Bar America - Wild Boys Sequel

di kenjina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Il glorioso ritorno dei Ragazzi Selvaggi. ***
Capitolo 2: *** 02. Come il vero Far West. ***
Capitolo 3: *** 03. Quando i problemi ti investono... Come una bicicletta sulla schiena. ***
Capitolo 4: *** 04. Yin e Yang, come due modi diversi di ascoltare. ***
Capitolo 5: *** 05. Una tranquilla serata in compagnia ***
Capitolo 6: *** 06. Puffi, litigi e... e cosa? ***
Capitolo 7: *** 07 I. Quando la Guardia diventa guardia del corpo ***
Capitolo 8: *** 07 II. Cioccolata con panna e scaglie di cocco ***
Capitolo 9: *** 08. Il coraggio di ricominciare ***
Capitolo 10: *** 09. Sendoh vs. Rukawa... di nuovo. ***
Capitolo 11: *** 10. Tante, forse troppe novità. ***
Capitolo 12: *** 11. Non svegliare il can che dorme. ***
Capitolo 13: *** 12. Per un bacio. ***
Capitolo 14: *** 13. Quella sottile linea di confine. ***
Capitolo 15: *** 14. Non lo farò più, lo prometto. ***
Capitolo 16: *** 15. E tornerai a combattere. ***
Capitolo 17: *** 16. Spy game ***
Capitolo 18: *** 17. Questione di fama ***
Capitolo 19: *** 18. Ce la faremo ***
Capitolo 20: *** 19. Domenica al sapore di cloro ***
Capitolo 21: *** 20. Esordio col botto ***
Capitolo 22: *** 21. Cos’è successo? ***
Capitolo 23: *** 22. Non verrò ***
Capitolo 24: *** 23. Semifinale di sangue ***
Capitolo 25: *** 24. Nella tana della Scimmia ***
Capitolo 26: *** 25. Per oggi non ti detesto ***
Capitolo 27: *** 26. Complotti fraterni ***
Capitolo 28: *** 27. La vigilia della finale ***



Capitolo 1
*** 01. Il glorioso ritorno dei Ragazzi Selvaggi. ***


Ni-hao a tutti

Ni-hao a tutti! Ebbene sì, dopo mesi e mesi di silenzio stampa, nonostante la mia stanchezza e il mio pochissimo tempo di svago tra esami e lezioni varie, ho deciso di iniziare a postare l'ennesimo delirio su Slam Dunk che, come ben sapete, è la mia droga preferita.

Come vi avevo promesso Bar America sarà il sequel di Wild Boys, ma per chi non l'ha mai letta non sarà necessario farlo (io, ovviamente, ve lo consiglio! :D), anche se, come vedrete, ci saranno parecchi rimandi agli avvenimenti avvenuti in WB, quindi magari chi non l'ha letta  non li coglierà.

Ci sarà di tutto, proprio come nell'altra, ma con più personaggi nuovi e con la comparsa di quasi tutti quelli originali... E dato che le mie creature saranno parecchie, probabilmente prossimamente inserirò una scheda di ognuno, per farveli conoscere meglio. :)

Un altro piccolo appunto, prima di lasciarvi a questa follia: i capitoli saranno parecchio lunghi (se sono troppo lunghi fatemelo sapere che provvederò ad accorciarli) e proprio per questo, e per il poco tempo che ho, non preoccupatevi se aggiornerò con lentezza... Ho già scritti i primi sei capitoli, ma manca ancora molto alla fine, anche se ho già tutta la storia in testa... Spero di non avervi spaventati con questi avvertimenti! XD Ho intenzione di concluderla, no problem! ;)

E ora... diamo inizio alle danze più sfrenate!

Buona lettura e, spero, buon divertimento! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

Capitolo 1

Il glorioso ritorno dei Ragazzi Selvaggi.

 

 

«Oh, accidenti!», furono le prime parole di quella giornata, arrivata un po’ troppo in fretta per i gusti di tutti. «Svegliati! Tardi! Scuola! Andiamo!»

Hime buttò letteralmente giù dal letto un ignaro Hanamichi che ronfava beatamente e sognava di correre al rallentatore in un campo di grano, mano nella mano con la sua dolce e piccola Haruko, vestita come un adorabile confettino rosa, mentre in sottofondo suonavano una dolcissima canzone d’amore e le campane a festa. Quando la sorella gli tirò con forza le lenzuola al quale era arrotolato come un salame, gli venne un mezzo infarto e cadde malamente faccia in terra, o meglio, contro le sue infradito.

«…Hi-Hicchan! Che succede?», bofonchiò con la voce impastata dal sonno, mentre cercava senza risultati di liberarsi da quella tela assassina che era il lenzuolo.

«Siamo in ritardo, baka!», gridò in risposta lei, dal bagno.

Hanamichi guardò incuriosito la sveglia, pensando che fosse uno dei tanti scherzi della sorella. Peccato che quando vide le 8:12 a caratteri cubitali gli venne un colpo. «Hicchaaan! Siamo in ritardo!».

Non ne fu sicuro, ma gli sembrò di sentire la ragazza esclamare qualcosa del tipo: “È quello che ti sto gridando da dieci minuti ma tu non ti muovi, bradipo!”. Cavolo, quella mattina avevano anche quel pazzo sclerotico di matematica. Gli avrebbe segato la testa con il vetro di una finestra, ne era più che convinto, dopo avergli fracassato il cranio contro, ovvio; poi sicuramente avrebbe gettato i loro cadaveri in corridoio, tanto ormai era abitudine. Quell’uomo doveva aver creato una sorta di alchimia malefica nei loro confronti, dato che ogni volta che li vedeva anche solo respirare trovava un’ottima scusa per sbatterli fuori o mandarli in presidenza, che ormai consideravano la loro seconda casa.

«Hanamichi, ti vuoi muovere? Il bagno è libero!», strillò quella schizzata della sorella, riscuotendolo dai suoi pensieri e ricordandogli così il perché di tutti quei giri mentali. Così filò come un missile a farsi una doccia veloce, possibilmente gelida per risvegliarsi meglio.

In camera, invece, Hime stava combattendo contro quella odiosissima divisa che era costretta a indossare e, nella fretta di vestirsi, riuscì anche a mettersi la gonna al contrario e a fare un fiocco alla cravatta. Si guardò perplessa allo specchio, ancora troppo rincoglionita dal sonno per capire cosa non andasse in lei quel giorno, ma lasciò subito perdere, consapevole che sicuramente qualche suo amico gliel’avrebbe fatto notare al più presto.

Quando Hanamichi uscì lindo e profumato, lei lo prese per la manica della giacca e lo trascinò fuori, ficcandogli in bocca una fetta biscottata come colazione.

«Yooo! Aspettaci!», gridarono insieme, catapultandosi sul motorino dell’amico che, al colpo, resse per miracolo.

«Spostati, guido io!», strillò Hanamichi, peggio di una zitella acida, mentre metteva in moto e partiva a tutta velocità. Dietro di lui Yoehi pregava tutti i Kami del mondo affinché arrivassero sani e salvi a destinazione e soprattutto che quel deficiente del suo migliore amico non gli sfasciasse il motorino. Hime, invece, stava bellamente in piedi dietro Yoehi, capelli al vento che aveva dimenticato di ritirare con la sua consueta pinza, ma che almeno si asciugarono velocemente dell’acqua della doccia.

Bruciando semafori su semafori e rischiando di investire qualsiasi cosa respirasse e che fosse in traiettoria, Hanamichi li portò a destinazione nel giro di cinque minuti, proprio quando l’ultima campanella stava suonando. Fortuna che non avevano praticamente fatto colazione tutti e tre, altrimenti avrebbero rigettato anche il panettone di dieci anni prima, su quello non avevano dubbi.

Yoehi mise la catena alla sua moto, parcheggiata fuori dal cancello per evitare problemi con i docenti; nel frattempo, trionfante, Hanamichi alzò un pugno al cielo, proclamando ai quattro venti la sua genialità proprio quando gli passò sulla schiena una bicicletta a caso, guidata da un ragazzo altrettanto a caso, che arrivò miracolosamente al parcheggio delle bici a zig zag senza ammazzare nessun’altro.

«Maledetta volpaccia! Ci provi tutti i giorni, eh?!», sbraitò il rossino, balzando verso il suo odiato amico e agitandolo per la collottola.

«Do’aho, mollami».

«Dai, Hanamichi! Continuate a battibeccare dopo, brutte lavandaie che non siete altre!», fece Hime, portandosi via il fratello che non smetteva di inveire, e salutando con una strizzata d’occhio il suo migliore amico.

Ma avevano fatto male i conti, quella mattina, perché tale professor Yoshikai, ben più noto come Sua Signoria la Bastardaggine in persona, era già bello che seduto alla sua cattedra e li guardava con un sorrisino maligno e meschino. Si alzò dalla sedia e si sistemò i grandi occhiali quadrati spessi come fondi di bottiglia, per guardarli meglio. «Bene, bene, bene. I due Sakuragi e Mito. Bene, bene, bene».

Se ripete un’altra volta quell’accidente di bene gli tiro una testata”, si appuntò mentalmente Hanamichi, mentre quello psicopatico continuava a ghignare. E dire che non aveva visto quella brutta faccia da seppia per ben tre settimane in più, a causa della riabilitazione… a pensarci bene avrebbe voluto rimanerci un altro po’.

«Professore, per favore, ci faccia entrare!», lo scongiurò Hime, inginocchiandosi teatralmente e facendo ridere tutti i suoi compagni di classe. «Per favore!».

«Hicchan, alzati! Ti pare che devi supplicare questo qui?».

«Baka, guarda che lo sto facendo anche per te!».

Mito, che se ne stava in silenzio gustandosi la scena, si passò una mano sul viso, sapendo già cosa sarebbe successo da lì a due secondi.

«FUORI DI QUI! TUTTI E TRE!».

I ragazzi si videro la porta scorrevole chiusa davanti al naso, senza possibilità di ribattere. E mentre Hanamichi rideva nervosamente, consapevole di aver aperto bocca al momento sbagliato, Yoehi buttò la borsa su un angolo e si appoggiò alla finestra del corridoio, chiedendosi perché anche lui dovesse essere compreso nel pacchetto quando non aveva aperto bocca. Hime, d’altro canto, dava le spalle ai due, ma dal modo in cui tremava e dalle fiamme che la circondavano spaventosamente, forse, forse si era arrabbiata.

«Hi-Hicchan…», Hanamichi tentò l’approccio che di solito funzionava, ossia sorrisino innocente e occhioni dolci che avrebbero fatto sciogliere anche un iceberg vivente come Rukawa.

«Sei. Uno. Scemooo!», gridò Hime, togliendo fuori un ventaglio da nulla e sbattendoglielo in testa.

«Ahia, Hicchan!», si lamentò Hanamichi, accarezzandosi la testa e accucciandosi in posizione di difesa. «Si può sapere da dove salta fuori quello?!».

Hime lo guardò con occhi lampanti e un sorrisino diabolico in viso. «Me l’ha regalato Ayako. Non è bellissimo?».

«Se è per usarlo contro di me direi di no, allora». Hanamichi guardò offeso la gemella, che agitava sinistramente il ventaglio e minacciava di dargliene ancora. Cavolo, quando si arrabbiava era veramente inquietante!

«Che palle», fece Yoehi, sedendosi sul bordo della finestra. Se l’avesse visto qualche insegnante ce l’avrebbe prima buttato giù e poi gli avrebbe fatto una ramanzina che sarebbe bastata e avanzata.

«L’hai detto», Hanamichi gli si avvicinò, affacciandosi e guardando il cortile della scuola, deserto. Quando sentirono la voce della ragazza che chiedeva ancora una volta al professore di farli entrare, scoppiarono a ridere nel vederle i capelli volare al vento manco fosse ancora in moto, a causa delle grida furiose di Yoshikai.

«Professore, dovrebbe stare attento a questi attacchi d’ira, altrimenti potrebbe sentirsi male», gli disse Hime con faccia di bronzo, mentre l’uomo riprendeva fiato e una vena gli pulsava paurosamente in fronte. Fu così che la rossa si voltò trionfante, facendo segno ai due di entrare in classe. Ah, la forza della disperazione!

Hanamichi prese posto nel solito banco all’ultima fila, vicino alle finestre e guardò la sorella prendere il quaderno e ricopiare velocemente tutto quello che c’era alla lavagna. Hime era veramente un controsenso con le gambe: era casinista peggio di lui, però quando si trattava di mettersi d’impegno con la scuola non voleva sentire niente. Tranne nelle ore di storia che, come lui e il resto della classe, odiava profondamente e ne approfittava per fare tutt’altro fuorché ascoltare i lunghi monologhi soporiferi del professore.

Il ragazzo, a differenza sua, poggiò svogliato la testa sul grande palmo di una mano e si fissò a guardare la palestra, che poteva vedere benissimo da quella posizione. Chissà se Ryota aveva fatto dei buoni acquisti con le nuove reclute? Certo, era alquanto improbabile che ci fosse qualcuno al suo stesso livello di genialità, pensò con un sorrisino demente sulle labbra, ma senza Akagi lui avrebbe dovuto prenderne il posto e un rimpiazzo doveva pur trovarlo… ma no, ma no! Che diceva?! Lui era un genio, un vero e proprio fuori classe, il Re dei Rimbalzi… macché rimbalzi, del Basket intero! Avrebbe ricoperto sia il suo solito posto da ala grande che anche quello di centro. E che ci voleva? Bazzecole!

 

*

 

«Psst… Ryota!»

Il nuovo capitano dello Shohoku, nel sentire la voce della sua manager preferita si voltò verso destra, e prese al volo un bigliettino che gli arrivò sul naso. “Bella mira!”, pensò il ragazzo, sognante. Chissà cosa c’era scritto! Magari voleva chiedergli di uscire? Sì, non poteva essere altrimenti… dopo il discorso che avevano avuto in ritiro ormai la strada era bella che spianata!

Senza farsi vedere dal prof, troppo intento a leggere un passo di qualche vecchio scrittore di cui ignorava l’esistenza, Ryota srotolò il bigliettino e lesse famelico. Per poco non gli scese un colpo leggendo la grafia ordinata della sua amata che, a lettere cubitali, gli aveva scritto: “No, Ryota, scendi dalle nuvole e torna tra i mortali. Sono preoccupata per te, ti vedo assente. Che hai?”.

Con gli occhioni lucidi per la commozione (la sua Ayakuccia si preoccupava per lui!), le rispose di tutta fretta, lanciandole perfettamente il bigliettino dentro l’astuccio. Non era un ottimo giocatore di basket per niente, lui!

Ayako dovette ricorrere a tutto il suo noto autocontrollo per non mettersi a ridere, guardando la risposta dell’amico. “Hanamichi. E ti ho detto tutto”.

Eh sì, era arrivato il giorno in cui il rossino avrebbe ripreso gli allenamenti e un po’ tutti temevano che il canestro all’ultimo secondo contro il Sannoh gli avesse fatto bere l’ultimo pezzetto di cervello che gli restava. Già se lo immaginavano, gridando al mondo la sua Genialità, il fatto che tutti i giocatori del mondo avrebbero dovuto baciare il suolo che pestava e che Rukawa era sempre la solita mezza sega. Bella palla, doverlo sopportare di nuovo! Senza l’aiuto provvidenziale di Akagi sarebbe stato duro tenerlo a bada. Per non parlare del fatto che, con tutti i casini che si portava dietro come un’ombra, avrebbe fatto scappare quei tre disgraziati che erano sopravvissuti ai suoi allenamenti e che, a dirla tutta, non se la cavavano neanche tanto male.

Vedrai, magari si è dato una calmata in queste settimane.”

Ryota le lanciò un’occhiata per niente convinta. “Ne riparliamo questo pomeriggio. Se vinco io, esci con me!

Ayako gli fece una smorfia divertita, ma non gli rispose. Voleva farlo soffrire ancora un po’, da brava ragazza sadica, anche se Hime le aveva più volte detto che non doveva giocare col fuoco. Ryota era innamorato di lei, certo, ma prima o poi si sarebbe stancato di quella situazione altalenante, era normale.

E mentre lei si arrovellava il cervello in quei pensieri contorti, un’altra ragazza scarabocchiava disegni astratti nel suo quaderno, pieno di qualsiasi cosa tranne che di appunti. Kiyo Kobayashi non aveva mai adorato andare a scuola e studiare, se non per poter partecipare al club di nuoto che la vedeva come una delle migliori atlete di quegli ultimi anni. Lei non voleva continuare all’università, voleva solo uscire da quella gabbia di matti e proseguire nel professionismo, fino alle Olimpiadi. Un sogno ambizioso il suo, ma testarda com’era non si sarebbe schiodata da quell’idea neanche morta.

Il professore di Giapponese Antico stava traducendo un testo, a detta di alcuni suoi compagni, particolarmente ostico, ma non se ne curò. La sua amica, in un buco di tempo libero, le avrebbe dato una mano prima degli esami, come faceva sempre. Guardò con impazienza l’orologio appeso sopra la porta e sbuffo constatando che era passata solo un’ora e mezza dall’inizio delle lezioni.

Che due palle.

Lanciò un’occhiata alla classe, tutta intenta a prendere appunti e a seguire la lezione. Tutti tranne uno, che ronfava beatamente incurante di tutto e di tutti. Ormai anche il professore si era rassegnato a quella che era diventata routine giornaliera. Kaede Rukawa aveva sempre fatto così: entrava in classe, inceneriva con lo sguardo chi osava salutarlo, borsa sul banco a mo’ di cuscino e buona notte a tutti. Solo in inglese si degnava di ascoltare e addirittura scribacchiare qualcosa nell’unico quaderno che sembrava avere. Ma lui doveva andare in America, doveva imparare l’inglese.

Kiyo scosse la testa, pensando che quel narcotizzato di ragazzo era veramente strano. E non riusciva a capire come più della metà della popolazione femminile potesse morirgli dietro. Assurdo, semplicemente. Sì, era carino, niente da ridire; ma uno che non parlava, non sorrideva, dormiva anche in piedi e pensava sempre e solo al basket non doveva essere di troppa compagnia.

Ma a lei poco importava; si salutavano a malapena solo perché lui si era accorto dell’indifferenza della ragazza e lei, dopo la scottatura con Toshiro, non aveva alcuna intenzione di fissarsi con qualcuno, soprattutto se questo era un qualcuno poco socievole come lui.

Kaede Rukawa, però, anche se in coma profondo, sentì perfettamente il suono soave della campanella che decretava la fine delle lezioni e l’inizio della pausa pranzo e, con tutta calma, prese la sua sacca dell’allenamento e se ne andò come sempre in terrazza, a mangiarsi il suo bento in santa pace e a schiacciare l’ennesimo pisolino pomeridiano. Arrivato all’ultimo piano spinse la porta che dava sul terrazzo e lanciò velocemente un’occhiata in giro. Nessuno. Si sedette contro il parapetto e mangiò quel poco di cibo che si era portato dietro, tanto per dire che aveva messo qualcosa nello stomaco. Voleva stare leggero per gli allenamenti, quindi un piccolo sacrificio poteva anche farlo. Non che fosse conosciuto come la discarica umana, quel primato lo detenevano quegli smidollati dei suoi compagni di squadra e non aveva alcuna intenzione di rompersi lo stomaco come loro. Ma quante lavate di capo si era beccato dal Capitano, dalle due manager, persino da quella Scimmia Rossa, per il fatto che fosse troppo magro! Ah, farsi i fatti loro no, eh?

I suoi pensieri furono risvegliati dalla voce squillante di Hanamichi che, giù in cortile, sbraitava qualcosa a qualcuno. Probabilmente le solite stronzate sulla sua genialità. Ma come diavolo faceva a farsi sentire anche lassù?

«Do’aho», mormorò, mentre nello stesso istante la Scimmia si strozzava col suo cibo, manco avesse avuto il sesto senso di sentire quel nomignolo.

La porta della terrazza si aprì e la solita ragazzina silenziosa fece la sua comparsa, salutandolo con il solo sguardo. Kaede non sapeva chi fosse, ma l’aveva sempre trovata lì all’ora di pranzo. Arrivava silenziosa, mangiava il suo bento e l’ora dopo faceva i compiti per il giorno successivo; poi spariva nel nulla a tutta velocità alle lezioni, e poi probabilmente per andare a frequentare il proprio club, forse di musica dato che a volte si trascinava dietro una chitarra che sembrava più grande di lei. Beh, almeno non gli menava le palle sbavandogli dietro e lo lasciava dormire in pace.

Ma Rukawa non ci pensò più di tanto, troppo occupato a trovare una posizione comoda per addormentarsi meglio. Evidentemente la trovò subito, perché entrò in letargo due secondi dopo che aveva chiuso gli occhi.

 

*

 

«Hisashi!», gridò Hime, saltando al collo dell’amico per la gioia di rivederlo.

«Ehi, testa rossa!», le sorrise, dandole un pizzicotto sulla guancia. «Era ora, vi stavamo dando per dispersi».

«Oh, allora vi mancavamo!», cinguettò Hime, saltellando dalla contentezza.

«Ora non montarti la testa come il tuo solito. E tu, mezza sega! Come va la schiena?».

«Mezza sega a chi?!», sbraitò l’altro, indemoniato. «Per la cronaca il Genio qui presente è più in forma di prima! E voi pipette dovrete fare i conti con me, agli allenamenti! Ahaha

«Ma sentitelo. Nella riabilitazione non era compresa anche una visita dal neurologo?».

«Ma va’ un po’ a cagare!».

Mitsui gli tirò un colpetto in testa, ghignando. «Scherzi a parte, seghetta, come va?».

Hanamichi sorvolò sull’ennesimo “seghetta” gratuito che gli aveva lanciato, facendo spallucce. «Per ora non ho problemi, ma devo vedere cosa succede agli allenamenti».

Hime incrociò le braccia, con fare da maestrina. «Il medico ti ha detto di non sforzarti, Hana».

«Sì, Hicchan, me l’avrai ripetuto cento volte».

«E continuerò a farlo, perché ti conosco», ribatté la sorella, guardando Hisashi per cercare sostegno. Questo annuì, consapevole che il momento post-riabilitazione era quello più critico e che bisognava saper utilizzare la massima cautela per non avere problemi in futuro e troncarsi la carriera sportiva con le proprie mani.

«Hanamichi, fai come ti dice tua sorella e il medico. Non vorrei che per la tua stupidaggine ti accadesse quello che è successo al mio ginocchio».

Il rossino grugnì qualcosa in risposta, ma si fece attento tutto d’un tratto quando Takamiya gli gridò in un orecchio “Ehi, guarda chi c’è la!”. Per poco Hanamichi non si strozzò con l’acqua che stava bevendo, rischiando di sputarla tutta addosso all’ex-teppista e dire addio al mondo con tanto di sviolinata funebre. Chi aveva visto? Ma la sua dolce Haruko, ovvio.

«Ciao ragazzi!», li salutò la sorella del Gorilla. «Siete tornati!».

Hime annuì sorridente, mentre il fratello era in totale brodo di giuggiole e pendeva dalle sue labbra.

«Oh Kami…», borbottò Hisashi, alzando gli occhi al cielo.

«Come va la schiena, Hanamichi?», chiese gentilmente Haruko, sedendosi a mangiare con loro.

Hime, Mitsui e gli altri si passarono una mano sul viso, rassegnati, quando Hanamichi saltò in piedi, esclamando al mondo: «Sono più forte di prima! Ahaha!».

E l’altra soggetta, che avrebbe fatto bene a starsi zitta una buona volta, diceva sorridente: «Non avevo dubbi, Hanamichi!».

«È anche più deficiente, a quanto pare», commentò Ryota, raggiungendoli con Ayako.

«Tappo! Quanto mi sei mancato!», gridò Hanamichi, mentre il povero playmaker dello Shohoku si vedeva arrivare addosso un bisonte di un metro e novanta che iniziò a strapazzarlo neanche fosse un pupazzo. Hanamichi rischiò il linciaggio per l’eccessiva dimostrazione di affetto, che giustamente Hime volle sottolineare con un “Come siete carini!”, gli occhioni luccicanti e le mani sulle guance rosse.

«Siete la coppia più bella del mondo…», cantilenò qualcuno alle loro spalle, facendoli voltare.

«Akira!», esclamò Hime, andando ad abbracciare l’amico, mentre la-coppia-più-bella-del-mondo in questione continuava a darsi dimostrazioni d’affetto con morsi e pugni.

«Ehilà, ragazzi!», fece il bel numero 7 del Ryonan, che con il suo solito sorriso candido avrebbe illuminato l’intero Paese, risolvendo la problematica faccenda energetica.

«Bah? Che c’è, riunione qui?», borbottò Hisashi, guardando di sbieco il nuovo arrivato.

Akira gli si avvicinò, dandogli qualche amichevole pacca sulle spalle. «Aha! Hisa, non mi dire che sei ancora arrabbiato?», gli chiese con un visino angelico.

«Secondo te? Razza di demente».

«Che è successo?», domandò interessata Ayako, per la serie facciamoci i fatti degli altri senza il benché minimo pudore.

«È successo che questo Istrice della malora mi ha fregato le chiavi della moto da casa e me lo son ritrovato che gironzolava intorno al mio quartiere come se niente fosse».

Akira, che nel frattempo, si spanciava al ricordo dello scherzetto che gli aveva fatto, si mise a sedere, ancora divertito. «Eddai, Hisa, ero una vita che ti chiedevo di farmi fare un giro su quella benedetta moto!».

«E non ti sei schiantato da nessuna parte?», fece allibito Hanamichi, tornando dall’incontro di boxe che l’aveva visto vincitore contro Ryota.

«Guarda che sei tu quello incosciente che rischia di ammazzarsi ad ogni curva, Hanamichi», gli fece saggiamente notare Yoehi, che due secondi dopo si beccò una testata memorabile.

«Schiantato? Se ne fosse uscito vivo l’avrei finito di ammazzare io, altro che!», sbraitò Mitsui peggio di un venditore al mercato.

«Ma son stato bravo, neanche un graffio», disse pieno di sé il Porcospino, facendo ridere Hime, mentre Hisashi grugniva un “E per fortuna tua”.

Hanamichi guardò di soppiatto l’amico. «Dì un po’, Hentai, com’è che non sei al Ryonan oggi?»

Con un sorrisone degno della più nota pubblicità di dentifrici per denti smaglianti, Akira si passò una mano sulla nuca. «Non ha suonato la sveglia!».

«E ti pareva!».

«Aki, dovresti seriamente fare qualcosa con quell’aggeggio», disse Hime, fintamente autorevole. «La prossima volta ti sparo un razzo in camera, vediamo se così funziona».

«Bah, questo qui è peggio di Rukawa», fece Hisashi. «Domenica scorsa sono andato a casa sua per portarmelo dietro in ospedale, dato che ci teneva così tanto a farmi da mamma. Mi ha aperto la signora Sendoh dicendomi che l’avrei trovato in camera sua. “Se sta ancora dormendo, sveglialo!”, mi ha detto».

«Sì, “sveglialo”. Non “fargli perdere venti anni di vita in un colpo”».

«Che hai fatto, perché?», chiese Ryota, interessato.

Mitsui ghignò alla volta dell’amico dai capelli anti-gravitazionali. «Gli ho gridato nelle orecchie imitando la voce del signor Fukkoi».

E mentre tutti piangevano dalle risate, soprattutto Hanamichi e Hime che non avevano ancora dimenticato lo scherzetto fatto in ritiro ai danni del povero Sendoh Nazionale, Akira sospirava, sconsolato. «Non solo son bastardi, ma se la ridono anche!».

«Beh, non puoi negare le mie innate doti per le imitazioni», si pavoneggiò Hisashi, stiracchiandosi e mettendosi in piedi.

«Certo, senpai, che anche tu ti difendi bene! Ci sono così tante persone da imitare… ma devi fare proprio l’uomo dei suoi incubi ricorrenti?», lo bacchettò Ayako, anche se nonostante tutto era divertita.

«E se no che gusto ci sarebbe, scusa?».

«Oh, fai pure quando vuoi, Hisashi».

Mitsui tirò un colpo amichevole alla spalla di Akira, mentre questo se la rideva come se niente fosse accaduto. Anche se sentirsi appena sveglio la voce del padre della sua ex, un uomo tutto fuorché gentile, non era il massimo del divertimento.

«Dai, ragazzi. È arrivata l’ora di allenarsi!», cinguettò Hime, che come il fratello non vedeva l’ora di riprendere con la routine pomeridiana.

«Hanamichi!», lo richiamò il nuovo Capitano. «Non ti dico niente, mi raccomando». Il rossino lo guardò con aria perplessa, grattandosi il mento. «Ti sto dicendo di non metterti a fare il deficiente con le nuove reclute, ritardato!».

«Ritardato a chi?! E poi mica devi farmi le raccomandazioni, Ryo-chan. Lo sai che sarò un angioletto come sempre!».

«Andiamo bene», borbottò qualcuno, mentre la mandria si mise in viaggio verso la palestra.

Sulla via trovarono due ragazzotti alti almeno un metro e ottantacinque, anche loro con la sacca dell’allenamento in spalla.

«Ciao ragazzi!», esclamò Ayako, agitando una mano per farsi vedere. Come se poi quei bestioni dietro di lei non si facessero notare già di per sé.

«Oh, Ayako-san! Ciao! Capitano! Senpai Mitsui!», esclamarono in coro i due, che si rivelarono essere due gemelli.

Hanamichi, appena si accorse di loro, balzò davanti ai novellini ragazzi, guardandoli da ogni lato e rendendosi più ridicolo di quanto già non apparisse per conto suo.

«Ecco che ora li fa scappare», biascicò Hisashi, passando dritto e deciso a non intervenire per non pestare quell’idiota e rischiare di sporcarsi le mani di sangue.

«E voi due chi sareste?», chiese Hanamichi, continuando a gironzolare intorno ai gemelli.

«Eichiro e Kimi Shimura, piacere di fare la tua conoscenza, Sakuragi!», fece uno dei due, Eichiro.

«Ti abbiamo seguito ai Campionati, e pensiamo che sia stato veramente un grande!», proseguì entusiasta Kimi.

«Oh no, non dite così che si monta la testa», mormorò Ayako, coprendosi il viso con il berretto. E infatti, appena Hanamichi sentì che i due lo conoscevano anche senza bisogno di presentazioni, gli saltò addosso, iniziando a ridere sguaiatamente e guadagnandosi decine e decine di occhiate preoccupate. «Voi due già mi piacete!».

«Lo abbiamo perso», decretò Akira, ficcandosi le mani in tasca, con il suo solito sorrisino sulle labbra.

«Più che altro spero di non perdere quei due. Sono in gamba», borbottò Ryota, avvicinandosi al rossino e tirandoselo dietro per un orecchio. «Fila negli spogliatoi e vedi di sgasarti!».

«E dire che rimpiangeva Akagi», fece Hime con gli occhi sgranati. «Ryota sarà anche la metà, ma si fa rispettare».

«Cosa sarei io?!».

La ragazza scoppiò a ridere, cercando di nascondere un evidente imbarazzo per la brutta figura. «Ma no, Ryo-chan! Scherzavo! Ahaha!», disse innocentemente, mentre il fratello si beccava un sonoro calcio nel di dietro per aver azzardato un “Tappo” rivolto al Capitano.

Nel frattempo arrivò anche un altro ragazzo mai visto, che salutò tutti con cordialità, per poi soffermare la sua attenzione sulla rossa. «Ciao, io sono Masuhiro Araki, tu devi essere Hime Sakuragi, vero? È un onore poter lavorare con te!».

Hime divenne rossa come un pomodoro nel ritrovarsi quel giovanotto che la guardava con occhi fuori dalle orbite e la bavetta alla bocca. «Uh… ciao, Masuhiro». Guardò Akira, al suo fianco, cercando aiuto, ma quello sembrava non curarsene, troppo divertito per porre fine a quella situazione.

«Ha! Sendoh del Ryonan!», esclamò il nuovo arrivato, eccitato. «Ti batterò, vedrai!».

Akira sorrise affabile come sempre, mentre puntuale arrivò il commento di Kaede Rukawa: «Un altro esaltato».

L’aria si fece pesante tutta d’un colpo: Araki che, da dolce cucciolotto innamorato, passò a uno sguardo di ghiaccio rivolto a Kaede che, a sua volta, lanciava un’occhiataccia fulminante al suo rivale-amico Akira che, a differenza degli altri, alleggerì il tutto con una sana risata.

«Ma che hai tu sempre da ridere, Iena?», esclamò Hanamichi, comparendo dagli spogliatoi. «Toh, la Volpe!».

«Hanamichi, un giorno dovrai farmi il riepilogo di tutti i nomignoli che hai dato in giro, perché ho sinceramente perso il conto», disse Akira con un sorriso.

Ma Hanamichi non lo stava nemmeno ascoltando, troppo intento a capire cosa stava succedendo: c’era un nuovo ragazzo, poco più basso di lui, con dei capelli vergognosamente tinti di blu sulle punte, che non sapeva bene se bearsi della vista della sorella o se fulminare con lo sguardo la Kitsune, che comunque non se lo filava neanche con uno sguardo. «Hicchan, vieni qui! Non mi piace questa cosa».

Araki si accorse solo in quel momento della presenza di Sakuragi, che salutò con una cordiale presentazione e filò velocemente negli spogliatoi.

«Questa cosa, cosa?», chiese Hime perplessa.

Il fratello grugnì qualcosa in risposta, ma non aggiunse altro, raggiungendo i compagni al centro del campo per l’inizio degli allenamenti.

Appena i ragazzi iniziarono i loro giri di riscaldamento, Hime si sedette vicino ad Ayako, guardando le schede dei nuovi arrivati. «Che mi puoi dire dei pargoletti?».

«Mah, se la cavano abbastanza bene, per ora. Ma li abbiamo visti giocare senza Kaede e Hanamichi in campo, quindi oggi ne vedremo delle belle», sospirò Ayako, consapevole di quello a cui stavano andando incontro. «Comunque i gemelli sono alti 1,86 e pesano intorno agli 80 chili. Eichiro è un'ottima ala grande, mentre Kimi è bravo sia come guardia che come play».

«E l’altro?», chiese Hime, lanciando un’occhiata veloce al suo nuovo spasimante.

«Oh, Araki è alto 1,83, pesa 70 chili ed è un’ala piccola. Credo che tra lui e Rukawa ci sarà una bella lotta. Era alle Tomigaoka anche lui ed era sempre una delle riserve, dato che Kaede era la stella della squadra. Puoi immaginare l’astio che provi nei suoi confronti».

«Beh, l’importante è che non si ammazzino a vicenda. Dobbiamo tirare su una buona squadra».

«Uhm… interessante…», stava dicendo intanto Akira, curiosando negli appunti della prima manager.

«Ehi! Spia, allontanati!», esclamò Hime, spintonandolo via.

«E dai, solo un’occhiatina!», fece innocente l’amico, tentando di intenerirla con uno dei suoi consueti sorrisi malandrini.

«Scordatelo!».

E tra battibecchi, corse e passaggi, arrivò anche il tanto atteso momento della partitella per testare le condizioni della schiena di Hanamichi e dei tre acquisti.

«Bene, ragazzi, ci divideremo in due squadre», stava dicendo Ryota, con tono di chi non ammetteva repliche.

«Ehi, smettila di farti figo. Non ti riesce», parlò invece il Figo per eccellenza, a suo dire, Hisashi Mitsui, asciugandosi il sudore del viso sulla maglia blu.

«Ha parlato quello che si crede ganzo solo perché indossa giacche di pelle e guarda male tutti».

«Almeno io ho il fascino del tenebroso!».

«E basta cincischiare, narcisisti dei miei stivali!», sbottò Ayako, tirando fuori il ventaglio e dandone una passata a ciascuno. Le reclute si allontanarono di qualche passo, dato che avevano capito che la prima manager, quando si arrabbiava, diventava estremamente pericolosa.

Ryota, dopo aver mormorato un “Ayakuccia!”, proseguì. «Dicevo, titolari contro i novellini».

«E Akagi chi lo rimpiazza?», chiese Hisashi. Hanamichi gli si parò davanti, indicandosi.

«Sì, vabbè, comunque siamo in quattro».

«Non mi dite che già vi manco?», ghignò una voce all’ingresso della palestra, facendo gelare il sangue a tutti. Takenori Akagi li guardava con una punta di soddisfazione in viso, le braccia incrociate… e la tuta dell’allenamento addosso.

«Gori!», strillarono i gemelli Sakuragi, saltandogli addosso e abbracciandolo con le lacrime agli occhi.

«Pussate via, deficienti!», gridò il King Kong, rosso in viso, cercando di scrollarseli di dosso. Ma quei due erano peggio di due cozze e gli rimasero appesi al collo finché non buttò la spugna, guardando gli altri con aria rassegnata. «Ecco uno dei motivi per cui ho mollato».

«Seh, seh. Dì la verità, è che stai invecchiando e non ce la fai più», lo stuzzicò Mitsui, sfidandolo con lo sguardo. Quanto gli mancava quel gendarme del cavolo!

Come si immaginavano un po’ tutti, Akagi raccolse l’amo e si trascinò in mezzo al campo, con quegli altri due dementi ancora attaccati al collo. «Titolari contro novelli, eh? Io son pronto».

«Yeah!», gridarono Hime e Hanamichi, battendosi il cinque. Akagi sorrise, scuotendo la testa. No, non poteva certo sperare che quei due potessero cambiare nel giro di poche settimane. Tanto meno poteva sperare di riuscire a stare senza il suo amato basket, cosa per cui stava letteralmente impazzendo. Una partitella con i suoi vecchi compagni non avrebbe fatto altro se non giovargli.

«Bene, la squadra rossa sarà formata da me, Akagi, Mitsui, Rukawa e Sakuragi.», fece Ryota, richiamando l’attenzione di tutti, troppo intenti a guardare il Gorilla. «La squadra gialla invece avrà la seguente formazione: Eichiro Shimura nel ruolo di ala grande, Kimi Shimura in quello di guardia, Yasuharu Yasuda playmaker, Masuhiro Araki ala piccola e Satoru Kakuta centro. Domande?»

Hanamichi alzò la mano, lasciando tutti parecchio perplessi. «Io con questo volpino non ci voglio stare». Immediato arrivò anche il tanto agognato pugno del King Kong, che quasi lo fece piangere dalla commozione.

«Hime, tu arbitrerai come sempre, d’accordo?», le chiese Ryota, che in risposta ottenne un ok e una strizzata d’occhio.

«Ehi, Kit, vedi di non fare la divetta come sempre e non preoccuparti della mia schiena, ok?», gli fece Hanamichi, con una strana espressione che voleva dire: “Sono più forte di prima, se passi a me fai solo bene!”.

Kaede, d’altro canto, lo guardò come se gli fossero spuntate tre teste. «E chi si preoccupa, Do’aho».

«Dai, ragazzi, tutti ai vostri posti!», fischiò poi Hime, per farsi sentire. Inutile dire che quando Masuhiro la vide in pantaloncini e con la maglia del fratello addosso, fischietto da una parte e pallone dall’altra, non poté non avere un momento di collasso. Era amore a prima vista, quello!

«Chiudi quella ciabatta, amico. Ti ci entrano le mosche», gli consigliò Hisashi. «Quella è proprietà privata».

Araki si risvegliò, guardando il senpai con vergogna. «S-scusami, Mitsui-kun, non volevo… è… è la tua ragazza?»

Hisashi scoppiò a ridere, per quella che a lui parve una battuta in pieno stile. «Ma no, è solo che se Hanamichi si accorge che te la mangi con gli occhi sono cavoli tuoi. Ti consiglio di contenerti, tutto qui».

«Oh». Masuhiro lanciò un’ultima occhiata alla ragazza, che stava tirando due palloni in testa a Hanamichi e Kaede, dato che avevano iniziato a battibeccare come due bisbetiche in mezzo al campo.

«Hi-Hicchan! Ha iniziato lui!», si lagnò il fratello, mentre Rukawa gli passava accanto, massaggiandosi la testa e borbottando “Uno più scemo dell’altro”.

La partitella di allenamento iniziò due minuti dopo. Al salto si piazzarono Akagi ed Eichiro e, come prevedibile, il King Kong ebbe la meglio sul novellino.

«La prossima volta piega di più le gambe», gli consigliò e Shimura annuì, partendo in difesa. La palla era in mano a Ryota, che fece qualche passo oltre la linea di metà campo e studiò la situazione. Vide Rukawa tallonato da un ammirevole e indemoniato Masuhiro, ma era ancora troppo presto per passargli la palla e fargli assaggiare il talento del volpino. Palleggiò velocemente, penetrando a sorpresa la difesa, seguito da Yasuda, suo marcatore. Passò a Mitsui, con uno splendido cambio di mano dietro la schiena, e il cecchino dello Shohoku, proprio a qualche passo dalla linea dei tre punti, saltò indietro, prese la mira e tirò. Quando alzò il pugno al cielo tutti capirono che i primi tre punti della partita erano per la squadra rossa.

«Vai così, Mitchi!».

«E non chiamarmi Mitchi, deficiente!».

Il possesso era ora in mano ai pivelli; Yasuda passò a Masuhiro, che fremeva per avere il pallone e far vedere a tutti di che pasta fosse fatto. Due secondi più tardi fu accontentato e guardò con occhi di brace il suo rivale. «Ora vedremo se sei ancora tu la stella della squadra, Rukawa».

Hanamichi prese un coccolone nel sentire quelle parole, soprattutto nel vedere lo sguardo determinato del suo compare. Conosceva quell’espressione, e così non andava bene! «Ehi! Si da il caso che Rukawa è mio, chiaro?!».

«Do’aho, taci che potrebbero scambiarlo per altro».

La partita si fermò qualche minuto, il tanto giusto per far riprendere un po’ tutti dagli attacchi epilettici dovuti alle troppe risate. Hime rischiò seriamente di ingoiare il fischietto che teneva poggiato tra le labbra e persino l’imperturbabile Akagi dovette darsi una rinfrescata alle idee dopo l’uscita colossale del rossino.

«Questo è troppo anche per me!», stava dicendo Akira, spalmato in terra con le mani sulla pancia, incapace di fermarsi.

«La gelosia ti fa maleeee, lo saaai…», canticchiò tra le lacrime Hisashi, mentre Hanamichi sbraitava che intendeva dire “Mio nemico pubblico, razza di stronzi!”. Ovviamente Kaede non poteva lasciare impunita la cosa e le suonò di santa ragione all’amico, mentre il resto della squadra quasi rimaneva senza fiato per le risate. Non ce n’era uno che riuscisse a reggersi in piedi dai singhiozzi.

Dieci minuti dopo stavano ancora ridacchiando, ma riuscirono a rimettersi bene o male sulle proprie gambe.

«Hanamichi, era una vita che non ridevo così tanto!», lo ringraziò Ryota, seguito da Hisashi, che gli battevano le mani sulle spalle, mandandolo letteralmente in bestia.

«Forza, si ricomincia!», batté le mani Akagi, richiamando l’attenzione di tutti.

Si riprese con rimessa laterale per la squadra gialla e si proseguì. Kimi palleggiava placidamente, con troppa calma per i gusti di Mitsui. Era convinto che da un momento all’altro sarebbe partito con l’attacco. E infatti eccolo, lo sguardo sempre calmo, ma la velocità e l’agilità con cui si mosse tradirono la sua apparente tranquillità. Kimi passò al gemello, ma una mano si mise in mezzo. Il contropiede che Kaede fece partire fu fulmineo. L’unico che riuscì a stargli dietro della squadra avversaria era Araki, che tentò di fermarlo. Kaede, con un movimento fluido e veloce, si passò la palla dietro la schiena, scartandolo nel giro di pochi secondi e lasciandolo inebetito sulla lunetta. La schiacciata che seguì dopo fu spettacolare.

«Aaah! Maledetta Volpacciaaa

«Cavolo, è veramente bravo», disse Eichiro a Kimi, passandosi la maglia sulla fronte.

Il fratello annuì. «Già, è arrivato in un istante e subito dopo aveva già fatto canestro. Siamo fortunati a non averlo come avversario».

«Su, ragazzi, non addormentatevi!», li risvegliò Araki, fin troppo indiavolato per non aver potuto fermare il suo attacco.

Akira, intanto, poggiato contro il muro della palestra, guardava interessato lo svolgersi della partita, e sorrise nel vedere che Kaede era migliorato ancora. Il ritiro con la Nazionale Juniores sembrava avergli fatto bene e quello che poteva leggergli negli occhi era chiaro: non si sarebbe fatto battere da nessuno, ora men che meno. Sarebbe stato difficile quanto entusiasmante giocare contro di lui, ma non impossibile. Del resto, lui amava le sfide.

«Oh oh oh!».

I ragazzi si voltarono verso il proprietario inconfondibile di quella risata, l’allenatore Anzai, che li salutava con un bel sorriso.

«Nonno!», esclamò Hanamichi, beccandosi poi un calcio da Hisashi.

«Quante volte dovrò ripeterti di portare rispetto al signor Anzai, eh?»

«Oh oh oh! Sakuragi, vedo che sei tornato in forma smagliante», fece la Nonnetta, con allegria.

«E certo! Ti aspettavi il contrario, forse?», si pavoneggiò come da copione l’altro, mentre Akagi gli assestava un altro bel pugno in testa e i tre novizi dovevano raccogliere le mascelle rotolate a terra, troppo sgomenti per come si rivolgeva al proprio allenatore.

«Bene, ragazzi, continuate così e prendete esempio da Sakuragi», disse Anzai, mentre qualcuno borbottava “Ci mancherebbe anche questa!” e l’ego dell’invasato in questione quasi faceva scoppiare i vetri della palestra. «Dobbiamo avere grinta se vogliamo vincere il Campionato Invernale».

«Sì, signore!»

«Proseguite pure e scusate l’interruzione», concluse, sedendosi accanto ad Ayako, che prendeva appunti e dati.

La partitella proseguì, con un netto vantaggio dei titolari. Nonostante fossero bravi, niente potevano contro una squadra unita e incredibile come quel quintetto. Eichiro e Kimi Shimura erano veloci e abili, ma un po’ troppo affrettati nelle conclusioni; Masuhiro Araki, poi, era quello più veloce e determinato a battere Rukawa, ma proprio per questo motivo non brillò certo per spirito di squadra. Lo stesso Kaede gliel’aveva detto: «Questo non è un one-on-one, pivello. Se vuoi batterti con me lo facciamo dopo gli allenamenti, non ora». E detto da un ghiacciolo egoista come il numero 11 era il massimo.

«Checcosa?!», sbraitò Hanamichi, appena sentì quella frase. «Perché lui sì e io no?! Cos’è, hai paura di me?».

«Ci risiamo», fece Akagi, ringhiando.

«Sembrano marito e moglie», fece Ryota, affiancandosi a Mitsui, che si poggiò con un braccio sulla sua spalla. «Comodo?».

«Perfetto, direi».

«Do’aho. Ti ho già battuto una volta», sbuffò Kaede. «Vuoi umiliarti ancora?».

Hanamichi divenne rosso peggio dei suoi capelli e da lì al finimondo il passo fu veramente corto.

Le porte della palestra si chiusero su una letterale batosta dei pivelli, che portarono a casa numerosi e saggi insegnamenti: non contraddire Sakuragi, far girare la palla (ben diverso da “far girare le palle”, sottolineò qualcuno), correre correre e correre, nuovamente non contraddire Sakuragi, subire in silenzio i rimproveri e le messinscene dei più grandi e stamparsi in testa a chiare lettere “Dovrò pulire la palestra fino a che non torna lucida e splendente al posto dei veterani”.

Che dura la vita da basketman.

 

 

 

Continua...

 

 

 

* * *

 

E il primo capitolo è andato... Spero vi sia piaciuto! Io mi son divertita troppo a scriverlo! :D

State pronti, ci saranno altre nuove comparse! ;)

A presto e buona domenica!

Mille bacini, Marta.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 02. Come il vero Far West. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 2

Come il vero Far West.

 

 

«Ehilà, ragazzi!».

Eichiro e Kimi si voltarono e salutarono allegri gli altri due gemelli, accompagnati da quello che, se non ricordavano male, si chiamava Yoehi Mito.

«Come va?», chiese Hime, affiancandosi ai due.

«Siamo ancora distrutti dalla partitella di ieri, Hime-san», confessò Kimi, arrossendo lievemente. «Non eravamo abituati a certi ritmi… e voi siete instancabili!», continuò verso Hanamichi, che scoppiò a ridere.

«Bello mio», iniziò, battendogli amichevolmente delle pacche sulla schiena che per poco non capottarono il povero disgraziato, «noi siamo dei campioni e i campioni devono dare il massimo. Se no come credi che ci sia arrivato io?».

«Sakuragi, è vero che giochi solo da Marzo?», chiese Eichiro, pendendo dalle sue labbra.

«Sì, sì, vedete: la stoffa di un genio come me è stata tenuta nascosta fino a quest’anno come arma segreta. Non potevo certo rivelare le mie capacità se non avessi trovato un club che fosse alla mia altezza».

Hime e Yoehi si scambiarono un’occhiata eloquente e sospirarono, guardandosi bene dal non fiatare per non avere ripercussioni di alcun genere.

«Fantastico!», esclamarono i gemelli, entusiasti, mentre il deficiente di turno si gasava come non mai.

«Oggi niente allenamenti?», fece Yoehi, sistemandosi la cartella sulla spalla.

Hime scosse la testa. «No, niente. Stai pensando quello che sto pensando io?».

«Credo proprio di sì».

«Perfetto, dopo lo chiediamo anche agli altri. Oh, posso dirlo anche a Nobu!», esclamò la rossa, illuminandosi d’immenso al solo pensiero della sua adorata scimmietta.

Yoehi sorrise, ma dovette bloccarsi per iniziare a ridere quando, arrivati al cancello del liceo, Hanamichi fu travolto da una bicicletta. Peccato che questa volta non fu il solito Rukawa a centrarlo in pieno, ma quella che sembrava una ragazzina di tutta fretta che portava in spalla la custodia di una chitarra. Il ragazzo, steso a terra, balzò in piedi, ma quando si guardò intorno per cercare la volpe assassina rimase stupito nel rendersi conto che Kaede non fosse ancora arrivato.

«Ma allora è vizio!», sbraitò Hanamichi, guardando la schiena della ragazzina sparire dietro un angolo.

«No, mezza sega, sei tu che sei sempre in mezzo alle palle.», fece sardonico Mitsui, che subito dopo sbadigliò assonnato. «Cacchio, quanto ho dormito male».

«Come mai?», chiese Hime avvicinandosi all’amico e dandogli il bacetto del buongiorno, mentre Hanamichi stava ancora blaterando e inveendo contro la ragazza ignota che non aveva neanche chiesto scusa.

«Ah, le solite cose. Troppi pensieri per la testa».

Hime non fece in tempo a chiedergli altro perché Hanamichi venne investito ancora, questa volta dal ben noto Kaede, che ancora non si era visto e il rossino stava persino iniziando a darlo per disperso.

«Dannata volpaccia, vieni qui che ti spello per bene!».

«Quanto si adorano», disse sognante Hime.

«Ma son sempre così?», le domandò Kimi preoccupato.

«Oh, no, no…» I gemelli sospirarono di sollievo, ma gli prese un colpo quando la loro seconda manager aggiunse: «A volte sono anche peggio».

«Beh, dai, son divertenti!», azzardò Eichiro, guadagnandosi le occhiate perplesse degli altri.

«Sì, divertentissimi. Soprattutto quando iniziano a pestarsi in mezzo a una partita ufficiale». Hisashi salutò con un cenno del capo. «Io vado a dormire un po’ prima delle lezioni, ci vediamo ragazzi».

Hime lo seguì con lo sguardo, preoccupata. Che gli stava prendendo? Forse all’ospedale gli avevano dato cattive notizie sul ginocchio?

«Si accettano scommesse! Dieci a zero per Rukawa, chi scommette?».

La ragazza si mise le mani sui fianchi e guardò con aria da maestrina l’Armata Sakuragi che, come sempre, aveva sollevato il consueto teatrino di scommesse ai danni del povero fratellino, tirando fuori da chissà dove occhialini da sole e cappelli calati sul viso per non farsi riconoscere.

«Ehi, Hime! Vuoi scommettere anche tu?», le domandò Noma, ammiccando per convincerla.

«Ragazzi, siete degli strozzini», fece l’altra, fingendosi arrabbiata. «Altro che dieci a zero per Ede, io punto su Hana!».

I gemelli Shimura la guardarono allibiti, non aspettandosi certo una cosa del genere da una tenera e indifesa ragazza come lei. Non sapevano che potesse essere anche peggio del fratello.

«Che succede qui?», sbraitò il Gori, arrivando in quel momento seguito da un Kogure intento a pulirsi le lenti degli occhiali.

«Oh, Hanamichi è stato investito da Rukawa, come sempre, e prima ancora da una ragazza», rispose Yoehi, gustandosi la scena. «Si sta sfogando per bene».

«Mai che lo ammazzino davvero, eh?», grugnì Akagi, sedando calci, morsi e insulti vari con i sui micidiali pugni in testa.

«Ma… Gori! È lui che mi ha tranciato in bici!», si lagnò Sakuragi, con le mani in testa.

Akagi ghignò maligno. «Infatti ho punito anche lui per non aver finito il lavoro, demente».

«Ma come? Non mi vuoi più bene, Gori?».

«Kami, e questa come ti è uscita?».

«Insensibile!».

«Do’aho».

«Che hai detto tu?!».

«Sei anche sordo?».

La discussione andò avanti per altri dieci minuti, intorno a una folla di curiosi che aumentava a vista d’occhio, oltre le solite galline fan di Rukawa che si dimenavano e gridavano per incitare il loro idolo.

«Tutto ciò è ridicolo», commentò attonita Matsui, l’amica di Haruko. Le venne un colpo quando si accorse che anche la sorella del Gorilla si era messa in mezzo a quel gruppo di squinternate per tifare Rukawa. Non c’era proprio più ritegno!

 

*

 

Quella era decisamente una giornata di merda. Oh si, lo era. Ormai aveva acquistato una sorta di sesto senso per quel tipo di cose, era innegabile. Akira gli aveva sempre detto di smetterla di tirarsela come un uccellaccio del malaugurio, perché prima o poi quello che pensava si sarebbe avverato davvero. Ma lui che poteva farci? Se aveva il sentore di qualcosa nell’aria non poteva farci una beneamata mazza, che ne dicesse il Porcospino.

Guardò annoiato il quadro nell’ufficio del preside, che ancora non era arrivato, intento a telefonare chissà chi. Che palle, ora non poteva nemmeno dormire in santa pace che addirittura lo sbattevano in presidenza! Ma avevano idea di quanto avesse dormito da cani quella notte?

Hisashi sbuffò, incrociando le braccia intorno alla testa e chiudendo gli occhi. Che gliene andasse bene una nella vita, accidenti.

I passi strisciati di qualcuno lo risvegliarono dai suoi pensieri e, credendo che fosse il preside, aprì un occhio. Ma non era il signor Chiba, per lo meno non lo ricordava così magro, con due gambe da levargli il fiato, i capelli lunghi e chiari e un seno niente male. Ok, doveva ragionare un attimo a mente lucida: perché diavolo una così non l’aveva mai vista prima di allora? Le cose erano due: o era arrivata da poco o lui stava seriamente perdendo colpi.

Kiyo sollevò un sopracciglio nel vedere il ragazzo da solo nell’ufficio del preside, ma non disse niente. Si poggiò infastidita alla parete della stanza e aspettò, cosa che le faceva perdere quel poco di pazienza che aveva. Sentendosi osservata si voltò verso l’unica persona presente e lo fulminò con lo sguardo. «Che c’è, mai vista una ragazza?».

Se Hisashi non fosse stato di quell’umore nero sarebbe scoppiato a ridere come un deficiente. «Più che altro non ho mai visto te».

«Beh, ora che mi hai vista puoi anche continuare a guardare il nulla». Odiava, odiava con tutta se stessa essere fissata con insistenza.

«Chi sei?».

Kiyo sospirò, scocciata. «Una che non vuole rotture, piacere di conoscerti».

Hisashi si morse un labbro, divertito. Quella ragazzina era un peperino! «Gran bel nome, complimenti». Non riuscì a trattenersi quando la ragazza lo fulminò con lo sguardo. «Ok, ok, scherzavo. Non c’è bisogno di incenerirmi così».

«Quale parte di “non voglio rotture” non ti è chiara?».

«Come mai anche tu qua?», le chiese, ignorando la domanda.

«Oh, perfetto!», esclamò lei, allargando le braccia. «Oltre che pedante sei anche tonto».

Hisashi se la prese parecchio per quell’insulto gratuito. Ma aveva scelto la giornata sbagliata per farlo arrabbiare. «Ehi, ragazzina, non mi pare di averti offesa in nessuno modo».

Kiyo abbassò lo sguardo, per non guardarlo, e sbuffò. «Ai professori non va bene la mia nuova divisa».

Lui la guardò con attenzione, dimenticandosi per un attimo che non gli avesse chiesto neanche scusa. Beh, non c’era che dire: quella ragazzina era l’emblema dell’anarchia totale. Cravatta sciolta, calze piegate sulle scarpe, gonna più corta del previsto, giacca completamente assente. Per non parlare dei suoi capelli, palesemente tinti.

«Tu perché sei qui?».

«Oh, allora anche tu sai fare domande, a quanto pare», ghignò Hisashi, guadagnandosi un “Idiota” meritato. «Mi hanno beccato che dormivo in classe».

«Ore piccole?».

«No, problemi miei», le confessò, distendendosi in un sorriso infelice. Le si avvicinò, tendendole una mano. «Comunque io sono Hisashi Mitsui».

«So benissimo chi sei». Ricambiò riluttante la stretta di mano. «Kiyo Kobayashi».

Kiyo Kobayashi. Interessante.

Il signor Chiba arrivò qualche istante dopo, trafelato. «Scusatemi, ragazzi, ma certe questioni burocratiche sono veramente infernali!». Hiroshi Chiba era un omone robusto e apparentemente burbero, ma chi lo conosceva veramente sapeva benissimo che aveva un cuore d’oro. Andare da lui in punizione equivaleva a farsi una bella chiacchierata accompagnata da una buona tazza di thè.

I due presero posto davanti alla scrivania grondante di fogli, senza dire una parola.

«Oh, Mitsui! Come va il ginocchi0? Non avevi una visita, qualche giorno fa?», s’informò, mettendo a riscaldare la teiera.

Hisashi sprofondò sulla comoda poltroncina. «Sì, tutto al suo posto. Per lo meno, è ancora lì per ora».

«Lo sapevo io, sei un giovanotto forte tu!», gli disse in un sorriso, che contagiò anche il ragazzo. «E lei, signorina Kobayashi? Ancora per quella divisa?».

Lei annuì, incrociando le braccia. «Non mi pare di aver ammazzato nessuno, professore».

«Sì, ma le regole sono pur sempre regole. E lei, in quanto studentessa di questo liceo, deve seguirle».

Kiyo sospirò. «A me non piace questa divisa. Dovrebbe seriamente prendere in considerazione l’idea di farla cambiare».

Il signor Chiba si mise a ridere, sinceramente divertito. «Ci penserò su, d’accordo».

«Bene, posso andare ora?».

«Non vuole un po’ di thè?».

Hisashi la guardò, cercando di non ridere. Era comicissima così, tra due fuochi: la porta che l’attendeva e il dispiacere del professore che li lasciasse subito. Purtroppo per lei si ritrovò costretta a optare per la tazza di thè, anche perché il preside non aveva intenzione di punire né l’uno né l’altro, quindi era un modo come un altro per ringraziarlo.

Quando la piacevole chiacchierata si concluse, Hisashi le lanciò un’occhiata. «Un giorno mi spiegherai perché sei così arrabbiata con il mondo».

«Contaci. Da che pulpito, poi».

Lui sogghignò. «Ci si vede, Kobayashi».

Kiyo se ne andò velocemente, salutandolo con un “Ciao” svogliato e una mano agitata.

Dio, che ragazza quella!

 

*

 

Hime si bloccò il cordless tra l’orecchio e la spalla, cercando di infilarsi i pantaloncini. «Nobu-chan, ma hai capito dov’è questo campetto?»

»E certo, sono una mappa con le gambe, io!«, rispose il pallone gonfiato dall’altra parte del telefono.

«Ah già, quasi lo scordavo!», ridacchiò lei, trionfante per essere riuscita nell’impresa di vestirsi parlando al telefono. «Oh no, ho messo la maglietta al contrario!».

»Ferma lì! Vengo io a togliertela e a rimettertela per bene!«

«Nobunaga!».

»Che c'è? Va bene, ho capito... Te la tolgo e basta«

«Hentai!».

»Ahaha! Scusa, Hicchan, ma sai che adoro metterti in imbarazzo!«

«Me ne sono accorta», borbottò lei, in un sorriso. In quelle settimane Hime stava scoprendo un lato perverso e maniaco nel suo ragazzo che non pensava neanche avesse. Insomma, era sempre così scemo, pieno di sé e tenero che non pensava che potesse competere con le porcate di Akira e Hisashi!

»Ah, Hicchan, va bene se porto anche Arimi? I miei son fuori qualche giorno e non voglio lasciarla sola in casa

Ecco, quello era uno dei tanti motivi per cui Hime si era innamorata di Nobunaga: il suo infinito amore per la sorellina minore. Non aveva mai avuto l’occasione di conoscerla di persona, ma durante il periodo in cui era con Hanamichi per la riabilitazione ci aveva scambiato due chiacchiere al telefono. La trovava semplicemente adorabile.

«Ma certo che puoi! Così finalmente potrò conoscerla!».

Immaginò, come se l’avesse avuto davanti, il ragazzo che sorrideva trionfante e, prima di chiudere la telefonata, gli ricordò l’ora e il luogo d’incontro.

«Allora? Quella scimmia viene?», s’informò Hanamichi, facendo capolino nella camera della sorella. Due secondi più tardi si beccò una ciabatta in mezzo alla faccia.

«Sarò anche tua sorella, ma bussare no, eh?», fece Hime, con le mani sui fianchi. «E comunque sì, Nobunaga viene, e porta anche Arimi».

«Chi? La sorella? Un’altra scimmia?! E che palle!».

«Ma se neanche la conosci!», esclamò lei, tirandogli l’altra ciabatta in testa.

Hanamichi la guardò imbronciato. «Hicchan, hai finito di tirarmi infradito o adesso inizi anche con le scarpe da tennis?».

«E ringrazia che non uso scarpe con i tacchi!». Hime gli sorrise, andando ad abbracciarlo e a schioccargli un sonoro bacio sulla guancia. «Ti detesto quando fai così,  Hana! Sento che se mi chiedessi qualsiasi cosa la farei solo per questi occhioni!».

«Ahaha! Scoperto il modo per avere quello che voglio! Sono proprio un genio!».

«Sì, sì, però ora vai a prepararti, tra dieci minuti usciamo», lo spintonò via la ragazza verso la camera affianco.

Yoehi e l’armata suonarono il campanello qualche minuto dopo, pronti per andare al campetto anch’essi. Di solito, quando i ragazzi non avevano allenamenti, se ne andavano al giocare sul lungo mare a fare qualche tiro e a divertirsi in spiaggia; poi, quando si stancavano, se ne andavano belli che pimpanti in un bel localino all’angolo, il Bar America, per concludere la serata in bellezza.

Arrivati a destinazione trovarono il solito volpino che faceva il solito allenamento pomeridiano in solitario e la cosa non prometteva niente di buono.

«Oh, Kit, vai a colonizzare qualche altro campetto, dai!», si lagnò Hanamichi, saltando proprio nel momento in cui Kaede si stava preparando al tiro. Questo se ne accorse in tempo per chinarsi e sgusciare via da quell’improvvisa difesa, e segnò con un dunk di tutto rispetto. Hanamichi, d’altro canto, finì spalmato in terra perché, per la sorpresa, si sbilanciò in avanti e perse l’equilibrio.

«Do’aho. Ci sono da mezzora, vattene tu».

«Perché invece non ce ne stiamo qui tutti insieme?», cinguettò Hime. «Tra poco arriva anche Nobu-chan!».

Kaede sollevò un sopracciglio, come dire: “Oh beh, allora rimango” in modo molto, troppo sarcastico.

«Sì, Rukawa, rimani!», fece Takamiya. «Così ne vediamo delle belle!».

«Eh no! Io insieme alla Nobu-Scimmia e il Volpino non ci sto! C'è un limite a tutto!», sbraitò Hanamichi, beccandosi poi una pallonata in testa dal suo miglior nemico.

«Ehi, guarda che puoi anche andartene, Rosso-Scimmia!».

«Dementi al completo», sbuffò Kaede, riprendendo il suo allenamento come se non ci fosse nessuno a menargli le palle.

Gli altri rimasero un po’ interdetti nel vedere chi accompagnava Kiyota: una ragazza in sedia a rotelle, che aveva tutta l'aria di essere solo su una gamba.

«Chi è quella?», sussurrò Hanamichi a Hime, che però non gli rispose, saltellando contenta verso i due.

«Ciao Nobu-chan! Tu devi essere Arimi, giusto?», chiese la rossa, dopo aver dato un bacino al ragazzo.

La giovane era molto simile al fratello: capelli neri e lunghi lasciati al vento, la stessa espressione furbetta e il sorriso più solare che avesse mai visto. Arimi Kiyota annuì allegra, stringendole la mano. «È un piacere poterti conoscere, Hime! Nobunaga non fa che parlarmi di te».

«E cosa dice? Cosa dice?», fece interessata l’altra, con occhioni luccicanti.

«Che ti interessa?! Pettegola!», si difese Nobu, rosso per l’imbarazzo e il timore che la sorella potesse rivelare le sue lunghe chiacchierate a parlare di lei.

Hime scoppiò a ridere e presentò alla ragazza tutti gli altri. «Allora, questo è il mio personale branco di animali», iniziò, suscitando il disappunto dei suoi amici. «Loro sono Yoehi Mito, Yuji Okusu, Chuichiro Noma e Nozomi Takamiya, più conosciuti come l’Armata Sakuragi.»

I ragazzi, con un sorrisone, la salutarono gentilmente senza fare gli idioti, cosa più incredibile che rara.

«Armata Sakuragi?», domandò Arimi, curiosa. «Non è un nome rassicurante».

«Beh, certo», fece Takamiya, indicando con un cenno del capo Hanamichi. «Non è rassicurante neanche il brutto faccione di quello lì!».

«Che hai detto, brutta scrofa?», gridò il numero dieci dello Shohoku, tirandogli una testata che avrebbe ricordato per molto, molto tempo.

«Hanamichi! Stai facendo la figura del deficiente!», bisbigliò Hime, tirandogli una gomitata.

«Non è una novità».

«Kaede, per favore!».

E mentre Hanamichi e Rukawa ingaggiavano una bella lotta di sumo, Hime si scusava mille volte con la ragazza. «Perdonali, non riescono a resistere senza queste dimostrazioni d’affetto».

Arimi agitò una mano, divertita. «Ma no, son simpatici!»

Appena quei due mentecatti ebbero finito di darsele di santa ragione, Hime presentò anche loro. «Arimi, ti presento Kaede Rukawa, il migliore giocatore del primo anno…», e qui partì un embolo sia ad Hanamichi che a Nobunaga. «…e il migliore amico che si possa desiderare».

Kaede le lanciò un’occhiata stupita per quella presentazione con i fiocchi e salutò anche lui la nuova arrivata.

«Ehi, Hicchan! Non mi piace questa storia!», disse offeso Hanamichi, imbronciandosi. «Quel coso non è la miglior matricola!».

«Ecco, appunto!», gli diede man forte l’altro esaltato, Nobunaga.

Hime neanche lo ascoltò, continuando con le presentazioni. «E non da ultimo, mio fratello Hanamichi Sakuragi. La persona più tenera e buona che esista al mondo.»

Il rossino per poco non si mise a piangere e, prima di stringere la mano ad Arimi, vide bene di stritolare la sorella con un abbraccio.

«Ciao Arimi!», fece pimpante, piegandosi per guardarla meglio. «Io sono il Genio, nonché Re dei Rimbalzi e del Basket in genere, altro che quella schiappa di tuo fratello! Piacere!».

Arimi scoppiò a ridere, cosa che ovviamente non andò giù a Nobunaga. «Schiappa, che hai detto? Guarda che non sono io quello che tirava il pallone in testa agli avversari anzi che centrare il canestro!».

Hanamichi si mise una mano dietro la nuca, ridendo imbarazzato. «Ahaha! Non ascoltarlo, Ari-chan! Racconta tante di quelle frottole!».

«Guarda che ha ragione, Hanamichi.», fece notare Noma, scappando poi dalla furia dell’amico.

«Beh, se per questo c’è anche da mettere in conto l’auto canestro che ha fatto in ritiro», aggiunse pensierosa Hime, mentre Nobunaga e il resto della comitiva sghignazzava.

Hanamichi le balzò addosso, scrollandola per le spalle. «Hicchan! Anche tu?! Nessuno mi vuole bene!».

«Abbattetelo» Kaede alzò gli occhi al cielo, ma si scostò velocemente appena si accorse della sagoma omicida del rossino, deciso ad ammazzarlo una volta per tutte.

«Allora, due contro due?», chiese Hime, attirando l’attenzione su di sé. Mai l’avesse fatto, povera ingenua! Tra Nobunaga e Hanamichi che bisticciavano per decidere su chi dei due avrebbe fatto coppia con la ragazza, e Kaede che bruciava tutti dicendo che avrebbe giocato solo con lei, fu un vero e proprio casino.

«Hicchan, io non ho mai giocato con te!», si lamentò Nobunaga con il labbro inferiore all’infuori per il disappunto.

«Certo, mica vuole perdere», fece Kaede, facendolo andare su tutte le furie.

«Infatti starà con me! I Sakuragi contro la Scimmia e la Volpe!», si gasò Hanamichi, con le mani sui fianchi e la testa piegata all’indietro per ridere meglio.

«Chissà se riusciranno a iniziare a giocare entro quest’anno?», si chiese Okusu, aprendo un pacchetto di pop-corn saltati fuori da chissà dove.

«Beh, almeno ci sarà da divertirsi!», ghignarono Noma e Takamiya, mentre quest’ultimo, con molta naturalezza fregò il cibo all’amico e lo finì in due secondi.

«Ma sei una fogna!», sbraitò quello, con gli occhi fuori dalle orbite.

«E che cavolo, non me ne hai fatto neanche toccare uno!» 

«Sei un pozzo senza fondo», commentò Yoehi, che si voltò a guardare la piccola Arimi accanto a lui che, tra quei quattro che battibeccavano allegramente per la formazione delle coppie e gli altri tre che erano partiti per la tangente con insulti di ogni genere verso quel cassonetto di Takamiya, se la rideva alla grande in barba ai casini altrui. Quei ragazzi erano pazzi, aveva ragione Nobunaga a ripeterlo in continuazione!

Tutto quel bel teatrino si concluse con la vittoria di Hanamichi che, come sempre, se non fregava la ragazza alla scimmietta del Kainan non era contento. Questo, d’altro canto, dovette mordersi la lingua per non ululare dal disappunto nel ritrovarsi in squadra con quel volpino congelato di Rukawa che, alla faccia di tutto e tutti, continuava placidamente i suoi tiri in solitario.

«Ma accidenti, Takamiya, proprio ora dovevi finirteli i pop-corn? Adesso inizia il vero spettacolo!», si lamentò Noma, incrociando le braccia e poggiandosi mollemente alla rete metallica alle sue spalle.

«Vai e comprali, no?».

«Morto di fame, così magari me li freghi di nuovo?».

Yoehi sbuffò, cercando di apparire serio, ma con scarsi risultati. «Uffa, quanto fate casino».

In campo, intanto, stava succedendo di tutto. Hanamichi aveva la palla e aveva apertamente dichiarato guerra a Kaede, dato che voleva mostrargli a tutti i costi quanto fosse ancora bravo nonostante i mesi di fermo; e dato che non passava palla alla sorella neanche a pagarlo oro, tutto intento in un one-on-one con il volpino, questa se ne stava in mezzo al campo con le braccia incrociate, sbuffando come un vulcano. Rukawa, d’altra parte, che già di per sé non aiutava il gioco di squadra, si dimenticò completamente del suo momentaneo compagno che, anzi che limitarsi a sbuffi come la ragazza, sbraitava peggio di uno scaricatore di porto.

Quando Kiyota decise di agire arrivò dietro al rossino, troppo intento a decantare le sue lodi ai quattro venti per accorgersi di lui alle sue spalle. Gli fregò il pallone con una semplicità imbarazzante e corse verso il canestro, per un dunk. Ma non aveva messo in conto un’agguerrita Hime che, degna del cognome che portava, saltò abbastanza in alto da tirare una manata al pallone e farlo volare via.

«Hicchan! Mi hai fregato il momento di gloria!».

«Te lo do io il momento… ma di dolore, te lo do!», gridò Hanamichi, avvolto dalle fiamme dell’inferno e gettandosi contro il ragazzo.

«Ora si ammazzano».

Arimi si voltò preoccupata verso Mito che, a discapito della drammaticità di quelle parole, stava rotolando a terra dalle risate insieme agli altri tre dementi del gruppo.

E mentre i due si legnavano come indemoniati, Hime e Rukawa avevano ripreso a giocare, completamente persi nel loro one-on-one. Del resto, due fuori classe come loro non potevano perdersi in baggianate del genere!

Inutile dire che il coro da stadio fu tutto per loro, che come sempre diedero spettacolo, tra finte, scarti, canestri e rimbalzi. Hime, però, dovette arrendersi a una schiacciante vittoria del migliore amico che, dopo il ritiro con lo Shohoku e soprattutto quello con la Nazionale Juniores, era migliorato, se possibile, ancora di più.

«Ede, sei diventato mostruoso, davvero», fece la ragazza, col fiato corto.

«Lo prendo come un complimento».

«No, Kit, mostruoso nel senso di orripilante, vero Hic---?! E basta con questi stupidi di palloni in testa, maledetto!».

«Ma non si farà male?», domandò Arimi, guardando preoccupata i bernoccoli del rossino che crescevano a vista d’occhio.

«No, Hanamichi ha la testa dura, tranquilla», le disse divertito Yoehi, gustandosi la scena.

«E poi è anche vuota, quindi non ci perde niente», continuò Takamiya, che venne sfortunatamente sentito dalla Scimmia in questione e pagò col sangue, come sempre.

E mentre i due si scambiavano le consuete pacche amichevoli che di amichevole, in realtà, non avevano niente, Hime alzò un braccio per attirare l’attenzione degli altri. «Che ne dite se andiamo da Sana?»

A quelle parole Hanamichi e Takamiya scattarono in piedi, dimenticando per un istante la loro rissa. «Sììì! Ho proprio voglia di una cioccolata con gli smarties!», gridarono in coro con la bava alla bocca.

Nobunaga si grattò la testa, poco convinto. «È una vostra amica?».

«Sì, ed è adorabile! Lavora in un bar qui vicino, venite?», chiese sorridente ai fratelli Kiyota, che accettarono volentieri.

«Kit, tu ci degni della tua compagnia o è chiedere troppo?».

Il mondo sarebbe cascato in quel preciso istante, pensarono un po’ tutti. Hanamichi che invitava il Volpino a stare con loro?!

«Hn, no. Devo andare a casa».

«Ah, al diavolo. E io che volevo essere gentile».

«Ma vai a cagare».

Hime saltellò verso l’amico, gironzolandogli intorno come una pulce. «Hai da fare veramente o non vuoi venire perché non ti va?».

Kaede sospirò, guardandola negli occhi mentre faceva ruotare il pallone su un dito. «Il vecchio torna questa notte. Devo sistemare un po’ di cose».

«Oh, capito. Hai la casa che galleggia nel caos».

«Hn».

«Ehi, Hicchan! Vieni o no?», la richiamò Hanamichi, mentre Nobunaga fumava gelosia da tutti i pori e la sorella tentava invano di calmarlo.

«Sì arrivo, arrivo!», esclamò lei, prendendo le sue cose e salutando Kaede. «Non sai cosa ti perdi, Ede!».

«Non dormirò, stanotte», fece sarcastico lui.

«Seh, se non dormi tu io sono tinto!», lo rimbeccò Hanamichi, mettendosi il borsone su una spalla e dirigendosi al bar. “Do’aho” fu l’unico saluto che suo acerrimo amico gli riservò come risposta.

Il Bar America era un delizioso locale all’angolo, che dava direttamente sul lungomare di Kanagawa. Aveva un non so che di texano, con tutti gli interni in legno, finemente lavorati e un’ampia sala con parecchi tavoli da biliardo, oltre un piccolo palchetto per il piano bar. L’Armata, insieme a Hime, andava spesso a prendere qualcosa da bere o sgranocchiare, nel loro personalissimo angolino che ormai era diventato esclusivamente di loro proprietà, e lì avevano conosciuto una ragazza della loro età che lavorava come barista, tale Sanako Tsukiyama (per i pochi amici che aveva bastava anche solo Sana), gentile e simpatica, che ormai li conosceva così bene da sapere anche le loro ordinazioni a menadito.

Appena la mandria entrò nel locale, vennero accolti dai saluti generali del proprietario, il signor Watanabe, che subito chiamò la piccola Sana. Questa arrivò di gran carriera, distrutta, e salutò tutti con un filo di voce.

«Sei stravolta, che succede?», chiese Hime, alzandosi per darle un bacino veloce.

«Oh, è stata una giornataccia», sospirò, spostandosi la frangetta dagli occhi e togliendo fuori penna e blocchetto. «Ho dovuto girare mezza Kanagawa perché il ragazzo delle pizze a domicilio è a casa con la febbre».

«Per la serie: che non ne manchino mai», commentò Hime, sorridendo. «Oh, comunque loro sono Nobunaga e Arimi Kiyota. Ragazzi, lei è Sanako Tsukiyama».

I tre si strinsero la mano cordiali, poi la ragazza disse: «Per voi so già che portare. Voi due?»

Hanamichi si mise in mezzo, esuberante come sempre. «Per la Scimmia porta la mia stessa cosa».

«Ehi, vorrei decidere io, se non ti dispiace!».

«Tranquillo amico! Fidati del grande Sakuragi, una buona volta! Ahaha!».

Arimi guardò il rosso con un’espressione di puro divertimento. Quel ragazzo era una forza della natura!

«E per te?», chiese Sana, guardandola.

«Oh, per me va bene un succo d’ananas, grazie».

Quando Sana se ne andò a portare le ordinazioni, Nobunaga lanciò un’occhiataccia all’altra Scimmia presente. «Secondo cosa hai ordinato, ti spello vivo. Non mi fido delle porcherie che mangi».

«Nobu-chan, tranquillo», fece Hime, prendendogli la mano. «Qui dentro c’è tutto tranne che porcherie».

«È carino qui», commentò Arimi, guardandosi intorno.

«Già, fa molto Far West», annuì il fratello.

«Guarda, Nobu-Scimmia, ho giusto portato una pistola per farti vedere cosa succedeva in questi bar».

«Ma se hai la precisione di un cecchino a cui hanno strappato gli occhi!», ribatté l’altro. «Non riusciresti a colpirmi neanche se fossi a due passi da te».

«Scommetti?».

«Ahaha! Due scimmie da Far West!», si sbellicarono quei quattro dementi dell’Armata, mentre le due Scimmie in questione si vendicavano a suon di insulti e testate.

«Ecco a voi tre fette di torte con panna e cioccolato, due mousse di fragole, un succo all’ananas e due cioccolate con caffé e smarties.», fece Sana, da brava equilibrista che teneva tutto il vassoio in una mano.

«Ma tu lavori anche al circo?», le chiese Noma, che già si stava ingozzando come un maiale.

Lei ridacchiò, facendo spallucce. «No, ma se voglio lavorare mi tocca!».

«Che cara ragazza che sei!», cinguettò Hime, stritolandola per bene, mentre quella arrossiva, imbarazzata.

Appena Sana corse a prendere nuove ordinazioni, Nobunaga guardò con la bava alla bocca il ben di dio che aveva sotto gli occhi. «Sakuragi, credo che ti darò un bacio».

Per poco Hanamichi non sputò il suo dolce in faccia alla sorella, seduta davanti a lui. «Puoi anche risparmiartele certe cose, Scimmia!».

«Anche perché Hanamichi è ufficialmente impegnato con Ede», buttò seriamente Hime, che questa volta fece andare veramente di traverso il cibo non solo al fratello, ma a tutti, tranne la piccola Arimi che non sapeva a cosa si stesse riferendo.

«Hicchaaan! Ma sei impazzita?!», sbraitò come una vecchietta il rossino, facendola diventare bionda in sol un colpo.

«Hime, sei grande!», esclamarono in coro i quattro dell’Armata, con le lacrime agli occhi, mentre Nobunaga stava ancora tossendo per le troppe risate.

«Ma l’hai detto tu», fece innocentemente lei, sbattendo velocemente le palpebre per intenerire il gemello.

«Io non ho detto niente! Siete voi i depravati!».

«Ehi, Scimmia Rossa, cos’è questa storia?», chiese Kiyota, ridendo come non mai.

«Oh, avresti dovuto vedere la scena», fece Takamiya, mentre Hanamichi al suo fianco ribolliva come un calderone.

«È stato così romantico», disse sognante il biondino, coprendosi le guance con le mani e facendo ridere tutti.

«Se Kaede vi sentisse vi disintegrerebbe con uno sguardo», commentò divertita Hime, schioccando un sonoro bacio al fratello, livido di rabbia.

«No, ruffiana! È colpa tua se questi dementi ora mi stanno sfottendo!». Hanamichi si ritrasse, incrociando le braccia imbronciato. «E conoscendoli andranno avanti così per un mese».

Arimi, che faceva scivolare lo sguardo da una persona all’altra, chiese timidamente: «Ma scusate, che male c’è a essere innamorati?».

Il silenzio cadde improvviso, quasi surreale. I ragazzi, tutti, la guardarono intensamente negli occhi, cercando di non scoppiare a ridere, mentre lei rispondeva a quelle occhiate con decisione e fermezza.

«Voglio dire, se lui lo ama non vedo il perché dobbiate prenderlo in giro», continuò la ragazza, sorridendo a Hanamichi con fare confortante.

Fu in quel momento che nessuno riuscì a resistere più e le risate scoppiarono più forti di prima. Oh, beata innocenza!

«A-Arimi, tu non… non… Kami, non riesco!», cercò di dire Hime, piegata sul tavolo e presa dalle convulsioni. Gli altri erano, ovviamente, partiti peggio di lei.

Hanamichi, d’altro canto, continuava a guardarla come un ebete e ci mancò poco che si mettesse a piangere. Era proprio sorella della Scimmia, non aveva altro da dire!

«Arimi, ecco…» Hime cercò di riprendersi, anche se con scarsi risultati. «Hanamichi odia questo ragazzo».

«Ecco, lo odio, capito?!», ripeté con enfasi Sakuragi, mentre gli altri continuavano a singhiozzare.

«O almeno lui dice di odiarlo, in realtà credo che gli voglia un bene dell’anima».

«Non è assolutamente vero!».

«È tutto nato da un’incomprensione, Hanamichi non è innamorato di Rukawa», continuò Hime, sorridendo. «Per lo meno, non me ne ha mai fatto cenno, ma se anche fosse che problemi ci sono?».

«Hicchaaan!», tuonò il ragazzo. «Stai mettendo in discussione la mia virilità?!».

Oh, se solo Ryota e Hisashi fossero stati con loro!

 

 

 

 

Continua...

 

 

 

* * *

 

Ma salve, gente!

Compaiono altri nuovi personaggi, e non finiscono qui! Spero che non siano né troppi né "fuori tema" con l'ambiente... Piano piano scoprirete tutto su di loro. ;)

Ah, son così felice... Neanche una settimana e già un centinaio di letture! Grazie! *_*

Un grazie in particolare a:

lilli84: carissima! *_* Che piacere rileggerti! Però non morire dal primo capitolo, la strada per la fine è ancora mooolto lunga! :D Grazie mille per averla aggiunta tra le preferite!

oOo14_YukA_14oOo: oh, salve! Ma che tempismo perfetto, rileggi Wild Boys e io pubblico il seguito, ahaha! :D Come vedi la Nobu-Scimmia è ricomparsa proprio in questo capitolo, spero ti sia piaciuto! ;) Anche io adoro Mitsui! Anche se amo incondizionatamente Sendoh e Rukawa! <3 Grazie mille, anche per averla aggiunta ai preferiti! :)

kuro: carissimaaa! E' bello rileggere anche te! *o* Grazie mille, gentile come sempre! E grazie per il preferito! Ahaha quel branco di idioti... Quando ci si mettono d'impegno lo sono veramente! :P

E grazie anche a moirainesedai per averla aggiunta tra le storie seguite!

Ci si legge al prossimo capitolo! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** 03. Quando i problemi ti investono... Come una bicicletta sulla schiena. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 3

Quando i problemi ti investono... Come una bicicletta sulla schiena.

 

 

Hanamichi Sakuragi alzò il visino imbronciato verso il cielo limpido e sbuffò per la decima volta in pochi minuti. Era ancora imbufalito per la sera scorsa, anche se non riusciva a essere arrabbiato più di tanto con la sorella. Quella disgraziata, infatti, era sgusciata in camera sua quando stava per prendere sonno e gli era saltata sul letto facendogli perdere letteralmente venti anni di vita. Svegliando mezza Kanagawa per l’urlo che aveva lanciato, Hime si era messa a ridacchiare, l’aveva abbracciato e gli aveva sussurrato un “Ti adoro, Hana” che solo lei sapeva dire in modo così dolce e sincero. Come poteva non sciogliersi davanti alla sua adorata gemellina?

«E dai, Hanamichi. Non sarai ancora inc–» Povero, povero Mito, che non riuscì nemmeno a finire la frase che si era ritrovato bello fumante un bernoccolo con i fiocchi.

«Yoehi, mi sa che oggi tutto quello che morsica lo avvelena», constatò Hime, appesa al braccio del fratello. «Occhio a come parli».

«Ehi, vale anche per te, Hicchan!».

«Mi tireresti una testata?!», domandò con i lacrimoni agli occhi la ragazza, fermandosi in mezzo al marciapiede.

«No, però farei questo!», esclamò il fratello, sollevandola di peso e mettendola a testa in giù.

«Hanamichi!! Mettimi in terra!», gridò furiosa, rossa peggio dei suoi capelli, dato che messa così la gonna le ricadeva sul torace, mostrando a tutta la popolazione giovanile e non della città il suo bel fondoschiena.

Accortosi dell’enorme sbaglio che aveva commesso, Hanamichi tentò di rigirare la sorella, indemoniata tra le sue braccia, ma caddero insieme, tra le risate di tutti.

«Hanamichi, scappa», suggerì Yoehi, mentre il rossino vedeva bene di darsela a gambe levate.

Inutile dire che Hime, con un grido di battaglia, si mise al suo inseguimento, brandendo la cartella come arma di distruzione di massa e travolgendo qualsiasi cosa si trovasse davanti al suo cammino peggio di un carro armato.

Ma non avevano fatto i conti con una ragazzina in bicicletta che, arrivando di gran carriera allo Shohoku e gridando un “Pistaaaa” da toglierle tutto il fiato che aveva in gola, investì prima l’uno poi l’altra, capitombolando a terra qualche metro più in là.

«Ma cazzooo!», sbraitò Hanamichi, ormai completamente livido di rabbia e pronto a menare chiunque fosse stato il suo pseudo-assassino.

«Ohi, ohi, che male!», bofonchiò Hime, accarezzandosi il suo prezioso sedere e recuperando a gattoni la cartella che, prontamente, tirò in testa al fratello.

«Hi-Hicchan!».

«Hicchan un corno! Così impari!».

Hanamichi, in risposta, s’imbronciò ancora di più. Cavolo, era lui quello che doveva fare l’offeso, non viceversa! «Ehi, tu! Assassina! Cos'è, ti paga per caso la Volpe per farmi fuori?!», gridò alla volta della ragazzina incosciente, che stava sistemando alla bell’e meglio la catena alla bici. Quando questa si voltò per scusarsi scese un coccolone grande quanto una casa a tutti.

«Scusatemi, ragazzi! Vi siete fatti male?», chiese Sana, precipitandosi da loro.

«Sanako?», domandò sconcertato Hanamichi, subito dopo seguito da Hime.

«S-scusatemi, è che quando quell’aggeggio prende velocità non riesco a fermarlo. I freni sono andati!», ridacchiò nervosamente quella, grattandosi la testa.

«Ma no, tranquilla», fece affabile Hime, guardandole il ginocchio insanguinato. «Tu piuttosto, dovresti andare a disinfettarlo».

«Oh, non è niente, davvero!».

«Che ci fai allo Shohoku?», proseguì nell’interrogatorio Hanamichi, sbalordito.

«Beh, ecco… vengo qui per studiare, un po’ come tutti».

«E perché io non ne sapevo niente?», cadde dalle nuvole il rossino.

Sana sorrise imbarazzata, mentre anche l’altra ragazza la guardava perplessa.

«Cavolo, non ci hai mai detto che studi qui! E non ti ho nemmeno mai vista, Sana!»

La ragazza abbassò lo sguardo per lisciarsi distrattamente le pieghe della gonna impolverata per la caduta e una cascata di capelli liscissimi e neri le caddero sul viso. «Beh, non sono certo popolare come voi».

«Accidenti, quasi non ti riconoscevo con i capelli sciolti!», fece Hanamichi, mettendosi in piedi e dando una mano alla sorella. «In che sezione sei?».

«Sezione 3. Scusatemi se non mi son mai fatta vedere, ma sono talmente piena di cose da fare…»

Hime le sorrise, agitando una mano. «Ma no, tranquilla! Ora vieni con me in palestra, così prendo il disinfettante e ti metto un cerotto sul ginocchio».

«Ma tu guarda, sei nella stessa sezione di Mit---! Aaaargh, questa volta ti ammazzo sul serio, Volpacciaaa!».

Ebbene sì, Kaede aveva fatto strike per l’ennesima volta e, trattandosi di lui e non di una giovane donzella indifesa, dovette anche sorbirsi una bella rissa mattutina, come se non avesse già avuto le palle girate per conto suo.

Sana si fermò a guardare i due che ci davano dentro come lottatori di sumo, cercando di capire, in tutto quel groviglio di mani e calci, chi fosse il moretto con cui Hanamichi stava bisticciando.

«Dai, ragazzi! Risparmiate le vostre preziose energie per stasera!», sbuffò Hime, andando a separarli e rischiando seriamente la vita.

«Do’aho, levati dalle palle la prossima volta».

«Levati dalle palle un corno, Kit! Tu lo fai apposta a investirmi, ammettilo! Sadica volpaccia!».

«E zitto». Kaede sistemò la sua bici ad una più fracassata della sua e, con tutta calma, si diresse in classe. Salutò con un ao di circostanza la sua migliore amica, che poco dopo sparì verso la palestra, trascinandosi una ragazzetta che non aveva mai visto prima d’ora - come se conoscesse molte ragazze, lui. O forse sì?

 

Intanto la rossa stava buttando all’aria metà del contenuto del kit di pronto soccorso che teneva in palestra, borbottando una volta sì e l’altra anche contro chiunque avesse finito il cotone. «Oh, eccolo!», esclamò, trionfante, imbevendolo nel disinfettante e porgendolo alla ragazza.

«Non dovevi, grazie.», disse Sana, bagnando il ginocchio sbucciato. «Vi ho stesi io per terra e ora sei tu a prenderti cura di me».

Hime rise, recuperando garza e cerotti. «Tranquilla, non mi son fatta male. E Hanamichi è più che abituato a beccarsi biciclette sulla schiena».

«Oh, ho notato». Sana si morsicò il labbro quando un po’ di cotone le rimase appiccicato alla pelle insanguinata. «Cavolo, non potrei mai fare il chirurgo», disse, togliendo lo sguardo dal ginocchio.

«Ti impressiona il sangue?», chiese Hime, bendandole la ferita. Ad un cenno affermativo dell’altra, lei sorrise. «E meno male che avrei dovuto lasciarti stare così».

Sana arrossì, sospirando sollevata appena il sangue sparì dalla sua vista. Sì, odiava, anzi, detestava il sangue. Da piccola era rimasta traumatizzata alla vista di un incidente di percorso in cui la madre si era tagliata mezzo dito mentre preparava l’insalata. Era stato terrificante. E la mamma cosa aveva fatto per tranquillizzarla? “Ma no, al massimo me lo tagliano tutto!”. Avrebbe voluto strozzarla in quel momento. Aveva solo sei anni!

«Grazie mille, Hime. Sei sempre così gentile!», disse Sana, mettendosi in piedi.

La rossa le strizzò un occhio. «Dici così perché non mi hai mai vista arrabbiata».

Le due si diressero in tutta fretta verso le rispettive aule, ma Sana venne fermata a metà strada dalla sua amica, forse la migliore tra le poche che aveva: Kiyo.

«Dimmi, ho qualche problema io?», chiese la Kobayashi, afferrandola per le spalle e guardandola con l’espressione di una pazza.

«Non saprei… hai qualche problema?», rispose con un’altra domanda l’amica, perplessa.

Kiyo sospirò, poggiandosi senza forze contro il muro del corridoio. Si passò una mano tra i capelli sfibrati e li guardò assassina. «Forse dovrei tagliarli.»

«E forse dovresti tornare al tuo colore naturale, biondi proprio non ti si addicono.» Sana le sorrise, prendendole una mano. «Ti va di parlarne all’ora di pranzo?»

Kiyo annuì, stanca. «Dove ti trovo? Ogni volta sparisci».

«In terrazza, sono sempre lì. Non c’è mai nessuno»

«D’accordo, ora però vai in classe o arriverai in ritardo. E tu sei troppo secchiona per subire le urla del professore».

Sana le rispose con una linguaccia, ma volò immediatamente verso la sua aula, esattamente un minuto prima che l’insegnante chiudesse la porta scorrevole.

«Well, guys, today we’ll talk about Blake. Have you read his biography at home?»

Alcuni studenti annuirono convinti, altri un po’ meno, dato che la sera prima avevano preferito fare altro anzi che leggere quello che gli era stato assegnato.

«Psst, Tsukiyama!», sussurrò Eichiro Shimura, seduto al banco al suo fianco. «A che pagina è?».

Sana guardò il professore, tutto preso dallo scrivere anno di nascita e morte dell’autore inglese e gli rispose a voce bassissima. Eichiro, a differenza del fratello, era quello che aveva più la testa campata in aria. Era simpatico e parecchio intelligente, ma era il tipico esemplare di studente che otteneva ottimi risultati con il minimo sforzo. "Suo figlio ha grandi potenzialità, ma non si applica!", tipica frase che quella santa donna della madre si sentiva ripetere durante gli incontri con i professori.

«Grazie!». Le strizzò un occhio, aprendo il libro in fretta e furia per leggere due o tre frasi e capire di cosa stessero parlando.

Sana, come sempre, iniziò a prendere appunti su appunti, e non solo perché l’inglese era una delle sue materie preferite, ma perché si sentiva terribilmente in colpa se dimenticava qualche cosa. Molti la ritenevano pazza, ma considerato lo stile di vita che aveva intrapreso forse non faceva neanche tanto male. Gli appunti le davano tutto quello di cui aveva bisogno, senza dover leggere pagine e pagine di scritti che magari le servivano solo a farle perdere tempo. E per lei, il tempo, era prezioso e di vitale importanza. Tra la scuola, il bar e la musica ne sarebbe uscita matta, ne era sicura.

Appena la campanella del pranzo risuonò tra le aule, Sana raccolse le sue cose nella cartella e si affrettò a raggiungere la terrazza, sperando che Kiyo non fosse già arrivata. Odiava far aspettare gli altri. Appena aprì la porta si accorse che non solo Kiyo non era ancora arrivata, ma non c’era traccia neanche del ragazzo solitario che incontrava di solito a quell’ora. Si sedette nel suo angolino preferito, che dava sul giardino curato e pieno di ragazzi, e iniziò a scartare il suo bento, affamatissima.

Quando sentì la porta aprirsi alzò lo sguardo e rimase parecchio sorpresa nel vedere Kiyo in compagnia di quello stesso ragazzo silenzioso.

«Non mi avevi detto che qui non veniva mai nessuno?», chiese l’amica, indicandolo con un cenno del capo e sedendosi accanto a lei.

«Beh, ecco…».

«Non mi interessa ascoltarti, Kobayashi», rispose gelidamente quello, mentre la bionda faceva spallucce.

«Ti ricordi come mi chiamo? La cosa ha dell’incredibile».

«Hn».

Sana lo guardò per qualche istante mentre quello, con gli occhi mezzo chiusi dal sonno, si metteva a pranzare; poi si rivolse a voce bassa alla ragazza al suo fianco. «Non parla mai e ascolta la musica con il walk-man, per quello ho pensato che non avrebbe dato fastidio».

Kiyo agitò una mano, incrociando le gambe e fregandole un po’ di cibo. «Fa nulla. È sempre così».

«Lo conosci?».

«Svegliati, è in classe con me».

«Oh…» Sana gli lanciò un’ultima occhiata e stava per chiedere all’amica chi fosse, ma decise di dedicarsi ad altro. «Allora, di cosa volevi parlarmi?».

«Toshiro».

Non ci fu bisogno di aggiungere altro, perché la barista capì al volo. «Ti ha telefonata di nuovo?».

Lei scosse la testa. «Peggio. Era davanti a casa mia ieri sera». Si passò stancamente una mano tra i capelli, arrabbiata. «Dici che con un disegnino capirebbe che non voglio più vederlo?».

«Uhm, con la testa vuota che si ritrova non credo. Ti ha detto qualcosa?».

«Il solito… “Mi manchi, sono stato uno stupido, mi dispiace, prima o poi torneremo insieme.” Ecco, quest’ultima parte mi ha messo paura. L’ha detto con una sicurezza tale da mettere i brividi.».

«Ma tu non vuoi tornarci insieme, vero?».

«Assolutamente no!», strillò Kiyo, così forte che persino il ragazzo dall’altra parte della terrazza alzò lo sguardo, infastidito e perplesso. «Sana, quello mi sta minacciando tra le righe. Non era solo, ieri. Fortuna che c’era la mia vicina di casa a controllarsi il giardino - quindi a farsi i fatti miei - altrimenti non so cosa avrebbe fatto».

«Se continua così devi denunciarlo, Kiyo. Per molestie».

L’altra scoppiò a ridere amaramente. «Denunciarlo? E cosa gli fanno? Niente. È il figlio di un avvocato, vuoi che in qualche modo la cosa non venga lasciata passare? L’unica cosa che posso fare è ingaggiare un killer e fargliene dare tante».

«Kiyo!».

«Che c’è?».

Sana sbuffò, puntandole gli occhi scuri contro. «Non devi scherzare su queste cose».

«Sanako, sembri mia nonna. E poi non stavo mica scherzando».

«È che sono preoccupata per te, tutto qui», mugugnò quella, portandosi le gambe al petto e sentendosi inutile per l’amica.

«Ma quanto sei testona, tu» Kiyo le rivolse uno dei suoi rari sorrisi e le pizzicò una guancia. «Comunque ho deciso che mi iscriverò al club di karate, non si sa mai che debba difendermi in futuro. Tanto ho solo il nuoto che mi prende tanto tempo, il resto è libero».

«Ecco, trovo che questa sia la soluzione migliore e più ragionevole», disse Sana in un sospiro. «A volte mi fai prendere certi spaventi».

«Perché?».

«Perché ti conosco abbastanza per essere sicura che assolderesti davvero qualcuno per farlo pestare».

In tutta risposta Kiyo ghignò divertita, chiudendo gli occhi e poggiando la testa contro la ringhiera dietro di lei. «Oggi lavori?».

«No, ho serata libera. In compenso devo andare a provare con la zia per il saggio di Natale».

«Cinque minuti di relax tu mai, eh?».

«A quanto pare non mi sono concessi! Ora se non ti dispiace, dato il mio poco tempo, mi metto a studiare».

«Sì, sì, secchiona. Io intanto mi fumo una sigaretta in santa pace».

Sana neanche sprecò il fiato per gridarle dietro che il fumo le faceva male. Ormai si era sgolata talmente tante volte con paternali degne del miglior ministro della salute, senza ottenere risultati, che la stanchezza aveva preso il sopravvento. Voleva ammazzarsi lentamente e con le proprie mani? Voleva stroncarsi la carriera di nuotatrice professionista? Affari suoi.

 

*

 

Appena Akira sentì il rombo della potente moto si alzò dal letto su cui era placidamente sdraiato e si avvicinò alla finestra. Hisashi, che alzò la visiera del casco, si accorse subito di lui e gli fece un impaziente cenno con la testa di scendere. Doveva essere successo qualcosa, anche un cieco avrebbe notato quanto fosse nervoso. Akira prese la sua felpa e se la infilò di tutta fretta, uscendo da casa in meno di un minuto.

«Che succede?», gli chiese seriamente. Quando vedeva il suo migliore amico così tutta la voglia di scherzare svaniva in un istante.

«Sali, ne parliamo dopo», borbottò Mitsui, porgendogli un casco.

«Vuoi che guidi io?».

«Ammazzati, Sendoh». Nonostante la serietà dell’altro, Akira non riuscì a reprimere un sorriso. Lo portò al molo in cui solitamente il numero sette del Ryonan si dedicava alla sua attività preferita dopo il basket, la pesca. Senza aspettarlo, Hisashi iniziò a camminare sulla sabbia, le mani ficcate nelle tasche dei jeans e l’espressione più incazzata e innervosita che Akira gli avesse mai visto in volto.

«Allora, che succede amico mio?», gli domandò ancora, sedendosi sul molo in legno, mentre l’altro rimase in piedi, alle sue spalle.

«È arrivato alle mani».

Sendoh spalancò gli occhi, voltandosi a guardarlo. «Che cosa?».

Hisashi si passò stancamente una mano in viso, facendola poi sparire tra i capelli scuri e non troppo corti. «La stava per picchiare. Fortuna di mamma che ero in salotto e mi sono accorto subito della situazione, altrimenti non avrei potuto fermarlo».

Akira si morsicò il labbro inferiore, sinceramente dispiaciuto di quella spiacevole situazione in famiglia dell’amico. Il padre non gli era mai andato a genio, ma non pensava che sarebbe arrivato a tanto. «Hisashi, devi fare qualcosa».

«E cosa? Cazzo, l’avrei ammazzato con le mie stesse mani se non avessi sentito mamma piangere».

«Ora dov’è?».

«A mandarsi a puttane il fegato in qualche bar. Per me può anche morire ora».

I due rimasero in silenzio per qualche minuto, assorti nei propri pensieri, mentre il mare, sotto di loro, si muoveva lento contro il bagnasciuga.

«Che intenzioni hai?», ruppe il silenzio Akira, piegando una gamba e poggiandoci sopra un braccio.

«Non lo so, davvero. Spaccargli il muso, forse».

«Potrebbe essere un’idea. Ma non credo possa far bene a te».

«Tu dici? Guarda che il potere curativo di un pugno è un dato di fatto».

Akira sorrise, mentre l’amico si sedette accanto a lui, stringendo i pugni. «Voglio portare via mamma da quell’inferno. E voglio che quello stronzo giri alla larga da lei. Mi troverò un lavoro, così potrò permettermi di pagare l'affitto e l’avvocato».

«Ehi, se hai bisogno di qualcosa lo sai che non mi tiro mai indietro, no?».

Hisashi piegò le labbra in un sorriso. Sarà stato anche un deficiente pervertito, oltre che l’inguaribile Akira-sto-sempre-sorridendo-Sendoh che a volte lo mandava in bestia, ma era anche la persona più affidabile che avesse mai conosciuto. Non amava ammetterlo, ma poter contare su di lui, quando aveva bisogno di sfogarsi a qualsiasi ora del giorno, era una sicurezza che non voleva perdere. «Grazie, amico».

Akira gli batté amichevolmente una manona sulla spalla. «Intendo, anche venire a vivere da noi. Lo spazio c’è e tuo padre–».

«Non è mio padre quello».

«…e quello non saprebbe dove trovarvi, a meno che non ti segua, ma lo metto in dubbio».

Mitsui scosse la testa. «Ti ringrazio, ma non voglio portare i miei casini a voi. Risolverò questa faccenda da solo, avevo bisogno di sfogarmi, ecco tutto».

«Va bene, ma la mia proposta è ancora valida», rispose docilmente Akira. «Comunque credo di sapere dove puoi trovare lavoro».

«Ah, sì?», chiese subito interessato l’altro.

«M-Mmh. Mio zio lavora in una tavola calda, e l’ho sentito proprio ieri incazzato come una iena che il suo facchino si è licenziato senza motivo. Tu hai una moto, no? Potrei mettere una buona parola con lui e farti dare un po’ più di quello che da solitamente», concluse Akira, con un’alzata di spalle.

«Amico, tu sei un genio», fece Hisashi, al settimo cielo. «Se non fosse che avrei paura di quello che potresti fare, ti direi che ti adoro».

Akira scoppiò in una risata cristallina, tenendosi la pancia. «Hisa, temi che ti salti addosso?».

«Ecco, appunto, hentai!», borbottò Hisashi, che scansò uno scarso tentativo di approccio. «Cazzo, smettila o chi ci vede penserà che stiamo insieme!».

«Ma tesoro, io e te siamo fatti l’uno per l’altro!».

«Ma quanto sei idiota», disse Mitsui, levandogli una manata in pieno viso che lo fece ridere ancora di più. «Piuttosto, non è che mi porteresti da tuo zio, ora?».

Akira si asciugò le lacrime dalle risate, poi annuì. «Ad un patto».

L’altro alzò gli occhi al cielo, sbuffando come una pentola a pressione e preparandosi psicologicamente a quello che l’amico gli avrebbe chiesto da lì a due secondi. «Parla».

«Guido io!»

«Eh no, col cavolo!»

Ultime parole famose.

Detto fatto e Akira zigzagava tra le auto per le vie poco affollate di Kanagawa, mentre dietro di lui Hisashi bestemmiava in aramaico, sperando che li portasse sani e salvi tutti e tre: lui, l’idiota e ovviamente la moto.

Quando arrivarono ancora interi al Bar America, Mitsui ebbe il sesto senso che quel posto gli sarebbe piaciuto. Sperava solo che venisse assunto.

«Ma tu guarda un po’ chi si vede!», esclamò il signor Watanabe, fratello della madre di Sendoh.

«Ehilà zio! Come va?», chiese sorridente il nipote, subito seguito da Hisashi che nel frattempo si guardava intorno.

«Siamo incasinati fino al collo, oggi è anche il giorno libero di Sanako e sono letteralmente solo». L’uomo fece spallucce, mestamente. «Ma si tira avanti».

«Sana non c’è, quindi? Peccato», mormorò pensieroso Akira, sfiorandosi il mento. Poi si risveglio, accorgendosi dell’amico dietro di lui impaziente. «Zio, volevo presentarti Hisashi Mitsui, ho pensato che dato che stai cercando qualcuno potrebbe lavorare da te».

Il signor Watanabe spostò la sua attenzione sulla guardia dello Shohoku e lo studiò con circospezione. «Piacere di conoscerti, Mitsui. Ho sentito molto parlare di te da mio nipote».

Hisashi gli strinse la mano, e con un cenno del capo disse: «Conoscendo questo qui posso solo immaginare che le ha detto».

Watanabe si mise a ridere, battendo una mano sulla spalla del nipote. «Comunque, ragazzo mio, io sono disperato, se hai voglia di lavorare e di non lasciarmi a bocca asciutta dopo una settimana, sei dentro. Giochi allo Shohoku, vero?».

«Sì, signore».

«E gli allenamenti a che ora finiscono?».

«Alle sette, quattro volte alla settimana».

Watanabe guardò il calendario, poi sorrise sotto i lunghi baffi. «Il tuo turno inizierà alle otto fino alle undici, ma se vuoi qualche straordinario puoi passare anche come barista, ogni tanto. C’è sempre bisogno di una persona in più».

Il viso di Hisashi s’illuminò e si sentì molto più leggero. «La ringrazio infinitamente, signore. Quando inizio?».

«Passa domani sera per i documenti, così facciamo le cose in regola. Inizierai lunedì, d’accordo?».

«Perfetto».

Si strinsero la mano e i due amici si fermarono a bere qualcosa prima di andarsene.

«Akira, non so come ringraziarti».

«Semplice: offrimi da bere!».

«Scroccone», borbottò a denti stretti l’altro, con sguardo truce. Ma non si tirò certo indietro: quel pazzo gli aveva trovato lavoro in quattro e quattro otto! «Comunque, chi è questa Sanako di cui parlavate prima?».

Gli occhi di Akira brillarono di una strana luce al solo sentire pronunciare quel nome e sorrise, pensando alla ragazza. «Lavora qui come barista da un annetto a questa parte. Studia allo Shohoku, sai?».

«Ah sì? E com’è? Magari la conosco».

Il Porcospino prese in mano il suo bicchiere e lo guardò un attimo, pensieroso. «È speciale».

«Oh cazzo, Sendoh innamorato non pensavo che l’avrei mai visto!», esclamò Hisashi, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Ehi, calmati, non ho detto di esserne innamorato!» Akira sorrise, tuttavia. «Però non posso negare che mi piaccia tanto».

«Amico mio, se è davvero speciale come dici datti una mossa allora. E soprattutto smetti di fare il demente con Hime, o le due Scimmie potrebbero vendicarsi».

 

*

 

Sanako salutò i bambini con un sorrisone, mentre distrutta si trascinava dietro la chitarra e la zia, uscendo dal teatro.

«Oh, siete meravigliosi, davvero!», strillò entusiasta la donna, Masaki, battendo le mani e stringendo la nipote in un abbraccio. «Se continuerete così farete un’ottima figura, vedrai!».

Sana sorrise, sistemandosi al meglio la tracolla sulla spalla. «I bambini sono vivaci, ma imparano in fretta. Mi piace vederli così contenti!».

«Allora ammetti che ti piace insegnare musica!», la provocò la zia, con un ghigno.

Sanako sospirò, abbandonandosi ad un sorriso. Ormai erano anni che Masaki la ossessionava letteralmente per farle intraprendere la carriera di musicista professionista, oltre che assicurarle un posto come insegnante in qualche scuola. E sì che era brava e cantava bene, ma la faccenda ancora non la convinceva più di tanto. Voleva fare qualcosa di più della sua vita che finire ad insegnare due accordi a dei bambini. Ma non sapeva ancora cosa, ecco il problema.

«Comunque una volta tanto mi farai contenta: organizzeremo insieme il concerto di fine anno al liceo, e non voglio sentire scusanti».

«Ma… zia!».

«Niente ma! O puoi scordarti la mia buonissima e appetitosa torta al cioccolato che avevo intenzione di preparare stanotte».

Sana scattò come un gatto e si appese al suo collo, gongolante come una bambina davanti a un negozio di caramelle. Quanto era golosa! E quanto le piacevano le torte della zia!

«Concerto di fine anno?», ammiccò la zia, tendendole una mano per consacrare il patto.

La ragazza gonfiò le guance, indispettita, ma si arrese subito dopo. «E sia».

«Yatta!», saltò di gioia la donna, che a volte era peggio di lei. «E ora andiamo al market, non ho niente altrimenti per cucinare!».

Lasciata la chitarra nel cofano della macchina, Sana seguì trotterellando la zia ed entrambe si persero tra gli scaffali pieni zeppi di porcherie e cose zuccherose.

«Oh, guarda! La glassa fondente!». Masaki ne prese due confezioni al volo, con un sorrisone a trentadue denti smaglianti. «Il cioccolato è il miglior antidepressivo, no?».

«Zia, ma tu non sei depressa», fece ben notare Sana, mentre l’altra rideva.

«Lo so, ma potrei diventarlo e preferisco essere preventiva».

Pagarono una busta completamente ricolma di ingredienti e altri tipi di delizie ipercaloriche che avevano raccolto per strada, e se ne tornarono bel belle a casa, dove le aspettava la madre.

Ma quando misero piede in salotto capirono subito che qualcosa non andava.

Masaki guardò furente l’uomo che stava in piedi, in un angolo della sala, mentre la sorella aveva il volto rigato di lacrime. Sana fu l’ultima ad accorgersi dell’ospite e, proprio quando si stava togliendo la chitarra dalla spalla con uno splendido sorriso per salutare la madre, si ammutolì di colpo.

«Sana, sali in camera tua», le ordinò la madre, cercando di essere imperativa nonostante le lacrime.

«Mamma, cosa…?».

«Fa come ti dice, Sana.», le sussurrò la zia, prendendole la mano.

L‘uomo la guardò con una strana espressione, tra il meravigliato e l’entusiasta. «Piccola mia… Sanako».

Fu in quel momento che si accorse della spaventosa somiglianza con quello sconosciuto.

Fece cadere la chitarra in terra e l’unica cosa che riuscì a fare fu correre. Corse via, senza una parola, via da quella casa, via da quell’uomo. Cosa voleva da lei? Perché era lì? Non gli era bastato abbandonarle sedici anni prima senza mai farsi vivo?

Sana continuò a correre, le lacrime ormai che bagnavano anche il suo viso. Non guardava dove metteva in piedi, non si curava delle occhiate dei pochi passanti a quell’ora di sera. Voleva solo cambiare aria, rimescolare le idee per poter tornare a mente più lucida e affrontarlo.

Quando andò a sbattere contro qualcuno neanche sentì il dolore della botta che prese al fondo schiena. E diavolo, era caduta proprio bene!

Rukawa guardò quel corpicino scosso dai singhiozzi e non ebbe cuore di mandarla al diavolo per avergli fatto prendere un colpo, dato che stava praticamente dormendo in piedi. «Ehi».

Sana alzò lo sguardo acquoso su di lui e scosse la testa, coprendosi il volto. Kaede le porse una mano per aiutarla a rialzarsi e quando la vide meglio sotto il lampione non riuscì a capire dove l’avesse già vista.

«Scusami…», sussurrò Sana, andando via nuovamente di corsa.

Il Volpino rimase a guardarla finché non sparì dietro un angolo e fece spallucce, riprendendo a camminare verso casa.

 

 

 

Continua...

 

 

 

* * *

 

Incredibile ma vero, eccomi ad aggiornare dopo una settimana! Sono un po' distrutta (anche se "un po'" è un eufemismo!), e scrivere sui miei selvaggi preferiti è un ottimo modo di rilassarmi. :)

In questo nuovo capitolo si delineano meglio quelli che sono i caratteri e i problemi che, nel corso della storia, andrò a spulciare meglio... Spero vi sia piaciuto! ;)

Prossimamente, come vi avevo promesso, aggiungerò le schede dei nuovi personaggi... Avevo intenzione di disegnarli, ma il tempo che ho è poco, quindi ho trovato un'altra via! :P

 

E ora passiamo ai ringraziamenti!

Grazie a chi ha recensito:

lirinuccia: ma ciao! *_* Che piacere leggerti! Son stra contenta che Hime ti piaccia, anche io l'adoro! *O* Ma io non faccio testo. XD Hanamichi ti ringrazia per il sostegno, promettendo al mondo intero che prima o poi farà valere il suo essere maschio, alla facciaccia di tutti. Per quanto riguarda Arimi dovrai aspettare ancora un po' per conoscerla meglio, ma tranquilla, ho in serbo parecchie sorprese che la riguardano. E infine il volpino... Siamo in due ad interessarci! <3 Ho ingrandito il carattere come mi hai consigliato, così va meglio? Un bacione, aggiorna presto anche tu! ;)

kuro: ahaha ragazza mia, se Hanamichi ti sentisse potrebbe tirarti una testata colossale, sai? (Anche se ok, ammetto che delle volte mi faccio prendere anche io dallo yaoismo più sfrenato <3) Ma non voglio darti false speranze, Hana è etero a tutti gli effetti, nella mia storia. :P Grazie mille come sempre, è un piacere farti ridere! :D Bacione :*

 

Grazie a chi l'ha aggiunta tra le preferite: kuro, lilli84, oOo14_YukA_14oOo, sophia90 e chi tra le seguite: lirinuccia, moirainesedai.

 

Ci si legge al prossimo capitolo! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** 04. Yin e Yang, come due modi diversi di ascoltare. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 4

Yin e Yang, come due modi diversi di ascoltare.

 

 

«Hicchan! Ma allora è deciso? Domani andiamo a cena da Sanako?», le chiese per l’ennesima volta il fratello, con occhioni luccicanti.

«Sì, Hana, te l’ho già detto!», rise lei, sulle sue spalle.

«E posso chiedere ad Harukina-cara di venire con noi?».

«Se Akagi te la lascia fai pure».

«Possiamo invitare anche lui», azzardò Yoehi, facendo scendere un coccolone al rossino.

«Ma sei matto? Quello così mi stacca la testa a morsi!».

Hime saltò giù dalla schiena del fratello e si appese al collo dell’amico, allegra. «Yo, mi hai appena dato un’idea bellissima!».

Mito la guardò preoccupato. «Hime, ho paura delle tue bellissime idee».

«Perché non facciamo una bella cena con tutta la squadra?».

«Cena? Squadra? Che state progettando?», domandò Ryota, comparendo in quel momento con le mani intrecciate sulla nuca.

«Esattamente quello che ho appena detto: cena con la squadra! Non è un’idea fantastica?», fece gioiosa Hime, che andò incontro ad Ayako per avere qualcuno dalla sua parte.

«Oh, per me va bene», annuì la prima manager, mentre la rossa esclamava un “Aya-chan, ti adoro!”.

«Ok, vado a sbandierare ai quattro venti la mia geniale idea!», gridò Hime, saltellando verso le classi degli altri componenti del club. Sarebbe stato fantastico, pensava la ragazza, contenta. Amava quei pazzi e ogni occasione era buona pur di stare tutti insieme a fare casino.

«Hanamichi, senza offesa ma tua sorella a volte è più spaventosa di te», commentò Ryota, mentre la guardava trotterellare come una bambina verso l’edificio scolastico.

«Non è spaventosa, è geniale, proprio come me! Ahaha!».

«Ma che ci parlo a fare con te».

Intanto la rossa passò prima di tutto da Kaede, che trovò come da copione bello che addormentato sul banco, con tanto di bava che colava da un lato della bocca direttamente sul suo braccio.

«Ehi, orsetto lavatore!». Lo scosse un po’, ma quello non diede segni di cedimento.

Finché non gli gridò in un orecchio, chiaro.

«Sei coraggiosa a svegliarlo», commentò una ragazza, seduta qualche banco più indietro. Aveva i capelli palesemente tinti di biondo e osservava annoiata gli altri che schiamazzavano da mattina presto.

Hime la guardò con un sorriso. «So quello a cui vado incontro. Ma solo perché so come difendermi».

Nel frattempo il Volpino si svegliò dal letargo con un ringhio sommesso e fulminò con il solo sguardo la sua migliore amica. «Che vuoi, decerebrata?».

«Domani sera sei libero?», chiese lei, inchinandosi e poggiando gli avambracci sul banco.

«Perché?».

«Uffa, non rispondermi sempre con un’altra domanda, è maleducazione! Sei libero sì o no?».

«Hn, forse. Perché?», continuò imperterrito lui.

«Perché domani sera si va a cena fuori e tu non puoi mancare», disse Hime, puntandogli un dito contro per sottolineare meglio la sua decisione. Senza neanche dargli il tempo di rispondere con qualche altro monosillabo per cui era tanto famoso, gli agitò una mano in segno di saluto e strillò: «Ci sentiamo più tardi per metterci d’accordo con l’orario, Ede!», tanto che le ragazze presenti si avvolsero di fiamme dalla rabbia.

«Che bell’elemento», commentò quasi divertita Kiyo, mentre guardava sparire quella furia umana di Hime Sakuragi. «È la tua ragazza?».

Per poco Kaede non si strozzò con la sua stessa saliva e la guardò con un misto di perplessità e terrore, cosa che incredibilmente la fece scoppiare a ridere.

Hime, intanto, aveva già ventilato l’idea a Hisashi, che trovò sempre più torvo, ma che accettò ugualmente, per cambiare un po’ d’aria. Quando però lo chiese ad Akagi la situazione fu un tantino più problematica, dato che il Gorilla non aveva nessunissima intenzione di sorbirsi quei casinisti per un’intera serata. Ma si sa, quando Hime si metteva qualcosa in testa difficilmente cambiava linea d’onda. Fu con la sua forza persuasiva, ergo insistenti “Ti prego, ti preeego!” che il Gorilla, e a ruota anche Kogure, accettò. Ancora più problematico, e parecchio imbarazzante, fu chiederlo a Masuhiro Araki che, appena la vide e sentì quello che la sua bella aveva da dirgli, si alzò mezzo metro da terra dalla contentezza, mugugnando qualcosa tipo “Un appuntamento! Un appuntamento!”.

Eichiro e Kimi li trovò in corridoio, davanti alla loro classe, e, gentili come sempre, accettarono di buon grado. Quei due si erano ambientati subito nel gruppo squadra; erano socievoli e simpatici, un po’ casinisti a volte, ma evidentemente doveva essere un buon requisito per far parte integrante del club di basket.

«Sana è in classe con voi, vero?», chiese Hime, sbirciando dentro l’aula per cercare la ragazza.

«Sì, ma ancora non è arrivata», le rispose Kimi. «È strano, di solito è sempre puntuale».

«Va bene, quando arriva potete dirle che le devo chiedere un favore?».

Eichiro le sorrise, annuendo. «Ma certo!».

«Grazie, ragazzi! Buona giornata!», esclamò salutandoli e correndo verso la sua classe.

I gemelli la guardarono zigzagare tra uno studente e l’altro, ridendo e chiedendo scusa a tutti per la fretta.

«Quella ragazza è un terremoto», commentò Kimi.

«Beh, non sarebbe la sorella di Sakuragi».

Kimi guardò il gemello con aria schifata. «Cosa vuol dire? Io non sono mica un casinista come te!».

«Ehi, non dirlo con quel tono!». Eichiro mise il broncio, in una perfetta imitazione di Hanamichi quando si offendeva.

I fratelli si lanciarono qualche occhiata, per poi scoppiare a ridere e abbracciarsi come se niente fosse accaduto.

Chi erano i pazzi, ora?

 *

 

Kaede aprì assonnato la porta del terrazzo e vacillò un poco contro lo stipite mentre sbadigliava come un leone. Era così abituato al suo perenne sonno, ma a volte gli veniva da domandarsi se fosse normale o meno. Non che ci volesse un genio per capirlo, probabilmente quando era ancora piccolo gli avevano dato narcotici al posto del latte.

L’unica cosa che riuscì a svegliarlo almeno il tanto giusto per non chiudere gli occhi fu la vista di una ragazza che piangeva, con il capo nascosto tra le braccia, poggiate sulle ginocchia. La ragazza silenziosa. Rimase fermo sulla soglia, non sapendo bene neanche lui che fare. Avrebbe potuto infischiarsene e mangiare il suo bento, per dedicarsi al suo sonnellino pomeridiano, oppure poteva andarsene per non disturbarla. Tutto, tranne che rimanere fermo come un pesce lesso in salamoia. L’unica cosa che gli venne in mente di fare fu quella di far sbattere la porta dietro di sé, con la speranza che lei si accorgesse di lui e la smettesse di frignare per darsi un contegno davanti al ragazzo più ambito della scuola.

E infatti lei alzò di scatto la testa per vedere di chi si trattasse, ma non si asciugò le lacrime frettolosamente con le maniche della giacchetta grigia, né cercò di calmarsi, tutt’altro. Lo guardò per qualche secondo con la vista appannata dalle lacrime, poi tornò a piangere, come se lui non fosse appena comparso.

Quegli occhi… dove li aveva già visti?

Poi, come un flash, si ricordò dell’incontro-scontro della notte precedente e, anche se la sua memoria fotografica non era delle più affidabili, fu più che sicuro che si trattasse proprio di lei. Ma perché sembrava così disperata?

Kaede prese posto come sempre dall’altro lato della terrazza ma, a differenza delle altre volte, non le tolse gli occhi di dosso. I capelli lunghi e liscissimi le ricadevano davanti, come una copertina calda che la proteggeva dall’esterno. Le spalle, minute, si muovevano a scatti, scosse dai singhiozzi che non accennavano a diminuire.

Sentendosi osservata, Sana alzò nuovamente lo sguardo e si sentì andare a fuoco per l’imbarazzo quando incontrò quello del ragazzo. Che figura idiota stava facendo!

Si passò i palmi delle mani sugli occhi arrossati, tirando su col naso. «Sembro una stupida, vero?», chiese, in un sorriso amaro.

Kaede non pensava certo che gli avrebbe rivolto la parola, e si destreggiò dall’impaccio con un suo consueto “Hn”, indecifrabile.

Ovviamente la ragazza pensò che le avesse dato retta e si strinse nelle spalle. «Lo so, effettivamente lo sono».

Stupida ragazzina, lui non l’aveva mai detto! «Perché piangi?». E tu perché fai domande idiote?

Lei lo guardò stralunata. «Non credo che lo voglia sapere veramente. In ogni caso è una storia lunga».

Kaede si poggiò stancamente contro la ringhiera alle sue spalle, senza smettere ancora di guardarla. «Ho tempo».

Sanako abbassò lo sguardo, torturandosi il tessuto della gonna e poggiando il mento alle ginocchia. Il pianto isterico le era momentaneamente passato, per fortuna. «Sono spaventata, tutto qui». Lui non disse niente, aspettando che fosse lei a continuare. E lei, infatti, continuò. Quegli occhi, per quanto freddi fossero, le davano uno strano senso di sicurezza, proprio come quelli di Kiyo. «Ieri è tornato papà a casa. Erano sedici anni che non si faceva vivo. E io ho avuto paura, perché non ero pronta ad affrontarlo».

Sì, perché appena l’aveva visto, con la barba un po’ lasciata andare e quell’espressione in viso così simile alla sua, l’avevano scossa terribilmente. Non pensava che l’avrebbe mai incontrato, non così di sorpresa. L’idea di poterlo conoscere, finalmente, un sogno che faceva molto spesso durante le sue notti agitate, era troppo per lei. Era scappata senza riflettere, con la sola intenzione di respirare un po’ d’aria che in quei pochi istanti le era mancata. Quando era tornata a casa, un’ora dopo, lui se n’era già andato. La madre le aveva detto che alloggiava in un piccolo hotel in periferia e che sarebbe passato l’indomani, se avessero voluto.

«Zia era furiosa, mentre mamma era sconvolta quanto me. Non se lo aspettava e tutte le sue difese sono crollate, proprio come le mie. Non so cosa fare, odio non saperlo». Si strinse le gambe al petto, mentre le lacrime pizzicavano nuovamente per venir fuori.

Kaede continuò a rimanere in silenzio, consapevole che qualsiasi parola sarebbe stata fuori luogo. Lui, poi, non poteva permettersi di consolare nessuno, dato che neanche con Hime l’aveva mai fatto. Non ci riusciva proprio. Ma non perché fosse un menefreghista completo, tutt’altro. Solo che non sapeva mai cosa dire, come dirlo e quando.

«Non so perché sia qui, non so neanche se voglio saperlo. Ho una tremenda voglia di conoscerlo, ma mi spaventa tantissimo! Come faccio a stare tranquilla se ho davanti l’uomo che mi ha dato la vita e non so neanche chi sia in realtà?». Sana si asciugò nuovamente gli occhi, scuotendo la testa. «Scusami, non so perché ti sto annoiando con tutte queste cose tristi, non volevo…».

«Te l’ho chiesto io», le fece saggiamente notare il ragazzo, che piegò una gamba verso il petto e vi ci poggiò sopra un braccio.

«Grazie», sussurrò Sanako, così piano che lui non la sentì.

«Hn

Sana gli sorrise, parlando con un tono più udibile. «Grazie. Non so neanche come ti chiami, eppure mi hai ascoltata senza fiatare».

Il fatto che quella ragazzina ingenua non sapesse chi fosse lo lasciò più sgomento della storia che gli aveva appena raccontato. Stava scherzando? Esisteva veramente una ragazza in quella scuola che non sapesse chi fosse lui? Non che la cosa lo facesse imbestialire, tutt’altro. Più che altro si chiedeva dove avesse la testa, dato che tutta la popolazione femminile del liceo, con suo sommo dispiacere, aveva sempre il suo nome in bocca.

«Kaede Rukawa».

Lei strabuzzò gli occhi, arrossendo fino alla punta dei capelli. «Rukawa? Quel Rukawa?».

Kaede alzò un sopracciglio, perplesso. «A meno che non ce ne siano altri».

Inspiegabilmente per lui, Sana gli sorrise solare, finché non scoppiò proprio a ridere. E ora che le prendeva a quella lunatica?

«Scu-scusami, è che… Hanamichi racconta così tante cose divertenti su di te!».

Quel do’aho. Avrebbe messo in conto anche quello, la prossima volta. «Hn».

Il sorriso della ragazza si addolcì e si alzò, per andare a sedersi vicino a lui. Gli tese la mano, presentandosi. «Sanako Tsukiyama, piacere di fare la tua conoscenza, Rukawa».

Gli occhi blu del ragazzo fissarono la manina della giovane e ricambiò il gesto con un veloce contatto che somigliò quasi a uno schiaffetto più che a una stretta di mano. Lei comunque non si scompose, continuando a sorridergli, finalmente senza lacrime, ma solo con gli occhi un po’ rossi.

Sanako… perché tutto di quella ragazzina continuava a dargli uno strano senso di deja-vu? Dove l’aveva già sentita nominare?

La giovane si era già alzata, diretta verso la sua cartella per pranzare. «Buon appetito!», gli disse, spiazzandolo ancora.

«Hn, altrettanto».

Mangiarono in silenzio come sempre, ma a differenza delle altre volte Sana si fermò qualche volta a guardare il ragazzo. E chi l’avrebbe mai detto che quello che vedeva praticamente tutti i giorni fosse il tanto adorato Kaede Rukawa? Se le sue fans l’avessero saputo era certa che le avrebbero messo un cappio al collo per farla fuori. Beh, non poteva negarlo, era veramente un bel ragazzo. Un tantino freddo all’apparenza, con quegli occhi felini e blu e l’espressione sempre seria, ma per quel poco che aveva potuto vedere non sembrava così asociale. Non che si fosse dimostrato loquace, ma non era neanche così menefreghista come lo descriveva Hanamichi.

Ecco, su una cosa il rossino non si sbagliava: era perennemente narcotizzato, pensò divertita quando lo vide cercare la posizione più adatta per addormentarsi.

 

*

 

«Ciao Nako!».

Sana si voltò di scatto, lasciando perdere per un attimo il tavolino da finire di pulire. «Akira, che piacere vederti!».

Lui sorrise gentile, come sempre, mandandole in pappa il cervello. Come sempre. «Stai per staccare, vero?», le chiese, dandole una mano con alcuni bicchieri da mettere a lavare.

Lo ringraziò velocemente, annuendo imbarazzata. Quel ragazzo era troppo sconvolgentemente dolce e carino per il suo povero cuore.

«Hai da fare, dopo?», continuò lui, poggiandosi con le braccia sul bancone, mentre lo zio, dall’altra parte del locale, ridacchiava e scuoteva la testa.

«No… cioè, devo andare a casa», bofonchiò, ormai rossa come un peperone. Perché continuava a sorriderle così? Voleva vederla morta, per caso?

«Allora mi farebbe piacere poterti accompagnare». Akira si mordicchiò nervosamente il labbro, sperando che Sana accettasse. Accidenti, si era fatto una corsa fino alla metropolitana, dopo gli allenamenti, per andare a trovarla! Doveva essere veramente impazzito, aveva ragione Hisashi.

Sana si lasciò andare a un sorriso e lui sospirò vittorioso. «Va bene, dieci minuti e finisco».

L’espressione di pura felicità che gli si dipinse in volto la fece arrossire ancora di più e incespicò sul gradino che conduceva alle cucine per l’imbarazzo.

Quando, un quarto d’ora dopo, Sana gli si presentò senza il grembiule e con i capelli sciolti dalla solita coda di cavallo che aveva per lavorare, Akira non poté pensare ad altro se non adorabile.

«Andiamo?», le chiese, con un sorriso da orecchio a orecchio. Lei annuì, timidamente, stringendosi la cinghia della borsa a tracolla tra le mani, come se si trattasse di un anti-stress.

Uscirono dal locale in silenzio, un silenzio decisamente troppo pesante per non sentirsi in soggezione.

«Allora, come va?», azzardò Akira, una mano in tasca, l’altra che reggeva il borsone degli allenamenti sulla spalla.

Sana fece spallucce, rabbuiandosi un poco. «È successo un mezzo macello, in realtà».

Il nuovo capitano del Ryonan corrugò la fronte, preoccupato. «Me ne vuoi parlare?».

La ragazza gli raccontò dell’improvviso ritorno del padre, senza nascondere le sue paure. Akira era un ragazzo dolce e comprensivo, che sapeva darle sempre il consiglio migliore in qualsiasi circostanza. Le avrebbe fatto bene sfogarsi anche con lui. «Secondo te come dovrei comportarmi?».

Akira guardò il mare alla sua sinistra, soppesando la risposta da darle. «L’unica cosa che posso consigliarti è di non avere timori. Non sei tu ad averlo abbandonato, Sana. È lui che deve aver paura della tua reazione».

La barista si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo verso terra. «È che ho così tanta voglia di conoscerlo. Non riesco nemmeno io a capire se sono arrabbiata con lui per non essersi mai fatto sentire o essere felice perché ho l’opportunità di avere finalmente un padre. E se non dovessi piacergli? E se dovesse andarsene ancora una volta?».

Sendoh si mordicchiò le labbra, posandole un braccio intorno alle spalle, cosa che la fece sobbalzare e arrossire violentemente. La guardò intensamente con i suoi sempre ridenti occhioni blu e l’ammonì con lo sguardo. «Se ti sento dire nuovamente che potresti non piacere giuro che ti uso come esca per la mia prossima battuta di pesca», le disse seriamente. «Sei una ragazza splendida e… credimi, non puoi non piacere, soprattutto a tuo padre. Sarà orgoglioso di conoscere la persona che sei».

Le guance imporporate della ragazza lo fecero sorridere nuovamente e lei bofonchiò un grazie che a mala pena riuscì a sentire.

«Sei troppo insicura, a volte», continuò Akira, ora guardando un punto impreciso davanti a sé. «Dovresti credere in te stessa più spesso, Sanako». E detto da uno che continuava ostinatamente a tenerle un braccio sulle spalle sapendo bene l’effetto che comportava nella sicurezza della ragazza era il colmo.

«Grazie, Akira. Sei sempre così gentile con me».

I due giunsero all’abitazione della barista e si fermarono davanti al cancelletto d’ingresso che dava su un piccolo e delizioso giardino curato. Akira si mise una mano in tasca, mentre l’altra sorreggeva la solita pesante sacca di basket, e sorrise gioviale come sempre. «Non posso non esserlo con una donzella graziosa come te».

Sana boccheggiò qualche frase sconclusionata, ottenendo la più sincera e cristallina risata in risposta.

«Oh, quasi dimenticavo!», esclamò il giocatore di basket, battendosi una mano sulla fronte. «Lunedì conoscerai un mio amico che lavorerà con te al bar, se dovesse comportarsi male fammelo sapere e ci penserò io», la informò, strizzandole un occhio ridente.

«Saprò a chi rivolgermi, allora», rispose Sana, sorridendo. «Ci vediamo, Akira, e grazie per avermi accompagnata a casa!».

«È stato un piacere» Akira la guardò sparire dietro il portone di ingresso e si lasciò scappare un sospiro. «Un piacere».

In casa Sanako non trovò né la zia né la madre, la prima probabilmente ancora occupata a scuola, la seconda uscita un’ora prima per il turno in ospedale, dove lavorava. Poggiò la cartella nella sua accogliente e adorata camera al secondo piano e si cambiò velocemente con una tuta blu scuro, che solitamente usava in casa da brava pantofolaia. Trotterellò in cucina con uno strano sorriso sulle labbra e accese la televisione, puntuale per l’appuntamento con il suo telefilm preferito. Dopo la chiacchierata con Akira si sentiva decisamente meglio e pensò che avrebbe affrontato di petto la complicata situazione di famiglia.

Aprì una delle ante dei pensili della cucina alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare nel frattempo che preparava la cena e trovò un pacchetto aperto di pop-corn, che facevano esattamente al caso suo. Guardò con estremo interesse la torta che la notte prima le aveva preparato la zia, ma non ebbe il cuore di toccarla… altrimenti l’avrebbe finita tutta.

Non fece in tempo ad aumentare di poco il volume della tv che qualcuno suonò alla porta, facendola sobbalzare. Che le due sorelle si fossero dimenticate le chiavi di casa?

Si avvicinò alla finestra che dava sul salotto e sbirciò da dietro la tenda. La vista dell’uomo, quell’uomo, che si stringeva nelle spalle, titubante, ebbe il potere di immobilizzarla sul posto, senza neanche darle la possibilità di respirare.

Era lì, davanti all’ingresso, aspettando che qualcuno gli aprisse la porta.

Ed era suo padre.

Riuscì a muovere qualche passo solo per la sua grande forza di volontà e per le parole dell’amico Akira che le risuonavano in mente, ma non aprì subito. Rimase ferma nel piccolo disimpegno che separava l’ingresso dal salotto e cercò di regolarizzare la respirazione, praticamente assente.

Dovresti credere in te stessa più spesso, Sanako.

Strinse i pugni e, sebbene fosse tradita dal tremolio delle sue mani, aprì il portone e ci si appoggiò, per cercare sostegno quando i suoi occhi incontrarono quelli stupiti e malinconici del padre.

«Sa-Sanako…».

La ragazza stritolò la maniglia in ottone che stringeva nella mano sinistra e deglutì a fatica. «Mamma non è in casa».

L’uomo abbassò il capo, dondolandosi in segno di assenso. «Lo immaginavo. Beh, ecco… posso entrare?».

Sana prese un bel respiro e si fece da parte, facendolo passare. Si richiuse la porta alle spalle, guardando quel signore che le sarebbe sembrato piuttosto anonimo se non avesse saputo chi fosse in realtà. «Posso… offrirle qualcosa?».

Lui sussultò vistosamente nel sentirsi dare del “lei” da sua figlia e la guardò con occhi lucidi, occhi che a stento riuscivano a cacciare via le lacrime di una vita.

«Non… non darmi del lei, Sanako… Sono… sono tuo padre».

«E uno sconosciuto», aggiunse lei, più fredda di quanto avrebbe voluto apparire.

Lui chinò nuovamente il capo, colpevole, e non aggiunse altro. «Un bicchiere d’acqua andrà benissimo, grazie».

Sana sparì in cucina, incapace di dire o pensare qualcosa di vagamente sensato. Quanto avrebbe voluto che ci fosse qualcuno con lei che l’aiutasse a districarsi da quel momento così strano.

Il padre la seguì in cucina e si sedette in un angolino del tavolo, guardando distrattamente la televisione che, allegra, mandava in onda un telefilm comico. Prese il bicchiere che Sana gli stava porgendo con un grazie sommesso e bevette un solo sorso, tanto per tenersi impegnato.

«Te ne andrai ancora?».

L’uomo alzò gli occhi neri, così simili ai suoi, su di lei, non nascondendo un certo timore e imbarazzo per quella domanda. Sapeva che le doveva delle risposte, sapeva di doverle dare delle spiegazioni plausibili, ma ancora non si sentiva pronto. I sensi di colpa lo stringevano in una morsa asfissiante e pregò tutti i Kami del cielo affinché gli dessero la forza necessaria ad andare avanti. «Non lo so… dipende da voi».

Sana strabuzzò gli occhi. «Da noi? Noi?».

«A-aspetta, non fraintendermi!», si affrettò ad aggiungere lui, agitando una mano nel disperato tentativo di zittirla prima che potesse capire tutt’altro. «Nel senso– nel senso che dipende se voi mi vorrete».

«Perché dovremmo? Perché…» Sana esitò prima di continuare. «Perché te ne sei andato? Non ci volevi più bene?».

Lui scosse la testa, affranto. «Bambina mia, io vi amo, l’ho sempre fatto e sempre lo farò, qualsiasi cosa voi decidiate di fare».

La ragazza non riuscì più a trattenere le lacrime e dovette mordersi con forza un labbro pur di non singhiozzare.

«È solo che… eravamo troppo giovani quando è iniziato tutto e… e ho avuto paura», proseguì il padre, prendendo un bel respiro. «Non avevo un lavoro, non una casa che potesse ospitarci tutti e tre… E mi son chiesto: come posso offrire loro una vita degna di essere chiamata tale?».

«E hai pensato bene di scappare».

Il padre abbassò lo sguardo, prendendosi la testa tra le mani. «Sono stato uno stupido e… un codardo. Pensavo che se fossi sparito non avrei avuto più pensieri, né problemi. Ma mi sbagliavo, oh, di grosso».

«Con che coraggio torni, ora? Cosa speri di trovare?», domandò Sana, tra le lacrime. «Sai cosa abbia significato per la mamma crescermi da sola? Se non fosse stato per zia a quest’ora chissà dove saremmo finite! E per me? Non hai pensato a me? Tutti a scuola hanno un padre che va a vedere i propri figli alle competizioni sportive, ai saggi di musica… Tutti, tranne me!», gridò, sputandogli in faccia la rabbia e la delusione di una vita. «Ho sempre e solo immaginato cosa potesse significare avere una figura maschile che mi proteggesse, che mi desse consigli e che mi spronasse a fare quello che amo. Per sedici anni ti ho aspettato, perché torni solo adesso?».

«Perché ho perso tutto», le confessò in un bisbiglio, stringendo con forza i capelli lasciati crescere un po’ troppo da qualche mese. «Ho perso il mio lavoro, ho perso la donna con cui vivevo, ho perso i miei amici e la mia casa… ho perso tutto».

«E non troverai niente qui», fece una voce alle sue spalle. Masaki, braccia conserte e lo sguardo più duro e severo che la nipote le avesse mai visto in viso, lo guardò intensamente, avanzando verso di lui con passo sicuro e diretto. «Lascia che ti dia un consiglio: stai lontano da Sanako e da mia sorella. E ora vattene».

Sana si portò le mani alle guance, per poi coprirsi gli occhi bagnati per le lacrime quando l’uomo le lanciò un’ultima occhiata mortificata, prima di lasciare la loro abitazione in silenzio.

La zia la raggiunse velocemente e l’abbracciò, accarezzandole i capelli dolcemente. «Mi dispiace che tu debba sopportare tutto questo, piccola mia. Mi dispiace tanto».

Sanako si aggrappò alla donna e la strinse con forza, dando libero sfogo al pianto.

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Dopo due settimane infernali rieccomi qui!

Prima di passare alla scheda della settimana vorrei dire a tutte/i coloro che seguono questa storia che... Niente è come sembra! °_°/

...lol, non spaventatevi, tranquille/i! Capirete strada facendo. :P

Inoltre ringrazio infinitamente coloro che hanno aggiunto questa ennesima pazzia tra i preferiti e le seguite, e in particolare chi ha commentato il capitolo precedente:

Spieluhr: grazie mille, sia per il coraggio di aver letto anche WB, sia per seguire anche questa! *_* Spero non ti deluda!

lirinuccia: ma... ma... *_* Così mi commuovo e mi monto la testa, sappilo! <3 Son contenta che ti piacciano sia Sanako che Kiyo, ho sempre il terrore di creare dei mostri xD E sono ancor più contenta del fatto che ti piaccia l'amicizia tra Hisashi e Akira - quei due, secondo me, son perfetti per essere amici: uno è tenebroso, l'altro solarissimo! Un po' come Kaede e Hanamichi. :) Comunque non metterti problemi per la tua idea, non voglio che stravolga la tua trama, anzi! Sarebbe curioso vedere come sviluppiamo la cosa entrambe! :D Un bacione e a presto, aspetto un tuo aggiornamento! :*

 

Ci si legge al prossimo capitolo! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** 05. Una tranquilla serata in compagnia ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 5

Una "tranquilla" serata in compagnia.

 

 

 

«Ehi, Scimmia, ma questa è tua sorella… o sei tu?!», domandò Hanamichi già pronto a ridere come un demente, intento a curiosare nella stanza di Kiyota che se ne stava bellamente spaparanzato nel letto, mentre cercava di difendersi dalle cuscinate della sua ragazza.

Nobunaga riuscì a buttare un’occhiata distratta in direzione del rossino, ma divenne attento tutto d’un tratto appena si rese conto di cosa quel pazzo stesse tenendo pericolosamente in mano.

«Rimettila dove l’hai trovata, brutto ficcanaso!», sbraitò come una zitella acida, mentre balzava giù dal letto e strappava di mano la preziosa fotografia che l’altro aveva recuperato da chissà dove. E dire che l’aveva nascosta più che bene proprio per evitare situazioni spiacevoli come quella!

«Che cos’era?», chiese interessata Hime, che trotterellò accanto al fidanzato per cercare di sbirciare qualcosa. «Una foto compromettente? Dai, dai, fammela vedere, Nobu-chan!».

«Scordatelo», fece la scimmietta del Kainan, più rosso dei capelli dei gemelli. «E tu vedi bene di tagliarti le mani la prossima volta! Non ti hanno insegnato che non si curiosa nei cassetti altrui?».

Hanamichi si mise a ridere sguaiatamente, tirandogli amichevoli pacche sulla spalla. «Avanti, Scimmia, ormai non dovresti avere più segreti con tuo cognato!».

«E a maggior ragione con la tua donna, Nobu-chan!», diede man forte al fratello Hime, mentre il padrone di casa alzava gli occhi al cielo, esasperato.

«Ma chi me l’ha fatto fare?», borbottò, beccandosi subito dopo un doppio scappellotto da parte dei due fratelli.

«Ehi! Guarda che quella che ti deve sopportare sono io!», lo rimbeccò Hime, mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo truce. Hanamichi, al suo fianco, annuì con aria saccente.

Kiyota mise su il broncio, offeso nell’orgoglio e ancora intimorito dalla possibilità che quelle due furie umane potessero fregargli la fotografia. «Non vale due contro uno, maledetti Sakuragi. Siete anche in trasferta!».

«Prometto a nome di entrambi che se ci fai vedere quella foto smetteremo di rompere le scatole», disse solennemente Hime, con una mano sul cuore, l’altra ben nascosta dietro la schiena con le dita incrociate.

«Non mi fido di voi, scimmie infide» .

«Checcosahaidetto?!», sbraitò Hanamichi, che gli saltò letteralmente addosso rischiando seriamente di spezzargli la schiena, mentre Hime gli fregava la foto di mano e la guardava incuriosita.

«Ehi! EHI! Ridammela, subito!», gridò Nobunaga, cercando di divincolarsi dalle grinfie del rossino, molto più alto e pesante di lui. «E mollami, scimmione!».

Nel frattempo Hime, caduta in ginocchio, era partita per la tangente con le lacrime agli occhi, non riuscendo a stare in piedi per le risate. «No-Nobu-chan… sei… sei… una stra-figa!».

Hanamichi afferrò la fotografia per guardarla meglio e, resosi conto che quella che sembrava una bella stanga di ragazza altro non era che Kiyota in persona, vestito con un succinto abito giallo, scarpe con i tacchi e tanto di trucco sulle labbra e sugli occhi. Inutile dire che Sakuragi mollò la presa sulla scimmietta del Kainan, dato che le forze gli sfumarono via quando iniziò a ridere come mai aveva fatto in vita sua.

Nobunaga, d’altro canto, guardò con crescente interesse qualsiasi cosa potesse fare il caso suo, ossia un’arma per far fuori una volta per tutte quei due dementi di gemelli che doveva sopportare.

«Avete finito?!», sbraitò seccato, mentre riprendeva possesso della fatidica fotografia e se la ficcava in tasca.

«Scimmia… io… io non pensavo che– che–».

«Però… sei anche gnocca, Nobu!».

Kiyota esplose di colpo, sbraitando come un ossesso e parlando di qualcosa che aveva a che fare con una scommessa persa e tanti shot di vodka. Poi uscì dalla camera sbattendo la porta, lasciandoli attoniti. Due secondi più tardi i gemelli, dopo essersi guardati in faccia, ripresero a ridere ancora più forte.

Arimi entrò quatta quatta nella stanza del fratello, chiedendosi cosa ci fosse di così divertente da rischiare la morte per soffocamento dalle troppe risate, ma non ebbe il tempo di domandare niente perché, inspiegabilmente, si unì all’ilarità anche lei. Quei due erano contagiosi all’inverosimile!

«Ari-chaaan! Non dare corda a quelle due scimmie!», si sentì Nobunaga dal bagno, dove si era chiuso in meditazione per affogare i dispiaceri nella tazza.

«Ragazzi, ma… potrei sapere perché stiamo ridendo?», domandò Arimi, sorridente, mentre si sedeva sul letto - che strano, perché non era più sulla sedia a rotelle?

Quando i gemelli riuscirono ad unire più di due parole dando un senso a quello che volevano dire, Hanamichi spiegò cosa aveva genialmente scoperto in uno dei mille antri nascosti in camera di suo fratello e la ragazza si grattò la testa, pensierosa. «Oh, forse ho capito cosa avete trovato!».

«Cosa?», chiesero incuriositi i due, sedendosi sul letto.

«Qualche mese fa Nobunaga sfidò il senpai Maki, in un uno contro uno. Sapete com’è esibizionista, no?».

«Già, sta sempre saltando da una parte all’altra per farsi notare», commentò Hanamichi, come se lui fosse estraneo a quel tipo di comportamento.

«Beh, c'era tutta la squadra e Nobunaga era un po' brillo... quindi il senpai accettò a una condizione: se Nobu-chan avesse vinto gli avrebbe fatto gli elogi davanti all’allenatore; in caso contrario avrebbe dovuto fare una cosa per lui».

I gemelli sgranarono gli occhi. «Hai capito le perversioni di quella vecchia ciabatta, Hicchan?».

Arimi scoppiò a ridere sentendo il nomignolo con cui Hanamichi aveva chiamato il Capitano del Kainan. «No, che hai capito, senpai! Maki-kun voleva metterlo in ridicolo e tenersi un ricordo per minacciarlo ogni qual volta Nobu-chan avesse fatto il cattivo, in partita o agli allenamenti».

«Sapevo che Maki è diabolico, ma non pensavo fino a questo punto!», commentò Hime, ripensando a quei giorni in ritiro in cui l’aveva visto giocarsi il ruolo di Negriero dell’Anno con Akagi.

«Più che altro ha un senso dell’umorismo tutto da interpretare», fece Hanamichi, ricominciando a ridere come prima.

Arimi si asciugò una lacrimuccia scappata per il divertimento. «Quella che ha Nobu-chan è l’unica copia, l’ha fregata al senpai per paura che potesse davvero farla vedere a qualcuno, anche se ormai tutta la squadra sapeva dell'accaduto».

«E ci credo!», esclamarono in coro i due.

«Ma perché la tiene ancora, se non vuole che il mondo sappia della sua doppia personalità?», chiese il rossino, beccandosi una ciabatta in testa dal diretto interessato.

«Perché solitamente la gente normale non fruga nei cassetti in casa altrui, demente», borbottò Nobunaga, con ancora il viso rosso dall’imbarazzo.

«Hai sbollito per bene o ti serve un altro round in bagno?».

«Sakuragi, ammazzati».

E mentre i due ragazzotti iniziavano una gara di insulti di tutto rispetto, le fanciulle si guardarono mestamente, pensando che due fratelli così celebrolesi non ce li aveva nessuno. Peccato che non fosse una cosa di cui vantarsi in giro!

«Nobu, lasciamelo intero, che mi serve in squadra!».

«Ma quale serve e serve! Quando scende in campo fa casini e basta! …Ehi, non tirarmi i capelli, demente!».

Hime si grattò il mento perplessa. «Ma sbaglio o sono le ragazze che solitamente che si tirano i capelli quando litigano?».

L’altra, invece, si mordicchiò le labbra, per evitare di ridere ancora una volta. «Beh… Avete appena scoperto gli altarini di mio fratello… il tuo è innamorato di un ragazzo… tutto è possibile!».

I due bisonti in questione si fermarono di botto, per guardare a bocca spalancata quella che sembrava una tenera e indifesa ragazzina delle medie, mentre per tutta la casa risuonò forte e cristallina la risata della Sakuragi, ormai senza più fiato e con le lacrime agli occhi.

Ah, le donne!

 

*

 

«Dai, Hana! Quanto ci metti? Sembri una donna!», sbraitò per l’ennesima volta Hime, che nel frattempo bussava come un’ossessa contro la porta del bagno.

«Hicchan, ancora due minuti ed esco!», rispose il fratello. «Sono il ragazzo più bello di Kanagawa, ma devo anche valorizzare il mio charme, no?».

«Valorizzalo in camera tua, dai! Devo ancora farmi la doccia!», piagnucolò lei, mentre la madre dal piano inferiore rideva divertita.

Quando Hanamichi uscì dalla toilette era fresco e profumato come una rosa. «Sono o non sono uno splendore?», chiese con un sorrisone ebete e le mani sui fianchi, senza nemmeno accorgersi che la sorella si era fiondata in bagno appena lui aveva aperto la porta, prontamente richiusa prima che lui potesse cambiare idea e rientrarci per un’altra mezzora.

Nel frattempo Hanamichi scese in cucina, dove la signora Sakuragi stava preparando una torta, l’ennesima della settimana.

«Oh, Hana caro, mi passeresti il lievito? Lo trovi in quel cassetto a sinistra».

«Ma certo, ahaha! E a cosa serve altrimenti un figlio alto un metro e novanta in casa?!», esclamò pieno di sé il rossino, che allungò una mano e prese la prima cosa che gli capitò a tiro. Fortuna che la donna, conoscendo che elemento fosse il figlio, controllava sempre quello che le passava in quelle occasioni, e si accorse in tempo che quello non era lievito, bensì dolcificante.

«Hanamichi, sei proprio una frana», commentò divertita la donna, mentre gli passava la frusta per continuare ad amalgamare l’impasto e lei si arrampicava per la cucina alla ricerca dell’ultimo ingrediente.

«Ma mamma! Io non posso essere una frana se già sono un genio!», le fece saggiamente notare il figlio, che ficcava un dito nell’impasto per assaggiarlo. «, te l’ho mai detto che i tuoi dolci sono la fine del mondo?».

«Sì, ma tu metti giù le zampacce!», fece lei, tirandogli uno strofinaccio in pieno viso. «Ne lascerò un po’ anche per Kaede, gli piace tanto questa torta!».

«Gli lascerai cosa?! Mamma, hai due figli da sfamare, non ti serve anche un volpino!».

«Ma non siete mica deperiti, no? E Kaede, è così caro quel ragazzo!».

«Hicchaaan! La mamma sta impazzendo!», sbraitò il rossino, scappando via dalla cucina e rifugiandosi contro la porta del bagno. «Hicchan, mi senti?».

«Sì, Hana».

«Secondo te dove vendono farmaci contro l’influenza volpina?».

 Hime, dentro la doccia, alzò gli occhi al cielo, sogghignando divertita. «Perché? Sei stato contagiato?».

«Ahhh! Giammai! Preferirei che Yoshikai mi costringesse a studiare matematica con lui, piuttosto che essere contagiato dal quel volpino narcolettico!».

«Dai, lo so che in fondo Ede è il tuo muso ispiratore». Hime si morsicò un labbro appena sentì il fratello ululare dal disappunto. Adorava farlo arrabbiare con così poco!

Hanamichi, abbattuto e sconsolato, tornò al piano di sotto, in salotto, e accese il televisore, sperando di trovare qualcosa di divertente da vedere in quella mezzora che mancava prima di uscire. Ma lo zapping davanti alla tv non durò molto, perché il telefono di casa squillò a due passi da lui, facendogli scendere un colpo per lo spavento. «Pronto?», grugnì contro chiunque ci fosse dall’altra parte del filo.

»Do’aho«

Per un attimo Hanamichi fu tentato dall’invitante idea di chiudergli la telefonata in faccia, ma preso da un momento di benevolenza evitò di farlo. Per il momento. «Volpe, ti fischiavano le orecchie, per caso?».

»Hn?!«

«Niente, lascia perdere… Che vuoi?».

»Hn… Mi son svegliato ora… Tarderò un po’«

«No, ma tranquillo, puoi anche startene a casa, tanto non ci offendiamo!».

«Hanamichi!», lo rimbeccò la madre dalla cucina.

Il rossino sbuffò, imbronciato.

»Do’aho, se non fosse che tua sorella ha insistito tanto, starei ancora dormendo. Dai la colpa a lei e non rompere le palle a me«

«Accidenti, Kit, te la sei scritta questa frase o hai improvvisato? Era lunga per i tuoi standard!».

»Fottiti«

Hanamichi scoppiò a ridere, stravaccandosi sul divano. «E quindi? Perché hai pensato che potesse fregarmene anche lontanamente del tuo ritardo?».

Kaede, dall’altra parte del telefono, prese un bel respiro per evitare di mandarcelo gentilmente a quel paese. »Perché così non mi aspettate al campetto«

«Oh, perfetto, Kit! Ci vediamo, allora, cià!».

»Do’aho, non so dove sia questo posto«

«Uffa, mica sono la tua cartina stradale!».

«Hanamichi, sei gentile come una donna in quei giorni, lo sai?», chiese Hime, comparendo in quel momento in accappatoio. Gli prese la cornetta di mano e cinguettò un: «Edeee!» che avrebbe spaccato i timpani anche a un cantante di lirica.

Rukawa, da quel momento in poi, non sentì più un’acca all’orecchio destro.

 

*

 

Quando i primi bisonti arrivarono all’ingresso del Bar America erano già le otto e mezza passate. I primi ad arrivare furono i due gemelli Shimura insieme all’Armata Sakuragi, che salutarono sorridenti e in coro tutti quelli che giunsero poco dopo: un Araki più che pimpante di vedere la sua bella Sakuragi, accompagnata sfortunatamente dal fedele e sempre incollato fratello; Akagi e Kogure, il primo già con un preavviso di mal di testa alla sola vista del suo incubo peggiore; Ryota e Ayako insieme, il che destò sempre più la curiosità dei suoi amici e tante, ma tante domande che Hime stava vedendo bene ad appuntarsi in mente. Mitsui arrivò con la sua bella moto, che parcheggiò a pochi passi dal locale, e salutò tutti con un cenno del capo; per quanto fosse giù di morale quella sera aveva voglia di distrarsi, e sperò vivamente di riuscirci, pensò guardando i gemelli Sakuragi ridere e scherzare come sempre. Infine li raggiunsero anche le altre riserve delle riserve e tutti insieme iniziarono a fare un bel macello sull’ingresso del locale.

«Che ne dite se entriamo al calduccio? Qui inizia a fare fresco», propose Hime, che si ritrovò la mandria di animali a seguirla come cagnolini.

«Ehi, e il bell’addormentato non lo aspettiamo?», domandò Hisashi, guardandosi intorno alla ricerca del volpino.

«Oh, Kit ritarda. Indovinate che stava facendo?».

«Non voglio saperlo», borbottò Akagi.

«Stava dormendo, Gori! Ti pare che quello sfigato possa fare altro nella vita?».

«Quello sfigato, intanto, è il ragazzo più desiderato della scuola, Hanamichi», gli fece notare Ayako, sorridendo birichina.

«Aya-chan, non mi piace quell’espressione», disse preoccupato Ryota, mentre il rossino sbraitava ai quattro venti l’idiozia della popolazione femminile dello Shohoku, beccandosi poi anche uno scappellotto dalle due ragazze presenti per aver messo in mezzo anche loro.

Il Bar America era affollato come sempre e, con un po’ di acrobazie, riuscirono a raggiungere il loro tavolo prediletto, per l’occasione triplicato per accoglierli tutti. Sana comparve in quel momento, il sorriso sempre stampato sulle labbra, sebbene la voglia fosse pari a zero. «Salve ragazzi, come va?».

Hime la stritolò nel suo consueto abbraccio mortale e, dopo averla salutata per bene, la presentò a tutta la squadra. «Allora, per chi non la conoscesse lei è Sanako, o per gli amici Sana. Sana, questi due bellissimi fidanzatini sono Ryota e Ayako» E a dover di cronaca al primo partì una coronaria, l’altra divenne inspiegabilmente rossissima. «Questo santo di ragazzo è Kogure e il Gorilla che ha accanto è il fantomatico Akagi».

«Hime Sakuragi!», tuonò il fantomatico Gorilla, mentre la diretta interessata e tutti i presenti sghignazzavano allegramente.

«Lui invece è Hisashi Mitsui, credo che per la tua disgrazia dovrete lavorare insieme», fece melodrammatica.

Hisashi le lanciò un’occhiataccia truce, poi salutò la sua futura “collega”. «Akira mi ha parlato di te».

Sanako arrossì lievemente, ma diede la colpa al caldo che c’era lì dentro. «Davvero? Anche lui di te, inizi lunedì, giusto?».

Hisashi annuì, mentre Hanamichi esclamava sorpreso: «Sana-chan, conosci il Porcospino?!».

«“Porcospino”?», ripeté la ragazza, ridendo nel sentire quel soprannome che mai fu più azzeccato.

«Ah, dovresti saperlo ormai che Hanamichi vede animali ovunque», commentò Yoehi.

«Sì, per non sentirsi solo!», aggiunse Takamiya, che rischiò seriamente la vita quando l’amico tentò di dargli una testata.

Nel frattempo arrivò anche il tanto atteso Rukawa che, già nel sentire tutto quel casino provenire dal fondo sala imprecò a denti stretti contro sé stesso per non essersene rimasto in casa a ronfare. Sì, come no, a chi voleva darla a bere?

«Toh, la Volpe ci degna della sua presenza, una volta tanto!», fece Hanamichi, schioccando le dita.

«E si fa anche desiderare, pensa tu», continuò Hime, che si ritrovò la giacca dell’amico in viso.

Kaede salutò tutti con un generale “Hn”, praticamente impercettibile dato tutto il casino che c’era, e allungò una mano verso l’unica sedia libera, accanto ad Ayako e Mitsui. Solo un paio di occhi color nocciola, dietro una frangetta impertinente, lo fermarono.

«Ciao, Rukawa!», lo salutò gioviale Sanako, riconoscendo il ragazzo.

Lui non rispose subito, troppo occupato a cercare di focalizzare il viso e ricollegarlo alla ragazza del terrazzo.

«Oh, Ede, conosci già Sana?».

Sana… Sana… Ma certo! La ragazza silenziosa del terrazzo era anche la stessa che Hime e quel demente del fratello continuavano a nominare quando parlavano del Bar America! Com’era piccolo il mondo. «Hn. Ciao».

«Aspetta, aspetta… vi conoscete?!», chiese ancora una volta Hanamichi, indagando. «Nacchan, tu conosci un po’ troppi nemici per i miei gusti!».

Hime gli tirò una gomitata, mentre nell’aria volò un “Demente al quadrato” da parte del solito Rukawa, finalmente sprofondato sulla sua sedia.

Sanako sorrise, porgendo a tutti i menù della pizzeria. «Hana, tanto lo so che quelli che chiami “nemici” in realtà sono i tuoi migliori amici», gli disse, con una linguaccia sfacciata.

«Non diciamo blasfemie, Nacchan!».

«Questa ragazza è forte!», commentava invece Ryota.

«Beh, se poi contiamo il fatto che Sakuragi è innamorato di Rukawa, allora è tutto dire!», proseguì Araki, seriamente.

E mentre tutti partivano a ridere come dei poveri pazzi, il rossino in questione era già partito all’assalto del povero disgraziato che aveva osato dire tanto, mentre il Rukawa della situazione continuava a studiare - con finto interesse - il suo menù, solo per non spargere sangue in quel locale che, nonostante tutto, gli sembrava carino. Avrebbe fatto i conti con tutti a fine serata, quello era ovvio.

Sana, con ancora un sorriso divertito sulle labbra, si congedò appena vide altri clienti al bancone. «Quando avete scelto chiamatemi».

Rukawa alzò lo sguardo dal suo libretto e rimase a fissarla enigmatico per qualche secondo, non riuscendo bene a capire cosa avesse di strano quella ragazza. Era vero o falso quel sorriso che continuava a ostentare da quando l’aveva vista?

«Ehi, Gori, che ti prendi?», stava chiedendo intanto Hanamichi, allungando il collo verso il menù del suo ex-capitano.

«Una dose di tranquillanti per evitare di ammazzarti seduta stante, demente», grugnì quello, mentre un Kogure divertito, al suo fianco, si sistemava gli occhiali che erano scivolati giù dal naso.

«Sai, Gori, non dovresti abusare così degli psicofarmaci. Non fanno bene alla salute», gli fece saggiamente notare Hime, annuendo saputella.

«L’unica soluzione che vedo per salvarmi la salute è rinchiudervi in qualche clinica per malati mentali».

«Guarda che continuando di questo passo quello che deve ricoverarsi sarai tu», fece Mitsui, poggiandosi con le braccia allo schienale della sedia. «E fidati, sei già sulla buona strada».

«Ma ve lo immaginate voi il Gori in camicia di forza?», esclamò Hanamichi, con un colpo di genio. «Il bestione chiuso in gabbia che continua a gridare: “Banane! Datemi banane!” Ahaha---! Ahia, Gori! Shei shempre il sholito manescho!».

«Sakuragi, però anche tu te le cerchi!», dissero ridacchiando Eichiro e Kimi, battendogli amichevoli pacche sulla capoccia in fumo.

Ayako si sporse verso Hime, mettendosi una mano davanti alla bocca per non essere vista. «Ma quei due devono sempre parlare in coro?».

L’altra fece spallucce, divertita dai due gemelli. Erano una comica, se non fosse stato per il fatto che fossero divisi in due corpi separati, era più che sicura che fossero gemelli siamesi. Avevano sempre l’espressione innocente, ma era palese che quei due in realtà fossero dei discoli peggio del fratello.

Sanako tornò dieci minuti dopo a prendere le ordinazioni, impresa per altro quasi impossibile dato che ogni tre per due c’era un battibecco tra qualcuno. I ragazzi aspettarono le loro pizze tra pugni e risate varie, tra chi nel frattempo si fece un pisolino e chi invece sbavava senza ritegno nei confronti della rossa.

«Ehi, Puffo! Vedi di chiudere quella ciabatta e guarda il soffitto anziché guardare la mia Hicchan!», esclamò Hanamichi, abbracciando possessivamente la sorella, cosa per cui molti rotearono gli occhi, mentre lei gli fu più che grata. Quel ragazzo le incuteva timore!

«Puffo a chi, pel di carota?!».

«A te! Ma ti sei visto con quel capelli blu?».

«Parla quello che si è versato tinteggiatura rossa in testa!».

«E segatura…», aggiunse Rukawa tra uno sbadiglio e l’altro.

«Che hai detto tu?!».

Akagi, che nel frattempo stava guardando con crescente interesse i coltelli che aveva a portata di mano, pensò che sì, magari l’avrebbero anche sbattuto in galera, ma che soddisfazione si sarebbe tolto facendoli fuori uno a uno!

«Ho sentito che avete un’amichevole con il Ryonan, tra qualche settimana.», s’informò Kogure, nella vana speranza di sedare un attimo tutto quel casino che stava facendo fuggire metà dei clienti presenti.

«Sì, tra due mercoledì, verranno loro da noi», disse Ryota, giocando con il bicchiere vuoto.

Akagi si risvegliò dal suo momento di follia, guardando il Tappo. «Mi auguro che li stia preparando al meglio, Miyagi. Non farmi pentire di averti dato fiducia».

«Ah! Guarda che oltre che essere il miglior play che lo Shohoku abbia mai avuto, sono anche un ottimo Capitano!».

«Anche se un po’ basso…», mormorò Hanamichi, che subito dopo si ritrovò a bestemmiare in aramaico perché gli arrivò un calcio al ginocchio.

«Però, hai le gambe corte ma quando si tratta di pestare ci arrivi», commentò Hisashi, ghignando alla volta dell’amico, che lo mandò gentilmente a quel paese mostrandogli il medio.

«Ohh, pizze in arrivo!», esclamò Hime, attirando subito l'attenzione di tutti.

«Finalmente si mangia!», fecero in coro i gemelli Shimura, tant'è che le uniche donnine presenti si guardarono mestamente, scuotendo la testa.

Appena Sana arrivò con tre piatti, Hisashi si alzò per darle una mano, tanto per entrare nel clima del "consegna pizze".

«Oh, che gentile!», esclamò Sana. «Dato che sei così disponibile vieni in cucina, ce ne sono altre dieci!».

«Ahaha! Mitchi è diventato cameriere!». Hanamichi si beccò un'occhiataccia.

«Almeno io mi rendo utile, demente!».

«Parole sante!», fece Rukawa, che rischiò seriamente di trovarsi il rossino infuriato contro.

«Hanamichi, vedi di contenere i tuoi istinti verso Rukawa-kun, almeno in pubblico datti un contegno», disse Eichiro, che due secondi più tardi dovette schivare all'ultimo secondo una lattina di Cola ed un "Chiro traditore!".

Sanako, ridendo, tornò in cucina, seguita da Mitsui, che salutò lo zio di Akira con un cenno del capo.

«Oh, neanche iniziato e già ti dai da fare?», gli chiese, battendogli una mano sulla spalla.

«Visto? Akira ha avuto una bella idea!», fece Sana, prendendo due piatti e dandoli al ragazzo.

«Grazie», replicò la guardia dello Shohoku, abbozzando un sorriso e tornando nella sala, dove quei bestioni dei suoi compagni di squadra lo stavano aspettando affamati come non mai.

«Ehi, Mitchi! Dimmi che c'è la mia! Dimmi che c'è la mia!», sbraitò Hanamichi, alzandosi per controllare.

«Mitsui, ti prego, immola la mia se necessario, ma tiragliene una in faccia e fallo stare zitto», lo supplicò Akagi, mentre Hanamichi lo guardava con i lacrimoni agli occhi.

«Ohi Gori, non ci provare, io ho fame!», si lamentò Hime, che arpionò subito la sua.

«Disgraziata, io sono sempre l'ultimo!».

«Spero che non te la diano direttamente», gli fece eco Rukawa, che alla sua faccia, addentava una fetta di pizza.

«Che ti rimanga in gola, kit!».

Mitsui si scambiò uno sguardo mesto con Sanako, che nonostante tutto ridacchiava divertita. Non pensava che quel Rukawa fosse anche simpatico! Per come gliene aveva sempre parlato Hanamichi sembrava fosse un musone che non spiccicava mai parola... Ok, sì, forse un po' di ragione, il rossino, ce l'aveva, ecco!

Cinque minuti più tardi non si sentì altro se non il ruminare continuo di quindici ragazzi più che affamati - senza contare che le pizze erano buonissime e nessuno aveva il coraggio di aprire bocca se non per ficcarsene dentro un altro pezzo.

«Oh Kami, sono piena come un uovo!», esclamò Hime, una volta che finì la sua cena.

«Fosse per me ne ordinerei un'altra...», commentò invece Takamiya.

«Non avevamo dubbi!».

«Hanamichi, tu stai zitto, che se non la difendevo con il coltello tra i denti ti saresti mangiato anche la mia».

«Hicchan, sei così crudele da non sfamare un fratello affamato come me?».

«Ma lascialo morire di fame ogni tanto!», fece Hisashi, bevendo un sorso di birra.

«Ci pensa già mamma... Fa sempre dolci per questa baka di una volpe!».

«Do'aho. Ti ripudia anche tua madre».

«Aaargh! Ma io ti ammazzooo!».

Akagi si passò una mano sul viso nel vedere che Hanamichi era saltato veramente contro il Volpino e stava cercando di strozzarlo, sotto lo sguardo attonito dei presenti e quello rassegnato del resto dello Shohoku.

Ma tutto calò nel più religioso silenzio quando un ragazzo, evidentemente l'intrattenitore, annunciò il momento tanto atteso della serata.

«Che succede?», chiese Ayako a Miyagi, che si strinse nelle spalle.

«Oh, era ora! Mi stavo chiedendo dove fosse finita!», esclamò Hime, battendo le mani entusiasta.

«Come tutti i fine settimana, ecco la nostra cantante preferita che questa sera si esibirà con le canzoni degli America!», fece il ragazzo. «Diamo il benvenuto a Sanako!».

«Canta?», chiese Mitsui, applaudendo con gli altri.

Sana fece la sua comparsa sorridendo, prese posto nella sedia che stava al centro del piccolo palco del locale, e si posizionò la chitarra sulle gambe accavallate. Fece l'occhiolino ai suoi amici, nuovi e non, e iniziò a suonare le note di A Horse With No Name.

 

On the first part of the journey

I was looking at all the life

There were plants and birds and rocks and things

There was sand and hills and rings

The first thing I met was a fly with a buzz

And the sky with no clouds

The heat was hot and the ground was dry

But the air was full of sound

 

I've been through the desert on a horse with no name

It felt good to be out of the rain

In the desert you can remember your name

'Cause there ain't no one for to give you no pain...

 

«Oh, adoro gli America!», esclamò Ayako, canticchiando insieme a lei.

«Però, è brava la ragazza con la chitarra», fece Araki, mentre Hime annuiva.

«Nacchan è nata per la musica», gli fece sorridente, sbiancando poi quando si accorse che il ragazzo la stava semplicemente mangiando con gli occhi.

Inutile dire che al "La la la" tutta la loro tavolata cantò in coro insieme alla ragazza, il che la fece sorridere divertita. Tutti tranne, ovviamente, il solito Kaede Rukawa, troppo preso ad ascoltare la voce della giovane per osare solo canticchiare. E poi lui mica poteva mettersi a cantare!

La seconda canzone fu You Can Do Magic, per cui tutto il bar si mise a cantare a squarciagola, iniziati dal solito gruppo dello Shohoku.

Quando la ragazza finì il suo repertorio quelli l'applaudirono calorosamente, chi fischiò, chi le gridò dietro "Nacchaaan! Sei tutti noi!", facendola arrossire irrimediabilmente. Togliendosi la tracolla della chitarra dalle spalle, s'inchinò per ringraziare il suo pubblico e si avvicinò ai giocatori di basket, che la coccolarono per complimentarsi per bene.

«Nacchan, sei stata bravissima come sempre!», le disse Hime, stritolandola nel suo consueto abbraccio mortale.

«Devi ancora insegnarmi come si usa la chitarra».

«Hanamichi, conoscendoti potresti solo spaccarla in testa a qualcuno», gli fece saggiamente notare Yoehi.

«Sì, sulla tua, magari!».

Tra le risate varie, arrivò il momento del digestivo, e lì via a fiumi d'alcol e di cazzate - anche se quelle non mancavano mai neanche da sobri. Per non parlare di quando il presentatore di poco prima, che si rivelò essere un dj, mise su un po' di musica da ballare: il Caos si fece persona.

Hanamichi e Hime corsero a ballare, lasciando un Araki a bocca asciutta e un suo misero tentativo di approccio svanito nel nulla; Ryota, con la faccia di bronzo migliore del mondo, chiese alla sua Musa di ballare e, tra lo stupore un po' di tutti, Ayako accettò, forse a causa dei fumi dell'alcol che stavano iniziando a fare il loro porco effetto. Perché non era possibile che la manager si potesse concedere così facilmente se non fosse stata un pochino sbronza... no?

Sana, seduta vicino a Rukawa, gli sorrise candidamente. «Tu non balli?».

Mitsui scoppiò a ridere, additando il compagno di squadra. «Rukawa che balla?! Questa è bella!».

Kaede, in risposta, borbottò qualcosa di incomprensibile come il suo solito, incrociando le braccia.

Sana gli si avvicinò, incuriosita. «Allora?».

«Hn, non mi piace», sbuffò lui. Quanto era noiosa!

«No? Dai, è divertente!».

L'undici dello Shohoku voltò lo sguardo, a disagio. «Ho detto di no».

Hisashi guardò la ragazza abbassare le spalle e scosse la testa. Quel Rukawa era proprio un demente, aveva la delicatezza di un elefante! «Dai, collega, andiamo a divertirci un po' alla faccia di questo bradipo», le disse, porgendole una mano come invito.

Il viso di Sana s'illuminò gioioso e accettò di buon grado la proposta della guardia. Kaede, d'altro canto, roteò gli occhi, senza ulteriori commenti. Tuttavia non riuscì a non staccare gli occhi da quella ragazzina che aveva visto piangere così disperatamente e che ora rideva come una matta. Vai e capiscile, le donne.

La serata si concluse alle tre, con Hanamichi che non si reggeva in piedi, Akagi che, con il viso più imbronciato del mondo, doveva sorbirselo mentre gli sciorinava la storia della sua vita, Hime e Ayako che ridevano come pazze, Hisashi e Ryota che cantavano come due dementi, i gemelli Shimura che mettevano in mezzo un Araki depresso... erano un casino con le gambe.

Persino Rukawa aveva un po' di capogiri, sebbene non avesse bevuto più di tanto. Ma si sapeva, non era ragazzino da saper reggere l’alcol tanto facilmente.

Il mega gruppone si divise appena ognuno trovò la strada verso la propria casa e gli unici che rimasero insieme furono i gemelli Sakuragi, Rukawa e Sanako.

«Sana, ti vorrei accompagnare a casa ma questo bisonte prima vede il letto e meglio è», le disse dispiaciuta Hime, che doveva trascinarsi il fratello letteralmente appeso al suo collo.

«Tranquilla, non è un problema». Sana sorrise, agitando una mano.

La rossa guardò distrattamente il suo migliore amico che ciondolava dal sonno, come sempre, quando le si accese la lampadina. «Ehi, Ede, puoi accompagnarla tu? Non è bene che una donzella indifesa si aggiri per Kanagawa a quest'ora della notte».

Rukawa la guardò sbadigliando, mormorando un "Hn" sommesso. Era un sì o un no?

Salutarono i fratelli all'incrocio successivo e improvvisamente calò il silenzio più totale. Sana camminava a testa china, persa nei suoi confusi pensieri; ogni volta che si avvicinava a casa sua temeva di trovare qualche altra nuova sorpresa. Kaede, d'altro canto, stava dormendo in piedi - beato ragazzo!

«...Hn».

Sana alzò lo sguardo verso il suo accompagnatore. «Hai detto qualcosa?».

Kaede guardò il cielo stellato, le mani rigorosamente nelle tasche dei jeans. «Sei strana».

E quello cos'era? «Perché?».

Il ragazzo tornò a guardare davanti a sé, serio come sempre. Perché è la verità... sei strana. «Così».

Lei si bloccò, osservandolo allucinata. Poi scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «Hanamichi ha proprio ragione a dire che i tuoi discorsi sono la fine del mondo!».

«Quel do'aho...». Kaede si voltò per aspettarla e lei gli si affiancò nuovamente, con uno strano sorriso sulle labbra.

«Comunque anche tu, tanto normale non mi sembri», gli confessò, divertita. «Ma non prenderla come un'offesa».

«Hn».

«Oh, sono arrivata».

Kaede si fermò davanti alla casa della ragazza, completamente al buio tranne per una luce accesa in cucina. La vide rabbuiarsi un po', probabilmente temeva che ci fosse qualche notizia riguardante il padre. Quando Sana si voltò per salutarlo aveva nuovamente quel suo strano sorriso sulle labbra. Come faceva a sorridere così, quando non ne aveva voglia? Proprio non riusciva a concepirlo.

«Grazie per avermi accompagnata, sei stato molto gentile».

Veramente mi son visto costretto. Però la cosa non gli era dispiaciuta, effettivamente. Almeno non era stato traumatico. Gli venne un brivido al solo pensare cosa sarebbe potuto accadere riaccompagnando a casa una come la sorella di Akagi. «Hn, di niente. Notte».

«Buona notte». Sana mosse qualche passo, poi tornò indietro, per mettersi sulle punte e dare un leggero bacio sulla guancia ghiacciata del ragazzo. «Ci vediamo lunedì!».

Kaede rimase inebetito per qualche secondo, finché non venne riscosso dal rumore della porta che veniva richiusa alle spalle della ragazza. Alla finestra accanto, si accorse poco dopo, una tendina veniva riposta contro il vetro, come se qualcuno si stesse divertendo a gustarsi la scena di poco prima.

La persona dietro il vetro era la zia di Sana, che appena se la ritrovò davanti, sorrise malandrina. «E quel bel ragazzotto chi è?».

Sanako divenne rossa fino alla punta dei capelli, le diede velocemente la buona notte e sparì in camera sua. Masaki sorrise, finendo di bere la sua camomilla. Maledetta insonnia!

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Ri-salve a tutti! Un grazie infinito a tutti coloro che hanno aggiunto questa storia alle preferite e alle seguite, mi fate felicissima!

 

Ci si legge al prossimo capitolo! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** 06. Puffi, litigi e... e cosa? ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 6

Puffi, litigi e... e cosa?

 

 

 

Il pomeriggio era soleggiato e tiepido, un sole splendente illuminava le vie di una Kanagawa pullulante di vita. Era la giornata perfetta per fare due passi e stare insieme, dopo aver passato la notte prima a far baldoria con i suoi amici. Cosa che lui non aveva mandato giù facilmente, dato che avrebbe voluto esserci anche lui a far casino con quell'idiota del fratello e a difendere la sua Hicchan dagli assalti del Volpino o di chiunque altro.

Hime si voltò verso il suo baldanzoso ragazzo e sorrise, serena. A volte non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che prima di quel famoso ritiro si detestassero - quante se n'erano detti? - e ora andassero d'amore e d'accordo, come una coppia di giovani innamorati qualunque. E di fatto loro lo erano, innamorati. Anche se tanto normali, effettivamente, non lo erano mai stati.

Nobunaga, dall'alto dei suoi 175 centimetri, la guardò, sentendosi osservato, e piegò le labbra in un sorriso che le sembrò anche più luminoso del sole stesso. «Lo so, lo so che stai pensando che son bellissimo... ammettilo!».

Hime gli si accoccolò contro, sentendosi subito avvolgere dal suo braccio, e ridacchiò. «Mi dispiace deluderti, ma stavo pensando che ti dovrò regalare una nuova fascetta. Quella è tutta rovinata!».

«Cosa?! Questa fascetta non si cambia! È l'esempio di tutto il mio sudore durante i duri allenamenti del senpai Maki!».

«...Appunto!».

Nobunaga la guardò imbronciato e lei non ci mise molto a fargli cambiare quell'espressione crucciata con un bacino sulla guancia.

«Ruffiana. Sei una ruffiana, ecco tutto», borbottò, rosso come i capelli della ragazza. «Comunque, dov'è che vuoi andare?».

La rossa si batté un dito sulle labbra, pensierosa. Poi ebbe un'idea e, senza avvisarlo, lo prese per mano e iniziò a correre tra la folla, ridendo come una pazza. Kiyota, d'altro canto, non osò chiedere spiegazioni di alcun genere, e la seguì sbraitando come un esaltato di fare largo al Re e alla Regina di Kanagawa, tra gli sguardi perplessi e a volte irritati di chi se li ritrovava davanti. Raggiunsero trafelati la spiaggia, ridendo fino alle lacrime senza un apparente motivo. Nobunaga la prese di peso e se la caricò su una spalla, iniziando a girare su sé stesso e a correre, come se le forze non gli mancassero mai.

«Nobuuu! Disgraziato, mettimi giù!», gridò quella, che nonostante tutto si stava divertendo come una bambina.

«Neanche morto!», ribatté esaltato lui. Poi gli si accese una lampadina, e decise che sì, l'avrebbe messa giù... Ma non come avrebbe creduto lei.

«NobunagaKiyotaIoTiAmmazzo!!»,

La scimmietta saltellante del Kainan fece in fretta a scappare, dato che la povera Sakuragi si ritrovò scaraventata a terra sulla sabbia, gli abiti, nonché i capelli, completamente sporchi di arenaria. E si sa bene, i suoi capelli erano sacri.

«Hicchan, ti ho mai detto che hai i capelli di una pazza?», le chiese innocentemente il ragazzo, mentre scappava.

«Stai pure tranquillo che tu tra poco non ne avrai più perché te li strappo uno per uno!».

E tra correre e rincorrere il sole fece in tempo a tramontare, e avrebbe anche lasciato il posto alla luna prima che quei due la smettessero di comportarsi come bambini, se non fosse stato che la rossa iniziò a sentire un po' di fresco. Da buon gentiluomo - o presunto tale - Nobunaga le mise sulle spalle la propria felpa, che le stava tre volte, ma che lei adorava. Essere abbracciata dagli indumenti del suo ragazzo, impregnati del suo profumo, era una delle cose che più la faceva stare meglio.

«Ehi, guarda che poi la rivoglio, eh», l'avvertì la scimmietta, guardando possessivo la sua felpa viola e gialla.

«Uffa, sei tirchio»

«Tirchio?! Ma se mi hai fatto fuori mezzo armadio? Sto uscendo sempre con gli stessi indumenti perché mi hai rubato maglie e magliette!».

Hime iniziò a ridere come un'invasata, agitando noncurante una mano. «Tu fantastichi troppo, Nobu-chan».

Troppo intento a guardare il ragazzo che si avvicinava a loro e che - udite, udite! - non toglieva gli occhi di dosso alla sua preziosa ragazza, Kiyota non le rispose subito.

«Nobu-chan, mi stai ascoltando?».

«Hi-Hime-san!», la salutò estremamente euforico Masuhiro Araki, facendola sbiancare peggio di un lenzuolo appena lavato con la candeggina.

«Araki, ciao», rispose Hime, tutt'altro che euforica. Era terrorizzata! E ora chi lo avrebbe sentito Nobunaga?

«Chi diavolo è questo?», ringhiò infatti due secondi più tardi il ragazzo, stringendo gli occhi e, soprattutto, la presa sui suoi fianchi.

Araki sembrò accorgersi solo in quel momento dell'accompagnatore della sua musa e per poco non gli venne un accidente. «Chi diavolo sei tu? Come osi stare così attaccato a Hime-san?».

Nobunaga lo guardò dapprima perplesso, poi scoppiò a ridere di puro divertimento. Cosa che a Hime non piacque per niente.

«Questo tizio è divertente! Ma l'hai sentito? Ahahaha!».

Masuhiro strinse i pugni per la stizza, rivolgendogli un'occhiata di fuoco. «Ehi! Che cavolo ridi?!».

Hime decise di tentare un salvataggio in corner, mettendosi subito in mezzo. «Ragazzi, ragazzi! Calmi!» Ridacchiò imbarazzata, grattandosi il naso come faceva solitamente quando era in difficoltà. «Nobu, ti presento Masuhiro Araki, nuovo acquisto dello Shohoku...».

«Ah! Akaki... bell'acquisto del cavolo».

«È A-r-a-k-i, cerebroleso!».

«E Araki...» - Ora arrivava il bello - «Lui è Nobunaga Kiyota, giocatore del Kainan...» - Qui il ragazzo dello Shohoku prese il primo colpo della serata - «...nonché il mio fidanzato».

E qui il medico legale dichiarò l'avvenuto decesso.

«Fi... Fidan...».

«F-i-d-a-n-z-a-t-o, cerebroleso!», lo scimmiottò Kiyota, con la sua solita faccia da schiaffi che, all'inizio di tutto, Hime odiava dal profondo del cuore. «Mica son scemo che me la lascio scappare!».

Arrossì quando lei lo guardò di sottecchi, sussurrandogli: «Diciamo anche che mi stavi facendo scappare, prima che perdessi del tutto la testa...».

Araki, nel frattempo, che probabilmente non respirava da parecchio dato che i due constatarono un bel colorito cianotico peggio dei suoi capelli tinti, boccheggiò qualche parola incomprensibile. Poi, riprendendosi di colpo, puntò un dito contro Kiyota, ridendo beffardo manco fosse un pazzo. «Fidanzato, eh? Vedrai che la conquisterò e te la porterò via, brutta scimmia del Kainan!».

Ci mancò poco che Nobunaga gli saltasse addosso per dargliele di santa ragione, ma fortuna volle che Hime fu più lesta di lui e lo bloccò per il rotto della cuffia. «Ma non farmi ridere! Hicchan è troppo intelligente per scappare con te!».

«Tu credi?! Te lo prometto, Kiyota, la bella Hime-san cadrà tra le mie braccia... Perché tu agli allenamenti non ci sarai sempre!».

«Non azzardarti nemmeno a guardarla! O ti stacco gli occhi a morsi!».

«Ahaha! Vedrai, sarà mia!».

«A costo di chiedere a Sakuragi di starle appiccicato dalla mattina alla sera!».

«E cosa vuoi che mi faccia quel testa rossa?!».

Hime, nel frattempo, che stava fumando rabbia da tutti i pori sia per l'offesa gratuita sulla sua presunta non-intelligenza sia per il fatto che sembrava stessero parlando del primo oggettino di scambio trovato sotto il naso, tirò un bel calcio nel di dietro al suo adorabile ragazzo, il quale mugolò di dolore.

«Ehi, Hicchan! Che ti prende?!», esclamò con i lacrimoni agli occhi.

Lei, senza ascoltarlo, si rivolse incazzosa alla riserva dello Shohoku, leggermente sotto shock - non pensava certo che fosse manesca come quel teppista del fratello! «Tu, esserino inutile di un Araki, non osare corteggiarmi quando Nobunaga non c'è perché ti ritroveresti appeso al canestro nel giro di due secondi».

E tra le risate sguaiate di Kiyota che veniva trascinato via per un braccio dalla ragazza, il povero Araki si lasciò cadere sulla sabbia, guardando abbattuto i due che si allontanavano velocemente. Accidenti, accidenti! Ah, ma che accidenti? Lui non si buttava giù per la minaccia di una ragazzina... Avrebbe fatto quello che si era ripromesso! L'avrebbe conquistata, alla stra-faccia del suo (futuro ex)fidanzato!

 

*

 

Guardò l'orologio al polso, sistemandosi poi la sacca sulla spalla. Era una bella domenica per fare due tiri a canestro con il suo migliore amico, oltre al fatto che aveva bisogno di non pensare a niente tranne a quella sfera arancione che tanto adorava. Appena aveva detto a sua madre che aveva trovato lavoro per portarla via da quel mostro di uomo per poco non era scoppiata in lacrime, abbracciandolo così forte da lasciarlo senza respiro. "Che Buddha lo protegga, quel santo di ragazzo!", aveva esclamato, asciugandosi gli occhi lucidi.

Sorridendo al pensiero di Akira che veniva strapazzato come sempre dalle mani della madre, Hisashi svoltò l'angolo, dove poteva intravvedere l'ingresso del suo liceo. Buttò un'occhiata distratta al cortile, non aspettandosi certo di vedere qualcuno la domenica pomeriggio. O almeno, era quello che aveva pensato prima di scorgere la visibile porta delle palestre mezzo aperta.

Chi diavolo c'è?, si chiese, fermandosi davanti all'inferriata. Solo Ryota e Ayako avevano le chiavi, sia del cancello principale sia della loro palestra... Ma quella era l'ala che portava alle piscine, oltre il fatto che la cancellata era chiusa con il lucchetto. Poggiò la sacca dell'allenamento sul muretto su cui svettava il nome del Liceo e scavalcò il cancello, con un abile balzo. Mani in tasca, si diresse verso quella porta semi-aperta, incuriosito. Sicuramente doveva essere uno in cerca di qualche sospensione, dato che non era permesso entrare a scuola di domenica senza un permesso... E il tipo, o i tipi, là dentro sicuramente non ne avevano.

Peccato che quello che vide dopo lo lasciò per un attimo senza parole. Non c'era qualche idiota che stava facendo casino, né qualcuno che voleva farsi un bagno a scrocco; bensì c'era una ragazza, ferma sul trampolino, che respirava profondamente ad occhi chiusi, immobile come una statua per cercare la concentrazione.

Hisashi non si mosse per non far rumore e non distrarla, ma la curiosità di sapere chi fosse gli fece aguzzare la vista. Non riuscì a riconoscerla a primo impatto, dato che indossava la cuffietta che le ritirava i capelli, oltre al fatto che fosse 50 metri più in là. Poi sussultò, appena la nuotatrice iniziò a saltellare sul trampolino, per compiere un tuffo che era tutto un programma: avvitamento, carpiato, dritta dentro l'acqua, pochissimi gli schizzi. Entrata pressoché perfetta, lo poteva capire anche un "ignorante" in materia come lui.

Appena la ragazza risalì a galla lo notò subito, strabuzzando gli occhi. Rimasero a guardarsi per qualche secondo, l'uno non sapendo se andarsene e fare finta di niente, l'altra parecchio indispettita.

«Qualche problema?», gli chiese, acida, avvicinandosi al bordo piscina.

Hisashi si spostò dalla parete su cui era mollemente appoggiato, muovendo qualche passo verso la ragazza. «Io no. Tu piuttosto, mi sembri nervosetta... Kobayashi?! Sei tu?».

Kiyo gli riservò un'occhiataccia avvelenata, infastidita che quell'insolente borioso avesse interrotto così il suo allenamento. Odiava che qualcuno la disturbasse, soprattutto se era un ragazzo, un ragazzo come lui. «Mitsui. Non hai altro da fare oggi?». Uscita dalla piscina afferrò l'accappatoio, avvolgendoselo frettolosamente sulle spalle. Non le stava piacendo il modo in cui quegli occhi blu la stavano guardando.

«Tranquilla, non adoro perdere tempo a spiare le ragazzine in costume da bagno... vengono da me direttamente», la provocò, facendole roteare gli occhi.

«Maiale... come tutti i ragazzi», sbottò lei, andando verso i bagni per farsi una doccia.

L'espressione maliziosa del giocatore di basket sparì immediatamente. «Ehi, aspetta!». La bloccò per un polso, lasciandola nello stesso istante in cui lei lo fulminò ancora una volta con lo sguardo. «Due volte che parliamo e due volte che finiamo per litigare... che problemi hai?»

«Che problemi ho? Non mi piace parlare con quelli come te».

«E che diavolo vuol dire? Che accidenti ne sai di come sono io?», le fece, ora seriamente offeso. Come si permetteva quella ragazzina di parlargli così?

«Lo so e basta... siete tutti così voialtri», rispose lei, puntandogli l'indice contro. «E ora lasciami in pace. Mi hai già disturbata abbastanza».

Hisashi non ci vide più dalla rabbia e la mandò gentilmente a quel paese, sbattendosi la porta alle spalle. Chi diavolo credeva di essere quella stupida? Che andasse a farsi– ah, accidenti a lei! Non si sarebbe rovinato una giornata già scura di per sé per colpa sua.

Lei, d'altro canto, sobbalzò nel sentire la porta sbattere con forza per la rabbia - giustificata - del ragazzo, e si lasciò cadere a terra, senza forze. Si tolse la cuffietta con collera, buttandola in acqua, e si coprì il viso con le mani. Non seppe il perché, ma si ritrovò a piangere come una bambina, troppo sola e impaurita per farcela da sola.

Il ragazzo, nel frattempo raggiunse il campetto da basket, più irritato che mai.

«Ehi, amico, siamo in ritardo o sbaglio?», gli fece affabile come sempre Akira, ticchettando un dito sul quadrante del suo orologio. «Non è corretto farmi aspettare qui solo soletto, senza neanche avvisare!».

«Ah, stai zitto. Tu sei perennemente in ritardo», sbottò Hisashi, buttando in un angolo la sacca dell'allenamento e tirando fuori il pallone. «Due tiri per riscaldarmi e iniziamo».

Akira, però, non demorse, chinando la testa su un lato, incuriosito. «È successo qualcosa e non vuoi dirmelo. Perché?».

«Non è successo assolutamente nulla, Sendoh».

Il Porcospino scoppiò a ridere, facendo girare il suo pallone su un dito. «Oh sì che è successo qualcosa... e sei anche parecchio infastidito, non mi avresti chiamato per cognome altrimenti».

Mitsui gli riservò un'occhiataccia truce, di quelle per cui molti gli stavano a debita distanza, e riprese a tirare a canestro, dietro la linea dei tre.

«Vediamo un po'... non si tratta di quello lì, saresti molto più incazzato» iniziò a elencare il giocatore del Ryonan, mentre l'altro alzava gli occhi al cielo. «Potresti aver fatto danni alla tua adorata moto, ma lo escludo perché altrimenti saresti verde dall'ira. Altra ipotesi più plausibile: sei stato scaricato da una donna!».

La guardia sbagliò totalmente il tiro, colpendo solo il ferro. «Accidenti, Akira, non riesci a stare zitto?».

L'altro scoppiò nuovamente a ridere, conscio di aver azzeccato in pieno. «Amico mio, ti conosco come le mie tasche! Avanti, di chi si tratta?».

«Non rompere», ringhiò Hisashi, recuperando il pallone con una zampata. «Allora, iniziamo sì o no?».

«Sì, sarà uno scontro interessante», annuì Sendoh, sorridendo. «Comunque deve essere un bel peperino».

«Non ne hai idea», ringhiò l'altro, parandosi davanti a lui per iniziare il one-on-one.

«A-ah. Hisashi Mitsui che si becca un bel due di picche... non avrei mai pensato che sarei stato onorato di vederlo!». Scartò velocemente la furia dell'amico, che stanco della sua parlantina e scocciato per l'accaduto, aveva avuto l'idea di coglierlo di sorpresa e soffiargli la palla.

Sì, sarebbe stato un bel one-on-one, pensò ancora una volta Sendoh, infilando il primo canestro della serata.

 

*

 

Dovevano essere passate tre ore da quando era arrivato a quel campetto, tre ore da quando aveva iniziato il suo consueto allenamento pomeridiano in solitario. Kaede si asciugò il sudore dal viso con il bordo della maglia e riprese fiato, poggiato contro la rete metallica alle sue spalle. Alzò lo sguardo verso il cielo, ormai striato dalle sfumature rossastre del tramonto, e si fermò qualche istante a guardare la scia di un aereo che passava sopra la sua testa. Chissà dove stava andando... Forse in America, il suo sogno? Un giorno anche lui sarebbe salito su quell'aereo, un giorno che magari non era neanche così lontano. O almeno, così sperava in cuor suo.

Si mise la sacca in spalla e s'incamminò verso casa. Quella sera aveva deciso di non prendere la bici, o quella che doveva essere una bici - più scassata che mai; aveva voglia di fare due passi e godersi Kanagawa con calma. Gli piaceva camminare quando in strada c'era poca gente: gli evitava gli sguardi assatanati delle ragazze e quelle incuriosite dei passanti, anche un po' intimoriti dalla sua altezza e da quello sguardo imbronciato che aveva sempre. Non che la cosa gli importasse più di tanto, dato che era perennemente perso nel suo mondo per occuparsi di chi gli stava intorno. Il suo fan club, del resto, lo aveva "addestrato" per bene all'indifferenza.

Quella sera, però, non sembrò poi tanto addormentato, soprattutto quando si accorse che a poche centinaia di metri poteva intravvedere il Bar America. E chi lo avrebbe mai detto che quel famigerato locale fosse così vicino al suo campetto prediletto?

Quando si ritrovò lì vicino buttò un'occhiata distratta all'ingresso, credendo di vedere quella stramba ragazza che ci lavorava. Ma così non fu. O almeno, non la incontrò mentre usciva dal locale, bensì cinque minuti dopo, sorridente e contenta...

In compagnia di Sendoh.

Kaede strinse i denti alla vista dell'inaspettata coppietta - quella ragazzina stava insieme a quello lì? - soprattutto alla vista del sorriso da ebete che aveva quell'idiota del Ryonan. Decise di girare al primo angolo che avrebbe incontrato, non sopportando l'idea che uno dei due potesse scorgerlo e menargli le palle per qualche assurdo motivo. Ma quella doveva essere la giornata mondiale della sfiga, dato che Akira lo vide prima ancora che potesse mettere in atto il suo piano di fuga, e lo chiamò allegramente, agitando un braccio per farsi notare.

«Ehilà, Kaede!».

L'ala piccola dello Shohoku alzò gli occhi al cielo, fermando la sua ritirata e guardandolo bieco. «'ao».

Fu quando gli occhi ridenti della ragazza lo salutarono ancora più allegramente che si degnò anche di un cenno del capo. Del resto, quella poveretta non gli menava gli zebedei ogni volta che scorgeva la sua ombra, indi per cui poteva anche avere l'onore di un suo saluto.

«Anche tu da queste parti?», gli chiese, sorridente.

«Scommetto che ti stavi allenando al campetto qui vicino», buttò lì Akira, guardando la sacca che teneva mollemente sulle spalle.

«Sempre perspicace, tu», rispose lui, voltando lo sguardo, e suscitando l'ilarità di Sana. Che diavolo avrà da ridere, ora?

«Kaede, vuoi unirti a noi? Stiamo andando nella stessa direzione», propose cordiale come sempre quel santo di Sendoh, non ben capendo - o forse, facendo finta di non capire - la pericolosità di quell'atteggiamento nei confronti del volpino. Che, infatti, ponderò per bene l'idea di massacrargli quel muso che si ritrovava se avesse nuovamente osato chiamarlo per nome con tutta quella confidenza. In che lingua doveva farglielo capire che gli stava stramaledettamente sulle scatole? «Anche no, Sendoh. Ciao».

Sanako rimase parecchio interdetta da quel comportamento freddo e piuttosto maleducato, ma il ragazzo accanto a lei non sembrò curarsene, risolvendo tutto con una sana risata.

«Avete per caso qualche problema?», chiese lei.

«No, niente di che. Per lo meno, non da parte mia. Credo di non essergli mai stato molto simpatico, ecco tutto».

«Per il basket?».

Akira annuì, sorridendo nel pensare alla loro rivalità in campo. «Odia perdere, soprattutto contro me. Sarà che sono troppo bravo e lui non vuole essermi da meno».

«Viva la modestia!», esclamò Sana, ridacchiando. Lanciò un'ultima occhiata alla schiena del giocatore dello Shohoku, che si allontanava dietro un angolo. Com'era strano, quel ragazzo. Era incredibile quanto fosse diverso da Akira, era esattamente il suo opposto. Chissà come faceva a riscuotere così tanto successo tra le ragazze? Non poteva essere solo per il fatto che fosse sconvolgentemente bello... o forse sì?

Kaede, nel frattempo, irritato come solo Sendoh riusciva a farlo diventare, accese il suo walkman, mentre la musica rock che tanto adorava gli trapanava i timpani. Quel deficiente di Sendoh... da quando conosceva la ragazzina del tetto? E dire che lui la vedeva praticamente tutti i giorni e l'aveva scoperta solo in quel momento. Ancora vedeva davanti agli occhi il suo sorriso, appena l'aveva visto.

Hmpf. Sta insieme a quell'idiota.

Che diavolo ci trovano in quell'istrice le donne? Sorrideva per un non niente, aveva la simpatia di un dito in un occhio ed era addirittura più borioso di lui in campo.

«Edeee!».

E lei? Lei che ci trovava in quello lì? Erano una coppia addirittura più bizzarra del pensiero del Do'aho con la Babbuina... Brr!

«Edeeeee!».

«Hicchan, non gridare, starà dormendo in piedi come fa sempre!».

Il volpino corrugò la fronte, perplesso: gli era sembrato di sentire la voce di un'altra coppia bizzarra... lo stavano per caso perseguitando? Si tolse un auricolare, voltandosi leggermente per vedere se non si fosse sognato tutto e per poco non gli scese un coccolone quando si vide quella furia dai capelli rossi saltargli alle spalle.

«Ede! Allora non stavi dormendo!», esclamò allegramente, dandogli un bacino sulla guancia.

«Hn, mollami demente», le rispose, infastidito. Si pentì subito della sua risposta sgarbata, ma non le chiese scusa; si limitò solo ad abbassare lo sguardo e come sempre accadeva lei lo capì al volo.

«Ehi, è successo qualcosa?», gli domandò, preoccupata.

Nobunaga li raggiunse velocemente, ficcandosi le mani in tasca e lanciandogli un'occhiataccia sbieca. «Tsè, sembra che abbia visto Sendoh!».

Lo sguardo di ghiaccio che Rukawa gli riservò subito dopo lo fece arretrare di qualche passo.

Sì, aveva decisamente visto Sendoh.

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Tralasciando che ho dato millemila esami, che me ne manca ancora uno, che sono stanca, che voglio andare al mare, che, che, che... Mi scuso per il ritardo, ma è stato veramente un periodo pesante!

Un grazie veloce a tutti, i pochi che commentano e coloro che hanno aggiunto BA alle seguite, preferiti e ricordate... Grazie!

Un abbraccio,

Marta.

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** 07 I. Quando la Guardia diventa guardia del corpo ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 7, parte prima.

Quando la Guardia diventa guardia del corpo.

 

 

 

Quando la sveglia suonò puntuale alle otto del mattino Hisashi era già desto da un pezzo. Era lunedì, l'inizio di una nuova settimana e, soprattutto, l'inizio della sua nuova "carriera" di porta pizze al Bar America. Chissà come sarebbe stato? Era contento della sua scelta, avrebbe finalmente portato a casa qualche soldo in più per arrotondare le entrate e aiutare sua madre. Avrebbe finalmente messo la parola fine a tutta quell'assurda situazione con il padre, o presunto tale. Non sopportava più la vista della donna più importante della sua vita in lacrime, o con l'espressione più triste e vacua che potesse avere. Voleva vederla sorridere, finalmente, voleva vederla serena come non lo era da troppo tempo.

Saltò giù dal letto e andò in cucina, per salutarla. La trovò intenta a preparargli la colazione, così intenta nel suo lavoro che sussultò quando lui l'abbracciò da dietro, schioccandole un bacio tra i capelli.

«Oh, tesoro, buongiorno», lo salutò, sorridendogli. «Dormito bene?».

«Non tanto», rispose lui, appoggiandosi contro il bancone della cucina e ficcandosi le mani nella tasca della felpa. «Tu?».

Lei continuò a sorridergli, abbassando lo sguardo per nascondere gli occhi lucidi. «Qualche incubo, come sempre».

Il ragazzo strinse i denti, ma cercò di non mostrarle la sua stizza. Almeno lui doveva infonderle tranquillità. «Oggi inizio il lavoro», le disse, cambiando argomento.

«Sì, lo ricordo. Non smetterò mai di ringraziare Akira» Gli porse la colazione, asciugandosi gli occhi con il grembiulino da cucina. «Uno di questi giorni voglio invitarlo a cena con la famiglia, che ne dici?».

«E averlo tra le scatole anche di notte? Mamma, tu devi odiarmi sul serio».

Lei ridacchiò, tirandogli un buffetto affettuoso sulla nuca. «Non fare finta di odiarlo, non sei mai stato un bravo attore».

Hisashi abbozzò un sorriso. «D'accordo, fammi sapere la data, così lo avverto».

Fatta colazione e una doccia veloce, preparò il borsone dell'allenamento. Non vedeva l'ora di giocare nuovamente; mancava solo una settimana all'amichevole contro il Ryonan e lui, come i suoi compagni, stavano fremendo. Ryota, per quanto si fosse montato la testa, si stava rivelando un buon capitano e dire che li stava mettendo sotto era poco. Sembrava la versione rimpicciolita del Gorilla!

«Mamma, io vado!», esclamò, recuperando le chiavi della moto e mettendosi le scarpe. «Mi raccomando, se succede qualcosa fammi chiamare dal preside, ok?».

La donna annuì, abbracciandolo. «Buona giornata, Hisashi»

Il ragazzo le fece l'occhiolino e si richiuse la porta alle spalle. C'era un bel sole quella mattina e, dato che era particolarmente suscettibile ai cambiamenti climatici, pensò che sarebbe stata una bella giornata, probabilmente. O almeno, così sperava. S'infilò il casco integrale sul capo e mise in moto la sua adorata bambola.

Appena arrivò al liceo gli si presentò davanti la solita scenetta mattutina, ormai un'abitudine immancabile.

«Maledetta bagasha di una volpaccia artica, sai dove te la ficco quella bicicletta scassata?!».

Hime, con l'espressione più rassegnata del mondo, appena lo vide, gli corse incontro, lasciandosi alle spalle quei due dementi che, come sempre, se le davano di santa ragione. «Hisa! Buondì!».

«Ciao. Gliel'hai detto che possono limonare anche da un'altra parte?», le chiese, indicandoli con un cenno del capo.

La rossa scoppiò a ridere, ma ammutolì quando si accorse dell'ombra minacciosa di un King Kong di sua conoscenza. «A-Akagi!».

Inutile dire che la rissa venne sedata dalle amorevoli mani del loro ex capitano. «Buongiorno anche a voi», ringhiò, mentre Hanamichi piagnucolava e si accarezzava la testa dolorante e l'altro narcolettico sbadigliava, come se niente fosse successo.

«Oggi è il grande giorno!», strillò entusiasta Hime, saltellando e battendo le mani come una bambina. Neanche l'occhiataccia del Gorilla sedò il suo entusiasmo.

«Perché? Chi si sposa?», chiese Ayako, comparendo in quel momento con Ryota, appena arrivati in motorino.

«Non si sposa nessuno, Aya-chan, quello lì inizia a lavorare.», rispose il neo capitano, mentre la guardia lo guardava truce.

«È vero! Era ora che mettessi la testa a posto, Mitchi!», sbraitò Hanamichi, battendogli una manona sulle spalle. Inutile dire che si ritrovò un altro bernoccolo in testa due secondi più tardi.

«Tu non hai proprio speranze, mezza sega», gli rispose gentilmente Hisashi, ghignando. Il sorriso gli morì sulle labbra appena riconobbe una testa bionda tra la folla di studenti che stavano arrivando per l'inizio delle lezioni.

Kiyo gli lanciò un'occhiataccia e salutò unicamente il suo compagno di classe, Rukawa, con un cenno della mano. Cosa che lo mandò in bestia. «Ehi, Rukawa, la conosci?», gli chiese, avvicinandosi mentre continuava a osservarla sparire tra gli studenti.

L'altro si rialzò, dopo aver sistemato la catena alla sua bici. Che poi, chi avrebbe potuto rubargliela, conciata com'era? «Hn... È in classe mia».

«Tutte le fortune sempre a te», borbottò Mitsui, tant'è che quello neanche lo sentì, addormentato com'era.

Kaede si risvegliò solo quando sentì quel Do'aho salutare la velocista dell'anno, tale Sanako Tsukiyama che, come sempre, era in ritardissimo e si stava trascinando la solita chitarra più grande di lei. Di fretta com'era si accorse solo all'ultimo momento di lui e lo salutò con un sorriso allegro, anche se lui ci vide ben altro dietro quell'espressione. Più la vedeva, più si rendeva conto che quella ragazzina sorrideva per circostanza.

«Ehi, Tsukiyama, a che ora finisci con quella?», le chiese Mitsui, indicando la chitarra.

«Alle sei, perché?».

Hisashi si sistemò la sacca sulle spalle. «Perché sono in moto, possiamo andare a lavoro insieme.»

«Ehi, non farti tanto figo, ricordati che devi andare a spasso per portare pizze, eh», gli snocciolò Ryota, facendo sorridere la piccola barista.

Mitsui non lo cagò di striscio, continuando a guardare la ragazza. «Io finisco alle sette, magari puoi venire a vedere gli allenamenti».

Sana annuì, entusiasta. «Non capisco niente di basket, ma sarà divertente! E grazie per l'offerta». Arrossì quando lui le fece l'occhiolino, salutandola per andarsene in classe.

Rukawa fece finta di non sentire, passandole accanto e sentendo il suo sguardo addosso; ma lui aveva sentito, eccome. E, non seppe perché, decise che quel pomeriggio, agli allenamenti, avrebbe dato tutto sé stesso. Se davvero quella ragazzina non conosceva niente di basket avrebbe sicuramente capito chi tra quel gruppo di giocatori fosse il migliore. Tant'è che Hanamichi, che gli si era affiancato per menargli le palle come sua consuetudine, dovette subito allontanarsi, dato che l'ego smisurato del volpino l'avrebbe altrimenti ustionato.

Due secondi più tardi arrivarono gli inseparabili gemelli Shimura, che salutarono tutti con un sorriso smagliante, così smagliante che perfino Sendoh avrebbe avuto dei problemi di concorrenza. «Buongiorno!», dissero in coro - come sempre, del resto.

Fu così che, per la gioia di Rukawa, Hanamichi trotterellò da loro, i suoi migliori e preferiti adepti. «Ehilà, Gatti-Siamesi!».

Hime e Yoehi si guardarono mestamente, all'ennesimo soprannome animalesco che Hanamichi aveva trovato.

« capito, è un animale lui, non può sentirsi solo!», commentò Takamiya, sudando freddo nel guardare il rossino che, per sua fortuna, era talmente intento a gridare le sue grandiose gesta di cestista per preoccuparsi delle prese in giro dei suoi amici.

«Certo che quei due hanno la pazienza di un Buddha», fece Mito, a voce bassa per non rischiare il linciaggio, mentre il resto dell'Armata e le due giovani donzelle del primo anno lo seguivano.

«Sì, ma solitamente chi è così paziente alla fine si rivela più distruttivo del King Kong», fece saggiamente notare Hime, che schivò per puro caso uno scappellotto del King Kong per antonomasia. «Ehi, Akagi! Non mi stavo riferendo a te! Egocentrico!».

«Hime Sakuragi!», tuonò quello. La rossa vide bene di darsela a gambe, seguita poi dal fratello, che aveva sentito solo il "Sakuragi", temendo possibili ritorsioni per qualcosa che aveva combinato - perché lui ne combinava sempre.

Dal panico al mancato dramma, dato che per la loro improvvisa corsa i gemelli più casinisti dello Shohoku arrivarono in orario alla temuta lezione di matematica. Yoehi Mito? Dovette sorbirsi il primo quarto d'ora fuori in corridoio da solo. Ma unicamente il primo quarto d'ora, dato che Hanamichi lo raggiunse poco dopo per essersi addormentato sul banco.

Ah, maledetti film dell'orrore che non lo facevano mai dormire la notte!

 

*

 

L'ora di pranzo arrivò, finalmente, seppur con inesorabile lentezza per tutti. Il lunedì era un giorno traumatico per ognuno di loro, soprattutto se l'orario scolastico era bello pesante come quello del primo anno, sezione 3. Sanako salutò i gemelli Shimura e le poche compagne di classe con cui si fermava solitamente a chiacchierare, e volò sulla terrazza del tetto, per pranzare. Rukawa - incredibile che fosse lui il ragazzo che trovava sempre lì a ronfare! - non era ancora arrivato, ma lei non disperò. Era letteralmente corsa, quella volta, e per quel poco che lo conosceva probabilmente si stava ancora svegliando. Si sedette al suo consueto posto, tirando fuori il suo pranzo e il quaderno di storia, per iniziare a leggere tutti gli appunti che era riuscita a scrivere in quelle due, infinite, ore di lezione.

Kaede Rukawa arrivò cinque minuti più tardi, assonnato e affamato nel contempo. Rimase un po' stranito dal fatto che quella ragazzina non avesse approfittato del fatto che ormai lo conoscesse per sedersi accanto a lui. Probabilmente era abbastanza intelligente da capire che non voleva rotture di scatole intorno. Anche se, in effetti, non le avrebbe detto di allontanarsi.

«Ciao!», lo salutò, con un sorriso tirato.

E ora che diavolo ha? «'ao». Si lasciò cadere sul pavimento, chiudendo gli occhi un attimo e godendo la quiete di quei momenti, prima di iniziare a pranzare. Quando li riaprì li posò direttamente sulla ragazza, che era tornata a leggere i suoi appunti. Non riusciva proprio a capire cosa le passasse per la testa; solitamente era lui quello imperscrutabile, quello che aveva lo sguardo impenetrabile, che solo Hime riusciva a decifrare. Ma quella ragazzina, quella Sanako, proprio lo spiazzava.

Decise di non pensarci troppo, dopo tutto non erano affari suoi; se quella ragazza era lunatica che avrebbe potuto farci? L'unica cosa che non capiva era perché sorrideva con tutti, tranne che con lui. Quando stava con Hime o addirittura con quell'idiota di Sendoh sembrava la persona più felice del mondo, quando invece la trovava sola non ostentava un minimo di falsità: triste era e triste rimaneva. Accidenti a lei.

In realtà Sana aveva voglia di chiacchierare quel giorno, ma non sapeva come iniziare. Probabilmente doveva avere un'espressione da ebete appena il cestista aveva fatto la sua comparsa e ciò non era bene. Quel ragazzo la metteva in soggezione, ma non in imbarazzo, come quando era in presenza di Akira-sto-sempre-sorridendo-Sendoh. No, Rukawa la metteva in soggezione perché era diverso dalle persone con cui aveva a che fare di solito. Era taciturno, perennemente addentrato nel suo mondo personale e irraggiungibile e non certo famoso per le sue amicizie femminili - tranne per le due uniche coraggiose e fortunate che osavano anche prenderlo per i fondelli, cioè le due manager della squadra.

Pensando a Hime, Sanako, sorrise. Ammirava quella ragazza, era solare, matta e, nonostante tutto, di una dolcezza unica. Sprizzava amore e amicizia da tutti i pori, indistintamente per tutti i suoi amici, tranne che per il fratello, per cui stravedeva. Guardando Rukawa si chiese come quella ragazza riuscisse a capirlo così facilmente con un solo sguardo. Le poche volte che li aveva visti insieme era rimasta sbalordita, non solo per la fama del volpino, ma anche perché aveva capito in poco tempo che tipo fosse. Effettivamente, quei due, potevano benissimo essere fidanzati, se la rossa non fosse stata già impegnata. Li avrebbe visti bene insieme.

Quel pensiero le fece scuotere il capo. Fidanzati? Ah, erano amici, i migliori che avesse mai visto. E poi c'era quel Kiyota, più fuori di un balcone quanto Hanamichi, con cui stava bene, a quanto pareva.

Alzò lo sguardo su Kaede e arrossì quando si accorse che le aveva lanciato un'occhiata perplessa. Evidentemente l'aveva notata mentre discuteva tra sé e sé - non doveva essere un bello spettacolo. «Akira mi ha detto che tra voi non scorre buon sangue». Si pentì subito di quell'esordio appena l'occhiata di Rukawa si trasformò in un fulmine.

«Ma va?». Vacci piano con il sarcasmo, o congelerai l'intera scuola, Kaede.

«Mi ha detto che la settimana prossima avrete una partita».

«Hn... Lo batterò».

Lei sorrise. «Sei proprio sicuro di te».

Kaede alzò un sopracciglio, parecchio perplesso. «Mi sembra il minimo».

Sana rimase un po' in silenzio, senza sapere cosa dire. Accidenti a lui, non poteva essere un po' più loquace? «Sai, stasera verrò a vedere gli allenamenti».

Lo so. «Hn».

Kaede emise un gemito quasi divertito quando la vide roteare gli occhi per il suo ennesimo monosillabo. Eppure era tenace, la ragazzina. Hime lo avrebbe già mandato a quel paese da qualche ora, al suo posto.

«Non capisco molto di basket, ma sarà divertente, vero?». Incredibile, stava praticamente parlando da sola! E quanto si sentiva stupida, incredibilmente stupida!

«Traumatizzante, direi».

Sanako non capì bene le parole del ragazzo finché non vide con i suoi occhi gli orrori che accadevano dietro le porte della palestra. Tra Araki che iniziava i suoi miseri e fallimentari tentativi di approccio con Hime, Hanamichi che s'imbestialiva e difendeva la sorella dalle grinfie del Puffo, Rukawa che lanciava frecciate gelide ai due contendenti, Miyagi che tirava le orecchie a entrambi per riportare un minimo d'ordine, Mitsui che lo sfotteva dicendo che prima o poi l'animo bestiale del King Kong si sarebbe impossessato di lui, le matricole varie che si spanciavano dalle risate e Ayako che sventagliava le teste di tutti a destra e a sinistra, Sanako pensò che il Caos era niente in confronto.

Fortuna volle - o sfiga? - che fece la sua colossale comparsa Akagi, che sedò tutti con le sue amorevoli e consuete cure. Le uniche che si salvarono furono proprio le due donnine della situazione, una perché stava usando le maniere forti proprio come piaceva a lui, l'altra perché si era accorto che fosse la vittima delle avances di quello strano tipo. E per quanto Hime gli facesse girare i palloni alla velocità della luce, aveva ancora un minimo di buon cuore per capire che quel tizio tanto normale non fosse. Non che quell'esagitato del ragazzo fosse l'esempio vivente della perfezione, tutt'altro; ma almeno non era così... inquietante.

Inutile dire che Hime gli si aggrappò al braccio, per sdebitarsi del favore ricevuto e lui, per riprendersi da quel piccolo momento di benevolenza, se la scrollò di dosso come una mosca.

«Ehi, Gori! Che ci fai anche oggi qui?», chiese Hanamichi, mentre al suo fianco un Araki più che deluso e fumante di frustrazione e rabbia stava parlottando da solo, come un invasato.

«Già, perché non torni a giocare se trovi il tempo di venire agli allenamenti ogni volta?», domandò anche Hime, ancora scottata dalla decisione dell'ex capitano di lasciarli dopo una stagione estiva a dir poco incredibile.

«Perché devo studiare, baka», si giustificò lui, cercando di levarsi quell'impicciona da torno. Quando si voltò vide lo sguardo seccato e scettico di Mitsui, a braccia conserte davanti a lui.

«Avanti, non vorrai farmi credere che uno come te non riuscirebbe a trovare il tempo per studiare e per praticare il suo sport preferito?».

Maledetta adulatrice!, pensò Kaede, sorridendo sotto i baffi.

«Hime, tu sei uno dei tre motivi per cui non tornerei mai», le confessò seriamente Akagi, mentre la ragazza esibiva la sua miglior espressione di (falsa) tristezza.

«E quali sarebbero gli altri due?», domandò strafottente Hisashi, facendosi avanti. Quel disgraziato di un negriero lo aveva mollato proprio quando stava riprendendo le forze e aveva tutta la voglia e lo spirito di dimostrargli quando bravo fosse diventato, doveva fargliela pagare per essere scappato così!

«Suo fratello è un altro», rispose il Gori, indicando con un cenno del capo un povero Hanamichi con i lacrimoni agli occhi.

«E il terzo?», insistette la guardia, corrugando la fronte.

Akagi non rispose, esitando qualche secondo. In realtà il terzo motivo era il principale tra tutti, e anche quello che più faceva male. Non aveva avuto le forze necessarie per combattere durante la partita contro l'Aiwa, la partita decisiva che li avrebbe portati in finale. Era esausto, come tutti, dall'incredibile match contro il Sannoh, ma non se lo sarebbe mai perdonato. Lui, il Capitano, il trascinatore della squadra che aveva mollato proprio nel momento più importante. Con che coraggio avrebbe dovuto indossare nuovamente quella maglia?

«Ehi, Capitano». Akagi si voltò verso una sorridente Hime, che gli posò una mano sulla spalla. «So cosa stai pensando e lo sappiamo tutti. Quindi non darti colpe inesistenti, chiaro? Quando vuoi tornare, se lo vorrai, ci sarà sempre posto per te, sarebbe ingiusto il contrario».

Lui sospirò pesantemente e pensò di ringraziare quella peste di ragazza con un piccolo pugnetto tra i capelli indemoniati. Non poteva certo lasciarsi andare in un abbraccio, lui! «Insomma, volete darvi una mossa a iniziare gli allenamenti, scansa fatiche?». Misero tentativo di sviare la discussione verso altri lidi, fortunatamente per lui, riuscito. Per quella volta.

«Bene, ragazzi, avvicinatevi». Ryota richiamò l'attenzione, gasandosi come sempre del fatto che ora era lui il Capitano - anche se effettivamente, con il Gorilla nei paraggi, si sentiva sempre un po' in soggezione e sotto esame. «Oggi ci divideremo così: prima della partitella a fine allenamento, vorrei fare qualcosa di nuovo».

«Ecco, ora ne spara una delle sue», biascicò Hisashi al suo vicino, un Hanamichi ancora incacchiato verso il Puffo.

«La scorsa volta ho notato che tu, Hanamichi, sei un po' rigido in alcuni movimenti. Voglio che per un po' faccia degli allenamenti speciali per riabilitarti al meglio».

«Checcosa?! Io sto benissimo, Ryo-chan! O oltre che basso sei anche cieco?», sbraitò come uno scaricatore di porto il rossino, che cinque secondi più tardi si beccò un calcione nel di dietro dalla sorella.

«Hana, non fare storie e vai da Ayako per l'allenamento speciale!», lo sgridò Hime. «L'idea è mia, perché voglio che torni in forma. E poi...», aggiunse, ammiccando. «Un allenamento speciale per un giocatore speciale!».

Inutile dire che a quelle parole il numero dieci iniziò a gongolare come un bambino di fronte al negozio di caramelle zuccherose, cosa per cui tutti i ragazzi ringraziarono la seconda manager per l'adulazione riuscita.

«Mi duole ammetterlo, Hime, ma a volte sei geniale», ammise Akagi, che dovette rimangiarsi le parole appena quella gli si appese al collo.

«Ehi, silenzio!», esclamò Miyagi, battendo le mani per recuperare l'attenzione di tutti. «Seconda novità: voglio mettere sotto i nuovi acquisti, perché ho notato che potete sviluppare alcuni punti di forza. Per farlo, però, dovrete lavorare tra di voi, successivamente lavoreremo insieme».

«Che vuol dire? Che ci relegherai in un pezzo di palestra?», chiese irritato Araki.

Eichiro, al suo fianco, sorrise mentre gli batteva una mano sulla spalla. «Tranquillo, fidati del Capitano. Sta solo dicendo che ci alleneremo per dare un aiuto maggiore alla squadra, dovresti esserne fiero».

Oh, grazie al cielo un altro sant'uomo che sostituirà Kogure!, pensò Ayako, che ritirò la sua arma di distruzione di massa, il fido ventaglio, già pronto a colpire.

«E udite, udite, vi allenerò io!», esclamò Hime, facendo il segno della vittoria.

«Cosa?! Hicchaaan! Non ti lascio da sola ad allenare quel Puffo spelacchiato!», strillò Hanamichi, che venne afferrato per la collottola dalla manager mora, prima che le saltasse addosso per difenderla.

«Ahaha! Ora voglio proprio vedere come farà quel Nobu-cacca senza te che la proteggi, Sakuragi!», rispose esaltato Araki, ridendo come un povero pazzo. Dietro di lui Rukawa, che vide bene di tirargli un calcio per sedare i suoi bollenti spiriti. «Ehi, maledetto! Come hai osato?».

«Pensa a renderti utile, deficiente», sibilò Kaede, lanciando un'occhiata alla sua migliore amica, più grata che mai del suo pronto intervento.

Ryota, che ormai aveva già perso le staffe da parecchio, riprese a parlare. «I veterani rimasti si alleneranno come sempre sulla stessa lunghezza d'onda. Domande?».

Hanamichi alzò la mano. «Posso fare il mio allenamento speciuale per i giuocatori speciuali con la mia Hicchan?».

«Qualche problema con me, Hanamichi?», domandò con un ghigno poco promettente Ayako.

«No, no! Ahaha, scherzavo Aya-chan! Tu vai benissimo!».

«Bene, iniziamo!».

Il triplice allenamento che si svolse quel pomeriggio nella palestra dello Shohoku fu alquanto distruttivo. Ayako ebbe un bel da fare con il suo allievo dalla testa indiavolata, che si distraeva ogni tre per due per controllare la sua piccola sorellina indifesa - che tanto indifesa non lo era affatto. Hime, infatti, per sedare le continue avances del suo nuovo spasimante vide bene di punirlo con il doppio degli esercizi, quali flessioni di gambe, braccia, salti, sollevamento pesi e chi più ne ha più ne metta. Effettivamente, sembrava più la versione al femminile di quel gendarme di Akagi, che la solita tenera e pazza Hime Sakuragi. I due gemelli Shimura, invece, vennero messi a dribblare degli ostacoli, con passaggi di palla al limite del possibile. Ryota, infatti, aveva notato una certa intesa tra i due, e pensava che avrebbe potuto utilizzarli insieme in campo, per mettere in atto nuovi tipi di azioni che avrebbero sicuramente spaesato gli avversari.

I veterani, d'altro canto, proseguivano i loro consueti - devastanti - allenamenti settimanali, che tanto li avevano aiutati a sviluppare la loro incredibile abilità.

Ma fu il momento della partitella - quello che tutti aspettavano, uno in particolare - che fu uno spettacolo. Non tanto per il lavoro di squadra che tutti stavano aumentando a vista d'occhio, ma per l'incredibile maratona di un certo Kaede Rukawa, che in quella partitella ci mise anima e corpo. Era immarcabile, segnava a ogni possesso di palla e, impossibile ma vero, riusciva anche ad allestire delle splendide azioni con il suo miglior nemico. Hime non fu la sola a rendersi conto di questo strano atteggiamento dell'amico, ma forse fu l'unica ad accorgersi delle occhiate furtive che Kaede lanciava alla fine di ogni azione verso la panchina, dove Sanako osservava basita la scena. La ragazza non capiva un'acca di quello sport - vuoi perché non le era mai interessato, vuoi perché non era un'amante degli sport in generale - ma non le fu difficile comprendere che quello che Rukawa stava facendo in campo era straordinario.

Gli allenamenti finirono con l'intera squadra letteralmente distrutta, che si trascinò verso le docce senza forze - o almeno, utilizzavano le poche rimaste per insultare il volpino.

Hime trotterellò verso la nuova ospite, con un sorriso da orecchio a orecchio. «Allora, Sana! Come ti son sembrati?».

«A parte matti come dei cavalli, ovvio», borbottò Ayako, sistemandosi i capelli.

Sana ridacchiò. «Oh, beh... un po' casinisti, sì».

«Un po'? Ma dico, li hai guardati bene?». Hime, che sembrava seriamente sotto shock per quell'ingenua affermazione, le si sedette accanto. «Noi ci siamo abituati, ma deve essere un trauma per chi assiste agli allenamenti per la prima volta».

«Effettivamente sì, ho temuto parecchie volte che arrivassero alle mani», annuì, preoccupata, la barista.

«Oh, quello è pane di tutti i giorni, forse oggi si son contenuti perché c'era una nuova donzella a guardarli».

Sanako arrossì all'occhiolino della rossa. «No, ma che dici! Neanche si sono accorti che ci fossi».

Hime pensò che quella ragazza o era fuori come un balcone da non rendersi conto di quello che la circondava, o lo faceva apposta. Molto probabilmente era più plausibile la prima ipotesi, ma sperò ardentemente che si sbagliasse. Non poteva essere così addormentata, quella santa ragazza!

Hisashi Mitsui uscì dalla doccia per primo, fresco e lindo come una rosa. «Ehi, Tsukiyama!».

«Salve, senpai! Complimenti per oggi!».

«Ah, quell'idiota di Rukawa mi ha quasi fatto sfigurare», fece la guardia, issandosi la sacca in spalla.

«Sfiguri sempre con me, Mitsui», fece la voce dell'idiota in questione, che passò alle sue spalle salutando con lo sguardo le due ragazze.

«Allora, Hisa! Inizi oggi, eh?», esclamò ridacchiando nervosamente Hime, per evitare che quei due iniziassero a darsele di santa ragione.

«Sì, sarà la ventesima volta che lo dite», disse scocciato. «Siete insopportabili».

Hime sorrise, roteando gli occhi. «Beh, io vado a dare una mano ad Ayako, o chi la sente altrimenti! Buon lavoro, ragazzi!».

I due la ringraziarono, avviandosi verso la moto. Fecero in tempo a mettere piede fuori dalla palestra che Kiyo raggiunse l'amica, i capelli ancora bagnati dalla doccia. «Sabato, alle dieci».

Sanako corrugò la fronte. «Sabato alle dieci?».

«Ho le prime qualificazioni di nuoto».

«Oh, così presto?».

La bionda annuì, sospirando. «È arrivato il calendario proprio oggi». Poi, accorgendosi del ragazzone al fianco della sua migliore amica per poco non le scese un colpo.

«Kobayashi», la salutò lui, più serio che mai, riprendendo a camminare.

Sana guardò l'amica, curiosa. «Lo conosci?».

«Hn» Kiyo lo guardò sparire dietro l'angolo, le chiavi della moto che giravano attorno a un dito. «Tu?».

«Oh, sì, inizia oggi a lavorare al bar, come porta pizze... o ragazzo tutto fare, come lo chiama Watanabe-san».

Identica domanda le rivolse Hisashi, appena mise in moto. «Sì, è la mia migliore amica... o almeno, l'unica ragazza che possa essere considerata un'amica».

«Non è il massimo della simpatia».

La ragazza scosse il capo. «Kiyo è un po' fredda e scorbutica, a volte, ma appena la conosci si scioglie sempre».

«Ah, sì? E ti insulta, anche?».

«Ti ha insultato?».

Hisashi agitò una mano, per far cadere il discorso. Quell'argomento lo irritava parecchio, era incredibile. E dire che aveva anche pensato che avrebbe potuto provarci, magari. Ma con una strega come quella era impossibile anche solo pensarlo.

 

*

 

Kiyo chiuse irritata la telefonata, buttando sul divano il cordless di casa. Si lasciò andare contro i cuscini e rimase così, ferma a pensare una soluzione per uscire da quella situazione che non le piaceva per niente. Toshiro - quel bastardo! - l'aveva appena chiamata per informarla, gentilmente, che sarebbe passato a prenderla per uscire. Come se stessero ancora insieme e come se lei avesse avuto voglia di rivedere quella faccia da schiaffi. Aveva, ovviamente, rifiutato ma lui, che difficilmente digeriva un no, le aveva detto chiaro e tondo che quella sera sarebbe uscita con lui, e non voleva sentire scuse.

Si passò una mano tra i capelli, stanca di tutto. Doveva concentrarsi per le qualificazioni, non doveva perdere tempo a tener lontano un ex che non voleva accettare il suo rifiuto. Senza contare il fatto che Toshiro non era certo uno che faceva passare liscio ciò che non gli andava e temeva che veramente potesse fare qualcosa di sconsiderato.

Aveva detto che sarebbe venuto a prenderla per le otto e mancava meno di un'ora. Tempo sufficiente per serrare la casa e chiamare la polizia. E se fosse venuto in compagnia? Oh, non voleva neanche pensarlo! Era da sola a casa - i genitori erano usciti con degli amici di famiglia che non vedevano da tempo - e aveva una tremenda paura. Una tremendissima paura. Avrebbe voluto avere almeno la presenza di Sana, che per quanto piccola e indifesa fosse, era comunque una persona che poteva aiutarla. Toshiro non le avrebbe torto un capello con lei presente. Forse.

Si maledisse per il caratteraccio che aveva, per il fatto che avesse più nemici che amici. Ma non era colpa sua, in fondo. Aveva ricevuto troppe scottature dal passato per fidarsi di un cospicuo gruppo di persone, oltre al fatto che, dopo la storia di Toshiro, pensava che tutti gli uomini fossero uguali a lui. Accidenti, quanto avrebbe voluto vivere da un'altra parte, rifarsi una vita e ricominciare tutto dall'inizio! Sanako era l'unica persona di cui potesse fidarsi, e ci aveva impiegato parecchio tempo prima di capirlo, diffidente com'era. Era una ragazza ingenua, perennemente persa nel suo mondo, ma era sincera e fedele, ed era ciò che lei cercava in un'amicizia. Sapeva di trattarla male, delle volte, ma con ostinazione Sana non si offendeva mai, comprendendo sempre i motivi che la spingevano a comportarsi così. Prima o poi le avrebbe dovuto fare un monumento.

Si alzò dal divano, andando a recuperare l'elenco telefonico stipato da qualche parte in qualche mobile. Appena lo trovò cerco freneticamente la voce Bar America. Pensando alla sua amica le era venuta in mente un'idea, bizzarra e insensata forse, ma magari l'avrebbe aiutata un po'.

 

*

 

Appena Mitsui svoltò l'angolo, con la sua bella moto, da quella sera usata come porta pacchi, capì che all'indirizzo che gli era stato indicato qualcosa non andava. C'era un ragazzo, probabilmente un po' più grande di lui di età, che suonava e bussava ripetutamente alla porta, senza ottenere risposta.

«Vuoi aprire questa cazzo di porta o devo buttarla giù?», stava gridando il tizio in questione.

Hisashi parcheggiò la moto a qualche decina di metri di distanza, per cercare di capire che diavolo stesse succedendo. L'avevano per caso sbattuto fuori di casa?

«Kiyo, lo dico per il tuo bene. Apri. La. Porta».

Sentendo quel nome, Hisashi sbarrò gli occhi. Guardò l'indirizzo che il signor Watanabe gli aveva segnato nel cartone della pizza, e poi il cognome della famiglia: Kobayashi!

«Ehi, tu, che stai facendo?», chiese all'altro, scendendo dalla moto e levandosi il casco, che vide bene di tenere in mano per ogni evenienza. Aveva promesso al signor Anzai che non avrebbe più fatto a botte, ma nella vita non si poteva mai sapere.

«Chi diavolo sei? Vedi di allontanarti, facchino, o ti mando via a calci nel culo», gli rispose Toshiro, riprendendo a battere un pugno sulla porta.

Hisashi chinò il capo, sorridendo ironico. «Scommetti che ti spedisco in ospedale, invece?», gli disse, con un ghigno poco promettente, tamburellando le dita di una mano sul casco integrale.

Toshiro borbottò qualcosa, e si avvicinò alla sua macchina, senza smettere di guardarlo. «Non finisce qui, bamboccio. Non finisce qui».

Hisashi gli fece il medio per salutarlo, quando quello sgommò via per le strade di Kanagawa. «Ma guarda tu quello stronzo». Si avvicinò alla porta di casa Kobayashi, che venne aperta subito dopo.

Kiyo, vedendo lo sguardo indagatore del ragazzo, si sentì una perfetta idiota. Aveva rischiato che quei due si ammazzassero, solo perché lei credeva fosse la cosa migliore da fare! «Mitsui, scusami».

Lui corrugò la fronte. «E di cosa? Mica l'hai chiamato tu, immagino».

«No, ma ho chiamato te». Arrossì appena si accorse dello sguardo del ragazzo.

«Come sarebbe a dire?».

«È il mio ex. Mi aveva avvertita che sarebbe venuto a prendermi... e ho pensato di chiamare te per mandarlo via».

«Ehi, non mi pagano per fare la guardia del corpo», rispose lui, seccato. «Soprattutto a una che neanche mi rispetta».

«Scusami, Mitsui, scusami! In che lingua devo dirtelo?», esclamò lei esaltando un tono melodrammatico.

«Potresti continuare a ripeterlo, così abbassi un po' la cresta» Hisashi sorrise, ma niente di derisorio o provocatorio. «La pizza la offro io, per questa volta».

Lei sospirò, roteando gli occhi. «Accidenti a te, devo anche ringraziarti di nuovo, ora»

«Beh, sarebbe gentile da parte tua». Si allontanò verso la moto, voltandosi a guardarla. «Andiamo, mettiti un giubbotto e sali in moto. Non ti lascio sola. Ti riaccompagnerò a casa appena finisco».

Kiyo strabuzzò gli occhi. Aveva sentito bene?

«Muoviti, non ho tempo da perdere, Kobayashi! O ti lascio qui e mi porto via la pizza».

Ci mise meno di un minuto a recuperare la giacca e a raggiungerlo in moto. Quasi stentava a crederci, ma Hisashi Mitsui le aveva praticamente ordinato di seguirlo al bar per non lasciarla sola!

«Prima devo fare altre due consegne, non ti disturba?», le chiese, infilandosi il casco. Lei scosse la testa, felice di avere la protezione del copricapo protettivo. Non si sarebbe accorto del suo sorriso, per fortuna.

Appena arrivarono al bar, Sanako si accorse subito dei due e si preoccupò non poco appena l'amica le raccontò l'accaduto.

«Il senpai è stato molto gentile a portarti qui», assentì Sana, sorridendo grata al ragazzo, che si liberò dal discorso con un cenno della mano, sparendo verso le cucine.

Ma le sorprese non erano ancora finite lì, non per quella sera almeno.

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Salve a tutti!

Prima di tutto vorrei spiegarvi quel "parte prima": avevo in mente un capitolo decisamente più lungo (mooolto più lungo), ma per non darvi il colpo di grazia già da ora ho deciso di tagliarlo in due. Mi ha stravolto un po' i piani, ma vabbè... Quando i personaggi iniziano a fare quello che vogliono loro e non quello che vuoi tu è un bel casino. XD

Vorrei ringraziare chi continua a seguire questa cosa, sono contentissima! :)

E in particolare lirinuccia, che ha scritto tre lunghissime recensioni (per le quali sto ancora gongolando come Hanamichi poco prima! *_*). Mia cara, non preoccuparti per il ritardo, prima di tutto viene la vita reale, poi quella di questo mondo! ;) Ma andiamo con ordine, voglio risponderti per bene, perché te lo meriti! :*

Prima di tutto grazie per i complimenti, leggere che questa cosa sia quasi il seguito dell'originale Slam Dunk è un onore, davvero! *_* E' una grande soddisfazione per me, perché amo questo manga, amo chi l'ha disegnato, e amo tutti i personaggi. E' come se fossero con me, a fare casino tutto il tempo, come se li vedessi davanti ai miei occhi - no non mi son fumata niente, tranquilla! XD Anyways, siamo in due ad adorare Hime (io la venero letteralmente!), son orgogliosa di averla creata, la mia bambolina! *O* XD Piuttosto, mi piacerebbe sapere la tua opinione su Sanako - un personaggio un po' "insignificante", lo ammetto (nel senso che è la tipica bonacciona sempre con la testa tra le nuvole), ma vorrei capire perché ci vedi una possibile Mary-Sue in lei. :° Kiyo, invece, è esattamente il contrario - e come biasimarmi, del resto, dovevo creare qualcuna in grado di tener testa a Hisashi, no? ù_ù XD Ed è esattamente quello il mio intento, Hisashi Mitsui che si vede maltrattato da una ragazza non può certo stare in disparte. ;) Per quanto riguarda Ede vs Istrice sono molto combattuta, lo ammetto. Ma ho iniziato Wild Boys con un'idea in testa e credo che la porterò avanti... Anche se significa rimischiare le carte in tavola! (Anche perché ho in mente di scrivere una trilogia di questa "saga", quindi ce n'è di tempo e di spazio! *fischietta*). Permettimi, però, di dire la mia su Akira: il numero 7 del Ryonan è il mio personaggio preferito in assoluto (subitissimo dopo ci sono Rukawa, Maki, Kiyota, Hanamichi, Hisashi e Akagi, tutti al secondo posto xD), sarà che adoro il suo sorridere sempre anche alle provocazioni, sarà che adoro le sue stesse provocazioni, saranno i suoi capelli che superano le leggi di gravità, o solo il fatto che abbia la maglia numero 7 (il mio numero preferito insieme al 3), o saranno tutte queste cose insieme, non saprei! Ma ho letto davvero tante ff in cui viene descritto come il maiale della porta accanto - ora non entro nel merito, ognuno è libero di pensarla come vuole! L'Akira Sendoh che mi immagino io è sì malizioso (quanto potrebbe esserlo Hisashi, per questo io li immagino migliori amici), ma lo immagino anche incredibilmente dolce, di quei ragazzi che se si innamorano non avrebbero occhi se non per la loro donzella, che non può essere la prima che capita. E non credo neanche che Akira sia tanto interessato al sesso femminile, non più di Rukawa, forse, perché mi ha sempre dato l'impressione di uno che sacrifica la sua vita tra basket, ronfate e pesca. Almeno, questo è quello che penso io, del Sendoh che mi immagino io. Ci tenevo a spiegartelo perché in tutte le mie storie Akira sarà sempre così. ;) Ma non aggiungo altro, o va a finire che mi faccio sfuggire qualcosa di troppo su quello che la mia mente bacata ha intenzione di sfornare prossimamente! *ride sguaiatamente*

Orbene, dopo avervi fracassato la testa con un capitolo papiroso e un angolo autrice ancora più lungo, vi saluto e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento! ;)

Un abbraccio, e ancora grazie.

Marta.

 

Ps: Haruko, quella cosa... Con un fratello che è un Gorilla, lei non poteva non essere una Babbuina! XD

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** 07 II. Cioccolata con panna e scaglie di cocco ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 7, parte seconda.

Cioccolata con panna e scaglie di cocco.

 

 

 

«E sai cosa? Mi sono rotta le palle di tutto e di tutti, ecco!», biascicò una più che brilla Kiyo a un perfetto sconosciuto che si era erroneamente seduto accanto a lei. «Voglio dire, che colpa ne ho io se non lo amo più? Per non parlare del fatto che il mio allenatore vuole farmi raddoppiare le vasche da fare in allenamento. Io non ne ho bisogno... ahahaha!».

Sana, che aveva appena finito di servire degli aperitivi, spalancò gli occhi nell'avvistare quel bel teatrino. Kiyo ubriaca era l'ultima cosa che avrebbe pensato di vedere in vita sua... un po' come lei, effettivamente. E dire che le aveva dato solo un mezzo bicchiere di birra per mangiare la pizza! Beh, lei almeno ha bevuto, io mi ubriaco solo a sentirne l'odore, notò saggiamente la ragazzetta, che si avvicinò cauta all'amica. «Kiyo?».

Lo sguardo terrorizzato del tizio accanto era tutto un programma, segno evidente che il discorso senza capo né coda della bionda ossigenata non doveva essere un granché.

«Oh, Sana-ko! Ti presento Hi-ro-shi», le disse, scoppiando a ridere subito dopo.

«In realtà sarebbe Hironobu, piacere», rispose l'altro, sorridendo mestamente. «È una tua amica?».

Sana annuì. «Sì, ma... non l'avevo ancora vista in queste condizioni e speravo che mi avrebbe risparmiato lo spettacolo per molto ancora».

«Ahaha! Sanako è così simpatica... sai che studia anche nella pausa pranzo? È pazza, sì. Deeecisamente pazza... Ahahaha!».

Hisashi Mitsui tornò dalla sua ultima consegna proprio in quel momento. Appena la vide brilla non seppe se scoppiare a ridere fino a farsi male o preoccuparsi sul serio.

«Ehi, che diavolo sta facendo?», chiese, avvicinandosi alla sua collega.

«Non lo so e non lo voglio sapere!», esclamò lei, tappandosi gli occhi per non guardare. Kiyo, infatti, aveva preso il suo bicchiere fortunatamente vuoto e l'aveva alzato al cielo per brindare. «Agli stupidi ex che non capiscono un no! E a me, che sono taaanto furba!», gridò ridendo, catturando l'attenzione di tutti e i successivi applausi di supporto di tutto il bar.

Sana, rossa in viso manco si trovasse lei in precario bilico sulla sedia, cercò di farla calmare portandole del caffè, mentre Hisashi, senza troppe cerimonie, l'aveva afferrata per un polso e trascinata giù. Ci mancò poco che le rovinasse addosso.

«Vuoi darti una calmata?», esclamò la guardia dello Shohoku, scrollandola per le spalle.

Lei strinse gli occhi cercando di focalizzare la persona che aveva di fronte e, appena lo riconobbe, sgusciò via con uno strattone. «Tu... non osare toccarmi!».

Hisashi sospirò pesantemente, incrociando le braccia. «E tu piantala di renderti ridicola».

«Io non sono ridicola!», strillò lei, puntandogli un dito contro. «State sempre giudicando, voialtri! Fatevi un esame di coscienza e poi ne riparliamo!». Kiyo barcollò un poco e si passò una mano sulla fronte. Forse, forse aveva esagerato un po'. Forse.

«Andavi meglio prima quando non parlavi così tanto», borbottò Hisashi, cercando Sanako che nel frattempo era tornata con il caffè. Glielo fecero bere per forza - e grazie al cielo riuscì a non rigettare il panettone di dieci anni prima.

«Senti, Tsukiyama, ti dispiace se la riaccompagno a casa?».

Sana sorrise, scuotendo il capo. «Tranquillo, se non dovessi trovare un passaggio torno a piedi, non è la prima volta.» Ma il sorriso le morì in gola quando entrò l'ennesimo cliente.

Mitsui non si accorse del suo repentino cambio d'umore, troppo occupato a caricarsi in spalla come un sacco di patate quella disgraziata di una Kobayashi.

Riassunto del suo primo giorno lavorativo: aveva rischiato una rissa con un tizio che solo a guardarlo in viso avrebbe fatto drizzare i capelli a tutti, era stato relegato a guardia del corpo di una ragazzina che più scontrosa e lunatica non c'era e aveva dovuto recuperare suddetta ragazzina prima che finisse in coma etilico, dato lo stato di ubriachezza in cui gravava. Che avrebbe dovuto fare ancora? Rimboccarle le coperte?

«Ci vediamo domani a scuola, buona notte». Hisashi salutò tutti, senza badare troppo alla ragazza che scalciava e gli tirava pugni alla schiena intimandogli di farla scendere. Arrivato davanti alla moto le porse il secondo casco e lei fece una smorfia.

«Non sono ubriaca», gli disse, afferrando il copricapo protettivo.

«No, certo». Hisashi mise in moto e aspettò che lei salisse. «Vedi di non cadere strada facendo, non ho voglia di raccoglierti».

Kiyo neanche rispose, stringendosi alla sua schiena e chiudendo gli occhi. Il mal di testa stava per farsi sentire, così come la sonnolenza. Prima di lasciarsi abbracciare da Morfeo l'unica cosa che pensò fu che quel Mitsui avesse proprio un buon profumo.

Al primo semaforo rosso Hisashi voltò il capo, per vedere in che condizioni vertesse quella disgraziata.

«Che palle», constatò nel rendersi conto che fosse già bella che addormentata. Arrivati davanti alla sua casa, la prima cosa che fece fu di guardarsi intorno per vedere se ci fossero brutti ceffi. Cercando di non farla cadere, ma non preoccupandosi tanto di svegliarla o meno, le tolse il casco. La mossa successiva lo vedeva fare l'equilibrista: prenderla in braccio e suonare contemporaneamente il campanello di casa, nella speranza che ci fosse qualcuno. Ma si soffermò un po' troppo, per i suoi gusti, a osservarla. L'espressione perennemente imbronciata non le mancava neanche nel sonno. Sorrise nel pensare che il giorno dopo sarebbe stata incavolata come una iena nel rendersi conto dello spettacolo che aveva dato.

Fortunatamente i genitori erano appena rientrati dalla cena con gli amici e si spaventarono non poco appena videro la figlia completamente addormentata tra le braccia di quel ragazzo dal viso poco raccomandabile.

«È crollata dal sonno», la giustificò Hisashi. Non poteva certo dire loro che la figlia si fosse ubriacata per bene.

La madre, una bella donna alta e snella, gli rivolse uno sguardo insospettito, ma non aggiunse altro, se non un: «Vieni, la portiamo in camera».

Appena Hisashi entrò in quel suo piccolo regno non poté non provare rispetto per quella ragazzina impertinente. C'erano medaglie e premi vinti a molteplici competizioni di nuoto e tuffi, e numerose foto che la ritraevano nei vari tornei, appese un po' ovunque. Doveva amare il suo sporto proprio come lui amava il basket.

«Grazie per averla riaccompagnata a casa... nome?».

Il numero quattordici dello Shohoku si voltò verso la donna. «Hisashi Mitsui, signora. È stato un piacere».

Quella sorrise, stringendogli la mano. «Sei il suo ragazzo?», gli chiese, chiudendo la porta della stanza.

Per poco non gli venne un infarto a quelle parole. «No, sono solo un amico». Conoscente, meglio.

...E guardia del corpo, e accompagnatore, e colui che si becca più insulti da lei che da tutti i suoi amici!

 

*

 

Sana guardò il padre, fermo a pochi metri da lei con un berretto tra le mani, o quello che ormai ne rimaneva, dato che per il nervosismo lo aveva strapazzato per bene alla stregua di uno straccio.

«Ciao», le disse, abbozzando un timido sorriso.

Lei non rispose, impietrita. Come aveva fatto a sapere dove lavorava? L'aveva seguita? E perché non se n'era ancora andato? Perché? Perché?

«Il bar chiude tra un quarto d'ora», fu tutto quello che riuscì a dire, con la voce più roca che avesse mai avuto.

«Oh». L'uomo chinò il capo e lei ne approfittò per rifugiarsi nelle cucine. Si poggiò contro un muro e iniziò a respirare profondamente per trovare un po' di calma. Non doveva piangere ancora, basta lacrime per quell'uomo!

«Sanako, ti senti bene?», le chiese il signor Watanabe, preoccupato.

Lei annuì, lanciando un'occhiata all'uomo che ora si era seduto davanti al bancone e si guardava intorno, un po' spaesato.

«Quel tipo ti ha importunata? Lo devo mandare via?».

«No, va tutto bene, davvero». Sana deglutì a fatica, come per ingoiare meglio le parole che stava per pronunciare. «È mio padre».

Il signor Watanabe strabuzzò gli occhi, osservando quel signore quasi insignificante, ma tremendamente simile alla ragazzina che aveva di fronte. Per quanto poco sapesse della sua dipendente non aveva mai conosciuto il padre, tanto da pensare che non lo avesse mai avuto. «Se hai problemi dimmelo, ok?».

Lei annuì, sorridendogli grata. Poi prese un bel respiro e tornò al suo posto, al bancone. «Cosa posso portarle? Dopo le undici non serviamo più alcolici».

L'uomo si strinse nelle spalle. «Ti prego... te l'ho chiesto, non darmi del lei».

«Appena ha deciso mi chiami».

Sanako si fiondò su un tavolo per ritirare le bottiglie e i bicchieri, stupendosi lei stessa della freddezza e della voce ferma che era riuscita a tenere. Doveva farsi forza, per una volta. Doveva riuscire a superare le sue paure e le sue speranze, da sola. Quando tornò a sciacquare alcune stoviglie, il padre tornò a parlare.

«Una cioccolata con panna andrà bene, grazie. Sai, è la mia preferita», le disse, cercando lo sguardo della figlia che però non trovò così facilmente.

Cioccolata con panna... È anche la mia preferita.

«Ma è buona anche con la mousse al cocco...».

...E le scagliette di cioccolato sopra.

Sana alzò finalmente lo sguardo sull'uomo, troppo scioccata per aver pensato la stessa frase che lui, invece, aveva pronunciato a voce alta. «La facciamo... qui la facciamo, se la vuole così».

Il padre si lasciò andare ad un sorriso sincero e annuì. «D'accordo, allora».

Il bar si stava velocemente svuotando, dato che erano già le undici e mezza e l'ora della chiusura si avvicinava. Era strano che tra i pochi clienti rimasti ci fosse anche lui. Suo padre. Kami, non sapeva neanche come si chiamasse! Aveva più volte provato a chiederlo alla madre e alla zia, in quegli anni, ma non aveva mai ottenuto risposta. Possibile che quella situazione fosse così assurda?

«Salve a tutti!», esordì una voce fin troppo familiare.

Sana guardò Akira con sollievo, rivolgendogli un sorriso solare. Cosa che non sfuggi al padre.

«Akira!», lo salutò, andandogli incontro e abbracciandolo.

Il ragazzo rimase un po' sorpreso dall'audace gesto per una tipa timida come lei che arrossiva ad ogni gesto gentile. Ma capì subito che qualcosa non andava quando sentì le sue braccia stringerlo con troppa forza.

«Ehi, tutto bene?», le chiese, allontanandola un poco per guardarla negli occhi. Stava per scoppiare.

Lei scosse la testa, ma sorrise ugualmente. «C'è papà», gli sussurrò, tanto che per capire quello che aveva detto Akira dovette leggerle il labiale. Alzò lo sguardo sulle poche persone presenti e noto subito l'uomo, che li stava osservando con amarezza.

Akira le diede un pizzicotto sulla guancia, strizzandole un occhio. «Tranquilla, ok?».

«Sì... Come mai sei qui?», gli chiese, alzando un po' il tono di voce per ritrovare la calma.

«Hisashi mi ha chiamato dicendomi che non ti poteva riaccompagnare a casa, così mi ha chiesto il favore di farlo per lui». L'ex numero sette le sorrise come solo lui sapeva fare e Sanako per un attimo dimenticò il padre a pochi metri. «Sembrava un po' strano al telefono, che ha combinato?».

«Oh lui niente, è stato bravissimo. È che ha dovuto portare a casa Kiyo perché era un po'... ecco, un po' su di giri».

«Kiyo ubriaca?». Akira scoppiò a ridere. «Che scena, avrei voluto esserci!».

«Non era un bello spettacolo, lasciatelo dire» Sana si fece rubare dalle mani il vassoio di bicchieri che stava ritirando e Akira le fece l'ennesimo occhiolino. «Così finisci in fretta e ti riaccompagno a casa».

Il padre di Sana osservò il ragazzo sparire nelle cucine, mentre salutava tutti con quel suo sorriso contagioso. Poi guardò la figlia, un po' rossa in viso. «È alto il tuo ragazzo».

Lei spalancò gli occhi, diventando ancora più rossa. «A-Akira non è il mio... ragazzo».

«Oh... scusami, non volevo metterti in imbarazzo». L'uomo corrugò la fronte, giocando con la tazza di cioccolata. Gli sembrava quasi surreale che stesse chiacchierando con la figlia. «Quindi ti riaccompagna a casa».

«Sì, lui è... sempre gentile e carino con me», mormorò Sana, forse non rendendosi conto dell'uomo con cui stava parlando. Suo padre... stava parlando di Akira a suo padre.

L'uomo piegò il capo, incuriosito dalla strana espressione della figlia. Chissà cosa stava pensando? «Un giorno posso riaccompagnarti io, se vuoi».

Akira, poggiato contro il muro, rimase ad ascoltare, in attesa di una risposta. Non aveva mai visto Sana così giù di morale e terrorizzata - sì, terrorizzata era la parola migliore.

«Sparirai di nuovo?», gli chiese, gli occhi lucidi.

«Permettimi di recuperare un po' del tempo che ho perso». Il padre si passò le mani tra i capelli, teso. «Darei la mia vita per tornare indietro per non rifare quello che ho fatto».

Sanako strinse un panno tra le mani, quasi trattenendo il respiro. Le parole che pronunciò dopo neanche si rese conto di averle dette. «Domani ho un'ora buca prima di lavorare».

Il neo capitano del Ryonan sorrise insieme al padre della ragazza, e tornò in cucina ad aiutare lo zio. Sana era fatta così: infinitamente buona, forse anche troppo viste le circostanze. Lui non sapeva se avrebbe potuto dargli un'altra possibilità. Per quanto tranquillo e buono fosse, quando veniva ferito una volta difficilmente faceva in modo che accadesse nuovamente. Ma lei no, lei forse era troppo ingenua, o troppo speranzosa. Probabilmente ora si stava maledicendo in aramaico per quella frase, forse voleva solo pensarla e non dirla a voce alta. Ma era fatta così, parlava prima di pensare alle conseguenze. Ed era per questo che spesso e volentieri faceva delle figuracce memorabili.

Ed era per questo che gli piaceva da morire.

 

*

 

Qualche ora prima due belle ragazze, una mora e l'altra rossa, stavano passeggiando allegramente per le vie di Kanagawa. O almeno, la rossa aveva costretto la mora a uscire, così non sarebbe potuta sfuggire al suo terzo, micidiale grado.

«Allora, Aya-chan! Che mi racconti? Perché sicuramente devi raccontarmi qualcosa. E hai tutta la serata davanti», fece Hime, aggrappandosi al braccio dell'amica e sbattendo gli occhi per intenerirla.

Ayako arrossì, in una delle sue rare volte. «E che dovrei raccontarti? Che mi devo comprare una maglietta nuova per gli allenamenti. E ne ho vista una carina anche per te».

«Non provare a cambiare discorso!».

«Quale discorso? Non ne abbiamo iniziato nessuno».

Hime gonfiò le guance, ma non si arrese. «Ok, vuol dire che sarò più diretta: che combinate tu e il Capitano? E inizierai a parlare proprio da quella notte in ritiro!».

Ayako alzò gli occhi al cielo, probabilmente sperando che un fulmine la colpisse in pieno per levarla da quell'imbarazzante situazione. «Sei insopportabile a volte».

«Oh, grazie Aya-chan! È il complimento migliore che potessi farmi!», rispose quella, schioccandole un sonoro bacio sulla guancia. «Allora?».

La prima manager la trascinò dentro un negozio di abbigliamento prima di parlare. «Beh, ecco... mi ha fatto un discorso».

«Uhm... Hai intenzione di dirmelo o devo togliertelo di bocca con le pinze?».

«Uffa!». Ayako le tirò in viso la maglietta carina che le aveva anticipato poco prima, mentre quella demente rideva.

«Avevi ragione, è proprio carina! E poi è arancione!».

«Secondo te perché sapevo che ti sarebbe piaciuta? Sei fissata con quel colore».

Hime le trotterello accanto. «È solare e allegro, degno di una Sakuragi».

Un Kaede qualunque le avrebbe biascicato un'invasata coi fiocchi, ma Ayako si limitò a scuotere il capo. «Comunque, Ryota mi ha confessato di essere... innamorato di me».

«Hai capito il nanerottolo intraprendente!». Tipica frase che avrebbe invece detto Hanamichi, ma dato che si trattava della sorella andava bene ugualmente.

«Solo che mi ha anche detto che non può aspettare in eterno».

L'altra manager sorrise. «E ha anche ragione, Ayako. Spero te ne sia resa conto anche tu. Ryota è sempre stato innamorato di te, ma devi anche prendere una decisione prima o poi».

«Lo so, non posso lasciarlo così, ma ho paura». La ragazza guardò l'amica, che non capì. «Vedi, siamo sempre stati buoni amici e ho sempre notato che lui cercava qualcosa in più dal nostro rapporto. Ma mi dicevo: se non dovessi dargli alcuna speranza, magari smetterebbe. Non voglio rinunciare alla sua amicizia, capisci?».

Hime annuì. «Ti capisco eccome, Aya. Ma questo gliel'hai detto?».

«Solo quella famosa notte», le confessò, sospirando. «Lui mi ha detto che se anche dovessi rifiutare i suoi tentativi di approccio non lo avrei perso, ma che certo per un po' di tempo avrebbe voluto tenere le distanze».

«Quindi?».

Ayako rimise a posto una maglietta blu che aveva adocchiato, ma di cui non aveva trovato taglia. «Quindi mi ha chiesto di dargli una possibilità. Solo una».

«E deduco che tu gliel'abbia data».

L'altra annuì, lasciandosi sfuggire un sorriso. «Ryota è sempre stato dolce e protettivo nei miei confronti, ma non pensavo che avendomi tutta per sé avrebbe avuto occhi solo per me».

«Oh, è così romantico!», esclamò Hime, nascondendosi le guance tra le mani in un'espressione sognante.

Ayako scoppiò a ridere. «Appena abbiamo un po' di tempo libero usciamo. Mi porta al mare, in centro. E viene a prendermi ogni giorno per andare a scuola con quel motorino scassato che ha!».

Hime immaginò la scena, contenta per l'amica. Se solo Nobunaga fosse stato nella sua stessa scuola, forse si sarebbero potuti vedere più spesso, pensò un po' giù. Ma proprio del Kainan doveva trovarselo? E pure più pazzo di un cavallo!

«Comunque credo che mi piaccia. E anche tanto». Ayako sparì dietro alcuni abiti appesi per sfuggire allo sguardo stupito e felice dell'amica, che le comparve davanti due secondi dopo, facendole prendere un colpo.

«Diglielo, Aya-chan. Se non lo hai ancora fatto diglielo». Hime fece una pausa, pensierosa. «Anche perché lo renderesti l'uomo più felice sulla terra e i ragazzi potrebbero giovarne durante gli allenamenti».

Le due si misero a ridere, proseguendo con gli acquisti.

«Mi capisci, però, quando ti dico che ho paura di perderlo, vero? È il migliore amico che abbia mai avuto. È come se Kaede s'innamorasse di te, tu che faresti?».

Hime rimase interdetta da quell'esempio, completamente presa alla sprovvista. Ma non fece in tempo a rispondere, perché Ayako aveva ripreso a parlare.

«Voglio dire, potrebbe anche essere, dato che vi conoscete da sempre e sei l'unica ragazza con cui ha un rapporto, me esclusa. E sai bene come sia lui con le ragazze». Quando la prima manager si voltò a guardarla non si aspettava di certo di trovarla più rossa dei suoi capelli. «Ho detto qualcosa di sbagliato?».

«N-no, è che... mi fa strano pensare a me e Kaede come coppia».

Ayako la guardò con un'espressione maliziosa. «Non mi dire che non ci hai mai fatto un pensierino, eh?».

«Ehi! Sono una ragazza felicemente fidanzata!», strillò imbarazzata l'altra.

«Stavo solo scherzando, non c'è bisogno di innervosirti!», rispose Ayako, ridendo.

«Tu fai troppe congetture insensate, per i miei gusti», borbottò la Sakuragi. Perché diavolo la stava prendendo così male, ora?

Ayako scosse la testa, guardandola mentre spariva verso la cassa. «Il più delle volte giuste, mia cara», mormorò divertita. La raggiunse per pagare i suoi acquisti e quando uscirono nuovamente all'aria aperta la rossa s'inforcò i suoi enormi occhiali da sole. «Comunque, stasera che fate tu e Hanamichi?».

Non poté vederla, ma le sembrò che roteasse gli occhi. «Abbiamo intenzione di fare una capatina da Ede». Vedendo lo sguardo furbetto dell'altra si affrettò a mettere le mani avanti. «E non dire niente, per favore! Lo facciamo sempre per prenderlo alla sprovvista. Si rompe sempre le scatole quando non lo avvisiamo».

«Io non ho detto assolutamente nulla!», tentò di discolparsi Ayako, facendola arrabbiare ancora di più.

«Ehi, ti ho chiesto di uscire così sarei stata io quella col coltello dalla parte del manico, disgraziata».

Ayako la scimmiottò proprio come aveva fatto la rossa prima, appendendosi al suo braccio. «Mia cara, stai facendo tutto da sola».

«Farò gli incubi, stanotte, per colpa tua», borbottò Hime, sgusciando via dalla presa della ragazza e cominciando a correre, ridendo.

 

*

 

Quando Kaede se li ritrovò sull'uscio della porta, armati di patatine e delle più nere intenzioni di casini, pensò che doveva esser stato una persona veramente orribile nell'altra vita per meritarsi quei due. Insomma, se li sorbiva da sedici anni, mattina, sera e a volte anche notte: quella doveva essere per forza una punizione divina.

«Ehilà Kit! Facci entrare che tra poco inizia la partita!», esordì Hanamichi, entrando senza troppi complimenti nella Volpaia, come la chiamava lui.

Kaede guardò mestamente l'amica, ancora ferma sulla porta. «Vuoi rimanere fuori, tu?».

Quella sembrò risvegliarsi da chissà quali pensieri - dannata Ayako, gliel'avrebbe fatta pagare! - ed entrò, salutandolo come faceva di solito. Quella volta, però, si sentì a disagio a baciare quella guancia liscia. Il numero undici la osservò a lungo mentre andava a salutare allegramente il padre, sempre felicissimo di trovarseli tra i piedi. Che diavolo era quello sguardo? Ora si metteva anche lei a fare la misteriosa?

«Che piacere vedervi, ragazzi!», disse il signor Rukawa, abbracciandoli entrambi. «Come state? Hanamichi, la tua schiena?».

«Tutto bene, Kanbe-san! Sono più in forma di prima! Ahaha!».

Kanbe Rukawa - curiosamente anche il suo nome iniziava con la K, vecchia tradizione di famiglia probabilmente - gli batté una mano sulla spalla, contento dall'allegria che i due Sakuragi portavano sempre in casa. «Non avevo dubbi, Hanamichi, sei sempre stato un ragazzo forte».

«Ehi, Kit! Hai sentito che ha detto tuo padre? Guarda e impara dal Tensai!».

Kaede alzò gli occhi al cielo, rubandogli le patatine dalle mani per travasarle in un vassoio. «Non ci tengo a diventare un Do'aho».

Kanbe-san ridacchiò, recuperando cappotto e ventiquattrore. «Io vado, ragazzi. Oggi ho il turno di notte».

«Buon lavoro, Kanbe-san!», dissero in coro i gemelli, mentre il figlio lo salutava con il suo consueto 'ao.

«Hicchaaan! Che diavolo di maglia hai messo?!», strillò Hanamichi vedendo cosa indossava sotto il cappotto e facendo scendere un coccolone al padrone di casa, che era tornato in salotto per vedere la scena del rossino che indicava freneticamente la sorella.

«Come che maglia è? È quella che volevo da anni e che non mi hai mai comprato!», si difese lei, abbracciandosi. «L'ho presa oggi con Ayako, non è bellissima?».

«Ma sembra del Kainan!», continuò quello con gli occhi fuori dalle orbite.

«È dei Lakers, scemo di un fratello! Ed è il numero 8!*», rispose trionfante, facendo il segno della vittoria.

«Fissata con Bryant».

Hime guardò l'amico, facendogli una linguaccia. «Sei solo geloso».

«Ci mancherebbe solo quello!», fece Kaede, tirandole un buffetto sulla testa.

I tre si sedettero sul comodo divano davanti alla televisione, aspettando l'inizio della partita. Poi Hime schiocco le dita. «Ordiniamo le pizze da Sana? Così viene Mitchi a portarcele!».

«Sì, sì! Ho voglia di sfotterlo un po'!».

«Do'aho, almeno lui si dà da fare».

«Parli proprio tu?!».

«Ohi! Silenzio che non sento!», si lamentò Hime, che aveva già recuperato il telefono. Inutile dire che i due continuarono a battibeccare imperterriti, tanto che la ragazza dovette allontanarsi da quel casino.

Quando Hisashi arrivò con le pizze venne accolto dai gemelli neanche fosse la regina d'Inghilterra.

«Ehi, Mitchi! Spero siano ancora calde!».

«La tua testa è calda, Sakuragi».

Hisashi consegnò il cibo alla ragazza, che pagò per tutti e tre. Sbirciò dietro le sue spalle, scorgendo Kaede che salutò con un cenno del capo. «Non ero mai venuto a casa di Rukawa».

«Meglio per te. La Volpaia non è un bel posto per uno che non ha gli anticorpi», disse annuendo Hanamichi.

«Puoi anche levarti dalle palle, Do'aho. Nessuno sentirà la tua mancanza», rispose dall'oltretomba il padrone di casa, facendo ridere Hime, che lo raggiunse per poggiare i cartoni sul tavolo.

«Comunque, nel contratto c'era scritto che potevi portarti dietro la ragazza?», chiese Hanamichi, notando che c'era una persona sulla moto.

Hisashi si voltò a guardare la bionda. «È una storia complicata, se ne avrò voglia te lo spiegherò domani. E comunque non è la mia ragazza... non ancora.» Detto quello la guardia dello Shohoku salutò tutti e sparì.

«Hai capito Mitchi? Se la fa con una tipa!».

«Cosa? E chi è?», chiese subito interessata Hime. L'amicizia e l'influenza di Ayako, ogni tanto, si faceva sentire.

«Boh, non mi ha detto niente. Domani vedremo di scassargli le scatole finché non parlerà!».

Kaede poté gustarsi finalmente la partita quando quei due scellerati si riempirono le bocche delle prelibate pizze ipercaloriche che avevano comprato. Non poté, però, esimersi dal buttare giù dalla poltrona il rossino, che aveva deciso bene di poggiare i suoi enormi piedi sul tavolino davanti al divano. Per inciso, ci mancò poco che quello si ammazzasse.

Il casino iniziò quando le pizze finirono e i gemelli iniziarono a inveire e a commentare ogni azione della partita. Guardare un incontro di basket con loro era pressoché impossibile.

«Oh, andiamo! Quello era fallo! Arbitro venduto!», esclamò Hanamichi.

«Perché, quell'entrata in difesa di prima come la chiami? E non ha fischiato!», gli diede man forte la sorella.

Due secondi dopo i gemelli iniziarono a metter su cori da stadio, gridando "Venduto! Venduto!", manco fossero al palazzetto in America.

Kaede, seduto tra i due, resistette poco meno di un minuto, poi passò al contrattacco. Tirò un cuscino in faccia al ragazzo, con la speranza di soffocarlo, mentre tappò con una mano la bocca all'amica seduta accanto a lui. Hanamichi cercò di liberarsi da quel sacco di piume senza troppi risultati, mentre Hime pensò bene di difendersi colpendo il punto debole dell'amico: il fianco. Fu così che dissero addio alla partita, con Hime che tentava di infilzare con un dito Kaede, che doveva ripararsi dai colpi, e Hanamichi che cercava di aiutare la sorella tirandogli cuscinate in testa.

La lotta terminò dieci minuti dopo. Stremati sul divano, i tre si guardarono in cagnesco, poi i gemelli scoppiarono a ridere. Kaede dovette trattenersi per mantenere il suo selfcontrol di cui andava fiero.

«Kami, che male la pancia!», esclamò Hime, asciugandosi le lacrime per le risate.

«Vado a bere un po', mi avete sfiancato.», fece invece Hanamichi, sparendo in cucina per frugare nel frigo alla ricerca di liquidi commestibili, neanche fosse a casa sua. Tornò trionfante con una bottiglia di aranciata e tre bicchieri di plastica. «Chi ne vuole?».

«Fai con comodo, quanto vuoi», disse ironico Kaede, che ormai non si sconvolgeva più di tanto quando quello partiva in quarta per la cucina.

«Già fatto, Kit!», rispose Hanamichi con una strizzatina d'occhio, riprendendo posto. «Ah, Hicchan, domani passo dalla Scimmia che deve darmi alcuni dischi, vieni con me?».

Lei annuì, bevendo la bibita che le porse gentilmente il fratello. «Così saluto Arimi, mi piace quella ragazza».

Kaede corrugò la fronte, perplesso, e lei gli spiegò subito che Arimi era la sorella di Nobunaga.

«A proposito di Ari-chan, che ha alla gamba?», chiese Hanamichi, ora serio.

«Nobu mi ha raccontato che due anni fa ha avuto un incidente. Era sui pattini con alcune amiche e un idiota le è andato addosso con la macchina», iniziò a raccontare la ragazza. «Le hanno dovuto amputare la gamba destra fino al ginocchio perché era in cancrena».

Hanamichi sembrò colpito da quel racconto. «Mamma, chissà che dolore. Non so come farei se mi dovessero tagliare una gamba».

Hime si strinse nelle spalle. «È una ragazza forte, proprio come Nobu. Così forte che in riabilitazione ha deciso di provare delle protesi per tornare a camminare».

«Davvero? Wow!».

«Sì, per ora si esercita in ospedale e in casa, ma Nobu mi ha detto che ogni tanto, senza che i genitori lo sappiano, la porta sulla sabbia, per farle trovare più equilibrio».

«Ah! Ogni tanto qualcosa di intelligente la fa anche la Scimmia!».

«A differenza tua».

«E che palle, Kit! Sempre in mezzo!».

Hime ridacchiò, accoccolandosi meglio sul divano per guardare la televisione. Senza neanche rendersene conto si poggiò sul braccio di Kaede che, come sempre per non rischiare di ritrovarsi l'arto completamente addormentato, lo spostò, abbracciandola. Non lo avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, ma quello era il momento che preferiva di tutta la serata, quando quei due venivano da lui. Hime si addormentava sempre poggiata contro di lui, relegandolo al suo cuscino preferito. E puntualmente Hanamichi s'infervorava, geloso.

Kaede si portò un dito sulle labbra, zittendolo. «Così la svegli, Do'aho».

«E tu la contamini, Kit! Levale quelle zampacce sudice da dosso!».

«Ma fottiti».

Fu l'ultima cosa che Hanamichi sentì dal suo miglior nemico, perché anche lui si addormentò poco dopo. Guardandoli ancora infastidito, però, si accorse di quanto serena fosse la sorella tra le braccia del volpino. Non ricordava di averle mai visto espressione diversa ogni volta che accadeva. Sorrise, divertito, nel pensare che faccia avrebbe fatto quella Scimmia Saltante del Kainan nel vederli così.

Probabilmente avrebbe detto le sue stesse identiche parole!

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Ehilà! Torno dopo un paio di settimane con questo delirio! Capitolo un po' difficile da scrivere, perché come avrete potuto notare ho buttato alcuni piccoli semi che attecchiranno più in la... Oddio, ma come sto parlando?! XD

Ve gusta il capitolo? Spero di sì, a me soddisfa abbastanza... Non mi esalta, ma mi soddisfa!

Ma passiamo alle recensioni! (AllA recensionE! XD)

Liricchan! *O* Posso chiamarti così? Se non storpio i nomi altrui non son contenta... Forse è un riflesso incondizionato per i molteplici nomignoli che mi hanno affidato i miei amici negli anni, mah! :D Sei stata velocissima, direi! Sono orgogliosa e felice! ^O^ Ci mancherebbe che non ti rispondessi dettagliatamente, tralasciando il fatto che sia una logorroica da paura ci tengo a chiarirvi ogni possibile dubbio. :)

Hai perfettamente ragione, Sana è troppo gentile e ingenua e sono consapevole di ciò. Mi piaceva l'idea di affiancare due personalità così diverse come la sua e quella di Kiyo. Potrebbe ricordare Haruko, cosa che mi fa rabbrividire, ma spero si noti che si discosta parecchio da lei... Motivo numero uno non sbava per Kaede e non sbava neanche senza ritegno per Akira, grazie al cielo! Che mi scenda un fulmine se dovessi creare un personaggio come la Babbuina! XD Spero che acquisti più punti mano a mano che prosegue la storia. ;)

Per citarti: "Quindi io tifo per Kaeduccio, ma sono sicura che qualsiasi idea pazza partorirà il tuo sconfinato genio mi piacerà da matti!!!" Me lo auguro che ti piacerà... Uhuhuh! XD Kaede è un personaggio troppo bello, mi ispira tante nuove idee... E adoro maltrattarlo, proprio come tutti i miei personaggi preferiti. XD Sapere che sia IC mi rende strafelice, grazie! <3

E son così contenta che la scena tra Hisashi e Kiyo ti sia piaciuta! *O* Mi son divertita a scriverla! Spero che anche questa qui sopra sia stata altrettanto di tuo gradimento... Volevo rompere un po' gli schemi e credo che una tipa seria e ligia allo sport che si ubriaca sia stata un'idea diversa e divertente! Non te lo aspettavi, eh? XD

Grazie, veramente grazie mille! E' sempre un piacere leggerti! *O*

Grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto questo delirio tra preferiti, seguite e ricordate! ^-^/

 

Per inciso, il nome del padre di Ede l'ho inventato, mi piaceva il suono e il fatto che iniziasse anch'esso con la K... Deliri kenjiniani, capitemi. :D

Un abbraccio enorme, e ancora grazie!

Marta.

 

PS: se non dovessi aggiornare subito non preoccupatevi, è perché sono andata in vacanza! A presto! ;)

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** 08. Il coraggio di ricominciare ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 8

Il coraggio di ricominciare.

 

 

 

Quando la madre le raccontò di quello strano ragazzo di nome Hisashi Mitsui che l'aveva riportata a casa mentre dormiva che una meraviglia, per poco Kiyo non si ammazzò con la spremuta di arance che stava bevendo.

«Mi ha riportata a casa lui?».

La signora Kobayashi annuì. «Che amici alti che hai, Kiyoko!».

La bionda si schiacciò i palmi delle mani sulle tempie. «Mamma non gridare, ti prego... mi scoppia la testa».

«Non sto gridando, tesoro», le disse l'altra, preoccupata. «Hai preso qualche pastiglia? Oggi hai anche gli allenamenti. Salti anche quelli?».

«No!», esclamò sopra un'ottava la ragazza, pentendosene subito dopo per il dolore alla testa. «Posso perdere le lezioni, ma gli allenamenti no», borbottò. Se solo ripensava allo show che aveva dato solo la notte scorsa avrebbe preferito annegare durante le vasche che altro. Insomma, lei che si ubriacava non era credibile. Era vero, ogni tanto fumava, ma non andava famosa per una che buttava giù bevande alcoliche.

E i risultati si son visti...

«È importante anche la scuola, tesoro mio. O vuoi perdere un altro anno?».

Kiyo sbuffò. «No che non voglio, ma sai anche bene come la penso».

La donna rimase a guardarla ancora un po', poi le diede un bacio. «Io scappo o arrivo tardi alla riunione. Prenditi una pastiglia per il mal di testa e non strafare stasera!».

«Non gridare!».

Kiyo guardò la madre ridere e uscire, scuotendo il capo. Aveva una madre matta, oltre che sorda.

Finì di bere la sua bibita fortificante preferita e guardò l'orologio appeso vicino al frigorifero. Le undici meno un quarto. Kami, quanto aveva dormito quella notte per essersi svegliata solo dieci minuti prima?

Andò in salotto, guardandosi intorno senza sapere bene come impiegare il tempo. Aveva troppo mal di testa per guardare la televisione, ma non aveva nessuna intenzione di sdraiarsi nuovamente. L'unica brillante idea che le venne fu di prepararsi con calma la borsa dell'allenamento e di portarsi qualcosa per il pranzo dietro. Si sarebbe rilassata un po' nel terrazzo del liceo aspettando l'arrivo di Sana.

Quando arrivò a scuola erano le undici e mezza e, come prevedibile, in cortile non si muoveva anima viva. Entrò nello stabile, sperando di non incontrare nessun docente conosciuto che potesse farle domande scomode, e si avviò verso le scale. Fece in tempo a fare due piani, quando una voce la fermò.

«Ehi, Kobayashi».

Kiyo si voltò verso Hisashi che stava passeggiando per il corridoio, con le mani in tasca e l'aria annoiata. «Mitsui».

Il ragazzo si fermò a qualche passo da lei, indicando la borsa con il capo. «Salti le lezioni ma gli allenamenti no, eh?».

«E chi ti ha detto che abbia saltato le lezioni?».

«La Tsukiyama. È venuta a cercarmi perché non ti aveva ancora vista. Come se avessi potuto sapere dove diavolo fossi». Mitsui si poggiò contro il muro, guardandosi intorno scocciato.

Kiyo si sistemò un ciuffo dietro l'orecchio. «Beh, ho dormito un po' troppo... e mi scoppia la testa». S'irritò parecchio quando quello si mise a ridere. «E ora che hai?».

«Lo credo che hai mal di testa, con tutto l'alcol che ti sei scolata ieri notte». Hisashi scosse il capo continuando a ridere quando la vide irritarsi. «Ah, scusa, quasi dimenticavo che tu non ti sei ubriacata».

«Esatto», gli sibilò, puntandogli minacciosamente un dito contro. «Fanne parola con qualcuno e te la vedrai con me... e non gridare!».

Quello la guardò di sottecchi, con un sorrisino delizioso di scherno. «A parte il mal di testa, va tutto bene?».

La nuotatrice rimase un po' interdetta da quel tono gentile che raramente gli aveva sentito. «Diciamo di sì... ho dormito fino alle dieci e mezza senza svegliarmi una volta».

«Beata te, io invece non ho chiuso occhio».

«E sei stato sbattuto fuori perché ti sei riaddormentato sul banco, immagino». La ragazza si lasciò scappare un sorriso di vittoria appena quello sbuffò. «Comunque grazie per ieri... per aver mandato via Toshiro e tutto il resto, insomma».

Hisashi evitò di sottolineare che se non fosse stata lei a chiamarlo non sarebbe successo un accidente, ma sorrise. «Di niente. Ma non prendertela a vizio, non devo farti da balia».

«Ecco, sei sempre il solito, Mitsui! Io cerco di essere gentile e riconoscente e tu devi rovinare tutto», esclamò la bionda, portandosi una mano alla tempia. «E per colpa tua ora mi fa più male la testa».

«Che diavolo c'entro io con la tua testa?», domandò irritato. «Prenditi una pastiglia e non rompere me».

Kiyo roteò gli occhi, voltandosi per andarsene.

«Ehi, dove vai?».

«Vuoi seguirmi, per caso?».

Lui fece spallucce. «Mi sto annoiando, magari rompere le palle a te si rivela divertente».

«Attento, Mitsui, perché potrei essere io a romperti le palle... e so che fa male».

Hisashi alzò le mani al cielo, in segno di resa. «D'accordo, messaggio ricevuto», scimmiottò per prenderla in giro.

«Comunque sto salendo in terrazza. Sana va sempre lì per il pranzo». Kiyo si fermò davanti al primo gradino, guardando il ragazzo. «Allora? Vuoi venire sì o no?».

 

*

 

Sanako aveva la testa ovunque tranne che in quella scuola. I gemelli Shimura se ne accorsero nel momento in cui, persa in chissà quali pensieri, afferrò la borsa di Kimi anziché la sua e partì in quarta per il terrazzo. Fortuna sua che la matricola se ne accorse e la fermò prima che andasse a sbattere contro il professore di Inglese!

Un altro segno del suo totale disinteresse per quello che le capitava intorno fu quando inciampò nei lacci delle scarpe, finendo direttamente contro la mole imponente di un Kaede Rukawa a caso, che ciondolava più addormentato di lei per il corridoio. Risultato finale: il suo bento fu da lanciare direttamente nel cestino dato che cadde in terra e si fracassò per bene, Kaede lanciò qualche bestemmia in aramaico prima di accorgersi di lei, e lei finì gambe all'aria per aver perso l'equilibrio. Fantastico.

«Ehi».

Sana alzò lo sguardo sul numero undici dello Shohoku, arrossendo peggio della casacca della squadra appena capì quello che era successo. «Oh, Rukawa, scusami!», esclamò, raccogliendo in fretta e furia tutto ciò che era volato nello scontro. «Oggi son così distratta...»

Solo oggi?, pensò Kaede, dandole una mano a rialzarsi. «Hn... Fa niente».

«Oh, bene, il mio pranzo è da buttare», biascicò mogia la barista, sospirando pesantemente. Era nervosa, troppo nervosa... doveva darsi una calmata! Insomma, doveva trascorrere un'oretta da sola con il padre, di cui non sapeva un accidente, che non vedeva da praticamente sempre e che stava tentando in tutti i modi di riallacciare i rapporti... di cosa si preoccupava? Era tutto normale! Certo, come se fosse stato semplice stare tranquilla e disinvolta. Di cosa avrebbero parlato? Avrebbe iniziato lui? Avrebbe iniziato lei? Non avrebbe iniziato nessuno, finendo per passare un pomeriggio nel più imbarazzante dei silenzi? Oh, fantastico, veramente fantastico. Perché era proprio l'ultima possibilità a sembrarle anche la più inevitabile.

Era talmente assorta nei suoi pensieri che le venne un colpo quando Kaede le schioccò un dito sotto il naso. «Svegliati. Ti do il mio pranzo, basta che ti muovi».

«Co-cosa? Il tuo pranzo?» Sana gli corse dietro, dato che quello era già partito per il terrazzo. «Ma non posso accettare! Tu cosa mangerai?».

«Non ho molta fame».

«Dovresti mangiare invece, sei uno sportivo... e guarda quanto sei magro», notò lei, prendendogli un polso e misurandoglielo con le dita. Smise subito appena Rukawa si voltò a fulminarla con lo sguardo. «Comunque, ti ringrazio, ma cercherò di recuperare qualcosa dal mio».

Kaede sbuffò. «Sei noiosa». Le ficcò in mano il suo bento e chiuse lì il discorso. Quanto tempo ci voleva ad accettarlo senza storie?

«Beh... Allora grazie. Ma divideremo tutto, non puoi rimanere senza mangiare». Sana ridacchiò nervosa appena si accorse dell'ennesima occhiata del ragazzo. Perfetto, lo stava facendo innervosire. Meglio così, almeno non era l'unica nervosa tra i due.

Appena misero piede in terrazzo furono entrambi sorpresi - Kaede più scocciato, effettivamente - di trovare Mitsui e Kiyo chiacchierare, seduti contro la ringhiera.

«Oh, Sana, finalmente», la salutò l'amica, recuperando le sigarette. Che Hisashi le fregò subito e buttò via. «Ehi! Che diavolo ti salta in mente?».

Quello chiuse gli occhi, poggiando la testa contro il ferro del parapetto. «Non devi fumare. Soprattutto se fai sport».

«E a te che t'importa?».

Hisashi non rispose, perché Sanako e Kaede che battibeccavano sul pranzo attirarono la loro attenzione.

«Dai, facciamo metà e metà!», fece per l'ennesima volta la barista, mentre l'altro stava seriamente pensando di ficcarle il cibo in gola per farla star zitta.

«Che succede, ragazzi?», chiese Hisashi, allungando le gambe sul pavimento.

«Oh, è che prima sono inciampata e ho rovinato il pranzo, e Rukawa vorrebbe offrirmi il suo, ma non può rimanere senza mangiare! Diglielo anche tu, senpai!».

Kaede ci mise poco a fulminare anche il suo compagno di squadra, che si limitò ad annuire e a sfotterlo. «Su, Rukawa, mangia la pappa e non rompere».

Dopo l'ennesima mandata a quel paese che volava nell'aria, alla fine Kaede accettò di dividere il cibo, ma solo per farla smettere. Si sedette nel suo personale angolino a ciondolare tra un boccone e l'altro, mentre Sana decise bene di lasciarlo in pace e avvicinarsi agli altri due. «Come stai, Kiyo?».

«Benissimo». «Ha ancora i postumi della sbornia».

Sana quasi scoppiò a ridere nel vederli guardarsi in cagnesco. «Mi hai fatto prendere uno spavento, ieri. Sembravi impazzita!».

«Era ubriaca, Tsukiyama».

«Io non ero ubriaca!».

«Guarda che anche se continui a ripetertelo, non cambierà le cose».

«Oh, Mitsui, stai un po' zitto».

Bene, quei due erano cane e gatto, pensò Sana, sorridendo. Non potevano fare un discorso tranquillo che finivano sempre a insultarsi e a bisticciare. Com'erano carini!

«Tu piuttosto, che hai? Mi sembri su un altro pianeta».

La barista tornò a guardare l'amica, abbassando poi lo sguardo. «Sono un po' nervosa... sai, ieri dopo che siete andati via è arrivato... lui. Beh, sì, papà».

Hisashi, non conoscendo la sua situazione, non capì all'inizio. Kiyo, invece, sbarrò gli occhi. «Ma che vuole ancora da te? Devo spaccargli il muso?».

«Oh, no, Kiyo, no! Tranquilla, è tutto a posto. È solo che son nervosa, ecco». Sospirò, bevendo un po' d'acqua prima di parlare. «Dopo le lezioni di musica ho un'ora libera prima di lavorare e così... Così gliel'ho detto».

«E vi dovete vedere, immagino». Al un gesto affermativo dell'altra, Kiyo si strinse nelle spalle. «Vuoi che venga con te?».

«No, certo che no, grazie! E poi tu hai gli allenamenti, non devi saltarli proprio ora. Sabato inizi le qualificazioni».

«Sì, sì, lo so», biascicò la bionda, impensierita. «Comunque sii te stessa e non preoccuparti di niente. Intesi?».

Sana annuì, sorridendo. «È la stessa cosa che mi ha detto anche Akira».

Inutile dire che nel sentire quel nome Kaede strinse gli occhi. Diavolo, lo sentiva nominare sempre di più, quel disgraziato! Ah, mercoledì gliel'avrebbe fatta pagare lui, altro che!

«A proposito di quell'idiota, ho fatto bene a mandartelo, ieri?», s'informò Mitsui.

Il volto di Sana s'illuminò. «Hai fatto benissimo, grazie mille Mitsui-kun!».

Le labbra di Kiyo si piegarono in un sorrisino malizioso, e si avvicinò al ragazzo accanto per sussurrargli un "Sana è innamorata persa di Akira".

«E-ehi!».

I due scoppiarono a ridere nel vedere l'imbarazzo nel volto dell'amica, che si copriva le guance rosse come i capelli dei Sakuragi. «Non è divertente!».

 

*

 

La lezione di chitarra finì come sempre alle cinque in punto, ma quella volta le sembrò di aver strimpellato per soli cinque minuti. Era già arrivata l'ora?

La piccola barista ritirò il suo strumento preferito nell'apposita custodia più grande di lei e non si accorse della zia che, tutta pimpante, le arrivò dietro. «Sana, mia cara, potrei parlarti cinque minuti?».

«Proprio ora?» .

L'occhiata maliziosa della donna non prometteva niente di buono. «Cos'è, devi uscire con il bel ragazzotto dell'altra notte?».

«Zia! Ma che ti salta in mente?!», esclamò lei, rossissima. Lei che usciva con Kaede Rukawa? Oh, ma per carità! Era un'idea così assurda e talmente imbarazzante che non bisognava nemmeno formularla!

Quella ridacchiò, prendendole la chitarra di mano per sistemarla come sempre nel cofano della station-wagon. «Scherzi a parte, ti ricordi della promessa che mi avevi fatto? Quella del concerto di fine anno».

«Certo che la ricordo. Mi avevi corrotta con una torta, se non sbaglio».

«Esatto, piccola mia! Allora, ci ho pensato bene ultimamente e ti spiego che cosa ho in mente». Masaki s'inumidì le labbra, prima di iniziare a parlare. «Pensavo a qualcosa in stile anni '60, '70, come piacciono a te. Magari chi vuole può anche travestirsi, che so! Ovviamente tu suonerai e canterai, la scaletta la decideremo insieme, quando avremo un gruppo. A questo proposito: ci serve un altro chitarrista, un bassista, un tastierista e un batterista. Del corso di musica potrei prendere Seiji, ma non son troppo convinta... Per quanto sia in gamba con le bacchette è il suo primo anno e ha tanto da imparare. Mi chiedevo, conosci qualche tuo amico o amica che potrebbero contribuire? I tempi stringono, sai, ci son tutte le prove da fare».

Sanako corrugò la fronte. Amici? Lei, tranne Kiyo e Akira non aveva amici. Di quelle persone, insomma, che ti raccontavano cosa facevano la sera, o i loro pensieri o chissà quali altre cose. Non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare la ricerca! «Io non saprei... non so se qualche mio compagno di classe suona».

«Beh, potresti informarti? Stasera, comunque, preparo dei volantini da spargere un po' ovunque per il liceo, te ne farò avere un bel mazzo così mi dai una mano, ok?».

La barista annuì e sorrise, tanto per far contenta quella donna che sembrava anche più entusiasta di lei. Non amava i concerti di fine anno, specie se non aveva nessuno con cui andare. Ma almeno lei avrebbe intrattenuto tutti con la sua musica e in qualche modo se la sarebbe scampata con classe.

Attraversarono il cortile della scuola, dove Sana intravide Mitsui con i gemelli Shimura andare ad allenarsi - probabilmente in vista dell'amichevole contro il Ryonan del giorno dopo - e le mancò il fiato appena vide lui, suo padre, attenderla oltre il cancello, che passeggiava avanti a indietro, in tensione.

«E lui che diavolo ci fa qui? Ora ti spia?», ringhiò la zia, già pronta a cantargliene quattro se non fosse stato per Sana che la bloccò per un polso.

«No, zia, va tutto bene. Sapevo che sarebbe passato».

Masaki non fu molto convinta, per non dire che non lo fu per niente. «Cosa mi stai raccontando? Che dovete andare a fare una passeggiata?».

«Sì, cioè... non so dove andremo, probabilmente ci fermeremo al bar all'angolo...», blaterò Sana, contorcendosi le mani per il nervosismo. «Andrà tutto bene, è una cosa che mi son imposta di fare... da sola, zia», aggiunse, capendo le intenzioni della donna.

«Beh, sarò sincera con te: non mi piace. Ma sei grande abbastanza per capire cosa sia giusto o sbagliato», fu il verdetto, non troppo entusiasta.

«Grazie, sei la zia migliore del mondo!», esclamò Sana, abbracciandola.

«Sì, sì, ora vattene prima che cambi idea! E spera che tua madre non venga a saperlo».

Sana sorrise, avvicinandosi impacciata al padre. «Ciao».

Lui, dopo aver lanciato una rapida occhiata all'ex cognata, ricambiò il sorriso. «Ciao».

Perfetto, che inizio entusiasmante, pensò lei.

«Come è andata oggi?», le chiese, prendendole gentilmente la cartella contenente i libri di scuola.

Malissimo! «Bene... sì, tutto bene. A parte che ho rovesciato il pranzo e son volata per il corridoio, tutto bene». Ferma, Sana, ferma! Non iniziare a partire con i tuoi sproloqui nervosi!

«Ti sei fatta male?», si preoccupò subito lui.

«Oh, no». Sana agitò una mano. «Ci sono abituata, ormai. Sono un disastro».

Il padre stava per dire che anche lui lo fosse, sbadato e distratto, ma evitò. Lui era un disastro in un altro senso. «Ti piace la scuola dove vai?».

«Lo Shohoku? Sì, credo di sì. Cioè, è pieno di matti e qualche teppista, ma ci si convive. E poi è quella più vicino casa e la più economica, quindi non mi lamento». Sana abbassò lo sguardo sul pavimento del marciapiede, trovando di gran lunga interessanti le foglie secche cadute dagli alberi, piuttosto che girarsi per guardarlo negli occhi mentre parlava.

«Hai molti amici, immagino».

«Veramente non ne ho molti». L'uomo corrugò la fronte. «C'è Kiyo, che conosco dalle elementari. E Akira, il ragazzo che hai visto ieri notte. Gli altri son tutti conoscenti e compagni di classe. Probabilmente pensano che sia strana».

«Strana?».

Lei si strinse nelle spalle, guardando ora il cielo. «Forse perché sto sempre nel mio mondo, perché alle pause non sto con tutti loro e mi rintano in terrazza a studiare... ma tra il corso di musica e il lavoro al bar non ho poi troppo tempo per me, figuriamoci per gli altri».

«Beh, se posso darti un consiglio, per quanto non possa avere importanza... dovresti goderti l'età che hai, fare quello che ti piace, magari non in solitudine».

Sana lo guardò per la prima volta con sincero stupore. «Ma io faccio quello che mi piace».

«Non dirmi che ti piace fare orari improbabili dall'età di sedici anni, anziché uscire con la tua amica». L'uomo la vide chinare lo sguardo. Probabilmente aveva fatto centro.

«Quel lavoro mi serve per pagare le spese scolastiche e aiutare in casa».

«Allora dovresti dire che lo trovi necessario, non entusiasmante». Arrivarono all'ingresso di un bar, e lui glielo indicò. «Vieni, entriamo qui, sembra carino».

Sanako annuì, prendendo posto in una sedia di plastica colorata. Quel breve momento di silenzio le permise di ragionare sull'andamento iniziale della conversazione: un bel 6 d'incoraggiamento.

«Comunque in realtà c'è un gruppo di ragazzi che mi capita di vedere spesso... almeno al bar», riprese lei, pensando al club di basket. «Sono simpatici».

Lui sorrise, grattandosi la barba tagliata quella mattina. «Beh, meglio di niente!», ridacchiò. «Ti piace tanto la musica?».

«Sì, tanto. Quando suono è come se volassi via dal mondo. E ogni tanto scrivo anche qualche pezzo, sai?».

«Davvero? E di che genere?» Incredibile, stava parlando tranquillamente con sua figlia... sua figlia.

«Sai, mi piacciono molto gli America e i Toto, mi ispiro a loro. Li conosci?».

«Certo che li conosco, quando avevo la tua età andavano molto di moda», le spiegò. «Mi stupisce che ci sia ancora qualcuno come te che li ascolti».

«Ecco, stai dicendo che son strana», biascicò lei, arrossendo.

Lui scosse il capo, sorridendo gentile. «Ricorda, a volte strano non vuol dire negativo».

Sana piegò le labbra in un sorriso imbarazzato, sistemandosi la frangetta nera ormai troppo lunga. «Posso farti una domanda?». Al cenno affermativo, seppur perplesso dalla serietà della figlia, lei proseguì. «È un po' strana, ma ecco... qual è il tuo nome?».

«Tua madre non te lo ha mai detto?», le chiese, risentito.

«No, veramente... veramente lei non mi ha mai parlato di te».

L'uomo sospirò pesantemente. «Avrei dovuto immaginarlo», borbottò, aprendosi in un sorriso tirato. «Comunque mi chiamo Kiichi Rukawa».

 

*

 

«Dai, muoviti, Scimmia! Siamo qui da tre quarti d'ora e ancora non sei uscito da quella gabbia!», sbraitò Hanamichi, stravaccato bellamente sul divano.

Hime, seduta accanto ad Arimi, si passò una mano in viso. «Hana, datti un contegno, non sei a casa tua!».

«Ecco, ascolta tua sorella, animale!», rispose l'altro invasato, comparendo in quel momento con un asciugamano tra le mani, asciugandosi i capelli bagnati dalla doccia.

«Cosa sarei io?! Brutto travestito!».

«Ancora con quella storia? Ma devo proprio ucciderti, allora!».

Le donnine presente si scambiarono un'occhiata mesta e decisero di cambiare aria, almeno finché quei due deficienti dei rispettivi fratelli l'avessero smessa.

«Ehi, dove andate? Stiamo per uscire!», fece Nobunaga, perplesso. «Ehi, Ari-chan, non le vorrai mica far vedere altre foto indecenti?!».

«Perché, ce ne sono altre?», chiesero in coro i gemelli, gli occhioni a cuoricini alla sola idea.

«Certo che no, idioti!».

Arimi scosse il capo e si sistemò le protesi di plastica che le permettevano di camminare. Sarebbero andati finalmente in spiaggia, dove si sarebbe potuta esercitare ancora un po'. Stava facendo progressi, ormai, ed era più che sicura che alla prossima visita dal fisioterapista le avrebbero fatto i complimenti. Tutto merito del suo fratellone e delle sue adorabili cure.

«Hai bisogno di aiuto?», le chiese Hime, prendendo la sedia a rotelle che era sistemata in un angolo, piegata per occupare meno spazio.

«No, grazie. Già fatto!», le disse trionfante.

Hime le sorrise, porgendole un braccio e chiamando il fratello. «Hana, anziché sbraitare contro Nobu-chan, perché non vieni a darmi una mano con questa?».

«Ecco, bravo, renditi utile una volta tanto!».

«E stai un po' zitta, Scimmia!».

Riuscirono a mettere naso fuori dalla porta dieci minuti dopo l'ennesimo battibecco, e fu solo grazie alle amorevoli mani della rossa, che li afferrò letteralmente per la collottola e li trascinò fuori. Arimi, intanto, seduta sulla carrozzella, veniva spinta da Hanamichi, che si era gentilmente offerto per dimostrare che lui si dava sempre da fare. Del resto sono un genio, vero Ari-chan?, aveva detto, facendola andare a zig-zag, mentre lei rideva come una pazza.

«Ehi, deficiente, guarda che quella non è un autoscontro!».

«Ne sai qualcosa di autoscontro, eh Scimmia?».

Hime scoppiò a ridere nel ricordarsi del piccolo incidente che avevano avuto durante il ritiro, nel Luna Park. C'era veramente mancato un pelo che quei due si ammazzassero una buona volta per tutte!

«Hicchan, non si ride delle disgrazie altrui! Quell'idiota di tuo fratello mi ha anche rotto il naso quella volta!».

«Macché rotto il naso», si difese subito il numero dieci dello Shohoku. «Sei tu che sei troppo delicatino!».

Hime prese sotto braccio il fidanzato, schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia. «Dai, almeno ti sei rifatto con il giro sulle montagne russe dopo!».

«Sì, io... tu invece gridavi come un'invasata dalla paura, Hicchan».

«N-non è vero!».

«Oh, ma allora è vizio di voi Sakuragi non ammettere la verità!».

Arrivarono alla spiaggia, deserta a quell'ora della sera, nonostante ci fosse ancora un po' di sole. Arimi si mise in piedi, aiutata dal nostro Hanamichi-tutto-fare e provò a muovere qualche passo.

«Però, sei brava», le disse, sorridendo, per una volta tanto senza quell'espressione da idiota che aveva sempre. Arimi pensò che fosse veramente tanto carino, quando si dimostrava così gentile. Beh, lo era sempre, a dir la verità.

«Ehi, Scimmia, vedi di stare attento e di non farla cadere!».

«Ohi, non rompere!», borbottò quello, infastidito. «Ogni volta ti porti via la mia Hicchan, ora voglio la mia rivincita!».

Hime corrugò la fronte, divertita, e non le sfuggirono le guance arrossite della piccola Kiyota. Oh, interessante... veramente molto, troppo interessante!

«Ehi, Hicchan, cos'è quell'espressione diabolica? A che pensi?».

«Niente! Niente!», si affrettò a dire lei. Kami, se solo gli avesse messo la pulce nell'orecchio di una supposizione simile era più che certa che la serata sarebbe diventata più lunga del previsto. Fece una stramba associazione di idee e si ritrovò a pensare allo strano discorso che le aveva fatto Ayako. Accidenti a lei, non riusciva a toglierselo dalla testa!

Nobunaga si accorse che qualcosa era cambiato repentinamente nel viso della sua rossa preferita, ma non riuscì a farle dire niente, se non qualche frase sconclusionata del tipo Ayako me la pagherà!, Vede sempre quello che non esiste!, e altri improperi contro la loro manager.

«Ari-chan, ti fa male quella?». Hanamichi indicò la protesi, grattandosi la capa rossa.

«Oh, no! No, niente dolore. All'inizio mi dava un po' di fastidio, ma è solo questione di abitudine», gli spiegò, sorridendo.

«Cavolo, devi avere un gran fegato».

Arimi si strinse nelle spalle. «Sai, è stato difficile all'inizio. Ma con il sostegno dei miei e di Nobu è stato tutto più semplice».

Hanamichi sorrise, dandole amichevoli pacche sulle spalle. «Sei proprio un genio come me, Ari-chan! Altro che quella Scimmia di tuo fratello!».

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

 

 

Ehilà! Rieccomi qui dopo una splendida vacanza a Parigi! *.* Ho ancora la testa e il cuore lì, ma mi rendo conto che piano piano devo tornare alla realtà, quindi eccovi il nuovo capitolo!

Vorrei precisare una cosa riguardante quello precedente: mi son accorta di aver scritto una cavolata (che ho prontamente corretto), cavolata che magari non tutti avranno colto, ma per la mia morbosa voglia di scrivere le cose bene è importante. Mi riferisco al numero di maglia di Kobe Bryant ( ammmor!), che ora è 24; l'ho corretto con l'8, perché ho considerato questa storia ambientata nei primi anni del 90, proprio come nel manga. Dettaglio trascurabile, magari, ma come ho detto adoro scrivere le cose bene e che, per quanto sia possibile, coincidano con alcuni fatti della realtà.

Ora! Immagino vi abbia un po' sconvolto il nome del padre di Sana... Ammetto che ha sconvolto anche me, quando l'ho pensato, ma per quello che ho in mente è perfetto! Spero gradiate! (; (Notare l'ennesimo nome Rukawesco che inizia con la K!)

E ora passiamo a Liricchan! Yeee! Posso storpiarti il nickname! *O* Cioè, dopo tutto quello che mi scrivi non mi sembra neanche corretto rovinartelo, ma è puccho! <3 Carissima, però, tu non capisci che mi fai piangere, così? Sul serio, cioè... capolavoro?! Ma io mi monto la testa, così! Grazie ;___;/

Ammetto che scrivere di Kiyo ubriaca mi abbia divertito troppo, personaggi scontrosi come lei in situazioni imbarazzanti sono uno stimolo incredibile! Il problema è che ora mi sta minacciando con un pugno, fa paura! .__. Eh sì, Mitchi è Mitchi, cioè... Un ragazzotto pieno di sé non poteva non dire una cosa simile! ù_ù XD Son stracontenta che ti piacciano! *O*

E son ancora più contenta che ti piaccia la scelta di Sana. E' imbranata, sì, e infatti il risultato si è visto! Spero solo che la notizia appresa non la faccia ricadere nel baratro da cui stava lentamente uscendo insieme al padre, altrimenti siamo nei casini! XD

Per quanto riguarda Ayako e le sue supposizioni: no problem, lanciare semini di qua e di là è il suo passatempo preferito... Il problema è che gli altri poi si mettono problemi più grandi di loro! :D

Ancora grazie, carissima, è davvero un piacerissimo leggerti! :*

Grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto questo delirio tra preferiti, seguite e ricordate! Siete tanti! *O* *vi abbraccia tutti*

Preferita da:

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Ricordata da:

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Un abbraccio enorme, e ancora grazie!

Marta.

 

PS: vorrei fare un po' di pubblicità su uno sclero di qualche settimana fa: Hysteria - Quando Slam Dunk ti fa impazzire.

Avverto tutti: è veramente demenziale! XD

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** 09. Sendoh vs. Rukawa... di nuovo. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 9

Sendoh vs. Rukawa… di nuovo.

 

 

Finalmente il giorno dell'amichevole era arrivato, lentamente, ma era arrivato.

I nuovi acquisti non avevano praticamente chiuso occhio - tranne Kimi, che quando metteva testa sul cuscino non c'erano partite che potessero impensierirlo. E fortuna che quel giorno i giocatori potevano prendersi il lusso di saltare le lezioni, altrimenti il fratello avrebbe avuto un bel da fare per svegliarlo.

Chi invece non guardò la sveglia, come ormai da anni prima di ogni partita importante - e quella lo era, perché avrebbe messo in luce i pregi e i difetti di ognuno di loro prima dell'inizio del Campionato Invernale - furono Hime e Kaede. I due, ormai, non dovevano neanche darsi appuntamento. Sapevano che alle sette si sarebbero dovuti vedere al solito campetto per la solita partitella di allenamento, e nessuno si era mai lamentato. Certo, per Rukawa svegliarsi così presto era pur sempre un trauma; fortuna che suo padre, quel sant'uomo!, usciva presto per il lavoro e non aveva problemi a svegliarlo a cuscinate in faccia.

Kaede aveva trovato l'amica già bella che pronta in pantaloncini e con la consueta maglia del Do'aho, di cui si era appropriata da inizio anno, intenta a riscaldarsi.

«Ehi».

Hime completò un tiro quasi fuori area, ma presa alla sprovvista, cannò totalmente, prendendo solo il ferro. «Ede! Ben arrivato, insieme al tuo cuscino!». Quello le lanciò un'occhiata perplessa, oltre che addormentata, e lei le rispose con una risata. «Ce l'hai proprio lì, attaccato in faccia».

«Hn, simpaticona. E io che ti do anche retta». Poggiò la sacca accanto a quella della Sakuragi, togliendo fuori il suo pallone personale e iniziando anche lui il riscaldamento.

«Sei venuto a piedi?», gli chiese Hime, cercando la sua più che scassata bicicletta.

Kaede si strinse nelle spalle, andando subito a canestro. «Ho fatto una corsa», le spiegò, recuperando la sfera arancione e palleggiando. «E poi così non devo riaccompagnarti a casa».

«Oh, ma bene! Grazie, Ede, sei veramente un cavaliere!», sbuffò lei, tirando a canestro e centrandolo. «Me ne ricorderò quando mamma preparerà i biscotti. Non te ne farò avere neanche uno».

«Tua madre me lo farà sapere lo stesso».

«Ah, disgraziato!».

Kaede scosse il capo appena la vide sbattere un piede per terra, come una bambina. «Finiscila di fare l'infantile. Mi sembri tuo fratello».

Lei, per tutta risposta, gli tirò in pallone con l'intenzione di colpirlo, ma lui fu più lesto e l'afferrò con entrambe le mani. Quando iniziò a palleggiare, senza distogliere quegli occhi da gatto, blu come l'oceano, Hime capì che l'allenamento stava iniziando. Kaede scattò poco dopo, cercando di scartarla subito; ma lei fu veloce, e allungò una mano per bloccarlo. L'ala piccola fu costretta a un cambio di mano, per proteggere meglio il possesso con tutto il corpo. Fintò un altro scarto, questa volta a sinistra, ma proprio quando Hime stava per cascarci, Kaede aveva già saltato e preso la mira.

Hime recuperò il pallone, gonfiando le guance indispettita. «Quello scherzo è l'ultimo che mi farai». Palleggiò un paio di volte sotto le gambe, fece un passo indietro e lanciò uno sguardo al canestro. Kaede sapeva che avrebbe tirato, era uno dei suoi giochetti preferiti da sempre. E infatti eccola lì, sollevare le braccia per tirare a canestro.

Quando Hime ridacchiò, ora divertita, era già sgusciata via e aveva segnato. Le tirò un buffetto su una guancia mentre lei gli rifilava una linguaccia.

«Quanto hai intenzione di segnare, oggi?», gli chiese, riprendendo la posizione di difesa.

Lui le lanciò un'occhiata infuocata. «Più di Sendoh, mi pare ovvio».

«Vedi di giocare per la squadra, Ede, non pensare solo a lui».

Kaede attaccò ancora, forse con troppa forza, perché Hime perse l'equilibrio e cadde a terra, rischiando di spaccarsi il coccige.

«Ohi, ohi, che male!», si lamentò, accarezzandosi amorevolmente il suo fondoschiena - un gran fondoschiena, avrebbe detto Nobunaga. Afferrò la mano che l'amico le porgeva, mentre le borbottava un Sei un disastro. «Ehi, sei tu che sei un orso! Mi pare di avertelo detto tante volte».

Sì, Orso Volposo... E chi si dimentica un soprannome così demente?

«Sai, credo che Sana venga a vedere la partita».

Kaede corrugò la fronte. Per vedere quell'idiota. «Dovrebbe interessarmi?».

«Dicevo così, per dire...», biascicò Hime, sbirciando la sua reazione. Niente, come sempre. «Son contenta che ci sia anche lei, se ne sta sempre per i fatti suoi».

«E non fa male».

Hime spalancò gli occhi castani. «Stai per caso dicendo che la mia compagnia o quella dei ragazzi non ti fa piacere?».

Lui, d'altro canto, le si avvicinò di un passo, sovrastandola con la sua incredibile altezza. Le puntò un dito in mezzo alla fronte, simulando una pistola. «Dì un'altra stronzata come questa e ti ammazzo». La bloccò subito prima che iniziasse a saltellare dalla gioia a destra e a sinistra. «E prova a sbandierarlo in giro e ti ammazzo ugualmente. Intesi?».

Hime si mise una mano sul cuore, giurando. «Mai stato più chiaro!», esclamò, sorridente. In un impeto di coccole, di quelle che rischiavano di uccidere soffocati chiunque si trovasse tra le sue grinfie, lo abbracciò forte. Le era sempre piaciuto rifugiarsi in quelle braccia, nonostante Kaede non sprizzasse affetto da tutti i pori. «Te l'ho mai detto che ti voglio bene?».

Kaede sospirò, poggiando il mento sulla sua testolina indiavolata. Sì, ma non mi stanco facilmente, io. «Hn. Anche troppo spesso». Nascose un gemito quando lei gli rifilò una gomitata alle costole.

«Non è mai troppo per dimostrare tutto il bene che ti voglio, disgraziato!».

«Manesca».

«Antipatico!».

«Noiosa».

«Bradipo!».

«Sakuragi».

«E questo dovrebbe essere un insulto?».

«No, demente, c'è il Do'aho. E sta per morire».

Hime si voltò verso Hanamichi, mezzo moribondo per la corsa furiosa che si era dovuto fare. «Voi due... maledetti... traditori!», si poggiò contro la rete, distrutto, per riprendere fiato. «Hicchan... potevi svegliarmi!».

«Hana, eri così avvolto come un salame che era difficile anche trovarti la testa». Hime trotterellò da lui, alzandosi sulle punte e dandogli il consueto bacino del buongiorno. «Dai, anche Ede si è fatto una corsettina, per scaldarsi... così siete pari!».

Il Volpino scosse il capo appena quello iniziò a pavoneggiarsi, ritrovando chissà come e dove tutta l'energia, gridando al mondo che lui era il genio, che lui non si sarebbe mai stancato per una corsetta e, cosa più importante, che lui non era al pari di nessun Rukawa dei suoi stivali... lui era al di sopra di tutti! Ahaha!

 

*

 

Quando Kiyo si era presentata davanti alla porta di casa sua intimandole di recuperare la bicicletta e di seguirla immediatamente in palestra, Sana cadde dalle nuvole. E si fece anche parecchio male, a dirla tutta.

«Oh! La partita di basket!», esclamò, battendosi una mano sulla fronte e maledicendosi in tutte le lingue del mondo, mentre Kiyo borbottava qualcosa come "Quando ritroverai l'utilizzo della memoria fammi un fischio, sempre che te ne ricordi".

«Scusami, scusami Kiyo! È che me ne son completamente scordata!», disse Sana, dalla sua stanza per recuperare una giacca. «Siamo in ritardo?».

«Mancano cinque minuti all'inizio», rispose quella, poggiandosi contro lo stipite della porta. «Se Mitsui non mi vede arrivare penserà che sono una vigliacca».

Sana corrugò la fronte. «Perché dovrebbe pensare così?».

«Perché abbiamo fatto una scommessa, e io non voglio perdere». Allo sguardo curioso dell'amica, Kiyo sbuffò. «Mi offre una pizza al giorno per una settimana, ne vale la pena, no?».

«E se perdi?».

Kiyo non rispose subito, sviò anzi la domanda. «Sbrigati, o faremo tardi sul serio».

Corsero di volata verso la palestra del loro liceo, una in bici l'altra sui rollerblade, rischiando più volte di rompersi l'osso del collo per evitare qualche passante o qualche tombino un po' troppo profondo. Quando finalmente giunsero al cortile videro ancora parecchie persone che chiacchieravano tra loro, così come non si sentiva nessun suono di partita dall'interno dello stabile. L'unica cosa che saltò agli occhi fu la disperazione di un uomo che aveva superato i cinquant'anni, che bestemmiava in turco contro un certo suo giocatore, nonché nuovo Capitano della squadra. In ritardo.

«Giuro che appena vedo quella faccia sorridente da ebete gli tiro un pugno che si ricorderà per tutta la vita!», borbottò incavolatissimo un suo compagno di squadra, tale Hiroaki Koshino, di indole particolarmente calda e suscettibile.

Mitsui, poggiato contro un muretto accanto a lui, sbuffò infastidito. «Regalagliene uno anche da parte mia, non ho voglia di sporcarmi le mani». Si fece attento d'un tratto appena scorse la chioma bionda di Kobayashi. «Cos'è, giornata di ritardatari, oggi?».

«Non prendertela con me, colpa della tua collega», si affrettò a rispondere la diretta interessata. «Chi è il fortunato che si ritroverà una squadra intera alle calcagna?».

«Akira, suppongo», fece Sana, guardandosi intorno. «È in ritardo anche oggi, vero?». Sospirò quando la sua domanda fu confermata dall'ennesimo delirio dell'uomo di poco prima, che altri non era che l'allenatore del Ryonan, Taoka.

«Dovreste fare seriamente qualcosa per quel cerebroleso», disse Hisashi a Koshino.

«Perché non pensi tu a metterlo in riga? Siete mamma e figlio, ormai!», fece una voce alle sue spalle. Hime, con la sua consueta divisa da arbitraggio (ergo, con indosso la maglia larghissima di Kobe Bryant), trotterellò verso Sana per salutarla con un bacino, poi si voltò verso Kiyo, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il suo viso. «Ci conosciamo già?».

Kiyo fece spallucce. «Solo di vista, sono in classe con Rukawa».

La rossa sorrise apertamente, schioccando le dita. «Ah, mi ricordo di te! Mi mettesti in guardia dal svegliare quell'Orso! Piacere di conoscerti, sono Hime Sakuragi».

«Kiyo Kobayashi, piacere mio». Non si era sbagliata, quel giorno, a pensare che quella ragazza fosse un tornado. Trascinava via tutti con un solo sorriso, oltre che con il casino che si portava dietro. Persino il glaciale Rukawa sembrava sciogliersi un poco appena la vedeva. O il suo era terrore? Effettivamente c’era da terrorizzarsi quando quella pazza iniziava con le sue follie, insieme al fratello. Proprio come stava facendo in quel momento, tormentando un colosso di ragazzo che, per quanto riuscì a capire, doveva essere stato un giocatore dello Shohoku, e che non sembrava molto felice di ritrovarsi quei due rompiscatole tra i piedi.

«Lo sapevo, lo sapevo che saresti venuto!», stava strillando contenta la rossa, appesa al braccio del suo ex Capitano.

«Avrei fatto meglio a starmene a casa, piattola!», borbottò quello, cercando inutilmente di scrollarsela di dosso.

«A-ha! Il Gorillone non ha saputo restare lontano dalle mie splendide partite, ammettilo!».

«Hime, tuo fratello vaneggia!», commentò Ryota, afferrandolo per un orecchio e trascinandolo in campo, per il riscaldamento. «E tu, Mitsui, vedi di unirti a noi, invece che civettare!».

La Guardia della squadra di casa gli rifilò un’occhiata che la metà bastava. «Parli per gelosia, Tappo».

Ayako, prima che il Capitano dicesse cose scomode davanti a decine e decine di persone, vide bene di sedare tutti con una sventagliata d’inizio, giusto per calmare le acque e tirare un sospiro di sollievo. Si sa come sono gli uomini quando si tratta delle loro conquiste, ma lei non voleva saggiare sulla pelle cosa significasse!

Quando Akira, finalmente, arrivò tra gli improperi dei suoi compagni di squadra e un allenatore che più abbattuto non poteva essere – non sapeva più che pesci prendere con quel ragazzo! – il pubblico iniziò a prendere posto nella balaustra intorno al campo; Akagi, guardandosi intorno, si accorse che erano giunti in molti, e non si stupì troppo quando si ritrovò accanto Uozumi, Maki e Kiyota (quest’ultimo era arrivato cinque minuti dopo, con la scusa di salutare la sua bella con un bacio porta fortuna, manco avesse dovuto giocare lei!). Kiyo e Sana si sistemarono in direzione della panchina dei Diavoli Rossi e rimasero parecchio perplesse appena si accorsero di tre invasate a pochi metri da loro che, con indosso un completino da cheerleader inneggiavano le grandi doti cestistiche di Rukawa – anche se Kiyo notò che ciò che gridavano quelle pazze poteva benissimo essere frainteso.

«Ohi, Sanako! Anche tu qua?», fece una voce alla loro destra. Yohei e l’Armata Sakuragi le raggiunsero poco dopo, bottiglie piene di pietre alla mano, pronti per il tifo scatenato per cui andavano tanto famosi.

«Ciao, ragazzi!», li salutò lei, allegramente. Quei quattro ragazzi la mettevano sempre di buon umore! «Come state?».

«Direi bene», fece Noma. «Abbiamo già pronto tutto l’occorrente per le scommesse. Ci sono tutte le carte in tavola per essere sicuri che Hanamichi farà una delle sue solite cazzate!».

In campo, nel frattempo, Kaede si ritrovò davanti un Akira più che sorridente e fu investito dal tremendo desiderio di spaccargli la faccia. Sana temette il peggio vedendo quello sguardo poco promettente.

«Che vinca il migliore, Kaede», disse il Porcospino, porgendogli la mano con fare amichevole.

Il numero undici dello Shohoku alzò un sopracciglio, senza la minima intenzione di ricambiare il gesto. «Quindi preparati a perdere, Sendoh».

Akira scoppiò a ridere, divertito. «Vedremo, vedremo». Sollevò lo sguardo sugli spalti e incrociò subito quello di Sana, che li osservata in tensione. Le fece l’occhiolino e lei si rilassò, sorridendo.

Le prime sorprese della giornata le ebbero un po’ tutti, giocatori e pubblico, appena il quintetto base che aveva portato lo Shohoku alle stelle dei Nazionali rimase seduto in panchina. Solo Hanamichi continuava a sbraitare la sua genialità, dato che avrebbe ricoperto il ruolo di centro, sostituendo così la mancanza di Akagi.

«A-ha! Rukawa, finalmente posso mostrare a tutti di che pasta sono fatto!», esclamò borioso Araki a quello che, piegando una gamba sul ginocchio, neanche lo cagava di striscio, sbuffando.

«Datti una calmata, tu», fece il Capitano, sistemandosi i due polsini. «Ora, ragazzi, voglio vedere come ve la cavate in una partita vera. Abbiamo già parlato del Ryonan e conoscete i loro punti deboli e di forza. Non deludetemi, perché altrimenti la panchina la riscalderete per tutto il Campionato Invernale, intesi? Ah, Hanamichi, vale anche per te».

«Ehi, non ho bisogno delle tue raccomandazioni idiote, Pigmeo!».

Le nuove leve annuirono, entusiasti e determinati a vincere. I due gemelli, in particolare, erano ben felici di giocare insieme: avevano in mente due o tre schemi che avrebbero potuto usare per sfondare la difesa degli avversari. Le squadre in campo presero posizione: al salto Hanamichi e Akira; sui loro volti il sorriso era sparito, per lasciar spazio alla concentrazione.

Hime si avvicinò ai due, fischietto in una mano e pallone dall’altra. «Mi raccomando, ragazzi. Buona partita!». Due secondi più tardi il match iniziò.

Hanamichi superò di gran lunga il Porcospino e la palla volò immediatamente in mano al suo Capitano. Ryota palleggiò oltre la linea di metà campo, ritrovandosi Akira a sbarrargli la strada, e, dopo una rapida occhiata, sollevò tre dita. I Gatti Siamesi schizzarono in avanti lungo le fasce, mentre Araki si voltava pronto a ricevere. Sendoh si rese subito conto che i due che doveva tener d’occhio erano proprio i gemelli e ordinò subito a Koshino e Saitou – un nuovo acquisto - di marcarli stretti. Ryota, nonostante la grande differenza di altezza con il Capitano del Ryonan, riuscì a passarlo, grazie alla sua proverbiale agilità; Masuhiro appena sfiorò la palla la fece scivolare dietro la schiena, passandola subito a Kimi. Questo si smarcò facilmente da Koshino che, notò Akagi mentre osservava con attenzione la partita, era rimasto il solito insignificante giocatore dalle basse potenzialità. Il tiro da tre punti arrivò subito dopo, tra il boato dei sostenitori dei Diavoli Rossi. Kimi abbozzò un sorriso, battendo il cinque ai suoi compagni e tornando velocemente in difesa.

«Però… Ha un buon tiro anche sotto pressione.», commentò Hisashi, le braccia lasciate penzolare mollemente, poggiate sullo schienale della panchina.

«Potresti aiutarlo a migliorarsi, che dici?», fece Ayako, mentre prendeva appunti. «O hai paura che diventi più bravo di te?».

Quello la fulminò con lo sguardo, mentre la prima manager ridacchiava. Mitsui osservò il suo neo-compagno di squadra mentre marcava con classe Saitou, la guardia che sostituiva il ritirato Ikegami e che se la cavava piuttosto bene. Perché no? Avrebbe potuto allenarlo per sostituirlo, quando non avrebbe più giocato. Ma l’idea di dover abbandonare quella squadra di svitati, un giorno, lo rattristò parecchio. Aveva ingoiato un rospo troppo grande quando Akagi e Kogure avevano annunciato il loro ritiro per dedicarsi agli studi. Sperava, un giorno, di poterli rincontrare e giocare nuovamente insieme, magari in una squadra universitaria.

In campo, nel frattempo, Hanamichi e Fukuda se le davano di santa ragione – delle volte sfioravano il significato letterale – e Akira dava spettacolo, trascinando la squadra e conducendo una splendida azione che portò il Ryonan a una lunghezza di distacco, concludendo con un tiro in sospensione spettacolare. Rukawa, seduto accanto alla Guardia, strinse le labbra in una linea sottile, contrariato. Non vedeva l’ora di scendere in campo per fargli vedere chi tra i due fosse il migliore. Era d’accordo sul fatto che i nuovi acquisti dovessero mostrare le loro capacità, ma vista la situazione avrebbe preferito lasciarli marcire in panchina, invece di vederli giocare al suo posto. C’era addirittura il Do’aho in campo!

«Ehi, Rukawa, rilassati», fece Hisashi. «Dieci minuti e il sensei Anzai ci lascerà entrare. Non se la stanno cavando male, no?».

«Hn. Se la caverebbero meglio se ci fossimo noi, lì».

Mitsui alzò gli occhi al cielo, ma non aggiunse altro. Per quel giorno gli bastava che quel Volpino narcotizzato lo avesse messo in mezzo nel quintetto d’oro. Era già un passo avanti.

Sopra di loro, Kiyo abbassò lo sguardo, trovando la testa scura di Mitsui. «Che palle, ma non gioca?», borbottò, scocciata. «Ehi, Mitsui! Sei in panchina perché hai paura di perdere la scommessa?».

Hisashi piegò la testa all’indietro, guardandola con un sorrisino divertito. «Mi bastano anche cinque minuti di partita per vincere, non preoccuparti».

Lei gli fece una smorfia, riportando l’attenzione alla partita. Accanto a lei Sana stava ascoltando con attenzione Yohei che, pazientemente, le spiegava le regole principali del basket, dato che le mancava perfino l’abcd di quello sport che non aveva mai seguito.

Quando finalmente Anzai chiese due sostituzioni, la situazione era Shohoku-Ryonan 35-31. Rukawa e Mitsui entrarono al posto di Araki e Kimi, il primo aveva dato prova di un buon gioco, mentre il secondo, insieme al fratello, aveva dato un bel da fare alla difesa avversaria: non solo quei due parlavano in coro, tanto erano affiatati, ma persino in campo sembravano leggersi nel pensiero, per capire quale mossa fare; senza contare il fatto che entrambi, per quanto fossero sempre concentrati, si stampavano un lieve sorriso di scherno in viso, innervosendo non poco gli avversari. Il quintetto base, tranne per la presenza di Eichiro, era tornato in campo e Taoka sapeva bene che ora sarebbe stata più dura di quanto non fosse stato quel primo quarto d’ora di partita.

Akira strizzò l’occhio al suo migliore amico, per poi spostare lo sguardo sul suo rivale preferito. «Finalmente! Pensavo non vi facesse entrare più».

«Speravi che così fosse, eh?», rispose strafottente Hisashi, con un ghigno. «Ora si gioca veramente».

«Non aspettavo altro», commentò Rukawa, determinato a far mangiare la polvere a quel Porcospino della malora.

Quello che successe dopo in campo fu indicibile. Akira non ricordava di aver visto giocare così bene e con così tanta determinazione Rukawa – forse, pensò, aveva dato uno spettacolo simile nel match contro il Sannoh, e gli dispiacque di non averla vista, sarebbe stato sicuramente più preparato. Il Volpino dello Shohoku era letteralmente indemoniato: scattava senza stancarsi, infilava un canestro dietro l’altro e, soprattutto, cercava il corpo a corpo con lui, per mostrargli quanto fosse migliorato. D’altronde, aveva giocato e si era allenato nei Juniores, mica niente. Sendoh, d’altro canto, era ovunque, cercando di bloccarlo e riuscendoci, spesso e volentieri. Kaede fu addirittura costretto un paio di volte a passare la palla al rossino, alle sue spalle come supporto, per cercare di levarsi dalle palle il Porcospino.

Hime, con il fischietto tra le labbra, osservava più i due darsi battaglia che il resto della partita, nonostante fosse l’arbitro. Forse era la presenza di Sana – anche se aveva notato che Kaede non aveva mai alzato lo sguardo verso gli spalti per vedere se fosse realmente lì –, forse semplicemente stava giocando contro il suo rivale numero uno, ma Kaede, in quel momento, era semplicemente il migliore in campo. Tuttavia, al time-out per il Ryonan, gli ricordò di giocare anche per la squadra, come aveva fatto negli ultimi tempi.

«Non tornare a fare il solito egoista, Ede».

Quello nascose il viso sotto l’asciugamano. «Zitta e arbitra, tu».

«Ehi, non osare dare ordini alla mia Hicchan!», esclamò Hanamichi, seguito a ruota da Nobunaga, che era sceso un attimo verso di loro. Inutile dire che, appena Araki si accorse di lui, andò su tutte le furie e ci mancò poco che i due iniziassero a battibeccare anche peggio del giorno in cui s’incontrarono in spiaggia per la prima volta.

Prima di scendere in campo, Hanamichi si avvicinò al suo nuovo amico. «Ehi, Chiro! Che ne dici se ci divertiamo un po’ anche noi?».

Il più scalmanato dei due Shimura sorrise apertamente. «Lo schema del Gorilla?».

«Ahaha! Tu sì che mi capisci al volo!».

Akagi, che aveva sentito forte e chiaro quel nomignolo, andò su tutte le furie, mentre Maki e Uozumi s’interrogavano su cosa fosse questo schema. Le loro domande ottennero una risposta più che soddisfacente subito dopo. Ryota passò a Eichiro, che si vide costretto a lasciare il possesso a Mitsui, libero alla sua destra. Si smarcò subito dopo e ottenne nuovamente il possesso di palla. Rukawa si fece avanti, seguito come un’ombra da Akira, ma le intenzioni di Eichiro erano ben diverse. Vide una testa rossa sfrecciare sotto canestro e subito lanciò la sfera arancione verso il ferro. Quando Hanamichi saltò per una schiacciata spettacolare era già troppo tardi per fermarlo.

Akagi fu costretto a sorridere. Quello sì che era un bello schema degno del suo soprannome!

«Ahaha! Bel passaggio, Chiro! Ehi, Gori! Siamo stati bravi?», esclamò Sakuragi, rivolgendogli il segno della vittoria.

«Ora non montarti la testa, deficiente!», rispose quello, scuotendo il capo divertito, nonostante tutto.

Fukuda, intanto, tentò un tiro sotto canestro, ma Hanamichi lo stoppò immediatamente, recuperando possesso e passando a Ryota. Durante quella partita non fu solo Kaede a dare il massimo; Hisashi Mitsui aveva un motivo altrettanto importante per farsi valere e mettere a segno quante più triple potesse. Almeno dieci, per la precisione. Mancavano due minuti alla fine della partita quando mise a segno la nona della partita e alzò un dito verso Kiyo, facendole capire che ne mancava ancora una affinché fosse lui a vincere la sfida. In risposta lei sbuffò, scocciata.

«Ma cosa vince se tu perdi?», le chiese nuovamente Sana, più curiosa che mai.

Kiyo poggiò il mento sul palmo della mano, senza togliere gli occhi dalla Guardia dello Shohoku. «Devo uscire con lui. Patetico, gli serve una scommessa per farlo. E non sorridere, disgraziata!». Sana si tappò le labbra con le mani, senza però riuscire a nascondere il suo divertimento. «Tu, piuttosto, dopo dovrai andare a consolare il tuo Sendoh, mi sa che sta perdendo la sua partita contro Rukawa».

«I-il mio Sendoh?!», esclamò l’amica, arrossendo. «Non credo si abbatta facilmente per una cosa del genere; voglio dire, l’ho visto giù di morale solo quando mi raccontò di aver perso le qualificazioni o qualcosa del genere».

L’intera palestra scoppiò in esclamazioni e applausi quando Kaede subì fallo mentre tirava dietro la linea dei tre e guadagnò un tiro libero. Tra l’altro aveva anche segnato.

«Ma che fico, mi ci ficco! Rukawa, sei un manzo!».

Sana e Kiyo si voltarono verso le tre invasate di pocanzi, sbarrando gli occhi. Erano veramente indecenti!

Come prevedibile l’instancabile Kaede segnò anche il libero, portando a undici il vantaggio sul Ryonan. Lo sguardo che lanciò ad Akira disse tutto: lui aveva vinto. Sanako rimase imbambolata a guardare l’ala piccola dello Shohoku, mentre ripensava alla discussione con il padre.

“Ru-Rukawa, hai detto?”.

“Sì, perché?”.

“C’è un mio coetaneo che si chiama così”.

“Oh, il piccolo Kaede, probabilmente”.

“Piccolo?!”.

“È il figlio di mio fratello”.

Per un attimo aveva creduto che fossero fratelli. Ma la scoperta che fossero solo cugini non l’aveva tranquillizzata minimamente. Insomma, conosceva quel ragazzo da poco tempo, sentiva di provare una certa curiosità per lui, così come aveva notato un certo interesse anche da parte sua – se di interesse si poteva parlare con uno come lui – ma non avrebbe mai pensato che sarebbe stato per colpa del loro sangue così simile. Eppure la scoperta, per quanto l’avesse lasciata senza parole, ripensandoci a mente fredda non era poi così eclatante: erano entrambi due persone che amavano la solitudine, anche se intimamente amavano i loro pochi amici; avevano i loro hobby che sfociavano nella loro stessa vita, il basket per uno e la musica per l’altra. L’unica differenza tra loro era il rapporto con Akira, uno lo detestava, l’altra gioiva al solo sentirlo nominare. Chissà se Kaede conosceva quel piccolo segreto o se anche lui ne era all’oscuro? Sapeva solo che non poteva tenersi quel grande peso, avrebbe dovuto parlargli prima possibile.

Ritornò con i piedi per terra quando sentì Kiyo borbottare e capì che aveva perso la scommessa quando vide Hisashi, in campo, che sorrideva vittorioso per aver infilato la sua decima tripla. La partita si chiuse pochi secondi dopo, con un canestro di Fukuda.

«Incontro finito, 96 a 84 per la squadra di casa, lo Shohoku!», esclamò Hime, dopo aver fischiato.

«Ehi, bella partita», disse Akira, complimentandosi con Hisashi e, poi, con Kaede, che rispose con un “Hn” e uno schiaffo alla mano che il giocatore del Ryonan gli porgeva. «Oh, Hime! Bell’arbitraggio, davvero! Ora però potresti darmi il bacino della consolazione?».

Kaede roteò gli occhi, infastidito, mentre Hime rideva e gli tirava il pallone in viso. Non si accorse che la ragazza gli era trotterellata alle spalle finché non si appese al suo braccio. «Che vuoi? Già fatto con quell’idiota?».

La rossa rimase per un attimo interdetta da quel tono… geloso? No, che diavolo andava a pensare! Nobunaga poteva capirlo, non lui! Oh, accidenti, accidentaccio ad Ayako!, esclamò mentalmente. «Scusami se volevo dirti che sei stato bravissimo, Orso».

«Hn… non c’è bisogno che me lo dica, lo sapevo già».

«Borioso del cavolo», borbottò Hime, mentre lui reprimeva un gemito divertito. Due secondi più tardi fu letteralmente investito da due furie, tali Hanamichi Sakuragi e Nobunaga Kiyota, che s’infuriarono non poco nel vederli a braccetto come se niente fosse. Per non parlare dell’altro Araki, che tra il suo compagno di squadra congelato, l’altro civettuolo di Sendoh e il presunto fidanzato che le ronzava intorno non sapeva più che diavolo inventarsi per conquistare la sua bella.

Kiyo e Sana scesero sul campo, accompagnate dall’Armata, che non impiegò troppo tempo per proseguire col baccano che stavano facendo da quando erano arrivati. Sana si congratulò con tutti i ragazzi dello Shohoku, Rukawa compreso che, tra tutto il casino di voci e grida che c’era dovette chinarsi per sentire ciò che la ragazza gli stava dicendo. Hime, che stava ridendo e scherzando con il fratello e Yoehi, intravide i due e riuscì a capire solo una frase dal labiale della sua nuova amica.

“Allora ci vediamo dopo che ti dai una rinfrescata, ti aspetto fuori!”.

«Ehi, Mitchi, non mi dire che quella bionda che si sta avvicinando è la stessa della sera scorsa?», stava chiedendo intanto Hanamichi, incuriosito.

Hisashi ghignò, incrociando le braccia al petto. «Non ti sbagli, per una buona volta. E ci devo anche uscire».

«Solo per una stupida scommessa, ricordatelo», ribatté Kiyo, non troppo convinta della cosa. «E vedi di non sbandierarlo in giro».

«Brucia la sconfitta, vero?», le chiese lui, chinandosi su di lei e parlandole all’orecchio. Sorrise quando avvertì un suo brivido. Allora era umana anche lei!

Kiyo chiuse gli occhi, respirando a fondo e cacciando dalla mente la risatina divertita di lui, che si stava allontanando verso gli spogliatoi per una bella doccia rinfrancante, seguito da Akira - che, nonostante la partita persa, non aveva scordato il suo proverbiale sorriso.

Maledetto stupido!

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

 

 

Buon salve a tutti! Non so quanto questo possa servire, ma devo doverose scuse a tutti voi che, pazientemente, state seguendo questo delirio. Ma ho avuto poco tempo libero e la testa troppo occupata dallo studio per concentrarmi e scrivere qualcosa di accettabile. Perdono per il mese e più che è trascorso dall’ultimo aggiornamento! ç_ç

Finalmente questa attesa amichevole con il Ryonan è giunta, e finalmente anche l’attesa rivincita di quella famosa amichevole di debutto di Hanamichi! Spero vi sia piaciuta. (; Scrivere con la OST di Slam Dunk (Sendoh vs. Rukawa in particolare) è sempre un’ispirazione sicura!

Passiamo ora ai commenti! *_*

Umbriel: ma ciao! Vedo che condividiamo la stessa passione per il Sensei! Che uomo, che uomo! *sbava senza ritegno alla Homer Simpson* A-ehm... dicevo? Ah, sì! Il Sensei *O* XD Son contenta che dopo tanto tempo abbia avuto la voglia di commentare questa Cosa, è sempre un piacere leggere nuove sostenitrici! *-* Hime ricambia i complimenti strapazzandoti di abbracci e bacini (sai, quelli suoi famosi che ti lasciano con qualche costola rotta, ecco! Ahhh, dove prenda tutte quelle forze ancora non lo so!) Grazie mille per tutti i complimenti, non so se li merito davvero, ma intanto mi godo il momento di gloria, alla Hanamichi! :D In questo capitolo si scopre un po’ di più del padre di Sana, presto nuovi aggiornamenti! :) Grazie ancora! A presto! ;)

Liricchan: come ti capisco, carissima! Quest’università ci distrugge! O era giungla? Vabbè, dettagli trascurabili! Prima di tutto ti ringrazio ancora una volta per tutto ciò che mi scrivi, come già detto non so se meritarmi tutti questi complimenti, ma sapere che il mio lavoro e l’amore per i personaggi tutti di Slam Dunk è ripagato è veramente un piacere incredibile! “Ciò che amo del tuo stile è l'ironia costante che trasmetti al lettore, il che è SUL SERIO una delizia per gli occhi, anche perchè riesci ad equilibrare la comicità con un contesto che non sempre è comico, anzi”, cioè... grazie, grazie sul serio! *O* E come hai potuto vedere hai detto benissimo: il padre di Sana è lo zio di Kaede! :D E ora? Uh uh uh XD Kiyo e Mitchi sono una gioia per la mia mente malata, adoro farli battibeccare! Spero ti sia piaciuta la storiella della scommessa... alla fine Hisashi è riuscito a strapparle un appuntamento. :D E lol, quando ho letto cosa hai scritto di Haruko son rotolata dalla sedia! Grandissima XD Ancora mi domando a cosa serva quella ragazza, se non a far diventare un cagnolino Hanamichi, mah! Grazie, grazie mille carissima! A presto! :*

 

Grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto questo delirio tra preferiti, seguite e ricordate! Siete tanti! *O* *vi abbraccia tutti*

Un abbraccio enorme, e ancora grazie!

Marta.

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** 10. Tante, forse troppe novità. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 10

Tante, forse troppe novità.

 

 

La signora Mitsui si sentì decisamente meglio appena appoggiò i piedi per terra. Sapeva che il figlio era sempre molto prudente in moto, soprattutto quando accompagnava qualcuno con sé, ma quella bambolina – come la chiamava lui amorevolmente – proprio non le piaceva; solo il rombo del motore la metteva in soggezione, per non parlare del fatto che lei, così piccola in confronto al figlio, figurarsi alla motocicletta, doveva stringersi forte forte alla schiena del ragazzo, per non perdere l’equilibrio. Si tolse il casco, così grande per una donnina minuta come lei, e sospirò sollevata.

«Non vedo l’ora che ti prenda la patente, mi sento più sicura in una macchina piuttosto che su quell’affare», disse lei, mentre Hisashi girava la chiave per spegnere il motore.

«Prima di prendermi la patente abbiamo altre spese da affrontare, . La moto andrà benissimo per qualche altro anno». Corrugò la fronte appena sentì il rumore di una sega elettrica al lavoro.

«Sembra provenire dalla casa di Akira», disse la donna, stringendosi nel suo cappotto e osservando la graziosa abitazione tradizionale della famiglia Sendoh. Faceva un fresco piacevole, quel pomeriggio e il cielo non era dei migliori; nuvole scure e poco promettenti arrivavano dal mare e probabilmente avrebbe piovuto tra qualche ora.

«Sì, gli staranno tagliando la testa. Non sarebbe male, no?».

«Hisashi!».

Lui sorrise, precedendo la madre per aprirle il cancelletto che portava al piccolo viale d’ingresso della casa. La signora Sendoh li accolse gioviale, riservando un abbraccio per entrambi. «Prego, entrate! Gli uomini di casa si stanno dando alla falegnameria, c’è un caos in giardino! Spero non vi dispiaccia».

«Figurati, Rinako, non è un problema. Se disturbiamo, però, passeremo un’altra volta», disse Tamaki Mitsui, togliendosi le scarpe all’ingresso.

«Ma no, ma no. Non disturbate mai, cari! Ho preparato i dorayaki*, questa mattina, accomodatevi anche in giardino, così potremo chiacchierare insieme, io porto i dolcetti!».

Hisashi salutò il signor Sendoh, che si levò gli spessi guanti da lavoro per stringergli la mano. Era un architetto affermato e competente, alla mano e sempre sorridente proprio come il figlio. Per Akira il padre, Goro Sendoh, era l’esempio di uomo che avrebbe voluto diventare un giorno; d’altronde non era un caso se aveva deciso da tempo che carriera intraprendere all’università, la stessa del padre. Diceva sempre che l’idea di progettare qualsiasi cosa, da un infisso a un edificio, lo elettrizzava e lo terrorizzava al contempo, ma doveva essere una sensazione incredibile poter vedere, poi, le sue idee diventare realtà.

«Ehi, perdente!», salutò il suo amico Hisashi, ficcandosi le mani nelle tasche dei jeans e osservando il piccolo cantiere che avevano messo su. «Che combinate?».

Akira sollevò gli occhiali protettivi sulla fronte, sorridendo. «Abbiamo deciso di allargare la casa con una piccola ala per gli ospiti», gli spiegò l’aspirante architetto, indicando lo scheletro portante di legno che sbucava dietro il grande salice. «L’ingresso sarà proprio lì, da quella parte del giardino; ci saranno due piccole camere da letto, una stanza comune e un bagno».

Hisashi si grattò la fronte, perplesso. «Ma casa vostra non ha già delle camere per gli ospiti?».

Il signor Sendoh annuì. «Sì che le ha. Ma ci stiamo rendendo conto che non bastano per le nostre… esigenze, ecco».

La guardia dello Shohoku non capì l’occhiata che si scambiarono padre e figlio, ma non domandò altro. «Avete bisogno di una mano?».

«Sarebbe una buona cosa, sì!», ridacchiò Goro. «Ho giustappunto in mente un lavoretto che potresti fare».

E mentre le donne chiacchieravano tranquillamente su qualsiasi cosa venisse in mente loro, Hisashi si ritrovò a tagliare delle tavole, seguendo le misure che il signor Sendoh aveva annotato su un foglio, spiegandogli che erano le assi per i tramezzi.

«Allora, che mi dici di quella ragazza… come si chiama? Kiyoko?».

«Kobayashi per te, maniaco».

Akira scoppiò a ridere, alzando le braccia al cielo. «Tranquillo, non è il mio tipo!».

«E anche se lo fosse…», Hisashi lasciò la frase in sospeso, ma la conclusione era ovvia. Quello era il suo terreno e neanche il suo miglior amico avrebbe potuto calpestarlo.

«Certo che potevi trovare un’altra scusa per chiederle di uscire», commentò il Porcospino, consulente dell’ammmore, come lo chiamava Hime.

«Vorrei vedere te, con una come lei!», esclamò Hisashi. «Dire che devi dosare le parole è poco».

Akira ci pensò sopra qualche secondo. «Vediamo un po’ di analizzare la situazione… o questa ragazza ti piace sul serio o è diventata una questione personale in cui devi vincere per non ferire il tuo smisurato orgoglio, per cui…».

«Oh, no, ti prego, tutto ma non psicanalizzarmi, Freud!».

Goro Sendoh tirò un buffetto al figlio. «Suvvia, Akira, non stressarmi Hisashi!».

«Ecco, ascolta le sagge parole di tuo padre e non rompermi le scatole».

«Io non stresso nessuno, papà», si difese il ragazzone del Ryonan, con un sorrisino furbetto. «È lui che si presta, anche senza il lettino dello psicanalista».

Gli altri due scossero il capo mestamente.

«Comunque, dov'è che la porti? Hai già deciso?».

Hisashi si strinse nelle spalle. «Forse. Ma non sono ancora sicuro».

«Come siamo misteriosi!».

«Non spiffero le mie tecniche di seduzione a te, deficiente».

Akira scoppiò a ridere. «Tanto prima o poi mi dovrai raccontare se ti ha piantato a metà serata o se è arrivata fino alla fine».

«Stai pur certo che ci arriverà, e anche soddisfatta», ghignò quello, ben consapevole delle sue capacità.

Poco dopo cambiarono discorso - vuoi perché Akira aveva iniziato a canticchiare qualcosa sul prossimo scaricamento dell'amico, vuoi perché Goro temette che Hisashi usasse la sega elettrica per troncargli il collo - e chiacchierarono per un po' della partita del giorno prima, dei nuovi e dei vecchi giocatori e del vicino inizio di Campionato.

«È stato un match interessante», disse Akira. «Le vostre nuove reclute sono in gamba, i gemelli in particolare. Complimenti!».

«Sì, son bravi» Hisashi lo guardò storto, non capendo bene il perché di quel sorrisino sornione che si era stampato in viso. «Che hai da ghignare ora?».

Akira scosse il capo, misterioso. «Vedrai, vedrai. Ci sarà da divertirsi».

«Quando hai detto che inizia il torneo?», chiese Goro al figlio, interrompendo quella loro strana discussione.

«Il primo dicembre», rispose quello. «Son curioso di conoscere il tabellone, ancora non è uscito. Tu ne sai qualcosa?».

Hisashi fece spallucce. «No, altrimenti avrei sentito Ayako sbraitare gli incontri e appendere striscioni per tutta la palestra come fa sempre».

«Quella ragazza è matta!», rise Akira.

«Perché non sai cosa tutto non faccia con l’altra esagitata di Hime! Due manager più schizzate non potevano capitarci».

«Beh, sempre meglio di niente!», gli strizzò un occhio l’altro, schivando un pezzo di legno che altrimenti lo avrebbe centrato in fronte. «Ohi, assassino!».

«Magari lo fossi davvero, ti avrei già fatto fuori».

Goro scoppiò a ridere. Adorava ascoltarli mentre litigavano - o facevano finta di farlo. Non poteva immaginare due amici più diversi di loro… forse perché non conosceva Hanamichi e Kaede, ecco.

«Comunque spero per voi di non incontrarci subito… mi dispiacerebbe vedervi fuori dal primo turno».

Hisashi alzò un sopracciglio. «Amico, vedi di svegliarti e torna sulla terra. Incontrarci all’inizio potrebbe essere una bella cosa, per voi e per tutti gli altri: vi levereste subito il dente e tornereste a casa senza ulteriore stress».

«Sembri convinto… bene!», sorrise Akira. «È decisamente più divertente giocare contro un avversario motivato, piuttosto che con uno che sa già di perdere».

«Allora tu e la tua squadra farete bene ad allenarvi il triplo, perché non abbiamo alcuna intenzione di andarcene, se non dopo aver vinto la finale».

 

*

 

«Sanako, c'è un ragazzo al tavolino nell'angolo che ha una brutta faccia, vuoi che lo serva io?».

La barista fece capolino da sotto il bancone, dove era chinata a raccogliere il contenuto del cestino, su cui aveva sbattuto contro poco prima, e osservò il brutto ceffo che le aveva indicato il signor Watanabe. «Oh, non si preoccupi, lo conosco, ci penso io!». Si rinfrescò velocemente le mani e, asciugandosele contro il grembiule bianco, si avvicinò. «Ciao! Sei venuto, quindi».

Kaede, che aveva la testa ciondolante sul dorso della mano, accennò solo un gesto perplesso - mosse unicamente un sopracciglio, come se gli costasse chissà quale sforzo disumano muoversi di mezzo millimetro. «Mantengo la mia parola, Tsukiyama».

Lei sorrise, grattandosi la tempia con la penna che aveva tolto fuori per l'ordinazione. «Cosa posso offrirti?».

«Una coca, grazie».

Sana tornò due minuti dopo, con un bicchiere di succo di frutta all'ananas per lei, oltre alla bevanda per lui. Kaede bevve qualche sorso, attendendo che quella iniziasse a parlare, ma gli parve che non ne avesse la minima intenzione. Che diavolo, si era anche scomodato dal suo invitante antro sul divano perché lei gli aveva chiesto gentilmente di parlargli di qualcosa di così importante e lei neanche accennava a iniziare. Che poi, che diavolo aveva da dirgli? Se quella era l'ennesima trovata di una ragazzina in delirio che gli avrebbe confessato tutto il suo amore da lì ai successivi cinque minuti era più che deciso a farla fuori, unicamente per il disturbo. Era carina, sì, e diversa dalle altre balde donzelle che circolavano per quel liceo di teppisti - addirittura non lo conosceva, fino a qualche settimana prima! - ma non aveva intenzione alcuna di preoccuparsi di fare il fidanzato. Lui non era portato per certe cose, senza contare il fatto che il suo cuore l'aveva già rubato il basket e non c'era posto per nessun'altro. O forse sì, forse un posticino piccolo c'era. O anche un po' più di piccolo, ecco. Ma non gliel'avrebbe mai detto, a quella svitata, neanche dopo tutti quegli anni, altrimenti l'avrebbe persa definitivamente, ed era l'ultima cosa che voleva: Hime Sakuragi in brodo di giuggiole non era mai un bello spettacolo.

Sana abbassò lo sguardo sul suo bicchiere, quasi del tutto vuoto. Aveva già prosciugato quel bicchierone? Doveva darsi una calmata, accidenti! «Dunque, tu... ecco, tu non sai perché ho voluto parlarti faccia a faccia, vero?».

«Dovrei?».

«Non so... insomma, vorrei chiederti una cosa, tra tante... ecco... com'è tuo padre?».

Kaede fu preso in contropiede. Non si aspettava certo una domanda come quella! «Pazzo». Notò l'espressione perplessa di lei e sospirò. «Una brava persona».

La barista giochicchiò con il bicchiere, non del tutto soddisfatta. Non che si aspettasse una biografia completa e dettagliata su vita e miracoli del signor Rukawa, ma almeno una parolina in più, accidenti... così le rendeva la cosa anche più imbarazzante di quanto già non fosse. «Beh, tutto qui?».

Il Volpino si poggiò contro lo schienale, scrutandola in silenzio. Che razza di domande gli faceva? Voleva sapere com'era un padre, dato che lei non ne aveva mai avuto uno? Perché non voleva essere impreparata quando quell'uomo che aveva abbandonato sia lei che la madre sarebbe tornato a casa? O c'era dell'altro? Proprio non capiva.

Sana prese un bel respiro, decidendo di smuovere un po' la discussione - se di discussione si poteva parlare, visti i proverbiali monosillabi di lui. «Dovrei darti delle spiegazioni, quindi... vediamo se riesco a mettere in ordine le cose».

«Sarebbe il caso, sì», disse Kaede, incrociando le braccia e osservando lo zio di Sendoh che rideva come una Iena, proprio come il nipote.

«Ecco, ricordi che ti avevo parlato di mio padre, no? Beh, l'altro pomeriggio abbiamo trascorso un'oretta insieme e, cavolo, devo dire che dopo un po' di timidezza è stato come parlare con un vecchio amico. Ma non è questo che voglio dirti». Ridacchiò nervosamente appena Kaede sollevò un sopracciglio, attendendo impaziente che arrivasse al punto. «Dunque, il fatto è che ho scoperto come si chiama, il che è assurdo che non conoscessi il suo nome fino a pochi giorni fa».

«E che c'entro io?».

La barista si mordicchiò il labbro. «Si chiama Kiichi...».

Lui corrugò impercettibilmente la fronte. Che devo dirle? Complimenti per il bel nome?!

«Kiichi Rukawa. È il fratello di tuo padre... per quello ti ho chiesto com'era lui, per sapere se ci sono somiglianze o no. Ti ho sconvolto?».

Direi di sì. «Hn». Kaede si passò una mano tra la frangetta nera, socchiudendo gli occhi e pensando a quella nuova scoperta. Ricordava che suo padre gli avesse raccontato, un giorno, di avere un fratello, ma non gli aveva mai detto cosa facesse nella vita o che fine avesse fatto. Kaede era cresciuto senza conoscerlo e aveva vissuto tranquillamente senza ulteriori domande; non gli importava poi molto di un parente che, se non era ancora morto, neanche passava a trovare suo nipote. Tornò a guardare il signor Watanabe e per un momento pensò a quell'idiota di Sendoh: lo aveva visto poche volte in compagnia di suo zio, ma ogni volta sembrava che fosse con suo padre. Chissà se anche suo zio era un uomo socievole e simpatico come il suo chihi**?

«...Rukawa? Mi hai sentita?», disse Sana, chinandosi per osservarlo meglio e attirare la sua attenzione. «Ho detto che, se due più due fa quattro, allora siamo cugini».

«Ma no?». Kaede si morsicò la lingua per la risposta eccessivamente sarcastica, ma lei non sembrò prendersela. Anzi, rise. «E ora che hai?».

«Niente, niente», agitò le mani, con un sorriso delizioso sulle labbra. Finalmente qualcosa di sincero! «È che ti ho dato una notizia che chiunque avrebbe preso con stupore, ma tu non hai fatto una piega!».

«E che devo fare?».

Sanako scoppiò a ridere ancora una volta e lui pensò seriamente che quella ragazzina dovesse avere qualche rotella fuori posto.

«Non sei stranito? Voglio dire, siamo parenti!».

Aspetta, eh, ora mi concentro e faccio l'espressione stupita. «Com’è piccolo il mondo».

«Sì, lo è davvero», annuì lei. «Comunque son contenta di avere un cugino come te. Voglio dire, chi l'avrebbe mai detto? Il ragazzo della terrazza è mio cugino! È eccitante, non trovi?».

Kaede si strinse nelle spalle. «È strano, più che altro». Un po' come te. Voltò lo sguardo distrattamente, appena si accorse di tre persone che fecero il loro colossale ingresso al bar. Vide prima la testa rossa di Hanamichi che sbraitava qualcosa alla volta di Yoehi Mito, l'unico ragazzo dell'Armata che potesse ritenersi normale - almeno, nella norma, ecco - e poi lei, che richiuse la porta, mentre rideva come un'esaltata.

«Quando si è messo a strillare come un pescivendolo che la sua lezione non era l'ora dello spuntino ho temuto gli scoppiasse qualche vena», stava dicendo Yoehi.

«Ohi, io stavo morendo dalla fame!», si difese subito Hanamichi. «L'hai sentito anche tu il mio stomaco brontolare, no?».

«Hana, credo che l'abbia sentito tutta la classe», disse ridendo Hime, dandogli un bacino. Fu l'esclamazione del fratello a farla saltare dallo spavento.

«E tu che cosa ci fai qui?!», gridò infatti il rossino, indicando Kaede. «E in compagnia di Nacchan, tra l'altro!».

Hime rimase inebetita davanti a quella vista. Kaede insieme a una ragazza che non fosse lei o Ayako? Per di più soli? Dunque non si sbagliava quando pensava che fosse interessato a Sana... ed era ricambiato, per giunta. Indi per cui Ayako aveva totalmente cannato le sue supposizioni. Oh, insomma! Dovresti essere felice per loro, stupida! «Ede, Sana! Che sorpresa!».

«Vi ricordo che lei ci lavora, qui», fece saggiamente notare Mito, afferrando per il polso Hanamichi, già partito in quarta con l'intenzione di sedersi con loro e non schiodarsi più finché non avesse scoperto di che parlavano. «Mi sembra di capire che vogliano rimanere soli, no?».

«Soli?! Io non la lascio Nacchan in balia di un Volpino surgelato!», esclamò Hanamichi, mentre Kaede lanciava un l'ennesimo vaffa nell'aria.

«Ma no, tranquilli! Potete unirvi a noi, nessun problema!», fece Sana, sorridendo ed alzandosi per prendere le ordinazioni.

Kaede lanciò un'occhiata all'amica, che si era stranamente ammutolita. Ultimamente, aveva notato, si stava comportando in modo bizzarro. Evidentemente era l'influenza della Scimmia che frequentava a guastarla - non bastava, infatti, suo fratello! Ma non poteva negare, almeno a sé stesso, che quei suoi strani modi lo insospettivano e lo preoccupavano.

Hime gli sorrise, sedendosi accanto a lui. «Allora, abbiamo interrotto qualcosa?», gli chiese, con tono malizioso ma, se ne accorse anche lei, non troppo convinto.

«Un'interessantissima discussione sulla dicotomia tra bene e male».

Dopo qualche secondo di silenzio, le due ragazze scoppiarono a ridere; Hanamichi, più che altro, sembrò perplesso. «Dì un po', Kit, ultimamente stai leggendo il dizionario per imparare una nuova parola al giorno?».

«Do'aho, si chiama "cultura". Cercalo sul dizionario».

Sana sorrise al battibecco dei due e riuscì a prendere le ordinazioni solo dopo che ebbero finito di scannarsi - nel frattempo aveva intavolato una piacevole discussione con Mito sulla musica, dicendole che le avrebbe prestato dei dischi che le sarebbero piaciuti - poco importava se questi dischi erano di Kiyota, che li aveva prestati al suo amico... al massimo avrebbe assistito all'ennesimo delirio tra scimmie, ormai ci stava facendo l'abitudine.

«Ehi, Hicchan, tutto bene?», chiese preoccupato Hanamichi, vedendola con lo sguardo perso in chissà cosa.

No, non va bene per niente, Hana, ma mica posso dirtelo ora. «Certo, perché? Stavo pensando che stanotte potremmo chiedere a Nobu e Arimi di venire a cena, che dici?».

Bugiarda, pensò Kaede, osservando i tre parlottare sull'eventualità. La conosceva troppo bene per capire quando mentiva o meno. E Hime, per quanto brava fosse, quella volta non era riuscita nella recitazione.

«A proposito della Scimmia, dov'è finito?».

Hime poggiò il viso sul dorso delle mani. «Agli allenamenti».

«Certo che potevi trovartelo più vicino, il ragazzo, Hime», disse Yoehi. «Vi vedete poco e niente tra gli impegni tuoi e suoi».

Lei fece una smorfia, rattristandosi. «Non girare il coltello nella piaga, disgraziato!».

«Ecco, perché non lo molli? Così non mi ritrovo la casa infestata di pulci!».

«Tu non devi parlare, ho visto come ti guarda Arimi e come guardi lei!».

Hanamichi cadde dalle nuvole, e fece anche un bel capitombolo, data l'espressione completamente rincretinita. «E come ci guardiamo?!».

Yoehi scosse il capo mestamente. «Amico mio, tu sei troppo addormentato per certe cose».

«O troppo preso a pensare ad altro per accorgersene», commentò Hime, chiaramente riferita alla Babbuina, come chiamava lei la Akagi.

Hanamichi, rosso come i suoi capelli, s'inalberò subito. «Qualcuno mi spiega perché ora stiamo parlando di come ci guardiamo io e Ari-chan, quando prima stavamo parlando di Hicchan e la Nobu-scimmia?!».

«Argomento esaltante», frecciò Kaede, sbuffando. Ricambiò l'occhiata di Hime, ma non riuscì a decifrarla. Accidenti a lei, che diavolo le stava prendendo? Era e rimaneva sempre il solito narcolettico Rukawa che non vedeva altro davanti al suo naso se non il cuscino e il canestro, non poteva capirla sempre al volo, eccheccavolo!

Sanako tornò con le loro ordinazioni e Hanamichi le chiese di rimanere con loro per due chiacchiere in compagnia.

«Piaciuta la partita?», chiese Hime, bevendo il suo beneamato the verde.

«Oh sì, all'inizio non capivo tanto, ma Yoehi è stato così gentile da farmi il corso accelerato di basket», rispose la barista, sorridendo imbarazzata alla volta del ragazzo.

«È un'ottima allieva», disse lui, scherzoso. «Fa anche domande intelligenti!».

«Ohi!», esclamò Sana, tirandogli una lieve spinta che lo fece ridere.

«Magari, se ti capitasse di venire agli allenamenti, potrei insegnarti qualche tiro», disse pensieroso Hanamichi, accarezzandosi il mento con fare distratto. «Yoehi saprà anche la teoria, ma in quanto a pratica sono un genio! Ahaha!».

Il diretto interessato alzò gli occhi al cielo, tra le risate delle due ragazze e il "Che esaltato" di Rukawa. Era inutile, se il rossino non riusciva a proclamare la sua genialità almeno una ventina di volte al giorno stava male, era l'unica spiegazione plausibile. Un po' come quando Takamiya non faceva la scorta di schifezze e porcherie varie a tutte le ore, piagnucolando che sarebbe morto di fame se non avesse mangiato quello squisito panino stra-imbottito.

«Non saprei se nella pratica sarei così brillante come nella teoria, Hana-kun!», disse la ragazza, scostandosi la frangetta dagli occhi. «Sono parecchio negata negli sport».

«Anche lui», disse subito Kaede, indicando con un cenno del capo il suo miglior nemico che, giustamente, iniziò a fumare come una pentola a pressione.

Rimasero al bar per un'altra mezzora buona, tra le sole chiacchiere di Hanamichi, Yoehi e Sana, e lo strano mutismo dei due migliori amici - o meglio, di Hime, dato che non era una novità per Kaede non spiccicar verbo. Per non parlare delle strane occhiate che, si accorse Sana, quei due si stavano lanciando. Non seppe dire se fossero di irritazione o di due ragazzi troppo timidi per dire o fare qualcosa; se non avesse saputo che Hime era fidanzata con quel Kiyota, avrebbe detto che fosse segretamente innamorata di Kaede. Che i due avessero litigato? No, non era possibile... poco prima la ragazza sembrava tranquilla, e anche lui; o almeno così le era parso. Allora cosa poteva essere accaduto? Non che fossero fatti suoi, lo sapeva bene, ma quei due l'avevano sempre incuriosita dal primo momento che li aveva visti insieme.

«Ehi, Nacchan, dì un po': ho visto che eri insieme alla bionda che deve uscire con Mitchi, ieri», disse Hanamichi, avido d'informazioni. «Che mi sai dire?».

«Hanamichi, sembri una pettegola.», lo ammonì Yoehi, sorridendo.

«Che c'è? Devo sapere tutto se voglio vendicarmi delle volte che mi ha sfottuto, quel maledetto!», esclamò il rossino. «Pensa tu se lo scaricasse! Ahaha!».

«Devo ricordarti il tuo mirabile record?».

Hanamichi s'avvolse delle fiamme dell'inferno e il suo amico rischiò seriamente di essere colpito da una delle sue micidiali testate che gli avrebbero fatto passare tutta la voglia di prenderlo per i fondelli; fortuna sua che Sana s'intromise provvidenzialmente tra i due, ridacchiando nervosamente e temendo di dover ripulire il pavimento dal sangue - cosa che avrebbe fatto fare a qualcun altro, data la sua tremenda fobia.

Il gruppo di amici levò le tende poco dopo e, insieme, presero la via di casa.

«Ehi Kit, ci degnerai della tua presenza, stanotte?», chiese Hanamichi, guardando sbiecamente il suo compagno di squadra.

«E stare con te e l'altro buffone? Scordatelo».

«Bene, perfetto!», sbraitò il rossino, offeso. «Perfetto!».

«Do'aho, guarda che ho sentito».

Hime sbuffò, stringendosi nella giacca a vento dallo strambo colore verde acceso, che faceva risaltare tantissimo i suoi capelli rossi come il fuoco. Forse era meglio così, che Kaede se ne stesse a casa sua, per quella sera. Voleva pensare solo a Nobunaga e non dover rischiare di perdersi in pensieri che non la riguardavano. Sì, forse era meglio così.

«Ehi, Rossa, non me la racconti giusta», le disse Yoehi, avvicinandosi, mentre alle loro spalle scoppiava l'Inferno. «Ti vedo strana da un po' di tempo a questa parte».

Lei alzò gli occhi al cielo, che ormai stava scurendo, e sbuffò ancora. «Non lo so, Yoehi, non lo so davvero. Non sono fatta per pensare».

«Oh, questo lo sapevo da tempo!». Schivò all'ultimo momento un calcio che l'avrebbe preso sul suo bel fondoschiena e ridacchiò. «Fammi tirare ad indovinare».

«Non mi pare di avertelo chiesto!», protestò lei, ben conscia che quel ragazzo avrebbe azzeccato cosa le passava per la mente.

«Tu sei gelosa di Rukawa», sussurrò lui, per non farsi sentire dagli altri due, che comunque non davano segni d'interesse, troppo occupati a battibeccare come vecchie bisbetiche.

Se avesse avuto la possibilità di specchiarsi, Hime avrebbe potuto notare tutte le tonalità dal rosso al viola che colorarono il suo viso. Accidenti, accidenti! «Io? Gelosa di lui?! Ah! Ma non farmi ridere!».

«Neghi l'evidenza?» Yoehi sorrise quando la vide voltare lo sguardo. «Avanti, Hime, non prendiamoci in giro».

«Non sono gelosa», disse lei, stringendo le labbra. «Voglio dire... ho solo paura che si allontani troppo. Ho paura che... che mi rimpiazzi, che trovi una ragazza più importante di me e che si dimentichi di me, di noi».

«Quindi sei gelosa!».

Hime lo spintonò via, le guance che le andavano letteralmente in fiamme. Era veramente gelosa e si sentiva un'egoista, una stupidissima egoista. Come poteva solo sperare che Kaede non trovasse una ragazza che avrebbe riempito il suo cuore, prima o poi? Come poteva sperare che potesse rimanere sempre lei l'unica nella sua vita? Cos'era lei se non solo un'amica? «Un'amica dovrebbe essere felice per lui, che razza di persona sono?», mormorò, sentendo gli occhi pizzicarle. «Oh, quanto sono stupida!».

Yoehi le circondò le spalle con un braccio, stringendosela contro. «Non sei stupida. Tu... gli vuoi bene, è normale». Cambiò totalmente rotta all'ultimo momento, Yoehi. Stava per dire qualcosa di estremamente sbagliato e Hime era già abbastanza confusa di suo per rischiare di darle il colpo di grazia. Aveva visto nascere e crescere la loro amicizia, sapeva bene quale tipo di legame unisse i due, e sapeva riconoscere i comportamenti di due amici... e quelli di due che si amavano. Quando aveva saputo che Hime aveva iniziato a frequentare Kiyota era rimasto parecchio perplesso, ma non aveva osato ribattere; tutto sommato era ben felice che la sua amica avesse trovato qualcuno che sembrasse fare per lei, soprattutto uno che non parlava a monosillabi e che avrebbe potuto dimostrarle dell'affetto senza che si vergognasse di farlo davanti al mondo. Ma conosceva la ragazza e conosceva anche Kaede per sapere che presto o tardi le cose sarebbero cambiate. «Su, tranquilla.», le disse, sorridendo. «E poi, se vuoi saperla tutta, Sanako non mi è sembrata molto interessata a lui».

Lei si asciugò le lacrime, ridendo poi per il suo comportamento. «Dici?». Al cenno affermativo dell'amico lei fece una smorfia divertita. «Sei un bugiardo. Ma ti ringrazio».

Yoehi le diede un leggero bacio tra i capelli e pensò che Sana non fosse veramente interessata a Kaede. Durante la partita non aveva tolto gli occhi di dosso a Sendoh, tra una chiacchiera e l'altra, cosa che, per altro, gli aveva dato parecchio fastidio.

Kaede li lasciò all'incrocio successivo e Hanamichi gli lanciò tanti di quegli improperi che li sentì finché non tornò a casa sua. Il Volpino, nonostante tutto, sarebbe rimasto a cena dai gemelli, ma aveva ricevuto troppe novità quel giorno per rilassarsi con le idiozie di quelle due scimmie; non che la scoperta di avere una cugina, per di più quella Sanako, lo avesse steso, ma era pur sempre una sorpresa per lui. Per non parlare di quella scema di Hime, che non faceva altro se non preoccuparlo ancora di più. Aveva altro a cui pensare, il Campionato Invernale prima di tutto, non poteva permettersi distrazioni di alcun genere; eppure non riusciva a smettere di vedere quegli occhi castani che lo osservavano  tristemente... forse feriti?

Si richiuse la porta alle spalle, togliendosi le scarpe e buttando il giubbotto sulla prima poltrona disponibile. Il padre era ancora in ospedale per il suo turno e avrebbe passato l'ennesima serata in solitudine. Sbuffò quando aprì il frigorifero e notò che c'era ben poco da mangiare. Non aveva assolutamente voglia di andare a fare la spesa come una casalinga. Richiuse l'elettrodomestico con un colpo secco e decise bene di coricarsi sul divano, davanti alla tv, sperando di trovare qualche partita interessante. Chissà cosa stavano facendo quelli lì senza di lui?

 

*

 

«Ehi, Scimmia Rossa! Giù le mani da mia sorella, pedofilo!».

«Cosa dovrei dire io, maledetto?!».

«Io non ho un anno più di Hicchan!».

«E che diavolo c'entra? E poi Ari-chan è ben felice di farsi truccare da me!».

«Ben felice? Ma se sembra un panda!».

«Ah beh, parla quello che sa truccarsi, travestito!».

«Ho perso una maledettissima scommessa, idiota!».

Arimi e Hime si guardarono mestamente, non sapendo bene se ridere per come si stavano conciando o preoccuparsi per l'incolumità dei loro fratelli. La geniale idea era nata dalla mente contorta di Yoehi, che zitto zitto, se ne stava in un angolo a ridere come un deficiente; avevano iniziato a parlare di Halloween, che sarebbe stato il giorno dopo, ed era partita la sfida della maschera migliore tra i due deficienti di turno.

 

No, forse Kaede non si stava perdendo niente. Decisamente.

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

*dorayaki, è un dolce formato da due pankake simili al nostro pan di spagna (kasutera) e riempito con l'anko, una salsa di fagioli di azuki.

**chihi, in giapponese "padre", quando ci si riferisce al proprio parente.

 

E dopo neanche troppo tempo di attesa ecco il nuovo capitolo! Ho messo un altro po' di carne al fuoco, le cose iniziano a delinearsi meglio... spero di non aver deluso nessuna delle vostre aspettative. :)

Sono reduce da una settimana distruttiva passata a stare dietro ad una comitiva di tedeschi con altri colleghi e non ho la testa per rispondere con dettaglio a tutte come faccio sempre. Risponderò a grandi linee alle domande più interessanti ;) Prima di tutto voglio ringraziarvi per i vostri splendidi commenti - Umbriel, The White Lotus23 e Liricchan -, è sempre una gioia sapere che vi diverto e soprattutto che i personaggi siano IC! *O*

Per la possibilità di vedere Sana e Kaede insieme è vero, legalmente è possibile, e li vedrei anche come coppia... Insomma, lei è veramente un'imbranata mentre lui è impeccabile in tutto! Lo scopriremo vivendo, però; ho un piano da quando ho iniziato a scrivere Wild Boys e credo che continuerò a seguirlo! Anche perché ho in programma di scrivere anche l'ultimo capitolo di questa "saga", quindi le sorprese non finiranno qui. ;)

Comunque adoro il basket e scrivere alcuni passaggi delle partite o degli allenamenti è veramente divertente, per niente noioso: l'unico problema è che il basket è uno sport entusiasmante da vedere e ho sempre paura di non rendergli giustizia con le parole, quindi cerco di non esagerare troppo. :D

Perdono ancora se non ho risposto a tutte, ma son veramente troppo stanca. Dal prossimo capitolo torno carica come prima! *O*

Grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto questo delirio tra preferiti, seguite e ricordate! Vi adoro!

Un abbraccio enorme!

Marta.

 

PS: ho aperto un account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. J

 

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Capitolo 12
*** 11. Non svegliare il can che dorme. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 11

Non svegliare il can che dorme.

 

 

«Non dovresti strapazzarti così, finirai per stancarti!».

Kiyo sbuffò, alzando gli occhi al cielo limpido. Era la decima volta che Sana le ripeteva che i suoi allenamenti supplementari, in vista delle qualificazioni del giorno dopo, non avrebbero fatto altro che non giovarla, ma non ne voleva sentir parlare. Doveva dare il massimo, doveva sudare e allenarsi duramente per raggiungere i suoi scopi, così da potersi voltare indietro, un giorno, e complimentarsi con se stessa per la sua caparbietà. Non voleva piangersi addosso. «Mi pare che il ragazzo qui presente si alleni oltre il dovuto, eppure guarda dove è arrivato».

Kaede aprì un occhio, solleticato da quella discussione. Era ovvio che Sanako - sua cugina! - non avesse idea di cosa significasse amare uno sport e dare tutta l'anima e il corpo per migliorarsi e fare il massimo; lui, invece, capiva bene le parole della finta bionda e non poteva che darle ragione. Se avesse mollato proprio in quel momento non sarebbe andata avanti mai più.

«Sì, lo vedo! E infatti è perennemente stanco, guardalo! Neanche riesce a tenere gli occhi aperti!», replicò Sana, incrociando le braccia, imbronciata.

«È così da quando è nato, o almeno i Sakuragi dicono così», fece una voce maschile, sorniona. «Hanamichi dice che è nato sbadigliando».

«Il Do'aho dice tante stronzate, Mitsui», sbuffò il Volpino, tornando a sonnecchiare.

Kiyo si morsicò un labbro nel vedere la Guardia dello Shohoku che si avvicinava con le mani in tasca verso di lei, con un sorrisino di scherno che avrebbe tanto voluto cancellargli a suon di schiaffi.

«Buongiorno, signorine», disse lui, sedendosi accanto alla ragazza, facendo l'occhiolino alla sua collega.

«Mitsui, da quando hai deciso di trascorrere il pranzo qui?», gli chiese Kiyo, mostrandosi infastidita.

«Ti disturba la cosa?».

No. «Forse».

Il sorrisino di Hisashi si allargò, mentre allungava le gambe bene distese sul pavimento. «Son passato a chiederti una cosa. Indovina?».

Kiyo vide bene di parare le cose prima ancora che lui parlasse. «Non posso, né oggi né questo fine settimana».

«Veramente non dovevo chiederti di uscire ora, ma a quanto pare tu non vedi l'ora». Il cestista scoppiò a ridere nel vederla spaesata e imbarazzata. Aveva fatto centro, allora!

«Ah, non eri qui per quello?». Kiyo, raddrizza il colpo, avanti! «Meglio così, perché non mi piace l'idea di dover uscire con te per quella maledetta scommessa».

«Sì, come no», cantilenò lui, voltando lo sguardo verso il basso della ringhiera. Come sempre i gemelli Sakuragi stavano dando il meglio di sé con gli altri ritardati del gruppo. Si alzò, poggiandosi alla balaustra con gli avambracci, e gridò: «Ehi! Vi si sente fin qui, deficienti!». In risposta Hanamichi stava per dargli le spalle e abbassarsi i pantaloni per mostrargli il suo bel deretano, se non fosse stato per l'intervento provvidenziale della sorella che, più rossa dei suoi capelli, gliel'aveva impedito. Due minuti più tardi l'Armata arrivò al trotto e al galoppo in terrazza, per la gioia di Kaede che vide ben chiara davanti a sé la fine della tranquillità, la perdita del suo ultimo baluardo di solitudine.

«Hime, grazie per averci risparmiato lo spettacolo», disse Hisashi, mentre quella si sedeva davanti a lui, stando ben attenta a coprire le vergogne che con quella gonna svolazzante erano sempre in agguato. Odiava quella divisa!

«Hai detto bene, Baciapiselli, il mio è uno spettacolo! Ahaha!», esclamò Hanamichi, ridendo come un matto. La risata gli morì in gola appena vide il suo acerrimo amico seduto dall'altra parte del terrazzo. «E tu che ci fai qui?!».

«Un tempo ci dormivo, qui, Do'aho».

Il rossino si voltò verso la gemella. «Tu sapevi dove il volpino andava a rifugiarsi?». Hime annuì, sorridendo. «E non me lo hai mai detto?!».

«Beh, so che quando viene qui vuole starsene a sonnecchiare in tranquillità... E Hana, luce dei miei occhi, sai bene che quella parolina con noi non attacca, vero?».

«Sonnecchiare?».

«Tranquillità, baka!».

«Che ora è andata a farsi fottere», fu il serafico commento della Volpe, lanciando un'occhiataccia al suo amico, che gli si sedette accanto per rompergli le palle - sorpresa, sorpresa!

«Quindi domani hai le qualificazioni?», stava chiedendo intanto Hisashi alla ragazza seduta accanto a lui, che aveva rinunciato ad accendersi una sigaretta vedendo le sue cattive intenzioni. «A che ora sono?».

Kiyo lo guardò di sott'occhi. «Che c'è, vuoi venire a fare il tifo?».

«No, verrei a vedere belle ragazze in costume da bagno», rispose quello, facendo ridere Hime e Yoehi, che li aveva raggiunti mentre gli altri tre erano tornati in cortile per una scommessa. Di cosa si trattasse non era dato saperlo.

«Ah, Hisa, se non ti conoscessi non mi meraviglierei!», disse la rossa, strizzando un occhio alla nuotatrice.

«Ehi, non sono così disperato come tuo fratello, scema». Contemporaneamente Hanamichi starnutì, chissà per quale motivo.

«Oh, sarebbe bello se ci fossi anche tu, Senpai!». Sana sorrise allegra all'amica, non accorgendosi dell'occhiata malefica dell'altra - uno degli sguardi che uccidono di Hanamichi, per intendersi. «Magari potete venire anche voi, che ne dite? Sono alle tre!».

Yoehi fece spallucce. «Perché no?».

«Portiamo anche gli striscioni?», chiese entusiasta Hime, che già si vedeva a fare casino in tribuna.

Kiyo borbottò qualcosa e quando Mitsui le chiese di ripetere lei arrossì lievemente. «Ho detto che... che mi imbarazza, ecco tutto».

Hisashi si grattò il mento, e lei notò per la prima volta la cicatrice che aveva. «Beh, questi qui sono imbarazzanti di loro, non credo cambi qualcosa se si mettono a starnazzare per darti la carica, anzi. A volte il supporto degli amici è fondamentale per dare il massimo, sai?».

Hime sorrise e gli strinse la mano, riconoscente. Sapeva bene che era rivolto a lei e alle poche persone che, dopo la sbandata presa per l'infortunio, gli erano rimaste vicino, per dargli tutto l'aiuto morale di cui aveva bisogno. Akira in primo luogo.

«Come se avessi molti amici, io», biascicò Kiyo, giocando con il pacchetto di sigarette ancora chiuso.

La seconda manager dello Shohoku si mise inginocchiata, avvicinandosi alla bionda e sorridendo. «Non è mai troppo tardi per trovarne, no? Puoi star certa che se non ti piacciamo ti staremo lontani».

Il piccolo sorriso che si fece largo sulle labbra di Kiyo contagiò tutti, Sana in primis. Era la prima volta che la sua unica e migliore amica si apriva con qualcuno che non fosse lei e ne era felicissima; soprattutto perché conosceva le persone in questione e non poteva non esserne entusiasta. Erano sempre state loro due e, per quanto diverse, formavano una coppia affiatata; eppure in cuor suo aveva continuamente sperato di trovare un gruppo di amici che fosse unito, fedele e, perché no?, anche un po' pazzo, proprio come loro - anche se effettivamente erano un po' più di pazzi, ma quello era un altro discorso.

«D'accordo, mi prendete per sfinimento», sbuffò Kiyo, non riuscendo bene a nascondere il sorriso di sollievo.

Hisashi, accanto a lei, strinse gli occhi, pensieroso. Poi si alzò, allungandole una mano per invitarla a fare lo stesso. «Vieni, voglio farti vedere una cosa».

La bionda lo osservò stralunata e incuriosita, ma si alzò senza dire una parola, tuttavia senza accettare la mano grande di lui. Era pur sempre convinta che quel ragazzo, così come Toshiro, si dimostrasse gentile - per quanto potesse concernergli una parola del genere - solo per abbindolarla. Non si sarebbe lasciata ingannare da quel sorrisino sensuale e da quegli occhi blu intensi. No. Mai. Già.

«Ehi, Mitchi, vi state nascondendo in qualche antro segreto per fare porc---? Ohi, Kit! Ti ammazzo!».

I due neanche si degnarono di chiedergli se il pugno che Rukawa gli aveva assestato, in una splendida imitazione del King Kong, gli avesse fatto troppo male, sparendo poco dopo chissà dove.

Rimaste solo Hime e Sana a chiacchierare, Yoehi vide bene di lasciare le ragazze da sole, per portarsi via un Hanamichi che stava rischiando seriamente la vita, rompendo le scatole ad un Volpino più addormentato che mai. E si sa, quando Kaede Rukawa vuole dormire non c'è Do'aho che regga.

La rossa si appoggiò alla ringhiera, osservando il suo migliore amico che, con la testa corvina ciondolante, entrò in letargo qualche secondo dopo che quei due sparirono. A volte invidiava la sua innata capacità di addormentarsi anche sugli spilli.

«Com'è carino quando dorme», fece Sana, sorridendo allegra. Era felice, incredibilmente felice. Tutto stava andando per il meglio, o almeno quasi tutto, e non poteva non sentirsi a tre metri da terra. L'aver ritrovato un padre, le nuove amicizie, la scoperta di avere un cugino come Rukawa... era tutto, tutto troppo bello. E non poteva trattenersi dal sorridere per ogni minima cosa.

Hime si ritrovò a serrare i denti e si diede mille volte della stupida appena se ne accorse. «Io lo chiamo Orso. Entra in letargo ogni qualvolta ne abbia la possibilità, altro che risvegliarsi in primavera!». Si voltò verso la sua nuova amica quando si sentì osservata. Cos'era quello sguardo?

«Gli devi volere molto bene, vero?».

Sulle sue belle labbra comparve un sorriso senza che neanche se ne accorgesse. «Tanto, non mi stancherei mai di dirglielo e di dimostrarglielo».

Sana si strinse le gambe contro il petto, poggiando il mento sulle ginocchia e guardando il ragazzo, che ronfava beatamente, incurante di essere il protagonista delle loro discussioni. «Anche lui te ne vuole, si vede da come ti guarda».

«E come mi guarda?», domandò Hime, arrossendo lievemente. Non poteva crederci, arrossiva per il suo migliore amico! Ma che diavolo le saltava in mente?!

Sana fece spallucce, ridacchiando. «Non è di molte parole, mio cugino, ma i suoi occhi parlano più di qualunque altra cosa». Poi, rendendosi conto di quello che aveva appena detto, strabuzzò gli occhi. «Oh! Che effetto strano mi fa chiamarlo cugino!».

«...cugino?».

«Non te l'ha detto? Deve essersene dimenticato», rimuginò su Sana, pensierosa. Come se fosse normale, poi, dimenticarsi di una notizia così importante. «È il figlio del fratello di mio padre... che ho ritrovato qualche giorno fa. Effettivamente sta succedendo un po' tutto troppo in fretta e forse ancora non mi rendo conto! Cioè, ho un padre e un cugino, non è bellissimo?».

Hime ci mise un po' a risponderle; continuava a ripetersi "sono cugini, sono cugini, sono cugini"! Sorrise e poi scoppiò a ridere, la rossa, abbracciando la piccola barista e baciandola sonoramente. «Sono così contenta per te, davvero! E io sono così scema che mi prenderei volentieri a schiaffi!». All'occhiata perplessa e insieme divertita di Sana, Hime si coprì il volto con le mani, imbarazzata. «Pensavo che piacessi a Ede».

«Cosa?!», esclamò quella, tanto forte che il Volpino si rigirò nel sonno, infastidito.

Hime si grattò il naso, ridacchiando. «Sì beh, io e Ayako siamo le uniche che lo avvicinano... Mi son detta, cavolo, questa volta ci siamo!».

«Uhm... sembri quasi gelosa», le canzonò Sana. «Dai, non fare quella faccia, a me puoi dirlo».

La manager dello Shohoku sbuffò, abbassando lo sguardo. «Mi ha detto la stessa cosa Yoehi, mi spaventi».

«Oh, io e quel ragazzo ci capiamo più di chiunque altro!», esclamò ridendo Sana, ripensando al loro comune amico. «Comunque, me ne vuoi parlare? Tanto lui dorme e non sente».

Hime rimase in silenzio, torturandosi l'orlo della gonna grigia. «Non è gelosia, davvero... è paura di perderlo. Sai, io sto con Nobu e ho sempre cercato di non trascurare né lui né i miei amici... quando mi ha stuzzicato l'idea che potesse essere interessato a te mi son chiesta se lui farebbe lo stesso. Gli voglio così bene che... non riesco a immaginare la mia vita senza lui, così come non potrei vivere senza Hanamichi».

Nessuna delle due si accorse che Kaede era tutto fuorché addormentato e approfittò del fatto di dare loro le spalle per lasciarsi sfuggire un sorriso.

«Sai, son davvero così felice che Ede abbia trovato una cugina come te, potrebbe giovargli al suo brutto carattere», disse Hime, ora seria. «Non ha mai avuto un parente stretto che gli stesse vicino quando la mamma se ne andò, tranne suo padre. Gli farà bene».

Sana sorrise, annuendo. «Ma la madre... come mai se ne andò?».

La rossa sospirò, guardando la schiena dell'amico. «Morì quando aveva otto anni. È stato un brutto periodo, davvero. Per quello non è mai stato avvezzo alla compagnia femminile». Ricordava benissimo gli occhi di Kaede il giorno del funerale. Era un bambino sveglio per capire che la sua mamma non sarebbe più tornata, il che aveva reso le cose facili al padre, almeno in quel senso. Kaede era caduto in un mutismo preoccupante, dal giorno, e neanche lei e il fratello, sulle prime, erano riusciti a sbloccarlo. Aveva pianto tanto per l'amichetto, perché quella signora bella e gentile le mancava tanto, perché sapeva che soprattutto a lui mancava più di ogni altra cosa; aveva pianto perché si era sentita una bambina che non era capace di stargli vicino e di fargli pensare ad altro, ma anche troppo piccola per capire che invece la sua vicinanza era stata di fondamentale importanza per lui.

Ricordava benissimo quegli occhi, così bene da essere sicura di non volerli rivedere mai più. Non avrebbe sopportato ancora una volta di vederlo soffrire nel suo pesante silenzio. Aveva sempre sostenuto che Kaede parlasse con gli occhi, ma per parecchio tempo quegli stessi occhi non avevano più detto una sola parola. Stava male al solo pensarci. Era anche per questo motivo che non voleva perderlo, perché voleva renderlo e vederlo tranquillo, felice; e lei sapeva, in cuor suo, di riuscirci. Cosa sarebbe successo il giorno in cui Kaede avesse trovato la persona giusta per lui, che lo avrebbe reso felice al posto suo?

Le mani piccole di Sana afferrarono le sue con forza appena quella si accorse di una lacrima che le scivolò lungo la guancia. «Non ho mai visto un'amicizia forte come la vostra, davvero, mi commuove. Stagli sempre vicino, son sicura che anche quando arriverà il momento di amare qualcuna lui non ti lascerà andare via. Sei una ragazza troppo preziosa per perderti».

Kaede si voltò su un fianco, mettendosi a sedere e guardando attonito l'amica che piangeva. Per lui.

Hime rimase paralizzata nel rendersi conto che, evidentemente, avesse sentito tutto e si asciugò velocemente le lacrime, sorridendogli. «E-Ede! Dormito bene?».

«Io tolgo il disturbo», sussurrò Sana, sorridendole e salutandoli subito dopo.

Rimasero a guardarsi per qualche secondo senza dire niente, un periodo di tempo in cui Hime non respirò. Non aveva mai permesso a Kaede di vederla così impaurita, sebbene molte volte gli avesse confidato i suoi timori, di qualunque genere essi fossero. Eppure in quel momento non riusciva a smettere di pensare che fosse sbagliato, che non avrebbe dovuto lasciarsi andare così tanto con il rischio che lui potesse sapere. Cosa che, per altro, era accaduta.

Quando Kaede si alzò e le andò incontro lei deglutì a fatica e il sorrisino finto che aveva sfoggiato poco prima svanì nel momento in cui lui s'inginocchiò davanti a lei e l'abbracciò con forza.

«Sei una stupida». Però mi piaci così.

Hime ridacchiò tra le lacrime. Quello era decisamente il modo migliore che Kaede conoscesse per farle sapere che apprezzava il gesto. «Già, preoccuparmi per uno come te, inaudito!». Gli tirò una gomitata appena lui le diete un pizzicotto con l'intento di farle male, contrariato.

«Io non vado da nessuna parte», le disse, scostandole un ciuffo rosso dalla fronte.

«E se dovessi partire ricordati di mettermi in valigia».

«Hn... se continui a mangiare come tuo fratello non ci entrerai mai».

Il pugno che gli rifilò in pancia rimbombò per tutto il terrazzo. Mai dire a una ragazza che sta mettendo su qualche chilo.

 

*

 

Kiyo seguiva il ragazzo a qualche passo di distanza, le braccia conserte e l'espressione più perplessa e scocciata che riusciva a sfoggiare. Non sapeva dove la stesse portando e lui non aveva intenzione di svelarle il mistero. Camminando dietro di lui poteva spiarlo senza che lui se ne accorgesse - o almeno sperava che non avesse occhi anche sulla nuca - e si ritrovò a pensare che fosse carino, dannatamente carino. Anzi, dire carino era anche riduttivo in quel caso, ma era troppo orgogliosa per ammettere anche a se stessa che Hisashi Mitsui le piacesse terribilmente, per lo meno dal punto di vista fisico. Caratterialmente era un borioso idiota, o presunto tale.

Scesero fino al pian terreno, diretti verso la palestra di basket, a quell'ora completamente deserta. Non vi aveva mai messo piede in momenti come quelli, dove anche il minimo rumore echeggiava per qualche secondo contro le pareti.

Hisashi camminò fino al centro campo, raccogliendo un pallone dimenticato dalle matricole - avrebbe dovuto ricordare ai nuovi acquisti che le pulizie si dovevano fare bene! - e se lo rigirò su un dito, guardando la ragazza.

«Si può sapere perché mi hai portata qui?», chiese lei, nascondendo la sua curiosità in un tono infastidito.

«Prima di un incontro importante vengo sempre in palestra, quando non c'è nessuno a rompermi le palle», le spiegò. «Chiudo gli occhi e palleggio, mi concentro solo sul suono del pallone che rimbalza sul parquet. È un buon modo per concentrarsi e rilassarsi quando si è tesi. Dovresti farlo anche tu, vai in piscina e rilassati, vedrai che avrai la mente sgombra da pensieri e preoccupazioni».

Kiyo socchiuse le labbra per dire qualcosa, ma restò in silenzio appena lo vide avvicinarsi alla linea dei tre e tentare uno dei suoi micidiali tiri. Che ovviamente mise a segno senza neanche toccare il ferro.

«Meglio che fumare una sigaretta, certo», mormorò lei, abbozzando un sorriso.

«Finirai con l'ammazzarti se continui con questo passo», l'ammonì lui, recuperando il pallone e passandoglielo. Lei per poco non lo fece cadere.

«Ehi! Vuoi spezzarmi i polsi, per caso? Questa palla è pesantissima.».

Lui sbuffò. «Non fare la delicatina, non ti si addice». Si ficcò le mani in tasca, facendole un cenno con la testa. «Avvicinati, ti insegno il tiro dalla lunetta».

«E perché dovrei?», domandò lei, muovendo comunque qualche passo. «Neanche mi piace il basket».

Hisashi ghignò. «Ti farò cambiare idea, vedrai».

«È un'altra scommessa?».

«Chiamala come vuoi, vincerò comunque io. Di nuovo».

Kiyo gli fece una smorfia, guardandolo dal basso del suo metro e settanta scarso. «Che devo fare?».

Hisashi si posizionò alle sue spalle e per un attimo il profumo dei capelli di lei lo fece fremere. Albicocca. «Prima di tutto divarica leggermente le gambe: sono loro che danno la forza al tiro, non le braccia». Kiyo sospirò quando sentì le mani grandi di lui che accompagnavano le sue braccia, per indicarle la posizione migliore da acquisire. «La mano sinistra è solo di appoggio e deve rimanere quasi ferma durante l'esecuzione del tiro. Mettila sotto il pallone, così. La mano destra, invece, è quella che compirà il movimento del polso. Porta la palla sopra gli occhi e piega il braccio così».

«Non è una posizione comodissima, eh», si lamentò Kiyo, cercando di non badare alla presenza dietro di lei.

«Solo questione di abitudine», disse lui, sorridendo. «Ora piega le gambe e contemporaneamente estendi il braccio quando torni su».

Kiyo fece come detto e il pallone, dopo una parabola un po' incerta, toccò il ferro, senza centrare il canestro. «Che merda».

«Ringrazia che abbia toccato il ferro, sai quante volte capita ai principianti di non sfiorarlo nemmeno? Sei stata brava», le disse sincero.

Lei sorrise, a disagio. «Grazie, ma non devi dirlo solo per compiacermi».

«Stai tranquilla che se fai schifo non faccio giri di parole per dirtelo». Hisashi le passò accanto, per recuperare il pallone. E lei riprese a respirare normalmente quando lui le si allontanò.

«Quindi domani verrai?».

«Certo. Anche perché appena finisci ti porto a cena fuori. E non voglio sentire scusanti».

Kiyo roteò gli occhi. «Sbruffone».

«Acida».

«Sempre molto cortese con le donne, eh?».

«Tu sei un maschiaccio, mica una donna!». Scoppiò a ridere appena lei iniziò a rincorrerlo, lanciandogli improperi e bestemmie come il miglior scaricatore di porto.

 

*

 

«Ehi, amico, grazie per l'aiuto che ci stai dando!», disse Akira, dando due pacche sulle spalle al suo migliore amico. «Potresti darti alla carpenteria, da grande!».

«Come no», rispose Hisashi. «Al massimo m'iscrivo in architettura con te, idiota. Anche se l'idea di doverti sopportare per gli anni a venire mi fa sentire male».

Akira ridacchiò. «Come se non sapessi che mi vuoi bene».

«E finiscila», sbottò, mentre quello scansava un calcio.

«Potremmo aprire uno studio insieme, che ne dici?», fece pensieroso Sendoh. «Potremmo chiamarci, che so... V. P. S.!».

«Sarebbe a dire?».

«Village People Studio!».

«A volte mi fai seriamente pensare che tu sia un po' gay, amico», disse Hisashi, ridendo con lui.

Stavano tornando a casa del giocatore dello Shohoku e, dato che i genitori di Akira avevano deciso di andare a cena fuori, il Porcospino hentai aveva pensato bene di trasferirsi per una notte dall'amico. Adorava scartavetrargli le scatole fino a tardi!

«Oh, ma guarda, la lasci sola soletta in balia delle intemperie?», chiese melodrammatico Akira, indicando la moto dell'amico, parcheggiata nel minuscolo cortiletto d'ingresso.

«No, appena fa freddo la porto in casa e la metto sotto le coperte davanti a una buona tazza di latte», disse sarcastico Hisashi. «Mica ho un garage, io».

Sendoh sorrise di sbieco e fortuna sua che l'altro non lo vide. «Mai dire mai, amico mio», mormorò, alzando gli occhi blu alla luna, incredibilmente luminosa quella sera.

Fu il fracasso di un piatto in ceramica che si frantumava contro il pavimento che li fece scattare entrambi sull'attenti.

«Che diavolo...», sbottò Hisashi, aprendo velocemente la porta e precipitandosi in casa, verso la cucina. «Mamma!».

Akira lo raggiunse subito e il sorriso che poco prima gli increspava le labbra svanì nel momento stesso in cui vide quel verme di uomo contro la madre dell'amico. Era ubriaco, come sempre, ma la cosa preoccupante era l'altro piatto che teneva in mano, sollevata verso l'alto per lanciarlo, magari contro la moglie.

«Che cazzo stai facendo?!». A gridare non fu Hisashi, troppo preoccupato per l'incolumità della madre, bensì il calmo e mite Akira Sendoh: chiunque l'avesse visto in quel momento sarebbe scappato a gambe levate.

«Ma guarda, è arrivato il fidanzato di tuo figlio!», disse sprezzante l'uomo, ghignando. Fece per usare il piatto contro il ragazzo, ma Akira era più veloce e lucido di lui, oltre che il doppio di statura e stazza, e gli fermò il polso con facilità, strattonandolo via da Tamaki, in lacrime tra le braccia del figlio.

«Non costringermi a farti del male, brutto pezzo di merda», sussurrò Akira, piegandogli il braccio dietro la schiena e facendolo gemere per il dolore. «Vattene e stai alla larga da questa casa, sono stato chiaro?».

Hisashi, nel frattempo, portò via la madre dalla cucina, facendola sdraiare sul suo letto per farla tranquillizzare un poco, e chiamò la polizia per denunciare l'aggressione.

«E chi me lo ordina? Tu?». L'uomo scoppiò a ridere, nonostante il forte dolore al braccio ancora bloccato.

E Akira non ci vide più. Forse fece la cosa più stupida e avventata che potesse venirgli in mente in quel momento, ma non tollerava che quel disgraziato rovinasse la vita del suo migliore amico e della madre, rischiando anche di fare loro del male. Il pugno che gli tirò in pieno viso fu come una ventata di aria fresca in una giornata afosa e si sentì decisamente meglio. Non era tipo da fare a cazzotti, lui, ma era quel genere di persona che, se fatta innervosire al punto giusto, poteva scoppiare come una bomba a orologeria.

L'uomo gridò dal dolore, mentre il sangue usciva copioso dal naso ora rotto.

«Allora, vai a morire all'Inferno o ti ci devo mandare io?», gli chiese Akira, strattonandolo e spintonandolo fuori casa. «La prossima volta che ti vedo a meno di cinquanta metri da loro due ti ammazzo».

Richiuse la porta con veemenza e strinse i pugni, il limite della pazienza ormai superato da un pezzo. Aveva la faccia dura, quel maledetto!, pensò guardandosi la mano indolenzita. Si voltò verso l'amico, che era tornato dalla camera da letto, e aprì la bocca per parlare, ma si bloccò. Hisashi stava tremando dalla rabbia.

«Come sta tua madre?».

Mitsui prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, per calmarsi. «Sta di sopra, non smette di piangere. Tu come stai? Avresti dovuto lasciarlo a me, stupido».

Akira scosse il capo. «Volevo farlo da tempo, ma avrei preferito che non fosse successo niente», disse, avvicinandosi alla finestra per controllare che se ne fosse andato. Era a qualche decina di metri di distanza, piegato su se stesso con le mani verso il naso. Gran bel destro, Akira, mai pensato di fare il pugile? «Torna da Tamaki-san, io ripulisco il pavimento da quello che resta dei piatti». Gli diede una pacca sulla spalla e, come se fosse a casa sua, andò a recuperare la scopa, riposta nel piccolo ripostiglio accanto al frigorifero.

«Finirà questa situazione. Oh, se finirà», furono le parole di Hisashi, mentre tornava dalla madre.

Akira sorrise, nonostante tutto. «Stiamo giusto costruendo un pezzo di casa per potervi trasferire senza preoccupazioni!», esclamò, facendolo fermare di colpo.

«Che cosa hai detto?», domandò quello, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Avrei voluto dirtelo in un altro momento, in realtà doveva essere una sorpresa», ammise lui, stringendosi nelle spalle e spazzando i cocci di ceramica. «Ma ho pensato che almeno poteva farti piacere saperlo in un momento come questo. Farà bene a te e a tua madre, se lo vorrete».

«Ma guarda tu questo idiota...», sussurrò Hisashi, con gli occhi lucidi. «Ti sto aiutando a costruire una casa per me e mia madre?!».

Akira si lasciò sfuggire una risata. «Vai da lei, ne riparleremo quando saremo tutti più tranquilli».

«Questa cosa non rimarrà impunita, sappilo», borbottò Hisashi, puntandogli un dito contro e poi abbracciandolo, in una delle sue rare dimostrazioni di affetto nei confronti dell'amico.

Akira sorrise e per un attimo si sentì un po' come Sakuragi. Un vero genio!

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Rieccomi qui! Finalmente ho trovato il tempo per completare questo parto di capitolo! È stato più difficile del previsto, lo ammetto, ma finalmente è scritto!

Ringrazio immensamente tutti coloro che continuano a seguire questa follia e chi ha iniziato da poco, mi commuovete! *_*

D'ora in poi utilizzerò l'utilissima nuova funzione di risposta alle recensioni (come ho già fatto ora!), quindi questi deliri saranno più corti, per la vostra gioia! XD

A presto! :*

Marta.

 

PS: ricordo che ho aperto un account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (:

 

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Capitolo 13
*** 12. Per un bacio. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 12

Per un bacio.

 

 

Sana sparì verso la hall del palazzetto dove c'era la piscina, le dita premute contro le tempie e un bel mal di testa in arrivo. Si fermò davanti alla macchinetta delle porcherie di cioccolato e delle bibite e prese qualcosa per smorzarle la fame e la tensione. Le tribune si stavano affollando velocemente in vista delle prime qualificazioni di nuoto; aveva già avvistato sugli spalti i suoi nuovi amici, che non avevano perso tempo a metter su qualche coretto da stadio per il tifo... e per farsi riconoscere, certo. C'erano quasi tutti: i gemelli Sakuragi e Shimura insieme a Kiyota e all'Armata, un quadretto di persone che già bastava a far scappare a gambe levate chiunque osasse prendere posto lì vicino, la coppietta dell'anno formata da Ayako e Ryota e persino l'algido Rukawa, che Hime aveva deciso di trascinare con loro per dimostrargli che al mondo non esistesse solo il basket, ma anche altri sport degni di attenzioni. C'erano quasi tutti, tranne loro due, ed era per questo che si era dovuta allontanare un attimo da Kiyo. L'amica non solo era tesa per l'imminente prova sportiva, ma era completamente fuori di sé per non aver ancora visto Mitsui. Il perché di tanta irritazione Sana non se lo seppe spiegare, o meglio, fece finta di non capirlo e, per la salvezza di tutti, preferì tacere a riguardo. D'altro canto le dispiacque che il senpai e Akira non fossero ancora arrivati, e non solo perché quest'ultimo la faceva arrossire anche quando starnutiva, ma trovava piacevole stare con l'allegra brigata al completo.

«Ehi, Sana!».

La barista si voltò verso Yoehi, che arrivò con un sorriso sulle labbra e le mani ficcate nelle tasche del giubbotto. «Anche tu rifornimenti?».

Lui annuì, sconsolato. «Takamiya e l'altro maiale di Hanamichi hanno già sbranato tutto. Li ho lasciati mentre Hime e gli altri due li stavano assaltando alla gola per ripicca».

Sana ridacchiò, scuotendo la testa. «Vi sbatteranno fuori dal palazzetto, se continuate così».

«Ohi, non osare tirarti fuori dal gruppo, finta ragazzina innocente», scherzò lui, tirandole un buffetto sulla spalla. «La tua amica come sta?».

«Non bene, purtroppo», sospirò lei, stringendosi nelle spalle. «È un po' tesa e solitamente non lo è. Cosa dovrei fare per calmarla?».

Yoehi inserì qualche moneta nella macchinetta e scelse un pacco di patatine alla paprika. «Tu niente, è Mitsui che potrebbe calmarla, mi sa». Come sempre Mito aveva capito tutto prima di tutti, forse anche prima dei due diretti interessati. «Comunque non disperare, mi sembra una tipa che sa il fatto suo, forse le farà bene scaricare la rabbia nel suo sport, non credi?».

Sana annuì, ritrovando un po' di sollievo in quelle parole. Mito aveva lo strano potere di tranquillizzare chiunque fosse giù di morale, con la sua aria pacata e cortese. A volte stentava a credere che fosse un casinista peggio dei Sakuragi! «Sì, forse hai ragione. Grazie!». Tornarono insieme sugli spalti, dove l'evento sportivo della giornata stava per avere inizio. Di Mitsui e Sendoh nemmeno l'ombra.

«Sto iniziando a preoccuparmi», fece Hime, pensierosa, guardandosi intorno alla ricerca della testa spinata dell'amico, che aveva promesso di venire a vedere le qualificazioni della ragazza di Hisashi solo per guardare altre ragazze in succinti costumi da bagno.

Nobunaga si strinse nelle spalle, serio. «Staranno amoreggiando da qualche parte, non mi meraviglierei».

«Puoi dirlo forte!», rincarò la dose Hanamichi, masticando a bocca aperta una manciata di pop-corn, mentre i gemelli Shimura, accanto a lui, tentavano invano di rubargliene un po'.

Sanako arrossì tremendamente dall'imbarazzo nel pensare a una scena simile, mentre Hime e Ayako, alla faccia dei loro rispettivi ragazzi, iniziarono a perdersi in discorsi sconci che avrebbero fatto concorrenza anche alle porcherie del loro comune e pervertito amico Akira.

«Hn, deviate», fu il serafico commento di Kaede, che stava sonnecchiando con le braccia conserte.

«Hicchan! Sei casta e pura, non sporcarti con pensieri zozzi di quei due maiali!», sbraitò Hanamichi, con le mani tra i capelli rossi.

«Casta e pura?», domandò Noma, con un pizzico di malizia, mentre Hime gli saltava al collo per strozzarlo, con il chiarissimo intento di ucciderlo.

«E chi ti dice che lo sia?».

Hime lanciò un ululato di imbarazzo, gettandosi ora contro la Scimmia Saltante del Kainan, che aveva osato anche solo insinuare qualcosa sulle loro inesistenti prestazioni sotto le lenzuola. Al solo pensiero si sentì andare a fuoco. Inutile raccontare la reazione del fratello, che s'imbestialì a tal punto che, imprecando e chiedendo disperatamente alla sorella di smentire tutto, disse addio anche agli ultimi e coraggiosi spettatori che si allontanarono velocemente dai loro posti - oltre al fatto che l'intero palazzetto si voltò verso di loro e Hime non poté far altro che nascondersi tra una fila di sedili e l'altra. Doveva essere stata veramente una persona orribile, nella vita precedente, per meritare un fratello e un ragazzo come quei due che, nonostante i loro battibecchi, erano praticamente uno lo sputo dell'altro.

Gli applausi d'incoraggiamento crebbero appena le sportive fecero la loro comparsa, strette nei loro accappatoi; c'erano quelle visibilmente tese, quelle che non ostentavano emozioni e chi, invece, aveva l'aria di avere la situazione in pugno. L'espressione di Kiyo, invece, era indecifrabile: aveva lo sguardo fisso in un punto davanti a sé, sicura delle sue potenzialità, eppure la fronte corrugata faceva pensare a qualcosa che l'irritava parecchio. Effettivamente, se avesse avuto per le mani quel Mitsui maledetto gli avrebbe fatto pentire di esistere, ma aveva deciso di darsi una calmata, prendere qualche respiro profondo e concentrarsi sulla gara. In fondo, cosa poteva importargliene se lui fosse andato ad assistere alle sue qualificazioni o meno?

Oh, andiamo, ti stai comportando come una ragazzina innamorata, vedi di smetterla, Kiyoko!, si rimproverò mentalmente, mentre saliva sulla sua pedana. Concentrati, sei la migliore. Puoi farcela. Devi farcela.

Doveva farcela, in un modo o nell'altro. Quell'anno era di vitale importanza che a vincere fosse lei; non lo aveva detto a nessuno, non ai suoi genitori né alla sua migliore e unica amica, ma quello era l'anno dei Campionati Nazionali di Nuoto e i primi classificati di ogni Prefettura vi avrebbero preso parte automaticamente. Era un'occasione unica affinché camminasse il primo passo verso le alte vette del suo sport. E non sarebbe stata certo la presenza o meno di Hisashi Mitsui a compromettere il suo futuro. Aveva detto basta ai ragazzi come lui e stava rischiando di caderci nuovamente.

Quando il via venne dato e lei si tuffò con eleganza in acqua tutto ciò che stava fuori sparì dalla sua mente. Era così che si sentiva quando nuotava, quando gareggiava e sapeva che ogni singola bracciata doveva essere la decisiva: non aveva pensieri, non aveva preoccupazioni di sorta se non regolare la respirazione e non perdere il ritmo.

Dagli spalti i suoi nuovi persecutori non facevano altro se non gridare e incitarla, chi battendo le mani, chi due bottiglie piene di sassolini. Tutti tranne il povero Nobunaga che, seduto accanto alla sua donzella dai capelli indiavolati, dovette morsicarsi la lingua per tutta la durata della gara pur di non ululare dal dolore - Hime, infatti, gli stava stritolando il braccio per l'eccitazione, nel vedere che Kiyo era la nuotatrice più veloce e con più resistenza.

Quando la bionda chiuse con un tempo straordinario, lasciando un paio di secondi di scarto alla seconda qualificata, i ragazzi tuonarono dalla gioia, riuscendo a fare più casino di prima, per quanto fosse possibile. Sana abbracciò tutti, ridendo con gli occhi lucidi per la felicità - anche se quelle erano semplici qualificazioni, lo sapeva bene. Ma vedere il sorriso soddisfatto dell'amica, appena uscita dalla vasca, e il dito indice puntato verso di loro l'aveva quasi commossa.

«Cavolo, son rimasta in apnea durante le ultime due vasche!», disse Hime, buttandosi a sedere e cercando di placare il battito veloce del suo cuore.

«Hicchan, non fai così neanche durante le nostre partite!», esclamò il fratello, corrugando la fronte.

«Oh, Hana, se solo la vedessi, alle vostre partite», ridacchiò Ayako, giocando con un ricciolo morbido.

Miyagi ghignò. «Non la vediamo ma la sentiamo, eccome se la sentiamo!».

La rossa scoppiò a ridere, nascondendo così l'imbarazzo - d'altronde, sebbene fosse lei l'anima del tifo dalla panchina, era veramente scandalosa, delle volte. Ricordava ancora l'occhiata perplessa e al limite del timore del coach del Ryonan, quando la vide saltare sul tavolino su cui Ayako stava prendendo appunti sulle statistiche di gara, gridando e dimenandosi per incitare i suoi amici alla vittoria.

Rimasero a guardare anche gli altri due turni di qualifiche, mentre Kiyo si faceva una doccia, prima di raggiungerli. Era felice della sua prestazione e così vicina a fare il record scolastico; ma non si pianse addosso. Aveva tutta la vita davanti per racimolare record su record, lo sapeva bene. Quando si avvicinò ai suoi nuovi amici si rabbuiò un poco nel constatare che Mitsui non fosse ancora arrivato, anche se aveva smesso di sperarci da parecchio. Cosa si aspettava? Che sarebbe davvero andato a vedere una come lei, per poi portarla fuori a cena? Ah, sciocca ragazzina, non hai ancora imparato dagli errori già commessi?

 «Oh, ecco la vincitrice!» esclamò Hanamichi, balzando in piedi e indicandola, con un sorrisone da orecchio a orecchio.

«Ragazzi», li salutò lei, abbozzando un sorriso. «Sappiate che vi si sentiva anche sott'acqua». Quelli scoppiarono a ridere, come se tutto fosse normale e anche lei si lasciò andare all'ilarità. Erano arrivati tardi nella sua vita, ma era felice che fosse accaduto proprio in quel periodo. Si rendeva conto di avere un carattere intrattabile che faceva scappare a gambe levate chiunque e in cuor suo sperava che l'aiutassero a sciogliersi un poco. Non che non si piacesse, ma a volte sognava di essere una ragazza senza pensieri né problemi, che si lasciava andare con i suoi amici in confidenze e cretinerie.

«Sei stata bravissima, come sempre, Kiyo!», l'abbracciò Sana, rischiando di ribaltarla per la foga con cui lo fece.

«Dobbiamo festeggiare!», disse con convinzione Hime, alzandosi in piedi e mettendosi le mani sui fianchi. «Tutti al bar da Sana?», aggiunse con occhioni luccicanti.

«E sia, ormai ci viviamo in quel posto!», fece Yoehi. «Sempre se per te non è un problema».

Kiyo si strinse nelle spalle, scuotendo il capo dopo un po'. «Ma sì, andiamo».

Il sorriso di Sana si allargò ancora di più e si diressero tutti al Bar America, la loro seconda casa - dopo il campo da basket, ovvio. Come normale che fosse durante il tragitto che li separava dal liceo al locale le due Scimmie iniziarono a scannarsi per un motivo futile, alleandosi d'un tratto contro Rukawa, che aveva commentato con qualcosa di vagamente offensivo com'era nel suo stile, e tutto si era concluso con l'Armata che aveva tirato su il suo consueto teatrino di scommesse. E mentre a pochi passi da loro si scatenava l'Inferno, le donzelle della situazione camminavano insieme come quattro comari - Ryota, infatti, aveva deciso di avvicinarsi ai gemelli Shimura per lasciare solo la sua dolce Ayako con le sue amiche a spettegolare per bene.

Sana stava raccontando ad Ayako dell'idea della zia di fare un concerto di fine anno, e Kiyo, accanto a Hime, ne approfittò per chiederle, a voce bassa, se sapesse dove fosse finito quell'idiota di Mitsui.

Hime evitò di lanciarle un'occhiata maliziosa, per il semplice fatto che avevano poca confidenza e, in un certo senso, temeva ripercussioni. «Non lo so, sinceramente. Me lo chiedo da questo pomeriggio... doveva venire insieme ad Akira e invece non si son visti».

Kiyo biascicò un hn molto Rukawesco e Hime glielo fece notare, ridacchiando. «Comunque se Hisashi non è venuto deve essere per qualche motivo grave. Solitamente mantiene le sue promesse e i suoi impegni», le disse, per rassicurarla, anche se lei stessa era un po' impensierita. «Forse Akira si è addormentato mentre lui stava andando a prenderlo in moto, Hisashi si è incavolato e l'ha ucciso. Indi per cui ha dovuto cercare un posto appartato per seppellire il cadavere e ripulire ogni prova a suo sfavore. Sì, potrebbe essere una scusa plausibile, conoscendoli entrambi».

La bionda si lasciò sfuggire un sorriso e sospirò. «Oggi lavora?».

«No, il sabato è il suo giorno libero. Vuoi per caso cantargliene quattro?». L'altra annuì, con l'espressione malefica di una strega. Sì, Hime aveva visto giusto ad aver paura di lei: era terrificante con quello sguardo!

«Abita molto lontano dal bar?», domandò, vaga, come se la cosa non le interessasse. «Insomma, magari vorresti passare più tardi per vedere come sta».

Hime la prese sotto braccio, sorridendo. «Non molto lontano; che ne dici se mi accompagni?».

Era bastato poco per capirsi al volo e Kiyo la ringraziò mentalmente. Le aveva risparmiato una richiesta del tutto umiliante.

 

*

 

Nelle due ore successive successe di tutto; il caos dei festeggiamenti contagiò l'intero bar - anche se Kiyo continuava a ripetere che non ci fosse niente da festeggiare, i veri problemi sarebbero giunti con il Campionato, spiegò. C'erano un paio di nuotatrici brave quasi quanto lei (eh sì che il suo ego rischiò di far scoppiare l'intero locale, quando parlò) che gli scorsi anni le avevano dato del filo da torcere. Una, in particolare, era stata la causa della sua uscita prematura l'anno precedente, tale Reiko Azamui, secondo anno dello Shoyo, che ovviamente si era qualificata e aveva tutte le intenzioni di vincere. Come lei, del resto. Aveva scambiato poche parole con quella ragazza - beh, poche per i suoi standard già bassi di loquacità con gli sconosciuti - ma, anche se l'aveva fatta fuori in parecchie occasioni, la stimava. E non solo perché era mossa dalla sua stessa voglia di eccellere, ma soprattutto perché era sportiva, e tra l'ambiente femminile era una qualità che non trovava spesso. Ricordava che, l'anno prima, quando l'aveva battuta di cinque miseri decimi di secondo all'arrivo, si era subito congratulata e le aveva detto che non vedeva l'ora di battersi nuovamente contro di lei l'anno successivo.

Comunque, qualsiasi pensiero sulla sua rivale numero uno sparì non appena Hime le annunciò che erano arrivati a destinazione; questa l'aveva accompagnata di tacito accordo all'abitazione di Mitsui insieme al fratello e alla Scimmia che si ritrovava come fidanzato. Sana invece era ancora a lavoro, l'Armata e i gemelli Shimura erano rimasti a farle compagnia, mentre Rukawa se n'era già andato in letargo a casa sua, ciondolando dal sonno, nonostante fossero solo le otto di sera. Che fine avessero fatto Ryota e Ayako nessuno lo seppe. Hanamichi ipotizzò che si fossero eclissati in qualche cespuglio a tubare; Nobunaga ipotizzò che Hanamichi avesse ipotizzato la scena solo perché la sua piccola mente bacata poteva unicamente immaginarle, certe cose; infine Hime ipotizzò che Nobunaga si stesse divertendo a provocare il fratello con l'unico scopo di togliersi la vita in modo lungo e doloroso. I motivi rimasero ignoti. A dover di cronaca si rischiò l'ennesima strage di sangue della serata.

«Beh, la moto c'è ed è integra, quindi immagino che sia a casa», disse Hime, osservando la bambolina della loro Guardia. «Quindi se anche dovessimo andarcene prima potrà sempre riaccompagnarti, no?», aggiunse strizzandole un occhio.

«Aspetta, Hicchan, perché dovremmo andarcene prima?», domandò confuso Hanamichi, mentre Kiyota alzava gli occhi al cielo, esasperato. «Io voglio rompergli le palle!»

«Scommetto che gliele rompi anche a distanza, dannata Scimmia», bofonchiò Nobunaga, che iniziò a correre come una gazzella per scappare dalle grinfie del suo "adorato cognato".

Le due ragazze lasciarono perdere i dementi della situazione - e anzi, li ringraziarono per essersi levati dalle scatole almeno per qualche minuto. La casa era immersa nell'oscurità, tranne per una luce di abat-jour che proveniva dalla camera matrimoniale al secondo piano. Attesero qualche istante prima che vedessero del movimento da dietro le finestre. Tamaki Mitsui, che aveva profondissime occhiaie e l'aria stravolta di una che ne aveva viste troppe, aprì la porta e salutò la Sakuragi con un sorriso stanco.

«Hime, che grande piacere vederti! È da un po' che non passi a trovarci», le disse, abbracciandola.

La ragazza ripensò a Hisashi e agli sguardi vacui che gli aveva visto nell'ultimo periodo. Era per quello che non era più passata a disturbare; aveva immaginato che la situazione con suo padre fosse diventata ancora più insostenibile e non voleva rischiare di tediare la donna. «Sono stata molto occupata, ultimamente. Sa, quegli scalmanati sono peggio di orsi imbestialiti e affamati».

La signora rise e guardò per la prima volta Kiyo, cercando di ricordare il suo viso. «Tu sei un'amica di Hisashi?».

Quella annuì, improvvisamente a disagio. «Sì, diciamo di sì. Suo figlio è in casa?».

«No, è andato a lavorare, anche se oggi era il suo giorno libero». Quella risposta le lasciò interdette. «È uscito un quarto d'ora fa con il caro Akira, mi dispiace. Ma se volete aspettarlo a me farebbe un immenso piacere, davvero».

«Oh, no, non mi sembra il caso, Tamaki-san. Finirà di lavorare più tardi di mezzanotte e non vogliamo disturbarla. Comunque grazie per l'offerta», si affrettò a dire Hime, pensando velocemente a cosa fare per aiutare la finta-bionda che aveva accanto. Osservò crucciata la moto parcheggiata e coperta con il telo. Doveva essere andato a piedi, quella notte. E conosceva abbastanza bene Hisashi per capire che quella scelta era dovuta al fatto che dovesse scaricare qualche brutto pensiero. A differenza di altri, che vedevano nelle moto e nella velocità un'ottima valvola di sfogo, Mitsui aveva sempre preferito le lunghe passeggiate per tranquillizzarsi un po'. Diceva sempre "Perché diavolo dovrei rischiare di ammazzarmi o ammazzare qualcuno solo perché ho le palle girate?". Saggio ragazzo, lui.

«Se volete fermarvi per cena, ragazzi, ditelo, non c'è problema. Avrei proprio bisogno di un po' di compagnia», sospirò Tamaki. Kiyo provò il forte impulso di abbracciare quella piccola donna che sembrava distrutta. E dire che suo figlio era un bisonte arrogante!

«Allora facciamo una cosa», propose Hime, con un sorriso. «La portiamo a cena fuori, che dice? Andiamo a trovare suo figlio. L'alternativa è che andiamo a fare la spesa e prepariamo tutto noi. Decida lei!».

Tamaki trovò la forza di ridacchiare. «Hisashi ha ragione a dire che sei incredibile, Hime. Vada per la prima, suvvia, così mi distraggo un poco. Mi metto qualcosa di presentabile, voi entrate e fate come se foste a casa vostra».

Hime sorrise, rivolgendosi poi al fratello e al ragazzo. «Bene, signori, voi restate fuori! Sì, come i cani! Questo gioiellino di casa è uno dei pochi a essere ancora integro dalle vostre sfuriate e ci tengo che lo rimanga ancora per molto!».

«Ma, Hicchan!», esclamarono in coro i due, avviliti. Rimasero a bocca aperta quando videro che stava dicendo sul serio, proprio mentre richiudeva la porta alle spalle.

«Questa me la paga», disse Nobunaga, già tramando vendetta.

«Non osare sfiorare con le tue sporche zampacce la mia sorellina!», sbraitò il numero dieci dello Shohoku.

L'altro si passò una mano sul viso. E dire che la sua cara sorellina li aveva lasciati fuori al gelo della sera!

 

*

 

Quando Sana li vide tornare di gran carriera pensò che fossero diventati totalmente dipendenti da quel luogo. Insomma, erano andati via da solo un'oretta piena e già ripresentavano i loro faccioni sorridenti? Poi immaginò che fossero tornati per Hisashi, dato che aveva preso l'ennesimo colpo della serata vedendolo lavorare anche il giorno di riposo. Ma non aveva osato chiedergli spiegazioni: il viso oscurato da preoccupazioni e una buona dose di incazzo le fecero morire tutte le domande in gola. Qualsiasi fosse il motivo per cui vertesse in quello stato, ora capiva perché non fosse andato a vedere le qualificazioni di Kiyo.

«Ragazzi, quanto tempo senza vedervi!», li accolse scherzando.

«Un'eternità», rispose melodrammatica Hime, andando a stritolarla per bene nel suo abbraccio mortale. E mentre la ragazza presentava la piccola barista alla signora Mitsui, Kiyo si guardò intorno, cercando un paio di occhi blu, che però non vide. Non poteva essere andato in giro per le consegne, perché aveva lasciato la moto a casa. Dunque era rintanato in cucina?

Purtroppo - o fortunatamente? - l'Armata e i due nuovi acquisti avevano già levato le tende, così il loro tavolo preferito fu libero e pronto per loro. Tamaki Mitsui non era mai entrata in quel grazioso locale e fu ben lieta di notare che l'ambiente fosse familiare e tranquillo; non avrebbe sopportato l'idea che suo figlio frequentasse brutti posti e brutte persone. Le era bastato quel periodo buio che aveva trascorso l'anno prima ed era sicura di non volerlo rivedere più in quello stato.

Quando Sana, dopo aver dato loro i menù, fece per allontanarsi, Kiyo la seguì. «Ehi, è in cucina, vero?».

La barista annuì. «Ed è in pessimo stato. Non provocarlo, ok? Temo che possa avvelenare qualcuno oggi!», esclamò, seriamente preoccupata che il suo collega potesse fare qualcosa di sconsiderato.

«Digli che c'è sua madre qui. E che poi vorrei parlargli. Per favore».

Sana sparì subito dopo e Kiyo tornò al suo posto, in trepida attesa. E ora che avrebbe dovuto dirgli? Che l'aveva atteso inutilmente? Che aveva sperato fino all'ultimo che andasse a vederla e a fare il tifo per lei? Che era rimasta malissimo quando aveva scoperto che di lui non si era vista nemmeno l'ombra? Oppure si sarebbe dovuta preoccupare del motivo per cui non si era fatto vedere? Ah, trattare con quel ragazzo si stava rivelando la questione più difficile del mondo, accidenti a lui. Lo vide comparire poco dopo, con un grembiule bianco e sporco di sugo in alcuni punti, mentre si ripuliva le mani dalla farina con uno strofinaccio. L'espressione di stupore che gli vide nel viso quando si accorse della madre non nascose quella di profondo turbamento. Che diavolo era successo di così grave?

«Ehi, mamma. Che ci fai qui?», le chiese, chinandosi e passandole una mano sulla spalla.

«I tuoi amici sono passati a trovarti ma non c'eri. Così sono stati gentili da invitarmi qui con loro per un po' di compagnia e per raggiungerti».

Hisashi lanciò un'occhiata alle due scimmie. «Ti hanno per caso rotto le palle, questi due?».

«Sashi!», esclamò la madre, dandogli un buffetto sul braccio. Il figlio sorrise nel vederla più distesa. Avrebbe scolpito una statua a quei matti, soprattutto a Hime; era più che sicuro che l'idea fosse stata sua. Poi si voltò verso la bionda, che continuava a fissarlo con un misto di ostilità e preoccupazione. Le fece cenno con la testa di seguirlo e lei, preso giubbotto e pacchetto di sigarette, gli andò dietro. Non fece in tempo a prendere una sigaretta che Hisashi gliel'aveva già rubata dalle labbra, spezzata e buttata per terra.

«Non è fumando che vincerai il tuo campionato», la rimproverò ancora una volta, poggiandosi contro il muro del locale. Erano sul retro, tra sacchi di immondizia e scatoloni. Lì nessuno avrebbe potuto disturbarli - o almeno Hisashi lo sperava.

«E a te che importa del mio campionato?». Si rese conto troppo tardi di aver parlato come una zitella acida. Ma ormai il danno era fatto, pazienza.

Il cestista sollevò un sopracciglio, incrociando le braccia. «Che cavolo stai dicendo?».

«Oh, certo, ora fai anche finta di non capire». Kiyo si passò una mano tra i capelli, maledicendosi mentalmente. Che stupida era stata a pensare anche per un solo momento che fosse diverso da Toshiro.

«Senti, non ho voglia di giocare, quindi smettila di parlare per enigmi e spiegati», tagliò corto Hisashi, che stava iniziando a perdere la pazienza.

«Non sei venuto, ecco cosa c'è, razza di cretino!», esclamò, ora rossa per la rabbia e per l'imbarazzo. Incredibile, stava veramente facendo una scenata di gelosia? «Mi avevi promesso che saresti venuto e io ti ho anche creduto! Verrò a vederti, ti porterò a cena fuori! Tante parole belle per niente, come sempre». Oh, no. No! Perché ora aveva tirato in ballo la cena? Così avrebbe pensato che a lei importasse qualcosa!

Se Hisashi non lo avesse saputo avrebbe detto che fosse ubriaca persa, come qualche notte prima. Ma era sobria, perfettamente sobria, a dirla tutta. Strinse gli occhi e i pugni, avvicinandosi di qualche passo e sovrastandola in altezza. «Ehi, ragazzina, guarda che il mondo non ruota solo in funzione tua, mettitelo in testa!», disse, alzando la voce, ora arrabbiato. Aveva i nervi a fior di pelle per conto suo ed era andato a lavoro solo per distrarsi e per farsi pagare gli straordinari; non poteva mettersi anche lei a rompergli le palle in quel modo, accidenti!

Kiyo rimase inebetita da quelle parole. Tutto si sarebbe aspettata, fuorché quella reazione. In realtà, anche la propria l'aveva stupita, a essere sincere. «Beh, avresti almeno potuto avvisare qualcuno per farmelo sapere», sbottò, inspiegabilmente in imbarazzo. Vedendo che il ragazzo aveva intenzione di andarsene lo bloccò subito dopo, senza sapere neanche lei il perché. «Cosa è successo? Sì, insomma... sembri arrabbiato e sconvolto».

«Sei tu che mi fai incavolare», le disse, osservandola di sbieco. Poi sospirò pesantemente. «Scusami se non sono venuto».

Gli occhi chiari della ragazza si fecero grandi per lo stupore. Hisashi Mitsui le aveva appena chiesto scusa? «Scusami tu per la sfuriata ingiustificata. Sono stata un po' troppo avventata e scortese».

«Lo sei sempre». Hisashi tornò ad appoggiarsi contro il muro. «È successo un casino con quello che dovrebbe essere mio padre».

Kiyo rimase in silenzio, decisa ad ascoltarlo. Era la prima volta che si apriva in confessioni con lei, non voleva lasciarsi sfuggire quell'occasione.

 «Ha sempre avuto il brutto vizio di bere, ma un tempo era più responsabile... beh, un po' più di oggi. A volte rientrava a casa ubriaco e bisticciava con mia madre. E a volte allungava le mani».

Kiyo socchiuse le labbra, in un gesto di incredulità.

«L'ho cacciato di casa qualche mese fa perché non sopportavo più l'idea che mia madre rischiasse di essere picchiata da quel pezzente. Così ho cercato un lavoro per pagare un avvocato e per andare in affitto lontano da casa nostra», continuò a spiegarle, i pugni chiusi per la stizza. «Ieri son rientrato a casa con Akira e l'ho trovato mentre la minacciava con un piatto».

Non ci fu bisogno di aggiungere altro, perché era evidente cosa avesse dovuto sopportare dopo. Kiyo rimase in silenzio per qualche secondo, non sapendo bene cosa dire. Aveva immaginato qualsiasi tipo di motivo o scusa che avrebbe potuto tirare fuori, ma quella... quella proprio non le era minimamente passata per la testa. Ebbe l'immagine distorta di suo padre che avrebbe potuto picchiare sua madre e solo pensare a un'ipotesi del genere la fece ribollire di rabbia. Quale uomo avrebbe potuto chiamarsi tale se osava alzare un solo dito contro una donna, per giunta la propria moglie?

«Mi dispiace», fu tutto ciò che riuscì a dirgli. Sentiva che qualunque altra frase di circostanza si sarebbe rivelata inopportuna e inutile.

E Hisashi lo capì, perché sorrise leggermente. «Non dispiacerti, le cose ora andranno meglio». Le raccontò velocemente della sorpresa che la famiglia Sendoh stava finendo di costruire per lui e la madre e Kiyo sorrise con lui, commossa da quella profonda amicizia che li legava. Avrebbe voluto fare qualcosa di grande come Akira Sendoh per vederlo sorridere ancora, per tranquillizzare lui e quella donna gentile della madre, ma non le venne in mente niente. In realtà era proprio il nulla che avrebbe potuto fare. D'altronde chi era lei se non una ragazzina troppo egoista per accorgersi dei problemi degli altri?

«Sana mi ha detto che hai vinto», le disse. Kiyo agitò una mano come se stesse allontanando una mosca fastidiosa dal viso. «Dovrò davvero portarti a cena fuori per festeggiare. Anche perché ho visto quanto tu ci tenga».

Ecco, lo sapeva. Lo sapeva che avrebbe usato le sue parole contro di lei, lo sapeva! Brutto disgraziato, arrogante pallone gonfiato! «Guarda che non mi interessa affatto», gli disse. «L'ho detto solo perché ero arrabbiata».

Hisashi sbuffò, divertito. Era evidente che non le credesse. «Lo sei ancora?».

«Arrabbiata?». Lui annuì e Kiyo si strinse nelle spalle. «No, cioè sì, lo sono, ma non con te. C'è qualcosa che posso fare per darti una mano?».

Hisashi ci pensò su qualche secondo. Poi sorrise. «Sì, ci sarebbe una cosa che potresti fare. Mi solleverebbe di gran lunga il morale».

Kiyo allargò le braccia. «Allora, dimmi. Vedrò se posso aiut---».

Non finì la frase. Non ne ebbe la possibilità.

Hisashi Mitsui la stava baciando.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Buon salve a tutti! E dopo un tremendo ritardo rieccomi qui!

Voglio ringraziare enormemente tutti voi, che mi scrivete e che continuate a seguire questa creatura! È una gioia immensa vedere come aumentate ad ogni aggiornamento! :)

A presto,

Marta.

 

PS: ricordo che ho aperto un account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (:

 

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Capitolo 14
*** 13. Quella sottile linea di confine. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 13

Quella sottile linea di confine.

 

 

Compromettente.

Sì, era decisamente la parola più azzeccata in quel momento. Compromettente.

Perché lo era, compromettente, farsi scoprire dal padrone del locale a scambiarsi effusioni con la Kobayashi, vero? Soprattutto quando quello, ridacchiando divertito, ne era uscito con un "Hisashi, va bene che sei venuto anche quando non dovevi, ma se ti serviva un posto per limonare potevi chiederlo tranquillamente: ho giusto di sopra una camera con un bel matrimoniale, eh?", il tutto condito da una strizzata d'occhi.

Il primo pensiero del cestista, in quel frangente, fu solo uno, e anche azzeccato, probabilmente. Era più che sicuro, infatti, che lo zio di Akira avrebbe raccontato la scena al nipote - e come non avrebbe potuto, d'altronde, se insieme quei due erano peggio di due comari di paese? - ed era altrettanto sicuro del fatto che il molto Porco e poco Spino gli avrebbe menato le palle fino allo sfinimento. E se gli avesse spaccato il muso, al padrone, cosicché non potesse parlare?

No, era compromettente anche quello: non aveva voglia di perdere anche il lavoro. Ma poteva benissimo spaccare il muso al suo migliore amico se questo si fosse rivelato troppo rompicoglioni. Sì, poteva funzionare!

Kiyo gli riservò un'occhiataccia, vedendolo assorto mentre fissava la porta dalla quale il signor Watanabe era sparito fischiettando. «Che c'è, mediti fuga?», gli chiese, infastidita e arrossata per l'imbarazzo.

Quello si risvegliò dal coma e le regalò un sorrisino mascalzone che le fece perdere un paio di battiti. «Sì, e indovina? Magari posso accogliere l'offerta di Watanabe-san e fuggire in camera da letto con te!». Non voleva essere serio, con quella battuta, era solo una stupidaggine buttata lì per smorzare un po' di tensione e imbarazzo. Allora perché quella stupida gli aveva dato uno spintone e l'aveva mandato a quel paese senza nemmeno passare dal via?

«Ehi! Che diavolo ti prende ora?», esclamò scocciato, afferrandola per un polso e fermandola. «Sei un'isterica quando ti comporti così».

«Isterica io? E tu sei un animale!», rispose lei, scansandolo. «Possibile che non riusciate a pensare ad altro voi uomini?». Tutto ciò che lui le diede in cambio fu un'occhiata attonita. «Possibile che stare con una ragazza implichi forzatamente il sesso?».

Hisashi si passò stancamente una mano sul viso, mentre quella lo lasciava solo, prendendo il suo silenzio come un segno affermativo. La seguì fin fuori il locale, mordendosi più volte la lingua per non sbottare davanti ai clienti; i suoi amici e la madre li seguirono con lo sguardo, perplessi e preoccupati.

«Ti senti quando parli?», le chiese, incrociando le braccia. «Parti in quarta e non dai neanche il tempo agli altri di ribattere».

Kiyo si fermò, ma rimase di spalle. Non voleva dargli la soddisfazione di vederle gli occhi lucidi.

«Che c'è, hai perso l'uso della lingua d'un tratto?», disse sbuffando Hisashi. «Potevi tacere poco fa, invece di ora, Isterica».

«Smettila di chiamarmi isterica!».

Mitsui sollevò un sopracciglio, nel sentire quel tono così... isterico, non c'era altra parola migliore di quella. «Continuerò a chiamarti così finché non mi spiegherai che ti è preso e finché non la smetterai di darmi contro per qualsiasi cosa. Non conosci il significato di "ironia", forse?». Le si parò davanti e la costrinse a guardarlo. Si stupì molto quando vide le lacrime bagnarle il viso. «Ehi, mi dispiace di averti fatta piangere, ma non volevo offenderti. Stavo scherzando».

Quella borbottò qualcosa, asciugandosi gli occhi con le maniche della giacca. «Sei un idiota».

«E tu sei acida. Dovrei portarmi a letto un'acida isterica, secondo te?». L'occhiata fulminante che quella gli lanciò ebbe il potere di farlo ridacchiare. «Deve aver fatto proprio un bel lavoro quel tuo ex, se arrivi a non fidarti di nessun ragazzo».

«Oh, non immagini quanto», rispose quella, chiudendo gli occhi e premendosi le tempie con due dita. Mal di testa in arrivo, perfetto. Quando li riaprì Hisashi era terribilmente vicino al suo viso, tanto che nel vedere la sua cicatrice sul mento ebbe quasi l'istinto di sfiorargliela - con i polpastrelli o con le labbra?

«Ti prometto che se dovesse capitare di trovarmelo tra i piedi gli farò pagare tutto con gli interessi e i danni morali, ok?», le sussurrò in un orecchio, solleticandoglielo con le labbra.

«E io ti staccherò la testa a morsi se dovessi metterti nei guai».

Lui sorrise, malizioso. «Oh-oh, ti preoccupi per il nemico?».

«Deficiente».

«Isterica».

«Chiamami nuovamente così e inizierai a cantare come una soprano, perché ti avrò staccato le palle con un calcio».

Hisashi scoppiò a ridere, mentre lei lo spintonava via e gli voltava ancora le spalle.

Questa volta per nascondere l'ombra di un sorriso.

«Ah, meno male hanno fatto pace! Su, giovine, sgancia i soldi! Ho vinto io, poiché sono proprio un geniaccio delle scommesse!», sbraitò Hanamichi, mentre gli altri lo maledicevano in tutte le lingue del mondo per aver fatto saltare la loro copertura.

«Hana, sei una lavandaia», asserì Hime, uscendo dal suo nascondiglio e scuotendo il capo mestamente, mentre Nobunaga tentava di darsela a gambe quatto quatto pur di non dover pagare quel disgraziato - che però se ne accorse prima e lo sedò con una bella testata, mandando in fumo tutti i suoi buoni propositi e quel poco di materia grigia che gli era rimasta nel cranio. Lui, che sperava veramente che quella ragazza gli stracciasse le palle a calci, accidenti a lei e alle sue parole vane! Aveva perso più di mille yen!

«Non crediate che questa bravata resti impunita, maledette scimmie», fece Hisashi, tornando a lavoro. «È proprio vero il detto: Dio li fa e Dio li accoppia».

«Anche se sarebbero da accoppare», concluse Kiyo, trucidando i due con lo sguardo. L'unica che trovò la scena divertente, ovviamente, fu Hime, che contagiò subito dopo anche la signora Tamaki, uscita subito dopo, incuriosita.

 

*

 

«Ohi, quant'è che manca all'inizio dei Campionati?», chiese Mito, ficcandosi una mano in tasca e l'altra a reggere la cartella, sulle spalle.

«Due settimane... non vedo l'ora!», rispose una saltellante Hime per il gemello, che stava sbadigliando con le fauci spalancate, distrutto dal sonno.

Lunedì era arrivato per tutti, dopo un fine settimana carico di novità, qualificazioni e risse. Sì, risse con tanto di cerchio di persone a fare il tifo - chissà di chi si trattava? Nobunaga, infatti, si era rivelato un gran taccagno attaccato alla pecunia e non aveva voluto dare la somma in palio a Hanamichi, dicendo che la scommessa non era valida; le scuse che tolse fuori come un coniglio dal cappello furono molteplici, una peggio dell'altra: non gli aveva stretto la mano, non aveva mai detto di scommettere veramente ma la sua era più una supposizione che altro... fino ad arrivare alla goccia che fece traboccare il vaso.

Veramente all'inizio io me medesimo avevo detto che avrebbero fatto pace, ma tu sei talmente rincoglionito che probabilmente quei capelli rossi ti hanno mangiato il cervello.

Immediata era arrivata la risposta.

Maledetta Scimmia Spelacchiata! Sei tu quello con i capelli lunghi! I tuoi vivono una vita propria, idiota!

Hime non aveva fatto in tempo a dire una preghiera a Buddha che quei due avevano già iniziato a suonarsele di santa ragione.

Ebbene, il lunedì era arrivato per tutti, così come stava arrivando una furia in bicicletta che rischiò di investire qualsiasi cosa respirasse e che avesse la malaugurata sfiga di trovarsi sulla sua direzione.

«Dovrebbe seriamente farsi controllare quei freni», disse Yoehi, corrugando la fronte.

«Tra lei e il Volpino non saprei chi sia meno pericoloso su due ruote», commentò Hanamichi.

Manco detto e il rossino si ritrovò gambe all'aria e una ruota di bicicletta ficcata tra le natiche. Il viso gli divenne cremisi peggio dei suoi capelli, per poi tendere ad una colorazione più violacea. Se fosse per il dolore o per l'affronto Hime e Yoehi non osarono chiederlo, ma era altamente probabile che tra poco sarebbe scoppiato peggio di una pentola a pressione.

Due secondi più tardi si scatenò l'inferno su Kanagawa.

Hime e Yoehi si defilarono immediatamente, ormai consci che non sarebbero riusciti a risolvere le cose con le buone maniere. Sana era appena scesa dalla sua bici e, sistemata la chitarra sulle spalle, aveva aperto la borsa di scuola e ne aveva tolto fuori un mazzo di volantini colorati, distribuendoli ai passanti.

«Buongiorno Nacchan! Ti dai al volantinaggio, ora?», la salutò Hime, con un sorrisone da orecchio a orecchio.

Quella ricambiò, sospirando poi avvilita. «Mia zia mi ha incastrata con un concerto di fine anno. Stiamo cercando dei buoni membri per il gruppo che suonerà, speriamo di trovare qualcuno. Tu sai per caso se qualche tuo amico suona?».

Hime ci pensò su un attimo, guardando pensierosa il suo amico. «Credo che uno dei due gemelli abbia a che fare con la batteria, ma non saprei. Potresti chiederlo a loro, dato che sei nella stessa classe». Poi schioccò due dita, fulminata. «Ora che ci penso, Ryota strimpella con il basso... il che è un po' il colmo, a dir la verità».

«Il Tappo suona il basso?!», esclamò Hanamichi ammaccato dalle botte con il suo miglior nemico, ora inginocchiato e piegato in due da una risata sguaiata, con le lacrime agli occhi. «Questo è troppo anche per me! Ahaha!».

Le due donzelle dovettero ricorrere a tutto l'autocontrollo di cui disponevano pur di non scoppiare a ridere davanti al diretto interessato, appena sceso dalla moto con la sua bella Ayako.

«Ehi, che diavolo ha da ridere questo idiota?», chiese Miyagi, osservando perplesso il suo amico. In risposta Hime prese sotto braccio Sana e, con la scusa di aiutarla con i volantini, si dileguò, trascinandola via.

«Comunque, perché io non sapevo niente di questo concerto?», domandò poi la Sakuragi, leggendo il contenuto di un volantino arancione.

«Perché è ancora tutto campato in aria, ma conoscendo mia zia sono sicura che si farà».

«Ma è un concerto retrò! Ah! Non vedo l'ora!», strillò entusiasta la rossa, trapanando un timpano all'amica. «Devo convincere tutta la squadra a venire e a travestirsi, ci sarà da divertirsi! Possono venire anche persone di altre scuole?».

Sana, nonostante tutto, fu travolta dal suo entusiasmo. «Oh, sì, credo di sì!».

«E poi...», aggiunse Hime, con un sorrisino malefico dipinto sulle labbra. «Il primo gennaio è il compleanno di Ede, potremmo fargli una sorpresa!».

L'altra ci pensò un po'. «Dici che verrebbe?».

«Oh, di questo io non mi preoccuperei... lascia fare ai Sakuragi!». La risata della rossa fu quantomeno inquietante, ma Sanako rise, divertita. Quella ragazza era una sagoma, non c'era che dire.

Qualche minuto più tardi Hime si volatilizzò alla volta del suo ex-Capitano, ben decisa a rompergli le scatole di prima mattina; probabilmente voleva già ventilargli l'idea di vestirsi per il concerto di fine anno, dato che lo salutò saltandogli sulle spalle e spalmandogli il volantino in faccia per farglielo vedere.

Sana, nel frattempo, raggiunse Kiyo, che si stava fumando la solita sigaretta mattutina prima di entrare nello stabile scolastico.

«Sana», la salutò, sbuffando il fumo in alto, per non affumicare l'amica. «Quelli che sono?».

«Hanno tutta l'aria di essere volantini, Kobayashi», fu il commento sarcastico di Hisashi, che era comparso dal nulla alle sue spalle.

«Mitsui, il tuo spirito di patate mi stupisce ogni giorno che passa. Non è che sei troppo simpatico?».

Sanako roteò gli occhi, divertita dal loro battibecco. «Sto cercando componenti per il concerto di fine anno. Idee?».

I due non fecero neanche in tempo a rispondere che Hanamichi, ancora senza fiato per le risate, si appese alla spalla del compagno di squadra che, tra un singhiozzo e l'altro, afferrò solo l'indispensabile per partire per la tangente anch'esso: Ryota suona il basso... il basso, capisci?!

Sana e Kiyo decisero di lasciarli soli a crogiolarsi nelle loro risate - Rukawa avrebbe sicuramente commentato con qualcosa simile a "Due dementi al prezzo di uno" - e non videro che Ryota, sempre più perplesso, iniziò a capire che il soggetto di quell'ilarità fosse lui. Perché diavolo quegli idioti scoppiavano a ridere e riprendevano più forte solo guardandolo?

Lo capì all'ora di pranzo, quando raggiunse sulla terrazza mezza squadra più i seguaci di Sakuragi, Kiyo e Sanako. Quest'ultima gli si avvicinò per chiedergli qualcosa riguardo un concerto e appena lui ammise di suonare il basso fu la fine. E non poté neanche fare niente per evitarlo; che fare quando una decina di persone schiamazzava fino alle lacrime? Punirne uno per educarne cento, forse? No, non sarebbe servito a niente, accidenti a loro. Poi un'idea gli balenò in mente e si unì alle loro risate.

Lui era il Capitano.

 

*

 

«Che diavolo di ore sono?», ringhiò Hisashi, col fiato corto alla prima manager.

Quella controllò l'orologio del cronometro e ghignò. «Le sei meno dieci, Mitsui. Manca ancora un'ora e dieci minuti prima che possiate vedere le docce, quindi torna ad allenarti».

Quello imprecò a denti stretti. «Quel nano maledetto, non si può neanche scherzare!».

«Lo sai che prende la questione della sua altezza con molta serietà», lo rimbeccò Ayako, incrociando le braccia.

«La sua bassezza, vorrai dire», puntualizzò Hanamichi, che si beccò immediatamente un calcio nel di dietro dal diretto interessato.

«Voi due, continuate così e rimarrete in panchina a vita», sibilò il Capitano, gli occhi che fiammeggiavano di rabbia e frustrazione. «Cos'è, grandi e grossi voialtri che siete già stanchi?».

I due bisonti ingoiarono il rospo e tornarono alle loro fatiche. Akagi, dall'altra parte della palestra, guardava soddisfatto la scena. Aveva fatto un'ottima scelta con Ryota, non poteva dire il contrario, pensò il Gorilla, ridendo intimamente come un esaltato.

«Ehi Gori, puoi anche toglierti quel ghigno dalla faccia, si vede che stai godendo come un riccio», disse Hime, defilandosi un attimo dall'arduo compito di allenare le matricole.

«Ci mancherebbe altro, è anche più divertente vederlo da fuori che viverlo», disse quello. «So bene cosa stia passando Miyagi e non lo invidio, puoi stanne certa».

«Oh, dai! Non ti manchiamo nemmeno un pochino?», piagnucolò lei, appendendosi al suo braccio e guardandolo con occhi supplicanti.

«Meno di zero!».

«Bugiardo!», gli soffiò Kogure alle spalle, divertito per quel suo moto di orgoglio; sapeva bene che non avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura che quei pazzi scalmanati gli mancassero più di qualunque cosa ­– basket incluso, ovviamente.

«Hime-san! Facciamo un one-on-one così perfeziono il mio attacco e la mia difesa?», le chiese Araki, porgendole una palla e guardandola speranzoso. Potersi strusciare contro di lei con la scusa di giocare era un'idea degna di un pianificatore come lui!

La ragazza strinse gli occhi castani, esasperata. «Ho un'altra idea. Dato che non ci sarò io in campo, perché non scegli un tuo compagno e vi allenate insieme? Anzi, mi sembra un'ottima idea: scambiatevi a turno e vediamo che combinate».

I gemelli Shimura per poco non scoppiarono a ridere nel vedere l'espressione di pura delusione che comparve sul viso di Masuhiro. Era proprio senza speranza.

«Più veloci, forza!», gridava intanto Ryota, battendo le mani. «Hanamichi, muovi quelle gambe lunghe che ti ritrovi! Usale tu che le hai, avanti!».

«Ryo-chan! Sei uno schiavista peggio del King-Kong!», esclamò Sakuragi. «Maledetto il tuo inesistente senso ironico!».

«Corri, spilungone, corri! Come se avessi il diavolo alle calcagna!», disse con un sogghigno beffardo l'altro.

«Stai con un sadico, te ne rendi conto, vero?», domandò Hime all'altra manager, riparandosi preventivamente la testa rossa in previsione di una sventagliata.

Ayako ridacchiò. «No, è solo permaloso. Come lo sono tutti in questa squadra, d'altronde».

«Non è che potresti rabbonirlo un poco? Sai, questi animali ci servirebbero integri e possibilmente vivi per il Campionato Invernale».

«Oh, ma ci arriveranno, tranquilla!», disse quella, strizzandole un occhio. «È solo per oggi, lascia che si vendichi».

«Hn, sarà ma mi sembra che anche tu ci stia godendo. Sono circondata da sadici!».

«E tu hai appena detto un Hn degno di Rukawa, complimenti!». Ayako scoppiò a ridere nel vedere l'amica inebetita e con le guance in fiamme. «Ma come sei permalosa anche tu».

«Taci», sibilò Hime, imbarazzata. «Dovresti saperlo bene anche tu che stando una vita a contatto con qualcuno prima o poi prendi a parlare come lui. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, dice il vecchio saggio». L'occhiatina furbetta dell'altra e l'u-uh poco convinto che la manager fece la mandarono in bestia. «Ti ho già detto che Ede è solo un amico. Capito? A-mi-co! Non mi interessa».

«Chi non ti interessa, Hicchan?».

Maledette siano le orecchie lunghe di Hanamichi! «Corri ad allenarti invece che origliare i discorsi altrui, scansafatiche!», strillò con le fauci spalancate, più rossa che mai. Quello, terrorizzato, se ne andò sbraitando come un ossesso che anche sua sorella si era trasformata in Godzilla e che nessuno gli voleva più bene, povero piccolo genio incompreso.

Hime lanciò una veloce occhiata scocciata a Kaede, ignaro di tutto e, nonostante fosse sudatissimo per l'allenamento bestiale a cui il loro Capitano li stava sottoponendo, era concentrato e determinato a non cedere neanche di un passo. Lui era un campione, voleva diventare una stella nel firmamento del basket e un vero giocatore non si permetteva il lusso di mostrare debolezze. Poche volte era caduto e ogni volta era riuscito a rialzarsi più forte di prima. Hime ripensò a quelle volte, a quando lo aveva sostenuto nei momenti difficili, a quando gli aveva dato la carica per riprendersi e ritrovare lo spirito giusto e la concentrazione; lei era sempre stata presente nella sua vita. E lui? Lui sarebbe sempre stato presente? Ora più che mai aveva bisogno di un amico con cui sfogarsi delle sue paure e delle sue preoccupazioni. Era lui l'amico per eccellenza, ma era anche l'unico con cui non poteva confidarsi. Quella situazione stava diventando insopportabile e insostenibile; e cosa peggiore: non sapeva come uscirne incolume e senza fare danni.

«Dimmi la verità, Hime», le disse seriamente Ayako, in un sussurro. «Se non ci fosse quel Kiyota, cambierebbe qualcosa?».

La ragazza socchiuse le labbra, voltando lo sguardo quando Kaede si accorse di essere osservato. Si spaventò a morte quando si rese conto che sì, probabilmente sarebbe cambiato tutto.

 

*

 

Tornarono a casa alle otto e mezza, tra una cosa e l'altra. I ragazzi si erano attardati parecchio sotto le docce, troppo stanchi per muovere un solo muscolo e spostarsi dal quel massaggio piacevole dato dal getto d'acqua sulle spalle.

«Sono distrutta!», sbuffò Hime, poggiando la testa sulle gambe del suo ragazzo, giunto a casa loro con la sorella per stare in compagnia. «Oggi Ryota è stato incredibilmente bastardo. Dici che se l'è presa per stamattina?».

Hanamichi tirò la testa all'indietro contro il divano, mentre Arimi lo osservava divertita. «Probabile. Oggi ha ricordato i tempi gloriosi dell'Era Akagi; questo è il Post-Negrierismo!», piagnucolò. «E comunque tu non puoi parlare, Hicchan, non hai fatto niente se non l'allenamento con le nuove leve».

«Guarda che è sfiancante sopportare quell'Araki!».

Nobunaga rizzò immediatamente le orecchie. «Ancora quell'idiota? Ma devo proprio cavargli gli occhi, allora!».

Hime ridacchiò, stringendosi una sua mano contro il viso. «Mi faresti un grande favore, mio cavaliere! Ma non in palestra, altrimenti devo ripulire le tracce dell'omicidio, e sangue e parquet non vanno molto d'accordo».

«Tutto per la mia dama preferita! Nobunaga il Prode ti difenderà da qualsiasi Puffo voglia disturbare la tua quiete! Ahaha!», esclamò Nobunaga lo Sbruffone, facendo roteare gli occhi a Sakuragi e ridacchiare la ragazza.

«Nobu-chan, non so perché ma l'immagine di te su un cavallo bianco mi rende perplessa», commentò la sorella. «Forse perché anche tu sei come un cavallo... pazzo come un cavallo, intendo».

«No, Ari-chan, di equino ha solo la chioma, questo qui».

«Ohi, ancora con questa storia?».

Hime gli passò una mano tra quella testa indiavolata. «Perché non li tagli? Almeno un po', per cambiare».

«Mi hai già fatto la stessa domanda, una volta, e se non sei rincoglionita ricorderai bene cosa ti ho risposto», fece Kiyota, sollevando il mento indispettito. «I miei capelli non-si-toccano».

Hanamichi si avvicinò all'orecchio della sorellina della Scimmia, con un sorriso malizioso. «E se glieli tagliassimo nel sonno?».

Arimi sbarrò gli occhi. Ormai aveva capito che qualsiasi cosa dicesse quel Sakuragi avrebbe dovuto prenderlo con le pinze, perché era altamente probabile che lui si prendesse sul serio, se gli avesse dato un po' di troppa corda! «Ma... ma no, gli verrebbe un infarto e io rimarrei senza fratello!».

«Appunto!», esclamò esaltato quello, facendole scuotere il capo, nonostante tutto divertita.

«Senpai, tu sei tutto matto!».  Hanamichi si gasò quando la vide ridere per le sue battute. Allora qualcuno lo trovava davvero divertente!

Il campanello suonò poco dopo e Hime fu costretta a strisciare verso l'ingresso, dato che quel poltrone del fratello non aveva nessunissima intenzione di schiodare il suo bel sodo fondoschiena dal divano. Appena si ritrovò Kaede davanti perse tutto il colorito del viso. Quello sguardo non prometteva niente di buono.

«Ede, che sorpresa! Pensavo che a quest'ora fossi caduto in letargo, dopo la sfaticata di questa sera», disse in un sorriso più falso di un Kobe Bryant che giocava nei Chicago Bulls.

«Dobbiamo parlare».

Cazzo. Kaede Rukawa che chiedeva di parlare?

La fine del mondo era vicina.

«Certo, vieni, entra! Ci sono anche...».

«Hn, no, senza Scimmie nei paraggi».

La fine del mondo era terribilmente vicina.

«Ehi, Hicchan! Chi è?», domandò Hanamichi dal salotto.

«Ma porca miseria, alzati, no? Che razza di padrone di casa sei?», lo rimbeccò Kiyota. Il suono di cuscini che colpivano teste arrivò fino ai due amici.

«Prendo una giacca e arrivo», disse Hime in un sussurro, il cuore che le batteva inspiegabilmente troppo veloce.

Hime, è Kaede, per tutti i Kami! Calmati!

Nobunaga la guardò appena ricomparve dall'uscio di casa e si accorse subito di qualcosa che non andava. «Tutto bene?».

Lei sorrise, tranquillizzandolo. «Sì, tutto bene. Mi devo assentare per un po', tornerò presto».

Hanamichi si decise ad alzarsi. «E dov'è che vai a quest'ora?». Appena vide Kaede poggiato contro lo stipite della porta, vestito con una giacca in pelle nera e un paio di jeans blu, spalancò gli occhi. «Che devi andare a fare con la Volpe, Hicchan?!».

«La Volpe?!», strillò invece Kiyota, balzando dalla poltrona e guardando con odio il suo acerrimo nemico.

Hime sedò tutto diplomaticamente. «Semplice, un amico ha bisogno di me e io per gli amici ci sono sempre. Tornerò sana e salva, tranquilli», disse ridacchiando nervosamente. Diede un bacio sulla guancia a Hanamichi e al ragazzo, lanciandone uno anche ad Arimi; poi seguì Kaede, preparandosi al peggio.

Perché aveva la netta sensazione di conoscere il nocciolo del discorso che avrebbero affrontato?

Rimasero in silenzio per tutto il tragitto, un silenzio diverso dai loro soliti. In quella quiete c'era tensione, c'era nervosismo... e dell'altro, forse.

Kaede la portò sul lungo mare, a quell'ora deserto e frequentato da poche coppiette che si arrischiavano a uscire con quel venticello fresco di Novembre. Il mare era calmo e nero, a qualche decina di metri da loro, e rifletteva la figura eterea della luna, quasi piena. Hime si rilassò un poco chiudendo gli occhi e inspirando a fondo il profumo della salsedine che tanto le piaceva. Le dava un senso di libertà, l'odore del mare. Se avesse potuto scegliere cosa essere nella vita successiva avrebbe decisamente optato per una sirena; l'idea di poter vivere un'intera esistenza nuotando la esaltava. E poi aveva anche i capelli rossi, sarebbe stata un'Ariel perfetta. Magari non sapeva cantare bene come lei, ma avrebbe trovato qualcos'altro da fare, sicuramente.

Non dissero niente per altri cinque minuti, lì, seduti sul muretto che dava sulla sabbia, ad ascoltare il placido movimento delle onde. Poi fu Hime a spezzare quel momento idilliaco. Per la prima volta nella sua vita non riusciva a sopportare tutto quel silenzio.

Tentò una via scherzosa e ammiccante, tanto per spezzare la tensione che ormai si tagliava a fette. «Allora, mi hai fatta uscire al freddo e al gelo per portarmi romanticamente al mare?».

«Non fare la finta tonta, non ti si addice». I suoi occhi blu si spostarono sull'amica, che si osservava senza particolare interesse le punte dei piedi. «Ultimamente sei strana».

«Solo ultimamente?», chiese sarcastica lei. Kaede l'ammonì con lo sguardo e lei sospirò. «Non riesco a nasconderti proprio niente, eh?».

«Hn, no». Incrociò le braccia, in attesa, ma vide che lei non si decideva a parlare, quindi la incalzò. «Sei fastidiosa, così, vedi di farti passare quell'espressione o dimmi che diavolo ti prende, così te la faccio passare io».

«Oh, frasi lunghe e articolate! Fai progressi, Ede, complimenti!».

Lui, in risposta, le diede uno spintone, rischiando di cappottarla sulla sabbia.

«Sai, è buffo», iniziò Hime. «Sei l'ultima persona a cui non potrei dirlo».

Kaede sembrò ferito da quelle parole, perché sgranò gli occhi. Un gesto che gli vedeva fare solo quando qualcuno lo stupiva durante una partita di basket.

«Non prenderla male, Ede, davvero. Ti adoro e ti direi tutto, credimi». Lui la osservò e dal suo sguardo Hime capì che le stava tacitamente chiedendo: E allora perché diavolo non mi parli e mi dici cosa ti preoccupa?

«Io lo so cosa hai».

La ragazza si morse un labbro. «Oh, bene, allora questo discorso non ha motivo d'esistere».

«Riguarda la discussione con Sanako in terrazza».

Bingo.

Quella non era una domanda, era un'affermazione bella e buona, perfettamente ferma e sicura. Hime fu grata alla notte e ai pochi lampioni, cosicché Kaede non potesse vederla arrossire. «Ti ritieni così importante da crederti la causa delle mie preoccupazioni?».

Kaede corrugò la fronte. «Ovvio».

«Egocentrico pallone gonfiato!», sbottò lei, riempiendo d'aria le guance e voltando lo sguardo.

Lui sospirò pesantemente, affondando i piedi sulla sabbia e piantandosi davanti a lei; si chinò sull'amica e poggiò i palmi delle mani sul muretto, accanto ai suoi fianchi. «Sei strana e io voglio sapere perché», disse, deciso a non darle possibilità di scampo. «A costo di tenerti sveglia tutta la notte».

Hime fece una smorfia. «Di questo non mi preoccuperei. Tu che rimani sveglio con me tutta la notte non è un fatto credibile». Appena si accorse dell'occhiataccia fulminante dell'amico si affrettò a dire: «Ok, ok, la smetto di dire cazzate. Non guardarmi così, però. E staccati, non starmi così addosso». Lo spintonò via, scendendo dal muretto e allontanandosi di qualche passo. Quando lui le chiese con lo sguardo il perché di quella reazione rispose: «Perché siamo cresciuti, ecco perché».

Kaede la fermò per un polso e se la spinse contro il torace, abbracciandola da dietro. Un gesto che faceva raramente e solo per lei. Hime sospirò e chiuse gli occhi, abbandonandosi tra quelle braccia che avevano circondato sempre e solo lei.

«Rivoglio la mia migliore amica».

«Non se n'è mai andata, Ede. Solo che ogni tanto ha dei momenti in cui sarebbe da prendere a schiaffi».

«Hn, vero». Il numero 11 dello Shohoku nascose il viso tra quei capelli indiavolati e ne ispirò il profumo. «Neanche io vado via, stupida».

«Neanche quando ti innamorerai follemente di una splendida ragazza - dopo che io avrò ovviamente approvato?», gli chiese, con una piccola punta di divertimento e forse gelosia nella voce.

«Non accadrà». La sentì rilassarsi e sorridere. Ma lui non le disse che quel diniego non era riferito all'ipotetica possibilità di sparire, un giorno; aveva già incontrato la splendida ragazza che lei tanto temeva e non aveva bisogno di andarsene e dimenticarla. Era lei, la sua splendida ragazza.

«Ti voglio davvero bene, Ede», gli strinse le braccia che aveva l'avvolgevano e tirò indietro il capo, per guardarlo in viso. Gli sorrise e, in punta di piedi, gli baciò una guancia gelida. Lo sentì rabbrividire e subito disse: «Torniamo a casa, c'è freddo... e tu non puoi prenderti il lusso di raffreddarti, prima donna dei miei stivali».

Kaede le pizzicò un fianco e lei scoppiò a ridere, prendendolo per mano e iniziando a correre, come facevano da bambini, quando lui era triste e lei voleva solo sollevargli il morale e non fargli pensare a quella bella signora che non sarebbe mai più tornata, ovunque fosse andata.

Il cestista scosse il capo, reprimendo a stento un mezzo sorriso, e la osservò saltellare all'indietro, mentre rideva allegra come quella bambina che l'aveva conquistato.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

E dopo mesi rieccomi! No, non sono morta né ho intenzione di mollare questa faticaccia, perché ci sono troppo affezionata, tranquilli! Vi scrivo da Siviglia, ormai sono qui da un mese e il tempo a mia disposizione si ritaglia in poche ore dopo cena, capitemi! :/

Anyway, so già cosa state pensando dopo aver letto questo capitolo: e ora con la Nobu-Scimmia? L'unica cosa che posso dirvi è che avevo in mente questo piccolo "intoppo" già prima della stesura di Wild Boys, quindi dovevo metterlo... era lì che gridava per essere scritto. Sono curiosa delle vostre reazioni e delle vostre speranze, or ora! ;)

Spero di aggiornare entro la fine del mondo,

a presto!

Marta.

 

PS: vi ricordo il mio account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (:

 

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Capitolo 15
*** 14. Non lo farò più, lo prometto. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 14

Non lo farò più, lo prometto.

 

 

 

«Ripetimi ancora una volta, Ayakuccia: perché diavolo mi sono lasciato invischiare in questo brutto affare?», domandò avvilito Ryota, mentre la sua riccioluta fidanzata sorrideva come una povera pazza nel sistemargli il colletto della camicia sopra la cinghia del basso.

«Perché tu sei un uomo dalle grandi qualità e sai anche suonare uno strumento musicale», disse quella. «E perché te l'ho chiesto con occhioni da cerbiatta, tu hai capitolato ed eccoti qui!», concluse, con tanto di strizzata d'occhio.

Il Capitano dello Shohoku guardò in cagnesco verso la platea del piccolo teatro scolastico. «E mi puoi ripetere anche perché quei cerebrolesi sono tutti qui?».

«Ma per sentirti suonare, che domande!», esclamò Hime, saltellante come una cavalletta e a braccetto con Sanako. Quella pazza era già entrata nella parte, con quei Ray-Ban a goccia rubati al fratello e usati come cerchietto per i capelli. «Hai giustappunto davanti a te la manager ufficiale della festa a tema, mio Capitano! Nacchan mi ha affidato questo arduo compito e abbiamo deciso insieme che il tema sarà anni '70-'80! Non sei contento?». L'occhiataccia dell'amico rispose per lui.

«Suvvia, senpai, almeno non sei solo», tentò di incoraggiarlo Kimi Shimura, facendo girare le bacchette della batteria tra le dita. «Queste due hanno incastrato anche me».

Le due in questione sorrisero candidamente, tanto che Ryota fu colpito dal terribile istinto di spaccare il basso in testa almeno alla Sakuragi - prima o poi quella soddisfazione se la sarebbe dovuta togliere. Ma doveva farlo per la sua Ayakuccia, solo per lei. Doveva stringere i denti e sperare di essere accettato per il ruolo, altrimenti la sua donna l'avrebbe fatto a fette, ne era più che sicuro. Non poteva deluderla, non lo avrebbe mai fatto, cascasse il mondo e Rukawa si mettesse a ballare la cucaracha sorridendo come quel demente di Hanamichi!

E a proposito di Hanamichi, questo era giusto immerso in un racconto demenziale che vedeva il povero Ryota alle prese con un basso più alto di lui - per la gioia e l'ilarità di tutto il resto della combriccola, letteralmente spalmata dalle risate sulle poltroncine del teatro - che neanche si accorse di una figura minacciosa che si ergeva alle sue spalle, con chiari intenti bellici nei suoi confronti. Ma quella volta non si trattò del nuovo Capitano, né dell'ex, che se ne stava ad ascoltare con una manona sulle labbra, pur di nascondere un sorriso e non dargli la soddisfazione; dietro Hanamichi stava niente meno che Masaki Tsukiyama, la zia di Sana, che con un malloppo di spartiti in mano non prometteva niente di buono. Quando il numero dieci dello Shohoku si rese conto che i suoi amici non lo stavano più ascoltando ma erano più interessati a qualcosa alle sue spalle, decise di voltarsi e ciò che vide non gli piacque. Non gli piacque per niente.

«Tu devi essere Hanamichi Sakuragi, il fratello di Hime. Giusto?», gli chiese la donna, assottigliando gli occhi a due fessure. Quello annuì, corrugando la fronte, preoccupato. «E sei anche quello che gironzola sempre durante le ore di lezione perché è troppo intelligente per stare secco e fermo come gli altri studenti. Vero?».

Per sua sfortuna Hanamichi non colse quella sottile ironia che si nascondeva in quell'ultima frase e iniziò a dare di matto. «Ahaha! Certo che sono io, quel genio intelligentissimo, signora! Io non so chi sia, ma vedo che lei mi conosce bene!».

Le narici di Masaki si dilatarono spaventosamente, come un toro prima dell'affondo contro il matador, e il malloppo di spartiti che teneva in mano finì bel bello contro la capa rossa del ragazzo, che si fece piccolo piccolo sulla sua poltroncina. «Esigo il massimo silenzio, d'ora in poi. Niente schiamazzi, niente risate, niente di niente. Se potete evitate anche di respirare», sibilò la donna. Poi, come se niente fosse, vedendo che tutti l'osservavano attoniti, sorrise come una bambina. «Bene, vedo che ci capiamo. Buon ascolto, ragazzi!». E con un ghigno che non prometteva niente di buono, la donna se ne andò sul palco. Lì Hime, seduta a gambe incrociate, li osservava con un sorrisino che era tutto un programma: stava per scoppiare a ridere, ma per pena o forse per timore di subire ripercussioni riuscì a evitare il peggio.

Masaki batté le mani, per richiamare su di sé le attenzioni di tutti. Sana era già sul suo sgabello, al centro del palco, la chitarra sulle gambe e le mani pronte a strimpellare; poco dietro di lei uno scazzatissimo Ryota lanciava a intermittenza prima occhiatacce ai suoi compagni di squadra, poi sguardi pieni d'amore alla sua Ayakuccia preferita; alla batteria Kimi si sgranchiva le dita e i polsi, e i ragazzi si stupirono parecchio nel vedere l'aria trasognante di alcune ragazzine presenti a vedere le prove - del resto si sa, il batterista è quello che più fa conquiste.

«Mi sa che nel tempo libero mi do alla batteria anche io», disse convinto Hanamichi, suscitando subito le risposte sarcastiche degli altri. Ovviamente il più pungente fu il solo e unico Kaede Rukawa, che se ne uscì con un "Con il cranio vuoto che hai sai che grancassa ne esce".

Gli ultimi due componenti del gruppo erano un ragazzo del secondo anno alla chitarra, Genjo, già conosciuto dai ragazzi perché suonava con Sana al bar, e un tastierista, Tadao, dai grandi occhiali da vista con montatura grossa e nera. Sana l'aveva recuperato in un angolo della biblioteca a far finta di studiare - in realtà stava leggendo un pesante libro sui Genesis. Era stato un regalo di Buddha, ne era sicura!

«Devo chiedergli dove ha preso quegli occhiali», commentò Araki, credendo di essere un simpaticone.

Quando si vide i due nemici per la pelle dire in contemporanea "Non ti daranno un'aria più intelligente, Puffo!" e "Rassegnati" - chi disse cosa è facilmente intuibile - Araki diede di matto. Fu sedato con una tirata di orecchie dalla terrorista della situazione, la signora Masaki, che lo sbatté fuori dal teatro senza troppe cerimonie, mentre tutti ridevano fino alle lacrime. Quando la donna si voltò a fulminarli con lo sguardo tutti ammutolirono e da quel momento non si sentì neanche una mosca.

«Quella donna è inquietante», commentò come un ventriloquo Mitsui.

«È pazza, guardala», gli diede corda Kiyo, con una mano davanti alle labbra, osservando la zia della sua amica tornare sorridente come se niente fosse.

«Com'è che si chiama quello lì? Dottor Jack e Mister Clive?», domandò Hanamichi, battendosi un dito sul mento, pensieroso.

Akagi si passò una mano sul viso, rassegnato, mentre l'Armata, Eichiro e Mitsui sprofondarono sui loro sedili scoppiando per le risate, tentando di nascondersi dagli occhi indagatori di Masaki-san. Gli unici che non aprirono bocca furono Kaede e Kiyo, che si scambiarono un'occhiata arrendevole.

«Ehi, perché diavolo state ridendo?!», strillò il rossino con troppa enfasi, interrompendo le prove. Sul palco Ryota, con un pericolosissimo tic all'occhio, stava seriamente pensando di andare dai suoi compagni e spaccare il suo strumento musicale in testa a ognuno di loro, mentre la zia di Sana era già partita a spalancare le fauci per mettere in chiaro le cose.

Hime, nel guardare quella scena, scoppiò a ridere. Guardò il suo ex-Capitano e mimò un cuore con le dita, indicando prima lui e poi la donna. Akagi, in risposta, ghignò, capendo l'antifona. Una versione femminile del King Kong non poteva certo stare che con il King Kong in persona, se solo non fosse stata così grande!

Intanto un uomo, seduto per conto suo lontano da quel caos, osservava divertito quelle scenette comiche, per soffermarsi poi con più interesse sulla chitarrista del gruppo. Più Kiichi Rukawa osservava sua figlia cantare e suonare, più si malediceva per essersi perso la sua vita. S'immaginò come sarebbe stato poterla vedere mentre diceva le sue prime parole, emozionarsi nel sentirsi chiamare papà, oppure darle il suo supporto per farle muovere i primi passi. E poi il primo giorno di scuola, le sue prime lezioni di chitarra e i suoi saggi... che razza di padre non era stato?

Sanako guardò nella sua direzione, mentre cantava Hot in the City, di Billy Idol, e gli sorrise. Kiichi Rukawa, in quel momento, si sentì l'uomo più felice sulla terra e tutti i rimpianti svanirono in quel sorriso, solo per lui.

E tra musica anni '80, una Hime che dietro le quinte ballava come un'invasata con Ayako, e il gruppetto di fanciulle spasimanti di Kimi che era aumentato a vista d'occhio, le prove terminarono dopo un'ora e mezzo. Per la cronaca Hanamichi e l'Armata riuscirono a farsi sbattere fuori anche lì - e certo, Masaki non poteva più sopportare quegli sghignazzi e quel demente del rossino che faceva finta di suonare prima la batteria e poi la chitarra, convinto di andare a tempo, distraendo tutti.

«Buon pomeriggio a tutti! Mi sono perso qualcosa?». Il ridente Sendoh comparve poco dopo, irradiando l'intero teatro con il suo sorriso da pubblicità.

Kaede non si fece, ovviamente, perdere l'occasione di mostrare al mondo tutto il suo affetto per l'ex numero sette del Ryonan. «Il tuo cervello, come sempre».

Akira ridacchiò, scuotendo il capo, mentre il suo migliore amico gli si avvicinava con le braccia incrociate. «Ma non avevi allenamento, tu?».

«Mi sono addormentato dopo pranzo e non ho sentito la sveglia», rispose con un candore unico, tanto che nessuno ebbe il cuore di rimproverarlo.

«Taoka non arriverà ai sessanta standoti appresso», commentò Hisashi, battendogli una mano sulla spalla e andandosene, seguito da Kiyo a qualche metro di distanza. Come se non fosse palese che si stessero allontanando insieme, quei due.

«Ehi, Porcospino, dillo che lo Shohoku ti piace più di quel liceo di poveri! Passi più tempo qui che lì!», esclamò Hanamichi, ficcandosi una mano nella tasca dei pantaloni, mentre l'altra reggeva la giacca della divisa sulla spalla.

«Ah, la colpa è della tua bellissima sorella, Hanamichi!», rispose quello, proprio quando giungeva Sanako, che sorrise un po' imbarazzata e a disagio. Akira, però, non se ne accorse. «Mi ha fatto una proposta indecente».

«Hicchan!», sbraitò spaventato il fratello.

Hime, d'altro canto, tirò un calcione al metro e novanta di perfezione dai capelli anti-gravità. «Nei tuoi sogni, forse, tesoro!», cinguettò, facendolo ridere come un demente. «Gli ho solo chiesto di aiutarmi con la pubblicità. Avrà il faticoso compito di far sapere a tutti i licei di Kanagawa della festa dell'anno, così avremo un po' di ospiti e facce nuove!».

«Ehi, Hicchan! Perché non lo hai chiesto a me?!», chiese col labbrone all'infuori il Tensai, distrutto dal dolore.

«Perché per il fratello migliore del mondo ho in mente qualcos'altro!», rispose quella, con una strizzata d'occhi.

«Hmpf, Buddha ci salvi, allora».

«Ede! Se vuoi coinvolgo anche te! Ho giusto il compito perfetto!».

Rukawa se la ritrovò tra i piedi, saltellante e pimpante. Del discorso che avevano affrontato lunedì notte non ne avevano fatto menzione - come ovvio che fosse - ma era intimamente felice di rivedere la solita instancabile Hime. Gli era mancata. «Tanto non ci vengo a questa roba».

«Oh, non ci scommetterei», gli disse, mentre quello usciva. Lo bloccò in mezzo al corridoio, con le mani sul petto. «Perché continuerò a stressarti finché non cambierai idea, sappilo. E tu conosci bene il mio potenziale!».

«Purtroppo sì».

«Ede!».

«Hn. Noiosa».

Hime incrociò le braccia, ostinata. «Verrai perché mi farebbe un immenso piacere. Verrai per me?».

Se me lo chiedi così. «Scordatelo».

«Daaai! Per favore!», esclamò la ragazza, mettendosi in ginocchio e infischiandosene altamente delle occhiatacce dei pochi passanti. Ormai era risaputo che la sorella di Sakuragi non avesse tutte le rotelle al posto giusto.

«Alzati!», la rimproverò, afferrandola per un braccio e sbuffando. Lei sorrise, sapendo che stesse per cedere.

«Allora, me lo prometti? Verrai?».

Kaede la sorpassò, dandole un buffetto tra i capelli. «Vediamo».

«L'hai detto, eh! Vale la prima!».

Il Volpino corrugò la fronte. Lui non aveva detto proprio niente! La osservò sparire verso il piccolo teatro e scosse il capo nel sentire Akagi lamentarsi per essersela ritrovata sulle spalle.

«E staccati!», brontolò l'ex Capitano, non riuscendo proprio a trovare un motivo valido per cui la vita avesse potuto punirlo e affibbiargli i fratelli Sakuragi. «Tuo fratello sarà anche una scimmia ma tu sei peggio di un koala!».

Gli occhi della ragazza divennero grandi e luccicanti. «Stai dicendo che sono tenera?».

Quello roteò gli occhi. «Sto dicendo che stai sempre attaccata alle spalle di qualcuno, soprattutto alle mie, demente».

Hime sorrise innocentemente. «Ma certo! Sei il mio tronco di eucalipto!».

Per poco non scese un coccolone a tutti. Le avevano sentite tutte: Gorilla, King Kong, Scimmione, Negriero, Schiavista... ma tronco di eucalipto ancora no, quello mancava ancora in elenco. E chi poteva aggiungerlo se non uno dei due Sakuragi?

«Hicchan, ricorda una cosa», disse con fare saggio il fratello, mentre Akagi aveva già bello che pronto un pugno nel qual caso l'idiota avesse detto qualcosa di sconsiderato - e sicuramente l'avrebbe detta. «Ricorda che nessuno può darti della Scimmia, neanche il Gorillone».

Tutti gli istinti bellici dell'ex numero 4 svanirono in un soffio.

Hime si grattò il naso, imbarazzata. «Hana, luce dei miei occhi, non vorrei capovolgere il tuo mondo fatto solo di scimmiette saltellanti, ma tecnicamente il koala è un marsupiale».

«Ecco, tecnicamente! Ma praticamente non lo è!». Vedendo i volti perplessi e scoraggiati degli altri Hanamichi tentò di deviare il colpo, temendo di aver detto l'ennesima cazzata. «Perché sembra una scimmia... no?».

Ryota gli batté una mano sulla spalla. «Mi fai pena, amico mio. Questo modo di vedere tuoi simili ovunque è veramente triste».

Due secondi più tardi il playmaker più veloce della prefettura dovette dare libero sfogo alle sue gambe pur di non dover capitare nel raggio di curvatura del cranio di Hanamichi. L'ultima cosa che voleva era una sua testata.

 

*

 

Kiyo chiuse gli occhi e respirò appieno il profumo salmastro del mare, che si tingeva di rosso con il riflesso del cielo. Il tramonto era il momento della giornata che più preferiva, perché lasciava posto alla notte e lei, nella notte, adorava perdersi.

«Ti piace proprio l'acqua», commentò Hisashi, affiancandola e osservandola con la coda dell'occhio.

«Esattamente come a te piace tanto quella palla arancione».

Il cestista piegò il labbro in un sorriso. «Allora guarda davanti a te e dimmi cosa vedi», le sussurro, alle sue spalle.

Kiyo non poté far niente per evitare di rabbrividire nel sentire quelle mani grandi sui fianchi. Corrugò la fronte nel sentire quella frase, ma non obiettò. Osservò il sole, che lentamente scendeva verso l'orizzonte. Una palla infuocata, arancione, che andava lentamente a sfiorare l'acqua. «Come siamo romantici, Mitsui».

Quello rise di gusto. «No, non credo che la parola romanticismo possa essere affiancata al mio nome, ma era una bella similitudine, la mia, ammettilo».

«E darti la soddisfazione di far crescere il tuo già spropositatamente grande egocentrismo? Scordatelo», fu la replica dell'altra, sgusciando via dalla sua salda presa e regalandogli una smorfia. Hisashi la seguì, con un delizioso sorriso sulle labbra. Quella ragazza era incredibilmente sfuggevole; ma più tentava di allontanarlo più sentiva il bisogno di averla accanto. Mai aveva provato il tremendo piacere di stuzzicare una persona come faceva con lei - tranne con Akira, ma quello era un provocatore nato, non poteva non rispondergli a tono. Ah, se l'avesse visto e sentito in quel momento! Doveva ancora sbollire la lode che l'amico gli aveva fatto dopo aver sentito il racconto dello zio, qualche giorno prima.

"E bravo, Hisa! Zio mi ha raccontato tutto nei minimi dettagli... quanto avrei voluto esserci! Comunque, guarda che ci sono motel a basso costo per fare porcherie con la tua ragazza, non c'è bisogno di nascondersi nel bar!".

Se non fosse stato per la elevata presenza di persone intorno a loro gli avrebbe spaccato il muso, ne era più che sicuro.

«Tra poco devi andare a lavoro», gli ricordò Kiyo, destandolo dai pensieri.

«Non vedi proprio l'ora che levi le tende, eh?».

La ragazza roteò gli occhi, spintonandolo. «Non ti dirò che non voglio che vada per stare con me, Mitsui. Ricordi la storia del tuo egocentrismo?».

Hisashi l'afferrò per una mano e con uno strattone delicato la fece avvicinare spaventosamente alle sue labbra. «Ma io lo so che vorresti che rimanessi».

«Sei un pallone gonfiato, lo sai? Un altro po' e scoppi», brontolò lei, allungando una mano sul suo collo e alzandosi sulle punte dei piedi, per baciarlo.

Il rombo di un motore li separò poco dopo, dato che era tremendamente vicino a loro. E Kiyo si paralizzò sul posto nel riconoscere quella macchina tirata a lucido. Il guidatore abbassò il finestrino, poggiando il braccio sulla carrozzeria nera, e si abbassò gli occhiali da sole. «Ma guarda, la mia bella ragazza in compagnia del facchino. Non hai trovato di meglio?».

«Non sono più la tua ragazza da parecchio. Vedi di lasciarmi in pace», sibilò Kiyo, stringendo forte la mano di Hisashi.

Toshiro piegò il capo, ridacchiando nel notare quel gesto di insicurezza. «Ma guardati. Fai ancora finta di essere una ragazza dura, Kiyo. Quando imparerai che sei debole come tutti gli altri?».

«Ehi, vedi di cambiare aria», s'intromise Mitsui. Lo sguardo che aveva non prometteva niente di buono. Per un attimo Kiyo rivide quello stesso ragazzo che solo qualche mese prima girava per Kanagawa con i capelli lunghi e la fronte corrugata in un'espressione di terribile ira.

«È la seconda volta che mi dai ordini, facchino. Non mettere a prova la mia pazienza, Mitsui».

La Guardia dello Shohoku socchiuse le labbra, sorpreso. Lo conosceva? Si gelò quando quello continuò, con un sorriso che mal celava le sue intenzioni belliche.

«So molto su di te, Mitsui. Anche che il tuo ginocchio sinistro non è stato in buone condizioni. E se te lo rompessi un'altra volta?». Finì appena di parlare che due brutti ceffi in moto raggiunsero l'auto dell'amico. E Hisashi capì che le cose si stavano mettendo veramente male.

«Toshiro, per favore, vattene», disse con una nota d'isteria Kiyo, strattonando la mano del ragazzo al suo fianco per intimargli di non fare idiozie.

«No, non credo che me ne andrò», rispose lui, aprendo la portiera della macchina e sgranchendosi le gambe. «Perché non ci facciamo una chiacchierata tutti insieme, che ne dite? Una cosa amichevole».

Hisashi strinse gli occhi. «Sparisci».

Il sospiro seccato dell'altro fece tremare Kiyo. Stava velocemente perdendo le staffe e lei sapeva che quando Toshiro s'incavolava erano guai seri. Cosa avrebbe potuto fare? Non poteva rischiare che quei due facessero a botte, soprattutto non dopo la minaccia non tanto velata che Toshiro aveva fatto sul ginocchio di Mitsui.

«Kiyoko, uno più socievole potevi trovartelo, però», disse il bullo scuotendo il capo; si avvicinò alla ragazza e allungò una mano per accarezzarle il viso. Hisashi gli bloccò il polso immediatamente e la nuotatrice, vedendo quello sguardo divertito negli occhi del suo ex-ragazzo, capì che il suo era stato un gesto calcolato. Un modo come un altro per attaccar briga.

«Non toccarmi, Mitsui. Mi irrita terribilmente».

«E tu non osare sfiorarla, così siamo pari».

«Tre ordini, amico mio. Mi hai stancato». Il pugno che gli diede lo fece barcollare per qualche istante e Kiyo spalancò gli occhi per l'orrore.

«Smettila, Toshiro, ti prego!», esclamò, tentando di bloccarlo.

Quello se la scrollò di dosso facilmente. «Tenetela ferma, mentre io mi diverto un po'». I due tizi giunti in moto non se lo fecero ripetere due volte, ma furono costretti a lavorare entrambi per sedare quella furia di ragazza che si dimenava per liberarsi.

Hisashi, con il naso sanguinante, osservò l'altro con odio. Doveva avere almeno vent'anni ed era ben piazzato; era solo un po' più basso di lui, ma quanto a forza ci sapeva fare. Non sarebbe stato semplice tenergli testa senza uscirne illeso.

Spero che questo vi abbia fatto passare la voglia di accapigliarvi tra di voi.

Strinse i pugni nel ripensare a quel brutto momento della sua vita che aveva messo da parte con dignità, insieme all'orgoglio. Era stato un ragazzo orribile in quei mesi e si era prefissato di non tornare più sui suoi passi, neanche per sbaglio. E poi c'era quella promessa, quella promessa che pesava più di un macigno.

Assolutamente no. Non farò mai più a botte, con nessuno.

Quando scansò il secondo pugno e glielo restituì all'addome il suo cuore si spezzò al pensiero dell'allenatore Anzai quando avrebbe scoperto che la sua promessa era venuta meno.

 

*

 

Kiichi Rukawa e la figlia erano seduti su una panchina, vicino al campetto dove i gemelli Sakuragi e Shimura, con Miyagi, Sendoh e Akagi stavano giocando. Sì, proprio così, Takenori Akagi non aveva retto un secondo di più quando Hime lo aveva invitato a divertirsi un po' con loro, per ricordare i bei tempi. Era sicuro che quella disgraziata, prima o poi, sarebbe riuscita a farlo capitolare e a costringerlo a tornare in squadra. D'altronde ogni occasione per i ragazzi, anche quando non c'erano gli allenamenti, era buona per il basket, soprattutto in vista del prossimo Campionato. A completare il quadro l'immancabile Armata, che non perdeva occasione di rompere le palle al suo bersaglio preferito, mentre Ayako si tratteneva a stento dal sedare tutto con una bella sventagliata a ciascuno.

«E così sono questi i ragazzi di cui mi parlavi», disse Kiichi, osservando quegli scalmanati che sembravano divertirsi un mondo con quella palla tra le mani. «Sembrano delle brave persone».

«Oh, sì, lo sono. È una fortuna averli incontrati», rispose Sana, sorridendo nel guardarli. «Peccato che non ci sia Kaede, altrimenti te lo avrei presentato».

L'uomo fece spallucce. «Stavo pensando di andare a trovare mio fratello, un giorno di questi. Vorrei riallacciare i rapporti anche con lui. Verresti a farmi compagnia?». Quando la figlia gli sorrise con gioia Kiichi non poté trattenersi e l'abbracciò. «Come ho fatto tutta questa vita senza te?».

Sanako non rispose, ricacciando indietro le lacrime. Basta piangere per quella storia, si era detta. Aveva sofferto come una dannata e continuava a soffrire se solo ci pensava; ma ora suo padre era tornato, ed era lì con lei. E l'abbracciava. Non poteva chiedere di meglio.

Si separarono quando sentirono il rossino sbraitare qualcosa contro un nuovo arrivato.

«E lui chi è? Un altro tuo amico?», chiese Kiichi, osservando quel ragazzo con una vistosa fascia viola sulla fronte, accompagnato da una ragazzetta che gli somigliava molto e che si reggeva a stento sulle sue gambe.

«Non proprio, cioè lo conosco solo perché è il fidanzato di Hime, quella con i capelli rossi», gli spiegò la figlia. «Però per quel poco che ho potuto capire è un ragazzo simpatico anche lui. Adora attaccar briga con Hanamichi e con Kaede!».

L'uomo osservava la scena davanti ai suoi occhi piuttosto perplesso. «Vedo».

«Ohi, che palle! Hicchan, l'hai invitato tu?», domandò Hanamichi col labbrone all'infuori per la delusione. Ma quella era già andata zampettante verso il suo ragazzo che, doveva ammetterlo, aveva trascurato un po' in quell'ultimo periodo. Tutta colpa di quella strega di Ayako, dell'altro maledetto Yoehi e soprattutto del suo migliore amico. Sì, era colpa loro, non sua.

Nobu le sorrise, dandole un veloce bacio sulle labbra, per poi rivolgersi al suo "cognato", con la solita aria da strafottente che tanto gli piaceva sfoggiare. «No, mi ha invitato Sendoh, demente! Certo che mi ha invitato lei!».

Akira non si fece sfuggire la battuta. «Beh, dato che Hisashi mi ha tradito con la bella nuotatrice devo pur rifarmi con qualcuno, no?».

«Sendoh, sei allucinante», commentò Akagi, mentre quello scoppiava nella sua consueta e cristallina risata.

«Uhm... e quel Rukawa che fine ha fatto?», domandò con neanche mal celato fastidio la Scimmietta Saltante del Kainan.

«Se n'è andato alla Volpaia a dormire, cos'altro potrebbe fare quello lì?», rispose con ovvietà Hanamichi, scrollando le spalle.

«Ma è strano che non si sia unito a giocare, conoscendolo», commentò Yoehi, guardando Hime che per un attimo si perse in qualche suo pensiero.

«Comunque meglio che non ci sia, mi irrita anche solo sentirne parlare», disse Nobunaga, stringendo possessivamente la sua donzella. Aveva capito che ci fosse qualcosa di strano, in quell'ultimo periodo, e aveva il tremendo sentore che il pericolo arrivasse proprio dalla Volpe dello Shohoku. Gli aveva soffiato il titolo di miglior matricola dell'anno, non gli avrebbe soffiato anche la ragazza! Perché lui era Nobunaga Kiyota, il grande amante di Kanagawa!

«Ehi, Ari-chan, perché tuo fratello ha quella faccia da esaltato?», chiese Hanamichi, agitandogli una mano davanti agli occhi sognanti, mentre quella ridacchiava.

«Bah, si sarà perso nelle sue solite elucubrazioni di superiorità, non mi preoccuperei», commentò Ryota. «Riprendiamo a giocare o cosa?».

«Nobu, ti unisci a noi?», cinguettò Hime, appendendosi al suo braccio.

Quello tornò a sorridere come un ebete, sistemandosi la fascia con uno sguardo determinato. «Ma certo! Mancavo solo io! Ahaha!».

«Ora inizieranno a litigare su chi dovrà stare in squadra con Hime, ci scommetto tutto quello che vuoi», commentò Yoehi, piegando le braccia dietro la nuca.

«Oh, lo credo anche io», rispose Ayako. «Tre, due, uno...».

«Non ci pensare nemmeno, maledetta Scimmia Pulciosa! Con Hicchan sto io!».

«Che cavolo vuoi?! Tu la vedi ventiquattro ore su ventiquattro, lasciamela almeno in queste occasioni!».

«Tra i due litiganti il terzo gode, dice il saggio! Hime, mia adorata, io e te faremo schemi da scintille».

«Tu non osare guardarla, maledetto Porcospino!».

E mentre Hime ridacchiava imbarazzata, conscia che tutto quel casino era in parte anche merito suo, Akagi vide bene di sistemare le cose una volta per tutte.

E Kiichi Rukawa spalancò la bocca nel vedere quel cimitero di teste fumanti. «Effettivamente quello non mi sembra un tipo raccomandabile».

Oh, se solo gli altri lo avessero sentito, pensò Sana. Già si immaginava i gemelli Sakuragi, insieme ai senpai Miyagi e Mitsui ridere a crepapelle, spalmati per terra nel tenersi la pancia, mentre il diretto interessato non avrebbe saputo se piangere per il fatto che era lui il buono della situazione o se mettere le cose in chiaro anche con l'uomo. Fortuna che fossero a distanza di sicurezza e fossero troppo occupati a fare i loro casini per badare a loro. Solo Akira e Yoehi ogni tanto lanciavano qualche occhiata nella loro direzione, ma Sana ovviamente si accorse solo del primo. Sorrise senza accorgersene nel pensare a quel ragazzo, ma vederlo fare il demente con Hime o con qualsiasi altro essere di sesso femminile la ingelosiva parecchio. Sapeva che la sua era solo scena e che non stavano insieme per avere delle pretese, ma avrebbe preferito mille volte di più che evitasse, così... così non si sarebbe ingelosita, ecco.

La ragazza corrugò la fronte e il padre, notandola, fece altrettanto. «C'è qualcosa che ti preoccupa?».

«Eh? Cosa? Oh, scusami! No, niente, non mi preoccupa niente!», esclamò lei di slancio, arrossendo vistosamente. Accidenti ai suoi viaggi mentali senza ritorno! «Pensavo che... beh, ecco... pensavo. Sì, pensavo!».

L'uomo sollevò le sopracciglia. «A cosa?».

Sana si rese conto della pericolosità di quella domanda, e si affrettò a dire: «Niente, niente!». Si batté una mano sulla fronte, maledicendo la sua brutta abitudine a non pensare prima di parlare, mentre il padre l'osservava sempre più perplesso. «Cioè, è ovvio che pensavo a qualcosa e non al nulla, ti ho detto che pensavo, del resto... oh Kami, starò sicuramente passando per pazza, vero?».

Kiichi scoppiò a ridere per la prima volta dopo anni e le cinse le spalle con un braccio, baciandole la fronte. «La mia pazza figlia», sussurrò, con gli occhi lucidi per la commozione e per le risate.

La serata trascorse tra scontri più o meno accesi di basket e parole: Akagi regalò qualche altra decina di pugni, tanto per non perdere la mano; Hanamichi sciorinò qualche altra demenzialità per la gioia dell'Armata che si era portata dietro i pop-corn per assistere allo show; Sendoh ci provò spudoratamente con Hime solo per far ingelosire il fratello e il fidanzato - e questi due ovviamente non poterono esimersi dal rispondergli a tono a tutte le provocazioni... insomma, c'era stato il solito caos, quindi tutto nella norma.

Quando si fecero velocemente le otto di sera pian piano tutti si avviarono verso le loro confortevoli case. Era stata una giornata un po' più sfiancante delle altre - non fosse per la quantità di risate che si erano fatti durante le prove musicali, l'idea che Ryota suonasse il basso era ancora troppo folgorante per non farli scoppiare a ridere come dei dementi ogni volta che ci pensavano - e l'unica cosa che tutti volevano fare era mangiare un bel piatto sostanzioso e buttarsi sul divano davanti alla tv, come i migliori maiali del mondo, possibilmente con un bicchiere di coca-cola in una mano e il telecomando nell'altra.

Ma quella sera l'intero Shohoku non riuscì a dormire.

Quella sera l'intero Shohoku venne sconvolto da una telefonata. Una notizia che nessuno si aspettava, una notizia talmente brutta e preoccupante che li lasciò tutti senza fiato.

Mitsui era finito in ospedale.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

E dopo pochissimo tempo - neanche io mi aspettavo di aggiornare così presto! - rieccomi qui! Sono stata piacevolmente colpita nel vedere la positività con cui avete accolto la novità dello scorso capitolo! Ora son curiosa di vedere come prendete questa. Sarà la volta buona che mi ucciderete di morte lenta e dolorosa, lo sento. *_*"

A presto, spero!

Marta.

 

PS: vi ricordo il mio account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E ora è arrivato anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! Lo potete trovare qui. :)

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Capitolo 16
*** 15. E tornerai a combattere. ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 15

E tornerai a combattere.

 

 

 

Hime e Hanamichi giunsero in ospedale sul motorino di Yoehi, che gliel'aveva prestato in mancanza d'altro quando quelli erano piombati in casa sua con un'espressione che era tutto un programma. Akira, che li aveva chiamati, li aveva informati che lo avrebbero trovato al terzo piano; e infatti eccolo lì, poggiato contro il muro, accanto a una porta che recava la scritta "Risonanze Magnetiche".

«Non è un buon segno», sussurrò Hime, che stringeva forte la mano del fratello.

Hanamichi sembrava angosciato. «Dici che si tratta del ginocchio?».

La sorella non fece in tempo a rispondergli, perché Akira si accorse di loro e gli venne incontro. «Ciao ragazzi. Avete fatto in fretta».

Il rossino scrollò le spalle. «Che è successo?».

Il nuovo numero quattro del Ryonan si sedette sulle poltroncine libere, invitandoli a fare altrettanto. Pochi secondi dopo li raggiunsero anche Ryota, Ayako, Akagi e Kogure, con un po' di caffè per la nottata, anche se erano sicuri che non avrebbero chiuso occhio comunque.

«Ci ha raccontato tutto la Kobayashi, anche se molto sbrigativamente. Era sconvolta», iniziò Akira, sospirando. «Stavano passeggiando sul lungo mare quando è comparso il suo ex, un tipo poco raccomandabile a quanto ho capito. Me ne aveva parlato anche Hisashi, qualche tempo fa. Insomma, lo ha provocato finché non sono arrivati alle mani».

Hime si portò le mani alla bocca. «Come sta? È grave?».

Ryota si stravaccò sul divanetto accanto alla sua fidanzata, passandosi una mano sulla fronte. «Aveva il labbro spaccato e il naso sanguinante; un pacco di lividi, occhio nero e... e il ginocchio dolorante».

Merda.

«I medici che dicono?», domandò Hanamichi, lanciando una veloce occhiata a Kaede, giunto in quel momento - e miracolosamente in piedi senza ciondolare dal sonno, nonostante l'ora tarda. Doveva essere preoccupato anche lui quanto loro.

Fu Akira questa volta a rispondere. «Vostra madre è stata l'infermiera che lo ha accolto appena è arrivato; lo ha riconosciuto e ha cercato subito la sua cartella clinica; così hanno deciso di fargli una risonanza al ginocchio, per vedere se è compromesso... era gonfio e viola, temono che sia lesionato».

Merda. Merda!

«E lo stronzo che lo ha ridotto così dov'è?», domandò Kaede, con un tono di voce che non prometteva niente di buono. Hime rabbrividì.

«Se n'è andato dopo essersi divertito», fece Akira, poggiando il capo contro il muro alle sue spalle. «Che c'è, vuoi chiamare una spedizione punitiva?».

«Ragazzi, non diciamo idiozie», intervenne subito Ayako, annusando odore di pericolo. «Guardate Mitsui in che condizioni è! Inoltre rischiamo di perdere un giocatore per il Campionato, vogliamo farci espellere tutti?».

Le occhiate che Ryota, Hanamichi e Kaede si lanciarono fecero capire che non avevano prestato ascolto a una sillaba di ciò che la manager aveva appena detto.

«Ehi, deficienti, scordatevi di fare stronzate di alcun tipo», disse duramente Akagi, stringendo gli occhi. «Osate anche solo pensarlo e ve la vedrete con me. Sono stato chiaro?».

«Gori, non sei più il nostro Capitano», disse sarcasticamente Hanamichi, che si beccò subito un pugno in testa.

«Sono vostro amico, idiota! E sono più grande di voi, è mio compito educarvi».

«Takenori ha ragione, ragazzi», s'intromise Kogure, pacato come sempre. «Non è con le mani che si risolveranno le cose, lo abbiamo già visto in passato. L'unica cosa da fare è denunciare il fatto alla polizia e sperare che Mitsui si riprenda, in tempo o meno per il Campionato non ha importanza».

I tre borbottarono qualcosa, ma non aggiunsero niente.

«Ora dov'è Kiyo?», domandò Hime, con voce roca. Perché aveva la netta sensazione che stesse per succedere qualcosa di veramente orribile?

«Fuori, a fumarsi il terzo pacchetto di sigarette. C'è anche Sana a farle compagnia», disse Akira.

«Le raggiungo un attimo, scusatemi».

Hime si allontanò verso il terrazzo, lasciandoli in un profondo mutismo. Sembrava morto qualcuno, data l'aria funerea sulle loro facce. Dove sarebbero andati senza Mitsui al Campionato Invernale? Mancavano solo due misere settimane... non ce l'avrebbe fatta a recuperare, a seconda del problema che aveva riscontrato.

Qualche minuto dopo chiusero il quadretto anche le nuove leve - gemelli Shimura e Araki - accompagnati dall'allenatore Anzai. Sarebbero stati dolori per Hisashi, ora che avrebbe scoperto cosa fosse successo. Il Buddha dai Capelli Bianchi ascoltò il racconto in silenzio, inespressivo, sistemandosi di tanto in tanto gli occhiali da vista sul naso. Poi, con un sorriso, disse: «È un bene che siate tutti qui, potrà solo giovargli al morale. Quindi niente visi abbattuti, ragazzi».

Come sempre le parole del Nonno avevano ottimi poteri curativi e l'aria di tensione sembrò dilatarsi un poco. Almeno finché la porta dell'ambulatorio non venne aperta.

«Mamma! Come sta?», chiese Hanamichi, alzandosi e correndo dalla donna, che teneva una cartelletta in mano.

«Non benissimo. È un ragazzo forte ma parecchio irascibile, l'ho dovuto calmare per evitare che tremasse di rabbia mentre lo medicavo e il dottore lo visitava».

«Il ginocchio?», domandò Akagi, con la mascella contratta.

«Non ne so molto, il dottore sarà più esaustivo di me, ragazzi», rispose la donna. «Sta visionando le lastre ora, tra poco sapremo il bollettino». Misato Sakuragi sorrise al figlio e poi a Kaede. «Suo padre farà un buon lavoro, tranquilli».

I presenti osservarono senza capire prima la donna poi il loro compagno di squadra, ma questo non sembrò voler dare spiegazioni. Era piuttosto chiaro che suo padre fosse il medico in questione, no?

Quando Kanbe Rukawa fece la sua comparsa si stupì un poco nel vedere tutti quei ragazzotti alti più di un metro e ottanta - con le dovute eccezioni, ovviamente - nella saletta di attesa. Cercò con lo sguardo il figlio e lo salutò con un occhiolino. «Allora, ragazzi, immagino vogliate sapere il verdetto. Non sono notizie pessime, tranquillizzatevi». Tutti si ammutolirono, in attesa che continuasse. «Il vostro amico ha avuto in passato problemi di menisco, come ben sapete; il tizio che lo ha ridotto così gli ha provocato una lesione meniscale con rima radiale, da operare con meniscectomia artroscopica».

Kaede sbuffò, mentre il resto dei ragazzi lo fissavano attoniti. «In lingua corrente?», chiese, per tutti.

Il medico ridacchiò, divertito. «In parole povere, c'è stata una violenta rotazione del femore sulla tibia, che ha prodotto una distorsione del menisco. Non è niente di incurabile, è un trauma benigno, chiamiamolo così, e i tempi di recupero non sono lunghissimi. Dobbiamo operarlo subito, per rimuovere il menisco instabile presente».

«Quanto tempo dovrà stare fermo, Kanbe-san?», domandò Hime, rientrata poco prima con le altre due ragazze.

«Come vi dicevo non sarà una riabilitazione lunghissima. Ne ho già parlato anche con lui; dovrà tenere un tutore finché non sarà io a dirgli di toglierlo e i primi due, tre giorni dovrà evitare di sforzare il ginocchio, per cui gli consiglio di usare delle stampelle. Tra controlli e fisioterapia in un mese direi che dovrebbe riprendersi del tutto».

«Un mese?», esclamò Hanamichi. «Un mese è troppo!».

«Do'aho, ha un ginocchio sfasciato».

Kanbe-san sorrise e interruppe i due prima che iniziassero a battibeccare come il loro solito. «La microfrattura che ha non è niente di grave, come vi ho detto. Se farà esattamente ciò che gli prescrivo per le prime due settimane, alla terza potrà già fare esercizi pre-atletici; e a conti fatti tornerebbe in tempo per la finale, no?».

«Nel fortuito caso in cui arriviamo in finale», borbottò Ryota, sprofondando nuovamente sulla poltrona, mentre Ayako gli stringeva forte la mano per incoraggiarlo.

«Ragazzi, che vi ho detto poco fa?», disse l'allenatore, guardandoli uno a uno. «Non abbattetevi. Hisashi non sarà in campo con voi, ma vi supporterà. E voi non dovrete deluderlo».

«Certo che non lo deluderemo!», disse Hanamichi, stringendo un pugno e sorridendo, determinato. «Vinceremo per Mitchi! Raggiungeremo la finale! Giusto?».

I ragazzi dello Shohoku annuirono, gridando insieme un "Sì" battagliero - e causando molteplici infarti alle vecchiette nei reparti vicini.

Hisashi uscì qualche minuto dopo in sedia a rotelle, accompagnato da Misato Sakuragi, e quasi si commosse nel vederli tutti lì, per lui. Lo accolsero con sorrisi calorosi, pacche sulle spalle e baci e il suo morale a terra salì lievemente in meglio. Era più che sicuro che, con loro vicino, non avrebbe fatto lo stesso errore che fece solo qualche anno prima. Kiyo gli fece un lieve sorriso di incoraggiamento e lui strizzò l'occhio che non era tumefatto. Ma quando vide l'allenatore Anzai che lo fissava avrebbe preferito finire sepolto sotto dieci metri di terra piuttosto che dovergli delle spiegazioni.

L'uomo gli si avvicinò, senza una parola. Poi scoppiò nel suo consueto "Oh oh oh" e le preoccupazioni che gli si erano accumulate addosso in quelle ore sparirono definitivamente.

«Signor Anzai, mi dispiace per non aver mantenuto la promessa», gli disse il ragazzo, chinando il capo in segno di scuse.

«Non preoccuparti di questo, Mitsui-kun. La violenza non è mai la risposta, e mi dispiace che si sia arrivati a questo punto. Ma ora l'importante è che ti riprenda e che torni più forte di prima. Intesi?».

Hisashi si sciolse in un sorriso e annuì. «Glielo prometto, signor Anzai. E questa volta non verrò meno alla mia parola».

Con l'ennesimo "Oh oh oh" nelle orecchie Hisashi venne portato in sala operatoria e, prima di sparire nel corridoio, alzò un pollice ai suoi amici. Sì, sarebbe tornato più forte di prima, lo doveva a tutti loro.

 

*

 

Hanamichi guardò il compagno di squadra con tanto d'occhi. «Ehi, Kit, come mai non dormi? Non mi dire che stai perdendo la narcolessia?».

Kaede sbuffò. «Hn... non sai neanche cosa vuol dire, Do'aho».

«Ohi, vorresti solo un terzo della mia cultura, Kit!».

«Buddha non voglia».

Il loro battibecco fu interrotto da un movimento di Hime, sdraiata per metà sulle cosce del fratello e per l'altra metà su quelle dell'amico.

«Ecco, vedi, l'hai svegliata con le tue scemenze», borbottò Hanamichi. Si sporse per osservarla in viso e notò che stava ancora dormendo. Sorrise, quando le sfiorò la guancia con un dito. «La mia Hicchan», sussurrò, orgoglioso. Kaede chiuse gli occhi, mentre con le mani sulle gambe della ragazza muoveva impercettibilmente i pollici in lievi carezze, come se fosse un movimento non voluto, dettato dalla noia; l'amico, accanto, l'aveva notato, ma forse per non svegliarla, forse perché troppo stanco non aveva osato sbraitare di togliere quelle sudice zampacce volpose dalle gambe della sua adorata sorellina, neanche con un'occhiata micidiale.

«Ma quanto ci vuole per un intervento come questo?», domandò Ryota, sulle spine come tutti.

«Calmo, è entrato solo un'ora fa», disse Akagi, che nonostante non facesse più parte della squadra, non se la sentiva di lasciarli soli; e poi quel disgraziato di Mitsui era un suo amico, rompipalle fino al midollo, ma era un amico.

«Un'ora? Mi sembra passata una vita da quando siamo qui», sussurrò Ayako, passandosi una mano tra i riccioli.

Akira, stranamente silenzioso per la preoccupazione e poggiato contro la parete bianca - non ce la faceva proprio a stare seduto in quei momenti - si voltò alla sua sinistra, quando si accorse di un camice bianco che si muoveva verso di loro. Kanbe-san comparve in quel momento, con un bel sorriso sul viso sereno - così simile eppure tanto differente da quello serio del figlio.

«Ragazzi, siete ancora qui? È tardi», disse loro, incrociando le mani dietro la schiena e osservando divertito i suoi tre figli - perché non poteva non considerare figli anche i gemelli Sakuragi.

«Come sta?», chiese di slancio Kiyo, appena tornata dall'ennesima sigaretta, ed esprimendo ad alta voce il pensiero di tutti. Aveva fatto una promessa a Buddha, però: avrebbe smesso di fumare, se Mitsui fosse uscito indenne da quella brutta faccenda. Sperava veramente che così fosse.

«Oh, il vostro amico è un ragazzotto forte, è andato tutto bene, state pure tranquilli».

I ragazzi tirarono uno sbuffo di sollievo. Ora dovevano solo sperare che si riprendesse in fretta e bene, soprattutto.

«Adesso sta riposando, potrete fargli visita domani... all'ora che volete, avete il mio permesso», aggiunse, con una strizzata d'occhi. «Andate a casa, ora. Domani avete lezione», disse, lanciando un'occhiata eloquente al figlio, che fece finta di non sentirlo.

«Grazie mille, Kanbe-san», fece Hime, abbracciandolo. «Sapere che Hisashi è nelle tue mani mi rincuora non poco. Buona notte!».

L'uomo le passò una mano tra i capelli e li salutò tutti con un bel sorriso. L'unica che rimase in ospedale fu Kiyo, che aveva deciso di attendere il risveglio del ragazzo prima di andarsene, anche a costo di rimanere lì tutta la notte. Non poteva lasciarlo senza averci parlato un poco, dopo quello che era successo. Ovviamente a farle compagnia rimasero anche Sana e Akira, la prima per solidarietà alla nuotatrice, il secondo perché quello in un letto di ospedale era il suo migliore amico ed era tremendamente preoccupato per lui.

Ryota si avvicinò a Rukawa, nascondendo uno sbadiglio con una mano, mentre l'altra era ben stretta a quella di Ayako. «Mi spieghi da chi cavolo hai preso il tuo brutto carattere? Tuo padre mi sembra il tuo esatto opposto».

«Forse è stato adottato», ipotizzò Araki, che si beccò un'occhiataccia fulminante dal diretto interessato.

«Il tuo cervello è stato adottato, Puffo!», rispose Hanamichi, incredibilmente in difesa del suo miglior nemico. Conosceva bene, come la sorella, il perché di quel suo modo di comportarsi e in cuor suo gli faceva male sapere che il pensiero di Rukawa sarebbe inevitabilmente volato alla madre. Meglio troncare la discussione al principio per evitare situazioni spiacevoli.

Hime si avvicinò all'amico e lo prese sotto braccio. «Dormi da noi, ok? Casa tua è troppo lontana da qui ed è tardi».

Lui la guardò di sottecchi. «È un ordine?».

«Sì, direi di sì», ridacchiò lei. Salutarono i Gemelli Siamesi e l'idiota di turno, Araki, che finalmente si levò dalle palle, come precisò Hanamichi.

«Quel tizio è inquietante», commentò Ayako, suscitando l'accordo degli altri quattro.

«È un pallone gonfiato, peggio di Kiyota», fu la risposta del suo ragazzo, che si beccò un calcione da Hime. «Beh, non mi dirai di no?!».

La rossa sbuffò. «Sì, Nobu è egocentrico, ma quell'Araki lo è ancora di più! È arrogante, e a me i tipi arroganti non piacciono».

«E poi ti guarda troppo, questo mi basta per tenere alla larga quei suoi brutti capelli blu!», sbraitò possessivo Hanamichi, appendendosi al collo della sorella, che gemette in quella morsa di abbraccio.

«Do'aho, le stacchi la testa, così».

«Ne ha mai avuta una?», domandò a se stesso, ma a voce alta, Akagi. L'occhiata di sufficienza che Hime gli regalò lo fece sorridere. Adorava punzecchiare i fratelli Sakuragi, era il suo passatempo preferito. Li conosceva da nemmeno un anno, eppure era come se fossero cresciuti insieme; semplicemente li adorava. Ma non lo avrebbe detto nemmeno sotto le più atroci torture cinesi.

Il gruppetto si salutò dieci minuti dopo e Kaede, un po' per forza, un po' per propria volontà, seguì i gemelli verso casa loro, ancora vuota. La madre aveva il turno di notte, infatti.

«Beh, Kit, la tua cuccia la conosci. Notte», biascicò Hanamichi, buttandosi sul divano e addormentandosi immediatamente. Quando iniziò a russare Hime fu costretta a soffocare una risata con le mani, mentre Kaede scuoteva il capo.

«Io qui non dormo, con questo qui che canta».

La ragazza gli tirò un buffetto contro il braccio. «Vuoi farmi credere che il narcolettico per eccellenza non riesce a prendere sonno? Ma se ti addormenti anche in piedi!».

«Hn. È irritante».

Hime roteò gli occhi. «D'accordo, dormirai in camera di Hanamichi», disse, sconfitta. «Ci ucciderà entrambi, appena lo scoprirà».

Il ragazzo gemette. Già se lo immaginava l'Idiota sbraitare baggianate per tutta la casa, come: dovrò disinfestare la stanza, ora! Mamma, portami il ddt anti-volpini, presto! È un'emergenza!

«Dormici tu in camera di tuo fratello, io vado nella tua».

«Scordatelo. Tu, da solo, in camera mia non entri».

E questa novità? «Hn?!».

Hime arrossì. «Ede, sono una donna, ormai!».

«Ancora con la storia che siamo cresciuti?», le domandò, passandosi una mano tra la frangia nera. «Non mi metto ad annusare il tuo intimo, demente». Sarebbe scoppiato a ridere se non fosse stato troppo stanco e troppo Kaede, nel vederla diventare violacea.

«Non... non è per quello, baka!», rispose sbuffando. «Ok, basta, ho sonno e il mio letto è grande per entrambi. Discorso chiuso!». Gli voltò le spalle, ma non si mosse, nel sentire l'amico dietro di lei soffiarle nell'orecchio.

«Hn... non siamo troppo cresciuti?», le chiese, con una punta di sarcasmo nella voce. Hime perse un battito, e forse anche più di uno.

«Scemo, potresti essere mio fratello». Corrugò la fronte rendendosi conto delle contraddizioni di quella sua frase, ma non ci fece troppo caso. Kaede l'aveva già superata, salendo le scale verso la sua stanza e facendo come se fosse in casa sua. Quello, insieme alla palestra e alla sua abitazione, era l'unico posto in cui si muoveva con disinvoltura, in cui era se stesso. Si costrinse a voltare lo sguardo quando lo vide togliersi la felpa e i jeans, per rimanere in canottiera e boxer, ma ringraziò il cielo che s'infilò subito sotto le coperte, ciondolante dal sonno. Hime prese un bel respiro prima di cambiarsi velocemente e mettersi in pigiama - un completino grigio e azzurro con un panda tenerissimo stampato sulla maglia, che lei adorava. Il momento più difficile fu raggiungerlo; era vero che avessero dormito insieme tantissime volte, ma a causa delle strane idee che Ayako le aveva messo in testa ora era come se fosse la prima volta. Neanche con Nobunaga aveva osato tanto! Se lo avesse scoperto avrebbe dato di matto - e infatti Hime si appuntò mentalmente di cancellare qualsiasi prova in proposito, come per esempio calmare immediatamente Hanamichi una volta che lo avrebbe scoperto. Era più che sicura che se lo sarebbe fatto scappare nei momenti meno opportuni; e allora sarebbero stati problemi per tutti.

Hime rabbrividì nello sfiorare la pelle pallida dell'amico, che se ne accorse.

«Ehi», le disse, avvicinandola e abbracciandola, per riscaldarla. Lei si rilassò poco dopo. Cosa poteva esserci di sbagliato, nonostante tutto, nel trovarsi bene tra le braccia del suo migliore amico? Aveva passato notti intere a dormire tra lui e il fratello e non conosceva altro posto migliore di quello. Si sentiva in pace con il mondo, non poteva essere sbagliato.

«Buona notte, Ede», gli sussurrò, baciandogli la punta del naso.

Le accarezzò la pelle della schiena con un pollice. «Hn... notte, scema».

 

*

 

Hanamichi si stiracchiò senza ritegno, allungando braccia e gambe e rischiando di capottare il tavolino a pochi centimetri dal divano su cui aveva dormito. Aveva così tanto sonno, la notte prima, che neanche aveva avuto la forza di arrivare in camera sua. Guardò distrattamente l'orologio appeso alla parete e, appena realizzò che ore fossero, scattò subito in piedi e si precipitò nella stanza della sorella, spalancando la porta e sbraitando di essere in ritardo.

Era talmente rincoglionito dal sonno e terrorizzato all'idea di avere Yoshikai alle prime tre ore che inizialmente non si accorse dello spettacolo che gli si presentò davanti. Quando tornò in corridoio corrugò la fronte, perplesso, e si fermò. Perché diamine aveva l'immagine della sua Hicchan avvinghiata alla Volpe?

Spalancò gli occhi, iniettati di sangue, e tornò velocemente nella stanza, osservando meglio. Hime era in piedi, accanto alla scrivania, sistemandosi i capelli, con indosso un paio di jeans che non le aveva mai visto - e che le stavano tre volte; mentre Rukawa era più addormentato che mai, seduto sul letto, e con la maglietta al contrario. C'era qualcosa che non quadrava in quella scena, ma non riuscì a capire cosa.

Uscì dalla stanza borbottando e prenotando subito il bagno, e Hime sospirò di sollievo. La sveglia del fratello era stata quantomeno traumatica, ma niente poteva superare lo stupore che aveva provato nel ritrovarsi sdraiata sull'amico, le gambe tra le sue, e con un insolito sorriso sulle labbra. Aveva impiegato meno di una frazione di secondo per rendersi conto della pericolosità di quella posizione, dopo l'urlo di Hanamichi sul loro presunto ritardo; aveva scosso come un lenzuolo Kaede - che grazie a Buddha si era svegliato subito, per una volta - gli aveva lanciato una maglietta e lei aveva preso la prima cosa che le capitò a tiro, cioè i jeans giganti del cestista. Fortuna che il fratello era ancora troppo addormentato per rendersi conto del vero stato di cose, altrimenti la fine del mondo sarebbe giunta quel giorno - e lei era ancora troppo giovane per morire.

Fissò l'amico sul riflesso dello specchio, più che mai ciondolante, e sorrise. Era così tenero con quel faccino addormentato - beh, perennemente addormentato. «Scusami per il risveglio traumatico», gli disse, ridacchiando.

«Tutti i risvegli sono traumatici», biascicò quello, sbadigliando e ributtandosi nel letto, come se non avesse chiuso occhio per l'intera notte.

La lotta per il possesso del bagno iniziò dieci minuti dopo, quando Hime aveva bussato più volte contro la porta e Hanamichi aveva dichiarato di essere ancora sotto la doccia. «Ma che diavolo stai facendo, ancora? Sei peggio di una donna!».

«Lui è una donna», precisò Kaede, vacillante ma in piedi, che si poggiò contro la porta del bagno. «Sono le otto e un quarto, io rinuncerei».

Hime incrociò le braccia. Odiava saltare la scuola per il ritardo - anzi, odiava saltare la scuola, punto e basta. Poi un'idea le venne in mente, fulminandola. «Hisashi! Possiamo andare a vedere come sta!».

Nell'udire quelle parole Hanamichi aprì di slancio la porta, con il risultato di ritrovarsi addosso una Volpe di sua conoscenza, che lo mandò lungo e disteso per terra.

«Oddio, che visione», disse con le guance rosse la Sakuragi.

«E levati dalle palle, Kit!», sbraitò il fratello, scostando l'amico di malo modo, ritrovandosi due istanti dopo a pestarsi tra il lavandino e il water. Con lividi sul viso e sulle braccia, ma con l'espressione più soddisfatta del mondo, i due si rialzarono, guardandosi in cagnesco. Cosa c'era di meglio per iniziare la mattina se non una bella rissa con il proprio peggior amico?

«Buon giorno anche a te, Do'aho», fece Rukawa, massaggiandosi una spalla indolenzita. Due secondi più tardi chiuse la porta del bagno sul naso dei due gemelli, attoniti. Hime, più che altro - come notò Hanamichi - stava fulminando con lo sguardo l'immaginaria figura di Kaede, dietro quella porta, avvolta dalle fiamme dell'Inferno.

«Maledetto Orso Surgelato che non sei altro, esci fuori di qui!», sbraitò la ragazza con la grazia di un bisonte, bussando ripetutamente contro il legno bianco. «Questo è il ringraziamento per l'ospitalità che ti ho dato? Mi hai quasi buttata giù dal letto, stanot–!». Si morsicò le labbra quando si rese conto di aver parlato un po' troppo. Il fratello, con le orecchie diventate immediatamente due antenne paraboliche, si voltò lentamente verso di lei, che iniziò a grattarsi furiosamente il naso, alla disperata ricerca di una frase che avrebbe dovuto salvarle la faccia.

«Gran bel colpo», sentì dire dall'amico.

«Hana, luce dei miei occhi...», iniziò Hime, alzando i palmi delle mani in segno di difesa. «In realtà, volevo dire che Ede si è svegliato nel mezzo della notte... e per rompermi le scatole è entrato in camera e... e mi ha svegliata. Mi sono spaventata e...».

«Hicchan», disse con voce roca il fratello, quasi senza voce e con lo sguardo perso di chi non poteva credere alle proprie orecchie. «Hai dormito con la Volpe?».

«Tecnicamente è successo altre volte», puntualizzò lei, con un improbabile tono saccente.

«Hai dormito con la Volpe», ripeté come un automa Hanamichi. «Con la Volpe».

Ahia, quando il rosso scatta sono cavoli amari per tutti, diceva sempre e saggiamente Yoehi. Ma Hanamichi non si sarebbe arrabbiato con la sua dolce sorellina, vero? Hime, guardando il fratello, non ne fu poi tanto sicura.

Il rossino iniziò a contare con le dita. «Hai dormito con la Volpe. Stai con una Scimmia. Hai un Porcospino che non manca occasione di flirtare con te. E c'è un Puffo che ti muore dietro». Prese un bel respiro, prima di continuare. «Dimmi, Hicchan, che cosa vuol dire?», le chiese, con i lacrimoni agli occhi.

«Che sono circondata di animali, forse?», azzardò la ragazza, con un sorrisino incerto.

Lui crollò in ginocchio, così come tutte le sue speranze. «Hicchan! Ho accettato la Nobu-Scimmia, ma ti prego: Rukawa no! Tutto, ma non Rukawa!», sbraitò, disperato. Kaede aprì la porta del bagno, con un sopracciglio inarcato dalla perplessità.

«Ehi, Do'aho, che problemi hai?».

«Che problemi ho?!», esclamò quello come una furia, balzando in piedi e puntandogli un dito contro il petto. «Gli stessi problemi di quando ho scoperto che Haruko ti moriva dietro, ecco cosa ho!».

«Hanamichi», fece Hime, rossa in viso. «Non è successo assolutamente niente. Niente, capito? Per chi mi hai presa, si può sapere? E tu!», aggiunse, rivolta all'amico. «Dì qualcosa, accidenti a te! Dammi una mano a farlo ragionare!».

Kaede si strinse nelle spalle. «Ha il cervello troppo piccolo, non faccio miracoli».

«Checcosahaidetto?!».

«Ragazzi, buon giorno! Come mai siete ancora a casa?», domandò la voce della signora Sakuragi, appena rientrata dal suo turno in ospedale.

«Perché tuo figlio si è impossessato del bagno e non ne voleva più uscire», rispose Hime, guardando in cagnesco il gemello, già pronto a lagnarsi che non era assolutamente vero.

«Oh, Kaede, ci sei anche tu!», esclamò la donna, allegra. Non sembrava neanche che avesse lavorato nove ore, tutta la notte.

«Ehi, mamma, come sta Mitchi?», domandò il figlio, lasciando perdere la disputa con il compagno di squadra. Almeno per il momento.

«Benone, direi. Si è addormentato tardi, Akira, Sana e la vostra nuova amica gli hanno fatto compagnia finché non sono crollati tutti», spiegò loro. «Potete andare a trovarlo dopo la scuola, no?».

«Sempre che riusciamo ad arrivarci, a scuola», biascicò Hime, schiarendosi la voce.

Misato Sakuragi strinse le labbra, indispettita. «Ragazzi, le lezioni sono importanti, non potete saltarle», li rimproverò, guardandoli attentamente tutti e tre. Poi scoppiò a ridere, agitando una mano. «Ma siete in ritardo e il basket e il vostro amico sono anche più importante della scuola, per voi, no? Andate, dite che vi do il permesso di fargli visita anche se non è ora. Su, che aspettate? Vi voglio fuori di casa tra quindici minuti, chiaro?».

Hanamichi si accostò all'orecchio della sorella. «La mamma è impazzita, Hicchan».

Lei, d'altro canto scosse il capo. «No, è sempre stata così».

«Si capiscono molte cose», concluse Kaede, che all'occhiataccia risentita dei gemelli rispose con una scrollata di spalle.

 

*

 

Quando giunsero in ospedale videro che l'idea di saltare le lezioni per andare a trovare il loro amico non fosse stata solo loro. Senza contare Sendoh, Sana e Kiyo, rimasti in ospedale tutta la notte - e visibilmente stanchi e spossati - c'erano già anche Ryota e Ayako, intenti a parlare con un medico che non aveva intenzione di lasciarli entrare nella stanza dell'amico, così come Kogure e Akagi, che tentavano inutilmente di farlo ragionare. Due secondi dopo giunsero anche i fratelli Shimura.

«Non crede che se ci vedesse tutti sarebbe un buon modo per migliorargli il suo pessimo umore?», stava dicendo gentilmente Ayako, che tentava in tutti i modi di salvare gli sforzi scorbutici del fidanzato.

Il medico scosse il capo. «Mi dispiace, ma questo non è orario di visita, come vi stavo dicendo. A mezzogiorno potrete fargli visita per un'ora».

Ma fu grazie ad Hanamichi il Salvatore che le cose migliorarono - o meglio, dipende dai punti di vista. «Ehi, quattr'occhi! Non tu, Kogure, lui! Sono il figlio dell'importante dottoressa Sakuragi, facci passare!».

«Che io sappia la signora Sakuragi è una semplice infermiera», obiettò quello. Ma Hanamichi non ascoltò altro, sorpassando quel tappo che gli arrivava sotto il mento solo mettendosi in punta di piedi. «Ehi, dove andate? Non potete entrare, vi ho detto! Il nostro paziente non è solo in camera!».

Con un grido di battaglia i bisonti dello Shohoku fecero la loro comparsa nella stanza dell'amico che, vedendoli tutti lì - e avendo sentito il gran baccano che avevano fatto - non poté risparmiarsi una risata.

«Mitchi!», esclamarono in coro i gemelli, abbracciandolo.

«Ehi, dementi, fate piano!», li rimbeccò Akagi, prendendoli per le orecchie e trascinandoli via.

«Come stai, Mitsui?», chiese Ryota, dandogli il cinque per salutarlo. Non si sarebbe mai immaginato di ritrovarlo all'ospedale.

«Sono stato meglio, Tappo», rispose quello, in un sospiro.

«È un relitto da rottamare, altro che», fece Sendoh, che nonostante la stanchezza e la situazione delicata non aveva perso il sorriso e la sua voglia di scherzare.

Hisashi lo fulminò con lo sguardo. «È anche colpa tua, demente. Non mi hai fatto chiudere occhio, stanotte».

«Oh oh, hai capito i due fidanzatini?», esclamò Hanamichi, mentre Akira rideva e l'altro s'inalberava.

«Allora avevo ragione, figliolo», fece una voce anziana alle spalle dei visitatori. C'era una vecchietta sdraiata sull'altro letto presente nella stanza, con gli occhiali da lettura sul naso e un libro sulle mani; li osservava con occhioni piccoli e vispi e un'aria malandrina. «Voi due siete fidanzati!».

Il silenzio calò tra i presenti, per poi venire interrotto dalle risate sguaiate di tutti - con le dovute eccezioni. «Io l'ho sempre detto che prima o poi sarebbe accaduto», borbottò Hisashi, contrariato.

«Beh dai, siamo una bella coppia, no?», esclamò Akira. «Kiyoko, mi dispiace, ma io e Hisashi siamo fatti l'uno per l'altro, rassegnati».

La nuotatrice fece una smorfia divertita, agitando una mano. «Tienitelo pure, meglio saperlo ora».

«Ehi!», esclamò offeso Mitsui, mentre lei nascondeva un sorriso. Poi si rivolse alla signora, che continuava ad osservarli con un sorriso bonario. «Abe-san, la vede questa qui? Per quanto sia antipatica e asociale, preferisco esemplari come lei, non so se mi spiego».

La vecchietta annuì, poco convinta. «Non devi vergognartene, figliolo. Vedere due bei ragazzotti insieme è sempre un piacere per i miei occhi!».

«Oddio, una vecchia pervertita!», esclamò Hanamichi, fortunatamente a voce bassa; Hime, per zittirlo, gli tirò una gomitata in mezzo alle costole, tentando in tutti i modi di non scoppiare a ridere.

«E non avete sentito che razza di discorsi ha fatto con questo idiota», aggiunse Hisashi, indicando Akira.

«Del tipo?», domandarono i gemelli Sakuragi, interessati.

«No, ragazzi, per favore! Sono già abbastanza sconvolta di mio, non peggiorate la situazione!», esclamò Sana, tappandosi le orecchie, mentre Akira l'abbracciava, divertito.

Rimasero a fargli compagnia finché un medico, un'ora e mezza dopo, disse loro che Hisashi doveva fare una visita post-operatoria. Hisashi li ringraziò tutti per essere passati a trovarlo, ma chiese cinque minuti di permesso all'uomo per parlare di un'ultima, importante questione. Il medico, fortunatamente non aveva da ribattere.

«Ehi, Shimura».

I gemelli si voltarono, ma Hisashi ne indicò solo uno. Kimi si avvicinò al letto, ficcandosi le mani in tasca, mentre gli altri lasciavano la stanza. La vecchietta del letto accanto, intanto, osservava i due con tanto d'occhi. «Allora, è lui il tuo fidanzato, figliolo?».

«Quante volte dovrò ripeterglielo, Abe-san?! Mi piacciono le donne, don-ne! E questo qui non mi sembra una donna», sbottò Hisashi, mentre Kimi tratteneva a stento le risate.

La signora scrollò le spalle, tornando a leggere, e lasciandosi scivolare addosso lo sguardo inceneritore del cestista.

«Mi volevi dire qualcosa, senpai?».

Hisashi annuì, sistemandosi sul letto, nonostante la gamba ferma e dolorante. Non si sarebbe fatto venire anche mal di schiena, solo perché quel Rukawa Senior gli aveva detto di non muoversi! «Pare proprio che non giocherò le prime partite», disse con amarezza. «Ti ho osservato molto, da quando ti ho visto in campo, Shimura».

Kimi piegò il capo, incuriosito. «Onorato, senpai. Non è che ti sei innamorato veramente di me?», domandò, a voce più alta, in modo che anche la vecchia riuscisse a sentire. E infatti eccola lì, le orecchie tese e lo sguardo sbarrato.

«Ma che cazzo, sei idiota o cosa?!», sbraitò Hisashi, tirandogli la prima cosa che aveva a tiro, mentre Kimi si lasciava andare a una risata divertita e scansava un bicchiere di plastica.

«Scusami, senpai, dovevo dirlo».

«Sì, certo, tanto devi starci tu in camera con questa strega», borbottò l'infortunato, lanciando un'occhiataccia alla signora del letto accanto. «Comunque, non interrompere un tuo senpai quando parla!».

Kimi sollevò le braccia al cielo, con un'espressione innocente in viso. Ah, maledetti Shimura e tutti i gemelli che conosceva!

«Dicevo», sbottò, guardando fuori dalla finestra, «ti ho osservato e ho notato soprattutto come lavori dietro la linea dei tre. Sei bravo». Kimi rimase in silenzio, attendendo che continuasse. «Visto che non potrò giocare per un po' la squadra ha bisogno di qualcuno come me, e non parlo per puro egocentrismo. È un dato di fatto».

L'altro avrebbe volentieri obbiettato che quello era esattamente un  perfetto esempio di egocentrismo, ma evitò. Si limitò solo a sorridere.

«Quindi, se tu sei d'accordo, appena uscirò di qui ci alleneremo insieme. O meglio, io allenerò te, dato che non potrò fare un maledetto passo senza una stampella per una settimana», aggiunse. Poi tornò a guardarlo, puntandogli un dito contro. «Hai la mia stessa naturalezza di andare a canestro dai 6 metri e 25, devi solo affinare la tecnica. Non come Jin, non diventerai un robot. Ti sto affidando il mio posto per qualche partita, vedi di non deludermi».

«È un onore, davvero, senpai. Non ti deluderò, promesso», poi, con un tono più rilassato, chiese: «Ma non hai paura che possa soffiarti il titolo di miglior tiratore da tre punti?».

«Non diciamo cazzate, ora. Sei ben lungi dal riuscirci!», esclamò l'altro, piegando le labbra in un sorrisino sarcastico. «È solo che non ci sarò sempre per lo Shohoku, e anche se l'anno prossimo mi avrete ancora tra le palle per via della sicura bocciatura, tra due no, non ci sarò. Voglio che qualcuno continui a lavorare sodo grazie a me, in questa squadra».

Kimi annuì. «Capisco, senpai. Grazie per aver pensato a me, davvero. Alle medie eri il mio mentore, anche se non lo sapevi», aggiunse, ridacchiando.

«Sapevo benissimo di essere un esempio da imitare, Shimura!», replicò l'altro, con un ghigno. «E vedrai, tornerò ad esserlo, te lo posso assicurare».

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Capitolo abbastanza lungo e corposo, spero sia stato di vostro gradimento! Le cose non vanno benissimo per lo Shohoku, a quanto pare, e vi avverto già che ci saranno altri problemi in futuro... sì, decisamente questo secondo capitolo di Wild Boys è quanto più di melodrammatico potessi scrivere. XD

Un grazie a chi continua a seguirmi in tutti i modi e ai nuovi "fans", siete la mia gioia, davvero. J

A presto!

Un abbraccio,

Marta.

 

PS: vi ricordo il mio account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! Lo potete trovare qui. Se volete passare il tempo tra un aggiornamento e l'altro con intermezzi spoilerosi siete i benvenuti! :)

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Capitolo 17
*** 16. Spy game ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 16

Spy game.

 

 

 

Con una smorfia di dolore, Hisashi tentò di sistemare il suo bel fondoschiena sul divano, senza muovere troppo la gamba malferma. Erano passati due giorni dall'intervento e con l'aiuto delle stampelle era potuto tornare a casa senza problemi. Kanbe-san lo aveva rassicurato dicendogli che il ginocchio stava rispondendo bene e che, se avesse seguito alla lettera le sue regole, avrebbe potuto riprendere ad allenarsi una settimana prima della finale. Era sconcertante come quell'uomo fosse sicuro che l'avrebbero raggiunta. Lui, d'altro canto, non ne era così sicuro e non lo faceva per arroganza. Lo Shohoku aveva perso un anello fondamentale con l'abbandono di Akagi, non potevano permettersi di perdere anche lui. Indi per cui aveva intenzione di allenare fino allo sfinimento Kimi - se poi questo doveva districarsi anche con le prove della band... beh, cavoli suoi.

Cambiò canale su una vecchia partita degli Utah Jazz contro i Bulls e poggiò la testa sul cuscino, sbuffando. Lanciò un'occhiata alle stampelle e un peso al cuore gli fece tornare l'angoscia di qualche anno prima, quando aveva visto sfumare la sua carriera cestistica per quello stesso, maledetto ginocchio. Ora era più motivato a riprendere il gioco, certo: con amici e compagni di squadra come quelli che aveva non poteva certo lasciarsi andare come l'ultima volta. Ma aveva una tale rabbia in corpo che avrebbe anche potuto uccidere a pugni quel pezzo di merda che l'aveva ridotto così. Sperava di avergli rotto almeno il naso, con quel gancio che era riuscito a dargli, prima che lo buttasse a terra.

La madre si avvicinò, con un tè freddo alla pesca, e glielo porse. «Posso portarti qualcos'altro?».

Lui sorrise, scuotendo il capo. «No, grazie. Non preoccuparti, tra qualche giorno tornerò a saltare su una gamba».

«Oh, non fare sciocchezze, però! Segui quello che ti ha detto il dottore, poi potrai saltare tutte le volte che vuoi», esclamò la signora Tamaki, preoccupata che il figlio testardo potesse davvero compiere qualche idiozia come l'ultima volta.

Hisashi rise e le fece cenno di sedersi accanto a lui. «Come ti senti?».

«Dovrei essere io a chiedertelo, figlio mio». Tamaki si poggiò contro lo schienale, la fronte corrugata da troppe preoccupazioni. «Sono sempre sulle spine. Ogni giorno mi sveglio con la stessa inquietudine e la prima cosa che penso è: cosa succederà oggi? Hisashi starà bene o si caccerà in qualche guaio? Mio marito tornerà a spaventarmi ancora? Troverò un lavoro?».

«E se ti dicessi che presto si sistemerà tutto?».

«Lo vorrei tanto, Hisashi, davvero. Ho quarantasei anni, ma mi sembra di sentirne ottanta. Sono stanca».

Il ragazzo l'abbracciò e le diede un bacio tra i capelli. «Ti prometto che tornerai ventenne, vedrai».

La madre ci pensò un po' su, poi rise. «Quindi potrò tornare a vestirmi con i pantaloni a zampa di elefante e con i capelli cotonati?».

Hisashi scosse il capo, inorridito all'idea. «Ecco, magari la moda anni '70 la lasciamo alla sorella di Sakuragi, che ne dici?».

Rimasero seduti sul divano per qualche minuto, in pace. Hisashi amava la madre, più di se stesso, e se c'era una cosa che desiderava più di tutte, oltre che tornare a giocare e vincere il Campionato Invernale, era di vederla sorridere di nuovo, senza angosce, senza ansie, senza tormenti di sorta. Se stava male lei, stava male anche lui, e Tamaki Mitsui era una donna che meritava tranquillità e spensieratezza, dopo la vita che aveva vissuto.

«Sei l'unica cosa che mi sia riuscita bene, Hisashi», gli sussurrò, stringendolo tra le braccia. «Sei il mio orgoglio e la mia gioia».

Il cestista stava per rispondere, ma qualcuno alla porta aveva iniziato a bussare le nocche sul legno, intonando il ritmo di Jingle Bells. Tamaki si alzò, chiedendosi chi potesse essere a quell'ora del mattino. Appena vide il viso ridente di Akira si rilassò e lo accolse in casa con un abbraccio.

«Buon giorno, Tamaki-san, il poltrone infortunato è in casa?».

«No, sono andato a correre», rispose Hisashi, alzando gli occhi al cielo. L'altro rise.

«Vieni pure, Akira caro, posso offrirti qualcosa? Perché non sei a scuola?», domandò la donna, invitandolo a sedersi con il figlio.

«Beh, la sveglia non ha suonato e... in realtà non mi tratterrò molto, sono passato per darvi una cosa». Il luccichio divertito negli occhi del ragazzo non passò inosservato all'amico. Akira infilò le mani in tasca e tolse fuori un mazzo di chiavi. «Questa è del cancello del giardino; questa del portone d'ingresso principale e questa è per casa vostra».

I due sgranarono gli occhi, quasi senza fiato. Tamaki scoppiò in lacrime, abbracciando il giovanotto e riempiendolo di baci; Hisashi, invece, se avesse potuto gli avrebbe volentieri colato una statua in oro. Si alzò a fatica e si avvicinò all'amico con due passi di stampelle, che prese in una mano, per stringerlo con l'altro braccio. Non poteva crederci, era troppo bello per essere vero: si sarebbero trasferiti a casa dei Sendoh, senza che loro gli avessero mai chiesto niente.

«Quante cose pensate di portarvi dietro? Così possiamo pensare di affittare un furgoncino per il trasloco», disse Sendoh, con il suo immancabile sorriso.

«Oh, non dovete preoccuparvi anche di questo, per favore!», esclamò Tamaki-san, imbarazzata. «Avete fatto anche troppo, troppo, troppo!», disse, con le mani che coprivano le guance rosse.

Akira rise. «In realtà non abbiamo fatto un granché. Una ditta di legname da costruzione ha fallito e ha svenduto l'ultimo materiale che aveva, così ne abbiamo approfittato. È il minimo che potessimo fare per aiutare degli amici». Poi si rivolse ad Hisashi, strizzandogli un occhio. «Al massimo suo figlio può prestarmi la sua bambolina per qualche tempo».

Mitsui gli tirò un pugno sulla spalla, pensando che, dopo quello che aveva fatto, la sua moto poteva anche fargliela annusare. Forse.

E mentre la madre, con ancora le lacrime agli occhi per la gioia, canticchiava e iniziava a fare una lista di tutto quello che dovevano portar via - elettrodomestici, qualche mobile a cui era particolarmente affezionata e pochi effetti personali - Akira si sedette con Hisashi.

«Allora, come va il ginocchio?», gli domandò.

«Un po' indolenzito, ma potrei anche muoverlo, se solo il padre di Rukawa non me lo avesse vietato per i primi giorni. Domani ho un'altra visita e inizio la fisioterapia. Ma appena mi libero delle stampelle, farò tutto quello che posso per dare una mano a mia madre e per aiutare voi».

«Ah, no. Non abbiamo bisogno di uno scansafatiche che fa finta di zoppicare». Akira scansò appena in tempo una stampella che gli avrebbe lasciato un bel ricordo su quel cranio vuoto che si ritrovava - ma più che altro il suo terrore era quello di disfarsi la sua consueta e famosa cementificazione dei capelli, cosa che anche quella mattina gli aveva procurato un bel ritardo a lezione. «Comunque, non so tu, ma sono elettrizzato all'idea di averti in casa. Insomma, potrò romperti l'anima ventiquattro ore su ventiquattro!».

Hisashi sbuffò. «Ammettilo, era tutto previsto dall'inizio».

«Colpito e affondato». L'ex numero 7 del Ryonan sorrise. «Così, mentre stai dormendo, posso entrare in camera tua e farti qualche agguato».

«Sendoh, non costringermi a mettere un coltello sotto il cuscino».

«Ma no, intendevo per fregarti le chiavi della moto!».

Mitsui ghignò. «Appunto».

 

*

 

Quando Hime giunse trafelata dalla segreteria, gridando un "Fate laaargo!" da mancarle il fiato, l'intera palestra capì cosa fosse il foglio che agitava in una mano.

«Ragazzi, vorrei la vostra attenzione per cinque minuti, per favore!», disse la Sakuragi, appendendo il calendario ben in vista sulla bacheca. «Finalmente è arrivato».

Tutti i giocatori si avvicinarono per leggere il nome della prima squadra da battere. Essendo entrati tra le prime quattro squadre della Prefettura avevano ricevuto il privilegio di saltare le squadrette minori, per giocare direttamente ai quarti; tirarono un sospiro di sollievo nel leggere Miuradai. Come per il Campionato Nazionale, sarebbe stato il loro primo avversario, ma ricordavano l'umiliazione che la squadra di Naito aveva subìto quel giorno - senza contare che i quattro giocatori migliori erano rimasti in panchina per metà partita.

Hanamichi agitò una mano, con noncuranza. «Bah, ce li mangiamo a colazione».

«Non state sugli allori, ragazzi», li ammonì Ayako. «Il Miuradai, per quanto possiamo saperne, può anche essere migliorato molto, proprio in vista di una rivincita».

«Ayakuccia ha ragione», intervenne il suo fidanzato, seriamente. «Se fossimo stati noi a subire 63 punti di differenza, faremo di tutto pur di restituire il favore. Non dobbiamo prenderci il lusso di sottovalutare nessuno dei nostri avversari, chiaro?».

«Ben detto, ragazzi». Anzai comparve in quel momento, di bianco vestito, e con un bel sorriso sereno sul viso rotondo. «Non facciamoci trasportare dagli entusiasmi. Dobbiamo restare freddi e concentrati, soprattutto ora che Mitsui non potrà essere con noi nelle prime partite. Lavoriamo sodo e cerchiamo di reperire informazioni sulle amichevoli del Miuradai e, se possibile, anche sui giocatori che lo compongono».

Hime alzò una mano, strizzando un occhio. «Sensei, potrei occuparmi io di questo. Hikoichi Aida sarà ben felice di aiutarmi».

«Molto bene, molto bene! Ricordatevi: focalizzate le vostre energie e spendetele al meglio con chiunque ci ostacoli la strada verso la vittoria. Perché noi possiamo vincere, ma dobbiamo combattere».

Un "Vinceremo!" convinto risuonò per la palestra e, con il morale combattivo, i Diavoli Rossi si misero nuovamente al loro duro lavoro, più motivati che mai. Avrebbero vinto, soprattutto per Mitsui.

Kiyota, che era passato a vedere gli allenamenti, fissava con ira Rukawa, che non perdeva occasione per fare la divetta del gruppo, ma quando Hime gli si avvicinò saltellante tutte le sue attenzioni furono per lei.

«Nobu, mi accompagneresti al Ryonan?», gli domandò, con un sorrisino che avrebbe fatto capitolare anche l'impassibile Akagi. «Magari vediamo di recuperare informazioni anche sullo Tsukubu che dovrete affrontare voi, che ne dici?».

La Scimmietta del Kainan annuì, alzandosi dalla panca e prendendola per mano - cosa per cui partì un colpo al povero Araki, che vedeva la sua unica possibilità di rivincita e di conquista della bella Sakuragi solo durante gli allenamenti che lei faceva con i nuovi arrivati. Kiyota gli riservò un ghigno che era tutto un programma, mentre lasciava la palestra con la sua ragazza.

«Ehi, Hicchan», le disse poi, pensieroso e un po' preoccupato. «Ma tu mi vorrai bene anche se batteremo il tuo liceo?».

Hime si voltò a guardarlo, sconvolta. «E chi ti dice che ci batterete?».

«Beh, Mitsui non c'è, il Gorilla nemmeno e il Kainan ha me, la miglior matricola di Kanagawa!», rispose gasatissimo lui. «È praticamente ovvio che vi batteremo».

«Io non sarei così ovviamente convinta, Nobu», disse Hime, sorridendo sorniona e appendendosi al suo braccio. «Insomma, noi abbiamo un'arma segreta!».

«Un'arma segreta?! E non si allena con voi?!».

«È segreta, Nobu-chan! Non possiamo permettere che si alleni davanti agli occhi indiscreti del nemico».

Nobunaga ci pensò sopra un poco. «E il nemico sarei io?».

«Certo! Tu, Akira e chiunque venga a spiarci!». Hime rise, sollevandosi sulle punte per dare un bacio al ragazzo abbattuto.

«Quindi non mi vorrai più sul serio?», chiese, mogio mogio.

Hime si fermò e gli si piantò davanti, prendendogli entrambe le mani. «Nobunaga Kiyota, pensi che starei con te se ci fossero problemi simili? Mi sarei fidanzata con qualcuno della mia scuola, altrimenti!».

«Sì, magari con quel Puffo... o con Rukawa».

La rossa rimase interdetta e non poté far niente per evitare di arrossire. «Nobunaga! È il mio migliore amico, è come pensare di stare con Hanamichi!».

L'occhiata poco convinta dell'altro la fece rabbrividire. «Hicchan, io mi fido di te, davvero. È di lui che non mi fido. Tuo fratello ha ragione a dire che le Volpi sono animali infidi!».

«E io ho ragione a dire che sei un idiota». Gli strinse con forza le mani, sorridendo. «Kaede è un amico, il migliore che si possa avere. E mi vuole bene, come una sorella. Siamo cresciuti insieme, Nobu, non puoi pretendere che siccome ora ho te possa allontanarlo o allontanarmi. Altrimenti non hai capito proprio niente di me».

Kiyota sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Scusami, Hicchan, è che a volte mi chiedo come possa stare con uno come me».

«Vediamo, come devo fartelo capire... sei orgoglioso, egocentrico quasi ai livelli di Hanamichi, sei casinista, non ami molto lo studio... e sei del Kainan - Kainan, capisci?», fece Hime, scuotendo il capo quasi con disprezzo. Poi ammiccò. «Ma sei buono, sincero e pazzo. Pochi pregi che bilanciano completamente tutti i tuoi brutti difetti».

«Ehi!», esclamò offeso, facendola ridere.

«Ah, sei anche permaloso!», aggiunse, scappando dalle grinfie del ragazzo, deciso a mettere fine a quell'elenco che non gli era piaciuto per niente.

Uscirono dallo Shohoku di corsa, finché Kiyota, con un balzo dei suoi, l'afferrò per un polso e riuscì a fermarla. «Aha, presa! Ora vediamo, che punizione posso infliggerti fino alla metropolitana?», si chiese, stringendola tra le braccia, per impedirle di scappare.

«Che ne dici se invece patteggiamo e deponiamo le armi? Potrei farmi perdonare!».

«No, poi penseresti che sono facilmente ricattabile. Ho una reputazione da difendere, io! Nobunaga Kiyota, l'inflessibile numero uno di Kanagawa!».

«Neanche se decidessi di farti un regalo strabiliante per Natale?».

«E cosa? Cosa?».

«È una sorpresa, non posso dirtelo, Nobu-chan!».

La Scimmia del Kainan la osservò con fare indagatore, poi si arrese. «D'accordo, nessuna punizione. Però questa me la lego al dito, voglio proprio vedere cosa mi regalerai! Aha!».

Si diressero alla metropolitana, arraffando due posti per il rotto della cuffia, e chiacchierarono sul vicino Campionato. Nessuno di loro stava più nella pelle, ormai. Mancavano nove giorni alla prima partita, ma parevano un'infinità. Eppure sapevano che il tempo a loro disposizione sarebbe trascorso troppo in fretta tra tutti gli allenamenti, ormai giornalieri, e probabilmente avrebbero pensato che non sarebbero bastati.

«Ma noi del Kainan non abbiamo bisogno di allenamenti, siamo già allenati nel sangue!», stava dicendo con il suo solito fare saccente il ragazzo.

«Sai cosa è preoccupante?», chiese seriamente Hime.

Nobu ghignò. «Cosa? Che vi stracceremo?».

«No, che ne sei veramente convinto!».

L'Ala Piccola dei giallo-viola non perse occasione di pizzicarle un fianco, facendola saltare sul sedile, e iniziando una piccola lotta che fece guadagnare loro le occhiatacce dei vicini. Ma i due non se ne curarono troppo: come dicevano sempre con immensa modestia, erano uno spettacolo anche quando stavano secchi e pesti, loro!

Giunsero a destinazione stravolti e ridenti, e si diressero tra spinte e scherzi al liceo Ryonan. Delle volte quei due scordavano cosa volesse significare la parola romanticismo.

«Argh, la tana del nemico!», esclamò Nobunaga, fermandosi davanti al cancello d'ingresso. «Una volta entrati non sapremo se ne usciremo. Sei proprio sicura?».

Hime rise, afferrandolo per la felpa e tirandoselo dietro. «Ti terrorizza Taoka?».

«Quell'uomo è esaurito!».

«Ci credo, provaci tu a stare dietro ad Akira Sendoh senza impazzire! Persino il senpai Maki avrebbe qualche problema a farlo rigare dritto».

«Nah, il Capitano è uno tutto d'un pezzo! Gli abbasserebbe la cresta in men che... oh, gli abbasserebbe la cresta! Ahaha! Con quei capelli che si ritrova... questa era veramente bellissima!».

La rossa alzò gli occhi al cielo, non riuscendo a trattenere un sorriso, mentre quello quasi si piegava in due dalle risate. Che ragazzo demente si era trovata?

La palestra era affollata di curiosi e Hime, vedendo tutti quegli studenti, si chiese cosa ci fosse di così interessante in un allenamento. Non era la prima volta che andava a spiare i ragazzi del Ryonan e non ricordava un pubblico così numeroso.

«Per caso regalano qualcosa?», domandò Nobunaga, anche lui perplesso, guardandosi intorno. Si fermarono sulla porta e sbirciarono sul campo. La prima cosa che videro fu Taoka, che rimproverava due matricole, ma che fu distratto subito dopo da Akira che civettava con una studentessa. Il Sendoh! inconfondibile che gridò fece vibrare i vetri dell'edificio.

«Coach, l'allenamento non è neanche iniziato! Le sto solo spiegando che lei è l'allenatore migliore della prefettura», si difese Akira, con un'incredibile faccia di bronzo - per non dire altro. La studentessa annuì con vigore, sorridendo all'uomo, che per un attimo credette alle sue parole. Era una ragazza alta, sopra la media, dai capelli neri lunghi sopra le spalle e lisci, con due occhioni allegri e blu come il giocatore di basket. E aveva una bella faccia di bronzo di tutto rispetto, anche lei.

«Però, se le sceglie bene quel pervertito», fece Nobunaga, che si guadagnò immediatamente l'occhiata fulminante della fidanzata, la quale avrebbe fatto concorrenza a Medusa e al suo sguardo pietrificante. Così, gongolante, Nobunaga le domandò: «Gelosa?».

«Macché. Una così ti passerebbe accanto senza neanche vederti», rispose la ragazza, con un sorrisino cinico. La reazione dell'altro la fece scoppiare a ridere: labbro all'infuori, spalle abbassate e sguardo abbattuto.

1-0 per la Sakuragi.

«Fila a riscaldarti, pezzo di idiota!», sbraitò l'allenatore al suo pupillo.

«E comunque quella è mia cugina, Coach!».

«Sì, e io sono tuo padre».

«Davvero?», esclamò il nuovo numero 4, sfoggiando l'espressione più scioccata che avesse in repertorio. «Ma così mi spezza il cuore!».

«Sendoh!».

Kiyota, con le braccia conserte e gli occhi stretti a due fessure, guardava il Porcospino. «E quello dovrebbe essere un capitano? Puah!».

«Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Akira sarà indisciplinato, ma è un grande trascinatore».

«Rimane il fatto che sia un idiota».

Sulle stesse rime arrivò la frecciatina: «Geloso?».

«Bah! Di quello lì? Non scherziamo!».

Ma Hime non lo stava più ascoltando. Aveva spaziato il campo con lo sguardo finché non l'aveva visto. Sbarrò gli occhi castani, strattonando il ragazzo per indicare quel... mostro? Non trovava parola migliore per descrivere quel... mostro, sì non era altro.

«E quello chi diavolo è?», domandò Nobunaga, scioccato.

Il tizio in questione era paragonabile a un armadio: alto almeno due metri, se non qualcosa di più, spalle larghe e arti grossi quanto la testa di ognuno di loro; e come se non bastasse era lievemente in sovrappeso. Trovarsi quel bestione sotto canestro equivaleva a morte certa. Aveva corti capelli scuri e il viso tondeggiante era simpatico ma un po' spaesato.

«Quello da dove salta fuori?», biascicò Hime, che non ricordava di averlo visto nell'amichevole, neppure in panchina. Non sarebbe certo passato inosservato, un troll di caverna come quello! Persino Akagi ne sarebbe rimasto scioccato.

Kiyota si mosse nervosamente accanto a lei. «Ma è regolare un tizio come quello?».

Uno studente, accanto a loro, si unì alla conversazione. «Quello è Daichi Anami, del secondo anno. È stato Sendoh a scoprirlo».

«Sendoh, eh?», mormorò Hime. «Quel disgraziato, non ha detto niente».

«Beh, neanche io l'avrei fatto», commentò Nobunaga, attirando l'attenzione dello studente.

«Ehi, ma io ti conosco! Tu sei del Kainan!».

Il tempo di dire amen e tutta la palestra puntò contro le due spie.

«Tecnicamente, io sono dello Shohoku», tentò di dire Hime, in sua difesa.

«Sakuragi!», tuonò Taoka, balzando davanti alla ragazza con gli occhi fuori dalle orbite. «Ci mancavi solo tu! Anzai ti ha mandata a spiare i miei allenamenti, per caso?».

Hime scosse il capo, sfoggiando un bel sorriso. «Buon pomeriggio a lei, Sensei! In realtà sono qui per rubarle qualche minuto il caro Hikoichi, non certo per guardare quel colosso spuntato dal nulla che probabilmente ci sbatterà fuori dal Campionato! Lo Shohoku non si presta mica a sottigliezze del genere».

Il piccolo Aida sbucò dietro le spalle del suo allenatore, agitando una mano in segno di saluto. «Hime-san, ciao!».

Ma la rossa non fece in tempo a rispondere, che Taoka aveva ripreso a sbraitare, con un pugno stretto in segno di vittoria. «Hai detto bene, ragazza! Vi sbatteremo fuori senza che neanche ve ne accorgiate!».

Trattenendo a stento l'impulso di dirgli che pareva un pallone gonfiato peggio del suo ragazzo, Hime continuò a sorridere innocentemente. «Posso parlare con il caro Hikoichi, per favore?»

Aida arrossì furiosamente e guardò supplichevole il suo allenatore.

«Ma sì, vai pure, tanto per quello che servi», borbottò Taoka. «E portami anche un caffè, ne ho bisogno!».

«Che ne dice di una camomilla, invece?», azzardò Hime, che vide bene a darsela a gambe trascinandosi dietro ragazzo e signorino-prendi-appunti. Akira la salutò con un bacio al vento, che mandò su tutte le furie Kiyota.

Si fermarono all'ombra di un salice, contro il quale si lasciò cadere Nobunaga, mentre Hime sfoderava tutto il suo miglior repertorio di adulatrice. «Allora, Hiko-chan, dovrei chiederti un favore enorme, ma non sarei qui se non sapessi della tua infinita gentilezza». Hikoichi balbettò qualche ringraziamento, e lei continuò. «Dunque, come avrai visto dal calendario, il primo avversario che lo Shohoku dovrà incontrare è il Miuradai. Sicuramente tu avrai visto le partite che ha disputato e saprai tutto dei suoi giocatori, vero?».

«Sì, beh... hai indovinato», disse quello, ridacchiando.

«Bene. Non è che potresti farmi dare una rapida occhiata ai tuoi appunti? Giusto cinque minuti».

Hikoichi stava per cedere, ma poi si fermò, perplesso. «Ma così aiuterei i miei avversari!».

Hime scambiò una rapida occhiata con Nobunaga. «Hanamichi sarebbe fiero di te se gli facessi questo grande favore».

Nobunaga non capì il perché di quella frase finché non vide il ragazzino in iperventilazione. «Beh, per Sakuragi-kun potrei anche fare un piccolo strappo alla regola... solo se accetta di lasciarsi intervistare da mia sorella».

«Perfetto!».

Nobunaga scattò in piedi. «Ehi, perché dovrebbe intervistare quella mezza cartuccia? Intervista me, sono la matricola migliore della prefettura!». La totale indifferenza del ragazzino per poco non lo fece svenire dal nervoso.

«Vado a prendere gli appunti e torno!», disse Hikoichi, correndo verso gli spogliatoi.

Hime, dall'alto della sua bravura, sorrise al ragazzo. «Sono o non sono un'adulatrice?».

«Hai appena venduto tuo fratello».

«Oh, ma sarà ben felice di vedere il suo nome nella gazzetta sportiva, fidati», gli disse, strizzandogli un occhio.

Aida tornò poco dopo, trafelato. «Hime-san, devo correre a portare il caffè per il Coach. Mi raccomando, hai dato la tua parola per Sakuragi!».

«Ci puoi contare!».

Appena il ragazzo sparì alla loro vista, Hime si accorse che non ci fosse solo la cartella del Miuradai: nella fretta aveva portato tutte le schede possibili e immaginabili. «A te quella dello Tsukubu. Io prendo queste due».

Prima di controllare quella del loro primo avversario, diede una rapida occhiata a quella del Ryonan, trovando subito quello che cercava.

Kiyota, accanto a lei, leggeva voracemente i dati dello Tsukubu. «Però, questo Tomokazu Godai a quanto pare darà da fare a Jin».

«Aspetta, fammi indovinare: "ma tanto Jin è il migliore cecchino di Kanagawa, lo ridicolizzerà davanti all'intero palazzetto, aha!"».

«Puoi dirlo forte!», fece Nobunaga, rendendosi conto solo dopo del sarcasmo in quella frase. «Molto, molto simpatica».

Hime si fece perdonare con un bacio sulle labbra, che calmò tutti i suoi intenti malefici contro quella strega dai capelli rossi. Ma vedendo che Nobunaga non aveva intenzione di allontanarsi, la ragazza rise e lo allontanò un poco. «Ti ricordo che siamo in missione per le nostre squadre. Prima il dovere!».

Kiyota borbottò qualcosa d'incomprensibile e tornò a leggere la scheda, mentre Hime appuntava velocemente tutto su Daichi Anami, prima che Hikoichi tornasse, ancor più trafelato di prima.

«Ho dovuto riportarglielo, era troppo amaro», fece, sconsolato.

«Tutti i migliori giocatori di basket devono fare questo tipo di gavetta prima di diventare come Sendoh», disse Hime, annuendo, e rendendo perplesso Nobunaga.

L'altro sbarrò gli occhi, entusiasta. «Quindi anche io diventerò come lui, un giorno?».

«Come no», fece sarcastico il giocatore del Kainan, che però parve convincente abbastanza da far saltare dalla gioia il povero Hikoichi.

Hime ricopiò tutto quello che c'era sui giocatori del Miuradai e così fece anche per lo Tsukubu, approfittandone del momento di distrazione di Hikoichi, che aveva iniziato a parlare a raffica del suo sogno e di come Sendoh e Sakuragi fossero i suoi due idoli. Non che la cosa interessasse ai due, ma Nobunaga dovette ricorrere a tutto il suo (inesistente) self-control per evitare di sbottare di chiudere quella boccaccia. Kami, quanto parlava veloce!

Quando Hime ringraziò più volte il ragazzo, ripetendogli che Hanamichi si sarebbe fatto intervistare volentieri dalla sorella, si erano già fatte le sei e mezza. I due tornarono in metropolitana, rileggendo gli appunti.

«Mamma mia, Hicchan, come scrivi male!», si lamentò lui, cercando di capire cosa diavolo ci fosse scritto.

«Scusami se stavo scrivendo in fretta e sulle gambe, razza di ingrato!».

Nobunaga ghignò. «Chi era il permaloso?».

«Ammazzati, Kiyota», borbottò lei, arrossendo. Il ragazzo le cinse le spalle con un braccio.

«Grazie per questi, anche se sono illeggibili».

«Ohi!».

Quello scoppiò a ridere, abbracciandola e dandole un bacio tra i capelli indiavolati. «Che fai, torni in palestra, ora?».

Come risposta ricevette un grugnito di assenso. Osservò la sua ragazza con attenzione, sorridendo: era adorabile quando s'imbronciava. Le accarezzò il mento, facendola voltare. Poi si chinò su di lei e la baciò sulle labbra. Fortuna che il vagone era pressoché vuoto, pensò Hime, ricambiando il bacio e dimenticandosi momentaneamente di essere offesa con lui.

 

*

 

La notizia di questo nuovo colosso del Ryonan inquietò un po' tutti, ma Ryota ricordò loro di concentrarsi sui primi avversari. Il Ryonan e il nuovo acquisto sarebbero stati un problema che avrebbero affrontato più avanti, sempre che giungessero al punto di potersi preoccupare.

«Si sono fatte le sette e mezza, ragazzi, per oggi possiamo anche terminare qui», disse il Capitano. «Hime, grazie per le schede, ne parliamo con più calma domani, ok?».

«Agli ordini, capo!». La donzella saltellò alla volta del fratello. «Hana, luce dei miei occhi, devo confessarti una cosa».

Quello sbiancò, temendo il peggio. Dopo tutto quello che stava scoprendo e vedendo ormai sospettava di tutto.

«Ho dovuto fare una cosa per avere quegli appunti...», iniziò Hime, ma non poté finire la frase, perché Hanamichi le si inginocchiò davanti, scuotendola con veemenza.

«Hicchaaan! Non mi dire che per lo Shohoku hai dovuto fare qualcosa di indecente?!».

Immediatamente dopo sulla capa rossa del ragazzo nacque un bernoccolo con i fiocchi. Con il pugno ancora fumante e un tic pericoloso all'occhio, la sorella continuò a parlare. «...ti ho accordato un'intervista con Yayoi Aida, fratello demente».

Hanamichi impiegò qualche tempo per assimilare la cosa. Poi balzò energico e con un sorrisone da orecchio a orecchio. «Vuoi dire che diventerò famoso?».

«Che Buddha ci liberi», commentò Rukawa, filando a farsi una doccia.

«Sei solo verde dall'invidia, Kit!», esclamò il rossino. Poi abbracciò la sorella, rischiando di spezzarle in due la schiena. «Grazie, Hicchan!».

«Sì, sì, ora mollami», tentò di dire la ragazza, con il fiato mozzato. Hanamichi trotterellò verso gli spogliatoi, cantando e inneggiando la sua fama.

«Sai che hai appena combinato un casino?», le chiese Ryota, incrociando le braccia. «Darà di matto appena uscirà l'intervista».

«Ci penserò io a calmarlo, tranquillo», gli disse lei, con un sorriso.

L'unico che non andò a farsi una doccia fu uno dei gemelli Shimura. Salutò i suoi compagni, spiegando che si sarebbe trattenuto un altro po'. «Tranquilli, chiudo tutto io».

Le due manager annuirono, lasciandogli le chiavi.

«Non stancarti troppo», disse Ayako, richiudendosi la porta alle spalle.

Kimi rimase solo, con un pallone in mano e la palestra a disposizione. Si avvicinò alla linea dei tre e si fermò poco prima. Prese un respiro profondo, per concentrarsi, e sollevò lo sguardo al canestro. Doveva allenarsi, per tenere il posto a Mitsui. Doveva farlo per lui, per la squadra. E per se stesso. Sperava solo che il senpai tornasse presto in palestra, per avere i consigli che gli aveva promesso.

Il canestro che centrò poco dopo fu il primo di una lunga serie.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Torno come promesso dopo le vacanze estive! Come avete passato questi mesi di assoluto riposo? Spero benissimo e che siate carichi di energie per affrontare l'inverno!

E così abbiamo visto un personaggio(ne), tale Daichi Anami... io lo adoro già, spero di farlo amare anche a voi! E non disdegnate neanche la presunta cugina del Porcospino, ho in mente un progettino per lei.

Un piccolo appunto prima di salutarvi: il titolo di questo capitolo prende il nome dall'omonimo film di Tony Scott. ;)

A presto!

Un abbraccio,

Marta.

 

PS: vi ricordo il mio account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! (Tra cui la griglia del Campionato, per chi fosse interessato!) Lo potete trovare qui. Se volete passare il tempo tra un aggiornamento e l'altro con intermezzi spoilerosi siete i benvenuti! :)

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Capitolo 18
*** 17. Questione di fama ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 17

Questione di fama.

 

 

 

Quando Hime aveva annunciato al fratello che avesse trovato una data per l'intervista che doveva a Yayoi Aida aveva anche previsto la sua reazione esageratamente esaltata. Non aveva pensato, invece, agli effetti collaterali - come per esempio il fatto che Hanamichi fosse entrato in una pseudo sindrome da indecisione femminile.

«Secondo te cosa mi devo mettere? Insomma, sto andando alla mia prima intervista!», esclamò, in un misto di euforia e di panico. «Devo indossare una cravatta? Hicchan, io non so mettere la cravatta!».

«Sembri una ragazzina isterica», ridacchiò Hime, dando voce al pensiero di Rukawa, trascinato in quel vortice di demenzialità senza neanche sapere il motivo - anche se il sospetto che la Sakuragi avesse venduto anche lui per avere i dati delle squadre avversarie iniziò ad insinuarsi nella sua piccola testa addormentata.

«Non sono isterico!».

«Una ragazzina?».

«Volpe, taci tu! È un momento critico, questo!».

Hime sedò gli animi con una tirata d'orecchie a entrambi e finalmente il silenzio regnò sovrano. Per almeno un'altra manciata di secondi. «Hana, luce dei miei occhi, e se ti vestissi come tutti i giorni? Non stai andando in televisione e abbaglierai comunque la signorina Aida con la tua bellezza».

Kaede non fece in tempo ad alzare gli occhi al cielo per maledire quell'adulatrice della seconda manager, che quello era già partito per la tangente senza via di ritorno, blaterando qualcosa a proposito di un inesistente servizio fotografico che avrebbero stampato su tutte le copertine delle riviste di machi sportivi più famosi del Giappone.

«Sei consapevole che tutto ciò non gioverà a nessuno?», domandò Kaede all'amica, che non smetteva di ridere.

Lei annuì. «Ma è troppo divertente per farlo smettere. E poi, quello che abbiamo guadagnato è parecchio, Ede, non sottovalutare le schede avversarie».

«Io la chiamo corruzione».

Hime agitò le mani, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa. «Chiamala come vuoi, ma ci aiuterà lo stesso. Insomma, non stiamo andando a spaccare le gambe dei nostri avversari per farli fuori, no?».

«Hn, sarebbe più divertente». Avrei giusto un  paio di bersagli in mente.

«E no, Ede, non pensare minimamente di torcere un capello ad Akira e Nobu».

«Strega».

Lei sorrise. «Non c'è bisogno di avere super poteri per capire che ti passa per quella testolina bacata. Anche un cieco avrebbe visto l'espressione omicida che avevi cinque secondi fa».

Rukawa non rispose, pienamente convinto che fosse davvero una strega. Insomma, con quell'improbabile colore di capelli di certo non era normale.

Appena Hanamichi, dopo quasi un'ora di preparazione, fece la sua trionfante uscita dalla sua stanza, mostrando al mondo quanto bello e solare fosse.

«Hana, sei sicuro di voler andare al Ryonan conciato così?».

«Sì, perché?», domandò insicuro l'altro.

«Ecco, perché non passerai di certo inosservato con la tua testa rossa, se poi ti presenti così allora è un chiaro invito a ricevere le ire dell'intero liceo».

«Magari fosse!», commentò Kaede, beccandosi l'occhiataccia del suo compagno di squadra.

«Ede, ci terrei tanto a riportare a casa sano e salvo mio fratello».

«È necessario?».

«Kit, ammazzati».

«A te l'onore di iniziare, Do'aho».

«Giovini, potete cortesemente smetterla?».

I due borbottarono qualcosa alla volta dell'altro, ma fu Hanamichi a riprendere. «Ma Hicchan, se indosso la divisa così almeno si vede quando io sia attaccato alla squadra, no?».

Hime si grattò il naso, incerta. «Allora fai una cosa, indossa la maglia ma evita i pantaloncini. Anche perché oggi fa fresco, non vorrai ammalarti?».

«Sta facendo di tutto per liberarci dalla sua presenza, lascialo fare», continuò Kaede, che si ritrovò il suo miglior nemico al collo, con il chiaro intento di farlo fuori.

La ragazza rinunciò a qualsiasi tentativo di farli smettere e trotterellò in cucina, riempiendosi un bicchiere di the verde, che tanto adorava. «Quando finite fate un fischio!». In risposta ottenne solo il suono di un qualcosa di fragile che si frantumava al suolo. Sperò vivamente che non fossero le tartarughe in vetro della madre... altrimenti sì che si sarebbe ritrovata senza fratello. E probabilmente anche senza migliore amico.

Quando Hanamichi si precipitò dalle scale, trascinandosi dietro sorella e Volpe, Hime capì che il danno era stato fatto.

«Hana, sai bene che mamma vi ucciderà, vero?».

Sakuragi si guardò le spalle, come se la donna fosse dietro di lui con una mannaia in mano pronta a farlo fuori sul serio. «No, Hicchan, mamma è buona e gentile, non farebbe male ad una mosca. E poi è stato lui a spingermi contro il mobile!».

«Spara balle», fece serafico Kaede, mani in tasca e spallucce di desolazione.

«Ede, per una volta non mi riesce difficile pensare che stia dicendo la verità», lo ammonì la seconda manager, con aria da bacchettona.

«Che significa per una volta?! Hicchan, io non dico le bugie!», esclamò Hanamichi, con il labbro all'infuori, triste e sconsolato. La risposta della sorella fu la sua occhiata eloquente, che diceva a chiare lettere: vedi? Lo stai facendo anche ora!

E tra un'infinita filippica sulla sua sincerità e sui suoi occhioni da cerbiatto indifeso, Hanamichi accompagnò le loro povere orecchie fino al Liceo Ryonan, dove Yayoi Aida li attendeva per la sua intervista sulle gradinate della palestra, dove la squadra di basket si allenava. Il sorriso cordiale della donna svanì nel momento in cui l'intervistato quasi si strappò la felpa per mostrare al mondo intero la sua lucente maglia rossa, facendo finire l'indumento in campo. Più precisamente sulla testa del Coach di casa, che non impiegò troppo tempo a sbraitare e inveire contro il rossino, che in risposta neanche si curò di lui.

«Sono Hanamichi Sakuragi, piacere di conoscere la donna che mi renderà famoso! Anzi, famoso lo sono già, ma un po' di lustro al mio nome su una bella copertina patinata non fa mai male, no?».

«Hana, datti una calmata», mormorò Hime, salutando allegramente la donna e ringraziandola per la sua disponibilità.

«Nessun problema, ragazzi», fece la giornalista. «Era da un po' che volevo fare due chiacchiere con il numero 10 dello Shohoku e mio fratello ha insistito così tanto che non ho potuto rifiutare. Ma non sapevo che anche Rukawa sarebbe stato dei nostri».

«Infatti, se lo può anche scordare», s'affrettò a dire l'ala piccola, incrociando le braccia e puntando gli occhi sul campo da gioco. Akira lo intravide e sollevò una mano per salutarlo, solare e limpido come sempre. Il malumore del Volpino crebbe a vista d'occhio e sia Hime che Yayoi decisero di lasciarlo perdere.

La giornalista prese il suo taccuino e una penna, appuntando la data e rivolgendo un sorriso a Hanamichi. «Allora, iniziamo. Prima di tutto vorrei complimentarmi per il tuo talento, Hanamichi. Non si vedono spesso giocatori come te».

«Lo so, lo so. In effetti, bisogna essere dei geni nati per certe cose. Io il basket ce l'ho nel sangue, non so se mi spiego».

«Credo che si riferisse alla tua demenzialità, Do'aho».

«Sei solo verde dall'invidia, Kit».

Yayoi, facendo finta di niente, appuntò qualcosa e rivolse ancora una volta un sorriso al rossino. «Come hai iniziato ad appassionarti a questo sport?».

Hanamichi si arruffò i capelli, pensieroso. Avrebbe dovuto raccontare a quella sconosciuta che era stato a causa della tenera e dolce Haruko? Lanciò una richiesta d'aiuto alla sorella, che sollevò le sopracciglia per esortarlo a parlare. «Beh, ecco, è stato grazie a... a Hicchan, la mia sorellina. Lei ha sempre giocato a basket con il Volpino e alla fine mi ha contagiato».

«Così tardi? Hai quindici anni, ormai e molti giocatori, anche più piccoli di te, hanno iniziato da bambini».

«Non è mai troppo tardi per diventare delle star di uno sport!», esclamò Hanamichi, esaltato. Ma poi si fece serio d'un tratto. «In realtà ho iniziato per gioco, per dimostrare a tutti che anche io avrei potuto fare canestro... poi mi sono innamorato di questo sport e ora non ne posso più fare a meno. Mi sento vivo solo quando ho quel pallone tra le mani e quando segno qualche punto importante».

Hime sorrise, con gli occhi lucidi. Perché sapeva che quelle parole fossero sincere e provenissero direttamente dal cuore del fratello. Hanamichi amava davvero il basket più di qualsiasi altro hobby, ne era sicura, ed era felice che finalmente avesse trovato qualcosa di nobile e bello da fare, anziché vagabondare con i Gundam e fare a botte con i primi che capitavano. Anche Kaede, se non fosse stato così freddo e impassibile, si sarebbe commosso per quello slancio di sincerità.

Sì, come no.

«Nel basket, come in ogni gioco di squadra, non è importante solo il talento personale, ma anche avere un buon rapporto di complicità con i propri compagni. Cosa mi dici del team?».

Hanamichi partì nell'elogio di ogni singolo amico e compagno di squadra, perché ognuno di loro gli aveva insegnato qualcosa di importante. Ayako, santa donna, i fondamentali in pochi mesi, Akagi la difesa sotto canestro, Ryota la smarcatura, Hisashi la testardaggine e l'onore e soprattutto il Coach Anzai, con il tiro dalla lunetta e affini. E tutti, soprattutto, gli avevano dato prova di una profonda amicizia. Credere in qualcuno come lui, testa calda e davvero scarso all'inizio, è stato un punto indispensabile nella sua crescita sia sportiva che umana.

«Se continua a essere così sdolcinato mi farà diventare diabetico», commentò Kaede, mentre Hime gli si avvicinava per lasciare soli i due.

«So che ti fa piacere sentirlo parlare in quel modo, Ede. Anche se non ti ha nominato ci sei anche tu, tra coloro che lo hanno aiutato».

«Hn, figurati. Non perdo tempo con casi irrecuperabili».

Lei ridacchiò. Ma il riso le morì in gola nel vedere quel colosso di Daichi Anami muoversi goffamente a centro campo. «Anche Akagi avrebbe problemi con un mostro come quello. Anche se non mi sembra molto sveglio».

Kaede vide Sendoh avvicinarsi al bestione, dirgli qualcosa e battergli una mano sulla spalla. Daichi, solo in quel momento, tornò sotto canestro, come se si fosse ricordato di cosa realmente fare. «Sembra tuo fratello, insomma».

Lo sguardo perforante di Hime non gli fece battere ciglio, se non un leggero increspamento delle labbra, che a lei ovviamente non sfuggì. Rimasero a osservare gli allenamenti del Ryonan per una mezz'ora intera, finché l'attenzione di Hime fu riportata all'intervista.

«E tu, Rukawa? Come vedi il prossimo Campionato Invernale, ora che il tuo avversario principale è diventato Capitano?», domandò la giornalista.

La Sakuragi arrossì nel vano tentativo di svegliare l'amico che si era appisolato sulla sua spalla, infilandogli con la delicatezza di un elefante un gomito tra le costole. «Ede, sei nel mezzo di un'intervista, non dormire!».

Il Volpino dello Shohoku le rifilò un'occhiataccia. «Non deve fare domande stupide solo al Do'aho?».

La seconda manager dei Diavoli Rossi si accorse, con preoccupazione, che una vena pulsava pericolosamente sulla fronte di Yayoi e sorrise, imbarazzata. «Lo scusi, signorina Aida, ma diventa molto irascibile quando esce dal letargo».

La giornalista scosse il capo, scribacchiando qualcosa sul suo taccuino, e la Sakuragi sudò freddo. Qualunque cosa stesse scrivendo la donna sul suo amico non doveva essere piacevole - vista anche la pesante infatuazione verso il suo acerrimo nemico, che ora si faceva bello e simpatico con la presunta cugina... che indossava una divisa dello Shoyo.

«Certo che gli somiglia molto, quella ragazza», commentò Hime, sporgendosi per vederla meglio.

«La stessa faccia da schiaffi».

Le sue povere costole iniziarono a chiedere pietà alla seconda gomitata di Hime. «Ssh! Stanno venendo qui!».

E infatti ecco Akira, sorridente e allegro, con a braccetto la ragazza misteriosa, sorridente e allegra anch'essa, in una perfetta coppia per la pubblicità di un miracoloso spazzolino, per una dentiera più bianca e splendente.

«Ehilà, amici! È un piacere vedervi», li salutò il Capitano del Ryonan, facendo digrignare i denti al suo rivale, che neanche lo degnò di uno sguardo, ma borbottò solo un "Potessi dire lo stesso".

Hime si alzò, saltellando e salutando l'amico con un bacino sulla guancia. «Piacere nostro, Akira! Veniamo in pace, non preoccuparti».

«Oh, nessun problema. Sapevo dell'intervista a tuo fratello. Hikoichi non faceva che parlarne!», rise Akira, affabile come sempre.

«Idem Hanamichi, era più esaltato del solito. Il che è tutto dire. Ma non ci presenti la tua amica?», chiese curiosa Hime, rivolgendo un sorriso alla cugina.

Akira si batté una mano sulla fronte. «Chiedo venia, luce dei miei occhi. Lei è Reiko Azamui, mia cugina. Rei, loro sono Hime Sakuragi e Kaede Rukawa, due vecchi amici». Il cestista marcò bene l'ultima parola e si divertì parecchio nel vedere la mascella contratta dell'altro, che continuò deliberatamente a ignorarli.

«Piacere di conoscervi! Akira non fa altro che parlarmi di voi, non vedevo l'ora di incontrarvi», fece la ragazza.

«Piacere mio, Reiko. Ma, sbaglio o ho già sentito il tuo nome?». Poi sbarrò gli occhi nocciola e schioccò le dita, trionfante. «Certo che ti ho sentita nominare! Sei una nuotatrice, giusto?».

La studentessa dello Shoyo non sembrò sorprendersi della sua fama. «Non sbagli. Segui il nuoto?».

Hime arrossì. «Non da molto, in effetti. C'è un'amica che è molto brava e sto iniziando ad appassionarmi ora, seguendola».

Reiko annuì. «Kiyo Kobayashi, scommetto. È molto brava, quella ragazza, e se continua a essere così determinata arriverà molto lontano. Non vedo l'ora di incontrarla di nuovo», disse, sinceramente. Hime, che sapeva riconoscere l'invidia dalla stima, si sorprese. Era abituata ad avere a che fare con sportivi capaci e talentuosi che, per il solo fatto di essere i numeri uno, si gasavano e diventavano egocentrici e, spesso, arroganti, soprattutto nell'ambiente femminile. Eppure non c'era veleno in quelle parole e quella ragazza le parve genuina e davvero compiaciuta della bravura della sua amica. Anche se, era ovvio, quella era la cugina di Akira Sendoh, lo sportivo per antonomasia, non poteva essere altrimenti.

«Sappi che la cosa è reciproca. Ti stima molto e ora capisco perché. Ma dimmi...», fece la seconda manager dello Shohoku, con un tono divertito. «Se sei dello Shoyo conosci Kenji Fujima, posso stringerle la mano?*».

Reiko scoppiò in una risata cristallina. «Questa frase lo perseguita, ormai, ogni giorno! Ma sì, lo conosco di vista, siamo nella stessa sezione».

«Wow. Hai sentito, Ede? Conosce Kenji Fujima, posso stringerle la mano!», esclamò Hime, che non ricevette risposta. «Scusalo, è sempre così», aggiunse, sorridendo alla ragazza, che si strinse nelle spalle e si sporse verso il ragazzo taciturno e scuro in volto.

«Non sono una Sendoh vera e propria, dato che mia madre è la sorella di sua madre. Puoi anche rivolgermi la parola, sai?».

Hime sgranò gli occhi, tappandosi la bocca con le mani per non ridere in faccia all'amico. Cosa che invece fece Akira, senza troppi problemi.

Kaede, d'altro canto, si limitò a voltare il viso verso la ragazza, che gli sorrideva in quel modo innocente e fastidioso tipico di Sendoh. «Fintanto che sorridi come un'ebete come lui la cosa non cambia».

«Ede!», sbraitò Hime, che questa volta gli tirò uno scappellotto in testa che lo stordì per parecchi minuti.

Ma i cugini risero, come se niente fosse.

Erano proprio un fattore genetico dei Sendoh, pensò sconcertata Hime.

«Tra un quarto d'ora finiamo gli allenamenti e stavamo pensando di andare a bere qualcosa al bar dietro l'angolo. Siete dei nostri?», domandò Akira.

«Preferisco la morte», rispose Rukawa, sempre più incacchiato. Non bastava un Sendoh, ora ci voleva anche la copia al femminile!

«Intende dire che sarebbe felice oltre misura di farvi compagnia», replicò Hime, ormai stanca di pestare l'amico. «Anche se vi avverto, dovrete sorbirvi la gazzosa di Hanamichi. Sarà gasatissimo».

Akira fece spallucce. «Ci siamo abituati tutti, no?».

«Tecnicamente lei no», gli fece notare la manager.

«Non mi spavento facilmente, Hime», disse quella, strizzandole un occhio con complicità.

La rossa le si appese al braccio, allegra, rivolgendosi all'amico. «Dov'è che l'hai tenuta nascosta tutto questo tempo?».

Il cugino dell'anno rise. «È lei che preferisce stare attaccata ai libri e al suo nuoto, anziché venirmi a coccolare».

«Potresti fare anche il contrario, ogni tanto», lo rimbeccò Rei. «Non sono solo io ad abitare dall'altra parte di Kanagawa».

Il numero 4 del Ryonan si grattò la nuca, imbarazzato. «È che è così lontano che mi passa ogni fantasia. Una delle poche volte che son salito sulla metro mi sono addormentato e mi son ritrovato al capolinea senza neanche accorgermene».

Le due ragazze scossero mestamente la testa, mentre a Rukawa scoppiò una coronaria, invece di una risata.

«A quanto so anche tu sei uno che ama dormire».

Kaede si chiese se quella Reiko ce l'avesse davvero con lui, o se fosse scritto nel libro della sua vita che tutti i Sendoh del mondo dovessero perseguitarlo a prescindere. «Almeno arrivo in orario agli allenamenti, io».

«Touché», fece la ragazza, puntando un dito al cugino, che alzò le braccia al cielo.

«Ma non devi finire di allenarti?», borbottò Kaede ad Akira.

«Ti preoccupi che non sia alla tua altezza?».

«No, così ti levi dalle palle, idiota».

Il Porcospino piegò le labbra in un sorriso, salutò le donzelle e tornò agli allenamenti - ma solo perché Taoka aveva ripreso a sbraitare come un isterico contro di lui e non voleva far prendere un colpo al suo Coach.

«Era ora».

Reiko guardò il ragazzo che aveva parlato. «Ti sta antipatico perché è più bravo di te o perché è bravo come te?».

Il numero 11 dello Shohoku sollevò un sopracciglio. «Nessuna delle due. Mi irrita e basta».

«Capisco».

L'altro sopracciglio raggiunse il precedente, regalandogli l'espressione più perplessa che potesse sfoggiare. Che diavolo significava quel tono e quel capisco? Cosa capiva? Kaede non si sbagliava di certo se pensava di aver udito del sarcasmo in quella semplice parola. Un po' come dire certo, come no. Ma che ne poteva sapere una perfetta sconosciuta, per giunta parente di quello squilibrato, di quello che gli passava per la mente? Solo una persona era in grado di capirlo, e di certo non si chiamava Reiko Azamui.

Il fatto era che odiava Sendoh solo per la sola ragione di esistere. Poteva odiarlo anche solo perché gli stava rubando l'aria da respirare. Non era un buon motivo, quello? Per lui bastava e avanzava, capitolo chiuso.

«Akira dice che hai del talento. Solitamente, quando si complimenta con qualcuno, non mente», proseguì la ragazza dalla divisa verde, tranquillamente.

«Non ho talento. Sono un fuoriclasse».

«Oh, non lo dubito, davvero!».

Kaede strinse i pugni, oltre che i denti. Se avesse continuato a sorridere come una deficiente, conscia di irritarlo oltremodo, le avrebbe spaccato il muso, parola d'onore. E a quel paese la cavalleria. Era morta da tempo, ormai.

Hime, d'altro canto, trovò quella piccola discussione immensamente interessante e divertente. Era bello trovare, ogni tanto, qualcuno che potesse tener testa al suo amico. Soprattutto che riuscisse a farlo innervosire con così tanto candore. Neanche lei ci riusciva, accidenti!

Per l'immensa sfortuna di Rukawa, prima di vedere nuovamente il viso lindo e profumato di Akira, reduce dalla doccia post allenamento, passarono tre quarti d'ora - era lento anche a lavarsi, il ragazzo. Ma non ci fu niente da gioire, perché da una parte aveva una palla al piede dai capelli rossi che si vantava della splendida intervista rilasciata solo pochi minuti prima, dall'altra ne aveva altre due dagli intensi occhi blu che non facevano altro che ridere alla vita, come se tutto fosse rose e fiori. Ciliegina sulla torta: Hime lo trascinò letteralmente con loro al bar all'angolo, e continuò a chiedersi per il resto della serata cosa diavolo ci facesse lì in mezzo - anzi, come diavolo ci fosse finito, dato che non trovava ragione alcuna della sua presenza al Ryonan, per accompagnare quel cerebroleso di Hanamichi.

La situazione peggiorò quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e, ovviamente, finì invischiato in un due contro due, in coppia con la sua manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha, non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.

«Ehi, guarda che hai le palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.

Rukawa sollevò gli occhi al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te lo sapevo da tempo».

Un'unica risata si sentì per l'intero locale ed era quella dei cugini Sendoh.

Kaede sbuffò.

Ottimo, era diventato anche il clown della situazione.

 

*

 

Al rientro verso casa, sopravvissuti a un pomeriggio denso come quello appena trascorso, incrociarono Ryota, con la sacca dell'allenamento in spalla, reduce da due tiri al campetto vicino alla spiaggia.

«Ehi, Pigmeo! Bacia la terra che calpesto, presto sarò famoso!», esclamò Hanamichi.

«Ha dato l’intervista con Aida», spiegò la sorella.

Ryota sollevò gli occhi al cielo. «È da ingenui sperare che la cosa lo calmi un poco, almeno fino all'inizio del torneo?».

«No, è da stupidi. Con affetto, Capitano», s'affrettò ad aggiungere la ragazza. «Ora non vede l'ora di leggere l'articolo».

«Buddha, salvaci. A volte sento la mancanza di Akagi».

«A chi lo dici!», esclamarono in coro Kaede e Hime.

«Ehi, Ryo-chan, che ne dici se passiamo un attimo a casa, mangiamo qualcosa e giochiamo un altro po'?», chiese il rossino, che per loro fortuna non li aveva sentiti, troppo perso nelle sue elucubrazioni geniali che i comuni mortali come loro non avrebbero potuto capire.

Miyagi si strinse nelle spalle. «Per me va bene, non sono stanco. Almeno mi fai vedere se le ore spese a insegnarti lo scarto dell'altra sera sono servite a qualcosa oppure ho perso solo tempo».

«Abbi fede, amico mio!», si pavoneggiò il rossino.

«Nel senso che forse se preghi in arabo avverrà il miracolo», continuò Kaede, che fece gli ultimi cinquecento metri azzuffandosi con il suo miglior nemico - o peggior amico, che dir si voglia.

Quel momento idilliaco fu spezzato nel momento in cui i quattro varcarono la soglia di casa Sakuragi, dove una troppo calma Misato attendeva i gemelli con i resti delle sue preziose tartarughe portafortuna tra le mani.

«Finalmente siete tornati. Aspettavo giusto una spiegazione», esordì l'infermiera, con un tono fintamente cortese e un sorriso che metteva i brividi.

Hanamichi si grattò la testa, guardando prima la sorella e poi Rukawa, che se ne stava poggiato contro il muro. «Ti posso spiegare».

«Sono tutta orecchie, Hana».

Il rossino strinse le labbra, cercando di ingranare qualche scusa plausibile. «Ecco, è che... è entrata una volpe in casa, mamma».

Hime e Ryota si voltarono contemporaneamente a guardarlo, confusi e increduli che avesse davvero trovato una scusa del genere. Che poi avesse citato una volpe in onore del loro comune amico era un altro paio di maniche.

«Una volpe?», ripeté la donna, scettica. Fece scivolare lo sguardo dai figli all'ignaro (o finto-ignaro) Kaede, che  ora aveva iniziato a osservare con crescente interesse il soffitto.

«Sì, una volpe, », continuò Hime, annuendo innocente e genuina come una banconota falsa. «Sai, quel mammifero tenero, dalle orecchie importanti e la coda pelosa e morbida...».

La signora Sakuragi si voltò verso il forno appena questo l'avvisò che i biscotti che aveva messo in caldo erano pronti, e posò la teglia sul tavolo, guardando critica il risultato di tanto lavoro. «Potete dirmi la verità, ragazzi, non sono arrabbiata. Quando preparo biscotti sono sempre felice, dovreste saperlo».

Ma prima ancora che Hime potesse tappare la bocca del fratello con un dolce e soffocarlo, sapendo che quella fosse una trappola bella e buona, Hanamichi aveva già iniziato a inveire contro Rukawa, attribuendogli tutte le colpe del mondo e sbraitando come un pescivendolo che le adorate tartarughe della madre le avrebbe ricomprate a sue spese anche se la responsabilità del danno non fosse assolutamente la sua.

Con un ghigno degno del miglior Takenori Akagi, la donna mise i biscotti in un contenitore di plastica e lo porse a Hime. «Portali tutti a Yohei, so che gli piacciono tanto».

La figlia si grattò il naso, perplessa. «A me neanche uno?».

«No, li hai difesi entrambi». Poi Misato sorrise, ora divertita. «E poi stai iniziando a metter su qualche chilo di troppo, devo smetterla di viziarti».

Le urla di disperazione dei due fratelli - chi per una fame tremenda, chi per la disperazione di tali parole velenose - furono udite fino a Tokyo. Sconsolati e sconfitti, i gemelli, seguiti dalla Volpe e dal Tappo, s'incamminarono verso la casa di fronte.

Quando Mito aprì la porta e vide il dono che Hime gli porgeva, sorrise come un angioletto. «Adoro quando ne combinate una. Ci guadagno sempre qualche delizia di vostra madre».

«Che ti rimanga sullo stomaco», grugnì Hanamichi, imbronciato.

«Non è che possiamo dividere? Ho un po' di fame», fece Ryota, sbadigliando.

«No, tu non mangi!», strillò la ragazza, quasi con le lacrime agli occhi. «Devi... giocare, non va bene mangiare prima di un allenamento».

«Ma se sei tu la prima a dire che...».

«Dico tante cavolate, ora su, verso il campo!», lo interruppe bruscamente Hime, trascinandolo lontano dai biscotti profumati e ancora caldi.

Non poteva mangiare lei?

Non avrebbe mangiato nessuno!

 

*

 

Ma quella serata lunga e stancante fisicamente e psicologicamente non era ancora giunta al termine, neanche alle otto e mezza di sera. Quando i ragazzi, di rientro dalla partitella blanda vicino alla spiaggia, videro il gruppo di motociclisti e riconobbero il capo branco strinsero gli occhi e i denti per la rabbia. Avevano a pochi metri di distanza i bastardi che avevano ridotto Mitsui su un paio di stampelle, rischiando di compromettere per sempre la sua carriera sportiva e privandoli della sua bravura in campo per le prime partite di Campionato. Oltre al fatto che i danni psicologici, senza un sostegno amichevole, avrebbero potuto essere ben più importanti di quelli fisici, e loro sapevano bene cosa avesse dovuto passare Hisashi per riprendersi dalla disperazione di non poter più giocare a basket.

Solo un unico pensiero iniziò a farsi strada nelle menti dei tre, che si scambiarono una rapida occhiata e capirono subito cosa avrebbero dovuto fare.

Per il loro amico.

E per la ragazza del loro amico.

Nessuno avrebbe dovuto osare alzare un dito contro uno di loro, perché erano una famiglia. E in famiglia ci si difende a vicenda.

Mossero i primi passi verso i teppisti, ma una mano fermò il braccio di Hanamichi, che si voltò di scatto, un pugno già pronto a colpire. Ma quando i suoi occhi castani incontrarono quelli di Yohei Mito si arrestò immediatamente.

«Cosa pensate di fare?», gli domandò l'amico, accompagnato dai fedelissimi Gundam. Hime strinse forte le mani del gemello e di Kaede, troppo spaventata dalla situazione e, soprattutto, dai loro sguardi.

I tre cestisti sollevarono lo sguardo dietro le spalle di Yohei e si accorsero solo in quel momento della presenza di Tetsuo e della sua banda di delinquenti. Questo si accese una sigaretta e sbuffò il fumo con prepotenza, in un ghigno di divertimento. «Lasciateli a noi. Questo non è un lavoro per tre pivelli come voi».

Hanamichi fece per ribattere, furioso e più rosso dei suoi capelli - nessuno lo chiamava pivello! -, ma Ryota lo fermò con prontezza, intimandogli di non fare idiozie. «È quel deficiente il nostro obiettivo, non lui».

«No, ragazzi, nessuno è l'obiettivo di nessun'altro», fece Hime, con la voce tremante. «Non mettetevi nei guai, per favore. Avete visto come hanno ridotto Hisashi?».

«Ma noi siamo di più», replicò Sakuragi, stringendo i pugni.

Yoehi li sorpassò, fermandosi al fianco del migliore amico. «Fai come ha detto Tetsuo, Hanamichi, e come sta dicendo Hime. Avete un campionato da giocare e avete anche promesso di non fare più a botte con nessuno, ricordi? L'allenatore Anzai non deve sapere niente».

Il rossino scambiò una rapida occhiata con Ryota e Kaede, quest'ultimo deciso quanto lui a farla pagare a quel bastardo. Ma tutti e tre capitolarono davanti alla calma e alla razionalità di Yohei e agli occhi spauriti di Hime.

Hanamichi si ficcò le mani in tasca, contrariato. «Spaccagli il naso da parte mia».

Le labbra di Mito si piegarono in un sorriso e fece schioccare le dita. «Mi devi un favore, amico».

«Ti ho già dato i biscotti di mia madre, che ti bastino per il resto della vita!».

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Salve a tutti, gente!

Finalmente trovo il tempo per scrivere e aggiornare questa mia seconda "casa"! Quello che ho passato è stato un periodo troppo denso di cose e novità e non ho trovato la testa e il tempo per dedicarmi come avrei voluto ai nostri amati Ragazzi Selvaggi! Ma ora eccomi qui - sempre che sia rimasto qualcuno là fuori ad attendere che venissero tolte le ragnatele a questa storia!

Abbiamo conosciuto un po' meglio la misteriosa cugina di Akira, spero che vi piaccia come piace a me - non come piace a Rukawa, che già la detesta. :)

 

* Una piccola nota su questa frase in corsivo: l'ho ripresa dal manga, quando Fujima, spettatore di una partita, incontra una fan che gli chiede di stringerli la mano, innamoratissima e rossissima, sotto lo sguardo divertito dei compagni di squadra. Ho pensato che fossero stati proprio loro a far circolare la voce e a prendere in giro il loro capitano. :)

 

A presto - spero!

Un abbraccio,

Marta.

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Capitolo 19
*** 18. Ce la faremo ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 18

Ce la faremo.

 

 

 

Nessuno di loro aveva chiuso occhio quella notte, per la preoccupazione di aver lasciato Yoehi, Tetsuo e le rispettive bande nelle mani dei delinquenti di Toshiro. Li avevano trascinati in una questione che non li riguardava affatto, a parte il vecchio amico teppista di Mitsui che voleva vendicarlo, e i rimorsi non li avrebbero abbandonati se fosse successo qualcosa di grave. Hanamichi era stato l’intera notte a fare avanti e indietro nella sua stanza, le mani che cercavano con nervosismo i capelli rossi e qualche borbottio sommesso tra le labbra, mentre Hime, seduta sul suo letto con le gambe strette al petto, non smetteva di mangiarsi le unghie – una brutta abitudine che aveva perso da tempo, ma che in quella situazione non poté trattenere – gettando di tanto in tanto un’occhiata alla finestra, nella speranza di vedere Yohei rientrare a casa sulle sue gambe. Kaede, che per la prima volta in vita sua non riuscì a prendere sonno, aveva invece deciso di recarsi al suo campetto di basket preferito, per scaricare la tensione a canestro. Ryota era rimasto con lui. Se non fosse stato ugualmente preoccupato, l’avrebbe sfottuto a vita.

Fu con occhiaie profonde e facce funeree che quella mattina arrivarono a scuola. I gemelli avevano atteso invano il ritorno del loro amico e avevano persino chiesto alla madre se fosse in casa. Quella aveva risposto che fosse rimasto a dormire da Takamiya per una partita di poker durata troppo a lungo e, nonostante tutto, i due avevano tirato un sospiro di sollievo. Almeno non erano finiti in ospedale.

L’unica che sembrava sapere cosa fosse successo era Ayako che, vedendo le condizioni in cui Ryota si era presentato quella mattina, l’aveva messo sotto torchio finché non le aveva confessato la verità. Come sempre, Ayako sapeva essere convincente.

Lei e Hime si scambiarono un’occhiata tesa, ma la prima manager era segretamente sollevata dal fatto che i rimanenti del quintetto base, e soprattutto il suo compagno, avessero preferito fare un passo indietro per non rischiare di finire peggio di Mitsui.

«Notizie dei ragazzi?», domandò Ayako, stringendo con forza la mano di Ryota.

«Nessuna, per ora», fu la risposta dell’altra ragazza. «Takamiya ci aveva detto che i genitori sarebbero stati fuori casa per qualche giorno, immagino siano rintanati lì in attesa che i lividi più visibili spariscano».

«E perderci il momento di gloria nel mostrare le cicatrici di battaglia?», domandò una voce alle loro spalle.

«Ehi!», esclamarono in coro i gemelli, correndo a sincerarsi delle condizioni degli amici. Erano più che ammaccati, chi con un occhio gonfio e violaceo, chi con le nocche fasciate, ma erano persino in vena di battute e stavano bene. Il sollievo fu così grande che Hanamichi li sbaciucchiò tutti senza ritegno, il ché per poco non fece vomitare i quattro in barba al loro momento di gloria.

Alla tacita domanda di come fossero andate le cose, Yoehi strizzò l’occhio sano e un sorriso malandrino gli increspò le labbra tumefatte. «Se le cose sono andate come previsto, quello stronzo si sta leccando le ferite in una cella».

«E che ci rimanga», fu il buongiorno di Kaede Rukawa, che aveva preferito arrivare a scuola a piedi per non rischiare di ammazzarsi in bicicletta.

«Davvero?», esclamò Hime sbarrando gli occhi.

«Qualcuno del vicinato deve aver chiamato la polizia», spiegò Noma, stringendosi nelle spalle. «Abbiamo fatto in tempo a salire in moto con quei brutti ceffi di Tetsuo proprio quando stava arrivando la volante, ma siamo riusciti a non farci vedere».

«Così siamo tornati indietro a piedi per goderci la scena e abbiamo visto quel Toshiro che le stava suonando ai suoi uomini che volevano darsela a gambe levate».

«E incacchiato com’era ha messo le mani addosso a uno dei poliziotti».

«Li hanno arrestati subito dopo».

Nonostante la gravità della situazione scoppiarono a ridere e persino Kaede si lasciò scappare uno sbuffo di sollievo, mentre tutta la stanchezza della notte in bianco iniziò a farsi sentire come un pugno sullo stomaco.

I Gundam riferirono loro come fossero andate le cose non appena li avevano lasciati soli, raccontando che persino Hotta e i suoi si erano uniti alla festa per puro caso; nessuno dei quattro si risparmiò epiche scene di combattimento che avrebbero fatto invidia persino a un film di Jackie Chan, ma nessuno osò metterle in discussione.

La prima campanella suonò e i ragazzi si salutarono, dandosi appuntamento per pranzo al terrazzo sul tetto che ormai era diventato di loro proprietà – per sommo orrore di Rukawa, che ormai non conosceva più il significato di tranquillità neanche in pausa – e si avviarono alle rispettive classi per sonnecchiare un poco. Fu un duro colpo per i gemelli e gli ammaccati scoprire che alla prima ora ci fosse Yoshikai e non fecero in tempo a poggiare il capo sulle braccia che furono rispediti in corridoio.

«Beh, almeno ora si può dormire in santa pace!», esclamò Hanamichi dopo un lungo sbadiglio, mentre si trascinava in terrazzo come se fosse troppo faticoso mettere i piedi uno davanti all’altro. Per una volta neppure Hime, che in qualsiasi altra occasione sarebbe stata oltraggiata dalla punizione, ebbe da ridire sull’ora d’aria che si erano guadagnati e si accoccolò sulla spalla del fratello non appena si sedettero. Come prevedibile, Rukawa era già lì che ronfava beatamente alla faccia di tutto e tutti e Ryota li raggiunse poco dopo per il medesimo motivo.

Purtroppo, o per fortuna, si addormentarono così profondamente da non sentire le successive campanelle, finché non furono svegliati da qualcuno che li punzecchiava senza ritegno.

«Oh, Kami, guardate la faccia di Yoehi-kun!».

«Ma che diavolo hanno combinato?».

«Mitsui, se non stai attento quella stampella rischi di ritrovartela su per qualche orifizio».

«Nah, guardali. Non hanno neppure la forza di svegliarsi».

Fu il ventaglio di Ayako, giunta in quel momento come un tornado più livida che mai, a smentire le parole della guardia dello Shohoku. Con un colpo pauroso, percosse Ryota con tutta la forza di cui disponeva – ed essendo incavolata nera era notevole. Solo quello bastò a farli saltare sui loro deretani dallo spavento.

«A-Ayakuccia!», piagnucolò il bastonato, mentre si accarezzava il nuovo bernoccolo. «Che modi sono?!».

«Che modi sono?», ripeté inviperita quella, regalandogli un’altra sventagliata. «Avevamo la prova di chimica in coppia oggi! E l’ho dovuta fare da sola! Sai cosa significa?». E giù a dargli un’altra botta di ventaglio, che lo stese in modo definitivo.

Hime si stropicciò gli occhi assonnati. «Aya-chan, perché ti scaldi tanto?», domandò perplessa. «Insomma, tra tutti noi sei probabilmente la più secchiona, sarà andata bene comunque, no?».

«Abbiamo preso una F per colpa sua!», fu l’inaspettata replica. Fu solo quando si rese conto di averlo sbandierato ai quattro venti, incrinando irrimediabilmente la sua cristallina immagine di studentessa modello, che la prima manager si tappò le labbra con le mani e divenne più rossa dei capelli dei Sakuragi. «Guarda cosa mi hai fatto dire, razza di idiota!», sbraitò contro il compagno, che ormai non mosse più un muscolo all’ennesima sventagliata. Hime temette che fosse morto e tirò un sospiro di sollievo quando lo sentì gemere dal dolore. Forse, si disse, avrebbe avuto meno lividi partecipando alla rissa della sera prima.

Calò un'improvvisa quiete in terrazzo, scandita solo dal respiro pesante di Rukawa, ancora tra le braccia di Morfeo e ignaro di tutto. Fu molto difficile trattenere le risate a discapito della manager, ma c’era la loro incolumità in gioco e nessuno voleva rischiarla.

«Non prendertela con me», borbottò Ryota, dopo aver ritrovato la forza di parlare. «Se sei una frana in chimica non è colpa mia, Ayakuccia».

«Ayako è una frana in chimica?», sussurrò Hime al fratello, ancora troppo rincoglionito dal sonno per capire cosa diavolo stesse succedendo. Purtroppo per lei la diretta interessata udì il tono divertito della rossa e non poté risparmiarle ripercussioni, ferita nell’orgoglio.

Hisashi ghignò. «O-ho, si scoprono gli altarini».

«Mitsui, non credere le stampelle ti salvino dalla mia ira», lo minacciò Ayako. «Noi donne sappiamo tenere rancore a lungo».

Kiyo annuì a quelle parole. «Vedi di ricordartelo, Mitsui».

«E comunque non si può essere perfetti», sbottò la prima manager, incrociando le braccia sotto il seno.

«Dai, Ayako, non prendertela. Ogni tanto capita, no? È solo che mi è caduto un mito», si difese Hime, con labbro inferiore all’infuori.

«È caduto Mito?!», strillò Hanamichi, che balzò in piedi e si affacciò oltre la balaustra, cercando il cadavere dell’amico qualche piano più in basso.

«Demente, sono qui», lo rimbeccò Yoehi, con un debole calcio al di dietro.

«A proposito», riprese Mitsui, ora più seriamente, «che avete combinato voi quattro?».

I Gundam scambiarono un’occhiata con gli altri giocatori, che si strinsero nelle spalle. In un modo o nell’altro l’avrebbe scoperto; erano più che sicuri che Tetsuo o Hotta l’avrebbero messo al corrente alla prima occasione. Così gli raccontarono dell’accaduto, sotto il suo sguardo impassibile e quello stordito di Kiyo, che non credeva alle proprie orecchie.

Hime le batté qualche pacca sul braccio. «Questo è quello che guadagni avendo dei buoni amici ma un po’ teppisti».

«Vedo», replicò la nuotatrice, indecisa se ridere per il sollievo o incavolarsi per il rischio che avevano corso. Scambiò un’occhiata con Hisashi, che le rispose con un sorriso sbieco, e per la prima volta dopo mesi si sentì serena. Toshiro era in cella – e probabilmente ci sarebbe rimasto per un bel po’, dato che aveva pestato un ufficiale; neppure suo padre avrebbe potuto fare qualcosa a riguardo, e magari gli avrebbero fatto passare tutta la voglia di rompere le palle agli altri – e aveva dei nuovi e sballati amici che erano pronti a tutto pur di difendersi a vicenda. Erano situazioni pericolose e non accettava certo la violenza per risolvere i problemi, ma per una volta decise di fare uno strappo alla regola. Del resto, se fosse stata forzuta come loro, avrebbe pestato l’ex con le sue stesse mani.

«Non so cosa dire», borbottò Mitsui, passandosi una mano tra i capelli corti. «Avete rischiato grosso per cosa? Una stupida vendetta? E c’era addirittura la polizia di mezzo!».

«Tsk. Ringrazia che Hicchan ha insistito tanto per non unirci al party, Mitchi», fece Sakuragi, stiracchiando i muscoli indolenziti di braccia e gambe.

«Deficiente! E la promessa al Sensei Anzai?».

Hanamichi gonfiò le guance. «Non lo avrebbe mai saputo. Eravamo in superiorità numerica, ne saremmo usciti illesi», replicò saccente, incrociando le mani sulla nuca.

«Do’aho, non usare paroloni di cui non conosci il significato».

«E tu torna a fare quello che ti riesce meglio, Kit: dormi».

«Onestamente, Mitsui», disse Yoehi. «Tu cosa avresti fatto al nostro posto?».

Hisashi non replicò, ma la sua espressione e la mascella contratta fu una risposta sufficiente. «Vi ringrazio, ragazzi».

Mito agitò una mano fasciata, come per scacciare una mosca fastidiosa. «Nessun problema. Eravamo da parecchio senza sfogarci; ne avevamo bisogno».

«Comunque, dobbiamo andare in infermeria a disinfettare quei tagli, brutti mascalzoni», disse Hime, alzandosi finalmente in forze. «Conoscendovi, neppure li avete lavati».

Noma alzò le mani, in segno di resa. «Colpa di questo maiale, gli viene sempre una gran fame dopo una rissa», fece, indicando Takamiya.

«Quando mai non ha appetito?», replicò Okusu, scrollando le spalle con rassegnazione.

«Non abbiamo neppure fatto in tempo ad aprire bocca, che lui ce l’aveva già piena di hamburger».

«Non mi pare che voi vi siate lamentati molto, eh», si difese l’accusato.

«Dai, andiamo, che non voglio che s’infettino», insistette Hime, afferrandone due per la collottola. Venne seguita da Ayako, ancora infuriata per quella pecca imperdonabile sulla pagella – e dire che aveva fatto di tutto pur di non far sapere ai ragazzi il suo punto debole! – e nessuno di loro sperò di finire tra le sue grinfie. Incavolata com’era, probabilmente avrebbe aggiunto altri lividi invece che curarli.

Sanako avrebbe tanto voluto seguirli per dare una mano, ma non voleva rischiare di svenire per il sangue. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo alla vista di quei lividi e gli occhi gonfi. Yoehi, notando il suo sguardo impensierito, le fece l’occhiolino e lei non poté fare a meno di sorridere.

Appena il gruppo di dementi si fu allontanato con le due manager, Ryota distese le gambe, osservando il ginocchio fasciato e immobile del compagno di squadra. «Come procede?».

Mitsui si strinse nelle spalle. «Procede. Fa male se solo oso poggiare il piede a terra, ma la ferita dell’intervento sta iniziando a chiudersi. Suo padre è stato bravissimo con i punti», disse rivolto a Rukawa, che solo in quel momento ricordò di dover pranzare.

Ci fu un lungo istante di silenzio ma i pensieri di tutti erano rivolti verso la stessa cosa: il campionato invernale. Senza la loro guardia e il miglior tiratore che avessero, difficilmente sarebbero arrivati alla finale. Il Miuradai poteva ancora essere una squadra di pivelli, per quanto ne sapevano, ma era praticamente già scritto che i prossimi avversari sarebbero stati quelli del liceo Kainan. Le elevazioni di Kiyota erano già state un problema per i tiri fuori area di Mitsui, ma con qualche tattica ben studiata avrebbero potuto benissimo bloccare la Scimmia Saltante. Con la loro guardia fuori e il morale a terra, sarebbe stato molto più complicato.

«Ce la faremo», disse Mitsui, spezzando il silenzio. Cinque paia d’occhi si spostarono su di lui, in attesa che continuasse. «Ce la faremo. Kimi Shimura sarà un degno sostituto, ne sono sicuro. Me ne occuperò personalmente già da questo pomeriggio».

Ryota annuì. «Sono d’accordo, è un bravo giocatore. Ma in quattro giorni cosa credi che possa fare?».

Fu Rukawa a parlare, inaspettatamente. «Il Do’aho ha imparato il rimbalzo in una sera e i tiri liberi in una settimana. Se ce l’ha fatta lui, tutto è possibile».

Tra le risate sguaiate di Hisashi e Ryota, i due acerrimi amici iniziarono a darsele di santa ragione sotto lo sguardo attonito delle ragazze che, non per l’ultima volta, si chiesero in che razza di gruppo di deviati fossero finite.

Kiyo si alzò raccogliendo la sua cartella e la sacca della piscina. «Vi lascio. Cercate di non ammazzarvi».

«Dove vai?», domandò Mitsui, sollevando lo sguardo sulla ragazza.

«Allenamento. Domenica ho i quarti».

«Ma sono solo le tre e hai appena mangiato!», esclamò Sana, alzandosi a sua volta. «Kiyo, ti stai strapazzando troppo».

«Non sto andando a nuotare, per il momento, mamma. Ho un riscaldamento sostanzioso sulla terra ferma, prima», replicò lei. «E poi è il minimo che possa fare, se voglio battere Azamui».

Nell’udire quel nome, suonò un campanello d’allarme e Rukawa rovistò tra le ragnatele della sua memoria, cercando di ricordare chi diavolo fosse Azamui. Un sorriso da ebete e una risata vomitevole lo fecero pentire di esserci riuscito e tentò inutilmente di scacciare dalla testa l’immagine dei due cugini Sendoh che ghignavano come iene alla faccia del suo malumore. Non gli interessava il nuoto, ma sperò con tutto il cuore che la Kobayashi la stracciasse, solo per il dispiacere che una sconfitta della cugina avrebbe provocato all'ex numero 7 del Ryonan.

«Ci vediamo dopo», fece Kiyo con un ultimo sguardo a Hisashi, che la salutò con un cenno del capo.

«Bene, io mi metto a studiare, allora», decretò Sana. «Tra un’ora ho le prove per il concerto e poi turno al bar. Kimi non verrà, quindi?».

Mitsui fece spallucce. «Se dovesse suonare da schifo, probabilmente si tratta di Eichiro che tenta di sostituirlo senza che nessuno se ne accorga». Vedendola sconsolata, si affrettò ad aggiungere: «Gli allenamenti iniziano alle cinque, per un’oretta sarà dei vostri».

«Oh per fortuna, altrimenti chi la sente mia zia».

Un brivido di terrore attraversò le schiene dei ragazzi, al ricordo della signora Tsukiyama e del suo piccolo problema di schizofrenia.

 

*

 

Quel pomeriggio gli allenamenti furono più tesi del solito. L’infortunio di Mitsui non giovava alla squadra e neppure le sue parole di incoraggiamento furono molto d’aiuto. Gli unici che parevano essere rilassati erano i gemelli Shimura, che non perdevano la calma neppure con una pistola puntata alla tempia. Hanamichi aveva ripreso a fare lo spaccone come al solito, gridando al mondo che con lui in piena forma nessuno aveva speranze di vincere, ma il Capitano Miyagi non aveva alcuna voglia di scherzare: erano in visibile difficoltà, se ne rese conto fin dai primi esercizi. Movimenti rigidi, occhiate troppo spesso rivolte al ginocchio di Mitsui che alla palla, imprecisioni nel tiro. A quattro giorni dalla prima partita era una situazione catastrofica e Ryota stava perdendo la pazienza.

«Fermi tutti!», gridò battendo le mani, mentre Ayako fischiava per richiamarli.

Sorpresi per l’improvvisa interruzione, la squadra gli si avvicinò, spalle basse e visi abbattuti.

«Così non va bene», esordì Ryota. «Non va bene per niente. Se questa è la grinta che avrete mercoledì, allora vi chiedo di stare a casa. Ci risparmieremo una bella figura di merda».

«Ma, Ryo-chan–», iniziò Hanamichi, subito zittito da un dito del Capitano.

«Voglio ricordarvi che Mitsui non è crepato, anche se delle volte me lo auguro».

«F0ttiti, Miyagi», sbottò il diretto interessato che sedeva accanto all’allenatore, mostrandogli il dito medio.

«Per quanto la sua presenza in campo sia di fondamentale importanza, lo è anche dalla panchina», continuò Ryota, ignorandolo. «E lo è la vostra. Non è la prima volta che accade e purtroppo non sarà neanche l’ultima. Ogni volta ci siamo rialzati e abbiamo reso onore alla maglia che indossiamo. Oggi stiamo solo facendo schifo».

Nessuno osò ribattere a quelle parole dure ma veritiere, trovando più interessante la punta delle proprie scarpe che lo sguardo del loro nuovo numero 4. Hanamichi sollevò lo sguardo su Mitsui poi su Anzai, e strinse i pugni. Il Tappo aveva ragione, si disse, sebbene lui ce la stesse davvero mettendo tutta. Era stato difficile ritrovare il ritmo dopo la riabilitazione e ora che era finalmente riuscito a riprendere al meglio, ecco che Mitchi non avrebbe giocato le prime partite. Era stato duro dover accettare il fatto che il Gorilla non fosse più in squadra, ma avere il sostegno in campo di Ryota e del Baciapiselli era per lui un punto fermo. Ora anche quello era incrinato e, per la prima volta nella sua breve carriera di cestista, temette di non potercela fare da solo. I gemelli Shimura erano in gamba, Eichiro in particolare gli piaceva molto, ma non era la stessa cosa. E di certo non avrebbe trovato il supporto della Volpe. O forse era lui che se la stava prendendo troppo?

Ryota stava ancora parlando ma lui ormai non sentiva più nulla. Guardò Hime, che si mordicchiava le labbra in tensione, ma quando si accorse del suo sguardo, gli sorrise con fare confortante. Quanto l’aveva aiutato la sua presenza in panchina? E quella del signor Anzai? E quella dei suoi migliori amici e di Harukina-cara?

Batté il pugno sul palmo della mano, interrompendo il discorso di Miyagi, che lo osservò con un cipiglio perplesso e irritato.

«Ce la faremo», disse Hanamichi, ripetendo le parole di Mitsui di poco prima. «E sapete perché?», domandò, ignorando le loro facce rassegnate.

«Ecco che ricomincia», sbuffò Rukawa alle sue spalle, esprimendo il pensiero di tutti. Diamine, che avevano da guardarlo così? Per una volta che voleva dire qualcosa di serio!

«Perché abbiamo la panchina migliore di tutto il Giappone!», esclamò come un invasato. «Abbiamo non una bensì due manager che sbraitano dall’inizio alla fine per supportarci!», iniziò a elencare. «Abbiamo le riserve più casiniste di tutto il torneo; il migliore Nonno del mondo ad allenarci; il Gorilla sarà in tribuna a fare il tifo per noi; e Mitchi sarà lì, con loro, a sostenerci! Ce la faremo!», gridò, alzando il pugno al cielo.

Per quel bel discorso di incoraggiamento si aspettava cori da stadio e trombette d’elogio, non certo quel silenzio attonito condito solo dalle cicale in sottofondo. Notò con timore che una vena stava pulsando pericolosamente sulla fronte di Miyagi, mentre gli altri lo mandavano gentilmente a quel paese e riprendevano gli allenamenti. Solo Eichiro, ridente come se niente fosse, gli batté una manona sulla spalla.

«Ho detto qualcosa di sbagliato, Chiro-kun?».

«No, anzi. Hai appena ripetuto quello che avrebbe finito di dire il Capitano se non lo avessi interrotto. Lo stavi proprio ascoltando, eh?».

Rosso come i suoi capelli, Hanamichi iniziò a ridere per nascondere l’imbarazzo, mentre Ryota gli faceva fare il giro del campo a suon di calci e Hime si copriva il viso tra le mani per non vedere.

«Beh, dai, ha colto il messaggio, no?», tentò di sdrammatizzare Ayako, tra le risate.

Gli allenamenti ripresero con un po’ più di vigore e Hisashi notò il signor Anzai annuire tra sé e sé, sereno come un Buddha. 

«Sai, Mitsui, i tuoi due compagni hanno ragione», disse, intrecciando le mani sulla pancia. «Abbiamo davvero buone possibilità di vincere. Dopo la partita contro il Sannoh, avete dimostrato di essere capaci di fare qualsiasi cosa. Persino Rukawa, che è fondamentalmente un giocatore concentrato su se stesso, è riuscito a fare gioco di squadra. Sai perché?». Hisashi attese che continuasse. «Perché è circondato da giocatori che darebbero tutto pur di vincere. Akagi ha lottato con tutte le sue forze pur di portare la squadra ai massimi livelli; Sakuragi si è infortunato pur di salvare un pallone; tu stesso hai perso i sensi pur di spingerti al limite e non mollare. Quindi lascia che ti dica una cosa: non sentirti in colpa per la tua assenza. Se la squadra è arrivata a essere ciò che è oggi, lo deve anche a te e alla tua determinazione. Non sentirti inutile stando in panchina; la tua sola presenza è fondamentale per tutti loro».

Mitsui sentì gli occhi bruciare, mentre un nodo in gola gli strozzava il respiro. «Grazie, Sensei», mormorò, con voce tremante. «Grazie di tutto, davvero».

Quello gli batté una mano sul braccio e si alzò con incredibile agilità, per uno di quella robustezza ed età.

«Un’ultima cosa, Mitsui», disse, senza voltarsi a guardarlo, ma con gli occhi puntati in campo a seguire un’azione di Rukawa. «Dopo il torneo di Dicembre, alcuni di voi riceveranno una convocazione per l’All-Star Game tra le migliori Prefetture del paese, che si terrà a fine anno scolastico. Le prime quattro squadre di Kanagawa potranno portare un massimo di tre giocatori ciascuno. Voglio che ti riprenda al meglio, per quel momento».

Hisashi rimase senza parole, forse per la prima volta in vita sua, e l’allenatore, cogliendo il suo stupore, lo salutò con il consueto oh oh oh, mentre si allontanava dalla palestra, conscio che i ragazzi avrebbero proseguito alla perfezione anche senza la sua presenza.

Abbassò lo sguardo sul ginocchio fasciato e asciugò con determinazione le lacrime dagli occhi. La fiducia del Signor Anzai, dopo tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi, era l’unica cosa che gli stava dando la forza per andare avanti. Non l’avrebbe deluso per niente al mondo.

«Ehi, Mitchi, tutto bene?», domandò Hime, notando gli occhi arrossati.

Quello annuì, ma non aggiunse altro. Osservò i giocatori in campo e si chiese chi tra loro sarebbero stati convocati per l’All-Star Game – a parte Rukawa, che pareva una scelta tanto ovvia quanto sensata, per quanto la cosa gli rodesse il fegato. Il Capitano probabilmente sarebbe stato il terzo. Sgranò gli occhi, terrorizzato all’idea di doversi sorbire Sakuragi che menava le palle a tutti per non essere stato convocato, lui che era il Genio delle Star!

«Sicuro che vada tutto bene?», ripeté Hime, ora preoccupata nel vedergli quell’espressione impaurita.

Gli allenamenti giunsero a termine alle sette inoltrate, ma qualcuno decise di rimanere un altro poco. Tra questi, oltre Kimi che avrebbe iniziato il suo lavoro speciale con Mitsui, anche Miyagi e Hanamichi, per la loro consueta esercitazione sugli scarti e le smarcature. Hime e Ayako s’intrattennero al tavolo delle manager, per aspettare fratello e fidanzato, e nel mentre facevano i compiti per la settimana successiva.

Kiyo li trovò così, tra consigli vari e il ritmico rumore del pallone che rimbalzava sul parquet lucido.

«Ehilà!», la salutò Hime, che fu la prima ad accorgersi della sua presenza. «Com’è andato l’allenamento?».

«Direi bene», replicò quella, passandosi una mano tra i capelli ancora bagnati. «Qui?».

«C’è un po’ di tensione, ma date le circostanze credo sia normale».

Gli occhi della nuotatrice trovarono subito Mitsui, che sedeva su una sedia sul fondo del campo, sotto canestro, e dava continue indicazioni a uno dei gemelli Shimura – non avrebbe saputo dire quale dei due fosse. Era talmente concentrato in ciò che stava facendo che non avvertì il suo sguardo.

«Le qualificazioni di domenica saranno sempre qui?», domandò Hime, stiracchiandosi e dimenticando per un momento i compiti.

«No, saranno al Ryonan. Si cambierà anche per semifinali e finali: Kainan e Shoyo».

«Oh, in trasferta!», fece la rossa. «E a che ora sono?».

«Alle 10:30 inizia la prima batteria; io dovrei essere alla terza».

«Ci sarò! E mi trascinerò dietro tutti i tuoi tifosi», fece la seconda manager strizzandole un occhio.

La notizia, invece che rincuorarla, la terrorizzò. Non aveva certo dimenticato di cosa fossero capaci quei pazzi sugli spalti.

«Potrei chiedere anche a Kiyota di venire... o dite che Maki li sta ammazzando di allenamenti anche il fine settimana?».

«Forse dovremmo lavorare anche noi la domenica», mormorò Ayako, battendosi la matita sulle labbra carnose.

«Non dirlo a voce alta, Aya-chan, o rischi il linciaggio», la mise in guardia Hime, reprimendo a stendo uno sbadiglio. «Sono sicura che non ci sarà bisogno di fare le ore piccole».

Riportarono l’attenzione in campo: da una parte la pacatezza di Kimi Shimura, che tirava a canestro dalla linea dei tre, seguendo i consigli del suo senpai senza battere ciglio; dall’altra le urla di Miyagi e Hanamichi, il primo che si lamentava della mancanza di attenzione di uno, e l’altro che blaterava qualcosa sul suo essere bravissimo anche senza la baby-sitter che gli diceva cosa fare.

Si erano fatte le otto e mezza di sera, tra allenamenti extra e chiacchiere tra ragazze, quando i cestisti finalmente si fiondarono a farsi una doccia, affamati come bisonti. Hisashi si avvicinò lentamente alle tre, stando ben attento a non muovere il ginocchio leso, e salutò la nuotatrice. «Kobayashi».

«Mitsui».

«Kimi?», domandò Hime, alzandosi e recuperando i palloni per rimetterli nel cesto.

«È molto rapido e preciso», annuì Hisashi, ripensando all’allenamento, mentre si sedeva. «Ma è facile fare canestro da fermi. Domani voglio che Rukawa e Sakuragi s’intrattengano con noi per metterlo sotto pressione. Vedremo come si comporterà».

«Mi sembra una buona idea», convenne Ayako. «Vi ho osservati, non credevo avessi così tanta pazienza come insegnante, Mitsui».

Quello scrollò le spalle. «Infatti non ne ho. Ma per fortuna si tratta di uno dei gemelli Shimura, non dei Sakuragi».

«Ohi, tu!».

Kiyo si morsicò il labbro pur di non ridere. Per tutti i Kami, era dall’epoca Sengoku che non sorrideva così tanto in una sola giornata!

«Come ti senti?».

Si sorprese nel rendersi conto che quella domanda non fosse rivolta al giocatore infortunato, bensì a lei. Spostò lo sguardo sugli occhi color nocciola della Sakuragi e mosse il capo in un cenno affermativo. Capì subito a cosa si riferiva.

«Va meglio. Decisamente meglio, grazie». E non mentiva di certo. Da quella mattina era come se le avessero sollevato un macigno dalle spalle e, per quanto questa nuova circostanza la debilitasse un poco, si poteva concedere un po’ di tranquillità, almeno per qualche tempo. Poteva concentrarsi unicamente sulle sue gare e aveva addirittura fatto nuove e buone conoscenze.

Mitsui, seduto accanto a lei, le allungò una mano sulla nuca, tra i capelli biondi e umidi, accarezzandola come avrebbe fatto con un gatto. Kiyo chiuse gli occhi, serena, finché l’ennesimo battibecco tra Ryota e Hanamichi, reduci dalle docce, non la riportò alla realtà.

«Non mi interessa se avevi intenzione di andare alla dannata sala giochi: domani ti voglio qui alle tre, altrimenti ti lascio in panchina a vita», sbottò Ryota.

Hanamichi parve sconvolto. «Non puoi lasciarmi in panchina, Pigmeo! Così perderemo di sicuro!».

«Aya-chan, non lo sopporto più», piagnucolò il Capitano. La manager, capendo l’antifona, sfoderò il suo micidiale ventaglio e il rossino, alla sola vista di quell’arma di distruzione di massa, si ammutolì imbronciato.

La coppia d’oro dell’anno li salutò poco dopo e Hime, dopo aver fatto uscire tutti, chiuse la palestra.

«Ehi, Mitchi, come ci torni a casa?», domandò Sakuragi, la borsa dell’allenamento su una mano, e l’altra sulla spalla della sorella.

La Guardia dello Shohoku indicò una macchina dai fari accesi parcheggiata fuori dal cancello d’ingresso del liceo.

«Salve, ragazzi!», fece un uomo dal familiare sorriso oltre il finestrino dell’auto. «Volete un passaggio anche voi?».

«Eh?», fece Hanamichi. «Io non salgo in macchina con gli sconosciuti».

«Ohi, demente! Quello è il padre di Sendoh!», lo rimbeccò Hisashi, tirandogli una stampella in testa.

«Il padre dell’Istrice?», ripeté il rossino. «Peggio ancora! Magari è un pervertito come il figlio!».

«HANAMICHI!», strillò la sorella, in visibile imbarazzo. «La prego di scusarlo, signor Sendoh. Mio fratello non sa quello che dice per il 99% delle volte in cui apre bocca», si scusò la ragazza, inchinandosi un paio di volte e trascinando con sé l’ala grande. L’uomo, ovviamente, era scoppiato a ridere. Tale padre, tale figlio.

Kimi declinò con gentilezza, dal momento che non abitava molto lontano da lì, e anche i fratelli Sakuragi, dopo le dovute presentazioni, preferirono farsi due passi piuttosto che imporre la loro presenza. Solo Kiyo accettò il passaggio, dato che fosse praticamente impossibile dire di no a Goro Sendoh che, non appena capì che fosse la ragazza del suo “figlio adottivo”, non volle sentire alcun rifiuto.

Hime e Hanamichi rimasero soli e in silenzio per un lungo istante, mentre camminavano lentamente verso casa. Poi il ragazzo chiese: «Ma perché il padre del Porcospino è passato a prendere il Teppista?».

«Non ne so molto, ma credo che Hisashi e la madre si stiano trasferendo da loro, per via del signor Mitsui. Ho sentito Akira parlarne con lui, in ospedale».

«Mitchi a casa dei Sendoh?!», esclamò Sakuragi. «Ma così va a stare dal nemico! E rischia seriamente che quel maledetto hentai gli faccia qualche agguato! Così infortunato non potrà neppure difendersi! Hicchan, dobbiamo fare qualcosa!».

«Intendi per la testa bacata che ti ritrovi? Temo che non ci siano più speranze, Hana».

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

A-ehm.

*agita una manina*

Sì, sono io, non è il mio fantasma che scrive. Vi devo delle spiegazioni dopo quasi quattro (QUATTRO?!) anni di nulla, è il minimo che possa fare.

Sono successe parecchie cose, in questo lunghissimo lasso di tempo, tra cui un anno di Erasmus in Svezia, tesi e laurea. Non avevo tempo per dedicarmi alle mie passioni, cosa per cui ho sofferto molto, ma non potevo fare altrimenti. I problemi sono giunti dopo aver preso il tanto agognato pezzo di carta. Ho speso più di un anno a cercare lavoro e spedire curriculum e portfolio senza ottenere risposte. Forse ne ho ricevute 10 su 1000, ma sto esagerando. Dire che avevo il morale a terra è un eufemismo bello grosso, perché sarei molto lontana dalla verità. So che molte persone impiegano molto più tempo a trovare lavoro, ma ero demoralizzata e non riuscivo a vedere che un muro nero di fronte a me. Ho provato a cercare lavoro qui, all’estero, sulla luna... niente. Nada.

Neppure la scrittura e il disegno, che solitamente mi rilassano, sono serviti a tirarmi su.

Finché il lavoro l’ho trovato, più di un anno fa. Non è una posizione sicura, la paga è minima, ma sono ancora lì, faccio ciò che amo e le cose, per il momento, vanno bene.

Nonostante la tranquillità ritrovata, questa pausa lunghissima dalla scrittura non ha aiutato per nulla il mio stile. Sono mesi, ormai, che provo a buttare giù qualche idea che mi gironzola da troppo nella testa, ma credo di aver perso tutto l’entusiasmo e la facilità con cui scrivevo un tempo. Mi sono detta: devo solo riprendere la mano e poi sarà di nuovo tutto in discesa. Non è stato così – infatti questo capitolo mi fa veramente schifo. Ma è un passo gigante, rispetto al nulla, quindi posso dirmi soddisfatta. Con le Olimpiadi è ritornato anche lo spirito sportivo che animava questa storia e con esso l’amore per i nostri ragazzi selvaggi, che si sta facendo sentire più forte di prima.

Quindi rieccomi qui. Come ho sempre detto, prima o poi le mie storie avranno un finale, solo che bisogna essere pazienti per raggiungerlo.

Ad ogni modo, filippica a parte, ho riletto tutti i capitoli precedenti per riprendere il filo della storia e ne ho approfittato per correggere errori e sviste varie che, dopo tanto tempo, sono saltati agli occhi immediatamente. Ho ben in mente – così è sempre stato – cosa succederà nei prossimi capitoli e spero che, nonostante la schifezza che ho scritto (e che scriverò), continuiate a stare con me.

Questo mondo mi è mancato, i ragazzi mi sono mancati, voi tutti mi siete mancati. E a voi che non mi avete abbandonata neppure in questi anni (sapete chi siete), solo una cosa: GRAZIE DI CUORE. Vi adoro, sul serio.

Spero possiate perdonare questo tremendo ritardo e questo terribile capitolo.

 

A presto (spero) e buone vacanze!

Marta

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Capitolo 20
*** 19. Domenica al sapore di cloro ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 19

Domenica al sapore di cloro.

 

 

 

La pioggia batteva incessante contro i vetri delle finestre. I primi tuoni si erano fatti sentire verso le quattro di notte e poco dopo aveva iniziato a piovere senza sosta. La temperatura, in quegli ultimi giorni, era calata bruscamente e i meteorologi prevedevano i primi fiocchi di neve entro la prima metà di Dicembre.

Akira osservava il paesaggio oltre la coltre di acqua, mani in tasca e viso stranamente imbronciato. «Oggi non ci voleva».

Il rumore di passi e stampelle lo fece voltare.

«Tranquillo, Sendoh. Anche se ci fosse stato il sole, la mia bambolina non l’avresti presa ugualmente», disse Hisashi, comparendo in soggiorno.

«Mitsui, sei una brutta persona. Io mi stavo solo preoccupando del fatto che dobbiamo uscire con questo tempaccio e non puoi nemmeno reggerti l’ombrello da solo», replicò con falsa indignazione il giocatore del Ryonan, che si portò una mano al cuore spezzato.

«Ah, non devi accompagnarmi per farmi da porta-borse e tutto? Sendoh, sei proprio inutile».

L’unico raggio di sole in quella giornata uggiosa fu il sempreverde sorriso di Akira Sendoh.

«Ragazzi, siete sicuri di non volere un passaggio in macchina?», domandò la voce del signor Goro, facendo capolino dalla porta della cucina.

«Tranquillo, papà», replicò Akira. «Questo vecchietto ha bisogno di muovere i primi passi da solo».

«Ricordati che questo vecchietto è armato di due stampelle e sai dove te le ficca?».

«Hisashi!», esclamò Tamaki Mitsui, mentre gli portava una sciarpa per coprirsi mene. La Guardia dello Shohoku accusò quel tono in silenzio, conscio che la madre temesse ancora minacce e botte, fossero esse più o meno sarcastiche, nonostante le avesse dimostrato più e più volte che ormai non era più il Mitsui di qualche mese fa.

«Tranquilla, mamma, dovresti preoccuparti più per queste», disse, alzando una gruccia, «che per la sua testa; ce l’ha dura, il ragazzo».

Lei scosse il capo, sistemandogli il colletto della giacca sotto lo scalda-collo, e nascose un mezzo sorriso tra le labbra impettite nel sentire la risata dei due Sendoh. «Mi raccomando, fate da bravi».

Hisashi si chinò per darle un bacio sulla tempia, sussurrandole di stare tranquilla e di godersi la domenica di riposo.

«Oh Akira, abbraccia Reiko anche da parte nostra, ok?», disse Rinako Sendoh dalla cucina, tutta intenta a preparare il pranzo della domenica – ed erano solo le 9:30 del mattino.

«Proverò a trascinarla a casa per pranzo», assicurò Akira. «Tanto come sempre stai preparando cibo per un esercito».

«No, tesoro, solo per il maiale che mi ritrovo come figliolo», civettò la madre in risposta.

«E non sbavare dietro le ragazze in costume», proseguì con le raccomandazioni Mitsui, imitando la voce del signor Goro e facendoli scoppiare a ridere.

Akira si grattò la nuca, per niente imbarazzato, pensando che preferiva di gran lunga le imitazioni di suo padre, che quelle dei genitori di qualche ex-fiamma che lo chiamavano in piena notte per riferirgli che avesse ingravidato le figlie. Dannato Mitsui! «Ah Hisashi, prometto che non guarderò le gambe della tua ragazza. E se dovessi farlo, è perché in cuffietta e occhialini non la riconosco».

Un idiota con i fiocchi volò per la casa da far invidia persino a Rukawa nei suoi giorni migliori, mentre Tamaki si metteva le mani sui fianchi. «Sei un figlio degenero, tu», lo rimproverò. Allo sguardo spaesato del cestista, la donna aggiunse: «Insomma, ho scoperto che sei fidanzato da Goro e da suo fratello, e non da te! Quando pensavi di dirmelo?».

«Non sono fidanzato!», sbottò quello, sentendo il sangue affluirgli in viso, mentre quel demente di Akira si sbellicava dalle risate e confessava loro che la ragazza in questione aveva addirittura fatto voto di smettere di fumare per lui.

Mitsui alzò gli occhi al cielo, sotto lo sguardo impensierito della madre. «Quando me la farai conoscere? È carina? È una brava ragazza? Com’è? Eh?», gli chiese, con un tono di spensierata malizia che non udiva da secoli. Si sentì ringiovanito di dieci anni.

«È solo una con cui esco, non è niente di ché», borbottò.

«Sei consapevole che se dovesse sentire una frase del genere, quella è capacissima di ammazzarti?», gli sussurrò Akira.

«Ma che diavolo volete tutti? Rimaniamo qui a parlare della mia vita sentimentale o andiamo? A differenza di qualcuno, odio arrivare in ritardo», sbottò infine il giocatore dello Shohoku. Gli adulti li lasciarono ai loro affari, tra qualche altra risata e raccomandazioni varie.

Quando uscirono di casa, sotto un diluvio importante, Akira gli diede un colpetto al braccio. «Sarò il testimone più bravo del mondo, giuro».

«Ma ammazzati e apri l’ombrello!».

«In quest’ordine o–?».

Hisashi pensò che gliel’avrebbe ficcata volentieri una stampella su per il deretano.

 

*

 

Non fu per l’ultima volta in quella giornata che Kaede Rukawa si domandò cosa diavolo ci facesse sveglio a quell’ora improponibile la domenica mattina, in compagnia di quegli esagitati dei Sakuragi, della loro banda di dementi, della nuova cugina acquisita e della Scimmia Saltante del Kainan, che chiudeva il quadro come la ciliegina sulla torta. Certo, il termine sveglio accostato al suo nome era improbabile come un Hanamichi Sakuragi secco e pesto in un angolino, ma per i suoi standard era già un record reggersi in piedi – e bene o male lo stava facendo. Almeno era seduto.

Il suo malumore precipitò nel momento in cui li raggiunsero anche il Teppista e il Porcospino, inzuppati fradici come pulcini: il primo incacchiato nero per ovvi motivi e il secondo accompagnato dal suo proverbiale sorriso, che neppure lo sguardo truce dell'amico avrebbe incrinato. Kaede guardò con crescente interesse il trampolino da dieci metri dall’altra parte dello stabile, perso in una splendida fantasia in cui si trascinava per la collottola il Sendoh nazionale fin lassù e lo gettava nel vuoto senza troppi complimenti – con la piscina vuota, s’intende.

«Va tutto bene?», gli domandò Sanako, battendogli una manina sul braccio per farlo rinsavire dai suoi pensieri assassini.

«Ancora una volta, perché sono qui?», le chiese annoiato, la testa che ciondolava sulle spalle.

«Credo perché Hime-san ti ha convinto–».

«Fracassato le palle», puntualizzò lui.

«–a distrarti un po’ prima dell’inizio del campionato. Sarà divertente, dai!».

Sendoh, con tutti i posti liberi a disposizione, gli si accomodò accanto, regalandogli un sorriso da pubblicità e una pacca sulla spalla, e pensò che no, non sarebbe stato divertente. Affatto. Una tortura cinese probabilmente gli avrebbe creato meno noie.

«Sì, sarà divertente, Kaede, vedrai!», ripeté il Porcospino. «Ci sono tante belle ragazze in costume», aggiunse ammiccando, con un’invidiabile faccia da schiaffi, mentre sua cugina sembrava arrossire come una pentola e si ammutolì di colpo, mentre torturava il tessuto della gonna tra le dita. Immaginò che fosse nervosa per l’amica, quella Kobayashi; che altro poteva essere altrimenti? Non volle pensare che fosse una reazione all’Istrice e alle sue parole; altrimenti si sarebbe gettato lui dal trampolino sulla piscina vuota.

«Ma cosa ne capirà quello lì», stava dicendo Hanamichi, appoggiato al parapetto davanti alla fila di poltroncine su cui si erano spalmati. «Non riconoscerebbe una sventola da un lottatore di sugo».

Ci fu un momento di silenzio, prima che le loro risate rischiassero di far crollare il soffitto.

«Sì, un lottatore di sugo. Il vincitore si becca un bel piatto di pasta italiana», commentò Kiyota, che nascose mestamente il viso tra i capelli della sua ragazza, in preda alle convulsioni per le risate.

«O una sventola da una pentola, dato che siamo in tema di cibo», aggiunse Mito, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

«Smettetela, ho fame!», si lagnò Takamiya, accarezzandosi lo stomaco vuoto.

«E ti pareva».

«Ancora?! Ti sei divorato anche la mia colazione, maledetta fogna!».

Hanamichi, d’altra parte, aveva iniziato a elargire testate a destra e a manca, affermando che avesse fatto solo una battutaccia, e d’improvviso si formò l’ormai consueto vuoto tra loro e il resto degli spettatori, che preferirono andarsene pur di non stare nei pressi di quel casino.

Solo un prode ragazzo del Ryonan osò additare il rossino. «Ehi, ma quello è Sakuragi dello Shohoku!».

Il tempo di sentire un coro di “oh no” da parte dei suoi amici, e quello era già bello che partito. «Ma certo che sono io! L’unico e inimitabile! Ahahah! Dimmi, amico, vuoi un autografo, eh? Una foto? La dimostrazione dal vivo di un dunk?».

Quello in risposta scoppiò a ridere, seguito dal resto della tribuna, che continuava ad additarlo senza pudore. Hanamichi si voltò verso la sua ciurma per chiedere tacite spiegazioni, ma quelli erano troppo impegnati a nascondersi sotto i sedili nel vano tentativo di far finta di non conoscerlo. Hime aveva intravisto un tizio sventolare il giornalino sportivo in cui scriveva la signorina Aida e temeva che quelle reazioni fossero legate alla sua intervista.

«Oh no, è uscito l’articolo», si disperò la ragazza.

Per sua disgrazia Hanamichi la sentì e fu peggio di prima. «Dov’è? Dov’è? Sarò anche in copertina, scommetto! Ahaha! Fate largo alla star della stampa!», esclamò il numero 10, strappando il giornale dalle mani di una terrorizzata matricola e sfogliandolo avidamente. Il sorrisone che gli illuminava il viso si tramutò lentamente in una smorfia imbronciata. «Hicchan, non lo trovo!».

«Lo credo, saranno venti parole nell’angolo in basso a sinistra dell’ultima pagina», lo sfotté Kiyota, che non si allontanò molto dalla realtà. Si trattava infatti di una breve colonna nella seconda metà del magazine, sormontata da un’imbarazzante fotografia che lo raffigurava in allenamento alle prese con un pallone che non voleva entrare nel canestro.

Hime gli prese la rivista dalle mani, dato che Hanamichi stava per strapparla anziché sfogliarla come un normale essere umano, e una volta trovato l’articolo iniziò a leggere a voce alta. «“È un tranquillo pomeriggio di allenamenti per la squadra del Ryonan, quando Hanamichi Sakuragi fa la sua entrata in scena in palestra che non passa certo inosservata”».

«Perché ho una brutta sensazione?», mormorò Yoehi.

Hanamichi gli tirò uno scappellotto. «Zitto e ascolta le gloriose parole della signorina Aida!».

«“Sakuragi arriva all’intervista in compagnia della sorella Hime, la seconda manager dello Shohoku, e un improbabile e ovviamente addormentato Kaede Rukawa, che non perde occasione di battibeccare con il rossino e di lanciare occhiate velenose ad Akira Sendoh che si allena poco più in basso.

Hanamichi ci confida che la sorella si allenasse spesso con il “Volpino”, come lui ama chiamare Rukawa, e di aver iniziato a giocare proprio grazie a lei, appassionata di basket fin da piccola. La bella Sakuragi venne infatti eletta MVP al torneo femminile delle scuole medie”. Oh, mi chiama La Bella! Ahahah!», aggiunse Hime, ridendo imbarazzata.

«Invasata».

«Ohi, Volpe, non insultare la mia Hicchan!», lo rimbeccò Kiyota, che subito dopo aggiunse un «Hahaha ho la ragazza più figa del Giappone! E volete sapere perc–».

«Zitto tu, Nobu-Scimmia!», sbraitò Hanamichi, tirandogli una manata sul capo.

Dopo un bacino consolatorio sul naso del ragazzo, Hime proseguì la lettura: «“Ormai siamo abituati ai modi stravaganti di questo particolare giocatore dello Shohoku, che non perde occasione per accapigliarsi con chiunque osi contraddirlo o mettere in discussione le sue capacità cestistiche. Iscritto al club di basket solo lo scorso Aprile, Sakuragi è diventato rapidamente la chiave di volta dell’intera squadra in rosso, non senza imbarazzanti intermezzi ed errori da principiante”».

«Che cos–».

«Ma quale chiave di volta!».

«Nel senso che gli ha dato di volta il cervello, Mitsui».

«Naah, quello era già bello che partito da tempo».

«Maledetti bastardi, lasciate che vi prendahia! E tu da dove diavolo spunti?!».

Ayako ritirò il ventaglio con un sorriso smagliante, accompagnata da Ryota e dai Gemelli Siamesi. «Prego, Hime, continua pure la lettura».   

«“Dopo l’infortunio alla schiena, emerso durante l’incredibile incontro contro il Sannoh Kogyo vinto dallo Shohoku per 79-78, e un lungo periodo di riabilitazione, Hanamichi Sakuragi sembra tornato in ottima forma, sia fisica che emotiva, e ci si domanda come sarà la sua performance durante il Campionato Invernale. Il ragazzo ha ancora molto da imparare e forse dovrebbe prendere esempio dal tanto odiato Kaede Rukawa, anziché ignorare la bravura del compagno di squadra ed evitare di passargli la palla in campo. Se solo i due collaborassero civilmente come due giocatori facenti parte di una squadra, lo Shohoku potrebbe vincere qualsiasi cosa – abbiamo visto tutti cosa i due siano in grado di fare con un po’ di intesa”».

«Ma anche no», fu il commento di Kaede in coro con Hanamichi. I due si scambiarono un’occhiata infuocata, prima di voltare immediatamente lo sguardo.

«“Nonostante sia ancora un principiante, però, Sakuragi ha per questo l’incredibile capacità di essere imprevedibile in campo, abilità che ha sempre spiazzato i suoi avversari, e di imparare molto in fretta. “La squadra mi ha insegnato tanto – dice il numero 10 – ognuno di loro mi ha dato qualcosa che, piano piano, mi ha fatto crescere come giocatore, sebbene il mio talento fosse già innato e dovessi solo affinare la tecnica”, aggiunge vantandosi. Il talento c’è, ma anche l’egocentrismo non scherza”».

La postura plastica da supereroe di Hanamichi si afflosciò immediatamente. «Checcosa?!», sbraitò, ora rosso di rabbia.

«“Sotto canestro è praticamente impenetrabile, grazie alla sua incredibile difesa, e i rimbalzi per lui sono pane quotidiano. Dotato di un’elevazione unica, ci racconta che è stato proprio Akagi, l’ex Capitano, a insegnargli l’importanza del possesso palla su un tiro sbagliato. “Chi non impara il rimbalzo non entra in partita”, lo cita Sakuragi. Ora che l’ex #4 ha lasciato lo Shohoku per concentrarsi sugli studi, Sakuragi è l’unico che potrà prendere il suo posto, almeno come ruolo di Centro – nessuno osa immaginare cosa significherebbe avere un Capitano esagitato come lui”».

«Ma io l’ammazzo! L’ammazzo! Brutta caprona!».

E tra le risate di amici e sconosciuti che assistevano alla scena, e i vani tentativi da parte dei Gemelli Siamesi di trattenerlo affinché non facesse qualche idiozia, Hime proseguì la lettura.

«“Senza Akagi lo Shohoku ha perso un pilastro importante, ma sotto la guida di Miyagi e del suo vice Mitsui, la squadra non mancherà certo di talenti e spinte motivazionali. Persino l’individualista per eccellenza, Kaede Rukawa, sembra finalmente entrato in sintonia con il resto dei compagni.

E a proposito di quest’ultimo, rimane comunque ancora oscuro il motivo per cui il numero 11 dello Shohoku, unitosi a Sakuragi per il nostro incontro, sia così popolare tra la popolazione femminile; tralasciando il suo aspetto da bello e dannato e il suo indiscutibile talento in campo, comunque inferiore a quello dell’asso e del neo Capitano del Ryonan, Kaede Rukawa è l’emblema della maleducazione e dell’arroganza, e risponde a una nostra semplice domanda con insulti gratuiti e occhiate micidiali. Ci si chiede come sia possibile che la sua amica, Hime Sakuragi, riesca a sopportarlo a tutte le ore del giorno. I due, infatti, sembrano molto affiatati. Cosa avrà da dire Nobunaga Kiyota, il fidanzato della ragazza, in questione?” Ma cosa diavolo–?».

«Ehi Nobu-Scimmia, recupera la mascella prima che qualcuno la calci via», fece Mitsui, le labbra increspate da un sorriso sornione.

«Ma io l’ammazzo!», continuava a ripetere Hanamichi, ormai sulla via del non ritorno. «E ammazzo anche la Volpe! Era il mio articolo! Perché si finisce a parlare sempre di lui? Eh? Eh?! Maledetta divetta!», sbraitava, prendendo Rukawa per lo scollo a V del maglione e sbatacchiandolo come un panno sporco. Quello, dato che la migliore arma contro la stupidità è l’indifferenza, dormiva beatamente.

«Hanamichi, calmati!», sbraitò Ayako, sedando quella testa calda con l’ennesima sventagliata.

«Ma quella non è una rivista sportiva?», chiese Sanako al vuoto, perplessa dal gossip finale.

«Hicchan», stava dicendo intanto Kiyota, con occhioni lucidi e il labbro tremante, «c’è qualcosa che devi dirmi?».

Quella, che aveva preso a stracciare l’articolo in mille pezzi promettendo tremenda vendetta a quella giornalista dei suoi stivali, arrossì vistosamente, se per la rabbia o l’imbarazzo (probabilmente entrambi), non seppe dirlo. Kiyota, ovviamente, non la prese bene.

«Nobu-chan, lo sai che scrivono un mucchio di stupidaggini pur di aumentare i lettori», gli disse, rassicurandolo con un abbraccio. Quello non parve molto convinto, tutto intento a lanciare fulmini e saette in direzione di Rukawa, che continuava a dormire serenamente. «Ohi, Scimmietta! Mi stai ascoltando?».

«Hn».

«Kiyota, non è imitando i monosillabi di Rukawa che riuscirai a conquistAya-chan! Che fai?!», esclamò Ryota, massaggiandosi la testa lesa. Quella scosse il capo, decisa a chiudere lì la questione. Era un argomento spinoso, quello, e non voleva rischiare di peggiorare la situazione. Il modo in cui Hime stava stringendo la felpa di Kiyota senza incontrare il suo sguardo e quello in cui lui guardava lei non promettevano niente di buono.

«Nobu, ti fidi di me?», gli sussurrò Hime, per non farsi sentire dagli altri – che comunque erano troppo occupati a prendere per i fondelli Hanamichi per badare a loro. Gli accarezzò il viso e lui chiuse gli occhi.

«Hicchan, io mi fido di te», replicò seriamente lui, portando entrambe le mani sulle sue. «È che...», scosse il capo, dandole un veloce bacio sulla punta del naso. «Parliamone in un altro momento, ok? Stanno entrando i primi pesci in acqua».

«I primi pesci– Nobunaga!».

Quello rise come l’idiota che era e, almeno per il momento, tutto sembrò tornare alla normalità quando lui la strinse contro il petto, facendola accomodare tra le sue gambe. Inspirò il suo profumo, misto a quello del suo bagnoschiuma, e sorrise di sollievo.

Il boato degli spettatori invase l’intero stabile, mentre le prime otto partecipanti entravano in scena e si disponevano ai loro posti. C’erano ragazze provenienti da tutta la Prefettura, ma a quella prima batteria nessuno di loro parve riconoscerne alcuna.

«Porca vacca, quella tipa sembra un armadio a quattro ante!», fece Mito, con la bocca spalancata. Stava indicando una studentessa del Kainan, dalle spalle larghissime e l’altezza vertiginosa.  

«Abbiamo trovato la donna ideale di Akagi!», esclamò Hanamichi, gasatissimo. «Guardate, ha anche l’espressione da gorilla femmina!».

«Ma no, la sua donna ideale è la zia di Sanako», disse fermamente convinta Hime, mentre alla barista per poco non andava di traverso la lingua.

«Akagi? M-mia zia?!».

«Sì, certo! La gendarme che ha sedato queste teste calde con la forza di un solo sguardo!», continuò la seconda manager, con gli occhi a cuoricino. «Sono fatti l’uno per l’altra».

«Ci puoi scommettere», dissero in coro i disgraziati in questione, che si guardarono le spalle temendo che, per qualche oscuro scherzo del destino, potessero ritrovarsela dietro pronta a colpire.

«Ehi, Nobu-Scimmia, sono tutte così brutte al tuo liceo?», fece Hanamichi, le braccia poggiate sulla balaustra mentre osservava le nuotatrici salire in pedana prima del fischio d’inizio.

«Probabile», fece la voce di Mitsui. «Altrimenti per quale altro motivo si sarebbe ficcato in una relazione con tua sorella? Doveva essere proprio disperato».

«Che diavolo stai insinuando?!», esclamarono i gemelli, che non gli si gettarono contro solo per preservare il suo ginocchio spappolato.

«Va’ va’, quelle sono eccezioni. Di strafighe ce n’è in abbondanza, ve lo assicuro! C’è il club di ginnastica ritmica, per esempio...», fece Kiyota, battendosi un dito sul mento, con fare pensante. Sentì subito la sua ragazza irrigidirsi e rise mentalmente come un invasato. Che la vendetta abbia inizio, hahah

«Sì, solo che nessuna ti si fila, mezza sega», fu l’adorabile commento di Rukawa, che sbriciolò ogni suo piano di rivalsa in tanti pezzetti.

–ma maledetto stronzo, sempre in mezzo, prima donna del cacchio!

 «Hicchan santa subito», fece il numero 10 dello Shohoku con serietà, congiungendo le mani in segno di preghiera.

Vedendo il faccino imbronciato di Nobunaga, Hime gli diede un sonoro bacio sulla guancia, che divenne paonazza poco dopo. «Devo preoccuparmi di nastri e clavette?».

«Dovresti, dato che a quanto pare mi tradisci con la Kitsune».

Le sue parole erano condite di ironia ma Hime vide perfettamente una piccola dose di dubbio in quei suoi begli occhi blu. Si disse che avrebbe dovuto risolvere quel casino mentale al più presto, perché non poteva continuare così. Nobunaga era un ragazzo d’oro, nonostante le sue famose uscite da imbecille egocentrico, e non meritava di galleggiare nell’incertezza. Lei non aveva mai fatto segreto dell’amicizia che condivideva con Kaede e non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi solo per fare un favore al suo ragazzo; non aveva neppure mai messo in dubbio quello che provava per la sua Scimmietta; ma quel germe di domande che prima Ayako e poi Yoehi le avevano insinuato in testa avevano fatto crollare tutte le sue certezze. In passato aveva già avuto una sbandata colossale per il suo migliore amico – come non avrebbe potuto? –, di cui nessuno era a conoscenza, ma le era passata velocemente così come era giunta. Voleva un gran bene a quel bestione che raramente sorrideva, ma alla fine era arrivata alla conclusione che una relazione con lui sarebbe stata distruttiva per entrambi.

Dopo la discussione che avevano avuto quella famosa sera al mare, dopo le sue rassicurazioni sul non lasciarla mai indietro nell’eventualità di una fidanzata, si era finalmente riappacificata con se stessa e anzi, non vedeva l’ora che Reiko Azamui si facesse viva dopo le gare per vederli battibeccare insieme. Le aveva detto che non sarebbe andato via neppure con una ragazza al braccio e lei gli credeva, come aveva sempre fatto. Non c’era più bisogno di essere gelosa, ora che tutto era stato chiarito.

C’era un solo dubbio che doveva sbrogliare e non aveva idea di come farlo.

“È il migliore amico che abbia mai avuto. È come se Kaede s'innamorasse di te, tu che faresti?”, le aveva chiesto Ayako. “Voglio dire, potrebbe anche essere, dato che vi conoscete da sempre e sei l'unica ragazza con cui ha un rapporto, me esclusa. E sai bene come sia lui con le ragazze”.

Hime era l’unica donna della sua vita, dopo la morte prematura della madre, di questo ne era più che sicura. Probabilmente si sarebbe comportato come faceva con lei anche con altre ragazze, se solo non fosse stato così introverso. Se solo lo avesse permesso, era sicura che tra quella marmaglia di folgorate del suo fanclub ci fosse qualcuna capace di capirlo come faceva lei. O qualcuno, chissà.

Era amore fraterno, il suo, come quello che lei provava per lui, vero?

Non era realmente innamorato di lei... vero?

«Hicchan?».

Quando Ayako le aveva chiesto cosa sarebbe successo se Nobunaga non fosse comparso nella sua vita, lei aveva detto che tutto sarebbe cambiato. E ne era ancora convinta. Conosceva Kaede meglio delle sue tasche e sapeva che, quando voleva una cosa, se la prendeva senza troppi complimenti. Ma se davvero provasse qualcosa di più di un’amicizia per lei, lei cosa avrebbe fatto? L’avrebbe respinto? Gli avrebbe chiesto spazio pur di non dargli false speranze? O avrebbe chiuso la faccenda con una grassa risata, finché l’infatuazione non fosse passata?

Non aveva idea di cosa fare, di cosa dire, di cosa pensare. Lei non era fatta per questo tipo di cose complicate. Rischiava sempre di rovinare tutto. Come stava per accadere qualche notte prima, in cui aveva trovato difficile persino dormire con lui, come spesso avevano fatto in passato.

«Hicchan!».

Hime alzò lo sguardo su Nobunaga, che ora la fissava preoccupato. Non lo vide, ma percepì anche quello di Rukawa dall’altra parte del gruppo.

«Guarda che scherzavo, non ti tradirei mai con nessuna, Hicchan. Neanche con le strafighe del club di ginnastica», la rassicurò il cestista del Kainan, pensando che fosse davvero preoccupata per quella stupida battuta, e lei non poté fare altro che sorridere e abbandonarsi tra le sue braccia, sentendo il suo tono sincero. Era adorabile, la sua Scimmietta, che proseguì: «Neanche se hanno delle gambe mozzafiato e il sedere sodo e–».

La gomitata che gli rifilò gli fece mancare il fiato, tra le risate. Idiota, forse era il termine più adatto.

«E io che stavo per dirti che– uffa, sei uno stupido, Nobunaga Kiyota».

«Dirmi che cosa?».

Che sono davvero innamorata di te, demente. Che neanche tu devi temere volpini strafighi che mi fanno prendere infarti multipli ogni volta che compaiono davanti. Non parlò, ma per tutta risposta lo baciò sulle labbra, indugiandovi più del dovuto. Gli passò una mano sulla nuca, tra i capelli ribelli che quel giorno teneva sciolti senza il supporto della sua beneamata fascia viola, e lo sentì chiaramente soffocare un sospiro tra i baci.

«Ehi, voi due! Prendetevi una stanza, dannazione!», esclamò Mitsui, lanciandogli contro una bottiglietta d’acqua vuota.

«Pervertiti!», rincarò la dose Akira, che si coprì gli occhi con il pudore che non conosceva.

«Giù le zampacce dalla mia sorellina, Scimmia depravata!», sbraitò Hanamichi, sedato prontamente da Ayako.

Kiyota mostrò il medio, fregandosene altamente e continuando a baciare la sua bellissima e scemissima ragazza. La sua, di nessun altro. Tiè, Rukawa! Ahahaha!

La prima batteria di 200 metri era conclusa da un paio di minuti. Quando quella successiva si fece avanti, acclamata dal pubblico – stranamente quello femminile – Ayako saltò sul suo sedile come una molla.

«Non sapevo ci fossero anche le gare dei maschietti!», disse con un sorrisino da maniaca. Hime la raggiunse subito, ridendo per le imprecazioni di Kiyota che era ritrovato d’improvviso ad amoreggiare con l’aria.

«I maschietti? Ohh, mi piace il nuoto!», esclamò quell'invasata, prendendo a braccetto le due altre sciagurate di Ayako e Sana, che se la ridevano indemoniate alla vista di spalle larghe e addominali scolpiti.

«Guarda che mutandine striminzite hanno!», esclamò la prima manager, indicandoli senza pudore.

«Lo credo, dentro non c’è niente», sibilò Ryota, verde dalla gelosia. Gli altri ragazzi annuirono immediatamente e con fervore, per una volta tutti d’accordo.

«Ehi! Guardate che gli addominali e i muscoli li abbiamo anche noi!», borbottò Hanamichi, che si sarebbe strappato la maglia pur di far valere le sue parole, se non fosse stato per il tempestivo intervento dell’Armata Sakuragi che lo fece desistere.

«Sì, ma voi non vi allenate certo in mutande», fece saggiamente notare Ayako, spedendo in depressione il fidanzato che continuava a ripetere “Ayakuccia, non ti basto più?”.

«Ayako-san, non dare idee a questo qui», disse Eichiro indicando Hanamichi, seguito da Kimi, «altrimenti sono cavoli nostri ai prossimi allenamenti».

«Magari è la volta buona che le fan di Rukawa crepano di cuore, così ce le leviamo dalle palle», fece pensieroso Hisashi, prendendo in seria considerazione l’idea.

Sanako, nel frattempo, dovette coprirsi le guance arrossate per nascondere il suo imbarazzo. Nella sua testa Akira Sendoh si allenava in mutande come se niente fosse e, per tutti gli dei, doveva essere illegale!

«Nacchan, ti senti bene? Sei tutta rossa», le fece notare Hime.

«Sta pensando al sottoscritto in slip. Anche se, detto tra noi, preferisco i boxer», si mise in mezzo Akira, con un candore vergognoso e una strizzata d’occhi.

Sanako iniziò a tossire senza sosta, mentre quello le batteva una manona contro la schiena per farla riprendere, in preda al panico. Non ebbe tanto successo.

«Temo che abbia fatto centro», sussurrò Mitsui, ridendosela di gusto. Yoehi, seduto alle sue spalle, strinse le labbra, ma nessuno ci fece caso.

«Maledetto Porcospino, ci stai ammazzando la barista!».

In tutto ciò, Kaede Rukawa continuava a sonnecchiare beatamente a braccia conserte, ignaro che la sua unica cugina con cui avesse rapporti stesse per crepare per mano del suo acerrimo nemico. Fu solo quando la voce dello speaker gridò un nome in particolare, seguito da un boato e qualche fischio che fecero vibrare i sedili, che saltò sul proprio come se l’avessero appena svegliato bruscamente da un terribile incubo. E in effetti, quello era un incubo. Che diavolo aveva da sorridere prima di una gara, come se fosse più che sicura della vittoria? Avvolto dalle fiamme dell’Inferno, sperò che la Azamui affogasse alla prima bracciata e quel casino immondo terminasse una volta per tutte.

Mai che qualcosa andasse nel verso giusto.

Non appena la studentessa dello Shoyo si tuffò, il fragore del pubblico si fece insopportabile e persino Hime, che per qualche assurdo motivo aveva preso la ragazza in simpatia, aveva iniziato a gridare come un’ossessa per fare il tifo e a sbattere bottiglie vuote l’una contro l’altra. Ma loro non erano lì per la Kobayashi?

«Porca vacca, è velocissima!», stava dicendo il demente di Kiyota, che probabilmente capiva di nuoto quanto un tavolo capiva di tennis.

«Ha già tre secondi di distanza dalla seconda ed è solo alla seconda vasca!», gli diede man forte Hime, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Sono le altre che son scarse», fu l’ovvietà di Kaede, che si strinse nelle spalle.

Sendoh, che come sempre non si offendeva neppure se gli si starnutiva in faccia, sorrise affabile. «Ne riparleremo in finale, amico mio», gli disse.

Amico mio?!

Reiko terminò le sue quattro vasche con un vantaggio invidiabile, per essere solo ai quarti di finale e potesse permettersi di risparmiare le energie. Ancora in acqua, si tolse la cuffietta e l’agitò alla volta del cugino, in piedi per applaudirla.

«Bene, vado a recuperare la mia donzella», decretò Sendoh, mentre si stiracchiava i muscoli in tutto il suo metro e novanta di splendore. In sottofondo si udì il sospiro estasiato delle femmine vicine e Sanako dovette serrare le labbra pur di non unirsi al coro. Aveva ancora un briciolo di dignità da salvaguardare, lei.

Mitsui sbuffò. «Seh, come no. Con la scusa di tua cugina, ti intrufoli negli spogliatoi femminili. Maniaco».

«Sempre detto che è più porco che spino, quello lì», fece saccente Hanamichi. «Non è che posso venire anche io?».

«Hanamichi!».

La risata di Akira si allontanò insieme a lui e Kaede riprese a respirare. Almeno finché l’Idiota non fosse tornato con la piattola della cugina che, ne era più che sicuro, gli avrebbe scartavetrato le palle fino allo sfinimento.

Si susseguirono altre due batterie, maschile e femminile, prima che il turno di Kiyo arrivasse.

Hisashi trovò la forza di alzarsi e di avvicinarsi al parapetto, sentendo la gola seccarsi improvvisamente. Era agitato come prima di una partita importante e non era lui a dover gareggiare. La vide sistemarsi occhialini e cuffia, prendere profondi respiri e riscaldando i muscoli di braccia e gambe. Sembrava tranquilla, ma la conosceva abbastanza da capire quanto tesa fosse.

Non sapeva che Kiyo, dopo aver spaziato velocemente lo sguardo sugli spalti, aveva riconosciuto il casino che si portavano dietro e soprattutto lui, in piedi sulle stampelle che guardava solo lei. Si sentì rinvigorita dalla sua sola presenza e si disse di rilassarsi. Avrebbe nuotato bene come sempre e sarebbe passata alla semifinale con facilità. Per fortuna sua non vide la Azamui che, a braccetto col cugino, raggiungeva i suoi personali ultrà e faceva la loro stramba conoscenza.

«Oh, giusto in tempo per godermi lo spettacolo», esordì Reiko con un sorriso, mentre osservava la sua rivale numero uno posizionarsi in pedana.

«Guarda e impara».

La studentessa dello Shoyo si voltò verso colui che aveva parlato e sgranò gli occhi nel rendersi conto che si trattasse di Kaede Rukawa. Non fu l’unica a sorprendersi, dato che per un brevissimo istante gli scemi dei suoi compagni fermarono qualsiasi idiozia stessero facendo o dicendo per guardarlo con tanto d’occhi. Il Volpino che rivolgeva la parola a una ragazza appena conosciuta, per primo? E la stava persino sfidando?

Ayako e Hime si scambiarono un’occhiata tra lo scioccato e il divertito, e la prima non capì l’espressione di beata soddisfazione che vide nel volto dell’amica. Si era persa qualcosa? Lei? La pettegola per antonomasia?! Giammai!

«Ci manca solo che sorrida e siamo a posto», sussurrò un pallido Hanamichi alla scimmia che aveva affianco, trattenendo a stento un brivido di paura.

«Non dire così, altrimenti stanotte avrò gli incubi», replicò Kiyota, che si tappò gli occhi pur di tener fuori quell’immagine terrificante dalla testa.

Reiko sorrise. «Detto da uno che non prende in considerazione i propri consigli, non vale poi molto».

Kaede serrò i denti e lei scrollò le spalle, riportando l’attenzione sulla gara della Kobayashi, che si era già tuffata e si apprestava a completare la prima vasca. I casinisti, ripresi dal momento shock, ricominciarono a fare il loro duro lavoro di ultrà, sbattendo e gridando frasi d’incitamento alla nuotatrice dello Shohoku.

Kiyo guadagnò la prima posizione senza problemi, come prevedibile, con un tempo di tutto rispetto e Reiko applaudì insieme agli altri. «Devo fare una proposta a quella ragazza».

«Indecente?», chiese il cugino al suo fianco, mentre prendevano posto vicino a Rukawa, per sua immensa gioia.

«Lo sai qual è il mio obiettivo, no?». Akira annuì. «Beh, voglio chiederle di farmi il favore di arrivare sul podio alla finale. Le prime tre potranno gareggiare per i Campionati Interscolastici a rappresentanza della nostra Prefettura. Se dovessimo vincere, e sono convinta che potremmo farcela, potremo ricevere una convocazione della Nazionale Giapponese, giusto in tempo per le prossime Olimpiadi».

Rukawa, sempre braccia conserte e viso impassibile, le scoccò un’occhiata sbieca.

«Woah», esclamò Hanamichi, sporgendosi dal suo posto per guardarla in viso. «Vuoi partecipare alle Olimpiadi?».

Reiko annuì. «Certo. È il mio sogno più grande! Non dev’esserci sensazione più bella che vincere una medaglia per la propria patria».

Hanamichi sorrise da orecchio a orecchio. «Che idea geniale!», fece l’invasato, dandole due manate sulla testa che rischiarono di affondarla come un chiodo dal martello. «Anche io voglio andare alle Olimpiadi!».

«Davvero?», domandarono in coro Reiko e Hime, quest’ultima ignara dei sogni reconditi del fratello che, fino a due secondi fa, probabilmente non conosceva neppure l’esistenza dei Giochi Olimpici. I Gundam, a ben pensarci, si stupirono del fatto che non disse Olimpiedi, tanto per non perdere l’abitudine di sparare cazzate.

«Sai che figura di merda colossale farebbe il Giappone con uno così?», stava blaterando Noma con un Okusu sghignazzante.

«Probabilmente farebbe scatenare uno scandalo internazionale e qualcuno potrebbe dichiararci guerra».

Fortuna loro che Hanamichi era troppo perso in vaneggi gloriosi che lo vedevano portabandiera, per occuparsi della loro poca fiducia nelle sue capacità sportive.

Fu un ragazzetto dai biondi capelli a scodella e un timido sorriso a fermare qualsivoglia discorso e a canalizzare l’attenzione su di sé. Aveva le mani dietro la schiena, come a nascondere qualcosa. «Azamui-san?».

Reiko alzò le sopracciglia scure. Ci risiamo. «Sì?».

«Mi chiamo Daisetsu, volevo complimentarmi con te per la splendida gara di oggi. Sai, ti seguo sempre, senpai, sei bravissima», le confessò, porgendole una scatola di cioccolatini.

Reiko parve oltraggiata da quell’offerta – la dieta, dannazione, la dieta! – ma accettò con il proverbiale sorriso della sua famiglia. «Molto gentile da parte tua, Daisetsu-kun. Grazie», disse, con un cordiale inchino.

I ragazzi si guardarono tra loro, alla disperata ricerca di un po’ di autocontrollo pur di non scoppiare a ridere davanti all’infatuazione evidente nei confronti della nuotatrice e della voglia di quest’ultima di gettarsi oltre il parapetto senza neanche dire addio.

«Ecco, mi chiedevo se ti andasse di uscire, uno di questi giorni. Sono molto simpatico!».

Hanamichi dovette nascondere le risa con un attacco di tosse. Nemmeno lui era stato così sfrontato con la sua dolce Haruko!

«Sei molto carino a chiedermelo, ma mi piacciono le ragazze», fu la candida risposta di Reiko.

Nobunaga sputò la bibita che stava sorseggiando a due palmi dal naso di Sakuragi e il resto della compagnia di idioti per poco non si soffocò con la propria saliva. Persino lo stoico Rukawa tossicchiò un attacco di sorpresa.

Le spalle del ragazzino si ammosciarono e divenne rosso come i capelli dei Sakuragi. Borbottò qualche parola di scusa e se ne andò con la coda tra le gambe. Solo allora si lasciarono andare alle risate, mentre quella scuoteva la testa e porgeva i cioccolatini a Takamiya, che stava sbavando senza ritegno da quando erano comparsi in scena.

«Davvero non capisco perché questa storia non esca fuori; non mi lasciano in pace nemmeno così», si lagnò Reiko, cercando conforto tra le braccia del cugino, che ridente le accarezzò i capelli ancora bagnati. La nuotatrice sospirò e dopo un lungo istante di silenzio, scandito solo dai singhiozzi degli strambi amici di Akira, guardò verso Rukawa. «Perché non provi anche tu? So che hai molte fan; se dici di essere omosessuale magari ti lasciano in pace».

Fu così che la combriccola di casinisti rischiò seriamente di morire strozzata dalle risate, mentre quello alzava entrambe le sopracciglia, chiedendosi per l’ennesima volta che razza di problemi mentali avesse quella tizia – a parte condividere una parte di DNA col Porcospino.

«Non ne sarei così sicura, Reiko-san; potrebbe scatenare la reazione opposta», fece Hime, con gli occhi lucidi, mentre Hanamichi e Nobunaga per poco non si ficcarono due dita in gola per vomitare.

«Hai provato a dire che Uozumi ti muore dietro ed è estremamente geloso? O che sei la sua ragazza, funzionerebbe ugualmente», suggerì Akira, accarezzandosi il mento. «Li farebbe scappare tutti a gambe levate».

Quella sbiancò come un fantasma che aveva visto un suo simile sbucare senza preavviso da una parete. «Non osare pensarlo nemmeno!», esclamò lei, terrorizzata. «O va a finire che si mette strane idee in testa e chi se lo scrolla più, poi!».

«Il Re dei Gorilla è innamorato di te?», chiesero in coro le Scimmie della situazione, sganasciandosi a terra senza ritegno. Ormai erano talmente belli che partiti che respiravano a stento.

«Ma come? Ti ho anche prenotato un posto al ristorante dove lavora! Guarda che è un bravo cuoco, così non se ne trovano in giro, io ti avverto. Poi tra vent’anni, quando sarai sola con venti gatti, non venire a piangere da me».

Reiko si afflosciò sul sedile come un palloncino sgonfio, senza neppure la forza di ammazzare quel demente del cugino, e per un microscopico secondo Rukawa fu sfiorato dalla tentazione di provare un po’ di pena per lei. Si riscosse subito da quel momento di follia. I poveri pazzi che le correvano dietro avevano bisogno di commiserazione e un’importante dose di visite dallo psichiatra, non certo lei.

Soprattutto il Re dei Gorilla, povero sfigato.

Insomma, non è che fosse questo grade splendore per morirle tutti dietro. Era accettabile, ecco. A dire la verità, era una gnocca da paura, ma non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura. La detestava, punto. Era la cugina sorridente di Sendoh ed era motivo sufficiente per odiarla. Se poi si aggiungeva il fatto che per qualche strano motivo lei non gli sbavava dietro e preferiva di gran lunga spaccargli le palle a ogni occasione, ecco che non c’era bisogno di ulteriori seghe mentali.

«Ehilà gente», li salutò Kiyo, un asciugamano tra le mani e la tuta dello Shohoku indossata con orgoglio. «Azamui. Ti senti male? Sei pallida».

«Kobayashi, ti piacerebbe», replicò quella, agitando una mano. «Ottima gara».

Kiyo annuì un ringraziamento e prese posto dietro Mitsui, che piegò il capo all’indietro sullo schienale.

«Ehi, bionda».

Gli tirò un buffetto in fronte e un pizzicotto sulla guancia. «Non saresti dovuto venire».

«E sentire le tue lamentele fino alla fine del mondo? Nah», fu la pronta risposta del numero 14. «Sarei venuto anche strisciando, se fosse stato necessario. Eri uno spettacolo».

Kiyo non poté fermare il rossore che le imporporò le guance e sorrise. «Tu invece sembri un rottame».

Hisashi rise. «Stronza. Devo ricordarti il motivo per cui mi ritrovo di nuovo in stampelle?».

L’ilarità negli occhi della ragazza svanì subito e un terribile senso di colpa le fece chinare lo sguardo, come solo poche volte accadeva.

«Ohi, scema». Mitsui drizzò la schiena e si voltò verso di lei, alzandole il mento con un dito. «Scherzavo, ok? Non pensare neanche per un secondo che sia colpa tua o che non l’abbia fatto volentieri. Lo rifarei ancora, se significasse proteggerti da quel bastardo o da chiunque altro. Chiaro?».

Spinta da un rarissimo slancio d’affetto, Kiyo lo abbracciò da dietro, stringendo le braccia al collo e baciandogli l’angolo della bocca. «Grazie».

Un coro di fischi e applausi partì dai sedili accanto ed entrambi sperarono che una voragine li risucchiasse sul posto, pur di non dover guardare gli amici negli occhi dopo quella plateale e pubblica effusione a cui nessuno dei due era abituato.

«Come sono teneri», fece Hime, con le mani sulle guance arrossate.

Mitsui per poco non svenne per eccesso di glicemia. Loro erano teneri? Teneri?! Lui e quella manesca?

Rimasero sugli spalti ancora qualche breve momento prima di andarsene, dato che il motivo della loro venuta era ormai con loro – con grande sollievo del resto del pubblico che non doveva più sorbirsi i loro casini e poteva godersi il resto dei quarti in santa pace.

Fuori continuava a piovere, seppure con meno intensità. Hime si strinse nelle spalle, infreddolita, ma due calde braccia l’avvolsero da dietro per riscaldarla. «Hana!».

Il fratello le scoccò un bacino sulla tempia. «Allora, Hicchan, che si mangia oggi?».

«Mi stai coccolando solo per farmi cucinare?».

«Hanamichi, devi avere proprio istinti da suicida per metterla ai fornelli!», esclamò Yoehi. «Io mi tiro fuori e ordino del ramen».

«Ohi!».

Mito ridacchiò, dandole un buffetto sulla guancia.

«Sei davvero una così terribile cuoca?», domandò Sanako, affiancandosi.

Hime arrossì fino alla punta delle orecchie. «No, è che... ecco, io... mi piace sperimentare».

«Col risultato che finisce come Ayakuccia durante il laboratorio di chimica. Boom!», annuì poco saggiamente Ryota, che infatti ne subì le conseguenze poco dopo.

«Ma insomma! Vi state giocando l’invito a pranzo!», si lagnò la rossa, mentre Nobunaga accorreva in suo soccorso come il prode paladino senza mantello che credeva di essere.

«Hicchan, lasciali dire», la consolò il ragazzo, rubandola dalle grinfie del fratello e coccolandola a dovere. «Cucineremo insieme e non faremo saltare in aria casa tua. E vuoi sapere perché? Ma perché sono il cuoco numero uno di Kanagawa! Hahaha!».

«Il solito esaltato», fu il commento di Rukawa, che lo mandò in bestia.

«Ede, vieni a pranzo da noi?», domandò Hime. Le imprecazioni di Kiyota si sprecarono.

«Ehi! Siamo già un casino, non c’è posto per la Kitsune!», sbraitò Hanamichi, mentre l’altra Scimmia annuiva con foga.

«Tranquillo, Do’aho. Non ho intenzione di venire».

Sakuragi alzò le braccia al cielo, ringraziando gli dei che, per una volta, avevano ascoltato e accolto le sue richieste.

«Perché no?», continuò mogia Hime.

«Devo recuperare il tempo perso per allenarmi».

«Con questa pioggia?», domandò preoccupata Reiko, calandosi una cuffia sui capelli umidi e rabbrividendo fino alle ossa. «Ti prenderai un malanno».

Senza neppure degnarla di una risposta, Rukawa si avvicinò ad Ayako, chiedendole le chiavi della palestra, che lei si portava sempre dietro per ogni evenienza. Quella, titubante, gliele prestò insieme alle solite raccomandazioni sul rimettere tutto a posto e sul chiudere per bene una volta finito. Con un cenno affermativo e una mano a scompigliare i capelli della sua migliore amica, Kaede si avviò verso la metropolitana senza aspettare nessuno.

Accigliata, Hime lo osservò allontanarsi, ma non fece in tempo a chiedersi il motivo di quel malumore improvviso che Nobunaga la riportò alla realtà, circondandole le spalle con un braccio e reclamando le sue attenzioni. Gli sorrise, annuendo. «Allora, Mr. Chef, che prepariamo per questi bisonti?».

Dopo aver salutato tutti, si allontanarono verso casa Sakuragi, insieme ai Gundam e alla coppia dell’anno, Ryota e Ayako. Nel frattempo, Mitsui e Sendoh avevano ripreso il loro battibecco su chi e come dovesse tenere l’ombrello. Il risultato fu che finirono nuovamente fradici fin dentro le mutande, mentre Kiyo e Reiko si scambiavano un’occhiata mesta.

«Sana, vieni a pranzo da noi?», domandò Akira, scostandosi i capelli che ormai gli ricadevano fradici sulla fronte.

La barista divenne paonazza davanti a quello splendore di ragazzo, ma dovette scuotere il capo in segno di diniego. «Io ho... ho un appuntamento con mio padre», mormorò, indicando l’uomo con l’ombrello che l’attendeva al cancello. «Ma grazie lo stesso».

Sendoh le sorrise. «Allora non posso insistere. Sarà per la prossima volta! Passa una buona giornata, Sanako», disse infine, chinandosi per darle un leggero bacio sulla guancia. Quella rimase inebetita, mentre Kiyo l’abbracciava e la ringraziava di essere andata a sostenerla.

Con un sospiro, Sana si volse verso Kiichi Rukawa e agitò una mano per salutarlo, mentre correva sotto la pioggia per raggiungerlo. Con quell’augurio era più che sicura che la giornata avrebbe proseguito in maniera fantastica.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

E dopo tempi ragionevoli per una mente poco ragionevole come la mia, rieccomi qui! Mi sono divertita tanto scrivendo questo capitolo lunghissimo (forse troppo?), ma finalmente le parole sono arrivate una dopo l’altra come un fiume in piena... e chi poteva fermarle? Io no di certo.

Dunque, abbiamo scoperto che Hime non è realmente innamorata di Kaede... ci avevate creduto/sperato/temuto? Mwahaha! Quanti bei casini si prospettano all’orizzonte!

Qualche piccolo appunto per il precedente capitolo: rileggendolo e riguardando vecchi appunti, ho dovuto correggere una svista, ossia che la partita che lo Shohoku dovrà disputare, qualora vincesse contro il Miuradai, sarà quella contro il Kainan – e non il Ryonan come avevo scritto. Inoltre, nel capitolo in cui Hime arrivava con il calendario del campionato, ho specificato che lo Shohoku, così come Kainan, Ryonan e Shoyo, partono direttamente dai quarti di finale, perché ai precedenti campionati sono arrivati tra i Best 4 – quindi saltano le prime partite. Ero convinta di averlo fatto, ma le riletture dopo anni servono anche a questo!

Approfitto per ringraziare chiunque abbia letto il precedente capitolo e HeavenIsInYourEyes per la sua adorabile recensione!

 

A presto e buon fine settimana,

Marta

 

PS: per chi mi segue su facebook e se li fosse persi, ecco cinque acquisti che ho fatto di recente per sollevarmi il morale. Non sono stupendosissimi? Also, dato che sono tornata pseudo-attiva anche su quei lidi, sentitevi liberi di aggiungermi. Non mordo. ;)

 

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Capitolo 21
*** 20. Esordio col botto ***


s Ni-hao a tutti

Capitolo 20

Esordio col botto

 

 

 

Lo stadio era stracolmo, nonostante si trattasse di una semplice partita tra squadre liceali, il cui risultato molti davano già per scontato. Kiyo si guardò intorno, spaesata dall’infernale caos che regnava sovrano sugli spalti, e si avviò alla ricerca di quei casinisti di Mito e gli alti. Avevano saltato le lezioni come lei, beccandosi anche la ramanzina di Sanako che le ricordava quanto importante fosse studiare, soprattutto per una sportiva come lei, ma non era stato difficile scegliere tra la scuola e Hisashi Mitsui.

«Ehi, Kobayashi!», gridò una voce, appartenente a Yohei in piedi sul sedile per farsi notare. Accanto a lui sedeva Haruko Akagi e, dietro, il colossale fratello e un ragazzo con gli occhiali. Anche loro avevano deciso di marinare le lezioni per sostenere la squadra che, nella situazione in cui si trovava, aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile, soprattutto mentale.

Kiyo si sedette accanto all’unica ragazza del gruppo, con la quale non aveva mai scambiato neppure una parola, e le strinse la mano per presentarsi.

Non glielo avrebbe mai detto, ma Haruko era terrorizzata da Kiyoko Kobayashi. Non solo all’apparenza era scostante e perennemente accigliata, ma una che stava in classe con Kaede Rukawa e gli teneva testa era da temere! «Piacere di conoscerti, Kobayashi-san».

Quella annuì, osservando il campo. «Non sono ancora arrivati».

«Ancora qualche minuto», fece Mito. «Popcorn? Vuoi puntare una scommessa sui falli di Hanamichi? O su quell’altro demente di Araki e su quante volte flirterà con Hime?».

«Quel tizio ha seri problemi», fu il commento di Kiyo, che ricordava il suo comportamento da folle durante l’amichevole contro il Ryonan – la stessa che aveva decretato la sua prima uscita con Mitsui. Sembravano passati anni da quel giorno.

«Intendi perché flirta con Sakuragi femmina?», domandò Noma, a bocca piena. «Sì, decisamente».

Akagi, alle sue spalle, si trovò ad annuire con fervore.

«Ragazzi, insomma!», s’inalberò Haruko che, nonostante fosse gelosa del rapporto che la seconda manager aveva con Rukawa-kun, la rispettava più di chiunque altro. Hime Sakuragi era tutto ciò che avrebbe voluto essere: era carina, simpatica e giocava a basket divinamente. Senza parlare del fatto che fosse la migliore amica del ragazzo di cui era follemente innamorata dai tempi delle medie.

«Oh, eccoli!».

Il boato del pubblico fu assordante davanti alla sfilata delle due squadre che entravano in campo. Dopo l’incredibile risultato ottenuto dallo Shohoku ai Nazionali, aveva acquistato così tanta notorietà da fare paura.

«Mamma mia, quelle brutte facce non sono migliorate per niente», fu l’intelligente commento di Okusu, mentre Takamiya gli fregava una merendina dalla tasca senza che se accorgesse.

Kiyo si sporse sulla balaustra trovando subito chi cercava. Hisashi Mitsui non si sedette subito in panchina accanto all’allenatore e alle due manager, ma rimase a bordo campo mentre i suoi compagni si riscaldavano, probabilmente per dare gli ultimi consigli al suo sostituto Kimi. Era visibilmente scocciato dalla impossibilità di giocare: poteva quasi percepire le mani che gli formicolavano pur di riprendere in mano quel pallone arancione e sfilare triple una dopo l’altra. Il senso di colpa per quell’ennesimo infortunio le strinse la gola. Se solo non l’avesse chiamato quella sera con la scusa di ordinare una pizza, se quei due non si fossero scontrati, se solo avesse avuto il coraggio di separarli durante la rissa, anche a costo di essere coinvolta... quanti se e ma. Era stata una stupida e aveva messo in serio pericolo una delle poche persone a cui tenesse veramente. Per non parlare della consapevolezza che, se lo Shohoku avesse perso quella partita, la colpa sarebbe ricaduta su di lei. Non era sicura che avrebbe potuto sopportarlo. L’avrebbe odiata, forse?

L’attenzione della nuotatrice, così come quella del pubblico, fu bruscamente catturata dal tizio con le punte dei capelli blu a centro campo che parlottava con un giocatore del Miuradai, tra pacche sulle spalle e spinte amichevoli.

«Ma che sta facendo quel deficiente?», domandò Mito, mentre Sakuragi dal campo gli gridava contro di non socializzare col nemico.

«Buona fortuna fratellino», stava dicendo il cestista del Miuradai, Kazuo Araki, mentre gli scompigliava i capelli.

Masuhiro gonfiò il petto come un pavone. «Buona fortuna a te, fratellone. Vedrai, sarai fiero di me quando ti batterò! E ti presenterò anche la mia nuova ragazza, che sarà così impressionata dalla mia performance che cadrà subito a miei piedi! Vero Hime-san?».

A quelle parole la seconda manager vide bene di nascondersi dietro il berretto della squadra, rimpiangendo per l’ennesima volta la mancanza del Gorilla – e ringraziando quella di Nobunaga, che avrebbe sicuramente scatenato l’inferno.

«Che cosa vuoi fare tu?!», «Quei due sono fratelli?», esclamavano intanto Hanamichi e gli altri.

«Ehi, Capitano!», gridò Araki junior, senza scomporsi per quella sorpresa. «Posso marcare io mio fratello?»

«No», sbottò Ryota, afferrandolo per la maglia e riportandolo alla loro metà campo. «Sarà Kimi a marcarlo. Se l’hai dimenticato tu sei un’ala piccola, non una guardia. E sei anche più basso».

«Senti chi parla», borbottò Masuhiro incurvando le spalle, mentre il capitano dello Shohoku borbottava qualcosa sul perché tutti i dementi dovessero iscriversi al club di basket.

Due minuti prima che l’arbitro fischiasse il termine del riscaldamento, i ragazzi si avvicinarono alla panchina, dove Anzai li attendeva per qualche dritta. L’unico del quintetto base che avrebbe giocato dal primo minuto era Hanamichi, in qualità di unico Centro a disposizione – per lo sconforto generale, dato che iniziò ad additare Rukawa e a sfotterlo come se non ci fosse stato un domani.

«Non voglio che i titolari si stanchino troppo in vista delle prossime partite», stava dicendo il Sensei. «E non voglio che vedano i progressi che avete fatto insieme. Ma confido nelle energie di Sakuragi e sono più che fiducioso nelle capacità dei nuovi arrivati. In particolare, Kimi ed Eichiro, mi aspetto molto da voi».

«Sissignore!».

Araki stava per ribattere qualcosa sul suo valore sportivo, ma il ventaglio di Ayako gli fece ingoiare qualsiasi protesta stesse per sputare.

Hisashi si affiancò a Kimi, che stava sorseggiando un po’ di acqua prima del fischio d’inizio. «Mi raccomando, Shimura. Non farmi pentire del compito che ti ho affidato, d’accordo?».

«Non preoccuparti, senpai», fece quello, sorridendo. «Ti tengo il posto caldo».

Mitsui gli diede una pacca sulla spalla e si sedette accanto all’allenatore mentre il quintetto, formato da Hanamichi, i gemelli, Araki e Yasuda, si schierava in campo.

«Ehi tu, Rossino».

Hanamichi si voltò e vide Miyamoto che lo guardava strafottente.

«Ti fanno ancora giocare?».

«Tranquillo, amico mio», lo rassicurò il capitano del Miuradai, Kengo Murasame. «Conoscendo l’elemento, si farà espellere nei primi cinque minuti di partita, vedrai».

Hanamichi stava per ribattere, il fumo che fuoriusciva dalle orecchie come una teiera in ebollizione, ma la sorella fu più lesta e, dalla panchina, gridò: «Che c’è? La pallonata in testa che mio fratello ti diede brucia ancora? O ti ha rincoglionito talmente tanto da non vedere i progressi che ha fatto in questi mesi?».

«Hime Sakuragi!».

La voce del Gorilla, proveniente dagli spalti, per poco non le fece scendere un coccolone dallo spavento e si accarezzò di riflesso la testa, come se temesse il famigerato pugno anche a distanza.

«Senti, ragazzina, perché non ti siedi in un angolino e stai zitta?», ribatté Miyamoto, per poi rivolgersi con un ghigno a Murasame. «Posso solo immaginare cosa diavolo ne capirà di basket una femmina, soprattutto con un fratello come quello».

«Questa ragazzina potrebbe fare il culo a tutti quanti, se solo potesse scendere in campo e dimostrarvelo».

La voce gelida di Rukawa, seduto a gambe divaricate e braccia conserte in panchina, catturò l’attenzione di tutti – e delle sue fan in particolare, che sbraitarono insulti dalla gelosia a profusione verso la tanto odiata ragazza.

«Ben detto Kit!», fece Hanamichi, puntando un dito verso i ragazzi del Miuradai. «Fatevi sotto, bastardi! Vi farò vedere di che pasta sono fatti i Sakuragi e i Diavoli Rossi!».

Con un “” che fece vibrare la palestra, lo Shohoku si preparò alla palla a due, mentre l’arbitro ricordava le regole più importanti e li ammoniva per i loro battibecchi.

«Allora», stava dicendo Ayako, rispolverando i suoi appunti, «stando agli appunti che ha preso Hikoichi questi bestioni hanno fatto passi da gigante negli ultimi mesi».

«Sì, sono più palloni gonfiati di prima», borbottò Mitsui, stringendo i pugni nel guardare le stampelle al suo fianco. Quando si erano scontrati contro il Miuradai non era sceso subito in campo, insieme agli altri tre dementi dei suoi amici, per punizione del Signor Anzai. Quel giorno, invece, non aveva alcuna speranza di contare i minuti che mancavano per alzarsi e giocare.

«Hanamichi dovrà lavorare duramente sotto canestro, oggi», continuava Ayako, osservando i giocatori in campo. «Eichiro, che è più basso di 10 cm, dovrà marcare il numero 7... sarà dura, è alla sua prima partita».

«Chiro è bravo a smarcarsi e a fare pressione», disse Hime con ottimismo, mentre Ryota annuiva. «E lui, Kimi e Hanamichi hanno studiato molti schemi interessanti. Li metteranno in ridicolo, vedrete».

«Spero solo che Sakuragi non si faccia espellere davvero», borbottò Ayako. «Questi qui giocano sui falli e conosciamo quanto suscettibile sia alle provocazioni».

«È migliorato su questo fronte», fu la pacata valutazione di Anzai. «Ho piena fiducia in lui». Hime sorrise con orgoglio, conscia che Hanamichi avrebbe dato il massimo, ma i tre dell’Armata Cercaguai non erano così convinti.

Il fischio d’inizio riportò l’attenzione in campo e il pubblico esplose in ovazioni quando Hanamichi saltò più in alto di Murasame e lo Shohoku conquistò il primo possesso di palla.

«Bravissimo, Sakuragi-kun!», gridò Haruko dagli spalti. Le orecchie del rossino divennero antenne paraboliche e, trovata immediatamente tra il pubblico, le fece il segno della vittoria, osannandosi senza ritegno.

Alle spalle della sua dolce amata, la minacciosa e familiare figura del Gorilla lo fece diventare piccolo piccolo in mezzo al campo. «Non distrarti, deficiente!».

Il primo canestro della partita andò allo Shohoku, dopo un’ottima azione combinata dei gemelli Shimura su passaggio di Yasuda per Eichiro. Nonostante la stazza intimidatoria del Miuradai, superare la loro difesa sembrò un gioco da ragazzi e dalla panchina tutti tirarono un sospiro di sollievo. Forse quella partita si sarebbe conclusa in maniera indolore.

Ma le prime crepe della formazione in campo iniziarono a comparire dopo cinque minuti di gioco. Nonostante l’importante numero di rimbalzi conquistati da Hanamichi in difesa, Yasuda, benché fosse al secondo anno e fosse un abile play, spesso si trovava in difficoltà a superare il muro di Miyamoto e qualsiasi azione di contropiede veniva così intercettata e bloccata sul nascere. Sakuragi aveva già commesso un fallo sul centro del Miuradai e stava iniziando a perdere la pazienza – che non andava famosa per essere illimitata.

Su passaggio di Eichiro, Hanamichi si apprestò a tirare a canestro, ma fintò invece a sinistra, per un bel canestro dei poveri. Miyamoto quasi lo scaraventò a terra pur di bloccarlo.

«Che cazzo pensi di fare, eh? Spaccarmi la schiena?», s’infervorò il rossino, puntandogli la testa contro. «Ti spacco i denti, invece!».

«Ehi, Hanamichi!», gridò Ryota dalla panchina. «Cerca di stare calmo, siamo solo all’inizio!».

«Coraggio, Hana-chan!», gli diede man forte Hime, in piedi mentre batteva le mani.

«Tranquilla, Hime-san! Ci penso io!», esclamò Masuhiro mentre palleggiava e la guardava adorante, senza accorgersi del fratello maggiore che, approfittando del suo momento di distrazione, gli fregò la palla da sotto il naso.

«Sei un deficiente, Puffo!», gli gridarono dietro dalla panchina, facendolo sprofondare nello sconforto.

«Ecco un altro patetico demente», biascicò Rukawa, scuotendo il capo.

«Puffo?», ripeté Araki senior, ridendosela mentre andava a canestro, portando la sua squadra a soli tre punti dallo Shohoku.

Recuperata la palla, Yasuda tentò un veloce passaggio verso Kimi, oltra la metà campo, per spiazzare il suo marcatore ed evitare il corpo a corpo, ma l’azione fu intercettata da un indemoniato Murasame, che in contropiede segnò con una schiacciata.

«Ancora un punto, ragazzi! Un punto e li superiamo!», li incitò il capitano, mentre Hanamichi tremava di rabbia.

«Yasu, passa subito a me, hai capito? Passa a me!», esclamò scuotendo il povero playmaker come un panno impolverato.

«Ma, Sakuragi–».

«Ho detto di passarmi la palla, yasu!».

Quello, intimidito dalla testata che stava per partire minacciosa contro la sua fronte, fece come richiesto e Hanamichi si ritrovò nuovamente marcato stretto da Miyamoto, che ghignò beffardo.

«E quindi? Che vuoi fare, rossino?».

Sul punto di implodere, Hanamichi si disse di darsi una calmata. “Sono il genio della situazione, devo fare canestro!”, continuava a ripetersi.

«Chiro-kun! Kimi! Schema dei Gemelli Siamesi, ok?».

Quelli sorrisero e, dopo un cenno del capo, iniziarono a correre entrambi verso di lui, allungando le mani per prendere la palla che Hanamichi riuscì a passarsi dietro la schiena. L’azione fu così veloce che nessuno riuscì a capire quale dei due gemelli avesse il possesso e, quando accadde, fu troppo tardi: Kimi era già dietro la linea dei tre e aveva preso la mira, mentre Eichiro l’aveva protetto dalle marcature.

«Ottima azione, ragazzi!», gridò Hime, ora in piedi sulla sedia che gridava come un’invasata. L’esultanza le morì in gola quando la palla colpì il ferro del canestro e il Miuradai prese il rimbalzo.

«Dannazione», sibilò a denti stretti Hisashi.

«Cazzo, fermati maledetto!», gridò Hanamichi, gettandosi come un fulmine all’inseguimento della palla e saltando insieme ad Araki quando questo effettuò un terzo tempo. Il fratello di Masuhiro non realizzò il canestro, ma subì fallo della difesa e gli furono assegnati due tiri liberi. Alcuni strani ritornelli porta-iella iniziarono a sollevarsi dagli spalti e non ci fu bisogno di cercare la fonte, dato che fosse più che ovvio provenissero dai Gundam.

Il primo tiro liberò venne sbagliato, tra il boato del pubblico, ma Araki riuscì a mettere a segno il secondo, che fu il punto del pareggio.

L’arbitro fischiò time-out per lo Shohoku.

«Così non va bene. Non va bene per niente», borbottò Hime, mordendosi l’interno di una guancia.

«Ragazzi, ma che state facendo?», domandò Ayako, mentre i panchinari si alzavano per lasciare il posto agli altri. «Voglio vedervi grintosi! È lo stupidissimo Miuradai, che caspita!». Dalla panchina di questi ultimi volarono occhiatacce avvelenate mentre ripetevano oltraggiati “Lo stupidissimo Miuradai?”.

«State dando per scontato la vittoria», li rimproverò Miyagi.

«Oppure state cadendo nello sconforto totale», aggiunse Anzai. «Spero non abbiate dimenticato il bel discorso del vostro Capitano e di Sakuragi qualche giorno fa».

«Certo che no!», risposero quelli.

Anzai si sistemò gli occhiali sul naso. «Bene, allora non c’è bisogno che dica altro, se non che non ho intenzione di far giocare né Rukawa né Miyagi nell’immediato futuro, se non in casi estremi, e che dovete mettervi l’animo in pace: neppure Mitsui giocherà. Ve la vedrete da soli».

«Esatto», disse Ryota. «Hanamichi, stai facendo un ottimo gioco sotto canestro, ma devi stare attento ai falli. Lascia che ti provochino, ma non cadere nel tranello! E sei l’unico titolare in campo, voglio che sia tu a spronare i ragazzi».

«Detto fatto, Ryo-chan! Hahaha! Io sono il Genio degli Incitamenti! E non per nulla sarò anche il futuro Capitano! Ahaha!».

Nessuno si degnò di rispondergli.

«Araki, Yasu ha qualche problema a smarcarsi da Miyamoto. Voglio che sia tu a tenerlo a bada, mentre si crea l’azione di gioco, d’accordo? Infastidiscilo più che puoi, che almeno quello ti riesce bene». Quello annuì, ma prima che potesse dire una sillaba, Ryota continuò. «E che non ti venga in mente di distrarti di nuovo come prima, altrimenti sei fuori». Masuhiro annuì a testa china.

«Sì, fuori di testa. Continuo a non capire cosa ci sia da distrarsi», fece Hisashi, lanciando un’occhiata sbieca alla sua seconda manager. Si beccò uno scappellotto dalla diretta interessata, che di certo non amava le attenzioni di Araki, ma neppure le frecciate del numero 14!

«Yasu, l’azione iniziale era perfetta», stava continuando a dire Ryota. «Con Miyamoto sotto controllo, conto su te e i gemelli per andare a canestro».

«Sissignore!».

«Ma, ma... Ryo-chan, su di me non conti per fare canestro?», domandò Hanamichi con labbro tremante. Porca paletta, la Volpe era segregata in panchina, non avrebbe avuto altre occasioni per fare più punti di lui e farsi notare dalla sua bella! Doveva darsi da fare! Sì, avrebbe segnato tanti dunk e il pubblico avrebbe fatto esplodere la palestra, mentre la Kitsune se ne andava sconsolata e con la coda tra le gambe insieme ai deficienti del Miuradai e Harukina cara gli si appendeva al braccio, sognante e innamorata. Che piano geniale!

Come se gli avesse letto la mente, Hime gli batté una mano sulla spalla. «Hana, vedi di non strafare, ok? Lo dico anche per la tua schiena».

«Ahahah! Hicchan, la mia schiena non è mai stata meglio! Vedrai, ti renderò fiera del tuo fratellone!».

«Fossi in te mi preoccuperei», fu il commento di Rukawa verso Hime, che ridacchiò – Hanamichi, ovviamente, stava per saltargli addosso e cantargliene quattro. Fortuna che l’arbitro fischiò la fine del time-out sedando qualsiasi intento bellicoso e, dopo un ultimo grido di battaglia, i cinque rientrarono in campo più carichi e determinati di prima.

«O-ho, i pivelli si scaldano!», esclamò il maggiore tra i due Araki, ghignando. «Non vi servirà lo stesso: senza Mitsui e Akagi a disposizione siete solo delle pippe».

«Perché non fate entrare Rukawa e Miyagi, eh? Volete proprio perdere, mezze seghe?», proseguì un suo compagno di squadra.

Quelle erano le ultime parole che avrebbe dovuto pronunciare: invece di intimidirli sortì infatti l’effetto contrario. Gli insulti e le grida si sprecarono persino dalla panchina e i Diavoli Rossi iniziarono a giocare seriamente. Con la stretta marcatura di Araki su Miyamoto, Yasuda fu libero di giocare ottimi passaggi ai gemelli, che non stavano facendo altro che confondere gli avversari correndo da una parte all’altra del campo. Alla quarta tripla di Kimi persino Hisashi trovò la forza di alzarsi su un piede e applaudirlo fino a farsi male.

Ora guidavano la partita con 17 punti di vantaggio e nonostante l’assenza del trio in panchina, lo Shohoku stava facendo scintille e si apprestava a chiudere il primo tempo con un buon margine. Nonostante la voglia di vendetta che si leggeva negli sguardi infiammati del Miuradai, nessuno di loro era in grado di superare la difesa di Hanamichi sotto canestro, serrata e micidiale. Aveva addirittura segnato ben 8 punti dal time-out. Persino Akagi si ritrovò ad annuire con orgoglio davanti agli elogi della sorellina sul loro numero 10. Aveva fatto un ottimo lavoro con quello scapestrato, sebbene dovesse stare attento a non farlo sapere all’interessato. E pensare che giocava solo da Aprile!

Dopo i primi venti minuti di gara e un time-out chiamato dal Miuradai, l’arbitro fischiò l’intervallo ed entrambe le squadre si diressero verso gli spogliatoi. L’ex Capitano e Vice si alzarono per sgranchirsi le gambe e fare visita ai loro amici – nonostante l’abbandono, non c’era verso di tenerli lontani dalla squadra – e Kiyo si rilassò contro lo schienale, mentre quei pazzi dell’Armata Sakuragi tiravano le somme delle loro scommesse.

«Cavoli, che partita esaltante!», le stava dicendo Haruko, che per tutta la durata del primo tempo non aveva smesso di spiegarle tattiche di gioco e i falli che commettevano i giocatori. Era una brava maestra, pensò la nuotatrice, che non aveva mai seguito quello sport se non da poche settimane; ma quella partita  non aveva particolare attrattiva ai suoi occhi, dato che colui che avrebbe voluto vedere giocare era impossibilitato a farlo. Sospirò con pesantezza, passandosi una mano tra i capelli biondi. Osservò distrattamente una ciocca sfibrata dal cloro e dalla tinta, e pensò che fosse giunto il momento di tornare al suo colore originale, almeno per dare ai suoi poveri capelli un po’ di tregua.

Negli spogliatoi, mentre Akagi dava alcuni saggi consigli per chiudere la partita in modo definitivo, Rukawa poggiò la testa penzolante sulla spalla di Hime, seduta contro gli armadietti accanto a lui.

«Lo so, Ede, che ti stai annoiando», gli disse, scostandogli la frangia dagli occhi. «Ma è solo per oggi».

Il numero 11 sbadigliò. «Che due palle».

«Dai, stringi i denti. La prossima partita sarà probabilmente contro il Kainan e ci servi in forze».

«Hn... non me ne servono tante per umiliare quella scimmia del tuo ragazzo».

«Ohi! Nobu-chan è perfettamente in grado di darti filo da torcere, Ede».

«Ma non farmi ridere».

«Come se fossi in grado di farlo». All’occhiata perplessa di Kaede, la seconda manager aggiunse: «Ridere, ovvio!».

«Demente».

Hime sorrise, ascoltando distrattamente le parole di Ryota e del Gorilla. Avrebbe dovuto darsi un po’ di contegno durante la prossima partita, rifletté. Non poteva certo lasciarsi scappare qualche parola di incoraggiamento verso il suo adorabile ragazzo e rischiare il linciaggio da parte dei suoi compagni. Hanamichi, ne era sicura, non gliel’avrebbe fatta passare liscia.

«Dopo pranzo andiamo a fare due tiri».

La voce di Kaede la ridestò e abbassò lo sguardo su di lui, ancora mezzo addormentato sulla sua spalla. «E sia! Ho voglia di giocare anche io».

«Ehi Kit! Che diavolo ci fai addosso alla mia Hicchan?!», sbraitò Hanamichi, seguito a ruota da un altrettanto incavolato Masuhiro che, era evidente, non si era ancora messo l’anima in pace e sperava ancora in una risvolta romantica con la bella seconda manager.

Rukawa bofonchiò qualche insulto, sistemandosi meglio, mentre Hime ridacchiava.

«Ma si può sapere che cos’ha da dormire? Insomma, non sta neppure giocando! Dovremmo essere noi quelli affaticati», sbottò Araki, ficcandosi le mani in tasca pur di non stringerle intorno al collo dell’odiato numero 11. «Che cacchio fai la notte, eh?».

«Non sono sicuro di volerlo sapere», si affrettò a dire Hisashi.

«Suvvia, Masu-chan», dissero in coro i Gemelli Siamesi, «non sarai davvero stanco?».

«Hahah Mezzasega!», lo sfotté Hanamichi. «Hai già il fiato corto!».

«Ehi, voi due!», esplose il Gorilla, assestando un pugno su entrambe le loro teste. «Piantatela e concentratevi».

«Ma che vuoi?», esclamò Araki, imbestialito. «Non fai più parte della squadra, senpai, non dovresti neppure essere q–».

«Abbi un po’ di rispetto per il Gorilla, maledetto Puffo!», gli urlò contro Sakuragi, tirandogli una testata memorabile che lo stordì per il resto dell’intervallo.

«Ma ti senti? Lo chiami Gorilla e parli di rispetto?», ghignò Hisashi, che distese la gamba sana intorpidita da tanto poco movimento. Hanamichi scoppiò a ridere sguaiatamente, grattandosi la nuca in evidente imbarazzo.

Akagi si passò una mano in viso, rivolgendosi a Sakuragi donna e indicandole il casino. «Quando mi chiedi se abbia intenzione di tornare: eccoti la risposta».

Hime gli rifilò un’occhiata significativa. «Sì, come no. Non saresti qui se non avessi nostalgia della squadra, Capitano».

«Ohi, il Capitano sono io, ora!».

«Bravo, Miyagi, e vedi di non farmene pentire», fece il Gori, premendosi le tempie doloranti. Eccolo là, quel tanto temuto e consueto mal di testa stava tornando forte e martellante. Non gli era mancato per nulla. «Ma chi me lo ha fatto fare», brontolò.

«Intendi “lasciarci in balia del Pigmeo”?», domandò con innocenza il numero 14, grattandosi la cicatrice sul mento. «Me lo chiedo anche io».

«Ma vai al diavolo, Mitsui».

Akagi ghignò. «Che fai, mi rimpiangi?».

«No, semplicemente mi chiedo perché non sono io il Capitano».

«Sei Vice, accontentati».

«Insomma! Non dovremmo parlare di strategie di gioco?», strillò Ayako nel tentativo di farsi sentire tra i battibecchi, mentre Nonno Anzai se la rideva. Per non sbagliare riservò una sventagliata ciascuno per riportare l’ordine cosmico – anche all’ex Capitano, che non la prese benissimo. «Oh cavolo, scusami tanto, senpai!», esclamò, inchinandosi a profusione.

«Io torno in tribuna, prima che ammazzi qualcuno», sbottò quello, massaggiandosi la testa e andandosene furioso e umiliato.

Ayako e Hime si scambiarono un’occhiata, alla disperata ricerca di non ridere.

Fallirono miseramente.

 

*

 

«Ahahah! Avete visto, segaioli?», stava sbraitando Hanamichi ai quattro venti, in attesa del treno che li avrebbe riportati a casa. «Abbiamo vinto anche senza voi! E soprattutto senza la Volpaccia! Tutto merito del qui presente Genio! Ahahah!».

I ragazzi, che si stavano sorbendo quella lagna dalla fine della partita, vinta per ben 31 punti di distacco – un gran bel risultato per tre nuovi arrivati su cinque –, pensarono seriamente di gettarlo tra i binari con il treno in corsa, sperando solo che si sbrigasse a giungere. Non ne potevano più. Avrebbero dovuto immaginare una reazione simile, certo, ma la speranza era sempre l’ultima a morire. L’unico fortunato che si stava perdendo lo show era l’allenatore Anzai, che per sua fortuna era stato invitato a pranzo dal quello del Miuradai.

«Hicchan, hai visto che canestro ho fatto, alla fine? E quel rimbalzo stratosferico? Sono stato bravo, vero Harukina?». Quest’ultima, beata innocenza, continuava ad annuire e a gettare legna sul fuoco, senza accorgersi degli sguardi assassini del resto della compagnia.

«Haruko, per favore, non assecondarlo!», sbottò il fratello, la cui testa era ormai sull’orlo di un’esplosione.

«E della finta che ho fatto a Murasame ne vogliamo parlare? Ryo-chan, devi essere orgoglioso di me!».

«Ayakuccia, ti prego, fallo smettere», bofonchiò il playmaker, nascondendo il viso tra i capelli ricci della sua ragazza.

«Non ne ho le forze», replicò quella, sfiancata da tanto ciarlare.

«Mito, per favore, conto su di te», biascicò Mitsui. «Liberaci».

«Spiacente, ma lo preferisco invasato, invece che incazzato col mondo», replicò Yohei. «Sai com’è... ci tengo alla capa».

«E stai un po’ zitto, do’aho», fece Rukawa, assestandogli un bel calcio e dando inizio all’ennesima infinita lite.

Per una volta nessuno ebbe da obiettare, giacché Rukawa aveva deciso di immolarsi per il bene comune. Akagi era persino pronto a dare due pacche sulle spalle al Volpino per ringraziarlo di tanta generosità, se solo quei due bisonti non gli fossero franati addosso, portandosi dietro anche Miyagi e Araki nel casino. Tra morsi, pugni e cazzotti, i cinque si rotolarono come maiali sul fango, e riserve, manager e compagnia varia videro bene di non intromettersi; mossero qualche indifferente passo poco più in là, elargendo sorrisi da orecchio a orecchio ai passanti che guardavano terrorizzati la scena, nella tiepida speranza di non farli scappare a gambe levate.

Quando il treno giunse – troppo tardi per il gusto di tutti – il gruppo di idioti prese posto tra spintoni e insulti vari, capitolando ai piedi di una vecchietta che per poco non crepò d’infarto.

«Razza di animali!», sbraitò quella, colpendo ripetutamente Akagi sulla testa con la borsetta. L’ex Capitano, che non era mai stato pestato da un’anziana, non poté far altro che proteggersi il capo con le braccia, supplicandola di smettere ma senza ottenere risultati. Era indemoniata.

Le risate e le lacrime si sprecarono e persino Kiyoko non riuscì a trattenersi, voltandosi pur di non farsi vedere. Hime e Ayako neppure si misero il problema di darsi un contegno.

«Il Gori che viene pestato da una nonnetta!», continuava a ripetere Hanamichi, che non riusciva più a respirare dalle risate insieme a Mitsui e Ryota, entrambi con i lacrimoni agli occhi. «Anche meglio del suo sedere in bella mostra!».

Inferocito e con le narici dilatate dall’ira, Takenori afferrò il rossino per il collo, strozzandolo nella migliore imitazione di Homer Simpson con Bart. Nessuno ebbe il coraggio di fermarlo, neppure Haruko, più preoccupata della sorte di Rukawa in tutto quel trambusto per pensare ad altro. Kaede, ovviamente, non se la filò minimamente.

Giunsero alla loro fermata che stavano ancora ridendo senza ritegno, tranne Hanamichi che tossiva alla ricerca di ossigeno dopo l’attacco devastante del Gorilla e che gli aveva lasciato il ricordo di dieci poderose dita intorno al collo.

«Ede, pranzi da noi e poi andiamo al campetto?», domandò Hime, suscitando le ire del suo adorato fratello.

«Hicchan! Ma sei impazzita? Tutto questo casino è opera sua e vuoi anche sfamarlo?».

«Do’aho, stavo facendo un’opera di bene mettendoti a tacere».

«Beh, Hana, se non fosse stato per “tutto questo casino” non avremmo potuto godere della vista del Gorilla pestato da una vec–». Hime non riuscì a terminare la frase che dovette catapultarsi fuori dalla stazione a tutta velocità, per evitare che Akagi sfogasse l’ultimo rimasuglio di ira anche su di lei. Il fratello ovviamente si gettò in aiuto, ma non vide il piede allungato di Rukawa e inciampò come un salame, finendo bello che disteso per terra. Il Volpino, come giusto che sia, gli passò accanto con una scrollata di spalle e si diresse silenziosamente verso la tana dei Sakuragi. Sperò con tutto il cuore che la signora Misato fosse in casa per preparargli qualche delizia delle sue – a volte temeva il cibo della sua seconda manager.

Salutati compagni di squadra e amici, i tre, Ryota e Mito presero la stessa direzione, come sempre facevano, e parlottarono della partita con un po’ più di tranquillità – Hanamichi aveva avuto tutto il tempo per sgasarsi e Haruko non era più in vista, quindi si diede una calmata.

Arrivati a destinazione, anche Yoehi si unì per pranzo, con sommo orrore del suo migliore amico, incacchiato nero che fossero sempre gli altri a scroccare il mangiare alla sua famiglia e mai il contrario.

«Buongiorno mamma!», sbraitò il rossino, dopo aver lasciato le scarpe sull’ingresso di casa, sentendo la madre canticchiare allegramente dalla cucina.

«Oh, tesoro! Com’è andata la partita?», domandò la donna.

«Tre, due, uno...», contò a mezza voce Yoehi, mentre l’Idiota in quel momento riprendeva la gloriosa narrazione delle sue gesta geniali.

«Ci risiamo», sbuffò Kaede, che si fiondò sul divano a sonnecchiare.

«E poi ho scartato a sinistra, mentre quello pensava che stessi per tirare ed è rimasto imbambolato peggio della Volpe davanti a una femmina!», stava dicendo Hanamichi, seduto su uno sgabello e ridendo come un matto, talmente tanto che rischiò di cappottarsi all’indietro.

«Uhm, Hanamichi, devo ricordarti che proprio qualche giorno fa il ragazzo non mi è sembrato tanto imbambolato con una certa ragazza», disse Mito, il tanto giusto per farsi sentire da Kaede. Questo, ovviamente, rabbrividì di disgusto e si nascose la testa sotto un cuscino.

«Beh, chiamalo scemo, quella Azamui è una strafiga mondiale», annuì Hanamichi, alzandosi per rubare un po’ di cibo dalla pentola sul fuoco, mentre la madre era distratta.

«Meglio di Haruko?», domandò questa, ignara del disastro che aveva appena combinato con quelle poche parole.

«Nessuna è meglio della bella e dolce Haruko!», s’infervorò all’istante. «Oh, è stata così così gentile a saltare le lezioni per venire a supportarmi! Dovevi sentirla, mamma, si vede che l’ho colpita, oggi che il Volpino non si è dato arie! Ahahah!».

«Sì, colpita come una pallonata in testa», fu la voce cavernicola di Rukawa.

Misato scambiò un’occhiata mesta con la figlia e l’altro ragazzo, che ridacchiarono all’insaputa di Hanamichi, tutto perso nel suo sproloquio.

«Mamma, manca ancora molto prima che sia pronto?», domandò Hime, abbracciando la donna da dietro e dandole un bacino.

«Ancora dieci minuti, perché?».

«Chiamo un attimo Nobu».

«Checcosa?! La Nobu-Scimmia?! Ahahah! Non ti risponderà! E sai perché? Perché avrà perso e sarà in qualche gabbia a leccarsi le ferite e–». Un colpo di mestolo in testa e Hanamichi si zittì di colpo, mugugnando qualcosa sulla crudeltà della sua madre cattiva.

Hime zampettò nel piccolo salotto, dove Kaede stava ancora ronfando alla faccia di tutto e tutti, e digitò il numero di casa Kiyota, che ormai conosceva a memoria. Il Kainan aveva giocato in un palazzetto poco lontano dal loro liceo, quindi immaginò che Nobunaga fosse già tornato a casa per il pranzo. Dopo pochi squilli la voce esuberante del suo ragazzo le trapanò un timpano, ma non ci fece molto caso. Ormai era rassegnata all’idea che, con un fratello e un compagno come i suoi, sarebbe presto diventata sorda.

»Qui parla Nobunaga Kiyota, il Rookie numero uno di Kanagawa! Ahaha! Chi sei?«.

«Nobu! Com’è andata?».

»Hicchan? Ma che domande fai? Abbiamo vinto, ovvio! E vuoi sapere perch–«.

«Fottesega!», bofonchiò Rukawa, che ovviamente sentiva chiaramente la voce di quella Scimmia persino dal divano.

»Eh? Chi ha detto “fottesega”, Hicchan? È Rukawa? Rukawa bastardo! Che diavolo ci fai a casa della mia Hicchan?!«.

Sconsolata e con la cornetta a qualche decina di centimetri di distanza dall’orecchio in fiamme, Hime attese con pazienza che Kiyota terminasse di inveire contro il suo migliore amico e, solo quando fu sicura di poter parlare, riprese. «Quanto avete fatto? È stato semplice? Oddio, la prossima partita sarà contro di voi!».

»Ahahah! Che c’è, stai iniziando ad avere strizza, eh Hicchan? Vi stracceremo, vi stracceremo, vi–«.

«Cosa volete fare voi?», gridò Hanamichi dalla cucina. A quanto pareva anche loro udivano la conversazione come se Nobunaga fosse lì con loro. «Preparati, Scimmia! Il Genio Sakuragi non è mai stato così in grande forma! Vi umilierò tutti! Anche al Nonno Maki e a quel robot di Jin! Ahahaha!».

»Continua a sognare, Rosso-Scimmia! Senza Mitsui e il Gorilla siete fritti!«.

«Ti farò rimangiare tutto, anche la polvere! Ahahah!».

«Ma insomma!», gridò Hime, facendo saltare sul divano persino lo stoico Rukawa, mentre Hanamichi cercò rifugio dietro la madre. «Sto cercando di avere una conversazione privata, la volete smettere? E anche tu, Nobu, non dargli corda!».

Le due Scimmie si scusarono in coro, docili come cuccioli e Rukawa alzò gli occhi al cielo. Che gabbia di matti.

«Dicevamo», riprese più dolcemente la ragazza, abbassando il tono di voce. «È stata una bella partita?».

»Piuttosto noiosa, direi«, disse Nobu, con leggerezza. »L’allenatore Takato ha persino lasciato in panchina i senpai Maki e Jin, a un certo punto«.

«Anche Anzai-sensei ha avuto la stessa idea. Ryota ed Ede in panchina e i giovanotti in campo».

»Ahahah! Quel volpino non ha giocato? Che inutile schiappa!«.

Hime non sprecò ulteriore fiato per ricordargli che mezzo secondo prima aveva vantato il fatto che i migliori giocatori del Kainan fossero rimasti anch’essi in panchina. Era una partita persa, quella.

»Hicchan, questo pomeriggio hai da fare? Volevo portarti in un bel posticino tranquillo non lontano da casa! Così possiamo stare un po’ insieme dato che ci si vede poco, ecco«. Persino nel suo tono poteva percepire il rossore che gli imporporava gli zigomi in quel momento.

La seconda manager si mordicchiò l’interno della guancia. «Oh, Nobu, sarebbe così bello! Ma ho già promesso a Ede che saremo andati ad allenarci un po’, visto che non ha toccato palla e– Nobu? Ci sei?».

Udì un lungo sospiro dall’altra parte della cornetta e non le fu difficile immaginare l’espressione imbronciata del ragazzo. »Esci con Rukawa?«.

Si grattò la punta del naso, come sempre faceva nei momenti di imbarazzo o nervosismo. «Beh, sì, me lo ha chiesto prima, durante l’intervallo... è solo per un paio d’ore, perché non ti unisci a noi? Io e te contro la Volpe! E poi sarò tutta tua, promesso», disse arrossendo al solo pensiero.

Dopo un istante di silenzio, Kiyota parlò atono. »Lascia perdere, mi sono appena ricordato di dover accompagnare Arimi dal fisioterapista. Ora devo andare, mio padre chiama. Ciao«.

Hime neppure ebbe il tempo di replicare, che la chiamata era già stata interrotta. Guardò con sorpresa la cornetta del telefono ora muto, come se potesse darle una risposta a quel brusco cambiamento di umore, e la ripose al suo posto con lentezza. «Cosa diamine è appena successo?», si chiese a voce alta. Si voltò verso Kaede, che ora era seduto sul bordo del divano e la osservava intensamente.

«Non è ovvio?», domandò lui. E con quelle parole si diresse in cucina, alla voce della signora Misato che annunciava l’inizio del pranzo, lasciandola confusa e con un nodo in gola più grande di una casa.

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Uh-oh.

 

Un abbraccio, miei adorati lettori silenziosi, e a presto! I prossimi capitoli saranno, come dire, intensi.

Marta.

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Capitolo 22
*** 21. Cos’è successo? ***


Ni-hao a tutti

Capitolo 21

Cos’è successo?

 

 

 

I famosi ed estenuanti allenamenti del Kainan King volsero finalmente al termine e mai come quel giorno Nobunaga pensò che fossero infiniti. Moralmente a terra come rare volte accadeva, si asciugò il sudore dalla fronte con la maglietta. Con uno sbuffo, si tolse la fascia dai capelli e si diresse verso gli spogliatoi per una veloce doccia. Aveva solo voglia di buttarsi sul divano e trovare conforto in qualche programma spazzatura in tv per non pensare.

Jin e Maki, che avevano notato quanto quel suo allenamento fosse stato sottotono, si scambiarono un’occhiata preoccupati. Abituati com’erano all’esuberanza del loro numero 10, che da quel punto di vista non aveva nulla da invidiare a quello dello Shohoku, la situazione era allarmante. L’unica volta in cui l’avevano visto in quelle condizioni aveva bisticciato malamente con l’attuale ragazza, durante il ritiro nell’estate appena trascorsa.

«Di qualunque cosa si tratti, dobbiamo farlo parlare», decretò Shin’ichi, seguendo la scimmietta della sua squadra. Soichiro annuì con enfasi, soprattutto quando entrarono negli spogliatoi e non udirono la sua voce stridula cantare sotto la doccia – abitudine che tutti detestavano e non mancavano di fargli notare.

«Cos’è tutto questo silenzio?», domandò il Nonno Maki, sfilandosi maglia e pantaloni, prima di ficcarsi in doccia e finire di spogliarsi. «Kiyota, hai per caso mal di gola?».

«No, Capitano, sto bene», replicò mogio quello.

«Allora perché non canti?», domandò Soichiro.

Da una delle docce, Kazuma Takasago gridò: «Ehi, Jin! Non incoraggiarlo, per una volta che ci risparmia l’udito!». I compagni scoppiarono a ridere, in attesa della replica infuocata del loro numero 10, ma quando non arrivò le risa si spensero.

«Kiyota, sei sicuro di stare bene?», domandò uno di loro.

«Ho detto di sì», ribatté Nobunaga, stanco di quelle domande. «Ho dormito male e sono stanco».

Capendo che non volesse altre rotture, i ragazzi presero a parlare d’altro, finché tutti non uscirono dalle docce e si vestirono per andarsene finalmente a casa. Gli unici che parvero non avere fretta alcuna, furono il Capitano e Soichiro che, mentre rimettevano le loro cose nei rispettivi borsoni, non tolsero gli occhi di dosso alla matricola. Fu solo quando rimasero loro tre che decisero di metterlo sotto torchio.

«Allora, qual è il problema?», domandò Shin’ichi, avvicinandosi al ragazzo e scompigliandogli i capelli bagnati. «Perché un problema c’è, non insultarmi con qualche frottola».

Nobunaga arrossì fino alla punta delle orecchie e s’imbronciò ancora di più. Non voleva far preoccupare i suoi compagni per le sue seghe mentali, fondate o meno che fossero.

«Su, Nobu, sai bene che con noi puoi parlare liberamente, no?», furono le parole di Soichiro, condite con un rassicurante sorriso.

I due attesero con pazienza che quello iniziasse a parlare e, dopo un lungo sbuffo, finalmente lo fece.

 «Si tratta di Hicchan».

«Avete litigato?», domandò Shin, preoccupato.

Nobu gonfiò le guance. «Non ancora, ma continuando così non ci vorrà poi molto. È che–», chiuse la zip della sua borsa, sedendosi per terra a gambe incrociate e mettendosi le mani tra i capelli neri. «Da quando stiamo insieme quel Rukawa è sempre in mezzo alle palle e la cosa mi puzza».

Gli altri due si scambiarono un’altra occhiata.

«Nobunaga, amico mio, ricordi cosa aveva detto quella ragazza, Ayako, no?», intervenne Soichiro. «Si conoscono da quando erano bambini, sono amici d’infanzia».

«Altro che amici d’infanzia!», s’infervorò subito il numero 10. «Quello zitto e addormentato me la soffia da sotto il naso! Maledetta Volpe!».

Maki incrociò le braccia al petto, un sopracciglio inarcato con perplessità. «E dimmi, cosa ti fa credere che la Sakuragi possa lasciarti per lui?».

«Beh, è sempre di quel dannato Rukawa che stiamo parlando», sbottò Nobunaga, imbronciato. «Quello piace a tutte».

«E non credi che se così fosse, lei non avrebbe perso tempo con te?», incalzò il Capitano.

«Già, probabilmente starebbero insieme già da anni», diede man forte Soichiro.

La Scimmietta si mordicchiò il pollice, ripensando a tutti i momenti che aveva trascorso con la sua bella e al rapporto che lei aveva con l’odiato rivale. «Quindi che dovrei fare?».

Maki gli si avvicinò, sedendosi accanto al suo compagno di squadra e osservandolo bonario. «Non conosco bene Hime Sakuragi per poter dire con certezza di sapere cosa le passa per la testa, ma sia lei che il fratello mi hanno dato l’impressione di essere le persone più fedeli che abbia mai incontrato. E difficilmente il mio giudizio è errato, lo sai bene». Gli sorrise. «Con questo voglio dirti che non credo tu debba impensierirti né essere geloso. Può darsi che Rukawa sia attratto da lei, ma quello è un suo problema».

«Esatto», confermò Soichiro. «Ti stai facendo solo male con le tue congetture, quando sicuramente non hai nulla da temere. Ma se vuoi proprio dormire tranquillo la notte, perché non le parli apertamente? Sono sicuro che la cosa si chiuderà con una bella risata!».

Ritrovato lo spirito giusto, Kiyota balzò in piedi, alzando pugno al cielo. «Ahaha ma certo! Nessuno mi porterà via la ragazza, neppure la Kitsune! E volete sapere perché? Ma perché siamo la coppia numero uno di tutta Kanagawa! Ma che dico, del Giappone intero! Ahahaha!». E sbraitando come l’invasato che era, si diresse a tutta velocità allo Shohoku, nella speranza di trovarla ancora lì. Ma del resto, era ovvio che lo Shohoku avrebbe dovuto allenarsi giorno e notte per sperare di battere il Kainan King. Povere schiappe! Ahahah!

Riuscì a prendere per un soffio il treno che lo avrebbe portato al quartiere di quei teppisti e, mentre osservava il paesaggio nuvoloso al di là del finestrino, ripensò alla telefonata del giorno prima. Era stato brusco, quello non poteva negarlo. Ma aveva anche le sue buone ragioni per diffidare di quella pseudo amicizia. Diamine, erano sempre insieme e lei lo metteva persino in secondo piano rispetto a quel volpino! Doveva fare qualcosa!

Come una furia, uscì dal vagone non appena le porte automatiche si aprirono e corse verso il vicino liceo, ormai quasi deserto. Solo qualche aula, dove si riunivano i club, e lo stabile della palestra erano ancora illuminati. Con uno sbuffo di sollievo rallentò il passo e si diresse verso quest’ultima. Si beccò le solite occhiatacce dai pochi che lo incrociarono e che notarono la vistosa “K” sulla giacca della divisa sportiva, ma non ci fece caso. Se non fosse stato teso per il discorso che doveva affrontare con la sua Hicchan, avrebbe sbraitato a quei poveracci dello Shohoku quando il suo Kainan fosse mille volte migliore di loro.

Arrivato alla palestra, la cui porta era affollata da praticamente tutti i giocatori con le borse in spalle ma evidentemente interessati a qualcosa, s’inchinò per sbirciare dalle finestre a nastro a livello terra, incuriosito. Allungò il naso verso il vetro e ciò che vide non gli piacque per niente.

Eccola lì, la sua Hicchan, che giocava in un avvincente uno contro uno in tutta la sua grazia, corpo a corpo con l’odiatissimo Rukawa. Chi altro poteva essere?

Ma porca vacca! Io l’ammazzo!”, gridò mentalmente mentre reprimeva a stento l’impulso di saltare addosso a quel dannato ghiacciolo.

Le urla di Sakuragi, insieme a quelle degli altri, fecero da sottofondo a un canestro della ragazza, e se da una parte Nobunaga era orgoglioso che la sua bella fosse così brava e avesse appena segnato contro il Volpino, dall’altra detestava la confidenza che aveva con lui. La osservò bisbigliargli qualcosa e ridacchiare alla risposta lapidaria di lui, che le diede una manata in pieno viso per farla smettere. Dannazione, non era possibile! Era un incubo!

«Ehi, Kit! Mettiti le mani dove dico io e non toccare la mia sorellina!», gridò Hanamichi, pronto a soccorrere la ragazza se non fosse stato per il pugno provvidenziale di Akagi.

«E lasciali giocare in santa pace, demente!».

«Ahia, Gori! Mi picchi sempre!».

«Continua a chiamarmi così e sarà l’unica cosa che farò finché non la smetterai!».

«Hanamichi, devi metterti il cuore in pace», udì dire da Mitsui. «La Volpe è cotta di tua sorella, che male c’è?».

«Che male c’è?!», ululò il rossino, come se avesse letto il pensiero di Kiyota. «C’è che stiamo parlando della Kitsune! Quello non ha un cuore! Ed è infimo! Mi ruba sempre la mia Hicchan!».

L’inconfondibile suono di una sventagliata lo fece saltare sul posto. «Abbassa la voce, Hanamichi Sakuragi! Vuoi che ti sentano?».

«Quei due, persi come sono nel gioco, non sentirebbero neppure una tromba contro l’orecchio», scherzò Mitsui.

Passò qualche istante di silenzio, prima che una timida voce osasse parlare. «Ragazzi, io non sono una persona molto sveglia, ecco», disse Sana, mentre osservava i due amici. «Ma se non avessi saputo che Hime-san fosse impegnata, avrei detto che... beh, che lei e Kaede-kun stessero insieme».

Per poco Nobunaga non si strozzò con la sua stessa lingua e nello stesso istante Hanamichi ebbe un calo di pressione, prontamente sorretto da Akagi. Che diavolo andava a pensare, quella ragazzina?

«Beh, non sei certo l’unica a dirlo», fu la pronta risposta di Mito. «Mi chiedo cosa succederebbe, se quel Kiyota non fosse parte dell’equazione».

«Una volta gliel’ho chiesto», disse Ayako. «A Hime, intendo». Nobunaga attese che proseguisse, con il cuore in gola.

«E?».

«Non mi ha risposto, ma dal suo sguardo era evidente che fosse parecchio... uhm, turbata».

«Turbata?» sbottò Hanamichi, ovviamente contrariato dalla cosa. «Che diavolo vuol dire?».

«Che forse ci stava facendo un pensierino?», azzardò Miyagi, con una punta di malizia.

«Hicchan non farebbe mai una cosa del genere», disse con convinzione il numero 10. «Non alla Nobu-Scimmia».

 «Con tutto il rispetto per Kiyota, ma con uno come Rukawa lo farei eccome».

Ryota sbiancò come un cadavere. «A-Ayakuccia!».

Mitsui scoppiò a ridere. «Hai capito questa marpiona?».

Quella arrossì, dando un bacino sulla guancia al suo playmaker preferito. «Suvvia, Ryota, scherzavo, scherzavo. Idiozie a parte, non ho mai visto Rukawa comportarsi così apertamente con una ragazza come fa con lei», proseguì Ayako, che  lo conosceva dalle medie. «Vorrà pur dire qualcosa, no?».

«Già», bofonchiò Hanamichi, palesemente contrariato. «Dormono perfino insieme».

«Checcosa?!», esclamarono in coro tutti. Hime e Kaede fermarono il gioco per guardarli con perplessità, chiedendosi cosa diamine avessero da gridare. Persino Akagi era sull’orlo di una crisi di nervi alla sola idea di quella sciagurata a letto col Volpino.

«Li ho scoperti la mattina dopo che hanno ricoverato Mitchi», confessò Hanamichi. «Insomma, era già capitato in passato, ma questi discorsi mi stanno preoccupando».

«Ma hanno–».

«Nononono!», si affrettò a dire Hana, arrossendo al solo pensiero. «Avrei già gettato il cadavere della Volpe in mare aperto! E poi, insomma... li avrei sentiti, no?».

«Uhm...», ci pensò sopra Hisashi, accarezzandosi il mento. «Non credo che Rukawa sia il tipo che grida in certe situazioni. Hime, magari sì, ma lui decisamente no. Al massimo un “hn” a cose fatte».

«Che poi, secondo voi Rukawa saprebbe dove mettere le mani e tutto il resto?», fu la saggia domanda di Miyagi, che evidentemente non dormiva la notte pensandoci.

«Beh, se Hanamichi non ha sentito gridare neanche lei, immagino di no», fu la logica conclusione dell’ex teppista.

«Mabbasta! Possiamo smettere di parlare della mia sorellina che fa le cosacce con la Volpe?».

Tra le risate, i ragazzi continuarono a ciarlare come vecchie pettegole, ma Nobunaga non li sentì più. Aveva ripreso la via di casa più incacchiato e abbattuto di prima. Parlare e chiarirsi un paio di corna – proprio come quelle che gli gravavano sulla testa!

Era furioso.

Ormai, nonostante si fosse imposto di essere comprensivo, aveva capito che ciò che provava per Hime Sakuragi era a senso unico e quella consapevolezza fu un pugno allo stomaco che lo lasciò senza fiato.

Non aveva mai provato un così forte legame con una ragazza – almeno, le poche che avevano accettato di uscire con lui – ed era convinto che quello che c’era tra loro fosse speciale. Erano pazzi come cavalli entrambi, insieme si divertivano un mondo e avevano molte cose in comune. Diamine, era persino brava a basket! Ma forse era questo il motivo per cui lei preferiva il bello e dannato.

«E che dannato sia davvero! Lo odio, lo odio!», gridò al vento, guadagnandosi le occhiatacce di chi gli stava intorno. «E odio anche lei! Mi ha preso per il culo fin dall’inizio!», continuò a sfogarsi con se stesso, mentre tutti i bei momenti trascorsi insieme, a partire dal fatidico ritiro di qualche mese prima, si sgretolavano come intonaco sotto i colpi di un martello. Era persino andata a letto col nemico, la stronza! Come diamine poteva sorridergli e fare finta di niente dopo quello che aveva fatto?

Gli era sempre sembrata così sincera, così adorabilmente affascinata da lui, che aveva continuamente accantonato i dubbi, ogni qualvolta sorgevano. Era stato uno stupido ingenuo a fidarsi di una strega come lei. L’aveva detestata sin dall’inizio, avrebbe dovuto continuare a seguire quella via invece che innamorarsi.

Per tutti gli dei, era innamorato di Hime Sakuragi.

Che cazzo gli diceva il cervello quando era successo?

Si portò un pugno alla bocca e strinse i denti contro le nocche, pur di non sfogare la sua rabbia contro un muro. Era talmente deluso e incazzato che aveva voglia di piangere. Lui, Nobunaga Kiyota, ridotto così da una femmina! Era inaccettabile.

Rientrò a casa sbattendo la porta alle sue spalle e facendo prendere un colpo alla sorellina e ai genitori, in salotto. Senza neppure salutare si fiondò in camera sua e si buttò sul letto.

Che se ne andassero tutti al diavolo, non aveva bisogno di nessuno.

 

*

 

Hime riagganciò la cornetta, sempre più perplessa. Erano trascorsi tre giorni dall’ultima volta che aveva sentito Nobu e aveva continuamente chiamato a casa Kiyota in ogni momento a disposizione, nella speranza di trovarlo. Una volta aveva risposto Arimi, un’altra il padre, ma la replica era sempre la stessa: Nobunaga non è in casa. Il ché era piuttosto strano, dato che durante quest’ultima chiamata aveva chiaramente sentito il suo vocione in sottofondo.

Sa da una parte stava dando la colpa agli allenamenti del Kainan, sempre più frequenti in vista della partita di semifinale, dall’altra quest’ultimo episodio l’aveva destabilizzata e stava iniziando a non capire cosa stesse succedendo. Aveva colto il disappunto nella sua voce, quando gli aveva detto che si sarebbe allenata con Ede, invece che stare sola con lui, ma non credeva che la cosa l’avesse fatto incavolare a tal punto da evitarla così a lungo.

Decisa a vederci chiaro, corse in camera a prendere giaccone, sciarpa e cuffietta, e, senza neppure la decenza di cambiarsi dagli abiti casalinghi di domenica pomeriggio, s’infilò le scarpe e si recò alla stazione, diretta a casa del suo ragazzo.

Cosa era successo da farlo allontanare così? Stava andando tutto per il meglio, a parte quello schifoso articolo sulla sua presunta relazione con Kaede. Era assurdo solo pensarlo, figurarsi il fatto che Nobu potesse crederci davvero. Oh, ma gliel’avrebbe fatta pagare, a quell’Aida della malora. A costo di farle fare una figura di cacca colossale davanti al suo idolo, Akira.

Si strinse nelle spalle una volta scesa alla fermata del Kainan. Un vento gelido l’aveva schiaffeggiata appena le porte si erano aperte e il cielo era sempre più nuvoloso e pericolosamente bianco. Si diceva che sarebbe nevicato, quel giorno.

S’incamminò infreddolita verso casa Kiyota, non troppo distante dal liceo, e rimuginò sugli ultimi giorni di silenzio, alla ricerca di una spiegazione plausibile. Scosse il capo, senza trovarla. Avrebbe avuto le sue risposte in meno di dieci minuti e direttamente dal suo ragazzo.

Accelerò il passo appena riconobbe il cortile della villetta e sorrise come un’ebete all’idea di rivederlo e di stare al caldo tra le sue braccia. Quello sì che era il suo posto preferito: capo sul petto, a sentire il cuore che batteva veloce sotto l’orecchio, le mani di lui che le carezzavano i fianchi, i suoi capelli lunghi che le solleticavano il viso. Sarebbe potuta morire tra quelle braccia e sarebbe stato sicuramente un dolce modo di andarsene.

Il cancelletto d’ingresso era socchiuso, così zampettò attraverso il piccolo giardino zen e suonò direttamente alla porta. Non dovette attendere molto, prima che qualcuno l’aprì. E fu proprio lui.

Parve sorpreso di vederla sull’uscio di casa, ma il suo sguardo s’indurì come poche volte l’aveva visto. Il sorriso le morì in gola, così come lo slanciò di appendersi al suo collo e sbaciucchiarlo senza ritegno.

«A-allora sei vivo!», esordì tentennante, ma lui non reagì. Continuava a guardarla con... disprezzo? Cos’era quello? «Nobu? È successo qualcosa?».

«Non saprei, dimmelo tu», sbottò lui, muovendosi verso di lei per richiudersi la porta alle spalle. Era palese che lei stesse congelando, ma non la volle neppure far entrare in casa. Cosa diavolo–?

«Nobu?», ripeté lei, sempre più confusa. Il cestista del Kainan strinse i pugni e per una frazione di secondo temette che volesse colpirla. «Ho fatto qualcosa di male? Te la sei presa per l’altro giorno?».

«No, non me la sono presa», fece gelido come il vento che soffiava da nord. «O forse sì, ma in quel posto. Vero, Sakuragi? Me l’hai proprio fatta, complimenti».

Hime iniziò a spazientirsi. E da quand’è che la chiamava per cognome? «Ma di cosa stai parlando?!».

«Sto parlando del fatto che mi tradisci con quello stronzo di Rukawa, ecco cosa!», sbraitò Kiyota, le guance rosse per il freddo e per l’affronto. «era così palese, sotto il mio naso! Se ne sono resi conto tutti, tranne me!».

«Co– cosa?!».

«Avanti, mentimi ancora», la sfidò. «Fallo, tanto ormai ci sei abituata, no?».

«Nobunaga Kiyota, smettila con questa idiozia o me ne vado».

«Bene, non aspettavo altro. Vattene pure, non ho nulla da dirti».

La rossa sgranò gli occhi, che iniziarono a pizzicare prepotentemente. Se fosse il vento o il nodo in gola non seppe dirlo. «Davvero, non capisco di cosa stia parlando! In che lingua devo dirtelo? Kaede è il mio migliore amico! A-m-i-c-o! E come già ti dissi, se credi che io possa rinunciare a lui per stare con te, allora non hai capito niente!».

«Beh, è interessante che praticamente tutti credano che tu sia la sua ragazza e non la mia», sibilò, muovendo un passo verso di lei che, istintivamente, indietreggiò. «“Cosa avrà da dire Nobunaga Kiyota” sul fatto che Rukawa si fotte la sua ragazza, eh? Ha da dire che si è rotto le palle di questa storia».

«Nobunaga, ti prego, stai fraintendendo tutto. Nessuno si fotte nessuno, se non tu il tuo cervello!».

«Non ho frainteso proprio un cazzo!», esclamò, al colmo dell’ira. «Ho sentito quei deviati dei tuoi amici parlarne e nessuno ha dubbi! E sai cosa ho capito? Ho capito che non è affatto il tuo migliore amico, perché ti ama! Ma neppure lui ti è tanto indifferente, se te lo porti a letto, vero?! Ti sei fatta scoprire persino da quella scimmia di tuo fratello! E io mi sento un grandissimo coglione per essere cascato nelle tue trame, ecco cosa!».

Senza un filo d’aria in gola per replicare e cercare di farlo ragionare, Nobu accolse il suo silenzio come assenso e le voltò le spalle, aprendo la porta. Si fermò senza guardarla in viso e, prima di chiuderla fuori con un colpo secco, le sibilò di andare al diavolo e di non farsi più vedere.

Mi fai schifo”.

Hime non riuscì a muoversi per chissà quanto tempo. Non riuscì a razionalizzarlo in minuti. Continuava a guardare la porta chiusa davanti al suo naso, incapace di reagire, di respirare, di pensare. Cosa era appena successo? Cosa–

Neppure si sarebbe resa conto di piangere, se non fosse stato per la terribile fitta al petto e i singhiozzi che ormai la stavano facendo tremare come una bandiera al vento. Era tutto così assurdo e irreale che fu quasi tentata di darsi un pizzicotto sulla guancia per risvegliarsi da quell’incubo. Ma il dolore atroce non parve svanire, né le lacrime smisero di rigarle le guance ora pallide. Si portò una mano alla bocca, per ricacciare indietro un conato di vomito, giacché ora aveva preso a bruciarle persino lo stomaco.

Cosa diavolo è appena successo?, continuava a ripetersi senza sosta e senza trovare risposta. Era stata accusata di tradimento, di andare a letto con Kaede, di averlo preso in giro... ma che razza di droghe aveva assunto per arrivare a pensare una cosa simile? Secondo lui quei mesi di spensieratezza erano stati il frutto di uno stupido gioco che lo avrebbe visto perdente sin dall’inizio? Aveva la minima idea di chi avesse accanto come compagna, per cedere così facilmente alle chiacchiere degli altri? Perché non le aveva lasciato il tempo di spiegarsi e risolvere tutto? Perché l’aveva accusata così duramente senza neppure fermarsi un attimo e darle la possibilità di ribattere, come avrebbero fatto due persone civili?

Si accorse di aver iniziato a camminare solo quando si ritrovò davanti al treno che l’avrebbe riportata a casa e vi salì come un automa, scontrandosi contro altri pendolari senza neppure avere le forze di scusarsi per la sua sbadataggine. Tutto ciò che vedeva davanti a sé erano quegli occhi blu che la guardavano con odio, tutto ciò che sentiva era quella voce dura e cattiva che le sibilava di andare a quel paese e che l’accusava di cose che non avrebbe neppure mai sognato di fare.

Mi fai schifo.

Lei, che non si era mai innamorata in vita sua e che sapeva di amare quel ragazzo più di se stessa, incolpata di averlo tradito con il proprio migliore amico.

Cosa diavolo era appena successo?

Senza neppure rendersi conto, il treno si era nuovamente fermato e, forse per abitudine, si era alzata e aveva lasciato il mezzo, dirigendosi al campetto dietro casa. Il freddo si era fatto più pungente e le lacrime le si congelavano sulle guance, ma non aveva voglia di tornare a casa e subire l’interrogatorio del fratello e della madre, vedendola in quello stato pietoso.

Fu quando lo vide palleggiare davanti al canestro noncurante del meteo, che tutta la disperazione e la stanchezza la colpirono più forte di prima e crollò sulle ginocchia, piangendo senza riuscire a darsi un contegno.

Kaede, disturbato da quel lamento, si voltò con le braccia alzate, pronte a tirare. Il pallone gli cadde dalle mani appena si accorse di chi si trattasse. Fu da lei in pochi passi, chinandosi e prendendola tra le braccia, intimorito e insicuro sul perché di quel pianto isterico.

«Ehi», le sussurrò, temendo che il solo suono della sua voce potesse spaventarla. Hime non parve udirlo, e singhiozzò fino allo sfinimento. «Tranquilla, ci sono io», le mormorò, cullandola con dolcezza.

La ragazza gli si aggrappò con le poche forze rimaste e spese i lunghi minuti successivi a consumare tutte le lacrime di cui disponeva.

Neppure quando parve calmarsi, Kaede le chiese cosa fosse successo, sebbene stesse ribollendo dalla rabbia nei confronti di chi l’aveva ridotta in quello stato. Sapeva che gliene avrebbe parlato solo quando si sarebbe sentita pronta, se mai fosse accaduto, e lui l’avrebbe ascoltata, come sempre. Sperava solo di essere in grado di aiutarla, in qualche modo. Le accarezzò la nuca, tra la cuffietta in lana e i capelli, nella speranza di farla rilassare. Non era mai stato bravo a consolare le persone, ma quando si trattava di Hime tutto sembrava diventare più facile, sebbene più doloroso.

Solo dopo molti minuti, in cui i singhiozzi diminuirono e le lacrime si seccarono, Hime parlò con voce spezzata. «Mi ha lasciata», mormorò senza fiato.

Kaede ingoiò un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire persino quel delinquente di Tetsuo, e la strinse con più fermezza. «Cos’è successo?».

«Vorrei saperlo anche io», bofonchiò lei, passandosi una mano sul viso e cercando le forze per proseguire. «Mi ha addossato colpe ridicole e... e non capisco, davvero. Andava tutto così bene. Così bene». Si morsicò il labbro inferiore con forza, pur di non riprendere a piangere, ma non era sicura che sarebbe riuscita a trattenersi. «A quanto pare la mia unica colpa è esserti amica».

«Hn?!».

«Crede che io sia innamorata di te. E tu di me. È ridicolo solo pensarlo, figurarsi dirlo a voce alta».

In apparenza Rukawa non diede alcun segno di averla sentita, ma Hime sentì chiaramente i suoi muscoli irrigidirsi. Sollevò lo sguardo arrossato su di lui, che la osservava con quei suoi taglienti occhi color del mare più buio, e si sentì mancare.

«Ede, tu non sei innamorato di me, vero?», gli chiese a bruciapelo, senza darsi il tempo di morsicarsi la lingua e stare zitta. Voleva saperlo, doveva saperlo. Era una domanda pericolosa, pericolosissima per la loro amicizia. Ma non avevano mai avuto segreti e non voleva che le tacesse una cosa così importante. Neppure se avesse incrinato il loro rapporto. Era un dubbio che ormai la stava consumando e voleva vederci chiaro, almeno lì.

«Hn... non lo so».

Quella risposta non la rassicurò per niente. Si spostò per guardarlo meglio, sentendo le guance andare a fuoco. «Cosa vuol dire? Di certo lo saprai!».

«Io non–». Kaede sbuffò, in evidente imbarazzo. Come faceva a saperlo? Non gli era mai interessata nessuna ragazza, eccetto lei. Insomma, adorava la sua compagnia, il suo amore per il basket, il modo in cui assorbiva qualsiasi insegnamento le impartisse durante i loro allenamenti, il suo stare in silenzio anziché parlare a sproposito e capirlo alla perfezione, nonostante il suo brutto carattere. Gli bastava la sua presenza per calmarlo e rimetterlo a posto. Certo, non si era mai perso in qualche fantasia erotica che li vedeva rotolarsi tra le lenzuola e il solo pensiero era talmente bizzarro e ridicolo che ringraziò il cielo che Hime non potesse ancora leggergli la mente.

Insomma, non come l’incubo della notte precedente che vedeva quella piattola della Azamui in costume da bagno che–

Scosse il capo, terrorizzato al solo pensiero, e cercò di tornare con la mente al problema attuale.

Era amore quello? Solo una profonda amicizia? Che diavolo ne sapeva lui? Sapeva solo che nessun’altra ragazza era in grado di farlo sentire a suo agio come lei, nessuna avrebbe potuto sostituire ciò che significava per lui. Era la sua confidente, a volte la madre che aveva perso troppo presto, la sorella che non aveva mai avuto, e aveva il terrore di perderla.

La sua splendida ragazza.

«Davvero, non lo so».

Hime si grattò la punta del naso, arrossata per il freddo e l’imbarazzo. «Quando ti chiesi di non starmi troppo vicino perché ormai siamo cresciuti, ecco... lo feci perché temevo potessi, uhm, fare qualcosa di azzardato».

Kaede cadde dalle nuvole. «Del tipo?».

In tutto quel dolore, in tutta la difficoltà di quella discussione, Hime scoppiò incredibilmente a ridere e lo fece di cuore. Il numero 11, non per l’ultima volta, si chiese se non fosse pazza.

«Ma che ho detto?», si chiese a voce alta il cestista, mentre quell’invasata rideva e piangeva allo stesso tempo.

«Credo ti sia appena dato una risposta, con quella domanda», riuscì a dire la ragazza, una volta che si fu calmata. All’occhiata ancora perplessa dell’amico, Hime sorrise. «Intendo dire che almeno non sei attratto da me in quel senso».

«E vuol dire che non sono–?».

«Io... beh, no. Insomma, non credo».

Kaede strinse i denti, indeciso. Cosa avrebbe fatto un ragazzo qualsiasi per capire davvero cosa provava per la sua migliore amica? Per darsi la conferma che non ci fosse attrazione? Forse avrebbe dovuto... baciarla?

«Ede, cos’è quella faccia terrorizzata?».

Eww! No, meglio di no. O probabilmente avrebbe rigettato la torta di compleanno di dieci anni prima. «Hn. Niente».

«Pensavi che sarebbe terrificante stare insieme, vero?». Hime ridacchiò. «È un po’ quello che provo anche io nei tuoi confronti, Ede. Ti voglio un mondo di bene e non potrei mai rinunciare a te, a noi. In un certo senso ti amo. Ma come amo Hanamichi, non come–». Il mezzo sorriso sulle sue labbra si spense ancora una volta, in quella terribile giornata, e abbassò lo sguardo.

Non come Nobunaga.

«Quello è un coglione», le disse con fermezza. «Non merita queste», aggiunse, asciugando le nuove amare lacrime che le bagnarono le guance.

Hime tirò su col naso, scuotendo il capo. «Sono sollevata», disse, sviando il discorso. «Per non averti fatto del male, intendo».

«L’unico male che mi fai è l’emicrania che mi provochi ogni volta che apri bocca». Accusò in silenzio la gomitata più che meritata che gli rifilò tra le costole e la strinse con affetto per farsi perdonare.

Trascorsero lunghi attimi di silenzio, scanditi dalle deboli carezze di lui sulla sua nuca e qualche fremito di pianto represso che ogni tanto si affacciava nuovamente.

«Hana lo ammazzerà di botte», disse infine Hime, con voce roca.

«Hn. Non sarà il solo».

Lei lo guardò con durezza, gli occhi lucidi e arrossati per il pianto. «Rukawa Kaede, promettimi che non farai scemenze».

«Hn».

«Promettimelo!».

«Dillo anche al senpai Mitsui».

«Hisashi è inoffensivo, per ora».

«Non ne sono tanto sicuro. E non dimenticare la negriera».

«Chi? Ayako?».

«Hn».

Hime sbuffò, mentre si torturava il labbro inferiore con i denti. Era imbestialita con quell’idiota, ma non voleva che arrivassero alle mani per causa sua. L’unica che aveva il diritto di tirargli un pugno era lei, e lei soltanto!

Il primo fiocco di neve le ricadde sulla punta del naso, facendole alzare lo sguardo sul cielo nuvoloso. In altre occasioni avrebbe sorriso come una bambina alla sua prima nevicata. Ogni volta che la Prefettura di Kanagawa si ricopriva di neve, infatti, Hime tornava indietro di anni, quando la vita era spensierata e si divertiva con poco. E no, non si trattava di bei ricordi legati all’infanzia: semplicemente diventava una poppante che non aveva mai visto un evento simile in vita sua e dava il peggio di sé, insieme al fratello.

È solo neve”, era il solito commento del Volpino, mentre quell’invasata si buttava a fare l’angelo.

Certo che lui non si stupisce”, diceva Hanamichi, annuendo a se stesso. “Si ritrova nel suo ambiente ideale, questo surgelato. Hai mai pensato di trasferirti in Antartide?”.

Ma se non sai neppure dove sia”, era la risposta di Kaede.

Quell’anno la neve non aveva alcuna attrattiva per la ragazza dai capelli rossi. Era fredda, come freddo era quello che sentiva dopo quella giornata da dimenticare, e le mise un’incredibile tristezza. Cacciò indietro le lacrime e si alzò, porgendo una mano all’amico.

«Torniamo a casa, ti prenderai un malanno», gli disse.

Rukawa si alzò, ma la mancanza di scenate di gioia, mentre iniziava a nevicare con più insistenza, lo preoccupò non poco. Gli rivenne in mente la sua apatia dopo la morte della madre, come non riuscisse a venire fuori da quel buio pesto che era diventata la sua vita; e ricordò gli incredibili sforzi di quella stessa ragazzina folle per aiutarlo a risalire a galla, nonostante i fallimenti, nonostante i tanti tentativi andati a vuoto.

E il solo pensiero che lei avesse litigato con il ragazzo di cui era innamorata solo ed esclusivamente a causa della loro grande amicizia, lo rendeva tanto orgoglioso quando incazzato col mondo. Quello era davvero un coglione e non aveva idea di chi avesse perso.

Le si avvicinò, abbassandole meglio la cuffia sulle orecchie e sulla fronte, e l’abbracciò ancora.

L’avrebbe fatta sorridere di nuovo.

Le avrebbe fatto amare la neve ancora una volta.

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Vi avevo avvertiti. La cosa si sarebbe fatta intensa. E ora mi diverto. >:)

 

A presto e grazie ai pochi coraggiosi che ancora mi seguono.

Vi farò una statua, un giorno. Promesso.

Marta.

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Capitolo 23
*** 22. Non verrò ***


Capitolo 22

Non verrò

 

 

 

Quella mattina la Prefettura di Kanagawa si era risvegliata sotto una spessa coperta di neve, ma neppure quella sembrò fermare Kaede Rukawa dal prendere la bicicletta e rischiare di ammazzarsi – e ammazzare – ripetutamente lungo la via del liceo. Come da copione parcheggiò sopra il Do’aho, già incacchiato nero contro Kiyota per aver fatto passare una notte insonne alla sua amata sorellina. Un po’ per vendetta, un po’ per risollevare il morale alla sua Hicchan, iniziò a sparare palle di neve contro il Volpino, che non poteva non difendersi di fronte a quell’attacco, e ben presto entrambi si ritrovarono fradici e congelati.

Hime, però, li aveva sorpassati senza quasi vederli e aveva già raggiunto la sua aula, lasciandoli di stucco. I due si scambiarono un’occhiata preoccupata, ma entrambi giunsero alla stessa conclusione senza aprire bocca. Il giorno dopo avrebbero fatto il culo alla Scimmia e alla sua squadra del cavolo. Poco ma sicuro.

«Ma che ha?», domandò Ayako, che aveva assistito alla scena con Ryota.

«Lo stronzo l’ha mollata», fece Kaede, più freddo del solito.

«Chi? Il tizio del Kainan?», esclamò Araki, comparendo dal nulla con un sorriso da orecchio a orecchio. «Ma è una notizia fantastica! Finalmente ho la strada spianata verso la vittoria!».

Il calcio che si beccò dagli eterni nemici/amici fu memorabile e gli pregiudicò la possibilità di sedersi per il resto del mese.

«Che cazzo ti dice il cervello?», sbraitò il rossino. «Stiamo parlando di mia sorella e sta soffrendo! Osa nuovamente gioire della cosa e la prossima volta ti ammazzo davvero!».

Nessuno ebbe il coraggio di contraddirlo o di farlo calmare. Hanamichi Sakuragi che difendeva la sorella era persino più spaventoso del Gorilla che proteggeva il buon nome del basket.

Imbronciato e depresso, si ficcò le mani in tasca per raggiungerla. Con lui Mito e gli altri, che quel giorno non si azzardarono a sparare cazzate. Erano preoccupati tanto quanto lui – e non volevano assolutamente collezionare testate che, con molta probabilità, li avrebbero spediti all’ospedale senza troppe cerimonie.

La trovarono seduta al suo banco, quaderni e libri già aperti sotto il naso e gli occhi che leggevano febbrilmente gli appunti della settimana prima. Hime era fatta così: quando qualcosa non andava a dovere, si buttava a capofitto su qualsiasi cosa pur di non pensarci, che si trattasse dello studio o del basket. Riempiva talmente tanto le sue giornate che il più delle volte arrivava a sera inoltrata sfinita, e crollava addormentata senza neppure avere le forze di riflettere. Il ché era un bene, da un certo punto di vista.

L’Armata prese posto in silenzio, sotto lo sguardo attonito dei loro compagni di classe che non li avevano mai visti così tranquilli – e soprattutto così puntuali. Persino Yoshikai, nel vederli seduti e taciturni ai loro banchi, per poco non tirò fuori i fuochi d’artificio per dichiarare festa nazionale fino all’anno nuovo.

Quella giornata di lezioni trascorse così lentamente che più volte ebbero la brutta sensazione di qualcuno che portava indietro le lancette dell’orologio. Hana e Yoehi passarono il tempo a scambiarsi bigliettini su Hime e sulla vendetta che si sarebbero presi il giorno dopo durante la partita, ma neppure quei gloriosi piani di rivalsa sembrarono fargli tornare il buon umore.

A parte umiliarlo sul campo, che hai intenzione di fare con quel Kiyota?”, scrisse Yoehi, lanciandogli il foglietto piegato.

Hana lo afferrò al volo, senza farsi vedere dal professore. “Riempirlo di botte, mi sembra ovvio!”.

Hime non te lo perdonerebbe, lo sai”.

Lo farei sembrare un incidente. Magari posso pagare la Volpe per metterlo sotto con la bicicletta. Immagino sarebbe felice di farmi almeno questo favore”.

A proposito di Rukawa, dici che ora si farà avanti?”.

Gli stacco la testa a morsi se solo osa farlo! La mia Hicchan non si tocca per almeno altri dieci anni!”.

Yoehi si passò una mano in viso, per soffocare una risata. Sarebbe stata dura, molto dura per Hime e qualsiasi altro pretendente combinare qualcosa, con quel demente di fratello possessivo!

Purtroppo Yoshikai aveva notato l’andazzo nei banchi in fondo all’aula e stava per sbraitare loro di andare in corridoio, se non fossero stati graziati dal soave suono della campanella. Okusu ebbe persino l’ardore di sorridere e salutare con una mano l’insegnante, che ribolliva di rabbia e se ne andava in sala professori borbottando come una teiera e promettendo tremenda vendetta.

L’Armata tirò un sospiro di sollievo e spostò come di consueto i banchi con un gran fracasso, per mangiare tutti insieme. Il tempo di pranzare all’aperto era ormai un ricordo.

Hanamichi scoccò un’occhiata alla sorella, che aveva tolto fuori il suo bento ma lo guardava con indecisione. La vide scuotere il capo e pizzicare un po’ di riso con le bacchette.

«Programmi per il dopo allenamenti?», domandò Mito, dopo aver ingoiato.

«Capatina al Bar America, direi», annuì Takamiya. «Ho proprio voglia di un paio di crepes al cioccolato».

«E ti pareva».

«Hicchan, ti va?», domandò timidamente il rossino, forse temendo la risposta. «O preferisci pachinko? O... o una partitella tu e io?».

Lei fece cenno di diniego. «Ci sono le prove per il concerto e devo organizzare alcune cose con la zia di Sana. E poi devo studiare, ho trascurato fin troppo ultimamente».

«Tu che trascuri lo studio è credibile come Hanamichi fidanzato con la sorella del Gorilla ahaha– ahia! Eddai, scherzavo!», aggiunse Noma, accarezzandosi la fronte arrossata dalla testata di Sakuragi. «Come sei permaloso».

Hime abbozzò un sorriso, che però non durò molto. «Hana, finisci tu il mio bento? Non ho molta fame».

«Hicchan, non hai quasi mangiato. E non hai fatto neanche colazione! Non ti fa bene!», esclamò il fratello, tremendamente preoccupato. Dannato quel Kiyota e il giorno che l’avevano incontrato!

«Posso finirlo io, se Hanamichi non vuole!», si propose il solito Takamiya, che non poté non ricevere anch’esso una colossale testata per la sua totale mancanza di cervello.

«Tieni pure, Taka-chan», gli sorrise lei, rimettendo i libri in borsa e alzandosi. «Passo un attimo in biblioteca, ci vediamo dopo». E, dato un bacino al numero 10 sempre più attonito e salutati gli Altri, lasciò l’aula di gran fretta.

«Lo ammazzo sul serio, quello stronzo», sibilò Hanamichi e mai come quella volta fu più serio. «Lo avevo avvisato di trattarla bene e io stupido ad aver creduto che fosse sincero quando me lo assicurò!».

Mito sospirò, da una parte capendo la rabbia dell’amico e provando lo stesso prurito ai pugni, ma dall’altra conosceva Hime come le sue tasche per sapere che, nonostante tutto, non avrebbe permesso che si pestassero.

«Dai, Hana, magari hanno solo bisogno di qualche giorno prima di chiarirsi».

«E cosa devono chiarire? L’ha mandata al diavolo e le ha detto di fargli schifo, c’è qualcosa da chiarire? Non mi sembra proprio».

«Io direi di fare così», fece Noma. «Domani in partita fai finta di cadergli addosso per sbaglio, magari cercando di fare una schiacciata delle tue, e te lo levi dalle palle. Tanto non ti riesce difficile travolgere il Re delle Scimmie, figurarsi quel nanerottolo, no?».

Okusu, Noma e Yoehi si scambiarono un’occhiata divertita, ma evitarono di ridergli in faccia. Non volevano essere la valvola di sfogo di Hanamichi Sakuragi, incacchiato com’era!

 

*

 

Kiyo fece cadere la borsa dell’allenamento sul parquet, seccata. Haruko, che osservava i ragazzi correre avanti e indietro mentre facevano circolare la palla, sobbalzò per la sorpresa di ritrovarsela accanto. «Kobayashi-san!».

«Akagi-kun, scusami. Non volevo spaventarti».

«N-no, non preoccuparti. È che ero concentrata su– su–».

«Su Rukawa, lo so».

Haruko arrossì furiosamente, coprendosi le guance con le mani. «Oh no, si vede davvero così tanto? Dici che se n’è accorto?».

Kiyo ghignò. «Quello non si accorge nemmeno delle macchine quando è in bici, figurati». Fece scorrere lo sguardo sul campo e vide Mitsui in piedi accanto ad Ayako e al Gorilla, immersi in una fitta conversazione. Non fu difficile immaginare di cosa stessero parlando, vista l’importanza della partita del giorno dopo.

«Ehi, Kiyo-san!», fece la voce squillante di Hime Sakuragi, il cui sorriso però non raggiungeva gli occhi solitamente sereni. «Niente allenamenti oggi?».

«Manutenzione straordinaria delle vasche. Si è rotto un filtro e sembra di nuotare in uno stagno».

«Eww», fu l’intelligente commento della seconda manager. «Quindi come farete?».

«Oggi si salta, domani si andrà alla piscina pubblica. Oh gioia». Hime e Haruko ridacchiarono. «I bestioni come sono messi per domani?».

«Vinceremo, ne sono sicura!», si esaltò la sorella di Akagi. «Sarà una bella rivincita per noi. Nell’ultima partita ufficiale abbiamo perso per pochissimi punti».

Kiyo annuì. «Il tuo ragazzo gioca per il Kainan, no? Sarà dura per te tifargli contro».

Hime perse colorito e fortunatamente alle sue spalle c’era un panca, altrimenti sarebbe caduta rovinosamente sul sedere, dato che le gambe smisero di funzionare.

Il tuo ragazzo...

Sentì gli occhi pizzicarle prepotentemente e mai come allora ringraziò il putiferio che suo fratello e Kaede stavano scatenando in campo, spostando l’attenzione su di loro. Approfittò del momento di distrazione per fuggire verso gli spogliatoi e si richiuse la porta alle spalle, prendendo profondi respiri spezzati dai singhiozzi.

Il mio ragazzo...”.

Si fece cadere per terra, stringendosi le gambe al petto, e pianse. Le lacrime versate il giorno prima e quella notte, tra le braccia di Hanamichi, non erano ancora terminate, ma lei era già sfinita. Non erano trascorse neppure ventiquattro ore ma sembravano mesi da quella discussione da dimenticare. Non avrebbe mai immaginato che amare potesse essere così penoso.

Sarebbe mai passato quel dolore al petto e quella terribile voglia di rinchiudersi in camera per non uscirne più? Di certo sapeva che il giorno dopo avrebbe fatto esattamente così.

Non sarebbe andata alla partita, non ce l’avrebbe fatta.

Se il solo pensare a lui le succhiava via tutte le forze dal corpo, non osava immaginare come avrebbe potuto reagire nel vederselo a pochi metri di distanza. Non voleva vedere l’odio nei suoi occhi, né assaporare tutto il veleno di cui le sue parole erano impregnate.

No, non ce l’avrebbe fatta.

«Hime? Hime, va tutto bene?», domandò la voce di Ayako oltre la porta, che l’aveva vista scappare quando si era voltata per chiederle aiuto con quei due dementi di Sakuragi e Rukawa. Dopo quello che aveva scoperto quella mattina sulla sua rottura con Kiyota, non fu difficile immaginare che non stesse trascorrendo un bel momento. «Hime, per favore, fammi entrare. Non vorrai che Sakuragi si accorga della tua assenza? Sai com’è tuo fratello, quando si tratta di te».

Con un sospiro, Hime si alzò sulle gambe malferme, asciugò le lacrime sull’orlo della maglia di Kobe Bryant – così spaventosamente simile a quella del Kainan da fare male – e aprì la porta. Ayako vi si intrufolò subito, richiudendosela alle spalle e guardandola con preoccupazione. L’abbracciò senza dire una parola e Hime non poté frenare il nuovo attacco di pianto che la colse con violenza. Si aggrappò all’amica come se fosse la sua unica ancora di salvezza e Ayako la consolò come meglio poteva.

Era già accaduto che la prima manager la facesse sfogare sulla sua spalla, solo qualche mese prima durante il famigerato ritiro, e sempre per colpa di Kiyota e di qualche fraintendimento. Per fortuna tutto si era risolto dopo pochi giorni e i due avevano iniziato a frequentarsi. Non sapeva con esattezza cosa fosse successo questa volta, ma aveva la sensazione che non sarebbe stato affatto facile farli riappacificare.

«Crede che stia con Kaede. O che comunque sia innamorata di lui», mormorò Hime tra le lacrime.

Ayako le accarezzò i capelli rossi, sospirando. «E ha ragione?».

La Sakuragi le si allontanò il giusto per guardarla in viso, con espressione inorridita. «No! Certo che no! Io sono innamorata di... di lui, anche se in questo momento mi riesce più semplice odiarlo».

«Tu non– non sei innamorata di Rukawa? Sicura, Hime?», chiese la prima manager, decisamente perplessa. «Insomma, dopo tutti i nostri discorsi, mi era parso di capire che... insomma, che ti piacesse più di un amico».

«Aya-chan, hai avuto l’impressione sbagliata, credimi. La mia paura era che fosse lui a essere innamorato di me, ecco», borbottò Hime, arrossendo. La sola idea aveva ancora il potere di farla arrossire come una bambina colta con le mani nel barattolo di marmellata.

Ayako si portò le mani alle labbra, fallendo miseramente nel nascondere lo stupore. «Quindi tu non–».

«No. E questo lo sa anche Ede».

«Ah sì?».

Hime annuì, raccontandole del lungo e imbarazzante discorso del giorno prima tra lei e il suo migliore amico. Ayako non riusciva a credere a ciò che sentiva. Avrebbe messo entrambe le mani sul fuoco da quanto fosse convinta che quei due si amassero e che Hime l’avesse finalmente capito. Invece era lei a non aver compreso una beata mazza. «Dei miei, sto perdendo colpi».

L’altra trovò la forza di ridacchiare, mentre asciugava le guance dalle lacrime. «Credo proprio di sì».

«Credo che alcune spiegazioni siano doverose, allora».

Hime annuì e si sedettero su una panca. Le raccontò di come Nobunaga le avesse praticamente chiuso il telefono in faccia il giorno della partita contro il Miuradai, dopo che aveva scoperto dovesse vedersi con Rukawa anziché stare con lui; di come l’avesse evitata per giorni interi, finché aveva deciso di prendere in mano la situazione e andare a stanarlo in casa; fino alla discussione che voleva dimenticare, ancora così vivida da sentire nelle orecchie la vibrazione della voce nera di lui. «Non è servito a nulla spiegargli che si sbagliasse, mi ha completamente tagliata fuori e io– io non ho più avuto la forza di ribattere, perché che senso aveva tentare di far ragionare un muro?». Strinse i pugni sulle cosce, gli occhi ancora una volta lucidi. «L’ho perso davvero e non so neanche io perché né come rimediare».

«È geloso, questo lo si era capito da tempo. Ed è evidente che la sua gelosia lo abbia portato a vedere cose che non esistono... anche se, ripeto, io avrei scommesso che ci fosse una tresca in corso tra te e la Volpe».

«È ridicolo. E io ho sempre avuto fiducia in lui, perché non poteva fare altrettanto?».

«Magari se gli dai il tempo di sbollire un po’ la rabbia, sarà più semplice farlo ragionare».

Hime scosse il capo. «È una persona maledettamente orgogliosa, l’ho già provato in passato. Crede che l’abbia tradito e lui non perdona un affronto simile... non sarà facile per niente. Non sono neanche sicura di voler tentare e ritrovarmi nuovamente la porta di casa sul naso». Asciugò ora con rabbia le lacrime, stringendo impettita le labbra. «E non ho intenzione di rinunciare a Kaede per accontentarlo. Che vada al diavolo, se è questo che vuole».

Ayako sospirò, maledicendo quell’idiota in tutte le lingue conosciute. «Facciamo un passo alla volta, ok? Domani dovrai rivederlo per forza di cose e–».

«No, non verrò», la interruppe l’altra. «Non verrò alla partita. Ho già parlato con l’allenatore Anzai e ti assicuro che userò il mio tempo in modo migliore. Ma non verrò alla partita. Non ce la faccio».

«Hime, non puoi superare gli ostacoli evitandoli!», s’infervorò la prima manager, alzandosi dalla panca e fronteggiandola. «L’Hime Sakuragi che ho conosciuto e che mi è sempre piaciuta affrontava i problemi a testa alta e rispondendo a tono, non si nascondeva! O mi stai dicendo che sei una codarda?».

«Forse sì!», ribatté quella con la stessa enfasi. «Forse sono davvero una codarda o forse sto facendo un favore all’intera squadra non presentandomi in panchina, dato che avrei lo stesso entusiasmo di un tavolo!».

Purtroppo per lei le sue parole vennero udite dai ragazzi, che avevano terminato gli allenamenti anche senza la presenza delle loro manager, e la reazione di Hanamichi fu la peggiore.

«Hicchan! Cosa diavolo stai dicendo?! Tu domani verrai!», sbraitò il numero dieci, più rosso dei suoi capelli, dopo aver spalancato con forza la porta. Persino l’imperturbabile Rukawa sembrava stupito dalla decisione della sua migliore amica.

«Hana, ti prego, non insistere».

«Insisto eccome! Abbiamo bisogno di te, Hicchan! Ho bisogno di te!».

Hime scosse il capo, afferrò la sua borsa e se la mise in spalla. «Devo andare ora, Sanako mi aspetta per le prove. Ci vediamo a casa, Hana».

«Hicchan, non andartene così!», esclamò il fratello, che allungò una mano per fermarla. Fu più lesta e il rossino l’avrebbe di certo seguita se non fosse stato per Kaede che lo afferrò per la maglia e lo tirò indietro.

«Lasciala andare. Le parlerai più tardi con calma».

Hanamichi fu tentato di pestarlo per levarselo dai piedi e raggiungere la sorella, ma annuì, tra lo stupore generale. Hime sarebbe tornata a casa, prima o poi, non avrebbe potuto scappare per sempre. E allora l’avrebbe placcata e convinta per bene. Non poteva assolutamente pensare di lasciarli in asso così, per una partita che aveva il sapore di una finale, invece di una semi. Non glielo avrebbe potuto perdonare. Lui aveva bisogno della sua Hicchan, come tutti gli altri.

E lei aveva bisogno dei suoi amici per superare la brutta faccenda.

 

*

 

«Ho combinato un casino, vero?».

Mitsui osservò la sua ragazza di sbieco, abbozzando un ghigno. «Uno dei tanti, sì».

Kiyo sbuffò, sinceramente dispiaciuta. Se solo si fosse fatta i fattacci suoi! Quella era l’ennesima prova che lei e i rapporti sociali erano cane e gatto. Non sapeva tenere su una discussione senza fare gaffe, era risaputo – quelle con Sana non facevano testo, dato che tra le due era l’amica a collezionarle una dopo l’altra.

«Non pensarci troppo, non potevi saperlo», cercò di rassicurarla Hisashi, accompagnando le parole con un buffetto sulla guancia. «Nemmeno io ne avevo idea».

La ragazza si strinse nelle spalle. «Vedi di non ridurti come lei, nel caso dovesse andare male».

Dopo un primo momento di smarrimento, il cestista scoppiò a ridere alla sola idea. «Conoscendoti, potrei solo festeggiare!».

 «Ah, sì? Ma bene, inizia pure», sbottò con falsa indignazione la ragazza, che si mise la sacca dell’allenamento in spalla e si avviò velocemente verso l’uscita.

Hisashi ghignò, affrettandosi, nei limiti del possibile, a seguirla. Purtroppo quel diavolo di ragazza che si ritrovava, allungò il passo, lasciandolo indietro e in visibile difficoltà.

«Ehi, strega! Aspettami!», esclamò, borbottando maledizioni tra i denti a quello stronzo di Toshiro che l’aveva ridotto così, ancora una volta in stampelle e impossibilitato a giocare.

«Vedi di non ammazzarti», lo rimbeccò lei, senza rallentare. «Lumaca».

«Donna, sappi che prima o poi queste stampelle dovrò lasciarle a casa, e allora te la farò pagare», la mise in guardia il giocatore di basket. «Oh, se te la farò pagare».

«È una minaccia?», domandò Kiyo, voltandosi a guardarlo.

«No. Una promessa».

Il sorriso sghembo che gli increspò le labbra e le implicazioni che quello sguardo nascondeva la fecero arrossire come una ragazzina alla prima cotta. Scacciò scomode immagini dalla mente con una scrollata di spalle. «Che fai, torni a casa?».

«Prima riaccompagno te».

Kiyo si morsicò un labbro. «Non abito lontano, lo sai. Non è il caso che ti affatichi per niente».

«Mi sentirò molto più tranquillo sapendoti al sicuro».

«Quello lì non può farmi più niente... per il momento».

Hisashi strinse i denti. «Ma non sappiamo quando uscirà di galera».

«Oh, beh, allora se anche dovessimo incontrarlo, come pensi di difendermi?», domandò Kiyo, prima che potesse fermarsi. «Lo tramortirai con una stampella?».

Mitsui fermò i passi malfermi, guardandola storto e sentendosi una nullità, per la prima volta dopo mesi. Aveva ragione, non avrebbe potuto difenderla da un altro assalto, non con il ginocchio in quelle condizioni. Non poteva neanche giocare, per colpa del dannato menisco. Non serviva a niente, in quel momento. Era solo un peso.

«Oh, no, non pensarci neanche per un istante», lo rimproverò Kiyo, avvicinandosi a lui e riconoscendo quello sguardo furioso con se stesso e demoralizzato. Era lo stesso che gli aveva visto l’anno prima, quando lei era ancora una matricola in vista della bocciatura, e lui, tra una scorribanda e l’altra, si faceva vedere a scuola. «Non ti permetto di ricaderci, dovessi pestarti per fartelo capire!». Hisashi sgranò gli occhi, ma lei non si scompose affatto. «Hai un passato che ti ha insegnato a non arrendersi mai, no? Continui a ripeterlo ogni volta che qualche tuo compagno perde speranza e sei il primo a dover seguire i tuoi consigli, se vuoi che lo facciano anche gli altri. E, beato te!, hai così tanti amici pronti a sostenerti in momenti come questi. Hai me. Non ricaderci, Mitsui, o giuro che–».

Sentì un rumore metallico contro il lastricato del cortile liceale, ma tutto svanì nel momento in cui le sue labbra vennero baciate da quelle fameliche di lui, che aveva abbandonato le stampelle sui fianchi e aveva usato le mani per avvicinare il viso al suo. Kiyo lasciò cadere la sacca dell’allenamento e lo abbracciò con forza, ricambiando quel bacio rude e infuocato del numero 14, che sapeva di gratitudine e sorpresa per quelle parole pronunciate con così tanta intensità. Ogni dubbio, ogni paura, ogni pensiero negativo, vennero affogati tra le labbra, tra sospiri, tra carezze.

Fu solo quando udirono i fischi entusiasti di quei due dementi di Hanamichi e Ryota, che furono costretti a fermarsi – e forse fu meglio così, viste le pupille dilatate e il respiro accelerato di entrambi.

«Dove diavolo state andando?», domandò con falsa indifferenza Hisashi, notando che si stessero avviando verso l’aula magna.

«Prove del concerto di fine anno», fu l’allegra risposta di Kimi, che si rigirò le bacchette da batterista tra le dita affusolate. Miyagi, al suo fianco, non pareva ugualmente felice della cosa e, se non fosse stato per Ayako che, a quanto pareva, ci teneva più della sua stessa vita che suonasse a quel dannato spettacolo, avrebbe già spaccato il suo strumento musicale in testa a quella pazza della signora Tsukiyama e agli scemi dei suoi amici che ancora lo sfottevano per il fatto che suonasse il basso.

«E tu cosa vai a fare?», continuò l’interrogatorio Mitsui, rivolto al rossino.

«A sfottere il Capitano, mi sembra ovvio!».

Appunto.

Ryota però non diede segni di irritazione. Come amava ricordarsi, lui era il Capitano. E avrebbe avuto la sua dolce vendetta ai prossimi allenamenti.

«E a tenere d’occhio Hicchan», aggiunse in un borbottio Hanamichi. «Ho la brutta sensazione che tenterà di dormire a casa di qualcuno, pur di non dovermi parlare», aggiunse, scrutando Ayako in cerca di conferme.

Questa scosse il capo. «Non mi ha chiesto niente, e anche se dovesse, non accetterei. Anche perché se c’è qualcuno che può convincerla a venire alla partita sei proprio tu, Sakuragi».

Hanamichi arricciò il muso, ficcandosi le mani fredde in tasca. «Non ne sono tanto sicuro».

«Do’aho, sai fare solo una cosa. Vedi di farla bene», fu l’ultimo saluto di Rukawa, che si allontanò dal gruppo con un vai e ammazzati che lo seguì fino a casa.

 

*

 

Hime strinse le labbra, mentre osservava i ragazzi della band ritirare i loro strumenti e avviarsi pian piano verso casa. Sentì il pesante sguardo del fratello perforarle la nuca e sospirò. Le aveva tentate tutte, pur di non affrontarlo. Aveva chiesto ad Ayako di dormire da lei, a Sanako, persino alla ragazza di Mitsui con cui non aveva alcuna confidenza ­– e che si era persino scusata per la triste uscita di poco prima –, ma nessuna pareva avere posto in casa per lei. Pareva una congiura.

Prese un bel respiro, conscia che non avrebbe potuto scappare neppure tardando la stesura di appunti che non doveva prendere, in quel taccuino che sputava solo “Kiyota ti odio, Kiyota ti odio”. Alla faccia del mi riempio di cose da fare per distrarmi.

Accidenti a lui.

«Hicchan, andiamo a casa? Sto morendo di fame!», si lagnò Hanamichi, che in realtà aveva lo stomaco chiuso per la partita del giorno dopo e per lo stato emotivo della sorella.

«Perché non inizi ad andare, Hana? Ti raggiungo tra un attimo, devo ancora finire un paio di cose e–».

Il taccuino le sparì da sotto il naso e Hanamichi le rifilò un’occhiataccia che raramente gli vedeva in volto – se non prima di una rissa. «Andiamo a casa, Hicchan».

Con uno sbuffo neppure tanto celato, la seconda manager si alzò con pesantezza, ritirando le sue cose e salutando gli ultimi rimasti. Il tragitto verso casa fu insolitamente silenzioso, privo delle scemenze che solitamente quei due sparavano, pur di dare fiato alla bocca. Erano poche le volte in cui era successo, soprattutto era raro che avessero discussioni serie. Non litigavano quasi mai, se non per futili motivi e per meno di cinque minuti – dato che nessuno dei due amava non parlare all’altro per così tanto tempo.

Quella volta, però, Hime l’aveva combinata grossa, nonostante avesse tutte le ragioni del mondo, e sapeva che Hanamichi non l’avrebbe perdonata se il giorno dopo non fosse stata presente in panchina. Ma come avrebbe potuto trovare la forza di farlo e di affrontare Kiyota come se la cosa non le lacerasse il cuore?

La casa li accolse buia e silenziosa, segno che la madre fosse ancora in ospedale. Hime tentò la fuga verso il bagno, per rinchiudersi dentro finché Hanamichi non fosse crollato dalla stanchezza, ma il fratello aveva altri piani per la testa. La prese per un polso prima che potesse filarsela e la costrinse a sedersi sul divano accanto a lui.

«Hana, chiudiamola subito qui, ok? Non verrò alla partita. Non ce la faccio», esordì Hime, tenendo gli occhi bassi. «Ho intenzione di andare... di andare a controllare la partita tra Ryonan e Shoyo, per studiarli un po’. C’è quel Daichi Anami da tener d’occhio, ricordi? Anzai-sensei è già al corrente della cosa e sarei davvero più utile così. È uno dei miei compiti, no? Cercare di capire gli avversari e–».

«E a cosa servirà?», la interruppe Hanamichi, lo sguardo duro su di lei. «Mitchi non gioca, tu non ci sarai a sostenerci insieme a lui e Ayako, farò schifo e perderemo. Cosa serve andare a studiare avversari contro cui non giocheremo?»

«Hana, non farai schifo solo perché non ci sarò. Tu sei il giocatore che sei perché stai mettendo anima e corpo in quello che fai, non certo perché una scema come me si mette a gridare oscenità dalla panchina per spronarti».

«E invece sì!», s’inalberò il ragazzo. «Hai idea di cosa significhi per me averti lì? Poterti guardare e ricevere un tuo sorriso di incoraggiamento? Tu non capisci quanto tu sia importante per me, Hicchan. Anche quando sono in campo».

Come la piagnucolona che aveva scoperto di essere in quei due giorni, Hime scoppiò in lacrime e abbracciò il fratello, commossa e tremendamente in colpa per il suo egoismo. Aveva dato per scontato che avrebbe capito i suoi motivi e l’avrebbe supportata nella sua scelta di stare lontana da Nobunaga. Del resto, era normale tentare di evitarlo per soffrire un po’ meno. Ma Hanamichi era la sua metà perfetta ed era normale che senza di lei si sarebbe sentito svuotato di una parte di sé. Non ricordava il giorno in cui aveva iniziato ad amare il basket, un amore incondizionato che non conosceva limiti: ma da quando Hanamichi aveva deciso di far parte della squadra del liceo, seppur per far colpo su Haruko, le sorti dello Shohoku e dei suoi giocatori erano diventate fonte di gioia e preoccupazione. Mai, in quei mesi, aveva perso un allenamento, tanto meno una partita, per giunta così importante.

«Mi dispiace, Hana-chan», sussurrò tra le lacrime. «Sono una stupida! Ma davvero, non ce la faccio. È successo solo ieri e... fa così male».

Il ragazzo le accarezzò i capelli indiavolati, come sempre ritirati nella sua pinza gigante e marrone, e sospirò. «Lo so, Hicchan, ma pensaci un attimo: è lui in torto, non tu, no? Lui dovrebbe evitare di farsi vedere, non tu. E non hai pensato a quando perderanno? A quanto sarà esaltante vederli lasciare il campo con la coda tra le gambe, mentre noi festeggiamo la vittoria? Vuoi che sia lui a esultare o il tuo fratellino?».

«Ma che domande fai, Hana», replicò lei, stringendolo forte tra le braccia.

«Allora verrai, sì?».

Hime strinse le labbra, combattuta. Oh, quanto sarebbe stato difficile sopportare la sua presenza e le sue provocazioni – sempre che la degnasse di uno sguardo. Hanamichi aveva però ragione: era lui in torto, non lei. Non aveva fatto nulla di male e poteva ancora camminare a testa alta. Sì, sarebbe stato difficile, ma avrebbe stretto i denti e lo avrebbe fatto per suo fratello, per la sua squadra, per i suoi amici.

E per se stessa.

«Verrò».

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Che sofferenzaaaah. La mia adorata Hicchan.

 

Perdono per il lungo ritardo – blame my bosses.

Se non dovessi aggiornare nuovamente entro la fine dell’anno, approfitto per l’occasione per augurarvi un stupendo 2017 – e un felice Natale, se lo festeggiate.

GRAZIE a caratteri cubitali per avermi seguita tutto questo tempo, anche durante la mia lunga assenza. Siete m e r a v i g l i o s i / e.

Un forte abbraccio,

la vostra Marta.

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Capitolo 24
*** 23. Semifinale di sangue ***


Capitolo 23                                                                                 

Semifinale di sangue

 

 

 

Le gambe non le tremavano così tanto da quando Hanamichi era finito in ospedale per l’infortunio alla schiena.

Era terribile e spaventoso ciò che stava provando per colpa di quell’idiota. Se avesse saputo quanto doloroso sarebbe stato innamorarsi, si sarebbe data due sberle da sola per rinsavire e non caderci come una pera troppo cotta dall’albero. Camminava accanto al fratello, che le stringeva con forza una mano, diretti insieme alla squadra verso gli spogliatoi del palazzetto in cui avrebbero disputato la partita contro il Kainan. Riusciva a vedere la porta che, per qualche tempo, l’avrebbe tenuta in salvo da scimmie saltanti col codino prima dell’entrata in campo, ma la fortuna le sghignazzò in faccia nel momento in cui l’intera squadra avversaria al completo li incrociò lungo il corridoio.

Hime fermò i suoi passi, congelata nel vedere il numero 10 già bello che pronto con fascia viola e casacca. Stinse la mano di Hanamichi con tutta la forza che aveva in corpo, per cercare un minimo di sostegno che le gambe, ormai, non le assicuravano più. L’indifferenza del ragazzo dai capelli neri le tagliò il fiato in gola e si ritrovò a digrignare i denti pur di non reagire.

 «Ragazzi, buongiorno», li salutò il sempreverde cortese Shin’ichi Maki, che strinse la mano all’altro Capitano con rispetto.

«Maki», accennò Ryota. «Pronto per un po’ di movimento?».

Il numero 4 del Kainan ghignò. «Lo sono sempre, Miyagi. Sarà un piacere marcarti ancora una volta. Anche se sarà strano non vedere Akagi in campo».

«Tranquillo, Nonno-Maki, sarò il suo degno sostituto!», esclamò Hanamichi, esuberante come sempre.

«Quante volte dovrò dirtelo?!», attaccò Kiyota, muovendo qualche passo verso di lui e, di conseguenza, lei. «Porta rispetto al Capitano, stupida Scimmia!».

Hime chiuse gli occhi nel momento in cui il suo familiare profumo la fece vacillare, e dovette reggersi a Kaede, al suo fianco, quando Hana lasciò la presa alla sua mano sudata per afferrare la collottola del suo ormai ex-ragazzo.

«Chi sei tu per parlarmi di rispetto? Non hai idea di cosa sia», gli sibilò Sakuragi, sovrastandolo dal suo metro e ottantanove di statura. «Non provocarmi, oggi, o giuro che ti faccio a pezzi».

«Hanamichi, datti una calmata. Il Sensei Anzai sta arrivando», lo mise in allerta Mitsui, guardandosi le spalle.

Kiyota non parve affatto intimidito e ghignò. «Fai pure. Non sarà un occhio nero a fermarmi, oggi».

«No, infatti. Sarò io», replicò il rossino. Poi gli si accostò all’orecchio, sussurrando per non farsi sentire dall’allenatore. «E non pensare che finisca qui. Io non ho dimenticato cosa ti dissi in ritiro riguardo mia sorella: “non farla soffrire o te la vedrai con me”».

Nobunaga lo spintonò via e lanciò una breve e sprezzante occhiata alla seconda manager dello Shohoku, appesa al braccio dell’odiato Volpino – chi altro, se no? «Ah, ma come vedi non l’ho fatta soffrire; è in buona compagnia e sicuramente più felice di me».

Hime non resse oltre e corse verso gli spogliatoi, maledicendo la sua infinita debolezza e quell’idiota. Shin’ichi e Soichiro si scambiarono un’occhiata preoccupata.  Sarebbe stata una partita pesante, quella.

«Ci si vede tra poco in campo, ragazzi», disse Maki, per spezzare il silenzio. «Mi dispiace, Mitsui, che non sarai presente. Dico davvero».

Hisashi scrollò le spalle. «Sarò in forma per la finale, tranquillo».

Jin sorrise, affabile. «Intendi dire per tifarci?».

«Come no», ghignò Hisashi di rimando, stringendogli la mano.

Ripresero ognuno la propria strada in silenzio, finché Rukawa, passando accanto a Kiyota, gli diede una possente spallata che lo fece finire addosso al povero Miyamasu, tra vergognose imprecazioni e un principio di rissa che, per fortuna, Kaede non raccolse.

Trovarono Hime con gli occhi arrossati ma, incredibilmente, sorridente. Batté le mani e saltò su una panca. «Allora, ragazzi, pronti a prenderci la nostra doverosa rivincita?».

Hanamichi, dopo il primo momento di stupore, scoppiò a ridere e l’abbracciò con entusiasmo, sollevandola per aria come una bambola. «Questo è lo spirito dei Sakuragi! Ahahaha!».

Rukawa alzò gli occhi al cielo, esasperato.

Tra chiacchiere leggere e qualche battuta per smorzare la tensione, i ragazzi si prepararono all’imminente fischio d’inizio. Non vedevano l’ora di dare una lezione al tanto stimato e temuto Kainan. Avrebbero dimostrato loro quanto fossero diventati più bravi e, se possibile, più combattivi di mesi fa, nonostante l’assenza di Akagi e quella forzata di Mitsui. Hanamichi, con Hime in panchina che pareva aver ritrovato il suo spirito, era convinto che sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa. Osservò la sorella prendere posto accanto all’allenatore e ad Ayako, mentre chiacchieravano fitto fitto su chissà quale cosa, e sorrise come un ebete.

La sua Hicchan.

Entrarono in campo tra il boato del pubblico, eccitato all’idea di vedere quella partita che, come la prima di qualche mese addietro, si prospettava eccitante come una finale. Dagli spalti i Gundam, accompagnati dagli infiltrati Kiyo, Akagi e Kogure, stavano scaldando le bottiglie riempite di pietre, sbattendole una contro l’altra e facendo un casino infernale.

Hime ridacchiò a una battuta di Ayako, ma il sorriso le morì in gola appena incrociò lo sguardo di Kiyota, che palleggiava nella metà campo del Kainan. Gli restituì l’occhiata astiosa con lo stesso entusiasmo e, grazie al cielo, riuscì a non scoppiare in lacrime. Orgogliosa di se stessa per non aver calpestato ancora una volta la poca dignità rimasta, ricordò di quando, durante il ritiro precedente ai Nazionali, lo stesso Kiyota l’aveva insultata per il medesimo motivo: l’infondata gelosia nei confronti di Kaede. All’inizio aveva sofferto tanto, soprattutto quando aveva creduto che tra loro potesse nascere qualcosa; ma una volta rinsavita, grazie al supporto morale del suo adorato fratellone, aveva messo da parte la tristezza e aveva tirato fuori gli artigli. Il disgraziato era tornato con la coda tra le gambe a chiederle scusa.

Solo che questa volta avrebbe dovuto fare molto di più per riconquistarla – se mai avesse avuto intenzione di farlo. Era stata accusata ingiustamente, ancora una volta, quando lei non aveva occhi che per lui. Che andasse al diavolo! Non aveva bisogno di rovinarsi l’appetito per i suoi insensati momenti di gelosia.

Mitsui si mosse irrequieto, accanto ad Ayako, mentre osservava Jin allenarsi dalla linea dei tre punti con tutta la disinvoltura per cui era famoso. «Quanto vorrei essere in campo per spaccargli il c–».

«Senpai!», lo rimbeccò subito la manager, il temuto ventaglio in mano pronto a colpire.

«–il canestro. Per spaccargli il canestro a furia di triple», sviò il tiro la guardia in un sorriso falso come Kobe Bryant nei Chicago Bulls. «Dico sul serio, se Kimi non si dà da fare oggi, giuro che chiedo la sostituzione anche con un ginocchio sfasciato».

«A-ha».

«A proposito, Mitchi, hai già iniziato la fisioterapia?», domandò Hime.

«Yep. Ieri mattina. Ho anche saltato una pallosissima lezione di storia», aggiunse, strizzandole un occhio.

«Non tutti i mali vengono per nuocere, allora!», ridacchiò lei.

Nobunaga mancò in pieno il libero che stava provando, quando sentì la sua risata, e strinse i pugni. Rideva come se niente fosse, la traditrice! E lui che non riusciva a dormire la notte da quasi una settimana! Continuava a rivivere il momento in cui era comparsa a casa sua, fingendo di non sapere, senza neppure provare a montare una scusa plausibile. Era stata così brava a mentirgli per tutto quel tempo.

Solo amici, un paio di palle.

Intravide il Volpino avvicinarsi alla panchina insieme agli altri, richiamati dalla prima manager, e digrignò i denti nel vederlo punzecchiare la Sakuragi lanciandole un asciugamano in viso.

«Kiyota!», lo richiamò il Capitano, per la terza volta. «Cerca di lasciare i tuoi problemi fuori dal campo, se non vuoi rimanere con loro in panchina».

«Sì, signore», borbottò lui, raggiungendo la sua squadra in silenzio. Non era esattamente il tipo di partita che aveva avuto in mente, qualche settimana prima. Credeva che sarebbe stato divertente, nonostante i rispettivi spiriti di competitività di entrambe le squadre; voleva mettersi in mostra davanti alla sua ragazza, provare a rubarle qualche urlo di incitamento, nonostante fosse un avversario; avrebbe voluto vedere Sakuragi incazzarsi per questo, battibeccare e ridere della cosa, perché la sua Hicchan lo amava così tanto da dimenticarsi persino della loro rivalità.

Ingoiando una colorita imprecazione, si diede due forti pizzicotti sulle guance, per ritornare con i piedi per terra e ascoltare le istruzioni dell’allenatore Takato. Doveva impegnarsi, doveva segnare più punti di Rukawa, umiliare il dannato Volpino, rubargli il titolo di migliore rookie della Prefettura e dimostrare a quella maledetta traditrice cosa avesse perso scegliendo un perdente come quello. Era un ottimo piano, il suo. Doveva solo trovare la giusta concentrazione per metterlo in atto. Del resto era Nobunaga Kiyota, il pianificatore numero uno di Kanag

«Ca-capitano!», piagnucolò, accarezzandosi la testa dolorante per lo scappellotto appena ricevuto.

«Cosa ha appena detto l’allenatore?», domandò Maki, incrociando le braccia al petto.

Nobunaga arrossì fino alla punta delle orecchie e si grattò la nuca, in imbarazzo. «Che dobbiamo schiacciare quelle schiappe?». Il numero quattro gli riservò un’occhiata micidiale e si sentì piccolo piccolo.

Dannazione, concentrati Nobunaga, concentrati!

L’arbitro fischiò la fine del riscaldamento e le squadre si posizionarono in campo. Questa volta lo Shohoku schierava anche il Capitano e la sua ala piccola dal primo minuto, segno che non aveva alcuna intenzione di risparmiare le energie. Kimi, come contro il Miuradai, sostituiva Mitsui, e Eichiro ricopriva il ruolo di ala grande. Maki, che a differenza di altre squadre non aveva avuto grossi cambiamenti in fatto di giocatori, dato che tutti loro avevano ricevuto una borsa di studio per l’università e non dovevano prepararsi per superare le selezioni, non aveva idea di come giocassero i due gemelli, la più grande incognita dello Shohoku – sebbene avesse le sue fonti, che gli avevano descritto schemi folli e micidiali; d’altra parte, Mitsui era ancora impossibilitato a giocare, il ché era un’ottima carta a loro favore, soprattutto per Jin. La prima volta che il Kainan aveva giocato contro lo Shohoku, aveva commesso il grande errore di sottovalutarli, considerandoli meteore, inesperti, egoisti e giocatori che non avevano più resistenza fisica; la seconda volta, durante il ritiro, aveva imparato a capire e memorizzare il loro stile di gioco; durante i Nazionali, quando erano andati a vederli giocare, si erano resi conto della grande squadra che quei ragazzi formavano, e in così poco tempo. Quel giorno Maki sapeva che sarebbe stata una partita dura, durissima. Ma lui amava le sfide e non vedeva l’ora di iniziare.

Sperava solo che la Scimmietta, che ora stava sistemandosi la fascia viola sulla fronte, non fosse troppo occupata ad arrovellarsi le cervella sulla bella seconda manager in rosso, seduta poco più in là.

Hanamichi e Takasago si posizionarono a centro campo, pronti per la palla a due. Il pubblico trattenne il fiato, finché fu il numero 10 dello Shohoku a guadagnare il primo possesso della partita e il boato fu assordante.

Hime si mordicchiò le labbra, in tensione. Sarebbero stati i 40 minuti di gioco più lunghi di sempre.

Ryota palleggiava con calma, mentre i ragazzi formavano lo schema d’attacco. A serrargli la strada un determinato Shin’ichi Maki, che cercò il corpo a corpo quando Miyagi fece per scartarlo. Con un ghignò di sfida, il Capitano dello Shohoku fece scivolare la palla dietro la schiena e servì Eichiro, pronto a ricevere. Questo, come un fulmine, passò al fratello che, smarcatosi da Soichiro, si posizionò dietro la linea dei tre e tirò.

L’intera panchina dello Shohoku si alzò in piedi, esultante, come se avesse appena vinto l’incontro. Sapevano che ogni punto fosse fondamentale, contro il Kainan, meglio ancora una tripla come quella.

I Diavoli Rossi corsero in difesa, mentre Maki riorganizzava l’attacco. Vide Kiyota agitarsi per chiedergli palla e, sperando di non pentirsene, lo accontentò. Nobunaga era, difatti, indemoniato e voleva assolutamente spegnere tanto entusiasmo con una delle sue spettacolari schiacciate. Rukawa, che gli bloccava la via, lo fissò gelido, in una tacita sfida a smarcarsi. Kiyota non aspettava altro.

Si mosse contro il numero undici con prepotenza, che ovviamente non cedette un passo, facendolo spazientire; il suo secondo attacco fu decisamente più duro, tanto da far perdere l’equilibrio all’ala piccola dello Shohoku e guadagnandosi fallo in attacco.

«Merda», sibilò, lasciando cadere il pallone con stizza.

«Datti una calmata», lo ammonì Rukawa.

«Che cosa hai detto?!», s’inalberò Nobunaga, subito ripreso dal suo Capitano.

«Ehi, Nonno Maki! Cerca di tenere al guinzaglio quella scimmia, se non vuoi che si faccia male», esclamò Hanamichi, con strafottenza.

Hime strinse le labbra, assistendo alla scena. Se quello era solo l’inizio, era più che sicura che sarebbero arrivati alle mani entro la fine del primo tempo. «Hana!», lo sgridò. «Pensa a giocare!».

Il fratello le scoccò un’occhiata imbronciata, ma seguì il consiglio. La partita era lunga, avrebbe avuto modo di fargliela pagare bene, al caro Kiyota.

La seconda manager si lasciò cadere sulla sedia e Ayako le batté una mano sul braccio.

«Cerca di stare tranquilla, sei un fascio di nervi», le disse la senpai.

Hime sospirò, guardando Nobunaga e Kaede spintonarsi sotto canestro. «Non gliela faranno passare liscia, sono preoccupata».

«Non lo farei neppure io», fu il commento di Mitsui, i gomiti poggiati sulle cosce e gli occhi blu fissi in campo. «Nessuno di noi sopporta quello che ti ha fatto. Il minimo che possano fare quei due è umiliarlo in campo». “I cazzotti arriveranno a porte chiuse”, terminò mentalmente, dato che Anzai aveva le orecchie tese, pronte a cogliere qualsivoglia intenzione manesca nella sua voce.

In campo, nel frattempo, Hanamichi aveva sbagliato un tiro, deviato proprio da Kiyota, grazie alla sua elevazione notevole che gli aveva permesso di sfiorare la palla quel tanto che bastava per deviarne la traiettoria. Il contropiede di Maki fu energico come un’onda contro lo scoglio e il Kainan segnò i suoi primi due punti.

Il ghigno soddisfatto che Nobunaga lanciò a Sakuragi lo mandò su tutte le furie e fu quella la goccia che fece traboccare il vaso. Da quel momento, infatti, fu guerra aperta e i corpo a corpo si fecero più intensi e fallosi. Persino Kaede, incacchiato com’era contro la Scimmia del Kainan e deciso a vincere la partita, aveva iniziato a calcare la mano, sia in difesa che in attacco, e l’arbitro dovette fermare il gioco parecchie volte per richiamarli all’ordine. Al decimo minuti di gioco, su passaggio di Ryota, chiuse una splendida azione con una schiacciata micidiale, che mandò su tutte le furie sia Hanamichi che Kiyota e portando lo Shohoku in vantaggio di ben otto punti.

Takato, in panchina, era furibondo e chiamò subito un time-out per cantarne quattro ai suoi giocatori. Aveva capito che qualcosa non andasse, soprattutto nel suo numero dieci, e che lo Shohoku fosse diventato una squadra temibile, nonostante assenze importanti: ma non avrebbe permesso a quei cinque pivelli di sbatterli fuori ad un passo dalla finale.

 Nobunaga si sedette sbuffando, nascondendo il viso sudato sotto un asciugamano e lasciandosi scivolare addosso le parole irate dell’allenatore. Non erano neppure a metà partita e aveva già il fiatone. Lui, un giocatore del Kainan King sottoposto a estenuanti allenamenti ogni santo giorno, aveva il fiato corto!

Strinse i pugni, pensando agli sguardi astiosi di Sakuragi, Miyagi e Rukawa. Era palese quello che stavano facendo: volevano a tutti i costi la rivincita del campionato scolastico estivo e, come se non bastasse, erano evidentemente incacchiati neri. Maledetti teppisti. Se solo avessero saputo la verità – chissà quale balla colossale aveva raccontato la traditrice! – probabilmente ora non avrebbero preso in modo così personale la sua rottura con quella stupida hippie.

«Nobunaga, cerca di reagire», fece la bonaria voce di Soichiro, al suo fianco. «Tutto si può sistemare, ne sono sicuro. Ma i problemi esterni rimangono tali. Concentrati, o rischi sul serio la panchina. E non solo per questa partita, lo sai bene».

Kiyota strinse ulteriormente i pugni, tremante di rabbia. Quando il match riprese si sentiva così incazzato che, se avesse morsicato qualcuno, era più che sicuro l’avrebbe avvelenato a morte. Intercettò un passaggio diretto a Kimi, tra le grida di incitamento di Shin’ichi e Jin, e scartò con decisione Rukawa. Davanti a sé, però, Hanamichi gli chiuse la strada e, si sa, col Rosso non si passa. Tentò, infatti, un terzo tempo, ma il centro dello Shohoku spazzò via la palla prima che iniziasse la sua parabola discendente verso il canestro. Akagi, sugli spalti, fu orgoglioso di lui.

«Vai così, Hana!», gridò Hime, in piedi sulla sua sedia le mani a imbuto sulle labbra.

Il rossino scoppiò a ridere, alzando il pugno al cielo. «Lo Schiacciamosche del Gorilla colpisce ancora! Ahahaha!».

«Zitto e corri in difesa!», esclamò Ryota. «L’azione non è ancora terminata!».

La palla, infatti, era finita nuovamente nelle mani del Kainan e Muto, che comandava il possesso, passò subito a Maki per impostare l’azione di gioco. Jin era marcato stretto dai Gemelli Siamesi, che non avevano alcuna intenzione di permettergli di tirare da tre, Hanamichi teneva sotto scacco il loro Centro e Kiyota non riusciva a levarsi dalle scatole il Volpino. L’unico libero era proprio Muto, ma non era in una buona posizione per provare un attacco. Sorrise allo sguardo strafottente di Ryota, che non lo mollava un attimo, e lo sorpasso con una decisa ma non fallosa azione, facendosi spazio con una spalla e rompendo il muro della difesa.

«Capitano!», gridò Kiyota, che ricevette un passaggio preciso e pulito una volta trovato un piccolo spiraglio nella marcatura di Rukawa.

«Avanti, mezza sega», lo provocò Kaede. «Mi sto annoiando».

Nobunaga divenne verde dall’ira. «Oh, mi dispiace tanto. Sono sicuro che la tua nuova ragazza saprà come soddisfarti».

Mai l’avesse detto.

La difesa di Rukawa si fece così aggressiva che Kiyota perse possesso quasi senza accorgersene. Di riflesso cercò di riprendersi il pallone, più per la stizza contro quella Volpe – che non solo gli rubava l’azione in modo così imbarazzante, ma persino la ragazza di cui era innamorato –, che per la reale voglia di rimediare al suo errore; il risultato fu che strattonò la palla forza e si beccò una gomitata accidentale sull’occhio, proprio dal suo acerrimo nemico. Non si rese conto di sanguinare finché i suoi compagni non lo osservarono con allarmismo e persino quella traditrice si alzò dal suo posto, con le mani sulle labbra e l’aria preoccupata.

«Kiyota!», esclamò Maki, avvicinandosi al ragazzo e controllando la ferita al sopracciglio. Fu lesto a trattenerlo per la maglia, prima che saltasse addosso al numero 11 dello Shohoku per menare le mani.

«Che diavolo di problemi hai?!», sbraitò Nobunaga, mentre l’arbitro fischiava l’interruzione momentanea della partita.

«Hn, non ti ho visto».

«Come hai fatto a non vedermi?! E cosa hai al posto del gomito? Un cazzo di rasoio?».

«Piagnone. Per un taglietto», borbottò Kaede, scrollando le spalle e dandogli la schiena. L’occhiata d’intesa tra lui e Hanamichi passò per fortuna inosservata, dato che la loro seconda manager era stata chiamata in campo per controllare le condizioni del giocatore del Kainan, in veste di infermiera provvisoria per la consueta mancanza di un medico nello stabile.

Appena Nobunaga si accorse di lei, che stringeva la cassetta del primo soccorso come se fosse l’unico appiglio a cui reggersi, sbraitò di non aver bisogno di una balia e che si trattava di un taglietto – appunto.

«Kiyota, non sei un bello spettacolo, credimi», gli disse Miyagi.

«E quando mai lo è!», fu l’intervento di Sakuragi.

«Quello che intendo dire», alzò la voce il Capitano dello Shohoku, «è che stai perdendo molto sangue e ti si vede la carne viva. Per me ci vuole qualche punto».

Hime annuì, mordendosi il labbro con forza.

«E dovrebbe essere questa qui a medicarmi? È la volta buona che ci lascio le penne, allora», sbottò Kiyota, regalandole una smorfia. «Col cavolo che mi tocchi di nuovo».

«Allora puoi benissimo beccarti un’infezione, almeno finalmente ci liberi dalla tua inesauribile stupidità!», esclamò Hime, che ormai aveva oltrepassato il limite della sopportazione.

«Ben detto, Hicchan!», esclamò Hanamichi. «E nemmeno io voglio che ti avvicini a quella scimmia, sciò sciò, stalle lontano, maledetto idiota».

Nobunaga fece per rispondere a tono, ma Maki lo zittì con una tirata d'orecchie e lo trascinò verso la panchina. «Vai in infermeria, prima che ti ci spedisca a calci».

Ingoiando tante di quelle imprecazioni da fargli venire una congestione, Nobunaga si strascicò verso lo stanzino, seguito a debita distanza dall’ormai odiata ex ragazza, mentre il fratello le gridava dietro di fermarsi e di lasciarlo morire dissanguato. E, sebbene fosse proprio quello che avrebbe voluto fare, Hime proseguì in silenzio, seguendolo dentro l’infermeria. Lo osservò con la coda dell’occhio fermarsi davanti a un armadietto, le mani strette a pugno lungo i fianchi e le spalle larghe tese dalla rabbia.

Per tutti gli dei, quanto avrebbe voluto abbracciarlo. Le mancavano infinitamente quelle braccia confortanti, il ritmo calmo del suo cuore contro la guancia, il profumo della sua pelle misto a quello del bagnoschiuma. Voleva odiarlo con tutta se stessa, eppure continuava ad amarlo. Povera, stupida sciocca.

«Sdraiati».

«Non darmi ordini», sbottò il ragazzo. «Lascia la cassetta qui, mi disinfetto da solo».

«E ti ricuci il sopracciglio con le tue mani?».

«Di certo non lo faccio fare a te!», replicò, voltandosi a guardarla con occhi sbarrati. Il blu delle sue iridi era ancora più accentuato dal sangue che gli bagnava la fronte e gli zigomi. «E non sei neppure un medico, chissà che razza di cicatrice mi lasci».

«Mia madre è infermiera, chi credi abbia medicato mio fratello dopo ogni rissa, quando lei era a lavoro? Chi ha ricucito Hisashi e gli altri dopo che Tetsuo e i suoi amichetti ci hanno fatto la festa in palestra? Io».

«Non mi interessa», sibilò Nobunaga, avvicinandosi di un passo. Lei, come l’ultima volta, indietreggiò, trovando però l’ostacolo del lettino alle sue spalle.

«Qualcuno deve chiuderti quella ferita, Kiyota», parlò Hime, ritornando con freddezza al cognome. «Ora come ora non c’è nessuno che possa farlo, tranne me. E se vuoi tornare in campo a giocare, anziché dover andare in ospedale per la tua maledetta testardaggine, ti consiglio di sdraiarti e di farmi lavorare. E cerca di stare zitto, almeno questo strazio riusciamo a finirlo in fretta».

Borbottando come una teiera, Nobunaga si ritrovò suo malgrado costretto a seguire il suo consiglio e si sdraiò, puntando gli occhi al soffitto pur di non guardare lei. Così bella, così determinata... e così bugiarda.

La sentì armeggiare tra gli attrezzi della cassetta di emergenza, tra guanti in lattice e bottigliette di disinfettanti, e, pur di non pensare alla sua vicinanza, preferì concentrarsi sul bruciore pulsante in fronte. Quel maledetto Rukawa, l’aveva fatto apposta, ne era sicuro! Oh, l’avrebbe–

«Ma porca zozza! Sei matta?!», ululò dal dolore, quando Hime con la sua grazia di un elefante dentro un negozio di cristalli iniziò a pulirgli la ferita. In realtà lei sapeva come non fargli troppo male, ma la sua parte sadica aveva preso il sopravvento e voleva fargliela pagare, a modo suo.

«Hai uno squarcio in fronte. Cosa ti aspettavi? Solletico?», sbottò lei, rispedendolo bello che sdraiato con una manata sul petto, i cui muscoli poteva chiaramente sentirli irrigidirsi dal dolore. Riprese a disinfettarlo ora con più delicatezza e lo sentì sospirare a lungo – forse per il sollievo, forse per la stizza. Ripulito il brutto taglio sul sopracciglio, gli spruzzò sopra un anestetico, poiché sapeva che non sarebbe stato fermo al primo accenno di dolore tra ago e filo. Non voleva rischiare di cavargli un occhio, anche se lo meritava.

Uomini.

Aprì la busta sterilizzata del porta aghi, sistemò il filo nella cruna e gli si avvicinò al viso, per controllare che tipo di sutura fare e contare ad occhio e croce quanti punti avrebbe dovuto mettergli. Ricordava ancora quando la madre aveva ceduto alle sue continue richieste su come rattoppare le ferite del fratello e glielo aveva mostrato su dei pezzi di gommapiuma – prima di usare Hanamichi come cavia, la settimana successiva.

Se non fosse stato per la pericolosa vicinanza del suo viso al proprio e di ago e filo che si muovevano davanti ai suoi occhi, Nobunaga neppure si sarebbe accorto che Hime avesse iniziato a suturarlo, seria e capace come una vera infermiera. Da quanto ne sapeva, aveva sempre mostrato un certo interesse per la medicina, proprio come la madre... proprio come il padre del Volpino.

Strinse i pugni fino a tremare, tanto che lei dovette bloccarsi un attimo per non rischiare di ferirlo sul serio.

«Ti sto facendo male?», si ritrovò a chiedergli, prima che potesse morsicarsi la lingua.

Kiyota mugugnò un diniego. Se solo avesse saputo quanto male gli stesse facendo, invece; ma non certo per due miseri punti di sutura. La sua sola vicinanza era una tortura. Che lo volesse o meno, era ancora attratto da lei, terribilmente. Aveva sempre adorato quella ruga di concentrazione che le compariva in fronte, quando l’aggrottava come in quel momento; o le labbra strette in una smorfia involontaria, con la punta della lingua che faceva capolino da un lato. Dei, era adorabile. Perché doveva essere anche una maledetta falsa?

Con soddisfazione per il lavoro svolto, Hime chiuse l’ultimo nodo e tagliò il filo. Da un’altra bustina tirò fuori una garza sterile e gli coprì la ferita, per tenerla al riparo dai batteri. Senza una parola, riprese a pulirgli il viso dal sangue rappreso e fu solo allora che le mani iniziarono a tremare, mentre cercava di trattenere l’impulso di accarezzargli gli zigomi e chinarsi per baciarlo.

Stupida di una Sakuragi! Doveva odiarlo, non innamorarsi ancora di più di lui!

Ricordando il motivo di tanto casino, gli diede le spalle, gettando il cotone sporco e i guanti in lattice nel cestino accanto al letto e, in completo silenzio, richiuse la cassetta di prima emergenza e lasciò la stanza di gran fretta. Non aveva intenzione di commettere qualche idiozia, né avrebbe sopportato la sua scomoda presenza oltre il dovuto necessario. Aveva fatto quello che le avevano chiesto, non aveva ulteriori motivi di attardarsi in sua compagnia. Per fare cosa, poi? Insultarsi e scoppiare nuovamente a piangere? No, era stanca di versare lacrime per lui. Che credesse pure ciò che voleva. Aveva la coscienza a posto, lei.

 

*

 

Non era che passato un quarto d’ora da quando aveva lasciato la partita alle spalle e il risultato era leggermente cambiato: lo Shohoku, che mai come quel momento, dall’inizio del match, era così agguerrito e deciso a vincere il primo tempo, ormai agli sgoccioli, non poté comunque fermare la furia del Kainan che, dopo l’infortunio di Kiyota, voleva prendersi la sua rivincita. 

Hanamichi, che non aveva alcuna intenzione di perdere contro quei palloni gonfiati, prese con decisione il pallone che Eichiro gli passò e si fece avanti con fermezza per un dunk all’ultimo secondo. Hime sorrise di fronte a tanto coraggio e gli gridò dietro urla di incoraggiamento. Del resto, era lì per quello.

Il sorriso le morì sulle labbra quando sia Takasago che Maki, che non doveva certo trovarsi lì, saltarono insieme al numero 10, per impedirgli di segnare. Il risultato fu disastroso. Hanamichi perse l’equilibrio in aria, sbilanciato dalla forza con cui i due lo bloccarono, e cadde all’indietro sul parquet, urtando la schiena con forza. L’arbitro fischiò fallo alla difesa, ma quando Hanamichi non diede segni di rialzarsi e, anzi, pareva dolorante, Hime lasciò cadere la cassetta del pronto soccorso dalle mani, sentendosi improvvisamente debole.

«Hanamichi!», gridò angosciata. Fece per correre dal fratello, ma Mitsui la bloccò giusto in tempo prima che invadesse il campo senza essere stata ammessa. L’arbitro le diede il permesso subito dopo e si precipitò da lui, inginocchiandosi al suo fianco e accarezzandogli il viso contratto da una smorfia di dolore. «Hana, dimmi dove senti dolore».

«La s-schiena».

Hime trattenne il fiato e, come lei, anche i compagni di squadra. Hanamichi aveva sofferto di un brutto, bruttissimo infortunio alla schiena, solo pochi mesi prima, che aveva rischiato di far concludere la sua breve carriera da cestista prematuramente; per fortuna, dopo la lunga riabilitazione sembrava tornato come nuovo. La sola idea di un nuovo infortunio, che avrebbe vanificato tutti quei mesi di cure e allenamenti, e che con molta probabilità avrebbe davvero compromesso il suo gioco, la fece sprofondare dalla paura. E non voleva pensare a come si potesse sentire il suo adorato fratellone.

«Riesci ad alzarti?», gli mormorò, senza riuscire a tenere una voce ferma e tranquilla per non spaventarlo.

Hanamichi provò a mettersi seduto, ma una fitta lancinante gli strappò un gemito di dolore e qualche lacrima.

Shin’ichi, che in parte era responsabile della caduta, si chinò su di lui. «Ti do una mano io, Sakuragi. Forza, avanti». E, afferrato con decisione con l’aiuto – udite! udite! – del Volpino, lo portarono a bordo campo, dove Ayako aveva fatto stendere un materassino di gomma. Lo fecero sdraiare pancia in giù e Hime gli massaggiò delicatamente i muscoli della schiena, chiedendogli di fermarla appena avesse sentito dolore. Quando fu il momento di controllare la spina dorsale, Hanamichi dovette cacciarsi un pugno in bocca pur di non gridare.

«Dobbiamo portarlo in ospedale per un controllo», disse Ayako, preoccupata. «Vado a chiamare un’ambul–».

«No!», esclamò Hanamichi, facendo perno sui gomiti per mettersi in piedi. Si lasciò ricadere, senza forze. «Io voglio giocare ancora... voglio, devo giocare un altro tempo», aggiunse debolmente, tremante di rabbia. Diamine, non poteva farsi fermare nuovamente dalla schiena! Il ricordo di cosa era successo quando aveva dovuto saltare la partita contro l’Aiwa gli bruciava ancora in mente e non aveva intenzione di ripetere la cosa. Lui era una pedina fondamentale nell’equilibrio della squadra, il Nonno Anzai glielo diceva sempre. E senza di lui, Mitchi e il Gorilla, avrebbero perso sicuramente – e chissà di quanto.

E poi... e poi c’era Hicchan. La sua piccola, adorata Hicchan. L’aveva praticamente costretta ad assistere a quella dannata partita contro la sua volontà, non poteva deluderla così. Che razza di fratello era?

«Ho bisogno di– di qualche minuto di riposo», disse a denti stretti il numero dieci. «Il tempo della pausa e sarò– sarò di nuovo pronto».

«Questo non posso permetterlo, Sakuragi», fece la placida voce dell’allenatore Anzai. «E lo sai bene».

«Ma, Nonno! Perderemo!».

«Può darsi, sì», annuì l’uomo, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Può darsi di no. Comunque vada, pensa a riprenderti. Non sappiamo la gravità della situazione, non voglio che la cosa peggiori».

«Ma, Nonn–».

«Taci, Do’aho».

Hime sollevò lo sguardo su Kaede, in piedi accanto a lei, ancora accucciata sul fratello.

«Non voglio di sentirti blaterare nuovamente stronzate sul tuo fondamentale ruolo in squadra che in tua assenza perde», sbottò il ragazzo.

«Nessuno di noi lo vuole», aggiunse Ryota. «Quindi porta quel tuo culone in ospedale e vedi di essere in forma per la finale, insieme a quest’altro scansafatiche».

«Che cosa ca–». Ogni improperio sulla punta della lingua di Mitsui venne sedato da uno scappellotto di Akagi, giunto in quel momento con Kogure a bordo campo.

«Ho appena chiamato un’ambulanza, arriverà tra poco», fu il suo saluto. Si chinò sul rossino, che ormai non riusciva più a fermare le lacrime di dolore e frustrazione, miste al sudore freddo che ormai lo inzuppava come un pulcino. Gli scompigliò affettuosamente i capelli rossi, ormai più lunghi rispetto all’ultima partita disputata insieme, e ghignò. «Che c’è, Sakuragi? Non ti farai abbattere così? Un ragazzotto grande e grosso come te?».

Hanamichi ringhiò il suo disappunto, scansando la sua mano come se fosse una fastidiosa mosca.

«Vedete di vincere, o davvero chi lo sente questo qui».

«Ohi, Gori!».

La partita riprese e Masuhiro Araki occupò il posto libero di Hanamichi. Non era massiccio come il numero 10, né il Centro era il suo ruolo, ma aveva una buona elevazione e l’area sotto canestro sarebbe stata di sua competenza, per il momento. Nessuno di loro, però, era fiducioso sulla sua buona riuscita.

Kiyota, che aveva assistito alla scena dalla sua panchina, represse un sorriso di soddisfazione. Tiè, Rosso-Scimma! Volevate battermi, oggi, ma vi è andata male! Uh uh uh!

«Hicchan», mormorava nel frattempo Hanamichi. «Potresti spruzzarmi un po’ di quel coso freddo che fa passare il dolore?».

La sorella scosse il capo, ma la mano grande e tremante del fratello la fece desistere dal ribattere.

«Ti prego, Hicchan. Voglio tornare in campo. Devo tornare in campo», continuò lui, con le lacrime agli occhi. «L’ultima volta contro questi bastardi ho fatto un casino e... voglio rimediare. Poi– poi andrò in ospedale, come volete, ma ti prego... fammi passare il dolore per un’altra mezzora».

Hime sollevò lo sguardo su Akagi, poi lo spostò sull’allenatore, imperturbabile come sempre.

«Potresti peggiorare la situazione, Sakuragi», disse Ayako.

«A costo di non poter giocare più, voglio battere il Kainan!», gridò il numero 10.

La panchina avversaria e i giocatori in campo si voltarono verso di lui, ancora steso a terra e col viso nascosto tra le braccia. Persino Nobunaga, che fino a poco prima se la rideva sotto i baffi, si stupì di tanta determinazione – o stupidità, più probabilmente.

«Hanamichi», disse Mitsui, accarezzandosi il ginocchio sinistro. «So cosa provi e credimi, fossi in te anche io vorrei gettarmi in campo e fregarmene di tutto. Ma non puoi rischiare. Lo Shohoku ha bisogno del grande Genio, no?».

In altre circostanze, il rossino sarebbe scoppiato a ridere, gli avrebbe dato poderose pacche sulle spalle e osannato il suo talento ai quattro venti. Fu preoccupante il fatto che neppure si mosse.

Hime strinse le labbra, si alzò e corse verso la prima cabina telefonica, sotto lo sguardo attonito di tutti, compreso Kiyota. Cosa diavolo aveva intenzione di fare?

Digitò il numero di telefono in fretta e furia e, dopo qualche squillo, per fortuna la voce familiare le rispose. «Dott. Rukawa Kanbe, con chi parlo?»

«Kanbe-san! Sono Hime, ho urgente bisogno del suo consiglio – si tratta di Hanamichi».

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Uh-oh.

 

D’oh, ultimamente è tutto un uh-oh.

Grazie a tutti voi, lettori silenziosi! E a chi l’ha aggiunta alle seguite (ho visto che il numero è aumentato, ma non so con esattezza chi sia!). E un grazie a speciale a chi mi sopporta su facebook. Vi adoooro.

A presto!

Un abbraccio,

la vostra Marta.

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Capitolo 25
*** 24. Nella tana della Scimmia ***


Capitolo 24

Nella tana della Scimmia

 

 

 

Una testa indiavolata fece capolino dalla porta, dopo aver bussato, e Hanamichi si illuminò come se avesse appena visto la sua Harukina cara. «Hicchan!»

Senza troppe cerimonie, la sorella gli si gettò addosso e lo abbracciò con forza. «Hana! Non vedevo l’ora che questa mattinata finisse per venirti a trovare!», esordì la ragazza, accucciandosi sul letto accanto a lui. «Ho portato anche i compiti, così posso farli qui in tua compagnia e aggiornarti su quello che abbiamo fatto in classe».

«E ha portato anche il tuo fidanzato! Oh, che tenerezza!», gongolò la vecchietta vicina di letto di Hanamichi, che, il caso volle, era anche la stessa che aveva importunato fino allo sfinimento Hisashi e il suo presunto ragazzo Akira.

Sakuragi per poco non la gettò dalla finestra e sbuffò nel sentire le risate della sorella e il sospiro rassegnato di Kaede. «Kit, che cavolo ci fai qui?»

«Non montarti la testa, Do’aho. Devo vedere il Vecchio».

«Non è vero, era preoccupato a morte», sussurrò Hime all’orecchio del fratello.

Kaede, in risposta, le lanciò contro la cuffia in lana e se ne andò alla ricerca del padre.

«Come stai, Hana?».

Il numero 10 si strinse nelle spalle. «Annoiato a morte. Niente allenamenti, oggi?».

«Iniziamo un’ora più tardi», replicò la sorella, sistemandosi meglio su un fianco, per guardarlo in viso. «Alcuni signori stavano prendendo le misure per comprare una sorta di moquette per coprire il parquet, durante la festa di fine anno. Altrimenti qualcuno potrebbe svenire, se dovessero rovinarlo».

Sakuragi sorrise, pizzicandole il naso. «Tu per prima».

«Dimentichi il Gorilla; farebbe una strage se qualcuno dovesse rovinare la sua palestra».

«L’ira del King Kong!»

I due gemelli scoppiarono a ridere e chiacchierarono con leggerezza sulla giornata appena trascorsa.

«La mamma?»

«Ha pranzato con me, poi è tornata a casa a farsi una dormita. Tu perché non sei venuta qui a mangiare?», domandò il ragazzo, col labbro all’infuori. «Ci siamo sentiti tanto soli».

«Oh, come no. Stavate pettegolando come due vecchie comari, lo so cosa fate quando non ci sono!», ridacchiò Hime. «Kanbe-san che dice?»

«Dovrò stare qui un paio di giorni per fare controlli e analisi, e devono insegnarmi a fare nuovi esercizi per la zona lombare. A quanto pare sembra che il mio problema non andrà migliorando, se non faccio qualcosa».

La sorella si rabbuiò immediatamente. «Intendi dire che potresti– potresti dover smettere di giocare?».

Alla sola idea Hanamichi sentì il cuore farsi pesante. Non aveva mai combinato nulla nella sua vita, prima del basket. Cosa sarebbe stato di lui se non avesse potuto più giocare? Era uno strazio starsene su quel letto a guardare il soffitto, non voleva immaginare farlo tutti i giorni. «No, non nell’immediato futuro. Rukawa Senior dice che se faccio bene e costantemente la scaletta che mi daranno, e un paio di punture al giorno, per il momento non avrò problemi. Devo solo cercare di non prendere altri colpi, ecco. Non so dirti esattamente cosa abbia, perché quell’uomo parla in medicinese e non capisco mai una mazza, ma non dovrebbe essere nulla di grave, Hicchan. Stai tranquilla».

«Hm», mugugnò lei. «Non posso stare tranquilla... dovrai marcare e sarai marcato da quel bestione di Daichi Anami, tra una settimana!».

«Bah, se gli appunti che hai rubato a Hikoichi sono giusti, sarà un gioco da ragazzi. Tanto è grosso, tanto è tonto, no?», ridacchiò lui. «E poi, sono così contento di aver battuto quei palloni gonfiati del Kainan, che sarei anche disposto a perdere contro il Porcospino! Ahaha!».

«Oh, il Porcospino!», fece la voce della nonnetta vicina di letto. «Il fidanzato di quel ragazzo che era qui qualche settimana fa, sì?».

I gemelli scoppiarono a ridere come invasati, finché gli addominali non iniziarono a fare male per l’ilarità, e fu così che Rukawa li ritrovò, completamente spalmati sul letto che si tenevano la pancia dolorante. Il padre fece capolino alle sue spalle e agitò una mano in cenno di saluto.

«Kanbe-san!», esclamò Hime, saltando giù dal letto e abbracciandolo. «Grazie, grazie mille per il suo aiuto! Le farò una statua, prima o poi!».

Rukawa Senior ridacchiò. «Mi basta che vinciate il Campionato Invernale, niente statue».

«Allora meglio che il Do’aho rimanga chiuso qui fino alla finale».

«Checcosahaidetto?!», sbraitò Hanamichi, facendo saltare la povera nonnetta dalla paura. «Guarda che contro la Nobu-Scimmia abbiamo vinto grazie al Genio qui presente! Se fossi rimasto fuori a quest’ora starem– Kitsune, non voltarmi le spalle quando ti parlo!».

Parole al vento: Kaede aveva già fatto retro-front per tornare allo Shohoku e iniziare gli allenamenti pomeridiani. Il tutto condito dalle risate di Mr. Rukawa, che nel frattempo gli si era avvicinato e cercava di calmarlo con qualche bonaria pacca sulla testa.

«Hicchan, tu non vai agli allenamenti?», domandò Hanamichi una volta calmatosi, mentre Kanbe Rukawa si avvicinava al letto della vecchietta per darle un’occhiata.

«No, oggi sto con te. Mi sono portata anche i compiti, ricordi?», replicò lei, agitandogli gli appunti sotto il naso.

Il fratello ingoiò un’imprecazione. «Ma... ma, Hicchan! Non possiamo, che so, giocare a carte?».

«Hana, devo ricordarti l’ultima volta che abbiamo giocato a poker?».

Quello divenne più rosso dei suoi capelli e si affrettò a cambiare argomento. «Mitchi riprende ad allenarsi oggi, vero?».

Dopo un sorrisino, la ragazza annuì. «Non farà niente di impegnativo, giusto un po’ di palleggi e qualche esercizio di stretching. Era esaltato alla sola idea!».

«E ci credo! Sono fermo qui da un dannato giorno e già mi prudono le mani. Come farò a stare qui fino a domani?», borbottò imbronciato, osservandosi i palmi e le dita affusolate come se potessero dargli una risposta.

Hime gliele prese tra le sue e gli baciò il dorso con infinito affetto. «In realtà ho un regalo per il mio Genio preferito».

A quelle parole le orecchie di Hanamichi si fecero attente e alzò subito lo sguardo su di lei, all’erta. «Un regalino per me?», ripeté come un ebete.

La sorella annuì con un sorriso smagliante e ficcò la testa dentro la borsa, per cercare il pensiero che aveva raccolto strada facendo. «Ta-daaan!».

Il nuovo numero della sua rivista di basket preferita – che in realtà aveva iniziato a leggere solo da pochi mesi e solo perché non voleva stare indietro con le chiacchiere tra i suoi compagni – gli si materializzò davanti agli occhi castani e sbrilluccicanti. «Hicchan! Grazie! Ho la sorella migliore del mondo!», esclamò, guardando la copertina platinata su cui Michael Jordan eseguiva una gloriosa schiacciata.

Trascorsero il pomeriggio così, tra la rivista di basket, qualche chiacchiera e i compiti di scuola, senza alcun pensiero cattivo né ricordi passati. Hanamichi, però, continuò a lanciare occhiate preoccupate alla sorella, che nonostante gli impegni e i finti sorrisi, continuava a soffrire per la rottura con Kiyota. Non aveva idea di come farglielo dimenticare, ma ci avrebbe provato.

Anzi, ci avrebbero provato, si corresse mentalmente quando i loro amici comparvero sull’uscio della camera.

«E allora, Hanamichi!», esordì Yoehi, agitando qualcosa davanti al viso. «Guarda un po’ qua cosa abbiamo per te!».

«Ohh! Le mie patatine preferite alla paprika!», sbavò il rossino, allungando le mani per prendere il suo regalo.

«Peccato che questo maiale le abbia mangiate strada facendo», aggiunse Noma, indicando Takamiya. «Accontentati delle briciole».

«O sniffa la busta, temo che abbia leccato via anche quelle», fu il consiglio di Okusu. Il maiale in questione, nel frattempo, si ripuliva le dita con la lingua, ridendosela sornione.

«Ma porco che non sei altro!», s’inalberò Hanamichi, agitando la busta delle patatine stretta in pugno, come se fosse stato il collo dell’amico.

Hime ridacchiò, conscia che lo stessero provocando perché sapevano che non avrebbe potuto reagire con movimento bruschi e testate varie.

Quei quattro disgraziati!

Quella sera stessa, dopo gli allenamenti, anche l’intero Shohoku era passato a salutare il suo numero 10 e, per fortuna, l’infermiera di turno era proprio la madre, che li fece entrare tutti insieme con la promessa di non far venire un infarto alla vecchietta accanto. Anche Sanako, prima del suo turno al bar, aveva deciso di fare una capatina e con uno scopo ben preciso in mente: far distrarre Hime Sakuragi nel modo migliore che conoscesse: facendo casino sugli spalti.

«Allora, verrai? Sì? Ho convinto anche Kaede-kun!», le stava dicendo da dieci minuti.

Rukawa lanciò all’amica un’occhiata supplichevole, ma se fosse per accettare e farla smettere o per salvare anche lui non seppe dirlo.

«Si tratta solo di un paio d’ore, poi torniamo qui a farti compagnia, Hana-chan», continuava Sana, annuendo e sorridendo come un’ebete nella speranza di convincerli tutti a seguire il suo piano. «Sono le semifinali, del resto! Non potete mancare!».

Posso eccome!, avrebbe risposto Kaede, se non fosse stato che avrebbe dato retta a quella matta di sua cugina solo perché sapeva lo stesse facendo a fin di bene - anche se la location non era esattamente la migliore.

«Ma è al... al Kainan, no?», domandò infatti Hime, crucciandosi e grattandosi la punta del naso, come sempre faceva quando era nervosa.

«Sì, ma c’è assemblea d’istituto come da noi! Le possibilità di incontrare–». Sana si zittì non appena una gomitata al fianco le fece mancare il fiato, e guardò con occhi lucidi e doloranti Kaede, che ricambiò con apparente innocenza.

«In effetti, Hicchan, non sarebbe una cattiva idea», diede manforte Hanamichi. «Insomma, non devi rimanere per forza qui con me».

«Ma–».

«Niente ma!», esclamò Ayako, colpendola con forza col ventaglio, sorda alle sue lamentele. «Domani si tifa Kobayashi e ci serve il nostro capo ultrà. Te!».

E mentre Hisashi e Miyagi si sganasciavano dalle risate nel vedere la loro seconda manager accucciata in un angolo con le mani in testa, a protezione da altre eventuali sventagliate di Ayako, l’Armata Sakuragi inveiva contro quest’ultima, giacché erano loro i più casinisti di tutti e meritavano quel titolo più della ragazza.

«Allora, verrai?».

 

*

 

Il giorno dopo Kaede si presentò a casa sua puntuale come la morte e, proprio come la morte, aveva un aspetto terribile.

«Ede!», lo salutò Hime, sollevandosi sulle punte dei piedi per baciargli la guancia gelida. «Va tutto bene? Stai male?».

Quello parve lanciarle un missile terra-aria con la forza del solo sguardo. «È l’alba. Ho sonno».

«Uh, sono le dieci di mattina».

«Appunto. È l’alba e ho sonno», ripeté il numero 11. «Avrei potuto dormire, oggi».

«Ede, tu dormi ovunque e comunque, dov’è il problema?», ridacchiò la ragazza, infilandosi gli stivali e battendo le mani coperte dai guanti. «Pronto?».

«Hn».

E mentre il Volpino si chiedeva, per l’ennesima volta, chi gliel’avesse fatto fare a lasciare il suo adorato letto confortevole e caldo, Hime gli si era appesa al braccio e aveva iniziato a chiacchierare a raffica su qualsiasi argomento, pur di non pensare al fatto che si stessero dirigendo alla tana del lupo – o della scimmia, vista la situazione.

Le possibilità di trovarlo a scuola, in quel giorno freddo e di “vacanza” erano minime, e sapeva per certo che non avesse chissà quale interesse per il nuoto – se non quello di accompagnare lei, quando glielo aveva chiesto. Il pensiero l’aveva tranquillizzata quel tanto che bastava per convincerla ad accettare la proposta di Sana, con la promessa di scappare non appena Kiyo e la Azamui avessero gareggiato, per tornare dal suo fratellone. Fortuna che l’avrebbero dimesso quel giorno, pensò stringendo il braccio dell’amico quando si ritrovarono sull’affollato treno che li avrebbe portati al Kainan.

Un dito contro la fronte la fece risvegliare dai pensieri e concentrò l’attenzione sull’amico. «Uhm?».

«Ho detto, non ci sarà anche Sendoh. Vero?».

Hime non poté esimersi dal scoppiargli a ridere in faccia. Era una persona orribile, ne era pienamente consapevole, ma l’espressione di puro terrore che gli lesse negli occhi fu memorabile. «Certo che ci sarà! Deve tifare per la cugina! Non sei contento di vederli entrambi?».

Se possibile, l’espressione gli si oscurò ulteriormente e Hime dovette consolarlo con qualche pacca sorniona sul braccio – che servì solo a sortire l’effetto contrario.

«Su, su, ci divertiremo un mondo».

«Mi divertirò di più quando lo straccerò in finale».

L’altoparlante annunciò la prossima fermata e si avviarono con fatica in prossimità delle porte, stringendosi nei cappotti e nelle sciarpe per non essere schiaffeggiati troppo brutalmente dal gelo esterno.

Notarono che molti scesero con loro, diretti anch’essi verso la piscina del liceo, e si stupirono di quanto quello sport fosse seguito. Ma d’altronde, erano entrambi così innamorati del basket che per loro non esisteva nessun altro sport al mondo degno di tanto amore.

Scorsero subito la testa appuntita di Sendoh, che neppure con la neve e tre gradi sotto zero si arrischiava a indossare una cuffia, pur di non rovinarsi la pettinatura. Hisashi era accanto a lui, con un braccio intorno alle spalle di Kiyoko, mentre lei e la Azamui salutavano i due prima delle semifinali. Sanako era con loro, avvolta come un salame in un cappotto beige, sciarpa e cuffia condita di pon-pon.

Nel vedere i cugini più sorridenti di Kanagawa, Kaede pensò che l’avventura non potesse iniziare in modo peggiore. Hime, accanto a lui, soffocò le risate dietro la sciarpa.

«Ehilà, baldi giovani!», li salutò Akira, candido come la neve che li circondava. «Dimmi un po’, Hime, che hai fatto per convincerlo a mettere fuori il naso da casa con questo tempo?».

«Io nulla. Ha fatto tutto lei!», esclamò la rossa, indicando la barista.

«Intende dire che l’ha preso per sfinimento», spiegò la Kobayashi, che ben conosceva i metodi massacranti di Sana. Quest’ultima divenne più rossa dei capelli di Hime, che la coccolò per consolarla.

«Ah! Le cugine! Sanno sempre come raggirarti, vero Kaede?», ammiccò Sendoh, con una gomitata mentre indicava la sua.

Il Volpino per poco non ringhiò. Strattonò Hime per un polso, deciso a trovare un posto lontano da quei due, mentre questa rideva ora senza ritegno, imitata dai quattro poco più indietro di loro. Ogni ilarità le si spense in gola non appena i suoi occhi incontrarono una familiare testa di capelli neri e incasinati. Accanto a lui una bella ragazza, appesa al suo braccio, gli sussurrava qualcosa all’orecchio, che lo fece scoppiare a ridere nella sua irritante e adorabile risata sguaiata.

Kaede fermò i propri passi e seguì il suo sguardo. L’elegante linea della mascella gli si serrò in un moto di stizza e la strattonò con più grazia. «Andiamo dentro».

Hime scosse il capo, notando i due avviarsi verso una delle entrate alla piscina liceale. «No, non posso», sussurrò con voce spezzata. «Ho sopportato la partita, ma questo... e lui è con… no, scusami, Ede, non ce la faccio. Vado da Hanamichi, scusami».

E con quelle parole, corse verso la stazione, sotto lo sguardo attonito degli amici. Persino Akira, che era stato informato degli ultimi avvenimenti da Hisashi, divenne una maschera di impassibilità. Fu lesto a fermare Rukawa, deciso una volta per tutte a pestare quel gran pezzo di idiota, e grazie al cielo anche Hisashi giunse in soccorso, nel tentativo di farlo ragionare.

Insicuro sul da farsi – seguirla o tornarsene a casa? – Reiko Azamui gli si avvicinò con fare conciliante. Proprio quello di cui non aveva bisogno.

«Lasciala andare, ha bisogno di stare un po’ sola».

«E tu che ne sai?», sbottò lui, stringendo i pugni.

Reiko sorrise, tristemente, e scrollò le spalle. «Ci sono passata anche io, campione. Ora vai e goditi lo spettacolo; dopo andiamo a trovarla tutti insieme, ok?».

Kaede la sorpassò senza una parola, oltremodo irritato da quel tono da mamma chioccia e quel falso sorriso che le aveva increspato le labbra solo pochi secondi prima. Ci era passata anche lei? Era stata mollata?

Sbuffò, scuotendo il capo. Ovvio che sì, solo un folle starebbe con una così.

«Allora, come sta il Genio?», domandò Akira, mentre si dirigevano sugli spalti.

«È più idiota di prima, se possibile», fu il suo pacato commento.

Hisashi, per una volta, gli diede ragione. «Non smette di vantarsi della vittoria sul Kainan, tutto merito suo».

«Beh, in parte lo è», gli fece gentilmente notare la sua ragazza, che vide bene di svignarsela per non beccarsi qualche ritorsione.

«Maledetta ingrata! Cosa ne capirai di basket, tu!», le gridò dietro il numero 14, che si prese un bel dito medio in risposta, prima che sparisse per la via degli spogliatoi.

Come ovvio che fosse, Akira si sedette accanto al Volpino, sempre più nero per la piega che quella giornata neppure iniziata aveva preso. Sana era all’altro suo fianco, che confabulava fitto fitto con Mitsui sui nuovi turni al bar, ora che era tornato operativo, mentre alle loro spalle arrivarono i casinari per eccellenza, privi del loro capo curva ma non per questo meno agguerriti del solito.

Yoehi li salutò con un cenno del capo, riservando un’occhiataccia al Sendoh Nazionale. «Allora, ragazzi! Pronti per– ehi, dov’è Hime?».

Sana scosse il capo, abbattuta, e Hisashi indicò con un cenno del capo la Scimmia Saltante dall’altro lato delle tribune, in piacevole compagnia.

«Quello stronzo!», esclamò Okusu, rimboccandosi le maniche del cappotto. «Se la fa già con un’altra!».

«Io dico di fargli sparire quel sorriso dalla faccia!», continuò Noma. «Non è servita neppure la batosta che gli abbiamo dato in campo?».

«No, ragazzi, vi prego! Niente botte!», strillò Sana, scattando in piedi per fermarli. «Se conosco Hime un poco, non ve lo perdonerebbe mai. E la violenza non è la risposta».

Takamiya sbuffò. «Oh, ma almeno è liberatoria! Dai, solo qualche cazzotto! Se lo merita!».

«Ragazzi, finitela», decretò Mitsui. «Non ora».

Scocciati e affranti, i quattro dementi si sedettero alle loro spalle, quieti come cani bastonati. La coppia del secolo li raggiunse poco dopo, scuri in viso. Avevano incrociato Hime correre come una furia verso il treno in partenza per il loro quartiere e non avevano impiegato molto a fare due più due.

«Dei, quanto avrei voluto fare il ritiro con– con– quegli altezzosi dello Shoyo, pur di non aver permesso a quella Scimmia di avvicinarsi a Hime!», esclamò con ira Ayako, con uno sguardo che avrebbe fuso il ferro, diretto verso il numero dieci del Kainan. Il modo schifato con cui aveva pronunciato il nome della squadra avversaria, nonostante la situazione e l’argomento, li fece scoppiare a ridere.

Kaede fu l’unico a non unirsi all’ilarità, gli occhi blu fissi sul pezzo di scemo che si pavoneggiava con la ragazzetta al fianco e alcuni amici, tra cui Jin. Quanto avrebbe voluto spaccargli il muso e dare una mano a quei deficienti degli amici del Do’aho.

«So cosa vorresti fare, ma non farlo».

Il Volpino si girò verso Sendoh, che aveva parlato, e crucciò la fronte. «Fatti gli affari tuoi».

«Non se di mezzo ci sono i miei amici, Kaede. E si dia il caso che Hime lo sia e non sarebbe felice della cosa».

«Quel coglione se lo merita».

«Sì, ma non è con un pugno in faccia che lo farai rinsavire – oltre al fatto che la settimana prossima avremo la finale: non vorrai saltarla per una squalifica? O magari vuoi farlo proprio perché non vuoi batterti contro di me?», aggiunse sornione, picchiettando un dito sul mento, mentre un adorabile quanto irritante sorriso gli increspava le labbra.

«Ti piacerebbe».

Akira rise e distese le gambe sullo schienale della poltroncina vuota davanti a sé. Alcune ragazze poco più in là sospirarono a cotanto adone, ma lui come sempre non ci fece alcun caso.

Poco prima che Rukawa voltasse lo sguardo dal babbuino del Kainan, questo si accorse del loro gruppo di casinisti e incrociò subito l’occhiata raggelante del suo acerrimo nemico. Parve spaesato dall’assenza di Hime, ma non ebbe il tempo di ragionare sulla cosa, che quei teppisti dello Shohoku iniziarono a inveire contro di lui e a lanciargli gestacci degni della loro raffinata educazione.

La situazione sarebbe degenerata – erano pur sempre studenti dello Shohoku al Kainan – se non fosse stato per l’inizio delle batterie della giornata di semifinali.

Le prime dieci atlete, tra cui Reiko Azamui, entrarono in vasca una decina di minuti dopo, tra il caos e le urla di incoraggiamento. Per l’ennesima volta, e non l’ultima, Kaede si domandò cosa diavolo ci trovassero di entusiasmante in quello sport ma, più di ogni altra cosa, in quella ragazzina dal sorriso irritante che, udite udite, arrivò prima anche quella volta e si avviava verso la sua seconda medaglia dal personale inizio dei campionati liceali.

Il cugino, che non aveva smesso di sorridere come l’ebete che era da quando era arrivato, si diresse verso gli spogliatoi, per aspettarla e portarla sugli spalti. La sola idea lo fece rabbrividire.

«Kaede-kun? Va tutto bene?», domandò Sana. «Ti stai annoiando, vero?».

Da spararmi in bocca. «Hn. Non preoccuparti».

«Dai, adesso tocca alla nostra nuotatrice! E poi possiamo tutti andare a trovare Hana-chan!». Il sincero entusiasmo nella voce della sua ritrovata cugina fu così contagioso che persino lui dovette rassegnarsi all’idea che fosse lì e non potesse scappare, e che almeno a fine mattinata si sarebbe distratto un poco rompendo le palle al Do’aho.

Per il momento le palle se le stava rompendo lui. L’arrivo della Azamui finì di fracassargliele senza via di ritorno, perché ovviamente Akira le cedette il posto e se la ritrovò accanto come l’ultima volta. Glielo stavano facendo apposta, ne era più che convinto.

«Ehilà, campione».

E ora perché diavolo stava prendendo l’abitudine di chiamarlo così? «Hn».

«Ti stai addormentando?».

«Ma che razza di domande fai?», fece Mitsui dall’altra parte. «È un narcolettico, cosa ti aspetti?».

«Io davvero non capisco come faccia», stava dicendo Akira. «Con tutte queste belle ragazze in cost–»

«Oh no, non di nuovo! Stai un po’ zitto, Sendoh!», si lagnarono tutti, mentre quello sghignazzava alzando le braccia al cielo.

«Monotono», borbottò Kaede, sbuffando.

«La settimana prossima verrò a vedere la partita», continuò Reiko, gli occhi blu fissi sulla vasca olimpionica sotto di loro, mentre la seconda batteria prendeva posto in pedana.

Perché, capisci qualcosa di basket? «Hn.»

«Insomma, non sono una cima di pallacanestro, ma qualcosa la capisco».

Kaede per poco non cadde dalla sedia. Era una strega, per caso? Gli leggeva la mente o cosa?

«Akira non fa altro che parlare di quanto giochi bene; sono proprio curiosa di vedere quanto esagera».

«Io non esagero mai!», esclamò con fare melodrammatico il cugino, le mani sul cuore in pezzi.

«Ecco, appunto», ridacchiò Reiko.

Rukawa alzò gli occhi al cielo. «Al massimo ha minimizzato».

«Ecco l’altro sbruffone», borbottò Mitsui, scuotendo il capo. «Sono circondato».

«Ma sentitelo!», esclamò Ryota. «mvp dei miei stivali, chi è il Capitano, eh?».

Reiko, Sana e Ayako si scambiarono un’occhiata mesta. «Che branco di palloni gonfiati».

Kiyo gareggiò alla terza e ultima batteria della giornata e, sebbene prevedibile, passò il turno con un amaro secondo tempo che non la soddisfò affatto. L’unica che parve capire il suo disappunto fu proprio Reiko, che delle volte non era soddisfatta di se stessa neppure quando migliorava i suoi tempi perché non aveva nuotato al suo massimo potenziale.

Kaede cercò con lo sguardo Kiyota, per intercettarlo e dargliene quattro, ma quello parve sparito nel nulla. La ragazzetta con cui civettava era rimasta al suo posto, in compagnia di Jin.

«Deve aver fiutato il pericolo, quella scimmia», mormorò Mitsui, in piedi al suo fianco mentre si dirigevano verso l’uscita, tra la calca disumana del resto del pubblico. «Capiterà di beccarlo da solo, vedrai. Possiamo anche non pestarlo, dato che Hime tiene ancora a quella bella faccia di cavolo... ma un magnifico spavento non glielo leva nessuno», concluse con un sorriso poco promettente.

Il numero 11 perse di vista la Guardia poco dopo, che andò alla ricerca di Kiyo per congratularsi e portarla chissà dove a festeggiare. I dementi degli amici di Sakuragi si diressero al Bar America, insieme a Sana e a Sendoh – quest’ultimo le aveva proposto di andare a pesca, ma nel vederla cianotica per il freddo aveva optato per un cambio di programma.

Così Kaede si ritrovò in compagnia della coppia dell’anno e della bisbetica dello Shoyo. Con un cenno del capo in segno di congedo, decise di defilarsi alla volta dell’ospedale, per accertarsi che Hime non si fosse gettata sotto un treno e che il Do’aho fosse ancora tutto intero – non che gli importasse più di tanto: in realtà non voleva che suo padre passasse dei guai per colpa di quello scemo.

Sistemò il colletto del pesante cappotto invernale, rabbrividendo a una nuova folata di vento e neve, e maledisse la mancanza di lettore cd per distrarsi durante il tragitto. Sfiga volle che la compagnia non gli mancò e si ritrovò in metropolitana seduto accanto a Reiko Azamui, che sorrideva al mondo come se la vita fosse stupenda e lui non volesse sopprimerla da un momento all’altro.

«Allora, dove andiamo?».

 

 

 

 

Continua...

 

 

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Capitolo 26
*** 25. Per oggi non ti detesto ***


Capitolo 25

Per oggi non ti detesto

 

 

«Hicchan, che ore sono?».

«Hana, sono trascorsi cinque minuti dall’ultima volta che me lo hai chiesto. Non è ancora ora di dimetterti».

Passarono secondi di silenzio, prima che il fratello riprese. «Sì, ma quanto manca di preciso?».

«Al momento in cui ti soffoco con un cuscino per farti stare zitto, intendi? Poco».

La Vecchina Yaoi, come l’avevano soprannominata, ridacchiò ai loro battibecchi. «Ti capisco, giovanotto, non vedi l’ora di riabbracciare il tuo fidanzato, vero?».

Questa volta fu il turno di Hime di scoppiare a ridere, mentre quello ingoiava un’imprecazione colorita e le chiedeva di smetterla senza troppi complimenti.

«Maledetta nonna pervertita», bofonchiò incrociando le braccia al petto, rosso di frustrazione e imbarazzo. «E tu non ridere, Hicchan! Non è divertente! Ho avuto gli incubi la scorsa notte, per colpa di questa qui!», esclamò con gli occhi fuori dalle orbite.

Con un sorriso candido e sdentato, la vecchietta tornò al suo romanzo rosa.

Qualcuno bussò alla porta e il viso abbronzato e serio di Shin’ichi Maki fece capolino una volta socchiusa. «Posso entrare?».

«Nonno Maki!», esclamarono in coro i gemelli, mentre quello sorrideva e si avvicinava al letto del paziente, lasciando la porta socchiusa.

«Come stai, Sakuragi?», chiese il ragazzo del Kainan, dopo aver salutato la ragazza con un affettuoso abbraccio.

«Alla grande! Ahahah! Ci vuole ben altro per mettermi fuori gioco, vecchia ciabatta!».

Shin’ichi rise. «Vedo! Scusami se non sono potuto venire a trovarti prima, ma dopo la partita dell’altro giorno, beh, ho avuto un bel da fare col Sensei Takato».

«Ahaha! Ti avrà fatto una bella lavata di capo, eh? Dopo che il Genio qui presente, nonostante la ferita di guerra, è riusc–».

Non fece mai in tempo a finire la frase, perché Hime mise in atto la minaccia di poco prima e lo soffocò con un cuscino. «Devi scusarlo, senpai. Gli antidolorifici che gli stanno dando devono avere qualche strano effetto collaterale».

Maki avrebbe voluto farle gentilmente notare che, medicinali o meno, Hanamichi avrebbe comunque osannato le sue eroiche gesta, ma l’educazione e il tatto glielo proibirono. Era un signore, lui.

E mentre il numero 10 dello Shohoku si dimenava per liberarsi dalla morsa assassina della sorella e Maki se la rideva senza muovere un dito, una figura rimase nascosta dalle spalle imponenti del proprio Capitano, indeciso se farsi vedere o rimanere nell’ombra. Forse era meglio la seconda opzione, viste le neanche tato velate minacce del rossino e la poca voglia che aveva di affrontare quella strega. Se non fosse stato per Capitan Maki che aveva insistito tanto per accompagnarlo a trovare la Scimmia Rossa, col cavolo che avrebbe messo piede in quell’ospedale.

Ogni tentativo di rimanere in disparte divenne vano nel momento in cui Hanamichi reclamò del succo di frutta e delle patatine – maledetta fogna! – e la sorella si offrì di andare a prendergliele con somma gioia. Il sorriso che vide su quell’adorabile viso incorniciato dai capelli rossi svanì nell’esatto momento in cui i suoi occhi castani incontrarono i propri.

Hime s’irrigidì e rimasero fermi a guardarsi per lunghissimi istanti. Fu solo quando sentì la voce di Hana parlottare con Maki che decise di chiudersi la porta alle spalle, per non dargli la possibilità di inveire contro Kiyota e rischiare un casino colossale.

Aveva un cerotto, laddove l’aveva ricucito sul sopracciglio, e la solita espressione di disprezzo che aveva imparato a conoscere in quegli ultimi giorni. Ricordò solo allora del perché lei fosse tornata in ospedale e non fosse con gli amici a tifare le senpai Kobayashi e Azamui, e la vista di lui con una ragazza al braccio l’accecò di rabbia.

«Che ci fai qui? La tua dolce compagnia ti ha già mollato?», gli domandò velenosa, incrociando le braccia sotto il seno.

Kiyota sgranò gli occhi, sinceramente stupito. «La mia che?».

«Non fare finta di non capire. Ti ho visto con i miei occhi, non mi sto inventando false supposizioni sulla base di cose inesistenti come qualcuno di mia conoscenza», sputò, prima di potersi fermare. Non voleva fare una scenata di gelosia – del resto era stato molto chiaro, non stavano più insieme e non poteva avere più alcuna pretesa –, ma la ferita era ancora fresca, bruciava come il primo giorno, e non poté trattenersi.

«Che diavolo stai farneticando? Quella è un’amica!».

Hime sorrise, priva di divertimento. «Quindi fammi capire: tu puoi avere amiche, io non posso avere amici».

«Ti dico che è un’amica e che è innamorata persa di Jin, la stavo solo aiutando a–». Nobunaga s’interruppe, ora arrabbiato. «Perché cavolo devo giustificarmi? Non ho fatto niente di male!».

«E io non ti ho mai tenuto all’oscuro della mia amicizia con Kaede! Nemmeno io ho fatto niente di male!», esclamò, mordendosi le labbra per aver alzato la voce. «Senti, non ho voglia di litigare di nuovo e soprattutto non qui. Non è il posto adatto per–».

Hime non terminò la frase, poiché lo sguardo di Kiyota s’indurì così improvvisamente, diretto oltre le sue spalle, che le mancò il fiato.

«Ma certo, che stupido. Non vuoi far fare brutte figure a tuo suocero, vero?», le sibilò, mentre Kaede arrivava in quel momento in compagnia di Reiko. Nobunaga ghignò. «O devo dire ex-suocero? Forse anche il tuo bello ha deciso di guardare altrove?».

La vista del suo migliore amico insieme alla Azamui ebbe lo stesso effetto rinvigorente di una doccia dopo una lunga partita di basket e, dimentica di quell’idiota, sorrise ai due con calore.

«Va tutto bene?», chiese Kaede, senza staccare lo sguardo da quello del giocatore del Kainan, che ricambiava con astio.

«Sì, Ede. Se ne stava giusto andando».

Kiyota voltò le spalle. «Vorrei non essere mai venuto, maledetta donna scimmia!».

Kaede fece per muoversi verso il ragazzo, ma una mano decisa lo bloccò all’altezza del petto. Abbassò lo sguardo su Reiko, che gli indicò Hime ancora una volta in lacrime.

«Ti odio, Kiyota! Ti odio così tanto da far male!», esclamò, facendolo vacillare per un lungo istante. «Spero ti fiderai un po’ di più della tua prossima ragazza, se mai ne troverai un’altra. Non c’è amore senza fiducia. E io mi fidavo ciecamente di te».

E con quelle parole Hime corse dalla parte opposta del corridoio, lasciando uno sgomento Nobunaga e un incazzatissimo Rukawa, che avrebbe tanto voluto spaccargli quel muso da babbuino che si ritrovava. Del resto, si disse, era già in ospedale.

«Calmati, campione», cercò di tranquillizzarlo Reiko. «Credo che le parole della Sakuragi l’abbiano colpito più forte di qualsiasi tuo pugno. Vieni, la tua amica ha bisogno di te, ora». E preso per un polso, lo trascinò verso il punto in cui Hime era sparita. «Oh e, Kiyota-kun: sei un idiota colossale. Spero che tu ne sia consapevole», aggiunse la ragazza, con un candido e malefico sorriso, prima di proseguire.

La trovarono nella saletta d’attesa, seduta su una poltroncina in plastica blu all’angolo. Prima di avvicinarsi, Reiko si diresse alla macchinetta di merendine, racimolò qualche yen e cercò la porcheria giusta.

«È la prima volta dopo anni che compro barrette di cioccolato», confessò al numero 11 dello Shohoku, che la osservava in silenzio. «Ma non è per me, stai tranquillo», lo rassicurò con un sorriso, come se gli importasse davvero qualcosa di ciò che stava blaterando. «Al latte o fondente?».

«Latte con nocciole», rispose Kaede, che conosceva a memoria i gusti dell’amica. Non avrebbe mai capito come riuscisse a ingurgitare cioccolato al latte. Era disgustosamente dolce.

Hime sollevò lo sguardo acquoso sui due, non appena le si sedettero accanto, e strinse le gambe al petto. «Scusatemi, sono una piagnona».

La Azamui si crucciò. «E lui un grandissimo– no, non lo dirò. Mia madre ha il sesto senso per le parolacce, è capacissima di sentirmi fin qui. Ad ogni modo», disse, mentre le porgeva il suo piccolo regalo, «il cioccolato farà ingrassare, ma è ottimo per il morale».

La ragazza dello Shohoku osservò le barrette ipercaloriche che Reiko le stava gentilmente porgendo e quasi scoppiò a ridere. «Tu sì che sai come sollevare l’umore di qualcuno!»

Reiko sorrise, abbassando la voce. «Da piccola ero sempre parecchio “triste” e avevo bisogno di molta cioccolata. Ho iniziato a fare nuoto quando, come dire, sono diventata troppo felice».

«Tu? Triste?», non riuscì a fermarsi Rukawa, guardandola come se le fosse spuntata una seconda testa. «Hai la minima idea di cosa significhi?»

Reiko, come ovvio che fosse, rise, insieme alla Sakuragi che asciugava le lacrime con la manica del maglione e abbracciò la nuotatrice, grata.

Chiacchierarono di tutto e niente, sotto lo sguardo stralunato di Kaede. Reiko, infatti, esattamente come avrebbe fatto il cugino, era riuscita a far tornare il sorriso sulle labbra alla sua migliore amica, e con il minimo sforzo. Hime sembrava aver lasciato alle spalle lo scontro di poco prima e ora ridacchiava e scherzava con la senpai come se fossero amiche di vecchia data.

Solo quando la rossa parve tornata la ragazza pimpante di sempre e si sentì pronta per tornare dal fratello senza che questo si accorgesse degli occhi arrossati, si alzò per recuperare succo di frutta e patatine per Hanamichi.

«Starà morendo di fame, sono in ritardissimo!»

«Ma lascialo fare», esclamò Kaede, nella speranza che il rossino crepasse davvero di stenti.

Hime trotterellò verso la camera di Hanamichi, lasciandoli indietro a seguirla.

«Ehi».

Reiko fermò i suoi passi, guardandosi oltre le spalle. «Uhm?»

Kaede strinse le labbra, cercando la forza di parlare. «… Grazie».

Non ci fu bisogno che spiegasse quella singola parola. Reiko lo capì ugualmente. «Figurati, campione. Il sorriso di Hime è troppo bello per essere spento come una candela».

Restarono a osservarsi per qualche secondo, prima che Kaede la superasse. «E non chiamarmi campione».

Reiko lo guardò con i suoi grandi e ridenti occhi blu, seguendolo. «Perché non lo sei?».

 

*

 

Rimasero in compagnia dei Sakuragi per il resto della mattinata. Hanamichi fu dimesso prima di pranzo e pareva più in forze di prima – per la gioia della sorella e la disperazione di Kaede. Si diressero al Bar America per pranzo e Hime decise di trascinarsi dietro anche la Azamui, prendendola sotto braccio e sorda alle sue proteste.

«Tranquilla, chiediamo a Sana di farti fare una chiamata a casa per tranquillizzare i tuoi. Poi ti faccio riaccompagnare da Ede, così torni sana e salva».

Reiko ridacchiò. «Non ne sarei così sicura; temo che voglia uccidermi».

«Perspicace», fu il commento del diretto interessato, che camminava alle loro spalle accanto al rossino.

«E temo che voglia uccidere anche lui», aggiunse la nuotatrice, indicando con un cenno del capo il cugino, visibile dalla vetrata del bar e seduto insieme ai Gundam, Mitsui e la Kobayashi. Sanako era dietro il bancone, nonostante non fosse orario di lavoro: tenerla ferma un secondo era pressoché impossibile.

«Buondì!», esclamò Hanamichi, gasato come non mai per essere finalmente riuscito a scappare da quell’infernale letto di ospedale. «Guardate un po’! Sono più in forma e smagliante di prima! Vero, Hicchan? Ahahaha!»

«Forse intendevi dire più imbarazzante», puntualizzò Noma, che due secondi più tardi si ritrovò con la fronte fumante e un nuovo bernoccolo aggiunto alla sua personale collezione.

«Dobbiamo festeggiare!», stava invece blaterando Hime, battendo un pugno sul palmo della mano. «Watanabe-san, cioccolata calda per tutti!»

«Ma è ora di pranzo!», si lamentò qualcuno.

«Suvvia, è il dessert!»

«Ma si mangia alla fine!»

«E da quando seguiamo le regole?!»

Il signor Watanabe sollevò lo sguardo ridente sulla ragazza e il sorriso gli si allargò in un’espressione di stupore quando vide la brunetta accanto alla Sakuragi. «Nipotina mia! Sei venuta a trovarmi, finalmente?»

Reiko divenne rossa come i capelli di Hime e, mentre balbettava una scusa plausibile per non essere mai passata prima e cercava di non rispondere alle provocazioni del cugino che se la rideva alla grande, si diresse ad abbracciare lo zio e chiedergli di fare una telefonata.

Nel frattempo Hanamichi aveva iniziato a spostare tavoli e sedie, per unirli a quelli degli altri in un gran casino. Il signor Watanabe non mosse neppure un muscolo: era talmente abituato a quel baccano, quando quei selvaggi entravano nel suo bar, che ormai non ci faceva neppure caso.

«Come ti senti?», domandò Yoehi al suo migliore amico, una volta che riuscì a sedersi.

«Alla grande! Ahahah! Mai sentito meglio!»

Akira sorrise, affabile. «È un’ottima notizia, Hanamichi. Mi sarebbe dispiaciuto non averti in campo».

«Bah, non era niente… solo un muscoletto indolenzito, ecco. Figurati se mi perdo la finale! Devo asfaltarti i capelli, io! Ahahaha!»

E tra occhiate rassegnate e la medesima vergognosa immagine in testa – Hanamichi che piagnucolava di dolore una volta finita la partita contro il Kainan e si appellava alla sua sorellina per farlo stare meglio –, lo zio di Akira e Reiko iniziò a prendere le ordinazioni per pranzo. Quest’ultima, per gioia immensa di Rukawa e grazie all’occhiata d’intesa tra quella strega di Hime e il Porcospino, si era ritrovata nuovamente seduta al fianco del numero 11 dello Shohoku e gli sorrideva come se fosse il momento più bello della sua vita. Con uno sbuffo Kaede decise di odiarla un po’ meno – ma solo per quel giorno, dato che si era fatta in quattro pur di sollevare il morale alla sua migliore amica. Il giorno dopo avrebbe ripreso a detestarla come normale che fosse.

Sana, nel frattempo, era intenta a riempire i bicchieri per i suoi amici, chi di acqua e chi di coca.

«Mi spieghi una cosa, Porcospino?», domandò d’un tratto Mitsui, osservandola mentre lavorava dietro al bancone.

Akira seguì il suo sguardo. «Uhm?»

«Perché non ti sei ancora fatto avanti?»

Il Capitano del Ryonan non rispose subito, ponderando le sue parole con attenzione. «Bella domanda, amico».

Hisashi incurvò un sopracciglio, perplesso. «Che c’è da pensarci su? Pende dalle tue labbra, idiota. Sarebbe un colpo sicuro. E non dirmi che la cosa non sia reciproca, altrimenti ti spacco il muso».

«Manesco», borbottò Akira, passandosi le mani in viso. «E comunque è timida con tutti, non pende dalle mie labbra».

L’occhiata che Kiyo gli riservò fu eloquente. «Vuoi farmi credere che non ti sei accorto di come ti guarda e di come va in iperventilazione ogni volta che le rivolgi la parola? Devo raccontarti cosa dice sulle tue spalle larghe e il tuo ―»

«Ti prego. Basta», la supplicò Hisashi, tappandosi le orecchie per non ascoltare oltre.

Akira rise, grattandosi la nuca in imbarazzo. «È complicato».

«Sei esasperante», sbottò la guardia. «Cosa c’è di complicato? Lei ti piace, tu le piaci: fatevi una trombata, porca zozza!»

«Mitsui!», esclamarono in coro il suo datore di lavoro e Kiyo; l’uomo scoppiò a ridere poco dopo nel vedere la faccia paonazza del nipote.

«Glielo dica anche lei, sensei!»

«Dirgli cosa?», domandò Sana, comparendo in quel momento per servire le ordinazioni degli ultimi arrivati, e che grazie al cielo erano talmente infognati in qualche cazzata che stava dicendo Hanamichi, che non avevano prestato attenzione ai discorsi dei due.

«Niente», borbottò Akira, sviando lo sguardo verso la strada. Sana crucciò la fronte, ma non commentò, tornando verso il bancone.

«Guarda che se non ti dai una mossa qualcuno te la frega», lo mise in guardia Hisashi. «Mito, per esempio, mi sembra molto interessato alla ragazza e, chissà perché, ogni volta che ti guarda fiuto pericolo».

Akira si rinchiuse in uno strano mutismo e neppure Reiko, interpellata dall’altro lato della tavolata, riuscì a cavargli qualche parola di spiegazione.

«Beh, non venirmi a dire che non ti ho avvisato, idiota», concluse Hisashi, stiracchiandosi le braccia e sorridendo con malizia alla sua ragazza, che non si era persa un movimento.

Kaede, nel frattempo, pensò che una bella seduta di harakiri sarebbe stata la cosa migliore nella sua situazione. Da un lato la Azamui, dall’altro Hime, che parlavano fitto fitto di yoga e feng shui. Ci mancava un’altra schizzata di quella robaccia, pensò sbuffando.

«E quando vai? E dove?», stava domandando la rossa, interessata. «Ho sempre voluto iniziare, ma il basket mi ha costantemente assorbito troppe energie e non ho mai trovato il tempo».

«Ti farebbe bene, specialmente la sera prima di una partita importante. Lo faccio sempre per concentrarmi e calmarmi. Altrimenti ogni mercoledì, dalle sette alle nove».

E bla bla bla sui saluti al sole e alla luna e altre cazzate simili. Kaede non avrebbe mai creduto che quella giornata sarebbe stata così lunga.

«Possiamo vederci nei nostri giorni liberi e praticarlo insieme, se ti va. Abitiamo lontane, ma c’è una palestra a metà strada che potrebbe fare il caso nostro», stava continuando Reiko.

Kaede strizzò gli occhi, stordito quando Hime strillò un sì d’assenso, trapanandogli un timpano senza possibilità di ritorno.

«Questa domenica sera andrebbe bene?»

La seconda manager dello Shohoku fece per accettare, quando un pensiero le passò per la testa. Aveva preso un impegno, settimane addietro, per quel fine settimana. Aveva avuto un’idea geniale per un regalo e sarebbe dovuta andare a vederlo proprio quel giorno; ma data la situazione avrebbe potuto evitare. «Sì, sì, va bene».

Reiko la osservò con curiosità e anche Kaede non riuscì a capire cosa fosse quello sguardo accigliato. «Avevi un altro impegno?»

Hime agitò una mano, come per scacciare una mosca. «Niente di importante, davvero».

«Possiamo fare un altro giorno, o dopo che ti occupi di qualsiasi cosa tu debba fare».

La rossa si mordicchiò un labbro. «Vediamo, dai. Ma non è niente di importante», ripeté, più per convincere se stessa che la ragazza. Non era possibile che stesse prendendo in considerazione l’idea di farlo ugualmente. Non dopo quello che era successo quella stessa mattina, era per caso idiota?

Scosse il capo, sorridendo con fare poco rassicurante ai due, e decise di concentrarsi sui racconti demenziali di Hanamichi, che come sempre stava facendo sganasciare tutti dalle risate – vicini di tavolo compresi. Fortuna sua che aveva suo fratello e i suoi amici a rischiararle le idee.

Pranzarono nel caos totale, come sempre del resto, e trascorsero un piacevole pomeriggio all’insegna del relax e del dolce far nulla, finché giunse l’ora degli allenamenti. Da lì alla finale si sarebbero svolti ogni giorno – ordini perentori del Tappo Malefico.

Reiko, senza neanche accorgersene, si ritrovò catapultata nella palestra dello Shohoku, seduta accanto alla sua rivale di nuoto e ai quattro casinisti dell’Armata Sakuragi. Akira, invece, venne gentilmente mandato via a calci per non spiare i loro schemi e allenamenti; in compenso, Hime gli chiese di rendersi utile, mandandolo a lavorare per la festa di fine anno insieme a Sana, e a compiere qualcosa di segretissimo che Kaede non riuscì a cogliere.

Qualunque cosa fosse, pensò, fu contento di non averlo tra i piedi.

Incrociò lo sguardo della cugina di Sendoh e sentì il sollievo sgretolarsi davanti a quel sorriso fastidiosamente contagioso. Peggio che mai, si disse. Meglio rompere le palle al Do’aho e dimenticarsi di quella piattola. Del resto, si era ripromesso di detestarla un po’ meno, quel giorno, ma non significava tollerarne completamente la presenza.

E mentre Hanamichi e Hisashi si riscaldavano insieme per non sforzare rispettivamente schiena e ginocchio, e bestemmiavano ogni tre per due perché anche loro volevano allenarsi con gli altri, la serata trascorse veloce, tra palleggi, passaggi e il classico scricchiolio delle scarpe da ginnastica sul parquet lucido.

«Come se la passano?», domandò la voce di Akagi, fermo sull’ingresso insieme alla sorella e Kogure.

«Capitano!», strillò Hime, saltandogli addosso.

«Ehi! Il Capitano sono io, deficiente!», s’inalberò Ryota, mentre Hanamichi e Hisashi stramazzarono a terra dalle risata – e si beccarono una sventagliata dalla loro personal trainer, Ayako, sempre pronta a difendere il suo amato ma, soprattutto, a farli rigare dritto.

«Direi benone, come vedi», fu la risposta divertita di Hime.

«Sakuragi è sempre così pieno di energie, anche quando sta male», commentò Haruko, sinceramente felice di vederlo in campo. «Per fortuna la caduta non ha comportato niente di grave».

La sorella del Rossino annuì. «Sarà difficile con Daichi Anami da marcare; spero solo che Hana non si faccia male di nuovo».

Akagi sospirò. «Quel ragazzo sarà un po’ tardo, ma l’ho visto giocare ed è impressionante».

«Si sta riferendo ad Hanamichi, vero?», fu l’ovvia domanda di Noma, che li fece scoppiare tutti a ridere – Gorilla compreso. Fortuna sua che il diretto interessato non li udì, altrimenti avrebbe fatto crollare l’intero stabile a suon di testate.

«Siete cattivi», si lamentò Haruko. «Sakuragi ha davvero del talento!»

«Haruko, cara, perché questo non glielo dici di persona? Lo faresti molto, ma molto felice», le consigliò Hime, che si guadagnò l’occhiata perplessa dell’altra. La seconda manager pensò che non ci fosse nulla da fare: Haruko non si sarebbe mai accorta di quanto il fratello ne fosse innamorato, giacché era troppo intenta a fissare Kaede asciugarsi il sudore dalla fronte con l’orlo della maglia – mentre lei, invece, asciugava il sangue dal naso che le era colato alla vista dei suoi addominali.

«Fatemi capire», mormorò Reiko, guardandosi intorno e studiando la situazione, stando ben attenta a non farsi sentire dagli interessati. «Sakuragi è innamorato della Akagi, che è innamorata di Rukawa, che non se la fila affatto. Giusto?»

«Non fa una piega», applaudirono i Gundam.

«Beh, non che ci voglia un genio per capir–»

«Genio? Qualcuno mi sta chiamando?», sbraitò Hanamichi, mani sui fianchi e passo felpato.

«Che cacchio hai al posto delle orecchie, tu?!»

A centro campo i giocatori si voltarono verso tutto quel baccano.

«Si può sapere che hanno da blaterare?», domandò Araki, sbuffando. «La mia bella deve stare qui con noi, non con quegli idioti!»

«La tua bella è ancora off-limits, Casanova», gli fece notare Ryota. «E lo sarà per parecchio tempo. Quindi mettiti il cuore in pace e concentrati, se non vuoi che ti cacci dalla squadra!»

Gli allenamenti terminarono un’ora dopo e i bestioni andarono a farsi una meritata doccia, prima di tornare a casa. Kaede avrebbe preferito annegare sotto il soffione dell’acqua, pur di non dover riaccompagnare a casa quella iena sorridente della Azamui. Hime l’avrebbe pagata cara per quel tiro mancino.

Trovò la nuotatrice intenta a chiacchierare con le ragazze e registrò solo di striscio la presenza della Akagi, dato che se ne stava in un angolino ad ascoltare le altre quattro.

Reiko gli sorrise e si alzò, battendo le mani. «Pronti?»

«Ammazzatemi».

«Oh, suvvia, Ede. Cosa ti costa?», lo spintonò Hime, che non lo smosse di un solo centimetro.

Reiko si infilò il cappotto e la cuffietta in lana. «Beh, facciamo progressi: prima voleva ammazzare me, ora opta per il suicidio. Direi che sono salva, per oggi».

Con un’occhiata fulminante, Kaede la sorpassò, intimandole di sbrigarsi se non avesse voluto tornare a casa da sola. Con un saluto e la promessa di rivedersi presto, Reiko si affrettò a seguirlo, sotto lo sguardo marpione di Hime e Ayako, e quello stordito di Kiyo.

Haruko, invece, osservò in silenzio il suo numero 11 andarsene con quella bella ragazza; sentì le gambe diventare molli e gli occhi pizzicarle. Fortuna sua che fosse già seduta. Chi era, come faceva a conoscerlo e ad avere così tanta confidenza? Credeva che le uniche amiche che avesse fossero la Sakuragi e Ayako, e sebbene nutrisse dei sospetti sul rapporto con la prima, era sicurissima che non ci fosse nessun’altra a ostacolarla.

Di tutt’altro avviso furono le tre del Rukawa Shitenai, appartate all’uscita della palestra per fargli il consueto agguato, e che iniziarono a inveire contro la sconosciuta e a minacciarla pesantemente di prenderla a sberle se non avesse lasciato stare il loro idolo. Reiko, d’altra parte, sorrise loro con fare affabile, liquidandole con un saluto e chiedendo cosa avrebbero fatto se Rukawa avesse dimostrato interesse per una solo di loro. Se le lasciarono alle spalle nel bel mezzo di un litigio colossale e Kaede, per la seconda volta in quella bizzarra giornata, pensò che quella ragazza non fosse così tanto malaccio.

«Allora, campione, che mi racconti di bello?»

Hn, era evidente che fosse stanco morto per pensare una stronzata simile.

Aveva bisogno di dormire, sì.

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Capitolo 27
*** 26. Complotti fraterni ***


Capitolo 26

Complotti fraterni

 

 

 

Il ritmico rimbalzo della palla dal muro al pavimento era l’unico suono che proveniva dalla stanza semibuia. Aveva deciso di chiudere gli scuri scorrevoli per evitare la spiacevole vista della neve, e di conseguenza non pensare a lei, ma purtroppo non aveva ottenuto il risultato sperato. Era entrato in quello stato apatico dal loro ultimo incontro, quella mattina in ospedale, e nonostante i buoni propositi di farsi scivolare addosso le sue parole come acqua sotto la doccia, non faceva altro che riviverle di continuo.

«Ti odio, Kiyota! Ti odio così tanto da far male!»

L’aveva debilitato. Era lui a odiarla, non viceversa! Con che diritto lo faceva?

Ma era stata la frase successiva a farlo vacillare sul serio, compreso il suo strano sollievo nel vedere Rukawa in compagnia di un’altra.

«Spero ti fiderai un po’ di più della tua prossima ragazza, se mai ne troverai un’altra. Non c’è amore senza fiducia. E io mi fidavo ciecamente di te».

Cosa stava cercando di dirgli? Che lo aveva amato, a differenza sua? Era forse pazza? Lui era innamoratissimo di lei, dannazione, lo era ancora! Era stata lei a prenderlo in giro, non viceversa. Tutti sapevano della sua relazione con Rukawa, tutti tranne lui. L’idiota di turno che si era fatto imbambolare dai suoi modi stravaganti e dalla risata contagiosa, dal suo incredibile stile di gioco e gli adorabili capelli da strega.

Peccato che lo fosse davvero, una megera.

Continuò così per i successivi dieci minuti, palla contro il muro, rimbalzo a terra, ripresa con entrambe le mani; finché non udì bussare timidamente alla porta e fermò i suoi movimenti. La testa nera della sorellina fece capolino sull’uscio. Era in piedi, l’uso delle protesi era diventato quasi familiare e ogni giorno che passava utilizzava sempre più di rado la carrozzina, specialmente in casa e per corti percorsi.

«Nobu», lo salutò lei, stringendo le labbra in un sorriso tirato. «Sto provando a studiare, ma con questo rumore non riesco».

Il numero dieci del Kainan divenne rosso come il pallone che teneva in mano e lo poggiò in terra. «Scusami, Ari-chan. Ti serve una mano?»

Lei annuì. «Matematica».

Nobu sbuffò di divertimento. «Non ti entrerà mai in testa, eh? Forza, fammi vedere».

La seguì in camera e ringraziò il cielo della sua sorellina, che per qualche ora riuscì a distrarlo con le sue equazioni impossibili e i presunti risultati sbagliati del libro.

«Nobu», fece Arimi, a voce bassa per paura che il fratello la rimproverasse. «Vuoi per caso parlarne?». Non c’era bisogno di specificare l’oggetto della discussione; Kiyota lo capì al volo e si rabbuiò.

«Non ho molto da dire, Ari-chan».

«Non c’è proprio nulla che possa fare? Perché non provate a parlare civilmente?»

«E sentirmi dire altre bugie?»

«E se ti stessi sbagliando?»

Nobu incrociò le braccia al petto, imbronciato. «Non mi sto sbagliando, non questa volta. Ci sono stati tanti di quei segnali e io sono stato uno scemo per non essermene accorto prima».

«Fratellone, ho visto come stavate bene insieme. Non credo davvero sia possibile che stesse mentendo tutto quel tempo. Per quel poco che la conosco, Hime-san è una persona aperta, non starebbe con qualcuno se non lo volesse davvero. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo?».

«Pff. A quanto pare non la conosco neanche io. Possiamo cambiare argomento, Ari-chan?».

La ragazza annuì, sconsolata. Si sentiva la sorella più inutile del mondo. Suo fratello stava soffrendo da settimane e lei non aveva la più pallida idea di cosa fare per farlo sentire meglio. E ne era sicura, anche la senpai Hime stava male.

Strinse le labbra quando lui lasciò la stanza, dichiarando di andare a scolarsi una coca-cola in cucina. Il suo sguardo si posò sul telefono appeso al muro del corridoio, proprio davanti alla sua porta, e un’idea geniale le venne in mente. Doveva solo aspettare che Nobunaga uscisse quel sabato pomeriggio: le aveva detto che Jin avesse organizzato un pranzo a casa sua con la squadra, non per festeggiare una vittoria ma per cercare di tirare su il morale ai suoi compagni.

Sperò vivamente che ci riuscisse.

 

*

 

Casa Jin non era mai stata così caotica – per la disperazione della signora di casa, che era sempre così pacata da non alzare mai il tono della voce più di un sussurro. L’intero Kainan King si era riunito per pranzo con la voglia di riprendersi dall’amara sconfitta contro lo Shohoku, soprattutto i più anziani che avevano visto sfumare la possibilità di vincere il loro ultimo campionato scolastico, prima dell’inizio dell’università. Quasi tutti stavano riuscendo nell’intento, per la gioia dell’organizzatore.

Tutti, tranne uno.

Nobunaga stava pizzicando il suo pranzo con la punta delle bacchette, quando sentì una mano sulla spalla scuoterlo. «Uh? Oh, Capitano, che c’è?»

Shin’chi Maki aggrottò la fronte, abbacchiato. «Non hai fame?»

L’altro si strinse nelle spalle. «No, non molta».

«Quel ramen lo ha preparato la madre di Soichiro, e sappiamo tutti quanto brava sia quella donna in cucina», tentò Muto, risucchiando rumorosamente il brodo dalla ciotola per confermare le sue parole.

«Non lo metto in dubbio», borbottò Nobunaga, buttando giù un boccone di malavoglia. «Uhm, sì, è decisamente buonissimo».

Maki sospirò con pesantezza, scambiando un’occhiata con Jin, dall’altra parte del tavolo. L’espressione serena di quest’ultimo, che fino a poco prima stava sorridendo e ridacchiando a qualche racconto scemo dei suoi compagni, cadde nel momento in cui vide l’unica persona che non si stava divertendo affatto – e sapeva per certo che la partita persa non era il motivo principale di tanta tristezza.

«Allora, vuoi deciderti a fare qualcosa per toglierti questa faccia da disperato, o devo farlo io?», sbottò il numero quattro del Kainan, per la prima volta sinceramente adirato. Nobunaga arrossì fino alla punta dei capelli e si fece piccolo piccolo sul suo cuscino, mentre il resto della squadra ammutoliva di colpo.

«Shin», lo rimproverò bonariamente Soichiro, ma quello non gli badò.

«Hai fatto un casino, Kiyota Nobunaga, e devi risolverlo. Punto. Non serve a niente mettere il muso e rovinare la festa agli altri».

«Io non ho fatto un bel niente, Capitano! È stata lei a–» Non riuscì a finire la frase, dato che un improvviso pugno sulla testa gli fece morsicare la lingua tra i denti.

«Quando siamo andati a trovare Sakuragi... vi siete incontrati, vero?»

«Uh… più scontrati, direi», borbottò Nobunaga, lanciando un’occhiata sbieca e imbarazzata alla squadra, evidentemente troppo interessata alla loro discussione per continuare a fare casino – maledette pettegole in pantaloncini. «Capitano, possiamo parlarne in un altro momento?»

«No».

Il numero dieci incurvò la schiena, abbattuto. «E cosa vuoi che dica?»

«Cos’altro è successo, per esempio. Fino all’altro giorno eri incavolato con il mondo, ora sembri un cane bastonato», spiegò Maki, abbassando il tono di voce. «Sono preoccupato per te, Nobunaga».

Il resto del Kainan, capendo che la discussione pubblica fosse finita, riprese a chiacchierare. Solo Jin rimase con un orecchio teso verso i due.

«Ha detto di odiarmi. “Ti odio così tanto da far male”», la scimmiottò, le nocche che divennero bianche come il latte per quanto stava stringendo i pugni. «E mi ha fatto intendere che… ecco, che fosse innamorata di me, davvero innamorata, a differenza mia».

«E questo ti turba?»

«Diamine, certo che sì!», s’inalberò. «Continua a raccontare frottole, nonostante tutto! Avrei dovuto dirle io, quelle cose, non viceversa».

Il numero quattro lo osservò in silenzio, mentre si arrovellava le cervella, e capì che non gli stesse dicendo tutto. «Cos’altro è successo?»

Nobunaga si mordicchiò il pollice, serrando la mandibola. «Non hai proprio sentito niente?» Al cenno negativo dell’altro, sbuffò. «Crede che stia uscendo con Nana, solo perché ci ha visto insieme alle piscine».

Il sempre pacato Soichiro quasi sputò l’acqua che aveva appena bevuto. «Cosa?!»

«Eh, quello che ho detto io!», replicò la Scimmietta. «Insomma, con tutto il rispetto, Jin-san, ma non è proprio il mio tipo».

«E meno male», ridacchiò la Guardia del Kainan. «Non mi piacerebbe essere un tuo rivale! Comunque, la Sakuragi è gelosa. È un buon segno, no?»

Dopo qualche istante di silenzio Nobu borbottò qualcosa, ma nessuno capì in che lingua stesse parlando. Solo in quel momento si rese veramente conto che sì, Hime era gelosa, ma non di chi credeva lui. Non certo di Rukawa.

L’illuminazione lo colpì come un poderoso pugno allo stomaco e gli mancò il fiato. I suoi amici e compagni di squadra gli chiesero spiegazioni, così raccontò loro che poco dopo fosse arrivato il Volpino con una bella ragazza – “la cugina del Porcospino, credo fosse lei” – e anziché essere disperata per il tradimento dell’amato, Hime gli era sembrata quasi sollevata di vederli insieme.

«Hai capito, Rukawa con una ragazza!», esclamò quel bisonte di Takasago, dando inizio alle speculazioni e alle battute sul fatto che stesse uscendo con la cugina del suo peggior rivale.

«Che sia qualche subdola tattica per indebolire Sendoh?», chiese un altro.

«Probabile; Sakuragi lo dice spesso: le volpi sono infime!»

«E comunque non credo saprebbe cosa farci, con una ragazza», commentò un altro, sghignazzando.

Soichiro, nel frattempo, si grattò il mento, pensieroso. «Forse dovrei parlarle. Alla Sakuragi, intendo. E dirle che Nana non è interessata a te e che la cosa è reciproca».

«Oh, no, senpai, non farlo», replicò Nobunaga, con le mani tra i capelli lunghi e neri. «Gliel’ho già detto e non è servito a niente. Merda, e se avessi davvero frainteso tutto? Se anche i suoi amici e quell’idiota del fratello avessero capito male?»

«Ti prenderei a sberle, se potessi», sbottò Maki, stringendosi la radice del naso tra le dita. «Le hai mai dato la possibilità di replicare e spiegarsi?»

«Certo che sì! E lei non ha aperto bocca!»

«Forse perché era troppo sorpresa da quella doccia fredda che le hai gettato addosso, di punto in bianco?»

«Ma–»

L’occhiata gelida del senpai Maki gli fece morire le parole in bocca.

«Supponiamo che abbia frainteso, che lei sia sempre stata sincera e tu un’idiota», iniziò Shin’chi. «Come hai intenzione di rimediare?»

Nobu boccheggiò come un pesce fuori dall’acqua per troppo tempo. Non ne aveva la più pallida idea. Non era neppure sicuro che, qualsiasi cosa avesse fatto, sarebbe riuscito a ricucire il loro rapporto. Aveva ragione, lei, a dirgli che bisognasse fidarsi dell’altro – lui aveva fallito miseramente. E una parte di lui, inconsciamente, sperò che i suoi amici si sbagliassero, che lui avesse avuto ragione fin dall’inizio e che lei fosse una bugiarda.

L’idea di averla accusata inutilmente, di averla fatta soffrire disprezzandola in tutti i modi, di aver perso tempo lontano da lei, era un pensiero così doloroso e nauseante che persino un tradimento gli pareva più accettabile.

«Kiyota, ti senti bene?», domandò Muto, vedendolo pallido come un fantasma.

Il numero dieci non rispose. Si limitò ad alzarsi, ringraziare in un borbottio Jin per l’ospitalità e corse via.

 

*

 

«Quindi vai con quella Azamui a fare jogging

«Yoga, Hana! Yoga!», replicò lei, ridendo. Per quella prima seduta si era ovviamente conciata malissimo, come sempre: pantaloni larghi e leggeri, rigorosamente bianchi, sopra due paia di calze a maglia in lana; la maglietta che Kaede le aveva comprato in ritiro e una felpa bianca; ma d’altronde quello era il suo pessimo gusto in fatto di abbigliamento e Hanamichi non poté far altro che ricambiare il sorriso.

«Sembri una gelataia in pigiama», le fece notare, con una mano davanti alla bocca per non riderle in faccia.

Hime gli tirò contro la cuffietta in lana. «Tornerò per le sei, credo. Ordiniamo porcherie da asporto per cena?»

«Ma che domande fai? Certo che sì!»

La gemella lo abbracciò con affetto. «È sempre bello sapere che posso contare su di te, fratellone».

Lo lasciò poco dopo, sorridente come un ebete. La sua Hicchan.

Non fece in tempo a prendere d’assalto il frigorifero, che il telefono di casa squillò. Chi poteva essere a quell’ora? Che Mito e gli Altri volessero dargli buca per la consueta uscita pomeridiana? «Casa del Tensai Sakuragi, chi ha l’onore di chiamarmi?»

Sentì una timida risata dall’altra parte della cornetta e non la riconobbe subito.

«Sakuragi senpai, sono Arimi. Arimi Kiyota».

Il suono di quel cognome gli annebbiò la vista per qualche istante, ma si impose calma. Quella era la dolce e piccola Ari-chan, non quel demente del fratello. «Ehilà! Qual buon vento?»

«Volevo sapere come stava la tua schiena; ho sentito che ti sei fatto male».

Hana, di riflesso, si accarezzò la zona lombare. Avrebbe dovuto fare i suoi esercizi, prima che se ne dimenticasse. «Va alla grande, Ari-chan! Lo sai che niente e nessuno può fermarmi, no? Ahaha! E i tuoi progressi con le gambe?»

Chiacchierarono sugli ultimi aggiornamenti, dato che era da qualche tempo che non si sentivano, finché la ragazza non gli spiegò il vero motivo della chiamata. «E Hime-san come sta?»

«Benone, credo. Insomma, per quanto bene possa stare dopo che quella scimmia di tuo fratello le ha spezzato il cuore», sputò con rabbia. «Scusami, Ari-chan, ma la situazione mi fa imbestialire».

La sentì sospirare, affranta. «Lo posso immaginare, ma mi chiedevo… ecco, volevo fare qualcosa per quei due testoni. Insomma, si vede lontano un miglio che si amano!»

«Ah! Se Kiyota fosse stato davvero innamorato di mia sorella, avrebbe ascoltato quello che aveva da dire. Insomma, sono stato il primo a pensare che il Volpino se la facesse con Hicchan, ma mi ha assicurato che non fosse così e le ho creduto subito – cioè, quella pettegola di Ayako me lo ha riferito; Hicchan non vuole parlare di questa storia».

«Nemmeno Nobu. Insomma, se si tratta di un grosso malinteso come temo, non credi dovremmo aiutarli? Sono stanca di vedere mio fratello in queste condizioni, e immagino anche tu Hime-san».

Hanamichi gonfiò le guance, poggiando la fronte contro il muro. Non voleva che la sua sorellina soffrisse di nuovo per quell’idiota. D’altra parte, stava soffrendo ugualmente per la sua lontananza e indifferenza. Non sapeva dove sbattere la testa, se non contro quella della Scimmia.

«Che avevi in mente?»

Arimi fu felice che Sakuragi non potesse vedere il suo rossore, quando confessò di non avere alcuna idea e che l’aveva chiamato nella speranza che potesse aiutarla a trovare una soluzione.

Hanamichi sospirò. Si sedette per terra, schiena contro il muro e una mano sul ponte del naso. Era molto tentato di rifiutare l’offerta e lasciare le cose come stavano. Kiyota non meritava una ragazza come la sorella, così come non gli avrebbe mai perdonato la gigantesca mancanza di rispetto nei suoi confronti. Ma amava Hime più di se stesso e, se fosse servito a farla stare meglio, avrebbe fatto qualcosa per aiutarla. Due sberle, la Scimmia Selvaggia, le avrebbe prese ugualmente. «So che me ne pentirò, Ari-chan. Me ne pentirò sicuramente, ma sì. Cerchiamo una soluzione».

 

*

 

Hime si guardò intorno, nella piccola piazza in cui si era data appuntamento con Reiko Azamui. Era arrivata da dieci minuti e stava già saltando per tenersi calda. Non doveva stupirsi del fatto che la nuotatrice fosse in ritardo: non era cugina di Sendoh per niente!

«Eccomi!», esclamò una trafelata Reiko. «Perdonami, ho perso il treno per un soffio e ho dovuto attendere quello successivo, che mi ha fatto fare il giro del mondo prima di arrivare qui».

Hime scosse il capo, sorridente. «Nessun problema. Sono già rodata con i ritardi di Akira».

«Ah, è nel DNA della famiglia, è impossibile arrivare in orario per tutti noi», replicò con fare drammatico Reiko, sistemandosi la sciarpa attorno al collo. «Allora, l’altro giorno mi dissi che avessi un altro impegno, oggi. Vuoi occuparti di quello e poi andiamo a yoga? Le lezioni iniziano ogni ora, quindi non avremmo problemi».

Hime si grattò il naso, nervosa. «No, non è il caso, davvero».

«Si tratta di Kiyota, vero?»

La rossa chinò lo sguardo, trovando più interessante la punta delle scarpe sporca di neve. «Uh… sì. Avevo un appuntamento al canile per adottare un cagnolino e regalarglielo per la fine dell’anno. Il suo è scappato quest’estate, credo che lo avesse spronato a correre come un forsennato e ha perso la presa del guinzaglio. Il solito idiota, praticamente». Hime sospirò, imponendosi di non ridere. «Era un pensiero che avevo in testa dal giorno in cui me lo raccontò; insomma, non si sostituisce un cane così, però… ecco, magari avrebbe potuto fargli piacere. Ad ogni modo, ora non ha più importanza».

Reiko la osservò con i suoi grandi occhi blu e la prese sotto braccio. «Sai cosa ti dico? Che dovremo andarci ugualmente».

«E per cosa?»

«Perché i cani sono stupendi e ti farebbe bene distrarti un po’ tra abbai e scodinzolii. Poi vedrai tu cosa fare. Magari trovi il cane adatto a te, che so!»

Tralasciando il fatto che se avesse davvero portato un cane in casa sua madre sarebbe morta di paura e sarebbe andata in paranoia per l’igiene, alla fine Hime dovette cedere a tanto entusiasmo – e come rifiutarla, se le sorrideva in quel modo? Maledetti cugini Sendoh/Azamui e i loro maligni metodi di convincimento!

Camminarono a braccetto, tra chiacchiere frivole e i preparativi di fine anno, compresa la festa a sorpresa per il compleanno di Kaede.

«Immagino che non sarà felice della cosa», commentò Reiko, pensando al numero undici dello Shohoku.

«No, decisamente no. Odia le sorprese ed essere al centro dell’attenzione – a meno che non si tratti di basket: allora sì che è una prima donna!»

«Vi conoscete da molto?»

«Da quando eravamo pargoli. Conservo i ricordi migliori della mia infanzia insieme ad Hanamichi ed Ede».

«Ed è sempre stato così taciturno?»

Hime strinse le labbra. «Lo è da quando la madre morì. Insomma, non è mai stato un grande chiacchierone, ma… beh, non la prese affatto bene. Sai il polsino nero che porta sempre al braccio? Glielo regalò qualche settimana prima di andarsene e da allora non ha mai smesso di indossarlo durante le partite e gli allenamenti. È il suo modo di averla sempre accanto, in un certo senso».

Reiko non aggiunse altro, ma pensò che fosse un gesto molto dolce da parte sua. «Cosa pensavi di fare per la festa a sorpresa?»

Hime ridacchiò. «Una cosa molto banale, in realtà. Sai che il tema saranno gli anni 70, no? Beh, allo scoccare della mezzanotte, dopo i festeggiamenti per il nuovo anno, Sana canterà un’altra canzone – buon compleanno - insieme a un intero coro di dementi. Vuoi unirti alla festa? Aki è dei nostri».

«Oh, sì! Farò solo finta di cantare, però. Sono un po’ stonata».

«Dici così perché non hai mai sentito Hanamichi sotto la doccia! Oh, eccoci arrivati», fece Hime, osservando l’insegna del canile. Dalle vetrine del piccolo locale provenivano guaiti e latrati ovattati. Con il freddo di quei mesi, le avevano spiegato al telefono, avevano dovuto spostare i loro ospiti a quattro zampe all’interno dello stabile, invece che lasciarli nel cortile. Lei aveva annuito, comprensiva; come l’idiota che era, si era sempre domandata come facessero a camminare senza scarpe, soprattutto con la neve sotto le zampe.

Scosse il capo, grattandosi ancora una volta la punta del naso lentigginoso. Stava tergiversando nuovamente e solo perché non aveva idea di cosa fare. Forse avrebbe potuto adottare un cucciolo e regalarlo alla sorellina, Arimi. Ne sarebbe stata felice, ne era sicura.

«Allora, entriamo? Mi sto congelando», la spronò Reiko, che la vide indecisa.

Con un sospiro, Hime annuì. Magari, come le aveva detto la sua nuova amica, le avrebbe fatto davvero bene.

 

 

 

 

Continua...

 

 

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Capitolo 28
*** 27. La vigilia della finale ***


Capitolo 27

La vigilia della finale

 

 

 

 

 

«Sai, è proprio bello».

Ayako sollevò lo sguardo dalle schede che stava compilando. «Cosa?»

Hime Sakuragi osservò la neve che cadeva placida oltre le alte finestre della palestra, e sorrise. «Il fatto che noi siamo qui, al calduccio, mentre quegli esagitati si congelano le chiappe di fuori».

La prima manager scoppiò a ridere, seguita a ruota da un devastante “Oh oh oh” di Nonno Anzai.

«Ryota sta prendendo il ruolo da capitano un po’ troppo sul serio», notò Ayako, asciugandosi le lacrime.

Hime annuì. «Neppure il Gori sarebbe arrivato a tanto per una punizione. Sarebbe fiero di lui».

«Il ragazzo è un po’ masochista, però», fu il commento di Kiyo, che poggiò rumorosamente la propria sacca accanto alle loro, stanca e accaldata dalla doccia bollente che si era appena goduta dopo gli allenamenti in piscina – alla faccia dei cestisti. Salutò con un inchino l’allenatore e le ragazze, per poi accomodarsi accanto alla Sakuragi. «Insomma, il massimo sarebbe stato se lui fosse rimasto qui con voi, mentre gli altri crepavano di ipotermia».

«Detto tra noi, temo che creda possa fare davvero bene, una “corsetta” a meno dieci gradi. “Tonifica i muscoli e il cervello”, o così mi pare che abbia blaterato poco fa».

«Bah. Con quelle noccioline che si ritrovano in testa c’è ben poco da tonificare. Al massimo finiscono di rincoglionirsi», fu la scientifica e giusta conclusione di Yoehi. Tale deduzione fu sottolineata dal rientro dei bisonti, alcuni dei quali completamente ricoperti di neve dalla testa ai piedi. Un po’ troppa per essere il risultato di una leggera e romantica nevicata.

Hime saltò in piedi, trotterellando verso il fratello, che non sapeva se ridere o piangere per i geloni. «Perché ho paura di chiedere cosa sia successo?»

«No, no, chiedi pure!», sbraitò Mitsui, incacchiato come un toro. «Chiedi pure a quel cerebroleso di tuo fratello! Brutto deficiente! Ci prenderemo una polmonite a due giorni dalla finale!»

«Ohi! Perché non ve la prendete col Tappo? È stata sua l’idea di correre sotto la neve! Io ho solo ravvivato un po’ le cos– oh, andiamoooo!»

E scappò via verso gli spogliatoi, inseguito dal resto della squadra, Tappo in prima fila, e dalle risate di Nonno Anzai.

«È proprio senza speranze, quel Do’aho», biascicò Kaede che, tra tutti, sembrava quello meno colpito dal freddo.

«Ovvio, è un ghiacciolo», mormorò tra sé e sé Hime, facendo spallucce e ridacchiando alla sua stessa patetica battuta.

«A proposito del ghiacciolo», sussurrò Ayako. «Come procedono i preparativi per la sorpresa?»

La rossa si sfregò le mani come l’invasata che era. «Oh, Aya-chan, sapessi. Sapessi! Ci ucciderà tutti. Prima era di una banalità paurosa, ma poi Hana ha avuto un’idea geniale e –».

«È ovvio! Sono un genio!», fu la rumorosa risposta di Hanamichi, che arrivò inspiegabilmente dall’oltretomba.

«Ma… come ha fatto a sentirci?»

«Beh, almeno sappiamo che è ancora vivo».

«Ahia, Mitchi! Mi fai la bua alla testa!»

Mito sospirò. «Lo è almeno per il momento».

«Hana!», gridò la sorella, precipitandosi verso gli spogliatoi. «Ti salvo io!»

«Tu stai fuori, maledetta pervertita!», gridò l’intera squadra, ormai già bella che inerme sotto l’acqua delle docce.

Hime tornò ridendo, più rossa dei suoi capelli. «Ooops».

«Come se ci fosse qualcosa di interessante da vedere», borbottò Takamiya, per niente geloso dei fisici scolpiti dai duri allenamenti.

I sospiri estasiati delle donne e i fazzoletti sporchi di sangue dal naso furono una risposta più che chiara.

«Ma domani andiamo a vedere la partita?», domandò Yoehi. Si pentì della domanda non appena terminò di formularla.

«Dobbiamo allenarci», fu la lapidaria risposta di Hime. «Non abbiamo tempo da perdere».

«Ma si tratta pur sempre di Shoyo-Kainan – e per il terzo posto», tentò Ayako. «Potrebbe essere istruttivo. E non credo che un allenamento sfiancante il giorno prima della finale sia salutare – sia fisicamente che mentalmente».

Hime si mordicchiò l’interno di una guancia, cercando di non sbottare. «Bene. Visto che avete già deciso, dovrò chiamare Reiko e chiederle di prestarmi una bandiera dello Shoyo – o qualcosa del genere. Farò un casino nero».

«Nah, non c’è bisogno di chiedere a lei», fece Yoehi, con serietà. «Dai uno sguardo al tuo armadio; sono sicuro che qualcosa di quel colore osceno sia già a tua portata. Quello sì che è un casino». Accettò di buon grado un pugno sul fianco, consapevole di esserselo più che meritato.

«Voi su chi puntate?», domandò Noma, tirando fuori un taccuino per prendere appunti sulle scommesse.

«Io punto una pistola sul numero dieci del Kainan», biascicò Hime, che richiuse una cartella con enfasi e balzò in piedi come una cavalletta. «Ci vediamo dopo, passo un attimo a controllare i preparativi della festa di fine anno – e la sorpresa per Ede», aggiunse in un sussurro divertito.

Ayako le fu accanto in un istante. «Vengo anch’io; sono proprio curiosa di sapere cosa diavolo abbiate architettato voi Sakuragi».

«Sana è lì?», domandò Yoehi, cercando di non farsi vedere troppo interessato. Fallì miseramente, ovvio.

«C’è anche la zia», ricordò Hime, con un sorriso malefico.

«Oook, credo che invece rimarrò qui ad aspettare Hanamichi – o quello che ne resterà. Dubito che sopravviva, oggi».

«Saggia scelta», ridacchiò la rossa, che trotterellò dall’amica tuttofare con Ayako al braccio. Sana, nel bel mezzo delle prove di una canzone, le salutò entrambe con un sorriso da orecchio a orecchio, ma dopo l’occhiata di rimprovero della zia tornò a concentrarsi sul suo lavoro.

«Oh, finalmente hanno stampato i primi volantini!», esclamò Hime. «Ne prendo un po’ per domani, così riempio le tasche al Ryonan e al pubblico».

«Tranquilla che di te le hanno già, le tasche piene».

Le due manager si scambiarono un’occhiata, prima di scoppiare a ridere. «Cielo, Ayako! Questa è persino peggio delle mie freddure!»

«Ho avuto una brava insegnante», le fece l’occhiolino l’altra, sorridendo malandrina.

L’espressione ilare sul viso della Sakuragi si spense poco dopo, quando un pensiero le schiaffeggiò la mente, inaspettato e apparentemente senza senso.

«Tutto bene?», domandò infatti la più anziana.

Hime si mordicchiò un labbro, prima di stringersi nelle spalle. «È che, tarda come sono, ho appena realizzato una cosa». Arrossì sotto lo sguardo perplesso dell’altra. «Sì, insomma… l’anno scolastico finisce tra qualche mese e poi… poi tu sarai al terzo anno, lascerai lo Shohoku come Akagi e Kogure-san perché dovrai preoccuparti dei test per l’università, e poi anche quell’anno scolastico terminerà in fretta come questo e lascerai la scuola. Tu, Ryo-chan, Hisashi… mi mancherete. Mi mancherai, Ayako».

La senpai, dopo qualche momento di smarrimento, scoppiò a ridere di sincero divertimento. «Ma sei impazzita? Manca ancora più di un anno! E non ho intenzione di mollare la squadra, l’anno prossimo. Concilierò le due cose - sono una donna, posso fare più cose contemporaneamente!». Poi le sorrise con affetto, stringendola in un forte abbraccio. «Anche tu mi mancherai, Rossa. Ma avremo il tempo e il modo di vederci, ne sono sicura. Adesso non pensiamoci – per caso hai il ciclo perenne? Questi cambi improvvisi d’umore non sono mica normali, eh».

Hime ridacchiò, ricambiando l’abbraccio. «C’è solo una cosa che non mi mancherà».

«Cosa?»

«Il tuo ventaglio».

Lo stesso che Ayako le tirò in testa subito dopo.

 

 

*

 

 

«Hicchan».

Hime, con la bocca piena di ramen e gli occhi fissi sul libro di storia, mugugnò qualcosa con tono interrogativo.

«Secondo te abbiamo qualche possibilità di farcela? Dopo domani, intendo».

Non c’era bisogno che lo specificasse; era ovvio a cosa si stesse riferendo.

«Non vedo perché no», replicò la sorella, dopo aver ingoiato. «Insomma, abbiamo battuto il Ryonan quando ancora nessuno praticamente ci conosceva e non avrebbe speso uno yen su di noi. Con questo non voglio dire che sarà facile e che dobbiamo stare tranquilli. Non lo sarà affatto, ma… sì, credo che potremmo farcela».

«Ma...», tentennò Hanamichi, rigirando una bacchetta tra le dita affusolate. «Questa volta non ci sarà il Gori a difendere il canestro… e quel Daichi Anami – dici che posso farcela?»

Hime sollevò gli occhi sul gemello e sorrise. «Hana, tu sei un ottimo centro. Il migliore che lo Shohoku abbia mai avuto dopo Akagi. Anzi, forse sei persino più bravo di lui, imprevedibile come sei», aggiunse, ridacchiando. «In tutta onestà, non so quanto quel ragazzotto sia dotato, ma se è tra i primi cinque della squadra un motivo ci sarà». Gli prese le mani tra lei sue e gliele strinse con affetto e forza. «Ma credimi quando ti dico che sono sicura troverai un modo per sorpassare la sua difesa e per creare un muro sotto il nostro canestro. Aki è un ottimo giocatore, lo sappiamo bene, e ora che è capitano le sue strategie saranno ancora più efficaci e provocatorie. Ma abbiamo tutte le carte in tavola per vincere, Hana. Ne sono sicura!»

Il faccino di Hanamichi si illuminò con uno splendido sorriso da ebete e l’abbracciò con forza – rischiando di incrinarle qualche costola.

«Domani mattina corsetta e poi allenamento al campetto, prima di scuola? Verranno anche Mitchi, il Tappo e i Gemelli Siamesi. E ci sarà anche il Volpino, immagino», aggiunse, impettito.

«Come se ti dispiacesse», lo provocò la sorella, scoppiando a ridere nel vedere l’espressione di puro oltraggio che assunse a quelle parole. «Comunque ci sto – basta che non ci sia il Puffo. Devo scaricare un po’ di adrenalina, prima della partita di domani sera e non voglio innervosirmi ulteriormente».

Hanamichi si rabbuiò. «Hicchan, non sei obbligata a venire, se non ti va».

«Qualcuno mi disse di affrontare i problemi senza evitarli. Verrò, Hana. Non ho nulla da rimproverarmi e, credimi, dopo quello che ho visto in piscina e la scenata dell’altro giorno in ospedale –». Si tappò la bocca con entrambe le mani quando si accorse di aver parlato troppo.

Le orecchie del numero dieci si fecero a parabola. «Quale scenata? È venuto in ospedale? Ma io lo ammazzo sul serio quel deficiente! Avresti dovuto dirmelo! Era già nel reparto giusto, l’avrei pestato per bene e ricoverato nel giro di dieci minuti!»

Hime scosse il capo. «Va tutto bene, Hana-chan. Ormai è finita sul serio e non ho assolutamente voglia di stare lontano dai miei amici per causa sua. Verrò e farò il tifo per quel bel ragazzo di Mr. Fujima».

Il cestista quasi si strozzò con la zuppa. «Bel ragazzo?! Quel damerino?»

«Hana, non mi aspetto che tu capisca l’eleganza di Mr. Fujima».

«Elega–», il centro parve davvero perplesso, mentre si grattava la capa rossa. «Bah! Io non vi capirò mai. Come quelle che dicono che il Volpino è uno strafigo».

«Il Volpino è uno strafigo, Hanamichi».

Il ragazzo scostò il piatto, disgustato. «Basta, mi è passata la fame».

«Hana, hai già ripulito il piatto. Non fare finta di non avere più appetito!»

«Sì, beh… però un altro giro di ramen avrei voluto farmelo».

«La quarta porzione, vorrai dire».

«Ho bisogno di energie, Hicchan! Devo crescere! Ho una finale da vincere!»

La madre, che era intenta a mettersi le scarpe all’ingresso prima di recarsi in ospedale per il suo turno, gridò: «Non riuscirai neppure ad alzarti dalla panchina, col culone che ti ritroverai se continui a sfondarti di cibo! Ti useranno come palla! Lasciane un po’ per me, disgraziato!»

Hanamichi parve oltraggiato. «Ma mamma! Non si tratta così il tuo bambino!»

«Maiale, vorrai dire! Diventerai grasso come il Signor Anzai!»

«Questo è maltrattamento! Sai che dovrai pagarmi le sedute dallo psicologo?!»

Le donne di casa scoppiarono nella fragorosa Risata Sakuragi, quando una voce bassa e inaspettata giunse dalla finestra.

«L’ho sempre detto che devi vederne uno bravo, Do’aho».

 

 

*

 

 

Il giorno dopo la squadra dello Shohoku non fu la sola ad andare alla partita per il terzo posto. Come aveva previsto Hime, il Ryonan al completo era già ai propri posti e Akira, sorridente e splendente come solo un Sendoh poteva essere, aveva riservato una decina di posti accanto ai loro. Molti, tra il pubblico, iniziarono a bisbigliare alla volta delle due squadre che, proprio il giorno dopo, avrebbero dovuto giocarsi una finale infuocata e che invece chiacchieravano e scherzavano come se niente fosse.

«Hime, luce dei miei occhi!», esclamò il capitano del Ryonan con le mani al cuore. «Vieni dal tuo amato! Anche tu, Kaede! C’è un posto libero qui davanti a me!»

Con mezzo Shohoku schiantato dalle risate nel vedere il missile terra-aria che la Volpe aveva appena lanciato al Porcospino, e l’allenatore Taoka che sbraitava contro il suo capitano affinché non si mettesse a fare il demente e si concentrasse sul gioco, ognuno prese i propri posti, con il casino tipico dell’arrivo dei Diavoli Rossi.

«Allora, chi scommette sullo Shoyo?»

«Io scommetto che la Nobu-Scimmia sbaglierà almeno tre o quattro tiri liberi – come sempre».

«Abbiamo patatine a sufficienza?»

«Hanamichi, porca zozza! Quella era la mia merenda!»

«La tua merenda? È metà pizza! E sono le quasi le sei di sera!»

«Non mi sembri molto scioccato, dato che ti sei appena ingoiato una fetta».

«Ecchecavolo, Mitsui! Togli i piedi dalla mia sedia!»

«Tappo, non essere geloso delle mie gambe lunghe! È che non so dove metterle!»

«Saprei io dove ficcartele–»

«Ma insomma!»

Sotto gli occhi terrorizzati di tutti gli spettatori – persino Taoka, per un terribile istante, temette per la sua incolumità – Ayako sfoderò la sua arma di distruzione di massa e la calma tornò a regnare.

Non durò molto.

Gli insulti alla volta della Nobu-Scimmia, non appena le squadre vennero chiamate in campo, si sprecarono. Questo, che non aveva il coraggio di voltarsi verso quel casino nel timore di incontrare un certo paio di occhi castani, si limitò ad alzare il dito medio. Gli insulti non si placarono affatto, il che non lo aiutò certo a trovare la concentrazione di cui aveva bisogno.

Hime osservò di sbieco il buon Jin battergli una mano sulla spalla e bisbigliargli qualcosa che avrebbe dovuto risollevargli il morale; non parve riuscirci, ma notò che Kiyota annuiva di tanto in tanto. Un groppo in gola le fece tornare il malumore: avrebbe potuto essere lei a tirargli su il morale per la tristezza di aver perso in semifinale e a dargli la forza giusta per aggrapparsi almeno al gradino più basso del podio. Invece no. Aveva deciso di comportarsi da bambino col moccio al naso e quello era il risultato.

«Brutto deficiente», borbottò, attirando l’attenzione di Akira.

«Uhm?»

Hime scosse il capo, regalandogli un sorriso. «Reiko non viene?»

Il Porcospino si batté la mano sulla fronte. «Mer– Ho dimenticato di andare a prenderla alla stazione».

«Tranquillo, non mi avresti trovata», fece una voce alle loro spalle. La studentessa dello Shoyo arrivò in quel momento, trafelata e infreddolita. «Sono arrivata in ritardo e ho perso il treno».

Akira strabuzzò gli occhi, prima di esclamare: «Alla grande!»

I cugini scoppiarono a ridere, come normale che fosse; Rukawa, che fingeva di sonnecchiare ma che in realtà aveva udito tutto – compreso il terribile arrivo della piattola – si passò una mano sul viso, rassegnato.

«Ehilà, campione!»

Kaede buttò un’occhiata oltre la ringhiera e misurò l’altezza che lo separava dal pavimento più in basso. Se si fosse buttato magari avrebbe scampato quel supplizio.

«Ti spiace se mi siedo qui?»

O magari avrebbe potuto lanciare lei. Aveva una finale da giocare, il giorno dopo. «Sì, molto».

«Grazie, sei gentilissimo!»

Hime si tappò la bocca con entrambe le mani pur di non ridere nelle orecchie del suo migliore amico – sospettava non avrebbe gradito; Reiko, d’altra parte, si voltò per strizzarle un occhiolino di divertimento.

«Sarà una lunga partita», commentò Akira, con un sorriso malandrino sulle belle labbra, mentre allungava il braccio alla volta delle spalle di Hime con fare innocente. «Già. Una lunghissima partita. Vero, Ede?»

«Ehi, Porcospino! Giù le zampacce da mia sorella!»

A quel grido d’allarme, Nobunaga si voltò di scatto verso le tribune, e quel familiare senso di gelosia che lo pervadeva ogni volta che quel pavone di Sendoh civettava con la sua Hicchan, tornò più forte di prima. Stava per sbraitargli contro, se non fosse stato per la sirena che decretava la fine del riscaldamento pre-partita e che lo riportò con i piedi per terra.

Le squadre si riunirono attorno ai rispettivi allenatori per gli ultimi consigli e tattiche, e il pubblico sembrò farsi più euforico che mai.

D’altra parte Hanamichi, preso dall’ennesimo attacco di fame nervosa, indicò il numero sei dello Shoyo con il pacchetto di popcorn quasi vuoto. «Certo che quel Kazushi Hasegawa ti somiglia proprio, eh Sendoh?»

Akira buttò un’occhiata verso la panchina e si massaggiò il mento con fare pensoso. «Tu dici?»

«Beh, avete lo stesso taglio di capelli».

Hiroaki “Signor Simpatia” Koshino, seduto all’altro fianco del suo capitano, sbottò: «Sakuragi, non è che se ti tingi i capelli di nero e fai crescere la frangetta puoi dire di somigliare a Rukawa».

Prima che il centro dello Shohoku s’inalberasse sbraitando che nel caso sarebbe stato Rukawa a tingersi i capelli di rosso per avvicinarsi alla sua maestosa bellezza e non il contrario, Ayako agitò il suo ventaglio con fare minaccioso; quello le sorrise da orecchio a orecchio, porgendole una bustina di patatine alla paprika nel patetico tentativo di calmarla.

Fu del tutto inutile. A lei nemmeno piaceva la paprika, lo informò dopo avergli lasciato un bel bernoccolo in testa.

«La vera domanda è: chi ha copiato chi?», chiese Hime, sinceramente interessata all’argomento.

«Bah, è come chiedersi se sia nato prima il gorilla o Akagi», fece notare Mitsui con una scrollata di spalle sconsolata, mentre Ryota al suo fianco annuiva in accordo.

«E poi sembra sempre incacchiato», aggiunse Koshino.

«Dunque, somiglia più a te che ad Aki», concluse la Sakuragi.

Il Porcospino scoppiò a ridere, passandosi cautamente una mano sulla punta dei capelli per controllare che fossero ancora ben ritti sulla testa, mentre il tappo del Ryonan le gracchiava contro che lui non era mai perennemente incacchiato.

Appunto.

L’attenzione fu riportata in campo non appena Hanagata e Takasago si sistemarono per la palla a due e il gioco iniziò.

Il primo possesso fu dello Shoyo, che fece subito viaggiare la palla di mano in mano, veloce e agile. Tentò di realizzare il primo canestro con una tripla di Hasegawa, ma Kiyota saltò come una cavalletta e deviò la traiettoria prima che il pallone iniziasse la sua parabola discendente. Maki afferrò il rimbalzo e il contropiede partì come un fulmine verso Muto.

Hime strinse i pugni sul bordo della poltroncina in plastica quando vide Nobunaga scattare insieme a Jin verso il canestro avversario. La difesa dello Shoyo li raggiunse e quando Kiyota tentò una delle sue schiacciate, decise di lasciar scivolare la palla alle sue spalle verso il cecchino del Kainan. I movimenti di Jin furono fluidi come se stesse facendo la cosa più semplice del mondo e portò i primi tre punti alla squadra giallo-viola.

Un boato di esultanza esplose nel palazzetto, ma le grida di disappunto e i buuu che si sollevarono tra i Diavoli Rossi sorpassarono facilmente quel gran baccano. Hime saltò in piedi, battendo due bottiglie l’una contro l’altra e sfoggiando una maglietta comparsa dal nulla – piccolo regalo di Reiko Azamui che glielo aveva passato pochi minuti prima. Una grande scritta bianca su sfondo verde gridava Forza Shoyo! e per poco Kiyota, quando la vide dal basso del campo, non svenne dalla rabbia. Era la maglia ufficiale della squadra di nuoto, ma questo lui non lo sapeva e non doveva saperlo, ghignò la seconda manager dello Shohoku mentre inneggiava alla maestosità di Mr. Fujima.

«Hai proprio voglia di farlo morire», commentò ridacchiando Akira, gustandosi l’espressione afflitta e sconcertata della scimmietta del Kainan.

Hime gridò più forte in tutta risposta.

Fu un match surreale, per certi versi. Molti, tra il pubblico, si chiesero come fosse possibile che quella non fosse la finale, data la bravura e la fierezza delle squadre in campo.

A un minuto dalla fine del primo tempo, infatti, il punteggio era ancora fermo 23-24, bassissimo per quegli standard. Le difese di entrambe le squadre erano così serrate che neppure gli attacchi più potenti riuscivano a sorpassarle. Nessuno stava cercando di conservare energie, perché quello era l’ultimo atto e avrebbero dovuto dare il massimo.

Poco più avanti Reiko Azamui lanciò un’occhiata al Volpino accanto, apparentemente sonnecchiante e con la bolla al naso. «Vedo che ti stai divertendo un mondo».

Non ricevette risposta e decise di rischiare ancora una volta la vita azzardandosi a punzecchiarlo con un dito. «Ma è morto?»

«Magari», biascicò Hanamichi con la bocca piena delle patatine di Takamiya. «Avremmo una possibilità di vincere, domani!»

«Continua a ripetertelo», fu la glaciale risposta di Kaede, mentre si grattava gli occhi assonnati. Poi si voltò verso la nuotatrice dello Shoyo, che lo stava ancora punzecchiando. «Devi continuare per molto?»

Reiko annuì. «È per motivi scientifici. Sto constatando la flessibilità dei tuoi muscoli», dichiarò con un’incredibile faccia da poker, mentre ora gli palpeggiava il braccio senza ritegno alcuno.

In quel momento accadde qualcosa di terribile.

Una vera e propria catastrofe.

Un evento così raro che fu facilmente confuso con un cattivo presagio.

Rukawa arrossì.

L’Apocalisse non era mai stata così vicina, aveva iniziato a gridare Hanamichi, mentre con una mano faceva risuonare un campanaccio comparso dal nulla e sbandierava un cartello di avvertimento.

Ebbene sì. Rukawa arrossì come un ragazzino qualsiasi, per niente abituato a certe libertà nei suoi confronti – neppure Hime, nella sua infinita follia, si era mai azzardata a toccarlo così. E se anche lo avesse fatto, lei era tutta un’altra storia. Non era Reiko Azamui, la cugina dell’odiato Porcospino, piattola detestabile e portatrice sana di un sorriso tremendamente, irrimediabilmente fastidioso.

E bello.

Oh merda, fu tutto ciò che la sua mente assonnata riuscì a formulare. Ebbe la prontezza di riflessi di scacciare quella mano dal braccio con un gesto brusco, sollevandosi il cappuccio in testa e calandoselo sulla fronte, nella speranza di sparire.

Era sonnacchioso e non ragionava, ecco tutto.

Inutile dire che le risate iniziarono pochi secondi dopo e non cessarono neppure con il fischio dell’arbitro che decretava la fine del primo tempo.

«Ehi, Sakuragi! Hime-san! Tutto bene?»

I gemelli, con i lacrimoni agli occhi, si voltarono alla volta di Arimi Kiyota, che li salutava con la mano libera dalla stampella, mentre si allontanava per qualche minuto dai genitori per raggiungerli e scambiare due chiacchiere.

Purtroppo per lei dovette attendere a lungo prima che quei due si riprendessero dall’isteria.

Reiko fu l’unica che, incredibile ma vero, riuscì a mantenere un aspetto decoroso. «Temo sia colpa mia», fece con drammaticità.

«Oh».

«Scu-scusaci, Ari-chan», fecero in coro i gemelli Sakuragi.

«È appena passata la cometa Halley», fece Ayako, come se spiegasse l’accaduto.

«La cometaché?», domandò Hanamichi, le risate dimenticate, sinceramente perplesso.

«Lascia stare, va’».

«Come stai, Arimi?», domandò Hime, sforzandosi di sorridere a quel viso troppo simile a quello del fratello maggiore.

«Non bene come voi, a quanto pare!», ridacchiò lei, riferendosi allo sciame di divertimento che inspiegabilmente aveva contagiato tutti. «Partita interessante, vero?»

«Sarebbe più interessante se la Nobu-Scimmia perdesse».

La Kiyota accusò il colpo con un sorriso. «Stavo andando a prendere qualcosa da mangiare alle macchinette».

«Ti accompagno io, Ari-chan!», si offrì Hanamichi, che voltò lo sguardo verso la panchina del Kainan e salutò con un sorriso beffardo il fratello della ragazzina, fumante come una teiera.

«Ecco, magari ricomprami la merenda che ti sei sbaffato con i miei soldi, maledetto scroccone!», sbraitò Takamiya, lanciandogli contro una bottiglietta vuota.

Hime balzò in piedi, sistemandosi la pinza tra i capelli rossi. «Vengo anche io, ho fame!»

«No no no, tu no!», esclamarono in coro Hanamichi e Arimi, che sbiancarono.

«Co-come no? Perché?»

«Perché–», iniziò il fratello, allungando un po’ troppo la e finale.

«Perché non è il caso andare tutti insieme. Dimmi cosa posso portarti, Hime-san, così facciamo prima!»

Arimi Kiyota era una pessima bugiarda, quello era ovvio. E Hanamichi, che annuiva in tutta fretta, era pure peggio.

«Mi state nascondendo qualcosa?»

«Chi, noi? No, no!»

I due Gemelli Siamesi allungarono il collo verso i due. «Che fate, parlate in coro come noi, ora? Vogliamo i diritti!»

Hime incrociò le braccia al petto. «Hanamichi Sakuragi».

«O-ho», mormorò Hisashi, nascondendosi dietro al Tappo. «Si sta incacchiando».

«Mitsui, temo tu abbia sbagliato riparo, allora», fu il mesto commento di Ayako, alludendo alla mole per niente ingombrante del suo fidanzato – che scoppiò in lacrime per l’affronto.

«Hicchan, ti posso spiegare», iniziò il Rossino, camminando all’indietro verso gli ingressi degli spalti e alzando le braccia verso la sorella, nel vano tentativo di contenerla. «Io non ero nemmeno d’accordo! È colpa sua!»

Arimi sbarrò gli occhi e fece per alzare una stampella, minacciando di rompergli la capa rossa. «Traditore!»

Hime sbuffò. «Avanti, qual’era il piano?»

I due si scambiarono un’occhiata colpevole.

«Avremmo dovuto metterlo a punto, se solo non ti fossi impicciata», la rimproverò Hanamichi.

«Vogliamo solo rivedervi felici», ammise la più piccola, abbassando lo sguardo sul pavimento.

«Sì, beh, anche se vorrei comunque spaccargli il muso», proseguì il numero 10 dello Shohoku, per niente contento all’idea di rivedere la sua adorata sorellina tra le braccia della Nobu-Scimmia.

La seconda manager abbozzò un sorriso. «È un gesto molto dolce, davvero. Ma non voglio che vi intromettiate. Io ho fatto la mia parte e non ha funzionato; spetterebbe a lui fare la sua, ma è troppo –»

«Stupido?»

«– stavo per dire orgoglioso, ma forse hai ragione tu, Hana», ridacchiò infine Hime. «Grazie lo stesso, ragazzi».

Incredibilmente entrambi tirarono un sospiro di sollievo. «Meno male!»

«Meno male?», ripeté la Sakuragi.

Arimi si passò una mano tra i capelli neri e disordinati, ridacchiando e arrossendo. «Beh sì! Come piano faceva acqua da tutte le parti».

«Solo la tua, di parte, Ari-chan. La mia era ovviamente geniale! Ahahaha!»

 

 

Continua...

 

Note. So che vi devo delle scuse, ma il lavoro si è fatto incessante - fine settimana compresi - e, tra la ricerca di una casa, un trasloco infinito e l’assenza di wi-fi , non ho avuto tempo di nulla - neanche per i miei Ragazzi Selvaggi.

Io, per rassicurarvi, continuerò a ripeterlo fino allo sfinimento: questa storia vedrà una fine. Promesso. Spero solo abbiate la pazienza di seguirmi, così come io persevero anche quando scrivere risulta difficile e a volte impossibile. :)

E sì, so che vi state chiedendo come finirà tra Shoyo e Kainan, ma lo scoprirete nella prossima puntata. :P

Vi adoro e grazie.

La vostra Marta

 

 

 

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