui non avrebbe mai lasciato perdere.
"Desidero la morte, Shùra", quante volte l'avevo ripetuto e quante altre lui mi aveva fatto un occhio nero?
San Pietroburgo si era rivelata una città vivibile, avevo fatto tutto il necessario in quei giorni per far perdere le mie tracce e regalare una nuova identità ad Irina che avevo prelevato dall’aeroporto prima che lo facesse quel bastardo di Sergej. Finalmente potevo guardarla mentre mangiava, mentre rideva e mentre mi chiamava "fratellone", parola che mai avrei potuto sperare di sentire - ma a quanto pare Shùra aveva sempre avuto ragione: i miracoli esistono.
Irina ricominciò a sorridere alla vita e regalò a me il suo sorprendente entusiasmo ed il suo ottimismo. Eravamo maledettamente diversi, ma allo stesso tempo incredibilmente simili.
Spazzolavamo i denti prima dal basso verso l'alto e poi da sinistra verso destra. Masticavamo rumorosamente, prima di dormire ci massaggiavamo il lobo dell'orecchio ed avevamo gli stessi spaventosi occhi, lo stesso calore e le mani simili. Quel giorno mi domandò dove fossi diretto, mi trovava di buon umore. Le risposi che stavo andando a riprendermi la mia vita, per riplasmarla a mio piacimento.
Lo vedevo, Shùra era girato di spalle ma si guardava chiaramente attorno, l'arancione del cielo riflesso su quel lago dava all'atmosfera un qualcosa di surreale, mi avvicinai senza farmi sentire.
«Si dice che morire aspettando non è il giusto modo per riprendersi la propria vita». Sentendo la mia voce si voltò di scatto, mi guardò con sgomento, fui quasi certo di sentirlo deglutire e la sua carnagione riprese colore poco a poco.
Si avvicinò a me come una furia e mi prese il colletto del giubbotto di pelle stringendolo tra le dita.
«Idiota del cazzo, dove eri finito? Perché non mi hai chiamato? HO VISTO IL TUO FUNERALE CAZZO». Mi ero perso un gran bel funerale.
 «Possibile che la prima cosa che fai quando mi vedi è urlarmi contro? Non dico che mi aspettavo un bacio, ma almeno una misera venerazione». Risi, ma a quanto pare Shùra non era in vena quanto me di fare battute. Mi lanciò un’occhiata torva.
«Quando la smetterai di essere così idiota, Mikhail?». Sospirò sembrando stanco e si allontanò di qualche passo da me.
Stava accadendo sul serio, per la prima volta non eravamo sull'attenti, pronti a sparare a qualcuno che voleva farci fuori. Non temevamo per una chiamata di Sergej che ci avrebbe rovinato la giornata.
Mi immaginai Sophia seduta sulla barca un po' più in là rispetto a noi, sentivo la sua voce incitarci a salire su quella catapecchia del cazzo. Angolai le labbra in un sorriso spontaneo, divertito come poche volte. Mi immaginai che subito dopo tentasse di buttarmi in acqua perché aveva saputo che ancora una volta avevo fatto incazzare Nadja o le avevo detto qualcosa di troppo volgare.
Mi immaginai anche Nadja, sorridente, serena che mi prendeva la mano chiedendomi di conoscere Irina. Probabilmente avrebbero solo sparlato di me, ma in fin dei conti sarei stato contento di avere le mie donne in casa e al sicuro. Vive e che mi facevano vivere.
«Shùra se ti butti lì dentro e stai almeno un minuto ti darò diecimila dollari, parola di Misha». Spezzai così il silenzio,  sicuro che lui ricordasse quelle parole.
«La tua parola non vale un cazzo, ma voglio fidarmi. Accetto». Mi sorrise complice e ci guardammo.
 
Stavolta in quel lago ci tuffammo entrambi.
E adesso erano ventimila i dollari che gli dovevo. Merda.
 

Aleksandr POV

 
Rimasi ventiquattrore ad osservare la superficie del lago, aggrappandomi con forza alla fede e alla speranza. Misha non comparve e il mio cuore si perse tra le spire dell'acqua fredda come trafitto da miliardi di spilli, mozzandomi il respiro. A cosa serviva ottenere una nuova vita se non potevo godermela insieme a lui? A cosa serviva presentarsi nuovamente al cospetto di Sophia senza colui che valeva oro ai nostri occhi? Ero vivo, ma senza Misha l'operazione era un completo fallimento.
«Si dice che morire aspettando non è il giusto modo per riprendersi la propria vita». La voce di Mikhail rimbombò tra le pareti sorde del mio cuore. Allargai le narici trattenendo le lacrime, tirando su col naso prima di voltarmi a guardarlo mentre la vita tornava lenta a scorrere nelle vene riempiendomi di un calore familiare. Lo strattonai con forza, volevo fargliela pagare per avermi fatto perdere in poche ore dieci anni della mia – adesso forse preziosa –  vita.
‘’Hai idea di quanto io ti abbia aspettato? Bloccato su questo lago, senza la forza di andare avanti né tornare indietro?‶ non lo dissi, non ce n'era bisogno perché Misha più di tutti sapeva. Il silenzio prevalse, ci godemmo lo spettacolo assaporando il gusto della vita.
«Cosa farai adesso, Misha?». Lo vidi sorridere soddisfatto.
«Non ho alcun programma, mi godrò i miei soldi, Irina, te, Nadja e ..». Non fece il nome di Sophia, ma nonostante ciò rimbombò più forte di qualsiasi urlo. Lo vidi riprendere fiato e continuare ancora a parlare.
«Tornerai da lei? O meglio, pensi che lei ti aspetterà?» ci pensai su qualche secondo prima di schioccare la lingua contro il palato.
«Mi aspetterà. Mi aspetta da una vita» Silenzio. Il vento increspò l'acqua.
«Ho come l’impressione di essere qui per salutarti definitivamente». La sua voce si spense.
«Non definitivamente. E’ solo un arrivederci provvisorio, ci rivedremo». Lo fissai sorridendo. Dovevo ritrovare me stesso, e per farlo dovevo allontanarmi da coloro che più amavo. Lo avevo sempre saputo in fondo, ma passare dalle parole ai fatti era più doloroso di quanto mi aspettassi.
«Shùra se ti butti lì dentro e stai almeno un minuto ti darò diecimila dollari, parola di Misha»  non piansi sentendo nuovamente quelle parole a distanza di anni, mi feci semplicemente forza sorridendo.
«La tua parola non vale un cazzo, ma voglio fidarmi. Accetto». Scoppiammo a ridere entrambi guardandoci per un lungo istante, fu Misha a riprendere ancora una volta il discorso.
«Quindi adesso temi che la tua anima possa congelarsi?» sorrisi sghembo scrollando le spalle.
«Sono ancora alla ricerca della mia anima, la troverò al quinto soviet probabilmente, mi aspetta rinchiusa in quello specchio da vent’anni ormai. Ah, prima che dimentichi ..sei carino quando sorridi, fallo più spesso». Mi spinse contrariato e imbarazzato.
«Shùra, cosa mi porterai dal tuo viaggio? Mi aspetto almeno un cazzo di regalo». Mi fissò seriamente.
«Non saprei, cosa vorresti?». Scrollai le spalle, nei nostri conti vi erano adesso trenta milioni di dollari, non c’era nulla che non potessi donargli.
«Portami l’orizzonte». Chinai il capo annuendo appena, guardando quello di fronte a noi.
 
‘L’anima trema nell’enigma eterno; fratello, soffro la tua stessa pena: attendo un’alba e non so dirti quale’.
Adesso si. Adesso lo so.
 
 

Nadja POV

 
Fissavo le bare contenenti i corpi di Mikhail e Aleksandr con la stessa freddezza della neve che cadeva attorno a me. Così tutti pensavano, così tutti credevano, anche io mi ero convinta che lì dentro fossero presenti quei due o non sarei stata abbastanza convincente.
Non avevo dormito per giorni, il piano girava tutto attorno me, la morte simulata, il cambio dei corpi con altri due simili ed infine le cure tempestive agli ex sicari.
Tutto sembrava andare come pianificato, ma la vita è sempre pronta a coglierti alla sprovvista e io questo lo sapevo benissimo.
Sergej soffriva, a modo suo, e tutti i presenti erano a conoscenza dell'enorme lutto che aveva colpito la Bratva , colpita al cuore, nel suo orgoglio e nella sua forza. Colui che avevo sempre ammirato quasi come un padre e che mi aveva salvata all'età di dieci anni, mi poggiò una mano sulla spalla obbligandomi a spostare l’attenzione dalle bare ormai calate nel terreno a lui: sì, Sergej stava soffrendo.
«Sii forte. So che tu e Mikhail...»
«Mikhail era solo un passatempo per me, Sergej. Non ci sono mai stati sentimenti a legarci» Sergej sorrise e capì perfettamente a quale tipo di rapporto stavo alludendo accettandolo meglio del previsto.
Feci un sospiro leggero, tornando a fissare quelle bare che sentivo essere vuote nonostante fingessi di vederle piene. Non mi avvicinai a loro e non gettai nessun fiore su di esse, aspettai semplicemente la fine del funerale per poi allontanarmi assieme a tutti i presenti, lasciando Sergej nella sua autocommiserazione.
Mi sentii una traditrice per pochi secondi.
Avevo appena tradito colui che mi aveva salvato da un triste destino, mi aveva cresciuta, sfamata, mi aveva dato una casa e una prospettiva di vita ben migliore rispetto a quello che le sarebbe accaduto se fossi rimasta sola. Eppure lo tradii, per amore di qualcun'altro.
Sollevai gli occhi al cielo, i fiocchi di neve si poggiarono sul mio viso e si trasformarono in acqua immediatamente, rigandomi le guance come se fossero le lacrime che non avevo versato.
Era arrivato anche per me il momento di morire.
Speranza, il mio cuore ne era pieno.
Chiusi gli occhi ed un piccolo sorriso si disegnò sul mio volto stanco ed affaticato, sarei morta ed avrei atteso il giorno in cui avrei ricominciato a vivere. Con lui.
 
***
 
«Non so se avremo un futuro, non so se quello che abbiamo avuto è abbastanza da poter essere definito passato, ma abbiamo il presente e certe volte vorrei poterlo fermare. Questo orologio è per te. Così tra un mese esatto, quando ci rincontreremo, sarai puntuale. Non arrivare in ritardo Mikhail, o non te lo perdonerò. »
«Non farò tardi, in quel caso ti concederò il diritto di mettere il muso e non mi lamenterò. »
 
*** 
 
I fogli con la sentenza finale erano lì, sparsi su quel tavolo che Sergej continuava a fissare. Non sembrava capirci molto, il silenzio in quella stanza si fece pesante, sembrava volermi perforare i timpani per quanto assordante fosse.
«Un mese». Ripetè lui, e io annuì.
Un mese esatto di vita, nulla di più e nulla di meno.
La ‘’malattia’’ che sembrava avermi colpita ora mi stava lentamente ed inesorabilmente portandomi alla morte, peggiorando di giorno in giorno, respiro dopo respiro. Ogni battito del mio cuore non era altro che una gentile concessione di qualcuno più in alto di loro e io volevo tenere quel poco tempo solamente per me. Fu questo ciò che dissi.
«Un mese e tutto finirà. Ti ho sempre servito con devozione, ti sarò per sempre grata per tutto quello che hai fatto per me. Ma ora ti chiedo di poter essere libera da ogni incarico, da ogni responsabilità. Uscirò da quella porta e Nadja smetterà di esistere». Parlai chiaramente, ripetendo quella sua richiesta che sembrava essere un ultimo desiderio detto ad alta voce.
Sergej si alzò dalla propria scrivania, camminò lentamente attorno ad essa e mi raggiunse dalla parte opposta, poggiandomi poi le mani sulle spalle.
Erano così pesanti, sembravano dei macigni di colpe che puzzavano di sangue e carne marcia.
Mi sorrise, un sorriso che avevo sperato mi rivolgesse per gran parte della mia vita ma che ora non aveva più lo stesso significato. L'indifferenza fu l'unica cosa che ottenne da me.
«Sei stata brava in tutti questi anni. Mi sei stata fedele e mi hai deluso poche volte. Hai imparato dai tuoi errori, hai salvato i miei uomini e ti sei rivelata essere più importante di quanto tu creda, Naden'ka». “Importante”, per non dire “utile”. Feci appena un accenno di sorriso, senza esagerare, sembrando così davvero naturale.
«Mi piange il cuore nell'apprendere una notizia del genere. Cara Naden'ka, in memoria di tuo padre accetto la tua richiesta». Mi sorrise di nuovo e la voglia di uccidere quell'uomo solo per aver nominato mio padre si fece largo in me in maniera prepotente e fin troppo seria. Per un attimo il viso di Mikhail scomparve completamente dai miei pensieri, divenne un ricordo lontano ed offuscato dalla rabbia che sentivo crescere di secondo in secondo, mentre ci guardavamo negli occhi con calma apparente.
«Vai, vivi quello che ti rimane da vivere e non ti preoccupare per i soldi, ne avrai più che a sufficienza per vivere come una principessa in questo periodo». Il suo tono dava l'impressione di voler essere schifosamente umano e dolce, come se davvero tenesse a me anche solo per quel momento. Forse era così, dopotutto mi aveva fatta crescere a pochi metri dalla sua stessa casa e per me fu davvero il colmo sentirmi chiamare “principessa” da quell'uomo. Avevo sempre desiderato quel momento, eppure ora che lo potevo assaporare aveva il gusto insipido di una sconfitta.  Non sarei mai stata una principessa e questo non mi importava più.
«Ti ringrazio, Sergej. Addio». Dissi semplicemente quelle parole poco prima che le sue mani grandi che teneva ancora premute sulle spalle non si spostassero sul mio viso che baciò due volte, sulle guance.
Un gesto del tutto prevedibile dal capo della Bravta.
«Addio, Naden'ka. Sii felice». Furono le nostre ultime parole, prima che interrompessi ogni contatto con quell'uomo e mi voltassi verso quella grande porta che era diventata il simbolo della mia libertà.
Una volta fuori respirai a pieni polmoni l'aria invernale di quella fredda Mosca, la città nella quale ero cresciuta e che ora stavo abbandonando.
Un mese di vita e poi sarei morta.
Per me era l'esatto opposto: dopo quel mese, avrei potuto sentire di nuovo le braccia di Mikhail stringermi nuovamente.
Una perfetta bugia detta all'uomo più pericoloso al mondo, allo scadere di quei trenta giorni nessuna malattia si sarebbe presa la mia vita in realtà, ma nel mondo di Sergej andava così, e solamente a quel punto sarei stata libera da ogni cosa.
Sollevai nuovamente gli occhi al cielo, sentii un senso di pace e serenità mentre mi allontanavo dal palazzo in cui avevo trascorso tutta la mia infanzia e adolescenza, senza voltarmi nemmeno una volta. Pensai a mio padre, mi rivolsi a lui mentre quell'enorme casa si faceva sempre più piccola dietro di me così come la vita che avevo sempre vissuto a metà.

 
 

Mikhail POV

 
Non avevo dimenticato lei e forse non ne sarei mai stato capace, solo in quel mese me n’ero reso conto davvero. Indossavo l'orologio che mi aveva regalato nella speranza che fossi puntuale e per la prima volta in vita mia lo ero, accidenti.
"...Ci vedremo dove ci siamo visti la prima volta, quella vera intendo... quando eravamo piccoli", me lo disse quel giorno che passammo a scambiarci qualche promessa ancora aggrovigliati tra le coperte, prima del saluto. Eppure passarono i primi cinque minuti, poi dieci e quegli stessi dieci diventarono venti. Nadja non c'era, non era arrivata. Mi guardai attorno, era una strada comune quella, parecchia gente di passaggio e io abbastanza camuffato per non farmi riconoscere da nessuno. Il palazzo di Sergej non era troppo lontano e io ero sicuro che fosse stato lì il nostro primo incontro. Proprio in quel momento una bambina mi passò di fronte, le cadde il gelato di mano e cominciò a piangere mentre suo fratello sbuffava e la scuoteva per farla stare zitta. Un lampo mi illuminò gli occhi, era passata ormai più di mezz'ora ma io ero nel posto sbagliato, nella parte completamente opposta a quella giusta.
Cominciai a correre, lasciai che il berretto che avevo in testa cadesse togliendomi la sciarpa quasi a forza, come se non mi permettesse di respirare. Il ricordo di noi da bambini mi riaffiorò alla mente: come al solito io e Shùra eravamo scappati da quel palazzo opprimente per fare una passeggiata, era un giorno di pioggia come quello e lungo il sentiero del parco che mi piaceva tanto scorgemmo una bambina in lacrime ai piedi dell'albero che mi sembrava essere immenso. Domandai a Shùra cos'avesse quella bambina, ma ovviamente lui non mi seppe rispondere. Ripensando a quell’episodio iniziai a ridere col fiatone mentre correvo da lei, quindici anni dopo.
Ricordai di esserle andato vicino e di averle donato la margherita più schifosa che potessi strappare dal prato, l'avevo raccolta il giorno prima e ce l'avevo ancora nei pantaloni come portafortuna. "Se guardi questa le lacrime si fermeranno per sempre", le dissi. E per un attimo credetti che il mio fosse stato una sorta d'incantesimo. La piccola Nadja smise di piangere e più in là con gli anni avrei scoperto che anche da grande non l'avrebbe fatto poi così spesso.
La vidi a pochi metri da me, avevo percorso così tanti chilometri che ormai doveva essere passata un ora, le poche soste che feci durante quella corsa non mi permisero di recuperare del tutto il fiato. Nadja mi venne incontro, sembrava distrutta e se era possibile ancora più magra. Eppure era bella, raggiante anche in un cupo giorno di pioggia. Ci abbracciammo così stretti che respirare mi risultò ancora più difficile.
«Sei un'idiota! Avevi promesso! Non ti ho chiesto tanto, solo di essere puntale, razza di deficiente! Che cos'hai in quella testa? Possibile che non puoi fare nemmeno una cosa che ti viene detta? Bastardo. Ti odio. Vattene. MI SI SONO ROVINATI I TACCHI PER COLPA TUA!». Piangeva mentre mi urlava contro quelle parole, ma al tempo stesso non mi lasciava andare nemmeno un secondo. Risi appena, in modo affannoso cercai di risponderle dandole qualche pacca sulla schiena.
«Ti giuro che ero arrivato in anticipo, ma... solo dopo ho ricordato quale fosse il posto giusto»
«Ti avevo detto che se fossi arrivato in ritardo non ti avrei perdonato». Ci staccammo per un secondo solo per guardarci negli occhi, sorrisi e le scostai i capelli bagnati dal viso, era come se la stessi guardando per la prima volta.
«Ti ho detto che avrei accettato il fatto che mi avresti tenuto il muso, non che ti avrei lasciato perdere»
«...Baciami». Pregò con un ansimo e io le sfiorai col pollice quelle labbra che avevo sognato tutte le notti. Ci baciammo. Fu un bacio delicato come se un velo si fosse posato sulle nostre bocche. Diventò presto ebbro del miscuglio tra il sapore della pioggia e la dolcezza selvatica delle labbra carnose di Nadja. Quelle stesse labbra si mossero, gonfiandosi leggermente, e si schiusero dando vita a qualcosa di molto più passionale.
 
Nessuno dei due sembrò sentirsi addosso quella pioggia.

 
 

Sophia POV

 
San Francisco, 2019
 
Passavo intere giornata a riversare il mio amore in cambio dei sorrisi timidi dei bambini dell’Eden Orphanage. Alcuni mi chiamavano “Tata”, altri “Maestra”. Per i meno timidi ero semplicemente “Hailey”. Avevo stravolto la mia vita e per la prima volta avevo scelto chi essere, come vivere, chi diventare. Eppure qualcosa, qualcuno continuava a mancare. Quella era una mancanza costante, che perseverava da tre anni a questa parte. Le due stanze chiuse a chiave, in quell’appartamento, me lo ricordavano ogni giorno come se poi potessi scordarmi di chi ho amato.
Erano molte le cose ad essere cambiate: il mio nome, il mio lavoro, la mia casa, il mio guardaroba ed avevo persino tagliato i miei capelli! Guadagnavo lo stretto necessario per pagare le bollette e vivere modestamente in un appartamento che non era mio. Era “nostro”, di noi tre. Tornata a San Francisco, la prima cosa che feci fu quella di tornare a casa, la nostra casa, e ricominciare tutto da lì. Dal principio. “Se ti perdi torna sempre dove potrò trovarti”; Shùra me lo diceva sempre.
Tutto sommato potevo considerarmi felice e fortunata. Avevo di cosa vivere, ero diventata indipendente e nessuno voleva attentare alla mia vita mettendomi una taglia sulla testa. Ero cresciuta, finalmente. Era cambiato tutto, o quasi. 
   
I sentimenti, quelli, erano rimasti immutati negli anni.
   
Continuavo ad aspettare, sempre, in un silenzio così pesante da diventare insopportabile. Avevo comprato un giradischi e qualche vecchio vinile dei Beatles per sentirmi meno sola tra quelle quattro mura così fredde. Mi capitava spesso di tornare a casa e sedermi sul divano che avevamo condiviso così tante volte, guardando le dirette dall’Opera di Mosca e metter su della buona musica per scacciare via ogni pensiero. Canticchiavo “we all live in a yellow submarine” con disperata enfasi sperando di scacciare ogni altro pensiero, ogni dubbio, ogni paura.
   
   Erano passati tre anni e io non avevo avuto neanche una loro notizia.
   
Quel 31 dicembre 2019 fu diverso. Tornai a casa con i biglietti che i miei bambini mi avevano scritto per il mio compleanno, fintamente felice. Shùra compiva gli anni quello stesso giorno. Posai il tutto sul tavolo, lasciai cadere la giacca a terra e camminai velocemente verso il giradischi. Questa volta era Here Comes the Sun a riempire il vuoto della mente. Mi rifugiai in quest’allegra canzone, spensierata, e mi affacciai dalla finestra senza fare nulla. Guardavo fuori e basta, tutto qui.
La musica s’interruppe bruscamente. Delle braccia m’avvolsero in un abbraccio caldo e famigliare. Non mi mossi, non respirai. Giurai a me stessa di non aver toccato neanche un bicchiere di vodka, almeno non per il momento. Mancavano ancora diversi minuti prima di brindare al nuovo anno. Sentivo il suo respiro, caldo contro il collo. Come scordare quel profumo, quel tepore. Come scordarsi Aleksandr.
Avevo sognato quel momento per così tanto tempo che mi chiesi se stessi sognando ad occhi aperti o se la stanchezza avesse iniziato a giocare brutti scherzi. Eppure era tutto così reale, così vero.
Mi voltai e lo vidi. Vidi il suo viso indecifrabile, gli occhi che non facevano trasparire alcuna emozione e le mani segnate dal tempo. Mi venne voglia di carezzare la sua guancia per accertarmi della sua presenza, ma indietreggiai impaurita. Avevo paura di vivere un sogno, anzi, uno di quegli incubi così realistici da lasciarti l’amaro in bocca al risveglio. Non sarebbe stato il primo comunque. Indietreggiai di un altro passo che paradossalmente ci unì. Le sue mani scattarono e mi strinsero a lui più forte che mai. Mi stringevano le spalle, mi dicevano “sono qui, adesso sono qui con te, non sono un sogno”. Restammo in quella posizione per interminabili secondi e poi la presa si sciolse lasciando spazio alla voce.
«Alla nuova Hailey Allen posso fare gli auguri o dovremmo ripresentarci? ». La sua voce. Oh, la sua voce era sempre la stessa, proprio come me la ricordavo: calda, profonda, roca.
Lo guardai con indecisione e non risposi. Andai a sedermi sul divano, il viso tra le mani come a misurarmi la febbre e gli occhi sulla bottiglia di Vodka ancora sigillata.
 
«Sophia, sono tornato. Sono tornato per te»
«Non parlare»
«Sonech’ka.. ?»
«Ho detto “non parlare” e non chiamarmi così. Tu non puoi chiamarmi così»
«Sonech’ka, ti prego. Ho mantenuto la mia promessa. Sono venuto a prenderti. Ti ho chiesto d’aspettare e tu mi hai dato la tua parola»
   
Aggrottai le sopracciglia furiosa. Mi alzai, avanzai, affrontai il suo sguardo profondo e fermo e lo colpii. Il palmo della mia mano si stampò sulla sua guancia lasciando un segno rosso e caldo. Lui non si mosse. Si limitò a guardare le lacrime che avevano cominciato a bruciare le mie di guance. Le asciugò con una carezza. Strinsi il colletto della sua camicia tra le dita e lo strattonai con una rabbia tale da non riconoscermi più. Piangevo ed urlavo. Piangevo e lo colpivo. Piangevo e mi liberavo.
«TRE ANNI. TRE. ANNI. PER QUANTO ALTRO TEMPO VOLEVI FARMI ASPETTARE? PERCHÈ NON DIECI? HAI MAI PENSATO A ME? PERCHÈ NON MI HAI FATTO SAPERE NIENTE? POTEVI ALMENO DIRE CHE ERI IN VITA, SAI? ALEKSANDR, TRE ANNI SENZA TUE NOTIZIE. NON FARLO MAI PIÙ. MAI PIÙ». Questa volta fu lui a non rispondere. Lasciò che tutta la mia rabbia scivolasse via lontana da me. Asciugò ogni mia lacrima con quei baci che mi erano mancati terribilmente. Mi cullò, mi confortò e mi ripeté che era lì per me, solamente per me, per sempre.
   
«Ti amo, Sophia. Mi sei mancata da morire»
«E tu sei un cane. Vattene via»
«Di già.. ? Ma sono appena tornato, scimmia»
«La vedi la porta, no?»
«Allora molla la presa, altrimenti come vado?»
«No»
«No cosa?»
«Ti amo anche io e non ti lascio più»
   
Quella notte del 31 dicembre 2019 facemmo l’amore e ci promettemmo amore eterno. Nessuno ci avrebbe più divisi. Nessuno.
 
 

Aleksandr POV
 

Aleksandr Belov, nato il 31 Dicembre del 1987 e morto il 3 Novembre del 2016.
Aleksandr Petrov, nato il 31 Dicembre del 1987.
 
Tra le due persone vi era una differenza abissale, uno era morto e l'altro intrappolato in quello specchio del quinto soviet adesso sporco ed incrostato dal tempo e dalle vicissitudini, che come un fiume non in grado d'essere arginato aveva spazzato via tutto: tranne la fede. In quei tre anni mi aggrappai a quella, col timore perenne che le persone mi lasciassero indietro, ma con la ferma convinzione di dover ritrovare quel piccolo e spaventato bambino prima di poter tornare a considerarmi un essere umano. E così feci. Lasciai Misha al lago con la promessa di rivederci, non accadde però perché entrambi troppo impegnati a ricostruire pezzo dopo pezzo una vita confusa e sparpagliata in miliardi di tasselli, alcuni dolorosi, altri difficili e altri ancora gioiosi. Sedetti sul tavolo ovale della mia vita iniziando ad incastrarne i pezzi, alle volte li persi, altre li confusi, ma ciò che lentamente venne fuori fu un quadro che neppure io avrei immaginato. Tornai nel mio appartamento del quinto soviet, a San Pietroburgo, vissi lì per quasi tre anni, piansi ogni giorno davanti a quello specchio toccando il riflesso di un uomo che non sapeva più neppure lui chi fosse, alla ricerca del bambino perduto. Alla fine lo trovai. Ci sorridemmo, il bambino con ingenuità e perdono mentre il maggiore con dolore e speranza.
 
Riaccesi il telefono dopo il lungo volo, suonò quasi subito, non riconobbi il numero.
«Pronto?». Dall'altro capo del telefono una voce bassa e familiare.
«Tanti auguri bastardo». Sorrisi facendo cenno ad un taxi di fermarsi.
«Guarda un po' chi si ricorda di suo fratello in una fredda giornata di dicembre». Un sospiro dall'altra parte.
«Carino il maglione, a quanto pare sembri sempre lo stesso è un bene. Ti do ventiquattrore di tempo prima di irrompere in casa nostra». La chiamata venne chiusa senza darmi possibilità di replica, mi girai osservando fuori, alla ricerca di quella figura familiare che mi sembrò di vedere in lontananza; mossi la mano in segno di saluto, non fui però sicuro di aver visto bene.
17-17-12, la porta si aprì come per magia. La magia dell'attesa, della crudele speranza, della consapevolezza di aver lasciato Sophia ai margini in attesa di qualcosa che neppure lei riusciva a capire. La musica inondò l'appartamento senza riuscire a sovrastare i battiti del mio cuore non appena vidi la figura rivolta verso la grande vetrata; sorrisi andandole vicino, non avevo perso l'abitudine di camminare come se dovessi sempre nascondermi. L'abbracciai da dietro respirandone l'odore, sapeva di tutto ciò che mi era assolutamente mancato: di amore, di calore e di famiglia. La mia e quella di Misha. Deglutii ricacciando indietro le lacrime.
«Alla nuova Hailey Allen posso fare gli auguri o dovremmo ripresentarci?». La vidi indietreggiare troppo sconvolta anche solo per poter emettere un qualsiasi verso che non fosse il singhiozzo che precede le lacrime, e alla fine avvenne davvero. Pianse e mi schiaffeggiò. Pianse e mi abbracciò. Pianse e mi amò. Il riassunto di un'intera vita. La nostra.
«E' la terza volta che mi schiaffeggi, mi era mancato anche questo». Quanto era passato dal mio ingresso in quella casa? Quanto dovevo ancora raccontarle? Sarebbe bastata una vita? A me probabilmente no.
Facemmo l'amore come se all'alba dovessimo dirci addio. Non accadde. All'alba Sophia guardava il mio viso e io guardavo il suo, legandoci all’infinito.
Ero cambiato? Probabilmente no, avevo ancora anime sulla coscienza, mani sporche di sangue ma avevo la fede. Avevo fede nel poterle espiare, avevo fede nell'accettare le sue punizioni quando sarebbe arrivato il mio momento. Avevo fede di poter essere felice, insieme a lei. Ancora ed ancora.
 
— If I got locked away and we lost it all today, tell me honestly: would you still love me the same?
— Yes.
 
 

Arizona

 
«Perché porca puttana siamo tornati qui?» Misha sputò a terra indicandomi la saliva, erano grumi di sabbia quelli, o avevo le visioni?
«Misha possibile che alla soglia dei trent’anni non hai ancora imparato ad ammirare e apprezzare in silenzio? Ma soprattutto a parlare come un essere umano decente?». La voce contrariata di Sophia mi fece ridere.
«Misha, hai scoperto alla fine con quale parola sostituiresti la ‘’bellezza’’ dei Navajo?». Ci fissammo in silenzio, Sophia ci superò iniziando a camminare all’indietro, guardandoci e accarezzandosi il ventre ormai pronunciato.
«Alla fine hai mantenuto la tua parola». Mi sorrise furbo.
«Mantengo sempre la parola. Ti piace l’orizzonte che ti ho portato?». Lo fissammo insieme mentre Sophia continuava a chiamarci.
«Sophì se caschi ti apro il culo, mio nipote deve essere protetto». La indicò velocizzando il passo. Li seguii di buona lena, stavolta dovevo dare ragione a quel coglione.
«Sonech’ka se fai del male a mio figlio chiedo il divorzio». Le sorrisi affabile e mi beccai un calcio. Sposarsi col ventre già gonfio non era stato il massimo, aveva passato gli ultimi mesi a colpevolizzarmi istericamente per ‘’l’incidente’’ dicendo che la gente avrebbe pensato l’avessi sposata solo per quello. Nessuno poteva immaginare quante cose ci fossero tra noi mentre all’altare entrambi pronunciavamo il nostro ‘’si, lo voglio’’.  
«A proposito.. siamo tutti d’accordo a chiamarlo Mikhail, vero?». Non risposi subito, cercando di non ridere.
«Dovresti chiederlo alla balenottera, è lei che comanda». Indicai Sophia che minacciò di calciarmi ancora.
«Non trovate io sia diventata più bella con la gravidanza?». Si accarezzò i capelli adesso più lunghi, sbattendo le ciglia.
«NO». Lo urlammo insieme tra i suoi strepiti, le nostre risate e il tramonto rovente che ci vide nuovamente riuniti.
 
Non so Misha, ma io confido in ciò che dissero i Navajo e so quale parola sostituire a ‘’bellezza’’.
La mia parola è: amore. Il nostro. 

 

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