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di Lupe M Reyes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - L'ultima ***
Capitolo 2: *** La bibliotecaria ***
Capitolo 3: *** La visita ***
Capitolo 4: *** La proposta ***
Capitolo 5: *** La preferita ***
Capitolo 6: *** La consegna ***
Capitolo 7: *** I Consiglieri ***
Capitolo 8: *** I Cento ***
Capitolo 9: *** Ieri e oggi ***
Capitolo 10: *** Bellamy ***
Capitolo 11: *** Il meccanico ***
Capitolo 12: *** John ***
Capitolo 13: *** Il giorno della festa ***
Capitolo 14: *** Scacco matto ***
Capitolo 15: *** Il piano B ***
Capitolo 16: *** La Terra ***
Capitolo 17: *** May we meet again ***
Capitolo 18: *** Insonnia ***
Capitolo 19: *** La quarantena ***
Capitolo 20: *** Risvegli ***
Capitolo 21: *** Monty Jordan ***
Capitolo 22: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 23: *** Cecilia ***
Capitolo 24: *** La bella e la bestia ***
Capitolo 25: *** La lettera ***
Capitolo 26: *** Punti di vista ***
Capitolo 27: *** L'inizio della fine ***



Capitolo 1
*** Prologo - L'ultima ***


Prologo
L'ULTIMA

Uno dei miei sogni è vedere un animale.
Un animale vero, dal vivo. Toccarlo. Non importa che sia un rinoceronte o un bassotto. Qualsiasi specie andrebbe bene. 
Peccato si siano tutti estinti un secolo fa.
Non ho altro che fotografie, immagini nitidissime sugli schermi dei computer. Ho le descrizioni che se ne fanno nei libri.

Sono al funerale di Ellis Fawn, centoquattro anni.
Lei è l’ultimo essere umano ad aver conosciuto gli animali.
Raccontava di una ranocchia, un cosino verde scuro rugoso e umidiccio che era riuscita a sfiorare per un attimo prima che saltasse via, sulle sponde di un acquitrino melmoso.
Raccontava di un gatto, il suo gatto!, che dormiva sul suo letto e che le spingeva il muso contro le gambe e faceva il rumore di un motore per dirle quanto le volesse bene.
Raccontava di un uccellino, con il collo rosso e la testa grigia, e del frullare inutile delle sue ali spezzate; raccolto da terra, era sopravvissuto un pomeriggio, il tempo che era servito ad Ellis per innamorarsene.

I bambini stavano ad ascoltarla per ore, anche se le storie erano sempre le stesse e non si poteva dire di Ellis che fosse una narratrice. Io stessa ho imparato a memoria le sue favole e non mi è mai importato, e ancora meno m’importa ora, che provenissero da veri ricordi o fossero frutto della suggestione.

Con la morte di Ellis finiva un’era: l’era della convivenza uomo animale. Nessuno dei sopravvissuti alla fuga dalla Terra aveva mai avuto a che fare con una creatura che non fosse umana. Siamo rimasti soli, umani con umani, e basta. Ellis Fawn era l’ultima ad aver accarezzato un gatto.

Non che io e Ellis fossimo amiche. Ma attraverso le sue dita mi illudevo di poter ritrovare, per una strana legge di osmosi cosmica che aveva senso solo nella mia testa, il mantello lucido del gatto, la pelle ruvida della rana, le piume sottili del pettirosso.

Il Cancelliere Jaha termina il suo discorso, arroccato davanti al leggio. Il sacco che contiene il corpo di Ellis viene issato nella camera espulsiva e Kane, dopo un lungo sospiro artificiale, da l’avvio ai comandi per la rimozione.
La chiusura ermetica sigilla il cadavere da una parte e noi dall’altra. Il ronzio della nave aumenta. La folla trattiene il fiato, in silenzio.
Il portellone esterno si spalanca ed Ellis Fawn viene risucchiata nel buio dello spazio profondo.

****
27/06/17
Ciao a tutti! 
A presto con il primo capitolo, dove conosciamo meglio la nostra protagonista, Blair.
Curiosi? Spero di sì. SPOILER: se vi piacciono i libri, è probabile che amerete anche lei ;)
A presto,
LRM

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Capitolo 2
*** La bibliotecaria ***


LA BIBLIOTECARIA

Sulla strada verso la biblioteca sono costretta a pestare più di una scarpa per non arrivare in ritardo al lavoro. Nonostante Ellis fosse rimasta senza nessun parente, la sua fama ha raccolto un’affluenza incredibile alla sua espulsione. Pardon, funerale. Funerale.

Sapevo che andarci significava vedere Kane. Era il prezzo da pagare per omaggiare Ellis Fawn e quel che rappresenta. La rabbia che mi accende quell’uomo è una sensazione che non avevo mai provato in diciannove anni di vita.

Approfitto della calca, spingo a destra e a sinistra per farmi largo, per sfogare il nervosismo residuo che ho addosso. Lancio uno sguardo alla parete alla mia destra, dove in alto scorrono le notizie del giorno, l’oroscopo e, ad intervalli regolari, un orologio. Impreco sottovoce.
Faccio lo slalom a testa bassa fino al ponte che congiunge il settore tre con il quattro. La ressa si dissolve e io inizio a correre sul serio, rallentando solo in prossimità dei posti di blocco delle guardie e pregando in cuor mio che non ce ne siano altre a spasso in borghese. 


Raggiungo la biblioteca battendo ogni record di traversata dell’Arca. Ciononostante, trovo Doug sulla porta.
“Signorina, il cambio turno è alle…”
“Lo so, lo so, Doug. Scusami tantissimo. Ti ho fatto fare tardi?”
“Dipende. Quanti posti di blocco attivi hai trovato tra l’anello cinque e noi?”
“Tre.”
Lui trattiene una parolaccia. So che non vuole fare tardi per cena, specialmente il venerdì, quando sua moglie torna presto dalle serre. Si strofina una mano sulla barba sale e pepe, quasi volesse grattarsela via per l’ansia.
Si aggiusta la tracolla sulla spalla e mi stringe il braccio, che è il massimo di contatto fisico che è in grado di scambiarsi con me. Nella sua testa è un gesto d’affetto.

“Scappo. Trovi i miei appunti sulla scrivania e se ti serve qualcosa non ti azzardare a farti viva.”
Dice sempre così, ma poi quando lo chiamo risponde anche all’una di notte.
Lo saluto mentre sta già correndo via lungo il corridoio. 

 
Quando entro nella biblioteca la trovo già vuota. Mi chiudo la porta alle spalle, sigillandola con il Pass che porto legato al collo, il mio passepartout.
Attraverso l’atrio, diretta alla sala principale. Il rumore sommesso delle mie scarpe da ginnastica si riverbera sulle pareti, creando un’eco rassicurante. Raggiungo la scrivania dell’ufficio e lascio cadere il borsone sulla sedia. Abbasso le luci dal pannello centrale.
Adoro dare il cambio a Doug per il turno di notte. Mi spiace anzi di averne a disposizione soltanto uno a settimana. Per il resto mi tocca lavorare di giorno, che è più comodo per i metabolismi normali ma mi costringe ad avere a che fare con le persone.
Di notte invece, dopo l’orario di chiusura, siamo solo io e i libri.
Beh, di libri veri ne abbiamo solo novantasei. Da ieri novantasette, visto che ho trovato una copia di Uomini e topi, un’edizione degli anni ’90, al mercato nero. Costava quanto una settimana di razioni e aveva solo tre capitoli sopravvissuti all’usura, ma ne è valsa la pena. Quando ho intravisto la copertina, anche se era lisa e pericolante, ho trattenuto il respiro come la sera che ho incrociato gli occhi di Ettore.
 
(Ettore non si chiama davvero Ettore, ma siccome non so come si chiama davvero il mio innamorato, l'ho ribattezzato a mio piacimento, nel caso specifico come il mio personaggio preferito dell'Iliade. Sono stata ispirata dal suo travestimento da antico greco o romano: aveva addosso un mix assurdo, un lenzuolo sistemato come toga e delle foglie in testa ma una cetra in mano, doveva essere un po' confuso circa la moda precristiana; ma con quegli occhi, quel sorriso e quelle spalle - soprattutto con quelle spalle - gli avrei perdonato anche i congiuntivi sbagliati, che è il massimo grado di sopportazione che posso concedere, per intenderci. E' rimasto in un angolo per l'intera durata della festa e si è dileguato appena l'allarme ha iniziato a suonare, e comunque non sembrava si stesse godendo il ricevimento in maschera, continuava a tirare la mascella e tenerci d'occhio tutti. Tutti tranne me, che ero nell'angolo opposto della sala, mezza concentrata sul non mangiarmi le unghie mezza concentrata nel non tirare fuori il Pad dove avevo lasciato Hermione Granger a metà di una frase. Non ho mai più rivisto Ettore e dunque il mio cervello ha mantenuto le sue funzionalità di base da allora fino al momento in cui ho trovato Uomini e topi al mercato nero e il mio cuore ha saltato due o tre battiti di fila.)
 
Beh, intendiamoci, ho già letto Uomini e topi sul Pad. Abbiamo l’opera omnia di Steinbeck salvata sul database centrale. Ma non è la stessa cosa. Lo so che i testi sono stati riportati fedelmente e integralmente ma una parte di me fa resistenza. Come se fossi nata sulla Terra, al tempo in cui esistevano le librerie e le fiere dell’editoria e si poteva trovare lavoro in una legatoria. Un sogno. Un altro dei miei sogni.
 
Se Doug mi sentisse. Mi odia quando attacco con il mio filotto sui libri veri.
“Come se Miss Jane Austen non potesse reggere il filtro del digitale, dopo aver sopportato i secoli, la misoginia, l’apocalisse e la zitellaggine!”, sbraita sputacchiando in giro.
“Io non sono una romantica, Doug, sono una precisa. Chiamo libro quello che è un libro.”
“Le. Parole. Sono. Le. Stesse.”,
scandisce, come se stesse spiegando cos’è lo spazio ad un decerebrato.
“Il. Mezzo. Fa. La. Differenza.”,
replico a tono, ogni santa volta.
 
Prima di trovare il coraggio di consegnare Uomini e topi a Doug, avevo trascorso la mattinata a rigirarmelo tra le mani, accarezzarlo, sfogliarlo, toccarlo, sì, come avrei fatto con il gatto di Ellis Fawn, niente meno. 
Doug lo aveva restaurato, per quanto fosse possibile ai nostri mezzi e alle sue competenze. Poi Uomini e topi era finito dietro la teca di vetro, lontano dalle mie mani e da tutti gli agenti esterni che potessero rovinarlo. Aria pressurizzata, pulita col mascloro, temperatura stabile. Mummificato. Un libro che non può essere letto non è un libro. 
Appoggio il palmo sul vetro. Al di là del riflesso del mio viso, la copertina sfilacciata, marrone, resta lì immobile e intonsa, pronta a non invecchiare mai.
Sono le due quando sento suonare il campanello.
 
A meno che Doug non si sia dimenticato qualcosa e sia tanto folle da tornarselo a prendere in piena notte sfidando il coprifuoco, mi viene in mente soltanto un’altra persona che potrebbe cercarmi a quest’ora. E non può essere qui, perché è in galera. Grazie a Kane.
Mi sposto, cercando di mantenere la calma. Metto un piede davanti all’altro come una macchina, stringendo il Pass tra le mani. Ora il rumore dei miei passi che rimbomba nel salone non sembra più tanto rassicurante; non fa che ricordarmi che sono sola.
Raggiungo l’ingresso e insiprando profondamente attivo la videocamera.


****
29/06/17
...e ora iniziano le danze! ;)
A presto,
LRM
 

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Capitolo 3
*** La visita ***


LA VISITA

Il viso di un uomo che non ho mai visto compare sullo schermo.
“Signorina Foer, sono la guardia Shenden. Deve…”
“Numero di controllo, per cortesia.”,
lo interrompo, grata che lui non possa vedermi e sperando non noti la mia voce frammentata.
L’uomo solleva il badge e lo mette davanti alla telecamera, così che io possa leggere il numero di serie riportato sotto il suo nome e la sua foto. Ricopio il numero sul Pad e il match è immediato.
 
Shenden Thomas, 12/03/2101, Guardia scelta - assegnato al settore B, anello quattro
 
“Non è nell’anello giusto, guardia Shenden. Nemmeno nel settore giusto.”
“Signorina, sono in servizio per conto del mio tutelato. Ha letto che sono una guardia scelta?”
“Sì.”
“Significa che sono una scorta.”
“Lo so cosa significa.”
Non è vero, non ne avevo idea. Avevo dato per scontato si trattasse semplicemente di un qualche grado dell’arma. 
“Signorina, capisco che è notte e che possa farle paura aprire la porta ad uno sconosciuto. Apprezzo anzi la sua cautela, se fossero tutti come lei sull’Arca non ci sarebbe neanche bisogno di sorveglianza.”
Non sta sorridendo, ma fa del suo meglio. Guarda dritto verso l’obiettivo.
“Le chiedo cortesemente di concederci l’accesso alla biblioteca, il mio tutelato desidera parlare con lei.”
“Chi è il suo tutelato?”
Thomas Shenden si gira, rivolgendosi a qualcuno fuori dal campo della telecamera. Sento il cuore battermi fin sotto al collo, contro la mascella, nelle tempie. Vorrei tanto che Doug fosse qui con me. Voglio un adulto che possa prendere in mano la situazione al posto mio.
Shenden esce dall’inquadratura. D’istino allungo il collo, come se potessi seguire la sua fuga con gli occhi. Lo schermo resta vuoto per qualche secondo.
Forse sto per svenire, di sicuro sto per vomitare.
Poi un uomo diverso compare al centro del rettangolo azzurro della videocamera.
Il Cancellire Jaha solleva lo sguardo e dice: “Signorina, posso entrare?”
 
Devo strisciare il Pass tre volte prima di riuscire a farlo come si deve.
Entrano in cinque. Shenden e un'altra guardia restano fuori dalla porta, che il Cancelliere mi chiede di sigillare alle loro spalle. 
Il Cancelliere Jaha è nella mia bilioteca alle tre di notte di un venerdì. Una cosa normalissima. Durante questa cosa normalissima io indosso una tuta blu intera da operaio del 1970, il look meno adeguato di sempre. Senza tener conto dell'enorme cipolla sfilacciata in cui mi sono raccolta i capelli in cima alla testa. Sembro una granata con la sicura da disinnescare. 
Jaha non mi toglie gli occhi di dosso, peggiorando il mio imbarazzo. Mi osserva con il uno sguardo morbido e caldo, da genitore, e con un gesto appenna accennato del capo congeda la scorta e invita me a seguirlo.

Ci spostiamo dall’ingresso verso il salone principale mentre le guardie restano indietro. Lui cammina con le mani dietro la schiena, enormi mani bellissime dietro una enorme schiena bellissima.

Non mi ero mai resa conto di quanto fosse alto. Non l’ho mai visto così da vicino. Non l’ho visto spesso dal vivo in generale, diciamo. Stamattina, all'espulsione di Ellis Fawn era un puntolino lontano in mezzo alla folla. Il suo mezzo busto ingombra gli schermi a scorrimento dell’Arca quasi ogni giorno. Ma ora è a trenta molto reali centimetri da me.
“Signorina Foer.”, mi chiama. Non che non lo stessi già fissando, comunque.
“Mi dispiace per questa intrusione. È per ragioni di sicurezza che non mi è stato possibile avvisarla con un anticipo adeguato.”
"Non avrei comunque saputo come prepararmi a... questo.", dico, mentre cerco di non inciampare sui miei stessi piedi trotterellandogli accanto. Sto ancora cercando di riavermi dalla sorpresa.
Non abbiamo tante celebrità sull’Arca, non sono addestrata a reagire ad un incontro del genere. Sto pensando a come raccontarlo a Doug e quanto vorrei poterlo raccontare al mio unico vero amico.

Jaha si ferma, io faccio un passo di troppo. Torno indietro, con zero disinvoltura.
“Accomodiamoci.”, dice lui, dirigendosi verso un ridicolo sgabellino verde acido. Si sistema, non prima di aver avvicinato un’altra seggiola per me. Lui è come se fosse comunque seduto su un trono; io non mi ricordo come si mettono le gambe quando si sta seduti.
“Le è piaciuto Anthony Burgess?” è la prima cosa che mi scappa di bocca.
Il Cancelliere fa comparire delle rughe intorno alle labbra. La sua pelle scura luccica.
Sta sorridendo, sta sorridendo per davvero. Annuisce, mentre lo fa.
E quando finalmente risponde, la sua voce morbida mi risuona nelle ossa.

“Sì, ho apprezzato molto il suo regalo, signorina.”
“Non era il mio regalo, era da parte dello staff della biblioteca.”
“Ma l’ha scelto lei.”,
dichiara, come se l’avesse sempre saputo. Scuote la testa, divertito.
“Il professor Lehman mi ha inviato uno dei vostri libri ogni anno per il mio compleanno, da quando sono in carica. Decisamente Arancia meccanica non era nel suo stile.”
Sta continuando a sorridermi e ammetto che riesce nell’intento di farmi sentire un po’ più a mio agio. Ne approfitto per rispondere al sorriso.
“Mi faccia indovinare. Enciclopedie storico-politiche in formato digitale?”
Jaha annuisce, assottigliando gli occhi di ossidiana.
“E invece per i miei quarantasette anni mi ritrovo tra le mani un romanzo. E un libro vero, oltretutto.”
Ho capito male o il Cancelliere - il Cancelliere, la massima carica politica dell'Arca - appoggia le mie psicosi?
Peccato che non possa rinfracciarlo a Doug senza tradirmi. Se scopre che manca una delle copie di Burgess dalla teca mi ammazza a badilate.
Tossicchio e assumo la faccia più intelligente che riesco a fare.
“Lo staff della biblioteca conta due persone, signorina Foer. E il giorno dopo ho comunque ricevuto per via telematica gli omaggi della biblioteca allegati a Ascesi e declino dell’Impero nipponico. Non è stato così complicato capire chi era la mente dietro il suo scherzo…”
Mi rabbuio, stizzita. 
“Non era uno scherzo. Arancia meccanica è un capolavoro e penso che un uomo di potere possa trarne particolare profitto.”
Appena chiudo la bocca mi si chiude anche lo stomaco. 
Non posso fare la snob del cazzo con il Cancelliere. Voglio farmi lanciare nel vuoto perché ho letto due libri e mi credo un'intellettuale?
Dopo un infinito momento di pausa i denti bianchi dell’uomo brillano a contrasto sulla pelle nera.
“L’ho pensato anch’io.”,
replica, con tutta la galanteria di Lancillotto e il signor Darcy e Ashley Wilkes messi insieme. Ignora la mia reazione e non mi fa passare per quella che sono, una ragazzina montata. 

Come se non bastasse in pratica lui è il mio capo. Cioè, è lui che decide quanti fondi stanziare alla biblioteca e da quei quattro spiccioli Doug trae, tra le altre cose, anche il mio stipendio. Che è una micragna oltraggiosa, che spendo quasi tutta per spedire cose in galera.

Jaha mi riporta al presente. Si sporge verso di me, appoggiando i gomiti sulle ginocchia come ho fatto io, intrecciando le dita sotto il mento, lentamente. Sto finalmente per tornare a respirare quando è lui a togliermi di nuovo il fiato.
“In che rapporti è con John Murphy?”


****

01/07/17
Rubo un secondo per ringraziare Pixel per la cura che ci mette a seguire questa storia - e per i consigli che mi da. Questa è la prima volta che scrivo una fanfiction, perciò sa che mi serve tutto l'aiuto possibile per cavarmela! Grazie a lei (e ai lettori silenziosi).
A presto!,
LRM

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Capitolo 4
*** La proposta ***


LA PROPOSTA

Il cambio di argomento mi coglie alla sprovvista. 
“John Murphy?”,
chiedo, nel tentativo di strappare qualche secondo, secondi che vorrei sfruttare per pensare, non fosse che ho il cervello fuori uso. Jaha mi mette troppo in soggezione, specie adesso che mi scruta senza dire una parola. Fa solo sì con la testa, una volta.
“Conosco John Murphy.”, rispondo, cauta.
“E in che rapporti è con il signor Murphy?”, ripete lui, senza mostrare il minimo accenno di frustrazione, anche se lo sa, lo sa bene che sto tergiversando. Ho la sensazione che sia una di quelle domande che si fanno quando già si conosce la risposta.
Mi serve tutta la forza di cui dispongo per non portarmi la mano alla bocca e masticarmi le unghie fino a farle sanguinare.
La sensazione di panico in cui sto precipitando è la stessa che mi assale durante le perlustrazioni a sorpresa nel lotto o i controlli ai posti di blocco a ridosso del coprifuoco. Non ho nulla da nascondere e dunque nulla da temere eppure mi irrigidisco ogni volta e ogni volta la mia testa riepiloga la lista dei motivi per cui potrebbero accusarmi di alto tradimento e condannarmi a morte.
Deglutisco, per poi schiarirmi la voce.
“Il padre di Jonh Murphy e il mio sono amici da molto tempo. Viviamo nello stesso complesso. Ci frequentiamo grazie alle nostre famiglie.”
Ho recitato tutto al presente, anche se nessuna delle cose che ho detto è più vera. Il padre di John è morto e lui non è più a sei lotti di distanza da me. È in galera, in isolamento. Kane l’ha messo in galera. Kane ha giustiziato suo padre. Sto digrignando i denti.
Jaha assume un’espressione nuova, abbassandosi ancora un po’ in mio favore.
“Sono addolorato per il vostro lutto.”,
dice, compassato.

Voglio credergli, mi piace pensare che si senta sinceramente in colpa per il sistema di terrore che supporta.
Ma Kane ha giustiziano James e condannato John, e Jaha ha sempre avuto il potere di veto. Avrebbe potuto fermarlo. C’erano tutti gli estremi per un’assoluzione. La gente avrebbe capito. Di più, la gente avrebbe 
apprezzato.
E invece Kane e i suoi erano così preoccupati di creare un precedente, un crimine impunito che avrebbe incendiato le masse, che hanno preferito uccidere due innocenti.

No, un innocente, un solo innocente, perché Jonh è ancora vivo, mi dico. John è ancora vivo e legge i libri digitali che gli mandi, mangia la frutta che gli compri, si scalda nei maglioni che sgraffigni in giro e spedisci a suo nome all’anello sei.
 
Mio padre non si rende ancora conto della perdita. James Murphy è come un arto fantasma per lui.
Alcune persone senza più un braccio sentono per tutta la vita il braccio amputato prudergli, arrivano a sollevare l’altra mano d’istinto per grattarsi.
Allo stesso modo mio padre continua a digitare il numero del lotto di James dopo cena sul Pad e a comprare gli asparagi il sabato, la sera che, in un mondo in cui Kane non è al potere, è la sera che avremmo passato a mangiare tutti insieme. Gli asparagi piacevano solo a James, perciò ora avanzano, restano intoccati sul loro ripiano del frigo finché non marciscono e mia madre trova il coraggio di buttarli di nascosto da mio padre. Non lo sgrida mai per quella spesa assurda e inutile, nonostante le verdure costino uno sproposito e noi dobbiamo stare più che attenti al bilancio di casa.

 
Jaha sta ancora aspettando che io dica qualcosa.
Quando finalmente lo faccio, dico la cosa sbagliata, che è anche la cosa più vera che possa confessargli:

“Non vi perdoneremo mai.”
Allora tra di noi scorre un intero minuto, che passo a cercare un modo di non guardarlo negli occhi.
Poi Jaha solleva la fronte.

“Ho bisogno del lavoro di un bibliotecario.”

Scuoto la testa, confusa. Questa conversazione va troppo veloce per me.
“Che lavoro?”
“Un lavoro particolare, signorina.”
“Che lavoro?”
“Prima di spiegarglielo con precisione, devo farle firmare dei documenti.”
“Documenti di riservatezza?”
“Sì. Se viola il segreto...”
“Se violo la legge so cosa succede. Per cosa dovrei rischiare la vita? Che lavoro?"
“Non posso spiegarle nulla, se prima non ho la certezza che sarà riservata.”
Inspiro più profondamente che posso, con la netta sensazione che i miei polmoni si siano ristretti nell’ultima mezz’ora.
Intravedo uno spiraglio e mi ci fiondo:

“Perché io e non Doug? È lui il vero bibliotecario, è lui il professore. Io sono un’allieva.”
Jaha è così serio che potrei contare le rughe della sua fronte.
“Il professor Lehman non risponde ad alcuni requisiti.”,
replica, piatto. A me quasi viene da ridere.
“Siccome faccio fatica a credere che io abbia qualcosa che manca al professor Lehman, può per cortesia…”
A quel punto, finalmente, il mio cervello fa contatto e io capisco.
Mi alzo in piedi, perché devo fare qualcosa e non posso fare quello che vorrei davvero fare, cioè prendere a pugni il Cancelliere.
Jaha mi segue con gli occhi, immobile.
“Doug non ha John Murphy in galera.”, scandisco, ad alta voce. La biblioteca amplifica le mie parole, più di quanto vorrei. È probabile che le guardie mi abbiano sentita. Forse è solo la mia suggestione, ma mi sembra di percepire il suono dei caricatori immessi nelle pistole.
Sto tremando. Non mi è chiaro se di rabbia, di dolore o di paura, certo è che il mio corpo è scosso dai brividi.

“Non le basta che firmi la mia condanna a morte, accettando gli accordi di riservatezza? Le serve che io sia ricattabile?”
Sto sputanto le sillabe una per una. 
Jaha si alza, costringendomi a sollevare il mento per poterlo continuare a guardare in faccia. Dio, è davvero alto.
“Il mio non è un ricatto, signorina. È un lavoro stipendiato dal Governo.”
I suoi occhi non hanno mai smesso di guardarmi con dolcezza, nemmeno di fronte al mio scatto. 
“Io ho bisogno di un bibliotecario. I candidati siete lei e il professor Lehman. Il professor Lehman è più esperto ma sì, signorina Foer, meno ricattabile. Meno controllabile."
Incasso il colpo. Il cuore corre, forsennato. Mi porto d’istinto la mano al petto per trattenerlo, per non farmelo scappare dalla cassa toracica. Jaha prosegue: 
"Le persone sono disposte a sacrificare loro stesse per un’idea ma non sacrificherebbero chi amano per la stessa idea. L'ho imparato a mie spese, a spese di tutti noi, in passato. E per me, in questo caso più che mai, la segretezza è più importante di un lavoro ben fatto.”
Cerco di rallentare il ritmo del respiro, così che anche il cuore si calmi.
L’ultima volta che ho avuto un attacco di panico eravamo in mezzo alla folla inferocita: mi trovavo nel bel mezzo della manifestazione contro Kane che è seguita all’espulsione di James. Era stata Clarke a salvarmi.
Clarke Griffin, un’altra orfana di Stato. Ma anche lei ora è in prigione. Sono sola.

 
Dio, se solo John fosse qui. Lui se ne uscirebbe con qualcosa del tutto fuori luogo, di assurdamente spavaldo e stupido, arrogante e idiota, e saprebbe che cosa fare di fronte a quest’uomo così alto, saldo e adulto, mentre io mai nella vita mi sono sentita più inutile di così. Nemmeno quando mi hanno strappato John dalle mani per portarlo via in isolamento, un John ancora febricitante e fragile, lasciandomi spezzata a battere i pugni contro una parete sigillata.
 
Siccome rischio di mettermi a piangere, mi affretto a parlare:
“Come faceva a sapere tutte queste cose su di me?”
Finalmente anche Jaha da qualche segno di cedimento. Abbandona le spalle, abbassa la fronte.
Si prende il suo momento di smarrimento per poi tornare a fissarmi con rinnovata energia.
Sotto i suoi occhi meravigliosi e terribili sono consapevole ora più che mai della mia giovinezza. Mi chiama.
“Signorina Foer…”
“E se mi rifiutassi?”,
sbotto, di getto. 
Porto il mento più in alto e le mani sui fianchi. Se mollo la presa, sento le mani tremare. Devo portare questa recita fino in fondo. Deve credermi capace di oppormi.
“Se mi rifiutassi. Se decidessi di non firmare, non saperne niente e non fare il lavoro che vuole da me. Potrei farlo?”
Lui mi valuta. Traccia un solco con lo sguardo che va dalle mie scarpe ai miei occhi. 
“Certo che può rifiutarsi.”, sillaba.
E dopo quelli che mi sembrano diecimila anni, Jaha sorride. 
Sorride il sorriso di chi sta per portarsi a casa la partita.

“Ma perché perdere l’occasione di salvare la vita al signor Murphy?”

****

02/07/17
Nel prossimo capitolo, "La preferita", approfondiamo il rapporto tra Blair e John... Spero vi piacerà :)
A presto!,
LRM
 

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Capitolo 5
*** La preferita ***


LA PREFERITA
 
Quando Doug mi da il cambio la mattina seguente mi trova pallida come un guscio svuotato.
Sto per crollargli addosso, cerco di puntellarmi sulla parete al mio fianco.
“Ehi, Blair. Tutto bene?”
Muovo la testa, sperando sia il movimento giusto per dire sì.
“Ti sei ammalata?”
Mugolo.
“Forse, un po’…”
“Hai la febbre?”
Dimenticavo che Doug è un po’ ipocondriaco. Mi affretto a rassicurarlo. Ma senza toccarlo.
“No, no, per niente. Sono solo stanca.”
Mi scruta accigliato. Non sono riuscita a convincerlo.
“Beh, ora vai a casa a riposarti. Ok?”
Mi isso il borsone sulla schiena ed esco dalla biblioteca. Faccio ciao ciao con la mano a Doug allontanandomi, anche se lui non dismette il suo grugno allarmato. Svolto l’angolo conscia di avere ancora i suoi occhi puntati sulle spalle.
 
Stanotte è stato surreale. È l’unica parola che posso usare per descrivere le ultime sei ore della mia esistenza. Surreali.

Dopo il mio infelice tentativo di svicolare alla proposta di Jaha, lui mi aveva spiegato che in cambio per il lavoro svolto avrei ottenuto la libertà per John. John sarebbe tornato a casa, nel suo lotto senza padre, con la fedina penale linda e scintillante. Avrebbe evitato l’espulsione, inevitabile al compimento dei diciotto anni. L’avrei rivisto. Meraviglioso.
 
Non fosse che il lavoro non sapevo ancora in cosa consistesse – e vista la reticenza del Cancelliere iniziavo a sospettare implicasse tortura e omicidio e mi sfuggiva l’indispensabilità di un bibliotecario nella tortura e nell’omicidio – e che avevo appena firmato venti pagine di contratto che servivano a ricordarmi che se avessi spifferato anche solo una virgola, sarei finita a fare compagnia ad Ellis Fawn, per sempre insieme a volteggiare nel nulla cosmico. In questo senso, non avere ancora niente da spifferare mi aiutava parecchio.
Avevo firmato senza pensare, perché sapevo che se mi fossi messa a pensare non avrei firmato.
Mi ero focalizzata su John, sulla sua brutta faccia storta che mi prendeva sempre in giro con mezza bocca piegata in uno sberleffo, che era il suo modo di sorridermi. Lo faceva col collo inclinato da una parte e il mento in su, dondolandosi.
La mia penna si era mossa sull’accordo di riservatezza in uno scarabocchio da disgrafica, perché la mano mi traballava al punto da non trovare la linea dritta che avrei dovuto percorrere.
 
Nella sbornia che sale dopo una notte in bianco, camminando verso casa, mi torna in mente una delle mie ultime serate passate con lui, prima che si ammalasse, prima che suo padre fosse colto in flagrante, prima che lui cercasse di salvarlo e si consegnasse nelle mani delle guardie.
Avevamo bevuto del vino sgraffignato dal nostro spacciatore di fiducia, un ragazzino con gli occhi a mandorla e la faccia da bravo bambino che di giorno fa l'ingegnere e di notte arrotonda rifornendo i suoi clienti dall’erba agli alcolici ai contraccettivi. Avevamo guardato la televisione nel mio lotto, e poi eravamo usciti a fare gli ubriachi molesti in giro per l’Arca. Nulla di speciale, ma assolutamente straordinario allo stesso tempo. Come John.
 
John è unico, unico nel suo genere, unico in tutti i generi a dirla tutta. Ha un non so che di sbruffone che mescolato ai suoi occhioni buoni gli regala una luce tutta particolare. Non ridevo mai così tanto come quando eravamo insieme, soprattutto quando entrava nella sua modalità Vi odio tutti e ci tengo a farvelo sapere, la sua versione in bianco e nero, di rara antipatia. Ma per me restava comunque casa mia, la mia sarcastica casa.
Lui è meglio di un libro vero e di tutte le biblioteche e le belle parole mai scritte. Per lui farei quello che nei romanzi le persone sono disposte a fare per i loro fratelli. E infatti sono nei guai.
 
Sull’Arca nessuno aveva più fratelli da molto tempo. Già dalla prima generazione nata in orbita la legge si era imposta per impedire alle coppie di generare più di un figlio. La politica del figlio unico prevedeva la pena capitale in caso di trasgressione, come quasi ormai tutte le nostre leggi, se venivano infrante.
Le restrizioni erano andate inasprendosi, soprattutto negli ultimi dieci anni. Ricordo un clima diverso quando eravamo bambini. Non c’era nemmeno il coprifuoco. Io e John bighellonavamo senza pensieri e senza sorveglianza per l’anello la gente dormiva serena con la porta di casa aperta. Il numero delle guardie era molto più ridotto e le guardie stesse erano più dei vigilanti che dei militari. Ora giravano con un fucile sulla spalla ed erano pronti a metterti le manette ai polsi al minimo pretesto.
 
C’erano delle teorie, circa l’aumento esponenziale delle espulsioni degli ultimi anni. Cercavo di non ascoltarle, perlomeno di non lasciare che insidiassero semi nel mio cervello già di per sé votato alla paranoia.
John, quando ancora eravamo felici, alle teorie cospirazioniste reagiva a modo suo:
“Se proprio Jaha e Kane vogliono espellerci uno alla volta, posso almeno sperare di restare per ultimo insieme a Catherine Boole.”
“Catherine Boole?”
“Ha detto che me la darebbe solo se fossi l’ultimo uomo rimasto sull’Arca.”
Gli occhi verdi azzurri luccicano, come ogni volta che riesce a farmi ridere.
“E quindi se dovessi restare con soltanto un’altra persona sull’Arca, non sarei io?”, chiedo, finta ingenua, mettendo il broncio. Lui non fa una piega.
“No. Catherine Boole.”
Poi fa un gesto esplicito con le mani, mimando delle tette enormi. Schiva il mio schiaffo sollevando il gomito e la mano mi si schianta sul suo braccio invece che sul viso. Mi neutralizza passandomi il braccio intorno al collo, concedendosi di darmi un bacio sulla tempia nascosta dai capelli, un bacio brusco e schioccante, prima di liberarsi in tutta fretta. John assomiglia a Doug in quanto a gesti d’affetto. È il bambino che per farti capire che gli piaci ti tira le trecce. Il bacio che gli do io di rimando invece è morbido e plateale, e gli scalda la pelle della guancia per più tempo di quanto lui possa sopportare. Restiamo affacciati al ponte panoramico a parlare di niente, quando ancora potevamo godere di quel lusso, soprattutto del lusso di non considerarlo tale.
Non posso credere che questo stesso ragazzo sia rinchiuso in isolamento, come un pericoloso criminale. Come se John fosse capace di fare del male a qualcuno. A parte che con le parole.
 
Rientro nel mio lotto e lo trovo vuoto. I miei genitori sono al lavoro. Mia madre si occupa delle pulizie nella stessa scuola dove la mamma di John fa la maestra. Mio padre è l’assistente di un ingegnere che si occupa degli impianti di aerazione.
La superficie lucida degli sportelli della cucina rimanda un’immagine terrificante. Ho due solchi neri sotto gli occhi, i capelli crespi, la pelle ingrigita. Questo è l’effetto che fa firmare un assegno in bianco per la cauzione del tuo migliore amico, quando sull’assegno c’è scritto Se sbagli, uno dei due muore.
Io che non giocavo a palla prigioniera in palestra con gli altri ragazzi perché la tensione mi destabilizza! Vado in crisi per decidere che penna usare per prendere appunti al lavoro. Chiedo ancora a mio padre di aprirmi i barattoli e a mia madre di fare i calcoli a mente al posto mio.
Mi chiedo come posso pensare di esserne capace, anche solo di mantenere la bocca chiusa e non potermi affidare a nessuno. Mi hanno messo tra le mani la vita del ragazzo migliore che conosco, della mia…
 
“Sei la mia persona preferita.”, mi diceva una volta all’anno, all’orecchio, il giorno del mio compleanno. I restanti 364 giorni ero io a dirlo a lui, a voce alta, possibilmente in mezzo alla folla. Lo faccio ancora, rivolgendomi al muro e immaginandomi la sua smorfia, tutte le sere prima di andare a dormire. Mi chiedo se il primo marzo l’abbia fatto anche lui per me, che non abbia interrotto la tradizione, perché anche se io non posso ascoltarlo non vuol dire che non possa sentirlo.
Uso gli ultimi residui del credito sul Pad per farmi la doccia bollente più lunga possibile. 


****

05/07/17
DAL PROSSIMO CAPITOLO
[...]
“Sì?”
Raschia tutte le parole con una voce cupa, più adulta di lui. Come se usasse solo la pancia e la gola per respirare, non è una voce argentina, polmonare, è profonda e densa. Mi colpisce questo particolare, è come se si adattasse a fatica sul suo viso sbarbato.
Per contrasto, immagino che la mia richiesta suonerà doppiamente infantile:
“Resterebbe? Per favore?”
[...]

A presto!, e fatemi sapere cosa ne pensate, mi fa piacere quando scrivete (anche in privato: l'importante non è la recensione, ma la vostra opinione).
LRM

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Capitolo 6
*** La consegna ***


LA CONSEGNA

Dormo per dieci ore filate.
Quando mi sveglio, per qualche secondo resto nel limbo dell’illusione che si sia trattato di un incubo.
Non soltanto l’apparizione del Cancelliere Jaha durante il mio turno di notte in biblioteca, no. Tutto. John non si è mai ammalato, suo padre non ha mai tentato di rubare nulla, il suo corpo ora si trova accanto a quello della moglie, nel loro letto a sei lotti di distanza dal mio, al caldo, amato, vivo. John suonerà al mio campanello e dirà qualcosa di esasperante a mio padre che invece di infastidirsi si metterà a ridere. Come me. Su noi due John ha lo stesso effetto.
Poi la realtà mi prende a sberle.
Non sento mio padre ridere dall’altra stanza, non sento mia madre cucinare per sei persone. Sento il vociare della tv e i rumori sottili di due persone sedute su un divano a distrarsi con quel che hanno a disposizione.
Mi sollevo, senza aver chiaro il perché lo stia facendo. Li raggiungo, mi siedo in mezzo a loro. Fissiamo lo schermo senza vederlo per due ore, durante le quali facciamo qualche commento a mezza bocca a cui gli altri due rispondono per cortesia.
Quando è ora di andare a dormire, andiamo a dormire.
 
Il giorno dopo Doug mi informa che per ordini superiori i nostri orari sono stati ridefiniti e guarda caso a me toccano tutti i turni di notte. Non faccio nessun commento.
Doug sorride:
“Non sei felice? Dicevi sempre di adorare il turno di notte!”
Mi sforzo di tenere in piedi la farsa.
Dico soltanto che mi sorprende che il Governo si impicci degli orari dei dipendenti di una biblioteca. Lo dico prima di rendermi conto che non è una buona idea sollevare sospetti ragionevoli.
Scanso la mia stessa gaffe, riportando Doug al problema principale: due dipendenti sono troppo pochi per coprire tutti i turni che servono per tenere aperta la baracca.
Poi cambio di nuovo direzione e batto le mani, forse con troppa energia.
“Sono molto felice. Si comincia da stasera?”
 
Il Cancelliere mi ha inviato un suo sicario.
Non so perché, ma mi ero immaginata sarebbe tornato Shenden. Invece nella videocamera distinguo un viso diverso, che oltretutto mi è familiare. Forse faceva anche lui parte della scorta di Jaha? Le guardie sono davvero tutte uguali.
Apro senza nemmeno chiedergli il codice.
Entra un ragazzo piuttosto giovane, comunque più grande di me. Anche più alto di me, parecchio. Mi chiedo da quale anello provenga, da quale settore. Ho davvero la sensazione di averlo già incontrato. La penombra non aiuta.
Mi ha portato una cassetta d'argento, che appoggia in terra ai miei piedi. Gli chiedo se può farmi la cortesia di portarla nell’altra sala, dato che mi sembra pesante. Lui non fa una piega, prende la cassetta e mi segue fuori dall’ingresso.
Attraversiamo il salone. Alle mie spalle, appena varchiamo la soglia dell’ufficio, lo sento rallentare. Quando mi volto, lo trovo a bocca aperta e con la testa per aria.
Mi dimentico dell’effetto che può fare la nostra collezione sotto vetro a chi non è abituato a vedere libri veri.
Lui si accorge del mio sguardo e si affretta a ricomporsi. Cerco di non sorridere troppo, non vorrei che un uomo provvisto di pistola pensasse che lo sto prendendo in giro.
Posa la cassetta metallica sulla scrivania di Doug e poi resta in piedi, in attesa che io faccia qualcosa.
“Che cos’è?”
“Non lo so.”
Non so perché ma mi aspettavo avrebbe parlato con un qualche accento. Invece ha la mia stessa inflessione cantilenata, come tutti quelli che vengono dal settore quattro. Sì, penso, devo averlo incrociato qualche volta mentre passeggiavo con John tra i complessi vicino a casa.
“Ha delle istruzioni da darmi?”, gli chiedo, fredda e concreta, professionale, cercando di sembrare una che almeno una vaga idea di cosa sta succedendo.
Lui scuote la testa.
“No, mi spiace. Ho l’ordine di rientrare immediatamente dopo la consegna.”
Nella luce soffusa della biblioteca mi era sembrato a una prima occhiata che avesse il viso sporco. Solo ora mi rendo conto che sono lentiggini.
 
Mi porge una chiave smaltata di nero, larga un pollice. Poi fa un cenno, quasi un inchino. Lo ringrazio.
“Le apro la porta da qui.”, dico, indicando il pannello centrale.
Si tocca la visiera del cappello e fa per allontanarsi.
Lo richiamo. Lo richiamo con un ehi, visto che io non so il suo nome.
In tre passi è già tornato indietro.
“Sì?”
Raschia le parole con una voce cupa, più adulta di lui. Come se usasse solo la pancia e la gola per respirare, non è una voce argentina, polmonare, è profonda e densa. Mi colpisce questo particolare, è come se si adattasse a fatica sul suo viso sbarbato.
Per contrasto, immagino che la mia richiesta suonerà doppiamente infantile:
“Resterebbe? Per favore?”
 
Il ragazzo mi fissa in silenzio per qualche secondo, soppesando la domanda. Ha sottili occhi scuri dalle ciglia corte, inespressivi. Il labbro superiore si piega in un piccolo dosso, al centro. Non riesco ad immaginarmelo sorridere. Riesco ad immaginarmi come sarebbe mordergli quel piccolo dosso, quello sì.
Anche solo guardarlo mi è bastato per restare calma e appena ha messo un piede fuori dall'ufficio il cuore ha ricominciato a correre. Non è un bel visino quel che mi serve, sono spalle larghe e braccia enormi e schiena dritta. Qualcosa che mi dia l'illusione poter fare affidamento a della forza, anche se non è mia. Perciò l’ho richiamato, perciò vorrei convincerlo.
“Lei può anche aspettare nella saletta dell’ingresso, se non deve… Se non vuole… Cioè, non vorrei… Mi scusi, non voglio metterla nei guai, e non vorrei chiederle di disobbedire ad un ordine preciso ma…”
“Rimango.”
Fa di nuovo quel cenno con la testa.
È proprio un militare e basta.
“Mi trova di là.”,
dice, e se ne va. Ascolto i suoi passi farsi sempre più distanti, fino a fermarsi. Silenzio.
Inspiro, rischiando di strozzarmi con l’aria.
 
Fino a sei mesi fa la mia vita era di una noia soporifera e la amavo moltissimo.
Ora mi trovo da sola con un soldato armato e addestrato, di notte, ad aprire una cassetta di sicurezza inviata dal Governo che mi assolda per fare un lavoro da servizi segreti in cambio della vita del mio migliore amico.
Ah, dimenticavo. Se faccio qualche cazzata, muoriamo tutti.
Infilo la chiave nella serratura, la faccio scattare e sollevo il coperchio; lo appoggio sul tavolo e mi sporgo sulla cassetta. 

****

09/07/17
Penso che abbiate riconosciuto chi sia la guardia in questione ;)
A presto!, e prima di scappare, come sempre un super grazie a Pixel, che è ufficialmente il mio Obi Wan delle fanfiction - e io, giovane Padawan, con ancora un sacco da imparare...
Infatti, tra i dubbi che sto avendo questi giorni mentre viaggio per EFP e leggo e recensisco: come si inseriscono le immagini nei capitoli?
Grazie a chi avrà buon cuore di scrivermi (anche in privato, ovviamente)!
LRM

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Capitolo 7
*** I Consiglieri ***


I CONSIGLIERI

Schede di memoria.
Un mucchio ben ordinato di schede di memoria di un centrimetro per un centimetro, d’argento, luccicano sotto le lampade del soffitto. Sembrano gioielli, invece sono l’equivalente di un disco esterno per computer, solo molto in piccolo. È un device che non si utilizza più, essendo l’Arca completamente interconnessa. Qualche ragazzina se lo compra per tenerci il diario personale e portarselo al collo. Per un po’ di tempo sono andate di moda come accessorio. Beh, non nel mio settore.
Cerco di fare una stima del numero, saranno un centinaio...
Ho il tempo di chiedermi cosa caspita Jaha si aspetta che io ci faccia, quando il campanello suona di nuovo.
 
Mi precipito all’ingresso, dove trovo la guardia con la pistola già in mano. La tiene puntata verso terra, a braccia tese. Ci guardiamo. Mi porto un dito alle labbra, facendogli segno di tacere.
Merda, se lo faccio beccare e lo condannano a morte per colpa mia è davvero la volta buona che perdo la testa. No, non possono vederlo.
Lui è in allerta e perfettamente sotto controllo allo stesso tempo. Indica la porta sollevando il mento e tiene gli occhi sui miei finché non mi decido a muovermi.
Mi avvicino alla telecamera e la accendo. L’immagine è disturbata, riesco a vedere solo il profilo di un uomo e di una donna. La presenza della donna mi tranquillizza.
“Bibl… Mmh, biblioteca?”
La guardia si sposta, rapida, e in un attimo mi è accanto. Non mi guarda e non mi tocca ma è come se avesse messo tutto il peso sul piatto giusto della bilancia, compensando la mia paura. Mi schiarisco la voce e ripeto con voce più salda:
“Biblioteca, parla Blair Foer.”
“Signorina Foer, sono il Consigliere Kane.”
Interrogo con gli occhi il ragazzo al mio fianco e lui scuote la testa. Non aveva idea che sarebbe venuto anche Kane. Di fronte al mio panico, lui inspira profondamente, chiudendo per un momento gli occhi: mi sta invitando a fare altrettanto. Obbedisco, recuperando ossigeno e lucidità.
“Buonasera, Consigliere. In cosa posso esserle utile?”
“Vengo per conto del Cancelliere.”
Scambio un altro sguardo con il ragazzo, d'istinto continuo a voltarmi verso di lui. Mi sembra di riuscire a leggergli scritte in faccia le parole Stai attenta. Di nuovo, faccio ciò che mi dice. 
“Posso vedere il suo codice di identificazione?”
L’immagine nel frattempo si è schiarita.
La donna è scomparsa. Mi chiedo se non me la sia soltanto immaginata.
Cazzo, è proprio Kane. Sta lì davanti alla porta della mia biblioteca, con la sua giacca grigia militaresca e il fermacuore placcato d’oro con il simbolo del Governo. Mascella rasata, capelli neri, occhi dello stesso colore.
Questo è l’uomo che ha ucciso James Murhpy e che ucciderà anche John. A meno che io non riesca a soddisfare Jaha e a salvarlo, certo. Peccato che al momento mi senta l’equivalente di un rifiuto di scarico.
Sento la guardia accostarsi ancora di più su me, sporgendosi sullo schermo con cautela. Sappiamo di non poter essere visti da chi sta dall’altra parte, ma l’ansia fa fare cose strane.
Kane porge il suo badge a favore di telecamera. Non riesco a distinguere le lettere e i numeri, tanto sono agitata. Il respiro mi si accorcia. Oh, Clarke Griffin, dove sei quando mi servi? Ah giusto, in galera. Sempre grazie a quest’uomo.
“Grazie, Consigliere. Ha una delega del Cancelliere da mostrarmi?”
Kane si sta spazientendo. Trattiene la risposta che vorrebbe darmi e ripiega sul formale:
“No, singorina Foer. Ma apprezzo la sua competenza in materia di sicurezza dell’Arca.”
Fa una smorfia. Immagino cercasse di sorridermi.
La guardia mi tocca la spalla con la sua e con un solo movimento degli occhi mi intima di... di… Cosa? Cosa devo fare?
Ho la netta sensazione di parlare senza dover aprire bocca e di ricevere risposta allo stesso modo.
Cosa devo fare?
Stai calma.
Cosa devo fare?
Un passo alla volta. Ce la fai.
No, aspetta…
Andrà tutto bene.
Con un’ultima occhiata si assicura che io abbia capito e poi mi lascia. Lo guardo allontanarsi verso la sala centrale alla ricerca di un nascondiglio e non desidero altro che afferrarlo per la giacca e trattenerlo. È veloce, silenzioso. Svanisce nel nulla in un battito di ciglia. Ho solo il tempo di pensare a quanto sia stata sciocca a definire inespressivi i suoi occhi e di scacciare quel pensiero fuori contesto prima di tornare da Kane, con ancora meno fiato in corpo. Decido che non posso affrontare questa battaglia, che la guardia ha torto, che non posso farcela.
“Consigliere, io non ho il permesso di…”
“Vengo per spiegarle delle cento memorie.”
Mi blocco.
Cazzo. Merda. Oh cazzo, oh merda. Non ditemi che dovrò lavorare con Kane per salvare John. Quanto crudele può essere il destino? Instintivamente, allungo una mano alla mia sinistra, alla ricerca del ragazzo. Che non c’è. Muovo la mano nel vuoto, cercando di deglutire. Non ho più saliva. Dove sei?, dove sei?
Stai calma.
Appoggio la testa sulla parete, sopra la telecamera. La luce azzurrina dello schermo si riflette sul mio viso. Sono in apnea.
Un passo alla volta.
Kane, Marcus Kane. Quello è Marcus Kane. Chiudo gli occhi, torno dritta, stringo il Pass tra le mani. Lo sollevo.
Ce la fai.
Striscio la tessera passepartout e attivo il sistema della porta, spalancandola.
Andrà tutto bene.
 
Non me l’ero immaginata. Kane fa il suo ingresso insieme ad una donna. E non una donna qualsiasi: è Abby Griffin. La madre di Clarke.
Non mi sono mai sentita tanto confusa in vita mia. So che anche lei è stata eletta membro del Consiglio di recente. Ma allearsi con Kane, l’uomo che ha condannato a morte suo marito e sua figlia… Tutto questo non ha senso.
L’unica cosa che riconosco è l’espressione tirata sul volto di lei. Come se desiderasse essere ovunque tranne che accanto a quell’uomo. Dopotutto, anche io lo odio e mi trovo qui con lui. Forse io e Abby Griffin siamo sulla stessa barca?
 
La donna mi studia con calma e i suoi occhi si ammorbidiscono al contatto col mio viso. Mi porge le mani e io esito un momento prima di rispondere al suo gesto.
“Blair Foer.”,
commenta, con voce roca e melodiosa.
Non lascia andare le mie mani finché non riesco a sorriderle.
Porta i capelli lunghi sciolti in onde morbide. Clarke ha preso i colori del padre, capelli biondi, occhi celesti e la pelle chiara. Ma dalla madre deve aver tratto lo spirito. 
Ho sempre ammirato il carattere fiero di Clarke, sin dal nostro primo incontro. Non è difficile capire quanto sia in gamba. È robusta, orgogliosa. Non si lascia consolare nemmeno se la implori. Forse è troppo indipendente, e troppo austera, specie con sé stessa.
Non ci conosciamo da tanto e lei è sempre stata molto impegnata alla scuola di medicina o a disegnare o a passare del tempo con Wells Jaha. Ma da quando al mercato nero ci siamo litigate un catalogo di una personale di Hirst al Palazzo Grassi di Venezia, arrivando a dei toni da guerra civile, abbiamo fatto colazione insieme ogni giorno.
Certo, finché lei non è finita in isolamento. A quel punto l’averla spuntata sul libro mi era sembrato così ridicolo che è stata la prima cosa che le ho inviato in galera. Vorrei tanto sapere se l’ha ricevuto ma alle visite sono ammessi solo i parenti stretti. Sono passati due mesi.
 
Gli occhi della donna che mi sta di fronte sono due fuochi pieni di forza e voglio convincermi che Clarke, che con lei condivide la stessa tempra inossidabile, se la stia cavando bene.
“Signora Griffin. È un piacere conoscerla. Clarke mi ha parlato tanto di lei.”
Mi chiedo se sia un errore nominare Clarke. La donna ha un tremito ma si ricompone in una frazione di secondo. Come avrebbe fatto sua figlia. Sono davvero colpita dalla somiglianza.
“E Clarke mi aveva parlato di te. Eri la sua spacciatrice di libri di disegno.”
Sorrido di nuovo, al ricordo delle ricerche che Clarke mi costringeva a fare su Michelangelo e Turner, Braque e Goya.
“Lo sono ancora. Ammesso che riceva ciò che le invio.”
“Allora sei stata tu a mandarle i pennelli e tutto il resto.”
“No, i pennelli non sono opera mia. Credo sia stato Wells.”
“Non glielo diremo o finirebbe per romperli a metà.”
Non capisco a cosa si stia riferendo. Wells è il migliore amico di Clarke da sempre. Sono confusa, ma proseguo:
“Le ho mandato Damien Hirst e…”
“Quello le è stato requisito. Era un oggetto di valore. Ma ha saputo che glielo avevi inviato.”
Mi si spezza il cuore. Scuoto la testa, rivolta al pavimento, cerco in ogni modo di trattenere l’emozione. Dopotutto, è lei la madre. Che diritto ho io di piangere, se lei resta così salda?
Torno a guardarla con un sorriso, che spero riesca a sembrare sincero.
“In realtà le sto inviando cose che ha già letto. È che temo che Clarke abbia già letto qualsiasi cosa sia mai stata scritta sulla pittura, dalla tecnica alla storia dell’arte alla…”
Kane si schiarisce la voce, interrompendoci.
Dev’essere stanco dei nostri convenevoli da signorine.
Lo guardo, in silenzio. Mi prendo il tempo di fargli capire che l’ho sentito.
Poi mi rivolgo di nuovo alla signora Griffin, stringendole le dita tra le mie.
“Lei soffriva per la mancanza di quadri veri come io soffro quella per i veri libri.”
Gli occhi della donna brillano di orgoglio.
Torno a prestare attenzione a Kane.
Ecco, ora ho finito, puoi parlare.
Non capisco come quest’uomo sia riuscito ad entrare al Governo. Non ha un briciolo del fascino di Jaha. Irradia una sensazione viscida intorno a sé, una sostanza appiccicosa che da la nausea, riesco a sentirmela attaccarsi alla pelle.
E ora quest’uomo mi serve. Vorrei respingere l’idea ma non posso farci niente.
Mancano venticinque giorni al compleanno di John. Non so quanti a quello di Clarke.
Vediamo di dare inizio alle danze.
“Allora, cosa sono le schede di memoria?”

****

12/07/17
Quante facce note, in questo capitolo ;)

Grazie per i messaggi, a tutti, mi si scalda il cuore a sapervi presenti e attenti.
A presto, prestissimo,
LRM

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Capitolo 8
*** I Cento ***


I CENTO
 
Mentre faccio strada a Kane e alla signora Griffin attraverso il salone della biblioteca, il mio sguardo vaga a destra e a sinistra, alla ricerca della guardia.
Il salone sembra essere vuoto, di certo è silenzioso. Dove diavolo si sarà nascosto?
 
Una volta in ufficio, non porgo la sedia a nessuno e mi dirigo direttamente alla cassetta.
Ne estraggo una scheda di memoria e tenendola tra due dita interpello Kane:
“A che mi serve?”
Ma è la signora Griffin a rispondermi. Resta nei ranghi, accanto a lui, ma mi rivolge uno sguardo attento. Parla lentamente.
“Blair, ogni scheda di memoria sarà inserita all’interno di un device più grande. Un bracciale metallico. Il bracciale ha molte funzioni, principalmente di radiotrasmissione e di monitoraggio dei sistemi vitali di chi lo indossa.”
Cerco di registrare mentalmente ogni parola.
Ok, la scheda va in un bracciale, una specie di bracciale medico. Poi?
“Nella scheda inseriremo delle informazioni. Mappe, principalmente. Istruzioni per la costruzione e la manutenzione di strumenti di prima necessità. Un’enciclopedia medica, di cui mi sto occupando personalmente. E libri.”
“Libri?”
“Libri. Andranno inseriti anche dei libri, oltre ai manuali.”
Se non altro ora ho chiaro di cosa devo occuparmi.
Soltanto non ho idea del perché.
In quell’istante con la coda dell’occhio intravedo un movimento alle loro spalle, all’ingresso dell’ufficio. La guardia si è mossa e ci ha raggiunti. È già scomparsa ai miei occhi ma so che è rimasta in ascolto.
Perfetto. Ancora non so cosa devo fare e ho già contravvenuto alla sola regola di Jaha. Addio alla riservatezza. Mi chiedo se di fronte ad un giudice potrei far passare la guardia come un delinquente che si è intrufolato per carpire informazioni e io innocente vittima.
“Ma a cosa servono i bracciali?”, chiedo, cercando di mantenere la concentrazione dei Consiglieri fissa su di me.
Kane fa un passo nella mia direzione. Alla nostra vicinanza il mio corpo risponde con fastidio. Cerco di concentrarmi sul suo viso e non sulla nausea, sulla guardia nascosta a qualche metro da noi, su John, sul ricordo del rumore che ha fatto il corpo di Ellis Fawn quando è stato sparato nel vuoto. Kane mi guarda.
“Tra due settimane invieremo cento persone sulla Terra.”
 
Mi danno il tempo di processare l’informazione.
Quando mi trovavo in questa stessa stanza con Jaha, il cuore mi martellava nelle vene di tutto il corpo, ero la cassa di risonanza del suo pulsare affannato. Mi tremavano anche le ossa, oltre che le gambe, oltre che le dita. Ora invece sono oltre la soglia della sorpresa. Tutto il mio corpo tace.
“Come, scusi?”
“L’Arca sta collassando.”
Non so quale domanda fare per prima. Perciò mi limito ripetere:
“Come, scusi?”
La signora Griffin si prende il tempo di trarre un lungo respiro.
“Blair, l’Arca sta morendo. I sistemi non sono stati costruiti per sopravvivere per sempre. Si è consumata. I rifornimenti stanno finendo. Il sistema di ossigenazione…”
Penso alla guardia, di nuovo. So che sta ascoltando e che nella sua testa le domande si stanno moltiplicando, come nella mia.
“Chi resterà sull’Arca morirà?”
“No, no, cara, no. Nessuno dovrà morire. I Cento saranno solo una prima colonia. Secondo i nostri calcoli, la Terra dovrebbe essere di nuovo abitabile. Loro scenderanno per assicurarsene. E non appena avremo i dati necessari per sapere con certezza che la Terra è di nuovo abitabile, li raggiungeremo. Faremo in tempo.”
“E se non andasse tutto come previsto? Se la Terra non fosse abitabile? Se l’Arca si consumasse ad un ritmo diverso? Se…”
Kane interviene:
“Per questo dobbiamo distribuire il nostro sapere. Perché c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto. Non possiamo mettere tutte le uova nello stesso paniere.”
Si avvicina e abbassa la voce.
Mi parla con calma, meno aggressivo. Gli occhi neri assomigliano più a un gioiello che ad un pozzo, ora.
“Deve essere veloce. E efficiente. Deve selezionare i testi da inserire nei bracciali. A tempo debito le verrà chiesto di creare anche la selezione per le navicelle che porteranno tutti noi sulla Terra. Ma a quel punto potrà lavorare con il professor Lehnam perché la segretezza non sarà più necessaria. Inoltre non dovrete selezionare, porteremo via tutto. Dovrete solo distribuire nelle varie navicelle, in modo che…”
“Se ci fosse una sola navicella con tutti i libri e si schiantasse, perderemmo tutto.”,
concludo. Certa, finalmente, di averci capito qualcosa.
Kane sta quasi per sorridermi. Non si aspettava che ci sarei arrivata. Dio solo sa perché mi hanno scelta se sono convinti sia rintronata.
Continuo il ragionamento:
“Allo stesso modo, sarebbe bene mettere Orwell in tutte le navicelle, perché se la sua navicella si schiantasse perderemmo un pezzo irrinunciabile.”
Kane ha addosso la stessa espressione che mi regalò mio padre quando gli dissi che il professor Doug Lehnam mi aveva assunta come sua apprendista alla biblioteca. Kane è meno sentimentale e infatti non mi abbraccia cantando. Prosegue:
“Esatto. E la selezione e distribuzione dei libri nei bracciali dovrebbe seguire lo stesso procedimento. Lei dovrebbe…”
“…individuare i testi indispensabili e metterli in tutti i bracciali, più dei testi secondari da distribuire in maniera differenziata.”
“In modo che, sperando tutti sopravvivano, abbiano il maggior numero di testi possibile.”
“E in modo che, sapendo che non tutti sopravviveranno, non perdano i testi fondamentali. Ci sono.”
Le carte sono tutte in tavola. Io e Kane restiamo a guardarci.
Vorrei non ammetterlo ma un lungo, dolce brivido di eccitazione mi scivola sulla schiena. È un lavoro che posso fare. È un lavoro che posso fare bene. Chiaro, non ne sarò mai veramente all’altezza ma questa certezza non mi impedisce di entusiasmarmi al pensiero di cominciare. Nonostante tutto quello che mi è stato spiegato stanotte e il disprezzo che provo per l’uomo che me l’ha spiegato, non voglio frenare l’onda che mi muove. Sono in fibrillazione, una parte della mia testa sta già lavorando al progetto.
La spilla con il simbolo del Governo è appuntata sopra il cuore di Kane e al minimo movimento dell’uomo la luce vi si riflette e per un istante, un istante che dura troppo, mi abbaglia.
 
È ora di andare sul pratico.
“Quanti libri ci stanno in ogni scheda?”,
chiedo, già in ansia per la risposta.
Non sarà mai un numero soddisfacente. Qualsiasi numero limitato di libri non sarà un numero soddisfacente.
“Cento.”
Soppeso l’informazione.
Cento libri per cento persone, sarebbero diecimila testi in totale. Ma tenendo conto che molti dovranno essere uguali per tutti, i famosi libri fondamentali, quanti spazi mi restano davvero?
“Tenga anche conto che molti spazi vengono occupati dai manuali. A lei restano cinquanta libri per ogni bracciale.”
“Cinquanta?”,
chiedo, con un po’ troppa enfasi. Kane non apprezza e torna ad osservarmi torvo.
Allargo le braccia, certa di dire un’ovvietà:
“Anche solo i testi fondamentali sono più di cinquanta.”
“Non abbiamo più spazio di così. La medicina è più importante di Tolstoj.”
Mi avvio alla scrivania scuotendo la testa, pronta a prendere appunti scritti. Raccolgo la penna di Doug e cerco con gli occhi un pezzo di carta sui cui poter scrivere.
“Voglio una stima. Voglio i nomi delle persone che indosseranno i bracciali e voglio parlare con loro e avere una valutazione della loro capacità di sopravvivenza. A chi ha più probabilità di sopravvivere assegnerò i libri che…”
Kane mi interrompe.
“No, non può funzionare così.”
“Perché?”,
sbotto.
“Perché lei non può parlare con i candidati.”
“Perché?”
Sto alzando troppo la voce, e lo so. Non mi permetto un tono del genere nemmeno con John.
Modulo il tono, per far sì che mi ascoltino davvero, che capiscano:
“Senta, cinquanta testi sono una miseria. Anche solo ragionandoci d’impulso, mi vengono in mente duecento libri che non possono andare perduti. Libri fondamentali. Perciò, io dico di affidare ai più resilienti i libri fondamentali e a chi ha meno probabilità di sopravvivenza quelli secondari. Così facendo avremo più libri in totale…”
“Non le era chiaro, il discorso di poco fa? Le ho spiegato come deve operare la selezione.”
“Voglio parlare con loro. Voglio sapere a chi sto affidando cosa.”
“Come pensa di poter indovinare chi sopravvive e chi no?”,
mi chiede, duro. Rispondo più in fretta di quanto chiunque di loro si aspetti, me inclusa:
“Voglio guardare in faccia la persona che si prenderà la responsabilità di salvare David Foster Wallace prima di affidargli David Foster Wallace.”
Sul finire della frase sto sillabando e mi rendo conto di non suonare particolarmente rispettosa dell’autorità.
A Kane tremano le mani per il fastidio.
“Non c’è tempo ed è comunque fuori discussione.”
Respingo la spiegazione:
“Perché?”
Allora Abby Griffin tocca un braccio a Kane e qualcosa di meraviglioso accade. Lui si calma. Visibilmente. Le mani perdono tensione, il viso si placa, gli occhi... E' come se nella notte delle sue iridi si fossero accese delle lucciole danzanti. Lui non la ascolta quando parla, ma la ascolta quando lo tocca.
La donna non lo lascia, ma guarda me.
“Perché non sono dei militari, Blair. Non stiamo inviando sulla Terra volontari addestrati.”
Faccio spallucce.
“E allora chi? Scienziati? Ingegnieri, immagino.”
Il silenzio che cala sulla mia domanda mi spaventa più quanto qualsiasi risposta avrebbe potuto fare.
D’instinto, indietreggio. Sto stritolando la penna che ho in mano. Con l’altra replico il gesto che ho fatto poco fa: cerco la guardia alla mia sinistra. Dove sei?, dove sei?
“Signora Griffin, cosa…?”
“Invieremo cento ragazzi presi dall’isolamento.”
 
Batto le palpebre. Tutte le giunture del mio corpo sono sigillate. O almeno, la sensazione è quella. Morte apparente. Non fosse che sono in piedi e che probabilmente sto respirando, anche se non lo percepisco, sarei dichiarabile come cadavere.
Kane e la signora Griffin si lanciano un rapido cenno tra di loro, come a dirsi Ok, lo abbiamo detto, lo abbiamo detto ad alta voce.
Ma se prima ho fatto un passo indietro, ora li incalzo. Sto puntando un dito al pavimento, come se volessi davvero indicare la Terra.
“Invierete cento minorenni sulla Terra? Con un braccialetto pieno di romanzetti al braccio e istruzioni su come mettere i punti e costruire una capanna?”
Non mi rispondono. Torno ad alzare la voce. Ora sto davvero urlando, con buona pace della sacra regola di ogni biblioteca.
“Non sopravviveranno mai! Non sono addestrati, non ci sarà nessun medico con loro… Perché non li state preparando?”
“Li stiamo preparando. Il professor Pike…”
“Li state preparando con delle lezioni in classe?
Ho gli occhi fuori dalla testa, lo so, lo sento.
“È una follia. Siete completamente pazzi.”,
farfurglio, muovendo dei passi a caso per la stanza.
“Li stiamo salvando, Blair. Gli stiamo dando la possibilità di sopravvivere. Di evitare l’esecuzione.”
Mi ritrovo la signora Griffin abbastanza vicina perché lei provi a toccarmi. La schivo, disgustata.
“Che. Cosa. Sta. Dicendo.”
“Se restano sull’Arca verranno esplusi appena compiuti i diciotto anni.”
C’è qualcosa che mi trattiene dallo sputarle in faccia. E quel qualcosa è Clarke.
“C’è tua figlia, tra i Cento.”,
sibilo a mezza bocca. Ho la mascella serrata e non riesco a rilassare nessun muscolo del corpo. Abby Griffin non mostra un briciolo di senso di colpa. Anzi.
“È la miglior occasione di sopravvivenza che posso avere per lei.”,
mi dice, sicura che io capisca. Ma non capisco.
“Certo. In più nessuno si accorgerà della loro assenza, dico bene?”
Ora è ad entrambi che sto parlando. Kane sostiene il mio sguardo nauseato senza il minimo sforzo.
“Così manterrete la calma sull’Arca che si sta disintegrando sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste perché nessuno saprà cosa sta succedendo. Non ditemi che lo state facendo per loro. Lo state facendo per voi.”
“Lo stiamo facendo per tutti, Blair. Non è una decisione semplice, ma bisogna guardare al bene superiore, al bene comune, anche se significa sacrificare…”
Questa non può essere la madre di Clarke Griffin. Lei non potrebbe mai fare un discorso del genere. È troppo corretta e cerca sempre di non fare del male a nessuno. Vorrebbe salvare tutti, al tirocinio in ospedale la scambiano spesso per un medico ordinario per quanto tempo extra ci passa: non torna a casa finché non è sicura che i pazienti che segue stiano bene.
Mi porto le mani al viso, ho un bisogno di mangiarmi le unghie che mi distrugge. La signora Griffin continua a parlare, a spiegarmi le ragioni di quella che non posso non considerare un’assurda follia. Nel frattempo Kane si è portato le mani sui fianchi e la fissa come se volesse prenderla a frustate. Non so quanto il mio sguardo sia diverso dal suo.
Poi all’improvviso la scavalca e si rivolge a me, freddo, diretto. Letale.
“Ragazzina, John Murphy è nei Cento. O fai questa cosa o lo spediamo sulla Terra.”
 
Ecco. In quell’istante sento ciò che ha sentito Ellis Fawn quando la camera stagna si è aperta. Risucchiata nel buio dello spazio infinito, smembrata. L’uomo che ha attivato il suo portellone per l’espulsione sta qui davanti a me a darmi la stessa fine.
Mi aspetto che la signora Griffin, che è una mamma, che è la mamma di Clarke, faccia qualcosa. Non può starsene lì ad ascoltare Kane che ricatta una diciannovenne con la vita di un altro ragazzino. Non può. Non può accettarlo, essere d’accordo, non ribellarsi.
Invece è ciò che capita. Che nessuno si oppone, nessuno corre qui a salvarmi. 
 
Senza accorgermene, sto guardando il pavimento. Mi aspetto che da un momento all’altro si apra e ci regali un’esplusione collettiva coi fiocchi.
Oppure potrebbe scoperchiarsi il soffitto. Il cigolio che sento ora – e che non mi sembra di aver mai percepito fino a questa notte – è una qualche parte della nave che si sta arrendendo, che sta cedendo? Dov’è la guardia? Quando verremo risucchiati nel nulla avremo il tempo di accorgercene o accadrà mentre siamo addormentati? E se prima finisse l’ossigeno? Annegare nello spazio mi sembra davvero un finale paradossale per la razza umana.
Non credo mi sentirò mai più al sicuro ora che so quel che so. L’Arca si sta smantellando in un processo inesorabile e non si sa quanto rapido.
Penso a John, che se stanotte io dico di no, verrà infilato su una navicella e spedito su un pianeta disabitato a crepare di consunzione da radiazioni. Se non di malattia, se non di stenti.
Questo è solo un altro modo di espellerli. Solo più complesso e coreografico.
 
“Allora, signorina? Accetta l’incarico?”
Kane ha incrociato le braccia al petto. Entrambi mi fissano, uno accanto all’altra. Stanno aspettando io abbia una reazione qualsiasi, fosse anche svenire.
Invece mi schiarisco la gola e appoggio la punta della penna sul palmo della mano. Se non ho un foglio, andrà bene anche questo.
“Quanto tempo ho?”


****
13/07/17
Ciao a tutti, a tutte.
Tengo tantissimo a questo capitolo, spero di essere riuscita a renderlo chiaro. Dovevo riuscire a metterci molte informazioni senza renderlo pesante (anzi, l'idea era di mantenere alta la tensione!). Mi sono divertita a mettermi nei panni di Blair più del solito, perché è sicuramente il momento più particolare che ha vissuto finora, quello con più reazioni da cogliere e molte sorprese: un'altalena emotiva...
Beh, spero di non avervi delusi e di non farvi mollare qui la storia ;)
[Per Pixel: nel prossimo capitolo c'è anche John, te lo giuro! Oltre che al suo "diretto concorrente"... ^^]
A presto!,
LRM

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Capitolo 9
*** Ieri e oggi ***


IERI E OGGI
 
E’ ormai mattina quando Kane e la signora Griffin escono dalla biblioteca.
Resto paralizzata davanti alla porta d’ingresso, nel silenzio delle prime ore del giorno. Ho la testa svuotata. Sento le guance bagnate, il collo umido, forse sto piangendo.

Avverto il rumore di passi alle mie spalle quando la guardia è già a pochi metri da me. Sussulto e mi volto; ho il tempo di accorgermi che sta correndo nella mia direzione prima che lui senza rallentare mi raggiunga e mi travolga. All’impatto contro il suo petto il colpo mi mozza il fiato. Barcollo all’indietro, trascinandolo con me; d’istinto mi sono aggrappata alle sue spalle.
Mi stringe le braccia con forza, i polpastrelli delle dita si immergono nella mia carne. Sto per lasciarmi sfuggire un’esclamazione di dolore, ma lui ha già ammorbito la presa. Si abbassa un po’ sulle ginocchia per portare il viso alla mia altezza. Mi scuote, e vedo che si sta trattenendo dal farlo con più energia.  
“Hai capito cosa sta succedendo?”
“Sì che ho capito. Tu hai sentito tutto?”,
gli chiedo, scrollandomi  nel tentativo di liberarmi. Sto cercando almeno di allontare il mio viso dal suo. Ma non riesco a smuoverlo di un millimetro. Vorrei mi rispondesse, così posso capire quanto sono nei guai. Se davvero ha sentito tutto...
Ma lui guarda dritto negli occhi, impassibile:
“Dobbiamo parlare."
"Mi lasci, per favore?"
"Non posso far…”
“Chi hai tra i Cento?”
Lui si acciglia all'istante. Indugia sui miei occhi per qualche momento ancora.
Allora si solleva, lasciandomi andare. E poi dice una cosa che se non fossi già irrimediabilmente sconvolta, mi ribalterebbe:
“Mia sorella.”
Il suo volto non viene incrinato da nessuna espressione. Invidio il suo autocontrollo, è la prima cosa che mi ha colpito di lui, ancora prima del modo di muoversi, della capacità di comunicare tutto con lo sguardo, della fermezza: l'autocontrollo. 
“Tua…?”
“Sorella. Mia madre è stata espulsa per averla avuta e lei è in isolamento, perché è minorenne. Octavia ha vissuto tutta la sua vita nascosta, non è mai uscita dal lotto. E poi…”
“Tu sei il fratello di Octavia Blake, la ragazza sotto il pavimento?”
Lo vedo rabbuiarsi.
Scommetto che lo sa, quanto rumore ha fatto la notizia, quando si è saputo. Il nome di Octavia e la sua foto hanno girato come trottole sugli schermi dell’Arca per settimane. Difficile ignorarle.
“Tua sorella è così bella che da fastidio.”
Lo prendo in contropiede e gli strappo un microscopico accenno di sorriso. Ho detto quello che avrebbe detto John nella mia situazione, una cosa inappropriata e assurda. Che ha funzionato.
Continuo a faticare ad immaginarmelo sorridente, con un vero sorriso sincero. Chissà come cambierebbero i suoi occhi, questi pianeti neri capaci di parlarmi. 
Lui si ostina a fissarmi intensamente, in tralice. Mi sta valutando.
Cerca di capire quanto io abbia colto delle implicazioni del progetto Cento. Cerca di capire se posso essere una complice o una spina nel fianco. Se sto con Kane o con lui. Se sono la pecora che obbedisce o il cane rabbioso che decide per sé.
Io, che ancora non l’ho deciso, cerco di farlo ragionare:
“Non è detto che anche lei sia tra i Cento, comunque. Potrebbero non averla selezionata. Avranno più di cento ragazzi, lì dentro.”
Lui finalmente guarda altrove, incrociando le braccia al petto. Io scopro di riuscire a respirare un po' più a fondo se lui non mi osserva.
“Non lo so. Octavia è forte e intelligente. Io manderei sulla Terra qualcuno che possa cavarsela.”
Non posso dargli torto, perciò resto in silenzio. Finché il led dell’ingresso non si illumina automaticamente facendo comparire un orologio lampeggiante.
“È finito il mio turno. Se non vuoi che ti scoprano devi andartene.”
Lui si sta già aggiustando l’arma alla cintola. Raggiunge la porta d’ingresso prima che possa accorgermene. Il soldato è tornato nei ranghi. 
“Dobbiamo parlare.”, ripete, con lo stesso tono con cui si danno gli ordini.
Annuisco.
Sono sfinita. Sono troppo sovraccarica di informazioni ed emozioni per valutare cosa significhi che una guardia al soldo del Governo sia venuta a conoscenza di un segreto di Stato a causa mia, un segreto che se rivelato potrebbe scatenare il caos sull’Arca e distruggere John e me.
Lo so che è patetico, ma penso a mio padre, che se morissi morirebbe. Penso a mia madre.
Sì, devo poter avere una visione delle conseguenze il più precisa possibile prima della prossima mossa. Qualunque essa sia.
Striscio il Pass e la porta si attiva. Il fratello di Octavia Blake sparisce dietro l’angolo senza voltarsi indietro.
Mi chiedo se per me sia un possibile alleato o soltanto un altro problema. Mi scopro a provare del vero sollievo quando mi immagino che oggi stesso scoprano che non ha obbedito agli ordini e lo eliminino per alto tradimento.
Fintanto che muore tenendo la bocca chiusa.
 
****
 
“Ancora con questo Ettore?”,
mi chiede John, sollevando i begli occhi al soffitto.
Quando li spalanca in questo modo diventano davvero enormi. Non ho mai visto il mare, ma me lo immagino del loro colore.
Mi sta giudicando, e oggi va peggio del solito: si mette a fissarmi con le palpebre a mezz’asta e un broncio da manuale. Se mi offendessi ogni volta che mi guarda con quell’espressione, passerei la vita a piangere in un angolo. Ma John mi ha temprata al giudizio altrui. Scrollo le spalle e mi aggiusto meglio sul divano.
Lui prosegue, e come sempre quando è davvero esasperato, strascica le frasi con una cantilena che è solo sua:
“Fai tanto la letterata spocchiosa, la maestrina, sempre con la puzza sotto al naso, e Tom Sawyer qui e Checov là, a crederti tanto intelligente e oh mio dio il congiuntivo!, la principessina del settore quattro…”
“Stai anche arrivando ad un punto?”
“…tutta altezzosa e precisina e poi ti prendi una cantonata per un tizio a caso visto una sera, soltanto perché era carino. Sei come tutte le altre.”
Stiamo mangiando insieme nel salotto di casa mia, davanti alla televisione. Stasera non danno niente di interessante e comincio a pensare che ormai io e John abbiamo guardato tutti i film mai prodotti dal genere umano.
Il dramma di vivere in un bunker sospeso nello spazio è che ad un certo punto le attività ricreative tendono a ripetersi. Eccettuato il cinema, le passeggiate su e giù per il ponte panoramico, un giretto al mercato nero, i libri e il sesso, non c’è tanto altro su cui puntare. Ah, già, qualche stramaledetta festa in maschera. Una di quelle feste dove può capitarti di incontrare l’uomo della tua vita e poi perderlo per colpa di un allarme antincendio.
“Mi aiuteresti a trovarlo?”
“E come pensi di riuscirci, se posso chiederlo?”
“Non lo so. Per questo mi serve il tuo aiuto.”
“Mostro, non fare così…”
Mi chiama Mostro sin dal nostro primo incontro, quando a lui dovevano ancora cadere i denti da latte e io non sapevo nemmeno leggere. Il nomignolo mi è rimasto attaccato addosso attraverso tutta l’infanzia e l’adolescenza e temo che ormai mi seguirà fino all’espulsione.
Gli strattono la maglietta.
“Ti rimedio il numero di Catherine Boole.”
“Ce l’ho, il suo numero.”
“Ti rimedio il reggiseno di Catherine Boole.”
John sospira, plateale.
“Ok, ok… Ti aiuto a trovare questo Ettore. Ma è solo perché non ho niente di meglio da fare.”
Trascina i piedi sul divano e a gambe incrociate si sistema di fronte a me, che lo imito. È raro che si entusiasmi per qualcosa, di solito è impegnato a far capire al mondo che niente tange John Muprhy. Infatti anche adesso ha la faccia di chi preferirebbe dormire, piuttosto che darmi corda.  
“Allora, cosa sai di lui?”
“A parte che è torvo e fascinoso e risponde all’ideale letterario del colpo di fulmine?”
“Sì, a parte quello.”
“Niente.”
Finalmente sta per sorridere, lo vedo dalla fatica che fa a tenere le guance al loro posto.
Mi appoggia entrambe le mani sulle ginocchia, regalandomi uno dei suoi sguardi da ladruncolo, dal basso vero l’alto, sornione, antipatico:
“Blair, stai perdendo il cervello. Non sei carina, non ti conviene diventare anche stupida.”
“Cioè, capito? Era tutto serio e ingrugnito e non ballava. Come Darcy!”
“Darcy? Di che anello è?”
“Però in realtà non mi sembra un Darcy. Mi sembra un Gabriel, Gabriel Oak. Un uomo adulto, determinato...”
“Parli di nuovo di gente che non esiste, vero?”
“No, no, scherzavo, scherzavo. Oak è troppo mammoletta, sta dietro alla tipa per vent’anni prima di riuscire a farsela…”
John crolla con la schiena sul divano, con un braccio sotto la testa e gli occhi di nuovo rivolti al soffitto:
“Perché siamo amici?”
“Lui è un Rhett!”
John mi guarda, controvoglia.
“Rhett Butler?”
“Sì! Esatto! Ma hai letto il libro?”
Fa un gesto nell’aria con la mano.
“Ho visto il film.”
“Sì, beh, comunque. È un Rhett.”
A questo punto John riprende il bicchiere che aveva posato sul tavolino basso di fianco a noi e butta giù l’ultimo sorso di vino.
È illegale bere per i minorenni. Ma Monty Green ci aveva fatto uno sconto riservato ai clienti di fiducia e ne avevamo approfittato. 
John mi punta addosso il bicchiere. Come me, ha spesso le occhiaie, due mezzelune violacee. Solo che le mie mi fanno sembrare uno degli amichetti strafatti del suddetto Monty Green, mentre sul suo viso l’effetto è opposto: le linee scure riescono a far risaltare per contrasto il colore delle sue iridi, che ad ogni movimento dello sguardo si fanno cangianti, ora blu, ora azzurri, ora verdi… Il mare calmo, il mare in tempesta, il mare profondo.
Io sono un Rhett. Un sarcastico egoista senza scrupoli.”
Fa una pausa, lasciando comparire il suo sorrisetto fanfarone.
“Ma super affascinante.”,
specifica, e il suo sopracciglio fa un guizzo verso l’alto. Mentre lo dice, con quegli occhioni da bambino su quella faccia da delinquente, è difficile dargli torto.
“E va bene, hai ragione. Tu sei Rhett. Lo stronzetto col cuore d’oro. Lui è…”
Guardo in alto, in cerca di ispirazione, di un paragone calzante, qualcosa che possa rendere la sensazione che mi aveva stretto lo stomaco quella sera quando avevo visto Ettore e che tornava ancora a scaldarmi la pelle, al solo pensiero.
John riempie per l’ultima volta i bicchieri e posa la bottiglia vuota in terra. Prendo il bicchiere che mi viene porto, di nuovo pieno. E poi faccio spallucce, perché la risposta è più semplice del previsto:
“…lui è Ettore. Avevo ragione fin dall’inizio. È l’eroe vero. Forte, incorruttibile, alto.”
“Alto?”
“John, non lo troveremo mai. Indossava una maschera e un lenzuolo gigante addosso. Ho visto mezza porzione dei suoi occhi per mezzo secondo… Ero brilla anche quella sera e stavo ad almeno dieci metri di distanza...”
“Però sei riuscita ad innamorartene lo stesso. Ti ascolti, quando parli?”
Facciamo tintinnare i bicchieri in un triste brindisi e li scoliamo in un sorso solo.
Guardo il suo bel profilo, il modo assurdo in cui si taglia i capelli. Si rasa praticamente a zero, da quando ha avuto il potere di decidere per sé, ha optato per questo stile da nazista che non saprei dire se gli dona o no. Non ricordo più com’era prima, quando portava i capelli da persona normale. Ha il tic di passarsi una mano su e giù sulla nuca, quando è nervoso. E lo ha appena fatto due volte di fila.
Gli appoggio una mano sulla gamba.
“Sei la mia persona preferita.”
“Sarà bene.”,
mi risponde, poi si alza all’improvviso prendendosi il mio bicchiere e iniziando a sistemare.
Si sta ancora arrovellando su Ettore, potrei giurarci. Sarà lui a fargli prudere la testa?
“Mostro, non possiamo andare in giro per l’Arca a fermare tutti i ragazzi alti mettendogli una maschera e ordinandogli di farti gli occhi dolci da dieci metri per trovarlo.”,
mi dice, arreso all’evidenza.
E invece io lo guardo illuminata.
John si blocca e inclina la testa da un lato, rendendosi conto, di fronte alla mia faccia esaltata, di essersi messo nei guai con le sue stesse mani.
Ora non sorride, nemmeno col suo sorriso a metà.
“Oh, no. No, Blair. No. NO.”
 
Avevamo dovuto finire un’altra bottiglia prima di trovare l’ispirazione per metterci in moto ma poi eravamo filati fuori dal lotto e ci eravamo messi a correre su e giù per i ponti, gli anelli e ogni blocco di ogni sezione, fermando qualsiasi ragazzo tra i diciotto e i trent'anni di almeno un metro e ottanta con gli occhi castani (non avete idea, ce ne sono un’infinità a spasso) e John gli metteva una mano sulla faccia coprendogliela quasi tutta mentre io me la ridevo, senza ovviamente riconoscere nessuno. John ha rischiato anche di prendersi qualche sberla, durante l’operazione.
Eravamo tornati a casa esausti e con la pancia dolorante per le risate.
Ci eravamo salutati con leggerezza, nonostante avessi notato le guance arrossate di John e il calore della sua fronte quando lo avevo costretto a piegarsi per porci un bacio.
Avevo imputato i suoi occhi lucidi al vino e non alla febbre, la sua stanchezza alle nostre scorribande e non alla malattia.
Ero brilla e allegra e nemmeno per un secondo avrei potuto immaginare che quello che avevo appena vissuto fosse il nostro ultimo giorno felice e l’inizio della fine. 


****
19/07/17
Il mio povero pc è imploso su sé stesso, lasciandomi qualche giorno senza internet - perdono! In ritardo, ma eccoci. 
Fatemi sapere che ne pensate (il prossimo aggiornamento sarà più veloce - e sarà tuuuuutto un capitolone con il nostro B.Blake).
Pixel, so già cosa stai pensando: cosa hai fatto ai capelli di John?! Tranquilla, in galera gli son cresciuti, quando Blair lo rivedrà sarà il John che conosciamo.
A presto!,
LRM

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Capitolo 10
*** Bellamy ***


BELLAMY
 
“Oh, John Murphy, che Dio maledica il giorno in cui ho cominciato a volerti bene!”
Butto in terra i quaderni e gli lancio dietro la penna. Mi lascio cadere all’indietro e allungo la schiena sul pavimento.
Sono sei ore che sto lavorando al progetto sui Cento e non ho cavato un ragno da un buco. Un libro da un buco. Mi fa male il sedere per tutto il tempo che ho passato rannicchiata. Mi domando come abbia fatto il mio entusiasmo iniziale ad esaurirsi tanto in fretta. Forse, semplicemente, mi sono resa conto che mi ero sbagliata. Che non ce la farò mai.
Guardo la teca di fronte a me. I libri mi fissano, al di là del vetro.
Chi sono io per giudicare se Salinger ha diritto all’immortalità e Simone de Beauvoir no? E poi io sono una pippa con la letteratura orientale. Non salviamo nessun orientale perché a scuola ho scelto a caso il corso di Letteratura africana invece di Letteratura cinese e poi non l’ho mai più approfondita?
Come diavolo può aver pensato Jaha che potessi essere la persona giusta per questo lavoro? Ho diciannove anni! Diciannove!
“…per me, in questo caso più che mai, la segretezza è più importante di un lavoro ben fatto.”,
aveva detto.  
Ma nemmeno la mia condizione di persona ricattabile giustifica la loro decisione. Dev’esserci qualcos’altro sotto e decido che lo scoprirò. Anche se non stasera.
Stasera si sceglie.
 
Sono partita dai venticinque libri fondamentali. Venticinque. Mi sento male al solo pensiero di quella cifra idiota. Ho scritto i numeri in colonna sul foglio, ho preso la matita e lì sono rimasta.
Per la prima volta da quanto questa storia è cominciata, il suono del campanello non mi agghiaccia, ma mi salva.
 
Corro all’ingresso e accendo la telecamera.
È il fratello di Octavia Blake, la guardia. Era ora che si facesse vivo.
Non dico nulla, non attivo il suo microfono, lo faccio entrare.
 
Stanotte è in borghese. Sì, decisamente viene dal mio settore. Il quattro è il solo posto dove si possa andare in giro in questo stato senza essere presi a parolacce dai vicini.
Sull’Arca l’aspetto esteriore è la cosa più importante, dopo il cibo e le droghe sintetiche. Buona parte della nostra economia gira attorno a Centri Estetici e sartorie. Ripeto, non c’è molto da fare sull’Arca, quindi c’è molto da essere – e vieni giudicato prima di tutto in base a questo. Anche nel settore quattro, per quanto ci vantiamo di essere i meno superficiali della base spaziale; la verità è che siamo quelli che se lo possono permettere di meno. Io e Bellamy Blake rientriamo nel cliché e stasera è evidente più che mai.
Lui porta una felpa grigia con un cappuccio e dei pantaloni inguardabili. Scarpe da ginnastica inguardabili.
Io indosso una salopette mezza strappata (non ad arte, per l’usura) da cui sbuca una maglia gigantesca (non oversize appositamente scelta, è di John), ho maniche e calzoni risvoltati e gli stivali da trekking ai piedi. Gli stivali da trekking sono la cosa più stupida che si può  possedere su una navicella spaziale quindi John si era sentito in dovere di regalarmeli – e, parallelamente, di rivendere al mercato nero le altre scarpe che avevo – in modo che non potessi esimermi dall’indossarli. Se non adorassi quel ragazzo, lo odierei.
 
Guardo il giovane di fronte a me e per la prima volta lo vedo davvero. Un po’ perché stanotte non sono strafatta di adrenalina, un po’ perché stanotte non ho abbassato le luci, nel tentativo di tenermi sveglia.
Sì, avevo ragione: lentiggini. E occhi piccoli, rotondi, scuri. Capelli neri. Nascosti sotto il cappello, al nostro primo incontro non li avevo notati. Forse non li portava nemmeno così spettinati. Sono mossi, quasi ricci. La tentazione di infilarci le dita in mezzo mi coglie alla sprovvista, disorientandomi per un attimo. Lui si tira su le maniche della felpa, scoprendo le braccia. Socchiudo le labbra per reazione spontanea.
Lui non mi da il tempo di notare altro, perché inizia a muoversi e a parlare, costringendomi a seguirlo. Si avvia verso l’ufficio con lunghe falcate da militare, manco fosse il suo posto di lavoro.
“Dunque, se vogliamo riuscire a fare qualcosa, dobbiamo farlo in fretta. Kane ti ha dato quattordici giorni per terminare il lavoro e altri due perché loro potessero revisionarlo e caricarlo sui bracciali. Il sedicesimo giorno, i Cento vengono spediti sulla Terra.”
Il riassunto è esatto, perciò non dico nulla, limitandomi a cercare di tenere il passo.
“Vuol dire che noi abbiamo tredici giorni, da stasera dodici, per riuscire nell’impresa.”
Mi fermo in mezzo al salone ma lui mi ignora e prosegue, lasciandomi indietro.
“Quale impresa?”
“Impedire il lancio.”,
risponde, senza nemmeno voltare la testa indietro.
Mi prendo qualche altro istante di sconcerto prima di inseguirlo. È già in fondo alla sala, pronto ad entrare nell’ufficio.
“Cos’hai detto?”
“Ho detto: impedire il lancio.”
Entra in ufficio e finalmente si ferma. La mia frenata in ritardo rischia di farmi ribaltare addosso alla sua schiena. Incespico. Lui si volta.
“Ci stai?”
“Ma certo che no. Com’è che ti chiami, tu?”
Lui guarda al di là della mia testa, alla teca. Si è portato le mani sui fianchi e gonfia il petto per inspirare. Lasciando uscire l’aria dal naso, non può esimersi dal raschiarsi la gola, tanto per sottolineare con maggiore enfasi il fastidio che gli da la mia risposta.
“Bellamy.”,
sbuffa.
Io annuisco.
“Bellamy. Io sono Blair.”
“Lo so chi sei.”
“Perché stasera sei così nervoso?”
“Non saprei. Octavia che sta per essere spedita a crepare? La nostra base spaziale che implode su se stessa? La fine del genere umano?”
Mi sembra di sentir risuonare il tono sarcastico di John in quella reazione e nonostante tutto mi sfugge un sorriso, che mi affretto a rivolgere al pavimento. Lui se ne accorge comunque.
“Che c’è?”
“Niente. Senti, prima io credo che dovremmo analizzare cosa…”
“Non gli lascio mandare mia sorella a morire sulla Terra senza fare niente.”
Ha scandito una parola alla volta. Sgrana gli occhi e inclina il busto verso di me. Sarebbe minaccioso non fosse che il suo viso è una maschera di dolore, non di rabbia.
Mi lascio commuovere. La sua ansia per la sorella fa da specchio alla mia per John. Anzi, è la prima volta che qualcuno mi mostra da fuori cosa significhi essere nella mia posizione.
Ecco come ti trasforma i lineamenti la più totale, cocente impotenza, quando è mischiata alla paura, e strangolata dall’amore. Bellamy si riflette in me.
Vorrei avvicinarmi ma siamo già a pochi centimetri.
“Se tua sorella rimane qui non so se le cose andranno meglio. Hai sentito cos’ha detto la Griffin sull’Arca…”
“Tu le credi?”
“Sì che le credo.”
Lui sbuffa di nuovo.
“Ok, ammettiamo che sia vero. Devono per forza mandarci mia sorella?”
“Non è certo che mandino proprio tua sorella.”
“Sì invece. Guarda.”
Torna dritto con la schiena, lontano da me. Lo guardo frugarsi nelle tasche dei pantaloni cargo ed estrarne un foglio spiegazzato. Me lo porge.
“Cos’è?”
“L’elenco dei detenuti minorenni dell’Arca.”
Resto a bocca aperta. Mi affretto a prendere il foglio, a distenderlo.
“Tutti?”
“Tutti.”
I miei occhi scorrono rapidi lungo la colonna finché non incontrano il nome di John.
“Come l’hai avuto?”
“Non sono informazioni riservate. E io sono una guardia.”
Ho il naso attaccato al foglio.
“Sono più di cento, te l’avevo detto.”
“Non molti di più. Resteranno sull’Arca solo in ventinove.”
Viene di fianco a me e tira con gentilezza un lembo del foglio, per metterlo tra di noi. Lo teniamo ai due lati. Con la mano libera, indica qualche nome sparso.
“Credo resteranno i rampolli del settore due e qualche ragazzino imparentato con membri del Governo, come questo… Quest’altro, sicuramente… Vedi?”
“No, dobbiamo eliminarli sulla base dell’età. Non invieranno bambini.”
“Dici?”
Punto l’indice al centro della colonna.
“Charlotte Wilkes, 12 anni. Credi la manderebbero sulla Terra?”
“Vorrei avere la fiducia che hai tu in Kane e Jaha.”
“Non ho fiducia in loro, ma nel buonsenso.”
“Il buonsenso da ragione a me, Blair Foer. Comunque Octavia è tra i più grandi e non appartiene a nessuna famiglia importante, quindi è poco ma sicuro che salirà sulla navicella.”
Restiamo in contemplazione della lista senza dire nulla per un po’, nella quiete della biblioteca.
Rischio di sentire il rumore delle sue rotelle che girano a vuoto, se mi concentro. Questo ragazzo non avrà pace finché la sorella non sarà al sicuro, è evidente. Non mi fossero bastate le sue parole, il tono da capitano pirata con cui le ha pronunciate, la tensione leggibile sui muscoli del viso e delle braccia, ci avrebbe pensato questo minuto di silenzio, così carico di energia da rendere l’aria intorno a noi più densa, materiale.
Mi accorgo all’improvviso di quanto caldo sia il suo braccio attaccato al mio e che sento la stoffa dei suoi pantaloni strofinarsi sulla tuta.
“Qual è il tuo?”,
mi domanda, svegliandomi dalla trance.
Metto il dito su John Murphy. Il mio John Murphy.
 
John Murphy, 17 anni, settore quattro – Aggressione a pubblico ufficiale
 
Bellamy ripiega il foglio e se lo ricaccia in tasca.
“Io dico che possiamo salvarli.”,
afferma con un tono che non ammette repliche.
La replica arriva lo stesso:
“Io dico che non sappiamo se tenerli sull’Arca sia salvarli.”
Lui si è allontanato ancora, ora è accanto alla scrivania di Doug e io al centro della stanza. Si appoggia a braccia conserte sul ripiano del tavolo. Mi scruta, guardingo, in attesa che io mi spieghi.
“Ragiona: perché tanta ansia nel farmi selezionare i libri? Non sono affatto sicuri che l’Arca sopravviverà abbastanza da salvarci tutti. Se i Cento fossero davvero soltanto una prima colonia, non avrebbero bisogno dei romanzi. L’Arca non è la salvezza. Forse la Terra lo è.”
Bellamy non cambia né posizione né espressione.
“Ragiona tu: se fosse meglio scendere sulla Terra, ci metterebbero loro i piedi per primi.”
Mi disturba la sua lontananza di adesso tanto quanto la sua vicinanza di poco fa.
Per reazione, incrocio anche io le braccia al petto.
“Non so cosa pensare, non abbiamo abbastanza elementi per capire.”
Chiudo gli occhi, per cercare nel buio uno spiraglio di lucidità, un’illuminazione.
Scuoto ancora la testa, con la fronte abbassata verso il pavimento dove fino a mezz’ora fa mi stavo disperando alla ricerca dei miei venticinque titoli fondamentali. 
“Non posso trovare una soluzione senza i dati.”,
dico, sollevando le braccia con i palmi al soffitto, stringendomi nelle spalle.
Quando torno a rivolgermi a Bellamy, scopro che mi stava già guardando.
“Cosa facciamo se non sappiamo cos’è meglio fare?”,
gli chiedo, sincera, sentendomi completamente persa e del tutto in balia degli eventi, del caso, delle altre persone.
Bellamy si stacca dalla scrivania e mi raggiunge. Non mi tocca.
“Li salviamo dal pericolo più imminente. Se se ne presenterà un altro domani, li salveremo anche da quello. Intanto, tiriamoli fuori dai Cento.”
Il conforto che provo nel sentire le sue parole mi scioglie. Sento la stretta allo stomaco disfarsi, i polmoni allargarsi.
Questa è una soluzione sensata e funzionale e pratica e perfetta. Dio, grazie per aver messo quest’uomo intelligente sulla mia strada. Nella mia biblioteca.
Tiro un lunghissimo sospiro di sollievo, che lo fa ridere. Forse sono stata troppo espressiva. Lui mi guarda in sottecchi, di nuovo con il busto inclinato per portare il viso alla mia altezza, e le guance gli si stirano sugli zigomi alti, le fossette appaiono tra le lentiggini e gli occhi gli si stringono di piacere. Ha un bel sorriso, ampio, che gli trasforma completamente il viso.
Bellamy Blake, com’è possibile che non ci siamo mai incontrati prima? Mi saresti tornato così utile negli ultimi sei mesi. Mi avrebbe fatto comodo un tipo come te, che mi da ordini che mi fanno venire voglia di obbedire, che riesce ad essere tanto garbato quanto brusco, che usa il cervello come si deve e che quando ti sorride mi fa sentire al caldo.
Lui mi riporta al presente quando, accorgendosi di pestarlo, raccoglie un mio quaderno da terra.
Se lo porta vicino al viso e lo vedo sillabare le parole che ho scritto mentre scorre i miei appunti.
All’improvviso volta il quaderno, mettendo la pagina che stava leggendo a mio favore, con una faccia indecifrabile.
“È così che si lavora?”
Metto a fuoco la pagina incriminata e ho un mancamento.
 
Ettore se ne stava abbastanza lontano da me perché io non riuscissi a distinguere i tratti del suo viso con chiarezza, eppure abbastanza vicino da togliermi ogni capacità di distinguere altro.
 
Scatto per riprendermi il quaderno e Bellamy se lo lascia portare via.
“Chi è Ettore?”
“Nessuno. Stavo ricopiando il testo di un libro che ho letto. Per la biblioteca.”
“Certo.”
Stringe le labbra e si rimette nella sua posa preferita, a braccia conserte. Nel cogliere il movimento dei muscoli asciutti del suo braccio, decido che anche la mia posa preferita.
“È la verità.”
“Ne sono sicuro. Era Catullo, no?”
Sono irritata. Non da lui, dalla mia stupidità. Beh, anche da lui.
“Senti, tornando alle cose importanti. Quando avrò finito il lavoro, posso chiedere di tenere sull’Arca anche Octavia, oltre a John. Non so quanto potere di trattativa ho…”
Bellamy mi interrompe, indicando qualcosa alle mie spalle.
“…soprattutto visti i tuoi progressi sul lavoro.”,
dice, mentre passandomi accanto mi scavalca.
Si dirige verso la teca.
Su uno dei pannelli di vetro ho attaccato con lo scotch i fogli con l’elenco dei venticinque numeri, pronti a ricevere i loro titoli abbinati. Linee vuote.
Bellamy li indica.
“Bloccata?”
Annuisco. Non ha senso mentire.
Sto per mettermi a spiegargli perché io non creda di essere la persona giusta per il lavoro, e che ho la sensazione ci sia qualcosa sotto l'idea di affidarlo a me, quando lui si china di nuovo verso il pavimento e recupera una matita abbandonata.
Si piega sul foglio e scrive.
“Cosa fai?”
“Il primo passo può essere il più difficile.”
In un attimo ha finito e mi invita ad avvicinarmi. Mentre cammino verso di lui, commenta:
Questo è uno dei fondamentali. E non si discute.”
Mi sporgo sulla prima riga di fianco al numero 1, finalmente riempita. Il dito di Bellamy è ancora appoggiato lì.
 
Omero, Iliade
 
“No, non si discute.”,
convengo, guardando il suo sorriso allargarsi tanto quanto il mio.
“Vedi? Hai già cominciato. Ora, un passo alla volta.”,
dice, porgendomi la matita.
“Te ne mancano solo quattromilanovantanove.”
Mi fa l’occhiolino e non trattengo una piccola risata, sfilandogli la matita dalle dita.
“Senti, come dici tu, torniamo alle cose importanti. Conosco qualcuno che può aiutarci.”
“Davvero?”
“Davvero. Ci vediamo al ponte di raccordo tra il settore quattro e il tre domani alle undici. Ci sarai?”
“Undici di mattina?”
“Sì. Avrò un’ora di pausa a quel punto della giornata, sfruttiamola.”
Annuisco.
Bellamy si aggiusta la felpa sulle spalle e si avvia fuori dall’ufficio, chiedendomi di aprirgli la porta principale dal pannello centrale. Uscendo, si raccomanda che io scelga tra le uniche due opzioni che possono essere utili al nostro piano d’azione: Adesso o dormi o dormi, dice.
“…Tanto non serve a niente quella lista. Non ce li manderemo, sulla Terra. E tu mi servi riposata.”,
continua, camminando all’indietro per potermi guardare. Lo ricambio, ostentando sicurezza, frenando l’agitazione che le sue parole mi mettono addosso.
Sto davvero per farlo? Ho davvero deciso di seguire questo sconosciuto fregandomene della legge, dell’isinto di sopravvivenza e di ogni cautela, pur di salvare John?
Non so se Bellamy mi legga veramente nel pensiero, ma di sicuro capta ogni cosa che mi succede sottopelle. Il suo sguardo attraversa la mia maschera di risolutezza e coglie i singoli brividi delle paure che mi possiedono. Allora prima di voltarsi e sparire nel salone, si congeda con un ultimo tentativo in extremis di farmi sorridere:
“Anche nell’Iliade c’è un Ettore, lo sapevi?”


****

22/07/17
Capitolo lunghissimo rispetto agli altri, lo so! Spero non noioso :)
Grazie a tutti i lettori, come sempre. Grazie grazie grazie grazie.
A presto!,
LRM

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Capitolo 11
*** Il meccanico ***


IL MECCANICO
 
Non ho mai incontrato una ragazza tanto bella.
È vestita come una fuggiasca scampata da un incendio; è lurida, stropicciata, struccata, con la coda di cavallo legata alla bell'e meglio, ed è comunque meravigliosa. Ha occhi giganteschi, castani, sopracciglia folte, definitissime. Pelle di porcellana ambrata, nere ciglia infinite… Spalle larghe, fianchi sottili, braccia asciutte e muscolose, come le gambe. Io nemmeno se passassi ventiquattr’ore filate al Centro Estetico e mi rifacessero da capo a piedi con una mano di stucco potrei essere degna di pulirle le scarpe. Sto sperando che sia almeno stupida.
“È il più giovane cadetto meccanico della storia dell’Arca.”
Grazie Bellamy, sei di supporto.
Mentre parliamo, la bambola non smette per un attimo di lavorare. Lavorare a cosa, non mi è chiaro. Distinguo bulloni,  frese e una montagna di metallo; una saldatrice, una cassetta degli attrezzi e il più grande computer io abbia mai visto, che continua imperterrito ad inviare messaggi ed eseguire calcoli a venti cifre. Lo schermo viene proiettato sulla parete al nostro fianco, due metri per tre.
Lei si è presentata senza porgermi la mano, ha ritenuto sufficiente un cenno del capo e la descrizione che Bellamy ha fatto per lei.
Afferra uno strumento che non so identificare e inizia a farci cose che non so descrivere; sta facendo un rumore assordante, che regala a me e a Bellamy un minuto di privacy anche senza allontanarci di un passo.
“Raven è la migliore. Se c’è qualcuno che può aiutarci, quella è lei.”
“Le hai raccontato tutto?”,
chiedo, rigida come i pezzi di lamiera che ci circondano.
“Lei ha il ragazzo, tra i Cento.”
Il rumore si interrompe e noi con lui.
“Finn non è il mio ragazzo, Finn è la mia famiglia.”,
lo corregge lei, avvicinandosi.
Non ripone l’aggeggio, continua a tenerlo in mano mentre ci guarda, soppesandoci. Non avevamo davvero della privacy.
Mi fissa, più a lungo di quanto riesca a sopportare senza iniziare a sentire caldo alle guance.
“Di me ti puoi fidare.”,
dice, il che dovrebbe suonare rassicurante, non fosse che me l’ha detto abbaiando. Continua:
“Tu chi sei?”
“Mi chiamo Blair.”
“Sì, me lo hai detto. Ma chi sei?”
Esito.
“La bibliotecaria.”,
mormoro, e Bellamy si schiarisce la voce al posto mio.
“Ma sono la più giovane cadetto bibiliotecaria della storia dell’Arca!”,
cinguetto, nella speranza di alleggerire la tensione. Bellamy dissimula un sorriso guardando verso il soffitto. Raven non fa una piega.
Le persone di bell’aspetto mi hanno sempre messo in soggezione. Infatti con Jaha mi sono comportata da imbecille e a Bellamy invece riesco a tenere testa. Fintanto che resta dall’altro lato della stanza, porta le maniche lunghe e un cappello e non muove le mani, non parla, non mi guarda negli occhi e…
“Quindi tu sei una bibliotecaria.”,
ripete Raven, aspettando un mio cenno di assenso, che non tarda ad arrivare. Si volta in direzione di Bellamy e giuro che riesco a leggerle nel pensiero quando formula la domanda Cosa ce ne facciamo di una bibliotecaria?, che è un po’ quello che inizio a chiedermi anche io da qualche giorno a questa parte.
La ragazza giocherella con quella specie di arma a combustione che tiene tra le mani. Poi prende dal tavolo una visiera integrale e la indossa, allontandosi.
Io resto accanto a Bellamy, ad osservarla da lontano. Mentre lo faccio, non posso fare a meno di pensare che è il tipo di ragazza di cui John si innamorerebbe in trenta secondi. Mi accorgo che sto digrignando i denti solo quando inizia a farmi male la mascella.
Mi rivolgo a Bellamy più bruscamente di quanto vorrei:
“Dimmi che è l’unica persona con cui hai parlato.”,
sillabo, trattenendo la voce per non tradire il fastidio che provo.
Lui mi guarda.
“Certo.”,
dice, semplicemente. Lo dice come io direi “John”, se mi chiedesse cosa mi spinge ad essere qui, a scavalcare qualsiasi limite io abbia mai tracciato crescendo. Come un’ovvietà disarmante.
Ma io insisto, devo insistere:
“Ne va della mia vita. Ne sei consapevole?”
Lui non si innervosisce, e ripete:
“Certo.”, più dolcemente.
Restiamo qualche secondo occhi negli occhi, fissandoci dalle nostre altezze sfalsate. Prima di tornare a parlare, lui accosta le labbra al mio orecchio. Inclino la testa e non so bene se sto allontanando la mia bocca dalla sua o porgendo il collo per i suoi denti.
“Se ne ho parlato con lei è perché ci serve. E mi fido ciecamente di Raven. Vedrai, all’inizio fa la dura, ma si rivelerà la migliore delle risorse e ti verrà voglia di averla come amica.”
Lancio un’occhiata al nostro argomento di conversazione, di nuovo immersa nel lavoro, nascosta dalla visiera. Faccio fatica a credere alle parole di Bellamy ma decido di non replicare. Non credo di essere il genere di persona che Raven possa decidere di frequentare. Mi chiedo invece se tra loro due non sia mai successo qualcosa. Ricomincio a masticarmi l’unghia del pollice.
Lui prosegue:
“E ricorda che ne va della vita di tutti noi.”,
precisa, e so che pensa ad Octavia. Lo so perché il suo viso si contrae e qualcosa nelle sue pupille inizia a bruciare. Mi perdo nel carbone dei suoi occhi, come mi perdo tra le righe di una storia. Lo sfondo si sfoca e gradualmente restano a fuoco soltanto le sue iridi d’ombra. 
Mi sto affidando a due perfetti estranei, sto mettendo la mia esistenza – e quella di John – nelle mani di questo tizio alto e militaresco e di una specie di dea della meccanica senza opporre la resistenza che dovrei. Razionalmente, so che dovrei rallentare. Ma Bellamy Blake mi guarda e mi porta altrove, in un posto dove ha senso qualsiasi cosa io possa fare per salvare John, anche la più pericolosa, anche la più assurda. Bellamy mi guarda e mi dice che ce la facciamo. Mi guarda e mi dice che non abbiamo davvero una scelta: amarli ci ha resi responsabili.
“Ok, da dove cominciamo?”,
urla Raven dall’altro fondo della sala. Si è tolta le guarnizioni, la maschera e gli scarponi anti infortunio. Ha mollato il lavoro e freme per avere qualcos’altro per le mani.
"Ma sei un ingegniere o un meccanico?"
"Devo scegliere uno dei due?"
Stiamo tutti sudando, la temperatura nel laboratorio è micidiale. Mi stacco la maglietta dalla pancia pizzicandola con due dita. Mi si incolla di nuovo all’epidermide appena torna ad abbassarsi. Ammiro l’effetto dell’afa sulla pelle di Bellamy, che riluce sotto il neon, umida, calda.
“Allora, ragazzi? Solo dodici giorni!”,
ci ricorda Raven, sollevando le braccia.
Sposto lo sguardo dal viso elettrico di lei agli occhi di Bellamy, che mi aspettavano. Smetto di mangiarmi le unghie.
Pronta?
No.
Sì che sei pronta. Un passo alla volta.
Tu sei pronto?
No. Ma ce la facciamo.
Lui si dirige deciso verso Raven, dando per scontato che io lo segua. Quando si rende conto che non mi sono mossa di un millimetro, sospira.
Lo esaspero. Ogni volta che tentenno o faccio obiezioni o mi comporto da persona razionale lui si sente rallentare e sbuffa. Allora sbuffo anche io, tanto per ricordargli che non siamo tutti soldati in borghese che vanno matti per la lotta armata e che muoversi a ritmi diversi non vuol dire per forza che la tartaruga sia la bestia da biasimare. Dice un passo alla volta, ma poi pretende che io corra al suo fianco. Mi manca la cedevolezza rilassata di John. Con lui potevo essere me stessa, sempre. Bellamy pretende che io sia migliore di ciò che sono, ogni minuto di ogni giorno. 
Ci scambiamo un’ultima occhiata tesa. Poi senza dire altro raggiungiamo Raven e ci mettiamo al lavoro, stando attenti a mantenere sempre almeno un metro e mezzo di distanza tra di noi. 


****
31/07/17
Prossimo aggiornamento molto più veloce, promesso!
A presto, presto, presto
LRM

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Capitolo 12
*** John ***


JOHN
 
Manca ancora un'ora all’appuntamento con Bellamy e Raven, ma mi ritrovo in anticipo, già pronta per uscire.
Seduta sul letto, mi lego l’elastico dei pantaloni. Scopro di dover allacciare la tuta più stretta del solito.
Sono giorni che mia madre che mi osserva in sottecchi; so che ha notato che mangio in modo disordinato, digiuno per mezza giornata e poi divoro la cena voracemente, di fretta, senza gustarmela. Altre volte invece salto l’ultimo pasto perché non ho mai smesso di smozzicare qualcosa da quando mi sono svegliata. So che mi sente mentre mi rigiro senza pace nel letto la notte. So che non riesce ad ignorare le mie occhiaie, ancora più accentuate del solito. Mi ha persino regalato un barattolino di fondotinta: una crema ocra pastosa e profumata, che so che costa tantissimo. Me la sono ritrovata sul comodino senza che lei ne facesse menzione. Nemmeno dopo ne abbiamo parlato. Sono uscita dalla camera e l’ho abbracciata, e basta.
 
Credo che lei si immagini che stia soffrendo per John. Una specie di reazione in differita per il suo isolamento. L’ho sentita ripetermi spesso, sei mesi fa, che forse non stavo dando abbastanza spazio al mio dolore. Non ho versato una lacrima, all’inizio. Ora sto saldando il debito, forse.
Ma non è per John che sto così male. Non solo per lui.
Oggi pomeriggio mi lancerò in un folle piano suicida. Metterò a rischio la mia vita e quella dei miei cari. Rischerò di farmi espellere e non vederli mai più e rendere i miei genitori dei genitori senza figli. Non se lo meritano. Ma che altro posso fare?
Quindi anche se mia madre non lo sa, è per lei che sto piangendo.  
 
Dal mio letto riesco a vedere lo specchio. È troppo tempo che non mi taglio i capelli. Li ho sempre portati lunghissimi, ma ora sono anche spenti, crespi. Il castano scuro, mogano, che mi piaceva tanto, non luccica più, non è setoso come un anno fa. Mi sembrano anche sottili, adesso...
Mi alzo e mi faccio una coda, controvoglia. Non è una cosa a cui normalmente farei caso ma l’immagine che mi riflette è così tremenda da rendermi impossibile non notare ogni singolo difetto.
All’improvviso a fianco del mio viso ne compare un altro.
Gli occhi verdi si stagliano nella penombra della camera, illuminandola.
“Stai meglio di quel che pensi.”,
mi dice svogliatamente. Scuoto la coda di cavallo, mi passo le mani sulla tuta bianca.
“Lo dici solo perché mi vuoi bene.”
Ci fissiamo nel riflesso dello specchio.
“Innanzitutto questo lo dici tu…”,
replica John, appoggiandosi allo stipite della porta, la testa reclinata all’indietro, al muro. Mi scruta con una smorfietta sarcastica, il mento sollevato.
Mi fa sorridere, mi lascio andare. D’istinto distendo le spalle, ruoto la testa facendo scrocchiare le ossa del collo.
Fa qualche passo verso di me. Le mani se l’è messe in tasca.
Mi guarda, al di sopra della mia spalla. Inspiro profondamente, forse per la prima volta da settimane.
“Cos’hai, Mostro?”
“Mi sei mancato.”
“Sarà bene.”
Ride, e finalmente rido anche io.
All’improvviso, è come quando avevamo dieci anni e ci nascondevamo in qualche angolo dell’Arca per non andare a scuola il giorno in cui c’erano tre ore di ginnastica. Pigiati sotto un ponte o dietro un banchetto del mercato nero, ci scambiavamo due pezzi di pane spalmati di crema e ci raccontavamo barzellette inventate da noi.
“Ti costerebbe tanto rispondermi che ti sono mancata anche io?”,
lo prendo in giro, inclinando la testa da una parte.
Lui mi lancia un’ultima occhiata divertita allo specchio e poi appoggia la fronte sulla mia spalla. Sorpresa da quel gesto morbido, intimo, torno dritta con la testa, come pizzicata dalla scossa.
Sospira, e sento il calore del suo fiato scaldarmi la pelle attraverso la maglia.
"Stai facendo la moglie trascurata?"
"Non so: stai facendo il marito stronzo?"
Ride di nuovo, con una specie di sbuffo divertito.
Appena lo sento alzarsi mi volto. Ci guardiamo senza il filtro dello specchio.
Il suo viso così familiare non smette mai di essere interessante per me. Ci scopro sempre nuovi particolari. È cangiante e mutamorfa, complesso. Come lui.
“Mi sei mancato.”
“Lo hai già detto.”
Mi scosta la coda, lasciando che ricada sulla schiena. La sua mano, nel percorso che l’avrebbe ripostata a sé, si sofferma sul mio orecchio, su cui lascia un dolce pizzicotto. Il suo pollice continua a disegnare una serie di cerchi delicati sul mio lobo, finché quello che doveva essere un buffetto affettuoso si trasforma in qualcos’altro. Non mi sta guardando negli occhi, ma osserva le sue stesse dita muoversi, poi scende sul mio collo, le clavicole, e risale alle labbra. Allora abbassa il braccio e alza lo sguardo. Torniamo occhi negli occhi.
Siamo sempre noi. Solo la vicinanza tra i nostri visi è inedita. La noto solamente quando è lui ad accorgersene, facendo un passo indietro.
Qualcosa mi spinge a non lasciarlo allontanare. Lui fa un passo indietro, io ne faccio due avanti. Ci troviamo a qualche centimetro appena. Lui ha alzato le mani, non so se per accogliermi o respingermi. Io faccio altrettanto, e ci ritroviamo in una specie di abbraccio malriuscito. Le nostre pance si toccano, il mio naso fiora il suo mento. I respiri si mescolano.
“Blair…”,
mormora, con la voce arrocchita, traballante. E anche questa è una cosa nuova. Anche quando è nervoso, arrabbiato o triste da morire, John mantiene la sua posa, l’atteggiamento. Nemmeno prima che saltasse addosso alle guardie che stavano portando via suo padre la minima emozione l'ha tradito. John non tentenna, è un attore coi fiocchi. 
E ora è completamente perso.
Se non avessi io stessa lo stomaco intrecciato, giuro che potrei ridere nel vederlo in questo stato, così disorientato, preso in contropiede.
Appoggio un palmo sul suo petto e rischia di tremarmi la mano, per quanto forte sento battergli il cuore. Lui cerca di recuperare l’autocontrollo, ferma lo sguardo sui miei occhi e decide di non muoverli più. Lo sento irrigidirsi, tentato dalla voglia di scappare.
“Non andartene.”,
lo imploro, ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Si stacca da me bruscamente, scostandomi indietro.
Scottata, resto immobile e in apnea. Tocca a me sentirmi perduta. Fisso il muro di fronte a me, ascolto i suoi passi sbattere sul pavimento. Mi sta lasciando.
 
Prima che riesca a rendermene conto è tornato indietro di corsa e mi sta afferrando le guance e il collo tra le mani, facendomi male. Le sue labbra si appoggiano sulle mie senza grazia, me le preme addosso con forza. Non è un bacio morbido, non è dolce, non è delicato. Sento il rumore del suo respiro che fatica ad entrare e uscire dal naso, mentre mi schiaccia contro di sé con il peso del suo corpo. Mi fa arretrare in fretta, inciampo su un paio di scarpe rimaste in mezzo alla stanza e lui continua a spingermi indietro finché la mia schiena non incontra il muro, non troppo gentilmente. Al contatto con la parete, sono costretta a gemere e non sono sicura sia colpa del dolore alla spina dorsale.
John sposta le mani dal mio viso e le fa scorrere giù lungo i fianchi. Mi affonda le dita nella pelle con una violenza che mi trancia il fiato. Stiamo correndo, tutti e due, come se cercassimo di recuperare in un bacio i dieci anni passati vicini senza volerci toccare.
Apro la bocca per respirare ma lui non è disposto a lasciarmi spazio sufficiente. Schiude invece le sue, di labbra, rendendo il bacio più profondo, diverso. La sua lingua trova la mia e mi riempie la bocca finché non restiamo entrambi senza aria a disposizione. Allora mi concede mezzo secondo per trarre fiato, mi passa una mano dietro la schiena, staccandomi dal muro e stringendomi a sé. È così forte che penso mi stia riempiendo di lividi solamente abbracciandomi. Le mie braccia lo cercano, veloci; infilo una mano sotto la maglietta, trovo la pelle della sua schiena, caldissima. Quando anche la mia maglia si solleva leggermente, finalmente siamo pelle a pelle e la sensazione strappa anche a lui un gemito, che fa eco al mio.
John mi fa scivolare via l’elastico in un gesto affrettato, liberandomi i capelli. Ci infila entrambe le mani, intrecciandoci le dita, scompigliandoli completamente e tirandomi la testa da una parte, per riuscire a baciarmi più intensamente. Il suo viso spinge così tanto sul mio che sto reclinando la schiena all’indietro, e se una delle sue braccia non accorresse a cingermi la vita saremmo già caduti in terra.
Poi, improvvisamente, rallenta.
La sua bocca si allontana, senza che nessuna altra parte del corpo faccia altrettanto, e leggo il guizzo di soddisfazione nei suoi occhi nell’ascoltare il lamento che mi esce di gola quando le nostre labbra si separano. Lecca dolcemente il mio labbro inferiore, prima di tornare a baciarmi.
“Dal tuo letto si vede lo specchio, vero?”,
mormora con un filo di voce, ansante come me, senza lasciarmi modo di rispondere, baciandomi ancora. E prima che io riesca a chiedermi che cosa ha in mente o a dirgli di sì, un rumore assordante mi fa sobbalzare.
 
Con un sussulto doloroso mi sollevo di scatto, ansimando. La sveglia continua a suonare imperterrita. Allungo una mano verso il comodino, cercando di spegnerla, ma riesco solo a ribaltarla in terra, il che la fa comunque tacere. Un ronzio mi stordisce i timpani.
Non mi sono addormentata per più di dieci minuti credo, eppure le lenzuola sotto di me sono bagnate di sudore. Mi passo una mano dietro il collo, sotto i capelli, scoprendolo madido. Ho caldo e vorrei alzarmi ma sento che le gambe non potrebbero sorreggermi. La testa vortica e il cuore va a centomila.
“Dio mio…”,
sussurro, senza che nella stanza ci sia nessuno che possa sentirmi. Grazie al cielo ho impostato la sveglia all’ora X. E pensare che prima di addormentarmi ero in anticipo di un’ora sulla tabella di marcia, mentre adesso… Sono in ritardo! Alla faccia dei dieci minuti! Ero così stanca che è stato sufficiente sedermi sul letto per crollare. Bellamy mi ucciderà. Ogni volta che faccio tardi si preoccupa che possa essermi successo qualcosa di terribile. E Raven è persino più paranoica di lui. Devo sbrigarmi, devo alzarmi anche con le gambe instabili e i giramenti.
Nel farlo, incrocio i miei occhi allo specchio. Ecco, ora sì che sei davvero un disastro, Blair.
Come nel sogno, mi lego i capelli con un elastico. Arrossisco al ricordo di quello che il mio inconscio è stato capace di architettare all’insaputa della mia ragione. Non ho mai sognato una cosa del genere con John. Non ho mai desiderato una cosa del genere con lui nemmeno da sveglia.
Eppure le mie iridi sono ancora dilatate e le guance rosso fuoco. Ho voglia di farmi una doccia e di bere un litro e mezzo di acqua gelata. I capelli sono indomabili, come se davvero John ci avesse immerso le dita spettinandoli… La pelle formicola e non mi sorprenderei se trovassi davvero delle macchie violacee là dove più mi ha tenuta stretta. Mi metto una mano sulla pancia. Scotta. Un brivido mi percorre la spina dorsale, come a ricordarmi la sensazione di essere schiacciate contro un muro dal petto di John. Scopro che la tensione che avevo sulle spalle si è disciolta.
La sveglia ricomincia a suonare e prima che Bellamy e Raven vengano a prelevarmi fisicamente dal lotto, afferro la mia sacca ed esco di corsa senza voltarmi indietro e senza chiudere la porta. 

****

03/08/17
Non sto nemmeno a dirvi quanto sia stato difficile scrivere questo capitolo. Spero di essere riuscita a renderlo vivido e comprensibile (oltre che divertente, come si spera sempre)! 
Attendo vostre news! Ma siate buoni ^^...
A presto!
LRM

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Capitolo 13
*** Il giorno della festa ***


IL GIORNO DELLA FESTA

Raven è seduta al mio fianco e spinge ossessivamente una gamba su e giù, un piccolo tic che non la abbandona mai, in quelle rare occasioni in cui non è in piedi e in movimento.

Sta piegata in avanti, appoggiata sulle ginocchia. Ogni tanto mormora qualcosa tra sé e sé, ricapitola tutto ciò che potrebbe andare storto e tutto ciò che abbiamo congegnato per arginare gli errori.

“Mi stressa vederti così ferma. Come fai a stare calma?”,

mi accusa all’improvviso.

Sto seduta a braccia incrociate e gambe accavallate. Ho il respiro sottile e sto fissando la stessa macchia sul muro da quando ci siamo sistemate ad aspettare.

“È il mio modo di reagire all’ansia.”

“Immobilizzarti?”

“Sì. Credo che inconsciamente il mio corpo cerchi di mimetizzarsi. Dev’essere una cosa che ha a che fare col periodo in cui gli esseri umani e gli animali…”

“Blair, ti prego. Niente lezione, oggi.”

No, io e Raven non siamo diventate amiche come Bellamy aveva predetto. Siamo troppo diverse e ce ne siamo rese conto dopo un solo pomeriggio di lavoro spalla a spalla. Andiamo a due velocità differenti. Il suo cervello ha tre o quattro finestre di operazioni sempre aperte in contemporanea, come un computer. Raven lavora come le macchine che aggiusta, e credo che ne capisca profondamente il funzionamento perché sono multitasking alla stessa maniera. Io invece leggo i libri, che scorrono una parola per volta.

Ora, nella mia testa, c’è il vuoto assoluto. Non riesco più a rivedere nemmeno i passaggi del piano. A tratti, a tradimento, il subconscio mi ripropone stralci del sogno semi erotico che ho fatto poco fa sul mio migliore amico, tanto per distrarmi.

Non credo di essere davvero cosciente di ciò che stiamo per fare. Perché se lo fossi non penso riuscirei ad arrivare in fondo. Invece stanotte sono riuscita a dormire persino tre ore e ho vomitato solo due volte. Mio padre era convinto fossi incinta.

Chiudo gli occhi.

“Blair, che ore sono?”

“Sono le stesse ore di prima più un minuto, Raven.”

“Che ore sono?”

Non mi serve guardare l’orologio. Mi metto le mani sulla faccia, perché anche ad occhi chiusi c’è troppa luce in questa stanza.

“Le cinque e cinquantaquattro.”

“È in ritardo.”

“Avevamo detto alle sei.”

“Sono lei sei.”

“Sono le cinque e cinquantaquattro.”

In quello stesso istante la porta della biblioteca viene attivata dall’esterno. Bellamy entra, grazie al mio Pass. Raven scatta in piedi e lo raggiunge. Io resto fedele al mio progetto di mimetizzazione.

“Sei in ritardo.”,

lo rimprovera lei e lo sguardo di Bellamy trova subito il mio viso, al di là di Raven. Oggi non riesco a sorridere nemmeno a lui. Bellamy si concede mezzo secondo di fastidio, in reazione alla mia freddezza, per poi tornare il soldato che è.

Lo osservo con la coda dell’occhio rivolgersi a Raven e prenderla per le spalle, per poi sollevare le braccia in aria; un'imitazione ben riuscita di entusiasmo.

“Ragazze! Pronte per stasera?”

La sua voce è diversa dal solito, più alta, più leggera. Finta.

Infastidita, terribilmente infastidita, mi alzo e li raggiungo. Spero che agli occhi delle telecamere il mio scatto possa essere scambiato per eccitazione.

“Pronte! Raven è un po’ nervosa.”,

aggiungo, concedendomi un pizzico di malignità.

Alla mia destra, Raven sta cercando di decidere che espressione assumere ma è di gran lunga la meno credibile di noi.

Mi muovo di qualche passo nella sua direzione, costringendola a spostarsi per poter continuare a guardarci. Ecco, così da le spalle alla telecamera più vicina, quella dell’ufficio.

“Sì, ehm… Blair continua a dirmi che dobbiamo rilassarci ma…”

Intervengo, passandole un braccio intorno alle spalle irrigidite, che non la sto aiutando a rilassare. Non gradisce il contatto fisico. Beh, non con me, comunque.

“…ma voglio dire, siamo tutti agitati!, questa festa si fa solo una volta l’anno. È un evento!”

Lancio un gridolino da dodicenne e strapazzo quella che devo far passare per la mia amichetta del cuore. Le pizzico un fianco con due dita, ridendo. Dall’esterno, sto giocando a tormentarla, in realtà le sto intimando di dire qualcosa che si attenga alla parte. Lei sussulta e si affretta a rimediare, nel modo più convincente che le riesce:

“È che il mio costume non è ancora pronto. Sono la sarta peggiore dell’Arca.”

Bellamy ci guarda, e so che una percentuale del suo cervello sta valutando la performance, mentre l’altra prosegue lo spettacolo:

“Ci sarà pure qualcosa che non sai fare, Raven Reyes.”,

le dice, quasi bisbigliando, con lo stesso tono che mio padre userebbe con me per tirarmi su il morale. Si è sporto in avanti per poter incontrare i suoi occhi. Raven non sta riuscendo a reagire. Bellamy incrocia il mio sguardo.

“E tu?”

“Il mio costume non…”

“Ti vedi direttamente là con Ettore? O ti passa a prendere?”

Dio, ma che ha detto? Nel momento più critico della nostra vita quello tira fuori Ettore?

Siamo qui a trovarci un alibi credibile, Blake, ricordi? Siamo tre amici che vanno ad una festa.

Non siamo tre delinquenti che per salvare fidanzato/amico/sorella stanno per disattivare il sistema di telecamere della stazione spaziale, ricattare il Cancelliere e infrangere ogni legge dell’Arca. Ti sembra il momento giusto per prendermi in giro?

“E poi non è alla festa in maschera che vi siete incontrati per la prima volta?”

Ma quante righe era riuscito a leggere del mio diario? Porcaccia la miseria!

“Io e Ettore ci siamo lasciati.”

Avrei dovuto dirlo con almeno un accenno di tristezza, invece suono come se lo stessi sfidando a duello.

“Oh, davvero?”

Cerco di imitare l’espressione sbruffona di John; inclino la testa, dondolo sui talloni, alzo il mento e allungo il sorriso solo su un lato del viso.

“Sì. La mia omosessualità latente lo disturbava.”,

rispondo, dando uno schiaffo fortissimo sul sedere di Raven, che lancia uno strillo per la sorpresa.

Bellamy perde la concentrazione per un momento. Mi fissa con occhi nuovi. Scuote la testa e si impedisce di sorridermi, ma è come se lo facesse.

“Tu sei completamente pazza. Sembri normale, ma sei tutta matta.”,

dice, abbassando la voce finché non ridiventa roca e profonda.

Eccoti, sei tornato.

 

“Ragazzi, stiamo facendo tardi.”

Raven ci riporta all’ordine.

Per trenta meravigliosi secondi mi ero dimenticata di chi ero e di cosa stavo per fare. Soprattutto di quello che sto per fare. Mi rivolgo alla mia amica e sorrido a favore di telecamera:

“Ok, allora. Chiudo la biblioteca e possiamo andare. Ah, accidenti, Raven…”,

esclamo, portandomi una mano alla tempia.

“…io e Bellamy dobbiamo fare una cosa, prima. Ci vediamo direttamente alla festa tra… diciamo una mezz’ora?”

“Certo, che problema c’è?”

Raven afferra lo zaino dalla sedia dove l’aveva appeso, ne estrae un foglietto che si appoggia sullo stomaco rivolto verso di noi, nascosto da qualsiasi inquadratura possibile.

Disattivo le telecamere da cinque minuti da adesso. Da qui in poi avete trenta minuti.

“Via.”,

sbotta Raven, già con un piede fuori dalla porta, di nuovo nel suo elemento, l’azione. Corre fuori senza voltarsi indietro. Ho la sensazione di separarmi da lei per la prima volta in due settimane.

Bellamy la segue, non prima di aver cercato nei miei occhi un cenno d’assenso e aver sollevato la cassetta d’argento tra le braccia.

 

Sulla strada verso gli uffici del Governo, io e Bellamy cerchiamo di non andare troppo velocemente, per non destare sospetti. Parliamo sottovoce; mi sintonizzo in automatico sul giusto volume, come ormai mi sono abituata a fare da due settimane a questa parte.

“E quanto sei… preciso?”

“Abbastanza preciso.”

“Riesci a quantificarlo, diciamo su una scala da…?”

“Blair.”

Mi interrompe, con meno gentilezza del solito. La tensione inizia a farsi strada persino nello stomaco del soldato. Figuratevi come sta la bibliotecaria.

“Non ti ucciderò. Ho una buona mira. Mi hanno addestratro a sparare.”,

mi ricorda, sapendo che fare leva sulla razionalità è il miglior modo per convincermi di qualcosa.

“Comunque cercherò di non uccidere nessuno, nemmeno Jaha. Quanto sono buono?”

Lo chiede senza sorridere. Una parte di lui si domanda se davvero riuscirà a mantenere il controllo di fronte al Cancelliere. Puntare una pistola in testa all’uomo che ha ucciso tua madre e reso un inferno la vita di tua sorella e non premere il grilletto non si rivelerà un’impresa facile.

“Ma sappi che se qualcosa va storto io vado alla navicella.”,

aggiunge, senza nessuna inflessione nella voce.

Mi ha appena confermato che Octavia viene prima di chiunque altro, ovviamente anche prima di me. Non perderà tempo a salvarmi la vita. Lo perdono solo perché io farò lo stesso, se mi capitasse l’occasione di salvare John e sacrificare lui.

Svoltiamo a sinistra, poi a destra e poi di nuovo a destra. Siamo a solo un anello di distanza. Nessuno ci ferma. La fortuna di avere come complice una guardia è che le altre guardie di lui si fidano ciecamente.

Deglutisco, con la bocca riarsa.

“Se tutto va storto e io muoio…”

“Se va tutto storto c’è il piano B di Raven.”

“Che piano B? Raven lavora ad un piano B segreto?”

“Io so cos’è. Non è segreto.”

“Ok, non importa. Se anche il piano B va storto e io…”

“Blair.”

“Se tutto va storto e io muoio ho lasciato una lettera per i miei genitori nel cassetto del mio armadio, in camera.”

“Se tutto va storto e tu muori è probabile che morirò anche io. Oppure sarò sulla Terra.”

“Perciò la lettera per John la devi tenere tu.”

Incastro una mano nella tasca dei pantaloni e gli porgo una busta bianca. Lui guarda me, io guardo la lettera.

“Gliela darai? Per favore?”

Non mi risponde, ma si ferma per un momento. Sposta la cassetta su solo braccio, per potermi sfilare la busta dalle dita. Mentre Bellamy la fa sparire nella sua tasca, ripasso mentalmente le parole che ho scritto per John. Ho buttato giù quattro versioni di quella lettera.

“Non leggerla, per piacere.”

“Non lo farei mai.”

“Beh, il mio diario l’hai letto.”

“Non sapevo fosse il tuo diario quando l’ho raccolto, credevo fosse lavoro. È stato un errore onesto.”

“Sì, ma hai aspettato di leggerne un bel pezzo, prima di farmelo vedere...”

“No, solanto due righe. Il tempo di capire che il tuo innamorato l’hai conosciuto alla festa in maschera. La stessa che c’è oggi: il nostro super diversivo. Una bella coincidenza, no?”

Riprendo a camminare. Lui mi segue e percepisco che sta sorridendo dal suono della sua voce:

“Ehi, lo giuro. Non so nemmeno che musica suonassero, cosa fosse la sua maschera o la tua o cosa hai provato quando vi siete dati la manina.”

Ora sto sorridendo anche io, nonostante il piano suicida, le lettere, John, Bellamy e…

“Per Ettore non c’è nessuna lettera?”

Presa in contropiede, non riesco a trovare una risposta che possa avere senso. Che non mi faccia passare da pazza squinternata.

“Ettore non esiste, è solo un nome inventato…”

Bellamy prende fiato ma aspetta qualche secondo prima di parlare. Raramente ride, ma raramente è tanto serio.

“Ettore è John?”

“No, non è John.”

Mi volto verso di lui. Gli occhi di Bellamy reagiscono al contatto con i miei. La sua espressione si leviga, si fa dolce. Ci fermiamo di nuovo, senza sapere chi ha smesso per primo di camminare.

“Devi tenerlo al sicuro. John. Devi… devi tenerlo al sicuro. Per me.”,

sussurro, e non so nemmeno se la mia voce sia davvero udibile, nonostante ci siano al massimo dieci centimetri tra i nostri nasi.

“Lui è la mia Octavia.”

Non ho mai visto il suo viso da così vicino. Le macchioline scure delle lentiggini gli colorano il naso e gli zigomi, rendendo quella faccia da soldato più calda, meno affilata. Mi piace quando non indossa il cappello da guardia. I capelli gli scivolano sulla fronte in onde disordinate, lo costringono ogni tanto a passarsi una mano in mezzo ai ricci. Di nuovo mi torna quello strano languore, l’urgenza di passargli le dita tra i capelli.  

Non respiro, ho nausea, tachicardia e tanto caldo che sto sudando. Ma è comprensibile, mi sto per imbarcare in un un folle piano suicida. È questo, no?

“Promettimelo.”

“Te lo prometto.”

Stiamo per ripartire ma io inciampo su un dosso del pavimento. Bellamy mi afferra al volo per un braccio prima che sbatta la schiena contro il muro. Per fortuna teneva ancora la cassetta con una mano sola.

“Aspetta. Un passo alla volta, Blair…”

“Me lo dici sempre.”

“Eh?”

Un passo alla volta. Me lo dici sempre.”

“No, penso di avertelo detto sì e no un paio di…”

“Con gli occhi, Bellamy Blake. Tu fai succedere tutto con gli occhi, non lo sai?”

Non mi ha ancora lasciato andare e io gli dico una cosa del genere. Non che non l’abbia pensata dieci milioni di volte da che lo conosco ma non è il caso di tirarla fuori ora, il giorno della nostra probabile morte.

Sollevo il viso e un solo sopracciglio, insieme.

“Visto? Ora hai pensato Blair, smettila di fare l’idiota.”

“No, decisamente non è quello che ho pensato.”

La sua voce non è mai stata tanto profonda.

Mi guarda come se all’improvviso avesse una sete feroce. Le ossa della sua mascella si fanno visibili.

Foer, piantala o punterò su di te la pistola e non su Jaha…”

“Io non parlo così.”

“Infatti tu non parli. Basta che pensi qualcosa e ti si legge tutto qui.”,

dico, indicandogli gli occhi.

Lui mi guarda di traverso, e una fossetta deliziosa compare sulla sua guancia. Ancora non mi ha lasciata andare.

“Mi leggi?”

“Sì.”

“Come uno dei tuoi libri, insomma?”

“Sì, come un libro vero.”,

ammetto, prima di rendermene conto.

Sì, caspita. Sei un libro vero, Bellamy Blake.

Bellamy assottiglia gli occhi e piccole rughe gli si formano intorno allo sguardo. Iridi e pupille sono si confondono, nero su nero. Un luccichio furbesco gli illumina il viso.

“È un grande complimento da parte sua, signorina Foer.”

Sorride compiaciuto. Apre la mano e mi libera il braccio. Lo sguardo gli sfugge verso il basso, e prima che riesca a rimetterlo a posto si è soffermato abbastanza sulle mie labbra da farmele socchiudere, d’istinto.

È un Bellamy inedito questo; sfrontato, leggero, che… flirta? Il giorno della nostra probabile morte?

Lancio un’occhiata all’orologio e riprendo a camminare spedita. Lui mi affianca.

“Sì, signor Blake, non posso negarlo, lei è così intelliggibile.”,

gli faccio, mentre accelero il passo e lo distanzio di mezzo metro.

“Nessuna me l’aveva mai detto.”

“Perché sei sempre stato con le ragazze sbagliate.”,

dichiaro voltando il viso nella sua direzione, un attimo prima di trovarmi di fronte all’ingresso degli Uffici del Governo. Prima di entrare aspetto che lui mi raggiunga e che il suo ultimo sguardo lo tradisca e mi dica:

Hai ragione.


****
08/08/17
*Momento confessione*
Oggi è stata una giornata orrenda, coronamento di una settimana terribile. Mi sono messa al pc per scrivere, e il sollievo che mi ha dato immergermi in una storia, distrarmi, scappare altrove per un po'... Non si può descrivere.
Grazie a chi legge, a chi ha messo la storia nelle seguite, nelle ricordate, nelle preferite! Sono felice di avervi con me in questa avventura :)
A presto!,
LRM

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Capitolo 14
*** Scacco matto ***


SCACCO MATTO

Dentro, chiediamo alla segretaria di Jaha di annunciarci.
“E, se potesse fare in fretta, sa…”
La signora ci scruta, al di sopra degli occhiali appoggiati sulla punta del naso.
“La festa?”
Io e Bellamy sorridiamo, meccanici.
“Cosa farà a voi ragazzi questa festa in maschera…!”,
sospira, con un ghignetto da nonna annoiata sul muso.
“Io ho conosciuto là mio marito, venticinque anni fa.”,
è il suo commento non richiesto.
In piedi dietro la sua enorme scrivania laminata, si concede un ultimo tuffo nei fatti nostri:
“Anche voi due vi siete conosciuti lì?”
cinguetta, stringendosi nelle spalle e guardardoci come mia madre guarda le telenovelas in televisione.
A Bellamy va qualcosa di traverso e mentre lui rischia di morire strozzato io cerco di restare concentrata:
“Crede sia possibile vedere il Cancelliere subito?”
“Signorina, purtroppo a causa di un guasto tecnico nel sistema di…”
La porta alle sue spalle si apre e Jaha fa la sua apparizione. Non sono mai stata così felice di vedere qualcuno. Anche se ho da poco ultimato il piano che rischia di ucciderlo.
Mi sorride, come solo un uomo davvero bello sa fare.
“Signorina Foer. La stavo aspettando.”
Mi ero dimenticata l’effetto che fa la sua voce al mio autocontrollo. Sto già tremando di angoscia. 
La segretaria interviene, prima che lui possa farci strada verso l'ufficio.
“Cancelliere, le telecamere non si sono ancora riattivate…”
“È un piccolo guasto, Lauren. Ogni tanto può capitare. Il sistema è automatizzato, torna tutto a regime entro una mezz’ora al massimo. Stia tranquilla.”
“Ma il protocollo prevede che lei rimanga…”
Jaha le posa una mano sulla spalla, con dolcezza. Lauren si scioglie e finalmente si decide a sedersi e a tacere. Noi proseguiamo.
Jaha appoggia un palmo sul petto di Bellamy, fermandolo sulla porta. Io, già dentro l’ufficio, mi volto a guardarli. Il lampo di panico che trapassa gli occhi del ragazzo fa barcollare anche me.
“La ringrazio, guardia semplice Blake. Il suo lavoro finisce qui. Il colloquio tra me e la signorina è privato.”
Gli prende la cassetta d’argento dalle braccia e sospinge me dentro l’ufficio, con garbo.
Non ho il tempo di voltarmi verso Bellamy e nel momento in cui Jaha chiude la porta è come se sentissi spezzarsi di netto il filo che ci unisce. È come uno strappo, come se fosse saltato il coperchio che tiene il mio cuore al suo posto. Fa male. Soprattutto, fa paura.
Jaha gira la chiave nella serratura.
Sono in trappola.
L’uomo schiude il suo sorriso bianchissimo, lentamente. Scopre i denti.
“Allora, signorina Foer? Mi ha portato i libri da salvare?”
 
Non posso permettermi troppe pause.
Ho un quindici minuti prima che le telecamere si riattivino. Quindici minuti.
Jaha mi fa accomodare e appoggia la cassetta sulla scrivania, per poi sedersi a sua volta. La poltrona che occupa ha lo schienale così alto da sembrare lo scranno di un trono.
“Dove sono Kane e la signora Griffin? Pensavo di…”
“La signora Griffin sta salutando sua figlia.”
“Salutando…?”
“C’è stato un cambio di programma. La navicella parte adesso.”
Il mio cuore salta un battito, poi un altro, e quando torna a fare il suo lavoro, lo fa troppo di corsa. Mi si dimezza il fiato.
“Adesso? Non… dopodomani?”
“Abbiamo più fretta del previsto.”
Jaha cerca di liquidare la mia preoccupazione, senza riuscirci. Quattordici minuti.
“L’Arca sta…?”
“Signorina Foer, dobbiamo controllare che vada tutto bene con le schede di memoria. Le spiace se passiamo al lavoro?”
Cerco di riflettere lucidamente. Devo fare affidamento al mio cervello perché temo sia l’unica parte di me che ancora funziona. Se non fossi seduta, penso sarei già crollata. Clarke sta per essere spedita sulla Terra. E Octavia e Finn e…
“Non John, vero? John non viene imbarcato.”
“Non si fida di noi, signorina Foer?”
Non potendo rispondere la verità rimango zitta. Se mi fossi fidata di loro, non starei rischiando la vita adesso.
La lancetta scatta di nuovo. Tredici minuti.
È ora.
 
Sollevo l’oggetto che ho stretto in mano da quando sono entrata negli uffici. Jaha lo guarda con sincera curiosità e nessun moto di paura.
“Che cos’è?”,
mi chiede. È così tranquillo da farmi tentennare.
“È un telecomando.”
Deglutisco, rendendomi conto che ho già fatto il primo passo. Ora, uno alla volta.
“Questo telecomando attiva una radiotrasmissione capillare che attraversa ogni angolo dell’Arca. Allacciandosi alla rete pubblica diventa virale e dura il tempo massimo entro cui non riuscireste a fermarlo. Dovreste spegnere il reattore principale dell’Arca per interromperlo prima che arrivi in fondo.”
Jaha non capisce ma io non faccio pause:
“Fermate il lancio o premerò questo tasto e tutta l’Arca saprà cosa sta succedendo.”
L’uomo di fronte a me si blocca. Non riesce a mantenere il contegno che dovrebbe. Raven aveva ragione circa l’effetto sorpresa.
Guadagno qualche secondo, mentre lui cerca di riaversi e tornare a ritmo con gli avvenimenti. Inspiro, più a fondo che riesco.
“Ho un nastro registrato pronto a partire, con la mia bella faccia che spiega tutto quanto.”
Lui fissa il telecomando, non il mio viso.
“Jaha, ha trenta secondi per richiamare i suoi e fermare tutto.”
“Lei non è in grado di…”
“Di? Finisca la frase.”
Resto attenta alla distanza tra di noi, che rimanga sempre sufficiente per poter avere il tempo di reagire, qualora Jaha cercasse di prendere il telecomando. Un altro consiglio di Raven. Ma né io né Jaha ci siamo spostati di un millimetro.
“Ero perfetta, vero? Avrete pensato di essere molto fortunati. La bibliotecaria è anche una ragazzina remissiva, e con la fortuna di avere il suo unico amico rinchiuso in isolamento. Ve la siete studiata bene. Non benissimo, però.”
Lui si muove appena e io striscio indietro la sedia. All’improvviso la scrivania che ci separa non mi sembra abbastanza. Torno in piedi e mi ritrovo al centro dello studio, portando il telecomando più in alto, più vicino a me.
“Aspetta, Blair…”
“Non mi chiami per nome.”
“Signorina Foer. Mi ascolti, mi dia un momento per parlarle.”
"Non provi a convincermi che state facendo la cosa giusta. Ci hanno già provato. E dopo tutto quello che avete fatto a me e alla mia famiglia, non potrei fidarmi di voi nemmeno se lo volessi."
Gli occhi di Jaha sono due buchi neri. Ci ficco i miei con ostinazione.
“Jaha, io vivo in un posto in cui rubare le medicine razionate per salvare la vita al proprio unico figlio merita la pena di morte. Non ho più paura di niente, ci avete tolto anche quella. Ha dieci secondi da adesso per decidersi.”
Lui resta immobile. Sta realizzando quello che sta accadendo. Sta valutando un mio possibile bluff, sta calcolando le distanze che ci separano per aggredirmi e togliersi il pensiero. Nel piano originale se solo dovesse azzardarsi a muovere un passo, partirebbe un colpo di pistola che lo centrerebbe ad una gamba, tanto per renderlo più collaborativo. Ma non siamo più nel piano originale, Bellamy è chiuso fuori da questa stanza e io sono intrappolata dentro, disarmata. Sola.
"Nemmeno io mi sono fidato di lei, signorina Foer."
Jaha si rivolge a me con una quiete che ha il solo scopo di terrorizzarmi. E che ci riesce. 
"Che significa?"
"Metta giù quel telecomando."
"Altrimenti?"
"Dove crede si trovi il suo prezioso John Murphy al momento?"
Una fitta mi attraversa lo stomaco. Una parte di me ha sempre saputo di correre quel rischio. Che Jaha avrebbe usato John come merce di scambio fino alla fine, arrivando a buttarlo sulla navicella con gli altri, se necessario. O peggio. 
"Lei mi aveva promesso... Avevamo un accordo."
"Lei ha violato il nostro accordo.",
mi interrompe.
“Anche io avrei qualche cosa da mostrarle, peccato che le telecamere siano fuori uso…”
Segue un silenzio che non riesco a sentire. Il rumore del cuore che mi martella nelle tempie copre tutto.
“Ci accontenteremo dell’audio, è d’accordo?”
“L’audio di cosa?”
Jaha si limita ad allungare un braccio stendendolo di fronte a sé, sulla scrivania. Raggiunge un display e digita sullo schermo.
Un rantolo agghiacciante esplode dagli altoparlanti dell’ufficio. Se non fossi certa che non esistono più animali nello spazio, saprei per certo che non può essere un umano a fare quel verso. Chiunque sia, sta morendo.
Il grido e il pianto si mescolano, contorcendosi nel suono più orrendo che io abbia mai sentito. Jaha mi fissa, impassibile.
Le urla si spengono per un momento; abbassandosi, la voce diventa più comprensibile. È un uomo. Sta rantolando qualche parola, forse delle preghiere. Mi serve un minuto intero prima di riconoscere la voce di John.
 
Mi ritrovo in ginocchio. Un conato di vomito mi costringe a piegare la testa. Mi aggrappo alla scrivania di fronte a me. In qualche modo percepisco che Jaha si è alzato. Distinguo dei colpi alla porta, coperti dai rantoli di John che continuano a perforarmi le orecchie.
Jaha mi strappa di mano il telecomando. Non oppongo resistenza, sono morta.
"Non si preoccupi troppo, signorina. Questa è solo una registrazione. Qualche tempo fa aveva cercato di scappare...”
Mi copro la bocca con una mano, mordendomi il palmo. 
“Ora è sedato. Lo stanno imbarcando insieme agli altri."
Jaha continua a parlare e la sua voce cavernosa riesce a raggiungermi al di sopra delle grida di John.
“Blair, io avrei voluto fidarmi di lei. Ma dopo appena un giorno ho capito che non sarebbe stato possibile, che lei non avrebbe mantenuto l’accordo fino in fondo. Così come sapevo che avrebbe comunque operato la selezione, perché lei ci tiene, ci tiene davvero, ai suoi libri…”
Una parte del mio cervello fa di tutto per ascoltare le parole del Cancelliere. Ma tutto il resto di me sta gridando insieme a John.
“Perciò l’ho lasciata fare. Mi serviva la selezione, innanzitutto. Ma lei è stata molto brava nel frattempo sia a completare il lavoro – e immagino l’abbia fatto a dovere - sia a non rientrare mai in registrazioni di sicurezza mentre tradiva gli accordi. Come ha fatto?”
L’ha fatto Raven, io ero troppo impegnata a prenderla in giro per le sue paranoie. Credeva venissimo ripresi da una specie di Grande Fratello e ci aveva costretti a recitare la farsa dei tre amichetti che non fanno niente di male tutto il tempo, comunicavamo solo tramite biglietti anche nel suo laboratorio. Aveva ragione.
“Comunque sia, signorina. Io non l’ho scelta perché era remissiva o qualificata. Non l’ho nemmeno scelta per John Murphy. L’ho scelta per Arancia meccanica.”
Finalmente la registrazione finisce e le casse tacciono. Mi fischiano le orecchie. Muovo la bocca, a vuoto. Riesco a dire, a mormorare:
“Cosa?”
“Si ricorda? Il libro che mi ha regalato per il mio compleanno.”
Jaha si abbassa sulle ginocchia, accovacciandosi. Sollevo la fronte quel che serve a guardarlo in faccia. I suoi enormi occhi scuri risplendono. Ciò che dice e tutto quel che ha fatto non riescono comunque a sciuparne la bellezza.
“Lei di quel libro non vede la valenza culturale o storica. Lei, quando pensa ad Arancia meccanica, pensa al suo effetto sulla mente di chi lo legge. Me l’ha detto quella notte, ricorda? Penso che un uomo di potere possa trarne particolare profitto. Lei vede al di là del libro, lei vede il lettore.”
La figura di Jaha si confonde, le linee del suo viso si mescolano alle lacrime.
“E se l’umanità si trovasse costretta a ricominciare daccapo, partendo dai Cento… Non avrebbero bisogno di storia. Avrebbero bisogno di armi.”
Sono a corto di fiato, non riuscirei a dire nulla anche se trovassi le parole.
“La mia era solo un’intuizione, ma quando sono venuto a trovarla... Non avevo deciso di coinvolgerla finché non ha citato Burgess lei stessa. Non poteva essere un caso. Ci avevo visto giusto.”
L’uomo di fronte a me mi guarda come farebbe un professore orgoglioso. Mi guarda come mi guarda Doug quando riesco a tenergli testa in una discussione.
Le urla di John continuano a fare eco nella mia testa, nella mia pancia. È tutta colpa mia, è tutta colpa mia.
“Sono certo che il suo sarà un lavoro ben fatto, signorina. Certo, è escluso che ora lei possa tornare a vivere serenamente nel suo lotto, libera. Non posso mandarla nemmeno in isolamento, dato che ha già diciannove anni. Compiuti il primo marzo, se non sbaglio. Lo stesso giorno a cui risale la registrazione che ha appena sentito.”
John aveva cercato di evadere il giorno del mio compleanno. È tutta colpa mia, è tutta colpa mia.
“Ma non potevo fidarmi di una ragazza innamorata. L’ho capito presto.”
Innamorata?
“Lei non sarebbe stata abbastanza fredda da eseguire un ordine e salvare John Murphy. Avrebbe avuto troppa paura. Avrebbe fatto qualcosa di stupido. Avrebbe parlato. Così com’è successo. Avrebbe cercato di prendere in mano il controllo della situazione per assicurarsi che lui stesse bene. Non si sarebbe fidata dei suoi carcerieri.”
Jaha si prende il tempo di farmi un ultimo sorriso accondiscendente, per poi tornare in piedi. Il mio sguardo lo segue, ma le mie ginocchia non sembrano essere in grado di sollevarmi.
“L’amore è stata la sua debolezza, Blair. Se avesse amato di meno quel ragazzo, ora lui sarebbe salvo. Lo sareste entrambi. Io avrei mantenuto fede alla promessa fatta. Ma lei ha dovuto fare qualcosa, e parlare…”
Jaha è tornato alla scrivania, mi da le spalle.
“Ho fatto visita a John Murphy il giorno dopo averle fatto firmare il contratto. Ed è lì che ho capito. Il modo in cui lui parlava di lei, signorina… Raramente mi sono trovato di fronte a qualcosa del genere. L’ha difesa in un modo che non credevo possibile, non in un ragazzino isolato e condannato a morte. Gli ho detto del nostro colloquio e lui mi è saltato al collo. E quello che a John succede negli occhi quando pronuncia il suo nome, Blair… E’ qualcosa di indefinibile a parole. Nemmeno il migliore dei suoi libri veri, nessuno di quelli contenuti lì dentro sa descriverlo. Tantomeno io. Ma so quello che ho visto. E lei oggi, con il suo gesto sconsiderato, mi ha confermato che avevo ragione. John Murphy è ricambiato.”
Guardo Jaha rompere il telecomando sbattendolo con violenza sull’angolo della scrivania. Dei pezzi volano in aria, un frammento cade di fronte a me.
Abbasso gli occhi sul mio orologio. Il tempo è scaduto.

Jaha va alla porta, la spalanca.
Fuori non c’è nessuno. Né Bellamy né la segretaria.
Prego che Bellamy sia riuscito a scappare, a raggiungere la navicella. Mi chiedo come mai ho sentito dei colpi alla porta mentre John gridava dagli altoparlanti, visto che Bellamy mi aveva giurato se ne sarebbe andato al minimo incrinarsi del piano.
Entrano due guardie. Riconosco Thomas Shenden mentre mi sollevano prendendomi per le braccia. Shenden mi sussurra all’orecchio, dolcemente:
“Piano, signorina…”
Mi trascinano esanime fino all’uscita ma prima che possano portarmi via da qui e verso la camera espulsiva, mi volto cercando il viso del Cancelliere e torcendo la testa al di sopra della spalla gli dico, senza nessuna inflessione nella voce:
“Ho premuto il pulsante del telecomando dieci minuti fa.”


****
12/08/17
Jaha non mi è mai stato troppo simpatico nella serie (si capisce, per caso?)... Rischio di farlo andare fuori personaggio con tutta questa cattiveria, ma mi serviva un antagonista tosto per Blair. Avrà anche Jaha la sua evoluzione, lo farò avvicinare sempre di più al suo carattere vero... Ma per il momento è il male ^^
[Un po' come per John, che nella vita sull'Arca è parecchio diverso da come lo ritroveremo sulla Terra...]
Il capitolo è ispirato ad un concetto molto caro alla nostra Lexa, "Love is weakness"; anche se lei ovviamente ancora non è apparsa, è una specie di omaggio ante litteram al suo personaggio e ad un concetto ricorrente in The100. 
Bene, fine dello spiegone!, spero che il capitolo vi sia piaciuto. 
A presto!,
LRM

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Capitolo 15
*** Il piano B ***


IL PIANO B

Fuori, è il caos.
Una folla urlante si è radunata alle soglie degli uffici del Governo. La guardiamo ammassarsi sulle vetrate del salone d’ingresso, trattenuta a stento dalle forze dell’ordine armate di teaser e scudi. E armi da fuoco.
Il rumore, per quanto ovattato, è comunque assordante.
Sugli schermi lungo le pareti è rimasto un fotogramma della mia faccia, distorto dal fermo immagine. Sono riusciti ad interrompere il video ma a giudicare dalla massa di gente con la bava alla bocca non l’hanno fatto abbastanza in fretta. Riconosco il minutaggio del mio discorso, grazie ad un numerino bianco a destra della mia testa. A quel punto ho già spiegato tutto: la decomposizione dell’Arca, il piano del Governo, i Cento.
Il primo colpo di pistola risuona nell’aria. Una nuova onda d’urto scuote la folla.
 
Shenden e l'altra guardia che mi tengono prigioniera si sono fermati, spaesati. E io con loro. Jaha è dietro di noi. È corso fuori dall’ufficio in perfetto silenzio. Tutti noi all’interno non facciamo il minimo rumore. La segretaria si era nascosta sotto la scrivania, in lacrime. Io ho finito la forza per piangere.
Guardo le vene che sporgono dalle gole della calca e penso che è opera mia. Non so cosa dovrei provare.
Conscia della mia ingenuità, cerco Bellamy nella ressa.
 
Invece vedo Raven.
Non vedo lei. Vedo la sua maschera protettiva da saldatore, riconosco il ritmo dei suoi movimenti. Sta spintonando le persone intorno a sé a gomiti alzati, facendosi strada fino all’ingresso. Ma è troppo piccola. È costretta a restare a margine, sotto un bocchettone d’ossigeno, a qualche metro di distanza dal primo corridoio percorribile. Cerco di registrare la sua posizione, pregando che non si sposti di lì. Ragiono come se avessi qualche chance di evitare l’espulsione, di scappare e raggiungerla e insieme dirigerci alla navicella. Più probabilmente Raven sarà l’ultima persona che conosco che vedrò prima di morire. 
 
Jaha da ordini precisi, veloci. Si è preso a malapena qualche secondo per valutare la situazione prima di tornare operativo. Lo odio e lo ammiro in egual misura.
Le guardie intorno a me iniziano a muoversi. Uno dei miei carcerieri deve allontanarsi.
“Resto io.”,
dice Shenden, e il suo collega segue gli altri.
La stretta al mio polso si fa più intensa. Shenden mi sta facendo male senza motivo. Io non sto combattendo. Jaha si rivolge direttamente a lui, con un tono che non ammette repliche:
“Portala via. All’isolamento. E resta con lei.”
Poi afferra la manica di un’altra guardia, che indossa un’uniforme diversa da Shenden e gli intima di correre dal Consigliere Kane e di affrettare le operazioni di lancio.
 
Shenden mi trascina nell’ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Le urla si attenuano.
Mi tira il braccio come se fossi una bambola di pezza. Incespico, e anche se non sto facendo resistenza, lo rallento.
Raggiungiamo un passaggio in fondo alla stanza, chiuso da un pannello di vetro spesso. Shenden lo apre con un Pass simile al mio e ci ritroviamo dentro un cubicolo a pianta quadrata, minuscolo. Ci stiamo a malapena in due. Il pannello si chiude alle mie spalle con un ronzio. Shenden mi lascia il polso. Tanto non potrei comunque scappare da qui.
L’uomo mi passa un braccio accanto al viso: c’è uno schermo sulla parete alle mie spalle. Digita un codice sulla tastiera. Il pannello dietro di lui scorre di lato, aprendo una nuova uscita, che affaccia su un lungo corridoio spoglio.
Shenden mi afferra di nuovo. Per le spalle, stavolta. Sporge tanto il viso sul mio che i nostri nasi si sfiorano e fatico a mettere a fuoco i suoi occhi. Ne colgo soltanto l’ansia bruciante, la stessa che fa correre la sua voce:
“In fondo gira a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a sinistra. Ti ritroverai nel retro dell’archivio governativo. Sarai costretta ad arrivare fino alla fine al salone. Lì troverai un pannello simile a questo. Aprilo, e sei fuori. Nel settore due, all’altezza dell’ultimo anello.”
Si toglie il Pass dal collo e me lo infila dalla testa.
“Vai!”
Ho qualche istante di smarrimento, che lo costringe a scuotermi.
“Blair! Hai capito? Vai, vai!”,
mi sposta di peso, scambiandoci di posto. Mi spinge fuori dal cubicolo. 
Mi infilo nel corridoio barcollando per lo shock. Prima di scappare mi volto verso l’uomo che mi sta salvando:
“Jaha saprà che sei stato tu a liberarmi.”
“C’è mia figlia, nei Cento.”,
è la sua risposta.
Vorrei dirgli che non è sicuro, che potrebbe rientrare nei ventinove salvati. Guardo i suoi occhi castani, la stempiatura sale e pepe che mi ricorda mio padre.
Torno indietro, facendolo urlare:
“No! Vattene da qui!”
Sono costretta a mantenermi a distanza, per timore che mi prenda a schiaffi se non gli obbedisco. Alzo le mani, come se mi trovassi di fronte alla canna della sua pistola.
“Andrò alla navicella. C’è qualcosa che vuoi dirle?”
Thomas Shenden ha un fremito, un brivido di dolore. Sa che non la rivedrà più. Che lei verrà espulsa verso la Terra e lui verrà espulso e basta. Io mi illudo per un momento che invece il mio destino non sia scritto, che se sopravviverò, sopravviveranno anche i miei genitori, e potrò rivederli. Stupida bambina.
Dei rumori ci raggiungono dall’ufficio. Lui si frappone tra me e la porta.
“Che la amo.”,
dice, in fretta.
“Che l’ho perdonata il giorno che l’ho persa. Che è meravigliosa, che si deve ricordare tutto della nostra vita insieme, che ce la fa.”,
continua, mentre i rumori si avvicinano.
Scuote ancora la testa nella mia direzione.
“Che la amo.”,
ripete, con la voce rotta.
Poi si sporge, digita un nuovo codice sullo schermo e mentre il pannello ci separa chiudendosi, mi grida ancora un volta di sbrigarmi. Ho il tempo di intercettare il movimento del portello opposto al mio che si apre e il suono di uno scontro fisico.
Un gemito mi scivola dalle labbra, rimbombando nel silenzio del corridoio.
Mi volto e inizio a correre.
 
Crollo carponi sul pavimento di metallo. Mi rivolto sulla schiena, ansimando.
Ce l’ho fatta. Ho seguito le istruzioni di Shenden e sono arrivata fino alla fine del settore due. Stringo il suo Pass al cuore, mentre il mio petto si alza e si abbassa di corsa.
Intorno a me c’è il vuoto.
Distinguo a malapena delle grida in lontananza, che mi raggiungono attraverso i corridoi e i condotti dell’areazione.
I condotti dell’areazione. Mio padre ci lavora, so per certo che non ci sono telecamere lì.
Apro gli occhi e guardo il bocchettone sul soffitto. Senza Bellamy ad issarmi non potrò raggiungerlo.
Mi alzo e mi rimetto a correre. L’unico posto in cui posso nascondermi è il laboratorio di Raven. È anche la migliore possibilità che abbiamo per ritrovarci e riorganizzarci. Da lì, in due, potremmo davvero infilarci nei condotti e avvicinarci il più possibile alla navicella e da lì farci strada... come potremo. La nostra unica pistola è tra le mani di Bellamy.
La milza mi sta pulsando nel fianco, delle fitte dolorose mi scivolano per tutto il corpo.
Raggiungo il primo bivio, il secondo, al terzo mi blocco. Se giro a sinistra, c’è il settore quattro. Casa mia. Forse i miei genitori sono nel lotto. La rabbia mi strappa un urlo. Giro a destra senza voltarmi indietro. 
I corridoi sono deserti. L’intero settore sembra essere stato evacuato. Finchè non arrivo all’ultimo anello.
 
Sono a mezzo chilometro dal laboratorio. Le sirene d’emergenza ululano, sento degli spari, altre grida. Qualcuno corre fuori dal proprio lotto, altri ci si fiondano dentro, con i bambini in braccio. Ora ci sono più persone intorno a me, tutte che scappano, tutte che strillano, sempre di più. Finora credo di non aver avuto nemmeno il tempo di spaventarmi. Ma adesso, spintonata a destra e a sinistra, sovrastata dalla confusione della calca, inizia davvero a mancarmi il fiato. Come un tic che ormai non posso combattere, penso a Clarke, come ogni volta che ho difficoltà a respirare.
 
Tre mesi fa ci trovavamo in mezzo ad una folla urlante non molto diversa da quella che mi circonda oggi: la manifestazione contro Kane. Io avevo iniziato a perdermi qualche battito del cuore, la testa girava e piccoli puntini neri si sgranavano sui miei occhi.
Clarke mi aveva trascinata fuori dalla ressa, in un angolo nascosto del salone. Mi aveva fatta sedere a terra, accovacciandosi di fronte a me. Sopra gli slogan e i cori, Clarke era riuscita a farsi sentire:
“Foer, ascoltami bene. Trattieni il fiato finché non dico stop.”
Avevo provato ad obbedirle ma senza successo. Allora lei mi aveva messo gli occhi negli occhi, ad appena qualche centimetro. Quell’azzurro limpido, le sue ciglia curve e lunghe, mi avevano arpionata.
“Con me.”
Con una mano sulla mia pancia, aveva cominciato a fare respiri profondi. Inspirava, concentrata, fissandomi, e poi espirava, molto lentamente, spingendo dolcemente con la mano.
Avevo faticato a starle dietro ma piano piano ce l’avevo fatta. La mia respirazione aveva ripreso un ritmo adeguato anche se il petto mi faceva ancora male e sentivo la necessità di sdraiarmi.
“Stavi per avere un attacco di panico.”
Stavo per?”
Clarke aveva sorriso, uno dei suoi minuscoli sorrisi appenna accennati, assottigliando gli occhi chiari, che brillavano sempre.
“Stavi per, sì.”
Avevo provato ad alzarmi, ma lei mi aveva tenuta giù soltanto toccandomi la spalla.
Mi piaceva quando faceva il dottore, completamente al servizio degli altri, dimentica di sé stessa al punto da scordarsi di mangiare. Ma mi piaceva di più l’altro lato della medaglia, quando si trasformava nel sergente Griffin. Da quando John era stato arrestato si era preoccupata sia di mantenermi in buona salute mentale che di farmi rigare dritto. Non avevo più acquistato niente da Monty Green per mesi, solo perché la mia bionda diceva che rifugiarmi nello stordimento dei sensi per evadere dalla rabbia e dalla tristezza mi avrebbe messa su una brutta china, da cui sarebbe stato difficile risalire. Diceva che non ne avevo bisogno e io avevo finito per credere di essere forte abbastanza da non dover scappare dal dolore, da poterlo affrontare. Diceva che niente era merito suo, e diceva una bugia.
“Griffin, come farei senza di te?”
Clarke non si era concessa il lusso di accettare il complimento. Aveva mugolato, per niente convinta di quella che io sapevo essere la verità: che se avessi perso John senza incontrare lei, non sarei sopravvissuta. Sarei impazzita.
Avevo appoggiato la testa al muro alle mie spalle, tirando giù Clarke al mio fianco, dove avrei desiderato averla per sempre.
 
Nel laboratorio di Raven c’è un uomo.
Un uomo in divisa grigia, con grandi occhi scuri e i capelli brizzolati. Quando faccio il mio ingresso trafelato nella stanza, si volta a guardarmi con apprensione. Dall'espressione del suo volto è evidente che non stava aspettando me. D'altra parte, non è il solo ad essere sorpreso:
“Chi è lei? Cosa ci fa qui?”
L’uomo non reagisce, si limita ad appoggiare sul ripiano al suo fianco lo strumento che tiene in mano. È uno dei saldatori di Raven.
“Sei la ragazza del video?”,
mi chiede. Io balbetto, guardandomi intorno. Forse sto cercando un appiglio. Non riesco a smettere di ansimare. Mi stringo il fianco con la mano, credo di poter tenere ferma la milza pulsante.
Lui sta ancora aspettando una risposta, e mi incalza:
“Raven è con te?”
Scuoto la testa, con il cuore gonfio d’ansia al pensiero di averla lasciata in mezzo alla folla inferocita.
Mi sono affezionata anche a lei, alla fine. Nonostante la sua palese insofferenza per me e la mia mancanza di coraggio, di cervello e di risorse. Bellamy ha sempre ragione.
Mi sforzo di alleggerire il tono della voce, millantando sicurezza:
“Ma è Raven. Starà meglio di noi, in questo momento.”,
gli dico. Lui riconosce sul mio viso l’inquietudine che mi agita, e a chi è dedicata. In un attimo, decide che si fida di me, solo per il fatto che mi fido di Raven. Si avvicina.
“Devi aiutarmi a trovarla. Grazie a te, fuori sta…”
“Lo so.”
Ora che sono ferma mi accorgo di quanto sono sudata. Mi passo le mani dietro il collo, nel vano tentativo di asciugarmi. Finalmente riesco a respirare dal naso ma la fitta allo sterno non la finisce di tormentarmi.
Lo schermo del computer che occupa l’intera parete al nostro fianco all’improvviso si anima, spaventandoci entrambi. Il viso di Raven compare al centro di un riquadro apertosi automaticamente.
“Blair. Bellamy.”,
chiama, guardando in camera. I suoi occhi scintillano.
“Se siete arrivati qui e io non ci sono…”
“Ma come ha fatto?”,
mormoro tra me e me, mentre ascolto la registrazione.
L’uomo non stacca gli occhi dal video, ma mi risponde, orgoglioso:
“Un rilevatore. Ha installato un rilevatore acustico che ha riconosciuto la tua voce e ha attivato il filmato.”
Lui scuote la testa ammirato, mentre Raven prosegue:
“…avete capito? Non mi aspettate. Non fate i sentimentali, voi due. Seguite le mie istruzioni e diamo inizio al piano B.”
“Piano B?”
“Ssssh!”,
lo zittisco, alla ricerca di qualcosa con cui poter scrivere. Prego che Raven abbia tenuto conto di quanto io sia lenta a seguirla e che faccia almeno qualche pausa. Ma ne dubito.
“Ora vi dirò come dare inizio alla prima fase del lancio.”
“Il lancio di cosa?”
“Ssssh!”
Raven sorride, come se potesse indovinare le nostre reazioni.
“La vostra personale navicella per la Terra.”


****
18/08/17
Micro momento che mi prendo per ringraziare tutti coloro che seguono la storia, chi l'ha inserita in seguite/ricordate/preferite, chi la recensisce privatamente e pubblicamente... GRAZIE! 
A presto!,
LRM

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Capitolo 16
*** La Terra ***


LA TERRA
 
La porta viene spalancata di botto alle mie spalle, facendoci trasalire.
Raven, Raven in carne ed ossa, è costretta a sollevarsi sulla testa la maschera da saldatore per poterci salutare. Sudata e con il viso congestionato per la corsa, non molto diversa da me, si rivolge all’uomo al mio fianco:
“Sinclair! Sono nei guai?”
Lui ha difficoltà ad avere una reazione coerente con tutto quello che sta capitando.
“Reyes! Che cosa diavolo stai combinando?”,
chiede, con tutto l’autocontrollo di cui è capace adesso.
Raven lo ignora e viene da me. Si prende il tempo di osservarmi e poi sorride ancora, a fiato corto. Potrei quasi pensare che è felice di vedermi.
Mi esamina:
“Stai bene.”, è la sua prognosi. Poi aggiunge:
“Ti sono venuta a cercare, agli Uffici.”
“Ti ho vista, ma non potevo raggiungerti senza…”
“No, hai fatto bene a venire qui. Sapevo che eri abbastanza intelligente da lasciarci indietro e fare la cosa giusta.”
Nonostante mi abbia appena detto che sono un’egoista senza scrupoli, è la prima volta che mi sento stimata da Raven Reyes. Stento a crederci e a non sorriderle di rimando.
“Dobbiamo muoverci.”,
mi fa, scattando, tirandomi per un braccio. Il nostro momento è già finito.
Sinclair ci blocca il passaggio.
“Reyes, se non mi spieghi immediatamente cosa…”
“Finn è sulla Terra, Sinclair. Hai sentito cos’ha detto Blair.”
Raven cerca di scavalcarlo ma lui la blocca di nuovo.
“Ho sentito, peciò sono qui. L’abbiamo sentita tutti. Ma stento a credere che…”
“Ti fidi di me o no?”
L’attacco di Raven lo paralizza. L’ha punto sul vivo. L’ha ferito. Anche solo mettendolo in dubbio per un istante, l’ha ferito.
“Mi sono sempre fidato di te. Ti ho scelta io. Nonostante il tuo… Nonostante tutto.”
“Perfetto, allora. Sai che sto facendo la cosa giusta – e che la sto facendo bene. Lasciaci passare.”
“Raven.”
L’ha chiamata per nome e il particolare non sfugge nemmeno a me. Ora è lei a perdere fermezza.
“Ascoltami e fermati una buona volta, rallenta, ti prego! È una follia. Morirai. Morirete entrambe.”
“Andrà tutto bene, Sinclair. Ho avuto un ottimo insegnante.”
La ragazza, ancora aggrappata a me, fa del suo meglio per sostenere lo sguardo dell’uomo. Lui, dall’alto verso il basso, la ricambia con una dolcezza che disfa ogni barriera. Tant’è che persino lei, che è fatta d’acciaio, è costretta a farsi invadere dall’affetto che le viene riversato addosso. Doug non mi ha mai e poi mai guardata così.
Raven abbassa la fronte. Sto per prepararmi alle sue lacrime, quando lei mi strattona e lo supera a testa bassa.
“Sinclair, sintonizzati sulla frequenza più vicina alla Terra che trovi, appena puoi.”
Lui sta impazzendo. Si muove come un animale in gabbia. Vuole solo essere ascoltato; ma ha scelto di amare una creatura selvaggia. Cercare di domare Raven Reyes, anche solo per il tempo di convincerla di qualcosa, è un’impresa degna di un eroe. Sinclair mi sembra la cosa più vicina ad un padre che abbia visto aggirarsi intorno alla ragazza. La disperazione che lo agita ne è una prova: tiene a lei come solo il sangue può legarti a qualcuno.
“So che credi di non avere mai bisogno di nessuno, ma…”
“Ma non sono sola, vedi? Ho la bibliotecaria con me. Il volto della rivolta.”
Imbarazzata, distolgo subito gli occhi dall’uomo. Ma lui non ha mai spostato i suoi dalla ragazza; è come se non esistessi.
“Tieni la radio accesa.”,
gli ordina ancora Raven, voltandogli le spalle e congedandolo.
Nel silenzio che segue, la voce della Raven registrata è un sottofondo distante.
Lui trattiene lo sguardo sul suo cadetto ancora qualche secondo, sapendo che non si girerà, non correrà ad abbracciarlo, non gli confesserà che ha paura. Dall’ostinazione con cui Raven resta rivolta al tavolo da lavoro sento quanto le costi mantenersi fredda ora; riesco a vedere come i passi di allontanamento di Sinclair rintocchino sui muscoli delle sue spalle. Un fremito la scuote ad ogni colpo. Questo è il modo in cui Raven saluta le persone che ama. Spero sia tanto evidente per Sinclair quanto lo è per me. Spero di cuore che l’annegare nell’affetto per lei non lo privi della distanza necessaria a vedere quel che da fuori è tanto chiaro: Raven non sopporterebbe un addio, non con lui.
Sinclair esce dal laboratorio senza fare rumore. Si volta nella nostra direzione un’ultima volta ma incontra solo i miei occhi. Se lui fosse Bellamy, potrei dirgli senza parlare che a Raven ci penso io. Invece non c’è nessun canale aperto tra di noi e siamo costretti a separarci senza conforto.

Raven aspetta che la porta si chiuda prima di ricominciare a darmi ordini. Non ha mai smesso di muoversi, nel frattempo. Non mi guarda, è intenta a manipolare i suoi strumenti e a digitare istruzioni su un enorme pannello metallico, accendendone le lucine colorate, tirando leve…
Sto per chiderle di Bellamy quando all’improvviso un divisorio scorre di lato, in fondo alla stanza, rivelando un accesso che non avevo mai visto.
Una navicella dalla forma tondeggiante risplende sotto i neon. Sembra un insieme di pezzi smontati da altre navicelle e rimontati su misura. Il che è probabilmente quello che è stato fatto per metterla in piedi.
“Hai… costruito una navicella spaziale?”
“No, l’ho solo aggiustata.”
Ah, l’ha solo aggiustata.
“E… funziona?”
“Ora lo scopriamo.”
Si stacca per un momento dal pannello e va alla navicella. Io sono ancora a bocca aperta e non molto d’aiuto.
“Blair!”
“Sì?”
“Indossa questa.”
Mi sbatte tra le mani una tuta spaziale ingiallita. Intravedo delle cuciture fresche e…
“Questo è scotch?”
Lei non mi risponde, mentre sta già tirando su la zip della sua tuta. Mi passa un casco.
Dio, mentre io mi disperavo per scrivere cinquanta titoli su un foglio, questa ricomponeva una navicella spaziale, rubava equipaggiamenti tecnici e progettava uno sbarco su un pianeta sconosciuto a migliaia di chilometri attraverso lo spazio.
Mi infilo il casco e Raven me lo assicura alla tuta. Sono sigillata. Lei verifica il funzionamento del rifornimento di ossigeno indipendente che ci portiamo a tracolla.
Nel frattempo, la Raven della registrazione ha quasi finito il suo monologo. La ascolto fare un lungo sospiro, che attrae l’attenzione anche della vera Raven, che solleva la testa per guardarsi.
“Se trovate Finn, ditegli da parte mia che…”
Raven va verso la parete e spegne lo schermo.
“Glielo dico io.”
Torna da me correndo, mi supera, mi da una pacca sulla spalla. Non l’ho mai vista sorridere così tanto.
“Blair, si parte. Andiamo sulla Terra.”
 
Il viaggio verso la Terra è di gran lunga la cosa più spaventosa che mi sia mai capitata. Stretta nella navicella accanto a una Raven concentrata e silenziosa, subisco ogni smottamento della struttura, mi raggelo ad ogni segnale acceso del macchinario che non posso comprendere. La mancanza di gravità mi accelera il battito cardiaco, come se ce ne fosse bisogno.
Non riesco a guardare fuori dall’oblò. Raven ogni tanto si concede un istante di meraviglia, illuminandosi mentre lancia un’occhiata allo spazio che ci circonda. Quando vede la Terra, lancia un grido di gioia.
Il rumore della navicella che fende l’atmosfera è assordante. Nonostante il casco ovatti buona parte dei suoni che mi circondano, il tremore e il frastuono del mezzo mi stordiscono.
Raven è perfettamente nel suo elemento. Persino quando la vedo accigliarsi, il sorriso che la illumina dall’interno non la abbandona mai veramente.
In un frammento di lucidità, mi rendo conto che con il casco addosso non posso vomitare.
Non so quanto tempo passiamo in orbita, in viaggio. Mi sembra pochissimo e infinito insieme.
Ad un certo punto, Raven si rivolge a me:
“Ora ho bisogno del tuo aiuto, Blair. Dobbiamo atterrare e mi servono due mani in più.”
Detto ciò mi indica una leva maestra che finora non aveva mai toccato e mi chiede di afferrarla.
“Io devo continuare a mantenere la rotta giusta, ma mi serve che tu…”
“Freni?”
“Non è un freno, ma se ti è d’aiuto immaginartelo così, fai pure.”
Digita, ruota una manopola, segue il radar dello schermo.
“Al mio segnale devi tirarla. È molto pesante, credi di farcela?”
Penso a Bellamy. Chissà se è riuscito a raggiungere la navicella. Chissà se John e Octavia e Clarke sono lì. Chissà se sono partiti, se sono arrivati, se si sono schiantati. Chissà se ci schianteremo noi.
“Certo che ce la faccio.”,
le rispondo, già con le mani in posizione. La navicella sussulta.
Quando Raven me lo ordina, tiro la leva con tutta la forza di cui sono capace: cede sotto la mia presa con più facilità di quanta mi sarei aspettata. L’intera navicella ruggisce e dal finestrino vediamo le fiamme che ci lambiscono.
“Raven!”
“È tutto normale, Blair! È solo l’impatto con l’atmosfera!”
Stringo gli occhi fino a farmi male e resto aggrappata alla leva per cercare di non volare via dalla mia postazione. Il movimento della navicella è troppo forte, veniamo sbattute a destra e a sinistra, lanciamo grida all’impatto con il metallo; un colpo particolarmente deciso mi toglie il fiato mentre cado contro il sedile di Raven. Il rombo che ci fa tremare è indescrivibile.
Lo schianto mette fine alla nostra corsa. Perdiamo i sensi.
 
Quando mi sveglio, Raven sta già armeggiando con la mia cintura. Mi libera e mi sfila il casco. Traggo un respiro che mi va di traverso. Boccheggio. Anche lei ansima.
Ci sorridiamo. Insieme, forse per la prima volta.
“Siamo vive, Foer.”
“Ce l’hai fatta.”
Mi isso sui gomiti e vengo colta da un forte giramento. Ma non mi stendo di nuovo, non posso, non adesso.
“Blair, ora ascoltami. L’aria sulla Terra potrebbe essere ancora tossica. Dunque il modo migliore per…”
Mi alzo, scostandola, e barcollando raggiungo il portellone. Raven mi chiama. Io afferro la maniglia e la ruoto con decisione. Il portellone si spalanca, inondandomi di luce.
Prima di poter fare un passo fuori, mi schermo gli occhi. Abituata al neon da tutta la vita, la luce naturale mi acceca. Per la prima volta appoggio un piede sulla Terra.
 
Il sole.
È una enorme palla bianca nel cielo.
Il cielo è una distesa infinita e subito mi rendo conto che mi sono sempre, sempre, sempre sbagliata. Questo è il colore degli occhi di John. Il punto di celeste all’orizzonte, poco prima che si incontri con la montagna.
Tutte le parole che ho assimilato dai libri mi affiorano alla memoria con facilità, come se imparare bosco, cima, nuvola, fosse stato un apprendistato segreto della mia mente di cui nemmeno avevo coscienza. Mi sono sempre e solo preparata a questo momento. Ho imparato la parola erba e letta forse un milione di volte. Ma ora che mi trovo qui, che mi piego sulle ginocchia e mi strappo i guanti della tuta e ci immergo in mezzo le dita, capisco cosa significhi davvero. Le fotografie e le immagini che ho sfogliato per tutta la vita erano un’imitazione della brutta copia dell’abbozzo della realtà.
L’aria.
L’aria è… una mescolanza diversa di ossigeno e altre sostanze, diversa da quella sull’Arca, ne sono sicura. Si infiltra nei miei polmoni con una facilità differente, li riempie con più sapore. Li riempie meglio. Non avrò mai più un attacco di panico, con tutta questa aria pulita e fresca a disposizione dappertutto.
Raven mi ha raggiunta. È ammutolita e immobile. Solo la Terra poteva zittirla e fermarla.
Restiamo in contemplazione di quell’angolo di mondo finché non ci viene voglia di esplorarne ancora. Allora sgusciamo fuori dalle tute, ci carichiamo in spalla gli zaini con le provviste che lei aveva preparato e ci mettiamo in cammino, mentre Raven cerca di ricordarsi di abbassare ogni tanto lo sguardo sul radar che si è messa al collo. Io al collo ho ancora il Pass di Shenden.
La radiolina di Raven emette un ronzio sordo. C’è solo da sperare che non si sia rotta nello schianto e che riusciremo a metterci in contatto con qualcuno. Possiamo intercettare i Cento, se sono abbastanza vicini. Raven mi spiega che potremmo addirittura comunicare con l’Arca, con Sinclair magari, se lui le ha davvero obbedito.

Vaghiamo per giorni senza nessun segnale a guidarci, senza una meta a cui puntare. La radio resta silenziosa e piano piano anche io e Raven le facciamo compagnia. Dopo i primi giorni di euforia, ci stiamo iniziando ad allarmare. Le radiazioni sembrano averci risparmiate, ma prima o poi le nostre scorte di cibo finiranno. Raven aveva preparato i nostri zaini con troppo ottimismo, certa che non saremmo rimaste sole a lungo.
Non abbiamo visto nè sentito nessun animale, mai. Devono davvero essersi estinti tutti e non posso fare a meno di ripensare ad Ellis Fawn con rinnovata invidia. Uno dei miei sogni si è appena realizzato, ho raggiunto la Terra; e qui scopro che un altro dei miei sogni non si realizzerà mai.
Raven cammina tenendo la radio davanti a sé, come fosse una bussola capace di animarsi all'improvviso e portarci a casa.
Ma la prima voce umana che sentiamo non proviene dalla radio.
Io e Raven ci stavamo per fermare lungo il fiume a bere un po' d'acqua e ricaricare le borracce, quando una voce maschile alle nostre spalle non ci fa sussultare; ci voltiamo di scatto, in direzione del bosco.
 
Ad appena qualche metro da me, un paio di occhi azzurri affondano nei miei e capisco che mi sono sbagliata e che non c’è abbastanza aria su questo pianeta perché io riesca a respirare, non di fronte a quello sguardo.

****

22/08/17
Re-u-nion! Re-u-nion! 
Sei lieta, Pixel? (Lo sarai di più nel prossimo capitolo; sì, sono stata cattivella a chiuderlo così, ma un po' di suspance finale ci stava troppo, non odiarmi ^^).
A presto!, ma lo giuro!,
LRM

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Capitolo 17
*** May we meet again ***


MAY WE MEET AGAIN
 
“Griffin…”
Lei è ancora a bocca aperta ma le ridono gli occhi ed ogni parte del suo viso riluce come un diamante sotto un raggio di luna. Clarke.
Sto per mettermi a correre quando Raven mi scavalca, già lanciata verso il limitare del bosco.
Finn!”,
grida, gettandosi tra le braccia di un ragazzo con i capelli castani e lunghi, che la fissa sconvolto. Li osservo stringersi, toccarsi, guardarsi. Si passano le mani addosso, come per accertarsi di non trovarsi in un sogno. Rischiano di cadere a terra, tanta è l’agitazione che li ha scossi.
Quello è Finn, dunque. Immagino che il cuore di Raven stia per esplodere. È quel che farebbe il mio se ritrovassi John. È quello che farà quando ritroverò John.
“Foer!”
Clarke mi chiama, risvegliandomi. Il sorriso che le rivolgo dev’essere così enorme che mi fanno male le guance.
Le corro addosso e ci abbracciamo di slancio. Urliamo come due ragazzine e non la smettiamo di lasciarci, studiarci, appoggiarci le mani sul viso e i capelli e le braccia, per poi tornare a avvinghiarci come pazze. Non ricordo quand’è stata l’ultima volta che sono stata così felice. E Clarke mi guarda con un’espressione che non le ho mai visto addosso. I nostri cuori battono così forte che riusciamo a percepire i battiti dell’altra attrverso le vene delle mani che ci stringiamo a vicenda. Spesso si confondono, andando all’unisono.
È più bella di come me la ricordassi. Più colorata e ancora più luminosa. Scopro che ha pagliuzze d’oro nelle iridi e che la sua pelle è così chiara che posso intravedere le linee verdi e azzurre che le percorrono l’incavo dei gomiti e i polsi. La luce del sole le dona.
“Ma come hai fatto ad arrivare qui? L’Arca sta già evacuando le…?”
“No. No, ci siamo solamente noi due. Siamo arrivate su un… mezzo autonomo.”
Clarke solleva un angolo della bocca.
“Mezzo autonomo?”
“Raven è un ingegnere e un meccanico.”,
faccio, indicando la mia amica con un cenno del capo, come se questo spiegasse tutto.
Clarke si volta e di scatto torna a guardare me. Raven sta baciando Finn.
“Oh, Griffin!”,
urlo di nuovo, gettandole le braccia al collo. Clarke ricambia con meno energia di poco fa.
Quando torniamo faccia a faccia, scopro che la sua è spenta. Le sopracciglia le si increspano come sempre le succede quando qualcosa non va, quando qualcuno sta male, quando a me inizia a mancare il fiato. Le tocco una spalla con cautela.
“Ehi, va tutto bene?”
Lei scuote la testa con energia, sbatte le palpebre più volte, asciugandosi lo sguardo.
“Sì, sì, certo. Sono solo… sconvolta. Sei qui! Foer!”,
esclama, sforzandosi di alleggerire il tono. Ma prima che io possa fare qualsiasi domanda lei mi porge la mano e mi fa cenno di seguirla.
Intravedo un bracciale metallico scintillare al suo polso. I miei libri!
“Vieni, torniamo insieme al campo.”
“Campo?”
“Abbiamo costruito un campo base.”
Di sottecchi, noto Raven e Finn che stanno bisbigliando, fronte contro fronte. Io e Clarke iniziamo a camminare, dirigendoci verso il bosco. Percepisco dei passi alle nostre spalle: ci hanno messo un po’ per accorgersi che ci stavamo spostando, ma ci seguono.
“Hai costruito un campo base?”
“Oh, no. Il merito non è mio. C’è questo tizio che…”
“Sì, mi immagino come il sergente Griffin si sia tenuto in disparte quando c’è stato bisogno di organizzare e dirigere…”,
la prendo in giro. Lei sorride appena.
“Qui non sono il sergente Griffin.”,
mi spiega, mentre entriamo tra le fronde. Poi all’improvviso alza la voce, continuando a guardare dritto davanti a sé:
“Qui mi chiamano Principessa.”
Dietro di noi Finn inciampa.
Io invece scoppio a ridere:
Principessa? Tu? Ma scherziamo?”
Clarke fa spallucce e chiude gli occhi, come per dirmi “Che posso farci?”.
“Sì, diciamo che quelli del tuo anello si sono fatti sentire, all’inizio… Con i privilegiati… Il capo della rivolta è uno dei tuoi.”
“Il capo della cosa?”
Clarke prosegue il suo racconto:
“All’inizio non è stato semplice andare d’accordo. Senza un’autorità, un adulto… Non eravamo abituati a gestirci da soli, figuriamoci a sopravvivere su un pianeta ostile, e così diverso dall’Arca…”
“Tipo Il Signore delle mosche. Ragazzini senza guida che si scannano per essere il capo e i deboli che soccombono.”
Lei mi accarezza il braccio per un momento.
“Blair e i libri. Siamo di nuovo sull’Arca.”
Io sto attenta al suo viso, mentre lei fissa il percorso.
“Sì, vedi... Ci sono stati dei… delle tensioni, all’inizio. Ora va meglio. Siamo più uniti. C’è cooperazione, anche se non andiamo matti gli uni per altri siamo riusciti a capire cosa conta e lavorare insieme… Nonostante tutto.”,
mormora, prima di schiarirsi la voce con energia.
Raven e Finn continuano a parlare tra loro, a qualche metro di distanza da noi. Vorrei voltarmi ma Clarke mi fa andare ad un ritmo che non mi permette distrazioni. Rischio di inciampare nelle rocce ad ogni passo. Ed è guardandomi gli stivali da trekking che mi dico che non posso più aspettare. Il ragazzo che me li ha regalati per scherzo mai avrebbe potuto immaginare mi tornassero così utili un giorno. Non fosse stato per John, starei scivolando sul terreno accidentato con le mie ballerine sfilacciate. E io so che Clarke non l’ha mai conosciuto, ma è possibile che…
“Griffin, sai se…?”
Ma lei mi interrompe subito:
“Vedrai il campo, è straordinario. Abbiamo una dispensa, un dormitorio, una recinzione e…”
“Una recinzione? Per proteggervi da che cosa?”
Clarke mi scocca un’occhiata in tralice. L’aria umida del bosco mi fa rabbrividire.
“Ci sono molte cose che non sai.”
 
Clarke ci conduce al campo base. Hanno eretto palizzate di legno alte tre metri. Non posso fare a meno di chiedermi come ci siano riusciti. Hanno anche loro una Raven che li salva per qualsiasi cosa?
“Cosa sono queste?”
Noi due ci siamo fermate e Raven e Finn ci hanno raggiunti. La ragazza sta indicando delle montagnette di terra appena fuori dal campo, con dei fiori intrecciati abbandonati ai piedi.
Finn le risponde a bassa voce.
“Sono tombe.”
Ci ammutoliamo tutti di colpo. 
Non siamo abituati al concetto di tomba. Sull’Arca non esistono cimiteri. Quando muori vieni espulso e il tuo corpo si disintegrerà nello spazio, senza rubarne ai vivi. A noi restano delle targhe in memoria. Ma ora siamo sulla Terra e i morti vanno seppelliti. Mi domando con orrore chi se ne sarà occupato.
“Chi sono?”
“Ci sono i nomi.”
Mi avvicino alle tombe con un groppo alla gola. Il battito del cuore mi rimbomba nel costato, riesce a torcermi i polmoni. Inscritti su dei sassi, ci sono cinque nomi.
Atom. Un nome che mi suona del tutto nuovo.
Due tombe vicine portano lo stesso nome, James. Non conosco nemmeno loro.
Wells.
Mi volto di scatto verso Clarke, ma lei sta scientemente guardando altrove.
Wells Jaha era nei Cento?
Wells Jaha era in isolamento?
Perché? Com’è stato possibile?
Lui è il figlio del Cancelliere, l’uomo che ha fatto imbarcare i Cento.
Allora Abby Griffin aveva ragione. Erano davvero convinti di fare la cosa giusta. Altrimenti perché mandare qui Clarke e Wells, i loro stessi figli?
Torno a fissare il mucchio di terra smossa davanti a me. I fiori intrecciati sono piccoli e bianchi. Chissà se sono state le mani di Clarke a comporli. Le stesse dita da artista che hanno tenuto in mano i pennelli che Wells le ha inviato in prigione.
Wells è morto. Il figlio di uno degli uomini che odio di più è morto. Ed è morto per mano sua. Lui li ha mandati sulla Terra e suo figlio è morto per questo.
Non riesco a capacitarmene. È tutto così assurdo che non posso ragionarci lucidamente ora. E soprattutto devo parlare con Clarke. Wells era il suo migliore amico da quando erano bambini. Era il suo…
Controllo l’ultima tomba, con lo stomaco ritorto.
Charlotte.
 
“Charlotte Wilkes, 12 anni. Credi la manderebbero sulla Terra?”
 
La mia stessa voce mi risuona nelle orecchie. È la bambina di cui avevo letto il nome sulla lista dei minorenni detenuti sull’Arca. Avevo detto a Bellamy che mai e poi mai avrebbero inviato una dodicenne sulla Terra. E invece… Invece Bellamy aveva ragione, di nuovo. Charlotte aveva raggiunto la Terra, e lì era morta. Come? Perché? Cos’ha ucciso queste cinque persone?
Oppure… chi?
“Quella è una tomba vuota.”,
mi informa Finn, che nel frattempo si è avvicinato a me. Clarke e Raven sono rimaste in disparte.
Trovo molto dolce il suo gesto di starmi accanto. Ho l’impressione che il suo carattere si accordi bene ai suoi occhi caldi e gentili.
“Vuota? Perché?”
“Non abbiamo ritrovato il corpo.”
“Come siete certi che sia morta, allora?”
Finn mi guarda e rimane in silenzio. Scuote la testa leggermente e mettendomi una mano dietro la schiena mi invita ad allontanarci, a tornare dalle ragazze, ad entrare nel campo.
Comincio a pensare che ci siano davvero troppe cose che non so.
 
Appena varco l’ingresso, incrocio un altro volto conosciuto. Gli occhi neri, allungati e buoni, dal taglio orientale, mi attraggono come una calamita e mi rendono impossibile notare altro, vedere cosa c’è attorno a me.
Lo chiamo e lui si volta. Ci mette qualche istante a riconoscermi.
“Monty Green!”,
urlo di nuovo, alzando un braccio in aria.
Lui mi raggiunge di corsa, inciampando ogni tre passi, completamente sotto shock.
Blair? Cosa…? Ma che diavolo…?”
Lo abbraccio di slancio, anche se non ho mai avuto tanta confidenza con lui. Mi stacco prima ancora che lui possa rispondere al mio gesto.
Finalmente ho trovato quel che cercavo: qualcuno che lo conosce.
“Dov’è John?”
Monty balbetta. Balbetta e mi guarda con la faccia da cane bastonato che sull’Arca riservava alle guardie di sorveglianza, quando alla dogana tra anello e anello gli chiedevano: “Niente da dichiarare?”. Si rivolge a me con la stessa ansia malcelata, lo stesso patetico tentativo di dimostrarsi innocente anche nell’aspetto, oltre che nelle parole.
“Lui non c’è.”,
dice, finalmente. E il mio cuore salta un battito.
“Non era sulla navicella?”
“No, lui c’era ma… Ora non è qui al campo.”
“Ma che significa?"
"Blair, io non..."
"Monty, parla!”
Ora lo sto scrollando con forza; lui si lascia strattonare senza reagire. Al nostro fianco, un ragazzino con degli enormi occhiali da pilota sulla testa e i capelli spettinati, alto e dinoccolato come un giunco sbilenco, si avvicina con apprensione. Mi sembra di averlo già visto, forse è uno dei tossici di Monty. Resta a qualche passo di distanza, ma mi tiene d’occhio, allarmato dalla mia foga. Alle mie spalle, mi sembra di sentire Clarke chiamare il mio nome.
“Murphy è stato bandito.”
Mi serve qualche istante per rendermi conto di aver capito bene. Bandito?
“Cosa diavolo vuol dire che è stato bandito?”
“Che non può più tornare al campo.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti verrà giustiziato.”
 
Siamo ancora sull’Arca, non è cambiato nulla. Bandito equivale a espulso. Nel bosco invece che nello spazio, ma infrangere le regole ottiene lo stesso trattamento. Ci stiamo facendo tra di noi quello che il Governo ha fatto sulla nostra pelle. Non ci posso credere. Non abbiamo imparato niente. Non ci siamo evoluti. Siamo Kane, siamo Jaha.
 
Una rabbia cieca mi appanna la vista.
“Monty, dimmi chi è stato a fargli questo.”
Lui non ha il tempo di replicare che un’altra voce dietro di me mi costringe a voltarmi. 
In mezzo alla polvere biancastra del campo riconosco una figura alta, il viso sporco e i riccioli in disordine. Lo stomaco mi si contrae al contatto con i suoi occhi scuri.
“Bellamy…”
Non so se l’ho detto davvero o ho soltanto mosso le labbra. So che lui mi guarda ed è già oltre la sorpresa di avermi lì, come se la mia presenza sulla Terra non fosse un miracolo bensì desse ragione alla parte di lui che ha sempre saputo ci saremmo rivisti.
“Ce l’hai fatta.”,
dice infatti, schiudendosi in un sorriso che è solo per me.
In un istante è come se gli ultimi dieci giorni non fossero mai esistiti. Ci incontriamo ed è come tornare nel laboratorio di Raven, ad incrociare gli occhi al di sopra del tavolo da lavoro del meccanico, a dirci che è un caso, a raccontarci una bugia. La luce del sole, come per Clarke, ridefinisce le sue linee e le ombre del suo corpo. Le lentiggini si sono accentuate moltissimo.
Gli volo incontro, mentre lui resta fermo ad aspettare il mio abbraccio. Che non arriva.
Lui cede per un momento alla delusione di capire che non è per lui che ho voglia di correre:
“Bellamy, presto, devi aiutarmi! John è stato cacciato, Dio solo sa da quanto tempo è là fuori da solo e…”
Lui deglutisce, io a malapena noto quanto sia cambiato. Sembra più vecchio, questo sì, riesco a vederlo. In confronto all’uomo che ho di fronte, il Bellamy dell’Arca sembrava un ragazzino.
“Bellamy, mi senti? Dobbiamo muoverci! Prendi un…”
Lui mi chiama, e per fermarmi deve farlo due volte.
“Che c’è?”
Lo guardo e mi accorgo di non riconoscere l’emozione che gli dissesta il volto. Non gliel’ho mai vista addosso. È come se stesse per fare qualcosa di orribile e già si sentisse in colpa per gli effetti che avrà. Come se sapesse che uccidermi è la cosa giusta da fare, l’unica che può fare.
“Bell…”
Non ho mai abbreviato il suo nome, mai scelto un nomignolo per lui. Mi svicola dalle labbra senza permesso, un minuscolo fiore azzurro nel deserto, che fa luccicare per l’ultima volta la nostra intimità istintiva e naturale, prima che lui, con le sue parole, recida ogni bellezza che ci univa. Il punto di massima vicinanza che sperimentiamo adesso, reso evidente dal mio Bell appena sussurrato, coincide con l’inizio della fine per noi due. 
Bellamy prende fiato e lì in mezzo al campo che brulica di ragazzini al lavoro, sotto lo sguardo distante di Clarke e senza che nessuno possa davvero sentirci, mi rivela tutto quello che è successo sulla Terra.
 
In un solo gesto mi volto, sollevo il braccio e sparo. Ad altezza uomo.
Il colpo mi fa barcollare. Non avevo mai conosciuto l’effetto di una pistola, il rinculo, l’esplosione, le scintille, il fumo, l’odore di bruciato.
Al di sopra della canna nera il viso di Bellamy mi fissa sconvolto. Mi grida contro:
“Sei impazzita?”
Non l’ho mai visto arrabbiato e ammetto che la ferocia che gli strasfigura il volto riesce a spaventarmi. Non ho intenzione di dargli questa soddisfazione però, quindi mi limito a fare spallucce con sufficienza.
“Che c’è? Ti ho mancato.”
Lui è ancora con gli occhi strabuzzati e il respiro mozzato. Rimetto l’arma nella cintola e mi giro, continuando il mio percorso attraverso la boscaglia.
“Blair!”,
mi chiama, come farebbe un padrone con il cane. Lo ignoro.
Lo sento muoversi, corrermi dietro.
“Blair, metti la sicura alla pistola se la porti addosso. Non te l’ho data perché ti ammazzassi…”
“Me l’hai data perché era il minimo che potessi fare.”
“Non mi hai lasciato molta scelta.”
Cerca di toccarmi ma lo scanso in fretta. Stiamo continuando a muoverci anche se lui tenta di farmi almeno rallentare.
“Potevi uccidermi.”
“Ma non l’ho fatto.”
“Potevi davvero uccidermi."
“Non sapevi fossi tu, va bene?”,
sbotto, accelerando ancora.
“Altrimenti avrei preso meglio la mira.”
"Vuoi abbassare la voce, almeno? Vuoi che ci trovino e ci ammazzino?"
“Mi stavi pedinando?”
“Ero preoccupato. È pieno di Terrestri, qui intorno…”
“Io non ho bisogno di una scorta, guardia scelta Blake.”
“Vuoi fermarti un momento?”
“Non ho niente da dirti.”
“Puoi ascoltarmi, almeno?”
“Vattene, Bellamy. Non costringermi a spararti addosso di nuovo.”
All'improvviso lui ne ha abbastanza. Avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento, ma ha sperato fino all'ultimo che l'avrei assecondato di mia iniziativa. Forse per la prima volta Bellamy Blake si sbaglia su qualcosa. Allora si arrende e sbuffando esasperato mi afferra per un braccio, trattenendomi con la forza. 
“Cosa?”,
grido. Cerco di divincolarmi, invano. Più tiro e più lui stringe.
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace?”
Gli metto la faccia sotto il naso. Nei suoi occhi si scuote un mare nero in tempesta. Non siamo mai, mai stati tanto vicini. Sento il suo fiato sulla bocca.
“Fammi chiarire una cosa. Se John dovesse essere morto, farai la stessa fine.”
So che non mi crede capace di una cosa del genere. Ma anche Jaha mi aveva sottovalutata.
E nonostante pensi che la mia sia una minaccia a vuoto, Bellamy tentenna. Chiude le labbra, cerca di tenerle lontane dalle mie. Ma per parlare è costretto ad aprirle ancora, a respirarmi addosso.
“Blair, come potevamo immaginare che fosse stata Charlotte ad uccidere Wells? Eravamo certi fosse stato Murphy. Ti ho spiegato come sono andate le cose. Loro due avevano... Murphy aveva già provato a... Lo aveva minacciato, davanti a tutti. Quando abbiamo ritrovato il corpo di Wells, con il coltello di John accanto... Bandirlo era un modo per salvarlo, lo avrebbero…”
Lo schiaffo che gli tiro gli fa voltare il viso.
“Tu hai cercato di impiccarlo!”
Il secondo lo colpisce con ancora più energia. Lui chiude gli occhi all’impatto della mia mano sulla guancia e cerca di inspirare con il naso, a fondo.
“Tu mi avevi promesso che l’avresti tenuto al sicuro! Te lo ricordi?”
Riporta gli occhi sui miei prima che riesca a picchiarlo di nuovo.
“Lui è la mia famiglia! E tu hai cercato di ucciderlo! Dopo tutto quello che abbiamo passato per salvarli! Dopo tutto quello che ho fatto per te e Octavia! Dopo che avevi promesso…”
Sto ringhiando come se mi stessero torturando. Bellamy non ha mai smesso di tenermi per il braccio, mentre quello libero lo prendeva a schiaffi. Si prende tutta la mia furia senza reagire. E so che non serve, perché basta tutto il resto a farglielo capire, ma gli grido lo stesso che lo odio.
“Lo sapevi, lo sapevi che non ti avrei mai perdonato niente del genere, e lo hai fatto lo stesso. Come hai potuto? Non te ne importa davvero niente di me?”
Vorrei andarmene ma i suoi occhi mi inchiodano sul posto. La rassegnazione che ci leggo dentro riesce a far soffrire anche me. È un paradosso, ma non posso fare a meno di sentire ciò che sente, di accordarmi alle vibrazioni del suo suono. 
“Blair…”
La sua voce gorgoglia, profonda, spezza il mio nome in sillabe doloranti. 
Presi dal litigio, ci siamo estraniati dal mondo circostante. Perciò non ci siamo minimamente accorti del rumore che deve aver fatto la persona che, a qualche metro di distanza da noi, esclama con decisione:
“Blake, se la tocchi stavolta ti ammazzo davvero.”
Mi volto di scatto e ci metto qualche secondo per individuare la fonte della voce. La figura è carponi, in terra, e stenta a tenere dritta la testa. Ciò non gli ha impedito di minacciare di morte qualcuno. E al mondo, e in tutto l’universo, esiste solo un ragazzo capace di essere tanto stupido.
Mi precipito su di lui e inciampo crollando al suo fianco. Lo costringo a guardarmi in viso, prendendoglielo tra le mani, sollevandolo alla mia altezza. È completamente immerso nel sangue. Gli occhi, enormi, lucidi, con la loro unica sfumatura verde azzurra, mi passano da parte a parte, spiccano in mezzo al sangue raggrumato, nerastro, rosso e luccicante solo sulle ferite ancora aperte.
“John…”
Lo chiamo dieci, cento, mille volte. È assurdo che io sia uscita nel bosco per cercarlo e non riesca a realizzare di averlo trovato veramente.
Sono sette mesi che non lo vedo. Ci hanno separato le mura di acciaio delle prigioni, migliaia di chilometri di spazio profondo e troppo, troppo, troppo tempo. Ma ogni battito del mio cuore ha risuonato nelle sue vene e ogni suo respiro ha riempito i miei polmoni. E solo ora che siamo pelle a pelle lo sento veramente: quanto poco hanno contato quella manciata di minuti, quel lembo di universo tra di noi.
“Mostro…”
Lui fa fatica a tenere gli occhi aperti ma fa di tutto per riuscirci. È stremato. Dondola la fronte per la stanchezza. Eppure un’ombra di sorriso gli increspa la bocca scorticata.
“Sei qui.”,
dice, passandosi la lingua sulle labbra rotte. In quelle due parole risuona l’eco di un sollievo così intenso che mi strappa un gemito amaro.
“Sono qui, John, sono qui. Dove altro dovrei essere?”
Infilo una mano tra i suoi capelli, senza riuscirci fino in fondo. Rischio di strapparglieli, avvinti come sono dal sangue e dal fango. Sono così lunghi, per la prima volta dopo anni. 
“Hai di nuovo i capelli.”,
commento in un sorriso, cercando di tenere a freno il tremore delle mani. Mi asciugo in fretta il sangue sui pantaloni mentre lui mi risponde con la sua smorfia da pirata in licenza, che il sangue non riesce a sciupare:
“Stai uno schifo.”,
mi dice, mentre a fatica sposta una mano sulla mia guancia, sporcandomela di terriccio scuro e umido. La mia carne riconosce il suo tocco, risponde con una pioggia di spine dolorose: le singole cellule del mio corpo stanno cercando le sue. Sono a casa.
“Tu sei un fico pazzesco, invece.”
Lo sostengo per le spalle, mentre lui cerca di aggrapparsi alla mia giacca. Non riesco a decidere dove soffermare più a lungo lo sguardo, su quale millimetro del suo viso. Gli occhi mi trascinano dappertutto, inquieti, come se avessi bisogno di imprimermi per sempre le sue linee nella memoria, nelle ossa.
“Non c’era bisogno che scendessi sulla Terra per me, so cavarmela da solo.”
“Lo vedo.”
“E la lettera che mi hai scritto era patetica. Roba da romanzetti rosa.”
Continuo a toccargli il viso, cercando di pulirlo in qualche modo. La terra sembra esserglisi calcificata addosso, dappertutto. Intravedo la sua pelle solo a tratti. La maglietta che indossa è strappata, logora. Non sembra squarciata per l’usura, sembrano tagli.
Anche lui ha notato ciò che indosso io.
“Quella maglia è mia.”
“Te la stavo riportando.”
Quando il braccio gli cede e smette di accarezzarmi, la sua mano mi cade in grembo. Per un momento non mi rendo conto davvero di ciò che sto guardando. Prima di oggi non ho mai visto i moncherini che restano sulle falangi quando a qualcuno vengono strappate le unghie. Un pus giallognolo si è rappreso tutt’intorno. Solo ora mi rendo conto dell’odore. John sa di decomposizione.
Prima di abbandonarsi sul fogliame, lui si sforza di sorridermi di nuovo. I suoi occhi brillano e il fiume, il sole, l’erba, l’aria, il cielo – tornano a sbiadirsi come sulle immagini fotografate dell’Arca. Il suo sguardo brucia la realtà intorno a me e ristabilisce la gerarchia della bellezza: è lui la più straordinaria meraviglia sulla Terra.
“Sto bene, Blair. Non fare la drammatica.”,
mormora, prima di perdere i sensi.

****
26/08/17
Come sempre un pensierino alla cara Pixel, grazie alla quale questa storia viaggia con energia doppia.
Capitolo (tanto) difficile, spero di essere riuscita nell'impresa! Ho il fiatone, praticamente.
"May we meet again"... quale titolo migliore per il capitolo delle reunion? :)
A presto!,
LRM

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Capitolo 18
*** Insonnia ***


INSONNIA
 
John si rigira senza pace sulla stuoia che dividiamo, continuando a tenermi sveglia.
Pensare che una volta era lui a lamentarsi del mio sonno agitato. Lui ronfava sempre come un sasso; quando restava a dormire da me la mattina per tirarlo giù dal letto ci mettevo una vita.
Immagino di dover iniziare a accettare il fatto che ormai esiste un Prima Della Terra e un Dopo La Terra che separa le nostre esistenze in due esperienze completamente diverse.
Io mi sento ancora la Blair dell’Arca, almeno in parte. Certo, fino a due mesi fa non avrei mai immaginato di riuscire ad impugnare un’arma, accendere una rivolta, diventare astronauta, minacciare di morte qualcuno, colonizzare la Terra, abbandonare i miei genitori, e soprattutto non leggere nemmeno un libro per settimane. Eppure in qualche modo mi sento ancora io. Sono ancora Blair Foer, la biliotecaria. La bibliotecaria su un pianeta senza libri.
 
John ha ripreso i sensi solo per qualche minuto, quando siamo tornati all’accampamento. Ha aperto gli occhi e mi ha chiamato. Non era lucido, a malapena ha capito dove si trovava prima di crollare di nuovo addormentato.
Bellamy l’ha trasportato di peso fino al campo base. Abbiamo percorso il bosco in silenzio.
Al nostro ingresso, un mormorio concitato si è diffuso tra i ragazzi. Ho stretto la pistola che tenevo in pugno e li ho ignorati.
Clarke mi ha raggiunta appena entrati nella navicella. Si è messa al lavoro sulle ferite di John senza mai sollevare gli occhi sui miei. Nemmeno quando mi ha comunicato che stava bene, che nessuno dei suoi tagli era infetto, che la temperatura gli era salita per lo stress subito dal corpo torturato, ha avuto il fegato di guardarmi. Ha medicato la pelle aperta, l’ho aiutata a lavarlo, l’ho osservata fasciargli le dita squarciate. L’ho congedata come ho mandato via Bellamy, senza ringraziare. Mi sono stesa accanto a John e ho provato a dormire.
 
Terrestri.  
Quella sì che era una nuova parola per il mio vocabolario. Di tutte le cose che ci saremmo aspettati, di certo non avremmo immaginato dei sopravvissuti all'olocausto nucleare. La nostra si era rivelata un'invasione, non un'emigrazione. Va da sé che i Terrestri non erano contenti del nostro sbarco. E temevano la colonizzazione. La nostra tecnologia, le armi. Nessuno degli incontri era stato pacifico.
Me li figuravo come dei tribali qualsiasi, con pellicce per coprirsi, facce pitturate, una lingua arcaica e gutturale, punte di freccia intagliate nella pietra - poco meno primitivi degli uomini delle caverne. Me li avevano descritti grossomodo così. Come dei barbari. Le condizioni di John, tenuto loro prigioniero per giorni, ne erano la più lampante conferma.

Raven è la sola di cui sopporto la presenza, al momento. È passata a trovarmi al calare della sera, con Finn.
Lei lo adora, è evidente. Lui è più freddo di quel che mi sarei aspettata nei confronti di Raven. Ma per lei come per tutti gli altri distribuisce sguardi morbidi e parole sensate. Inclusi me e John.
Mi sembrano un buon mix: lei tutta soluzioni pratiche, lui concentrato sul cuore, empatico. Insieme fanno una bella squadra di soccorso, che infatti mi è molto utile. Lui mi spiega meglio tutto quello che è successo; lei mi propone una lista di cose da fare da qui in avanti. Finn dice che scenderemo a patti con i Terresti, è sicuro di poter riuscire ad ottenere un accordo con loro, e la pace. Raven mi informa che sta lavorando per amplificare la portata della nostra radio, per raggiungere Sinclair, e l’Arca.
La fisso senza ascoltarla davvero, grata della sua presenza lì con me. Ad un certo punto la interrompo:
“Raven Reyes, perché non ti godi un po’ il tuo ragazzo? Io sto bene.”
Tra loro scorre uno sguardo che definirei imbarazzato, e che non mi spiego.
“Ehi.”,
faccio, richiamando l’attenzione di Finn.
Mi assicuro che siamo occhi negli occhi prima di parlare:
“Questa ragazza ha rischiato la vita, costruito una navicella spaziale dal niente e attraversato lo spazio per trovarti. E mi ha sopportata. Trattamela bene.”
Lui abbassa la fronte, annuendo. Il mezzo sorriso che mi dedica è sgualcito da una strana patina di nostalgia. Mi salutano e prima di andarsene Raven mi abbraccia.
Un’altra delle stranezze del Dopo La Terra.
 
Guardo il viso di John addormentato, finalmente ripulito dal sangue. Le sopracciglia gli restano aggrottate anche nel sonno, come se non riuscisse a rilassarsi nemmeno ora, come se soffrisse. Vorrei solo poter allungare le mani e strappargli di dosso il dolore che prova. Mangiarmelo io, se servisse a qualcosa. Invece me ne resto qui impalata a sorvegliare il suo sonno tormentato, senza poter fare niente per aiutarlo. Non so se mi sono mai sentita tanto inutile in vita mia. Sono corsa qui per ritrovarlo e ora che è alla mia portata scopro di non servire a nulla. Ho voglia di prendere di nuovo a schiaffi qualcuno.
 
Nella sua tasca, trovo la busta con la mia lettera, ripiegata tre volte su sé stessa, fino a formare un cubo compatto. Ne spuntava un piccolo spigolo bianco e non sono riuscita a trattenermi. L’ho presa e ho cercato di ripulirla come ho potuto. Non l’ho riletta. Me la sono infilata nella mia, di tasca. Gliela restituirò quando aprirà gli occhi, lo costringerò a dirmi in quali passaggi mi sarei data al sentimentalismo. Voglio farlo ridere di nuovo.
 
Le parole di Jaha fanno ancora eco dentro di me.
“…non potevo fidarmi di una ragazza innamorata.”
Osservo John e mi domando cosa abbia visto Jaha in lui, e in me. Mi chiedo chi tra noi si stia sbagliando. Dal mio punto di vista, è troppo assurdo. Non posso aver trascorso gli ultimi dieci anni della mia esistenza accanto al ragazzo che amo senza essermene resa conto. Non posso.
“L’amore è stata la sua debolezza, signorina Foer. Se avesse amato di meno quel ragazzo, ora lui sarebbe salvo…”
Forse l’avrei pensato anch’io, a parti invertite? Guardando due ragazzini che rischiano di farsi ammazzare l’uno per l’altra, non avrei dedotto la cosa più ovvia? La più evidente?
Poi mi dico che anche Bellamy ha fatto lo stesso per quella che è sua sorella. E io e John siamo cresciuti insieme. Non abbiamo mai condiviso niente che anche i fratelli Blake non abbiano sperimentato nel loro rapporto. Giusto.
Se si fa eccezione per il mio ultimo sogno sull’Arca.
Scuoto la testa e scaccio per l’ennesima volta l’immagine di John che mi bacia. Non è esattamente un’immagine quel che mi perseguita, in realtà. È una sequenza di sensazioni che avverto sottopelle e nella pancia e nelle ossa... Una memoria fisica. Raddrizzo la schiena, per farla smettere di rabbrividire.
Ora John è qui. Non è un sogno. E non voglio infilargli le mani sotto la maglietta, tirarlo a me e mordergli il collo. Voglio solo restare a meno di un metro da lui per tutta la vita. Non è amore questo… Vero?
Jaha si sbaglia. E io non ripenserò mai più a quel maledetto sogno. È infantile tanto quanto la mia infatuazione per Ettore, il perfetto sconosciuto. Fantasticherie da adolescente. Roba da romanzetti rosa, per citare John.
“Sei libresca.”,
mi aveva detto, più di una volta, mentre esasperato ascoltava e riascoltava i miei viaggi di fantasia. Aveva ragione, era un difetto. Ora me ne rendo conto. Le storie mi hanno irretito il cervello. Altroché i benefici della lettura. I libri hanno incoraggiato la parte più leggera di me.
E mentre mi sto decidendo ad essere più concreta e risoluta, meno libresca, John nel sonno allunga una mano verso di me, intrecciando l’indice con il mio. E a me si mozza il respiro.
 
Nessuno ci fa visita per qualche ora. Finché, a sera inoltrata, una ragazza fa il suo ingresso nella navicella.
Di lei ho visto solo fotografie ma la riconosco, anche nella penombra. I lunghi capelli neri e gli occhi azzurrissimi sono inconfondibili.
“Cosa vuoi?”,
ruggisco, prima che possa aprir bocca.
Lei tentenna, presa in contropiede dalla mia aggressività. 
“Sai chi sono?”
“Sei la ragione per cui io e John siamo qui sulla Terra sporchi di sangue e non a mangiare un panino nel nostro lotto.”
Octavia Blake mi fissa nella semioscurità della navicella; fa qualche passo avanti, anche se non le sto dando molte ragioni per avvicinarsi.
La sua voce ha un accento che riconosco. Che mi fa scorrere un tremito doloroso lungo le braccia.
“So che hai aiutato Bellamy a venire sulla Terra.”
“Più o meno, sì.”
“Grazie.”
Reagisco con fastidio a quella parola. John, sempre accordato al mio cuore, fa un brusco movimento involontario.
“Posso aiutarti in qualche altro modo, Octavia Blake?”
Gli occhi di Octavia sono sgranati e mi fa male notarne la bellezza.
“Lui stava solo cercando di proteggere me. Di fare la cosa giusta.”
Non c’è bisogno che specifichi a chi si sta riferendo. 
“Non riesco a capire come impiccare qualcuno o bandirlo consegnandolo ai Terrestri possa essere la cosa giusta. Ti hanno mai strappato le unghie, Octavia?”
“No.”,
dice, semplicemente. Come l’innesco di un fuoco artificiale, nella mia memoria affiorano centomila momenti in cui Bellamy ha replicato alla mia paura, al mio astio o la mia incomprensione con lo stesso tono serafico, pratico. Rivedo in lei troppo del fratello, deve andarsene o inizierò a strillare, a piangere, la abbraccerò o impugnerò di nuovo la pistola.
"John ti aveva fatto del male, per caso?"
"No."
"Ti aveva mai minacciata direttamente?"
"No."
Ci guardiamo a lungo, finché non sono certa che le sia chiaro quanto sia stata stupida a venirmi a cercare.
“Va’ a dormire, Octavia. Se vuoi ringraziarmi in qualche modo, vattene.”
“Ti avevo immaginata diversa.”
Inclina la testa, come se mi stesse studiando con attenzione. Getta una ciocca di capelli dietro la schiena.
“Prego?”
“Bell ha detto appena due parole su di te…”
“Non mi sorprende.”
“Ma ha detto che sei la ragazza più in gamba che avesse mai incontrato.”
Incasso il colpo cercando di non muovere un muscolo. Non sono sicura di esserci riuscita, so che Octavia continua a puntarmi addosso i begli occhi vivaci senza che nulla faccia tentennare il suo sguardo o la sua voce.
“Che sei così buona e intelligente che non gli sembravi vera.”
Ora devo mettermi a ridere, non ho scelta.
“Tuo fratello è un bugiardo. Casomai non te ne fossi accorta.”
Scuoto la testa, pregando che le lacrime non decidano proprio ora di crollarmi lungo le guance. Mi serve qualche secondo per rendermi conto che i miei occhi sono asciutti. Per la prima volta in vita mia, mi sorprendo del fatto che non sto piangendo.
Mi rivolgo alla ragazza di fronte a me:
“Io sono una bibliotecaria. E come vedi non sono buona. E mi trovo in questa situazione, perciò non devo essere particolarmente intelligente.”
Allora lei fa una cosa senza senso: sorride.
E la sua reazione è così fuori contesto da prendermi alla sprovvista, tanto che quando lei senza preavviso viene a sedersi di fianco a me, non oppongo resistenza. Mi scosto leggermente, frapponendomi tra lei e John.
Octavia si prende la libertà di osservarmi meglio, ora che siamo vicine. Io riesco solo a notare quanto sia giovane. Sembra molto più piccola di me, anche se è più alta. Le sue guance sono due pesche perfette, rosa e lisce, la pelle pulita da bambina. Gli occhi sono piccoli, come quelli del fratello, ma di un altro colore. I capelli sono quasi neri, come quelli del fratello, ma lisci come una cascata. Non ha le lentiggini.
“Bellamy ha detto anche che hai scelto i libri da mettere nei bracciali.”
Con la coda dell’occhio intravedo il luccichio del bracciale che indossa. Lì dentro ci sono cinquanta libri meravigliosi. Nascosti, intrappolati. Mi chiedo quali siano toccati ad Octavia Blake. Quali autori straordinari stia proteggendo dall’oblio semplicemente restando in vita, con il polso intatto.
“Sì. Il primo l’ha scelto lui, in realtà.”
Octavia alza gli occhi al soffitto.
“Fammi indovinare, allora. L’Iliade?”
“Cos’è? Il suo libro preferito?”
“Bell legge un sacco di roba molto vecchia. Greci e romani soprattutto. Gli piace la storia. È stato lui a scegliere il mio nome...”
La ragazza intreccia le dita, i gomiti appoggiati sulle ginocchia ripiegate. Sospira, delicata. Mi chiedo come possa sembrare appena uscita da un set fotografico, quando in realtà è sulla Terra, senza neanche l’accesso ad una doccia da due settimane. Arriccia per un attimo il nasino, stringendosi nelle spalle, mentre io finalmente ho la risposta alla domanda "Dove avevo già visto Bellamy Blake?". Gli avrò fatto qualche prestito dalla biblioteca. Dubito che uno del settore quattro abbia libri di sua proprietà. Non ne ho nemmeno io.
Octavia prosegue:
“Lo sport preferito di Bellamy è sentirsi in colpa e responsabile per tutto. Crede ancora che sia sua, la colpa di quando mi hanno beccata.”
Devo ammettere che è brava. Dovrebbe scrivere le introduzioni ai romanzi di mestiere. In tre parole mi ha già agganciata e ora voglio conoscere tutta la storia.
Lei aspetta che io tenda le orecchie e ripende fiato:
“Io ho vissuto tutta la mia vita nascosta in una botola, di sicuro l’avrai saputo. Beh, un bel giorno Bellmay torna a casa e mi chiede se non ho voglia di uscire.”
Sorride, un sorriso doloroso.
“Allora mi dice che il giorno dopo mi porterà a una festa in maschera. Mi ha preparato un costume con cui io possa confondermi tra gli altri ragazzi. Io imbastisco come posso un vestito anche per lui, e una maschera di carta, ci prepariamo, andiamo e io… Beh, è stato il giorno più bello della mia vita. Finchè non è suonato l’allarme antincendio.”
Torno con la memoria alla festa in maschera.
Non avevo idea fosse successo lì. Ricordo l’allarme scoppiato all’improvviso, l’interruzione che ha spezzato l’incantesimo che mi teneva aggrappata al mio innamorato immaginario.
Eravamo tutti lì, quindi. Io, Octavia, Bellamy, Ettore… Non mi stesse raccontando un dramma, dovrei almeno mettermi a ridere.
“Allora le guardie ci hanno intimato di toglierci le maschere, per controllare che stessimo bene e rimandarci nei rispettivi lotti, al sicuro. Bellamy non è riuscito a portarmi via in tempo e…”
La voce argentina di Octavia si spegne. John si rigira ancora una volta, dandoci le spalle. Appoggio distrattamente una mano sulla sua schiena.
“È ancora convinto che sia tutta colpa sua. Odia Jaha e tutti i consiglieri ma odia di più sé stesso. Nostra madre è stata espulsa e lui crede che sia sua responsabilità. Ti immagini quello che prova?”
A questo punto Octavia mi guarda. Mi guarda come mi guarda Bellamy quando mi spiega qualcosa, con gli occhi diretti, aperti. Giocano sempre a carte scoperte. Come se non avessero paura di niente.
“No. No, non lo immagino.”,
le rispondo, cercando di accordarmi al modo che hanno i Blake di dire la verità, come se fosse sempre ovvia, sempre meritata, sempre sopportabile e sempre la cosa migliore.
Ci prendiamo qualche minuto di silenzio, puntellato dalle scosse dei movimenti di John sulla stuoia.
“Blair, io penso che per proteggere Murphy tu avresti impiccato qualcuno.”
Non posso fiatare, perché sarei costretta a darle ragione.
“Penso avresti legato un cappio al collo di chiunque se avessi avuto il minimo timore per lui. Inclusa me.”
Mi mastico l’interno di una guancia per impedirmi di parlare. Ma lei tace. Alla fine sono costretta a sbottare:
“Quindi?”
“Quindi forse non lo puoi perdonare. Però lo puoi capire.”
Me ne accorgo solo ora: sto stritolando la maglietta di John tra le unghie. Libero la presa, accarezzo la stoffa dove è rimasta arricciata.
Certo che capisco, vorrei dirle. Ma tu perdoneresti me, se avessi stretto una corda intorno alla gola del tuo Bell?
All’improvviso mi sento esausta e le palpebre mi sembrano più pesanti. Sarei dovuta svenire di fatica ore fa. È un miracolo che il mio cervello sia ancora in funzione. Ringrazio i mille turni di notti in biblioteca che mi hanno temprata. 
Traggo un respiro faticoso ma prima di poter proseguire un colpo di tosse mi costringe a coprirmi le labbra. Quanto scosto la mano, la scopro coperta di sangue.

****
04/09/17
Eccoci! 
Ho passato un po' di tempo a leggiucchiare in giro per EFP quindi sì, sono un po' in ritardo rispetto al solito. 
Ringrazio tantissimo Sky per le splendide recensioni dettagliate che si prende il tempo di scrivermi. E poi come sempre una menzione speciale all'angelo custode di questa storia, Pixel. Grazie, ragazze! Siete preziose! 
Un saluto a tutti quelli che hanno messo la storia nelle preferite/seguite/ricordate. Ogni volta che qualcuno si aggiunge mi commuovo un po'. 
A presto,
LRM

PS. Sto cercando nel vasto web una qualche immagine di una ragazza che si avvicini all'idea che ho di Blair... Se la trovo ve la allego al prossimo capitolo!
 

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Capitolo 19
*** La quarantena ***


19. LA QUARANTENA

 

Quando mi sveglio, trovo gli occhi di Clarke ad appena qualche millimetro dal naso. Vorrei sussultare, ma non trovo nemmeno la forza di spaventarmi.

“Sta’ ferma.”,

mi ordina, per poi sollevarsi, uscendo dal mio campo visivo.

La prima cosa che noto è che non sono più sulla stuoia con John. Mi hanno spostata su una specie di tavolo metallico. La nausea mi fa venire voglia di sporgermi oltre il bordo e vomitare. Peccato che non riesca a trascinarmi sul fianco. Volto la testa per poter tossire ed è come se un grumo solido di dolore mi strizzasse i polmoni e risalisse per la gola, fino ai denti.

Clarke è tornata da me di corsa, mi passa un fazzoletto sulle labbra. Intravedo il sangue che lo sporca.

“Blair, stai tranquilla. Andrà tutto bene.”

“Tutto cosa?”,

mormoro, stremata. Sono scossa da brividi gelidi, anche se sto sudando.

La mia amica si sporge sul mio viso. Cerco di metterla a fuoco.

“I Terrestri non hanno solo torturato John. Lo hanno anche esposto ad un virus. Ecco perché lo hanno liberato. Per rimandarlo al mittente come arma batteriologica.”

“John è malato?”

“Sta meglio di te, molto meglio. È fuori pericolo. È ancora debole ma è in piedi. La febbre era dovuta al virus, non allo stress subito dal corpo per le torture. Mi ero sbagliata.”

“Non potevi saperlo.”,

sussurro, cercando di anticipare la sua espressione corrucciata, il senso di colpa per l’errore che sente di aver fatto. Vorrei dirle che non mi ha delusa, che l’imperfezione è umana, persino per Clarke Griffin.

“Si trasmette per contatto. Forse anche per via aerea, non siamo sicuri. Il virus sembra avere effetti molto diversi sulle persone. Io ormai ero infetta dopo aver curato John ieri, quindi posso violare la quarantena. Ma ho toccato altre persone ieri, e anche tu, e questo è un guaio. Raven sta bene, Finn sta bene… Sto cercando di visitare tutti e vedere se presentano sintomi. Tu sai dirmi chi hai…?”

“Bellamy.”

“Cosa?”

“Bellamy ha trasportato John in braccio dal bosco fino al campo. Hai controllato Bellamy?”

Clarke tentenna. Resta in silenzio così a lungo che mi costringe a chiederglielo di nuovo. Lei si rimette al lavoro, si allontana verso una cassetta appoggiata su un ripiano alla mia destra, mi da le spalle.

“Ora devi riposare.”,

mi ordina, senza guardarmi.

“Griffin, giuro che se non mi rispondi mi strappo la flebo.”

“Non è una flebo.”

Osservo il tubicino che mi esce dal braccio, agganciato ad una sacca trasparente piena di liquido.

Trovo l’energia per allungare una mano e stringere il tubo tra le dita. Clarke si accorge del rumore e mi corre addosso. Ma è tardi, non può toccarmi senza che io abbia il tempo di esaudire la mia minaccia. Clarke respira profondamente.

“Non ho avuto modo di visitare Bellamy.”

“Perché?”

Clarke allunga un braccio per fermarmi. Per tutta risposta, tendo il tubicino al massimo del possibile. Basta un movimento del polso per tirarlo via. Immagino farà male. Ma mi fa meno paura della reticenza del mio dottore.

“Ok! Ok… Bellamy è fuori. È andato a cercare una medicina.”

Che cosa?”

Clarke stringe i denti e le ossa della mascella le sporgono sul viso.

“Perché non l’hai fermato?”

“Credi che non ci abbia provato? Mi dispiace, ma non sono riuscita a trattenerlo abbastanza a lungo da controllare che stesse bene. Ha saputo cos’era successo e appena ho detto che l’alga che abbiamo usato per curare Jasper poteva tornarci utile per combattere le infezioni è scappato…”

“Scappato?”

“Non ho fatto in tempo nemmeno a finire la frase.”

Cerco di deglutire, invano.

“Ma Octavia è malata?”

“No, Octavia sta bene.”

L’ansia mi regala una forza a cui fino a qualche minuto fa non credevo di poter attingere. Mi agito, smuovendo le coperte che mi intrappolano le gambe. Devo scendere da qui.

Borbotto, tra me e me:

“Fuori è pieno di Terrestri che stanno cercando in ogni modo di ucciderci e quell’imbecille…”

Un grido lacerante ci raggiunge dal piano superiore della navicella, interrompendomi.

“Quello che diavolo era?”

Approfittando della mia distrazione, Clarke mi ha raggiunta e rimessa al mio posto. Controlla che non abbia fatto danni alla mia non-flebo.

Un uomo sta soffrendo, ad appena qualche metro sopra le nostre teste. E io sono pietrificata dal terrore. Se quello è il dolore che provoca la malattia che mi sono presa, quanto tempo manca prima che anche io inizi ad urlare in quel modo?

“Ora stai buona qui. E dormi. Devi riposare o non guarirai, alga o non alga, antidoto o non…”

“Antidoto? Di che parli?”

La ragazza si morde la lingua. 

“GRIFFIN.”

“C’è un antidoto. Forse. Ma ce l’hanno i Terrestri.”

Un secondo urlo straziato riempie la navicella, che come una cassa di risonanza ne rifrange l’eco agghiacciante intorno a noi.

“Stiamo cercando di convincerli a consegnarcelo.”

La fisso nei suoi begli occhi intelligenti e ci trovo lo stesso sguardo di sua madre. Ho un deja-vu tanto rapido che non ho il tempo di preoccuparmene.

“Abbiamo un prigioniero.”

Respingo un colpo di tosse, rischiando di strozzarmi.

“Abbiamo un cosa?”

La voce di Clarke non ha titubanze, così come la sua espressione:

“Un Terrestre si era spinto troppo vicino al nostro campo. I ragazzi l’hanno catturato.”

Un nuovo boato ci costringe a sollevare gli occhi al soffitto. Le grida si stanno facendo via via più intense.

“Lo stiamo torturando?”

Lei non mi risponde ma tutto quel che mi serve sapere ce l’ha scritto in faccia.

Clarke, cosa diavolo…”

“È per salvarti che lo stiamo facendo. Per salvare tutti quelli in quarantena.”

Per la prima volta mi accorgo che non sono sola nella stanza. Altri ragazzi sono stesi in sistemazioni di fortuna ad appena qualche passo da noi. Alcuni dormono, altri sono coscienti. Hanno tutti linee di sangue a corpirgli i visi e le mani, le magliette… Una ragazza si alza sui gomiti per vomitare. Stringe gli occhi e il bel castano chiaro scompare tra le ciglia imperlate di lacrime. Ha un nasino minuscolo e porta i capelli cortissimi. Avrà trecidi, forse quattordici anni.

Quando torno a guardare Clarke, scopro nei suoi tratti una convinzione che mi destabilizza. È la stessa che ha mosso Abby Griffin a mandare sua figlia sulla Terra. La certezza di fare la cosa giusta nonostante tutto, a qualunque prezzo. Cediamo parte della nostra umanità pur di far sopravvivere la specie. Quel che è peggio sembriano non chiederci nemmeno se ne valga la pena.

Nel perlustrare la stanza, non sono riuscita ad individuare John.

“Lui è di sopra.”,

dice Clarke, rispondendo alla domanda che non ho avuto il tempo di farle.

“Si sta occupando lui del Terrestre.”

 

Clarke mi impedisce fisicamente di alzarmi dal tavolo. La lotta è impari, io sono troppo debole. Non avrei avuto una chance contro di lei nemmeno al massimo delle mie forze, figuriamoci ora. Mi tiene giù, stesa, finché non mi arrendo. Scivolo in un sonno agitato.

 

Quando mi sveglio, le urla sono cessate. È piena notte e il solo rumore percepibile sono i colpi di tosse degli ammalati intorno a me. La testa mi fa male e la temperatura mi sembra persino più alta di prima. La maglietta che indosso è bagnata di sudore freddo e si appiccica alla mia pelle bollente senza lasciarmi scampo. Il fastidio che provo è insopportabile, così come insopportabile è il dolore pulsante al petto, che mi torce i polmoni e infiamma la gola. I conati continuano a scuotermi e mi sento meno lucida di quanto mi piaccia.

“Buongiorno, Mostro.”

La voce di John mi fa voltare la testa. Lo faccio troppo in fretta e un giramento mi sconvolge, anche se sono stesa. Non capisco come sia possibile, sono solo certa di non essere mai stata tanto male in vita mia.

Lui avvicina lo scatolone su cui è seduto. Si accuccia a fianco del mio viso, con le dita appese al bordo di metallo.

“Se muori non ti perdono.”

Sto cercando di sorridere e forse riesco nell’impresa, perché i suoi occhi si quietano. Sta cercando di fingersi tranquillo ma la Terra ha decisamente ridotto le sue capacità attoriali. L’angoscia che sta provando trasuda da ogni centimetro di pelle.

“Come stai tu?”,

gracchio, cercando di minimizzare le espressioni di dolore.

“Io sto bene. Benone. La Principessa mi ha rimesso in sesto. Certo, senza il mio aiuto non avrebbe potuto fare molto…”,

dice, dondolando la testa con aria sorniona. Estrae dalla tasca un bottiglietta di vetro, dove un residuo di liquido verdastro danza sul fondo.

“È…”

“L’antidoto, sì. Mi sono servite tutte le mie doti di persuasione per ottenerlo.”

All’improvviso mi ricordo del Terrestre. Mi chiedo se si trovi ancora al piano superiore. Mi chiedo se sia ancora vivo.

Mi sono servite tutte le mie doti di persuasione per ottenerlo.

Un brivido mi percorre le braccia e so che non è colpa della febbre.

“John…”

“Blair, non cominciare nemmeno.”

“Non avresti dovuto…”

“Non avrei dovuto?”

Il suo volto è livido, all’improvviso. Cerca di mantere la voce più bassa che può, ma allo stesso tempo so che vuole urlare.

“Hai idea di quello che hanno fatto loro a me?”,

mi domanda, con le vene del collo che pulsano, per un attimo. Un attimo che è sufficiente a spaventarmi.

“Non voglio che tu faccia qualcosa che…”

Le parole mi si sciolgono sulla lingua. Sto faticando a mettere in fila le frasi.

“Non voglio che tu senti in dovere, per me, di fare qualcosa che rischia di… cambiarti…”

La sua bocca si distorce in un ghigno che non è il suo solito sberleffo da Gian Burrasca, ma qualcosa di disgustoso.

“Io sono già cambiato, Blair.”

“Che vuoi dire?”

Lui distoglie lo sguardo. Il distacco riesce a procucarmi un dolore quasi fisico, che si somma a quelli reali, e li annulla.

Si abbassa, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e unendo le mani. La schiena si inclina, così la fronte. Perdo contatto con il suo viso, che ora è completamente in ombra. La sua voce sembra raggiungermi da un'altra dimensione.

“Tu hai avuto un’immagine di me, per tutta la vita. Di questo ragazzo così straordinario… Ma te la sei costruita. Hai ricamato su di me un personaggio, qualcuno che ti andasse bene, che fosse degno di starti accanto. Tu mi hai romanzato…”

La mia testa fa un piccolo movimento. Stavo cercando di scuoterla, di dire di no.

“John, ma che diavolo stai dicendo?”

“Io non vengo da un libro, Blair. Io sono reale. E faccio schifo. Lo vedono tutti. Tutti lo sanno, qui. Mi vedono per quello che sono.”

Sono spiazzata. Sono rimasta a bocca aperta, senza capacità di replicare. Per rispondere, prima dovrei almeno capire quel che mi sta dicendo. Ma non ha senso. Niente di quanto ho sentito ne ha.

“È liberatorio, sai? Essere chi sono. Finalmente. È riposante non doversi sempre dimostrare all’altezza di Blair Foer.”

Intorno a noi la notte della Terra riempie di suoni il silenzio che ci separa. Il vento che accarezza la navicella, le fronde degli alberi del bosco, i passi dei ragazzi che hanno il turno di guardia, gli altri abitanti della quarantena che si muovono, irrequieti, sui loro giacigli improvvisati.

Io sono immobile e John mi sta ancora fissando. Ha sollevato il mento, sta per stirare uno dei suoi sorrisi sarcastici.

Ma non lo fa.

È serio.

“Finchè c’eravate tu e mio padre a guardarmi come se fossi una cosa preziosa, un miracolo… Non potevo deludervi. E allora mi sono sforzato, mi sono sforzato tanto, per voi. Avevate questa idea di me, che fossi un ragazzo tanto buono e generoso…”

Con non so quale forza, mi sollevo su un gomito.

“Ma tu sei questo, John, lo sei!”

“No che non lo sono! Sei cieca, forse? Com’è che a tutti è così chiaro che sono uno scarafaggio e Blair Foer non ci riesce, eh? Perché? Non puoi avere torto, almeno una volta nella tua vita?”

Ha alzato la voce, e si è alzato lui stesso. Mi impedisce di guardarlo da vicino, voltandosi da un lato, torcendo il collo pur di non rivolgersi direttamente a me.

Io mi chiedo come sia possibile che ancora nessuno si sia svegliato, che Clarke non sia corsa a salvarmi. Sembriamo protetti dal buio come una camera stagna.

La luce che lo sfiora, di taglio, enfatizza i chiaroscuori del suo volto. L’azzurro degli occhi di John si è sbiadito: resta solo il verde. Sembra una maschera.

E poi realizzo.

È una maschera.

 

Aspetto che continui a parlare, a blaterare.

Con il mio silenzio lo sto invitando a raschiare il fondo del barile, a buttare fuori tutto.

E lui lo fa:

“Io oggi ho torturato una persona, Blair. L’ho fatto solo in parte per te. E l’ho fatto con piacere. Lo stesso piacere che avrei provato a mettere le mani addosso a Wells. Quella che gli avevo fatto - pubblicamente, perchè sono un idiota - non era una minaccia a vuoto. Lo odiavo. Odiavo suo padre, soprattutto. Ma la ragazzina mi ha rubato il coltello e mi ha risparmiato la fatica. Non ero il solo ad cercare vendetta con il Cancelliere. Non fosse che la piccola dolce Charlotte poi non è stata accusata, sono stato io ad essere quasi impiccato. E quando la verità è venuta a galla, a lei l'avrebbero lasciata andare. Ci credi? Non potevo sopportarlo. E le ho dato la caccia. Peccato si sia buttata da una montagna, pur di non darmi la soddisfazione.”

Attendo ancora qualche secondo, con l’espressione più neutra possibile che ho a disposizione. Poi scosto la mia non-flebo, parte delle coperte, e mi sollevo. Le vertigini rischiano di uccidermi. Reprimo un conato, aggrappandomi con forza ai bordi del tavolo. Le nocche mi si sbiancano per lo sforzo. Ma finalmente sono a sedere.

“Hai finito?”

Lui tentenna, preso alla sprovvista dal mio tono. Il bello di quando qualcuno ti conosce da tutta la vita, è che appena fai qualcosa che va di un millimetro fuori dal percorso, li costringi a barcollare.

Porto il mento all’altezza del suo. Siamo simmetrici, ora. E non può impedirsi di guardarmi, non adesso. I suoi occhi sono più lucidi dei miei.

“Hai torturato un uomo con piacere? Bene. Avevi voglia di uccidere uno dei Jaha? Benvenuto nel club. Hai spinto al suicidio una bambina? Ti ho sentito, non c’era bisogno di urlare. Ah, e lo sapevo già.”

John Murphy mi ha educata troppo bene, al punto che nemmeno lui stesso può tenermi testa.

“Io ho complottato per uccidere il Cancelliere. A sangue freddo, nota bene, non sull’onda del dolore o della disperazione. Se avessi avuto una pistola per le mani, avrei fatto quel che dovevo. Anche su Kane, probabilmente. E sono la responsabile di una rivolta che avrà messo in pericolo mezza Arca, se siamo fortunati.”

Schiocco la lingua. Sono certa che non mi ha mai guardata così. Perché, semplicemente, non mi ha mai vista così. Ed è lui a credere che io non lo conosca.

“Sai cosa dice la gente di me? Questa stessa gente? Che si vede che avrei messo un cappio al collo di chiunque, pur di salvarti la pelle. Cito testaulmente. Che sarei disposta a fare qualsiasi cosa, con un po’ di motivazione.”

Per quanto sto per dire mi serve prendere almeno un po’ di fiato. Al costo di rischiare di tossire sangue.

“Non so cosa ti abbia fatto credere di non essere alla mia altezza, John Murphy, quando per tutta la vita mi è stato molto chiaro che ero io a non meritarti. Non hai letto quel che ti ho scritto, non davvero.”

Sento il peso che mi riempie la tasca dei pantaloni con improvvisa chiarezza. Avrei voglia di aprire la lettera qui ed ora e spiegargli punto per punto, costringerlo a credermi. Voglio che gli sia chiaro ciò che dico, come mai prima di stanotte. Vorrei strattonarlo acchiappandolo per il colletto, ma devo limitarmi ad arpionarlo con gli occhi.

Lui mi ascolta, lo vedo, lo sento. Lo percepisco a fior di pelle, allo spostarsi del suo petto quasi ansante, al fremito che gli scolorisce le iridi, allo spazio tra le sue labbra separate, che non riesce a chiudere.

“Tuo padre ed io siamo le persone che ti conoscono meglio. Vuoi fare a gara tra me e lui contro un branco di delinquenti minorenni che ti hanno visto per un paio di giorni in totale? No perché potrebbe rivelarsi istruttivo.”

Cerco di ammorbidirmi ma il guaio è che voglio strangolarlo e al tempo stesso riempigli le guance di baci. Non ho mai avuto sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Gli ho sempre e solo voluto bene, attraverso qualsiasi sciocco litigio. Sull’Arca erano giochi, tutti giochi, anche quando ci tiravamo addosso gli oggetti e ci minacciavamo di sparire l’uno dalla vita dell’altra. Durava mezza giornata e sapevamo che era una messinscena.

Stasera è reale.

“Non ti permettere mai più di usare la parola scarafaggio per definirti o giuro che ti metto le mani addosso. Non ho attraversato lo spazio, rischiato la vita e condannato a morte i miei genitori senza nemmeno salutarli per uno scarafaggio. Abbi un po’ di rispetto per ciò che provo per te, per ciò che mi spingi a fare, solo essendo come sei.”

Mi trema la voce. Non ho speranze di tenerla a bada. Lascio che le parole si sgranino con difficoltà, come piccoli singhiozzi delle lacrime che non sto versando:

“E se ti senti davvero cambiato, se la morte di tuo padre e la Terra e quello che ti hanno fatto qui ti hanno trasformato, sappi che se comunque nel nuovo John Murphy è rimasto l’un per cento del mio John Murphy, rimani una persona che vale la pena, ogni pena, avere accanto.”

Detto questo, cedo. Le forze mi abbandonano. L’adrenalina mi ha portato fin dove doveva farmi arrivare.

Scivolo di nuovo sul tavolo, cerco di coprirmi le gambe con la coperta, anche se sto morendo di caldo. Ma il sergente Griffin si è raccomandata, quindi io obbedisco.

John è rimasto dov’era.

“Ora vattene e lasciami dormire. Sono stanca.”

“Blair…”

“John, per oggi basta così.”

Lo congedo, voltandogli la schiena. Mi costa un dolore inenarrabile stare su un fianco solo. Sento già la tosse graffiarmi la gola. Ma non importa, non me ne importa niente.

Aspetto, ma non sento i suoi passi allontanarsi. Lo ascolto sedersi di nuovo sullo scatolone. Un lungo sospiro. Poi, il silenzio.  




****

14/09/17
Ebbene sì, sono ancora viva ^^
(Mi spiace per l'aggiornamento lento, ma prometto che il prossimo sarà più ravvicinato.) 

Devo assolutamente esprimere la mia gratitudine per le new entry che seguono questa storia, Nina Ninetta, Fede27, Spettro94, che non solo scrivono belle recensioni, ma anche belle storie - e se fate un saltino sui loro profili vi fate un regalo. 

Un grazie speciale a Sky delle Sagas, che si è appassionata a questa vicenda con un'attenzione che mi commuove.

E dulcis in fundo il grazie più grande va a Pixel, che c'era dall'inizio e senza il cui supporto non so se saremmo qui a seguire Blair e John e tutti gli altri. 

Ciao anche a voi, lettori silenziosi! 
A presto,
LMR

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Capitolo 20
*** Risvegli ***


20. RISVEGLI

Prima di uscire dalla quarantena, mi sveglio per tre volte.

La prima, quando torno cosciente, ho la sensazione di aver dormito per giorni interi. E forse non è solo una mia impressione.
Ho davanti a me immagini sgranate, figure scure in movimento… Richiudo gli occhi prima che il giramento di testa si prenda il mio stomaco e lo ribalti.
Qualcuno sta parlando e mi serve qualche momento prima di rendermi conto che stanno parlando di me.
“Avevi detto che avrebbe funzionato.”
Ha funzionato.”
“Non su di lei.”
Non ancora, Murphy. Stai tranquillo.”
“Perché gli altri saltellano in giro per il campo e lei è ancora in coma?”
“Non è in coma.”
“Risparmiami la lezione di medicina, Principessa. Sai cosa voglio dire.”
La terza voce si intromette all’improvviso, entrando a gamba tesa come solo lei sa fare:
“Secondo me devi darti una regolata.”
“Ma tu chi sei? Sei l’infermiera? Doc, abbiamo assunto un’infermiera?”
“No, stronzetto, io sono un meccanico. Sono quella che ha portato qui la tua bella. Sono quella che ha aggiustato la radio e sta salvando il culo a tutti. E se ti avvicini di nuovo con quella faccia da schiaffi, la tua faccia da schiaffi avrà ciò che si merita.”
“Che sarebbe?”
“Ragazzi, non è il momento.”
“Ma non l’avete vista? Scotta più di ieri, a malapena si muove, ha perso conoscenza da due giorni… E la ragazzina che è morta…”
“Te l’ho già detto, abbiamo dato la stessa dose a tutti. L’antidoto ha avuto effetti molto diversi. Così come la malattia ha avuto effetti molto diversi… Credo che su Blair l’antidoto fatichi a funzionare a causa di un’infezione.”
“Credi? O sei sicura?”
“Non sono sicura di niente, Murphy. Non sono un vero medico.”
“Parla con tua madre, allora! Fatti dire cosa…”
“Non parlerò con mia madre.”
“E lascerai che Blair muoia?”
“Sto per piantarti un chiodo in fronte.”
“Raven!”
“Vieni qui, superdonna, vieni da me.”
“Murphy! Basta così. Fuori! Esci di qui! Blair deve riposare e non la stai aiutando.”
“Dimmi cosa devo fare e lo farò.”
“Non c’è niente che tu possa fare. Solo aspettare. E non disperare.”
“Vedi di salvarla, Doc. Vedi di salvarla o te ne farò pentire fino all’ultimo dei tuoi giorni.”
Mentre ascolto i passi di John che si allontanano ed escono dalla navicella, il mio cervello intorpidito registra tre informazioni fondamentali.
Raven si è messa in contatto con l’Arca.
Io sono ancora malata anche se ho assunto l’antidoto.
Tutti sono guariti, tranne una ragazza. Che è morta.
Credo di aver mugolato, nel dormiveglia, perché Clarke e Raven mi sono subito addosso. Devo sforzarmi di sollevare le palpebre.
“Ciao, genietti…”,
sussurro, cercando di essere intellegibile.
“Non ti sforzare, Blair.”
Lo sguardo allarmato di entrambe mi gela il sangue nelle vene, nonostante la febbre. Sono abituata a vedere Clarke preoccupata; quella ragazza vive d’apprensione nei confronti del prossimo. Ma scorgere il moto d’ansia nelle pupille di Raven, la donna d’acciaio… Mi agita più di quanto possa dire.
“Dov’è…?”
“Muprhy è uscito un momento, torna tra…”
“Bellamy.”
Clarke si sporge sul mio viso.
“Come, scusa?”
“Bellamy. Dov’è Bellamy?”
Raven prende la parola, perché Clarke credo stenti a trovare una risposta che non mi sconvolga troppo e che allo stesso tempo non sia una bugia.
“È andato a cercare…”
“Lo so. Ma una ragazza è morta e lui non è stato visitato…”
Lo sforzo che mi è costato arrivare in fondo alla frase mi debilita al punto che sono costretta a richiudere gli occhi.
“Raven, hai trovato Sinclair?”
“Sì, ho intercettato la frequenza giusta ieri sera.”
La mano di Clarke mi scosta i capelli bagnati dalla fronte. Raven me li aggiusta meglio.
“Voglio parlare con Jaha.”
“Tu ora devi riposare.”
“Raven, prepara tutto. Appena Griffin riesce a mettermi in piedi dobbiamo parlare.”
“Sentito, Principessa? La bibliotecaria si è messa a dare ordini. Sarà meglio obbedire, quando i buoni cominciano a comportarsi così diventano pericolosi… Chiedi a Jaha. O a tua madre.”
“Intanto fatti dire se sono vivi Adam e Hannah Foer. E Doug Lehman. E Christina Murphy. E poi chiedigli udienza da parte mia, il prima possibile.”
“Perché Jaha dovrebbe accettare?”
“Perché non eri l’unica ad avere un piano B.”
Apro un occhio e ne trovo due paia che mi fissano. Due azzurri come il fiume che scorre, due castani come i rami del bosco. Entrambi spalancati, bellissimi e… sorridenti.
“Lo sapevo che eri un ingegniere mancato.”
“Foer, come fa il tuo amico a preoccuparsi che tu muoia? Ti ha mai incontrata?”

La seconda volta accade di sera. La luce delle stelle rischiara l’ingresso come un velo iridescente, filtrando a stento. Sono stordita come se avessi bevuto due bottiglie di Monty Green da sola. Riesco comunque a riconoscere la figura che sta armeggiando all’imbocco della navicella. Non so se sono più sollevata o incazzata nera.
“Fermo.”
Lui mi ignora e scosta il pannello di rami intrecciati che abbiamo costruito per creare la porta. Una volta dentro lo rimette al suo posto e fa qualche passo nella mia direzione.
Mi ritrovo seduta sul tavolo prim’ancora di rendermene conto. Non credo di aver dato ordine ai muscoli di sollevarmi. Non sento né nausea né stordimento, la testa non sta girando. Per la sorpresa, anche il ragazzo di fronte a me si è bloccato. Ci distanziano ancora cinque o sei metri.
“Non ti avvicinare.”
“Blair…”
“Ho detto non ti avvicinare. Non sappiamo se si trasmette per via aerea o solo per contatto.”
Gli occhi di Bellamy risplendono nel buio. Qualcosa dentro di me torna al suo posto, come se non avessi aspettato altro che farmi guardare da lui per potersi ricomporre. Quanto odio questa sensazione, la certezza che ho qui ed ora di essere tra i presenti quella che ha meno potere su Blair Foer.
“Sei un idiota.”
Bellamy incrocia le braccia al petto e quel gesto così familiare mi consola, come un approdo sicuro in tutto quello che sta saltando in aria nella mia vita.
Il che non rende meno stupido ciò che ha fatto.
“Te ne sei andato a spasso per il bosco a cercare una specie di alga antibatterica o che cavolo so io, cinque minuti dopo un attacco dei Terrestri che è riuscito ad arrivare dentro il campo, e prima che Clarke potesse controllare stessi bene. Cosa ti ha detto il cervello?”
Lui mi fissa, immobile. Potrei giurare che sta per sorridermi. Il che mi fa tremare le gambe, peggio di quanto la malattia abbia mai fatto finora. Bellamy è più forte della febbre.
“Cosa sarebbe successo se ti fossi sentito male in mezzo alla foresta, circondato da Terresti assetati di sangue?”
“Che non avresti più avuto bisogno di spararmi tu.”
La sua risposta mi lascia a labbra dischiuse.
Torno composta più in fretta che posso e ricaccio indietro la tosse. L’ultima cosa di cui ho bisogno adesso è un nuovo accesso. Già immagino la sua reazione spropositata di fronte a un po’ di sangue.
Lui riprende il suo intento di raggiungermi e io salto giù dal tavolo, inciampando miseramente. La flebo, la non-flebo, si schianta in terra insieme a me. Ma prima che lui possa accorrere in mio soccorso, caccio una mano nella cassetta di Clarke e ne estraggo la cosa più simile ad un’arma che trovo. Credo sia un bisturi. Glielo punto contro, anche se la febbre mi costringe a restare carponi.
“Esci immediatamente di qui. Trova Clarke e fatti visitare.”
Lui ha alzato le mani. Io stento a tenere la punta del bisturi nella giusta direzione: mi trema il braccio e una goccia di sudore mi percorre la guancia come una lacrima. Sto ansimando per lo sforzo.
E quando non riesco più a trattenermi, un colpo di tosse mi percuote il petto. A cui ne segue un altro. E un altro, e un altro ancora. Stringo gli occhi e cerco di trarre il fiato che mi serve a non svenire di nuovo. Sento Bellamy che mi sfila in fretta il bisturi dalle dita e il tintinnio della lama sul pavimento. Mi solleva e invece di adagiarmi di nuovo sul mio letto di fortuna, si allontana verso un angolo della navicella e si siede con la schiena contro la parete. A gambe incrociate, mi tiene in grembo come fossi una bambina di cinque anni. Appoggio il viso nell’incavo del suo collo e ho il tempo di notare la scia di sangue che gli ho lasciato sulla maglietta e poi crollo addormentata, prima di riuscire ad arrabbiarmi di nuovo con lui.

La terza volta, mi sveglio tra le sue braccia.
Lui sta dormendo. Con l’orecchio appoggiato sul suo petto, ascolto il ritmo regolare del cuore. Il battito si rifrange per tutto il suo corpo e mi culla come una marea morbida.
Inspiro più profondamente che posso e percepisco un odore di erba bagnata, pietre riscaldate dal sole, sudore e sangue. Non riesce a sembrarmi sgradevole. È il profumo di Bellamy che rischia la vita per cercare la mia medicina.
Non distinguo il mio battito e per un attimo mi illudo si sia finalmente attenuato, che sia sintomo dell’abbassamento della temperatura. Invece mi rendo conto che siamo in sincrono e che si sono confusi l’uno nell’altro, così come intrecciate sono le nostre braccia, le gambe, le mani. Siamo un groviglio, una fusione. Credo che persino i miei capelli si siano mescolati ai suoi ricci. Mi immagino il suo nero e il mio rubino scuro formare nodi. Sbircio tra le ciglia la mia carnagione bianca a contrasto sulla sua, olivastra, abbronzata dal sole della Terra.
Non mi sono mai sentita così in pace in vita mia.
Sfrego il naso contro il suo collo. Lo ascolto schiarirsi leggermente la voce. Fa un verso di gola, lento e lungo, piano.
All’improvviso sento le sue labbra premersi sulla mia fronte. Mi strappa un gemito di sorpresa, di piacere.
“La febbre è scesa.”,
sussurra.
Dio, è questa la sua voce quando è appena sveglio?
In un gesto così intimo da togliermi il fiato, spinge la punta del naso contro la mia tempia, annegando il viso tra i miei capelli, sfregandosi sul mio orecchio.
“Mi hanno detto che la mia bibliotecaria ha un piano B segreto.”,
mormora, soffiandomi sul lobo.
La mia bibliotecaria?
Inclino il collo senza riuscire a controllare l’istinto di offrirlo alle sue labbra.
“Sto meglio grazie alla tua alga?”
“Stai meglio grazie all’idea di Clarke.”
“Quando me l’ha somministrata?”
“Ieri, mentre dormivi, attraverso la flebo.”
“Non è una flebo.”
Bellamy inspira e io vengo sollevata dal suo petto in movimento. Apro gli occhi.
La mia non-flebo mi ha seguita qui addosso a lui come la coda di un cagnolino. Riversa in terra, credo lui abbia avuto cura di sistemarla così da non lacerarla. D'istinto mi porto una mano al petto, per controllare che non mi abbiano sfilato il Pass di Shenden. Lo stringo tra le dita in un sospiro di sollievo. È il mio amuleto, l’omaggio che indosso per l’uomo a cui devo la vita. Thomas Shenden è stato la mia guardia scelta, non quella di Jaha.
“Bell?”
Intercetto con la coda dell’occhio il principio di un sorriso che sta cercando di nascondermi; preferirebbe non sapessi quanto piacere gli provoca che io sia tornata a chiamarlo così. Da anche a me un senso di normalità del tutto inspiegabile.
“Grazie.”
“Per aver rotto i bracciali con dentro il tuo lavoro o per aver cercato di impiccare John dopo che avevo promesso di proteggerlo?”
Come uno schiaffo ben assestato, come quelli che lui si è preso da me, quella domanda mi paralizza. Sento il braccio che mi cinge la schiena irrigidirsi. Il mio corpo reagisce come una sinfonia accordata alla perfezione, tendendosi.
“Blair, non ho scuse che tu possa accettare.”
Ho così paura che sia vero che torno a chiudere gli occhi. Come se questo potesse impedire alla realtà di accadere.
Bellamy resta in silenzio, mi da spazio per reagire. Io non riesco a fare altro che ripetermi una sequenza infinita di no, nella testa.
“Octavia è venuta da me.”
Bellamy allontana il viso dal mio per potermi guardare in faccia.
“Non ti ha presa a calci, vero?”
“Ne sarebbe capace?”
“Te lo sto chiedendo apposta.”
Una risata mi svicola tra i denti. Lui si illumina e una scintilla corre dai miei occhi ai suoi.
“Tua sorella è un bel tipo, lo sapevi?”
“Sì, O è…”
Lo osservo cercare la parola giusta, finché non si arrende. Sospira, sorridendo. Basta la sua espressione a dire tutto.
“Mi ha raccontato un po’ di cose.”
“Quali cose?”
“Niente di che. Che sei un piccolo nerd omerico.”
“Non direi, no.”
“E che ti senti responsabile.”
“Per cosa?”
“Per tutto, a quanto pare.”
Il suo sguardo si affila, gli occhi si assottigliano. È tornato sulla difensiva. Vorrei non sentisse il costante bisogno di proteggersi. Non da me.
La mia mano gli copre la guancia, con tutta la dolcezza di cui sono capace, che spero di trasmettere anche nella voce:
“Sei tu che tieni in piedi il campo, Bell. È evidente. Tutti ti guardano e si aspettano da te le risposte come se fossi un mago sempre pronto a tirare fuori una soluzione dal cappello. Li ispiri, ti rispettano. Sei nato per guidare, così come Clarke è nata per prendersi cura degli altri. Come per Monty la chimica, come per Raven le macchine.”
Lo faccio sorridere, per un attimo.
“Come per te i libri.”
E così è lui a far sorridere me. Annuisco.
“Sì, come per me i libri. Tu sei il loro punto di riferimento. E dev’essere difficile. Specie se tendi ad addossarti la colpa per qualsiasi cosa.”
“Per Murphy era colpa mia.”
“Sì, per quello sì.”
Siamo occhi negli occhi, e voglio che resti con me fino alla fine del discorso, perché ho come l’impressione che mai nessuno si sia preso la briga di occuparsi di lui, nemmeno per dirgli la più semplice delle verità:
“Non per tua madre.”
La sua espressione si ammborbidisce, in un battito di ciglia.
“Non per tua sorella.”,
aggiungo. So di affondare le mani in tutti i nervi che può avere scoperti, ma è un dolore che va affrontato: non posso permettere che soffra. Per giunta, che soffra senza ragione. Lui è corso nel bosco attraverso i Terrestri per portarmi indietro una medicina. Questo è il balsamo che io posso dare a lui.
“Blair…”
“No, ascolta. Non è colpa tua se vivevamo sotto un Governo che uccide per fare giustizia. Non è colpa tua se Jaha e Kane e tutti gli altri non si sono opposti ad una legge assurda. Che sia sufficiente nascere per essere colpevoli. Che questo meriti l’espulsione della propria madre. Sei responsabile della sua morte tanto quanto lo è Octavia. Cioè affatto.”
La mia mano è ancora sulla sua guancia.
“Hai mai letto 1984?”
Bellamy ride, scuotendo appena la testa. Strofina il viso contro il mio palmo, baciandomi leggermente le dita. È bellissimo. Lui, e tutto ciò che sto vivendo in questo momento.
Una sua mano è scivolata sul mio fianco.
“Cos’è questo?”,
mormora, ancora con un bel sorriso stampato in viso, soffiandomi sulle labbra. Stringe la stoffa dei miei pantaloni, toccando un quadrato spesso di…
Mi ero dimenticata di aver infilato la lettera di John nella tasca. Bellamy la sfila, lasciando che sporga. Io la prendo e la lascio cadere sul pavimento.
“Niente.”,
sussurro, gustandomi ogni millimetro del suo volto, i suoi occhi notturni e le lentiggini da bambino. Bellamy sta per schiudere di nuovo le labbra e io non sono sicura se sia per farmi vibrare con la sua voce roca o per baciarmi, quando l’elettricità si spezza ed entrambi sussultiamo al suono di una manciata di parole gelide, impassibili:
“Quella è la mia lettera.”



****
21/09/17
Buongiorno, EFPnauti. Ci stiamo avviando alla conclusione di questa storia, che coinciderà circa con la fine della prima stagione della serie. Ma ancora manca qualche capitolo, e c'è il tempo per far succedere la qualunque

Comincio a diventare ripetitiva e melensa ma non posso non ringraziare come sempre, di cuore, Pixel, Sky, Fede27, Nina Ninetta e Spettro94 che seguono questa storia e si prendono anche il tempo per dirmi cosa ne pensano. E le opinioni di scrive bene valgono doppio, perciò a tutti loro va un doppio grazie. 

OK, non sto riuscendo a trovare un'immagine di una possibile Blair... Comunque, per capirci, è un po' tipo la Nancy Wheeler di Stranger Things, solo con gli occhi scuri e con i capelli più lunghi e sul rossiccio... Però le occhiaie sono quelle, lo sguardo, pallida, il suo essere una ragazza carina ma normale, ecco. Non una bambolona, poco ma sicuro. E anche come stile, direi che si somigliano! 



 

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Capitolo 21
*** Monty Jordan ***
























21. MONTY JORDAN
 

Oggi sono diciotto giorni che non mi faccio una doccia calda.

Tra tutte le attrezzature di cui hanno avuto cura di fornirci, si sono scordati uno straccio di pettine. Quindi ho in testa una criniera rossiccia crespa da squinternata, che mi fa sudare sotto il sole e che posso legare solo con un laccetto rimediato da una maglietta strappata.

Grazie al cielo sono così sotto pressione e mangio così male che non ho più avuto il ciclo. Dio solo sa come avrei fatto a cavarmela altrimenti.

Clarke mi ha intimato di non usare mai più il rasoio di Raven, per qualcosa che ha a che vedere con l’epatite, ma qui è estate e l’unica che aveva un ragazzo ad aspettarla è stata abbastanza intelligente di pensare anche a come depilarsi, oltre che a come sopravvivere. Non la ringrazierò mai a sufficienza.

Siamo tutti più magri ma almeno la nostra pelle si sta adattando alla luce, scurendosi a poco a poco, protetta da creme specifiche per non sfaldarci sotto i raggi a cui la nostra melanina non era abituata - e quindi sembriamo più in salute di quel che siamo in realtà.

Jaha si è preoccupato di mettere spazzolini da denti per tutti, e dentifricio… ma sta già finendo. Credo sia colpa del fatto che quando non mangi abbastanza produci succhi gastrici e saliva amara e quindi ci viene voglia di lavarceli cento volte al giorno, per togliere il sapore di marcio dalla lingua.

Cos’altro?

Ah, sì.

Si è dimenticato dei tagliaunghie. Se vi sembra una stupidaggine di poco conto significa che non avete mai provato a tagliarvele con un coltello. Ecco. E io ho scelto il momento sbagliato per smettere di mangiarmele.


 

Fisso il computer da così tanto tempo da averne perso la cognizione.

Il tavolo su cui fino all’altro ieri rantolavo è stato spostato nella tenda di Monty, che ora è il nostro ufficio, la base operativa. Raven vive qui dentro, credo non stia al sole da due giorni. E ora mi sta illustrando i benefici della sua quarantena:

“…vedi? In questo modo si connette anche allo schermo e abbiamo video e audio. Meglio di una radio, no?”

Sta indicando cavi e saldature, come se fossi in grado di comprendere quel che spiega. Non credo ci riuscirei, anche fossi sobria.

Ho offerto la bottiglia a Raven dieci volte nel corso della serata ma non ha mai voluto farmi compagnia. Quindi sono qui seduta in terra a bere da sola. Dovrei prepararmi per domani, quando parlerò con Jaha (faccia a faccia a quanto pare, grazie al nostro meccanico). Ma mi sento così sfinita. Non faccio che pensare alla mia ultima doccia calda. E ai pettini. E al colluttorio alla menta.

“Blair, ci servi tutta intera.”

Raven cerca di sfilarmi il regalo di Monty dalle mani.

“Senti, non so tu ma io sono stanca, molto stanca. Perciò ora mi fai finire di spiegare e poi andiamo a…”

Grugnisco, interrompendola.

“Ah, già. Delle volte mi dimentico che tu hai un fidanzato da cui correre la sera…”

Provo ad alzarmi, senza molto successo. Mi rimetto a sedere scivolando all’indietro e puntellandomi come posso, attenta a non rovesciare il liquido prezioso. Non ero più abituata a bere, ci ho messo quattro sorsi a diventare brilla.

Quando riesco a sollevare di nuovo il viso trovo un’altra Raven, inedita per me: tiene gli occhi bassi e le mani nelle tasche della sua giacchetta rossa. Sembra in imbarazzo.

Sono talmente fuori fase nel vederla così che penso mi girerebbe la testa anche fossi sobria.

“Finn non è più… Finn sta con un’altra. Credo.”

“CHE COSA?”

Lei spalanca le braccia e sgrana gli occhi, già così grandi.

“Ssssh! Blair! Vuoi farti sentire da tutto il campo?”

“Volevo dire: cosa?”,

ripeto, sussurrando.

Allora lei si abbassa sulle ginocchia. Solo ora noto che non indossa più la sua collanina, quella con il corvo d’argento.

“Si è innamorato di un’altra.”

“Quando?”

“Quando? Che domanda è, quando?”

“È una domanda sensata, visto che stavate insieme fino a ieri.”

“No, io… Io me n’ero accorta quasi subito. Ho solo aspettato di esserne… certa, e…”

Le rughe della sua fronte le trasformano lo sguardo, che torna a rivolgermi dopo molto tempo. Sembra triste. Sembra aver rinunciato ad una battaglia, e sembra non avere idea di come ci si comporti quando ci si arrende.

“È una del campo?”

“No, è una Terrestre. Biblioteca, quanto hai bevuto?”

“Che ne so! Ma chi è?”

Qualcuno fa il suo ingresso nella tenda, interrompendoci.

Clarke mi raggiunge col suo passo sicuro da militare e Raven si alza di scatto, sistemandosi la coda.

“Foer, cos’hai lì?”

Abbraccio la bottiglia, prim’ancora che a Clarke venga in mente di poterci separare.

“Ho passato sei mesi a tenerti lontana da questa roba e adesso… Dove diavolo l’hai trovata?”

“Griffin, rilassati. Non sei tu quella che domani deve ricattare il Cancelliere.”

Di nuovo, penso, con una punta di nostalgia per i giorni in cui Jaha era solo un mezzobusto in televisione.

“Foer, è ora di dormire. Ricordati che sei appena stata...”

“Non dormirò, lo sai che non dormirò.”

Clarke mi lancia uno sguardo in tralice. Sta per dirmi che devo essere forte e che tutti contano su di me e io non voglio ascoltare. Non sono come te, vorrei dirle. Qualche volta io non ce la faccio.

Ma all’improvviso Raven la scavalca, si allunga e mi strappa di mano la bottiglia.

“Ehi!”

Distendo le braccia come una bambina capricciosa, per farmi riconsegnare il maltolto.

Clarke ringrazia Raven, a mezza bocca. E la ragazza sposta gli occhi su di lei, cambiando completamente volto. Un brivido mi corre lungo la schiena, tanto forte è lo schiocco di freddo che incrina l’aria tra di loro.

Raven continua a fissarla per un tempo lunghissimo. Poi solleva la bottiglia e butta giù un sorso che sembra non finire più. Tossisce brevemente, per poi asciugarsi le labbra sulla manica. Non mi ridà la bottiglia, ma si siede accanto a me e appoggia le braccia sulle ginocchia: sta a gambe larghe, piegate, e fissa Clarke dal basso verso l’alto.

“Siete tornati.”,

commenta, atona.

La mia bionda si stira i vestiti intrisi di fango. Lei e Finn erano partiti stamattina, in una missione che nessuno a parte loro due aveva trovato intelligente. Una specie di trattativa di pace con i Terrestri, senza nemmeno un fucile a corpirli. 

“Sì, siamo…”

“Ci avete messo un po’.”

“Abbiamo avuto qualche… imprevisto.”

“Definisci imprevisto, Principessa.”

“I piani di pace di Finn sono ufficialmente falliti.”

“E quindi noi siamo ufficialmente in guerra?”

“No, i Terrestri ci hanno dato delle… opzioni. Domani ne parliamo, facciamo una riunione.”

Mentre loro due sono impegnate a fronteggiarsi - due leonesse nello stesso recinto - io frugo nella mia sacca, estraendone la seconda bottiglia. Come siano riusciti Monty Green e il suo amichetto con gli occhialoni a distillare la loro roba anche sulla Terra resta un mistero per me.

Clarke mi osserva con circospezione:

“Quando parli con Jaha?”

“Domattina.”

Lei valuta la mia risposta, soppesa le informazioni che ha già a sua disposizione. E poi scuote la testa, con lo sguardo al pavimento:

“Ci servirebbero più persone, più soldati…”

“Più armi.”,

completa Raven; e Clarke annuisce.

“Io so sparare.”,

dico, fuori ritmo rispetto alla conversazione. E anche non molto in tema, nell’atmosfera greve che sto prendendo a picconate con la mia leggerezza molesta da ubriaca.

Raven mi prende in giro:

“E quand’è che avresti sparato, tu?”

“Se non mi credi, puoi chiederlo a Bellamy. È a lui che ho sparato.”

“Cosa?!”,

mi chiedono in coro.

Io faccio spallucce e la ragazza al mio fianco ride:

“Balle. Era nella mia tenda fino a dieci minuti fa.”

Clarke si schiarisce la voce con energia e lei fa una smorfia piccata:

“Sì, perché? È un problema? Avevo bisogno di una distrazione. Sai, il mio ragazzo ha una cotta per un’altra.”

Clarke si gela all’impatto con le parole di Raven e il mio cervello, per quanto rallentato dall’alcool, fa un balzo in avanti e arriva dove sarebbe dovuto arrivare probabilmente già parecchio tempo fa:

“Griffin! Ma porca miseria, sei tu?”

Ho disteso le gambe al suolo per la sorpresa.

Finalmente mi è stato chiaro il perché del loro rapporto frastagliato. Non aveva senso, altrimenti. Due come loro sono fatte per incastrarsi creando una macchina da guerra. L’unica motivazione che mi ero data era di uno scornamento tra donne abituate a comandare, che malsopportano la divisione del potere. Ma mi ero sbagliata.

“Griffin, sei tu o no?”

È merito del Monty Jordan, che mi fa blaterare in scioltezza senza preoccuparmi delle conseguenze. E giusto quando inizio a realizzare che la conseguenza potrebbe consistere in una rissa a mano armata tra le due ragazze con cui condivido la tenda, Clarke prende fiato e stila una sequenza di parole rapidissima, ma chiara come il sole:

“Io non sto con il ragazzo di un’altra.”

Il silenzio che cala tra di noi è di una materia diversa dai precedenti.
Ho la netta sensazione che le lenti attraverso cui Raven ha guardato Clarke finora si siano rotte di colpo, all'impatto con la precisazione fatta dalla Principessa. Forse ora la vede davvero.

E in questa lunga pausa che appartiene solo a loro, mi rendo conto di quanto ha detto Raven poco prima su Bellamy.

Era nella mia tenda fino a dieci minuti fa.

Avevo bisogno di una distrazione.

Il nesso tra le sue parole fa contatto in ritardo nella mia mente, che viene invasa da immagini che mi danno la nausea, una nausea immediata e penetrante. È come se qualcuno mi avesse colpita alla bocca dello stomaco. Mi manca il fiato, che inspiro all’improvviso e con forza, e un vero e proprio conato cerca di risalirmi la gola, torcendomi i muscoli della pancia e del petto.

Che Dio maledica tutti i libri che ho letto: mi hanno allenato la mente a creare mondi, film interi, partendo solo dalle parole degli altri. E tutto quello che lei ha lasciato intendere accende una proiezione di quadri che rischiano di uccidermi. Posso distinguere il rumore che fa il mio corpo mentre si accartoccia su sé stesso, nel tentativo di sparire e schiacciarsi e non sentire più nulla. Ora sì che sono certa che non dormirò.

Lui l’ha guardata e l’ha toccata e… Lui ha… Dopo che noi…

Dopo che noi niente, mi dico. Devo razionalizzare o impazzirò, qui e ora. Non ho perso il cervello fino a questo momento, attraverso tutti i lutti e gli addii mancati e un viaggio nello spazio e una febbre che mi ha quasi uccisa, non posso permettere a Bellamy Blake di disintegrarmi, solo per il fatto che…

Siamo stati vicini, per un attimo, è vero. E io mi sono sentita come sull’orlo di un abisso e che mi sarebbe stato sufficiente un passo per precipitare e la voragine non si stava aprendo sul nulla, ma su tutto.

Ma era arrivato John. Il mio John. Quello che nella lettera che giaceva in terra avevo chiamato la mia persona preferita. Non aveva urlato. Non aveva urlato nessuno. A malapena avevamo provato a parlare. John se n’era andato per primo. Bellamy l’aveva imitato poco dopo. Io non avevo trovato il coraggio per rincorrere nessuno dei due e sapevo che avrei dovuto trovare John, che gli ultimi dieci anni di abitudine mi costringevano a seguire lui, ero stata addestrata a cercarlo, mi ero programmata per viverci insieme e affrontare qualsiasi cosa mettendo lui al primo posto. I miei piedi mi avrebbero portata sulla strada conosciuta e che amavo. Come se ci fosse una bussola sotto il mio stomaco, il cui nord è e sarà sempre John. Ma io volevo correre dietro a Bellamy.

E lui era corso da Raven.

“Tu e… Bellamy?”

Raven mi da una gomitata scherzosa:

“Ehi, non giudicarmi. Ci vuole più fegato per farsela con John Murphy.”

“Io non me la faccio con John Murphy.”

“No?”

“No.”

Sto ringhiando. Ma devo cercare di ricordarmi che non è colpa di Raven. Ciò che sento ha un solo colpevole, e sono io. Il sorso di Monty Jordan che mi concedo finisce solo quando devo tornare a respirare. 

Lei, ignara di quel che sto nascondendo, riprende il discorso:

“Comunque, io non capisco come possa piacerti un soggetto del genere.”

“Ti ho appena detto che non…”

“Cos’è, la lagna che fa ogni volta che apre bocca? Il sarcasmo fuori luogo? Gli occhi gonfi da gufo impasticcato?”

“Raven, ma che ti…?”

“Oppure il modo che ha di muoversi, come un tossico? Ah, no, ci sono: dev’essere il suo irresistibile muso da tagliagole. Ogni volta che fa quella smorfia del cazzo mi viene voglia di…”

E poi la guardiamo irrigidire le dita, come se stesse strozzando un fantasma davanti a sé. Qualcosa di tutto quel teatrino mi fa sorridere, mentre una parte di me drizza le antenne, come in allarme.

Clarke si intromette e noto solo ora che mi sta tendendo la mano. Le porgo la bottiglia solo quando mi è chiaro che non vuole portarmela via, vuole bere. Mentre la guardo ripulire l’imboccatura su un lembo di maglietta rimasto intonso, lei commenta con un mezzo sorriso, che non so bene da dove le sia spuntato:

“No, ti sbagli. Lei ama un altro…”

Il mio cuore salta un battito. Lei prosegue, fingendosi sorpresa:

“Non le hai già riempito la testa con il tuo Ettore?”

“Ettore? E chi è Ettore?”

Clarke si stacca la bottiglia dalle labbra, leccandosele, e ci raggiunge in terra, sedendosi di fronte a me a gambe incrociate e riconsegnandomi la salvezza con un piccolo sorriso complice.

“Un tizio molto affascinante. Di cui non sa nemmeno il nome.”

Ricambio il sorriso, perché capisco cosa sta facendo. Vuole riportarmi sull’Arca, dove mi sentivo al sicuro, dove non trovare un ragazzo visto ad una festa era il massimo problema delle nostre vite. È questo che farà di Clarke un bravo medico. Che anche se non sa quale sia la tua malattia, legge i sintomi e intuisce la prossima mossa utile a salvarti. O, se non altro, a farti soffrire meno. Lei non sa nulla di quel che mi passa per la testa, ma avverte il cambio di ritmo del mio respiro come si trovasse a brancolare disperato nei suoi polmoni.

Trascorriamo insieme le successive due ore, finché del Monty Jordan non resta che un fondino e delle nostre inibizioni quasi nulla. Clarke racconta a Raven della nostra zuffa, di come ci siamo conosciute cercando di strapparci di mano un libro al mercato nero. Raven fa ridere Clarke con l'imitazione delle mie facce mente scendevamo sulla Terra. Io sono quella che parla meno, perchè sono troppo impegnata a godermi quel che sta capitando tra di noi. La situazione è quantomeno surreale, ma l'alcool aiuta. Non sfioriamo più l'argomento Finn, ma loro mi prendono in giro per Ettore - finchè l’apertura della tenda viene scostata, attirando la nostra attenzione.

“Di cosa state parlando?”

Octavia ci raggiunge, incuriosita dalle risate e dall'aria leggera che si respira qui dentro. Si siede accanto a Clarke, con la disinvoltura di chi è a casa propria, tra i suoi amici d’infanzia.

Mi diverte che sia così sfasata rispetto alle norme sociali. La sua sfacciataggine è tenera e non infastidisce nessuna di noi: ci ricordiamo bene che non ha mai avuto a che fare con altre persone fino a poche settimane fa, a parte sua madre e suo fratello.

“Chi è il maschietto che ti fa disperare, Octavia?” 

La domanda la prende in contropiede e le fa stringere le labbra. Distoglie in fretta lo sguardo dal mio e lo rivolge alle scarpe.

“Nessuno. Io non ho… nessuno.”

Clarke le sorride, anche se Octavia non la può vedere:

“Meglio così. O Bellamy potrebbe servircelo per cena, al posto dei conigli.”

Raven le allunga la bottiglia e Octavia la osserva con circospezione.

“Cos’è?”

“Anestetico.”

La più giovane tra noi prende il collo della bottiglia e Raven la lascia andare.

“Chiunque sia lui, qualunque problema possiate avere.”

Octavia getta un’occhiata alla sua sinistra:

“Il medico non disapprova?”

Le rispondo io per Clarke:

“Il medico è alla seconda bottiglia.”

Allora lei la solleva nella mia direzione, in un brindisi silenzioso. Poi prende un sorso, troppo lungo, e tossisce lacrimando, portandosi una mano al petto.

“Non avevi mai bevuto in vita tua, vero?”

“Non avevo mai fatto niente, in vita mia.”,

risponde, appena ha finito di scuotersi.

E nello stesso istante, qualcun altro viene ad interrompere la nostra festa.

Si avvicina lentamente, reso cauto dal fatto che sia Raven che Clarke si trovano lì.

Finn nota le bottiglie, le nostre facce arrossate. Bere a stomaco vuoto, stomaco che è quasi sempre vuoto da quando siamo sulla Terra, ci ha mandato su di giri come si deve.

Lui si acciglia, preoccupato:

“Non è il momento migliore per lasciarsi andare.”

Raven replica, con la sua posa annoiata:

“Finn, siamo in guerra. Bevi un goccio.”

Appunto. Siamo in guerra, e…”

Gli faccio cenno, spazzando la porzione di pavimento alla mia destra.

“Vieni qui, bellino. Ti manco solo io da far innamorare.”

Non so se siano state più le mie parole o la faccia di Finn, ma la risata che invade la tenda è così forte e sincera e dura tanto a lungo che lui è costretto a chiederci se ci sentiamo bene.

Raven risponde, tenendosi la pancia:

“Finn, tranquillo, scherzava."

E Clarke rincara la dose, tradendo il suo tasso alcolemico:

"Non sei il suo tipo. A lei piacciono molto alti, con gli occhi neri, i capelli scarmigliati. Tenebrosi…”

Lui è così disorientato dal nostro comportamento che per un attimo si dimentica della guerra, dei Terrestri, di ogni cosa che sia mai andata storta tra i presenti:

“Bellamy?”

“Mio fratello?”,

urla Octavia, voltandosi nella mia direzione.

“No! Ettore.”, li corregge Raven.

“Ettore.”, ripete Clarke.

Finn fa zigzagare lo sguardo tra di noi, fino ad approdare al mio viso:

“Ma tu non stavi con Murphy?”

Mi piego su me stessa, nascondendo la faccia. Sento il rumore di qualcosa che viene lanciato e si schianta in terra, con un’esclamazione sorpresa del ragazzo.

La quota azzurra della nostra festa non ne può più di stare lì.

“Quando vi sarete riprese, ci trovate nella mia tenda. Stiamo mettendo a punto un piano per l’evacuazione.”

Torno dritta in mezzo secondo:

“Evacuazione?”

Finn annuisce.

“È un’idea di Clarke e io sono d’accordo.”

Octavia salta in piedi.

“Evacuare il campo? E per andarcene dove?”

“Questo non è più un posto sicuro. I Terrestri si stanno organizzando per attaccare.”

“E vagare per il bosco sarebbe meglio? Saremmo più al sicuro lì?”

“O…”,

la chiamo, rendendomi conto in un secondo momento di aver scelto il nome che il fratello usa per lei. Non so da dove mi sia uscito. Mi affretto a correggermi, frastornata:

“Octavia, siediti. Calmati.”

Finn incalza:

“Restare significa ricevere un attacco, Octavia. Capisci che significa?”

“E voi capite che le palizzate che abbiamo eretto sono la sola cosa che può proteggerci, se i Terrestri ci vogliono morti?”

“Senti, ce lo hanno detto. Ok? Hanno detto che se ce ne andiamo ci risparmieranno. Abbiamo due giorni.”

Per tutta risposta lei corre fuori senza voltarsi indietro, se non per assicurarsi di essere seguita da Finn. Lui, uscendo, si preoccupa di risultare chiaro:

“Vedete di tornare sobrie entro domattina. Appena Blair avvisa Jaha, ci muoviamo. Lasciamo il campo.”

Io non so ancora come la penso e temo di avere bisogno di tanta acqua e una bella notte di sonno prima di poterci ragionare su. Guardo Clarke, a sua volta incupita, di nuovo tesa.

“Non so davvero cosa ci trovate in lui.”,

dico, cercando di far rinascere la leggerezza che ci aveva unite fino a poco fa.

Lei appoggia la bottiglia in terra, il più lontano possibile da sé, e mi corregge, sovrappensiero:

“Cosa ci troviate.”

Sto per replicare, quando mi rendo conto che ha ragione lei.

“Dio mio, ho sbagliato un congiuntivo.”

Raven mi sorride, di un sorriso senza allegria:

“Non sei più la stessa, Blair Foer.”






****
30/09/17
Carissimi e carissime, spero che vi siate divertiti insieme alle nostre ragazze :D

Grazie come sempre a tutti coloro che lasciano una recensione, leggono, inseriscono la storia nelle ricordate/seguite/preferite. Pixel, Sky, Spettro, Fede, Nina... e la new entry Morgengabe (anche se raggiungerà questo commento tra un po' ^^)

A presto il prossimo aggiornamento!
LMR

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Capitolo 22
*** Faccia a faccia ***


22. FACCIA A FACCIA


“Perché Blair è così immobile?”
“Fa così quando è nervosa. Principessa, a che ora abbiamo detto si sarebbe presentato Jaha?”
“Alle undici.”
“Sono già le undici.”
“Sono le dieci e cinquantasette, Raven.”
“È in ritardo.”
“Non è in ritardo.”
Certe cose non cambieranno mai. Nemmeno nel Dopo La Terra.
Sento la voce di Clarke tentennare:
“Ma sei sicura si senta bene?”
Raven sospira, e per un momento i rumori del meccanico al lavoro si placano.
“Blair, fai impressione. Apri gli occhi.”
Obbedisco, senza muovere altro che le palpebre.
Ho Clarke accanto a me, mentre di Raven intravedo solo la testa, nascosta sotto il tavolo. Sta controllando per la milionesima volta che tutto sia in ordine. Il suo portatile, connesso al sistema della navicella, è riuscito a riprendersi e diventare operativo, regalando al nostro allaccio radio il lusso di una videoconferenza. Ho rimosso le sue spiegazioni circa cavi e conversioni dati di ieri sera, so solo quel che mi serve: tornerò occhi negli occhi con Jaha. Mi atterrisce l’idea di rivederlo. E delle risposte che potrebbe darmi.
Sto seduta di fronte allo schermo, gambe e braccia incrociate, rigida come un sasso. Fino a poco tempo fa avrei detto come un pezzo di lamiera, ma la Terra mi ha insegnato che può produrre cose più dure di quelle artificiali e ho in testa tutta una nuova serie di paragoni.
All’improvviso il computer si anima, facendomi sussultare. Vediamo solo linee blu. La mano di Clarke si posa con decisione sulla mia coscia, cercando di mantenermi calma.
Dall’imboccatura della navicella, qualcuno grida:
“Tutto ok, lì dentro?”
“Voi due badate al vostro lavoro! Se entra qualcuno te la vedrai con me, Jasper Jordan!”
“Raven Reyes, tu hai bisogno di una vacanza!”
“Go float yourself!”
“Prima le signore!”
Mentre Raven e Jasper continuano a rimbeccarsi a distanza, Clarke si è sporta sul mio orecchio, sistemandomi una delle cuffie.
“Ehi. Andrà tutto bene. Ok?”
Annuisco. Se non è Bellamy a dirmi che ce la faccio non ho l’impressione che sia vero, anche se le parole sono le stesse.
Darei un braccio pur di averlo qui al mio fianco. E so anche che se glielo chiedessi lo farebbe, lo farebbe nonostante tutto; come la nostra prima notte insieme, quando mi consegnò le cento schede di memoria e accettò senza ripensamenti di restare solo perchè io ne avevo bisogno, anche se voleva dire infrangere un ordine e rischiare, di fatto, la vita.
Ma non lo costringerei mai a starmi vicino, sapendo quanto fastidio potrebbe dargli ora la mia vicinanza. L’ha reso piuttosto chiaro evitandomi come la peste negli ultimi giorni. E anche John sembra sparito nel nulla. Non biasimo nessuno dei due.
Lo schermo continua a distorcersi. Passa qualche minuto prima che vediamo qualcosa definirsi, gradualmente. Clarke intima a Raven di piantarla, e così anche Jasper si quieta.
La figura del Cancelliere compare, traballante ma inconfondibile. Io deglutisco, la prima di molte volte, e mi ficco le mani sotto le gambe, per impedirmi di gesticolare e tradire il tremore che mi scuote.
L’uomo fissa la telecamera, in silenzio. Non so se sta aspettando che audio e video si stabilizzino o vuole solo giocare al gatto col topo. I suoi occhi neri si stagliano con prepotenza al centro del quadro, diventandone il fulcro. Sento le dita di Clarke stringersi sui miei pantaloni.
Decido che non lo lascerò parlare per primo:
“Le persone di cui ho chiesto notizie. Sono vive e in salute?”
Jaha stringe gli occhi. Si passa una mano sul mento, con studiata lentezza.
“Sì.”
“Sono libere?”
“Sì.”
Inspiro, mentre sento distintamente la pressione degli occhi di Clarke e Raven su di me. Mi chino in avanti. 
“Come faccio a sapere che non sta mentendo?”
“Temo non abbia altra scelta che fidarsi di me.”
“Tendo a non ripetere lo stesso errore due volte.”
“Vuole dirmi che questa volta sarà collaborativa?”
Chiudo la bocca e torno ad aderire allo schienale.
Mi rendo conto di quanto sia inutile chiedere risposte a quest’uomo. Mi sono illusa. Nemmeno se giurasse sulla testa di suo figlio potrei credere a una sola parola di quel che promette. Suo figlio l’ha mandato sulla Terra a morire. Quanto può importargli della mia famiglia, quando è stato disposto a sacrificare la sua in nome di una legge?
La direzione del suo sguardo non cede, e la sua forza riesce a raggiungermi attraverso l'etere, lo spazio, le mie resistenze.
“Siete ancora vivi.”
Jaha fa la sua constatazione senza che la benché minima emozione gli sfiori il viso. Anche se ciò che ha appena detto significa che può salvare la razza umana - e che il suo piano gli ha dato ragione e lui finirà coperto di allori sui libri di storia - il suo è un commento senza accenti, piatto. Cerco di servirgli lo stesso trattamento, quando gli rispondo, atona:
“Non tutti.”
Jaha continua ad osservarmi, calmo, con la sua aria da principe straniero e un sorriso nascosto tra le labbra chiuse.
Si concede il tempo di notare quanto sia dimagrita, sporca e sfinita.
Poi sorride e la sua voce profonda e meravigliosa mi rimbomba nelle cuffie, dritta a gelarmi il cervello:
“Signorina Foer, finalmente ci rivediamo.”
 
Fuori, la luce del sole mi inonda, scaldandomi il viso. Rovescio indietro la testa, tenendomi i capelli sollevati in una coda.
Clarke, di nuovo accorsa al mio fianco, sussurra, cercando di passare inosservata agli abitanti del campo:
“Gli hai fatto credere che Wells è ancora vivo.”
Chiudo gli occhi e inspiro l’aria pulita all’esterno della navicella.
Lo scalpiccio dei piedi, le chiacchiere, i rumori del campo in movimento mi circondano e mi accorgo con una punta di straniamento che iniziano a sembrarmi normali. Mi sto abituando a questa vita.
Clarke non mi permette di distrarmi, e mi incalza:
“Foer, cosa farai quando ti chiederà di nuovo di parlare con lui?”
“Quello che ho fatto oggi. Mentirò.”
Ascolto la mia amica sospirare e me la immagino corrucciarsi, guardarsi intorno attenta a non farsi ascoltare.
“Che c’è, Griffin?”
“Niente.”
“Non capisci perché l’ho fatto?”
“Capisco perché l’hai fatto. Ma non sono d’accordo.”
Lascio andare i capelli, li scuoto. Torno a guardare la mia bionda, che mi fissa con tutte le rughe della fronte piegate l’una sull’altra e i begli occhi celesti resi stelle da questa mattina d’estate.
Malsopporto il modo in cui mi giudica in questo momento e le parole mi escono dalla bocca più amare di quanto vorrei:
“L’ho fatto perché lui l’ha fatto con me. Scommetto quello che vuoi che i miei genitori sono stati espulsi il giorno stesso del video e della sommossa. O non dirmi che credi ancora a quello che ci dicono.”
“Non mi fido di Jaha. Non mi sono mai fidata di Kane. E non mi fido di mia madre, soprattutto.”
Non sposto le mani, puntate sui fianchi. Ma mi volto nella sua direzione.

Siamo alte uguali, i nostri occhi sono esattamente sulla stessa linea. Qualcuno ci aveva scambiate per sorelle, e all’inizio entrambe ne avevamo riso. Poi aveva continuato a capitare e allora eravamo state costrette a chiederci come fosse possibile. La risposta si trovava in piccoli particolari. I nostri nasi erano curiosamente identici. Il colore della pelle. L’altezza, appunto. Qualcosa nel modo di sorridere e nella voce. Il tono assertivo con cui parlavamo di ciò che era il nostro mestiere, e quello fin troppo caldo con cui ci rivolgevamo ai nostri amati. Ma i suoi occhi erano azzurri e i miei di quello strano castano che non mi era mai piaciuto, giallo. I suoi capelli biondi, ondulati, sottili - e i miei rossicci, lisci, crespi. Sembravamo due versioni della stessa frase, la versione corretta e quella sgrammaticata.

Clarke serra la mascella e io torno a chiedermi come abbiano fatto i Cento a scambiare questa guerriera per una principessa.
Lei ha attraversato ciò che avrebbe annientato chiunque. È lei la vera sopravvissuta. Se penso a ciò che ha scoperto sulla sua famiglia…
 
Il padre di Clarke era stato giustiziato e lei incarcerata: avevano scoperto che l’Arca stava morendo e volevano rendere pubblica l’informazione, con un piano simile a quello messo in pratica da me, Raven e Bellamy. Ma erano stati scoperti prima di riuscirci.
Clarke aveva confessato il loro intento al suo migliore amico, Wells Jaha. E lui l’aveva tradita. L’aveva detto a suo padre e lui aveva condannato padre e figlia.
Questa era la versione ufficiale della storia. Quella a cui Clarke aveva creduto finchè non era arrivata sulla Terra.
Wells l’aveva seguita: si era fatto mettere in galera, e poi sulla navicella, per lei. Per proteggerla. E una volta sulla Terra aveva trovato una Clarke che lo odiava, lo odiava per ciò che aveva fatto.
Ma era una bugia.
Non era stato Wells. Wells non avrebbe mai e poi mai tradito la fiducia di Clarke.
Era stato qualcun altro a consegnare lei e Jake Griffin alla giustizia.
Era stata sua madre.
 
Abby Griffin aveva impedito al suo stesso marito di rivelare ciò che stava succedendo all’Arca, facendolo espellere nello spazio. Aveva tradito l’amore della sua vita, il padre di sua figlia, mettendolo nelle mani di Jaha e Kane – che avevano anche incarcerato Clarke, considerata complice del tentato crimine. E l’aveva fatto per il bene superiore.
Avevo ripensato spesso alle sue parole, quella notte in biblioteca…
 
“Non è una decisione semplice, ma bisogna guardare al bene superiore, al bene comune, anche se significa sacrificare…”
 
E ogni volta mi chiedevo come fosse possibile crederci veramente. Come fosse possibile accantonare i propri affetti per un’idea, anche se l’idea era la salvaguardia della specie. Nella mia testa aveva senso, il sacrificio per il bene superiore… Ma nel mio corpo, nel mio cuore, no.  Al posto di Abby Griffin non sarei stata all’altezza del compito, lo sentivo: sarei stata egoista e avrei protetto le mie persone mandando in malora il resto degli umani. E la mia mente mi portava subito dai miei genitori, che piuttosto che torcermi un capello avrebbero lasciato implodere l’Arca su sé stessa, e tanti saluti. Mi avevano insegnato ad amare fuori misura e senza cervello. In maniera libresca e poco concreta.
Non avevo capito quanto lontano fosse disposta a spingersi Abby Griffin finché Clarke non mi aveva raccontato tutta la storia, di come avesse scoperto la verità, la sera stessa che Wells era morto.
Non c’è speranza che io possa comprendere una sola stilla del dolore di Clarke. Credevo che la signora Griffin fosse il nostro unico alleato tra i Consiglieri. Invece eravamo soli. E grazie al cielo il mio piano B era appena andato in porto.
 
Raven ci raggiunge, correndo.
“Ottimo lavoro, Blair.”,
commenta, stringendosi la cinta dei pantaloni.
“Ora andiamo a dirlo agli altri e poi partiamo. Clarke, vieni con noi?”
Per un momento Clarke si sorprende dell’invito, e da chi lo sta ricevendo. Poi è come se si ricordasse che le cose sono cambiate, che loro due non sono più schiave di un malinteso e che hanno già riscritto parte del loro rapporto. Raven le ha teso una mano; diamine, l’ha persino chiamata per nome. Ma Clarke non distende i muscoli del viso, non sorride, e ci da appuntamento a più tardi.
“Vado a chiamare Jasper e Monty. Dobbiamo trovare Octavia, è da stamattina che nessuno l’ha vista.”
Raven annuisce, vagamente delusa per la sua offerta rifiutata.
Io ho solo il tempo di pensare che se Octavia è sparita da più di tre ore, Bellamy sarà ancora più difficile da digerire, alla riunione a cui siamo attese.
Clarke mi passa accanto e invece di salutarmi normalmente mi abbraccia. Ci metto qualche secondo per rispondere al suo gesto. Non credo ci siamo mai e poi mai abbracciate, se escludiamo il primo giorno sulla Terra. Sull’Arca sono certa di no. Batto dolcemente il palmo sulla sua scapola, disorientata. Lei non sembra intenzionata a staccarsi. Appoggia il mento sulla mia spalla, con le labbra all’orecchio:
“Quella di oggi è stata l’ultima cosa che dovevi fare. Te lo prometto.”
Prima che possa chiederle ragione delle sue parole lei mi libera, mi accarezza il braccio, si appende per un attimo con le dita alla manica della mia maglia e poi ci lascia. La guardo allontanarsi con il suo passo secco e sicuro, che potrebbe portarla a camminare attraverso la nebbia tossica restando illesa e dentro una montagna senza scavare una galleria. Sono infastidita da una sensazione acida alla bocca dello stomaco.
“L’hai spaventata, prima.”,
mi spiega Raven, come fosse un’ovvietà. Mi volto verso di lei, che sta socchiudendo gli occhi per via della luce.
“Ti ha guardata fare una cosa crudele, poco fa. E ora è preoccupata per te.”
“Crudele?”
“Era crudele perché non era necessaria, Blair. Tutto quello che di estremo abbiamo fatto, aveva una ragione.”
Penso al Terrestre torturato da John per avere una medicina. Penso a quanti sono stati uccisi per difenderci. Penso agli animali dissanguati per mangiare (i soli che ho visto finora erano sempre già morti). Penso a Abby Griffin, inevitabilmente. Penso alla pistola che avremmo puntato addosso a Jaha e a quanti avranno rischiato la vita nella rivolta che abbiamo causato sull’Arca.
Raven si sta infilando la maglietta dentro i pantaloni, mentre si guarda intorno, tenendo sotto controllo il campo.
“Ma far credere ad un uomo che il suo unico figlio è ancora vivo mentre non è così, illuderlo che lo rivedrà tra qualche giorno… Quando metterà piede sulla Terra, sarai tu a dirglielo?”
Resto in silenzio, perché sono terrorizzata dei miei stessi pensieri. Ho paura di avere voglia di dirglielo io.
“Non ce n’era bisogno, Blair. Non serviva a nessuno scopo, era pura e semplice vendetta. E non fraintendermi, io avrei fatto peggio. Ben di peggio. Ma Clarke non è come noi.”
Finalmente si volta e torniamo occhi negli occhi.
“E noi come siamo, scusa?”
Raven fa un sorrisetto e batte un dito sul mio polso, sull’orologio.
“In ritardo.”,
risponde, e prendendomi per un braccio mi invita a seguirla da Finn e gli altri, alla riunione.
 
Non fosse che una volta superato l’angolo della navicella e ad appena qualche metro dall’ingresso alle tende dei dormitori, ci troviamo davanti John. Lui ci mette un po’ prima di accorgersi della nostra presenza. Dopotutto la sua visione è quasi completamente ostruita dalla ragazza che gli sta infilando la lingua in gola. 




****
09/10/17
...non potevamo mica aspettarci che John Murphy non ne combinasse una delle sue. Specie dopo la bastonata che si era preso nel beccare Blair e Bellamy con le facce a due millimetri di distanza...
Chi segue la serie spero mi perdonerà la mini digressione per spiegare cosa è successo a Wells, a Clarke e alla sua famiglia. Ho paura che chi non ha visto The100 avrebbe fatto fatica ad unire i puntini. Anzi, probabilmente sarebbe anche il caso di spiegare come è morto il povero Wells. 

Ah, e "go float yourself" l'ho tenuto in inglese perchè onestamente qualsiasi traduzione non avrebbe reso come l'originale (annosa questione che vale anche per "may we meet again" e altri). Se avete suggerimenti, sarei felice di modificarlo con un italiano decente!

Come sempre grazie a tutti quelli che seguono la storia, che la commentano, che si prendono il tempo di esserci. Siete molto belli! 
A presto!,
LMR

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Capitolo 23
*** Cecilia ***


CECILIA



Io e Raven siamo rimaste congelate, in mezzo alla strada.

Quando la ragazza avvinghiata a John si volta verso di noi, incuriosita dall'attenzione nei loro confronti, la riconosco: occupava una delle stuoie con me, in quarantena. I capelli corti, gli occhioni ambrati… Credevo avesse al massimo quattordici anni ma ora che la vedo in piedi capisco di essermi sbagliata. Spero di essermi sbagliata e che abbia almeno superato la pubertà, altrimenti il modo in cui le mani di John le stringono fianchi e sedere assumerebbe una sfumatura piuttosto perversa. E più disgustosa di quanto già non sia il quadretto in cui siamo inciampate.

“Che c’è?”,

ci chiede lei, interdetta dalle nostre facce grige.

Non si stacca da lui, mentre ci parla. Gli tiene entrambi i palmi sul petto, sbilanciandoglisi addosso. John è appoggiato alla fiancata della navicella e lei aderisce al suo corpo.

Lui ci guarda senza nessuna particolare espressione. Come se fossimo due sconosciute. Come se non capisse perchè la ragazza con la cespa di capelli rossicci e la sua maglia addosso lo stia fissando in quel modo, così concentrata.

Il mio cervello prova a riorganizzarsi dopo l’attentato, alla ricerca di un modo per tornare a funzionare e farmi reagire, ma Raven, che è sempre stata più veloce di me in tutto, sbotta:

“Quanto mi fai schifo, Murphy!”

La ragazzina dai capelli corti ha un moto di fastidio, di sorpresa. Si scosta leggermente da John e lui la lascia andare.

“Ma chi diavolo sei tu? E come ti permetti?”

Raven le risponde ad un tono di voce più alto di quanto vorrei:

“Ti sta usando per far ingelosire lei e se non te ne rendi conto sei stupida, oltre che…”

“Oltre che cosa?”

Comincio a capire che non finirà bene. Nemmeno se riuscissi a fare qualcosa, temo che sarebbe come cercare di spegnere un principio di incendio con un bicchiere di alcool puro.

Raven mette su un broncio pensieroso:

“È che ci sono così tanti sinonimi. Ma sentiamo l’intellettuale: Biblioteca, tu come la chiameresti una che si butta addosso al primo che capita?”

“Se il primo che capita sono io direi fortunata.”

È la prima cosa che dice John e non riesco a tenere a bada la mia reazione. Il cuore, come ricordandosi del lavoro che deve fare per tenermi in vita, riprende a battere. Solo che ora va tanto veloce da accorciarmi il fiato. I miei organi interni hanno ricominciato ad intrecciarsi a caso gli uni con gli altri e io torno un grumo di dolori e spasmi incotrollabili. Resto in silenzio, perché so che se apro la bocca non ne uscirà nulla di intelligibile, solo rantoli.

Nel frattempo la ragazzina si è portata le mani sui fianchi e non posso non notare quanto le sue labbra siano umide e arrossate:

“Ma si può sapere cosa c’entri tu?”

Al che qualcosa si illumina negli occhi di John, che inclina la fronte a sinistra, nel suo tic preferito.
Smette di osservarmi per fronteggiare Raven, con una scintilla ambigua nelle pupille:

“Ottima domanda, Cecilia. Come mai ti interessa, superdonna?”

La sua inflessione ha un che di insinuatorio che non mi sfugge. E che non sfugge neanche a Raven.
Il verso che le vibra in gola è la cosa più vicina al ringhio di una belva che io abbia mai sentito.

“Per interessarmi ad uno come te, John Muprhy, prima dovrei sbattere la testa. Molto forte.”

John continua a guardarla, in modo in cui non ha mai e poi mai guardato me. È uno sguardo che che non riconosco, a cui non so dare un nome - e che non so cosa significhi, a che suo pensiero o sentimento corrisponda. Sono confusa, perchè credevo sinceramente di aver visto tutte le combinazioni possibili delle espressioni di John, e le relative emozioni. Quell'uomo vive per prendermi alla sprovvista, almeno questo l'ho imparato.

Raven è infastidita dal suo silenzio, e prosegue:

“Dovrebbero esplodermi delle emorragie cerebrali. Multiple.”

“Allora come si spiega questo… nervosismo?”

John dondola appena il busto in avanti e Raven spalanca la bocca.

“Incredibile. Ah! Tu ti credi davvero affascinante? Non c’erano specchi, al settore quattro?”

“Smettila di fissarmi, Reyes.”

“Te lo ripeto: mi fai schifo, Murphy.”

“Non sei brava a mentire.”

“Sono brava a romperti il naso.”

Raven ha bisogno che io la trattenga per la giacca per non aggredirlo. Non l’ho mai vista reagire con tanta energia a niente e a nessuno. Giuro di riuscire a percepire la voglia che avrebbe di mettergli le mani addosso. Raven era un lupo che non sapeva di essere un licantropo, finchè John non si è rivelato la sua luna piena.

Il talento di John nel trovare gli interruttori giusti da premere per far scattare le molle delle persone è incredibile. Se non l'avessi già visto all'opera un milione di volte ora dovrei sorprendermene.

Raven mi indica a braccio teso, urlando a pieni polmoni:

“Non puoi comportarti come ti pare! Mi senti? Io ho passato due settimane con lei, mentre tu non c’eri! Tredici giorni in cui questa ragazza è andata oltre qualsiasi paura per te! Ha minacciato il Cancelliere, si è quasi fatta espellere, ha messo in pericolo la vita dei suoi genitori, di tutta l’Arca, per te. E poi, quando tutto è andato in malora, si è infilata in una navicella spaziale ed è scesa sulla Terra. Per te. Era sensato pensare che te lo meritassi. Ma mi sbagliavo e ora mi domando che cavolo le sia passato per la testa per aver fatto tutto quello che ha fatto per uno scarafaggio come te!”

“Raven! Basta così!”

Mi sta sanguinando una mano, devo aver stretto il pugno con troppa energia senza accorgermene, scheggiandomi con le unghie, che non sono abituata ad avere più lunghe di mezzo millimetro oltre il polpastrello. Forse le ho sporcato i vestiti, ma non lascio andare Raven. Ho la sensazione finiremmo per sanguinare tutti.

John ci concede il suo sorrisetto da criminale, sbruffone fino al midollo.

“Non sei aggiornata sui fatti, superdonna. Blair non ha fatto quello che ha fatto per raggiungere me. L’ha fatto per seguire Blake.”

Un colpo di tosse mi raschia le corde vocali, come se il mio corpo rigettasse quell’idiozia.

“Questo non è vero.”

John stacca gli occhi da Raven e torna da me.

Cerco di proseguire, come posso:

“Ho seguito Bellamy ma era te che cercavo. E lui lo sa.”

 

Non mi dimenticherò mai le parole di Bellamy. Le aveva sussurrate a mezza voce, non appena eravamo tornati di nuovo soli, dopo che John, nel trovarci abbracciati, aveva reagito con una freddezza e un distacco che non mi aveva mai e poi mai dedicato, in dieci anni di vita insieme. Lui era uscito senza dire praticamente nulla e Bellamy mi aveva chiesto come potessi essere tanto cieca. È ora che tu apra gli occhi, Blair.

 

“Cos’altro devo fare per farti capire cosa sei per me?”

John è immobile, Raven in apnea e la ragazzina, Cecilia, sbatte le palpebre spaesata.

Io sto scuotendo la testa in tutte le direzioni, sto dicendo di no a tutto ciò che mi circonda.

“Perché, John… Quello che ha detto Raven è vero. Se non ti basta tutto quello che ho fatto a dimostrartelo… Non ti basterà mai niente. Niente sarà mai abbastanza. Io non sarò mai abbastanza.”

Un singhiozzo mi risale la gola e quando credo di mettermi a piangere, scoppio in una risata isterica. Gesticolo, lasciando che tutto ciò che mi sono tenuta dentro da chissà quanto tempo venga vomitato fuori:

“Jaha lo aveva capito. Thelonius Jaha lo sa. E tu no!”

Mi asciugo un occhio con il dorso della mano, incapace di frenarmi.

“Beh, non posso prendermela con te, no? Mmh? Nemmeno io lo sapevo, d’altra parte. Ho dovuto aspettare che me lo dicesse il Cancelliere. E Raven. E Finn e Octavia e Clarke… E Bellamy…”

L’ultimo nome mi strappa un lamento.

Se c’era una cosa di cui ormai ero certa, era quanto mi piacesse Bellamy Blake. Mi piaceva tanto da farmi male, da togliermi lucidità, da tendermi i nervi anche nel sonno. Facevo i lavori più pesanti che riuscivo a trovare al campo, per spostare il dolore dalla testa ai muscoli.

Era la sola persona che ascoltassi veramente, con tutto il corpo, non solo con le orecchie. Perciò avevo dovuto aspettare che fosse lui a dirmi che ero schiava di un’altra persona per rendermene conto. E per quanto potessi volere lui, e lo volevo, lo volevo, lo volevo da morire, c’era John. E finchè John Murphy avesse respirato da qualche parte nell’universo, non mi sarei mai sentita libera di amare qualcun altro.

 

Gli occhi sgranati di John non mi mollano.

“Blair…”

Il mio nome gli sfugge di bocca come un gemito doloroso. A cui non fa seguito nient’altro. Non un gesto, non una parola.

Io smetto di ridacchiare come una fulminata, e anche di guardarlo.

Niente da dire, John Murphy?”

Il silenzio che segue mi costringe a sollevare di nuovo la testa. Lui ha le labbra dischiuse e il volto stravolto. Dov’è finito il pirata, il delinquente, il principe dei ladri?

Commento, con un sorrisetto che prendo in prestito da lui:

“Wow. Ho tolto la parola a John Murphy. La prima volta in dieci anni.”

Gli concedo qualche altro secondo per reagire. Ma di fronte alla sua immobilità sono io a dovermi muovere. Non posso stare qui ad ascoltare l’eco delle mie parole cadere nel vuoto.

Scuoto Raven per la giacca, con più energia di quel che serve a convincerla:

“Andiamo, siamo in ritardo per la riunione.”

Passiamo loro accanto senza voltare le teste, dritte verso le tende.

“Blair… Blair, aspetta!”

John si stacca di getto dalla navicella e in un attimo ci è addosso.

Raven mi fa da scudo, impedendogli di raggiungermi. Lui abbaia, di nuovo sé stesso:

“Scansati.”

“La vuoi lasciare in pace?”

“Tu chi saresti, scusa? La sua guardia scelta?”

“No, sono sua amica.”

Le parole di Raven mi colpiscono come un sasso lanciato a tutta velocità alla schiena. Sono sua amica.

Lei non smette di pararglisi davanti. Ascolto John ghignare, con la sua cadenza arrogante:

“Non mi farò scrupoli nel colpire una donna.”

“Nemmeno io.”

La tensione che creano quei due avvolge tutti noi come una bolla di benzina.

“Lascialo stare!”

La ragazzina è corsa dietro a John e ora cerca di allontanarli. Sono costretta a tornare sui miei passi e a strattonare Raven, sul serio. I loro nasi sono vicini e lo spazio tra i loro sguardi è roso dalle scintille. Se non la convinco a lasciar perdere, il primo spintone non tarderà ad arrivare.

“Raven, ti prego, andiamo.”

Pur di non soffermarmi a lungo su John, lo sguardo mi sfugge al volto di Cecilia. Lo scopro interdetto, che mi fissa la maglietta a bocca aperta.

Non ho il tempo di chiederle che diavolo le sia preso che lei sposta gli occhi sui miei, spalancandoli:

“Perché hai al collo il Pass di mio padre?”




****
15/10/17
Eccoci, mi ci è voluta quasi una settimana ma ce l'ho fatta ad aggiornare. Allora, cosa ne pensiamo del nostro Murphy "versione Casanova", come lo chiama Pixel? ^^
Spero vi siate divertiti con questo capitolo di gelosoni irascibili. Io sì, non vedevo l'ora di far sbroccare la nostra Blair. Era ora, no? 

GRAZIE come SEMPRE a TUTTI. Siete BELLI. 
A presto!,
LRM

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Capitolo 24
*** La bella e la bestia ***


LA BELLA E LA BESTIA



“Quindi hai comprato la nostra assoluzione con una password?”
La domanda di Jasper riassume perfettamente il mio piano B.
“Sì, esatto. Ho detto a Jaha che gli avrei dato la password che voleva a patto di ottenere l’amnistia per tutti i crimini dei Cento. Più me, Bellamy e Raven, ovviamente.”
Octavia allarga le braccia.
“Semplice ma geniale.”,
commenta, rivolgendomi un’occhiata per nulla sorpresa.
Io ringrazio il cielo che sia qui nella tenda con noi, che l’abbiano trovata prima che il fratello si accorgesse della sua scomparsa. Perciò le sorrido più di quanto vorrei.
Monty, alla mia sinistra, sta ancora riepilogando quel che ho spiegato:
“Avevi chiuso il sistema della biblioteca?”
“Il giorno della festa, sì. Bloccato.”
Jasper mi fissa, agitato come solo lui sa agitarsi:
“Ma che gli importava dei romanzi? Senza offesa.”
Clarke gli risponde per me:
“Il sistema bibliotecario dell’Arca include anche l’archivio medico, legislativo, tecnico… L’anagrafe…”
“È complicato organizzare una migrazione senza poter fare l’appello. Tanto per dirne una.”,
fa notare Finn, dando credito alla parole di Clarke. Lei si affretta a distogliere lo sguardo.
Monty è interdetto; è dall’inizio della riunione che qualcosa non gli torna. E se qualcosa non torna ad un tecnico preciso come lui, ha bisogno di vederci chiaro:
“E tu avevi accesso ad una cosa del genere?”
“Io no, ma il mio referente sì. E Doug mi ha prestato il suo Pass senza battere ciglio. Quel giorno purtroppo il mio l’avevo lasciato a casa…”
Raven mi sorride e Bellamy apre bocca per la prima volta da quando sono entrata:
“Avevo io il tuo Pass.”
Annuisco. Non sopportiamo di restare a lungo occhi negli occhi, perciò lui volta il viso altrove e io abbasso la fronte, rivolgendo la mia spiegazione al pavimento, fingendo di ignorare la distorsione della mia voce e quanto le parole si spezzino l’una sull’altra a fatica:
“Essere una brava bambina remissiva per tutta la vita fa sì che si fidino di te ad occhi chiusi…”
Finn, al di là del tavolo che ci separa, conclude il ragionamento al posto mio:
“…e allora puoi fregarli.”
Ci scambiamo un cenno, e capisco che il mio piano B ha conquistato anche lui.
Ma Monty non è ancora convinto:
“E se tu fossi morta? Scusami. Se ti fosse successo qualcosa e non fossi riuscita a dargli la password? Avresti sacrificato tutto lo scibile umano per…?”
“Perciò per sicurezza ho nascosto la password anche sul frontespizio de Il giovane Holden.”
Lo sguardo di Finn mi raggiunge, ancora una volta.
“Perché Il giovane Holden?”
“Perché è il libro preferito di Doug. Che senza avere accesso all’apparato della biblioteca, sarebbe stato costretto a prendere in mano l’originale, dietro la teca. E avrebbe scelto quello, prima o poi. Probabilmente per primo.”
Monty scuote la testa con energia.
“Ma è comunque un rischio enorme, non puoi…”
“E ho anche scritto ai miei genitori chiedendogli, cito testualmente, di salutare il mio professore dicendogli che se mai avesse avuto bisogno di me, mi avrebbe sempre ritrovata là dove migrano le anatre di Central Park quando ghiaccia il lago. Capito?”
Osservo la reazione di Monty alla mia spiegazione, sperando che sia sufficiente a dimostrargli che non sono una pazza, ma che ho avuto una buona idea. Ma lo spaesamento che lo turba è dovuto non tanto al mio piano, quanto più alle mie ultime parole. Mi guardo intorno e lo ritrovo su tutte le facce dei presenti.
“Nessuno di voi ha letto Il giovane Holden?”
 
La macchia di sangue, sul pavimento della navicella, non si è ancora decolorata completamente. È una pozza nerastra, frastagliata, che si spacca in mille schizzi intorno al perimetro, fino a colpire la parete di fronte a me.
Non ero mai salita di sopra.
Qui è dove hanno legato il Terrestre. Rimangono le catene, una grossa corda. E il sangue.
Lui è libero già da giorni, ma parte del suo corpo resterà per sempre sulla navicella. Dio solo sa come sia riuscito a scappare, senza l’aiuto di nessuno.
Non riesco a staccare gli occhi dalla chiazza scura. John deve aver usato un coltello. Forse una frusta. Spero gli abbiano risparmiato il teaser.
Mi si chiudono gli occhi. Se penso che tra poco dovremo metterci in marcia mi viene la nausea. Per la prima volta nella mia vita arrivo alla sera così stanca da non riuscire nemmeno a desiderare di leggere. Un po’ è colpa della forza di gravità, che sulla Terra è più pesante – e a noi, che non siamo abituati, sembra di trasportare sacchi di patate sulla schiena tutto il giorno. Mangiamo troppo poco, e male, e quando capita. Le mie braccia sono più sottili e più muscolose. Non ho mai fatto un lavoro fisico prima del mio arrivo qui e per quanto la mia famiglia non abbia mai navigato nell’oro, ho sempre avuto abbastanza da mangiare da non soffrire la fame e dimagrire. Per fortuna sulla Terra non ci sono specchi, ho la sensazione di assomigliare ad un ragazzino più che ad una donna.
Qualcuno solleva l’apertura della botola, alle mie spalle.
“Tra dieci minuti si parte.”
La voce di John era l’ultima che mi aspettassi di sentire. Vorrei sapermi trattenere, ma mi volto.
Lui è ancora a metà dell’ingresso, le gambe nascoste al piano inferiore, il braccio che regge il bocchettone.
“Tra dieci minuti si parte.”,
ripete, di fronte al mio silenzio.
Lo vedo sospirare, teso.
“Non sei d’accordo con l’evacuazione?”
“Preferivo l’idea di Blake. Restare e fare il culo a un po’ di Terrestri.”
“Loro avrebbero fatto il culo a noi, e lo sai.”
“Non lo so. Devi ammettere che l’idea del barbecue era geniale, Blair. Loro fuori, noi dentro, e booom.”
Il barbecue.
Raven aveva installato una rete di mine tutt’intorno alla navicella. Non mine attivabili a pressione, ovviamente - rispondevano ad un comando centralizzato. L’idea era di aspettare che i Terrestri si accorgessero che non avevamo obbedito al loro ultimatum, che avevamo deciso di restare e combattere. Una volta che fossero entrati nel campo, noi saremmo rimasti al sicuro dentro la navicella e loro fuori sarebbero saltati per aria.
Ma Clarke e Finn ci avevano convinto a rispettare i patti e andarcene, risparmiando la vita al più alto numero di esseri umani possibile.
Solo che Raven si era rifiutata di smantellare tutto.
“Con il risultato che siamo circondati da esplosivo pronto all’innesco perché Raven è una testona.”
“Vuole avere un piano di riserva.”
John che difende Raven ha un che di surreale, che ha il potere di irritarmi. Lui se ne accorge.
“Non capisco. Perfino Octavia è d’accordo ora, e tu fai la difficile?”
Octavia era ricomparsa dal nulla affermando di appoggiare l’evacuazione. Così, all’improvviso. Aveva suggerito di dirigerci verso la costa, che senza dubbio era l’idea più sensata. Il mare ci avrebbe fornito una barriera naturale, un lato in meno da cui poter essere aggrediti, oltre che l’acqua potabile del fiume, alla foce. Non a caso la continentalità era una caratteristica delle città, prima che il disastro nucleare le spazzasse via. Gli umani hanno sempre iniziato a costruire dalla costa all’entroterra, non viceversa. E lungo i fiumi. Il piano di Octavia era azzeccato. Non fosse che non capivo come avesse fatto a fiorirle in testa senza preavviso. Io da parte mia non aspettavo altro che vedere l’oceano. Per gli scrittori della Terra era una specie di ossessione. Forse era l’elemento naturale a cui avevano dedicato più parole in assoluto. Promettevano meraviglie e ammesso che i Terrestri non ci maciullassero lungo il tragitto, avrei visto il mare.
E una volta raggiunta la costa, probabilmente il resto dell’Arca sarebbe già stato lì ad aspettarci. Le coordinate fornite da Raven a Sinclair dovevano servire allo scopo. Chissà che finalmente non sarei anche riuscita a vedere almeno un animale…
John mi riscuote dai miei pensieri.
“Sei pronta?”
“Ho solo la mia sacca. Lo sai.”
Lui invece di andarsene finisce di salire le scale ed esce. Richiude la botola.
“Dov’è Cecilia?”
“Non lo so. È scappata via.”
“Non mi sorprende, visto quello che ha appena saputo su suo padre. Non dovresti cercarla?”
“Immagino di sì.”
John schiarendosi la gola fa qualche passo verso di me.
Porto d’istinto la mano al Pass di Shenden, come un tic allenato dall’abitudine, come ogni volta che ho bisogno di aiuto. Non lo trovo. L’avevo lasciato a Cecilia, dopo averle raccontato tutto, e me n’ero dimenticata. Quel vuoto mi fa traballare.
Non avendo incontrato il Pass, le mie dita si sono appoggiate sul petto. Il battito del cuore non è solo rapido, è anche abbastanza intenso da farmi tremare la carne.
John si ferma di fronte a me. Si lecca il labbro inferiore, tirandolo indentro per un attimo.
“Decidi tu se lasciarli qui. Sono pesanti, ti rallenteranno. E ti avviso, non li porterò per te.”,
dice, sfilandosi lo zaino dalle spalle. Lo appoggia delicatamente ai miei piedi.
“Cosa sono?”
John si piega sulle ginocchia e fa scorrere la cerniera. Scosta i bordi dello zaino perché io riesca a vedere all’interno.
Una marea di bracciali metallici, aperti, luccicano nella penombra.
“Sono i tuoi libri.”
Non riesco ad abbassarmi al suo livello, a toccarli. Resto rigida, incapace di formulare il benché minimo ragionamento, con le braccia lungo il corpo e la bocca spalancata.
Lui si alza e mi spiega, roco:
“La tua amica, la superdonna, mi ci è voluto parecchio per farla parlare, ma dice che le schede di memoria sono intatte. Staccandoli, abbiamo solo annullato la radiotrasmissione. Il contenuto è salvo. Sarà sufficiente riconnetterli ad un computer qualsiasi e…”
Sono costretta a scavalcare lo zaino tra di noi per saltargli al collo. Gli butto le braccia intorno alla testa e le gambe sui fianchi, come una scimmietta. Lo sbilancio leggermente e lui fa un passo indietro, per contraccolpo. Mi passa le braccia intorno alla schiena dopo qualche momento di stordimento.
“…riavrai la tua biblioteca.”,
conclude, con una voce completamente diversa.
Sta sorridendo, lo sento da come modula le parole. Le soffia, attraverso la massa dei miei capelli che gli solleticano la guancia. Io tuffo il naso nell’incavo del suo collo, ridendo di gioia. La mia voce suona ovattata, offuscata dal contatto tra la mia bocca e il suo collo.
“Grazie, grazie, grazie, grazie…”
Ho le lacrime agli occhi e continuo a stringerlo sempre più forte. Lui ricambia, finchè con un altro salto non scendo dalla presa e rimetto i piedi per terra. Ora sì che riesco a muovermi! Mi accovaccio subito sullo zaino, infilo le mani in quella miniera di libri… in formato alternativo. Ma sono sempre libri. E io sono sempre la bilbiotecaria, anche se rispetto a prima sono anche io in formato alternativo. Lancio uno strillo da ragazzina, accecata dalla felicità.
Non mi comporterei mai così di fronte a Bellamy; ma mi sento perfettamente a mio agio a lasciarmi andare con John. Con lui non ho bisogno di sforzarmi di essere meglio di quel che sono. Non millanto sicurezza, non mi spingo oltre il limite, non mi getto nel vuoto. Mi accomodo nel calore della mia casa.
“Mi sento come la Bella quando la Bestia le regala la libreria!”,
esclamo, incapace di contenere l’entusiasmo, e i miei pensieri infantili.
Quando Finn mi aveva raccontato di quando avevano sganciato i bracciali per tranciare le comunicazioni con l’Arca, avevo detto addio a buona parte del mio lavoro. Non tutti se li erano tolti, ma una consistente metà era andata perduta. Senza contare i morti. Era una piccolezza, in confronto al passare un cappio al collo del mio migliore amico, ma era un’altra delle idee balorde che non avrei perdonato a Bellamy Blake. Mi ero trattenuta dal rinfacciarglielo soltanto perché Finn mi aveva chiarito quanto John lo avesse aiutato nell’impresa. E perché bastava e avanzava quel che già pensavo di lui.
“Mi hai appena dato della bestia?”
Mi stringo uno dei bracciali al cuore e torno a voltarmi nella sua direzione.
“Beh, solo una bestia poteva rischiare di azzerare il patrimonio letterario del genere umano per…”
“…per una bella a caso.”
Lo fisso dal basso verso l’alto, ancora accucciata accanto allo zaino, con un bracciale in mano e la faccia più perplessa che riesco a fare, probabilmente.
“Blair, perché credi che Bellamy non volesse ci raggiungessero? Che ci credessero tutti morti per le radiazioni?”
La sua domanda cade nel vuoto della mia sorpresa.
“Tu sei il ricercato numero uno dell’Arca, te ne rendi conto? Cosa sarebbe successo, una volta che Jaha ti avesse avuto di nuovo a portata di mano?”
Mi sollevo, accorciando la distanza tra i nostri visi.
“John, sull’Arca ci sono i miei genitori. I nostri amici, le persone che… Ci sono dei bambini. Avete messo in pericolo la vita di tutti.”
“Lo so. Ma rivendico quell’idea con orgoglio.”
Lui scuote la testa, lascia affiorare il suo mezzo sorriso sghembo mentre i capelli gli dondolano sulla sua fronte, ipnotici.
“Siete due deficienti e più nello specifico tu sei un idiota. Sei un idiota, lo sapevi?”
Restiamo in perfetto silenzio per qualche momento. Stringo il bracciale fino a farmi sbiancare le nocche. Lo sto accarezzando con il pollice, come se volessi lucidarlo.
“Non ho letto la tua lettera.”
Registro l’informazione al rallentatore. Non sono sicura di aver sentito bene e sono costretta a chiedergli di ripetere. John inspira e obbedisce, a voce più alta, meno incerta:
“Non l’ho letta. Avevi ragione tu.”
Gli occhi verde-azzurri mi trafiggono, in tutta la loro limpidezza. Tanto chiare le tue iridi quanto misterioso il tuo cuore, John Murphy.
“Ma hai detto che era roba da roman…”
“Ti volevo far credere che l’avessi fatto, e ho inventato qualcosa di plausibile per prenderti in giro. E ho indovinato. Perché ti conosco.”
La smorfietta riappare.
Io avrei bisogno di un po’ di tempo per capire davvero quel che mi sta confessando. Ma non ne abbiamo, mi ricordo all’improvviso. Tra cinque minuti si parte. Quindi chiedo, semplicemente, “Perché?”.
John continua a sorridermi ma sul suo volto si addensa un’ombra tetra, nebulosa.
“Sapevi che mio padre ha fatto la stessa cosa?”
Scuoto la testa, anche se lui sa già la risposta. John si rigira un elastico tra le dita, alternando lo sguardo dalle sue mani al mio viso.
“Prima di rubare le medicine. Sapeva cosa sarebbe successo. Mi ha lasciato una lettera, molto lunga, per dirmi addio, per chiedermi perdono, per…”
Lasciamo sfumare la frase nel vuoto.
“L’ho letta così tante volte da averla imparata a memoria.”
Io cerco di indurire l’espressione che sto mostrando, perché ho paura di come potrebbe reagire di fronte alla compassione che provo ora. Temo potrebbe richiudersi nel suo guscio. Allora mi fingo più fredda di quel che sono, meno dipendente dalle sue parole, meno sua.
“I miei incubi peggiori sono di lui seduto alla scrivania del nostro lotto, con una penna in mano. Non potevo rivivere la stessa cosa con te. Le due persone che amavo di più si erano sacrificate per me. Era un peso che non potevo sostenere. E leggere quella lettera mi avrebbe condannato. Non ti volevo nei miei incubi. Non era il tuo posto.”
“Perché l’hai tenuta, allora?”
John mi guarda come quando dico qualcosa di stupido. Le sue iridi brillano di una luce che è solo loro – e che è solo per me.
“Mostro. Dove avrei trovato la forza di buttarla?”
E ora che l’ha detto mi sembra così ovvio che vorrei rimangiarmi la domanda.
Invece di chiedergli scusa, infilo una mano in tasca.
“Credo sia ora che tu sappia, John.”
La busta, ormai un ammasso di carta spiegazzato, resta tra di noi, in attesa che lui la prenda. Lo osservo valutarla, ragionare su quanto sto offrendogli. Pensa a suo padre.
Faccio un passo avanti e la apro per lui, la estraggo, la distendo, torno a porgergliela, di nuovo con la mano tesa.
“John, non sono un fantasma. Sono viva, sono qui e niente è riuscito ad allontanarmi. Nemmeno tu.”
Lui mi guarda. In un unico gesto prende la lettera, se la porta vicino al viso e inizia a leggere quel che gli ho scritto ormai due mesi fa, quando credevo sarei morta e che non l’avrei rivisto mai più. 




****
26/10/17
Sono nel bel mezzo di un trasloco - perciò la mia presenza su EFP è stata così ballerina, ma "We're back, bitches!" (cit. Octavia Blake).

Due ringraziamenti speciali, uno alla Pixel, che senza come avrei fatto NON LO SO, e uno ad una new entry a sorpresa che mi ha lasciato una recensione così bella che ogni tanto me la dovrei rileggere, per farmi coraggio quando non cavo una frase azzeccata nemmeno a piangere. Grazie Miriss_110
E poi come sempre un abbraccio a tutti i lettori silenziosi - a cui però devo aggiungere Morgengabe, Nina e tutti gli altri che sono così gentili, ma così gentili, che non solo seguono la storia, ma si prendono anche la briga di commentarla, e con quanta cura <3 Grazie! 

A presto!,
LRM

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Capitolo 25
*** La lettera ***


LA LETTERA



Caro John,
tu mi fai impazzire. Mi è impossibile fare una stima e capire se nel corso di una giornata mi fai più ridere o disperare. Conosci tutti i bottoni da schiacciare per farmi arrabbiare e ti diverti a ballarci sopra. E poi ti piace ancora di più consolarmi.
Ed è più forte di me: adoro la tua antipatia come se fosse la dolcezza di qualcun altro. Perché deriva dalla tua straordinaria furbizia - e dopotutto mi dimostra che conosci ogni angolo di me. E questo mi lusinga, mi fa sentire che appartengo a qualcuno, a te, che siamo pari nella vicinanza. Mi piace pensare che lo siamo anche nell’affetto.
 
John, mio caro John,
tu sei testimone di chi sono più della mia stessa famiglia. E sai che ho pochi sogni. Gli animali, i libri veri… Ma non ti ho mai confessato la mia più alta aspirazione, l’ambizione di una vita.
Il mio più grande sogno è che le cose restino per sempre così.
Non voglio arrivare da nessuna parte, non ho un obiettivo verso cui correre. Vorrei anzi tornare indietro, altroché progredire! Per ottenere la vera gioia, dovrei potermi fermare per sempre ai miei diciannove anni, sei mesi fa.
Vorrei soltanto che la mia vita fosse una sequenza infinita di giorni tutti uguali, in cui mi sia concesso il lusso di alzarmi la mattina in un corpo sano, raggiungere la biblioteca, leggere fino a sera, un piccolo litigio con Doug, una puntatina da Monty Green e poi tornare a casa da te. Fine. Tutto qui.
Davvero mi sono sforzata negli anni ad inventarmi sogni migliori, più grandi, più socialmente accettabili: ma non voglio diventare Cancelliere, non voglio sposarmi, non voglio la laurea in Medicina, non voglio camminare nello spazio, scrivere un romanzo, diventare ricca e uscire dal settore quattro. Voglio solo corpo, libri, vino, te - in una giostra senza fine.
 
Ascoltami, adesso. Per una volta nella tua vita, fai questo sforzo!
Non perderti. Ogni volta che dubiti di te stesso, rileggi questa lettera e ricordati che c’era chi ti amava abbastanza da pensare che tu fossi più importante della propria vita. Vali tanto quanto l’amore che muovi.
 
E lascia entrare qualcuno, come hai fatto con me. Sei sprecato per vivere da solo. Smetti di inseguire le bionde maggiorate che non coniugano i verbi come si deve, basta con le Catherine Boole. Punta a una dea, qualcuna che ti meriti veramente. Ne ho conosciuta una che ti sarebbe piaciuta.
 
Fidati di Bellamy. È il ragazzo più forte e intelligente su cui mai potrai contare. È coraggioso. E mi deve molti favori.
 
Non avere paura per me. La mia vita è stata perfetta. Mi sembra anzi di averne vissute molte più di una, grazie ai libri. E nell’unica in cui potevo muovermi in carne ed ossa la fortuna mi ha regalato un gemello, in un mondo che non contempla i fratelli.
Tu hai visto le mie più grette bassezze, tutto ciò che di me odiavo e che mi spaventava, e ci hai ricamato sopra battute di spirito che mi hanno fatta ridere. Hai preso le mie storture tra le mani e non hai mai cercato di piegarmi in qualcosa di diverso, di migliore: mi hai fatto credere di non poter essere diversa e migliore di com’ero, perché ero già perfetta. Mi hai ingannata, ma è la bugia più dolce che tu mi abbia detto.
 
Guai a te se ti sentirai responsabile per la mia decisione. E che Dio ti fulmini se ti senti in colpa per tuo padre. Non abbiamo fatto nulla che tu non avresti fatto per noi. E lo sai.
 
Ti voglio bene come non ne voglio a nessun altro e sono certa che qualsiasi cosa accada tu ce la farai, passerai attraverso qualsiasi forma incarnata dell’inferno senza dismettere la tua smorfietta da pirata. Perché sei fatto di una materia oscura e meravigliosa capace di qualunque cosa. Non dimenticarti chi sei e cosa sai fare. Tu sei quello che vede una ferita aperta e che con l’ironia sa trasformarla in qualcosa di sopportabile, per chiunque. Dove c’è paura, dolore, dubbio, rabbia, tu vedi occasioni: incastri il sarcasmo nella realtà e fai leva, rendendola leggera. Sei un alchimista e quello che fai è pura magia. Non conosco nessuno meglio equipaggiato di te per affrontare la migrazione sulla Terra.
 
Per tutte le volte in cui non potrò più ripetertelo, ti dico ora una volta e per sempre che sei la mia persona preferita.
 
Mostro
 
Ho tenuto lo sguardo fisso sul suo viso, cercando di indovinare a che punto della lettera si trovasse ogni volta che gli occhi gli scorrevano una riga più sotto. Ma ho presto perso il conto, troppo frastornata dall’ansia per mantenere la rotta.
Quando finisce, lo guardo restare immobile per qualche secondo con ancora il volto puntato in fondo pagina, ma fermo. Non sta più leggendo, sta solo gelato in quella posizione, come se si stesse riavendo da una visione, da un vuoto d’ossigeno, da un tentato omicidio.
Solleva la fronte all’improvviso e, serissimo, conferma:
“Roba da romanzetti rosa.”
Scoppiamo a ridere, più per liberare la tensione che ci ha attanagliato che per la battuta in sé.
“Che ti avevo detto?”,
sorride, rincarando la dose. Io non posso fare a meno di annuire.
“Cerca di capirmi, ero al patibolo. Si diventa molto tragici e poetici, in punto di morte.”
“Ci sono un sacco di ripetizioni…”
“Non è vero!”
“Senti qua che pacchianata: sei fatto di una materia oscura e meravigliosa capace di…”
“Piantala!”
Allungo una mano cercando di strappagliela via, ma lui me la allontana e frappone un braccio tra me e la lettera, continuando a ripercorrerla:
“Cosa cavolo vuol dire grette? Ma dove le trovi, ‘ste cose?”
Finalmente riesco a raggiungerla e ne acchiappo un lembo, tirandola. John anticipa il mio gesto e ne approfitta per stringermi il polso e trascinarmi addosso a sé. Getta la lettera in terra, così come io ho lasciato cadere la busta, e mi passa un braccio dietro la schiena. Mi sorride di un sorriso nuovo, un sorriso vero, intero, simmetrico, a qualche centimetro dal mio.
“Sei la mia persona preferita, Blair.”
“Oggi non è il primo marzo.”
“No, oggi non è il primo marzo.”
La sua voce è arrocchita e io sollevo un sopracciglio e stringo le labbra, imitando le sue smorfie da pirata, le stesse che ho decantato nella lettera…
“Cos’è? Un regalo di compleanno in ritardo?”
Lui smette di accordarsi al mio tono e mi caccia quei due laghi splendenti che ha nelle iridi fin dentro la pelle. Mi lascio attraversare da quell’onda caldissima, affogandoci dentro. Mentre annego, scopro di saper respirare meglio immersa nelle sue acque profonde che in superficie, senza di lui.
“Da oggi in poi che i Terrestri possano cavarmi gli occhi se non te lo dico tutti i giorni che ti ho per le mani.”
Mi afferra il viso e mi riempie di baci le guance, le orecchie, la fronte, mi bacia le palpebre, il naso, le tempie, schiocca di gusto un bacio dietro l’altro, mentre ridiamo, ridiamo, ridiamo… Finchè non raggiunge la bocca. Si sofferma più a lungo, ma non schiude le labbra. Mi bacia come se avessimo dieci anni, a stampo.
È completamente diverso dal bacio che ho sognato, che era così frettoloso, vorace, violento. Invece siamo qui, neanche del tutto attaccati l’uno al corpo dell’altra, con le sue mani che mi coprono guance, collo e mascelle, con una dolcezza che non mi sarei mai aspettata. Non da lui.
Mi appoggia le labbra sulle labbra teneramente, senza premercisi con l’ansia passionale che mi ero immaginata, che avevo dato per scontato quando il mio subconscio aveva creato questo momento. Questo è John Murhpy, porca miseria! Può, uno che ha dato la caccia ad una bambina, torturato a sangue un uomo e minacciato di morte più o meno chiunque, può, questo stesso ragazzo, poi sfiorarti appena con la delicatezza che si riserva alle cose di cristallo?
John riapre gli occhi quando si stacca da me, e mi fissa sorridendo, senza smorfiette sarcastiche, senza ironia, senza barriere. Mi sorride per dirmi che è felice. Non sta recitando, non c’è il pirata, non c’è il delinquente, non c’è Rhett Butler. Vedo John.
“Mi stai dicendo che da oggi in poi farai la persona normale ed esprimerai i tuoi pensieri ad alta voce? I tuoi sentimenti?”
John trattiene un sorriso, guardando il soffitto e mordendosi le labbra.
“Mi stai dicendo che tu, proprio tu, John Distanza di Sicurezza Murphy sarai più accogliente con me? E che magari la smetterai di fare la tua faccia da presuntuoso annoiato ogni volta che apro bocca e…”
Mi prende di getto il mento tra le dita, si sporge sulle mie labbra e ci soffia sopra, con la sua voce densa, nera:
“Tu apri la bocca, al resto penso io…”
Senza accorgermi di averlo deciso, obbedisco. Arrendevole, persa. John esita e torna a guardarmi, serio. 
“Vuoi che mi comporti meglio?”
“Sai farlo?”
La stretta delle sue dita si fa più forte, per un attimo. Una scintilla gli attraversa le iridi verdissime. Inclina la testa, lasciando vagare lo sguardo sul mio viso… Siamo a due millimetri di distanza, e le nostre bocche sono la sola parte che non tocca l’altro.
“Tu cosa vuoi da me, Blair Foer? Tu che invece ti sai esprimere così bene?”
“Che smetti di scappare.”
Gli ho risposto d'istinto e la mia voce è così roca che vorrei schiarirmela e ripetere, perché non sono certa di essere stata comprensibile. Ma il sorriso di John mi dice che non serve perché sì, ha capito, ha finalmente capito.
E adesso tocca a me riempirlo di baci, farlo ridere, farlo implorare di smetterla, fino a tornare sulle sue labbra, a baciarsi come si baciano i ragazzini. Nemmeno il mio primo bacio in assoluto era stato così infantile. Ammetto che la mia bocca si sofferma più a lungo sulla sua, che gli stringo le braccia intorno al collo, costringendolo ad abbracciarmi alla schiena, che la pressione che esercito è meno garbata della sua. Ma è un accenno, un indizio che gli sto lasciando.
Ora capisco che la nostra lentezza ha sempre avuto un senso, perché io e lui lo sapevamo, lo abbiamo sempre saputo: avremo tutto il tempo del mondo.
 
Esco dalla navicella trasportata sulle spalle di John, come fossi il suo zainetto. Ho le lacrime agli occhi per quanto sto ridendo e John continua ad inventarsi sciocchezze pur di non farmi smettere. Allungo il collo per far collimare le nostre guance, mentre lui mi fa fare un piccolo salto per sistemarmi meglio sulla sua schiena.
Intorno a noi il campo è in fermento, tutti si stanno organizzando, correndo avanti e indietro concitati, cercando di recuperare quante più cose possibile da portarci dietro.
“È lei il tuo bagaglio?”
Un ragazzo con i capelli rossi si mette di fronte a noi, costringendoci a fermarci. Ha un fucile in braccio.
“Ragazzi, l’evacuazione sta cominciando, non è il momento di giocare.”
“Ci mancava la brutta copia di Blake.”
D’istinto stringo le braccia intorno al collo di John. Non so se per proteggerlo o per cercare di farlo tacere.
“Senti, se invece di fare lo schiavetto del Re ti togliessi dai piedi?”
Il ragazzo serra la mascella e la presa sull’arma.
Un brivido mi percorre il collo, giù fino alle reni. Scendo dalle spalle di John e lo affianco, già con una mano sul suo petto. Lo spingo leggermente indietro.
“John, andiamo. Ha ragione lui, è tardi…”
Lui non si lascia spostare e fissa dritto in faccia il suo avversario.
“Ragazzi, non ve lo fate ripetere…”
“Altrimenti?”
“John, non si chiede altrimenti a chi imbraccia un fucile.”
Il ragazzo inspira profondamente, deciso a non reagire alle provocazioni. Si gratta la testa, smuovendo i riccioli rossi.
“Altrimenti farete tardi e non possiamo permettercelo. I Terrestri sono…”
John lo manda al diavolo e a poco servono i miei tentativi di tenerlo a bada. Arrivo a spingerlo con forza, finché non fa almeno un passo indietro.
“John! Smettila di fare l’idiota!”
Lui abbassa per un momento gli occhi sui miei, e la sua rabbia si trasforma in ironia in un battito di ciglia. Sussurra, gongolante:
“Ti piaccio quando faccio così, vero?”
“Per niente!”
“Sì che ti piaccio. Così mi puoi correggere.”
Mi scosta di forza il polso, avvicinando il viso al mio, e il corpo accorcia le distanze. Sto per cedere alla tentazione di baciarlo ancora, senza essere troppo sicura di riuscire poi a separarmene, quando uno strano sibilo distoglie la mia attenzione costringendomi a voltarmi.
Con un rumore di carne strappata, liquido, immenso, la punta di una spira attraversa lo sterno del ragazzo con i capelli rossi. Un bastone largo di legno lo trapassa da parte a parte e non so come nemmeno uno schizzo di sangue ci raggiunge. Io e John siamo ad appena un passo da lui. Il volto del ragazzo non ha il tempo di reagire, resta per un secondo a bocca e occhi spalancati e poi crolla in terra ai nostri piedi. Né io né John troviamo la lucidità per gridare. Intorno a noi le urla esplodono inondando l’aria. 




****
04/11/17
Ed eccola, finalmente - la tanto citata lettera! Spero sia valsa la pena aspettare. (E un bacio, un bacio vero, finalmente!)

Il prossimo capitolo fa un passo indietro, e sarà un capitolo speciale. Non vi anticipo altro, spero solo che lo troverete interessante. 

Grazie come sempre a tutti coloro che hanno messo la storia nelle preferite/ricordate/seguite, ai commentatori assidui, ai lettori silenziosi... Scrivere questa storia su EFP si è rivelata una vera avventura e sono contenta del percorso fatto fino a qui insieme a voi. Siete parte della storia! Grazie, grazie, grazie, grazie.

A presto!,
LMR

 

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Capitolo 26
*** Punti di vista ***



26. PUNTI DI VISTA
 

Quel giorno, il giorno dell’evacuazione, Bellamy aveva smontato il turno di guardia prima dell’alba. Aveva percorso il campo addormentato e silenzioso fino alla sua tenda, si era steso, si era tirato addosso una coperta ed era rimasto ad occhi aperti a fissare il vuoto per due ore, cullato dal russare sommesso di Jasper, prima di rendersi conto che per quanto sonno avesse, non sarebbe mai riuscito a crollare. Il suo cervello viaggiava troppo velocemente, e per giunta in circolo.
Cercava gli argomenti per convincere Clarke a non abbandonare il campo base, a non dar seguito all’accordo preso con i Terrestri.
Bellamy era sicuro si trattasse di una trappola: i Terrestri li avrebbero aspettati al di là della recinzione, la recinzione che li avevi tenuti al sicuro fino a quel momento, e li avrebbero massacrati appena messo un piede fuori. Finn e Clarke si stavano illudendo. Fidarsi dei Terrestri, dopo tutto quello che avevano cercato di fare per trucidarli, dal primo giorno del loro arrivo… Era pura follia.
Raven era la sola che lo ascoltasse. Aveva installato le mine sottoterra con la precisione di un chirurgo, decisa a sostenere l’idea del barbecue come la loro sola possibilità di salvezza.
Bellamy sapeva di non avere una sola chance di far cambiare idea a Clarke, alla riunione che avrebbero avuto quel giorno. Aveva imparato a conoscerla, ormai. Gli sembrava di essere circondato da donne testarde, su cui nessuna delle sue ragioni riusciva mai a fare breccia.
Clarke era un sergente, Raven era la definizione di inflessibile, sua sorella si ribellava a qualsiasi ordine con una caparbietà che lo sconvolgeva, e Blair…
Blair Foer la bibliotecaria gli aveva puntato addosso prima una pistola, e poi un bisturi. Lo aveva preso a schiaffi e lui portava ancora sul braccio un graffio lungo una spanna – e non avrebbe saputo dire quando gliel’aveva fatto, se nel bosco mentre si azzuffavano o lottando quando voleva costringerlo a farsi visitare da Clarke. L’unica cosa certa era che fosse opera sua. Si chiese quand’era stata l’ultima volta che erano riusciti a toccarsi senza farsi del male.
Blair aveva sempre una specie di broncio, l’espressione di chi sta ragionando a cento chilometri orari anche mentre cerca di tagliarsi le unghie con un coltello. La piccola ruga tra le sue sopracciglia lo incantava come i fianchi perfetti di un’altra non riuscivano a fare. Era ipnotizzato dalla cadenza delle sue frasi piene di subordinate complesse come da una musica stregata.
Era troppo magra per lui. Aveva gli occhi di un banale castano giallastro, i capelli stopposi, le occhiaie viola e profonde, la pelle bianchiccia. La sua voce non era seducente, né lo erano i suoi movimenti. Sorrideva una volta ogni dieci giorni e ti avrebbe fatto lo scalpo pur di fare quel che le pareva.
E lui si ritrovava comunque a cercare il suo sguardo ogni volta che sorgeva un problema, di fronte ad ogni dubbio – anche quando sapeva che Blair era dall’altra parte del campo. Era un riflesso che non riusciva più a controllare. Voltava la testa in direzione di una Blair immaginaria, come se la sua stupida mente desse per scontato che lei era sempre al suo fianco e che gli sarebbe bastato allungare una mano per toccarla. Le sue dita sfioravano l’aria, il vuoto, e lui continuava a chiedersi, sorpreso, Ma dove sei? Dove sei?
La luce del sole appena nato filtrava timidamente dall’ingresso della tenda, sfiorandogli il viso. Bellamy si arrese. Si alzò, indossò la giacca, afferrò il fucile, incastrò le munizioni alla cintola e uscì, camminando nel solo modo in cui sapeva muoversi, marciando.
 
“Ho bisogno della consulenza di un tecnico.”
La ragazza accucciata dietro il computer non alzò nemmeno gli occhi, mentre le sue mani continuavano a lavorare. Non lo degnò di una risposta.
John inspirò, profondamente. Si era ripromesso di fare il bravo e non prenderla a parolacce già dal primo minuto. Pur di ottenere quel che voleva, era disposto a fare buon viso a cattivo gioco. Perfino con Raven Reyes.
John si schiarì la voce con ostentazione. Due volte.
“Ho detto…”
“Monty è alla navicella.”
“Ho bisogno di un tecnico competente.”
“Perché? Hai finito di molestare le minorenni?”
“Sono tutti minorenni, qui.”
“Non io.”
John si sistemò meglio lo zaino sulle spalle. La coda di cavallo di Raven dondolava, mentre lei continuava a muoversi, nervosa.
John sapeva di non essere la persona più simpatica dell’Arca, tantomeno la più simpatica sulla Terra. La gente gli riservava un trattamento freddo, quando non addirittura ostile. Raramente veniva guardato negli occhi e ancora più raramente gli veniva dedicato un sorriso.
Ma su nessuno faceva effetto come su Raven Reyes, la sua super donna.
John si sentiva un elemento chimico a contatto con il suo gemello invertito, con cui non poteva fare a meno di innescare una reazione esplosiva. Anche se cercava di essere il meno fastidioso possibile, anche se si impegnava a non darle nessun appiglio per scattare, lei diventava elettrica al suo avvicinarsi, e le sfrigolava la pelle nell’udire la sua voce, scintille crepitavano se solo si sfioravano.
Sapeva di non essere amato da nessuno, ma quella donna lo odiava per davvero.
John scosse la testa, chiedendosi se ormai fosse troppo tardi per ottenere altro da lei, al di là di quell’astio bruciante. Fece per riprendere il discorso, quando lei lo interruppe:
“Lo sai che stiamo partendo, Murphy?”
“Le notizie corrono.”
“Non dovresti andare a prepararti?”
“Tu non dovresti andare a prepararti?”
Raven non lo stava guardando in faccia, molto presa da qualsiasi cosa stesse combinando con i suoi cavi e giraviti.
“Prima sto verificando che il piano B regga, casomai il piano A si rivelasse un errore.”
“Non hai smantellato le mine?”
“Non ci penso nemmeno. Non mi fido dei Terrestri, sono della stessa opinione di Bellamy. Credo sia un’imboscata.”
Raven si portò le mani sui fianchi, dopo essersi tirata su le maniche della giacca fino ai gomiti. John la fissava, al di là del computer e attraverso il gelo che la ragazza gli stava riservando. Si lasciò vincere dall’istinto e fece qualche passo avanti, finché la sua pancia non toccò il tavolo. La lastra di metallo che li separava gli sembrò messa lì apposta per proteggerli.
“Sono d’accordo.”,
disse, senza la minima sfumatura di ironia.
Raven non riuscì a mascherare in tempo la sua reazione, così deliziosamente spontanea. Lo guardò - finalmente lo guardò - a bocca aperta, a metà tra la sorpresa e… e un qualche sentimento che era impossibile decodificare. John non riuscì a trattenersi, e le sorrise.
“Incredibile, eh? Siamo d’accordo su qualcosa, super donna.”
Raven si perse per ancora qualche momento nei suoi occhi. John non l’aveva mai vista meno padrona di sé. Gli sembrò più giovane, più piccola, meno irraggiungibile. Pregò che quell’istante durasse il più possibile e cercò di concentrarsi per assaporarlo fino in fondo. Raven Reyes ad armi deposte, di fronte a lui.
Raven Reyes ad armi deposte, di fronte a lui!
Era straordinario e lui era del tutto impreparato a quello spettacolo. Sentiva il cuore battere fin sotto la gola. Non seppe fare altro se non ripetere Ti supplico, non ti svegliare, ti supplico, non ti svegliare, e restare imbambolato a restituirle lo sguardo, fino a non vedere altro se non quei due meravigliosi occhi scuri.
Raven all’improvviso scrollò le spalle e tornò a testa bassa, infilò le mani in una cassetta e ne estrasse un martello.
“Che vuoi, Murphy?”
La magia si era già estinta. L’armistizio tra loro era durato meno di un attimo. John non credeva sarebbe riuscito a dimenticarsene. Si costrinse a smettere di guardarla e rispose.
“Sono qui per Blair.”
 
Bellamy pensò che la mancanza di sonno gli stesse giocando un brutto scherzo. La riunione, rivedere Blair, l'evacuazione... Lo stress gli stava facendo avere un'allucinazione, non c'era altra spiegazione, ne era certo. 
Perciò invece di premere il grilletto e uccidere il Terrestre che aveva trovato ai margini del campo, battè le palpebre un paio di volte. Poi scosse la testa. Poi si strofinò gli occhi sulla manica della giacca.
Il Terrestre aveva la pelle scura e la testa rasata. Pelli di animale lo coprivano da capo a piedi e un’ascia bipenne continuava a roteare nella sua mano sinistra. Nonostante il trucco nero con cui si era dipinto il viso, lo riconobbe in un attimo: era l’uomo che avevano catturato e torturato per giorni, quello che John era riuscito a piegare dopo un silenzio di ore e ore, per farsi consegnare l’antidoto, quando l’epidemia aveva contagiato il campo a causa sua.
Quell’idiota era già stato preso una volta per essersi spinto troppo vicino al campo ed ora eccolo lì, dentro la recinzione. Forse pensava sarebbe riuscito a scappare di nuovo.
Bellamy sollevò il fucile e puntò dritto alla testa. Attraverso il mirino vide il Terrestre voltarsi e sillabare, rivolto a qualcuno dietro di sé. Quel qualcuno lo affiancò, entrando nel suo campo visivo. Bellamy credette di svenire.
 
Raven gli stava spiegando il funzionamento delle schede di memoria, dei bracciali, dell’archivio di libri a cui Blair aveva lavorato. Lo stava facendo con grande precisione e minuzia di particolari, e John si chiese se stesse insistendo tanto sul tecnicismo per farlo sentire ancora più cretino di quanto lui stesso si sentisse. La guardava sollevare i bracciali, connetterli ai cavi maestri e a device sempre più piccoli, digitare sul computer… E non sentiva davvero quel che stava dicendo.
Raven era un robot di un’efficienza che rasentava la malattia mentale, un mulo caparbio incapace di tentennare, era così sicura di sé che era difficile considerarla una ragazza; quella che aveva davanti era una donna. Con buona pace di tutte le altre, che potevano pure essere straordinarie, ma erano tutte ragazze. Anche Blair.
E non era normale che oltretutto fosse anche così bella. Era ridicolo.
Certo, era dura e difficile come una lastra di titanio incastrata tra le costole, che se ne stava lì con la sola funzione di tagliarti il respiro a metà. Ma non era possibile essere un maschio e non rendersi conto di quanto assurdamente bella fosse. L’unica del campo che potesse competere con lei forse era la sorella di Blake, non fosse era completamente pazza.
Ma Raven Reyes, con le sue ciglia infinite e labbra perfette, ti costringeva ad osservarla sempre per un secondo di troppo. E grazie al cielo era la più freddolosa femmina dell’universo, che indossava la sua giacca rossa anche mentre Cecilia passeggiava per il campo mezza nuda. Ci mancava soltanto avere la visuale completa di quel che i vestiti cercavano di nascondere – senza riuscirci: aveva un fisico che prendeva a sberle la proporzione aurea, ridefinendo i canoni della bellezza.
Tutti i ragazzi del campo avevano fatto almeno un sogno su Raven Reyes. Anche quelli che di lei avevano più paura non erano riusciti a non desiderarla, almeno il tempo di un incubo felice. John Muprhy avrebbe voluto fare eccezione, ma non aveva abbastanza autocontrollo per impedirselo.
Ogni volta che si incontravano litigavano a sangue, mentre una minuscola porzione del cervello di lui stava lì a dirgli che invece che azzannarla alla gola avrebbe potuto morderle il collo.
Raven fece schioccare due dita sotto il suo naso.
“Murhpy, sei vivo?”
John scosse la testa con energia, tornando nel presente.
“S-sì. Sì, ci sono. Cosa stavi dicendo?”
Raven inclinò la testa, stringendo le labbra.
“Non stavi ascoltando?”
“Stavo ascoltando, ma era complicato. Dimmi solo se i libri sono salvi o no.”
Raven sospirò, allontanandosi da lui. Staccò il bracciale metallico dal computer e glielo porse, guardando altrove.
“Puoi correre dalla tua bella a fare la figura dell’eroe.”
John barcollò, tanta era la felicità che si sentì rovesciata addosso.
“Sul serio?”
“Basta collegarli ad un computer qualsiasi, il contenuto è…”
“Sì! Grazie!”
Le sfilò il bracciale di mano, lo cacciò nello zaino più in fretta che riuscì e richiuse la zip. Se lo caricò in spalla e prese l’uscita.
Tornò indietro quel tanto che bastava a incrociare un’ultima volta gli occhi di Raven, che lo aspettavano.
“Grazie, super donna. Davvero.”
“Smamma, Murphy. C’è gente che deve lavorare.”
 
Octavia fu la prima ad accorgersi di essere sotto tiro. Fu abbastanza veloce da rendersi conto che era suo fratello a tenere in braccio il fucile, prima che il Terrestre al suo fianco potesse sollevare l’ascia e lanciarla addosso a Bellamy.
Lui era rimasto immobile sul posto, incapace di reagire di fronte all’immagine che si era trovato davanti. Sua sorella con un Terrestre. Sua sorella con il Terrestre.
Gli fu chiaro finalmente come fosse riuscito ad evadere dalla navicella. Aveva senso: senza l’aiuto di qualcuno all’interno del campo gli sarebbe stato impossibile svignarsela, sotto gli occhi di cento persone. Era stata Octavia a liberarlo. Restava da capire perché l'avesse fatto.
Bellamy si costrinse a fare qualche passo avanti. Mentre si avvicinava, prese sicurezza. Quando li raggiunse, afferrò Octavia per un braccio e la trascinò al coperto, dentro il tunnel che avevano costruito per uscire di nascosto dal campo, lo stesso da cui dovevano essere spuntati loro due. Il Terrestre li seguì.
Senza lasciarla andare, si portò il viso della sorella il più vicino possibile e sebbene avesse voglia di mettersi a gridare, Bellamy sussurrò:
“Cosa diavolo ci fai con lui?”
Octavia cercò di liberarsi dalla stretta, invano. Continuarono a strattonarsi a vicenda, finché la ragazza non ebbe la meglio. Il Terrestre le stava a fianco, controllando alle sue spalle che nessuno li avesse visti.
“Lui è Lincoln.”
“E?”
“Ed è venuto ad avvertirci.”
Gli occhi di Bellamy raggiunsero il Terrestre. Se lo ricordava più piccolo; quando era mezzo nudo incatenato e sanguinante faceva meno impressione. Lì, nel cunicolo scavato nella terra, con l’ascia, il trucco, le pellicce, sembrava alto due volte tanto e più grosso di lui di una tonnellata. Eppure restava fermo e tranquillo accanto a sua sorella, fissando prima uno poi l’altra, in silenzio.
“Avvertirci di cosa?”
“Avevi ragione tu, Bell. È un’imboscata. I Terrestri non hanno mai avuto intenzione di lasciarci andare, anche se rispettiamo il loro patto. Appena usciremo…”
“…ci ammazzeranno.”
Gli occhi blu di Octavia riuscivano a risplendere anche nella penombra. La ragazza annuì.
“Se è così devo avvertire Clarke.”
“Non c’è tempo, Bell. Dovete muovervi subito e prepararvi all’attacco. Trova Raven, per il barbecue. È la vostra sola speranza.”
Vostra?”
Octavia lo guardò e lui per un momento la vide tornare la sorellina indifesa che aveva conosciuto per tutta la vita, prima di scendere sulla Terra, prima che Octavia cominciasse a trasformarsi, temprata dalla sofferenza e dalla lotta per la sopravvivenza, e finalmente libera di essere chi forse era sempre stata.
Lei gli prese il viso tra le mani.
“Io vado via con Lincoln. Lui mi terrà al sicuro.”
“Che cosa?”
“Andremo verso la costa, lì c’è una…”
“O, di che stai parlando? È un Terrestre!”
“Io lo conosco, Bell. Mi fido di lui.”
“Che significa che…? O, io non…”
“Se c’è qualcuno che può difendermi, quello è lui. È venuto fin qui per avvertirci, no? Sta rischiando la sua stessa vita per me, te ne rendi conto?”
Il Terrestre, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, distolse lo sguardo da Octavia e lo rivolse a Bellamy.
“Prima di toccarla, dovranno uccidermi.”
La voce di Lincoln vibrò profonda e chiara.
Bellamy cercò di deglutire, invano. La sicurezza che lesse negli occhi dell’uomo lo spaventò.
Era la prima volta che vedeva qualcuno amare sua sorella quanto l’amava lui. Si sentì follemente geloso.
Lasciò cadere il fucile e mise le mani su quelle di Octavia, i cui occhi si erano riempiti di lacrime.
“Vieni con noi.”,
lo pregò, con la voce rotta. Quella di Bellamy le fece eco, a sua volta spezzata, a sua volta distorta dal dolore:
“Non li posso lasciare.”
Octavia si gettò tra le sue braccia e Bellamy strinse finché non seppe di farle male.
“Quando la battaglia sarà finita, seguite il piano dell’evacuazione. Venite sulla costa. Ditelo anche a Jaha.”,
mormorò Octavia al suo orecchio. Lui annuì, strofinando la guancia bagnata di lacrime contro i capelli della sorella.
Lei si staccò, senza lasciarlo andare del tutto, ancora con le mani aggrappate alle sue.
“Ti aspetterò lì.”
Bellamy sapeva che ogni secondo era vitale. E se fregò.
Si prese un minuto intero per restare occhi negli occhi con la sola donna che sarebbe sempre stata il vero amore della sua vita. Octavia aveva smesso di piangere e la sua espressione era tornata decisa, forte. Gli stava stritolando le mani.
“O, quando abbiamo litigato ho detto…”
“Bell, non importa.”
“No, ascoltami. Ho detto che la mia vita era finita quando sei nata tu. La verità è che non è mai cominciata fino a quel giorno.”
La guardò combattere con l’istinto di abbracciarlo ancora, di implorarlo di nuovo di seguirli.
“Ti voglio bene, Bell.”
Lincoln appoggiò una mano sulla spalla di Octavia e lei cercò di ricomporsi, di riaversi abbastanza da scappare lontano.
Bellamy si sentiva distrutto in mille parti, come se stessero per strappargli via un pezzo, un pezzo senza il quale non era certo di poter sopravvivere. Aveva dedicato la sua vita a proteggere sua sorella e non riusciva a concepire che potesse esistere una versione di se stesso senza di lei. Non avrebbe saputo che senso darsi, se davvero c’era qualcun altro a prendersi cura di lei. Se lei stessa era cresciuta abbastanza da non avere bisogno di nessuno.
Bellamy seppe, in quel tunnel, sottoterra, che non importava: sua sorella, sua responsabilità. Niente avrebbe potuto riscrivere quella verità, la certezza che gli aveva dato una mappa e la forza per muoversi da quando era appena un bambino.
Pregò in cuor suo che il Terrestre, Lincoln, si dimostrasse inflessibile in battaglia come si era dimostrato sotto tortura. Sperò con tutte le sue forze che la guida di un Terrestre si rivelasse la strategia migliore per mettersi in salvo, che riuscissero ad attraversare la foresta e raggiungere il mare. Per la prima volta non avrebbe avuto nessun controllo sul suo destino, doveva lasciarsi convincere da lei che ce l'avrebbe fatta da sola.
Lasciò le mani di Octavia sapendo che non l’avrebbe mai lasciata davvero. E che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere perché le sue ultime parole non fossero una bugia:
May we meet again.”






19/12/17
Sì, sono ancora viva! ^^
CHIEDO SCUSA per il MOSTRUOSO RITARDO. Proprio ora che avrei più tempo mi sono ritrovata a scrivere così in ritardo! 
Beh, spero che questo capitolo speciale, con un punto di vista rovesciato sui nostri maschietti preferiti, vi sia piaciuto. Dal prossimo torniamo a regime, per la conclusione della storia sarà Blair la protagonista. Come spero si sarà capito, come linea temporale siamo tornati leggermente indietro rispetto al capitolo precedente: vediamo come hanno vissuto alcuni momenti della giornata Bellamy e John prima dell'aggressione dei Terrestri. 
A presto!, e come sempre grazie per le letture e le recensioni, mi fate felicissima (e mi spingete a fare sempre meglio - o almeno a provarci)!
LRM

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Capitolo 27
*** L'inizio della fine ***


****
25/02/18
Questa volta la nota devo farla all'inizio. Chiedo miseramente perdono per tutto il tempo che ho lasciato passare dall'ultimo aggiornamento; ma tra gennaio e febbraio ho avuto qualche preoccupazione per la mia salute e scrivere non è stato davvero possibile. Ora però fortunatamente è tutto risolto! è andato tutto bene, sono sana come un pesciolino. "We're back, bitches!", per citare la nostra O. 
Ehm, temo sarà il caso di ridare un'occhiata agli ultimi due capitoli prima di leggere questo, anche solo per ricordarci dove eravamo arrivati! Per chi non avesse voglia, breve riassunto:
1. I Terrestri dicono: "Se ve ne andate, non vi sterminiamo."
2. Clarke dice: "Ok, evacuiamo il campo."
3. Raven sistema comunque le bombe, perchè non si fida. (Good girl). 
4. John e Blair fanno pace e si sbaciucchiano.
5. Octavia lascia il campo con Lincoln, che avvisa i Cento che sì, i Terrestri li hanno fregati e stanno organizzando un'imboscata.
6. Prima che Bellamy possa fare qualcosa, un ragazzo a due passi da John e Blair viene trafitto da una lancia e crolla a terra. 
7. Panico generale. 
...Have fun ^^ 
LRM
****





27. L’INIZIO DELLA FINE
 
Sono pietrificata.
Il sangue si spande intorno al cadavere, arriva a lambirmi le scarpe. Le lascio sporcarsi, incapace di reagire: non riesco a fare altro che passare gli occhi dal volto del ragazzo coi capelli rossi alle mie scarpe e di nuovo al suo viso, di nuovo le mie scarpe.
Intorno a me il campo intero è esploso in un grido selvaggio, scosso dal terrore. Con la coda dell’occhio intercetto i movimenti dei miei compagni, tutti già in corsa, tutti abbastanza reattivi da scappare verso la salvezza, il nostro unico riparo.
“Blair! La navicella! Vieni! Corri!
John deve prendermi entrambe le braccia con la forza e trascinarmi via di peso.
Una massa di persone nel più completo panico ci riempie la visuale, riusciamo a distinguere solamente la folla terrorizzata: è impossibile capire cosa stia succedendo. È John a puntare il dito verso le barricate, urlandomi di guardare, nonappena varchiamo il portellone e ci sentiamo più protetti.
Un Terrestre si è arrampicato sulla barriera di legno, e dalla cima ha puntato il ragazzo con i capelli rossi. Dalla sua posizione sopraelevata è riuscito con facilità a centrare il bersaglio. Libero dalla lancia, ora tende un arco. Incocca una freccia ma prima che possa lasciarla volare cade all’indietro, abbattuto da un’arma da fuoco. Sono davvero il nostro unico vantaggio, soprattutto se unite al fatto che loro non le conoscono.
Clarke, in una nube di polvere smossa, in mezzo al campo, si volta nella nostra direzione. Sta imbracciando il fucile del ragazzo con i capelli rossi. È lei ad aver sparato.
La guardo afferrare la spira con entrambe le mani, puntare un piede sulla schiena del cadavere e fare forza. Sfila la lancia con difficoltà, e nel momento in cui il bastone esce dal costato un nuovo fiotto di sangue inonda la maglietta del ragazzo, la terra, i piedi di Clarke.
Lei corre verso la navicella, la lancia in una mano, il fucile nell’altra. Viene dritta verso me e John, a cui porge l’arma. Lui esita. La afferro prima che il suo tentennare diventi evidente.
Dall’imboccatura, guardiamo fuori, ipnotizzati dal caos. In pochi istanti ci è chiaro cosa sta capitando: il Terrestre abbattuto da Clarke, che ha ucciso il ragazzo coi capelli rossi ad un passo da me e John, era un diversivo. Il secondo Terrestre non tarda ad arrivare, seguito dal terzo, il quarto… Presto perdo il conto. John sibila, accanto a me:
“Sono entrati da uno dei tunnel.”
Senza accorgermene, mi sono portata una mano alla bocca. Un energumeno di due metri con un coltello in entrambe le mani sta attraversando il campo, uscito da chissà dove, falciando due ragazze nel passaggio. Una bionda di appena un paio di anni più piccola di me crolla in terra a faccia in giù, in un’esplosione di sangue.
“Ci hanno distratti e hanno massacrato le guardie.”,
conclude John, mentre la sua voce trema di rabbia. Io sto cercando di non impazzire di paura, di riavermi, anche se mi sento ancora rallentata. Forse è la scossa che mi da la mano di John che afferra la mia a svegliarmi. Lo scanso e mi volto verso il fondo della navicella; urlo:
“Dove sono i tiratori scelti?”
Qualcuno alza in aria la pistola.
“Voi, fuori! Bellamy è al cancello, prendete ordini solo ed esclusivamente da lui!”
Un gruppetto di ragazzi e ragazze si fa largo tra la massa, in corsa verso l’uscita.
“Sono troppi, e sono dentro. Non possiamo evacuare il campo.”,
dico, e John conclude il mio pensiero:
“E non possiamo combatterli.”
Mi rivolgo a Clarke, che sta ancora con gli occhi fissi all’orizzonte.
“Griffin, stiamo guardando te.”
La mia amica ha la mascella tanto contratta da sfigurarle il viso. So che sta valutando il piano B, il barbecue. E non passa più di qualche istante prima che le senta chiedere:
“Dov’è Raven?”
Scuotiamo la testa e Clarke aggrotta la fronte, lasciando scorrere lo sguardo sui nostri volti. I suoni della battaglia scandiscono lo scorrere dei secondi, mentre il nostro Cancelliere Sulla Terra decide come dobbiamo muoverci.
All’improvviso si anima e al pari di Jaha il suo tono è il tono di chi non ammette repliche:
“Portate tutti dentro.”
 
Clarke sparisce all’interno in un battito di ciglia.
“Ci serve Raven.”
L’affermazione di John è l’unica sicurezza che abbiamo. Annuisco, cercando di non farmi prendere dal panico.
“Monty e Jasper non so se sapranno come attivare…”
“Lo so.”
John tende la mano. Quando capisco che sta aspettando che io gli consegni il fucile, faccio un passo indietro.
“Stai scherzando.”
“Blair, ci serve Raven. E non è qui dentro.”
“Non sai sparare.”
“Nemmeno tu.”
“Beh, veramente…”
“Hai sparato una volta.”
“Corro più veloce di te.”
“Falso anche questo.”
Lo guardo negli occhi. 
Non c’è possibilità che lui ceda, che io riesca a prendermi la ragione con John Murphy. Ho dieci anni di esperienza che mi dicono di desistere. Sul piano dialettico, non ho speranze.
Però non esiste solo lo scontro aperto, esistono le scorciatoie
Individuo il ragazzo più alto tra la folla e lo chiamo:
“Tu.”
Lui ci raggiunge e per un attimo mi sorprendo di essere obbedita con tanta sollecitudine. Essere l’assistente del sergente Griffin mi torna utile.
“Se il mio amico mette piede fuori dalla navicella te la vedrai con me.”
Imbraccio il fucile, passandomi la cintura intorno alla spalla. John ha lo sguardo smarrito, ma il suo nuovo carceriere invece ha colto perfettamente l’antifona: lo prende per un braccio e lo tiene fermo con la sola forza di una mano.
“Blair? Blair, che diavolo…”
“Se oppone resistenza, di sopra ci sono delle catene.”,
lo informo, prima di voltare le spalle e uscire dalla navicella.
 
So dove trovare Raven. Mi accovaccio e corro come posso, rasentando le pareti esterne della navicella, senza fermarmi. Non mi guardo nemmeno intorno, mentre il cuore pompa nelle vene con una potenza che provoca fitte dolorose al petto e alla milza. Intorno a me i ragazzi gridano, sparano. E cadono.
Mi infilo nella tenda di Finn puntando il fucile alla testa di Raven, che si volta in un sussulto. Lo abbasso.
“Blair!”
“Rientra! Vai da Clarke, ci servi per il piano B!”
“Non posso! Non so…”
“Troveremo Finn, te lo prometto, ma ora vieni con me!”
Le stringo un braccio con tutta la forza che ho, trascinandola all’ingresso della tenda. Restiamo abbassate, e io non ho tolto le dita dal grilletto. Lei perlustra il campo con gli occhi.
“Raven, non chiuderemo il portellone senza Finn. Te lo prometto. Fidati di me!”
Si rivolge a me, dilaniata dal dubbio. Le regalo qualche istante per decidersi, anche se non smetto di stritolarla. Finalmente sospira, come stesse esalando l’ultimo dei suoi respiri.
“Ma perché nessuno dei nostri piani A funziona mai?”,
urla, diretta alla navicella, tirandomi per la manica.
 
Raven non rallenta, scavalca l’ingresso continuando a correre. Io mi fermo e torno a rivolgermi a chi abbiamo intorno. Consegno il fucile ad una ragazza con la testa rasata di cui non ricordo il nome. Ansante, cerco di alzare la voce più che posso:
“Chiunque abbia un’arma, fuori! Raccogliete i nostri, portateli tutti qui! Chiunque sia disarmato, restate dentro! Non uscite di qui per nessuna ragione, mi avete sentito?”
Una freccia si pianta sul fianco della navicella, a un paio di metri dalla mia testa. I ragazzi indietreggiano schiamazzando, verso il fondo del nostro unico riparo. D’istinto, mi volto verso la fonte del pericolo.
Non posso individuare il Terrestre che ci ha puntati, ma vedo Bellamy rientrare, attraversando il campo con in braccio un ragazzo svenuto. Trasportare quel ragazzo lo rallenta e gli impedisce di rispondere ad un eventuale aggressione. Non sta nemmeno correndo e non ha nessuno che possa coprirlo. Quell’imbecille.
“Perché deve sempre fare l’eroe del cazzo?”
Un tipo alla mia sinistra, con dei rasta grossi come rami, mi ha sentita:
“Come?”
“Niente. Hai una pistola, per caso?”
“Hai appena detto che chi aveva un’arma doveva…”
“Ok, ok. Capito. Sai se Cecilia Shenden è dentro?”
“Non la conosco.”
Ispiro quanta più aria ho a disposizione, portandomi una mano sugli occhi. Se guardo Bellamy circondato da Terrestri armati non riesco a pensare lucidamente.
Acchiappo il ragazzo per il colletto della t-shirt, tirandolo con quanta più grazia riesco ad avere, nel mio essere nel panico più completo. Sto sillabando:
“Resta qui e inizia a contare. Quando arrivi a ottanta persone, chiama Clarke e dille di chiudere il portellone.”
Corro fuori prima di rendermi conto di quello che sto facendo.
 
Quando mi vede andargli incontro Bellamy inizia a gridare, anche se sa che ancora non posso sentirlo, non in mezzo al caos in cui ci troviamo. Lo raggiungo e gli sfilo la pistola dalla cintola, intimandogli di non rallentare. Il percorso attraverso il campo dura a malapena un minuto, e mi sembrano cento anni.
Dentro, Bellamy adagia con più delicatezza possibile il ragazzo in terra, ordina a qualcuno di prendersene carico e poi si volta all’improvviso verso di me, facendomi barcollare.
“Sei impazzita?”
I suoi occhi sgranati, neri come non mai, mi percorrono ogni angolo del corpo e del viso. Sta cercando ferite. Mi afferra per un braccio, scrollandomi con forza.
“Come diavolo ti è saltato in mente di correre in quel modo fuori da qui, senza un’arma?”
“Adesso ce l’ho, un’arma. La vuoi di nuovo puntata in faccia?”
Mi divincolo dalla sua presa. Sul suo volto, le lentiggini sono coperte dagli schizzi di sangue, così come i suoi capelli, i vestiti, le braccia.
Lo osservo sospirare, esasperato. Mi ricorda i nostri primi giorni sull’Arca, quando la mia lentezza lo mandava nel pallone. Ancora oggi, è lui il più veloce tra noi; scosta la mano e torna il capitano della nave:
“Dove sono gli altri?”
“Raven e Clarke sono di sotto, stanno ultimando quel che serve a farli saltare per aria. Finn non lo so. Tua sorella?”
“Mia sorella è al sicuro.”
“Ma qui non l’ho più vista…”
“Jasper, Monty?”
“Non lo so, ma erano dentro quando è cominciata…”
Non mi chiede di John, perché sa che non sarei qui se lui fosse disperso, sarei a cercarlo.
Bellamy annuisce e fa per tornare fuori. Lo seguo.
“Ho promesso a Raven di portare dentro Finn.”,
spiego, prima che possa mettere becco.
“E non lascio Cecilia a morire da qualche parte. Suo padre è stato espulso per salvarmi la vita.”
Bellamy mi guarda, in tralice.
“Come pensi di recuperarli, disarmata?”
“Con te.”
Facciamo gli ultimi passi che ci separano dall’ingresso fendendo la folla, dritti come fusi. Direi che proseguiamo spalla a spalla, non fosse che io gli arrivo a malapena al mento.
“Come ho fatto tutto quello che ho fatto finora. Con te.”
Lui non risponde e io mi sento legittimata a proseguire, con la netta sensazione che il batticuore abbia poco a che fare con l’orda di Terrestri pronti a falciarci vivi da qui a qualche minuto.
“Come faccio tutte le cose che da sola non riesco a fare. Con te.”
Lui si ferma a cavallo dell’uscita. Lo imito, anche nel suo sguardo torvo.
La voce si fa più profonda, anche se cerca di mantenere un tono distaccato.
“Blair, non posso combattere se mi preoccupo per te.”
“Non posso lasciarli…”
“Non li lasceremo. Li vado a prendere.”
Lascia correre i suoi occhi tra i miei. Aspetta che io mi decida ad obbedirgli.
Avrei solo voglia di fargli capire che non mi ha addomesticata, ma devo restare lucida e fare la cosa più intelligente, non quella che davvero vorrei. Col cavolo che resterò qui. Ma devo convincerlo del contrario, altrimenti non se ne andrà mai. Fingo la resa:
“Cecilia ha i capelli corti e indossa un Pass da guardia scelta.”
Lui fa un cenno col capo, prendendo la pistola che gli sto riconsegnando.
Poi resta immobile, come in attesa di qualcosa.
“Che c’è?”
“Non me ne vado finchè non ti vedo salire la scaletta e chiuderti dietro la botola.”
“Bellamy!”
“Pensi di fregarmi solo con il bel faccino che ti ritrovi?”
“Bel faccino?”
“Lo sai di essere bella, altrimenti per manipolarmi non ti saresti avvicinata così tanto, e tantomeno mi avresti guardato in quel modo.”
“Cosa, cosa? Quale modo?”
“Ricordati che ti ho vista recitare.”
Lui ha un piede fuori dalla navicella, la pistola in mano e il busto mezzo rivolto alla battaglia che ancora imperversa ad appena qualche metro da noi. Mi ha appena detto che sono bella ed è già con la testa ad abbattere Terrestri.
“Perché ti metti a flirtare con me sempre quando stiamo per morire?”
“Non stavo flirtando. Io non flirto.”
“Portami indietro Finn e Cecilia o col cavolo che verrò mai a cena con te.”
“Non ti ho mai invitata.”
Nella totale surrealtà della situazione, mi accorgo che i suoi occhi sono di nuovo agganciati ai miei.
Un grido agghiacciante, che sovrasta tutti gli altri, scuote l’aria. Tutto intorno a noi ci sta dicendo che moriremo. Allora Bellamy percorre lo spazio che ci divide, si china sul mio viso e mi bacia.
Non aspetta nemmeno che io possa rendermi conto di quanto sta succedendo, ha già aperto le labbra, costringendo le mie a fare altrettanto, riempiendomi la bocca, invadendomi con un bacio profondo, improvviso. Siamo un buco nel sistema temporale e nemmeno lo spazio sembra avere molta più aderenza alla realtà, io so di non sentire nulla di tangibile al di là della sua bocca. Finchè non mi ricorda di avere un corpo, schiacciandomi contro il suo.
Un buco nero mi esplode nei polmoni, risucchiando tutto ciò che ho in un unico punto, come una supernova pronta a morire. Mi fa male per il modo in cui mi stringe, mi spinge la lingua con troppa forza. Mi sta divorando. Nemmeno il morso che mi graffia il labbro ha niente di seducente, è solo fame, bisogno senza controllo.
Dubito che il bacio sia durato più di qualche secondo, eppure quando mi lascia mi sembra di schiantarmi su un altro pianeta mai visto prima, in un atterraggio brusco – e indesiderato. Frastornata, col cervello annientato, riesco solo a distinguere il caldo che mi trucida le viscere, dai talloni alla fronte. Non sono certa i miei piedi stiano toccando terra. Mi sembra di essere tornata sull’Arca, dove la gravità creata ad arte era stata ritoccata rispetto a quella della Terra e ci sentivamo tutti più leggeri.
Lui non ha semplicemente allontanato il viso dal mio, si è staccato di un metro.
Ho la vaga impressione che intorno a noi ci sia un sacco di gente.
Bellamy resta impalato, gli occhi incollati ai miei. Sta ansimando anche se deve ancora cominciare a correre.
“Blair, resta dentro. Anche se non torno.”
Lo guardo e scuoto la testa, incapace di credere a quello che mi ha appena detto.
“Non ti lascio, Bell.”
La mia non è né più né meno una dichiarazione d’amore, così come lo è stato corrergli incontro disarmata, filmare il video della rivolta, seguirlo attraverso il nostro piano suicida, mentire per lui, difenderlo, barattare la sua salvezza, non tenergli nessun segreto, fidarmi, mettere la mia vita nelle sua mani, tenere al sicuro la sua tra le mie, obbedirgli, dargli ordini, sparargli, prenderlo a schiaffi, dormirgli addosso, puntargli contro un bisturi, fino alla cosa più difficile di tutte - perdonarlo.
Bellamy Blake sorride e il mio mondo torna in asse.

 

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