Under a Paper Moon

di TimeFlies
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Scarlett ***
Capitolo 2: *** 02. Adam ***
Capitolo 3: *** 03. Scarlett ***
Capitolo 4: *** 04. Adam ***
Capitolo 5: *** 05. Scarlett ***
Capitolo 6: *** 06. Adam ***
Capitolo 7: *** 07. Scarlett ***
Capitolo 8: *** 08. Adam ***
Capitolo 9: *** 09. Scarlett ***
Capitolo 10: *** 10. Adam ***
Capitolo 11: *** 11. Scarlett ***
Capitolo 12: *** 12. Adam ***
Capitolo 13: *** 13. Scarlett ***
Capitolo 14: *** 14. Adam ***
Capitolo 15: *** 15. Scarlett ***
Capitolo 16: *** 16. Adam ***
Capitolo 17: *** 17. Scarlett ***
Capitolo 18: *** 18. Adam ***
Capitolo 19: *** 19. Scarlett ***
Capitolo 20: *** 20. Adam ***
Capitolo 21: *** 21. Scarlett ***
Capitolo 22: *** 22. Adam ***
Capitolo 23: *** 24. Adam ***
Capitolo 24: *** 23. Scarlett ***
Capitolo 25: *** 25. Scarlett ***
Capitolo 26: *** 26. Adam ***
Capitolo 27: *** 27. Scarlett ***
Capitolo 28: *** 28. Adam ***
Capitolo 29: *** 29. Scarlett ***
Capitolo 30: *** 30. Adam ***
Capitolo 31: *** 31. Scarlett ***
Capitolo 32: *** 32. Adam ***
Capitolo 33: *** 33. Scarlett ***
Capitolo 34: *** 34. Adam ***
Capitolo 35: *** 35. Scarlett ***
Capitolo 36: *** 36. Adam ***
Capitolo 37: *** 37. Scarlett ***
Capitolo 38: *** 38. Adam ***
Capitolo 39: *** 39. Scarlett ***
Capitolo 40: *** 40. Adam ***
Capitolo 41: *** 41. Scarlett ***



Capitolo 1
*** 01. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 1


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1. Scarlett



Essere un licantropo, contrariamente a quello che pensa la gente, fa abbastanza schifo. O meglio, per tre giorni al mese fa schifo, il resto del tempo non è poi così male. Certo, si deve fare i conti con una grande suscettibilità, scarso controllo della rabbia, esasperazione più che facile da raggiungere… Le solite cose.
Oltre questo però ci sono anche dei vantaggi, per esempio la vista più acuta, l’udito più fine, l’olfatto più sviluppato, poter mangiare quanto ti pare senza ingrassare per via del metabolismo veloce, visione notturna incorporata e un sacco di altre cose che è meglio non mostrare in pubblico.
Quindi, in fondo, la licantropia ha anche dei lati positivi. Più o meno: se non sei abbastanza bravo da nascondere cosa sei veramente finisci male. Molto male. Perché l’uomo fugge dal diverso, se si venisse a sapere che tu puoi farti spuntare zanne e artigli saresti marchiato come un pericolo, saresti perseguitato e probabilmente ti ucciderebbero. O, peggio, ti userebbero come cavia per chissà quali esperimenti.
Questi erano gli allegri pensieri che mi accompagnavano quella mattina. Ora, chiunque può pensare che un lupo mannaro sia sempre pieno d’energia, pronto ad affrontare ogni tipo di nemico in ogni momento della giornata. Beh, non è assolutamente così. Soprattutto alle sette di mattina. Diciamo che a quell’ora assomigliavo ad uno zombie mannaro.
Sbuffai osservando la massa di nodi che avevo in testa: com’era possibile che i miei capelli non riuscissero a rimanere lisci per più di qualche ora? Che gli avevo fatto di male? Frugai nel cassetto del mobile del bagno alla ricerca di una pinza. Dopo una decina di spazzole, qualcosa come un centinaio di elastici e forcine, trovai quella che cercavo: una semplice pinza di plastica nera piuttosto resistente.
Mi raccolsi i capelli, o forse è meglio dire criniera?, in un chignon disordinato da cui sfuggivano molte ciocche: non era un granché, ma era meglio di niente. Tornai in camera cercando di infilarmi nei jeans strappati senza cadere. Afferrai la camicia a scacchi nera e bianca e la indossai mentre cercavo gli anfibi con lo sguardo. Li trovai sotto la scrivania e, quando mi chinai per prenderli, sbattei la testa contro il legno. Imprecai trai i denti sperando che mia madre non mi sentisse: odiava le parolacce tanto quanto odiava le persone false, quindi davvero molto.
«Scarlett! Sbrigati, o farai tardi!» Urlò dal piano di sotto.
Alzai gli occhi al cielo. «Se tu mi comprassi un’auto potrei dormire come minimo una mezz’ora in più.»
«Puoi vivere benissimo senza!» Replicò con voce fin troppo allegra per i miei gusti.
Le feci il verso tra me e me mentre cercavo lo zaino sepolto sotto un cumulo di vestiti. Lo tirai fuori e diedi un’occhiata veloce ai libri: sembrava ci fossero tutti. Me lo infilai in spalla e mi precipitai giù dalle scale riuscendo a non spalmarmi sul pavimento per puro miracolo. Entrai in cucina con la mia solita grazia e ci trovai mia madre, Natalie, tranquillamente seduta al tavolo intenta a sorseggiare una tazza di caffellatte. Indossava un morbido maglione rosso scuro e dei jeans semplici. Aveva raccolto i suoi lunghi capelli scuri in una coda bassa che lasciava alcune ciocche libere di incorniciarle il viso. Era una bella donna che non dimostrava i suoi quarant’anni, aveva gli zigomi morbidi, la fronte solcata da rughe poco pronunciate e quando sorrideva le si formavano delle piccole fossette sulle guance.
«Buongiorno tesoro.» Mi salutò come se lo scambio di urla di poco prima non fosse successo. A dirla tutta in casa nostra era una cosa da tutti i giorni.
«’Giorno.» Borbottai lasciando lo zaino su una sedia.
Afferrai un paio di biscotti al cioccolato dal piatto che stava al centro del tavolo e li mangiucchiai appoggiata al lavandino.
«Quando riparti?» Chiesi osservandola di sottecchi.
Prese un sorso dalla sua tazza prima di rispondere. «Domani. L’Egitto mi aspetta.»
E mi fece un sorriso materno di quelli che sembravano voler dire: “ripareremo tutto, promesso”. Anche se non c’era niente da riparare.
«Ah… Bello.» Commentai.
Mia madre faceva la hostess quindi viaggiava di continuo e io la vedevo poco o nulla. Inoltre cercava di guadagnare qualcosa in più accompagando gli uomini d'affari che volavano con la sua compagnia alle riunioni e facendo loro da interprete: fin da piccola aveva sempre amato le lingue e ne aveva studiata più di una per anni. Se la cavava alla grande con il cinese, il francese, qualcosa di tedesco e di russo.
Mi andava bene che passasse tanto tempo fuori casa, insomma, c’ero abituata ormai, anche se a volte mi avrebbe fatto piacere averla con me, magari quando affrontavo un periodo difficile o che so io. Così, però, rischiavo meno che scoprisse cos’ero in realtà e questo era decisamente un vantaggio.
«Ti porto un regalo, mmh? Magari una collana con uno scarabeo: sai, portano fortuna.» Aggiunse guardandomi, un sorriso entusiasta ad illuminarle il viso.
«Un po’ di fortuna mi farebbe comodo in effetti, sì.» Concordai.
Abbassò gli occhi e sollevò un sopracciglio con aria critica. «Tesoro i tuoi pantaloni sono strappati… Dovresti buttarli.»
Seguii la direzione del suo sguardo che si era soffermato sui miei jeans. «Ma no, sono fatti così. Fin da quando li ho comprati. Sai, vanno di moda.»
In realtà non mi importava molto delle tendenze in fatto di vestiti, ma i jeans strappati avevano un fascino particolare, menefreghista e strafottente che mi aveva conquistata quindi… Avevo ceduto alla tentazione ed ora ero lì, con quei meravigliosi pantaloni che sembravano essere finiti tra le grinfie di un gatto particolarmente arrabbiato.
Mia madre, com’era prevedibile, non sembrava convinta. «Sei sicura, cara? Non è che non vuoi ammettere di averli rotti per sbaglio?»
Sbuffai. «No mamma, te lo giuro. Sono fatti così e mi piacciono anche.»
Si avvicinò la tazza alle labbra. «Se lo dici tu… Anche se secondo me un sari ti starebbe meglio. Magari blu. O forse è meglio rosso…»
Alzai gli occhi al cielo: l’ultimo viaggio in India l’aveva condizionata un po’ troppo, era già la terza volta che tirava fuori l’argomento sari. «Lo sai che io ho una politica anti-gonna, no? E questo esclude automaticamente anche gli abiti tipici dell’India.» Mi strinsi nelle spalle. «Scusa mamma.»
Scosse la testa sorridendo. «Sei incorreggibile Scout.»
Mi irrigidii sentendo quel soprannome: lo aveva inventato mio padre, o meglio, aveva preso ispirazione dal suo libro preferito, “Il buio oltre la siepe”, dove il nomignolo della protagonista era proprio Scout.
Erano passati dieci anni da quando papà se n’era andato perché non amava più mamma e, anche se non l’aveva mai ammesso, perché si era innamorato della direttrice del suo ufficio, una certa Patty che amava alla follia le gonne inguinali.
«Tesoro devi sbrigarti se vuoi arrivare a scuola in tempo.» La voce dolce e rassicurante di mia madre mi strappò via da quei ricordi cupi.
«Sì, ora vado.» Borbottai distrattamente.
Mi stiracchiai e mi lasciai sfuggire uno sbadiglio: dovevo ricordarmi, per l’ennesima volta, di andare a dormire prima la sera. Mi infilai lo zaino in spalla, diedi un bacio sulla guancia a mamma e uscii con lei che mi augurava una buona giornata urlando dalla cucina.

Dopo quattro ore di scuola relativamente tranquille, il che poteva quasi essere considerato un record visto il mio carattere piuttosto spigoloso, era ovvio che almeno una materia andasse male, no? E quale, se non matematica?
La professoressa Smith camminava su e giù tra i banchi stretta nel suo tailleur grigio topo scrutandoci da dietro gli occhiali come se avesse dovuto decidere chi uccidere. Tutti, me compresa, tenevano lo sguardo fisso sul quaderno pregando mentalmente di non essere scelti per essere mandati alla lavagna a correggere gli esercizi per casa. A me non erano riusciti nonostante ci avessi provato più volte. Più o meno. In realtà non era completamente vero, ma solo perché le disequazioni di secondo grado non erano il mio forte.
La prof si fermò dietro alla cattedra e ci appoggiò sopra le mani sporgendosi un po’ in avanti come se non riuscisse a vederci bene.
«Dawson.» Abbaiò. «Alla lavagna.»
Mi irrigidii prima di sospirare: mi sembrava strano che non mi avesse ancora chiamata. Erano passate ben due lezioni senza che mi mandasse al patibolo, era un record. Presi il quaderno, ormai rassegnata, mi alzai e raggiunsi la lavagna. Abbassai lo sguardo sul lavoro che avevo fatto a casa e mi resi conto che peggio di così non poteva andare: la pagina era piena di scarabocchi, testi di canzoni, tentativi di tirare fuori la mia vena artistica troppo nascosta e pochi, troppi pochi numeri.
Cominciai a scrivere la traccia dell’esercizio alla lavagna, il gesso che mi macchiava le dita. Quando venne il momento di svolgerlo mi bloccai sperando in una qualche illuminazione improvvisa o che so io. Ovviamente, non successe niente del genere e io rimasi per cinque minuti buoni ferma lì come una perfetta idiota.
«Vedo che non ha studiato, signorina Dawson. Come pensa di passare continuando così?» Mi riprese la professoressa guardandomi con gli occhi socchiusi.
«Recupererò.» Mi affrettai a dire.
«Mmh.» Fu il suo commento decisamente scettico.
Beh, come darle torto? Quella sarà stata la decima volta che promettevo a me stessa, e a lei, che sarei riuscita a recuperare, eppure non ero migliorata nemmeno un pochino.

Elisabeth, la mia migliore amica, si osservava allo specchio con aria decisamente soddisfatta: aveva appena dato un “taglio drastico” ai suoi capelli, testuali parole.
Ora aveva mezza testa rasata e una cascata di boccoli ramati sull’altro lato. Le stavano bene, devo ammetterlo, e mettevano il risalto il piercing che aveva sul sopracciglio sinistro.
Batté le mani saltellando come una bambina. «Sono stupendi!»
Il parrucchiere, Tom, ghignò. «È un taglio audace e molto, molto di tendenza.» Mi lanciò un’occhiata. «E tu, facciamo lo stesso anche per te?»
Era un ragazzo di circa venticinque anni, magro, alto e un po’ allampanato. Aveva i capelli scuri pettinati all’indietro con un’abbondante quantità di gel, portava un dilatatore per orecchio e un piercing anche al naso. Nel complesso non era brutto, anzi, solo che il suo viso mi ricordava un po’ una volpe o un gatto piuttosto ambiguo e scaltro.
Aveva aperto quel locale con la sua socia, Sophie, ed Elisabeth l'aveva adorato subito definendolo "moderno e alternativo". In effetti era un po' diverso dal parrucchiere dove andavo da piccola: era un ambiente molto ampio e reso lumino dalle grandi finestre che si affacciavano sulla strada. I colori predominanti erano il bianco e l'argento con tocchi di azzurro e rosa posizionati con cura un po' ovunque. Il pavimento era di parquet chiaro, cosa che contribuiva a dare luce a tutta la stanza. Gli specchi posizionati davanti alle postazioni dove si tagliavano i capelli, costituite da comode poltrone di pelle nera dallo stile attuale e minimalista, erano alti da terra fino al soffitto. Era un posto piacevole da vedere, sempre fresco e profumato, ma dava l'idea di essere un po' freddo.
Saltai subito all’erta. «Uh, no, no. Io sono qui solo per… incoraggiamento.»
Inarcò un sopracciglio, poco convinto. «Okay… Come vuoi tu. E comunque adoro il colore dei tuoi capelli.»
Li sfiorai quasi senza rendermene conto. «Oh, grazie.»
Lui mi fece un sorriso parecchio ammiccante prima di tornare a chiacchierare animatamente con Elisabeth.
Distolsi lo sguardo incrociando le braccia al petto: non amavo quelle cose così… femminili quali shopping, trucchi, vestiti e simili. Però non ero neanche un maschiaccio. Semplicemente avevo uno stile mio e lo seguivo in tutto per tutto: in fondo, l’importante era che piacesse a me.
Guardai distrattamente fuori dalla finestra sperando che Beth la finisse presto di comportarsi come una ragazzina esaltata. Con il suo carattere esuberante e pieno di vita non passava mai inosservata. Come se questo non bastasse, la sua passione per la moda che la portava a compiere spedizioni infinite nei centri commerciali contribuiva a renderla molto appariscente. Per esempio, quel giorno aveva scelto di indossare dei pantaloni di pelle nera molto aderenti, una canottiera di tessuto morbido e leggero, stivali neri e una giacca dello stesso colore dal taglio elegante e moderno. L'eyeliner nero e il rossetto rosa completavano il tutto.
In fondo, dovevo ammettere che il suo stile mi piaceva, era audace ma sofisticato, e lei sapeva indossare di tutto, però ero sicura che non sarei mai stata in grado di fare lo stesso. E mi andava bene così.
Un'altra occhiata distratta alla finestra e mi resi conto che si era già fatto buio: la luna spiccava nel cielo scuro, ormai quasi completamente piena, col suo bagliore soffuso. Mi mordicchiai nervosamente un’unghia  fino a sentire il sapore amaro dello smalto nero in bocca. Mi ci erano volute ore per riuscire a mettermelo senza sbavature.
Mancava davvero poco, troppo poco, al plenilunio, un paio di giorni al massimo, e questo mi metteva addosso una grande inquietudine perché era più che vero che la luna piena influenzava i licantropi. Eccome se lo faceva: istinti omicidi, perdita di lucidità, furia incontrollata erano solo alcuni degli effetti che scatenava.
Con la perdita del controllo, poi, rischiavo di fare del male a qualcuno, di uccidere qualcuno. Se l’avessi fatto me ne sarei dovuta andare il più lontano possibile rinunciando a tutto quello che mi ero costruita in diciassette anni. E non potevo assolutamente permettermelo. Per me e per mia madre: cosa avrebbe potuto pensare di una sparizione improvvisa? Conoscendola, avrebbe mobilitato tutti gli agenti di polizia della città, avrebbe contattato il presidente degli Stati Uniti in persona e avrebbe richiesto un'intera squadra dell'FBI per indagare. No, non potevo farle una cosa del genere. 
In fondo, ero riuscita ad evitare di combinare casini per anni, ingegnandomi in mille modi diversi, diventando praticamente un'esperta dei boschi intorno a Seattle, però, come dice il proverbio, c’è sempre una prima volta. E io ero terrorizzata dall’idea che quella prima volta potesse coinvolgere qualcuno a cui tenevo. 





SPAZIO AUTRICE: Penso che ormai sia chiaro che adoro i licantropi. Credo che siano creature affascinanti, complesse e molto interessanti. In questa storia, di nuovo nata per caso, voglio dare ai "miei" lupi mannari delle connotazioni più tradizionali, come si può già cominciare a capire da questo primo capitolo.
Vi anticipo che ci saranno due punti di vista: un capitolo sarà narrato dalla protagonista, Scarlett, e un altro dal protagonista, Adam. L'ho fatto sia perché voglio sperimentare una tecnica nuova per cercare di capire qual è lo stile più adatto a me, sia perché mi servirà avere due narratori più avanti.
Voglio anche avvisarvi che più avanti ci saranno degli accenni ad una coppia slash, ovvero un ragazzo con un altro ragazzo. Non mi ci soffermerò molto, ma mi sembrava giusto dirvelo, anche perché riguarderà un personaggio abbastanza importante.
Spero che questa nuova storia possa piacervi, io mi ci sono già affezionata, sia alla trama che ai personaggi e spero che sarà lo stesso anche per voi.

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Capitolo 2
*** 02. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 2

                                             
                                             
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2. Adam




Mi mordicchiai un labbro cercando di ricordarmi quella dannata formula: le sapevo tutte, anche quelle che non servivano per il compito, perché non riuscivo a farmi venire in mente proprio quella di cui avevo bisogno?
Accanto a me Michael, il mio migliore amico fin dall’infanzia, era messo molto peggio: come al solito si era ridotto all’ultimo per studiare e non sapeva assolutamente niente. Probabilmente aveva tirato a caso tutte le domande della verifica affidandosi ad una fortuna che spesso lasciava a desiderare proprio nel momento del bisogno.
«Adam, ehi, non è che potresti dirmi la risposta alla cinque? E alla sei? E alla sette già che ci sei?» Bisbigliò guardandomi con aria implorante.
«A, B, B.» Risposi in un sussurro.
Ormai era diventato una specie di tacito accordo tra noi: io lo aiutavo con la scuola e lui si ingegnava in tutti i modi possibili per farci partecipare a quante più feste possibili. A dirla tutta non è che mi importasse molto di passare serate su serate in quei locali dove faceva un caldo pazzesco e dove dovevi pagare dieci dollari per qualcosa da bere, ma lui continuava a dire che, se volvevamo lasciare il segno, non avevamo altra scelta. Questa storia non l’avevo mai capita, ma lo lasciavo fare comunque, un po’ per evitare di passare per un asociale, un po’ perché era pur sempre il mio migliore amico quindi dove andava lui andavo io. Più o meno.
«Hai una faccia… Che c’è? Non riesci a fare l’esercizio facoltativo per il mezzo voto in più?» Chiese con un sorrisetto divertito sulle labbra.
Fissai il foglio rigirandomi la penna tra le dita. «No, quello l’ho finito da un pezzo. Non mi viene la formula del quattro.»
«Uh, allora non posso aiutarti, scusa: quella è roba per menti superiori.» Replicò. «Comunque se salti un esercizio non muore mica nessuno.»
Sospirai. «Lo so, lo so. Solo che non riesco proprio a farmela venire in mente… Ed è strano, le altre me le ricordo tutte.»
«Già, come al solito. Prima o poi dovrai spiegarmi come fai.» Commentò.
«Non lo so nemmeno io.» Ammisi. «Solo… Riesco a ricordarmi quello che mi sembra strano. Non importa che cos’è in sé, se mi colpisce te lo saprò ridire anche a mesi di distanza.»
Sollevò le sopracciglia castane. «Vorrei diventare un chirurgo solo per vedere cosa c’è dentro la tua testa, sai? Ci potremmo trovare anche la cura al cancro o chissà cos’altro.»
Scossi la testa sorridendo alla sua ennesima battuta squallida.
«Silenzio!» Tuonò il professor Gessen facendo cessare ogni rumore nell’aula.

Nonostante avessi dei buoni voti la scuola non mi piaceva e, come ogni studente in ogni parte del mondo, non vedevo l’ora di andarmene. Ringraziai il cielo quando suonò la campanella che segnava la fine delle lezioni.
Uscii dalla classe insieme a Michael che sembrava molto esaltato per una qualche festa che si sarebbe svolta quel sabato. A me non sembrava un granché: il posto era piccolo e in un quartiere non proprio tranquillo, e conoscevo abbastanza bene il gruppo che si sarebbe esibito da poter dire che avrebbero fatto meglio a trovarsi un altro modo per passare il tempo. Però Michael diceva che ci sarebbero state un sacco di ragazze, alcune anche parecchio belle. In più, quando si metteva in testa qualcosa, era difficile farlo demordere.
«Verrai, vero? Perché se non vieni anche tu i miei non mi lasciando andare.» Disse inclinando leggermente la testa di lato mentre allungava il passo per starmi dietro.
«Oh grazie, mi fa piacere essere così apprezzato.» Commentai passandomi una mano tra i capelli.
«Andiamo, lo sai che senza di te non sono nessuno, no?» Si affrettò ad aggiungere.
Gli lanciai un’occhiata. «Uhm… Più o meno.»
Quando uscimmo nel parcheggio sul retro della scuola per poco non andai a sbattere contro una ragazza con mezza testa rasata. Indossava un maglioncino viola con uno scollo piuttosto profondo, pantaloni neri molto aderenti, e aveva gli occhi truccati di nero. Mi lanciò un’occhiata di sufficienza mentre mi passava accanto, ma si soffermò su Michael per un attimo di più.
«Allora vieni?» Insistette lui, ignaro di tutto.
«Sì, credo proprio di sì.» Risposi cercando le chiavi dell’auto nelle tasche dei jeans. «Basta che la smetti di parlarne ogni cinque secondi.»
«Okay, okay, non ti dirò più nulla.» Promise alzando le mani in segno di resa.
«Bene.» Borbottai. «Ti serve un passaggio?»
«No, oggi esco con Julia.» Ribatté con un sorrisetto.
Aprii lo sportello sul lato del guidatore. «Sì
? È già il... mmh, quarto appuntamento, giusto?»
Un sorrisetto soddisfatto gli incurvò le labbra. «Eh già. A quanto pare ho fatto colpo.»
Sorrisi anch'io scuotendo la testa. «Allora divertiti.»
Mi diede una pacca amichevole sulla spalla. «Puoi scommetterci.» Alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi. «Ora vado, mi sta già aspettando. A domani.»
«A domani.» Replicai distrattamente.
Lui mi fece un sorriso d’intensa prima di allontanarsi e raggiungere una ragazza mora sorridente e, devo dire, piuttosto carina. Socchiusi gli occhi per ripararli dalla luce del sole e salii in auto: mi aspettava un pomeriggio di studio in vista del compito di storia, il giorno dopo: tanto per cambiare. Probabilmente i professori si mettevano d'accordo per concentrare più verifiche possibili nella stessa settimana. 

Quando scesi dalla macchina dopo averla parcheggiata nel vialetto di casa, qualcosa di peloso e piuttosto pesante mi atterrò tra le braccia. Un secondo dopo mi resi conto che era un grosso gatto dal pelo grigio striato di nero che mi guardava con i suoi acquosi occhi verdi. Miagolò e strofinò la testa sul mio petto.
Lo riconobbi quasi subito: si chiamava Theo ed apparteneva al mio vicino, Matthew.
Un rumore come di vetri infranti mi fece alzare lo sguardo. Giusto in tempo per vedere Theresa, la ragazza di Matthew, che spalancava la porta con un gesto rabbioso e che usciva fuori a grandi falcate con aria decisamente furiosa. Matthew apparve sulla soglia, disordinato e stralunato come sempre.
«Andiamo Tessi, non fare così… Possiamo sistemare tutto.» Cominciò allargando le braccia.
«Sistemare tutto un corno!» Sbottò lei. «Te l’avrò detto mille volte, ma tu non mi ascolti mai! Sei impossibile! E immaturo. Dannazione, hai ventisette anni, non sedici.»
Mi ritrovai a convenire con lei: Matthew sapeva essere parecchio infantile e probabilmente vivere con lui era come vivere con un bambino abbastanza bizzarro. Lui era il tipico ragazzo che dopo il liceo non ha la più pallida idea di cosa fare, finisce per cominciare un college a casaccio per poi lasciarlo dopo qualche mese per inseguire il sogno di diventare una rockstar. Era un atto coraggioso, lo riconosco, ma a ventisette anni è meglio pensare ad un lavoro più… fattibile e realistico.
Matthew fece un passo avanti. «Ma Tessi stiamo andando bene, la banca ha detto che forse mi concederanno il prestito entro fine mese.»
«Sarà la terza volta che lo dici. E alla fine non ottieni un bel niente. Sono stufa di farti da madre. Tra noi è finita, rassegnati. E tieniti il tuo stupido gatto.» Esclamò lei.
Come se avesse capito le sue parole, Theo soffiò irritato inarcando la schiena. Lo guardai prima di riportare lo sguardo su quella specie di scena da soap opera che avevo davanti.
«Tessi…» La implorò lui. «Theo è parecchio intelligente invece. E io ti amo ancora.»
«Visto?! L’hai fatto di nuovo! Metti quel dannato gatto prima di me! Non voglio più vederti!» Ringhiò Theresa.
Senza aspettare una risposta, si voltò e marciò fino alla sua auto, una decappottabile rossa, ci salì e chiuse la portiera con un tonfo così forte che credetti si sarebbe staccata. Partì superando di parecchio il limite di velocità e lasciando dietro di sé i segni delle ruote sull’asfalto, un gatto infastidito e un Matthew decisamente confuso.
Sospirai, chiusi alla meno peggio la portiera della macchina, visto che avevo un felino indisposto in braccio, e andai dal mio vicino scapestrato per rendergli il suo animaletto.
«Credo che questo sia tuo.» Dissi allungandogli quella palla di pelo orgogliosa.
«Theo!» Saltò su lui prendendolo con delicatezza come se fosse stato prossimo al rompersi in mille pezzi. «Quante volte devo dirti che non devi disturbare i vicini?» Alzò lo sguardo su di me. «Scusa, lui odia i litigi…»
«Ho notato… Ma che è successo? Sembrava furiosa.» Domandai.
Lui prese ad accarezzare il gatto che si mise a fare le fusa socchiudendo gli occhi. «Beh, vedi, lei crede che io pensi di più a Theo che a lei e… Non so, credo che mi abbia lasciato.»
A volte avevo la netta impressione che quel ragazzo non ci stesse tutto in fatto di testa. O che non facesse un uso responsabile di alcolici e simili. «Di nuovo? Sarà la… quarta volta.»
«Già. Lei è molto melodrammatica. Ma tornerà vedrai, lo fa sempre.» Commentò, rivolto più a se stesso che a me.
Mi passai una mano fra i capelli. «Okay. Ehm… Io vado, ci vediamo.»
Sollevò la mano in segno di saluto e mi sorrise con quell’aria trasognata tipica dei bambini, poi si mise a parlare con il gatto con voce mielosa. Mi affrettai ad andarmene: non potevo biasimare Theresa per essersene andata. Anzi, la capivo benissimo.
Quando entrai in casa mia, un tornado biondo e piuttosto allegro mi si attaccò alle gambe rischiando di farmi perdere l’equilibrio. Riuscii ad identificarlo dalla voce, acuta e squillante: Lena, la mia nipotina, sembrava parecchio felice di vedermi.
«Zio!» Esclamò ridacchiando.
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Ciao bionda.» Riuscii, non senza difficoltà, a staccarmela dai jeans. «Che ci fai qui?»
«Papà voleva vedere nonna e nonno.» Spiegò sbattendo le lunghe ciglia chiare.
“Da grande avrà un sacco di ragazzi intorno”, pensai. «Louis è qui?»
«In giaddino. Con mamma, nonno e nonna.» Rispose. «Vieni zio?» E mi tese la piccola mano paffuta.
La presi e mi lasciai guidare attraverso il salotto fino alla portafinestra che dava sul piccolo giardino situato sul retro della casa. Il tempo di mettere piede sull’erba e Lena mi mollò la mano per correre da Cora, il cane di famiglia. Era un border collie dal pelo bianco e nero e gli occhi vivaci ed intelligenti. Probabilmente era anche il cane più paziente del mondo visto che riusciva a sopportare una bambina di quattro anni iperattiva e molto, molto affettuosa.
«Adam.» Una voce profonda ed adulta mi riscosse dai miei pensieri.
Alzai lo sguardo e vidi mio fratello, Louis, appoggiato al tavolo di ferro battuto del giardino, che mi sorrideva. Non era cambiato di una virgola dall’ultima volta che l’avevo visto, nonostante fosse stata qualche mese fa: i capelli scuri erano tagliati molto corti, gli occhi chiari erano luminosi come sempre, il viso era perfettamente rasato, indossava dei pantaloni militari verdi, una maglietta di una qualche band degli anni Ottanta e degli anfibi marrone scuro. Teneva le braccia incrociate al petto, gesto che metteva in risalto i muscoli. Posate accanto a lui c’era un paio di stampelle.
Sorrisi cercando di mostrarmi il più a mio agio possibile. «Ehi.»
Odiavo ammetterlo, ma Louis riusciva sempre a mettermi un po’ di soggezione, forse era la sua aria autoritaria e decisa, forse la massa di muscoli che si portava dietro. In fondo, era un militare, non poteva essere altrimenti.
Si era arruolato nell’esercito a diciotto anni rendendo mio padre parecchio orgoglioso. Ora aveva ventotto anni, una moglie, Hanna, una figlia e una bella casa sulla costa Ovest, poco più a sud di Seattle.
«Che piacere vederti!» Esclamò Hanna venendomi vicino e abbracciandomi.
Più che una cognata la consideravo un specie di sorella maggiore. Aveva lunghi capelli biondi, che aveva passato alla figlia, occhi di un bel marrone caldo, la pelle abbronzata e quando sorrideva le si formavano delle fossette sulle guance, altra caratteristica che aveva anche Lena.
Ricambiai la stretta mentre il suo profumo dolce e speziato mi avvolgeva: era una sua caratteristica da sempre, fin da quando la conoscevo si portava dietro quell’odore che ricordava l’anice. «Sono felice di vederti anch’io.»
Si scostò da me e mi osservò con il sorriso sulle labbra. Era bella, devo ammetterlo, e lo era nonostante avesse i capelli scompigliati e indossasse la tipica tenuta da mamma, ovvero jeans, maglietta e scarpe da tennis
«Stai diventando grande anche tu… Come passa il tempo.» Commentò riservandomi un’occhiata affettuosa.
Le sorrisi: con lei mi veniva più naturale, più spontaneo. Non lo sapevo nemmeno io il perché, forse erano semplicemente i suoi modi di fare che mettevano chiunque a suo agio.
«Come è andata a scuola tesoro?» Mi chiese mia madre, Annabeth.
Distolsi lo sguardo da Hanna e lo spostai su di lei: era seduta al tavolo e stava bevendo una bicchiere di tè freddo. Indossava dei pantaloni bianchi e una camicetta rossa. Aveva lasciato i capelli castani liberi sulle spalle fermando solo qualche ciocca che con una pinza nera. I suoi occhi marroni mi studiavano con la tipica attenzione materna mirata a scoprire qualunque cosa tu nasconda.
«Bene, bene… Come al solito.» Risposi.
Lei sollevò un sopracciglio e mi studiò per qualche secondo. «La verifica di chimica?»
Sospirai quasi senza rendermene conto. «Credo sia andata bene. Non era troppo difficile.»
Louis sorrise, divertito. «Chimica, è stata la mia nemica per anni al liceo. Tu te la cavi bene da quello che ho capito, mmh?»
«Beh…» Cominciai.
«Adam se la cava più che bene. Non solo in chimica, in tutte le materie. Ha preso tutto da me, modestamente.» Intervenne mio padre lanciandomi uno sguardo d’intensa.
Mi lasciai sfuggire un sorriso e abbassai lo sguardo. «Più o meno…»
Mio padre, Edward, non faceva mai preferenze tra i suoi figli. Certo, un figlio militare è motivo di orgoglio molto più di uno che va bene a scuola, però non me l’aveva mai fatto pesare. Non potevo lamentarmi di lui, assolutamente, ma avevo qualcosa da ridire sul suo strano senso dell’umorismo.
Cora sbuffò, si alzò scrollando la pelliccia e mi venne vicino sfuggendo alle manine di Lena, che, per ripicca, corse dalla madre e le fece una linguaccia. Dal canto suo, Cora si limitò a sedersi accanto a me strofinando il naso sul mio palmo alla ricerca di qualche carezza. Le grattai le orecchie facendola scodinzolare contenta.
«Come mai siete qui? Non eri in… Iran tu?» Chiesi guardando Louis.
Inarcò un sopracciglio ricambiando l’occhiata. «Sì, ma, come vedi», fece un cenno verso le stampelle, «ho avuto un piccolo incidente e mi hanno congedato finché non mi rimetterò. Ci vorrà un mese, forse due, e visto che Lena voleva rivedere i nonni e lo zio… Abbiamo pensato di fare una visita a sorpresa.»
Lena ridacchiò correndo dal padre e porgendogli una margherita. «Tieni papà.»
Lui cambiò subito espressione diventando dolce di colpo: prese il fiore dalle mani della figlia e le diede un bacio tra i capelli. Faceva un po’ strano vederlo così, di solito era sempre controllato e con la battuta pronta, eppure sembrava che quella piccola peste bionda riuscisse a scioglierlo senza problemi.
Mi passai una mano tra i capelli, un po’ in imbarazzo. «Uh… Io devo andare a studiare, domani ho un compito.»
Tutti gli occhi si puntarono su di me accentuando la sensazione di disagio: non amavo essere al centro dell’attenzione, per niente. Al contrario di Louis.
«Buona fortuna. Anche se non credo che ne avrai bisogno.» Mi disse Hanna con un sorriso quasi complice.
«Grazie.» Risposi accennando un sorriso.
«Zio!» Esclamò Lena correndomi incontro.
Mi inginocchiai e lei mi diede un bacio piuttosto timido sulla guancia.
«Ciao zio.» Mormorò guardandomi da sotto le lunghe ciglia chiare.
«Ciao bionda. Fa’ la brava, mmh?» Replicai prendendole una mano.
Ridacchiò e annuì. «Anche tu però!»
Spalancai gli occhi, sorpreso e divertito. Louis scoppiò a ridere facendo sobbalzare Cora, che, come al suo solito, si era appisolata sull'erba. Hanna scompigliò la chioma bionda della figlia rimproverandola dolcemente. La prese in braccio e mi lanciò un’occhiata di scuse: Lena aveva il vizio di parlare a sproposito, ma, d’altra parte, era solo una bambina, non si poteva farle una colpa se diceva la verità sempre e comunque. E visto che suo padre le aveva ripetuto chissà quante volte che stare troppo vicino ad un ragazzo era pericoloso, da quando mi aveva visto baciare la mia ex ragazza mi ripeteva praticamente ogni volta che ci vedevamo che dovevo “fare il bravo”.
«Le sto insegnando bene, mmh?» Chiese Louis a nostra madre che scosse la testa cercando di trattenere una risata.
Salutai Hanna e Lena e feci per andarmene, ma mio fratello mi richiamò: «Comunque, comportati bene sul serio, chiaro? Non voglio diventare zio prima del tempo.»
Mi sembrava strano che non mi avesse ancora fatto una raccomandazione delle sue. Quelle che ti fanno venir voglia di sprofondare e scomparire per sempre. «Ehm… Sì, okay… Credo.»
Lui mi guardò con gli occhi socchiusi. «Lo spero per te.»
«Louis! Falla finita!» Lo rimbeccò sua moglie scoccandogli un’occhiata ammonitrice.
Lui alzò le mani in segno di resa. «Ehi, io mi sto solo comportando da bravo fratello maggiore.»
Hanna scosse la testa alzando gli occhi al cielo. «No, stai esagerando. Smettila, mmh? Adam è un bravo ragazzo.»
«Prevenire è meglio che curare.» Commentò Annabeth fissando il suo bicchiere.
Presi seriamente in considerazione l’idea di sbattere la testa contro il muro: Louis se le preparava a casa quelle battutine o improvvisava sul momento? Perché non riusciva a comportarsi da fratello normale?
Sospirai. «Lo terrò a mente, sì. Ora devo andare. Ci vediamo.»
Detto questo riuscii finalmente a districarmi da quella strana quanto imbarazzante riunione familiare. Volevo bene alla mia famiglia, un po’ meno, per usare un eufemismo, ai loro commenti.

«Allora, blu o rosso?» La voce di Michael mi distrasse dal libro di storia.
Avevo studiato anche il giorno prima, o meglio ci avevo provato, ma poi avevo lasciato perdere qualcosa come una mezz’ora dopo aver iniziato quindi avevo dovuto ripiegare su un ripasso dell’ultimo momento il biblioteca qualche minuto prima della verifica.
Alzai gli occhi verso di lui aggrottando la fronte. «Cosa?»
Sospirò e mi guardò con aria quasi esasperata. «La camicia per sabato sera: rossa o blu?»
Mi strinsi nelle spalle. «E io che ne so… Blu?»
«Sicuro? Ma il blu non mi dona molto…» Replicò lui.
«Allora rossa?» Chiesi.
«Però il rosso non mi mette in risalto gli occhi…» Commentò lui con aria pensierosa.
«Mettiti una maglietta allora, no?» Gli feci notare.
«No, voglio essere più elegante.» Spiegò.
«Una camicia bianca?» Proposi sperando di poter tornare ad occuparmi della Seconda Guerra Mondiale e di tutti i cambi di potere che ne erano seguiti.
«Perché no…» Concordò. «Ma sì dai, vada per il bianco.»
«Bene.» Borbottai riportando lo sguardo sul libro.
«Che stai facendo?» Domandò Michael allungando il collo per sbirciare.
«Studio storia per il compito.» Risposi distrattamente.
Impallidì di colpo e spalancò gli occhi. «C’è un compito oggi?»
«Eh già. E tu non lo sapevi, mmh?» Indovinai.
Scosse la testa guardandomi con aria disperata. «Come diavolo faccio?!»
«Studio dell’ultimo minuto, funziona quasi sempre.» Dissi facendo un cenno verso il libro.
Mi mise una mano sulla spalle. «Bene amico, sarai felice di sapere che devi farmi un riassunto più che veloce di… Uh, tutto quello che dovevamo studiare, in», lanciò un’occhiata all’orologio che portava al polso, «due minuti. Pensi di farcela?»
Gli lanciai un'occhiataccia. «Michael...»
«Ti prego, ti prego, ti prego.» Insistette lui unendo le mani.
Alzai gli occhi al cielo, ma alla fine cedetti: era una mia debolezza, anche volendo non riuscivo a dire di no alle persone a cui tenevo. E Michael rientrava tra queste, per mia "sfortuna". Non aiutarlo mi sapeva quasi di tradimento anche se sapevo che non era poi così grave: uno spiccato senso della lealtà era una caratteristica che avevo ripreso da mio padre e che condividevo anche con Louis. Probabilmente era l'unica cosa che avevamo in comune.




SPAZIO AUTRICE: Come avevo detto nel primo capitolo, ci sarà una narrazione alternata. Qui, infatti, è Adam a parlare, il protagonista maschile.
Spero che lui vi piaccia, io mi ci sono affezionata molto, come mi succede con tutti i miei personaggi. È piuttosto complesso, riflessivo e controllato fuori, passionale e impulsivo dentro. Entrambi questi suoi lati verranno fuori nel corso della storia, esattamente come succederà con Scarlett. Anche lei si mostrerà sia matura che irresposabile, sia ironica che affidabile.
Spero tanto che la storia vi piaccia e vi incuriosisca nonostante questi primi capitoli di presentazione.
Voglio dedicare questo capitolo ad Hanna Lewis. È una ragazza fantastica, incredibilmente talentuosa e che non smette mai di incoraggiarmi anche se io non vedo, nei miei scritto, tutta la bellezza che ci vede lei. Non credo che finirò mai di ringraziarla per questo. 

TimeFlies
  

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Capitolo 3
*** 03. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 3  


                                         
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3. Scarlett



«Quello è carino.» Commentò Elisabeth facendo un cenno non proprio discreto verso un ragazzo biondo dall’altra parte del parcheggio.
Lanciai un’occhiata distratta nelle direzione che stava indicando. «Uhm… Ho visto di meglio.»
Si arrampicò sullo schienale della panchina dove ci eravamo buttate subito dopo le lezioni sedendocisi sopra come una qualche specie di sentinella. «Beh, quello è ovvio, ma bisogna sapersi accontentare.»
Mi lasciai sfuggire una risata: da un paio d’anni Beth era alla costante ricerca di un ragazzo. Ne aveva trovato qualcuno, ma non avevano mai superato il traguardo dei cinque o sei mesi insieme. Ora la stagione di caccia era aperta, e lei non perdeva tempo: aveva già adocchiato qualcuno anche se per il momento non c’era niente di certo.
Io invece avevo avuto solo storie brevi ed occasionali, superare i due mesi per me era un miracolo. E c’ero riuscita solo una volta con un certo Charlie: due mesi e una settimana. Poi era finito tutto e non mi era sembrata una tragedia, quindi c’ero passata sopra senza troppi problemi.
La licantropia, ovviamente, influiva sulle mie relazioni. Dovevo stare attenta a non correre troppo e ad evitare situazioni troppo "intense" perché al mio lupo interiore serviva poco per scattare: un bacio di troppo e potevo ritrovarmi zanne, artigli e compagnia bella. E avevo ragione di credere che non sarebbe stato facile spiegare ad un ragazzo perché all'improvviso i miei occhi erano diventati color oro o perché gli avevo infilzato la schiena. Grazie al cielo non mi era mai successo, però non abbassavo la guardia: era meglio limitarsi a qualche storia occasionale e non troppo lunga decisamente più facile da gestire.
Beth mi diede un colpetto sulla spalla. «Uh, quello, quello! Guarda.»
Intercettai l’oggetto della sua attenzione: un ragazzo piuttosto alto, con i capelli castani tirati su da un’abbondante quantità di gel, che indossava una maglietta dei Nirvana e dei jeans chiari. Accanto a lui ce n’era un altro con i capelli di un castano poco più scuro scompigliati che si stava mordendo un labbro. Socchiusi gli occhi per osservarlo meglio: jeans scoloriti, maglietta nera con le maniche lunghe tirare su fino al gomito, sorriso carino. Entrambi non erano per niente male.
«Questi te li faccio passare.» Mormorai continuando ad osservarli.
«Carini, eh?» Gongolò lei. «In fondo, ho gusto, non puoi negarlo.»
Ridacchiai. «In questo caso sì, ma di solito sei troppo frettolosa.»
«Disse quella che ci metteva due secoli a trovarsi un ragazzo.» Borbottò.
Le rifilai una gomitata nelle costole dopo essermi seduta sullo schienale accanto a lei. «Io voglio un ragazzo serio, mmh? Non il primo che passa.» La rimbeccai.
Alzò le mani in segno di resa ridendo sotto i baffi. «Oh, scusa, non pensavo che fossi così riflessiva.»
«Andiamo a parlarci?» Aggiunse dopo un po’ facendomi sobbalzare.
«Stai scherzando spero. Ci prenderanno per pazze se andiamo.» Risposi subito sperando di riuscire a farla demordere.
«Andiamo Scarlett, se non rischi non vivi. E poi quello che piace a me ieri l’ho visto con un’altra, quindi devo chiarire la situazione.» Insistette.
«Beh, vai solo tu, no? Io resto qui a farti da… supporto morale.» Inventai lì per lì.
Mi guardò con un sopracciglio alzato. «O vieni anche tu o non se ne fa nulla.»
«Allora credo proprio che sprecheremo quest’occasione.» Replicai stringendomi nelle spalle. «Scusa.»
In tutta risposta lei mi afferrò il braccio e cominciò a trascinarmi verso i due ragazzi con la grazia di un uragano. Puntai i piedi cercando di fermarla, ma quando ci si metteva sapeva essere forte quanto testarda. Anche perché aveva praticato un sacco di sport fino ad un paio di anni prima: rugby, hockey, football, basket… E com’era prevedibile usava questo vantaggio fisico a suo favore.
A dirla tutta, avrei potuto batterla facilmente se solo avessi lasciato che anche un minimo del mio essere lupo si scatenasse. Non lo facevo per paura di farmi scoprire e perché temevo che potesse prendere il sopravvento portandomi a combinare guai parecchio grossi.
«Beth ti prego, devo anche lavarmi i capelli… Non puoi farmi questo.» Mugolai cercando di contrastarla e nello stesso tempo di tenere a bada il mio lato non umano.
«Andiamo Scarlett, ti sto facendo un favore.» Ribatté continuando a tirarmi.
Quando arrivammo più o meno a metà strada, si fermò e socchiuse gli occhi, come un segugio che punta la preda. Io mi massaggiai il braccio che lei aveva praticamente stritolato con la sua stretta ferrea guardandola male.
«Okay, ho cambiato idea.» Annunciò. «Io mi prendo quello con la maglietta nera.»
«E a me toccano i tuoi avanzi, mmh?» Borbottai cercando di darmi una sistemata.
«Ma se hai detto che non ti interessavano…» Commentò lei. «Comunque, ora andiamo.»
Questa volta non mi lasciai cogliere impreparata e sgusciai via dalla sua presa un attimo prima che mi artigliasse di nuovo. «Non oggi.»
«Scarlett!» Esclamò guardandomi con aria implorante.
«No, mi dispiace Beth, ma non vengo. Sì, insomma, sono carini solo che… Lo sai che combino solo disastri quando si tratta di ragazzi.» Ammisi.
Sospirò mettendosi le mani sui fianchi. «Questa è una cosa che devi superare, sai? E credo che quei due siano adatti a noi: non è la prima volta che li vedo insieme, credo siano amici quindi sono perfetti per noi due.»
«Oppure stanno insieme…» Ipotizzai cercando di evitare il suo sguardo.
«Oh andiamo, non distruggermi così! Sono così carini… Ne voglio uno.» Esclamò.
Inarcai un sopracciglio. «Guarda che non sono giocattoli: hanno dei sentimenti e dei bisogni. Se ne prendi uno devi preoccuparti che non gli manchi nulla. Tutti i giorni, non solo quando piace a te.»
Era lo stesso discorso che mi aveva fatto mia madre quando le avevo chiesto un cucciolo. Riadattarlo ad un ragazzo era più semplice del previsto, cosa che confermava molte delle mie teorie riguardo il genere maschile.
«Se prometto che lo farò mi accompagni?» La sua voce era diventata supplicante ed accondiscendente.
La guardai e le mise su l’espressione da cagnolino bastonato: era impossibile dirle di no, per mia sfortuna.
Sospirai lanciandole un’occhiata contrariata. «Okay, okay… Ma che sia l’ultima volta.»
Batté le mani con lo stesso entusiasmo di una bambina. «Grazie, grazie, grazie!»
Alzai gli occhi al cielo mentre lei mi trascinava di nuovo verso quei due poveri ragazzi ancora ignari del pericolo. Però, quando arrivammo sul marciapiede dove si trovavano, erano spariti, completamente scomparsi. Beth si lasciò sfuggire un mugolio di delusione. Le lanciai un’occhiata veloce prima di guardarmi intorno. Individua il ragazzo con la maglietta nera: stava guidando un’auto grigio scuro dirigendosi verso l’uscita del parcheggio. Si stava di nuovo mordendo il labbro con aria pensierosa.
«Sono andati via.» Si lamentò Beth aumentando la stretta sul mio braccio.
Distolsi lo sguardo dal ragazzo e lo riportai su di lei. «Eh già. Siamo arrivate tardi.»
«Domani sarà mio, poco ma sicuro.» Dichiarò sfregando le mani insieme come fanno i cattivi nei film.
«Uh… Se fai così lo spaventi però… Quindi hai deciso quale vuoi?» Chiesi.
Annuì. «Quello con la maglietta nera. Ha un fascino particolare che mi attira, lo ammetto.»
«Bene, è già qualcosa.» Commentai distrattamente.
Mi osservò con un sopracciglio inarcato. «Sabato vieni alla festa?»
«Oh… Certo, sì. Devo trovare qualcosa da mettermi, ma dovrei esserci.» Risposi.
Sorrise con aria soddisfatta. «Bene. Magari ci saranno anche loro…»
«Già… Magari…» Mormorai.

Il vestito nero di raso le stava a pennello, le fasciava il corpo mettendo in risalto i punti giusti. Aveva raccolto i capelli in uno chignon morbido che lasciva alcune ciocche libere di incorniciarle il viso. Al collo si era messa una catenina d’argento con un piccolo cristallo come ciondolo che le illuminava la pelle.
Fece una giravolta su se stessa, perfettamente a suo agio sui tacchi. «Allora? Che ne pensi?»
«Sei una bomba Beth.» Commentai ammirata. «Sul serio, farai un sacco di conquiste.»
Sorrise appena osservandosi nello specchio. «Lo sapevo che prima o poi mi sarebbe tornato utile quest’abito.» Si voltò verso di me con un luccichio malizioso negli occhi. «Ora tocca te.»
Alzai le mani. «Niente gonne per me, grazie.»
Aggrottò la fronte e si sfiorò il mento. «Uhm… Okay, credo di avere qualcosa.»
Si girò e si tuffò nel suo enorme armadio alla ricerca di chissà quale capo d’abbigliamento. Mi chiesi come facesse a stare in piedi con quei tacchi vertiginosi ai piedi.
Mentre aspettava mi guardai intorno: la camera di Beth era un po’ come quelle delle adolescenti nelle commedie romantiche, tutta rosa e lustrini. Il guardaroba era di legno bianco e occupava praticamente l’intera parete. In mezzo alla stanza c’era un letto in ferro battuto coperto da una trapunta viola chiaro. I cuscini invece erano rosa shocking. Il pavimento ai lati del letto ero ricoperto da un morbido tappeto fucsia, magliette, jeans e gonne. Appoggiata alla parete opposta c’era una scrivania di legno chiaro ricolma di libri, vestiti e sciarpe. La maggior parte della luce proveniva da una grande finestra che si trovava sul muro di fronte alla porta.
«Ecco qua!» Esclamò voltandosi di nuovo verso di me. Teneva in mano una canottiera di stoffa morbida e leggera di un bel viola e un paio di pantaloni stretti di… pelle nera? Pensava davvero che me li sarei messi? La sua espressione compiaciuta confermava le mie paure.
Deglutii nervosamente. «Ehm, Beth, mi sembrano pantaloni un po’ esagerati…»
«Guarda che non è pelle vera, è tutto sintetico. E addosso fatto tutto un altro effetto. Credimi ti staranno da Dio.» Replicò porgendomi i vestiti.
Li presi titubante. «Non sei obbligata a darmeli, se vuoi posso usare qualcosa di mio…» “Dimmi di sì, ti prego, morirò di vergogna con quei cosi addosso”, pensai.
«Andiamo Scarlett, se vuoi un ragazzo devi farti notare.» Insistette.
Sospirai rassegnata: mancava troppo poco alla festa, appena un giorno, perché riuscissi a farle cambiare idea quindi ormai era ovvio che mi sarei dovuta vestire in quel modo. Pelle vera o no, non mi sarei mai sentita a mio agio con quella sottospecie di pantaloni addosso.

Tornai a casa a piedi, come sempre visto che non avevo un’auto. Avevo infilato i vestiti di Beth nello zaino e mi sembrava che l’avessero appesantito di dieci chili come minimo: erano troppo appariscenti per me, nonostante fossero di colore scuro.
Litigai per cinque minuti buoni con la serratura prima di riuscire ad entrare. Mollai lo zaino in un angolo e mi lasciai cadere sul divano. Mamma era già ripartita per un altro viaggio e mi ero dimenticata di chiederle quando sarebbe tornata, perfetto. Mi dispiaceva sul serio, le volevo bene, solo che passava più tempo fuori che in casa.
A volte mi sentivo spaesata e sola, ma poi mi dicevo che dovevo essere forte: tutto quello che faceva era mirato a farmi avere una vita dignitosa, non avevo alcun diritto di aggiungere problemi a quelli che già aveva.
Una vocina nella mia mente mi ricordò che dovevo fare i compiti . La zittii senza troppi sforzi: l’ultima cosa che volevo fare era iniziare una guerra con l’algebra. Soprattutto con tutte quelle dannata lettere infilate a caso in mezzo ai numeri.
Mi sdraiai sulla schiena, lo sguardo fisso sul soffitto, un cuscino stretto al petto. Una crepa irregolare attraversava l’intonaco bianco partendo da un angolo della stanza e fermandosi poco più avanti. C’era sempre stata, fin da quando ero piccola e ormai era quasi diventata una certezza, una costante. La consideravo rassicurante da un certo punto di vista proprio perché c’era sempre, qualunque cosa succedesse fuori. Certo, era strano affezionarsi ad una crepa, ma visto che passavo buona parte del giorno da sola, tranne quando uscivo con Beth e con gli altri, non avevo molto altro da fare.
Dopo qualche minuto di riflessioni esistenziali, decisi di provare almeno a dare un’occhiata ai compiti per il giorno dopo. Mi tirai su a sedere, allungai un braccio e presi il libro di matematica dallo zaino. Scorsi velocemente le pagine fino a quella che mi interessava e feci una smorfia vedendo l’interminabile sfilza di numeri e lettere che dovevo affrontare.
Mi passai una mano tra i capelli, gesto che mi ricordò che dovevo lavarli. «Uhm… Come diavolo faccio per il compito?»
Ci avevo provato più e più volte a farle, mi ero fatta aiutare da Beth, che era praticamente un genio in matematica, ma alla fine i risultati non erano cambiati. Probabilmente ero negata per l’algebra, era inutile girarci intorno, non l’avrei mai capita.
Mentre fissavo le pagine del libro, qualcosa attirò la mia attenzione: su un angolo avevo disegnato, in uno dei tanti momenti di noia, una luna piena che spuntava dalle nuvole. Aggrottai la fronte osservandola: mi metteva ansia come sempre anche se stavo imparando a gestirla. Beh, più o meno.
Mi faceva ancora perdere il controllo, ma avevo imparato come fare ad evitare di mettere in pericolo chi mi stava intorno: bastava che mi allontanassi il più possibile da tutti e da tutto. Vicino a Seattle c’erano molti boschi, bastava che andassi lì ed il gioco era fatto. Nonostante questo però, la furia del lupo che c’era in me era forte, sempre presente e temevo di poter far male a qualcuno anche prendendo delle precauzioni. Che poi, in fondo, lasciavano parecchio a desiderare.
Sospirai mordendomi il labbro. E all’improvviso mi tornò in mente il ragazzo che piaceva a Beth: era carino, sì, ma non mi sembrava avesse niente di così spettacolare. C’erano tanti di ragazzi come lui, piacevoli da guardare, magari anche gentili o simpatici, ma finiva lì. “O forse no”, commento una vocina nella parte più remota della mia mente.
L’occhio mi cadde di nuovo sul mio disegno e per poco non mi venne un infarto: il plenilunio sarebbe stato domenica. Un giorno dopo la festa. Questo voleva dire che ne avrei sentito gli effetti. Mentre ero in mezzo ad un sacco di persone. Tra cui ci sarebbe stata anche Beth.
Non potevo andarci, proprio no, dovevo proteggere la mia migliore amica e tutti quelli che sarebbero stati presenti. Però mi serviva una scusa più che inattaccabile per convincere Beth che non ci sarei stata: era testarda e aveva un grande intuito, avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava.
Mi passai una mano tra i capelli, lo facevo sempre quand’ero nervosa, e buttai il libro di matematica da una parte. Presi il cellulare dalla tasca dei jeans e scrissi un messaggio a Beth, sperando che capisse e non facesse domande: “Sabato non posso esserci, mi dispiace… Mia mamma non mi lascia venire, sai, devo recuperare algebra… Divertiti anche per me e fa’ strage di cuori.
La sua risposta mi arrivò poco dopo e, com’era prevedibile, non mi aveva creduto: “Scarlett Marie Dawson, che diavolo stai dicendo?! Tua madre non è neanche in casa adesso. Tu verrai, punto. Andiamo, sarai uno schianto con quei vestiti, e non posso fare conquiste da sola, lo sai. Se non vieni di tua spontanea volontà, ti passerò a prendere a casa e credimi, non sarà piacevole.
Imprecai tra i denti chiedendomi cosa avevo fatto di male per meritarmi una cosa del genere. Far cambiare idea a Beth era come convincere mia madre a lasciar perdere i sari: impossibile. Le scrissi velocemente un messaggio prima di lanciare il cellulare dall’altra parte del divano. Lo fissai torva finché la vibrazione non mi avvertì che avevo ricevuto una risposta da Beth: “Hai solo paura, ma fidati, non hai ne hai bisogno: sarai perfetta. Passo a prenderti io verso le nove e mezzo, okay?
Ero ancora in tempo per tirarmi indietro, potevo fingermi malata, potevo farmi mettere in punizione, potevo nascondermi da qualche parte. Però odiavo comportarmi da codarda quindi… Dovevo affrontare il mio essere lupo e sfidare la sorte sperando di non combinare disastri.
Okay. A sabato.”



SPAZIO AUTRICE: Possiamo dire che in questo capitolo c'è stato il primo "incontro" molto indiretto tra Scarlett ed Adam. Il vero primo incontro avverrà nel prossimo capitolo e sarà piuttosto bizzarro.
In più ho scoperto, diciamo così, che il prestavolto di Adam, Cody Christian, interpreta un licantropo -piuttosto ambiguo a dirla tutta- in Teen Wolf: evidentemente era destino che Adam avesse a che fare con il soprannaturale.
A parte questo, non so davvero come ringraziarvi: quando ho cominciato a scrivere questa storia non mi aspettavo che potesse piacere a qualcuno, né di riuscire a creare personaggi interessanti. Fin dal primo capitolo, invece, mi avete dimosrato molto entusiasmo e curiosità e questo mi ha reso felicissima.
Grazie mille, sul serio.

TimeFlies

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Capitolo 4
*** 04. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 4



                                         
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4. Adam



Se c’era una cosa che odiavo era il traffico alle sette e mezzo di mattina. Già quella si prospettava come una pessima giornata, ci mancava solo che arrivassi tardi a scuola e perdessi l’ora di letteratura. Anzi, a dirla tutta non mi sarebbe dispiaciuto poi così tanto, solo che il professore aveva un modo tutto suo di vendicarsi per ritardi o per i compiti non consegnati: quando ti mandava alla lavagna, e sapevi che sarebbe successo di lì a poco, ti avrebbe fatto domande impossibili e sarebbe stato tremendamente restio a darti la sufficienza.
Tamburellai nervosamente sul volante sperando che quel dannato semaforo diventasse verde. Avrei tanto voluto sapere chi era il genio che aveva deciso di mettere così tanti semafori di fila in un’unica strada. Probabilmente qualcuno che guidava poco. Oppure avevano semplicemente tirato a sorte. Ero più propenso per la seconda ipotesi.
Quando finalmente l’auto davanti a me decise che la luce del semaforo era abbastanza verde e ripartì, ero piuttosto sicuro che sarei arrivato come minimo con mezz’ora di ritardo. Tutto per colpa della sveglia che non era suonata, di Cora che mi aveva assillato finché non le avevo dato da mangiare, della scomparsa del libro di storia, e a mia madre che si raccomandava di non andare troppo veloce. E poi il giorno dopo sarei dovuto andare a quella stupida festa con Michael. L’idea non mi entusiasmava, non sapevo neanche io il perché, solo avrei preferito evitare di andarci. Però gli avevo promesso che ci sarei stato, non potevo tirarmi indietro all’ultimo minuto. O forse sì?

 Alla fine ero riuscito ad entrare in classe un attimo prima del suono della campanella, risparmiandomi un brutto voto assicurato. Non avevo idea di come avevo fatto ad arrivare in orario, probabilmente era stata tutta fortuna combinata all’infrazione del limite di velocità. In più dovevo aver evitato qualche segnale di stop e ignorato qualche semaforo.
Il professore, dopo averci fatto correggere gli esercizi per casa, si era seduto dietro alla cattedra e ci guardava con quei suoi occhi grigi. La sua espressione ricordava quella di un avvoltoio che sta per tuffarsi in picchiata sulla preda.
«Vi ho riportato le verifiche.» Annunciò dopo qualche secondo di tensione.
Nella classe si diffuse un mormorio nervoso: conoscendolo, i voti non sarebbero stati un granché. Per nessuno.
Sospirai pensando a quanto avrei dovuto studiare se avessi preso un’insufficienza: non avevo voglia di farlo e non credo l’avrei mai avuta.
Il prof chiamò uno studente della prima fila, che si avvicinò titubante alla cattedra. L’insegnate lo studiò per un attimo prima di mettergli in mano dei fogli.
«Consegnali.» Disse secco prima di infilarsi gli occhiali e mettersi a leggere un documento.
Il ragazzo sbatté le palpebre per poi cominciare a distribuire i compiti. Quando si avvicinò al banco di Michael, il mio migliore amico quasi gli strappò la verifica di mano anche se poi distolse lo sguardo e la tese verso di me.
«Guarda tu, io non ho il coraggio di farlo.» Disse con fare esageratamente teatrale.
Alzai un sopracciglio, un po’ interdetto, ma non feci commenti. Diedi un’occhiata al foglio e annuii appena. «Non è così male, dai.»
Si ostinava a non guardare. «Dimmi il voto, Meyers.»
«D +.» Risposi.
Si voltò verso di me con un’espressione incredula sul viso. «Sul serio? È un voto in più rispetto all’altra volta!»
«Uh, complimenti.» Commentai.
Lui abbassò gli occhi per un attimo e fece una smorfia contrariata. «Beh, non tutti possono essere dei geni, sai?»
Inclinai appena la testa di lato, confuso, poi seguii la direzione del suo sguardo: sul mio banco c’era il mio compito, un’A - campeggiava su un angolo subito sopra la firma del professore. «Oh…» Mormorai.
Michael incrociò le braccia al petto guardandomi con aria critica. «Già. Sarà la quarta questo mese: mi spieghi come diavolo fai?»
«Non lo so, te l’ho già detto un sacco di volte.» Replicai.
Si appoggiò con la schiena alla sedia. «I tuoi saranno felici, mmh?»
«Credo di sì. I tuoi invece come l’hanno presa la F della settimana scorsa?» Chiesi osservandolo.
Arricciò il naso. «Questo è un tasto dolente amico. Ho dovuto pregarli in ginocchio per farmi dare il permesso per domani. E vogliono che prenda ripetizioni.»
«Di che materia?» Domandai.
Ci pensò su per un attimo. «Uhm… Tutte più o meno.»
Spalancai gli occhi. «Come farai a passare? È vero che è solo il primo semestre, ma… Così tanti debiti sono praticamente impossibili da recuperare.»
Ghignò divertito. «Tu sottovaluti il mio potere.»
«Oppure sei tu che ti sopravvaluti, ci hai mai pensato?» Gli feci notare.
Si strinse nelle spalle. «In ogni caso sono migliorato in letteratura, è un bel traguardo.»
«Non è ancora sufficiente però. Non pienamente almeno.» Ribattei.
Si sporse verso di me. «Sei pessimista Adam Meyers. Molto, molto pessimista.»

Non riuscivo a credere che mi avesse convinto ad accompagnarlo da sua nonna che, per un qualche strano motivo, abitava praticamente in mezzo ai boschi. E non parlo di una casa in periferia, no, proprio una villa in stile vittoriano in mezzo ad una foresta.
Suo marito era stato un uomo d’affari molto, molto ricco e un amante dello sfarzo. Quando era morto, tutti i suoi soldi e i suoi possedimenti erano passati alla moglie, che aveva deciso di averne abbastanza dell’aria di città e si era trasferita nel bosco.
Quando avevo chiesto a Michael perché dovesse andare da lei, si era limitato a stringersi nelle spalle dicendo che era il compromesso che aveva raggiunto con i suoi genitori: se avesse passato la serata con sua nonna sarebbe potuto andare alla festa di sabato.
«Per una festa ti chiudi in una casa in mezzo al niente? Che, per inciso, è uguale identica a quelle dove nei film muoiono tutti.» Avevo commentato.
Lui però era stato irremovibile: voleva andare a quella stupida festa in tutti i modi. Avevo deciso di accontentarlo anche per rimandare lo studio delle dieci pagine di scienze che mi aspettavano appena fossi tornato a casa.
La villa di sua nonna era circondata da una siepe scura e fitta e l’unica entrata al cortile -perché sì, c’era anche un cortile enorme- era costituita da un grosso cancello in ferro battuto che sembrava piuttosto minaccioso.
Fermai l’auto lì davanti e osservai la casa. «Uhm… Allora ci vediamo domani. Se sarai ancora vivo.»
Mi guardò con aria contrariata. «Ah-ah, molto divertente sì. E, ripeto, sei pessimista.»
Alzai le mani in segno di resa. «Ehi, dico solo la verità. Insomma, non sembra un posto molto accogliente. E poi deve costare una fortuna tra affitto, bollette e simili, no?»
Scrollò le spalle. «E io che ne so? Comunque questa casa appartiene alla mia famiglia da un sacco. Mia nonna ne ha preso possesso perché odia la città, ma quando… uh, quando passerà a miglior vita sai che feste pazzesche ci si possono fare?»
«Pensi solo a quello tu?» Domandai.
«Beh, sì. Sai, io guardo avanti.» Dichiarò. «E dovresti farlo anche tu.»
«Lo terrò a mente.» Promisi senza pensarlo veramente.
«A domani allora. E tieniti pronto, ci saranno un sacco di belle ragazze.» Aggiunse con un sorrisetto ad increspargli le labbra.
«Immagino… A domani.» Risposi.
Mi fece un cenno d’assenso prima di scendere dalla macchina e chiudere lo sportello. Gli lanciai un’ultima occhiata prima di imboccare la strada sterrata che portava alla tangenziale.
Una cosa tipica di Seattle è il clima non proprio favorevole. E come potrebbe essere altrimenti visto che si trova praticamente all’estremo nord degli Stati Uniti? Quando si avvicinava l’inverno faceva buio in fretta e la temperatura calava di diversi gradi.
Accesi il riscaldamento dell’auto maledicendomi per non aver preso una felpa quella mattina: a volte mia madre aveva ragione quando mi diceva di fare qualcosa.
La strada era praticamente deserta ma, d’altra parte, chi è così pazzo da andare in mezzo ad un bosco alle sette di sera? Sarebbe stato strano anche in altri orari, però in quel momento mi sembravo parecchio fuori posto. Mi morsi il labbro tamburellando distrattamente sul volante. In quel punto non prendeva neanche la radio, era praticamente sperduto, lontano anni luce dalla civiltà. O forse stavo esagerando io? A volte avevo il vizio di divagare un po’ troppo.
Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino senza prestare veramente attenzione a quello che vedevo, anche perché c’erano solo alberi, abeti e pini, che costeggiavano tutta la strada. Formavano un fitto muro verde scuro che non sembrava molto ospitale.
Lei sbucò fuori dal nulla cogliendomi completamente di sorpresa. Non so nemmeno io come feci a non prenderla in pieno. Inchiodai in qualche modo, il muso dell’auto che con ogni probabilità le sfiorava le gambe.
Mi ritrovai con il fiato corto, i muscoli in tensione e lo sguardo puntato sul volante. Sbattei le palpebre e alzai gli occhi incontrando i suoi che mi studiavano con rabbia più che evidente. “Perché diavolo è arrabbiata?”, pensai ritrovando la lucidità. Anzi, più che rabbiosa sembrava infastidita, come se avessi interrotto qualcosa di importante. Ma cosa poteva fare di così importante in mezzo ad un bosco?
Scesi dall’auto lasciando lo sportello aperto e feci qualche passo verso la ragazza che mi stava davanti. Non era minimamente intimidita, né scossa o qualunque cosa dovrebbe essere qualcuno che è stato quasi investito. Teneva la testa alta con il mento sollevato in segno di sfida. Aveva i pungi stretti così tanto che le nocche le erano diventate bianche. Questo e la mascella serrata tradivano una certa tensione.
Indossava dei jeans un po’ sbiaditi, una maglietta grigia, un cardigan rosso scuro di lana piuttosto pesante e degli anfibi neri. Aveva i capelli molto lunghi, castani e leggermente ondulati, lasciati sciolti sulle spalle. Alcune ciocche le incorniciavano il viso ammorbidendo gli zigomi. I suoi occhi erano di un marrone intenso ed uniforme. Nel complesso il suo viso era carino, dai tratti morbidi e… dolci, in un certo senso.
«Stai bene?» Riuscii a chiedere.
«Perché non dovrei?» Replicò lanciandomi un’occhiata sprezzante.
Rimasi interdetto per un attimo, confuso e sorpreso. «Forse perché ti ho quasi investito? Non mi sembra una cosa da niente.»
Alzò gli occhi al cielo. «Sì, sto bene. Contento?»
«Non è una questione di felicità, okay? Ci è mancato poco perché ti mettessi sotto, sono preoccupato per te.» Sbottai.
Lei non si scompose minimamente. «Non so se l’hai notato, ma non ci conosciamo neanche.»
La osservai meglio: c’era qualcosa di lievemente familiare in lei, come se l’avessi già vista da qualche parte, magari solo di sfuggita. «Sì, invece. Tu vieni nella mia stessa scuola, giusto? Terzo anno anche tu.»
Si strinse nelle spalle. «E allora?»
Parlare con lei mi lasciava a bocca aperta: sembrava che non le importasse di niente né di nessuno, nemmeno di se stessa. E pareva avercela con il mondo. «Lascia perdere… Sei sicura di stare bene? Non vuoi, che so, sederti o… bere qualcosa?» Tirai fuori le prime idee che mi vennero in mente, anche se lasciavano un po’ a desiderare.
«Sto benissimo. E no, non voglio assolutamente niente. Puoi anche andartene per quel che m’importa.» Ribatté.
«Quindi dovrei lasciarti in mezzo ad un bosco? Di sera? Da sola?» Ero incredulo: ma che aveva in testa? Aria?
«Sì, esatto. Non è difficile da capire.» Confermo inclinando leggermente la testa di lato.
«No, ma… Non ha senso. Che diavolo ci fai qui, in mezzo ad una foresta?» Domandai studiandola: era tranquilla, magari giusto un po’ tesa, ma niente di che. Sembrava a proprio agio, infastidita dalla mia presenza, però comunque sicura di sé.
«Non sono affari tuoi, chiaro?» Ringhiò facendosi improvvisamente aggressiva.
Era scattata sulla difensiva senza un motivo apparente, come se avessi toccato un punto scoperto. Stava fuggendo? Aveva fatto qualcosa di sbagliato o illegale? Era semplicemente una pazza scappata da un manicomio?
«Okay. Lascia almeno che ti riaccompagni a casa.» Proposi cercando di usare un tono accondiscendente, calmo.
Un sorrisetto beffardo le incurvò le labbra. «Perché dovresti?»
«Perché è pericoloso stare in mezzo ad una foresta, sai? Sì, insomma, ci sono animali feroci, fa freddo… non è sicuro.» Spiegarlo mi sembrava inutile, però non volevo darle contro in modo troppo aperto.
«Tecnicamente io sono in mezzo ad una strada che è in mezzo ad un bosco.» Mi fece notare inarcando le sopracciglia e inclinando la testa di lato.
«Rimane sempre un posto pericoloso. Senti, non farò domande, dimmi solo dove devi andare e ti ci porto. Ovviamente se non devi uscire dalla città.» Replicai.
«Vuoi fare una buona azione, mmh? Beh, mi dispiace, ma no. Sto benissimo qui dove sono.» Rispose.
«Non voglio fare l’eroe della situazione, ma non me la sento di lasciarti qui da sola.» Ammisi.
Incrociò le braccia al petto. «Qual è la parte che non capisci di “vattene, non voglio niente”?»
«Non riesco a trovarci un senso, okay? Perché sei in mezzo ad un bosco, tanto per cominciare? E per quale motivo vuoi rimanerci?» Domandai al limite dell’esasperazione.
Serrò la mascella e vidi i suoi occhi farsi più cupi. «Non sono affari che ti riguardano, te l’ho già detto. Quindi sparisci.»
Pensai di star sognando. E avevo validi motivi per esserne convito: era impossibile che una ragazza fosse così determinata a voler rimanere in una foresta. «Almeno puoi darmi una spiegazione valida?»
Mi guardò male. «No. Perché dovrei farlo? Quello che faccio della mia vita non ti riguarda.»
«Vuoi startene da sola in mezzo al nulla? Bene, perfetto. Divertiti.» Sbottai.
«Finalmente l’hai capito…» Borbottò a mezza voce.
Mi voltai, salii in auto e sbattei lo sportello. Avevo il fiato corto, di nuovo, e mi tremavano le mani. Sospirai e le chiusi a pugno cercando di calmarmi: in pochi minuti quella ragazza era riuscita ad esasperarmi e farmi arrabbiare dicendo sì e no dieci parole, visto che il concetto era sempre lo stesso.
Afferrai il volante cercando di convincermi che era la cosa non proprio giusta ma neanche così sbagliata da fare. Purtroppo, c’era una parte di me che non era sicura e mi impediva di andarmene.
Abbassai il finestrino e richiamai la ragazza che, nel frattempo, stavo cominciando ad allontanarsi. «Ehi, senti, sei proprio sicura di non volere un passaggio?»
Qualcosa mi diceva che se non l’avessi portata da qualche parte al sicuro non sarei stato in pace con me stesso. Ed era una cosa estremamente fastidiosa.
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. Sembrava sorpresa e decisamente più rilassata. Era piuttosto lunatica, cambiava umore ogni cinque secondi. «Che ore sono?»
Rimasi incantato a guardarla per un attimo prima di riscuotermi, prendere il cellulare dalla tasca dei jeans e controllare l’orario. «Le sette e un quarto.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Uh… Forse uno strappo potrebbe farmi comodo. Forse.»
Mi sentii più tranquillo per un qualche strano motivo. «Beh, io sono disponibile.»
“Non è che abbia molta scelta, sai? Ci sei solo tu…”, mi fece notare una vocina dentro di me. Socchiuse appena gli occhi studiandomi.
«D’accordo.» Cedette dopo qualche secondo di esitazione. Si avvicinò di qualche passo fino a trovarsi a meno di un metro dall’auto. «Certo che sei insistente, eh?»
Sorrisi senza neanche rendermene conto. «È nella mia natura, non posso farci niente.»
Aggrottò la fronte e inclinò appena la testa di lato prima di fare il giro della macchina. La sentii borbottare qualcosa riguardo il sarcasmo e i ragazzi mentre apriva lo sportello sul lato passeggero e si sedeva accanto a me.
«Dove abiti?» Chiesi osservandola: teneva la testa leggermente china, i capelli le ricadevano ai lati del viso nascondendolo, si torturava le mani in grembo e aveva le spalle appena incurvate.
Alzò lo sguardo verso di me. Sembrava essere diventata improvvisamente tesa, quasi come un animale messo all’angolo. Poi si rilassò e fece un respiro profondo. Dentro di me la definii l’incarnazione della parola “lunatico”.
«Pike Street, numero 22.» Sussurrò mordendosi il labbro.
«Okay. Non è lontano da dove sto io.» Dissi annuendo.
Mi guardò per un attimo. «Bene.»
Misi in moto l’auto e partii. Cercai di concentrarmi il più possibile su quello che stavo facendo, nonostante la presenza della ragazza mi distraesse abbastanza. Nessuno di noi disse una parola finché rimanemmo in tangenziale. Lei si era messa ad guardare il paesaggio fuori dal finestrino con aria assorta e sembrava essersi dimenticata della mia esistenza. Io mi stavo imponendo di mantenere lo sguardo fisso sulla strada anche se avrei preferito cercare di capire cosa ci faceva lei in mezzo ad un bosco.
Quando entrammo in autostrada trovai il coraggio di parlare: «Comunque, io sono Adam.»
Le lanciai un’occhiata veloce e per un secondo incrocia i suoi occhi marroni, sospettosi ma anche interessati.
Si infilò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Io sono Scarlett.»



SPAZIO AUTRICE: Finalmente Adam e Scarlett si sono incontrati. In modo un po' strano, ma l'hanno fatto. Lei si è messa subito sulla difensiva, com'è sua abitudine fare quando qualcosa non va come previsto. Adam, invece, è incuriosito da questa ragazza così lunatica e misteriosa. Entrambi sono rimasti colpiti l'uno dall'altra, e questo potrebbe complicare le cose.
Volevo avvisarvi che starò via dal 28 luglio al 16 agosto: non riuscirò ad aggiornare in questi giorni, ma vedrò di farlo appena torno.
Detto questo, vi ringrazio ancora per l'entusiasmo che dimostrate nel seguire questa storia.

TimeFlies

 

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Capitolo 5
*** 05. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 5



                                         
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5. Scarlett



Che diavolo mi era saltato in mente?! Perché ero stata così scorbutica e rabbiosa? Dannazione, mi stavo rovinando con le mie stesse mani. E non potevo assolutamente permettermi di farlo.
L’avevo riconosciuto subito, appena aveva alzato lo sguardo dopo avermi quasi investita: era il ragazzo che avevo visto a scuola con Beth proprio quel giorno, lo stesso ragazzo che la mia migliore amica era determinata a conquistare.
Si era mostrato preoccupato e anche un po’ confuso, ma, d’altra parte, come dargli torto visto che mi ero comportata come una psicopatica?
Visto da vicino era ancora più carino: capelli castani arruffati, probabilmente perché ci passava troppo spesso le mani, labbra chiare e quasi sempre leggermente schiuse, mascella un po’ squadrata ma non troppo. E poi c’erano gli occhi, di un colore indefinito tra il blu e il grigio uguale a quello che ha il cielo poco prima che si scateni un temporale.
Indossava dei jeans scuri, una maglietta grigia e una felpa nera. Non sembrava uno di quei ragazzi fissati con l’aspetto fisico, non era uno di quelli per cui prima viene l’apparire poi l’essere. E questo era decisamente un punto a suo favore. Casomai avessi deciso che poteva interessarmi. Però, anche se avessi preso seriamente in considerazione l’idea di provarci con lui -possibilità molto, molto remota-, non avrei potuto farlo: primo perché piaceva a Beth e quindi non potevo mettermi in mezzo visto che lei era arrivata prima; secondo mi ero comportata da pazza lunatica e per questo probabilmente mi aveva fatto perdere un sacco di punti in partenza. Ero abbastanza certa che lui mi considerasse una schizzata fuggita da un ospedale psichiatrico. E come dargli torto visto il mio comportamento più che bizzarro?
Quando aveva accostato davanti a casa mia ero rimasta per un intero minuto a fissarmi le gambe giocherellando con un buco nella manica del cardigan come avevo fatto praticamente per tutto il viaggio. Non l’avevo guardato neanche quando mi aveva chiesto a che numero abitassi, mi ero limitata a rispondere automaticamente senza nemmeno pensarci. Solo quando lui si era schiarito la gola mi ero decisa ad alzare lo sguardo e avevo incrociato i suoi occhi grigio-blu che mi studiavano.
«Siamo arrivati.» Aveva detto prima di mordicchiarsi il labbro.
Lo faceva spesso, quasi fosse stato un tic nervoso, un’abitudine, un modo per sfogare la tensione. Involontariamente mi ero ritrovata a farlo anch’io. Grazie al cielo me n’ero accorta dopo un secondo e avevo smesso di farlo. Avevo lanciato un’occhiata fuori dal finestrino e avevo constatato che sì, in effetti eravamo di fronte alla piccola, o meglio minuscola, villetta -anche se definirla così mi sembrava un’esagerazione- dove vivevo.
Mi ero voltata verso di lui ed ero finita di nuovo per perdermi nel cielo tempestoso che erano le sue iridi. «Uhm… Sì… G-grazie.»
Aveva annuito appena e mi aveva fatto un piccolo sorriso incentro. «Figurati.»
“Ora dovresti scendere, per salvare almeno le ultime apparenze”, mi aveva suggerito una vocina nella mia mente. L’avevo assecondata subito, anche se, purtroppo, non avevo il pieno controllo dei miei movimenti: avevo aperto la portiera con mani tremanti e non ero riuscita a trattenermi dal lanciargli un’ultima occhiata di sottecchi prima di scendere. Inevitabilmente i suoi dannatissimi occhi color tempesta mi avevano beccata e aveva inibito ancora di più le mie già scarse facoltà mentali.
Ero riuscita a scendere dall’auto per puro miracolo reggendomi a stento sulle gambe. Avevo chiuso la portiera cercando di abbozzare un sorriso e sapevo, nel momento esatto in cui ordinavo alle labbra di incurvarsi, che sarebbe stato un disastro. Lui però l’aveva ricambiato lo stesso infondendo qualcosa di dolce in quel gesto tanto semplice. Una parte di me definì quel qualcosa pietà, e dovetti ammettere che c’erano buone possibilità che fosse vero.
Se n’era andato lasciandomi confusa e piena di dubbi sul marciapiede. “E ora che faccio?”, avevo pensato scoraggiata. Ero stata ad un passo dal farmi scoprire per ciò che ero realmente. E con chi, se non con il ragazzo che piaceva alla mia migliore amica? Cominciavo a chiedermi se ci fosse una qualche divinità che ce l’aveva con me perché l’avevo insultata un po’ troppe volte dandole la colpa delle mie piccole, e molto numerose, disgrazie quotidiane.
Quel pomeriggio avevo deciso di uscire per cercare un posto dove passare la notte del plenilunio: lo facevo tutte le volte, provavo a non andare nella stessa zona per evitare di far nascere sospetti e per cercare di non distruggere troppi alberi. Perché sì, ogni tanto mi capitava di perdere il controllo e fare concorrenza ai produttori di segatura. Per questo dovevo ringraziare i miei bellissimi, quanto difficili da nascondere, artigli.
Purtroppo mi ero trattenuta un po’ troppo ad osservare il sole che calava lento sull’orizzonte quindi avevo dovuto recuperare il tempo perso correndo. E quasi finendo sotto l’auto di Adam. Da quel momento era andato tutto degenerando: la paura di essere scoperta mi aveva resa scontrosa e lunatica e le sue continue insistenze non avevano aiutato. Anche se, tutto ciò che aveva fatto lui era in buona fede e mirato ad aiutarmi.
In qualche modo ero riuscita ad aprire la porta, facendo cadere le chiavi come minimo una decina di volte, ed ora mi ritrovavo in mezzo al salotto con le mani nei capelli e un senso d’angoscia incredibilmente soffocante nel petto: c’era mancato un soffio perché Adam capisse cos’ero. C’era mancato un soffio perché la mia intera vita venisse irrimediabilmente rovinata. C’era mancato un soffio perché tutti i miei sforzi venissero annullati.
“Sei irresponsabile”, mi rimproverò una vocina nella mia mente. Dovetti ammettere che aveva ragione. Molta, troppa ragione.
«Non posso andare alla festa… Non posso proprio…» Mi dissi.
Guardai il cellulare, che avevo buttato sul divano, combattuta: non mi andava di dare buca a Beth, ma non potevo neanche permettermi di rischiare tanto passando la notte prima della luna piena in mezzo a così tante persone.
Mi mordicchiai il labbro maledicendomi per la mia poca attenzione e per la facilità con cui mi facevo distrarre da cose banali come i tramonti. Non ero neanche una tipa romantica, quindi non mi spiegavo perché mi ero persa dietro al ciclo del sole. Feci un respiro profondo e cercai di fare il punto della situazione. E qual è il modo migliore per farlo? Parlare ad alta voce, ovviamente.
«Se sabato vado a quella stupida festa rischio di ammazzare qualcuno, se non ci vado Beth mi uccide, quindi, che diavolo devo fare?» Chiesi ad un immaginario interlocutore. Da una parte avevo voglia di uscire e rilassarmi un po’ anche se sapevo che sarebbe stato pericoloso, dall’altra il mio buon senso mi urlava di non essere egoista e di pensare a tutte le persone che sarebbero state con me quel giorno.
«Uh… Ma sì, in fondo non farò male a nessuno, la paura è tutta nella mia testa. Io a quella dannata festa ci vado.» Decisi annuendo soddisfatta.
“Pessima idea”, commentò una parte di me. In fondo sapevo che aveva ragione, se non completamente quasi, ma non potevo farmi condizionare così tanto dal mio essere lupo. Suonava un po’ irresponsabile alle mie stesse orecchie, ma, ehi, avevo solo diciassette anni, non potevo pretendere di essere matura e giudiziosa… Giusto?

Alla fine i pantaloni di pelle non si erano rivelati essere così male. Mi mettevano ancora un po’ a disagio, però avevo deciso di mettere da parte le mie insicurezze per provare a distrarmi almeno per una sera. E magari per trovare un ragazzo.
Avevo scelto di indossare gli anfibi sia perché non avevo scarpe col tacco sia perché non avrei saputo come camminarci. La canottiera di Beth aggiungeva un tocco femminile e sofisticato, credo, al tutto e devo ammettere che mi sentivo abbastanza attraente.
Avevo raccolto i capelli in uno chignon alto e fermato le ciocche ribelli con una notevole quantità di forcine. Riguardo al trucco ero stata più in difficoltà: non mi piaceva né mi riusciva usarlo, però volevo rendermi carina e presentabile quindi dovevo fare uno sforzo e cercare di non sembrare un panda.
Dopo qualcosa come un centinaio di tentativi, e altrettanti dischetti di cotone imbrattati, ero finalmente riuscita a disegnare una linea di eyeliner decente sulla palpebra. Mi metteva in risalto gli occhi, cosa che non credevo possibile, a dirla tutta, visto che erano di un comunissimo marrone. Aggiunsi un po’ di mascara per dare un tocco in più e coprii qualche imperfezione della pelle con del fondotinta.
«Non sembro nemmeno io…» Commentai guardandomi allo specchio.
Mi mordicchiai il labbro osservando il mio riflesso: forse non sarebbe andata così male, insomma, potevo controllarmi e riuscire a passare una bella serata. Se ci fossi riuscita sarebbe stata la prova del fatto che potevo vivere la mia vita e gestire il mio essere lupo. Questo poteva darmi una possibilità di crearmi un futuro degno di questo nome, magari andare al college, viaggiare… Fare qualcosa di completamente mio.
Qualcuno suonò il campanello con un po’ troppa insistenza, quasi gli si fosse incollato il dito al pulsante. Scossi la testa riconoscendo il modo di fare di Beth. Infilai il cellulare nella tasca dei pantaloni insieme alle chiavi di casa e scesi al piano di sotto.
Quando aprii la porta mi ritrovai davanti una ragazza incredibilmente sorridente: Elisabeth era semplicemente perfetta nel suo vestito di raso nero e i tacchi le facevano delle gambe da urlo. Aveva lasciato i capelli sciolti sulle spalle in modo che le incorniciassero il viso e mettessero in risalto il piercing al sopracciglio. Il trucco era davvero ben fatto: ombretto blu notte sfumato sulle palpebre, mascara blu elettrico e rossetto rosa scuro. Sembrava una modella appena uscita da una sfilata.
«Pronta per fare festa?» Chiese con uno scintillio malizioso negli occhi.
«Oh sì, puoi contarci.» Mi stupii della mia stessa sicurezza.
«Sei uno schianto Scarlett.» Commentò studiandomi.
«Non quanto te, ma grazie.» Replicai sorridendo.
Ridacchiò. «Beh, sai, la classe non è acqua.»
Scossi la testa mentre mi chiudevo la porta alle spalle. «Sei sempre la solita.»
«Se intendi sempre la migliore ti do ragione.» Ribatté scendendo elegantemente le scale nonostante quei trampoli che aveva ai piedi.
La sua auto era parcheggiata davanti a casa mia: era un SUV grigio metallizzato un po’ vecchio ma comunque più che funzionante. Beth si sedette al posto di guida, mentre io presi posto accanto a lei.
Lanciai un’occhiata perplessa alle sue scarpe paurosamente alte. «Come fai a guidare con quelle?»
Scrollò le spalle. «Non lo faccio.» E si sfilò i tacchi per poi farmi l’occhiolino. «Noi donne dobbiamo saperci adattare.»

Il locale era piuttosto piccolo, buio e molto affollato. C’era un sacco di gente sia al bar che sulla pista da ballo. Le ragazze indossavano abiti striminziti al limite dell’accettabile e scarpe con tacchi concepiti per sfidare la gravità. Per quanto riguardava i ragazzi c’era chi si era mantenuto sul classico scegliendo jeans con una maglietta o una camicia, e chi aveva decisamente esagerato: sembrava impossibile anche a me, ma avevo visto pantaloni argentati, maglie strappate messe peggio dei miei jeans, e da qualche parte avevo intravisto qualcosa di rosa.
«Non credevo ci fossero così tante persone.» Commentai guardandomi intorno.
«Il gruppo che suona è molto conosciuto. E il cantante è qualcosa di meraviglioso.» Rispose Beth studiando un ragazzo dai capelli rossi poco lontano da noi.
«Uhm…» Mormorai distrattamente: ero troppo impegnata a cercare un’uscita veloce e nascosta. In caso di bisogno, se il mio essere lupo fosse diventato incontrollabile, me ne sarei dovuta andare subito quindi era meglio avere un piano di fuga ben congegnato.
«Vado a cercare il ragazzo del parcheggio. Vuoi unirti?» Mi chiese la mia migliore amica.
«No, credo che andrò a prendere qualcosa da bere.» Replicai.
«Okay. Sta’ attenta, mmh? Non voglio doverti venir a riprendere in casa di chissà chi domattina.» Disse guardandomi con le mani sui fianchi.
Le diedi un colpetto sul braccio. «Beth! Semmai sei tu che devi stare attenta, io sono una brava ragazza.»
Alzò un sopracciglio, scettica, ma non commentò. Si limitò a farmi un sorrisetto malizioso prima di infilarsi tra la massa di corpi vestiti troppo poco che si agitava sulla pista da ballo.
In qualche modo riuscii a raggiungere il bar, facendomi spazio a forza di gomitate, sia ricevute che date. Trovai per miracolo uno sgabello libero e mi ci arrampicai beccandomi un bel po’ di occhiatacce. Provai per diversi minuti ad attirare l’attenzione del barista, inutilmente: va bene che non ero bellissima né formosa, ma poteva considerarmi anche solo per un attimo, no?
«Posso offrirti qualcosa?» Sussultai sentendo una voce sconosciuta e parecchio vicina.
Mi voltai di scatto e accanto a mi trovai davanti un ragazzo dai capelli neri tirati indietro da un’impressionante quantità di gel. Aveva gli occhi marroni e allegri. Indossava una camicia di jeans e dei pantaloni neri. Sbattei le palpebre, quasi stralunata, mentre analizzavo le sue parole: che voleva quello? “Vuole provarci con te, genio”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente.
«Oh… Sì, perché no.» Riuscii a dire.
Sorrise, soddisfatto, prima di richiamare il barista, che, contrariamente a come aveva fatto con me, gli prestò subito attenzione. «Due limonate.»
“Accidenti, tu si che sai come divertirti, eh?”, pensai ironica. Mi sforzai comunque di fargli un sorriso il più convincente possibile.
«Non ti ho mai vista qui, è la prima volta che ci vieni?» Domandò osservandomi ed appoggiandosi con il gomito ed il fianco al bancone.
«Uh… Sì. Di solito vado in una discoteca dall’altra parte della città, il Subway, non so se lo conosci.» Spiegai ritrovandomi a gesticolare: lo facevo quasi sempre quando ero nervosa. O in imbarazzo.
Lui annuì. «Oh, sì, ci abbiamo suonato un paio di volte.»
Aggrottai la fronte. «Tu suoni? In un gruppo?»
«Già.» Si indicò sorridendo mestamente. «Ti presento il chitarrista di riserva dei Nevermind.»
«Sul serio? Forte.» Commentai colpita.
«Più o meno: “riserva” vuol dire che non partecipo mai ai concerti.» Ammise.
«Questo è un po’ meno forte…» Mormorai. «Però non è malissimo.»
Ridacchiò. «Dipende dai punti di vista…» Mi tese una mano. «Casomai ti interessasse, io mi chiamo James.»
“Due ragazzi nel giro di due giorni, mica male”, commentai mentalmente ripensando ad Adam. Gli strinsi la mano. «Io Scarlett.»
«Sei la prima ragazza che incontro con questo nome… Però è bello.» Replicò.
Abbassai lo sguardo. «Grazie…»
Il barista mollò sul bancone le nostre ordinazioni. «Ecco qua. Sono sei dollari.»
Spalancai gli occhi: sei dollari? Sul serio? Erano fatte con limoni d’oro per caso? Cercai nelle tasche dei pantaloni i soldi e, dopo qualcosa come cinque minuti dopo riuscii a trovare tre dollari. Quando alzai la testa, però, vidi James che ne dava sei al barista scorbutico.
«Te li rendo…» Sussurrai, ma lui mi fece un cenno vago con la mano.
«Ehi, ho detto che te l’avrei offerta, no? E poi che figura ci faccio se ti lascio pagare?» Spiegò sorridendo.
«Oh… Allora grazie…» Dissi cercando di mostrarmi convinta.
«Di niente.» Prese i bicchieri e me ne porse uno. «Spero sia meglio di quella del Subway.»
Mi lasciai sfuggire una risata. «Lo spero anch’io: quella è imbevibile.»
Si mise a ridere con me mostrando delle adorabili fossette sulle guance. “Se lo vedesse Beth lo vorrebbe tutto per sé…”, pensai, “ma adesso lei non c’è…”

James era abbastanza simpatico e amichevole anche se un po’ timido. Riuscì a distrarmi dal plenilunio e dalla mia paura di combinare guai. Si rivelò essere una compagnia piacevole anche se forse era troppo dolce per essere il mio tipo. Questo non toglieva che potesse diventare un buon amico.
Mi raccontò la storia della formazione dei Nevermind, il gruppo che avrebbe suonato quella sera, e scoprii che era il fratello del cantate. Nonostante questo però aveva solo un ruolo marginale nella band. Suonava la chitarra da quando aveva sei anni: aveva cominciato con quella classica per poi innamorarsi, parole sue, di quella elettrica.
Era interessante starlo a sentire: mentre parlava gli brillavano gli occhi e sembrava davvero molto coinvolto. In più gesticolava esattamente come facevo io, cosa che mi fece sentire meno sola. Mi fece ridere più di una volta guadagnando punti extra per la sua risata tremendamente allegra e contagiosa.
Da una parte, mi sembrava quasi impossibile che stesse parlando proprio con me, soprattutto perché c’erano ragazze che avevano il novanta per cento di pelle scoperta e che sembravano molto più disponibili a divertirsi di me. Però lui era ancora lì, con le sue adorabili fossette e il suo carattere esuberante seppur riservato.
Non so neanche quanto tempo passammo a chiacchierare praticamente di tutto: era piacevole farlo e mi veniva naturale. In più apprezzavo il fatto che non mi facesse domande personali di nessun tipo, stava sulle sue senza sbilanciarsi troppo e già solo per questo si meritava una possibilità.
Per mia grande sfortuna, il mio lupo non era d’accordo con tutta quella tranquillità: si ripresentò con la grazia di un uragano pretendendo di farmi perdere il controllo di fronte ad un possibile fidanzato.
La prima cosa che sentii fu un dolore leggero ma pulsante alla testa. Inizialmente lo presi come una conseguenza della musica martellante e della poca aria che c’era nel locale. Poi però cominciò a farsi più insistente e a scendere verso il basso fino a fermarsi all’altezza dello stomaco.
Lo riconobbi solo in quel momento e bastò a farmi venire l’ansia. Cominciò a trasformarsi, passando dall’essere un dolore alla voglia di ringhiare. Strinsi le labbra sperando che se ne andasse, che mi bastasse concentrarmi per farlo sparire. Purtroppo, fu inutile, era ancora lì, pressante e forte.
Lanciai un’occhiata a James cercando di non farmi vedere: stava parlando di come i Nevermind scrivevano le loro canzoni e di tutte le volte in cui erano stati i suoi testi a risolvere i blocchi creativi di Max, suo fratello.
«Devo… devo andare in bagno, scusa.» Riuscii a balbettare prima di alzarmi ed allontanarmi tentando di non barcollare.
Mi sentivo intontita, a tratti più che lucida e respiravo a fatica. Avevo lasciato James da solo e non avevo neanche idea di quando sarei tornata. Anzi, forse non l’avrei mai fatto: era decisamente più prudente andarmene subito, non aspettare oltre. Neanche un minuto.
Riuscii a scivolare fra tutti i corpi sudati che si muovevano sulla pista da ballo e ad avvicinarmi ad una porta che avevo adocchiato appena ero entrata con Beth. “Giusto, c’è anche lei…”, pensai mentre mi aggrappavo alla maniglia per non cadere.
Aprii la porta il minimo indispensabile che mi serviva per passare e mi infilai in qualunque cosa ci fosse dall’altra parte. Grazie al cielo non c’era nessuno. In effetti, sarebbe stato strano il contrario: era un semplice corridoio spoglio con un tavolo vecchio e traballante addossato al muro di fronte a me e accanto all’uscita di sicurezza alla cui destra c’era una finestra piccola e piena di ragnatele.
Tirai un sospiro di sollievo constatando che potevo andarmene, potevo salvare le apparenze e la mia vita. Ero stata tremendamente irresponsabile ad andare a quella dannata festa e ne stavo pagando le conseguenze, ma almeno l’avrei fatto solo io, gli altri erano salvi.
Feci un passo avanti e portai le mani al viso cercando di fare respiri profondi. Ero riuscita a calmarmi quasi del tutto quando una fitta più forte ed improvvisa mi tolse il fiato. E, nel momento esatto in cui sentii le zanne allungarsi nella mia bocca, qualcuno aprì la porta alle mie spalle.


SPAZIO AUTRICE: Sono tornata finalmente *-*
In questi quindici giorni (?) non sono riuscita a scrivere, ma visto che quasi tutti i capitoli della storia sono già stati scritti, gli aggiornamenti procederanno con regolarità. O almeno cercherò di fare in modo che sia così.
Finalmente Scarlett è andata a quella famosa festa insieme a Beth. Nonostante sapesse che il giorno prima del plenilunio è piuttosto complicato per lei, Scarlett ha comunque deciso di correre il rischio e si è cacciata nei guai. Resta da capire chi è lo sconosciuto che ha aperto la porta e cosa succederà dopo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi rigrazio infinitamente per la pazienza con cui l'avete aspettato.

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Capitolo 6
*** 06. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 6



                                         
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6. Adam



Dovevo essermelo sognato. Sì, non c’era altra spiegazione per quello che avevo visto. Forse avevo bevuto troppo, o forse c’era una chissà quale droga nel mio bicchiere. Eppure, anche dopo aver sbattuto le palpebre più volte, lei era ancora lì, con quelle iridi dorate accese di luce propria, i canini allungati e l’aria sconvolta.
I suoi erano capelli scompigliati, la crocchia che aveva prima era mezza disfatta e molte ciocche le ricadevano in modo scomposto ai lati del viso e sugli occhi. La canottiera che indossava era sgualcita e spiegazzata. Il suo respiro era affannoso e spezzato. E mi guardava come se io fossi stato il cacciatore e lei l’animale in trappola.
«Che… che ci fai qui?» Riuscì a mormore.
«Io… Me ne stavo andando.» Risposi.
Odiavo quel posto tanto quanto odiava il gruppo che suonava. In più mi ero ritrovato un mal di testa fastidioso spuntato fuori da chissà dove. Avevo bisogno di prendere aria quindi avevo pensato di andarmene, anche solo per cinque minuiti, dall’uscita di sicurezza che si trovava in un corridoio da cui si accedeva attraverso una porta dal lato opposto rispetto a dove si entrava nel locale. Di sicuro non mi aspettavo di trovarci la ragazza che avevo quasi messo sotto il giorno prima con i canini allunganti e le iridi color oro.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì erano tornati al loro solito colore. Anche quelle che sembravano zanne erano sparite lasciandola libera di stringere le labbra con aria irritata. «Allora vattene.»
Mi ritrovai a scuotere la testa senza rendermene conto. «Non posso.»
«Cosa? Certo che puoi.» Allungò un braccio verso qualcosa alle sue spalle. «Visto? Quella è la porta.»
«Non intendevo questo. Tu… tu che farai? Cioè, voglio dire, quello… I tuoi occhi e…» Mettere insieme una frase di senso compiuto sembrava impossibile.
«Non è una cosa che ti riguarda, chiaro?» Ringhiò guardandomi male.
«Certo che mi riguarda!» Sbottai. «Quello che ho visto… Mi devi una spiegazione. Anche piuttosto dettagliata. Gli occhi delle persone con cambiano colore così all’improvviso, sai? E di sicuro avere delle zanne retrattili in bocca non è normale. In più ieri eri in mezzo ad un bosco. Di sera. Completamente sola. E ho rischiato di ucciderti. Quindi ora mi spieghi che diavolo sta succedendo.»
Ci fissammo per chissà quanto, lei con le braccia tese lungo i fianchi e i pugni stretti così forte da avere le nocche bianche, io con il respiro spezzato e la mascella serrata. Era incredibile come riuscisse a sostenere un confronto di sguardi tanto a lungo senza battere ciglio. I suoi occhi marroni erano accesi dalla rabbia e da una sfumatura dorata. Ancora non riuscivo a capire cosa fosse e probabilmente non ci sarei mai arrivato. A meno che non fosse stata lei a dirmelo.
Il punto era, come convincerla a dire una cosa del genere? Sembrava più che decisa a tenerla per sé ad ogni costo, neanche fosse stato un segreto di stato, qualcosa che riguardava la sicurezza del mondo intero.
«Non dici niente?» Domandai dopo quella che mi era sembrata un’eternità passata a reggere il suo sguardo infastidito e intenso.
«Non ho motivo di farlo. E non capisco perché ti interessa tanto, non puoi semplicemente andartene e lasciarmi vivere la mia vita?» Sbuffò alzando il mento in segno di sfida.
«No, perché è più che evidente che la tua vita si intreccia alla mia un po’ troppo spesso.» Replicai incrociando le braccia al petto.
«Beh, non è colpa mia. Quindi, vattene. E lasciami in pace.» Insistette.
«Senti Scarlett, così non andiamo da nessuna parte. Dimmi anche solo a grandi linee cosa sta succedendo, dimmi se sono ubriaco io e se sto sognando… Qualunque cosa. Solo… dì qualcosa.» Perché mi stavo impuntano su una cosa del genere? Che senso aveva? C’erano buone probabilità che lei mi odiasse, quindi per quale motivo ne volevo sapere di più?
«Non lo dirai a nessuno, vero?» Chiese studiandomi.
Voleva parlare quindi? «Certo. Nessuno ne saprà niente.»
Non riuscivo a credere che fosse davvero sul punto di dirmi la verità. O comunque qualcosa. Avevo ancora in mente l’immagine nitida dei suoi occhi dorati, dei suoi canini allungati e della sua espressione sconvolta.
La guardai e per un attimo mi apparve per ciò che era davvero: una ragazza confusa ed impaurita da quello che c’era dentro di lei. Una ragazza alla ricerca di una qualche specie di equilibrio tra il suo essere interiore e il mondo che c’era fuori. Una ragazza che si sforzava di essere forte e intoccabile sempre e comunque.
«Se fai uno più uno ci arrivi anche da solo.» Mormorò fissando il pavimento.
Aggrottai la fronte e cercai di mettere insieme i pezzi: occhi che brillavano, zanne, carattere piuttosto difficile… L’unica cosa che mi veniva in mente era una ragazza in “quel periodo del mese” con una qualche specie di mutazione genetica. Ovviamente, oltre ad essere una cosa da non dire assolutamente ad alta voce, era una teoria più che improbabile.
Riportai lo sguardo su di lei e feci per scuotere la testa, ma poi notai le occhiate ansiose che lanciava alla piccola finestra accanto all'uscita di sicurezza, la tensione dei suoi muscoli, l’ansia che si percepiva forte e chiara da ogni suo singolo movimento. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi la luna quasi completamente piena che rischiarava il cielo notturno.
«Un lupo mannaro.» Sussurrai più a me stesso che a lei.
Si irrigidì di colpo e strinse i pungi così forte da far diventare nocche bianche. Di nuovo. Poi annuì tenendo le labbra serrate in una linea sottile.
«Sei un lupo mannaro.» Ripetei come se quelle quattro parole insieme non avessero alcun senso. Perché, in effetti, era così: i licantropi, o lupi mannari o come li si vuole chiamare non esistono. Sono pura finzione, leggende create per spaventare la gente e per passare il tempo. Non era assolutamente possibile che lei fosse... un lupo.
Incrocia i suoi occhi che mi lasciarono spiazzati con la loro intensità, così brucianti nei miei, come se fossero stati di fuoco. Un fuoco che mi bruciava prima le iridi e che poi scendeva lentamente facendosi strada tra i rancori, le parole non dette, le delusioni, le speranze più nascoste e segrete.
Ero davvero davanti ad un licantropo? La licantropia esisteva sul serio? Ammesso che fosse il termine giusto da usare… Come diavolo avevo fatto a finire da solo in un corridoio deserto con un lupo mannaro?
La cosa che mi lasciò più interdetto, però, fu la mia stessa reazione: non ero sconvolto come credevo di dover essere, come sarebbe stato logico essere. Ero abbastanza sorpreso, questo sì, ma non sentivo l’impulso di correre via a gambe levate né paura o timore di nessun tipo. Anzi, mi sembrava di essere attratto da quella creatura così complessa che era quella ragazza. E non credevo assolutamente che fosse un buon segno.
Trassi un respiro profondo e mi lasciai sfuggire la prima domanda che mi passò per la testa: «Sei… sei nata così?»
Mi scoccò un’occhiataccia rabbiosa. E notai che aveva messo su il broncio. «Secondo te?»
Suonava come una domanda retorica ma, ovviamente, io non avevo idea di come funzionassero quelle cose, quindi mi limitai a guardarla sperando che mettesse da parte anche solo per un attimo quella sua corazza apparentemente inattaccabile e mi spiegasse almeno il minimo indispensabile.
Da una parte me l’aspettavo, però un po’ ci rimasi male lo stesso quando incrociò le braccia al petto e sollevò le sopracciglia fissandomi come se fossi stato un perfetto idiota.
«Senti, è inutile che mi guardi così, okay? Se non me lo dici tu è impossibile che io ci arrivi. Capisco che vuoi mantenere l’alone di mistero e tutto il resto, però è decisamente fastidioso, lasciatelo dire.» Sbottai esasperato.
Schiuse le labbra, sorpresa. Rimase interdetta per un attimo per poi ritrovare il controllo di sé. «No, non sono nata così. Ma non mi va di parlarne.»
«Okay.» Convenni: mi rendevo conto che si stava sbilanciando parecchio. E che probabilmente non le faceva piacere. «Quindi… Adesso che si fa?»
Sbatté le palpebre, quasi confusa. «Io e te, insieme, proprio niente. Tu non dovevi andartene?»
Mi resi conto che aveva ragione, lo sapevo benissimo, ma c'era una parte di me che non voleva saperne di allontanarsi da lei e da tutti i misteri che si portava dietro. «Posso aspettare.»
Aggrottò la fronte per un attimo prima di scrollare le spalle. «Okay, divertiti.»
Si avvicinò a me, o meglio, alla porta, e sollevò un braccio per aprirla. Senza pensare a quello che stavo facendo, le afferrai un polso. Si bloccò all’istante, riuscii praticamente a sentire i suoi muscoli che si irrigidivano. Alzò di scatto il viso verso di me, i suoi occhi marroni tornarono a bruciare i miei, allarmati e sospettosi.
Era a meno di due centimetri da me, sentivo il calore del suo corpo nonostante i vestiti che ci separavano. A dirla tutta non era nelle mie intenzioni finirle così vicino, anzi, da una parte volevo prendere le distanze per cercare di reprimere quella strana attrazione che sentivo verso di lei. Attrazione che non aveva niente a che fare con il desiderio: riguardava quel suo lato soprannaturale e all'apparenza oscuro che avevo visto solo di sfuggire. Era così diversa dentro eppure così comune fuori a far crescere il mio interesse senza che me ne rendessi veramente conto.
Contrariamente a quello che pensavo, mantenne la calma e non si infuriò. Forse, sotto sotto, non mi odiava poi così tanto. O forse sì, ma stava cercando di nasconderlo.
«Che c’è?» Chiese, la voce bassa che tradiva comunque una nota d'impazienza.
Feci per dire qualcosa per poi rinunciare: perché l’avevo fermata? Perché mi incuriosiva? Poteva essere un motivo valido? Se fosse stato davvero per quello, come diavolo sarei riuscito a spiegarlo a parole? Era una cosa che non capivo fino in fondo nemmeno io, figuriamoci una persona che sembrava voler scappare il più lontano possibile da lì. 
Mentre io cercavo di fare un minimo di chiarezza, lei mi guardava, in attesa, aspettando una risposta che forse non sarebbe mai arrivata.
Abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro cercando in modo quasi disperato una motivazione al mio gesto. «Perché eri in quel bosco ieri?» Quella domanda non convinceva neanche me, non era quello che volevo sapere. O meglio, sì, volevo che me lo spiegasse, ma c'erano molti altri misteri che avrei voluto svelare prima di quello.
«Non voglio parlarne. Né ora né in futuro.» Disse semplicemente con aria risoluta.
In un momento di lucidità mi resi conto di essere più alto di lei di diversi centimetri, che aveva del trucco sbavato introno agli occhi e che aveva addosso un profumo appena accennato di cannella, così leggero che credevo di immaginarlo.
Mosse piano il polso che tenevo ancora tra le dita. «Hai altro da chiedere?»
“Un altro centinaio di domande come minimo”, pensai. «Io… Sì.»
Annuì e strinse le labbra come se si aspettasse una risposta del genere. «Immagino. Perciò te lo dico fin da ora: non voglio parlare mai più di questo. Mai. Ho già detto troppo oggi, non saprai nient’altro da me.»
Schiusi le labbra, sorpreso. «Cosa…?»
Si strinse nelle spalle. «È la verità, per quanto mi riguarda io e te abbiamo chiuso qui. Anzi, non abbiamo neanche iniziato. Io non ti conosco, tu non conosci me, punto. Non c’è niente di più.»
Liberò senza fatica il braccio dalla mia presa, aprì la porta ed uscì per poi chiudersela alle spalle senza aggiungere niente, senza mai voltarsi indietro. Rimasi come incantato a fissare il muro davanti a me per chissà quanto. Una parte di me era convinta che mi fossi inventato tutto, che Scarlett fosse solo un frutto della mia immaginazione, o che magari l’avevo davvero quasi investita e, dopo essermi ubriacato, l’avevo rivista per un qualche strano motivo. Oppure stavo impazzendo e tutto quello che mi stava succedendo era solo una grande, enorme allucinazione.
Non ne avevo idea, non sapevo come spiegare una cosa del genere: così tante coincidenze erano impossibili, prima quasi la mettevo sotto in mezzo ad un bosco e poi la incontravo mezza trasformata in lupo mannaro in un locale? Doveva essere una qualche specie di scherzo. O magari un sogno.
L’unica cosa che sapevo per certo era che quella ragazza mi avrebbe perseguitato per tanto, tanto tempo. Che fosse reale o no, me la sarei ritrovata ovunque, forse non in senso letterale, ma, nonostante se ne fosse andata da meno di un minuto, avevo già capito che sarebbe stato molto difficile smettere di pensare a lei e ai suoi strani misteri.

La mia teoria sulla presenza di droga nel mio bicchiere sembrò trovare conferma nel mal di testa che mi ritrovai appena aprii gli occhi la mattina dopo quella dannatissima festa. Non ricordavo neanche come ci ero tornato a casa. Speravo fosse stato con la mia macchina perché, in caso contrario, mio padre mi avrebbe ucciso. Con l’aiuto di mia madre.
Ad essere sincero non sapevo neanche se Michael era a casa oppure ancora il quel locale. Gli avevo promesso che l’avrei riaccompagnato io, ma evidentemente qualcosa non era andato secondo i piani. Oppure sì, ma io non riuscivo a ricordarlo.
Qualcuno, forse proprio io, aveva avuto la brillante idea di chiudere le persiane della finestra di camera mia così che la luce del sole riuscisse a filtrare nella stanza solo in modo molto smorzato. Purtroppo, mi dava fastidio lo stesso: mi bastò socchiudere gli occhi per rendermene conto. Non era una novità, però: avendo gli occhi chiari, la luce solare era spesso un disturbo con cui avevo imparato a convivere, alla fine. 
Mi lasciai sfuggire una smorfia prima di girarmi dall’altra parte sperando di riuscire a dormire ancora un po’. A quanto pareva però, Cora non era d’accordo: entrò in camera aprendo la porta con un colpo di muso, si avvicinò al mio letto e strofinò il naso contro la mia mano come a dire “sveglia, è l’ora della mia colazione”.
«Cinque minuti.» Riuscii a dire nonostante mi sentissi la bocca impastata.
Lei non si scompose minimamente, anzi, ne approfittò per infrangere, per l’ennesima volta, la regola che mia madre aveva imposto appena lo avevamo fatto entrare in casa per la prima volta da cucciolo: il cane non deve salire sul letto.
Si stiracchiò tranquillamente e balzò sul materasso accanto a me. Si acciambellò su se stessa con il muso posato sulla mia schiena e sbuffò soddisfatta. Sospirai riconoscendo il suo solito modo di fare. Un secondo dopo sentii un fruscio che preannunciava un cambio di posizione: Cora si spostò e infilò la testa sotto il mio braccio stiracchiandosi e scodinzolando contenta in cerca di attenzioni.
Le accarezzai distrattamente un fianco mentre mi sdraiavo sulla schiena. Il mio proposito di dormire ancora un po’ era stato messo da parte per colpa di un cane un po’ troppo affettuoso e decisamente invadente che aveva deciso, fin dal suo primo giorno in casa Meyers, che camera mia era il posto perfetto per schiacciare sonnellini e cercare di ottenere cibo extra.
Lo squillo del mio cellulare mi fece fare un smorfia contrariata. Lo presi dal comodino e me lo portai all’orecchio senza avere veramente voglia di parlare con qualcuno e senza neanche controllare il numero.
«Pronto?» Borbottai.
«Buongiorno. Stavi dormendo?» La voce di Michael mi sembrò più acuta del solito e anche piuttosto allegra.
«No, figurati. Sono sveglio da un pezzo.» Risposi passandomi una mano tra i capelli.
«Uhm… Meglio così. Come ti senti?» Chiese in tono quasi esitante.
«Bene, perché?» Domandai aggrottando la fronte.
«Ieri sera mi sei sembrato un po’… uh, distante, distaccato.» Spiegò tentennando.
«Ero solo stanco Michael, tutto qui. E poi quel locale non mi piace.» Replicai.
«Secondo me eri solo perso nei tuoi ragionamenti da genio incompreso.» Commentò lui. «Però non te ne faccio una colpa: è tipico di quelli con il quoziente intellettivo alto essere un po’ depressi.»
«Ehi, io non sono depresso. Ieri sera non ero in vena, niente di che.» “E poi mi sono ritrovato davanti un lupo mannaro, ma immagino che questo non sia molto importante”, aggiunsi mentalmente.
«Okay, okay… come vuoi tu. Però devi ammettere che sei un pochino pessimista.» Insistette.
Sospirai. «Ci vediamo domani, mmh?»
«Cosa? No, aspetta, devi darmi i compiti di letteratura…» Riattaccai prima che potesse finire la frase.
Sapevo per esperienza che non se la sarebbe presa e che sarebbe andato subito a chiedere aiuto a qualcun altro, quindi non mi preoccupai di una sua possibile reazione. L’unica cosa che volevo fare era parlare con Scarlett, farmi spiegare qualcosa in più sulla licantropia, se esisteva davvero, e provare almeno a capire cos’era veramente, cosa diavolo si nascondeva sotto quell’aria scontrosa eppure in qualche modo fragile.
Purtroppo, o per fortuna, le possibilità che la rivedessi erano praticamente nulle. Soprattutto visto che mi aveva detto chiaro e tondo che non voleva più parlarmi. Era una realtà con cui sapevo di non dover fare i conti, solo che non ci riuscivo. Avevo ancora tante domande che non avrebbero mai trovato una risposta, a meno che non andassi a cercarla direttamente dall'origine.
“Sì, e dopo che farai? La costringerai a parlare? E come?”, mi rimbeccò una vocina dentro di me. In effetti, aveva ragione, mica potevo obbligarla. Anzi, avrei dovuto lasciarla in pace e cercare di dimenticarla. L’unico problema era trovare un modo per farlo, un modo per convincere la mia mente a dimenticare il suo viso dai tratti dolci che quasi strideva con i suoi occhi penetranti, il suo profumo appena accennato di cannella… “Smettila”, mi rimproverai. Se volevo davvero lasciarmela alle spalle dovevo cominciare fin da subito a smettere di pensare a lei.

Il mio proposito di lasciarmi Scarlett alle spalle sembrava funzionare: ero riuscito a non pensare a lei per tutta la domenica e sembrava che anche quel lunedì mattina riuscissi a tenerla lontana dalla mia mente. Devo ammettere che il continuo chiacchierare di Michael aiutava: quel ragazzo era incredibile, sembrava non avere neanche bisogno di respirare.
«Senti, devo passare un attimo in segreteria a prendere un foglio per mia madre, mi accompagni?» Chiesi interrompendo il flusso continuo di parole che uscivano dalla sua bocca.
Esitò per un attimo prima di scrollare le spalle. «Okay.»
Mentre camminavamo lungo il corridoio, riprese la sua infinita tirata: «Non capisco tutto questo odio per il lunedì, a me sembra un giorno come un altro. Sì, è vero che viene subito dopo la domenica, ma mica è colpa sua.»
«Stai davvero difendendo un giorno della settimana?» Domandai sorpreso e un po' divertito. «Non è che adesso fai anche una petizione, vero? Del tipo “rispettiamo il lunedì”.»
Fece un gesto vago con la mano come a voler scacciare quell'idea. «Ma certo che no, per chi mi hai preso? Semmai creerei un sito internet in difesa dei lunedì maltrattati.»
«Come farsi odiare da ogni studente del pianeta, in poche parole.» Borbottai.
«Non è colpa mia se la gente preferisce seguire la massa.» Dichiarò lui.
Alzai gli occhi al cielo, ma evitai di commentare per non dargli altra corda: se incoraggiato, Michael poteva parlare dello stesso argomento anche per ore.
Mi appoggiai al bancone della segreteria in attesa che Susanna, la segretaria, mi notasse. C’era qualche altro ragazzo prima di me quindi avrei dovuto aspettare un po’. Nel frattempo Michael continuava a parlare indisturbato dei diritti dei giorni della settimana con aria molto concentrata e presa dal suo stesso discorso.
Susanna stava spiegando ad un ragazzo come doveva fare per iscriversi alla squadra di basket, e qualcosa nella sua espressione mi diceva che era un tantino esasperata, quando qualcuno mi venne addosso con la grazia di Michael quando era ubriaco. Mi spostai guardando male la ragazza che mi era piombata davanti: aveva lunghi capelli castani legati in una treccia, indossava dei jeans strappati con sotto delle calze nere, una maglietta rosso scuro con le maniche grigie e degli anfibi consumati.
«Siamo di fretta, eh?» Commentai a mezza voce.
Lei si irrigidì appena e si voltò verso di me. Spalancai gli occhi quando la riconobbi: Scarlett.
Ero incredulo e molto, molto sorpreso. Era la terza volta che ci incontravamo per caso, non poteva essere una coincidenza, non di nuovo.
I suoi occhi marroni tornarono a bruciare nei miei esattamente con due giorni prima in quel locale. Eravamo vicinissimi, premuti dagli altri studenti che cercavano di attirare l’attenzione di Susanna neanche fosse stata una questione di vita o di morte. E, in mezzo a tutto quel casino, c’eravamo io e lei che ci guardavamo negli occhi tagliando fuori tutto il resto per un qualche strano motivo che probabilmente mi avrebbe fatto impazzire: cosa c’era di tanto interessante in lei? Perché mi faceva quell’effetto?
Non avevo mai creduto nelle coincidenze, quindi tutti quegli incontri all’apparenza casuali dovevano avare un motivo… Doveva esserci qualcosa dietro. Oppure no?




SPAZIO AUTRICE: Ed eccoci qua con il sesto capitolo. Adam scopre cos'è Scarlett e la sua reazione non è assolutamente quella che ci si aspetterebbe: non ha paura, anzi, è attratto da lei per via della sua natura curiosa.
Alcuni di voi mi hanno fatto notare che Adam ha un modo un po' strano di rapportarsi con ciò che gli succede attorno e mi sembra giusto spiegarvi perché: Adam è una persona un po' particolare, diciamo, gli piace sapere di cosa parla e per questo gli risulta facile imparare cose nuove, sia a scuola che nella vita di tutti i giorni.
Ha una buona memoria, soprattutto per ciò che lo colpisce. Ha un'avversione molto radicata per la violeza, particolare ereditato dalla madre, e cerca di risolvere qualunque scontro a parole. Ha il vizio di mordersi il labbro e di perdersi nei suoi pensieri. Ha uno spiccato senso della lealtà, farebbe di tutto per le persone a cui tiene anche se a volte non ne capisce o ne disprezza alcune scelte. Sa comunque essere orgoglioso e testardo, cosa che lo caccierà nei guai più di una volta.
Queste, però, sono solo alcune caratteristiche di Adam, non penso di riuscire a spiegarvelo a parole. Spero che riuscirete a capirlo piano piano andando avanti con la storia, sia attraverso i suoi occhi sia attraverso quelli di Scarlett.
E niente, penso di essermi dilungata anche troppo, quindi vi saluto. Al prossimo capitolo *-*

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Capitolo 7
*** 07. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 7




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7. Scarlett


Ancora lui? Mi stava perseguitando quel ragazzo, me lo ritrovavo ovunque, neanche a farlo apposta. Se mi ci fossi messa d’impegno per incrociarlo il più possibile durante il giorno non ci sarei mai riuscita così bene.
Pensavo di essermelo lasciato alle spalle, di aver chiuso con lui. Invece eccolo lì, con quei suoi dannatissimi occhi color tempesta e quell’aria quasi eterea che mi faceva dubitare del fatto che fosse umano. Almeno finché non mi ricordavo di tornare con i piedi per terra e mi dicevo che Adam era umano al cento per cento, lo percepivo benissimo.
Ora che lo osservavo meglio, mi sembrava di notare nel suo viso tratti inglesi, sofisticati e quasi nobili. Aveva la mascella dal taglio deciso ma non troppo, le labbra chiare e sottili, la pelle chiara che si sposava bene con i suoi occhi di quel blu tanto particolare.
Non avrei dovuto guardarlo in quel modo, soffermarmi sui dettagli e rischiare di perdermi nelle sue iridi, ma eravamo praticamente schiacciati l’uno contro l’altra, probabilmente anche lui mi stava studiando come stavo facendo io. E tanti saluti alla discrezione.
Le voci intorno a noi erano un mormorio confuso in sottofondo che quasi non si sentiva. Non era possibile che lui riuscisse a farmi quell’effetto, non era proprio possibile. Anzi, non potevo permettergli di farlo: mi avrebbe soltanto incasinato la vita. Come se non fosse già stata abbastanza complicata di suo.
Per una frazione di secondo pensai che i suoi occhi fossero davvero belli. Che lui fosse davvero bello. Poi, per fortuna, tornai in me e mi resi conto che dovevo assolutamente tenerlo lontano il più possibile. Anche a costo di sembrare pazza.
Cercai di convincermi a muovermi, ad allontanarmi, a fare un passo indietro e poi un altro fino a sparire dalla sua vista. Però non ci riuscivo. Era come se il suo sguardo fosse stato magnetico e mi impedisse di spostarmi. Ma io dovevo farlo.
«Adam? Ehi, dobbiamo andare, abbiamo due minuti netti per entrare in classe. A meno che tu non voglia beccarti una punizione.» Disse una voce non proprio sconosciuta. Era vicina e sembrava essere riuscita a penetrare quel muro di sussurri ovattati.
Davanti a me, con gli occhi ancora puntati nei miei, Adam annuì piano, quasi inconsciamente. «Sì… Arrivo.»
Sembrava distratto, assorto da qualcosa che doveva essere davvero interessante. “Sei tu, genio”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente. Io? Oddio, stava davvero guardando me in quel modo? Sembrava così preso… Chissà a cosa stava pensando: a quando mi aveva vista mezza trasformata? A cosa ero in grado di fare in quanto licantropo? Forse si stava chiedendo se lo avrei ucciso per assicurarmi che tenesse la bocca chiusa.
Qualcuno gli mise una mano sul braccio. «Terra chiama Adam, ci sei? Mi stai spaventando amico.» Aggiunse la voce di prima. Ora sembrava quasi esitante, come se chi aveva parlato non fosse stato sicuro di cosa doveva fare.
Adam schiuse le labbra e fece un respiro profondo. Sbatté le palpebre prima di distogliere lo sguardo. «Arrivo Michael, arrivo.» Il suo tono voleva sembrare esasperato, ma quello che uscì dalla sua bocca fu un mormorio appena udibile.
Alzò gli occhi ed incrociò subito i miei, quasi fossero stati attratti da una calamita. Fece un passo indietro senza interrompere il contatto visivo. Sbatté le palpebre di nuovo e tornò ad abbassare lo sguardo. Si allontanò dopo avermi lanciato un’ultima occhiata che, devo ammetterlo, mi confuse parecchio.
Mentre lo guardavo andarsene, mi concentrai cercando di sentire quello di cui stava parlando col suo amico: ero un licantropo, avevo l’udito più acuto, potevo farcela.
«Sei innamorato per caso? O magari ti fai di qualcosa? È già da un paio di giorni che sembri su un altro pianeta.» Stava dicendo Michael.
«Non è nulla sul serio. Ho solo… uh, qualche pensiero per la testa. Niente di che.» Rispose Adam.
Aggrottai la fronte: mi considerava così poco? Cioè, è vero che gli avevo espressamente detto di starmi alla larga, però… Qualcosa dovevo pur contare, no? Sapeva quello che ero quindi magari gli importava un pochino di me. “O magari mente per… sì, insomma, non vuole dire in giro che conosce un lupo mannaro. E questo gioca a tuo favore”, commentò la solita vocina.
Un movimento confuso davanti ai miei occhi mi fece trasalire. «Ci sei Scarlett?»
Mi voltai verso Beth e la trovai che mi guardava con le braccia incrociate al petto e l’espressione contrariata. Trassi un respiro profondo e provai a sorridere.
«Sì, scusa, ero solo distratta.» Mormorai.
«Ti ho chiesto un parere sulla mia gonna nuova e tu mi hai ignorata.» Insistette mettendo su il broncio.
«Mi dispiace Beth… Però adesso ci sono. Quindi…» Abbassai lo sguardo e studiai la gonna che le fasciava i fianchi e le gambe fino alle caviglie: era di stoffa leggera e morbida di un blu notte molto intenso. «Beh, è decisamente nel tuo stile.»
Sorrise. «Bella, eh? E pensa che l’ho pagata pochissimo, solo dieci dollari! Ma ti rendi conto!»
«Eh già, un vero affare.» Commentai distrattamente.
Beth si lanciò in un’accurata descrizione del nuovo negozio che aveva trovato in centro e che sembrava fare offerte davvero vantaggiose. Era un argomento che poteva anche interessarmi visto che volevo rinnovare il mio guardaroba, ma gli occhi di Adam continuavano a tornarmi in mente, così intensi e di un colore così profondo… “Smettila subito”, mi rimproverai. Dovevo togliermi Adam dalla testa il prima possibile.
Beth si mise davanti a me con le mani sui fianchi e mi osservò con espressione critica per qualche secondo. «Cavolo, hai delle occhiaie da paura.»
Le scoccai un’occhiataccia. «Oh, grazie, davvero. Sei un’ottima amica.»
Lo sapevo che avrei avuto un’aria stravolta, succedeva sempre dopo il plenilunio: passare la notte in bianco, in mezzo ad un bosco, completamente fuori controllo non è un toccasana per la pelle né per i capelli. Infatti quella mattina, quando mi ero guardata allo specchio, avevo visto una specie di ragazza bianca come un cencio con una stramba criniera castana in testa che mi fissava imbronciata.
«Sono stata solo sincera.» Si difese. «Comunque, vieni, ho qualcosa che potrà darti un’aria più… sana.»
«Cos…?» Prima che potessi finire la frase, lei mi aveva afferrata per un braccio e mi aveva trascinata nel bagno delle ragazze più vicino.
Mi ordinò di sedermi sul lavandino mentre frugava nel suo zaino alla ricerca di chissà cosa. Si voltò verso di me con un sorrisetto compiaciuto in faccia e un piccolo barattolino color carne in mano. Arricciai il naso riconoscendolo: fondotinta, o correttore. In ogni caso era un intruglio che non volevo su di me.
«Ora sta’ ferma, intesi? Ci vorrà un attimo.» Aggiunse avvicinandosi pericolosamente a me con quel dannato… coso che, per inciso, aveva un pessimo odore. O forse lo sentivo solo io…

Fondotinta o no, avevo comunque un sonno incredibile. Beh, ero rimasta sveglia per tutta la notte in preda alla furia del mio lupo quindi mi sembrava piuttosto plausibile che non riuscissi a tenere gli occhi aperti. Avrei solo preferito non addormentarmi durante l’ora di matematica. Anche se non stavo proprio dormendo, stavo solo riposando gli occhi.
La professoressa la pensava diversamente però, infatti sbatté una mano sul mio banco facendomi sobbalzare e scatenando le risate di tutta la classe. Sentii i canini premere contro il labbro inferiore per colpa dell’istinto di sopravvivenza troppo sviluppato che mi metteva sull’attenti ogni volta che un potenziale pericolo si avvicinava. In effetti, dovetti riconoscere che la prof Smith aveva l’aria da arpia quindi poteva rivelarsi davvero una minaccia.
«Signorina Dawson, visto che trova tanto interessante la mia lezione, perché non va fuori?» Gracchiò guardandomi come se avesse voluto incenerirmi.
Feci rientrare le zanne e deglutii. «No, ma… Non stavo dormendo. Stavo… pensando a come risolvere l’equazione.»
Socchiuse gli occhi. «L’abbiamo corretta alla lavagna venti minuti fa.»
La sua risposta fu seguita da risatine e commenti poco carini da parte dei miei compagni di classe che non potei fare a meno di ringraziare mentalmente per il supporto.
«Ah.» “Ora sì che sono nei guai”, pensai.
L’insegnante allungò un braccio verso la porta. «Fuori. Adesso!»
Balzai in piedi un po’ troppo in fretta, raccolsi i libri e i quaderni con mani tremanti, li infilai nello zaino rischiando di farli cadere e schizzai fuori dalla classe a testa bassa. Dentro di me, il mio lupo voleva saltare alla gola della prof, ma sapevo di non potermelo permettere. Non ero neanche tanto sicura di avere la forza di trasformarmi abbastanza da farle dei danni seri.
Appoggiai la schiena al muro accanto alla porta e sospirai chiudendo gli occhi. Stavo combinando un disastro dopo l’altro e ad una velocità sorprendente: prima avevo rivelavo ad Adam cos’ero, poi l’avevo rincontrato e l’avevo fissato come se fosse stato il primo ragazzo che vedevo e, come se non bastasse, mi ero fatta sbattere fuori dalla classe dalla professoressa che dovevo convincere di quanto mi stessi impegnando per migliorare. Meglio di così non poteva andare.
Aprii gli occhi e mi presi il viso tra le mani: non potevo lasciare che tutta andasse a rotoli, dovevo rimettere le cose apposto. A cominciare dal mio voto in matematica. Mi serviva una mano… Da Beth magari. Oppure potevo cercare qualcuno che dava ripetizioni.
Arricciai il naso: non mi andava tanto a genio l’idea di condividere con un perfetto sconosciuto i miei innumerevoli punti deboli in quella materia tutta numeri strani e lettere messe a casaccio. Odiavo dover ricorrere all’aiuto di qualcuno per una cosa che avrei potuto benissimo fare da sola se mi fossi impegnata il minimo indispensabile, però sapevo che a quel punto non avevo molte altre scelte: al terzo anno di liceo non potevo pretendere di recuperare il programma di… forse un anno ad essere ottimisti. Anche se qualcosa mi diceva che era di più.
Stavo per fare un commento acido sullo scarso lavoro che le entità superiori stavano facendo con la mia vita, quando sentii delle voci avvicinarsi. Aggrottai la fronte cercando di riconoscerle. E per poco non mi prese un colpo: Adam. Di nuovo.
Imprecai tra i denti mentre afferravo alla meno peggio lo zaino e, come in uno di quel film terribilmente scontati, mi infilavo nel ripostiglio dei bidelli. Trattenni a malapena un ringhio quando sbattei la fronte contro una mensola decisamente troppo bassa.
Mi assicurai che la porta fosse chiusa e serrai gli occhi per concentrarmi meglio su quello che quel dannato ragazzo con gli occhi tempestosi stava dicendo: «Comunque, tanto perché tu lo sappia, non ti accompagnerò mai più da tua nonna, chiaro? Mai più.»
«Cosa? Perché no?» Riconobbi anche Michael, il suo amico dalla parlantina irritante.
«Perché ho usato un sacco di benzina per arrivare fin lì, e ora sono quasi al verde visto che ho dovuto fare il pieno. Per colpa tua.» Ribatté Adam con voce dura.
«Esagerato.» Commentò Michael allegro. «E poi se proprio ti servono soldi chiedili ai tuoi genitori, no?»
«Non mi daranno niente fino al mese prossimo.» Spiegò Adam.
Sobbalzai rischiando di avere un altro incontro ravvicinato con la mensola quando mi resi conto di quanto fosse vicino al mio nascondiglio di fortuna.
«Povero il mio amichetto… Beh, vuol dire che devi trovarti un lavoretto.» Ribatté Michael senza scomporsi minimamente. «Io, per esempio, lavoro part time in un negozio di animali: non è male e mi pagano abbastanza bene. Magari posso sentire se cercano un cassiere o qualcosa del genere.»
«Non so fino a che punto potrei cavarmela con gli animali. Forse è meglio se cerco qualcos’altro.» La voce di Adam era terribilmente vicina, questo voleva dire che anche lui lo era. Probabilmente si era appoggiato al muro accanto al ripostiglio.
«Visto che sei una specie di genio in… uh, tutte le materie, perché non dai ripetizioni? Magari a quelli di prima o seconda. Un sacco di gente cerca un aiuto del genere: faresti un sacco di soldi. E magari potresti conoscere qualche ragazza carina.» Propose Michael in tono divertito.
Repressi faticosamente l’impulso di tirargli un pugno in faccia e trassi un respiro profondo per calmarmi cercando di fare meno rumore possibile.
Adam rimase in silenzio per un attimo. «Forse… Non so, non mi ci vedo come insegnante. E poi dovrei essere parecchio preparato.»
«Lo sei.» Sembrava che Michael stesse spiegando una cosa più che ovvia a qualcuno duro di comprendonio. «Sai praticamente tutto, ti ricordi ogni singola cosa del programma degli anni scorsi quindi perché non sfruttare la tua stramba memoria per qualcosa di utile?»
“Potresti prendere ripetizioni da lui, così potresti anche tenerlo d’occhio”, suggerì una vocina dentro di me. Sì, certo, ottima idea: conoscendomi avrei combinato un casino enorme. E poi che dovevo dirgli: “ehi, ti ho sentito dire che cercavi un lavoro mentre ero nascosta nel ripostiglio delle scope, sei disponibile per qualche lezione di matematica?”. Suonava patetico e decisamente bizzarro. Niente ripetizioni con Adam, poco ma sicuro.  
«Perché non l'ho mai fatto prima, non ho esperienza.» Rispose Adam. «E poi, non sono sicuro di esserne capace: non ho tutta questa pazienza.»
«Smetti di farti questi complessi mentali, okay? Fallo e basta. Metti un annuncio in bacheca tu o lo farò io. E sai che ne sono capace.» Dichiarò Michael.
«Voglio vedere chi ti rispiegherà letteratura dopo…» Commentò Adam a mezza voce e per un attimo mi immaginai l'occhiata che doveva aver scoccato al suo migliore amico.
“Un aiutino anche a letteratura però mi farebbe comodo”, pensai distrattamente. No, assolutamente no. Dovevo togliermelo dalla testa. Adam non era la risposta ai miei problemi scolastici. Anzi, Adam non era la risposta a niente se non alla domanda "chi è il ragazzo che ti farà venire un esaurimento nervoso?".
«Okay, okay, scherzavo.» Si affrettò a dire Michael. «Niente annuncio.»
Sentii un tonfo leggero che attribuii ad una probabile pacca sulla spalla da parte di Adam al suo amico. «Ottima scelta.»
Poi sentii le loro voci farsi più fievoli e deboli mentre si allontanavano accompagnati dal rumore dei loro passi. Tirai un sospiro di sollievo anche se fu una tregua che durò solo un attimo: la porta si aprì all’improvviso e rimasi accecata dalla luce per un secondo.
Quando riuscii a mettere a fuoco quello che avevo davanti mi ritrovai a fissare uno dei bidelli della scuola, Lucas, che mi guardava come se avessi avuto i capelli verdi o viola. Rimanemmo a fissarci per un po’, lui confuso e stranito, io molto, molto in imbarazzo.
«Ehi.» Mormorai sollevando una mano in segno di saluto.
Non ricambiò, cosa che mi fece capire quanto strano doveva essere trovare una ragazza nel ripostiglio. Una ragazza con delle occhiaie paurose e una sottospecie di treccia scarmigliata a tenerle fermi i capelli.
«Serve qualcosa?» Chiesi sperando di alleggerire la tensione.
Lui fece un cenno verso qualcosa alle mie spalle senza staccarmi gli occhi di dosso. Mi voltai e vidi una scopa appoggiata al muro.
«Oh, sì.» La presi e gliela porsi. «Ecco a te.»
Lui la afferrò e borbottò un grazie. Si girò e se ne andò dopo avermi lanciato un’occhiata sospettosa. Beh, come biasimarlo? Probabilmente sarebbe stata la mia stessa espressione se avessi visto qualcuno chiuso nel ripostiglio.
Sospirai pesantemente coprendomi il viso con le mani. Stavo combinando guai uno dopo l’altro e rischiavo seriamente di buttare al vento anni di pleniluni passati completamente sola nel bosco e di sforzi per vivere una vita normale nonostante il lupo che si nascondeva dentro di me.
Stavo ancora imparando a conviverci, dovevo ancora migliorare solo che farlo da sola era piuttosto impossibile: non c'era nessuno a consigliarmi, a darmi qualche dritta, o anche solo ad incoraggiarmi quando tutto quello che avrei voluto era mollare tutto e fregarmene dei danni che potevo fare.
Anche se ci fosse stato qualcuno con una minima esperienza in fatto di licantropia, non avrei potuto chiedergli assolutamente niente: doveva fare da sola. Come sempre.
Sistemai qualche ciocca ribelle dietro le orecchie, drizzai la schiena e trassi un respiro profondo: magari il mio essere lupo poteva crearmi problemi, ma mi dava anche una grande forza. Ed io ero più che decisa a sfruttarla.



SPAZIO AUTRICE:  Per prima cosa voglio ringraziare tutti voi che seguite questa storia e che mi supportare, davvero, grazie mille, siete dei lettori fantastici *^*
Un ringraziamento speciale va a Shahrazad Lassiter, una ragazza davvero fantastica e dolcissima a cui auguro solo il meglio.
In questo capitolo ho voluto farvi conoscere meglio Scarlett, la mia piccina combina guai. Nonostante l'apparenza anche lei a volta si sente scoraggiata e vorrebbe arrendersi, e penso che questo sia uno dei lati più belli di lei: anche se il suo lupo è  forte e spesso incontrollabile, lei si sforza e lotta con tutta se stessa per mantenere insieme i pezzi della sua vita e mandarla avanti meglio che può.
Visto che tra poco, purtroppo, ricomincia la scuola non so se potrò garantirvi aggiornamenti puntuali. Farò del mio meglio per far sì che sia così, soprattutto perché ormai, sul mio computer, Under a Paper Moon è completa. Devo solo rivedere i capitoli prima di pubblicarli quindi spero di riuscire a pubblicare con regolarità.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

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Capitolo 8
*** 08. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 8




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8. Adam

Non avevo mai creduto alle coincidenze, però, dopo aver incontrato un licantropo, avevo dovuto ricredermi su molte cose. Prima fra tutte, l’intensità degli occhi marroni: fino a quel momento avevo sempre pensato che fossero comuni e quasi scontati. Poi era arrivata Scarlett con le sue iridi brucianti e non avevo potuto fare a meno di sentirmi un po' intimorito di fronte al suo sguardo indagatore e sospettoso.
E questo era piuttosto irritante: era fastidioso non avere il controllo della situazione quando incrociavo i suoi occhi ed era strana quella specie di attrazione che sentivo verso di lei. Non era una cosa normale, non che potessi aspettarmi normalità da un licantropo, e non sapevo come gestirla.
Sbagliare, con lei, poteva voler dire rischiare la vita, un semplice, piccolo errore e potevo dire addio a tutto quello che avevo fatto in diciassette anni. Da una parte, avrei voluto vedere di cosa era veramente capace, se tutto quel mistero e quel riguardo erano davvero fondati sul suo desiderio di proteggere la gente o se erano semplicemente una copertura per la sua mancanza di conoscenza del suo potere.
L’avevo incontrata tre volte e nessuna delle tre era stata anche solo lontanamente produttiva. Volevo rivederla e cercare di convincerla a parlare come due persone normali. Almeno all’apparenza. Odiavo ammetterlo, ma stava diventando un’ossessione cercare di capirne di più su di lei e sulla licantropia. Il problema era solo uno: come avvicinarla senza farla scattare sulla difensiva? Non sapevo nulla di lei, quindi anche iniziare un discorso poteva rivelarsi un’impresa. Anzi, ero piuttosto certo che sarebbe stato così.
«Parlare con un muro sarebbe più interessante…» Borbottò una voce che conoscevo bene.
Sollevai lo sguardo e incontrai gli occhi castani e severi di Michael che mi studiavano irritati. Mi passai una mano tra i capelli cercando di sfuggire alle sue occhiate accusatorie.
«Lo so… Scusa. Sono solo un po’ distratto…» Mormorai.
«Distratto?! No, tu sei perso, completamente perso chissà dove. Hai bevuto stamattina? O ti sei fumato qualcosa? Oppure hai sbattuto la testa da qualche parte?» Chiese inarcando un sopracciglio. Sembrava si stesse trattenendo dall’urlare.
«No, niente del genere. Solo…» Cominciai sperando di riuscire a trovare una scusa credibile.
«Ho capito!» Esclamò facendomi sobbalzare. «Sei innamorato!»
«Non potevi andarci più lontano…» Commentai a mezza voce.
«Sì, certo. Ma con chi credi di avere a che fare, eh? Lo so riconoscere quello sguardo vuoto e distante, genio. Allora, chi è la fortunata?» Domandò.
«Nessuna, okay? Non sono innamorato.» Replicai.
Mi resi conto che mi stavo mettendo sulla difensiva. “Come Scarlett”, pensai mio malgrado.
«No, no, ma figurati… Perché non vuoi dirmelo? Sono il tuo migliore amico, queste cose dovrei saperle! Andiamo, io te l’ho detto che mi piaceva Julia.» Insistette.
«Sì, lo so, ma non posso inventarmi una ragazza solo per farti contento. Ti ho detto che non c’è nessuna.» Ribattei.
«E io sono il presidente Obama. Sputa il rospo Meyers.» Ordinò incrociando le braccia al petto.
«Non chiamarmi per cognome. E poi ti ho già detto che non sono innamorato.» Sbuffai scoccandogli un’occhiataccia.
«Sicuro? Perché quello sguardo a me sembra proprio quello da innamorato pazzo che ha tagliato i collegamenti con il mondo.» Replicò lui studiandomi.
«Non posso neanche pensare in pace senza essere frainteso?» Borbottai esasperato.
«Giusto, tu sei un genio, devi riflettere su… quelle questioni esistenziali che riguardano l’universo eccetera eccetera.» Convenne facendo un cenno vago con la mano.
“Almeno ha smesso di insistere”, pensai. «Più o meno.»
Proprio in quel momento vidi Scarlett e la sua amica con mezza testa rasata passarci di fronte dall’altra parte del parcheggio. Senza volerlo veramente, mi ritrovai con lo sguardo fisso su di lei, come se anche solo guardarla potesse aiutarmi a conoscerla di più, a capirla. No, così non andava, mi stavo facendo prendere troppo da quella strana ragazza e dalla sua… situazione ancora più complicata. Se avessi continuato così sarei finito per complicarmi la vita anch’io e, sinceramente, non è che mi andasse.
«Sembri un segugio che punta la preda.» Commentò Michael.
Solo in quel momento mi ricordai che era accanto a me. Mi irrigidii e mi affrettai a distogliere lo sguardo. Strinsi le labbra maledicendomi per la mia disattenzione: come era possibile che una ragazza praticamente sconosciuta mi facesse un effetto del genere? Neanche fosse stata chissà quale bellezza… “Bugiardo”, sibilò una vocina nella mia mente.
«Quindi… quale delle due?» Domandò Michael incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla fiancata della mia auto.
Sbattei le palpebre e riportai la mia attenzione su di lui. «Cosa?»
Sollevò un sopracciglio. «Stavi guardando quelle due ragazze come se avessi voluto… uh, mangiarle? Sì, direi di sì. Le cose sono due: o una ti ha spezzato il cuore e porti ancora rancore, o vuoi uscire con una di loro. E, tenendo conto del fatto che sei un adolescente in piena crisi ormonale, sono più propenso per la seconda.»
Rimasi un po’ sorpreso dal suo strambo discorso e dai suoi paragoni bizzarri, ma cercai di non farglielo notare. «Non voglio mangiare nessuno e non voglio uscire con nessuna delle due.»
«Vuoi fare l’asociale.» Tradusse, erratamente, lui.
Alzai gli occhi al cielo, esasperato. «No. E mi farai venire una crisi di nervi se continui così.»
Lui si limitò a socchiudere gli occhi, segno che stava progettando qualcosa. Qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. «Sai, quella con mezzi capelli è amica di Julia, fanno pallavolo insieme.» Buttò lì con aria indifferente.
«E quindi?» Chiesi consapevole di star cadendo nella sua trappola.
«Niente, era così per dire. Sì, insomma, se tu volessi il nome di quella ragazza potrei farmelo dare da Julia così... beh, magari potreste uscire insieme. Senza impegno, si intende.» Continuò lui facendo gesti vaghi con le mani.
Mi ritrovai a prendere seriamente in considerazione la sua proposta, non tanto perché mi interessava la ragazza con la testa mezza rasata, ma perché attraverso lei potevo arrivare a Scarlett. In un modo più civile e accettabile che presentarmi a casa sua come avevo progettato di fare durante l’ora di economia.
Però usare quella ragazza per parlare con Scarlett mi sembrava sbagliato, e in effetti lo era: non potevo approfittare una persona per i miei scopi senza curarmi dei suoi sentimenti, farlo era da insensibili. Lasciarsi scappare la possibilità di avvicinare Scarlett era da pazzi. Ma volevo davvero andare contro i miei stessi ideali per… lei?
Mi passai una mano tra i capelli, combattuto, e sospirai. Com’era possibile che una perfetta, o quasi, sconosciuta mi portasse tanti dubbi? Conoscerla quanti guai avrebbe comportato? Le risposte che avrei potuto ottenere, sarebbero valse il rischio?
«Allora?» Chiese Michael studiandomi con aria fintamente innocente.
«Non lo so… Non mi sembra giusto.» Ammisi.
In realtà io mi riferivo a Scarlett e all’usare la sua amica come tramite per arrivare a lei, ma lui interpretò la mia risposta a modo suo. Per fortuna direi.
«Però lo vuoi, vero?» Insistette il mio migliore amico.
Trassi un respiro profondo. «Perché no. Sì, insomma, non credo che tu mi lascerai in pace finché non ti dirò quello che vuoi sentire.»
Sorrise, soddisfatto. «Bene. Stasera ti manderò un messaggio con nome e cognome. Oppure non lo farò. Dipende tutto dalla tua risposta alla mia prossima domanda.»
Lo sapevo che voleva qualcosa in cambio, qualcosa che non sarei stato molto felice di dargli. «Sei un bastardo, lasciatelo dire.»
Mi diede una pacca sulla spalla. «La vita è dura amico, bisogna sapersi adattare. Io la considero pura e semplice sopravvivenza.»
«Okay, senti, finiamola qui: cosa vuoi?» Domandai al limite dell’esasperazione.
Il suo ghigno si allargò. «Voglio un invito al diciottesimo di tua cugina.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso quasi beffardo. «Ti piacerebbe. Selena neanche sa che esisti.»
«Ma tu lo sai, e puoi informarla di questa grandiosa notizia, dico bene?» Aggiunse lui.
«Se ti faccio invitare alla festa tu mi dai il nome della ragazza?» Chiesi studiandolo.
«Certo amico, io sono un uomo di parola.» Mi tese la mano. «Affare fatto?»
“Come distruggere i propri ideali con due semplici parole”, pensai. «Affare fatto.»

«Dici che sarebbe una buon’idea?» Mi domandò Selena con la sua voce dolce.
«Ma sì, è un bravo ragazzo, lo conosco da anni…» “E ti sto mentendo spudoratamente solo perché voglio avvicinare un licantropo”, aggiunsi mentalmente. «Se proprio non vuoi va bene lo stesso, se ne farà una ragione.»
Spostai il cellulare all’altro orecchio mentre cercavo la ciotola di Cora che, come al solito, sembrava essere sparita. Se non fossi stato al telefono con mia cugina probabilmente mi sarei lasciato sfuggire un’imprecazione: perché il nostro cane aveva la pessima abitudine di nascondere qualunque cosa gli capitasse a tiro? 
Cora strofinò il naso sulla mia mano con un mugolio impaziente. Le scoccai un’occhiata ammonitrice: in fondo era colpa sua se non poteva mangiare subito.
«Oh, ma per il mio cuginetto farei questo ed altro!» Esclamò Selena. «Senti, digli che se vuole può venire: più siamo meglio è.»
«Grazie Sel. E comunque c’è solo un anno di differenza tra noi, siamo praticamente coetanei.» Risposi.
«Per me rimarrai sempre il mio cuginetto, sappilo. Però eviterò di dirlo in pubblico.» Replicò lei. Percepii il sorriso nella sua voce.
«Credo di doverti ringraziare per questo, giusto?» Domandai individuando, finalmente, la ciotola di Cora.
La sentii ridere. «Direi di sì. Allora ci vediamo tra due settimane, mmh?»
«Perfetto. Anche se mi sembra incredibile che tu abbia già programmato tutto con così tanto anticipo.» Commentai mentre Cora saltellava allegra intuendo che stava per mangiare.
«Beh, diciotto anni si compiono una volta sola, quindi… Ho voluto fare le cose in grande. Ora devo andare, il mio ragazzo mi aspetta. Ci vediamo cuginetto.» Ribatté.
Alzai gli occhi al cielo. «Sì, ci vediamo…»
Si raccomandò di salutare mamma e papà da parte sua e riattaccò. Infilai il cellulare nella tasca dei jeans e riportai l’attenzione su Cora: mi guardava con aria implorante scodinzolando piano.
«Ora ti do da mangiare, sì. Sei parecchio golosa, eh?» Borbottai riempiendole la ciotola.
Lei si limitò ad infilare il muso nei suoi croccantini decisamente soddisfatta. Mi appoggiai al tavolo della cucina e mi passai una mano tra i capelli. In quel momento il mio telefono vibrò. Lo presi dalla tasca e notai che c’era un messaggio da Michael: La ragazza con i capelli strani si chiama Elisabeth Levine. E tu che mi dici? Tua cugina sa della mia meravigliosa esistenza?.
Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai in tensione: era il primo passo verso Scarlett. Anche se, a dirla tutta, non sapevo che avrei fatto ora che avevo il nome della sua amica. Proprio non ne avevo idea, ma mi dissi ci avrei pensato più avanti.
Perfetto, grazie. E sì, mia cugina ti ha invitato ufficialmente. Sono sicuro che anche il suo ragazzo sarà felice di sapere della tua esistenza. Magari proprio da te.” Scrissi il messaggio senza riuscire a trattenere un sorriso.
Sei un bastardo Adam Meyers! Questa me la paghi, sappilo.” La sua risposta mi fece sorridere di più.
Infilai il cellulare nella tasca dei jeans ripensando a quello che sapevo in quel momento: Elisabeth Levine non sembrava troppo difficile da avvicinare, aveva l'aria disinvolta e sorrideva spesso, quindi forse era anche amichevole.
Il punto era cosa fare dopo? Dovevo fingere di provarci con lei o dirle la verità? Omettendo, ovviamente, la licantropia della sua amica. E quindi che scusa dovevo usare? Dovevo farle credere che mi piaceva Scarlett? Avrei anche potuto farlo, non doveva essere troppo difficile fingere che lei mi interessasse perché, in un certo senso, lo faceva davvero. Non c’entravano niente il desiderio, però ero comunque attratto da lei.
“Che situazione complicata”, pensai. Come diavolo avevo fatto a cacciarmi in un guaio del genere?
Avrei dovuto usare Elisabeth in ogni caso, sia che fossi stato sincero, più o meno, che no, quindi restava solo da scegliere quanto senza sentimenti dovevo essere: illuderla e poi avvicinare Scarlett o farle sapere fin da subito che lei non mi interessava e che volevo solo parlare con la sua amica? A dirla tutta, messe così sembravano tutte e due opzioni disonorevoli alla pari, il che non mi aiutava a decidere.
Mia madre entrò in cucina con una grossa borsa della spesa e l’appoggiò sul tavolo. Indossava dei jeans blu scuro e un maglione grigio. Aveva raccolto i capelli in una coda alta perfettamente ordinata, come sempre.
«Oh, ciao tesoro. Tutto bene a scuola?» Chiese sorridendomi.
Scrollai le spalle. «Come al solito.»
«Hai dato tu da mangiare a Cora?» Domandò tirando fuori le uova dalla borsa.
«Mm-mm.» “Perché non chiedere un parere a lei? Senza nominare le parti che possono metterti nei guai, naturalmente”, suggerì una vocina nella mia mente. «Senti, posso farti una domanda?»
«Certo tesoro, dimmi pure.» Confermò lei.
«Mettiamo caso che io abbia il nome di una ragazza però in realtà voglio… uh, avvicinare una sua amica: che dovrei fare? Sì, insomma, non voglio approfittare di nessuno, ma neanche illudere questa ragazza.» Spiegai tenendomi il più possibile sul vago e chiedendomi quanto fosse riuscita a capire da quel poco che le avevo detto.
Lei incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte. «La ragazza che vuoi avvicinare ti piace?»
“No, voglio solo sapere di più sulla licantropia”, pensai. «Ehm… Diciamo di sì.» Suonò come una domanda persino a me.
Lei si lasciò sfuggire un sorriso. «Perché non parli direttamente con lei? Evita terzi incomodi e fatti avanti.»
Magari fosse stato così semplice… «Ecco, in realtà non è così facile: questa ragazza è parecchio…» “Lunatica, rabbiosa, imprevedibile… pericolosa.” «Timida. Quindi avvicinandola così mi sembra di metterla con le spalle al muro.»
«Hai ragione, non l’avevo considerata sotto questo punto di vista… Si vede che ci tieni parecchio a lei.» Commentò mia madre annuendo piano.
“Ah sì?”, mi chiesi. In realtà neanche io l’avevo vista così quando avevo parlato, semplicemente le parole erano venute fuori da sole. «Mmh… Sì. Credo.»
Stavo facendo tutto quel casino solo perché non volevo rischiare troppo andando direttamente a parlare con Scarlett: poteva reagire molto, molto male e sarei stato da solo ad affrontare le conseguenze. Anche perché non potevo certo chiedere aiuto a qualcuno, e neanche lo volevo. Era qualcosa che doveva risolvere io e lei. 
«So che è difficile, però mettere qualcun altro in mezzo sarebbe solo una complicazione. Devi essere diretto con lei e dirle cosa provi. Invitala ad uscire magari.» Aggiunse mia mamma prendendo delle carote dalla borsa.
Invitare Scarlett ad uscire era praticamente un suicidio, non potevo farlo: mi aveva detto esplicitamente che dovevo tenermi lontano da lei, quindi proporle una cosa del genere era assolutamente fuori questione. E poi, se le avessi davvero chiesto di uscire avrebbe pensato che mi piaceva in quel senso, ed era un'altra cosa da evitare.
«Ci penserò…» Mormorai distrattamente.
Lei mi mise una mano sul braccio. «Se lei ti piace davvero vedrai che andrà tutto bene, mmh? Devi solo rilassarti e pensare meno.»
Sospirai. «Non è così facile…»
«Lo so, tu sei una persona molto razionale, tendi a valutare tutto. Ma adesso devi lasciarti andare. E vedere come va.» Replicò mia mamma prima di mettersi a preparare la cena.
“Andrà male, molto male…”, mi dissi. Avvicinare un licantropo e farlo parlare suonava come un’impresa impossibile e in effetti lo era: in fondo che diritto avevo io di interferire con la vita di Scarlett? Nessuno. Eppure volevo farlo lo stesso, volevo mettermi nei guai con le mie stesse mani solo per trovare qualche risposta che neanche mi serviva.
Ero ancora in tempo per tornare indietro, lo sapevo, esattamente come sapevo che, se l’avessi fatto, se avessi fermato tutto prima ancora di iniziarlo, mi sarei odiato e me ne sarei pentito. Quindi… avrei sfidato la sorte, e Scarlett, solo per placare quella strana curiosità che mi provocava quella altrettanto strana ragazza.




SPAZIO AUTRICE:In questo capitolo Adam dimostra di pensare ancora molto a Scarlett, cosa che sta facendo anche lei, e di essere disposto a rischiare pur di avvicinarla. Il perché non è chiaro neanche a lui, ma non sembra volersi fermare a riflettere. In realtà, nessuno dei due lo farà: Scarlett è ossessionata dall'idea che Adam possa rivelare il suo segreto e quindi vuole tenerlo d'occhio pur sapendo che sarebbe più saggio non farsi notare; Adam vuole delle prove per capire se la licantropia esiste davvero e, se sì, che cosa comporta. Questo porterà entrambi ad agire d'istinto e a cacciarsi in situazioni che avrebbero dovuto evitare. 
Vi anticipo che la festa di Selena sarà teatro di qualche colpo di scena che non riguarderà solo i nostri due protagonisti: anche Michael combinerà qualcosa di cui potrebbe pentirsi.
Detto questo, vi ringrazio di nuovo per l'entusiasmo che dimostrate nel seguire la storia, non me l'aspettavo assolutamente *-*

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 9
*** 09. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 9




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9. Scarlett


Più si avvicinava la fine delle lezioni e più mi convincevo che il mio piano era terribilmente sbagliato, un concentrato di stupidità impressionante perfino per me. E mi era bastata una sola ora di riflessione per decidere cosa fare. In effetti, già questo avrebbe dovuto farmi capire quanto era idiota la mia idea.
Ad essere sinceri, avevo cominciato a pensarci già il giorno prima, dopo un’uscita con James, ma avevo cominciato a delineare i dettagli solo quella mattina. Non era niente di complicato, in poche parole avevo semplicemente deciso di parlare con Adam e di chiarire… beh, quello che c’era da chiarire.
Avevo un po’ paura di scoprire come sarebbe andata a finire, ma non sopportavo l’idea di rimandare ancora quella discussione: avevo bisogno di capire perché non riuscissi a fare a meno di guardarlo, di perdermi nel cielo tempestoso delle sue iridi e soprattutto perché mi attirava in un certo senso. Niente passione, sia chiaro, però c’era comunque uno strano interesse che sembrava reciproco. Ed ero piuttosto sicura che c'entrasse la mia licantropia.
Mi ero cacciata in un bel guaio e sarebbe stato difficile uscirne: potevo allontanarmi da lui, far finta che il fatto che fosse a conoscenza del mio segreto non mi preoccupasse, anche se questo avrebbe significato creare un grande “e se invece…” nella mia vita. Oppure potevo affrontarlo e capire quali fossero le sue intenzioni. Soprattutto perché l’avevo visto parlare più di una volta con Elisabeth e lei aveva lasciato intendere che avevano persino avuto un appuntamento. Un appuntamento! Quel dannatissimo ragazzo mi avrebbe fatta impazzire, me lo sentivo.
Solo quando sentii uno strano scricchiolio, un po’ fuori luogo in un’aula, mi resi conto che stavo stritolando la mia unica matita buona. La posai sul banco e strinsi i pungi per calmarmi. L’unico lato positivo che riuscivo a trovare in tutto quel casino era che, anche se Adam fosse entrato in contatto con mia madre o con Beth, il mio segreto sarebbe rimasto al sicuro: nessuna delle due sapeva assolutamente niente della mia licantropia.
“Un punto per me”, mi dissi. Eppure era una magra consolazione: una parte di me, piuttosto insistente a dir la verità, continuava a dirmi che dovevo parlare con Adam e cercare di fare chiarezza. E dovevo ammettere che, se non volevo impazzire definitivamente, dovevo assolutamente farlo.

L’ultima ora di lezioni fu un’agonia durante la quale quasi mi mangiai la penna: continuavo a mordicchiarla in preda ai dubbi sulla mia decisione riguardo il ragazzo con gli occhi tempestosi. “Oddio gli ho pure trovato un soprannome!”, pensai stringendo i denti sulla penna e sentendo la plastica scricchiolare.
Quando suonò la campanella che segnava la fine della lezione trasalii e mi morsi la lingua per sbaglio. Imprecai tra me e me mentre infilavo poco delicatamente i libri nello zaino. Uscii per ultima non proprio per caso visto che continuavo ad indugiare e a chiedermi quanto grave fosse quello che stavo per fare.
Ero sulla porta dell’aula quando la professoressa di inglese, la signora, o meglio signorina Hataway, mi richiamò: «Scarlett, puoi aspettare un attimo?»
“No”, avrei voluto dire, ma dalla mia bocca uscì la risposta contraria: lei era così gentile e sorrideva sempre e io non riuscivo mai a dirle di no. «Certo.»
Trassi un respiro profondo e mi voltai verso di lei cercando di mostrarmi a mio agio. Provai anche a sorridere, cosa che divenne molto difficile quando mi resi conto che il mio pensiero andava automaticamente ad Adam. Feci qualche passo verso la cattedra mentre la prof armeggiava con parecchi fogli mormorando tra sé e sé. Quando si girò verso di me ne teneva in mano uno come se fosse stata soddisfatta di essere riuscita a scovarlo.
«So di aver detto che vi avrei riportato i compiti la settimana prossima, ma ieri mi è capitato il tuo tra le mani e… gli ho dato un’occhiata.» Ammise.
Mi irrigidii pensando subito al peggio. “Ecco, adesso ci si mette pure l’insufficienza ad inglese… Che cosa ho fatto di così male per meritarmela?”, mi chiesi mordendomi il labbro fino a farmi male.
Erano frustranti quelle continue difficoltà a scuola, soprattutto in quella materia: mi era piaciuta fin dal primo anno e la prof Hataway era una delle mie preferite quindi non andavo per niente male. In più, chissà perché, mi ero ripromessa di non deluderla mai, di prendere sempre buoni voti con lei. Fino a quel momento ce l’avevo fatta, ma sembrava che quella volta avessi fallito.
L’insegnante abbassò lo sguardo sul foglio che aveva in mano. «Sei sempre stata costante nella mia materia, e questa è una cosa che apprezzo molto Scarlett, davvero, ma…»
“Ma? Ma non pensavi che esistesse un voto più basso di F e quindi l’hai inventato sul momento solo per me?”, pensai sentendo sulla lingua il sapore metallico del sangue: mi ero morsa troppo forte il labbro, forse usando anche le zanne. Di nuovo.
«Ma questa volta ti sei davvero superata. Sul serio, hai fatto un ottimo compito. Questa A è meritatissima.» Concluse la prof alzando gli occhi e sorridendomi.
Spalancai gli occhi, incredula. «Una A? Dice sul serio?»
«Sì, hai fatto un ottimo lavoro.» Confermò lei.
«Io… Grazie. Davvero.» Mormorai stentando ancora a crederci.
«Figurati.» Replicò lei con un sorriso gentile. «Ma mi raccomando, continua così: il prossimo anno voglio che tu dia il massimo all’esame, intesi? Ora va, ti ho trattenuto anche troppo.»
Sorrisi senza neanche rendermene conto. «Grazie ancora.»
Lei si strinse le braccia al petto. «Di nulla. So che puoi fare grandi cose.»
Per una frazione di secondo avrei voluto abbracciarla, ma mi trattenni: in fondo, per quanto gentile ed amichevole fosse, lei restava comunque un'insegnante.
Annuii continuando a sorridere ed uscii dalla classe. I corridoi erano già vuoti: nessuno aveva voglia di rimanere neanche un minuto più dello stretto necessario a scuola. “Adam!”, il suo nome mi tornò in mente di colpo facendomi trasalire: poteva già essere andato a casa. Se fosse stato così avrei perso l’occasione per parlargli e chissà quando avrei ritrovato il coraggio di farlo…
Mi precipitai al parcheggio della scuola sperando che si fosse trattenuto a chiacchierare con qualcuno, magari con quel suo amico… Michael, se non mi sbagliavo. Mi sorpresi quando vidi che la sua auto era ancora al suo posto, dove l’avevo vista quella mattina. E lui dov’era? In classe? In biblioteca?
“Devo trovarlo, altrimenti diventerò pazza”, pensai non riuscendo a non chiedermi come diavolo fossi riuscita a cacciarmi in una situazione del genere.
Lo cercai praticamente in tutta la scuola, ma sembrava completamente sparito, come dissolto. Imprecai mentalmente ad ogni classe vuota e tirai anche un calcio al muro, con relativo ringhio di dolore. Poi mi fermai, interdetta dal mio stesso comportamento: un ragazzo che neanche conoscevo mi influenzava fino a quel punto? Davvero? Non potevo lasciarglielo fare. Decisi seduta stante che gli avrei parlato quando l’avrei rivisto, quando mi sarebbe capitata l’occasione, ma non sarei stata io a cercarlo.
Fiera della mia scelta, imboccai il corridoio che riportava al parcheggio: in quel momento volevo solo andare a casa, farmi una cioccolata calda e chiamare mia madre per dirle della A in inglese. L’avrei resa felice e orgogliosa di me, quello che cercavo di fare più o meno da sempre. E magari le avrei fatto dimenticare la promessa di non prendere insufficienze in matematica che le avevo fatto all'inizio dell'anno.
Rimasi a bocca aperta quando lo vidi, lì, in piedi, impegnato ad infilare alcuni libro nell’armadietto. Doveva essere un segno del destino visto che stavo per rinunciare a parlargli. Feci qualche passo verso di lui prima di fermarmi ad osservarlo, indecisa e sospettosa: aveva le labbra appena socchiuse, i capelli un po’ in disordine, gli occhi di quel blu così particolare che risaltavano sulla sua pelle chiara. Si sfilò la felpa, rimanendo in maglietta a maniche corte, e la mise nell’armadietto. Fu a quel punto che qualcosa in me scattò, ignorando i freni inibitori ed il buon senso e fregandosene dell’imbarazzo.
«Ti piacciono i Green Day?» Chiesi stupendomi della mia audacia: parlargli così apertamente era un gesto sconsiderato e che poteva rivelarsi pericoloso.
Si voltò verso di me con aria sorpresa. Mi guardò per qualche secondo con quei suoi occhi color tempesta. «Scarlett.»
«Adam.» Incrociai le braccia al petto. «Non hai risposto alla mia domanda.»
“Non c’è bisogno di essere così acida”, commentò una vocina dentro di me. Lui inclinò appena la testa di lato come se non riuscisse a capire cosa intendevo così, feci un cenno verso la maglietta che indossava dove campeggiava il logo del gruppo.
Abbassò per un attimo lo sguardo prima di stringersi nelle spalle. «Direi di sì.»
Annuii appena. «Come mai sei ancora qui? Le lezioni sono finite.»
Mi rendevo conto di sembrare decisa a fargli il terzo grado, però non riuscivo a rilassarmi. Eppure la conversazione l’avevo iniziata io…
Chiuse l’armadietto. «Avevo un compito e la professoressa ci ha fatto restare un po’ di più visto che era piuttosto lungo.» Mi studiò per qualche secondo. «Tu?»
Mi sentii presa in contropiede: io perché ero lì? Non avevo una vera e propria spiegazione, anzi, un minuto prima avevo deciso di andarmene a casa e lasciar perdere quello stupido piano. Poi l’avevo visto per caso e mi ero fermata, per un qualche oscuro motivo. Era come se le mie gambe avessero deciso da sole di portarmi lì, davanti a lui.
Deglutii. «Io… Uh, mi ero fermata a studiare in biblioteca e ho fatto tardi.» Inventai lì per lì.
«Ah
Okay.» Mormorò. «Ti serve qualcosa?»
«No.» Risposi secca.
“Ma certo, inizi una conversazione e poi fingi di avercela con lui, che piano geniale”, mi rimproverò la solita vocina.
Aggrottò la fronte per un attimo poi scrollò le spalle. «D’accordo.»
Si girò e fece per andarsene. E io, senza volerlo veramente, feci un passo avanti, verso di lui. Verso quello che poteva rivelarsi un grande guaio.
«In realtà una cosa ci sarebbe.» Ammisi osservando la sua schiena.
Sì fermò e vidi le sue spalle tendersi. Si voltò e i suoi occhi tempestosi incontrarono i miei. «Cosa?»
«Credo che tu voglia ancora parlarne. Giusto?» Domandai evitando di guardarlo: di colpo il pavimento sembrava essere diventato molto interessante.
Capì subito a cosa mi riferivo. «Sì, è vero. Ma tu hai detto che è meglio non farlo quindi…» Fece una piccola pausa. «Non credo sia saggio mettersi contro un licantropo.»
«Già.» Convenni pensando che non era ingenuo come credevo. «Però, ecco, immagino che tu qualche altra domanda ce l’abbia. E visto che questo non è un argomento comune… Non so, forse un paio di risposte potrei dartele.»
“E fu così che mi cacciai nei guai”, mi dissi.
Lui spalancò gli occhi, sorpreso. «Davvero? Cioè, lo faresti sul serio?»
A dirla tutta non lo sapevo fino a che punto potevo, e volevo, spingermi, ma mi rendevo conto che per lui non doveva essere facile tenere un segreto tanto importante che nemmeno lo riguardava in prima persona. «Sì. Ovviamente niente di personale, solo qualcosa di generico.»
«Non pensavo volessi farlo. In quel locale avevi detto che era finita lì, che non mi avrei più detto nulla.» Replicò studiandomi.
Abbassai lo sguardo. «Lo so. Però non posso chiederti di nascondere una cosa così grande. So che non è abbastanza per ripagarti, ma… Ho pensato che magari darti qualche informazione in più avrebbe pareggiato, almeno all’apparenza, i conti.»
«Immagino di doverti ringraziare. Sì, insomma, credo che per te sia una grande prova di fiducia.» Rispose.
«Mettiamo in chiaro una cosa: io non mi fido di te. Nemmeno ti conosco, non vedo come potrebbe essere diversamente. Ho deciso di darti qualche risposta solo per sentirmi in pace con me stessa.» Dichiarai.
Si strine nelle spalle. «Sempre meglio di niente.»
“Gli interessa davvero tanto…”, pensai sorpresa. «Credo di sì.»
«Vuoi parlarne qui o preferisci andare da un’altra parte?» Chiese.
Arricciai il naso. «Odio questo posto.»
Si morse il labbro per nascondere un sorriso. «E un’altra parte sia allora.» Mi fece cenno di seguirlo. «Vieni.»
Feci qualche passo incerto fino a trovarmi ad un metro di distanza da lui. Sollevai lo sguardo ed incrociai i suoi occhi: sembravano sinceri, anche un po’ incuriositi.
Mi resi conto di essere più bassa di lui di un bel po’ di centimetri e mi diede quasi fastidio sapere di non poterlo guardare negli occhi senza sollevare la testa.
Camminammo fianco a fianco fino al parcheggio della scuola. C’erano rimaste solo le auto dei prof e dei bidelli. Insieme alla sua. Scura e semplice, non sembrava una macchina costosa come quelle che sfoggiavano i ragazzi della nostra età per vantarsi e mostrare quanti soldi avevano. In effetti, da un certo punto di vista, la sua auto un pochino lo rispecchiava: anche lui era, almeno all’apparenza, un ragazzo come tanti che quasi passava inosservato. Però, appena si andava un po’ più a fondo, veniva fuori una persona complessa e abbastanza fuori dal comune.
Non era scappato vedendomi mezza trasformata, ne voleva sapere di più. Questo non lo classificava assolutamente come persona “normale”. Anzi, tutt’altro.
Tirò fuori le chiavi dalla tasca dei jeans e mi lanciò un’occhiata di sottecchi prima di fare il giro e sedersi al posto di guida. Ero già stata in quella macchina, ricordavo di essermi spiaccicata contro lo sportello per un qualche oscuro motivo, e ora stavo per tornarci. Tempo pochi minuti e avrei dovuto parlargli di quello che ero veramente, cosa che non avevo mai fatto in vita mia e che non pensavo avrei mai fatto. Trassi un respiro profondo e mi sedetti accanto a lui.
«Nervosa?» Chiese spiazzandomi: si notava così tanto?
«Ecco… È un argomento delicato…» Balbettai.
Guardava fisso davanti a sé e io non potei fare a meno di osservare il suo profilo, la linea della mascella, le labbra chiare, i capelli leggermente arruffati.
«Non sei obbligata a farlo. Posso accompagnarti a casa anche subito se vuoi.» Aggiunse. Parlava piano, come se avesse avuto a che fare un animale ferito e terrorizzato.
Deglutii e trassi un respiro profondo. «N-no… Davvero, va bene così.»
«Sicura?» Domandò con voce quasi accondiscendente.
Annuii tenendo gli occhi chiusi. «Sì. Sul serio.»
«Okay. Non so quanto possa contare, ma lo apprezzo.» Mormorò.
Non riuscii a fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa: era molto diverso da come appariva; se da fuori sembrava uno di quei ragazzi un po' intellettuali e con la testa tra le nuvole, appena cominciavi ad andare più a fondo scoprivi una persona attenta e vogliosa di scoprire il più possibile riguardo a quello che lo circondava.
Tirai giù le maniche della felpa fino a coprirmi quasi completamente le mani. Osservai la punta delle mie scarpe, ormai vecchie e scolorite, chiedendomi perché non avesse paura, perché fosse così interessato a capire cos’ero, perché si mostrava così aperto e disponibile. Cos’avevo di così speciale da attirarlo fino a quel punto?

Qualche minuto dopo, abbastanza perché mi perdessi nei miei pensieri, mi accorsi che l’auto era ferma. E che avevo il suo sguardo addosso. Deglutii e gli lanciai un’occhiata di sottecchi. Incontrai i suoi occhi grigio-blu che mi osservavano con una curiosità quasi trattenuta, come se avesse temuto che se fosse stata più esplicita mi sarei spaventata.
«Siamo arrivati.» Disse sempre con voce calma.
Mi voltai e, fuori dal finestrino, vidi un piccolo bar con l’insegna piccola e un po’ scolorita. Era un locale come tanti, probabilmente passandoci davanti non l’avrei mai notato. Un po’ mi sorprendeva che lui lo conoscesse.
«Non ci sono mai stata qui…» Commentai tornando a guardarlo.
Sembrò rilassarsi. «Sì, beh, lo conoscono in pochi. È uno di quei locali dove va la gente che vuole stare in pace per leggere, rilassarsi, parlare…»
“Io ho davvero bisogno di rilassarmi. E tu vuoi parlare…”, pensai, “forse sarebbe meglio se ci mettessimo a leggere qualcosa.” «Bene. Andiamo?»





SPAZIO AUTRICE: Ed eccoci qua con il nono capitolo *-*
Negli scorsi capitoli la situazione è stata piuttosto stazionaria, forse qualche capitolo vi sarà anche risultato noioso -e in quel caso mi scuso, ma avevo bisogno di introdurre i personaggi e farveli conoscere- ma da adesso in poi cominceranno, almeno spero, i colpi di scena. Adam e Scarlett si ritroveranno più vicini di quanto loro stessi vorrebbero, e non sarà sempre per colpa loro: qualche altro personaggio potrebbe aiutare queste "coincidenze".  
In questo capitolo Scarlett si è mostrata piuttosto indecisa, non sa come gestire questa nuova situazione proprio perché è la prima volta che le capita di avere a che fare con qualcuno che conosce il suo segreto. Da una parte vorrebbe che non fosse Adam, sia perché sta uscendo con Elisabeth, sia perché è un ragazzo che nasconde fin troppi misteri: dietro le apparenze, anche lui ha qualche scheletro nell'armadio che più avanti verrà svelato.
Nel prossimo capitolo arriverà qualche risposta, ma anche qualche domanda.
E niente, spero di avervi lasciato almeno un po' con il fiato sospeso dopo i capitoli precedenti un po' più... calmi.

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 10
*** 10. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 10




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10. Adam

Non riuscivo a credere che fosse davvero lì con me, di sua spontanea volontà poi. Soprattutto, però, non riuscivo a credere che, proprio quando avevo deciso di lasciarmela alle spalle, di andare avanti con la mia vita, fosse ricomparsa proponendomi addirittura una chiacchierata sul suo essere lupo. E io le avevo detto di sì subito, senza neanche pensarci, dimenticandomi completamente del mio proposito di dimenticarla: perché?
Sapevo benissimo che continuare ad insistere sarebbe stato solo dannoso, ma mi era bastato rivederla per tornare a desiderare di saperne di più, per sentire di nuovo quella strana attrazione verso di lei. Che aveva di tanto speciale? A parte la licantropia, ovviamente. Niente, era una ragazza come tante: occhi marroni, capelli castani, viso carino ma niente di più.
Eppure mi tremavano le mani quando ero salito in auto, avevo avuto paura che mi si incrinasse la voce, non ero stato sicuro di quello che dicevo. Che mi stava succedendo? Era una specie di reazione involontaria? Magari troppa paura repressa mi stava facendo perdere il controllo a poco a poco. Qualunque cosa fosse, non mi piaceva: non potevo permettermi di non avere il controllo della situazione con lei vicino. Non ora che sembrava decisa a dirmi qualcosa di sé.
«Bene.» Commentò con il tono di voce di chi deve farsi forza per affrontare qualcosa di spiacevole ma necessario. «Andiamo?»
Prima che potessi anche solo valutare se fosse il caso o meno di dirlo, le parole uscirono fuori da sole: «Non sei obbligata a farlo. Per niente.»
Mi guardò negli occhi con più naturalezza delle altre volte e senza la sua solita aria di sfida. «Lo so, me l’hai già detto. Ma… è giusto così, okay? Facciamolo e non pensiamoci più.»
Non mi diede neanche il tempo di ribattere: scese dall’auto e chiuse lo sportello. Rimasi a fissarla attraverso il finestrino per qualche secondo prima di decidermi a raggiungerla. Quando le arrivai accanto mi lanciò un’occhiata veloce e distolse subito lo sguardo. Giocherellava nervosamente con le maniche della felpa che indossava e che le stava decisamente grande: nascondeva il suo corpo facendola sembrava ancora più minuta di quanto non fosse in realtà.
Fece per entrare nel bar, ma la fermai prendendola per un braccio e facendola girare verso di me. La distanza tra noi due si ridusse notevolmente. Le sue iridi marroni trovarono le mie come se fossero state attratte da una calamita. Non c’era traccia di rabbia nel suo sguardo, solo malcelato interesse.
«Non voglio che tu ti senta obbligata…» Cominciai.
«Ancora? Finirai per farmi venire i sensi di colpa.» Le sue labbra si incurvarono in un sorriso quasi timido di cui sembrava non essersi accorta. «Non mi hai obbligata a fare nulla. Sono venuta io da te, è stata una mia scelta. È una cosa di cui non parlo volentieri, questo sì, ma è okay, davvero.»
Mi morsi il labbro inferiore, combattuto: mi stava dando quello che volevo, perché non riuscivo a smettere di sentirmi in colpa? L’aveva detto anche lei che aveva scelto di sua spontanea volontà, quindi non avevo motivo di essere così nervoso.
Trassi un respiro profondo ed annuii cercando di convincere più che altro me stesso che stava andando tutto bene. «Sì, lo so… Scusa, non ti sto rendendo le cose facili.»
«Già. È da quando mi hai quasi investita che mi complichi la vita.» Mormorò.
Le lasciai il braccio tornando a mordermi il labbro. «Immagino di dovermi scusare anche per questo.»
Sollevò lo sguardo su di me. «Se mi offri una cioccolata calda ti perdono.»
Per un qualche strano motivo mi rilassai e riuscii ad abbozzare un sorriso. «Okay, sì, si può fare.»
«Bene.» Commentò con aria determinata: di lei si potevano dire molte cose, ma non che non sapesse cosa voleva.
Entrammo nel bar e prendemmo posto ad un tavolino piuttosto isolato che ci avrebbe permesso di parlare tranquillamente. Quel locale era piccolo ed arredato in modo semplice ma comunque curato: i tavoli e le sedie erano di legno dipinti di verde chiaro, il pavimento era di parquet scuro, il bancone era di mogano e marmo bianco; le finestre avevano i vetri colorati che riempivano la stanza di giochi di luce quando venivano attraversati dalla luce del sole.
Scarlett appoggiò i gomiti sul tavolo, le mani coperte dalle maniche della felpa. Si guardò intorno incuriosita e io non riuscii a fare a meno di osservarla: mi sembrava impossibile che una creatura forte e potente come un licantropo si nascondesse in lei; sembrava così… normale, la classica adolescente che non si piace e che cerca di trovarsi un posto nel mondo. Invece dentro di lei c’era un lupo, rabbioso e pronto a venire fuori in qualunque momento. Era una bomba ad orologeria, sarebbe bastata una parola di troppo, un gesto frainteso e potevo rimetterci la vita.
Avrei dovuto avere paura di lei, sarebbe stato più che normale, invece la guardavo affascinato: il modo in cui gestiva se stessa e ciò che si portava dentro, le sue iridi marroni banali eppure ardenti in qualche modo, il suo carattere spigoloso… tutto questo mi mandava in confusione e rendeva inutili sia il buon senso che l’istinto di sopravvivenza.
«Vuoi passare il pomeriggio a fissarmi? Pensavo fossi ansioso di parlarmi… Se hai cambiato idea non c’è problema, solo che è un po’ inquietante sentirsi costantemente osservati.» Commentò facendomi trasalire.
Incrociai i suoi occhi marroni che mi studiavano cauti: probabilmente stava cercando di intuire quali sarebbero state le mie mosse, le mie domande. «No… Scusa, ero sovrappensiero. Vuoi ordinare prima che… cominciamo?»
Si strinse le braccia al petto appoggiando la schiena alla sedia. «Sì.»
Annuii e richiamai la cameriera con un cenno. Raggiunse subito il nostro tavolo, sorridente ed allegra nella sua uniforme blu.
«Volete ordinare?» Domandò con il blocchetto in una mano la penna nell’altra.
«Una cioccolata calda e un caffè.» Stavo diventando un po’ troppo dipendente dalla caffeina, ma quello non era il momento di preoccuparsene.
«Caffè normale o macchiato?» Volle sapere la cameriera mentre scribacchiava le nostre ordinazioni sul taccuino.
«Macchiato.» Risposi senza curarmi di quello che dicevo: poteva anche avermi proposto di metterci della vodka per quanto le avevo prestato attenzione.
«Bene, arrivano subito.» Disse lei infilando la penna nella tasca del grembiule per poi dileguarsi velocemente tra i tavoli.
Mi passai una mano tra i capelli e cercai di mettere in ordine i miei pensieri, cosa che si rivelò essere piuttosto complicata.
«Dalla tua espressione sembra che sia tu quello sotto pressione qui. Per caso ti è sfuggito il fatto che devi solo farmi delle domande? Tocca a me rispondere.» La voce di Scarlett, venata di sarcasmo, mi fece alzare lo sguardo su di lei senza che fossi stato io a deciderlo.
Trassi un respiro profondo. «Okay, okay, ci sono. Hai detto di non essere nata così, giusto?»
Un muscolo sulla sua guancia si contrasse appena. «Già.»
«Da quello che ne so, per diventare un licantropo si deve essere morsi da un altro lupo… tu sei stata morsa?» Faticai io stesso a sentire le mie parole.
Lei abbassò lo sguardo sul tavolo e notai che aveva le mani strette a pugno così forte che le nocche erano diventate bianche. «Sì. Ma avevamo detto niente domande personali, quindi direi che è meglio se ti tieni più sul generale.»
«Oh… Sì, scusa.» Mormorai.
Scrollò le spalle. «Non fa niente. Va’ avanti.»
Le lanciai un’occhiata di sottecchi. «Come funziona il plenilunio? Voglio dire, ogni mese tu… cioè, i licantropi perdono il controllo?»
«Diciamo che più che altro sentiamo di più l’istinto primitivo di uccidere. Ognuno lo ha dentro di sé, anche la persona più pacifica. I lupi mannari lo percepiscono di più praticamente sempre, è per questo che abbiamo… qualche problemino con il controllo della rabbia. La luna piena risveglia la voglia di sangue, sai, quella che hanno tutti i predatori. Un lupo normale, diciamo, uccide per sfamarsi; una volta sazio smette. Un licantropo, con il plenilunio, non riesce a fermarsi.» Mentre parlava sollevava di tanto in tanto lo sguardo, come se neanche se ne accorgesse.
Annuii cercando di assimilare meglio che potevo le sue parole: istinto primitivo di uccidere… Era più pericoloso di quanto pensassi. «Mmh… E le zanne e gli artigli? Voglio dire, sono retrattili come quelli dei gatti?»
Inarcò un sopracciglio, sorpresa. «Non mi sono mai paragonata ad un gatto, ma… Sì, credo che più o meno sia la stessa cosa.»
Non era facile come avevo pensato inizialmente farle domande senza scendere troppo nei dettagli. «I licantropi possono tirarli fuori a loro piacimento?»
«Esatto. Ci vuole un po’ d’esercizio per imparare a farlo, ma sì, possiamo comandarli.» Mi fece cenno di guardare sotto il tavolo. «Ti faccio vedere.»
Mi sporsi di lato e lei fece lo stesso. Allungò una mano verso di me mantenendola nascosta e, come per magia, le sue unghie si allungarono e divennero più spesse: per la forma ed il colore più scuro sembravano gli artigli di un lupo, affilati e pronti all’uso. Sollevai lo sguardo su di lei e notai una lieve sfumatura dorata nei suoi occhi.
Senza pensare a quello che dicevo, mi ritrovai a chiedere: «E l’oro nelle iridi?»
Indietreggiò di scatto ripristinando la distanza tra noi. Sbatté le palpebre lasciando che il marrone tornasse a predominare nei suoi occhi. «Non è niente di che, penso sia solo un segno del nostro… potere.»
Prima che potessi dire altro, la cameriera ricomparve, ancora sorridente. Aveva in mano i bicchieri di carta contenenti le nostre ordinazioni. Le posò sul tavolo insieme a qualche bustina di zucchero.
«Ecco qua.» Aggiunse. «Volete altro?»
Lanciai un’occhiata a Scarlett: teneva lo sguardo basso, sembrava ansiosa di andarsene. E la capivo. «No, grazie. Siamo a posto così.»
«Perfetto.» Concordò la cameriera prima di avvicinarsi al tavolo accanto al nostro.
«Immagino che tu abbia altre domande, mmh?» Chiese Scarlett prendendo il suo bicchiere con entrambe le mani e fissandolo cupa.
«Sì.» Ammisi. «Ecco… La storia dell’argento è vera?»
Mi lanciò un’occhiata di sottecchi e giurerei di averla vista sorridere. «Più o meno.»
«Che vuol dire? Sì o no?» Insistetti guardandola.
Prese un sorso di cioccolata prima di rispondere. «Non è molto saggio rivelare informazioni del genere ad uno sconosciuto, sai?»
Rimasi interdetto: rischiavo di non ricevere nessuna informazione utile se continuavo a fare domande a caso. “Utile a fare che?”, chiese una vocina nella mia mente. Non ci avevo pensato, non mi ero mai chiesto cosa avrei fatto se fossi riuscito ad ottenere delle risposte. Ero stato troppo preso dal cercare di dare un senso a quella strana attrazione verso di lei per riflettere in modo concreto. Mi maledissi da solo: ora che avevo la possibilità di parlarle non riuscivo a fare una domanda decente?
«In effetti…» Convenni mio malgrado.
«Già. Devi avere un po’ di buon senso quando ti esponi.» Commentò lei.
«Vero. Allora perché non cambiamo un po’ le cose? Dimmi quello che vuoi, quello che non ti rende nervosa e che non posso… uh, usare contro di te, che ne pensi?» Proposi prendendo il mio bicchiere. «Così evito anche di farmi ammazzare per la domanda sbagliata.» Aggiunsi a voce più bassa parlando più per me che per lei.
«Non ti ammazzerei a prescindere. Voglio dire, non ti rivelerei mai niente di così compromettente.» Replicò lei appoggiando i gomiti al tavolo e osservandomi.
Schiusi le labbra, sorpreso: come aveva fatto a sentirmi? Avevo usato un tono molto basso… così basso che una persona normale non avrebbe dovuto capire quello che avevo detto. A meno che…
«Roba da licantropi. Credevo ti fossi informato. Abbiamo tutti i sensi più sviluppati: udito, vista, olfatto… Tutto.» La voce di Scarlett tradiva una nota d’ironia.
«Come… come sai che ho cercato delle informazioni sui licantropi?» Domandai quasi senza rendermi conto che mi aveva dato dei dettagli sui lupi mannari.
«In realtà non ne ero sicura, ma sono andata un po’ ad intuito: visto che ti interessava tanto saperne di più ho pensato che magari avevi fatto qualche ricerca. E poi mi sembri ben informato.» Spiegò.
Mi sentii quasi messo all’angolo perché sì, in effetti ogni tanto mi ritrovavo a leggere leggende antiche e strani articoli sui licantropi e sul soprannaturale in generale. E il fatto che lei lo avesse capito così facilmente non aiutava a diminuire la tensione. 
«Sei una buona osservatrice, eh?» Commentai sperando di non sembrare troppo nervoso.
Si strinse nelle spalle. «Lo sono sempre stata. Sai, potresti definirmi una di quelle ragazze che preferisce osservare piuttosto che agire.»
Presi un sorso di caffè e per un attimo mi stupii di quanto fosse amaro. «Davvero? Insomma, con i poteri che hai potresti fare molto di più.»
«Il punto è che se mi espongo così rischio di rivelare ciò che sono. È tutto collegato, licantropia, vita sociale, mia madre… Praticamente tutto nella mia vita è implicato quindi cerco di tenermi in disparte.» Il suo sguardo era tornato a soffermarsi sul bicchiere che aveva in mano.
Feci per chiederle come mai non avesse nominato suo padre, ma mi trattenni: aveva detto che dovevo limitarmi a domande più generali, e quella non lo era di sicuro. Per essere sicuro di non lasciarmi sfuggire una parola di troppo, bevvi un altro sorso di caffè, ormai freddo.
Scarlett appoggiò la schiena alla sedia sorseggiando la sua cioccolata. «Altro da chiedere?»
«Hai… Avete altri poteri?» Domandai osservando il mio bicchiere come se di colpo fosse diventato interessante.
«Guariamo più in fretta degli umani, molto più in fretta.» Rispose. «E il nostro metabolismo è più veloce. Per esempio, io posso mangiare una torta intera e sentirmi come se ne avessi mangiato solo una fetta. E posso mangiare quanto voglio e ingrassare molto, molto lentamente.»
«Questo sembra essere utile… E anche un po’ ingiusto.» Commentai alzando lo sguardo.
Lei si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Beh, almeno voi umani non dovete preoccuparvi di uccidere qualcuno una volta al mese perché l’istinto primitivo prende il sopravvento: è una grossa preoccupazione in meno.»
«Beh, sì, ma…» Esitai quando notai che aveva una piccola macchia marrone all’angolo della bocca. «Hai un po’ di cioccolata qui.» Mormorai sfiorandomi la guancia per farle vedere il punto preciso.
Arrossì di colpo e si portò una mano alla bocca. Mi sorprese quel suo imbarazzo improvviso, non credevo che bastasse così poco a metterla a disagio. Cercava in tutti i modi di evitare di guardarmi, il rossore sulle sue guance che tradiva ciò che provava.
Avevo a che fare con un licantropo, avrei dovuto prestare attenzione a quello che facevo, invece non avevo quasi la concezione dei miei movimenti, sembrava che ci fosse qualcun altro a guidarli. Purtroppo lo realizzai solo quando sentii la sua pelle sotto le dita: mi ero sporto in avanti e avevo allungato una mano per pulirle la guancia. E non ricordavo di aver deciso di fare una cosa del genere in precedenza.
La sentii irrigidirsi al mio tocco, i suoi occhi marroni ed ardenti erano puntati su di me, il suo sguardo era quello di un predatore sul punto di balzare alla gola di una preda assolutamente inerme. Quando allontanai la mano da suo viso, la sentii buttar fuori l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento. Pareva che volesse scappare nel giro di un secondo, che stesse solo aspettando l’occasione adatta.
«Uhm… Immagino di doverti ringraziare.» La sua voce era bassa, un sussurro appena udibile.
«Non importa. Voglio dire, non serve.» Replicai senza riuscire a trattenermi dal lanciarle un’occhiata: stava tormentando il suo bicchiere guardandolo male, come se le avesse fatto un torto.
«Meglio così perché non credo che l’avrei fatto.» Dichiarò alzando il mento.
Si era sentita punta sul vivo ed era scattata sulla difensiva: era vero, magari farla parlare era difficile, ma potevo comunque capire qualcosa di lei soltanto osservando le sue reazioni.
«L’orgoglio è un tratto distintivo dei licantropi o è una tua particolare caratteristica?» Borbottai.
«Tutti sono un po’ orgogliosi, c’è chi lo controlla meglio e chi non ci riesce. Io credo solo di voler mantenere le distanze.» Ribatté.
Una piccola parte di me si sentì quasi ferita da quelle parole: poteva fidarsi di me, non avrei detto a nessuno cos'era in realtà. Ma lei che motivo aveva di credermi? Nessuno. Niente di ciò che avevo fatto o detto avrebbe potuto convincerla che ero un suo alleato invece che un potenziale nemico. In più avevo cominciato ad uscire con la sua migliore amica, quindi probabilmente buona parte di quella tensione era dovuta anche a quello. Forse era meglio così, però: meno tempo passavamo insieme, meno danni ci sarebbero stati.
«Anche questo è vero.» Ammisi. «Quindi… guarite più in fretta, avete artigli e zanne retrattili, perdete il controllo con la luna piena, i vostri sensi sono più sviluppati: per ora mi hai detto questo.»
«Eh già. Non so se è rilevante, ma forse ti interessa sapere che sappiamo riconoscere quando qualcuno mente.» Nei suoi occhi passò un lampo quasi malizioso.
«Davvero?» Domandai incuriosito.
Una parte di me mi avvertì che la sua poteva essere solo una strategia per ottenere qualcosa, o per spaventarmi e scoraggiare i miei tentativi di saperne di più, ma non ci feci caso.
«Sì. Sai, quando menti i battiti cardiaci accelerano e se un licantropo ti è abbastanza vicino può percepirlo.» Spiegò. «E fartela pagare se gli hai detto una bugia.»
«Suona come una minaccia, o un avvertimento.» Commentai.
«Prendila un po’ come vuoi.» Mormorò mantenendosi sul vago.
Tutto quel mistero mi irritava e mi attirava nello stesso tempo: avrei voluto che mi dicesse di più, che mettesse via quell’aria così scontrosa, eppure in qualche modo mi incuriosiva il modo in cui cercava di nascondersi, di proteggersi. C’erano un’unica spiegazione logica per quei sentimenti così contrastanti: stavo diventando pazzo.
«Senti… Io dovrei andare. Immagino che tu voglia chiedermi altro però non posso fermarmi di più.» Il suo tono era esitante, eppure solo un minuto prima era stato sfrontato e quasi minaccioso.
Sollevai lo sguardo su di lei. «Okay, nessun problema. Vuoi che ti riaccompagni a casa?»
Schiuse appena le labbra prima di serrarle in una linea sottile. «Oh… Non lo so… Cioè, non ce n’è bisogno. Tu avrai altro da fare…»
«Non preoccuparti, è questione di cinque minuti in fondo.» La rassicurai.
I suoi occhi marroni mi studiarono attenti, come se avessero voluto raccogliere ogni minimo dettaglio e memorizzarlo. O forse stava semplicemente cercando di capire se c'erano doppi fini nelle mie parole. «Okay.»
«Perfetto.» Mi alzai posando il bicchiere sul tavolo. «Vado a pagare e poi andiamo, mmh?»
Sembrava essere tornata come quando eravamo entrati, nervosa, guardinga, vogliosa di andarsene. Annuì piano. «D’accordo, ti aspetto qui.»
«Bene.» Commentai.
Feci per andare alla cassa, ma lei mi richiamò: «Adam…»
Mi voltai a guardarla e mi stupii di quando paresse debole, stretta nella sua felpa con quei due grandi occhi marroni fissi su di me. Ma sapevo benissimo che quella era solo apparenza. «Sì?»
«Grazie.» Lo disse a bassa voce, come se fosse stato un segreto, o qualcosa che la turbava.
Eppure, un attimo dopo, vidi le sue labbra incurvarsi in un piccolo sorriso. Senza che fossi stato io a deciderlo, le sorrisi di rimando prima di andare alla cassa.
Grazie al cielo mi ripresi abbastanza da smettere mentre pagavo. Che mi stava succedendo? Mi era già capitato di innamorarmi, questo sì, ma ci era voluto qualche giorno perché finissi per sentirmi in quel modo. Invece adesso sembrava che Scarlett avesse sconvolto tutto di me semplicemente standomi vicino. Come aveva fatto? Cosa aveva fatto di preciso? A parte cambiare umore ogni cinque secondi…
Quando la cameriera mi disse quanto dovevo pagare le sorrisi distrattamente più per educazione che per altro. Mentre prendeva le monete per darmi il resto mi passai una mano tra i capelli sospirando: se c’era una cosa che non sopportavo era non avere il controllo delle situazione, non sapere cosa sarebbe successo dopo. E in quel momento non avevo assolutamente la più pallida idea di cosa ci riservasse il futuro. Era tutto una grande e piuttosto pericolosa incognita.
Tornai al tavolo, da Scarlett e dai suoi misteri, cercando di schiarirmi le idee e riordinare le informazioni, sfuggevoli e disordinate, che ero riuscito ad ottenere.
«Possiamo andare.» Dissi osservandola.
Sollevò lo sguardo su di me e sbatté le palpebre prima di mormorare un “okay”. Le sorrisi di nuovo, e questa volte ne fui un pochino più consapevole. Ricambiò il sorriso distrattamente per poi alzarsi e seguirmi fuori dal bar.
Quando uscimmo sul marciapiede cercai le chiavi dell’auto nella tasca dei jeans.
«Adam…» La voce di Scarlett era esitante, insicura.
Mi voltai verso di lei, incuriosito mio malgrado. «Dimmi.»
Lei trasse un respiro profondo e mi guardò negli occhi. «Credo che ora tocchi a te rispondere a qualche domanda.»


SPAZIO AUTRICE: Anche se un po' in ritardo rispetto a quando avrei voluto pubblicare, eccovi il decimo capitolo *-*
Purtroppo in questi giorni ho avuto un po' da fare con la scuola e solo oggi ho trovato il tempo di mettermi al computer e pubblicare.
In questo capitolo abbiamo un vero e proprio confronto tra Adam e Scarlett. Nonostante la curiosità, sono entrambi piuttosto diffidenti l'uno nei confronti dell'altro. Soprattutto Scarlett si troverà un po' in difficoltà con questa nuova situazione.
Volevo chiarire una cosa: Adam ed Elisabeth escono insieme, e questo renderà complicate le dinamiche tra lui e Scarlett. In effetti, questa relazione potrebbe diventare un freno nel rapporto tra Adam e Scarlett. Ma potrebbe non essere sempre così.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia continui a piacervi.

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 11
*** 11. Scarlett ***


Under a Paper Moon- Capitolo 11




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11. Scarlett


Trassi un respiro profondo sperando che mi aiutasse a schiarirmi le idee. Gli avevo parlato, avevo risposto alle sue domande. E avevo cominciato a conoscerlo.
Quello però era stato un fuori programma, non era nelle mie intenzioni farlo. Eppure non ero riuscita a fare a meno di prestare attenzione ai piccoli dettagli, ai suoi modi di fare, alla sua voce, ai suoi occhi tempestosi… Avevo ammesso, in una piccola parta della mia mente, che sì, Adam era un bel ragazzo e che sì, un pochino mi piaceva in quel senso. Solo che non potevo permettermi di andare oltre, proprio no. Dovevamo finirla lì, non parlarci più, prendere ognuno la propria strada e fine.
“Posso farcela”, mi dissi, “in fondo so così poco di lui, non posso mica esserne attratta fino a quel punto… Sarà solo una cosa passeggerà, me ne dimenticherò presto.” Purtroppo però, saltare fuori con quella frase che non ammetteva repliche, non sembrava una grande idea. Anzi, era una pessima idea, una delle peggiori che potessero venirmi in mente.
I suoi occhi blu si spalancarono e le sue labbra si schiusero appena rivelando la sua più che comprensibile sorpresa. «Mi dispiace deluderti, ma io non ho niente di soprannaturale.» La sua voce era quasi esitante.
“Non è quello che mi interessa di te”, disse una vocina nella mia mente. «Sì, lo… lo so. È solo che non ti comporti come dovresti fare. Adesso dovresti scappare, avere paura di me, invece sei ancora qui.»
Annuì appena, come se avesse realizzato qualcosa. «Già, mi sorprendo di me stesso anch’io. Non so, forse la mia è solo una reazione ritardata alla paura.»
Una minuscola parte di me non poté fare a meno di sentirsi ferita: lui non doveva avere paura di me, non poteva; avevo vissuto per anni col terrore che qualcuno scoprisse cos’ero e mi allontanasse, mi trattasse come un mostro. Quando avevo visto che lui non lo faceva, ma che era come affascinato da me, avevo pensato che magari c’era una speranza, seppur piccola e flebile, che potessi vivere normalmente.
«Tu… hai paura di me?» Domandai.
In effetti, avrei dovuto pensarci prima, prima di mostrare gli artigli da così vicino, prima di raccontare dei sensi più sviluppati, prima di rivelare che potevo capire se mentiva.
Nei suoi occhi tempestosi passò un lampo. «No.» Lo disse con decisione, senza tentennare.
«No?» Ripetei incredula. «Voglio dire, se dovessi trasformarmi qui, davanti a te, non scapperesti?» “Non tirare troppo la corda”, mi ammonì la stessa vocina di prima.
Si passò una mano tra i capelli distogliendo lo sguardo. «Beh… dipende. Sì, insomma, se tu ti trasformassi e basta credo di no. Se provassi a balzarmi alla gola o qualcosa del genere allora… Ad essere sinceri non so cosa farei.»
Senza che fossi io a volerlo, i miei occhi si posarono sulla sua gola, appena sotto la mascella. Mi bastò un attimo di concentrazione per cogliere il battito del suo cuore in mezzo ai rumori della città. Era regolare, magari giusto un po’ più veloce del solito. Non aveva paura.
Osservai la curva del suo collo, la lieve sporgenza delle clavicole che si intravedeva dal colletto della maglietta, la forma delle labbra… Poi mi costrinsi a distogliere lo sguardo. «Uhm… Non è una reazione normale.»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso sghembo. «Te l’ho detto, mi sorprendo di me stesso. Il fatto è che non riesco a sentirmi intimorito da te.» Prima che potessi replicare, aggiunse: «Non fraintendermi: con questo non voglio dire che sei debole o comunque fragile. Voglio dire che la curiosità supera la paura.»
Fu il mio turno di guardarlo incredula: curiosità? Io lo incuriosivo? In che senso però? In quanto licantropo? O come ragazza che cerca disperatamente di mantenere insieme i pezzi della sua vita?
«Oh… Credo che questo spieghi qualcosa…» Mormorai.
«Per esempio la mia voglia di saperne di più su di te? Sì, direi di sì.» Replicò.
Dovevo ammettere che il suo comportamento mi confondeva, e non poco: com’era possibile che trovasse interessante la licantropia? C’erano leggende su leggende che ritraevano i licantropi come mostri assetati di sangue, assassini spietati e senza cuore e ora lui mi veniva a dire che lo incuriosivo. Una parte di me si chiese se fosse sbagliato il suo atteggiamento, o se fossi io quella che si sorprendeva per nulla. In fondo, era il primo che mettevo a conoscenza del mio segreto quindi forse la sua reazione non era poi troppo strana.
«Se… se vuoi continuare a parlare potremmo andare in un posto più tranquillo…» Il suo fu un mormorio leggero che quasi si perse nel rumore del traffico. «So che devi andare, ma… credo bastino pochi minuti. Giusto il tempo per te di farmi le domande che vuoi e per me di risponderti. Se non puoi, o non vuoi, va bene lo stesso, ti ho stressata anche troppo.»
In realtà era tutto il contrario: aver parlato con qualcuno di un segreto che mi portavo dietro da così tanti anni era liberatorio, in un certo senso. Dopo averlo fatto mi sentivo più leggera, più sicura di me, per puro paradosso. «Credo che si possa fare.» Dichiarai.
Sollevò lo sguardo su di me, sorpreso. «Sul serio?»
«Sì. Se devo essere sincera qualunque cosa è meglio che fare i compiti di biologia…» Ammisi lasciandomi sfuggire un sorriso incerto.
Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma ci rinunciò e tornò ad abbassare gli occhi. Alla fine di decise ad annuire. «Okay.» Trasse un respiro profondo. «Che ne dici se andiamo da qualche altra parte? Parlare in mezzo ad un marciapiede non è una grande idea.»
«Va bene.» Concordai stringendo le labbra.
Mi rivolse un’occhiata fugace e quasi incredula prima di fare un cenno verso l’auto. Il suo nervosismo mi sorprese: fino a quel momento era riuscito a gestirlo bene, ma adesso sembrava essere diventato insicuro. Forse era la prospettiva di stare da solo con me che lo metteva così in soggezione. Beh, era una reazione più che normale, mi sembrava strano che non l’avesse fatto prima.
Aprii lo sportello del lato passeggero e presi posto accanto a lui. Dalla sua postura rigida e dalla tensione dei suoi muscoli intuii subito che era agitato. Avrei voluto calmarlo, rassicurarlo, ma non avevo idea di come fare: cosa dici ad una persona che ha appena scoperto i poteri dei licantropi e a cui hai appena imposto un’altra chiacchierata non proprio piacevole?
Mentre io cercavo un modo per tranquillizzarlo, anche se non ero sicura che servisse, lui guidava in silenzio, lo sguardo fisso sulla strada, l’espressione assorta.
«Cosa vuoi sapere?» Mi ci volle un attimo per realizzare che stava parlando con me.
Mi voltai verso di lui e per una frazione di secondo incrociai i suoi occhi blu tempesta che mi studiavano. «Uhm… Di preciso non lo so, però… Ecco, il modo in cui ti comporti con me è strano, non sembri mai impaurito o anche solo consapevole del pericolo che corri. Credo solo di volerti capire un po’ di più.» Solo dopo che ebbi pronunciato l’ultima frase mi resi conto che poteva essere fraintesa e non di poco.
«Non c’è molto da capire. Voglio dire, il soprannaturale ha sempre affascinato le persone, no?» Replicò riportando lo sguardo dalla strada quasi sulla difensiva.
«Tu non mi sembri il tipo che crede alle leggende.» Commentai.
«Vero.» Ammise. «In effetti non le ho mai sopportate. Ma credo che ritrovarmi un licantropo davanti possa avermi fatto cambiare idea almeno per quanto riguarda i lupi mannari.»
«Uhm… Non potevi trovarti una creatura meno pericolosa? Che so, magari un folletto? O il Coniglio Pasquale?» Tentai.
Sorrise e vidi i suoi muscoli che si rilassavano un po’. «Sai come si dice? Se vuoi fare qualcosa devi farla per bene.»
«Appunto, non mi sembra che “morire di morte lenta e dolorosa” sia implicato nel fare bene qualcosa.» Risposi incrociando le braccia al petto.
«Se tu dovessi mai decidere di uccidermi credo che sarebbe piuttosto veloce ed indolore.» Ribatté senza scomporsi minimamente.
Feci per rispondergli, ma mi bloccai: che potevo dire a uno che non aveva la minima paura di morire per mano mia e che anzi ci scherzava sopra? Distolsi lo sguardo cercando di trovare le parole giuste. Alla fine, però, fu la curiosità a vincere: «Come fai a prenderla così alla leggera? Insomma, se mi andasse potrei saltarti alla gola anche adesso.»
«Mmh… C’è sempre questa possibilità. Ma dopo chi risponderebbe alle tue domande?» Mi fece notare lanciandomi un’occhiata di sottecchi.
«Non sono così importanti.» Dichiarai alzando il mento.
«Allora posso portarti a casa.» Il suo tono voleva essere innocente, ma colsi comunque una nota di ironia.
Aggrottai la fronte scoccandogli un’occhiataccia. «Ti diverti?»
Si mordicchiò il labbro. «Forse.»
Sospirai chiudendo gli occhi: come avevo fatto a cacciarmi in quella situazione? Mi ero ripromessa di stare con lui per il minor tempo possibile ed ora eravamo nella sua macchina, insieme… Eppure c’era una minuscola parte di me che trovava tutto quello quasi piacevole in qualche modo.
«Comunque, tanto per sapere, dov’è che stiamo andando?» Domandai mettendo fino a quello scambio di provocazioni.
«A casa mia.» Rispose semplicemente.
Devo ammettere che quelle tre parole mi allarmarono un po’. «Casa tua? Non ricordavo abitassi in mezzo al bosco…» Commentai lanciando un’occhiata fuori dal finestrino: la città aveva lasciato il posto alla foresta, verde e rigogliosa, che in quel momento stava costeggiando la strada.
«In effetti, andiamo nell’altra casa.» Si corresse.
Sollevai le sopracciglia, sorpresa. «Vuoi dire che hai due case?»
Le sue labbra si incresparono appena. «Non proprio.»
 Alzai gli occhi al cielo, un po’ troppo vicina all’esasperazione per i miei gusti. «Non puoi essere più comprensibile? E poi, una casa nel bosco? Potresti essere un maniaco che vuole uccidermi. In modo anche poco discreto… Dovresti affinare la tecnica.»
Si mise a ridere e vidi tutta la sua tensione sciogliersi. «Un maniaco che ti offre una cioccolata calda? Devo essere proprio sadico, eh?»
«Hai mai sentito parlare di tecniche di adescamento?» Chiesi osservandolo di sottecchi.
«Sei informata, mmh?» Domandò senza smettere di sorridere.
«Mi piacciono i telefilm polizieschi.» Ammisi. «A parte questo, ti dispiacerebbe spiegarmi questa cosa delle due case?»
«Quella dove stiamo andando ora è dei genitori di mia madre. Ce l’hanno lasciata perché preferiscono l’aria di mare e quindi si sono trasferiti sulla costa.» Spiegò.
«Oh… E non ci abita nessuno?» Domandai.
«A mia madre non piace il bosco, preferisce la città, quindi no.» Rispose. «Comunque, siamo arrivati.» Aggiunse fermando l’auto.
Ci trovavamo in una piccola radura in mezzo al bosco; la luce del sole che filtrava attraverso i rami degli alberi creava chiazze chiare sul terreno. Davanti a noi c’era una di quelle case che si vedono nei film: un piccolo cottage con il portico di legno e il comignolo di pietra. Sembrava appena uscito da una qualche favola.
«Cavolo…» Mormorai. «Pagherei per vivere qui.» “L’ho davvero detto ad alta voce?”, pensai.
Accanto a me, Adam sorrise appena. «Mia nonna ha sempre avuto gusto. E una grande passione per le cose costose.»
«Uhm… Mia madre impazzirebbe se la vedesse: ha sempre voluto una casa così.» Faticai io stessa a sentire la mia voce. Mi riscossi dai miei pensieri e gli lanciai un’occhiata. «Quindi… che si fa ora?»
«Hai detto di volermi fare qualche domanda, giusto?» Chiese ricambiando lo sguardo.
«Sì. Se… se vuoi.» Risposi.
Annuì e fece un cenno verso la casa. «Vieni.»
Scese, fece il girò dell’auto e mi aprì lo sportello. Per un attimo rimasi a guardarlo, sorpresa e interdetta: nessuno era mai stato così… gentile con me. O meglio, nessun ragazzo. E poi lui non aveva neanche un buon motivo per farlo, non c’era niente che ci legava, o che poteva spingerlo a fare un gesto del genere.
Mi morsi il labbro e scesi anch’io. Quando lui chiuse lo sportello me lo trovai di fronte, con solo qualche centimetro a separarci. Stranamente non mise in imbarazzo essergli così vicino, anche se sentii un brivido lungo la schiena quando ripensai alle sue dita che mi sfioravano la guancia.
Fece un minuscolo cenno verso il portico della casa. Lo seguii istintivamente e rimasi lievemente sorpresa quando lo vidi sedersi su uno dei gradini di legno. Esitai per un attimo mentre lui mi guardava in attesa che lo raggiungessi.
Sospirai chiedendomi per l’ennesima volta com’ero finita in quella situazione, e mi sedetti accanto a lui con le braccia strette al petto.
Lui appoggiò i gomiti sulle ginocchia e mi lanciò un’occhiata veloce. «Allora… da dove vuoi cominciare?»
«Oh… Beh, non lo so. In effetti, non so cosa chiederti.» Ammisi.
Si voltò verso di me, gli occhi che tradivano la sua sorpresa. «No?»
Mi strinsi nelle spalle scuotendo la testa. «No.»
«Forse dovremmo cominciare da qualcosa di più semplice.» Propose.
Aggrottai la fronte. «Che intendi?»
«Fino ad ora abbiamo parlato solo di soprannaturale e simili, magari se adesso passiamo alle cose più… comuni sarà più semplice per tutti e due.» La sua voce era calma come se avesse avuto di nuovo a che fare con un animale spaventato.
«Vuoi dire una conversazione normale?» Non riuscii a trattenere un sorriso: nel mio dizionario, “normale” era l’obbiettivo di una vita, tutto quello per cui lottavo giorno dopo giorno. Avere una vita normale, degli amici normali, un lavoro normale, un ragazzo normale. Senza che la licantropia interferisse.
«Sì, esatto.» Confermò mentre un angolo della sua bocca si sollevava appena in un accenno di sorriso.
«Mmh… Mi sembra fattibile.» Restava comunque il fatto che non avevo la minima idea di cosa chiedergli. «Uhm… Quanti anni hai?»
“Che domanda idiota”, pensai subito dopo aver parlato.
«Diciassette.» Rispose tranquillamente. «Tu?»
«Diciassette anch’io. Poi… colore preferito?» “Lo sto facendo sul serio?”, mi chiesi quasi faticando a credere di avergli proposto quella... cosa, perché non me la sentivo di chiamarla conversazione.
Il suo sguardo tradì una certa sorpresa e vidi le sue labbra arricciarsi appena nel tentativo di trattenere un sorriso. «Blu, credo.»
«Davvero? Ma è banale.» Esclamai senza riuscire a fermarmi prima.
Distolse lo sguardo e sorrise. «E il tuo? Sono curioso di sapere quali colori non sono “banali”.» E tornò a guardarmi con quei suoi occhi color tempesta.
«Porpora.» Risposi subito ricambiando l’occhiata.
«Porpora.» Ripeté come se stesse assaporando la parola. «In effetti non è banale.»
«Te l’ho detto.» Per un qualche strano motivo mi sentii compiaciuta. «Hai fratelli o sorelle?»
«Un fratello maggiore. Tu?» Rispose osservandomi.
«Sono figlia unica.» Replicai. «Allora… Che vuoi fare dopo il liceo?»
«Ancora non lo so. Mi piacerebbe studiare letteratura o magari lingue…» Spostò lo sguardo sul bosco di fronte a noi. «Tu invece?»
«Non ne ho la più pallida idea.» Ammisi mettendo i gomiti sulle ginocchia e appoggiando il mento sulle mani. «Non so neanche se voglio andare al college oppure lavorare… Vorrei viaggiare, a dirla tutta, ma mi mancano… uh, le risorse economiche per farlo.»
Mi sorprese parecchio la facilità con cui gli parlavo e gli confessavo sogni e speranze e particolari di me. E lui sembrava ricambiare, come se non fosse nulla di strano. In effetti, non lo era. O meglio, avrebbe dovuto esserlo visto che mi ero ripromessa di stargli lontano. Ma soprattutto avrebbe dovuto esserlo visto che era stata la mia licantropia a condurci a quella strana conversazione. 
«E dove vorresti andare?» I suoi occhi blu mi studiavano incuriositi.
«Oh… Ehm, in Inghilterra di sicuro, poi Italia, Argentina, Spagna, Cina, India…» Spiegai.
«Sarebbe parecchio bello in effetti.» Commentò tornando a guardare l’intreccio degli alberi.
Mi strinsi le braccia al petto. «Già. Però non credo ci riuscirò mai. Comunque… libro preferito?»
«1984 di George Orwell.» Ribatté prima di fare un respiro profondo. «Il tuo?»
«Non prendermi in giro, ma… Le Cronache di Narnia.» Gli lanciai un’occhiata veloce per valutare la sua reazione.
Un sorriso leggero gli increspò le labbra. «Perché dovrei prenderti in giro? Lewis era un grande scrittore.»
«Sì, certo, è solo che… Non so, alcuni lo considerano un libro da bambini.» Spiegai.
«Non dovrebbero. E comunque è piaciuto anche a me.» Replicò.
Mi mordicchiai il labbro e distolsi lo sguardo. Era diverso da come l’avevo immaginato, era… più aperto e anche più amichevole. Ed interessante. Parlargli risultava facile e quasi piacevole.
«Posso farti una domanda io?» Chiese, di nuovo con quel tono calmo.
Annuii subito, senza neanche pensarci. «Sì.»
I suoi occhi color tempesta erano su di me, attenti e anche un po’ incuriositi. «Come fai a non crollare mai? Voglio dire, come riesci a reggere la pressione del nascondere il tuo segreto?»
Trassi un respiro profondo e mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ecco, non è facile. Per niente. Ma non ho scelta. L’unica cosa è che, visto che mia madre viaggia spesso, riesco a tenerle nascosto il mio essere lupo.»
«Vorrei aiutarti… In qualche modo.» Mormorò così piano che credetti di essermelo immaginato.
Trattenni il fiato: stavamo andando troppo oltre. Decisamente troppo oltre. «No… Nel senso, non serve. Te l’ho già detto: io non ti conosco, tu non conosci me e finisce qui.»
«In realtà adesso un po’ ci conosciamo…» Sussurrò fissando con aria pensierosa il terreno.
Scossi la testa. «Non abbastanza. Non voglio coinvolgerti in questo casino perché mi complicherei solamente la vita. E anche la tua diventerebbe più ingarbugliata.»
Lui si voltò verso di me e mi guardò negli occhi. «Scarlett…»
«Sul serio Adam, è meglio finirla qui. Non voglio coinvolgerti. E non lo faccio perché voglio in qualche modo proteggerti, o meglio non solo, ma anche perché lasciarti entrare nella mia vita è una pessima idea.» Insistetti.
Strinse le labbra abbassando lo sguardo. «Ne sei sicura? È vero che non so quasi nulla sulla licantropia, ma potrei aiutarti in qualche modo.»
«No, decisamente no. Non ci conosciamo, non so praticamente nulla di te a parte qualche scemenza e non so se posso fidarmi.» Dichiarai indurendo la voce. «Ti sarò eternamente grata per non aver rivelato il mio segreto e se continuerai a farlo, ma di più non posso darti. Proprio no.»
Mi morsi la lingua per evitare di aggiungere uno “scusa”: non dovevo scusarmi proprio di nulla. Anzi, se comportarmi da ingrata l’avesse allontanato, allora sarei stata il più sgradevole possibile.
Si passò una mano tra i capelli sospirando. «Non hai nessun motivo per fidarti di me, è vero, però non puoi pretendere che ora io smetta di pensare a te.» Si bloccò trattenendo il fiato come se avesse appena realizzato qualcosa di sconvolgente. «Volevo dire, non puoi pretendere che io smetta di pensare a quello che mi hai detto.» Si corresse in fretta.
«Infatti non avrei dovuto dirti nulla. È solo che ho pensato che ti sarebbe bastato, che dopo non avresti voluto sapere più nulla. Ovviamente mi sbagliavo, e lo sapevo anche, ma ormai il danno è fatto.» Dovevo mantenere la mia posizione a qualunque costo, non potevo permettermi di cedere.
«Quindi secondo te adesso dovrei semplicemente dimenticare? Fare finta di nulla?» Nella sua voce colsi una nota di tensione.
«Sarebbe la cosa migliore da fare, sì.» Convenni annuendo piano.
Vidi che stava per ribattere così aggiunsi: «Lo so che è difficile farlo, praticamente impossibile, ma è l’unica soluzione.»
Aggrottò la fronte stringendo le labbra. «Probabilmente speravi in qualcun altro, mmh?»
Lo guardai, confusa. «Cosa?»
«Speravi che fosse un altro, o un’altra, la persona che ti avrebbe aiutata, che ti avrebbe dato una speranza.» Aveva abbassato il tono rendendolo poco più di un sussurro.
«In realtà non ho mai sperato in nessuno… Mi sono sempre detta che dovevo fare da sola senza contare sugli altri per evitare di metterli in pericolo, quindi non ho mai creduto che qualcuno mi avrebbe aiutata.» Ammisi ritrovandomi a parlare lentamente come aveva fatto lui più di una volta.
«Forse è il momento di cambiare le cose.» Disse, lo sguardo di nuovo puntato sulla foresta davanti a noi.
Alzai gli occhi al cielo. «Perché insisti tanto? Cosa ci guadagni ad aiutarmi? Ti complicherebbe solo la vita.»
«Perché non posso rimanerti indifferente dopo quello che mi hai detto.» Rispose.
Mi morsi il labbro inferiore. Non potevo fare a meno di sentirmi un po’ innervosita dalle sue continue insistenze. Anche perché non sapevo come gestirle: che dovevo dirgli per farlo demordere? Non mi andava di minacciarlo, in fondo mi aveva aiutata non rivelando il mio segreto, ma rischiavo seriamente di cedere se continuava così.
«Stai uscendo con Elisabeth e non voglio che lei sia coinvolta, okay? Se ti dessi la possibilità di aiutarmi prima o poi finirebbe nel mezzo anche lei e questa è un cosa che non deve assolutamente succedere.» Spiegai e fui piuttosto sincera: Beth non era il motivo principale per cui non lo volevo nella mia vita, ma di sicuro anche lei giocava un ruolo importante nel mio rifiuto.
Si irrigidì appena al nome di Beth e nei suoi occhi blu passò un’ombra. «Uh… Sì, Elisabeth…»
Inarcai un sopracciglio, sospettosa. «Uscite insieme, no?»
«Beh, sì. Cioè, non proprio.» Trasse un respiro profondo evitando di proposito di guardarmi in faccia. «È complicato.»
«E cosa ci sarebbe di complicato?» Chiesi riuscendo ad incrociare il suo sguardo.
«Ecco… Lei è…» Cominciò in tono esitante.
«Ascoltami bene, non pensare neanche di far soffrire Elisabeth. Se lo farai, sarò io a far soffrire te, chiaro?» Ringhiai.
Resse il mio sguardo senza mostrarsi intimidito. O meglio, non quanto avrebbe dovuto. Poi sorrise e distolse lo sguardo, gesto che mi spiazzò completamente: che diavolo stava succedendo in quella sua mente così vivace e complessa? Sarei impazzita cercando di stargli dietro, poco ma sicuro.  
«Non ho intenzione di farla star male, credimi. Solo… beh, non la conosco ancora e non voglio affrettare le cose, né forzarle.» Replicò senza perdere quel dannato sorriso.
«Non so ancora se mi piace sul serio.» 
«E allora perché le hai chiesto di uscire?» Mi stavo avvicinando pericolosamente al limite dell’esasperazione, lo sapevo e lo sentivo. Eppure continuavo a dargli corda, sia perché volevo proteggere Beth, sia perché quella strana luce nei suoi occhi mi spingeva a continuare quello scambio di provocazioni.
«Come facevo a sapere se mi sarebbe piaciuta o no prima di conoscerla almeno un po’?» Mi fece notare in tono ovvio.
«Uhm… Ti ricordo che siamo abbastanza vicini perché io possa capire se menti.» Ribattei osservandolo con aria critica.
«Okay, allora dimmi se mento adesso.» Il sorriso provocante di poco prima era sparito, al suo posto c’era un’espressione intensa tanto quanto il suo sguardo. «Voglio capirti di più Scarlett. Fino a dove non lo so neanche io, ma so per certo che non sarà facile farmi demordere.»
Mi ritrovai a trattenere il fiato, gli occhi incatenati ai suoi. “Ti stai cacciando in un guai enorme, persino più grosso di quando hai deciso di parlargli”, commentò una vocina nella mia mente. Era vero, terribilmente vero. Non opponevo molta resistenza ai suoi tentativi di farmi cambiare idea, ma, in fondo, era quella la mia linea di difesa: allontanarlo, per il suo e per il mio bene. E allora perché era così difficile?
Non solo a livello pratico, ma anche sentimentale. Sapevo che era per il mio e per il suo bene, però non riuscivo a tradurre queste convinzioni in pratica. Era lì che mi bloccavo, al momento in cui avrei dovuto dimostrarmi coerente e fare ciò che dicevo. Però non sembravo esserne capace, perché?
Forse perché è il momento di cambiare le cose.




SPAZIO AUTRICE: Ehi, eccomi di nuovo :3
Avrei voluto aggiornare domani, ma mi sono resa conto che non avrei avuto tempo di farlo per via degli impegni con la scuola, quindi eccovi l'undicesimo capitolo *-*
Il confronto tra Adam e Scarlett iniziato nel capitolo scorso continua, prima mantenendosi su temi più "normali" per poi finire, inevitabilmente direi, per toccare il famoso tasto dolente: Adam è affascinato da Scarlett e dal lupo che si nasconde dentro di lei, Scarlett vorrebbe allontanarlo, sia per se stessa che per evitare di ferire Beth, eppure si trova ed essere indecisa a riguardo.
Sono anni che si porta dietro il segreto della licantropia con tutte le bugie e le verità taciute che questo comporta, adesso che ne ha parlato con qualcuno si sente alleggerita da questo fardello, anche se è Adam che le offre questo sollievo, anche se non era programmato.
Nel prossimo capitolo sia Beth che Selena giocheranno un ruolo piuttosto importante nell'avicinamento di Adam e Scarlett. O nel loro allontanamento, chi lo sa.
Spero che la storia continui a piacervi e grazie per l'entusiasmo con cui la seguite *-*

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 12
*** 12. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 12



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12. Adam

Avrei voluto farle altre domande, farmi dire qualcosa in più, anche insistere perché si lasciasse aiutare. E invece costa stavo facendo? La stavo accompagnando a casa. Dopo averglielo proposto io stesso. Probabilmente c’era una qualche mancanza di comunicazione tra la bocca e la mente.
Oppure speravo di spingerla a cercarmi per continuare a parlare.
Come se fosse stata una buon'idea... Non le piacevo neanche, quindi perché mai avrebbe dovuto tentare di continuare quella dannata conversazione? Non ne aveva motivo, ero io che continuavo ad illudermi del contrario. 
Scarlett era seduta sul sedile del passeggero accanto a me, le labbra strette in una linea sottile, la fronte aggrottata, l’espressione pensierosa.
«Pike Street, giusto?» Chiesi.
In realtà il suo indirizzo lo conoscevo benissimo, avevo imparato a memoria via e numero civico senza averlo neanche voluto. Speravo solo di sciogliere la tensione che si era creata tra noi dopo la mia ultima frase ad effetto. Piuttosto malriuscita a dirla tutta.
Annuì senza perdere quell’aria corrucciata che non l’aveva abbandonata da quando eravamo saliti in auto. Sospirai mordendomi il labbro: forse mi ero spinto troppo oltre, forse avevo detto qualcosa di così sbagliato da spingerla a tagliare ogni tipo di rapporto con me. Non che prima ne avessimo avuti molti…
Fermai l’auto davanti a casa sua e mi voltai verso di lei: da quando eravamo partiti non aveva alzato lo sguardo neanche per un attimo, non aveva detto una parola. Era rimasta zitta ed accigliata per tutto il tempo.
Trasse un respiro profondo e mise una mano sulla maniglia dello sportello. Senza pensare a quello che facevo, le afferrai un braccio. Si girò verso di me e mi studiò con quei suoi occhi così ardenti.
«Che c’è?» Domandò con voce incolore, quasi stanca.
«Sei sicura di non volere nessun aiuto? Non pretendo di diventare parte integrante della tua vita, voglio solo darti una mano ogni tanto.» Replicai.
«Per prima cosa non capisco questa tua determinazione nel voler diventare il mio angelo custode. Per seconda cosa, invece, la mia risposta è e sarà sempre no.» Dichiarò alzando il mento con aria di sfida. «E sia chiaro, non lo faccio perché voglio proteggerti, ma perché non voglio coinvolgere Beth nella mia licantropia.»
Annuii appena. «Lo so… Credimi, me ne rendo conto, però non posso far finta di nulla. Insomma, tu al mio posto lo faresti?»
«Se io fossi al tuo posto non mi metterei a discutere con un licantropo: può essere molto pericoloso.» Borbottò lei scoccandomi un’occhiataccia.
«A parte questo, se toccasse a te dimenticare quello che ci siamo detti, riusciresti a farlo?» Una parte di me temeva la sua risposta, ma, nello stesso tempo, volevo sentire cosa aveva da dire. Qualunque cosa fosse.
«Guarda che anch’io cercherò di dimenticare questo casino, sai? Continuare a ripensarci non fa che complicare le cose a tutti e due.» La sua voce era diventata quasi dolce. «Dovresti provare a lasciarti alle spalle tutto quello che ci siamo detti. So che non riuscirai a farlo visto che volevi quelle risposte, ma dovresti almeno fare un tentativo.» Mi prese il polso e sfilò il braccio dalla mia presa senza incontrare nessuna resistenza. «Lo dico per te Adam, insistere non ti porterà a nulla.»
Prima che potessi avere modo di reagire, scese dall’auto chiudendosi lo sportello alle spalle. Camminò fino alla porta di casa sua senza mai voltarsi, decisa e determinata, le spalle dritte, la testa alta.
Sospirai appoggiando la schiena al sedile: stavo continuando ad impuntarmi su una cosa che non aveva il minimo senso e non riuscivo a trovare una ragione per smettere di farlo. Che mi stava succedendo? Mi rifiutavo anche solo di prendere in considerazione l’idea di essere innamorato di lei, perché era impossibile che fosse quello, non ci si innamora così in fretta, ma qualcosa ci doveva essere. Restava da capire cosa mi rendeva così testardo quando si trattava di Scarlett. Testardo e irrazionale.

Mi imposi di andare a letto un po’ prima di quanto avevo fatto in quei giorni per evitare di addormentarmi in classe, possibilità che, da un po' di tempo a quella parte, era diventata più che probabile visto che avevo dormito sì e no tre, quattro ore a notte.
L’atto fisico di mettermi a letto, però, non implicava che mi addormentassi, anzi: ero piuttosto sicuro che avrei passato buona parte della notte a guardare il soffitto pensando a Scarlett. E questo non andava bene. Come aveva detto lei, non faceva bene a nessuno continuare a rimuginarci su. Lo sapevo benissimo, me l'ero ripetuto centinaia di volte, eppure ogni volta ci ricadevo. 
Cora, acciambellata al fianco del letto, mugolava di tanto in tanto come a chiedere il permesso per salire sul materasso. Sembrava che il rimprovero di mia madre di quella mattina non l’avesse neanche sfiorata. Un po’ mi dispiaceva lasciarla lì sul pavimento, ma Annabeth era stata categorica: se avesse trovato un solo pelo di cane sulle lenzuola l’avrebbe rispedita al canile. A quel punto era meglio se dormiva per terra piuttosto che finire in una gabbia di cemento.
All’ennesimo guaito, allungai un braccio verso di lei e la grattai tra le orecchie. In risposta sentii dei tonfi leggeri, segno che stava scodinzolando. In fondo, era un cane dalle poche pretese, le bastava poco per essere felice.
Un ronzio insistente mi distrasse dai miei pensieri. Mi lasciai sfuggire una smorfia quando mi resi conto che era il mio cellulare: non avevo voglia di parlare con nessuno, tantomeno di fingermi interessato a qualunque cosa avessero da dirmi.
Lo presi con un sospiro e me lo portai all’orecchio. «Pronto?»
«Ehi Adam, sono Selena. Ho una novità per il mio compleanno.» Annunciò la voce squillante di mia cugina.
«Ah sì? Cos’è?» Chiesi constatando che era una piacevole distrazione parlare con lei.
«Praticamente voglio organizzare la festa come se fosse un ballo, quindi, ecco, dovresti portare qualcuno con te.» Spiegò.
«Beh, io porto già Michael. Ricordi? Quel mio amico di cui ti ho parlato qualche giorno fa…» Replicai aggrottando la fronte.
«In realtà sarebbe più un “lui invita lei”, ma se tu preferisci invitare un lui allora è okay.» Ribatté lei dopo un attimo di titubanza.
«Vuoi dire che devo portare una ragazza quindi?» Domandai pensando involontariamente a Scarlett.
«Beh, sì.» Confermò. «Ma, te l’ho detto, se vuoi venire con Michael è okay, sono sicura che siete carini insieme.»
Sospirai. «Io e Michael non stiamo insieme. Lui ha la ragazza.»
«Oh… Vuoi dire che ti ha rifiutato?» Chiese lei in tono esitante.
Mi passai una mano tra i capelli. «No, niente del genere Sel. Anch’io ho una ragazza.» “Stai parlando di Elisabeth o di Scarlett?”, mi stuzzicò una vocina nella mia mente.
«Davvero? Allora non vedo l’ora di conoscerla! E di' al tuo amico che può portare la sua fidanzata senza problemi.» Esclamò.
«Bene, perfetto. Glielo dirò domani.» Convenni.
«Okay. Allora ci vediamo alla festa.» Percepii il sorriso nella sua voce.
Annuii quasi inconsciamente. «Sì, ci vediamo.»
Riattaccai con un sospiro e appoggiai il telefono sul comodino. Cora, nel frattempo, si era tirata su a sedere e aveva poggiato il muso sul bordo del letto. In quel momento mi stava guardando con espressione implorante e speranzosa. Ricambiai l’occhiata sentendomi quasi in colpa anche se non ne avevo motivo.
Alla fine mi arresi e le feci cenno di salire sul letto con me. Capì al volo e balzò sul materasso scodinzolando soddisfatta. Si acciambellò ai piedi del letto con uno sbuffo leggero. Le feci un'ultima carezza prima di spegnere la luce e prepararmi ad una notte di ripensamenti e riflessioni.

«Sul serio tua cugina pensava che noi due stessimo insieme?» Mi domandò Michael per la terza volta.
Alzai gli occhi al cielo, esasperato. «Sì, te l’ho già detto. Comunque le ho spiegato che abbiamo entrambi una ragazza.»
Lui però era già perso nelle sue fantasie. «Secondo te saremmo una bella coppia? Perché io penso di sì. Cioè, potrebbe funzionare.»
«Uh… Non saprei. Insomma, non ho mai pensato che potesse esserci qualcosa del genere tra noi.» Ammisi aggrottando la fronte.
Sollevò lo sguardo su di me con espressione fintamente innocente. «Mi trovi attraente Meyers?»
Arricciai le labbra in un sorriso ironico. «Ho visto di meglio. Scusa.»
«Beh, anche tu non sei chissà quale meraviglia.
» Commentò lui incrociando le braccia al petto e appoggiando la schiena alla sedia. «Le uniche cose che ti salvano sono gli occhi azzurri e l’aria da bravo ragazzo.»
Eravamo in biblioteca visto che uno dei nostri professori mancava e quindi avremmo iniziato le lezioni un’ora dopo rispetto al solito. Il piano iniziale era quello di ripassare e magari iniziare a mettere insieme qualche idea per il progetto di fisica, ma eravamo finiti a parlare di tutt’altro nel giro di qualche minuto.
Scossi la testa sorridendo. «Sei solo invidioso.»
«Sì, come no. Sogna pure amico.» Commentò lui riprendendo la penna ed abbassando lo sguardo sul libro di fisica. «Comunque, sapresti dirmi che è questo? Arabo? O magari una qualche specie di codice segreto che usate voi geni per comunicare?» Domandò guardando con aria perplessa le formule che dovevamo imparare a memoria.
«Sono solo simboli Michael, okay? Si usano per indicare i vari elementi che compongono le formule, non è così difficile.» Replicai trattenendo a stento un sorriso.
Mi scoccò un’occhiataccia. «No, certo, sono semplicissimi. Soprattutto quando ne devi imparare un centinaio tutto insieme.»
«Se avessi cominciato a studiare prima adesso li sapresti bene.» Gli feci notare.
Mi fece una smorfia prima di mettersi a copiare i vari simboli con il loro significato sul quaderno. In quel momento sentii dei passi e delle voci che si avvicinavano. Sollevai lo sguardo e vidi Elisabeth entrare in biblioteca insieme a Scarlett.
Strinsi le labbra vedendola: la conversazione che avevamo avuto il giorno prima mi turbava ancora e rivederla non era poi così piacevole come avevo pensato. Avevo ancora delle domande da farle, c'erano dei conti in sospeso tra noi e volevo ancora convincerla a lasciarsi aiutare, solo che il suo comportamento enigmatico e i suoi continui cambi d’umore non la rendevano facile da avvicinare.
«Torno subito.» Borbottai distrattamente prima di alzarmi.
«Eh?» Chiese Michael sollevando la testa dal libro. Ma ormai mi ero già allontanato.
Raggiunsi Elisabeth che mi sorrise mentre si sistemava i capelli con aria quasi maliziosa. Vidi Scarlett irrigidirsi e indurire lo sguardo, ma quasi non ci feci caso: dovevo smetterla di farmi influenzare da lei.
Sorrisi. «Ehi.»
Elisabeth inclinò la testa di lato, gli occhi scuri accesi di interesse. Il piercing che aveva al sopracciglio intercettò le luci della biblioteca mandando un bagliore. «Ehi.»
«Ho bisogno di parlarti.» Mormorai ricambiando l’occhiata.
«Sì? D'accordo, ho un momento libero.» Si voltò verso Scarlett. «Dammi cinque minuti, okay?»
Lei esitò alternando lo sguardo tra me e la sua amica. «Uhm… Okay.»
C’era qualcosa che la infastidiva, si capiva dal suo tono, ma non sapevo se ero io o il modo in cui Elisabeth mi sorrideva di continuo.
«Perfetto.» Esclamò Elisabeth prendendomi per mano e trascinandomi lontano dalla sua amica. Non credevo fosse abbastanza perché lei non ci sentisse, ma non era una grande idea dire alla sua migliore amica che Scarlett aveva l’udito di un lupo.
«Allora che devi dirmi?» Domandò Elisabeth guardandomi con aria incuriosita.
«Mia cugina compie diciotto anni il prossimo sabato e da’ una festa in casa sua. Volevo sapere se ti andava di venire con me.» Risposi sentendo le occhiate di fuoco di Scarlett sulla schiena.
I suoi occhi si illuminarono. «Sul serio? Oddio! Sì, certo che vengo.»
Prima che potessi rispondere, mi gettò le braccia al collo. “Certo che è affettuosa…”, pensai ricambiando, più o meno, l’abbraccio.
«Non vedo l’ora di andare!» Esclamò contro il mio collo.
Sorrisi anche se non poteva vedermi: in fondo Elisabeth era una splendida ragazza con cui stavo abbastanza bene, nonostante alcuni aspetti del suo carattere non mi andassero proprio a genio, quindi perché complicarmi la vita andando dietro ad un licantropo indisposto?
Mi scostai appena da lei senza sciogliere completamente l’abbraccio. «Mi fa piacere sapere che ti va di venire.»
Si mordicchiò il labbro, di nuovo con aria maliziosa, prima di baciarmi. Di lei si poteva dire tutto, tranne che non sapesse come prendere un ragazzo, devo ammetterlo. Le sue labbra erano un po’ appiccicose, probabilmente per via del rossetto che si era messa: rosso scuro, non molto diverso dal loro colore naturale.
Si scostò da me e lanciò un’occhiata a qualcosa dietro di me. «Forse è meglio se vado…»
Capii subito che si riferiva a Scarlett: ero abbastanza certo che ci stesse fulminando con lo sguardo in quel momento. O meglio, stava fulminando me.
«Anzi, ti presento Scarlett prima.» Saltò su Elisabeth con un sorriso entusiasta sulle labbra.
«Cosa?» Sbottai guardandola con gli occhi spalancati.
«Andiamo, non fare il timido. Scarlett ti piacerà, è una a posto.» Insistette lei mettendo su un’espressione implorante.
Sul fatto che Scarlett fosse a posto avevo un bel po’ da ridire, ma mi morsi la lingua e annuii. «Okay. Sì, perché no.»
«Bene!» Esclamò lei tutta contenta.
Sciolse definitivamente l’abbraccio, mi prese per un polso e mi riportò davanti a Scarlett. Per un attimo incrociai lo sguardo di Michael: sembrava divertito da quella sottospecie di commedia. Gli scoccai un’occhiataccia che non ebbe nessun effetto sul suo ghigno.
«Scarlett, lui è Adam, il mio ragazzo.» Esordì Elisabeth quando ci ritrovammo di fronte alla sua piuttosto irritata amica. «Adam, lei è Scarlett, la mia migliore amica.»
Le labbra di Scarlett si arricciarono appena in quello che voleva essere un sorriso. «Piacere di conoscerti.» Ma si vedeva che pensava tutto il contrario. Probabilmente, se avesse potuto, avrebbe messo in atto una delle tante minacce che mi aveva promesso. 
Senza pensare a quello che facevo, le tesi la mano. «Il piacere è mio.»
Per un attimo la sua espressione si fece sorpresa, per poi tornare dura. Mi strinse la mano guardandomi negli occhi con il mento alzato in segno di sfida.
Di colpo mi tornarono in mente le parole che mi aveva detto riguardo ad Elisabeth: Ascoltami bene, non pensare neanche di far soffrire Elisabeth. Se lo farai, sarò io a far soffrire te, chiaro? Le voleva bene, molto bene, e qualcosa nel suo sguardo mi diceva che tutta quell’improvvisa insofferenza nei miei confronti era dovuta anche al fatto che fosse coinvolta Elisabeth.
Avrei voluto dirle che non avevo intenzione di fare del male a nessuna delle due, ma mi trattenni: chi mi diceva che mi avrebbe creduto? E poi, perché avrebbe dovuto farlo? Non ci conoscevamo abbastanza da poterci fidare l’uno dell’altra.
Mi lasciò la mano senza staccarmi gli occhi di dosso. «Elisabeth noi dovremmo studiare se non mi sbaglio.» La sua voce era ferma ed incolore, sembrava quasi una mamma che rimprovera il figlio. 
«Oh, sì, giusto.» Elisabeth sembrò essere stata strappata bruscamente dalle sue fantasie. Si voltò verso di me con aria di scuse. «Ci vediamo domani?»
Sorrisi appena. «Certo.»
Ricambiò il sorriso con un entusiasmo che mi ricordava quello di un bambino. «Perfetto.» Mi diede un bacio veloce, giusto un secondo di labbra che si sfiorano. «A domani allora.»
Rimasi ad osservarla per un attimo mentre si allontanava insieme a Scarlett, che non perse occasione per scoccarmi un’occhiataccia. Tornai da Michael, sempre con un sorriso inconsapevole sulle labbra. Lui mi guardava con un sopracciglio sollevato con aria lievemente divertita.
«Cavolo Meyers… È una cosa seria, mmh?» Domandò visibilmente colpito. 
«Con Elisabeth? Uh, non quanto credi tu. Non nego che mi piaccia, ma non so fino a che punto.» Risposi sedendomi accanto a lui.
«Sicuro? Perché a me sembra di sì. Voglio dire, quello non era un bacio di quelli che ci si danno così, giusto per. Insomma, era un bacio con
la lingua.» Sottolineò socchiudendo gli occhi.
«E quindi?» Chiesi ritrovandomi sulla difensiva.
«Beh, non è una cosa da niente. Certo, adesso puoi dirmi che uscite da troppo poco e simili, ma è lampante che lei è molto coinvolta.» Replicò.
“Forse troppo coinvolta…”, commentò una vocina nella mia mente. «Elisabeth sa quello che fa.»
«D’accordo.» Convenne in tono accondiscendente. «Ma tu sai quello che stai facendo?»
Esitai, interdetto: aveva ragione, io non ero sicuro di quello che stavo facendo, per niente. Non avevo riflettuto un attimo prima di chiedere ad Elisabeth di venire con me alla festa di Selena, mi ero alzato e l’avevo invitata, punto. Neanche me ne ero reso conto fino in fondo. Era successa la stessa cosa quando avevamo cominciato ad uscire insieme, da un giorno all'altro era passata dall'essere una perfetta sconosciuta all'essere la mia ragazza. Tutto per via di Scarlett e quella strana, e forse insana, attrazione che una parte di me provava per lei.
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Più o meno.»
«Uhm… Senti, non voglio fare il guastafeste, ma cerca di non farti male, okay? Se vedi che le cose non vanno non forzare la mano, non ne vale la pena.» Commentò lui.
Annuii fissando il tavolo davanti a me. «Sì… Lo so, lo so. Grazie per avermelo ricordato, comunque.»
Mi diede una pacca amichevole sulla spalla. «Figurati, in fondo, se non ci aiutiamo a vicenda come possiamo sopravvivere?»
Sollevai un sopracciglio e lo guardai sentendo un sorriso spuntarmi sulle labbra. «Beh, in effetti…»
«A proposito di aiuto.» Aggiunse prendendo il libro di fisica e mettendomelo davanti. «Non è che potresti spiegarmi questa… uhm, questa formula? Perché per me non ha assolutamente senso…»
Alzai gli occhi al cielo sospirando. «Quando si dice aiuto disinteressato, eh?»
Lui ghignò, divertito. «Se non sfrutto io la tua mente geniale chi può farlo?»
“Tanto geniale non è visto che non ho la più pallida idea di come muovermi con Scarlett”, pensai con una punta di amarezza.

Sussultai quando il mio telefono cominciò a squillare. Non ricordavo che il volume della suoneria fosse così alto. Mi raddrizzai abbassando gli occhi sugli appunti di filosofia su cui mi ero quasi addormentato e feci scorrere lo sguardo sulla scrivania cercando il cellulare: a quanto pareva era nascosto sotto fogli, quaderni e libri. E non avevo idea di come ci fosse finito.
Sapevo di aver combinato un casino mischiando tutti i filosofi, ma la verifica mi stava mettendo più ansia del previsto. Mancavano ancora due giorni, però mi ero ripromesso di avvantaggiarmi almeno un po’ quindi avevo cominciato a studiare in anticipo in modo da potermi organizzare meglio anche per le altre materie.  
Cora mugolò infastidita da quell’improvviso risveglio: si era appisolata con la testa sulle mie gambe e il corpo su una sedia. Le piaceva dormire su tutto tranne che nella sua cuccia o su un tappeto come sarebbe stato normale. Le accarezzai tra le orecchie sovrappensiero mentre continuavo a cercare il telefono ancora mezzo addormentato. Spostai qualche foglio chiedendomi distrattamente che ore fossero: le due? O magari ero fortunato ed era solo mezzanotte?
Riuscii a trovare il cellulare sotto un libro che neanche non ricordavo di aver usato. Lo presi e me lo portai all’orecchio senza controllare di chi fosse il numero.
Mi passai una mano tra i capelli. «Pronto?»
«Adam, ciao!» Esordì una voce femminile decisamente familiare.
«Elisabeth… Ciao.» Mormorai mentre Cora sfregava il muso contro la mia mano per ricevere qualche carezza.
«Scusa se ti chiamo a quest’ora, davvero, ma il mio cellulare è… uhm, morto, e quindi ho dovuto aspettare che mia mamma si addormentasse per prendere il suo…» Spiegò. La sua voce suonava ovattata, quasi nasale e anche un po’ stanca.
«Non preoccuparti, è okay.» Sospirai accarezzando la schiena di Cora.
«Che devi dirmi?» «Ecco… Sabato c’è la festa di tua cugina, giusto?» Il suo tono si era fatto esitante.
«Sì, dobbiamo andarci insieme. Perché?» Chiesi.
«Non sai quanto mi dispiace, ma… non potrò esserci.» Uno starnuto la interruppe. «Vedi, credo di essermi presa una brutta influenza.» Avrei dovuto sentirmi dispiaciuto, sia per Elisabeth sia perché non sarei potuto andare al compleanno di Selena -andarci da solo era fuori questione-, ma l’unica cosa che provavo in quel momento era una specie di sollievo. Soprattutto perché non sopportavo le feste piene di alcolici, gente mezza stralunata e pessima musica.
«Mi dispiace. Sul serio, spero che ti senta meglio presto.» Replicai sentendomi quasi in colpa visto che ero felice che la mia ragazza fosse malata.
«È a me che dispiace. Voglio dire, è il compleanno di tua cugina…» Mormorò lei. «Dovevamo andarci io e te e invece mi sono presa l’influenza. Mi dispiace un sacco. Davvero.» Sembrava sul punto di mettersi a piangere.
«Ehi, non è colpa tua. Sta tranquilla. Selena capirà, e l’importante è che tu guarisca, mmh?» La rassicurai.
Trasse un respiro profondo. «Okay. Ma comunque ti ho trovato un’alternativa, diciamo così.»
Aggrottai la fronte. «Una cosa?»
«Puoi andare con Scarlett.» Esclamò lei ritrovando parte della sua solita allegria nonostante la voce resa roca dalla tosse.
«Scarlett?» Ripetei incredulo. «Vuoi dire che… Cioè… Perché lei?»
«Beh, se devo essere sincera non mi va tanto a genio l’idea di te da solo ad una festa piena di ragazze, quindi lei potrà… ecco…» Cominciò lei.
“Potrà tenermi d’occhio per conto tuo? Grazie per la fiducia”, pensai lasciandomi sfuggire una smorfia: la prospettiva di passare una serata intera con un licantropo indisposto e lunatico non mi attirava per niente, non ora che avevo finalmente deciso di smetterla di cercare di parlarle, di farle dire qualcosa in più. Sembrava che lo facesse apposta: ogni volta che mi decidevo a tagliare i ponti con lei rispuntava fuori per un motivo o per l’altro.
«A lei lo dirò domani. Lo so che la festa è tra due giorni… Uno, visto che è già mezzanotte passata, ma prima volevo sentire te. Cioè, se non vuoi andare non c’è nessun problema, è solo che… Sì, insomma, è il compleanno di tua cugina quindi in un certo senso ci devi andare, no?» Aggiunse Elisabeth.
“Devo davvero?”, mi chiesi. E la risposta era sì, dovevo andare alla festa di compleanno di mia cugina. Con Scarlett.




SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Sinceramente, non sono molto soddisfatta di questo capitolo, mi sembra che gli avvenimenti si susseguano troppo velocemente, ma non volevo annoiarvi soffermandomi troppo su ciascun evento, se così possiamo chiamarli. 
Verso la fine del capitolo troviamo una notizia decisamente inaspettata per il nostro Adam, una notizia che probabilmente avrebbe preferito non ricevere. O forse sì.
Si sente in dovere di andare alla festa, ma nello stesso tempo preferirebbe fare ben altro. In più è anche molto confuso per quanto riguarda la sua relazione con Elisabeth: ha agito d'impulso mettendosi con lei, ma è stata la cosa giusta? Non proprio, perché quella che doveva essere solo un mezzo per arrivare a Scarlett adesso e la sua ragazza a tutti gli effetti.
L'ho già detto altre volte, ma, visto che ormai è alle porte, mi sembra giusto ripeterlo: il compleanno di Selena porterà un bel po' di cambiamenti nella storia, sia per gli Adamet, ovvero Scarlett ed Adam, ma anche per Michael. Possiamo dire che non sarà una serata tranquilla per nessuno dei tre.
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto.

TimeFlies

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Capitolo 13
*** 13. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 13




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13. Scarlett


«Uhm… Di questo che ne dici?» Chiesi prendendo un vestito blu dall’armadio di Beth. «Secondo me è carino. E poi il blu ti dona.»
Lei starnutì e allungò una mano alla cieca per prendere l’ennesimo fazzoletto. «Scarlett devo dirti una cosa che…» Un altro starnuto le fece lasciare la frase a metà. «...che devi fare per me.»
«Ti serve un favore quindi?» Domandai rimettendo l’abito nel guardaroba e prendendone un altro nero.
Beth, sepolta sotto qualcosa come cinque coperte sul suo letto, tirò su con il naso. «Sì… Tra due giorni dovevo andare alla festa della cugina di Adam, ricordi?»
«Mm-mm.» Riappesi il vestito nell’armadio e mi girai verso di lei: aveva raccolto i suoi lunghi capelli scuri in una crocchia disordinata, non aveva un filo di trucco sul viso e indossava una felpa larga e pesante. Aveva l’aria stanca, la pelle pallida e le labbra arricciate in un broncio appena accennato.
«Ecco… Come puoi ben vedere io non posso andarci. Non in queste condizioni. Quindi… dovrai andarci tu.» Concluse prima di soffiarsi il naso.
Spalancai gli occhi e sperai con tutta me stessa di aver capito male. «Cosa?!»
«Beh, vedi, è la cugina di Adam, lui deve andare. E visto che è una festa in stile “lui invita lei” dovrebbe avere una ragazza con sé. Io sono impossibilitata quindi speravo che la mia migliore amica a cui voglio tanto, tanto bene potesse farmi questo piccolo ed insignificante favore.» Disse tutto d’un fiato come per paura che uno starnuto la fermasse prima che potesse finire il discorso e, nello stesso tempo, provando a mettere su l’espressione da cucciolo bastonato per far leva sui miei sensi di colpa.
«Ma è il tuo ragazzo! E poi, che c’entro io alla festa di sua cugina? Voglio dire, come dovrei presentarmi? Come la sostituta della sua ragazza?» Sbottai.
«Non è questo l’importante.» Dichiarò lei. «L’importante è tenere le altre ragazze lontane da lui.»
«Non ti fidi di lui?» Domandai lasciandomi cadere sul bordo del letto.
«Sì, ma non so come si comporta con tanta gente in giro, quindi ho bisogno di qualcuno che gli impedisca di fare stupidaggini.» Spiegò.
«E non ti è venuto in mente nessun altro?» Chiesi sull’orlo dell’esasperazione.
«Non c’è nessuno di cui mi fido tanto quanto mi fido di te Scarlett. E poi so che tu non ci proveresti mai con il mio ragazzo.» Replicò prendendo un altro fazzoletto. «Così come io non lo farei con il tuo.»
«Ma non ci ho mai parlato. Cioè, di cosa dovremmo discutere per tutta la sera? Del tempo?» Insistetti. «È una pessima idea Beth, non posso andare. Non con lui.»
«Un argomento lo troverete. E poi non sarà per sempre, okay? È questione di qualche ora.» Ribatté lei.
Mi presi la testa tra le mani. «Non posso crederci… Mi stai mandando ad una festa con il tuo ragazzo, Beth. Apprezzo la tua fiducia, sul serio, ma non me la sento proprio.»
«Scarlett, Adam è piuttosto bello, l’avrai notato anche tu, quindi non posso mandarlo da solo, non con tante ragazze intorno. È vero che per avere diciassette anni è abbastanza maturo e responsabile, ma l’alcol gioca brutti scherzi.» Replicò prima di tossire. «Ti prego Scarlett, non voglio fargli perdere il compleanno di sua cugina. Mi sentirei terribilmente in colpa, non riuscirei a stare con lui senza pensarci. So che è un grosso favore, ma mi serve che tu lo faccia. Ne ho bisogno. Io ci tengo a lui, tanto.»
Sollevai lo sguardo sulla mia migliore amica mentre un sospetto cominciava a prendere forma nella mia mente. «Di solito non ti comporti così con i ragazzi… C’è qualcosa in più in lui, dico bene? Sei innamorata sul serio.»
Aveva gli occhi lucidi, ma non avrei saputo dire se erano dovuti alla febbre o alle lacrime represse. «Sì. Credo proprio di sì, Scarlett. Forse è presto per dirlo, però…»
Trassi un respiro profondo. «Okay, okay. Senti, andrò a quella maledetta festa con lui.»
Il suo sguardo si illuminò. «Davvero?»
«Sì, in fondo è questo che fanno le amiche, no? Si aiutano a vicenda nei momenti di difficoltà.» Mormorai scoraggiata.
«Oh, Scarlett!» Si liberò dall’intrico di coperte e mi abbracciò. «Ti sarò debitrice a vita!»
Ricambiai la stretta maledicendomi mentalmente per aver accettato di passare un’intera serata con Adam. «Ehi, per te questo ed altro.»
Si allontanò appena da me per potermi guardare negli occhi. «Grazie. Sul serio, lo apprezzo tantissimo.»
Sorrisi debolmente. «Figurati.»
Lei sprizzava felicità da ogni poro e io mi sentii terribilmente in colpa: mi stava mandando ad una festa con il suo ragazzo perché si fidava di me. E perché non sapeva che io e lui già ci conoscevamo, avevamo avuto già delle chiacchierate non proprio piacevoli e qualcosa che assomigliava ad un litigio. Si poteva quasi dire che lui mi conosceva meglio di lei, della ragazza che consideravo la mia migliore amica.
Beth allungò un braccio verso il comodino accanto al letto e prese un foglietto ed una penna. Scribacchiò velocemente qualcosa sul pezzo di carta e me lo porse. «Ecco, questo è il suo numero, così potete mettervi d’accordo per sabato.»
Lo presi, seppur con riluttanza. «Bene. Perfetto.»

Fissavo il numero di Adam sullo schermo del mio cellulare da qualcosa come dieci minuti. Dovevo chiamarlo per fissare quando sarebbe passato a prendermi quel sabato solo che non riuscivo a trovare il coraggio di farlo. Che dovevo dirgli? “Ehi, la tua ragazza mi ha chiesto di tenerti d’occhio perché pensa che potresti finire a letto con la prima che ti capita a tiro”: suonava terribilmente male. E poi, se gliel’avessi detto davvero, avrebbe lasciato Elisabeth, cosa che l’avrebbe distrutta. Dovevo inventarmi qualcosa, e subito anche.
Trassi un respiro profondo e premetti il tasto verde prima di portarmi il telefono all’orecchio maledicendomi mentalmente per aver accettato. Rispose al terzo squillo.
«Pronto?» La sua voce tradiva una lieve nota di sospetto.
«Adam, sono Scarlett.» Dissi senza riuscire a nascondere l'esitazione nella voce.
«Scarlett.» Mormorò. Ci fu un attimo di silenzio, poi lui aggiunse: «Com’è che hai il mio numero?»
«Me l’ha dato Elisabeth.» Spiegai un po’ sorpresa dalla sua domanda. «Sai, per sabato… Cioè, non so se ti ha detto che non può venire e che ha delegato me come sua…» “Spia personale?” «…sostituta.»
«Oh, sì. Mi aveva accennato qualcosa. Mmh, come vogliamo fare? Passo io a prenderti?» Chiese.
Mi mordicchiai il labbro. «Sì, okay. Verso che ora?»
«Le nove e mezzo? Ti va bene?» Propose.
«Sì, perfetto.» Concordai.
Calò il silenzio tra noi, una specie di pausa nervosa ed imbarazzata.
Sorprendentemente, fui io a romperlo: «Non sembri molto entusiasta di andare a quella festa…»
Esitò per un attimo. «Nemmeno tu, se è per questo.»
«Già…» Convenni. «In fondo, non ti conosco quasi per niente.»
«Neanche io conosco te.» Aveva parlato a voce bassa, quasi sussurrando.
Ma vorresti farlo, vorresti conoscermi. «Lo so, lo so… Se fosse stato per me non sarei mai venuta, ma Beth ci teneva tanto…»
«Le vuoi parecchio bene allora. Insomma, non so sei io avrei fatto una cosa del genere al posto tuo.» Ammise.
«Noi ragazze siamo molto leali tra noi.» Borbottai sdraiandomi sul letto.
«L’avevo notato, sì.» Commento lui. «Resta comunque un favore molto grande.»
«A me non sembra. Voglio dire, è la mia migliore amica, per lei farei di tutto. E so che è lo stesso per lei.» Replicai.
«Quindi non ti scoccia tanto sapere che passeremo un’intera serata insieme, mmh?» Chiese lui con una punta di ironia.
Sospirai. «Certo che mi scoccia. Sto cercando di allontanarmi da te, ma sembra che una qualche entità superiore ce l’abbia con me e voglia rendermelo impossibile.»
Rise piano. «Entità superiore? Cos’è, roba da licantropi?»
«No! Solo… uhm, non sono atea, però non credo molto in Dio e simili, quindi la risposta sono le entità superiori non indentificate.» “Davvero stiamo discutendo di questo?”, pensai coprendomi gli occhi con una mano.
«Okay, sì, può funzionare. Comunque, anch’io stavo provando a lasciarti perdere, solo che continui a rispuntare ovunque.» Ribatté.
«Come se fosse colpa mia.» Commentai. «È Elisabeth che ha queste pessime idee.»
«Tu la assecondi però.» Mi fece notare.
Aggrottai la fronte. «Mi stai facendo la predica?»
«No, è solo che sembri disposta ad accontentarla in tutto. Andiamo, è evidente che non ti piaccio, soprattutto per quello che so e per quello che ti ho detto l’altro giorno, quindi non credo che ti vada tanto a genio l’idea di venire con me a quella stupida festa.» Spiegò con voce sorprendentemente calma. «Ti comporti come se dovessi ripagarle un qualche debito, come se le avessi fatto un torto e volessi rimediare.»
Trattenni il fiato per un attimo: si capiva così bene? Mi sentivo in colpa a non poterle dire cos’ero veramente, e ogni tanto le facevo dei favori come se quello potesse bastare per compensare tutte le bugie e le verità taciute. «Io… Sì, forse è vero.» Concessi. «Non ti sentiresti così anche tu se dovessi mentire costantemente alle persone a cui vuoi bene?»
«Sì, probabilmente sì. Non per questo devi andare contro i tuoi principi.» Replicò.
«Andare ad una festa con il ragazzo della mia migliore amica non va contro i miei principi. O meglio, non ho mai avuto una posizione su questo genere di cose. In effetti, dubito che ci avrei mai pensato se non mi fossi ritrovata in questa situazione.» Risposi.
«Mmh. D’accordo, voglio crederti.» Mormorò.
«Non hai motivo per non farlo.» Ribattei confusa.
«Sì, lo so, lo so…» Lo sentii sospirare. «Ci vediamo sabato quindi?»
Quell’improvviso cambio d’argomento mi lasciò un po’ interdetta, ma forse era meglio così, forse era meglio smettere di parlare prima che uno di noi due dicesse qualcosa di compromettente. «Okay. A sabato.»

Mi ero rifiutata categoricamente di mettere una gonna per la festa: già la sola idea di andarci con Adam mi metteva a disagio, indossare qualcosa che mi lasciava troppo scoperte le gambe avrebbe solo complicato ulteriormente le situazione. Avevo deciso di indossare una canottiera nera con il dietro in pizzo e lo scollo morbido che non faceva vedere niente di compromettente.
Sotto avevo dei jeans strappati con una piccola catenella appesa al fianco e i miei adorati anfibi neri. Avevo lasciato i capelli sciolti sulle spalle fermando solo un paio di ciocche con delle forcine in modo che non mi andassero sugli occhi.
Visto che il trucco non era mai stato il mio forte mi ero semplicemente tracciata una linea di eyeliner nero sulle palpebre facendola giusto un po’ più spessa del solito.
Nonostante cercassi di nasconderlo, soprattutto a me stessa, era un po’ nervosa: saremmo stati solo io ed Adam, senza nessun altro. O meglio, nessuno che io conoscevo. Chi mi diceva che non mi avrebbe fatto domande? Non avevo voglia di rispondere, né di mostrarmi di nuovo fredda e distaccata. Volevo solo che quelle ore passassero in fretta, così me ne sarei potuta tornare alla mia vita e lui alla sua.
Erano già le nove e mezzo quando finii di prepararmi. In effetti, avevo cominciato un po’ in ritardo visto che la mia voglia di andare a quella dannata festa era pari a zero. Chiusi gli occhi e mi presi la testa tra le mani: che mi era passato per la mente quando avevo accettato? E, soprattutto, che diavolo avrei combinato quella sera? Perché era ovvio che avrei fatto qualcosa di sbagliato, era una mia caratteristica aggiungere un tocco di caos a qualunque cosa.
Speravo solo di non fare niente con Adam. “Niente” inteso come non rivelargli nulla sui licantropi, come non ammettere che per un attimo avevo seriamente perso in considerazione l’idea di accettare il suo aiuto, come non confessare che mi piacevano i suoi occhi.
Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra del salotto e vidi la sua auto parcheggiata accanto al marciapiede. Aggrottai appena la fronte: quand’era arrivato? Non me n’ero accorta… Per una frazione di secondo pensai di fingere di non averlo visto, di tornare in camera, rimettermi i pantaloni della tuta e la maglietta dei Guns N’ Roses e stendermi sul letto a leggere, come se avessi dimenticato la promessa fatta a Beth. Ma non potevo.
Presi la giacca di pelle nera che avevo buttato sul divano, la indossai e uscii chiudendomi la porta alle spalle. Attraversai il vialetto stringendomi le braccia al petto per ripararmi almeno un po’ dal vento fino a raggiungere la macchina. Lui mi lanciò un’occhiata e vidi un sorriso quasi di cortesia increspargli le labbra. Entrai e mi sedetti accanto a lui sul sedile del passeggero prima di richiudere lo sportello.
«Ciao.» Mormorò con voce lievemente esitante.
«Ciao.» Risposi in un sussurro.
Mi decisi a guardarlo meglio e rimasi piuttosto a corto di parole: indossava una camicia azzurro chiaro e dei jeans neri e sembrava tremendamente a suo agio oltre che decisamente… attraente. Dovetti ammettere che Beth aveva ragione, Adam era piuttosto bello con quei lineamenti decisi ma non troppo, la linea netta della mascella che risultava comunque morbida, le labbra chiare e sottili. E quei dannati occhi blu tempesta.
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo. «Sembra che tu debba andare ad una qualche specie di sofisticato concerto rock.»
Mi irrigidii, più per la sorpresa che per altro, e lo guardai male. «Ah-ah, molto divertente.»
Scrollò le spalle. «Ho solo detto la verità.»
«Uhm…» Appoggiai la schiena al sedile ed incrociai le braccia al petto. «Cominciamo bene.»
Inclinò appena la testa di lato guardandomi con aria quasi incuriosita. «Non vuoi andarci.»
Sospirai. «Nemmeno tu.»
Distolse lo sguardo annuendo. «Vero.»
«Non possiamo fare finta di nulla? Cioè, andiamo ognuno a casa propria e diciamo che abbiamo trovato tanto, troppo traffico o che so io.» Tentai guardandolo speranzosa. Ed era un tipo di sguardo che non pensavo gli avrei mai rivolto.
«Potrebbe anche funzionare se non ci fossero i sensi di colpa.» Commentò.
Esitai per un attimo. «Hai ragione. Purtroppo.»
Si mordicchiò il labbro. «Già… Mmh… Quindi dobbiamo andare.»
«Non sembri convinto.» Gli feci notare.
«È solo che prima andiamo più tempo resteremo lì.» La sua voce si era abbassata fino a diventare quasi inudibile.
«Anche questo è vero.» Borbottai.  «Quindi... uhm, andiamo e speriamo che finisca presto.» 

Adam aveva un buon odore. Non ci avevo mai fatto caso prima, forse perché ero troppo impegnata a fare altro, per esempio a cercare di gestire le sue domande, i sentimenti contrastanti che mi nascevano in petto quando stavamo vicini, i dubbi che mi facevano venire le sue continue insistenze.
Ma ora eravamo soli, io e lui, nella sua macchina e non avevo niente da fare visto che nessuno di noi due sembrava intenzionato ad iniziare una conversazione, così ero finita per concentrarmi su piccoli dettagli all’apparenza senza nessun valore, ma che, all’improvviso, sembravano essere diventati interessanti.
Adam sapeva di bucato, dopobarba -cosa che mi sorprese visto che non pensavo lo usasse- e carta, quella dei libri vecchi che trovi negli scaffali impolverati della biblioteca. Sembrava strano, ma quegli odori tanto diversi stavano bene insieme.
Una minuscola parte di me avrebbe voluto andargli più vicino per sentirli meglio e magari capire se ce n’erano altri mischiati insieme, ma mi costrinsi a rimanere ferma al mio posto e a guardare fuori dal finestrino.
A dirla tutta non vedevo veramente il paesaggio che mi scorreva davanti, ero troppo presa dal riflesso del ragazzo seduto accanto a me. Per poco non sussultai quando incrociai i suoi occhi attraverso il vetro. Mi ci volle un attimo per capire che sì, mi stava guardando, ma non vedeva quello che vedevo io sul finestrino.
Mi concessi di osservarlo da lì anche perché ero un po’ curiosa di capire cosa lo aveva spinto a voltarsi verso di me: aveva la fronte leggermente aggrottata in un’espressione pensierosa, le labbra appena strette e gli occhi color tempesta attenti come sempre.
Tornò a concentrarsi sulla strada dopo pochi secondi lasciandomi quasi l’amaro in bocca per quella conclusione fin troppo frettolosa a quello scambio segreto di occhiate. Sospirai e mi appoggiai meglio contro lo schienale del sedile: non mi sarebbe dovuta piacere una cosa del genere, anzi, avrei dovuto trovarla irritante. Invece era tutto il contrario.
Stavo cominciando a capire perché lui aveva detto che lo incuriosivo: anche io mi sentivo in qualche modo affascinata da lui. E questo era un grosso problema.

Fermò l’auto in un grande cortile di quelli che si vedono nei film quando la bellissima donna in abito da sera scende dalla limousine ed entra nella villa per la cena di beneficenza o per una di quelle feste sfarzosissime. E, in effetti, la casa che avevamo di fronte era piuttosto simile ad una di quelle grandi ville con le scalinate di pietra all’ingresso e enormi finestre che si aprivano su stanze lussuose arredate con mobili incredibilmente pregiati. Scesi dalla macchina guardando ad occhi spalancati l’edificio davanti a me.
Quando Adam mi raggiunse non potei trattenermi dal chiedergli: «Tua cugina abita qui?»
«No, suo padre ha affittato la casa per stasera. Sai, loro sono dell’idea che i diciotto anni si compiono una volta sola e allora si devono fare le cose in grande.» Rispose con un sospiro.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi. «Beh, devo ammettere che hanno gusto.»
«Se ti piace lo stile “vantiamoci di quanti soldi abbiamo e sbattiamolo in faccia a tutti” allora sì.» Convenne senza guardarmi.
Mi ritrovai a trattenere il fiato senza un motivo apparente. «Oh… è un giudizio un po’ severo.»
«Lo so, lo so…» Sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Andiamo?»
Annuii anche se in realtà non ero per niente convinta. «Andiamo.»
Raggiungemmo fianco a fianco l’ingresso della casa. La porta era socchiusa, si intravedevano corpi che si muovevano e luci intermittenti. Adam sollevò la mano per bussare, ma la porta si spalancò prima che potesse farlo. Sulla soglia apparve una ragazza dai lunghi capelli scuri ondulati che le ricadevano morbidi sulla schiena tranne per alcune ciocche fissate sulla nuca da un fermaglio argentato.
Indossava un lungo abito blu con lo scollo a V che le scivolava sul corpo seguendone le curve fino a terra. Gli occhi erano truccati con cura: le palpebre erano colorate d’azzurro sfumato, le ciglia rese più lunghe e folte dal mascara; il tutto era completato da una linea sottile di eyeliner argentato. Al collo portava una catenina con un cristallo che le illuminava la pelle. Ed era davvero bella.
Le sue labbra, colorate di un rosso intenso, si incurvarono in un sorriso. «Adam!»
Gettò le braccia al collo del ragazzo in piedi accanto a me e lui ricambiò la stretta sorridendo sulla spalla di lei.
«Buon compleanno Sel.» Lo sentii mormorare.
Distolsi lo sguardo sentendomi il terzo incomodo, e rabbrividii appena: avevo lasciato la giacca in auto sapendo che sarebbe stata solo d’intralcio, eppure ora cominciavo a ripensarci. Lanciai un’occhiata di sottecchi ad Adam e dovetti ammettere che aveva un bel sorriso. E che quella camicia gli stava bene. E che la bellezza leggera e sofisticata sembrava un tratto di famiglia: di fronte a lui e a sua cugina mi sembrava di sfigurare.
«Lei deve essere la tua ragazza.» Commentò una voce femminile.
Sollevai gli occhi e mi ritrovai addosso lo sguardo incuriosito della cugina di Adam. Deglutii nervosamente: la sua ragazza? No, assolutamente no. Non se ne parlava proprio.
Adam mi lanciò un’occhiata veloce, ma prima che uno di noi due potesse ribattere, la ragazza in abito da sera riprese la parola: «Oh, ma che maleducata! Non mi sono nemmeno presentata!» Mi tese la mano con un sorriso che mi ricordava vagamente quello di Adam. O forse me lo stavo solo immaginando. «Piacere di conoscerti, io sono Selena.»
«Io… io sono Scarlett.» Riuscii a dire stringendole la mano.
Spostò lo sguardo su suo cugino. «Io vado, voi fate pure come se foste a casa vostra, mmh? Divertitevi!»
E si dileguò dopo aver lasciato un bacio sulla guancia di Adam.
Appena Selena scomparve dalla mia visuale mi voltai verso il ragazzo accanto a me e lo guardai male incrociando le braccia al petto. «Le hai detto che sono la tua ragazza?»
«Ma se non ho detto niente…» Protestò lui ricambiando l’occhiata.
«Sei stato zitto infatti! Non sai come si dice? Chi tace acconsente.» Replicai.
Sospirò alzando gli occhi al cielo. «Oddio Scarlett, ma che stai dicendo? E poi che ti importa di quello che crede mia cugina? Probabilmente questa è l’unica volta che la vedrai.»
Prima che potessi anche solo pensare ad una risposta, qualcuno chiamò Adam, qualcuno che conoscevo. Mi voltai insieme al ragazzo accanto a me e vidi Michael, il suo migliore amico, che ci veniva incontro insieme ad una ragazza dai capelli castano chiaro. Con la coda dell’occhio vidi Adam fare una smorfia. E mi sentii quasi infastidita quando realizzai che non saremmo stati solo io e lui, ci sarebbe stato anche Michael e quella che sembrava essere la sua ragazza.
Osservandola meglio la riconobbi: era una delle compagne di squadra di Beth, giocavano a pallavolo insieme. Se non mi sbagliavo si chiamava Julia o qualcosa di simile.
Sia Michael sia la ragazza ci sorrisero. Lei indossava un abito al ginocchio viola con le spalline sottili e dei cristalli come decorazione sullo scollo; lui una camicia bianca con tanto di cravatta e un gilet verde scuro. Aveva un sorriso da ragazzino che ha appena fatto uno scherzo.
«Ehi.» Michael sembrava incredibilmente a suo agio.
Diede una pacca amichevole sulla spalla di Adam, che gli sorrise. Poi lo sguardò di Michael si posò su di me e vi colsi un certo interesse. Si voltò verso Adam e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Socchiusi gli occhi e aggrottai la fronte: dimostrava parecchia sfacciataggine parlando di me mentre ero lì davanti a lui.
Julia, se davvero si chiamava così, sembrava della mia stessa opinione: si schiarì la gola lanciando un’occhiata eloquente al suo ragazzo. «Michael, non dovresti fare le presentazioni?»
Qualcosa mi diceva che Adam lo conosceva già, però era gentile da parte sua mettere fine a quello scambio di commenti decisamente poco discreto. Michael sembrò essere colto alla sprovvista.
Si passò una mano tra i capelli evitando di proposito di guardarmi. «Ehm… Sì. Tu e Adam già vi conoscete quindi...» Mi guardò con aria esitante. «E lei… Ecco, lei è…»
«Scarlett.» Intervenne Adam.
Il suo sguardo si era fatto più intenso e nella sua voce c’era una nota strana, che riuscii a cogliere nonostante avesse detto solo una parola.
Julia si voltò verso di me sorridendo. «È un piacere conoscerti.»
Ricambiai il sorriso. «Il piacere è mio.»
«Scusate se vi interrompo, ma… questa è una festa, no? Quindi lasciamo da parte i convenevoli ed entriamo.» Esclamò Michael beccandosi un’occhiataccia da parte di Julia.
Adam si strinse nelle spalle e le fece cenno di andare. Sembrava che ci fosse una qualche intesa tra loro, come se fossero stati genitori ormai abituati e rassegnati alle marachelle del figlio e al fatto che avrebbero dovuto scusarsi con qualcuno praticamente ogni volta che uscivano di casa.
Julia gli fece un breve cenno d’intesa prima di afferrare Michael per il polso e trascinarlo dentro la casa con sé. Rimanemmo io ed Adam davanti alla porta, come se nessuno di noi due riuscisse a decidersi ad entrare.
Adam si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli. «Quindi… uhm, andiamo?»
Mi aveva già fatto quella domanda solo pochi minuti prima. Ora che mi ritrovavo a dover rispondere di nuovo avrei anche potuto cambiare idea se non fosse stato per il senso di colpa che sembrava sempre pronto a sbucare dall’ombra ad ogni minimo segno di ripensamento.
Sollevai lo sguardo sul ragazzo dagli occhi color tempesta e lo trovai a guardarmi con le labbra appena arricciate in un accenno di broncio di cui neanche si rendeva conto.
«Ormai siamo qui, no?» Commentai prima di mettere una mano sulla maniglia della porta decretando l’inizio di quella che riuscivo a vedere solo come una tortura.

Passammo un’ora buona appoggiati al bancone del bar, che era un vero e proprio bar con tanto di scaffali per i liquori, vasche del ghiaccio e tutto quello che si può trovare in un pub: evidentemente, quando Adam aveva detto che ai genitori di Selena piaceva fare le cose in grande, intendeva veramente in grande.
Sorprendendomi, Adam aveva ordinato due birre e, quando il barista ce le aveva portate, me ne aveva allungata una senza dire una parola. Non avevo potuto fare a meno di guardarlo, interdetta, mentre beveva la sua come se nulla fosse.
“Pensavi che fosse astemio o qualcosa del genere? Davvero?”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente, “ha diciassette anni, è ovvio che beva”. In effetti era vero: perché non avrebbe dovuto farlo? Solo perché ai miei occhi appariva in qualche modo etereo, quasi troppo controllato per poter cedere a vizi comuni come l’alcol? Non aveva senso.
Mi portai la bottiglia alle labbra e bevvi un sorso di quel liquido ambrato dal gusto amarognolo. Se mia madre fosse stata lì, mi avrebbe concesso di bere solo un bicchiere. Anzi, poco più di metà bicchiere. Invece c’era Adam con me, e lui non sembrava curarsi di quanto alcol bevessi.
Posai la birra sul bancone osservando Adam di sottecchi: sembrava concentrato su un qualche punto nel vuoto, aveva l’espressione pensierosa, quasi corrucciata.
Mi schiarii la gola. «Quindi, uhm, passeremo la serata così? A guardare la gente che crede di saper ballare?»
Lui scrollò le spalle senza guardarmi. «Che vorresti fare, scusa? Non conosci nessuno a parte me.»
«Sì, ma tu qualcuno lo conosci, no? Insomma, è tua cugina…» Tentai.
«Conosco dieci persone di vista, il resto… per quanto ne so potrebbe averli trovati nella discoteca più vicina.» Commentò facendo sparire definitivamente la mia voglia di conversare.
Il bar si trovava sotto un gazebo nel giardino dietro la villa. L’erba davanti a noi era praticamente sommersa di adolescenti accaldati e un po’ troppo esaltati che si strusciavano l’uno contro l’altro in quello che loro chiamano “ballare”.
Nonostante questo, era una bella serata: il cielo era limpido e pieno di stelle, la luna spiccava, pallida, su tutto quel nero. Neanche la pessima musica commerciale che il DJ si ostinava a mettere rovinava l’atmosfera tranquilla che si era formata intorno a me ed Adam, come se fossimo stati racchiusi in una bolla trasparente che teneva fuori rumori e altri fastidi.
Sospirai riprendendo la mia birra: si prospettava una lunga notte.
Quando, qualche minuto dopo, Adam posò la sua bottiglia sul bancone e si voltò verso di me -direi quasi finalmente visto che fino a quel momento aveva concentrato la sua attenzione su un punto indefinito-, quasi non sentii le sue parole tanto ero distratta a guardare una ragazza dai lunghi capelli rossi muoversi disinvolta sulla pista da ballo improvvisata. Non sapevo neanche perché la stessi osservando, forse solo perché avevo sempre voluto avere i capelli di quel colore, così intenso e brillante.
Sbattei le palpebre e mi girai verso Adam, confusa. «Cosa?»
Si mordicchiò il labbro. «Ti ho chiesto se ti andava di ballare.»
Ci mancò poco che mi andasse di traverso la birra. «Eh?!»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Sei diventata sorda? Non avevi detto che i licantropi hanno i sensi più sviluppati?»
«Questo non c’entra nulla. Sono solo… uh, sorpresa dalla tua domanda, ecco.» Replicai guardandolo male.
«Perché sorpresa?» Chiese aggrottando appena la fronte.
«Perché non mi sembri il tipo a cui piace ballare.» Risposi.
«Vero.» Convenne. «Ma mi sto annoiando e potremmo distrarci un po’ invece che stare qui a non fare nulla.»
Socchiusi gli occhi, cauta. «Mmh.»
«Allora? Ti va o no?» Insistette.
In effetti stava cominciando a seccarmi tutta quell’immobilità, quello stare ferma a fissare il vuoto. Ma ballare con lui… Non si presentava come un qualcosa di saggio né prudente.
Eppure mi ritrovai a dire: «Okay. Andiamo.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo che non prometteva nulla di buono. Un attimo dopo sentii le sue dita chiudersi sul mio polso e, prima che potessi anche solo rendermene conto, mi stava trascinando verso la pista da ballo. O almeno era quello che pensavo inizialmente, perché poi lui cambiò direzione infilandosi tra la massa di corpi in movimento. Ricevetti, e diedi, qualche gomitata prima di riemergere in un angolo libero. E finire contro il suo petto.
Rimasi immobile per un attimo mentre una parte di me registrava il suo buon odore, quello che avevo già sentito in auto, il calore del suo corpo, la consistenza morbida della sua camicia sotto le dita.
Poi feci un passo indietro e, imbarazzata, mi guardai intorno: ci trovavamo in un fazzoletto d’erba abbastanza lontano dalla pista da ballo perché quella mandria di adolescenti esaltati non rischiasse di ucciderci, ma, nello stesso tempo, abbastanza vicino perché la musica si sentisse comunque, un po’ più bassa magari, però c’era.
Mi decisi a guardarlo e lo trovai ad osservarmi, attento come sempre, con quei suoi occhi blu tempesta resi più scuri dalla mancanza di luce.
In quel momento suonarono le ultime note dell’ennesima canzone pop, che lasciò il posto ad una specie di lento. Come se fossero state addestrate a farlo, tutte le persone sulla pista si trovarono un compagno con cui dondolare in un altro, goffo tentativo di ballare.
Solo allora realizzai che anche io ed Adam avremmo ballato in quel modo. Questo voleva dire stare stretti l’uno all’altro, quasi abbracciati. Mi maledissi mentalmente per la centesima volta: perché avevo accettato di andare con lui a quella stupida festa?
Una parte di me voleva comunque dargli una possibilità nonostante non ci fosse alcun motivo valido per farlo.
Sospirai teatralmente come a fargli capire che facevo tutto quello solo per accontentarlo e sollevai il mento. «Il fatto che tu abbia avuto questa idea proprio prima che suonassero un lento è solo una coincidenza, immagino.»
Sorrise abbassando lo sguardo. «Sei liberissima di non crederci.»
«È proprio quello che farò.» Borbottai tra me e me. «Va bene, facciamolo e non pensiamoci più.»
Feci un passo verso di lui, che mi avvicinò a sé posando le mani sui miei fianchi. Grazie al cielo, ebbe il buon senso di non andare troppo in basso, altrimenti non avrei reagito bene. Trassi un respiro profondo prima di mettere le mani sulle sue spalle.
L’avevo già notato prima, e ora potevo riconfermarlo: la sua camicia era morbida e piacevole sotto le dita e il suo odore era piacevolmente delicato. Forse non sarebbe stato così male.
«Come sta Elisabeth?» Chiese con naturalezza.
«Sempre malata. Sai, raffreddore, tosse, anche un po’ di febbre.» Scrollai appena le spalle. «Si rimetterà.»
«Mmh, bene.» Commentò.
Annuii appena stando ben attenta a non incrociare i suoi occhi.
«Tu come stai invece?» La sua domanda mi spiazzò completamente.
Sollevai lo sguardo su di lui, che mi osservava attento. In che senso come stavo io? Non lo vedeva da solo? Stavo bene, punto. Non c’era altro da dire.
«Sto bene. Sì, insomma, perché non dovrei?» Replicai ritrovandomi quasi sulla difensiva.
«Hai detto che non è facile reggere la pressione quindi pensavo che magari ti sentissi un po’ troppo… oppressa.» Spiegò con voce esitante.
«E dovrei venirlo a dire a te?» Sbottai scoccandogli un’occhiataccia senza però allontanarmi da lui.
«Sono l’unico che sa cosa sei, no? In un certo senso si può dire che ti capisco. Più o meno.» Ribatté.
Da una parte aveva ragione, ma non l’avrei ammesso. «Questo non vuol dire che sei diventato importante o che so io. Anzi, dovresti allontanarti da me per quello che sai.»
«Lo so come la pensi, però non posso farlo. Ci ho provato, sul serio, ma in qualche modo ci ritroviamo insieme comunque, quindi è piuttosto inutile.» Rispose addolcendo il tono.
Annuii abbassando lo sguardo. «Sì… hai ragione.»
«Lascia che ti aiuti Scarlett, per favore.» Aggiunse.
Scossi la testa con decisione. «No. Non ti metterai in pericolo così. Assolutamente. Puoi scordartelo.»
«Scarlett…» Cominciò.
«C’è anche Beth in mezzo, okay? E questo vuol dire che non si può e basta. Anche se insisti non cambierà nulla: finché lei è in qualche modo coinvolta non ti lascerò avvicinare. Ma neanche dopo, ad essere sinceri.» Lo interruppi. La mia voce, però, invece di sembrare risoluta e determinata, suonò incerta e bassa.
«Se stiamo attenti lei non finirà in mezzo. Nessuno che non deve finirà in mezzo.» Replicò.
Sorrisi amaramente. «Come lo sai? Potrebbe andare tutto storto nel giro di un secondo.»
«Non è detto. Possiamo gestire la situazione Scarlett, possiamo farlo sul serio.» Insistette.
Senza rendermene veramente conto, cominciai a tracciare figure astratte sulla sua spalla con la punta delle dita. «Parli al plurale.»
«Beh, ti ho offerto il mio aiuto quindi credevo fosse ovvio che avremmo… uhm, collaborato.» Spiegò.
Strinsi appena le labbra. «Se mai dovessimo farlo, sei consapevole di quanto sarà pericoloso?»
«Ti ho già detto che non ho paura di te. E comunque pensavo di fare qualcosa che non avesse a che fare con la licantropia.» La sua voce era diventata quasi dolce, morbida.
«Ah sì? E cosa?» Chiesi tenendo lo sguardo fisso sulla sua gola, lì dove il colletto della camicia si apriva un po’ mostrando la pelle chiara e una parte delle clavicole.
«Elisabeth mi ha detto che hai qualche difficoltà in matematica e ho pensato che posso darti una mano, se ti va.» Propose.
«Mmh…» Mormorai poco convinta.
«Il tuo essere lupo non interferirebbe e quindi anche se io continuassi ad uscire con Elisabeth le possibilità che lei venisse a sapere cosa sei sono praticamente nulle.» Aggiunse. «Potremmo fare una prova, giusto per vedere come va e poi decidere. Non c’è fretta.»
Dovevo ammettere che era un buon piano. Certo, c’era compreso lui quindi avrei dovuto tenere sempre alte le difese, ma mi avrebbe risolto qualche problema.
«Sarebbe una preoccupazione in meno, no?» Chiese lui osservandomi.
Sollevai lo sguardo fino ad incrociare i suoi occhi blu. Attraverso il pizzo della canottiera sentivo il calore delle sue mani, che, in un certo senso, era quasi rassicurante. «Beh, sì, però non vuol dire che accetterò. Posso trovare qualcun altro che mi dia ripetizioni, sai?»
«Vero.» Convenne. «Ma per ogni persona in più che coinvolgi aumenta il rischio di essere scoperta.»
Mi morsi il labbro, combattuta: accettare equivaleva ad avere un peso in meno sulle spalle; dirgli di no avrebbe significato ritrovarmi come prima, com’ero sempre stata, sola e piena di problemi da gestire.
«Cosa vuoi in cambio?» Domandai indurendo lo sguardo.
La sua espressione si fece sorpresa. «Niente. Perché dovrei volere qualcosa?»
«Perché sì. Nessuno offre un aiuto del genere senza volerci guadagnare.» Replicai. «Potrei capirlo se non ci conoscessimo, ma non è così, quindi è ovvio che ci sia qualcos’altro.»
Mi guardò negli occhi per qualche secondo prima di abbassare lo sguardo. «È probabile che tu ti arrabbi, ma… forse voglio solo sapere qualcosa in più su di te.»
Contrassi la mascella e annuii. «Sai, hai ragione: mi sono arrabbiata.» Feci un passo indietro lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e sciogliendo quello strano abbraccio. «E la mia risposta è no, non voglio il tuo aiuto.»
Nei suoi occhi blu passò un’ombra. «Scarlett…»
«No. Basta con questa commedia.» Dichiarai prima di voltargli le spalle ed andarmene.
Probabilmente le persone davanti a me sentivano la mia rabbia visto che non si facevano problemi a lasciarmi passare. Senza averlo deciso, mi ritrovai al bancone del bar e non riuscii a fare a meno di osservare tutti quegli alcolici dai colori brillanti ed intensi allineati sugli scaffali. Mi sarei odiata, lo sapevo, ma avevo bisogno di non pensare per un po’.
«Cosa ti porto, bella?» Chiese il barista, un ragazzo moro sulla ventina, sorridendomi.
“Sei ancora in tempo per evitare di combinare un guaio”, mi ammonì una vocina nella mia mente. La mia bocca la pensava diversamente: «Qualcosa di forte.»
Lui fece un cenno d’assenso. «Subito.» Un secondo dopo mi mise davanti un bicchierino contenente un liquido ambrato. «Ecco qua.»
Lo presi con un accenno di sorriso sulle labbra e lo sollevai appena. «Alla salute.» E bevvi tutto d’un fiato.



SPAZIO AUTRICE: Come vi aveve già preannunciato, il compleanno di Selena non è per niente una serata tranquilla: Scarlett ha i nervi a fior di pelle, vorrebbe scappare e, nello stesso tempo, vuole anche mantenere la promessa fatta a Beth; Adam insiste ancora, ma anche lui non sa bene come comportarsi. Finiscono entrambi per dire, o fare, la cosa sbagliata e questo non fa altro che aumentare la tensione tra loro. 
I guai, però, sono dietro l'angolo: anche il prossimo capitolo sarà ambientato durante al festa, almeno in parte, e devono succedere ancora un bel po' di cose che, come vi ho già detto, coinvolgeranno anche Michael.
Mi è piaciuto scrivere questo capitolo, soprattutto perché cominciano ad esserci i primi accenni agli Adamett, al rapporto che verrà a crearsi, molto lentamente, tra loro.
Volevo avvertirvi che nel prossimo capitolo andrò a toccare, anche se per poco, un tema delicato che riprenderò, sempre solo accennandolo, in seguito e spero tanto di riuscire a farlo nel modo giusto, senza strafalcioni e cercando di essere il più giusta possibile.
Spero che questo capitolo sia piaciuto anche voi e vi ringrazio per l'entusiamo che dimostrate nel seguire la storia.

TimeFlies

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Capitolo 14
*** 14. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 14



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14. Adam

Farla arrabbiare non era certo nelle mie intenzioni. Anzi: avrei voluto fare tutto il contrario, aiutarla, confortarla, darle un buon motivo per cui fidarsi di me. E invece l’avevo fatta scappare.
Mi passai una mano tra i capelli sospirando: avevo sempre avuto un brutto presentimento riguardo a quella stupida festa, ma non pensavo a niente del genere. Non pensavo di toccare un tasto tanto dolente. E poi Elisabeth mi avrebbe ucciso se non le avessi riportato la sua migliore amica. Non potevo fare niente di peggio a quel punto.
Mi guardai intorno cercando Scarlett, solo che c’era troppa gente e lei era così minuta… Di colpo mi ritrovai a pensare a quanto eravamo stati vicini solo un minuto prima, con le sue mani sulle mie spalle, i suoi occhi nei miei, il suo respiro che mi sfiorava la pelle. “Smettila”, mi rimproverai: ci mancava solo che mi mettessi a ripensare a quello che era successo. Per colpa mia, tra l’altro.
Aggirai la gente che ballava in pista continuando a cercarla sullo sguardo e sentendomi quasi colpevole per quella sua arrabbiatura improvvisa. In realtà non ce n’era motivo, io le avevo offerto un aiuto pressoché gratuito, quindi perché ce l’aveva con me? Forse solo perché era troppo sospettosa di natura, oltre che lunatica.
«Adam!» La voce squillante di mia cugina mi riscosse dai miei pensieri.
Me la ritrovai davanti, splendida nel suo abito blu notte. Sorrideva, la mano stretta in quella di un ragazzo alto e con le spalle molto larghe.
Mi sforzai di sorridere. «Ehi Sel.»
«Volevo presentarti Josh, il mio fidanzato.» Disse lei indicando il ragazzo al suo fianco, che mi fece un cenno di saluto.
«Oh… Ehm, piacere di conoscerti.» Mormorai tendendogli la mano.
Lui fece un mezzo sorriso e me la strinse brevemente prima di lasciarla. «Il piacere è mio. Sei il cugino di Selena, giusto?»
«Già…» Confermai.
«Che ne dici di venire a bere qualcosa con noi?» Propose Selena aggrappandosi al braccio di Josh.
«Ehm… Non saprei…» “Devi trovare Scarlett prima che si cacci nei guai”, mi ricordò una vocina nella mia mente.
«Su, non fare il difficile. Vieni.» Esclamò mia cugina prendendomi per un polso. «In fondo, è il mio compleanno, no?»

Ci volle un bel po’ prima che riuscissi a congedarmi da Selena e i suoi amici. Avevo motivo di credere che alcuni di loro neanche l’avessero notato visto che erano piuttosto brilli. Meglio così, dovevo trovare Scarlett e avevo già perso abbastanza tempo.
Ero così preso dalla mia ricerca che mi scontrai con qualcuno. Feci un passo indietro e sollevai lo sguardo: davanti a me c’era una Julia piuttosto preoccupata e ansiosa.
«Julia, che succede?» Chiesi ritrovando di colpo la concentrazione.
«Adam, ehi. Ho solo… ecco, perso Michael.» Rispose titubante. «Aveva detto che andava a prendere da bere, ma poi non è più tornato.»
«Non ne sono sicuro, ma credo di averlo visto da qualche parte vicino al DJ.» Risposi: avrei riconosciuto quello stupido gilet verde ovunque. Gli avevo detto mille volte di buttarlo, ma lui non mi aveva mai ascoltato.
Julia sembrò decisamente sollevata. «Grazie, sul serio.»
Le sorrisi appena, poco convinto. «Figurati.»
Feci per andarmene, ma lei mi richiamò: «C’è un’altra cosa: ho visto la tua amica, Scarlett, al bar e non mi sembrava che stesse molto bene.»
«Vuoi dire che è ubriaca?» Ci mancava solo quella… Come l’avrei spiegato ad Elisabeth? O alla madre di Scarlett?
«Probabilmente sì.» Confermò Julia.
Sospirai. «Okay, grazie.»
Annuì appena. «Forse è meglio se andiamo entrambi allora.»
«Già.» Mormorai.
Mi allontanai da lei cercando, contemporaneamente, di evitare la massa di persone che affollava la pista da ballo e di trovare la via più veloce per il bar. Avevo messo in conto di tutto quando avevo accettato di andare alla festa con Scarlett, ma di sicuro non il fatto che si sarebbe ubriacata. Al massimo avevo pensato che sarei stato io a farlo, però era comunque un’ipotesi abbastanza irrealizzabile visto che non mi piaceva bere.
Ora invece mi ritrovavo ad avere a che fare con un licantropo ubriaco e non avevo la più pallida idea di come aveva reagito all’alcol. Da quelle poche informazioni che ero riuscito ad estorcerle avevo capitolo che il metabolismo dei lupi mannari era più efficiente di quello umano, ma lei non aveva mai accennato agli alcolici. Per quel che ne sapevo potevano renderla più aggressiva e lunatica di quanto non fosse già, oppure tutto il contrario. Per quanto mi affascinasse la sua licantropia, quello era un lato di lei che avrei preferito non dover mai vedere.
Quando, finalmente, raggiunsi il bancone del bar, avevo quasi il fiato corto e qualcosa mi diceva che era più per l’ansia che per l’essermi dovuto fare strada in mezzo ad un braco di adolescenti esaltati.
E lei era lì, seduta su una panchina con l’aria imbronciata e una bottiglia in mano. Accanto a lei ce n’erano altre, non avrei saputo dire quante, ma di sicuro erano troppe.
Imprecai mentalmente e la raggiunsi rendendomi conto che di lei mi importava più di quanto fossi disposto ad ammettere con me stesso.
Senza aver deciso di farlo, mi ritrovai inginocchiato davanti a lei che cercavo di incrociare il suo sguardo sfuggevole: neanche l’alcol era riuscito a farle perdere questa caratteristica. «Scarlett.»
Mi guardò con la fronte aggrottata. «Che vuoi?» La sua voce suonò impastata.
Aveva gli occhi un po’ annebbiati e distanti, ma sembrava piuttosto lucida. O almeno era quello che mi auguravo.
«Come ti senti?» Chiesi osservandola preoccupato.
Scrollò le spalle. «Bene.» E fece per portarsi la bottiglia alle labbra.
Gliela tolsi di mano guadagnandomi un’occhiataccia e un insulto senza un destinatario particolare borbottato a mezza voce. «Ehi.» Protestò. «Questo è un paese libero.»
«Credimi, se non fosse che domani Elisabeth ti chiederà com’è andata ti lascerei bere quello che vuoi, ma sappiamo entrambi che ci ucciderà se saprà che ti ho fatto ubriacare.» Risposi.
Ridacchiò come se avessi detto qualcosa di esilarante. «No… Lei non ti ucciderebbe mai: è cotta di te.»
“Michael aveva ragione: è parecchio coinvolta”, pensai quasi a disagio. «Beh, è una buona notizia. Ora che ne dici di andare casa?»
«Uhm…» Fece un smorfia. «Non mi va.»
Sospirai. «Ah no?»
«No.» Confermò allungando una mano verso la bottiglia.
La allontanai di nuovo e le presi con delicatezza il polso. «Non è una buon’idea continuare a bere, sai? Sei già ubriaca.» Mormorai.
Lei aggrottò lo fronte, come se non riuscisse ad afferrare il concetto. «No, io non posso ubriacarmi.»
«Non puoi nel senso che tua madre si arrabbia se lo scopre?» Chiesi cercando di nuovo di incrociare il suo sguardo.
Scosse la testa. «Non posso nel senso che i licantropi smaltiscono l’alcol più velocemente degli umani: non facciamo in tempo a berne abbastanza per ubriacarci che lo abbiamo già eliminato.»
«Tu però non mi sembri molto sobria.» Commentai prima di mordermi il labbro.
Si strinse nelle spalle. «Tutti hanno un limite, anche i lupi mannari.»
«D’accordo, approfondiremo il discorso un’altra volta. Ora è meglio andare, mmh?» Tentai sperando di riuscire a convincerla. Anche perché altrimenti non avrei mai saputo cosa fare.
Sorprendendomi, lei annuì. «Ho freddo.»
«Allora adesso andiamo a scaldarci, okay?» Proposi posando la bottiglia a terra e alzandomi.
Lei fece cenno di sì pur mantenendo lo sguardo fisso a terra: sembrava concentrata su qualcosa anche se riuscivo a capire cosa. Le tesi una mano che afferrò per poi tirarsi su. Barcollò in avanti finendomi praticamente contro. Istintivamente la circondai con le braccia per sostenerla. Lei appoggiò le mani sul mio petto in cerca di stabilità. Aveva ancora la stessa espressione quasi imbronciata, non sembrava che tutta quella vicinanza le desse fastidio.
Mi allontanai appena da lei per poterla guardare in faccia. «Riesci a camminare?»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso un po’ sbilenco. «Certo.»
Invece non è che le riuscisse tanto bene. O meglio, camminare camminava, ma con passi incerti e traballanti che ci rallentavano. Alla fine mi decisi a darle una mano: mi avvicinai a lei e le passai un braccio intorno alla vita. Non sembrò farci molto caso anche se si aggrappò alla mia camicia stringendosi contro di me. Raggiungere la macchina non fu facilissimo, però almeno ci eravamo arrivati e non era un traguardo poi così indifferente.
Non vidi Selena ed incrociai Julia solo per un secondo: stava aiutando un Michael decisamente ubriaco a camminare fino all’auto mentre lui borbottava frasi senza senso sui lunedì discriminati e le formule chimiche. Mi offrii di aiutare Julia, ma lei, dopo un’occhiata veloce a Scarlett, disse che avevo abbastanza da fare anch’io.
«Eccoci qua.» Mormorai mentre aiutavo Scarlett a sedersi sul sedile del passeggero.
Prese subito la sua giacca e se la infilò per poi stringersi le braccia al petto sussurrando un “grazie” senza un destinatario preciso.
Mi misi al voltante sentendomi sia sollevato perché ce ne stavamo finalmente andando, sia in colpa perché avevo lasciato che Scarlett si ubriacasse e non avevo salutato Selena. Mi dissi che ci avrei pensato il giorno dopo, in quel momento la priorità era riportare Scarlett a casa sana e salva.

«Puoi accendere il riscaldamento?» La voce di Scarlett era bassa e roca.
Le lanciai un’occhiata veloce. «Certo.» Ed azionai l’aria condizionata.
«Grazie.» Replicò tornando a stringersi nella sua giacca.
A dirla tutta credevo si fosse addormentata, ma per fortuna non era così: come avrei fatto a portarla in casa altrimenti? Avrei dovuto prenderla in braccio? E poi come lo spiegavo a sua madre? Non potevo mica presentarmi alla porta con Scarlett tra le braccia e dire che le avevo riportato la figlia.
«Quanto manca?» Chiese la diretta interessata decidendosi a riemergere dal suo intorpidimento.
Eravamo appena entrati in città e visto che lei abitava poco lontano dalla periferia non ci avremmo messo molto per arrivare. «Non tanto, tranquilla.»
«Ho sonno.» Annunciò prima di sbadigliare.
«Già, un effetto collaterale del troppo alcol.» Commentai.
Aggrottò la fronte. «Tu non hai bevuto.»
«Dovevo guidare, non potevo bere un granché.» Le feci notare.
«Mmh.» Mormorò lei guardando fuori dal finestrino. «Il nome Scarlett non mi piace.»
La guardai, sorpreso e anche un po’ incuriosito, mio malgrado. «Perché no?»
«Perché non si può abbreviare. O meglio, lo puoi fare, ma viene “Scar”, che vuol dire cicatrice e… è brutto. Una cicatrice non è mai benvoluta.» Spiegò con voce cupa.
«Non sempre. Sì, insomma, la cicatrice del cesareo per esempio è il segno che hai dato il via ad una nuova vita, ed è una bella cosa, no?» Ribattei chiedendomi dove avessi trovato quell’esempio.
Era un discorso strano, eppure mi interessava lo stesso. Se lei fosse stata sobria non mi avrebbe mai rivelato una cosa del genere, ma in quel momento non lo era e i suoi freni inibitori sarebbero stati fuori uso almeno fino al mattino dopo.
«Sì, però… Di solito non vuoi una cicatrice visto che ti ricorda un qualcosa di brutto che ti è successo: se hai una cicatrice vuol dire che hai sofferto, che qualcuno ti ha fatto del male. Io non voglio essere una cicatrice. Per nessuno.» Ammise in un sussurro.
Avevo sempre sentito storie di gente che, dopo aver bevuto quantità indicibili di alcol, si metteva a raccontare di tutto, ma non ci avevo mai creduto fino in fondo. Adesso invece avevo davanti la prova che era vero: Scarlett stava aprendo una fessura nella sua corazza fatta di provocazioni e risposte acide, stava confessando una parte segreta di se stessa. A me.
«Tu non sarai mai una cicatrice Scarlett, okay? Insomma, non credo che farai mai una cosa tanto brutta da segnare in modo negativo e permanente una persona.» Replicai.
Lei sospirò. «Ma è così facile farlo… Basta stare con qualcuno, farlo stare bene e fare in modo che si fidi di te, fargli credere che vale qualcosa per te, che è importante. E poi te ne vai, sparisci, tronchi tutto e lasci un vuoto. È quel vuoto a diventare una cicatrice, a fare male finché non si rimargina e a rimanere sempre lì come a ricordarti chi ti ha ferito.»
Non l’avevo mai vista sotto questa prospettiva, ma aveva completamente ragione: bastava un unico errore a cancellare anni di fiducia, bastava un unico abbandono a lasciare una cicatrice.
«Tu pensi che potresti farlo?» Chiesi cauto.
«Chiunque potrebbe farlo. E magari senza neanche accorgersene.» Sussurrò lei fissando un punto nel vuoto. «Mio padre l’ha fatto, ha ferito mia mamma e se n’è andato.»
Trattenni in fiato involontariamente: stavamo entrando in un argomento troppo delicato che era meglio non affrontare da ubriachi. Probabilmente mi avrebbe ucciso se avesse scoperto cosa mi aveva detto mentre era sotto l’effetto dell’alcol.
«Scarlett…» Cominciai.
Lei però sembrava decisa a continuare il suo racconto: «Avevo sette anni quando, rientrando in casa dopo essere stata da Beth, trovai mia mamma in lacrime seduta al tavolo della cucina. In mano aveva una lettera dell’avvocato di papà: aveva chiesto il divorzio. Lei lo amava tanto…» Si infilò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Non credo che lo odierà mai, anche se le ha fatto del male, anche se l’ha illusa. Lei è troppo buona per provare odio. Io no invece.»
Deglutii: dovevo trovare qualcosa da dire, qualcosa che la distraesse magari, o che la consolasse. L’unico problema era che non avevo idee. «Tuo… tuo padre ha sbagliato Scarlett, questo è poco ma sicuro. Però non dovresti continuare a pensarci, ti fai solo del male così.»
Trasse un respiro profondo e appoggiò la schiena al sedile. «Non mi faccio male, lo so che è lui quello in torto. Solo… ogni tanto sento il bisogno di sfogarmi.»
«In questo caso allora fai bene a parlarne.» “Ma dovresti scegliere qualcun altro con cui farlo”, aggiunsi mentalmente.
Si voltò verso di me. «I tuoi genitori si amano?»
Rimasi decisamente spiazzato dalla sua domanda. Esitai ritrovandomi di colpo a corto di parole: che dovevo risponderle? La cosa più ovvia da fare sarebbe stato dire di sì, ma era davvero la verità? Me lo auguravo, certo, ma dopo tanti anni di matrimonio a volte l’amore sfuma in qualcos’altro, affetto nel migliore dei casi. Indifferenza nel peggiore.
«Siamo arrivati.» Annunciai sollevato riconoscendo casa sua.
Fermai l’auto accanto al marciapiede pregando che non insistesse. Lei guardò fuori dal finestrino per un attimo prima di aprire lo sportello e scendere. Non ero pienamente convinto di doverlo fare, però mi ritrovai comunque fuori dalla macchina a un paio di passi di distanza da lei. E da lì fino a davanti alla porta d’ingresso della casa.
«Hai le chiavi?» Mi sorpresi di quanto fosse gentile la mia voce, come se avessi avuto a che fare con un bambino o un cucciolo.
Lei annuì, quasi compiaciuta di poter dare la risposta giusta. «Sì.»
«Bene.» Mormorai.
Si girò verso di me e mi osservò per qualche secondo. «Non mi piace dormire da sola.»
Esitai: da ubriaca Scarlett era ancora più imprevedibile che da sobria. «Tua madre non c’è?»
Scosse la testa. «No, è via per lavoro.»
«Ah… Beh, mi… mi dispiace.» Commentai passandomi una mano tra i capelli.
Lei provò a fare un passo verso di me, ma finì con l’inciampare nelle sue stesse scarpe e finirmi addosso. La sorressi e ci ritrovammo nuovamente molto vicini. Forse troppo vicini considerato che io avevo una ragazza.
Appoggiò le mani sulle mie spalle per trovare l’equilibrio e io finii con le mie sui suoi fianchi, come poco prima quando aveva ballato insieme, solo che adesso non c’erano né rabbia né conversazioni scomode.
Lei mi guardò negli occhi. «Resteresti con me?»
Forse avevo giudicato troppo in fretta la piega che stava prendendo quel discorso: adesso era piuttosto scomoda. Trattenni il fiato istintivamente.
La luce della luna creava riflessi argentati nei suoi capelli e mi resi conto per la prima volta che aveva gli occhi da cerbiatto, grandi e profondi. E che non sarebbero potuti essere di nessun altro colore se non di quello strano ed affascinante marrone dorato. Di solito i dettagli si vedono meglio alla luce, ma in quel momento avevo ragione di credere che quella fosse la vera Scarlett, con quella bellezza soffusa che non notavi quasi mai, con quei capelli castani lunghi, mossi e leggeri, con quegli zigomi morbidi e delicati, con quelle ciglia lunghe che le disegnavano ombre sulla pelle, con quelle labbra rosee e lievemente schiuse…
Mi riscossi dai miei pensieri appena in tempo: sentivo già un “sì” prendere forma, pronto per essere pronunciato. «Ehm… non credo sia una buon’idea. Insomma, non posso e tu non lo vuoi veramente.»
Inclinò appena la testa di lato con l’espressione da cucciolo bastonato in viso. «Sicuro?»
Annuii come per convincermi di quello che dovevo dire. «Sì, sono sicuro. Scarlett io non ti piaccio, me l’hai fatto capire in divere occasioni, non c’è alcun motivo per cui dovresti chiedermi una cosa del genere. A parte l’alcol, quello è un buon motivo.»
«Non è vero che non mi piaci.» Ammise lei abbassando lo sguardo. «Cioè, a volte mi metti un po’ a disagio perché non so come comportarmi con te, però… in fondo un pochino mi piaci.»
Doveva aver bevuto davvero tanto per arrivare a dire una cosa del genere. All’improvviso mi tornò in mente un vecchio proverbio che mi aveva detto mio padre un po’ di tempo prima: due tipi di persone dico sempre la verità, i bambini e gli ubriachi.
«Scarlett…» Cominciai pur non avendo idea di cosa dire.
Lei mi interruppe come se non avessi aperto bocca: «È okay però, se non vuoi rimanere: non sono stata molto gentile con te.»
Si aggrappò meglio alle mie spalle e si alzò in punta di piedi. «Buonanotte.» E mi diede un bacio sulla guancia.
Qualcosa di molto simile ad una scarica di adrenalina mi attraversò il corpo a quel contatto apparentemente innocente. Fu questione di un secondo, anche meno, eppure non riuscii a fare a meno di soffermarmi su quanto erano morbide le sue labbra, su quanto era caldo il suo respiro, pieno d’alcol e parole sia aspre che dolci, su quanto fossimo vicini e, di conseguenza, sul calore del suo corpo premuto contro il mio.
Si allontanò da me facendo qualche passo indietro per poi guardandomi con quei suoi occhi di un marrone bruciante.
Buttai fuori l’aria: non mi ero neanche accorto di star trattenendo il respiro. «Buonanotte.»
Un sorriso leggero le incurvò le labbra. Provai a ricambiarlo anche se non venne fuori molto convinto. Lei infilò una mano nella tasca delle giacca e ne tirò fuori un mazzo di chiavi che usò per aprire la porta. Entrò chiudendosela alle spalle lasciandomi lì, solo e piuttosto confuso dalle mie stesse reazioni.

«Ho un tremendo, disperato bisogno di parlati. Non puoi metterti a fare il genio incompreso adesso, okay?» Michael accompagnò il tutto con una decisamente poco delicata gomitata che, devo ammettere, fu molto utile per riscuotermi dai miei pensieri.
Riguardavano Scarlett, o meglio quello che mi aveva detto sotto l’effetto dell’alcol: continuavo a chiedermi se lo ricordava, se era anche solo lontanamente consapevole di quanto si fosse aperta con me.
Mi massaggiai la parte colpita scoccandogli un’occhiataccia. «Okay, okay… Stai diventando isterico, lo sai?»
«E ho una buona ragione per farlo.» Replicò lui prima di afferrarmi per un braccio e trascinarmi dietro l’angolo del corridoio della scuola.
«Addirittura?» Commentai. «Neanche stessimo organizzando una missione segreta.»
Il suo sguardo si indurì. «Senti, è una cosa seria. Molto seria.»
Mi appoggiai al muro con una spalla. «Okay, parla.»
«Alla festa di tua cugina, ecco, tu sai che ero un po’… brillo, no?» Chiese.
«Sì, giusto un pochino.» Convenni con una punta di ironia non proprio velata.
Sospirò guardandomi male. «A parte questo, io… credo di aver… uhm, ecco, tradito Julia.»
Spalancai gli occhi. «Cosa?! Tradito quanto? Cioè, in modo grave o…?»
«E io che ne so? Non è esiste mica una scala di valutazione.» Mi rimbeccò lui.
«Va bene, diciamo che andiamo dal provarci con qualcuno all’andare a letto con qualcuno. Ci dovrebbe essere abbastanza campo di variazione.» Risposi.
Trasse un respiro tremante e solo in quel momento mi accorsi di quanto fosse ansioso: continuava a tormentare la felpa che aveva in mano, aveva una ruga di tensione sulla fronte, spostava di continuo lo sguardo… Sembrava prossimo ad un attacco di cuore.
«Ho baciato un’altra persona.» Ammise.
«Non mia cugina, vero?» Domandai ripensando a quanto fosse grosso il suo ragazzo, il capitano della squadra di football del suo liceo.
«No, no. Assolutamente.» Mi rassicurò. «Ecco, diciamo che non è così semplice.»
«Senti Michael, dimmi la verità e facciamo la finita, okay?» Sbottai.
«Hobaciunragz.» Borbottò fissando il pavimento.
«Cosa? Hai baciato uno struzzo?» Sapevo che era un tipo un po’ eccentrico, ma non pensavo fino a quel punto. Ed ero abbastanza sicuro di non aver visto nessun tipo di animale alla festa.
Mi diede un colpetto sul braccio. «No, idiota. Non uno struzzo.»
«E allora chi? O cosa?» Insistetti.
Sospirò chiudendo gli occhi. «Ho baciato un ragazzo Adam, okay? Un ragazzo, come me e come te.»
Feci per dire qualcosa, ma non riuscii a trovare le parole adatte: non solo aveva tradito Julia, ma l’aveva fatto con un maschio. Se mi avesse detto che gli piacevano i ragazzi non ci sarebbe stato nessun problema, assolutamente, ma sarebbe stato meglio se l’avesse… capito prima di mettersi con Julia. La loro storia andava avanti da un bel po' di mesi, ma quello... beh, quello  non sarebbe stato facile da spiegare e neanche da affrontare.
«Come hai fatto? Voglio dire, eri già ubriaco o…?» Chiesi osservandolo preoccupato: di Michael si potevano dire molte cose, non tutte carine, ma non che fosse senza sentimenti. Il Michael che conoscevo io non avrebbe mai fatto una cosa del genere alla sua ragazza. A meno che non fosse stato non proprio nel pieno delle sue facoltà mentali.
«Beh, ecco, credo di sì. Avevo già bevuto insieme a Julia poi sono andato al bar per prendere qualcos’altro e c’era questo gruppo di ragazzi che mi hanno offerto da bere. Hai presente quelle fiaschettine d’argento che hanno tutti nei film?» Al mio cenno d’assenso continuò: «Ecco, me ne hanno data una e io… ho bevuto. Da lì in poi ho ricordi piuttosto confusi. So solo che ad un certo punto stavo baciando qualcuno che non era Julia, qualcuno che non era una ragazza.»
Mi passai una mano tra i capelli sospirando. «Non sei in una bella situazione, lo sai? Voglio dire… Non puoi fare finta di niente adesso, devi parlarle. A Julia, intendo.»
Si lasciò sfuggire un smorfia. «Devo proprio?»
«Sì Michael, non puoi semplicemente fingere di non aver fatto quello che hai fatto.» Replicai.
Lui annuì. «Hai ragione, devo parlarle, chiarire. E dovrei anche baciare un ragazzo da sobrio, sai, giusto per capire se mi piace o no.»
«Mmh…» Commentai. «Non so a quanto potrebbe servire però.»
Michael sollevò lo sguardo su di me con entrambe le sopracciglia inarcata in un espressione speranzosa.
Quando realizzai quello che voleva feci un passo indietro alzando le mani. «No, no, decisamente no. Cerca qualcun altro.»
Sembrò quasi ferito dalla mia risposta. «Ma sei il mio migliore amico!»
«Ecco, e ci tengo a rimanere tale. E poi una crisi di… uh, identità è l’ultima cosa che mi serve adesso.» Dichiarai.
Mise il broncio. «D’accordo. Vuol dire che dovrò trovarmi un altro ragazzo da baciare.»
Mi strinsi nelle spalle. «Sembra di sì. E dovresti anche parlare con Julia.»
Lui distolse lo sguardo con fare evasivo. «Sì… Magari un’altra volta, eh?»
«No. Adesso. Altrimenti non lo farai mai.» Insistetti. «Andiamo Michael, non fare il codardo.»
Lui trasse un respiro profondo e si portò una mano sul cuore con aria esageratamente teatrale. «Hai ragione, io sono un uomo d’onore. E parlerò con la mia donna. Che potrebbe non essere più mia nel giro di pochi minuti.»
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Buona fortuna amico, ne avrai bisogno.»
La sua espressione si fece rassegnata. «Già… Comunque vada, sappi che ho apprezzato molto i tuoi aiuti durante le verifiche.»
«Ma non mi dire.» Borbottai. «Adesso dovresti andare, prima di cambiare idea.»
Lui annuì come a volersi fare forza. «Giusto. È stato un piacere conoscerti.»
Prima che potessi rispondere, lui mi diede le spalle, raddrizzò la schiena e si allontanò lungo il corridoio. Sospirai passandomi una mano tra i capelli: si era cacciato in una situazione decisamente spinosa e non avevo idea di come sarebbe potuta finire, se non con una brutta rottura tra lui e Julia.
La vibrazione del mio cellulare mi fece distogliere lo sguardo dalla schiena del mio migliore amico che andava incontro al suo destino. Presi il telefono dalla tasca e rimasi parecchio interdetto quando riconobbi il numero: pur non volendolo veramente l'avevo imparato a memoria e quasi non me n'ero accorto. Non fino a quel momento almeno. Scarlett.
Mi portai il cellulare all’orecchio deglutendo quasi nervosamente. «Pronto?»
Lei tossicchiò, come se fosse stata a disagio. «Ehi Adam, sono Scarlett. Senti… uhm, ecco, volevo sapere, sei ancora disponibile per quelle ripetizioni?»



SPAZIO AUTRICE: Come vi avevo già detto, oltre che per Scarlett, anche per Michael questa serata non è stata molto tranquilla: gli ha portato molto dubbi e problemi che dovrà risolvere al più presto.
Quando si è ubriachi si fanno cose che normalmente non faremmo, che spesso neanche ci rispecchiano, ma forse per Michael è diverso: magari per lui quello che è successo è semplicemente la riprova, la conferma di un dubbio che già aveva. Vi ricordate quando, nel capitolo 12, ha chiesto ad Adam se secondo lui sarebbero stati una bella coppia? Già da lì aveva qualche dubbio riguardo se stesso.
Quando ho "creato" Michael l'ho pensato fin da subito bisessuale, è un aspetto che è sempre stato parte di lui. Michael è un ragazzo molto curioso, un po' come Adam, che si annoia spesso ed è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo; i cambiamenti non lo spaventano, anzi, lo affascinano.
Scarlett, invece, ha messo a nudo una piccola, ma neanche troppo, parte di sé. Era sotto l'effetto dell'alcol e non aveva il completo controllo di se stessa, ma ha avuto comunque un certo effetto su Adam, che si è ritrovato a corto di parole e, come lui stesso ha detto, confuso dalle sue stesse reazioni.
Che stia cominciando a provare qualcosa per lei che vado oltre la semplice curiosità?
Penso di aver detto anche troppo, quindi vi ringrazio e ci rivediamo al prossimo capitolo.

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Capitolo 15
*** 15. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 15




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15. Scarlett


Buttai giù l’aspirina -più per precauzione che per bisogno- con un sorso d’acqua e feci una smorfia: stavo cominciando a capire perché mia mamma mi diceva sempre di non bere troppo. I postumi della sbronza erano stati tremendi. Soprattutto se ci aggiungevo il fatto che mi ero ubriacata mentre ero con Adam.
Il mal di testa e la voglia immensa di dormire avrei anche potuto sopportarli, ma quello no. Non ero neanche tanto sicura di ricordare cosa avevo combinato; speravo solo di non aver fatto niente di troppo compromettente come baciare il ragazzo della mia migliore amica o qualcun altro.
Erano passati due giorni da quella stupida festa, ma ancora non mi andava giù non sapere cosa avevo fatto. E non potevo neanche chiederlo al diretto interessato: insomma, cosa si può pensare di una che viene da te e ti dice “ehi, sapresti dirmi se mi sono messa a ballare su un tavolo sabato notte?”. Assolutamente niente di buono, poco ma sicuro.
Mi passai una mano tra i capelli sospirando: andare a scuola era l’ultima cosa che mi andava di fare, ma non potevo mancare. In effetti, dovevo presentarmi, anche solo per sapere quanto male era andato il compito di matematica. Proprio quello che ci voleva per riprendersi da una brutta serata.
Mi alzai dal tavolo della cucina, mi infilai il giubbotto svogliatamente, presi lo zaino e uscii di casa. Fuori soffiava un vento leggero ma pungente che mi fece rabbrividire e chiedere, per l’ennesima volta, cosa avesse mia madre contro le auto. Lei usava i mezzi pubblici per andare a lavoro e, almeno in teoria avrei dovuto farlo anch’io, solo che avevo perso l’abbonamento dell’autobus e non mi andava di dirlo a mamma quindi… dovevo camminare.

La prof Smith camminava su e giù tra i banchi come era sua abitudine fare ogni volta che doveva riportarci una verifica. Metà della classe era stravaccata sulle sedie con aria assente e annoiata, l’altra metà mordicchiava penne con fare nervoso o fissava il banco come se potesse bastare quello a risparmiare loro un brutto voto.
Se devo essere sincera non so dire a quale categoria appartenevo; probabilmente ad una tutta mia visto che mi stavo semplicemente rigirando una matita tra le dita sperando che quella tortura finisse presto.
La professoressa Smith si fermò dietro la cattedra e raccolse i compiti. Ci lanciò un’occhiataccia ammonitrice prima di cominciare a distribuirli. Ogni volta che uno degli studenti riceveva la sua verifica si sentivano sospiri di sollievo o gemiti di delusione. In questo caso ero piuttosto sicura che sarei appartenuta alla seconda categoria quando il mio compito mi sarebbe arrivato.
«Signorina Dawson.» Gracchiò la prof quando raggiunse il mio banco.
Sollevai lo sguardo su di lei pregando mentalmente che fosse accaduto un miracolo alla mia verifica, che, all’improvviso, fossi diventata un genio in matematica. «Sì?»
Lei strinse le labbra in una linea severa. «Non pensavo che si potesse fare un compito peggiore di quello che lei ha avuto il coraggio di consegnarmi la scorsa volta.» Quasi sbatté un foglio sul mio banco. «Ma, come si dice, non c’è mai fine al peggio.» E si allontanò tutta impettita nel suo abito color cartone.
Evidentemente le entità superiori non erano dalla mia parte quel giorno. Diedi un’occhiata cauta al compito e mi stupii meno del previsto quando vidi l’ennesima F di un rosso brillante. Mi morsi il labbro inferiore e imprecai mentalmente: come potevo anche solo sperare di recuperare una cosa del genere?
Se fosse stato il primo voto tanto basso avrei anche potuto avere una speranza, ma in quel caso ero spacciata. A meno che… No, era fuori discussione. Ero già caduta abbastanza in basso ubriacandomi con lui, ci mancava solo che gli chiedessi di aiutarmi con la matematica.
“E che altro vorresti fare allora? Sperare in un miracolo?”, mi stuzzicò una vocina nella mia mente. Beh, no, non potevo fare affidamento sulle entità superiori: sembrava che si fossero dimenticate di me da un bel pezzo. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era chiedere a lui sperando di non sembrare troppo patetica.

Spostai il peso da un piede all’altro, a disagio: perché Beth non rispondeva? Mezzogiorno era passato da un pezzo, avrebbe dovuto essere sveglia. O forse era dal medico… Strinsi così forte il telefono da sentire un lieve scricchiolio: forse ero davvero un po’ troppo nervosa. In fondo, però, si trattava di una cosa da poco visto che lei aveva già detto di fidarsi di me e che aveva un debito nei miei confronti dopo quella dannata festa. Quindi perché stavo attentando alla vita del mio cellulare?
Il peggio doveva ancora arrivare: la telefonata a lui ancora non l’avevo fatta.
Dopo quella che mi sembrò un’eternità, Beth si decise a rispondere: «Pronto?»
«Ehi Beth, sono Scarlett.» Dissi prima di mordermi il labbro: nonostante avesse il mio numero salvato in rubrica, raramente Elisabeth controllava chi la chiamava. Semplicemente rispondeva senza degnare di uno sguardo lo schermo del cellulare.
«Oh, ciao!» Esclamò. «Come va?»
«Tutto bene. Cioè, non proprio. Comunque, perché ci hai messo tanto a rispondere?» Chiesi.
«Stavo guardando la finale di America’s Next Top Model: mica potevo perdermi la sfilata finale! Però adesso sono qui, che devi dirmi? Perché è evidente che non hai chiamato solo per cortesia.» Ribatté lei senza scomporsi.
Trassi un respiro profondo. «La Smith ci ha riportato i compito oggi e tu lo sai che ho una relazione complicata con la matematica. Anzi, si può dire che è un rapporto a tre se contiamo anche la prof. E si sa che i triangoli non funzionano…»
«Scarlett.» Mi interruppe Beth. «Va’ dritta al punto, mmh?»
«Ecco, è un’altra F. Sì, lo so che sono tante e che avrei dovuto pensarci prima, però… Il punto è che ho bisogno del tuo ragazzo.» Mi sarei voluta sotterrare per il modo in cui avevo formulato quell’ultima frase.
«Adam? E a cosa ti servirebbe, scusa?» Domandò lei ridacchiando.
«Beh, sabato, alla festa, siamo finiti a parlare della scuola e lui ha detto che la matematica un po’ gli riesce. E anche tu mi hai detto spesso che è un genio in queste cose quindi mi chiedevo se… ecco, se io potessi chiedergli un aiutino… Sai, giusto per rimettermi in carreggiata.» Spiegai gesticolando.
«Mmh…» Ci fu una breve pausa durante la quale rischiai qualcosa come tre infarti. «E avevi bisogno di chiedermi il permesso?» Beth scoppiò a ridere. «Andiamo Scarlett, lo sai che mi fido di te, no? Certo che puoi farti dare ripetizioni. Anzi, se avessi saputo che andava così male te l’avrei proposto io.»
«Sul serio?» Chiesi cauta.
In realtà sapevo che non c’era bisogno di tutto quel riguardo, ma avere a che fare con Adam, anche se indirettamente, mi metteva, mio malgrado, un po’ a disagio.
«Sì, tranquilla. Il suo numero già lo hai, dico bene? Chiamalo e mettetevi d’accordo. Oppure parlargli di persona a scuola. Insomma, fa’ un po’ come vuoi, ma sbrigati: non manca poi così tanto alla fine dell’anno scolastico.» Si raccomandò lei.
«Okay, okay… Grazie Beth, davvero.» Mormorai quasi rassicurata.
«Figurati.» Riuscii a percepire il sorriso nella sua voce. «Ora vado, scusa: la pubblicità è finita e devono annunciare la vincitrice! Ci sentiamo.» Riattaccò senza darmi la possibilità di rispondere, ma non me la presi: sapevo com’era fatta. E quanto ammirasse Tyra Banks.
Abbassai lo sguardo sul telefono e improvvisamente mi sentii quasi nauseata: ma perché dovevo farmi condizionare tanto da una cosa del genere? In fondo, si trattava solo di una chiamata, e c’erano buone probabilità che mi dicesse di no visto come l’avevo trattato due giorni prima.
Se non fosse stato per Beth, e per mia madre, mi sarei anche potuta risparmiare quello che si prospettava essere uno strazio: sarebbe stato tutto un esitare e un darsi risposte brevi, fredde ed imbarazzate. Sospirai concludendo che le entità superiori, o comunque chiunque abitasse i piani alti, ce l’avesse con me e scorsi la rubrica fino al suo nome. Oddio, ma davvero pensavo a lui come se fosse stato chissà cosa? Dannazione, era solo un ragazzo. Con dei begli occhi, ma pur sempre un diciassettenne avventato e piuttosto insistente. Non aveva niente di speciale.
Rispose dopo quattro squilli e la sua voce suonò esitante: «Pronto?»
«Ehi Adam, sono Scarlett. Senti… uhm, ecco, volevo sapere, sei ancora disponibile per quelle ripetizioni?» Dissi tutto d’un fiato, come per togliermi un peso dalle spalle.
“Ecco, adesso dirà di no e potremmo tagliare i ponti per sempre. Finalmente”, pensai tirando un silenzioso sospiro di sollievo.
Esitò per qualche secondo. «Oh… Ehm… Sì, credo di sì.»
Ci mancò poco che mi strozzassi con la mia stessa saliva. «Cosa?!»
«Non è quello che volevi? Cioè, mi hai chiamato per quello, no?» Chiese lui con tono quasi confuso.
Aveva sia ragione sia torto: sì, mi serviva il suo aiuto, ma no, non lo volevo. «Ecco, sì. Però non voglio che sia un obbligo. Insomma, se hai altri impegni posso farne a meno…» Tentai sperando in un suo rifiuto.
«No, tranquilla. Un pomeriggio a settimana lo trovo. Se questa organizzazione ti va bene, altrimenti ci accordiamo su qualcos’altro, mmh? Dimmi tu come ti torna meglio.» La sua risposta era calma e gentile: sembrava aver ritrovato il suo solito contengo.
Deglutii cercando contemporaneamente di resistere all'impulso di sbattere la testa contro il muro. «Mi sembra… perfetto, sì. Uhm, che giorno ti andrebbe meglio?»
«Uno qualunque. Dimmi tu.» Replicò.
Imprecai mentalmente per l’ennesima volta. «M-mercoledì?»
«Okay.» Concordò. «Senti, sei a scuola adesso? Magari possiamo vederci anche solo per cinque minuti ed accordarci meglio sui dettagli.»
“Oddio, vuole vedermi!”, pensai allarmata. «Oh… Sì, è… è okay.»
Sembrò un po’ sorpreso. «Bene. Ci vediamo alla caffetteria tra un paio di minuti, d’accordo?»
Così presto? No, non ero pronta. «D’accordo.»
Riattaccai senza dargli il tempo di aggiungere nulla e sospirai: perché aveva accettato di darmi ripetizioni? Perché non aveva fatto appello al suo orgoglio mandandomi a quel paese? Perché mi voleva aiutare? Non riuscivo a trovare un senso a tutto quello, non riuscivo a capire lui e i suoi modi di fare ed avevo la certezza che non ci sarei mai riuscita. 

Quando arrivai alla caffetteria dietro la scuola lui c’era già. E, come sempre, aveva un’espressione pensierosa. Era appoggiato ad uno dei tavolini e sembrava piuttosto disinvolto. Indossava una maglietta grigia sotto una felpa rosso scuro e dei jeans semplici. I suoi occhi blu erano persi nel vuoto: forse stava riflettendo sul perché le entità superiori fossero così assenti in quell’ultimo periodo. O forse no, visto che era un ragionamento stupido.
Contai fino a dieci, feci un respiro profondo, mi ripetei che era per il mio stesso bene e lo raggiunsi. Sollevò lo sguardo su di me con aria interessata e un angolo della sua bocca si sollevò in un mezzo sorriso.
«Ehi.» Mormorò.
Mi fermai più bruscamente del previsto davanti a lui. «Ehi.»
«Come va con i postumi della sbronza?» Mi fece uno strano effetto sentire una parola così… rozza pronunciata da lui: fin dalla prima volta che l’avevo visto l’avevo sempre considerato troppo fine, troppo etereo per usare un termine simile. Non aveva senso, lo sapevo, eppure non riuscivo a fare a meno di pensarlo.
«Uh, abbastanza bene. Sì, insomma, i licantropi reggono bene l’alcol.» Risposi.
Lui annuì, come se lo sapesse già. «Sì, me l’avevi detto. Solo che… sembravi parecchio brilla: devi aver bevuto un sacco se nemmeno il tuo metabolismo mannaro è riuscito a smaltire l’alcol abbastanza in fretta da mantenerti sobria.»
Aprii la bocca per ribattere, ma rinunciai e la richiusi: che diavolo gli avevo detto a quella stupida festa? E quanto avevo bevuto se ero riuscita ad ubriacarmi? Quanto mi ero messa nei guai?
«Oh… Ehm, sì. Giusto. Beh, avevo bisogno di rilassarmi un po’, ecco.» Balbettai distogliendo lo sguardo.
«La gente che si vuole rilassare di solito non si beve bottiglie su bottiglie superalcolici.» Mi fece notare lui inclinando appena la testa di lato.
«Superalcolici?» La mia voce salì di un’ottava: cominciando ad intuire quanto in là mi ero spinta. Dovevo essere passata da una semplice birra a chissà cosa. E lui aveva dovuto farmi da soccorritore improvvisato. Ero in una situazione patetica.
«Sono abbastanza sicuro di aver visto bottiglie di vodka, rum e simili vicino a te. Ed erano tutte vuote.» Confermò.
Stranamente, non sembrava compiaciuto o divertito; solo lievemente preoccupato, anche se non aveva motivo per esserlo. O forse sì, visto che non avevo la più pallida idea di cosa avevo potuto dire mentre ero sotto l’effetto dell’alcol: per quanto ne sapevo potevo anche avergli detto che a quattro anni facevo il bagno al mare senza costume.
Mi passai una mano tra i capelli nervosamente. «Comunque… Siamo qui per parlare di altro, giusto?»
I suoi occhi blu tempesta mi studiavano attenti. «Giusto.» Si sedette al tavolino a cui era appoggiato invitandomi con un cenno a fare lo stesso. Aspettò che mi accomodassi di fronte a lui prima di continuare: «Il mercoledì mi va bene qualunque ora, quindi dimmi quale preferisci tu.»
“Lo stiamo facendo sul serio!”, pensai agitata. «Oh, bene. Direi… le quattro?» Tirai fuori il primo orario che mi venne in mente sperando di sembrare naturale, spontanea, e non sull’orlo di una crisi di nervi.
Annuì. «Perfetto. E, un’altra cosa, dove preferiresti fare lezione? Voglio dire, la biblioteca della scuola chiude alle quattro quindi non possiamo farla lì. Rimangono casa mia e casa tua.»
Non avevo minimamente pensato a dove avrei studiato con lui, così mi ritrovai a fissarlo mentre cercavo di decidere quale delle due opzioni fosse la meno pericolosa e imbarazzante: portarlo in casa mia significava espormi troppo e dargli troppa libertà di movimento, però era anche un ambiente a me familiare dove mi sentivo a mio agio; andare da lui sarebbe stato come andare per la prima volta in un paese straniero, ovvero in un posto che non conoscevo assolutamente. E, in più, ci sarebbe stata la sua famiglia e conoscerla era l’ultima delle cose che volevo fare nella mia vita.
«Uhm… Ehm…» “E adesso?”, mi chiesi, “Che diavolo gli dico?”
«Secondo me casa mia va bene.» Aggiunse lui studiandomi in attesa di una mia risposta.
Rischiai, per l’ennesima volta, di strozzarmi a quelle parole: casa sua?! No, mai e poi mai. Più volentieri avremmo fatto lezione in auto.
«Non so se è una buona idea.» Riuscii a dire. «Insomma, ci saranno i tuoi e tuo fratello e…»
«Oh, no, tranquilla.» Replicò lui.
Lo guardai socchiudendo gli occhi, sospettosa e cauta. «Che vuol dire no? Vivi da solo per caso?»
«No, però io intendevo la casa nel bosco. Hai presente quale, no? Non ci va mai nessuno e io ho la chiave quindi ho pensato che potrebbe funzionare.» Spiegò.
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo. «Ah. Beh, in questo caso allora sì, potrebbe andare.»
Mi fece un piccolo sorriso che aveva un qualcosa di incoraggiante. «Se per te è okay posso passarti a prendere io mercoledì, mmh?»
«Mi fai addirittura il servizio di taxi?» Ironizzai incrociano le braccia al petto.
«Immagino che tu non sappia dov’è la casa, dico bene? Quindi, per evitare spiacevoli inconvenienti come tu che ti perdi e io che devo venire a cercarti, posso accompagnarti io. Anche se, devo dire, mi sei sembrata piuttosto a tuo agio nella foresta.» Ribatté ricambiando l’occhiata con aria di sfida e appoggiando i gomiti sul tavolo.
Colsi un lampo nei suoi occhi blu e non potei non interpretarlo come un implicito segno di sfida.
«Okay, sì, ammetto di non averci pensato.» Convenni non volendo dargli corda. «Quindi mercoledì passi da me verso che ora?»
«Dieci alle quattro?» Propose.
Mi strinsi nelle spalle. «Per me va bene.»
Adesso però veniva il tasto dolente. «E per quanto riguarda i soldi? Cioè, quanto prendi a lezione?»
La mia domanda sembrò spiazzarlo, anche se fu solo per un attimo prima che riprendesse il suo solito contegno. «Credo che per la prima volta potremmo limitarci a guardare un po’ a che punto sei e decidere insieme da dove partire, su cosa concentrarci di più e cosa sai meglio. Per i soldi ci sarà tempo dopo.»
“Mmh… Professionale il ragazzo”, commentò una vocina nella mia mente, e dovetti darle ragione. «Sicuro?»
Scrollò le spalle. «Sì, sono sicuro.»
«Okay, bene.» Mormorai.
Lui fece per aggiungere qualcosa, ma si interruppe e tirò fuori il telefono dalla tasca dei jeans. Doveva aver messo la vibrazione visto che non l’avevo sentito squillare.
Adam si portò il cellulare all’orecchio. «Pronto?»
Aggrottò la fronte mentre ascoltava la risposta. Riconobbi la voce: Michael, quel suo amico con il sorriso malizioso. Sembrava piuttosto sconvolto. Adam mi rivolse uno sguardo che sembrava voler dire “scusa, è importante” prima di alzarsi recuperando lo zaino.
«Sì, sì, sto arrivando…» Borbottò prima di guardarmi. «Ci vediamo mercoledì, mmh?»
Feci appena in tempo ad annuire prima che lui, dopo un breve sorriso, si dileguasse tra gli altri studenti. Rimasi a guardarlo per un attimo, interdetta e quasi delusa dal brusco finale della nostra conversazione.
Mi presi la testa tra le mani cercando di rimettere insieme le idee: tra due giorni lo avrei rivisto, avremmo passato del tempo insieme, gli avrei mostrato le mie debolezze. Ed era una cosa che odiavo fare, in qualunque circostanza.

«Mamma, sono a casa!» Esclamai entrando e chiudendomi la porta alle spalle.
Ero stata da Beth per buona parte del pomeriggio, un po’ perché volevo assicurarmi che non lanciasse niente contro la televisione dopo che la sua modella preferita era stata eliminata, un po’ perché avevo bisogno di smettere di pensare ad Adam. Certo, andare dalla sua ragazza non era stata un’idea brillante, ma non mi era venuto in mente niente di meglio.
Natalie si affacciò dalla cucina e mi sorrise. «Tesoro!»
Era tornata quella mattina verso le nove dall’Egitto e, nonostante avesse affrontato un sacco di ore in aereo, sembrava allegra e solare come sempre. Lasciai cadere lo zaino a terra un attimo prima che lei mi stritolasse in uno di quegli abbraccia da post-viaggio che potevano incrinarti una costola.
Ricambiai la stretta sentendomi decisamente sollevata: riaverla lì, anche se sarebbe stato per poco, era molto rassicurante. Un assaggio di normalità in mezzo a quel gran casino che era la mia vita.
«Come stai, tesoro?» Chiese rimanendo premuta contro la mia spalla.
Sorrisi. «Tutto okay, mamma. Tu? Bello l’Egitto?»
Si scostò da me per guardarmi in faccia e annuì. «Molto bello e molto caldo. Ci tornerei volentieri, magari con te.»
«Sarebbe fantastico.» Replicai.
«Mi stavo facendo un tè, ne vuoi?» Chiese lei con la sua solita aria premurosa.
«D’accordo.» Mormorai più per farla felice che per altro.
Mi sorrise tutta contenta prima di avviarsi in cucina. La seguii e mi sedetti al tavolo. Mi dava le spalle, quindi potevo osservarla con più calma: indossava dei jeans scoloriti, un maglione arancione -aveva sempre avuto un grande passione per i colori accesi- e aveva raccolto i capelli in una crocchia morbida tenuta ferma da… una penna? Sì, era proprio la penna della compagnia aerea per cui lavorava.
Si voltò verso di me con due tazze fumanti in mano. Me ne mise una davanti, quella con il disegno di una renna e di un pinguino che indossava dei cappelli come quello di Babbo Natale. Su quella di mia madre c’erano una scritta, keep calm and drink coffee, e dei piccoli chicchi di caffè.
«Allora tesoro, come va a scuola?» Chiese mia mamma guardandomi con aria entusiasta come un bambino quando riceve il giocattolo che ha sempre desiderato.
Ringraziai la tazza, forse giusto un po’ troppo natalizia, che mi nascondeva il viso: perché mia madre riusciva a trovare sempre l’argomento di cui non volevo parlare? Bevvi un piccolo sorso di tè scottandomi la lingua, e tossicchiai nervosamente. «Oh… Ehm, bene.»
«E matematica?» Insistette lei prendendo la sua tazza con entrambe le mani.
Distolsi lo sguardo, come se di colpo la credenza fosse diventata interessante. «Non così male, dai. Cioè…» “Diglielo”, suggerì una vocina nella mia mente. «Ho deciso di prendere ripetizioni.»
Sorprendentemente, lei sembrava contenta. «Mi fa piacere. Voglio dire, fai bene a chiedere aiuto se ti serve. Dimostri di essere matura.»
Abbassai gli occhi sul mio tè non potendo fare a meno di sentirmi un po’ in colpa. «Grazie mamma… Però forse avrei dovuto pensarci prima.»
Lei allungò una mano e la mise sulla mia. «Sai come si dice? Meglio tardi che mai. E sono sicura che riuscirai a recuperare, non importa quanto siano bassi i tuoi voti: se ti impegni puoi farcela.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso: se c’era una che adoravo di mia madre era proprio questa sua capacità di dire la cosa giusta al momento giusto e riuscire ad incoraggiarmi anche quando le prospettive sembravano le peggiori. «Spero di sì. Voglio arrivare al prossimo anno senza debiti.»
Sorrise anche lei. «Chi è che ti da ripetizioni? Elisabeth?»
Ci mancò davvero poco perché mi strozzassi con il tè. «Uh… In realtà no. Mi sono messa d’accordo con… con un ragazzo del mio anno. Mercoledì facciamo la prima lezione.»
La sua espressione si fece quasi maliziosa. «Mmh… E lui com’è? Carino?»
“Se vuoi usare un eufemismo sì”, commentò la vocina di prima. «Più o meno…»
Lei ridacchiò. «Qualcuno qui non sta dicendo la verità: sai, noi mamme le vediamo queste cose. Allora, com’è?»
Sospirai alzando gli occhi al cielo. In realtà parlare di Adam con qualcuno completamente estraneo ai fatti mi sembrava decisamente un sollievo. «Ecco, lui è… abbastanza piacevole da guardare, diciamo. Ha gli occhi azzurri. E sembra sempre pensieroso. E ha il vizio di mordersi il labbro, lo fa di continuo. E ha i lineamenti quasi inglesi, credo. Sì, insomma, sono sofisticati in un certo senso, ben delineati eppure non troppo decisi. E poi…» Mi fermai per un attimo: una parte di me mi diceva di finirla lì, l’altra di continuare perché avevo bisogno di sfogarmi un po’ riguardo a quel ragazzo così enigmatico.
«E poi?» Mi esortò mia mamma guardandomi con un lieve sorriso ad incresparle le labbra.
Sospirai. «E poi è difficile da gestire. Voglio dire, sembra sempre controllato e non ha paura di dire quello che pensa, e questo a volte mi disorienta.»
Con lei non avevo bisogno di fingere, di mostrarmi inattaccabile, non mi serviva far finta che niente mi toccasse. Per fortuna: se avessi dovuto recitare una parte anche con la mia stessa madre sarei andata fuori di testa.
Natalie posò i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sulle mani intrecciate. «Sembra un tipo interessante. Come vi siete conosciuti?»
Giocherellai con il manico della mia tazza. «Ecco, a dirla tutta, lui è il ragazzo di Beth.»
«Oh… Che peccato.» Mormorò mamma stringendo le labbra. «Cioè, sono felice per lei, ma…»
«Guarda che Adam non mi piace mica.» Protestai intuendo dove voleva andare a parare. «È carino, ma niente di più.»
Non sembrava convinta. «Okay… Se ne sei sicura…»
«Certo che sono sicura: è la mia migliore amica, non le farei mai una cosa del genere.» Dichiarai.
«Ti credo, tesoro, so quanto vi volete bene.» Convenne mia mamma con un piccolo sorriso. «A proposito, Elisabeth come sta?»
«Bene. Ha l’influenza, ma sta abbastanza bene.» Risposi.
«Spero guarisca presto. Quando la rivedi puoi salutarmela?» Chiese probabilmente ripensando a tutte le volte che Beth aveva dormito da noi, a quando l’avevo pregata di farmi rimanere a cena a casa della mia migliore amica, al giorno in cui eravamo state male entrambe perché avevamo mangiato un intero pacchetto di biscotti di nascosto.
Annuii, sollevata da quel cambio d’argomento. «Sì, certo.»
«Senti, che ne dici se ordiniamo cinese stasera?» Propose allegra.
«Uh, sì, volentieri.» Concordai.
Lei si aprì in un sorriso luminoso, uno di quelli che cancellano rughe, stanchezza e vecchie ferite, uno di quelli che ti fa credere, per un attimo, che andrà tutto bene.

Probabilmente avrei consumato il pavimento se non mi fossi fermata. Eppure non riuscivo a fare a meno di camminare su e giù davanti alla finestra del soggiorno: avevo parecchio nervosismo da sfogare e quello era l’unico modo che mi era venuto in mente. A parte fare a pezzi tutti i cuscini della casa.
“È solo Adam, solo Adam. Non è niente di importante”, mi dissi. Già, in fondo era solo il ragazzo che conosceva il mio più grande segreto e che mi aveva vista ubriaca, niente di che.
Mi diedi dell’idiota da sola: ero stata io a chiedergli di aiutarmi quindi adesso era inutile che mi facessi prendere dal panico. Dovevo affrontare le conseguenze della mia decisione e smettere di autocommiserarmi. Il cellulare, che avevo abbandonato sul divano, vibrò un paio di volte segno che mi era arrivato un messaggio. Mi avvicinai, cauta, e gli lanciai un’occhiata: era di Adam, ovviamente. Ci sono.
Io non c’ero per niente invece, dovevo ancora realizzare che stavamo per passare almeno un’ora insieme solo io e lui. Trassi un respiro profondo, mi sistemai la camicia e presi zaino e telefono prima di uscire. Mi imposi di mantenere un’espressione neutrale mentre camminavo verso la sua auto, ma divenne un proposito difficile da mantenere quando mi ritrovai seduta accanto a lui, con così poco a separarci che quasi mi sembrava di sentire il calore del suo corpo, come quando eravamo stati praticamente abbracciati a quella festa.
Mi accorsi che mi stava osservando, magari in attesa di un saluto o qualcosa del genere. Beh, come dargli torto? In fondo, mi stava facendo un favore.
Mi schiarii la gola. «Ehi.» “Che fantasia”, pensai subito dopo aver parlato.
Un sorriso lievemente divertito gli increspò le labbra. «Ehi.»
«Sei di buon’umore.» Commentai senza riuscire a trattenermi.
«Abbastanza.» Convenne.
Mi voltai verso di lui e mi trovai a dover fronteggiare i suoi occhi color tempesta. «Posso sapere il motivo?»
«Sono stato da Elisabeth prima: sta meglio e ci sono buone probabilità che domani torni a scuola.» Rispose mettendo in moto l’auto.
Mi morsi l’interno della guancia mentre lui parlava. Perché mi metteva a disagio sentirlo parlare di Beth? Era la sua ragazza, era ovvio che stesse bene con lei, no? E poi lui non mi piaceva, né in quel senso né in altri. Anzi, si poteva dire che riuscivo a stento a sopportarlo.
«Bene.» Ribattei. «Solo che… se non mi sbaglio avevi detto che lei non era esattamente il tuo tipo…»
Annuì appena stringendo le labbra. «Vero. Ma ho cambiato idea.» Mi lanciò un’occhiata di sottecchi. «Dovresti essere contenta: non c’è più il rischio che io la ferisca.»
Sorrisi in modo quasi beffardo. «Non credere che basti così poco a farmi abbassare la guardia.»
Aggrottò appena la fronte. «Suona come una minaccia.»
«Un po’ lo è.» Confermai.
«Riusciremo mai a parlare senza che tu mi minacci?» Chiese con un sospiro.
Feci finta di prendere in considerazione l’idea per un attimo. «No.» Decisi infine.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Sarà una lunga giornata.»
Non lo dissi a voce alta, ma dentro di me pensai che avesse proprio ragione.



SPAZIO AUTRICE: Eccomi qua con il quindicesimo capitolo :3 Scarlett ha ceduto e ha chiesto aiuto ad Adam, anche se il suo orgoglio le ha creato qualche problema a riguardo. E lui? Adam ha accettato, com'era prevedibile, perché spera ancora di riuscire a convincerla a parlare e, perché no, a fidarsi di lui. Perché sì, per Adam la fiducia è importante e la considera fondamentale in qualunque tipo di rapporto. Certo, stringere amicizia con un licantropo non è un'impresa da poco, ma lui non vuole arrendersi.
Prima che mi passi di mente, c'è una cosa che voglio dirvi riguardo lo scorso capitolo: all'inizio avevo pensato di inserire un bacio tra Scarlett ed Adam nel momento in cui sono davanti a casa di lei. Pensavo ad un bacio a stampo o comunque a qualcosa di breve, leggero, ma poi ho deciso di non farlo. Perché? Perché andava contro uno dei principi in cui Adam crede di più: la lealtà.
È vero, magari Elisabeth non è la sua ragazza ideale, magari neanche voleva mettersi con lei, ma di sicuro non la tradirà, non di sua spontanea volontà. Semplicemente, tradire, in qualunque senso, va contro la sua natura. E poi, probabilmente Scarlett lo avrebbe strozzato se si fossero baciati, ubriaca o meno.
Nonostante questo, chissà, magari più avanti potrebbe succedere.
Di nuovo, penso di averi detto anche troppo quindi vi ringrazio infinitamente e ci risentiamo al prossimo capitolo.

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Capitolo 16
*** 16. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 16




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16. Adam

Non avevo mai dato ripetizioni e cominciare con qualcuno con il carattere estremamente lunatico di Scarlett non mi sembrava il modo migliore di iniziare a lavorare. C’era da dire che avevo raggiunto il mio obbiettivo, piuttosto stupido ed inutile, ovvero starle vicino almeno per un po’. L’unico problema era che a quel punto non avevo idea di quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
Contrariamente a quello che pensavo, la lezione si rivelò abbastanza… non piacevole, ma calma, senza ringhi o scatti di rabbia, anche se Scarlett rivolse epiteti tutt'altro che lusinghieri alla sua prof e alla matematica in generale.
Ci eravamo seduti al tavolo della cucina, l’uno di fronte all’altra come a voler mantenere le distanze; in mezzo a noi quaderni, libri e fogli pieni di esercizi, formule e definizioni varie. Scarlett rimase sempre sulle sue e mi lanciava occhiate sospettose praticamente ogni volta che credeva fossi concentrato su altro. Fui tentato di affrontarla a viso aperto e chiederle quale fosse il problema, ma mi dissi che era meglio non tirare troppo la corda, avevamo già fatto dei notevoli passi avanti, ci sarebbe stato tempo dopo per quella mia strana e incomprensibile attrazione.
«La definizione di disequazione?» Chiesi guardandola.
Lei si lasciò sfuggire una smorfia. «Uh… Non credo di averla scritta.»
«Sì, invece.» Replicai. «È qui, sotto il testo di Fake Your Death.» Aggiunsi indicandole la pagina del suo quaderno, aperto sul tavolo davanti a me.
Si bloccò all’improvviso con la penna a mezza strada verso la bocca e mi guardò con gli occhi spalancati. «Conosci i My Chemical Romance?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sì. Non tutte le canzoni, ma qualcuna la conosco.»
Lei schiuse le labbra, come se non si fosse trovata di fronte a chissà quale strano fenomeno. «Non ci credo… Beth pensava che fossero un profumo… E adesso tu mi dici che ti piacciono.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Davvero Elisabeth credeva che fossero un profumo?»
«Sì!» Esclamò lei con il tono di chi ha finalmente trovato qualcuno capace di capirla. «E in più ha detto che i testi non hanno senso…» Scosse appena la testa. «C’è da dire che lei ascolta quella roba commerciale da discoteca quindi…»
Mi mordicchiai il labbro per non sorridere di nuovo. «In effetti lei mi sembra il tipo che ascolta musica più… moderna e comune.»
«Ma tu non mi sembravi il tipo che ascolta i My Chemical Romance, o simili. Credevo ti piacesse roba più… tranquilla.» Ribatté lei inclinando appena la testa di lato.
«L’apparenza inganna.» Risposi. «E se stai pensando alla musica classica ti sbagli di grosso.»
Distolse lo sguardo. «N-non stavo pensando a quella.»
Fu piuttosto difficile non mettermi a ridere di fronte alla sua espressione colpevole. «No, certo.»
Lei mi scoccò un’occhiataccia e mi tirò un calcio da sotto il tavolo. «Falla finita.»
Alzai le mani in segno di resa. «Okay, okay… Certo che sei suscettibile, eh?»
L’oro nelle sue iridi si fece più intenso. Sarebbe potuto essere un brutto segno, se, nello stesso momento, non avesse sorriso. «Ricordati con chi hai a che fare.»
La guardai negli occhi sfidandola apertamente. «Non ho paura di te.»
Lei sbatté le palpebre lasciando che il marrone tornasse a predominare e abbassò lo sguardo. «Lo so. Dovresti averne però.»
«Perché?» Chiesi appoggiando la schiena alla sedia.
Sembrò spiazzata dalla mia domanda. «Perché sono un lupo mannaro.» E dal tono con cui lo disse capii che lo considerava più che ovvio. 
«Avere paura di questo tuo lato sarebbe come generalizzare. Sì, insomma, sarebbe come dire che ho paura delle leggende sui licantropi.» Le feci notare.
«Saranno anche esagerate, ma un fondamento di verità magari c’è.» Ribatté.
«O magari no. La gente ha paura del diverso.» Mormorai.
Chiuse gli occhi per un attimo. «Adam, lo sai come la penso: avvicinarti a me è pericoloso. E lasciartelo fare è stato stupido, ma ormai è tardi per tornare indietro.»
«Vero. A questo punto puoi solo darmi una possibilità.» Una parte di me si aspettava che mi saltasse alla gola per una frase del genere, soprattutto dopo tutte le storie che aveva fatto sul mantenere le distanze.
Invece sembrò solo tanto stanca. «Dio, quanto sei insistente. Ancora devo capire che ci trovi di tanto interessante in me.»
“Tante cose”, rispose una vocina nella mia mente. «Non lo so neanche io, ma se mi dai la possibilità di aiutarti potremmo scoprirlo.»
«Non servirebbe a nulla.» Decise. «Che mi avevi chiesto prima?»
Non insistetti: in fondo, a che poteva servire? A renderla ancora più ostile nei miei confronti? No, era meglio tenerla buona finché potevo. «La definizione di disequazione.»
Si lasciò sfuggire di nuovo una smorfia anche se qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che mi era grata per aver lasciato perdere i miei tentativi di andare oltre.

Via via che le settimane passavano e che le lezioni continuavano, Scarlett sembrava cominciare a perdere quella sua aria sospettosa e cupa. A volte arrivava addirittura a sorridermi. Certo, erano sorrisi brevi e di circostanza, ma erano un inizio.
Elisabeth si era ripresa dall’influenza ed era tornata, sicura di sé e allegra come sempre. Anche se inizialmente ne ero rimasto molto sorpreso, stavo cominciando a stare bene con lei. Era una compagnia più che piacevole quando non parlava di vestiti, e, devo ammetterlo, tutta quella sua sicurezza era piuttosto affascinante.
 L’unica cosa che non mi piaceva molto di lei era la sua incredibile voglia di uscire ogni sabato sera per andare ogni volta in una discoteca diversa e ogni volta con un gruppo di persone diverse. Non riuscivo ancora a capire come facesse a conoscere tanta gente, ma, soprattutto, come facesse a ricordarsi tutti i nomi.
«Che ne dici di uscita a quattro sabato?» Propose Elisabeth sedendosi accanto a me su una panchina nel cortile della scuola e osservandomi con quei suoi grandi occhi scuri.
«A quattro? E chi ci sarebbe?» Chiesi ricambiando l’occhiata.
«Io, tu, Scarlett e il suo ragazzo.» Spiegò lei risistemandosi il colletto della camicetta che indossava.
«Scarlett ha un ragazzo?» Non avrei dovuto dirlo, lo sapevo, ma ormai era tardi.
Lei non sembrò farci troppo caso. «Sì. Si chiama James se non mi sbaglio. Allora, che ne dici?»
Uscire con Scarlett non mi sembrava poi una grande idea, soprattutto se ci sarebbe stata anche Elisabeth, ancora all'oscuro di tutto quello che c'era stato tra me e la sua migliore amica. Ma come potevo rifiutare? Mi serviva un motivo valido per farlo, però non potevo rivelare i miei trascorsi con Scarlett, quindi non avevo una scusa.
«Per me va bene. Lei lo sa già?» Domandai sperando che non intuisse il mio nervosismo.
«No.» Si strinse nelle spalle. «Mi è venuto in mente stamattina.»
Una piccola parte di me pensò che vivere alla giornata come faceva lei non rientrasse per niente nelle mie corde. «Ah. Bene.»
Lei sorrise, soddisfatta, e mi diede un bacio veloce. «Perfetto. Oh, prima che me ne dimentichi, probabilmente nel locale ci saranno altri miei amici, ma non è un problema, giusto?»
In effetti, mi sembrava che in un’uscita a quattro ci fossero troppe poche persone per i suoi soliti standard. «Ehm, no, non credo.»
Il suo sorriso si fece malizioso. «Ottimo.»
Trovai appena il tempo di ringraziare il cielo per il fatto che c’erano poche persone nel cortile della scuola quando Elisabeth mi mise le braccia intorno al collo e mi baciò come se fossimo stati completamente soli.

«Certo che potevi mettertela una gonna…» Commentò Elisabeth lanciando un’occhiata critica a Scarlett.
La diretta interessata alzò gli occhi al cielo. «Sì, certo, e poi magari anche un corsetto. Col cavolo che mi metto una gonna.»
A dir la verità, nemmeno io ce la vedevo con un vestito. Mi sembrava che la vera Scarlett fosse quella che avevo davanti, quella con indosso una canottiera blu che le lasciava la schiena scoperta e dei jeans neri molto aderenti. Aveva lasciato i capelli completamente sciolti, come se non gliene fregasse niente di come appariva. Una linea di trucco nera le scivolava sulla palpebra attirando l’attenzione sui suoi occhi marrone dorato. Al collo portava un piccolo ciondolo argentato a forma di foglia.
Accanto a me, Elisabeth sbuffò spazientita. «Ma hai delle belle gambe, perché non mostrarle?» Guardò il ragazzo accanto alla sua migliore amica. «Vero che ha delle belle gambe?»
James, così mi sembrava si chiamasse, spalancò gli occhi e balbettò qualcosa. Non mi sembrava un tipo molto di compagnia, anzi, dava l’impressione di essere piuttosto timido anche se Elisabeth mi aveva detto che suonava in gruppo.
Scarlett arrossì di colpo e fulminò Elisabeth con un’occhiataccia. «Perché lo chiedi a lui, scusa? E poi che c’entra se ho delle belle gambe o no? Odio le gonne in generale.»
«Perché è il tuo ragazzo, ecco perché gliel’ho chiesto.» Replicò Elisabeth come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
Alcuni ragazzi intenti a fumare vicino all’entrata della discoteca si girarono a lanciarle un’occhiata: non si poteva dire che Elisabeth avesse una voce che passava inosservata. Soprattutto quando faceva quelle esclamazioni improvvise.
Mi chinai su di lei per sussurrarle all’orecchio: «Forse è meglio se entriamo, mmh?»
Capì subito la mia allusione allo strano spettacolo che lei e Scarlett stavano imbastendo e annuì con aria decisa. «Sì, andiamo.»
Al contrario della sua migliore amica, Elisabeth aveva scelto con cura cosa indossare: l’abito rosso scuro le fasciava il corpo mettendone in risalto le forme, i tacchi le slanciavano le gambe, i capelli raccolti le scoprivano la pelle chiara del collo, gli orecchini di dorati le illuminavano il viso.
Quando entrammo nel locale mi ci volle un po’ per abituarmi alla mancanza di luce e alla musica martellante. Elisabeth sembrava perfettamente a suo agio, invece, come non ci fosse stata tutta quella gente.
«Stammi vicino.» Si raccomandò con un sorrisetto.
Dietro di noi, sentii Scarlett borbottare qualcosa in tono irritato, ma non riuscii ad afferrare nessuna parola.
«Oh, c’è Cindy!» Esclamò Elisabeth. «Ti va di conoscerla?» Aggiunse voltandosi verso di me.
«Sì, perché no.» Risposi.
In realtà non morivo dalla voglia di incontrare l’ennesima amica di Elisabeth, più che altro perché qualcosa mi diceva che prima o poi avrei confuso il suo nome con quello di qualcun altro. Elisabeth mi fece un sorriso compiaciuto, poi si girò verso il centro della discoteca e si sbracciò come per attirare l’attenzione di qualcuno.
Qualche secondo dopo una ragazza con lunghi capelli biondi visibilmente tinti e occhi marroni circondati da un’impressionante quantità di trucco nero ci raggiunse. Le sue labbra, rese lucide e appariscenti dal rossetto, si incurvarono in un sorriso che mi sapeva di stucchevole.
«Eli! Ciao!» Esclamò abbracciando Elisabeth.
La nuova arrivata, Cindy, indossava un vestito rosa scuro che le arrivava a metà coscia e scarpe argentate con un tacco vertiginoso. Sembrava molto sicura di sé, come quelle ragazze che, nei film, fanno la parte della cheerleader perfida.
Cindy si staccò da Elisabeth sorridendole tutta contenta. «Che bello rivederti, tesoro.»
Elisabeth ricambiò il sorriso. «Anche per me, davvero.»
Sentii Scarlett sbuffare spazientita dietro di me e dovetti darle ragione: l’atteggiamento di Cindy dava ai nervi anche a me.
Cindy spostò lo sguardo su di me e socchiuse gli occhi, come se stesse valutando un vestito in una vetrina. «E lui chi è?»
Elisabeth mi prese per mano e io, quasi senza rendermene conto, intrecciai le dita alle sue. La finta bionda alzò un sopracciglio di fronte a quel gesto e lanciò un’occhiata ad Elisabeth, come a volerla incitare a parlare.
«Cindy, lui è Adam, il mio ragazzo.» Spiegò Elisabeth.
«Oh, capisco.» Commentò lei. «Beh, è un piacere conoscerti Adam.»
Non mi tese la mano e mi ritrovai a ringraziare le entità superiori per questo: aveva le unghie lunghe e di un rosa molto accesso che le faceva sembrare quasi pericolose. “Aspetta un attimo”, pensai, “entità superiori?”. Quelle erano roba di Scarlett, perché ci stavo pensando?
Cindy lanciò un’occhiata a qualcosa alle mie spalle e la sua espressione si fece infastidita, anche se fu solo per un attimo prima che quel sorriso stucchevole le tornasse sulle labbra. «Scarlett, ciao!»
La diretta interessata fece un paio di passi avanti fino a trovarsi accanto a me. Si era stampata un finto sorriso in faccia, ma si vedeva comunque che si stava chiedendo cosa aveva fatto di male per finire in una situazione del genere.
«Cindy… ciao.» Disse e mi sembrò che le costasse un notevole sforzo di volontà.
La finta bionda faceva di tutto pur di non guardarla negli occhi. «Oh, ehm… Vedo che anche tu sei in compagnia, dico bene?»
Scarlett fece per stringersi nelle spalle come se il suo accompagnatore non avesse avuto importanza, ma si fermò di colpo e annuì. «Sì. James è il mio ragazzo.»
Lo avevo già sentito dire da Elisabeth, ma averne la conferma da Scarlett stessa mi fece uno strano effetto, come se Lena fosse venuta da me a dirmi che si era trovata un fidanzato: non sarebbe stato… giusto. “Ma che sto dicendo? Scarlett ha quasi diciotto anni, non posso paragonarla a una bambina di quattro”, mi dissi. Ed era vero: non aveva senso mettere a confronto due persone così diverse solo perché una parte di me aveva una strana reazione quando veniva nominato James in quanto ragazzo di Scarlett.
Un’ombra attraversò lo sguardo di Cindy. «Non posso lasciarvi sole neanche per qualche settimana che vi accaparrate tutti i bei ragazzi di Seattle, eh? Su, andiamo, gli altri ci stanno aspettando.»
James sembrò compiaciuto di essere stato inserito nella categoria “bei ragazzi”, io ero troppo distratto dalla smorfia esasperata di Scarlett per farci caso: evidentemente non andava pazza per gli amici di Cindy. E come darle torto se erano tutti come la bionda finta?

Non ci volle molto perché praticamente tutto il gruppo di Cindy fosse mezzo ubriaco. A dirla tutta, erano già a buon punto quando ci unimmo a loro, quindi nel giro di un’ora o poco più erano andati quasi del tutto. Da una parte era meglio così, perché temevo di non riuscire a ricordarmi i loro nomi. Non tutti almeno.
Avrei dovuto guidare io per tornare a casa, quindi non bevvi quasi niente e cercai di evitare che Elisabeth esagerasse: visto quello che era successo con Scarlett al compleanno di mia cugina non ci tenevo a ritrovarmi con un’altra ragazza ubriaca desiderosa di raccontarmi il suo passato o di farmi domande scomode.
«Facciamo il gioco della bottiglia!» Esclamò qualcuno così forte da superare persino la musica che continuava a martellare da quando avevamo messo piede in quel locale.
La proposta fu accolta con acclamazioni generali, saltò fuori una bottiglia vuota di quella che sembrava vodka alla menta, e in qualche modo mi ritrovai seduto su un divanetto di pelle di fronte ad un tavolino con Elisabeth alla mia sinistra e Scarlett alla mia destra. Il resto degli amici di Cindy, lei compresa, si era stretto su un altro divano e su alcune sedie.
Una ragazza con lunghi capelli scuri si sporse verso il centro del tavolo e vi posizionò la bottiglia. «Le regole le sapete, no? La persona che verrà indicata dalla bottiglia dovrà baciare chi è seduto alla sua sinistra. Senza se e senza ma. Anche se è vostra sorella o vostro fratello.» E ridacchiò, come divertita dalla sua stessa battuta.
Attorno a lei si levò un coro di risate e di incitamenti. Un ragazzo biondo allungò un braccio e fece giare la bottiglia. Mi appoggiai allo schienale del divano con un sospiro: si prospettava come una notte fin troppo lunga.

Dopo l’ennesimo bacio e l’ennesimo applauso -di cui ancora non capivo l’utilità-, la ragazza mora, tra una risatina e l’altra, afferrò la bottiglia e la fece girare. Lei aveva già baciato entrambi i ragazzi ai suoi lati, ma sembravano tutti e tre troppo ubriachi per farci veramente caso.
Per fortuna il mio lato era stato relativamente ignorato ed era molto meglio così: non mi andava di trovarmi al centro dell’attenzione, per niente. Incrociai le braccia al petto mentre guardavo distrattamente il legno del tavolo, perso nei miei pensieri: continuavo a chiedermi se Michael sarebbe mai riuscito a fare veramente chiarezza in quello che provava per chi. Dopo che aveva baciato quel ragazzo alla festa di Selena, ne aveva parlato con Julia, che si era rivelata più matura di quanto mi aspettassi. Gli aveva detto di prendersi un po’ di tempo per riflettere, per capire se era cambiato qualcosa in ciò che lui sentiva per lei.
Solo che, a distanza di settimane, Michael non aveva neanche un accenno di risposta, e continuava a rimandare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare Julia di nuovo. Non doveva essere facile ritrovarsi un dubbio del genere così, all’improvviso, per colpa di qualcosa che avevi fatto quando non eri molto lucido, ma non poteva continuare a far finta di nulla.
«Cosa?!» Sbottò una voce che conoscevo forse anche troppo bene.
Sollevai lo sguardo giusto in tempo per vedere una Scarlett decisamente furiosa che gesticolava protestando contro la bottiglia che la stava indicando. “Perché fa tutto questo rumore? Deve baciare il suo ragazzo, dov’è il problema?”, pensai. Poi mi tornò in mente la voce della ragazza bruna che diceva che la persona puntata dalla bottiglia doveva baciare quella alla sua sinistra. E quindi, nel caso di Scarlett, quella persona ero io.
«Non è possibile!» Esclamò Scarlett. «Andiamo, siamo sicuri che fosse a sinistra e non a destra?»
«Sicurissimi.» Dichiarò il biondo che aveva dato inizio al gioco.
«Se volete un po’ di privacy potete andare in bagno.» Aggiunse qualcuno di cui non ricordavo il nome. Mi sembrava che fosse qualcosa tipo Mark o Matt.
Scarlett lo fulminò con un’occhiataccia. «Nemmeno per sogno.»
«Dobbiamo proprio farlo?» Mi sentii chiedere.
La ragazza bruna che aveva spiegato le regole fece per rispondere, ma venne anticipata da Cindy, seduta accanto ad Elisabeth: «Sì, dovete. Avete preso parte al gioco e adesso è tardi per tirarvi indietro.»
Qualcosa nel suo sguardo e nel suo tono di voce quasi canzonatorio mi fece capire che la mia prima impressione era giusta: non solo ne aveva l’aspetto, Cindy era una cheerleader cattiva fino all’osso.
Il mio sguardo incrociò quello di Scarlett, frustrato e rabbioso, ma lei lo distolse subito. Ne rimasi un po’ sorpreso: non era da lei cedere per prima in un confronto visivo.
Intorno a noi, i ragazzi e le ragazze mezzi ubriachi insistevano a gran voce perché ci fosse il bacio in modo da far continuare quello stupido gioco. Scarlett si guardò intorno come un animale messo all’angolo da un cacciatore prima di sospirare.
«D’accordo.» Disse a denti stretti. «Facciamolo e basta.»
Spalancai gli occhi, sorpreso: era seria? «Scarlett… non so se è una buon’idea.»
«Non lo è, infatti. Ma non abbiamo tanta scelta.» Sembrava che non mettersi a ringhiare le costasse un grande sforzo.
Scivolò sul divano fino ad avvicinarsi a me quel tanto che bastava perché avessimo il viso alla stessa altezza. Beh, più o meno visto che ero più alto di lei.
«Facciamolo e basta.» Ripeté lei più a se stessa che a me.
Sembrava ansiosa di togliersi dai riflettori tanto quanto lo era stata di evitare le mie domande.
Solo in quel momento mi ricordai che, oltre ad Elisabeth, c’era anche James, seduto proprio accanto a Scarlett. Sollevai lo sguardo e lo trovai intento ad osservare la sua ragazza sul punto di baciare un altro con un’espressione da cucciolo bastonato in viso.
Tornai a guardare Scarlett cercando, nello stesso tempo, un modo per farci uscire da quella situazione più che scomoda. A quel punto, però, lei era già a pochi centimetri da me. Non eravamo mai stati così vicini. E, prima che potessi rendermene davvero conto, la stavo baciando.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Innanzitutto buon Natale, anche se in ritardo, e buone feste! Spero che le stiate passando nel miglior modo possibile <3
Detto questo, beh, immagino di dovervi qualche spiegazione riguardo al capitolo. Prima, però, volevo dire che non sono per niente sicura di quali siano le regole del gioco della bottiglia, ho semplicemente improvvisato e spero che esista una versione simile alla mia.
Negli scorsi capitoli non ho accennato niente al bacio Adamett, ma solo perché volevo che fosse completamente inaspettato. Lo è stato per voi e lo è stato per Adam e Scarlett. Nel prossimo capitolo capirete meglio perché Scarlett non si è tirata indietro o non ha interrotto il gioco per non baciare quello che sembra essere il suo peggior nemico, per adesso dovete accontentarvi di questo piccolo assaggio. E sì, lo so che non è così che vi aspettavate il loro primo bacio, ma prima che uno dei due realizzi e si decida ad ammettere ciò che prova, o inizia a provare, per l'altro dovrà passare parecchio tempo. Ho voluto semplicemente sbloccare un po' la situazione.
Spero che questa mia scelta vi piaccia o che comunque non vi sembri troppo fuori luogo.
Un'altra cosa: probabilmente nessuno di voi conoscerà i My Chemical Romance, ma sono uno dei miei gruppi preferiti e usare la musica mi è sembrato un buon modo per creare una sorta di collegamento tra Scarlett e Adam. Vi consiglio di ascoltarli se vi piace il genere punk/rock.
Penso di aver detto tutto, quindi ancora auguri di buone feste e ci vediamo al prossimo capitolo.

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Capitolo 17
*** 17. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 17





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17. Scarlett

Mi stavo odiando da morire in quel momento. Mi stavo odiando per aver accettato di andare ad un'uscita a quattro con Elisabeth e Adam. E James. Mi stavo odiando per essermi seduta accanto a lui. Mi stavo odiando per non aver protestato di più. Ma, soprattutto, mi stavo odiando perché una parte di me era ansiosa di provare com’era baciarlo.
Per questo ci doveva essere una sola spiegazione: ero impazzita. Completamente impazzita. Da ricovero.
I suoi occhi blu si spostarono su di me e sembravano decisamente sorpresi. Fece per dire qualcosa, probabilmente un altro tentativo di fermare quella follia, ma non gli diedi tempo di farlo: mi allungai verso di lui e premetti le labbra sulle sue stando attenta a mantenerle ben strette.
Lo sentii sussultare, sorpreso, ma non si ritrasse. Eppure speravo che almeno lui avesse un briciolo di buon senso che lo portasse a fermare tutto quello. Invece anche lui sembrava troppo confuso per fare qualcosa di costruttivo.
Nonostante tutto, stava andando abbastanza bene, per modo di dire: ci stavamo limitando ad un semplice bacio a stampo, di quelli che non valgono nulla, quelli che consideri importanti quando hai dieci anni ma che poi cominci a trovare quasi ridicoli anche se li ricordi comunque con una certa nostalgia.
Poi uno di noi due ebbe la brillante idea di provare a schiudere le labbra dell'altro, che non si fece problemi ad assecondarlo. Così mi ritrovai a baciarlo sul serio, con la sua bocca che si modellava sulla mia e il suo respiro che era diventato anche mio, che era diventato nostro. L’idea di condividere qualcosa con lui mi mandò ancora più in confusione, tanto che per un attimo gli lasciai prendere il controllo: fino a quel momento avevo fatto di tutto per mantenermi distaccata, per non farmi coinvolgere e per non far trasparire nessuna emozione.
Adesso invece mi ritrovai a dover soffocare sia una specie di calore che mi stava nascendo all’altezza dello stomaco sia il desiderio di infilargli le dita tra i capelli per tirarlo più vicino a me. Sembrava che fosse lo stesso anche per lui, però, perché sentii la sua mano scivolare verso la mia finché le nostre dita non si sfiorarono. Grazie al cielo si fermò lì, probabilmente perché si rese conto che ci stavamo cacciando entrambi in un guaio enorme: c’erano buone possibilità che Beth ci uccidesse visto che sembravamo, e devo ammettere che lo eravamo davvero, piuttosto presi da quel dannatissimo bacio che non sarebbe mai dovuto esistere.
Non ci avevo prestato molta attenzione, ma mi sembrava di ricordare che i baci che si erano dati gli altri fossero durati molto meno del nostro. E questo voleva dire che stavamo combinando un grossissimo guaio proprio di fronte a Beth e James. In effetti, ci stavamo rovinando con le nostre mani, ma nessuno di noi due sembrava intenzionato a fare qualcosa per risolvere quella scomodissima questione. 
Quando, dopo quella che mi sembrò un’eternità, mi allontanai da lui, rimanemmo a guardarci negli occhi per qualche secondo, come se fossimo stati troppo coinvolti per rompere quel contatto visivo o anche solo per guardarci intorno e capire quanti danni avevamo fatto.
Adam aveva le labbra appena arrossate, ed ero certa che anche le mie fossero così. Un altro segnale del fatto che avevamo esagerato. Sentii a malapena l’applauso che fecero gli amici mezzi andati di Cindy, ma sembrò avere un effetto diverso su di lui: sbatté le palpebre e distolse lo sguardo riportandolo sul tavolo.
Mi affrettai a fare lo stesso sentendomi quasi colpevole. E, in effetti, un po’ lo ero.

Qualcuno si decise, finalmente, a mettere fine a quello stupido gioco e andare a ballare. Sinceramente, avrei preferito nascondermi in bagno e sperare di sprofondare, ma dovetti accantonare quel piano.
Elisabeth aveva bevuto un bel po’ dopo il mio bacio con Adam, come se avesse voluto pensare ad altro. Non potevo darle torto, però continuavo a pensare che avrebbe combinato un casino. Anche Adam aveva bevuto e questa volta non si era mantenuto molto sul leggero, il che raddoppiava il rischio che si creassero situazioni di tensione.
Sorprendendomi, James mi prese per mano e abbozzò un piccolo sorriso. «Ti va di ballare?»
Da qualche parte trovai il coraggio di guardarlo negli occhi. «Sul serio?»
Si strinse nelle spalle. «Sì. Insomma, perché no?»
Scossi appena la testa sentendo un sorriso incerto farsi strada sul mio viso. «Hai ragione. Andiamo.»
Trovammo, per puro miracolo, un angolo libero sulla pista da ballo. Con una sicurezza che non potei fare a meno di trovare un pochino strana per lui, James mi tirò verso di sé e posò le mani sui miei fianchi. Come aveva fatto Adam. Cercando di non pensare a quello che era successo al compleanno di Selena, misi le mie sulle sue spalle e provai a fare un sorriso degno di questo nome.
«Allora… Come va?» Chiese James osservandomi.
«Uh… Bene.» Riposi esitante. «Tu?»
«È okay.» Replicò con voce misurata.
«Senti… Per quello che è successo prima, ecco… Io non volevo, voglio dire…» Cominciai. Era più difficile del previsto mettere insieme una frase sensata che non mi facesse passare per la sadica di turno.
«Non dobbiamo parlarne.» Disse lui. «Cioè, non c’è niente di cui parlare. Sarebbe potuto succedere a me. In fondo, era solo un gioco.»
“Già… Solo un gioco…”, pensai poco convinta. «Mi fa piacere che la pensi così. Credevo di aver combinato un casino.»
«Ma no.» Ribatté con un sorriso. «Insomma, mi sembra stupido farne una tragedia. Non è niente di così importante, giusto?»
Annuii anche se non ero sicura che sarebbe stato così facile. Mentre io e James ci muovevamo lentamente fingendo di seguire la musica, mi guardai intorno distrattamente cercando di sfuggire da quell'insistente vocina nella mia mente che sembrava decisa a farmi venire i sensi di colpa.
Dovevo ammettere che quando c’era stato Adam così vicino a me, non ero riuscita a pensare ad altro, a distogliere l’attenzione da lui e dalle sue parole. Probabilmente perché l’istinto mi diceva di tenere alta la guardia, di non lasciargli prendere il controllo della situazione. Con James era diverso, con lui non mi serviva stare sempre in tensione perché lui non aveva idea di cosa fossi davvero, non sapeva che dentro di me si nascondeva qualcosa di pericoloso.
Rimasi quasi a bocca aperta quando vidi Adam ed Elisabeth, stretti l’uno all’altra, appena dietro me e James. Avevano entrambi gli occhi chiusi e si stavano baciando in un modo decisamente poco discreto. Le mani di lui scivolavano sulla schiena di Beth seguendo la spina dorsale dall’alto verso il basso e viceversa; le dita di lei, invece, giocherellavano con il colletto della sua camicia, gli sfioravano il collo, si infilavano tra i suoi capelli...
 Mi costrinsi a distogliere lo sguardo mentre risentivo le labbra di Adam sulle mie, la sensazione di averlo così vicino eppure così lontano.
«Va tutto bene?» Domandò James guardandomi con aria preoccupata.
Annuii sperando di essere credibile. «Sì, c-certo.»
Lui aggrottò le fronte, poco convinto, e si lanciò un’occhiata alle spalle: evidentemente aveva notato che c’era qualcosa dietro di lui.
Quando tornò a voltarsi verso di me, aveva le labbra strette e sembrava in imbarazzo. «Fanno sul serio, eh?»
Feci cennò di sì senza guardarlo. «Già. Molto sul serio.»
“Perché non riesco a fare a meno di pensare che andrà male?”, mi chiesi combattuta: sarei dovuta essere felice per Beth e per come stava procedendo la sua relazione; invece continuavo ad avere un brutto presentimento non solo su di lei, ma anche su di me.
Forse stavo diventando un po’ paranoica con tutto quello stress dovuto all’insistenza di Adam nel volermi conoscere e ai brutti voti in matematica. Sì, doveva essere così: insomma, non ero mica una veggente, come potevo anche solo pensare che la storia tra Beth ed Adam sarebbe stato un disastro? E poi, loro due sembravano andare così d'accordo, Beth era innamorata persa e lui... beh, lui non pareva coinvolto fino a quel punto, però c'era comunque attrazione. Ma sarebbe bastata a mantenere in piedi una relazione? 

Sembrava che il suo essere quasi etereo fosse scomparso di colpo lasciando che il suo lato imperfetto e immaturo venisse fuori. Questa era la visione più filosofica, la realtà era che si era preso una sbronza con Elisabeth e ora ne stava pagando gli effetti.
Mal di testa, voglia di dormire per anni, occhiaie… Chi l’avrebbe mai detto che anche lui, il ragazzo dagli occhi blu e i lineamenti raffinati, si sarebbe ubriacato e ne avrebbe subito i postumi?
La settimana precedente gli avevo chiesto di spostare la lezione al lunedì perché James mi aveva chiesto di andare con lui al cinema mercoledì e, sinceramente, preferivo una commedia romantica banale ai limiti del sopportabile piuttosto che la matematica. Adam aveva accettato senza problemi, anche perché non poteva immaginare che avrebbe esagerato con l’alcol proprio il giorno prima.
Incrociai le braccia al petto e appoggiai la schiena alla sedia. «Direi che con questo siamo pari.»
«Eh?» Chiese in un mugolio smorzato.
Se ne stava praticamente mezzo disteso sul tavolo della sua casa nel bosco, con il viso sepolto tra le braccia; sembrava quasi addormentato. Da un certo punto di vista, era strano vederlo con le difese completamente abbassate, senza più quell’aria infallibile: ero abituata a un Adam capace di lasciarmi senza parole, di tenermi testa, adesso, invece, ero io quella che teneva le redini della situazione.
«Tu mi hai vista ubriaca, e adesso anch’io ti ho visto ubriaco.» Spiegai.
«Non sono ubriaco.» Protestò senza tanta convinzione.
«No, ma meno di ventiquattr’ore fa lo eri. E io ero presente.» Gli feci notare. «In più anche la mia migliore amica si è presa una bella sbronza. E voi due vi siete divertiti parecchio dopo il gioco della bottiglia. Sinceramente, non so dire quante persone vi abbiano suggerito di prendervi una camera.»
La sua risposta fu un gemito a metà tra il frustrato e l’esasperato.
A dirla tutta non avrei voluto essere così acida, né rammentargli i dettagli che sarebbe stato meglio dimenticare, solo che non riuscivo a non sentirmi un pochino ferita dal fatto che si fosse ubriacato proprio la sera in cui ci eravamo baciati, come se avesse voluto cancellare quel ricordo finché era fresco nella sua mente.
Certo, sapevo che era stato solo uno stupido gioco senza valore, però ero comunque tentata di chiedergli spiegazioni riguardo la sua voglia improvvisa di assaggiare tutti gli alcolici del locale.
«Vuoi un’aspirina?» Chiesi addolcendo la voce.
Sollevò il viso e mi guardò con quei suoi occhi color tempesta. «Ce l’hai?»
Il suo tono era speranzoso, come se gli avessi offerto dell’acqua dopo che aveva passato settimane nel deserto. Mi presi un attimo per osservarlo anche se la parte razionale di me continuava a ripetere che non avrei dovuto farlo: era pallido, aveva due ombre scure sotto gli occhi, i capelli arruffati, l’aria di uno che non dorme da mesi. Nonostante questo, c’era qualcosa in lui che lo rendeva comunque affascinante, a modo suo.
Annuii ritrovandomi a sperare di rassicurarlo. «Sì. Sai, il post-plenilunio è molto simile ai postumi di una sbronza quindi…»
Lasciai la frase in sospeso mentre mi allungavo verso lo zaino per prendere le pasticche. Ne feci scivolare una davanti a lui, che la guardò con aria pensierosa.
«Ti prendo un po’ d’acqua, mmh?» Aggiunsi.
Senza aspettare una risposta, mi alzai, presi un bicchiere dalla credenza e lo riempii per metà con l’acqua del rubinetto prima di posarlo sul tavolo di fronte a lui. Tornai al mio posto e incrociai di nuovo le braccia al petto.
«Grazie Scarlett.» Mormorò con voce roca.
Scrollai le spalle. «Mi hai riportata a casa sana e salva dalla festa di tua cugina, ti sto solo restituendo il favore.»
Mi lanciò un’occhiata mentre prendeva il bicchiere. Mi mordicchiai il labbro e distolsi lo sguardo come a volergli lasciare un po’ di tranquillità. Me ne resi conto all’improvviso, anche se probabilmente andava avanti da un bel po’: non mi dava più fastidio stare sola con lui. Tendevo ancora ad essere piuttosto sospettosa, ma non tanto quanto i primi tempi.
Lo sentii posare il bicchiere sul tavolo e sospirare. «Non avrei dovuto farlo.»
Tornai a guardarlo, incuriosita. «Non è stata un grande idea, in effetti.»
Scosse la testa fissando qualcosa all’altezza del tavolo. «Non volevo pensare… Ad essere sincero non lo so perché. Ma ho fatto un’idiozia.»
Lo capivo benissimo, era esattamente quello che avevo fatto io alla festa di Selena. Forse non eravamo poi così diversi, forse un punto d’incontro era possibile.
«Hai diciassette anni, non puoi pretendere di fare tutte le scelte giuste o di avere tutto sotto controllo. Insomma, tutti gli adolescenti fanno stupidaggini.» Anche tu che sembri superiore a tutto questo, aggiunsi mentalmente.
«Lo so, lo so… Ma non è da me. Neanche mi piace bere.» Replicò passandosi una mano tra i capelli.
Mi lasciai sfuggire un sorriso amaro. «Allora il nostro bacio deve proprio averti traumatizzato.»
Spalancò gli occhi e mi guardò, incredulo. «Cosa?»
Abbassai lo sguardo, di nuovo sulla difensiva. «Niente. Dimenticalo.»
«È quello che mi chiedi sempre. Dimenticare.» La sua voce era incredibilmente calma. «Come se potessi farlo.»
«Se tu lo volessi davvero, potresti. Potresti lasciarti tutto alle spalle.» Insistetti.
«Scarlett, guardami.» La sua richiesta mi sorprese, ma mi ritrovai ad accontentarlo.
Il suo sguardo non era severo o arrabbiato come mi aspettavo, era intenso, quasi… bruciante. «Non posso e non voglio dimenticare. E no, il nostro bacio non è stato traumatizzante. Inaspettato sì, ma non orribile quanto credi tu.»
«E allora com’è stato?» Mi sentii chiedere. Quasi contemporaneamente mi venne voglia di mordermi la lingua.
«Odierai qualunque risposta darò, lo sai anche tu.» Replicò. «È inutile anche solo provarci.»
Dovetti ammettere che aveva ragione. «Forse. Ma ho baciato il ragazzo della mia migliore amica e adesso sono da sola con lui: non è una bella situazione.»
Continuava a guardarmi con una certa insistenza. «Stai esagerando, non è niente di così importante.»
«C’erano la tua ragazza e il mio ragazzo.» Ribattei.
Si strinse nelle spalle. «È stato solo un bacio.»
“Oh, certo, solo un bacio. Come se bastasse sminuirlo così per smettere di pensarci”, mi dissi. Forse ci stavo pensando troppo io o forse lo stava sottovalutando lui. In entrambi i casi, qualcosa mi diceva che sarei finita nei guai.
«Sembra che tu voglia evitare di parlarne.» Commentai ricambiando l’occhiata.
«Non c’è niente di cui parlare. Ci siamo baciati, è stato strano, ma ora è finita.» Disse prima di mordersi il labbro.
«Quindi è così che è stato per te? Strano?» Domandai cauta.
Distolse lo sguardo. «Andiamo, ho baciato un licantropo: tanto normale non è.» Esitò per un attimo, come se stesse scegliendo le parole giuste. «In fondo, però, non è stato tanto male. Tu che mi dici, invece? Com’è stato per te?»
Mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio: avevo sperato fino all’ultimo di evitare quella domanda. Evidentemente, però, non era servito a nulla. «Uh… Beh, è stato…» Stranamente piacevole? No, non potevo dirlo. Alzai il mento in segno di sfida. «Ho provato di meglio.»
Un sorriso sorpreso e divertito si fece spazio sulle sue labbra. «Qualcosa mi dice che stai mentendo.»
«Il tuo ego smisurato forse?» Domandai evitando di incrociare il suo sguardo.
Scosse la testa senza perdere quell’accenno di sorriso. «Non mi stai guardando negli occhi: chi mente evita il contatto visivo. Pensavo che un’appassionata di telefilm polizieschi lo sapesse.»
Quell’aspirina aveva fatto effetto troppo in fretta per i miei gusti. «Non è sempre vero… E poi dovresti accettare la dura realtà delle cose invece di cercare scuse.» Mi decisi a sollevare lo sguardo su di lui. «Rassegnati, non è stato un bacio memorabile.»
Contrariamente a tutte le mie aspettative, si mise a ridere. E questo sembrò cancellare ogni segno di stanchezza dal suo viso. Improvvisamente, capii un po’ meglio perché Elisabeth era così cotta di lui: quel bastardo con gli occhi blu era tremendamente carino quando rideva.
«Falla finita.» Borbottai aggrottando la fronte. «Non c’è niente di divertente.»
«Qualcosa c’è invece. Insomma, stai facendo di tutto pur di non rispondermi con sincerità. E posso immaginare perché.» Rispose osservandomi. «Ma adesso abbiamo altro da fare, mmh?»
«Intendi matematica?» Chiesi non del tutto convinta da quel cambio d’argomento così improvviso.
«Siamo qui per questo, no?» Mi fece notare inarcando un sopracciglio.
Abbassai lo sguardo: non avevo voglia di mettermi a fare calcoli, equazioni e simili. Per niente. Quasi preferivo continuare a discutere con Adam riguardo quello stupido bacio. «Se proprio dobbiamo…»
Lui mi fece un sorriso strano, non divertito o sarcastico, ma quasi rassicurante, come se avesse voluto dire che era come me in tutto quel casino di formule e regole, che mi avrebbe aiutata ad uscirne.

Dovevo ammettere che mi sentii piuttosto soddisfatta di me quando finii di scrivere l’esercizio alla lavagna. Soprattutto perché ero abbastanza sicura che fosse tutto corretto. La professoressa Smith mi aveva mandata a correggere una disequazione di secondo grado: come al solito, mi aveva scelta come vittima sacrificale per mostrare alla classe un esempio da non seguire. Non poteva immaginare che, per una volta, l’avrei contraddetta.
Posai il gesso e feci un passo indietro guardando la prof, come sfidandola a trovare un errore in ciò che avevo scritto. Lei aveva gli occhi socchiusi dietro le lenti spesse degli occhiali e scrutava la lavagna con aria critica.
Non era un esercizio facile, avevo dovuto rifarlo tre volte, con Adam che mi spiegava ogni passaggio dimostrando una pazienza incredibile, prima di riuscire a risolverlo nel modo giusto. Ma ce l’avevo fatta, e l’importare era questo: finalmente, stavo cominciando a capire come funzionava quello strano miscuglio di lettere e numeri.
«È corretto.» Concesse infine l’insegnante arricciando le labbra in un una smorfia contrariata, come se avesse assaggiato qualcosa di aspro. «Era ora che tu ti dessi da fare.» Aggiunse lanciandomi un’occhiata di sufficienza.
Le feci un cenno d’assenso prima di tornare al mio posto. Non riuscii a trattenere un sorriso soddisfatto mentre mi sedevo: stavo cominciando a prendermi la mia rivincita su quella strega mascherata da professoressa che si era divertita a vedermi sbagliare per anni. Buona parte del merito era di Adam, non avevo problemi ad ammetterlo, ma c’era anche del mio.

Aver dimostrato alla Smith che mi stavo impegnando sul serio per recuperare mi aveva messa di buon umore e non era una cosa che capitava spesso, soprattutto non quando si trattava di matematica.
Quando finirono le lezioni mi sentivo stranamente felice e quasi desiderosa di condividere con qualcuno quel mio primo successo. Beth magari, oppure James. Invece la persona che mi trovai davanti e che mi fece venire voglia di parlargli fu Adam. Per una volta, però, non mi sembrò poi tanto strano: in fondo, senza di lui sarei rimasta al punto di partenza.
Stava camminando lungo il corridoio mentre parlava al telefono. Aveva l’espressione pensierosa e annuiva di tanto in tanto. Indossava dei jeans scuri e una camicia a quadri blu e rossi. Mi soffermai un attimo a guardarlo senza averlo deciso in precedenza: stavo davvero pensando che quei colori gli stavano bene? Non era da me. Sospirai, cercando di non pensare a tutte quelle contraddizioni, e mi avvicinai ad Adam proprio mentre si stava rimettendo il cellulare in tasca.
Sollevò lo sguardo e, quando mi vide, un’espressione sorpresa gli attraversò il viso. «Scarlett.» Mormorò osservandomi incuriosito.
Qualcosa che assomigliava pericolosamente all’imbarazzo cominciò a farsi strada dentro di me. «Ehi.»
«Come mai sei qui?» Domandò.
«Uh, ecco, volevo dirti una cosa.» Risposi guardando con finto interesse il pavimento.
Si passò una mano tra i capelli. «Cosa?»
Mi schiarii la gola. «La prof mi ha mandato alla lavagna oggi, per fare quell’esercizio… il 312, quello che abbiamo rifatto tre volte.»
Annuì continuando a guardarmi. «Sì, mi ricordo quale. Allora, com’è andata?»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra. «Bene. Sì, insomma, la Smith ha detto solo che era corretto, però è andata bene.»
Mi sorrise anche lui, ed era di nuovo rassicurante. «Vuol dire che le lezioni stanno funzionando.»
Mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sì, sembra proprio di sì.»
«Mi fa piacere.» Replicò lui inclinando appena la testa di lato.
Sollevai lo sguardo su di lui e incrociai i suoi occhi blu ancora tempestosi, ancora profondi ed intensi. L’avevo notato già prima, ma tornai a meravigliarmi delle pagliuzze dorate nelle sue iridi che rendevano il blu più brillante. Mi sembrava quasi impossibile che occhi del genere potessero essere umani. Improvvisamente mi ritrovai a pensare che avrei potuto passare ore a guardarli, a studiarne ogni sfumatura. 
Tossicchiai, imbarazzata dalla mia stessa mente. «Uhm… Con Beth come va? Voglio dire, dopo quello che è successo l’altra sera ci sono stati… problemi?»
Strinse le labbra per un attimo. «Non saprei. Nel senso, mi sembra più fredda, più distante, ma forse è solo una mia impressione o è solo qualcosa di temporaneo, non lo so.»
Per una volta non scattai subito a difendere Beth: avevo baciato il suo ragazzo proprio sotto i suoi occhi solo pochi giorni prima, non potevo pretendere che fosse tutto a posto, che tutto fosse tornato alla normalità.
«Sì, forse sì. Non è una situazione facile.» Mormorai.
«Già…» Convenne con un sospiro. «Tu con James? Come va?»
«Bene. Non sembra molto turbato da quello che è successo. A volte è un po’ lunatico, però.» Risposi.
I suoi occhi si illuminarono quando pronunciai l’ultima frase, e vidi un accenno di sorriso sfiorargli le labbra. «Ah sì?»
Intuii che si riferiva al mio vizio di cambiare umore ogni cinque secondi, ma, per una volta, non mi feci prendere dalla rabbia. «Un po’. Ma per il resto è tutto okay.»
«Bene.» Commentò prima di mordicchiarsi il labbro.
“Vuoi rimanere qui tutto il giorno?”, chiese una vocina nella mia mente. Distolsi lo sguardo sperando di riuscire a non combinare niente di imbarazzante. «Io adesso devo andare…»
Un’espressione sorpresa gli attraversò il viso, ma fu solo per un attimo, così breve che quasi pensai di essermela immaginata. «Oh, sì. Anch’io devo andare. Ci vediamo mercoledì.»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra mentre annuivo. «A mercoledì allora.»
Dopo un attimo di incertezza, mi fece un piccolo sorriso anche lui. E io mi ritrovai a pensare che forse potevamo mettere da parte le nostre divergenze, che forse avere qualcuno che conosceva il mio segreto non era così tragico come avevo pensato fino a quel momento. Forse potevamo trovare un punto d’incontro.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Per prima cosa, buon anno! (di nuovo in ritardo, ma pazienza)
Innanzitutto, voglio chiarire una cosa riguardo James: lui è il ragazzo con cui Scarlett parla in discoteca nel capitolo 5, ricordate? Suo fratello è in una band e lui fa il chitarrista di riserva. Mi rendo conto che, visto che in nessuno dei capitoli seguenti sia stato citato, è normale che ci si "dimentichi" di lui. Nell'editare -si dice così?- i capitoli da pubblicare, ho eliminato, modificato ed aggiunto alcune parti e a quanto pare ho eliminato la scena in cui James esce con Scarlett. E una descrizione degli occhi di Adam che vi riporto qui sotto. Diciamo che ho un po' trascurato James ultimamente.
Ma passiamo a questo capitolo: abbiamo il primo bacio Adamett descritto da Scarlett che, nonostante tutti i suoi buoni propositi, non riesce a rimanere indifferente ad Adam, ed anche lui si fa coinvolgere da lei. Beth affoga i "dispiaceri" nell'alcol, seguita dal suo ragazzo e James... beh, lui cerca di far finta di nulla, ma non è davvero così disinteressato.
Inoltre, Scarlett si apre un po' con Adam, durante le ripetizioni, ma anche dopo, e arriva addirittura a fargli un favore. Forse questi due stanno cominciando ad essere un po' meno ostili l'uno nei confronti dell'altra.
Oddio, ho scritto un papiro, è meglio che la faccia finita qui. Al prossimo capitolo *-*

Dal "vecchio" capitolo 9:
"Lui (Adam) spostò subito lo sguardo su di me e si mordicchiò il labbro. Lo faceva di continuo: quando pensava, quando aspettava una risposta, quando guardava qualcuno… quando mi guardava.
Inevitabilmente i miei occhi finirono nei suoi, tempestosi come sempre. Non solo avevano lo stesso colore del cielo poco prima di un temporale, ma sembrava che ci fossero quasi dei fulmini ad illuminare il grigio-blu delle iridi: minuscole pagliuzze dorate che rendevano il suo sguardo tremendamente magnetico.
Una parte di me si chiese se lui fosse stato scelto per avere gli occhi più belli del mondo, se tutti i pregi che essi possono avere fossero stati convogliati nelle sue iridi. Avrei dovuto essere invidiosa di tanta bellezza racchiusa in uno sguardo che non era il mio, ma ero troppo impegnata a non sbatterlo contro gli armadietti e fargli dire, con le cattive ovviamente, cosa voleva fare con Beth per provare qualcosa del genere."

TimeFlies

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Capitolo 18
*** 18. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 18




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18. Adam

Gli alberi si stagliavano maestosi contro il cielo lasciando che solo pochi raggi di un sole morente, sul punto di tramontare, riuscissero a superare il fitto intrico di rami. Non c’era neanche una nuvola, era una giornata limpida e fresca.
L’odore della resina e del muschio era incredibilmente rilassante, tanto che arrivai a chiedermi perché né mia nonna né mia mamma volessero vivere nel bosco: che aveva la città in più, a parte tanto traffico e tanto rumore? La foresta era molto più tranquilla, aiutava a pensare e riduceva notevolmente i livelli di stress, cosa di cui avevo piuttosto bisogno.
Quel giorno Michael aveva quasi avuto una crisi isterica e mi ci era voluta un'ora buona per calmarlo e convincerlo ad uscire dal bagno in cui si era chiuso. La causa scatenante era stata Julia: l’aveva lasciato quello mattina dicendo che aveva aspettato per troppo tempo una risposta che lui sembrava aver trascurato.
La capivo, soprattutto perché era vero che Michael aveva fatto di tutto pur di evitare di parlare di quello che era successo alla festa di Selena. L’unico problema era che il mio migliore amico sembrava aver dato completamente di matto ed era toccato a me provare a farlo rinsavire. Non c’ero riuscito molto bene, ma almeno avevo cominciato e sembrava che, almeno per il momento, il peggio fosse passato. 
A dirla tutta, però, avrei dovuto studiare chimica per il test, che sarebbe stato tra un paio di giorni, invece che perdere tempo cercando di risolvere una situazione così ingarbugliata come quella in cui si trovava Michael. Ero partito con dei buoni propositi, come andare nella casa nel bosco per poter ripassare senza nessuno che mi disturbasse. C’ero già stato il giorno prima con Scarlett per le ripetizioni e avevo realizzato che era un posto che facilitava la concentrazione. Il problema era che ero finito per uscire sul portico a prendere un po’ d’aria e non mi ero ancora deciso a tornare dentro.
Ormai era praticamente notte, rimaneva solo qualche ultimo sprazzo di luce nel cielo, e io sarei dovuto andare a casa. La cena ormai l’avevo persa, ma avevo avvertito mia madre quel pomeriggio dicendole di non aspettarmi. Nonostante questo, dovevo smetterla di fissare gli alberi come in cerca di chissà quale ispirazione, dovevo farlo e basta. Ma la città, con tutto quel ruomore, non mi era mai sembrata così poco accogliente.
Sospirai e mi morsi il labbro: di solito riuscivo ad essere responsabile, però in quel momento proprio no. Forse non avevo neanche voglia di provarci seriamente, forse volevo solo prendermi un attimo di respiro e magari anche provare ad elaborare un piano per aiutare Michael.
Un movimento confuso al limitare della radura dove si trovava la casa mi distolse dai miei pensieri. Era come se il vento stesse smuovendo qualche cespuglio. O magari era un animale. Qualunque cosa fosse, si stava avvicinando e, nel farlo, spezzava rametti e calpestava il sottobosco senza curarsi di essere silenziosa.
Rischiai seriamente un infarto quando vidi una ragazza spuntare dal fitto degli alberi. E quando la riconobbi fui felice di essere appoggiato alla ringhiera del portico: Scarlett era appena entrata nello spiazzo vicino al cottage e sembrava decisamente sconvolta, stralunata.
Non ricordavo di averlo deciso, ma mi ritrovai comunque a scendere le scale e ad andarle incontro. Lei si guardò attorno per un attimo prima di notarmi. I suoi occhi marroni erano accesi da una sfumatura dorata più intensa del solito; aveva le labbra schiuse e il respiro affannoso oltre che diversi rametti tra i capelli. Indossava dei jeans scoloriti che sembravano aver visto tempi migliori, una maglietta grigia e una vecchia felpa blu.
«Scarlett.» Mi sentii dire.
Per un secondo, il suo sguardo fu sorpreso, poi quasi rassicurato, ed infine completamente sconvolto. «Adam.» Mormorò con un fil di voce. Si prese la testa tra le mani affondando le dita tra i capelli. «No, no, no… Oddio, ma perché?»
Feci un passo verso di lei. «Ehi, va tutto bene? Sembri un po’… stravolta.»
«Tutto sbagliato, è tutto sbagliato… Non doveva andare così… No, no, no…» Borbottò a mezza voce senza dare segno di avermi sentito.
«Scarlett, ehi, che c’è che non va?» Tentai di nuovo.
Lei, però, continuava a bofonchiare parole senza senso mentre camminava su e giù davanti a me. Dopo qualche secondo, non riuscii a sopportare oltre: mi misi davanti a lei, costringendola a fermarsi, e l’afferrai per le braccia. A quel punto, però, non aveva idea di cosa dire né di cosa fare. Mi guardò con quei suoi occhi da cerbiatto: sembrava sul punto di mettersi a piangere, non l'avevo mai vista così fragile, disorientata.
«N-non volevo venire qui…» Sussurrò con un fil di voce.
«Okay, ma perché sei nel bosco? Di nuovo?» Domandai continuando ad osservarla.
Abbassò lentamente lo sguardo. «Perché c’è la luna piena.»
Feci per dire qualcosa, ma ci rinunciai: quel pomeriggio, al bar, aveva detto che durante il plenilunio perdeva il controllo, completamente, che in lei si risvegliavano gli istinti primitivi come quelli dei lupi veri. E queste non erano notizie rassicuranti. «Intendi stanotte?»
Annuì prima di stringere le labbra. «Sì. Volevo fare come tutti i mesi, trovarmi un posto tranquillo e passarci la notte, ma, non so come, mi sono ritrovata qui.»
Lanciò un’occhiata nervosa al cielo e la vidi stringere i pugni tanto che le nocche le diventarono bianche. Seguii la direzione del suo sguardo prima di tornare a guardarla. «Senti, fa’ un respiro profondo adesso, mmh?»
Sorprendentemente, fece come le avevo detto. E non si spostò, rimase lì davanti a me, come se nulla fosse. «Okay, va un pochino meglio.»
«Bene.» Commentai. «Che ne dici se entri un attimo e prendi un bicchiere d’acqua? Magari può aiutare.»
Continuava a fissare qualcosa all’altezza della mia gola con aria assorta, ma annuì comunque. «D’accordo.»
Non mi sembrava molto lucida, quasi fosse stata troppo presa dai suoi pensieri per prestare veramente attenzione a quello che le succedeva intorno. Forse la luna piena aveva gli stessi effetti di una droga, creava allucinazioni e inibiva la razionalità.   Mi seguì comunque quando, dopo averla lasciata, mi incamminai verso la casa. La feci entrare per prima e chiusi la porta mentre lei si guardava distrattamente intorno stringendosi le braccia al petto.
«Ti prendo un po’ d’acqua, okay?» Chiesi passandole davanti e avvicinandomi alla cucina.
«No.» La freddezza della sua voce mi fece scendere un brivido lungo la schiena.
Mi voltai verso di lei: aveva di nuovo le mani strette a pungo e le spalle rigide e teneva la testa china. I capelli le ricadevano sul viso nascondendolo.
Feci un passo verso di lei, cauto. «Scarlett, qual è il problema?»
Sollevò la testa di scatto rivelando l’oro che le colorava le iridi. Non era come le altre volte che l’avevo visto, appena accennato, in quel momento aveva cancellato completamente il marrone. Mi bloccai cercando di capire cosa fare, cosa dire, ma mi sembrava di avere la mente vuota, come se, di colpo, l’istinto di sopravvivenza fosse scomparso insieme alla logica.
Scarlett continuava a tenere lo sguardo fisso su di me, il petto che si alzava e si abbassava velocemente. Oltre questo, però, sembrava avere il controllo di se stessa, almeno per il momento.
«Devo andarmene. O ti farò male.» Disse a denti stretti. «Ti ricordi che ti ho detto riguardo alla luna piena, no?»
Deglutii nervosamente. «Che risveglia i vostri istinti primitivi e che non riuscite a fermarli.»
Sembrò che la mia risposta la rassicurasse almeno un po’. «Esatto. Quindi adesso io me ne vado. E non provare a fermarmi, chiaro? Non voglio farti male.» Aggiunse cominciando ad indietreggiare.
Lanciai un’occhiata alla finestra: anche l’ultimo raggio di sole era sparito, adesso era notte, buia e fredda. E la luna splendeva, maestosa e inesorabile, sulla foresta.
«Che… che hai intenzione di fare?» Chiesi notando troppo tardi quanto fosse insicura la mia voce.
«Andrò nel bosco e farò quello che faccio tutti i pleniluni: lascerò campo libero al lupo che c’è in me. Non ti conviene essere nei paraggi quando succederà.» Spiegò riuscendo a mantenere un tono relativamente calmo.
Dietro tutto l’oro bruciante dei suoi occhi, riuscii a vedere un’ombra, come un qualcosa che la turbava. Paura. La spaventava essere da sola a fare i conti con qualcosa che faceva parte di lei ma che, nello stesso tempo, le era estraneo.
Si voltò e mise una mano sulla maniglia. In quel momento, sentii qualcosa scattare dento di me, qualcosa che non credevo di avere, e mi ritrovai subito dietro di lei. Le afferrai il polso facendola girare verso di me. Il suo sguardo si intrecciò automaticamente al mio. Sembrò disorientata, sorpresa da quella mossa improvvisa persino per me.
«Adam, che stai facendo? Lasciami.» Voleva essere determinata, ma suonò esitante, come se non fosse stata sicura di quali parole usare.
«Non posso.» Lo ammisi con lei e con me stesso: non potevo lasciarla sola a far fronte alla luna piena, non potevo e basta.
La sua espressione si fece sorpresa e quasi implorante. «Non ricominciare, ti prego. Io… Questo è molto pericoloso, okay? Troppo pericoloso perché io ti permetta di farmi restare. Devi lasciarmi andare, adesso.»                                                                      
Scossi la testa e, senza ricordare di averlo deciso in precedenza, strinsi le dita intorno all'altro polso, quello che teneva ancora sulla maniglia. Adesso era di fronte a me, la schiena contro la porta e lo sguardo bruciante di frustrazione mista a paura. La distanza tra noi era decisamente troppo poca considerando che entrambi eravamo impegnati in una relazione, ma in quel momento l'essere un buon fidanzato era l'ultimo dei miei problemi.   
«Non lo so controllare, dannazione!» Sbottò Scarlett, la voce che tradiva una nota di disperazione. «Lasciami se non vuoi morire per colpa mia.»
«Mi stai chiedendo di lasciarti ad affrontare tutto questo da sola?» Domandai pur conoscendo già la risposta.
«Sì! L’ho fatto milioni di volte, so come funziona. Tu no, e non voglio fartelo scoprire.» Insistette guardandomi.
Non potei fare a meno di sentire una stretta al cuore quando mi resi conto di quante altre volte di era sentita così, privata del controllo del suo stesso corpo, costretta ad isolarsi per evitare di fare del male a qualcuno. Voleva proteggere chi le stava intorno, ma chi pensava a proteggere lei?
«Voglio aiutarti, okay? Lo so che tu non vuoi, ma non mi farai cambiare idea.» Dichiarai sperando di sembrare sicuro di me.
Lei fece per rispondere, ma si bloccò all’improvviso. Serrò gli occhi di colpo e strattonò le mani per liberarle. La lasciai subito, sorpreso, mentre lei tornava a infilarsi le dita tra i capelli. Si piegò su se stessa lasciandosi sfuggire un ringhio sommesso che suonò quasi sofferente, come quello di un animale ferito. Ansimò cercando di riprendere fiato e sollevò la testa di scatto. I suoi occhi dorati avevano un fascino pericoloso, tanto magnetico che mi riusciva difficile distogliere lo sguardo.
Si mosse così velocemente che riuscii a malapena a seguire il suo scatto. In effetti, realizzai cosa stava succedendo solo quando il suo corpo urtò il mio facendoci finire entrambi a terra.
Ci si rende conto di quanto sia duro il pavimento solo quando ci si sbatte contro. Con un licantropo in preda agli istinti primitivi addosso. L’impatto mi tolse il fiato per un attimo, ma dovetti riprendermi in fretta: sopra di me, Scarlett ringhiava e sembrava piuttosto arrabbiata. Sentii le sue mani scorrere brusche sulle mie braccia finché non raggiunsero i polsi, che afferrarono con prepotenza e bloccarono a terra all’altezza della mia testa. Una vocina nella mia mente mi disse che me lo meritavo, in fondo ero stato io ad insistere perché lei restasse.
«Tra tutte le cose che potevi fare questa è la più stupida.» Borbottò Scarlett scrutandomi con aria critica.
I suoi capelli mi sfioravano il viso, le sue ginocchia mi premevano contro i fianchi, la sua stretta era ferrea, sentivo il calore della sua pelle anche attraverso i vestiti che ci separavano. In effetti, mi sembrava che fosse un po’ troppo calda, come se avesse avuto la febbre.
«Sei stata tu a saltarmi addosso.» Mormorai ricambiando l’occhiata.
«Mi riferivo al tuo essere così dannatamente insistente.» Replicò lei aumentando appena la stretta sui miei polsi.
«Deve essere un difetto di famiglia.» Commentai chiedendomi, nello stesso tempo, che diavolo stavo facendo.
La sua espressione si fece sorpresa per un attimo prima di tornare cupa. «Ti rendi conto del guaio in cui ti sei cacciato? Stavo per ucciderti un secondo fa. E anche adesso sto prendendo seriamente in considerazione l’idea di farlo.»
«Lo immaginavo.» Ammisi. «Solo, dammi una possibilità. Una sola. Se non dovesse funzionare…»
«Se non dovesse funzionare? Lo sai cosa vorrebbe dire? Che tu saresti morto.» Sbottò interrompendomi. «Niente possibilità.»
Per qualche strano motivo, mi ricordai che avevo sentito parlare della psicologia inversa non molto tempo prima durante una lezione a scuola. «D’accordo. Allora perché non te ne vai? Mi hai fatto capire chi comanda e che sei pericolosa: non proverò a fermarti.»
Un’espressione sorpresa le attraversò il viso. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra come se stesse valutando la mia proposta. Approfittai di quel secondo di distrazione per ribaltare la situazione e darmi un po’ di vantaggio: mi liberai dalla sua stretta e, con una spinta, la feci finire sdraiata sotto di me. Le afferrai i polsi e li portai all’altezza della sua testa, come lei aveva fatto con me.
Si lasciò sfuggire un ringhio rabbioso e mi fulminò con un’occhiataccia. «Oddio, ma che hai al posto del cervello? Segatura?» Esclamò con evidente frustrazione. «Mi sembrava di averti detto che è pericoloso, dannazione!»
Provò a divincolarsi, ma riuscii a tenere duro, in qualche modo. E avrei continuato a farlo: non mi sarei mai perdonato se l’avessi lasciata da sola contro qualcosa di così… imprevedibile e potenzialmente letale. Anche se lei ci aveva già avuto a che fare, anche se probabilmente voleva uccidermi, anche se non ne avevo motivo. 
«Senti, lo so che adesso mi odi, cioè, più di prima, ma non riesco neanche a pensare di farti affrontare tutto questo da sola.» Confessai lasciando che i suoi occhi dorati bruciassero nei miei. «Per favore, Scarlett, lascia che ti aiuti. Magari non funzionerà, magari faremo solo danni, ma almeno sapremo che non è la strategia giusta.»
«Non voglio farti del male, chiaro? E questo…» La sua risposta si interruppe bruscamente quando chiuse gli occhi di scatto e inarcò la schiena, come in preda ad uno spasmo.
La vidi stringere i denti, insolitamente lunghi e affilati. Una parte di me avrebbe voluto scappare da tutto quel pericolo, da tutto quel… soprannaturale: in fondo, mi era così sconosciuto e sembrava decisamente una pazzia fare quello che avevo in mente di fare. Ma, nello stesso tempo, la mia determinazione nel voler rimanere con lei per aiutarla si rafforzò.
Scarlett si lasciò ricadere sul pavimento con un tonfo sordo e un sospiro che assomigliava di più ad un respiro strozzato. Mormorò qualcosa a voce così bassa che non riuscii a capirlo, ma suonò piuttosto simile ad un'imprecazione.
“Fa’ qualcosa”, mi rimproverò una vocina nella mia mente. In effetti, non potevamo starcene lì distesi sul pavimento tutta la notte. Cercai di mettere in ordine le idee mentre Scarlett faceva dei respiri profondi per riprendere aria.
«Mia mamma soffriva di attacchi di panico qualche anno fa.» Dissi evitando di guardarla negli occhi.
Per una qualche strana ragione, il mio sguardo si soffermò sulle sue labbra, screpolate e rosee.
«Cosa?» Chiese evidentemente confusa.
Ripresi fiato per un attimo prima di continuare: «Il medico le disse che, quando sentiva che stava per avere una crisi, doveva concentrarsi su qualcosa, qualunque cosa. Il rumore della pioggia, della televisione, anche il suo stesso respiro. L’importante era che la distraesse, così non avrebbe avuto paura di avere paura e si sarebbe calmata.»
Lei mi guardava, come in attesa che continuassi, e questo mi sorprese: parlare di qualcosa di così personale era un azzardo che poteva costarmi parecchio, invece lei sembrava sinceramente interessata. Era un argomento delicato di cui persino Michael sapeva poco o nulla. Evitavo di tirarlo fuori quasi senza rendermene conto, eppure adesso lo stavo raccontando alla migliore amica della mia ragazza, che era un licantropo indisposto e lunatico che avevo addirittura baciato. 
«Ecco, ho pensato che magari poteva funzionare anche con te. Insomma, il panico è un’emozione forte, no? E credo sia più o meno come quello che senti tu adesso.» Spiegai prima di mordermi il labbro.
La sfumatura d’oro nei suoi occhi si intensificava e si indeboliva continuamente, come una fiamma in balia del vento. «Mmh. Va’ avanti.»
Esitai per un attimo prima di schiarirmi la gola. Le sollevai una mano e me la portai sul petto, all’altezza del cuore. «Cosa senti?»
Lei allargò le dita facendo aderire il palmo alla mia maglietta. «Vuoi la risposta umana o quella animale? Quella umana è il tuo cuore. E, credimi, non è calmo come pensi tu. Quella animale è sangue fresco che scorre veloce.»
Premetti la mano sulla sua, più per avere qualcosa da fare che per necessità: quella storia degli istinti animali non era un'esagerazione. «Uhm… Concentriamoci su quella umana per ora.»
«Ottima scelta.» Borbottò.
Trassi un respiro profondo: dovevo calmarmi io per primo se volevo aiutarla davvero. Avevo bisogno di riprendere il controllo della situazione. «Okay, ora dovresti concentrarti sul mio battito cardiaco e cercare di rilassare i muscoli. Quando sarai più calma sarà tutto più facile.»
Un minuscolo accenno di sorriso le incurvò le labbra. «D’accordo, posso provare. Ma non ti prometto nulla.»
Annuii piano. «Bene.»
Si sistemò un po’ meglio sul pavimento, per quanto fosse possibile, e spostò lo sguardo sul soffitto. «Forse dovrei ringraziarti per… tutto questo. Se non volessi strozzarti per essere così dannatamente insistente. Comunque… come ti è venuta in mente una cosa del genere? Voglio dire, attacchi di panico e plenilunio sono piuttosto diversi.»
Ad essere sincero avrei preferito evitare di parlarne ancora, più che altro perché temevo di perdere la calma che ero riuscito a ripristinare. E a quel punto avrei esaurito le idee.
Mi mordicchiai il labbro, titubante. «Sinceramente non lo so. Credo di averci pensato perché… uhm, il medico ci fece imparare un paio di tecniche di rilassamento. Erano più che altro per mia madre, ma il dottore voleva che le sapessimo anche noi, sai, per precauzione. Non è stato un bel periodo.»
I suoi occhi da cerbiatto si fecero preoccupati, cosa che strideva un po’ con la strana situazione in cui ci eravamo cacciati. «Non devi parlarne se non vuoi. Davvero, non ce n’è bisogno.»
Scossi appena la testa. «No… Voglio dire, adesso è okay, è finito. Sono anni che mia mamma non ha crisi.»
Mantenne lo sguardo intrecciato al mio. «Beh, mi fa piacere, credo.»
«Già, anche a me.» Mormorai rompendo per primo quel contatto visivo.
Avevo detto anche troppo e, se volevo davvero aiutarla a riprendere il controllo, dovevo essere calmo e razionale. E parlare di mia madre e di tutto quello che era successo anni prima non mi avrebbe aiutato a farlo.
L’oro negli occhi di Scarlett sembrava essersi stabilizzato, almeno per il momento, e decisi di prenderlo come un buon segno: magari voleva dire che stava cominciando a trovare una qualche specie di equilibrio. Oppure era solo la quiete prima della tempesta, non ne avevo idea.
Trassi un respiro profondo e cercai qualcosa da dire, qualcosa che alleggerisse la tensione e aiutasse entrambi a calmarsi. Invece mi ritrovai a guardarla, ad osservare i piccoli dettagli che da quella distata decisamente troppo scarsa era impossibile non notare.
Scarlett aveva un piccolo neo appena sotto la mascella, in un punto che normalmente rimaneva nascosto, a meno che lei non avesse girato la testa dalla parte opposta. Le sue labbra non erano né carnose né sottili, di un rosa chiaro che risaltava poco sulla sua pelle lievemente colorita. La linea del collo era morbida e ben delineata. Il ciondolo a forma di foglia che le avevo già visto addosso era scivolato fino a fermarsi sulla clavicola destra.
Si schiarì la gola facendomi quasi trasalire. «Uhm, senti, dobbiamo restare sul pavimento tutta la notte? No, perché non è che sia poi così comodo.»
«Ehm… No. Credo che possiamo… uh, spostarci.» Esitai per un attimo. «Come ti senti? Intendo, pensi che potresti…»
«Saltarti alla gola appena mi lasci? No, niente del genere. E comunque, se avessi avvertito l’istinto omicida tu saresti già morto.» Fece un cenno col mento verso il mio petto. «Insomma, mi hai praticamente messo in mano la tua vita, in senso piuttosto letterale: ti ricordo che non ho solo le zanne.» E, come a voler supportare la sua affermazione, fece allungare gli artigli della mano che teneva sul mio cuore.
«Sì, in effetti hai ragione… Avrei dovuto pensarci.» Ammisi lasciandomi sfuggire una smorfia. «Beh, mi sembri abbastanza controllata, quindi…»
Le lasciai entrambi i polsi e mi alzai in piedi. Lei si stiracchiò prima di tendermi una mano. Di fronte alla mia espressione interrogativa, sbatté le palpebre con aria innocente. Sospirai e le afferrai la mano per poi aiutarla a tirarsi su. La sua collana scivolò al suo posto, nell’incavo del collo.
«Come va?» Chiesi lanciandone un’occhiata di sottecchi.
Scrollò le spalle. «Non malissimo. Cioè, ho il mal di testa fisso, però… Potrebbe andare peggio.»
«Mal di testa?» Ripetei osservandola.
«Già.» Borbottò con un sospiro. Guardò qualcosa alle mie spalle e inclinò appena la testa di lato. «Possiamo…?»
Seguii la direzione del suo sguardo: sembrava puntare al divano. Sentii un accenno di sorriso farsi strada sulle mie labbra. «Sì, certo.»
La sua espressione si fece riconoscente, ed era un qualcosa che non avrei mai pensato che potesse provare per me. Mi feci da parte per farla passare e, quando lei si lasciò cadere sul divano, mi sedetti al suo fianco.
«Come mai il mal di testa?» Domandai incuriosito, mio malgrado. «Cioè, è legato al plenilunio?»
Si strofinò le mani sui jeans. «Sì. È come se dentro di me ci fossero due personalità: una è quella… normale, umana; l’altra è quella animale. E sono in lotta tra loro, come se una delle due volesse predominare sull’altra.»
«Bipolare.» Sussurrai, più per me che per lei.
Arricciò il naso. «Quello che è.» Si sistemò meglio contro lo schienale. «È frustrante perché non so mai cosa succederà dopo. Adesso va tutto bene, sono calma, ma è come se fossi sempre sul punto di trasformarmi e perdere completamente il controllo. Potrebbe succedere ora, o tra un’ora, o tra un minuto, non lo so. Ed è questo che rende tutto più difficile.»
Mi resi conto solo in quel momento che eravamo spalla contro spalla, e nessuno dei due sembrava farci troppo caso. E stavamo parlando sul serio, senza remore: io le avevo confessato di mia madre, lei mi stava descrivendo gli effetti della luna piena. «Quindi una parte di te rimane razionale anche quando l’istinto animale prevale?»
Annuì fissando un punto nel vuoto. «La maggior parte delle volte sì. Quando succede mi sembra quasi che sia qualcun altro a muovere il mio corpo: vedo e sento quello che faccio, ma riesco a fare poco per impedirlo.»
Feci per replicare, ma mi bloccai: che potevo dirle? Che sarebbe finito tutto in poco tempo? Avrei voluto darle un aiuto più concreto, però non riuscivo a trovare le parole giuste. Aveva appena confessato di sentirsi come intrappolata nel proprio corpo, probabilmente non esisteva niente di rassicurante da dire.
Mi riscossi improvvisamente dai miei pensieri quando la sentii irrigidirsi. La guardai, preoccupato: aveva serrato gli occhi, la sua mascella era contratta, tutto il suo corpo esprimeva tensione, teneva i pugni stretti così forte che le erano diventate le nocche bianche. E quella piccola macchia rossa risaltava parecchio su quel pallore.
Per poco non mi prese un colpo quando realizzai che era sangue. Senza pensare a quello che facevo, le presi le mani tra le mie e provai a schiuderle le dita. Quando si era ferita? Fino a qualche momento prima stava bene, che diavolo stava succedendo?
Provò a protestare, ma senza troppa convinzione. Riuscii ad aprirle i pugni e a rivelare le piccole mezzelune, rese scarlatte dal sangue, che si era incisa nei palmi. Sembravano un po’ troppo profonde per essere state fatte da semplici unghie umane.
«Ehi, che stai facendo?» Mormorai con voce più dolce del previsto.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, come se avesse avuto paura di cosa si sarebbe trovata davanti aprendoli. «Il dolore mi aiuta a non perdere il controllo.» Spiegò a denti stretti. «Non devi preoccuparti, so cosa faccio.»
«Ci sono altri modi. Devono esserci.» Replicai osservando distrattamente i piccoli tagli che guarivano proprio mentre parlavamo. «Non permetterò che tu ti faccia del male.»
I suoi occhi da cerbiatto finirono nei miei, l’oro che bruciava come una fiamma. «Ah no?» Nel suo tono c’era una nota di sfida.
«No.» Dichiarai. «Troveremo un’altra soluzione.»
«Stai dando il meglio di te stasera, eh?» Commentò. «Senti, anche se non ti piace questo è un buon modo per non farmi prendere dall’istinto omicida.»
«Beh, tu non macchierai il divano di mia madre.» Borbottai.
Alzò gli occhi al cielo e fece per dire qualcosa, ma si bloccò all’improvviso quando le feci scivolare un braccio intorno alle spalle. Intrecciai le dita di entrambe le mani alle sue e la tirai un po’ di più verso di me.
Il suo respiro si fece spezzato, tutto i suoi muscoli erano tesi. «Uhm… Non è così che pensavo di passare la notte.» La sua voce era incerta e la vidi deglutire nella penombra. 
«Neanche io.» Concordai con un sospiro.
Era rigida contro di me, come se fosse stata in attesa di un qualche tipo di attacco, forse proprio da parte mia. «Non dovremmo stare così vicini, sia in senso letterale che figurato.»
«Per via di Elisabeth?» Chiesi cauto.
«Sì. Lei è la tua ragazza e…» Cominciò.
«Questo non vuol dire che devi far riferimento a lei per ogni cosa.» La interruppi.
Si girò verso di me in modo da guardarmi in faccia. «Cosa? C-che intendi?»
«Tutte le volte che parliamo salta fuori lei. So che le vuoi bene, ma la tua vita non dipende da lei. Non posso parlarti perché c’è Elisabeth. Non puoi accettare il mio aiuto perché c’è Elisabeth. Non puoi continuare così, Scarlett. Ti senti in colpa perché non puoi dirle la verità, ma non per questo devi…»
«Ehi.» Questa volta fu lei ad interrompermi. Si voltò incastrando la spalla contro la mia. «Lo so che è sbagliato, che non dovrei e tutto il resto. Ma è la mia migliore amica e non è che ci sia tanta normalità nella mia vita. Lei invece lo è, normale intendo: le piacciono i vestiti e le gonne, si trucca troppo, è sempre a caccia di ragazzi e quando si innamora lo fa con tutta se stessa, senza risparmiarsi. È anche orgogliosa e testarda, e le piace avere ragione. Ma mi vuole bene, e io ne voglio a lei. E… sì, mi sento in colpa perché devo mentirle quasi ogni giorno. Credo sia solo un modo per… farmi perdonare, in qualche modo.»
Abbassai lo sguardo. «Io… Scusa, non avrei dovuto essere così duro… Insomma, non sapevo tutta la storia e anche se l’avessi fatto non avevo il diritto di giudicarti.»
«È okay, tranquillo.» Mormorò lei.
Strinsi le labbra mentre lei tornava ad appoggiare la schiena per metà contro il divano e per metà contro di me. Contrariamente alle mie aspettative, non aveva sfilato le mani dalle mie, anzi, si era sistemata in modo da far stare comodi entrambi. Mi resi conto solo in quel momento di quanto fosse piccola e magra: sentivo il suo corpo ossuto premere contro di me, come se fosse stata spigolosa. Ed era una cosa che strideva con il lupo che si nascondeva dentro di lei, una bestia forte, pericolosa, potente.
E io le stavo così vicino… in tutti i sensi. Forse ero impazzito e non me n’ero neanche accorto. Forse avevo smesso di provare paura per un qualche strano motivo. Forse non c’era niente da temere in lei.
Scarlett si inarcò contro di me. «Oddio…»
Aveva chiuso gli occhi e le sue dita stringevano le mie con una forza che non credevo avesse. Un ringhio soffocato le risalì dalla gola e lo sentii vibrare nel suo petto.
Quasi inconsapevolmente, aumentai la stretta su di lei, come a volerla rassicurare. «Ehi, va tutto bene. Cioè… andrà tutto bene.»
La sua risposta fu un altro ringhio. Sì, in effetti il mio non era stato un granché come incoraggiamento.
«Ho bisogno di alzarmi.» Disse tra i denti.
La lasciai subito sciogliendo quello strano abbraccio, e lei si mise in piedi barcollando appena. Si allontanò di un paio di passi dal divano e si prese la testa tra le mani. Era scossa da tremiti violenti. Sembrava in preda ad un dolore lancinante. È come se dentro di me ci fossero due personalità. E sono in lotta tra loro.
«Scarlett?» Mormorai cauto.
Lei tese un braccio verso di me, come ad intimarmi di restare dov’ero. Esitai, combattuto: continuare a darle contro, sfidarla apertamente ignorando ciò che diceva non mi sembrava una grande idea. Ma neanche rimanere lì a guardarla combattere contro se stessa suonava tanto bene.
Crollò improvvisamente a terra ringhiando. Scattai in piedi e mi inginocchiai di fronte a lei.
«Scarlett. Ehi, guardami.» Tentai mentre cercavo di incrociare il suo sguardo.
Lei mi ignorò, o forse non mi sentì visto che continuava a ringhiare sommessamente. Era frustrante non sapere che fare, non sapere cosa sarebbe successo. Avrei voluto aiutarla, eppure l’unica cosa che riuscivo a fare era stare lì a guardarla soffrire.
Piano piano, Scarlett smise di tremare. Abbassò le mani e si scostò una ciocca di capelli dal viso. L’oro nei suoi occhi ardeva di nuovo con intensità. Evidentemente quella di prima era stata davvero solo quiete temporanea.
«Va… va tutto bene.» Balbettò cercando di riprendere fiato.
«No che non va bene.» Sbottai guardandola preoccupato.
Un debole sorriso le incurvò le labbra. «Sì, hai ragione. È tutto un casino.»
Era stupido ed inappropriato, eppure mi ritrovai a sorridere con lei mentre l’aiutavo ad alzarsi.

Il resto della notte si trascinò lento in un alternarsi di ringhi, momenti di crisi e altri di lucidità, occhi ardenti e conversazioni non proprio sensate. Scarlett faceva del suo meglio per nascondermi il dolore che provava, ma era impossibile non lasciarlo trapelare.
Ogni volta che si aggrappava a me per rimettersi in piedi, ogni volta che le sue dita finivano intorno al mio polso per cercare di ritrovare un po’ di controllo attraverso il battito del mio cuore -troppo spesso accelerato-, sentivo quanto era tesa e rigida. E io tornavo a sentirmi impotente. Che potevo fare contro qualcosa che faceva parte di lei?
Dopo l’ennesima crisi, Scarlett sembrava tremendamente esausta. Era di nuovo in ginocchio sul pavimento, la testa china, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Io ero al suo fianco e le tenevo la mano, esitante. Cercavo di darle un po’ di sostegno con quel piccolo gesto che però sembrava inutile persino a me.
Si passò le dita tra i capelli e sospirò. «Dio… Credevo di aver toccato il fondo ore fa. Mi sbagliavo.»
Abbassai lo sguardo sperando in un’illuminazione che mi dicesse come aiutarla sul serio. E proprio mentre guardavo il pavimento notai una cosa che fino a quel momento non c’era stata: le nostre ombre.
Mi voltai di scatto verso la finestra: gli alberi erano rischiarati da una luce morbida e soffusa, il cielo che si riusciva a vedere tra l’intrico dei rami era tinto di rosa, giallo, oro. Era l’alba.
«È finita.» Mormorai.
Scarlett seguì la direzione del mio sguardo e un sorriso fiacco le illuminò il viso quando capì a cosa mi riferivo. Per un attimo sembrò che tutta la stanchezza fosse sparita dal suo viso, che fosse tornata forte e piena di energia.
Mi alzai e l’aiutai a fare lo stesso. Non ero mai stato così sollevato nel vedere il sole sorgere. Avevo ancora gli occhi fissi sulla finestra, così sussultai quando Scarlett mi abbracciò facendo scivolare le braccia intorno alla mia vita. Dopo un attimo di titubanza, ricambiai la stretta. Sentii le sue mani risalirmi la schiena e fermarsi appena sotto le scapole.
«Grazie.» Mormorò contro la mia spalla.
La sua voce era un sussurro appena udibile reso roco da tutte le volte che aveva ringhiato. Non trovai niente da dire, se non un banale “di niente”, quindi mi limitai a stringerla un pochino di più, ed ero così sollevato da non fermarmi a pensare alla stranezza di quel gesto. Si scostò da me e fece un passo indietro.
«Sono esausta.» Borbottò prima di scrutarmi con aria critica. «E anche tu non hai una bella cera.»
«Davvero? Mi sembrava di aver letto da qualche parte che rimanere svegli tutta la notte in compagnia di un licantropo indisposto rendesse energici e vitali.» Replicai ricambiando l’occhiata.
Alzò gli occhi al cielo. «Questa potevi anche risparmiartela, sai?»
Sentii un sorriso sghembo farsi strada sulle mie labbra. «Ti ho sopportato per tutta la notte, potresti essere più indulgente.»
Incrociò le braccia al petto. «No. Non con te.»
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Buono a sapersi.»
Lei spostò lo sguardo su qualcosa dietro di me. Non avevo bisogno di voltarmi a controllare cosa fosse: di nuovo il divano. Probabilmente fatica a reggersi in piedi dopo tutto quello che aveva passato quella notte.
«Senti, su ci sono due camere da letto.» Dissi guardando il pavimento.
«Sul serio?» Chiese con voce speranzosa.
«Sì.» Confermai. «E, un’altra cosa, andare a scuola non mi sembra fattibile, quindi…»
I suoi occhi si illuminarono. «Vuoi dire che mi perderò cinque ore di meravigliosa cultura? Oh, che peccato.»
Sorrisi scuotendo la testa. «Già, immagino quanto tu sia dispiaciuta.» Feci un cenno verso le scale. «Andiamo? Sto morendo di sonno anch’io.»
Mentre mi passava accanto, mi rifilò una gomitata nelle costole. Mi lasciai sfuggire una smorfia che la fece sorridere.
Ci fermammo l’uno di fronte all’altra davanti alla porta di una delle camere. Lei mi guardava in attesa, aspettando che le dicessi cosa fare.
«Se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, chiamami pure, okay? E, se ti fa freddo, ci sono altre coperte nell’armadio.» Spiegai improvvisando sul momento.
L'oro nei suoi occhi si era affievolito, adesso ne rimaneva solo una lieve sfumatura. «Okay.»
«Allora… Buonanotte.» Mormorai.
«’Notte.» Rispose con un sorriso incerto.
Si voltò, aprì la porta della camera e si infilò dentro prima di richiudersela alle spalle. Sospirai ed entrai nella stanza accanto. Solo quando mi sdraiai sul letto, ancora vestito, mi resi conto di quando fossi dolorante e terribilmente stanco.
Il sole fuori dalla finestra continuava a salire in cielo, rischiarando il bosco e tingendo tutto di una luce soffusa e dorata. Come gli occhi di Scarlett.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Il piano originario era quello di aggiornare giovedì, ma domani dovrò darmi allo studio pazzo -cosa che dovrei fare anche oggi- quindi eccovi il capitolo con un giorno d'anticipo!
E' un po' più lungo degli altri, dovrebbe essere intorno alle 5400 parole, ma spero vi sia piaciuto lo stesso. Finalmente, infatti, scopriamo qualcosa in più sul passato di Adam, quello che fino ad ora era sembrato il più "puro" diciamo, quello con meno scheletri nell'armadio. Invece anche lui ha delle ombre di cui non parla volentieri, un po' come Scarlett con il divorzio dei suoi genitori.
Che pensate che succederà adesso che gli Adamett hanno trascorso la notte -di luna piena poi- insieme? Sarà cambiato qualcosa tra loro? O rimarranno ancora diffidenti l'uno nei confronti dell'altra? E per quanto riguarda Michael, invece? Cosa pensate che farà?
Ah, un'altra cosa, ho aggiunto l'avvertimento Slash nelle note della storia perché più avanti  potrebbe esserci qualche scena del genere. Ma non vi dico altro.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto *-* A me non convince molto, ma mi auguro che sia meglio di come mi appare.
A presto **

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Capitolo 19
*** 19. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 19




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19. Scarlett

Quando mi ero addormentata, il pensiero di chiudere le tende non mi aveva neanche sfiorato. Anche perché faticavo a rimanere in piedi, quindi era già tanto se avevo trovato il letto. 
Quando mi svegliai, però, avrei preferito averlo fatto. Magari avrei potuto dormire un po’ di più: ne avevo un disperato bisogno, come dopo ogni plenilunio del resto.
Mi girai in modo da dare le spalle alla finestra e mi tirai le coperte fin sopra la testa lasciandomi sfuggire un gemito scocciato.
Qualcosa non andava però. Lo sentivo, c’era qualcosa di diverso. Anzi, più di una cosa. La prima era che ero vestita come il giorno prima, esattamente gli stessi vestiti, con tanto di rametti che si erano incastrati nel cappuccio della felpa dopo la mia corsa nel bosco. La seconda era che quella coperta aveva un odore diverso dalla mia: sapeva di pulito, come se fosse stata appena lavata con uno di quei saponi che non hanno un profumo specifico, ma che associ sempre al bucato. E aveva anche un colore diverso: era blu, non rossa.
La abbassai lentamente studiandola con gli occhi socchiusi. No, non era decisamente la mia. E quello non era il mio letto… Mi voltai di scatto e tirai un sospiro di sollievo nel constatare che l’altra metà del materasso era vuota. Eppure c’era ancora qualcosa che non tornava.
“L’odore di Adam!”, realizzai di colpo. Dopobarba, carta di vecchi libri… Sì, era indubbiamene il suo. E io lo avevo addosso. Certo, si sentiva a malapena, però…
Improvvisamente mi tornò in mente cosa era successo quella notte, e tutti i pezzi trovarono il loro posto: la mia confusione quando mi ero ritrovata davanti alla casa di Adam senza aver deciso prima di andarci, la sua espressione preoccupata, le sue insistenze continue, il mio corpo premuto contro il suo in più di un’occasione, le sue mani intrecciate alle mie, il suo respiro tiepido che mi sfiorava la pelle, le sue parole rassicuranti dette a bassa voce… Per un qualche strano motivo, più del novanta per cento dei miei ricordi comprendeva anche lui.
Mi sdraiai sulla schiena e sospirai. In che diavolo di guaio ero andata a cacciarmi? Il soffitto sopra di me era scuro, fatto di legno massiccio come la maggior parte della casa, e non molto interessante. Mi guardai le mani: sui palmi era rimasto un po’ di sangue secco, ma i tagli che mi ero fatta erano spariti completamente. Beh, tu non macchierai il divano di mia madre, aveva detto Adam quando li aveva scoperti e aveva presto il controllo della situazione. Era durato poco, ma, in un certo senso, avevo ammirato la sua determinazione.
Morivo dalla voglia di farmi una doccia, bermi un caffè e rilassarmi un po’, però sapevo di non poterlo fare, non finché fossi rimasta a casa sua. Valutai varie opzioni -senza troppo impegno a dirla tutta- finché non decisi di uscire a prendere una boccata d’aria e stabilire a quel punto cosa fare.
Mi tolsi di dosso la coperta -che avevo preso dall’armadio visto che non mi andava di infilarmi nel letto di qualcuno che non conoscevo-, la ripiegai e la rimisi al suo posto prima di uscire dalla stanza. Cercai di non fare rumore: magari Adam stava ancora dormendo e non stava certo a me svegliarlo dopo tutto quello che aveva fatto per aiutarmi. Contro la mia volontà, questo sì, ma l’aveva fatto comunque.
Scesi le scale che, ovviamente, scricchiolarono ad ogni mio passo, attraversai il salotto e uscii dalla porta principale, lasciandola socchiusa. Mi ritrovai su un piccolo portico di legno, come quelli dei film. Non potei fare a meno di pensare che vivere lì sarebbe stato un sogno.
Feci qualche passo avanti fino ad arrivare abbastanza vicino alla ringhiera da poterci appoggiare le mani. C’era un vento leggero che muoveva i rami degli alberi facendoli frusciare piano. Il sole era già alto nel cielo, che era limpido e pulito. Sembrava che tutto il caos della notte prima appartenesse ad un altro mondo. Trassi un respiro profondo per assaporare l’aria umida di rugiada e muschio. Quel posto era meraviglioso, così calmo e pacifico… E mi aiutava a distendere i nervi. Chiusi gli occhi lasciando che il sole mi scaldasse il viso.

«Papà! Papà! Guarda, una margherita!» Esclamo correndo da lui e tenendo il piccolo fiore come se fosse chissà quale tesoro.
Miles si volta verso di me sorridendo. «Brava Scout, è proprio bellissima.»
Mi fermo davanti a lui, gli occhi fissi sulla margherita, bianca e delicata, che tengo tra le dita. Papà si inginocchia davanti a me e mi infila una ciocca di capelli sfuggita alla coda dietro l’orecchio. I suoi occhi azzurri mi osservano da dietro le lenti sottili degli occhiali.
L’erba mi arriva alle ginocchia, verde e fresca, in alcuni punti anche bagnata dai residui del recente acquazzone.
«Scarlett, che hai trovato?» Chiede mia madre, seduta sulla coperta a quadretti.
Alzo lo sguardo e le sorrido prima di sollevare il fiore. «Una margherita!»
Lei ricambia il sorriso, che diventa più luminoso quando papà si siede vicino a lei e l’abbraccia. I capelli di mamma brillano al sole, e lei sembra così felice…


«Credevo te ne fossi andata.» Mormorò una voce che conoscevo forse anche troppo bene.
Mi voltai e Adam era davanti a me, pallido e con i capelli arruffati, anche lui vestito come il giorno prima: jeans e maglietta a maniche corte grigia. Sembrava esitante, come se non avesse saputo decidere quanti rischi comportava avvicinarsi di più a me.
Sospirai e tornai a guardare la foresta dandogli un implicito via libera. «In effetti, ho preso in considerazione l’idea di farlo.»
Mi raggiunse e si appoggiò alla ringhiera con gli avambracci. «Ma sei qui.»
«Già. Ho pensato che avevamo qualcosa di qui parlare.» Replicai.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Sono nei guai, eh?»
«Tanto per cambiare.» Borbottai aggrottando la fronte.
Lui strinse le labbra. Le ombre violacee che aveva sotto gli occhi spiccavano sulla sua pelle chiara, ma, per una qualche ingiustizia divina, aveva uno strano fascino anche così. “Da quando in qua Adam ha fascino?”, pensai, sorpresa da me stessa.
«Di cosa dobbiamo parlare?» Chiese dopo qualche secondo di silenzio.
Mi passai una mano tra i capelli resistendo all'impulso di rispondergli con un acido commento sarcastico. «Di tante cose. Ma credo che prima sarebbe meglio mangiare qualcosa.»
«Beh, qui non c’è niente da mangiare.» Rispose lui stringendosi nelle spalle.
«Quindi tu non hai neanche cenato ieri?» Domandai voltandomi a guardarlo e sentendo la preoccupazione nella mia stessa voce.
Erano ore che non mangiava niente, e aveva passato tutta la notte di luna piena con me: rischiava di svenirmi davanti agli occhi da un momento all’altro.
Sembrò un po’ sorpreso dalla mia reazione. «Uhm… no.»
Sospirai alzando gli occhi al cielo. «Va bene, vuol dire che adesso andiamo a mangiare. Tutti e due. E non provare neanche a dire di no, chiaro?»
Spalancò gli occhi e mi studiò per qualche secondo. «Okay. Dove vuoi andare?»
“Mi odierò tanto”, mi dissi, “ma devo farlo”. Raddrizzai la schiena e ricambiai l’occhiata. «A casa mia.»

Si ricordava ancora l’indirizzo per fortuna: non credevo di essere in grado di spiegarli come arrivare a casa mia senza strozzarmi con le mie stesse parole.
Grazie al cielo non aveva fatto domande, né aveva protestato. E non si era neanche messo a ridere, eventualità che avevo messo in conto appena avevo aperto bocca. In effetti, la sua unica reazione visibile era stata un’espressione incredula, subito sostituita da una più neutrale che mi aveva fatto venire voglia di urlargli in faccia per farmi dire cosa pensava veramente.
Mi abbandonai contro il sedile del lato passeggero e sospirai pesantemente: come riuscivo a cacciarmi in situazioni del genere rimaneva un mistero persino per me.
«Tua madre non c’è?» Chiese Adam dopo un po’.
Scossi la testa, quasi grata a quella distrazione. «No, è via per lavoro. Di nuovo.»
«Se posso chiederlo… Che lavoro fa? Sembra che sia via spesso.» Replicò lui lanciandomi un’occhiata di sottecchi.
«Fa l’hostess, per questo viaggia spesso. In più arrotonda facendo da interprete per gli imprenditori o gli uomini d’affari che volano con la compagnia per cui lavora. Sai, ha studiato lingue per molti anni quindi se la cava.» Spiegai.
Annuì piano, come se fosse stato sovrappensiero. «Mm-mm.» Fermò l’auto davanti a casa mia e spense il motore. Trasse un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli. «Qualunque cosa tu debba dirmi… puoi farlo anche qui. Se non te la senti, intendo.»
Una parte di me trovò quelle attenzioni rassicuranti, quasi tenere, e fui tenta di dirgli che sì, portarlo in casa mia mi rendeva incredibilmente nervosa. Ma non potevo, anche perché altrimenti rischiava di avere un calo di zuccheri… Drizzai la schiena, sperando di mostrarmi risoluta. «No. È una cosa che devo… dobbiamo fare. E poi non voglio che tu svenga mentre guidi: se succedesse Beth non me lo perdonerebbe mai.»
Inarcò un sopracciglio. «Quindi mi stai invitando a casa tua per colazione solo per mantenerti buona la tua migliore amica? Beh, suona parecchio strano. A parte questo, solo perché ho saltato la cena ieri non vuol dire che avrò una qualche specie di crisi, okay? Stai esagerando un pochino.»
Alzai gli occhi al cielo e dovetti resistere all’impulso di dargli una gomitata nelle costole. «Andiamo. Sto morendo di fame.»
Non protestò, cosa che apprezzai. Si limitò a seguirmi fino all’ingresso, ad aspettare pazientemente mentre litigavo con la serratura e a lasciarmi entrare per prima.
Tossicchiai nervosamente, più per fingere di avere altro da fare che per vera necessità. «Non è un granché, lo so, ma è casa.»
Lui si guardava intorno in silenzio, in viso un’espressione neutra che non tradiva la benché minima emozione. Mi sembrava così fuori posto… Come se la sua presenza in casa mia fosse stata in qualche modo sbagliata. Beth tornò a farsi prepotentemente spazio tra i miei pensieri, ma la ricacciai indietro: su una cosa Adam aveva ragione, non potevo ricollegare tutto a lei, dovevo essere indipendente e fare le mie scelte. Anche quelle sbagliate che mettevano a rischio la mia intera vita e che comprendevano il suo ragazzo dannatamente insistente. 
Quando tornai a concentrarmi su Adam, lo trovai che osservava le foto che mia mamma aveva infilato nella cornice dello specchio posizionato sopra il cassettone nell’ingresso. In quel momento avrei voluto sparire, sprofondare sottoterra e rimanerci per sempre: quelle dannatissime foto risalivano ad anni prima, e non si poteva dire che fossi presentabile all’epoca.
Ce n’era una in cui abbracciavo il collo di un pony dopo aver fatto la mia prima lezione di equitazione a sette anni; un’altra dove una piccola Scarlett di due anni sorrideva tutta contenta in braccio alla migliore amica di mia mamma, Miranda; in un’altra ancora si vedeva mia madre che mi teneva tra le braccia pochi giorni dopo la mia nascita, e sorrideva con una tale gioia che la faceva sembrare pronta ad affrontare il mondo.
Mio padre, Miles, non compariva in nessuna foto. Anzi, si poteva benissimo dire che di lui non c’era assolutamente nessuna traccia in tutta la casa. Meglio così, lui non meritava neanche un briciolo dell’attenzione di mamma.
Non ci stavo prestando veramente attenzione, ma mi irrigidii lo stesso quando vidi Adam sorridere mentre continuava a guardare le foto, probabilmente in attesa che io facessi qualcosa in più oltre che starmene lì a sperare di fondermi con il muro. La cosa che mi sorprese di più, però, fu la dolcezza che riuscii a cogliere in quel breve sorriso che sembrava essere inconsapevole. “Oh per la miseria, qui sì che si mette male”, pensai innervosita.
Mi schiarii la gola facendolo voltare di scatto verso di me. Aveva un’espressione quasi colpevole in viso, come se l’avessi beccato a rubare o qualcosa del genere.
«Sto ancora morendo di fame, e questo vuol dire che voglio ancora mangiare. E la cucina non è qui.» Il mio tono acido sembrò strano persino a me.
Lui distolse lo sguardo, a disagio. «Uhm… Sì, andiamo…»
Feci un cenno d’assenso piuttosto rigido prima di voltarmi sperando che mi seguisse senza che dovessi dirglielo io. Lo condussi in cucina, una stanza piccola resa accogliente e luminosa dalla finestra che lasciava entrare la luce del sole per la maggior parte del giorno.
«Siediti pure.» Aggiunsi mentre mi allungavo per prendere due tazze dalla credenza.
In condizioni normali mi sarei accontentata di quella con la renna e il pinguino, ma c’era lui e quindi non era una grande idea. Alla fine presi le due più sobrie, ovvero quelle a tinta unita: una azzurra e una verde.
Sentii il rumore di una sedia che veniva spostata, segno che si era seduto. Accesi la macchinetta del caffè per poi voltarmi verso di lui: sembrava un bambino che aspetta la sfuriata della mamma arrabbiata per un brutto voto o per una finestra rotta.
Teneva le mani in grembo, la testa china, lo sguardo basso, le spalle curve… Dovetti mordermi la lingua per non dirgli di rilassarsi e stare tranquillo.
Gli misi davanti il solito piatto con i biscotti al cioccolato che costituivano la mia colazione da anni. Lui li osservò, sorpreso, ma non fece nient’altro. Aspettai qualche secondo, poi scrollai le spalle e ne presi uno: il modo di dire “avere una fame da lupi” non è nato per caso.
Preparai il caffè e lo versai nelle tazze prima di porgergliene una. La prese mormorando un grazie e per un attimo le nostre dita si sfiorarono. Cercai di non farci caso: in fondo era solo un contatto innocente.
Posai sul tavolo il barattolo dello zucchero e un paio di cucchiai e mi sedetti di fronte a lui, che sembrava ancora un po’ nervoso. E questo mi stupiva un po’: la notte prima non si era fatto problemi a imporsi e a tenermi testa; adesso sembrava un cucciolo impaurito.
«Guarda che non ti mangio mica.» Borbottai inzuppando un biscotto nel mio caffè. «Sarò anche per buona parte lupo, ma preferisco i dolci.»
Sollevò lo sguardo su di me, sorpreso. «Uh, sì. Cioè, lo so.»
«Allora smetti di fissare il tavolo.» Sbottai.
Si morse il labbro e prese la tazza con entrambe le mani. «È complicato, Scar.»
«Scar?» Ripetei spalancando gli occhi.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Niente, dimenticalo. Comunque, che dovevi dirmi?»
Quel cambio di argomento così repentino non mi convinceva, e quella specie di nomignolo mi sembrava ancora più strano, ma non mi andava di approfondire. «Quello che hai visto l’altra notte… cioè, ieri notte… stanotte… Insomma, hai capito. Quello che intendevo è che hai visto l’apoteosi del licantropo, okay? La parte più pericolosa del nostro essere. E non era una cosa che volevo farti conoscere.»
I suoi occhi blu erano fissi su di me: sembrava che una tempesta stesse infuriando in quelle iridi tanto particolari. «L’avevo intuito, sì. Quindi… che intendi fare?»
Diedi un morso ad un altro biscotto prima di rispondere. «Il mio primo istinto sarebbe quello di strozzarti e ricoprirti di insulti visto che ti sei messo in pericolo con le tue stesse mani e hai approfittato della mia mancanza di controllo.» Sollevai una mano, intuendo che stava per ribattere. «Ma non lo farò. O meglio, non ti strozzerò, però niente mi vieta di insultarti.»
Scosse la testa e mi sembrò di vedere un accenno di sorriso sulle sue labbra. «Beh, è una buona notizia. Credo. Volevi dirmi solo questo?»
«No. Volevo anche farti giurare che non proverai mai e poi mai a rifare una cosa del genere.» Ribattei prima di prendere un sorso di caffè.
«Allora temo che tu abbia solo sprecato fiato.» Mormorò lui abbassando lo sguardo.
Ci mancò tanto così che soffocassi e mi rovesciassi addosso il caffè. «Eh?!»
«Andiamo, credi sul serio che adesso io possa dimenticare? Già prima era impossibile, ora è semplicemente improponibile.» Tornò a guardarmi negli occhi. «Non lo farò, sappilo.»
Tossii e posai la tazza sul tavolo un tantino troppo forte. «Ascoltami bene: questa cosa non ti riguarda. Proprio per niente. E solo perché ti sei ritrovato in mezzo ieri notte non vuol dire che adesso hai l’autorizzazione a prendere parte alla mia vita. Questa situazione è già complicata di suo, ci manca solo che tu ci metta del tuo.»
«Allora dovevi pensarci prima di venire da me, sai?» Replicò sfidandomi apertamente.
Una sensazione di calore che conoscevo fin troppo bene cominciò a farsi strada nel mio petto: rabbia. «Non sono venuta da te! Mi ci sono ritrovata. Stavo già perdendo il controllo e non ero molto lucida, è solo per questo. In condizioni normali non sarebbe mai successo.»
«Già, dev’essere stata proprio una coincidenza.» Il suo tono trasudava sarcasmo. «Che ti piaccia o no, questa cosa coinvolge tutti e due.»
Per un attimo trovai il tempo di considerare il termine “questa cosa” incredibilmente diminutivo e quasi buffo: quelle due parole avevano il compito di racchiudere la mia licantropia, la sua testardaggine e anche tutte le cose che aveva visto e saputo e che sarebbe stato meglio mantenere segrete.
«No, non mi piace per niente il fatto che tu sia coinvolto. E sì, che tu ci creda o meno è stata una coincidenza.» Ringhiai. «E come credi di essere coinvolto, scusa? Solo perché mi hai visto perdere il controllo non vuol dire che tu adesso…»
«Perché mi importa di te, dannazione!» Sbottò e fu come se il blu dei suoi occhi si infiammasse.
Mi bloccai, incapace di formare una pensiero coerente. Aprii la bocca con l’intenzione di dire qualcosa, ma l’unica cosa che uscì fu un mugolio strozzato: che diavolo stava succedendo? Gli importava di me? Ma che senso aveva?
«Cosa?» Riuscii a chiedere dopo diversi minuti di silenzio passati a reggere il suo sguardo diventato improvvisamente duro.
«Scordati che lo ripeta.» Borbottò. «E poi, hai capito.»
Mi presi la testa tra le mani rischiando di infilare un gomito nel caffè. «Ma non doveva andare così…»
«E come doveva andare allora? Tu schioccavi le dita e io magicamente mi dimenticavo di te?» Domandò lui, la rabbia che traspariva benissimo dalla sua voce. «Non funziona così.»
Non trovai niente da dire e qualcosa mi diceva che non c’era nulla che potessi dire che avrebbe funzionato sul serio: aveva ragione su tutti i fronti, ero io quella che aveva sbagliato permettendogli di conoscermi fino a quel punto. Mi ero illusa di avere tutto sotto controllo, di sapergli tenere testa, invece era stato un disastro fin dall’inizio. Ed era cominciato tutto per colpa mia visto che ero stata io ad andare da lui per parlargli credendo che bastasse rispondere ad un paio di domande per porre fine alla questione.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi: aveva la mascella contratta, le spalle rigide, lo sguardo fisso su qualcosa alla sua destra. Non aveva neanche toccato il caffè e questo un pochino mi preoccupava: era passato fin troppo tempo da quando aveva mangiato l’ultima volta.
Mi schiarii la gola per cercare di dare alla mia voce un tono accettabile che non facesse trasparire il tumulto di emozioni nel mio petto. «Dovresti… ecco, dovresti mangiare qualcosina…»
«Non cambiare discorso.» Ringhiò senza neanche girarsi a guardarmi.
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Non sto cambiando discorso, okay? Sono sinceramente preoccupata per te. Sono ore che non mangi.»
«Ora capisci cosa intendo? Anch’io mi preoccupo per te.» Trasse un respiro profondo e mi sembrò che un po’ della sua tensione si sciogliesse. «Non possiamo farcene una colpa, non ha senso. Capita che le persone tengano ad altre persone anche se non dovrebbero, anche se sanno che ci sono molte probabilità di farsi male.»
Giocherellai con un biscotto mentre assimilavo le sue parole, tanto vere quanto pericolose. E portatrici di guai. «Adesso che succede? Voglio dire…»
«C’è Elisabeth nel mezzo, sì, lo so. Quindi non succede niente. Puoi stare tranquilla.» Si alzò stando attendo ad evitare di incrociare il mio sguardo. «Ci vediamo la prossima settimana per le ripetizioni.»
“Cosa?!”, pensai confusa e allarmata, “se ne va?”. Feci per dire qualcosa, ma non riuscivo a trovare le parole. E prima che potessi anche solo provare a fermarlo, lui se n’era già andato.
Sentii la porta dell’ingresso chiudersi con un tonfo carico di rabbia repressa e frustrazione. Mi ritrovai da sola, disorientata, sgomenta e con un caffè a metà e uno completamente intatto.

Non ero mai stata un’amante della solitudine anche se mi illudevo del contrario visto che per la maggior parte del tempo ero sola. Non ne facevo una colpa a nessuno, non ne avevo il diritto, ma c’erano delle situazioni in cui mi avrebbe fatto molto piacere avere un po’ di compagnia. Qualunque compagnia. In quel momento anche Cindy la Finta Bionda mi sarebbe andata bene: le sue infinite tiritere su vestiti e tacchi sarebbero state una piacevole distrazione da quel casino che era la mia vita.
«Uh, mi sembro un’adolescente depressa.» Borbottai coprendomi gli occhi con le mani.
Ed era tutta colpa… mia. Avrei voluto poter dire che era stato Adam a rendere tutto complicato, ma sapevo benissimo che ero stata io a combinare un guaio dietro l’altro. Certo, lui non aveva contribuito a facilitarmi le cose. Anzi, tutto il contrario, però sapevo che era comunque partito tutto da me.
Mi girai sulla pancia e affondai il viso nel cuscino del mio letto con un gemito frustrato. Com’era possibile che una sola persona riuscisse a mettersi contro chiunque solo aprendo bocca? Mi illudevo pure di avere le migliori intenzioni del mondo quando, alla fine, tutto quello che volevo era starmene nascosta nell'ombra, al sicuro dai cambiamenti e dalle altre persone. 
Il mio cellulare scelse proprio quel momento per mettersi a squillare insistentemente. Imprecai mentalmente mentre allungavo un braccio alla cieca per prenderlo. Sbattei contro il comodino, che ricevette un paio di insulti contro sua madre -casomai ne avesse una-, prima di riuscire a prendere il telefono.
Premetti il tasto verde e me lo portai all’orecchio. «Pronto?»
Mi ricordai solo dopo aver parlato che il cuscino attutiva la mia voce.
«Scarlett!» La voce squillante di Beth mi fece quasi venire il mal di testa. «Sei raffreddata per caso? Ti sento strana.»
“Ma no, ho solo litigato con il tuo ragazzo e adesso ci sto peggio di quanto non dovrei”, pensai lasciandomi sfuggire una smorfia. A quel punto, anche un’influenza sarebbe stata gradita: almeno avrei avuto un motivo per stare male che non mi avrebbe messo nei guai con la mia migliore amica. Peccato che le miracolose doti di guarigione fornite dalla licantropia mi impedissero di ammalarmi.
Mi girai sulla schiena prima di rispondere: «No, no, sto bene.» Mi schiarii la gola. «Allora, come mai mi hai chiamata?»
«Ho bisogno di un vestito nuovo.» Dichiarò con lo stesso tono con cui si annunciano cose importanti.
«Un altro? Ma se hai l’armadio pieno!» Esclamai.
«Questa volta è diverso, ho bisogno di qualcosa di spettacolare e anche un po’ sexy.» Insistette lei.
«Vuoi chiedere ai tuoi di comprarti un’auto?» Tentai infilandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«No, quella me l’hanno promessa per il diciottesimo. Voglio stupire Adam.» Replicò tutta contenta.
«Oh… Beh, forte. Ma perché? Pensavo che tra voi fosse tutto okay. O no?» Domandai sperando che non intuisse quanto mi mettesse a disagio.
«Ecco, in realtà non proprio. Voglio dire, è come se ci fossimo un po’ allontanati, lui è più freddo con me e anche io lo sono. Non so di preciso perché, ma so che voglio far tornare le cose come prima.» Spiegò. «Ci tengo sul serio a lui.»
Perché mi importa di te, dannazione! Trasalii silenziosamente quando quelle parole mi tornarono alla mente. «Oh, ehm, immagino. E ti serve una consulenza in fatto di shopping?»
«Sarebbe molto gradita, sì. Allora, ci stai?» Chiese.
Sembrava così speranzosa, così ben intenzionata… Come potevo dirle di no e spezzarle il cuore? Ma, nello stesso tempo, come potevo mentirle riguardo il suo ragazzo proprio mentre lei cercava di rimettere in sesto la sua relazione con lui?
«Sì, certo, che domande. Solo… mi serve un’ora per fare una doccia, okay?» Risposi maledicendomi mentalmente.
«Naturalmente. Ci vediamo tra un’ora al solito posto.» Ribatté. «E grazie, sul serio. Sei l’amica migliore che potessi desiderare.»
Chiusi gli occhi sperando di riuscire a non far tremare la voce. «Figurati. Per te questo ed altro.»
Riattaccai prima di poter compromettere tutto e appoggiai di nuovo il telefono sul comodino. Mi sentivo malissimo, come se fossi stata una spia che fa il doppio gioco tra due paesi e non sa a chi essere leale.
Ero divisa tra la mia migliore amica, l'unica persona al mondo che riusciva a portare un po' di normalità nella mia vita, e il suo ragazzo, tanto insistente quanto magnetico che sembrava nato per complicarmi l'esistenza. Mi sentivo una traditrice, una della peggior specie.



SPAZIO AUTRICE: Ciao :3
Comincio col dire che non sono per niente soddisfatta di questo capitolo -che novità, eh?- e non so neanche perché, forse perché mi sembra vuoto. In questo periodo, infatti, non sono più contenta di ciò che scrivo e sono più autocritica del solito. Ma vaabbé, speriamo passi presto.
Che ne pensate del confronto tra Adam e Scarlett? Sono, finalmente direi, stati sinceri l'uno con l'altra e questo ha scatenato in Scarlett molti sensi di colpa.
Come pensate che andrà tra Adam e Beth? La loro storia continuerà o si lasceranno? Vi anticipo che nel prossimo capitolo saprete cosa ha deciso di fare Michael. A proposito, mi fa tantissimo piacere sapere che vi siete affezionati a lui *-*
Volevo anche ringraziarvi perché continuate a seguire la storia, siete meravigliosi!

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 20
*** 20. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 20




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20. Adam

«Sul serio! È così carino! Io ero tremendamente impacciato, sì, insomma, era la mia prima uscita con un ragazzo quindi… Ma Caleb è stato davvero gentile…» Mentre parlava, Michael gesticolava animatamente e sembrava al settimo cielo.
Non faceva altro che sorridere e guardava il vuoto con un’espressione quasi da ebete.
«Mm-mm.» Mormorai distrattamente.
Un po’ mi dispiaceva, ma avevo smesso di ascoltarlo da un bel pezzo. Ero felice per lui, questo sì, però stava andando avanti da quella che mi sembrava un’eternità e io cominciavo a non poterne più.
Subito dopo le lezioni eravamo andati alla caffetteria dietro la scuola perché lui aveva delle “novità importanti” che non vedeva l’ora di raccontare. Dopo la rottura con Julia aveva deciso di buttarsi e provare com’era uscire con un ragazzo. Il prescelto era un certo Caleb che faceva chimica con noi. Lui e Michael erano usciti il giorno prima e sembrava fosse andata bene.
Il mio migliore amico mi diede un colpetto al braccio. «E non ti ho detto la parte migliore!»
Sbattei le palpebre, riscuotendomi dai miei pensieri, e lo guardai. «E cioè?»
Un sorriso gli illuminò il viso. «Ci siamo baciati.»
«Davvero? Al primo appuntamento?» Chiesi. «Sono felice per te, ma… non state correndo un po’ troppo? È la tua prima storia con un ragazzo.»
Lui fece un gesto vago con la mano. «Ehi, non è questo il punto. Il punto è che mi è piaciuto, okay? Mi è piaciuto sul serio.»
Sentii un sorriso incerto farsi strada sul mio viso. «È un’ottima notizia, davvero. Mi fa piacere che tu ti sia chiarito le idee.»
«Già… Io credo di essere un pochino innamorato, sai?» Scosse la testa, come per tornare serio. «E lui si è anche offerto di aiutarmi con chimica, non è fantastico? Così tu puoi concentrarti solo su… com’è che si chiama? Sasha? Sheila? Samantha?»
Distolsi lo sguardo serrando la mascella. «Scarlett.»
«Ah sì, giusto. Come vanno le cose con lei? È una brava allieva?» Domandò.
Scrollai le spalle sperando che capisse che non volevo parlarne. «Abbastanza.»
Allargò le braccia. «Abbastanza? Tutto qui? Portare avanti una conversazione con te è un’impresa! La metà del tempo non mi ascolti, l’altra metà rispondi a monosillabi: non hai idea di quanto sia frustrante.»
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Scusa, è solo che… Non mi va di parlare di lei.»
«Perché no? Cioè… sono solo ripetizioni. O c’è dell’altro?» Chiese socchiudendo gli occhi.
«No, niente di importante, è solo che… Non è una persona con cui mi trovo bene.» Risposi prendendo con entrambe le mani il mio bicchiere di caffè.
«Allora smettila di darle ripetizioni, no?» Mi fece notare lui stringendosi nelle spalle. «Se devi starci male…»
«Non ci sto male.» Lo interruppi. «Non mi piace e basta.»
Alzò le mani in segno di resa. «Okay, okay. Diciamo che è un argomento tabù.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Più o meno, sì. Grazie per averlo capito.»
«Figurati. Insomma, siamo migliori amici, no?» Replicò lui con un sorrisetto ammiccante. «Con Elisabeth invece? Il fuoco della passione brucia ancora?»
«In realtà credo che stia cominciando a spengersi.» Ammisi.
Fece una smorfia. «Uh, mi dispiace. Ma come mai?»
Mi mordicchiai il labbro. «Lei è bella, esuberante, piena di risorse, però…»
«Non fa per te, dico bene?» Indovinò lui.
«Non lo so neanche io, Michael, so solo che abbiamo esaurito gli argomenti in comune in un certo senso. Siamo usciti l’altra sera e… è stato tutto un silenzio imbarazzante in pratica.» Replicai.
Mi mise una mano sul braccio. «Ehi, evidentemente era destino che non durasse. Non disperare perché è finita, gioisci perché c’è stata.»
Aggrottai la fronte. «Cosa?»
«È una frase che ho sentito da qualche parte.» Scrollò le spalle. «Mi sembrava adatta alla situazione.»
«Senti, non è ancora finita. Elisabeth è davvero fantastica, magari è solo una cosa temporanea.» Ribattei anche se sapevo benissimo che non aveva senso attaccarsi a quella relazione tutt’altro che sincera, almeno da parte mia.
Sembrava scettico, ed aveva ottimi motivi per esserlo. «Uhm. Stai cercando di convincere me o te stesso?»
«Non devo convincere nessuno.» Dichiarai.
Inarcò un sopracciglio. «No, certo. Devi solo capire se ne vale la pena.»
Mio malgrado, esitai. Il mio lato orgoglioso voleva dire che sì, ne valeva eccome la pena, perché Elisabeth era bella, attraente e che no, non avevo preso un abbaglio mettendomi con lei. Ma la parte razionale sosteneva tutto il contrario: non c’era niente che mi legasse davvero ad Elisabeth.
«Senti, lo so che è difficile ammettere di aver sbagliato, ma se non va non va. È inutile forzare la mano.» Aggiunse Michael in tono cauto. «Insomma, vuoi davvero fingere con lei?»
«No. Ma non voglio neanche farle male.» Ammisi.
Lui annuì. «Già, immagino… Senti, vedila come se avessi a che fare con un cerotto, okay? Se lo togli piano piano e temporeggi farà male più a lungo, ma se dai uno strappo deciso, il dolore sarà molto più breve.»
Mi morsi il labbro, colpito dalla verità delle sue parole. «Sai, dovresti tirare fuori questi consigli esistenziali più spesso.»
Michael sorrise, divertito e compiaciuto. «Lo so, sono un filosofo mancato. E comunque, tu dovresti ascoltarmi più spesso.»
«D’accordo, cercherò di ricordarmelo.» Scherzai.
Lui sollevò il mento. «Bada a come parli, Meyers.»
Alzai gli occhi al cielo sorridendo appena, ma fu una calma molto breve. Mio malgrado, Elisabeth occupava buona parte dei miei pensieri.
Odiavo anche solo l’idea di farla star male, però continuare a trascinare una relazione che ormai aveva perso ogni significato mi sembrava ancora più meschino. Avrei dovuto seguire il consiglio di Michael, uno strappo deciso e via, tutto si sarebbe risolto. O almeno era quello che mi auguravo.

Il suo sorriso entusiasta mi rendeva tremendamente codardo. Ed era una cosa che non sopportavo. Era solo una ragazza, giusto? Una bella ragazza molto determinata nonché ultimo collegamento che mi era rimasto con Scarlett, ma pur sempre una ragazza.
Avevo temporeggiato per tutto l’appuntamento anche se il piano iniziale era quello di farla finita subito. Invece avevamo camminato per ore sul molo, avevamo parlato e scherzato insieme come se niente fosse. Ed io stavo cominciando ad odiarmi per quella mancanza di coraggio.
Sospirai e la guardai di sottecchi: era impegnata ad osservare la vetrina di un negozio, i lunghi capelli scuri lasciati sciolti sulle spalle, il cappotto rosso scuro che le calzava a pennello sul corpo slanciato.
Quando tornò a voltarsi verso di me, non feci in tempo a cancellare l’espressione combattuta dal mio viso. Elisabeth corrugò la fronte inclinando la testa di lato.
«Va tutto bene?» Chiese con voce gentile.
Distolsi lo sguardo e mi ritrovai a guardare le nostre mani intrecciate. «Ecco, in realtà c’è una cosa che dovrei dirti. Solo che… non è molto piacevole.»
Scrollò delicatamente le spalle. «Okay, dimmi pure.»
Mi morsi il labbro con forza. «Ci ho pensato molto in questi giorni e… Quello che voglio dire è che ho riflettuto su di noi e penso che, arrivati a questo punto…»
«Dovremmo lasciarci?» Indovinò lei, l’espressione di colpo dura e impassibile. Le sue labbra, colorate di un rosso sfumato di viola, si arricciarono appena in una smorfia.
Buttai fuori l’aria lentamente. «Sì. Non voglio mentirti, quindi sì, penso che sia la cosa migliore ora come ora.»
Elisabeth sfilò la mano dalla mia annuendo appena, la postura rigida e lo sguardo sfuggevole. «Capisco.» Si schiarì la gola. «Apprezzo la tua sincerità, comunque.»
«Mi dispiace che sia andata così, davvero. Tu… non lo meritavi.» Mormorai sentendomi tremendamente in colpa, come se le avessi mentito. E, in un certo senso, l’avevo fatto: tutti i miei trascorsi con Scarlett, tutte le nostre discussioni e quella notte di luna piena passata insieme… Elisabeth non ne sapeva assolutamente niente.
«No, va bene. Voglio dire, non va bene, perché stiamo rompendo, ho avuto relazioni che sono terminate in modi molto peggiori quindi…» Replicò lei lasciando la frase in sospeso.
Per un secondo riuscì ad incrociare il suo sguardo. E a notare che aveva gli occhi lucidi. Maledissi mentalmente me stesso e la mia codardia, ma soprattutto quella malsana idea che mi era presa di conoscere Scarlett.
Perché era stato quello a spingermi ad iniziare quella relazione basata solo ed esclusivamente su un mio interesse personale e su un po’ d’attrazione fisica. Non c’era stato niente di più, ma solo adesso mi rendevo conto dell’errore che avevo commesso.

La mattina dopo convincermi che dovevo andare a scuola fu una vera impresa. Soprattutto perché sapevo che avrei sicuramente incrociato Elisabeth dal momento che faceva lezione nella classe accanto alla mia.
Era stato giusto, almeno in parte, essere sincero con lei e lasciarla, però questo non toglieva il fatto che l’avevo fatta soffrire e l’avevo illusa. Di solito non ero così, non usavo le persone, ma questa volta c’era stato qualcosa di diverso. Questa volta c’era stata Scarlett.
Mi bloccai di colpo ritrovandomi a trattenere il fiato quando incrociai lo sguardo di Elisabeth. Era in corridoio a pochi metri da me, ma, non appena si accorse della mia presenza, si affrettò a voltarsi e ad andarsene nella direzione opposta.
Mi passai una mano tra i capelli sospirando pesantemente. Essere onesto era servito fino ad un certo punto: anche se adesso avevo smesso di fingere con Elisabeth, l’avevo fatta stare male comunque, e non riuscivo a perdonarmelo.
«Che è successo?» Chiese una voce familiare.
Mi voltai di scatto e mi trovai accanto Scarlett che mi guardava con i suoi occhi da cerbiatto, quegli stessi occhi che si erano infiammati d’oro solo qualche giorno prima. Indossava un maglione rosso scuro un po’ troppo grande per lei, dei jeans con uno strappo sulle ginocchia e degli anfibi neri consumati. I capelli le ricadevano morbidi sulle spalle e sulla schiena e le incorniciavano il viso. Dovetti resistere all’impulso di spostare una ciocca che le ricadeva sugli occhi.
«Dovresti chiederlo a lei.» Risposi indurendo la voce.
Sembrò sorpresa. «Ma stava guardando te… Insomma, lo sai cos’è successo, no?»
«Sì.» Confermai. «Però, da quello che mi risulta, io e te non dovremmo parlarci.»
Schiuse le labbra, incredula. «È per quello che è successo l’altro giorno? Non intendevo dire che non possiamo parlarci, ho solo detto che non volevo che tu fossi coinvolto in… tu-sai-cosa.»
«In realtà sono abbastanza sicuro che tu me l’abbia imposto.» Ribattei. «Volevi farmi giurare che non mi sarei più messo in mezzo.»
«L’ho fatto per te: è pericolo e non volevo che ti facessi male.» Insistette.
«O forse l’hai fatto per Elisabeth.» Replicai.
Fece per dire qualcosa, ma poi serrò le labbra in una linea sottile e chinò la testa: a quanto pareva, avevo indovinato.
«Già.» Mormorai. «Come pensavo. Beh, io adesso devo andare quindi…»
Sollevò lo sguardo su di me e per un secondo mi sembrò un cucciolo bisognoso d’aiuto. «Io non… Non era così che…»
«Non era così che doveva andare? Sì, me l’hai già detto e io ho già espresso la mia opinione a riguardo.» Risposi.
Si morse il labbro tornando a guardare il pavimento. «Mi dispiace… So di aver sbagliato e tutto il resto…»
«È tardi per le scuse, non credi?» Domandai. «La mattina dopo il plenilunio mi hai ringraziato per averti aiutato, ma poi non ti sei fatta problemi a dirmi che stavo complicando tutto.»
Si passò una mano tra i capelli e notai che stava tremando. «È una situazione nuova per me, okay? Non ho mai dovuto gestire i rapporti con qualcuno che sapeva veramente cosa sono quindi non so come comportarmi. Vorrei tenerti fuori da tutto questo, ma so anche che non mi darai retta.»
«Credo di sì, invece. Non voglio più avere niente a che fare con il soprannaturale.» Dichiarai dandomi mentalmente del bugiardo.
Spalancò gli occhi, più sorpresa di prima. «Cosa? Come mai hai cambiato idea così in fretta?»
«Non importa. E poi a te non va meglio così? Adesso hai una preoccupazione in meno.» Commentai.
«Sì, ma…» Le si incrinò la voce e fu la prima volta che la vidi veramente in difficoltà. «Tu hai sempre voluto…»
Lo squillo del suo cellulare la interruppe. Lo prese dalla tasca dei jeans e se lo portò all’orecchio. «Pronto?» Ascoltò la risposta e annuì. «Sì, arrivo.» Chiuse la chiamata e rimise il telefono al suo posto prima di alzare gli occhi su di me. «Domani… Le ripetizioni…»
«Passo a prenderti io.» Tagliai corto.
«Okay.» Il suo fu un sussurro appena udibile.
Si voltò e si allontanò velocemente. Rimasi a guardarla per qualche secondo mentre cercavo di dare un nome all’emozione che avevo provato rivedendola lì accanto a me, così piccola eppure forte. Così vicina dopo tanto tempo che aveva passato lontana.

«…a questo punto devi moltiplicare l’indice del radicale per l’indice dell’altro e poi razionalizzi il denominatore…» Spiegai indicando i passaggi sul suo quaderno.
Scarlett lo guardava con la solita espressione imbronciata che riservava alla matematica. Non sembrava particolarmente entusiasta di imparare come risolvere le equazioni di secondo grado con i radicali. E non potevo biasimarla.
Erano passate tre settimane dalla luna piena e i rapporti tra me e lei erano ancora tesi. Buona parte era per colpa mia: ero scattato subito sulla difensiva senza darle il tempo di spiegarsi e così facendo avevo compromesso anche quel minuscolo barlume di equilibrio che sembrava essersi creato tra noi.
C’era da dire che anche lei aveva fatto la sua parte chiudendosi dietro un muro di rabbia testarda e a rispondendo usando solo monosillabi, cosa che mi fece capire come si sentiva Michael quando ero io a farlo.
Mi ero comunque imposto di non farci caso e di continuare a spiegarle gli argomenti di matematica via via che la sua professoressa li introduceva. Era riuscita a rimettersi in pari col programma anche se c’erano ancora alcune cose da sistemare, ma eravamo già ad un buon punto.
Finii di spiegare l’ultimo passaggio dell’equazione prima di aprire il libro per cercare qualche esercizio da farle fare. Sussultai quando me lo sfilò da sotto gli occhi e lo chiuse con un tonfo: fino a quel momento se n’era stata seduta a braccia incrociate e con aria corrucciata, non mi aspettavo un movimento così veloce ed improvviso.
La guardai in cerca di spiegazioni e lei mi restituì lo sguardo alzando il mento in segno di sfida.
«Questa situazione mi ha stancata.» Dichiarò.
«Beh, abbiamo cominciato solo da venti minuti e dobbiamo ancora ripassare le proprietà…» Cominciai facendo un cenno verso il quaderno.
 «Non intendevo quello!» Mi interruppe. «Mi riferivo a tutto questo silenzio e al fatto che a scuola neanche ci salutiamo e a questo essere arrabbiati l’uno con l’altra come se io ti avessi ammazzato il gatto.»
«Non ho un gatto.» Risposi senza pensare a quello che dicevo.
«Non importa! Era un modo di dire.» Esclamò.
Mi passai una mano tra i capelli. «D’accordo, allora che proponi di fare? Io uccido il tuo, di gatto?»
Trasse un respiro profondo. «Facciamo pace.»
Rimasi senza parole per un attimo, stupito. Voleva fare pace? Sollevai lo sguardo su di lei e incrociai i suoi occhi da cerbiatto che mi studiavano. Sembravano sinceri ed esprimevano una certa impazienza.
«Sul serio?» Chiesi.
Si strinse le braccia al petto. «Sì. Non mi piace tutta questa tensione. Mi mette a disagio. E forse non avrei dovuto prendermela con te dopo il plenilunio.»
«Neanche a me piace questo non parlarsi: è infantile.» Concordai.
Lei annuì prima di guardarmi con aria critica. «Comunque, me ne sono accorta che hai smesso di chiedermi i soldi. Per le lezioni, intendo. Non sei bravo a tenere il muso alla gente.»
Sentii un sorriso spontaneo farsi strada sul mio viso. «È perché non ci stavo provando seriamente.»
«Oh, sì, certo. Come no.» Scosse la testa. «Lo sai che non ti credo.» E sorrise.
«Fai bene.» Convenni prima di tenderle la mano. «Pace?»
«Mi sento come una bambina di cinque anni, ma sì, pace.» Replicò prima di stringerla.
La sua pelle era calda e morbida. All’indice aveva un piccolo anello argentato con un minuscolo cristallo incastonato. Lo osservai prima di sfiorarlo, sovrappensiero.
«E questo? Non te l’avevo mai visto prima…» Mormorai.
«È di mia madre. L’avevo perso qualche mese fa, ma poi l’ho ritrovato.» Spiegò. «Me lo diede lei un anno fa, più o meno, per ricordarmi che ci sarebbe sempre stata per me, anche se è lontana.»
Sollevai lo sguardo su di lei e incrociai quei suoi occhi da cerbiatto che, per la loro dolcezza apparente, stridevano con la forza del lupo che avevo intravisto in lei.
«Ho rotto con Elisabeth.» Aggiunsi a bassa voce.
Lei annuì. «Lo so, me ne ha parlato. Non ce l’ha con te, non troppo almeno, se è questo che ti preoccupa.»
«Beh, è una buona notizia, credo.» Sussurrai prima di lasciarle la mano. «Tu stai ancora con James?»
«Per il momento sì. Mi ci trovo bene.» Rispose.
«Bene, mi fa piacere. Almeno uno di noi due ha una relazione solida.» Replicai passandomi una mano tra i capelli.
Lei rise piano. «Eh già. Ma non so quanto durerà.»
«Perché? Se state bene insieme non c’è motivo per cui non dovrebbe funzionare, no?» Domandai.
Si morse il labbro distogliendo lo sguardo. «Beh, no, hai ragione. Però lui vuole farmi conoscere i suoi amici e non è che mi vado molto. Insomma… sarà imbarazzante.»
«Forse un po’ sì. Ma saprai cavartela.» La rassicurai.
Mi fece un sorriso timido. «Grazie. Per questo e perché non mi hai mollata in mezzo a questo mare di numeri strani anche se ti ho fatto arrabbiare.»
«Non lo farei mai: mi sono preso un impegno e voglio portarlo a termine.» Dichiarai. «E anch’io devo ringraziarti. Sei stata tu a proporre di fare pace: se fosse dipeso da me ci staremmo ancora odiando in silenzio.»
«Si sa che le donne sono più mature.» Commentò inclinando la testa di lato.
«Le donne, non i lupi mannari.» La stuzzicai.
Mi fece una smorfia. «Quanto sei simpatico, mi stupisco che Beth abbia rinunciato a te.»
«Forse aveva intuito che eri pazzamente innamorata di me e si è fatta indietro.» Commentai.
«Sì, certo. Credici se aiuta la tua scarsa autostima.» Mi rimbeccò con un sorrisetto divertito. «Possiamo smettere di fare questo?» Chiese indicando il libro di matematica con evidente disgusto.
«Abbiamo appena iniziato.» Le feci notare senza riuscire a trattenere un sorriso.
Si strinse nelle spalle. «E io mi sono già stancata.»
«Che vorresti fare allora?» Domandai appoggiando i gomiti sul tavolo.
«Qualcos’altro.» Rispose semplicemente. «Perché non andiamo fuori? Ho voglia di prendere un po’ d’aria.»
Mi morsi il labbro mentre valutavo la sua idea: avrei dovuto insistere perché continuassimo a ripassare le regole che le riuscivano meno, ma sapevo che non si sarebbe concentrata neanche un po’ se le avessi detto che dovevamo continuare a fare esercizi. Probabilmente avrebbe passato il resto dell’ora a sbuffare teatralmente e a lamentarsi di quanto fossero inutili i radicali.
«D’accordo.» Mi arresi. «Anche perché altrimenti saremmo tornati all’odio silenzioso di prima.»
Fece un gesto vago con la mano, come ad allontanare la possibilità che succedesse una cosa simile. «Macché. Io sono più matura di così.»
Scossi la testa cercando di non sorridere. «Certo…»
Lei si alzò e si voltò facendomi cenno di seguirla. «Andiamo, su.»
Senza aspettarmi, si incamminò verso la porta e uscì, perfettamente a suo agio, come se fosse stata a casa sua. La raggiunsi sul portico, dove si era seduta su uno dei gradini. Presi posto accanto a lei che mi lanciò un’occhiata di sottecchi. Non ci avevo fatto molto caso prima visto che ero troppo impegnato a tenerle il muso, ma stava bene vestita in quel modo: cardigan verde scuro, jeans neri e una camicia a quadri blu.
«Sono felice che ci siamo riappacificati.» Ammise a bassa voce. «Ci ho pensato molto in questi giorni e ho capito perché mi comportavo in modo così… duro con te. Avevo paura del fatto che mi rassicurasse avere qualcuno che sapeva cosa sono e che lo aveva accettato. Sì, lo so che sembra un paradosso, ma è… la verità.»
«Immagino che non sia facile per te. Dopo anni passati a fingere e a mentire, dev’essere stato un grosso cambiamento per te ritrovarti a dover affrontare qualcuno che conosceva il tuo segreto.» Risposi.
«Già… Ma, in fondo, sono felice che quel qualcuno sia tu. Mi sarebbe potuto capitare uno fissato col soprannaturale che mi avrebbe riempita di domande, o un isterico che avrebbe dato di matto.» Commentò lei stringendosi le braccia al petto.
«Beh, è bello sapere che mi preferisci a dei pazzi.» Replicai strappandole un sorriso.
Mi rifilò una gomitata nelle costole. «Guarda che sono seria. Insomma, anche se a volte mi fai impazzire, sei razionale quando serve e riesci a tenermi testa.»
«Non riesco a credere che mi stai facendo un complimento, non dopo che abbiamo litigato un sacco di volte proprio perché volevo aiutarti.» Commentai.
«Non è proprio un complimento.» Chiarì lei aggrottando la fronte. «Più che altro ti sto riconoscendo un merito.»
Alzai le mani in segno di resa. «Okay, mettiamola come vuoi tu.»
Sembrò soddisfatta della mia risposta. «Bene. E credo di doverti ringraziare per quello che hai fatto la notte di plenilunio: se non ci fossi stato tu mi sarei dovuta togliere un sacco di schegge dalle mani.»
La guardai, confuso. «Che intendi?»
Spostò lo sguardo sugli alberi davanti a noi. «Ecco, quando c’è la luna piena io me ne vado nel bosco, così posso… sfogarmi senza fare male a nessuno. A parte gli alberi: spesso sono loro le mie malcapitate vittime. Sai, il legno è morbido e gli artigli ci affondano bene…»
«Come i gatti con i tira-graffi.» Mormorai.
«La smetti di paragonarmi ad un gatto?» Esclamò lei voltandosi verso di me.
Mi morsi il labbro per nascondere un sorriso. «Scusa, è la prima cosa che mi è venuta in mente.»
Scosse la testa alzando gli occhi al cielo. «Forse ti ho giudicato troppo in fretta, forse anche tu sei un po’ fuori di testa.»
«Beh, ho passato la notte di luna piena con te quindi un po’ di pazzia devo averla.» Convenni.
«E io te l’ho lasciato fare. Questo ci porta alla conclusione che siamo pazzi tutti e due.» Aggiunse lei giocherellando con il bordo del cardigan.
Mi lasciai sfuggire una risata. «Poteva andarci molto peggio, sai? In tutti i sensi.»
Annuì sorridendo quasi timidamente. «Eh già. In fondo, forse mi fa davvero piacere che ci sia tu a darmi ripetizioni, a scherzare sulla licantropia, a incasinarmi la vita.»
La guardai, sorpreso da quella rivelazione. Lei sembrò in imbarazzo e distolse subito lo sguardo: forse pensava di aver detto troppo, di essersi esposta e di non poter tornare indietro. Strinsi le labbra cercando qualcosa da dire, qualcosa che la rassicurasse.
«Ehi.» Mormorai. «Apprezzo quello che hai detto. Non so quanto possa importare, ma anche a me fa piacere che tu sia… ehm… il primo lupo mannaro che conosco.»
Rise piano appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Oddio… Lo sai che non ha senso, vero?»
Mi passai una mano tra i capelli. «Sì. Ma spero tu abbia capito cosa intendevo.»
Si voltò verso di me e i suoi ardenti occhi da cerbiatto incontrarono i miei. «Ho capito, credo. E ho realizzato che ora che non stai più con Beth non ti vedo più come una minaccia, non ti considero più qualcuno da evitare.» Mi tese la mano, per metà coperta dalla manica del cardigan. «Ti va di dimenticare tutte le minacce, il mio essere acida e ipocrita, e provare a ricominciare da capo?»
Sorrisi senza neanche rendermene conto e le strinsi la mano per la seconda volta quel giorno. «Sì, direi che è una buon’idea. E spero che tu voglia perdonarmi per tutte le volte che sono stato troppo duro con te. Mi dispiace sul serio per essermi comportato da idiota.»
«Sei perdonato.» Decise prima di mordersi il labbro nel tentativo di nascondere un sorriso.
Forse quel punto di incontro che solo qualche settimana prima sembra lontanissimo, irraggiungibile, adesso era proprio lì, a portata di mano. E forse potevamo raggiungerlo e darci una seconda possibilità.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Sì, non sono morta, non ancora almeno. Questo periodo però è molto, molto incasinato per me: la scuola mi porta via molto tempo e sto dedicando molte attenzioni ad un'altra storia (che ho riscritto per tre volte nel corso di due anni) che probabilmente pubblicherò più avanti. Ma Under a Paper Moon è comunque una priorità <3
Detto questo, passiamo al capitolo. Adam ed Elisabeth hanno rotto e lui si sente in colpa. Ecco, questa è una caratteristica fondamentale di Adam, che condivide anche Scarlett: odiano far star male le persone. Se fanno soffrire qualcuno, loro ci stanno male il doppio. 
In più gli Adamett litigano perché Adam si sente ferito nell'orgoglio da ciò che Scarlett gli ha detto dopo la notte di plenilunio e un po' ce l'ha con lei anche perché l'ha portato ad illudere e quindi ferire Elisabeth. Scarlett, invece, non sembra disposta a rinunciare a quel qualcosa che hanno. Perché? Bella domanda.
E anche se lui, almeno nella prima parte, è sembrato un po' troppo duro, vi prometto che si rifarà e che ci sarà un bel po' di Adamett più avanti.
E finalmente sappiamo cosa ha scelto Michael *-* oltre ad essersi improvvisato mentore, in questo capitolo vi ha anche presentato il motivo dell'avviso slash nelle note: i Michaleb (?). Spero vi piacciano, sono la prima coppia slash di cui scrivo quindi sono un po' inesperta, ma proverò a fare del mio meglio :3
Un'altra cosa: Under a Paper Moon sarà divisa in due parti, ma sarà una cosa molto astratta. In pratica, dal capitolo 23 cambierò il banner -un altro mio esprimento- perché entreremo nella seconda metà della storia. Ci saranno nuovi personaggi, alcuni simpatici altri meno, e scoprirete qualcosa in più sulla licantropia di Scarlett.
Ora mi dileguo perché sennò non la finisco più. Quindi niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto <3

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Capitolo 21
*** 21. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 21




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21. Scarlett

«Sì, hai completamente ragione, i ragazzi sono solo un peso.» Convenni sperando con tutta me stessa che James, a pochi metri da me, non mi sentisse.
Dall’altro capo, Beth si esibì in un sospiro teatrale. «Esatto! Voglio dire, pretendono che tu sia sempre carina e truccata e poi a malapena ti guardano.»
Una parte di me non poté fare a meno di pensare che non tutti erano così, e di sicuro non il suo ex: Adam guardava con attenzione chiunque gli stesse davanti, i suoi occhi blu sembravano sempre affamati di dettagli. Quando qualcosa lo interessava.
Sentii una piccola fitta di colpevolezza quando mi resi conto che il rancore di Beth era dovuto a questo, al fatto che Adam non la guardasse come lei voleva essere guardata.
«Già… Dovrebbero rimettere la testa a posto.» Mormorai lanciandomi un’occhiata alle spalle e sorridendo a James come per rassicurarlo.
Elisabeth non poteva scegliere un momento peggiore per chiamarmi. O forse non poteva sceglierne uno migliore. Ero uscita con James per fare un giro in città, niente di impegnativo, ma neanche di troppo interessante. Solo che stavo perdendo un sacco di tempo dietro alla telefonata di Beth e probabilmente a lui questo non andava a genio, bastava guardare la piega infastidita delle sue labbra per capirlo.
«Sai che ti dico? La vita da single è cento volte meglio. Al diavolo i ragazzi e tutte le loro pretese.» Dichiarò la mia migliore amica con enfasi. «Ah, a proposito, sabato ti va di fare un po’ di shopping?»
«Certo. Conta pure su di me, Beth.» Confermai, metà sollevata e metà delusa che quella conversazione stesse giungendo al termine.
«Grazie Scarlett, sei un tesoro!» Esclamò lei.
«Figurati, lo faccio volentieri.» Replicai sorridendo.
Riattaccai, trassi un respiro molto profondo e mi voltai per tornare da James. Mi accolse con un piccolo sorriso e non potei fare a meno di trovarlo tenero.
«Tutto okay?» Chiese.
Annuii scostandomi una ciocca di capelli dagli occhi. «Sì, tutto bene…»
In quel momento il mio cellulare, che avevo ancora in mano, squillò di nuovo. Imprecai mentalmente, lanciai un’occhiata allo schermo e tutta l’irritazione sparì: era Adam. «Torno subito, scusa.» Dissi lanciando un’occhiata di scuse a James.
Mi allontanai di nuovo, questa volta mettendo più distanza tra noi, prima di portarmi il telefono all’orecchio. «Adam, ehi.»
«Ciao Scar.» Rispose lui.
Sentire il soprannome che mi aveva dato mi fece sorridere, mio malgrado: era la prima volta che qualcuno mi trovava un nomignolo, anche perché Scarlett non è facile da abbreviare. E il fatto che qualcuno mi avesse dato un diminutivo mi faceva sentire lusingata. 
«Perché mi hai chiamata?» Domandai osservando distrattamente la vetrina di un negozio di vestiti.
«Ecco, ho bisogno di favore. Per le ripetizioni di oggi, ti dispiacerebbe venire a casa mia?» Spiegò con una nota esitante nella voce.
«Sì, certo, non credo ci sia nessun problema.» Confermai. «Come mai?»
«Mio fratello mi ha lasciato sua figlia per un paio d’ore.» Rispose e, chissà perché, mi immaginai di vederlo arricciare appena le labbra.
Mi ritrovai a sorridere. «Oh, quindi fai il babysitter?»
Lo sentii sospirare. «Non c’è niente di divertente, Scar.»
Mi morsi un labbro per non ridere. «No, infatti. Ti ci vedo proprio, sai?»
«Guarda che Lena mi adora.» Borbottò eppure sapevo che stava sorridendo anche lui.
«Allora okay, non voglio discutere con una bambina.» Ribattei. «Mi dai il tuo indirizzo?» Aggiunsi incastrando il cellulare tra la spalla e l’orecchio mentre cercavo una penna nella borsa.
«Madison Street, numero 10.» Rispose. «Comunque grazie.»
«Di nulla.» Mormorai prima di stappare la penna con i denti e scribacchiarmi il nome della strada sul palmo della mano. «Allora ci vediamo dopo?»
«A dopo, Scar.» Replicò.
Trattenni il fiato per un secondo mentre riattaccavo. Vedere casa sua era una cosa che non avrei mai pensato di fare, anche perché fino a poco tempo prima non lo volevo assolutamente nella mia vita. Adesso qualcosa era cambiato, e buona parte delle mie convinzioni erano state sconvolte. E chissà cos’altro avrebbe combinato quel ragazzo dagli occhi blu.
Tornai da James con un sorriso di scuse e l’espressione più supplicante che riuscii a trovare. «Mi dispiace, a quanto pare oggi servo a tutti…»
Lui sorrise appena. «Già, sei molto ricercata, eh?» Mi prese per mano intrecciando le dita alle mie. «Andiamo a fare una passeggiata nel parco? È qui vicino.»
Annuii sentendo di doverli dimostrare un po’ d’entusiasmo per farmi perdonare. «Sì, volentieri.»
Sembrò rilassarsi e riacquistare fiducia in sé. Si chinò su di me per baciarmi, ma, quando le sue labbra trovarono le mie, non sentii nessuna scintilla.
Era come se qualcuno avesse ucciso le mie famose “farfalle nello stomaco”. E non potei fare a meno di sentirmi in colpa per quel mio improvviso disinteresse verso il ragazzo che dicevo di amare.

James non mi era sembrato molto entusiasta di dovermi accompagnare a casa di Adam, lo avevo intuito subito. Mentre guidava, infatti, aveva un’espressione corrucciata e quasi infastidita.
Gli avevo detto più volte di non preoccuparsi e che sarei potuta andare a piedi. Si era rifiutato di lasciarmi andare da sola e devo ammettere che mi aveva fatto piacere sapere che si preoccupava per me.
«Quindi… Adam ti da ripetizioni?» Chiese tamburellando sul volante.
«Già. Io e la matematica non andiamo molto d’accordo, ma a lui riesce bene così… mi da una mano.» Spiegai.
«Uhm… Se me lo avessi detto avrei potuto farlo anch’io.» Commentò.
Lo guardai, sorpresa. «Oh… Beh, ho pensato che visto che avevi cambiato scuola magari dovevi adattarti al programma.»
Annuì, come sovrappensiero. «Sì, forse.»
«Senti, ho apprezzato il fatto che tu abbia deciso di accompagnarmi. Davvero.» Mormorai. «È stato molto gentile da parte tua.»
Mi fece un sorriso un po’ incerto. «Ehi, tu sei la mia ragazza, okay? Per te questo ed altro.»
Gli sorrisi. «Grazie. Di nuovo.»
Lui fece un piccolo cenno d’assenso prima di accostare l’auto ad un marciapiede. «Numero 10, giusto?»
Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino: a quando pareva Adam viveva in una di quelle villette tutte uguali con un minuscolo giardino davanti. In effetti, devo ammettere che era così che mi immaginavo casa sua, più o meno.
«Sì, dev’essere questa.» Confermai. Presi la borsa e mi allungai per baciarlo sperando segretamente che le farfalle nella mia pancia fossero tornate. «A domani.»
«A domani.» Rispose scostandosi da me. «E buona lezione. Credo.»
Sorrisi scuotendo la testa. «Speriamo.»
Scesi dalla macchina chiudendomi lo sportello alle spalle. James mi fece un cenno di saluto che ricambiai. Appena si fu allontanato, mi voltai verso la casa e la raggiunsi.
Indugiai per un attimo al momento di bussare: e se mi avesse aperto suo fratello? O sua madre? Che avrei detto? “Ehi, suo figlio mi deve dare ripetizioni, è in casa?”. Sarei morta dall’imbarazzo.
Non mi aspettavo minimamente che sarebbe stata una bambina dai lunghi capelli biondi ad aprirmi la porta. Rimanemmo a guardarci per qualche secondo, senza sapere cosa fare. Lei aveva grandi occhi di un azzurro più chiaro rispetto a quelli di Adam. Dimostrava quattro o cinque anni, ma sembrava piuttosto sveglia e vivace. Aveva le mani macchiate di tempera di vari colori e non aveva risparmiato neanche la maglietta che indossava.
Mi schiarii la gola. «Ehm… C’è Adam?»
«Lo zio?» Chiese osservandomi con curiosità.
Esitai per un attimo. «Uh, sì, lui.»
«Scarlett.» La sua voce mi fece alzare gli occhi quasi senza che me ne rendessi conto.
Adam era in piedi dietro sua nipote e mi sorrideva. Indossava una maglietta nera a maniche lunghe e dei jeans semplici. Sentii un sorriso nascermi sulle labbra.
«A quanto pare sei sopravvissuto alla pittura, eh?» Lo provocai.
Alzò gli occhi al cielo. «Avevi dubbi?»
La bambina lo tirò per una manica. «È la tua fidanzata?»
Il sorriso di Adam si fece più ampio quando abbassò lo sguardo su di lei. «No, bionda, è solo un’amica.»
Lei mi lanciò un’occhiata per poi tornare a guardare Adam. «Okay.» Disse scrollando le piccole spalle.
Si infilò in casa di corsa senza dare a nessuno il tempo di rispondere. Adam la seguì con lo sguardo per un attimo prima di riportare l’attenzione su di me.
Si mordicchiò il labbro. «Prendo il libro e possiamo andare, mmh?»
«Sì, perfetto.» Concordai.
Mi fece un piccolo sorriso prima di rientrare lasciando la porta aperta. Mi strinsi le braccia al petto e trassi un respiro profondo: era andata meglio di quello che pensavo. E dovevo ammettere che sua nipote era davvero carina.
Sussultai quando un cane apparve sulla soglia. Era un border collie, se non mi sbagliavo: muso appuntito, pelo lungo bianco e nero, orecchie a punta ripiegate, corpo snello. Mi guardava annusando l’aria.
Non riuscii a fare a meno di inginocchiarmi e allungare una mano verso di lui. O lei. Il cane sollevò le orecchie e mi fiutò per un attimo prima di lasciarsi accarezzare. Si mise a scodinzolare e mugolò piano. Avevo sempre voluto un cane, ma visto che mia mamma non c’era mai non aveva voluto lasciarmelo prendere. Questo non aveva impedito ad una piccola Scarlett di sei anni di fare amicizia con tutti i cani del quartiere.
Qualcuno si schiarì la gola facendomi trasalire. Sollevai di scatto la testa proprio mentre il cane si sdraiava sulla schiena. Davanti a me c’era un uomo giovane, sulla trentina, con capelli scuri tagliati molto corti e occhi chiari. Era alto e muscoloso e aveva un cipiglio non proprio rassicurante. Mi rimisi in piedi, imbarazzata, e mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Lui continuava a studiarmi con aria sospettosa. «Tu sei?»
«Un’amica di Adam.» Mormorai con un fil di voce.
Lui sollevò un sopracciglio. «Ah, davvero?»
«Sì, davvero.» Confermò Adam apparendo al fianco dell’uomo. «Non devi fare il terzo grado a tutti quelli che si presentano alla porta, sai?»
L’altro sembrò lievemente sorpreso. «Oh… Ehm, non è quello che stavo facendo.»
«Bene, perché non ce n’è bisogno.» Commentò Adam prima di voltarsi verso di me. «Possiamo andare.»
«Dove?» Intervenne l’uomo.
Adam sospirò e sollevò il libro di matematica. «Dove vuoi che andiamo, Louis? Le do ripetizioni.»
Louis si grattò la testa, imbarazzato. «Uh… Bene. Divertitevi.»
Adam alzò gli occhi al cielo e mi fece cenno di seguirlo. Si chiuse la porta alle spalle bloccando così ogni tentativo di Louis di aggiungere altro. Seguii il ragazzo con gli occhi color tempesta fino alla sua auto e mi sedetti al posto del passeggero. Lui prese posto al volante e inserì le chiavi nel quadro.
«Scusa se te lo chiedo, ma sono un pochino confusa: chi era quello?» Domandai.
Lui trasse un respiro profondo. «Mio fratello. Ti avevo accennato qualcosa, no?»
«Sì, mi sembra proprio di sì.» Risposi. «Quindi è lui il padre della bambina?»
Annuì stringendo le labbra. «Esatto.»
«E a te non va tanto a genio, mmh?» Indovinai osservandolo.
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo. «È così evidente?»
«Basta prestare un po’ d’attenzione alla postura, ai movimenti, agli occhi…» Spiegai. «I telefilm polizieschi sono utili in questo senso.»
«Gli voglio bene, ma… Lui è sempre così perfetto… E ha già una famiglia. È stupido, lo so, però a volte mi viene da pensare che lui sia semplicemente migliore di me.» Mormorò.
Senza pensarci, gli misi una mano sul braccio. «Non è vero. Cioè, io non lo conosco, ma so che tu sei… incredibile.»
Si morse il labbro e mi lanciò un’occhiata. «Grazie Scar.»
Gli sorrisi, cosa che mi veniva incredibilmente naturale. «Di nulla.»

Dopo un’estenuante lotta con i radicali durata poco più di un’ora, convinsi Adam ad uscire sul portico per prendere un po’ d’aria. Ci appoggiammo entrambi alla ringhiera, l’uno accanto all’altro, con le spalle che si sfioravano.
Mi piaceva guardare il bosco, anche se i ricordi che avevo delle notti passate lì non erano proprio piacevoli. Nonostante tutto, l’imponenza degli alberi, l’uniformità delle loro fronde, l’odore umido e corposo del muschio e dell’erba… si amalgamavano così bene che sembrava impossibile allontanarsi.
Adam mi prese delicatamente una mano tra le sue. Gli lanciai un’occhiata di sottecchi, sorpresa: sembrava perso nei suoi pensieri, teneva lo sguardo basso e si stava mordendo il labbro inferiore. La sua pelle era lievemente calda e, in un certo senso, anche rassicurante, piacevole.
In effetti, mi sarebbe piaciuto farmi abbracciare da lui. L’avevo già fatto una volta, ma in quel momento non ero stata completamente in me visto che ero reduce da una notte di plenilunio. Quello era stata un gesto dettato dall’impulso e dal sollievo di sapere che ero riuscita a controllarmi, a non fargli male.
Mentre io mi facevo prendere dai ricordi, Adam aveva cominciato ad accarezzarmi le nocche. Si soffermò con le dita sull’anello che mi aveva regalato mia mamma. Il suo tocco era leggero, quasi esitante. Sospirai e appoggiai la testa alla sua spalla.
Sentii il suo sguardo addosso, probabilmente un’occhiata sorpresa come quella che gli avevo rivolto io. Improvvisamente mi resi conto che non avevo mai vissuto momenti del genere con James: stavamo bene insieme, questo sì, ma non mi ero mai sentita così rilassata e a mio agio. Questo perché avevo sempre paura che qualcosa potesse tradirmi, magari le iridi che cambiavano colore, o le zanne che spuntavano all’improvviso, rivelando quello che ero realmente.
Con Adam questo rischio non esisteva, perché lui sapeva tutto e l’aveva accettato. E questa era una delle cose più strane che mi fosse mai successa: aveva accettato la mia natura pericolosa e selvaggia, aveva accettato l’animale che si nascondeva in me, aveva accettato i miei sbalzi d’umore e le mie reazioni troppo avventate. Aveva accettato tutto questo, ci aveva fatto i conti, ed era ancora lì.
C’era voluto del tempo perché me ne rendessi conto, perché smettessi di vederlo come una minaccia, ma dopo il litigio e la successiva riappacificazione, io ed Adam ci eravamo avvicinati molto. E per un po’ neanche me n’ero accorta. Ci avevo fatto caso solo quando mi ero ritrovata a ridere con lui per una battuta stupida e piuttosto patetica, solo quando stare seduti vicini durante le ripetizioni non mi dava più fastidio, solo quando avevo preso l’abitudine di dargli un bacio sulla guancia ogni volta che mi riaccompagnava a casa.
«Posso farti una domanda?» Chiesi osservandolo di sottecchi. «Ma devi essere completamente sincero.»
«Certo, Scar. Puoi chiedermi qualunque cosa.» Confermò voltandosi verso di me.
Trassi un respiro profondo. «Secondo te riuscirò a non prendere un’altra F nel prossimo compito? No, perché, se ne prendo davvero un’altra saranno cinque di fila.»
Sorrise prima di mordicchiarsi il labbro. «No che non prenderai un’altra F. Sei già migliorata un sacco, qualche altra lezione e sarai pronta per il compito.»
«Okay,» Mormorai, «voglio crederti.»
«Non hai ragione per non farlo. Te lo direi se fossi un caso disperato.» Replicò lui inarcando le sopracciglia, gli occhi blu attraversati da un lampo divertito.
Gli scoccai un’occhiataccia che ebbe l’unico risultato di farlo sorridere. E il suo sorriso visto da vicino era ancora più bello. Sfilai la mano dalla sua e incrociai le braccia al petto sforzandomi di non ridere di fronte alla sua espressione prima ferita e poi offesa.
«Che c’è? Non sai accettare la verità?» Mi stuzzicò voltandosi a guardarmi.
Ignorai bellamente la nostra differenza d’altezza, spesso fonte di irritazione, e sollevai il mento. «Se dovessi bocciare, sarai tu a pagarne le conseguenze, lo sai, vero?»
«Allora farò in modo che tu non bocci, dovessi darti ripetizioni tutti i giorni.» Dichiarò.
Feci per replicare, ma mi bloccai quando notai una piccola macchia di pittura verde sulla sua guancia. D’istinto, feci un passo avanti e gli presi il viso tra le mani, lo sguardo concentrato sul colore.
Lui si irrigidì e trattenne il fiato, gli occhi blu confusi e disorientati che cercavano i miei. Solo in quel momento mi resi conto di quanto poco fosse lo spazio che ci separava, era questione di centimetri scarsi. “Ho un ragazzo”, pensai mordendomi il labbro, eppure una parte di me notò comunque il calore della sua pelle e la consistenza dei suoi capelli tra le dita.
Deglutii e mi affrettai a pulire la macchia di pittura prima di indietreggiare di un paio di passi. Quasi a dimostrare l’onestà delle mie intenzioni gli mostrai il polpastrello sporco di verde.
«A quanto pare la pittura ha colpito.» Mormorai, la voce che tremava appena.
Adam mi guardava come mi stesse vedendo per la prima volta, il petto che si alzava e si abbassava seguendo un ritmo discontinuo, gli occhi color tempesta fissi nei miei.
«Grazie.» Sussurrò, e fu quasi un sospiro.
La parte più drastica di me pensò che ci saremmo baciati e che i sensi di colpa mi avrebbero ucciso definitivamente perché avrei baciato l’ex della mia migliore amica e tradito il mio ragazzo in una volta sola.
Non successe, però. Infatti, ci voltammo entrambi verso il bosco come se continuare a guardarsi fosse stato troppo imbarazzante. E, in effetti, lo era. Dopo qualche minuto di silenzio carico di tensione, mi schiarii la gola: non volevo rovinare il mio rapporto con lui per colpa di un mio gesto impulsivo.
«Quindi… la bambina di prima è tua nipote… Come si chiama?» Domandai pregando mentalmente che passasse tutto, che quell’inconveniente venisse dimenticato.
«Si chiama Lena.» Rispose e mi sembrò più calmo.
«È un bel nome.» Commentai. «Vive con voi?»
Scosse la testa. «No, lei e i suoi genitori vivono a Tacoma, a sud di Seattle. Louis però è un marine, quindi quando è in congedo vengono dai miei.»
«Oh, forte.» Mormorai.
Annuì distrattamente. «Si è arruolato a diciotto anni.»
«Accidenti… E la mamma della bambina? Anche lei è nell’esercito?» Chiesi.
Un sorriso quasi inconsapevole gli incurvò le labbra. «No, Hanna lavora nella sede di un giornale. Lei e Louis sono conosciuti grazie ad alcuni amici in comune.»
«Che cosa carina.» Sussurrai. «Sono sposati?»
«Sì, da cinque anni.» Rispose. «Louis ha chiesto ad Hanna di sposarlo quando ha scoperto che era incinta.»
«È stato un bel gesto da parte sua. Sposarla intendo. A volte gli uomini non riescono ad essere abbastanza coraggiosi da prendersi le loro responsabilità.» Commentai cupa.
I suoi occhi blu si soffermarono sul mio viso. «Ti riferisci a tuo padre?»
Mi irrigidii, improvvisamente sulla difensiva. «Come fai a sapere di lui?»
Esitò per un attimo e distolse lo sguardo. «Ehm… Ho semplicemente pensato che non parli mai di lui, lo eviti sempre, e che quindi ci doveva essere un qualche tipo di tensione tra voi.»
Deglutii e mi morsi il labbro. «Sì, la tensione c’è. Ma, come hai detto tu, evito sempre questo argomento.»
Lui fece una smorfia. «Devo essere sincero con te. Sei stata tu a parlarmi di tuo padre. La notte della festa di Selena, ricordi? Eri ubriaca e mentre ti riaccompagnavo a casa hai cominciato a raccontarmi di lui.»
Rimasi sorpresa nel sentirgli dire una cosa del genere: si era assunto un rischio enorme confessandomi ciò di cui gli avevo parlato quando non ero lucida. Trassi un respiro profondo e pregai che la mia voce non tremasse. «Che ti ho detto?»
«Che tuo padre se n’è andato all’improvviso, quando tu avevi sette anni. E che chiese subito il divorzio. E che tua mamma lo amava ancora.» Mormorò. «Hai detto anche che è facile fare male alle persone: le illudi, magari senza neanche rendertene conto, che per te sono importanti e poi basta un semplice gesto per rovinare tutto e lasciare un segno indelebile.»
«Già… Sembra proprio una cosa da me.» Sussurrai osservando l’intreccio degli alberi davanti a noi.
«Hai detto che il tuo nome non ti piace perché l’unico modo per abbreviarlo è Scar, che vuol dire cicatrice e tu non volevi essere niente del genere, per nessuno.» Aggiunse a bassa voce. «Questa cosa mi è rimasta in mente ed è da qui che ho preso l’idea per il tuo… soprannome.»
Non riuscii a fare a meno di sorridere. «Quando mi ubriaco divento piuttosto filosofica, mmh?»
«Un po’ sì.» Convenne prima di passarsi una mano tra i capelli. «Senti, mi dispiace non avertelo detto prima. È solo che… ecco, non è che i nostri rapporti fossero poi così buoni in quel periodo quindi…»
«Ehi, va tutto bene. Se me l’avessi rivelato qualche settimana fa probabilmente mi avresti dato il pretesto per mettere in atto tutte le minacce che ti avevo promesso.» Replicai prima di allungarmi per dargli un bacio sulla guancia. «E poi, se te l’ho detto un motivo c’è. Credo. Insomma, neanche Elisabeth sa tutta la storia.»
Si voltò verso di me, sorpreso. «No?»
Scossi la testa. «Non me la sono sentita di dirle… i dettagli, ecco. Le dissi solo che i miei erano divorziati. Punto. Per me non è facile trovare qualcuno di cui fidarmi al punto da arrivare a confessare cose del genere. Non voglio la pietà o la compassione della gente. Sai come fanno, no? Quando ti vedono sofferente perché i tuoi si sono lasciati diventano tutti santi e ti offrono aiuto, ma al momento in cui ne hai veramente bisogno non c’è mai nessuno.»
«È una verità orribile.» Commentò lui arricciando appena le labbra.
«Già. Ma non potrebbe essere altrimenti. Insomma, non affrontiamo neanche i nostri di demoni, figurati se ci mettiamo a fare i conti con quegli degli altri.» Ribattei portandomi una mano alla collana: era un piccolo ciondolo argentato a forma di foglia che avevo comprato per pochi dollari ad una bancarella. Non aveva nessun valore, però era delicata e bella e aveva attirato subito la mia attenzione.
Lui sospirò. «Sai, ti sbagliavi: sei filosofica anche da sobria.»
Mi misi a ridere e gli lanciai un’occhiata. «Più o meno. Anche se a me sembra di essere più che altro pessimista.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso. «Probabilmente sono la persona meno indicata, ma voglio farti sapere che se hai bisogno devi solo chiamarmi. A qualunque ora.»
Per un qualche strano motivo, sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi: era riuscito a commuovermi ed erano davvero poche le persone che potevano vantare di aver fatto una cosa del genere.
Sbattei le palpebre per riprendere il controllo e trassi un respiro profondo. «Grazie Adam, sul serio. Sei fantastico.»
«Figurati Scar. Lo faccio volentieri.» E si voltò per darmi un bacio sulla guancia.
Quando si allontanò dal mio viso, rimanemmo a guardarci negli occhi per quella che sembrò un’eternità carica di parole non dette, rancori, frustrazione, ma anche alleanze, amicizia e qualcosa in più, qualcosa a cui non riuscii a dare un nome.




SPAZIO AUTRICE: Cu :3
Prima di tutto, ho una comunicazione di servizio da fare: dal 13 al 19 Marzo sarò in gita con la scuola e quindi non potrò dedicarmi ad Efp, per questo vi dico fin da ora che aggiornerò sabato 12 così da non lasciarvi troppo tempo senza un nuovo capitolo. Anche perché il prossimo è uno dei più importanti. E sarà molto Adamett.
Detto questo, passiamo al capitolo. Dopo Adam e Beth, anche Scarlett sembra essere insicura della propria relazione con James: che sia per via del ragazzo con gli occhi color tempesta? Può darsi.
La scena sul portico è probabilmente una delle mie preferite e voglio dedicarla -se è possibile dedicare una scena- a quel dolcetto di Juliet Leben che mi ricorda con pazienza infinita che ciò che scrivo non è da buttare <3
Adam e Scarlett, in questa scena, si mostrano esattamente per come sono, lei impulsiva e sempre armata di buone intenzioni, lui più riflessivo e cauto. Sono loro al cento per cento. E poi mi è piaciuto un sacco scrivere di Scar che gli pulisce la guancia *-* Non so, è stato un momento dolce e "puro", ecco.
Inoltre, Adam in questo capitolo si è aperto e a confessato a Scar ciò che lei stessa gli ha detto mentre era ubriaca. E lei non gli è saltata alla gola come avrebbe fatto prima e come aveva promesso di fare. In effetti, ve ne sarete accorti da soli, gli Adamett sono meno diffidenti l'uno nei confronti dell'altra. Stanno cominciando a fidarsi, finalmente direi.
Il prossimo capitolo sarà molto, molto intenso, questo posso dirvelo. Da quello dopo ancora, invece, il 23°, entreremo nella seconda metà della storia! *-*
Penso di avervi detto tutto, quindi colgo l'occasione per ringraziarvi di cuore per il tempo che dedicate a questa storia <3
Ci vediamo il 12 Marzo **

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Capitolo 22
*** 22. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 22




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22. Adam


Lena scoppiò a ridere, divertita. Accanto a me, Cora la guardava con la testa inclinata di lato e con aria perplessa. Le accarezzai la schiena e lei scodinzolò lanciandomi un’occhiata.
Hanna osservava la figlia sorridendo. Indossava dei jeans grigi e una maglietta bianca; aveva lasciato i capelli sciolti e qualche ciocca le finiva negli occhi per via del vento. Era bella, e sembrava più giovane dei suoi ventinove anni.
Louis era tornato in Iran un paio di giorni prima ed era sembrato quasi impaziente di partire, sia perché amava il suo lavoro, sia perché Lena era piuttosto vivace e richiedeva un sacco di attenzioni. Hanna l’aveva riportata dai nonni visto che mia mamma si lamentava del fatto che non riusciva a vedere la nipotina quanto le sarebbe piaciuto fare. Il punto era che quasi ogni volta che Lena veniva da noi, lei aveva qualcosa da fare. Come quel giorno: il suo gruppo di amiche aveva deciso di uscire proprio quel pomeriggio. E visto che papà lavorava, a casa c’eravamo solo io e Cora.
«Allora, come va la scuola?» Mi chiese Hanna voltandosi verso di me.
Mi strinsi nelle spalle. «Tutto bene per ora.»
Lena era diventata di colpo seria, concentrata com’era sulle sue bambole. Visto che era una bella giornata, avevamo deciso di uscire nel giardino sul retro e lei aveva accolto molto bene l’idea.
«Louis mi ha detto che dai ripetizioni ad una ragazza.» Aggiunse lei in tono neutro.
«Sì.» Confermai. «È una del mio anno, le serviva aiuto per matematica.»
«Anch’io al liceo davo ripetizioni. Di filosofia.» Mi sorrise. «Per un po’ avrei voluto fare l’insegnante, ma poi mi sono appassionata al giornalismo.»
«Deve essere bello come lavoro.» Commentai accarezzando Cora.
Lei annuì. «Sì, molto. Mi piacerebbe scrivere articoli più importanti, ma per il momento mi accontento di sbrigare qualche faccenda d’ufficio e rivedere qualche bozza oltre che scrivere di cronaca locale.»
«Piano piano farai strada. Ho letto un paio dei tuoi articoli e, anche se non me ne intendo di giornalismo, mi sono piaciuti.» Risposi voltandomi verso di lei.
Sorrise e vidi i suoi occhi illuminarsi. «Davvero? Grazie. Non sai quanto significhi per me.»
Ricambiai il sorriso. «Figurati.»
Lei si strinse le braccia al petto sospirando. «Tu potresti fare l’insegnante, sai? Hai la passione e l’attenzione necessarie. E mi sembri anche abbastanza paziente.»
Scossi appena la testa. «Non mi ci vedo. Insomma, è un lavoro impegnativo, devi saper coinvolgere ragazzi che vorrebbero essere ovunque tranne che lì davanti a te. E parlo per esperienza, so cosa intendo. Certo, dev’essere interessante, ma… anche molto, molto complesso.»
«Indubbiamente.» Convenne lei. «Anch’io quando andavo al liceo non sopportavo i professori che pretendevano attenzione per tutte e cinque le ore come se noi ragazzi non avessimo niente di meglio a cui pensare. Però, se sai come porti e come parlare, puoi fare grandi cose.»
«Già, è qualcosa di molto difficile.» Mormorai mentre Lena ridacchiava contenta.
«Allora che ti piacerebbe fare dopo il liceo?» Domandò Hanna.
«Vorrei andare all’università. Cambiare aria per un po’.» Ammisi passandomi una mano tra i capelli. «Pensavo a New York o Baltimora. O magari Washington.»
Hanna inarcò appena le sopracciglia. «Beh, è piuttosto lontano da casa, no?»
Un sorriso amaro mi affiorò alle labbra. «Forse è per questo che voglio andarci.»
«Non so se lo sai, ma io non sono di Seattle. Prima vivevo a Shoreline. Mi sono trasferita qui per frequentare il college, dove ho conosciuto Louis.» Raccontò Hanna. «Credo di capire cosa intendi: allontanarsi da casa per un po’ a volte è decisamente un’ottima idea. Arrivi ad un punto in cui ne hai bisogno. Soprattutto alla tua età.»
Questo non fece altro che accrescere la mia ammirazione per lei: Hanna mi era sempre sembrata una donna forte e piena di risorse e, negli anni che avevo passato con lei, avevo avuto la conferma di quella mia prima impressione.
Accarezzai distrattamente il collo di Cora, un attimo prima che lei sgattaiolasse da qualche parte. «È esattamente quello che penso anch’io.»
«E cosa vorresti studiare?» Domandò Hanna mentre si raccoglieva i capelli in una coda.
«Credo letteratura, o lingue.» Risposi. «A dirla tutta non lo so ancora.»
«È normale essere confusi quando si deve lasciare il liceo, ma sono sicura che troverai quello che fa per te.» Mi rassicurò lei con un sorriso che ricambiai.
Cora abbaiò per richiamare la mia attenzione. Quando mi voltai verso di lei, la trovai in piedi sulla porta-finestra che dava sul giardino con il guinzaglio in bocca, le orecchie dritte e la testa leggermente inclinata di lato.
«Credo di dover andare.» Commentai prima di tornare a guardare Hanna come per scusarmi.
Lei fece un gesto vago con la mano. «Non preoccuparti, anche noi dobbiamo andare. Domani Lena ha scuola e io devo preparare la cena.»
Nel frattempo, Cora mi era venuta vicino e si era seduta, la coda che sbatteva sul pavimento mentre lei scodinzolava in attesa della sua solita passeggiata serale. Di solito ci pensava mio padre a portarla fuori, ma visto che lui non c’era toccava a me.
Hanna si inginocchiò e richiamò la figlia: «Lena, vieni. Dobbiamo andare.»
La bambina sollevò lo sguardo dalle sue bambole. «Posso giocare a casa?»
Hanna annuì sorridendole. «Certo, tesoro. Ora vieni a salutare lo zio che deve portare fuori Cora.»
Sentendosi chiamata in causa, Cora drizzò le orecchie e lasciò cadere il guinzaglio. Lena si mise a ridere e corse ad abbracciarla mormorando “bravo cagnolino”: le era sempre piaciuto il nostro cane, anche quando aveva pochi mesi e Cora la superava di un bel po’ di centimetri in altezza. Dopo essersi scostata da Cora, Lena si voltò verso di me, i lunghi capelli biondi un po’ arruffati che le ricadevano sugli occhi. Mi chinai per prenderla in braccio e lei ridacchiò divertita.
«Ciao zio.» Disse sorridendo.
«Ciao bionda. Fa’ la brava, okay?» Mi raccomandai lasciandomi sfuggire un sorriso.
Lei annuì prima di darmi un bacio sulla guancia. «Okay.»
La rimisi a terra e lei corse a prendere le sue bambole prima di tornare dalla madre e afferrarle la mano. Hanna mi sorrise prima di uscire di casa insieme alla figlia. Cora abbaiò di nuovo e sembrava piuttosto impaziente.
La accarezzai tra le orecchie e recuperai il guinzaglio. «D’accordo, d’accordo. Andiamo.»
Lei scodinzolò tutta contenta, come se avesse capito di stare per uscire.

Anche se ormai erano le cinque del pomeriggio, c’era ancora molta luce fuori e l’aria era piacevolmente fresca. Certo, a Seattle di solito fa abbastanza freddo, ma quel giorno si stava bene. Cora mi camminava accanto, le orecchie dritte, l’aria attenta, fermandosi ogni tanto ad annusare l’erba.
Quando ero io a portarla fuori cercavo di non rimanere vicino alle case, sia perché così potevo lasciarla senza guinzaglio per un po’, sia perché era un ottimo posto per pensare in pace. Non ricordavo chi glielo aveva insegnato, ma Cora sapeva di non doversi allontanare troppo quindi le passeggiate con lei erano molto tranquille.
Stavamo attraversando un grande parco nella periferia della città: era un posto silenzioso e molto spesso quasi deserto. C’era un piccolo stagno con un paio di anatre e una ninfea che galleggiava leggera sul pelo dell’acqua. Gli alberi erano rigogliosi ed alti, avevano tronchi sottili e rami lunghi che si protendevano verso il cielo. L’erba era morbida ed era diventata piuttosto alta in alcuni punti, esattamente dove Cora amava giocare.
La stavo guardando trotterellare in una di quelle macchie verdi, quando sentii il cellulare vibrarmi in tasca. Lo presi aggrottando la fronte: Michael era uscito con Caleb quindi non poteva essere lui, neanche mia madre visto che sarebbe tornata tra mezz’ora.
Il nome che apparve sullo schermo mi sorprese parecchio: Scarlett.
Non avevamo lezione, era lunedì, e non mi sembrava che lei avesse altri motivi che potessero spingerla a chiamarmi. Trassi un respiro profondo e lanciai un’occhiata a Cora per assicurarmi che non si fosse allontanata troppo prima di premere il tasto verde e portarmi il telefono all’orecchio. «Pronto?»
«Adam.» La sua voce suonò tremula e insicura.
«Ehi, che succede?» Chiesi sentendo una strana ansia crescermi nel petto.
Il suo respiro era spezzato, come se stesse cercando di riprendere il controllo. «Devo parlarti. Cioè, in realtà ho bisogno di parlare con qualcuno e il primo nome che mi è venuto in mente è stato il tuo.»
«Okay.» Mormorai. «Parliamo. Mi sembri molto… scossa.»
«Non al telefono.» Replicò lei. «Ti prego. È… complicato.»
Mi mordicchiai il labbro. «Va bene, va bene. Dove vuoi che ci incontriamo?»
«Nella tua casa nel bosco?» Propose prima di tirare su col naso. «Possiamo vederci direttamente lì, tanto sono già nei dintorni.»
Il mio primo istinto fu quello di chiederle cosa ci facesse nella foresta, da sola, ma mi trattenni: non volevo mettermi a discutere su una cosa del genere, non ora che sembrava così fragile. «D’accordo. Ci vediamo lì tra dieci minuti, okay?»
«Sì, va benissimo. E grazie, davvero. Non so cos’avrei fatto se non ci fossi stato tu.» Sussurrò con la voce rotta.
Rimasi senza parole per un attimo: era vero che nell’ultimo periodo ci eravamo avvicinati molto, ma non pensavo che saremmo arrivati a fidarci tanto l’uno dell’altra. Non fino a quel punto. «Non preoccuparti Scar, non c’è nessun problema. A tra poco.»
Trasse un respiro tremante. «A tra poco.» E riattaccò.
Rimisi il cellulare in tasca e mi passai una mano tra i capelli. Sembrava che ci fosse qualcosa di grosso in ballo, qualcosa che la faceva stare molto male. E aveva scelto me per aiutarla.
Credevo che la prima che avrebbe chiamato sarebbe stata Elisabeth: erano migliori amiche da anni, era la cosa più logica da fare telefonare a lei. Durante i mesi in cui ero stato con Elisabeth avevo capito che era una ragazza solare ed esuberante, ma anche molto comprensiva e sempre pronta ad aiutare chi le stava a cuore.
Io non ero così. Certo, per la mia famiglia e Michael cercavo di fare in modo di esserci sempre, ma Scarlett… Lei era una cosa a parte, tutto un altro tipo di relazione. Non avrei saputo definirla, né lei né il tipo di rapporto che avevamo. In certi momenti si mostrava acida, inavvicinabile, anche pericolosa, in altri invece era aperta, disposta a scherzare, incredibilmente piacevole.
Richiamai Cora e le agganciai il guinzaglio al collare. Lei mi guardò con la testa inclinata di lato come a chiedere cosa stesse succedendo. “Lo vorrei sapere anch’io”, pensai. «Andiamo, a quanto pare c’è un’emergenza.»
Lei drizzò le orecchie e per un attimo pensai che quel che si diceva dei cani era vero: erano davvero in grado di capirci. O forse sapevano semplicemente interpretare il linguaggio del corpo.

Spalle rigide, capelli arruffati come se ci avesse passato troppe volte le mani, labbra serrate in una linea sottile, braccia strette al petto, fronte corrugata.
Se ci fosse stata Cora con me si sarebbe nascosta con la coda tra le zampe: Scarlett emanava una rabbia e una frustrazione quasi palpabili, sembrava un lupo che aveva passato troppo tempo in gabbia e che adesso era pronto a rivoltarsi contro il suo carceriere.
Avrei dovuto avere paura di lei tante volte, forse troppe, e qualcosa mi diceva che anche in quel momento mi sarei dovuto sentire intimidito. Ma, com’era prevedibile, sentivo solo di doverle stare vicino e aiutarla, in qualche modo.
«Scar.» Mormorai avvicinandomi a lei: stava camminando su e giù davanti alle scale del portico del cottage nel bosco.
Si muoveva a scatti, atteggiamento che tradiva una grande inquietudine. Si fermò di colpo e sollevò lo sguardo su di me. Il suo viso, coperto per buona parte da qualche ciocca ribelle di capelli, fu attraversato da diverse emozioni: sollievo, timore, tristezza.
«Ehi.» Sussurrò con voce incerta.
Le ero abbastanza vicino da vedere che aveva gli occhi arrossati e lucidi. «Che succede? Mi stai facendo preoccupare.»
Distolse gli occhi e deglutì. «È successo un casino.»
Sospirai. «L’avevo notato. Senti, ti va di entrare? Se non mi sbaglio dentro ci dovrebbe essere ancora del tè, magari può aiutarti a stare un po’ meglio.»
Si limitò ad annuire. Sembrava che avrei dovuto aspettare ancora per ottenere delle risposte. Salimmo le scale del portico fianco a fianco, io aprii la porta e lei la varcò per prima tenendo la testa china. La seguii mentre rimettevo le chiavi nella tasca dei jeans.
Si fermò davanti al divano dandomi la schiena. «Lascia perdere il tè. Credo di doverti spiegare come stanno le cose prima.»
«Mi sembra una buon’idea.» Convenni avvicinandomi.
Ci sedemmo sul divano, l’uno accanto all’altra, le ginocchia che si sfioravano. Lei si teneva ancora le braccia strette contro il petto, come se avesse avuto paura di cadere a pezzi se le avesse tolte. Non mi piaceva vederla così, ferita e fragile, e non sapere cosa fare.
Trasse un respiro profondo, di quelli che fai quando devi dare una brutta notizia. Per un secondo pensai che fosse successo qualcosa ad Elisabeth: avrebbe spiegato perché non aveva chiamato lei per parlare e anche quelle che sembravano tracce di lacrime sulle sue guance.
«James mi ha lasciata stamattina.» Disse all’improvviso, strappandomi dalle mie congetture.
Non mi aspettavo niente del genere, avevo pensato a tutto, immaginandomi gli scenari più tragici, ma non avevo assolutamente preso in considerazione... quello.  «Cosa?»
Lei annuì appena, le spalle scosse da un singhiozzo leggero. «Prima dell’inizio delle lezioni mi ha invitata a prendere un caffè insieme nella caffetteria dietro la scuola. Ero felice che avesse avuto un’idea del genere, era da un po’ che non facevamo una cosa così insieme. Quando sono arrivate le nostre ordinazioni lui mi ha detto che non vedeva un buon motivo per continuare a stare insieme. Io avrei voluto rispondere, ma lui mi ha interrotta dicendo che era tardi per provare a riparare e che se ci avessi tenuto davvero non saremmo arrivati a quel punto.» Si asciugò una guancia con un gesto quasi stizzito. «Si è alzato ed è andato via portando con sé il suo caffè e lasciando sul tavolo cinque dollari.»
Adesso sì che ero senza parole: non mi sembrava da James fare una cosa del genere, lasciare Scarlett senza darle una vera e propria spiegazione e mollarla lì… Era orribile sotto ogni punto di vista. «Scar… Mi dispiace tantissimo, davvero.»
«Almeno mi ha pagato il cappuccino.» Bisbigliò lei tentando invano di sorridere.
Strinsi le labbra, incerto. Credevo che sapere cosa la turbava avrebbe reso le cose più facili e mi avrebbe aiutato a farla star meglio, invece non avevo la più pallida idea di cosa fare. «È stato un idiota. Voglio dire, se ci sono dei problemi in un coppia bisogna risolverli insieme, non scappare. Si è comportato da codardo.»
Si passò una mano tra i capelli. «Dimmi qualcosa che non so.»
«Non so se ti farebbe piacere, sia perché dovrei usare parole poco carine, sia perché non servirebbe a niente.» Ammisi. «Vorrei darti una mano, sul serio, ma non so proprio cosa potrebbe aiutarti. Sei la prima ragazza che viene da me in cerca di consigli su questioni… amorose.»
Lei si prese la testa tra le mani e si mise a ridere, anche se assomigliava di più a dei singhiozzi strozzati. «Non te la cavi male. Insomma, non sto piangendo a dirotto.»
«Il piano era non farti piangere per niente, però… no?» Commentai.
Si strinse nelle spalle. «Non ho più un piano.»
«Solo perché quell'idiota ti ha lasciata?» Sbottai con più enfasi del previsto. «Andiamo, Scar, tu sei molto meglio di lui. È lui quello che deve piangere perché ti ha persa.»
Lei si asciugò gli occhi tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. «Non mi sembrava così dispiaciuto quando l’ho visto abbracciare un’altra.»
«Ah.» Riuscii a dire: stava andando peggio del previsto. «Beh, ecco… Magari…»
«Ho bisogno di un abbraccio.» Dichiarò lei prima di alzarsi.
Rimasi interdetto e guardai la sua schiena coperta da un maglione blu. “Intendeva da te”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente. Mi mordicchiai il labbro e mi alzai anch’io, rimanendole comunque alle spalle. Sinceramente non mi sentivo adatto ad aiutarla, non credevo di essere in grado di darle il supporto che le serviva.
Non avevo mai avuto a che fare con qualcuno con il cuore spezzato e non sapevo cosa avrei dovuto dire, cosa l’avrebbe rassicurata. L'unica persona che avevo aiutato con dei problemi sentimentali era Micheal, come potevo anche solo pensare di riuscire ad essere utile per lei?
«Vieni qui.» Mormorai chiedendomi se sarebbe davvero servito a qualcosa.
Un secondo dopo sentii il suo corpo minuto e spigoloso premuto contro il mio. Le sue mani mi risalirono la schiena mentre io la circondavo con le braccia per avvicinarla ancora di più a me. Non aveva esitato neanche per un attimo, cosa che, per chissà quale motivo, mi fece piacere: si fidava sul serio.
Nascose il viso nell’incavo del mio collo. Sentire la sua pelle toccare la mia mi fece scendere un brivido lungo la schiena e non ero poi così sicuro che fosse normale.
«È in momenti come questi che sento terribilmente la mancanza di mia mamma.» Sussurrò lei e le sue labbra mi sfiorarono la gola.
«Immagino… Deve essere difficile non averla sempre con te.» Replicai a bassa voce.
«Però ci sei tu.» Aggiunse. «E sei incredibile.»
Fui felice che non potesse vedermi in faccia. «Oh… Ehm… Grazie. Credo.»
La sentii sorridere. «Probabilmente pensi che io sia pazza.»
«Ma no.» Mormorai sentendo la tensione sciogliersi. «Mi fa piacere sapere che ti fidi di me. E semmai sono io quello pazzo visto che sono amico di un licantropo.»
Le sue braccia mi strinsero di più e tornai a sorprendermi di quanto fosse magra: sentivo le ossa del bacino e delle spalle premere contro di me; la vita sottile e snella sembrava fatta per essere abbracciata. I suoi capelli profumavano fiori e quella che sembrava mela verde. Mi stava piacendo averla così vicina, sentire il suo corpo, imparare a conoscerlo.
Dopo tutti gli scontri e i dissapori che avevamo avuto era bello sapere che eravamo riusciti a trovare un equilibrio tra il suo mondo e il mio.
Si sistemò in modo da avere la testa appoggiata sulla mia spalla. «Credo di averlo superato.»
«Di già?» Chiesi non tanto convinto.
Annuì contro di me. «Sì. Cioè, sono passata dalle lacrime al volerlo strozzare: penso sia un passo avanti.»
«Più o meno.» Commentai.
Lei fece scorrere le mani sulla mia schiena e per un attimo provai l’impulso di chiudere gli occhi. «Prima ero seria, comunque: sei davvero incredibile. Sei rimasto con me anche quando sarebbe stato più facile scappare e dimenticarmi.»
«Non posso dimenticarti, Scar, neanche se lo volessi.» Ammisi.
Lasciammo che il silenzio calasse tra noi. Da una parte era meglio così: anche se lei sembrava stare meglio c’era sempre il rischio che dicessi qualcosa di sbagliato, qualcosa che poteva in qualche modo ferirla. Forse era meglio rimandare le parole ad momento in cui sarebbero state meno importanti, meno distruttive.
L’aveva detto lei stessa, bastava un solo gesto per mandare in fumo tutta la fiducia e la stima che qualcuno aveva per te. Non importa da quanto vi conoscete, cosa avete condiviso, che rapporto avere, si riduce tutto a quell’unico errore, voluto o meno, che poteva mandare tutto in pezzi.
Scarlett si mosse, distogliendomi dai miei pensieri. Era ancora stretta a me, le sue mani ancora sulla mia schiena, però adesso mi stava guardando con quei suoi occhi di quel marrone dorato tanto particolare.
Non c’era una ragione per farlo, e neanche una per cui non farlo. I legami che avrebbero potuto impedirlo erano stati rotti, tutti e due. Ora non eravamo più “il ragazzo di qualcuno” e “la ragazza di qualcuno”. E quando la sua bocca incontrò la mia c’era solo Scarlett. Impaurita, disorientata, determinata, coraggiosa, sarcastica, sospettosa, forte. Era lei e basta.
Non avrei saputo dire di chi era stata l’idea, ma le mie labbra si stavano muovendo con le sue in un bacio lento e intenso, di quelli che ti coinvolgo al punto da lasciarti senza fiato. Non era come a quella festa, con tutte quelle persone che ci guardavano, con il senso di colpa perché stavamo tradendo, con l’odore di alcol nell’aria; era una cosa tutta nuova, con il suo corpo contro il mio, con le sue mani sulle mie spalle, con le mie braccia intorno a lei, con il silenzio e il suo profumo di mela verde.
Sapere che non avrebbe fatto stare male nessuno, che non c’era niente ad impedirci di farlo rendeva tutto più facile e rilassato. Perché era così che doveva essere.
Si allontanò appena da me mantenendo lo sguardo basso. Sembrava un po’ sorpresa, quasi pensierosa. Faceva dei respiri profondi, lenti, come se avesse voluto ritrovare la concentrazione, riprendere il controllo. Avrei dovuto farlo anch’io: tornare con i piedi per terra e affrontare le conseguenze di quello che era successo era la cosa giusta da fare.
“Chi ha detto che ci sono conseguenze?”, chiese una vocina nella mia mente. Tutto quello che facciamo ha delle conseguenze, anche le cose più semplici e banali, di questo ero più che sicuro. Restava da capire che tipo di effetti avrebbe avuto quel bacio sul nostro rapporto, potevano essere positivi come no.
Una parte di me, però, non aveva voglia di pensare a quei dettagli così complicati che mi apparivano quasi inutili in quel momento. Mi chinai su di lei quel tanto che bastava perché la mia bocca trovasse di nuovo la sua. La sentii sussultare appena, anche se un attimo dopo mi mise una mano sulla guancia per poi far scivolare le dita tra i miei capelli. La strinsi di più a me e tornai a sentire gli spigoli e le morbidezze del suo corpo premuto contro il mio.
Provai, in modo quasi impacciato, devo ammetterlo, a schiuderle le labbra: non stavamo insieme, non c’era nessun tipo di legame tra noi, ma sentivo qualcosa per lei, qualcosa a cui non riuscivo a dare un nome, ma che mi spingeva a cercarla.
Mi assecondò approfondendo il bacio e alzandosi sulle punte per compensare la differenza d’altezza. Sorrise contro le mie labbra prima di mordicchiarmi quello inferiore, gesto che mi provocò l’ennesimo brivido lungo la schiena. Intrecciò le braccia intorno al mio collo mentre io ricambiavo il morso.
Sembrava che tutta la tristezza e la rabbia di prima fossero scomparse, lasciando il posto a quella che pareva spensieratezza, leggerezza. Da lì il bacio si fece più dolce e lento, come se entrambi avessimo voluto prenderci tempo per conoscerci, per assaporarci dopo tutti i conflitti del passato.
Dopo quella che mi era sembrata una strana quanto piacevole eternità, ci scostammo l’uno dall’altra, il respiro spezzato, le labbra incurvate in un sorriso inconsapevole.
Scarlett appoggiò la fronte alla mia spalla senza smettere di sorridere. «Ora l’ho superato. Sul serio questa volta.»
«Ah sì?» Mormorai accarezzandole piano la schiena.
Annuì, le sue dita che tracciavano figure fantasiose sulle mie braccia, ancora intorno a lei. «Sì. Insomma, ho trovato qualcosa di meglio a cui pensare.» Sollevò timidamente il viso e mi guardò con quei suoi occhi ardenti. «E se dovessi farti male dimmelo: quando provano emozioni molto forti i licantropi non sanno controllarsi molto bene e non vorrei ferirti per sbaglio.»
Emozioni molto forti? Quindi non ero stato l’unico a sentirsi… parecchio coinvolto. «Correrò il rischio.»
Rise sottovoce tornando a stringersi a me. Mi chinai appena su di lei e le diedi un bacio leggero, esitante sulla guancia. La sua risposta fu un sorriso, cosa che contribuì a farmi rilassare: per certi versi ero ancora cauto con lei, sentivo di doverlo essere, perché non la conoscevo abbastanza da sapere cosa poteva infastidirla e cosa no.
«Non credo di avertelo detto, ma ho apprezzato molto il fatto che tu non abbia insistito quando ti ho chiesto di lasciarmi passare il plenilunio da sola.» Sussurrò lei contro il mio collo. «Lo so che ti è costato parecchio rimanere sulle tue e lasciarmi fare.»
La settimana prima c’era stata la luna piena e lei, probabilmente intuendo che stavo per proporle di rifare quello che avevamo combinato il mese precedente, mi aveva bloccato sul nascere dicendo che non voleva mettermi in pericolo di nuovo e che era ora di tornare alla normalità.
Di fronte alla sua espressione che avrebbe voluto essere neutra, ma che era risultata quasi implorante, non avevo saputo dirle di no e mi ero ritrovato ad assecondarla senza neanche provare a protestare. A quella mia reazione, lei si era visibilmente rilassata e mi aveva sorriso timida. E io mi ero sentito stringere il cuore al pensiero di lei da sola nel bosco in preda alla furia del suo lupo. Mi ero morso la lingua per non aggiungere nient’altro.
Mi schiarii la gola. «Figurati. Questa è una cosa tua, in fondo.»
«Vero.» Mormorò allacciando le braccia intorno alla mia vita.
«Ti ricordi quando mi hai detto che non sono bravo a tenere il muso alla gente? Beh, anche tu non sei un granché a mantenere le promesse: hai minacciato di uccidermi un sacco di volte, eppure sono ancora qui. Con te.» Aggiunsi senza riuscire a trattenere un sorriso.
Lei si mise a ridere e, in qualche modo, riuscì a darmi una gomitata nelle costole. «Che idiota che sei… E, comunque, non posso uccidere chi mi fa stare così bene. Mi farei del male da sola.»
Per la seconda volta nel giro poco, fui felice che non potesse vedere la mia espressione: aveva davvero detto che la facevo stare bene? E questo quando era successo? Era vero che ci eravamo avvicinati e che le avevo dato un soprannome e che mi aveva parlato di suo padre, ma farla stare bene… Sembrava una cosa così importante e delicata.
Scarlett appoggiò la testa sul mio petto e chiuse gli occhi. «A proposito, grazie per farmi stare bene.»
Sentii un sorriso spontaneo farsi strada sul mio viso. Non ero sicuro di come sarebbe suonata la mia voce, così mi limitai a stringerla un po' di più e a lasciarle un bacio tra i capelli. Eppure, nella mia mente, una risposta aveva già preso forma, pronta per essere pronunciata: anche tu mi fai stare bene.




SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Ve l'avevo detto che questo capitolo sarebbe stato molto Adamett, no? Ecco, spero di non aver deluso le vostre aspettative **
E sì, ho aggiornato con un giorno d'anticipo perché... beh, volevo farvi leggere questo capitolo il prima possibile.
La diffidenza tra Scarlett e Adam sembra completamente scomparsa, ma lui è comunque insicuro. Anche se non lo ammetterebbe mai, infatti, Adam non è sicuro di sé quanto vorrebbe essere, anzi. L'abbiamo visto nello scorso capitolo quando si è paragonato al fratello, e lo vediamo di nuovo qui. Tiene tanto a Scarlett, più di quanto lui stesso si renda conto, e la paura di sbagliare lo frena.
Ma lei sembra non considerarlo un problema. Scar, infatti, l'ha chiamato, ha voluto parlare con lui dopo la rottura improvvisa con James. Solo con lui.
Si fidano l'uno dell'altra, cosa che solo qualche mese prima avrebbero considerato impossibile e pericolosa.
Under a Paper Moon ha raggiunto le 100 recensioni! E, anche se i numeri non sono poi così importanti, mi fa moltissimo piacere sapere che apprezzate questa storia e i suoi personaggi <3
Che pensate che succederà adesso che stiamo per entrare nella seconda metà della storia? Dopo questo "zucchero" -come l'ha definito Elissa98 ** - vi aspettate un colpo di scena, qualcosa che ribalti completamente la situazione? Magari l'entrata in scena di un nuovo personaggio?
Scorprirete che piega prenderanno gli eventi nel prossimo capitolo, vedrete *-* Quindi, a presto!

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Capitolo 23
*** 24. Adam ***


Under a paper moon- capitolo 24


                                                         

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24. Adam

Michael parlava da chissà quanto, ma avevo smesso di ascoltarlo parecchi minuti prima. Aveva detto che voleva parlarmi appena finite le lezioni, quindi mi ero trattenuto nel cortile della scuola con lui, che sembrava decisamente esaltato: se quello che avevo capito prima di distrarmi era corretto, stava raccontando il suo ultimo appuntamento con Caleb che sembrava essersi concluso con un bacio molto appassionato.
Probabilmente era stato quel dettaglio a farmi perdere la concentrazione: il ricordo di Scarlett e dei nostri baci era tornato prepotentemente a farsi strada nella mia mente tagliando fuori tutto il resto. Era stato così improvviso e intenso che ancora faticavo a rendermi conto che era successo davvero, non me l’ero immaginato.
Lei era così piccola eppure così piena di vita… Averla tra le mie braccia era stato come un sogno ad occhi aperti che non avevo realizzato di desiderare: da quando avevo cominciato a considerarla una bella ragazza e non una scocciatrice lunatica? Da quando avevo cominciato a notare quanto fosse bella la sua pelle chiara, la curva morbida del suo collo, le sue labbra rosee, i suoi occhi da cerbiatto, il modo in cui i capelli le accarezzavano la schiena?
«Stai ancora pensando a Shirley?» La voce di Michael mi risvegliò dai miei pensieri.
Sollevai lo sguardo su di lui, confuso. «Chi è Shirley?»
«Scusa, colpa mia. Intendevo Samantha.» Si corresse per poi guardarmi in attesa della mia risposta.
«Non conosco nessuna Samantha.» Replicai. «Di chi stai parlando?»
Sembrò irritato. «Quella a cui fai ripetizioni.»
«Ah… Scarlett.» Dissi annuendo.
Fece un gesto sbrigativo con la mano. «Sì, quella lì. Allora, stai pensando a lei?»
«No.» Mentii distogliendo lo sguardo. «Perché dovrei?»
«No, certo. E io sono la moglie del presidente.» Borbottò lui guardandomi male.
«Beh, congratulazioni.» Mormorai mordicchiandomi il labbro.
Lui mi mollò un calcio. «Parla, Meyers.»
Sospirai e mi strinsi nelle spalle. «Che vuoi che ti dica?»
«La verità.» Ribatté in tono ovvio.
«D’accordo, d’accordo. Sì, stavo pensando a lei.» Ammisi. «Contento?»
«No. Voglio i dettagli. Che è successo tra voi?» Insistette, lo sguardo improvvisamente malizioso.
«Niente. Abbiamo avuto un momento di tensione, ma poi abbiamo risolto.» Spiegai. Al suo sguardo scettico aggiunsi: «Davvero, Michael, è tutto qui.»
«Mmh.» Socchiuse gli occhi. «Non ti credo neanche un po’. Avanti, a me puoi dirlo.»
Valutai l’idea di mentire di nuovo, ma a che scopo? Mi conosceva bene e riusciva a capire sempre se c’era qualcosa che non andava. E poi avevo bisogno di parlare con qualcuno di quello che era successo con Scarlett. Trassi un respiro profondo sperando che non si esaltasse troppo. «L’altro giorno… ecco, l’ho baciata.»
«Ah-ah!» Saltò su lui con aria trionfante. «Lo sapevo che c’era qualcosa sotto!» Alcuni ragazzi si girarono a guardarlo, sorpresi dal suo tono fin troppo acuto. Michael li ignorò bellamente. «Allora? Com’è successo? Lei come ha reagito? Era una cosa voluta? E dopo che è successo? Come è stato?»
Alzai gli occhi al cielo. «Ehi, frena. È stato solo una bacio.»
Non gli avevo parlato di quello che era successo quella sera in quel locale durante il gioco della bottiglia perché sapevo che avrebbe dato di matto se l’avessi fatto: Michael aveva un debole per i pettegolezzi. Per questo e perché non volevo rivelare troppo, non menzionai il fatto che il realtà io e Scarlett ci eravamo baciati due volte.
Sollevò un sopracciglio e mi puntò contro un dito. «I dettagli. Adesso.»
«Mi ha chiamato dicendo che aveva bisogno di parlare con qualcuno. Ci siamo incontrati e mi ha detto che il suo ragazzo l’aveva lasciata.» Raccontai cercando di sintetizzare al massimo. «L’ho consolata, ci siamo abbracciati e… ci siamo baciati. Fine della storia.»
«Quindi è venuta da te in cerca di supporto? Oh, che cosa tenera! Si fida di te allora.» Esclamò lui sorridendo. «E tu l’hai confortata… Se questo non è amore…»
«Ha appena rotto con il suo ragazzo, non penso sia in cerca di un’altra storia. Non così presto almeno. E poi, non c’è amore tra noi, assolutamente.» Protestai.
«Okay, magari amore è una parola grossa, ma qualcosa c’è. Su, non puoi negarlo.» Insistette lui.
Abbassai lo sguardo. «Non lo so, Michael. Lei è… complicata, cambia umore ogni cinque secondi, però… ha qualcosa che mi piace. Nello stesso tempo non voglio sembrare un approfittatore che va con lei ora che è fragile per via della rottura col suo ragazzo. Se proprio deve succedere qualcosa vorrei che fosse perché entrambi lo vogliamo.»
«Senti, secondo me tu e Sheila sareste una bella coppia.» Commentò lui. «L’ho vista in giro per la scuola e hai ragione, è carina. Se poi si fida di te al punto da cercarti in un momento di debolezza vuol dire che ti vede come qualcosa in più di un semplice amico.»
«Scarlett, si chiama Scarlett. A parte questo, non so se stare con lei è ciò che voglio. La conosco da poco e non siamo mai usciti insieme, non ci siamo mai visti come “possibile ragazzo” e “possibile ragazza”. Siamo sempre stati Scarlett e Adam, due cose distinte.» Strinsi le labbra. «Insomma, ci siamo baciati solo una volta.»
«E allora? Hai mai sentito parlare dell’amore a prima vista? Del colpo di fulmine? Dovreste darvi una possibilità. Se poi non dovesse funzionare almeno saprete di averci provato.» Replicò lui studiandomi.
«Forse.» Concessi senza sbilanciarmi troppo.
Sospirò con fare teatrale. «Devi buttarti, Adam, okay? Lascia stare la razionalità, fregatene dei rischi e dille che vuoi stare con lei.»
«Devo capire se lo voglio prima.» Risposi aggrottando la fronte.
Lui sbuffò, esasperato. «Sì, che lo vuoi. È ovvio. E se non glielo dici tu lo farò io.»
Per un attimo mi venne voglia di rinfacciargli la sua codardia quando aveva dovuto dire a Julia che l’aveva tradita, ma mi trattenni: non sarebbe servito a niente infliggergli un colpo basso del genere. «Okay, okay. Le parlerò.»
«Bene.» Commentò lui cercando di fingersi serio. Ma poi si lasciò sfuggire un sorriso. «Sono contento per te, comunque. Dopo Elisabeth non sei più uscito con nessuno.»
Scrollai le spalle. «Non c’era nessuno che mi interessasse.»
«O forse volevi aspettare che una certa Susanne si liberasse, eh?» Mi provocò con un sorrisetto.
Sorrisi anch’io. «Non credo proprio. E comunque si chiama Scarlett. Te l’ho detto meno di un minuto fa.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Non me lo ricordo mai. Eppure Scarlett Johansson è una delle mie attrici preferite…» Scosse la testa. «Credo che dovrai farle indossare una di quelle targhette con il nome, come quelle dei camerieri, se vogliamo evitare brutte figure.»
«Oppure potresti semplicemente imparare il suo nome.» Proposi.
«Non mi ricordo neanche cosa ho mangiato ieri, secondo te posso ricordarmi il nome della tua quasi-ragazza?» Mi fece notare sollevando le sopracciglia.
«Ci spero.» Confermai. «Io l’ho imparato il nome del tuo ragazzo.»
Si grattò la testa distogliendo lo sguardo. «Uh… Beh, in questo caso allora… Forse posso farcela.»
«Sarebbe molto carino da parte tua.» Convenni lasciandomi sfuggire un sorriso.
Lui trasse un respiro profondo e controllò l’orologio. «Okay, io devo andare: Caleb ha una partita oggi pomeriggio e mi ha chiesto di andare a vederlo.»
«E visto che tu sei un grande fan del basket vai di sicuro, mmh?» Lo stuzzicai.
Lui mi fece una smorfia. «Ah-ah, simpatico. E comunque vado solo per vederlo in canottiera. Lo farò felice e avrò un bello spettacolo da vedere: due piccioni con una fava, no?»
Sorrisi di nuovo, divertito. «Oh sì, sembra un ottimo piano.»
«Vero?» Ricambiò il sorriso e mi diede una pacca sulla spalla. «Ci vediamo domani.»
«A domani.» Replicai.
Lui mi fece un cenno di saluto prima di allontanarsi, le mani nelle tasche dei jeans. Lo guardai per un paio di secondi finché non si dileguò. Il cortile cominciava a svuotarsi e, in effetti, dovevo andarmene anch’io.
«Adam Meyers?» Domandò una voce sconosciuta alle mie spalle.
Mi voltai di scatto e mi trovai davanti un ragazzo alto, slanciato, con i capelli biondo cenere e gli occhi verdi tendenti al grigio. Aveva un’ombra di barba sulla mascella affilata e l'aria cupa, come se nascondesse infiniti misteri.
Indossava dei jeans neri, una maglietta rosso scuro e una giacca di pelle. Sembrava avere poco più di vent’anni. Lo sguardo era duro, freddo, ma anche profondo, come se nascondesse mille parole non dette.
Mi schiarii la gola: non potevo negare che un po’ mi intimidiva. Sembrava così sicuro di sé e forte... E ben informato anche. «Tu sei?»
Nei suoi occhi passò un lampo. «Conosci Scarlett Dawson?»
“Che c’entra Scarlett adesso?”, pensai confuso. «Che ti importa di lei?»
«Sai che cos’è lei?» Aggiunse come se non avessi aperto bocca.
Esitai: Scarlett non me l’aveva mai chiesto esplicitamente, ma mi ero preso di mia spontanea volontà l’impegno di mantenere il suo segreto. E adesso un perfetto sconosciuto che sapeva anche troppo veniva a chiedermi proprio quello che non avrei mai dovuto dire.
«Una ragazza?» Tentai sperando che non intuisse che stavo mentendo.
Un sorrisetto gli sfiorò le labbra. «Sì che lo sai.» Sembrava che ignorasse bellamente tutte le mie risposte, che in realtà erano domande.
«Senti, che vuoi da me? E da lei?» Replicai senza togliergli gli occhi di dosso.
Mi osservò per qualche secondo prima di parlare. «Hai mai sentito parlare di cacciatori di licantropi?»
«No. Ma non capisco cosa c’entri adesso.» Ribattei sperando che si decidesse ad essere un po’ più chiaro.
Socchiuse appena gli occhi, come se avesse voluto mettere a fuoco qualcosa. «C’entra, credimi.» Non aggiunse nient’altro per un po’, tanto che pensai che la nostra conversazione irritante e incredibilmente confusa fosse finita lì. Poi, di punto in bianco, disse: «L’hanno presa.»
Sentii un brivido freddo scendermi lungo la schiena anche se non ero sicuro di aver capito a cosa si riferiva. «Che intendi? Chi ha preso chi?»
«I cacciatori hanno preso Scarlett.» La sua voce era sorprendentemente calma.
La mia prima reazione fu un misto di paura e scetticismo: com’era possibile che dei cacciatori che non avevo mai sentito nominare fossero spuntati fuori all’improvviso e avessero catturato Scarlett? «Preso? No, non è possibile.»
Ci fu un cambiamento minimo nella sua espressione imperturbabile, ma fu così leggero che quasi pensai di essermelo immaginato. «Perché no? L’hai vista oggi?»
«Beh, no.» Ammisi. «Ma non abbiamo neanche una lezione insieme quindi è possibile che non ci siamo mai incrociati.»
Doveva essere così, giusto? Insomma, chi si mette a dare la caccia ai licantropi? E poi, come sapevano cos’era lei? No, doveva essere tutta una messinscena di quello strano ragazzo spuntato fuori dal nulla. Certo, però, sapeva un sacco di cose piuttosto compromettenti, questo dovevo ammetterlo.
«Oppure l’hanno catturata i cacciatori.» Replicò lui stringendosi appena nelle spalle come se non se nulla fosse.
Scossi la testa e distolsi lo sguardo. «No, andiamo, non può essere. Ci deve essere un’altra spiegazione.» Tornai a guardarlo mentre una strana sensazione di gelo strisciante si faceva strada in me. «Chi mi dice che questi fantomatici cacciatori esistono, eh?»
I suoi occhi si incupirono di colpo. «Io te lo dico. E credimi, lo so per certo.»
«Non è realistica come cosa.» Protestai passandomi una mano tra i capelli. «Senti, posso chiedere ad una sua amica se oggi c’era o no.»
“Così mi dirà che ha fatto lezione con lei, che sta bene, che adesso è casa a guardare quel reality sulle modelle che le piace tanto”, aggiunsi mentalmente.
Arricciò appena le labbra, come se fosse stato irritato, ma si ricompose subito. «Okay, fa’ pure.»
«Bene.» Commentai prima di voltarmi e cercare Elisabeth con lo sguardo, sperando che fosse ancora lì.
Quando la trovai mi lasciai sfuggire un silenzioso sospiro di sollievo. Mi incamminai verso di lei, ma non abbastanza in fretta da non sentire il ragazzo aggiungere: “tanto di tempo ne abbiamo da vendere…” con un tono fin troppo sarcastico per i miei gusti.
Elisabeth stava parlando con una sua amica, una bionda che avevo già visto con lei, dall’altra parte le cortile. Appena le fui vicino la richiamai sentendo la tensione nella mia stessa voce. Elisabeth si voltò e un sorriso sorpreso le incurvò le labbra.
«Adam, ciao.» Disse sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Era impeccabile come sempre, con quella gonna blu e la camicetta in tinta.
«Ehi.» Risposi sperando di riuscire a nascondere la preoccupazione per qualcosa che magari non era neanche successo. «Senti, hai visto Scarlett oggi? Devo… uhm, restituirle il libro di matematica. Sai, l’ha dimenticato dopo le ripetizioni…»
«Oh…» Aggrottò la fronte. «No, non l’ho vista. In effetti, non c’era a lezione di inglese. Forse è malata.»
Sentii un brivido gelido scivolarmi lungo la schiena a quelle parole. Scarlett mi aveva detto che la costituzione dei licantropi, più forte ed allenata di quella umana, impediva loro di ammalarsi; solo le malattie particolarmente gravi come il cancro o i tumori potevano fare breccia nel loro sistema immunitario.
Il biondino aveva ragione allora? C'erano davvero dei cacciatori di licantropi in giro per la città? E avevano messo le mani su Scarlett?
Mi schiarii la gola e abbozzai uno dei sorrisi peggio venuti della mia vita. «Okay, grazie lo stesso.»
Un angolo della sua bocca, con le labbra colorate di rosa scuro, si sollevò. «Figurati.»
Mi voltai e tornai verso il punto dove avevo lasciato quello strano ragazzo sperando che se ne fosse andato, che fosse stato tutto uno stupido scherzo. Invece lui era ancora lì, appoggiato ad un muro con una spalla, l’espressione ancora indecifrabile.
«Allora?» Chiese appena gli fui di fronte.
Mi si strinse la gola. «Non era a scuola.»
Si allontanò appena dalla parete. «Oh ma guarda, chi l’avrebbe mai detto?»
«Basta con questi giochetti.» Sbottai. «Cosa vuoi da me? E che vuol dire che i cacciatori l’hanno presa? La uccideranno?»
«Ci sono buone probabilità che succeda, sì. Ma prima vorranno sapere se ha un branco e, se sì, dove sono gli altri.» Spiegò senza perdere la calma. «Da te voglio collaborazione, aiuto, chiamalo come vuoi. Anche a me interessa riportarla a casa sana e salva.»
Non era la domanda più appropriata da fare, non con la vita di Scarlett in pericolo, ma non riuscii a trattenermi. «Perché?»
I suoi occhi verde-grigio si accesero per un attimo. «Ho le mie ragioni.»
Distolsi lo sguardo: il suo atteggiamento tutto sottintesi e parole non dette mi dava ai nervi. «Che succede adesso?»
«Adesso andiamo a prendere a calci qualche bastardo.» Replicò lui sollevando il mento in segno di sfida.

Dovevo concentrarmi sulla strada lo sapevo, eppure continuavo a pensare che Scarlett era in pericolo, che poteva essere morta, che non avevo idea di come salvarla. Ammesso che l’avessero davvero presa i cacciatori: per quel che ne sapevo poteva anche aver saltato la scuola perché non aveva voglia di andarci. Sarebbe stato plausibile, molto più di un gruppo di pazzi che se ne andavano in giro a cacciare lupi mannari.
Il ragazzo era seduto al posto del passeggero, teneva lo sguardo fisso davanti a sé e non aveva detto una parola da quando eravamo saliti in auto. Un po’ mi intimoriva, dovevo ammetterlo, soprattutto perché sembrava essere a conoscenza di molte cose.
Si appoggiò meglio contro lo schienale del sedile senza guardarmi. «Io sono Sean, comunque.»
Non riuscii a fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa. «Oh… Ehm… Io sono Adam.» Poi mi bloccai ricordandomi che conosceva il mio nome e anche il mio cognome. «Ma questo lo sai già.»
Fece un piccolo cenno d’assenso continuando a tenere lo sguardo fisso sulla strada. Era decisamente poco loquace. Mi aveva detto l’indirizzo dove voleva che andassi e poi si era chiuso in un silenzio freddo e impenetrabile. Probabilmente era una delle persone più strane che avessi mai incontrato.
Certo, il fatto che non fosse lunatico come Scarlett aiutava, ma restava comunque piuttosto scostante, come se non avesse voluto essere avvicinato. Qualcosa mi faceva pensare che, se mai qualcuno avesse osato andargli troppo vicino, lui l'avrebbe ucciso nel giro di un secondo. E poi gli avrebbe chiesto cosa voleva.
«Hai un piano?» Domandai quando non riuscii più a reggere la tensione e quello strano silenzio.
«In parte sì.» Rispose semplicemente.
«Solo in parte?» Chiesi senza riuscire a nascondere la preoccupazione nella voce.
«Non sapevo come avresti reagito quindi mi sono dovuto limitare nel pianificare qualunque cosa.» Spiegò e probabilmente fu la frase più lunga che gli avevo sentito pronunciare fino a quel momento.
Mi costrinsi a guardare la strada. «E quindi che si fa?»
Scrollò lievemente le spalle. «Improvvisiamo.»
“Sì, mi sembra giusto…”, pensai ironico: quel ragazzo mi avrebbe fatto diventare pazzo, me lo sentivo. Trassi un respiro profondo e per un qualche strano motivo mi ritrovai a pensare al sorriso di Scarlett dopo che ci eravamo baciati. Era un ricordo piacevole, questo sì, ma non mi aiutava a concentrarmi.
«Siamo arrivati.» Annunciò Sean senza cambiare minimamente il tono della voce.
Ci trovavamo in una zona periferica della città, in un parcheggio dietro un supermercato completamente vuoto se non per una vecchia auto blu che avevo già visto anche se non riuscivo a ricordare dove. Guardai Sean e lui fece un cenno proprio verso quella macchina così le parcheggiai accanto: a quanto pareva avremmo avuto compagnia. L’idea non mi piaceva, mi sembrava che stessimo perdendo tempo prezioso.
Scesi dall’auto subito dopo Sean, che pareva perfettamente padrone della situazione, come se fosse stata una cosa che faceva tutti i giorni. Con quella giacca di pelle sembrava uno di quei ragazzi ribelli dell’ultimo anno di liceo che vedevo a volte a scuola, quelli che uscivano di nascosto per fumare, eppure nel suo aspetto c’era anche qualcosa che lo faceva sembrare già vissuto e con un passato pieno di esperienze non proprio piacevoli.
Quando lo affiancai non mi non mi guardò neanche per un attimo concentrato com’era sulla macchina blu ferma accanto alla mia. Teneva le mani nelle tasche dei jeans, la sua espressione era indecifrabile come sempre, lo sguardo attento e quasi sospettoso.
«Finalmente.» Commentò una voce familiare. «Pensavo che vi foste persi.»
Matthew, il mio vicino di casa, scese dall’auto blu e ci venne incontro con un sorriso amichevole in viso. Indossava dei jeans scoloriti e una camicia a quadri aperta su una maglietta bianca.
Spalancai gli occhi vedendolo: che diavolo ci faceva lì? Conosceva Sean? Sapeva cos’era veramente?
Matthew sollevò una mano in segno di saluto. «Ciao, Adam.»
Rimasi a fissarlo, incredulo. Mi sarei aspettato di tutto, ma lui… Sembrava sempre così disorganizzato e confuso, un adolescente intrappolato nel corpo di un adulto. Come poteva conoscere uno come Sean, perennemente all’erta e dall’aria pericolosa?
Mi voltai verso Sean sperando che, per una volta, mi avrebbe dato una spiegazione degna di questo nome. «Perché è qui?»
«Per aiutarci.» Rispose semplicemente lui, conciso come al solito.
“Questo non chiarisce niente”, pensai continuando a guardarlo. «Ma… Lui non… Insomma, come può esserci d’aiuto?»
Sean sospirò. «Quasi niente è come sembra, sai?» E mi lanciò un’occhiata eloquente.
Mi girai verso Matthew, sconvolto. «Non dirmi che anche tu sei…» Lasciai la frase in sospeso non sapendo fino a dove potevo spingermi: magari avevo frainteso Sean, magari Matthew era solo il ragazzo confusionario e allampanato che avevo sempre conosciuto.
«Un licantropo? Sì. Più o meno.» Confermò Matthew annuendo e abbozzando un sorriso.
«Vuoi dire che ho vissuto per diciassette anni accanto ad un licantropo senza saperlo? E che vuol dire più o meno?» Sbottai senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso.
«È un Sangue di Lupo. Significa che è in parte lupo, ma non abbastanza da essere considerato un vero e proprio licantropo.» Intervenne Sean con aria sbrigativa. «E dovremmo smetterla di chiacchierare: quei bastardi potrebbero averla già uccisa.»
Le sue parole mi riportarono bruscamente alla realtà. «Dobbiamo fare qualcosa.»
«Siamo qui per questo.» Confermò Matthew, diventato serio di colpo.
«D’accordo…» Mormorai più per me stesso che per loro. «Il piano qual è?»
Negli occhi verde-grigio di Sean passò una lampo inquietante. «Andiamo a trovare i cacciatori. Direttamente nella loro tana.»



SPAZIO AUTRICE: Cu! :3
Siamo già al capitolo 24? Mi sembra impossibile ** E' come se avessi cominciato a pubblicare ieri e invece, tra un paio di mesi, sarà già un anno che UAMP è su EFP!
Mi ricordo che, quando cominciai a postare i primi capitoli, non vedevo l'ora di farvi arrivare qui, a Sean, a Matthew, ai cacciatori, di farvi vedere oltre Scarlett e Adam. Finalmente ci siamo arrivati e spero davvero di non deludervi.
In questo capitolo avete conosciuto Sean, il mio personaggio preferito dell'intera storia. Che dire, lui è molto ambiguo, non si riesce mai a capire da che parte stia, non fino in fondo. Più avanti farà cose discutibili che potrebbero farvi cambiare idea su di lui, e anche il suo passato potrebbe ribaltare la vostra opinione. Nonostante questo, la sua storia è quella di cui vado più fiera, insieme a quella di Adam, che scoprirete più avanti. Perché sì, anche il nostro ragazzo con gli occhi color tempesta nasconde qualche scheletro nell'armadio. Stessa cosa per Sean. Entrambi hanno un passato più oscuro di quanto sembri.
Penso di aver detto tutto, quindi vi ringrazio per aver letto UAMP fino a qui e per continuare ad apprezzarla e ci vediamo al prossimo capitolo! <3

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Capitolo 24
*** 23. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 23


                                                         

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23. Scarlett

Mi sfiorai le labbra con le dita e sorrisi. Mi sentivo un po’ idiota a farlo, ma stare con lui mi aveva lasciato uno strano buon’umore che non provavo da qualche tempo.
Era notte inoltrata e avrei dovuto dormire, ma in realtà me ne stavo sdraiata sul letto a fissare il soffitto e a ripensare a quei baci, a quell’abbraccio, a lui.
Una vocina nella mia mente mi diceva che avrei dovuto essere triste e arrabbiata per James e il modo il cui mi aveva lasciata, eppure non riuscivo ad esserlo. E neanche ci provavo. In fondo, perché avrei dovuto? Se n’era andato senza neanche darmi una spiegazione degna di questo nome, non meritava niente da me.
La sensazione delle labbra di Adam sulle mie, poi, era un’ottima distrazione. Quando ci eravamo baciati per la prima volta, in quel locale, non ci avevo quasi fatto caso, presa com’ero dal cercare di tirarmi fuori da quella situazione. Ma quel pomeriggio… Era stato tutto diverso. Era stato solo io e lui.
Il primo bacio non sembrava essere stato l’iniziativa di nessuno, era successo e basta. Ma era stato il secondo a rimanermi impresso di più, perché era stato lui a volerlo. E io mi ero fatta prendere dall’entusiasmo, a cui lui aveva risposto molto bene. Questo mi aveva portato a riconsiderarlo sotto molti punti di vista e a decidere, alla fine, che era molto meglio di quanto avevo pensato all’inizio.
Quando mi aveva riaccompagnata a casa, ovvero quando mi ero decisa a staccarmi da lui e quindi a sciogliere l’abbraccio abbandonando a malincuore il suo calore rassicurante, avevo cercato di smettere di sorridere per non sembrare troppo pazza, ma poi avevo visto che anche lui si stava mordendo il labbro per evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso, quindi mi ero rilassata.
Al momento di salutarci, avevo esitato, indecisa se baciarlo oppure no: non sapevo cosa pensava di me, come considerava il nostro rapporto. Alla fine non avevo fatto niente di diverso dal solito, gli avevo dato un bacio sulla guancia ed ero scesa dalla macchina. Lui mi aveva fatto un sorriso un po’ timido ma anche sinceramente felice che mi aveva fatto venire voglia di riaprire lo sportello, gettargli le braccia al collo e baciarlo. In qualche modo ero riuscita a trattenermi e l’avevo guardato allontanarsi.
Quel ragazzo aveva il potere di incatenarmi con quei suoi occhi blu tempesta e riusciva a farmi stare bene anche solo sorridendomi. Non sapevo se era una cosa buona o se si sarebbe rivoltata contro di me con il passare del tempo. L’unica cosa che sapevo era che Adam era passato dal rappresentare una scocciatura, una minaccia per la mia già precaria tranquillità, all’essere una parte importante della mia vita.
Non avevo idea di come avrei dovuto sentirmi a riguardo: nervosa, impaurita, oppure solo felice? In fondo, era pur sempre un pericolo in meno, ed un alleato in più. Un alleato che era riuscito a farsi strada oltre le mie difese e che si era conquistato con ostinata determinazione un angolino nel mio cuore. E non riuscivo a sentirmi irritata o minacciata da questo, mi sembrava così... giusto, come se avesse dovuto accadere, come se fosse già stato scritto.
 
«Scarlett, sveglia!» La voce di mia madre riusciva ad essere più fastidiosa di quella della professoressa di matematica quando si impegnava.
Ogni volta che tornava da un viaggio di lavoro diventava incredibilmente efficiente in fatto di sveglia e terzo grado sui ragazzi con cui uscivo. Il punto era che non riuscivo a prenderla sul serio quando beveva il suo tè ai lamponi da una tazza rosa con il disegno di un gatto che indossa un paio di occhiali da sole, e cercava di rimproverarmi per il disordine della mia stanza nello stesso tempo.
Mi tirai la coperta sopra la testa e mugolai una risposta: «Ancora cinque minuti… O magari dieci…»
Qualcuno mi strappò di dosso la trapunta. «Assolutamente no. Su, in piedi. Sei già in ritardo.»
Mi coprii il viso con le braccia. «Mamma!»
Mi sorrise. «Sì, tesoro?»
Le scoccai un’occhiataccia che lei ricambiò senza scomporsi, come al solito. Si chinò su di me e mi diede un bacio sulla testa. «Ti aspetto in cucina, mmh?» Aggiunse prima di uscire dalla mia stanza.
Le feci il verso tra me e me mentre mi giravo sulla schiena e mi passavo una mano sul viso. Era stressante, a volte, eppure mi faceva piacere lo stesso averla in casa. Beh, più o meno. Diciamo che era una buona compagnia dalle nove di mattina in poi.
Mi tirai su a sedere tenendo gli occhi socchiusi per via della luce che entrava dalla finestra visto che qualcuno era stato tanto gentile da spalancare le tende.
Mi concessi un attimo di tregua prima di alzarmi e cercare a tentoni dei jeans. Ne trovai un paio neri buttati sulla sedia. Me li infilai distrattamente prima di aprire un cassetto del mobile accanto alla scrivania e prendere una maglietta verde scuro. Mi tolsi quella che usavo per dormire, e la cambiai con quella pulita. Mi infilai le scarpe rischiando di inciampare nelle stringhe e cercando di mettere a fuoco quello che stavo facendo.
A che ora ero andata a letto la sera prima? Mi sarebbe piaciuto credere alle undici, come mi ero prefissata, ma qualcosa mi diceva che era stato più verso l’una o le due. Però non era colpa mia se una certo George Martin¹ si divertiva a scrivere libri che ti tengono incollato alle pagine.
Scesi le scale senza quasi vedere dove mettevo i piedi, ancora mezza addormentata. Dalla cucina proveniva un buon odore di caffè e tè che mi fece quasi venire voglia di sbrigarmi. Quasi, in realtà volevo solo tornare a letto.
Mentre stavo per varcare la soglia, qualcuno suonò il campanello. Lanciai un’occhiata critica alla porta: chi va a casa della gente alle sette di mattina? Un venditore porta a porta? Mi lasciai sfuggire una smorfia di fronte a quella prospettiva.
«Vado io.» Annunciai senza riferirmi a nessuno in particolare.
Mi ravviai i capelli con una mano nella speranza di sistemarli almeno un po’. Attraversai il corridoio passando davanti allo specchio con le foto incastrate nei bordi di fronte al quale si era soffermato anche Adam quella che sembrava un’eternità fa. Eppure erano passati solo un paio di mesi, forse meno.
Posai una mano sulla maniglia e l’abbassai. Quello che mi trovai davanti mi svegliò completamente e mi fece perdere, nello stesso tempo, dieci anni di vita. Miles, mio padre, se ne stava sull’ingresso con aria imbarazzata.
Indossava dei jeans, un maglione grigio e un lungo cappotto scuro. I capelli castani erano accuratamente pettinati in modo da sembrare arruffati. Gli occhi verdi mi scrutavano da dietro gli occhiali dalla montatura sottile. Sembrava in attesa di qualcosa, un saluto magari. Ma io ero troppo sconvolta anche solo per lasciare la maniglia della porta.
Avevo la mente completamente vuota, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che Miles sembrava molto più giovane della mamma, come se lui in tutti quegli anni non avesse lavorato per mantenere se stesso ed un’altra persona. E probabilmente era così: perché avrebbe dovuto? Lui aveva Patty, ovvero Miss Minigonna, la finta bionda piena di soldi che aveva fatto a pezzi la mia famiglia.
«Ciao Scout.» Mormorò Milese studiandomi cauto.
Il mio primo impulso fu quello di sbattergli la porta in faccia con tutta la forza che avevo, ma mi trattenni: le possibilità di riuscire a fargli male erano troppo poche visto che non era abbastanza vicino. Meglio aspettare una situazione più propizia.
Di fronte al mio silenzio aggiunse: «Come sei cresciuta… Sei proprio come tua madre.»
“Come mamma dici? Ma ti riferisci alla Natalie che hai lasciato anni fa, innamorata e piena di progetti per un futuro insieme a te, o alla Natalie di adesso, quella che lavora come una pazza per riuscire a tirare avanti?”, pensai sentendo la rabbia montarmi dentro: come si permetteva di ripresentarsi dopo tutto quel tempo così, come se non fosse successo niente?
«Tesoro, chi… Oh, Miles.» La voce di mia madre mi arrivò ovattata, quasi fosse stata lontana chilometri.
Ero consapevole della sua presenza dietro di me, ma non riuscivo a staccare gli occhi da l’uomo che le aveva spezzato il cuore.
«Che ci fai qui?» Chiese Natalie con una calma incredibile.
«Ero a Seattle per lavoro e ho pensato di venire a salutarvi…» Spiegò lui infilando le mani nelle tasche del cappotto.
Spalancai gli occhi: ora pensava di venire a farci visita? Dopo tutti gli anni che aveva passato a divertirsi con Miss Minigonna? Si era stancato e voleva tornare? Oppure lei l’aveva mollato e lui non sapeva da chi andare? In ogni caso l’unica cosa che volevo fare era fargli un occhio nero.
Mamma abbozzò un sorriso di cortesia. «Accomodati.» E fece un passo indietro per lasciarlo passare.
Mi spostai anch’io senza pensare a quello che facevo, come se avessi inserito il pilota automatico. Miles entrò passando davanti a me e Natalie con un po’ troppa naturalezza per i miei gusti.
Scambiai un’occhiata con mia madre: sembrava controllata, ma anche nervosa, in ansia. Il suo ex marito che l’aveva lasciata per una donna più giovane e meno vestita era appena entrato in casa sua, chiunque al suo posto sarebbe stato a disagio. Trasse un respiro profondo e mi fece un piccolo cenno di incoraggiamento.
Automaticamente, mi avviai lungo il corridoio mentre lei chiudeva la porta e mi raggiungeva. Miles era in cucina e si guardava intorno come se stesse valutando se comprare o no la casa. Pensai distrattamente che le tazze con i pinguini in bella mostra sul tavolo non aiutassero a far sembrare che io e mamma ce la stessimo cavando bene: a volte la passione di Natalie per le tazze fantasiose e colorate era terribilmente fuori luogo.
«Stavamo per fare colazione.» Disse mia madre ostentando un’espressione cordiale. «Posso offrirti qualcosa? Tè, caffè…»
«Un caffè, grazie.» Rispose Miles con atteggiamento fin troppo rilassato.
“Approfittatore!”, scattò una vocina nella mia mente.
Natalie annuì appena. «Siediti pure.»
Miles scostò una sedia dal tavolo e ci si lasciò cadere con quel suo modo di fare da ragazzino: evidentemente non gli andava ancora giù il fatto che anche lui stesse invecchiando.
Mamma prese la caraffa del caffè e ne versò un po’ nella vecchia tazza di papà, quella blu e arancio. Erano anni che non la rivedevo, chissà dove l’aveva tenuta tutto quel tempo.
«Scarlett tu cosa vuoi?» Mi chiese mia madre guardandomi.
Sbattei le palpebre e mi risvegliai dai miei pensieri non proprio allegri in cui auguravo a Miles di strozzarsi con il caffè o di essere fulminato seduta stante. «Ehm… Caffè, per favore.»
Lei mi fece un sorriso dolce. «Okay tesoro.»
«Non ti siedi?» Intervenne Miles studiandomi con un sopracciglio alzato.
La rabbia tornò a farsi sentire, travolgente e improvvisa. «Non hai nessun diritto di dirmi cosa fare.» Ringhiai scoccandogli un’occhiataccia.
Sembrò sorpreso dalla mia reazione. «Cosa? Scarlett, io sono tuo padre…»
«Mio padre?!» Ripetei stringendo i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi. «E tu pensi che basti fare un figlio per potersi considerare un padre? Se vuoi davvero essere un padre dovresti passare del tempo con tuo figlio, aiutarlo, educarlo, dargli il buon esempio. Non scappare con la prima finta bionda che ti capita a tiro! E, per la cronaca, Patty ha dei denti orribili!»
«Scarlett…» Il tono di mia madre era incredulo e sofferente.
La guardai per un attimo prima di tornare a fissare Miles. «Non voglio avere niente a che fare con te. Sei solo un codardo approfittatore.»
Natalie fece una passo verso di me. «Scarlett, per favore…»
Indietreggiai istintivamente, il petto che si alzava e si abbassava velocemente. «No, no. Basta così…»
«Scarlett, ascoltami. So di aver sbagliato, non devo lasciare te e Natalie, ma non riuscivo più ad andare avanti in quel modo.» Disse Miles con voce calma. «Avrei dovuto parlarvene, avremmo dovuto risolvere insieme questa cosa.»
Se ci sono dei problemi in un coppia bisogna risolverli insieme, non scappare. Le parole di Adam mi tornarono in mente all’improvviso facendo accrescere la mia rabbia: com’era possibile che lui, un ragazzo di diciassette anni, si rendesse conto che fuggire dalle complicazioni era sbagliato mentre un uomo di più di quarant’anni come Miles non riuscisse ad afferrare un concetto del genere?
«E allora perché non l’hai fatto? Perché ci hai mollate qui da sole?» Sbottai sentendo il tremito nella mia stessa voce.
Miles sembrò colto alla sprovvista. Tentò di dire qualcosa, ma ci rinunciò. Chinò la testa e si passò una mano tra i capelli. «È stato un errore, lo so…»
«Già, un errore. In fondo, noi siamo solo giocattoli, no?» Lo provocai. «Quando ti stanchi puoi cambiarci con qualcos’altro. Magari con meno vestiti addosso, eh?»
Sollevò di colpo lo sguardo su di me. «No, niente del genere. E vorrei che la smettessi di insultare Patty: io e lei stiamo bene insieme e stiamo programmando di sposarci il prossimo anno quindi…»
«Sposarvi?» Ripeté flebilmente mamma. Sembrava che qualcuno le avesse portato via tutto il colore dal viso.
Sentii un sorriso di rabbia amara sfiorarmi le labbra. «Ah, bene. Sono proprio felice per te. Ma sai cosa? Non sprecare la carta per farmi un invito: non verrò mai al tuo stupido matrimonio.»
Lo sguardo di Miles si indurì. «Non permettersi di parlare così a tuo padre, ragazzina.»
«Ragazzina?» Ripetei incredula. Scossi la testa e mi passai una mano tra i capelli cercando di fermarne il tremito. «Sai che ti dico? Fa’ quel cavolo che ti pare, sposa quella sottospecie di spaventapasseri e fingi di essere felice con lei: ormai non importa più.»
Mi avviai verso la porta con passo pesante ma determinato. Sentii mia madre trattenere il fiato per poi rilasciarlo in un lungo sospiro che assomigliava tremendamente ad un singhiozzo.
«Scarlett…» Mi richiamò debolmente.
«Devo andare a scuola.» Borbottai afferrando lo zaino che avevo lasciato nel corridoio e raggiungendo la porta. Uscii e me la sbattei alle spalle usando un po’ troppa forza dovuta alla rabbia: era uno degli svantaggi dell’essere un licantropo, quando ti arrabbiavi lo facevi sempre sul serio. Non c’erano vie di mezzo.
Una parte di me sperò che i cardini della porta reggessero visto il terribile rumore che avevano fatto; l’altra parte voleva uccidere qualcuno.
Nonostante fossi quasi del tutto fuori di me, in qualche modo mi ritrovai a camminare lungo la strada che facevo tutte le mattine per andare a scuola. In realtà non ero sicura che fosse una buona idea andare lì, in mezzo a tutta quella gente: chi mi assicurava che sarei riuscita a mantenere il controllo per tutte e cinque le ore di lezione? No, dovevo sbollire la rabbia prima, solo quando mi fossi calmata sarei potuta andare. Magari potevo entrare alla seconda ora…
Mi lasciai sfuggire un respiro spezzato: com’era possibile che una sola persona potesse complicarmi tanto la vita? Per un po’ Miles era stata un buon padre, sempre sorridente e pronto a passare del tempo con me e con mamma. Poi qualcosa era cambiato e lui aveva deciso di lasciarci da sole, con la macchina da pagare, il mutuo e il cuore spezzato.
I documenti del divorzio erano stati il colpo di grazia: freddi, distaccati, uguali a quelli già usati molte volte da molte altre coppie. Non c’era neanche stato bisogno di intraprendere una battaglia per l’affidamento: aveva lasciato intendere che non mi voleva, che potevo stare con mia madre.
Quando era successo ero troppo piccola per capire, ma, una volta cresciuta e dopo aver rimesso insieme i pezzi, avevo cominciato a provare una rabbia fredda e piena di rancore per l’uomo che aveva illuso me, ma soprattutto mia madre, per anni.
Sbattei le palpebre per scacciare eventuali lacrime e mi guardai intorno: non era il quartiere da cui passavo di solito, dovevo aver mancato una svolta. Imprecai mentalmente e mi lasciai sfuggire uno sbuffo stizzito. Quella giornata stava andando di male in peggio.
Mi trovavo in una zona periferica praticamente deserta. Alla mia destra, dall’altra parte della strada, c’erano delle case, grigi blocchi di cemento dall’aria triste e squallida; alla mia sinistra, un parco abbandonato a se stesso con alberi verdi e rigogliosi che spuntavano dall’erba alta. Non ero mai stata lì.
Un fruscio mi distolse dai miei pensieri. Mi voltai verso l’intreccio degli alberi al mio fianco, i sensi all’erta. Poi mi diedi della stupida da sola: che mi veniva in mente? Al massimo poteva essere un gatto o un uccello… Di sicuro niente di pericoloso. Forse ero solo troppo stressata per via di Miles.
Il rumore, però, si ripeté e qualcosa dentro di me, qualcosa legato al mio lupo, scattò. Diceva pericolo.
Ma che tipo di pericolo? Sentii il mio cuore aumentare i battiti e il mio respiro farsi più veloce, eppure non riuscivo ancora a capire cosa ci fosse che non andava. C’era un altro lupo nei paraggi? O forse il soprannaturale non c’entrava niente?
Mi presi un attimo per cercare di concentrarmi sui suoni intorno a me: il rumore del traffico lontano, il fruscio dei rami degli alberi, il sibilo del vento, il cinguettio esitante degli uccelli… il respiro di qualcuno.
Mi voltai di scatto e mi trovai davanti tre uomini. Indossavano abiti comuni, jeans, magliette, giacche di pelle, ma avevano in mano armi non proprio rassicuranti: quello più grosso e muscoloso stringeva nelle dita tozze un coltello incredibilmente lungo che riluceva sinistro alla luce del sole; un altro, quello con i capelli biondi e che sembrava il più giovane, impugnava un fucile nero e lucido; l’ultimo, che sembrava essere il capo, mi puntava contro una pistola.
Il rumore del mio stesso cuore mi rimbombava nelle orecchie coprendo tutto il resto, l'aria mi graffiava la gola. Che volevano da me? Chi erano? Istintivamente feci un passo indietro e due di loro sogghignarono divertiti.
«Guarda che abbiamo qua.» Commentò quello che sembrava il leader. «Un lupo solitario. Non lo sai che è pericoloso per quelli della tua razza andarsene in giro da soli?»
“Sanno cosa sono”, pensai trattenendo il fiato. «Cosa?» Il mio fu un bisbiglio flebile e appena udibile.
Lui sorrise beffardo. «Paura, lupo? Beh, fai bene. Non siamo qui per chiacchierare.»
Cercai disperatamente di riprendere il controllo della situazione. «Cosa volete?»
L’uomo più muscoloso ghignò. «Secondo te?» Di fronte al mio sguardo perplesso aggiunse: «Te, ecco cosa vogliamo.»
Fu come se qualcuno mi avesse tirato un pugno nello stomaco. Spalancai gli occhi e mi sentii mancare il fiato. «Me? C-che vuol dire?»
Il capo ridacchiò e nei suoi occhi passò un lampo. «Questo.»
Sollevò la pistola puntandola direttamente contro di me. Ebbi appena il tempo di provare un terrore cieco e gelato prima di sentire lo sparo. Da qualche parte nel mio corpo esplose il dolore, forte come non lo avevo mai provato prima. Fu giusto un attimo, però.
Poi fu solo buio.



1: George R. R. Martin, scrittore della saga "Il Trono di Spade", da cui è tratta la serie TV "Game of Thrones"

SPAZIO AUTRICE: Cu :3
Ed eccoci nella seconda metà della storia ** Nuovo banner -con i prestavolto, finalmente!-, nuovi personaggi in arrivo... e nuovi guai.
La situazione negli scorsi capitoli sembrava essersi stabilizzata, gli Adamett stavano finalmente andando d'accordo e sembravano aver realizzato di provare qualcosa l'uno per l'altra. E adesso invece è tutto ribaltato.
Scarlett ha rivisto suo padre, Miles, l'uomo che ha lasciato lei e sua madre per il suo capo, Patty, o Miss Minigonna, come l'ha rinominata Scar. E, come se non bastasse, le sparano. Potrebbe essere viva o morta adesso, per quel che ne sappiamo.
Chi sono questi tizi? Cosa vogliono da lei? E come andrà avanti la cosa? E, anche se è meno importante, vi immaginavate così Scar e Adam, come sono mostrati nel banner? Oppure avevate altre idee?
Vi anticipo che nel prossimo capitolo verrà introdotto uno dei miei personaggi preferiti, una figura ambigua che amerete o odierete, è tutto da vedere.
Vi lascio, perché altrimenti vi spoilero tutto. A presto **

TimeFlies

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Capitolo 25
*** 25. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 25


                                                         

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25. Scarlett

Sollevai lentamente le palpebre non senza una certa fatica.
La prima cosa che mi passò per la mente fu il dolore: mi sembrava che mi fosse passato sopra un autobus. Avevo tutti i muscoli irrigiditi e contratti per essere stati costretti a lungo nelle stessa posizione. Restava da capire quale posizione.
Cercai di tornare completamente lucida nonostante un mal di testa lancinante che lo rendeva piuttosto difficile. L’ambiente in cui mi trovavo era buio e umido; la superficie sotto di me era fredda e dura, sembrava cemento o qualcosa del genere. L’unica fonte di luce era qualcosa sopra la mia testa, piuttosto in alto, ma non riuscivo a capire cosa fosse: era tenue, flebile, chiara.
Quando riuscii a recuperare un po’ di senso dell’orientamento mi resi conto che ero sdraiata su un pavimento ruvido e sporco, di un colore grigio smorto. Ed ero piuttosto sicura che non fosse dove dovevo essere.
Posai le mani a terra e provai a fare forza sulle braccia per mettermi seduta con l’unico risultato di scatenare una fitta di dolore all’altezza del fianco destro. Mi lasciai sfuggire un gemito sorpreso: non ricordavo di essermi fatta male, né di essere caduta. Però non ricordavo neanche di essere mai entrata in quella stanza così claustrofobica. Che stava succedendo?
Mi portai una mano al fianco apparentemente ferito e trasalii, sia per il dolore che per la sensazione di avere qualcosa di bagnato e viscido sulle dita. Abbassai lo sguardo sentendo il mio cuore accelerare. E vidi rosso, letteralmente: la mia mano era sporca di sangue, lucido e fresco.
«Oddio…» Mormorai sentendo crescere il panico.
Il mio respiro si fece spezzato, affannoso. Improvvisamente mi tornò in mente tutto: la vista a sorpresa di Miles, il mio scatto di rabbia, la mia fuga causata dalla frustrazione, quei tre ragazzi strani e armati… E il colpo di pistola.
“Mi hanno sparato?”, pensai frastornata dall’assurdità di quella situazione: che c’entravo io con quei tre pazzi che si divertivano a girare con un negozio di armi addosso? Cosa volevano da me? Dov’ero?
Faticosamente riuscii a tirarmi su a sedere appoggiando la schiena al muro e trasalendo per il dolore al fianco. Davanti a me c’era un corridoio buio e vuoto. A dirla tutta, e me ne resi conto solo dopo qualche secondo, prima del corridoio c’erano delle sbarre di metallo, spesse e dall’aria vissuta. Ero in gabbia.
Un terrore gelido e prepotente si fece strada in me lasciandomi senza fiato. Deglutii a vuoto sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Mi coprii la bocca con la mano per soffocare un singhiozzo: odiavo piangere, cercavo di non farlo mai. Qualcosa mi diceva che in quel momento potevo anche permettermelo, in fondo potevo essere vicina alla morta, un pianto sarebbe stato liberatorio, persino giustificato. “No”, mi rimproverai, “niente lagne”.
Dovevo andarmene di lì, non perdere tempo a compiangermi. Appoggiai i palmi contro il muro alle mie spalle e cercai di nuovo di fare forza sulle braccia per alzarmi in piedi. Appena mi sollevai da terra, però, le gambe cedettero e una nuova fitta di dolore mi attraversò il corpo facendomi boccheggiare. Era normale che un colpo di pistola facesse tanto male? Insomma, i licantropi guariscono in fretta, la ferita doveva già essersi rimarginata…
Quanto ero stata priva di conoscenza? Ore? Giorni? O solo minuti? Poi una verità agghiacciante e terribilmente ovvia si fece strada nella mia mente: il proiettile poteva ancora essere… dentro di me. Questo avrebbe spiegato il dolore persistente e il fatto che la ferita non fosse guarita. Un moto di nausea mi strinse la gola. E adesso? Non potevo sperare di fuggire con un pezzo di metallo nel mio corpo. Ma non potevo neanche restare lì, alla mercé di quei tre pazzi. Chissà dov’erano in quel momento…
«Ti sei svegliata finalmente.» Borbottò una voce maschile.
Sollevai lo sguardo e il biondino che mi aveva aggredita era dall’altra parte delle sbarre. Era vestito come l’ultima volta che l’avevo visto, quindi doveva essere passata solo qualche ora da quando avevo perso i sensi.
Mi studiava con aria strana, come se fossi stata chissà quale creatura esotica. C'era anche un'ombra in fondo ai suoi occhi nocciola. Quella sua espressione incuriosita mi fece venire voglia di mollargli un calcio.
Fece un passo indietro e richiamò qualcuno con un cenno. Rumore di passi, grugniti, nuovi respiri e due grossi uomini tarchiati affiancarono il biondo. Avevano entrambi i capelli scuri tagliati molto corti e la barba ispida. Indossavano pantaloni militari, vecchie magliette scolorite e anfibi dall’aria consumata. Senza sapere il perché, osservai distrattamente i miei jeans, ora sporchi e strappati, pensando che, per una volta, ero quella vestita meglio.
Il biondino tirò fuori delle chiavi dalla tasca della giacca e aprì la serratura della mia cella. La mia mente elaborò velocemente un piano di fuga in stile scatta-colpisci-corri, ma il mio corpo mandò in frantumi quella possibilità riversandomi addosso altro dolore, che si propagava dal fianco ferito e risaliva fin quasi a stordirmi.
Il biondo fece un altro cenno ai due uomini che entrarono nella cella e mi vennero incontro con aria minacciosa. Istintivamente, mi schiacciai contro la parete mentre l’istino preparava gli artigli a spuntare: anche se fisicamente non ero in grado di farlo, non mi sarei arresta tanto facilmente, avrei lottato con le unghie e con i denti. In modo piuttosto letterale.
«Più ti ribelli e più sarà difficile. Più che altro per te, ma anche per noi sarà una scocciatura.» La voce del biondino suonava atona, come se avesse imparato le parole a memoria ma non gli importasse di quello che significavano.
Mentre i due uomini coprivano la poca distanza che ci separava, lui mi studiava di sottecchi. Sembrava essersi incupito.
Quando i suoi amichetti mi furono di fronte, si chinarono e mi afferrarono ciascuno per un braccio. Mi strattonarono in piedi senza che potessi fare niente per fermarli: il dolore si riversò dentro di me come un fiume in piena mozzandomi il fiato e annebbiandomi la vista.
«Sanguina.» Commentò uno dei due uomini.
“No, ma davvero?”, pensai ironica nonostante fossi mezza svenuta.
«Capita alle persone a cui sparano.» Replicò il biondo da un punto imprecisato davanti a me. Il suo tono sembrava stanco, quasi avesse voluto essere ovunque meno che lì.
L’uomo rispose con un mugugno infastidito e non aggiunse altro. Insieme all’altro, mi trascinarono in avanti e poi fuori dalla cella. Non erano per niente delicati, sentivo ogni scossone come raddoppiato e continuavo ad inciampare nei miei stessi passi. Da una parte volevo prenderli a pungi, tutti e due, tre contando il biondino, ma, nello stesso tempo, stavo lottando contro me stessa per non cedere alla nausea quindi una rissa era fuori questione. I due uomini si fermarono e per un attimo la terra sembrò aver cominciato a girare al triplo della velocità normale. Poi si fermò di colpo e riuscii a mettere a fuoco, più o meno, il ragazzo davanti a me. O meglio, i suoi stivali.
«Che ne facciamo di lei?» Chiese uno dei gorilla aggrappato al mio braccio.
«Il capo vuole vederla.» Rispose il biondo. «Portatela nella stanza numero 3.»
“Non suona bene…”, pensai, “ma neanche malissimo”. E chi era questo capo? Il ragazzo che mi aveva sparato? Si era comportato come se fosse stato superiore ai suoi due compagni quella mattina quindi poteva essere lui. Restava da capire cosa potesse volere da me.
I due uomini annuirono e ripresero a trascinarmi lungo il corridoio con la loro solita grazia paragonabile a quella di un elefante zoppo. La lucidità andava e veniva, così come la vista: uno scontro era impensabile in queste condizioni. Se ci aggiungiamo il fianco ferito potevo tranquillamente dire che non avevo la minima possibilità di difendermi.
Avrei voluto dire qualcosa, chiedere spiegazioni magari, ma respirare mi costava un sacco di fatica, ogni boccata d’ossigeno era preziosissima e sprecarne, anche se fosse stato per cose importanti, mi sembrava da pazzi.
Continuarono a trascinarmi, passo dopo passo, metro dopo metro, fino a fermarsi davanti ad una porta di legno chiaro con la maniglia d’acciaio. Un grosso 3 campeggiava sulla superficie liscia. I miei due accompagnatori spalancarono la porta e, senza tante cerimonie, mi scaraventarono dentro.
Sbattei contro il pavimento lasciandomi sfuggire un mugolio di dolore accompagnato da un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire persino la mia prof di matematica. Grazie al cielo ero atterrato sul fianco buono quindi non fu poi così devastante. Sentii l’impatto con il pavimento propagarsi in tutto il corpo, ma riuscii a tenere duro. In effetti, devo ammettere che credevo sarei svenuta.
«Mmh… Sei parecchio giovane.» Disse una voce maschile da qualche parte nella stanza.
Tossii alla disperata ricerca d’aria e provai a sollevarmi sulle braccia mentre il fianco ferito protestava pulsando di dolore. Strinsi i denti, ma non riuscii comunque ad alzarmi. Dopo qualche altro tentativo, che mi lasciò ansimante e madida di sudore, decisi che dovevo optare per qualcosa di più semplice: mi girai sul fianco buono puntellandomi sul gomito per essere un po’ sollevata da terra.
Sbattei le palpebre e riuscii a guardarmi intorno: davanti a me c’era un tavolo di legno scuro con due sedie, una di fronte all’altra, come nelle sale interrogatori dei telefilm polizieschi. E, dall’altra parte, le gambe di un uomo fasciate da jeans scuri. Era stato lui a parlare. Era lui il capo di cui parlava il biondino?
Si spostò fino a trovarsi davanti a me si inginocchiò per avere il viso alla stessa altezza del mio. Sussultai sorpresa e impaurita, mia malgrado. L’uomo aveva i capelli neri tagliati corti, un accenno di barba sulla mascella, gli occhi grigi e l’aria severa. Teneva le labbra strette in una linea dura e impassibile. Era così vicino a me che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. Mi faceva venire i brividi.
Dopo avermi osservata per qualche secondo, sospirò e si alzò. Si mise a camminarmi davanti con le mani intrecciate dietro la schiena, come se stesse riflettendo. «Sai perché sei qui?» Domandò senza degnarmi di uno sguardo.
“Perché siete tutti dei pazzi furiosi?”, pensai cercando di costringermi a respirare con regolarità. Quando l’uomo tornò a guardarmi, in attesa di una risposta, scossi piano la testa, cauta.
Lui aggrottò la fronte e trasse un respiro profondo. «Vogliamo delle informazioni da te.» Aggiunse continuando a camminare.
Evidentemente non aveva mai sentito parlare di cose come le conversazioni o le domande: non doveva mica rapirmi per parlare con me.
«Che genere di informazioni?» La mia voce era roca e flebile.
«Sul tuo branco.» Disse semplicemente.
«Branco?» Ripetei confusa. «Non ho un branco.»
Si fermò di colpo e mi guardò con gli occhi socchiusi. «Come no? I lupi sono animali sociali, sentono il bisogno di stare in branco.»
Cercai una posizione più comoda visto che cominciava a farmi male il gomito. «Beh, io no.»
Sembrò scettico. Inarcò un sopracciglio e sospirò di nuovo. «Chi ti ha morsa allora? A meno che tu non sia nata così.»
Abbassai lo sguardo sul pavimento. «M-mi hanno morsa. Anni fa.»
Che senso aveva mentire? Se avesse anche solo sospettato che stavo nascondendo qualcosa mi avrebbe uccisa, il calcio della pistola che sporgeva dalla sua cintura ne era la prova.
«Chi è stato?» Chiese lui con voce incolore.
Chiusi gli occhi e scossi la testa: rivivere quel momento era più difficile del previsto. «Non lo so. Era buio… Non lo so.»
Dall’uomo giunse un accenno di risata soffocata. «E dovrei crederti?»
Lo guardai, incredula e nervosa. «Sì, è la verità.» Non riuscii a nascondere una nota di disperazione.
Lui si fermò e mi osservò con astio malcelato. «Nessun lupo sopravvive per anni senza un branco o almeno un altro licantropo con sé. È impossibile. Quindi smetti di mentire e di’ la verità: coprirli non servirà a niente.»
«Non sto coprendo nessuno.» Ringhiai: stavo arrivando al limite, dopo la paura, la frustrazione, la sofferenza, arrivava la rabbia, prorompente e bruciante.
Con velocità sorprendente, lui attraversò la stanza e mi afferrò per la maglietta sollevandomi da terra. Una nuova scossa di dolore mi attraversò il corpo annebbiandomi la vista. «Voglio i nomi!» Sbottò l’uomo a pochi centimetri dal mio viso. «Adesso! Altrimenti ti uccido, chiaro?»
Da qualche parte trovai la forza di guardarlo negli occhi, sfidandolo apertamente. «Allora credo proprio che dovrai uccidermi: non ho nessun nome da darti.»
Mi sbatté con forza contro il muro. Gemetti piano, senza fiato, e sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. Il dolore si era fatto così forte che mi sembrava di essere sul punto di svenire. L’uomo fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dal rumore della porta che si apriva. Attraverso le ciocche di capelli che mi erano ricadute sugli occhi, riuscii ad intravedere chi aveva disturbato l’ennesimo pazzo furioso della giornata: si trattava di una ragazza giovane, avrà avuto dodici, tredici anni. Aveva lunghi capelli neri lasciati sciolti sulle spalle, la pelle chiara e gli occhi marroni. Indossava una felpa e dei jeans. Non sembrava neanche lontanamente pericolosa, quindi perché era lì, insieme a tutti quegli aspiranti psicopatici?
«Papà?» Mormorò esitante.
L’uomo mollò la presa di colpo e io ricaddi a terra. L’impatto si riverberò dalle ginocchia fino alle spalle e mi fece sbattere i denti. Ansimai in cerca d’aria e mi rannicchiai su me stessa come se potessi in qualche modo difendermi.
«Denise, che ci fai qui?» Domandò l’uomo in tono sorpreso e teso.
La ragazza spostò lo sguardo su di me per un attimo prima di tornare a guardare il padre. «Io… avevo bisogno di una mano per i compiti.»
L’uomo sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Non potevi chiedere a Nathan?»
«No.» Denise fece una smorfia. «Non lo sopporto quando fa il superiore.»
«Tesoro, io ho da fare. Roba di lavoro…» Replicò lui.
“La roba di lavoro te la do io”, pensai scoccandogli un’occhiataccia dal pavimento. Sì, forse non ero nella posizione migliore, sia in senso metaforico che letterale, ma potevo ancora farmi valere. In qualche modo.
Denise mi guardò di nuovo. «Lei è…?»
Suo padre si spostò di lato in modo da nascondermi alla vista della figlia. «Non è importante. Adesso vai, cercherò di finire in fretta, mmh? Poi vengo ad aiutarti.»
La ragazza annuì anche se non sembrava convinta. «Okay…» Indugiò per un attimo sulla soglia prima di fare un passo indietro e chiudere la porta.
L’uomo aspetto qualche altro secondo, per assicurarsi che se ne fosse andata, prima di voltarsi verso di me. Il suo sguardo tradiva un certo disgusto, come se si fosse trovato davanti un insetto ripugnante.
«Non ho finito con te, sappilo. Ma adesso ho altro da fare.» Ringhiò.
Mi tirai su a sedere ignorando l’ennesima ondata di dolore e ricambiai la sua occhiata piena d’astio. Per un attimo sembrò sorpreso dalla mia sfida, ma si ricompose subito. Attraversò la stanza, aprì la porta e si affacciò. Parlò a bassa voce con qualcuno prima di scostarsi: i miei due accompagnatori spuntarono sulla soglia, impassibili come sempre. Un cenno del capo e mi si avvicinarono.
Mi irrigidii istintivamente, ma sapevo di poter fare ben poco contro due orsi come loro, soprattutto con il fianco che pulsava e la testa che doleva. Mi afferrarono di nuovo per le braccia e mi trascinarono verso la porta. Prima di uscire, però, dovevo fare un favore a me stessa.
Nel momento in cui stavo attraversando la porta, urlai da sopra la spalla: «E, per la cronaca, hai la cerniera abbassata!»
I due uomini si affrettarono a trascinarmi fuori mentre il loro capo mi guardava con gli occhi sgranati e la bocca aperta in un’espressione incredula. Attraversammo il corridoio nella metà del tempo che ci avevamo messo per andare. Il biondino era di nuovo davanti alla porta della mia cella, appoggiato al muro con una spalla, e sembrava quasi sorpreso. Mi osservò con un sopracciglio alzato, come se stesse contemplando un qualche animale esotico. Ma quell'ombra nel suo sguardo c'era ancora.
«È ancora viva, vuol dire che ha parlato?» Chiese spostando lo sguardo su uno degli uomini.
L’interpellato scosse la testa. «Non credo: ad un certo punto è arrivata Denise…»
Il biondo si lasciò sfuggire un verso scocciato. «Oddio, quella ragazzina… Non capisco perché si ostina a tenerla qui: combina solo guai.»
L’altro uomo scrollò le spalle scuotendo anche me. «Sua moglie l’ha lasciato, lo sai, Nathan. Stanno cercando di non farglielo pesare.»
“Quindi è lui il Nathan di prima”, pensai. Il biondino sbuffò e incrociò le braccia al petto e per un attimo mi apparve più giovane di quanto non fosse. I suoi occhi si posarono su di me, esitanti.
Dopo un attimo di tentennamento, sospirò, quasi rassegnato, e fece un cenno col mento verso la cella. «Rimettetela dentro.»
Non se lo fecero ripetere due volte: dopo aver aperto la porta, mi spinsero dentro e richiusero la grata con un tonfo sordo e metallico. Mugolai piano, senza fiato per quell’ennesima ondata di dolore. Le voci dei tre uomini fuori dalla cella si fecero confuse, lontane. Mi sembrava di star fluttuando, come se il mio corpo avesse perso la sua consistenza e il suo peso.
Nonostante l’idea di perdere i sensi di nuovo mi mettesse nel panico e mi sembrasse da ingenui, non riuscii a reggere oltre. Feci appena in tempo a rannicchiarmi su me stessa prima di svenire di nuovo.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Prima di tutto volevo dirvi che a Maggio pubblicherò una nuova storia incentrata su un servizio segreto degli Stati Uniti e con molta introspezione. Spero possa interessarvi <3
Passando a questo capitolo, è più breve di quelli che l'anno preceduto, ma ci da una visuale più ampia sui cacciatori che hanno preso la nostra Scar. Cacciano licantropi perché è stato insegnato loro a temerli fin da piccoli e voglio arrivare al branco di Scarlett, anche se lei non ne ha uno. Non ancora almeno.
Vi consiglio di tenere gli occhi aperti, uno dei personaggi che appaiono qui potrebbe rivelarsi diverso da come è apparso. E potrebbe sorprendervi...
Il prossimo capitolo sarà molto più lungo, è sulle 6000 parole circa, in pratica il doppio. Anche se ancora deve passare l'editing, quindi forse diminuiranno un po'.
E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Cosa pensate che succederà adesso? Scarlett scapperà da sola o riceverà un aiuto esterno?

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 26
*** 26. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 26


                                                         

                                                    Image and video hosting by TinyPic

 




26. Adam

Sinceramente, andare nella “tana”, come l’aveva definita Sean, dei cacciatori, mi sembrava un suicidio: tanto valeva buttarsi giù da un ponte. Che possibilità avevamo di entrare senza farci vedere o anche solo di avvicinarci abbastanza da provarci?
Sean era di tutt’altro avviso, ovviamente, visto che era stato lui a proporre, o meglio imporre l’idea. Seduto sul lato passeggero, di fianco a me, sembrava incredibilmente rilassato, come se stesse andando a farsi un giro in città e non a rischiare la vita per qualcuno. Tamburellava distrattamente sul suo ginocchio, lo sguardo perso fuori dal finestrino, i capelli biondi lievemente arruffati che gli ricadevano sulla fronte. Per un attimo mi chiese quanti anni avesse: ne dimostrava poco più di venti, ma poteva essere più giovane o più vecchio, difficile stabilirlo vista la sua aria perennemente accigliata.
Matthew se ne stava seduto sui sedili posteriori, i gomiti sulle ginocchia, l’espressione impaziente di un bambino che sta andando al parco giochi. Mi aspettavo che da un momento all’altro chiedesse “siamo arrivati?”.
«Immagino che sia un licantropo anche tu, giusto?» Domandai giusto per alleggerire un po’ la tensione.
Sean non si degnò neanche di guardarmi. «Mm-mm
Annuii tra me e me, ormai rassegnato al suo silenzio. «Bene.»
«Non mi sembri molto sorpreso dal fatto che anche io faccio parte del soprannaturale.» Commentò Matthew in tono fin troppo tranquillo.
Sospirai. «Non credo che abbiamo tempo per questo. È una bella novità, questo sì, ma siamo già in ritardo.»
Lui fece un cenno d’assenso e si appoggiò con un gomito allo schienale del mio sedile. «Vero.»
Il resto del viaggio fu solo silenzio, interrotto ad intervalli regolari da Sean che dava indicazioni con voce ferma e neutra, senza tradire la minima emozione. Arrivai a chiedermi se ogni tanto provasse qualcosa di diverso dall’irritazione.
Ci stavamo allontanando dalla città, puntavamo a nord, verso la parte industriale di Seattle, dove c’erano fabbriche, magazzini, edifici vecchi e anonimi. In effetti, dovevo ammettere che sembrava un buon posto per mettere su una base segreta per un manipolo di cacciatori di licantropi.
Sean mi disse, con un’inflessione dura nella voce, di parcheggiare l’auto dietro un deposito dismesso. Non avevo idea di cosa avesse in mente, ma feci come voleva: sembrava sicuro di sé e molto convinto di quello che faceva. Scendemmo tutti e tre dall’auto per saggiare il territorio. Matthew mi affiancò mentre Sean si guardava intorno con aria concentrata, lo sguardo che si spostava rapidamente da una parte all’altra.
«E adesso? Cioè… qual è la prossima parte del piano?» Domandai osservandolo.
Trasse un respiro profondo. «Non lo so. Quando ho elaborato il piano mi sono fermato qui.»
“Scarlett potrebbe già essere morta e non abbiamo un minimo di strategia?”, pensai stringendo le labbra per non dirlo ad alta voce. Mi costrinsi ad essere razionale e a soffocare la sensazione di paura che mi stava nascendo dentro. «Okay. Quindi ci serve un nuovo piano.»
Sean raddrizzò la schiena. «Mi servono cinque minuti per pensarci.»
«Non credo che abbiamo cinque minuti…» Mormorò Matthew esitante dando voce anche ai miei pensieri.
Gli occhi verde-grigio di Sean lo fulminarono con un’occhiataccia che sembrava di ghiaccio tanto era dura. «Preferisci andare allo sbaraglio? Se sì, va’ pure.»
Matthew chinò la testa come un bambino di fronte ai rimproveri di un insegnante. Borbottò qualcosa che non riuscii a sentire, ma che sembrò soddisfare Sean, che distolse lo sguardo e cominciò a camminare lentamente davanti all’auto. Mi lasciai sfuggire un sospiro reso tremante dalla frustrazione e mi passai una mano tra i capelli.
Era snervante starsene lì senza fare nulla sapendo che Scarlett era in pericolo. C’erano buone possibilità che fosse ferita, ma per quel che ne sapevo poteva essere già morta. Non la conoscevo bene, non avevo motivo di essere tanto in ansia per lei, eppure mi sentivo come se fosse stato un mio dovere proteggerla, o almeno riportarla a casa.
Sean continuava a misurare il terreno con passi lunghi e lenti, lo sguardo perso nel vuoto, le mani nelle tasche della giacca. Si prese ancora un paio di minuti durante i quei avrei voluto scuoterlo, dirgli di sbrigarsi.
Alla fine si fermò e si voltò verso di noi. «D’accordo, ho qualcosa.»

Il quartier generale dei cacciatori -altra parola del gergo tecnico di Sean- era una costruzione bassa ed anonima, con le pareti di cemento grigio smorto imbrattate di graffiti e macchie di umidità. L’ingresso principale era costituito da due porte di metallo, come quelle che si vedono in qualche scuola, che una volta erano state dipinte di rosso, ma che adesso erano scrostate e arrugginite. Davanti all’edificio c’era un piccolo parcheggio che si immetteva direttamente su una strada secondaria. Sembrava un posto anonimo, quasi abbandonato.
«Davvero sono qui?» Sussurrai a Sean, in piedi al mio fianco dietro il muro di un vecchio magazzino.
Com’era nel suo solito, non mi guardò quando rispose: «Sì. Li ho tenuti d’occhio per un po’ e so che sono qui. E, a meno che non abbiano cambiato programma, oggi hanno una riunione che ci darà la possibilità di coglierli di sorpresa.»
Per una volta il fatto che fosse ben informato mi fece sentire un po’ più rassicurato. Un piano, in fondo, c’era e anche se non mi sembrava poi così geniale o collaudato, almeno non ce ne saremmo stati con le mani in mano.
Sean prese il telefono dalla tasca interna della giacca e compose velocemente un numero prima di portarselo all’orecchio. Attese un paio di secondi in silenzio. «Noi siamo pronti, tu? Bene. Allora noi andiamo.»
Rimise il cellulare al suo posto e si voltò verso di me. Ricambiai l’occhiata sentendo i livelli d’ansia aumentare. Sean mi fece un cenno che stava a significare che dovevamo andare, che stavo per cacciarmi in un guaio enorme, che potevo non uscirne vivo, ma che dovevo farlo.
Scivolammo silenziosamente fuori dal nostro nascondiglio e ci accostammo al muro dell’edificio. Stando a quello che aveva detto Sean, la stanza dove si sarebbe tenuta la riunione dei cacciatori era dall’atra parte rispetto all’entrata, quindi avremmo avuto un po’ di vantaggio.
Arrivammo di fianco alla porta e io mi sentii il cuore in gola. Ricacciai indietro la paura e mi costrinsi a rimanere calmo, controllato. Scarlett aveva bisogno di me adesso, non potevo mostrarmi debole.
Sean socchiuse appena la porta e si affacciò per controllare che non ci fosse nessuno. Dopo qualche secondo si voltò verso di me e mi fece un cenno d’assenso. «Via libera.»
Una parte di me considerò quel linguaggio da missione militare un po’ esagerato, ma non commentai: mi limitai ad annuire non sapendo se la mia voce sarebbe stata ferma o no. Lui mi studiò per un attimo con quei suoi occhi verde-grigio prima di infilarsi dentro. Lo seguii pensando che ormai era troppo tardi per tornare indietro.
Ci ritrovammo in un corridoio poco illuminato su cui si aprivano diverse porte ad intervalli regolari. Sembrava completamente vuoto. Il silenzio era quasi assordante. L’unico rumore erano i nostri respiri.
«Verrò con te adesso: casomai dovessimo incontrare qualcuno è meglio se almeno uno di noi sa come difendersi.» Mormorò Sean.
Stavo per chiedergli cosa intendesse visto che non sembrava avere armi con sé, ma mi rimangiai la domanda quando fece allungare gli artigli, più affilati e grossi di quelli di Scarlett. Spalancai gli occhi vedendoli: quel ragazzo era imprevedibile, non sarei mai riuscito a stargli dietro.
Cominciammo a camminare fianco a fianco cercando di non fare rumore. I passi di Sean erano sorprendentemente silenziosi, come quelli di un felino. In effetti, un po’ assomigliava ad un leone con quei capelli biondi, gli occhi fiammeggianti di un verde tendente al grigio, il corpo snello e slanciato.
«Che intendi con “per adesso”? Hai intenzione di andartene?» Chiesi a bassa voce.
«Tu e lei dovete uscire il prima possibile e per farlo vi servirà un diversivo.» Spiegò lui in un sussurro. «Ti aiuterò a trovarla, poi starà a te portarla fuori mentre io li distraggo.»
«È pericoloso. Insomma, loro sono cacciatori di licantropi: il loro lavoro è cacciare i lupi mannari e sono piuttosto sicuro che questo includa anche l’ucciderli. Potresti morire.» Replicai sforzandomi di mantenere il tono basso.
«O potrebbero morire loro.» Rispose senza scomporsi minimamente.
Dovetti ammettere che aveva ragione: sembrava, ed era, molto sicuro di sé oltre che incredibilmente preparato a livello di strategia. Chiunque riuscisse a creare un piano in due minuti doveva essere molto intuitivo e calcolatore. Poteva cavarsela benissimo.
«Immagino tu sappia dove la tengono… giusto?» Domandai lanciandogli un’occhiata di sottecchi.
«Più o meno. Non ho mai avuto una piantina dell’edificio quindi non ne ho una visione completa. Vado ad istinto. E seguo il suo odore.» Replicò mentre i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra del corridoio. «È più forte se c’è una ferita aperta. Sai, per via del sangue…» La sua voce si fermò di colpo e lui mi osservò per un secondo, come per valutare la mia reazione.
Evitai il suo sguardo indagatore e trassi un respiro profondo. «Quindi è ferita.»
«Non conosco bene il suo odore, mi sono dovuto accontentare di tracce deboli e non sempre precise. Ma sento il sangue ed è probabile che sia suo.» Spiegò in tono stranamente accondiscendente.
Annuii continuando a non guardarlo e lasciai cadere la conversazione. Camminammo attraversando corridoi poco illuminati e deserti.
Sapere che Scarlett era ferita mi metteva addosso un’ansia strana che andava a toccare parti nascoste di me. La conoscevo solo da pochi mesi, ma mi sembrava che salvarla, in quel momento, fosse la mia priorità assoluta: poco importava se per le prime settimane dopo il nostro primo incontro ci eravamo dati contro a vicenda di continuo, adesso avevo l’impressione che lei fosse diventata… importante.
«Okay, dovrebbe essere qui vicino…» Mormorò Sean più a se stesso che a me.
Si fermò di colpo e si voltò verso un corridoio che si apriva alla mia destra. Il fondo era troppo buio per capire cosa ci fosse, ma sembrava vuoto come gli altri. L’unica cosa che si riusciva ad intravedere, sulla parete di sinistra, erano spesse sbarre scure, come quelle di una prigione…
«La tengono in gabbia?» Chiesi incredulo.
Sean si lasciò sfuggire un sorrisetto amaro. «In fondo, hanno paura di noi. Dicono di essere gli eroi che libereranno il mondo dalla minaccia dei licantropi, ma sono i primi a temerci.»
Ignorai il suo discorso filosofico e continuai a guardare con insistenza le ombre sulle pareti del corridoio di fronte a noi. «Adesso che succede?»
«Tu vai a prenderla e la porti fuori, io creerò un po’ di confusione.» Rispose mentre un ghigno divertito gli si dipingeva sulle labbra.
Annuii e mi mordicchiai il labbro. «Bene.»
Inarcò un sopracciglio studiandomi. «Mmh. Andiamo.»
Dividerci mi sembrava nello stesso tempo una pessima idea e un grande sollievo: non mi piaceva ammetterlo, ma lui riusciva a mettermi in soggezione senza neanche guardarmi. Dava l’idea di essere ad un livello superiore, di avere il controllo su tutto perché lo vede da una posizione sopraelevata. E questo mi metteva addosso uno strano nervosismo, come se avessi dovuto dimostrare di essere alla sua altezza.
Rimasi ad osservarlo per un attimo mentre proseguiva per il corridoio principale con passo sicuro e silenzioso, quasi fosse stato solo un’ombra. Si manteneva vicino al muro e teneva le spalle chine, pronto per passare all’azione vera e propria. Mi imposi di distogliere lo sguardo e imboccai il corridoio alla mia destra.
Mentre passavo accanto alle celle sentivo il cuore accelerare i battiti: come si poteva arrivare ad essere tanto crudeli con qualcuno? Loro cacciavano i licantropi perché li ritenevano una minaccia, ma questo non voleva dire che erano autorizzati a non avere un minimo di pietà.
Tutte le prigioni erano vuote, sia quelle sulla sinistra che quelle sulla destra. Cominciavo a dubitare che Scarlett fosse lì… Insomma, magari avevano altre celle, o forse era semplicemente troppo tardi. Mi bloccai di colpo e trattenni istintivamente il fiato. Poteva essere lei?
Trassi un respiro profondo cercando di prepararmi mentalmente a qualunque cosa mi si potesse parare davanti, e mi voltai verso la prigione alla mia sinistra. E lei era lì. Sembrava morta: era sdraiata su un fianco, aveva gli occhi chiusi, la pelle incredibilmente pallida, i capelli sparsi intorno alla testa, le gambe strette contro il petto come a volersi proteggere. Non riuscivo a vedere granché con tutto quel buio, ma il solo pensiero che qualcuno potesse averle fatto male mi provocò una strana sensazione di calore all’altezza del petto. Mi avvicinai alla porta della cella mentre il mio respiro diventata più veloce, spezzato. Sembrava quasi addormentata, eppure avevo la netta sensazione che non fosse così.
«Scar…» Il suo soprannome mi sfuggì dalle labbra senza che riuscissi a fermarlo.
Faceva male vederla così, debole e molto probabilmente sofferente. Non riuscii a reggere oltre, così distolsi lo sguardo mordendomi il labbro. Allungai una mano strinsi le dita attorno ad una delle sbarre della porta. Dovevo tirarla fuori di lì.
«Adam?» Fu un sussurro così lieve che credetti di essermelo immaginato.
Mi voltai di scatto verso la sagoma scura di Scarlett e mi accorsi che aveva sollevato la testa.
«Scarlett.» Non riuscii ad aggiungere altro.
La sua risposta fu una risatina soffocata che assomigliava ad un colpo di tosse. «Sto delirando…»
Non riuscii a staccare gli occhi da lei. «No. Sono davvero qui.»
«Perché?» Chiese in un bisbiglio roco. «Potrebbero ucciderti.»
«Ti tirerò fuori di qui.» Dichiarai ignorando volutamente le sue ultime parole.
Quando provai ad aprire la porta, però, realizzai qualcosa a cui avrei dovuto pensare tempo prima: era chiusa a chiave. Mi diedi dell’idiota da solo mentre cercavo nelle tasche dei jeans qualcosa che potesse tornarmi utile. Com’era prevedibile, non trovai niente.
«Scarlett, senti, ho bisogno che tu mi aiuti.» Dissi tornando a guardarla. «La porta è chiusa a chiave, mi serve qualcosa per aprirla.»
Rimase in silenzio per un po’, tanto che arrivai a credere che fosse svenuta. Poi disse: «Ho una forcina.»
Tornai a respirare di colpo: non mi ero accorto di star trattenendo il fiato. «Davvero? Beh, è un’ottima cosa.»
Da un punto imprecisato dell’edificio giunse l’eco di un ringhio furioso e selvaggio. Avrebbe dovuto spaventarmi, invece mi fece sperare che Sean stesse avendo la meglio. Era un pensiero un po’ azzardato considerando che era da solo contro un gruppo di cacciatori, ma era sembrato così sicuro di sé…
«Okay, Scar, dammi la forcina.» Mormorai.
Lei si portò una mano tra i capelli e ne sfilò qualcosa di piccolo e sottile. Provò a mettersi a sedere, ma ricadde giù con un gemito strozzato. Sentii una stretta al cuore e provai l’impulso di stringerla tra le braccia per rassicurarla, per dirle che sarebbe andato tutto bene. Sbuffò piano e fece scivolare la forcina sul pavimento fino alla porta. Le sbarre erano abbastanza distanziate da permettermi di infilarci una mano e prenderla.
Quando me la ritrovai tra le dita, però, sorse un altro problema: come si scassina una porta? Nei film lo facevano sembrare facile, un gioco da ragazzi, ma qualcosa mi diceva che nella realtà sarebbe stato un po’ più complicato. Dopo vari tentativi, accompagnati dalle mie imprecazioni soffocate e dai ringhi di Sean in lontananza, sentii lo scatto della serratura e vidi la porta aprirsi sotto il mio sguardo incredulo. Mi concessi solo un secondo per riprendere fiato prima di infilarmi nella cella e inginocchiarmi al fianco di Scarlett. Tremava tutta e, quando la toccai, mi stupii di quanto fosse fredda.
«D’accordo Scar, adesso usciamo di qui, va bene?» Sussurrai cercando, nello stesso tempo, di capire quanto grave fosse la situazione.
«Non dovresti essere qui.» Bisbigliò guardandomi da dietro i capelli che le erano ricaduti sugli occhi.
«Neanche tu se è per questo.» Borbottai distrattamente.
Feci per passarle un braccio intorno alla vita per aiutarla ad alzarsi, ma lei sussultò e si strinse contro il muro. Rimasi immobile, incredulo e spaventato, mio malgrado: che diavolo le avevano fatto?
«Io… Non credo sia una buon’idea.» Spiegò con voce tremante.
Seguendo la direzione di una sua occhiata quasi inconsapevole, posai lo sguardo sulla sua mano sinistra, stretta sul fianco. E il mio cuore perse un battito: c’era del sangue, tanto sangue, sulle sue dita, sui suoi vestiti, su di lei. Ancora una volta non riuscii a dire niente se non il suo soprannome. «Scar…»
“Concentrati”, mi ammonì una vocina nella mia mente. Avevo poco tempo per salvarla, se avessi indugiato ancora sarebbe potuta morire, forse proprio sotto i miei occhi. Dovevo prendere in mano la situazione.
«Lo so che fa male Scar, ma adesso dobbiamo andarcene. Subito.» Dissi cercando di dare alla mia voce un tono deciso.
Lei strinse le labbra e annuì. «Okay.»
Fece forza su un braccio e riuscì a tirarsi su a sedere. Il suo viso fu finalmente all’altezza del mio e questo non fece altro che aumentare il disgusto che già provavo verso quei dannati cacciatori: era pallida da far paura, con delle ombre scure sotto gli occhi, e l’espressione tremendamente impaurita.
Deglutii a vuoto sentendo un sapore amaro in bocca e cercai di schiarirmi la mente. Mi sporsi verso di lei e le passai un braccio intorno alla vita cercando di non toccare la ferita. Tirarla su fu un po’ più complicato e nonostante tutta la buona volontà che ci misi, le sue labbra si incresparono comunque in una smorfia di malcelato dolore. Appena fummo in piedi, lei si appoggiò completamente a me, come se le gambe non la reggessero già più. E probabilmente era così visto tutto il sangue che aveva perso.
La strinsi contro di me per darle più sostegno e le sussurrai un incoraggiamento. Mi rispose con un grazie appena udibile. Uscimmo dalla cella non senza una certa difficoltà e lei tirò un sospiro di sollievo. Un altro ringhio squarciò il silenzio facendo sussultare entrambi: Sean sembrava essere parecchio arrabbiato. Ammesso che fosse lui.
«Sai se ci sono altri lupi?» Le chiesi a bassa voce, come se un tono più alto avesse potuto spaventarla.
Scosse piano la testa. «Non credo. Anche se non ho visto molto.»
Annuii senza aggiungere altro: mi rendevo conto che parlare le costava fatica e non volevo farle sprecare fiato. Ci sarebbe stato tempo dopo per i chiarimenti. Il corridoio principale si avvicinava pian piano, passo dopo passo. Mi sembrava che si stessimo muovendo con una lentezza esasperante eppure sapevo di non poterle mettere fretta, non ce l’avrebbe fatta.
Un ringhio più forte dei precedenti mi fece trasalire: sembrava vicino, troppo vicino. Perché se c’era Sean c’erano anche i cacciatori.
Stretta contro di me, Scarlett fu scossa da un tremito. Sentii le sue dita stringersi sul mio braccio come in cerca di un appiglio.
«Manca poco.» Sussurrai pur sapendo che non era la proprio la verità.
Annuì piano stringendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile di tensione e dolore. Intanto eravamo sbucati nel corridoio principale e riuscii ad intravedere le porte d’ingresso in mezzo a tutto quel buio. Scarlett sembrò rincuorata quanto me da quella vista. La sentii raddrizzarsi un po’ facendomi riconoscere la sua solita testardaggine.
Mi ritrovai a ringraziare il fatto che fosse così minuta: rendeva più facile trasportarla visto che non sembrava assolutamente in grado di camminare. All’improvviso sentii un rumore come di legno che si spezza, uno schianto secco che mi fece gelare il sangue nelle vene. Avevo sopravvalutato Sean, lo sapevo, come potevo anche solo pensare che fosse abbastanza forte da tenere testa ad un intero gruppo di cacciatori?
La nostra unica speranza era quella di riuscire a raggiungere la porta prima ce ci raggiungessero. Accelerai il passo trascinandola con me cercando, nello stesso tempo, di non farle male. Mancava poco all’uscita, potevamo farcela. Magari Sean era ancora vivo e ci stava coprendo le spalle.
Come a confermare la mia speranza, un ringhio basso e gutturale giunse da un punto imprecisato dietro di noi. Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo: forse avevamo una possibilità. Finalmente raggiungemmo la porta. Quando la aprii, la luce costrinse Scarlett a nascondere il viso nella mia spalla: chissà quanto era rimasta immersa in quell’oscurità umida ed inquietante. Dovetti socchiudere gli occhi anch’io, ma in fondo ero più che felice di tornare all’aperto.
Come da programma, la mia macchina era subito davanti all’ingresso dell’edificio, con Matthew al volante. Lo vidi illuminarsi di sollievo quando ci vide uscire. Pochi passi dopo, aprii la portiera dell’auto e aiutai Scarlett a sedersi sui sedili posteriori. Scivolò sdraiata su un fianco e si rannicchiò su se stessa. Quel gesto dettato dalla paura e dalla sofferenza mi provocò l’ennesima stretta al cuore.
«Ce l’avete fatta!» Esclamò Matthew sorridendo.
Mi sporsi dentro l’abitacolo appoggiandomi con una mano allo schienale di un sedile. «Sì, ce l’abbiamo fatta.»
Lui guardò qualcosa dietro di me prima di riportare lo sguardo sul mio viso. «E Sean?»
Trassi un respiro profondo. «Sinceramente? Non lo so. Credo sia ancora dentro.»
Lo sguardo di Matthew si incupì per un attimo, poi lui annuì. Mi morsi il labbro sentendomi in colpa: Sean aveva deciso di rischiare la sua vita per permettere a me e a Scarlett si metterci in salvo, se fosse morto nel farlo non me lo sarei mai perdonato. Scarlett fece scivolare una mano su quella che tenevo lungo il fianco e mi strinse piano le dita, come a volermi rassicurare. Abbassai lo sguardo su di lei e ricambiai la stretta accarezzandole le nocche.
«Torno dentro.» Decisi all’improvviso raddrizzandomi.
«Cosa?» La voce di Scarlett fu appena udibile, ma la sentii aggrapparsi a me con un po’ più forza.
«Adam, non è una buon’idea.» Intervenne Matthew.
I suoi occhi incontrarono i miei e mi comunicò tramite lo sguardo quello che non disse ad alta voce: “potrebbero ucciderti”.
«Lo so.» Mormorai. Ma non posso lasciarlo lì.
Strinsi un po’ di più le dita di Scarlett prima di sfilare delicatamente la mano dalla sua presa. Lei protestò con poca convinzione, troppo debole per opporre veramente resistenza. Non mi andava di lasciarla, ma sapere Sean da solo contro tutti quei cacciatori… No, non potevo starmene lì ad aspettare.
«Se… se dovessero esserci complicazioni, portala via. Per favore.» Aggiunsi guardando Matthew.
«Stai scherzando, vero? Non vi lascio qui!» Replicò lui con un po’ troppa enfasi.
«Ti prego, Matthew.» Dovevo fargli venire i sensi di colpa per convincerlo? Forse. «Mi hai mentito per anni, in un certo senso sei in debito con me.»
Corrugò la fronte e distolse lo sguardo: si vedeva che non gli piaceva. «Okay.» Cedette infine. «Cerca solo di tornare tutto intero. E di portare anche lui.»
Annuii sperando di sembrare convinto, mi voltai e rientrai nell’edificio. Il buio mi avvolse esattamente come la prima volta, ma adesso sapevo dove andare. Più o meno.
Cominciai a camminare nel corridoio principale cercando di fare più attenzione possibile per evitare di farmi cogliere di sorpresa. Se fosse successo non avrei avuto la minima possibilità di cavarmela, lo sapevo. Ero arrivato all’altezza delle celle quando sentii un rumore improvviso e una sagoma spuntò fuori come per magia da dietro un angolo.
Mi irrigidii istintivamente trattenendo il fiato. Ripensandoci, non era stata una buon’idea andare da solo. Probabilmente persi troppo tempo a riflettere, perché lo sconosciuto ebbe tutto il tempo di raggiungermi. Era Sean, i capelli arruffati e un sorriso da ragazzino ad incurvargli le labbra, mi si avvicinò con la sua solita andatura disinvolta e silenziosa. «Adam.» Disse, gli occhi accesi da un bagliore dorato.
«Sei vivo.» Commentai senza riuscire a nascondere la sorpresa nella voce.
Il suo sorriso si fece più ampio. «Avevi dubbi?» Poi affilò lo sguardo socchiudendo le palpebre. «Dov’è lei?»
«Al sicuro, in auto.» Risposi.
«E tu perché sei qui?» Domandò inarcando un sopracciglio.
Esitai senza sapere cosa dire: ce l’avevo un motivo, una buona ragione per cui tornare a cercarlo? «Uhm… Ecco, non ti vedevamo ritornare quindi…»
Scrollò le spalle. «Ho solo voluto assicurarmi che nessuno ci desse fastidio.»
Mi passai una mano tra i capelli senza riuscire a non considerare bizzarra la tranquillità con cui ne parlava. Poi aggrottai la fronte osservandolo meglio. «Quello è sangue?» Chiesi indicando la sua maglietta con un cenno.
Abbassò lo sguardo per un attimo e si strinse nelle spalle. «Sì, ma non è mio.»
«Okay…» Mormorai sperando che non si accorgesse di quanto strana mi sembrasse la sua noncuranza.
«Andiamo: l’odore del sangue è molto forte, vuol dire che è ferita in modo piuttosto grave.» Aggiunse con voce improvvisamente dura e seria.
Senza aspettare una risposta, cominciò a camminare con aria decisa verso la porta. Lo seguii dopo un attimo di esitazione. Le sue falcate erano lunghe e veloci, tanto che ci ritrovammo fuori in meno di un minuto: evidentemente era sicuro di aver messo fuori gioco tutte le possibili minacce. Quando raggiungemmo l’auto, vidi Matthew tirare un sospiro di sollievo. Sean si sedette accanto a lui e chiuse la portiera con un tonfo. Io feci il giro della macchina e, prima di sedermi, presi Scarlett tra le braccia. Si rannicchiò contro di me piegando le ginocchia e appoggiando la testa sulla mia spalla. Se possibile, mi sembrava ancora più pallida.
«Come sta?» Chiese cauto Sean osservandola dallo specchietto retrovisore.
Abbassai lo sguardo sulla ragazza stretta a me. «Credo abbia perso molto sangue, ma è sveglia.»
Lui aggrottò appena la fronte. «Mmh.»
Matthew mise in moto e partì imboccando subito la strada appena fuori dal parcheggio. «Beh, di solito è un buon segno.»
«Adam?» Mi richiamò debolmente Scarlett, la voce ridotta ad un sussurro.
«Dimmi.» Mormorai scostandole una ciocca di capelli dagli occhi.
«Non dovevi venire, è pericoloso.» Bisbigliò. «Però… grazie.»
Sentii un sorriso fiacco farsi strada sulle mie labbra. «Figurati, non potevo lasciarti qui.»
Nascose il viso nell’incavo del mio collo. «Forse avresti dovuto però…»
Non risposi, mi limitai a stringerla un po’ di più cercando di non farle male. Dovetti ammettere che aveva ragione: che motivo avevo di rischiare la vita per salvarla? La conoscevo da mesi, ma non era abbastanza… C’erano state tante cose che ci avevano diviso: Elisabeth, la sua licantropia, la sua testardaggine, le mie insistenze… Ma anche altre che ci avevano in qualche modo unito, come quella notte di luna piena passata insieme.
«Non puoi andare più veloce?» Chiese Sean lanciando un’occhiata allo specchietto retrovisore.
«Sì, potrei, ma non credo sia una buona idea farci beccare dalla polizia.» Replicò Matthew.
Sean scosse la testa e tornò a guardare fuori dal finestrino con aria contrariata, quasi imbronciata.
L'altro si schiarì la gola. «Adesso dove andiamo? Insomma, ci serve un posto sicuro e tranquillo per… per curarla.»
Sean si rabbuiò per un attimo. «Mmh… Non saprei… Casa tua è troppo vicina a quella di Adam, sarebbe da idioti andare lì.»
«E poi Theo non ama gli ospiti.» Commentò Matthew annuendo.
Sean si voltò lentamente verso di lui, le sopracciglia inarcate e lo sguardo diffidente. «Theo?»
«È il suo gatto.» Spiegai aiutando Scarlett a sistemarsi meglio contro di me.
Il licantropo sbuffò e scosse la testa. «È una cosa seria questa.» «Anche il mio gatto è una cosa seria.» Protestò Matthew.
Sospirai. «Io ho una casa nel bosco. In realtà è di mia madre, ma visto che non la usa nessuno…»
Attraverso lo specchietto retrovisore, vidi gli occhi di Sean accendersi di interesse. «Perfetto.»
«Dov’è?» Chiese Matthew.
Gli spiegai come arrivare al cottage nella foresta mentre lui annuiva con espressione concentrata. Anche Sean ascoltava con attenzione, gli occhi socchiusi, le labbra strette.
Scarlett, ancora stretta contro di me, tremava piano. Forse era dovuto alla perdita di sangue, o alla paura. O magari ad entrambe. Dopo un sussulto particolarmente violento, decisi di usare la giacca che avevo lasciato in auto quella mattina per coprirla: gliela misi intorno alle spalle prima di farla stringere di nuovo contro il mio petto. Sussurrò un “grazie” con le labbra che mi sfioravano il collo.
Quando la sentii rilassarsi di colpo, un po’ mi preoccupai. E avevo ragione di farlo: era diventata ancora più pallida e aveva gli occhi chiusi. La sua pelle era gelata.
«Ha perso i sensi.» Mi sentii dire mentre la paura tornava, gelida e infida come prima.
Matthew imprecò tra i denti e lo vidi stringere la presa sul volante. «Non è un buon segno. Per niente.»
«No, ma davvero?» Borbottò Sean alzando gli occhi al cielo. «Te l’avevo detto che dovevi accelerare.»
«Meglio tardi che mai.» Commentò Matthew prima di premere sull’acceleratore. Tutti e quattro fummo sbalzati in avanti da quell’improvviso cambio di velocità. Matthew si concentrò sulla strada mentre Sean si appoggiava allo schienale del sedile con aria vagamente infastidita.
«Scarlett, ehi… Scar, andiamo, svegliati.» Sussurrai accarezzandole piano la guancia.
Non diede segno di avermi sentito, rimase perfettamente immobile tra le mie braccia. Il mio respiro si fece spezzato e sentii la gola chiudersi nella morsa del panico. Strinsi le labbra cercando di recuperare il controllo: non potevo cedere proprio adesso, dovevo essere forte e calmo, per lei e per me.
Matthew superava diverse auto alla volta guadagnandosi gestacci e insulti gridati dai finestrini abbassati che non lo sfioravano nemmeno. Sean sembrava impaziente e teso: aveva le spalle rigide, la fronte aggrottata, lo sguardo fisso sulla strada.
Il suo atteggiamento così lunatico un po’ mi insospettiva, anche perché non ero ancora riuscito a trovare un motivo per cui avrebbe dovuto salvare Scarlett: era troppo giovane per essere suo padre e non le assomigliava per niente se tralasciamo il bagliore dorato degli occhi, in più non sembrava avere assolutamente nessun legame con lei.
C’era sempre la possibilità che Scarlett mi avesse nascosto di avere un qualunque rapporto con Sean per non aumentare il rischio di essere scoperti. Ma restavano tante altre eventualità da considerare. E se si fossero conosciuti anni fa, prima che lei venisse morsa? Non sapevo da quanto Scarlett fosse un lupo mannaro, forse erano pochi mesi… No, doveva essere da un bel po’: aveva detto che aveva affrontato molte notti di plenilunio quindi doveva essere passato parecchio tempo.
«È questa?» Chiese Matthew risvegliandomi dalle mie congetture.
Sbattei le palpebre e sollevai lo sguardo: il cottage nel bosco si ergeva tra il verde degli alberi, tranquillo e silenzioso come sempre. «Sì, è… è questo.»
 Sean annuì socchiudendo gli occhi. «Mi sembra perfetto.»
«C’è un posto dove possiamo portare Scarlett? Sarebbe preferibile un letto o qualcosa del genere.» Aggiunse Matthew mentre rallentava.
«Al piano di sopra ci sono due camere da letto.» Risposi stringendo inconsapevolmente la ragazza tra le mie braccia.
Matthew annuì con aria grave. «Bene. Portala lì.»
Spalancai gli occhi, sorpreso: come pensava che avrei fatto? Dovevo portare Scarlett in braccio? Era minuta e magra, questo sì, ma non avevo mai fatto niente del genere.
«Okay.» Mormorai sperando di sembrare convinto.
Matthew fermò l’auto davanti al portico e spense il motore. Dopo aver fatto un respiro profondo, aprii la portiera, feci scivolare Scarlett sui sedili, scesi di macchina e la ripresi passandole un braccio sotto le ginocchia e uno dietro la schiena. La testa le ricadde inerme contro il mio petto, sulle palpebre chiare spiccavano vene sottili di un azzurro tenue, le labbra rosee e sottili erano leggermente schiuse: sembrava quasi un angelo, cosa che strideva con il suo essere un licantropo.
Di solito i lupi mannari erano considerati creature demoniache mandate dal Diavolo per uccidere persone innocenti, ma lei… lei era tutto il contrario.
Cominciai a camminare verso le scale del portico. «Le chiavi sono nella tasca della giacca.»
Sentii uno sbuffo scocciato e un fruscio. Il tempo di arrivare davanti alla porta e Sean mi era accanto. Mi lanciò un’occhiata di sottecchi prima di inserire le chiavi nella serratura.
Appena la porta si aprì, mi infilai dentro e attraversai il salotto fino alle scale di legno che portavano al piano di sopra. Raggiunsi la prima camera sentendo una strana calma prendere il posto dell’ansia. In qualche modo riuscii ad aprire la porta senza smuovere troppo Scarlett.
La adagiai delicatamente sul letto facendole appoggiare la testa sul cuscino. Non aveva ancora aperto gli occhi. Feci un passo indietro cercando di riprendere fiato. Era salva, l’importante era questo. Non sapevo se era in pericolo di vita o no, ma almeno non era più in mano ai cacciatori.
Qualcuno apparve al mio fianco facendomi sobbalzare. «Bene. Adesso fuori, tutti e due.» Ordinò Matthew con aria autoritaria.
«Cosa?» Mormorai guardandolo: di solito era sempre trasandato e con la testa tra le nuvole; in quel momento, invece, sembrava incredibilmente controllato e concentrato.
«Ho detto fuori.» Ripeté lui senza scomporsi minimante e appoggiando una borsa di pelle marrone vecchia e consunta sul bordo del letto. Non mi ero accorto che l’avesse con sé.
Lanciai un’ultima occhiata a Scarlett prima di voltarmi ed avvicinarmi alla porta. Sean se ne stava in piedi vicino al muro, le braccia incrociate al petto, l’espressione cupa. Mi seguì fuori dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.
In quel momento sembrò che tutta l’adrenalina nel mio corpo fosse sparita così, all’improvviso, lasciandomi svuotato ed esausto. Appoggiai la schiena al muro e trassi un respiro profondo. Non mi sembrava vero, niente di quello che era successo nel giro di quanto, due ore?, mi sembrava vero.
«È in buone mani.» Disse Sean all’improvviso.
Sollevai lo sguardo su di lui, sorpreso. «Che intendi?»
«I Sangue di Lupo hanno un talento innato per le tecniche di guarigione. Fa parte di loro, lo ereditano attraverso la loro parte soprannaturale.» Spiegò con voce calma.
Scossi appena la testa tornando a fissare il vuoto. «Non l’ho mai saputo.»
«Ci sono tante cose che non sai.» Mormorò lui con un sospiro.
«Com’è possibile che delle persone siano tanto crudeli da rapire e ferire una ragazza così, a sangue freddo? Perché sono tanto spaventati da lei, da voi? Non ha senso…» Le mie parole non avevano un destinatario particolare, parlavo e basta solo per sfogarmi un po’.
«La violenza non ha mai senso, ma se esiste un motivo c’è.» Replicò lui, coinciso come sempre.
Mi lasciai sfuggire una smorfia. «No… Non c’è nessun motivo. La violenza è sbagliata e basta e anche chi la usa sbaglia. È da codardi accanirsi su chi non può difendersi. Insomma, avevano davvero paura di Scarlett? Sono dei pazzi.»
La sua espressione si incupì. «Magari in altre circostanze ci saresti stato tu al loro posto.»
Mi riscossi di colpo, disgustato alla sola idea di poter far del male a Scarlett, ma anche solo a qualcuno in generale. «No. Assolutamente. Odio la violenza gratuita.»
Mi scoccò un’occhiata con quei suoi occhi grigio-verdi accesi d’oro. «Allora non credo che andremo d’accordo.»
E se ne andò con il suo solito passo sicuro e silenzioso, lasciandomi lì, sorpreso, interdetto e solo con l’ansia che tornava a farsi strada in me.



SPAZIO AUTRICE: Ehi!
Non sono pienamente soddisfatta di questo capitolo, ho l'impressione che certe cose avrei potuto spiegarle meglio, ma già così raggiunge quasi le 6000 parole, quindi ho dovuto farei dei tagli.
Detto questo, vi anticipo che nel prossimo capitolo scopriremo come Scarlett è diventata un licantropo ** E anche qualcosa in più su Sean. A propostio, che ne pensate di lui? Pensate che sarà sempre un alleato o che potrebbe rivelarsi un doppiogiochista? E Matthew?
Forse non dovrei dirlo, ma segretamente io shippo un po' Adam e Sean. Non so, ci vedo una certa intesa tra di loro, una specie di connessione. E più avanti vedrete che i toni tra loro due si accenderanno. Ovviamente, gli Adamett sono LA coppia, ma io sostengo lo shipping libero.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Da qui in avanti arriverranno le rivelazioni (e altre domande) **
PS. Il 7 maggio pubblicherò una nuova storia, SIN! (per ora vi do solo le iniziali, sorry) Sul mio profilo Facebook (il link è nella bio) c'è qualche piccolo estratto sia di SIN che dei prossimi capitoli di UAMP. Se vi va di passare, sapete dove trovarmi :3
A presto!

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Capitolo 27
*** 27. Scarlett ***


Under a paper moon- capitolo 27


                                                         

                                                    Image and video hosting by TinyPic

 


 


27. Scarlett

È buio, non dovrei essere fuori a quest’ora. Mamma si arrabbierà di sicuro. Ma ormai ho dodici anni, sono grande abbastanza per stare fuori da sola.
L’amica di mamma vive in una villa grande e piena di mobili antichi e dietro c’è un giardino enorme con un sacco di alberi e di fiori colorati. È bello, e confina con il bosco.
È agosto, fa caldo e questo vuol dire che ci sono le lucciole. Mamma è seduta sul portico della villa con la sua migliore amica, Miranda. Stanno bevendo il tè, ne hanno offerto anche a me, ma non mi piace e poi voglio vedere le lucciole.
Corro sull’erba soffice del giardino, i capelli che mi svolazzano sulle spalle smossi da una brezza leggera. L’estate a Seattle è calda ma non afosa, soprattutto per via del vento e della vicinanza alle montagne. Mi lascio sfuggire una risatina: adoro questo posto, vorrei viverci.
Arrivo al limite del giardino, lì dove comincia il bosco. E ci sono le lucciole ad accendere la notte: piccoli puntini luminosi che fluttuano leggeri nell’aria fresca. Sono così belle… Sembrano minuscole fate. Mi fermo, non voglio spaventarle.
Ansimo piano mentre sorrido. Di solito le lucciole si catturano e si mettono nei barattoli con i tappi bucati per farle respirare, ma a me piace vederle libere. Mi sembra crudele rinchiuderle.
Riprendo fiato per qualche secondo prima di continuare a camminare. So che non dovrei andare nel bosco da sola, mamma me l’ha ripetuto un sacco di volte, ma a me piace tanto e voglio vedere altre lucciole. Entro nell’abbraccio degli alberi e l’odore di muschio umido mi avvolge. È così bello il bosco… silenzioso, tranquillo, sicuro. Chissà perché mamma è tanto preoccupata. Forse crede che ci siano degli animali selvatici. Eppure a me piacerebbe vederli… Magari gli scoiattoli o le lepri. Oppure i cerbiatti.
Qui il vento non si sente, l’aria è ferma. Le lucciole si vedono di più visto che l’intrico dei rami copre parzialmente la luna. Giro su me stessa sorridendo: sì, vorrei decisamente vivere qui. Con mamma. E Beth.
Un rumore come di un rametto che spezza sotto i piedi di qualcuno interrompe il silenzio ovattato del bosco. Forse sono stata io a farlo. Mi volto, ma dietro di me non c’è niente.
Il rumore si ripete e io comincio ad aver paura: mi sono fermata, non posso averlo fatto io. C’è qualcun altro allora? Un cerbiatto, o forse una volpe.
«C’è qualcuno?» Chiedo e mi sembra di essere in un film.
Un’ombra scura si muove tra gli alberi davanti a me. È grossa e alta. Trattengo il fiato. Forse non mi ha visto.
Qualcosa spunta fuori dagli alberi e mi viene incontro. Non faccio neanche in tempo a muovermi che sento un dolore lancinante esplodermi nel braccio.
La strana figura si ferma dietro di me e la sento respirare affannosamente. Stringo la mano sul braccio, appena sopra il gomito, e lo sento bagnato e appiccicoso. Mi volto lentamente e incontro degli occhi dorati che mi scrutano; sembra che brillino nel buio della notte.
C’è abbastanza luce perché io riesca a vedere il viso di chi mi sta davanti: è un ragazzo giovane, con i capelli arruffati e pieni di foglie, la guancia macchiata di sangue e l’espressione disperata.
Non riesco a dire nulla, non ne ho il tempo: appena apro bocca lui si volta e corre via sparendo tra il folto degli alberi. Rimango a guardare il punto dove è sparito fino a che in dolore non torna prepotentemente facendomi venire le lacrime agli occhi.
Singhiozzo piano mentre mi sposto per mettere il braccio ferito sotto la luce della luna che filtra tra i rami. Appena sopra il gomito c’è una mezzaluna resa scura dal sangue.
Quando la guardo meglio mi rendo conto che è un morso.


Aprii gli occhi di scatto, la gola chiusa da una morsa di paura repressa e scattai su cercando di riprendere aria. Purtroppo, la mia mossa non andò a buon fine: la mia fronte si scontrò con qualcosa di duro che si produsse in un “ahi” quando lo colpii.
Sobbalzai e indietreggiai anche se solo di poco visto che la mia schiena incontrò quasi subito una parete liscia e fredda. Il terrore mi attanagliò quando la sentii: ero ancora in quella dannata cella. E, a quanto pareva, avevo compagnia.
Eppure c’era qualcosa che non tornava, non ero sdraiata, o meglio seduta su un pavimento umido, ma su qualcosa di morbido e piacevole al tatto. E poi c’era molta più luce.
Quando riuscii a mettere a fuoco quello che avevo davanti, ma, soprattutto, a scostarmi i capelli dagli occhi, mi resi conto di essere su un letto in una stanza che profumava di legno resa molto luminosa da una grande finestra alla mia destra che si affacciava su quello che sembrava un bosco.
Mi voltai lentamente, frastornata e confusa, e sobbalzai di nuovo: accanto al letto c’era un ragazzo alto e smilzo che mi osservava con aria impacciata strofinandosi la fronte. Quel gesto mi ricordò che anche la mia aveva avuto un piccolo incidente, probabilmente proprio con lui.
Lo sconosciuto indossava dei jeans scoloriti e una vecchia maglietta. Aveva i capelli castani un po’ troppo lunghi e un accenno di barba sulla mascella. I suoi occhi marroni sembravano gentili e sinceri. Non riuscivo ancora a capire come mai fosse lì, con me, in una stanza che mi sembrava familiare anche se non riuscivo a ricordare perché.
«Scusa.» Mormorò il ragazzo con un sorrisetto timido. «Ti stavo controllando la pressione.»
Spalancai gli occhi, ancora più sorpresa: perché avrebbe dovuto misurarmi la pressione? Lo guardai cercando di capire se stesse scherzando o se facesse sul serio, e lui ricambiò l’occhiata senza scomporsi. Trassi un respiro profondo e mi presi la testa tra le mani. Non avevo assolutamente idea di cosa stesse succedendo. E il fatto di trovarmi in un letto sconosciuto con addosso i miei vestiti macchiati del mio sangue non aiutava.
«Ti ricordi cos’è successo?» Chiese il ragazzo inclinando la testa di lato.
Scossi la testa. «Io… Non lo so… Forse?»
«Sta’ tranquilla, nessuno ti mette fretta. Magari adesso non ti viene in mente, ma tra un po’ vedrai che ti ricorderai qualcosa.» Mi rassicurò lui.
Aggrottai la fronte: mi sembrava di essere in uno di quei telefilm dove qualcuno ha un incidente e perde momentaneamente la memoria. Ma io che c’entravo con tutto quello? Non avevo nemmeno la patente…
Di fronte al mio silenzio, il ragazzo aggiunse: «Hai sete?»
Solo in quel momento mi resi conto di quanto mi sentissi la gola secca e la bocca impastata. E avevo anche una fame da lupi, ma mi dissi che era meglio affrontare un problema per volta. Annuii, cauta, e lui mi sorrise prima di prendere un bicchiere pieno d’acqua dal comodino accanto al letto. Non l’avevo notato prima.
Me lo porse. «Ecco qua.»
Lo presi guardandolo con sospetto. «Come faccio a sapere che non è avvelenato?»
Sembrò sinceramente sorpreso, come non avesse mai preso in considerazione l’idea di fare una cosa del genere. «Perché dovrebbe esserlo? Nessuno vuole farti male.»
“Quei tre pazzi sclerati e il loro capo schizzato non mi sembravano molto d’accordo”, pensai scettica. «Mmh.»
«Se vuoi la bevo prima io, così sei sicura.» Propose lui.
La sua espressione volenterosa e la sua offerta placarono i miei dubbi: era sincero, non avrebbe cercato di uccidermi. Mi portai il bicchiere alla labbra e prima che me ne rendessi conto avevo finito l’acqua. Forse avrei dovuto essere un po’ meno impulsiva e godermela di più.
«Uh… Forse è meglio se te ne prendo ancora un po’, eh?» Indovinò il ragazzo.
«Oh… Ehm, sì, grazie.» Sussurrai imbarazzata.
Lui mi fece un sorriso gentile e fece per allontanarsi.
«Aspetta.» Lo richiamai.
Si voltò verso di me, in attesa. «Sì?»
Mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e distolsi lo sguardo. «Non so come ti chiami…» Faticai io stessa a sentire la mia voce.
«Oh!» Esclamò lui mentre il sorriso gentile tornava sul suo viso. «Io sono Matthew.»
Annuii piano. «Io sono Scarlett.»
Sembrò quasi divertito. «Lo so.»
Rimasi interdetta a guardarlo mentre usciva lasciando la porta accostata. Sospirai scuotendo la testa e mi passai una mano tra i capelli. Non conoscevo nessun Matthew e lui mi sembrava un po’ strambo, ma anche gentile. L’unica cosa che non riuscivo a capire era come mai si stava improvvisando il mio infermiere personale.
Misi il bicchiere sul comodino, appoggiai la schiena al muro dietro il letto e raccolsi le ginocchia contro il petto per poi posarci il mento. Era una situazione assurda, incomprensibile sotto certi punti di vista. Essendo un licantropo avrei dovuto essere abituata alle stranezze, invece sembrava che ci fosse ancora qualcosa capace di lasciarmi senza parole.
La porta si aprì e Matthew apparve con il suo sorriso gentile e una brocca di vetro colma d’acqua in mano. Balzai subito sull’attenti vedendola: mi sembrava di non bere da settimane.
Matthew si avvicinò al letto e riempì il bicchiere prima di posare la brocca sul comodino. Allungai un braccio e pochi secondi dopo avevo spolverato la mia seconda razione d’acqua. Ne avrei voluta ancora, ma pensai che fosse meglio fare un po’ di chiarezza prima.
«Siediti.» Sussurrai indicando il letto: per un qualche strano motivo, quel ragazzo mi ispirava fiducia.
Matthew sembrò sorpreso per un attimo, ma poi si accomodò sul bordo del materasso. «Immagino che tu sia un po’ confusa, giusto?»
Annuii. «Un pochino sì.»
Lui sospirò e distolse lo sguardo. «Già. Ricordi che ti hanno sparato?»
Senza che me ne rendessi conto, la mia mano corse al fianco mentre il ricordo di un dolore particolarmente forte mi riaffiorava nella mente.
Matthew prese quel gesto con una conferma. «Non preoccuparti. Della ferita, intendo: l’ho sistemata estraendo il proiettile e disinfettandola. L'ho anche ricucita per bene. Dopo ho usato  un unguento anestetizzante, sai, per aiutarti con il dolore.» Spiegò lui guardandomi di sottecchi.
«Oh…» Sembrava che sapesse il fatto suo. «Grazie.»
Il suo sguardo si fece quasi dolce. «Figurati, Adam e Sean non hanno fatto tutta quella fatica per poi vederti morire.»
«Adam?» Il suo nome mi sfuggì dalla labbra senza che riuscissi a fermarlo: e lui che c’entrava adesso? In mezzo a tutto quel casino spuntava fuori pure lui? Non lo conoscevo molto, ma sapevo che più che capace di cacciarsi in un guaio del genere solo per restare fedele alla sua testardaggine.
«Forse dovrei spiegarti tutto dall’inizio.» Commentò Matthew più per se stesso che per me. Trasse un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli. «Un paio di giorni fui contattato da una mia vecchia conoscenza, uno che avevo conosciuto al college. Aveva bisogno di una mano e io accettai di aiutarlo. Volle incontrarmi subito nonostante fosse mattina presto. Quando lo rividi mi spiegò cos’era successo e capii di dover fare qualcosa: mi disse che una lupa di sua conoscenza era stata catturata dai cacciatori e che aveva bisogno di un aiuto per tirarla fuori dai guai.»
Alzai una mano. «Aspetta un attimo. Cacciatori?»
«Cacciatori di licantropi.» Confermò. «Ne parlano molte leggende.»
«Non sono una fan delle leggende…» Borbottai. «Va’ avanti.»
Incurvò appena le spalle. «Fissammo un incontro, poi lui sparì. Lo rividi all’ora dell’appuntamento ed era insieme ad un ragazzo che aveva più o meno la tua età: alto, capelli castani, occhi azzurri…»
Annuii fissando la trapunta che mi copriva. «Adam.»
«Eh già, proprio lo stesso Adam che abita accanto a me da anni è coinvolto nel soprannaturale.» Scosse la testa con un sospiro. «Lui e Sean sono entrati nell’edificio dove ti tenevano prigioniera e ne sono usciti con te.»
«Che c’entra Adam con tutto questo?» Chiesi tornando a guardarlo.
Mentre pronunciavo quelle parole un ricordo mi invase la mente: le braccia di Adam intorno a me, la mia testa sul suo petto, la sua voce morbida e bassa che sussurrava incoraggiamenti, il suo profumo leggero di carta antica, un “grazie” che mi affiorava alle labbra, un sorriso sbilenco che incurvava le sue.
«Non lo so, non mi aspettavo che ci fosse anche lui. Te l’ho detto, per anni l’ho sempre considerato un ragazzo qualunque. A quanto pare sa più di quanto dimostri.» Rispose lui con aria lievemente amareggiata.
“E sono stata io a dirgli tutto…”, pensai non riuscendo a non sentirmi in colpa. Rimasi in silenzio e abbassai lo sguardo. «Dov’è adesso?»
La mia domanda sembrò sorprenderlo. «Oh… Ehm… Credo a scuola.»
«Sì, giusto, è ovvio che sia lì…» Borbottai coprendomi il viso con le mani.
«Tu sai dove sei?» Domandò lui osservandomi.
Mi guardai attorno anche se avevo già un’idea di dove fossi. «Il cottage nel bosco.»
Annuì, visibilmente rilassato. «Esatto. Ti sei ripresa in fretta.» Il sorriso gentile di prima gli increspò le labbra, ma fu sostituito un secondo dopo da un’espressione un po’ più cupa. «Senti, ti ricordi che ti ho detto dell’unguento? Ecco, visto che sei un licantropo riesci a smaltire qualunque sostanza molto in fretta e questo varrà anche per questo anestetizzante. Posso darti qualcosa per il dolore, ma dovresti usarlo solo se ne avessi davvero, davvero bisogno. Sai, rallenta un po’ la cicatrizzazione e sarebbe meglio se la ferita si chiudesse il prima possibile.»
Mi strinsi le ginocchia al petto. «Okay. Per adesso non fa male, comunque.»
«Bene.» Commentò lui. «Sean ti ha portato dei vestiti puliti, se ti vuoi cambiare…» E abbassò lo sguardo sulla maglietta che indossavo, strappata e sporca.
«Oh, sì, decisamente.» Sussurrai imbarazzata chiedendomi come avesse fatto questo Sean a prendere dei vestiti miei da casa mia.
«In fondo al corridoio c’è un bagno casomai ti servisse.» Aggiunse lui alzandosi.
La prospettiva di una doccia non mi era mai sembrata così invitante. Poi, però, mi ricordai della ferita. Portai la mano al fianco ferito e sentii qualcosa di leggermente ruvido sotto le dita. Una benda, che mi cingeva la vita per tenere fermo quello che sembrava un impacco all’altezza dello squarcio lasciato dal proiettile.
«Non preoccuparti per quella, mmh? Tanto avrei dovuto cambiarle la fasciatura in ogni caso. La togliamo e vediamo come va, poi ti dai una sistemata e quando sei a posto vediamo se rimetterla.» Mi rassicurò Matthew.
«Okay…» Mormorai. «Certo che te ne intendi di… queste cose.»
Scrollò le spalle. «Mia mamma era una guaritrice di talento e mi ha passato questo passione. E poi, i Sangue di Lupo non hanno molte altre possibilità.»
«Sangue di Lupo?» Ripetei sorpresa.
«In noi c’è una parte di lupo, ma non è abbastanza per definirci veri e propri licantropi.» Lo spiegava con tranquillità, come se fosse stata una cosa che aveva ripetuto milioni di volte. «Siamo un po’ i guaritori del mondo soprannaturale.»
«Oh. Non ne avevo mai sentito parlare.» Ammisi.
Lui aggrottò la fronte. «Di solito ci ignorano finché non hanno bisogno di noi.» Prima che potessi rispondere, tornò allegro come prima: «Vado a fare il tè, ne vuoi?»
Sbattei le palpebre, un po’ confusa da quel cambio d’argomento così repentino, ma annuii lo stesso. «Sì, grazie.»
Mi sorrise facendomi un cenno d’intesa e si avvicinò alla porta. Prima di uscire, però, si voltò verso di me. «A proposito, Adam dovrebbe tornare subito dopo scuola, casomai ti interessasse.»

L’attesa fu snervante, nel vero senso della parola. Mi ero fatta una doccia che aveva contribuito a rilassarmi e a scacciare il senso di nausea dovuto al sapere che quelli che mi avevano sparato erano cacciatori di licantropi. Visto che non era casa mia, però, non mi ero lavata i capelli. Li avevo raccolti in uno chignon morbido che lasciava libere fin troppe ciocche, ma che almeno mi aiutava a non pensare che non ero per niente presentabile.
Questo Sean di cui tanto si parlava mi aveva preso un paio di jeans scuri -quelli che avevo lasciato sulla scrivania per via della pigrizia-, una maglietta bianca e una vecchia felpa verde. Sapevano di casa e anche se l’abbinamento non era quello che avrei scelto io, mi rassicuravano.
Non riuscivo comunque a calmarmi del tutto: il pensiero che di lì a poco avrei rivisto Adam mi metteva addosso una strana agitazione, come se fossi stata sul punto di uscire col ragazzo più figo della scuola. Beh, c’era da dire che Adam era un ottimo candidato a quel titolo.
Me ne stavo rannicchiata sul divano, posizione da cui potevo tenere comodamente d’occhio la porta, e lo aspettavo sentendomi un po’ idiota: insomma, era solo Adam, niente di speciale. “Già, è solo il ragazzo che ha rischiato la vita per te per salvarti da dei cacciatori psicopatici”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente. In effetti aveva ragione, quello che lui aveva fatto non era una cosa da poco. Chissà se io avrei fatto lo stesso per lui…
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli. Mi stavo annoiando e, stando in quella posizione, mi si stava intorpidendo il ginocchio. Matthew stava trafficando in cucina cercando di fare un tè: non sembrava poi così difficile, eppure erano ore che ci provava. Quando sentii un rumore come di un intero scaffale che si stacca da un muro e rovina a terra, mi preoccupai.
«Tutto bene?» Chiesi cauta alzando la voce per farmi sentire.
«Sì!» Esclamò lui. «Sì, tutto benissimo.»
«Mmh.» Mormorai poco convinta tornando ad accucciarmi.
Mi stavo per appisolare, ma un rumore nuovo mi risvegliò: un’auto si stava avvicinando. Scattai all’erta e mi drizzai, gli occhi puntati sulla porta. La macchina si ferma. Uno sportello aperto e poi chiuso. Passi sul terreno morbido del bosco. Il cigolio leggero delle scale di legno. Altri passi. Un tintinnio metallico. Una chiave che viene inserita nella serratura. La maniglia che si abbassa. La porta che si apre ed eccolo lì.
Jeans neri, maglietta rosso scuro, una giacca marrone. Dannazione, non me lo ricordavo così… carino. I suoi occhi si sollevarono lentamente, come se non stessero cercando niente in particolare, ma poi si soffermarono su di me e vidi il blu tempestoso delle sue iridi illuminarsi.
Non avrei dovuto alzarmi così velocemente, lo sapevo e me l’aveva detto anche Matthew, però non riuscii a trattenermi. Rischiai di inciampare per colpa di un improvviso giramento di testa dovuto alla grande perdita di sangue, ma, in qualche modo, mi ritrovai tra le sue braccia e allora tutto il resto perse importanza.
Mi aggrappai alla sua giacca e nascosi il viso nell’incavo del suo collo, il suo profumo quasi impalpabile di carta antica e bucato che aiutava a convincermi che c’era davvero. Mi strinse a sé e lo sentii sorridere tra i miei capelli.
«Scar…» Sussurrò aumentando appena la stretta.
«Ehi.» Mormorai.
«Sei già in piedi.» Commentò. «È un buon segno, giusto?»
«Direi di sì.» Risposi lasciandomi sfuggire un sorriso.
Mi accarezzò piano la schiena. «Il proiettile era d’argento… Pensavo che non… che non ce l’avresti fatta…»
“Argento?”, pensai incredula, “e sono ancora viva? Accidenti…”. Non avrei dovuto sopravvivere, l’argento è letale per i licantropi, eppure ero ancora lì. A quanto pareva Matthew sapeva davvero il fatto suo in fatto di guarigioni e unguenti miracolosi.
«Anche Matthew ha detto che le possibilità che ti riprendessi non erano tante…» Aggiunse Adam in un sussurro smorzato dai miei capelli.
«Non ti libererai così facilmente di me.» Scherzai sentendo quanto era teso: doveva aver davvero creduto che sarei morta, e, in effetti, aveva avuto tutte le ragioni per farlo.
Sorrise anche lui. «Per fortuna.»
Mi scostai appena da lui per guardarlo in faccia. «Grazie per essere venuto a salvarmi. È stato stupido e pericoloso, però anche coraggioso.»
Si morse il labbro. «Ehi, non potevo lasciarti lì con quei pazzi.»
«Beh, forse.» Mormorai. «Insomma, perché avresti dovuto rischiare la vita per me?»
Si rabbuiò appena e le sue braccia mi strinsero un po’ di più. «Perché ci tengo a te.»
“Tanto da affrontare dei cacciatori di licantropi?”, mi chiesi non del tutto convinta. Poi mi resi conto che anch’io avrei fatto lo stesso per lui. Se fosse stato in pericolo, non mi sarei data pace finché non l’avessi trovato. Era una certezza nuova, eppure ero più che sicura che sarebbe stato così.
«Okay.» Sussurrai tornando ad affondare il viso nell’incavo del suo collo.
La sua maglietta aveva un leggero scollo a V che lasciava intravedere le clavicole. E dovevo ammettere che il rosso gli stava piuttosto bene, soprattutto perché era in contrasto con la sua pelle chiara.
«Ce l’ho fatta!» A quell’esclamazione feci un balzo indietro e anche Adam sussultò.
«Ma che…?» Fece per chiedere, ma fu interrotto dall’entrata trionfale di Matthew in salotto.
Il mio infermiere improvvisato teneva in mano una teiera come se fosse stata un trofeo e sorrideva con aria soddisfatta. «Visto? Te l’avevo detto che avrei fatto il tè.»
Adam inarcò un sopracciglio e mi lanciò un’occhiata che diceva “di che sta parlando?”. Scossi appena la testa per fargli capire che non era niente di importante. Non sembrava convinto, ma vidi un accenno di sorriso sollevargli un angolo della bocca. Matthew sembrò accorgersi solo in quel momento di non essere solo. Si voltò verso Adam agitando la teiera in segno di saluto. «Oh, ehi, Adam. Come va?»
«Ciao, Matthew.» Rispose Adam cercando di nascondere un sorriso. «Tutto bene, tu?»
«Bene. Ho fatto il tè.» Replicò Matthew tutto contento. «Ne vuoi?»
Adam si mordicchiò il labbro. «No, grazie.»
«Okay.» Matthew scrollò le spalle e si rivolse a me: «Tu?»
 «Uh, sì, grazie.» Ribattei.
Sembrò soddisfatto della mia risposta. «Arriva subito!» E sparì in cucina.
Adam si mise a ridere sottovoce e dovetti impegnarmi parecchio per non farlo anch’io.
«Solo per curiosità, quanti anni ha?» Chiesi.
«Ventisette.» Disse lui scuotendo piano la testa.
Spalancai gli occhi, sorpresa. «Dieci più di noi?»
Si strinse nelle spalle. «Già. Non li dimostra, vero?»
Era vero: a me sembrava un diciottenne allampanato, non certo uno che aveva quasi trent’anni. Forse era una caratteristica dei Sangue di Lupo. Mi lasciai cadere sul divano e lanciai un’occhiata ad Adam. «Vieni?»
Attraversò il salotto e si sedette accanto a me, più vicino del solito. «Come ti senti?»
«Bene. Il dolore per ora non c’è visto che Matthew mi ha dato un qualche unguento speciale, quindi non è poi così male.» Spiegai incrociando le gambe.
I suoi occhi blu erano molto concentrati. «Mmh. A parte questo? Intendo, a livello mentale come va?»
«Oh, ehm, è okay. Credo. Sì, insomma, non faccio incubi spaventosi o roba simile quindi…» Commentai distogliendo lo sguardo.
Era una bugia bella e buono, l’ultimo sogno che avevo fatto, poco prima di svegliarmi, era ancora fresco nella mia mente. Il bosco, le lucciole, quello strambo ragazzo, il morso, il dolore. Era in quel momento che ero diventata un licantropo. E non avevo potuto fare niente per impedirlo.
Mia madre aveva dato di matto quando aveva visto la ferita, ma l’aveva preso come il morso di un cane e visto che la sua amica, Miranda, le aveva detto che lì vicino viveva una famiglia con un grosso pastore tedesco, la storia combaciava alla perfezione. Beh, più o meno.
Adam fece scivolare una mano nella mia e mi accarezzò piano le nocche. «Mi fa piacere sapere che stai bene, davvero. Per un attimo ho pensato di essere arrivato troppo tardi.»
«Non darti la colpa di niente, okay?» Replicai. «Hai fatto anche troppo.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo. Non aggiunse altro, ma sembrò rilassarsi, cosa che tranquillizzò anche me.
Un rumore di passi leggeri sul sentiero davanti alla casa mi distrasse da Adam. Mi voltai verso la porta socchiudendo gli occhi: chi altro era coinvolto in tutto quello?
«C’è qualcuno.» Mormorai tra me e me.
Adam si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. «Dev’essere Sean.»
Oh, giusto, Sean. Ecco chi mancava…. Chissà com’era. Da quel che aveva detto Matthew sembrava un tipo piuttosto misterioso, uno che scompare e riappare quando gli pare, anche a distanza di anni. Che era proprio quello che aveva fatto. «Finalmente conoscerò questo fantomatico Sean che si diverte ad entrare in casa della gente per rubare i loro vestiti.» Borbottai aggrottando la fronte.
Adam fece un mezzo sorriso. «Ti ha fatto un favore, avevi bisogno di un cambio.»
Gli diedi una gomitata nelle costole e gli feci una smorfia prima di alzarmi e sistemarmi la maglietta: sinceramente, non mi andava di sembrare troppo scombussolata anche se mi avevano sparato ed ero quasi morta.
Sean bussò, un unico colpo leggero come se desse per scontato che qualcuno gli avrebbe aperto. Adam si alzò e, nel passarmi accanto, mi strinse piano la mano, come ad incoraggiarmi. Raggiunse la porta e la aprì rivelando un ragazzo alto, dal fisico slanciato. Aveva i capelli biondo scuro, la pelle poco più scura di quella di Adam, le labbra chiare, l’aria di uno molto sicuro di sé. Indossava dei jeans scuri, una maglietta grigia e un giubbotto di pelle che mi ricordava un po’ quello di un motociclista.
Quando i suoi occhi incrociarono i miei, però, mi sentii mancare il fiato: erano verdi, sfumati di grigio e molto, molto intensi. Ma la cosa che mi sconvolse di più fu la certezza di averli già visti. Una notte d’estate, un bosco buio e silenzioso, le lucciole, uno strano ragazzo che sembrava in fuga.
Improvvisamente mi sentii le gambe molli, le ginocchia avevano smesso di reggermi di colpo. Mi lasciai sfuggire un gemito strozzato che gli fece sollevare un sopracciglio, niente di più. Adam invece mi fu subito accanto. Mi sorresse cercando di guardarmi negli occhi, ma quasi non lo sentivo.
«Scarlett, ehi, che succede?» La sua voce suonava ovattata, lontana. Eppure lui era lì, accanto a me.
Mi aggrappai a lui lottando contro quell’ondata di nausea. «Lui… lui è…»
Negli occhi di Sean passò un’ombra, ma per il resto rimase impassibile, come se fosse stato un completo estraneo. Mi voltai verso Adam e il mio sguardo si intrecciò al suo, confuso e preoccupato.
In un momento di ritrovata lucidità riuscii a dire: «Lui è il lupo che mi ha trasformata.»



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Anche se ho appena cominciato a pubblicare una nuova storia, non mi sono assolutamente dimenticata di UAMP e dei nostri Adamett <3
Passando al capitolo, devo ammettere che ci sto prendendo gusto con questi finali molto... bruschi e inaspettati. Ma sì, è proprio il nostro Sean il lupo che ha morso Scarlett trasformandola. Ve lo aspettavate?
Tra qualche capitolo scoprirete di più anche su di lui, promesso. Avrete, diciamo, la sua versione della storia, il perché abbiamo scelto di mordere Scar e come mai adesso è tornato. Vi avverto che non sarà un racconto particolarmente piacevole.
Scopriamo anche qualcosa in più su Matthew e sulla ferita di Scarlett. Le hanno sparato un proiettile d'argento che avrebbe potuto ucciderla. Questo elemento l'ho ripreso dalla tradizione dei licantropi, anche perché mi ha sempre affascinanto.
Che pensate che succederà adesso? Che farà Sean? E Scarlett come reagirà?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a presto :*

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Capitolo 28
*** 28. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 28

                                                         

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28. Adam


Perché non mi era venuto in mente? Spiegava tutto, rendeva ogni suo gesto e ogni sua affermazione perfettamente sensata. Chiariva anche la sua determinazione nel volerla salvare dai cacciatori.
In effetti, era praticamente ovvio che fosse stato lui a trasformarla. Era l’unico legame possibile tra loro due, così diversi eppure accomunati dalla licantropia.
Sollevai di scatto lo sguardo su Sean: se ne stava in piedi sulla soglia, la testa leggermente inclinata di lato, lo sguardo attento. Per il resto, non tradiva nessuna emozione. Scarlett, aggrappata a me, stava facendo dei respiri profondi per cercare di riprendere il controllo. Sembrava che rivedere il lupo che l’aveva trasformata l’avesse scossa nel profondo. E, in effetti, doveva essere una cosa molto sconvolgente.
«Non me l’avevi detto.» La durezza della mia voce sorprese anche me.
Sean aggrottò appena la fronte. «Non ti serviva saperlo.»
«Non mi serviva saperlo?» Ripetei incredulo.
Si strinse nelle spalle. «Esatto.»
Stavo per ribattere, ma mi fermai: non mi andava di litigare davanti a Scarlett, non ora che sembrava così fragile. Distolsi lo sguardo e mi concentrai su di lei. Nonostante questo, volevo comunque chiarire la cosa con Sean.
«Ecco… Oh, ciao Sean.» La voce di Matthew mitigò almeno in parte la tensione nella stanza.
Gli lanciai un’occhiata: sembrava un po’ intimorito e teneva in mano una tazza di tè ancora caldo. Spostò lo sguardo su di me con aria interrogativa, ma neanche io avrei saputo spiegare cosa stava succedendo. Sean entrò chiudendosi la porta alle spalle. Fece un cenno di saluto a Matthew senza troppo entusiasmo.
«Ti ho preparato il tè, Scarlett.» Disse Matthew con un sorriso incerto.
Scarlett sembrò riscuotersi: drizzò la testa e ricambiò il sorriso. «Grazie.»
Lanciò un’occhiata sospettosa a Sean prima di avvicinarsi a Matthew e prendere la tazza che lui le stava porgendo. Si sedette sul divano con le gambe piegate sotto di sé, quasi avesse voluto farsi ancora più piccola di quanto non fosse già. Con un sospiro annoiato, Sean si lasciò cadere su una vecchia poltrona di pelle a lato del divano. Distese le gambe fasciate dai jeans davanti a sé e appoggiò i gomiti sui braccioli. Aveva un’aria strafottente, da ragazzino ribelle.
«Dobbiamo parlare.» Dissi tra i denti guardandolo.
Arricciò appena le labbra in una smorfia infastidita. «Magari dopo.»
«No.» Ringhiai. «Adesso.»
I suoi occhi verde-grigio si spostarono su di me ricordandomi lo sguardo di un leone un attimo prima di attaccare la preda. Rimanemmo a fissarci per lunghi momenti come se nessuno di noi due avesse voluto fare la prima mossa.
«Bene.» Decise infine alzandosi con un unico movimento fluido. «Parliamo.» Era riuscito ad infondere un’incredibile quantità di disprezzo in un’unica parola. «Andiamo fuori.» Aggiunse mantenendo il tono duro.
Alzai gli occhi al cielo, ma in fondo ero contento che avesse scelto di non mettersi a discutere davanti a Scarlett. Mentre lo seguivo fuori, le lanciai un’occhiata veloce che lei ricambiò stringendo le labbra.
Era preoccupata. Per me. Ancora faticavo a rendermene conto. In quel momento, però, avevo altro a cui pensare. Come, per esempio, il lupo mannaro diffidente e con una grande passione per le rispose a monosillabi davanti a me.
Mi aspettava di fronte alla casa, aveva sceso le scale del portico così silenziosamente che neanche me n’ero accorto. Mi chiusi la porta alle spalle e lo seguii.
Era sulla difensiva, con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo attento. «Di che vuoi parlare?»
Scossi appena la testa: mi riusciva ancora difficile capire il modo in cui ragionava, ma soprattutto come si poneva davanti ai problemi che non potevano essere risolti con i suoi soliti metodi. «Come se avessi bisogno che te lo dica…»
«Sì, ne ho bisogno.» Replicò. «Perché io non credo ci sia niente di cui dovremmo discutere.»
Lo guardai negli occhi. «Non mi hai detto che sei stato tu a morderla, direi che è un buon argomento di conversazione, mmh?»
Mi soppesò con lo sguardo per un attimo. «No.»
«Cosa?» Sbottai incredulo.
«Saperlo non ti avrebbe cambiato nulla. Avresti agito in modo diverso se ti avessi detto che sono stato io a trasformarla? No, avresti fatto esattamente le stesse cose che hai fatto non sapendolo.» Spiegò, la voce calma che tradiva un accenno di rabbia.
«Non lo sai.» Ribattei cercando di mantenere il controllo.
«Sì invece. Che te ne frega se sono stato io a morderla o no? Rimane sempre il fatto che se non fossimo intervenuti sarebbe morta: è questo che ti ha spinto ad agire, non il sapere chi l’aveva trasformata.» Insistette.
Dovetti ammettere che aveva ragione, ma mi dava comunque fastidio il fatto che non si fosse neanche degnato di dirmelo. «Ma non puoi semplicemente presentarti alla mia scuola dicendo che Scarlett è il pericolo e aspettarti che ti segua così, senza dire niente. Mi devi qualche spiegazione.»
Nei suoi occhi passò un bagliore dorato. «Per prima cosa, è esattamente quello che hai fatto: sei venuto con me senza fare storie appena hai constatato che avevo ragione. E seconda cosa, non ti devo proprio niente. Semmai sei tu che devi qualcosa a me visto che ti ho aiutato a salvare Scarlett senza volere niente in cambio.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso amaro. «Oh, ma certo. Adesso dovrei anche pagarti perché sei venuto da me in cerca di aiuto per portarla via di lì? Ma fammi il favore…»
«Guarda che è a te che importa di lei.» Ringhiò lui con aria irritata.
«E tu che scusa hai, eh? Perché sei venuto da me?» Replicai sentendo la rabbia nella mia stessa voce.
L’oro nelle sue iridi si fece più intenso. «Perché lei fa parte del mio branco.»
«Per questo credi di avere dei diritti su di lei?» Sbottai.
Un ghigno gli increspò le labbra. «Perché, tu pensi di averne qualcuno? Se proprio ne vogliamo parlare, qui sono io quello che potrebbe avere una qualche pretesa: le ho dato il morso rendendola una creatura forte e potente, è in debito con me.»
Scossi la testa. «Ma ti senti? Quello che è hai fatto è stato semplicemente complicarle la vita. Pensi che dover gestire istinti omicidi e notti di plenilunio le faccia piacere?»
«Tu non sai di cosa parli, io le ho dato il potere.» Dichiarò con aria altezzosa.
«Non mi sembra che lei te lo abbia chiesto.» Gli feci notare. «Da quel che mi risulta, il tuo prezioso morso non è una cosa di cui le faccia piacere parlare.»
Strinse i pungi tanto da far sbiancare le nocche. «Tu non sai tutta la storia che c’è dietro.»
«No.» Concessi. «Ma so abbastanza per capire che ti sei preso un po’ troppe libertà: chi ti ha dato il diritto di trasformarla? Non le hai neanche dato la possibilità di scegliere.»
Una parte della mia mente mi disse che avevo toccato un nervo scoperto e lo sguardo di Sean, diventato improvvisamente di fuoco, me lo confermò. Un ringhio basso, minaccioso gli salì dalla gola. Un attimo dopo me lo ritrovai addosso: si era mosso così velocemente che avevo faticato a vederlo. Mi spinse indietro finché non mi scontrai con il muro. Eravamo così vicini che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. Teneva le mani strette sulla mia giacca, gli occhi accesi d’oro fissi nei miei. Era furioso.
«Tu non sai di cosa stai parlando.» Ringhiò tra i denti. «Non ne hai la minima idea.»
Avrei dovuto avere paura di lui e della sua reazione, ma l’unica cosa che sentivo era una rabbia fredda che non sembrava neanche appartenermi. Come facevo a non essere spaventato di fronte ad un licantropo arrabbiato? Sarebbe stato logico esserlo, era la cosa giusta, invece non mi sentivo assolutamente intimorito da lui. Forse era perché, in fondo ai suoi occhi, vedono un’ombra, come un vecchio dolore mai superato.
«Allora perché non me lo spieghi, eh? Tutti questi misteri mi danno sui nervi.» Replicai sfidandolo apertamente.
Un sorriso amaro gli sfiorò le labbra. «Sei solo un ragazzino, queste cose non ti riguardano.»
«Certo che mi riguardano!» Sbottai. «Mi hai trascinato nel covo di pazzi che cacciano licantropi e adesso mi vieni a dire che non mi serve sapere il motivo?»
«Sì, è così. Rassegnati.» Confermò lui aumentando la stretta. «E ti conviene imparare a stare al tuo posto, non ho tutta questa pazienza.»
Sostenni il suo sguardo. «Non ne hai neanche un po’ infatti.»
Ringhiò di nuovo, ma si bloccò un attimo prima di rispondere. Si irrigidì, di colpo all’erta -non fu difficile capirlo visto che il suo corpo era premuto contro il mio-, e si voltò di scatto verso la porta sul portico sopra di noi.
«Sean!» Esclamò una voce che conoscevo bene: Scarlett.
Scese le scale di corsa e si fermò accanto a Sean per riprendere fiato: a quanto pareva, la ferita la destabilizzava ancora un po’. Sembrava sconvolta, incredula. E come darle torto? Sean le lanciò un’occhiata infastidita prima di tornare a concentrarsi su di me.
Prima che potesse parlare, però, Scarlett lo interruppe di nuovo: «Si può sapere che stai facendo? Lascialo. Adesso.»
«Scar, va tutto bene, davvero.» Provai a dire, ma la voce di Sean coprì la mia.
«Non sono affari che ti riguardano, ragazzina.» Ringhiò guardandola male.
«Vi state scannando a vicenda: certo che sono affari miei!» Ribatté lei incrociando le braccia al petto. «E poi tu mi hai trasformata quindi direi che quello che fai almeno un po’ mi coinvolge.»
Sean non accennò ad allentare la presa su di me, sembrava che fosse semplicemente appoggiato ad un muro. «Mettiamo in chiaro una cosa, quello che faccio non ti riguarda almeno che non ti coinvolga in prima persona. E poi, al massimo sono io che scanno lui: mi sembrava di essere in netto vantaggio, mmh?» E mi lanciò un’occhiata provocatoria che mi fece alzare gli occhi al cielo.
«Non importa chi scanna chi.» Sbottò Scarlett con aria impaziente. «Lascialo e parliamo da persone civili.»
«Qui di civile c’è poco.» Borbottai facendo nascere un ghigno sulle labbra di Sean.
Fece un passo indietro e lasciò la mia giacca. «Hai più autocontrollo di quanto credessi.»
«Al contrario di te, eh?» Sbuffai scoccandogli un’occhiataccia.
«Adam!» Mi ammonì Scarlett con sguardo eloquente.
Sean non si scompose, si limitò a sorridere divertito. Sembrava che la rabbia di poco prima fosse completamente scomparsa. «Io ho molto autocontrollo, ho solo scelto di farti capire con chi hai a che fare. Sta a te adesso decidere come comportarti.»
Scossi la testa. «Sì, certo… Dovresti lavorare sulle tue minacce, comunque: non sono poi molto efficaci.»
Lo vidi irrigidirsi e serrare la mascella: avevo colpito nel segno, di nuovo. Prima che potesse ribattere, Scarlett si mise fra me e lui aprendo le braccia per mettere un po’ di distanza tra noi due.
«Okay, diamoci una calmata adesso. Tutti e due.» Disse alternando lo sguardo da me a lui.
Non l’avevo notato prima, ma con quei vestiti scuri sembrava ancora più pallida. E se l’effetto dell’unguento di Matthew fosse finito? La ferita provocata da un proiettile d’argento doveva essere molto dolorosa per un licantropo. Non era il momento di farsi prendere dalla rabbia, ci sarebbe stato tempo dopo per chiarire.
Sean guardava Scarlett con un sopracciglio inarcato, come se la stesse studiando. E probabilmente era così: era la prima volta che la vedeva in piedi sulle sue gambe e chissà quanto era passato dall’ultima volta che l’aveva vista… Magari era stato quanto l’aveva morsa.
«Sei cresciuta.» Mormorò Sean all’improvviso aggrottando la fronte.
Scarlett sembrò sorpresa da quel commento. «Beh, sono passati cinque anni, sarebbe stato strano il contrario.»
“Cinque anni?”, pensai stupito: questo voleva dire che lei aveva dodici anni quando lui l’aveva trasformata. Era ancora una bambina a quell’età… Eppure Sean non si era fatto problemi a farla diventare un lupo mannaro. Doveva essere stata molto dura per lei gestire zanne, artigli e pleniluni completamente da sola.
Lo sguardo di Sean si rabbuiò. «Quanti anni hai adesso?»
Lei strinse le labbra. «Diciassette.» Dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «Tu?»
«Venticinque.» La voce di lui era diventata di colpo bassa e quasi morbida.
Scarlett si strinse le braccia al petto e abbassò lo sguardo. Doveva essere strano ritrovarsi davanti la persona che ti aveva rivoluzionato la vita e che poi era sparita per anni senza una spiegazione.
«Immagino che ci siano molte cose che non sai su di noi, vero?» Chiese Sean inclinando appena la testa di lato.
«No, in effetti so molto poco.» Ammise Scarlett. «Più che altro ho imparato dalle mie esperienze e da quello che ho potuto vedere su di me, ma le mie conoscenze si limitano a questo.»
Sean annuì piano, come se avesse avuto la conferma di qualcosa. Scarlett si strofinò le braccia fissando il terreno con aria cupa.
«Forse dovremmo rientrare, mmh?» Proposi guardandola.
Sollevò lo sguardo su di me e mi fece un breve sorriso. «Sì, è una buon’idea.»
Senza dire una parola, Sean indietreggiò ancora lasciandoci liberi di passare. Sembrava che tutta la sua voglia di discutere fosse sparita all’improvviso, sostituita da un’aria pensierosa, quasi tormentata che si accostava bene al suo solito modo di fare così scontroso e inavvicinabile. Scarlett aspettò che la affiancassi prima di voltarsi verso le scale e salirle. Aveva lasciato la porta socchiusa nella fretta di venire a dividere me e Sean. Prima di entrare, Scarlett di voltò verso Sean, che era rimasto accanto alle scale.
«Tu non vieni?» Gli chiese con voce gentile.
Lui sollevò lo sguardo su di lei e per un attimo il suo sguardo mi sembrò più limpido, privo delle ombre che vi avevo visto tante volte. «Ho bisogno di prendere un po’ d’aria.»
Scarlett abbozzò un sorriso. «Okay.»
Lui fece un breve cenno d’assenso prima di voltarsi dandoci le spalle. Scarlett lo osservò per un attimo, poi mi lanciò un’occhiata ed entrò in casa. La seguii chiudendomi la porta alle spalle. Matthew ci aspettava sul divano con una tazza fumante in mano. Sembrò sollevato di vederci; ci fece un sorriso timido e un po’ impacciato.
Scarlett si voltò verso di me e i suoi occhi da cerbiatto incontrarono i miei. «Posso parlarti? In privato magari…»
«Sì, certo. Possiamo andare in una delle camere.» Risposi.
Annuì piano stringendosi le braccia al petto. Salimmo le scale insieme e, una volta arrivati al secondo piano, la feci entrare nella prima stanza che si affacciava sul corridoio. Era piuttosto simile a quell’accanto, il letto di legno scuro era lo stesso, così come i due comodini azzurro pallido ai lati della testata, la stessa finestra ampia che si affacciava sul bosco. Le uniche differenze erano alcuni mobili: nella prima camera c’era un cassettone di legno chiaro appoggiato alla stessa parete su cui si apriva la porta, nella seconda, invece, c’era un armadio imponente decorato con alcuni intagli.
Scarlett si sedette sul letto e incrociò le gambe. Le coperte erano smosse e il cuscino era un po’ appiattito; sul comodino c’erano una brocca piena d’acqua per metà e un bicchiere.
Mi sedetti accanto a lei. «Spero non siano brutte notizie.»
Un sorriso fiacco le incurvò le labbra. «No. O meglio, solo un pochino.»
Aggrottai la fronte, cauto. «Che intendi?»
«Ti ricordi cosa ti ho detto su mio padre?» Domandò guardandomi negli occhi.
Annuii: ricordavo le sue parole cariche di disprezzo e una certa malinconia pronunciate sotto l’effetto dell’alcol. E ricordavo altrettanto bene i particolari che aveva voluto aggiungere il pomeriggio in cui le avevo rivelato che mi aveva parlato di suo padre quando era ubriaca.
Scarlett trasse un respiro profondo. «La mattina in cui mi hanno sparato… Ecco, quel giorno lui era venuto a casa mia. Non so perché, sinceramente non gli ho dato il tempo di spiegare il motivo della sua visita. Ma… erano anni che non lo vedevo, credo di non aver avuto più sue notizie dal giorno in cui lui e mamma hanno divorziato ufficialmente. Ritrovarmelo davanti mi ha sconvolto e… credo di essere stata troppo impulsiva.» Strinse le labbra fino a ridurle ad una linea sottile. «Se non mi fossi fatta prendere dalla rabbia non mi sarei allontanata dalla strada che faccio di solito per andare a scuola e forse i cacciatori…» Le si spense la voce e la vidi deglutire.
Le presi delicatamente una mano tra le mie. «Ehi, è tutto okay. È finita, non ti faranno più del male. E tuo padre… È lui che sbaglia. Tu non hai assolutamente nessuna colpa, né per quanto riguarda il divorzio, né per i cacciatori.»
Si morse il labbro. «Lo so. O meglio, so che dovrei saperlo. Però non… non riesco a togliermi dalla testa che non ti avrei messo in pericolo se fossi stata più attenta, meno impulsiva.»
«No, Scar, non dire così. Io sto bene, e anche tu. Non devi rimproverarti niente, capito? Assolutamente niente.» Mormorai accarezzandole le nocche.
Scivolò più vicina a me e appoggiò la testa sulla mia spalla. «Grazie. Sul serio. Dopo tutto quello che ti ho fatto passare mi sembra incredibile che tu sia ancora qui.»
La strinsi a me e mi lasciai sfuggire un sorriso. «Come ha detto un licantropo di mia conoscenza, non ti libererai di me così facilmente.»
Si mise a ridere e sentii i suoi muscoli, rimasti contratti fino a quel momento, rilassarsi. Si scostò appena da me per guardarmi negli occhi: tutta la preoccupazione e il tormento di poco prima erano spariti, rimpiazzati da una determinazione sorprendente.
Quella ragazza mi lasciava sempre senza parole con il suo essere così risoluta e coraggiosa. E il fatto che mi avesse parlato di suo padre, di nuovo, confermava la sua fiducia nei miei confronti. A quanto pareva il punto di incontro l’avevamo trovato ed eravamo riusciti, in qualche modo, ad approfondire il nostro rapporto reso complicato dalla sua licantropia e dalla mia testardaggine.
A quel punto, Scarlett decise che era una buona idea sconvolgermi ancora un po’, come se i cacciatori e il vederla priva di sensi, ad un passo dalla morte, non fossero stati abbastanza: si avvicinò ancora un po’, sollevò una mano e, con estrema naturalezza, la posò sulla mia guancia.
Quello che fece dopo, però, fu ancora più inaspettato: si sporse verso di me e premette le labbra sulle mie. Sussultai, sorpreso, ma ebbi appena il tempo di rendermi conto di cosa stesse succedendo perché un attimo dopo lei si allontanò da me. Si rannicchiò contro il mio fianco con la testa sulla mia spalla senza dire una parola.
«Pensi che domani dovrei tornare a scuola?» Chiese dopo qualche minuto di silenzio.
«Uhm… Non so, dipende da come ti senti.» Risposi ancora un po’ disorientato da quel bacio a sorpresa.
«Adesso sto bene, ma domattina potrei avere una ricaduta. Soprattutto se dovrò svegliarmi alle sette…» Commentò lei e percepii il sorriso nella sua voce.
Sorrisi anch’io. «Prima o poi dovrai tornare comunque a scuola, sai?»
«Sì, ma non è che muoia dalla voglia di farlo. Insomma, ho perso due giorni di lezione e questo, vista la mia scarsa voglia di studiare, potrebbe essere un problema.» Spiegò lei stringendosi ancora un po’ contro di me.
I suoi capelli mi sfioravano il collo, il profumo leggero di cannella, che avevo sentito la notte del nostro secondo incontro in quel bar, era soffuso, leggerissimo.
«Se vuoi posso aiutarti a recuperare, casomai ne avessi bisogno.» Proposi accarezzandole piano il braccio.
«Lo faresti sul serio?» Domandò lei sorpresa.
«Sì, certo.» Confermai. «Senti, facciamo una cosa: domani resti a casa così ti rimetti del tutto, e il pomeriggio studiamo insieme, che ne dici?»
Si raddrizzò e mi diede un bacio sulla guancia. «È perfetto! Davvero, non so come ringraziarti.»
«Va bene così, Scar.» Sussurrai intrecciando le dita con le sue.
Sorrise e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse non carina, ma bella. Veramente bella, perché aveva i capelli in disordine, perché era pallida, perché aveva le occhiaie, perché era irascibile e lunatica, perché mi aveva fatto dannare e perché stavo cominciando a considerarla più di una semplice amica.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Siamo già al capitolo 28! Mi sembra ieri che ho iniziato a pubblicare questa storia, e invece il 15 giugno sarà già un anno. Vi anticipo che ci sono più o meno altri dieci capitoli alla fine di UAPM -la storia più lunga che io abbia mai scritto fino ad ora.
Passando al capitolo, abbiamo avuto il primo vero confronto tra Sean e Adam. Non sarà l'ultimo, assolutamente, anzi, questo è stato anche relativamente "tranquillo".
Il rapporto del nostro licantropo brontolone con Scarlett sarà molto importante nei prossimi capitoli, lo vedrete svilupparsi e scoprirete qualcosa in più sulla licantropia. Sean è in parte ispirato a Derek Hale di Teen Wolf, soprattutto per il modo in cui considera la licantropia, una sorta di dono. Ma saprà rivelarsi anche comprensivo e protettivo nei confronti della nostra Scar. Così come si farà prendere dalla rabbia nei battibecchi con Adam.
Ho detto anche troppo, quindi mi fermo qui. Grazie mille per continuare a leggere UAPM <3

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Capitolo 29
*** 29. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 29


                                                         

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29. Scarlett


L’incontro con il ragazzo che mi aveva rivoluzionato la vita trasformandomi in un licantropo mi aveva scossa, ma non abbastanza da impedirmi di dormire fino alla dieci passate. Quando mi svegliai, la luce del sole filtrava morbida e soffusa dalle tende. Mi stiracchiai e mi girai sulla schiena. Chi l’avrebbe mai detto che il letto di un altro potesse essere tanto comodo?
Sia Adam che Matthew avevano insistito perché rimanessi a dormire nel cottage nel bosco dove sarebbe stato più facile raggiungermi in caso di bisogno.
Matthew si era addirittura offerto di rimanere con me per la notte e di dormire nella stanza accanto, ma non mi era sembrato giusto farlo stare lontano da casa, quindi gli avevo detto di andare a riposarsi visto tutto quello che aveva già fatto per me. Come, per esempio, salvarmi la vita. Alla fine aveva accettato anche se mi aveva lasciato il suo numero di telefono di casa e anche quello del cellulare. “In caso di emergenza”, aveva detto aggiungendo che potevo chiamarlo anche se quello che mi serviva era solo una tisana.
Adam era andato via poco prima dell’ora di cena e mi aveva salutata con un abbraccio e un bacio sulla fronte che mi aveva fatto sorridere. Anche lui aveva voluto ricordarmi che potevo rivolgermi a lui in qualunque momento, che fosse stato per un incubo o semplicemente per voglia di parlare.
Sean era ricomparso verso le cinque del pomeriggio, cupo e silenzioso. Mi aveva rivolto un cenno del capo appena accennato, nient’altro. Ad Adam aveva riservato un’occhiata molto, molto intensa, da cui lui non si era lasciato intimorire: l’aveva sostenuta a testa alta e con aria di sfida. Questo suo atteggiamento aveva fatto incupire Sean ancora di più, tanto che si era buttato sulla poltrona e non aveva più aperto bocca se non per rifiutare con un secco “no” l’ennesimo tè di Matthew.
Un’ora dopo Sean se n’era andato quasi senza salutare e sbattendosi la porta alle spalle. Adam aveva detto che quel suo comportamento era infantile e la risposta da diretto interessato era stato un ringhio ammonitore che sembrava significare anche “aspettate che mi sia allontanato prima di parlare male di me”.
Nonostante tutto, però, ero molto grata a tutti e tre: mi avevano salvato la vita rischiando di farsi ammazzare da un gruppo di cacciatori fuori di testa e non avevano voluto assolutamente niente in cambio. Non che io avessi molto da dare.
Sospirai, mi passai una mano sul viso e mi versai un bicchiere d’acqua dalla brocca che Matthew aveva saggiamente lasciato sul comodino. Dovevo prendere quell’abitudine anche a casa: era piacevole svegliarsi ed avere qualcosa di fresco con cui rifarsi la bocca. Altro che madri urlatrici che si divertivano a strapparti di dosso le coperte.
Mi rabbuiai pensando a mia madre: le avevo lasciato un messaggio nella segreteria telefonica del cellulare la mattina prima, ma visto che non sapevo che ore fossero in Francia -la meta del viaggio per cui era partita il giorno in cui Miles era venuto a farci visita- era un po’ complicato comunicare.
Posai il bicchiere sul comodino e presi il cellulare. Non c’erano chiamate perse né messaggi. “Forse dovrei provare a richiamarla…”, pensai mordicchiandomi il labbro. Cercai il suo numero in rubrica ed esitai un attimo prima di premere il tasto per fare la telefonata. Mi portai il cellulare all’orecchio mentre con l’altro braccio mi strinsi le ginocchia al petto.
Con mia grande sorpresa, mamma rispose al terzo squillo: «Scarlett! Tesoro, sono così felice di sentirti.»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra. «Anch’io sono felice di sentirti… Ti ho lasciato un messaggio in segreteria ieri, ma non hai risposto così ho pensato di riprovare.»
«Oh, lo so, tesoro, mi dispiace.» Rispose. «Ho avuto molto da fare tra il volo e una riunione con importanti uomini d’affari… Le
solite cose. Ti avrei richiamata appena avessi avuto un momento libero. Come stai, tesoro?»
Trassi un respiro profondo preparandomi mentalmente all'idea di mentirle. «Bene. Sì, è tutto okay. Tu?»
«Sto bene,  ma ero così preoccupata per te! L’altro giorno sei scappata via e sembravi così arrabbiata… Mi dispiace tantissimo per quello che è successo…» La sua voce si fece tremula. «Lo so che per te è difficile con tuo padre, avrei voluto fare di più, darti di più…»
«Mamma, ehi, è tutto okay. Non è colpa tua se lui ha l’intelligenza di una nocciolina. Io ti voglio bene e questo non cambierà mai.» La rassicurai. «Hai fatto tantissimo per me e non hai idea di quanto io ti sia grata.»
«Oh, tesoro… Ti voglio tantissimo bene anch’io. Sei fantastica, Scout, diventerai una donna meravigliosa.» Tirò su col naso, ma sembrava stare meglio. «Scusa, tesoro, devo andare. Sai, il lavoro… Ma se hai bisogno sono qui, okay?»
«Okay.» Mormorai sorridendo.
«Ti voglio bene.» Aggiunse lei. «Non dimenticarlo mai.»
«Anch’io ti voglio bene, mamma. Ora vai, o farai tardi.» Replicai.
Si raccomandò un’ultima volta prima di decidersi a riattaccare.  
Nonostante tutto quello che avevamo dovuto affrontare, tra me e mia mamma c’era un ottimo rapporto fatto di fiducia e stima reciproca. Io la ammiravo per tutte le ore di lavoro che faceva e lei era fiera di come riuscissi a cavarmela da sola.
Ovviamente, non sapeva tutta la storia, non aveva idea che fossi un licantropo, ma mi sosteneva meglio che poteva in qualunque cosa e non avrei potuto chiedere di più.

Avevo passato la mattina a leggere cercando di non pensare che ero quasi morta, che stavo mentendo a mia madre da anni, che c'erano dei cacciatori ancora vivi, per quel che ne sapevo, in giro per Seattle. E che non si sarebbero limitati a cacciare me, adesso avrebbero voluto tutto il "branco".
Verso le due e mezzo sentii il rumore di un’auto che si avvicinava. Mi preoccupai e balzai all’erta: Adam aveva detto che quella casa era praticamente inutilizzata, ma non era certo che nessuno ci andasse mai. E se fosse stata sua madre? O suo padre? Che avrei detto? “Ehi, sono qui in convalescenza dopo che dei pazzi mi hanno sparato, ma non preoccupatevi, me ne andrò presto”.
Pensai frettolosamente ad un piano, ma l'unica cosa che mi venne in mente fu improvvisare un nascondiglio da qualche parte, ed era una cosa che lasciava parecchio a desiderare.
Nel frattempo, chiunque fosse al volante dell’auto, aveva parcheggiato e stava salendo le scale del portico. Mi morsi il labbro tanto da farmi male. Stavo per cacciarmi in un guaio enorme, e avrei trascinato con me anche Adam. Lui mi aveva salvato la vita, non potevo fargli questo… Non che avessi altra scelta, però.
Sentii il tintinnio di un mazzo di chiavi, la serratura che scattava e il mio cuore che perdeva fin troppi battiti. Quando la porta si aprì persi dieci anni di vita. Per poi recuperarli tutti un attimo dopo: c’era un Meyers sulla soglia, ma non era né il padre né la madre. Era quel bastardo dagli occhi blu che mi aveva complicato, e salvato, la vita.
Ed era particolarmente carino con quella maglietta nera, i jeans scoloriti e la giacca marrone. Adam mi fece un sorriso mentre si chiudeva la porta alle spalle e io gli lanciai un cuscino.
«Mi hai fatto prendere un colpo, idiota!» Sbottai incrociando le braccia al petto.
Lui afferrò al volo il mio proiettile tutt’altro che letale e si mise a ridere. «Scusa, volevo farti una sorpresa. Non mi aspettavo un’accoglienza del genere.»
«Se fossi stato così gentile da dirmi che tornavi prima avrei anche potuto essere felice.» Replicai. «Ed evitare di prenderti a cuscinate.»
Scosse la testa senza smettere di sorridere. «Forse non ti è chiaro il termine “sorpresa”.»
«Comunque, perché sei qui? La scuola non finisce tra un’ora?» Domandai sospettosa.
Lui si sfilò la giacca, si avvicinò al divano e ce la lasciò cadere insieme al cuscino. «Mi mancava un professore e ci hanno fatto uscire prima.» Si sedette accanto a me. «Che stavi facendo prima che ti facessi prendere un colpo?»
«Leggevo.» Risposi guardandolo di sottecchi.
Inarcò un sopracciglio. «Ah sì?»
Alzai gli occhi al cielo sbuffando teatralmente. «Già, Sean mi ha portato altri vestiti ed un libro.»
Annuì distrattamente. «Ho parlato con Elisabeth oggi.»
Mi feci subito attenta. «Che dice?»
«Era un po’ preoccupata perché non ti rivedeva da un po’ e mi ha chiesto se ne sapevo qualcosa.» Spiegò. «Le ho detto che hai l’influenza e che abbiamo dovuto cancellare una lezione per questo.»
«È una buona scusa.» Concessi appoggiando la testa alla sua spalla. «Forse non te l’ho fatto capire subito, ma mi è piaciuta questa sorpresa.» Mormorai, un po’ perché era la verità, un po’ perché volevo metterlo alla prova.
«A meno che tirare cuscini per te non significhi dimostrare felicità, non me l’hai fatto capire molto bene.» Scherzò dopo un attimo di esitazione.
Mi sollevai per guardarlo meglio. «Sbaglio o oggi mi sembri di buon’umore?»
I suoi occhi blu mi studiavano, le pagliuzze dorate accese dalla luce che entrava dalla finestra. «Sono solo felice che tu sia qui. Cioè, che tu sia ancora qui.»
«Anch’io sono felice che tu sia qui: stavo cominciando ad annoiarmi.» Ammisi cercando di nascondere un sorriso.
Inclinò appena la testa di lato. «È bello sapere che sono utile a qualcosa.»
Rinunciai definitivamente ad ogni tentativo di trattenermi, gli presi il viso tra le mani e lo baciai. Il giorno prima si era dimostrato esitante di fronte al mio “assalto” a sorpresa, ma quella volta non si fece cogliere impreparato. Lo sentii sorridere mentre le sue braccia mi circondavano accompagnando il mio movimento.
Non mi ricordavo che avesse i capelli così morbidi, o che l’odore del suo dopobarba -ancora non riuscivo a credere che lo usasse- fosse così buono.
Era da un po’ che non mi ritrovavo così vicino ad un ragazzo. Di solito cercavo di non spingermi così in là per evitare di perdere il controllo: più le emozioni sono forti, più è difficile per un licantropo non farsi prendere la mano. Quando ero in compagnia maschile dovevo sempre fare attenzione, un unico passo falso e tutta la mia copertura sarebbe saltata, cinque anni di bugie buttati al vento.
Con Adam era diverso, però, non sentivo il bisogno di rimanere su una zona neutra da cui sarebbe stato facile uscire. In fondo, lui sapeva cos’ero, non gli sarebbe preso un colpo se mi avesse vista con gli occhi dorati, le zanne o gli artigli. O almeno, se fosse successo, se lo sarebbe saputo spiegare.
Anche volendo, sarebbe stato difficile rimane abbastanza concentrata da allontanarmi quanto le cose si fossero fatte troppo “intense”: Adam si era sdraiato sulla schiena tirandomi sopra di sé, e seguiva con le dita la mia spina dorsale continuando a baciarmi. Non mi sembrava vero averlo lì con me, senza preoccupazioni, senza problemi, solo lui ed io.
Una vocina nella mia mente mi disse di seguire l’istinto, di lasciarmi andare, sarebbe andata come doveva andare. Una volta tanto fu d’aiuto invece che d’intralcio. Gli appoggiai le mani sul petto e le feci scivolare fino al bordo della sua maglietta. Quando sfiorai la pelle nuda del suo stomaco lui si allontanò appena da me. Chiuse gli occhi e socchiuse le labbra dandomi il coraggio che mi serviva, perché sì, ero piuttosto insicura. Cominciai a tracciare cerchi immaginari sulla sua pelle mentre lui faceva correre le dita sulle mie gambe. Ed era semplicemente magnifico.
 «Ho parlato con mia madre oggi.» Per un attimo rimasi sorpresa io stessa dalle mie parole: che mi era venuto in mente? In un momento del genere parlavo di mia madre?
Aprì gli occhi e intrecciò lo sguardo al mio. «È una cosa buona, giusto?»
Non sembrava né irritato né imbarazzato. Anzi, pareva sinceramente interessato. Forse solo io volevo sotterrarmi per aver detto una cosa del genere.
Distolsi lo sguardo. «Beh, sì. Ci siamo chiarite e adesso è tutto risolto.»
Tenevo ancora le mani su di lui, sulla sua pelle calda, come in cerca di rassicurazione.
Un sorriso gli incurvò le labbra. «Bene, mi fa piacere. Lei dov’è adesso?»
«In Francia.» Risposi. «Sai, lavoro…»
«Dovresti farti portare un po’ di champagne allora.» Commentò.
Mi lasciai sfuggire un risata. «Oh, certo, sono sicura che mia madre, conosciuta anche come Natalie Aboliamo-ogni-consumo-di-alcol Dawson, sarebbe felicissima di portarmene una scorta.»
I suoi occhi blu si fecero attenti. «Ha mantenuto il cognome di tuo padre?»
«No. Dawson era il suo cognome da ragazza. Dopo il divorzio se l’è ripreso e ha voluto cambiarlo anche a me.» Spiegai tracciando dei cerchi immaginari sul suo petto. «Approvo la sua scelta, anche perché Scarlett Merrick non suona bene.»
Inclinò appena la testa di lato. «Vero. Tua madre dev’essere una donna molto indipendente.»
Mi ritrovai a sorridere. «Sì, decisamente. Le piace fare di testa sua, sempre e comunque.»
«Come qualcuno di mia conoscenza.» Mormorò lui facendo risalire le dita dalle mie cosce fino ai fianchi.
Gli alzai ancora un po’ la maglietta. «Tale madre tale figlia.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo. Quando mi chinai su di lui, mi sfiorò il labbro inferiore con i denti facendomi scendere un brivido lungo la schiena. Lo baciai mentre le sue mani mi solleticavano il lembo di pelle appena sopra i jeans. Chi l’avrebbe mai detto che gesti così piccoli potessero rivelarsi tanto intensi e piacevoli?
Cominciavo a capire perché Beth era stata tanto innamorata di lui: Adam era carino, molto carino, con quegli occhi blu, la pelle chiara, le labbra sottili… Ma era anche bello dentro, perché era gentile, attento, forte, determinato, anche testardo, orgoglioso, insistente. E tutto questo era incredibile.
Dopo chissà quanti altri baci, mi scostai da lui sorridendo. Adam si sollevò appena fino a sfiorarmi il naso con il suo.
«Hai un buon profumo.» Sussurrò con voce roca.
«Anche tu.» Mormorai.
Sorrise. «Non hai idea di quanto mi faccia piacere averti qui.»
«Beh, anche a me fa piacere averti qui. Ma adesso dovrai rinunciare a me per… direi una mezz’oretta.» Risposi allontanandomi da lui.
Aggrottò la fronte e mi guardò con aria confusa. «Perché?»
Distolsi lo sguardo e gli tirai giù la maglietta. «Perché direi che è giunto il momento di farmi una doccia.»
Si rilassò e sorrise di nuovo. «Okay.» Strofinò il naso contro il mio. «Ma torna presto.»
Qualcosa nel mio petto si sciolse lasciandosi dietro una piacevole sensazione di calore. «Farò il possibile.»
Mi alzai in piedi e lui si mise a sedere continuando a guardarmi con quei suoi occhi blu tempesta. Aveva l’aria un po’ scompigliata e questo, insieme a quel sorriso da ragazzino che gli incurvava le labbra, lo rendeva incredibilmente… bello.
Prima che potessi anche solo pensare di fare qualcosa, lui si alzò, mi mise la mani sui fianchi e mi tirò verso di sé. “Accidenti…”, pensai mentre il mio lupo interiore fremeva.
«Buona doccia… Credo.» Mormorò.
Risi sottovoce. «Grazie, immagino.»
Mi salutò con un bacio leggero prima di lasciarmi andare. E mentre salivo le scale, mi ritrovai a sorridere come un'adolescente alle prese con la sua prima, imbarazzante cotta.

Appena finii di asciugarmi i capelli e di cambiarmi, scesi al piano di sotto con l’idea di farmi un tè. Non mi aspettavo certo di trovarci un licantropo infuriato e un diciassettenne altrettanto arrabbiato. E anche un Matthew che cercava di scomparire fondendosi con il muro. Sean si teneva una mano sul naso, gli occhi accesi d’oro che sembrava di fuoco, il sangue di un rosso brillante che gli macchiava le dita. Qualche goccia era finita anche sulla maglietta grigia che indossava insieme all’inseparabile giacca di pelle.
Ero ancora sulle scale, ma persino da lì riuscivo a sentire i suoi ringhi, così bassi e cupi da non poter essere percepiti dagli essere umani. Di fronte a lui c’era Adam, le dita premute sul viso appena sopra la guancia, lo sguardo duro e intenso, la mano libera stretta a pugno lungo il fianco. La tensione tra loro due era più che palpabile. Rimasi come congelata per un attimo, incredula e molto, molto sorpresa. Poi mi decisi a fare qualcosa.
«Adam! Sean! Ma che diavolo state combinando?!» Sbottai attraversando il salotto.
«Secondo te?» Replicò Sean ironico senza staccare gli occhi da Adam.
«Scarlett!» Saltò su Matthew con aria terrorizzata e con voce un po’ troppo acuta. «Meno male che sei arrivata.»
Mi infilai tra i due litiganti e aprii le braccia per mettere un po’ di distanza tra di loro. «Okay, calmiamoci. Tutti e due. E che qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo.»
Sean sbuffò sprezzante abbassando la mano. Il sangue tracciava rivoli scarlatti dal naso alle labbra, qualcuno scivolava giù fino al mento. «Non vorrei essere ripetitivo, ma secondo te?» Fece un cenno brusco verso Adam. «Questo qui ha voluto imporsi di nuovo. Come se un semplice umano potesse avere qualche pretesa su un licantropo.»
Mi stupii di quanto fosse aspra e rabbiosa la sua voce, ogni parola sembrava più tagliente di quella che l’aveva preceduta. Doveva essere stata proprio una brutta litigata. Mi voltai verso Adam e per un attimo trattenni il fiato: sullo zigomo sinistro c’era un brutto segno rosso che con ogni probabilità sarebbe diventato un altrettanto brutto livido. Anzi, già si cominciava a vedere una sfumatura violacea.
Lui, però, sembrava troppo arrabbiato per curarsene. Aveva la mascella contratta e quelle stesse labbra che poco prima erano state sulle mie erano ridotte ad una linea sottile di tensione. «Abbiamo litigato.» Disse con voce sorprendentemente calma.
La risposta di Sean fu una risatina beffarda che assomigliava ad un ringhio. «Se vuoi usare un eufemismo allora sì, abbiamo litigato. Se vuoi dire le cose come stanno, hai rischiato grosso oggi.»
Adam sostenne il suo sguardo con aria determinata. «Minacciare riesce a chiunque, ma sono i fatti a definire le persone. E per ora tu sembri solo un presuntuoso montato.»
“Come farsi uccidere da un licantropo furioso in tre… due… uno”, pensai preoccupata. Prima che Sean potesse rispondere, riuscii a mettermi in mezzo: «Non importa cosa vi siete detti, d’accordo? La violenza non è la soluzione. Quindi ora vi date calmata e ne parliamo con calma.»
Sean ringhiò piano prima di voltarsi di scatto e uscire a grandi passi dalla stanza. Chiuse la porta con un tonfo così forte che per un attimo credetti che si sarebbe staccata dai cardini. Adam sospirò alzando gli occhi al cielo e borbottò qualcosa che assomigliava a “esibizionista”. Dovevo ammettere che aver tenuto testa ad un lupo mannaro rabbioso non era una cosa da tutti i giorni e che lui aveva dimostrato molto coraggio, ma non mi piaceva il fatto che avesse usato la violenza.
Mi voltai verso di lui con le braccia incrociate sul petto. Ricambiò lo sguardo senza fare una piega. La sua espressione si era un po’ addolcita, ma era ancora in tensione.
Studiai il livido sul suo zigomo per un attimo. «Matthew puoi prendermi del ghiaccio per favore?»
«Sì, certo.» Rispose lui prima di sparire in cucina.
Adam fece per protestare, ma lo zitti con un’occhiataccia. Gli misi le mani sulle spalle e lo spinsi giù fino a farlo sedere sul divano: era più alto di me di qualche centimetro, non sarebbe stato comodo controllare l’ematoma se fosse rimasto in piedi.
«Ecco qua.» Disse Matthew venendomi vicino e porgendomi un sacchetto di ghiaccio.
«Grazie.» Mormorai distrattamente.
Lui annuì appena. «Vado a fare un tè.» E sgattaiolò via senza aspettare una risposta.
Abbassai lo sguardo sul ragazzo seduto di fronte a me. E sì, era bello anche con quel brutto livido in formazione in faccia. I suoi occhi blu erano fissi nei miei, intensi e tempestosi come sempre. Dubitavo che esistesse qualcosa capace di far perdere loro quella forza.
Gli presi il mento tra le dita e gli feci voltare appena la testa. «Uhm, te la sei vista brutta, eh?»
Non rispose, si limitò a stringere le labbra. Scossi appena la testa accarezzandogli la guancia. Questo lo sorprese un po’ visto che mi lanciò un’occhiata di sottecchi.
«Te l’hanno mai detto che sei troppo testardo? E orgoglioso?» Chiesi posando delicatamente il ghiaccio sull’ematoma.
«Fino ad oggi no.» Rispose con voce roca.
«C’è sempre una prima volta.» Commentai.
Mi sedetti accanto a lui che si voltò per permettermi di continuare a occuparmi del suo livido. Per un qualche strano motivo, mi tornarono in mente i bei momenti che avevamo passato io e lui su quel divano poco prima. Era stato così bello da sembrare quasi surreale.
«Fa male?» Il mio tono dolce sorprese un po’ anche me.
«No, per ora no.» Replicò lui senza staccare gli occhi dai miei.
Sollevai appena il ghiaccio per dare un’occhiata. «Vi siete comportati da bambini, tutti e due. Vi sembra che prendervi a pugni serva a qualcosa? E poi, chi ha cominciato?»
Si mordicchiò il labbro. «Lui. Stavamo discutendo dei cacciatori, ci siamo arrabbiati tutti e due e poi… beh, poi puoi immaginare cosa sia successo.»
«Perché finite sempre per litigare?» Chiesi inclinando la testa di lato.
Scrollò le spalle. «Perché abbiamo opinioni molto differenti. Lui pensa che la violenza sia la risposta per tutto, io no.»
«Però l’hai picchiato anche tu…» Mormorai prima di stringere le labbra.
«È stata legittima difesa.» Protestò e lo sentii irrigidirsi. «Che dovevo fare? Subire?»
Abbassai il ghiaccio e gli misi una mano sul braccio. «No, ma ci sono anche altri modi per risolvere la cosa.»
Distolse lo sguardo e aggrottò la fronte. «Lo so, eccome se lo so. Odio la violenza. Sul serio, è una cosa che non sopporto. Non so cosa mi sia preso.» Scosse la testa. «So benissimo che avrei dovuto reagire in un altro modo, ma non stavo pensando. Ho agito d’impulso.»
Feci scivolare una mano sulla sua e la strinsi. «È una situazione stressante per tutti, non è colpa tua se hai commesso un errore. E non è neanche tanto grave.»
Sollevò lo sguardo su di me: sembrava sollevato, meno in tensione. Mi fece un sorriso incerto e mi accarezzò piano le nocche.
«Magari non è grave, però resta sempre il fatto che ha quasi rotto il naso ad un licantropo.» Commentò Matthew entrando in salotto con una tazza di tè in mano.
Adam lo guardò, un po’ confuso. «Che intendi?»
Matthew si sedette sulla poltrona e accavallò le gambe. «Penso che avrete notato che lui sa il fatto suo e quindi non credo che sia così facile coglierlo impreparato. È vero che ha cominciato lui e che questo potrebbe averlo distratto, ma pensi davvero che si sarebbe lasciato colpire? Ha dei riflessi incredibili e, senza offesa, come puoi anche solo pensare di riuscire ad eluderli?»
Adam socchiuse gli occhi, mi sembrava quasi di vedere la sua mente all’opera per dare un senso a quell’improvvisa debolezza di Sean. «Pensi che me l’abbia lasciato fare?»
Matthew annuì e prese un sorso di tè. «Forse. E credo anche che ci sia andato leggero con te.»
«Cosa?» Sbottai. «Ma se gli ha quasi rotto uno zigomo!»
«Vero. Ma se avesse voluto fargli male sul serio adesso lui non sarebbe in grado di raccontarlo.» Ci fece notare Matthew sollevando un sopracciglio.
«Si è trattenuto.» Realizzò Adam.
Matthew sollevò la tazza verso di lui come a congratularsi. «Esatto.»
Adam scosse la testa, un sorriso incredulo ad incurvargli le labbra. «Non ha senso… Perché avrebbe dovuto farlo?»
Matthew prese un sorso di tè. «Forse per non perdere l’appoggio di Scarlett. Insomma, se ti avesse ucciso non credo che sarebbe stata ben disposta a seguirlo.»
Il pensiero della morte di Adam mi colpì come un pugno nello stomaco. Non ci avevo mai pensato, perché avrei dovuto farlo?, ma anche solo sfiorare quell’idea mi metteva i brividi a prescindere. Lui non poteva, e non doveva morire. Che avrei fatto se l’avessi perso?
Mentre una parte della mia mente mi rimproverava per l’egoismo di quel pensiero, l’altra si stupì di quanto mi fossi legata a quel ragazzo di cui sapevo poco eppure tanto nello stesso tempo, quel ragazzo che mi aveva fatta dannare e che adesso era diventato importante.
«Quindi sono ancora vivo perché lui vuole Scarlett?» Domandò Adam, lo sguardo attento e le labbra strette.
Matthew annuì, di colpo serio. «Io credo di sì. Tu sei quasi il suo collegamento con lei, senza di te non avrebbe più né Scarlett né un branco, che gli piaccia oppure no.»
Le loro parole mi giungevano ovattate, quasi prive di significato. L'unica cosa che riuscivo a pensare era che se  fosse successo qualcosa ad Adam non me lo sarei mai perdonato, e probabilmente avrei anche faticato da morire a superarlo.
Avevo bisogno di Adam Meyers nella mia vita tanto quanto lui aveva bisogno di starmi lontano per poter vivere tranquillamente.


SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Ve l'avevo detto che gli scontri Adam vs Sean non erano finiti, no? Ecco, questo è uno dei più intensi, ma nonostante questo Sean si è comunque trattenuto. Che lo voglia o no, ha bisogno di Adam per poter avere Scarlett.
In questo capitolo abbiamo avuto anche uno dei miei momenti Adamett preferiti *-* Quello che preferisco in assoluto arriverà esattamente tra dieci capitoli <3
L'altra volta vi ho detto che mancavano una decina di capitoli alla fine, in realtà credo siano un po' di più. Dovrebbero essere in tutto 42/43, ma nel revisionarli può darsi che faccia un po' di collage e che quindi il numero diminuisca, chissà.
Uh, nel prossimo capitolo scoprirete che cosa nasconde il nostro lupo brontolone, ovvero Sean, finalmente saprete che cosa ha passato prima di arrivare a Seattle **
Qualche ipotesi così, a caldo?
Vi saluto, al prossimo capitolo <3

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Capitolo 30
*** 30. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 30

                                                         

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30. Adam


«Quindi… vuoi parlargli di nuovo…» Disse Scarlett cercando di usare un tono neutro.
Era seduta sul sedile del passeggero accanto a me e mi studiava di sottecchi convinta che non me ne accorgessi. La conversazione con Matthew sembrava averla un po’ turbata nonostante stesse cercando di nasconderlo.
Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso. «Sì, perché?»
«Ah, no, così, per sapere. Almeno tengo pronta l’ambulanza.» Commentò sollevando un sopracciglio con aria critica.
Scossi la testa. «Voglio solo parlare, okay? E questa volta non ci saranno scontri.»
«Mmh.» Non era convinta. Per niente.
«Andiamo Scar, non ti fidi di me?» Chiesi lanciandole un’occhiata.
«Sì, certo.» Non esitò neanche per un attimo. «Ma voglio anche rivederti tutto intero. Secondo me non è una buon’idea parlare con lui. Non subito almeno.»
«Devo farlo. Ci sono delle cose che voglio chiarire ed è meglio farlo il prima possibile.» Risposi.
Si strinse le braccia al petto. «D’accordo, sì, magari ci sono dei dettagli di cui discutere, ma ricordati che ti ha quasi rotto uno zigomo oggi. Chi ti dice che non lo rifarà?»
Mi lasciai sfuggire una smorfia ricordando quel momento. «Non ho intenzione di attaccarlo stavolta. Aggredirlo non è servito, l’ho imparato a mie spese, quindi cercherò di essere più gentile.»
«Lo spero per te. E spero anche lui non dia in escandescenze.» Rimase in silenzio per un attimo, come se stesse riflettendo, prima di aggiungere: «A proposito, come lo spieghi ai tuoi? Il livido intendo.»
Scrollai le spalle. «Non so, mi inventerò qualcosa.»
«Puoi dire che sei caduto.» Propose lei con noncuranza.
«Sulla faccia?» Chiesi lasciandomi sfuggire un sorriso.
Lei sollevò le sopracciglia. «La gente riesce a cadere in modi molto strani.»
«Non penso che i miei ci crederebbero. Insomma, se lo dicessi a te tu cosa penseresti?» Chiesi lanciandole un’occhiata.
«Che stai mentendo.» Ammise con un sospiro. «Okay, quindi ti serve una buona scusa.» Mi mise una mano sul braccio e mi guardò con aria grave. «Buona fortuna.»
Scossi la testa e sorrisi, mio malgrado. «Grazie per l’aiuto, davvero.»
Si appoggiò al sedile. «Ho solo fatto il mio dovere.»
A parte il suo umorismo discutibile, sembrava essersi rilassata e questo tranquillizzò anche me. Da quando era quasi morta, continuavo a ritrovarmi ad osservarla, a tenerla d’occhio, come se avesse potuto avere una ricaduta da un momento all’altro. Era impossibile, ovviamente: la ferita si stava cicatrizzando bene, nel suo corpo non c’era più traccia d’argento e, via via che i giorni passavano, riacquistava forza ed energia. Stava bene, lo sapevo, ma quella strana ansia c’era ancora.
Accostai la macchina al marciapiede di fronte casa sua. «Siamo arrivati.»
«Grazie.» Mormorò. Poi sollevò timidamente lo sguardo su di me e mi osservò da dietro le lunghe ciglia. «Ci vediamo domani? A scuola, o dopo.»
«Sì, certo.» Confermai con un sorriso.
I suoi occhi da cerbiatto si illuminarono. «Bene.»
Si sporse verso di me come faceva ogni volta che ci salutavamo. Fece per darmi un bacio sulla guancia, ma si fermò, esitante. Sentivo il suo respiro sulla pelle e il suo profumo di cannella. Alla fine, dopo aver sospirato, Scarlett premette le labbra sulle mie per pochi secondi. E io mi resi conto che, segretamente, ci avevo sperato.
«A domani.» Sussurrò con un mezzo sorriso che ricambiai.
Continuai a sorridere anche mentre la guardavo scendere dall’auto, camminare verso la casa, aprire la porta ed entrare. “Accidenti”, pensai, “che mi stai facendo Scar?”.

Mi ero quasi dimenticato del livido quando rientrai a casa, soprattutto perché non faceva male. E perché il ricordo di Scarlett e dei suoi baci era un’ottima distrazione.
Mi chiusi la porta alle spalle e salutai Cora con una carezza tra le orecchie. Lei scodinzolò, soddisfatta da quelle attenzioni.
«Tesoro, sei tornato… Oh mio Dio!»
Sollevai lo sguardo e trovai mia madre che mi fissava con aria scioccata. Indossava una camicetta bianca sotto un cardigan rosso e dei pantaloni eleganti neri. Aveva raccolto i capelli in uno chignon, come al solito. Per un attimo mi chiesi il perché di quella reazione, ma poi mi ricordai dello scontro con Sean e del segno che mi aveva lasciato. E io dovevo aver preso da qualcuno la mia avversione per la violenza.
Annabeth mi si avvicinò e sfiorò il livido. «Che hai combinato? Oddio…»
«È tutto okay, davvero. Non è niente.» Tentai pur sapendo che non mi avrebbe ascoltato.
Una ruga di preoccupazione le solcava la fronte. «Niente? Ti sembra niente? Oh, tesoro… Che è successo?»
Feci per rispondere, ma mio padre, entrato in quel momento in corridoio dal salotto, mi interruppe: «Ah però. Qualcuno qui ha fatto a botte, eh?»
Gli lanciai un’occhiata ammonitrice: parlare di risse davanti a mia mamma era una pessima idea. Infatti, lei divenne ancora più pallida e spalancò gli occhi.
«A botte?» Ripeté con un fil di voce.
«No, niente botte.» Replicai. «Ho solo… uhm, avuto una discussione con un altro ragazzo.»
«Che, tradotto, significa che hai partecipato ad una rissa.» Commentò mio padre incrociando le braccia al petto e tendendo le cuciture della camicia che indossava.
Mia madre strinse le labbra e trasse un respiro profondo. «Va bene, va bene. Ne parliamo dopo. Adesso vado a prenderti un po’ di ghiaccio.»
Il suo atteggiamento partico e risoluto era tornato, glielo si leggeva negli occhi, e la linea severa della bocca lo confermava. Prima che potessi protestare, si voltò e marciò in cucina. Sospirai e mi passai una mano nei capelli, esasperato.
«Un piccola rissa quindi, niente di serio.» Disse mio padre guardandomi con un sopracciglio alzato.
«Non c’è stata nessuna rissa.» Sbottai. «Abbiamo solo avuto… un diverbio.» Che poi non era troppo lontano dalla verità. Più o meno.
Socchiuse gli occhi. «Un diverbio. Mmh.»
«Davvero. Solo un malinteso.» Confermai.
Annuì e mi mise una mano sulla spalla. «Beh, spero che tu gli abbia reso il favore.» E mi strizzò l’occhio prima di tornare in salotto seguito a ruota da Cora.
Alzai gli occhi al cielo: se io e mia madre eravamo i diplomatici della famiglia, quelli che preferivano parlare e chiarire a parole, mio padre e Louis erano i fedeli sostenitori delle maniere forti. In ogni situazione.

Non mi erano mai piaciuti gli scontri fisici, ancora meno la violenza in generale, ma visto che dovevo affrontare un argomento molto delicato con un tipo lunatico ed imprevedibile come Sean, nessuna possibilità era da escludere.
Ovviamente avrei voluto evitare un altro litigio che poteva concludersi molto male. In fondo, volevo solo chiarire alcune cose così da avere una visione più chiara di lui e di come pensava. E poi, volevo delle risposte.
Prima di lasciarmi partire, dopo le lezioni, Scarlett si era raccomandata di fare attenzione e di non esagerare, sottintendendo che non avrebbe gradito un altro livido. E io non ero riuscito a non sorridere: quando si preoccupava aveva la tendenza ad aggrottare la fronte e a stringere le labbra tra una frase e l’altra. Erano piccoli gesti di cui non si accorgeva, ma che io notavo senza neanche rendermene conto.
Le avevo promesso che non avrei fatto nulla di avventato e lei si era rilassata appena: finché non mi avesse rivisto non si sarebbe tranquillizzata del tutto. Mi sarebbe piaciuto baciarla di nuovo, lo ammetto, ma non sapevo come avrebbe reagito. Le altre volte era stata lei a prendere l’iniziativa, ma eravamo sempre stati soli in quei casi; in quel momento, invece, eravamo nel cortile della scuola, davanti a tutti. Alla fine le avevo dato un semplice bacio sulla fronte che l'aveva fatta sorridere.
Mi aveva messo di buon’umore, e speravo che questo mi avrebbe aiutato a mantenere la calma con Sean. Sempre che fossi riuscito a trovarlo: non avevo idea di dove fosse. Speravo che avesse deciso di tornare nel cottage nel bosco che ormai era quasi il nostro quartier generale.
Non aveva le chiavi, ma qualcosa mi diceva che questo non era un problema per lui. Mi resi conto di sapere poco di lui, davvero poco. Sapevo che era un licantropo, ma non da quanto. Sapevo che aveva venticinque anni, ma non cosa aveva fatto fino a quel momento. Sapevo che, in un certo senso, voleva proteggere Scarlett, ma non avevo assolutamente idea del perché.
Lui invece sembrava sapere tutto, dava l’impressione di avere ogni cosa sotto controllo e aveva anche un carattere molto spigoloso.
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli. Dovevo rimanere calmo per riuscire a gestire bene la situazione, e la sua reazione, che poteva essere positiva come no.
La scuola non era troppo lontana dal cottage, venti minuti di macchina, quando non c’era traffico, erano più che sufficienti per raggiungerlo. In quel momento, però, avrei quasi preferito che il viaggio durasse di più. Invece la casa era lì, a pochi metri da me, tranquilla e avvolta dal bosco come sempre. Parcheggiai accanto alle scale del portico, trassi un respiro profondo e scesi dall’auto chiudendomi lo sportello alle spalle. Salii sul porticato pensando a come cominciare il discorso: niente toni aggressivi né domande troppo personali, questi erano i punti fermi che mi ero posto visto che sembravano le cose che gli davano più fastidio.
«Cercavi qualcosa?» Chiese una voce familiare.
Trasalii e mi voltai di scatto: Sean era appoggiato al muro con le braccia conserte e mi guardava con aria sospettosa. Ovviamente, grazie alla licantropia, dello scontro del giorno prima non era rimasto nessun segno, neanche un accenno di livido. Si era messo in un punto all’ombra ed era stato così silenzioso che non mi ero accorto fosse lì. La giacca di pelle marrone scuro contribuiva a nasconderlo allo sguardo. Come al solito, indossava dei jeans neri e una maglietta. Sembrava quasi che volesse fondersi con le ombre.
Sospirai: cominciavamo bene. «Cercavo te.»
Sollevò appena un sopracciglio, ma fu questione di un attimo prima che tornasse cupo come prima. Senza degnarmi di un altro sguardo, fece qualche passo avanti fino ad arrivare alla ringhiera, a cui si appoggiò con gli avambracci.
«Che c’è? Non ti è bastato ieri? Vuoi il bis?» Domandò con voce piatta.
Alzai gli occhi al cielo felice che non potesse vedere la mia espressione. «No, voglio solo parlare.»
Vidi le sue spalle tendersi. «Ah sì? L’ultima volta non è finita bene.»
«Lo so.» Risposi. «Ma adesso non voglio litigare. Vorrei solo che tu rispondessi a qualche domanda.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Vuoi farmi il terzo grado, ragazzino?»
Esitai per un attimo. «Voglio capire. Perché sei qui, perché hai salvato Scarlett, perché sembri avercela con in mondo.»
«Ho i miei motivi.» Era tornato ad essere coinciso come sempre.
Assecondarlo mi sembrò la cosa più logica da fare. «Sì, lo immagino. Ma… è difficile fidarsi se non sappiamo niente di te.»
«Parli al plurale, però sei solo tu che hai difficoltà con questa cosa.» Commentò.
«Beh, Matthew sembra conoscerti e Scarlett… in un certo senso ti conosce un po’ anche lei. Io no.» Spiegai distogliendo lo sguardo.
«Mmh.» Fu la sua unica risposta.
Chissà perché la presi come un via libera. «Per esempio… perché ce l’hai tanto con i cacciatori?»
Serrò la mascella. «Che domanda idiota… Secondo te? Loro cacciano quelli della mia specie, come se fossero bestie comuni. Mi sembra un buon motivo per odiarli.»
«Sì, okay, questo l’avevo capito, ma sembra che per te sia una cosa personale. Come se ti avessero fatto un torto.» Gli feci notare studiandolo di sottecchi per valutare la sua reazione. «Non hai voluto nessun aiuto contro i cacciatori che avevano preso Scarlett e sembravi… sembrava che ti volessi vendicare.»
Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. «Il fatto che abbiano sterminato la mia famiglia ti sembra una buona ragione per volere una vendetta? A me sì.»
Rimasi senza parole e lo guardai, incredulo. «Hanno sterminato la tua famiglia?»
«Non è solo per quello, in realtà, ma sì, l’hanno fatto.» Confermò.
«Gli stessi che hanno preso Scarlett?» Riuscii a chiedere.
«Non quello stesso cacciatore, ma la sua famiglia si è divertita parecchio a darmi la caccia.» La sua voce era gelida, non tradiva nessuna emozione. Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla come se avesse voluto controllare l’effetto delle sue parole. Prima che potessi anche solo pensare di rispondere, aggiunse in tono misurato: «È una storia piuttosto lunga, non so se ti interessa tutta.»
Quella frase mi sorprese ancora di più: era disposto a raccontarmi il suo passato? Solo il giorno prima mi aveva minacciato e adesso era arrivato a fidarsi di me al punto da volermi parlare di quello che sembrava essere il periodo più buio della sua vita.
«Ho tempo.» Dissi semplicemente.
Sollevò di colpo lo sguardo sul bosco davanti a sé e annuì piano. «Non sono americano. Il mio cognome è Leblanc, vengo da Toronto. Sono nato licantropo, come i miei genitori e gran parte della mia famiglia. Quelli come noi sono chiamati licantropi di nascita e godono di un certo prestigio perché i nostri poteri sono più forti, un po’ perché abbiamo più tempo per imparare a padroneggiarli, un po’ perché i geni della licantropia fanno parte di noi da sempre.
 Mio padre, Rick, non sembrava un lupo mannaro. Era… molto umano: amava l’astronomia e sognava di insegnare in un liceo. Mia madre, Melanie, era una donna bella e fiera. Amava la sua famiglia e avrebbe fatto di tutto per proteggerla. Era lei quella con i piedi per terra. Avevo anche una sorella maggiore, Christine. Lei era…» Gli si spense la voce per un attimo, e mi lanciò un’altra occhiata, di nuovo guardingo, prima di continuare: «Eravamo felici, credo. Mio padre teneva molto all’istruzione, così, quando finii il liceo, mi mandò a Washington al college, dove conobbi Matthew.
 Poco dopo la mia partenza mia madre mi disse che Christine aspettava un bambino e ne erano tutti felici anche se il ragazzo di lei aveva deciso di lasciarla. Mia madre adorava i bambini, quindi fu felice di riprenderla in casa. Sembrava andare tutto bene, il college era un ottimo istituto, Christine era felice, i miei anche di più. Poi mi dissero dell’attacco.
 Di solito i cacciatori non colpiscono oltre il confine, si limitano a cacciare negli Stati Uniti. Sono una cosa di qui, negli altri paesi se ne trovano molti pochi e quei pochi si limitano a difendersi, non attaccano mai.» Un sorriso amaro gli sfiorò le labbra mentre scuoteva piano la testa. «Voi americani invece dovete sempre prendere l’iniziativa.»
Rimasi in silenzio, completamente a corto di parole.
Lui chinò la testa, il sorriso che si spegneva ogni secondo che passava. «Non risparmiarono nessuno. Il bambino di mia sorella, Isaiah, era nato pochi mesi prima, io non avevo ancora avuto occasione di vederlo. Uccisero anche lui. Non sapevamo neanche se era un licantropo o no… Il padre era umano…» Arricciò appena le labbra in una smorfia, ma non avrei saputo dire se era di dolore o di fastidio. « Non ricordo chi mi disse cos’era successo, ma quando lo venni a sapere capii che non ci sarebbe voluto molto prima che trovassero anche me. Fino a quel momento avevo frequentato solo umani, ma da allora capii di dover sfruttare la mia licantropia.
 Cambiai compagnie e non ci volle molto perché qualcuno cominciasse ad interessarsi a me: i lupi sono animali sociali, hanno bisogno di un braco e spesso e volentieri di una guida. Non mi era mai interessato diventare un capobranco, ma se volevo sopravvivere non avevo scelta. Visto che ero un licantropo di nascita in qualche modo mi vedevano forte e potente e io glielo lasciai credere. Nel giro di un mese avevo sei lupi con me. Erano stati tutti morsi e nessuno di loro aveva una storia felice, ma sapevano il fatto loro, a me bastava questo. Per uno giovane come me avere sei lupi al seguito era un grande traguardo, in fondo, avevo solo diciannove anni.
 Ci guadagnammo il rispetto di molti licantropi lì a Washington. Reggere quel tipo di pressione non è facile, e non avevo ancora superato la morte dei miei e di Christine, così finii per diventare quasi apatico, con tutti. L'indifferenza è un'arte che si impara col tempo, ma non sempre è un bene: a volte ti rende cieco e sordo a ciò che ti circonda, anche a chi tiene a te. E io avevo delle persone che tenevano a me, il mio branco non mi rispettava solo come capo, ma anche come persona. Soprattutto Olivia. Era una lupa di venticinque, sempre pronta ad aiutare gli altri. Si era sposata giovane, ma quando il marito aveva scoperto che era incinta l’aveva lasciata e lei, dopo un incidente d’auto, aveva perso il bambino. Per certi versi, mi aveva ricordato Christine, così l’avevo voluta con me.
 Gli altri erano Joey e Mark, lupi della mia età che avevo conosciuto in un locale, Arthur, che aveva poco più di trent’anni, Felix, una lupa cinese di vent’anni e Amy, una mia compagna di corso. Eravamo tutti diversi tra noi, ma in qualche modo funzionava. Rimanemmo tranquilli per un po’ e così riuscii a stringere qualche alleanza con altri lupi: avere conoscenze in giro per la città è sempre utile, soprattutto quando hai dei cacciatori sulle tue tracce.
 Infatti, qualche mese dopo, mi giunse voce che dei cacciatori era arrivato a Washington. Mi informai e venni a sapere che si trattava del gruppo del figlio del cacciatore che aveva ucciso la mia famiglia. Odiavo scappare, e lo odio tutt’ora, lo considero un gesto da codardi, ma non avevo scelta. Io e il mio branco lasciammo Washington per spostarci lungo il confine con il Canada. I cacciatori ci seguirono e da lì cominciò una vera e propria caccia.
 Continuavamo a spostarci seguendo il confine nella speranza di far perdere loro le nostre tracce. A volte camminavamo, altre volte rubavamo auto o furgoni, altre ancora prendevamo autobus o treni. Cercavamo di mettere più distanza possibile tra noi e loro. Ma i cacciatori avevano più mezzi di noi, erano avvantaggiati. Joey e Mark furono i primi ad essere uccisi, erano giovani e sottovalutarono il pericolo.» A quel punto la sua voce aveva perso ogni inflessione, era piatta, come se quelle cose non lo riguardassero in prima persona. Guardava fisso davanti a sé, ma non sembrava vedere niente. «Amy decise di abbandonare, disse che non ne valeva la pena. Arthur si arrabbiò molto per questo, credo fosse innamorato di lei. L’accusò di essere una traditrice e di essersi unita a noi solo per avere protezione. I cacciatori la trovarono il giorno dopo che ci aveva lasciato, la uccisero all’istante.
 Eravamo rimasti in quattro ed avevamo quasi raggiunto l’altra costa del Paese. Ma, in qualche modo, i cacciatori avevano annullato il distacco. Eravamo in un bosco da qualche parte ad ovest di Seattle. Non so quanto fosse vicino, evidentemente non abbastanza. Eravamo a piedi, avevamo dovuto lasciare l’auto chilometri prima, ed era notte. Non c’era neanche la luna piena ad aiutarci: se ci fosse stato il plenilunio avremmo avuto una possibilità di batterli, o almeno di resistere un po’ di più.  
 Eravamo in fuga da troppo, erano settimane che non dormivamo su un letto e… avevamo paura. Pensavamo di essere al sicuro tra gli alberi, ma, quando Felix fu colpita da una freccia, capimmo che non era così. In qualche modo continuavamo a correre, Dio solo sa dove trovavamo la forza di farlo. Credo fosse per via dell’adrenalina, però ad un certo punto anche quella finì. Ci fermammo e ci nascondemmo dietro alcuni alberi per riprendere fiato.» La sua voce tremò appena. «Fu allora che colpirono Arthur. Un’altra freccia dritta al petto. Non avevo idea di dove fossero. Per quel che ne sapevamo potevamo essere circondati. Arthur era morto, eravamo solo io e Olivia. Lei mi rassicurava, diceva che potevamo farcela, che Seattle era vicina. Poi colpirono anche lei.» Chiuse gli occhi, le labbra contratte in una smorfia. «Quelle dannatissime frecce erano d’argento. Non ebbi neanche il tempo di rendermi conto che lei non c’era più: colpirono anche me, alla spalla.» Si voltò verso di me e scostò il colletto della maglietta: appena sotto la clavicola c’era una piccola cicatrice bianca a forma di stella. «Non so perché lo feci, forse fu semplicemente la paura, ma mi strappai la freccia dalla carne e ripresi a correre. Sapevo che forse sarei morto, i cacciatori potevano essere davanti a me, però non m’importava. Non più. Non mi fermarono, non sentivo neanche il loro odore. Raggiunsi la periferia di Seattle senza sapere dove andare.
 Avevo perso tutto, famiglia, branco… Non mi rimaneva niente. Poi mi imbattei in Scarlett. Era piccola all’epoca, piccola eppure coraggiosa. Era in un bosco vicino ad una villa e sembrava perfettamente a suo agio. Per questo e perché il mio istinto mi disse che poteva reggerlo, che era forte abbastanza, la morsi.» Mi guardò negli occhi, il verde-grigio dei suoi acceso da un accenno d’oro. «Questo è perché odio i cacciatori. Il motivo per cui ho deciso di salvare Scarlett è il fatto che il capo dei cacciatori che l’hanno presa era il fratello di quello che inseguì me e il mio branco lungo il confine. Inoltre, in un certo senso lei è il mio nuovo branco, è mio compito proteggerla. E se sembro avercela con il mondo è perché non riesco a perdonarmi tutte le morti che mi sono lasciato dietro.»
Non mi aspettavo niente del genere. Pensavo che avesse avuto un’infanzia non proprio felice e che, in quanto licantropo, avesse avuto qualche complicazione nella vita, come Scarlett, ma quello che aveva detto superava ogni mia possibile immaginazione. Non riuscivo a credere che una persona che aveva sofferto tanto fosse riuscita ad andare avanti. Dove aveva trovato la forza, la motivazione? Cosa lo spingeva a continuare a vivere?
Mi resi conto che il suo racconto, ovvero quello che avrebbe dovuto togliermi ogni dubbio, aveva fatto nascere molti altri interrogativi. Strinsi le labbra e distolsi lo sguardo. Nonostante tutti gli scontri che avevamo avuto, stavo cominciando a rivalutare Sean: doveva essere incredibilmente forte se era riuscito reggere per tutto quel tempo. Forte e determinato.
«Mi… mi dispiace.» Mormorai. «Non immaginavo che…»
Si voltò di nuovo verso il bosco, dandomi le spalle. «Non potevi immaginare niente, ragazzino, come avresti potuto? Non ho mai detto niente di me.» Si bloccò prima di trarre un respiro profondo. «Non ti ho dato molti motivi per fidarti di me, ma è perché sono abituato a contare solo su me stesso. Sempre. Gli altri sono un intralcio.»
Alla fine, era una reazione istintiva. Se non ti leghi a nessuno, se non permetti a nessuno di avvicinarti, nessuno può ferirti.
«Io e te, però, abbiamo qualcosa in comune.» Aggiunse come se stesse pensando ad alta voce. I suoi occhi grigio-verde mi lanciarono un’occhiata vagamente interessata.
Aggrottai la fronte. «Cosa?»
«Entrambi volgiamo proteggere Scarlett: tu la vuoi felice, io la voglio viva.» Spiegò con un sospiro. «Se lavoriamo insieme potremmo anche riuscire a realizzare tutti e due i nostri obbiettivi.»
«Insieme?» Ripetei sorpreso. «È… strano detto da te.»
Trasse un respiro profondo. «Quei bastardi potrebbero tornare a farsi vedere, e voglio essere preparato. Se saremo in due a tenere d’occhio Scarlett, ci sono molte più probabilità che resti viva. E forse anche felice.»
Sembrava che quel giorno fosse molto in vena di parlare, al contrario del solito. E i suoi ragionamenti dimostravano anche grande intelligenza e un intuito molto fine. Sembra che stesse sempre progettando qualcosa, dava l’impressione di avere
sempre una tattica per raggiungere i suoi obbiettivi. Quel ragazzo era una sorpresa continua.
«Okay, sì, mi sembra un buon piano.» Convenni. «Ma dobbiamo fidarci l’uno dell’altro per fare in modo che funzioni.»
Si voltò verso di me con un sopracciglio alzato. «Sai, forse anch’io ti ho giudicato troppo in fretta: sei piuttosto sveglio per essere un ragazzino. Ma la fiducia è una cosa grossa, forse è meglio partire con una semplice collaborazione.»
Mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo: poteva essere forte e furbo quanto voleva, però a volte era terribilmente irritante. Ma sapevo di aver bisogno di lui: Sean poteva essere sia un nemico terribile, sia un ottimo alleato. E io avevo la netta impressione che da quel momento sarebbe dipeso quale ruolo avremmo giocato l’uno nei confronti dell’altro.





SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Come vi avevo anticipato, finalmente anche Sean si è aperto e ha svelato qualcosa di sé. Ma non è detto che l'abbia fatto perché si fida di Adam, anzi. Chi dice che non sia tutta una strategia per convincerlo a collaborare? Il nostro Lupo Brontolone, infatti, non lascia mai niente al caso.
Io continuo a shipparli questi due, comunque. Certo, gli Adamett sono LA coppia, ma anche loro due hanno una certa chimica. (O magari lo vedo solo io...)
Comunque, siamo al capitolo 30! Mi sembra incredibile essere arrivata fin qui *-* Ne mancano circa 12 alla fine, ma potrei fare, come avevo già detto, qualche ritaglio e collage. Aspettatevi molti feels in questa ultima parte di storia.
Oh, quasi dimenticavo, il 15 giugno è stato l'anniversario della pubblicazione del primo capito!
Bien, vi saluto. Ci vediamo al prossimo capitolo <3

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Capitolo 31
*** 31. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 31


                                                         

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31. Scarlett

«Lo sapevo!» Scattò Beth quando la modella che le piaceva meno venne eliminata. «Te l’avevo detto che non avrebbe fatto strada.» Aggiunse prima di prendere una manciata di popcorn.
Sorrisi e scossi la testa. «Okay, okay, avevi ragione. E non te li mangiare tutti!»
Mi diede una spintarella scherzosa. «Fanno ingrassare, ti sto facendo un favore.»
Alzai gli occhi al cielo e rubai qualche popcorn dalla ciotola che aveva in mano. Eravamo l’una accanto all’altra sul divano di casa sua, nel suo salotto. Era una stanza luminosa, come piaceva a sua madre, con una grande finestra di fronte alla porta, mobili moderni dai colori chiari, pareti color crema e quadri dalle tinte vivaci. Tutta la casa di Beth era piena di luce e aveva uno stile molto moderno.
Mentre Beth mangiucchiava popcorn commentando la puntata, il mio cellulare vibrò. Lo presi dalla tasca dei jeans: c’era un messaggio di Adam. Diceva che aveva parlato con Sean e che era sopravvissuto. Mi morsi un labbro per nascondere un sorriso: l’effetto che mi faceva quel ragazzo era incredibile.
«Qualcuno di speciale?» Chiese Beth lanciandomi un’occhiata ammiccante.
Minimizzai la cosa con un gesto della mano. «No, niente di che.»
Il suo sguardo si fece eloquente. «Tesoro, hai sorriso e ti si sono illuminati gli occhi: questo non è niente.» Prima che potessi anche solo pensare ad una risposta che non mi mettesse troppo nei guai, lei aggiunse: «È un ragazzo, vero?»
Valutai per un attimo l’idea di mentirle, di dire che era un Tweet del mi autore preferito che annunciava la pubblicazione di un nuovo libro, ma ci ripensai: dovevo dirglielo prima o poi, ed ero piuttosto sicura che, se non avessi sfruttato quell’occasione, non l’avrei mai fatto. Così annuii preparandomi mentalmente alle conseguenze di quella decisione.
Elisabeth inarcò entrambe le sopracciglia, un luccichio malizioso che le attraversava lo sguardo. Posò i popcorn e mi rivolse la sua completa attenzione. «Voglio i dettagli, tutti.» Decretò.
“No, non li vuoi, fidati”, pensai tra me e me. «Ecco… Non è che lo conosca poi così tanto, però…»
«Però ti piace.» Concluse lei per me. «Come si chiama?»
Abbassai gli occhi torturandomi le dita. Forse non era stata un’idea così brillante decidere di dirle la verità. «Lui… uhm… Adam.» Bisbigliai con voce tanto bassa che faticai io stessa a sentirmi.
La sentii irrigidirsi e fui quasi in grado di vedere il sorriso scivolarle via dal viso. «Adam? Adam come?»
Pregai mentalmente che le entità superiori mi venissero in aiuto, ma nessuno si presentò. Niente fulmini, niente sbalzi di corrente, assolutamente niente. Ero da sola contro una verità molto scomoda. Mi riempii d’aria i polmoni e sospirai. «Meyers. Adam Meyers.»
«Il mio ex.» Quella di Beth era un’affermazione pronunciata con voce talmente fredda e dura che sentii un brivido lungo la schiena. «Stai uscendo con il mio ex.»
«No!» Mi affrettai a dire. «Cioè, non ancora.»
Le sue labbra si piegarono in una smorfia. «Intendi che vuoi farlo?»
«Io… Non lo so, Beth, è… complicato.» Balbettai.
Lei sollevò il mento. «Senti, tra me e lui è finita, per quel che mi riguarda puoi uscirci, baciarlo, andarci a letto insieme… fare quello che vuoi. Solo, preferirei che me lo dicessi in faccia.»
Una parte di me stava morendo d’imbarazzo all’idea di andare a letto con Adam, ma l’altra era più che consapevole della delusione negli occhi di Beth. «Mi dispiace tanto… Avrei dovuto dirtelo, ma avevo paura di peggiorare le cose. E non sapevo proprio come fare.»
Distolse lo sguardo e la vidi serrare la mascella. Rimase in silenzio per diverso tempo, tanto che arrivai a pensare che stesse programmando come uccidermi. Quando tornò a voltarsi verso di me, però, sembrava piuttosto controllata. «Voglio essere sincera con te, mi da fastidio il fatto che vi vediate. Molto fastidio perché solo qualche settimana fa io e lui stavamo insieme, e io ne ero follemente innamorata, e…» Si bloccò e chiuse gli occhi per un secondo prima di sospirare pesantemente. «Senti, non voglio litigare con te per lui, non voglio che rovini anche la nostra amicizia, ma non posso accettarlo così, di colpo. Mi serve tempe per… metabolizzare la cosa, ecco.»
Annuii imponendomi di rimanere calma quando in realtà mi sentivo sull’orlo di un precipizio. Non avrei mai pensato che Adam, il ragazzo con gli occhi color tempesta che mi faceva dannare e stare bene nello stesso tempo, potesse in qualche modo intaccare il mio rapporto con Beth, l’unica cosa nella mia vita che era davvero normale.
«Sì, naturalmente.» Riuscii a mormorare. «E… mi dispiace non avertelo detto prima.»
Beth teneva lo sguardo fisso davanti a sé, l’espressione perfettamente controllata. «Dimmi solo una cosa. È cominciato prima, vero? Quando stavamo ancora insieme.»
Mi morsi il labbro fino a farmi male. «Io… credo di sì. Ma non ce ne rendevamo conto neanche noi.»
Fece un brusco cenno d’assenso prima di aggiustarsi una ciocca di capelli. «Già. Avevo intuito che c’era qualcosa, ma preferivo pensare di essere paranoica.»
«Elisabeth…» Comincia pur senza avere idea di cosa dirle.
«Preferisco saperlo, anche se in ritardo.» Mi interruppe per poi trarre un respiro profondo. «Te l’ho detto, mi serve del tempo.»
Mi sembrò di ricevere un pugno nello stomaco. «Certo, nessun problema.»
Mi lanciò una breve occhiata e fui certa di vedere una lacrima solitaria sfumata di nero dal mascara scivolarle sulla guancia.

Ero uscita da casa di Elisabeth sentendo una morsa gelida e spietata stringermi il cuore. Avevo deluso la mia migliore amica, la ragazza che consideravo una sorella. E per cosa? Per un mio stupido atto d’egoismo. Per una dannata cotta.
Mi strinsi nella felpa asciugandomi con un gesto stizzito una guancia. “E adesso sto andando dal ragazzo per cui potrei aver perso Beth”, pensai con amarezza. Era come essere divisa in due, da una parte l’amicizia storica con l’esuberante Elisabeth Levine, dall’altra un rapporto che non avrei saputo definire con Adam Meyers, il ragazzo dagli occhi color tempesta.
Calciai un sassolino prima di incamminarmi verso il parco dove io e Adam avevamo fissato tramite messaggio di incontrarci. In realtà avrei solo voluto stare da sola, crogiolarmi in quel dolore che in fondo sapevo di meritare. Ma non potevo.
«Scar.» Mi sentii chiamare. E sapevo che c’era solo una persona che mi chiamava così.
Mi voltai pregando di non sembrare sull’orlo di una crisi di nervi. E Adam mi stava guardando con quei suoi occhi che erano un cielo illuminato dai fulmini. Sean, indecifrabile e cupo come sempre, era accanto a lui, con la sua inseparabile giacca di pelle. Stonava un po’ con la camicia blu di Adam, che aveva un qualcosa da bravo ragazzo.
Per puro paradosso, il peso che avevo sul cuore si alleggerì un pochino. Quando mi avvicinai, Adam accennò un sorriso, ma sapevo perfettamente che aveva intuito il tumulto che avevo nel petto. «Ehi.»
Sean non disse niente, si limitò a studiarmi per un attimo con quel suo sguardo profondo e indagatore. Neanche a lui era sfuggito il mio essere così combattuta, e come sarebbe potuto essere altrimenti? Era un licantropo attento e con l’istinto più che affinato. Di colpo mi ritrovai a pensare che fosse dannatamente irritante essere come un libro aperto di fronte a loro due.
«Sei vivo. O meglio, siete vivi tutti e due.» Commentai senza entusiasmo.
Adam però sembrava completamente concentrato su di me. «Stai bene?»
Distolsi lo sguardo imponendomi di mantenere la voce ferma. «Sì, perché non dovrei? Non sono io quella che ha discusso con un licantropo.»
«Sei arrabbiata.» Constatò Sean in tono misurato. «Arrabbiata e scossa.»
Avrei voluto urlargli in faccia che sì, lo ero eccome visto che il rapporto con la mia migliore amica era appeso ad un filo sottilissimo, prossimo al precipitare e distruggersi per colpa mia. Ma non lo feci.
Sean sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma si bloccò all’improvviso. Si voltò di scatto verso il parco alla mia destra, i muscoli del collo tesi, lo sguardo concentrato. Un attimo dopo capii cosa aveva attirato la sua attenzione: c’era qualcuno non lontano da noi, e si stava avvicinando. Grazie ai sensi acuiti dalla licantropia ne percepivo i passi nell’ebra. Mi tornò in mente la mattina in cui i cacciatori mi aveva presa, il rumore dello sparo, il dolore lancinante ed improvviso… No, non poteva succedere di nuovo. Non l’avrei sopportato.
La persona che spuntò fuori dai cespugli, però, non sembrava così minacciosa.
Adam aggrottò lo fronte. «La ragazzina?»
Quasi contemporaneamente mi sentii dire: «Denise?»
La reazione di Sean, invece, fu un ringhio basso e rabbioso che mi aiutò a tornare con i piedi per terra. Lo guardai e mi sorpresi di quanta furia esprimessero i suoi occhi grigio-verde. Aveva sollevato il labbro mettendo in mostra le zanne e sembrava pronto ad attaccare.
Denise, al contrario, era terrorizzata. Indossava dei jeans sgualciti e macchiati e una vecchia felpa un po’ sformata. I lunghi capelli scuri erano arruffati e le ricadevano sugli occhi. Mi resi conto che le avevo dato qualche anno di troppo: poteva averne al massimo tredici, ma ero più propensa a pensare che ne avesse dodici o undici.
Con un altro ringhio, Sean fece per scattare verso di lei, ma Adam lo bloccò afferrandolo per le spalle.
«Lasciami! Non possiamo permettere che torni dai suoi a fare la spia.» Sbottò Sean senza togliere gli occhi da Denise.
Lei, dal canto suo, si rabbuiò. «Io non faccio la spia.»
Sean scattò subito, gli occhi accesi d’oro. «Come no! Tutti voi luridi bastardi siete delle…»
Grazie al cielo, Adam lo fermò prima che potesse continuare. «Falla finita. E datti una calmata.»
Mi voltai verso Denise, cauta. «Perché sei qui?»
Lei indicò Sean con mano tremante. «Lui ha mandato mio papà all’ospedale.»
La risposta del diretto interessato fu un ghigno trionfale. «Ha avuto quello che si merita. Lui e tutti gli altri.»
Nonostante stesse parlando delle persone che mi avevano quasi uccisa, fui colpita dalla durezza delle sue parole. In fondo, erano comunque umani, avevano dei sentimenti. Non ne avevamo dimostrati molti, ma sapevo che li avevano.
Un po’ mi dispiaceva per quella ragazzina, però c’era anche il rancore per quello che mi avevano fatto i cacciatori. L’idea di mostrarmi scontrosa e piena di rabbia come Sean, però, non mi sembrava giusta, così cercai di essere un po’ più gentile, anche perché Denise sembrava molto impaurita. «Non dovresti essere… a casa?»
Lei abbassò lo sguardo con aria colpevole. «Sì… Ma mia zia non mi piace molto…»
Sean borbottò qualcosa e Adam gli rispose a bassa voce con quello che sembrava un ammonimento.
«Beh, non dovresti andartene in giro da sola, però: è pericoloso.» Dissi cercando di usare un tono calmo e accondiscendente.
«Lo so.» Replicò Denise stringendo le labbra. «Ma volevo sapere cos’era successo: tutti gli amici di papà sono in ospedale e mia zia è molto arrabbiata.»
Lanciai un’occhiata a Sean: aveva davvero mandato tutti quei cacciatori all’ospedale? Come diavolo aveva fatto? C’erano fin troppe cose di lui che ancora non sapevo. «Okay, ma noi non possiamo aiutarti. Tuo padre… lui si è comportato male con noi.»
«Si è comportato male?» Sbottò Sean. «Ti ha quasi fatto ammazzare, Scarlett, quello lì è un sadico.»
Cercai di ignorarlo: dovevo allontanare quella bambina. E subito. Adam poteva essere veloce e pronto quanto voleva, ma contro un licantropo arrabbiato poteva fare poco. «Senti Denise, non dovevi venire da noi. Non… non è giusto. Tuo padre e i suoi amici sono persone di cui noi non ci fidiamo e non vogliamo avere contatti con voi.»
«Mi ucciderete?» Chiese lei guardandomi con gli occhi spalancati.
«Noi non…» Cominciai.
«Se non ti levi dai piedi subito potrei anche farci un pensierino.» Commentò Sean coprendo la mia voce.
Denise sollevò il mento in segni di sfida. «Io non voglio andarmene. Voi avete fatto del male al mio papà! E lui non vi ha fatto niente.»
Dalla gola di Sean proruppe un ringhio basso e profondo che mi fece accapponare la pelle. Fece per slanciarsi in avanti, riuscii quasi a vedere i suoi muscoli che scattavano, ma, in qualche modo, Adam riuscì ad afferrarlo prima che potesse raggiungere la ragazzina. Si ritrovarono l’uno addosso all’altro, Sean con gli occhi dorati e le zanne in bella mostra, Adam con le labbra serrate per lo sforzo di trattenerlo. Rimasi a guardarli, incredula e confusa. Non riuscivo a muovermi.
Sean borbottò qualcosa di sconnesso tra i ringhi mentre continuava a spingere per liberarsi. Adam tenno duro, cosa che mi sembrava quasi impossibile per un altro licantropo, figuriamoci per un umano.
«Dannazione, lasciami, ragazzino!» Sbottò Sean. «Io devo… devo…»
Adam lo spinse indietro quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi. «Isaiah.» Disse semplicemente.
Sean trattenne bruscamente il fiato e si bloccò di colpo. Adam ne approfittò per prenderlo per le spalle e farlo indietreggiare di un paio di passi. Tempo un secondo e Sean si riprese del tutto.
Puntò lo sguardo su Adam, la mascella contratta, il respiro spezzato. «Non è la stessa cosa.»
«Sì invece.» Ribatté Adam. «Anche lei è innocente, non ha colpa per quello che ha fatto suo padre.» Poi a voce più bassa aggiunse: «Non essere come loro, non abbassarti al loro livello.»
La rabbia bruciava ancora negli occhi di Sean, sembrava un fuoco divampante, ma, con mia grandissima sorpresa, lui distolse lo sguardo e smise di lottare per liberarsi. Com’era possibile che quel nome l’avesse colpito tanto? Chi era Isaiah? Scossi la testa per schiarirmi le idee: le domande senza risposta aumentavano, ma adesso avevo altro di cui preoccuparmi.
Denise aveva seguito con muto stupore tutta la scena e in quel momento sembrava impressionata e confusa quanto me.
Trassi un respiro profondo. «Denise, senti, devi andartene, okay? Andartene e non cercarci più. Questa storia è pericolosa, molto pericolosa. Potresti farti male anche tu.»
Lei mi guardò da dietro alcune ciocche di capelli che le erano ricadute sugli occhi. «Perché non possiamo essere amici, andare d’accordo?» Fece un cenno timido verso Adam e Sean. «Lui mi piace, perché dobbiamo litigare?»
Rimasi senza parole per un attimo: in effetti, un po’ di ragione ce l’aveva. Perché c’era questa faida tra cacciatori e licantropi? Anzi, perché le persone avevano sentito il bisogno di creare i cacciatori? Poi mi ricordai che Denise aveva detto che uno dei due ragazzi al mio fianco le piaceva, e diventai sospettosa di colpo: non avevo nessun diritto, su nessuno dei due, ma se quella piccoletta aveva messo gli occhi su Adam…
Denise chinò la testa e calciò un sassolino. «Anche tu mi piaci e mi dispiace che mio papà ti abbia fatto male. A volte lo fa, e dice che è perché quelle persone sono cattive. Ma tu non sembri cattiva.»
“Prova a dire un’altra volta che ti piace Adam e vediamo quanto sono cattiva”, pensò una parte di me. Grazie al cielo era piccola, così la ignorai e riuscii a tornare razionale. «Anche… anche a me dispiace per quello che tuo padre mi ha fatto. Non avrebbe dovuto. Nessuna delle persone a cui ha fatto ciò che ha fatto a me è cattiva. Sono solo… diverse.»
I grandi occhi scuri di Denise si soffermarono su di me e per un attimo mi ricordarono quelli di Beth. «E non possiamo diventare amici? Se tu perdoni papà possiamo andare d’accordo, giusto?»
Mi strinsi le braccia al petto col terribile presentimento che la mia voce avrebbe tremato. «No, Denise, non possiamo. Tuo padre… Gli uomini come lui hanno portato troppo dolore e cattiveria alle persone come noi. Non si può semplicemente perdonare e andare avanti. Neanche chiedere scusa può servire. Questa è una cosa troppo grande e troppo dolorosa per noi.»
Lanciai un’occhiata ai due ragazzi al mio fianco: Sean si era calmato e anche se Adam lo teneva ancora per le braccia, non sembrava più così desideroso di saltare alla gola della ragazzina. Anzi, la guardava con un’espressione impassibile in viso, gli occhi grigio-verde che sembravano di ghiaccio tanto erano duri e freddi.
«Ne sei sicura?» Domandò Denise con l’innocenza tipica dei bambini.
Non sapeva cosa aveva fatto suo padre, non conosceva tutto il dolore che i suoi gesti avevano provocato in me e in tanti altri, non immaginava neanche la crudeltà degli uomini che considerava amici di famiglia. E non poteva essere altrimenti. Solo che faceva male.
Scossi la testa e guardai da un’altra parte sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. «Sì Denise, non si può solo fare pace. C’è troppo dolore e troppa rabbia.»
Sembrò delusa dalla mia risposta. «Okay…»
Trassi un respiro tremante. «Adesso… adesso dovresti andare. Tua zia sarà preoccupata per te.»
Lei annuì senza un briciolo d’entusiasmo. «D’accordo. Non possiamo più rivederci, vero?»
«No.» Dissi sorpresa che la mia voce non fosse diventata flebile e insicura. «Non possiamo. E tu non devi cercarci più.»
«E sarebbe preferibile se evitassi di dire a tuo padre e ai suoi amici dove siamo.» Aggiunse Adam osservandola cauto.
Denise lo guardò per un attimo, confusa. «Non devo dire niente?»
Mi inginocchiai davanti a lei per guardarla negli occhi. «No, Denise. Non devi dire niente a nessuno. Me lo prometti?»
Lei lanciò un’occhiata ai due ragazzi accanto a me e mi resi conto che quello che stava guardando era Sean, non Adam. «Sì, te lo prometto.» Decise infine.
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo. «Bene. Ora vai però, tua zia sarà in ansia.»
Lei fece un piccolo cenno d’assenso, lanciò un ultimo sguardo a Sean e corse via nel parco. Chissà come aveva fatto a trovarci… Forse mi aveva seguita, o aveva seguito Adam e Sean, o magari era stata solo una coincidenza.
Rimasi a guardare i cespugli in cui era sparita, ancora inginocchiata sul cemento del marciapiede. Mi sentivo uno strano miscuglio di emozioni nel petto, tensione, rabbia, dolore, ma anche un po’ di sollievo. Mi venne quasi voglia di piangere, ma mi trattenni: odiavo farlo, mi sapeva di debolezza.
Qualcuno mi sfiorò la spalla. «Scar…»
Alzai lo sguardò e incrociai gli occhi blu tempesta di Adam che mi studiavano preoccupati. Abbozzai un sorriso per tranquillizzarlo e lasciai che mi aiutasse a rimettermi in piedi.
«Va tutto bene?» Chiese con voce dolce.
Annuii e mi scostai una ciocca di capelli dal viso. «Sì, tutto okay.»
La mia risposta non l’aveva convinto, lo capii subito. Lanciò un’occhiata a qualcosa alle sue spalle con aria pensierosa e quando seguii la direzione del suo sguardo mi resi conto che stava guardando Sean. Se ne stava in piedi a pochi passi da noi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, l’espressione indecifrabile come sempre, gli occhi grigio-verde persi nel vuoto.
«Ti riporto a casa?» Domandò Adam riportando tutta la sua attenzione su di me.
Si stava mordendo il labbro, e nonostante tutto quello che era successo, era una sua abitudine che adoravo.
«Sì, grazie.» Mormorai prima di fargli un piccolo sorriso incerto.
Lo ricambiò anche se con una punta di tensione. Poi si voltò verso Sean. «Senti, noi andiamo… Ti serve un passaggio?»
Sean aggrottò leggermente la fronte e si girò appena verso di noi senza guardarci. «No, non ce n’è bisogno. Io… credo che farò due passi.»
Adam annuì anche se lui non poteva vederlo. «D’accordo. Allora… ci vediamo.»
Sean non rispose, continuava a fissare gli alberi davanti a sé con aria distratta. Dopo averlo osservato per un attimo, Adam si decise a voltarsi e farmi cenno di andare. Ci incamminammo fianco a fianco e per un attimo pensai che avremmo fatto tutta la strada a piedi. Non era un problema, la casa di Beth non era troppo lontana dalla mia e quello era un percorso che avevo fatto molto spesso.
«Ho parcheggiato qui vicino, spero non ti dispiaccia camminare un po’.» Mormorò Adam guardando il marciapiede.
«No, nessun problema.» Lo rassicurai. Un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso. Mentre camminavamo la sua mano sfiorava la mia e dovetti reprimere più volte l’impulso di stringerla.
Non volevo ammetterlo, ma l’incontro con Denise mi aveva lasciato addosso una strana inquietudine, una sensazione sgradevole che non mi spiegavo e che, sommata al dolore e al rimorso per quello che era successo con Beth, mi opprimeva il petto. Solo dopo diversi minuti mi accorsi di avere lo sguardo di Adam addosso, e che sembrava preoccupato per me. Quando me ne resi conto, però, era tardi per fingere che fosse tutto a posto.
«Vieni qui un attimo.» Disse con voce roca prima di prendermi per mano e trascinarmi in un vicolo che non avevo notato.
Si trovata a lato di un condominio di mattoni rossi e la sua posizione lo nascondeva agli occhi di molti. Non era il posto migliore per parlare con qualcuno, ma apprezzai molto quella sua preoccupazione. Mi ritrovai con la schiena quasi contro il muro e con Adam davanti a me, così vicino che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. E, per la centesima volta, pensai che era davvero bello. Troppo, per stare con un disastro ambulante come me.
Nessuno di noi due lo disse ad alta voce, ma quando lui aprì le braccia non esitai a stringermi contro il suo corpo. Non aveva motivo di starmi accanto, né di sopportare tutto quel casino soprannaturale per me, eppure lo faceva comunque. Nascosi il viso nell’incavo del suo collo sfiorandogli, involontariamente, la gola con le labbra. Come in risposta, lui aumentò appena la stretta su di me e sentii le sue mani che mi accarezzavano la schiena con movimenti lenti e gentili.
«Che c’è che non va, Scar?» Chiese a bassa voce. «Non stai così solo per Denise, vero?»
Chiusi gli occhi stringendo senza rendermene conto la sua camicia tra le dita. «Ho litigato con Elisabeth prima di venire qui.» Ho litigato con lei per te.
Si bloccò per un attimo, prima di stringermi a sé. «Mi dispiace, Scar, davvero.» C’era rimorso vero nella sua voce, una nota dolorosa che mi sorprese. Doveva aver intuito qualcosa, non c’era altra spiegazione. «Non voglio che tu…» La sua voce si spense per un attimo e lo sentii deglutire. «Non voglio che tu la perda, credimi. Se c’è qualcosa che posso fare…»
Scossi la testa aprendo gli occhi lentamente. «No, tranquillo. È una cosa tra me e lei. Si risolverà, spero.» Mi schiarii la gola. «Che vi siete detti tu e Sean?»
Fece correre le dita tra i miei capelli. «Abbiamo parlato un po’ e siamo giunti ad una conclusione valida per tutti e due. Qualcosa che ci mette d’accordo.»
Aggrottai la fronte, sorpresa: davvero avevano trovato qualcosa che andava bene ad entrambi? Ma, soprattutto, cosa aveva messo fine ai loro litigi, almeno per il momento? «E quale sarebbe questa conclusione?»
Si scostò appena da me e mi picchiettò con l'indice sul naso. «Tu. Sei il nostro territorio neutro, diciamo.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Davvero? Perché io?»
«Perché entrambi vogliamo proteggerti.» Spiegò. «E discutere di continuo non aiuta a farlo, quindi abbiamo fatto una specie di tregua.»
«Per me?» Mi sembrava impossibile che qualcuno avesse fatto una cosa del genere per me.
«Sì, per te. Sei il nostro obbiettivo comune. E sei anche la mia…» Si interruppe e distolse lo sguardo mordendosi il labbro.
Rimasi a guardarlo, incredula, anche se in realtà non aveva detto nulla. Ma era bastata quel “mia” a farmi venire i brividi. E tanta curiosità. Cosa rappresentavo per lui? Una specie di sorellina da proteggere? Un’amica? Una fonte di informazioni sulla licantropia?
«È meglio andare adesso.» Aggiunse lui guardando tutto tranne me.
Sciolse delicatamente l’abbraccio, ma, prima di allontanarsi ulteriormente, mi infilò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Le sue dita indugiarono per un secondo sulla mia guancia e vidi le sue labbra schiudersi appena, però riprese il controllo di sé come faceva sempre e fece un passo indietro. Dentro di me maledissi il suo essere così riflessivo e padrone di sé, ma cercai di non darlo a vedere.
Abbozzai un sorriso e ricominciammo a camminare fianco a fianco. Quando, per l’ennesima volta, provai l’impulso di prenderlo per mano e intrecciare le dita alle sue, realizzai che, in effetti, volevo davvero che mi considerasse più di una semplice amica. Sì, volevo essere qualcos’altro per lui. Qualcosa di più importante.



SPAZIO AUTRICE:  Ehilà!
Mi dispiace averci messo tanto ad aggiornare, ma ultimamente sono stata un po' impegnata. Comunque, eccoci qui!
Voglio assolutamente ringraziare Christine23 che mi sta dando una mano con questi ultimi capitoli leggendoli in anteprima per darmi un parere <3 Dovreste passare dal suo profilo perché è una scrittrice bravissima *-*
In questo capitolo Scar e Beth hanno avuto un confronto non proprio piacevole che le ha allontanate. Riusciranno a fare pace? Entrambe devono fare i conti con dei sentimenti piuttosto importanti adesso.
Abbiamo anche rivisto Denise, che sarà importante a modo suo: spingerà un certo personaggio a fare una certa cosa. Che farà arrabbiare un altro personaggio. No, non mi piace mettervi ansia, assolutamente.
Bien, penso di aver detto tutto. A presto <3

TimeFlies

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Capitolo 32
*** 32. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 32

                                                         

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32. Adam

La porta d’ingresso del cottage sbatté facendo sobbalzare sia me che Scarlett. Ci mancò poco che non sbattessimo la fronte l’uno contro quella dell’altra. Sean entrò in salotto come una furia imprecando tra i denti e usando parolacce di cui neanche conoscevo l’esistenza.
Al contrario del solito, i suoi jeans non erano neri, ma di un blu talmente scuro che la differenza si notava appena. La giacca di pelle era presente come sempre, così come una di quelle magliette a tinta unita di cui sembrava avere una scorta industriale.
Matthew entrò subito dopo di lui tenendo la testa china e lanciandogli occhiate di sottecchi come a volersi assicurare di non essere sulla sua linea di tiro. Indossava una camicia di flanella a quadri e dei jeans semplici.
«’Fanculo!» Sbottò Sean aggiungendo anche un ringhio per sottolineare il concetto.
Io e Scarlett ci scambiammo un’occhiata confusa prima di riportare lo sguardo sul licantropo arrabbiato davanti a noi. Dopo scuola eravamo andati nel cottage per stare un po’ tranquilli e perché lei aveva bisogno di una mano per un compito di storia: ormai mi ero improvvisato insegnante di tutte le materie che voleva ripassare. E avevo smesso di chiederle soldi da mesi.
Scarlett chiuse il libro che teneva in grembo e lo posò sul divano accanto a sé. «Qualcuno qui si è svegliato con la luna storta.»
«Resta da capire perché.» Mormorai continuando ad osservare lo sfogo di Sean.
Per un attimo pensai che avrebbe preso a calci la poltrona, invece si volto di scatto e mollò un pungo al muro. Ne seguì una sfilza di imprecazioni piuttosto infervorate di cui alcune in francese. Beh, lui veniva dal Canada quindi era probabile che ne conoscesse qualche parola. Che fossero proprio quel tipo di parole non mi sorprendeva più di tanto.
Sospirai e mi alzai spostandomi, quasi inconsciamente, davanti a Scarlett, come a volerle fare da scudo. «Ti dispiacerebbe dirmi che sta succedendo? E magari anche smetterla di cercare di distruggere la casa?»
Sean si voltò verso di me, gli occhi accesi da una lieve sfumatura dorata, le labbra strette in una linea sottile. Conoscendolo, ero quasi certo che avrebbe fatto un commento sarcastico concludendolo con quello che sembrava essere il nomignolo che mi aveva affibbiato, “ragazzino”. Invece trasse un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli. «Succede che quel gran bastardo è uscito dall’ospedale. E che non sono riuscito a rintracciarlo.»
Non ci voleva molto per capire che il “gran bastardo” era il capo dei cacciatori che avevano catturato Scarlett. Il fatto che fosse uscito dall’ospedale non era per niente una buona notizia, quindi capivo la reazione di Sean: lui e i suoi seguaci avrebbero potuto ricominciare la caccia al licantropo. Questo significava che Scarlett era di nuovo in pericolo.
«Non sappiamo in che condizioni è, però. Magari ha qualche osso rotto o che so io.» Tentai pur sapendo che le possibilità di un colpo di fortuna del genere erano molto vaghe.
Sean scosse la testa. «Non credo. Quando ce ne siamo andati dalla loro tana l’ho lasciato svenuto a terra. Al massimo poteva avere un trauma cranico o roba del genere.»
«Potrebbe aver perso la memoria.» Commentò Scarlett alternando lo sguardo tra me e lui come in cerca di una conferma.
Le labbra di Sean si arricciarono in una smorfia. «Non credo che saremo così fortunati.»
Mi morsi il labbro. «Quindi che si fa? Aspettiamo e vediamo che succede o…?»
Sean incrociò il mio sguardo e sembrò capire quello che non avevo detto: toccava a noi fare la prima mossa? Attaccare? I suoi occhi si incupirono per un attimo, poi lanciò un’occhiata fugace a Scarlett. «Adesso dobbiamo elaborare una strategia.» Borbottò prima di buttarsi sulla poltrona. Si premette le mani sulle tempie, le labbra increspate e tese. «Se vi dicessi che dobbiamo tornare nella loro tana?»
«Ti prenderemmo per pazzo.» Commentò Matthew sedendosi sul bracciolo del divano. «Cos’hai in mente?»
«Devo capire com’è la situazione, avere almeno un quadro parziale. E se dobbiamo andare lì per farlo…» Sean sospirò con aria frustrata. «Non ho fatto tutta questa fatica per poi riportarla nella loro dannata tana, ma devo valutare la cosa prima di decidere.»
«Per me va bene.» Dichiarò Scarlett.
Ci voltammo tutti a guardarla, sorpresi: proprio lei era d’accordo su una cosa del genere? Tornare in quel vecchio edificio dove era quasi morta doveva essere una prospettiva che le metteva i brividi, ma anche l’idea che i cacciatori fossero di nuovo in giro non doveva essere facile da mandar giù.
Negli occhi di Sean passò un lampo di quello che sembrava orgoglio e un sorriso gli sfiorò le labbra. «Bene. Voi due invece? Ragazzino, tu che dici?»
Tornai a sedermi accanto a Scarlett e mi passai una mano tra i capelli. «Se serve a mettere fine a questa caccia una volta per tutte allora dobbiamo farlo.»
Lui annuì appena, soddisfatto. Si voltò verso Matthew. «Manchi tu.»
Il diretto interessato stava giocherellando distrattamente con il bordo della camicia. Alzò lentamente gli occhi quando si accorse di essere stato chiamato in causa. «Oh, ehm, ecco, non mi piace come idea, ma immagino che non abbiamo molte alternative, giusto?»
«No, non le abbiamo.» Confermò Sean appoggiando le mani sui braccioli della poltrona.
Matthew raddrizzò la schiena. «Bene, allora facciamolo.»
Un angolo della bocca di Sean si sollevò in un ghigno. «Allora datevi una mossa, sfaticati, si parte adesso.»
Detto questo si alzò con un unico movimento fluido e uscì a grandi passi dalla casa lasciando la porta aperta. Matthew borbottò qualcosa con aria rassegnata prima di seguirlo.
Feci per alzarmi anch’io, ma Scarlett mi prese la mano e la strinse come a volermi trattenere lì. Mi voltai verso di lei: aveva le labbra strette in una linea sottile che tradiva tutta la sua tensione e i suoi occhi di solito ardenti erano incupiti dalla preoccupazione.
«Non devi venire per forza… Voglio dire, hai già fatto abbastanza.» Sussurrò.
Le accarezzai le nocche. «Non mi tiro indietro proprio adesso, assolutamente.»
Lei annuì appena anche se non sembrava convinta.
Mi allungai verso di lei e le diedi un bacio sulla fronte che riuscì a farla sorridere. «Ti riporterò a casa sana e salva, Scar, è una promessa.»
I suoi occhi da cerbiatto tornarono nei miei e sembravano decisamente più sicuri, più determinati.
Raggiungemmo Matthew e Sean fuori dal cottage. Li trovammo accanto alla mia auto. Sean ci guardò arrivare un aria critica, le braccia incrociate al petto, un sopracciglio inarcato.
«Alla buon’ora.» Borbottò.
«Non pensavo fossi così ansioso di tornare dai cacciatori.» Commentai guadagnandomi un’occhiataccia.
Sospirai e feci il giro della macchina per sedermi al posto di guida. Matthew si sedette dietro di me, mentre Sean e Scarlett rimasero a fissarsi, entrambi con una mano protesa verso la maniglia dello sportello sul lato del passeggero.
“Oddio”, pensai, “ci mancava solo questa”. Sembrava che nessuno volesse fare la prima mossa, né lasciare il posto all’altro. Dopo qualche altro secondo di esitazione, Scarlett sospirò e fece un passo indietro. Sean inarcò un sopracciglio, ma non perse altro tempo: aprì lo sportello e si sedette accanto a me. Scarlett prese posto sul sedile dietro di lui borbottando qualcosa a voce così bassa che non riuscii a capire cosa dicesse. Forse non era successo nel migliore dei modi, ma avevamo appena evitato un litigio tra licantropi. E, almeno secondo me, non era una cosa da poco.

Quando imboccammo la tangenziale, il silenzio regnava sovrano, nessuno sembrava avere voglia di parlare. In effetti, stavamo tornando nel luogo doveva avevamo rischiato tutti e quattro la vita, chi più chi meno, non era una prospettiva che metteva voglia di chiacchierare.
O almeno la pensavo così finché Scarlett non si sporse dai sedili posteriori e, senza avere la minima idea del tasto che stava andando a toccare, chiese: «Comunque, chi è Isaiah?»
Sean si irrigidì di colpo, serrò la mascella e strinse i pugni tanto da far sbiancare le nocche. Gli lanciai un’occhiata cauta: ero più che consapevole di quanto fosse profondo e radicato in lui il dolore legato a quel ricordo. Il tono di Scarlett, curioso e inconsapevole, non doveva essere facile da sopportare. Lei non aveva colpa, non poteva saperlo, ma avevo l’impressione che questo non sarebbe bastato a fermare la rabbia di Sean.
Scarlett attendeva una risposta e alternava impazientemente lo sguardo tra me e lui. Non mi piaceva l’idea di mentirle o nasconderle qualcosa, ma rispettavo Sean e il suo dolore: parlare, rivelare un qualunque dettaglio dipendeva da lui. Visto che rimaneva in silenzio e continuava a fissare la strada davanti a sé cercando di calmare il respiro, però, capii di dover intervenire per smorzare una possibile crisi sul nascere.
«Un innocente ucciso dai cacciatori.» Dissi evitando di guardare Scarlett.
Sembrò sorpresa, ma, quando fece per commentare, fu interrotta proprio da Sean: «Era il figlio di mia sorella.»
Non potei fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa. Scarlett invece annuì appena e strinse le labbra, comprensiva. Probabilmente aveva intuito che era un argomento delicato.
Matthew fu meno discreto. «Hai una sorella?» Esclamò sporgendosi e spingendo da parte Scarlett.
Se possibile, Sean divenne ancora più teso. Quando parlò la sua voce fu di ghiaccio. «Avevo un sorella.»
Quel suo tono così duro e tagliente mise definitivamente fine ad ogni conversazione. Sia Matthew che Scarlett tornarono ai loro posti evitando di incrociare lo sguardo di Sean, che stava guardando fuori dal finestrino con la mascella contratta e i pugni ancora stretti.

Il quartier generale dei cacciatori era esattamente come lo ricordavo, spoglio, squallido e grigio. Non era cambiato di una virgola dalla nostra ultima visita. Seguendo le indicazioni di Sean, parcheggiai dietro un altro vecchio edificio abbandonato in modo da nascondere l’auto.
Era ovvio che sarebbe stato lui a guidarci e mi andava bene: tra noi era quello meglio informato e sempre pronto a reagire, qualunque fosse la situazione. Camminammo cercando di fare meno rumore possibile fino all’ingresso da cui eravamo entrati io e Sean la prima volta. Non sapevamo cosa ci saremmo trovati davanti, ma almeno avevamo un’idea della struttura dell’edificio.
«Non dovremmo lasciare qualcuno a fare il palo?» Propose Matthew quando varcammo la soglia.
«No.» Tagliò corto Sean senza perdersi in spiegazioni.
Si mise in testa al gruppo e ci guidò mantenendosi vicino ai muri in modo da sfruttarne l’ombra. Anche l’interno dell’edificio non era cambiato, era sempre buio e tetro. Chissà se avevano la corrente elettrica lì.
«State all’erta, mi raccomando.» Aggiunse Sean a bassa voce.
Come se ce ne fosse stato bisogno: Scarlett era in tensione, quasi si aspettasse un attacco da un momento all’altro, e anche io sentivo il suo stesso nervosismo. Anche Matthew, che chiudeva la fila, era in guardia e si lanciava di continuo occhiate alle spalle.
Attraversammo gran parte del corridoio senza che succedesse niente di strano. L’unico rumore udibile erano i nostri respiri e le ombre rendevano tutto ancora più sinistro, ma non c’erano vere e proprie minacce. Quando superammo il corridoio che dava sulle celle Scarlett tremò appena, però rimase salda e concentrata. Avrei voluto rassicurarla, ma sapevo che non era il momento.
Continuammo a camminare in silenzio finché non arrivammo più o meno dove doveva esserci la stanza che i cacciatori usavano per le riunioni. La tensione era palpabile, eppure eravamo tutti perfettamente controllati. All’improvviso, come a voler spezzare quella calma apparente, Sean si irrigidì e un secondo dopo anche Scarlett entrò in tensione. Mi guardai intorno, ma non c’era niente di sospetto, nulla che potesse risultare pericoloso.
«Cercavate qualcosa?» Domandò una voce sconosciuta dall’ombra.
Fu questione di un attimo: Sean snudò le zanne e fece allungare gli artigli, Scarlett stese un braccio come a volermi tenere dietro di sé, Matthew trattenne il fiato. Poi si accese la luce e mi resi conto che quelli davanti a noi erano cacciatori.
Erano in tre, ma sembravano piuttosto sicuri di se stessi. Indossavano abiti comuni: jeans, magliette, giacche. Avevano un’aria quasi inquietante, eppure non davano l’impressione di essere violenti. Infatti, non sembravano neanche essere armati.
L’uomo nel mezzo era alto, aveva i capelli scuri, un’ombra di barba sulla mascella e strani occhi grigi dall’aria severa. Sembrava aver visto tempi migliori, però: era pallido, aveva ombre scure sotto gli occhi e si appoggiava ad una stampella. Probabilmente era il risultato dello scontro con Sean. Gli altri due uomini erano grossi e tarchiati, entrambi con i capelli scuri e la barba un po’ troppo lunga. Anche loro portavano i segni di una recente lotta: lividi, graffi e bende coprivano gran parte della pelle che i vestiti lasciavano scoperta.
«Sto aspettando una risposta.» Aggiunse l’uomo nel mezzo sollevando un sopracciglio.
«Ho saputo che eri stato dimesso e volevo vedere come stavi.» Replicò Sean senza togliergli gli occhi di dosso. «Devo ammettere che ho fatto proprio un bel lavoro.»
A quelle parole gli altri due uomini fecero per attaccarci, ma quello nel mezzo li bloccò con un cenno della mano. Evidentemente era il capo. «Stiamo bene, come puoi vedere. Un po’ ammaccati, ma fa parte del mestiere.» Ribatté osservandoci con cautela.
Un sorriso amaro incurvò le labbra di Sean. «Ne parli come se fosse qualcosa di rispettabile.»
«Per le nostre tradizioni lo è.» Commentò l’uomo senza scomporsi.
Riuscii quasi a vedere tutti i muscoli di Sean che si tendevano. «Uccidere degli innocenti fa parte delle vostre tradizioni?» Ringhiò con voce di ghiaccio.
L’uomo non rispose, si limitò a fissarlo con espressione indecifrabile. Sean ricambiò lo sguardo ed ero pronto a scommettere che i suoi occhi fossero accesi d’oro.
«Dobbiamo ucciderli?» Chiese uno degli uomini ai lati.
Quello nel mezzo si lasciò sfuggire un sorriso amaro. «Sì, perché no, attaccateli. Così vi rifate un giro all’ospedale.»
Spalancai gli occhi, incredulo. «Non ci attaccherete?» Troppo tardi mi resi conto di aver parlato ad alta voce.
L’uomo sospirò. «No. So che ci battereste senza problemi. Anche perché il tuo amico lì», fece un cenno col mento verso Sean, «ci ha praticamente dimezzati.»
Scarlett si voltò di scatto Sean con espressione sconvolta. «Hai ucciso delle persone?»
Lui fece una smorfia. «Certo che no. Puoi accusarmi di molte cose, ma non di essere un assassino di persone che non possono difendersi.»
«Che vuol dire non possono difendersi?» Domandò Scarlett fissandolo. «Quando mi hanno presa erano armati fino ai denti.»
Un ghigno senza allegria si fece strada sulle labbra di Sean. «Già, ma hanno la pessima abitudine di lasciare fuori tutte le armi durante le riunioni.»
«Il nostro primo errore.» Convenne l’uomo tornando a guardarlo.
«E allora perché hai detto che siete dimezzati?» Chiese Scarlett osservando l’uomo con aria sospettosa.
«Dopo il suo attacco molti hanno deciso di lasciare i cacciatori per stare con le loro famiglie. Pensano che non ne valga la pena.» Spiegò lui con tono stanco.
«Codardi.» Borbottò uno degli uomini ai suoi lati.
«Comunque, io sono Colin. Il giovanotto alla mia destra è Samuel, quello alla mia sinistra è Tristan.» Aggiunse l’uomo ignorando il commento. Vedendo che nessuno di noi diceva niente, domandò: «Voi siete?»
Sean sollevò una mano come a bloccare ogni possibile nostra risposta. «Non ti servono i nostri nomi.»
Colin aggrottò la fronte: non sembrava soddisfatto da quella replica evasiva. «D’accordo. Perché siete qui?»
«Perché chi tocca il mio branco non la passa liscia.» La voce di Sean era tornata minacciosa e ironica.
Lo sguardo di Colin si spostò su di noi. «Mi ricordo della ragazza.»
«Anch’io mi ricordo di lui… Soprattutto di quando mi ha chiamato “roba di lavoro”.» Borbottò Scarlett stringendosi le braccia al petto.
Colin la studiò per un attimo prima di riportare la sua attenzione su Sean. «Quindi che vuoi fare?»
Sean finse di pensarci su. «Mi piacerebbe finire ciò che ho iniziato.» Un sorrisetto sarcastico gli spuntò sulle labbra. «Magari cominciando da voi.»
Prima che potessi anche solo valutare l’idea che mi era appena venuta in mente, mi ritrovai davanti a Sean. Lui mi scoccò un’occhiataccia che sembrava dire “che diavolo stai facendo?”. Il punto era che nemmeno io sapevo cosa stavo facendo.
«Ragazzino, torna al tuo posto.» Riuscì a far suonare minaccioso persino un sussurro.
«Una guerra non porterà vantaggi a nessuno.» Risposi a bassa voce. «Non combattere.»
Aggrottò la fronte e mi guardò con diffidenza, gli occhi verde-grigio attenti a cogliere il minimo segno di tradimento. Perché sì, ero abbastanza sicuro che mi considerasse un possibile traditore. «Che dovrei fare allora?» Chiese senza riuscire a nascondere una vena di frustrazione nella voce.
Era stata la ragazzina, Denise, a farmi venire in mente quell’idea. Non sapevo se potesse funzionare, né se fosse realistica, ma le sue parole mi avevano colpito ed ero pronto a rischiare il tutto per tutto. Davanti a me, Sean era in attesa, ancora diffidente e quasi spazientito. Ero più che consapevole di quanto strano e sbagliato gli sarebbe sembrato, soprattutto considerato tutto quello che i cacciatori gli avevano fatto passare, ma non potevo correre il rischio che Scarlett finisse di nuovo nelle loro mani.
«Facciamo un accordo.» Trassi un respiro profondo. «Con i cacciatori.»



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Mi dispiace averci messo tanto ad aggiornare, queste ultime settimane sono state piuttosto impegnate e non ho trovato il tempo di farlo prima.
Questo capitolo è più breve degli altri - e non mi convince neanche del tutto - ma penso abbiate intuito che siamo vicini ad una svolta. Adam ha in mente qualcosa che, anche se pericoloso e mai tentato prima, potrebbe ribaltare le sorti del gioco. Se prima Sean non lo strozza ovviamente.
La meravigliosa unannosenzapioggia ha creato l'altrettanto meraviglioso banner ad inizio capitolo di cui mi sono follemente innamorata. Colgo l'occasione per ringraziarla di nuovo  *-*
Un'altra cosa, da mercoledì 27 fino a domenica 7 agosto sarò al mare e non so se avrò la Wi-Fi - anche se lo spero vivamente. Volevo avvisare sia voi che, se ci sono, i lettori di SIN: dovrete aspettare un po' più del solito per il prossimo capitolo, ma spero che ne varrà la pena.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Ci vediamo col prossimo ^^

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Capitolo 33
*** 33. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 33



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33. Scarlett

Non pensavo esistesse qualcosa capace di sconvolgere Sean, né di fargli perdere quel suo atteggiamento strafottente. E invece esisteva eccome qualcosa capace di questo e molto altro. O meglio, qualcuno: Adam Meyers.
Non avevo capito granché di quello che si erano detti, ma l’espressione di Sean parlava da sé: era sconvolta, incredula, rabbiosa, quasi ferita e questo tutto nello stesso momento. Doveva essere una specie di record.
Lui e Adam rimasero a guardarsi negli occhi per un bel po’, come se di colpo di fossero dimenticati dei cacciatori che se ne stavano lì a pochi passi da noi e che ci guardavano come se fossimo pazzi. Sembrava avessero escluso tutto il mondo per concentrarsi solo sulle iridi dell’altro.
«Ho bisogno di parlarti un attimo.» Disse Sean con voce fin troppo calma.
Senza aspettare una risposta, afferrò Adam per un braccio e lo trascinò lungo il corridoio verso la porta d’ingresso finché non furono abbastanza lontani perché nessuno, nemmeno io con i sensi acuiti dalla licantropia, riuscisse a sentirli.
Sia io che Matthew rimanemmo a guardarli senza avere la minima idea di cosa stesse succedendo. Cosa poteva aver detto Adam di così importante da spingere Sean ad abbassare la guardia di fronte ai cacciatori?
Lanciai un’occhiata di sottecchi a Colin: l’avevo riconosciuto subito, era il capo di quei pazzi, lo stesso uomo che mi aveva fatto una specie di interrogatorio dopo che mi avevano sparato. Anche quei due uomini mi erano familiari: erano i due che mi avevano gentilmente scortato dal loro capo e poi di nuovo nella cella. Nonostante adesso sembrassero inoffensivi e avessero ammesso la superiorità di Sean, ero comunque tesa e nervosa all’idea di averli così vicino.
Accanto a me, anche Matthew sembrava a disagio. Aveva le mani infilate nelle tasche dei jeans e stava ben attento a non incrociare lo sguardo di nessuno.
Il rumore di una porta che si apriva mi fece balzare subito all’erta. Mi voltai di scatto e vidi una sagoma avvicinarsi. Bastò che facesse pochi passi perché riuscissi a riconoscerla: Nathan, il biondino che aveva sorvegliato la mia cella e aveva contribuito alla mia cattura. Indossava dei jeans neri, una maglietta verde militare e una giacca di pelle. Aveva i capelli aggiustati con il gel il modo da sembrare spettinati. Al collo portava una collana con un ciondolo argentato. Dal colletto della maglia spuntava un livido violaceo e qualche graffio, probabilmente opera di Sean.
Affiancò i suoi compagni con aria disinvolta. «Si può sapere che state combinando? Mi sto annoiando di là da solo…» Si interruppe quando si accorse di me e Matthew. Ci studiò per qualche istante con gli occhi socchiusi poi sorrise. «Guarda chi si rivede. Ti sono mancato?»
Era ovvio che si riferisse a me, ma rimasi interdetta lo stesso. Mi ripresi abbastanza in fretta da incrociare le braccia al petto e replicare: «Quanto un proiettile in corpo.»
Il suo sorriso si spense e lui stinse le labbra. Non distolse lo sguardo, però, rimase a guardarmi mentre un’ombra gli attraversava gli occhi. Per la prima volta notai che erano di un marrone caldo e che sembravano sinceri, autentici. Osservandolo meglio mi resi conto che non poteva essere tanto più grande di me, doveva avere circa vent’anni.
Lanciò un’occhiata ad Adam e Sean, ancora impegnati con la loro discussione. «Abbiamo compagnia.» Si voltò verso Colin. «Che sta succedendo?»
Colin si passò una mano sul viso e improvvisamente mi sembrò molto stanco. «Non lo so. Niente di buono immagino, ma non ne sono sicuro.»
Samuel e Tristan si scambiarono un sguardo e scossero la testa. Evidentemente non erano d’accordo sull’idea di aspettare e vedere cosa sarebbe successo. Avevo il sospetto che avrebbero preferito di gran lunga farci fuori e poi domandare cosa volevamo.
«Non vogliamo farvi male.» Mi sentii dire.
Nathan sollevò il viso e mi guardò con aria incuriosita. «Perché siete qui allora?»
Sospirai: avrei voluto saperlo anch’io. «Beh, per… controllare.»
Un sorrisetto beffardo comparve sulle labbra di Samuel. «Volevi essere sicura che ti avessimo lasciato un posto? Sta' tranquilla, la tua cella è ancora libera.»
Per un attimo fu come ritornare indietro nel tempo, nel momento in cui mi risbattevano in quella prigione buia e umida dopo l’incontro con Colin. Mi strinsi le braccia al petto e distolsi lo sguardo mordendomi il labbro. Era orribile anche solo ripensarci.
«Falla finita.» Mi sorprese parecchio sentire la voce di Nathan così dura e quasi arrabbiata. Ma la cosa più strana era il fatto che mi stesse difendendo. Proprio lui che aveva dato direttive a quei due gorilla perché mi trattassero come una specie di animale.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi: aveva la mascella contratta, lo sguardo di ghiaccio, i pugni stretti tanto che le nocche erano diventate bianche. Un po’ mi ricordava Sean poco prima in auto, quando avevo chiesto di Isaiah.
«Difendi i parassiti adesso?» Sbottò Tristan. «Ti sei rammollito tutto insieme?»
Nathan fece per ribattere -qualcosa nella sua espressione mi disse che non sarebbe stato un bello spettacolo-, ma Colin lo interruppe sollevando una mano. «State zitti una buona volta. Non mi interessano i vostri battibecchi.» Guardò qualcosa dietro di me. «Ma i loro sì.»
Mi voltai e vidi Sean e Adam venirci incontro. Avevano entrambi un’aria seria e concentrata, ma sembravano anche piuttosto determinati. A dirla tutta, Sean era un po’ contrariato, però cercava di non darlo a vedere.
«Alla buon’ora.» Borbottò Colin osservandoli con un certo interesse.
Sean si lasciò sfuggire una smorfia e incrociò le braccia al petto. «Non devo rendere conto a nessuno, di certo non a te.»
Adam rimase in silenzio, ma studiò Nathan con attenzione, come per cercare di capire il suo ruolo. Come al solito, il suo viso non lasciava trasparire nessuna emozione. Dovevo ammettere che un po’ mi irritava vedere quanto controllo avesse di sé. Nonostante questo, ero felice di riaverlo al mio fianco.
«Quindi, qual è la vostra decisione?» Chiese Colin.
Con una certa riluttanza, Sean si costrinse a dire: «Vogliamo stringere un accordo con voi.»
Spalancai gli occhi, incredula: un accordo? Con… loro? Ma che gli era saltato in mente? Matthew sembrava pensarla come me, mentre Adam era calmo e potrei giurare di averlo visto scambiare un’occhiata d’intesa con Sean. Lo realizzai di colpo e mi mancò il fiato: era stata una sua idea.
Questo spiegava perché messo in mezzo tra Sean e Colin, perché la prima reazione di Sean era stata così rabbiosa e perché tutt’ora non sembrava convinto. Ma per quale motivo Adam avrebbe dovuto cercare un’alleanza con i cacciatori? Sapeva di cos’erano capaci, l’aveva visto con i suoi occhi su di me.
Tristan scoppiò a ridere. «Un accordo? Hai paura di noi, lupo?»
Gli occhi di Sean si accesero d’oro. «Se non mi ricordo male eri tu quello che urlava come una ragazzina quando sono entrato nella sala riunioni.» Alzò il mento in segno di sfida. «Correggimi se sbaglio, ma di solito ho una buona memoria.»
Nathan soffocò un sorriso mentre il viso di Tristan diventava così rosso da sembrare sul punto di esplodere.
«Che genere di accordo?» Domandò Colin ignorando quello scambio di frecciatine.
Sean lanciò un’occhiata ad Adam, quasi a volergli chiedere aiuto. Lui ricambiò lo sguardo prima di spostare la sua attenzione sul capo del cacciatori. «Una specie di alleanza che converrà a tutti e due.» Spiegò con voce calma.
«Certo, perché avete paura di scontrarvi di nuovo con noi, eh?» Questa volta era stato Samuel ad intervenire, ma ero piuttosto sicura che il trattamento non sarebbe stato diverso.
Sean ringhiò piano e fece per balzargli alla gola, ma Adam lo bloccò mettendogli una mano sul petto per trattenerlo. «Avevamo detto niente violenza.» Sibilò scoccandogli un’occhiataccia.
«Non ti ho promesso niente.» Borbottò Sean senza distogliere lo sguardo da Samuel.
Se fosse dipeso da lui avrebbe fatto piazza pulita dei cacciatori e la cosa sarebbe finita lì. Ma sapevo quanto Adam detestasse la violenza e se poteva fare qualcosa per evitarla l’avrebbe fatto, anche a costo di andare contro un licantropo.
«Invece sì. Hai preso un impegno.» Replicò Adam prima di lasciarlo e voltarsi verso Colin. «Possiamo parlarne in… privato?»
Probabilmente aveva intuito quanto fosse alta la tensione in quel corridoio: continuare lì la discussione sarebbe stato molto, molto pericoloso.
Colin annuì. «Sì, certo. Possiamo usare il mio ufficio.»
«Perfetto.» Convenne Adam. Poi sembrò ricordarsi che il nostro capo era un altro. «Cioè, sempre se va bene anche a te.» Aggiunse rivolto a Sean.
«Va bene.» Rispose secco lui senza perdere il suo atteggiamento scontroso.
«D’accordo.» Mormorò Colin. «Il mio ufficio è la porta in fondo al corridoio, vogliamo andare?»
Al cenno d’assenso di Sean, lui si voltò e cominciò a farci strada. Con mia grande sorpresa, Nathan mi affiancò. Dall’altro lato, accanto a me, avevo Adam, che sembrava troppo preso dai suoi pensieri per parlare. Anche Nathan rimase in silenzio. Si limitava a studiare le facce nuove tenendo le mani nelle tasche dei jeans; la sua espressione non tradiva niente se non curiosità e voglia di sapere.
Quando arrivammo di fronte alla porta dell’ufficio, sorse un nuovo problema: i cacciatori erano in maggioranza e questo non ci avrebbe garantito una giusta rappresentanza.
Fu Colin a proporre una soluzione. «Facciamo due dei tuoi e due dei miei?» Chiese guardando Sean.
Per la prima volta mi accorsi che lo trattava come un suo pari, e non come una creatura che credeva inferiore. Avrei pagato oro per vedere cos’era successo mentre Adam mi tirava fuori da quella dannata cella.
Sean annuì. «Sì, mi sembra giusto.»
«Bene.» Commentò Colin prima di aprire la porta.
Sean si voltò verso di noi e il suo sguardo andò subito ad Adam. Fece un cenno con il mento verso l’ufficio. «Andiamo.»
Avrei dovuto capirlo prima, ma lo realizzai solo in quel momento. «Aspetta un attimo.» Esclamai guadagnandomi parecchie occhiate sorprese. «E noi? Cioè, questa cosa ci coinvolge tutti.»
«Due licantropi, due cacciatori.» Replicò Sean con voce dura.
«Ma anche noi vogliamo sapere. Cos’è tutto questo mistero?» Chiesi guardando Adam: magari lui sarebbe stato più propenso a darmi qualche risposta. Nello stesso tempo realizzai che lui non era un licantropo, quindi noi saremmo stati rappresentati da un lupo e un umano. A quanto pareva, però, Sean voleva far credere ai cacciatori che avessero davanti quattro lupi mannari.
«Aspetterete. Non ci vorrà molto.» Dichiarò Sean con fare sbrigativo. Adam si lasciò sfuggire una smorfia che mi fece capire che non era d’accordo.
«Voi siete sistemati, quindi tocca noi.» Borbottò Colin più per sé che per noi. Fece scorrere lo sguardo sui suoi cacciatori studiandoli. Nathan aveva drizzato le spalle e aveva un luccichio impaziente negli occhi: si aspettava di essere scelto come secondo rappresentante dei cacciatori. Samuel e Tristan, invece, se ne stavano in disparte; avevano espressioni cupe e contrariate.
Dopo qualche istante, Colin sospirò. «Dovrò chiamare Brian.»
«Cosa? Perché lui?» Scattò Nathan guardando il suo capo con aria implorante.
Colin sembrò interdetto. «Perché mi serve un altro cacciatore.»
Nathan si indicò. «Ci sono io.»
Colin strinse le labbra e scosse la testa. «No, Nate.»
Il biondino apparve deluso, ma non disse niente. Fece un paio di passi indietro e chinò la testa. Dovevano essere abituati ad eseguire gli ordini di Colin, in fondo, lui era il capo lì dentro. Questo non significava che lo facessero sempre volentieri. E questo ci rendeva simili, in un certo senso: anche noi, in quanto branco improvvisato, dovevamo rispondere a Sean, però non sempre eravamo d’accordo con lui. Forse non eravamo poi così diversi, tranne per il fatto che noi non rapivamo o uccidevamo nessuno.
Colin si voltò verso Sean. «Cinque minuti e sarà qui.»
Sean annuì distrattamente. «Bene. Voglio risolvere in fretta questa cosa.» E lanciò un’occhiataccia ad Adam.
Colin fece un breve cenno d’assenso e si allontanò di qualche passo prendendo un cellulare dalla tasca dei pantaloni. Decisi di approfittare di quell’attimo di pausa per chiarire la situazione. Mi voltai verso Adam e cercai di comunicargli con lo sguardo la mia necessità di parlare. Sembrò capirmi, infatti mi fece un cenno di seguirlo verso l’uscita poco più su dell’ufficio. Ci accostammo alla porta, lontano da sguardi e orecchie indiscrete.
«Che cos’hai in mente?» Chiesi senza mezzi termini.
«Voglio proteggerti, Scar.» Rispose guardandomi negli occhi con espressione intensa e determinata. «Continuare questa faida tra lupi e cacciatori è dannoso. Non voglio che tu corra altri rischi.»
Mi venne voglia di abbracciarlo, ma mi trattenni. «Quindi? Che vuoi fare?»
Si morse il labbro inferiore. «Stringere un accordo, una qualche alleanza che ci garantisca una sorta di immunità.Colin ha detto che Sean li ha dimezzati e che hanno capito quanto siamo pericolosi. Neanche loro vogliono un’altra guerra. Sto solo sfruttando questo loro momento di debolezza.»
Rimasi senza parole dalla genialità di quel piano. Non riuscii a fare a meno di riconsiderarlo, di vederlo sotto una nuova luce: Adam era molto più scaltro di quanto non sembrasse. «Te l’hanno mai detto che potresti fare l’avvocato?» Mormorai ammirata.
«Di solito mi prendono per un futuro professore.» Replicò con un mezzo sorriso.
Mi avvicinai a lui abbastanza da sentire il suo respiro tiepido sfiorarmi la pelle. «Allora sbagliano. Hai l’intelligenza di un grande stratega.»
Scosse la testa e distolse lo sguardo. «Stai esagerando, Scar.»
«Sto solo dicendo la verità.» Sussurrai ritrovandomi ad osservare le sue labbra.
I suoi occhi blu incontrarono i miei. «Risolveremo questa cosa, okay? Farò in modo che nessun cacciatore possa più farti del male.»
Mi ci volle un notevole sforzo di volontà per non lasciarmi sfuggire qualche lacrima. Gli gettai le braccia al collo e lui ricambiò la stretta affondando il viso nei miei capelli. «Grazie.» Mormorai sinceramente riconoscente.
Si allontanò appena da me e mi diede un bacio sulla fronte. «Di nulla.»
«Adam.» Lo richiamò Sean con voce autoritaria.
Adam si morse il labbro e mi rivolse una sguardo come di scuse. «Devo andare.»
Mi sporsi verso di lui e gli sussurrai all’orecchio: «In bocca al lupo.»
Riuscii a strappargli un sorriso. Mi diede un bacio all’angolo della bocca prima di voltarsi e tornare da Sean. Accanto a lui c’era Colin, impegnato in una discussione con un nuovo arrivato.
Era un uomo alto, con le spalle larghe, i capelli ingrigiti, folte sopracciglia nere e lo sguardo gentile. Mi risultava difficile credere che fosse un cacciatore; più che altro sembrava un padre di famiglia. Indossava una camicia di flanella a quadri e dei pantaloni scuri. Non riuscivo proprio ad immaginarmelo con un fucile in mano, sembrava del tutto estraneo a qualunque tipo di violenza.
Mi avvicinai anch’io, titubante eppure curiosa. Matthew mi guardò riconoscente e sollevato da un’altra presenza amica, e abbozzò un sorriso. Samuel e Tristan parlottavano tra loro stando ben attenti a mantenersi a distanza da quello che evidentemente consideravano un tradimento. Nathan osservava la scena con quel suo sguardo curioso e l’espressione attenta.
Il nuovo arrivato si voltò verso Sean e gli tese la mano. «Io sono Brian.»
Sean continuò a tenere le braccia incrociate al petto e lo studiò con aria di sufficienza. «L’avevo intuito.»
Brian abbassò la mano, sorpreso. «Oh… D’accordo. Ho sentito che avete una proposta per noi.»
 Sean guardò Adam con aria eloquente; sembrava dire “sì, per colpa sua.” «Già. Possiamo cominciare o vogliamo fare una riunione di famiglia?»
«Cominciamo.» Borbottò Colin prima di aprire la porta. «Prego.»
Sean entrò senza esitare guardando dritto di fronte a sé. Adam lo seguì dopo avermi lanciato un’occhiata. Brian fece un cenno di saluto a Nathan e varcò la soglia. Colin gli andò dietro aiutandosi con la stampella e si chiuse la porta alle spalle.
Distolsi lo sguardo con un sospiro: si prospettava una lunga attesa. E quel corridoio mi sembrava fin troppo claustrofobico. Per non parlare di Samuel e Tristan che sembravano complottare contro di noi dal loro angolino buio.
«Vado a prendere un po’ d’aria.» Annunciai senza riferirmi a nessuno in particolare.
Tornai alla porta vicino alla quale avevo parlato con Adam e uscii. Mi ritrovai sul retro dell’edificio con un parcheggio vuoto di fronte a me. Il cemento del marciapiede era crepato e pieno di erbacce. Era piuttosto deprimente come posto. E pensare che ci ero quasi morta…
Mi appoggiai al muro con la schiena e mi strinsi le braccia al petto. Era una situazione complicata e molto strana: chi l’avrebbe mai detto che licantropi e cacciatori sarebbero giunti ad un qualche tipo di accordo? O meglio, che ci avrebbero provato? In fondo, ancora non c’era niente di deciso. Per come stavano le cose adesso non era detto che saremmo usciti tutti vivi da quel posto.
«Oh, sei qui.» Disse una voce facendomi sobbalzare. Mi voltai di scatto, i muscoli in tensione, e mi ritrovai davanti Nathan. Si stava affacciando dalla porta, ma quando mi vide uscì chiudendosela alle spalle. Infilò le mani nelle tasche dei jeans guardandomi di sottecchi.
Ricambiai l’occhiata inarcando un sopracciglio. «Che vuoi?»
«Uhm, niente.» Rispose dando un calcio ad un sassolino. «Solo… ecco, volevo chiederti scusa.»
Spalancai gli occhi, sorpresa. «Cosa?»
«Sì, insomma, non abbiamo cominciato col piede giusto.» Replicò osservando il marciapiede.
«Tu dici?» Chiesi ironica. «Quel pazzo del tuo amico mi ha sparato.»
Chinò la testa. «Beh… In effetti non è stato carino da parte sua.»
Allargai le braccia, incredula. «Questo è il più grande eufemismo del secolo.»
Sollevò lo sguardo su di me e quello che lessi nei suoi occhi fu dolore e rimorso. «Lo so. E anche se non hai motivo di credermi, ti giuro che… odio quello che ti hanno fatto.»
«Hai partecipato anche tu.» Mormorai.
Chiuse gli occhi per un attimo e si morse il labbro. «Sì. È solo dopo che ho capito quant’è sbagliato. Non abbiamo il diritto di fare quello che facciamo. Cavolo, siete umani come noi. Okay, forse non esattamente come noi, ma di sicuro meno bestie di come vi descrivevano.»
«È… Non lo so. Credevo che ne fossi convinto anche tu. Della nostra fantomatica natura diabolica, intendo. Non è quello che vi insegnano?» Domandai senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui.
Annuì aggrottando la fronte. «È così. C’è un addestramento, ti fanno credere le peggiori cose sui licantropi, ti insegnano a temerli. Ma… dopo aver visto te e il tuo branco ho capito che non siete mostri come vi dipingono, tutt’altro.»
Non riuscivo a credere a quello che sentivo: un cacciatore mi stava chiedendo scusa? E ammetteva di essersi sbagliato? «Non ti capisco. Pensavo che tu fossi… che fosse una certezza per voi considerarci i cattivi. Che non ci fosse spazio per i ripensamenti.»
Una smorfia gli arricciò le labbra. «Già… Beh, l’addestramento inizia fin da piccoli, ti inculcano tutte quelle cavolate non appena inizi a parlare. Se a te raccontavano la favola di Cenerentola, a noi facevano resoconti delle missioni.»
Incrociai le braccia al petto. «Un buon modo per conciliare il sonno parlare di come avevo ucciso dei licantropi, sì.» Lo vidi incassare il colpo incurvando le spalle e decisi di approfittare del suo improvviso rimorso per indagare. «Come facevate a sapere cos’ero? E dove ero?»
«Noah, il ragazzo che ti ha sparato, si occupa delle ricerche. È una specie di hacker. Seguendo degli indizi base, coincidenze comuni a tutti i licantropi, restringiamo il campo fino a tirarne fuori un nome.» Teneva lo sguardo basso e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Sembrava un bambino che viene rimproverato dalla madre.
Ero ancora scettica, mio malgrado: il rimorso nei suoi occhi era sincero, lo sapevo, eppure non riuscivo a fidarmi. «Quindi una volta che avete trovato un licantropo organizzate una squadra ed andate ad ucciderlo?»
«Di solito lo catturiamo prima.» Mormorò. «Sai, per interrogarlo.»
«Sì… so bene di cosa parli.» Borbottai stringendomi le braccia al petto. «Quella bambina… Denise, che ci fa qui?»
Un sorriso inconsapevole gli sfiorò le labbra nel sentirla nominare. «È la figlia del capo. Non è una cacciatrice, e non lo sarà mai. Non dopo che la madre ha scoperto il lavoro del padre.»
«Sono separati, giusto?» Chiesi.
«Sì, lei ha chiesto il divorzio quando è venuto fuori che Colin è un cacciatore di licantropi. Karen non voleva che la figlia seguisse le orme del padre così lo ha mollato e adesso è in corso una battaglia legale per l’affidamento della figlia.» Rispose stringendosi nelle spalle.
«Oh… Colin voleva fare di lei una cacciatrice?» Domandai osservandolo.
«Forse, non ha avuto il tempo di pensarci, credo.» Replicò.
Inclinai la testa di lato, sorpresa. Mi stava dando delle informazioni di sua spontanea volontà, stava rivelando al nemico dettagli preziosi. Ma l’unica cosa che sembrava provare erano sensi di colpa. «A che età comincia l’addestramento di cui parlavi prima?»
Trasse un respiro profondo. «Dipende. La maggior parte dei bambini che si uniscono a noi nascono in famiglie di cacciatori quindi il loro addestramento comincia subito. Sai, vedere tuo padre che sparisce nelle notti di luna piena e torna il giorno dopo diventa normale dopo un po’. E quando ti ritengono grande abbastanza comincia l’allenamento vero e proprio. Nel frattempo continuano a ripeterti quanto siano pericolosi e malvagi i licantropi e che sono stati mandati dal diavolo o roba del genere.»
«Ah però, sono parecchio fantasiosi.» Borbottai spostando lo sguardo sulla strada.
«In realtà, dopo aver visto voi mi sembrano solo stupidaggini.» Ammise.
Spalancai gli occhi e lo guardai, incredula. «Non vorrei essere ripetitiva, ma… cosa? Stupidaggini? Solo qualche giorno fa mi sembravi più che convinto di quello che facevi.»
Si incupì di colpo, ma sembrava che ce l’avesse con se stesso più che con me. «Hai… hai perfettamente ragione. Avrei voluto accorgermi prima di quanto fossero infondate le convinzioni dei cacciatori. Voi non meritare niente di tutto questo. Non siamo tanto diversi dalle bestie che pensiamo di cacciare se ci comportiamo così.»
Senza rendermene veramente conto, allungai una mano e gliela posai sul braccio. «Nathan…»
Mi bloccai, sorpresa dal mio stesso gesto. Guardammo entrambi la mia mano come se fosse stata chissà qualche strana creatura. Imprecai mentalmente contro quella mia mancanza d’attenzione e ritirai il braccio, imbarazzata. Che mi era venuto in mente? Lui era un cacciatore, il nemico… No, non più. O meglio, non lui in particolare. Magari gli altri cacciatori sì, ma lui sembrava sinceramente pentito di ciò che aveva fatto.
«Non so come ti chiami.» Sussurrò lui fissando il marciapiede.
Tornò a sembrarmi un bambino e provai una strana empatia per lui. «Scarlett. Mi chiamo Scarlett.»
«È… è un bel nome.» Fece per aggiungere qualcosa, ma ci ripensò. Alla fine, si decise a dire: «Senti, secondo te possiamo ricominciare da capo? Non voglio che ci siano rancori.»
Inarcai un sopracciglio. «Scusa se te lo faccio notare, ma tu sei uno di quelli che mi ha catturata, che mi ha sparato e poi chiuso in una dannata cella: davvero pensi che basti dire “ricominciamo da capo” per cancellare tutto questo?»
Lo vidi deglutire con fare nervoso. «Sì, immagino che sia stato stupido da parte mia pensare che avresti trascurato questi dettagli, eh?»
Incrociai le braccia al petto guardandolo con fare eloquente. Lui annuì tra sé e sé prima di sollevare lo sguardo sul cielo.
Sembrava di colpo più pensieroso e cupo e questo stonava con la sua aria giovanile. Nonostante questo, adesso che potevo osservarlo più da vicino, notai che c’erano dei tratti in lui che ne sottolineavano anche un certo distacco dall’adolescenza: aveva la linea della mascella affilata, una barba appena accennata di un biondo dorato sulle guance, lo sguardo attento di un soldato, le spalle ampie e muscolose. Non era esattamente adulto, ma nemmeno un ragazzino. E probabilmente quello che aveva vissuto come cacciatore aveva contribuito a renderlo più maturo e meno avventato.
«Comunque…» Esordì riportandomi sull’attenti. «Non ci siamo presentati come si deve.»
Una parte di me voleva tirargli un pugno sul naso, l’altra era curiosa di vedere dove sarebbe andato a parare. «Mmh.»
Mi tese la mano. «Piacere di conoscerti. Sono Nathan Evans.»
«Quando hai detto ricominciare intendevi proprio dall’inizio, eh?» Borbottai vagamente divertita.
Lui però non rispose, rimase in attesa, gli occhi nocciola che mi studiavano con una certa impazienza. Dopo qualche secondo, sospirai e gli strinsi la mano. «Scarlett Dawson.»
«Beh, Scarlett, immagino che questa sia la più grande stranezza del secolo: un cacciatore che stringe la mano ad un licantropo. Una follia.» Commentò. Ed era assolutamente vero.
Avrei dovuto odiarlo, fuggire qualunque tipo di contatto con lui, eppure ero lì. Quando lasciò la presa tornai a stringermi le braccia al petto quasi senza rendermene conto, ma non mi sentivo sporca, impaurita o arrabbiata.
«Ogni tanto i cambiamenti sono necessari, no?» Dissi con un sorriso appena accennato.
Lui sembrò sorpreso, ma anche felice di vedere che l’ostilità si stava appianando. «Soprattutto quello che ci fanno più paura.»



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Lo so, sono una pessima autrice, ho aggiornato in super ritardo e vi chiedo scusa. Devo anche rispondere alle recensioni >.>
Btw, ve l'avevo detto di tenere d'occhio uno dei cacciatori perché vi avrebbe sorpreso, giusto? E infatti eccolo lì, Nathan Evans, addestrato ad uccidere ma non convinto di ciò che i cacciatori rappresentano. Che ne pensate di lui?
Abbiamo anche visto che Sean sembra disposto a tentare un accordo con i cacciatori, ma avrà la pazienza di arrivare fino in fondo o mollerà la strada più pacifica e farà di testa sua? Sì, mi piace riempirvi di domande perché sono curiosa.
Bien, mi scuso ancora per questo ritardo immenso e prometto che la prossima volta sarò puntuale ^^
Un bacio <3

TimeFlies

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Capitolo 34
*** 34. Adam ***


Under a Paper Moon- capitolo 34


                                                         

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34. Adam

Il primo incontro non aveva portato a niente di fatto. Ma non era andata male. Anzi: avevamo fatto capire a Colin e Brian che non avevamo intenzione di cedere e che avremmo mantenuto la nostra posizione ad ogni costo. Tenere Scarlett al sicuro era il mio obbiettivo principale, ma dovevo ammettere che anche l’idea di aiutare Sean a scendere a patti con il suo passato mi sembrava qualcosa che dovevo fare.
Brian si era dimostrato molto aperto ad un confronto mentre Colin era rimasto più sulle sue. D’altra parte, era solo la prima volta che ne parlavamo e visto che non avevo le idee chiare nemmeno io ero ovvio che ancora ci fossero dei dubbi, per entrambe le parti. Sean era stato silenzioso, aveva lasciato parlare me, però non aveva abbassato la guardia neanche per un attimo.
«Beh, direi che per oggi abbiamo parlato abbastanza.» Commentò Brian con un sorriso gentile. «Immagino che abbiate molto di cui discutere, e anche noi, quindi perché non fissiamo un altro incontro?»
«Sì, mi sembra una buon’idea.» Convenni.
In effetti, avevamo discusso per quelle che mi erano sembrate ore e avevamo bisogno di fare il punto della situazione anche con gli altri. In più, l’ufficio di Colin era un po’ soffocante: era una stanza piuttosto grande a dir la verità, ma le pareti erano scrostate e macchiate d’umidità, i mobili erano scoordinati e vecchi, le finestre alte e strette non facevano entrare molta luce e contribuivano a rendere l’ambiente ancora più cupo.
Non assomigliava molto ad un ufficio, ad essere sinceri: c’era un grosso tavolo nel mezzo della stanza con delle sedie tutt’attorno che scoprimmo venivano usate per le riunioni dei cacciatori, ad una parete era addossata una libreria un po’ traballante piena per metà di libri dall’aria antica e raccoglitori. Per il resto, la stanza era vuota.
Eravamo venuti a sapere
che quel vecchio edificio era stato la sede di una piccola azienda che poi era fallita e che erano stati i cacciatori ad adibire alcune parti a prigioni. Quel dettaglio aveva fatto irrigidire me e innervosire Sean, che però era riuscito a trattenersi. Mi era bastato uno sguardo per capire che avrebbe voluto ucciderli seduta stante. 
«Quando vi andrebbe bene?» Chiese Colin osservandoci con quei suoi occhi grigi così severi.
Io e Sean ci scambiammo un’occhiata e fu lui a rispondere: «Anche domani. Di pomeriggio.»
Colin annuì. «Bene. Facciamo per le tre?»
«In realtà preferiremmo le quattro.» Intervenni bloccando Sean che stava per dare il suo consenso.
Mi osservò in cerca di spiegazioni, un'ombra di rabbia che gli incupi gli occhi verdi: la sua pazienza stava arrivando al limite, me ne rendevo conto.
«Ho scuola fino alle tre e mezzo.» Mormorai così che i cacciatori, seduti dall’altra parte del tavolo, non potessero sentire. «E anche Scarlett.»
Lui trasse un respiro profondo per riprendere la calma. «D’accordo.» Sibilò prima di voltarsi verso i cacciatori. «Le quattro vi vanno bene?»
Colin si strinse nelle spalle. «Saremo qui.»
«Bene.» Commentò Sean alzandosi e facendomi cenno di seguirlo.
Mi affrettai a farlo sapendo quanto odiasse quella situazione. Anche i cacciatori si alzarono. Brian continuava a sorridere con quella sua aria cordiale, come se fossimo stati dei semplici amici venuti a cena a casa sua. Colin era un po’ più restio nei nostri confronti, ma potevo capirlo. E poi, anche Sean si teneva molto sulle sue.
Uscimmo in corridoio e quello che mi trovai davanti fu sia incoraggiante vista la possibile alleanza con i cacciatori, sia strano, quasi sbagliato: Scarlett era seduta per terra con la schiena appoggiata al muro di fronte alla porta e accanto a lei c’era quel cacciatore biondo che avevamo visto prima. Mi sembrava di ricordare che si chiamasse Nathan. Stavano sorridendo tutti e due e sembravano piuttosto presi da una conversazione.
Appoggiato alla parete poco più c’era Matthew, immerso nella lettura di un libro di cui non conoscevo la provenienza. Di Samuel e Tristan non c’era traccia, ed era meglio così: quei due erano inquietanti.
Nathan, se si chiamava così, fu il primo ad accorgersi di noi. Ci guardò con aria incuriosita senza perdere quel mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra. Scarlett seguì la direzione del suo sguardo e, quando ci notò, balzò in piedi.
«Allora?» Chiese con una certa impazienza.
«Per adesso non c’è niente di deciso, ma… sta andando bene.» Risposi.
Sean sbuffò e alzò gli occhi al cielo, però non mi contradisse. Sperai che cominciasse a vedere l’utilità di quell’accordo e quanto ne avessero bisogno entrambi, cacciatori e licantropi.
Un sorriso illuminò il viso di Scarlett. «È… fantastico.»
Prima che potessi rispondere, lei mi venne vicino e mi gettò le braccia al collo. Durò solo un attimo, perché poi lei si ritrasse e abbassò lo sguardo, imbarazzata, mentre un lieve rossore le colorava le guance. Si schiarì la gola. «Quindi… uhm… Per oggi abbiamo finito?»
«Sì.» Confermò secco Sean osservandola con le braccia incrociate al petto.
Nathan si alzò e si spolverò i jeans. «Beh, siete tutti vivi: non è andata male.»
Scarlett gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla e si lasciò sfuggire un sorrisetto che lui, con mia sorpresa, ricambiò. Colin invece sospirò e scosse appena la testa borbottando qualcosa.
«Direi che possiamo andare.» Mormorai studiando Nathan: non mi convinceva quel suo atteggiamento così amichevole.
Per una volta, Sean fu d’accordo con me. «Sì, andiamocene.»
Scarlett annuì e si strinse le braccia al petto. Sean non aspetto oltre, si voltò e cominciò a camminare con passo deciso verso la porta da cui eravamo entrati. Se volevamo che quell’alleanza funzionasse, avremmo dovuto essere un po’ meno ostili tra noi e visto che Sean non sembrava intenzionato a farlo, toccava a me.
Mi voltai verso Colin e Brian e cercai di sorridere. «È… è stato un piacere. Sono sicuro che riusciremo a trovare un accordo che soddisfi entrambi.»
Brian ricambiò il sorriso. «Lo credo anch’io.»
Risposi con un breve cenno di assenso prima di incamminarmi lungo il corridoio. Scarlett mi raggiunse dopo aver salutato Nathan in modo un po’ impacciato.
«Matthew!» La voce di Sean risuonò forte e chiara nel corridoio e fece sobbalzare il diretto interessato.
«Uh, sì, arrivo.» Balbettò chiudendo il libro di scatto e affrettandosi a seguirci.

Stava calando la sera, gli ultimi raggi di un sole morente tingevano di rosso il cielo striato di nuvole. Era una giornata ancora limpida nonostante stesse giungendo al termine. Sul sedile del passeggero accanto a me, Sean studiava il paesaggio con aria assorta. Aveva un leggero cipiglio, come se non riuscisse a rilassarsi completamente. O forse era semplicemente la forma delle sue labbra.
Avevo riaccompagnato Scarlett a casa e avrei fatto lo stesso anche con Matthew visto che abitavamo l’uno accanto all’altro, ma lui aveva detto di voler fare due passi e insistere non era servito a fargli cambiare idea. Così eravamo solo io e Sean. Anche se adesso aveva smesso di intimorirmi, dopo che l’avevo messo sotto pressione proponendo l’accordo con i cacciatori ero più cauto con lui e cercavo di non tirare troppo la corda.
Mi aveva detto di portarlo in un quartiere in periferia, ma non avevo capito se ci viveva o se ci avrebbe solo passato la serata. Ovviamente, lui non mi aveva dato dettagli e io non li avevo chiesti. Mi sembrava un po’ strano che non avesse un’auto sua, però sapevo poco della sua vita nel presente quindi forse aveva le sue ragioni.
«Sai, ragazzino, a volte penso che tu sia nato per complicarmi la vita.» Disse all’improvviso riscuotendomi dai miei pensieri.
Sbattei le palpebre per riprendere la concentrazione. «Ah sì?»
Un sorriso per metà amaro e per metà inconsapevole gli incurvò le labbra. «Mi hai praticamente buttato in pasto ai leoni… Dopo quello che ti ho detto…» Scosse la testa fissando il vuoto. «Non so cosa hai in mente, ma non mi piace.»
Trassi un respiro profondo. «Lo so. Ma è necessario. E lo sto facendo proprio per quello che mi hai raccontato sul tuo passato. Non voglio che succeda di nuovo.»
«È tardi per salvare me, ragazzino, dovresti averlo capito.» Replicò lui con voce neutra. «Ma immagino che tu ti preoccupi per lei, eh?»
Non ci fu bisogno di dirne il nome. «Beh, non voglio che passi… Cioè, voglio che sia felice.»
«È giusto desiderare la felicità di qualcuno, però a volte riguarda cose che sfuggono al nostro controllo.» Si voltò verso di me, metà viso in ombra, l’altra metà illuminata dai lampioni. «Non puoi metterti a trattare con tutti i mostri che troverà sulla sua strada.»
Strinsi le labbra. Aveva ragione: era stato solo per un colpo di fortuna se Colin aveva accettato di discutere un possibile accordo, non avevo i mezzi per tenere fuori dalla vita di Scarlett tutti i guai.
Sean si appoggiò allo schienale del sedile contemplando qualcosa fuori dal parabrezza. «Non ti biasimo se vuoi provarci. In fondo, sei giovane, hai tante cose da imparare. E perché non farlo mentre cerchi di proteggere chi ami?»
«Io… io non… non la amo.» Balbettai a disagio.
«Mmh.» Replicò lui e non riuscii a capire se mi credeva o no.
Sospirai chiedendomi se prima o poi sarei riuscito a capirlo e a gestirlo un po’ meglio. Era frustrante non sapere cosa pensava, non poter intuire la sua prossima mossa. Sean era la personificazione della parola “sfuggevole”.
Dopo diversi minuti di silenzio, gli lanciai un’occhiata di sottecchi. «Comunque, non è vero che è troppo tardi per salvarti. Hai venticinque anni, puoi rifarti una vita. Quando questa cosa sarà finita…»
«No, tu non capisci.» Mi interruppe senza guardarmi. «Tu hai qualcuno da cui tornare la sera. Qualcuno per cui valga la pena tornare. È questa la differenza tra me e te.»
Quelle parole bastarono a darmi una motivazione, almeno parziale, a ciò che faceva: lui non aveva paura di rischiare, non gli importava di farlo perché non c’era nessuno che si sarebbe dispiaciuto se non fosse tornato a casa. Non evitava il pericolo perché non aveva un vero e proprio motivo per restare vivo. Si buttava in imprese potenzialmente letali perché anche se fosse morto non sarebbe stata un tragedia per nessuno. Era una verità orribile, me ne rendevo conto, però sembrava che lui l’avesse accettata. Ormai ci aveva fatto i conti, e anche se non era ciò che aveva programmato per sé, non era ciò che aveva sperato, ma sapeva che era la sua vita.
«Puoi ancora cambiare le cose.» Replicai. «Puoi… ricominciare.»
Non rispose, si limitò a fare uno dei suoi mezzi sorrisi senza allegria e a voltarsi verso il finestrino.
Trassi un respiro profondo e cercai di concentrarmi sulla strada: eravamo praticamente arrivati, mancava solo un isolato. Ci trovavamo in un quartiere all’apparenza tranquillo, tutto vecchi negozi e condomini. I lampioni gettavano fasci di luce gialla sulla strada, erano l’unica fonte d’illuminazione visto che ormai era calato il sole.
Accostai l’auto al marciapiede lì dove mi aveva detto Sean. Lui studiò per un attimo la strada, perso nei suoi pensieri, poi sospirò e si passò una mano tra i capelli.
«Tu, ragazzino, sei l’avvocato dei diavolo, ti hanno mandato a difendere una causa persa.» Mormorò prima di scendere dalla macchina chiudendosi la portiera alla spalle.

Cora mugolò cercando di attirare la mia attenzione. Vedendo che non otteneva risultati, appoggiò il muso sul mio ginocchio sbattendo la coda sul pavimento. Sollevai lo sguardo dal libro di scienze e l’accarezzai tra le orecchie. L’avevo portata nel cottage nel bosco con me, quel pomeriggio, perché aveva paura dei temporali e non mi andava di lasciarla sola. Le nuvole scure e gonfie che oscuravano il cielo preannunciavano una tempesta, lei aveva già cominciato ad innervosirsi e visto che se la prendeva con i cuscini quando aveva paura, avevo pensato che un po’ di compagnia l’avrebbe calmata.
La sua presenza, però, non era prevista: ero andato lì per parlare con Sean. In realtà non ci eravamo messi d’accordo per incontrarci, ma sapevamo bene entrambi che dovevamo stabilire i termini dell’alleanza con i cacciatori e che dovevamo farlo insieme: io non ne sapevo molto dei cacciatori o del mondo soprannaturale in generale, lui non era un granché con la diplomazia. Da questo punto di vista ci compensavamo a vicenda.
L’unico problema era che non avevo idea di quando sarebbe venuto, né se l’avrebbe fatto. Era frustrante, ma sapevo che da lui non potevo aspettarmi niente di diverso.
Cora drizzò le orecchie all’improvviso puntando la porta d’ingresso. Un attimo dopo questa si aprì rivelando un Sean piuttosto bagnato. Come al solito, indossava una giacca di pelle e dei jeans. La pioggia gli aveva reso i capelli più scuri e glieli aveva incollati alla pelle.
Chiusi il libro di scienze e mi alzai per andargli incontro. Cora rimase al mio fianco, ma gli abbaiò in segno di avvertimento. Sean inarcò un sopracciglio con aria lievemente sorpresa e inclinò la testa di lato prima di guardarmi in cerca di una spiegazione.
«Ha paura dei temporali.» Dissi stringendomi nelle spalle.
Lui si passò una mano tra i capelli e chiuse la porta senza commentare. Attraversò la stanza e si lasciò cadere sulla poltrona di fianco al divano con un sospiro. Cora seguì attentamente ogni sua mossa cercando di decidere se rappresentava un pericolo o no. Ad essere sincero, neanche io avrei saputo dirlo.
Trassi un respiro profondo e mi sedetti sul divano. «Dobbiamo decidere i termini dell’accordo.»
Si guardò le unghie. «Mmh.»
«Insieme.» Aggiunsi nonostante lo considerassi scontato.
I suoi occhi verde-grigio si posarono su di me. «Se dipendesse da me, li avrei già tolti di mezzo tutti. Questa sottospecie di messinscena pacifica mi sembra inutile.»
«Ma è necessaria. I tuoi metodi porteranno solo ad un altro scontro, ad altri morti, ad altri spargimenti di sangue. E non possiamo permettercelo.» Replicai.
Scosse appena la testa stringendo le labbra. «Non la penso così, però immagino che sia tardi per tornare indietro.»
«Già.» Confermai. «Senti, io non ne so molto di cacciatori, ma tu sì. Ho bisogno di informazioni e ho bisogno che tu collabori con me.»
Aggrottò la fronte. «Lo so. Non mi piace, ma lo so. Quindi… vediamo di tirarcene fuori.» Appoggiò i gomiti sulle ginocchia sporgendosi verso di me. «Che ti serve sapere?»

Non riuscivo ancora a crederci, ma finalmente io e Sean eravamo arrivati ad un accordo. Avevamo trovato un modo per lavorare insieme e lui si era rivelato più disponibile di quanto pensassi. Questo poteva darci una possibilità concreta di fermare i cacciatori.
Parcheggiai l’auto di fronte al loro quartier generale e scesi insieme a Sean: ormai non dovevamo più preoccuparci di nasconderci. O almeno, speravo che fosse così. L’atteggiamento sicuro e distaccato di Sean mi confermava che non stavamo andando incontro ad una minaccia, non nell’immediato comunque.
Appoggiato al muro con aria annoiata c’era Nathan. Indossava dei pantaloni militari verdi e una maglietta grigia a maniche corte. Quando ci vide si raddrizzò e si affacciò dentro.
«Sono arrivati.» Lo sentii dire.
«Una sentinella?» Chiesi sottovoce a Sean.
La sua risposta fu una smorfia appena accennata. Sembra che fosse il suo modo preferito per comunicare. Non era teso, quindi non sospettava un attacco a sorpresa. Mi sembrava un po’ strano basarmi sul suo atteggiamento per capire se eravamo in pericolo o no, ma sapevo che era un metodo molto efficace.
«Non manca qualcuno?» Domandò Nathan quando raggiungemmo la porta.
«No.» Disse secco Sean.
Non riuscii a non alzare gli occhi al cielo a quella sua ennesima dimostrazione di scarsa fiducia. Ne avevamo già parlato, gli avevo detto che detto che doveva mostrarsi più disponibile al dialogo e lui mi aveva risposto con un grugnito irritato.
«Arriveranno più tardi.» Spiegai a Nathan guadagnandomi un’occhiataccia da Sean.
Nathan annuì e un accenno di sorriso gli sollevò un angolo della bocca. «Bene.»
Dopo le lezioni Scarlett era uscita con Elisabeth, ma non voleva comunque rinunciare all’incontro -anche se Sean non la voleva nell’ufficio di Colin-, così Matthew si era offerto di accompagnarla al quartier generale dei cacciatori una volta finito il turno nella farmacia doveva aveva cominciato a lavorare da poco.
Colin e Brian ci aspettavano sulla soglia dell’ufficio, entrambi con indosso semplici jeans e giacche dall’aria vissuta. Non c’era traccia né di Tristan né di Samuel. Non ci fu bisogno di convenevoli, entrammo tutti e quattro chiudendoci la porta alle spalle. Prendemmo posto come la volta prima: io e Sean ad un capo del tavolo, i due cacciatori all’altro.
Brian appoggiò i gomiti sul tavolo e unì le mani. «Dove eravamo rimasti?»
«Abbiamo deciso di provare ad evitare ogni forma di violenza.» Replicai. «E dovevamo discutere dell’accordo.»
Colin, ancora accompagnato dalla stampella, si appoggiò alla sedia e incrociò le braccia al petto. «Giusto. Allora, cosa volete?»
«L’immunità, ovviamente. Il che significa che non potete… ucciderci né ferirci o catturarci.» Cominciai includendomi nel fantomatico branco di Sean più per comodità che per altro. «Nessuno di voi può farlo.»
«È un impegno importante quello che ci chiedete di prendere.» Mi fece notare Colin socchiudendo gli occhi.
«Lo so, ma non si può parlare di alleanza o collaborazione se i tuoi se ne vanno in giro ad uccidere i nostri.» Mi faceva strano parlare di me come se fossi stato un licantropo, ma i cacciatori avevano dato per scontato che lo fossi e Sean mi aveva consigliato di continuare a farglielo credere.
Brian trasse un respiro profondo. «Ha ragione, ma assecondarvi vorrebbe dire andare contro le nostre tradizioni che vanno avanti da molti anni.»
«E che comprendono l’uccisione di innocenti.» Borbottò Sean a voce sufficientemente alta perché i cacciatori lo sentissero.
«Il punto è che non possiamo tollerare quelle che per voi sono… tradizioni.» Mi affrettai a dire. «Non se uccidono i nostri.»
«Quindi dovremmo lasciarvi fare quelle che volete?» Domandò Colin con una certa perplessità.
«Non vi abbiamo mai creato problemi. Ci gestiamo bene.» Ribattei usando il tono più diplomatico che riuscii a trovare.
«Di questo devi dargliene atto, non si sono mai esposti.» Convenne Brian.
«Sì, ma capisci che lasciarvi fare i vostri comodi non rientra nel nostro… protocollo.» Commentò Colin.
«E farci ammazzare non rientra nel nostro.» Ringhiò Sean.
«Perché dobbiamo essere noi a rinunciare alle nostre abitudini?» Insistette Colin con gli occhi grigi fissi su di noi.
«Perché noi abbiamo molto più da perdere.» Replicai sentendo la durezza della mia stessa voce.
Colin mi soppesò con lo sguardo per un attimo prima di fare cenno a Brian di avvicinarsi. Si misero a parlottare tra loro con aria concentrata.
Sean sospirò e si sporse verso di me. «Colin è più restio ad accettare… Ci da la colpa dell’allontanamento della moglie e di conseguenza della figlia… Brian gli dice che non dovrebbe… e che meritiamo una possibilità.» Grazie al suo udito da licantropo riusciva a sentire cosa si stavano dicendo i cacciatori e poteva riferirmelo.
I suoi occhi verde-grigio incontrarono i miei. Al contrario del solito erano attenti e più limpidi. «Possiamo sfruttare Brian, far leva su di lui per raggiungere… qualunque sia il tuo scopo.»
Annuii. «Okay, sì. Possiamo farlo.»
Era strano per tutti e due ritrovarsi d’accordo su qualcosa, ma in fondo era ciò che ci serviva, quindi era meglio non farsi troppe domande e sfruttare quell’intesa molto probabilmente solo momentanea.
Colin tornò ad appoggiare la schiena alla sedia. «Siamo disponibili a venirvi incontro, ma anche voi dovete fare qualche compromesso.»
«Sì, possiamo discuterne.» Concessi. «Ma ci saranno delle condizioni su cui non siamo disposti a cedere.»
«Dovete tenere in considerazione che questa è una cosa mai avvenuta prima, dovremmo cominciare da qualcosa di piccolo e poi vedere se funziona.» Disse Colin.
«Qualcosa di piccolo? Nel senso un solo lupo morto?» Chiesi prima di scuotere la testa. «No, non se ne parla.»
Sean mi lanciò un’occhiata, e mi sembrò di scorgere una scintilla d’orgoglio nel suo sguardo. Un accenno di sorriso gli increspò un angolo della bocca e per un attimo pensai che forse potevamo lavorare molto bene insieme.
Colin si sporse in avanti. «Non possiamo rivoluzionare l’intera tradizione dei cacciatori solo per voi. Non avete tutto questo potere, volendo potremmo uccidervi seduta stante. Ci basta un’arma.»
«Beh, io posso farlo senza.» Commentò Sean con un sorriso che metteva in mostra le zanne. C’era una nota per niente velata di ironia nella sua voce.
L’espressione di Colin si fece turbata: non doveva essere facile venire a patti con chi ti aveva mandato all’ospedale. Soprattutto se quella persona aveva ancora il potere di farti del male.
«Dobbiamo raggiungere un compromesso.» Dissi sperando di sembrare determinato. «E non siamo disposti a permettervi alcuna libertà per quanto riguarda la nostra vita o la nostra morte.»
Sean incrociò le braccia al petto. «In poche parole, vi ascolteremo se ci lascerete vivere. Tutti e quattro.»
«E cosa dovrei dire ai miei cacciatori? Che siamo scesi a patti con il nemico che ho insegnato loro a temere per anni?» Sbottò Colin battendo un pungo sul tavolo.
Non riuscii a trattenere un sussulto a quello scatto di rabbia. Sean invece non ne sembrò assolutamente turbato. Ogni traccia di sarcasmo sparì dal suo viso lasciandovi solo una maschera di fredda insofferenza. «Nessuno ti ha obbligato a dare la caccia ai licantropi, né tantomeno a coinvolgere altre persone.» La sua voce era di ghiaccio, priva di ogni inflessione. «Se adesso non sai gestire la situazione è un tuo problema. Ma non permetterò che tu tocchi il mio branco. Non di nuovo. Non m’importa cosa dovrò fare, tu non alzerai un dito contro di loro. E neanche i tuoi compagni.»
Brian spalancò gli occhi e fischiò sottovoce come in segno di ammirazione. Colin sbiancò di colpo, cosa che mise in risalto le ombre scure che aveva sotto gli occhi.
«Non sono disposto a sopportare oltre. O risolviamo questo cosa nel giro di cinque minuti, o ce ne andiamo.» Aggiunse Sean con quel tono gelido. «Ma voglio farvi una promessa: tornerò da solo e non sarà piacevole. Esattamente come la prima volta.» Detto questo, si appoggiò alla sedia. «A voi la scelta.»
«Questo è un ricatto.» Borbottò Colin accigliandosi.
«Chiamalo come vuoi.» Ribatté Sean stringendosi nelle spalle. «Io la considero sopravvivenza.»
«Colin, sai benissimo che non possiamo competere con loro, non adesso che siamo dimezzati.» Intervenne Brian. «Siamo appena usciti dall’ospedale: come puoi anche solo pensare che possiamo tener loro testa?»
Colin aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Siamo cacciatori, è quello che facciamo da anni.»
«Le cose cambiano. Forse è venuto il momento di darci un taglio.» Insistette Brian con voce calma, come se avesse avuto a che fare con un animale spaventato.  Suonava strano detto da un cacciatore che probabilmente aveva ucciso chissà quanti licantropi, eppure c'era qualcosa in lui che mi spingeva a pensare che volesse farla finita con la caccia, che ormai non ci credesse più.
Colin strinse le labbra e si voltò verso di lui. «Hanno ucciso mio padre e molti altri cacciatori.»
«Non loro.» Gli fece notare Brian. «E poi, l’hanno fatto perché noi li stavamo cacciando. Dovevano pur difendersi, no?»
Io e Sean assistevamo a quello scambio di battute sapendo di poter solo aspettare e vedere cosa sarebbe successo. Intervenire poteva peggiorare la nostra già precaria situazione quindi, nonostante ci fosse la nostra vita in gioco, dovevamo solo attendere.
«Se il tuo piano non va in porto, sappi che farò a modo mio. Non lascerò che tocchino ciò che è mio.» Mi avvertì Sean a bassa voce.
Quelle parole avevano un ulteriore significato: non mi sarei potuto opporre, avevo avuto la mia occasione di evitare uno scontro e se non ci fossi riuscito lui avrebbe avuto carta bianca. Era una situazione che avevo già messo in conto, ma continuava a non piacermi, esattamente come a lui non piaceva la mia idea pacifica.
Avevo provato sulla mia pelle di cosa era capace e potevo solo immaginare cosa avrebbe potuto fare trovandosi di fronte le persone che riteneva colpevoli della morte della sua famiglia e del suo vecchio branco. L’ombra che si intravedeva in fondo ai suoi occhi confermava la mia teoria.
«Lo so.» Mormorai mio malgrado.
«Mi serve del tempo per riflettere.» Dichiarò Colin.
«Non possiamo lasciare le cose a metà. Non siamo giunti a niente oggi.» Protestai.
Lui fece un gesto vago con la mano. «Devo pensare.»
Spostai lo sguardo su Brian in cerca di supporto. Lui sospirò e mi rivolse un debole sorriso fiaccato dalle rughe e dall’espressione stanca. «Ci rincontreremo tra un paio di giorni, vi va bene?»
Lanciai un’occhiata a Sean, che scrollò le spalle con aria indifferente.
«Basta che non ci mettiate troppo.» Commentò.
«Va bene.» Risposi tornando a guardare Brian. «Come ci mettiamo d’accordo?»
«Ve lo farò sapere quando avremo deciso. Useremo un… intermediario.» Spiegò lui.
«Se è armato non tornerà a casa.» Chiarì Sean alzando il mento in segno di sfida.
«Non lo sarà.» Promise Brian guardandolo negli occhi.
Sean non mostrò nessuna emozione, rimase impassibile, cosa che gli riusciva molto bene, e fissò Brian abbastanza a lungo da indurlo ad abbassare lo sguardo.
«Potete andare.» Intervenne Colin senza guardarci e facendo un gesto vago con la mano.
Sean scattò in piedi rischiando di rovesciare la sedia. Gli lanciai un’occhiata sorpresa che lui ricambiò per un attimo prima di voltarsi verso i cacciatori. Aveva la mascella contratta, il respiro spezzato e l’aria di essere al limite della sopportazione. Mi alzai anch’io e per un attimo provai l’impulso di mettergli una mano sul braccio e tranquillizzarlo, ma mi bloccai: uno come lui non avrebbe gradito. Anzi, c’erano buone probabilità che mettesse in atto una delle sue tante minacce.
Questo, oltre a dimostrare la mia teoria su quanto fosse ancora turbato dai dolori del passato, creava un ulteriore problema: stavamo cercando di scendere a patti con i cacciatori, le persone che odiava di più al mondo, quindi era più che normale che il suo rancore e la sua rabbia stessero crescendo. Il che significava che sarebbe stato più suscettibile di quanto non fosse già e io mi sarei dovuto impegnare il doppio per evitare uno scontro, o comunque l’uso della violenza, da entrambe le parti.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Di nuovo in ritardo, ma ho aggiornato. Giovedì, ovvero il 15 ricomincerò la scuola quindi può darsi che passi più tempo tra un aggiornamento e l'altro - questo ovviamente vale anche per SIN - ma vi prometto che arriveranno, sempre e comunque.
In questo capitolo ho voluto farvi dare uno sguardo più interno a quelle che sono le trattative tra cacciatori e licantropi. E anche al rapporto che si sta creando piano piano tra Sean e Adam: la fiducia manca ancora, ma sembra che siano sulla buona strada per trovare un'intesa.
A proposito, volevo chiedervi: come li vedete Scarlett e Nathan insieme? Sì, lo so, ora è troppo presto e c'è Adam, ma in futuro? E invece Adam e Sean?
Messi così sembrano coppie campate per aria, soprattutto visto che in pratica il rapporto tra gli Adamett è stato la colonna portante della storia fino ad ora, ma in un possibile sequel in cui avessero spazio di crescere e approfondirsi?
Sì, l'idea di un sequel ce l'ho già in mente da un po' e parlandone con quella santa - anche se malvagia e ansiogena - di Christine23 sto cominciando a mettere in fila le idee. Per adesso è ancora molto vaga come cosa, ma mai dire mai.
Vi lascio che sto scrivendo un papiro e spero di ricevere i vostri pareri. A presto!

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Capitolo 35
*** 35. Scarlett ***


Under a Paper Moon- capitolo 35



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35. Scarlett



Molte delle leggende che avevo letto sui licantropi - perché sì, l’avevo fatto ed ero rimasta molto sorpresa dalla fantasia delle gente che le aveva scritte - ci descrivono come creature mostruose, demoniache, crudeli e incapaci di provare pietà o rimorso. Perfette macchine per uccidere, bestie feroci assetate di sangue.
Io però mi sentivo più un cucciolo spaventato all’idea di incontrare Elisabeth per parlare della mia… del mio rapporto con Adam. Rapporto a cui neanche io sapevo dare un nome, tra l’altro. Avevamo superato la fase dei nemici e anche quella dei conoscenti, ma non avevo idea di cosa fossimo adesso l’uno per l’altra.
Mi misi a contare i mattoni dell’edificio dall’altra parte della strada per cercare di calmare la mia mente in tumulto. Le avevo dato appuntamento nel suo locale preferito, un caffè vintage con i tavolini in ferro battuto, le tazze da tè in ceramica dipinta e musica jazz in sottofondo. Sapevo che era solo una strategia per ingraziarmela, ma ero davvero in ansia all’idea di parlarle di nuovo di quell’argomento. Dopo che le avevo detto che io e Adam ci vedevamo ci eravamo a stento rivolte la parola, io per paura e lei per rabbia.
Avevo contato centododici mattoni quando vidi Elisabeth avvicinarsi. Mi pietrificai lì sul marciapiede, con lo zaino appeso ad una spalla e un ciuffo di capelli che continuava a finirmi sugli occhi. Beth invece era impeccabile, come sempre: jeans attillati, camicetta di seta, la chioma scura domata in boccoli morbidi che le accarezzavano le spalle. Anche il viso era perfetto, la pelle resa luminosa dal fondotinta, le labbra colorate da un rossetto chiaro e le ciglia sottolineate dal mascara. L’avevo sempre ammirata per la sua capacità di esaltare la propria bellezza con poche, semplici mosse.
Mi schiarii la gola tentando di non sembrare nel panico com’ero in realtà. «Ehi.»
Un angolo della sua bocca si contrasse in una piccola smorfia. «Ehi.»
Soffiai via una ciocca di capelli che mi cadeva sul viso. «Vogliamo… vogliamo entrare?»
Mi fece un segno d’assenso breve e composto, degno di una regina, prima di varcare la soglia del locale facendo tintinnare le campanelle appese sopra la porta. La seguii a testa bassa sforzandomi di trovare le parole giuste per chiederle scusa. Prendemmo posto ad un tavolino piuttosto appartato con un vaso di margherite come centrotavola. Quasi subito, un cameriere passò a lasciarci i menù. Io ne presi uno e lo usai per coprirmi il viso mentre facevo respiri profondi; nel frattempo Beth sfogliava l’altro con aria distratta.
Quando il cameriere ricomparve, lei ordinò un tè verde freddo mentre io, colta da un inspiegabile panico, finii per esclamare la prima cosa che lessi sul menù, ovvero una tisana diuretica al rosmarino che mi fece guadagnare un’occhiata sorpresa dalla mia migliore amica.
«Mi dispiace un sacco, Beth, davvero» Dissi di slancio non appena il cameriere si fu allontanato. «Non avrei mai voluto che tu lo scoprissi così, per caso. Solo che non avevo la più pallida idea di come dirtelo.»
Lei sospirò appoggiando le braccia al bordo del tavolo. «Senti, non sono arrabbiata con te. Lo sono stata, mi sono sentita tradita, ma… non sopporto l’idea che, anche adesso che abbiamo rotto, Adam abbia un tale potere sulla mia vita.»
La guardai con gli occhi spalancati, in attesa che continuasse. Non osavo dire niente.
«Non ha funzionato tra me e lui.» Riprese Beth. «Ma questo non significa che non debba funzionare anche tra me e te. Voglio dire, ti conosco da tutta la vita, so che non ti metteresti mai con il mio ragazzo per ferirmi. Andiamo, so anche che da piccola facevi il bagno al mare senza costume perché non volevi bagnarlo.»
Non riuscii a fare a meno di sorridere. Abbassai lo sguardo giocherellando con l’anello che portavo al dito. «Sì, beh, è pur sempre un indumento, no?»
Anche lei si concesse un piccolo sorriso. «Immagino di sì. Sai, riflettendoci ho capito di essermi presa una cotta non tanto per Adam, quanto per il suo aspetto. Volevo un ragazzo bello e lui lo era. Ma a livello di carattere non avevamo molto da condividere.»
«È un tipo complesso.» Convenni pensando che quella parola fosse fin troppo riduttiva per descrivere Adam. Era sì complesso, ma era anche mille altre cose.
«Toglimi una curiosità.» Mi disse Beth non appena il cameriere se ne andò dopo aver posato le nostre ordinazioni sul tavolo. «Vuoi due state insieme?»
Mi lasciai sfuggire una smorfia, un po’ per la domanda, un po’ per il nauseante odore di rosmarino della mia tisana. «Uhm… domanda di riserva?»
Lei sembrò sorpresa. «Ma qualche settimana fa mi avevi detto…»
«Lo so cosa ti ho detto, solo che… lo trovo davvero carino e piacevole e interessante, ma…» La mia voce si spense.
«Non c’è stata la scintilla?» Domandò Beth prendendo un sorso del suo tè.
Io fissavo accigliata il mio mentre la mia mente lavorava frenetica per rimettere tutti i pezzi al loro posto e dare un senso a quello che mi si agitava nel petto. «La scintilla c’è stata, perché non mi era mai successo di trovarmi così a mio agio con qualcuno, di… mmh, di entrare in sintonia così tanto con qualcuno. Però non sono sicura che sia quella scintilla.»
«Quindi lui ti piace, ma non sai se ti piace e basta, o ti piace piace?» Riassunse lei.
Annuii, ammirata dalla sua capacità di deduzione: io stessa non avevo idea di cosa diavolo volessi dire. «Esatto. Non vorrei mettermi con lui e poi scoprire che non funziona. Ci tengo troppo al nostro rapporto per vederlo rovinato.»
Beth abbassò lo sguardo scuotendo piano la testa. «E io che pensavo che ti fossi presa una semplice cotta per lui… Tu ci tieni sul serio.»
La guardai sbattendo le palpebre. «Sì.» Mormorai prendendone consapevolezza io stessa. «Assolutamente. Eccome se ci tengo a lui. Semplicemente non me ne rendevo conto, pensavo che fosse qualcosa di meno… profondo.»
«Senti, qualunque cosa tu scelga di fare, avrai il mio appoggio.» Disse lei allungando una mano per stringere la mia. «Ti voglio troppo bene per tenerti il muso per una cosa così sciocca. Mi ero arrabbiata perché pensavo che tu mi stessi rubando il ragazzo, non ho minimamente preso in considerazione l’idea che lui potesse piacerti in un senso diverso.»
«Pensavi che volessi portarmelo a letto?» Sintetizzai.
Lei inarcò entrambe le sopracciglia annuendo. «Esatto! Ne ero convintissima. Ti rendi conto? Dovrei sapere che tu non sei così, ti conosco da una vita.»
«Stavi difendendo il territorio, Beth, non preoccuparti.» La tranquillizzai ricambiando la stretta. «E poi, era una situazione molto equivoca considerando il fatto che nemmeno io sapevo cosa stava succedendo.»
Sospirò pesantemente. «Sai cosa? Sto cominciando a stancarmi dei ragazzi, delle relazioni… sono troppo complicate. Dovremmo mollarle completamente.»
«Finché non troviamo un altro bel ragazzo e ci prendiamo una cotta.» Conclusi io per lei con uno sbuffo amareggiato. «Nel frattempo possiamo mangiare della cioccolata però.»
«Qui fanno una torta lamponi e cioccolato meravigliosa.» Convenne lei prima di richiamare il cameriere con un cenno. Quando lui raggiunse il nostro tavolo proclamò con aria decisa: «Due fette di torta al cioccolato con lamponi, per favore.»
Lui annuì e accennò un sorriso nella direzione di Beth. «Subito.»
Mi appoggiai alla sedia, sollevata, mentre si allontanava. Parlare con Elisabeth aveva un effetto terapeutico, riusciva a sbrogliare i miei pensieri intricati e a dar loro un senso. Era un peccato non poterle raccontare anche di Sean, del branco, dei cacciatori, di Nathan… Se avessi cominciato a parlare anche del lato soprannaturale della mia vita non avrei più smesso.
«Oh, Scarlett, tesoro, perché hai preso una tisana al rosmarino? Tu odi il rosmarino.» Commentò Beth richiamandomi alla realtà.
Scoccai un’occhiata schifata al contenuto della mia tazza. «Sì, hai ragione. Ma ero nel panico.»
Elisabeth sorrise scuotendo la testa. «Sei completamente fuori di testa, lo sai, vero?»
Giocherellai con la collana che portavo stringendomi nelle spalle. «Beh…»
«Ma ti adoro anche per questo.» Aggiunse lei facendomi sorridere.
In quel momento il cameriere tornò al nostro tavolo con le due fette di torta, che ci posò davanti. «Ecco a voi, signorine. Spero sia di vostro gradimento.»
Elisabeth infilzò un lampone con la forchetta e se lo mise in bocca ammiccando nella sua direzione. «Ti faremo sapere.»

Essendo un licantropo, avrei dovuto essere abituata alle stranezze, ma non era assolutamente così. O meglio, non mi prendeva un colpo se mi vedevo con gli occhi dorati e le zanne, questo no, però non riuscivo a non rimanere un po’ sorpresa di me stessa quando mi ritrovavo a ridere e scherzare con un cacciatore.
In realtà Nathan mi aveva chiesto di non pensare a lui come un cacciatore: voleva lasciarsi alle spalle quella vita, ricominciare.
Mi strinsi le ginocchia al petto e ci posai il mento mentre lui faceva un gesto vago con la mano per sottolineare un concetto. Sorrisi inconsapevolmente e lo fece anche lui aggrottando nello stesso tempo la fronte come a chiedere spiegazioni.
«Niente, è solo… Insomma, è strano che io e te andiamo d’accordo, no?» Chiesi.
«So essere piuttosto antipatico a volte, questo te lo concedo, ma che c’è di così strano?» Replicò osservandomi con aria incuriosita.
«Siamo preda e cacciatore, okay? È come se un leone e una gazzella uscissero insieme.» Risposi stringendomi nelle spalle.
Si mise a ridere e scosse la testa. «Fammi capire, io sono il leone e tu la gazzella? Non torna: sei tu quella con zanne e artigli, non io.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non hai mai sentito parlare di metafore?»
«Forse.» Convenne. «Ma ormai io non sono più un cacciatore. O meglio, in via ufficiale sì, però sarà ancora per poco.»
«Quindi sei sicuro di volerlo fare?» Domandai tornando seria.
Annuì fissando il muro davanti a sé. «Sì. Voglio lasciarmi alle spalle l’addestramento, le armi, questo posto inquietante.» Rabbrividì. «Non sopporterei oltre quello che fanno.»
«Se il piano di Adam funziona non faranno più niente.» Commentai.
«Lo spero.» Mormorò con un sospiro.
In quel momento la porta dell’ufficio di Colin si aprì rivelando un Sean rabbioso, tanto per cambiare, e un Adam dall’aria stanca. Subito dopo di loro vennero Brian e Colin, quest’ultimo ancora appoggiato alla stampella.
Mi alzai dal pavimento seguita da Nathan. Anche Matthew, appoggiato al muro poco più giù con un libro in mano, riportò l’attenzione su quello che stava succedendo.
«Allora?» Chiesi impaziente e anche preoccupata: le loro facce non promettevano niente di buono.
«Serve un altro incontro. O forse più di uno.» Spiegò Adam prima di mordersi il labbro inferiore.
Poteva andare peggio. Molto peggio: Colin poteva decidere di cacciarci, nel senso letterale della parola, e a quel punto sarebbero stati guai molto seri.
Abbozzai un sorriso. «Bene. Credo.»
Eppure l’espressione cupa di Sean e quella turbata di Adam non davano l’impressione che le cose stessero andando per il verso giusto.

L’avevo osservato per tutto il viaggio di ritorno senza preoccuparmi troppo del fatto che potesse accorgersene. Nel complesso era rilassato, solo il fatto che continuasse a mordersi il labbro e che avesse l’aria un po’ assente tradivano la realtà: c’era qualcosa che lo impensieriva. Avevo escluso Sean a prescindere perché, nonostante i loro screzi continui, si erano abituati l’uno all’altro e non si influenzavano più così tanto. A volte sembravano quasi apprezzare la presenza dell’altro.
Era più che probabile che fosse per via di Colin e dell’accordo che fosse tanto assorto. Lo era di suo, non era la prima volta che lo beccavo distratto, perso nelle sue riflessioni, ma adesso sembrava che fosse qualcosa di più importante.
«Sei un po’ inquietante, sai?» Disse all’improvviso facendomi sussultare. «Continui a fissarmi con quell’espressione indagatrice come se volessi leggermi nel pensiero.»
Feci un gesto vago con la mano, quasi a voler scacciare un insetto. «Macché, ti sembro il tipo? Stavo solo… uh, pensando.»
Mi lanciò un’occhiata di sottecchi, le pagliuzze dorate nelle sue iridi accese dalla luce del sole. «Ah sì? E a cosa?»
«Beh… Mi sono chiesta se per caso tu avessi un momento libero per… passare da me. Così, sai, giusto per.» Risposi fingendo noncuranza.
In realtà ci speravo, anche perché volevo tranquillizzarlo un po’ e cercare di scoprire cosa lo turbasse tanto. Per rinforzare il mio disinteresse riguardo la mia stessa proposta, mi risistemai i capelli e scrollai le spalle.
Ovviamente, lui non mi credette neanche per un attimo. «Giusto per?» Ripeté studiandomi per qualche secondo prima di riportare lo sguardo sulla strada.
«Già.» Confermai e la mia voce suonò un po’ troppo acuta, così mi schiarii la gola. «Cioè, se non ti va puoi andare, non mi offendo.»
Tamburellò distrattamente sul volante. «Vengo.»
Sentii un sorriso nascermi sulle labbra. Mi affrettai a stringerle per nasconderlo. «Bene.»
Sorrise anche lui pur senza guardarmi. «Immagino di sì.»

Ci volle meno di quanto pensassi per arrivare a casa mia e io mi ritrovai ad essere impaziente di averlo tutto per me dopo tutto quel tempo che aveva passato diviso tra Sean e i cacciatori.
Camminammo fianco a fianco fino alla porta d’ingresso chiacchierando un po’ di tutto con leggerezza. Mi ero quasi dimenticata quanto mi venisse facile parlare con lui, ma soprattutto quanto mi piacesse. Dopo aver litigato con la serratura per un minuto buono, riuscii ad aprire la porta. Lui sorrise di fronte alla mia goffaggine, ma era uno di quei sorrisi teneri, come quelli delle madri che guardano i propri figli giocare.
Gli feci strada in salotto, probabilmente la stanza più luminosa e accogliente della casa, e mi sedetti a gambe incrociate sul divano. Lui si lasciò cadere accanto a me con un sospiro che tradiva una certa stanchezza. Mossa da un’improvvisa preoccupazione, gli presi una mano tra le mie osservandolo attentamente.
«Come va?» Chiesi cauta alludendo all’accordo con i cacciatori.
Chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire una smorfia. «È più complicato del previsto. Sapevo che era una mossa azzardata, ma non credevo fosse così… impegnativo mettere tutti d’accordo.»
Abbassai lo sguardo e feci scivolare le dita sulla parte interna del suo polso, lì dove la pelle chiara lasciava intravedere le vene sottili di un pallido azzurro. «Te la stai cavando bene, però. Per ora siete tutti vivi. E poi… è una cosa molto grande e nuova, è normale che ci siano delle complicazioni.»
«Già, per ora la tensione non è troppa. E spero che resti così.» Un mezzo sorriso gli incurvò le labbra. «Non avrei mai pensato di finire a fare l’avvocato del diavolo.»
Aggrottai la fronte, confusa. «Avvocato del diavolo? Ti riferisci a Sean?»
«No.» Rispose sfiorando l’anello argentato che portavo all’indice. «In realtà è stato lui a definirmi così. Credo che consideri questo tentativo di alleanza una causa già persa e che pensi di dover intervenire con i suoi metodi.»
«Tu che ne pensi invece?» Domandai studiandolo di sottecchi e continuando, nello stesso tempo, a far correre le dita sulla sua pelle.
«Penso che abbiamo una possibilità. Piccola, ma c’è: Brian è più propenso ad ascoltarci quindi se sfruttiamo lui dovremmo riuscire a convincere anche Colin.» Spiegò.
Annuii, sollevata. «È una buona notizia.»
Spostò lo sguardo su di me. «Sì, un’ottima notizia direi. Dobbiamo solo capire come fare.»
«Che cos’hai in mente di preciso? Cioè, in un accordo ci vogliono dei vantaggi per entrambe le parti, no?» Chiesi inclinando la testa di lato.
«Beh, sì.» Convenne. «Pensavo di dare l’immunità ad entrambi: loro non posso uccidere noi e noi, o meglio, Sean non può uccidere loro.»
«Mi sembra giusto e… uh, conveniente per tutti.» Commentai. «Perché Colin non cede?»
Sospirò. «Perché ci da la colpa del divorzio da sua moglie e perché pensa che sia un cambiamento troppo grande da fare tutto insieme.»
Aggrottai la fronte. «Dovremmo procedere per gradi, secondo lui?»
«Non saprei dirti cosa vuole. Non credo lo sappia nemmeno lui. È arrabbiato e frustrato, non vuole darcela vinta, ma sa di non potere niente contro Sean.» Replicò stringendosi nelle spalle.
Appoggiai la schiena la divano. «Si arrenderà prima o poi, non può certo continuare a tirarla per le lunghe così. Non con Sean.»
«Già. Spero se ne accorga presto.» Mormorò prima di stringere le labbra.
Pur con una certa esitazione, mi accoccolai contro di lui con la testa sulla sua spalla e le ginocchia strette al petto. «Lo spero anch’io.»
Mi sfiorò una guancia con la punta delle dita per poi infilarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Sentii un brivido scendermi lungo la spina dorsale a quel contatto e sperai che lui non se ne accorgesse. Mi sollevò con dolcezza il mento per fare in modo che i nostri sguardi si incrociassero. Le sue iridi, di quel blu tanto particolare, erano illuminate dai raggi del sole che filtravano dalla finestra che le rendeva un po’ più chiare del solito e che ne accentuava le pagliuzze dorate.
Si chinò su di me e mi baciò piano sulla bocca facendomi trattenere il fiato. Fu un bacio morbido, delicato, un bacio da Adam che lo rispecchiava per l’attenzione che metteva nel curare i rapporti con le persone.
Si scostò da me rimanendomi comunque vicino, il suo respiro tiepido che si mischiava al mio. Appoggiai la fronte alla sua mentre lui cercava la mia mano per poi intrecciare le dita con le mie.

Ogni volta che ci tornavo aumentava la mia convinzione che avrei voluto vivere lì. Il cottage nel bosco era una specie di oasi silenziosa e tranquilla immersa nel verde. Mi faceva sentire rilassata e in pace con me stessa e con il resto del mondo. Ma non mi aiutava a concentrarmi sui compiti. In fondo, i miracoli erano quasi impossibili.
Avevo lasciato perdere chimica quasi mezz’ora prima e adesso ero seduta sui gradini del portico ad ammirare gli alberi intorno a me cercando di ignorare la vocina nella mia mente che insisteva perché tornassi a concentrarmi sui libri. Se ci fosse stato Adam con me probabilmente mi sarei impegnata di più, sia perché lui non mi avrebbe lasciata uscire, sia perché un po’ ci tenevo a fare bella figura, ma lui non c’era quindi potevo prendermela una pausa, no?
Era una bella giornata scaldata da timidi raggi di sole, il cielo era limpido, di un bell’azzurro carico. Il verde degli alberi era luminoso, sembrava quasi brillare a quella luce soffusa. L'idea di chiudermi in casa in mezzo a strambe formule mi sembrava profondamente sbagliata con un tempo del genere.
Chiusi gli occhi godendomi il calore del sole. Per poi sussultare un attimo dopo quando sentii un rumore di passi lievi che si avvicinavano. Si sentivano appena sul terreno morbido, ma grazie al mio udito da lupo li avevo intercettati subito. Sollevai cauta le palpebre sentendo i muscoli tendersi. In fondo, l’accordo con i cacciatori non era concluso: chi mi garantiva che non sarebbero tornati a finire il lavoro?
Invece vidi Sean che mi veniva incontro con le mani nelle tasche dei jeans scuri, lo sguardo basso perso in chissà quale pensiero. Indossava una maglietta blu e la sua solita giacca di pelle. Sospettavo che fosse parte di lui, una specie di seconda pelle.
Sollevò lo sguardo e, quando mi vide, sembrò lievemente sorpreso. «Scarlett.»
Alzai una mano in segno di saluto. «Ehi.»
«Che ci fai qui?» Chiese fermandosi all’inizio della scala.
«Fingo di non dover fare i compiti di chimica.» Risposi. «Tu?»
«Cercavo Adam. Sai, l’accordo…» Replicò spostando gli occhi sul terreno.
Annuii. «Già. Mi ha detto che sta andando abbastanza bene.»
Si strinse nelle spalle. «Dipende dai punti di vista.»
Sapevo che lui avrebbe preferito fare piazza pulita dei cacciatori così come sapevo che Adam si era opposto fermamente a quell’idea. Ammiravo quel suo modo di pensare così categorico e coerente, ma Sean sembrava pensarla diversamente. Si erano scontrati davvero molto spesso su quella questione, alzando anche la voce, eppure avevo notato che entrambi rispettavano l’altro senza eccezioni.
Mi accorsi che Sean mi stava osservando con la sua solita espressione indecifrabile. Nonostante questo, i suoi occhi sembravano essersi incupiti. Era una cosa che succedeva quasi ogni volta che si posavano su di me. Forse rimpiangeva di avermi morso perché si era reso conto che non ero abbastanza forte, oppure gli facevo pena.
Sospirò e strinse le labbra. «Come stai?»
La sua domanda mi sorprese, ma cercai di non darlo a vedere per non offenderlo. «Bene. Sono un po’ preoccupata per questa storia dell’alleanza, ma per il resto è tutto okay.» Lo studiai di sottecchi. «Tu invece?»
Non si preoccupò di nascondere il suo stupore. «Io… uhm, sto bene. Sì, insomma, perché non dovrei?»
«Era solo per sapere.» Replicai con voce dolce. «Sai, per fare conversazione.»
Aggrottò la fronte. «Mmh.»
Mi morsi il labbro stringendomi le braccia al petto. Si vedeva lontano un miglio che non era abituato ad avere qualcuno che si preoccupava per lui, ormai la solitudine era parte di lui. «Quindi… vuoi dargli una possibilità. Ad Adam intendo.»
Sospirò. «Sì. Non mi piace per niente il suo piano, ma… potrebbe comportare dei vantaggi.»
«Vorresti… cioè, tu avevi altro in mente per i cacciatori?» Chiesi pur conoscendo già la risposta.
Sollevò lo sguardo su di me. «Sì. Ma ho fatto una promessa e io mantengo le promesse.»
Aggrottai la fronte. «Che promessa?»
«Adam mi ha fatto giurare che non userò la violenza. A meno che, ovviamente, uno di noi non sia in pericolo di vita.» Replicò per poi lasciarsi sfuggire una smorfia. «Gli ho comunque detto che, se il suo piano fallisce, farò a modo mio. E lui non potrà intervenire.»
«Beh, è rischioso, ma forse è giusto provare un altro tipo d’approccio, no?» Gli feci notare.
La sua espressione era indecifrabile. «Non sottovalutarli, Scarlett.»
«Non lo sto facendo, so di cosa sono capaci. Ma… magari è giunto il momento di concludere questa faida.» Commentai sentendomi un po’ in soggezione di fronte al suo sguardo indagatore.
«Sei così giovane…» Mormorò scuotendo la testa mentre un accenno di sorriso gli sfiorava le labbra.
Socchiusi gli occhi, sospettosa: non mi piaceva sentirmi dire che ero troppo piccola per capire qualcosa. «E questo che vorrebbe dire?»
Mi osservò con quei suoi occhi verde-grigio. «Che devi ancora fare molte esperienze. O forse sono io quello troppo ancorato al passato.»
Quelle parole mi fecero tornare in mente qualcosa che avevo quasi dimenticato. «Mi dispiace per Isaiah.»
La sua espressione non cambiò minimamente, ma nei suoi occhi scorsi un’ombra. «Appartiene al passato. E poi…» Si strinse nelle spalle. «Non l’ho mai conosciuto.»
Annuii appena prima di abbassare lo sguardo. Dannazione, era incredibile il modo in cui riusciva a dominare le emozioni, a non lasciar trasparire assolutamente niente. La prima volta che avevo chiesto di Isaiah aveva avuto una brutta reazione, ma adesso non sembrava neanche che la sua morte lo toccasse. Riflettendoci meglio, l’unica persona in grado di scatenare qualcosa in lui, di scuotere la sua calma glaciale era proprio Adam.
«Ti è rimasta la cicatrice?» Domandò all’improvviso facendomi alzare gli occhi: si era appoggiato alla ringhiera delle scale e mi studiava, per una volta senza il suo solito cipiglio cupo.
Mi ci volle qualche secondo per capire che si riferiva alla ferita lasciata dal proiettile dei cacciatori. «Sì. Però è piccola, quasi non si vede: Matthew ha fatto un buon lavoro.» Risposi ripensando al segno bianco che mi era rimasto sul fianco.
«Ne ho una anch’io.» Rivelò incrociando le braccia al petto. «E avrei voluto essere l’unico del mio branco con uno sfregio del genere.»
«Non è proprio uno sfregio… E poi, sai come si dice, no? Quel che non ti uccide ti fortifica.» Ribattei.
«Ma che succede se ti lascia una ferita che non sai guarire?» Chiese con voce bassa, controllata.
Esitai, sorpresa dalla piega che stava prendendo quella conversazione. «Beh… Cerchi di andare avanti comunque, credo. È nella nostra natura continuare a lottare.»
Trasse un respiro profondo. «Immagino di sì.» Chinò la testa aggrottando la fronte. «Mi dispiace essere sparito così. Io sono nato licantropo quindi non so cosa si prova, ma essere trasformati senza una spiegazione dev’essere... pesante.»
«Lo shock iniziale è molto tosto, ma col tempo riesci ad abituarti, almeno in parte.» Risposi.
Quando tornò a guardarmi c’era di nuovo quell’ombra nei suoi occhi. «Se c’è qualcosa che posso fare per te… devi solo chiedere. In fondo, sei una mia responsabilità.»
Sorrisi spontaneamente, senza quasi accorgermene. «Grazie. Davvero, è… un bel gesto da parte tua.»
Sembrò sorpreso, ma poi un sorriso timido si affacciò sulle sue labbra. «Di nulla.»
Abbassai lo sguardo mordicchiandomi un’unghia. «In realtà una cosa ci sarebbe.»
«Dimmi.» Replicò con una nota più gentile nella voce.
«Ecco, Adam è l’unico… non soprannaturale di noi. Quindi è anche quello più… a rischio: non ha capacità speciali di guarigione o roba del genere.» Spiegai imponendomi di non gesticolare.
Socchiuse gli occhi. «Lo so.» «Volevo chiederti di tenerlo d’occhio. Si sta esponendo molto con i cacciatori e non vorrei che gli succedesse qualcosa.» Lo guardai. «Tu li metti in soggezione quindi magari puoi evitare che si cacci nei guai.»
«Non posso proteggere chi non vuole farsi proteggere.» Commentò lui. «Adam è tra due fuochi adesso: il soprannaturale e chi vuole distruggerlo. Anche volendo posso fare poco, soprattutto perché non mi da retta. E poi sembra avere una capacità innata per infilarsi in situazioni pericolose e scomode.»
«Lo so, ma puoi almeno provarci?» Insistetti cercando di assumere un’espressione da cucciolo bastonato come quella che usava Beth. Non ero molto sicura che potesse funzionare con Sean, ma un tentativo non mi avrebbe uccisa.
Arricciò appena le labbra in una smorfia. «Sa cavarsela da solo. Voglio dire, anche se mi fa saltare i nervi ogni volta che parliamo, è furbo. Non si farà cogliere impreparato.»
«Può essere bravo con le parole, ma non ha gli artigli o le zanne.» Gli feci notare.
«Contro una pistola possono poco.» Borbottò incupendosi.
Strinsi le labbra. «Per favore, Sean. Almeno dimmi che lo terrai d’occhio, solo questo.»
I suoi occhi, freddi eppure intensi, tornarono nei miei. «D’accordo. Ti prometto che lo farò.»
Il nodo di tensione che avevo nel petto si sciolse appena e sentii un sorriso farsi strada sul mio viso. «Grazie mille.»
Scosse la testa e sospirò. «Tu e quel ragazzino mi farete impazzire prima o poi.»
Feci un gesto vago con la mano, come a scacciare quella possibilità. «Chi, noi? Ma figurati, siamo degli angioletti.»
Inarcò un sopracciglio, ma non commentò. Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso che rese i suoi occhi un po’ più limpidi. «C’è una cosa che volevo dirti.»
«Okay, dimmi pure.» Replicai piuttosto incuriosita.
«Il prossimo plenilunio lo passerai con me.» Disse senza scomporsi.
Rimasi a bocca aperta. «Cosa? P-perché?»
«Perché sì.» Rispose semplicemente.
«Ma… in tutti questi anni ho fatto da sola…» Balbettai ancora incredula.
«Lo so, però adesso è diverso. Il mio odore potrebbe destabilizzarti, non sei abituata ad avere altri licantropi intorno.» Spiegò con voce calma. «E poi, voglio vedere come te la cavi. In fondo, sono il tuo Alfa.»
Esitai, confusa e spaesata. Sapevo che Sean era il mio capobranco, solo che non ci avevo mai pensato troppo. Anzi, era una verità che avevo un po’ trascurato. E adesso mi ritrovavo a doverci fare i conti: avrei dovuto mostrargli un lato di me che mi spaventava e mi innervosiva, avrei passato con lui un’intera notte e non una notte qualunque, bensì quella di luna piena.
Vedendomi in difficoltà, Sean addolcì lo sguardo. «Non devi preoccuparti, ho qualche anno di esperienza alle spalle. Posso insegnarti a controllarti, a non rappresentare più un pericolo per nessuno.»
«Puoi farlo davvero?» Chiesi, sorpresa, ma anche speranzosa.
«Certo.» Confermò. «Te la caverai bene.»
Mi rabbuiai e mi strinsi le braccia al petto. «Come fai a dirlo?»
«Un capobranco conosce i suoi lupi.» Replicò alzando il mento.
«Oh, non cominciare a fare il misterioso.» Sbottai guardandolo di traverso.
Un sorrisetto gli incurvò le labbra. «Devi solo fidarti di me, Scarlett. Puoi farlo?»
Trassi un respiro profondo ed espirai lentamente, combattuta. Lo conoscevo da così poco… E poi era lui quello che mi aveva sconvolto la vita trasformandomi in un licantropo. Eppure non riuscivo ad odiarlo, né tanto meno a vederlo come un pericolo.
«Sì, posso farlo.» Le parole mi uscirono di bocca senza che fossi stata io a deciderlo, ma appena le pronunciai ebbi la certezza che credevo veramente in quello che stavo dicendo. «Posso fidarmi di te.»


SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Questo aggiornamento arriva un po', in ritardo purtroppo, avrie voluto pubblicare prima, ma le ultime settimane sono state abbastanza piene.
Prima di tutto volevo chiarire una cosa: nell'avviso dello scorso capitolo ho scritto che avevo in mente un sequel dove le coppie della storia sarebbero cambiare. Non è una scelta fatta senza pensare, io stessa mi sono affezionata moltissimo agli Adamett e non voglio assolutamente buttare il percorso che hanno compiuto insieme in questa storia, ma sono entrambi giovani, e a quest'età è piuttosto normale essere confusi su cosa si vuole e cambiare idea, anche sperimentare per cercare di capirsi meglio. Se dovessi scrivere e pubblicare questo sequel, posso garantirvi che presterei la massima attenzione nel curare questi cambiamenti. Come ho già detto, sono due personaggi a cui tengo e anche se mi piace l'idea di far entrare in gioco in modo più attivo anche Sean e Nathan, non sarà mai una cosa veloce e superficiale. Spero che abbiate capito che intendo.
Detto questo, abbiamo finalmente visto Scar e Beth che si riappacificano e che si chiariscono. E a questo proposito vorrei chiedervi: secondo voi Scarlett dovrebbe parlare con Elisabeth della sua licantropia? E dell'idea di Sean di passare il plenilunio con Scarlett che ne pensate?
Mi sono dilungata abbastanza, ci sentiamo presto <3

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Capitolo 36
*** 36. Adam ***


Under a paper moon- capitolo 36


                                                    

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36. Adam

Tamburellai distrattamente sul banco mentre osservavo il parcheggio fuori dalla finestra dell’aula senza vederlo veramente. Ero troppo impegnato a riflettere sui cacciatori e sul possibile accordo con loro. Ci eravamo incontrati altre volte e non sempre erano state riunioni costruttive: alcune erano durate pochi minuti per via della tensione tra Colin e Sean, altre si erano prolungate per ore perché Colin si impuntava su piccolezze che non avrebbero influito in nessun modo sull’alleanza.
C’erano dei momenti in cui ero piuttosto sicuro che sarei impazzito o che avrei mollato tutto e detto a Sean di fare quel che voleva. Poi mi ricordavo di Scarlett e della promessa che le avevo fatto e mi dicevo che dovevo tener duro.
Nel frattempo, il professore di storia continuava a spiegare qualcosa sul Medioevo passeggiando su e giù per la classe.
«Abbiamo girato pagina, signor Meyers.» Sussultai quando l’insegnante si soffermò accanto al mio banco guardandomi con un sopracciglio alzato.
«Oh… Sì.» Balbettai affrettandomi a cercare la pagina giusta.
Il professor Crane fece un breve cenno d’assenso e riprese a camminare. «Dunque… stavo dicendo che la mentalità del Medioevo era molto teocentrica…»
Sospirai e mi mordicchiai il labbro cercando di concentrarmi sul libro che avevo davanti. Mi stava facendo prendere un po’ troppo dal soprannaturale ultimamente, dovevo darmi una regolata.

Alla fine delle lezioni ero ancora un po’ distratto, ma meno di prima. Lo presi come un buon segno.
E avrei potuto continuare a mantenermi, almeno per un po’, lontano dal soprannaturale se non ci fosse stato Sean appoggiato alla mia auto.
Come sempre indossava jeans scuri e la sua inseparabile giacca di pelle. Teneva le braccia incrociate al petto e gli occhi socchiusi per via della luce del sole. Qualche studente gli lanciava occhiata incuriosite quando gli passava vicino, ma la maggior parte si teneva alla larga, come intimorita dalla sua aura di potere e dalla sua espressione vagamente contrariata.
Alzai gli occhi al cielo sospirando e mi augurai che qualunque cosa dovessimo fare finisse in fretta, prima di raggiungerlo. Com’era nel suo solito, non si degnò di salutarmi, andò semplicemente dritto al punto. «Dobbiamo parlare.» Disse infatti guardandomi negli occhi.
«Sono nei guai?» Chiesi cauto.
Scrollò le spalle. «Non più del solito.»
«È già un inizio.» Commentai.
Non diede segno di aver sentito, o di voler prendere in considerazione le mie parole. «Possiamo andare in un posto più tranquillo?»
«Così puoi uccidermi senza che nessuno se ne accorga?» Domandai prima di mordermi il labbro.
Alzò il mento inarcando un sopracciglio. «Se avessi voluto ucciderti saresti morto da un pezzo. Ora possiamo andare?»
«Okay.» Convenni. «Hai qualche preferenza?»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «No. Solo… un posto silenzioso.»
Era sotto pressione quanto me, se non di più, visto che si era preso anche la responsabilità di insegnare a Scarlett qualcosa in più sui licantropi e su come controllarsi sia con la luna piena che in situazioni di stress. Apprezzavo quella sua presa di coscienza, soprattutto perché era stato lui a rivoluzionarle la vita quindi era compito suo assicurarsi che vivesse bene la sua licantropia.
Era arrivato con cinque anni di ritardo in realtà, ma era comunque ammirevole da parte sua decidere di impegnarsi con lei per renderle la vita un po’ più facile.
Feci il giro dell’auto e presi posto al volante mentre lui si sedeva sul lato passeggero. Ci volle qualche minuto per uscire dal parcheggio della scuola, ma alla fine riuscii ad inserirmi nella strada che portava alla tangenziale.
«Di cosa vuoi parlare?» Chiesi tenendo lo sguardo fisso davanti a me.
«Dopo.» Rispose secco. Mi lasciai sfuggire un sospiro scocciato.
Il suo essere costantemente così misterioso, quella sua abitudine di lasciarti vedere solo piccole parti, selezionate con cura di sé, quella mancanza di spontaneità rendevano difficile farsi un’idea chiara di lui. Niente nella sua espressione, per quanto mi impegnassi per cercare di cogliere un qualunque tipo di segnale o tic ricorrente, lasciava presagire le sue prossime mosse.
Sean era un’incognita, pericolosa e volubile.

Rimase chiuso nel suo silenzio testardo fino a che non fermai la macchina davanti al cottage. Non avevo pensato troppo a dove stavo andando, solo che nelle ultime settimane avevo fatto quella strada così tante volte che ormai mi veniva naturale.
Scendemmo entrambi dall’auto senza dire una parola. Sean si allontanò di qualche passo e mi diede le spalle. Guardava gli alberi di fronte a sé, ma non avrei saputo dire cosa provava o comunque cosa lasciava trasparire: era dannatamente bravo a nascondere le emozioni, tanto che ormai ero arrivato a credere che lo facesse in automatico, senza nemmeno pensarci.
«Ho parlato con Scarlett di recente.» Disse con voce neutra.
«Lo so.» Mormorai cauto.
Lui annuì e sospirò. «Quello che ha detto…. mi ha fatto pensare. Al mio ruolo di Alfa, al mio branco, ai cacciatori. A te.»
Spalancai gli occhi, sorpreso. «A me? Perché?»
«Perché sei l’unico umano.» Spiegò. «E sei anche l’unico che non posso annettere ufficialmente, diciamo, al branco.»
Anche se avevo un brutto presentimento, ero comunque curioso. «Okay, questo che vuol dire?»
Chinò la testa e immaginai di vederlo aggrottare la fronte. «Che non posso… rischiare con te. Sei troppo imprevedibile.»
«Cosa?» Era quasi ironico il fatto che lui, il maestro nel dissimulare qualunque indizio potesse dare su se stesso, accusasse me di essere imprevedibile. Spesso e volentieri avevo la sensazione di essere un libro aperto di fronte a lui.
«Adam, tu sei fuori dal mio controllo. Se tu fossi un licantropo potrei prenderti nel mio branco e usare il mio potere di Alfa per fare in modo che tu mi sia fedele e leale. Potrei avere una certezza sulla tua lealtà, sarebbe tutto… più semplice. Ma, per ovvie ragioni, non posso fare niente del genere. Sei umano, ed è questo che ti rende impossibile da decifrare: la parte animale dei licantropi è più lineare, non è complicato interpretarla, ma con te…» Si interruppe per un attimo, come per riordinare le idee. «Posso basarmi solo sulla tua parola per essere sicuro che non ci tradirai e che posso fidarmi di te. E questo non è abbastanza.»
«Non ti fidi di me?» Sbottai incredulo.
«Sinceramente? Non lo so.» Replicò. «Non ho modo di assicurarmi che tu sia veramente dalla nostra parte o meno.»
Rimasi a guardare la sua schiena, troppo sconvolto per parlare. Il nostro rapporto non era mai stato dei migliori, ci eravamo scontrati molte volte ed entrambi avevamo delle riserve sull’altro, ma non pensavo che fosse così sospettoso, non dopo che mi aveva parlato del suo passato, non dopo che aveva acconsentito a tentare un’alleanza con i cacciatori.
«Proprio adesso vieni a dirmi che non ti fidi di me?» Chiesi sforzandomi di mantenere la voce ferma. «Adesso che dobbiamo sembrare, ed essere, uniti per accordarci con i cacciatori? Non potevi aspettare?»
In realtà non era quello che mi interessava, o meglio, non solo. Non riuscivo a non sentirmi ferito da quella mancanza di fiducia. Certo, si era chiuso a tutto e a tutti anni prima, ormai contare solo su se stesso, vivere in solitudine era diventato la normalità per lui, ma per qualche strana ragione mi ero illuso che, dopo quello che avevamo passato insieme, avesse superato qui sospetti nei miei confronti.
«No.» Ribatté ostinandosi a non guardarmi. «Ho già temporeggiato troppo. Ed era giusto che tu lo sapessi.»
«Ottimo tempismo, davvero. Già prima era difficile collaborare, adesso sarà impossibile. Ci faranno a pezzi.» Il mio tono suonò più duro del previsto.
Lui strinse i pugni lungo i fianchi e si voltò verso di me, l’oro che gli infiammava le iridi. «La mia priorità è il mio branco. È un mio dovere proteggerlo e per adesso anche tu rappresenti un pericolo. Non lascerò che nessuno, né te né quei dannati cacciatori lo tocchino.»
Un sorriso amaro mi affiorò alle labbra. «Certo, perché non ho rischiato la vita per Scarlett, no? Non mi verrebbe mai in mente di tradirvi, nessuno di voi. Non adesso che so quello che so. Come puoi anche solo pensarlo?»
«Ho imparato a mie spese che non è saggio fidarsi, di nessuno. Ho già perso un branco, e tu lo sai. Non commetterò lo stesso errore.» Ringhiò.
«Però ti sei fidato quando ho proposto l’accordo.» Gli feci notare. «Perché hai cambiato idea?»
Il suo sguardo si fece più cupo. «Perché ho capito che non ho nessuna certezza quando si tratta di te. Sei saltato fuori con quest’ipotetica alleanza dopo aver visto con i tuoi stessi occhi di cosa sono capaci i cacciatori: mi sembra più che normale avere qualche sospetto, no?»
«Solo perché non condividi il mio modo di pensare non vuol dire che vi tradirò o che vi farò uccidere.» Replicai. «Dannazione Sean, come ti viene in mente una cosa del genere? Non tutto quello che non conosci o che non comprendi è sbagliato. Può funzionare davvero. E io odio anche la sola idea di ferire uno di voi.»
«Gli umani reagiscono in modi strani quando si trovano di fronte il soprannaturale.» Commentò sollevando appena il mento.
Distolsi lo sguardo mordendomi il labbro: non riuscivo a credere a quello che stava dicendo. «Non ti capisco, Sean. Davvero. Ti ho aiutato a salvare Scarlett e ti sto aiutando anche adesso, non hai nessun motivo per non fidarti di me.»
Aggrottò la fronte e spostò gli occhi su un punto nel vuoto. «Sì che ce l’ho. Te l’ho detto, il branco viene prima di tutto. Qualunque minaccia deve essere neutralizzata.»
«Quindi io sarei una minaccia?» Quella parola aveva un suono e un sapore altrettanto sgradevole, amaro e pungente. Non avevo mai pensato che mi importasse avere la sua approvazione o il suo supporto, ma adesso mi rendevo conto che senza di lui ero bloccato. E che eravamo tutti in una pericolosa situazione di stallo.
«Forse. Non ne sono sicuro. Ma ho preso più coscienza del mio dovere di Alfa verso Scarlett e Matthew e questo comporta proteggerli da qualunque tipo di pericolo, che venga dall’interno o dall’esterno.» Ribatté lui con aria cupa.
«Non potrei mai fare del male a Scarlett, neanche involontariamente. Ci tengo troppo a lei.» Ammisi. «E… lo sai, odio la violenza. Perché non riesci a fidarti?»
«Non sono abituato a farlo, e non mi piace. La fiducia è debolezza, è rendersi vulnerabili con le proprie mani. Mi fido solo di me stesso. E la tua proposta di un accordo con i cacciatori non ti aiuta.» Rispose fissando gli alberi davanti a sé.
Mi passai una mano tra i capelli sentendomi impotente. «Che vuoi fare adesso?»
Spostò lo sguardo su di me, gli occhi duri come ghiaccio. «Sei tu l’intermediario con i cacciatori, quindi per adesso resti. Ma… quando e se questa cosa sarà conclusa, potrei chiederti di prendere le distanze. Da tutto il branco.»

Quando Sean se n’era andato, silenzioso e cupo come sempre, mi ero ritrovato a fare qualcosa che non facevo da quando mia madre aveva gli attacchi di panico: avevo chiamato Michael in cerca di un po’ di compagnia e lui aveva accettato senza esitare.
Avevamo deciso di incontrarci al solito posto, un vecchio molo quasi sempre inutilizzato nel porto di Seattle. Non ricordavo neanche come l’avevamo scoperto, sapevo solo che era tranquillo e lontano dal soprannaturale.
Arrivai per primo e rimasi ad osservare l’oceano, di un blu intenso, cercando di fare chiarezza tra i miei pensieri. Il cielo era coperto da leggere nuvole pallide che rendevano soffusi e meno intensi i raggi del sole. Il cemento grigio e crepato che costituiva il molo dava all’ambiente un’aria un po’ smunta, scolorita.
Avrei voluto capire meglio cosa aveva spinto Sean ad essere sospettoso, a smettere, se mai l’avesse fatto, di fidarsi di me, ma sapevo che lui non mi avrebbe dato altre informazioni. Anzi, si era scucito anche troppo per oggi, gli avevo sentito pronunciare frasi tanto lunghe da essere impressionati per i suoi standard. E anche se detestavo ammetterlo visto era a mie spese, apprezzavo la sua determinazione nel voler proteggere Scarlett e Matthew.
La cosa che mi turbava di più, però, era la sua velata minaccia di farmi allontanare dal branco. Non sarei stato in grado di lasciare Scarlett e anche lei avrebbe protestato, eppure contro di lui, un Alfa esperto e dal potenziale micidiale, avremmo potuto fare poco.
D’altra parte, non c’era niente di certo ancora: magari Sean voleva solo intimidirmi per fare in modo che smettessi di impormi e di tenergli testa. O almeno, era questo che mi ripetevo nel tentativo di calmarmi.
«Ehi.» Esclamò una voce che conoscevo bene.
Mi voltai e vidi Michael venirmi incontro con un sorriso sulle labbra. Indossava una felpa rosso scuro e dei jeans scoloriti; in mano aveva quelle che sembravano due lattine. Quando mi raggiuse notai un segno violaceo sul suo collo, appena sotto la mascella, e non riuscii a trattenere un sorriso: lui e Caleb erano una coppia molto solida, più di quanto pensassi.
Abbassai lo sguardo sulle lattine e alzai un sopracciglio. «E quelle?»
Si strinse nelle spalle. «Quando mi hai chiamato mi sembravi parecchio… uhm, scosso, quindi ho pensato di portarti qualcosa da bere. Avrei voluto qualcosa di più forte, ma ho trovato solo questo in casa.»
«Non dovevi.» Mormorai. «E poi lo sai che non mi piace bere.»
Si limitò a guardarmi con aria eloquente inclinando la testa di lato. Alla fine sospirai e scossi la testa: non avevo voglia di discutere né di difendere i miei ideali. Non in quel momento almeno.
«Su, andiamo a confessarci come fanno le dodicenni nei pigiama-party.» Disse Michael prima di farmi cenno di seguirlo.
Ci sedemmo su un marciapiede con la schiena appoggiata ad un muro di cemento l’uno accanto all’altro. Lui mi passò una lattina di quella che si rivelò essere birra e si aprì l’altra.
Ne bevve un sorso e trasse un respiro profondo. «Allora, qual è il problema?»
«Le solite cose.» Mentii guardando l’oceano davanti a noi. «Mia mamma sparisce per tutto il giorno, mio padre passa più tempo a lavoro che a casa, Louis è dall’altra parte del mondo e non sappiamo se tornerà.»
«La vita è una brutta bestia.» Commentò aggrottando la fronte.
«Già.» Mormorai giocherellando con la mia lattina. «Tu invece? Come va?»
«Uh, bene, credo. Mia mamma continua a collezionare vinili di cantanti sconosciuti, mio padre continua a riempire casa con i post-it per non dimenticarsi le cose… Ne ho trovato uno sul vetro della doccia l’altro giorno.» Raccontò. «Oh, e abbiamo scoperto che il nostro pesce rosso è una femmina.»
«Quindi non è più Oscar, giusto?» Chiesi.
«Adesso è Olivia infatti. E ha cinque pesciolini.» Confermò. «Chissà chi è il padre…» Mi lanciò un’occhiata di sottecchi. «È solo questo che ti preoccupa? Mi sembri molto turbato.»
«Sì, è questo.» Non suonò convinto nemmeno a me, così provai a distrarlo. «Con Caleb come va?»
«Beh, lui è… wow. Cioè, non ho termini di paragone visto che è il mio primo ragazzo, ma mi piace un sacco e sto bene con lui.» Rispose con un sorriso inconsapevole.
«È una bella cosa, davvero. Ti vedo contento.» Replicai guardandolo.
Appoggiò la testa al muro, sempre sorridendo. «Cavolo… Chi l’avrebbe mai detto che mi sarei preso una cotta per un giocatore di basket? Io lo odio il basket.»
«L’amore è cieco e non credo che tenga conto di queste cose.» Commentai aprendo la mia lattina.
«A proposito d’amore. Ancora zero progressi sul fronte Shirley?» Domandò.
«Scarlett.» Lo corressi. «E sì, siamo ancora fermi. In realtà non lo so, ad essere sinceri. Ci siamo baciati altre volte, ma non so a che punto siamo.»
«Beh, datti una mossa, amico. Non puoi continuare così.» Mi fece notare prima di prendere un altro sorso della sua birra.
«Non è così facile. Lei è…» Esitai per un attimo cercando le parole giuste. «Odia la matematica, legge libri fantasy, le piacciono i biscotti al cioccolato e i gruppi punk.»
Lui si voltò verso di me. «Dov’è la parte complicata? No, perché io non la vedo. O forse devi ancora arrivarci.»
«È lunatica, ha uno strano senso dell’umorismo, si diverte a darmi gomitate nelle costole quando la prendo in giro, mette il broncio quando provo a farle fare più esercizi rispetto a quelli che le ha assegnato l’insegnate.» Continuai.
«Non vorrei essere ripetitivo, ma… qual è la complicazione in tutto questo? A me sembra che possiate stare insieme senza troppi problemi.» Ribatté stringendosi nelle spalle. «In fondo, anche tu leggi fantasy, ascolti musica punk o simili e… beh, non metti il broncio e non odi la matematica, però non sono cose così importanti. In più credo che ti piacciano i biscotti al cioccolato, no?»
Bevvi un sorso di birra. «A chi non piacciono?»
«Ecco, appunto. Direi che non c’è nessun motivo valido per cui non dovreste mettervi insieme.» Replicò.
“A parte un Alfa indisposto”, pensai lasciandomi sfuggire una smorfia. Abbassai lo sguardo sulla lattina senza vederla veramente.
«Con Elisabeth sei stato tu a prendere l’iniziativa, che c’è di diverso questa volta?» Domandò Michael studiandomi.
Scrollai le spalle. «Non lo so. Forse è la ragazza che è diversa, o forse sono io che non sono sicuro di ciò che voglio.»
«Oppure ci tieni di più.» Ipotizzò lui spostando lo sguardo sull’oceano. «Sai, quando si tiene veramente a qualcosa si è più cauti e prudenti, ci si presta più attenzione per paura di rovinarlo.»
«Mmh.» Commentai. «E se a lei non interessasse?»
«In quel caso dubito che ti avrebbe baciato.» Mi fece notare inclinando la testa di lato.
Mi rigirai la lattina tra le dita. «Magari voleva solo divertirsi.»
«Oh, ma sta’ zitto.» Sbottò Michael dandomi una gomitata sul braccio.
Sorrisi, divertito. «Già, immagino di essere un po’ pessimista, eh?»
«Te l’ho detto un milione di volte, voi geni incompresi siete sempre depressi e sfiduciati.» Borbottò.
«Comunque grazie. Per essere qui intendo.» Mormorai.
«Figurati, per il mio migliore amico questo ed altro.» Replicò con un mezzo sorriso.
Per quanto potesse essere interessante e affascinante, il soprannaturale aveva molte poche certezze. Era volubile, soggetto a leggi più grandi e sfuggevoli di quelle che conoscevo. Al contrario, la normalità poteva risultare fin troppo prevedibile a volte, ma offriva dei punti di riferimento solidi. In fondo, era tutta una questione di equilibrio.

Cora premette il naso umido contro la guancia di Scarlett che si mise a ridere affondandole le dita nella pelliccia bicolore. Era impressionante quanto andassero d’accordo e quanto apprezzassero l’una la compagnia dell’altra.
Scarlett, nel tentativo di rendere meno noioso il nostro pomeriggio di studio, mi aveva convinto a portare Cora a casa sua. E, conoscendo entrambe, non avrei dovuto sorprendermi nel vedere i libri abbandonati da una parte.
Per quanto mi facesse piacere che Scarlett sorridesse, non riuscivo a non pensare continuamente alla discussione avuta con Sean, all’intensità del suo sguardo quando aveva dichiarato che avrebbe protetto il suo branco ad ogni costo, alla forza che riusciva ad imprimere in delle semplici parole. Quando voleva, quando teneva veramente a qualcosa, tutto in lui sembrava accentuarsi, la sua determinazione, il suo lato animale, il suo potere di Alfa. Non avrei mai voluto essere nei panni di un suo nemico dopo aver conosciuto quella parte di lui, e invece ero molto vicino ad esserlo.
Anche se avrei preferito non parlarne con Scarlett, almeno non finche non fosse diventata una cosa più ufficiale o fosse stato sul punto di accadere, non riuscii ad impedirmi di chiederle: «Hai parlato con Sean di recente?»
Sollevò lo sguardo da Cora continuando a grattarla dietro le orecchie. «Sì, quando mi ha detto che avremmo passato il plenilunio insieme. Perché?»
«Ecco, ieri abbiamo… uhm, discusso.» Risposi mantenendomi sul vago.
Le dita di lei smisero di muoversi sul pelo del cane. «Discusso? Riguardo a cosa?»
Mi mordicchiai il labbro evitando di guardarla. «Mi ha detto che avevate parlato e che questo l’ha fatto pensare e… siamo finiti a litigare in pratica.»
La sua espressione si fece sconvolta, ansiosa. «Gli ho detto quello perché volevo proteggerti, non pensavo che sareste finiti per discuterne! Ero in buona fede, davvero!»
Aggrottai la fronte. «Gli hai detto di non fidarsi di me per proteggermi?»
Scarlett spalancò gli occhi e schiuse le labbra. «No! Certo che no. Gli ho detto di tenerti d’occhio durante questo periodo di tensione. Io voglio che andiate d’accordo.»
«E allora perché se n’è saltato fuori con quest’improvvisa voglia di sbattermi fuori dal branco?» Borbottai risentito.
Cora richiamò l’attenzione di Scarlett strofinandole il naso contro le mani, ma lei rimase a fissarmi, sbigottita. «Cos’è che vuole fare?»
Mi complimentai mentalmente con me stesso per la mia incoerenza: mi ero ripromesso di tenere Scarlett fuori dai miei contrasti con Sean, e invece adesso ce la stavo praticamente trascinando dentro. «Ha detto che sono troppo imprevedibile essendo umano e che quindi potrei rivelarmi una minaccia. Se dovesse valutarlo necessario, mi allontanerà dal branco.»
«Io gli ho solo chiesto di evitare che tu finissi ammazzato da un manipolo di cacciatori fuori di testa, non volevo assolutamente che perdesse fiducia nei tuoi confronti. Dannazione, perché è arrivato a pensare questo?» Sbottò lei prima di alzarsi e mettersi a camminare su e giù davanti al divano.
Sospirai pesantemente accarezzando Cora, che aveva posato il muso sul mio ginocchio. «Non ne ho idea. So solo che parlare con te ha fatto scattare qualcosa in lui portandolo a sospettare di me.»
Lei gettò le braccia in aria. «Ma tu lo hai aiutato a salvarmi da quei pazzi sclerati!» Si voltò a guardarmi, l’espressione confusa e preoccupata. «Non ha senso pensare che proprio tu potresti essere un pericolo.»
Espirai lentamente, gli occhi brillanti e dorati di Sean ancora impressi in mente. «Te l’ho detto, non…»
«Devo parlargli.» Mi interruppe lei. «Subito anche. Che diavolo gli prende? Dubitare di te? Oh no, assolutamente no.»
Detto questo, si diresse a grandi passi verso la porta del soggiorno. Mi alzai e la raggiunsi appena in tempo per afferrarle il polso prima che agguantasse il giubbotto e uscisse di casa alla ricerca di Sean per dirgliene quattro.
Si voltò a guardarmi con espressione contrariata, come se le avessi impedito di fare la cosa più giusta del mondo. «Che c’è? Non può trattarti così, non dopo quello che hai fatto per lui. E per me.»
Scossi la testa. «Scarlett, questa è una cosa tra me e lui, dobbiamo risolverla noi due. Ha messo in discussione la mia fiducia, voglio dimostrargli che si sbaglia e devo farlo da solo.»
«Ma non è giusto, tu non meriti di essere considerato una minaccia. Hai rischiato la tua vita per me.» La sua voce si incrinò appena e la vidi deglutire, come se le parole le fossero rimaste incastrate in gola.
Le lasciai il polso per spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ehi, va tutto bene. Risolveremo questa cosa, parlerò con Sean e troveremo una soluzione. In fondo, stiamo trattando con dei cacciatori, riconquistare la fiducia di un licantropo non può essere poi così difficile, no?»
Lei abbassò lo sguardo. «Sean ti considera intelligente, anche se non lo ammetterà mai. Forse ha paura che tu possa… sfruttarlo, in qualche modo.»
Venire a sapere che il grande Alfa brontolone aveva detto qualcosa di vagamente positivo di su di me mi spiazzò. «L’ha detto sul serio?»
«Che sei intelligente? Mm-mm.» Confermò tornando a guardarmi negli occhi. «Non ricordo le parole esatte, ma ha accennato qualcosa al fatto che sai cavartela da solo e che non ti serve la sua protezione.»
Non riuscivo ad immaginare Sean che si riferiva a me con parole diverse da “ragazzino”, “irritante” ed “esasperante”. D’altra parte, io stesso quando pensavo a lui lo associavo a termini non proprio lusinghieri. Era così che riuscivamo ad andare più o meno d’accordo, punzecchiandoci a vicenda per poter collaborare e convivere.
«Non mi credi, eh?» Mormorò Scarlett rivolgendomi un’occhiata eloquente.
«Dopo i nostri trascorsi burrascosi mi resta difficile credere che abbia detto qualcosa del genere.» Ammisi stringendomi nelle spalle.
Lei inarcò un sopracciglio. «E invece l’ha fatto. Secondo me, il fatto che ti consideri una minaccia è, a modo suo, una sorta di riconoscimento di meriti. Pensa che tu sia abbastanza sveglio da poter risultare un pericolo per lui, un Alfa. È ovvio che si senta sotto pressione, no?»
«Oppure ha semplicemente paura che possa dare di matto dopo aver passato settimane in mezzo al soprannaturale.» Commentai lasciandomi sfuggire un mezzo sorriso.
Scarlett ridacchiò. «Penso che ormai tu sia nella zona del non-ritorno, la tua sanità mentale è bella che andata.»
Le posai le mani sui fianchi avvicinandola a me. «Sì, lo penso anche io. Sono già fuori dal recuperabile.»
«Come se un ragazzo che appena scopre di avere un licantropo davanti a sé vuole fargli un terzo grado possa definirsi “recuperabile”.» Mi rimbeccò lei, le dita che correvano tra i miei capelli.
Le lasciai un bacio all’angolo della bocca. «Disse il licantropo che prende ripetizioni di matematica dal suddetto ragazzo.»
Le labbra di Scarlett sfioravano le mie. «Shh, non c’è bisogno di ricordare queste cose poco gradevoli.»
Sorrisi insieme a lei prima di baciarla. Avevo raccontato a Michael che anche lei era, in parte, causa del mio malumore, ma la verità era che Scarlett era una delle poche cose a cui tenevo sul serio, una delle poche persone a cui sentivo di poter dire tutto, senza nascondere dettagli sgradevoli per paura che si allontanasse.
Spesso, quando l’atmosfera a casa diventava troppo pesante o troppo pressante, era lei a renderla più sopportabile, con i suoi sorrisi spontanei, le reazioni esagerate anche ai piccoli problemi, l’umorismo discutibile e la sua abitudine di darmi gomitate nelle costole.
Sussultammo entrambi allontanandoci di scatto quando Cora si intrufolò tra di noi premendo il naso umido contro ogni centimetro di pelle a disposizione alla ricerca di coccole. Scarlett rise piano, mi lasciò un baciò veloce sulle labbra e si chinò a grattare la pancia del mio cane fin troppo invadente.


SPAZIO AUTRICE: Sono una brutta persona, lo so. Tra problemi con il PC e impegni sia scolastici che non sono finita a fare questo ritardo enorme nell'aggiornare questa storia e mi dispiace davvero tanto. Tra l'altro questo capitolo neanche mi convince molto - nonostante ci sia un po' di sano angst tra Sean e Adam.
Comunque, finalmente abbiamo un nuovo capitolo! Il nostro Alfa per la prima volta si mostra dubbioso riguardo al ruolo di Adam nel branco, ma lo è a modo suo, quindi non mancano minacce neanche troppo velate. Forse qui non è ancora emerso molto, ma Sean è letteralmente disposto a morire per il suo branco, farebbe di tutto per loro. Tengo molto a questo personaggio, quindi spero che riesca a farvi provare qualcosa, sia negativo che positivo.
Mi scuso ancora per questo ritardo orribile, spero che il capitolo vi sia piaciuto :3

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Capitolo 37
*** 37. Scarlett ***


Under a paper moon- capitolo 37


                                                    

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37. Scarlett

Non ritenevo necessaria la presenza di tutto il branco. Anzi, per quanto mi riguardava anche Sean poteva andarsene a casa: potevo cavarmela benissimo da sola come avevo già fatto un sacco di volte. E invece ero stata bellamente ignorata e adesso mi ritrovavo imbarazzata e a disagio di fronte alle persone che, almeno secondo il modo di pensare dei lupi, avrei dovuto considerare un allargamento della famiglia.
Adam era in piedi vicino alla sua auto con le braccia incrociate al petto e l’espressione pensierosa. Indossava jeans e una maglietta blu con lo scollo a V che gli stava parecchio bene. Matthew, in camicia di flanella a quadri, era accanto a lui e cercava di sembrare sicuro di sé come lui tanto che aveva assunto la stessa posizione. E poi c’era Sean, altero e imperscrutabile nella sua giacca da aviatore - una variante di quella di pelle - e nei jeans neri. Dovevo ammettere che quei tre messi insieme formavano quello che Beth avrebbe definito il “trio delle meraviglie”. Soprattutto perché avevano tutti un’aria determinata e impassibile che li rendeva più affascinanti di quanto non fossero. Per una volta essere l’unica femmina del branco non mi sembrò poi così male.
Era quasi buio, il sole morente riempiva il cielo che si riusciva a scorgere sopra gli alberi di delicate sfumature rosate e arancioni che mi facevano venire in mente l’aurora boreale.
Mi strinsi nel mio giubbotto e feci scorrere lo sguardo sui tre ragazzi davanti a me. «Allora… che si fa adesso?»
La fatidica notte di plenilunio che avrei passato con il mio Alfa recentemente riapparso era giunta, e con lei l’ansia e la voglia di sprofondare. Sapevo che Sean mi stava offrendo la possibilità di imparare a gestire la mia licantropia e a non rappresentare più un pericolo per nessuno, ma non è che mi allettasse tanto l’idea di perdere il controllo di fronte a lui.
Sean fece qualche passo avanti. «Adesso andiamo così troviamo un posto tranquillo dove passare la notte.»
“Tranquillo finché non ci arrivo io”, pensai scoraggiata. «Okay…»
Lui mi fece un breve cenno d’intesa e spostò lo sguardo sugli alberi. Avevo notato una certa tensione tra lui e Adam, più intensa del solito, ma non avevo idea di come farla diminuire. Sapevo che Sean lo aveva minacciato intimandogli che, se l’avesse ritenuto necessario, avrebbe dovuto lasciare il branco.
Potevo sopportare rimproveri e richiami di ogni tipo da parte di quel lupo così scontroso, però non gli avrei lasciato allontanare Adam, avrei fatto tutto quello che era in mio potere per oppormi.
Mi strinsi le braccia al petto con un sospiro e diedi un calcio svogliato ad un sasso: perché non potevo essere un’adolescente qualunque che passa la serata a guardare le repliche di vecchie sit-com mangiando gelato? L’odore leggero di dopobarba e carta antica mi fece alzare lo sguardo finché non incontrai gli occhi blu tempesta di Adam. Erano preoccupati, ma anche limpidi.
«Andrà tutto bene, Scar.» Mormorò prendendomi delicatamente una mano.
Un sorriso incerto mi affiorò alle labbra. «Grazie.»
Ci abbracciamo per un attimo e io mi godetti il suo calore, la sensazione di sicurezza che mi trasmettevano le sue braccia intorno a me, il rumore regolare del suo cuore. Poi lui si scostò da me e mi diede un bacio sulla fronte sussurrando un altro incoraggiamento.
Fece un paio di passi indietro e lanciò un’occhiata veloce a Sean. La sua espressione non tradiva nessuna emozione, ma mi sembrò di scorgere un’ombra nei suoi occhi quando si posarono sul mio capobranco.
«Finito?» Chiese Sean in tono beffardo.
Adam serrò la mascella, però mantenne comunque il controllo, cosa che gli ammiravo. Matthew mi fece un timido sorriso che si spese molto in fretta. Sean invece sbuffò per attirare la mia attenzione.
Mi voltai verso di lui e feci un gesto vago con la mano. «D’accordo, d’accordo… Arrivo. Certo che sei impaziente, eh?»
Inarcò un sopracciglio, ma non si degnò di rispondermi. Dopo un’ultima occhiata ad Adam, mi decisi a raggiungere il mio Alfa.

«Quando hai detto che… che avremmo passato il plenilunio insieme… non pensavo intendessi… che avremmo fatto… una scampagnata nel bosco.» Ansimai cercando di stare dietro alle lunghe falcate di Sean.
Riusciva a muoversi con agilità anche in mezzo agli alberi e i suoi passi erano quasi impercettibili nonostante i rametti, le foglie e il muschio che costituivano il sottobosco. Questa sua sicurezza mi ricordava molto un lupo, di quelli veri, che si muove scaltro e silenzioso nel cuore della foresta.
Si fermò e si girò verso di me. «Stiamo camminando solo da venti minuti.»
«Oh, certo. Solo venti minuti.» Sbottai premendomi una mano dove credevo ci fosse la milza. «Lo dici come se fossero pochi.»
Un mezzo sorriso gli incurvò le labbra. «Perché lo sono. Se reagisci così credo che dovrò iniziare ad allenarti.»
Lo guardai con gli occhi socchiusi, sospettosa, mentre raddrizzavo la schiena. «Che vuole dire allenare?»
«Fare ginnastica, sport, movimento… chiamalo come vuoi.» Replicò stringendosi nelle spalle.
«Non intendevo il significato.» Chiarii. «Volevo sapere cosa significa allenarsi per un licantropo.»
I suoi occhi verde-grigio mi studiavano attenti. «Esattamente quello che significa per gli umani: rafforzare i propri punti deboli a livello fisico e, in seguito, mantenere il livello raggiunto e magari migliorarsi.» Vedendomi confusa, aggiunse: «Per esempio, puoi allenarti per riuscire a mantenere il controllo con la luna piena, o per avere più resistenza.»
«Mmh. Io non credo che farò mai trekking o simili quindi la resistenza non mi serve, giusto?» Domandai incrociando mentalmente le dita.
Il luccichio nei suoi occhi mandò in fumo tutte le mie speranze. «In realtà la resistenza è sempre utile, non importa quello che fai. Se dovessi trovarti in mezzo ad uno scontro con un altro lupo devi essere in grado di reagire e difenderti e non puoi farlo se dopo un minuto ansimi così.»
Mi appoggiai ad un albero con la mano scoccandogli un'occhiataccia. «Ehi, non tutti qui siamo licantropi palestrati.» Mi schiarii la gola. «Comunque, immagino che vorrai… allenarmi?»
«Per adesso vediamo come va stanotte, poi decideremo.» Replicò con voce insolitamente gentile.
«Vedremo? Cioè, io e te?» Chiesi sorpresa.
«Sì. Io sono il tuo capobranco, ma non posso obbligarti a fare niente. O meglio, volendo potrei eccome, però non mi sembra giusto.» Spiegò.
Non riuscivo a crederci, e cercai di non darlo a vedere. «Oh… Okay.»
Fece un breve cenno d’assenso. «Possiamo andare?»
Mi guardai intorno: alberi a destra, alberi a sinistra, alberi davanti a me, alberi dietro… Non credevo che il paesaggio sarebbe cambiato di molto se ci fossimo spostati. «Perché, qui non va bene?»
Un accenno di sorriso gli sfiorò le labbra. «No. Dobbiamo camminare ancora un po’.»
Mi staccai al malincuore dal tronco a cui mi ero appoggiata e ricominciai ad arrancare sul terreno morbido e umido del bosco lasciandomi sfuggire un mugolio mirato a fargli venire i sensi di colpa. Sean lasciò che lo superassi prima di affiancarmi, e dopo neanche un secondo, passarmi avanti con quella sua fluidità silenziosa.

La luna, perfettamente rotonda, di un bianco pallido chiazzato di grigio, spiccava sul cielo tanto blu da sembrare nero. Lo squarcio che ne vedevo era incorniciato dalle fronde degli abeti, mosse da un vento leggero, e aveva un’atmosfera misteriosa, quasi poetica.
Sentivo lo sguardo di Sean addosso, ma cercavo di ignorarlo per concentrarmi sul mio stesso respiro: inconsapevolmente, stavo seguendo il consiglio che mi aveva dato Adam, durante il plenilunio che avevamo passato insieme, di focalizzarmi su qualcosa di costante e regolare.
Il mio lupo interiore cominciava ad agitarsi sotto l’influenza della luna, lo percepivo pulsante e, nello stesso tempo, impalpabile che si preparava a prendere il sopravvento. Chiusi gli occhi per un attimo e strinsi i pugni cercando di fare respiri profondi. “Non è niente di che, l’hai già fatto altre volte”, pensai nel tentativo di calmarmi. Quando aprii le mani, però, gli artigli scuri avevano già sostituito le mie povere unghie mangiucchiate e coperte dallo smalto nero scheggiato. Mi lasciai sfuggire un sospiro tremante e deglutii provando a calmarmi.
Avvertii una presenza subito dietro di me, ma non avevo bisogno di voltarmi a controllare chi fosse. L’odore di Sean era molto riconoscibile, come quello di Adam. Non avrei potuto confonderlo con nessun’altro: cuoio, pioggia e qualcosa che mi ricordava l’aroma dei pini.
«Come ti senti?» Chiese con un tono così basso da sembrare il fruscio degli alberi.
Strinsi di nuovo i pugni. «Per adesso bene. Ma non credo che durerà.»
Rimase in silenzio per qualche secondo, il suo respiro regolare in contrasto con il mio, più veloce e spezzato. Con rumore quasi impercettibile, si spostò al mio fianco. Sembrava che stesse attento a non fare movimenti bruschi per non turbarmi.
«Posso?» Chiese facendo un cenno verso la mia mano.
Aggrottai la fronte, confusa da quella sua richiesta, ma scrollai comunque le spalle dandogli il via libera. Le sue dita scivolarono leggere intorno al mio polso e mi stupii di quanto riuscisse ad essere delicato: avevo visto i lividi che aveva lasciato ai cacciatori e anche ad Adam e non avevo neanche preso in considerazione l’esistenza di un suo lato gentile.
Studiò attentamente i miei artigli arrivando addirittura a sfiorarli. Non eravamo mai stati così vicini, in tutti i sensi: stavamo condividendo un momento piuttosto importante per i licantropi, il plenilunio, e c’era un ulteriore legame tra noi visto che era stato lui a trasformarmi.
Sempre con quell’attenzione inaspettata, Sean mi riportò la mano all’altezza del fianco. Le sue dita scivolarono via dalla mia pelle lasciandosi dietro una leggera sensazione di freddo.
«Sei piuttosto forte pur non avendo ricevuto nessun insegnamento.» Commentò.
«Sì?» Domandai chiudendo gli occhi e conficcando gli artigli di una mano nel tronco dell’albero a cui ero appoggiata.
«Sì, Scarlett. Posso insegnarti molto e credo che otterremo grandi risultati.» Confermò.
«Sei serio o lo dici solo per non farmi arrabbiare?» Chiesi con voce leggermente tremula.
«Sono serio.» Rispose. «E so riconoscere del potenziale quando lo vedo.»
«Mmh.» Commentai senza prestargli troppa attenzione. «Siamo qui perché io impari, no? Quindi che ne dici di darmi qualche consiglio da licantropo a licantropo?»
«Non combatterlo, peggiorerai solo le cose.» Replicò stupendomi. «La licantropia adesso fa parte di te, nonostante ti sia stata imposta. Per questo devi imparare a conviverci e ad usarla a tuo favore.»
Strinsi i denti mentre le prime fitte cominciavano a farsi sentire. «Okay, grazie per la lezione teorica. Che ne dici di qualcosa di più pratico?»
«Incanala la forza del lupo, falla diventare qualcosa che puoi sfruttare. Falla diventare tua. Tu e il lupo siete una cosa sola, ricordalo. La sua forza è anche la tua, sta’ a te decidere come usarla.» La sua voce era morbida, mi ricordava il fruscio del vento tra le foglie.
Affondai ancora di più gli artigli nel legno morbido. «Immagino che adesso tocchi a me, quindi.»
«Esatto.» Convenne.
Spalancai gli occhi di colpo e lo guardai. «Non credo di farcela. È… è difficile. Non ho mai fatto niente del genere.»
«Io sono qui per questo, per insegnarti come fare, ma dipende tutto da te.» Ribatté. «Puoi arrenderti e lasciare che il tuo lupo ti controlli, oppure puoi essere tu a dettare le regole.»
Annuii e trassi un respiro profondo. «D’accordo. Proviamoci.»
Fece un breve ed autorevole cenno d’assenso e indietreggiò di un paio di passi per lasciarmi un po’ d’aria. Mi costrinsi a mollare il povero albero che stavo torturando e strinsi i pugni con forza. Chiusi gli occhi per favorire la concentrazione, provai a regolarizzare il respiro e lasciai che il mio lupo si espandesse dentro di me. Era forte, ardente, molto volubile, e si agitava nel tentativo di prendere il controllo. Mi sembrava di avere fuoco liquido nelle vene.
La sua presenza rendeva tutto più chiaro e limpido: sentivo ogni fruscio e mormorio nel bosco, percepivo l’aria frizzante della notte sulla pelle del viso; se avessi sollevato le palpebre sarei riuscita a scorgere i dettagli dei rami e del sottobosco. Da una parte era un bel vantaggio, soprattutto se avessi deciso di darmi alla caccia a mani nude o qualcosa del genere.
«Quando imparerai a controllarlo sarà tutto più semplice. Forse arriverai addirittura ad apprezzarlo.» Commentò Sean studiandomi con attenzione.
Una scossa di dolore mi risalì le braccia quando conficcai gli artigli nei palmi delle mani per non perdere la lucidità. «Tu dici?»
«Non ti senti più forte? Improvvisamente consapevole di tutto?» Chiese con una certa enfasi nella voce. «Se tu fossi un umano faticheresti a sentire quello che dico, invece adesso capisci benissimo, vero?»
Dovetti ammettere che aveva ragione. Mi ritrovai ad annuire fissando gli alberi davanti a me. «Sì, ma mi sembra sempre che la mia testa sia sul punto di esplodere: è come se ci fossero due personalità distinte in lotta tra loro.»
«Perché continui ad opporti.» Replicò prima di sospirare. «Scarlett, non devi aver paura del tuo lato soprannaturale. La paura ti rende nervosa.»
Strinsi le labbra e, contemporaneamente, i pugni. «Io… non voglio perdere il controllo. È una cosa che odio perché vedo e sento quello che faccio, ma non posso fermarmi. Non voglio che succeda.»
Un leggero fruscio accompagnò il passo che fece verso di me. «Ti fermerò io se sarà necessario.»
Trassi un respiro tremante. «Puoi farlo davvero?»
«Ho qualche anno d’esperienza, sia con la luna piena sia con i giovani lupi.» Spiegò e fui quasi certa di aver percepito una punta d’orgoglio nella sua voce, che poi si addolcì quando aggiunse: «Davvero Scarlett, io sono qui per aiutarti. Avrei dovuto esserci fin dall’inizio, me ne rendo conto, ma adesso sono qui e non ti lascerò affrontare la luna piena da sola.»
Rimasi sorpresa dalla sue parole, ma soprattutto dal tono con cui le aveva pronunciate. «Okay.» Sussurrai con un fil di voce. «Quindi devo lasciarmi andare, abbracciare il mio lato soprannaturale?»
Annuì un’unica volta. «Esatto.»
Mi riempii i polmoni d’aria fresca e umida e spostai lo sguardo davanti a me. «Bene, facciamolo.»

Sean si spostò un attimo prima che lo infilzassi. Una piccola parte della mia mente, quella ancora lucida, si stupì di quanto fosse veloce. Il mio lupo interiore, invece, reagì irritandosi ancora di più e facendo nascere un ringhio nella mia gola.
Aveva preso completamente il controllo e io glielo avevo lasciato fare nella speranza di riuscire a renderlo parte di me più di quanto non fosse già. Solo che non era per niente semplice imbrigliarlo. E chi ne faceva le spese era Sean.
Schivava ogni mio goffo tentativo di colpirlo e non contrattaccava, si limitava a mantenere una distanza di sicurezza tra me e lui. Non aveva detto una parola, ma avevo visto i suoi occhi lampeggiare d’oro. Ansimavo mentre mi guardavo intorno cercando quello che al mio lupo sembrava una minaccia: un altro licantropo rapido e silenzioso che, almeno secondo lui, stava cercando di uccidermi. Avevo gli artigli sguainati e le zanne snudate, ero pronta ad un combattimento anche se non avevo la benché minima esperienza. 
Qualcuno, anche se non era difficile immaginare chi visto che eravamo solo in due, mi afferrò un braccio e me lo portò dietro la schiena prima di spingermi contro un albero. Mi lasciai sfuggire un gemito infastidito quando mi ritrovai premuta contro la dura corteccia di un abete che mi graffiò la guancia. Provai a divincolarmi, ancora una volta sotto l’influsso del mio lupo, ma la forza di Sean era molto superiore alla mia.
«Non ci stai provando veramente.» Mi ringhiò all’orecchio. «Lo vedo. Andiamo Scarlett, puoi fare di meglio.»
«È troppo forte!» Sbottai esasperata.
Rafforzò la presa, sentivo il suo respiro sul collo. «No, sei tu che gli permetti di essere troppo forte. Devi essere tu a guidarlo in modo che vada dove vuoi.»
Strinsi il pungo della mano libera. «Come?»
«Pensa a qualcosa che ti ha fatto sentire impotente, qualcosa che ti brucia ancora, e convoglia lì la tua forza, sia umana che animale.» Spiegò. «Una volta insieme puoi prendere il comando.»
«D’accordo, ma adesso mi serve un attimo di pausa. Per favore.» Replicai cercando di prendere aria.
Esitò per un attimo, combattuto, poi lo sentii sospirare. «Va bene. Insistere adesso non serve. Sei controllata?»
Mi trattenni all’ultimo momento dall’annuire per evitare di graffiarmi di nuovo. In realtà sarei guarita nel giro di un secondo, ma non mi andava di strofinarmi contro un albero. «Sì. Finché non torna un’altra fitta sì.»
Era così che al mio lupo piaceva presentarsi, con improvvise scosse di dolore, come se avesse voluto cambiarmi il corpo e trasformarlo in quello di un lupo vero e proprio. Chissà se era possibile… In fondo, le leggende parlavano di uomini per metà animali, con tanto di coda e pelliccia, che si muovevano a quattro zampe. Doveva essere piuttosto scomodo.
Sean allentò lentamente la presa sul mio braccio, attento al minimo segnale dall’allarme. Quando fu sicuro che non mi sarei ribellata per saltargli alla gola, mi lasciò definitivamente e fece qualche passo indietro. Mi voltai e appoggiai la schiena all’albero con un respiro tremante. Dopo un attimo, riuscii a metterlo a fuoco anche senza l’intervento poco discreto del mio lupo: si era tolto la giacca, lasciandola chissà dove, ed era rimasto in maglietta a maniche corte di un colore scuro che non riuscivo ad identificare e che si confondeva con il nero dei jeans.
I suoi capelli, di un biondo cenere, sembravano argentati alla luce soffusa della luna. Il suo viso era tutto un gioco di ombre tracciate dagli zigomi, dalle ciglia, dai rami degli abeti.
«Non sta andando bene, eh?» Chiesi abbassando lo sguardo.
Mi studiò per un attimo. «Hai ancora paura, e questo ti blocca. Una volta che l’avrai superato andrà meglio.»
Una parte di me voleva urlare che era un po’ impossibile non aver paura di trasformarsi in un mostro assassino, che eravamo in mezzo ad un bosco nel cuore della notte, che ero ad un passo da un esaurimento nervoso. L’altra parte, invece, pensò che, quando non aveva il suo solito cipiglio cupo, Sean era decisamente bello. 
«Comunque, è la prima volta quindi non puoi aspettarti chissà quale risultato.» Aggiunse come se quella pausa non ci fosse stata.
Annuii fissando un tronco caduto a pochi metri da noi. «Già.»
Un altro silenzio imbarazzante scese tra di noi. Non era vero e proprio silenzio, però, perché si sentivano i fruscii del vento e degli animaletti del bosco, il mio respiro irregolare e quello calmo di Sean, il battito del mio cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
«Ti ho sentito parlare in francese un paio di volte.» Dissi all’improvviso. «O meglio, imprecare. Com’è che lo sai?»
Con quei capelli biondi e gli occhi chiari, Sean sembrava più nordico che del centro Europa. E poi, era piuttosto freddo a livello di carattere, non aveva niente a che fare con l’atteggiamento raffinato e un po’ snob che associavo ai francesi.
Sospirò, ma non capii perché. «Sono nato a Toronto.»
«Davvero?» Domandai ritrovando l’interesse. «E com’è?»
Aggrottò appena la fronte e spostò lo sguardo su qualcosa alla sua destra. «Tranquilla, grande ma non troppo caotica.»
«E il Canada?» Insistetti.
«Verde, piuttosto disabitato a dir la verità. Le città si concentrano a sud, a nord ci sono solo foreste.» Replicò.
Annuii e appoggiai meglio la schiena contro l’albero. «Toronto è una delle cento città che voglio visitare prima di morire.»
Qualcosa che sembrava l’accenno di un sorriso gli sfiorò le labbra illuminando per un attimo il suo viso in ombra. «Hai una lista?»
«Più o meno. Avevo cominciato a scriverla, ma poi l’ho persa insieme all’abbonamento dell’autobus.» Confessai stringendomi nelle spalle.
Scosse appena la testa e incrociò le braccia al petto facendo guizzare i muscoli. Non mi ero mai soffermata ad osservarlo e adesso che ne avevo l’occasione mi rendevo conto di quanto sembrasse giovane quando non era impegnato a chiudersi al resto del mondo. Venticinque anni? No, io gliene davo ventidue, forse venti quando sorrideva, cosa molto rara.
«Come sei finito a Seattle? È praticamente dall’altra parte del continente.» Commentai. «Non ti piaceva il Canada?»
Chinò appena la testa. «Provo sentimenti contrastanti per il Canada e per Toronto. E anche per Seattle. Ma da qualche parte dovevo stare.»
Fui sul punto di chiedergli da cosa derivassero, ma mi trattenni quando mi ricordai di Isaiah, il figlio di sua sorella, e di come era morto. E poi, l’espressione tormentata che riuscivo a scorgere sul suo viso mi fece demordere da qualunque indagine. Chissà cosa si nascondeva nel suo passato… Per essere arrivato a diventare così imperturbabile, freddo e cupo doveva essergli successo qualcosa di molto grosso. Anche il suo fisico rispecchiava quell'impressione: sembrava qualcuno che si aspettava un attacco da un momento all’altro, era slanciato, con muscoli asciutti e scattanti, abbastanza forte da neutralizzare un intero gruppo di cacciatori. In più controllava alla perfezione la sua licantropia.
Era un guerriero forgiato da un passato oscuro che si era adattato per riuscire a sopravvivere, anche se questo aveva significato rinunciare a delle parti di sé.
«Posso farti una domanda io?» Chiese rompendo l’ennesimo silenzio scomodo.
Mi stupii di quel piccolo atto di gentilezza: avrebbe potuto porre la sua domanda in modo diretto e senza scrupoli, invece si era trattenuto.
Annuii. «Sì, certo.»
Sollevò lo sguardo su di me studiandomi con aria critica. «Perché ho l’impressione che Adam sappia più di quanto dovrebbe riguardo la luna piena?»
Mi bloccai, sorpresa. Mi aveva messo all’angolo e non avevo vie d’uscita, se non la verità. «Perché sei troppo sospettoso…?»
«Scarlett.» Mi ammonì con un tono che non prometteva niente di buono.
Chinai la testa e diedi un calcio ad un rametto. «Potrei avergli… fatto scoprire qualcosa.»
«Immagino che tu non gliel’abbia spiegato, l’ha proprio visto, dico bene?» Indovinò lui inarcando un sopracciglio.
«Forse.» Risposi evasiva.
Sospirò. «Sai che vuol dire? Se fossi stata sotto il mio comando avrei dovuto punirti. Far partecipare un umano al plenilunio è… pericoloso oltre che deplorevole. È un momento importante per i licantropi, non devi prenderlo così alla leggera.»
Mi strinsi le braccia al petto sentendomi come una bambina di fronte ai rimproveri dei genitori. «Lo so…» Gli lanciai una timida occhiata. «Mi punirai?»
I suoi occhi verde-grigio erano impassibili. «No. Non ci sono stato per te e non ti ho insegnato niente quindi non ne ho il diritto.»
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo. Lui si passò una mano tra i capelli e sospirò di nuovo, ma mi sembrò di vedere un po’ della sua tensione sciogliersi.
«Come è successo?» Domandò con voce calma. «Conosci i rischi del plenilunio, quindi perché l’hai coinvolto?»
Mi torturai le mani per tenermi impegnata e per sottrarmi al suo sguardo severo. «Beh… Non era programmato. È successo e basta. Stavo cercando un posto tranquillo, lui era nel cottage e… ci siamo incontrati.»
«E tu sei rimasta lì.» Concluse prima di voltarsi verso qualcosa alla sua destra.
«Già. Lo sai com’è lui, non ha voluto lasciarmi da sola.» Mormorai.
Sembrò incupirsi appena, ma fu solo per un attimo perché poi riportò tutta la sua attenzione su di me e mi parve di scorgere un accenno di sorriso sulle sue labbra. «Sta funzionando.»
«Cosa?» Chiesi confusa.
«Non te ne sei accorta? I tuoi occhi… brillano.» Spiegò. «Ma non come quando non hai il controllo del tuo lupo. Penso che tu l’abbia già fatto in passato, comandarli a tuo piacimento perché diventassero color oro, giusto?» Al mio cenno d’assenso aggiunse: «A quanto pare ho toccato un tasto delicato per te perché ho scatenato la reazione che volevo raggiungessi da sola. La tua forza umana e quella animale stanno cominciando a fondersi.»
Spalancai gli occhi, incredula. «Ci sto riuscendo sul serio?»
Il suo sorriso si fece più ampio. «Sì. Te l’avevo detto che non era impossibile. Adesso devi solo continuare a lavorarci.»
Nonostante il suo ottimismo, io ero ancora un po’ scettica. «Come posso farlo se neanche me ne accorgo quando succede?»
Nelle sue iridi passò un luccichio che definirei malizioso. «Forse ti serve un piccolo incentivo. Andiamo ragazzina, è ora di arrabbiarsi sul serio.»

Non so dire quante ore passai in balia del mio lupo. Probabilmente più di quanto non avessi mai fatto. Era una sensazione strana, come se di colpo tutte le barriere e i limiti morali fossero crollati lasciando il posto all’istinto più selvaggio e primordiale. Non sentivo nemmeno la stanchezza da quanto ero presa da quella strana frenesia provocata da mio lupo.
Al contrario di prima, anche Sean si era unito a me, ma era più sobrio: i suoi ringhi erano bassi, cupi e venivano dal profondo della gola, non come i miei più sguaiati ed esibizionisti. Lui mostrava di rado le zanne e si spostava sempre in modo da non essere sulla mia linea di tiro. Anche se cercava di mostrarsi impassibile, potrei giurare di aver colto l’ombra di un sorriso sfiorargli le labbra in più di un’occasione.
Mi ricordava continuamente di incanalare la forza del mio lupo insieme alla mia, di concentrarmi su quello e, nello stesso tempo, di pensare che se ci fossi riuscita sarei stata più difficile da ferire, da sopraffare.
Quando le prime luci dell’alba cominciarono a schiarire il cielo tingendolo di rosa, mi accasciai conto un albero ansimando. Chiusi gli occhi mentre mi sforzavo di riprendere fiato. Imprecai tra i denti stringendo e rilasciando i pugni. Dopo qualche secondo, mi decisi a sollevare le palpebre.
Sean era in piedi davanti a me e si stava infilando la giacca da aviatore. Mi si avvicinò e mi tese una mano inclinando appena la testa di lato. La presi e lui mi aiutò ad alzarmi. Il problema sorse subito dopo, quando sentii le gambe cedermi. Mi immaginavo già distesa scompostamente sul morbido terreno coperto di muschio, quando Sean mi afferrò al volo. Ringraziai mentalmente i suoi riflessi così pronti.
«Come ti senti?» Chiese osservandomi preoccupato.
«Stanca.» Ammisi. «Ma credo di farcela.»
I suoi occhi erano resi più luminosi dai primi raggi del sole. «Sicura?»
«Sì, certo.» Sorrisi nel tentativo di sdrammatizzare. «Insomma, ormai sono un tutt’uno con il mio lupo, non ho bisogno di un cavaliere.»
Inarcò un sopracciglio e scosse appena la testa. «Come vuoi.»
Sciolse quello strano abbraccio facendo un passo indietro senza togliermi gli occhi di dosso come per assicurarsi che non avessi un altro incontro ravvicinato con il sottobosco. Mi strinsi nel giubbotto reprimendo un brivido e mi stiracchiai, assonata.
«D’accordo ragazzina, andiamo prima che ti addormenti.» Borbottò con un mezzo sorriso.
Scacciai quella possibilità con un gesto vago della mano anche se in realtà ero piuttosto sicura che sarebbe potuto succedere. Ci incamminammo fianco a fianco e, per una volta, lui mantenne il mio passo.

Durante l’ora che impiegammo per raggiungere il cottage cercai di scucire a Sean quante più informazioni possibili sul suo passato tentando di farlo sembrare il meno possibile un terzo grado. Buttavo lì qualche informazione su di me e poi gli chiedevo se anche lui aveva avuto esperienze simili. Le uniche risposte che ottenni furono monosillabi e occhiate sospettose che poi divennero d’ammonimento quando la sua pazienza si avvicinò al limite.
«È la stanchezza che ti fa parlare a raffica o è proprio una cosa tua?» Sbottò mentre entravamo nella radura dove si trovava la casa.
Arricciai le labbra in una smorfia mentre mi sfilavo l’ennesimo rametto dai capelli. «Sinceramente? Dovresti chiedere ad Elisabeth, lei…»
Mi interruppi bruscamente quando lui si fermò di botto e tese un braccio verso di me come a volermi fermare. All’improvviso, tutto il suo corpo era entrato in tensione, una molla che viene caricata. Scandagliò il bosco intorno a noi, gli occhi verdi attenti ad ogni minimo dettaglio.
Non osavo fiatare, soprattutto perché anche il mio lupo si era agitato, come in risposta a quello del mio Alfa, che se ne stava lì, appena sotto la superficie, pronto ad emergere se fosse stato necessario.
«Cacciatori» Sussurrò Sean, la voce bassa, quasi inudibile, ma comunque tagliente.
Dovetti mordermi la lingua per non emettere un acuto “cosa?” che con ogni probabilità avrebbe attirato attenzioni indesiderate. Lui mi fece cenno di seguirlo prima di muoversi verso il cottage nel più completo silenzio. Gli andai dietro fiutando l’aria in cerca di quello che l’aveva fatto scattare sull’attenti: se i cacciatori ci avessero teso un altro attacco volevo essere in grado di accorgermene. Individuai l’odore di metallo, polvere e una nota aspra che mi venne spontaneo associare all’argento.
Quando girammo l’angolo della casa percepii un ringhio basso e cupo prendere forma nella gola di Sean, il suo lupo che si faceva ancora più teso. Dovetti allungare il collo oltre le sue spalle ampie per capire il perché di quella reazione: Nathan se ne stava in piedi vicino alle scale che portavano al portico, le mani nelle tasche dei jeans, l’atteggiamento rilassato ma non troppo di chi sa essere letale e affabile allo stesso tempo.
«Resta dietro di me.» Mi sibilò Sean, la rabbia che gli venava la voce.
Rimasi perplessa di fronte a quella reazione. Era Nathan, non uno di quei fanatici dal grilletto facile, lui era diverso. Eppure Sean si comportava come se fosse una minaccia, qualcosa di micidiale e pericoloso.
Avanzò ancora, i passi silenziosi sul terreno coperto dal muschio morbido. Lo seguii con i battiti frenetici del mio cuore che mi rimbombavano nelle orecchie.
«Che ci fai qui, cacciatore?» Ringhiò Sean.
Nathan si voltò di scatto verso di noi, le sopracciglia chiare inarcate in un’espressione di sorpresa. «Cercavo voi.» Spostò lo sguardo su di me e mi rivolse un sorrisetto. «Direi che vi ho trovati.»
Sean raddrizzò le spalle e lo scrutò in silenzio per qualche secondo. «Sei da solo?»
Il ragazzo allargò le braccia mostrando le mani. «Sono solo io, sì. E no, non è un’imboscata.»
«Questo lascialo decidere a me.» Borbottò il mio Alfa senza accennare ad abbassare la guardia.
«Andiamo, pensi davvero che sia qui per uccidervi? Non sono neanche armato.» Replicò Nathan.
Sean inarcò un sopracciglio. «Sì, lo sei.»
Come per riflesso, lui si portò una mano dietro la schiena prima di rendersi conto dell’errore. Piegò le labbra in una smorfia lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. «Okay, sì, lo sono.»
Il licantropo sollevò il mento. «Cominciare con una bugia è il modo migliore per farsi ammazzare. E ancora non hai detto perché sei qui.»
In quel momento un’auto scura sbucò dal bosco e si fermò poco prima del cottage. L’attenzione di tutti si spostò sulla macchina e sul suo conducente. Quando lo sportello sul lato del guidatore si aprì e ne uscì Adam, Sean sembrò allentare appena la tensione. Era un alleato, non importava se fino a qualche ora prima a stento si rivolgevano la parola.
Nel più completo silenzio, Adam attraversò la radura e affiancò Sean. Anche se era del tutto fuori luogo considerato il nervosismo che riempiva l’aria, non riuscii a non sentirmi orgogliosa nel vedere loro due, così diversi eppure uniti nella stessa battaglia, fronteggiare insieme un pericolo. Che in realtà non era un pericolo, ma almeno li aveva fatti riappacificare, almeno per il momento.
Sean non fece domande sull’improvviso arrivo di Adam, né mostro sorpresa, si comportò come se fosse stato programmato. «Allora, cacciatore, vuoi dirci perché sei qui o no?»
Sotto il giubbotto, le spalle di Adam erano tese, ma il suo volto era perfettamente calmo. Avanzai in silenzio fino ad essere un passo dietro di lui e mi spostai un po’ di lato per avere una visuale migliore. Tra tutti, ero quella che tradiva di più l’agitazione.
Nathan sollevò appena un angolo della bocca annuendo una sola volta. «Ora che siamo al completo direi che posso anche svelare il mistero.» Rimase in silenzio per un attimo, forse aspettando una reazione da parte nostra. L’unica che ottenne fu un’occhiata spazientita da parte di Sean che lo spinse a continuare: «Ho un messaggio.» Disse quindi, la voce di colpo seria, quasi cupa. «Da parte di Colin.»




SPAZIO AUTRICE: Con un ritardo davvero vergognoso, finalmente riesco ad aggiornare. Mi dispiace avervi fatto aspettare così tanto, purtroppo ho avuto una sorta di blocco dello scrittore riguardo a questa storia, ma credo che adesso sia passato.
In questo capitolo ho voluto dare più spazio alla licantropia di Scarlett e anche al rapporto tra lei e Sean. E' una delle relazioni che preferisco all'interno di UAPM perché mette insieme ad una persona chiusa e taciturna come Sean una ragazza curiosa e un po' confusionaria come Scarlett, mette in luce le loro differenze ma anche la loro volontà di far funzionare questo branco molto particolare.
Poi abbiamo Nathan, un cacciatore che sembra essersi convertito, ma è davvero così? E quale sarà il messaggio di Colin?
La smetto di farvi venire l'ansia e concludo augurandovi buon anno <3 (anche se un po' in ritardo...)

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Capitolo 38
*** 38. Adam ***


Under a paper moon- capitolo 38


                                                    

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38. Adam 

«Ho un messaggio, da parte di Colin.» Annunciò Nathan.
Tutta l’ironia era sparita dal suo viso lasciando il posto ad un’espressione seria che non gli si addiceva. Lo faceva sembrare più vecchio, quasi sciupato.
Accanto a me, Sean era guardingo, i muscoli del collo in rilievo per la tensione. «Hai intenzione di riferirlo o no? Non ho tutto il giorno.» Ringhiò, eppure, nascosta sotto l’apparente disprezzo, c’era una punta d’ansia.
Un angolo della bocca del cacciatore si arricciò in una smorfia. «È un ultimatum. Colin vuole qualcosa di concreto entro una settimana.»
Di colpo, mi sentii la bocca secca come sabbia. Avevo improvvisato l’accordo fino a quel momento, cercando di prendere tempo per elaborare una vera e propria strategia, ma non avevo niente, non ancora almeno. Pensavo che saremmo stati noi a gestire i tempi, l’annuncio di Nathan ribaltava completamente la situazione.
«Altrimenti?» Riuscii a chiedere prima di deglutire.
Lui lanciò un’occhiata veloce a Scarlett per poi sospirare. «Altrimenti riaprirà la caccia.»
Al mio fianco, Scarlett trattenne il fiato. Sean serrò la mascella, un lampo d’oro che gli attraversava le iridi. Era in momenti come quelli che tutto il suo lato protettivo veniva fuori, tutte le promesse che aveva fatto sul tenere al sicuro il proprio branco si convogliavano nel suo sguardo, determinato e fiero come quello di un lupo.
«Se dovesse farlo, sa che non ci rintaneremo come conigli spaventati, vero?» Domandò, la voce lenta, misurata. «Sarà una caccia senza ruoli prestabiliti.»
Nathan si passò una mano tra i capelli, sembrava stanco adesso, di quella stanchezza che non puoi guarire dormendo, che ti entra nelle ossa e vi si aggrappa in modo doloroso. «Credo che ne sia consapevole, che tutti lo siano. Vogliono mettere fine a questa storia tanto quanto voi.»
«E sono pronti ad uccidere per farlo?» Chiese Scarlett, i grandi occhi scuri velati di paura.
Il cacciatore evitò di guardarla. «Ecco…»
«Certo che lo sono. Lo fanno da una vita.» Sbottò Sean coprendo la sua voce. «Se il tuo capo è così convinto di quello che sta facendo, bene, vuol dire che in una settimana sapremo chi vivrà. E ti giuro che questa volta nessuno di voi sarà in grado di andarsene sulle proprie gambe.»
Fu come se le sue parole abbassassero la temperatura in tutta la radura cristallizzandola. Nel sentire la rabbia gelida e assoluta che dominava la sua voce ebbi la conferma che Sean Leblanc poteva distruggerti, annientarti e ridurti all’ombra di te stesso esattamente come poteva dare la vita per te, lottare per difenderti anche contro tutto il mondo. Era l’alleato perfetto, ma era anche il nemico peggiore che potesse capitarti di incontrare.
Nathan schiuse le labbra prima di deglutire. «Riferirò.» Il suo fu un mormorio appena udibile nel frusciare degli alberi.
Sean sollevò il mento, l’espressione arrogante e vagamente annoiata di un principe. «Puoi andare adesso.»
Il cacciatore scoccò un’occhiata di sottecchi a Scarlett ed esitò, combattuto. Sembrava sul punto di dire qualcosa, le parole però gli rimanevano impigliate in gola. Dopo qualche secondo, espirò con fare frustrato e si voltò per allontanarsi a grandi passi. Solo quando sentimmo il rumore di un’auto che si allontanava riuscimmo ad allentare un po’ la tensione.
Sean buttò fuori l’aria in uno sbuffo rabbioso fissando il punto in cui Nathan era scomparso tra gli alberi. Scarlett sembrava pietrificata, lo sguardo lontano e reso più scuro da un’ombra.
«Una settimana…» Sussurrò quasi stesse pensando ad alta voce. «Possiamo… possiamo fare qualcosa in una settimana?» Aggiunse poi voltandosi verso di me.
Mi morsi il labbro sentendo un retrogusto amaro in bocca. Il piano era mio, era ovvio che chiedesse a me, ma io non avevo niente, né rassicurazioni né strategie. Avevamo soltanto una scadenza adesso e sembrava pericolosamente vicina.
«Certo che faremo qualcosa.» Dichiarò Sean, il tono fermo di chi non prende neanche in considerazione altre possibilità. «Non toccheranno nessuno di voi.»
Allungai una mano e strinsi quella di Scarlett, che mi rivolse un sorriso sbilenco.
Sean osservò quel gesto con imperioso distacco. «Dovresti dormire un po’ tu.»
Lei si lasciò sfuggire una smorfia. «Sto bene, sul serio.»
«Ha ragione, Scar.» Intervenni. «Ora come ora non possiamo fare niente, tanto vale che tu vada a riposarti.»
Scarlett alternò lo sguardo da me a Sean prima di sospirare passandosi una mano sul viso. «D’accordo, d’accordo. Ma dovete promettermi che non vi ammazzerete nel frattempo.»
Le sopracciglia di Sean si inarcarono in un’espressione quasi indignata. «Non ho tempo di uccidere nessuno adesso, tanto meno lui.»
Lei sembrava ancora dubbiosa. Nonostante questo, non protestò quando ci incamminammo verso la casa, io accanto a lei e Sean appena dietro di noi. Si strinse le braccia al petto trattenendo uno sbadiglio mentre aprivo la porta. Dopo avermi lasciato un bacio sulla guancia, sgusciò verso le scale: a quanto pareva il sonno aveva vinto ogni suo scetticismo riguardo il rapporto tra me e il suo Alfa.
Lasciai entrare Sean prima di richiudere la porta. La sua rabbia feroce si era in parte mitigata, ma c’era ancora tensione nel suo modo di muoversi.
Si avvicinò al tavolo e ne sfiorò la superficie con le dita, sovrappensiero. «Pensavi di andare a scuola oggi?»
Mi mordicchiai il labbro. «A questo punto direi di no.»
«Mmh.» Fece lui prima di sfilarsi la giacca da aviatore e buttarla sul tavolo. Vi si appoggiò con entrambe le mani, le linee morbide che delineavano i muscoli della schiena che si indovinavano sotto il tessuto leggero della maglietta che indossava.
«Non hai freddo?» Mi sentii chiedere.
«No.» Borbottò sbrigativo. «Sto bene. Sto dannatamente bene. Sai perché? Perché avevo ragione.»
Aggrottai la fronte. «Riguardo a cosa?» Si voltò verso di me, un lampo selvaggio che gli attraversava lo sguardo. «Colin. Non ha mai voluto l’accordo, sapevo che prima o poi avrebbe fatto una mossa del genere. Un ultimatum…» Sputò fuori l’ultima parola come se fosse stata intrisa di veleno. «Deve solo provarci.»
«Quindi che facciamo? Voglio dire, tu vuoi…» Iniziai cauto.
«Sì, eccome. Voglio annientarli, ma per ragioni che conosciamo entrambi non posso farlo.» Replicò scoccandomi un’occhiata eloquente. «Dovremmo pensare a qualcos’altro.»
Annuii tra me e me. «Dobbiamo trovare una sorta di merce di scambio, qualcosa che potrebbe accontentarli ma che nello stesso tempo non ci danneggi.» Rimasi in silenzio per qualche secondo cercando di riflettere. «Cosa potrebbero volere?»
«Vederci morti. Ucciderci. Sterminarci.» Elencò Sean senza scomporsi.
«Okay, qualcosa di meno distruttivo per noi?» Tentai.
Lui inarcò un sopracciglio. «Loro cacciano i licantropi, secondo te saranno poco distruttivi? Se dovessero riuscire a mettere le mani su qualcuno di noi… beh, non si limiterebbero ad un solo proiettile.»
Sentii un brivido gelido corrermi lungo la schiena nel ripensare alla ferita di Scarlett, al sangue che le aveva macchiato i vestiti, alla sua espressione terrorizzata e sofferente. Non potevamo lasciare che una cosa del genere accadesse di nuovo.
«D’accordo, non sarà una lotta pari quindi.» Commentai passandomi la lingua sul labbro.
«Non lo è mai stata.» Mormorò Sean cupo.
Di colpo mi tornò in mente la sua voce vuota, piatta mentre raccontava di come i cacciatori avevano sterminato prima la sua famiglia e poi il suo branco, togliendogli tutto, portandolo ad un passo dalla morte. C’era qualcosa di spezzato in lui, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo persino con se stesso, così lo aveva annegato nel potere e nella forza diventando quello che aveva bisogno di essere per sopravvivere, per essere un gradino sopra chi lo voleva morto.
«Prima che me lo dimentichi.» Aggiunse, la voce di colpo più severa. «C’è una cosa che devo chiederti.»
Per quanto mi ripetessi che Sean non era pericoloso, non per me almeno, non riuscii a non irrigidirmi a quel cambio di tono. Mi schiarii la gola nel tentativo di nascondere la tensione. «Cosa?»
«Hai passato una notte di plenilunio con Scarlett.» L’aveva presentata come una domanda, ma quella che aveva appena pronunciato era un’affermazione che non ammetteva repliche.
Se ne era così sicuro, mentire era del tutto inutile. «Sì, l’ho fatto. Qualche mese fa. Perché?»
«Un umano che partecipa ad un plenilunio… è un grande affronto, quasi una mancanza di rispetto.» Rispose dopo aver esitato per un attimo, come se stesse cercando le parole giuste. «Il fatto che quell’umano fossi proprio tu non mi sorprende, però. In effetti, avrei dovuto arrivarci prima.»
«Perché ho l’impressione che questo ti… dia fastidio?» Chiesi cauto.
Mi inchiodò sul posto con uno sguardo oscuro e rabbioso. «Perché è così. Com’è possibile che tu riesca sempre ad infilarti in situazioni pericolose e proibite? Sei un dannato ragazzino, dovresti pensare a… a tutt’altre cose, non ai licantropi.»
«È un po’ difficile farlo quando ne conosco uno. Anzi, due.» Ribattei sostenendo la sua occhiata accusatoria.
Mi si avvicinò a grandi passi, la sua presenza sembrava riempire l’intera stanza. Solo in quel momento mi accorsi dell’aura di potere, selvaggio e irrequieto, che emanava. «Non ti rendi conto di quanto sia preziosa la luna piena per un licantropo, vero? La consideri una mera leggenda, qualcosa di distante e forse anche irritante. Stai insultando uno dei valori più importanti per i lupi, alcuni sarebbero pronti ad ucciderti per questo.»
Quelle accuse bruciavano più del previsto, forse perché venivano da lui, o forse perché non le capivo. Mi stava rimproverando per aver cercato di aiutare Scarlett? Serrai i pugni lungo i fianchi stringendo la mascella. «Ho cercato di fare la cosa giusta. Scarlett non si è presentata con un manuale su come essere licantropi. Anzi, sai cosa? Hai un bel coraggio ad accusarmi di aver sbagliato e aver denigrato la tua preziosa luna piena quando tu per prima hai lasciato Scarlett da sola ad affrontarla.»
Non era quello che avrei voluto dire, non era quello che avevo pianificato, eppure non ero riuscito a frenare le parole. Erano uscite prepotentemente, dure e dirette. Sean mi faceva quell’effetto, mi spingeva a dire quello che pensavo davvero anche quando sarebbe stato meglio tacere.
Una scintilla d’oro gli accese le iridi. «Ho fatto quello che dovevo per sopravvivere. E per quanto riguarda Scarlett, le ho dato un grande potere che tu non puoi comprendere. L’ho resa forte.»
«No, le hai solo complicato la vita. E poi sei sparito.» Sbottai. «Tu non c’eri quando lei aveva bisogno di te, non c’eri e sei ricomparso solo quando ti faceva comodo. È questa la verità, anche se lei ti rispetta troppo per dirtelo.»
«Tu no?» Chiese, la voce tesa come una corda di violino.
Tra tutto quello che avrebbe potuto replicare a una provocazione così aggressiva, quella era l’unica a cui non avevo pensato. Che gli importava di quello che pensavo io? Era un Alfa, poteva fare quello che voleva quando voleva, era potente, perché si preoccupava dell’opinione di un umano?
«Non… non mi hai mai dato un buona ragione per farlo.» Mormorai abbassando lo sguardo.
Rimase in silenzio per qualche secondo. «Quindi è questo quello che pensi di me? Che sono un egoista approfittatore?»
«Penso che avresti potuto farlo in un altro modo, avresti potuto starle accanto, avresti potuto non morderla.» Mi sentii dire.
«Sai perché i cacciatori non la trovarono la notte in cui la morsi? Perché non catturarono neanche me? Cinque anni fa Seattle era sotto il controllo di un altro gruppo di cacciatori, appartenevano alla famiglia Chandler. Quelli che inseguivano me lo sapevano, così come sapevano che entrare nel loro territorio avrebbe portato guai. Ci volle un anno di trattative perché i Chandler li lasciassero venire a Seattle, due perché Colin Young prendesse il comando dopo la morte del loro precedente leader.» Mentre parlava la sua voce era calma, eppure la sua espressione era guardinga.
«Non ti ho chiesto di giustificare quello che hai fatto, né il perché. Ormai Scarlett si è trasformata, il resto della storia lo conosciamo benissimo entrambi.» Replicai. «Voglio solo che tu sia onesto, con me e con te stesso. Pensi davvero di avere qualche diritto su Scarlett? Di poterla rimproverare per come vive la sua licantropia?»
I muscoli del suo collo si tesero di colpo quando serrò la mascella. «E tu pensi di potermi dire come fare l’Alfa, ragazzino? Credi di poter comprendere una cosa tanto grande e di poterla addirittura contestare?» Il disprezzo nel suo sguardo bruciava come acido, soprattutto perché c’era qualcos’altro dietro, un’ombra di quello che sembrava dolore.
Espirai lentamente cercando di mantenere la mente lucida. «Sto solo cercando di farti notare la differenza tra abbaiare ordini dopo essere apparso all’improvviso e impegnarti per costruire un rapporto con Scarlett. Non è facendo il dittatore che otterrai la sua fiducia.»
Avanzò ancora, l’espressione dura come il marmo. «Molti altri al posto mio ti avrebbero già ucciso. Dovresti essermi grato per non averlo fatto.»
Mi lasciai sfuggire un sorrisetto beffardo. «Grazie per avermi risparmiato allora. Sei stato davvero generoso a lasciar vivere l’unica persona che abbia mai provato ad aiutare Scarlett.»
Avevo parlato senza pensare, di nuovo. Questa volta avevo la netta impressione che non me la sarei cavata con una semplice battuta tagliente, il lampo dorato nelle iridi di Sean me lo confermava. Coprì in un secondo la distanza che ci separava costringendomi ad indietreggiare fino a che non mi ritrovai con la schiena al muro. Era teso, quasi impaziente, un fascio di muscoli e nervi pronti a scattare alla minima sollecitazione.
«Oh, non preoccuparti, sono ancora in tempo per rimediare a questa mia mancanza.» Ringhiò, sarcastico e affilato. Mi afferrò un polso e lo sollevò con un movimento brusco. «Sai, potrei morderti adesso, trasformati e metterti allo stesso pari di Scarlett visto quanto ti preme che viva bene la sua licantropia. Potrei farlo, e a quel punto forse capiresti perché faccio quello che faccio.» Come a rendere la sua minaccia ancora più reale, lasciò intravedere le zanne in un sorrisetto senza allegria. «Se dovessimo fare a modo tuo, seguire le regole ed essere sempre gentili, saremmo già tutti morti. Ho dovuto fare delle tante cose per sopravvivere, tu ne condanneresti la maggior parte, eppure io adesso sono ancora qui, la mia coscienza non mi ha ucciso. A volte è necessario dimenticarsi della morale o delle regole.»
«Senza le regole saremmo animali incapaci di vivere insieme in modo pacifico, senza ammazzarci a vicenda.» Ribattei sostenendo il suo sguardo, più cupo del solito. «Abbiamo bisogno delle regole, e abbiamo bisogno di fidarci l’uno dell’altro. Capisco che non ti piaccia avere a che fare con me, ma al momento abbiamo altri problemi di cui occuparci.»
Mi studiò in silenzio, le labbra strette in una linea di tensione. «Su una cosa hai ragione, non mi piace collaborare con te, però non mi piace neanche darla vinta ai cacciatori. Se l’unica possibilità che abbiamo contro di loro è lavorare insieme allora lo faremo. Ma una volta risolto questo, ricorda cosa ti ho detto riguardo al tuo ruolo nel branco.»
Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Boccheggiai sotto il suo sguardo impietoso cercando di pensare con lucidità. Sean non mi diede il tempo di rispondere, si allontanò da me e uscì dal cottage sbattendo la porta con forza. 

Diverse mappe e cartine erano ammucchiate sul tavolo, ne occupavano quasi tutta la superficie. La maggior parte provenivano dall’appartamento di Sean, che, a quanto pareva, ne aveva un’intera collezione. Quelle che a detta sua mancavano ce le eravamo procurate in biblioteca.
In realtà, non mi era del tutto chiaro il motivo per cui Sean avesse bisogno di così tante mappe, soprattutto perché alcune rappresentavano l’Europa, l’Asia e il Sud America oltre agli Stati Uniti e il Canada. Avevamo sei giorni per trovare i termini per negoziare con i cacciatori e lui se ne veniva fuori con un’improvvisa voglia di studiare la geografia mondiale.
Dopo il nostro litigio del giorno prima ero quasi certo di aver rovinato definitivamente il nostro già precario rapporto, invece me l’ero ritrovato davanti a scuola alla fine delle lezioni, pensieroso e taciturno, ma meno rabbioso del previsto. La prospettiva di un’altra guerra contro i cacciatori doveva aver messo a tacere anche il suo orgoglio prorompente portandolo a riconsiderare la nostra alleanza. Temevo ancora che sarebbe stata solo una tregua temporanea, il tempo di risolvere con Colin, poi sarebbe tornato sospettoso e impietoso nei miei confronti, ma intanto avevo guadagnato un accenno di possibilità.
Sollevai dubbioso l’angolo di una cartina del nord Europa che sembrava risalire al secolo scorso. «Non voglio sembrare scettico, ma…»
«Ma lo sei.» Concluse lui, intento a fissare la porta d’ingresso del cottage come se questo potesse far arrivare Scarlett e Matthew prima.
Aveva indetto una riunione di tutto il branco quel pomeriggio, la prima tra l'altro. Adesso pareva impaziente di cominciare qualunque cosa avesse in mente.
«Cosa vuoi fare?» Domandai per la terza volta nel giro di poche ore.
«Ci sono delle cose che devo spiegarvi, cose importanti.» Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Aspetteremo gli altri però.»
Annuii tra me e me. «Naturalmente.»
Con i suoi abituali dieci minuti di ritardo, Matthew aprì la porta del cottage seguito da una Scarlett molto impegnata a non far cadere il bicchiere di carta e la scatola che aveva in mano.
Ci rivolse un sorriso ampio mentre chiudeva la porta con un calcio. «Ehilà! Ho portato dei cupcakes.»
Sean inarcò un sopracciglio astenendosi dal commentare. Matthew si tolse la giacca di jeans lasciandola poi sullo schienale del divano e si avvicinò al tavolo per osservare con curiosità le mappe. Anche Scarlett rivolse loro un’occhiata interessata che poi passò su di me come a chiedere spiegazioni. Mi strinsi nelle spalle facendo un cenno all’Alpha in piedi a pochi passi da noi. Lei non si scompose, trovò un angolo libero per posare la sua scatola e prese un sorso dal bicchiere con la cannuccia nera che spuntava dal tappo.
«Stiamo cercando la nostra nuova casa?» Domandò Matthew ancora chino sulle cartine. «Ho sempre voluto visitare la Tailandia, dite che è un buon posto per nascondersi da dei cacciatori psicopatici?»
«Non scapperemo da nessuna parte.» Lo rimbeccò Sean in tono severo. «Di recente ho… uhm, avuto modo di riflettere sul fatto che tutti avete molte mancanze per quanto riguarda la licantropia e tutto quello che le ruota attorno.» Mentre parlava, per un attimo il suo sguardo si posò su di me. «Ho deciso di rimediare.»
Tutti i rumori nella stanza cessarono di colpo. Matthew smise di sfogliare le carte, Scarlett smise di bere e io continuai a fare quello che avevo fatto fino a quel momento: osservare Sean cercando di interpretare le sue intenzioni, anche se con scarso successo.
«Facciamo lezione di… licantropia?» Chiese Scarlett, gli occhi che brillavano di curiosità.
Sean annuì. «Una specie. Per essere un braco come si deve dovete sapere cosa comporta essere un licantropo, ma anche qualcosa sulla nostra storia.» Accennò al tavolo. «Sedetevi.»
Matthew e Scarlett si accomodarono subito, evitando la sedia a capotavola su cui Sean aveva posato la sua giacca. Mi ci volle un secondo buono per realizzare quello che aveva detto. Scarlett si schiarì rumorosamente la gola richiamandomi alla realtà e solo allora mi decisi a prendere posto a mia volta dalla parte opposta del tavolo.
Sean rimase in piedi, si avvicinò a noi e con delicatezza estrasse una cartina dal mucchio distendendola poi sopra le altre. Rappresentava l’Europa odierna, ogni stato era di un colore diverso, le capitali e le città più importanti erano scritte in uno stampatello efficiente e preciso.
«Penso che tutti voi sappiate che i licantropi sono originari della Romania, più precisamente della Transilvania.» Esordì tracciando con le dita un cerchio leggero intorno alla zona corrispondente. «Su questo le varie leggende e racconti dicono il vero, i primi casi di licantropia sono registrati qui. Ancora oggi, la maggior parte dei lupi vivono nell’Europa dell’est. Un numero consistente di noi vive anche in Inghilterra.»
«Come in quel film? Com’era il titolo, Un lupo mannaro americano a Londra?» Si intromise Matthew guadagnandosi una gomitata da parte di Scarlett.
Sean sospirò. «No. A dir la verità pochi licantropi vivono a Londra, le comunità maggiori sono nel nord della Gran Bretagna, in Galles e in Scozia. Ci sono un paio di branchi anche in Irlanda. Nel resto dell’Europa si conta qualche altra presenza, c’è un branco piuttosto consistente nel sud della Spagna e uno in Austria.»
Tra gli strati di mappe trovai una penna; cominciai a rigirarmela tra le dita mentre riflettevo. «Da come ne parli sembra che ci siano pochi lupi nel mondo.»
«Esatto.» Confermò lui, la voce calma e neutra. «I cacciatori sono convinti che i lupi mannari prenderanno il controllo e soggiogheranno gli umani senza il loro intervento, ma siamo molti meno di quello che pensano. Quando parlo di branchi mi riferisco a gruppi di dieci lupi, o comunque poco più grandi. Uno dei più numerosi si trova a Washington, conta quattordici membri.
»
«Quanti licantropi vivono negli Stati Uniti?» Volle sapere Scarlett avvolgendo le dita intorno al suo bicchiere.
Sean si appoggiò al bordo del tavolo con entrambe le mani. «Non conosco il numero preciso, ma molti meno di quelli che ti aspetteresti. Seattle da sola arriva a malapena a settanta lupi. Per lo più vivono a nord, nelle zone delle capitale e negli stati limitrofi.»
Quasi senza pensarci, tirai fuori il quaderno di matematica dallo zaino, lo capovolsi e cominciai a scrivere sulle ultime pagine. «È un po’ come se foste una minoranza etnica.»
«Uhm, sì.» La voce di Sean suonò incerta. «Non è l’esempio che avrei usato, ma sì. Le persone hanno un’immagine distorta di noi, soprattutto i cacciatori. Ci credono un’orda di creature demoniache assetate di sangue.» Le sue labbra di arricciarono appena in una smorfia nel pronunciare le ultime parole.
«Perché siete… siamo così pochi?» Intervenne Scarlett. «Voglio dire, se basta mordere una persona per trasformarla, perché nessuno ha cercato di incrementare il numero di lupi?»
Lui incrociò le braccia al petto. «Non è così semplice. Il solo morso non basta, ci sono molti altri fattori in gioco che portano alla trasformazione. È un’arma a doppio taglio, può innescare il meccanismo giusto e creare un nuovo licantropo o può avere… effetti collaterali.»
Sollevai lo sguardo su di lui, incuriosito. «Effetti collaterali?»
«Non tutti quelli che vengono morsi si trasformano. A volte il corpo umano reagisce difendendosi e facendo partire una sorta di contrattacco. Non è il termine adatto, ma diciamo che una volta che si viene morsi le cellule umane interessate cominciano a mutare.» Spiegò Sean dopo aver lanciato un’occhiata critica al mio quaderno. «A questo punto, è l’organismo a controbattere cercando di combattere questo cambiamento e di fermarlo, lo percepisce come un virus, un’infezione che deve essere debellata.»
«I licantropi sono più forti degli umani, quindi anche le loro cellule lo sono. Il corpo di una persona non può semplicemente fermarle… giusto?» Dedussi mordicchiando il tappo della penna.
Sean fece un cenno d’assenso nella mia direzione. «Esatto. La risposta delle cellule umane è immediata, ma inutile. L’unico risultato che ottengono è indebolirsi in modo molto grave. Chi viene morso e non si trasforma subisce ripercussioni fisiche di grande portata, al pari di quelle di un cancro o della leucemia. Il corpo impiega troppe risorse per combattere le cellule che stanno cambiando, riesce in qualche modo a frenare la trasformazione, questo sì, per farlo però si sfinisce al punto da rimanere invalido in modo permanente.»
Scarlett ritrasse le mani dal bicchiere come si fosse scottata, l’espressione sconvolta. «E come… come funziona allora? Mordete gente a caso sperando che il loro corpo reagisca bene?»
C’erano mille altre domande ad affollarle la mente, lo si percepiva dal suo sguardo tormentato. Non era difficile intuire a cosa stesse pensando, cosa quelle informazioni avessero risvegliato in lei. E doveva averlo notato anche Sean, perché i suoi occhi si incupirono; adesso assomigliavano a due schegge di vetro opaco.
«No, questa è solo una delle tante variabili che entrano in gioco quando si parla di trasformazione.» Disse addolcendo la voce. «Si devono considerare anche il sistema immunitario, le condizioni di salute, persino le allergie possono influire. E il DNA. Se vieni morso da un lupo qualunque le probabilità che ti trasformi sono basse, soprattutto se questo lupo è stato morso a sua volta. Se è un licantropo dalla nascita allora la situazione… migliora un po’.»
Lei strinse le labbra riducendole ad una linea stringendosi le braccia al petto con forza. «Mmh. Non hai ancora risposto alla mia domanda.»
Sean espirò piano. «Gli Alfa sono i lupi più capaci di trasformare, per ovvie ragioni. Un Alfa che è licantropo di nascita ha circa l’ottanta per cento di possibilità di creare un lupo. Siamo in grado di percepire quando una persona può reggere il morso, non con assoluta certezza, ma quasi.»
Scarlett annuì dopo aver esitato per un attimo. Un angolo della sua bocca si contrasse appena, quasi avesse voluto parlare ancora.
«È per questo che hai morso Scarlett?» Mi sentii chiedere pur senza aver deciso di farlo.
Mi ritrovai al centro dell’attenzione di tutti, tre paia di occhi mi fissavano con sorpresa. Nessuno, neanche io, si aspettava una domanda del genere da me. Sean afferrò il bordo del tavolo con un mano osservandomi senza preoccuparsi di nascondere il suo interesse.
«Sì, è stato puro istinto.» Si strinse nelle spalle, ma quel gesto non sminuì le sue parole. «Quella notte è stato qualcosa che va oltre l’umano a portarmi a morderla. È difficile da spiegare, semplicemente sapevo che avrebbe reagito bene.» Spostò la sua attenzione su Scarlett. «E posso dire che è stata una buona scelta.»
«Lo dici solo perché ho portato la merenda.» Borbottò lei, eppure si vedeva che quell’ultima frase le aveva fatto piacere.
Lui si concesse un breve sorriso appena accennato, prima di tornare serio. «I lupi sono animali sociali, fatti per vivere in branco. Cercano in modo automatico di unirsi ad un gruppo o di crearne uno. Non sempre risulta facile convivere e collaborare, soprattutto per creature dalle tendenze irascibili. È a questo che servono gli Alfa.»
«Per questo motivo i branchi non sono molto grandi né molto comuni, giusto?» Intervenne Matthew, che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare.
«Mm-mm. Non è facile far stare insieme un gruppo di licantropi, spesso si creano conflitti per questioni stupide o per eccessi d’orgoglio. Diciamo che siamo anche noi stessi la causa della scarsità di lupi, spesso e volentieri non siamo in grado di gestirci e attiriamo l’attenzione dei cacciatori.» Confermò Sean, le dita che tamburellavano sulla superficie del tavolo. «Ho visto interi branchi sterminati per questa ragione.»
Rilessi gli appunti che avevo scarabocchiato mentre lui parlava. «Quindi i lupi vogliono una sorta di comunità, ma hanno bisogno di una guida, qualcuno che dia loro disciplina e sicurezza.»
Sean inarcò le sopracciglia. «Sì, ma che diavolo stai scrivendo?»
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi. «Uhm, niente, prendo qualche appunto, mi aiuta a pensare.»
Lui aggrottò la fronte inclinando la testa di lato ricordandomi l’espressione che faceva Cora quando voleva mangiare. «Okay, perché no? A questo punto dobbiamo impiegare ogni risorsa che abbiamo.»
«È per via dell’ultimatum di Colin che hai organizzato questa… lezione?» Chiese Scarlett guardandolo con una certa insistenza.
«Ci servono idee per concludere quest’accordo, ma per crearne abbiamo bisogno di avere tutte le carte in tavola. Adesso sapete di più sui licantropi, avete più elementi in mano per cercare una soluzione.» Spiegò lui. «Essere disinformati è solo dannoso.»
«È questo il problema con i cacciatori,» Commentai ripassando la parola “branco” che aveva appuntato al centro della pagina, «sono disinformati riguardo ai licantropi e al loro stile di vita. Da quel che ho visto ho l’impressione che neanche si facciano troppe domande su come vivete o sulla vostra gerarchia.»
Matthew si passò una mano tra i capelli disordinati. «Non si sono mai soffermati a pensare ad una cosa del genere, sanno solo che i lupi sono pericolosi e che devono essere sterminati. Anche io ho visto fin troppi licantropi morire senza una buona ragione.»
«È per questo che siamo qui, per escogitare una strategia contro Colin e il suo gruppo.» Convenne Sean e c’era una nuova luce ad animargli lo sguardo.
Mordicchiai la penna osservando il foglio davanti a me. «Hai detto che ai lupi serve una guida per tenerli uniti e hai anche detto che a Seattle non ce ne sono molti.»
«Non stai suggerendo quello che penso io, vero?» Mi ammonì lui con aria cauta.
«È una città grande, ma tu hai diverse conoscenze, no? Se riusciamo a coinvolgerle possiamo coprire zone molto più ampie…» Cominciai cercando una mappa di Seattle tra tutte quelle sparse sul tavolo.
Sean sbuffò scuotendo la testa. «Sarebbe una follia. Come pensi di convincerli? Portando loro dei cupcakes?»
«Prima cosa, non sottovalutare i cupcakes. Seconda cosa, si può sapere di che state parlando?» Sbottò Scarlett alternando lo sguardo tra me e lui.
«Creare un branco unico che comprenda tutti i lupi di Seattle.» Rispose il suo Alfa prima di sfilare una cartina da chissà dove e mettermela davanti. «Ecco di cosa stiamo parlando.»
Fui meno sorpreso del previsto nel notare che la mappa che aveva trovato era proprio quella che stavo cercando. «Può funzionare. Settanta lupi non sono la fine del mondo, in qualche modo possiamo unirli.»
«I licantropi di Seattle sono piuttosto tranquilli, no? In tutti gli anni che ho vissuto qui non ho mai sentito parlare di attacchi durante i pleniluni né di risse.» Si intromise Matthew.
«Sono abbastanza intelligenti da capire che non devono esporsi, di questo dobbiamo rendergliene atto.» Commentò Sean con una piccola smorfia. «Ma creare un branco di settanta licantropi resta un’impresa da pazzi.»
Lo guardai negli occhi, quasi sfidandolo a distogliere lo sguardo. «Troveremo un modo per farlo funzionare. Se ci riusciamo, i cacciatori non avranno più ragione di stare qui.»
«Noi licantropi cerchiamo per istinto un gruppo a cui appartenere, se ne creiamo uno che abbia te come leader accontenteremo tutti, cacciatori e lupi.» Convenne Scarlett sporgendosi in avanti. «I licantropi avranno un branco e saranno sotto controllo, è perfetto.»
«Ho deciso di tornare perché tu eri in pericolo, non perché volevo una responsabilità del genere.» La voce di Sean aveva assunto una nota più cupa. «Questo è troppo. Una cosa è fare un accordo con i cacciatori per tenere al sicuro voi, un’altra prendersi sulle spalle un’intera città.»
Mi mordicchiai il labbro sentendo i sensi di colpa pugnolarmi. Sean era scaltro e cauto, avrebbe trovato un modo per gestire un branco di quelle dimensioni, ma non potevo chiedergli di farlo contro il suo volere. Era ricomparso dopo cinque anni per salvare la vita di Scarlett e aveva deciso di restare solo per lei, era probabile che, una volta sistemata la questione con i cacciatori ed essersi assicurato che lei sapesse gestire la propria licantropia sarebbe, scomparso di nuovo.
Perché avrebbe dovuto rimanere? Non aveva legami qui, poteva andarsene per cercare qualcosa di meglio per se stesso, che motivo aveva di correre un rischio così grande? Ma era l’unico modo per battere i cacciatori in modo permanente.
Trassi un respiro profondo prima di parlare. «Pensa se, anni fa, tu avessi trovato un posto come questo, una città priva di cacciatori, un branco che poteva accoglierti, anche solo temporaneamente. Un luogo dove sentirti al sicuro e prendere un po’ di respiro.»
Sean strinse il tavolo con più forza, fino a far sbiancare le nocche. «Non usare il mio passato contro di me. Posso sorvolare su molte cose, ma non su questa.»
«Non è quello che sto facendo, sto cercando di farti vedere le cose da un altro punto di vista.» Replicai abbassando appena la voce. «Puoi, possiamo fare grandi cose se lavoriamo insieme, questo branco può essere un ottimo punto di partenza.»
«È una buon’idea, risolverebbe tutto e ci metterebbe in un’ottima posizione, un po’ esposta forse, ma non saremmo soli.» Disse Matthew lanciando un’occhiata a me e Scarlett. «È a questo che serve un branco, no?»
«Se dovessi accettare…» Iniziò Sean, la mascella serrata e i muscoli tesi.
«I grandi imperi non nascono dai “se”.» Intervenne Scarlett. Rendendosi conto di avere gli occhi di tutti su di sé, scrollò le spalle. «L’ha detto oggi il mio professore di storia e credo che abbia ragione. Napoleone non si è fatto fermare da qualche dubbio, ha perseverato. Certo, alla fine è stato esiliato ed è morto in solitudine, ma prima ha fatto grandi cose.»
«Anche Carlo Magno.» Aggiunse Matthew annuendo. «E Carlo V. Forse dovresti cambiare nome in Carlo…»
Sean si massaggiò le tempie sbuffando piano. «Potete tornare seri, per favore?»
«Sono seria!» Esclamò Scarlett con enfasi. «Napoleone e Carlo Magno erano coraggiosi e determinati, hanno lasciato il segno nella storia. E credo che l’abbia fatto anche l’altro Carlo, ma non me lo ricordo… Comunque, il punto è che tu puoi essere come loro, se non migliore. Mi hai salvato la vita, Sean, sei coraggioso e determinato anche tu. E poi, non sei da solo.»
«Oh sì, ho un diciassettenne testardo e con poco senso di autoconservazione ad aiutarmi, come sono fortunato.» Borbottò Sean incrociando le braccia al petto.
Mi lanciò un’occhiata inarcando un sopracciglio e dal suo sorrisetto appena accennato intuii che la mia espressione era più indignata di quanto credessi.
«Pensa a noi che dobbiamo collaborare con un licantropo con tendenze lunatiche e che risponde a monosillabi.» Replicai sollevando il mento.
Matthew appoggiò i gomiti sul tavolo. «Va bene, va bene, abbiamo tutti dei difetti. Torniamo a noi adesso. Se lavoriamo insieme e ci organizziamo come si deve possiamo farcela, però dobbiamo essere tutti d’accordo. Proporrei una votazione, chi è a favore di creare un unico branco per tutta Seattle?»
Scarlett e io alzammo le mani nello stesso momento, subito seguiti da Matthew. Ci voltammo a guardare Sean, in attesa: noi da soli eravamo già la maggioranza, ma senza di lui non avremmo potuto fare assolutamente nulla.
«Se vogliamo farlo sul serio, abbiamo sei giorni per metterlo a punto.» Mormorò e per la prima volta da quando l’avevo conosciuto apparve vulnerabile, esposto.
Annuii ricambiando il suo sguardo. «Diamoci da fare allora.»
«Prima mangiamo però, sto morendo di fame.» Si intromise Scarlett riprendendo la sua scatola. «Ho preso i cupcakes ai mirtilli.» Aggiunse sollevando il coperchio con espressione soddisfatta.
Matthew si sporse a sbirciare da sopra la sua spalla con aria interessata. Sean scosse la testa lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso. Posai la penna e trassi un respiro profondo: avevamo ancora delle questioni in sospeso, questioni che volevo chiarire anche se mi spaventavano.
«Possiamo parlare un attimo?» Gli chiesi alzandomi.
Mi guardò annuendo appena. Ci spostammo vicino alle scale di legno che salivano al secondo piano lasciando Scarlett a battibeccare con Matthew su come dovevano dividersi i dolci; c’era una distanza vagamente imbarazzata tra noi, come se entrambi stessimo ripensando alle accuse che ci eravamo rivolti solo il girono prima.
Mi schiarii la gola. «Vuoi ancora buttarmi fuori dal branco?»
Si passò la lingua sul labbro prendendosi qualche secondo per rispondere. «Hai messo molto impegno in questo progetto, sei stato tu a dargli il via, sarebbe egoistico e ipocrita da parte mia cacciarti senza riconoscerti i tuoi meriti.»
Rimasi in attesa, il cuore che mi batteva frenetico contro le costole. E lui doveva averlo notato, per forza. Ci tenevo più di quanto avessi ammesso con me stesso, me ne rendevo conto solo ora.
«Puoi restare.» Mormorò infine Sean. «Ci tieni a lei, non faresti mai niente per ferirla.»
A dir la verità, la sua affermazione era un po’ riduttiva. Non avevo proposto l’accordo solo per Scarlett, forse all’inizio era stato così, ma adesso, dopo aver imparato di più sui licantropi e soprattutto sulle persone che costituivano quel nostro branco improvvisato, proteggerlo era più di un semplice tornaconto personale.
Abbassai lo sguardo mordendomi l’angolo del labbro. «Già… ma non è solo per lei.»
«So che conosci Matt da molto tempo, però tutto questo è partito per Scarlett, per salvare lei. Mi è sembrato ovvio che fosse quella la ragione principale.» Rispose Sean stringendosi nelle spalle.
«E tu? Non pensi che ci sia qualcuno che si preoccupa per te?» Le parole sgusciarono fuori prima che potessi fermarle. Trattenni il fiato d’istinto, mi aspettavo un commento evasivo e affilato ad una domanda del genere.
Lui rimase calmo, del tutto a suo agio. «Seattle non è la mia città, non c’è nessuno qui per me. E va bene così.»
Dovetti mordermi la lingua per non aggiungere nient’altro. La sua voce aveva una vaga nota di rassegnazione che gli avevo già sentito usare, non sentiva di meritarsi niente da nessuno; se aveva bisogno di qualcosa o di qualcuno non avrebbe chiesto aiuto, si sarebbe arrangiato da solo.
«Avremo molto lavoro da fare, ragazzino, pensi di essere pronto?» Domandò, gli occhi di una sfumatura di verde più chiara adesso, meno torbida.
Lanciai un’occhiata a Scarlett: si era seduta sul bordo del tavolo mentre mangiava con evidente soddisfazione uno dei suoi cupcakes. Sorrideva, era bella e spontanea e degna di vivere. Ne valeva la pena, anche solo per vederla sorridere di nuovo in quel modo.
«Sì, penso di sì.» Dissi senza distogliere lo sguardo da lei. «Dobbiamo esserlo.»





SPAZIO AUTRICE: Sono in super ritardo con questo aggiornamento, lo so, ma questo capitolo è stata una vera e propria impresa da scrivere: ci avviciniamo alla fine della storia, tra meno di cinque capitoli sarà conclusa, e voglio fare le cose per bene per questo probabilmente mi servirà più tempo.
Vi chiedo un po' di pazienza in più, che spero tanto di riuscire a ripagare dandovi un bel finale <3
Nel frattempo, che ne pensate di questo nostro branco un po' improvvisato? Sean sta facendo un buon lavoro nel suo ruolo di Alfa? Riusciranno a trovare un accordo con Colin e i suoi cacciatori? Sono curiosa di sapere che ne pensate **
Grazie per aver letto anche questo capitolo, a presto! (Almeno spero...)

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Capitolo 39
*** 39. Scarlett ***


Under a paper moon- capitolo 39

                                                    

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39. Scarlett

Dopo un’intensa mattinata a scuola passata a cercare di convincere la professoressa di matematica del fatto che mi stessi impegnando per migliorare e a improvvisare parole in francese per sopperire al mio scarso vocabolario, tutto quello che volevo era andarmene a casa e mangiare qualche schifezza fin troppo dolce comodamente sdraiata sul divano.
Qualcosa però mi diceva che Sean e Adam, appostati davanti all’ingresso della scuola, la pensavano diversamente.
Mi avvicinai, cauta, tendendo l’orecchio per captare qualche frammento della loro conversazione. Non appena mi vide - e mi notò quasi subito - Sean si interruppe portando anche Adam a voltarsi. Formavano una strana accoppiata: uno biondo e l’altro quasi moro, uno in giacca di pelle e l’altro con una semplice felpa, uno sempre in allerta e l’altro perso nei propri ragionamenti. Eppure in qualche modo funzionavano, perché la tensione tra loro era diminuita di molto e anzi, adesso sembravano a proprio agio insieme.
Li raggiunsi ritrovandomi a sorridere. «Ehi. Cos’è, un’altra riunione del branco?»
«È più una missione in realtà.» Commentò Sean incrociando le braccia al petto.
Mi voltai in automatico verso Adam sperando che lui fosse meno criptico. Ma lui si limitò ad alzare le mani. «Ne so quanto te, Scar.»
«Quindi niente.» Borbottai scocciata prima di scoccare un’occhiataccia a Sean. «Non credi sia il caso di essere un pochino meno misterioso visto che abbiamo sei giorni per trovare un accordo con i cacciatori?»
La sua unica reazione fu un movimento del sopracciglio. «Oh sì, hai ragione, dovrei andarmene in giro a dire a tutti che Seattle è sull’orlo di una guerra tra creature soprannaturali e cacciatori.»
Rimasi spiazzata da quella che doveva essere solo una battuta. Quanta verità c’era in quelle parole? Rischiavamo davvero uno scontro o aveva solo ingigantito la cosa? «Potrebbe succedere davvero? Potrebbe esserci una guerra?» Chiesi sentendo il tremore nella mia stessa voce.
Adam abbassò lo sguardo stringendo le labbra e colsi Sean lanciargli un’occhiata che non riuscii ad interpretare. Avevo la netta impressione che mi stessero nascondendo qualcosa, magari senza cattive intenzioni, forse volevano solo proteggermi. Eppure non potevo fare a meno di sentirmi tradita, almeno un po’. Volevo essere coinvolta all’interno del branco e nella ricerca di una soluzione, avevo il diritto e il dovere di esserlo.
«Sì.» La voce del mio Alfa era chiara, limpida. «Potrebbe succedere. Anzi, sono abbastanza sicuro che sarà così se non interveniamo. Per questo oggi andremo da delle mie vecchie conoscenze: se giochiamo bene le nostre carte abbiamo una possibilità.»
«Dobbiamo almeno tentare.» Aggiunse Adam, quasi a dargli manforte.
Annuii con forza. «Okay, facciamolo. Ma prima, devo mangiare qualcosa.»
Due sguardi, uno azzurro e l’altro verde, si spostarono su di me, perplessi. Da parte mia, io sollevai il mento mettendo in chiaro che quello era un punto su cui non volevo cedere: potevo affrontare tutto, o quasi, per proteggere la mia città e le persone a cui tenevo, però sarei stata in grado di farlo solo a stomaco pieno.
«Io ho una mela, se ti va.» Tentò Adam.
Mi lasciai sfuggire una smorfia. «Uhm, senza offesa, ma avevo in mente qualcosa di più dolce e calorico.»
Sean sbuffò. «Va bene, ti compreremo del gelato mentre andiamo. Contenta?»
Sorrisi compiaciuta. «Sì, decisamente.»

L’auto di Sean - come disse lui stesso - era una Chevrolet Camaro del 2009 nera e lucida. Da come la guardava, sembrava esserne molto fiero e anche un po’ geloso. Sfiorò la carrozzeria senza pensarci, quasi la stesse accarezzando, e rivolse a me e Adam uno sguardo d’avvertimento che racchiudeva un avviso implicito: rovinatela e vi uccido.
Dovevo ammettere che era una bella macchina, aveva le linee sinuose ma non troppo eleganti che le davano un tocco più aggressivo che si addiceva al proprietario. O almeno, era quello che riuscivo ad interpretare data la mia scarsa conoscenza di auto.
Sean prese posto al volante con movimenti spontanei e sicuri, quasi non avesse fatto altro in tutta la vita. Adam si sedette accanto a lui sotto il suo sguardo vigile e gli passò la mela che l’Alfa aveva deciso di reclamare mentre camminavamo verso la macchina.
Io mi appostai sui sedili posteriori e scivolai al centro per avere una visuale pulita della strada. «Niente Matthew?»                  
Adam scosse la testa incrociando il mio sguardo nello specchietto retrovisore. «Il suo gatto si è sentito male, è dal veterinario adesso.»
«Oh...» Mormorai prima di stringere le labbra. «Mi dispiace. Spero si... rimetta presto.»
Sean diede un morso alla mela prima di mettere in moto l'auto. Il motore prese vita con un ruggito soffuso. «Se la caverà, quel gatto ha letteralmente nove vite.» 
«Comunque, puoi almeno dirci in che zona di Seattle andiamo o deve rimanere un mistero anche quello?» Domandò Adam con una punta di irritazione. Non sapere qualcosa doveva essere piuttosto frustrante per lui, abituato com’era ad avere sempre tutti gli elementi in mano per poter riflettere e farsi una sua idea. Essere tenuto all’oscuro era una tortura per lui.
Sean ingranò la marcia. «Andiamo ad incontrare delle mie vecchie conoscenze, lupi che ho conosciuto quando arrivai a Seattle.»
Quelle parole catturarono la mia attenzione facendomi dimenticare persino del gelato che mi era stato promesso. «Incontreremo altri licantropi?»
Sean mi lanciò un'occhiata mentre usciva dal parcheggio della scuola. «Mm-mm. Loro possono aiutarci a mettere insieme un unico branco che comprenda tutta la città.»
Al suo fianco, Adam si irrigidì e sentii il suo battito cardiaco accelerare. Doveva averlo notato anche Sean, perché lo scrutò per un attimo senza darlo a vedere.
«Sono brave persone.» Disse con voce più dolce. «Aiutano chi è in fuga dai cacciatori, chi ha bisogno di un posto dove riprendere fiato. Fino a cinque anni fa gestivano un locale che era un po’ un punto di riferimento per i lupi di Seattle.»
«Quindi tu non li vedi da cinque anni?» Chiese Adam tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Un angolo della bocca dell’Alfa si contrasse appena. «Beh… sì. In realtà qualche volta ho avuto occasione di vederli e scambiarci due parole, ma niente di che.»
«E adesso stiamo andando da loro per creare un branco di settanta lupi.» Mormorò il ragazzo prima di espirare.
Sean strinse appena di più il volante. «Funzionerà. A meno che non siano privi di intelligenza capiranno quanto è importante unirci per battere i cacciatori.» Staccò un altro morso alla mela. «E poi, il piano è tuo, ragazzino, dovresti essere il primo a crederci.»
Adam si mordicchiò il labbro. «Lo so, lo so. Solo che non mi aspettavo che succedesse così… in fretta. Pensavo che avremmo avuto più tempo per organizzarci.»
«Magari questo è l’impulso che ci serve, ci aiuterà a risolvere la questione una volta per tutte.» Intervenni cercando di riportare un po’ di ottimismo.
Sean annuì, sorprendendomi. «Sì, ha ragione. Adesso non abbiamo scelta, se non farlo funzionare. Ed è esattamente quello che faremo.»
Il resto del viaggio fu più piacevole del previsto. Sean sapeva gestire con grande naturalezza una macchina grande e potente come la Camaro, anche nelle manovre più azzardate che gli facevano guadagnare occhiatacce da parte di Adam.
Quest’ultimo aveva tentato in tutti i modi di scucire più informazioni riguardo gli altri lupi che avremmo incontrato al nostro Alfa, senza tanto successo però. Mentre loro due battibeccavano sui limiti di velocità e la mancanza di dettagli riguardo la nostra missione, io passai il tempo a fantasticare su come sarebbe stato incontrare altri licantropi, entrare in contatto con l’altra parte di me e scoprirne di più.
Avevo avuto a che fare solo con Sean fino a quel momento che, pur essendo un ottimo insegnate, era piuttosto taciturno e restio a parlare della sua licantropia. E io morivo dalla voglia di sentire altri racconti ed esperienze, di confrontarmi con persone che erano come me. Prima di allora non ci avevo mai pensato, ma adesso mi rendevo conto di quanto avrebbe potuto essermi utile.
Dopo una ventina di minuti, Sean parcheggiò l’auto davanti ad un edificio di mattoni rossi ad un solo piano che si ergeva in uno dei quartieri nord di Seattle, vicino alla costa. C’erano altri palazzi lì intorno, condomini e qualche attività commerciale più un parco dall’aria un po’ trascurata.
Sean lanciò un’occhiata ad Adam e scese dall’auto. Noi due lo seguimmo subito, ansiosi di scoprire cosa ci attendeva. Sopra la porta dell’edificio c’era un’insegna bianca sbiadita che recitava “Luna di carta” in un corsivo tutto riccioli. Sentii un brivido di eccitazione sfiorarmi la schiena e contagiare anche il mio lupo: quel posto poteva essere la chiave per capire meglio chi ero e accettarlo fino in fondo, diventarne più consapevole. Poteva darmi tutte le risposte che cercavo.
Sean ci fece cenno di seguirlo prima di avviarsi verso l’ingresso affondando le mani nelle tasche della giacca. Adam, il battito del cuore ancora in subbuglio, mi affiancò mentre camminavamo dietro all’Alfa. Raggiunse per primo la porta e ci aspettò prima di aprirla per farci entrare.
La prima cosa che mi colpì fu l’odore che riempiva l’aria, un mix di legno e spezie con una nota dolciastra che si sentiva appena. Subito dopo il rumore mi riempì le orecchie: una moltitudine di voci, alcune più basse e pacate, altre alte e rimbombanti, risuonava nell’ampia sala davanti a noi insieme al tintinnio dei bicchieri, allo strusciare delle sedie sul pavimento, alle risate secche o prolungate.
La stanza era piena di tavoli di legno di varie forme e dimensioni che, nonostante le differenze, si abbinavano bene tra loro, un connubio eclettico come quello delle persone che li occupavano: c’erano ragazzi e uomini di mezz’età, giovani donne e signore, gente solitaria e gruppi numerosi, accenti del nord, del sud e di altri paesi. Avevano tutti un’unica cosa in comune: erano licantropi, dal primo all’ultimo.
Rimasi disorientata per un attimo, la mente in tumulto che straripava di informazioni. Percepivo così tanti lupi intorno a me da faticare a respirare, li sentivo prima uno ad uno, poi tutti insieme, muoversi, fremere, agitarsi e vivere sotto la pelle di quelle persone all’apparenza così normali.
Mi sembrava di essere un cucciolo eccitato adesso, ma non riuscivo a frenare l’entusiasmo. Per anni avevo creduto di essere una specie di scherzo della natura, un mostro a volte, e ora… ora ero circondata da altri come me, uomini e donne, ragazzi e ragazze che potevano capirmi e che condividevano i miei stessi problemi e poteri.
«Rimanetemi vicino.» La voce bassa ma autoritaria di Sean interruppe il flusso frenetico dei miei pensieri riportandomi alla realtà.
Mi accorsi solo in quel momento che le voci si erano ridotte ad un brusio dai toni concitati e che molti ci fissavano con sospetto. Deglutii ricambiando qualche occhiata, il calore fin troppo familiare dell’imbarazzo che mi saliva alle guance. E tanti saluti al proposito di fare una buona impressione.
«Andiamo.» Aggiunse Sean, questa volta con una punta di urgenza. Lo seguimmo attraverso la stanza, scansando tavoli e sedie e cercando di ignorare le occhiate diffidenti che sentivamo sulla schiena. Passammo accanto ad un bancone di legno lucido davanti al quale erano allineati degli sgabelli in metallo; dall’altra parte, un ragazzo giovane dai capelli neri tagliati corti stava passando uno straccio sulla superficie lignea, ma la sua mano si fermò quando gli fummo vicini. Indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate e un gilet nero gessato. I suoi occhi scuri ci studiavano cauti, anche se meno guardinghi degli altri.
Distolsi lo sguardo da lui giusto in tempo per vedere una donna alta e longilinea che ci veniva incontro. La sua pelle era olivastra, di una calda sfumatura dorata che faceva risaltare le iridi castane. Una massa di riccioli scuri le sfiorava le spalle sottili coperte da una camicia larga lasciata aperta su una canottiera. Una piccola cicatrice bianca le attraversava il sopracciglio rendendo più interessanti i lineamenti eleganti del suo viso.
Le labbra carnose si schiusero in un sorriso radioso. «Sean Leblanc. Bentornato.» Esordì aprendo le braccia. «Non pensavamo di vederti di nuovo da queste parti.»
Contro ogni mia aspettativa, Sean ricambiò il sorriso. Ovviamente a modo suo, ovvero sollevando solo un angolo della bocca. «Dawn Johnson. Non è cambiato niente qui, mmh?»
«Perché dovremmo cambiare qualcosa che funziona così bene?» Replicò lei, un lampo che le attraversava lo sguardo. Come tutti gli altri, era una lupa. Dalla sicurezza che trasmetteva pareva che quel locale fosse il suo regno e lei l’unica ed indiscussa regina. «Come mai qui, Leblanc?» Chiese osservandoci con discreta curiosità.
«Devo parlarti.» Disse secco lui perdendo ogni traccia di sorriso.
Dawn inarcò un sopracciglio. «Dritto al punto, come sempre. Non mi presenti i tuoi accompagnatori prima?» Aggiunse poi rivolgendo un sorriso gentile a me e Adam.
Sean le comunicò i nostri nomi con fare sbrigativo. «Possiamo parlare adesso? È piuttosto importante.»
«Naturalmente, andiamo nel mio ufficio. Loro vengono?» Volle sapere lei in tono gentile.
«Sì.» La risposta di Sean fu immediata, non lasciava spazio a dubbi.
La donna annuì e ci fece cenno di seguirla fino ad una porta che si apriva sul muro opposto rispetto all’ingresso. La spalancò e si infilò dentro, attese che fossimo entrati tutti prima di richiuderla e riprendere il comando del gruppo. Ci guidò attraverso un corridoio in penombra con le pareti ricoperte fino a metà di pannelli di legno. Aprì una seconda porta alla nostra destra e ci invitò con un cenno del capo ad entrare. Quando le passai accanto, l’odore agrumato della sua pelle mi riempì le narici per un attimo, il mio lupo fremette nel ritrovarsi così vicino al suo, sconosciuto e misterioso.
Ci ritrovammo in un piccolo ufficio illuminato da una grande finestra incorniciata da tende azzurre. Davanti a questa c’era una vecchia scrivania di legno scuro segnato da graffi e ammaccature e la cui superfice ospitava un quaderno, qualche penna, un raccoglitore da cui spuntavano dei fogli e una cornice che racchiudeva una foto di qualche anno prima di Dawn in compagnia di un uomo alto e massiccio con i capelli castani e un braccio ricoperto di tatuaggi; i due sorridevano e dietro di loro campeggiava l’insegna, allora nuova e candida, del Luna di Carta. Accanto alla porta c’era un divano verde bottiglia con i cuscini schiacciati e la stoffa sui braccioli lisa dall’usura.
Era una stanza piena di vita e ricordi, avevo l’impressione di essermi affacciata nella memoria di Dawn e aver carpito qualche immagine fugace del suo passato.
«Accomodatevi.» Ci invitò mentre girava intorno alla scrivania per sedersi sulla sedia di pelle dietro di essa.
I suoi movimenti avevano la stessa grazia misurata e precisa che avevo visto anche in Sean, era attenta a tutto e a tutti, come se fosse in grado di percepire l’esatta posizione di qualunque essere vivente intorno a sé. Ero piuttosto sicura di non avere altrettanta eleganza, di solito inciampavo dappertutto e sbattevo contro ogni mobile o spigolo, mentre lei… pareva che il mondo si muovesse per farle spazio.
Sean spostò una sedia che non avevo notato perché era dietro di noi e la posizionò davanti a me, accanto alle altre due che già c’erano. Incrociai il suo per un secondo e lui mi rivolse un breve cenno d’incoraggiamento. Prendemmo posto tutti e tre davanti alla scrivania su cui Dawn aveva posato i gomiti. Le maniche della camicia le erano scese lungo le braccia svelando un intreccio di bracciali di pelle e stoffa colorata che le coprivano i polsi.
«Allora Leblanc, dritti al punto come piace a te: cosa stai cercando? Cosa ti ha spinto qui?» Domandò guardando l’Alfa davanti a sé con interesse.
Sean si appoggiò meglio allo schienale della sedia. «Voglio mettere su un branco.»
Dawn sollevò entrambe le sopracciglia. «Devo essere sincera, mi aspettavo che prima o poi avresti deciso di farlo. Ma hai scelto un momento molto particolare.»
«Che intendi?» Chiese lui, cauto.
La donna sospirò congiungendo le mani e intrecciando le dita. Mi presi un attimo per osservarla, cogliere la profonda serietà del suo sguardo in contrasto con la freschezza del viso ancora giovane. Doveva essere poco più grande di Sean, probabilmente aveva intorno ai trent’anni. «Non so quanto tu sia aggiornato, ma negli ultimi due, tre anni l’attività dei cacciatori è stata molto intensa. Hanno catturato e probabilmente ucciso, anche se non ne abbiamo le conferme, almeno quindici lupi, se non di più.» Cominciò, la voce più tesa. «Un branco di cinque lupi invece ha lasciato Seattle il mese scorso, sono scesi giù lungo la costa in cerca di un posto sicuro dove stabilirsi.»
Adam si fece subito più attento a quelle parole. Sean invece strinse le labbra in una smorfia. Un brivido gelido mi scivolò lungo la schiena nel sentire quante vittime il gruppo di Colin era stato in grado di fare. Io stessa sarei potuta rientrare tra quelle quindici, o portare il numero ad aumentare. Mi strinsi le braccia al petto affondando le dita nelle maniche del maglione cercando di scacciare il gelo che sentivo addosso.
«Sì, ho… abbiamo avuto a che fare con i cacciatori anche noi non molto tempo fa.» Fece Sean. «Non pensavo che i numeri fossero tanto alti però.»
Dawn sospirò. «Sono stati parecchio attivi nell’ultimo periodo, ci hanno reso la vita piuttosto complicata. Ma siamo ancora qui, resistiamo. Non sanno ancora di questo posto, per fortuna, quando le cose si mettono male possiamo sempre venire qui.»
«Aspetta.» Mi intromisi sporgendomi in avanti. «Non reagite? Non… combattete?»
Lei mi guardò piegando appena la testa di lato, perplessa. Nel suo sguardo color cioccolato colsi un accenno di quella che assomigliava fin troppo alla pietà. «Combattere? E come? Loro sono armati fino ai denti, preparati e determinati. Tutto quello che possiamo fare è cercare di sopravvivere e non attirare l’attenzione.» Spostò gli occhi su Sean per un attimo. «Pensavo che te lo avesse insegnato.»
«Non insegno cose in cui non credo.» Replicò il diretto interessato, la voce neutra, quasi distante.
Dawn strinse le labbra riducendole ad una linea. «Lo sai che è questa la nostra politica, sono stata chiara fin da subito a riguardo.»
«Sì, anche io sono stato chiaro riguardo a cosa ne pensavo.» Disse Sean guardandola dritta in viso. «Ma non siamo qui per appianare vecchie divergenze di opinione. Abbiamo un problema in comune, i cacciatori.»
«Pensavo tu fossi venuto qui per reclutare lupi per il tuo branco.» Rispose lei aggrottando le sopracciglia sottili.
Sean annuì una volta sola. «È tutto connesso, il mio branco, i cacciatori… è una cosa più grande di quello che pensi.»
Dawn tirò indietro le spalle, di colpo sospettosa. «Cosa hai fatto?»
«Ho… abbiamo cominciato qualcosa che potrebbe risolvere tutti i nostri problemi con il gruppo di Colin Young.» La voce di Sean era pacata, eppure riusciva comunque a monopolizzare l’attenzione. «Ti sembrerà folle e pericoloso, ma è un rischio che dobbiamo correre.»
Lei si portò una mano al viso e si massaggiò la radice del naso sospirando. «Okay, Leblanc, mi hai tenuta abbastanza sulle spine, sputa il rospo.»
L’Alfa spostò per una frazione di secondo lo sguardo su Adam prima di parlare: «Siamo in contatto con i cacciatori, stiamo cercando di condurre una trattativa con loro.»
Fui quasi in grado di vedere il lupo di Dawn che si ritraeva mostrando le zanne di fronte a quelle parole. Lei spalancò gli occhi trattenendo il respiro, le dita che stringevano il bordo della scrivania. «Voi cosa? Sei fuori di testa, Sean? Trattare con i cacciatori? Questo è… è pazzo, un suicidio bello e buono. Cosa stai cercando di dimostrare così, eh?»
«Sto solo facendo quello che posso per proteggere il mio branco e questa città.» Tuonò Sean, gli occhi verdi che brillavano. «Colin riaprirà la caccia tra sei giorni se non troviamo un accordo, ecco perché sono qui. So che avete scelto di nascondervi e vivere nell’ombra pur di non attirarli, però questa strategia non funziona più. Dobbiamo muoverci adesso e dobbiamo farlo insieme se vogliamo riprenderci questa città e le nostre vite.»
Dawn scosse la testa portandosi le dita lunghe e affusolate alla tempia. «Questa è pura follia… Non lascerò che tu vada a morire così, neanche per sogno. Cinque anni fa ti ho accolto e ti ho aiutato a rimetterti in piedi, mi rifiuto di stare a guardare mentre ti fai ammazzare. Un accordo con i cacciatori… Come se fossero persone con cui si può ragionare. No, tu non avrai altri contatti con loro, dimenticatelo.»
«Stai cercando di fermarmi?» Chiese Sean, il tono venato di disprezzo rabbioso. «Pensi davvero di poterlo fare, Dawn? Porterò a termine questa trattativa, che tu lo voglia o no. Quello che ne pensi tu è l’ultimo dei miei problemi.»
Lei sbatté il pugno sul tavolo facendo sussultare me e il mio lupo. «Sto cercando di proteggerti! E di proteggere loro. Voglio evitarvi una morte orribile e dolorosa. Fino ad ora hai avuto fortuna, ma la prossima volta che ti avvicini ai cacciatori potrebbero piantarti una pallottola in testa senza che tu abbia il tempo di reagire.»
Lui sollevò il mento. «So gestire quella banda di fanatici dal grilletto facile.»
«E vuoi mettere in mezzo anche loro?» Sbottò Dawn guardando prima me e poi Adam. «Un conto è rischiare la tua vita, un altro coinvolgere il tuo branco in un pericolo del tutto inutile. Se davvero tieni a loro, se vuoi essere un buon Alfa…»
Un lampo dorato attraversò lo sguardo di Sean. «Non dirmi come fare l’Alfa, Dawn. Quello che stiamo correndo è un rischio ponderato, ci abbiamo pensato su a lungo. E in ogni caso, ancora neanche sai di cosa si tratta.»
Lei buttò fuori l’aria in un sospiro tremante. Di colpo apparve stanca, provata. Appoggiò un gomito alla scrivania scrollando le spalle. «D’accordo allora, parla, dimmi qual è questo grande piano.»
«Vogliamo riunire tutti i lupi di Seattle in un unico branco guidato da un unico Alfa. Prima di dirmi che sono fuori di testa, ascolta. Pensi davvero che i cacciatori si metterebbero contro cinquanta lupi ben organizzati? Siamo più forti di loro, siamo più numerosi e abbiamo un obbiettivo molto più importante: vivere.» La voce di Sean era leggermente roca e appassionata come non l’avevo mai sentita. «Quello che fai qui è davvero importante, accogliere lupi feriti e spaventati, aiutarli a tornare in piedi… è ammirevole, davvero. Io stesso ti sarò sempre grato per ciò che hai fatto per me. Ma se potessimo eliminare la causa di tutto questo? Se ci fosse la possibilità di vivere senza doversi preoccupare ogni dannato giorno di ritrovarsi i cacciatori davanti? Non sarebbe meglio?»
Gli occhi di Dawn erano velati adesso, pareva che fosse lontana anni luce in quel momento. Le labbra erano schiuse in un’espressione speranzosa e sofferente al tempo stesso, come se anche la sola idea di una città senza l’ombra dei cacciatori fosse allettante eppure troppo assurda per essere davvero presa in considerazione. Si riscosse quasi subito però, cancellò quel momento di insicurezza passandosi una mano sul viso. Quando la riabbassò, era tornata composta e determinata.
Il rumore della porta che si apriva interruppe la sua risposta prima ancora che potesse cominciare. Ci voltammo tutti verso quel suono, di nuovo all’erta. Sulla soglia era comparso l’uomo della fotografia che Dawn teneva sulla scrivania, riconobbi i folti capelli scuri, il taglio squadrato della mascella e l’intricato intreccio di tatuaggi che gli riempiva il braccio lasciato scoperto dalla maglietta a maniche corte. Aveva le spalle tanto ampie da occupare quasi tutto il vano della porta. Il suo lupo lo rispecchiava, era guardingo ma non nervoso, sicuro in quel luogo tanto familiare.
«Scusa D. Non pensavo avessi ospiti.» Disse con un sorriso imbarazzato il nuovo arrivato riempiendo la stanza con la sua voce profonda. Le sue sopracciglia si sollevarono nel posare gli occhi su Sean. «Il lupo canadese… Era da un po’ che non tornavi da queste parti, mmh?»
Lui si limitò a ricambiare l’occhiata. «Non ne ho avuto l’occasione.»
Dawn si era appoggiata allo schienale della sedia con fare stanco. Fece un gesto vago nella mia direzione. «Toby, questi sono Scarlett e Adam, sono con Sean. Ragazzi, lui è Toby, il mio socio e comproprietario del Luna di Carta
L’uomo ci rivolse un sorriso allegro. «È un piacere avervi qui. Come mai hai deciso di tornare, Sean? Sentivi la nostra mancanza?»
Dawn non gli diede il tempo di rispondere: «Sono venuti per discutere di una questione, ma abbiamo finito.» Fece guardando l’Alfa con una certa insistenza, quasi sfidandolo a contraddirla.
E fu proprio quello che successe, anche se non fu Sean a parlare. «No.» Sbottò Adam, la voce carica d’urgenza, il cuore di nuovo in subbuglio. «Non abbiamo finito niente.»
A quel punto fu Sean a lanciare un’occhiata di sfida a Dawn, ma non per provocarla: il suo sembrava più un avvertimento, un modo silenzioso e discreto per dirle di ponderare bene le proprie mosse future.
Toby studiò quello scambio di taglienti segnali non verbali con le sopracciglia inarcate in un’espressione cauta e perplessa. «Okay, sembra ci siano dei disaccordi qui. Se posso, di che stavate parlando?»
Sean si appoggiò allo schienale della sedia incrociando le braccia al petto con aria volutamente strafottente. «Dawn, vuoi dirglielo tu?»
Lei lo fulminò con un’occhiataccia prima di rivolgersi all’uomo in piedi dietro di noi. «A quanto pare, Sean e i suoi sono in contatto diretto con i cacciatori di Young. E hanno un piano per fermarli.» I muscoli del suo viso erano contratti, le labbra arricciate, come se anche solo pronunciare quelle parole le provocasse un senso di ribrezzo.
Il mio Alfa alzò gli occhi al cielo. «Puoi dirlo anche con una faccia meno schifata.»
Toby era rimasto letteralmente a bocca aperta di fronte a quella rivelazione. Ed era quasi comico vedere un uomo della sua stazza fissare qualcuno come se gli fossero spuntate le ali. «Tu sei… in contatto con i cacciatori? Com’è che non ti hanno ancora ucciso?»
«Me lo sto chiedendo anche io.» Borbottò Dawn con un sospiro.
«Noi canadesi abbiamo qualche asso nella manica.» Replicò Sean ed era la prima volta che lo sentivo parlare con orgoglio del suo Paese natale.
Toby si spostò dietro alla scrivania per sedersi sul bracciolo della sedia della sua socia. «Voglio saperne di più, sembra interessante. Folle, ma interessante.»
Come se parlare di accordi con i cacciatori e branchi che comprendevano un’intera città non fosse abbastanza sconvolgente, Sean si voltò verso Adam per chiedergli, con tutta la naturalezza del mondo: «Perché non ne parli tu? In fondo, l’idea è tua.»
Lui spalancò gli occhi schiudendo le labbra. «Vuoi davvero che sia io a farlo?»
L’Alfa annuì. «Magari sentirlo da te li convincerà.»
Lo sguardo di Adam, ancora del tutto spiazzato, incontrò il mio. Gli feci un piccolo sorriso d’incoraggiamento che sembrò dargli un po’ di sicurezza in più. Si voltò verso Dawn e Toby, verso lo scetticismo di lei e la curiosità di lui, verso dei possibili alleati o dei futuri nemici. E cominciò a raccontare di come lui, Sean e Matthew avevano lavorato insieme per salvarmi, di come all’inizio quel branco improvvisato fosse strano e nessuno si sentisse a proprio agio, delle tensioni che si erano create e dei litigi, dei momenti in cui avevamo fatto squadra e tutte le differenze erano passate in secondo piano.
Di come, a poco a poco, ci eravamo avvicinati, tutti e quattro. Parlò dei primi incontri con Colin e Brian, della diffidenza e della paura, della determinazione e voglia di concludere quella faccenda in modo definitivo. Descrisse la propria strategia facendola passare per una cosa che avevamo ideato tutti insieme, qualcosa in cui tutti credevamo fino in fondo.
Quando terminò di parlare, sia Dawn che Toby rimasero nel più completo silenzio. Entrambi erano rimasti affascinati e incuriositi dalle parole di Adam, precise ed efficaci come durante le nostre ripetizioni. Avevano il potere di catturare l’attenzione e non lasciarla andare fino all’ultimo secondo. Persino l’aspro scetticismo di Dawn pareva essere scemato di fronte all’emozione che traspariva dalla voce di Adam.
Toby si passò una mano tra i folti capelli scuri scuotendo piano la testa. «Molti vi direbbero che siete pazzi…»
«L’hanno già fatto.» Commentò Sean con un’occhiata esplicita in direzione di Dawn.
«Ho l’impressione che potrebbe funzionare però.» Riprese l’uomo come se nessuno avesse parlato. «Siamo tutti stanchi di nasconderci e vivere costantemente nella paura, sono sicuro che molti ti seguirebbero volentieri. Anche se probabilmente qualcuno metterebbe in discussione il tuo ruolo…»
Scorsi un’ombra negli occhi di Sean, ma il suo tono era comunque deciso. «Me ne occuperò a tempo debito.»
Dawn sospirò piano. «È una cosa davvero grande, Sean, sei sicuro di volerlo fare? Si tratta di una città intera.»
«Non voglio che nessun’altro muoia per mano dei cacciatori.» Fu la risposta di Sean e dal suo tono si capiva che non avrebbe ammesso altri dubbi sulla propria determinazione.
«Dovresti parlarne con gli altri allora, presentare la strategia e vedere come la prendono.» Commentò Toby grattandosi la tempia. «In fondo, sono loro la chiave di tutto.»
L’Alfa annuì tamburellando con le dita sul proprio ginocchio. «Possiamo farlo ora?»
«Credo di sì.» Dawn appoggiò un gomito sulla scrivania. «A quest’ora dovrebbero esserci quasi tutti e ho l’impressione che una notizia del genere si spargerà in fretta.»
«Bene, allora facciamolo.» Dichiarò Sean sollevando il mento con aria risoluta.

Il locale era ancora pieno e rumoroso, proprio come l’avevamo lasciato. Il ragazzo dietro al bancone serviva birre, analcolici e altre bevande scherzando e sorridendo ai clienti. Erano tutti a loro agio, si respirava un’atmosfera accogliente e tranquilla.
“Ancora per poco”, pensai stringendo le labbra mentre camminavo dietro Dawn e Toby, intenti a discutere in tono concitato. Accanto a me, Adam osservava pensieroso la schiena di Sean, un passo davanti a noi. Era riuscito a convincere Dawn a darci una possibilità, eppure non ne pareva contento. C’era qualcosa che occupava i suoi pensieri, qualcosa che lo preoccupava. Gli sfiorai la mano trattenendomi all’ultimo dallo stringerla, un po’ per un attacco di timidezza, un po’ perché non mi sembrava il luogo giusto. Lui si voltò a guardarmi, gli occhi blu in piena tempesta.
«Sei stato bravo, prima.» Mormorai con un piccolo sorriso.
Scrollò le spalle quasi a voler minimizzare. «Ho solo raccontato la verità.»
«Ci vuole fegato per farlo.» Replicai lanciando un’occhiata al resto della stanza. «In realtà, ci vuole fegato per fare tutto quello che hai fatto da quando ci siamo incontrati. Discutere non con uno, ma con due licantropi, partecipare ad una missione di salvataggio nel covo di un clan di cacciatori, proporre di creare un branco di settanta lupi… è impressionante.»
«In senso buono o preoccupante?» Chiese mordendosi il labbro.
Ci pensai per un attimo. «Direi entrambi. Sai, c’è una buona dose di coraggio, ma anche di follia, quindi…»
Un angolo della sua bocca si sollevò. «Quindi tu sei quella razionale?»
«Dopo mangiato di solito sì. Prima no, a stomaco vuoto non ragiono con lucidità.» Ammisi. «Ma non dirlo in giro, è una debolezza che potrebbero sfruttare contro di me.»
Adam sorrise scuotendo la testa. «Puoi fidarti di me, il tuo segreto è al sicuro.»
Il nostro scambio di battute dal dubbio senso dell’umorismo fu interrotto dalla voce di Dawn: «Dammi un attimo e ti lascio il palco. Letteralmente.»
Allungai il collo per cercare di capire a cosa si stesse riferendo e notai un piccolo palco realizzato con delle vecchie assi di legno addossato al muro. Non era molto alto, starci sopra era come salire due gradini delle scale della scuola; dovevi avere una personalità piuttosto forte ed essere in grado di catturare l’attenzione per riuscire a farti ascoltare da lì.
Sean studiò il palco senza dire nulla, gli angoli della bocca appena contratti. Io e Adam ci scambiammo un’occhiata: ormai avevamo imparato a decifrare i minuscoli segnali del nostro imperturbabile Alfa e quell’impercettibile smorfia non era esattamente sinonimo di soddisfazione.
«Ti stai impegnando a rendermi le cose difficili, mmh?» Commentò infatti inclinando la testa di lato.
Dawn gli rivolse un sorrisetto adorabile. «Oh, sei piuttosto bravo a farlo con le tue stesse mani. E poi, mi sembra che non ti dispiacciano le sfide, o mi sbaglio?»
Sean raddrizzò le spalle, un lampo che gli attraversava lo sguardo. Un ghigno sarcastico si dipinse sulle sue labbra mentre accennava un inchino. «Madame, quando vuoi.»
Lei inarcò un sopracciglio pur sforzandosi di nascondere quanto fosse colpita in realtà. «Come vuoi, Leblanc.» Salì sul palco con un unico passo e ne occupò il centro. Batté le mani un paio di volte facendo calare il più completo silenzio nell’intero locale; adesso, tutta l’attenzione era su di lei.
«Vorrei chiedervi un minuto del vostro tempo.» Esordì, la voce chiara e limpida. «C’è qui una persona, che forse alcuni di voi già conoscono, che vuole parlarvi di una cosa.» Si voltò verso di noi, bella e fiera come una regina di fronte al suo popolo. «Diamo il bentornato a Sean Leblanc.»
Qualche mormorio si sparse nella stanza nel sentire quel nome, ci furono scambi di sguardi ed espressioni sorprese, scettiche e confuse. Sean esitò per un attimo, i suoi occhi si spostarono su me e Adam, quasi stesse cercando dei volti familiari. Io annuii con enfasi e sollevai entrambi i pollici per incoraggiarlo; Adam invece si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, uno di quelli gentili, sinceri e con la straordinaria capacità di spingerti a sorridere a tua volta.
Sean si concesse un altro secondo prima di salire sul palco accanto a Dawn, che si spostò di lato per fargli spazio. Di fronte alla sua apparizione, i sussurri si fecero più intensi, anche se non abbastanza da intimorirlo, almeno all’esterno. Dawn gli sussurrò un “buona fortuna” per poi tornare da noi. Toby le mise una mano sulla spalla, un piccolo gesto di sostegno che esprimeva molto di più di quanto le parole potessero fare.
«Molti di voi non mi conoscono, qualcuno forse si ricorda di me anche se ormai sono passati cinque anni da quando sono arrivato a Seattle.» Iniziò Sean mascherando ogni tipo di nervosismo dietro una facciata sicura e a suo modo affascinante. «Sono tornato oggi per cercare il vostro appoggio per qualcosa che potrebbe sembrarvi assurdo, ma che in realtà potrebbe salvarvi la vita.» Si fermò dando modo ai lupi in ascolto di assimilare le sue parole. Nonostante la scarsa altezza del palco, riusciva ad avere tutti gli occhi su di sé ed era del tutto in grado di gestirli.
«Quanti di voi hanno perso qualcuno per mano dei cacciatori di Colin Young?» Domandò, la voce che pareva rimbombare sulle pareti rivestite di legno.
Fu come se un brivido percorresse tutti i presenti, me compresa: c’era una nota di dolore nascosta in quella domanda, un dolore personale e condiviso al tempo stesso, una sofferenza che tante, troppe persone in quella stanza conoscevano.
Sean annuì davanti a quella risposta silenziosa. «E quanti di voi sono stanchi di vivere nella paura? Di nascondersi e passare ogni dannato giorno a sperare che non tocchi a voi? Perché io lo sono e oggi voglio darvi la possibilità di cambiare le cose.»
«Ehi ragazzino, la mia pazienza si esaurisce in fretta.» Borbottò un uomo da uno dei tavoli più lontani. Aveva una folta barba brizzolata e una cicatrice che gli attraversava la guancia dall’angolo della bocca allo zigomo. «Che sei venuto a fare qui?»
«Voglio mettere insieme un branco che comprenda tutti i lupi di Seattle.» Dichiarò Sean. «E voglio fermare i cacciatori una volta per tutte.»
L’uomo con la cicatrice scoppiò in una risata aspra. «Ah! In tutta la mia vita ne ho sentite di idee stupide e folli, ma questa va oltre ogni limite. Voglio farti una domanda, ragazzo, perché dovremmo seguire proprio te? Perché dovremmo esporci tanto?»
Si levarono dei mormorii d’assenso che mi fecero venire voglia di prendere a pugni il tizio che continuava ad interrompere Sean. Incrociai le braccia al petto e mi strinsi con forza i gomiti cercando di tenere a freno la lingua.
«Anche io voglio farti una domanda, tu cosa hai fatto per combattere i cacciatori?» Ribatté Sean senza scomporsi. «Non credo che ti resti molto da vivere, vecchio, ma pensa a tutti quelli che invece hanno ancora anni, decenni davanti, pensa ai bambini e ai ragazzi che nascono in questa città e che dovranno vivere nell’ombra con il terrore costante di essere scoperti e uccisi a sangue freddo.»
A quel punto, il respiro di Sean si era fatto più spezzato e veloce, percepivo il battito affannato del suo cuore rimbombare contro le costole. Ma per gli altri lupi presenti, troppo lontani per coglierli, quei segnali non esistevano. Ai loro occhi Sean era ancora controllato e forte, un Alfa potente pronto a tenere testa a chiunque.
L’uomo fece per scattare in piedi, ma il licantropo seduto accanto a lui lo trattenne prendendolo per il braccio. Lo sentii sussurrare: «Ha ragione, pensaci.»
«Se ci uniamo, creiamo un unico branco, non potranno nulla contro di noi. Riflettete: hanno davvero il coraggio di affrontare cinquanta lupi ben organizzati? Potranno anche avere le armi più sofisticate e tutto l’argento che vogliono, ma in guerra i numeri contano.» Riprese Sean nascondendo le proprie emozioni dietro un tono sicuro e affabile. «Siamo più forti di loro e abbiamo una ragione molto più importante per lottare: difendere la nostra vita e quella di chi verrà dopo di noi.» Si soffermò per un attimo scrutando le persone davanti a sé prima di aggiungere: «Non credete di avere il diritto di sopravvivere? Di vivere
Mormorii d’assenso si sollevarono, il brusio crebbe di intensità fino a coinvolgere tutti i presenti, dal primo all’ultimo. Anche i più scettici, quelli che avevano lanciato occhiate sospettose a Sean e a noi e che avevano bisbigliato tra di loro, adesso parevano interessanti se non altro ad ascoltare cosa aveva da dire quel giovane Alfa.
«Sapevo che avrebbe fatto qualcosa un giorno, fin dal nostro primo incontro. Non mi aspettavo questo però.» Commentò Dawn tenendo lo sguardo fisso su Sean, fiero e imperturbabile di fronte a tutta quell’attenzione.
La donna si teneva le braccia strette al petto, c’era dell’affetto nei suoi occhi, ma anche una punta di orgoglio. Sospirò piano lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso dal sapore nostalgico. «Quando arrivò qui era ferito, sanguinante e del tutto perso. Hai presente lo sguardo di puro terrore che hanno i bambini quando si perdono in un posto pieno di gente? Sembra che di colpo siano precipitati in un mondo estraneo e alieno, sconosciuto. Ecco, anche lui era così, spaesato e confuso. Rimase solo per cinque giorni, il tempo che la ferita cominciasse a rimarginarsi, poi scomparve. Per mesi abbiamo pensato che i cacciatori l’avessero trovato e ucciso, e invece lui se la cavava ogni volta.»
La guardai in cerca di altri dettagli su com’era stato Sean Leblanc, su cosa gli era successo nei cinque anni che ci avevano divisi. Avevo un bisogno spasmodico, seppur incomprensibile persino a me stessa, di conoscerlo meglio e capirlo soprattutto. Non era sempre stato così cupo e taciturno, ne ero certa. La perdita della sua famiglia l’aveva segnato, aveva spezzato qualcosa in lui, l’aveva portato al punto in cui essere forte era l’unica possibilità, l’unica cosa da fare per non essere annientati. Ma c'era stato un prima, per forza.
«Non parla molto del suo passato, vero?» Mi chiese Dawn voltandosi a guardarmi con quei suoi profondi occhi scuri.
Scossi piano la testa. «No, non lo nomina neanche. Quel poco che so… è venuto fuori per caso.»
«È poco salutare tenersi tutto dentro, ma non si può pretendere che si apra con chiunque.» Era tornata ad osservarlo, un’ombra che le scuriva il viso. «Sta dedicando tutto se stesso alla lotta contro i cacciatori pur di non aver affrontare il suo passato.»
Il mio primo istinto fu quello di portarmi sulla difensiva, dirle che si sbagliava, che Sean aveva superato le perdite che aveva subito e che era andato oltre, però c’era qualcosa che mi bloccava. Stavo parlando di lui, o di me stessa? Volevo nascondere le sue o le mie questioni irrisolte?
Perché anche se mi illudevo del contrario, l’essere stata trasformata senza una spiegazione, né tantomeno senza che io l’avessi voluto, mi aveva segnata molto più di quanto volessi ammettere. A modo suo, era stata una violazione del mio corpo e della mia stessa anima. Certo, alla fine era stato proprio grazie a quel morso se avevo conosciuto Adam e avevo trovato il coraggio di affrontare la paura di ciò che ero diventata, ma quella ferita non era ancora del tutto rimarginata, a volte la sentivo ancora bruciare. E non avevo idea di come farla guarire.
«Non pretendo che vi fidiate di me così, su due piedi.» Stava dicendo Sean in quel momento. La sua voce decisa si insinuò nei miei pensieri dai toni cupi e mi riportò alla realtà, giusto in tempo per rendermi conto che Adam mi stava guardando, gli occhi resi più scuri dalla preoccupazione.
Distolsi lo sguardo per riportarlo sul nostro Alfa sperando con forza sorprendente persino per me stessa che non avrebbe cercato di chiedermi niente più tardi.
«Colin Young ci ha dato un ultimatum, abbiamo cinque giorni per dargli una risposta o riaprirà la caccia. In questo tempo, sarò qui per rispondere a tutte le domande che avete, per discutere della strategia e accettare suggerimenti.» Continuò Sean facendo un passo avanti. Nonostante la scarsa altezza del palco, la sua presenza dominava l’intero locale. «Qualunque sia la vostra decisione, io continuerò a combattere i cacciatori, anche se dovrò farlo da solo. Ci hanno tolto abbastanza, adesso sta a noi reagire.»
«Io ci sto.» Esclamò una ragazza alzandosi in piedi. Doveva avere un paio d’anni più di me, portava i lunghi capelli castani sciolti, due trecce sottili le scendevano dai lati della testa fino a sparire dietro le spalle. «Ho perso tutto per colpa loro, sono stanca di nascondermi. Combatterò, se sarà necessario. E morirò, se servirà a darci una possibilità.»
Sean assomigliava ad un leone, aveva perso ogni traccia di debolezza. Sollevò il mento, gli occhi verdi fissi sulla ragazza. «Non morirai. Non lo permetterò. Se vi unirete a me, vi prometto che farò tutto il possibile per tenervi al sicuro. Tutto.»
La giovane annuì una sola volta prima di guardarsi attorno con espressione critica. «Non ditemi che avete paura. Anzi, sapete cosa? La paura è l’unica emozione che siamo capaci di provare ora come ora. È il momento di cambiare le cose.» Mi guardò dritta in viso. «Lei combatte al suo fianco eppure ha molta meno esperienza di molti di voi. Ha il coraggio e la forza che sembra manchino qui, però.»
Un intero tavolo di licantropi si alzò insieme alle loro voci che dicevano: “ci stiamo anche noi”. Dopo di loro, altre sedie si scostarono, altri confermarono la loro partecipazione. Le persone che rimanevano sedute erano sempre meno, molti si facevano convincere dagli sguardi insistenti degli amici e dai loro incoraggiamenti sussurrati all’orecchio.
Per ogni lupo che si univa a noi vedevo i muscoli di Sean rilassarsi un po’ di più e l’espressione di Adam farsi via via più speranzosa. Si ritrovarono entrambi con un piccolo sorriso incredulo sulle labbra quando anche gli ultimi licantropi si alzarono dichiarando che ci avrebbero seguiti.
In realtà, solo uno di loro era ancora comodamente stravaccato sulla sedia: l’uomo con la cicatrice che aveva interrotto Sean. Adesso lo stava guardando con gli occhi ridotti a due fessure, gli angoli della bocca piegati in una smorfia scettica. Accanto a me, Dawn bisbigliò qualcosa a Toby, che annuì con aria grave. Avevo la netta impressione che quel lupo non fosse proprio un tipo tranquillo e pacifico.
«Tu ci farai uccidere tutti, biondino.» La voce dell’uomo era graffiante, venata di un’ironia beffarda.
Sean schiuse le labbra di fronte a quell’accusa, fui quasi in grado di vedere una risposta pungente prendere forma nella sua mente mentre il suo lupo ringhiava piano.
L’altro, però, sollevò pigramente una mano. «Oppure no. Dipende tutto da come ti vuoi giocare questo… branco. Ho visto diversi giovani lupi mettere su piccoli eserciti scombinati dichiarando di essere i nostri salvatori. E poi li ho visti cadere, uno ad uno. Ci sono due strade davanti a te adesso, una finisce con un proiettile d’argento, l’altra con una responsabilità capace di uccidere un uomo e la tanto agognata libertà. Chissà dove andrai.»
«Eviterei molto volentieri il proiettile.» Ammise Sean aggrottando la fronte.
Un brusio vivace riempiva la stanza. Alcuni lupi scommettevano su come sarebbe finita quella discussione, altri commentavano l’audacia di Sean e la sua sicurezza, qualcuno si chiedeva se davvero il nostro piano avrebbe funzionato.
L’uomo si lisciò la barba con studiata lentezza. «Spero che tu lo faccia, biondino. Sono curioso di vedere le tue prossime mosse.»
L’Alfa inarcò un sopracciglio. «Sei dei nostri, quindi?»
«Sì, ragazzo.» Borbottò lui. «Ma non mi alzerò. Non ho più le ginocchia di un tempo.»
La tensione che irrigidiva i muscoli delle spalle di Sean si sciolse lasciando il posto a un sorrisetto compiaciuto. Scese dal palco con un agile balzo e ci raggiunse. Non avevo idea di come fosse stato prima che i cacciatori uccidessero la sua famiglia, ma in quello sguardo deciso e in quell’espressione fiera fui quasi certa di cogliere un assaggio del vecchio Sean.
«Sei stato bravo.» Commentò Dawn, un angolo della bocca sollevato. «Magari riesci a farlo funzionare davvero.»
Negli occhi di lui passò un lampo. «Questa era la parte difficile, il resto sarà una passeggiata.»
Toby scosse la testa. «Apprezzo la tua confidenza, ma fossi in te non mi rilasserei troppo. Colin Young e i suoi sanno essere spietati.»
Lo sguardo di Sean si soffermò su di me per un attimo. «Lo so, fidati. L’ho visto da vicino, più di una volta.»
«Fa’ attenzione allora.» Mormorò Dawn, il viso scurito da un’espressione che non riuscivo a decifrare. «Non siamo pronti a perdere il nostro Alfa.»

Passammo altre due ore a parlare con tutti i lupi che volevano chiedere qualcosa a Sean o avere qualche informazione in più. Io, lui e Adam avevamo preso posto ad un tavolo e chiunque avesse avuto voglia di parlare poteva semplicemente avvicinarsi per essere accolto da un trio piuttosto bizzarro, ma che funzionava.
Sean tirò fuori il suo lato più cordiale e rassicurante, regalò sorrisi gentili, ascoltò le preoccupazioni di tutti e seppe mostrarsi sicuro di sé e della propria strategia senza apparire arrogante. Adam gli dava manforte con quei suoi modi di fare sempre educati che riuscirono a convincere anche quelli che venivano da noi per il solo scopo di lamentarsi e puntare il dito contro fantomatiche falle nel piano.
Nonostante fosse umano, nessuno fu diffidente nei suoi confronti, gli parlavano come avrebbero fatto con me o qualunque altro lupo. Il suo essere diverso da noi, i diversi per eccellenza, non era visto come una cosa negativa. Quando, in un momento di pausa, ne chiesi il motivo a Sean, lui mi rispose che non era così raro vedere umani coinvolti negli affari dei licantropi o addirittura nei branchi. Alcuni speravano di essere morsi e trasformati, altri avevano semplicemente trovato una compagnia piacevole, un gruppo che li aveva accolti, non c’erano secondi fini né pretese.
Per tutto il tempo che passammo lì, rimasi un po’ in disparte ad osservare loro due che lavoravano insieme, fianco a fianco, come se non avessero fatto altro in tutta la vita, a esplorare le sensazioni sconosciute ed elettrizzanti che l’avere tutti quei lupi intorno mi scatenava dentro. Era una scossa di energia inspiegabile, come quella che provocano le prime giornate di sole e aria frizzante dopo il freddo assoluto dell’inverno, la voglia di fare, vedere, conoscere, vivere anche l’altra parte di me.
«Okay, per oggi è abbastanza.» La voce di Sean, stanca ma soddisfatta, mi richiamò alla realtà.
Sbattei le palpebre tornando a guardare lui e Adam trovandoli intenti a scambiarsi un’occhiata d’intesa. Quel gesto dovette sorprendere entrambi, perché subito dopo si affrettarono a guardare altrove facendo finta di niente.
Dawn si avvicinò al nostro tavolo con un sorriso affabile. «I nostri tre eroi. Siete ancora tutti interi?»
Sean appoggiò un gomito sulla superficie di legno. «Certo. Avevi dubbi?»
«Pensavo che la diplomazia non fosse il tuo forte.» Ammise lei. «Ho chiesto a Toby di prepararvi del caffè e qualcosa da mangiare, dovete essere affamati.»
Mi ritrovai ad annuire con enfasi. «Sì, molto affamati.»
«Tu hai sempre fame.» Borbottò Sean aggrottando le sopracciglia.
Dawn mi strizzò l’occhio. «Scommetto che voi due invece il più delle volte saltate interi pasti.»
«Qualche volta.» Confessò Adam mentre Sean sbuffava con fare irritato.
«Dawn, posso farti una domanda?» Chiesi mordicchiandomi il labbro. «Cioè, è rivolta a tutti, ma credo che tu sia più… aggiornata a riguardo.»
Lei prese una sedia da un altro tavolo e l’accosto al nostro accomodandosi di fronte a noi. «Certo, dimmi tutto.»
«È una cosa positiva per noi, utile direi, visto che ci ha evitato molti problemi, ma… perché nessun Alfa si è opposto alla presa di potere di Sean? Certo, ha dovuto convincerli della forza della sua strategia, però nessun capobranco ha tentato di rivendicare il suo ruolo in questo branco. Perché?» Domandai guardandola dritta in viso.
Dawn annuì piano. «È la prima volta che incontri altri lupi all’infuori di Sean, vero? Ti sei mai soffermata a pensare al motivo di queste poche presenze?»
Sean si sfiorò le labbra con le dita, lo sguardo perso, lontano. «Cacciatori.»
«Già. Hanno ucciso molti più licantropi di quanti non vogliamo ammettere. Ci hanno decimati, non solo negli ultimi anni. Qualcuno ha tentato di ribellarsi, soprattutto gli Alfa.» Raccontò lei dandomi la sua totale attenzione. «Lo imparerai col tempo, ma credo sia giusto anticipartelo per aiutarti a comprendere. Per un Alfa il branco è la cosa più importante al mondo, persino più della sua stessa vita. Un capobranco sviluppa un legame molto profondo con i lupi che si uniscono al suo gruppo, è… una cosa antica, affonda le sue radici molto indietro nel tempo. È il connubio tra l’istinto di creare una comunità e proteggersi a vicenda che hanno i lupi intensi come animali e quella forza enorme che l’uomo è in grado di infondere ai propri sentimenti.»
«Se il branco è in pericolo, l’Alfa è pronto ad annullarsi per loro, a dare la vita senza esitazioni.» Sean strinse il pugno fino a sbiancare le nocche continuando a guardare un punto indefinito sopra le spalle di Dawn. «Non riuscire a tenere al sicuro il branco è…. orribile. Perdendo un lupo, l’Alfa perde una parte di sé e quel dolore lo accompagnerà per tutta la vita.»
«È per questo che hanno reagito, per proteggere i propri branchi.» Disse Adam, la voce bassa, le iridi velate da un’ombra. Lanciò un’occhiata a Sean e lo vidi stringere le labbra, quasi a volersi trattenere dall’aggiungere altro.
Dawn intrecciò le dita sul tavolo. «Qualcuno qui è molto intuitivo, mmh? E sì, la ragione è questa. Non potevano permettere che i loro lupi fossero minacciati, dovevano difenderli, per questo molti Alfa hanno cercato di ribellarsi. Come ha detto Xavier, l’uomo con la cicatrice, non sono stati fortunati. I pochi rimasti pensano che anche il vostro piano finirà male, come quelli che vi hanno preceduto. Oppure semplicemente non hanno interesse a contrastare una presa di potere che credono temporanea.»
«Xavier era un Alfa, vero?» Intervenne Adam, lo sguardo acceso di curiosità.
Dawn apparve colpita dalla sua intuizione. Si voltò a guardarlo con interesse, un lieve sorriso ad incresparle le labbra. «Il suo branco era piuttosto forte, molto unito e leale. Ma anche lui tentò di contrattaccare. La cicatrice che ha sul viso è la prova del suo tentativo.»
Mi sporsi verso di lei. «E come è andata? Voglio dire, lui è vivo quindi…» Mi bloccai nel vedere la sua espressione farsi dispiaciuta. «Non… non è riuscito…?»
«Tutto il suo branco si unì a lui, quella notte. Erano in dieci. Lui è l’unico sopravvissuto.» Dawn pronunciò quelle parole con cura infinita, quasi stesse cercando di ferirmi il meno possibile. «Molti l’hanno preso come un segno del fatto che, per quanto ci proviamo, non possiamo cambiare la situazione. Per questo fino ad oggi abbiamo preferito nasconderci.»
«Le cose cambieranno adesso.» Dichiarò Adam, la voce resa roca dalla passione che gli si agitava nel petto. «Noi le cambieremo.»
Avrei voluto essere determinata e sicura come lui, avere una fiducia incrollabile in quel nostro folle progetto, ma la verità era che avevo paura. Temevo di veder morire quell’illusione di un futuro migliore, temevo di ritrovarmi di nuovo intrappolata, di perdere anche l’ultimo frammento di speranza. Allo stesso tempo, però, avevo un bisogno spasmodico di credere che avrebbe funzionato, che finalmente sarei potuta tornare a respirare senza sentirmi oppressa dal terrore.
Così guardai Adam in quegli occhi elettrici come una tempesta e annuii con forza. «Sì. Lo faremo, insieme.»




SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Probabilmente qualcuno - molti - di voi avevano perso le speranze riguardo l'aggiornamento di questa storia e vi capisco, anzi, mi scuso per averci messo quasi due mesi a postare questo capitolo. Adesso che ci avviciniamo alla fine della storia, comincio a sentire la pressione: voglio scrivere un finale degno, bello e che "degno" del resto di Under a Paper Moon, quindi ci metto di più a ideare le scene e soprattutto a riportarle per iscritto visto che ho un'avversione cronica per i miei stessi scritti.
Ammetto che questo capitolo mi convince, anche perché ho notato una crescita, mia e dei personaggi, rispetto ai primi capitoli. Adesso hanno più spessore e profondità e penso che anche lo stile sia migliorato (almeno spero sia così).
Dunque, che ne pensate di questo branco in formazione? Sean sarà in grado di reggere la pressione? E Scarlett riuscirà a superare le sue paure e le questioni irrisolte del suo passato?
Dawn e Toby sono un'altra novità di questo capitolo. Che ve ne pare di loro?
Scusatemi ancora tantissimo per il ritardo, spero che sia valsa la pena di aspettare così tanto <3

A presto,
TimeFlies

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Capitolo 40
*** 40. Adam ***


Under a paper moon- capitolo 40


                                                    

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40. Adam

Osservare è il miglior modo per imparare oltre a essere il più affascinante. Per quattro giorni ebbi la possibilità di vedere da vicino le abitudini e i modi di vivere di una comunità di licantropi impegnata a organizzarsi per fronteggiare i loro più grandi nemici, i cacciatori. Imparai a riconoscere le dinamiche all’interno di quel nostro branco improvvisato, a intuire chi era più scettico e chi credeva con tutto se stesso in ciò che stavamo facendo, a capire come i lupi mannari mostravano rispetto senza abbassare lo sguardo con fare impaurito.
Mi picchiettai il tappo della penna sulle labbra, sovrappensiero. Davanti a me, almeno una ventina di lupi chiacchierava, discuteva e rideva sorseggiando caffè e cioccolata calda per far fronte all’umidità che quel pomeriggio piovoso si era portato dietro. Riempivano il Luna di Carta con le loro voci così diverse tra loro, erano un incontro di differenze e punti in comune chiassoso ma unito.
Occupavo un tavolo in un angolo, proprio accanto a una riproduzione molto fedele di un quadro di Monet. Srotolata sul legno c’era una mappa di Seattle su cui stavo segnando le zone in cui si concentravano i licantropi. Era un lavoro noioso e di precisione, ma mi teneva la mente occupata abbastanza da non farmi pensare che l’ultimatum di Colin sarebbe scaduto tra due giorni.
Dawn Johnson, la comproprietaria del locale, si avvicinò al mio tavolo con il suo passo sicuro ed elegante. Posò davanti a me una tazza fumante che sprigionava un delizioso odore di cioccolata e zucchero caramellato. Sollevai lo sguardo su di lei, che mi rivolse un sorriso gentile.
«Che ne dici di una pausa?» propose studiandomi con quei suoi occhi scuri eppure allo stesso tempo pieni di luce.
«Non credo di avere tempo» ammisi mordicchiandomi il labbro.
«Non puoi avere il tempo, nessuno lo possiede» replicò lei ravviandosi i ricci castani. «Puoi sfruttarlo, perderlo, investirlo, ma non possederlo. E poi, un po’ di cioccolata non ha mai ucciso nessuno.»
«Ah, mi erano mancate le tue perle filosofiche, D» commentò Sean avvicinandosi a noi, un angolo della bocca sollevato, le mani affondate nelle tasche della giacca da aviatore. Le punte dei suoi capelli erano arricciate dall’umidità della pioggia; lui ci passò le dita fermandosi all’altro capo del tavolo.
Dawn inarcò un sopracciglio. «Il nostro Alfa è arrivato, benvenuto. Qualche novità?»
«Non ancora, ma ci siamo quasi» rispose lui, criptico come sempre.
«Bene, fammi sapere allora» fece lei annuendo.
Nell’allontanarsi, gli sfiorò il braccio in un gesto che racchiudeva un certo affetto, come quello che una sorella maggiore potrebbe provare per un fratello, l’affetto per qualcuno a cui tieni ma che non è così facile da amare. Sean rimase a guardarla muoversi con grazia tra gli altri tavoli, un sorriso cortese che le incurvava le labbra ogni volta che si rivolgeva a un cliente.
Poi l’Alfa sospirò e spostò la sua attenzione su di me. E sulla tazza che mi aveva portato Dawn. «La bevi?» domandò indicandola con un cenno del mento.
La spinsi verso di lui. «È tutta tua. Comunque, di cosa stavate parlando? Novità su cosa?»
Sean prese la sua cioccolata e si sedette sulla sedia accanto alla mia, gli occhi che scandagliavano il locale. Assomigliava a un leone che controlla il proprio regno, fiero e impassibile. «Ho deciso di andare domani dai cacciatori» rivelò accigliandosi appena. «Non voglio far credere a Colin che abbiamo paura, se non aspettiamo l’ultimo minuto sarà costretto ad ascoltarci, non potrà accusarci di essere in ritardo.»
Mi rigirai la penna tra le dita. «Sì, me ne avevi parlato. Però sembrava che Dawn si riferisse ad altro.»
«Sai che alcuni lupi del branco verranno con noi, no? Per sicurezza. Lei ha insistito per esserci.» Scrollò le spalle prendendo un sorso di cioccolata. «Tutto qui. Voleva i dettagli sull’ora e il luogo.»
Abbassai lo sguardo sulla mappa per fuggire un possibile contatto visivo. «Okay. E come funzionerà quest’incontro? Cosa diremo a Colin?»
Sean tamburellò sul lato della tazza con fare distratto. «Gli diremo che adesso c’è un intero branco pronto a reagire. Credo sia abbastanza sveglio da capire che non può fare niente contro cinquanta lupi.»
Rimasi in silenzio mentre nella mia mente si susseguivano gli scenari più disastrosi. Mancava pochissimo alla realizzazione del nostro piano, eravamo a un passo dal cacciare Colin e il suo gruppo da Seattle, eppure tutto quello a cui riuscivo a pensare era che eravamo anche a un passo dall’esporci e rivelare il nostro unico asso nella manica.
«Andrà bene» disse Sean guardandomi. «La superiorità numerica non è il nostro unico vantaggio: ho una strategia molto solida.»
«Posso chiederti una cosa?» domandai ricambiando il suo sguardo. Io stesso sentii l’urgenza nella mia voce.
Lui annuì un’unica volta, l’espressione controllata, le iridi attraversate da un lampo.
Trassi un respiro profondo, per poi espirare piano. «Qualunque cosa succeda domani, qualunque sia la prossima mossa di Colin… promettimi che la proteggerai. Per favore.»
«Proteggerò tutti voi» mormorò Sean e la determinazione nella sua voce era puro acciaio. «Ho già perso un branco, non succederà di nuovo. Scarlett sarà salva, così come lo saranno tutti. È una promessa.»
Mi aggrappai alle sue parole ripetendole dentro di me nel tentativo di calmare il battito affannato del mio cuore. Sean era sopravvissuto a una caccia spietata lungo tutto il confine tra gli Stati Uniti e il Canada, era astuto e previdente, conosceva sia i cacciatori che i licantropi, non avrebbe mai fatto una mossa tanto azzardata se non fosse stato sicuro di saperla gestire.
E questa volta non era solo, aveva un interno branco a guardargli le spalle.


Il cielo sopra Seattle era una coltre plumbea di nuvole cariche di pioggia. Quella notte un temporale si era scatenato sulla città, adesso le strade erano piene dell’odore di asfalto bagnato, l’aria era fresca e umida. Seattle ricordava un campo di battaglia il giorno dopo uno scontro, era silenziosa e calma, quasi cristallizzata.
Sean, cupo e fiero dietro il volante della sua Camaro, sembrava la personificazione di quella tempesta appena passata. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, le mani ferme sul volante. Se anche fosse stato agitato, non lo dava a vedere in nessun modo. Sui sedili posteriori, Scarlett scrutava il paesaggio fuori dal finestrino mentre piluccava un pezzo di torta di mele preparata da Dawn. Indossava un maglione verde scuro di un paio di taglie più grandi e aveva raccolto i capelli in una treccia morbida che le scendeva sulla spalla. Era pensierosa, ma non impaurita.
Accanto a lei, Matthew aveva già divorato la sua fetta di dolce, probabilmente per colpa della fame nervosa. Tormentava con le dita un lembo della sua camicia di flanella spostando di continuo lo sguardo da un finestrino all’altro. Dietro di noi c’era un pick-up azzurro guidato da Toby. Dawn era seduta al suo fianco con lo stesso portamento elegante di una regina.
«Spero che torneremo a casa presto» commentò Scarlett quasi tra sé e sé. «Ho ancora i compiti di francese da finire.»
Sean le lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore. «Sarai a casa prima di cena.»
Lei annuì staccando un pezzo di torta per offrirlo a Matthew. «Bene.»
«Sembra impossibile pensare che fino ad un paio di mesi fa i cacciatori dominavano Seattle» commentò lui accettando con gratitudine il dolce.
«I regni finiscono, i re cadono» mormorò Sean. «È semplicemente arrivato il loro momento.»
Spostai lo sguardo su di lui pur senza aver deciso di farlo. Per un attimo i suoi occhi, schegge di vetro verde, incrociarono i miei e quello che vi lessi mi stupì: speranza, in quelle iridi di solito così torbide e cupe c’era una speranza limpida e forte. Non l’avevo mai visto speranzoso, eppure in quel momento sembrò giusto che lo fosse, che lo fossimo tutti.
Sean spostò la sua attenzione sullo specchietto retrovisore. «Vediamo se quel vecchio catorcio ha ancora un po’ di vita» commentò con un sorrisetto.
Premette sull’acceleratore e il motore prese vita con un ringhio soffuso. L’auto scattò in avanti continuando poi ad aumentare la velocità, ma il modo in cui Sean teneva il volante, il suo atteggiamento rilassato, la facevano sembrare una cosa del tutto naturale. Prendemmo distanza dal pick-up sorpassando un paio di auto e guadagnandoci occhiate sorprese dai loro conducenti. L’espressione di Sean aveva un che di selvaggio ed euforico, si stava divertendo un mondo in quel momento. Vidi anche Scarlett sorridere, gli occhi castani che brillavano. Matthew invece si era aggrappato al sedile con aria terrorizzata ricordandomi molto il suo gatto.
Le sopracciglia di Sean si inarcarono quando il pick-up ricomparve dietro di noi. Lo sentii mormorare qualcosa tra sé e sé per poi sollevare un angolo della bocca. Non riuscì a riprendere distanza per tutto il resto del viaggio, Toby e Dawn rimasero vicini alla Camaro con determinazione impressionante. Ero davvero felice di averli come alleati, si dimostravano ogni giorno sempre più pieni di risorse e coraggio.
Sean fermò l’auto nello spiazzo vicino al quartier generale dei cacciatori. Toby accostò a pochi metri da noi mentre altre auto comparivano e parcheggiavano lì vicino. Tra i loro passeggeri riconobbi diversi lupi che avevo già visto al Luna di Carta. Non mi aspettavo che decidessero di partecipare all’incontro con i cacciatori, non visto lo scetticismo che avevano dimostrato nei confronti di Sean e del piano, eppure erano lì, con noi, uniti per la stessa causa.
Scarlett scese dalla Camaro per andare a salutare Dawn, Matthew si allontanò di qualche passo portandosi il cellulare all’orecchio con espressione seria. Feci per raggiungerli, ma mi fermai quasi subito quando Sean allungò un braccio davanti a me. Non mi stava guardando, la sua attenzione era tutta dedicata all’edificio dove si riunivano i cacciatori. Sul suo viso era calata un’ombra che aveva cancellato ogni traccia di divertimento.
Aprì il vano portaoggetti di fronte a me e le sue dita di chiusero sul calcio di una pistola nera. Spalancai gli occhi trattenendo il fiato d’istinto. Avevo sempre avuto una sorta di repulsione per le armi e tutta la violenza che le circondava, cercavo di evitarle, di tenermene alla larga il più possibile. Ritrovarmene una così vicino mi mise i brividi.
Cercai lo sguardi di Sean, confuso e preoccupato. Avevo proposto l’accordo con Colin proprio per evitare scontri e morti, ma adesso era saltata fuori una pistola: le mie intenzioni pacifiche parevano avere le ore contate. Paura e rabbia mi serrarono la gola, tutto quello a cui riuscivo a pensare era che con un singolo gesto Sean avrebbe potuto distruggere il lavoro di mesi, spazzare via tutto l’impegno e la fatica che ci aveva portati a creare un branco e a riunire tutti i lupi di Seattle contro un nemico comune.
Lui mi lanciò una breve occhiata sfuggevole prima di scendere dall’auto infilandosi la pistola nella cintura dei jeans dietro la schiena e coprirla con la giacca. Aprii lo sportello per poi sbattermelo alle spalle e lo raggiunsi a grandi passi. Avevo il fiato corto, mi sembrava di avere il petto stretto in una morsa.
«Che diavolo stai facendo?» sibilai guardandolo dritto in faccia.
Sean ricambiò il mio sguardo senza fare una piega, le labbra strette in un’espressione di pacato distacco. «Non abbiamo tempo per questo.»
Prima che potessi replicare, mi voltò le spalle e si allontanò in direzione degli altri lupi. Mormorai un’imprecazione a mezza voce affrettandomi ad andargli dietro. Gli altri licantropi si erano riuniti vicino al pick-up e guardavano il loro Alfa nel più completo silenzio, in attesa di ricevere ordini.
«Ricordate tutti le vostre posizioni?» domandò Sean scrutandoli. Al loro cenno d’assenso, continuò: «Bene, allora andate. Colin e i suoi saranno qui tra poco.»
Mentre loro eseguivano, si voltò verso me, Scarlett e Matthew. «Questa è la parte più pericolosa, se non volete partecipare lo capisco. Potete rimanere nelle retrovie con Dawn e gli altri.»
«Non ti lasceremo ad affrontarli da solo» dichiarò Scarlett con fierezza. «Abbiamo cominciato quest’impresa insieme, e la porteremo a termine così… giusto?» aggiunse cercando il nostro assenso.
L’unica cosa che volevo fare in quel momento era farmi dire la verità da Sean, costringerlo a rivelare il suo piano, quello che aveva ben pensato di tenermi nascosto fino a che non era stato troppo tardi per impedirgli di metterlo in atto. Eppure annuii comunque, perché il branco era più importante dell’ennesimo litigio tra me e lui.
«D’accordo allora» fece Sean e c’era una punta d’orgoglio nella sua voce. «Andiamo.»
Dawn, rimasta in silenzio fino a quel momento, fece un passo avanti. «State attenti.»
Indossava una giacca verde militare che ricordava quelle dell’esercito, il suo viso era velato da un’ombra che la faceva sembrare una regina pronta ad affrontare la battaglia imminente.
Appena dietro di lei, Toby ci rivolse un piccolo sorriso d’incoraggiamento. «Facciamogli vedere di cosa siamo capaci.»
Sean sollevò il mento raddrizzando le spalle, un principe ribelle immerso nel suo elemento naturale: la guerra. Senza dire una parola, si avviò con passo sicuro verso il quartier generale dei cacciatori con me, Scarlett e Matthew al proprio fianco. Gli altri lupi erano già allineati a qualche metro dall’edificio, un fronte composto da uomini e donne, giovani e adulti, tutti pronti a combattere per la loro città.
Noi raggiungemmo il centro, lì dove ci avevano lasciato un po’ di spazio. Sean era il fulcro di tutto, sembrava disposto ad affrontare l’intero clan di cacciatori da solo. I mormorii che percorrevano il nostro schieramento si zittirono di colpo quando la porta dell’edifico davanti a noi si aprì. Colin Young uscì per primo, seguito da Brian, Nathan e altri uomini, tutti vestiti di scuro.
Nel momento in cui si resero conto di quanti eravamo, le loro mani corsero alle pistole che tenevano dietro la schiena. Adesso avevamo dieci armi puntate contro di noi e altrettanti cacciatori che ci fissavano con sospetto e rabbia. Se Colin avesse dato l’ordine, ci avrebbero ucciso tutti senza esitare.
«Ah, sapevo di non potermi fidare di te, lupo» ringhiò Colin con soddisfazione beffarda.
Avanzò seguito dai suoi cacciatori, la pistola puntata dritta al petto di Sean. Che però non mosse un muscolo, rimase impassibile a guardarlo. Solo i suoi occhi lasciavano intravedere la sua impazienza, erano frammenti di vetro colpiti in pieno dalla luce.
Colsi Scarlett mordersi il labbro con forza quando Nathan si fermò a un paio di metri da lei, l’arma ferma in mano. Eppure la sua espressione era tutt’altro che calma: era combattuto, quasi disperato. Tutto il contrario degli altri cacciatori, tutti più che pronti a premere il grilletto. Adesso sapere che anche Sean era armato mi sembrava molto meno sbagliato.
«Ti facevo più furbo, Sean, saresti ancora potuto scappare, ma non l’hai fatto» disse ancora Colin, sprezzante. «Sei qui per morire? O vuoi darmi i tuoi preziosi lupetti come pegno per la tua libertà? Vedo che ne hai raccolti degli altri…»
Sean inclinò appena la testa di lato. «Abbiamo ancora un accordo in sospeso, Young.»
«E cosa potrai mai offrirmi tu? Sono io a dettare le regole adesso. Potremmo uccidervi tutti in meno di un secondo e tu pensi ancora di avere qualche potere su di me?» replicò l’uomo inarcando un sopracciglio.
«In realtà sì, molto più di quanto credi» rispose Sean con voce calma.
Colin abbassò appena l’arma, confuso e divertito al tempo stesso. «Ho sempre pensato che avessi molto fegato per averci proposto un accordo, ma adesso credo solo di averlo scambiato per incoscienza. Sei stato coraggioso, questo te lo riconosco, però i giochi finiscono qui.»
L’Alfa annuì piano. «Oh, non potrei essere più d’accordo.»
Successe tutto in una frazione di secondo, troppo velocemente perché potessi vederlo accadere. Un attimo prima eravamo vulnerabili ed esposti, quello dopo tra le mani dei lupi erano comparse delle pistole che puntavano dritte ai cacciatori, una fra tutte, quella con cui Sean mirava al cuore di Colin Young.
Uno scatto metallico riempì per un breve istante il silenzio glaciale che si era creato. Mi lanciai un’occhiata alle spalle e quello che vidi mi lasciò a bocca aperta: Dawn, appostata sul retro del pick-up, imbracciava un fucile da caccia dall’aria molto pericolosa. A terra, accanto al veicolo, Toby impugnava un revolver argentato e sembrava impaziente di usarlo. Altri lupi posizionati dietro le auto parcheggiate erano armati e pronti a sparare. Eravamo passati dall’essere i bersagli a stare dall’altra parte del grilletto nel giro di un secondo. E dall’espressione compiaciuta di Sean intuii che era esattamente quello il suo piano.
Colin spalancò gli occhi impallidendo. Sembrava aver perso la capacità di fare qualunque altra cosa se non fissarci. Gli altri cacciatori spostavano di continuo le pistole cercando di mantenere tutti i lupi sotto tiro, ma si stavano rendendo conto di essere in schiacciante inferiorità. Per la prima volta in vita mia ero felice che qualcuno avesse agito alle mie spalle.
Sean Leblanc aveva dimostrato ancora una volta il perché era riuscito a sopravvivere così a lungo senza nessun tipo di aiuto. E questa volta aveva fatto le cose molto in grande.
«Vediamo di rimettere a posto le cose» esordì, gli occhi verdi che brillavano. «Abbassate le armi, tutti quanti.»
«Brutto figlio di…» borbottò Colin tra i denti, le dita che si muovevano nervose sul calcio della pistola.
«Fa strano trovarsi dall’altra parte, mmh? Non è esattamente piacevole» commentò l’Alfa. «Armi a terra, ho detto. Adesso.»
Nathan posò la propria pistola sull’asfalto e la spinse indietro con il tacco dello stivale. C’era un accenno di speranza a illuminargli il viso, qualcosa che non mi aspettavo di vedere sul volto di qualcuno che aveva ucciso chissà quanti lupi.
Il capo dei cacciatori e qualcuno dei suoi uomini, pur con grande riluttanza, eseguirono l’ordine di Sean, altri però si rifiutarono. Lui indurì la mascella e puntò l’arma contro l’uomo massiccio davanti a me. Solo in quel momento mi resi veramente conto di avere una pistola puntata contro, all’altezza del cuore. La sua bocca nera assomigliava a un buco nero, oscuro e senza fine.
Di colpo avevo un vuoto al posto dello stomaco, una sensazione di panico gelido e strisciante che mi risaliva nel petto. Non ero mai stato così vicino al pericolo, al rischio di morire. Mio fratello era un marine, conviveva con la morte giorno dopo giorno, ma per me era un concetto astratto, lontano, qualcosa che accadeva agli altri. Ora invece ce l’avevo di fronte in tutta la sua spaventosa e immensa presenza.
Il mondo intorno a me divenne silenzioso e immobile, l’unica cosa che sentivo era il mio stesso cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
«Ehi ragazzone, stavo parlando anche con te.» La voce bassa e velata di minaccia di Sean si fece largo nel terrore cieco che mi stringeva. «Pistola a terra, ora. Non mi piace ripetermi e non mi piace sparare alle persone, ma lo farò se mi costringi.»
Il cacciatore, un metro e novanta di muscoli e cicatrici, lasciò passare degli interminabili secondi prima di decidersi a posare l’arma sull’asfalto con un grugnito.
«Bene» riprese Sean annuendo. I muscoli del suo collo erano appena in rilievo, l’unico segno che tradiva la sua tensione. «Vedo che riusciamo a ragionare.»
Buttai fuori l’aria in un respiro tremante stringendo i pungi per nascondere il tremore delle mani. Non riuscivo a capire come lui riuscisse a rimanere così composto e concentrato mentre era sotto tiro, la sua calma aveva un che di innaturale e al tempo stesso pericoloso.
«Non finché sarò in vita» ringhiò Tristan, uno dei cacciatori che avevano catturato Scarlett quella che sembrava un’eternità fa.
Puntò la pistola contro Sean, una furia dirompente a incendiargli lo sguardo, il dito già pronto sul grilletto. Probabilmente non aveva tenuto conto dei riflessi micidiali dei licantropi quando aveva deciso di sparare, perché prima ancora che potesse finire di parlare già cinque armi miravano al suo petto.
Ma non fu necessario nessun colpo. Nathan scattò in avanti e spinse Tristan da parte gettando la sua pistola a terra. Lui gli scoccò un’occhiata di fuoco prima di afferrarlo per il colletto della maglietta con rabbia e tirarlo a sé. Torreggiava su Nathan, che adesso sembrava persino più giovane di quanto non fosse, giovane e vulnerabile.
Scarlett fece per avvicinarsi, ma si bloccò all’ultimo secondo, i pugni serrati lungo i fianchi che tremavano appena. L’arma di Sean rimaneva puntata su Colin anche se il suo sguardo saettava su di lei, come per assicurarsi che non facesse niente di stupido.
«Non sei mai stato dalla nostra parte, vero, piccolo traditore che non sei altro?» sibilò Tristan a pochi centimetri dal viso di Nathan. «Ti sei fatto fregare dal fascino malato di questi mostri molto più in fretta di quanto pensassi.»
«Ehi! Piano con le parole» protestò Matthew in tono indignato.
Nathan trasse un respiro spezzato. «Non sono mostri, non lo sono mai stati! Siamo noi ad averli etichettati così.»
Una risata aspra sfuggì dalle labbra dell’altro. «Oh, vuoi dirmi che non hanno mai ucciso nessuno? Che non sono per più di metà animali senza controllo? Apri gli occhi, Evans, guarda in faccia la realtà.» Lanciò uno sguardo sprezzante a Sean. «Se li lasciamo fare, conquisteranno l’intera città e ammazzeranno chissà quanti innocenti.»
«Lascialo, Tristan» ordinò con voce bassa Colin, tutto il corpo in tensione.
«Non c’è bisogno di complicare le cose» convenne Sean. «Lascialo ed evitiamo di ricorrere a mezzi che non piacciono a nessuno.»
Sul volto di Tristan si dipinse un ghigno senza allegria. «Se fosse per me, sareste tutti morti adesso, tutti.» Si voltò a guardare Scarlett dritto negli occhi senza allentare la presa su Nathan. «A cominciare da lei.»
Matthew scivolò davanti a Scarlett come a farle da scudo. Sean fece scattare la sicura della pistola, uno click metallico secco e gelido. Adesso stava mirando esattamente al centro della fronte di Tristan.
«Cos’è che hai detto?» ringhiò e persino io fui in grado di scorgere il suo lupo che mostrava le zanne.
Nathan approfittò di quell’attimo per sferrare un pugno sulla mascella spigolosa di Tristan e sottrarsi così alla sua presa. Lui barcollò all’indietro di un paio di passi, più sorpreso che sofferente. Alcuni cacciatori mormorarono commenti sprezzanti che fecero incurvare le sue spalle come se avesse dovuto sostenere un peso enorme.
«Nessuno deve morire oggi» dissi a voce abbastanza alta perché tutti mi sentissero. «E nessuno deve farsi male. Tutto quello che vogliamo è vivere, avere una possibilità di dimostrarvi che non… che non siamo mostri assassini.»
Scarlett incrociò il mio sguardo per un attimo: c’era una fiamma dorata ad animarle le iridi, intensa come non l’avevo mai vista. «Farci la guerra a vicenda non è la soluzione, porterà solo altri morti. Perché se decidete di riaprire la caccia, questa volta non saremo solo prede.»
Contro ogni logica apparente, Sean abbassò la pistola e la rinfilò nella cintura dei jeans voltandosi a guardare Colin. «Qualunque sia la tua decisione, Scarlett ha ragione: da oggi le cose cambiano. Potete andarvene e sopravvivere o potete restare e scontrarvi con noi. A te la scelta.»
«Vuoi che ce ne andiamo? Che lasciamo la città in mano a voi?» sbottò Colin sprezzante. «Ho dedicato la mia intera vita a questa causa, ho perso tutto per proteggere persone che neanche sanno della vostra esistenza, non abbandonerò tutto per te e il tuo gruppo di lupi.»
«Pensa a Denise, Colin» intervenne Nathan. «Dovresti stare con lei, aiutarla a crescere, essere un padre presente. Non combattere una guerra priva di scopo.»
A quel nome, qualcosa nel petto dell’uomo si spezzò, una profonda tristezza gli invase le iridi velate dalla furia che pareva consumarlo. Dovetti sforzarmi per non guardare altrove, per sopportare tutto il dolore che traspariva dal suo viso stanco. In un moto di rabbia disperata, si abbassò per afferrare la pistola e la sollevò stringendola con entrambe le mani, la bocca all’altezza del cuore di Sean. «È colpa tua, tua e di tutti quelli come te. Siete solo capaci di distruggere.»
Il panico tornò a serrarmi il cuore, ma questa volta non era per me stesso che mi stavo preoccupando. L’urgenza di muovermi, di fare qualunque cosa mi bruciava nel petto, quasi fosse stata acido.
Sean avanzò di un passo, poi un altro, finché la pistola non era premuta contro il suo sterno. Nonostante la sua calma assurda, per la prima volta da quando lo conoscevo apparve esposto, indifeso. E, realizzai, era esattamente ciò che voleva, era stato lui stesso ad abbassare le proprie difese e mostrarsi così vulnerabile. Sembrava che lo stesse invitando a premere il grilletto.
I lupi del nostro schieramento di scambiarono occhiate confuse e allarmate, nessuno aveva idea di cosa avesse in mente, né di cosa fare. Dovevamo aspettare e basta pregando che Colin non decidesse di farla finita?
Scarlett cercò il mio sguardo con urgenza, il petto che si alzava e si abbassava a un ritmo forsennato dettato dalla paura. Dovetti mordermi il labbro fino a sentire il sapore del sangue in bocca per impedirmi di fare qualunque cosa se non rimanere immobile ad aspettare. Un intervento, da parte di chiunque, avrebbe potuto far degenerare quella situazione già abbastanza tesa.
«Può finire tutto adesso» cominciò Sean, la voce bassa come il fruscio del vento tra gli alberi. «Tutto il dolore, la fatica, la rabbia… tutto quanto. L’unica cosa che vi chiedo è di lasciare Seattle.»
Le mani di Colin erano scosse da tremiti, una reazione più che umana, ma che stonava con l’immagine del cacciatore spietato che mi ero fatto di lui: c’era un’anima ferita ed esausta nascosta sotto tutto quell’odio. Per alcuni lunghissimi istanti la pistola rimase premuta contro il petto di Sean, fin troppo vicina al suo cuore.
Poi le labbra di Colin si contrassero in una smorfia di dolore, tutta la sua forza venne meno in un secondo. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, l’arma abbandonata in una mano. Il suo sguardo era distante, lontano anni luce da quel parcheggio.
Sean espirò piano rilassando i muscoli delle spalle. «Hai fatto la scelta giusta.»
«Non ho scelto niente, lupo, non sono più in grado di farlo» mormorò l’uomo, la voce stanca e svuotata.
Un’ombra attraversò le iridi dell’Alfa, ma fu troppo veloce perché potessi capirne il significato. Annuì una volta sola, di nuovo padrone della situazione. «Dovreste andarvene entro domani.»
«Non riesco a credere che stia succedendo davvero» esclamò Tristan, la voce grondante di disprezzo.
Colin tornò a guardare Sean ignorando il commento. «Solo una cosa. Non possiamo lasciare Seattle completamente priva di cacciatori. Se la voce di questo accordo e delle sue conseguenze dovesse spargersi, vi ritrovereste assediati. E verrebbero a cercare anche noi accusandoci di tradimento.»
Tristan fece un passo avanti rompendo la formazione compatta dei cacciatori e fissò l’uomo dritto in faccia con rabbia. «Non ti permetterò di distruggere quello per cui abbiamo lavorato tanto» sbottò per poi raccogliere la pistola. «Se voi non avete il coraggio di fermare questa follia, lo farò io.»
Avanzò ancora e, prima che avessimo il tempo di realizzarlo, afferrò Scarlett per un braccio e la trasse a sé. Sentii il mio cuore fermarsi quando le premette la canna della pistola contro la gola tenendola stretta contro il suo corpo per impedirle di divincolarsi. Mossi un passo in avanti, evitando di barcollare per puro miracolo.
Premuta contro quei vestiti scuri e anonimi, Scarlett sembrava più piccola di quanto non fosse, temevo di vederla scomparire da un momento all’altro. Era impallidita di colpo sgranando gli occhi e artigliando il braccio del cacciatore quasi per impedirsi di affogare.
Tra tutti, ero quello che poteva fare meno per aiutarla, non avevo né l’addestramento dei cacciatori né la forza e i riflessi dei licantropi, ma la sola idea di saperla di nuovo tra le mani di uno dei suoi assalitori mi rendeva abbastanza avventato da provare comunque a fare qualcosa.
Feci per muovermi ancora, ma Sean mi fermò sollevando una mano. Non aveva ancora preso la propria arma, ma dalla tensione dei suoi muscoli si intuiva che era pronto a scattare. Per la prima volta, l’idea di usare la violenza non mi sembrava più così sbagliata, adesso era necessaria.
«Possiamo essere noi a vincere, non dobbiamo per forza lasciare che siano loro a farlo» iniziò Tristan cercando con lo sguardo l’appoggio degli altri cacciatori. «Siamo soldati, combattiamo perché questa città sia sicura, per dare un futuro migliore a chi verrà dopo di noi. Davvero avete paura di contrattaccare?»
I cacciatori esitarono, Colin imprecò sottovoce, Nathan serrò i pugni lungo i fianchi. Nessuno osava dire niente, né per appoggiarlo né per dargli contro. Avevo la netta impressione che quell’incontro, la solida strategia di Sean, stesse degenerando, era a un soffio dallo sfuggirci di mano. E noi potevamo poco o nulla per impedirlo.
Con la coda dell’occhio colsi Sean annuire piano, un movimento quasi impercettibile della testa. Quasi nello stesso momento, l’espressione di Scarlett si indurì cancellando ogni traccia di paura, le sue iridi si accesero d’oro. Aggrappandosi con forza al braccio di Tristan, sollevò una gamba e usò il tallone dell’anfibio di pesante pelle nera per colpirlo sul ginocchio. Lui lanciò un grido di dolore lasciandola andare.
Scarlett si girò su se stessa, un ringhio basso che le vibrava in gola. Mollò un pugnò direttamente sul naso di Tristan spedendolo lungo disteso a terra. Matthew fischiò in segno d’approvazione attirando su di qualche occhiataccia da entrambi gli schieramenti. Il mio sollievo fu tanto che sentii le ginocchia cedermi, rimasi in piedi per pura forza di volontà.
Un angolo della bocca di Sean si sollevò appena in un sorrisetto. «Vi ho detto che i ruoli erano cambiati, no? Non siamo più solo prede.»
Nel frattempo, Nathan aveva raccolto la pistola di Tristan, che si stava rimettendo in piedi tra imprecazioni e gemiti. Rivoli di sangue scuro gli colavano dal naso dando l’impressione che indossasse una maschera spettrale. Fissò con astio Scarlett pulendosi il viso con la manica della giacca.
Lei, che aveva ripreso la sua posizione accanto a Matthew, ricambiò l’occhiata con altrettanta ferocia. Il tempo di avere paura era finito.
Sean si rivolse a Colin, il mento sollevato in un’espressione di superiorità. «Dovrei farvi ammazzare tutti per questo, lo sai? È stato un affronto ai limiti del tollerabile, un insulto direi. Ma abbiamo deciso di stringere un accordo e odio lasciare le cose a metà, quindi finiamo questa trattativa una volta per tutte.»
L’uomo sospirò a fondo passandosi una mano sul volto stanco. «Stavo dicendo che sarebbe più prudente lasciare qui qualcuno di noi, almeno due o tre persone per essere sicuri che nessun’altro cacciatore cerchi di entrare in città e riaprire la caccia.»
L’Alfa ponderò la proposta socchiudendo gli occhi, del tutto consapevole di avere il coltello dalla parte del manico e con tutta l’intenzione di usare quel suo vantaggio. «Credo si possa fare. Due cacciatori possono restare, ma devono essere disarmati e ben disposti. Non accetterò un altro episodio come quello che è appena successo.»
«Può rimanere Nathan.» Subito dopo aver parlato, Scarlett si coprì la bocca con la mano. Le sue guance si tinsero di rosso mentre abbassava lo sguardo.
Tristan alzò gli occhi al cielo. «Non è neanche un vero cacciatore.»
«Nate è giovane e ha molto da imparare, ma è indubbiamente il più disponibile a cercare un dialogo con voi» commentò Colin. «Dovremmo affiancargli qualcuno con più esperienza però.»
Brian fece un passo avanti, il viso segnato dalle rughe calmo e dall’espressione gentile. Non l’avevo neanche notato, fino a quel momento era rimasto in silenzio a osservare e ascoltare. Ancora una volta, mi apparve più come un padre di famiglia piuttosto che come un assassino, non riuscivo a immaginarlo armato, né tantomeno capace di odiare qualcuno.
«Posso rimanere io, se per voi va bene» propose, la voce calma e pacata. «Sono uno dei più anziani e ne ho viste di cose in questi anni. Io e Nate potremmo lavorare bene insieme, che ne dici, ragazzo?»
Nathan sbatté le palpebre, sorpreso. «Io… sì, va bene.»
Colin fece un breve cenno d’assenso col mento. «Manca la tua approvazione…» Si interruppe in modo brusco nascondendo quell’esitazione con un colpo di tosse. Stava per chiamare di nuovo Sean “lupo”, ma doveva essersi reso conto che non sarebbe stata una mossa molto furba.
Un angolo della bocca di Sean si contrasse in una piccola smorfia. «D’accordo, può andare. Voi altri dovete lasciare la città entro mezzogiorno di domani, o l’accordo salta e vi ritrovate cinquanta lupi che vi danno… la caccia.»
Un mormorio percorse la fila di cacciatori, ma nessuno osò protestare. Persino Tristan sembrava essersi calmato, nonostante la sua espressione fosse ancora cupa e rabbiosa.
«Seattle è una vostra responsabilità adesso» disse Colin e c’era una nota di tristezza nella sua voce. «Spero ve ne prenderete cura.»
Sean annuì, fiero. «Lo faremo.»
L’uomo avanzò di un passo sollevando una mano. «Buon lavoro allora.»
L’Alfa lo scrutò per un attimo, prima di stringerla con fare solenne. «Grazie.»
Colin fece cenno ai suoi di raccogliere le armi poi, dopo essersi scambiato un’ultima occhiata con Sean, si voltò dandoci le spalle. Lui fece lo stesso, si girò invitandoci a seguirlo.
Faticavo a credere che l’accordo avesse funzionato davvero, che fossimo riusciti a portare a termine quell’impresa così grande e pericolosa. Era partito tutto per salvare un’unica ragazza, adesso avevamo tra le mani un’intera città. La mia mente si riempì di tutti gli scenari terribili che potevano succedere, tutte le cose che potevano andare storte, ma le spinsi in un angolo per concentrarmi su quello che invece avevamo ottenuto lavorando insieme come un vero e proprio branco.
Al mio fianco, Sean guardava dritto davanti a sé, un sorrisetto leggero a incurvargli le labbra, quasi come se neanche lui si rendesse contro fino in fondo che ce l’avevamo fatta. Scarlett mi rivolse un sorriso luminoso quando incrociai il suo sguardo, i suoi occhi ambrati sembravano brillare in quella giornata così cupa e grigia sfidando il temporale in arrivo.
Mentre un lampo squarciava il cielo sopra Seattle, il rumore di uno sparo riempì l’aria.



SPAZIO AUTRICE: Ehi! No, non sono dispersa, sono solo molto impegnata e un po' bloccata da un'ispirazione che va a singhiozzo.
Se i miei calcoli sono corretti e tutto va bene, il prossimo dovrebbe essere l'ultimo capitolo prima dell'epilogo. O meglio, a dir la verità non so ancora se scriverò anche un epilogo, ma l'idea c'è, devo vedere come sarà la situazione quando avrò finito il 41° capitolo
Quindi sì, ormai siamo quasi alla fine di UAPM, ma non per questo le sorprese sono finite, anzi. Chi credete che abbia sparato? E chi è stato colpito? E dopo cosa succederà, quali saranno le conseguenze?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che il finale sia stato sconvolgente come speravo!
A presto <3

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Capitolo 41
*** 41. Scarlett ***


Under a paper moon- capitolo 41


                                                    

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41. Scarlett

Non mi ero mai resa conto di quanto fosse forte l’odore del sangue prima di allora. O meglio, avevo sentito quello del mio quando i cacciatori mi avevano sparato, ma quello di un’altra persona era del tutto diverso, era caldo, pungente, vagamente amaro.
L’aria era elettrica per via del temporale che stava per scoppiare, il sentore dell’asfalto umido aleggiava intorno a noi. Per un attimo, il tempo si era fermato dopo lo sparo.
Mi ci era voluto un po’ per capire cosa fosse successo, l’avevo scambiato per un tuono piuttosto forte, per una porta che veniva sbattuta, per tutto tranne che per quello che era realmente. Perché quella possibilità era così spaventosa da non essermi neanche venuta in mente.
Tornai in modo brusco alla realtà quando sentii il ringhio basso e sofferente di un lupo. No, non di un lupo qualsiasi. Del mio Alfa.
Sbattei le palpebre e vidi Sean stringersi il braccio, le dita macchiate di un rosso così vivo da sembrare innaturale. C’era qualcosa di strano nella posizione del suo corpo, era teso, ma allo stesso tempo piegato dal dolore, una lotta tra orgoglio e sofferenza. E poi c’era Adam, furioso e protettivo insieme, con un braccio intorno alla schiena dell’Alfa, le spalle dritte e lo sguardo di fuoco puntato su qualcosa di lontano. Me ne resi conto solo in quel momento: Sean era aggrappato a lui con la forza testarda di chi non vuole lasciarsi andare al dolore, le sue iridi baluginavano d’oro mentre il suo lupo lottava per limitare i danni.
Sollevando ancora di più gli occhi vidi Tristan, davanti al quartier generale dei cacciatori, la pistola ancora stretta in mano e puntata su di lui. La sua espressione era calma in modo spaventoso, del tutto vuota, gelida. I cacciatori dietro e intorno a lui lo fissavano, sconvolti quanto me.
Nathan gli si avvicinò a grandi passi, ma prima che potesse fare qualunque cosa, lui gli puntò l’arma contro. Aveva dimostrato di non aver paura di premere il grilletto, però c’era una bella differenza tra lo sparare a quello che credevi essere un mostro e sparare a chi era stato un compagno, un amico.
Senza pensarci, mi spostai per fare da scudo a Sean insieme ad Adam. Il mio lupo scoprì le zanne con fare minaccioso facendomi nascere una rabbia bollente nel petto. Non gli avrei permesso di portarmi via nessuno, né il mio Alfa né chiunque altro del branco. Non sarei stata di nuovo una vittima.
Un ringhio rabbioso e cupo nacque da qualche parte dietro di noi. Un attimo dopo, Dawn marciò verso i cacciatori con una forza tale che avrebbe potuto demolire un muro, forse addirittura un intero edificio. Aveva gli occhi accesi d’oro, le zanne in mostra in un sorriso sinistro e tagliente. Aveva abbandonato il fucile per assecondare il proprio istinto rivelando la sua vera natura. Toby si affrettò a raggiungerla e l’afferrò per un polso prima che potesse raggiungere il suo scopo. Dawn scattò come un serpente, tirando indietro la testa per guardarlo con aria di sfida, le iridi velate di rabbia.
Nello stesso momento, Nathan aveva cercato di disarmare Tristan dimostrando un coraggio che non credevo avesse. Lui però aveva perso ogni briciolo di umanità e non esitò a reagire: lo colpì con violenza al viso con il calcio della pistola facendolo cadere in ginocchio. Prima che potesse andare oltre, Brian gli comparve alle spalle e, veloce e silenzioso, gli passò un braccio intorno alla gola. Tristan tentò di dimenarsi, ma la stretta dell’uomo era ferrea.
Lo costrinse ad accasciarsi lentamente a terra, la pistola che gli scivolava di mano, le dita che si muovevano frenetiche mentre annaspava. Alla fine, smise di muoversi e si abbandonò come un burattino a cui hanno tagliato i fili. Con gesti che denotavano una certa esperienza, Brian lo fece sdraiare a terra senza troppe cerimonie.
Nessun’altro aveva osato muoversi o fiatare, era stato tutto troppo sconvolgente, troppo inaspettato per essere assimilato, per poter scatenare una reazione. Nel giro di un minuto erano successe tante cose che avevano bisogno di tempo per trovare il loro posto e incastrarsi tra loro per ricreare una sorta di sequenza logica, dare un senso a quegli ultimi sessanta secondi. La minaccia rappresentata da Tristan era stata eliminata, adesso tutta la mia attenzione si concentrava su Sean.
Mi voltai verso di lui, che nonostante la ferita si reggeva in piedi e sembrava più che determinato a continuare a farlo. Aveva il volto pallido e contratto, l’unico segno di sofferenza che si era concesso era il sorreggersi contro Adam. Con un ringhio soffocato, si staccò da lui raddrizzandosi.
Si liberò del giubbotto per poi lanciarlo a terra, lo sguardo fisso sui cacciatori. Colsi sorpresa e timore serpeggiare tra le loro fila. Nathan, che nel frattempo si era rialzato, si teneva una mano sul viso, lì dove Tristan l’aveva colpito. I suoi occhi incontrarono i miei, erano spaesati, ma non spaventati come credevo.
Sean avanzò, i passi sicuri che sembravano far tremare la terra. Rivoli scarlatti gli scendevano lungo il braccio dandogli un’aria più letale che sofferente. Come per un ordine implicito, noi lupi lo seguimmo sfoderando le zanne. Percepivo il dolore del mio Alfa propagarsi in ondate gelide dal suo corpo. I ricordi di quando io stessa ero stata colpita da un proiettile d’argento mi invasero la mente soffocando la lucidità.
Mi ritrovai in balia del mio lupo, smaniosa di combattere e agire. Quella stessa energia selvaggia crepitava in tutto il branco e il suo centro era Sean. L’Alfa si fermò a qualche metro dai cacciatori, i muscoli della schiena in tensione, contratti, per mascherare la sofferenza. Gocce di sangue scuro cadevano dalle sue dita e si infrangevano contro l’asfalto, potevo quasi sentirne il suono.
«Noi… Mi dispiace, non…» balbettò Colin, la voce rotta dalla paura.
Me ne resi conto solo in quel momento, Sean aveva rivelato la sua natura più primordiale: il suo lupo affiorava alla superficie con le zanne scoperte e una furia devastante a incupirgli le iridi; quelle dell’Alfa, invece, erano di un oro così puro e intenso da pietrificare chiunque lo guardasse negli occhi. Gli artigli scuri apparivano affilati come rasoi, quasi impazienti di affondare nella carne.
Sean Leblanc era un fulmine, pura energia dalla portata micidiale concentrata in un’unica persona, in un unico lupo. Le nuvole cupe sopra di noi erano il suo palcoscenico. Rabbia, rancore e dolore si trasformarono in un cocente desiderio di vendetta. L’aria crepitava di elettricità, quasi si vedevano scintille brillare nel vento freddo.
«Silenzio» tuonò Sean e fu un ringhio e un ruggito insieme. «Avete fino a mezzanotte per andarvene, o giuro che verrò a cercarvi uno a uno e non avrò nessuna pietà.» Un sorriso sinistro, minaccioso gli incurvò le labbra. «Vi farò pentire di non aver avuto una mira migliore.»
Colin era sbiancato, aveva gli occhi spalancati in un’espressione di puro terrore. Gli altri cacciatori sussultarono tremando come foglie. Non avevo mai pensato a quanto potesse effettivamente far paura un licantropo, né tantomeno un Alfa seguito dal suo branco. Adesso avevo la risposta davanti ai miei occhi e dovevo ammettere che non avrei mai voluto essere dall’altra parte.
Senza quella strana forza indomita che sentivo scorrermi nelle vene, senza Sean e il resto dei lupi a guardarmi le spalle, mi sarei sentita annientata dalla paura, come un cerbiatto messo all’angolo da un predatore.
«Abbiamo capito» riuscì a dire Colin. «Domani a Seattle saranno rimasti solo Brian e Nathan.»
«Oh, lo spero davvero» commentò Sean in tono vagamente divertito. «Non vorrei dover venire a stanarvi.»
Colin deglutì annuendo con enfasi. Era così strano vedere un cacciatore di licantropi che, solo poche settimane prima, mi aveva minacciata e rinchiusa in una cella tremare di fronte a quelle che erano state le sue prede, tremare di fronte a me. Quella consapevolezza mi inebriava come alcol, mi faceva sentire forte e potente, pericolosa. Erano sentimenti oscuri emersi dalle profondità più recondite del mio animo, desideri che neanche credevo di avere. Io non ero così, però.
Una piccola parte di me lo sapeva e lo stava urlando perché le prestassi attenzione: Scarlett Dawson non era un mostro violento, non lo era mai stata. Così, mentre i cacciatori si affrettavano a sparire di nuovo dentro l’edificio che usavano come quartier generale, portando con loro anche il corpo svenuto di Tristan, ripresi il controllo di me stessa e del mio lupo. Fu come lavarsi il viso con acqua gelida, all’improvviso ero del tutto sveglia e consapevole di quello che succedeva intorno a me, non avevo più la mente annebbiata da quella furia cupa e malata.
D’istinto, mi lanciai un’occhiata alle spalle: Adam era rimasto qualche passo dietro di noi, l’espressione preoccupata e le labbra piegate in una linea severa. Anche se non era un licantropo, doveva aver percepito quel turbinio di emozioni oscure e malvagie, non in modo assoluto e inebriante come me, ma non poteva averle ignorate.
Con un sospiro, avanzò verso Sean, potevo quasi vedere le parole prendere forma nella sua mente, pronte per essere pronunciate in quel tono appena saccente che in realtà nascondeva la sua apprensione. L’Alfa si voltò verso di lui, l’oro che ancora gli baluginava nelle iridi, e di colpo apparve esausto, completamente stremato.
Adam dovette accorgersene, perché si sbrigò a raggiungerlo giusto in tempo per afferrarlo e impedirgli di cadere in ginocchio. Il sangue sul braccio del lupo sembrava essersi scurito, adesso era nero e denso come catrame. Grazie all’udito più sviluppato dalla licantropia, fui in grado di ascoltare Adam che borbottava insulti contro l’irresponsabilità di Sean. Riuscii a cogliere una nota di sincera preoccupazione nella sua voce.
«Matt!» chiamai avvertendo un’ondata di dolore più intensa delle precedenti propagarsi dal mio Alfa.
Matthew comparve al mio fianco ansimando piano. «Ah, non va bene, non va per niente bene» mormorò stringendo le labbra.
Gli altri lupi si raccolsero dietro Sean e Adam con fare protettivo, lanciavano di continuo occhiate sospettose all’edificio dove si erano rintanati i cacciatori.
Matthew e io ci affrettammo a raggiungere l’Alfa. Di colpo, la consapevolezza che fosse ferito mi piombò addosso stringendomi il petto in una morsa d’ansia. Si era mostrato così forte e invincibile davanti ai cacciatori che non avevo dato troppo peso al sangue che gli macchiava la pelle chiara, adesso però era l’unica cosa che riuscivo a vedere. Raccolsi la sua giacca da terra mentre mi avvicinavo.
Matthew si sfilò la camicia, rimanendo con indosso solo una maglietta, e ne strappò una lunga striscia. Quando si trattava di curare qualcuno diventava preciso ed efficiente come un vero e proprio chirurgo, perdeva tutta la sua goffaggine come per magia. Senza dire una parola, passò la striscia di stoffa dietro il braccio di Sean, sopra il foro d’entrata del proiettile, e la legò come avrebbe fatto con un laccio emostatico. Il lupo si lasciò sfuggire un ringhio soffocato, Adam aumentò la stretta su di lui quasi senza rendersene conto.
«Devo estrarre la pallottola in fretta, o l’argento arriverà al cuore» disse Matthew con fare sbrigativo. «Ho i miei strumenti nella Camaro, posso farlo qui e adesso.»
Infilai una mano in una delle tasche della giacca di Sean, quella che sentivo più pesante, e ne trassi le chiavi dell’auto. Le passai a Matthew che corse verso la macchina senza fiatare.
«Puoi camminare?» mormorò Adam cercando di incrociare lo sguardo di Sean. «Se no, possiamo…»
L’Alfa sollevò il mento con orgoglio testardo. «Posso camminare.»
Gli occhi di Adam incontrarono i miei e c’era una domanda muta in quelle iridi: stai bene? Annuii e lo vidi rilassarsi appena.
Insieme, raggiungemmo la Camaro e lui fece sedere Sean su uno dei sedili prestando attenzione a non fargli male. Adam non si allontanò di lì, mentre Matthew frugava nella sua borsa di pelle cercando gli strumenti che gli servivano, rimase accanto a Sean, fiero nonostante l’apprensione che pesava sulle sue spalle così come sulle mie. Avevo quasi l’impressione di essere fuori posto lì, stringevo la giacca come se avesse potuto darmi conforto, rassicurarmi.
Sentivo Dawn parlare in tono concitato con Toby poco dietro di noi; la presenza degli altri lupi, preoccupati per il loro Alfa, era un filo di energia che ci circondava, sottile, ma innegabile.
Matthew ripulì la pelle intorno alla ferita sul braccio di Sean e gli lanciò un’occhiata. «Farà male, molto. Purtroppo non ho antidolorifici qui, ma…»
«Fallo e basta» sbottò Sean, il petto che si alzava e si abbassava secondo il ritmo frenetico e discontinuo dettato dal dolore.
Matthew annuì, l’espressione cupa. Si rivolse ad Adam, la voce ferma, controllata: «Ho bisogno che tu lo tenga fermo, pensi di poterlo fare?»
Lui annuì senza esitare, le sue mani scivolarono sulle spalle dell’Alfa e le strinsero con decisione. Percepivo il battito accelerato del suo cuore, eppure al di fuori non mostrava neanche un briciolo di quel tumulto di emozioni.
Sean mi guardò e la sua espressione si addolcì. «Non devi rimanere se non vuoi. Non sarà un bello spettacolo, non sarebbe da codardi non guardare.»
Mi ritrovai a scuotere la testa affondando le dita nella pelle morbida della sua giacca. «Resto. Siamo un branco, no? Dobbiamo sostenerci a vicenda.»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena. «D’accordo, solo, non vomitare sulla mia macchina.»
Mi lasciai sfuggire una risata nervosa e allo stesso tempo liberatoria. «Farò del mio meglio.»
«Okay, fallo, Matt» fece Sean prima di trarre un respiro profondo. «In fretta.»
Un bagliore argenteo nella mano di Matthew rivelò un paio di pinze lunghe e sottili. Nonostante i miei buoni propositi di essere coraggiosa, serrai gli occhi quasi subito mordendomi con forza il labbro. Il mio lupo uggiolò piano nel sentire quello di Sean soffrire in quel modo.
Qualcuno dietro di me emise un verso molto simile a un conato, qualcun altro lo rassicurò invitandolo a voltarsi. Socchiusi appena le palpebre per sbirciare nel momento in cui Matthew estraeva con espressione vittoriosa il proiettile dall’avambraccio dell’Alfa. L’argento mandava bagliori sfumati di rosso, quasi minacciosi. Sean imprecò tra i denti e si accasciò contro il sedile, e di conseguenza contro Adam, mentre cercava di calmare il proprio respiro.
Il sollievo mi rese deboli le ginocchia, dovetti aggrapparmi alla carrozzeria della Camaro per non rovinare a terra.
Adam mi rivolse un’occhiata preoccupata. «Stai bene, Scar?»
Annuii facendomi cadere alcune ciocche castane davanti al viso. «Sì, sì sto bene. Sono solo… sollevata.» Mi scostai i capelli dal viso accennando un sorriso. «Siamo tutti interi, è una bella notizia.»
In quel momento, Dawn ci raggiunse e sembrava decisamente meno contenta di me riguardo l’esito della nostra missione. «Ti avevo detto che sarebbe stato pericoloso» sbottò fissando Sean con aria accusatoria. «Te l’avevo detto più di una volta e tu non hai voluto ascoltarmi.»
Sean si raddrizzò appena e la guardò dritto in viso. Era ancora pallido, ma il suo sguardo era tornato determinato come prima. «Ho fatto quello che dovevo. Abbiamo vinto, se ne andranno. Questo,» accennò al proprio braccio macchiato di sangue, «è solo un piccolo prezzo da pagare.»
Matthew si intromise tra loro per posare della garza imbevuta in un liquido violaceo dall’odore dolciastro sulla ferita dell’Alfa. «Tieni premuto… Sì, così, perfetto. Aiuterà a ripulire il tuo organismo dall’argento.»
Dawn afferrò con rabbia il proiettile sporco di rosso che Matt aveva lasciato da parte e lo tenne sollevato tra due dita. «Un piccolo prezzo? Saresti potuto morire. Sei stato fortunato, quel cacciatore biondo deve avere un debole per noi perché senza di lui adesso avresti una pallottola nel cervello, caro il mio Alfa.»
Mi scostai dall’auto. «Intendi Nathan?»
Lei mi lanciò un’occhiata veloce. «Sì, lui. Ha deviato il colpo spingendo l’altro cacciatore. È probabilmente l’unica ragione per cui sei ancora in vita.»
Sean si lasciò sfuggire una smorfia d’irritazione. Aveva ancora le mani di Adam sulle spalle, ma non sembrava farci caso. «Beh, a quanto pare era così che doveva andare. Il fatto che io sia stato graziato dalla sorte non vuol dire che ciò che abbiamo fatto non abbia significato. Abbiamo vinto comunque.»
Dawn strinse il proiettile nel pugno fissandolo negli occhi. Ora più che mai appariva come una regina guerriera sul punto di decidere le sorti di un prigioniero. Quando riaprì la mano, la pallottola era ridotta a una pallina informe. La pelle del suo palmo era arrossata per essere stata a contatto con l’argento, però lei non lo notò neanche. «Adesso hai un branco che conta su di te, Sean, non puoi dare così poco valore alla tua vita» disse con voce dura, gli occhi scuri e profondi.
Gettò ciò che rimaneva del proiettile a terra e si allontanò a grandi passi. Sollevando lo sguardo, notai come gli altri lupi si fossero allontanati di qualche metro per darci spazio, ma anche come seguirono i movimenti della lupa mentre raggiungeva il pick-up.
«Ha ragione» mormorò Adam dopo un po’. «Le sorti di questo branco dipendono da te, se muori sarà tutto inutile.»
Sean si irrigidì contraendo la mascella. «Quello che ho fatto…»
«Abbiamo vinto però, ed è questo che conta» concluse Adam, un angolo della bocca appena sollevato. Mi rivolse un’occhiata e c’erano fulmini nella tempesta delle sue iridi. «Seattle è nostra.»



1 settimana dopo

Il sole tiepido del primo pomeriggio mi accarezzava la pelle mentre me ne stavo seduta sullo schienale di una delle panchine dietro la scuola. Era stato strano rientrare in un’aula, seguire le lezioni, prendere appunti e rivedere Elisabeth, chiacchierare con lei come se niente fosse successo. Invece erano successe moltissime cose, e molte altre sarebbero accadute di lì a breve senza che nessun umano se ne rendesse conto.
Accanto a me, Nathan osservava con aria pensierosa il parcheggio che si svuotava, il colletto della giacca militare sollevato che gli sfiorava la mascella. La sua Jeep, di un rosso scolorito, passava inosservata, ferma nel suo angolo sotto l’ombra proiettata dalla palestra. Sul viso aveva ancora l’ombra del livido che il calcio della pistola di Tristan gli aveva lasciato, un alone violaceo che si allargava sul suo zigomo.
La prima volta che l’avevo visto era stato il giorno dopo lo scontro con i cacciatori, allora era ancora rosso e gonfio, mi aveva fatto salire la nausea mischiata ai sensi di colpa. Lui però aveva minimizzato con un alzata di spalle dichiarando che le ferite di guerra andavano portate con onore.
«È tutto così tranquillo ora» mormorò quasi sovrappensiero.
Mi voltai a guardarlo, incuriosita. «Che intendi?»
I suoi occhi castani incrociarono i miei. «Senza Colin e gli altri, senza la caccia… non abbiamo molto da fare. Non che sia una cosa negativa però, anzi. Insomma, adesso io e Brian possiamo concentrarci su quello che ci piace sul serio.»
«Per esempio? Che cosa vorrebbe fare Nathan Evans nella vita?» gli chiesi accennando un sorriso.
«Adoro i motori e le auto, settimana prossima farò una prova in un’officina: se andrà bene, mi assumeranno come aiutante» rivelò con una scintilla nuova nello sguardo. «Se ci fosse stato ancora il clan dei cacciatori non avrei potuto farlo.»
Mi scostai una ciocca di capelli dal viso. «Beh, wow. Non hai perso tempo.»
Lui lanciò un’occhiata alla Jeep. «Era da un po’ che volevo farlo, ho colto l’occasione al volo.»
Mi mordicchiai il labbro. «Cosa pensi che faranno gli altri? Ora che non possono più cacciare, intendo.»
Nathan scrollò le spalle scuotendo piano la testa. «Non lo so, i più giovani forse andranno al college, gli altri troveranno lavoro… Colin sarà impegnato con le pratiche per l’affidamento di Denise, probabilmente.»
«E Tristan?» mormorai sentendo un retrogusto amaro pizzicarmi la lingua nel pronunciare quel nome. Avevo ancora ben impresso in mente il dolore devastante che aveva provato Sean quando gli aveva sparato, i rivoli di sangue scuro che sembravano crepe sulla sua pelle chiara.
«Non so davvero cosa potrebbe fare lui» commentò Nathan prima di sospirare. «Ha così tanta rabbia dentro di sé… È imprevedibile, come un animale ferito.»
Corrugai la fronte. «Perché ce l’ha tanto con i licantropi? Cioè, so che tutti i cacciatori ci considerano mostri, ma per lui sembra una questione molto più…»
«Personale?» indovinò Nathan. «Lo è. Tristan è convinto che i lupi gli abbiano portato via tutto.»
«Non capisco, perché pensa una cosa del genere? Cosa gli abbiamo fatto?» domandai cercando di incrociare il suo sguardo. Lui si passò una mano tra i capelli, l’espressione che si incupiva. «Devi sapere che Tristan aveva un fratello maggiore, Gabriel. Era stato lui a istruirlo alla caccia, ad addestrarlo e renderlo il soldato che è. Erano molto legati. Quando cercavano e attaccavano licantropi insieme erano micidiali. Fino a che, due anni fa, non accadde un incidente.»
Mi accorsi solo in quel momento che mi ero sporta verso di lui, quasi temessi di perdermi qualche parola. Mi schiarii la gola ritraendomi. «Che successe?»
«Era la settimana prima del plenilunio, erano usciti con altri del gruppo per rintracciare un lupo che si era spinto nei boschi a nord della città per sfuggirci» continuò Nathan, la voce grave. «Si erano divisi per coprire un’area più vasta e… fu una pessima idea. Il lupo era ferito, esausto, disperato. Non appena vide Gabriel da solo non esitò ad attaccare. Tristan era lì vicino, così intervenne, ma era troppo tardi: il licantropo aveva morso suo fratello.»
Richiamai alla mente la lezione di Sean sui morsi e le trasformazioni e un brivido mi scese lungo la schiena quando mi ricordai che solo un piccolo numero di persone che venivano morse riuscivano a sopravvivere senza riportare danni irreparabili. Rimasi in silenzio, aspettando che fosse Nate a scegliere di continuare.
Trasse un respiro profondo prima di riprendere a parlare: «Tristan e gli altri riportarono Gabriel nel quartier generale lasciando perdere il lupo. Le regole dei cacciatori sono molto severe, soprattutto quando uno di noi viene morso. Le applicarono anche quella volta, senza esitazioni. Gabriel fu chiuso in una cella, gli venne dato un pugnale d’argento e gli dissero di togliersi la vita per evitare che al mondo ci fosse un altro di quei mostri.»
Un moto di nausea mi strinse la gola. «Non è possibile… Gli hanno detto di uccidersi
Nathan chinò la testa torturandosi le mani in grembo. «Non potevano lasciarlo a piede libero, ed era suo dovere in quanto cacciatore eliminare quella minaccia. Sarebbe morto con onore piantandosi con le sue stesse mani un coltello nel cuore.»
«E l’ha fatto? O si è rifiutato?» chiesi con impazienza. L’urgenza di sapere era l’unica cosa che mi occupava la mente.
«Lo fece» mormorò Nate. «La mattina dopo lo trovarono riverso in una pozza del suo stesso sangue. Aveva mantenuto fede alla sua promessa di ripulire il mondo dai licantropi, fino alla fine. Da quel momento, Tristan non fu più lo stesso.»
Schiusi le labbra, incredula, prima di stringerle con rabbia. «E perché Tristan da la colpa ai lupi? Non siamo stati noi a mettere un coltello in mano a suo fratello e a dirgli di suicidarsi!»
«Quel licantropo l’aveva morso, però. Sia Tristan che Gabriel erano troppo coinvolti, troppo ossessionati dalla missione dei cacciatori per fermarsi a pensare se fosse giusto, sbagliato o anche solo sensato» commentò lui tirando fuori le chiavi della Jeep e rigirandosi l’anello del portachiavi attorno al dito. «Il clan era tutto quello che avevano. Dopo la morte dei loro genitori, Colin li aveva accolti e aveva dato loro un riparo. Sono l’unica famiglia che è rimasta a Tristan.»
Mi venne spontaneo pensare a Sean, Adam, Matthew e Dawn, ai clienti del Luna di Carta… Loro erano una sorta di famiglia per me, insieme a mia madre. Erano tutti diversi, ognuno con le sue complessità e i suoi difetti, eppure in qualche modo funzionava. Ci guardavamo le spalle a vicenda, cercavamo di rispettarci e di sostenerci il più possibile sotto lo sguardo vigile di Sean. Forse, adesso che io stessa avevo provato cosa significava avere una famiglia allargata che ti protegge, potevo capire la rabbia esplosiva di Tristan. Lo capivo, ma non lo perdonavo, non potevo farlo.
«È orribile» sussurrai fissando il parcheggio senza vederlo veramente. «Come si può chiedere a un ragazzo di uccidersi per via di una vecchia leggenda?»
«Sai, agli umani serve qualcosa in cui credere, uno scopo… il famoso “bene maggiore”. Per Gabriel e Tristan è stato unirsi alla caccia, credevano di fare la cosa giusta» fece Nathan. «Nessuno ha mai raccontato loro l’altra parte di verità. Io sono stato fortunato, ho avuto la possibilità di fare altro oltre a cacciare, di conoscere altre realtà e costruirmi una mia idea del mondo, lui no.»
Riuscii solo a scuotere la testa, avevo la lingua secca, inutilizzabile. Non c’era pietà nei clan di cacciatori, c’erano solo credenze cieche e assolute che non ammettevano dubbi o ripensamenti. O eri con loro, o eri contro di loro.
«Non sto cercando di giustificarlo, comunque» aggiunse Nate. «Quello che ha fatto è orribile e imperdonabile. Ci ha portati sull’orlo di una guerra… più di quanto non fossimo già. Se Sean non fosse stato clemente, saremmo tutti morti.»
Ricordavo la rabbia selvaggia che mi aveva scosso il petto quando Sean, ferito e sanguinante, aveva affrontato di petto i cacciatori. Il branco era stato al suo fianco, ma ero certa che lui l’avrebbe fatto anche da solo. Molti non avevano condiviso la sua scelta di risparmiare Colin e il suo gruppo, avrebbero voluto vederli morti una volta per tutte, ma lui era stato irremovibile. E quando l’aveva ribadito per l’ennesima volta di fronte a tutto il branco, riunito davanti a lui al Luna di Carta, avevo scorto una scintilla d’orgoglio nello sguardo di Adam.
«Lo so» mormorai. «So che non condividi il suo gesto. Non saresti rimasto altrimenti.»
I suoi occhi castani, sempre vivaci e affamati, indugiarono su di me per qualche secondo, prima di scivolare via. «Già.» Rimase in silenzio per un po’, come se stesse riflettendo sul senso della vita. «Credi… credi che potremmo rivederci ogni tanto? So che Sean non vede di buon’occhio me e Brian nonostante l’accordo, ma…»
«Sì, possiamo» mi sentii dire pur senza ricordare di aver deciso di farlo. «Insomma, sarebbe utile anche per il branco instaurare una buona relazione con te. E Brian.»
La tensione che gli irrigidiva le spalle si sciolse e sulle sue labbra si aprì un sorriso. «Vero, la diplomazia è fondamentale quando si mette in atto un accordo.» Lanciò le chiavi in aria e le riprese al volo scoccandomi un’occhiata divertita.
Adesso appariva così giovane… pareva avere a malapena diciotto anni, tutta l’oscurità del suo passato era scomparsa, almeno per un po’. Nonostante avesse rinnegato i loro principi e si fosse allontanato da loro, Nathan aveva trascorso gran parte della sua vita con i cacciatori e questo l’aveva influenzato, l’aveva segnato: uccidere qualcuno, licantropo o meno, a sangue freddo era un’esperienza che ti rimaneva addosso, come una cicatrice.
Non eravamo poi così diversi alla fine, anche io portavo un segno fisico e tangibile del mio passato. Anzi, più di uno, perché alla luce della luna piena il segno del morso che mi aveva trasformato affiorava sulla mia pelle, traslucido e impalpabile.
Nathan infilò una mano nella tasca della giacca e ne trasse il cellulare. Diede uno sguardo allo schermo aggrottando la fronte prima di rimetterlo via. «Devo andare» mormorò rivolgendomi un sorriso di scuse. «Ci vediamo presto, mmh?» aggiunse poi, una scintilla di speranza nelle iridi castane.
Ricambiai il sorriso annuendo. «Sì, certo. Quando vuoi.»
Lui si mordicchiò il labbro, esitando per una manciata di secondi. Poi si alzò per incamminarsi verso la Jeep. A metà strada, si voltò continuando a camminare all’indietro e mi rivolse un saluto militare che mi strappò una risata. Rimasi a guardarlo mentre si allontanava, una piacevole sensazione di calore che mi nasceva nel petto. Era stato un cacciatore e questo era innegabile, ma Nathan Evans si stava impegnando sul serio per cambiare e questo gli andava riconosciuto.
«Scarlett.»
Trasalii rischiando di finire poco elegantemente a terra quando sentii una voce chiamarmi da dietro. Mi aggrappai alla panchina conficcando gli artigli mezzi allungati nel legno e mi voltai, il cuore in gola. Sean era a pochi passi da me, un sopracciglio biondo inarcato in un’espressione perplessa.
Indossava la stessa giacca di pelle che aveva durante lo scontro con i cacciatori, anche se aveva dovuto lavarla per togliere il sangue e Dawn aveva cucito una toppa a forma di impronta di lupo sul foro lasciato dal proiettile.
«Volevi uccidermi?» sbottai.
Lui si schiarì la gola, con ogni probabilità per nascondere una risata. «No. E poi, avresti dovuto sentirmi, non mi sono avvicinato di soppiatto.»
Scesi dalla panchina non reputandola più un luogo sicuro, e incrociai le braccia al petto guardandolo dritto in viso. «Sai, a volte le persone si perdono nei propri pensieri, quando lo fanno non sono del tutto consapevoli di cosa accade intorno a loro. Sarebbe carino non arrivare alle spalle o almeno annunciarsi.»
«Excusez-moi» replicò lui senza scomporsi, la voce addolcita da un accento che ricordava un po’ quello francese. «Comunque, sta’ attenta con quel cacciatore.»
Deglutii, all’improvviso nervosa. «Tu… hai sentito…?»
Scosse piano la testa. «No, grazie al cielo sono arrivato poco prima che se ne andasse e non ho sentito niente: non sopporto i drammi adolescenziali.»
«Sei stato un adolescente anche tu!» protestai. «E neanche tanto tempo fa.»
Alzò gli occhi al cielo. «Non me ne andavo in giro a incontrare gente che non dovrei però.»
Strinsi le labbra. «È il nostro tramite con i cacciatori, il loro rappresentante, dobbiamo comunicare con lui.»
Nei suoi occhi verdi passò un lampo. «Oh, quindi tu l’hai incontrato qui dopo scuola per puro altruismo verso il branco?»
«Sì» risposi senza esitare sollevando il mento. «So che non mi crederai, ma è proprio così.»
«Okay» fece lui, sorprendendomi. «Voglio stare il più lontano possibile da qualunque cosa coinvolga adolescenti e ormoni quindi non insisterò. E adesso andiamo, gli altri ci aspettano.»
Inarcai le sopracciglia, incuriosita. «Gli altri?»
«Abbiamo un incontro con il branco. Se hai altri progetti però…» cominciò Sean.
«No, vengo volentieri. Insomma, sei pure venuto a prendermi, un po’ come un autista privato» scherzai avviandomi verso il davanti della scuola.
Lui mi seguì corrugando la fronte. «Non farci l’abitudine però.»
All’ombra di un albero, la Camaro di Sean riposava come una pantera dopo la caccia. Appoggiati alla carrozzeria c’erano Matthew e Adam, intenti a chiacchierare. Erano del tutto rilassati, a loro agio, vederli così mi scaldava il cuore: avevo temuto per entrambi quando avevamo deciso di affrontare i cacciatori, in alcuni momenti ero stata addirittura certa che avrei perso uno dei due, ma alla fine avevamo vinto ed era anche per merito loro.
«Ehi Scar» mi salutò Adam rivolgendomi un sorriso, lo sguardo tempestoso e luminoso al tempo stesso.
Sollevai un angolo della bocca. «Ehilà.»
Accanto a me, Sean stava studiando il ragazzo con una strana espressione negli occhi, era come se si fosse trovato davanti a un rompicapo che lo affascinava, ma che non riusciva a risolvere.
Matthew mi fece un allegro cenno di saluto con la mano, che ricambiai. A volte era davvero difficile credere che avesse quasi trent’anni.
«Andiamo, non voglio arrivare in ritardo» borbottò Sean facendo il giro dell’auto. Prendemmo tutti posto, Adam di fianco all’Alfa, io e Matt sui sedili posteriori. Il motore della Camaro prese vita con un ruggito morbido, sentirlo rispondere così docilmente faceva venire voglia di mettersi al volante persino a me che neanche avevo la patente.
Quando ci immettemmo nella strada principale, Adam abbassò il finestrino e l’aria fresca del pomeriggio gli scompigliò i capelli. «Come stanno andando le cose secondo il tuo parere di Alfa?» chiese lanciando un’occhiata a Sean.
Lui rispose senza distogliere lo sguardo dalla striscia d’asfalto davanti a sé. «Per ora è tutto incerto, si sta stabilizzando però, il che è un buon segno. Ancora è presto per dire se il branco funzionerà.»
Adam aggrottò la fronte. «Li abbiamo salvati dai cacciatori, ancora non si fidano?»
«Quando sei stato cacciato per tutta la tua vita, non riesci a fidarti delle persone, non così facilmente. Vogliono mettere alla prova me e voi, capire con chi hanno a che fare» disse Sean con voce grave. «Abbiamo guadagnato punti e abbiamo Dawn e Toby dalla nostra, però ci vorrà ancora un po’ di tempo perché anche gli altri accettino tutte queste novità.»
«Anche io ci misi un sacco prima di fidarmi di te» mormorai, quasi sovrappensiero. E solo dopo aver parlato mi resi conto che quella frase si applicava sia ad Adam che a Sean.
«Ed è giusto così, la fiducia è una questione delicata, non deve e non può essere presa alla leggera» commentò Sean. «Ma funzionerà, noi lo faremo funzionare.»
Nello specchietto retrovisore incrociai lo sguardo di Adam, le tempesta delle sue iridi illuminata dalle pagliuzze dorate.
Non era facile convivere con un lupo dentro di sé, riuscire a condurre una vita normale e nello stesso tempo tenerlo nascosto a tutti sopportando pleniluni e sbalzi d’umore, eppure adesso sentivo di avere la schiena coperta, ma soprattutto di aver trovato il mio posto nel mondo.
Mentre la Camaro sfrecciava decisamente sopra il limite di velocità sulle strade di una Seattle spazzata da un vento fresco, mi ritrovai a pensare che essere un licantropo, alla fine, non era poi così male.





SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Siamo arrivati alla fine di Under a Paper Moon! Questo è l'ultimo capitolo della storia e sì, stento a crederci anche io. Ho cominciato a pubblicare UAPM ormai due anni fa, due anni in cui sono cresciuta e maturata e in cui mi sono resa conto che questa storia ha bisogno di una pesante revisione. Ho voluto concluderla prima, perché è giusto così: dovevo dare un finale al nostro nuovo branco e anche a voi che leggete.
Non solo del tutto convinta di questo ultimo capitolo (e quando mai lo sono stata? XD), ma eccolo qui. Spero che a voi piaccia più che a me!
UAPM mi ha fatta crescere come "scrittrice", mi ha fatto imparare tante cose e anche se non è assolutamente perfetta è una storia a cui sono molto affezionata, soprattutto ai suoi personaggi. Ognuno di loro ha dato il suo contributo alla storia, è anche grazie a loro se Under a Paper Moon funziona.
E un grazie molto sentito va anche a voi che avete letto le avventure di questo branco improvvisato, vi ringrazio dal profondo del cuore <3
Spero di avervi lasciato qualcosa con questa storia!

PS. Non escludo l'idea di un sequel, che, in ogni caso, comincerei tra diverso tempo. Adesso voglio dedicarmi ad altro, ma mai dire mai!

Un bacio,
TimeFlies

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