Andriel

di loutommosofia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Daniel's pov "Vanesa, Vanesa senti! Senti che cosa trasmettono alla radio!" urlai saltando per tutta la casa dalla gioia non appena udii le prime note della canzone. "Vanesa! Dove sei?". Non mi rispondeva. Decisi di andare a vedere dove si trovasse. Saltai agilmente il divano, cadendo sulle punte dei piedi ad un'altezza di quasi un metro, spalancai la porta del soggiorno e mi diressi, saltellante, verso la camera da letto. "Vanesa? Sei qui?". Accarezzai lo stipite della porta della mia stanza con i polpastrelli della mano sinistra. Mi affacciai al suo interno per assicurarmi che lei non fosse lì. E fu come avevo previsto. "Ma dove si sarà cacciata?" pensai tra me e me. Erano ormai tre quarti d'ora che stavamo giocando a nascondino ed io ero ormai stufo. Mi sembrava di essere abbastanza cresciuto per quelle cose, ormai avevo compiuto quindici anni, ma lo facevo per lei, per mia sorella, che nonostante di anni ne avesse undici e mezzo, aveva ancora un'anima da bimba, tenera, spensierata e giocherellona. Era ciò, quello che però amavo di lei. La sua naturalezza e spontaneità. Tutte le altre sue coetanee erano diverse, a dieci anni già si truccavano, vestivano di nero come se si vergognassero di mostrare l'allegria che quell'età poteva donare loro e passavano tutto il loro tempo al telefono, con quelle stupidissime applicazioni, a mandarsi messaggini e foto. Probabilmente era una cosa normale. Ma io odiavo la normalità, la trovavo sempre così scontata, banale. Io cercavo la diversità, qualcosa che potesse emozionarmi, che mi sorprendesse quando meno me lo aspettavo. E Vanesa, mia sorella, era così. Ogni giorno passato con lei era un'avventura, qualcosa di inaspettato. Lei era una persona magnifica, con un milione di pregi, ma anche qualche difetto. Uno di questi , era quello di scomparire senza che nessuno se ne potesse accorgere. E ciò era parecchio snervante quando era necessaria la sua presenza. Mi toccava sempre girare per tutta la casa quando decidevamo di giocare a questo gioco perché lei, di saltare fuori, non aveva proprio la minima voglia. "Vanesa, sei in bagno?" chiesi, quasi ridendo. "Guarda che lì non entro a cercarti! ". Niente. Sbuffai. Non sapevo più dove cercarla. In camera dei miei non poteva entrare, la porta veniva sempre chiusa a chiave, negli ultimi giorni. I miei genitori la stavano rifacendo e per evitare che l'odore della vernice invadesse l'intera villa, la chiudevano, impedendone in qualsiasi modo l'ingresso. La cucina non aveva un granché di posti dove potersi nascondere, se non il forno o il frigo. Ma nessuno sano di mente avrebbe avuto l'idea di infilarcisi. C'era solo più una stanza dove poteva essersi cacciata: la soffitta. Soddisfatto di aver trovato la soluzione a quel quesito che ormai non mi dava pace da dieci minuti, mi diressi verso l'ingresso. La scala che permetteva il collegamento tra la stanza e il pavimento era stata sollevata. Lei si trovava lì, per forza. "Vanesa, è importante. Vieni qua". Urlai, sollevando la testa. "Vanesa, dai. Scendi, o almeno apri". "No!" sentii pronunciare da una vocina. Era la sua. "Perché no? "chiesi. "Hai perso, il tempo ormai è scaduto, hai perso!". "Ma questo che c'entra? Su, forza. Vado a chiamare papà, vedi come ti obbliga ad uscire. Lui odia quando monopolizzi la soffitta". Sentii sbuffare, poi un cigolio. Vidi la porta della soffitta aprirsi e una bambina alta poco più di un metro e quaranta spuntare, con le sue trecce castane scuto strette da due elastici consumati, uno rosso e uno bianco a stringere i suoi capelli divisi in due spesse ciocche. Abbassò la scala , per poi sedersi sul primo gradino di essa. Mi fissava, offesa. "Io non gioco più con te. Hai smesso di cercarmi.". Disse, guardandomi arrabbiata. Sperava sempre che io giocassi volentieri, ma purtroppo ciò non accadeva più da qualche anno. "Vanesa, scendi" le chiesi, dolcemente. Lei obbedì. Tirai su la scala. "Perché mi chiamavi? Ti sentivo sbraitare dal salotto. Cosa volevi da me?"mi domandò, con le braccia conserte. "C'era la tua canzone preferita, volevo che la ascoltassimo assieme". "Nooo" si lamentó lei. " E dove?". "Alla radio". Sorrisi. Lei si fece triste. "Non importa dai, la ascolteremo tra poco con il mio cellulare,se ti va " le proposi. Ci dirigemmo in soggiorno. Sentii il campanello suonare. "Scusa amore, vado un attimo a vedere di chi si tratta" pronunciai, accarezzandole una spalla. Mi diressi poi verso l'entrata di casa. Guardai allo spioncino. Era Sonia. Sonia era la mia fidanzata. Era una ragazza molto solare, gentile , serena e simpatica. Stavo con lei da ormai due anni, ci volevamo molto bene. Era più piccola di me di due anni e tre mesi, ma non mi interessava granché. La sua maturità la facevano sembrare più sveglia di molte ragazze della mia età. Aprii la porta. Mi abbracciò subito, salutandomi allegramente con uno splendido sorriso. Ricambiai. "Ciao, Dani" mi disse. "Ciao, So'. Come stai?". Le diedi un bacio. Si tolse borsetta e scarpe, poggiando la prima sul divano e le seconde sul tappetino. "Tutto sempre bene. E tu? Che bella musica c'è qui! È in corso una festa, per caso, e non sono stata invitata? ". Risi. "No, no. Io e mia sorella stavamo giocando e ho voluto mettere qualche canzone, per rendere l'atmosfera più rilassante ". "Perché, prima non lo era?". "No, era un inferno". Mi misi le mani sulle guance, imitando un fantasma come meglio potevo. Sonia rise. "Dai, non ci credo. Dove si tra ora lei?". "È in salotto. Sta cercando qualche canzone da ascoltare con il mio telefono". "Oh, vorrei salutarla". Sorrisi. Ci dirigemmo in sua direzione. Appena la vide ,le venne incontro, saltandole addosso. "Ciao, ciao!"  disse. "Hey, Vane!"Per lei, era come una sorella maggiore, anche se , in fondo, si passavano solo un anno, ma psicologicamente erano circa quattro. Forse perché mia sorella era un po' infantile, Sonia perché aveva imparato a crescere in fretta, a causa del fatto che i suoi genitori non la seguissero mai a dovere e non provvedessero mai al suo benessere nonostante avesse appena terminato di frequentare la seconda media.  "Hey, Vane, metti la terza canzone nella playlist numero sei" proposi. "For All...?" tentò di domandare lei. "Sssh!" la zittii. Non volevo che Sonia capisse. "Okay, fatto!". Vanesa mi guardò divertita. Incrociai le braccia, attendendo che la canzone cominciasse. "Sun comes up on this new morning Shifting shadows, a songbird sings And if these words couldn't keep you happy I'd do anything And if you feel alone, I'll be your shoulder With a tender touch, you know so well Somebody once said, it's the soul that matters Baby who can really tell, when two hearts belong so well?  And maybe the walls will tumble And the sun may refuse to shine But when I say, I love you Baby you gotta know That's for all time Baby you gotta know That's for all time" Sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla. Mi girai. Era Sonia. "Oh, Daniel". Arrossì. "Ti piace? "  le chiesi, retoricamente. "Certo, è la nostra canzone". Sorridemmo, guardandoci con complicità. For All Time, di Michael Jackson era la canzone con cui ci eravamo innamorati l'uno dell'altra. Eravamo al mare, in Spagna. E mentre passeggiavamo sul bagnasciuga, ed io cercavo le parole giuste per dirle ció che provavo per lei, partì quella canzone. Da quel momento assunse un valore importante , per noi due. Ogni volta, risentirla, ci faceva rivivere quel momento, quell'istante in cui su quella dolce melodia e su quelle belle parole ci fidanzammo, alla tenera età di dieci anni e mezzo suoi e tredici anni miei. "Mi concede questo ballo, signorina?" le posi la mia mano. Un sorriso comparì sulle sue labbra rosse come il sangue, piccole e morbide. " Certo". Ci stringemmo e fingemmo di ballare un lento. Nessuno dei due sapeva ballare, io perché avevo appena iniziato un corso di danza, lei perché non era per nulla portata in quell'attività. Nè tanto meno dove la precisione dei passi era fondamentale. Finimmo così per pestarci i piedi più volte e rischiare di inciampare. Ma fu ancora più divertente, perché iniziammo a ridere e fu davvero difficilissimo farci smettere. Ogni momento passato assieme era così. La nostra felicità stava nelle piccole cose, proprio come quella che stavamo vivendo in quell'istante.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Finimmo sfiniti sul divano, dopo poco più di cinque minuti passati a ballare senza un filo di grazia nei passi che muovevamo. "La prossima volta riusciremo a fare di meglio, ne sono certa" esclamò lei, con la sua solita sicurezza e determinazione. "Già" dissi io. "Ah, a proposito, quando avrà inizio il tuo corso di danza?". "La prossima settimana. Non vedo l'ora di iniziare. Sono molto impaziente di sapere se apprenderò subito qualche passo o cosa si farà per cominciare". "Oh, tu inizi tra sette giorni e non mi dici nulla?" si lamentò lei. "Otto, per la precisione " precisai ironicamente. La vidi roteare gli occhi. Poi sbuffò incrociando le braccia. "Cos'hai, perché fai quella faccia?". Erano pochissime le volte in cui la vedevo arrabbiata o scocciata, in particolar modo con me, che ero l'unica persona con cui non litigava davvero mai. Ma la sua espressione pareva voler dare inizio a una polemica . "So', mi rispondi? ". Si leccò le labbra, nervosamente. "Niente, niente. Lascia perdere" concluse lei. Mi venne spontaneo guardarla in cagnesco. Si stava comportando in modo strano. "Dimmi tutto, cosa ti succede?". "Niente, Daniel. Non ha importanza ". Sorrise, in modo poco naturale. Non volli insistere. Sapevo che se avesse avuto voglia di parlarmene lo avrebbe fatto. Non aveva senso che le cavassi le parole di bocca. Ci conoscevamo abbastanza, lei sapeva che io sarei sempre stato disposto ad ascoltarla e aiutarla. C'eravamo sempre, l'uno per l'altra. "Spero tu ti diverta"mi augurò, cambiando così discorso. "Grazie". Lasciai correre. "Hey, ma per la prima volta vorrei ci fossi anche tu. Verresti alla presentazione con me?". "Mh?". "Per favore...non farò ancora nulla, la mia istruttrice ci illustrerà cosa portare e cosa faremo durante le lezioni...solita routine di inizio corso". "Mi dispiace, io...io sono occupata ". La guardai stranito. "Che impegni hai in un giovedì pomeriggio proprio dalle due alle tre e mezza? ". Non mi rispose. "So'...hai una visita per caso?". Scosse la testa. "Devi accompagnare i tuoi da qualche parte, tipo a fare la spesa?". Era una cosa un po' stupida da chiedere. Penso che chiunque avrebbe rimandato l'acquisto di cibarie per un incontro importante. Ma cercavo sempre di non dimenticare che lei non aveva nemmeno tredici anni e i suoi genitori decidevano molte cose per lei, tra cui anche i suoi impegni settimanali e gli orari in cui doveva attenersi quando usciva con i suoi amici o con me. Oltretutto erano molto severi, lei non poteva in alcun modo cambiare le sorti delle loro decisioni, nè tantomeno disobbedire. Sarebbe stata punita in modo esemplare. E io non ero nessuno per convincerla od obbligarla a mettersi contro di loro. "Mh...più o meno". "Cosa devi comprare? Se vuoi andiamo assieme, uno di questi giorni". "No, no. Non si tratta di quello". " E di cosa? ". "È vero che devo accompagnare i miei genitori in un posto. Ma non si tratta del supermercato ". "Dai, per favore. Dimmi, dimmi dove dovete andare ". "Non posso". Rimasi allibito sentendo quella risposta. Mi sentii in parte offeso. "Senti, non so cosa ti prenda. Andava tutto così bene, fino a dieci minuti fa nemmeno. Perché hai cambiato così, all'improvviso di umore ?". "Daniel, davvero. Lascia stare". "Lascia stare un corno! Odio quando fai la misteriosa e cambi senza una ragione. Quelle poche volte che ti è successo era per cose importanti". Alzai la voce. Mia sorella era di fronte a noi, in silenzio. Ci stava guardando litigare e non era uno spettacolo molto gradevole. "Mi dispiace, non posso dirti tutto quanto. Alcune cose sono soltanto mie, e di nessun altro". Ci guardammo per qualche istante. Io, che avevo la fronte aggrottata fino a poco tempo prima, la rilassai nel sentire quelle parole, stupito delle cose che aveva appena detto. "Io non so più che dirti. Fai come vuoi, Sonia. Sembra che tu non ti fidi più di me". A quel punto, abbassò lo sguardo, si sedette sulla poltrona accanto alla finestra e sospirò. La osservai compiere quelle azioni senza fiatare. Poi , lei, si affacciò per guardare fuori. "Non è come pensi. Sono i miei che non vogliono che io ti dica nulla". "Ma allora qualcosa c'é!". La raggiunsi. Mi chinai in ginocchio, appoggiando le mie mani sulle sue cosce. "Hey, ma tu...tu stai piangendo ". Le presi il viso tra le mani. Lei mi guardò. "Daniel...". "È qualcosa di brutto? Perché i tuoi non vogliono che io lo sappia?". "Non lo so, Dani. Non lo so". "Perdonami per prima. Non volevo invadere la tua privacy. Se non puoi dirmelo, non fa nulla". Le accarezzai le gambe, coperte da dei pinocchietti di jeans celesti chiaro. "Io, io...ti dirò tutto". Alzò di scatto lo sguardo. I suoi occhi, arrossati, avevano iridi che parevano più azzurri del cielo, più azzurri di quando già non fossero di solito. "Hai paura?". "Sì, tanta". Si avvicinò per baciarmi. Era così fragile , in quell'istante. E io non sapevo come fare per proteggerla e per proteggere il suo cuore.

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Capitolo 3
*** 3 ***


Io e Sonia eravamo vicinissimi, sentivo il suo respiro affannoso sulle mie labbra. Vidi una lacrima formarsi nei suoi occhi, cadere e raggiungere il sui naso. La asciugai prima che potesse proseguire il percorso, rigandole il viso. Appoggiai una mano sul suo collo "Amore, ascolta. Se non ti senti pronta a dirmi ciò che vorresti , non fa niente. Sul serio. Io ...io prima non volevo insistere. Ti chiedo scusa" le sussurrai. Le guardai gli occhi, ma lei fissava le mie labbra. "D'accordo. Dani, grazie ". Mi prese la mano con la sua. "Di niente ". La abbracciai. Mia sorella si unì a noi. Sorrise. Nel frattempo io non riuscivo a smettere di pensare come fosse potuta crollare così all'improvviso, passando da un momento di serenità ad uno di rancore. Ma non trovavo soluzione. Chiusi gli occhi. Sonia's pov "Che cosa sto facendo ? Perché, perché non gli ho detto la verità? Prima o poi verrà a scoprire tutto. È inevitabile. E si arrabbierà a tal punto, con me, che non vorrà nemmeno parlarmi " dissi tra me e me. Daniel era sempre stato un ragazzo adorabile, con me. Con tutti, in realtà. Con sua sorella, con i suoi compagni e le sue compagne, i genitori. E per tutti era un esempio da seguire, sotto tutti i punti di vista. Tutti volevano essere come lui. Ed io avevo avuto la fortuna di averlo come fidanzato. Ma per come mi stavo comportando, avrei perso la sua fiducia, la sua amicizia, la sua complicità, il suo amore. Dall'altra parte, ciò che avrei dovuto dirgli lo avrebbe fatto soffrire. Avrei dovuto rifletterci ancora un po'. Ma come si dice, è meglio la peggiore verità che la migliore delle bugie. "Daniel, senti". Lo lasciai. "Dimmi, So'". Mi sorrise, tenendomi le mani tra le sue. "Ora devo andare". "Ma come..sei qua da poco più di venti minuti!". "Sì, lo so". "Per favore. Resta". "Resterei, lo sai. Il fatto è che...". "Che?". Dovevo inventare in fretta una scusa per potermene andare. Non volevo rimanere lì a lungo. Ero passata solo per salutarli. Vederlo così succube di me, in quel momento, mi faceva stare così male , che non avrei potuto permettermi di restare dopo il modo in cui mi ero comportata. "Mi sono ricordata che alle quattro ho un'impegno. Niente di importante. Però devo farlo. Magari torno domani, che ne pensi? ". Mi guardò, abbattuto. "Non ce la faccio ad aspettare domani. Resta, e rimanda ciò che devi fare". Si avvicinò per baciarmi. Lo allontanai. "Daniel. Dico sul serio. Fammi andare. Sono già le quattro meno dieci" dissi seria e decisa. Forse ero stata troppo cruda. Feci un sorriso per cercare di rimediare e non mostrarmi arrabbiata. "Va bene, So'. Allora a domani. Ma promettimi che ti fermerai almeno un paio d'ore. I miei sono al lavoro, oltretutto. Così non ci rompono". "Perché, di solito lo fanno?". Risi. "Sono degli angeli, i tuoi". Ci guardammo. "Va bene. Dai, ora vado". Gli diedi un bacio sulla guancia. "A me non saluti?"sentii pronunciare dalla voce di Vanesa. "Oh, certo". Si fece salutare alla sua maniera, saltando energicamente sulla mia schiena. "Ciao, Vane". "Ciao So'". Mi avviai verso la porta di casa. Abbassai la maniglia e tirai la porta verso di me, aprendola. "Ciao". Sorrisi. "Ciao". Dissero Daniel e Vanesa all'unisono. Uscii, lentamente, chiudendo con delicatezza il portone. Feci i tre gradini che mi separavano dal marciapiede. Iniziai a piangere, ininterrottamente. Camminavo di fretta, volevo raggiungere casa mia il più velocemente possibile e rinchiudermi nella mia camera a pensare. Per strada incontrai gente a me conosciuta, ma non salutai, nè tanto meno alzai lo sguardo. Avrei voluto teletrasportarmi. Non riuscivo neppure a camminare. Mi sentivo così debole...passo dopo passo perdevo energie. E tutto ciò, solo per una maledetta decisione presa dai miei genitori. Finalmente, dopo venti minuti di camminata, arrivai esausta davanti alla porta di casa. Ma fu impossibile per me, rintanarmi nella mia stanza: i miei non c'erano e io non avevo le chiavi per entrare. Tirai un pugno alla porta. Mi sedetti sul muretto esterno, appoggiando la borsa accanto a me. In poco tempo, il cielo si scurì, le nuvole divennero minacciose e cominciò a piovere a dirotto. Non mancò il temporale, di cui avevo sin da piccola avuto paura. E io , nonostante il maltempo ed il malumore, ero costretta a rimanere fuori di casa, a guardare la gente che, munita di ombrello e k-way, si avviava verso casa o giovani colti impreparati che correvano per i marciapiedi alla ricerca di un riparo, come un terrazzo. Mai fino a quel momento avevo pensato di voler fuggire per andare chissà dove, pur di non restare lì, un posto triste e umido. Ma purtroppo, non potevo immaginare che il peggio dovesse ancora venire.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Dopo tre quarti d'ora passati sotto la pioggia fresca e il temporale caratterizzato da tuoni rombanti, e lampi luminosi tanto da essere notati con le palpebre socchiuse, vidi l'auto dei miei, una Volkswagen color grigio fumo parcheggiare in garage, il quale era situato di fronte a me. Sospirai. Non li raggiunsi. Preferii aspettare fossero loro, a venire verso di me. Tanto, per entrare in casa, sarebbero stati obbligati a passarvici. Vidi mia madre uscire dall'auto, chiudere la portiera e mio padre fare lo stesso pochi secondi dopo. Entrambi ridevano spudoratamente, mentre cercavano con fatica di pronunciare qualche parola che peró venica soffocata dalla loro ridarola, la quale pareva essere visibilmente incontenibile. Quanto mi faceva soffrire vedere loro perennemente sorridenti, felici e sereni mentre io, per colpa loro, ero l'esatto contrario. Dopo aver concluso il momento di ilarità, chiusero il garage e si diressero verso di me. Il tutto con la massima tranquillità, incuranti delle condizioni metereologiche e pee di più sotto un grande ombrellone. Finalmente potei parlare loro. "Ciao tesoro" aprí bocca mia madre. "Ciao amore, cosa ci fai qua? Sta piovendo" domandò suo marito. Da tempo non avevo avuto a che fare con una domanda tanto ipocrita come quella che mi era appena stata posta. "Oh, volevo farmi una doccia all'aria aperta e la Natura ha voluto esaudire il mio desiderio, accontentandomi. Ti sembro abbastanza pulita?" sentenziai. "Non scherzare" mi rimproveró lui. "Secondi voi cosa ci posso fare qua?". " Sonia, cerca di essere seria e matura". "Io seria? Io matura? Voi dovreste esserlo, siete i miei genitori o sbaglio?". "Tesoro, datti una calmata!" urlò mio padre, cercando di impaurirmi. "Non mi calmo. È una cosa assurda, quella che è successa oggi. Ma non solo oggi. Vi sembra normale che ve ne andiate per conto vostro senza avvisarmi, nè dirmi nulla, mentre io sono obbligata a stare fuori con pioggia,vento e temporale perché non ho le chiavi per entrare in casa? Questo non è rispetto". I miei genitori erano così. Questa era una cosa banalissima, in confronto a tutto ciò che mi avevano fatto passare negli anni precedenti. Non era stata un po' d'acqua a farmi impazzire. Ma era stata, nel verso senso della parola, l'ultima goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ormai ero stanca, di ciò. Loro per me non c'erano quasi mai, se ne infischiavano dei miei bisogni e delle mie necessità, sia scolastiche, che sportive, che sentimentali. Purtroppo, però, loro non lo capivano. Non ci riuscivano, nonostante io avessi più volte provato a dir loro che stavo male, nel vivere quella situazione. Io volevo avere una vita diversa. Ma ogni volta che ne parlavamo, iniziando in modo civile, finivamo sempre alla stessa maniera: io alzavo il tono per cercare di avere voce in capitolo, ma finivo continuamente per essere considerata un' immatura e irresponsabile da parte loro. Venivo sempre punita perché tutte le cose che volevo fare ero obbligata a farle di nascosto. Per loro, la musica, era una specie di tabù. Odiavano avere a che farci. Così come accadeva per il canto, altra mia grande passione, assieme al pianoforte, o ancora gli animali. E io, man mano che il tempo passava, ero sempre più costretta a nasconderle e negli anni avevo imparato a non mostrarle a nessuno, se non a due sole persone: Daniel, il mio ragazzo, e Vanesa, la mia migliore amica. Era per tale motivo che loro, per me, erano tanto speciali: erano gli unici a conoscermi davvero e a cui mi mostravo per come fossi realmente. Con i miei genitori, ciò non accadeva. Loro ritenevano le mie passioni, un'infantile pensiero di una quasi tredicenne ancora poco cresciuta e che pensasse solo a divertirsi. "Spiegami cosa c'è di maturo in un pianoforte. Penso che tu sia abbastanza cresciuta per giocare" diceva mia madre. "A cosa serve prendere lezioni di canto se cantare non produce niente?" si aggiungeva mio padre. L'unica cosa a cui potevo dedicare le mie ore era lo studio. Su quello, non avevano nulla da ribadire. A quello mi dedicavo con molto impegno. In particolar modo, sui voti non avevano mai osato lamentarsi. La mia pagella era straordinaria, non avevo mai avuto un otto, solo nove e dieci. Almeno per quel momento. "Sonia, non ti arrabbiare per così poco. Ora siamo qua, puoi entrare". Dopo aver detto ciò, mio padre mi passó le chiavi del portone di casa con spudorata tranquillità, quasi infastidito dall'insistenza con cui gli avevo chiesto di farmi entrare. Spalancai la porta e mi precipitai nella mia camera, posando le chiavi per terra, malamente. Gettai poi la mia borsetta sul tappeto beige della mia stanza e mi sdraiai sul letto, affondando la faccia nel cuscino e tirando dei pugni su di esso. Dopo cinque minuti, priva di energia nelle braccia, mi misi seduta e alzai lo sguardo verso l'orologio. Erano le cinque. Sbuffai. Era presto. Desideravo solo che quella giornata finisse al più presto. Anche se, in fondo, le successive sarebbero certamente state uguali a quella. Mi stesi nuovamente, girandomi su un lato. Finii per addormentarmi in poco tempo. "Sonia, vieni un attimo. Io e tuo padre dobbiamo parlarti" pronunciò una voce, interrompendo il mio sonno. Sentii la porta della mia camera aprirsi. Mi girai verso di essa e guardai mia madre, comparsa sull'uscio, con ancora gli occhi socchiusi. "Che ore sono?" domandai. "Le cinque e dieci". "Ho sonnecchiato per dieci minuti e mi è parso di dormire per tre ore? Quanto passa in fretta, il tempo, quando si dorme" pensai. "No, sto dormendo " bofonchai rimanendo sdraiata sul letto. Le diedi le spalle. "Ormai non più. Su, alzati. Ti aspetto, tra due minuti massimo, di là". "Di là dove?" chiesi cercando il pelo nell'uovo. "In salotto". "Ecco, parla bene" dissi a bassa voce. "Arrivo" conclusi. Sentii la porta chiudersi. Sospirai. Un centinaio di secondi dopo mi ritrovai seduta sul divano, con mia madre sul alla mia destra e mio padre nella poltrona di fronte a me. Un senso di ansia e malessere percosse il mio animo. "Eccoci tutti" disse mio padre. Accavallai le gambe e incrociai le braccio osservando, seria, un punto fisso davanti a me, mantenendo un'aria scocciata. "Ora possiamo parlarti" aggiunse poi. "Prima di aprire bocca, una cosa: dove siete stati, oggi?" chiesi. I miei si guardarono. Poi mio padre annui. Mia madre si schiarì la voce e inizio a parlare.

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Capitolo 5
*** 5 ***


"All'agenzia di viaggi". Nel sentire quell'insieme di parole non potei evitare di rabbrividire, irrigidendomi. "Abbiamo concluso tutte le pratiche ed eravamo sul punto di comprare i biglietti". "A-ah". Deglutii. "Di g-già?" chiesi. "Sì, pensa che bello!" dissero loro, all'unisono. "Però manca ancora una cosa da sapere" aggiunse la voce femminile. "E sarebbe?" domandai. "La tua opinione". "E-eh?". "Cosa pensi della partenza?". Serrai i pugni, stringendoli. Evitai di digrignare i denti per non far notare loro il mio stato d'animo chiaramente sconvolto, arrabbiato e amareggiato. "Sapete benissimo cosa ne penso. Io non voglio partire. Non voglio andarmenene di qua!". " Ma perché no? La Polonia è un bel posto, lì ci sono quasi tutti i tuoi parenti". "Non è vero. Un cinquanta per cento. Anzi, quaranta. Perché un paio sono crepati di recente". "Sonia!" mi rimproverò mia madre. "Sai, ci sono tanti parchi ed è tutto verde. Inoltre tu il polacco lo sai bene, non avrai problemi con la scuola. A proposito, in molte scuole in Polonia non danno i compiti per le vacanze estive" cercó di convincermi mio padre . "E chissenefrega. Tanto non li farei lo stesso. L'estate non dev'essere passata sui libri. I polacchi hanno scoperto l'acqua calda." lo punzecchiai. "Ti ho già detto che i ragazzi sono biondi con gli occhi azzurri?" provò a insistere lui. Bellissimi, i ragazzi biondi con gli occhi azzurri. Ma c'era qualcosa che loro non potevano sapere, anzi, qualcuno che non potevano conoscere. perché io non gliene avevo mai parlato . Daniel. Lui non aveva capelli biondi, ne occhi color cielo. Lui era castano, con degli splendidi occhi verdi di cui ero perdutamente innamorata. E mi piaceva così com'era. Loro non lo avevano mai avuto la fortuna di vederlo, se non un paio di volte, all'inizio, ma non sapevano nulla di lui. Non erano neppure a conoscenza del fatto che io andassi a casa sua almeno una volta a settimana a trovarlo. Pensavano che io, in quel pomeriggio di ogni settimana, uscissi con sua sorella. Lei la conoscevano meglio e avevano capito che eravano molto amiche. Ma mai avrebbero saputo né immaginato che come io avessi un buon rapporto con lei, altrettanto lo avrei potuto avere con suo fratello, se non anche uno migliore. Loro credevano che io e lui ci conoscessimo poco, che nemmeno sapessi dove andasse a scuola, o quando compiesse gli anni. Ma nella realtà, quelle erano le cose su di lui che avevo imparato già dal primo giorno in cui ci conoscemmo. Probabilmente l'artefice del fatto che i miei non lo conoscessero bene ero io. Ma non mi andava di condividere con loro una cosa tanto speciale per me quanto per loro di alcun valore. Era un dono sprecato. Lui non era una persona che tutti meritavano di conoscere. E i miei genitori erano due fra quelli. Loro non sapevano che io e lui eravamo fidanzati da ben due anni. Non sapevano che io fossi fidanzata. Non sapevano nemmeno che fossi innamorata. Non sapevano che forse, alla mia età, sarebbe potuto essere normale. Non sapevano che io potevo aver conosciuto la persona con cui avrei voluto trascorrere il maggior numero di giorni in un anno, di ore in un giorno, di minuti in un'ora. E che per me sarebbe potuta esserci una schiera di ragazzi biondi con gli occhi azzurri ai miei piedi, ma che tanto io avrei ignorato, poiché i miei occhi vedevano soltanto un ragazzo. Daniel. "Allora? Dimmi cosa c'è che non ti convince a partire ". Mi fece tornare alla realtá mia madre. La domanda giusta da fare sarebbe stata chi era che mi convinceva a rimanere. Risposi con la più banale delle giustificazioni. "Qui ho i miei amici e il restante cinquanta per cento dei parenti. Oltretutto non voglio cambiare scuola. In questa mi trovo molto bene. E poi, in Polonia, fa freddo". "Sai che bello? C'è neve da novembre a febbraio compresi ". "Io odio la neve. È triste. È bianca. Preferisco il giallo del sole. O piuttosto la pioggia. Così quando si unisce al sole spunta l'arcobaleno". Mia madre guardò mio padre, non sapendo più cosa inventare. Era difficile farmi cambiare idea. Soprattutto quando mi mettevo qualcosa in testa. In realtà mi piaceva anche sfidare gli altri, per vedere fino a che punto riuscivano a starmi dietro senza stancarsi. E con mio padre non sarebbe stato troppo difficile averla vinta. Lui era una persona che si stancava facilmente e non aveva molta pazienza. Oltretutto amava una vita semplice, senza complicazioni nè troppi pensieri, quindi finiva sempre per cedere. "Tesoro, non c'è da scherzare. Io e tua madre vorremmo andare a vivere lì per stare più vicini ai suoi cari e anche perchè lì si trova lavoro più facilmente. Nella mia azienda stanno licenziando moltissime persone e io potrei essere il prossimo. Ne riparleremo domani, d'accordo?" mi propose lui, dopo un'asfissiante ventina di minuti passati a cercare di convincermi. E tutto ciò non era ancora finito, domani ci sarebbe stata un'altra razione di stupidi ragionamenti e tentativi di convinzione falliti. Ma era tutto inutile. Non avrei cambiato idea. Almeno fino a quando non sarebbe comparsa una ragione valida e sensata per farlo.

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