Into Darkness (Hymn to life)

di Switch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Last fight ***
Capitolo 2: *** No one for us ***



Capitolo 1
*** Last fight ***


Era buio, lì dentro.
Talmente tanto che gli altri sensi si erano acuiti, affinati, e quasi poteva vedere con essi.

Sentiva l'odore pungente del cuoio, dei paracolpi che ricoprivano il suo corpo, logori dopo anni di utilizzo; era così spesso che lo poteva quasi assaporare, assieme al puzzo della crema analgesica per lenire il dolore della contusione che aveva ricevuto nell'ultimo combattimento, alla gamba sinistra, al quadricipite.
Persino camminare gli faceva male e lui doveva fare ben altro, doveva stringere i denti e continuare, fino alla fine.
Doveva essere pronto a tutto.

Passò una mano distratta sulle cinghie delle armi per assicurarsi che fossero ben tese e ne sentì i solchi e le lacerazioni accumulate con gli anni, col passare del tempo, con l'usura ammucchiata incontro dopo incontro; nel controllare quella sulla spalla sinistra sfiorò senza accorgersene le punte acuminate sul suo petto, il bordo del piastrone frastagliato e scheggiato, graffiandosi.

All'inizio scostò la mano, sorpreso dal dolore, seguì poi col dito il contorno delle punte affilate, assorto, ogni sbeccatura un ricordo doloroso, -inciso come una cicatrice,- della sua giovane vita. Alcuni erano più profondi di altri; alcuni erano più dolorosi di altri e non solo fisicamente.
Non aveva voluto che Mister Bowman gli sistemasse il piastrone, che gli ricostruisse il bordo liscio con resine speciali, perché lui doveva ricordare, e ogni scheggia che era caduta da esso, -creando la seghettatura naturale, che a volte feriva anche lui, che a volte sfiorava facendosi male,- era un momento in cui aveva fallito, in cui aveva fatto una scelta sbagliata, in cui aveva sofferto fino a desiderare quasi di morire.
E non erano cose che potesse concedersi il lusso di scordare.

Respirò a fondo per calmare il battito impazzito del cuore, che nel buio si amplificava, riempiendo ogni cosa.
L'eccitazione minacciava di prenderlo, ma lui doveva restare calmo, come Gustav il lanciatore di coltelli gli aveva insegnato; era sbagliato cedere all'ansia, poteva far tremare la mano e mandare tutto in rovina. Bastava un solo istante di disattenzione e tutto era perduto.
E nessuno più di lui lo sapeva.
Lui che aveva perso tutto. Tutti coloro che amava.

Ora che il suo cuore era tornato ad un ritmo normale, solo allora lo sentì, il lieve ronzio che si faceva strada dal di là delle mura: voci concitate ed emozionate, che urlavano ed esortavano, che incitavano e premevano, per avere la loro eccitazione, per vederlo all'opera.
Per l'ultima volta.
L'ultima battaglia.
Vincere o morire. Oblio o libertà.
E per lui libertà era sinonimo di vendetta. Perciò la bramava, la voleva più di ogni altra cosa, intossicante come il veleno, necessaria come l'aria.

Inghiottì a vuoto il groppo in gola, mentre il brusio cresceva, secondo dopo secondo, infilandosi da sotto alla porta insieme al flebile spiraglio di luce, così fioco da non illuminare nulla, riempiendo ogni spazio vuoto che trovava, anche quello dentro il suo cuore.
Non c'era più il battito ad animarlo, ma il coro a tempo che ormai scandiva il suo nome, con una voce sola, che lo chiamava nell'arena.
Sentì lo statico del microfono che si azionava e poi la voce amplificata dello speaker, che faceva la sua solita apertura ad effetto, suscitando un boato di approvazione tra il pubblico.

Saltellò appena sul posto per sciogliere la tensione dai muscoli e provare il dolore alla gamba; avrebbe retto, doveva solo stringere i denti e tenersi alla larga da calci che potevano colpire dove era già ferito.
Poteva farcela.
Il fragore crebbe, ora che era arrivato il momento.

Lo stomaco si strinse in una veloce morsa, nel secondo che precedeva la sua chiamata: “Ecco a voi l'indiscusso, imbattuto, fenomenale campione” disse l'uomo al microfono con enfasi, mentre la saracinesca metallica che lo separava dall'arena iniziava a sollevarsi lentamente facendo entrare la luce nella sua oscurità come un fiume in piena, gialla, forte, calda. Eppure per niente rassicurante.
D'un tratto anche quella fonte di luce si spense e fu il buio totale, ovunque. Sentì qualcuno trattenere il fiato. E poi un bagliore ancora più intenso si accese alle sue spalle, gettando fuori la sua ombra, enorme, nera come l'oblio, frastagliata, oscura e spaventosa.

Leonardo, il magnifico!” strillò lo speaker, con un urlo poderoso.
Un paio di passi furono necessari, per uscire nella gabbia di metallo che era l'arena. Al suo passaggio decine di faretti si accendevano coreograficamente, alimentando l'emozione negli spettatori.

Non riuscì a vedere da subito, la differenza era troppa dal nulla nero a tutta quella luminosità, ma non fu necessario: udì perfettamente i boati entusiasti di chi lo conosceva già e aveva scommesso su di lui e gli strilli inorriditi di chi invece non lo aveva mai visto prima.
Non sapeva cosa fosse, né lui né i suoi fratelli avevano mai capito cosa fossero per davvero: uno strano ibrido umano-tartaruga, una evoluzione spontanea, una mutazione; di teorie se n'erano fatte a milioni, negli anni, ma non lo avevano mai scoperto.
Di certo, finché erano stati tutti assieme, si erano considerati una famiglia.
Tanto, troppo tempo prima.

Camminò fino al centro dell'arena, indifferente agli sguardi, sulla sua persona, sulle cicatrici più chiare che solcavano la sua pelle verde foresta su tutto il corpo, sul piastrone e il guscio scheggiati e dentellati dai colpi e dalla cattiva sorte.
Chiuse gli occhi e attese, assorbendo il calore dei fari e le voci come una spugna, ma distante anni luce con la mente.

Forse, si disse mentre lo speaker seguitava la sua pappardella per annunciare il suo sfidante, -l'ultimo finalmente,- forse sarebbe stato tutto diverso se avessero avuto qualcuno che si fosse preso cura di loro fin da subito, se avessero avuto dei genitori, qualcuno che li avesse accuditi e gli avesse mostrato amore e come funzionava il mondo.
Forse sarebbero stati più fortunati.
Forse sarebbero stati ancora tutti e quattro assieme.
Forse sarebbero stati ancora tutti vivi.
Forse sarebbero stati felici.

Se solo quel maledetto giorno in cui avevano aperto gli occhi nelle fogne non fossero stati soli.




Note:
Salve.

Ho deciso di pubblicare questa storia, e un'altra, anche se sono ancora impegnata con la serie Heart's Mutation. Perché sono nella mia testa da troppo tempo e vogliono uscire fuori e now or never è diventato il mio nuovo motto.
Ripeto: non hanno nulla a che fare con la serie heart's mutation.

Questa è una storia molto dark che parte da un solo presupposto, un what if grande come una casa: e se non ci fosse stato Splinter quel giorno in cui il mutageno li ha trasformati? Se il topo non li avesse visti e seguiti nelle fogne e quindi solo loro fossero mutati, come sarebbe stata la loro storia?
Ovviamente non potranno più essere ninja e li seguiremo per un po' prima dell'adolescenza, quindi rimangono solo tartarughe mutanti.

Fatevi portare in questa storia dark, molto dark, così scura che non si riesce a vederne la fine.

Abbraccio

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Capitolo 2
*** No one for us ***


Il suo primo ricordo, prima che tutto quello accadesse, prima ancora di venire al mondo... no, non era niente di concreto, nulla di tangibile, niente che potesse disegnare o spiegare, seppure ci avesse provato. Era un miscuglio babelico di suoni e percezioni, mescolati tanto da non riuscire ad identificarli, all'inizio; poi, col tempo, con gli anni, nelle notti buie in cui quel rumore si era trasformato nel sottofondo dei suoi pensieri, era riuscito ad estrapolare e isolare quelle sensazioni una ad una, fino a ricostruire perfettamente la dinamica di ciò che era successo:
per primo c'erano stati il dondolio ritmico della boccia in vetro che lo faceva sbattere contro gli altri, ed il flebile suono di passetti leggeri; poi, una brusca frenata che li riportò tutti in uno stato momentaneo di quiete.
Nel fondo c'era sempre un indistinto caos di voci e motori, ma che arrivava ovattato alle sue orecchie.

D'improvviso lo strillo, uno stridore di gomme e delle urla spaventate e poi, il colpo sordo contro la boccia, il volo spaventoso nel vuoto finito per fortuna su un rivolo d'acqua verso un antro.
Un rumore di vetri infranti, un bagliore verde davanti agli occhi e poi più nulla, solo buio.
Quando si era risvegliato c'era la penombra, quell'odore nauseante, il freddo e l'umidità, il fastidio, anche se allora nel nulla che era la sua mente, non ancora addomesticata, niente aveva un nome e un significato, un senso.

C'erano altre tre paia di occhi lì sotto, confusi e spaventati quanto i suoi. Li riconobbe dall'odore, erano con lui nella boccia, erano famiglia.
Stretti l'uno all'altro preda della paura, non capivano ancora, non potevano capire.
Erano cresciuti, le loro dimensioni e la loro forma cambiata, e nelle loro menti tutto sembrava più complicato, più difficile: c'erano pensieri e sensazioni e impressioni di cose che avrebbero dovuto sapere, o esprimere, ma che ancora non sapevano elaborare.
Uno di loro si staccò dagli altri e gli tese una zampa, ma era così strana, era sicuro che non fossero così prima, e solo quando allungò la sua si accorse che anche il suo corpo era diverso da prima.
Si avvicinò e si strinse contro di loro, cercando conforto, cercando di scacciare quel sentimento di disagio, anche se allora ancora non sapeva quel nome.

Si erano risvegliati con un fascio di luce che cadeva dal cielo, illuminando le fogne a giorno: quel buco lassù da cui entrava sembrava un portale per un mondo migliore, più bello, ma il loro istinto gli suggeriva di non avventurarcisi, di starne alla larga.
La fame subentrò alla paura, sotto forma di crampi dolorosi e rombi rumorosi dai loro corpicini, e l'istinto di sopravvivenza si accese, iniziarono a camminare per quei cunicoli alla ricerca di cibo e acqua, qualcosa di commestibile in quella pozza marcescente, senza trovar altro che avanzi decomposti, insetti e piccoli roditori.

Lui si sentiva responsabile per gli altri.
Ce n'era uno più quieto e tranquillo, uno un po' scontroso e scostante e uno affettuoso e carino, e lui sentiva di doverli proteggere e sostenere; procurò e cacciò da mangiare, offrendo loro le parti più grandi, dandogli piccole pacche sulle loro testoline quando nonostante la fame non volevano mangiare per il disgusto, incoraggiandoli e guidandoli come poteva in quel mondo sotterraneo e malsano, finché non crollavano dalla stanchezza, raggomitolati tutti assieme.

Per mesi, quella era stata la loro vita. Loro quattro uniti e sostegno l'uno dell'altro; tutto il loro mondo iniziava e finiva con loro quattro.
Lui, Leonardo, fratello maggiore di quella strana famiglia, attento e vigile.
Donatello, il più quieto e tranquillo.
Raphael, scontroso e scostante.
E Michelangelo, affettuoso e carino.
Anche se allora non sapevano ancora parlare e nessuno aveva ancora dato loro dei nomi.

Erano soli, sperduti, confusi.
Senza una guida, un genitore, qualcuno che si prendesse cura di loro. A vagare nelle fogne senza uno scopo né un motivo, senza sapere come ci fossero finiti né perché i loro corpi e le loro menti fossero mutate, cosa stessero diventando, percependo solo quel disagio che non sapevano spiegare.

Purtroppo, il cibo iniziò presto a scarseggiare. I piccoli ratti scappavano velocemente e ormai si tenevano alla larga da loro, gli insetti trovati non bastavano a saziare la fame dei loro corpi in crescita e gli avanzi putridi li avevano fatti stare male troppe volte per provare ancora a mangiarli.
Anche se ancora non conoscevano l'alternarsi del tempo e i giorni, ripensandoci da grande, Leonardo era sicuro che avessero passato molti mesi nelle fogne, mentre imparavano a camminare meglio, a prendere le misure nei movimenti, a evolvere, in un certo senso.
Ma quando la fame divenne troppa e ormai non c'era più alternativa, si spinsero oltre il bordo, verso la luce.
Il mondo di superficie era diverso, luminoso da far male agli occhi, profumato, ma anche caotico e frenetico, ansiogeno; lo scrutarono con occhi curiosi e spaventati, nascosti nelle ombre, timorosi di mostrarsi apertamente, di cercare aiuto dagli esseri che lo popolavano.

Ce n'erano tanti, simili a loro eppure in qualche modo diversi e qualcosa li spingeva a non avvicinarsi; non capivano i versi che facevano, quelle cose che indossavano, le loro espressioni.
Si avventuravano lassù solo per cercare cibo nei grandi cassoni per poi riscendere velocemente al sicuro nelle fogne, anche se sempre più di malavoglia.
Ogni volta, convincere il loro fratello scontroso a ridiscendere era sempre più difficile.

Impararono molte cose, nelle loro escursioni.
La differenza tra la notte e il giorno, le macchine e il traffico, le varie razze di quegli umani, qualche parola della loro lingua, le loro lingue, differenti e musicali, strane e diverse, le varie gamme di emozioni che mostravano ogni giorno.
Ogni giorno si allontanavano sempre un po' di più, un pochino di più, sfidando l'istinto.

Non potevano sapere che qualcuno li avesse visti. Dapprima diffidente, li aveva studiati da lontano per controllarli poi, capito che non fossero una minaccia, si era infine rivelato, nel vicolo in cui stavano frugando nei bidoni dell'immondizia.
Era un vecchio, con abiti logori e un pugno di denti in bocca.
Tra le mani aveva un cartone sottile che emanava un profumo delizioso.
Il piccolo affettuoso si gettò verso l'uomo senza riserve, un sottile filo di bava mentre occhieggiava la scatola misteriosa, e loro tre gli corsero dietro per fermarlo: il vecchio spalancò il coperchio, rivelando una cosa tonda, rossa e bianca, dal delizioso profumo.

Pizza” disse con voce dolce.

Era calda, bollente, ma il piccolo ne prese a grandi mani e gli diede un morso con gusto, sotto gli occhi sorpresi dei suoi fratelli: dalla gola gli uscì un verso di felicità, mentre faceva sparire la mozzarella filante giù con rapidi morsi famelici.
Il vecchio gli sorrideva con fare incoraggiante, porgendo il cibo verso di loro.
Quello tranquillo prese una fetta per secondo, mentre quello scontroso sembrò pensarci un attimo ancora, indeciso tra la fame e la prudenza, cedendo infine al rombo nel suo stomaco.
Lui, il fratello maggiore, li controllò con occhio clinico, diffidente e cauto, valutando le loro reazioni, poi si azzardò a prenderne un pezzo e a portarlo alla bocca: il profumo era così meraviglioso da smuoverlo di un sentimento positivo che non aveva mai provato il prima.
E il sapore era ancora più meraviglioso, lo faceva sentire bene, non solo nello stomaco che si riempiva, ma anche nel petto, un calore che lo riempiva tutto.

Stava mandando giù il secondo morso, quando il fratellino affettuoso cadde al suolo, dritto con ancora una fetta di cibo nella manina, gli occhi voltati all'indietro.
Lui e gli altri due lasciarono all'istante le loro porzioni e si gettarono a controllarlo, ma anche quello affettuoso cadde con un'espressione vacua.
Quello scontroso ringhiò di rabbia e si alzò di scatto per colpire l'uomo, ma dopo pochi passi cedette e si accasciò con fatica, cercando di resistere con uno sforzo immane, per poi cadere anche lui sul terreno con un tonfo sordo.

Era rimasto solo lui in piedi, ma la testa iniziava a vorticare e una strana ansia gli cresceva dentro. Voleva scappare via, ma doveva proteggere gli altri come lui, la sua famiglia.
Chiuse i pugni e si lanciò in avanti, ma l'uomo, alto, molto più alto di lui lo bloccò con facilità e con un movimento veloce gli calò un sacco in testa.
Nell'oscurità soffocante, prima di perdere conoscenza del tutto, sentì l'uomo ridacchiare e dire qualcosa, anche se allora non comprendeva appieno la lingua degli umani.

Il circo mi pagherà davvero bene per voi mostriciattoli.”


Note:
Buona notte!

Secondo capitolo, un flash back nella vita di questo Leo solitario e cupo, campione di lotte clandestine.
Che cosa è successo nella vita delle turtles senza Splinter? Lo vedremo passo passo, in un lungo flash back che spiega come lui sia arrivato alle lotte e che ne è stato degli altri.

Abbraccio a tutti

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