Figli di Prussia

di Voss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cosa fiorisce a marzo? ***
Capitolo 2: *** Cantava il vento a Königsberg ***
Capitolo 3: *** Appassiva il fiore della vita a Königsberg ***
Capitolo 4: *** I Sogni sono Immortali ***



Capitolo 1
*** Cosa fiorisce a marzo? ***


 

 

Figli di Prussia

Capitolo I

Cosa fiorisce a marzo?

 

29 marzo 1945                        Est Prussia, Konigsberg

 

 

Oltre un altopiano, nell'antica terra del medievale ordine dei cavalieri teutonici che un tempo forgio l'onorevole Regno di Prussia che infine unì la Germania dei Kaiser, splendente tra lo scuro Mar Baltico e i campi di grano cresce una città chiamata Konigsberg. La città dei Re, simbolo di Prussia e orgoglio dell'Europa dell'Est.

 

06:34 di mattina

Piano si muovevano le foglie dei recentemente fioriti alberi, sotto di essi una colonna di soldati in una stanca marcia quasi si trascinavano verso il mare.

«Soldati fermi!»

Un giovane ufficiale dei capelli rossi e dai lineamenti leggermente asiatici si fermò girandosi verso la colonna che, nonostante si potesse notare un certo ritardo nell'eseguire quell'azione così improvvisa e fastidiosa si era fermata. «Siamo arrivati al campo, potrete mangiare e fare rifornimento di munizioni se avete fucili o pistole. E poi rimettetevi in sesto sembrate un branco di argali che non si lavano da settimane».

La colonna di privati soldati entrò a fatica nel malridotto accampamento, ovunque barellieri e infermiere accudivano feriti, mentre dalla maggior parte delle tende verde oliva uscivano grida e lamenti di ogni genere.

Con l'odiata metodica il capofila della colonna si girò nuovamente e alzando la mano fece fermare i soldati per l'agognata pausa.

 

Un ufficiale stava a guardare la penosa scena degli uomini sfiniti che con tutta probabilità non riposavano da giorni, stando appoggiato a un palo della tenda da campo fece un cenno al giovane ufficiale che si stava avvicinando togliendosi il verde berretto.

«Comodo il viaggio Karensky?»

Il giovane ma sveglio ufficiale controbatté

«Sicuramente ho dormito meglio di te vecchio compagno Levkiy, o sbaglio?»

Levkiy posò la tazza di caffè caldo e abbracciò lo stanco Karensky.

«Hai proprio ragione, quella maledetta artiglieria continua a sparare, da giorni, 50kg di tritolo, bottiglie o merda che sia! Ma non durerà ancora a lungo, proprio come questa guerra.

Il Maggiore Yuliy ti stava aspettando da un pezzo, se tardavi ancora una mezza giornata ti avrebbe conciato peggio di un tappeto»

Karensky guardò il compagno mentre si toglieva i guanti appoggiandoli al tavolino in centro alla tenda

«Hai provato a mandarlo a fanculo anche solo per vedere che direzione devo dare ai tedeschi? Ho cercato i camion per tutta Lublino, Varsavia, Lyck e Angerburgo poi mi sono reso conto che erano tutti destinati alla “Grande Offensiva di Berlino” e ho maledetto quei dannati bombardieri e quei diavoli dei tedeschi per la loro devastazione ferroviaria! Alla fine ho optato per l'unico mezzo che mi veniva in mente, anche se sono stato tentato di chiamare l'aviazione per il trasporto, ma erano troppo occupati a farsi abbattere dagli ultimi due trabiccoli tedeschi che ancora volano»

Levkiy si riscosse e allontanando il caffè dalla bocca domandò

«Già, cosa ci hai portato? Sei tornato alla nostra Stalingrado per reclutarli?»

Karensky ridacchiò

«Ma no quella città ormai è solo polvere e macerie, non ci abitano più nemmeno quei grossi e succosi topi dell'inverno del '41, ricordi? Io ti porto carne fresca! Polacchi! Anzi, duecentocinquanta polacchi!».

Levkiy guardò a terra.

«Si ride per non piangere vero Karen? Ancora qui dopo cinque anni di torture e migliaia di migliaia di compagni a terra»

Karensky si era messo a osservare la città grigia e tetra. Non uno dei vecchi edifici si teneva in piedi, solo macerie su macerie, qualche campanile o edifici troppo resistenti per crollare completamente. Una scena vista infinite volte da quegli occhi azzurri e giovani. Rimase in silenzio.

«Avevamo vent'anni Karen, sono passati quattro anni e siamo ancora qua. Lontano dalla vecchia scuola, dal porto sul Volga, dal nostro quartiere, lontano dalla nostra stazione. Due ufficiali dell'armata rossa, ne sono morti migliaia come noi e io credevo, dopo Varsavia di vedere qualcosa di diverso, e invece ieri Yuliy mi dice che devo “pulire i campi”. Siamo come loro.»

Karensky appoggiò il binocolo sul tavolo di fronte a lui

«Smettila di parlare della vecchia Stalingrado, ti prego, quella città non esiste più, ora esistono solo la posizione mitragliatrici numero 117,121 e 125. O le buche, i tanti solchi creati dai millemila pezzi d'artiglieria, ti ricordi? Quello di mio padre era il 61. Centrato in pieno da una bomba da 500kg di uno Stuka»

L'ufficiale cadde a sedere pulendosi gli occhi da lacrime involontarie.

 

 

Poche ore dopo in una tenda vicino ad una grande roccia cinque ufficiali conversavano animatamente sopra ad una cartina.

«Sono asserragliati come topi! E quei dannati anticarro coprono tutta la brughiera a nord, qualunque carro si osa muovere oltre la linea di confine tracciata da quei bastardi viene distrutto con rapidità spaventosa!»

L'ufficiale pelato e magro muoveva il dito sul tavolo indicando le vie di attacco già tentate dai carri

«Si calmi capitano Gavriin, sono sicuro che possiamo trovare un punto cieco nei loro cannoni anticarro. In quanto ai nuovi polacchi stanno già prendendo posizione sul margine del confine sergente Levkiy?»

Ci fu solo un “si” secco come risposta senza spostare gli occhi dalla cartina.

«Qualcosa la turba sergente? E' troppo intento a pensare alla famiglia e si è dimenticato che è di fronte ad un ufficiale superiore?»

Il sergente evitò la provocazione e rialzò la testa fissando il corposo Yuliy

«No di certo signore, la risposta non poteva che essere affermativa, stavo osservando la cartina. Abbiamo perso i t-34 in punti ben precisi, i tedeschi ci hanno imbottigliato e infine distrutto i carri.»

Yuliy osservò la mappa e le direttive di attacco dei mostri di metallo, quando infine giunse il responso

«Ha ragione sergente, muovendo i carri più a ovest potremmo ottenere meno perdite e una decina di metri di punto cieco. Nel pomeriggio è prevista una sortita, avremo modo di osservare il funzionamento della nuova direttiva d'assalto. Rompete le righe»

 

 

 

 

 

 

 

Più si invecchia e più ci si convince che Sua Sacra Maestà il Caso fa i tre quarti del lavoro in questo miserabile universo.”
Federico II di Prussia

 

In quella che un tempo fu una bianca e bella casa in una delle migliori e più trafficate vie di Konigsberg è ora un colabrodo di macerie e sogni infranti, una dolce ragazza è ritratta in una foto appoggiata alla porta, se qualcuno fosse andato a osservare dietro a quel vecchio pezzo di pregiato ciliegio che sbarrava la via a chiunque volesse entrare in quel rudere si sarebbe scoperto che ancora i ricordi di quella giovane donna e della sua famiglia si trovavano la dentro. Ma chi avrebbe potuto andare a cercarli? Il marito di quella tedesca era morto in una battaglia cruenta quanto inutile a 3000 chilometri da Konigsberg, nel mattatoio di Rzhev o Ržev, provocandogli infinito dolore, lo stesso che l'avrebbe portata nel '44 a cadere in una depressione profonda, la donna avrebbe curato sempre meno quel giovane bambino che l' amore aveva generato pochi anni prima della guerra, quando tutto sembrava così distante e la città così gioiosa e bella anche se isolata dalla Grande Germania.

Quella donna era ora a Colonia, in un campo profughi alleato, dove morirà il 21 luglio, lasciando solo il piccolo Lenz, che dopo la guerra verrà preso in cura dalla zia nella vecchia Stettino. Quella famiglia si chiamava Kurtin.

Una famiglia distrutta dalla guerra, come tante in Prussia, alcune radicalmente spazzate via, insieme alla loro “razza” o “stirpe” come ad alcuni piace chiamare le culture dell'uomo.

Non rimane niente di quelle famiglie come della cultura Prussiana, già scomparsa da secoli prima della seconda guerra mondiale?

E della famiglia Kurtin qualcuno rimane nella città dove per generazioni essa ha vissuto e prosperato?

 

 

 

Un'anziana figura guardava il vecchio dipinto, debole come un legno marcio ingiallito da anni di intemperie, ossessionato da qualcosa di impercettibile nel volto della donna, disturbato dai passanti armati e dagli sguardi ostili che lo ritraevano come un vecchio sporco, egli era seduto per terra ad un bordo della strada a guardare dall'altro lato di questa.

Una sirena di sottofondo, seguita da interminabili spari e da un megafono in fondo alla via fecero risvegliare il malconcio tedesco, lo costrinsero ad entrare dentro al suo bar preferito, la “Caffetteria dell'Est”, ora chiuso e presidiato da un distaccamento di Volkssturm.

 

«Hai paura delle bombe vecchia scodella di piscio?»

L'ufficiale del distaccamento, un uomo di mezza età che con tutta probabilità prima di finire lì rubava e un brutto giorno rubò a chi non doveva rubare. Chiamato Lotendorf per chi lo degnava di avere un nome, per gli altri era “Carogna”. Da vero cinquantenne Lotendorf sfoggiava una grassa forma fisica, mani callose da operaio, un grande doppio mento, occhi marroni e capelli ormai parzialmente grigi, indossando una divisa grigia con un cappellino da marconista, tipica nel suo ruolo di Gruppenfürer.

L'anziano combattente non lo degnò nemmeno del minimo sdegno e proseguì verso il bancone su cui per metà riposava Ulric, un operaio che dal '37 era in pensione, richiamato al servizio per “fornire l'appoggio alla Germania”, dalla folta barba e capelli biondi con due occhi marrone chiaro e vestito in abiti raffazzonata con la fascia identificativa del Volkssturm.

Mentre dall'altro lato due vecchi soldati malconci detti “Fratelli Orlin” che furono costretti ad imbracciare le armi dopo che la loro casa in cui vivevano insieme alle mogli fu distrutta dalle bombe, entrambe le donne ora sono seppellite fuori città. Queste due figure ormai sui settant'anni,vestite in gilet marrone con in testa una coppola grigia per uno e nero per l'altro, con capelli neri e gli occhi azzurri parlavano con un ragazzino che avrà avuto quindici anni al massimo, raccontandogli di come insieme ad un terzo camerata ormai sotto terra costruirono la loro grande abitazione nella periferia della città.

Il Ragazzino, che si chiamava Karl e aveva 15 anni,vestito anch'egli in abiti popolari, con una chioma non curata di capelli neri e con occhi azzurri. Era estasiato da quei racconti che lo facevano volare lontano dalla guerra, lontano dall'odio, dal terrore, dalla morte.

 

L'alcool scendeva ancora lungo la gola dell'anziano milite quando Emma, la volontaria della Croce Rossa di Germania gliela strappò di mano,

«Franz, questo non è per te, in ospedale ne hanno sicuramente più bisogno»

Una donna allegra, di un'allegria malata di dolore. Il suo volto era delicato e i suoi occhi verdi speranzosi, il tutto incoronato da una stropicciata chioma di capelli castani che le ricadevano fino a metà schiena.

Franz fece per bestemmiare, poi si ricordò dell'enorme lista di motivi per cui quella donna doveva necessariamente essere protetta e assecondata che chiuse la bocca e si trattenne, alzandosi a fatica e raggiungendo nuovamente la porta del locale.

 

Il cielo era grigio e zuppo di sangue in quella giornata di marzo, per strada colonne di paramilitari marciavano con i fucili in spalla cantando le canzoni della nuova gioventù, molto distanti dai combattenti regolari della Wehrmacht che stavano pulendo la strada dall'edificio a sinistra di Franz, una vecchia palazzina ora spalmata sulla strada, il Panzer IV dietro di loro aspettava pazientemente di passare mentre il capocarro osservava la cartina e il pilota fumava una sigaretta. Quel mezzo doveva aver visto decine di scontri e molte volte l'officina, lo si capiva dalle numerose righe bianche sul cannone usurato dal calore, dalle Schürzen mimetizzate con vere foglie e fango solido e dai vari fori di proiettile che non erano riusciti a perforare lo scafo frontale.

Ad un tratto, dalla strada un soldato regolare, sui trent'anni al massimo sbucò da un vicolo con della carta in mano, un fucile a tracolla e una sigaretta nell'altra mano. Entrò nel bar.

«Soldati porto cattive nuove»

Si stravaccò ad uno dei tavoli e lasciò cadere i fogli sul tavolo.

«Il resto del distaccamento dov'è? Dobbiamo muoverci verso la periferia est, hanno oltrepassato lo sbarramento degli anticarro con cinque t-34, dobbiamo distruggerli prima che arrivino alle fortificazioni in costruzione. Sono solo un piccolo gruppo, sono passati sicuramente per puro caso»

Diede un'altra boccata alla sigaretta, poi si mise le mani fra i capelli

«Franz, Ulric, Karl andate a cercare dei panzerfaust, entrò 10 minuti al ponte nord-est, muoversi»

Quel giovane soldato si era arruolato volontario quattro anni prima, finendo a combattere a Stalingrado con la 14° Armata Panzer, in poco tempo era riuscito a scalare la gerarchia, diventando Gefreiter, ovvero caporale. Il suo nome era Eber e rappresentava la gioventù, alto e dimagrito dalla guerra e dal razionamento, due occhi scuri e stanchi che terminavano in un naso leggermente storto, probabilmente per via di una vecchia rissa.

 

 

Esistono strade e sentieri, quale dei due seguire dipende da persona a persona. Chi segue i sentieri segue il suo cuore, i suoi idoli e le persone da cui trae esempio.

Chi cammina lungo le strade invece segue la via che i potenti hanno preparato per lui, la più comoda, la meno pericolosa, chi segue la strada si vende coscientemente o no alla propaganda, perché anche se sceglie la strada con la più totale naturalezza un giorno si troverà a fare i conti con chi la creata, che con certezza l'aveva creata per opprimere e comandare, direttamente oppure no.

 

Franz fu da sempre troppo stanco per seguire un sentiero, ma ora ciò che un tempo era la strada dei potenti era diventata una stretta via sterrata, un sentiero in una foresta di sogni, ancora pieno di significato per chi continuava a seguirlo.

 

 

Periferia di Konigsberg 16:21

La lunga strada che conduceva alle campagne, sempre affollata e popolata da ogni genere di persone appartenenti ad ogni classe sociale era ora silenziosa e lungo essa intere facciate dormivano, solo nel giorno del giudizio, quando sarebbe stato firmato il trattato di pace si sarebbero rialzate mostrando ancora le loro colorate facciate, o forse cambiando esistenza per sempre.

Rasenti al muro di una casa sulla sinistra tre soldati grigi avanzavano ingobbiti con in mano un panzerfaust ciascuno, dall'altra parte della strada l'occhio attento di Ulric li osservava

«Gut, i panzergranatieri della 14° Divisione Panzer hanno quasi presidiato tutti gli edifici dall'altro lato. Noi siamo in posizione Franz?»

L'interpellato scosse la testa

«Abbiamo sbagliato edificio, qui dobbiamo lasciare le armi per Eber, per poi proseguire, noi dobbiamo presidiare la “Trattoria da Vincent”, un vecchio locale da cui dobbiamo colpire il quarto dei carri in entrata»

Ulric si fece scappare una bestemmia, seguita da un successivo

«Muoviamoci allora!»

 

Pochi minuti i cinque t-34 tanto attesi si stavano muovendo in colonna ad una distanza di cinque metri circa l'uno dall'altro. Tutt'intorno seguivano reclute, male armate e mal' equipaggiate, per proteggere le bestie da eventuali cacciatori negli edifici circostanti.

Dalla torretta del carro di punta fuoriuscì un'ufficiale con un binocolo tra le mani, che puntò rapidamente in fondo alla strada.

«In fondo alla via non vedo cannoni, continua con questa velocità».

 

La calma era oppressiva e troppo piatta. L'aria pesante amplificava il cigolare dei carri e i passi della fanteria, ad un tratto tutto si ruppe.

Una fiammata seguita da un'esplosione assordante invase il primo corazzato, il cui capocarro rientro prontamente all'interno. Dai tetti delle abitazioni parallele al terzo carro due MG42 cominciarono a vomitare fuoco, riempiendo la strada di piccoli solchi.

Le bestie si arrestarono sul posto, la prima squarciata dalla mina che gli aveva nettamente diviso il cingolo destro rimase immobile per qualche secondo, poi si sentì un grido

«Indietro!! Tutta indietro!!»

Il pilota eseguì l'ordine senza sapere ciò che era successo al carro.

Dall'edificio a destra del primo carro tre soldati si affacciarono velocemente ad una delle finestre, facevano parte della 103esima armata Panzergranadier della 14° Divisione Panzer. Il “pugno d'acciaio” partì perforando in pieno il fianco del carro che esplose come una fontana di fuoco.

Il secondo mezzo aveva già cominciato a girare la torretta verso la mitragliatrice alla sua destra, quando da una delle finestre un grosso soldato della riserva della 103° armata si affacciò con un panzerschreck mirando direttamente alla stiva munizioni del carro, come se potesse vederla attraverso il metallo. Un'altra esplosione bruciò l'aria.

Nello stesso momento da due vicoli sul fondo della strada fecero la loro comparsa i reparti Volkssturm, comandati dalla Carogna essi si misero in centro alla strada, scaricando violente raffiche di fuoco alla fanteria sui fianchi.

Alla fine uno dei fratelli Orlin sbucò da una delle porte con un panzerfaust, puntando al mezzo di coda. Il colpo errò di traiettoria, rimbalzando sulla corazza laterale del mezzo che nell'attimo precedente aveva ruotato di pochi gradi anche se sufficienti ad angolarlo perfettamente. Esplose la facciata dell'edificio di fianco ai Volkssturm, facendo cadere rovinosamente cemento sui miliziani al centro della strada.

Pochi attimi dopo intervennero due soldati sempre della 14° Armata Panzer anche se questa volta della 108° Panzergranadier, che fulmineamente spalancarono la porta di uno degli edifici e salirono sul mostro di coda, appoggiarono un grappolo di granate sulla piastra del motore del veicolo e con la stessa velocità tornarono da dove erano venuti. L'esplosione fu accecante ma ottennero solo l'incendio del mezzo in questione. Che lanciando una fiammata degna di uno spettacolo di uno sputafuoco mosse a tutta velocità indietro. Investendo alcune Volkssturm e finendo la sua corsa dentro uno degli ex-negozi di dolciumi della via, dando fuoco a metà di esso.

Franz e Ulric dalla loro precaria posizione a terra calibrarono il tiro del panzerfaust e infine mandarono a fuoco anche il quarto mezzo, da cui fuoriuscirono i membri dell'equipaggio, che vennero prontamente falciati come la fanteria di supporto dal fuoco incrociato delle due MG42.

L'ultimo mezzo, ovvero il terzo nella fila decise di non arrendersi nonostante fosse circondato dalle carcasse dei carri distrutti. Girò velocemente su se stesso evitando per miracolo due panzerfaust lanciati da posizioni sopraelevate che alzarono una coltre di fumo intorno ad esso.

Il t-34 si trasformò in un ariete da trenta tonnellate, che andò rovinosamente ad infrangersi contro l'edificio alla sua destra, su cui appollaiati vi erano 7 uomini tra addetti alle mitragliatrici e addetti ai mezzi anticarro. L'Edificio crollò seppellendo i loro corpi insieme al carro nemico, mentre il resto dei soldati poté osservare solo una fitta nebbia di polvere diramarsi dall'edificio.

 

 

15 minuti dopo circa

 

«Unteroffizier Kest!»

Una staffetta correva verso il piccolo forte di cemento distante qualche centinaio di metri dallo scontro, sul cui tetto tra le mitragliatrici il sergente Kest stava osservando i cieli con un binocolo sporco.

«Riferisca prego»

La staffetta si mise sull'attenti una volta raggiunto il tetto e riferì

«Dal Gefreiter Eber: 16 morti, 5 feriti, 5 panzerfaust utilizzati, 1 razzo, 2 casse di munizioni per MG42. Materiale perso: 1 MG42, circa altri 5 panzerfaust, 1 panzerschreck, 10 granate modello 40 e circa 3 casse di munizioni. Materiale recuperabile tramite riparazioni: 2 panzerschreck.»

Kest guardò preoccupato i lampi dei cannoni sovietici dai boschi attorno alla città poi disse

«Riferisca al caporale Eber i miei ordini: Ritirarsi con i feriti, lasciar perdere i dispersi. Sta per piovere»

 

 

Dal 30 marzo al 5 aprile piovve acqua amara.

Uno sbarramento a tappeto dell'artiglieria sovietica continuato assediò la città per 6 giorni, nonostante il completamento dei bunker negli ultimi giorni di marzo la città subì il crollo totale degli edifici civili, già colpiti dai bombardamenti alleati nel '44 e dei sovietici lo stesso anno.

 

 

 

 

Emma si avvicinò al vecchio soldato portando garza e un antidolorifico, era disteso su di un lettino in una grande sala piena di letti improvvisati e paramedici che eseguivano una spola fra i letti.

«Come va oggi Osvald?»

L'anziano milite alzò la testa poi rassegnato ricadde coricato, così l'infermiera si avvicinò posando la garza e aprì la siringa.

«E' finita la guerra? Che giorno è oggi?»

L'infermiera ribatte pazientemente

«Per nostra sfortuna no, in quanto al giorno oggi è il 4 aprile 19...»

Non fece in tempo a terminare la frase quando un urlo squarciò l'aria

«No!! No!! NO!! Basta! Lei è qui per aiutarmi? No! Lei è qui per vedermi soffrire, non mi infilerà di nuovo quella cosa nel braccio! Io voglio morire non voglio rimanere qui con questi bastardi! I Rossi mi scuoieranno vivo, qualcuno deve uccidermi prima che arrivino! Io li odio, li odio, li vorrei ammazzare tutti! Fino all'ultimo!»

Il soldato si gettò giù dal letto, gridando per l'acutissimo dolore e in preda al panico strisciò velocemente sotto il letto del camerata ricoverato vicino a lui utilizzando solo il braccio di sinistra, l'unico funzionante.

Un soldato della 1°divisione fanteria corse subito verso Emma e aggirò il letto in questione. In poco il cinquantenne fu di nuovo sul letto, sedato e dormiente.

Il soldato poi rassicurò l'infermiera

«Osvald è duro come l'acciaio, ce la farà, supererà anche questa guerra. Se ripenso a cinque anni fa, stavamo combattendo insieme, in Francia. Mi salvò da un proiettile di artiglieria che mi avrebbe centrato in pieno» rise piano

«Mi trattò come un figlio, e ora è giunto qui, merita un posto in paradiso. Se devo morire in questa guerra, mi piacerebbe farlo vicino a lui»

Emma guardò il giovane soldato, poi mossa da una compassione e da un'emotività fuori dal comune gli confidò

«Morirà entro due giorni al massimo, mi dispiace, ho fatto tutto quello che potevo, ma le schegge gli sono entrate troppo in profondità. E' meglio che tu lo sappia»

Poi si strinse al soldato che si era accovacciato al letto, rimasero li, a piangere, mentre fuori cominciò un altro bombardamento, un altro allarme, ancora una volta l'artiglieria sarebbe parsa insaziabile, altri soldati sarebbero morti tra atroci sofferenze.

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Capitolo 2
*** Cantava il vento a Königsberg ***


 

 

Figli di Prussia

Capitolo II

 

Cantava il vento a Königsberg

 

 

5 Aprile 1945

 

Un sole splendente illuminava il porto, al largo, sul gelido mar Baltico stormi di uccelli volavano al sicuro tra le dolci correnti aeree.

Seicento anni prima, quando gli sconfitti cavalieri teutonici spostarono la loro capitale, flotte di navi avevano cominciato a fluire dal golfo della città, dirette a ovest, verso le sponde di Lubecca ad imbarcare nuovi coloni per la giovane Königsberg, sulle banchine di quel porto gli imperatori Guglielmi vararono le loro possenti navi in cerca dello scontro con le potenze straniere, sfoggiando quelle meravigliose flotte nel maestoso duello per rompere lo status quo del pianeta.

Ora di quel maestoso porto che negli anni era diventato una delle migliori basi navali della Germania, con fissi i suoi anni d'oro sotto Wilhelm II, subiva la più grande prova dal momento della sua creazione.

Le gru portuali erano state rase al suolo, così come le banchine e le navi ormeggiate ad esse, anche se alcuni tra i più fiduciosi o fanatici si aspettavano l'imminente arrivo di navi di soccorso con viveri e rinforzi.

Dal mare non giungeva niente da mesi, l'ultima nave, una nave da carico vecchio modello molto lunga classe 1922, era venuta a caricarsi di civili per poi sparire dall'orizzonte, nessuno si sarebbe mai aspettato che quella nave giunta durante 'l'offensiva d'inverno' sarebbe stata l'ultima ad approdare nel porto di Königsberg. Ultimo contatto.

 

 

La postazione antiaerea, l'ultima che la città poteva schierare per difendere il porto, era situata tra due macerie di edifici, sepolta da una rete mimetica grigia, dopo che nei giorni precedenti era stato appurato che difendere il porto dagli attacchi aerei era inutile erano state spostate ad est e a nord tutte le batterie per riusarle come cannoni anticarro, destino che sarebbe toccato anche all'ultima di li a poche ore.

 

 

Karl guardava fisso il cielo, non aveva mai visto così tanti aerei, era uno di quei momenti dove la sua scorza dura di adolescente cresciuto nella guerra e nei bombardamenti andava a mancare, uno di quei momenti dove le sue ossute gambe sembravano non riuscire a sostenerlo, mentre le sue guance apparivano scheletriche e la fame sembrava raggiungerlo in pochi secondi, diventava un semplice bambino, uno di quelli ancora troppo piccoli per la guerra, almeno, di quelli che non avevano conosciuto la Großes Deutschland.

Franz lo guardava tristemente mentre puliva il fucile, non si stupiva ne provava pietà per quella giovane vita, solo un forte senso di disperazione.

«Non vengono per noi Karl» disse ad un tratto Lotendorf in uno strano tono paterno

Il ragazzo si riprese e ritornò serio e deciso come di suo solito, quel senso di paura che gli attanagliava il cuore sarebbe rimasto solo dentro di lui, come sempre, fuori doveva ritornare ad essere il piccolo adulto che tutti conoscevano.

«Lo so, vanno a Berlino, non c'è bisogno che tu me lo ricordi»

poi prese con entrambe le mani il fucile e andò a posizionarsi sotto un balcone di una casa in rovina, imbarazzato.

 

 

Il tenente Eber uscì da uno dei vicoli e si posizionò vicino a Franz e Ulric, i due che fino a poco prima stavano guardando la limpida acqua del porto si riscossero e si girarono verso il loro ufficiale.

Il Tenente aveva una pessima cera, il suo occhio sinistro era come di norma in preda a un tic che lo faceva quasi chiudere completamente, le sue mani sciupate come le sue guance gli davano un aspetto cadaverico, la sua uniforme pareva stropicciata e sciupata.

Eber si accese a fatica una sigaretta e ne offrì una anche ai due granatieri del popolo, anche se con una certa riluttanza iniziale, poi disse

«Franz, Ulric voi avete famiglia?»

il milite più anziano, cioè Franz guardò il suo compagno che nel frattempo stava fumando fissando il cielo nuvoloso, poi riferì

«No signore, nessuno di noi due»

Il tenente lo guardò trasformando gli occhi in fessure

«Franz, tu sei di qui?» poi accorgendosi di aver posto al milite una domanda retorica, poiché tutto il battaglione proveniva dall'est della Prussia, aggiunse

«Intendo da Königsberg».

Franz si sentì debole, poi una tristezza inumana lo invase, i suoi pensieri si offuscarono, il piovoso tempo gli parve di un grigio profondo, infine la sua mente si riscosse

«Si signore, sono nato a Königsberg ma non ho famiglia, se ne sono andati via da tempo e ormai la guerra me li avrà già portati via. Ogni guerra mi porta via qualcosa, in questa ho perso i miei cari»

Eber ritornò in se, la tensione lo stava facendo diventare come uno di quei “manichini” arroganti e litigiosi, ma in fondo il vecchio non gli aveva mai fatto niente, anzi era uno dei migliori compagni di quel maledetto distaccamento che gli toccava sovraintendere da quando l'SS addetta si era suicidata, una settimana prima.

«Non importa Franz, ho bisogno di cinque uomini per minare la terza strada nord, edifici e terreno. Noi della 14° vi porteremo là. Venite tra cinque minuti al comando della 14esima» poi si rimise il fucile bene in spalla e tornò dal buio vicolo da cui era apparso.

Dopo qualche minuto l'anziano milite si sedette sul marciapiede con il fucile in braccio e Ulric si volse a guardarlo.

«Franz se posso chiederti. Cosa ti ha portato via il Grande Mattatoio?»

Franz posò il fucile, si appoggiò al muro e osservo le grigie nuvole cariche di pioggia

«La Germania».

 

 

 

 

L'Sdk 251/6 si muoveva veloce lungo il ponte gotico che separava l'isola di cemento al centro della città dal resto di quella culla teutonica. Ai lati, veloci passavano quegli antichi palazzi neoclassici che avevano significativamente lasciato un segno ottocentesco alla città, quei palazzi erano ora bucherellati da piccole esplosioni e squarciati nell'intimità dalle bombe che avevano sfondato gli sporgenti tetti.

Piccoli nidi di mitragliatrici segnavano ora i balconi di quegli edifici che offrivano nel loro sforzo di cercare di ripagare chi gli aveva creati così maestosi e affascinanti un asilo. Un asilo per i 300'000 cittadini di Prussia che erano stati evacuati a Königsberg per un ordine dello stesso Führer, che sosteneva ci sarebbero potuti essere dei combattimenti in Lituania. Quel comunicato era stato emanato quasi tre mesi prima e da quel momento Königsberg offre asilo ai profughi di tutta la Prussia dell'Est, in parte evacuati verso la Germania ma ancora presenti in quantità ingestibile in città.

I cingoli scivolavano dolcemente sulle antiche pietre della città, quando il semicingolato svoltò rapidamente in uno stretto vicolo, per poi gettarsi nel grande viale alberato che conduceva fuori dalla città, passando vicino alla lastra di marmo che segnava il punto dove sorgeva, fino al bombardamento del 1944, una statua di Guglielmo I primo imperatore di Germania.

Il semicingolato si accostò ad un grande edificio monumentale, colonne di bianco marmo si stagliavano dai capitelli intagliati, le finestre erano sbarrate ma ciononostante se si osservavano le fessure tra il legno, anche da fuori si sarebbero potuti notare i grandi lampadari.

Un panzergranatiere aprì lo sportello posteriore del mezzo invitando un suo compagno a scendere con lui, facendo poi segno di aspettare ai volkssturm.

Franz seguì i due con lo sguardo fino all'entrata dove il suo sguardo fu attirato dalla grande scritta sopra l'entrata dell'edificio “Il sapere è l'anima dell'uomo”, crepato in più punti e annerito dalla polvere. Lungo le scalinate scaffali sfondati erano circondati da libri, alcuni scaffali più grandi erano invece stati rovesciati in cima alla scalinata per fornire riparo alle guardie che ora sorvegliavano il deposito di carburante e di munizioni.

I due panzergranatieri uscirono dopo pochi minuti con una scatola di mine posizionata sopra ad un carrello per spostare i libri che portarono fino al semicingolato ancora acceso.

Il pilota urlò schnell e i due corsero più velocemente, poi aprirono di nuovo il portello posteriore e risalirono con la cassa. Ripeterono l'azione altre 5 volte, per altre cinque casse, ognuna contenente una decina di mine e varie trappole esplosive per gli edifici.

 

 

 

 

La strada era grigia, Eber teneva il suo schmeisser tra le mani coperte dai guanti da combattimento, altri sei suoi compagni erano appostati lungo la linea di macerie al centro della strada e nel lato sinistro, appostato dietro una facciata crollata, l'Sdk era spento e i soldati addetti al mezzo osservavano attraverso il binocolo ogni singolo movimento sul fondo della strada.

I cinque volkssturm erano divisi in due gruppi,due dovevano togliere l'antica pietra della strada, poi il quinto membro esonerato dai lavori piazzava la mina e i paletti sotterranei, in modo che la pietra posta sopra non toccasse il ferro esplosivo, a quel punto si rimetteva la pietra che, piegata dal peso di un mezzo o anche di una persona affondava leggermente toccando inevitabilmente l'esplosivo in attesa.

Una cornacchia si posò leggermente su una ringhiera di un balcone, l'aria era calma e lontano si sentivano cannoni tuonare, il sibilo del vento del nord raggelava l'animo dei militi al lavoro, in tempi di pace era piacevole da sentire mentre faceva parlare gli alberi delle grandi foreste di Prussia, ottimo compagno di lettori in cerca di pace nel paradiso dei laghi a est di Königsberg. Sempre pronto a rinfrescare e a battere sui muri e sulle finestre, come un innamorato che lancia romanticamente sassi alla finestra dell'amata. Ma in tempi di guerra il vento del nord era la rovina dei poveri e dei malati, e poiché la Germania era ogni giorno più stanca e malata il numero di questi aumentava a dismisura.

In quella giornata il vento era frenetico, batteva sulla vecchia insegna della drogheria, facendola scricchiolare nel silenzio del tardo pomeriggio di quella giornata di guerra.

«Ulric, quante mine rimangono?» Franz si era appoggiato al piccone e glielo diceva con la fronte imperlata di sudore.

«Due» il grosso tedesco guardò un attimo l'ultima scatola di mine per confermare.

 

In principio nessuno si accorse di nulla. Fu Verlen, un ex-gebirgsjäger dell'impero, disertore di due guerre e condannato a morte tre volte scampato per il sangue blu della sua famiglia tutte quante, ad accorgersi del leggero tremolio dei sassolini sulla strada, dalla sua lunga e incolta barba bianca, dall'oscillare delle sue mani e dai suoi occhi spenti ebbero tutti l'idea che stesse per impazzire, poi si ricordarono chi fosse e della sua Croce di Ferro di Prima classe, conferitagli precedentemente al '17, anno della prima diserzione.

Fermarono improvvisamente i lavori e si misero a guardare dritti verso il fondo della strada, verso il confine della Germania.

Verlen ancora una volta si accorse prima degli altri cosa stava succedendo e si mise a correre verso la barriera dei panzergranatieri alle loro spalle, gli altri invece sgranarono ancora per trenta secondi buoni gli occhi fissando il vuoto.

Ulric emise un'imprecazione non ben distinta, poi si alzò con il piccone in mano e così fecero gli altri tre.

Dal fondo della strada una quarantina di soldati correvano disperatamente verso di loro, erano almeno a duecento metri ma la strada era dritta e si riusciva a vedere perfettamente, dietro ai soldati stava avanzando verso di loro in retromarcia un Panzerkampfwagen V 'Panther'.

Il cannone del panther prese fuoco per un secondo e nell'aria scoppiò un sibilo che terminò in una lontana esplosione che fece comunque piegare due delle volksstrurm, Franz e Ulric invece rimasero ritti a osservare, meno colpiti perché abituati al violento tuono del cannone.

La folla avanzava e alle loro spalle si sentì una serie di scoppi molto profondi e lontani, il cielo si riempi di sibili, simili a quelli del panther ma molto diversi nella profondità, artiglieria da 152 millimetri.

Dalla fine della strada in fondo alla via si videro chiaramente i grossi cingoli e poi interamente anche la parte frontale di uno Iosif Stalin, allora anche il piccolo gruppo si mise lentamente a retrocedere.

 

«Passatemi il comando di divisione! Dannazione voglio parlare con Ofel Grap della 267esima Granatieri! Questa strada era segnata come chiusa! Mi sente? Le ho detto che la strada doveva essere segnata come chiusa! Sa cosa vuol dire? Stop, Alt, Geschlossene Straße! La loro direttiva di ritirata non era per di qua!»

Il volto di Eber era paonazzo, aveva perso il fiato e stava sudando.

Poi si sentì un altro tuono, più vicino questa volta, il panther aveva aperto di nuovo il fuoco.

Franz raggiunse le posizioni dei granatieri insieme alle altre tre volkssturm con una certa facilità visto che sapevano dove fossero le mine, Verlen era già dentro l'Sdk e stava tremando anche se si sforzava di mantenere un comportamento rigido.

I panzergranatieri cominciarono a gesticolare con le braccia per indicare che la strada era chiusa, ma la piccola folla sembrava correre verso la salvezza e in pochi rallentarono.

Una sonora esplosione rimbombò per tutta la strada e il cadavere di un soldato sbalzò in aria di qualche metro prima di ricadere rovinosamente sulla strada, ad un altro toccò la stessa sorte, poi un sergente si fermò finalmente conscio della situazione e rapidamente diede aria ai polmoni che soffiando nel piccolo fischietto fecero rallentare e poi fermare la maggior parte dei soldati in corsa, mentre gli altri vennero interrotti nella loro folle corsa dai compagni già ricomposti dall'anziano sergente che aveva preso l'iniziativa.

I soldati si riunirono attorno al loro comandante che in breve gli spiegò la situazione, ad un tratto i panzergranatieri udirono un Achtung proveniente dal gruppo di soldati, seguito da un dietrofront.

 

I soldati si misero su una sorta di linea sull'attenti, per lo più erano giovani reclute anche se fra loro vi erano anziani militi che avevano visto Leningrado e Mosca, o anche Stalingrado.

Imbracciarono il fucile o lo schmeisser, a seconda del loro grado e scattarono rannicchiandosi dietro a rovine sulla destra e sulla sinistra della strada, mentre alcuni si sdraiarono al centro di essa, trenta armi guardavano la strada davanti a loro, la stessa direzione in cui guardavano anche il piccolo gruppo di artefici del campo minato.

Il panther indietreggiò quasi fino al gruppo di soldati, poi si udì un tremendo boato seguito da un raccapricciante rumore di metallo piegato. La torretta del panther si aprì e ne uscì il comandante del carro, seguito dal cannoniere, poi uscì solo una violenta fiammata e da ogni feritoia del mezzo uscì altrettanto fuoco, come dal motore posteriore.

I due si misero a correre, bloccati da due soldati.

«Voi siete completamente folli! Non ho intenzione di farmi maciullare da Ivan, Scheiße, se devo morire lo farò velocemente!»

Così i due carristi si misero a correre, seguiti da una quindicina di fanti prima appostati, che decisero di rischiare.

Fu una macedonia di carne e membra, seguite da una coltre di fumo che si diradò qualche minuto dopo, lasciando intravedere al piccolo gruppo al sicuro il furioso combattimento tra le truppe rosse e il piccolo gruppo di fanti rimasti oltre il campo. Alla baionetta, al coltello, a pugni e con le unghie combatterono gli ultimi fanti della 267esima, per l'ultima volta.

 

 

Il semicingolato lasciò la carneficina prima della sua fine. L'assedio di Königsberg era finito.

 

 

 

 

 

 

 

Io non conosco partiti: conosco soltanto dei tedeschi.”

 

Wilhelm II di Germania

 

 

All'Imboccatura della seconda strada Nord, una colonna di fanti superava le ormai inerti barricate e le carcasse dei carri armati sepolti sotto le macerie o piantati sottoterra. Il fumo si alzava lento dal centro della città coprendo il sole morente, la testa di ponte era fissata, il giorno seguente avrebbe rappresentato il primo giorno dell'Assalto a Königsberg.

 

Karensky scese dal t-34-85 e avanzò verso la tenda da campo della ormai distrutta 267esima divisione di fanteria, il suo sguardo era sereno e in mano stringeva il fidato binocolo.

 

«Capitano!» Fece un soldato mettendosi sull'attenti

«Alfiere Greknovinsk, mi esponga la situazione»

«Gruppo di difesa tedesco annientato, abbiamo alcuni feriti e dei carri danneggiati, questo era il loro ufficiale di grado più alto» il sottoufficiale indico il magro e rassegnato Ofel Grap che sedeva sciupato alla piccola sedia da campo, la faccia sporca di sangue e annerita gli cadeva sulla spalla destra.

Karensky guardò stupito l'ufficiale tedesco «Greknovinsk la ringrazio, mi lasci solo con il tedesco» il soldato alzò il pugno nel tipico saluto e subito usci portandosi dietro i due soldati prima alle spalle del tedesco.

 

Karensky si tolse i guanti e posò il binocolo, poi si sedette con molta calma, sapeva già come sarebbe finito quel colloquio, c'era un ordine preciso riguardo ai prigionieri di un certo grado.

Parlando un buon tedesco domandò «Buongiorno, spero che i fanti dell'internazionale non abbiano esagerato con la persuasione, in ogni caso le porgo le mie scuse.»

Grap mosse la testa. Era un uomo sui cinquant'anni con una corta chioma marrone, occhi verdi, calzava perfettamente nella sua uniforme grigia, l'espressione triste e depressa era la cosa che i soldati conoscevano di più, l'ufficiale soffriva di depressione cronica fin da giovane.

«La ringrazio ufficiale rosso, non li posso biasimare, dopotutto è il prezzo della sconfitta. Anzi, quello deve ancora arrivare.»

Karensky accennò ad un sorriso poi offri una sigaretta all'ufficiale, che si appoggiò al tavolo tirandosi leggermente avanti

«So come funziona questo gioco, hai la divisa diversa dalla mia ma il procedimento è sempre uguale. Non la voglio giudicare, la prego solo di avere pietà, dei civili e della città.»

Karensky sorrise di nuovo «Io le ho solo chiesto se vuole fumare»

Grap cadde di nuovo sulla sedia, poi accettò la proposta dell'ufficiale nemico.

«Lei dove ha combattuto?» domandò a quel punto Karensky

«Polonia, Francia, poi Stalingrado, Kursk»

Karensky questa volta sorrise per lungo tempo, maliziosamente

«Lei è uno di quei porci che ha massacrato, trucidato, assassinato intere città e poi mi viene a implorare “pietà” per la sua di città, per la sua gente? Crede di meritarsi la mia pietà? Crede che a Stalingrado la situazione per noi fosse diversa?»

Karensky era balzato in piedi e aveva sbattuto i pugni sul tavolo facendo traballare, la luce da campo era stata accesa da pochi minuti eppure la mancanza di olio l'aveva fatta spegnere, ora traballava sopra le loro teste come un lampadario durante un terremoto.

Grap sospirò guardando il mantello della strada sotto la tenda

«Non ho mai conosciuto mio nonno, so che era un soldato, mio padre però mi raccontò molto di lui. Era un grande soldato, fedele servitore di Bismarck.

Sconfisse la Francia, marciò verso Parigi e infine si fermò alle porte di quella grande città, molto più grande di Stalingrado.

Devi sapere che a quel tempo la città si era rivoltata contro i padroni e contro la guerra, mio nonno era la quando successe, era accampato fuori città quando nella notte i francesi entrarono a Parigi e massacrarono i comunardi in nome dell'ordine e dello stato.

Non ho toccato un solo civile a Stalingrado, ne a Charkow, ne a Kiev, nemmeno a Minsk, in quasi 6 anni di guerra non ho mai toccato i civili. La Guerra si è già presa molte vite, si è presa le loro terre. Io non sono un assassino. Sono un soldato.»

Grap si alzò, dai suoi occhi scrosciarono lacrime amare, lui che da sempre aveva odiato l'uomo e la guerra, che avrebbe voluto studiare e scrivere poesie. Quello stesso Ofel Grap che era nato nel momento più cupo per l'intera Germania, quell'uomo che aveva affrontato a testa alta la vita ed era stato battuto, sempre cupo non aveva mai odiato suo padre per averlo costretto alla vita militare, ne i suoi camerati per averlo picchiato e umiliato perché non degno di essere un soldato. Nemmeno sua madre che si era trasferita in Spagna tre anni dopo la sua nascita lasciandolo solo, dimenticandolo per sempre. Lui non aveva mai odiato la vita, ne aveva solo abbastanza del mondo.

Ofel Grap, dall'alto dei suoi 180 centimetri, dei suoi baffi sciupati e poco curati si era messo sull'attenti. Le lacrime gli macchiavano l'uniforme, i ricordi lo assalivano ma lui gli respingeva, conscio affrontava ora anche la morte.

«Risparmi quel che rimane della mia camerata, della mia città, del mio paese, salvaguardi come può la mia cara Prussia, oh soldato venuto dall'est in cerca di vendetta, un giorno capirai che il sangue non è la risposta ai mali del mondo. Solo l'amore dei popoli per la propria terra e per i propri cari può salvarci dalla distruzione della guerra, delle armi e del terrore della libertà fin troppo libera. Io muoio con la mia patria nel cuore.»

Karensky era cupo e si guardava la mano, come se la sua vita fosse in bilico su di essa. Passarono alcuni minuti di silenzio.

Infine si sentì uno sparo.

 

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Capitolo 3
*** Appassiva il fiore della vita a Königsberg ***


 

 

Figli di Prussia

Capitolo III

 

Appassiva il fiore della vita a Königsberg

 

 

I campi fioriti riflettevano la luce del limpido sole che batteva sulla Prussia Orientale, facendo risplendere di vita la distrutta Insterburg, per poi deviare a est verso Tilsit e a sud verso Lyck e Allenstein, dando infine gioia a Memel a cui i dolci raggi del sole significavano, nel suo estremo nord, caldo e speranza.

La Prussia rinasce in primavera, è sempre stato così, le rigide temperature e i gelidi venti non impediscono ai fiori di nascere e alle piante di crescere forti e maestose nelle foreste oscure e in qualche modo magiche.

Le leggende più antiche su quelle foreste raccontano della storia del duca di Prussia Alberto Federico in un pomeriggio di primavera, mentre romanticamente parlava con la moglie in un immenso campo di fiori bianchi, egli avrebbe predetto la nascita del regno di Prussia e della supremazia luterana sui Re cattolici di Polonia. Quel sogno ora apparteneva al passato anche se i fiori nati da quelle idee hanno mosso la Germania e l'est Europa per più di tre secoli.

 

 

Prime ore del 8 Aprile 1945

 

 

La feritoia pareva umida e inospitale agli spenti occhi di Franz, il fucile era appoggiato sulla pietra e da lontano giungevano i lampi e i tuoni dell'artiglieria sovietica che risparmiava i difensori del forte numero 7 in cambio dell'accanito forte numero 5, l'irriducibile fortificazione che da giorni resisteva all'offensiva russa, alla fine le truppe rosse avevano deciso di circondare il forte e passare oltre, giungendo fino alle feritoie del forte numero 7, ora presidiato dalle sfinite volkssturm e dai reparti più malmessi delle armate che ancora difendevano la città.

I due piani della fortificazione si assestavano al centro di una piazzola scavata dai bombardamenti del 1944, intorno edifici spianati creavano labirinti e coperture per i carri armati abilmente mimetizzati dagli esperti equipaggi. Il bunker era stato costruito per resistere alle esplosioni, anche se le feritoie per la coppia di mitragliatrici e per i soldati bucherellavano la superficie.

La notte lenta e silenziosa per le abitudini del soldato lo portarono a chiudere lentamente gli occhi stanchi e anziani che non vendevano riposo da due giorni, quando alle spalle di Franz dei soldati mezzi ubriachi cominciarono a cantare una triste canzone, risvegliando il vecchio milite dal torpore involontario. Deciso a rimanere vigile per tutto il turno Franz cominciò a pensare ai tempi in cui si offriva volontario per i turni di ronda più lunghi e per le spedizioni più pericolose, nel lontano 1917. Fissò infine la sua mente sulle notti di guardia nelle trincee di Passchendaele, rimanendo a contemplare la strada per due infiniti minuti mentre nei suoi occhi si susseguivano la serie di truculente immagini legate a quelle notti, poi come se avesse girato pagina di un album di vecchie fotografie gli apparve il viso di una ragazza chiaro in mente. La giovane donna era venuta ad accoglierlo al suo ritorno alla fine della guerra nella stazione di Königsberg, quella stazione così gioiosa alla partenza le cui rifiniture sui muri e i capitelli neoclassici bianchissimi risaltavano nella folla estasiata che agitava ogni tipo di fazzoletto e di bandiera in segno di saluto ai combattenti dell'Impero Germanico.

Il ricordo del doloroso ritorno, invece, aveva sempre rappresentato un colpo basso, vedere la sua amata Elen felice e sorridente in mezzo a infiniti volti cupi e abbattuti lo aveva fatto vergognare, ora dopo vent'anni capiva perché quella giovane, semplice ma scaltra donna era divenuta sua moglie, capiva cosa significava non avere una casa in cui tornare, nessuna dolce ragazza ad aspettarlo per fargli ricordare che qualcuno lo amava.

Qual'era il modo migliore per affrontare la sconfitta? Morire sul campo di battaglia o essere umiliato e vivere da debole? Vent'anni fa non avrebbe esitato a rispondere, ma ora l'età gli giocava brutti scherzi e non era più sicuro della risposta.

 

 

Mentre i pensieri viaggiavano gli occhi continuavano a muoversi stancamente sulla strada, poi i suoi sensi addestrati da anni di notti simili a quella percepirono qualcosa.

Una piccola figura scura si muoveva vicino a una delle macerie alla sua destra, era invisibile e si fermava ogni cinque secondi per mimetizzarsi nuovamente nel buio della notte, Franz non esitò, prese il fischietto riposto sopra al piccolo mobile di legno alla sua destra e soffiò per qualche secondo, poi ripreso agilmente tra le mani il fucile sparò alla figura nella notte.

Due fari si accesero dal piano sottostante e cominciarono a illuminare le dozzine di soldati sovietici che strisciando seguivano il loro ufficiale, sanguinante e dolorante dopo i colpi della volkssturm. Una mitragliatrice dal piano appena superiore a quello di Franz cominciò a vomitare fuoco e altri proiettili cominciarono a fuoriuscire dalle feritoie del forte.

Figure nella notte aprirono il fuoco verso la loro direzione, mentre un'esplosione si abbatté sulla parte destra della facciata, l'aria cominciò a sibilare e presto tutto fu sotto un bombardamento di schegge e proiettili.

 

Due Obici da 203mm aprirono il fuoco dal fondo della strada e le esplosioni si ridussero ad un sibilo stordito mentre una folla di soldati sovietici usciva dalle case e dai vicoli protetta dal fuoco di mitragliatrici Maxim in un disperato assalto. Dopo una quindicina di minuti decine di corpi giacevano già a terra davanti al forte assediato, mentre la sparatoria cominciava a perdere intensità.

Dalle strade laterali al forte due Panzer IV mimetizzati sotto blocchi di cemento si unirono alla macabra sinfonia di morte. A quel punto l'attacco sovietico si fermò, ma nella trincea di macerie di fronte al forte decine di fucili si innalzarono verso il suddetto rimanendo tuttavia silenti, facendo rivivere in Franz una sensazione da tempo dimenticata.

 

Dopo quasi due ore di assedio un proiettile di uno degli obici russi colpì nettamente la facciata provocando un cedimento di una parte della struttura, esponendo l'ala destra del bunker, l'aria si fece pesante e calò un oppressivo silenzio.

La struttura era costruita sulle macerie di una piccola fabbrica di scarpe, i muri erano stati rinforzati per poter resistere ai bombardieri e alle artiglierie di lunga gittata, ma l'incessante bombardamento dell'artiglieria perdurava da giorni e come la Germania ogni bomba ampliava quelle che all'inizio dello scontro non erano altro che piccoli graffi.

Ulric toccò all'improvviso la spalla di Franz, il quale sussultò e si girò di scatto scrutando il compagno con gli occhi sbarrati, poi lo riconobbe e rilassò i muscoli.

«Ulric, ti ricordi l'estate del '18? La stessa cenere della vittoria, lo stesso tremore nelle mani, la stessa sete, la stessa disperazione.»

Ulric si limitò ad annuire finendo tristemente ad osservare il pavimento. Indossava una divisa stropicciata e aveva recuperato solo un vecchio Kar98 dal deposito prima di raggiungere il compagno per il cambio della guardia.

Il silenzio si ruppe all'improvviso, dapprima solo il suono dei fischietti di linea, poi i soldati uscirono dalle trincee e si udì un grido, «Urra!!», provenire dalle dozzine di gruppi di fanti rossi.

Le mitragliatrici ricominciarono a fare fuoco, le feritoie scoppiettarono ancora e in basso nel foro creato dalle detonazioni, un plotone di fucileria delle forze di terra della Luftwaffe cominciò anch'esso a scaricare armonicamente le cartucce dei fucili semi automatici.

 

 

Volendo abbattere il nemico, dobbiamo commisurare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza; questa si esprime mediante un prodotto i cui fattori inseparabili sono: la grandezza dei mezzi disponibili e la forza della volontà.”

 

Karl von Clausewitz, 1832, tratto dal libro 'Vom Kriege'

 

 

Nella zona più protetta della città, dove settecento anni prima era sorta la prima fortificazione dei cavalieri teutonici, dove allora sorgeva il Palazzo Reale, si trovava la sede centrale di tutte le difese della città, dalla quale fermamente Otto Lasch, comandante in capo di tutte le forze di Königsberg, si opponeva alla moltitudine sovietica con disperata volontà, conscio della reale situazione della città e dello stato delle sue truppe.

La finestra era spalancata e il generale appariva ritto e con le mani incrociate dietro la schiena, il suo volto era bianco pallido e il sudore calava lentamente dal collo, gli incendi sparsi per la città illuminavano i suoi occhi di ardenti fiamme.

Era in attesa, contava i minuti e i secondi, il dispaccio sarebbe arrivato di li a poco, lui conosceva il suono delle bombe e riusciva a calcolare la distanza a cui atterravano, si era infatti già rivestito perché sapeva che il forte numero 7 era stato attaccato, pensò che forse era tardi per aiutarli e per contrattaccare sul forte 5. Scosse leggermente la testa a quel pensiero, non era più contemplato l'attacco, lui resisteva solo per poter dire di non aver ceduto fino alla fine, avrebbe preferito morire in Russia, lasciare una città tedesca in mano al nemico e arrendersi con essa era un destino infausto, indegno, ma Otto era realista, le sua mente si posò sui volti dei suoi soldati logori, ebbe un sussulto e poi un cedimento d'animo.

Bussò un soldato a cui il generale rispose brevemente di entrare, il soldato entro nella stanza con un foglio nella mano destra, l'unica rimastagli.

«Herr General, sono qui per portarle un dispaccio dal fronte»

Otto si girò e accennò ad un sorriso, il suo volto era turbato ma la sicurezza dei movimenti ispirava fiducia e trasmetteva sollievo al soldato.

Il generale lesse il dispaccio, il comandante in seconda chiedeva di poter retrocedere alla fortezza, le strade erano ormai invase dalle truppe sovietiche e il 36esimo reggimento corazzato panzer aveva solo 6 mezzi ancora utilizzabili. Era ormai mezzogiorno dell'8 Aprile. Otto distolse lo sguardo dal foglio e fissò l'ultimo dei pezzi d'artiglieria della città, un sdkfz 138 “Grille”, che con forza inesauribile si muoveva per le vie schivando la contro-artiglieria sovietica e cercando al tempo stesso di supportare la prima linea, al comando Ilian Reibnek, un artigliere nato che si guadagnò la Croce di Cavaliere con fronde di quercia nella battaglia di Leningrado per aver distrutto 22 corazzati nemici con il suo semovente “Bison” permettendo alle truppe tedesche di accerchiare la città, un risultato incredibile per un'artiglieria creata per il supporto della fanteria. Ora quel giovane ufficiale teneva le redini di ciò che un tempo fu un battaglione d'artiglieria semovente che vide la Francia e la Russia marciando dietro alle possenti colonne corazzate germaniche, le inarrestabili spade di Tyr, il Dio della Guerra.

 

L'MG42 stava operando la sua macabra canzone, Ulric stava muovendo la canna in maniera impeccabile, era palese la grande esperienza accumulata come mitragliere di MG8 nella Grande Guerra, era dietro ad una mitragliatrice il suo posto, non dentro ad una fabbrica o a marcire in qualche sudicia casa di riposo, era stato contagiato dalla guerra, cresciuto per diventare soldato aveva portato onore alla sua umile famiglia proletaria che da sempre viveva a stretto contatto con il popolo della sua Amburgo, tanto che quando tornò dalla guerra trovò solo due lapidi di due coraggiosi operai in prima linea durante la rivolta Spartachista di Novembre, pochi giorni prima del suo ritorno erano partiti per Kiel. Si rese conto che quei pensieri avrebbero fatto piangere i suoi vecchi genitori e sua moglie che non aveva mai smesso di piangere da quando lui era partito per infilarsi nella sacca di Königsberg, un'altra tomba fondata sul dolore.

Franz teneva i palmi rivolti verso l'alto mentre su di essi il nastro della mitragliatrice scorreva liscio, sotto di loro l'onda sovietica si stava battendo alla baionetta per entrare nel bunker rompendo la difesa tedesca, alla fine i soldati di terra della Luftwaffe vennero sopraffatti, il lieutenant che li comandava si fece esplodere con 4 granate e con grande coraggio davanti alla breccia facendo tremare i muri dell'edificio e portando nella tomba molti giovani reclute sovietiche.

Fu diramato quindi l'ordine di evacuare il bunker ormai indifendibile e a pericolo di crollo strutturale, i battaglioni di volksstrum cominciarono a fluire verso le porte secondarie che davano sulla zona difesa dai carri del 36esimo reggimento panzer che con enormi sforzi manteneva un corridoio di salvezza verso la fortezza al centro della città.

Franz e Ulric finirono le munizioni della mitragliatrice, allora Ulric si caricò in spalla la suddetta e si avviarono velocemente.

Eber stava svolgendo diligentemente il suo ruolo, sorpassando l'autorità effettiva di Lotendorf che aveva rinunciato a organizzare tutto il gruppo e si limitava a gestire il primo plotone dei quattro di cui si componeva l'unità, il terzo rimase a tappare il corridoio principale mentre gli altri si organizzavano per portare via i feriti, Eber finì di radunare il secondo e il quarto invitandoli a seguire il primo capitanato da Lotendorf che si stava allontanando verso la fortezza.

Franz e Ulric erano gli ultimi, a cui Eber affidò il compito di portare in salvo l'ultimo soldato in barella, Ulric con estrema fatica riuscì a tenere sulle spalle l'MG afferrando allo stesso tempo una delle estremità della barella bianca.

A quel punto Eber fece per richiamare l'ultimo plotone ma una raffica di PPSH interruppe la sua voce, da una delle due scalinate che portavano all'atrio in cui erano irruppero tre soldati delle truppe shock sovietiche, erano gli unici ad aver superato il blocco della metà del terzo plotone adibita al controllo della seconda scala, che ormai giaceva a terra in una pozza di sangue.

La raffica aveva mancato Eber ma uno dei colpi aveva centrato il fianco di Ulric che ora era inginocchiato dolorante e ansimante per lo sforzo, il lieutenant si girò verso le due volksstrum e poi di nuovo verso i soldati sovietici intenti a ricaricare.

L'Ufficiale tedesco si gettò dietro ad un angolo del muro impugnando lo schmeisser, in una raffica falciò due dei tre soldati rossi, quando un lampo investì la sua mente, il terzo soldato era un'ufficiale, ma quell'espressione, quegli occhi verdi. Riconobbe il terzo soldato, era un maledetto cosacco, si erano già incontrati nell'inverno di quattro anni prima, a Stalingrado.

Il cosacco scaricò il suo PPSH contro la colonna di Eber, poi corse e si riparò sotto una delle due scalinate. Eber lanciò un'altra raffica ma non riuscì a centrare il bersaglio, a quel punto il cosacco uscì per cercare di evitare la colonna, ma quando cominciò a fare fuoco Eber rispose con un'altra scarica di cui un colpo si conficcò nel braccio sinistro del russo. Lo stesso braccio che il cosacco centro ad Eber, i due allora gettarono le armi e sfoderarono le baionette, in pochi secondi gli occhi azzurri di Eber guardavano gli smeraldi brillanti e vivissimi del tartaro, intanto Ulric e Franz si erano allontanati girandosi di tanto in tanto per capire se avessero rivisto il giovane comandante.

I due soldati cominciarono un duello sanguinoso, aprendosi ferite in più punti, finché lo stivale nero di Eber non colpì in pieno petto il russo, allora sempre Eber corse a recuperare lo schmeisser ma il cosacco gli salto nuovamente sulla schiena, all'inizio non sentì nulla, poi un rigagnolo di sangue sgorgò dalla bocca del giovane tedesco, il russo rivoltò Eber assestandogli un colpo che gli ruppe vari capillari nasali, la baionetta gli aveva penetrato il polmone sinistro. Il russo dunque si rialzò con fatica scrutando il volto sanguinante del tedesco, ripreso il PPSH, Karensky ufficiale cosacco, osservò trenta secondi il giovane ufficiale ferito a morte, esitò, non avrebbe mai tentennato nell'uccidere uno degli aggressori di Stalingrado, ma la sua energia pareva essere finita di colpo, non riusciva a premere il grilletto per porre fine alla vita di Eber che osservava il russo con paura crescente, si erano incontrati in una fabbrica di Stalingrado e ora la loro lotta finiva a migliaia di chilometri di distanza, nella città dei cavalieri e dei re.

Si guardarono negli occhi per un minuto intero mentre un plotone di guardie li raggiungeva, cominciò un duello di sguardi, il tedesco ferito a terra si sforzò di tenere fisso lo sguardo sul russo, come fiero di quella fine. Poi i suoi occhi diventarono vuoti e Karensky si girò verso i suoi soldati ordinandogli di fortificare la posizione.

Fece per andarsene, ma all'ultimo si fermo accovacciandosi nuovamente per chiudere gli occhi al suo avversario.

 

Pioveva a dirotto, Franz era al centro di un incrocio con la testa bassa, dietro di lui il piccolo ponte ricamato e perfetto nella sua regale magnificenza conduceva all'entrata della fortezza imperiale di Königsberg, il suo volto diventava ogni minuto più cupo, esplosioni in tutta la città assordavano la sua mente frustrata, ad ogni colpo che rompeva l'aria avrebbe voluto stringersi le mani intorno alla testa.

Alla sua destra il blocco di sacchi di sabbia era stato costruito per essere efficace e non appariscente, i soldati, senza ormai una vera e propria organizzazione, stavano difendendo le tre strade che conducevano alla fortezza, al centro dell'incrocio le volkssturm stavano correndo per trasportare i feriti ammucchiati sotto l'insegna di uno dei negozi d'angolo, Emma stava trattando uno dei feriti la cui voce giungeva sino a Franz con disturbante chiarezza, la piccola infermiera era colma di sangue e si stava mordendo le labbra, al suo fianco Karl teneva fermo il ferito, la sua espressione pareva apatica.

Ulric si avvicinò a Franz che teneva in mano un foglio di carta pallida con su scritti gli ultimi ordini che gli aveva consegnato Eber, il grosso tedesco lo prese per un braccio e lo scosse, era stata diramata la ritirata immediata, la zona della città era isolata, ogni divisione doveva ritirarsi al più presto nella fortezza. Proprio in quel momento Franz si girò nuovamente verso Emma che era seduta con le mani grondanti di sangue e la schiena appoggiata alla facciata del piccolo negozio d'angolo, il suo sguardo fisso scrutava il cadavere del soldato che fino a poco prima stava cercando di salvare.

Franz si rigirò verso Ulric come se rigettasse quell'ennesima esibizione di morte, osservò il compagno con il fianco coperto di bende, poi guardò il cielo, molto in alto volava un aereo da caccia russo, fin da terra si riuscivano a scorgere le stelle rosse sui fianchi della fusoliera.

 

Lungo la via principale che porta alla fortezza l'ultimo carro armato tedesco della città resisteva, circondato da soldati di diverse divisioni, era un Panzer IV modello H, un carro che aveva visto infinite battaglie, dai molti segni sul cannone, che giorni prima attendeva che la sua strada fosse spianata da soldati senza speranza, quella strada dove l'ha portato? L'ha portato nella sua ultima giornata, in un'ora di fitta pioggia, nel tardo pomeriggio dell'8 Aprile 1945 a Königsberg. Il comandante di quel carro era una persona raffinata, aveva ascoltato centinaia di volte i grandi classici, era innamorato della poesia di Mozart, aveva contemplato per ore quella bellissima musica nella sua ultima licenza mesi prima. Era nato a Norimberga in una notte di pioggia, un panciuto bambino, allora senza bandiere, senza stendardi, senza coscienza ma già con una patria.

Stava osservando la strada indicando i bersagli al suo cannoniere, posizionati dietro a delle macerie nel lato sinistro della strada, lui e il suo equipaggio mietevano vittime, come avevano fatto decine e decine di volte, gli occhi gli brillavano, lo sguardo sforzato nel fragore tra l'acciaio del mezzo, ad un tratto la vide. La morte lo guardava da lontano, vide un cacciacarri nemico in fondo alla strada, poi un altro che si affacciava da una stradina, ancora un altro dietro ad un muro crollato di una vecchia macelleria. Ci fu un dolce silenzio dentro al mezzo, l'equipaggio era come in attesa poi il loro capocarro parlò, un'ultima volta

«Addio mia famiglia, miei compagni»

L'esplosione come furiosa fuoriuscì dal carro, impersonificando l'orrore provato nella vita da quei cinque soldati, si levò come se nella sua ultima corsa volesse raggiungere il cielo, alla ricerca di qualcosa, forse la vendetta, o forse la salvezza. Ciò che si sa è che nessuno li rivide mai più, neanche i loro corpi senza vita vennero mai trovati, inghiottiti dalla guerra, dalla morte e dall'odio, come Königsberg, come la Germania, come il popolo tedesco.

 

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Capitolo 4
*** I Sogni sono Immortali ***


 

 

Figli di Prussia

Capitolo IV

I Sogni sono Immortali

 

 

Suonavano le campane, allora non esistevano altri metodi altrettanto efficaci per scandire il tempo, tutti stavano a sentire il loro dolce suono come fosse una melodia angelica alzando le stanche membra impegnate nel duro lavoro della semina. Al tempo, un tempo che va oltre le semplici date, che si mischia con la leggenda e si interseca con il mito, i Prussiani vivevano nella loro terra parlando la loro lingua e utilizzando i propri costumi, combattendo le proprie battaglie fra di loro e contro gli invasori della loro terra.

Già quando la luminosa Grecia era divisa in città stato e Erodoto scriveva quelli che sarebbero diventati testi millenari, in Prussia il popolo dei Prussiani viveva serenamente lungo tutta la Ostprußen e la Westprußen, rimanendo isolato e ignorato dalle popolazioni in migrazione per via dell'inospitalità della sua terra, protetti dalla Vistula i Prussiani hanno continuato a vivere liberi tra i loro vari dialetti ed etnie.

Arrivarono un giorno dalla Germania per cristianizzare quel popolo i cavalieri del sacro ordine teutonico, i Prussiani lottarono, si unirono contro il nemico comune ma alla fine i cavalieri, inviati dai re polacchi incapaci di eliminare i prussiani, ebbero la meglio. Nei secoli i Pruzzi scomparvero fino ad essere assimilati nella popolazione tedesca.

Ma come è vero che nessuno parla più il prussiano tra i cittadini tedeschi della prussia, dell'est e dell'ovest, è anche vero che nelle loro vene scorre il sangue di quelli che un tempo furono un popolo libero e antico, essi possono considerarsi dunque i discendenti degli antichi prussiani? Eredi di Warmo, tra i più grandi condottieri dell'antica Prussia? Legittimi possessori del territorio da Danzica a Memel? Essi possono dunque considerarsi Figli di Prussia?

 

 

 

 

 

Ore 07:00 della giornata del 9 Aprile 1945, Königsberg

 

 

Tutta la città bruciava, le fiamme si innalzavano fino al cielo. Centinaia di cannoni stavano vomitando fuoco contro le pesanti mura della fortezza, soldati, a migliaia rimanevano coperti, spaventati da quelle esplosioni e nemmeno i reduci riuscivano a mantenere il comune spessore nello sguardo e nei modi. In entrambi gli schieramenti una cosa era certa: Era giunta la fine.

 

 

«L'Atto finale. Quanti ce ne sono stati in questa guerra? Quante ultime battaglie? Quante volte l'unica scelta disponibile è stata la resa?»

Il generale Otto Lasch dopo aver pronunciato quelle parole si era girato ad osservare la sua staffetta mutilata, non aveva più un alto comando, tutti gli ufficiali di alto grado erano sparsi per la città a guidare ciò che rimaneva delle truppe e ora in quella stanza un tempo appartenuta ad antichi re si sentiva solo e gli pareva tutto molto gelido, spento e in attesa della fine che il cervello del tedesco scacciava ma che tutto intorno a lui ormai sembrava accettare.

«Herr General, se mi permette mi sono già arreso una volta e posso affermare con certezza che se non ti uccidono i vincitori lo fa l'umiliazione».

Il soldato era sotto pressione, pensava di non essere in grado di parlare ad un superiore senza usare un certo ritegno, anche se il suo generale faceva di tutto per sembrare molto umano ai suoi occhi. Il suo pensiero venne interrotto da Lasch

«"Ogni cosa prima o poi finisce", dopotutto è vero, i sogni di Bismarck, di Wilhelm e adesso di Hitler sono andati perduti, cosa ci rimane?»

 

Nelle cantine di quella fortezza Lotendorf osservava i soldati sull'attenti, le loro uniformi erano marcie e sudice, non le cambiavano da settimane, molti avevano perduto il berretto d'ordinanza e ora tutto il completo pareva pendere dalla loro pelle, altrettanto marcia, per via dell'acquazzone che anche in quel momento non accennava a smettere.

Lotendorf li passò tutti in rassegna poi si limitò a dire «Voglio che siate pronti per il turno del pomeriggio, non possiamo abbassare la guardia, oggi combatteremo, con uniformi, vestiti civili o stracci, ma combatteremo! Per Dio oggi combatteremo!» si rese conto di stare degenerando e concluse «Avete il resto della mattina libero, alle 14 radunatevi nella sala principale, daremo il cambio al secondo plotone»

 

Franz guardava a terra, era ad un soffio dal mettersi a piangere, proprio come un bambino. Vent'anni prima in una trincea stava provando le stesse emozioni, allora aveva creduto di non poter mai più sopportare un simile tormento, e ora nuovamente una morsa gli premeva il cuore fino a fargli storcere l'espressione del viso.

Le rughe gli ricoprivano le mani e il volto, ripensò a quando quelle mani toccavano le morbide dita di Elen e la sua mente proiettò l'immagine di lei che lo trascina per le strade di Danzica nella notte di natale del 1923, ogni tanto girandosi e sorridendogli. Poi il sogno si interruppe, Elen ora gli parlava da una finestra al secondo piano di una casa, lui gli gridava parole ma due persone lo bloccavano, il volto di lei era spaventato, sembrava invecchiato, era bloccata e non poteva raggiungerlo. Tutto si susseguiva rapidamente quando un'esplosione lo accecò, la casa che crollava quasi completamente su se stessa, la contraerea faceva fuoco mentre da lontano il sibilo degli 88mm irrompeva nell'aria, si sentì un grido. Il sangue sparso e il cadavere sfigurato di Elen, i suoi occhi bianchi, l'espressione di dolore, non si ricordò altro di quella notte di bombardamento del 1944 e di una vecchia casa davanti ad un piccolo bar di Königsberg.

Successivamente vide ancora il cadavere tumefatto, poi altri, un compagno dentro a una bara aperta, poi la bara si chiuse e una bandiera imperiale ricoprì il gelido legno. Una bara, tante bare scivolavano nel nulla verso l'orizzonte mentre catene infinite di soldati danzavano intorno a lui con gli occhi vitrei, o chiusi a seconda di com'erano quando gli vide morire.

 

Uno dei fratelli Orlin lo guardava con il volto stravolto, era Frederick poiché Andrea, suo fratello gemello, era morto durante la difesa del bunker n°5.

«Franz, a che pensi?»

L'interpellato rialzò lo sguardo e chiese «Frederick, a cosa sono serviti tutti questi morti? Non erano così belli i campi fioriti e i boschi infiniti quaranta anni fa, quando c'era la pace e festeggievamo il Sedantag tutti assieme, Bavaresi, Amburghesi, Westfaliani, Prussiani? Tu hai combattuto i russi vent'anni fa, hai difeso la Prussia dallo zar ed eri a Tannenberg durante la controffensiva, vero? Perché sono morti tutti i nostri compagni se alla fine noi Prussiani non possiamo vivere in pace?»

Frederick lo guardò tristemente, poi rispose «Mio fratello era un sognatore, era affascinato dai fiori e mi raccontava sempre di quell'esemplare piuttosto che di quell'altro, poi un giorno tornò a casa dopo una giornata tra i campi e vidi subito che qualcosa lo turbava, gli domandai se era tutto a posto. Lui mi rispose che non sarà mai tutto a posto finché gli uomini non si comporteranno come i fiori, ovvero vivendo liberi, secondi solo a Madre Natura, tenendosi per mano senza odio e senza competizione. Un sogno da bambino, ma noi Prussiani, noi popolo di Prussia, noi Figli di Prussia non saremo mai in pace finché nessuno ci riconoscerà come fiori unici, come popolo della terra tra la Vistula e il Nemunas, da Memel ad Allenstein a Danzica, in piedi fra i popoli come eredi dei nostri avi.»

Franz si sedette su una cassa di legno marcio guardando Frederick, si sentiva perduto ma profondamente sollevato, come uno stanco asso dei cieli che stà volando l'ultimo suo volo, egli vola ma sa che prima di toccare di nuovo terra sarà morto e quindi si sente libero, ogni tanto chiude gli occhi e immagina il vuoto sotto di se credendo di poter volare senza aereo, soltanto dispiegando le braccia.

 

 

 

 

L'ospedale da campo era situato nella zona est della fortezza, i medici erano solo due e a supportarli l'ultima delle infermiere, Emma, era ferma attonita sotto la pioggia scrosciante. Era finita la morfina, le bende erano sporche e fradice come ogni materiale medico presente in quella fortezza. Teneva i piedi girati verso l'interno, affondati nel fango, la bocca socchiusa, le sue labbra soffici erano bagnate da acqua e lacrime, la sua pelle bianca come il latte e delicata come seta pura pareva fradicia oltre ogni misura. Il Widmann gli era caduto a terra mentre lei guardava dritto davanti e intorno i soldati le passavano accanto indifferenti.

Uno dei due medici le prese la mano destra

«Venga sotto la tettoia, se rimane sotto quest'acquazzone...»

Lei piano lo incalzò, la sua voce era vuota e priva di emozioni, e altrettanto piano giro la testa per guardarlo

«Altrimenti cosa mi accadrà?» fissava l'ufficiale medico mentre lacrime gli fendevano il viso, l'uomo rimase sorpreso, conoscieva Emma da qualche mese, ma non l'aveva mai vista in quello stato, era sempre la luce che dava speranza ai malati e ai moribondi, l'infermiera che durante i bombardamenti raccontava storie ai pazienti o gli leggeva Goethe cercando di farli concentrare su altri pensieri. Era la sola a non essere partita o a non essersi arresa, aveva visto i feriti di tutta la ritirata dalla Russia, fin dal '44, era stata a Varsavia e poi era tornata a Königsberg, per lei la guerra era una sola grande tragedia, un massacro insensato, una sconfitta per l'umanità.

L'Ufficiale Medico le lasciò il braccio e lentamente ella si girò verso la tempesta che fluttuava sopra Königsberg, le sembro che un coro di angeli risuonasse da ogni direzione, poi come arresasi ai tuoni tornò all'interno della fortezza.

Emma aveva sempre rappresentato la stella di un mondo troppo povero, che non avrebbe mai potuto sperare in una buona istruzione, era l'unica figlia di una coppia di umili artigiani del legno di una cittadina della Prussia Orientale chiamata Gumbinnen. Fin da piccola si era interessata dei grandi personaggi lontani e vicini alla sua terra, aveva studiato i trattati di illustri scrittori, tutto dalla piccola biblioteca cittadina, trovando piacevole l'arte e la poesia, anche se eccelleva soprattutto in Matematica. Dopo grandi sforzi, a 16 anni ebbe accesso ad un'istruzione agiata grazie all'aiuto dello zio a capo di una fabbrica di scarpe nella città di Rostock. Si trasferì quindi da lui e i risultati non si fecero attendere, nel 1936 a 21 anni, si laurea in Matematica. Dopo 2 anni pone domanda per una cattedra all'università di Königsberg, ma viene rifiutata per via delle riforme antifemministe del partito nazionalsocialista, che stabilì un capolinea netto alle ambizioni di Emma, il cui diploma si rivelò inutile sotto tutti i punti di vista. Ritorna comunque in Prussia, lavorando in fabbrica per riuscire a sopravvivere nonostante la sua vocazione prettamente scientifica. Poi ci fu la guerra. Nel 1944, in una tiepida notte estiva aveva sentito i bombardieri volare, la pioggia di metallo cadere e la mattina dopo aveva trovato l'Università, la prestigiosa "Albertina" rasa al suolo, così come gran parte dei quartieri industriali in cui lavorava. Fu quindi reclutata nell'esercito come infermiera dopo un breve corso medico, raggiungendo i soldati per aggregarsi alla ritirata. Il suo sogno era diventare professoressa e nonostante i fallimenti continuava a dimostrare molta energia nell'affrontare la vita rincorrendo quel sogno. Poi l'energia e la voglia di cambiare sembrarono cessare di colpo, un forte senso d'impotenza si impadronì della sua mente, facendo degenerare i suoi modi vivaci e fraterni nell'ultimo rantolo di vita della sua personalità che gli dipinse il sorriso spesso forzato per cui tutti la ricordano, raggiunse il culmine alla vista della piccola Gumbinnen in fiamme.

 

 

La disperazione è rabbia senza alcun posto dove andare.


Mignon McLaughlin

 

 

Emma tremava per il freddo, era seduta su una sedia appartenuta ad un consigliere imperiale e davanti a lei uno dei sottoufficiali della 103esima granatieri la osservava, sotto ordine del medico era stata condotta nella camerata degli ufficiali per garantirgli un pò di riposo.

«Ti senti meglio?» chiese l'ufficiale

«Che importanza ha?»

La risposta dell'ufficiale fu quella di girare attorno alla sedia posizionandosi dietro di lei.

«Se ti senti meglio possiamo esternarci per un pò dalla guerra»

Le sue mani scivolarono sul suo seno, gli occhi del tedesco brillavano, febbricitanti nella ricerca dell'ultimo sfizio.

Emma sbarrò gli occhi, lentamente si alzò e si mosse di un passo, allontanandosi dal tedesco per poi affermare saldamente

«Che sia tedesco o russo, l'uomo è inamovibile nelle sue follie. Le donne rimarranno sempre inferiori per alcuni, solo un oggetto da usare per sfamare le proprie voglie. Come avete fatto in Russia e in Polonia, quando ne avete avuto la possibilità avete sempre fatto ciò che volevate. Ora saranno i russi a farlo in Germania, ma chi ci rimetterà saranno sempre le donne, così diverse da voi, mi chiedo se dunque non avevate sbagliato Byron, Goethe, Hugo. E anche tu Lenin.

Perché questa è la guerra o più semplicemente questo è l'uomo?»

Il soldato si era avvicinato da dietro e ora le annusava il collo. Emma continuò a parlare

«Dimmi allora, perché amare in pace quando puoi stuprare in guerra?»

Si girò lentamente e inesorabilmente, ma lo fisso solo per pochi istanti perché lui le fu subito addosso e lo sguardo di Emma finì di nuovo sulla fradicia sedia su cui era seduta poco prima.

Le lacrime gli ricoprivano le guance, massaggiò i fianchi al soldato, poi la sua mano scivolò sulla Luger nella fondina sul lato, la estrasse mentre lui la prese per i fianchi e la lanciò con forza su una branda.

Gli occhi dell'ufficiale si sbarrarono quando vide Emma puntargli addosso la pistola, era rimasto in piedi davanti al letto, fece per parlare ma lei alzò la voce singhiozzante per il pianto

«L'uomo è una creatura così malvagia, violenta e prepotente, la guerra ne è la prova, esistono alcuni uomini che non riescono a comprendere l'idea di pace tra popoli. Quegli uomini portano alla tragedia della strage e dello sterminio.»

continuò urlando

«Che cosa ti ho fatto? Perché non riesci a vedere oltre il semplice piacere della carne? Perché le persone come te ci hanno trascinato in questo massacro? Qual'è la mia colpa?»

La canna della luger divenne incandescente per qualche istante mentre il proiettile fuoriusciva dalla bocca di fuoco e attraversava l'aria della stanza fino a conficcarsi nella laringe dell'ufficiale, che cadde all'indietro in una pozza di sangue.

 

Entrarono in quel momento Karl e Franz, che sentendo le urla accorsero dalla stanza accanto insieme ad altre sei volkssturm. Osservarono il corpo dell'ufficiale e poi fissarono attoniti Emma, ora in piedi davanti al cadavere del soldato.

La ragazza pianse e infine singhiozzando disse

«Vi prego, perdonatemi.»

Si puntò la pistola alla bocca e uno sparo ruppe l'aria per una frazione di secondo. Poi cadde anche lei all'indietro, finendo sulla branda.

 

 

Franz era seduto affianco al cadavere della ragazza, non riusciva a guardarla, si pressava le mani contro la faccia cercando di nascondere l'infinito dolore della perdita. Era tra le donne più coraggiose, libere e innocenti che avesse mai conosciuto, vittima di una guerra ingiusta subita dalla sua generazione.

Il viso di Emma sporco del sangue dei Polacchi di Varsavia, le infinite corse della giovane per cercare nelle case i feriti, la disperazione nel trascinarli da sola all'ospedale da campo, una giovane vita volta ad aiutare gli altri mettendo in pericolo se stessa. Ora un proiettile gli aveva perforato il cranio e la sua mano senza vita pareva spettrale al centro del lago creato dal suo sangue.

Erano nell'atto finale di una grandissima quanto maledetta recita teatrale, pensò Franz, si stava per chiudere il sipario sul suo pezzo di mondo, ma non poteva finire in quel modo.

Franz guardò le altre volksstrum, osservò il piccolo Karl, la possente figura di Ulric entrato poco dopo rispetto a loro, trovò degli sguardi denutriti, demoralizzati e stanchi. Lo osservavano tutti, poi Franz si avvicinò a Ulric e si dissero qualcosa a bassa voce. Dopodiché la stanza si svuotò.

 

 

La pioggia continuava a cadere senza freni, i soldati senza speranza erano silenziosamente in attesa.

Gli ultimi soldati di Königsberg. Franz ad un tratto spalancò le porte del corpo centrale della fortezza, trovandosi così nel cortile. Sparò un colpo di VG-1-5 al cielo e si andò a posizionare sopra ad un autocarro Opel Blitz.

Tutti si girarono nella sua direzione e altri sbucarono da sotto le tettoie per venire ad ascoltare.

 

 

«Compagni, soldati di tutta Germania, siete giunti fin qui dalle vostre case sparse per il cuore dell'Europa. Ognuno di voi ha già avuto modo di combattere la propria battaglia, contro il nemico dell'Est, contro quello dell'Ovest o contro se stesso. Ciò che importa è che le vostre strade si sono intersecate con quelle di ognuno dei presenti qui oggi.

Siamo stati riuniti qui, nel degno suolo di Prussia, in questa terra. Per difenderla. Sappiate che la terra che calpestate è ancora tedesca, che nonostante fuori da quei cancelli siano radunati tanti soldati da fare tremare la terra e il cielo, noi siamo ancora in piedi, cittadini in guerra.

Perché se voi che ascoltate siete tedeschi capirete, se voi siete un popolo combatterete, se voi credete a chi vi stà a fianco darete la vita per lui. Mi sbaglio forse?

Da quando è iniziato questo secolo il sangue dei popoli d'Europa è stato versato come a tributo, la perdita di così tanti fratelli ha distrutto intere famiglie, oltre i confini degli stati, mentre altri paesi si innalzano usando le nostre disgrazie. Mentre la Prussia, questa terra che un tempo riunificò la Germania, a cui tutti noi dobbiamo tanto, cade inesorabilmente verso l'oblio.

Ebbene io credo fermamente che non esista nessuna fede politica al di sopra dell'amore verso i propri connazionali e verso la propria terra. Perché noi siamo tedeschi! Non esiste nessun Fürer. Nessun partito nazionalsocialista. La Nostra Germania era formata dalle grandi speranze che la riunificarono, speranze di ribalta dopo anni di divisione, la voce di coloro che si rivoltarono per un sogno, che morirono per quel sogno, quei giovani che durante tutto il secolo passato riformarono la nostra terra e lottarono per migliorarla o per difenderla. Quella voce non è la voce che ci ha spinto a tutto questo sangue. Quella voce è stata piegata da tutto ciò che ha seguito il 1918, da tutto ciò che ha spinto ognuno di noi a condannare suo fratello, anch'esso tedesco.

Soldati di Germania o compatrioti di Prussia. Oggi senza alcuna autorità, solo con la fiducia che un camerata ha verso un'altro camerata, che un fratello ha verso il proprio fratello, vi chiedo di combattere. Perché ogni cosa inizia e ogni cosa finisce, ma la storia della Prussia è iniziata nella gloria della battaglia e non nella disperazione di un armistizio e così deve finire la sua storia. Noi in questo giorno di pioggia e disperazione combatteremo e difenderemo fino all'ultimo uomo questa città, perla dell'Europa Orientale, fiore del baltico, figlia di Prussia.

Ci ergiamo solenni davanti alla fine. Perché, così come gli ultimi bizantini difesero Costantinopoli, noi oggi difendiamo Königsberg!»

 

Le persiane del secondo piano della fortezza si spalancarono all'improvviso e dal buio degli interni fuoriuscirono due bandiere imperiali, l'aquila nera sembrò cavalcare il vento, stretti tra gli artigli lo scettro e il globo, alla testa la corona dei germani, il becco spalancato gridando da secoli l'indipendenza dello stato che essa rappresenta.

 

La maggior parte dei presenti guardò attonita Franz, poi alcuni si misero a parlare, infine Verlen il Gerbingsjager avanzò verso il camion e giunto sotto di esso prese la croce di Ferro legata al suo collo da una collana e la levò al cielo.

Altri a quel punto si avvicinarono e alla fine un urlò scoppiò «Per la Germania! Per la Prussia!»

 

 

La folla di soldati seguì Franz che li condusse nelle cantine della fortezza, eliminando i membri più fanatici delle SS che tentarono di fermarli.

Giunti alle cantine la maggior parte di loro lasciò la propria uniforme fradicia e si vestì con le uniformi conservate lì da metà della Grande Guerra.

Dopodiché ogni sforzo fu concentrato a barricare ogni finestra, porta e buco difendibile.

Franz nel frattempo raggiunse il bunker di sicurezza sotto il palazzo in cui si era rifugiato Otto Lasch.

Il prussiano entrò nella piccola stanza accompagnato dall'unica guardia del generale, il soldato mutilato.

«Generale, si ricorda di me?»

Il generale si girò lentamente, osservò il soldato e disse «Mi sarebbe piaciuto incontrarla molto prima.»

Una canzone cominciò a scivolare lentamente dalla bocca di Franz

«Sei tu dolce, mio caro papavero rosso,

testimonianza di una morte prematura

questo soldato piange una lacrima

per ogni fiore identico a te

in questo, in molti, in infiniti campi

a te solo dedico questo lamento»

Ci fu un silenzio pressante poi Lasch continuò

«perché tu solo mi ascolti

in questa giornata,

che forse sarà la mia ultima giornata

non piango, non mi dispero

perché so che tu veglierai su di me

dopo la mia morte

dolce fiore rosso»

Franz sorrise «4° plotone, 122esima divisione fucilieri imperiali. La nostra canzone.»

Otto Lasch guardò il milite e sorrise tristemente «Perché vieni qui nell'ultimo giorno di questa città?»

«Per chiederti di non morire, salvati. Non farli morire tutti, dovrai trattare per le loro vite, per le vite di tutti quelli che sono ancora pronti a morire.»

Lasch sorrise ancora «Chi decide quanti ne devono ancora morire? Franz, è finita. Non c'è bisogno di altri morti.»

«Agosto 1918, ricordi quell'altura dove si arrese il nostro plotone? Quando tutti uscirono dalle trincee per arrendersi tu mi dissi: No, io non mi arrenderò mai.»

«Sai che era diverso. Non devi finire la tua vita in questo modo mio Hauptmann, tra i migliori capitani che abbia mai incontrato.»

«Tu sai benissimo che non è vero, questo è l'unico modo in cui può finire questa mia ultima battaglia, camerata.»

Franz fece per andarsene ma si voltò prima di scomparire «Ferma questa carneficina e salutami i vecchi compagni, quando tutto sarà finito»

 

 

 

 

E’ dolce e onorevole morire per la patria – Dulce et decorum pro patria mori

 

Quinto Orazio Flacco

 

 

Ore 21:00 della giornata del 9 Aprile 1945, Königsberg

 

 

Una sentinella corse al centro della piazza e urlò «Stanno arrivando! Un battaglione corazzato, alla testa due carri IS!»

Apparve ancora una volta Franz Kurtin, Hauptmann di Germania, decorato con la croce di ferro di prima classe per meriti in combattimento. Gli stivali neri lucidi, la divisa grigia e il Pickelhaube nero rifinito, la cui punta ritta sfidava il cielo tempestoso.

Il capitano Franz tuono deciso «Serrate i ranghi miei compagni. Piantate ben alte quelle bandiere, che l'acquila sventoli! Per la Germania! Per la Prussia!»

Si serrarono i ranghi dietro ai mezzi capovolti a cui era stato prosciugato il carburante, i camion rovesciati, i semicingolati seppelliti, i cannoni anticarro nascosti. Tutto era pronto.

 

Passarono 15 secondi, poi ogni uomo nel raggio di un chilometro sentì chiaramente un'esplosione. Il cancello cadde verso di loro e un fischietto suono nella nebbia di polvere, mentre le reclute sciamavano all'interno coperte dalla piastra in acciaio dell'IS di punta.

Il maestro d'orchestra si mosse in apertura e le MG34 e 42 cominciarono a cantare, poi i tiratori dai piani più alti diedero fiato agli otturatori mentre i colpi sfrecciavano nell'aria ad altissima velocità. Dopo poco i piani scandirono le loro intense note, i Pak 40 cominciarono a bersagliare l'IS, mentre dagli edifici laterali i Granatieri Panzer con i loro MP40 falciarono i coscritti come veloci violini.

Il sudore ricopriva ogni volto e tutto si scaldò fino all'intensa esplosione dell'IS, il colpo di uno dei Pak40 era rimbalzato sul terreno sottostante il carro ed era entrato in contatto con la corazza inferiore di esso, penetrando la stiva munizioni che con ardore esplose lasciando un aura di fuoco intorno al mezzo.

Centinaia di proiettili volavano in pochi secondi e il tempo fu sempre più umido di lacrime e pioggia. Le munizioni iniziarono a scarseggiare e piano sempre più bocche da fuoco si spensero.

Arrivò anche il secondo IS, ma stavolta i Pak rimasero silenti e fu uno delle volkssturm a gettarsi nel piazzale mentre il carro si muoveva, rotolandogli sotto con un Panzerfaust in mano. Egli ci riuscì e poco prima del lancio del razzo anticarro si sentì un grido «Per la Prussia!»

Poi tutto fu fuoco un'altra volta, ma dopo poco due T-34-85 si mossero da dietro le carcasse degli IS e fecero saltare i due edifici laterali.

Gli ultimi si ritirarono all'interno del corpo centrale della fortezza, ma ben presto anche quelle porte esplosero, lasciando campo libero a due MG34 dal fondo del corridoio, anche loro cessarono i proiettili. Una dopo l'altra le stanze venivano invase da soldati sovietici. Si fu ben presto all'ultima difesa: il salone medievale.

Sotto la statua del gran maestro Alberto I gli ultimi soldati si coprivano a vicenda, le munizioni ormai erano agli sgoccioli ma negli occhi dei cittadini in armi brillava l'onore misto alla disperazione.

Franz alzò la testa e si trovò dinanzi un soldato della truppa d'assalto sovietica che fece per puntarlo ma nello stesso momento una volkssturm si gettò contro il russo pugnalandolo tre volte al petto. Le raffiche sovietiche si abbatterono sul miliziano dilaniandolo, prima di morire urlò «Eccomi, fratelli arrivo!».

Un fuoco di soppressione teneva inchiodati Ulric e Franz alla loro postazione ad una delle uscite dalla sala, erano in mezzo ad un corridoio che dava alle stanze dei nobili. Quando ad un tratto Ulric si girò verso il suo compagno e una raffica lo perforò in più punti sulla schiena, il grosso soldato si accasciò ai piedi di Franz sorridendo. Franz svuotò la mente e si lanciò armato di baionetta verso il russo con PPSh e prima che potesse sparare gli tagliò di netto la giugulare, facendolo accasciare anch'esso, così facendo il corpo lasciò spazio a due occhi neri, anziani, gli occhi di un russo di Arkhangelsk. Franz non sapeva che quegli occhi avevano visto anni prima Tannenberg ma un presentimento lo aveva scosso, erano entrambi vittime della Prima e della Seconda Guerra Mondiale.

Una raffica maciullò in pochi secondi la gamba di Franz che gemette, lasciò l'affilato coltello ma non si diede per vinto, colpendo lo slavo con il pickelhaube, con tanto ardore da sfondargli il naso, facendogli lasciare l'arma. Il sovietico estrasse il coltello e si gettò verso il tedesco che lo evitò per poco e che si lanciò verso di lui a sua volta dopo aver recuperato la baionetta, che andò a conficcarsi nel petto del suo avversario, l'anziano però accumulò le forze e perforò anch'esso il tedesco in pieno petto. I due caddero a terra e si guardarono, erano fradici e nel fragore degli ultimi istanti della loro vita piansero e lasciarono i loro coltelli per tenersi le mani.

Finiva così la battaglia di Königsberg, il 9 Aprile 1945 nel Palazzo Imperiale di una città gioiello. Insediamento dei Pruzzi, Roccaforte dei cavalieri teutonici, Capitale dei duchi di Prussia, Orgoglio dei Re e degli Imperatori tedeschi. Madre della cultura Prussiana oggi, allora, per sempre.

 

 

Ore 01:06 della giornata del 10 Aprile 1945, Königsberg

 

Karensky camminava lentamente lungo i corridoi della fortezza, dentro di lui una strana sensazione, lì in quell'anfratto circondato da cadaveri con divise di diverso colore si sentiva sciupare. Aveva evitato i festeggiamenti, i suoi occhi lacrimavano per un senso di colpa che non riusciva a comprendere.

Passo infine davanti ai due soldati, appena visibili nel buio della notte, che si tenevano per mano. E dopo un iniziale stupore si chiese se quei due cadaveri in mezzo a centinaia non avessero compreso qualcosa in più rispetto a lui. Si chinò sui cadaveri e gli osservò a lungo.

 

 

Ore 21:47 della giornata del 18 Febbraio 1956, Stettino

 

La città era illuminata da un multitudine di luci di automobili, case, lampioni. Pioveva, mentre una figura scura si muoveva sotto un cappotto scuro, il vento era gelato, l'uomo si infilò in un vicolo poco illuminato, in fondo al vicolo una staccionata di legno chiudeva l'accesso alla spiaggia e poi al nero mare notturno, al largo una nave era visibile con le sue luci in mezzo all'oscurità del mar baltico.

Ad un tratto la figura si fermò e si voltò verso una porta, erano tutte case a due piani, incastrate una con l'altra. Suonò.

Dopo una decina di secondi una figura si avvicinò alla porta e domandò

«Chi è?»

In un timido tedesco la figura in strada rispose

«Lei è Lenz Kurtin?»

La porta si spalancò lentamente e un giovane dai capelli castani e gli occhi azzurrognoli apparì e osservò la figura sotto la pioggia battente che lo osservò a sua volta con i suoi occhi smeraldo e gli disse

«Sono Karensky Lytkin, lei sa chi è Franz Kurtin?»

Il tedesco lo fisso e confuso gli rispose

«Era mio nonno, ma non l'ho mai conosciuto»

Karensky allora scoprì la cassetta che aveva sotto il cappotto, e la consegno al giovane

«Questa appartiene a te»

Il ragazzo la guardò e domandò

«Tu conoscevi mio nonno?»

Karensky scosse leggermente la testa

«No ragazzo, so che è morto 9 anni fa a Königsberg. Era un onorevole soldato, tenevo a dirti che ha combattuto fino alla fine.»

Karensky si riscosse e senza aggiungere altro si incamminò lungo il vicolo, per scomparire poco dopo.

Lenz chiuse la porta e appoggiò la cassetta chiusa su un piccolo tavolino in legno nel piccolo corridoio d'ingresso. L'aprì.

Dentro trovò un pickelhaube, una croce di ferro assegnata a Franz Kurtin, una bandiera prussiana e una lettera che Lenz esaminò e infine lesse:

 

Ciao Lenz,

 

Ti scrivo perché so di non poterti più rivedere, sono due giorni che non dormo per il pensiero che tu possa morire sotto uno dei bombardamenti che stanno distruggendo la Germania. Farò di tutto per inviarti questa lettera ma non so se ti arriverà mai, siamo ormai tagliati fuori e tutto sembra convergere sulla tua casa e la tua città.

Vorrei che tu capissi quanto sei importante per me, perché nella mia vita non ho fatto altro che fallire, non sono riuscito a proteggere nessuno, in particolare tuo padre. Non so se quando leggerai questa lettera la Germania sarà scomparsa dalle cartine, sappi che se siamo arrivati a questo è anche per colpa mia, ho sempre cercato di difendere la mia cara nazione e per due volte ho fallito. Ti ricordi dove sei nato?

Non so chi invaderà la nostra terra e chi abiterà adesso nella nostra casa, ma comunque siano andate le cose ricordati che tu sei nato qui, tu sei nato in Prussia, a Königsberg. So che la tua generazione dovrà ricostruire ciò che la mia ha distrutto, ma ti prego, fa si che tutti i miei sforzi e gli sforzi di tutti i miei compagni non si perdano nella Storia. Perché noi abbiamo combattuto fino all'ultimo per voi, per Königsberg, Danzica, Allenstein, Memel, Tilsit, Osterode, Elbig, Marienburg, Ortelsburg, Angerburg, Insterburg, Gumbinnen, Lötzen, Lyck, Johannisburg, Pillau e per ogni cittadina o villaggio di Prussia. Siamo morti per queste terre. So che un giorno tornerai e capirai perché l'abbiamo difesa.

Fa si che tutto non sia stato vano, lotta perché la Prussia sia libera e rinasca con una nuova bandiera o che almeno si riunisca alla Germania se questa esisterà ancora, ma ti supplico non permettere che altri la rivendichino, questa città è uno dei centri della nostra storia, come Germania e come Prussia.

Se tu sei mai stato o mai sarai in dubbio, io non ero un nazifascista, ho giurato fedelta all'imperatore Guglielmo molto tempo fa, ma ho sempre odiato tutto ciò che ha seguito quel sanguinoso 1918. Ciò che i nazifascisti hanno fatto ai polacchi è terribile, l'ho visto con i miei occhi, spero che ciò non condanni le generazioni future, perché la loro voce non era e mai sarà la voce di tutto il popolo tedesco.

Spero che tua madre sia ancora viva, ti prego di amarla e di dirle che lei era nel mio cuore al momento della mia morte.

Ti auguro di vivere una vita felice e duratura, di vivere nel tuo tempo ma di guardare sempre a ciò che il tuo popolo ha passato. Per non dimenticare.

Ora ti devo lasciare, i granatieri sono in marcia, vado a combattere.

Addio Lenz. Spero che trametterai la volontà di ribalta ai tuoi figli facendo si che un giorno la tua cara Prussia sia di nuovo libera.

 

Franz Kurtin, Aprile 1945

 

 

 

 

 

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