Effetto Rosenthal

di MrsShepherd
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Black Box ***
Capitolo 2: *** Ritorno alle origini ***
Capitolo 3: *** Preston Bell ***
Capitolo 4: *** Nicholas Lewis ***
Capitolo 5: *** Zenaida Areli ***



Capitolo 1
*** Black Box ***


1. Black Box
 
“Dimentica tutto quello che hai studiato”. Mi disse il rettore della facoltà subito dopo la laurea. “Sei sempre stata la più promettente, ma per fare questo lavoro, un pezzo di carta e qualche libro non bastano. Ci vuole inventiva, senso pratico e molta, molta pazienza.”
“Ovviamente.” Gli risposi con il mio accento saccente.
“Non dia mai niente per scontato.” Si congedò allontanandosi per sempre.
L’autobus sobbalzò bruscamente e io con lui; aprii gli occhi e allungai le mani verso il sedile anteriore, cercando di non cadere in avanti e di non sbattere la fronte. Mi guardai intorno: qualcuno tra i passeggeri rise, qualcun altro si limitò semplicemente ad osservarmi torvo.  Mi rimisi composta e rimasi all’erta, finchè dalla strada non scorsi un minuscolo puntino bianco, che avvicinandosi sempre di più prese la forma di un cartello. Area 51: Wellington Camp, mt  800, 500, 300, 100. Un grosso cancello si parò davanti a noi , grigio topo imponente, costellato di cartelli che avvertivano di non allungare troppo le mani: premio, un biglietto di sola andata per il paradiso. L’autobus accostò davanti all’entrata e ci fece scendere. Un ragazzo mi aiutò a scaricare la valigia, un enorme trolley di color rosso scuro. – Grazie mille.-
- Figurati.- mi rispose: - E’ sempre un piacere aiutare il gentil sesso, anche se scarseggia.-
Lo guardai amareggiato e mi allontanai lasciva e ad occhi bassi.
- Gruppo D! Siete il gruppo D? Bene. Tutti qui per favore.- ci radunammo tutti davanti ad un signore sulla quarantina, calvo, con occhiali rotondi e spessi. Nonostante l’aspetto goffo e impalato accennò un sorriso e aspettò pazientemente che tutta la troupe fosse compatta prima di cominciare. Mi feci spazio tra spalle mastodontiche e uomini sudati e mi collocai il più vicino possibile a quell’uomo. Effettivamente c’erano davvero poche donne. Lui ci accennò un sorriso spento e prese fiato: - Buonasera. Sono il dottore capitano Jacob Green, benvenuti all’area 51. Spero che il viaggio sia stato di vostro gradimento, se non lo è stato, pazienza ormai siete qui.- Qualcuno rise. Lui non se ne curò: - di norma usiamo le macchine, ma oggi è una bella giornata e possiamo percorrere parte del tragitto a piedi, se qualcuno è impossibilitato a camminare è pregato di recarsi presso l’infermiere capo Kimichi, Ivan alza la mano per favore grazie! Il resto del gruppo può seguirmi.- Parlava con un accento chiaro e disinvolto, la cadenza sempre uguale mi suggerì che avesse fatto questo discorso parecchie volte.
- Allora, seguitemi prego, come avrete sicuramente letto siamo nell’area 51, esperimenti governativi supersegreti eccetera eccetera. Siete vincolati dal segreto professionale e avete firmato una liberatoria che proibisce la divulgazione di materiale riservato, ma non voglio addentrarmi in cavilli burocratici che peraltro vi ripeteranno fino alla nausea. Guardate piuttosto questa piantina che c’è all’ingresso, vi permetterà di orientarvi e non perdervi in un area di 20 km. Avrete in dotazione un monopattino elettrico che vi permetterà di spostarvi in maniera quanto più veloce possibile. La struttura del campo è piuttosto semplice: Il territorio è organizzato a forma di pentagono, su ogni angolo sono organizzate delle aree; in senso orario: arene e palestre, dormitori studenti, aule speciali, piscine e dormitorio staff. Tutte e cinque le aree sono collegate da altrettanti decumani principali che convogliano fino ad arrivare alla piazza centrale.- indicò con il dito l’antenna bianca che svettava poco lontano sopra le nostre teste. - Quello che noi stiamo percorrendo è un sesto decumano, riservato all’ingresso e al passaggio macchine governative. Fin qui tutto chiaro?-
Una timida mano si alzò tra il neo staff. Una donna tutt’altro che bassa, con i capelli rossicci e l’aspetto avvenente si fece largo tra la folla. Il dottor Green le sorrise cordiale: - Mi dica…signorina?-
- Jessep, signore. Sono un’ insegnante.-
- Dica pure, le spiace se intanto faccio passare il foglio della piantina del campo? Per ottimizzare…-
- Faccia pure. Mi chiedevo solo, quando e dove si terranno le lezioni?- chiese prendendo il foglio.
- Domanda giusta. Le lezioni si terranno la mattina dalle 8,30 alle 12,30. Nell’area aule speciali. Gli studenti del blocco D come quelli degli altri blocchi precedenti sono organizzati in classi per età. Di solito la prassi è corsa al mattino, breve check up medico, mensa, attività militari nel pomeriggio e attività  extra o relax la sera. Una volta alla settimana ci sarà la visita medica completa. Le sedute psicologiche saranno bisettimanali. Altre domande?-
- Io signore.-
- Dica il suo nome ad alta voce e la sua mansione, per favore.-
- Marcus Nicoletti. Ortopedico. Quindi se per esempio io fossi al dormitorio staff e dovessi andare a fare una nuotata, o se per esempio prescrivessi ad un mio paziente delle sedute di nuoto, per diciamo, riabilitazione…Lui sarebbe costretto a farsi tutta la strada a piedi fino a lì?-
Notai una vena polemica nella sua voce. Abbassai lo sguardo e tentai di mascherare un sorriso. Jacob Green mi osservò per un brevissimo istante. – No, signor Nicoletti. Mentre noi camminiamo in “superficie” sotto di noi sta passando una navetta, riservata solamente a professori e studenti che ne avessero bisogno, che compie un giro ad anello ad una velocità tale che…diciamo che se lei si svegliasse in tarda mattinata riuscirebbe comunque a farsi una nuotata prima di riempirsi lo stomaco.- qualcuno rise, Nicoletti la prese sul ridere e ritornò nel fondo della comitiva.
- Andrew Barrie, signore. Medico di base. Ma in superficie, cosa collega un area all’altra. Cioè, oltre ai decumani cosa c’è qua sopra?-
- Si guardi intorno Barrie. Cosa vede?- chiese cantilenando Green continuando a camminare.
- Strade e alberi…-
- Beh, si è risposto da solo. Niente più che alberi. E niente altro al di fuori di ciò che le è concesso sapere, diciamola così.-
- Mi scusi, dottor Green.- il ragazzo che mi aveva aiutato a scaricare le valigie abbassò la mano. Si schiarì la voce: - Derek Krieger, psicoterapeuta. Si fermi per favore, non riesco a parlarle se continua a camminare.-
Il Dottore si fermò; il ragazzo circa trentenne aspettò un breve istante che l’uomo si avvicinasse, ma rimase dov’era ben piantato sui piedi enormi e secchi. Krieger proseguì, si avvicinò la mappa al viso, come se volesse leggere meglio: - Qui, nell’area “aule speciali” c’è una voce che cita AULE CONTENIMENTO. Che significa?-
- Significa, che non tutto qui in Wellington Camp va secondo i piani. Ma lo scoprirà con il tempo. Ora ci conviene proseguire il giro, se vogliamo finire per l’ora di cena.-
Visitammo una ad una le aree indicate dalla mappa, scendemmo nel piano inferiore e raggiungemmo la navetta che si fermò ad ogni zona. Gli edifici avevano più o meno tutti la stessa struttura; l’area allenamento per esempio: le arene, grandi campi destinati alle prove sul campo, erano poste in superficie, mentre piscine e palestre erano in profondità. E così anche il resto degli altri edifici, presentavano una struttura che ricordava molto il famoso iceberg freudiano, oppure un formicaio per chi non è del mestiere: una parte visibile e una celata, ma fondamentale. Quando il cielo cominciò ad imbrunire, Jacob Green ci portò nell’area dei dormitori e ci indirizzò nelle seguenti camere: - Tutte le donne mi seguano per favore.- urlò agitando le mani: - Beh, avete vinto un piano tutto per voi signore.- disse allargando le braccia: - O signorine…beh in realtà non è proprio tutto vostro, siccome siete un numero molto esiguo andrete a “rimpolpare” lo staff femminile che si è precedentemente insediato qui. Seguitemi in ascensore prego.- disse premendo il decimo piano.
- Piano 10? Il più alto?- chiese una delle quattro ragazze in ascensore con me. Probabile paura delle altezze, pensai.
-Già. Ultimo piano. Così se qualche maschio vuole fare i “galletto”, deve passare prima dal piano dei superiori.-
- In che senso?- chiese un’altra.
- Nel senso che al piano inferiore ci siamo noi ufficiali.- concluse abbozzando un sorriso. - E voi due? Non vi ho ancora sentite dire nulla.-
La ragazza di fianco a me, di altezza media, dai capelli rossi e ricci e il volto lentigginoso, prese la parola: - Per ora non ho niente da segnalare.- sollevò entrambe le mani, per mettersele in tasca, ma le deviò repentinamente lungo i fianchi, ricordandosi che era in presenza di un superiore. Jacob Green mi guardò eloquente aspettando una mia risposta. Io scrollai le spalle e abbozzai un sorriso cordiale, mentre un tarlo mi martellava nel cervello come un mantra: “Ma io che ci faccio qui?”
- Siamo arrivate.- disse capitan ovvio, non appena le porte dell’ascensore si furono aperte. – La mia mansione di guida termina qui. Purtroppo non mi è consentito accedere a questo piano, ma queste che vi sto consegnando sono le vostre chiavi, per le vostre stanze. Troverete le uniformi da campo già riposte nell’armadio, mentre negli armadietti del bagno potrete riporre i vostri effetti personali. Ogni mattina la direzione provvederà a farvi avere il programma della giornata. Alle 7 la mensa apre e chiuderà alle 20,30. Dovrete venire giù già in divisa. Se avete bisogno di delucidazioni potrete prendere appuntamento presso l’amministrazione e presentarvi nel mio ufficio. Entrambi i posti si trovano nell’area delle aule speciali, segnata sulla mappa precedentemente consegnata. Tutto chiaro?-
Annuimmo all’unisono, guardandolo negli occhi nocciola, con un’aria da cerbiatte smarrite, le chiavi strette in una mano e gli scarsi bagagli nell’altra. Lui ci sorrise paziente e bloccò con la mano le porte dell’ascensore in procinto di chiudersi: - Consigli per sopravvivere qui: parlate solo quando è necessario, niente domande ovvie, ascoltate molto e cercate di parlare in fretta. Non cercate di sapere più del necessario, o questo posto vi creerà non pochi problemi. Ed ultima cosa: scordatevi tutto quello che avete studiato fino ad ora. Dimenticate tutto quello che credete di sapere riguardo alla vita reale.
Benvenute a Wellington Camp.-
 

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Capitolo 2
*** Ritorno alle origini ***


2. Ritorno alle origini
 
È tutta una questione di razza. Si parla tanto dell’America “Politically Correct”, che tutela e accetta le minoranze, etniche, culturali, le libertà religiose, sessuali, ma se la si vede a livello pragmatico è tutta una farsa. L’America vera, quella di tutti i giorni, della quotidianità, non ci accetterà mai: ci osserva con l’occhio del grande Fratello, per poter prevedere le nostre mosse e tenerci buone. Ogni bianco che mi guarda mi affibbia un’etichetta senza saperlo, pensa che io viva in case popolari, che mi abbuffi quotidianamente ai fast food e che possa pagarmi gli studi solo con una borsa di studio di basket o di atletica. Mi chiamano sorella e mi trattano come se fossi una rapper sballata o peggio, la ragazza senza cervello di un rapper sballato. Non ci sono fratelli o sorelle, solo tante persone che camminano, pensano e agiscono come automi e giudicano, sulla base di stereotipi dettati dalla stessa società che si definisce “Politically Correct”. Ed è proprio per sfiatare questa erronea concezione che, dopo anni di scuole private, mi sono iscritta a psicologia: “conosci come funziona la mente, controllala, cambiala” mi sono detta. La mia famiglia mi ha sempre appoggiato, apparteniamo ad una facoltosa casata che ha discendenze lontane, dinastia di schiavi liberi che in passato si sono battuti per i diritti di cui godiamo oggi. Non ho dovuto lavorare, mai. Mio padre pensava a rimpinguarmi  il mio conto in banca, mensilmente, nonostante la mia scelta l’abbia turbato non poco. La prima Dallaway a non investire la carica di chirurgo. Già, ho rotto la dinastia, ma non l’ho mai deluso. Mia madre appartiene a qual genere di donne, che hanno bisogno di un uomo che sia più un padre, che un marito. E mio padre è quel genere di uomo: sopporta le sue chiacchierate inutili sulla moda, i pettegolezzi mondani, le leccate di culo quando le servono dei soldi e rattoppa le sue spese folli. E anche lei è un’etichettatrice nata. Insomma, se lei è così, un certo tipo di donna, allora anche tutte lo sono, figlia compresa. Credevo fosse un pensiero estremamete egocentrico, crescendo ho capito che è solo stupida. A quattordici anni ha cominciato a spiare tra i miei quaderni, a diciassette è diventata più spudorata. Ogni maledetto sabato sera la domanda era la solita: “Koral, ma il fidanzatino?” e la risposta era puntualmente la stessa. A diciotto, un altro insulso sabato sera, si presento in camera e dopo la solita richiesta inopportuna aggiunse: - Non sarai mica lesbica?!-
Alzai il mio naso dai libri, con totale calma (per quanto mi fu possibile), la guardai e le dissi:
- Magari sì.-
Non so perché le risposi così, non ero nemmeno sicura di esserlo. Forse per farla stare zitta. E quando lei mi chiese di presentargliela io le risposi solamente: - è molto timida.-
Crescendo comunque ho imparato ad ignorarla ed a focalizzarmi sulle cose che contano davvero: il lavoro, la conoscenza e il successo. Non fraintendiamoci, non sono asessuata…è che ho commesso l’errore di aspettare quello giusto, la persona che possedesse tutte le caratteristiche ideali che potrebbero rendermi felice; scartavo spietata qualsiasi ragazzo, sol per la paura che un giorno mi sarebbe venuto a noia e l’avrei mollato. E lui avrebbe continuato la sua vita tranquillamente, mentre io rabbrividivo al solo pensiero che potesse aver conosciuto la più intima parte di me. Così è passato troppo tempo e ora, mi sento eccessivamente fuori corso per rivelare al mondo che sì, purtroppo sono ancora vergine. A ventiquattro anni suonati. Così sì, odio servirmi della comunità omosessuale per i miei interessi (della quale non ho assolutamente alcun risentimento particolare), ma finora è stata una buona copertura.
Nonostante i miei modelli genitoriali non siano perfetti, sono convinta di aver preso da loro solo le cose buone: ho la tenacia di mio padre e lo spirito di osservazione di mia madre, ma è il mio orgoglio che mi ha condotto fino a qui. Odio la gente che mi sottovaluta e crede di sapere tutto di me e la disprezzo talmente tanto che certe volte cedo all’impulsività. Perciò quando a poche lezioni prima della cerimonia di laurea ci illustrarono le estreme prospettive di intervento sul campo, alzai di scatto la mano, quasi d’istinto, quando il rettore ci propose di lavorare per l’esercito e le organizzazioni militari. Se me ne pentii? Si e no. Sì, perché ora sono qui nel letto a fissare il muro senza avere la minima idea di che diavolo fare e no, perché quello che mi solleva è che la paga è molto buona e questa esperienza è manna dal cielo per la mia carriera. La sveglia suona, allungo un braccio e la spengo quasi subito. Fisso un ultima volta il soffitto e poi mi vesto, indossando la divisa di dotazione. Mi attacco la spilla con il mio nome al petto: KORAL DALLAWAY: PSICOLOGA. Mi sistemo i capelli ed esco dalla mia camera, pronta per andare in mensa.
- Hey ciao. Dallaway giusto?- la ragazza rossa riccia e bassa mi guardò sorridendo. Io annui e ricambiai la sua espressione.
- Piacere sono Miriam Bloch, quella rossa brutta…per distinguermi dalla stangona della Jessep!- si presentò stringendomi la mano. - Oddio, questi letti mi stanno uccidendo.- continuò massaggiandosi la schiena: - E pensare che gli studenti vivono in appartamenti, mentre a noi ci tocca questo schifo.-
Scrollai le spalle ed entrai nell’ascensore, senza curarmi più di tanto di lei.
- Ma allora è vero che sei muta!- mi urlò la ragazza. Poi le porte si chiusero.
Affronterò questo mondo a porte chiuse.
Poi l’ascensore scese al piano inferiore.
E la porta si aprì.

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Capitolo 3
*** Preston Bell ***


3. Preston Bell
Diario di Koral Hataway: 1° settimana di Settembre
Nota di inizio: promemoria doveroso: questo diario deve essere utilizzato appositamente dalla sottoscritta, per descrivere i progressi dei pazienti. Eventuali ed inevitabili considerazioni personali saranno considerate irrilevanti.
La prima settimana si terranno colloqui da un’ora circa, allo scopo di conoscere i pazienti del gruppo D sezione 8, composta da 15 persone (4 femmine e 11 maschi). Le sessioni inizieranno alle 9 e termineranno alle 12. Il pomeriggio sarà interamente dedicato all’osservazione sul campo di attività individuali. È prassi che durante il giorno del colloquio i pazienti svolgano attività singolari, in modo che lo psicologo non entri in contatto con altri membri del gruppo, che potrebbero influenzare le sue convinzioni. I colloqui saranno registrati e verbalizzati.
 
PAZIENTE 1: PRESTON BELL
ETA’: 16
RUOLO: GENERALISTA
ABILITA’: FORZA
ORIGINI: AFROAMERICANE
RECAPITI FAMILIARI: IGNOTI
 
K.H:  Può sedersi se vuole. (mi guarda sorpreso). Preferisci che ci diamo del tu?
P.B: Meglio grazie (si siede).
K.H: Perfetto. Prima di cominciare, sbrighiamo le questioni burocratiche: dunque, lei è Preston Bell, 16 anni, ruolo generalista. Dico bene?
P.B: Sì
K.H: Preston, questa è una telecamera che registrerà il nostro incontro e quelli successivi. Purtroppo non possiamo spegnerla perché il materiale registrato è di proprietà del governo. Ti disturba?
P.B: (sospira) Non saprei…
K.H: Cerca per quanto ti è possibile di ignorarla e di rispondere sinceramente.
P.B: Va bene.
K.H: Perfetto. Possiamo cominciare. Il mio nome è K.H. e sono il vostro, in questo caso il tuo, consulente psicologico per quest’anno. (P.B. annuisce). Dovresti parlarmi un po’ di te.
P.B: In che senso?
K.H: Raccontami un po’ chi sei, cosa ti piace, perché sei qui.
P.B: Ma è già scritto in quella cartella lì, no? (indica la cartella che ho in mano).
K.H: Le cartelle non dicono tutto Preston.
P.B: Ha ragione, mi scusi. E che non so cosa devo dire.
K.H: E’ la prima volta che vedi uno psicologo Preston?
P.B: Sì. Hanno messo questa cosa da quest’anno. Dopo che un ragazzo del plotone 7 si è suicidato.
K.H: Mi hanno accennato qualcosa. Ho saputo che era della tua età. Lo conoscevi?
P.B: Sì, più o meno. Eravamo in classe insieme. (Guarda l’orologio) Senta, possiamo parlarne un’altra volta?
K. H: Certo, non c’è problema. Ne parleremo un’altra volta.
P.B: Grazie.
K.H: Sembri un ragazzo molto gentile. Nel tuo gruppo devono volerti bene.
P.B: Sì il Dottore capo Greene mi ha nominato capo plotone.
K.H: Complimenti. È una grossa responsabilità. E cosa fa esattamente un capo plotone?
P.B: Gestisce l’ordine della casa, fa da tramite tra gli ufficiali e il plotone, sostiene il morale della squadra…cose così.
K.H: Dev’essere complicato vivere in una casa di quindici persone.
P.B: Sì, ma alcuni più grandi mi aiutano. E poi dovrò farlo solo per un anno.
K.H: (sfoglio le cartelle) Perché poi andrai via giusto?
P.B.: Sì. Questo è il mio ultimo anno. Poi i più grandi andranno in accademia fino ai 22 anni.
K.H: E ti dispiace lasciare il plotone?
P.B.: (arretra leggermente) Non so. Forse.
K.H.:  Da quanto tempo sei qui?
P.B.: Qui a Wellington Camp intendi?
K.H.: Qui in questo posto. Nell’area 51 in generale.
P.B.: Da quando sono nato, credo. Da quel che mi ricordo sono sempre stato qui. Però tanti sono come me.
K.H.:  In che senso?
P.B: (Guarda la telecamera, si guarda in giro) Ma l’ora non è già passata?
K.H: Abbiamo ancora un po’. Però va bene. Non è necessario che tu mi dica tutto subito. Qualche cosa la puoi tenere per te.
P.B: Preferisco.
K.H: Parliamo delle tue abilità e del tuo grado.
P.B: (appoggia i gomiti sul tavolo) Oh beh, sono generalista, che è il ruolo che danno ai capi plotone, ma prima ero picchiatore.
K.H: Cioè?
P.B: Ognuno qui ha un ruolo in base alle sue abilità. La specialità di picchiatore è legata a quelli che usano il proprio corpo come mezzo di trasmissione del potere. Hanno abilità di tipo difensivo e sono in grado di infliggere danni con il loro…sì insomma… “potere”.
K.H: il “potere”?
P.B.: sì, diciamo la nostra caratteristica. Noi preferiamo chiamarla così.
K.H: Intendi la forza?
P.B: La forza per me, ma non per altri.
K.H: Temo di non capire
P.B: è più facile da far vedere che da spiegare.
K.H.: Vedrò di capire meglio questo pomeriggio, perché da quel che ho capito ci sarà l’allenamento sul campo.
P.B.: Vedrà che sarà tutto più chiaro.
K.H.: (mi alzo e tendo la mano) Ad oggi pomeriggio allora.
P.B. Sorride e saluta.
Nota personale: il paziente dimostra di essere disponibile e aperto al dialogo. Restio a parlare delle sue origini e di come ha ottenuto il “potere”. Approfondire ragazzo plotone 7.
Attività pomeridiana in sintesi:
P.B. era in palestra a far sollevamento pesi. Il suo obiettivo è sollevare un carico complessivo di 100kg per braccia. Decisamente fuori dalla portata di un uomo ordinario. Mi ha spiegato a grandi linee in cosa consiste la preparazione militare della durata di 6 anni del blocco D, ma ancora non mi è del tutto chiara.

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Capitolo 4
*** Nicholas Lewis ***


4. Nicholas Lewis
PAZIENTE 2: NICHOLAS LEWIS
ETA’: 14
RUOLO: ENERGETICO
ABILITA’: SABBIA
ORIGINI: CAUCASICHE
RECAPITI FAMILIARI: IGNOTI
K.H.: Perfetto. Sono le 10.07 del lunedì 4 settembre, e lei è Nicholas Lewis giusto?
N.L: (si siede e ride) Lei a chi?
K.H: Lei, cioè tu.
N.L: sì, l’avevo capito (ride).  Nessuno mi ha mai dato del lei…
K.H: preferisci che ti dia del tu?
N.L: (alza poco le braccia) No, no. Del lei va benissimo…mi fa sentire, un signore (sorride).
K.H: Perfetto. Allora (sfoglio la cartella), vogliamo iniziare? Non so, come ti trovi qui? Scusami, come si trova qui?
N.L: Nel senso, come ho fatto ad arrivare qui o se qui mi trovo bene? No scherzo, diamoci del tu, questa cosa mi sembra una farsa (ridacchia e si sistema meglio sulla sedia)
K.H: Il secondo caso, comunque se vuoi parlarmi anche del perché ti trovi qui va bene.
N.L: Beh, non c’è un perché. Sinceramente, non ricordo di essere stato in nessun altro posto.
K.H.: Cioè sei nato qui?
N.L.: Non precisamente qui in questo luogo, ma sì. (fa una breve pausa). C’è un posto per tutto qui: nel senso, c’è un reparto per i neonati, per i bambino sotto gli undici anni, per gli adolescenti e per gli adulti, se vuoi rimanere.
K.H: Qui nella struttura...?
N.L: (sospira) No, non proprio qui. Nei campi adiacenti…la zona è grande. (Pausa) Senta posso avere una bottiglietta d’acqua?
K.H: Certamente. (facciamo una breve pausa aspettando la bottiglietta che arriva dopo circa 40 secondi). Possiamo continuare?
N.L: (scuote la testa e fa segno di aspettare, beve, lentamente) Non trova che l’acqua abbia un sapore buonissimo?
K.H: L’acqua non ha sapore…
N.L: (mi guarda) Già…come il mondo non ha un colore. (finisce di bere)
K.H: Possiamo continuare?
N.L: (fa un cenno di assenso con la mano)
k.H.: Quindi tu sei nato qui. (N.L. annuisce) Perfetto. E continuerai a stare qui?
N.L.: Qui in questo campo?
K.H: Ma no, intendo dire nella struttura generale, nell’area 51, se così è più chiaro.
N.L.: No, non penso. A 22 anni me ne andrò. Non sono fatto per questo mondo chiuso.
K.H: Vorresti lasciare l’area 51? E dove andrai?
N.L.: Non so, lontano da qui. Probabilmente nel Regno Unito o in Francia. Sì, in Francia. Oppure in qualche paese freddo del nord. Ho sempre desiderato imparare una nuova lingua.
K.H: E cosa faresti una volta là?
N.L: (mi fissa, alza le spalle) Potrei fare il pescatore, viaggiare in solitaria, o viaggiare per lavoro. Vedere il mare d’inverno. Ha uno strano colore il mare d’inverno. Blu Malinconico.
K.H: Scusa, ma tu non sei mai uscito da qui, giusto?
N.L: Giusto.
K.H: E come fai a sapere di che colore è il mare d’inverno?
N.L: L’ho visto dal computer. Non siamo dell’età della pietra signorina. Sembra sorpresa…
K.H: No, cioè un pochino. Credevo che la tecnologia non fosse ammessa per voi.
N.L: Certo che è ammessa. Possiamo conoscere quasi tutto quello che c’è là fuori.
K.H: E la censura? Non siete sottoposti a particolari controlli?
N.L: Certo che sì. Ma il mare d’inverno non è pericoloso, ne deviante. Di certo non è proibito sognare di essere là (ride).
K.H: Non credo mettano un divieto anche all’immaginazione. Senti, ma tu hai detto che te ne andrai via, giusto?
N.L: E’ giusto, sì.
K.H: Però, io che provengo da fuori, non ho mai sentito dire di persone con i poteri che vivono tranquillamente e girano indisturbate per le strade, come è possibile?
N.L: E’ possibile, perché ci sono.
K.H: E l’America non ne sa nulla?
N.L: La politica dell’area 51 è molto semplice. Dal momento che risiedi qui, o semplicemente hai preso parte a procedure particolari (mi indica) sei un soggetto sotto controllo. Ogni singola tua mossa viene monitorata e interpretata almeno così posso presumere (indica con il capo la telecamera).
K.H: E come sai queste cose?
N.L: Mi lasci finire. Ho chiesto al capo Green cosa accade, a chi decide di lasciare l’area 51 dopo i 22 anni. E la risposta è stata, semplicemente nulla.
K.H: nulla?
N.L: nulla. Rimani un soggetto normalissimo, un uomo come tutti gi altri.
K.H: Beh, ma sappiamo che non è così (sfoglio le cartelle). Ti per esempio, a detta di quello che è riportato qui, sei in grado di manipolare e controllare la materia della sabbia. È un’abilità che non passa di certo inosservata.
N.L: Sicuramente. Ma per poter restare liberi questo è il prezzo da pagare, controllo assoluto dei tuoi poteri. Inibizione totale.
K.H: Inibizione. La psicologia afferma che un’inibizione totale non è possibile. Prima o poi gli istinti prevalgono sulla ragione.
N.L: Può darsi. Ma ho ancora davanti a me 8 anni per dimostrarle il contrario. (incrocia le braccia)
K:H: Non sono convinta…
N.L: Non deve esserlo lei.
(pausa)
N.L: Beh, e allora? È tutto qui?
K.H: Sto solo riflettendo su quello che mi hai detto. (guardo la bottiglia). Hai bisogno di altra acqua?
N.L: (guarda la bottiglia vuota) si, se è possibile.
K.H: Certo che è posibile. Però la nostra chiacchierata sarebbe conclusa.
N.L: (scrolla le spalle) Non importa, la tengo per il viaggio da qui alle aule.
K.H: Bevi sempre così tanto?
N.L: (prende la bottiglia e si alza) Tutto si spiegherà a tempo debito (sorride).
N.L: Ci tengo a dirle una cosa prima di andarmene. Scoprirà presto che questo luogo contiene più fantasmi di quanti lei immagini. Qui la psicologia le servirà ben poco. Si faccia i contatti giusti e impari ad essere più flessibile.
K.H: Più flessibile?
N.L: O più furba.
K.H: Più furba…
N.L: (ride e indica con il capo) Crede che la telecamera sia qui per me?*
 
(*) questo discorso è stato pronunciato da N.L. a telecamere spente. Ho ritenuto doveroso trascriverlo poiché penso che i sarà utile in futuro.
 
Attività pomeridiana in sintesi:
N.L.  mi attendeva in un’arena grande pressappoco come un campo da calcio e isolata da spesse pareti di vetro ai lati ed in cima. Durante la dimostrazione, durata 17 minuti, N.L. è stato in grado di produrre una sottilissima sabbia e a controllarla, creando una foschia che ha limitato notevolmente la mia visione dell’arena.
Tuttavia, come mia ha fatto notare il capo Green, che mi ha affiancato durante la dimostrazione, questa abilità richiede ancora anni di potenziamento ed esercizio. La quantità di sabbia prodotta, infatti, non è sufficiente per formare un agglomerato solido, che potrebbe, citando le sue parole: “Assumere una funzione difensiva, qualora se ne presentasse il bisogno”.
N.L. è in grado di produrre, o meglio di convertire, l’acqua, il sudore e i liquidi presenti nel suo organismo in vera e propria sabbia, ma data la sua massa corporea, piuttosto esile e minuta, (a mio parere nella norma per un quattordicenne che ancora non è entrato nel periodo della pubertà) la quantità di acqua convertibile non raggiunge ancora il livello richiesto. Dopo 17 minuti al ragazzo è stato servito 1lt di acqua.
La mia domanda, rivolta allo staff, se a lungo andare queste procedure avrebbero influito sulla salute fisica del ragazzo non ha ricevuto risposta.

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Capitolo 5
*** Zenaida Areli ***


5. Zenaida Areli
 
PAZIENTE 3: ZENAIDA ARELI
ETA’: 14
RUOLO: PICCHIATORE
ABILITA’: SCUDO DI OSSA
ORIGINI: LATINOAMERICANE
RECAPITI FAMILIARI: IGNOTI
Nota d’inizio: purtroppo non è stato possibile condurre una seduta in modo consono alle modalità richieste. La paziente, nonostante conoscesse bene la lingua americana si è rivolta alla sottoscritta esprimendosi solo con il suo idioma d’origine. Chiederò ai responsabili del materiale audiovisivo di poter revisionare la registrazione per poterne studiare meglio i dettagli prossemici e non verbali. Proverò ugualmente a riportare la frammentaria (e poco ordinata) conversazione inserendo le opportune considerazioni personali a fine colloquio.
 
K.H.: Zenaida sei pronta? (Z.A. si siede a gambe larghe, incrocia le braccia)
K.H.: Allora, questa è una telecamera e registrerà le nostre chiacchierate. Possiamo cominciare? (silenzio). Lo prendo come un sì. (sfoglio la cartella). Dunque, ruolo picchiatore,…abilità…wow, scudo di ossa! (Z.A. guarda fissa davanti a sé).
Zenaida, in che cosa consiste esattamente la tua abilità? (Z.A. non risponde). Che cosa guardi? (silenzio).
(attendo pochi secondi, agito una mano di fronte al suo viso per accertarmi che le pupille siano reattive).
K.H.: Non sei cieca; però sarebbe buona cosa che tu mi rispondessi. (silenzio) Sarebbe un atto di cortesia. Di solito quando una persona, un adulto ti pone una domanda è giusto rispondere.
Z.A.: (sorride e alza le spalle).
K.H.: Ti fa ridere quello che ho appena detto? (silenzio) Perché?
Z.A.: (alza gli occhi al cielo).
K.H. : (respiro profondamente) Sto cercando di COMUNICARE, Zenaida. Di fare conversazione. In fondo sono qui per aiutarti.
Z.A.: (risponde in spagnolo)
K.H.: Allora parli! Perfetto, mi sento più sollevata. Credevo fossi muta, e se così fosse stato, avrei dovuto usare altri canali di comunicazione e mi avresti messo DAVVERO in difficoltà. Ti ringrazio…
Z.A.: (mormora qualcosa in spagnolo e si agita sulla sedia)
K.H.: Sono contenta che tu abbia deciso di parlare, davvero. Purtroppo però non conosco lo spagnolo, quindi dovrai comunicare in inglese.
Z.A.: (si avvicina al tavolo, parla nuovamente in spagnolo).
K.H.: Zenaida, capisci quello che ti sto dicendo?
Z.A.: (parla in spagnolo e ride)
K.H.: Zenaida!?
Z.A.: (urla irritata in spagnolo e appoggia entrambe le mani sul tavolo, il resto del corpo è ancora nella penombra.)
K.H.: C’è qualcuno qui che capisca lo spagnolo?
Z.A.: (ride e parla)
K.H.: (mi alzo) Qualcuno di là? (silenzio) mi rispondete?
Z.A.: (appoggia le braccia scoperte sul tavolo , mi guarda negli occhi e parla in spagnolo. Nota: sospetto che reciti scioglilingua per prendersi gioco di me).
K.H.: (guardo le braccia e noto dei lividi zona bicipiti) Che cosa hai fatto alle braccia?
Z.A.: (incrocia le braccia e ritorna seduta nella posizione iniziale, si nasconde nella penombra).
K.H.: (sorrido) Allora comprendi quello che ti sto dicendo. E hai anche smesso di parlare.
Z.A.: (parole non udibili in spagnolo)
K.H.: Massì, parla pure. Non mi interessa. Non sono io che ho bisogno di aiuto qui. E poi, dovremo parlare per un anno quindi, o farai il voto del silenzio o ti deciderai ad aprire bocca. Non importa in quale lingua: vedrai che alla fine del nostro percorso insieme, riusciremo ad intenderci.
Z.A.: (parla a voce bassa, nuovamente in spagnolo)
K.H.: Penso che gli ufficiali non gradiranno il uo comportamento di oggi. (silenzio). Avrai delle ripercussioni?
Z.A.: (alza le spalle, parla spagnolo)
K.H.: Zenaida? (guardo in giro). Non importa, abbiamo ancora più di mezz’ora. Possiamo anche non dirci nulla, ma farai la fatica di rimanere qui. Come tutti i tuoi compagni.
Z.A.: (mi guarda, poi torna a fissare il muro).
K.H.: (sospiro). Se non a parlare, quantomeno a riflettere. È una buon palestra.
Z.A.: (conclude la conversazione in spagnolo. Poi smette definitivamente di parlare).
 
Nota finale: Z.A. si è mostrata DIFFIDENTE e OSTILE nei miei confronti, ma non aggressiva. Sembra restia ad accettare il mio aiuto, ma ricerca spontaneamente il dialogo. Prova di ciò che ho affermato, i continui interventi e feedback da parte mia che ricerca per mantenere la conversazione sotto il suo controllo. Nonostante comunichi in un idioma differente e sicuramente in grado di capire e parlare inglese, essendo cresciuta nell’ area 51, su suolo americano. Quindi è possibile stabilire con lei una comunicazione alla pari. Approfondire l’origine dei lividi alle braccia.
 
 
Camminiamo in silenzio: l’infermiera dai capelli rossi, l’ufficiale capo Green e collaboratori ed io. Stiamo raggiungendo la terza ed ultima arena della giornata, il sole sta tramontando, le nostre ginocchia sono gonfie per il camminare e nessuno ha molta voglia di parlare. Jacob Green prende la parola: - Bene.- dice fermandosi sulla porta di un edificio che dall’esterno pare una grande palestra. – Zenaida dovrebbe arrivare a breve.- apre la porta e allunga la mano in segno di cortesia: - Può aspettarla direttamente dentro.-
- Come? Da sola?- Jacob Green abbassa lo sguardo, per poi tornare a fissarmi. La sua bocca assume un sorriso, cortese, ma stentato. Mi tocca leggermente la spalla e mi trascina delicatamente verso il centro della palestra. Poi alza una mano, mi saluta e si allontana: - A dopo, questione di minuti.-
- Aspetti! Dove state andando?- chiedo leggermente confusa.
- Si fidi e rimanga ferma lì.-
- E perché voi non rimanete con me?- cerco di guardare l’infermiera, che però viene portata via. Non riesco più a vederla.
- Si fidi. Non le succederà nulla.-
Mi guardo intorno nervosa. Quella che chiamano “arena” non è altro che una palestra chiusa, piuttosto sobria, con pochi attrezzi. In ogni lato sono ancorati degli “spara palline”, come li chiamavo io da piccola. Li vidi per la prima volta quando a 9 anni mio nonno mi portò a vedere l’allenamento dei Washington Senators, dalla tribuna d’onore ovviamente. Noi Hataway amiamo fare le cose in grande. L’attrezzo lanciava la pallina ad una velocità che allora mi sembrava pari a quella di una Ferrari in corsa e il battitore l colpiva con la mazza, producendo un sonoro TOC, che rimbombava per tutto lo stadio. Poi siamo dovuti andare via, per un allarme bomba. Lo stadio esplose alla fine, ma non quel giorno. Da un vetro molto spesso, posto sulla parte alta della palestra posso intravvedere Jacob Green e la piccola infermiera, lui calmo e stoico, con il suo solito sorriso, tutt’altro che tranquillizzante, lei visibilmente preoccupata. Sento il rumore di una porta che si chiude e subito mi volto per vedere chi è entrato.
- Zenaida!- Cerco di sembrare tranquilla, ma la mia voce mi appare insicura. Lei non parla e si avvicina, mi si piazza davanti e attende. È alta più di me, con le fattezze quasi da adulta; porta una canottiera elastica color avorio, che le lascia la schiena scoperta. Le sue scapole sono costellate da lividi.
- Perché hai tutti questi segni?- allungo la mano per toccarla, ma lei si ritrae, guarda verso il vetro e fa un cenno di OK con il pollice. Chiude gli occhi. Faccio un passo indietro.
Comincio a sentire una serie infinita di scricchiolii che mi fanno rabbrividire, come una biglia di vetro che cade su terreno asfaltato, come migliaia di ossa spezzate. La sua schiena comincia a stortarsi e deformarsi, quasi fosse posseduta; le sue scapole si muovono avanti ed indietro a scatti. Mi inginocchio a terra e copro gli occhi con le mani. Decido di riaprirli quando gli scricchiolii sono terminati. Zenaida ha già sfoderato la sua abilità: dalle scapole partono due ali a forma di foglia di fico. Mi avvicino e ne ammiro sbalordita la fisionomia: no, non sono due ali, sembrano due corna di alce, ricoperte da un sottile strato di pelle ambrata, tesa come un tamburo.
Mi chiedo, cosa possano essere: forse delle scapole, troppo grandi per essere vere, ma lo sono.
Sento un rumore sordo provenire dal fondo della palestra, Zenaida preme le sue mani sulle mie spalle e mi sbatte a terra. Una pallina, due, tre , quattro, dozzine di palline, vengono lanciate dalla macchina verso di noi. Mi rannicchio e porto le mani alla testa. Zenaida mi si para davanti, si muove tracciando un cerchio intorno a me , proteggendomi da ciò che in una situazione reale potrebbe essere causa di morte certa. Rimango talmente frastornata che non mi accorgo neanche che in poco tempo la priva è finita.
- Puoi alzarti ora.- dice Zenaida seria, in perfetta lingua inglese. Non ho la forza per farglielo notare, anche perché queste “protuberanze” sulla sua schiena attirano tutta la mia attenzione.
Ed ecco che si ricontorce di nuovo: con scricchiolii sequenziali ed esperti la schiena ritorna di nuovo ad essere “normale”. La vedo ansimare e trattenere urla di dolore, forse cerca di non impressionarmi, ma lo strazio che sta provando ad ogni movimento è palpabile e percepibile anche da me, che fino ad un mese fa mi consideravo un’esperta del genere umano. Sulla sua schiena sono comparse nuove costellazioni di lividi. Decisamente, quelle non sono ali. E non c’è nulla di angelico in tutto ciò.
Qualcuno mi sussurra all’orecchio, mi volto di scatto alzando i pugni, come se servisse a qualcosa.
-Tutto bene…?- chiede il capo Green, mettendo le mani davanti al viso. Non so se è più una domanda o un’ “affermazione rassicurante” la sua.
Nessuna di noi due risponde.
 
 
Sulla navetta di ritorno, parliamo poco. Qualche ufficiale cerca di carpire qualche informazione sul mio conto, ma quando si accorge che la musica dei miei auricolari copre il suono della sua voce decide di smettere. Vorrei chiudere gli occhi e dormire, ma ciò comporterebbe spegnere la musica, per sentire se qualche soldato buontempone parla di me, o della mia figura di merda di questo pomeriggio. Così rimango sveglia e li fisso di tanto inn tanto, giusto per leggere il labiale e rimarcare a mia presenza, come se non fosse già evidente. Una donna afroamericana in mezzo a tutto questo testosterone. Magnifico. Mia madre  ne sarebbe ammaliata.
Quando arriviamo ai piedi dei dormitori dello staff, uno tra gli ufficiali che mi ha accompagnato nel pomeriggio, apre la porta dell’ascensore e mi lascia salire. Rifiuto gentilmente spiegando che ho bisogno di aria e che prenderò il prossimo. Per fortuna non mi fanno domande. Certe volte adoro la semplicità maschile e maledico quella femminile, interessata ad ogni singolo stramaledetto irrilevante dettaglio.
- Prendo anche io il prossimo.- dice (con mia sorpresa) il capo Green. Non oso obiettare e mi preparo rassegnata a sfoderare le mie doti conversative, ahimè piuttosto inconsistenti.
- Ridimmi il tuo cognome scusa,…tu sei?-
- Hataway. Koral Hataway.-
- Koral, sì giusto. Devi scusarmi, ma vedo così tante facce nuove che mi è impossibile ricordarvi tutti.-
- Non fa niente.-
- No, ora mi ricorderò.-
Sorrido ed entriamo in ascensore.
- Sai, l’hai presa piuttosto bene, tutto sommato.- sussurra lui guardando per terra.
- Cosa?-
- La prova di oggi. Qualche volta facciamo fare “esperienza diretta” ai nuovi arrivati. Giusto per far capire chi comanda.-
- Ah, beh…cosa devo dire. Ti ringrazio per l’onestà!- dico io un po’ stizzita.
- Non che io sia pienamente a favore di questa politica, ma fare il capo a volte significa accontentare un po’ tutti…sia dall’alto che dal basso.-
- E questo trattamento è riservato a tutti o solo al “sesso debole”?
- Hataway…non siamo tutti dei mostri misogini.-
Jacob Green mi guarda e fa un sorriso spento, che lascia intendere forse più di quanto dovrebbe. Rimaniamo in silenzio per un po’, attendendo il nostro piano.
- Beh, comunque l’hai pesa piuttosto bene. Qualcuno ha dato veramente di matto gli anni scorsi.-
Sospiro. – Cerco di controllarmi quando sono in pubblico.- dico quando l’ascensore si apre sul piano degli ufficiali.
- Lo vedo.- dice Jacob Green uscendo dall’abitacolo. Ridacchia dolcemente e fa un cenno di saluto con il capo: - Lo vedo.-
Appena entro nella mia stanza, un odore di chiuso penetra nelle narici, lasciandomi un sapore di stantio in bocca. Corro subito verso il bagno e vomito tutto.
Ripenso a Zenaida, alla sua schiena spezzata, alle stupide logiche di potere che governano questo posto e ho la sensazione di essere sbagliata. Una persona sbagliata nel posto sbagliato. Mi accascio inerme sul letto, senza neanche togliermi le scarpe. Mi chiedo se sia possibile sentirsi GIUSTA, autentica, senza doversi sforzare per essere sempre perfetta.
Nel posto esatto e al momento giusto.
Mi porto le mani al viso e sospiro:
- Fanculo, Wellington Camp.-
 
 
 
 
 

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