Беспредел - Oltre ogni limite [Otayuri]

di Marysia Lukasiewicz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - көтеріліс ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - страх ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Виктор Никифоров ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Витя ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Георгий Попович ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - любовь ***



Capitolo 1
*** Prologo - көтеріліс ***


Probabilmente, fino a qualche anno prima, non avrebbe mai immaginato di potersi trovare in una situazione simile nella sua vita. Non ne avrebbe avuto il coraggio, questo è certo, ma in quegli anni di sottomissioni e soprusi la sua fanciullesca mente era cresciuta, maturata, anche troppo in fretta. E così, mentre in lontananza lo scoccare della mezzanotte annunciava il giorno del suo diciannovesimo compleanno, si ritrovava con una pistola in mano e gli occhi gelidi puntati contro colui che, fino a poche ore prima, aveva pensato fosse l’amore della sua vita.
 
In Kazakhstan l’inverno era calato già da un secolo e ancora non accennava a placarsi. Il freddo era diventato il compagno del triste e dimenticato popolo delle fiere lande kazake, il cielo sembrava costantemente tinto di un grigio soffocante e scuro. E tra la neve, che avevano portato i russi assieme a sangue e massacri, giovani e aitanti ragazzi crescevano nella speranza di un futuro più roseo e caldo. Ad Almaty, che era bella, grande, ma oppressa e angosciata, quando il buio ed il silenzio della notte infestavano le vuote stradine, erano udibili, come goccioline di pioggia cadenti, i passi di chi, nel pericolo dell’oscurità, continuava a lottare contro il gelido dominio dei sovietici. Incappucciato, giaccone di montone ereditato dalla famiglia, stivali militari e sigaretta stretta tra le sottili labbra, vagava quello che all’epoca era l’appena diciottenne Otabek Altin. I capelli, rasati ai lati, erano un segno di riconoscimento, un dettaglio per cui chiunque, in quella fredda città, potesse riconoscerlo e, il più delle volte, stargli alla larga. Quella particolare acconciatura, piuttosto peculiare in quegli anni, era riservata a chi, giovane uomo, fosse disposto, con le armi in pugno, a difendere quella terra straziata sepolta dalla neve. Otabek, che era uno tra i più giovani nelle divisioni di Almaty, era un ribelle, un rivoluzionario, un soldato di un esercito formalmente inesistente, ma non per questo poco attivo. Era una matricola, i lineamenti squadrati, duri ma giovanili lasciavano intendere la sua inesperienza, ma gli occhi felini, neri e profondi come l’immensità della notte, facevano trasparire una maturità che per un diciottenne era molto rara. Aveva compiuto solenne giuramento al sole della segreta bandiera kazaka, proemio di un’estate che lui, fin dalla nascita, non aveva mai avuto il piacere di assaporare.

Era il 1941, giugno, notte fonda ad Almaty. Otabek, con gli occhi inespressivi, gelava con lo sguardo i curiosi che, vedendolo passeggiare davanti alla loro case in così tarda ora, lo scrutavano dalle finestre. Il coprifuoco sovietico era attivo già da un’ora, subito dopo il tramontar del sole, ma il giovane Altin, che per le strade della città vi era cresciuto, non aveva problemi nell’evitare spiacevoli incontri con le pattuglie russe di passaggio. Stringeva il pugno nella tasca del giaccone, tra le dita si rigirava un foglietto tanto piccolo quanto importante. Scritto in alfabeto latino, in Qazaqsa, la forma di scrittura kazaka condannata apertamente dal governo comunista, era un mandato del colonnello Aybek Jenil, capo della resistenza. Otabek aveva ricevuto l’ordine di consegnarlo ai ribelli della zona della grande moschea. E così il diciottenne taciturno e schivo si era fatto largo per più di mezza città, accompagnato dal suono dei suoi passi sicuri e silenziosi, fino a giungere davanti a quello che, ad un occhio poco attento, poteva sembrare una palazzina come tante altre. Tipica architettura sovietica, mura grigie, poche finestre, tutte chiuse, la porta di legno spesso e resistente chiusa a doppia mandata come da ordine. Ma gli occhi di Otabek erano attenti e scaltri e, nel buio della notte, scorsero con facilità un sole inciso, minuscolo, sul legno ben levigato della porta. Sospirò, poi si diede una rapida occhiata attorno. Il silenzio regnava sovrano, era solo. Con passo cauto si avvicinò alla grigia palazzina, bussò con forza due colpi, poi attese, ritto in piedi davanti alla porta. Nel giro di pochi attimi la porta di aprì appena, bloccata dalla catenella di sicurezza, e lo sguardo furtivo di un ribelle apparve dalla piccola fessura.

- Nome?- sussurrò l’uomo all’interno, scrutando la figura robusta del giovane Otabek. Sembrò notare subito la capigliatura distintiva del ragazzo, ma decise comunque di porgergli la fatidica domanda, facendo riferimento al nome in codice assegnato ad ogni nuova recluta.

- Aquila d’oro.- riferì Otabek, restando calmo in attesa di essere identificato. Il motivo di tale nome in codice è un chiaro riferimento al suo stesso cognome, che aveva incuriosito lo stesso Aybek, che fu ideatore del soprannome. “Altin” in lingua kazaka vuol dire, infatti “oro”, ed è considerato un cognome di alto prestigio, cosa che fa di Otabek il discendente di una fiera famiglia della steppa, il quale simbolo è proprio l’aquila. Non aveva mai preso in considerazione l’idea di avere nelle vene sangue importante, il giovane Altin, ma si sentì ovviamente gratificato al ricevere un nome in codice tanto invidiabile e fiero.

La sentinella che lo aveva interrogato si voltò, farfugliando qualcosa con gli altri ribelli rifugiati nella palazzina. Poi pose di nuovo la sua attenzione su Otabek e, dopo averlo scrutato da capo a piedi, gli fece strada nello stretto corridoio della palazzina, assicurandosi di non essere visto da nessuna pattuglia notturna.


- Prego. - disse con tono indecifrabile. Non era cortese, né contrariato. Aveva un timbro di voce quasi militare, un portamento studiato e corretto, sembrava un vero soldato. – Avete notizie dalla zona della cattedrale? - chiese poi, facendo strada al ben più rude Otabek, cresciuto scorrazzando per le stradine più misere della città, senza alcuna particolare educazione.

- Molte. - rispose solamente il giovane Altin, che mai nella sua vita era stato molto loquace.

- Interessanti? - s’incuriosì la sentinella, guidandolo per i corridoi dell’affollata palazzina, conducendolo fino all’ufficio centrale. Un cartello era appeso sul legno bianco della porta, come un avviso. Sempre in alfabeto latino, vi era inciso il nome “Serik Baybek”.

- Molto. - concluse Otabek, in attesa che venisse annunciato il suo arrivo al caporale Baybek, posto a capo della piazza della moschea, famoso per le sue eroiche imprese contro i sovietici durante i rastrellamenti.

- Non parli molto, vedo. - osservò l’altro, sospirando, per poi bussare alla porta del caporale, annunciando l’arrivo di un messaggero. Una voce profonda dietro la porta invitò Otabek ad entrare.

Il giovane dai capelli corvini si risparmiò una risposta. Si fece largo verso l’ufficio e, una volta entrato, si mise in attesa sull’uscio della porta, cosicché il caporale potesse vederlo e porgergli le dovute domande. Non aveva mai visto il responsabile della divisione della grande moschea, ma aveva sentito circolare, tra i bassi fondi della resistenza, storie piuttosto bizzarre a suo riguardo. Si diceva fosse un ubriacone, un accanito fumatore di sigari, che amasse le donne e fosse un po’ “matto” nelle operazioni di sabotaggio, ma l’uomo che Otabek si ritrovò davanti sembrava tutto fuorché uno scalmanato. Lineamenti morbidi, molto asiatici, espressione dura e severa, una grossa cicatrice a segnargli il viso, ricordo di una delle tante operazioni che lo videro protagonista. Si raccontava dell’atroce odore di alcool che alleggiava nell’ufficio dell’uomo, ma il diciottenne non avvertì nulla di sgradevole al di fuori di un aromatico odore di sigaro pregiato. Il colonnello sollevò lo sguardo, le iridi chiare stonavano con i lineamenti orientali ben marcati, ma non erano cosa rara nel popolo kazako.

- Abbiamo la conferma, quindi?- il caporale scrutò il giovane ribelle con sguardo attento, spegnendo il sigaro che stava rimuginando tra le labbra. Gli sguardi dei due s’incontrarono, Otabek dovette soffocare tra le labbra un sorriso soddisfatto, tirando fuori dalla tasca il fantomatico foglietto che aveva conservato come un tesoro fino a quel momento.

- Stanno avanzando. – affermò il giovane Altin, posando il foglietto sulla scrivania del caporale. L’uomo se lo rigirò tra le mani, sistemandosi gli occhiali da lettura sul naso sottile per analizzarlo. Poi sollevò il viso e sorrise formalmente al giovane messaggero.

- Questa è la volta buona.- disse poi, lasciando cadere il foglietto sulla scrivania, uscendo dall’ufficio per diffondere pubblicamente la notizia: la Germania nazista aveva invaso la loro tanto odiata Unione Sovietica.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - страх ***


- Yuri, starò via qualche ora. –

Yuri, che fino a pochi attimi prima si era completamente immerso nella lettura de “L’idiota” del tanto stimato Dostoijesvky, si ritrovò bruscamente destato da una voce calma e soave. Sollevò lo sguardo dal libro e vide suo zio intento a sistemarsi la divisa militare scura e triste, colma di medaglie al valore che l’appesantivano pietosamente.

- È successo qualcosa o vuoi solamente farti bello con la divisa? – gracchiò il sedicenne, rigirandosi sul divanetto in pelle e rileggendo da capo il paragrafo in cui era stato insolentemente interrotto. Sbuffò, aveva già perso la concentrazione e la voglia di leggere.

- È successo più di qualcosa, piccola tigre. – il colonnello Viktor Nikiforov, che era conosciuto nella natia San Pietroburgo per essere uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito sovietico, concesse un sorriso dolce e comprensivo all’irascibile e insolente nipote. – Ma nulla di preoccupante. – detto ciò si voltò nuovamente verso lo specchio, dove il suo affascinante riflesso lo attendeva. Si sistemò i capelli grigiastri sotto al berretto militare, dandosi poi una rapida occhiata per controllare che nulla fosse fuori posto.

- Si ritorna a San Pietroburgo? – Yuri squadrò lo zio con sguardo graffiante, da vera tigre, accennando ad un sorrisino tanto di sfida quanto speranzoso. I capelli biondo acceso, raccolti dietro la nuca con un nastro, gli concedevano un aspetto quasi effeminato e angelico, ma gli occhi felini e il sorriso insolente stonavano molto con la delicatezza dei suoi lineamenti.

- San Pietroburgo è troppo pericolosa per te.- lo ammonì Viktor, mentre un domestico si apprestava ad aprirgli la porta di casa.

- O magari è troppo importante per essere affidata ad uno come te. – il biondino non si degnò neppure di guardare negli occhi lo zio mentre, con queste parole pungenti, s’impegnava a rigirare il coltello in una piaga che Viktor non era ancora riuscito a riparare.

Gli occhi color ghiaccio del colonnello, azzurri come le acque del Mar Baltico, di cui entrambi erano originari, fissavano addolorate la figura del nipote. Lacrime amare, cariche di scomodi ricordi, gli appannarono la vista, un groppo gli annodò rapidamente la gola. Non voleva trattare quell’argomento, Yuri lo sapeva bene.

- Possiamo evitare di…- Viktor capì che il biondo, come suo solito, non lo ascoltava, non gli prestava più la minima attenzione. Lo capiva, infondo. L’aveva portato via dalla Russia quando era ancora un bambino, l’aveva allontanato dai genitori, dagli amici… dal nonno.

- Vai a farti bello, che cazzo aspetti? – Yuri riaprì il libro, lesse una frase, la rilesse, la rilesse di nuovo, ma non la capiva. Era furente, il rancore che serbava nel cuore non gli dava tregua e non gli permetteva di pensare al altro, se non all’odio per colui che l’aveva portato via dalla sua Russia.

Viktor sospirò, tirò un respiro profondo e, da bravo attore, riportò un falso sorriso sul viso bello e invidiabile. Aveva imparato sì a farsi bello, per il suo bene e per quello dei suoi cari. Yuri non lo sapeva, ma prima o poi l’avrebbe capito. Viktor voleva solo il suo bene.

- Yakov arriverà tra un’ora, fatti trovare pronto.- la voce dell’uomo si fece più severa, come quella di un vero colonnello, poi, senza aggiungere altro, se ne andò, lasciando il nipote solo con i domestici.

Yuri richiuse il libro, le guance gli divennero rosse di rabbia incontenibile. Si alzò, lanciando a terra il libro, si infilò la giacca, per poi voltarsi malamente verso i domestici. – Provate a dire a Viktor che sono uscito e vi faccio crepare tutti di fame, stronzi.- e senza voltasi a guardare le espressioni stupite dei domestici, lasciò l’abitazione sbattendo la porta. Fuori era estate, ma in Kazakhstan sembrava essere costantemente inverno.

Yuri odiava Almaty. Era grigia, scura, triste, tutta un’altra storia rispetto a San Pietroburgo. In Kazakhstan tutti sapevano il russo, ma nessuno lo parlava, e se lui accennava a dire qualcosa nella sua lingua madre veniva subito allontanato. Non parlava kazako, non aveva amici kazaki, non aveva mai neppure avuto il tempo di visitare la città in quei 7 anni di prigionia in quel posto che aveva imparato ad odiare. Da quando Viktor era stato allontanato dalla città per quella maledetta stronzata, Yuri non aveva conosciuto pace. Suo zio gli aveva preparato le valigie in fretta e furia e se l’era portato ad Almaty, come se quell’esilio dovesse toccare anche a lui. Non aveva avuto neppure il tempo di salutar suo nonno, tanto amato.

- Dove andiamo? – chiese quello che all’epoca era ancora un tenero e dolce bambino dalle guance rosse e tonde, gli occhi colmi di innocenza smeraldina.

- In vacanza! – e fu così che Viktor se lo caricò su un treno, ma la vacanza sarebbe durata per sempre.

Teneva lo sguardo basso, il viso coperto per metà dal colletto del giubbotto, in quell’Almaty che tremava anche in pieno giugno. Non c’era nulla di interessante da vedere: poche chiese, strade strette, quasi nessuna macchina e tanti sgradevoli sguardi di cittadini diffidenti. Il caschetto biondo, gli occhi chiari e i lineamenti occidentali lo tradivano, così doveva sopportare sulle spalle gli sguardi pieni d’odio di chi i russi non riusciva proprio a sopportarli. Yuri sollevò la manica, diede un’occhiata all’orologio da polso. Yakov, il suo insegnante, sarebbe arrivato di lì a poco, aveva girovagato per la città per quasi un’ora. Sospirò, non aveva finito di leggere il capitolo, colpa di Viktor, come sempre. Yakov l’avrebbe senza dubbio ammazzato. Fece per tornare indietro, ma una leggera brezza gelida, tipica della steppa, lo investì. E un piacevole odore di libertà si fece largo nei suoi polmoni. Si mise le mani in tasca, si rese conto di avere degli spiccioli, il minimo indispensabile per una giornata lontana da Yakov, dallo studio, da Viktor e dagli sguardi soffocanti dei domestici. L’avrebbero ammazzato, questo era certo, ma non era la prima volta nella sua vita che si beccava una strigliata o un paio di schiaffi in faccia. Fece un respiro profondo, poi col suo elegante passo felino si allontanò da casa, verso quartieri sconosciuti, dove l’odore del pane fresco donava un’atmosfera più tenera a quell’angosciante città.

I quartieri del centro città erano incredibilmente pieni di vita rispetto alla periferia, dove la maggior parte degli ufficiali sovietici avevano alloggio. Non si vedevano troppe pattuglie russe, nessuna divisa scura, solo civili e odore di pane. Le mura dei palazzi, ingrigite dal tempo e dal freddo, erano spesso adornate con soli, aquile o scritte in Qazaqsa che non riusciva a capire. Lì, dove la maggior parte della popolazione civile si radunava, le attività dei ribelli erano parecchio frequenti, notò, non si aspettava tante provocazioni scritte sui muri. Sembrava essere tornato bambino, il giovane Yurio, nel pieno della sua innocenza e fanciullezza. Almaty era diversa da San Pietroburgo, l’architettura era particolare, così come gli abiti dei cittadini kazaki, perfino gli odori erano diversi. Aveva fame, così, vedendo un’affascinante donna uscire da una panetteria col cestino colmo di invitanti dolci, decise di farsi tentare. Di gente ce n’era parecchia e notò quanto, in centro, i prezzi della vita fossero minori. I russi, gli ufficiali, preferivano fare acquisti nelle panetterie fuori città, più raffinate, dove i panettieri avevano imparato a preparare per lo più prodotti di tradizione russa. Yuri, curioso, si fece tentare da alcune particolari focacce, che scoprì chiamarsi Shelpek, dal colore invitante. Non proferì parola nella panetteria, era sicuro che parlare russo non gli avrebbe portato nulla di buono. Si limito a ringraziare con un timido “Raxmet”, in un incerto kazako che, in un primo momento non sembrò destare sospetti. Si accomodò su una panchina in una piazza piuttosto grande, dove sorgeva una grande e meravigliosa moschea, dai colori sgargianti e chiari. Tirò fuori la sua porzione di Shelpek, ancora calda e, scrutando da lontano la bella moschea, cominciò a mangiare nella calma più totale. Nessuno a dargli ordini o a fare domande, nessun’interrogazione, niente cibo freddo o insipido dei domestici. Solo aria fresca, un bel panorama e il calore di quell’ottima focaccia che non aveva mai avuto il piacere di assaggiare dopo cinque anni in Kazakhstan. Pensò, probabilmente a suo nonno sarebbe piaciuto quel posto, quella situazione. Insieme, su una panchina a mangiare i suoi amati piroshki. Le panetterie kazake facevano sì dell’ottimo Shelpek, ma i Piroshki del nonno non avevano rivali e Viktor, per quanto ci provasse, non era mai riuscito ad imitarli. E a Yuri mancavano da morire.

Si alzò, una volta finito il pasto, e si rimise in marcia per le vie della città. La sua esplorazione non era ancora finita, la sua curiosità incolmabile non aveva limiti. E s’incamminò per le vie strette della zona della grande moschea, dove l’atmosfera sembrava essere tornata quella cupa e triste della periferia. Notò, alle sue spalle, tra i civili, un gruppo di ragazzi piuttosto particolari. Una strana acconciatura, completamente rasata ai lati, ma con un alto e folto ciuffo, i cappotti abbottonati con cura, gli occhi furtivi tipici delle volpi o di chi aveva intenzioni piuttosto losche. Li aveva notati già da un po’, erano nella panetteria assieme a lui, solo in quel momento si rese conto che non lo persero mai di vista. E più si addentrava per le vie strette, più i civili venivano a mancare, più queste figure poco raccomandabili si facevano vicine e minacciose. Yuri ebbe un fremito, non aveva modo di tornare indietro, e più andava avanti più si faceva vulnerabile, nessuno avrebbe potuto aiutarlo in caso quei farabutti ce l’avessero con lui. Non correva, né aveva un’espressione particolarmente spaventata, nonostante fosse terrorizzato. Non voleva attirare ancor di più l’attenzione, né apparire indifeso, voleva solo tirarsi fuori da quella situazione prima che degenerasse in modo spiacevole. Ma lui non conosceva le strade di Almaty, al contrario dei ribelli, che ne avevano fatto proprio terreno di caccia, e nel tentare la sua silenziosa fuga si intrappolò in un vicolo cieco. Quale cliché più stupido per porre fine alle speranze di un sedicenne russo indifeso e dal corpo invitante, caduto preda di quel branco di lupi assetati di sangue? Un muro alto, insormontabile, i grigi palazzi che lo tenevano intrappolato non lasciavano neppure passare la speranzosa luce del sole. Si bloccò, dietro di sé sentiva ancora i passi dei ribelli avvicinarsi sempre più rapidi e duri. Non si voltò, fissò il muro per qualche attimo, maledicendosi per essere stato così maledettamente incauto e stupido. Uno dei ribelli accennò una risata, gracchiò qualcosa in kazako ai compagni, poi si rivolse a Yuri in un russo particolarmente storpiato e sgradevole.

- Si è perso, signorina? – lo derise, i compagni scoppiarono in una fragorosa risata. Quelle parole giunsero pungenti all’orecchio di Yuri, ma non si voltò, fissò quei grigi mattoni che, di lì a poco, sarebbero stati spettatori di una violenza che il sedicenne non avrebbe mai pensato di subire. Pianse, silenziosamente, i ribelli non potevano vedere le sue lacrime, non voleva che qualcuno vedesse la sua debolezza.

I ribelli si scambiarono brevi frasi in kazako, Yuri non capiva, ma conosceva le loro intenzioni. Non era la prima volta che un’imboscata del genere veniva riservata alle belle o ai giovani cittadini russi in zona. Sentì i loro passi farsi più vicini, finché la mano pesante e ruvida di uno di loro non gli si posò con falsa delicatezza sul viso. Una carezza amara, il ribelle conobbe per primo le lacrime del giovane Yuri.

- Oh, non piangere, non vogliamo mica farti male.- gli sussurrò all’orecchio con tono tutt’altro che rassicurante, mentre le mani di un altro di loro gli si posarono addosso. Uno dei ribelli si mise tra lui e il muro, gli mise una mano sui fianchi e avvicinò le labbra alle sue, mentre ogni muscolo del giovane Yuri s’irrigidiva in un disperato tentativo di liberarsi. Il rivoluzionario allungo la mano verso le sue parti intime, e a quel punto Yuri non poté far altro che urlare, chiedere aiuto, implorare la pietà di qualche anima pia.

- Aiuto! Vaffanculo, lasciatemi stronzi!- la voce di Yuri risuonò disperata per le strade, profonda e cupa per essere quella di un sedicenne, potente, implorava aiuto. Il ribelle lo zittì, gli premette una mano sulla bocca, forte, quasi a fargli male, ma Yuri non la smetteva di urlare, di dimenarsi. Non voleva conoscere quel dolore, né voleva arrendersi, apparire vulnerabile, essere sottomesso. Gli uomini cercavano di tenerlo fermo, uno di loro riuscì ad infilarsi tra le sue gambe, mentre Yuri continuava ad urlare e scalciare, in vano. Gli tolsero la giacca, gliela strapparono via, così come tentavano di fare con i pantaloni, ma Yuri si ribellava. Gli tirarono i capelli, lunghi, lisci, sinuosi, poi di graffiarono il viso, gli tenevano i polsi in strette atroci, ma il ragazzo, che era troppo giovane per provare un male simile, non si placava, non si piegava, ma tutti i suoi sforzi apparivano vani. Così accettò la consapevolezza che, in quel vicolo, in quel maledetto giorno, avrebbe perduto la propria innocenza. “Viktor aveva ragione”, pensò, “Qui fuori è tutto troppo pericoloso per me.” Avrebbe voluto dargli ascolto, invece di dover subire quel dolore. Chiuse gli occhi. Non voleva guardare nessuno di quegli uomini in faccia nel momento in cui sarebbero riusciti a fargli del male.

- Basta!- un urlo potente, una voce profonda e matura, si levò dietro di loro, all’inizio di quel maledetto vicolo. Yuri si sentì sollevato, ringraziò Dio per avergli mandato quell’angelo a salvarlo.

I ribelli allentarono la presa attorno al russo, si voltarono e videro un loro compagno, ben più giovane di loro ritto in piedi all’entrata del vicolo, gli occhi severi non lasciavano trasparire alcuna emozione se non rabbia e disgusto. L’uomo che si era fatto strada tra le gambe di Yuri rise, quasi sollevato, per poi riportare le mani al cavallo dei pantaloni del ragazzino, che riprese a levare urla disperate.

- Aquila d’oro, vuoi favorire? – chiese in kazako, Yuri non capì, ma sapeva non avesse detto nulla di buono. Il biondino, rosso di terrore, sentii il suono secco di un cane di una pistola venir tirato, e i suoi aggressori si pietrificarono in un lampo.

Otabek Altin, diciottenne anonimo e calmo, stava impugnando la pistola contro i suoi stessi compagni, con la mano ferma di chi, una volta sparato il colpo, non si sarebbe pentito del gesto. Gli occhi gelidi scrutavano il gruppo di assalitori, un’espressione disgustata si fece largo sul viso squadrato dell’affascinante ribelle.

- Non abbiamo giurato fedeltà per stuprare ragazzini.- la voce di Otabek era fredda, graffiante, gli occhi ricolmi di rabbia per la scena disgustosa a cui stava assistendo.
I ribelli, suoi compagni, esitarono, vedendosi puntare contro un’arma. Yuri, scosso, terrorizzato, continuava a dimenarsi, voleva scappare lontano da lì, correre da Viktor e scusarsi, scusarsi per non avergli dato mai retta, per essersi cacciato in una situazione tanto orrenda.

- Ma è un russo.- gracchiò con disprezzo uno degli aggressori, scrutando la pistola di Otabek con fare sorpreso. Nessuno dei ribelli aveva mai tentato di difendere un russo da una violenza, per quanto giovane e innocente questo fosse. I ribelli condividevano un comune odio verso i sovietici, che spesso scaturiva in una totale mancanza di umanità verso gli innocenti. Il giovane Altin, però, non nutriva odio per nessuno, aveva giurato fedeltà alla sua bandiera per schierarsi dalla parte dei deboli, russi o kazaki che fossero. Una violenza gratuita non riusciva a giustificarla.

- Mi costringete… - detto ciò il dito del bel ribelle si avvolse attorno al grilletto, il suono metallico della pistola carica pietrificò in malo modo gli aggressori, che immediatamente lasciarono andare Yuri che, in preda al terrore, alla rabbia, alla vergogna, si accasciò a terra, dilaniato da sentimenti orrendi che mai avrebbe voluto provare.

Otabek squadrò i ribelli, ancora con la pistola in pugno, finché questi non se ne furono andati e il vicolo fosse sicuro. Con passo cauto si avvicinò al povero russo, accasciato a terra, che stringeva i pugni con rabbia per l’umiliazione e il male che gli era stato fatto ingiustamente. Gli occhi iniettati di sangue, lasciavano scorrere lacrime amare, un misto di rabbia, dolore, angoscia. Otabek raccolse la sua giacca da terra, che quei maledetti aggressori avevano malamente calpestato durante la fuga, e glielo poggiò delicatamente sulle spalle. Yuri ebbe un fremito, lo guardò, riconobbe l’acconciatura, lo sguardo severo e i tratti duri dei ribelli, ebbe uno scatto e si allontanò, spingendosi fin contro il muro. Le labbra tremanti mimavano imprecazioni e frasi d’odio e terrore in russo, gli occhi increduli scrutavano il kazako da capo a piedi. Il russo si avvolse nella giacca, come per proteggersi, poi digrignò i denti, tremante, come una tigre confusa e famelica. Non voleva soffrire, voleva solo proteggersi. Otabek si chinò al suo fianco, gli porse la mano, l’espressione severa svanì dal suo viso, lasciando spazio ad uno sguardo preoccupato e sensibile. Yuri, diffidente, rifiutò l’aiuto, ma il kazako non si arrese.

- Ti riporto a casa.- gli disse in russo, con un accento particolare e piacevole, il suo tono si era fatto più delicato e comprensivo. Yuri sollevò lo sguardo e lo fissò in silenzio. Voleva cogliere nel suo sguardo, nei suoi gesti qualsiasi segnale di violenza, ma Otabek era calmo, gentile, la sua mano tesa con dolcezza. L’aveva già aiutato prima, Yuri non trovò soluzione migliore che fidarsi di lui.

Non rispose, non disse nulla, si limitò a prendergli la mano e il kazako lo aiutò ad alarsi da terra. Lo sguardo del russo era vuoto, uno specchio sulla sua anima confusa e vulnerabile, segnata dallo shock di quella violenza che, fortunatamente, non si compì mai.

- Sei ferito? – chiese Otabek, assicurandosi che Yuri non avesse segni evidenti dell’aggressione. Il biondo scosse il capo, non disse nulla, poi distolse lo sguardo. Otabek notò dei segni evidenti, dei lividi scuri e segnare i polsi del russo, dove gli assalitori lo avevano tenuto stretto. – Tranquillo, farò modo che nessuno si accorga di questi, ok? – detto ciò, si stacco dal polso un bracciale di cuoio spesso e ben decorato, un tipico oggetto artigianale della zona. Lo avvolse attorno al polso di Yuri, era abbastanza grande da coprire tutto il segno, almeno quanto bastava a nasconderlo da occhi indiscreti.

Il biondo dagli occhi confusi si scrutò il polso, poi accennò un sorriso. – Raxmet.- disse infine Yuri. Otabek sorrise al sentire quella voce stranamente matura pronunciare quel semplice quanto gratificante ringraziamento.

Yuri tornò a casa, scrutato da Otabek, in una mezz’oretta. Si sentiva protetto, in un certo senso, avere accanto un ribelle non gli causò guai. Si lasciarono a qualche decina di metri da casa di Yuri, con un timido saluto, e le loro strade si divisero. Dentro di sé, però, entrambi nutrivano uno strano desiderio di rincontrarsi di nuovo.
 

Yuri entrò in casa senza bussare o suonare al campanello, la porta era stranamente aperta. Neppure il tempo di mettere un piede in casa che una delle domestiche, una signora paffuta dai capelli ricci e mori, lo assalì con la stessa violenza con cui l'avevano assalito i ribelli. Yuri ebbe un fremito, ma le parole della domestica lo calmarono.

- Sia lodato il signore, è tornato! È tornato ed è sano e salvo!- la domestica lo prese per il polso, gli tolse la giacca impolverata, segnata dagli scarponi dei ribelli, e lo trascinò in salotto. Lì, seduto al tavolo, lo attendeva il maestro Yakov che, al contrario della domestica, non sembrava tanto felice nel rivederlo.

Lo fissava con occhi severi, poi si alzò in piedi, tozzo, basso, calvo, si avvicinò al ragazzino e, con la mano pesante e grossa, gli stampò uno schiaffo sulla guancia. Un segno rosso segnava il viso di Yuri, ma lui non disse nulla, non si ribellò, al contrario delle altre volte in cui veniva punito. Il tentato stupro di quel pomeriggio era bastato a fargli capire la lezione, lo schiaffo di Yakov era solo la ciliegina sulla torta di una giornata assolutamente da dimenticare.

- Tuo zio si sta dannando per te, disgraziato.- lo rimproverò con tono cupo, severo. Yuri non sollevò lo sguardo da terra, mortificato per la prima volta nella sua vita, umiliato dai suoi errori. La domestica gli indicò la sala da pranzo, socchiusa, dove si sentiva chiaramente la voce di Viktor discutere con qualcuno. Non si era accorto del suo rientro.

Gli occhi di Yuri si colmarono di lacrime, ma non le lasciò venir fuori. Per una volta voleva chiedere scusa a suo zio, per non avergli dato ascolto ed averne pagato le conseguenze. Si avvicinò alla porta della sala da pranzo, sospirò, poi la spalancò ed entrò senza neppure bussare. Con lo sguardo mortificato cercava Viktor. Il colonnello era seduto al tavolo, la divisa ancora indosso, stava discutendo animatamente in francese con un soldato dalla divisa che non aveva mai visto. Viktor si voltò, vide il nipote e, senza prestare attenzione all’ospite, si fiondò su di lui, abbracciandolo e singhiozzando come un bambino.

- Dove sei stato, piccola tigre..? – gli chiese con tono dolce, amorevole, non era arrabbiato con lui, né gli portava rancore per non avergli dato ascolto per l’ennesima volta. Viktor voleva bene al nipote, lo amava come un figlio, non riusciva mai ad arrabbiarsi seriamente con lui. Era semplicemente preoccupato.

- Scusa zio… perdonami…- Yuri cercava di trattenere, invano, i singhiozzi. Piangere lo faceva sentire un bambino, e quel giorno aveva già pianto abbastanza. Ma era triste, era mortificato, solo in quel momento si accorse di quanto gli facesse piacere essere abbracciato da suo zio.

Viktor sorrise, quasi non credeva a quelle parole, Yuri non gliele aveva mai concesse. Eppure cambiò argomento, non voleva insistere, non voleva forzare Yuri a parlare. Aveva capito, dai suoi occhi, che era accaduto qualcosa, qualcosa di spiacevole, non voleva farlo star male nel porgere domande, almeno non quella sera. Decise così di presentargli il loro ospite, il soldato dalla divisa sconosciuta, che era rimasto in attesa davanti a quella scena.

- Yuri, ti presento il caporale Jean-Jacques Leroy, venuto direttamente dal Canada per respingere al nostro fianco l’attacco nazista. Caporale Leroy, le presento mio nipote. – disse in un francese perfetto Viktor e, garbatamente, invitò Yuri a porgere la mano al canadese. Yuri sapeva il francese, non era fluente come lo zio, ma se la cavava.

- Piacere mio, monsieur…- disse Yuri, stringendo la mano del caporale in un saluto impacciato. Jean accennò un sorriso irritante.

- Così, sei tu la piccola peste che ha fatto dannare il colonnello Nikiforov tutto il pomeriggio. – disse con tono ironico, pungente, che infastidì il giovane Yuri e non poco. Viktor accennò ad una risatina, poi diede un’amichevole pacca sulla spalla dell’ufficiale canadese.

- Ah, la mia piccola peste!- detto ciò, condusse il caporale Leroy presso il proprio ufficio, dove avrebbero continuato con calma il discorso che Yuri aveva interrotto. – Va a cambiarti, piccola tigre, tra un’ora sarà pronta la cena. – Viktor strizzò l’occhio al nipote, richiudendosi poi la porta alle spalle.

Yuri, per una volta, obbedì. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Виктор Никифоров ***


Intanto, nella zona della grande moschea, qualcuno si stava subendo una brutta lavata di testa. Nel vociferare fastidioso che si era scatenato nel quartier generare da quando la notizia dell’invasione era stata diffusa, spiccavano due voci intente a discutere animatamente. La giovane e rampante Aquila d’Oro di Almaty, che oltre ad un immenso coraggio aveva dimostrato di avere anche un gran cuore, si trovava ad essere rimproverato per la sua umanità, per il riguardo che aveva avuto per un innocente. Era tornato al quartier generale con un raro sorriso stampato sulle labbra, appena accennato, ma comunque sincero e felice. Quando aveva giurato, davanti ai colori della propria bandiera, fedeltà all’organizzazione non l’aveva fatto con l’intenzione di far del male agli innocenti, di ripagare i sovietici con la loro stessa sporca moneta. Era un innocente, Otabek, uno dei tanti indifesi del Kazakhstan e aveva provato sulla propria pelle l’orrore della violenza gratuita, ingiustificata. Era per quello che combatteva, per proteggere chi non poteva. Non voleva macchiarsi degli stessi peccati dei suoi nemici, in tal caso la sua lotta e i suoi ideali sarebbero stati vani e vuoti. Non voleva che la sua lotta lo riducesse allo schifoso ruolo di un criminale. Chiuse gli occhi, sentiva ciò che Serik aveva da dirgli, ma non l’ascoltava. Quei rimproveri gli sembravano un’enorme stupidaggine.

- Dopotutto, sai quante delle nostre donne hanno subito un trattamento simile? – sbottò il capo, i capelli ingrigiti dall’età gli erano ricaduti sul viso rosso, nervoso, furente verso quel giovanotto aitante dal cuore troppo grande per quel mondo. Una vena sulla fronte pulsava pesantemente, come sul punto di esplodere, la stanza era invasa dal fumo dei sigari.

Otabek sollevò lo sguardo, contrasse il viso in una smorfia. Non sapeva, Serik, il motivo della sua lotta. Non conosceva il dolore, la rabbia che il ragazzo covava in sé verso i soldati, i potenti e i prepotenti. L’innocenza che aveva perduto da piccolo, i segni che portava sul proprio corpo, Serik non li conosceva. E Otabek sapeva che l’innocenza non ha nazionalità.
Ebbe un fremito, bruciavano ancora le sue ferite, cicatrici mai completamente guarite di un passato troppo recente per essere dimenticato. Lo squadrò con occhi spenti, ribollenti solo di fastidiosa rabbia. Sapeva bene, l’Aquila d’Oro, ancor più di quanto sapesse il suo superiore.

- Avrei fatto giuramento alla mia bandiera…- il giovane scrutava il proprio superiore. Dietro di lui, appeso al muro, spiccava lo stemma di un sole raggiante, simbolo del suo paese amato, della libertà, del calore. – Per far del male ai ragazzini?- il suo sguardo, deluso, disgustato, s’incontrò con quello di Serik, sorpreso.

- Noi siamo dalla parte del bene, Altin. Questo non lo capisci proprio, eh? – il tono dell’uomo si fece duro, severo, i suoi occhi parevano increduli. Non era mai passata per la sua testa di aver sbagliato qualcosa, la vendetta era stata fedele compagna sua e del suo popolo. E i russi, che a loro avevano causato dolore, avrebbero patito le stesse sventure che i kazaki sopportavano quotidianamente. La violenza andava ripagata con la violenza, il dolore con altro dolore e l’odio con ancor più odio.

Otabek non rispose, continuare quella discussione sarebbe stato inutile e poco produttivo. Chinò il capo, ma non chiese scusa, non ne aveva motivo. Avrebbe pagato oro se, anni prima, qualcuno fosse intervenuto quando il dolore entrò a far parte della sua vita, se qualcuno l’avesse protetto da quel male troppo straziante per un bambino. E, ne era sicuro, il gesto che aveva compiuto quel giorno stesso aveva migliorato la vita di un ragazzo, questa soddisfazione non aveva prezzo. Serik sbuffò, l’atteggiamento irrispettoso del ragazzo lo irritava, le orecchie gli erano diventate rosse per il nervoso. Non poteva capire.

- È permesso? – una voce estremamente familiare ad Otabek, profonda e roca, ma da lui tanto adorata. La porta si spalancò alle spalle del giovane e una figura robusta ed alta come un armadio si fece largo nella stanza, un sorriso amichevole stampato in volto ed una pipa stretta tra le labbra. – Ho sentito il mio figliolo discutere con te, Serik, la cosa mi ha scosso alquanto. – Otabek si lasciò sfuggire una risata, ma si apprestò a soffocarla. – Cos’ha fatto di tanto grave il mio cadetto migliore per farti perdere tanto tempo in un momento così cruciale? – detto ciò, con la manona grande e dura, diede un’amichevole pacca sulla spalla del ragazzo.

Otabek era felice di vederlo. Aybek Jenil era stato per lui più di un mentore, era stato un amico, un fratello, poi un padre, una casa. Quando si era ritrovato solo, era stato un’ancora di salvezza, che lo aveva portato fuori dal gelo della strada e l’aveva condotto verso la via della resistenza. La maggior parte dei suoi ideali eroici li aveva ereditati dai suoi insegnamenti, aveva fatto suoi tutti i consigli che gli aveva concesso e, fin da quando aveva solo 15 anni, lo prese come punto di riferimento, un’icona. Era solo grazie a lui se era riuscito a rialzarsi dopo la tragedia, solo grazie a lui aveva un tetto dove stare e del pane da mettere sotto i denti. E Aybek, a sua volta, adorava Otabek. L’aveva conosciuto che era solo un ragazzino spaventato e l’aveva visto crescere e maturare in un giovane uomo dagli ideali solidi e nobili, era fiero e soddisfatto del nome in codice che egli stesso gli aveva dato. Aybek sorrise ad Otabek come lo si fa ai bambini ed il ragazzo accennò un saluto scuotendo la testa, sul suo viso si fece largo un sorriso grato.

- Ha aggredito dei suoi compagni con un’arma, le pare poco signor Jenil? – Serik si tolse gli occhiali da lettura, appannati, strofinandosi la fronte per il nervoso e lo sconforto.

- Quante volte ti ho detto di chiamarmi per nome? Ah… - il grande capo della resistenza sospirò, diede dapprima un’occhiata a Serik, poi riportò la sua attenzione su Otabek, ancora in attesa sull’uscio della porta. – Va a casa, Aquila d’Oro. Rifletti sui tuoi errori e bla bla bla… Io e Serik abbiamo questioni più importanti di cui discutere. –

Otabek annuì, accennò ad un rispettoso saluto militare, poi si rimise la giacca e si apprestò ad uscire, senza aggiungere altro. L’invasione nazista era iniziata da pochi giorni, ma era già evidente un forte sconquasso nello schieramento sovietico. Sarebbe stata questione di poco e anche i soldati di stanza ad Almaty, colti di sorpresa, avrebbero abbassato la guardia temendo un possibile scontro con i nazisti. Sarebbe stata questione di pochi giorni prima che il famigerato colonnello Nikiforov, ombra nera sovietica sulla città di Almaty, dallo sguardo seducente e ammaliante e il cuore di ghiaccio, avrebbe ceduto alle pressioni naziste. E finalmente avrebbe pagato, il grande Nikiforov, per il male che aveva fatto a lui e alla sua famiglia. Sarebbe stata questione di poco prima che l’uomo che aveva tormentato per anni il suo sonno, con quel sorriso falsamente amichevole e fuorviante e gli occhi ghiacciati, sarebbe perito sotto gli stessi dolori che aveva fatto provare a lui e all’intera Almaty. La speranza di poter debellare quella canaglia dalla faccia della terra, violento e spietato, riempiva da anni il cuore di Otabek.

- Ah, per quella cosa…- lo richiamò Aybek prima che il ragazzo se ne fosse andato. Il giovane Altin si voltò ed ascoltò ancora. – Tutto confermato. Per dopodomani, il piano lo conosci. – Otabek annuì, strinse i pugni e Aybek gli fece cenno di uscire, con un sorriso soddisfatto in volto.

Finalmente qualcosa si muoveva nella vita di quell’orfano dimenticato, si sarebbe riscattato e la memoria dei suoi cari sarebbe stata onorata. Nel taschino della giacca custodiva una foto, un ricordo a lui caro. Sul retro, nero su bianco, era incisa la firma di Nikiforov.
 
Viktor Nikiforov era una persona dalle mille facce, un’anima divisa in decine di pezzi, che a seconda della situazione prendevano il sopravvento in lui. Agli occhi di Yuri era uno zio premuroso, protettivo, disponibile, una persona totalmente rispettabile. Yakov conosceva di lui la parte più seria e diligente, dedito allo studio e alla cultura, preciso e puntuale come un orologio svizzero, una persona pacata, un grande oratore e un’impeccabile ascoltatore. Il caporale Leroy, che l’aveva conosciuto dal vivo da poco, lo aveva etichettato come un festaiolo, una persona di grande carisma, che, nonostante le difficoltà della nazione, trovava sempre il modo di divertirsi e curarsi, sempre attento al proprio apparire. Per Otabek, così come per Almaty intera, Viktor Nikiforov era un mostro.
 
 - Tigre, la cena è in tavola! –

Yuri quasi non sentì neppure la voce dello zio chiamarlo dalla sala da pranzo. Era davanti allo specchio, le mani immerse in una bacinella d’acqua, il viso arrossato da un pianto che, appena rifugiatosi da solo in casa, lontano da sguardi indiscreti, non ebbe il coraggio di trattenere. Gli occhi fissi sul suo riflesso erano severi, malinconici, mortificati, non indossava la maglietta. Il fisico esile, magro, dalle linee morbide e immature che quel giorno imparò ad odiare. Era debole, si rese conto, uno scricciolo che voleva a tutti costi fingersi un gigante. Il polso bruciava, il livido in quelle ore si era fatto sempre più scuro e doloroso. Si sentiva umiliato, usato. Infilò la testa nella bacinella, trattenne delle urla di famelica rabbia, poi si ritirò su di scatto, le ciocche bionde e zuppe gli ricaddero sul viso dai lineamenti delicati, contrastati da un’espressione dura e cupa. Le labbra rosee, le guance ancora morbide, come i bambini. Gli occhi arrossati e gonfi, quello sguardo famelico colmo d’odio e risentimento, erano i tipici occhi di un bambino capriccioso. Il suo viso innocente non era adatto ad un ragazzo ribelle e neppure a chi, poche ore prima, era sfuggito ad un dolore fin troppo adulto. Se avesse potuto frantumare lo specchio lo avrebbe fatto, non sopportava più la vista del suo corpo infantile. Sentiva la pelle bruciare, il ricordo troppo recente delle mani dei suoi aggressori era ancora vivido e estremamente asfissiante. Si sentiva soffocare, come una bestia rinchiusa in una gabbia, sentiva la stretta crudele dei ribelli sul suo collo, si sentiva morire. Se non ci fosse stato quel ribelle gentile, la sua pelle sarebbe stata profanata. E Yuri non riusciva neppure ad immaginare la vergogna e il dolore che ciò gli avrebbe portato. Con quale coraggio avrebbe anche solo potuto sperare di andare avanti, se quell’innocenza che tanto disprezzava gli fosse stata strappata via con tanta violenta crudeltà? Dove avrebbe trovato la forza di guardare in faccia suo zio una volta sporcato di peccato? Era stato un irresponsabile, non avrebbe mai più ripetuto lo stesso errore, non voleva che quella violenza incompiuta venisse portata a termine. Non voleva umiliarsi ancora agli occhi dello zio.

- Yuratchka, ricordati che abbiamo un ospite, non fare il maleducato! – il tono di Viktor non sembrava spazientito, né severo. Con Yuri non riusciva a fare a meno che essere dolce e comprensivo, nonostante il suo comportamento ribelle lo facesse dannare da mattina a sera. L’aveva visto soffrire abbastanza in passato, un passato che Yuri non ricordava, ma Viktor sì, desiderava solo la felicità del nipote. Se avesse saputo ciò che gli era accaduto quel pomeriggio, non avrebbe sicuramente trovato modo di sopprimere la rabbia spietata che l’avrebbe travolto.

- Arrivo.- rispose Yuri, distogliendo lo sguardo dallo specchio. Prese un asciugamani e si diede una rapida sistemata, raccogliendosi i capelli bagnati con un nastro. Yakov, che voleva educarlo come un uomo valoroso al pari dei suoi discendenti, non esitava mai a rimproverargli che quello fosse un accessorio da donna, ma Yuri non gli dava ascolto. Amava tenere i capelli lunghi, e ancor più amava tenerli legati. E, ovviamente, amava andare contro le regole che il maestro cercava continuamente di imporgli.

Si rivestì in fretta, il viso ancora arrossato di rabbia e pianto, la camicia sgualcita e abbottonata svogliatamente. Non tolse neppure per un istante braccialetto del coraggioso ribelle, intrecciato con cura e decorato da perle di terracotta. Il livido sembrava fare meno male quando questo lo copriva. Appena entrato in sala da pranzo Yakov non gli risparmiò un’occhiataccia, ma gli risparmiò la solita strigliata in presenza del caporale Leroy. Viktor lo squadrò teneramente, poi gli concesse un ampio e amorevole sorriso, invitandolo ad accomodarsi al tavolo. Il colonnello Nikiforov sedeva a capotavola, accanto a lui, alla sua sinistra, sedeva il caporale Leroy, alla sua destra una sedia vuota, destinata al nipote, e poi Yakov, che scrutava da capo a piedi l’allievo mentre si accomodava al fianco dello zio.

- Molto bene, ora che siamo tutti in tavola, possiamo cominciare. – disse l’affascinante ufficiale sovietico, ancora con la divisa indosso, perfettamente in ordine come suo solito. – Vi auguro buon appetito. – e, concedendo ai commensali il migliore dei suoi sorrisi, iniziò garbatamente a consumare la sua cena.

- Buon appetito a voi. – tentò di dire in russo, con un marcato accento francese, Jean-Jacques. – Il cibo russo sembra davvero molto invitante, monsieur. – riprese a parlare, poi, in francese, sapendo che in tavola tutti erano capaci di capire, chi con più difficoltà di altri, la sua lingua.

Yuri diede un’occhiata al piatto, non aveva fame, ma l’odore era invitante. Sorrise quando vide che gli era stata servita una porzione di Piroshki. Sollevò lo sguardo verso lo zio, Viktor sorrise. Erano il suo piatto preferito, lo sapeva bene, e anche non sapendo imitare la ricetta di suo nonno, aveva comunque tentato di fare qualcosa di buono. E, nonostante la semplicità del gesto, Yuri si sentì immediatamente meglio. Afferrò le posate e si fiondò sul proprio cibo, come fa un leone con la preda appena catturata. Nonostante non fossero perfetti, il biondino riuscì a distinguere distintamente, in ogni boccone, i piacevoli sapori della sua adorata Russia e i ricordi di un’infanzia felice si fecero strada nella sua mente. Le grandi mani di suo nonno, delicate come una piuma d’oca, ricordava con quanta facilità riuscisse a prenderlo in braccio e a metterselo sulle spalle. Il piccolo Yuri, in Russia, era stato felice come non mai, nel pieno della sua innocenza, ed era avido di quei ricordi meravigliosi, sognava la Russia per riavere la sua famiglia.

- Ma guarda tu, sembra che non ti abbia insegnato nulla! – la voce profonda di Yakov destò Yuri dai suoi pensieri, violentemente. – Stai dritto quando mangi, e non masticare a bocca aperta. – il biondino non disse nulla mentre Yakov gli tirava una manata dietro la nuca, non sollevò neppure lo sguardo per incontrare gli occhi contrariati di Viktor. Non era in vena di discutere, né voleva far fare figuracce allo zio.

- Yakov.- la voce del colonnello si fece improvvisamente fredda, severa, pronunciò quel nome con una fermezza quasi spaventosa. Yuri non aveva mai sentito quel tono di voce da parte dello zio, ma Yakov sì, e sapeva che non volva dire nulla di buono.

L’anziano maestro si rimise al suo posto, senza aggiungere altro, e Yuri riprese a mangiare in silenzio. Per tutta la sera, nessuno proferì parola, il giovane biondino non sollevò mai lo sguardo dal suo piatto. E quando tutti ebbero terminato la cena, Yuri venne gentilmente spedito in camera dallo zio, mentre il colonnello ed il caporale rimasero in salotto fino a tarda ora a discutere. Yuri passò quella notte insonne.
 
La notte tardava sempre più ad arrivare, con l’avvento di un’ennesima estate fredda e cupa le giornate s’erano fatte più lunghe. E per Otabek questo era un bene. Per quanto lui ed i suoi compagni facessero dell’oscurità la propria guida e maestra, il giovane dagli occhi felini odiava la notte buia e solitaria. Perché è di notte, quando si è indifesi, che i ricordi più dolorosi tornano a galla. Incubi e voci di una vita ormai vissuta, sussurri di un passato di dolore. Aveva una casetta tutta per sé, Otabek, molto vicina a quella del suo mentore e salvatore Aybek. Era piccola, spoglia, modesta, ma a lui bastava e avanzava. Consumava pasti frugali, da solo, in un tavolo troppo grande per una sola persona, nel buio della povertà nel quale riversava quasi tutta la città. La foto della sua famiglia gli teneva compagnia, illuminata dalla pallida luce di una candela. La teneva stretta al cuore, la baciava, e da anni né aveva fatto la sua unica gioia. Sorrideva alla sorella, poi alla madre, infine al padre, poi piangeva in silenzio lacrime amare nel vedersi al loro fianco, con un meraviglioso sorriso ad ornargli il viso ancora fanciullesco. Erano anni che tentava di grattar via la firma di Nikiforov dal retro della foto, tentava di nasconderla in tutti modi, ma questa tornava sempre in superficie e non accennava a sbiadirsi. Quello del colonnello era un marchio che aveva impresso sulla sua famiglia quella maledetta notte, Otabek non se ne sarebbe mai liberato. Come fosse un animale, una bestia, portava quel nome inciso sulla pelle, sul cuore, il nome di colui che aveva preso in mano la sua vita e l’aveva distrutta. E quella solitudine l’opprimeva, i ricordi lo divoravano. Otabek passò quella notte insonne.
 

Quella mattina decise di studiare, stavolta seriamente. Riprese in mano “L’Idiota” e, seduto in veranda, riprese a leggere il capitolo che gli era stato assegnato per il giorno prima. Una leggera brezza fresca gli accarezzò i lunghi capelli color dell’oro, splendenti come il sole che, lì in Kazakhstan, sembrava non esserci mai. Una domestica gli portò una tazza di buon thè e il caro Yuri prese a sorseggiare tra una riga e l’altra del romanzo. Ogni tanto staccava gli occhi dal libro e dava un’occhiata in strada. Era quasi sempre deserta, spoglia, ma quella tranquillità iniziava a fargli piacere, la quiete del suo giaciglio, il calore di casa, dello zio. Sospirava, riprendeva a leggere, poi lanciava un’altra occhiata in strada. Ogni tanto incrociava lo sguardo di un passante e, timidamente, distoglieva lo sguardo, riprendendo immediatamente a leggere. Andò così avanti per più di un’ora, il capitolo assegnatoli l’aveva terminato, ma decise di proseguire con la lettura, annoiato. Sollevò un’ultima volta lo sguardo dal libro, poggiato ad una parete, dall’altra parte della strada, vide un giovane dai capelli corvini, rasati ai lati, che lo scrutava in silenzio con un’espressione tanto indecifrabile quanto tranquilla. Yuri sussultò e appena riconobbe l’eroica figura di Otabek Altin non riuscì a trattenere un insolito sorriso, un misto di stupore, gratitudine e di genuina felicità. Quella figura gli trasmetteva un innaturale senso di calma, di protezione. Lo salutò con un cenno della mano, il kazako ricambiò, poi gli sorrise e rimase immobile, avvolto nel giaccone, a fissare la bella figura del sedicenne intento nella lettura. Yuri non resistette, richiuse il libro, poi si sporse alla ringhiera e sorrise ancora, il suo viso non era abituato a tanta fresca gioia.

- Non penso di averti ringraziato abbastanza. – gli disse con voce calma e gentile, un’espressione serena in viso, fiduciosa. Era diversa la sua voce dal giorno prima, al ribelle risuonò ben più innocente e immatura, una voce adatta ad un ragazzino quale era. Gli piaceva, quella voce più giovanile. Otabek si avvicinò cauto alla veranda, gli occhi immersi in quelli del russo in un incontro delicato e piacevole.

- Volevo solo vedere come stavi. – precisò l’Aquila d’oro, scrutando il ragazzo dagli occhi vivaci tinti del colore della speranza e della bellezza. – E sono felice di vedere che stai bene. – Otabek esitò, poi squadrò la figura del giovane russo, notò che indossava il suo bracciale e capì che il dolore continuava a persistere. Yuri abbassò lo sguardo, sospirò. Quelle parole facevano piacere. – Addio, Yuri.- sorrise un’ultima volta il kazako, poi fece un rapido cenno al biondo, voltandosi e avviandosi verso casa. Il suo lavoro l’aveva portato a termine, il sorriso che il russo gli aveva concesso ne era la prova. Aveva preservato la felicità e la purezza di un ragazzo, e ne era felice, non sentiva bisogno d’altro.

- A-aspetta! Beka! – lo chiamò Yuri, sporgendosi ancor di più sulla ringhiera, come a voler raggiungere il ragazzo dagli occhi felini. Otabek si voltò, sollevando divertito un sopracciglio. Avevano storpiato il suo nome in tutti i modi, ma “Beka” proprio gli mancava.

- Come mi hai chiamato? – ridacchiò, in fin dei conti quell’errore non gli era dispiaciuto per niente. Suonava bene, molto dolce, amichevole, divertente.

- B-Beka… - balbettò timidamente il biondo. Non ricordava il suo nome, sicuramente il giorno prima, riportandolo a casa, gliel’aveva detto, ma non ci aveva fatto caso. Non sapeva da dove fosse uscito quel nome, semplicemente il viso scolpito e duro, quanto piacevolmente genuino, gli sapeva di “Beka”. Una sensazione strana lo pervase, lo sguardo di Otabek aveva un peculiare ma piacevole effetto su di lui. Probabilmente era per l’atto eroico del giorno prima, o magari per la gentilezza che dimostrava nei suoi confronti, ma Yuri si sentiva bene a parlare con lui. Si sentiva libero. – Potresti accompagnarmi in centro? – chiese tutto d’un fiato, con gli occhi supplichevoli di un bambino. Voleva visitare ancora Almaty, conoscerla, ma aveva paura a farlo da solo. E, ovvio, voleva passare del tempo con Otabek, che si era messo in pericolo per salvarlo senza neppure conoscerlo. Erano nemici, sulla carta, un russo e un kazako, ma gli era grato per quel gesto eroico. Per quanto potesse, voleva conoscerlo.

- Perché? – l’Aquila d’Oro si voltò, gli occhi scuri, colmi di curiosità, inteneriti da tanta piacevole e dolce timidezza. Qualsiasi fosse il motivo, aveva già deciso di accettare. Sembrava interessante, quel ragazzino, e al di là di ciò che pensavano o facevano i suoi compagni, non vedeva nessun male in quel giovane russo dal sorriso innocente, indifeso come lo era stato lui. Yuri sussultò.

- Vorrei… dello Shelpek…- quasi sussurrò il ragazzo, timido di fronte al ragazzo che l’aveva salvato e che era stato gentile con lui. Non era abituato a parlare con persone diverse da Viktor e Yakov, soprattutto non aveva mai parlato con un affascinante diciottenne kazako dal fare dolce come lui.

- E Shelpek sia.- Otabek rimase in attesa, ritto e composto, senza staccare gli occhi dal giovane. Yuri sussultò, poi una forte emozione gli pervase lo stomaco, un brivido gli percorse la schiena. Era felice, molto felice, ma non sapeva bene perché.

Scese in strada dalla scaletta della veranda, non avvertì nessuno che stava uscendo: sarebbe tornato nel giro di poco, quanto bastava per poter conoscere meglio l’incredibile Otabek. Aveva ancora degli spiccioli nelle tasche, sarebbero bastati, Viktor non si sarebbe neppure accorto della sua breve assenza, tanto era impegnato a discutere con l’ufficiale canadese. Yuri raggiunse il ribelle dagli occhi profondi e gentili, quest’ultimo lo accolse con un accennato sorriso amichevole. Lo portò in centro, passando per vie secondarie, rimase in silenzio per la maggior parte del tempo e Yuri non aveva il coraggio di cominciare una conversazione. In centro permaneva ancora il costante e delicato profumo delle focacce appena sfornate. Era il classico odore che si sentiva in una tipica casa kazaka durante il pranzo, quando, per tradizione, l’intera famiglia si riuniva in un unico grande tavolo per passare una piacevole ora assieme. I bambini amavano quell’odore, agli adulti faceva sorridere. Ad Otabek metteva solo tanta tristezza. Perché, da anni, non aveva più il privilegio di poter condividere il pane con chi più amava, e quella gioia frizzante che provavano le famiglie durante il pranzo era per lui solo un amaro ricordo. Il cielo, spoglio di nuvole, appariva agli occhi di Otabek ogni giorno più grigio, spento, e ogni giorno che passava vedeva morire anche la speranza di una vita migliore. Indicò a Yuri la sua panetteria preferita, un tempo, e il ragazzino dai capelli dorati, preso dall’entusiasmo, vi si fiondò immediatamente. “Beka”, pesò, che nomignolo simpatico. Assomigliava a quello che gli diede la sorella, tempo prima, “Bekushka”. L’aveva sentito da un russo, si ricordò Otabek, e le era piaciuto a tal punto che gliel’aveva affibbiato. Gli aveva sempre dato fastidio l’idea di avere un nomignolo, ma non si oppose mai alla sorella, esattamente come non aveva fatto con Yuri. Quella voce gentile, dopotutto, gli ricordava proprio Ayzere.

- Beka…- lo chiamò il russo, mentre, seduto accanto a lui su una panchina, consumava beatamente la sua focaccia. Non lo stava guardando, sembrava distaccato, e Otabek s’incuriosì. – Perché ieri mi hai salvato..? – il kazako sussultò, Yuri continuava a guardare a terra, calmo. – Dico, non mi conosci… E io non conosco te.- Otabek sospirò, Yuri finalmente sollevò lo sguardo, i loro occhi si incontrarono.

- Non voglio che gli innocenti paghino le pene che spettano ai criminali. – rispose l’Aquila delle steppe con tono fermo e composto, lo sguardo in un misto di fierezza e rabbia. – Io non odio i russi. – continuò, Yuri lo ascoltava attento, lo sguardo perso nei suoi occhi. Quel tono impostato, fiero, gli occhi profondi di un soldato, Otabek sembrava un cavaliere, un eroe. – Odio chi mi ha rovinato la vita, il fatto che sia russo non cambia nulla. L’avrei odiato anche se fosse stato kazako, o uzbeko, o cinese. – il giovane Altin, dal cuore impavido, sospirò, la leggera brezza della steppa gli smosse i capelli, agli occhi di Yuri sembrava una statua, tanto che era squadrato e composto. Gli occhi brillavano di una particolare e malinconica luce, il pomo d’Adamo faceva su e giù. Yuri percepì il dolore indescrivibile che infestava il cuore del kazako. Otabek aveva imparato a celarlo, in fondo all’anima, a covare dentro di lui il più amaro risentimento, il più cieco desiderio di sporca vendetta. Ma soffriva, questo Yuri lo aveva capito.

- Chi è questa persona? Conosci il suo nome? – si azzardò a chiedere, curioso. Essendo nipote dell’uomo a capo dell’amministrazione della città conosceva gran parte dei soldati russi della zona. Magari, proprio tra le sue conoscenze, c’era proprio colui che aveva fatto del male al suo eroe.

Otabek ebbe un fremito, soffocò in gola un singhiozzo, poi strinse i pugni tanto forte che le nocche gli si tinsero di viola in poco tempo. Voleva urlare quel nome, maledirlo, ma il buon senso lo fece restare in silenzio. Il cuore batteva forte, rabbioso, nella tasca del giaccone conservava ancora la foto della famiglia.

- Nikiforov. – il tono del kazako si era fatto così tagliente e ruvido, gli occhi iniettati di odio, dolore, frustrazione. – Viktor Nikiforov. – ripeté, soffocando tra i denti il dolore che quel nome gli procurava. Lo stomaco prese a bruciargli, come l’inferno, voleva urlare, piangere, ma anche volendo non ci riusciva. Aveva urlato e pianto troppe volte negli anni precedenti, era ormai da tempo che non si piegava più in gesti tanto disperati. Quella firma sulla foto bruciava come un marchio a fuoco sulla pelle, una cicatrice inguaribile.

Yuri spalancò gli occhi, il cuore perse un battito, poi lo stupore si aggrovigliò nella sua gola quasi a soffocarlo. Il nome di suo zio, pronunciato con tanto odio e disprezzo, gli risuonava nella mente come un eco infinito e angosciante. Il russo dai capelli color dell’oro posò lo sguardo su Otabek e rimase pietrificato nel vedere un’espressione disgustata e furente sul suo volto perfettamente simmetrico. La rabbia più cieca aveva deformato i lineamenti del kazako in una maschera orrenda di dolore, tanto atroce da spezzare il cuore confuso del giovane Yuri. Come poteva il nome di suo zio, tanto premuroso e dolce, poter essere la causa di tanto sconforto e sofferenza?

- Nikiforov? – chiese il giovane russo, le mani tremavano, non capiva. Suo zio era sempre sorridente, aveva un gran senso dell’umorismo, un’incredibile voglia di divertirsi, ed era comprensivo ed educato. Non poteva aver fatto del male ad Otabek, non era il tipo di persona da meritare tutto quell’odio. Conosceva suo zio, o almeno credeva, e non si capacitava di tanta sofferenza negli occhi del kazako. – Proprio Viktor Nikiforov? –
La fiera Aquila d’Oro cadde, le ali spezzate dal peso insopportabile dei ricordi. Si mise una mano sul cuore, il volto freddo del più spietato dei soldati si vide bagnato da lacrime amare. Ne scivolò giù una, poi un’altra, una terza, poi strozzò un gemito in gola, si mise le mani tra i capelli, se li tirò, si fece male finché non smise. Gli eroi non piangono. I singhiozzi gli morivano in gola. Fece un respiro profondo, poi tirò fuori dalla giacca la foto, unico ricordo della sua bella e felice famiglia. La girò, poi la passò a Yuri senza trovare il coraggio di guardarne il retro.

- Quella è la sua firma. Viktor Nikiforov.- Otabek si voltò, strinse i pugni e fissò in silenzio la grande moschea. Il cuore bruciava, gli occhi bruciavano, e così anche la gola. Yuri si rigirò la foto tra le mani, in silenzio. Non fece fatica a riconoscere l’elegante calligrafia dello zio. Eppure non capiva, non capiva cosa significasse quella firma, come legasse Viktor e Otabek, né i dolorosi ricordi che quella foto riportava a galla nella mente del kazako.

- È la tua famiglia? – chiese con un fil di voce, scrutando la foto dell’allegra famiglia. Stretti tra le braccia dei genitori, c’erano due bambini, un maschio e una femmina. Il sorriso del bambino era raggiante, felice. Era tanto diverso dal ragazzo che aveva accanto, eppure riconosceva che fossero la stessa persona. Come poteva quel bambino dallo sguardo innocente aver perso, negli anni, quella sua fresca fanciullezza? Come poteva un giovane aitante e affascinate come Otabek avere nel cuore tutta quella sofferenza? Cosa gli era accaduto, cosa?

Otabek si riprese la foto, la sistemò al suo posto, nel taschino all’altezza del cuore, poi si alzò, senza azzardarsi a guardare Yuri. Il suo viso era rosso, gli occhi lucidi lo facevano sembrare un bambino. E lui non era un bambino. Non lo era più da tanto, Otabek. Le spalle possenti lo facevano sembrare una montagna insormontabile, ma dentro di sé covava un cuore fragile, gentile, era cresciuto troppo in fretta.

- Quando ti strappano l’innocenza, impari a rispettare chi ancora la possiede, Yuri. – sussurrò, ma il russo lo sentì, ed ebbe un fremito. Da come Otabek aveva reagito, capì che non avrebbe potuto fargli altre domande. Eppure continuava a non capire, la firma dello zio era ormai impressa nella sua memoria, non vi trovava una spiegazione. – Devi tornare a casa. – detto ciò si incamminò, senza voltarsi, verso casa di Yuri. Il respiro gli si fece pesante, si sentiva soffocare, voleva solo terminare in fretta quella conversazione.

Il russo lo seguì con lo sguardo qualche attimo, poi una crepa gli si aprì nel petto, il cuore saltò un battito. L’aveva ferito, senza volerlo, gli aveva fatto del male. Si morse la lingua, si punì per aver parlato troppo, aver chiesto cose che non doveva chiedere. Yakov gli avrebbe tirato uno schiaffo, o forse due, il suo comportamento sciocco e invadente andava punito.

- Beka! Mi dispiace… -  gli corse dietro, lo raggiunse, a testa bassa, e Otabek, stupito, si fermò senza voltarsi. Sentiva che avrebbe pianto da un momento all’altro, non voleva umiliarsi davanti a Yuri. – Qualsiasi cosa abbia fatto Nikiforov… mi dispiace, voglio che tu sappia che mi dispiace. – era il suo sangue, dopotutto. Viktor aveva fatto qualcosa, qualcosa di grave, e aveva paura di sapere cosa, paura di conoscere un nuovo lato di suo zio, un lato spaventoso da come veniva rappresentato dallo sguardo addolorato di Otabek. Si sentiva in colpa, come se i peccati dello zio fossero i suoi. Si vergognava a stare accanto al suo eroe, che lo aveva salvato, mentre nelle sue vene scorreva lo stesso sangue del suo nemico odiato. Lo sguardo di Yuri era mortificato. Non aveva il coraggio di rivelargli di essere niente poco di meno che il nipote del colonnello Nikiforov.

Finalmente Otabek si voltò, un sorriso amaro gli si stampò in volto. – Devo riportarti a casa, Yuri. – il tono del kazako tornò gentile, gli occhi, ancora vitrei, si fecero più vivi. Una strana e piacevole sensazione di calore si fece largo nel suo petto, all’altezza del cuore. Non voleva sbagliarsi, ma forse stava provando, dopo tanto tempo, felicità.


***Angolo dell'autrice***
Perdonate la mia lentezza nell'aggiornare, ma sto scrivendo un'altra piccola storia Otayuri di 3 capitoli che pubblicherò qui a breve. Please, lasciate una recensione per farmi sapere cosa ne pensate! 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Витя ***


 Il caporale Leroy non aveva un’ottima reputazione in Canada, e non si era presentato certo nel migliore dei modi neppure in Kazakhstan. Sorriso spavaldo, pieno di sé, narcisista, un animale da palcoscenico che poco aveva a che fare con l’esercito. Lo sapeva, lo riconosceva, la carriera militare non gli era mai calzata bene e mai lo avrebbe fatto. Era un pesce fuor d’acqua, stonava con quel mondo rigido e chiuso. Eppure si era arruolato, aveva scalato la gerarchia e si era ritrovato, ancora molto giovane, a vestire niente poco di meno che il grado di caporale. Diceva di essersi arruolato per il gusto di indossare la divisa, tanto era superficiale, ma la storia era tutt’altra. Jean-Jacques Leroy era un ribelle, un ragazzino iperattivo, impossibile da domare. E questo gli causò grandi difficoltà, oltre che una vita spericolata. La famiglia Leroy vantava un grande prestigio in patria. Ricchi, influenti, discendevano da nobili francesi e avevano affermato la propria posizione della società attraverso la loro cultura. Erano stati tra i fondatori dell’Università del Quebec, che, proprio a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, si vedeva retta proprio da Alain Leroy, padre di Jean-Jacques. I Leroy erano medici, avvocati, banchieri, professori, tutti tranne Jean-Jacques. Era stato dapprima alcolista, poi un maniaco delle feste, un rubacuori senza ritegno, un uomo provocante in una famiglia di santi. L’esercito era stato sì un modo per evadere dalla vita noiosa che avevano progettato per lui i genitori, ma anche una valvola di sfogo, un rifugio, dopo che accadde la tragedia. Jean-Jacques Leroy era un uomo superficiale e scalmanato, ma possedeva un cuore anche lui, molto più profondo di quanto chiunque attorno a lui potesse immaginare.
 

- Il problema davvero grave qui, quello per cui ho richiesto il vostro aiuto, caporale Leroy, non sono i tedeschi alle porte della nazione. – il colonnello Nikiforov si accese una sigaretta, la strinse pensieroso tra le labbra, poi ritornò a fissare l’ufficiale canadese con sguardo preoccupato, quasi assente. – I ribelli ci hanno dato molto filo da torcere, dubito che non approfitteranno della situazione per sabotarci.- Viktor si rigirò la sigaretta tra le dita, il caporale Leroy stava dando un’occhiata agli innumerevoli rapporti di sabotaggio a carico dei ribelli di Almaty.

- Non hai molte informazioni, Nikiforov. – gli fece notare il canadese, con un sorriso beffardo. Viktor sospirò, i capelli argentati gli ricaddero sul viso. Sembrava stressato, esausto, la caccia ai ribelli andava avanti da anni e non era mai arrivata ad un punto di svolta.

- No, non ne ho.- confermò il russo, stringendo i pugni. Sembrava un muro insormontabile, quello dei ribelli, scovare i loro covi era come cercare un ago in un pagliaio. Si spostavano in continuazione, ogni volta che sembrava essere giunto ad uno di essi, questi facevano sparire ogni traccia. E Viktor non sapeva neppure il significato dei capelli rasati ai lati, un segreto che Almaty non aveva mai rivelato agli oppressori russi.

- Pensi riusciremo a scovarli? – Leroy posò i documenti sulla scrivania, poi poggiò la schiena contro il muro. Sul tavolo accanto a lui giaceva una bottiglia di vodka, Viktor aveva insistito per fargli bere almeno un sorso. Era stressato, Leroy, ma teneva duro e non bevve neppure un goccio. Aveva promesso di non farlo più.

- Li troverò, certo. – tuonò Viktor. – A costo di distruggere l’intera Almaty, io li troverò. – strinse i pugni, schiacciando e distruggendo la sigaretta tra le dita. Il tabacco e la cenere ricaddero a terra, sulle sue scarpe. La questione dei ribelli andava anche oltre il suo dovere di amministratore della città, era diventata una faccenda d’onore. Era stato umiliato già abbastanza dopo il suo esilio da San Pietroburgo, non avrebbe permesso a degli scalmanati kazaki di mettergli i piedi in testa. La vergogna, a quel punto, sarebbe stata insopportabile. In patria il suo nome era deriso e screditato, placare l’indomabile Almaty era la sua unica opportunità per riavere il suo perduto splendore. Dei ribelli non avrebbero certo rovinato i suoi piani.

Yuri tornò a casa molto tardi, quella sera, la cena era quasi pronta in tavola. Quando la porta d’ingresso si aprì, Viktor fissò la figura del nipote con fare sorpreso. Era raggiante, Yuri, splendido come una stella. Nikiforov non si era neppure accorto della sua assenza quel pomeriggio.
 

L’album di ricordi della famiglia Nikiforov era pieno di segreti che Viktor doveva tenere ben nascosti. Rilegato in pelle, elegante ma comunque sobrio, era una raccolta di cimeli d’inestimabile valore morale. L’aveva rilegato in soffitta, nella polvere, ma non ebbe mai il coraggio di buttarlo via. Tra quelle pagine proibite si celava il vero motivo del suo esilio ad Almaty, il perché avesse portato con sé Yuri, il destino della famiglia Plisetsky e tutti i suoi crimini compiuti in Kazakhstan. Ogni volta che Viktor si guardava allo specchio scorgeva un viso in continuo mutamento, un corpo lacerato dalle mille anime e dai mille segreti che doveva tener nascosti. Yuri non sapeva, e non doveva sapere quello che accadeva ad Almaty ogni giorno da quando vi avevano messo piede, per mano sua. Non gliel’avrebbe perdonato.
 

Il giorno dell’operazione “Vitya” era finalmente giunto. Era stata organizzata in fretta e furia, quando si seppe di un’imminente invasione nazista, ma sembrava un piano perfetto. Tutti i venerdì, tra le 13:20 e le 13:40, un’auto nera, accompagnata da una piccola pattuglia scelta, scortava il colonnello Nikiforov attraverso il centro città, verso la stazione militare di Almaty, percorrendo sempre la medesima strada. Una viuzza secondaria, quasi parallela alla via principale della città, meno trafficata e isolata. Dava direttamente sulla piazza della grande moschea, poi si apriva in un bivio, da una parte proseguiva verso la piazza della cattedrale ortodossa, dall’altra si arrivava alla stazione militare. Una squadra di ribelli aspettava proprio lì. E tra questi non poteva mancare l’Aquila d’Oro delle steppe, ovviamente. Appena cominciò l’organizzazione dell’agguato, fece pressione sul suo mentore Aydek affinché gli venisse assegnato un ruolo in essa. Era giovane, il suo maestro ebbe da ridire per la sua incolumità, ma alla fine cedette alle suppliche di Otabek. L’aveva sentito piangere la notte, quando era ancora un ragazzino ospite in casa sua, l’aveva sentito urlare quando la sua mente maturò desiderio di vendetta e continuava a vederlo soffrire ogni singolo giorno della sua vita. Non poteva dirgli di no, non poteva privarlo quell’amara soddisfazione. Otabek fremeva, nella tasca del giaccone teneva nascosta una pistola. Fantasticava da anni di poterla puntare sul viso di Nikiforov, sulla fronte, proprio in mezzo ai suoi gelidi e freddi occhi, che erano stati il suo peggior incubo per troppo tempo. Fremeva, voleva tirare il grilletto, sentire il suono sordo e potente di uno sparo e poi vedere il corpo del russo giacere a terra in un lago di sangue, la fronte perforata, gli occhi morti, la pelle bianca e gelida tinta di un rosso scarlatto. E urlare davanti al suo corpo morto, urlare il nome della sorella, della madre, del padre, urlare vendetta, poi ridere, sorridere, perché quell’incubo non l’avrebbe più tormentato, gioire nel vedere il mostro che lo aveva tormentato giacere ai suoi piedi. Infine, forse, avrebbe pianto lacrime amare. Perché ammazzare Nikiforov non avrebbe riportato indietro i suoi cari, avrebbe solo e solamente svuotato Otabek di quel sentimento di rabbia bollente che da anni lo accecava. Il rancore lo soffocava, voleva vederlo marcire e vendicare i suoi cari. Ma Otabek sapeva che quando la rabbia sarebbe svanita, dentro di lui sarebbe rimasto il vuoto. Era solo, la fiera Aquila delle steppe, quell’omicidio che tanto bramava non gli avrebbe restituito la felicità.

Si guardava intorno, Otabek, aveva ricevuto l’ordine di fare da sentinella. Gli occhi inespressivi celavano un misto di rabbia, dolore e ansia. Era emozionato, non sapeva se in bene o in male. Voleva uccidere Nikiforov, vendicare la propria felicità perduta, eppure la mano tremava ogni volta che sfiorava la pistola nelle sue tasche. Non aveva mai sparato a nessuno, pensò. Non aveva mai ucciso. E per quanto l’immagine dello sguardo morente di Viktor fosse per lui gratificante, stentava a immaginare che sparare gli sarebbe stato facile. Sognava quel momento da anni, eppure aveva paura di fallire. Paura che la sua umanità prendesse il sopravvento, che la paura di uccidere avrebbe avuto su di lui la meglio. L’immagine della sua famiglia felice era uno stimolo, i ricordi lo facevano soffrire e, allo stesso modo, alimentavano il fuoco della vendetta che ardeva in lui. La voce della sorella lo chiamava, Otabek voleva raggiungerla, ma lei non c’era più. Lei non avrebbe mai approvato la sente di vendetta dell’amato fratello.
 

- Staremo via fino a tardi, tigre. – Viktor, col suo solito sorriso raggiante e sereno, diede una leggera pacca sulla spalla del nipote. La voce calda e piena di vita non rispecchiava l’immagine oscura e tenebrosa che infestava la mente di Otabek. – Devo presentare il caporale e dobbiamo discutere di faccende importanti, quindi aspetta l’arrivo di Yakov e non combinare guai. – si rassicurò poi, attendendo che l’ufficiale Leroy lo raggiungesse all’ingresso. Yuri annuì distaccato, non l’aveva neppure ascoltato. Era sceso nello studio dello zio solo per procurarsi qualche foglio da disegno e un carboncino. Nella sua mente stava maturando la bozza di un’opera d’arte, non poteva farsi distrarre dalle lontane parole di Viktor.

Il canadese, con la divisa imbastita di onorificenze, i capelli perfettamente ordinati e lo sguardo sicuro di sé, fece un cenno al giovane Yuri, appollaiato sul divanetto del salotto, intento ad abbozzare un disegno con un carboncino. Non era mai stato appassionato d’arte, Yuri, ma nella sua mente permaneva la dolce immagine di un volto gentile e sorridente che voleva imprimere su carta come una fotografia, nella speranza di non dimenticarlo mai.

- Baderò io a tuo zio, tigre. – Yuri sollevò lo sguardo dal disegno a sentire quelle parole. Non gli dava fastidio che Viktor lo chiamasse “tigre”, ma sentirlo dire da qualcun altro era strano, spiacevole. Soprattutto con quel tono tanto pieno e fastidioso. Il ragazzino squadrò il canadese con un’occhiata contrariata, ma evitò di rispondere, riportando la sua attenzione sulla bozza della sua prima opera.

- Divertitevi. – disse solamente con tono distaccato, continuando a tracciare linee armoniose sul foglio. Piano piano stava prendendo forma un viso familiare e dolce, gli occhi, appena abbozzati e imperfetti, squadravano l’artista con sguardo pacato e calmo. Yuri sorrise soddisfatto, quei lineamenti appena accennati lo rassicuravano come fosse l’immagine di un santo.

Viktor si lasciò sfuggire una risata, poi aprì la porta e fece uscire il caporale Leroy. – Lo faremo senz’altro! – così si mise il cappello dell’uniforme e, scambiandosi un’occhiata col suo autista scelto, si richiuse la porta alle spalle. Nella casa regnava il silenzio. Non sapeva che quel giorno sarebbe stato tutt’altro che divertente.
Quando fu solo, Yuri continuò il suo schizzo, sul foglio prese forma un viso simmetrico e squadrato. Abbozzò un sorrisino su quell’incantevole volto, flebile e pallido, poi lo fissò, lo squadrò e sospirò. Otabek sembrava un’opera d’arte, le mani di Yurio l’avevano ritratto con tanta cura e attenzione che quasi sembrava una fotografia. Non era perfetto, ma a Yuri piaceva, era soddisfatto.
 

Attorno ad Otabek regnava il silenzio. Alle sue spalle, poco più indietro, i suoi compagni stavano sistemando una piccola ma pratica barricata con sacchi di terra e sassi. L’Aquila delle steppe scrutava la piazza della moschea con sguardo attento, l’orecchio reagiva ad ogni minimo rumore. Cercava di tenere la testa libera dai pensieri, di concentrarsi, ma puntualmente l’immagine della sua famiglia gli si ripalesava davanti agli occhi. Quel giorno aveva voglia di uccidere, di fare vendetta, di sporcarsi di sangue. Un desiderio malato che aveva allevato dentro di sé e che finalmente avrebbe compiuto. Aspettava di scrutare qualcosa in fondo alla piazza, attendeva di vedere la sagoma scura dell’auto di Nikiforv, fremeva stringendo tra le mani la pistola. Sentiva la brezza estiva accarezzargli la pelle, voleva calmarsi e concentrarsi. Ogni tanto si dava un’occhiata alle spalle, i suoi compagni stavano facendo un ottimo lavoro. Sembrava andare davvero tutto per il meglio, nessuno pareva aver sbagliato nulla. Eppure aveva una sensazione brutta, dentro di sé. Era insicuro, anche se il suo sguardo fiero non lo dava a vedere. Aveva paura.
 

Viktor e Jean-Jaques viaggiavano assieme sul sedile del passeggero, composti e disciplinati, il loro autista guidava piano, sempre attento e pronto a qualsiasi possibile pericolo. Attorno a loro, la scorta faceva da parte i civili per fare strada ai due ufficiali. Il caporale Leroy teneva lo sguardo fuori dal finestrino, calmo, quasi a volersi godere finalmente un tour dei bassifondi del centro città. Viktor era immobile, lo sguardo esausto dallo stress che doveva nascondere in presenza del nipote. I capelli grigi gli ricaddero sul viso, il respiro era lento e calmo, nonostante il tremore alle mani. Yuri sapeva dell’invasione nazista, ma Viktor aveva fatto modo che non gli giungessero informazioni su tutte le rovinose sconfitte che l’Unione Sovietica stava patendo. Voleva fosse sereno, il nipote, non doveva appesantire la sua già complicata situazione psicologica con i suoi problemi politico-militari. Viktor era costretto ad indossare numerose maschere nella sua vita quotidiana e nascondere l’angoscia si stava facendo sempre più difficile. Sentiva il fiato dell’esercito tedesco sul collo e, nel mentre, doveva proteggersi dall’ombra dei ribelli. Aveva provato a sopprimere quei fastidiosi parassiti in tutti i modi, non aveva dato un freno al suo potere. Rappresaglie continue, indagini, spesso anche esecuzioni, ma più ne faceva ammazzare, più questi divenivano numerosi. Si riproducevano come una colonia di formiche, Almaty era un gigantesco formicaio che Viktor non era più in grado di gestire. Sentiva sulle spalle il peso di anni di difficoltà e scelte sbagliate. Sentiva la mancanza della sua San Pietroburgo, ma non si pentiva di ciò che aveva fatto lì, né dell’esilio che ne era derivato. Se aveva fatto un qualcosa di buono nella vita, fu proprio quello. E ogni giorno, quando guardava il sorriso del suo Yuri, si convinceva di non essere del tutto cattivo.

- Desidera fermarsi in un caffè, Signor Nikiforov? – chiese l’autista con tono garbato e pacato, Viktor si destò dai suoi pensieri. La sosta nella caffetteria di fiducia del colonnello era quasi d’obbligo. Lo gestiva una famigliola locale, kazaki vili e codardi, spie oltre che eccellenti baristi. A Nikiforov i codardi facevano schifo quasi quanto i ribelli e li sfruttava, spremeva loro ogni informazione fino al midollo. Avevano deciso di abbandonare il loro popolo e di consegnarsi al nemico, Viktor li opprimeva come traditori.

- No, proseguiamo. – detto ciò chiuse gli occhi e si rilassò, l’autista non aggiunse altro. Non voleva più pensare, Viktor, non voleva stressarsi ancora di più. Vedere quei sorrisi falsi, bere quell’insipido caffè, non erano certo quello che desiderava in un momento di nervosismo. Aveva le sue motivazioni, un dolore implacabile a bruciargli nel petto, e capì che non avrebbe mai potuto portare rimedio a tutti gli errori che aveva fatto. Yuri era la sua unica gioia.
 

Un brivido percorse la schiena di Otabek. Dall’altra parte della piazza intravide le motociclette della scorta sovietica, poi, pochi attimi dopo, la scura sagoma dell’auto di Nikiforov. Il suo cuore saltò un battito, per pochi istanti rimase pietrificato, le mani tremanti, sudore freddo a bagnargli la fronte. Non poteva più tornare indietro ormai, non poteva né fuggire né cambiare idea. Era arrivato il momento di scontrarsi faccia a faccia col suo peggior incubo, era arrivato il momento di uccidere. Non si sentiva pronto, aveva bramato quel momento così a lungo, ma aveva paura. Corse indietro, verso i compagni che lo attendevano al bivio. Un nodo gli stringeva la gola, il respiro si stava facendo affannoso e il cuore batteva come non mai.

- Sta arrivando. – disse loro, con voce roca, profonda, contorta dall’ansia e dal dolore. Stava per compiere la sua vendetta, voleva mietere sangue nemico, voleva vendicare la memoria dei suoi cari, che gli erano stati portati via davanti agli occhi. Chiamava il nome della sorella a mente, le chiedeva di stargli accanto, di dargli forza, di aiutarlo a trovare il coraggio di premere il grilletto quando ce ne sarebbe stato bisogno. Eppure non percepiva la confortante energia dell’amata sorella, e più la pregava più si sentiva angosciato e spaventato come un bambino. Aveva paura di essere solo, quel giorno tanto atteso, solo come sempre.

Si accostò con altri suoi compagni poco più avanti degli altri, all’ingresso della viuzza, così da incastrare i sovietici alle spalle e non lasciare loro via di fuga. Viktor si sarebbe trovato in una trappola di fuoco, circondato da occhi ardenti d’odio e nulla, se non un miracolo, l’avrebbe salvato. Otabek si nascose, tirò fuori la pistola, dietro di sé sentiva il rombo del motore delle vetture farsi più vicino. Al suo fianco riusciva a sentire il respiro angosciato del suo compagno Georgi. Metà russo, metà kazako, aveva gli occhi vitrei e chiari tipici dei sovietici, attenti, vigili, freddi e concentrati. Non erano mai stati amici, non che Otabek fosse particolarmente legato ad altri, ma in quel momento di ansiosa attesa sentì di avere con lui una pena in comune. Attendevano solo un segnale, quando i loro compagni avrebbero sparato il primo colpo sarebbero usciti allo scoperto, chiudendo l’unica via di fuga alle spalle di Nikiforov, non gli avrebbero lasciato scampo. E il corteo sovietico si avvicinò, passò proprio accanto a loro e Otabek trattenne il respiro. Vide un paio di occhi di ghiaccio persi nel vuoto attraverso il finestrino, freddi, distaccati, e nella mente dell’Aquila delle steppe si palesarono ricordi orrendamente dolorosi. In quel momento, furente e carico di vecchio e ribollente rancore, sentì di avere il coraggio di uccidere, come Nikiforov aveva ucciso. Strinse la pistola e in pochi attimi le urla entusiaste dei suoi compagni si levarono alte, e il primo suono sordo di uno sparo si fece largo per la strada. Ne seguì lo stridente rumore delle frenate frettolose, poi ecco che si levarono numerosi altri spari. Otabek uscì allo scoperto, la pistola carica e pronta a sparare. Uno dei soldati della scorta fu vittima del primo proiettile sparato, la sua moto giaceva ferma al suono, il suo compagno sul cydecar venne colpito alla testa prima che potesse accorgersi dell’accaduto. Gli sportelli dell’auto si aprirono di scatto, proiettili vaganti vi si conficcarono in mezzo rumorosamente. Altri due membri della scorta caddero a terra, morti, così come altri tre ribelli si ritrovarono feriti dal confuso contrattacco sovietico. Otabek ancora non aveva sparato ancora un colpo. Nikiforv uscì dalla macchina, riparandosi dietro lo sportello. Gli occhi confusi, freddi, l’espressione furente ma incredibilmente concentrata, da vero valoroso soldato. Urlò ad uno dei soldati di scorta di fargli da scudo, poi tirò fuori la pistola dalla cintura e iniziò a sparare ai ribelli rifugiati dietro alle barricate. Otabek ebbe un fremito e in un lampo si sentì più forte di una montagna. Tese il braccio, verso Viktor, mirò e dentro di sé se lo immaginò già morto ai suoi piedi. Sfiorò il grilletto, ma non sparò. La mano tremava, il sudore gli colava sugli occhi. Si sentiva forte, ma era debole, debole come un bambino. Era rimasto il ragazzino innocente che era quando vide per la prima volta Viktor, era rimasto l’orfanello impaurito e spaesato di un tempo. La presenza di Viktor, il suo sguardo, lo piegavano e lo spezzavano senza pietà. Il trauma era troppo forte da poter essere superato. Si sentiva inferiore, piccolo al suo cospetto. Aveva paura che, anche sparandogli, non l’avrebbe neppure scalfito e, anzi, avrebbe dovuto patire la sua rabbia. Sentiva il gelo delle sue mani stringergli la gola fino a soffocarlo piano, lento e crudele, fino a lasciarlo perire di una morte orrendamente straziante. Se lo ricordava come un mostro, non si sentiva forse abbastanza per sparare. Il soldato che proteggeva Viktor lo vide, braccio teso pronto a sparare, e gli puntò l’arma contro. Georgi se ne rese conto prima di Otabek, si precipitò davanti al compagno e i due spararono all’unisono. La guardia ricadde a terra, uccisa da un colpo preciso ed impeccabile del ribelle. Georgi, invece, si piegò in due, ai piedi di Otabek. Si teneva la spalla, marchiata dal sangue, e tratteneva gemiti di dolore. Era rimasto ferito per proteggere il compagno. L’Aquila d’oro si sentì ferita nell’orgoglio, si sentì di nuovo un peso, si accasciò accanto al suo compagno, premendogli sulla ferita per fermare il sangue. Viktor era rimasto scoperto, il soldato che gli faceva da scudo era ormai morto. Si voltò, Otabek aveva già ripreso in mano la pistola e gliela puntava contro, gli occhi rossi e ribollenti di un rancore che aveva tormentato la sua adolescenza. La mano tremava, non voleva stare ferma, ma sparò comunque. Il suono secco e acuto sembrò sormontare ogni altro rumore, il ribelle rimase immobile, incredulo del suo gesto. Tra le sue braccia, Georgi aveva smesso di gemere. Viktor Nikiforov cadde atterra, uno schizzo di sangue colpì la portiera alle sue spalle. Una luce abbagliante si accese negli occhi di Otabek. Il suo più grande incubo sembrava essere giunto al termine, tutte le sue paure le aveva affogate nel sangue. Passarono attimi che sembrarono eterni, attorno all’eroe delle steppe sembrava regnare un silenzio innaturale. Non riusciva a pensare ad altro, se non al corpo di Nikiforov immobile, steso a terra. La divisa del colonnello si sporcò rapidamente di sangue, per qualche momento sembrò non dare più segni di vita. Otabek continuava a pregare la sorella, che era sempre stata la sua più cara amica. “È morto”, pensava, le labbra tremanti non riuscivano ad emettere un suono. Nella sua testa si formularono mille pensieri in pochi attimi, dentro di lui fu il caos. E si destabilizzò, si deconcentrò. E in pochi momenti Viktor si tirò su, la spalla destra grondante ti sangue, il braccio ricoperto da rivoli scarlatti. La pistola gli cadde di mano, non poteva più mirare, non poteva difendersi e si accasciò contro la macchina. I ribelli avevano ucciso metà dei suoi uomini, sarebbe stata questione di poco prima che avessero finito anche lui. Otabek mirò di nuovo, la vista offuscata, confuso. Stava avvenendo tutto troppo in fretta e nella sua mente, maturata troppo velocemente, si affannavano angosce e paure che spezzarono l’armonia della sua concentrazione. Sparò un altro colpo, ma andò a vuoto, non era più in grado di ragionare. Pregò la sorella di stargli accanto ancora e ancora, la pregò di dargli la forza di sopravvivere e concludere quella vendetta progettata da anni. Ma le paure di Otabek erano fondate: era solo, non sentiva il calore della sorella. Il caporale Leroy, che con una mira impeccabile si era liberato di alcuni ribelli, si avvicinò all’ufficiale ferito, prestandogli immediato soccorso. Si strappò un pezzo di camicia e lo avvolse frettolosamente attorno alla spalla del sovietico. Nikiforov gli urlò di fare attenzione, così Otabek, confuso, sparò un altro colpo, che di nuovo andò a vuoto. Jean-Jaques aiutò Viktor ad alzarsi, facendolo poggiare su di sé. I soldati della scorta sopravvissuti continuarono a fare da scudo, persino l’autista scelto era morto per proteggere Nikiforov. Il caporale sollevò la pistola, il suo sguardo s’incontrò con quello di Otabek. Leroy sparò per primo, Otabek non ebbe neppure il tempo di accorgersi di quanto stava accadendo. Sentì solo una lacerante sensazione di bruciore farsi strada in lui all’altezza dello stomaco, le gambe cedettero e in un istante l’Aquila delle steppe si ritrovò stesa a terra, le ali ferite non gli permettevano più di volare. Sentii il sangue caldo e viscido scorrergli lungo la pancia, squarciata da un dolore talmente forte che neppure gli permetteva di respirare. Provò a rialzarsi, Otabek, ma non riuscì neppure a muoversi. Il sangue gli arrivò fino in gola, ma non riusciva neppure a tossire. Un rivolo di scarlatto sorse dalle sue labbra, scorrendo lungo il suo affascinante viso orrendamente contratto in una smorfia di dolore. Le palpebre si fecero pesanti, era improvvisamente esausto. La vista era offuscata dal dolore, la mente lacerata dalla sofferenza. Le urla dei compagni si fecero sempre più lontane e vaghe, così come quelle del compagno Georgi che gli implorava di resistere. Accanto a sé, inginocchiata, vide una figura dai tratti familiari e dolci, bella e calda come il sole che ad Otabek mancava tanto. La figura sorrise e l’Indomabile Aquila D’Oro si addormentò cullato dalla dolce ninna nanna della sorella. Pensava che davvero, a quel punto, fosse finita.
 

Il caporale Leroy trascinò via Viktor dalla sparatoria, in pochi minuti le pattuglie russe nella zona intervennero per porre fine al massacro. Secondo i rapporti sovietici quel giorno morirono 16 ribelli e ne sopravvisse solo uno: Georgi Popovich. I corpi dei ribelli caduti vennero lasciati in strada, a marcire, un messaggio potente per chiunque avesse voluto tentare un aggressione simile ai danni dei sovietici. Aybek giunse sul luogo della sparatoria, il suo caro Otabek era steso a terra in un orrendo lago di sangue, il viso rilassato e calmo. L’unico sopravvissuto, Popovich, di padre russo e di madre kazaka, venne catturato dalle truppe sovietiche e portato via. Nikiforov, furente, perdeva sangue copiosamente, gli occhi iniettati d’odio furono la cosa che spaventarono maggiormente il giovane Yuri, quando lo zio si presentò dolorante in casa.

- Che succede?! – chiese il ragazzino dai capelli splendenti, quando, urlando, i due ufficiali rientrarono in casa. Viktor gemeva, ringhiava come una bestia, il caporale Leroy non badò minimamente a Yuri e allo stesso modo i domestici, accorsi subito con bende e acqua. Una giovane cuoca stava chiamando il medico ufficiale di Nikiforov. Yuri non aveva il coraggio di avvicinarsi allo zio, tutto quel sangue lo terrorizzava. Iniziò a tremare, indietreggiò, nessuno fece caso a lui. – Che cazzo è successo?! – sbraitò con voce rotta e spezzata dalla paura.

- Quei bastardi! Quei bastardi! – urlò rabbioso Viktor, le domestiche non riuscivano a tenerlo fermo. Il sangue aveva rapidamente sporcato tutto il divanetto. – Che crepino! Che crepino! – imprecava ancora, sembrava un mostro. Yuri rimase a bocca aperta, le gambe presero a tremargli. Suo zio lo stava terrorizzando, non aveva mai visto Viktor ridotto in quello stato, non l’aveva mai sentito urlare così.

Il caporale canadese, reduce dell’agguato, fu l’unico ad accorgersi dello sguardo spaventato del giovane Yuri, che tremava nel vedere quella scena inaspettatamente straziante. Jean-Jaques trascinò via il ragazzo, lo riportò nella sua stanza, dove le urla di Viktor erano più vaghe e lontane. – I ribelli ci hanno attaccato. – spiegò più tranquillamente possibile, Yuri ebbe un fremito.

- E che fine hanno fatto? I ribelli, intendo… - chiese, non poté fare a meno che pensare ad Otabek prima che a tutti.

- Non preoccuparti di loro. Sono tutti morti. – disse il caporale con un’espressione calma, il tono gentile mirava a calmare il ragazzo. Ma quelle parole non fecero che allarmare di più Yuri, che temeva per il suo eroe, il suo amico.

- T… Tutti..? – chiese di nuovo, le mani tremavano. Non sapeva dov’era Otabek, né se fosse stato coinvolto nell’agguato, ma aveva paura. Paura che non avrebbe più potuto scambiare la parola con lui, paura che avesse perso l’unico amico che aveva senza averlo neppure conosciuto a fondo. Era sicuro che non si sarebbe lasciato sfuggire un attentato al suo peggior nemico, doveva essere lì.

- Non tutti. Uno l’hanno arrestato, arriverà qui domani per essere interrogato. – Yuri emise un sospiro di sollievo. Appeso al muro c’era il ritratto di Otabek che lo squadrava col suo viso simmetrico e perfetto. Una fitta strinse il cuore del biondino, la paura che gli fosse accaduto qualcosa lo divorava. Ma la speranza era l’ultima a morire e Yuri passò quella notte insonne, rigirandosi nel letto alla ricerca di una risposta. Voleva il suo amico, il suo Beka, accertarsi che stesse bene, che non l’avrebbe lasciato.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Георгий Попович ***


Un tonfo secco, poi un gemito strozzato, poi ancora un colpo. Yuri si era chiuso in camera tutto il giorno, non aveva messo piede fuori dalla stanza neppure per mangiare. Non aveva il coraggio di incontrare lo sguardo dello zio, né poteva sopportare la vista delle bende attorno alla sua spalla. Aveva paura, Yuri, perché nonostante Viktor fosse vivo e vegeto, non poteva esserne sicuro per Otabek. Cercava non pensare al peggio, voleva distrarsi, ma ogni volta la sua mente tornava a soffermarsi sul massacro del giorno prima. Immaginava sangue e morte, il suo amico steso a terra assieme ai suoi compagni. Tremava, non voleva. Gli era già stato tolto molto nella vita, la casa, gli amici, i genitori, il nonno, non voleva perdere anche Otabek. Viktor non lo chiamò per il pranzo, i domestici non andarono mai da lui per vedere come stava, così Yuri si rannicchiò silenzioso tra le coperte, il ritratto della fiera Aquila d’oro lo scrutava dall’altra parte della stanza. Otabek l’aveva protetto, l’aveva salvato, e Yuri promise che avrebbe fatto lo stesso, avrebbe ricambiato il favore. L’avrebbe cercato e, se fosse stato ferito, l’avrebbe curato, l’avrebbe protetto dalla furia dello zio, l’avrebbe tenuto al sicuro sotto la sua modesta ala. Non avrebbe accettato l’idea della sua morte, non avrebbe sopportato anche quel dolore, quella perdita. Negli occhi di Viktor, il giorno prima, non aveva visto la benché minima traccia di amore o gentilezza, la sua voce graffiante aveva ferito Yuri come la lama di un coltello. Si sentiva solo, le coperte erano la sua fortezza. Aveva visto lo sguardo più crudele e spregevole del suo caro zio, aveva visto ardere in lui un fuoco devastante che mai aveva avuto la possibilità di conoscere, ma che il suo Otabek aveva già incontrato anni prima. Era diverso, suo zio, una bestia, Yuri non lo riconosceva. E come un cucciolo si sentiva smarrito, confuso, voleva solo che qualcuno lo salvasse ancora e ancora, voleva ritrovare la sua Aquila, il suo eroe, e proteggerlo. Cercò di dormire, di rilassarsi, ma quei tonfi, quei gemiti erano strazianti. Il prigioniero, l’unico sopravvissuto alla sparatoria, era arrivato in casa da poco, Viktor si stava occupando personalmente dell’interrogatorio. Yuri non aveva avuto il coraggio di uscire dalla stanza per vederlo, aveva paura. Se fosse stato Otabek, avrebbe dovuto patire atroci torture, peggiori ancora di una morte rapida in una sparatoria. Ma se non fosse stato lui, allora, secondo i rapporti, sarebbe dovuto essere già morto. E Yuri non si sentiva pronto per nessuna delle due situazioni, non aveva il coraggio di assistere a quella tortura. Viktor urlava, non distingueva le sue parole, ma era furente come non l’aveva mai visto. Il prigioniero gemeva, ma non si lasciava sfuggire una parola. Yuri stringeva il cuscino, si premeva le mani sulle orecchie. Sembrava di essere all’inferno, aveva paura. Paura che il suo caro eroe stesse soffrendo senza che lui avesse il coraggio di intervenire, di muovere un dito. Si sentiva impotente.
 

Nikiforov non poteva compiere grossi sforzi, il medico gli aveva perfino ordinato di rimanere a letto, ma non aveva dato ascolto a nulla e nessuno. Indossava una camicia larga, in cotone, morbida e comoda affinché la ferita facesse meno male. Il braccio era immobilizzato, avvolto in una candida fasciatura che si stringeva attorno al suo petto e alla spalla. I punti di sutura facevano male, la ferita continuava a sanguinare e a bruciare, ma Viktor quasi non se ne rendeva conto. Era stato umiliato, preso in giro, ridicolizzato da una banda di scalmanati kazaki. Li odiava, li odiava con tutta l’anima. Avevano rigirato il dito nella piaga del suo orgoglio già gravemente ferito e questo Viktor non poteva sopportarlo. Era arrivato ad Almaty con l’intenzione di dimostrare il proprio valore, il suo coraggio, nella speranza che venisse riammesso nella sua bella e amata Russia, con tutti gli onori, bramando il giorno in cui il governo avrebbe dovuto perfino porgergli le più sentite scuse. Le medaglie al valore sulla sua divisa erano solo una sciocca e amara consolazione, lui voleva di più. Voleva la gloria, la patria, il potere. E quel gruppo di scellerati ragazzini era riuscito addirittura a ferirlo, ad umiliarlo mille volte più gravemente di quanto avevano fatto i suoi superiori sovietici. Guardò quel maledetto ragazzetto negli occhi, il viso orrendamente maschiato dai lividi e dal sangue. Non avrebbe avuto pietà, Viktor. Né per lui, né per gli altri ribelli in circolazione. L’avrebbe fatto cantare, con le buone o con le cattive, avrebbe dato alle fiamme l’intera città se fosse stato necessario, ma avrebbe debellato quella fastidiosa feccia. Due militari percuotevano Georgi, e Viktor lo interrogava, gli poneva domande difficili e scomode. Il ribelle sputava sangue, il corpo pervaso da spasmi di dolore, ma teneva la bocca serrata, fedele al giuramento fatto alla propria bandiera. E più il giovane taceva, più Viktor s’innervosiva, più le percosse aumentavano e si facevano insopportabili. Il caporale Leroy assisteva, ma non interveniva. Per la prima volta dopo tanto tempo aveva ripreso in mano una bottiglia di vino.

- La tua base, quindi? – Viktor avvicinò intimidatorio il viso a quello del prigioniero, uno dei due militari gli strattonò i capelli, tirandogli in dietro la testa. Gli occhi sofferenti ed esausti s’incontrarono con quelli glaciali di Nikiforov.  - Dove vi nascondete, voi ratti del cazzo? – Georgi faticava a tenere gli occhi aperti, la tortura era stata lunga e sfiancante, ma quello sguardo penetrante e magnetico lo costringeva a rimanere cosciente. Ancora non rispose, tremava, non avrebbe retto a lungo tutto quel dolore, ma non avrebbe tradito i suoi compagni, né avrebbe messo in pericolo i suoi cari. Aveva accettato l’idea di morire oppresso da quel dolore insopportabile, doveva solo attendere.

Viktor attese una risposta che non arrivò mai, si era abituato, ormai, a tanta ostinatezza. Il militare gli lasciò i capelli, l’altro lo colpì al petto con una spranga di metallo. Georgi sputò sangue scarlatto, la vista gli si offuscò per il dolore. Viktor abbassò lo sguardo, il sangue di quel ribelle gli aveva sporcato le scarpe. Contrasse il viso in un’espressione di disgusto.

- Sangue fetido di gente fetida. – ringhiò come una bestia, poi fece segno ai suoi uomini di continuare a percuoterlo, senza pietà alcuna. Georgi svenne, soffocato dalle proprie urla di dolore, e per quella sera la tortura finì. La bottiglia di vino di Leroy era quasi finita.
 

Yuri si svegliò nel cuore della notte. Attorno a lui il buio e il silenzio più macabro la facevano sovrane. Le urla che avevano accompagnato il suo sonno erano cessate, nei corridoi non si sentiva volare una mosca. Era un bagno di sudore, Yuri, il respiro affaticato come dopo una corsa. Si era svegliato di soprassalto, terrorizzato da uno dei suoi soliti e vaghi incubi. Si teneva la testa tra le mani, si sforzò di ricordare cosa stesse sognando, ma come al solito non ci riusciva. Da quando era arrivato ad Almaty gli capitava ogni notte di avere incubi orrendi e macabri, ma non riusciva mai a ricordare neppure il più piccolo dettaglio. Appena riapriva gli occhi la sua mente debellava ogni spiacevole scena, e Yuri si ritrovava solo e confuso circondato dal buio. Raramente riusciva poi a riprendere sonno in fretta, spesso, anzi, rimaneva sveglio fino al mattino. Con gli occhi stanchi e smarriti, si alzò dal letto, i capelli dolcemente arruffati. Aprì appena la porta della stanza, dando un’occhiata al corridoio oscuro e deserto. Si voltò, dandosi un’occhiata alle spalle. Il ritratto di Otabek continuava a sorridergli. Yuri fece un respiro profondo, strinse i pugni e squadrò qualche attimo quel viso rassicurante. L’avrebbe protetto come lui aveva fatto. Allungò le mani verso la sua scrivania, prese una candela e l’accese con un fiammifero. Una flebile e calda fiamma illuminò vagamente la sua stanza, rendendola in qualche modo meno soffocante e cupa. Esitante mise piede fuori dalla stanza, scalzo, per non fare rumore. Un brivido gelido lo colpì, la notte in Kazakhstan diventava sempre più rigida. Scese piano gli scalini, l’orecchio attento ad ogni rumore sospetto, l’eleganza e la leggiadria di una fata sembravano quasi farlo volare. Una volta al piano terra si strinse nella vestaglia da notte, la casa vecchia era colma di piccoli spifferi gelidi. Il prigioniero era stato trascinato nell’ufficio di Viktor, dove a Yuri era sempre stato severamente vietato di entrare. Si avvicinò cauto alla porta, poi rigirò piano il pomello che si aprì senza problemi: non avevano sentito il bisogno di chiuderlo a chiave, brutto segno. Un leggero scricchiolio riempì il silenzio, ma Yuri non se ne preoccupò. La luce fioca della candela illuminò una figura contratta in una posizione schifosamente innaturale al suolo. Le gambe tirate al petto, nude, una misera tonaca strappata lo copriva appena. Era immerso in un bagno di sangue, il colore della sua pelle variava dal giallo spento al viola, poi al nero ed infine al rosso. Un braccio era orribilmente spezzato, il viso sfigurato e dilaniato appariva quasi irriconoscibile. Ma Yuri fece fatica a capire che quel prigioniero, che a detta di Leroy era l’unico sopravvissuto all’agguato, non fosse il suo caro Otabek. Un conato di vomito sorprese il giovane biondino alla vista di quel corpo distrutto, del sangue, delle ossa del braccio maledettamente esposte e maciullate. Barcollò, si poggiò una parete e dovette trattenere un urlo di disgusto. Si premette una mano sulla bocca, gli occhi gli si colmarono immediatamente di lacrime. Non era il suo Otabek ad essere stato massacrato come una bestia, non era il suo eroe a soffrire come un cane immerso nel suo stesso sangue. Yuri si sentiva sollevato, non avrebbe sopportato l’idea di vederlo soffrire in quella maniera, lui che l’aveva protetto. Eppure non riusciva a trattenere le lacrime, un’angoscia incontenibile gli strinse il cuore. Perché se Otabek non era lì, steso sul pavimento, poteva essere morto. Poteva averlo lasciato e Yuri non avrebbe mai avuto la possibilità di salutarlo un’ultima volta. Strinse i denti e soffocò singhiozzi e urla disperate. Aveva paura. La figura immersa nel sangue e nel buio emise un gemito strozzato appena si accorse della presenza del ragazzino, quest’ultimo indietreggiò inorridito. Cercò di illuminare di più la stanza, così riuscì a distinguere l’espressione disperata e supplichevole del povero ragazzo. Yuri si avvicinò piano, cauto, il prigioniero non riusciva a muoversi, il suo respiro era impercettibile e roco. Viktor aveva fatto lasciare, accanto al corpo, un secchio d’acqua ed un mestolo. Il biondino poggiò esitante la candela a terra, poi, compassionevole, si rivolse al povero prigioniero con tono quanto più garbato possibile.

- Hai sete..? – chinò il viso verso di lui, illuminato dalla candela, cercando di apparire più gentile che poteva. Provava una forte pena per quella povera anima, intrappolata in un corpo lacerato che non sarebbe mai tornato quello di un tempo. Voleva informazioni, voleva trovare Beka, ma anche il suo animo scalmanato e ribelle dovette piegarsi alla vista di quella sofferenza, in un puro e gentile atto caritatevole.

Il prigioniero annuì appena, quanto il dolore e le ferite gli permisero, ed emise un altro angosciante gemito straziato. Yuri prese il mestolo, lo riempì d’acqua, e lo accostò alle labbra del ribelle ferito. Questi, che aveva gli occhi gonfi e le labbra distrutte, riuscì a bere solo pochi piccoli sorsi, prima che il dolore straziante lo lacerasse. Yuri rimase immobile, le mani tremavano per l’orrore a cui stavano assistendo. Suo zio era stato davvero capace di ridurre qualcuno in uno stato talmente atroce? Aveva permesso, freddamente, che quel ragazzo venisse ridotto in una schifosa ed informe massa di ossa, carne e sangue e non aveva battuto ciglio. Yuri si rese davvero conto di non aver conosciuto suo zio, fino a quel momento. Non riusciva neppure ad immaginare quello che poteva essere successo ad Otabek durante la sparatoria.

- Come ti chiami? – chiese esitante Yuri, passandogli cautamente un panno bagnato sul viso, cercando di pulirlo dal sangue delicatamente. Il ragazzo ebbe un fremito, trattenne un gemito e strinse i denti in preda al dolore.

- G… Georgi… - sussurrò con un fil di voce straziato il prigioniero, Yuri fece quasi fatica a sentirlo nel silenzio della notte. Cercava di non guardarlo, inorridito dalle sue condizioni, provava tanta, troppa pena.

- Georgi…- ripeté Yuri a testa bassa. - Georgi, io non voglio farti del male.- balbettò poi il ragazzino, tentando di apparire più calmo e naturale possibile. Nella stanza aleggiava un nauseabondo odore di chiuso e sangue, Yuri non poteva nascondere un’espressione disgustata. Georgi non reagì, non ne aveva la forza, il suo respiro era lento e straziante. – Voglio sapere da te una cosa, solo una… In cambio farò per te tutto ciò che è mio potere.- sussurrò, in maniera che nessuno, nel silenzio della notte, potesse sentirlo. Gli occhi di Yuri risplendevano di una particolare luce, illuminati dalla fioca fiamma della candela, uno sguardo disperato che non poté sfuggire al prigioniero.

- D… dipende, ragazzo…- il tono del poveretto aveva un ché di dolorosamente ironico, quasi sprezzante, ma allo stesso tempo rassegnato e fragile. Gli occhi del biondo, spaventati, inorriditi, speranzosi, erano un incomprensibile miscela di emozioni tanto dolorose che Georgi non se la sentì di rifiutarsi. Nonostante fosse russo, parente degli uomini che avevano sterminato la sua gente e gli stavano lentamente strappando via la vita, che lo stavano scuoiando come fosse una bestia.

- Otabek… Otabek Altin, lo conosci? – la voce di Yuri era flebile, calma, le mani tremavano, terrore e angosce gli annebbiavano l’anima e gli frenavano la lingua, le parole trovavano morte nella sua gola. Aveva paura di essere scoperto, lì in quello studio. Ogni singolo muscolo del corpo dilaniato di Georgi si contrasse in uno spasmo, trattenne il respiro, gli occhi spalancati in uno sguardo timoroso e freddo. Non rispose. – Ti prego, dimmi come sta…- lo implorò Yuri come fosse un bambino, una creatura indifesa in cerca di calore. Nei suoi occhi brillava una disperata scintilla, ma Georgi la ignorò.

- Non… conosco nessun O… Otabek…-  nel suo cuore ardeva la fiamma di un solenne giuramento che aveva espresso accettando di sacrificare sé stesso, il proprio sangue, la propria vita. Fino alla morte, che vedeva farsi ogni attimo più vicina, avrebbe mantenuto il suo voto e avrebbe preservato quello stretto legame di innata fratellanza che si era unito nel popolo kazako. Non avrebbe mai lasciato un suo compagno, a prescindere dal rapporto che aveva con esso, nelle mani di uno sconosciuto e inafferrabile nemico.

- Ti prego… - a Yuri non sfuggì la peculiare reazione del prigioniero, quel fremito al sentir pronunciare il nome del ragazzo. Era disperato, il biondo, e glielo si leggeva in faccia, nella voce, nel tremore che gli torturava le mani, le braccia e le dita. Occhi vuoti, ricolmi solo di un soffocante strato di calde e salate lacrime, che il suo orgoglio da adolescente ribelle non gli permetteva di esporre. Georgi, che aveva conosciuto la disperazione in ogni sua più deforme essenza, non poteva, non riusciva ad ignorare quella preoccupazione sincera e pungente che riempiva il suo sguardo e le sue parole. – Voglio solo sapere se sta bene… - Yuri era confuso, si sentiva vuoto, diverso. Il peso della sua anima era diventato improvvisamente più pesante e il suono dei suoi pensieri era cambiato in una melodia armoniosamente straziante. Aveva dimenticato il sapore dolciastro di quelle parole supplichevoli, quel “ti prego” aveva un retrogusto assai amaro e vomitevole. Era stato forte per tutti quegli anni, chiuso in una corazza tanto spessa quanto estremamente fragile e vulnerabile. La felicità, il tanto ardito desiderio di affetto e amicizia, erano un nemico per lui, un ostacolo che era riuscito ad abbattere quando era ancora un bambino dalle guance rosee e l’innocenza negli occhi. Aveva allontanato la felicità perché aveva paura di perderla ancora, aveva paura che il calore di un abbraccio lasciasse in lui il freddo gelido che troppo gli ricordava la sua lontana patria. Percepiva un brivido quando ripensava al volto del nonno, che ancora lo attendeva in Russia. Erano passati anni, eppure i lineamenti del suo volto, duri e scolpiti, non accennavano a sbiadirsi nella sua mente. Ricordava il suo sorriso e le sue carezze con una nota di malinconia che di speranza aveva ben poco. Quando ripensava al suo calore temeva di non riaverlo mai più, nella sua mente si era aperto un vuoto. C’era qualcosa, nella sua infanzia, che non ricordava. Un lasso di tempo che per quanto si sforzasse non riusciva a rivivere. Ed era in quel periodo di buio che improvvisamente si era ritrovato lì, in Kazakhstan, senza amore e senza felicità. Non gli era mai importato nulla di nessuno, se non di se stesso, perché sentiva che a nessuno importava di lui. Otabek si era sacrificato per salvargli la vita ed era stato con lui gentile e premuroso. A Yuri, per la prima volta dopo anni, importava davvero di qualcuno.

- Non è morto… - Georgi distolse lo sguardo, il viso completamente gonfio e lacerato dalle torture che i sovietici gli avevano inflitto bruciava come l’inferno. L’aveva visto bene quello sguardo addolorato di Yuri e aveva capito fin da subito che non era malvagio, neppure una spia. Non aveva il coraggio di tacere davanti a quel ragazzino tremante di ansia e paura. Sapeva che non era morto, ne era sicuro. L’aveva portato frettolosamente al riparo, trascinandolo con le poche forze rimaste dietro parte della barricata. Quando l’avevano catturato respirava ancora, ma i sovietici non se n’erano accorti. La ferita sembrava talmente tanto grave che anche solo l’idea che fosse riuscito a sopravvivere sembrava ridicola. Eppure Georgi sentiva che fosse ancora vivo, era sicuro che avrebbe retto quel poco che bastava prima che i capi dell’organizzazione lo trovassero e lo curassero. Non lo conosceva bene, ma gli era stato subito chiaro che fosse un soldato impeccabile e indistruttibile. Non si sarebbe arreso alla morte così, senza essere riuscito a portare a termine la sua vendetta. – Ma… non ti assicuro che stia bene…-

- Dov’è? Voglio vederlo… - Yuri continuava ad avere paura, a temere per Otabek, suo eroe. I soldati di suo zio erano precisi e puntuali tanto quanto lui, non avrebbero mai sbagliato un rapporto. Otabek era lì, in strada, in mezzo alla sparatoria, le parole di Georgi ne erano state la conferma. Se nei rapporti non risultavano sopravvissuti, doveva essere successo qualcosa di fin troppo grave. Voleva vederlo.

- Non posso dirti altro… capiscimi…- Georgi aveva le mani legate, non poteva tradire i segreti della sua organizzazione. Provava una pena immensa per lui, per il suo compagno ferito, ma l’orgoglio e l’onore gli bloccavano le parole in gola. Di lì a poco l’avrebbero ucciso, lo sapeva benissimo, non voleva morire col disonore. Yuri esitò, poi ebbe un fremito. Otabek gli aveva curato il polso, gli aveva dato il suo bracciale, l’aveva sorretto quando era stato ferito. Non accettava l’idea di non riuscire a ricambiare quel gesto. Non riusciva a perdonarsi la consapevolezza che gli uomini di suo zio l’avessero ferito, non accettava l’idea di non riuscire ad aiutarlo.

- Lui mi ha salvato la vita… - Georgi sussultò sorpreso a quelle parole. Yuri sperava capisse che poteva avere fiducia in lui, che la sua unica intenzione era ripagare Otabek del bene che gli aveva fatto. Il prigioniero ebbe una fitta al cuore, il suo compagno doveva essere un ragazzo davvero meraviglioso. Avrebbe voluto conoscerlo meglio, era felice di aver combattuto l’ultima battaglia della sua vita accanto ad un giovane tanto rispettabile.

- Vicino alla cattedrale… - si decise nuovamente a parlare il prigioniero, ormai sempre più debole e volubile. Gli stava estrapolando più informazioni lui con i suoi occhi innocenti che i soldati con la violenza. – C’è un panificio… La proprietaria, Irina… chiedi a lei. – Yuri sollevò lo sguardo verso di lui, improvvisamente una scintilla di gratitudine si accese in lui, era raggiante, per quanto fosse possibile. Georgi vide gli occhi vivaci di un sedicenne tranquillo e spensierati, gli stessi occhi che doveva aver visto Otabek.

- Grazie! Grazie mille! – Yuri voleva urlare di felicità, ma non poteva permettersi di essere scoperto. Voleva vederlo, ringraziarlo ancora e ancora e poi ricambiare quel bene che gli aveva fatto. Voleva stringergli la mano e gli sarebbe stato accanto finché non fosse guarito, qualsiasi male avesse lo avrebbe aiutato. Questo suo irrefrenabile affetto che provava verso il suo eroe stava andando perfino oltre il semplice senso del dovere. Voleva renderlo felice dopo che aveva visto il rancore e la tristezza nei suoi occhi.

- P… Però ti prego… - Georgi riprese a parlare, sempre più affaticato, sempre più sofferente, il sangue che scorreva lento e inesorabile sul pavimento era arrivato a sporcare i pantaloni del pigiama di Yuri, il biondino non se n’era neppure reso conto. – Fammi un favore… uno solo… - faceva sempre più fatica a tenere gli occhi aperti, era stanco, debole, ma s’imponeva di resistere. Voleva fidarsi di quel giovane dal viso fin troppo innocente per quel mondo, voleva fidarsi perché non aveva più nulla da perdere ormai. Yuri lo ascoltava attento, euforico, avrebbe fatto tutto quello che era il suo potere per ringraziarlo. – Vicino alla moschea… c’è un negozio di giocattoli. – respirava sempre più lentamente, sapevano bene entrambi che il tempo che gli rimaneva da vivere in quella casa era ormai quasi esaurito. Ma voleva liberarsi di quel peso, Georgi, voleva morire con la coscienza apposto, senza più segreti. – Ci lavora una ragazza… Bella, bellissima… Ha i capelli rossi. – la voce spezzata del disperato prigioniero si fece d’un tratto più tenera, pacata, delicata nonostante tutto il dolore. I suoi occhi avevano ancora la forza di brillare al ricordo del viso dolce della sua giovane amica e compagna di vita, con la stessa luce che ardeva negli occhi di Yuri al pensiero del suo eroe. – Si chiama Mila… Voglio solo che tu le dica… che sono morto con onore, ok..? – Yuri distolse lo sguardo e strinse i pugni. Sarebbe morto, morto con onore, probabilmente non avrebbe superato la notte e lui se ne stava lì a strappargli via informazioni. Avrebbe voluto aiutarlo davvero, ma non poteva fare altro se non ascoltarlo ed esaudire il suo ultimo flebile desiderio.

- Lo farò… Georgi…- Yuri esitò, ma era sicuro di sé, avrebbe rispettato il suo volere, avrebbe ricambiato il suo aiuto con un gesto disperato e gentile. Non era da lui, ma l’avrebbe fatto.

- Magari… - intervenne ancora Georgi, la notte stava passando in fretta e Yuri doveva tornare a letto, ma rimase ad ascoltarlo fino alla fine. – Portale una rosa… rossa…- il prigioniero aveva lo sguardo colmo di una malinconia che il fragile biondino non riusciva a sopportare. Avrebbe voluto parlare dal vivo, Georgi, rivelarle il suo amore col cuore in mano e magari sposarla, vivere con lei e renderla felice. Probabilmente era il suo unico vero rimpianto, l’unico fardello che si sarebbe portato nell’aldilà. Era stato un codardo, un vile. Aveva combattuto battaglie feroci, s’era fatto torturare a morte, ma non aveva avuto il coraggio di amare la sua cara amica come meritava. Sognava le sue labbra che non avrebbe mai avuto. Avrebbe sofferto, la bella Mila, della sua morte. E Georgi non poteva perdonarselo. – Dille di sorridere… ok?- detto ciò sospirò, chiuse gli occhi, e si addormento in bilico tra la vita e la morte, aggrappato con le ultime forze al ricordo della rossa più bella di tutta l’Unione Sovietica, la sua eterna amata che mai più avrebbe rivisto. Voleva morire così, in quel momento, con l’immagine di una Mila felice impressa nella mente, assistito da un giovane tanto fragile quanto coraggioso. Yuri, dentro di sé, sperò che non superasse la notte, che suo zio non gli infliggesse più quelle ingiustificate torture crudeli. Sperò che per lui il male finisse il prima possibile.

Risalì in camera quando ormai mancava poco al sorgere del sole, a passi cauti e silenziosi, nessuno si era reso conto delle sue azioni. Una volta stesosi sul letto tirò un sospiro profondo e gli salì un groppo asfissiante alla gola, quasi a soffocarlo. Nonostante la guerra fosse vicina, nonostante avesse sempre vissuto sotto un regime duro e temibile, non aveva mai assistito a nulla di simile fino ad allora. O almeno non era in grado di ricordarlo. Quel corpo dilaniato, abbandonato al proprio destino, gli occhi ardenti di suo zio, non aveva mai conosciuto davvero il male che lo circondava. E si sentiva a disagio, si sentiva in gabbia, usato e rotto, aveva paura. Non voleva che tutto quello diventasse la sua quotidianità, non voleva accettare quella realtà che aveva sempre tentato di ignorare. Aveva creato il suo piccolo e gradevole mondo isolato e calmo, che in pochi giorni si era spezzato e l’aveva riportato alla cruda realtà. Stupri, attentati, torture, era un mondo che non aveva mai desiderato conoscere. Giunto nella sua stanza notò di essersi orribilmente sporcato i pantaloni del pigiama di sangue. Nella fretta, nell’ansia, nel dolore, non se n’era neppure reso conto. Se li sfilò, li nascose sotto il materasso con l’intenzione di provare a lavarli di nascosto il giorno dopo. Se mai l’avessero scoperti sarebbero stati guai seri, davvero troppo seri. Se ne mise un altro paio, non diede neppure troppo peso alla cosa. Fremeva, aveva qualcosa, una pista, una speranza, era troppo emozionato per badare ad altro. Si rimise a letto, ma non chiuse occhio, non ci riusciva. Troppi pensieri ad affollargli la mente, l’entusiasmo, l’ansia, la paura. Stava cercando di ricordare dove fosse il fioraio più vicino, quello che aveva le rose più belle di tutta Almaty, le più delicate e splendide. La prima cosa che avrebbe fatto il giorno dopo sarebbe stata parlare con la misteriosa Mila. Lo doveva a Georgi, lo doveva alla sua anima in pena. Chiuse gli occhi, aspettava solamente il sorgere del sole.
 
Nella stanza accanto, intanto, neppure Viktor riusciva a dormire. Aveva sentito la porta del nipote scricchiolare nel cuore della notte, poi i suoi passi leggeri e eleganti allontanarsi lungo le scale. Di norma di chiunque si sarebbe insospettito, ma non Nikiforov, non il premuroso zio che nutriva nel nipote fin troppa fiducia. Non era la prima volta che Yuri, durante la notte, sgattaiolava fuori, in veranda, a guardare le stelle. Non era la prima volta che lo vedeva soffrire nella solitudine del loro esilio e non aveva mai il coraggio di rimproverargli nulla. Neppure in quella notte assetata d’odio e di dolore, neppure mentre il dolore dell’umiliazione gli lacerava la spalla, poi l’anima, e infine gli anneriva il cuore. Covava odio e rancore, Nikiforov, ma amava suo nipote, lo aveva sempre amato. Aveva accettato quella vita per lui, quel disonore, non aveva la forza di fargli del male.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - любовь ***


Nonostante luglio fosse alle porte, le mattine kazake continuavano ad essere fastidiosamente nebbiose, scure, tristi. Svegliarsi in quello stato di freddo e oscurità non era mai piacevole, andare a lavoro lo era ancora di meno. Per Mila, che aveva il sorriso più bello di tutta la città, al contrario, passeggiare di prima mattina per le strade nebbiose e scure di Almaty non era mai stato un peso e tantomeno lo era stato lavorare. Era mite per natura, ottimista, gioiosa, aperta, gentile, era capace di vedere il bello anche nel dolore e nel male. Aveva un impego che le piaceva, le trasmetteva felicità, e trovava un che di poetico nella nebbia fitta e densa, nel freddo e anche nel silenzio. Aveva preso ciò che la vita le offriva e l’aveva migliorato, si godeva ogni momento come fosse il più prezioso della sua vita. Per molti in Kazakhstan il lavoro era un dovere straziante, un obbligo per la mera sopravvivenza e, che fossero kazaki o russi, non avevano mai piacere nel farlo. Mila era nata a Mosca, era piuttosto benestante e, bella com’era, non avrebbe certo fatto fatica a sistemarsi con un ufficiale o con un governatore. Eppure a diciotto anni aveva fatto le valige e se n’era andata, senza dire nulla a nessuno, proprio in un giorno di nebbia. Voleva studiare, ma non le venne permesso e non ci riuscì mai neppure da sola. Ma tentò, fuggì a sud e si ritrovò ad Almaty, ma in università non l’accettarono e la famiglia a Mosca non l’avrebbe riaccolta dopo un atto talmente irresponsabile. Ma Mila era in gamba e riuscì a riadattarsi e così, nel centro nebbioso della buia Almaty, aveva costruito un piccolo paradiso di colori e gioia, che era diventato il suo rifugio di pace e armonia. Le piaceva lavorare col sorriso e amava far sorridere gli altri. Ogni mattina, quando il vicinato la vedeva passare, elegante e composta, ma comunque raggiante, la nebbia sembrava farsi meno fitta. Il suo era un negozio piccolo, modesto, curato ed elegante, lo amavano tutti. Vendeva bambole, trenini, soldatini, cavallucci, i bambini andavano e venivano di continuo e lei li adorava, li conosceva quasi tutti e giocava con loro. I genitori che portavano i bambini da lei erano poi una vera perla di splendore. Appena entravano, incantati da quella meraviglia surreale di innocenza e bellezza, sembravano tornare fanciulli e i loro sorrisi erano ancor più grandi e curiosi di quelli dei figli. Gli affari andavano bene, le persone erano gentili e il lavoro calmo e piacevole. Mila era come il sole che, come sappiamo, in Kazakhstan non c’era mai. Eppure, quel giorno, la meravigliosa rossa di Mosca camminava fredda, vuota, e ad ogni suo passo Almaty sembrava diventare più grigia e triste. Il suo viso pallido era rotto, ma non voleva piangere. Voleva sperare, ma non ci riusciva. Il male di quella guerra era riuscito a piegare anche la più graziosa e mite delle anime.
 

L’atmosfera in casa Nikiforov non era mai stata tanto fredda e soffocante. Yuri era spento, pallido, due enormi occhiaie ad incorniciargli lo sguardo già di per sé stanco e affaticato da una notte di pensieri e angosce. Jean-Jacques, che aveva piena fiducia in sé e nelle sue capacità di uomo e soldato, appariva ancor più tormentato del giovane biondino. Neppure lui chiuse occhio quella notte, agitato e in preda allo sconforto. Era deluso, inorridito dal suo atteggiamento tanto debole e passivo. Passò la notte seduto alla scrivania, con la sola luce di una candela a ravvivare il buio triste della notte. Scrisse una lunga e fragile lettera al suo amore lontano, a quella creatura tanto innocente che il suo solo ricordo riusciva ad alleviare il dolore che la solitudine gli portava. Si era prefissato un obbiettivo, poco prima di partire per il Kazakhstan aveva giurato alla sua adorata che sarebbe tornato da lei più uomo di prima, più forte. Sarebbe rinato dalle ceneri della sua dipendenza e così avrebbero nuovamente vissuto assieme, un futuro felice gli si era aperto davanti e non attendeva altro che la fine della guerra per poter tornare in Canada dalla sua amata stella. Ma lui era debole, lo ammetteva, lo accettava e se ne vergognava. Sperava che la lontananza, la solitudine e il disperato desiderio di riaverla lo rendessero abbastanza forte di tener duro a quella tentazione, cosicché, una volta raggiunta la redenzione, potesse tornare da lei orgoglioso di essere un uomo nuovo. A lei non sarebbe piaciuto vederlo così, a bere ancora, come prima, senza un limite e senza pietà alcuna per se stesso e la propria fragilità. Scrisse una lettera di scuse di due fogli, passò la notte a spremersi le meningi per trovare le parole giuste e comporre frasi eleganti e degne del più nobile dei cavalieri, doveva apparire pulito, cresciuto. Nonostante fosse sulla soglia dei Trenta, era rimasto un ragazzino screanzato fino a pochi anni prima, quando si era preso la responsabilità di prendersi cura della sua amata principessa, quando aveva deciso di mettere da parte le bottiglie di vino e di indossare la divisa. Passò ore a scrivere e riscrivere frasi sempre identiche e il risultato non fu altro che un ammasso spoglio e secco di parole sempre più vuote e supplichevoli. Si rese conto di essere talmente debole da non poter fare di meglio. Esitò, forse era meglio non spedirla e tenersi quella ricaduta per sé. Forse avrebbe dovuto aspettare un momento di maggiore lucidità e scrivere un qualcosa di meno mediocre e piatto. Forse avrebbe dovuto bruciare quella lettera, ma la rilesse e la rilesse più volte e alla fine decise di doverla spedire così com’era, senza tagli o ulteriori correzioni. La firmò, sigillò la busta e poi si mise finalmente a letto quando ormai di tempo per dormire ne era rimasto fin troppo poco.

Così, quando fu l’ora della colazione, in casa Nikiforov erano la stanchezza e le angosce a farla sovrana. Il primo a giungere in sala da pranzo fu Viktor, che quella notte non aveva neppure considerato l’idea di provare a dormire. Portava la camicia aperta, le fasciature erano ben esposte e bianche, aveva smesso di sanguinare copiosamente e, con la calma dovuta, la ferita cominciava a richiudersi. Si fece servire immediatamente senza attendere gli altri commensali, capiva che non era la situazione più adatta ad una gradevole colazione. Lo seguì così il caporale Leroy, già in divisa, stanco e spossato da una notte di pensieri. I capelli disordinati non gli si addicevano, non più, sembrava un’altra persona. Viktor sollevò lo sguardo appena lo vide entrare nella sala da pranzo, i due si scambiarono un cenno e poi continuarono ad ignorarsi, immersi nei pensieri che li tormentavano. Jean-Jacques poggiò la lettera sul tavolo, poi iniziò a fare colazione. Appena terminato avrebbe immediatamente chiesto al colonnello sovietico di farla spedire più in fretta possibile in Canada. Tenevano lo sguardo basso, non si accorsero neppure dell’arrivo di Yuri qualche minuto dopo. Al contrario dei due ufficiali era stranamente in ordine, pettinato e tirato a lucido, i capelli legati al solito dal nastro che Yakov tanto odiava. Indossava una delle sue camice migliori, a maniche corte, di un azzurro opaco e sfumato. Era pallido come non lo era mai stato, le labbra secche, tormentate dalle immagini atroci che quella notte lo avevano sconvolto. Gli occhi stanchi splendevano di una vivacità giovanile inafferrabile e delicata, voleva fare tante cose e voleva farle in fretta, voleva rivedere gli occhi di Otabek e quell’alone di mistero che tanto lo attiravano. Sentiva la mancanza di quella calma che, anche se per pochissimo tempo, aveva vissuto al suo fianco, sia quando gli aveva salvato la vita che quando si era aperto con lui, quando gli aveva mostrato il suo dolore. Emanava un calore delicato, Otabek, familiare e genuino, un calore che Yuri aveva smesso di provare da tanto, troppo tempo. Gli trasmetteva una sicurezza innaturale, lo faceva sentire libero, lo riportava a casa con un solo sguardo, da suo nonno, in Russia, dove aveva l’amore della famiglia. Perdere quel calore un’altra volta sarebbe stato un colpo eccessivamente pesante per lui, fragile creatura in un mondo fin troppo crudele. Si sedette al suo posto e Viktor gli sorrise come meglio poteva. Un sorriso spento, piatto, ma comunque presente, un ennesimo disperato tentativo di mantenere vivo un rapporto quanto più intimo e confortevole con l’amato nipote. Yuri lo notò, si sforzò di ricambiare, ma non ci riuscì. Capiva gli sforzi dello zio, sapeva quanto ci tenesse, ma faticava persino a reggere il suo sguardo. Ne era spaventato e se ne vergognava. Era intimorito dagli occhi della persona che l’aveva sempre protetto, che l’aveva allevato e gli era sempre stato accanto. Tremava, perché attraverso quelle iridi gelate non riusciva più a riconoscere l’anima del suo caro zio, ma solo tanta spaventosa rabbia e furia. Esitò, gli fece un cenno e distolse immediatamente lo sguardo. Non percepiva in lui la sicurezza di cui aveva sempre avuto bisogno, quelle sue urla graffianti e cariche d’odio riempivano ancora il vuoto della sua mente. Sentiva di conoscere addirittura meglio Otabek che suo zio.
Consumarono tutti la colazione in fretta. Yuri, che era arrivato per ultimo, finì per primo e uscì di casa. Viktor voleva sapere dove stesse andando con tanta fretta, ma Yuri si limitò a dirgli che sarebbe rimasto nelle vicinanze, nel quartiere russo, dove di norma non si dovrebbero correre grandi pericoli. Il colonnello, che sotto la coltre di odio e rabbia celava il cuore di uno zio premuroso e caro, non aggiunse altro, se non un semplice “stai attento”. Dopotutto, l’aria in casa Nikiforov si era fatta incredibilmente pesante e lo sarebbe diventata ogni attimo di più. Yuri non aveva mai visto un cadavere, o almeno non se lo ricordava, l’avrebbe mandato fuori a svagarsi a prescindere quel giorno. Il prigioniero, il ribelle, aveva ceduto alla morte prima ancora che i sovietici riuscissero a strappargli via la più misera informazione. Quel corpo massacrato con una violenza che lo stesso Nikiforov non sapeva di poter concepire, avrebbe custodito in eterno i segreti fatali delle organizzazioni ribelli. Un’anima che Viktor non aveva neppur considerato degna di esistere avrebbe infestato le mura di quella casa come una presenza oscura, una voce pacata e soave, che ogni giorno avrebbe ricordato al grande colonnello quanto fosse misero e inutile. L’aveva dilaniato, umiliato, aveva fatto tutto ciò che poteva ma un solo piccolo, esile e debole uomo l’aveva sconfitto ancora un’ennesima volta. Quella gloria che tanto bramava si faceva sempre più irraggiungibile e lui si stava lentamente accorgendo di non essere degno di riceverla. Avrebbe scoperto col tempo e col dolore quant’è facile piegare un’anima, giocarci e renderla propria. Non serve la violenza fisica per domare uno spirito irrequieto. Yuri, suo nipote sedicenne, ci era riuscito con la dolcezza di una fata. Altri avrebbero piegato l’anima di Nikiforov con l’astuzia di una volpe e la freddezza di un vero, spietato soldato.

- Dovrei spedire una lettera con una certa urgenza, colonnello. – Jean Jacques era spento, pallido, stranamente indeciso e esitante, Viktor lo notò immediatamente. Si alzò da tavola, riprese in mano la lettera e la porse all’ufficiale sovietico che, freddo, si destò dai propri dubbi e pensieri. I due si fissarono qualche attimo, poi il caporale canadese gli porse la busta. Viktor lo squadrò qualche attimo, poi fissò la lettera e, distaccato, tornò a godersi ciò che rimaneva di una colazione consumata lentamente e con malavoglia.

- Chieda alla stazione militare, ci penseranno loro ad informare i suoi colleghi in Canada della situazione. – il russo diede un sorso alla tazza di tè, ormai raffreddatosi completamente, lasciandosi sfuggire una vaga risata sardonica, tanto sottile quanto fredda. – Anzi, sicuramente l’avranno già fatto. – non sollevò neppure lo sguardo per notare l’espressione alquanto irritata del canadese, che tra le mani stringeva una lettera tanto intima quanto dolorosa. Sentiva di aver questioni più importanti da sbrigare, ma Jean-Jacques la pensava diversamente.

- A dire la verità è una lettera molto personale.- il caporale poggiò la lettera sul tavolo, davanti a Viktor e questi finalmente sollevò lo sguardo e la squadrò, poi gli sorrise con fare tanto beffardo quanto distaccato. Non aveva tempo per pensare alle questioni personali di Leroy, ma prese la busta e se la rigirò tra le mani. Appena possibile l’avrebbe spedita.

- Scrivi a tua moglie, immagino. – detto ciò, il sovietico si alzò debolmente da tavola, il braccio immobile e dolorante bruciava, un brivido di acuto dolore gli percosse la schiena da capo a fondo, poi gli risalì all’altezza della cervicale e gli invase il cervello. Non aveva tempo, perché quel dolore gli ricarda costantemente quella scontante e umiliante sconfitta che aveva subito come un incompetente. A Jean-Jacques mancava la moglie, a lui mancava casa. La guerra era una malata strega vestita di nero, col suo sguardo toglieva la felicità ad ogni uomo affascinante che trovava, li seduceva e li lasciava soli con il proprio dolore e con l’amaro sapore di un amore perduto tra le labbra. L’avrebbe spedita, ma non aveva tempo, la guerra reclamava in dono l’anima di Viktor e la sua spietata vendetta, solo allora l’incantesimo nero che gli aveva lanciato si sarebbe spezzato e Nikiforov avrebbe riavuto il suo amore, la sua patria.

- Se proprio vuole saperlo, colonnello. – Jean-Jacques distolse lo sguardo, poi strinse le mani in pugni serrati e si lasciò sfuggire un vago sospiro. Tra i capelli spettinati Viktor poté intravedere due occhi stranamente vuoti e per la prima volta vide il canadese davvero in seria difficoltà. A Leroy non piaceva parlare della propria situazione personale, ma non aveva mai neppure gradito la superficialità, chi parla senza sapere. Sicuramente, con la dovuta cautela, era capitato anche a lui, che nella sua vita non era mai stato icona di buone maniere ed educazione, ma dare per scontata una cosa tanto fragile e delicata non gli parve corretto. Soprattutto in periodo di guerra, quando il candore di una splendida vita umana non va mai dato per scontato. Ma dopotutto la guerra in Canada non vi sarebbe mai giunta in maniera diretta, Jean-Jacques gli concesse l’inappropriato errore. Dopotutto non poteva sapere, ma lo ferì comunque. – Mia moglie è morta da tempo. – non gli piaceva ricordarla, né tantomeno parlarne con estranei, ma gli parve giusto precisare e mettere per inciso la questione, cosicché non se ne parlasse più. – Non penso sia di suoi interesse sapere a chi scrivo le mie lettere, perciò le chiedo di spedirla e basta, se è possibile. – dettò ciò tornò a fissare Nikiforov come in attesa. Improvvisamente voleva troncare quella conversazione sul momento, ma voleva la conferma che la lettera sarebbe stata recapitata a chi di dovere, alla sua amata e lontana musa. Voleva parlarle, confidarsi con lei, voleva riavere la sua fiducia e quando sarebbe tornato a casa voleva riaverla e abbracciarla, lei che era l’unica cosa che gli era rimasta dalla morte di Isabella.

Viktor appariva palesemente scosso da quell’inaspettata rivelazione, detta con tanta calma da apparire disarmante. Doveva essere stato veramente un cretino, pensò, e chissà quanti altri in passato erano ricaduti nella sua stessa gaffe. A giudicare da quell’apparente calma che il caporale lasciava trasparire, doveva essere abituato ad errori simili. Ormai nell’alta società si dava per scontato che un giovane, attraente e affermato ufficiale fosse felicemente sposato e con un’ampia prole ad attenderlo a casa. Viktor non lo era, ma immaginava che Jean-Jacques lo fosse, si sentì sprofondare dalla vergogna. In effetti, lui non aveva tempo da dedicare alla vita personale del canadese, figuriamoci se avesse dovuto importargli sapere chi era il destinatario della fantomatica lettera. La raccolse dal tavolo, poi si scambiò una fugace occhiata con Leroy, i cui occhi erano improvvisamente diventati più scuri, fragili e tristemente amareggiati. Si mostrava calmo, ma era ferito. Doveva amare davvero la moglie scomparsa.

- Sarà fatto. Condoglianze. – Viktor appariva più mortificato di quanto non fosse, era a disagio per l’errore, ma alla fine neppure più di tanto. Ma era abile a controllare il suo viso e le sue espressioni tanto quanto era bravo a celare emozioni e segreti quando ne sentiva il bisogno. Davanti agli occhi di Jean-Jacques si palesò un volto modellato ad arte in un’espressione di sconforto e malinconia, ma non si lasciò ingannare, non dopo anni passati a sorbirsi le solite vuote e insensibili condoglianze dell’intera divisione militare di Toronto. Non se la beveva più l’insensibilità umana e neppure se ne faceva più un peso, la ignorava e basta.

- Non ne ho bisogno, è successo anni fa. – voleva solo interrompere quella conversazione, risalire in camera sua e attendere nuovi ordini. L’aria era appesantita dagli eventi appena passati, percepiva l’odore di morte attaccarglisi addosso, sui vestiti, un fardello che lui non aveva mai desiderato. Eppure era il suo lavoro, fare il soldato e uccidere, ma non lo aveva mai accettato. Se l’avesse fatto per vocazione sarebbe stato di certo tutto più sopportabile, ma non così, non con il rimorso ed il dolore ad annebbiargli il cuore. Non voleva quella vita. – Solo, la spedisca. – detto ciò si allontanò, salì le scale e scomparve nella sua stanza, anch’ella devastata dallo stesso disordine della sua confusa mente.
 

Yuri comprò dieci rose. Ma non erano rose qualunque, erano bellissime. Gradi, morbide, profumate, di un rosso tanto acceso da sembrare quasi surreale, non riusciva a credere che in Kazakhstan si potessero trovare fiori tanto meravigliosi. Erano il tipo di dono che, se fosse stato donna, avrebbe desiderato ricevere dagli spasimanti, delle rose che, nella loro semplicità, erano comunque uniche. Le fece avvolgere nella carta velina rosa pallido, sottile e delicata, quella che le signore in Russia usavano per i loro lavoretti di decoupage per ammazzare la noia. Infine aggiunse un nastro lungo e spesso, lo richiuse in un fiocco e il semplice mazzo di rose rosse gli apparve come il bouquet della più elegante delle spose. Se Georgi avesse avuto il coraggio di prenderle dei fiori, avrebbe di sicuro scelto quelli, gli avrebbe avvolti in quella stessa carta velina deliziosa e gli avrebbe trasformati in un gioiello per la sua irraggiungibile amata. Yuri non aveva dei gusti spiccati ed eleganti, ma riusciva a vedere il bello anche dove non ce n’era. Nessuno sapeva di questo dono, neppure lui, ma celava dentro di sé gli occhi di un artista e tutto ciò che passava tra le sue mani di seta diventava un’opera meravigliosa. Elegante com’era, bello e giovane, passeggiava per il centro città con la fierezza di un soldato. Aveva visto il negozio di giocattoli di Mila il giorno in cui Otabek stesso l’aveva scortato in giro per la città, l’aveva reso felice e Yuri ricordava quei momenti con una nitidezza quasi surreale. Ricordava questa struttura piccola e discreta, un cartello rosso e oro con una scritta bilingue in kazako e russo che recitava semplicemente “Il mondo dei balocchi”. Aveva una vetrina decorata con ritagli di disegni fatti dai piccoli clienti di Mila, alberelli, casette, soli, sorrisi. Tutto ciò che era bello e che mancava in Kazakhstan era rappresentato in quelle piccole e grezze opere d’arte, una felicità che solo i bambini erano ancora capaci di provare, nella loro tenera innocenza. Fuori dalla vetrina, sul davanzale, c’era un vaso di fiori rosa, gialli e viola, che, nonostante la triste freddezza del Kazakhstan, erano sbocciati al culmine della loro modesta bellezza. Non potevano tener testa allo splendore artistico delle rose di Yuri, ma erano umili, bellissime nella loro semplicità, delicate ed eleganti, esattamente come lo era tutto il negozio e la sua raggiante e giovane padrona. Yuri sospirò, quel posto emanava una tranquillità troppo piacevole e familiare. Salì il piccolo scalino che divideva l’uscio dalla strada, poi aprì la porta e l’innocente suono di una campanella lo accolse nel negozietto. All’interno era ancor più caldo, accogliente, invitante. Le pareti erano un delicato e stravagante miscuglio di colori accesi e allegri, un esperimento di gioia e spensieratezza. Giallo, azzurro, rosso, sembravano i colori del cielo al tramonto, ma più splendenti, più particolari. Il tramonto rappresenta la lenta decadenza del giorno, che pian piano svanisce e lascia spazio alla notte, ai pensieri, ai ricordi. A Yuri ricordava più il flebile calore dell’alba, che in quegli anni aveva imparato a conoscere come una sorella. Il buio che pian piano lascia spazio ad una delicata e fragile luce, accogliente e calda, ma non soffocante, asfissiante. Il sole, quando sorge, è un padre discreto e attento, i suoi raggi solo carezze delicate e semplici, il suo buongiorno è amorevole e gentile. Durante il giorno diventa poi un fuoco, severo e troppo, tanto caldo. Fa male, è invadente, non ti lascia mai e ti soffoca fino ad ammazzarti con la sua mania di persecuzione. Al tramonto invece è triste, è stranamente freddo, ancor più della luna, e ti chiedi se magari non sia stato ferito, durante il giorno, da una forza che tu non riesci ad afferrare o a capire. All’alba è al culmine della sua bellezza e vita, se quelle mura brillanti erano un cielo, allora erano di certo il cielo dell’alba. C’era una libreria molto alta, andava dal pavimento al soffitto e gli scaffali erano stati invasi da bambole, soldatini, pupazzi, modellini e tutto ciò che poteva soddisfare le innocenti esigenze di un bambino annoiato in una terra addolorata. Il pavimento era ricoperta da una morbida moquette azzurra, dalle fibre arricciate e delicate. Appena messo piede nel negozio Yuri immaginò di star camminando su una nuvola, nel cielo splendente del mattino, al fianco delle rondini in primavera. Faceva un effetto splendido entrare lì per la prima volta, Yuri poté solo immaginare quanto potesse essere splendido, per un bambino, essere portato lì dalla mamma a giocare, a divertirsi, a staccare dalle ansie quotidiane che un bambino non doveva vivere. Ebbe qualche attimo per guardarsi intorno prima che la splendida rossa padrona del negozio accorresse ad accoglierlo, attirata dal familiare e delicato suono della campanella all’ingresso. Vestita in abiti leggeri e giovanili, di un caldo e allegro rosso, leggermente più acceso dei suoi capelli scuriti dal tempo. Avrà avuto quasi trent’anni, Yuri lo notò subito, ma solitamente dimostrava molto molto di meno. Con un sorriso giovane e splendente come la più pura delle stelle, aveva una bellezza comparabile a quella delle più gettonate attrici dell’epoca. Eppure non aveva bisogno di trucco o ritocchi per apparire meravigliosamente splendida, era bella nella sua genuina naturalezza. Le labbra rosee e le guance piene e delicate, sempre tirate in sorrisi dolci e mai falsi. Mila appariva ben più vecchia, quel giorno, perché aveva ansie e angosce a rinsecchire quella sua pelle eternamente giovane e liscia, che mai aveva affrontato un dolore tanto acuto e spaventosamente persistente. Aveva due impressionanti borse sotto gli occhi, solchi scuri e densi come la notte, gli occhi stanchi da ore insonni passate a passeggiare freneticamente avanti e indietro in cerca di risposte. Le spalle affaticate erano ripiegate in avanti, il suo passo sicuro ed esuberante aveva lasciato spazio ad un’andatura lenta e goffa, esitante ad ogni passo come sul punto di cadere. Aveva gli occhi arrossati, le iridi chiare e lucenti si erano nascoste timidamente dietro ad una fitta coltre di lacrime salate e bollenti, che la giovane donna tentava di trattenere, per preservare il suo personaggio spensierato davanti al nuovo possibile cliente. Perfino la punta del naso, sottile e levigato, era rovinata e screpolata, dilaniata da un pianto incontenibile e asfissiante. Mila era a pezzi, si trascinava appena con la poca solidità rimasta, si reggeva in piedi con la sola passione per quel lavoro splendido che si era creata. Sorrise al giovane cliente, nel fiore della sua giovinezza e bellezza, ma dentro di sé gridava chiedendo aiuto, ma nessuno poteva ascoltarla, neppure Yuri. Ma il ragazzino sapeva e capì, così chinò il capo e il mazzo di fiori che teneva in mano gli apparve pesante come un macigno. Improvvisamente sentì di non avere il coraggio di darle quell’amara e odiosa notizia, che nessuno mai vorrebbe sentirsi dire. In particolare da un estraneo.

- Come posso aiutarla? – la voce di Mila apparve rotta e roca, in contrasto col suo essere mite e delicata. Aveva una voce acuta e sottile, ma i singhiozzi e le sue stesse urla che l’avevano assordata e straziata tutta la notte l’avevano ridotta ad un cupo e vibrante lamento. Non le era mai successo di ridursi così, probabilmente perché aveva sempre vissuto nell’illusione di essere forte e di poter superare ogni male. Mila era forte, lo era davvero, ma solo quando era sola, solo quando doveva contare sulle sue forze e su nessun altro. Quando si affezionò a qualcuno, al suo caro Georgi, la paura di averlo perso si fece troppo soffocante e si rese conto che ogni suo sforzo non sarebbe bastato a riportarglielo indietro. Apprese che c’erano ostacoli molto, troppo più grandi di lei. Yuri era più o meno nella stessa spiacevole situazione, solo con la sua fragile corazza di arroganza e sfacciatezza. Ma lui aveva ancora il privilegio di poter sperare, Mila, purtroppo, non poteva far altro che pregare per l’anima del suo amato perduto.

- Mila… -  si sentiva paralizzato, i piedi incollati a terra da una forza inafferrabile e crudelmente sconosciuta. Yuri aveva immaginato, quella notte, gli occhi stanchi e tristi di quella giovane distrutta dall’angoscia. Pensava fossero simili ai suoi, si era guardato allo specchio e immaginava che Mila sarebbe stata così, appassita e pallida come lo era lui nell’attesa di riavere indietro qualcosa di importante. Ma Mila non era per nulla simile a lui, neppure lontanamente. Mila non aveva perso un amico, una figura ancora distante se pur preziosa e ammaliante. Lei aveva perso un amore, una speranza, aveva perso tutto ciò che aveva d’importante e il suo sguardo era ancor più straziante di quanto potesse anche solo vagamente immaginare. Faceva male, tanto male, il suo dolore era indescrivibile. Non poteva darle quella notizia, non poteva romperla ancora di più, spezzare quel filo sottile che divideva la sua sofferenza dalla follia.

Mila sussultò, Yuri ancora paralizzato si lasciò sfuggire qualche parola balbettata e sconnessa senza neppure rendersene conto. La giovane notò il mazzo di rose, lasciandosi sfuggire un vago e spento sorrisino, sottile ed impercettibile, un impulso quasi meccanico e naturale, la solita reazione ai suoi piccoli spasimanti che tanto la ammiravano. Ma non era in vena di giochi o risate, non era in vena di godersi quella giornata scura e fresca, né di godersi le attenzioni di un piccolo cliente.

- Sono per me..? – non lasciò morire quel piccolo sorriso delicato e sensibile, non voleva essere scortese con un giovincello tanto gentile, né voleva far affiorare il suo dolore e la sua sofferenza. Voleva solo sue notizie, buone o brutte, voleva mettersi l’anima in pace e sapere come stava, quanto ancora le restava da sperare. Voleva solo avere un reale motivo per piangere.

Yuri la fissò qualche secondo, cercava di trovare le parole giuste ma non c’erano, non esistevano, non c’era un modo giusto o sbagliato per darle quella notizia. Gli era sembrata una cosa da poco, ma scoprì di essersi fatto carico di una responsabilità troppo grossa per lui, un ragazzino che, almeno così ricordava, non conosceva ancora nulla della vita. Emise poi un respiro profondo, si fece coraggio, e stringendo a sé il meraviglioso mazzo parlò.

- Sono per voi, li manda Georgi. – disse tutto d’un fiato, come a voler scacciare via quelle parole da dentro di sé, quel peso insopportabile di cui voleva liberarsi al più presto. Mila sussultò, un brivido le percorse la schiena a sentire quel nome maledetto, che tanto la stava facendo dannare nel profondo dell’anima, il nome dell’amato che tanto sperava di riavere. Quel nome segreto e dolce, che quel ragazzino dai tratti sovietici non doveva sapere o pronunciare con tanta fermezza, un nome degno di ogni onore.

- G… Georgi..? -
 


***angolo delle precisazioni mistiche***
Ci tengo a precisare un piccolo dettaglio della storia, giusto per non creare confusione: alcuni dei personaggi hanno età differenti rispetto all'originale YOI. Preciserò in altre occasioni le età dei personaggi, ma sappiate che sono tutti più grandi, per rendere alcuni punti della trama più realistici. 

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