Shadowhunters ~ Seeing the Future di proudtobea_fangirl (/viewuser.php?uid=762347)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ~ Profeta delle nazioni ***
Capitolo 2: *** Donna malvagia ***
Capitolo 3: *** Chi punge un cuore ***
Capitolo 4: *** Si raccoglie ciò che si semina ***
Capitolo 5: *** Pánta rêi ***
Capitolo 6: *** Sogni non interpretati ***
Capitolo 7: *** Errori dello spirito ***
Capitolo 8: *** Aeterna fama ***
Capitolo 9: *** Per ogni faccenda sotto il cielo ***
Capitolo 10: *** Delle paure ***
Capitolo 11: *** Deficere ***
Capitolo 12: *** Licaone ***
Capitolo 13: *** San Tommaso ***
Capitolo 14: *** Anna ***
Capitolo 15: *** Alea iacta est ~ Parte prima ***
Capitolo 16: *** Alea iacta est ~ Parte seconda ***
Capitolo 17: *** Canzoni di redenzione ***
Capitolo 18: *** Vita informe ***
Capitolo 19: *** Ciò che tu ami ***
Capitolo 20: *** La rupe ***
Capitolo 21: *** Dolore dal sapere ***
Capitolo 22: *** Servire la luce ***
Capitolo 23: *** Deteriora sequor ***
Capitolo 24: *** Terrore ai malfattori ***
Capitolo 25: *** Non cadere ***
Capitolo 26: *** Se ho peccato ***
Capitolo 27: *** Non limitare il mare ***
Capitolo 28: *** Epilogo ~ Veleno ***
Capitolo 29: *** Ringraziamenti ***
Capitolo 1 *** Prologo ~ Profeta delle nazioni ***
Prologo - Profeta delle nazioni
Prologo ~ Profeta delle nazioni
4La parola del
Signore mi fu rivolta in questi termini: 5«Prima che io ti avessi
formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal
suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni.»
[Geremia 1,
4-5]
Alicante ~ Primavera 2032
Non è esattamente una pacchia avere come
genitori i due Shadowhunters più famosi del mondo.
A
volte, addirittura non mi sento figlia loro.
Sono
sempre appartenuta più ai piani alti che a questa dimensione monotona e maligna
che chiamiamo Terra.
Sembrerebbe facile vivere ad Alicante, lontana dalla baraonda di New
York e del mondo lì fuori, che ho conosciuto solo grazie ai racconti della mia
famiglia e a qualche visita sporadica all’Istituto da zio Simon e zia Isabelle.
E invece, udite udite, non lo è affatto.
Il
mio posto “d’onore”, come chiunque avrebbe giudicato e giudicherebbe la mia
condizione, in realtà era peggio di una panca misera e malandata in ultima
fila.
Per
me sarebbe stato meglio sedere su uno sgabello mezzo rotto e rischiare di
rompermi l’osso sacro piuttosto che guardare tutto dall’alto, oziando
bellamente su una comoda poltrona rivestita di velluto.
Il Consiglio? Oh certo, per loro ero una leader. Contavo quasi più del
Console e di quello stronzo dell’Inquisitore – che teoricamente è mio nonno. Ma
fuori da quell’aula, persino il più ignobile dei demoni era trattato meglio di
me.
Lorianne, prendi bei voti solo perché sei raccomandata! Lorianne, non ti becchi mai una nota se
arrivi in ritardo o non fai i compiti! Lorianne, perché tu puoi sottrarti alle
interrogazioni senza sorbirti un rimprovero o prendere un impreparato?
E
questo è solo ciò che dicevano i miei compagni di classe alle mie spalle nelle
ore scolastiche.
Lo odiavo. Odiavo vivere così. Mi sentivo come un filo d’erba nelle mani
di un bambino: torturata, schiacciata – spezzata.
Come se non bastasse, ci si metteva anche Raziel.
Qualsiasi altro Shadowhunter avrebbe pagato oro, dato un occhio e pure
di più, pur di parlare, o anche solo vedere, l’Angelo. Io avrei fatto
altrettanto per togliermelo dai piedi. Anzi: dalla testa.
Tecnicamente il sangue angelico che scorre nel mio corpo appartiene per
metà a Raziel e per metà a Ithuriel. Ma per sfortuna – o per fortuna, mettetela
come vi pare – solo il primo dimorava nel mio cervello.
Qualsiasi cosa facessi o anche solo pensassi era condizionata da quella
ripugnante vocina che brontolava di continuo. Raziel non stava un attimo zitto;
non mi lasciava mai un momento di tregua. Mi appariva persino in sogno, pressoché
ogni notte.
Continuava a ripetermi la stessa frase: Vieni con me.
Lo ammetto, a volte riusciva quasi a corrompermi. Non raramente sono
stata tentata di seguirlo. Per pura forza di volontà mi sono costretta a
restare, a rimanere qui sulla Terra. Avevo buoni motivi per farlo, o almeno
così pensavo.
C’è stato un periodo in cui la tentazione era aumentata. All’epoca mi
capitava quasi quotidianamente di meditare su che vita avrei potuto avere, se
avessi ascoltato Raziel. Se fossi andata con lui, in qualsiasi luogo avesse
voluto portarmi. La prospettiva di passare il resto dei miei giorni in Paradiso
era molto allettante.
In ogni caso, in quel tempo ero così debole, psicologicamente e
fisicamente, da non essere all’altezza di fare nulla.
Ogni cosa in cui credevo – poche, comunque – era crollata di botto. Le
persone nelle quali riponevo la mia più cieca fiducia mi avevano tradita,
voltandomi le spalle senza ripensamenti né rimorsi. Il Consiglio, forse la mia
unica certezza, mi aveva abbandonata proprio quando avevo più bisogno del suo
aiuto – e di un buon tribunale.
Tutto era diventato troppo.
Da
piccola ero felice. Non che negli anni successivi io non lo sia stata, ma
l’infanzia è stata di gran lunga la parte migliore della mia vita. All’epoca
Raziel non mi parlava ancora, avevo le visioni sì e no una volta ogni sei mesi,
ed era molto più facile alzarsi dal letto la mattina per affrontare una nuova
giornata.
Non tutti ricordano quel periodo della loro esistenza; in fondo si è
ancora piccoli per comprendere il senso del mondo e il modo in cui gira. Io
invece lo ricordo perfettamente.
Uno dei ricordi più impressi è la nascita di Jonathan. Già dalla prima
volta in cui ho visto il pancione di mamma ho capito che era incinta, anche se
avevo solo cinque anni. Ovviamente non sapevo tutto ciò che c’era dietro quel pancione – per mia fortuna,
oppure ne sarei rimasta traumatizzata.
È
stato... interessante scegliere il
nome di mio fratello.
Agli altri bambini venivano raccontate le favolette dei Grimm, di
Perrault o di Andersen; io ascoltavo la mitologia greca e romana e le peripezie
dei miei genitori. In particolare mi piaceva la storia del loro viaggio a Edom.
Era inquietante e allo stesso tempo bellissima. Solo verso i tredici anni mamma
mi rivelò la versione integrale, comprensiva di tutti i risvolti incestuosi
della vicenda, ma lo zio Sebastian mi ha affascinata sin da subito.
Così, quando papà mi chiese quale nome avrei voluto dare al fratellino
che stava per nascere, risposi: — Jonathan — senza ripensamenti.
Loro storsero un po’ il naso, ma alla fine acconsentirono. Immagino che
per loro debba essere stata dura. Comunque fui io a chiamarlo così per la prima
volta, quando finalmente potei entrare nella stanza della Basiliade dove mamma aveva
quasi perso l’uso delle corde vocali e vedere quella piccola creatura che
ronfava nella culla.
Non credo di essere mai stata gelosa di Jon sul piano affettivo. Sono
gelosa però dei suoi magnifici capelli rossi, perfettamente ricci – non come i
miei, biondi e indecisi tra il liscio e il mosso – e ovviamente del fatto che
lui sia un normale Shadowhunter.
Eh
già, la genetica mi ha tirato un brutto scherzo. Jon è semplicemente più veloce
e più forte della norma, come papà del resto. Solo la mia testa è dimora fissa di Raziel.
Jonathan mi adorava, e io adoravo lui. Mi piaceva guardarlo gattonare
nel prato e sporcarsi di terra, mi piaceva quando mamma cercava di fargli
mangiare qualcosa di disgustoso e lui arricciava la bocca in quel modo
buffissimo, mi piaceva sentire il suo respiro sulla guancia mentre dormiva.
Crescendo, il nostro rapporto è cambiato di poco. Litigavamo, certo, e
non potevo dirgli nemmeno un piccolo segreto perché sapevo che l’avrebbe
spifferato. Ciononostante non mi è mai pesato avere un fratello, nemmeno quando
dovevo aiutarlo con i compiti oppure ero costretta a rimanere a casa per fargli
da babysitter.
Chrysta mi invidiava per questo. Voleva avere anche lei un fratellino o
una sorellina, ma per zio Magnus e zio Alec era già troppo avere solo lei.
Chris
l’ha capito sin da subito. Ha sempre saputo che, arrivata a un certo punto
della vita, sarebbe cambiato tutto. Avrebbe visto uno dei suoi genitori
invecchiare e morire, e l’altro restare sempre uguale. Il suo stesso corpo
sarebbe rimasto uguale. Ma, parlando sinceramente, lei non ci ha mai dato molto
peso.
Almeno Chrysta aveva una certezza. Io invece no. Per quanto ne sapevo,
anch’io potevo essere immortale. Al contrario di Chris, ci pensavo
continuamente.
Non
sarei mai riuscita a vivere con quella consapevolezza.
E
paradossalmente il dubbio era anche peggio.
Dall’adolescenza
tutto divenne più difficile. Raziel prese a sussurrarmi all’orecchio, e le mie
giornate si fecero progressivamente più pesanti.
I
miei genitori, Jonathan, gli zii Magnus e Alec e Chrysta l’avevano notato, e
avevano cominciato a pormi un milione di domande credendo che io avessi una
risposta a ciò che mi stava succedendo. Non ce l’avevo, naturalmente.
Andavo a scuola senza voglia, senza scopi, senza obiettivi. Era raro che
facessi i compiti o mi impegnassi almeno ad ascoltare durante le spiegazioni. Malgrado
ciò i miei voti non calarono, quindi iniziai a sospettare che i professori
avessero davvero delle preferenze nei
miei confronti. La conferma mi fu data quando la prof di Lingue Demoniache mi
diede una A ad un compito sul quale avevo scritto solo il nome e scarabocchiato
qualcosa di non troppo carino.
I
pettegolezzi dei miei compagni di classe si diffusero molto velocemente. Venni
etichettata come la lecchina di turno, quella che si becca sorrisetti e pacche
amichevoli sulle spalle invece di ramanzine e rimproveri. Provavo a spiegare
che la realtà non era quella, ovviamente senza risultati. Alla fine mi ci
abituai.
Una parziale svolta nella monotona e tutt’altro che piacevole routine ci
fu quando Logan e Trish vennero a stare da noi perché il loro mentore, Sikh,
era dovuto scappare in Egitto per motivi familiari, e nessun altro tutore aveva
le referenze richieste da zia Iz. Così si iscrissero all’Accademia, nella mia
stessa classe – abbiamo nove mesi e più di differenza, ma loro hanno iniziato a
studiare un anno prima.
Prima di allora li vedevo una volta ogni morte di Papa, e non esagero
nel dire che non ricordavo nemmeno la loro voce. Con Trish parlavo
relativamente spesso, ma Logan era per me quasi uno sconosciuto. Non ero legata
a loro come lo ero, e lo sono tuttora, con Chrysta.
Quando si presentarono alla nostra porta ero sola in casa. Pensavo che
avremmo trascorso le tre ore che ci separavano dal ritorno dei miei genitori in
un imbarazzante silenzio, ma invece Trish attaccò a chiacchierare a manetta.
Rimasi sorpresa da fino a che punto riuscì a trascinarmi nella conversazione, e
dalle capacità oratorie che aveva.
Trish – che all’epoca chiamavo ancora con il
nome completo, Patricia – è molto simile a zia Iz nel carattere, però di fisico
sinceramente non so di chi abbia preso. Certo, zia è formosa, ma non quanto
Trish. Lei è decisamente oversize.
Già a quattordici anni aveva un fisico a pera invidiabile, e i capelli lunghi e
ricci la rendevano una mini Sophia Loren. Zio Simon invece la paragonava a
Jennifer Lawrence.
Non si può dire che Logan non regga il confronto. Sotto il profilo del
carisma Trish lo batte – anzi, lo umilia – ma la sua irrefrenabile curiosità e
la gioia che gli sprizza da tutti i pori compensano questa mancanza.
Ripensandoci ora, a distanza di anni, forse fa anche un po’ schifo dire
che mi ero presa una cotta tremenda per mio cugino. Mi correggo: ero innamorata pazza di mio cugino.
Logan chiaramente non ricambiava. All’epoca stava con Tara, una Seelie.
O era un’Unseelie? Non ricordo... in ogni caso, sul piano amoroso ha preso
dalla madre.
Così io mi sentivo morire dentro.
No,
sul serio, non ero disperata fino a quel punto. Capivo che Logan non fosse
interessato a me: ha sempre amato l’avventura e qualsiasi cosa di estremo, e io
non potevo – non posso – esattamente definirmi tale.
Capivo anche che il mio essere Chiaroveggente allontanasse chiunque. A
molti faceva paura. A me stessa faceva paura. E a volte mi stava bene così: la
paura mi tratteneva dall’azzardare azioni di cui poi avrei potuto pentirmi.
Come, ad esempio, seguire Raziel.
Con
la mente del tutto occupata da pensieri legati alla scuola, agli amici e a
Logan – soprattutto a lui – al tempo non ci davo più di tanto peso. La voce di
Raziel nella mia testa era stata soppiantata da quella di Logan, le immagini
dell’Angelo sostituite dai film a luci rosse con protagonista, sottolineo, mio cugino.
Ma Raziel si vendicò. Approfittò di un mio momento di debolezza per
inculcarmi un’idea che in circostanze diverse non avrei mai nemmeno
lontanamente contemplato.
E, come nella maggior parte delle normali situazioni drammatiche
successe alla maggior parte dei normali adolescenti, c’entrava il mio
ex-fidanzato.
Quando
conobbi Jean non volevo ammettere che mi piacesse. Logan occupava ancora il
primo posto nel mio cuore, e così per i primi tempi frequentai il signorino Argentsang – mi piaceva
chiamarlo così, lo faceva andare in bestia – senza realmente essere interessata
a lui.
Be’,
con Jean c’è stato il colpo di fulmine. In fondo, chi non sarebbe attratto da
un meraviglioso francese dall’adorabile accento con tanto di erre moscia e un
fisico da fare invidia allo Shadowhunter più allenato del mondo?
E
poi, mi chiamava Lorian. Si mangiava
l’ultima sillaba e trasformava la e
in una a. Questo suo difettuccio di
dizione era terribilmente sexy. In realtà, Jean era sexy da capo a piedi.
Era
simpatico, aperto, divertente, ma anche cupo e misterioso. Si presentò in
classe senza conoscere un’unica parola in inglese – si sa, i francesi sono
talmente nazionalisti da non parlare lingue diverse dalla loro, figuriamoci poi
se sono Shadowhunters – e totalmente sprovvisto di libri e altro materiale
didattico. Ciononostante sorrideva come un bambino, e non smise nemmeno quando
il professore iniziò a rimproverarlo. (In effetti, credo non capisse niente di
ciò che gli stava dicendo).
Nei primi tempi fu difficile riuscire a comunicare con lui. Chiesi a
papà di insegnarmi il francese – anzi, di rinfrescarmelo in quanto seppur
avendolo studiato non ricordavo nulla – e ascoltai ogni singolo album di Céline
Dion per imprimermi nella memoria la corretta pronuncia. Mossa abbastanza
sbagliata, dato che Céline e le licenze poetiche, in particolare nella
pronuncia, andavano molto d’accordo.
Quando finalmente ero in grado di formare un periodo sensato senza
confondere gli articoli francesi con i loro corrispettivi in greco antico e
avevo preso in mano tutto il mio coraggio per provare a intavolare una
conversazione con Jean, lui aveva già imparato l’inglese. Coglione.
Ma naturalmente questo andò a mio favore. Chiacchieravamo tanto, anche
se capitò svariate volte che “the pen is on the table” e “le stylo est sur la
table” fossero decisamente più logici di qualsiasi altra frase ci fossimo
detti.
Al sesto appuntamento ci scappò il bacio. E da allora i baci furono
all’ordine del giorno.
Non sapevo, però, che con quei baci Jean mi avesse marchiata come Giuda
aveva fatto con Gesù.
Non sapevo che con quei baci mi avesse designata come traditrice.
E così, dopo aver
lasciato Jean senza ripensamenti né rimorsi ed essermi chiusa in camera mia con
il calendario costantemente sott’occhio in attesa del fatidico giorno cerchiato
in rosso, Raziel ebbe la sua occasione per infilarmi nella testa quell’idea.
Chiunque ti sia vicino si fa del male,
Lorianne. E fa del male anche a te. Sei destinata a una vita solitaria,
figliola. Tutti noi Angeli lo siamo, anche se vogliamo farvi credere il
contrario. Ma magari potresti mettere i tuoi talenti al servizio di una causa
superiore. Rinunciare a qualche piacere per avere finalmente uno scopo. Puoi
farcela, Lorianne. Lo so, e lo sai anche tu.
Sì, lo sapevo. Sapevo cosa fare.
Il problema era dirlo alla mia famiglia.
MA CIAAAO!
Yu-uh, ho pubblicato
come mio solito con due settimane di ritardo! YEE!
Avrete sicuramente
notato un cambio nello stile: niente più POV (narrerà solo ed esclusivamente
Lorianne), passato al posto del presente, trattini invece delle caporali, linguaggio
e registro un po’ più aulici e ambientazione MOLTO futura. Nel 2032 Lorianne ha
quasi 18 anni, Chrysta quasi 19, i gemelli Lewis quasi 17. Per quanto riguarda
i nostri Shadowhunters avranno tutti più o meno 41-42 anni, se non mi sono
fatta male i conti.
Bene, volevo
presentarvi un po’ il personaggio di Jean. Ciò che è successo tra lui e
Lorianne verrà rivelato integralmente verso i ¾ della storia, ma darò man mano
degli indizi per farvi rosicare e scervellare. Jean è sì francese, ma ha
origini nordiche in quanto secoli fa un ramo della sua famiglia (i Vertlance)
disertò e si rifugiò tra i vichinghi. Per la sua storia ringrazio infinitamente
Althea Matijacic, alla quale avevo solo chiesto un cognome Shadowhunter
francese. Ma lei è così, mi sorprende sempre.
La ringrazio anche per
il banner, ancora in costruzione.
Vi avevo anticipato che
StF sarebbe stata ambientata a Gaeta, e in effetti sarà così tra un po’. Prima,
be’... c’è qualche casino da combinare a Idris e New York. Ritorneranno due
nostre vecchie conoscenze che collaboreranno per rompere indirettamente le scatole
a una persona, e ho già detto troppo. Anche Cameron e Nathan saranno presenti,
ma comunque non eccessivamente. Ad ogni modo ho iniziato a scrivere la minilong su
di loro, e forse non sarà tanto mini.
E come potete
constatare non ho perso il vizio di concludere i capitoli lasciandovi sulle
spine. Penso però di annunciare qual è l’idea di Raziel nel prossimo capitolo,
che è anche quella “soluzione” menzionata nella trama; non credo che questo
dubbio si protrarrà troppo a lungo, per la vostra gioia. Ma di dubbi e domande
ne avrete molti altri, naturalmente.
Volevo dire solo un’ultima
cosa: dovete capire che per me questa storia è qualcosa di indescrivibile. C’è
così tanto di me nelle parole che ho scritto e che scriverò da far quasi
sembrare che la protagonista non sia Lorianne, ma me stessa. Non vi
preoccupate, non sono depressa come lei. Più che altro la mia mentalità, il mio
modo di pensare e di fare, la mia anima e il mio cuore verranno fuori quando
inizierà la parte ambientata a Gaeta, città in cui sono cresciuta e che mi ha
cambiata. Sono molto più emotivamente coinvolta qui che in RtP e LtP, e credo
fermamente che questo maggior interesse si noterà a occhi bendati durante la
lettura.
Bene, fatemi gli auguri
per le semifinali delle Olimpiadi d’italiano che disputerò il 19 febbraio a
Latina. Se passo quelle poi vado a Firenze per le nazionali, e addio alle prove
di grammatica: lì si scrive sul serio.
VOTATE e COMMENTATE, bye!
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Capitolo 2 *** Donna malvagia ***
2 Donna malvagia
Donna malvagia
24Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo.
25Non dare all’acqua un’uscita
né libertà di parlare a una donna malvagia.
26Se non cammina al cenno della tua mano,
toglila dalla tua presenza.
[Siracide 25, 24-26]
Raccogliere
tutto il mio coraggio non fu tanto difficile; d’altronde lo facevo ogni volta
che chiudevo gli occhi nel mio letto, la sera, in attesa di incontrare Raziel
nei sogni, rifiutare nuovamente la sua offerta e ascoltare qualsiasi cosa
avesse da dirmi.
La parte complicata iniziò quando dalla finestra di camera mia vidi
Chrysta avvicinarsi sorridente alla porta di casa ed entrare senza aver
bussato.
Sentii
la sua voce salutare i miei genitori e Jon, poi il ticchettio delle sue scarpe
sulle scale, infine i suoi braccialetti che tintinnavano mentre spingeva in
basso la maniglia e varcava la soglia della mia camera.
—
Ciao — esclamò lasciandosi cadere sul letto, accanto a me. — Mi aspettavo una
tua telefonata. — Lanciò un’occhiata al calendario appeso alla parete.
Solamente tre giorni ci separavano dalla fatidica data cerchiata in rosso. —
Ancora niente?
—
Niente — negai. — Né dolori né altre avvisaglie. Solo il nulla totale.
Chrysta mi poggiò una mano carica di anelli sulla spalla. — Ehi, Lori,
tranquilla. — Mi scrollò scherzosamente. — Sai che gli sbalzi di temperatura
possono influenzarlo.
—
Non penso che la temperatura possa influenzarlo, Chris — ribattei mestamente. —
Dura quattro mesi, cioè due stagioni. E non è mai arrivato in ritardo, mai.
—
Dannazione, aspetta di averne la certezza e non saltare a conclusioni
sbagliate! — Chrysta cominciò a scaldarsi. — Lo sai che mi dai sui nervi quando
fai così!
Scattai in piedi, furiosa. — Menti! — le urlai contro, poi mi ricordai
che in casa non eravamo sole e mi costrinsi ad abbassare il tono. — Non sono io a darti sui nervi — sibilai tra i
denti. — Ti dà sui nervi il fatto che potrei mettere fine a tutto questo
semplicemente guardando nel futuro come faccio quotidianamente e invece non ci
penso nemmeno.
Anche lei si alzò di colpo e mi si parò davanti. Con quei tacchi mi
superava di buoni dieci centimetri. Mi sovrastava in altezza e in ira. — Hai
ragione — ammise. — Non ti rendi conto del tuo potenziale, Lorianne, e so che
te lo ripeto praticamente da quando entrambe abbiamo iniziato ad avere
coscienza della tua situazione, ma sai che da questa bocca non è mai uscito
altro che verità. A parte in certi casi, ovvio — aggiunse in fretta. — Tu
continui a sostenere che essere una Chiaroveggente significhi essere quella
presa in giro, quella vessata, quella insultata, quella sfruttata. Per carità,
nessuno nega che tu abbia avuto la tua dose di brutte esperienze legate al
tuo potere. Ma è proprio per questo che non riesci a cogliere il lato positivo.
—
Il lato positivo? — gridai, ormai troppo esasperata per contenere la rabbia. —
IL LATO POSITIVO? Ho tentato un omicidio di massa a causa della Chiaroveggenza,
Chrysta! E tu hai il coraggio di venire a parlarmi del lato positivo?!
Lei strinse le mani a pugno. Dalle dita serrate prese ad uscire del fumo
viola. — Non è stata colpa tua, e lo sai. Era autodifesa.
Afferrai il portapenne di vetro e lo scagliai a terra, frantumandolo in
mille pezzi. Chris lo riparò subito con un cenno del mento. — Autodifesa un corno! Io volevo ucciderli! —
strillai a squarciagola.
—
Tu volevi difenderti — mi corresse Chrysta. — Volevi scappare.
—
NON È VERO! — Cercai di impedire alle lacrime di sgorgare, ma il mio tentativo
fu vano. Mi gettai tra le braccia di Chrysta e crollai a piangere come una
bambina. — Io volevo ammazzarli — dissi fra i singhiozzi. — Lo volevo io, non Raziel. Lo volevo io. Sono malvagia. Disumana. Oscura. Che
paradosso, eh? La ragazza angelo è tutto meno che angelica.
—
E cosa dovrei dire io, allora? — sospirò lei accarezzandomi la schiena. — La
donna che mi ha partorita è chiusa in un istituto di igiene mentale e il mio
padre biologico è un demone non meglio identificato che si è infilato sotto le
sue lenzuola. Ho due orecchie da pipistrello, un nido di cicogne al posto dei
capelli e la pelle più nera del cioccolato fondente. Eppure ho trovato qualcuno
che mi ama.
Tirai su col naso. — Non tutti sono come zio Magnus e zio Alec.
—
Parole sante — commentò. — Ma lì fuori c’è il tuo principe azzurro – o la tua
principessa rosa, dipende – che ti sta aspettando. E poi ci siamo noi: la tua
bellissima e colorata famiglia multietnica. In pochi possono vantare di avere
una cugina nigeriana, uno zio indonesiano, un altro zio ex-ebreo e un padre con
lontane origini gallesi. — Mi strinse forte a sé. — Ti senti meglio adesso?
—
Sì... grazie. — Mi staccai dall’abbraccio e subito tornai a sprofondare nel letto.
Mi stiracchiai fino a sentire il crac
delle vertebre della schiena e presi un respiro profondo, preparandomi
all’inevitabile rivelazione. — In realtà ti ho chiamata per un altro motivo.
Certo, uno sfogo non mi avrebbe fatto male, ma la ragione è diversa.
Chris si sedette sulla scrivania. — Vai.
Respirai nuovamente a fondo e piegai le ginocchia. — Per favore, non
interrompermi.
—
Non lo farò.
—
Bene. — Diedi un colpetto di tosse. — Chrysta, ascoltami, io... io non ce la
faccio più a continuare a vivere in questo modo. La voce di Raziel nella testa,
le visioni costanti, i sogni rivelatori e quel cazzo di sangue angelico che
ogni tanto si ricorda di non essere degno della Terra e inizia a bruciare. Hai
idea di quanto mi faccia male, Chris? Mi sento andare a fuoco, a volte divento
trasparente; le vene mi ribollono sotto la pelle come se fossero piene di
petrolio incandescente. Non posso andare avanti così. Prima ogni tanto le
visioni aiutavano, e le avevo una volta ogni morte di Papa, ma ora sono sempre
più ravvicinate e inutili. Ieri pomeriggio sai cos’ho visto? Che mia madre avrebbe preparato
coniglio al forno per cena! Ti sembra utile, una cosa del genere? NO! Mi reca
solo fastidio, e dolore, un tremendo dolore, e rottura di scatole.
Ripresi
fiato. Avevo la bocca secca. — Quindi, sai che ti dico? Me ne vado. Vado via da
Idris, via da questa terra troppo angelica. Potrei andare in Inghilterra, a
Londra magari, o a New York con zio Simon e zia Isabelle, ma non voglio. È questo il problema.
Rabbrividii,
rendendomi conto che ero arrivata al punto cruciale. Al succo del discorso.
—
Ultimamente... sto pensando di unirmi alle Sorelle di Ferro. Almeno lì potrò
essere una persona normale. Fare cose
normali, per quanto sia possibile in
un convento di suore di clausura. Non proverò più l’ebbrezza del sesso né
rivedrò il cielo azzurro; le mie mani diverranno rosse e rugose per l’azione
combinata del fuoco e dell’adamas rovente, ma potrò mettere i miei talenti al
servizio di una causa maggiore. Forse non mi servirà nemmeno indossare le
protezioni, per colpa del sangue angelico, e forse le mie mani rimarranno
uguali. Ti prego di non giudicarmi, Chris. So che tu odi essere immortale, odi
il significato stesso della parola, ma è meglio una vita lunga e tranquilla
piuttosto che una corta e sofferente, no?
Chrysta si
era irrigidita. Aveva gonfiato il petto, serrato la mascella e stretto le mani
sull’orlo della scrivania. Aveva perfino smesso di far dondolare le gambe
avanti e indietro. Ed era un brutto, brutto segno. — Stai delirando. — Scosse
la testa energicamente. — Tu stai delirando. Mi dispiace, Lorianne, ma questo
non posso accettarlo.
— Dovrai —
ribattei secca. — Perché sono davvero molto motivata.
— No, tu sei depressa! — urlò lei. — Ti rendi conto
di cosa stai dicendo? La ragazza che fino a qualche mese fa non parlava d’altro
che degli addominali di Jean e di quanto fosse bravo a letto ora vuole farsi
monaca! — Saltò giù dalla scrivania. — E non permetterti di tirare in causa
l’immortalità. Io preferirei vivere dieci anni o persino dieci giorni con tutti
voi piuttosto che dieci secoli senza le persone che amo. Non pensi alla tua
famiglia, Lorianne? Non ci pensi? Sai cosa sei? Sei un’egoista! — strillò. —
Metti da parte te stessa, per una volta, e ricordati che esistiamo anche
noi!
Scattai in
piedi. — Allora non lo capisci, eh? — ribattei, ormai incazzata nera. — È
proprio per voi che voglio diventare una Sorella di Ferro! Sono solo un peso
sulle vostre spalle. Non potete negarlo, e non dovete.
Le labbra di
Chrysta iniziarono a tremare. — No no no, quella che non capisce sei tu — disse
agitandomi l’indice davanti al viso. Una scia di scintille viola seguì i
movimenti del dito. — Non capisci che non ti lasceremo andare nemmeno per tutto
l’oro del mondo, Lori.
— Non sto
chiedendo il vostro permesso — ringhiai. — Ho preso la mia decisione. — Alzai
il mento in segno di sfida. — Nessuno potrà farmi cambiare idea.
— Per Lilith,
credi che non lo sappia? — replicò Chrysta, furibonda. — Credi che non sappia
che vuoi averla sempre vinta e l’ultima parola dev’essere la tua? Lasciamelo
dire, Lorianne, sei insopportabile quando fai così.
— Ecco! —
esclamai con un gesto eloquente della mano nella sua direzione. — Hai ammesso
che la mia presenza nella vostra vita non è gradita.
Chrysta fece
per protestare, ma riconobbe che si trovava dalla parte del torto e stette
zitta. — Io non ho ammesso proprio un bel niente — sibilò infine. — Non
comprendi quanto tu sia importante per tutti noi. — Mosse un paio di passi
verso la porta e l’aprì. — Logan e Trish stanno organizzando una vacanza in
Italia. Tre mesi, da maggio a luglio. Ho già accettato l’offerta di unirmi a
loro. Ti avrei chiesto di aggregarti a noi se solo tu non avessi messo in
chiaro che hai fatto la tua scelta e non hai intenzione di ripensarci.
Si
voltò in modo da darmi la schiena. — Tra una settimana vado a New York, e da lì
poi prenderemo l’aereo per Roma. Ci sono ancora alcuni posti liberi. Ti
consiglio di valutare la proposta, anche se sono sicura che la risposta sarà
no. Ti faccio notare che questi mesi potrebbero essere gli ultimi che passiamo
insieme. Hai tempo fino a domenica. — E su questa nota allegra uscì sbattendosi
la porta alle spalle.
Papà salì in camera un quarto d’ora dopo. Avevo appena finito di piangere
come una bambina fino a disidratarmi, in compagnia del suono dei miei
singhiozzi e della voce collerica di Raziel, e l’espressione grave sul suo viso
mi fece venir voglia di ricominciare.
Si lasciò
cadere sul letto, poggiò i gomiti sulle ginocchia e vi seppellì la testa. —
Perché, Lorianne? Non metterò bocca su nulla, giuro sull’Angelo. Non ho la
benché minima intenzione di costringerti a fare qualcosa contro la tua volontà.
Tra l’altro ho appena finito di ripetere a Jon che non deve permettersi di
andare al laghetto delle anatre con la sua ragazza, e ne ho abbastanza di
rimproveri per oggi. Ma dimmi il perché.
— Non ti ha
già spiattellato tutto Chrysta? — sbottai, girandomi sul fianco per non doverlo
guardare in faccia.
— Sì, ma io
voglio sentire la tua versione.
— Bene. —
Sbuffai. — La mia versione, papà, è che quella che sto conducendo da dicembre
non è vita. Prima almeno avevo Jean. Avevo l’amore. E riuscivo a tirare avanti,
seppur faticosamente. Adesso invece non ho più niente. Dammi un buon motivo per
restare. Ti ascolterò.
Papà sospirò e
si avvicinò a me. — I buoni motivi te li ha dati Chrysta — replicò. — Lorianne,
fidati, so cosa significa vivere senza amore. Fino ai dieci anni la mia
quotidianità era l’allenamento. Allenarmi e studiare, allenarmi e studiare.
Valentine mi concedeva un po’ di libertà e qualche estrema manifestazione di
affetto solo il giorno del mio compleanno. Non mi ha mai baciato, stretto con
tenerezza o preso in braccio, tanto che quando nascesti tu avevo paura anche solo
a sfiorarti, perché ti vedevo così fragile, così piccola e innocente da temere
che il mio tocco più lieve potesse farti male. Poi sono andato all’Istituto di
New York e ho conosciuto i Lightwood. Ho conosciuto Alec, che è diventato il
mio parabatai. E tempo dopo è arrivata Clary. Pensaci, Lori: il bambino che
aveva smesso di piangere, che si era costruito una corazza di ostilità e
sarcasmo per allontanare chiunque avesse oltrepassato il limite di sicurezza,
che non era mai stato innamorato, si scopriva circondato d’amore. Questa
perifrasi per dirti di non lasciarti vincere dalla tristezza e dalla delusione.
Allungò una mano per accarezzarmi dolcemente un braccio. — Non ti ho mai
vista così, figlia mia — mormorò mestamente. — Hai sempre affrontato tutto a
testa alta, con la mia arroganza e la cocciutaggine di tua madre. Dov’è finita
la ragazza che amavo, Lori? Dov’è quella persona che sarebbe scappata dalla
finestra a costo di non restare più di un’ora chiusa in camera?
D’istinto abbracciai
il cuscino e ruotai su me stessa fino a trovarmi a pancia in
giù. — Quella
persona se l’è portata via Jean — ribattei in tono
aspro. — Non c’è più, papà.
È scomparsa. E non c’è modo di riportarla indietro.
— Potremmo
fargliela pagare. — Papà strinse i pugni alzando la voce. — Potremmo
sputtanarlo davanti a tutta Idris. Ne godrei terribilmente.
— Sai cosa
succederebbe se lo facessimo. Ha in pugno l’intero Consiglio. Ci screditerà, ci
infamerà, ci lascerà letteralmente in mutande, e nessuno avrà il coraggio di
opporsi a lui. Non ne avranno motivo, dato che qualsiasi cosa diranno contro di
noi – soprattutto contro di me – è vera.
— Ed ecco che
ricomincia ad autocommiserarsi — commentò papà, ironico. — Solo ora capisco
quanto sia irritante. Clary ha ragione a schiaffeggiarmi ogni volta che lo
faccio.
Mi scappò una
risatina, ma cercai di nasconderla affondando il viso nel cuscino. — Sul serio
mamma ti schiaffeggia?
— Sul serio —
sghignazzò lui. — È la donna più manesca al mondo. Una notte è stata talmente
violenta da lasciarmi otto graffi paralleli sulla schiena. E considera che
all’epoca era ancora casta e pura. C’era anche Sebastian... lunga storia.
Al nome dello
zio Sebastian scattai impulsivamente a sedere. — Era il periodo in cui giravate
l’Europa?
— Sì —
confermò. — Mi pento di non esservi tornato. Praga e Parigi erano meravigliose,
ma Venezia è imbattibile. E a proposito dell’Italia... — Si slanciò in avanti,
mi afferrò per la vita e mi attirò a sé. Tentai di liberarmi, ma la sua presa
era ferrea. — Perché non vai a Gaeta insieme a Chris, Logan e Trish? — mormorò
mentre mi spostava i capelli su una spalla. — Potrebbe essere una perfetta
occasione per meditare sull’idea di unirti alle Sorelle di Ferro e rilassarti
un po’. E divertirti, magari. Divertirti in
quel senso, se sarà necessario.
— Parla
quello che fino a qualche mese fa voleva castrare Jean — osservai ridacchiando.
— Ehi, darti
dei consigli è una cosa, vedere che li metti in pratica è un’altra! — Papà rise
e mi schioccò un sonoro bacio sulla guancia. — Ho sentito che gli italiani sono
i migliori a letto — insinuò, malizioso.
Mi abbandonai
all’indietro, stretta tra le ferme e sicure braccia di papà. Piegai leggermente
la testa di lato per sentire il profumo del suo dopobarba, un odore che adoro
fin da quando ne ho memoria. — Grazie, papà — bisbigliai chiudendo gli occhi. —
Nella mia vita c’è amore, e ce n’è moltissimo. L’ho finalmente capito. Ma non è
il tipo di amore che desidero.
— Troverai la
tua anima gemella — mi sussurrò lui all’orecchio. — Te lo auguro. Me lo auguro.
E ne sono sicuro.
— Te lo
auguri o ne sei sicuro?
Si batté una
mano sul petto. — Touché — dichiarò con aria teatrale. — Comunque direi
entrambi.
— Sono un
tantino discordanti, non trovi?
— Forse —
ammise. — Ma non sarebbe divertente vivere senza contraddizioni. Il mondo è
bello perché è vario.
— Io non l’ho
visto, il mondo — commentai malinconica.
— Lo vedrai.
Te lo auguro. Me lo auguro. E ne sono sicuro. — Tacque, ma riprese subito: — Brevetterò
la citazione.
Gli tirai una
gomitata alla cieca sogghignando. — Oggi non te la cavi tanto bene con le
parole, eh?
— Sto
invecchiando, Lori, sto invecchiando — si lagnò. — A tal proposito ho una bella
frase dritta dritta, nemmeno a farlo apposta, dall’Italia, precisamente dal
Principe Totò: “Ogni scarpa diventa scarpone”. In napoletano sarebbe più figo. —
Mi diede un ultimo bacio e si alzò stiracchiandosi. — Cucino io. Salmone al
vapore. E non provare a lamentarti.
— Deve
cuocere di più — lo avvertii. — Non rovinare di nuovo un meraviglioso trancio
di salmone. Cameron e Nathan ci rimarrebbero molto male.
— Si sono
messi nei guai da soli decidendo di darci un terzo di quanto hanno pescato in
Alaska — puntualizzò.
Presi il
primo cuscino che mi capitò sottomano e glielo lanciai addosso. — Venti minuti.
— Venti
minuti — affermò lui rimandando indietro il cuscino. — E stavolta ci metto
anche la scorza del limone oltre al succo.
— Bravo. —
Prima che uscisse, gli ricordai: — E lascialo marinare!
Come dessert quella sera ci fu un tortino di Chrysta condito con lettere da
New York. Nome del piatto: casini in arrivo.
Chris si
materializzò all’improvviso davanti al caminetto spento, mentre papà aiutava
Jon a tradurre Catullo con il vocabolario di latino sulle ginocchia e mamma ed io
spettegolavamo tranquillamente su qualsiasi argomento interessante.
— Mio padre è
nei guai — rivelò sedendosi sul divano senza tanti complimenti.
— Chrysta,
cara, odio farti questa domanda, ma devo — replicò papà. — Quale dei due?
— Magnus —
chiarì lei mostrandoci un’articolata busta in simil-pergamena con un finto
sigillo di ceralacca. — L’ha scritta Camille. Camille Belcourt.
— Non credo
che zio Magnus sia stato con più di una Camille — osservò intelligentemente
Jon. — Era ovvio che fosse lei. E poi, anche se ce ne fossero state altre, nessuna
avrebbe avuto un conto in sospeso con lui poiché sarebbero tutte morte.
— Chiudi la
bocca, sapientino — lo zittì Chrysta. — Camille rivendica una vecchia offerta
di un drink. E vuole parlare anche con me.
— Perché mai
dovrebbe? — obiettai. — Insomma, non ti ha nemmeno vista.
Chrysta mi
lanciò un’occhiata stranamente pacata, considerando la situazione e quanto era
successo poche ore prima. — Non lo so, Lori, non lo so. E c’è dell’altro. — Ci
indicò la seconda busta, bianca e con l’indirizzo del mittente in filigrana. — È
dell’orfanotrofio dove mi hanno accolta da piccola — spiegò. — Dicono che mia
madre è in libertà.
Tutti
trattenemmo il fiato. Per Chrysta era quasi un tabù parlare di sua madre, e se
tirava fuori l’argomento significava che la questione era critica.
— Oh —
sussurrò mamma. — E quindi tu pensi che le due cose siano collegate?
— Forse —
disse Chrysta, laconica. — Dopotutto chi avrebbe potuto far uscire una pazza immigrata
senza documenti, familiari ed effetti personali se non una donna di una certa
presenza come Camille?
— Hai ragione
— ammise papà. — Così avrebbe un senso anche il volerti parlare.
— Esatto. — Chrysta
si riprese le lettere. — Parto domani per New York — dichiarò seria. — Ormai è
inutile rimandare fino a domenica.
— E verrò
anch’io — annunciai alzandomi in piedi. — Sempre se la proposta è ancora
valida.
Chrysta mi guardò per un istante, poi si aprì
in un sorriso a trentadue denti. — Oh, la mia cuginetta vuole uscire dal
guscio! — Mi abbracciò e mi scompigliò i capelli. — Andiamo, ti aiuto a fare le
valigie.
E rieccomi qui, a distanza di otto giorni (?) dalla
pubblicazione del prologo. Dai, non ho fatto troppo tardi.
Ecco che si manifesta l’idea di Raziel, ed ecco che
ritorna la prima delle due “vecchie conoscenze” di cui vi avevo accennato nella
precedente NdA.
Avete capito cosa rappresenta la data cerchiata in
rosso? Su, siete quasi tutte ragazze. E i ragazzi intendano senza domandare,
tanto lo sanno. E se ve lo steste chiedendo sì, Lorianne ha un culo incredibile
ad averlo ogni quattro mesi, cioè solo tre volte all’anno. MAGARI.
Bene, non credo di aver altro da dire. Nel prossimo
capitolo incontreremo i gemelli Lewis e rivedremo i loro genitori, ossia il mio
adorato Simon (che Alberto Rosende interpreta MAGISTRALMENTE) e Isabelle.
VOTATE e COMMENTATE, ciao!
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Capitolo 3 *** Chi punge un cuore ***
3 Chi punge un cuore
Chi punge un cuore
Chi punge un occhio lo fa lacrimare, chi punge un cuore ne
scopre il sentimento.
[Ecclesiaste 22, 19]
Carissimo
Magnus,
Immagino perfettamente la tua reazione
nel ricevere questa mia lettera, ma credo che te la saresti dovuta aspettare,
no? Dopo quello che è successo, ho riflettuto per un attimo su tutte le azioni
da me compiute, magari ti interessa sapere a quali conclusioni sono arrivata.
In più, mio caro, bisogna mantenere la parola data ed io attendo il drink che
mi hai promesso.
Comunque, avresti
potuto evitare quel ridicolo tentativo di uccidermi, ma per questa volta metterò
da parte il rancore, sono di buon umore. Che non accada più, per questo secolo
ho già rischiato la morte troppo spesso.
Ma non ti ho
scritto per parlare di cose così pesanti, è semplicemente una specie di
memorandum.
Aspetto questo
invito, non farmi attendere troppo.
Camille.
P.S. Che
sciocca, ho dimenticato una cosa importante. Desidero parlare con la tua di
sicuro adorabile figlia, Chrysta. Credo sia meglio avvisarti, così da evitare
discussioni future. Tranquillo, non devi rispondere a questo mio post scriptum,
ne nascerebbe una conversazione piuttosto futile dal momento che, in un modo o
in un altro, parlerò con lei.
Chrysta
continuava a ripetere ininterrottamente le parole di Camille ad alta voce.
Ormai non aveva nemmeno più bisogno di leggerle: le sapeva a memoria.
Tra lei e zio Magnus che non la smetteva di prendersi a schiaffi in
faccia dandosi del coglione mentre zio Alec, impotente, giocherellava
nervosamente con la corda dell’arco, il pre-partenza fu tutto meno che
tranquillo. Mettendoci anche il mio ancestrale terrore per i Portali otterremo
un perfetto inizio per un’altrettanto perfetta vacanza.
Il
“piccolo contrattempo” non avrebbe interferito con nulla: come da programma saremmo
partiti lunedì ventisei aprile, un mesetto a quella parte, dal JFK di New
York – Logan aveva insistito nel voler usare i mezzi mondani – e atterrati a
Roma Fiumicino sette ore dopo, poi avremmo preso un treno fino a Formia e da lì
un autobus per Gaeta.
Avevo
fiducia nella scrupolosità dei miei cugini, soprattutto di Logan, ma sapevo per
esperienza personale che quando il piano è perfetto e apparentemente
incrollabile c’è sempre qualcosa che va storto. Quasi fosse una legge
dell’Universo. È inutile che ti metti a giocare a Temistocle e Pericle, a fare lo stratego, tanto ti ritroverai
comunque i bastoni fra le ruote.
La
sera prima Chrysta aveva svuotato il mio armadio e riempito una valigia
allargata magicamente che faceva un baffo alla borsa di Mary Poppins con il
necessario per il nostro soggiorno di tre mesi a Gaeta, non dimenticandosi di
lasciare al proprio posto tutto quello che mi aveva regalato Jean. Il che era
un bel problema, dato che Jean mi aveva regalato i migliori capi
d’abbigliamento che possedevo.
—
Per Lilith, Lori, mi vergogno di non averti dato lezioni di stile — commentò
Chris in tono di scherno mentre ficcava nella valigia un paio di ballerine. — Menomale
che ci ha pensato il tuo ex. Sempre detto che i francesi sono i migliori in
fatto di moda.
—
Non parlare di Jean — scattai. — Sarà argomento tabù fino a quando non
ritorneremo a casa.
—
Okay, come vuoi — acconsentì. — Ma, stanne certa, avremo il tempo di rimediare
a questo disastro. Passeremo le tre settimane newyorchesi in giro per la città
a fare shopping con Trish e zia Iz. Almeno così potrai vestire decentemente.
—
Chris, sai già che non metterò nulla di tutto ciò che compreremo — replicai
sbuffando. — Voi punterete su scollature, strappi, vedo-non vedo e cose del
genere, mentre io mirerò a tenermi il più coperta possibile. — D’istinto
allungai il braccio dietro la schiena e mi toccai un punto ben conosciuto tra
le costole. — Sai che non posso mostrare la cicatrice.
Da
piccola non ce l’avevo. O meglio, ce l’avevo ma non si vedeva. La scoprii due
giorni prima del mio undicesimo compleanno. All’epoca c’era uno specchio su
entrambe le ante dell’armadio; le avevo lasciate aperte per sistemare dei
vestiti, e così quando mi girai per chiuderle vidi riflessa nel vetro
quell’orribile immagine.
Anche mamma e papà hanno delle cicatrici che sottolineano la loro natura
particolarmente angelica, ma le loro sono piccolissime.
Al
contrario la mia è grande, liscia, bianca; arriva fino all’osso sacro e parte
dalla base del collo. E ha l’inconfutabile forma di un paio d’ali.
Dopo quell’episodio chiesi a papà di togliere uno degli specchi. Gli
scagliai ripetutamente contro una spillatrice per spaccarlo in mille pezzi, in
modo da avere una scusa per farlo rimuovere.
Dicono che rompere uno specchio porti sette anni di sfortuna. Di sfiga.
Ed effettivamente i successivi sette anni non furono proprio stupendi.
Ma mancava solo qualche mese alla fine della maledizione. Solo qualche
mese e sarei diventata maggiorenne. Solo qualche mese e sarei finalmente uscita
dai diciassette ed entrata nei diciotto.
Quindi, cosa meglio di una vacanza avrebbe potuto commemorare un
avvenimento di tale portata?
Problema: c’erano più contro che pro.
Mentre aspettavo che zio Magnus terminasse di approntare il Portale e
che i miei genitori e Jon ci raggiungessero alla Guardia per salutarci, mi misi
a stilare mentalmente una lista di tutti i punti a vantaggio e a svantaggio
della nostra imminente gita in Italia.
In primis c’era la mia condizione di Chiaroveggente, che m’impediva di
godermi qualsiasi cosa per il sopraggiungere inaspettato e repentino delle
visioni. Seguiva il ricordo di Jean e del perché lo odiavo, che ero sicura mi
avrebbe perseguitato ad ogni ora del giorno e della notte. Naturalmente si
aggiungeva il fatto che l’Italia fosse la nazione più santa e angelica al
mondo, con una chiesa ad ogni angolo e reliquie dappertutto, ossia una fonte di
potenziale sofferenza per una come me che si sentiva mancare anche ad un
chilometro dalle torri di adamas.
Poi però tutti questi pensieri negativi venivano meno al confronto con
ciò che avrei potuto fare, una volta a Gaeta. L’avevo già sentita nominare;
ricordavo che fosse una cittadina sul mare con un bagaglio di storia non
indifferente, che spaziava dalle varie dominazioni – romani, spagnoli,
Aragonesi, Borboni – fino all’Unità d’Italia e alla Seconda Guerra Mondiale.
Volevo provare i piatti tipici, ascoltare la musica del posto, conoscere la
cultura locale, e conoscere pure qualche bel tipo. Quello era il mio obiettivo
primario: trovare qualcuno che mi facesse dimenticare, anche solo per una
notte, quanto era successo con Jean.
Avevo appena concluso la lista quando arrivarono i miei e Jon,
quest’ultimo con la testa bassa e le mani affondate nelle tasche.
—
Animo, Rosso Malpelo! Non sto andando alla NASA per diventare astronauta e
ritirarmi in una stazione spaziale, ma in vacanza. — Gli punzecchiai il fianco
con un dito, facendolo sorridere.
—
Lo so, Lori, ma non sei mai stata fuori casa per più di un mese — replicò lui
con un sospiro abbattuto. — Mi manchi già da adesso. E detesto fare il
sentimentale.
Papà avanzò e gli mise un braccio sulle spalle. Da piccolo Jon
assomigliava molto di più a mamma, ma più cresceva più i tratti spigolosi degli
Herondale prevalevano su quelli morbidi dei Fairchild. Entrambi quindi, in
quella posizione, sembravano la stessa persona con la sola differenza dell’età
e del colore dei capelli. — Non hai tutti i torti — concordò. — Anch’io devo
ammettere che sarà difficile stare senza il nostro fantasma piagnucolone.
—
E senza qualcuno con cui spettegolare — aggiunse mamma. — Però ora basta. Te ne
stiamo dicendo di cotte e di crude, Lorianne. Ma a ragione.
Vi presento mia madre. Diretta e schietta. Come avrei voluto essere io. —
Sì, bravi, tacete — sbottai, e zio Magnus mi fermò prima che potessi replicare
più duramente.
—
Che bel quadretto familiare — commentò con più di una sfumatura d’ironia nel
tono. — Il Portale è pronto, comunque.
Abbracciai mamma, papà e Jon contemporaneamente e li strinsi più forte
che potevo. — Ci sentiamo — mormorai, poi mi staccai a malincuore e seguii zio
Magnus fino al Portale, cento metri più avanti.
Zio Alec, rigido, non aveva ancora abbandonato l’arco, sul quale
continuava a serrare nervosamente le dita che così erano diventate bianche.
Chrysta aveva invece messo via la lettera, ma non smetteva di borbottare il
nome di Camille a bassa voce.
Zio Magnus li osservò mordendosi il labbro. — Perché, perché le ho fatto
quella promessa? — sibilò tra i denti.
—
Perché dovevi sterminare le Bardane e cercavi di perdere meno tempo possibile —
gli ricordai. — Pensavi in quel modo di concludere una conversazione che al
contrario si è protratta per più di venti minuti ed è sfociata in un
combattimento quasi mortale per Camille, i cui effetti si sono riflessi anche
sulla tua prontezza e lucidità al momento di uccidere il demone da te
affettuosamente chiamato X, tanto che se non fosse stato per zio Alec ci
avresti lasciato le penne glitterate.
Zio girò lentamente la testa nella mia direzione e mi guardò con aria di
rimprovero. — Certo che tu per fare coraggio sei la migliore.
Allargai le braccia, esasperata. — Per la miseria, zio, devi solo
incontrare una tua vecchia amante, mica salvare – di nuovo – il mondo!
—
Non è per questo, è per... — Respirò a fondo e curvò le spalle in avanti. — È
per Alec — rivelò. — I suoi trascorsi con Camille sono a dir poco singolari e
non proprio positivi. Senza dimenticare perché voglia parlare con Chrysta, che
mi sembra una richiesta abbastanza inusuale per una come lei. Spero non c’entri
niente con la rimessa in libertà di sua madre, oppure giuro su Lilith che
stavolta me la paga cara.
Diede un colpetto di tosse per riscuotersi. — Okay,
la smetto. — Fece segno a zio Alec e Chrysta di avvicinarsi. — Pronti? — Loro
annuirono e varcarono il Portale senza esitazioni.
Io
mi voltai indietro per un’ultima volta e lasciai vagare lo sguardo sul
paesaggio da cartolina di fronte a me, sulle dolci colline verdi, sulle stradine
acciottolate, sulle imponenti guglie dell’Accademia in lontananza, sulle torri
di adamas che il sole faceva scintillare come diamanti, come per imprimermi
quell’immagine nella mente. Ma infine mi resi conto che quello era il posto
dove avevo vissuto fino ad allora, e che ciò che stavo facendo era del tutto
inutile, poiché nessuno poteva conoscerlo e ricordarlo meglio di me.
—
Lori? — Zio Magnus mi tese la mano, allo stesso tempo un’ancora di salvezza e
un’ancora che avrebbe potuto farmi definitivamente toccare il fondo.
Mi aggrappai a lui e lo tenni stretto finché non uscimmo dal Portale.
La
prima cosa che vidi fu il nero. Nero totale. Poi mi puntellai sui gomiti e
scoprii che quel nero era accostato al bianco e al fucsia in una fantasia
zebrata che avrebbe fatto inorridire persino zio Magnus.
Quindi, quando compresi che eravamo nel loft in cui gli zii avevano
abitato per diversi anni, quasi mi venne voglia di condannare a morte il
proprietario dell’appartamento per omicidio del buon gusto.
Quel
tappeto era ripugnante. Ma almeno era occupato da qualcuno che di ripugnante
non aveva assolutamente nulla.
Logan Maxwell Lewis, con il suo solito ciuffo ribelle che gli dava
un’aria da cattivo ragazzo alla Danny Zuko, mi fissava ghignando
maliziosamente, mentre sua sorella Patricia Eve era già scoppiata a ridere per
il mio atterraggio non proprio perfetto.
Dopo esserci scambiati i saluti di rito, come se fossimo stati perfetti
estranei e non cugini, lui mi aiutò ad alzarmi e lei mi porse un ombrello,
indicandomi la finestra alle sue spalle dalla quale s’intravedeva una fitta
cortina di pioggia. Notai che entrambi portavano all’anulare destro l’anello
della loro famiglia, che invece io ricordavo di avere circa due volte l’anno. E
questo la dice lunga su di me.
—
Voi andate — disse all’improvviso zio Magnus. — Resto qui ancora per un po’ e
poi vi raggiungo.
—
Anch’io — risposero all’unisono Chrysta e zio Alec.
Lasciammo quindi la famigliola felice al loft e uscimmo nella fresca
aria di un marzo newyorkese, cercando di evitare che il vento rivoltasse gli
ombrelli e ci trascinasse via stile Mary Poppins (il che faceva pendant con la
mia valigia). A causa del brutto tempo il piano di Logan e Trish di tornare a
piedi all’Istituto per migliorare il mio orientamento nella metropoli saltò, e
così fummo costretti a prendere un taxi.
Durante il tragitto Trish si stufò di stare zitta e attaccò a
chiacchierare, scegliendo come argomento per rompere il ghiaccio proprio ciò di
cui non volevo parlare. Chiuse il finestrino che ci separava dal tizio al
volante ed esordì: — Non ho ancora capito perché non smascheri Jean davanti a
tutta Idris, Lori.
Sbuffai e alzai gli occhi al cielo. Gliel’avevo spiegato qualcosa come
una quindicina di volte. — Perché lui volgerebbe la situazione a suo favore e
controbatterebbe accusando me di tentato plurimo omicidio e la mia famiglia di occultamento
di reato e tradimento.
—
Ma non ne hai la certezza, no? — intervenne Logan. — Insomma, sei tu ad avere
più prove a conferma della tua tesi, non il contrario. Non puoi prevedere con
sicurezza cosa succederà in Consiglio.
—
Potreste giurare con la Spada — suggerì Trish, poi, accortasi del mio brivido
di terrore, si corresse: — Come non detto.
—
Credetemi, ragazzi, se potessi lo farei subito — sospirai lamentosamente. — Il
problema è che non ne ho i modi né i mezzi. Ad essere sincera non ne ho nemmeno
il coraggio.
—
Quello non ti è mai mancato — replicò Logan. — Ti conosco poco, Lorianne, ma ti
conosco abbastanza da sapere che il coraggio è uno dei tuoi molti punti forti.
—
E infatti lo era, fino a qualche mese fa — scattai. — Forse ora non lo è più.
—
Quel “forse” è pur sempre una speranza — osservò intelligentemente Trish, e qui
si concluse la conversazione.
Giunti
di fronte all’Istituto – tra le proteste dell’autista, che naturalmente non
vedeva altro che una chiesa abbandonata e con molte probabilità pensava che
fossimo dei drogati in procinto di infilarci un ago nel braccio – scendemmo dal
taxi sollevando schizzi d’acqua dappertutto e facemmo tacere il conducente
allungandogli una mancia. Quando fummo sicuri di non essere osservati varcammo
il cancello, sparendo agli occhi dei mondani.
Appoggiata al portone stazionava mollemente una figura ben nota, con gli
occhiali cascanti sul naso e il sorriso sbilenco uguale a quello del ragazzo
che mi stava accanto.
—
Mirtilla Malcontenta! — esclamò correndomi incontro, per poi abbracciarmi e sollevarmi
di dieci centimetri da terra. — All’Istituto serve assolutamente uno spiritello
lamentoso come te!
—
Andiamo, zio, non ti ci mettere anche tu! — borbottai con la voce soffocata.
Zio si staccò ridacchiando, prese la mia valigia da perfetto gentiluomo
e mi fece segno di seguirlo oltre l’entrata. Logan e Trish svoltarono l’angolo
e scomparvero. — Io mi ci metto eccome. Lo sai che mi piace stuzzicarti.
Passiamo insieme sì e no una settimana l’anno, è ovvio che mi senta in dovere
di farti ridere un po’, almeno in quei pochi giorni in cui mi è concesso di
farlo.
Eravamo arrivati nell’atrio. Era l’unico posto che odiavo in tutto l’Istituto;
troppo buio e troppo freddo per i miei gusti.
Zio
accese una stregaluce con un cenno della mano, rischiarando così quell’ambiente
tetro e decisamente poco accogliente. — Sono il peggior padrino della storia —
sospirò lamentosamente, spingendo il tasto per chiamare l’ascensore.
—
E io la peggior figlioccia della storia...
L’ascensore
annunciò il suo arrivo con un tremendo cigolare di cardini. Entrai nella cabina
con un certo timore, ma zio non sembrò farci caso. Per fortuna la terrificante
corsa finì subito; nonostante quell’ammasso di ferraglia fosse, appunto, un
ammasso di ferraglia, funzionava alla perfezione.
Zio Simon mi condusse lungo un corridoio disseminato di porte chiuse,
poi per un secondo corridoio le cui porte erano invece tutte aperte e
rivelavano camere chiaramente abitate. Una sola era ancora libera, e non appena
ne varcammo la soglia mi lasciai cadere a peso morto sul letto.
—
Come puoi constatare abbiamo molti ospiti — disse zio, notando che ero rimasta
sorpresa alla vista di tante stanze occupate. — Negli ultimi cinque anni o giù
di lì il Conclave ci ha mandato parecchi Shadowhunters, sia di nascita che
Ascendenti, e altrettanti sono venuti qui di loro spontanea volontà. La fama di
Sikh ha attirato e attira tuttora una folla piuttosto consistente.
—
È tornato dall’Egitto? — gli domandai, ricordando che l’anno precedente Logan e
Trish si erano iscritti momentaneamente all’Accademia poiché motivi familiari
avevano costretto il loro mentore a scappare nel suo Paese d’origine.
—
Sì, un mesetto fa — confermò lui. — E con una bella sorpresa, per di più.
—
Oh... auguri.
—
Nascerà a breve — continuò zio, — ma Zahirah non ha ancora deciso se partorire
qui o alla Basiliade.
—
Ma questi non sono miei problemi.
Zio poggiò la mia valigia nell’armadio e si sedette sulla poltrona di
fronte alla finestra. — Quali sono i tuoi problemi, allora?
Avevo attribuito a zio Simon il titolo di psicologo. Nella mia mente l’avevo
addirittura elevato a luminare della psicanalisi. Quando parlavo con lui inevitabilmente
arrivava a scavarmi nella testa.
Mi tolsi le scarpe e poggiai le gambe sul letto. — Li conosci così bene
che potresti chiamarli per nome, zio.
—
Hai ragione — concordò lui. — Li conosco così bene che potrei chiamarli Raziel.
—
Vedi? È inutile chiedermelo.
—
Negare la tua natura non ti servirà a nulla, Lorianne — dichiarò zio per quella
che mi parve la milionesima volta.
—
Questa frase ha perso tutto il suo senso, se mai ne ha avuto uno — brontolai
secca. — Adesso mi dirai che anche tu hai passato un periodo particolare, che
da un momento all’altro ti sei ritrovato vampiro e bla bla bla, ma comunque al
mondo c’era qualcuno come te, che poteva aiutarti e farti sentire parte di
qualcosa. Io al contrario sono unica.
Zio si sporse in avanti nella mia direzione. — E allora perché non accogliere
quest’unicità? — ribatté, le pupille brillanti dietro le lenti degli occhiali. —
Perché non amarla?
—
Perché sono una pecora nera tra sette miliardi e mezzo di pecore perfettamente
bianche — replicai. — Ti spiego una cosa, zio: chi è diverso non viene mai
accettato, seppur a molte persone piaccia far intendere che sia così. E
quindi al diverso non resta altro che adeguarsi alla massa.
—
Secondo il tuo ragionamento una pecora nera potrebbe diventare bianca, il che
effettivamente non è impossibile, ma non sarà la pecora ad averlo scelto.
—
Ho sbagliato esempio, okay? — sbottai, e incrociai le braccia sul petto.
Zio si passò le mani fra i capelli e respirò a fondo. — Senti, Lorianne,
io non posso importi cosa fare della tua vita. Ma lascia che ti dia un
consiglio: impara a considerare il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che mezzo
vuoto. Sii ottimista.
—
Come faccio ad essere ottimista con un Angelo che ha il monopolio sui miei
pensieri? — esplosi, buttando fuori tutta l’ira repressa. — Come faccio a
considerare il bicchiere mezzo pieno se questo si è rotto in mille pezzi?
Zio si alzò dalla poltrona, si inginocchiò di fronte a me e mi strinse
delicatamente i polsi. — Ricomponilo. Frammento dopo frammento, scheggia dopo
scheggia. Ti ferirai, certo, ma ad ogni taglio la tua pelle si riparerà sempre
più velocemente.
—
E se invece mi ferissi a tal punto da non poter più guarire?
Zio si morse un labbro e distolse per un attimo lo sguardo. — Anni fa zia
Isabelle disse che i cuori s’infrangono, e anche quando guarisci non sarai più
lo stesso. E non aveva torto. — Si tirò di nuovo in piedi e si avvicinò alla
porta. — Non sarai più lo stesso, sì. Ma ciò non toglie che tu possa essere
migliore.
Ciao! Pubblico con il mio solito ritardo,
sì u.u
Il fatto è che questo capitolo doveva
essere mooolto diverso. Volevo già inserire l’incontro tra Magnus, Chrysta e
Camille, ma poi mi sono resa conto che sarebbe stato troppo frettoloso oltre
che stupido metterlo nel secondo capitolo e quindi si è posto il problema di
come riempire il vuoto che si era creato. Ho dunque sfogliato tutti i miei
appunti (circa 14000 parole, niente di che) miliardi di volte e ho infine
trovato un piccolo passaggio che mi ha ispirato a scrivere ciò che avete appena
finito di leggere.
Voglio farvi una domanda prima che mi
dimentico: state seguendo la serie? Io sì, e nonostante sparino certe cazzate
incredibili mi sta piacendo moltissimo. Simon e Magnus sono il TOP. Tra l’altro
la sto facendo vedere anche al mio fratellino mondano e babbano e via dicendo,
e fooorse riesco a convincerlo a leggere Shadowhunters (pregate per me).
A proposito di preghiere... no, non sono
passata alle nazionali delle Olimpiadi d’italiano. Pazienza, ho altri quattro
anni per riprovarci. E ve lo prometto: sentirete parlare di me.
Ah, seconda domanda: qualcuno tra di voi
ha finito le Cronache dell’Accademia? Io sì, e... *piange*
Mi sono accorta che il Simon delle
Cronache e il mio Simon sono praticamente uguali. Molti suoi atteggiamenti e
pensieri in questi racconti, in particolare la sua considerazione degli Angeli,
sono la fotocopia dei suoi atteggiamenti e pensieri in RtP, LtP e anche nel
passaggio di StF (che forse non inserirò, ma che posso comunque farvi vedere)
da cui ho tratto lo spunto per questo capitolo. Oltretutto nelle Cronache Simon
e Clary si ritrovano alla Bethesda Fountain and Terrace, dove guarda caso i
Sizzy si sono sposati alla fine di LtP. Ve lo giuro, ho scritto le parti di cui
sopra prima di leggere le Cronache.
Ora, o conosco il personaggio di Simon
talmente bene da essere al livello della sua creatrice o sono anch’io una
Chiaroveggente come un mio
personaggio.
Vabbe’, non vi ammorbo ulteriormente. Mi
concedo qualche altra riga per ringraziare Althea Matijacic, che non ha bisogno
di presentazioni, per la lettera di Camille che trovate a inizio capitolo (anche l'immagine, yep) e per
essersi gentilmente resa disponibile per scrivere insieme a me l’incontro tra
la suddetta vampira e i due Stregoni, che spero di pubblicare al più presto
possibile.
VOTATE e COMMENTATE, alla prossima guys! ♥
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Capitolo 4 *** Si raccoglie ciò che si semina ***
3 Si raccoglie ciò che si semina
Si raccoglie ciò che si semina
Forse è per
questo che Dio ci fa prima piccoli e vicini al suolo. Forse è perché sa che
dovremo cadere spesso e sanguinare molto prima di imparare quell’unica,
semplice lezione.
Si paga per quel che si ottiene, si ottiene ciò per cui si
paga... E prima o poi quel che ti appartiene torna a te.
[Stephen
King, It]
Zio
Magnus allungò per l’ennesima volta lo sguardo sull’orologio del tizio seduto
al divanetto accanto per guardare l’ora.
Eravamo
lì ormai da quaranta minuti, lui era già al secondo piattino di noccioline e
Camille non si era ancora fatta vedere né sentire. Dai suoi sbuffi capii che stava
pensando di alzare i tacchi ed andarsene, soprattutto perché Chrysta stava
visibilmente per esplodere dalla tensione e zio Alec stava consumando l’arco a
furia di passarvi continuamente le mani.
Quando
finalmente Camille entrò nel locale, fermandosi per il tempo necessario
affinché gli uomini notassero la sua presenza, vidi che il suo sguardo corse
allo stesso orologio poco prima consultato da zio Magnus. Più tardi zio mi
disse che quarantadue minuti di ritardo erano troppi persino per lei, che al
massimo aveva ritardato di un paio di minuti.
La vampira tornò a guardare davanti a sé, studiando rapidamente l’ambiente.
Deglutì e si passò la lingua sulle labbra, come se non avesse mangiato per
giorni e avesse intenzione di assaggiare il sangue di ogni singola persona
presente nel locale. Ma resistette alla tentazione e si diresse verso zio Magnus.
I suoi passi erano calcolati alla perfezione, i capelli gettati dietro
le spalle in modo che la scollatura fosse messa ben in risalto. Ostentava un
sorriso candido, innocente.
—
Magnus — lo salutò, lasciandosi cadere con eleganza sul divanetto, di fronte a
lui. Accavallò le gambe e il lungo cappotto smeraldo scese a scoprire lo spacco
generoso della gonna nera.
L’unica cosa che mi passò per la testa dopo aver osservato
l’abbigliamento di Camille e i suoi atteggiamenti da femme fatale fu: “Che zoccola.” Ma sicuramente il mio giudizio
era offuscato da ciò che avevo sentito dire su quella donna e dalle circostanze
del momento che mettevano a dura prova la mia pazienza.
—
Camille — ricambiò zio, chiaramente sollevato che la vampira lo avesse degnato
della sua presenza e al contempo spaventato di come avrebbe potuto evolversi la
situazione, essendo a conoscenza del vero motivo per cui l’incontro era stato
richiesto. — Allora, come hai trascorso questi diciassette anni? A tramare
nell’ombra preparando la tua vendetta?
—
I miei passatempi sono più vari, lo sai bene — rispose lei e si sistemò una
ciocca ribelle che le ricadeva sulla fronte. — La vendetta è un contorno a cui
mi dedico ogni tanto, in certi periodi. Credo anche tu sia d’accordo, se dico
che entrambi conosciamo passatempi di gran lunga più divertenti. — Allargò il
sorriso, inclinando leggermente la testa, e appoggiò gli avambracci pallidi sul
tavolo sporgendosi verso zio. — Anzi, sono piuttosto certa che tu ti diverta persino
più di me, in quel modo.
— Mmm, di questo puoi esserne più che certa — sussurrò zio con un
sorriso compiaciuto. — Sai, anche se a volte mi capita di ripensare a quelle
meravigliose, intense, passionali notti ottocentesche, tu non mi hai mai dato
ciò che invece mi dà Alec.
Al diretto interessato sfuggì un piccolo sospiro. Staccò le mani
dall’arco e si sedette a gambe incrociate sul freddo pavimento della terrazza
esterna del Plunge, con maggiore
rilassatezza rispetto a pochi secondi prima. Si concesse addirittura un secondo
per ammirare il magnifico panorama che si estendeva a perdita d’occhio, con
l’Empire State Building proprio di fronte a noi.
—
Già, il tuo adorabile Nephilim. Come sta? Spero bene, l’ultima volta mi si è
spezzato il cuore nel sapere che soffriva. — Camille fece il labbruccio come se
gliene importasse, ma i suoi occhi rimasero puntati in quelli di zio Magnus,
una scintilla di divertimento nelle pupille senza fondo. — In ogni caso,
Magnus, vorrei ricordarti che sei stato tu a baciare William, non il contrario.
Se non lo avessi fatto probabilmente ora tutto questo non sarebbe successo. —
Si sistemò le maniche della giacca nonostante fossero impeccabili prima di
alzare rapidamente un braccio per chiamare un cameriere.
—
Vorrei ricordarti che sei stata tu a tradirmi con una decina di amanti, non il
contrario. — Zio inspirò e trattenne il fiato per un secondo, poi espirò
lentamente per calmarsi. — E Alec sta a meraviglia, anche e soprattutto con
qualche capello bianco.
—
Non si può di certo considerare un tradimento pari al tuo, hai baciato William
davanti a me e a casa mia. Sei stato veramente sgarbato — lo riprese Camille,
ma sfoggiava un sorriso serafico che annullò del tutto l’asprezza che avrebbero
potuto avere quelle parole. — In più, quegli amanti di cui parli non erano
minimamente paragonabili a te, ma non puoi di certo pretendere che una donna
come me non accetti alcuni svaghi... alternativi. — Rivolse l’attenzione al
cameriere e chiese un calice di Champagne Dom Pérignon Rosé del 2002.
Mi accorsi che nel parlare Camille si era spostata leggermente di lato,
verso la grossa siepe dietro alla quale ci eravamo acquattati. Sebbene fossi
sicura che fossimo nascosti perfettamente, Camille riuscì a incrociare il mio
sguardo. Mi aspettai che ci sgamasse trascinando tutti e tre al tavolo o
buttandoci fuori dal locale, ma inaspettatamente restò al suo posto come se non
avesse visto niente.
—
Per riprendere il discorso, caro, capisco cos’aveva William di tanto
affascinante, ma Alexander cos’ha, a parte l’aspetto?
Zio si interessò alla lista dei cocktail. Nel leggere gli scappò un
sorrisetto divertito, che si rivelò essere la reazione al nome di un cocktail,
l’Alexander. — Parli del diavolo... —
commentò, poi ordinò quel drink e mandò via il cameriere. — Alexander ha molto,
Camille, e non sto qui a parlartene. La cosa più importante, e dovresti
prenderne esempio, è che ha un’anima. Un’anima votata al dovere e all’amore
verso la famiglia e ciò per cui è nato. La cosa più importante è che riesce a
guardarsi allo specchio la mattina. Tu ci riesci, Camille, a guardarti allo
specchio, dopo tutto quello che hai fatto?
—
Tu riusciresti a privarti del tuo riflesso, Magnus? — domandò lei. — Non essere
sciocco, anche perché io ho un’anima e tu lo sai bene. Un’anima a pezzi, ma è
pur sempre un’anima. — Si incupì appena, ma si riprese quasi subito. — Perdonami,
ogni tanto mi perdo nel passato. Per la maggior parte del tempo è stato così
bello, vero? Poi tutto è andato al diavolo, ma comunque noi due abbiamo un
lungo trascorso alle spalle, seppur per molti aspetti doloroso. Ma chi non ha
dovuto superare infiniti ostacoli, per trovare la felicità?
—
Camille, ci siamo detti esattamente le stesse cose diciassette anni fa —
replicò zio, scocciato. — Se non sbaglio ti dissi che dopo aver superato
infiniti ostacoli avevo trovato la felicità — la scimmiottò sorridendo
ironicamente. — E per la seconda volta ti stai intromettendo in questioni che
non ti riguardano per niente.
—
Stai diventando bravo ad evitare le parti del discorso che ti mettono in difficoltà
— gli fece notare lei, imperturbabile. Congiunse le mani sul tavolo e la luce
si rifletté sullo smalto lucido. — Ma non dovrei esserne tanto stupita, dato
che sei persino riuscito ad arrivare a mentire a te stesso. Non è da te, caro.
— Con un sospiro appoggiò una guancia al pugno chiuso, lasciando cadere i
capelli in parte su una spalla e in parte sul tavolo. — In ogni caso ti fidi davvero così poco di
me? Hai dovuto proprio portare la guardia del corpo?
—
Le uniche parti del discorso che mi mettono in difficoltà sono avverbi e congiunzioni.
Faccio un enorme sforzo per riconoscere la differenza tra le due. Ad ogni modo,
Camille, la guardia del corpo è qui
per interessi personali, e certamente non per proteggere me. Sai benissimo che posso
arrivare ad azzardare azioni di cui non mi riterresti capace.
—
Lo so molto bene, ma tu sai altrettanto bene che poi verresti travolto dai
sensi di colpa — replicò lei tranquilla. Allungò una mano verso il calice posto
sopra al vassoio che in quel momento il cameriere appoggiò sul loro tavolo e ne
bevve un sorso, dopo aver studiato il colore del vino con un’espressione
pignola. — Tu puoi farmi del male, verbalmente o fisicamente, ma se tu mi
togliessi la vita non riusciresti più a rimanere in pace con te stesso.
Sbaglio? — chiese e sbatté appena le ciglia, con aria candida.
Zio studiò per un attimo il suo cocktail e avvicinò le labbra al
bicchiere, poi ci ripensò e le rispose: — Onestamente non saprei. Ormai ho
chiuso con il passato e non ha senso rivangarne il ricordo, per entrambi molto
doloroso. Non riuscirei a rimanere in pace con me stesso se tu non mi dicessi
cosa diavolo vuoi da mia figlia e cosa c’entra quella povera donna che hai
tirato fuori dal manicomio.
—
Hai seriamente bisogno di una risposta o è una domanda retorica? — domandò
Camille, prima di prendere un altro sorso di vino e leccarsi via le gocce
residue dalle labbra. — Comunque avevo chiesto di parlare anche con la tua
adorata figlioletta.
—
La mia adorata figlioletta, come hai
potuto constatare, è qui. Preferisci una chiacchierata fra donne o mi è
permesso di restare?
— Oh, tranquillo, questa sera mi interessa
parlare con te. La tua... Christina ed io parleremo quando tu non potrai
intrometterti. Sai che divento irritabile se qualcuno si intromette in quello
che faccio.
—
Si chiama Chrysta — la corresse zio con un moto di stizza, — e non ho
intenzione di starmene qui a sottolineare la tua ipocrisia, tantomeno ho
intenzione di incontrarti di nuovo. Ergo, adesso me ne vado, così avrai Chris
tutta per te e non vi starò tra i piedi.
—
Se anche fossi arrivata qui totalmente cambiata tu avresti continuato a
considerarmi nella stessa identica maniera, Magnus — affermò e le sue palpebre
si abbassarono pigramente sugli occhi, gettando a zio un’occhiata da sotto le
lunghe ciglia. — Sei pieno di
pregiudizi, hai eretto una barriera di ghiaccio tra i tuoi sentimenti per me e
il resto. Come ho già detto, hai fatto come me. Solo che io non permetto ai pregiudizi
di parlare per me. — La sua voce era l’opposto della sua espressione: tagliente,
offesa e sarcastica, in attrito con la maschera impassibile in cui, subito dopo
aver parlato, aveva irrigidito i suoi lineamenti.
—
Se anche tu fossi venuta qui totalmente cambiata non avrebbe mutato né
influenzato quanto hai fatto anni fa, Camille. — Zio posò sul tavolo il
cocktail ancora integro. — Ho parecchi secoli alle spalle, e ho dimenticato
tante cose, ma come ne ho dimenticate tante ne ricordo tante, nel bene e nel
male, e di certo ricordo cos’hai fatto tu. Avrò pure eretto una barriera di
ghiaccio, Camille, però sei stata tu a crearne le fondamenta.
—
Cos’ho fatto? Ti ho mentito, non ho fatto altro, e tu ti sei anche vendicato. —
Passò improvvisamente al tono “gattina-che-fa-le-fusa”. — Se provi ancora
rancore per questo vuol dire che tieni a me più di quanto vuoi ammettere.
Zio le sorrise malignamente. — Ne discorrerò a tempo debito con uno
psicologo.
—
Ne puoi discorrere con la diretta interessata — propose lei e incrociò lo
sguardo di zio Magnus con una strana scintilla negli occhi. — Ora che siamo
entrambi lucidi sarei davvero curiosa di apprendere perché te la sei presa
tanto. Mi conoscevi, sapevi che avevo sofferto e che ero diversa. Sapevi molte
cose di me, più di tutti gli altri. Tu mi conoscevi meglio di chiunque altro,
Magnus, di chiunque altro io abbia mai frequentato. Lo sai.
—
Non ne ho voglia, ti ringrazio — rifiutò zio con un sospiro di impazienza. — Ti
basti sapere che riponevo fiducia in te, Camille, una fiducia immensa, e
chiunque tradisca la mia fiducia è destinato a scontare una pena alquanto dura.
— Giusto per fare qualcosa assaggiò il drink, a cui però non era più
interessato. — Io invece sarei davvero curioso di apprendere perché in quella
lettera è comparso anche il nome di mia figlia.
— La stessa fiducia che io riponevo in te, ma
alla fine mi hai spezzato il cuore. Hai fatto quello che avevi promesso di non
fare mai — ribatté lei, ma era palese che la conversazione ormai non le
interessasse più. — Per quanto riguarda tua figlia volevo solo conoscerla.
Zio scoppiò a ridere sarcasticamente. — Ti credo nello stesso modo in
cui crederei a chi affermasse davanti al sottoscritto che la magia non esiste.
—
Se non vuoi credermi suppongo di non poterci fare nulla, caro. Hai dimostrato
chiaramente di non credere a nulla di ciò che dico.
—
Non mi hai dato motivo del contrario.
—
Oh, queste sono solo scuse. Qui non sono l’unica che ha tradito.
—
E l’abbiamo appurato in circa un miliardo di modi — sospirò zio, stufo. — Sono
stanco di ripetere sempre la stessa solfa. Arriviamo al punto e arrivederci e
grazie.
—
Temo tu ti stia sbagliando. Non abbiamo mai parlato di questo. Mi hai tradita,
ti ho tradito e l’argomento non è mai stato trattato — gli ricordò Camille,
rigirando il vino nel calice. — Il punto era mantenere la promessa che mi hai
fatto quando hai tentato di uccidermi. E avvisarti che... sospetto tu sappia
già cosa voglio dire. — Le sue labbra si piegarono in un sorriso compiaciuto.
Zio accavallò le gambe e fece una smorfia seccata. — Senti, Camille,
abbiamo un’eternità davanti e non comprendo per quale strana ragione tu abbia
voluto riscuotere il mio debito proprio adesso. Accusami pure di evitare
l’argomento “tradimento” ed annessi e connessi, perché in effetti è quello che
sto facendo e non lo nego. Ma il fatto è che insieme alla tua lettera ne è
arrivata un’altra dall’orfanotrofio dove Chrysta è stata accolta da bambina, ed
è una coincidenza piuttosto bizzarra per essere appunto una coincidenza,
soprattutto dal momento che tu hai chiesto di Chris. Entrambi vogliamo la
verità: tu su una questione, io su un’altra. Un tempo c’era fiducia reciproca
tra di noi. Ora è completamente svanita, e parlando sinceramente non so se
potremo – potrò – mai riconquistarla. Oggi abbiamo l’opportunità di compiere un
primo passo verso una riappacificazione o quantomeno una tregua, perché sì,
Camille, c’è stata una guerra fra noi e non puoi contraddirmi senza mentire a
me e anche a te stessa. Però ho bisogno che tu sia onesta. Sento che è in atto
una vendetta contro di me, e tu non ne sei l’unica artefice. Ho torto?
Camille ascoltò in silenzio, poi posò lentamente il calice sul tavolo e
congiunse le mani. — Non sarei mai artefice di una cosa simile, non nei tuoi
confronti. Ma non hai torto.
—
E allora chi è stato, Camille? — sussurrò zio, sporgendosi in avanti verso di
lei. — Chi vuole che io paghi per qualcosa che forse non ho mai fatto? Chi ha
avuto il coraggio di commettere un atto tanto ignobile come coinvolgerti in
questa situazione?
Camille
lo fissò attentamente, poi abbassò un attimo lo sguardo sulle sue dita. Tra i
suoi anelli ne spiccava uno con un grosso rubino incastonato tra dei viticci
argentati, ed era proprio quello l’oggetto delle sue attenzioni. Ricordavo
vagamente una storia raccontatami da zia Isabelle secondo cui il gioiello di
rubino che lei portava sempre al collo fosse, secoli fa, di Camille. — La
risposta è più facile di quel che pensi. Anzi, credo che tu già la conosca.
Lui espirò, abbattuto. — Asmodeo.
Il
sorriso di Camille era strano, sulle sue labbra. Quasi dispiaciuto. Bastò
quello per rispondergli.
Zio Alec, accanto a me, afferrò nuovamente l’arco e imprecò a denti
stretti. Chrysta iniziò a schioccare le dita riempiendo l’aria del profumo di
cannella, come faceva quando era nervosa.
Zio
Magnus chiuse gli occhi. — Lo sapevo. Lo sapevo, dannazione. Ha impiegato
diciassette anni, ma alla fine ci è riuscito. Ed è stato tanto astuto quanto
spregevole nel colpirmi indirettamente scegliendo mia figlia come bersaglio. —
Riaprì gli occhi e scrutò Camille con un cipiglio triste, quasi disperato. —
Perché hai deciso di aiutarlo? Hai detto che non saresti mai artefice di una
cosa del genere nei miei confronti. E stranamente ti credo. Quindi, perché?
—
Non è una mia decisione, agisco per
qualcuno di più potente di me.
—
E così... — Zio trattenne un moto di rabbia e si lasciò andare all’indietro, appoggiandosi
allo schienale del comodo divanetto. — E così tu saresti andata contro le tue
convinzioni per compiacere mio padre? Anch’io sono andato contro le mie
convinzioni, alla Morris-Jumel Mansion, ma almeno allora c’era in gioco la
salvezza del pianeta e non la felicità di un demone! — gridò, irato.
—
C’è in gioco la mia vita — replicò Camille senza batter ciglio. — Non ho avuto
scelta.
—
La tua... vita — sibilò lui. — La tua vita.
— Ridacchiò con un’espressione beffarda stampata sul viso. — Non hai mai
permesso a nessuno di avere diritti sulla tua vita, Camille. Tantomeno a chi ti
amava. — Tornò serio e le rivolse un’occhiata dura, severa, ferma. —
Confessalo. Sei più coinvolta di quanto vuoi ammettere. Anche tu vuoi prenderti
una rivincita su di me.
—
Per farlo mi basterebbe ammazzare chi ami in questo secolo, ma non ho fatto
nulla di simile se non sbaglio — ribatté la vampira, serafica. — Già una volta
ho permesso che comandassero la mia vita, ricordi? E quella volta ci hanno
rimesso la pelle i miei piccoli.
—
Motivo in più per far sì che non succeda di nuovo.
—
Se non lo aiuto mi ucciderà.
—
Glielo impedirò. Te lo prometto. Te lo giuro su Lilith. Ma ora aiuta me. Aiutami
a trovare la madre di Chrysta.
—
Se accetto, riuscirai davvero a proteggermi da tuo padre? Riuscirai a
impedirgli di uccidermi o di togliermi ciò che ho di più caro? — In un gesto
che sembrò del tutto inconsapevole, le sue dita scivolarono sulla superficie di
legno del tavolo fino a sfiorare quelle di zio Magnus. Inclinò leggermente la
testa; i boccoli biondi scesero dolcemente a incorniciarle il volto.
La vampira che fino a poco prima mi era sembrata una fiera leonessa ora
assomigliava a una gattina spaurita. E solo in quel momento mi resi conto di
quanto, un tempo, doveva aver amato zio Magnus.
—
Posso affidarti la mia vita?
—
Certamente. Ed io ti affiderò la mia e quella di mia figlia.
È nato! È nato! Finalmente dopo un lungo
travaglio è nato!
No ragazzi, non vi rendete conto di quanto
tempo e lavoro abbia richiesto questo capitolo.
Dalla presenza di Camille avrete capito –
immagino – che l’ho scritto in collaborazione con la FENOMENALE Althea
Matijacic, che tra l’altro mi ha anche detto che a breve mi manderà la nuova
copertina di LtP per Wattpad (*w*) e spero anche quella definitiva e il banner per questa storia.
Naturalmente ringrazio Althea per... tutto, tipo xD.
Qualche chicca a scopo informativo: il
Plunge è un bellissimo bar su terrazza di New York, proprio di fronte all’Empire
State Building, e l’ho scoperto cercando su Google “bar su terrazza” (LOL).
La
scelta dei drink è anch’essa opera di Althea, che ha subito puntato sul Dom Pérignon
per Camille e mi ha sciorinato una lista infinita di cocktail per Magnus per
poi dirmi “Oh, c’è l’Alexander!”
Scusate per l’immenso ritardo, ma in
questo periodo non ho proprio voglia di scrivere. Cioè, ho voglia di scrivere
ciò che succederà tra taaanto tempo, soprattutto un paio di capitoli (di uno
dei quali ho anche scelto il titolo, “La rupe”) che hanno bisogno di parecchia
concentrazione e molte correzioni. Oltretutto ho scoperto una nuova droga,
X-Files, e Mulder si arrabbia se non guardo almeno un episodio al giorno.
Non parlo della 01x12 di Shadowhunters
perché... ho già sclerato fin troppo.
Okay, VOTATE, COMMENTATE e a presto! (Si
spera...)
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Capitolo 5 *** Pánta rêi ***
4 Panta Rei
ΠΑΝΤΑ ΡΕΙ
«Nessuna cosa avviene per caso ma tutto secondo lógos e
necessità.»
[Leucippo, fr.2]
— Hai
fatto la più grande cazzata della tua vita, papà.
Chrysta era infuriata nera. In realtà, era già nera di norma. Quindi,
se possibile, lo era ancor di più.
Durante
il viaggio di ritorno in taxi dal Plunge
all’Istituto non aveva smesso di fissare fuori dal finestrino con aria contrita
borbottando chissà cosa e non rispondendo alle timide domande di rito che le
ponevano i genitori, imbarazzati.
Dal canto mio – e in questo ero d’accordo con Chrysta – pensavo che
l’incontro con Camille non avesse portato a nulla a parte la scoperta, comunque
non eccessivamente sbalorditiva, che fosse Asmodeo a muovere i fili. Tuttavia ero
del parere, al contrario di Chris, che a zio Magnus dovesse essere concessa un
po’ di tolleranza per il modo in cui si era comportato con la vampira.
Lei forse non comprendeva quanto un vecchio amore potesse influenzare
situazioni del genere. Io invece sì. E magari era per questo che non volevo
fare causa a Jean: in un modo o nell’altro sentivo di essere ancora legata a
lui attraverso uno strano, sottile e nascosto filo che nessuno dei due riusciva
a scoprire, e commettere un simile atto contro di lui sarebbe stato come
denunciare me stessa.
Così come valeva per me valeva anche per zio Magnus. Aveva deciso, oltre
ogni propria e altrui aspettativa, di dare un’ultima chance a Camille. A
tutt’oggi non posso negare che se Jean fosse venuto da me pentito, fintamente o
meno, come Camille, non gli avrei concesso un’altra possibilità.
Nel bene o nel male, Jean faceva parte del mio passato; Camille del
passato di zio Magnus. E sebbene entrambi fossimo persone proiettate nel futuro
non avremmo mai rinnegato quanto si trovava dietro le nostre spalle.
Conoscendola, sapevo che Chrysta avrebbe ragionato non appena si fosse
calmata, ma contenere la sua ira era pressoché impossibile, specialmente quando
si trattava della sua famiglia.
I
tempi erano cambiati e gli Shadowhunters non erano più gli stessi di una volta.
I matrimoni omosessuali erano stati legalizzati – in effetti non c’era una
legge che lo vietasse e non c’è tuttora – e le richieste di adozione di piccoli
Nascosti o Nephilim rimasti orfani aumentavano di anno in anno, nonostante non
fossero ancora viste di buon occhio dalla maggior parte degli abitanti di
Idris.
Chrysta si era semplicemente trovata dal lato opposto rispetto a quello
dove stazionava oziosamente buona parte del Sottomondo. Camminava contromano,
nell’altra direzione. E lo faceva sempre a testa alta, sempre con un fiero
sorriso stampato sul volto. Purtroppo nessuno lo apprezzava, nessuno gliene
dava atto.
Sin da quando ne ho memoria, sono state davvero poche le persone che si
sono avvicinate a Chris senza alcun pregiudizio. Era rispettata, certo; da
molti anche temuta. Ma si possono contare sulle dita di una mano coloro che,
oltre a noi familiari, si sono da subito fidate di lei non curandosi del fatto
che fosse cresciuta in un modo “diverso” dal loro.
Perciò, in qualsiasi caso in cui fossero tirati in causa i suoi
genitori, diventava una B.F., come mi
piaceva soprannominarla.
E
non significa Best Friend. Significa Belva Furiosa.
Un paio d’anni dopo quel giorno, zio Magnus mi rivelò che aveva
riflettuto se rinchiuderla o meno in un cerchio di contenimento per impedire
che se ne uscisse di nascosto e andasse a cercare Camille per infilarle un
paletto di frassino nel cuore – o in qualche altro posto. Fortunatamente Chris
ci risparmiò quest’ingrato compito.
Ma appena
arrivammo all’Istituto, lei esplose.
—
Peccato che non abbia il dono della lettura della mente, papà, perché vorrei
seriamente sapere cosa ti passa per quella cavolo di testa! Hai sostituito il
cervello con i glitter o cosa?
Zio Alec ed io le mettemmo una mano sulla spalla. — Chrysta, ascolta...
— iniziammo in coro, ma lei ci interruppe all’istante.
—
Ascolta un corno! — sbottò, poi schiaffeggiò via le nostre mani e puntò un dito
accusatorio verso zio Magnus. — Quelle
meravigliose, intense, passionali notti ottocentesche... andiamo, non ci
crederei nemmeno se lo vedessi di persona. Camille non è capace di amare, papà,
dovresti averlo capito. E tu ti illudi di averla amata solo per non ammettere a
te stesso che in tempo di burrasca ogni buco è porto.
A
quel punto non sapevo se ridere, piangere, correre a registrare il marchio per
farci i miliardi vendendo magliette, tazze e cover per cellulari o vomitare dal
disgusto.
Zio Alec scelse la quarta opzione. — Per l’Angelo, Chrysta! — gridò,
sbiancando. — Era proprio necessario?
—
Sì che lo era — ribatté lei, quasi ringhiando. — Ti do un consiglio: quando la
rivedremo – perché sì, dannazione, la rivedremo, certo che la rivedremo, e sta’
pur sicuro che se non mi dirà cosa voglio da lei le staccherò uno ad uno quei
bei ricciolini d’oro e mi ci farò un tappeto – ripensa a quelle meravigliose, intense, passionali notti del nuovo millennio
con papà Alec e lascia nell’Ottocento ciò che appartiene all’Ottocento.
Zio Alec arrossì violentemente. — Lorianne, per favore, aiutaci tu... —
supplicò in tono disperato.
—
Nemmeno per sogno! — me ne tirai fuori. — Ormai è partita per la tangenziale.
Se non si sfogasse sarebbe peggio.
—
Brava, Lori — mi ringraziò lei. — Almeno qualcuno qui mi comprende.
—
Non è vero, non ti comprendo — replicai. — Ti capisco, ma non ti comprendo.
Tre facce che formavano una strana scala cromatica, dal cioccolato
fondente di Chrysta al bianco porcellana di zio Alec, si voltarono verso di me
con un’aria più che stranita.
—
Okay, mi spiego meglio — sospirai. — Ti capisco perché riconosco che tu ti
senta tradita, offesa e messa da parte per dare la priorità ad una donna che
francamente non piace molto neanche a me, perciò è bene che ti scarichi un po’.
Non ti biasimo né ti rimprovero in alcun modo per questo, figurati, sono la
prima a proporre una bella scenata con tutti i santi crismi come principale metodo
di sollievo. Tuttavia non ti comprendo, in quanto i tuoi insulti contro tuo
padre sono dettati dalla rabbia e certamente non dalla parte più logica di te
alla quale avresti dovuto fare appello. Inoltre sono fermamente certa che in
altre situazioni non avresti detto parole tanto taglienti e maligne contro un
uomo che ha l’unico torto di essersi innamorato della persona sbagliata. Non ti
sto chiedendo di tenerti dentro ogni cosa e non liberarti di quanto è per te
ragione di sofferenza, solamente di smettere di inveire nei confronti dei tuoi
genitori. Sì, entrambi, Chris — aggiunsi quando quel poveretto di uno
Shadowhunter, sino ad allora estraneo al motivo della lite, mi rivolse uno
sguardo sorpreso. — So che rimproveri anche zio Alec per non aver interrotto o
addirittura messo fine alla discussione tra zio Magnus e Camille, pacificamente
o meno. So che avresti voluto che scoccasse una freccia dritta nel cuore della
vampira.
Colpita, Chrysta abbassò la testa e si rifugiò nell’abbraccio di zio
Magnus. — Perdonatemi — si scusò quindi, vicina alle lacrime. — Devo ancora
imparare a non cedere alla collera e tenere a bada il rancore. Suppongo mi
servirà saperlo fare, nei prossimi anni.
—
Nei prossimi secoli — la corresse con un fil di voce zio Magnus, chiaramente
cercando di non farsi sentire. — Quando ci saremo solo tu ed io. E forse
Camille.
—
Se non la uccido prima.
—
Se non la uccidi prima — ridacchiò cupamente zio Magnus, poi le diede un bacio
sulla fronte e la strinse un’ultima volta. — E adesso corri a farti una doccia,
sei zuppa.
Il
sostantivo “doccia” aveva per Chrysta il valore di “periodo di tempo
indefinito, variabile dai quindici ai quarantacinque minuti, dedicato per la
maggior parte del tempo a tentare invano di rendere idrofilo quel nido di
cicogne, di norma idrofobo, che mi ritrovo in testa”.
Come suo padre, non voleva sprecare magia per il suo aspetto fisico – i
fornitori di gel per capelli consideravano zio Magnus il loro miglior cliente
in assoluto – per cui la sua lotta contro quel cespuglio di rovi era combattuta
a colpi di shampoo, balsamo e litri e litri d’acqua. Avrebbe cambiato idea, in
seguito. Aveva perso la guerra già dall’inizio.
Tuttavia la meravigliosa chioma afroamericana stile anni ’80 aveva anche
risvolti positivi: donava qualche curva al suo corpo longilineo, quasi privo di
forme, inusuale per una donna delle sue origini, e soprattutto nascondeva le
vistose orecchie da pipistrello. Orecchie che odiava e al contempo ammirava, in
quanto simbolo della sua natura di Stregona.
Tra lei e il suo vero io c’era un rapporto di odi et amo. Detestava
essere sterile e immortale, ma adorava ciò che i suoi poteri le permettessero
di fare, dai più semplici trucchetti ai complessi e pericolosi incantesimi che
parecchie volte avevano ribaltato la situazione a suo e nostro favore.
Zio Magnus le aveva trasmesso tutto il suo bagaglio di conoscenze
acquisite nell’arco di più di mezzo millennio, oltre a consigliarle di cogliere
l’attimo ed amare la vita così com’è; zio Alec le aveva insegnato
l’importanza del rispetto, della lealtà e dell’onore.
Cresciuta da un lato come Stregona, dall’altro come Shadowhunter. Divisa
tra due mondi, tra due modi di vivere, eppure non se ne lamentava mai. Aveva
sempre il sorriso stampato sul volto, sempre gli occhi brillanti, contornati da
piccole rughe di espressione.
Vederla con il muso era un avvenimento epocale, e in pochi potevano
colpirla nel profondo facendola davvero star male. Sicuramente tra quei pochi
c’era anche Camille.
Finita la doccia, verso le otto di sera, mi raggiunse nella mia stanza
legandosi i capelli con una striscia di tessuto rosso a pois, molto pin-up. —
Zia Isabelle ha detto che fra tre quarti d’ora sarà pronta la cena — mi informò
sedendosi sul letto.
La ringraziai con un cenno del mento. — Passata la voglia omicida?
Storse la bocca in una smorfia. — Abbastanza, ma Camille avrà lo stesso
la sua dose di botte.
—
Chris, non è colpa sua — osservai. — L’ha detto, è stato Asmodeo a
costringerla.
— Ha colpa proprio per essersi lasciata
convincere da quel demone — ribatté lei. — Senza contare il fatto che cerchi
ancora di riprendersi papà Magnus usando tutti i mezzi a sua disposizione, che
forse è la cosa che mi dà più fastidio: la scollatura profondissima, la gonna
corta, i boccoli biondi, gli occhioni verdi... bah. — Schioccò la lingua in
segno di disapprovazione. — Non so cosa papà trovi di tanto interessante in lei.
— È molto bella — affermai, quasi invidiosa.
— E poi, tout le monde sur le balcon,
cara, non lo dimenticare.
— Oh, quanto odio quel detto! — replicò
Chris portandosi istintivamente una mano al petto. — Noi due siamo una più
piatta dell’altra e qualsiasi donna intorno a noi si sente in dovere di
sbatterci in faccia una terza o una quarta. Se solo la chirurgia non mi
terrorizzasse e non fossi immortale non ci penserei un attimo a rifarmi il
seno. E che cavolo!
— Magia no?
— Per Lilith, no! — negò immediatamente. —
Incantesimi del genere sono momentanei, non permanenti, e, se pur lo facessi, a
lungo andare mi indebolirebbe parecchio.
— E allora non c’è speranza per noi tavole
da surf — commentai in tono lagnoso. — La nostra unica spiaggia sono i push-up.
— Chiunque ci sia lassù, santificate chi ha
inventato i push-up, per favore — pregò Chris rivolta al soffitto.
Mi incupii all’istante. — Lassù c’è Raziel.
Chrysta allargò le braccia in un gesto esasperato,
facendo tintinnare i braccialetti che portava ai polsi. — E rieccola — sbuffò.
— Era strano che oggi non l’avessi ancora nominato. Dunque, vediamo, qual è il
tormento del giorno? Ti ricordo che qui la persona che ha un motivo per essere
demoralizzata, arrabbiata o quel che ti pare sarei io.
— Tormento standard — risposi piagnucolando.
— Alias Chiaroveggenza.
Chris si stiracchiò e accavallò le gambe. —
Quante visioni, finora?
— Quattro, da stamattina.
— Cos’hai visto? — mi chiese, come sempre
curiosa e un po’ spaventata nel domandarmi quale fosse l’oggetto delle mie
visioni.
— Una montagna molto, molto alta, quasi
completamente innevata. Un lama. Sì, un lama, Chrysta, non fare quella faccia —
aggiunsi prima che potesse scoppiare a ridere. — La terza è quella ricorrente,
quella in cui mi vedo accarezzare un lupo mannaro. E la quarta... la quarta
è... criptica. Pressoché incomprensibile.
— Dai dai, racconta — mi incalzò Chris,
eccitata.
— Non saprei raccontartelo — contestai, chiudendo
gli occhi per richiamare alla mente il ricordo. — Ho avvertito qualcosa di vivo
e non vivo allo stesso tempo. Una specie di incrocio tra un vampiro e un
fantasma, a livello percettivo. In qualche modo c’entrano anche le prime due
visioni, ma non ho idea del come e del perché. Infine è comparso un simbolo.
— Potresti disegnarlo? — Mi porse il tablet
che avevo lasciato sulla scrivania. — Potremmo mostrarlo a papà Magnus o a
Sikh.
Aprii il programma di disegno e selezionai
la matita. — Ci provo.
In alto tratteggiai appena una linea
ondulata orizzontale con sole due curve, di cui quella sinistra più arricciata
rispetto alla destra. Sotto di essa tracciai una lettera T con la barra
verticale arcuata verso sinistra, alla quale poi attaccai un ciuffetto dal lato
opposto. — Eccolo. Ti dice niente?
— No — negò lei. — Però, ricollegandoci alla
tua sensazione di vita-non vita, potrebbe essere un marchio o una parola di
potere per animare la materia inanimata. Ricordi la questione del golem di Praga,
un paio d’anni fa?
— Sì — affermai. — Durante una celebrazione nella
Sinagoga Vecchia-Nuova furono uccise due persone, e molti dei testimoni
identificarono l’assassino in una grossa figura antropomorfa. Gli Shadowhunters
del posto vennero chiamati a indagare ma senza risultati, così il caso passò al
Consiglio, che scelse di mandare mio padre. Buco nell’acqua anche per lui, che
però trovò in un libro il racconto di un golem costruito dal rabbino Judah Loew
e conservato nella soffitta della sinagoga, quindi una possibile convalida alla
teoria dei testimoni.
— Esattamente — confermò Chrysta. — Sono le
parole ad animare un golem, e se questo segno – che comunque non mi sembra
ebraico – fosse una parola potremmo avere a che fare, in futuro, con un’entità
abbastanza difficile da sconfiggere — concluse rattristandosi.
— Di’ la verità, speravi che avessi visto
come si evolverà la situazione di Camille e tua madre, vero? — la interrogai,
seppur conoscendo già la risposta.
— Sì — ammise. — Io... io veramente non so
come reagire a tutto questo, Lorianne — confessò cupa. — Ho avuto anch’io i
miei momenti di sconforto, durante i quali scoppiavo a piangere, urlavo e
lanciavo incantesimi a casaccio ripetendomi perché diavolo una donna dovrebbe
voler abbandonare il proprio figlio dopo averlo portato in grembo per nove mesi
e partorito con grida, sangue e dolore. Però poi vedevo i miei genitori
abbracciati sul divano e mi consolavo al pensiero che magari sto meglio dove e
come sto e ho fatto la felicità di due persone. Ora mi domando se avrei potuto
fare la felicità anche di una terza persona. — Tirò un respiro tremolante. — Ti
credo quando dici che il tuo sangue angelico ha più lati negativi che positivi,
ti ho sempre creduto, ma tu hai mai immaginato come sia avere sangue demoniaco?
Io volevo dei figli, Lori, figli miei, che non crescessero in una famiglia che
non è la loro, che non avessero genitori di cui ignorano l’esistenza,
soprattutto che non venissero lasciati dalla madre, la madre, la donna a cui erano letteralmente legati e continueranno ad
esserlo fino alla morte e anche oltre, in un orfanotrofio dopo poche ore dalla
nascita! — Iniziò a singhiozzare istericamente. — Se mi fossi trovata nei suoi
panni, nei panni di quella baldracca che mi ostino a chiamare mamma sebbene sia
tutto meno che quello, mai, mai mi sarei permessa di fare quanto ha fatto,
nemmeno se in mio figlio avessi riconosciuto l’Anticristo! Mi chiedono: perché
sei a favore dell’aborto? Be’, perché penso sia meglio non far mai venire al mondo
un bambino se poi non lo si desidera! Perché combatti per le adozioni da parte
di coppie omosessuali? Basta guardarmi, guardarmi dentro, e sforzarsi di
ascoltare la mia storia. Ero relegata in quella stanza dell’orfanotrofio da un
anno e nessuno tranne una dipendente aveva voluto adottarmi. Forse per il
colore della mia pelle, forse per queste orecchie da pipistrello che non sono
proprio il massimo dell’estetica. E sai cosa, Lorianne? Sono fermamente
convinta che se Raziel non avesse fatto incontrare la direttrice dell’orfanotrofio
e Catarina Loss io sarei ancora lì, disperata e sola. Chiamale coincidenze; io
le chiamo fato. E se il fato ha voluto che succedesse questo casino allora dovrà
pur significare qualcosa.
In quel momento mi si presentò una Chrysta
diversa, totalmente opposta alla ragazza di pietra che avevo imparato a
conoscere e che aveva imparato a conoscermi. Una Chrysta che per la prima volta
si metteva a nudo di fronte a chi per anni si era messa a nudo davanti a lei.
Una Chrysta che aveva bisogno di essere confortata invece che confortare. Una
Chrysta più umana.
— Chris, sono l’ultima persona che può darti
una risposta — sospirai abbracciandola stretta. — Io sto cercando la mia da più
di un decennio e non ne sono mai stata tanto lontana quanto lo sono adesso. E ti
risparmio il discorso sull’accettare il tuo destino perché sarei ipocrita. L’unica
strada è vedere come vanno le cose e comportarsi e decidere di conseguenza.
— Pánta rêi — sussurrò. —
Tutto scorre. Tutto è in mutamento. La dinamicità è vita, la staticità è morte.
Non puoi mai bagnarti due volte nello stesso fiume.
— Non potrà capitarti di nuovo un guaio del
genere, Chris — le mormorai all’orecchio. — È meglio affrontarlo e lasciarselo
definitivamente alle spalle.
— Potrebbe capitarmene uno peggiore, però —
bisbigliò lei di rimando. — Quel simbolo nella tua visione non me la conta
giusta.
— Hai ragione — concordai, — ma in ogni caso
non è detto che si presenti a breve. Parecchie mie visioni si sono avverate
dopo moltissimo tempo.
— Già — concluse Chrysta. — Be’, a questo
punto dobbiamo solo dormirci su con lo stomaco pieno. Ho una fame tale che
mangerei anche la tristemente famosa zuppa di zia Iz. Scendo, vieni anche tu?
— Tra un po’, concedimi qualche minuto.
Lei si congedò con un cenno della testa ed
uscì dalla stanza richiudendo la porta.
Afferrai subito il telefono, composi un numero
e restai in attesa.
— Spero tu abbia un buon motivo per
chiamarmi a quest’ora, Lorianne. Per tua fortuna sto facendo il turno di notte.
— Ciao, Cameron — esordii. — Scusami, mi ero
dimenticata del fuso orario.
— Scuse accettate. Colpa del jetlag —
replicò lui. — Allora, sbaglio a credere che la ragione di questa telefonata
sia quel cerchio rosso sul calendario? Lori, sia chiaro: se stai per dirmi ciò
che penso, corro immediatamente ad avvertire i tuoi genitori. E se è maschio
hai l’obbligo di dargli Cameron come secondo nome.
— No no, fortunatamente no — negai all’istante.
— Anzi, il contrario. È possibile che io abbia i dolori il giorno prima?
Insomma, la data prevista è domani e mi sto contorcendo già da un paio d’ore. Non
è mai arrivato in anticipo.
— Tesoro, prima di scegliere Medicina volevo
laurearmi in Matematica. Modestamente, i miei calcoli sono perfetti.
— Modestamente, dovresti ridimensionare il
tuo ego — sbottai. — Errare umanum est,
Cameron — lo canzonai sogghignando.
— Oh cara, ma io non sono umano — ribatté in
tono mellifluo. — Ed è grazie alla mia inumanità, il che fa molto Agents of
S.H.I.E.L.D., che ti comunico che sei incinta.
Mi irrigidii. Il cuore mi balzò in gola. —
Cameron, fai il serio.
— Lo sono.
— No, non lo sei.
— Invece sì. — Un rumore di sottofondo
disturbò la linea, poi comparve una nuova voce. — Non è vero, non lo è. Salve,
Miss Herondale.
— Salve, Mister Ryecatch — lo salutai. —
Cameron, lui sì che è un gentiluomo. Nathan, dimmi la verità.
— Certamente — assicurò lui. — Qui a Idris è
il 23 marzo, mentre a New York è ancora il 22. Sotto l’aspetto tecnico sei
puntuale come sempre, anche se a te non sembra.
— Prostrati ai miei piedi, donna di poca
fede! — Era Cameron. — E prendi quell’antidolorifico che ti ho consigliato,
oppure passerai una nottataccia. Ci sentiamo domani, okay?
— Okay. A domani, allora.
Terminata la telefonata, tirai un lungo sospiro di sollievo.
Quella fu l’unica volta in cui ringraziai tutti
gli Angeli del cielo, compreso Raziel, che mi fosse venuto il ciclo.
Ta daaa!
Aggiornamento a sorpresa post-attacco d’ispirazione dovuto a una sistemazione
dei mensili di Mistero, dove ho ritrovato quel marchio. L’ideale sarebbe stato
inserirlo nel testo, ma non mi piaceva l’effetto e così ve lo metto qui:
Se siete curiosi fate
la ricerca per immagini, tuttavia suppongo che se non conoscete la parola a cui
è associato non troverete molto.
A proposito, Althea non sa nulla dell’inserimento di
questo simbolo e del conseguente cambio di ruolo per Camille. Non ho ancora
preparato il discorso per spiegarglielo. Magari le mando l’articolo di Mistero.
Come titolo
abbiamo Πάντα ῥεῖ, una delle più famose massime greche. Grazie, prof Pacifico e
Greco Lingua e Civiltà Edizione Gialla.
Ricollegandoci
al
greco vi annuncio che ho scelto il titolo dello spin-off sulla storia
di
Lorianne e Jean: Γνῶϑι
Σαυτόν (ghnóti sautón,
“conosci te stesso”). Lo spin-off
su Nathan e Cameron invece, come vi annunciai tempo fa,
s’intitolerà Per ardua
ad Astra (“attraverso le difficoltà [arrivi] fino alle
stelle”).
E sì, guys, mi
sono anche dilettata nella creazione delle copertine, ovviamente molto fab.
E... niente.
VOTATE, COMMENTATE
e alla prossima!
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Capitolo 6 *** Sogni non interpretati ***
5 Sogni non interpretati
Sogni non interpretati
Un sogno che non viene interpretato è come una lettera che
non viene letta.
[Talmud]
Correva.
A
perdifiato, senza una meta, come se qualcuno lo stesse inseguendo.
Col
fiatone e la lingua penzoloni.
Alla sua sinistra, l’oceano si sollevava in alte onde schiumose,
minacciose, e gli spruzzava la pelliccia di acqua salata.
Alla sua destra, correvo io.
Avevo i capelli più corti, mi arrivavano fino alle spalle. Avevo messo
su qualche chilo o un po’ di massa muscolare. Cosa più strana, avevo la schiena
completamente scoperta, con la cicatrice in bella mostra, resa ancora più
bianca dalla luce argentea della luna piena.
Il lupo cambiò bruscamente direzione e si diresse lontano dalla
spiaggia, verso la città, inoltrandosi in un angusto vicolo completamente buio.
Poi, all’improvviso, guaì di dolore e si accasciò a terra, morto.
Per
la frustrazione tirai un pugno al cuscino.
Era la terza volta che facevo quel sogno, e per la terza volta mi ero
svegliata prima di scoprire chi fosse il mannaro, come fosse morto e perché
diavolo ci fossi anch’io.
Era lo stesso licantropo della mia visione ricorrente, ne ero certa. Ma
neanche la visione mi mostrava cos’avrei voluto sapere sul suo conto, né mi
suggeriva un modo per capirlo.
Quel lupo stava diventando ossessivo, opprimente, assillante. Compariva
dappertutto, in qualunque momento abbassassi le difese, e non raramente mi
sembrava di vederlo per strada o dietro l’angolo.
Ogni giorno mi chiedevo cosa potesse significare. A parte nonno Luke
nessun altro licantropo occupava un posto nella mia vita, e sinceramente non
comprendevo perché qualcuno che a quanto pareva avrei conosciuto in futuro
avrebbe dovuto occuparne uno tanto importante.
Se fosse stato solo un sogno l’avrei interpretato soggettivamente e non
oggettivamente, in quanto i miei sogni sono manipolazioni della realtà e non
rappresentazioni precise della stessa come invece sono le visioni.
Invece
il fatto che quel mannaro fosse presente anche in una visione, peraltro
ricorrente, mi dava l’assoluta sicurezza che prima o poi avrei avuto a che fare
con lui, e sarebbe stato un rapporto che mi avrebbe portato a provare affetto o
quantomeno un cieco rispetto nei suoi confronti.
Tuttavia, quel giorno aveva la precedenza un’altra questione.
La sera prima zio Magnus si era rifiutato di dare un’occhiata al simbolo
che avevo disegnato dicendo di avere già troppi pensieri nella testa, dunque
aveva rimandato alla mattina seguente.
Quindi
a colazione, quando tutti tranne lei eravamo ancora in pigiama e mezzi
assonnati, Chrysta gli ficcò in mano il tablet a forza dopo avergli riempito
fino all’orlo la tazza di caffè. — Forza, scava nella tua centenaria memoria e
illuminaci.
Zio abbassò pigramente lo sguardo sul disegno. — Non è ebraico, questo è
certo — affermò sbadigliando. — Non è nemmeno giapponese, cinese o coreano, ma
la zona di provenienza è comunque l’Asia. Escluderei Thailandia, Birmania,
Indonesia e Filippine, e punterei sul Nepal o sul Tibet. Lì il misticismo è
molto diffuso e praticato, e questo simbolo mi dà una sensazione, non so...
mistica.
—
Meraviglioso, ci sei stato molto d’aiuto! — commentò Chrysta, il tono tagliente
come una lama appena affilata.
—
Chris — la rimproverò zio Alec meccanicamente. — Però, Magnus, potresti
impegnarti di più.
—
Ma non a quest’ora! — protestò il diretto interessato sbattendo la tazza sul
tavolo e versando gocce di caffè dappertutto. — Non quando i miei capelli hanno
ancora la forma del cuscino. — Li indicò. — Non riesco a ragionare se ho i
capelli in disordine.
—
Tu li hai sempre in disordine —
sbuffò Chrysta, scocciata.
—
Non è vero. Io li ho sempre disordinatamente pettinati.
Afferrai Chrysta per un braccio prima che potesse trasformare il caffè
di suo padre in qualcosa di ben più disgustoso. — Chris, smettila. Zio, smettila
pure tu.
—
Cosa sto facendo di sbagliato, di grazia? — scattò lui. — Non so cosa
significhi quel simbolo. Ecco, l’ho ammesso. Cercavate questo, ragazze? Vi ho
servite. Non lo so.
Zio Alec brontolò qualcosa a mezza bocca. — E poi mi rimproveravi per
aver desiderato di uccidere Camille.
—
Non ti rimproveravo per quello, io...
Me ne scappai trascinandomi dietro Chrysta per non assistere un momento
di più a ciò che si prospettava diventare uno dei tanti litigi già accorsi in
tale sede e su tale argomento tra gli zii Alec e Magnus. Per le scale si
sentivano ancora le loro voci, intervallate da zio Simon che, in qualità di
psicologo di coppia, interveniva per sedare gli animi.
Spinsi Chris in biblioteca e le dissi di cominciare a rintracciare
qualche testo sul Nepal, che tra i due paesi mi ispirava di più, poi mi fiondai
in camera mia per lavarmi e togliermi di dosso il pigiama.
Mentre stazionavo davanti all’armadio in attesa che i vestiti da
indossare saltassero fuori da soli senza che dovessi sprecare tempo e fatica
per cercarli, mi capitò di spostare lo sguardo sullo specchio affisso ad una
delle ante.
Tra la clavicola sinistra e il collo avevo un livido violaceo dal
diametro di quasi quattro centimetri, come se qualcuno mi avesse sbaciucchiato
un po’ troppo. Cosa che, per inciso, non accadeva da quattro mesi e passa.
—
E questo cosa diavolo sarebbe? — imprecai a denti stretti.
Ero sicura che prima non ci fosse. Naturalmente anche in bagno c’era uno
specchio, ma il riflesso non mi aveva rimandato l’immagine che guardavo ora.
Era apparso così, di punto in bianco.
Mi passarono per la mente decine di nomi di orribili patologie che
potevano provocare la comparsa improvvisa di ematomi, ma sapevo che una
malattia non poteva esserne la causa. Sangue angelico uguale immunità.
Per cui non mi prodigai più di tanto a tentare di scoprire quale fosse
l’origine di quello strano livido e, dopo aver indossato a casaccio un paio di
pantaloni della tuta e una maglietta con lo scollo abbastanza alto, tornai
nella biblioteca.
Trovai Chrysta seduta su un tavolo con un grosso tomo polveroso in mano.
— Niente di nuovo sul fronte occidentale. Anzi: orientale — commentò girando la
pagina. — Questo coso parla solo di meditazione, viaggi astrali e sogni lucidi.
Aggrottai le sopracciglia e mi sedetti accanto a lei. — Sogni lucidi?
—
Hai presente quando sai di star sognando?
—
No.
—
Fingi di saperlo — borbottò per tutta risposta. — Comunque, i sogni lucidi
possono essere controllati. Puoi decidere cosa farne e come svilupparli. Puoi
creare la tua storia personale. Dalì e Magritte affermavano di trarre
l’ispirazione per i loro quadri proprio dai sogni lucidi. A me capita
abbastanza spesso. — Sospirò. — E la maggior parte delle volte va a finire con
la sottoscritta che pomicia in pubblico con quel gran pezzo di ragazzo di
Daniel Cartwright.
—
Dio mio, dichiarati! — sbuffai, ormai stanca di sentire Chrysta che
fantasticava sulla sua cotta irraggiungibile.
Anni
prima era stata lei a dispensarmi consigli amorosi – ben lungi dall’essere
produttivi, ma comunque dati in buona fede – e ora quel ruolo spettava a me. E
allo stesso tempo mi stavo anche prendendo la mia vendetta: Chris mi aveva
assillata per mesi pretendendo che facessi il primo passo, e non avevo la
minima intenzione di lasciare impunita la sua ostinazione.
Qui gladio ferit, gladio perit.
—
Non sei nella posizione per dirmi cosa fare in amore, Lorianne — cantilenò con
un sorriso palesemente falso stampato in viso. — Inoltre, ho altre priorità. Abbiamo altre priorità.
Guardai sconsolata le file e file di scaffali zeppi di volumi. —
Nonostante sia stata mia l’idea di provare con una ricerca tradizionale in
biblioteca non credo che restarcene chiuse qui dentro possa servire a qualcosa
che non sia riempirci i polmoni di polvere. Tuttavia, dove altro potremmo
andare? Cos’altro potremmo fare?
Chris si strinse nelle spalle. — Shopping? Trish mi ha detto... — Si
bloccò di colpo. — Lori.
—
Sì?
—
Ce l’hai anche tu. — Si alzò la manica e mi mostrò il braccio, dove spiccava un
ematoma identico al mio. — L’ho notato poco fa. Giuro su Lilith che ieri non
c’era.
Sbalordita feci per replicare, ma una voce m’interruppe: — Oh, allora
siete qui.
Zio Alec attraversò velocemente la stanza e si fermò di fronte a noi. —
Posso darvi una mano?
Chrysta balzò giù dal tavolo. — Papà. Stai immobile.
—
Chris, ma cosa...
Lei gli mise due dita sotto il mento e gli sollevò la testa. — Lori.
—
Lo vedo.
Pur nascosto da un velo di barba, un terzo livido campeggiava sulla
mandibola di zio Alec.
—
Qualcuno ti ha tirato un pugno di recente, papà?
—
No, perché?
Gli illustrammo in poche parole la situazione. Non ci aspettavamo che
rispondesse, ma invece ci colse di sorpresa: — Magnus ne ha uno uguale.
Ci fissammo negli occhi per un breve momento, poi sfrecciammo giù per le
scale fino alla camera degli zii, dove trovammo zio Magnus davanti allo specchio
intento a sistemarsi la chioma. A suon di grida e qualche ignota promessa di
altrettanto ignota natura sussurratagli all’orecchio da zio Alec, lo
convincemmo a togliersi la maglietta.
—
Lo so. È orribile. — Abbassò lo sguardo sulla grossa macchia viola che gli
copriva lo sterno. — E dire che volevo presentarmi ai casting per la prossima
campagna pubblicitaria di Dolce&Gabbana
Underwear.
—
Stanotte si agitava. Avrà avuto un incubo, forse. Ho immaginato si fosse
colpito durante il sonno — spiegò zio Alec. — Malgrado, in verità, neanch’io lo
credessi. E alla luce di ciò, la mia teoria va comunque in fumo.
Zio Magnus fece subito due più due. Batté le mani ed esclamò: — Signori,
vi annuncio che portiamo il marchio dell’incorporeo.
—
Il cosa? — chiesi confusa.
—
Un segno lasciato da un’entità non fisica — chiarì Chrysta. — Ma non capisco
perché ce l’abbiamo solo noi. Insomma, nell’Istituto siamo gli unici ad averlo,
a meno che non sia stata io a non farci caso.
—
Ed è impossibile che la causa sia a Idris o in un altro posto di New York, dato
che siamo arrivati tre giorni fa e non ci siamo mossi da qui — aggiunsi, ancora
più disorientata di prima.
—
Quindi qual è il luogo incriminato? — domandò zio Alec, per poi illuminarsi in
volto e battersi una mano sulla fronte. — Oh. Giusto. Il...
—
Plunge — concluse zio Magnus, trionfante. — Dove, per pura coincidenza, c’era
anche Camille.
—
Dunque è Camille la fonte del problema — dedusse Chrysta, ostentando
un’espressione da “ho-sempre-ragione”.
Zio Magnus si passò le dita fra i capelli e tirò un lungo sospiro
esasperato. — Chris, stai facendo di Camille il capro espiatorio di tutti i
mali dell’umanità.
—
Be’, perché forse lo è!
Zio Alec picchiò forte il pugno sul comò, facendoci trasalire. — Per
l’Angelo, Chrysta! Quella donna non piace neppure a me, ma adesso stai
esagerando! Dannazione, pensavo di averti insegnato a ragionare con fredda
logica e moderazione, non di saltare a conclusioni sbagliate come una rana
salta tra una pozza d’acqua e un’altra!
Era raro, molto raro che zio Alec si abbandonasse all’ira, ma quando
accadeva era per un ottimo motivo. Infuriato, faceva davvero paura. Riusciva a
farti pentire delle tue azioni con parole mirate che avrebbero colpito al cuore
chiunque. Cosa più ammirevole, riusciva a rimanere perfettamente e
spaventosamente lucido anche in preda alla collera.
Su Chrysta, poi, l’effetto era triplicato.
Si afflosciò come una pera secca e si sedette sul bordo del letto. —
Bene, allora. Ragioniamo con fredda
logica e moderazione. — Non aveva perso la vena sarcastica, ma aveva
chiaramente deciso di lasciare la vampira fuori dalla conversazione, quantomeno
per non beccarsi un’altra ramanzina.
—
Il marchio dell’incorporeo... — commentai. — Cosa lo provoca?
—
I non vivi — rispose zio Magnus rimettendosi la maglietta. — Non vampiri, non
demoni, ma esseri animati esclusivamente dalla magia o dal pensiero.
—
Oppure esseri animati da parole di potere. Come i golem — mormorò Chrysta. —
Quel simbolo è una parola di potere, come ipotizzavo ieri.
—
Il problema è scoprirne il significato — ribatté zio Alec poggiando una mano
sulla spalla della figlia, che si rilassò sotto il suo tocco.
—
Ma, ora come ora, credo nessuno abbia voglia di dedicarsi allo studio minuzioso
dei grimori e dei sillabari magici — replicò zio Magnus con un sonoro
sbadiglio. — Io in primis. Ho dormito male e così anche Alec, e voi, ragazze,
non sembrate molto riposate.
Rifiutai
di precisare quanto per l’esattezza avessi veramente dormito, senza sognare di
correre accanto a un lupo sconosciuto o essere tormentata da Raziel, e preferii
mettere su una smorfia da “con me sfondi una porta aperta”.
Poi all’improvviso ricordai l’allusione di zio Alec alla possibilità che
zio Magnus avesse avuto un incubo, quella notte, e iniziai ad avvertire una
strana sensazione. Una vocina mi diceva che tra le mie visioni del giorno
precedente e il suo sogno c’era qualche analogia.
—
Zio, cos’hai sognato? — gli chiesi in tono innocente.
Lui mi guardò socchiudendo gli occhi prima di rispondere: — L’Everest.
Uno di quei monaci buddhisti, i lama tantrici. E qualcos’altro che mi ha
terrorizzato. Non so cosa.
Una montagna molto, molto alta, quasi
completamente innevata. Un lama.
—
Zio...
—
Sì?
—
Credo di aver visto l’Everest, ieri — bisbigliai. — E anche un lama. L’animale,
però... non il monaco.
Chrysta stroncò sul nascere un intervento di zio Alec balzando in piedi.
— In biblioteca leggevo un testo sul Nepal. Ma l’Everest si trova in Tibet.
—
In realtà potrebbe non essere l’Everest — obiettò zio Magnus. — Potrebbe essere
una montagna qualsiasi dell’Himalaya, e l’Himalaya arriva anche in Nepal.
—
Ma in quel libro non ho trovato nulla che riconducesse al simbolo disegnato da
Lori.
—
Ergo, chiediamo a lei — concluse zio Alec. — Lori, tu che ne dici?
Era troppo tardi. La visione mi aveva già travolta.
Quel
lupo.
Di nuovo.
Stavolta però il posto era diverso. Non ci trovavamo in spiaggia, né in
un vicolo sperduto o in un altro luogo che non conoscevo, ma nella biblioteca
dell’Istituto.
Nello sguardo del lupo leggevo umana intelligenza e sovrumana astuzia.
Le pupille nere brillavano alla luce di un candelabro sul cui braccio centrale
bruciava una fiamma senza candela.
Il licantropo si voltò con grazia e mi condusse verso uno scaffale.
Diede un colpetto col muso ad una mensola, facendo cadere un libricino che mi
affrettai a raccogliere.
La copertina era completamente blu, fatta eccezione per un rettangolo
più chiaro al centro. Non c’era titolo né nome dell’autore, solamente uno
scarabocchio nell’angolo in alto a destra. Passandoci le dita sopra, scoprii
che le linee non erano state tracciate casualmente ma secondo un certo ordine.
Misi quindi il libro in controluce e non restai molto sorpresa nel riconoscere nello
scarabocchio quell’ignoto simbolo.
Il lupo sbuffò di disapprovazione e pestò una zampa a terra. Ovviamente
non parlavo il lupese, così mi inginocchiai e tentai di approcciarmi a lui come
a casa facevo con Cash prima e Freya poi. Allungai la mano e, esitante, gli
accarezzai la testa. Sembrò apprezzare.
—
Cosa c’è? — sussurrai. — Dimmi, cosa c’è?
Mi fissò con aria di rimprovero. Non capivo come un lupo potesse
assumere un’aria di rimprovero né come io potessi pensare una cosa tanto
assurda, ma in fondo le assurdità per me erano all’ordine del giorno.
All’improvviso il mannaro guaì e indietreggiò con la coda e le orecchie
basse. Poi, di colpo, girò sui tacchi e scappò via come se fosse inseguito da
un accalappiacani.
Alzai gli occhi e mi ritrovai Camille davanti. La vampira sfoderò un
sorriso di ghiaccio, afferrò il libro che per il momento avevo poggiato a terra
e molto deliberatamente strappò la prima pagina, sempre ghignando come se ne
sapesse una più del diavolo. Mi agitò il foglio stropicciato a un centimetro
dal naso, impedendomi di metterlo a fuoco. Quando ci riuscii, notai che vi era
stampata la bandiera francese.
—
Amour sacré de la Patrie, conduis, soutiens nos bras vengeurs! Liberté, Liberté
chérie, combats avec tes défenseurs!
Camille cantò l’inizio dell’ultima strofa della Marsigliese. Conoscevo
solo la prima strofa e il ritornello, ma ormai parlavo fluentemente il francese
e mi fu facile tradurre.
Amore sacro per la Patria, conduci, sostieni
le nostre braccia vendicatrici! Libertà, cara Libertà, combatti con i tuoi
difensori!
E
tutto svanì nell’oscurità.
Rinvenni
scattando a sedere. Per poco non tirai una testata a zio Alec, che si era
chinato su di me. — Raziel! — imprecò, così mi affrettai a scusarmi con un
debole: — Ops. Riflesso condizionato.
—
Arriverà il tempo in cui non reggerò più i tuoi svenimenti fulminei, Lorianne —
commentò Chrysta, pungente. — E sarò la prima Stregona a morire di infarto.
—
Per l’Angelo, Chris! Sei davvero molto d’aiuto! — la riprese zio Alec. — Lori,
forza, dicci cos’hai visto — aggiunse poi addolcendo il tono.
Raccontai loro la visione. Zio Alec e Chrysta mi interruppero spesso per
farmi delle domande, soprattutto riguardo Camille e il libro senza titolo; zio
Magnus al contrario rimase in religioso silenzio, appoggiato alla parete con
caviglie e braccia incrociate, fissando il vuoto.
Parlò solo quand’ebbi concluso da più di due minuti: — Da quanto tempo
hai questo tipo di visioni, Lorianne?
—
In che senso? Non capisco.
—
Lori, fino a prova contraria tu vedi il futuro
— chiarì. — Sinceramente a me pare alquanto improbabile che nel futuro Camille
riuscirà a calpestare il suolo consacrato dell’Istituto, andrà nella
biblioteca, strapperà la prima pagina di un libro sulla quale è disegnata la
bandiera francese e si metterà a cantare la Marsigliese. Senza contare il lupo.
In effetti non ci avevo fatto caso.
Ripensandoci, anche le due visioni
del giorno prima – l’Everest e il lama – erano
strane, in particolare perché
non avevo alcuna intenzione né di scalare il tetto del mondo
né di farmi un
viaggetto nel Sudamerica per farmi sputare in faccia da un lama. Mi era
bastato incontrare un lama imbalsamato in un diorama del Museo
Americano di Storia
Naturale e ascoltare la brutta esperienza di una mia compagna di classe
per
decidere di non aver mai niente a che fare con quell’animale.
Pertanto era
quasi impossibile che presto o tardi vivessi quelle esperienze invece
che
vederle.
Più che visioni sembravano sogni: la realtà si manifestava, alterata,
sotto forma di eventi difficilmente verificabili o circostanze pressoché
irrealizzabili.
Come se non avessi avuto già abbastanza tormenti per la testa.
—
Non so, zio — gli risposi dopo aver riflettuto per un po’. — Sempre meglio questo
che vedere il futuro, comunque. Almeno non ho la certezza che ciò che ho visto
succederà inevitabilmente.
Zio si grattò il mento, pensieroso. — Il tuo potere si sta... evolvendo —
disse spostando lo sguardo su di me. — Andando avanti così potresti arrivare a
controllarlo del tutto. Potresti... slittare consapevolmente.
—
Ci ho provato — confessai sussurrando. — A slittare di proposito. Non è stato
facile, e nemmeno bello. E mi ha stancata ancor di più delle normali visioni.
Non lo farò, zio. Non lo asseconderò neanche per tutto l’oro del mondo.
Assecondarlo avrebbe significato dare a Raziel ciò che desiderava.
Renderlo felice per la mia sofferenza.
Assecondarlo avrebbe potuto portarmi a prevedere avvenimenti disastrosi
e catastrofici. Il che non sarebbe stato affatto un male, se avessi potuto
cambiare il corso del destino e scrivere il futuro come volevo.
Il vero motivo per cui odiavo tanto la Chiaroveggenza era la possibilità
che un giorno o l’altro l’oggetto delle mie visioni sarebbe potuta essere la
morte di qualcuno a me caro. La mia
morte.
Con lo scorrere del tempo mi avvicinavo sempre di più a quel momento.
Era certo che accadesse. O almeno, ne ero più che convinta.
—
... a cercare quel libro — concluse la voce di zio Alec.
Scossi la testa per riprendermi. — Cosa?
—
Torniamo in biblioteca.
La
ricerca del libro non fu molto semplice.
Nonostante avessimo ristretto il campo alla sezione nuova della
biblioteca – il libro infatti sembrava essere abbastanza recente e non era
rilegato in cuoio o velluto come i volumi più antichi – c’erano comunque parecchi
scaffali da esaminare.
Ironia della sorte, un’intera collezione di saggi sull’Estremo Oriente
aveva la copertina blu.
Prendemmo una pausa di un’oretta per pranzare, poi ci rimettemmo all’opera.
Quasi metà dell’Istituto disse di voler collaborare alle indagini, ma
rifiutammo: avrebbero solo peggiorato le cose. Soprattutto perché pareva che
volessero farsi gli affaracci nostri.
Verso
le tre Chrysta, malgrado fosse la più coinvolta nella situazione, annunciò che
ne aveva abbastanza e si ritirò in palestra per sfogarsi un po’. Qualche minuto
dopo Sikh mandò a chiamare zio Alec perché tenesse una lezione di tiro con l’arco
in Armeria, così anche lui ci abbandonò.
Zio Magnus dava a vedere di essere ancora interessato, ma sapevo che avrebbe
voluto rinunciare. Tuttavia si costringeva a restare, forse per non lasciarmi
sola.
Quando persino io ero sul punto di esclamare un’imprecazione e
andarmene, zio Magnus, voltandosi, provocò uno spostamento d’aria e fece cadere
tra le mie mani una pagina strappata e ingiallita.
«Avevo ascoltato racconti di
materializzazione e mi chiedevo se fossero pure immaginazioni. Incredula
com’ero, volli fare io stessa l’esperienza, e per non farmi influenzare dalle
forme impressionanti delle deità tibetane decisi di scegliere un personaggio
insignificante: immaginai un lama bassotto e corpulento, un tipo innocente e
gioviale. Dopo qualche mese l’ometto era formato. Egli a poco a poco si “fissò”
e divenne per me una specie di ospite permanente. Non aspettava, per apparire,
che io pensassi a lui, ma si mostrava anche nel momento in cui io avevo la
mente rivolta a tutt’altre cose. L’illusione era soprattutto visiva ma mi
accadde, più di una volta, di sentirmi come sfiorata dalla stoffa di un abito e
di sentire la pressione di una mano posata sulla mia spalla. In quei momenti
non ero in un ritiro o in meditazione: godevo come d’ordinario di eccellente
salute fisica e psichica. Gradualmente, però, nel mio lama si andò operando un
cambiamento. L’aspetto che io gli avevo dato si modificò, la sua complessione
si fece più minuta e l’uomo prese un’espressione vagamente scanzonata e
cattiva. Divenne inopportuno. In breve, sfuggiva al mio controllo. Un giorno fu
un pastore a vedere il fantasma creato da me, e lo scambiò per un lama in carne
e ossa. Quel fatto mi spaventò: significava che anche altri riuscivano a vedere
la mia creazione. Avrei forse dovuto lasciare che il fenomeno seguisse il suo
corso, ma la presenza indesiderata del lama mi innervosiva e si andava
trasformando in un incubo. Mi decisi perciò a dissipare l’allucinazione della
quale non ero completamente padrona. Ci riuscii, ma dopo sei mesi di sforzi...»
Zio
Magnus, quand’ebbi finito di leggerla ad alta voce, sussurrò le stesse parole
scritte a matita nell’angolo in alto a destra della pagina.
—
Alexandra David-Néel. Mistici e maghi del Tibet.
MA BUONSALVE.
Ritorno sulle scene con il nuovo capitolo
dopo un mese e una settimana, gente. Ho quasi superato il mio record *si
asciuga una lacrimuccia di commozione*
Bene, non so se essere felice o triste per
questo testo. Non so se mi piace o no. Ci sono parti fighe, parti noiose, parti
scritte bene e parti scritte male.
La cosa che mi piace di più è il
riferimento – anzi, i riferimenti – al lupo. Comparirà fisicamente, però molto
ma molto più avanti, quindi non esaltatevi.
L’idea di base era diversa e comprendeva
un’altra collaborazione con Althea – che sa solo sommariamente quali sono le
mie intenzioni – ma ho deciso di spostarla al prossimo capitolo, mi serve più
tempo.
Non ammazzatemi per il ritardo.
VOTATE, COMMENTATE e a risentirci il più
presto possibile, guys!
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Capitolo 7 *** Errori dello spirito ***
6 Errori dello spirito
Errori dello spirito
Non è la
materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia.
[Giordano Bruno]
Mistici e maghi del Tibet era un libraccio
dalle pagine ingiallite e segnate da decine di orecchie alle estremità. Molte di esse,
tra cui quella che avevo in mano, erano strappate o penzolavano dalla
rilegatura appese ad un unico lembo di carta sfilacciata.
Zio
Magnus lo trovò grazie ad un incantesimo di localizzazione dietro ad una
collana di classici dell’avventura, nella sezione sbagliata della biblioteca e
messo di traverso sulla mensola. Perché fosse in quelle condizioni era
inspiegabile, data la – forse eccessiva – severità con cui Lee, il responsabile
della biblioteca, gestiva le entrate e le uscite dei libri, ma demmo la colpa al
destino e non ci pensammo più di tanto. In fondo, era ancora leggibile e quello
era l’importante.
Prendemmo posto ad uno dei tavoli. Zio aprì il libro e cominciò a
leggere ad alta voce.
La David-Néel descriveva il suo viaggio verso Lhasa, la capitale del
Tibet, i suoi incontri con la gente del posto e soprattutto ciò che aveva
imparato dai monaci buddhisti. Mi colpì in particolare il suo racconto riguardo
la pratica del Tummò, un esercizio di Hatha Yoga grazie al quale Alexandra fu
in grado di sedersi nuda nelle nevi dell’Himalaya senza alcun problema.
—
Be’, potrei farlo anch’io — commentò zio Magnus. — Ho i miei metodi. Ma non è
ciò che ci interessa.
Schioccò pigramente le dita. La pagina che avevo poggiato sul tavolo si
alzò in volo e si riattaccò al libro, dopodiché un foglietto di carta sul quale
qualcuno aveva scribacchiato qualcosa scivolò fra le mani di zio Magnus. —
Mmm... interessante. Questo non era previsto.
Mi sporsi verso di lui. — Cosa c’è scritto? — gli domandai, curiosa.
Zio abbassò gli occhi sul foglio. Osservai la sua espressione cambiare
da sorpresa a rassegnata. — C’è scritto eggregora.
—
Traduzione?
—
L’eggregora è un’entità incorporea creata attraverso speciali tecniche di
meditazione. In questo caso, si tratta di un tulpa. Il simbolo che hai
disegnato — rialzò lo sguardo, — è il simbolo del tulpa. Avrei dovuto capirlo
prima, ma non vado in Oriente da molti anni, ormai. Mi sono...
occidentalizzato.
—
Fermo restando che non ho la minima idea di cosa sia un tulpa — replicai, — Alexandra
David-Néel parlava di uno di questi?
—
Esattamente. E noi siamo entrati a contatto con un tulpa al Plunge, ieri. Dio,
che ignobile... Sta fingendo, fingendo tutto... — sussurrò scuotendo il capo. —
Nulla è reale.
—
Non capisco — ribattei. — Cosa stai blaterando, zio? Cosa non è reale?
—
La madre di Chrysta. E forse Camille. No, Camille non potrebbe essere... no,
lei no.
A
quel punto pensai che su Mistici e maghi
del Tibet dovesse esserci un qualche tipo di maledizione o una droga
invisibile, perché zio era andato completamente fuori di testa. Balbettava,
farfugliava frasi senza senso e continuava a ripetere “È un’illusione”.
Decisi di reagire. L’unico metodo possibile per far riprendere zio era
una ricalibrazione cognitiva. In altre parole, una bella botta sul cranio.
Gli assestai una gomitata all’altezza delle prime vertebre cervicali. Purtroppo
per me avevo mirato fin troppo bene, così mi beccai una fitta lungo tutto il
braccio che mi lasciò le dita formicolanti e un dolore pulsante all’altezza del
nervo radiale. Imprecai e zio mi imitò: — Ahia! Lorianne, si può sapere cosa
diavolo ti è passato per l’anticamera del cervello?
Strinsi i denti e mi tenni il gomito martellante con l’altra mano. — No,
cosa diavolo è passato nella tua, di
anticamera! Mi illumini, per favore?
—
Okay, okay, dammi un secondo. — Si passò le mani fra i capelli e prese un
respiro profondo prima di cominciare: — Tulpa
in tibetano significa “costruire, creare”. Chiunque è in grado di realizzarne
uno, ma necessita di una grande concentrazione e di singolari tecniche
meditative che possono essere apprese solo con l’aiuto dei grandi lama
tantrici. Oltretutto non si può fare in poco tempo: la David-Néel infatti dice
di aver impiegato dei mesi per formare il suo monaco fantasma.
—
Continuo a non capire — brontolai, confusa. — Perché hai nominato Camille e
cosa c’entra un tulpa in tutta questa storia?
Zio mi fissò con i suoi occhi da gatto. — Riflettici, Lorianne: dove
potrebbe essere la madre di Chrysta ora che è libera?
— Non so... in un appartamento di Camille,
magari.
—
Giustamente. Ma se in quell’appartamento ci fosse qualcosa che simula di essere lei? Se la vera lei
fosse ancora in manicomio?
Mi lasciai ricadere sulla sedia a peso morto. Avevo la bocca spalancata
per la sorpresa. — E così Camille avrebbe creato un tulpa per mettere in scena
questa farsa?
—
Già — confermò zio arricciando le labbra in una smorfia. — A quanto pare al
Plunge ieri c’era anche il tulpa. Probabilmente, se la situazione avesse avuto
un esito diverso, Chrysta avrebbe potuto persino parlargli. O parlarle...
insomma, hai capito. È impressionante quanto sia simile ad un umano, quando è
fatto come si deve.
—
Ergo, morale della favola?
—
Morale della favola... — Zio si alzò in piedi. — Diciamo tutto a tutti e
convochiamo Camille.
Chrysta
entrò a passi larghi e veloci. La folta chioma era legata in una coda alta e
indosso non aveva che una salopette di jeans larga e una maglietta di cotone
leggero, ma stava sudando. Non avrebbe dovuto mostrarsi così: la vampira
avrebbe sentito il suo odore ancor prima di percepire la paura che le sfrecciava
silenziosa sotto la pelle. Dietro di lei, richiusi la pesante porta del
Santuario.
—
Qui si tratta di una donna, e tra donne parleremo. Buonasera, Camille.
—
Buonasera, ragazze. — Ci salutò educatamente con un cenno della mano,
sfoggiando un ampio sorriso da Stregatto che le arrivava da orecchio a
orecchio. Quel sorriso però nascondeva qualcos’altro. Sorpresa, forse. — Ma
certo, accomodatevi.
Zio Magnus aveva fatto in modo che nel Santuario venissero portati un modesto
divano, due piccole poltrone e un tavolino. Camille era seduta – forse sarebbe
meglio dire sdraiata – sul divano, le
gambe molto deliberatamente poggiate sui cuscini. I tacchi alti scavavano due
buchetti nel bracciolo.
Chrysta prese posto sulla poltrona più lontana da lei; io invece
preferii tenermela vicina.
—
Chrysta, quale piacere! — esclamò Camille, gli occhi verde smeraldo puntati nei
suoi.
Non aveva sbagliato il suo nome, stavolta. Voleva accattivarsela.
—
Non posso dire altrettanto — replicò lei, sostenendo a fatica il peso dello
sguardo indagatore della vampira. —
Vedi, hai quasi ucciso mio padre.
Camille assunse un’espressione affranta. — Oh, no, tesoro, io non ho
fatto nulla. L’ho trattenuto, certo, ma è stato lui a dare quella svolta alla
situazione. A tal proposito, credevo che sarebbe venuto lui.
Sembrava... delusa.
Ripensai al giorno precedente e a come mi era apparsa al Plunge:
un’impavida leonessa prima e una gattina spaventata poi, quando il vero motivo
della conversazione era finalmente venuto a galla.
Asmodeo la terrorizzava, era evidente. Era
immersa fino al collo in una questione in cui non avrebbe mai messo le mani, e
come se non bastasse si trovava dalla parte del burattino. Tuttavia cercava di
restare imperturbabile, con il completo controllo sulle sue azioni, immune a
qualsiasi provocazione.
La ammiravo per questo.
—
Lo ripeto, Camille: parleremo tra donne — ribatté Chris, ora più spavalda. —
Qualunque cosa tu voglia dire a lui puoi tranquillamente dirla a me. A conti
fatti, in fondo il bersaglio sono io, no? Inoltre, mi pare che la tua lettera
dimostrasse un certo interesse nei miei riguardi. È un puro interesse personale
o ha un secondo fine?
Qualcosa guizzò nelle pupille di Camille, una vampa sfolgorante che si
spense in un attimo. — Ti sbagli, Chrysta. Il bersaglio è Magnus. Tu sei
soltanto un tramite innocente, e non sai quanto mi addolori. Come ho già detto
a tuo padre, non sarei mai artefice di una cosa del genere nei suoi confronti,
mai. Chi ha architettato tutto è Asmodeo. E come te, io sono un tramite. —
Sorrise mestamente. — Sono sinceramente dispiaciuta. Tu non hai alcuna colpa.
Sei giovane, troppo giovane per averne. Ma chissà, forse tra qualche secolo ti
ritroverai al mio posto. Non è semplice evitare le colpe, quando hai l’eternità
davanti.
—
Be’, io almeno ci proverei — tagliò corto Chrysta. — E ti sbagli anche tu,
Camille. Non esiste un mondo in cui noi due siamo uguali, fosse pure per un
unico aspetto. Io sono un tramite inconsapevole. Tu sei un tramite consapevole.
E la sola consapevolezza di quanto sia ignobile ciò che stai facendo basta per
renderti l’artefice.
Camille abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate. — Sei libera di
non credermi, Chrysta. Dopotutto, non ne hai motivo.
—
Ovvio che non ne ho motivo — ringhiò Chris. Dai pugni serrati cominciò a
filtrare del fumo viola. Le lanciai un’occhiata ammonitrice, ma lei la ignorò.
— Finora non hai fatto altro che mentire, mentire e mentire. Mia madre non è
uscita dal manicomio, vero? È tutta una grossa farsa.
La fulminai con gli occhi, e la forza del mio sguardo fu sufficiente per
farla voltare verso di me. Avevamo convenuto di non accennare a ciò che avevamo
ipotizzato prima che Camille si fosse dimostrata un po’ più aperta; anzi,
sarebbe stato meglio se fosse stata lei ad alludere al tulpa. Ma ormai, quel
che era fatto era fatto.
La vampira s’irrigidì e rialzò la testa. Rifletté in silenzio,
stringendo le labbra come se volesse impedire alle parole di uscire, ma infine riconobbe
che non aveva senso stare zitta. — Quanto
sapete esattamente?
—
Sappiamo che Asmodeo ti ha costretta a creare un tulpa — intervenni, mentre
Chrysta sbuffava di disapprovazione. — E relativi annessi e connessi, compreso,
ovviamente, che la lettera dell’orfanotrofio è un eccezionale falso.
Camille appoggiò il mento al dorso della mano. — Be’, complimenti.
Addirittura, arrivare a scoprire che è un tulpa... ammirevole.
Chrysta mise su un ghigno sfacciato. — Ti ringrazio. Abbiamo avuto... gli
strumenti adatti.
—
Non ne dubitavo. Tuo padre sa sempre, sempre,
come tirarsi fuori dai guai. E, insomma, ve l’ho fatta facile. Come vanno i
lividi?
—
Bene, grazie — rispose Chris in tono sfrontato. — E ora che lo hai ammesso... —
Si alzò in piedi. — Possiamo considerare conclusa la conversazione. Papà
provvederà a proteggerti e ad aiutarti a far sparire il tulpa. Quanto a me, mi
rivedrai all’inferno.
Camille
rimase dov’era, fissando Chrysta da sotto in su. — Oh no, ti prego, spiegami
quali sono questi... strumenti adatti.
Sono davvero curiosa.
Stavano per cascarmi le braccia. — Per una buona volta, Camille, fatti
una forchettata di cavoli tuoi! — sbottai esasperata.
—
Esattamente ciò che intendevo. Strumenti
adatti. — Si passò la lingua sulle labbra e spostò lo sguardo da Chrysta a
me. — Tu sei Lorianne Herondale, vero? La Chiaroveggente. Tutto il Sottomondo
sa di te, non dovresti esserne sorpresa.
Trattenni il fiato. Odiavo quando qualcuno diceva quella frase. Odiavo
che l’intero Mondo Invisibile conoscesse il mio nome e la mia reputazione.
Odiavo la mia fama.
—
Così dicono — mi limitai a ribattere, troppo stufa per aggiungere altro.
Camille non aveva intenzione di demordere. — Sei come... santo cielo,
dovrebbe essere tuo zio, se non cado in errore. Il Diurno, volevo dire. Sei...
qualcosa che non dovrebbe esistere.
Ai margini del mio campo visivo apparve del fumo viola. Stavolta non
fermai Chrysta.
—
Chiariamoci: alcuni potrebbero considerarti un abominio, una condannata alla
gogna, ma non io. Io ti reputo... interessante. Speciale. E assaggerei molto
volentieri il tuo sangue.
In un attimo le fui a un centimetro dal naso. — Prova a ripeterlo —
sibilai, — e l’unico sangue che assaggerai sarà il tuo.
Camille mi sorrise, e i canini scattarono come molle. — Ormai le minacce
di morte mi scivolano addosso come acqua.
—
Non se a minacciarti di morte sono io.
La porta del Santuario sbatté alle spalle di zio Magnus, che si fiondò a
separare me dalla vampira. — È ora che te ne vada, Camille — disse senza
guardarla. — Torna qui domani al tramonto. Manterrò la mia promessa e terrò
Asmodeo lontano da te. Va’.
Era incredibile l’effetto che zio Magnus riuscisse ad avere su di lei. —
Bene. — Balzò in piedi e fissò Chrysta dritta negli occhi. — Per quanto possa
valere, mi dispiace. — Le tese la mano.
Chrysta gliela strinse dopo un impercettibile – ma non per me – attimo
di esitazione. — Per quanto possa valere, dispiace anche a me.
Cestinai
il disegno del simbolo del tulpa con un sospiro di liberazione. Quel capitolo
era finalmente quasi chiuso: adesso spettava a zio Magnus e Camille, nei mesi
successivi, archiviarlo e buttarlo nel dimenticatoio.
Mi rigirai per l’ennesima volta, tornando a stendermi supina.
L’antidolorifico avrebbe fatto effetto – se avesse funzionato – nel giro di
dieci minuti al massimo, ma ogni secondo che passava mi sembrava un’eternità. Era
una sorta di scherzo del destino: il mio ciclo durava sì quattro mesi, però
quando arrivava si faceva sentire. E anche parecchio.
Sullo schermo del tablet comparve la bolla di un messaggio. Aprendo la
casella mi resi conto che questo risaliva a un paio d’ore prima, e
l’applicazione mi stava avvisando perché lo leggessi. Era di zia Isabelle: Lori, S o XS?
Non avrebbe avuto senso rispondere, così mi limitai a cliccarci sopra
per dare la visualizzazione e zittire l’orribile trillo della notifica. Oltretutto,
rivelare la mia taglia a zia Isabelle avrebbe potuto portare risultati
disastrosi.
Non immaginavo certo che quella fosse una domanda retorica.
Scesi di sotto in preda ai crampi per vedere se la palestra era libera e
Sikh disponibile a mostrarmi qualche posizione di Yoga per alleviare i dolori
mestruali. Trish me ne aveva parlato bene, così decisi di tentare. Sempre
meglio che restare a contorcermi sul letto.
Arrivata in fondo alle scale, una mano mi strinse una spalla e mi
trascinò per una buona decina di metri prima che potessi reagire. — Ahia!
Logan, ma che combini?
—
Ordini di mamma — si scusò lui, per poi riafferrarmi il polso e condurmi quasi
di corsa fino al salotto.
Sulle prime pensai che zia Isabelle avesse cambiato l’arredamento della
stanza in preda alla follia e con la consulenza stilistica di zio Magnus. Non
vedevo altro che pizzi, piume, lustrini e tessuti lucidi che riflettevano la
luce del lampadario. Jordan il cagnolino mise il naso in una nuvola di
paillettes e starnutì, dopodiché zampettò verso di noi e guardò Logan con
intenzione. Lui lo prese in braccio sbuffando. — Leone codardo — lo rimproverò.
— Succederà di nuovo, sappilo.
—
Cosa esattamente succederà di nuovo? — lo interrogai, in quel momento più che
mai incline all’irritazione.
—
Un attacco di shopping — spiegò lui. — I saldi sono per mamma una valida
alternativa all’allenamento. E papà non può protestare, considerando che può
fare i bicipiti con le borse piene di vestiti.
—
E io cosa c’entro in tutto questo?
—
C’entri eccome — ribatté Logan, — perché stavolta mamma non ha comprato solo
per sé. Ha fatto scorta di magliette, pantaloncini e cose varie anche per te,
per quando andremo in Italia. Noi ne abbiamo già abbastanza.
—
Loriii! — Zia Isabelle spuntò da dietro una poltrona con degli shorts
oscenamente corti in mano e mandò via Logan. — Provateli, dovrebbero entrarti.
E se non ti vanno dalli a Chrysta, tanto avete la stessa taglia.
—
Se non sbaglio me l’avevi chiesta, la taglia — borbottai mentre mi sfilavo i
leggings.
—
Nah, so che in realtà porti la M. — Zia tirò fuori da una busta una camicia
bianca a maniche corte e me la passò. — Provati anche questa. E questa. E
questa. Ah, e ovviamente quest’altra.
Continuò a piazzarmi tra le braccia capi su capi per più di mezz’ora.
Quasi tutti mi calzavano a pennello, e feci buon viso a cattivo gioco per non
far dispiacere zia Iz, ma alla fine decisi che ne avrei concretamente indossato
solo un terzo. A meno che in Italia non facessero quaranta gradi all’ombra non
avrei girato per Gaeta con tanta pelle scoperta.
Dopo aver aiutato zia a sistemare i suoi acquisti raggiunsi la palestra,
dove Sikh era in procinto di cominciare una lezione di TRX.
Gli
elastici occupati erano una dozzina, quelli liberi tre, di cui uno per Sikh. Se
solo ne avessi avuto voglia sarei andata a cercare zio Magnus e Chrysta in
qualsiasi luogo avessero potuto nascondersi per poi costringerli ad appendersi
al TRX e lavorare come mai avevano fatto prima. Ero davvero curiosa di sapere
come facessero entrambi a mantenersi in perfetta forma, e altrettanto curiosa
di vederli sudare e implorare pietà, per una volta.
Sikh era spietato. Avevo seguito parecchie sue lezioni all’Accademia –
veniva spesso chiamato come istruttore ospite – e non si poteva certo definire
caritatevole. Massacrava chiunque fino all’osso. Persino mio padre, quel giorno
invitato in Accademia ufficialmente per tenere una conferenza sulla Guerre
Oscura e ufficiosamente per deliziare gli animi delle fanciulle presenti
comprese le professoresse e lo stesso Rettore, aveva finito per cedere di
fronte all’implacabilità dell’egiziano, che solo a prima vista pareva carino e
coccoloso.
—
Ehi, ciao! — mi salutò mentre controllava la lunghezza di un elastico. — Vuoi
unirti a noi?
—
Nemmeno per sogno — negai all’istante. — Un’ora di allenamento in stile Navy
Seals è l’ultima cosa che mi serve in questo momento. Non posso proprio.
—
Problemi femminili?
—
Esattamente.
Sikh mise su una smorfia dispiaciuta. — Sei capitata male, non posso
disdire la lezione. Puoi aspettare finché non termino, oppure vengo a chiamarti
io quando ho finito.
—
No, aspetto qui — risposi, segretamente entusiasta all’idea di guardare gli
altri soffrire standomene seduta e tranquilla. — Posso aiutarti con qualcosa?
Lui scrollò le spalle. — Per ora no, ma se avrà bisogno di una mano non
esiterò a chiedertelo. Forza, al TRX!
Chi
sbuffando e chi pregando a mezza bocca, gli allievi di Sikh presero il loro
posto.
—
Pronti, ragazzi? — esordì scrutandoli attentamente uno ad uno. — Spero di sì,
perché oggi vi ammazzo.
—
Ma no, non ammazzerai nessuno. — Zio Simon entrò trionfalmente in palestra
sventolando il pugno chiuso. — Stavi per iniziare senza musica, Sikh, sono
sorpreso.
Sikh afferrò la memory card che zio gli stava porgendo. — Sarei venuto a
prenderla se non l’avessi portata tu. E adesso muoviti, non vorrai sprecare
quest’occasione.
—
Ah no! — Zio fece per andarsene, ma Sikh lo trattenne per un braccio. — Okay,
okay, hai vinto.
—
Si mette male — sussurrò un tizio all’orecchio di un altro. — Di solito con Simon
è clemente. Se è così anche con lui significa che è veramente intenzionato ad
ucciderci.
—
Silenzio! — ruggì Sikh, infilando la memory card in uno slot dell’impianto
stereo in un angolo. La playlist si aprì con un trillo di campanelli, segno che
era stato Logan a mixarla. — Lasciate gli elastici, per adesso. Sciogliete
spalle, gomiti, polsi, ginocchia e anche. Se li sentite scrocchiare non
spaventatevi, è naturalissimo. Qualcuno mi sa dire a cosa serve?
Perfetto, oltre alla pratica pure la teoria.
—
Ad aumentare l’afflusso del liquido sinoviale nelle articolazioni — rispose
gongolando quel sapientino di Lee. Era strano vederlo fuori dalla biblioteca:
faceva l’effetto di un topo in una convention di gatti. — Il crac è provocato dallo scoppio delle
bolle d’aria che si formano nel liquido.
—
Se credi che seppur interessante quest’informazione extra ti salvi dall’essere
trucidato ti sbagli di grosso. Bravo, comunque — commentò Sikh annuendo in
segno di approvazione. — Almeno qualcuno mi sta ad ascoltare — aggiunse poi
guardando storto due piccoli Shadowhunters che impallidirono all’istante. —
Prendo il TRX! — urlò infine, e da lì ebbe inizio lo sterminio.
Dopo il quarto d’ora di riscaldamento di rito, durante il quale Sikh
intelligentemente li fece restare abbastanza in verticale e non azzardare
movimenti troppo ampi o faticosi, gridò: — Squat! Trenta, ventinove, ventotto,
ventisette, DAI!
Ora, lo squat al TRX è facile, se si ha l’appoggio su entrambe le gambe.
Ma alla fine delle trenta ripetizioni Sikh passò agli squat su una gamba sola,
e quelli sono tremendi. Necessitano di un equilibrio pazzesco, cosa un po’
complicata per chi non è molto ferrato nella core stability.
Non prestai molta attenzione al resto della lezione, poiché Sikh si
ricordò di alcune lame che dovevano essere affilate e mi passò il compito. Notai
però che faceva spesso lavorare sulle punte con gli elastici al contrario;
inoltre diede molta importanza anche alle gambe e, ovviamente, al famigerato plank.
Concluso l’allenamento, Sikh mi pregò di attendere ancora una decina di
minuti mentre lui si faceva una doccia veloce. Ammazzai il tempo ferma nella
posizione della farfalla, che alleviava il fastidio che l’antidolorifico non
era riuscito ad eliminare.
Appena uscì dal bagno Sikh riprese le vesti di istruttore: — Qual è l’importante
secondo te in queste situazioni? A cosa dobbiamo puntare?
—
Mmm... a non contrarre e irrigidire ma distendere e allungare?
—
Giusto — confermò. — E ora... il cammello.
Quella posizione del cammello non aveva nulla, ma era comunque molto
confortevole. Sentii la pressione sul basso ventre diminuire sempre di più, fin
quasi a scomparire. Dopo, Sikh mi mostrò l’arco
e il bambino. In sottofondo, una musica
piacevolissima che mi rendeva semplice liberare la mente.
—
Che tipo di yoga è questo? — gli domandai, improvvisamente ripensando agli
scritti della David-Néel nei quali si accennava all’Hatha Yoga.
—
Kundalini — mi rispose spingendomi le spalle all’indietro per correggermi. —
Devo aggiornarmi, però, perché a quanto pare è il Silvanada la disciplina più
adatta.
—
Lo sai che non ci sto capendo niente, vero?
Sikh rise. — Lo so, lo so.
Se non fosse stato per quel dannato lupo
avrei passato una notte meravigliosa. Lo Yoga mi aveva completamente rilassata,
ed ero subito sprofondata nel sonno. Ma nemmeno lo Yoga poteva molto contro l’ostinazione
del licantropo a comparire costantemente nei miei sogni.
Eravamo ad Alicante. Contro la schiena sentivo qualcosa di duro e
freddo; voltandomi, scoprii che era una delle torri antidemoni. Strano: l’adamas
mi faceva un brutto effetto, sia a livello fisico che psichico, e il fatto che
potessi toccarlo e già solo stargli vicino senza conseguenze era alquanto
bizzarro. Oltretutto, le torri mandavano un bagliore azzurro. Azzurro, come in
tempo di Accordi.
Il mannaro colpì la torre col muso, poi si alzò sulle zampe posteriori e
iniziò a graffiare l’adamas con quelle anteriori. Sotto i colpi dei suoi
artigli venne fuori un disegno. Uno stemma, formato da tre gigli su sfondo blu
che sovrastavano un motivo di strisce rosse e bianche.
D’un
tratto il lupo diede un’altra zampata, facendo scomparire tutto lo stemma salvo
uno dei gigli. Mi guardò, soppesandomi con quei suoi occhi tanto animali quanto
umani. Infine scappò via, proprio mentre una spada trafiggeva la torre penetrando
fino all’elsa. La lama tagliò perfettamente il giglio a metà.
Trattenni il fiato.
Conoscevo bene quell’immagine.
Una spada – per la precisione, una claymore vichinga – che infilzava un
giglio era lo stemma della famiglia Argentsang.
La famiglia di Jean.
*Va a nascondersi in un luogo segreto per
sfuggire all’ira dei lettori*
Perdonatemi. Perdonatemi, davvero. Vi
voglio tanto bene. Lo sapete che non lo faccio apposta ad aggiornare così
lentamente. Il fatto è che tra la fine della scuola, gli ultimi compiti, le
interrogazioni in extremis, Althea che non si faceva sentire e una rediviva
Francesca Paduano il tempo e la voglia sono venuti a mancare. Poi ovviamente ci
si mette anche il fatto che cinque giorni su sette sono a mare per almeno
cinque ore, e ciò vuol dire impossibilità di scrivere. Come se non bastasse il
16 mi scadrà l’abbonamento ad Office – infatti mi sto dannando da tipo un mese
e mezzo per rintracciare il compare di nozze dei miei che può installarmelo
piratato – e l’ansia che nel giro di poche settimane avrei potuto non avere più
il mio amato Word ha influito sulla tempistica e sull’ispirazione.
Comunque, alla fine questo capitolo non è
uscito una schifezza come pensavo. Anzi, è discretamente buono. Finalmente
chiudiamo il capitolo newyorkese e, dal prossimo, iniziamo la parte italiana
che, ve lo assicuro, sarà molto ma molto succosa.
E, udite udite, Seeing the Future non sarà
l’ultima storia ambientata nel “mio” Mondo Invisibile. Concluderà certo la saga
Past, Present and Future, ma lascerà molte questioni in sospeso nonché una
bella ship che meriteranno di essere approfondite in una nuova trilogia.
Riavremo come protagonista Lorianne e, sentite un po’, il lupo che ora le sta
rompendo le scatole. Inoltre come personaggi secondari – oddio, non proprio,
diciamo che la loro condizione è quella di Maia in TMI – avremo il già citato
precedentemente Daniel Cartwright, qualche new entry e un paio di nostre
prossime conoscenze.
Tornando al capitolo... si nota che
Camille non è la Camille di Althea, vero? Ho deciso di scrivere io anche la sua
parte, sia per mettermi alla prova sia perché sinceramente non avevo voglia di
stare lì ad aspettare Althea e a metterci d’accordo su un sacco di punti;
dopotutto così sono sicura che le cose prenderanno la piega giusta.
Bene, non credo di aver altro da dire se
non ringraziare la Paduano per la frase iniziale.
VOTATE e COMMENTATE, mi raccomando!
Alla prossima, bye bye!
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Capitolo 8 *** Aeterna fama ***
7 Aeterna fama
Aeterna fama
Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, aeternam moriens
famam, Caieta, dedisti.
Tu pure ai nostri lidi, nutrice di Enea, morendo desti,
Caieta, eterna fama.
[Eneide, capitolo VII, vv 1-4]
Non
rividi mai più il lupo dopo averlo sognato la notte successiva all’incontro con
Camille nel Santuario. E non sapevo se questo fosse un bene o un male.
Nella settimana seguente, con l’aiuto di Chrysta e zio Magnus, cercai di
dare un’interpretazione a ciò che avevo sognato, ma l’unica cosa che emerse fu
la già assodata certezza che quel licantropo avrebbe avuto una grande
importanza per me. Il fatto che poi nel sogno fosse comparso anche il simbolo
della famiglia di Jean mi fece pensare che il mannaro mi avrebbe aiutato con
quella questione, nonostante per il momento restassero solo congetture.
La mancanza di qualcosa su cui indagare e per la quale scervellarsi si
fece sentire, e le giornate – che andavano man mano allungandosi – divennero
sempre più pesanti. Nemmeno le retate nei tunnel della metropolitana e nei
vicoli di Manhattan in cerca di demoni da ammazzare servirono a molto, così
come gli estenuanti allenamenti con Sikh, i quali, però, almeno ci facevano
crollare dalla stanchezza non appena toccavamo il materasso.
Ma una fresca mattina di metà aprile a zia Isabelle venne l’idea del
secolo: pulizie di primavera, in rigoroso stile mondano, in tutto l’Istituto.
Ordinò a zio Magnus di far comparire scope, stracci, secchi, detersivi e
quant’altro, si armò di vecchi vestiti e una bandana per i capelli e iniziò a
commissionare incarichi a chiunque avesse più di dodici anni, ossia
praticamente l’intero Istituto meno i figli di una coppia in permesso da
Toronto. In teoria anche Jordan il cagnolino, che di anni ne aveva quattro,
sarebbe dovuto rimanere fuori dai giochi; tuttavia zia gli attaccò un
deodorante al collare e lo mandò in giro per i corridoi a profumare gli
ambienti.
A
me e Logan fu dato l’ingrato compito di staccare le tende da tutte le stanze
del primo piano. Impresa facile, se le sopracitate tende non fossero state
piene di polvere e Logan tremendamente allergico agli acari. Per fortuna la sua
allergia era una di quelle che causavano solo improvvise e violente raffiche di
starnuti e non peggio, come, non so, gola gonfia o shock anafilattico.
E
poi, era bello poter passare un po’ di tempo con mio cugino. Prima che
arrivasse Jean avevo una spaventosa cotta per lui, e anche se ora non provavo
più quei sentimenti nei suoi confronti era comunque affascinante osservarlo
mentre si allungava verso l’alto per sfilare un bastone dal supporto oppure si
aggiustava un ciuffo ribelle. Al collo portava ancora la catenina d’oro con
appeso il suo primo plettro, e al dito l’anello dei Lewis con la stella di
Davide infuocata.
Mi capitò di spostare lo sguardo sul suo avambraccio. L’incavo del
gomito era l’unico punto in cui non c’erano rune. Quello infatti era il posto
riservato alla runa parabatai.
In
quel periodo le discussioni tra i gemelli sull’argomento erano più frequenti
del solito. Trish non la finiva di supplicare Logan e lanciargli ogni genere di
frecciatine, ma lui continuava ad essere titubante.
Che due fratelli diventino parabatai è raro, ma pur sempre possibile.
Immagino che due persone che sono già cresciute insieme non vogliano essere
legate l’una all’altra per l’eternità da una promessa tanto potente e
straordinaria che implica accollarsi un impegno al quale non si può mancare.
Logan sosteneva che il legame parabatai non li avrebbe avvicinati ma
allontanati. Trish, la minore, cercava da sempre di emanciparsi e farsi notare
al di là del duo “gemelli Lewis”, e il legame non avrebbe fatto altro che
indebolirla. Lei controbatteva – a volte quasi urlando – che avrebbe potuto
emanciparsi anche se fosse stata la sua parabatai e che, anzi, in quel modo chiunque
l’avrebbe guardata sotto una nuova luce, per cui Logan doveva solo starsene
zitto e smetterla di accaparrare scuse.
Personalmente,
notavo tra di loro quella particolare affinità che caratterizza i parabatai
anche senza che lo fossero veramente, per cui mi meravigliavo che Logan fosse
tanto restio a partecipare alla cerimonia. Come parabatai sarebbero stati più
agili, più veloci, più forti; in una parola, sarebbero stati migliori. E mi
sbalordiva che proprio Logan, il quale aspirava al meglio da quando era nato –
o meglio, riteneva di essere tenuto a farlo in quanto figlio di due eroi della
Guerra Oscura – rifiutasse una tale occasione.
Come compromesso aveva acconsentito a non marchiarsi nell’incavo del
gomito in attesa della runa parabatai, che forse non vi sarebbe mai stata
tracciata. Trish aveva fatto lo stesso nel medesimo punto. Avevano ancora un
anno per decidere; chissà se la vacanza in Italia avrebbe aiutato anche loro a
maturare una scelta.
Sulla mia, di scelta, per il momento non avevo dubbi: sarei diventata
una Sorella di Ferro. Ora come ora, non volevo altro che scappare da una
società che mi stava stretta e fuggire dal mio passato. Certo, mi rendevo conto
delle conseguenze che avrei causato unendomi alla Sorellanza, ma ormai ero
quasi maggiorenne e avevo tutto il diritto di stabilire cosa fare della mia
vita, che la mia famiglia lo volesse o no. Almeno, prima di andarmene avrei
potuto vedere l’Italia.
In quei giorni, molte delle mie visioni riguardavano l’Italia. Uno
scorcio di mare, dei gabbiani che si alzavano in volo, l’interno di un
ristorante e, strano ma vero, qualcosa che somigliava ad un casinò. A giudicare
da quanto avevo visto e percepito, la vacanza sarebbe andata abbastanza bene.
Con qualche eccezione, certamente.
E
la prima di queste si presentò proprio alla partenza dall’aeroporto di New York.
Per
colpa mia quasi perdemmo l’aereo.
Avevamo salutato zio Simon all’ingresso del terminal e fatto il
check-in, e stavamo aspettando che chiamassero dagli altoparlanti il nostro
volo seduti di fronte ad una filiale di Starbucks. Logan studiava degli
spartiti, Trish scaricava informazioni su Gaeta in italiano e Chrysta sfogliava
l’ultimo numero di Vogue. Io mi
limitavo ad osservare le persone che correvano da una parte all’altra del
corridoio trascinandosi dietro trolley e figli urlanti, mentre cercavo di non
pensare che avrei dovuto passare sette/otto ore senza toccare terra.
Mio cugino non avrebbe potuto avere un’idea migliore. Vacanze
rigorosamente mondane. Comportamento mondano, mezzi mondani, solo lo stilo e un
pugnale di riserva in tasca. (Ovviamente nelle valigie avevamo anche altre
armi, nascoste dagli incantesimi di zio Magnus e Chris. Si sa, la prudenza non
è mai troppa).
Alle sette precise – miracolo! L’aereo non era
in ritardo! – la voce sensuale di un’hostess annunciò ai passeggeri del volo
673 New York-Roma Fiumicino delle sette e trenta di presentarsi al gate per
l’imbarco.
Fatto sta che Logan aveva preso fischio per fiasco e ci aveva portati
dalla parte opposta rispetto a dove avremmo dovuto essere.
Ci guardammo in faccia per un secondo, poi iniziammo a correre.
A
metà strada, avvertii una fitta all’addome e inciampai.
Raramente
le mie visioni avevano un carattere tragico o drammatico. E ancora più
raramente vedevo scene del genere. Scene di morte.
Capitava una volta ogni morte di Papa, inoltre, che provassi tanto
dolore fisico.
Mi accasciai a terra, le mani premute sullo stomaco, in preda a tremendi
crampi. Notai che le vene erano diventate luminescenti e attraverso la pelle
s’intravedeva il sangue scorrere.
Trattenni un urlo e intimai a Chrysta di nascondermi alla vista dei
mondani. Fu l’ultima cosa che feci prima di catapultarmi nel futuro.
Mi
trovavo in una sorta di studio; lo capivo grazie alla presenza di una massiccia
scrivania in legno sotto la mia schiena, alla quale ero legata per i polsi e le
caviglie. C’era anche qualcos’altro sulla scrivania, qualcosa di caldo e vivo,
forse un grosso cane, che ringhiava e a tratti guaiva.
Percepivo, oltre al mio e a quello dell’animale, tre battiti, tre cuori
che palpitavano in modo irregolare. Riuscivo quasi a sentire il suono del
sangue che sfrecciava nei loro corpi.
Poi tutto accelerò. La scena prese a scorrere velocemente davanti ai
miei occhi, fotogramma dopo fotogramma, come in uno di quei vecchi film muti in
bianco e nero.
Adesso, oltre a sentire il suono del sangue, ne sentivo anche l’odore,
ferroso e intenso. Per fortuna non era il mio, ma non era nemmeno normale
sangue umano o Shadowhunter. Era più... primordiale, antico, ed evocava
immagini di fitte foreste e boschi bui.
Urlavo. Urlavo a squarciagola. Urlavo in una lingua completamente
diversa dall’inglese, una lingua che non ero sicura di conoscere, e urlavo una
sola parola che in qualche strano modo collegavo allo zio Simon.
Urlavo perché qualcuno aveva sparato, sparato con estrema precisione, e
qualcuno era morto.
E
urlavo perché qualcun altro era stato pugnalato, e stava morendo.
Chrysta
purtroppo non era riuscita a compiere l’incantesimo in tempo. Venni beccata da
uno degli addetti alla sicurezza dell’aeroporto, che mi portò di peso
nell’infermeria non appena ebbi ripreso conoscenza.
Il medico mi sottopose agli esami di routine, e dopo un quarto d’ora che
sembrò durare un’eternità mi giudicò idonea al viaggio. Mi rendo conto che
avrei dovuto ringraziarlo o perlomeno non guardarlo male per averci fatto
rischiare di perdere l’aereo, ma la visione mi aveva lasciato talmente stanca e
irritabile che per poco non gli mostrai anche il dito medio.
Durante il tragitto perlopiù dormii o sonnecchiai per riprendere le
forze. Quella visione mi aveva inquietato a tal punto da non riuscire a pensare
ad altro, così, semplicemente, decisi che non ci avrei pensato e chiusi gli
occhi. Per fortuna non venne a perseguitarmi anche in sogno.
Il sogno però fu ugualmente scioccante.
Sognai la mia famiglia. Mamma, papà e persino Jon, che in teoria non
avrebbe potuto essere dov’era, stavano partecipando ad una riunione del
Consiglio ad Alicante. Come sempre da un po’ di tempo a quella parte, la
discussione verteva sugli omicidi di tre Nascosti – un vampiro e due lupi
mannari – sul suolo di Idris, ancora irrisolti.
Omicidi di cui sia io che la mia famiglia sapevamo qualcosa, io più di
loro. Ma nessuno di noi avrebbe tirato fuori la questione e il nome del
colpevole fin quando in sala era presente anche Jean Argentsang, o almeno uno
dei suoi fedeli – che erano davvero tanti. Se l’avessimo fatto, lui avrebbe
spostato l’attenzione di tutti su di me, su di noi, accusandoci di occultamento di reato. E se la sarebbe cavata
alla grande, uscendone con le mani pulite e pronto a continuare la sua ascesa
al potere.
Evitavo di pensare che un giorno al posto di mio nonno ci sarebbe stato
Jean. Sì, ne ero certa. Avevo... i miei motivi per esserlo.
Prima che succedesse quello che era successo, osservavo Jean ammaliata e
intrigata dai suoi discorsi su come avrebbe cambiato le carte in tavola, da
Inquisitore. Non aspirava al ruolo di Console; non voleva essere la mente, ma
il braccio.
Era sempre stato un tipo molto pratico,
nonostante a volte si perdesse nei suoi pensieri. Una sera, mentre danzavamo al
suono di un quartetto d’archi, mi disse che attribuiva questa sua
caratteristica al suo passato da ballerino: non si balla mai bene se si resta a
pensare, ma è altrettanto controproducente comportarsi come una macchina
ripetendo ogni movimento automaticamente e non lasciandosi trasportare dalla
musica.
Non dubitavo che avrebbe raggiunto i suoi obiettivi, che, persino alla
luce delle sue più recenti azioni, continuavo a considerare retti e giusti.
Dubitavo piuttosto sui metodi che avrebbe utilizzato per raggiungerli.
Dopo che aveva conosciuto quell’ambiguo forestiero e questi l’aveva
portato con sé fuori da Idris per un’estate intera, Jean era cambiato. Non
avevo idea del perché, ma vi era sicuramente implicato lo straniero.
Tornato ad Alicante, Jean smise di cercare suo padre.
Non l’aveva mai fatto. Mai.
E
già questo avrebbe dovuto far suonare il mio campanello d’allarme.
A
mia discolpa, posso dire che ero troppo innamorata per accorgermene.
Troppo innamorata anche per rendermi conto che lui aveva smesso di
amarmi.
Tutte
queste riflessioni mi attraversavano la testa in quei pochi minuti in cui ero
sveglia. Quando un’hostess comunicò di allacciarci le cinture poiché eravamo in
fase d’atterraggio, immaginai di infilare in una scatola qualsiasi cosa
riguardasse Jean e poi chiuderla fissandola con una tonnellata di nastro
adesivo.
Era
quanto di più simile ad una cassaforte potessi creare. Per il momento, non ne
avevo le forze. Pregai perché un giorno, finalmente, riuscissi ad acquisirne a
sufficienza.
Scesa dall’aereo e toccato il suolo italiano per la prima volta, buttai
mentalmente una pietra sulla scatola. Ero in Italia ormai, e i seguenti tre
mesi sarebbero potuti essere gli ultimi che passavo da normale Shadowhunter,
perciò feci silenziosamente voto di pensare solo e soltanto a me stessa. Jean
ed annessi e connessi sarebbero rimasti a Idris.
Logan
ci fece strada fino al check-out, orientandosi grazie ai milioni di cartelli
informativi scritti in italiano, inglese, arabo, greco, russo e cinese. Mangiammo
qualcosa, poi ritirammo le nostre valigie – menomale che c’erano tutte – e
seguimmo nuovamente Logan per una miriade di corridoi, che alla fine ci
portarono in una stazione ferroviaria all’interno dell’aeroporto.
—
Andiamo in treno fino a Formia, poi lì prenderemo un autobus per raggiungere
Gaeta — spiegò Trish, controllando gli orari degli arrivi. — Dovremmo partire
tra cinque minuti.
Magari
fossero stati solo cinque minuti. Il treno arrivò dopo tre quarti d’ora esatti,
senza che il ritardo venisse annunciato.
—
Benvenuti in Italia — brontolò Logan.
Due ore dopo eravamo a Formia. A parte i passeggeri del nostro treno, in
stazione non c’era quasi nessuno. Gli orologi dei nostri cellulari – che nel
frattempo si erano settati sul fuso orario italiano – segnavano mezzanotte e
mezza.
Per fortuna l’autobus era già lì. Non che quindici minuti facessero una
grande differenza, considerato il ritardo di Fiumicino, ma non avevo voglia di
starmene ancora seduta a far niente. E poi, volevo assolutamente vedere Gaeta.
Gaeta
non mi deluse. Niente di speciale: una piccola cittadina circondata per tre
lati dall’acqua, ex repubblica marinara. Ma era meravigliosa.
La prima immagine che ebbi del paese, visto dalla spiaggia di Vindicio,
fu un mandolino spaccato a metà per la lunghezza immerso in un mare azzurro e
calmo, popolato da stormi di gabbiani. La luna si rispecchiava nell’acqua,
rendendo il paesaggio simile a un quadro impressionista.
Mi formicolavano le dita, e mi ritrovai a disegnare ghirigori invisibili
sulla mia coscia. Quanto avrei voluto avere il tablet – o anche un foglio e una
matita – a portata di mano, in quel momento!
Non appena l’autista svoltò una curva e un cartello annunciante “Villa
Irlanda – Hotel & Restaurant” comparve nella nostra visuale, Gaeta mi
apparve come un mostro marino dormiente, con metà del corpo in acqua, che
aspetta il momento propizio per svegliarsi e trasportare tutta la cittadina e i
suoi abitanti all’altro capo del mondo.
Mi tornò in mente uno dei miti greci che amavo tanto ascoltare da
piccola, seduta in braccio a papà di fronte al caminetto: la storia dell’isola
galleggiante di Delo, dove Leto partorì Artemide e Apollo.
Lungo la strada, occhiai lo scheletro di un vecchio cantiere navale e i
resti di una fabbrica, della cui insegna s’intravedevano solo una P, una O e
una G.
—
Era la Pozzi Ginori — mi spiegò Chrysta, notando dov’era diretto il mio
sguardo. — Produceva sanitari e altri oggetti in ceramica e porcellana; molto
tempo fa erano famosi i piatti e le mattonelle decorati a mano. — Mi indicò un
edificio che avevamo sulla destra. — Quella, invece, è la dogana. E più dietro,
dove si trova quel murale del bambino circondato dai giocattoli, ci sono i
Vigili del Fuoco.
—
Come fai a sapere tutte queste cose?
—
In realtà non sono io a saperle, ma Trish.
—
Esattamente — confermò la diretta interessata dal sedile dietro il mio. — Ho
iniziato a passarle informazioni mentre sorvolavamo il Mediterraneo. Ho
scaricato parecchia roba al JFK, e poi a Fiumicino ho, diciamo così, hackerato
un sito di prenotazioni per trovare un algoritmo che ha automaticamente
selezionato i locali e i ristoranti migliori.
Sentii Logan ridere. — Sei terribile.
—
Non per niente il mio nickname da hacker è Attila, il flagello di Dio.
Stando alle voci di corridoio che circolavano in famiglia, Trish, che
già da piccola aveva mostrato familiarità con la tecnologia, si era
inizialmente fatta il culo sul web da autodidatta e poi aveva ricevuto un
qualche tipo di aiuto da un tizio misterioso di cui nessuno sapeva il nome,
forse neanche lei. Se provavi a tirar fuori l’argomento, Trish sfuggiva alle
tue domande con la facilità con cui un’anguilla ti scivola dalle mani – sì, ho
tenuto un’anguilla in mano. O, perlomeno, ho tenuto in mano un demone che vi
assomigliava.
Comunque, l’abilità di Trish ci è risultata utile molte volte. Ha
stanato parecchi culti demoniaci infiltrandosi nel deep web e ha persino
scoperto un traffico illegale di armi magiche gestito da un ifrit del Bronx.
Sulle prime il Consiglio si era dimostrato un po’ restio davanti a questo
metodo d’investigazione “alternativo”, ma una volta visti i risultati si era
immediatamente ricreduto. Dopotutto, Trish era riuscita ad entrare nel sistema
della polizia di New York ed aveva annullato diverse multe a carico di membri
del Conclave locale che avevano parcheggiato la macchina nel posto sbagliato o
commesso qualche altra infrazione, quindi non avevano motivo per disprezzare
lei e il suo infallibile portatile.
In quel momento, però, avrei tanto voluto che non fosse così brava.
Quando il conducente comunicò che la prossima fermata sarebbe stata la
nostra, Trish colse l’occasione per annunciare che non avremmo alloggiato in un
hotel bensì in una casa vacanza che aveva scovato nelle profondità di HomeToGo.
Chris soffocò un urlo. — E me lo dici solo ora? Io ti... ah, sei
fortunata perché dopo tutta quella faccenda di Camille ho acquisito un minimo
di autocontrollo!
Non
esitai a darle manforte. — Sul serio, Trish? Siamo in vacanza, per la miseria!
—
Ehi, calmatevi — intervenne Logan, sempre pronto a sedare gli animi. — È stata
una decisione sofferta e meditata tra gemelli. Punto primo: non vorreste
davvero dividere una quadrupla, spero. Per quanto mi riguarda, è già tanto aver
dormito nella stessa stanza con Trish fino ai dieci anni. Ahi! — La sorella
doveva avergli dato una gomitata, perché proseguì con il fiato spezzato: —
Punto secondo: anche se la villa – sì, gente, è una villa – che abbiamo affittato ci è costata un bel po’, un hotel
sarebbe stato molto più caro. Punto terzo: avevate veramente intenzione di
mangiare ogni giorno in un ristorante per tre mesi?
—
Tu sei solo tirchio — sbottò Chris.
—
No, cara, io sono parsimonioso — la
corresse lui. — Ve lo prometto: non ve ne pentirete. Mi ci gioco il ciuffo.
Sgranai gli occhi. — Oh, wow. Allora dev’essere una cosa seria.
Chris si allungò all’indietro e gli scompigliò i capelli. — In effetti,
cuginetto, mi pare che questi siano un tantino lunghi.
—
No. — Logan le scacciò via la mano. — Vanno benissimo così.
—
Ragazzi, è la vostra! — urlò l’autista, impedendo a Chrysta di replicare. —
Aspettate, vi aiuto con le valigie.
L’autista se ne sarebbe rimasto a posto se non avesse constatato che
avevamo almeno tre valigie ciascuno, ma gli fummo comunque grati e Chrysta
insistette per dargli una mancia.
Mi guardai intorno. L’autobus ci aveva lasciati in un parcheggio
all’inizio di una serie di salite, non molto ripide ma comunque faticose. Trish
ci fece strada, controllando una mappa sul cellulare. — La casa è nascosta in
una macchia di vegetazione. Logan sospetta che sia abusiva.
—
Certo che è abusiva, Trish! — replicò lui. — Questa è un’area protetta, anzi,
se non sbaglio è addirittura un Parco Regionale. Dovrebbe essere vietato
costruire qui.
—
E infatti Villa Orlando è appena fuori dal territorio del Parco — continuò
Trish, raggiante. — Di qua.
Chrysta sbuffò. — Okay, mi sono scocciata. — Ad un suo schiocco di dita
tutte le valigie si alzarono in volo. — Adesso sì che si ragiona.
La ringraziammo con un coro di “Alleluia”, che subito si trasformarono
in esclamazioni di sorpresa.
Abusiva o non abusiva, Villa Orlando faceva la sua figura.
Era una recente costruzione a due piani più mansarda dipinti di bianco
con gli infissi in alluminio scuro. La porta d’ingresso era coperta da una
tettoia in legno sulla quale si erano avviluppati dei rampicanti che arrivavano
fin quasi a terra. Tutt’attorno al perimetro erano sistemati dei vasi in
terracotta contenenti orchidee gialle e rosa e grosse piante di cycas.
Il primo piano ospitava la zona giorno, con un ampio atrio, un salotto,
una graziosa cucina con penisola e un piccolo bagno di servizio; il secondo
piano era invece dedicato alla zona notte, con il bagno padronale e tre camere
da letto: una matrimoniale, una singola e una doppia. La mansarda era chiusa a
chiave; Trish ci disse che quello era lo studio personale della padrona di
casa, tale Rita D’Amante.
—
Be’, con una villa del genere non mi sorprendo che abbia voluto tenere chiusa
la mansarda — commentò Logan. — Chissà quanti cadaveri nasconde lì dentro.
Trish gli assestò un pugno sulla spalla. — Macabro come sempre.
—
La matrimoniale è mia! — Chrysta sfrecciò su per le scale con le valigie al
seguito.
Ci affrettammo a raggiungerla e Trish la bloccò di fronte alla porta
della stanza. — No, la matrimoniale va a Lori. Se troverà un bel tipo con cui
tentare l’avventura di una storia estiva avrà bisogno di un letto più grande,
no?
—
Esatto — concordò Chris, zittendomi con un incantesimo. — Di sicuro non farai
certe cose nel mio letto. È tutta
tua, cuginetta.
Logan corse verso la singola. — Questa ovviamente me la prendo io. Non
dormirò di nuovo con Trish, scordatevelo.
—
E chi ha detto che avresti dovuto dormire con me? — ribatté la sorella. — Era
già nei piani originari che la doppia sarebbe andata a me e Chris.
Provai a parlare, ma l’incantesimo di Chrysta era ancora attivo. La
guardai in cagnesco. — Oh, scusa Lori. — Mi liberò con un cenno della mano.
—
Se permettete, io vado a farmi una doccia — annunciai. — Devo assolutamente
togliermi di dosso lo sporco dell’aeroporto e della stazione.
—
Certamente — convenne Logan. — Ma spicciati e non farci aspettare!
Sogghignai. Eccome che li avrei fatti aspettare.
Per curiosità, prima di entrare nel bagno impostai il cronometro sul
cellulare. Quando uscii, segnava quaranta minuti e cinquantatré secondi.
Ignorai le proteste dei miei cugini e mi buttai sul letto. Era l’una
passata, vale a dire le sette di sera a New York, ma evidentemente il jetlag
non funzionava con me. Nonostante avessi riposato in aereo, mi sentivo come se avessi
combattuto contro un Demone Superiore per un’intera giornata. Ancora postumi
della visione, probabilmente.
Non fu una notte proprio tranquilla – colpa dei soliti sogni – ma dormii
come un sasso fino a mattina inoltrata.
Mi
svegliai alle nove e per abitudine aprii subito le finestre. Tirava una fresca
brezza proveniente dal mare, che portava l’odore della salsedine.
Con il sole che mi baciava la pelle e una vista spettacolare davanti
agli occhi, decisi che, considerando che avrei trascorso il resto dei miei
giorni rinchiusa in una fortezza di adamas, mi sarei goduta ogni singolo attimo
di quella vacanza e ne avrei serbato il ricordo in eterno.
Ciao! Dai, stavolta non vi ho fatti
attendere troppo.
Capitolo mezzo buono mezzo cattivo,
questo. Ci sono parti che mi piacciono e altre che odio. Mi fa piacere aver
inserito una parentesi sui gemelli Lewis, come qualche tempo fa feci con
Chrysta, e soprattutto aver presentato Gaeta nel modo migliore, per ora.
Come avrete letto, la frase ad inizio
capitolo è tratta dall’Eneide. A titolo informativo vi dico che potete trovare
Gaeta anche nella Divina Commedia (è citata due volte, se non erro). Molti di
voi non la conoscevano prima di questa storia, ma ehi, Gaeta è famosa. La
prossima volta che dovete programmare le vacanze lasciate da parte la Grecia e
la Croazia e venite a mare qua. Ci sono sette spiagge, una più bella dell’altra.
Ma adesso mi tappo la bocca; verrà il momento in cui narrerò tutto ciò che c’è
da sapere su questa magnifica città.
Vi avverto di fare molta attenzione alle
visioni di Lori, e in particolar modo ai dettagli. Lo so, lo so, non è facile –
specialmente con gli aggiornamenti così distanti fra loro – però è davvero
importante. Così avrete la possibilità di prevedere cosa succederà più avanti
MUHAHAHAHAHAHA.
Okay, mi fermo qui. VOTATE e RECENSITE, alla
prossima guys!
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Capitolo 9 *** Per ogni faccenda sotto il cielo ***
8. Per ogni faccenda sotto il cielo
Per ogni faccenda sotto il cielo
Gli incontri più importanti sono già combinati dalle
anime prima ancora che i corpi si vedano. Generalmente, essi avvengono quando
arriviamo a un limite, quando abbiamo bisogno di morire e rinascere
emotivamente. [...]
Allora l’ignoto si manifesta e il nostro universo cambia rotta.
[Paulo Coelho, Undici minuti]
Salutai sorridendo zio Simon, zia Isabelle e il
piccolo Amos e chiusi la conversazione.
I Meziane, scappati ad
Alicante un paio di settimane prima della nostra partenza, erano appena tornati
all’Istituto in compagnia dell’adorabile figlioletto appena nato, che da quanto
scalciava tra le braccia di zia Iz già si prospettava diventare temibile come
suo padre.
Ero sola in casa. Logan e
Trish erano andati chissà dove a fare chissà cosa, mentre Chris era uscita di
corsa a comprare del balsamo – “ORRORE! È finito!”
Era ancora troppo presto per
andare in spiaggia, anche se in teoria la stagione balneare era iniziata il
venticinque aprile e noi avevamo già prenotato un ombrellone a Serapo via
Internet, e a parte girovagare per Gaeta o le cittadine limitrofe non c’era poi
molto da fare. Inoltre, come se non bastasse, una perturbazione atlantica aveva
portato pioggia, vento e freddo.
In altre parole, mi stavo
annoiando a morte.
In cerca di qualcosa con cui
ammazzare il tempo, nel bene o nel male – anzi, nel bene e nel male –
avevo ricominciato a leggere i rapporti stilati dal Console e dall’Inquisitore
sul probabile omicidio di massa di lupi mannari di cui, nel caso fosse appunto
stato un omicidio, si cercavano ancora il movente e l’assassino. Zio Alec me li
aveva passati sottobanco con la raccomandazione di non parlarne con nessuno,
nemmeno con i miei familiari, in modo da evitare di coinvolgerli ulteriormente
nella questione.
Dal canto mio, non avevo certo
intenzione di andarlo a sbandierare ai quattro venti anche prima che zio me lo
proibisse, però non era un’ottima cosa rifletterci da sola senza avere a
disposizione un’altra mente cui chiedere pareri. Ho sempre avuto il brutto
vizio di trarre conclusioni affrettate, soprattutto in mancanza di qualcuno che
possa aiutarmi ad esaminare la situazione da un diverso punto di vista, e
nonostante all’epoca tutti fossimo portati quasi per costrizione ad
arrivare ad un’unica soluzione per l’enigma – nemmeno fosse un’equazione di
primo grado – io ero sicuramente la persona più influenzabile e manipolabile.
Parafrasando, pensavo sempre a
Jean.
Jean di qua, Jean di là, Jean
potrebbe aver fatto questo, Jean ha fatto questo.
Certo, non era la prima volta che la mia testa era occupata solo e
soltanto da lui. Insomma, avevo passato la bellezza di due mesi a sognarlo di
notte e a scrivere il suo nome circondato di cuoricini praticamente
dappertutto, e poi c’era stato il periodo immediatamente successivo a La
Sera. Però era raro che questi pensieri fossero di carattere puramente
oggettivo, freddo e analitico.
Morte per avvelenamento, citavano i referti delle autopsie. Trattandosi di licantropi, il
veleno in questione era ovviamente l’argento, del quale erano state trovate
tracce nell’esofago, nello stomaco e nell’intestino. Ciò indicava che fosse
stato ingerito, chiaramente non per spontanea volontà.
Quindi era palese che fosse un
omicidio, di massa perlopiù. Problema: killer invisibile, cause sconosciute,
data e ora precisa dell’avvelenamento ignote.
Data la natura dell’assassinio
era stata avanzata un’accusa secondo la quale sarebbero stati i vampiri di
Idris a commettere il reato, durante una delle tante cene in compagnia del
branco di mannari stanziato a Brocelind. Tuttavia i due clan non si
incontravano ufficialmente da parecchio; per di più il signore dei vampiri in
quei giorni era fuori sede, dunque era del tutto improbabile che gli altri si
fossero divertiti in quel modo senza che anche il loro capo potesse godere
dello spettacolo. Inoltre, tra di loro correva buon sangue.
Ricordavo da una delle tante
sedute in Consiglio l’intervento di un tizio dal nome parecchio strano che
aveva azzardato l’ipotesi del suicidio di massa, la quale non era da scartare,
ma è noto che i lupi mannari non possono maneggiare l’argento – e pure se
avessero usato guanti o altro era poco plausibile che fossero riusciti a non
venirne mai in contatto diretto – e comunque mancava una motivazione alla
base.
Mmm... chi conosceva alla
perfezione i metodi d’indagine degli Shadowhunters e nutriva un inspiegabile
odio verso i licantropi?
Jean.
Peccato però che lui non si
trovasse ad Alicante all’epoca dei fatti.
E lui non era il tipo da fidarsi
dei complici, né peraltro delle persone in generale. Stesso motivo per il quale
era un ballerino solitario e ballava raramente in gruppo.
Per cui, ciao ciao denuncia
per omicidio.
Nulla mi vietava però di
denunciarlo per altro. Ma non volevo farlo. Ero troppo vigliacca.
Egoista. Codarda. E svogliata.
Sbadigliai e chiusi i
fascicoli, quindi mi avviai al piano di sopra e, sentendo la porta d’ingresso
sbattere, mi affrettai a nasconderli sul fondo di una delle valigie nella mia
stanza. Stavo per scendere di nuovo quando Chrysta mi bloccò sulla porta. —
Oggi si investiga — annunciò, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
— E dove? — le chiesi,
incrociando le braccia sul petto. — Fuori piove.
Lei fece su e giù con le sopracciglia.
— Se non si può fare fuori si fa dentro — sussurrò in tono ambiguo, poi mi
afferrò per un braccio e mi trascinò su per le scale.
Feci immediatamente due più
due. — Ah no, eh! — esclamai. — La mansarda no!
— La mansarda sì! — replicò
Trish, spuntata all’improvviso con Logan al seguito.
— Andiamo, Lori... — mi
supplicò lui, ghignando maliziosamente. — Lo sappiamo che sei curiosa. Io
scommetto venti dollari che ci nasconde i cadaveri, là dentro.
L’ultimo gradino scricchiolava
in maniera inquietante. — E dai, ragazzi, possiamo non ficcare il naso negli
affari altrui, per una volta?
Logan mi balzò davanti con l’agilità di un felino. — Ma noi siamo
Shadowhunters, ficcare il naso negli affari altrui è il nostro scopo nella vita
— replicò con grande senso pratico. — Signorine, a voi l’onore.
Gli scoccai un’occhiata
confusa e lui mi rispose con una smorfia di scherno. — Parlavo con le altre
signorine, quelle che oggi lo sembrano, almeno. Ma ti sei pettinata, come
minimo?
— Sì, mi sono pettinata e sì,
sei uno stronzo. — Gli sorrisi fintamente.
Lui ricambiò il ghigno. — Oh,
così mi piaci, cugina. Comunque, dicevo... — Si fregò le mani come nel miglior
film di mafia e si rivolse a Trish e Chrysta: — A voi l’onore.
Mentre Trish armeggiava col
cellulare, Chris fece scattare la serratura con uno schiocco delle dita. —
Telecamere — spiegò, indicandomene una piazzata strategicamente dietro un
pilastro.
— Anche piuttosto vecchie,
direi — aggiunse Trish, per poi esultare con un sorriso che andava da orecchio
a orecchio. — Fin troppo facile metterle offline e cancellare le ultime
ventiquattr’ore di registrazione.
Logan le batté il cinque. —
Sei la migliore, Attila.
— Mai quanto Imperator. — Chris le diede di gomito,
ridacchiando. — Di’ quello che vuoi, ma io non credo che non vi siate scambiati
qualche foto hot, o che lui non ti abbia insegnato qualcos’altro oltre a come
scoprire le password...
L’irritazione per aver
contravvenuto al volere della padrona di casa svanì nel momento esatto in cui
Chrysta nominò il mentore di Trish. Be’, forse era complice anche il fatto che
la mansarda fosse soltanto un semplice studio privo di cadaveri ma pieno di
polvere, ecco.
Logan si fiondò sulla poltrona
girevole con un grido di giubilo. — Le amo
queste cose! — Poggiò sfacciatamente i piedi sulla scrivania e intrecciò le
mani dietro la testa. — Ah, adesso si ragiona. Anche Imperator aveva una sedia così, sorellina?
— E le manie di comando, come
suggerisce il suo nome? — gli fece eco Chrysta, insinuante. — E un grande, grosso
p...
— CHRYSTA!
— Portatile? — finì lei,
facendo scoppiare a ridere tutti tranne la povera interrogata.
— Con una grande, grossa
webcam? — continuai io, appollaiandomi sul bordo della scrivania. — Ahia! E
questo cos’è?
Contenta di poter sviare la
conversazione su un altro argomento, Trish mi sfilò una cartellina di cartone
con dentro infilata una penna da sotto il sedere.
— Lori, non ti lamentare... — mugugnò
Logan, mentre la sorella passava in rassegna ogni singolo foglio contenuto nel
raccoglitore. — Con Jean sarai stata abituata a ben altro...
— E NO! — gridai. — Non lo
accetto! È vietato cambiare la vittima del terzo grado!
— Ah sì? — Chrysta rise. — E
chi l’ha detto?
Mi finsi offesa. — È una delle
leggi non scritte dell’Universo, cugina, mi sorprendi! Inoltre, con Jean ero
consenziente, invece questa penna ha cercato di violarmi contro la mia volontà.
Complimenti, Lorianne, hai scherzato su Jean! Facciamo progressi,
facciamo progressi. Applausi.
Trish mi schiaffeggiò alla
cieca con la mano libera. — Prima di riuscire a violarti quella penna avrebbe dovuto
attraversare il fortunatamente sottile strato di cotone dei pantaloni e poi
quella roba assurda che tu chiami coulotte
e io cintura di castità.
— Ehi, non è colpa mia se ho
bisogno del push-up per tenere su questi glutei flosci!
— Lo è, invero — si inserì
Logan, fastidioso come al solito. — Mi duole dirle, milady, che se negli ultimi
mesi si fosse allenata o almeno avesse spartito il letto con qualcuno ora non
avrebbe avuto tali problemi di tono muscolare.
Gli feci una pernacchia,
inondandolo di saliva. — Mi duole dirle, milord, che se condividessi anche solo
una goccia di sangue in meno con lei la ammazzerei qui e adesso.
Chrysta alzò una mano. —
Tecnicamente, non condividet...
— Lo sappiamo! — la zittimmo
entrambi.
Lei fece per ribattere, ma
Trish la stroncò sul nascere. — Ehi, ragazzi, guardate un po’ qua...
In un attimo fummo tutti
dietro di lei, gli occhi puntati sul piccolo pezzo di carta bianco e rosso che
stringeva tra indice e pollice.
Logan fischiò. — Wow.
Contravviene alla legge, signore e signori. Un piccolo pensierino per i
cadaveri lo farei, a questo punto.
A malincuore, dovetti
concordare con lui. — Ma per prescrivere farmaci non serviva la laurea in
Medicina?
— Esatto — confermò Trish. — E
la nostra Rita D’Amante non ce l’ha.
Chrysta avvicinò il foglio
agli occhi. — Cosa c’è scritto? Non si capisce.
— Quando mai si è capita la
scrittura dei dottori... — borbottai.
— È un nome maschile, perché l’ultima
lettera è una O, così anche il cognome, che sembra iniziare per M ma con una
zampetta in più — tentò Logan. — Trish, anche tu fai la M con quattro zampette!
— Separate alla nascita —
commentò Chrysta.
Trish le pestò un piede. — Ma
va’ a fanculo.
— Ci sono già — canticchiò lei,
imperturbabile.
Trish respirò a fondo per
calmarsi, poi richiuse la cartellina e la rimise sulla scrivania. — Stasera me
la paghi.
— Stasera? Perché non subito? —
Già mi immaginavo con i popcorn in mano. Non potevano rovinare i miei piani per
la giornata.
Chrysta arricciò le labbra in
un ghigno. — Non vorrai...
— Oh sì.
— Dance-off! — gridò Logan,
entusiasta. — Freestyle, pista casuale, giudice il pubblico. Mi piace!
— Ciò vuol dire... — Mi presi la testa fra le mani. No. No. NO!
La Stregona esultò. — Che si
va in discoteca!
La musica altissima
mi rimbombava nelle orecchie scandendo un ritmo sincopato e irregolare, tipico
dei brani di quel periodo, quando andavano di moda i suoni più distorti e
discordanti che si riuscisse a produrre.
La voglia di restare lì era pari a
zero, idem per la voglia di andare a ballare o fare altro che non fosse
sorseggiare qualcosa seduta su un divanetto, osservando e criticando, magari
con Chrysta, le sconvolgenti mise
della maggior parte della gente nel locale.
Ma Chris si stava scatenando sulla
pista con Trish – la battaglia era finita con un pareggio – e Logan si era
infilato dietro alla postazione del DJ per ammirare la consolle di ultima
generazione, così ero rimasta sola in mezzo a una miriade di corpi accaldati e
sudati, con il rischio di essere spintonata e urtata senza il minimo riguardo e
toccare qualche fluido corporeo di sconosciuta origine al cui confronto l’icore
dei demoni faceva decisamente meno schifo.
Le discoteche. Che meraviglia.
Sbuffando, mi feci largo a
gomitate tra la folla fino a raggiungere l’angolo bar e lasciarmi cadere
sull’unico sgabello libero, tra una tizia che batteva nervosamente le unghie
sul bancone e un tizio curvo in avanti.
Ordinai un cocktail analcolico che
somigliava molto a un Mojito. Nell’attesa, tirai fuori il cellulare e
controllai che non ci fossero chiamate perse o messaggi non letti. Controllai
anche l’ora: mezzanotte. Menomale che la mattina seguente saremmo dovuti essere
alla Montagna Spaccata per le nove. Di certo io non sarei riuscita a svegliarmi
prima di mezzogiorno.
Il barista, un tipo abbastanza
carino sui venticinque, mi consegnò il non-Mojito e mi fece un grosso sorriso
che io non ricambiai, preferendo abbassare lo sguardo sul bicchiere e cercando
di non dargli uno schiaffone per aver azzardato delle avances – retaggio dei tempi in cui stavo con Jean e le attenzioni
degli altri ragazzi mi sembravano solamente modi per portarmi a letto. Cosa
che, per inciso, non avrei mai neanche immaginato di accettare.
— Hi!
Qualcuno mi aveva salutato in inglese.
D’istinto pensai fosse il barista, perché era l’unico a cui avevo parlato e
probabilmente aveva colto l’accento nella mia voce. In ogni caso, però,
chiunque avrebbe potuto salutarmi in inglese.
Alzai pigramente la testa verso il
barista, ma lui era da tutt’altra parte. A parlare era stato lo sconosciuto
seduto alla mia destra.
— Hi — gli risposi nella stessa lingua. — Come hai fatto a capire che
sono inglese? — aggiunsi poi in italiano.
— Ti ho letto nella mente. — Rise
spensieratamente. — No, sul serio, ho visto la data sul tuo cellulare. È
impostata secondo il modello americano. E tu, invece? — mi interrogò curioso. —
Come hai fatto a capire che sono italiano?
— Istinto. Non scherzo. — Bevvi un
sorso del drink. C’era un po’ troppa menta, ma non mi dispiaceva. — Sei qui
solo soletto?
— Eh già. — Colsi una nota di
amarezza tra le righe. — Diciamo che dovrei lasciarmi alle spalle il passato,
ma provo uno strano e sadico piacere nel rigirare il coltello nella piaga
ricordando i bei momenti passati in questo posto e in molti altri.
— Una perdita di recente? — gli
domandai, cercando di non sembrare irrispettosa.
— Due — mi corresse lui. — Il mio
migliore amico e la mia ragazza.
— Ahia — commentai, sinceramente
dispiaciuta. — Com’è successo?
— Me l’hanno detto. Mi hanno detto
che stavano insieme e facevano anche altro, alle mie spalle, da più di un anno.
E io che credevo fossero morti...
Ottimista, insomma.
— Santo cielo — replicai
sbalordita, prendendomi mentalmente a pugni per essere stata tanto stupida. —
Il peggior tradimento, non c’è che dire.
— Compagna di sventure?
Che ficcanaso.
— Esattamente — confermai bevendo
un altro sorso. — Non la tua stessa sventura, ma comunque tua compagna.
— In Italia per dimenticare?
— Esattamente — ripetei. — Per
dimenticare e... per riflettere. Su una decisione che non ammette pentimenti.
— Qualcosa del genere “giuro
eterna e cieca fedeltà all’Uomo che fuma”?
— Qualcosa che ha suppergiù il
medesimo livello di pericolosità — affermai, ridacchiando per il riferimento da
nerd. — Sei fortunato che mio zio mi abbia fatto vedere X-Files, oppure
mi sarei limitata ad alzare le sopracciglia e girarmi dall’altra parte, stile
“mi hai definitivamente scocciata”.
— Andiamo, è una serie cult!
— Sì, che ha la stessa età dei
miei genitori!
— Be’, hai genitori giovanissimi —
commentò lui. — Insomma, li hai diciott’anni, no? E quindi quando ti hanno
avuta, a ventidue?
— Ventitré.
— Appunto, giovanissimi — ribadì.
— Da che pulpito, poi... mio fratello è nato quando i miei ne avevano
venticinque.
Notai che parlava con assoluta
naturalezza, come se non gli importasse che stesse raccontando tali
informazioni a una perfetta estranea. Percepii anche una punta d’orgoglio nel
suo tono, molto sicuro e tranquillo. Da ciò intuii che dovesse essere abituato
a colloquiare apertamente con una massiccia quantità di persone, anche e
soprattutto di quanto riguardava la sua famiglia.
Decisi perciò di ricambiare con la
stessa moneta. Se all’inizio ero determinata a restarmene sulle mie e a non
concedergli altro che qualche chiacchiera scambiata formalmente, in seguito il
suo carisma mi fece cambiare idea.
Aveva un certo fascino, malgrado non fosse il tipo di fascino che
avrebbe potuto seriamente far colpo su di me. A prima impressione sembrava un
ragazzo logico, pratico, schietto, eppure il brillio degli occhi e il modo in
cui il suo sguardo a volte cadeva sulla runa Voyance tradivano una parte più
enigmatica e misteriosa.
Con un sussulto mi resi conto che quella parte più enigmatica e
misteriosa di cui avrei tanto voluto scoprire origine e scopo avrebbe finito
per portarmi alla rovina, come già era successo con Jean.
Ricambiare con la stessa moneta, a quel punto, non era più una saggia
decisione.
— Mattia Nardone. — La sua mano comparve all’improvviso nel mio campo
visivo, distogliendomi dai miei pensieri.
Gliela strinsi. Era piccola, liscia, diversa dalle mani Shadowhunter che
ero abituata a stringere. — Lorianne Herondale.
— Come? Lorraine?
— No, Lori-anne — scandii. — È un nome molto strano, lo so.
— Non è strano, è solo... poco comune — ribatté lui. — Il che è un bene.
Adoro tutto ciò che è poco comune.
Allora se
sapessi quanto sono poco comune io mi ameresti, pensai, e per un attimo fui
tentata di rispondergli così. — Sei di qui?
Mattia annuì. — Di Serapo, precisamente. Tu? Da quale parte del Nuovo
Continente provieni?
— Sono nata a New York, ma non abito in America da quando avevo cinque
mesi — gli spiegai. Una buona bugia contiene sempre una parte di verità. —
Faccio parte di una... comunità che vive fra la Francia, la Svizzera e la
Germania. Siamo presenti in tutto il globo, ma lì c’è la nostra... patria
ancestrale.
Mattia fischiò sommessamente. — Wow. Dev’essere interessante. Cioè siete
una specie di... tribù? Come gli Amish?
— Mmm, non precisamente. Tra di noi siamo simili nella maggior parte
degli aspetti – in particolar modo gli usi e i costumi – ma allo stesso tempo
siamo immensamente diversi.
— È per questo che hai quei... tatuaggi?
D’istinto mi coprii la mano destra con la sinistra per nascondere la
runa Voyance. — Sì. Ma anche questi variano di persona in persona. Alcuni sono
obbligatori, diciamo, altri facoltativi.
Mattia fece vagare lo sguardo su per il mio braccio scoperto, dal polso
alla spalla. Mormorò qualcosa che non riuscii a comprendere del tutto a
proposito di una nonna e un pescatore, poi si riprese e mi sorrise. — Be’,
piacere di averti conosciuta, Lorianne!
— Come, già te ne vai?
Feci il labbruccio. Me ne pentii. Lo feci di nuovo. Me ne pentii di
nuovo.
Per informazione, io faccio il labbruccio solo in casi precisi. Molto,
molto raramente. Ne era passato di tempo da quando l’avevo fatto l’ultima
volta.
Perfetto, Lorianne. Ti sei presa una cotta.
Alla faccia del “non è il tipo di fascino che potrebbe seriamente far colpo su
di me”... E gli alti standard dove li mettiamo?
Lui saltò giù dallo sgabello e sbadigliò. — Eh sì. Dopo cinque ore di
scuola e due di volontariato in ospedale è già un miracolo se riesco a stare
sveglio fino alle dieci.
Alla parola volontariato l’asticella segnapunti di Mattia schizzò
in alto e colpì la campanella sulla cima, facendo DONG!
Il suono mi schiarì le idee. Ma certo, perché non ci avevo pensato
prima?
Intendiamoci, non sono esattamente
un’autorità in materia d’intraprendenza, sia in fatto di ragazzi che in
generale, ma tutti quegli anni con Jean avranno pur portato i loro frutti, no?
Mi alzai in piedi, stiracchiandomi fintamente. — Forse è meglio se
anch’io me ne vado. Domani – cioè oggi – dobbiamo essere alla Montagna Spaccata
entro le nove, sperando di riuscire a trovare qualcuno che ci faccia da guida.
Dai, lo pregai.
Cogli l’antifona... Insomma, guardami, sono adorabile!
— Hai detto “dobbiamo”. Devo dedurre che non sei da sola.
Mi morsi l’interno della guancia, reprimendo un moto di stizza. E va
bene, tizio pressoché sconosciuto. Con me hai chiuso. — Sì, sono insieme ai
miei cugini.
Ciò significa che se non ti ucciderò io lo faranno loro.
Mattia mi fissò per un attimo, poi si voltò verso il bancone e afferrò
un tovagliolo da una pila tenuta ferma con una stella marina imbalsamata. Tirò
fuori una penna dalla cover del cellulare e scribacchiò qualcosa sul
tovagliolo, quindi me lo premette nel palmo.
Non mi azzardai ad abbassare lo sguardo per tre secondi buoni. Che
avesse scritto il suo numero?
Ma no, nessuno scriveva più il proprio numero su un tovagliolo da
vent’anni ormai...
Infatti, sulla fragile carta
spiccavano delle parole: Lupo di Mare, Via Bausan 6, Gaeta medievale.
— Veniteci a trovare al ristorante, qualche volta. Vi consiglio di
prenotare.
Ovvio, prenoto subito! Oh, aspetta, ma tu non mi hai dato il numero!
Mi diedi un calcio da sola per sbollire la rabbia e mi costrinsi a
sorridere. — Certamente. Allora... ci si vede?
Mattia mi strinse la mano, poi mi rivolse un sorriso talmente raggiante
da farmi dimenticare che ero furiosa. — Ci si vede. Ciao, Lorianne!
— Ciao — lo salutai, e quando fui sicura che se ne fosse andato mi
lasciai cadere sullo sgabello e ordinai un altro drink.
Alcolico, però.
SONO VIVA! VIVA! V-I-V-A!
Lo so, lo so. Sono una stronza, una
bastarda e tutto quello che volete. Tre mesi. Tre mesi ci sono voluti per
questo capitolo. E vi dirò di più: tutta la seconda parte era già bell’e
pronta, pure da parecchio tempo. Il problema è stata la prima, che infatti non ha
il benché minimo senso. Però era importante spendere qualche riga per Jean, per
la D’Amante e per il misterioso hacker mentore di Trish. Tanto importante da
spenderci tre mesi.
Non ho giustificazioni per il
ritardo, e non le ho mai avute. Ho sempre cercato di essere il più schietta
possibile, nei limiti del decente e del politically correct, per cui non vi
dirò esattamente cos’ho fatto in questi tre mesi di assenza, grilli che
frinivano e cespugli che rotolavano nel deserto, inframmezzati da un paio di
post nella bacheca di Wattpad che saranno stati visti sì e no da cinque persone e un breve
salto per cambiare la grafica del profilo su Wattpad (su questo ritornerò dopo). Vi dirò
soltanto che l’abbonamento di Office ha scelto il momento peggiore per scadere
(ma ora sto scrivendo da Word di Office 2016 Professional Plus piratato e
quindi FUCK YEAH), poi sono andata a mare, tornata a casa tante volte perché è
venuto a piovere, fatto qualche gita fuori porta delle quali una in Puglia in
cui È VENUTO A PIOVERE e una a Firenze in cui fortunatamente c’è stato il sole
ma comunque faceva ABBASTANZA FREDDO per il periodo in corso (#mainagioia) e
passato quattro o cinque o dieci notti insonni – che per me equivale a stare
sveglia fino alle due – a ruolare con la grandissima Francesca Paduano di cose
che vedrete in House of Sa... ops.
Vabbe’, ormai ve l’ho detto: la
tetralogia sequel si farà!
*Lanci di pomodori*
Come una personcina a caso
(*fischietta*) ha notato, ebbene sì, la nuova grafica del mio profilo ha a che
fare con la serie The Houses, composta da quattro storie: House of Cards, House
of Sand, House of Wood e House of Stone.
Concludo questa NdA assurdamente
lunga e assurdamente prova di senso (proprio come il capitolo – che però non è
assurdamente lungo, mannaggia, volevo scrivere qualche parolina in più dopo
tutto questo tempo) con un ATTENZIONE: chi l’ha notato l’ha notato, chi non l’ha
notato non l’ha notato. Cosa? BOOOH. Rileggetevi il capitolo (la seconda parte
in particolare) e magari i capitoli precedenti e capirete, se saprete collegare
i pezzi. Ricordate: nulla, nulla, è messo a caso.
E ora me ne torno nel mio angolino a
fustigarmi. Non c’è bisogno che mi uccidete.
Baci e abbracci,
Federica
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Capitolo 10 *** Delle paure ***
9. Delle paure
Delle paure
Vieni. Inseguimi
tra i cunicoli della mia mente tastando al buio gli spigoli acuti delle mie
paure.
[Saffo]
— C’è un
motivo ragionevole per il quale ti stai arrampicando su quelle scale come
un’artista circense? Noi non
entreremo di nuovo in quella mansarda, mai più!
Fissavo a braccia conserte Trish dalla
soglia della mia camera, con la coda che premeva fastidiosamente contro il
muro. Era stato non tanto il rumore dei suoi passi veloci sul pianerottolo a
svegliarmi, quanto piuttosto lo scricchiolio sinistro dell’ultimo gradino, del
quale, evidentemente, non si era ricordata.
Ma le parole Trish e divieto non
andavano d’accordo, più di quanto facessero a pugni Trish e rimorso: infatti quella
ebbe la faccia tosta di rivolgermi una linguaccia e aprire la porta della soffitta
con uno strattone, fregandosene altamente.
Sbuffando, me ne tornai nel letto ancora
caldo. Era inutile ormai fare l’arpia della situazione, considerando
soprattutto che i miei cari cugini si erano distrattamente
dimenticati di chiudere a chiave lo studio e rimettere le telecamere di
sorveglianza online, ed ero più che sicura che questa dimenticanza si sarebbe
perpetuata nel tempo. Ragion per cui evitavo di dare aria alla bocca, non avrei
comunque ottenuto alcun risultato.
Affondai la faccia nel cuscino con un
sospiro di sconforto. Eravamo tornati a casa alle due, io mi ero addormentata
alle tre e mezza ed ero stata costretta ad alzarmi solo cinque ore dopo, ossia
la metà di quelle che mi servivano a seguito di una serata – più che altro nottata – del genere. Inoltre, avevo
meno di trenta minuti per lavarmi, vestirmi, rifarmi una coda decente e partire
per la via della Montagna Spaccata, dove speravamo di trovare un’anima pia
gaetana che ci portasse un po’ in giro.
E a proposito di anime pie gaetane, il
rifiuto di Mattia – o la sua idiozia, che fosse voluta o reale – mi bruciava
ancora. In realtà mi bruciava anche il fatto che ci avessi provato così
spudoratamente, molto in stile donna dai
facili costumi o ragazzina in calore,
ma il torto maggiore apparteneva a lui: per uno che faceva volontariato,
accettare il gentilissimo invito di
una povera vacanziera a fingersi una guida turistica per un solo, misero giorno
sarebbe dovuto essere più facile che bere un bicchier d’acqua.
A quanto pare, accontentare un’americana
disperata non era nella sua lista delle priorità. Nella mia lista delle priorità, invece, in un punto non ben precisato tra
tagliarmi i capelli e urlare al Consiglio e più in generale al
mondo intero che Jean è uno stronzo era comparso vendicarmi di Mattia Nardone.
Un urlo di Chrysta dal piano di sotto mi
riscosse dai miei pensieri, rammentandomi che era tardi e nessuno aveva ancora
inventato un modo per rallentare il tempo. Perché lei è sempre così gentile.
Alla fine riuscimmo tutti ad essere pronti
con solo qualche secondo di ritardo sulla tabella di marcia, dovuto
principalmente al fatto che a Villa Orlando la colazione era un privilegio
riservato a chi se la preparava da solo, e nessuno si sarebbe azzardato a
compiere un atto di carità nei confronti del dormiglione di turno, nemmeno con
la promessa di un cospicuo guadagno.
In fondo in famiglia i soldi non mancavano
affatto: messi insieme lo stipendio ordinario del Conclave, con varie aggiunte
dovute alle straordinarie imprese passate e presenti del gruppetto, mamma e
nonna Jocelyn che ogni tanto vendevano i loro quadri, i lavoretti occasionali
di zio Magnus, papà e zio Alec spesso chiamati in Accademia a tenere lezioni e
conferenze e nonno Robert che una volta al mese mandava la paghetta ai suoi
cari nipotini, avevamo accumulato un patrimonio abbastanza cospicuo da spartire
tra di noi. Così zio Simon aveva rimodernato l’Istituto, papà aveva
ristrutturato la villa degli Herondale col pensiero che un giorno potessi
andare ad abitarci io – Sì, come no,
aspetta e spera, gli ripetevo sempre, specialmente nell’ultimo periodo –
zio Magnus aveva contribuito alla costruzione di un orfanotrofio ad Alicante e
nonno Luke aveva donato negli anni un centinaio di dollari al rinascente
Praetor Lupus.
Per quanto riguarda noi ragazzi, io
sinceramente non sapevo quali casse riempire con quelle somme esorbitanti,
quindi le tenevo da parte e spendevo il necessario. Chrysta non è che
sperperasse il proprio denaro, ma si concedeva qualche acquisto futile che poi
buttava nel fondo dell’armadio o regalava a me, senza sapere che io gli avrei
riservato lo stesso infelice destino. Trish, oltre a un’insana ossessione per
lo shopping compulsivo, cercava di stare sempre al passo con la tecnologia,
anche se spesso e volentieri preferiva scambiare l’usato con il nuovo e pagare
la differenza, per evitare di rivendere tutto. Logan era un po’ più misurato,
ma non risparmiava sui regali, tant’è che più di una volta ci siamo trovati tra
le mani un pacchetto all inclusive per
una spa della Florida, un biglietto in prima fila per un concerto compreso di
accesso al backstage o l’ingresso in un club esclusivo.
Per cui, di quella vacanza non mi spiegavo
tante cose: in primis perché non avessimo preso una stanza di albergo – almeno
lì la colazione te la portavano in camera, o perlomeno te la preparava qualcun
altro; oltretutto non potevamo dire che Gaeta fosse carente in materia: certo
non potevi pretendere il lusso più sfrenato, ma avevo avuto modo di vedere che
almeno un hotel aveva ottenuto le cinque stelle ed era anche vicino alla
spiaggia, cosa che Villa Orlando non era affatto.
Poi, perché Gaeta. Nulla da contestare alla piccola cittadina, che in effetti
era molto graziosa e sembrava amata dai turisti, ma con tutto ciò che offre
l’Italia mi stupivo che i miei cugini, abituati al mare delle Bahamas, all’area
urbana di New York e alle altezze mozzafiato degli Appalachi, avessero
preferito una meta più moderata
invece che puntare allo spettacolare, come, non so, la Costa Smeralda in
Sardegna o le Dolomiti.
Forse avevano visto così tante meraviglie
che ormai non si stupivano più, quindi tanto valeva scegliere la mediocrità,
per una volta. O forse avevano semplicemente bisogno di tranquillità.
Dopotutto, la più bisognosa di tranquillità
era proprio la sottoscritta, dal momento che parlavo con un Angelo. Sarei dovuta essere l’ultima a
poter mettere bocca su quell’argomento, dato che di più assurdo di una conversazione
con un tizio splendente quanto l’incarto di un Ferrero Rocher – la mia droga
nei mesi in Italia – c’è veramente poco, se non nulla.
Tuttavia, mi sarei ricreduta.
E mi sarei ricreduta anche su Mattia
Nardone, perché fu lui, qualche tempo dopo, ad introdurmi a qualcosa di ben più
assurdo.
In realtà
mi ricredetti su Mattia Nardone non appena vidi la sua longilinea figura
aspettarci sulle scale del Santuario della Ss.ma Trinità, i gomiti appoggiati a
qualche gradino più dietro e le lunghe gambe distese in avanti. Se ne stava lì
seduto, tranquillo, a prendere il sole come una grossa lucertola. Non era
esattamente una visione divina – come suggerivano il contesto e la doppia
ripetizione della radice sant- nel
nome della chiesa – ma, ecco, ci si avvicinava.
Lo riconobbi soltanto per la mascella
alquanto squadrata che caratterizzava la sua silhouette: metà del volto era
nascosta da un paio di Ray-Ban dalla montatura spessa, e il vento aveva
arruffato i riccioli castani, che la sera prima erano stati pettinati o
quantomeno sistemati. Era in perfetta tenuta da scampagnata, con una maglietta
leggera sotto una giacca di jeans, pantaloni di cotone e Converse
incredibilmente pulite.
Ci squadrò da sotto gli occhiali, che gli
erano scivolati sulla punta del naso, sorridendo sotto i baffi. In particolare
si soffermò su Logan.
Se non mi avesse parlato della sua ex
ragazza, avrei detto che era gay. Magari era bisessuale.
— Lui — furono le sue prime parole, — è
l’unico con un po’ di cervello qui.
L’idiota che mi ritrovo per cugino non perse
tempo con i convenevoli, tipo domandargli chi diavolo fosse e perché si
rivolgesse a noi, e nemmeno gli chiese di parlare in inglese per poter capire
meglio, nooo. Semplicemente si fece
arrivare gli angoli della bocca alle orecchie e con una voce squillante
dichiarò: — Ma grazie!
L’italiano si passò una mano tra i capelli.
— Come non detto. Comunque, signorine — proferì alzandosi, — io sono Mattia
Nardone, e ieri sera ho avuto il piacere di parlare con quella che credo essere
vostra cugina, mi sbaglio?
Trish per poco non sbavava, e Chrysta non
era da meno. Cosa ci fosse da sbavare non lo so: non è che Mattia fosse questa
grande statua greca, eh. Jean sì che era un tipo per cui versare secchiate di
bava. Ma in generale Jean era un tipo per cui avresti fatto ogni cosa possibile
su questa terra. Nel bene e nel male.
Data la scarsa se non nulla serietà delle
mie care compagne di viaggio, decisi che per quel giorno – soltanto per quel giorno – avrei messo da parte il rancore nei
confronti del signorino Nardone e mi sarei prodigata al fine di non farci fare
una pessima figura. Come se a quel punto mi importasse di non fare una pessima
figura con lui. Tzé.
— Sì, sono loro cugina. Ciao.
Lui si mostrò fintamente sorpreso. — Oh, ma
ciao! Non ti avevo vista. Evidentemente ero troppo impegnato a pensare a una
frase ad effetto per la mia entrata in scena. — Ghignò. — Allora, andiamo?
Trish scosse la testa come un cane bagnato.
— Andiamo... sì. Quanto vuoi?
— Nulla. — Mattia si spinse gli occhiali sul
naso. — Anzi, specifico, nulla di materiale.
Però vi obbligo a non stare mai zitti a meno che non ve lo dica io, la strada è
lunga e se non parliamo la fatica si fa sentire. A tal proposito, rinnovo i
miei complimenti al baldo giovane, qui: bravo, hai capito che servono i
pantaloni lunghi. Ragazze, vi riempirete di graffi e terra.
Mi voltai verso Chrysta, trionfante. — HA! —
esclamai, puntandole il dito contro. — Perché non mi state mai a sentire se
sapete che ho sempre ragione?
Logan mi si avvicinò con una falsa aria
compassionevole e mi batté una mano sulla schiena. — Perché di secondo nome fai
Cassandra. Povera, piccola profetessa condannata a parlare e non essere
ascoltata.
— Di secondo nome faccio Amatis — sbuffai.
Mattia gli impedì di replicare infilandosi
tra noi due. — Okay, non era questo che intendevo con non stare mai zitti. Preferisco condurre conversazioni
intelligenti, se non vi dispiace. E suppongo non vi dispiaccia. Oltretutto, ma
dalle vostre parti non si usa presentarsi?!
— Oh, scusa. — Logan gli strinse la mano. —
Logan Lewis. Quella bassa con il fisico di Christina Aguilera nei suoi anni
d’oro è mia sorella Patricia, detta Trish, e Janet Jackson, lì, è la mia cugina
preferita, Chrysta. E poi c’è lo spaventapasseri, non credo di dovertelo
presentare.
— Ma vaffanculo, va’! — Lo spinsi via
brontolando. — Un giorno me la pagherai cara.
— Uuuh, che paura! Così parlò Zarathustra! —
Lui mi fece una pernacchia, sputacchiando saliva dappertutto.
In tutto questo, Mattia ci fissava con le
labbra arricciate e un sopracciglio inarcato. — Se continuate così mi farò
seriamente pagare. Avete finito?
— Sì, hanno finito — sibilò Chrysta. — Su,
guida turistica abusiva, fa’ il tuo lavoro.
Mattia ridacchiò. — Subito. Perdonate
l’accento, nonostante abbia conseguito il C2 sono ancora carente nella
pronuncia. Allo stesso modo, se parlassi italiano non mi capireste, tendo a
cadere nel dialetto. — Si infilò le mani in tasca. —Abbiamo tre opzioni: fare chiesa,
mano e Grotta del Turco e Montagna Spaccata; prendere la strada principale e
vedere le tre polveriere; scegliere la via più lunga e salire fino al mausoleo.
Io consiglio le prime due, ci vorranno poco più di un paio d’ore. Il mausoleo è
meglio tenerselo da parte per un altro giorno. Ci state?
Noi quattro ci guardammo negli occhi per un
breve momento, poi Logan si fece portavoce: — Ci stiamo.
Mattia sorrise. — Bene, partiamo!
Si diresse spedito verso la chiesa, salendo
velocemente i gradini che la rialzavano dal livello del terreno. Ci affrettammo
a seguirlo. — Qui a dire la verità non c’è molto di interessante. — Prima di
entrare si tolse gli occhiali da sole e, una volta arrivato al centro della
navata, si fece il segno della croce. Solo allora notai che al collo gli
brillava un piccolo crocifisso d’oro giallo. — Ci tengo a sottolineare però che
il santuario è stato citato nel Don Chisciotte, e sorge in un contesto abbastanza
insolito, dato che il posto è da sempre luogo di fenomeni mistici.
Toccai la targhetta affissa a uno dei
banchi. Il nome del donatore era quasi illeggibile. — Aspetta, mi pare di aver
letto qualcosa. È implicata la Montagna Spaccata?
— La Montagna Spaccata è implicata in tutto.
Venite e vedrete.
Non uscì se non dopo essersi rifatto il
segno della croce.
Nella mia (dis)onorevole carriera da
Shadowhunter ho studiato e incontrato molte religioni, ma nessuna di esse mi ha
affascinato quanto quella cristiana, soprattutto il ramo cattolico. Ovviamente,
avendo a che fare con i demoni, ogni buon Nephilim sa che i nostri più validi
alleati mondani sono gli esorcisti ordinati dal Vaticano – anche se persino in
quell’ambiente c’è qualche infiltrato del Conclave, specialmente tra le Guardie
Svizzere. Seppur con metodi diversi, alla fine combattiamo per la stessa causa.
Mattia ci condusse oltre un arco, poi svoltò
a destra. Davanti a noi si stendeva uno stretto corridoio scoperto, delimitato
sui lati lunghi da due muri, nei quali, a intervalli regolari, erano scavate
delle nicchie. Ce le indicò. — Le stazioni della Via Crucis, maiolica del 1850
o giù di lì. Per me è tappa obbligata il Venerdì Santo.
Avanzammo lentamente, seguendo l’ordine
delle stazioni. Non ci fu bisogno di descriverle o commentarle: tralasciando il
fatto che le immagini parlavano da sé ed erano comunque accompagnate da una
didascalia, conoscevamo la Bibbia sicuramente meglio di Mattia.
— Tu fino a che punto credi? — gli chiese
Trish a bruciapelo.
Lui ci pensò un po’. — Dipende — sospirò
infine. — I Vangeli di solito li prendo alla lettera, dopotutto è quella la
base della mia religione. Fin quando si dice che Gesù resuscita i morti ed egli
stesso fa altrettanto mi sta bene, però poi c’è Salomone che evoca i demoni e
li costringe a stare ai suoi ordini, e insomma... ma anche no.
Mi scambiai un’occhiata eloquente con i miei
cugini. Era evidente che stessimo pensando tutti e quattro la medesima cosa: Meglio se non parlo.
— Però credo agli angeli — riprese dopo un
po’. — Mia nonna li vede, a volte. E ai fantasmi. Quelli li vede mamma, invece.
E bravo Mattia, due su tre.
Chrysta rise. — Tu non vedi niente?
— I film horror. Di qua, venite. — Ci fece
segno di stargli dietro. Sembrava camminare quasi in automatico. — Sulla
destra, mentre scendiamo, potrete ammirare la mano del Turco.
— Sì! — A Trish scappò un urletto sorpreso.
La fulminai con lo sguardo, e lei di ricambio sillabò “Fottiti”. — È quel fatto
della roccia che diventa burro?
Mattia scosse la testa. — No. È quel fatto
della roccia che diventa ricotta. All’asilo
ce lo raccontavano così, e guai se lo interpretavamo a modo nostro. — Si fermò
davanti all’impronta. — Eccola qua.
Effettivamente, sul fianco della montagna
era ben visibile il segno del palmo e delle cinque dita, diventato liscio per
tutte le mani dei visitatori che vi si erano posate sopra. Non riuscii a
trattenermi: dovetti toccarlo anch’io. — Wow.
La nostra guida ridacchiò sotto i baffi. —
Già. È la prima cosa sensata che ti sento dire da stamattina, Lorianne.
Gli indirizzai segretamente una linguaccia.
— È Lori-enn, non Lori-ann.
Alle mie spalle, sentii Logan che
sussurrava: — È Leviòsa, non Leviosà!
— Come ti pare. — Lui scrollò le spalle. — E
voi badate a non calcare troppo le T, odio quando mi chiamano Matttia. Comunque, a meno che non
vogliate tradurre il latino o l’italiano, la storia ve la spiego io: c’era un
marinaio, probabilmente turco, alquanto scettico circa la credenza popolare
secondo la quale la Montagna si sarebbe spaccata a seguito del terribile urlo
del Cristo poco prima della sua morte. Novello San Tommaso, venne qui, mise la
mano sulla roccia e abracadabra,
miracolo era fatto. Capirete da soli che questa è pietra calcarea, molto
porosa, e con un po’ di umidità in più è facile che si deformi. Andiamo avanti,
attenzione che si scivola.
Nemmeno a farlo apposta, non appena Mattia
ebbe finito di parlare Trish evitò un capitombolo aggrappandosi al fratello.
L’italiano sbuffò. — Come volevasi dimostrare.
Scesi gli ultimi gradini, arrivammo in un piccolo
ambiente che conduceva a una minuscola chiesetta. Prima di entrare, Mattia ci
fece notare una rientranza nella parete della montagna. — Questo è il letto di
San Filippo Neri: passava qui molte delle sue notti, vicino alla cappella del
crocifisso, che è stata visitata tra gli altri da Ferdinando II di Borbone e
Papa Pio IX.
Logan fischiò, ammirato. — E io che pensavo
fosse solo una cittadina di provincia.
Mattia si finse offeso. — Non insultare
Gaeta! — lo ammonì. — È ed è stata custode delle reliquie di Sant’Erasmo,
ultima roccaforte del Regno delle Due Sicilie, tremendamente bombardata durante
le Guerre Mondiali e centro strategico americano per la Guerra del Golfo. E poi
qua hanno inventato la tiella.
— Tiella? — domandai, confusa. — Pensavo che
in dialetto tiella significasse pentola.
— No, quello è tiana, ma si può usare anche tiella,
dipende da dove vai — precisò lui. — In effetti la tiella ha forma circolare,
l’etimologia potrebbe essere questa.
Trish arricciò le labbra. — Che cos’è? Si
mangia? Io non l’ho mai sentita.
— Sembrerà strano, ma si mangia davvero —
rise Mattia. — È lo stesso impasto della pizza, ma con litri d’olio in più e
steso molto più sottile. I ripieni sono vari, di solito è pesce – polipo,
baccalà, calamaretti, alici – e verdure varie, dal pomodorino a broccoli o
scarola. E peperoncino. Sempre.
— Interessante — commentai. — Dove possiamo
assaggiarne una fatta bene?
— A casa di mia... — Mattia si interruppe di
colpo, fissando un punto sulla parete davanti a lui. Rimase così per tre
secondi buoni, tanto che mi chiesi se non stesse assistendo a un’apparizione
divina. — Nonna — concluse, sussurrando. — Scusate, ho... niente. Forse era
solo un’ombra. Risaliamo.
Non spiccicò parola durante tutto il tragitto
di ritorno.
Nessuno di noi altri aveva visto o avvertito
qualcosa, neanche Chris, molto sensibile alle presenze di ogni genere. — Magari
è soltanto un po’ montato — mi mormorò all’orecchio mentre risalivamo le scale.
— O suggestionato.
— Suggestionato da cosa? — sibilai di rimando. — Non penserai sia stato influenzato
dalle rune...
— Possibile — si inserì Logan. — Chi
potrebbe mai dimenticarsi degli infiniti sproloqui di Sikh sui nuovi studi
condotti sull’argomento dai Silenti?
Trish annuì. — Concordo. E poi, Lori,
andiamo, tu sei una barra di plutonio radioattivo ambulante, chiunque
impazzirebbe con te nelle vicinanze. Senza offesa, eh — si affrettò ad
aggiungere. — È la pura e semplice verità.
Suo fratello mi diede un colpetto sulla
spalla. — Sempre detto che i Dursley sono cattivi perché hanno vissuto con un
Horcrux per sedici anni.
— Con te funziona più o meno allo stesso
modo — ribadì Chrysta. — Tu hai visioni, la gente ha visioni. Te lo ricordi
Francis Argentsang, quando...
— Sì, sì, me lo ricordo, grazie — brontolai,
grata che fossimo tornati di fronte alla chiesa e Mattia avesse riacquistato la
voglia di parlare. — Chiudiamola qui, okay? — aggiunsi, mentre la nostra guida
allungava la mano in avanti, in attesa di qualcosa.
— Ehm... — Trish si stampò in faccia un
sorriso colpevole. — Dicevi?
Lui emise un verso stizzito. — Sganciate un
euro ciascuno, serve per scendere nella Grotta. — Ci fissò uno ad uno,
inarcando le sopracciglia. — E mettetevi l’anima in pace, che sono duecentosettantacinque
gradini.
Ossignore.
Mattia aveva paura
di qualcosa.
Non smise un attimo di guardarsi attorno né
nella Grotta né durante il resto della nostra passeggiata; restò distratto e
assente, parlando giusto per farci notare una vipera che si rintanava tra la
boscaglia, un cespuglio di mirto profumatissimo o un arbusto di ginestra
particolarmente rigoglioso. Dalle parti della terza e ultima polveriera, la
Trabacco, che tra l’altro offriva un meraviglioso sguardo sul mare e gli scogli
sottostanti, affrettò il passo a tal punto che dovemmo chiedergli di non
correre.
Parve calmarsi un po’ solo quando si sedette
sul muretto circostante la polveriera, in attesa che noi facessimo le foto di
rito e ammirassimo il panorama, dondolando le lunghe gambe davanti a sé. Mi
accorsi che si toccava continuamente il crocifisso al collo, come se potesse infondergli
coraggio. Dopotutto, pensai, per un credente come lui in effetti era così.
Quando fui certa che Chris, Logan e
soprattutto Trish fossero abbastanza lontani, mi avvicinai a lui titubante. —
Che cos’hai visto — sillabai lentamente, — giù nella cappella?
Teneva gli occhi puntati a terra. — Non sono
nemmeno sicuro di aver visto qualcosa, figuriamoci se so cosa. — Si passò la lingua sulle labbra. — È da ieri sera che mi
sento... osservato.
Tirai internamente un sospiro di sollievo: la
teoria secondo la quale ero io la causa della sua suggestione era comprovata. —
Dai, sta’ tranquillo, ti sarai immaginato tutto.
Lui rise, una risata breve, quasi tra i
denti. — Ma io non mi immagino mai niente,
Lorianne. Dannazione, nonostante la scuola – e sono all’ultimo anno, considera –
riesco a fare affiancamento in ospedale, così da ridurre i tempi di tirocinio
dopo che mi sarò laureato, vado a correre col mio cane tre sere a settimana,
faccio da babysitter a mio nipote e addirittura aiuto i miei al ristorante
quando serve... Sono una persona estremamente realista, terrena e materiale,
come faccio ad immaginarmi qualcosa?!
— Be’... — Mi strinsi nelle spalle. — I tuoi
genitori o altri parenti sono stati uccisi da un assassino seriale e sei a tua
insaputa in un programma di protezione dei servizi segreti?
Mi guardò di sbieco. — Stamattina erano
tutti vivi.
— Uno spirito evocato da tua madre ti sta
perseguitando?
— Mamma non evoca gli spiriti, ci parla
soltanto.
— Sei invischiato con la mafia?
Fece una faccia disgustata. — Per l’amor di
Dio, no! Assolutamente no, non lo sarei mai. E poi qui non ci sono più i grandi
clan di decenni fa, è alquanto improbabile.
Mi azzardai a dargli una pacca sulla spalla.
— E allora è solo stress. Se fossi in te mi stupirei di non essere nemmeno un
po’ stressata, con tutto quello che fai.
— Ma a me piace quello che faccio — ribatté
lui con tono lamentoso.
— E su, Mattia, può capitare a chiunque! —
replicai allargando le braccia. — Forse hai ereditato i geni di tua madre e si
stanno manifestando solo ora. Forza, non disperare.
Lui si tormentò le labbra per un minuto
buono. Infine disse: — Ma ti pare che una vacanziera americana pressoché
sconosciuta deve farmi da terapista?
Finalmente risi. — Ehi, quid pro quo: tu ti
improvvisi guida turistica, io mi improvviso terapista, nessuno viene pagato.
Uno scambio equo.
— Grazie. — Mi rivolse lo stesso sorriso
della sera prima, un sorriso sincero e spontaneo. — Andiamo, vi riporto
indietro.
— Quindi,
ripetiamo: a parte casa di tua nonna, dove posso mangiare una buona tiella?
La voce di Mattia mi giungeva un po’ disturbata.
— Il forno Giordano in Via Indipendenza, ma il proprietario è un...
—
Ehi? Ci sei?
Lui continuò imperterrito: — Il Mediterraneo
sulla salita di Sant’Erasmo, e qui vi obbligo ad assaggiare le cozze al gratin,
la zuppa di cozze o qualsiasi piatto comprenda le cozze; la Pizzeria del Porto
vicino alla Guardia di Finanza, però questa ultimamente ha perso in qualità.
— Chiaro. Abbastanza. Cosa dicevi a
proposito del proprietario del forno? C’è qualche interferenza nella linea.
— Ovvio, sono dentro un vicolo. Comunque,
dicevo che è un montato del cavolo, si crede chissà c...
E non terminò la frase.
Per citare
me stessa in una NdA di Living the Present, a Natale io non sono più buona,
sono più cattiva. E perciò vi lascio con un cliffhanger fino all’anno prossimo
MUHAHAHAHA.
Dato che
voglio farvi rosicare ulteriormente, beccatevi ‘sto bello snippet da House of
Cards (volevo accompagnarlo con la copertina di Wattpad fatta da Althea, ma alla mia cover maker
non si mette fretta):
— Tu come
ti leggeresti?
—
Dall’alto in basso, dal basso in alto e in entrambi i versi della diagonale,
cerchiando tutte le maiuscole e anagrammandole in caso possano formare una
frase di senso compiuto.
Tanto non
riuscirete MAI a capire chi sta parlando. *Faccina malvagia*
Poi,
restando in tema The Houses, vi ricordate Ghnoti Sauton e Per Ardua ad Astra
(che poi in teoria la citazione corretta è Per Aspera ad Astra, ma dettagli), i
due spin-off dalla trilogia Past, Present and Future? Bene, sono abortiti
entrambi. Non precisamente, ma non esisteranno più come storie a sé. Nelle
Houses narro in terza persona, perciò posso fare quel che cavolo mi pare; ergo,
preparatevi ai flashback sulla storia di Lorianne e Jean, perché ce ne saranno
a bizzeffe. Per quanto riguarda Nathan e Cameron e la creazione del Ministero
della Sanità non vi prometto nulla, ma uno degli argomenti trattati nelle
Houses sarà la “crisi” del Ministero, per cui nel caso ho diversi punti aperti
a cui potermi collegare.
Ritornando
al capitolo... mmh, non mi piace più di tanto. Oddio, dipende dalla parte. Però
sono contenta di avercela fatta ad inserire, oltre al colpo di scena finale, di
cui verrà rivelata la causa nel prossimo capitolo e voi DOVRETE capire quel che
sarà sottinteso tra le righe, un easter egg tremendo che solo chi già conosce
lo sviluppo della trama (leggasi: me e altre due o tre personcine) potrà
cogliere. U_U #likeaboss
Quindi
nulla, vi faccio i miei migliori auguri per un buon 2017!
Un
bacione, ciao!
Federica
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Capitolo 11 *** Deficere ***
10. Deficere
Deficere
Deficere
est iuris gentium.
Essere irragionevoli è un diritto
umano.
[Aristotele]
—
VAFFANCULO,
Chris!
Infuriata nera, le schiaffeggiai via la mano
con cui mi aveva appena arruffato i capelli freschi di parrucchiere. Sul serio,
non erano passati neanche cinque secondi da quando ci eravamo richiuse la porta
alle spalle e lei già aveva da ridire. Idiota.
Si ravviò la fluente chioma, noncurante. —
Te li ha fatti troppo lisci. Sembrano spaghetti.
— I tuoi no, eh? — sbuffai di rimando.
Chrysta gongolò. — Ovviamente no. — Si
stampò un sorrisone smagliante in faccia. — I miei sono setosi e voluminosi,
guarda che meraviglia, guarda!
Non guardai per due semplici motivi: primo,
ero piuttosto incazzata; secondo, senza quella massa di ricci informi e
spettinati che aveva da sempre caratterizzato la sua figura, Chris era alquanto
strana. Non che non mi piacesse il suo nuovo look, anzi, le dava un’aria più
seria e matura, ma necessitavo di un po’ di tempo per abituarmici.
Esattamente come avevo necessitato di un po’
di tempo – un bel po’ di tempo – per
metabolizzare l’interruzione della chiamata di Mattia qualche giorno prima.
Ero certa che Mattia non avesse attaccato di
proposito né fosse caduta la linea: i microfoni in dotazione ai cellulari erano
notevolmente migliorati, ma ancora non riuscivano ad eliminare completamente i
disturbi di fondo, come ad esempio il sibilo dell’aria che diventa sempre più
forte e lo schianto dell’impatto col terreno.
Non mi bevevo la teoria secondo la quale gli
fosse semplicemente scivolato di mano: alla pari dei microfoni, avevano
perfezionato anche la resistenza dei dispositivi agli urti accidentali, così
che era quasi impossibile che il cellulare di Mattia si fosse fracassato a tal
punto da non potermi richiamare né permettere a me di rintracciarlo in alcun
modo, nemmeno con l’aiuto di Trish.
Oltretutto, checché ne dicessero i miei
cugini, io avevo sentito qualcosa dall’altro
capo del telefono. Era ovviamente possibile che le mie orecchie mi avessero
ingannato, posto che si possa chiamare inganno l’udire un distinto ringhio
animalesco pericolosamente vicino.
Ora,
Mattia aveva accennato di avere un cane. Non conoscevo la razza, ma lui aveva
detto di andare a correre in sua compagnia, perciò era deducibile che fosse di
taglia media o grossa, o quantomeno un cagnolino piuttosto vispo. Era molto
probabile che fosse vaccinato contro la rabbia, e ciò mi portava ad escludere
l’opzione che avesse potuto saltargli al collo e, Raziel non volesse,
azzannarlo. Era comunque plausibile, però, che avesse ringhiato per avvertirlo
di un pericolo. O ancora era un randagio.
In
tutti i casi, la rottura del cellulare era perfettamente spiegabile: nella
mischia, Mattia avrebbe potuto calpestarlo, idem il presunto aggressore;
inoltre, non era così tanto inverosimile che il cane potesse scambiarlo per un
giocattolino da mordere, considerata quell’orribile cover arancione
fosforescente.
Una volta tirate le somme, dopo circa tre
ore di isteria totale, mi ero calmata e avevo deciso di lasciar perdere. A
intervalli regolari controllavo le notizie locali, ma niente di più. In fondo,
mi dicevo, se fosse successo qualcosa di fuori dall’ordinario i giornalisti
l’avrebbero saputo, no?
I giorni seguenti, poi, mi convinsi
ulteriormente che non c’era nulla di cui preoccuparsi: il liceo scientifico
Enrico Fermi continuava le sue lezioni regolarmente, senza macabre interruzioni
per annunciare la morte di uno studente; il ristorante dei suoi genitori non
era chiuso per lutto; la Polizia e i Carabinieri non facevano più del loro
solito – ovvero niente, specialmente i primi; gli unici furgoni che battevano
le strade erano i rifornitori dei bar e dei piccoli alimentari della zona,
nessun accalappiacani all’orizzonte.
Affinai le mie abilità di stalking durante quella
settimana.
Il mercoledì arrivò la prova definitiva: il
computer di Trish, che lavorava ininterrottamente da domenica sera, trillò nel
cuore della notte svegliandoci tutti. Aveva miracolosamente rintracciato
l’ultimo segnale del cellulare di Mattia, affidandosi alle informazioni che
questo aveva inviato al mio durante la chiamata.
Il tempo di vestirmi ed ero già sulla scena
del crimine: Vico Caetani, poco lontano dal ristorante Lupo di Mare, una breve
ma abbastanza cupa scorciatoia per evitare di farsi la salita di Sant’Erasmo e
arrivare direttamente nella piazza del campanile.
Niente sangue. Niente segni di
colluttazione. Niente piccole componenti di un telefono sparpagliate in giro.
L’unica cosa degna di nota era un lungo, benché non eccessivamente profondo,
graffio sul basalto. Poteva averlo fatto un gatto, o il cane di cui sopra, o
ancora uno sbadato tecnico della lavastoviglie – parlo per esperienza, l’ho
visto accadere, e allora si trattava di piastrelle di gres porcellanato, non
porosa roccia vulcanica.
Insomma, volente o nolente, dovevo lasciar
correre e tornare a godermi il soggiorno in Italia.
Fortunatamente il tempo era assai
migliorato, e le tempeste di metà maggio avevano ceduto il posto ai primi caldi
afosi della fine del mese. Andammo in spiaggia il venerdì mattina, e restammo
lì finché il sole non tramontò, regalandoci uno spettacolo indescrivibile.
Al contrario di quanto avevo pensato
all’inizio, non mi feci molti problemi circa la cicatrice – se così si può
chiamare – dietro la schiena. Naturalmente, se mi fossi abbronzata sarebbe
risaltata di più, ma avevo intenzione di evitare il sole il più possibile,
considerato soprattutto l’alto rischio di scottature. Inoltre, realizzai, era
stupido mostrare i marchi e ciò che rimaneva di loro con tanto orgoglio e poi
vergognarmi di una porzione di pelle un po’ più bianca del normale. Certo, era
un simbolo della mia sottomissione a Raziel e bla bla bla, ma alla fin fine chi
altri, a parte me e i miei cugini, poteva saperlo?
C’è anche da dire che stranamente quel
bastardo di un Angelo non mi aveva importunata troppo, durante quel periodo. Le
visioni erano poche o nulle, quasi trascurabili, e i sogni talmente semplici da
farmi quasi ridere al risveglio. Come conseguenza si erano ridotti anche i
terribili mal di testa che mi assalivano ad ogni “attacco di Chiaroveggenza”,
per usare le parole di Chrysta.
Forse, finalmente, il cambio d’aria stava
dando i suoi frutti.
Peccato che la pace sarebbe durata ancora
per poco.
La
spiaggia di Serapo, un chilometro o poco più di sabbia dorata e pulitissima,
quel giorno era gremita di gente. Prevedibile, dato che era domenica.
Dall’alto del balcone della mia camera a
Villa Orlando, con i capelli che svolazzavano alla brezza profumata di
salsedine, osservavo le persone camminare e correre sulla battigia,
affaccendarsi ad aprire gli ombrelloni, tuffarsi in acqua o crogiolarsi al sole
come grosse lucertole. Sembravano tante piccole formichine, viste da là sopra,
sempre in movimento, sempre con qualcosa da fare, anche se quel qualcosa era
oziare in previsione della settimana successiva.
Erano così spensierati, stravaccati su un
lettino, a godersi un momento di pausa dalla frenetica routine quotidiana. Si
addormentavano, cadevano preda di sonni profondi eppure non affatto
ristoratori, mentre attorno a loro una mamma strillava contro i figli indisciplinati,
il tizio delle granite e quello del cocco urlavano a gran voce le loro offerte
e una comitiva di ragazzi della nostra età chiacchierava un po’ troppo
rumorosamente.
La
prima ondata di gente si ebbe alle dieci, la seconda a ora di pranzo, la terza verso
le quattro. Gli ombrelloni confinanti con il nostro erano tutti occupati già da
prima che arrivassimo noi. E sfortunatamente gli occupanti non erano dei
migliori.
La signora alla nostra destra aveva uno
strano modo di ridere, a metà tra una iena isterica e un babbuino in calore.
Guai se il sole avesse toccato un centimetro della pelle del tizio di sinistra,
peraltro assiduo ascoltatore di una pietosa stazione radio che mandava vecchi
successi in dialetto napoletano. La famiglia davanti aveva seri problemi di
pronuncia: il marito balbettava, la moglie non articolava bene la s ed entrambi
i figli sputacchiavano. Avevo visto quello dietro baciarsi e flirtare
pesantemente con tre ragazze diverse in tre giorni.
C’era qualcosa di gratificante nel riuscire
a leggere in tutto quel casino. Logan e Trish preferivano passare il loro tempo
in acqua o in giro per i vari lidi a cercare possibili avventure di una notte,
ma Chrysta, cosa alquanto sorprendente, restava a farmi compagnia, dedicandosi
allo studio di un vecchio tomo dal titolo Della
magia sessuale. Ovvio che anche lei cercasse avventure di una notte, ma
almeno prima si documentava.
Calcolai che approssimativamente a
intervalli di tre pagine arrivava sulla battigia davanti al nostro lido un venditore
urlante la sua mercanzia, da “Cocco fresco cocco bello!” a “Biscotti di
Castellammare!” e “Ciambelle calde!”. Ogni capitolo circa, invece,
l’altoparlante del bar annunciava un’offerta sui gelati o le granite (“Prendi
tre paghi due!”), un bambino che si era perso, l’imminente inizio di una
partita di campionato e i relativi goal, anche se per questi bastavano i boati
di gioia e sconforto che mi facevano sanguinare le orecchie.
Non che i miei occhi se la passassero tanto
meglio: una volta smarrita la voglia di rileggere il classico Un oplà e un bang: gli Shadowhunters
dell’era moderna, avevo optato per una relazione scritta a mano dal caro ex
Ministro Ryecatch circa i motivi che l’avevano spinto, dopo la fine del suo
secondo mandato, a richiedere un governo di tecnici e non un’elezione subito
successiva, data la pericolosa crisi economica e organizzativa in cui versava
il Ministero ormai da anni. E si sa com’è la grafia dei medici.
Abbandonai l’opera quando anche Chrysta fece
altrettanto, dichiarando di voler andare a buttarsi in acqua. Mi unii a lei:
faceva decisamente troppo caldo per
rifiutare. Magari per gli italiani quello era un clima mite, ma a Idris trenta
gradi li avevamo solo ad agosto, se era un anno favorevole.
La bellezza di Serapo si poteva ammirare nel
suo insieme solo dal mare. All’estremità in cui calava a picco il promontorio
di Monte Orlando, poi, si riusciva ad avere una visuale stupenda della curva
della costa, colorata dalle centinaia di ombrelloni, aperti e non, e dalle
migliaia di persone, con i loro diversi gradi di abbronzatura e costumi
improbabili. Nei pressi della roccia, popolata da moltissime cozze, l’acqua era
parecchio più fredda ma anche più limpida, di un turchese straordinario.
Restammo in ammollo finché fu sopportabile,
dopodiché ci facemmo una bella passeggiata lungo tutta la spiaggia,
ufficialmente per asciugarci, ufficiosamente per buttare l’occhio su soggetti
interessanti e criticare outfit assurdi, tra cui un pareo verde leopardato in
fucsia e uno slip maschile eccessivamente sgambato.
Al ritorno, con noi c’erano anche Trish e
Logan, col muso lungo perché non avevano trovato nessuno con cui condividere il
letto. Si consolarono con un gelato, a loro parere solo di poco migliore a
quelli della Little Italy, ma secondo me infinitamente più buono, e soprattutto
molto cremoso.
Verso le sette cominciarono ad andarsene
tutti. Noi aspettammo che venissero a cacciarci i bagnini: il sole che
tramontava sull’orizzonte era uno spettacolo da non perdersi per nulla al mondo,
in particolare per chi l’aveva sempre visto scomparire dietro i grattacieli, o
al massimo toccare la punta di una montagna.
Lasciai che i ragazzi se ne tornassero a
casa e mi avviai nella direzione opposta, verso quello che mi avevano detto
essere il vecchio Palazzetto dello Sport. Avevo sentito da qualche parte – e diverse
zone della città ne portavano le prove – che Gaeta era ogni anno presa
d’assalto da diversi urban artists
internazionali, che realizzavano i loro migliori murales durante la notte. Un
paio dei reperti delle prime edizioni di questa iniziativa erano dipinti
proprio sull’ex Palazzetto, anche se ormai erano scrostati e sbiaditi per via
della salsedine.
Si stava piacevolmente freschi, e dal mare
tirava una brezza profumata di iodio. I lampioni iniziarono ad accendersi
lentamente, aumentando pian piano la luminosità. Era una luce calda, che ben si
integrava col paesaggio e non dava un senso di artificialità. Non ero l’unica a
godermi l’ombra della sera: una nonna portava a passeggio il nipotino appena
nato, qualcuno accompagnava il cane a fare i bisognini, qualche coppia
camminava mano nella mano e due signore facevano stretching appoggiandosi su
una panchina.
Mi sedetti a gambe incrociate sul muretto,
osservando il disegno sulla parete anteriore dell’edificio. Non si
distinguevano più i contorni, ed erano rimaste solo poche macchie di colore.
Quello sul muro laterale, invece, si era conservato meglio, benché avesse perso
le tinte accese che sicuramente dovevano averlo caratterizzato nei suoi anni
d’oro. Per quello che ero riuscita a capire, entrambi avevano concept piuttosto
carini: ne presi nota per i miei schizzi futuri.
Spinta da uno strano impulso, con un sospiro
mi sdraiai sul muretto. Gobba a ponente,
luna crescente, pensai, lo sguardo rivolto al cielo. Molto probabilmente,
massimo tre giorni dopo ci sarebbe stato il plenilunio. A Idris a volte era
difficile dormire in quel periodo, con gli ululati dei mannari nelle orecchie.
Chiusi gli occhi, stiracchiandomi. Sentivo
il suono ritmico delle falcate di una corsa lenta e leggera che si avvicinavano
progressivamente. Si fermarono poco lontano da me.
— Ma allora mi pedini!
Mattia.
Alleluia alleluia.
Scattai su col busto. — Questi sono
inconfondibili, eh? — replicai, mostrandogli i Marchi sulle braccia.
— Già — rise lui, mentre si toglieva gli
auricolari e se li infilava in tasca. Notai che non aveva il fiatone; respirava
soltanto un po’ più veloce del normale. — Che cos’è, henné?
— Mmh — mugugnai per tutta risposta. — Tu non
devi dirmi qualcosa? — continuai, insinuante.
— Oh, sì. Piccola zuffa di strada. Cellulare
fracassato. E ricorda che sei tu ad avere il mio numero, non il contrario. —
Venne a sedersi accanto a me. Fatto da lui, sembrava un gesto quasi automatico,
abituale, privo di qualsiasi doppio fine. Piegò con cautela la testa di lato
per farsi scrocchiare il collo, ricoperto da una sottile patina di sudore. —
Che settimana di merda — brontolò.
— Cos’è successo? — gli chiesi per istinto,
forse in maniera un po’ troppo invadente.
Lui non parve farci caso. — Interrogazioni
in ogni santa materia, compito di matematica, fisica e latino, il mio cane dal
veterinario da lunedì mattina, un turno sfiancante nel ristorante di papà
durante il quale mi sono anche bruciato con le posate appena uscite dalla
lavastoviglie...
Lo interruppi immediatamente. — Sul serio? —
Per miracolo non scoppiai a ridere. — No, non ci credo.
— Sono molto
calde. Devono asciugarsi subito.
Ero sull’orlo di una risata sguaiata. — E tu
le hai toccate a mani nude?
Mattia mi guardò storto. — Andavo di fretta,
okay? C’era il vescovo ad aspettare e ovviamente avevamo apparecchiato col
servizio d’ordinanza, non certo quello per le occasioni. Sua Eminenza, non che
abbia qualcosa contro di lui, per carità, ci ha fatto una sorpresa nel peggior
giorno che potesse scegliere, quando la sala era già mezza occupata da una
comitiva di tedeschi urlanti, e io volevo solo restarmene a casa a far nulla. E
che cavolo.
Wow. Poco stressato, il ragazzo...
Sembrava quasi un’altra persona,
completamente diversa dal Mattia che avevo incontrato all’Eneas e rivisto alla
Montagna Spaccata non così tanto tempo prima. Di sicuro quel Mattia non avrebbe
gesticolato come un pazzo, né tantomeno parlato con un tono talmente isterico
da sfiorare le soglie raggiunte da una donna in piena fase mestruale.
— Ehi ehi ehi, calmo, eh — lo ripresi,
lanciandogli un’occhiata ammonitrice. — C’è gente che sta peggio di te.
Lui rispose con una risatina nervosa. — Sì
sì, come no. Può esserci gente che sta peggio di uno che crede di avere una
malattia autoimmune senza averne uno straccio di prova, mmh, Lorianne? Mi sento
una schifezza da un’eternità, Dio mio, un’eternità!
Voglio vedere se muoio prendendomi un raffreddore. — Quasi a rimarcare le sue
parole, tirò su col naso. — E menomale che mi ero ripromesso di non cadere
nella crisi del maturando.
Per uno strano gioco di luce, i suoi occhi,
puntati in basso, sembravano di parecchie tonalità più chiari. Lo facevano
apparire più inquietante, stralunato, quasi non umano.
Gli diedi una gomitata scherzosa nelle
costole. — Una flebo di camomilla e sei come nuovo.
Mattia si prese la testa tra le mani,
intrecciando le dita dietro la nuca. — Altro che camomilla, qua mi ci vuole un
Valium. In dose doppia. Facciamo pure tripla. — Si piegò in avanti con un verso
lamentoso. — Oh mamma mia, sto uscendo pazzo.
Stando in quella posizione, Mattia mi
mostrava anche il braccio destro. Forse non era un caso che si fosse seduto in
modo tale da nascondermelo.
Allungai la mano per istinto. — Cos’hai
fatto qui?
Lui si rimise dritto di scatto, scacciandomi
malamente. — Niente.
Una grossa ferita guarita da poco non era niente. Era qualcosa. Un qualcosa di molto brutto e di cui Mattia non voleva
parlare. Avrei rispettato la sua decisione, benché mi premesse di voler
scoprire cosa fosse successo. Ma avevo i miei mezzi per farlo in un secondo
momento.
—
Diciamo che ti credo — la conclusi lì, fingendo disinteresse. — Se guardassi
me, vedresti che anch’io ho un paio di cicatrici tanto terribili da poter
competere con la tua.
Lui si voltò di tre quarti, poggiando il
ginocchio sul muretto. — E perché non dovrei guardarti?
— Non ho detto questo.
— Hai usato l’imperfetto, indica distacco. L’hai
sottinteso tra le righe — ribatté. — È difficile non guardarti.
Stavo quasi per arrossire. Poi lui rovinò
tutto.
— Insomma, sei in tenuta da mare. Praticamente
mezza nuda.
Gli feci una pernacchia, sputacchiando
saliva dappertutto. — Perché, tu come ci vai a mare?
— In burkini.
— Non eri cattolico? — gli chiesi
ridacchiando.
— Mi sono convertito.
— E soprattutto, non eri maschio?
Lui mi indirizzò uno sguardo fintamente
malizioso. — Questo lo lascio appurare a te.
— Senti, tizio... — Mi misi le mani sui
fianchi, impuntandomi. — Se ci stai marciando...
— Tranquilla, non ne ho alcun interesse — mi
rassicurò subito. — Devo prima far sparire queste belle corna qua. — Puntò gli
indici in alto, come a indicarle. — Buttarsi di testa giù da uno scoglio
potrebbe servire?
— A farti finire all’altro mondo, sì —
replicai secca.
— Mi consolo sapendo che nella mia forma da
fantasma non ce le avrò più. — Mattia si distese di lungo sul muretto. I suoi
capelli mi solleticavano le gambe. — Ossignore, perché dopo più di un anno ci
sto ancora male?
Alzai segretamente gli occhi al cielo. — Non
tiriamo fuori l’argomento, per favore.
Dubitavo che avrebbe sopportato fiumi di
parole su quanto è figo Jean ogni volta
che lo rivedo in giro per Idris mi frullano le farfalle nello stomaco quanto mi
piaceva stare con lui ai bei vecchi tempi. D’altro canto nemmeno io ero
disposta ad ascoltare i suoi piagnistei da single cornuto e mazziato, sia ben
chiaro.
Inoltre, ma questa era una cosa ovvia,
ripensare a Jean in certi termini mi avrebbe fatto più male che bene. La Sera era un avvenimento ancora troppo
recente per poterlo sorvolare.
— Eppure non mi manca niente di lei, niente — continuò lui imperterrito. —
Eccetto...
— Il sesso — finimmo entrambi all’unisono.
— Sì, il sesso
— ripeté Mattia in tono sognante. — È l’unico aspetto sotto il quale sono
il cattolico meno cattolico sulla piazza. Sì ai preservativi e no alla
verginità fino al matrimonio. Non c’è alcun reato nel dare te stesso per il
piacere.
— Edonista — commentai, sorridendo
leggermente. Con Jean sarebbe andato molto
d’accordo.
— Umano — mi corresse lui. — Perché mai saremmo
noi a governare la Terra se non perché siamo l’unica specie che non fa sesso
solo per riprodursi?
Scossi la testa in segno di negazione. — Lo
fanno anche i delfini — specificai.
— Verrà il tempo dei delfini — filosofeggiò
Mattia, minimizzando il tutto con un gesto eloquente della mano. — Per adesso
ci siamo noi, e questo pianeta lo stiamo mandando sempre di più a puttane —
proseguì, la voce ora dura e grave. — A proposito di puttane...
— Tu hai un assoluto bisogno di fare un test
della personalità.
— ... Pare ci sia un bordello dalle parti di
Marcianise. Credevo non esistessero da decenni.
— È il mestiere più antico del mondo, Mattia
— sospirai scrollando le spalle. — Cosa possiamo farci?
— Io mi ci farei un giro.
— Ma vaffanculo, va’! — Gli tirai un calcio
nello stinco. — Suppongo che nessuno si sia mai meritato un vaffanculo da parte
mia dopo così poche ore di conversazione.
— Felice di essere il primo.
Scoppiò a ridere di gusto. Notai che sugli
incisivi c’erano lievi segni dalla vaga forma quadrata: doveva aver portato l’apparecchio
da piccolo.
Si rialzò all’improvviso con un movimento
fluido, stiracchiandosi. — Grazie per aver tollerato il mio bipolarismo.
— Ma no, sei giusto un po’ lunatico.
Rise
di nuovo. — Ciao, Lorianne.
Come già avevo immaginato, quella non
sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei sentito il suono della sua risata.
*Musichetta
iniziale di Star Wars in sottofondo*
Innanzitutto,
perdonate l’uso improprio dei due punti.
Seconda
cosa, CI HO MESSO POCO PIÙ DI UN MESE, BACIATEMI IL CULO.
Questo
capitolo è stato un altro mezzo parto, e non oso pensare ai successivi, che
tanto semplici non saranno *sigh*
Il
lato positivo, però, è che tra un po’ sarà
il momento della grande triade Alea iacta est parte 1 e 2 e Capitolo
non ancora intitolato che pensavo
di chiamare Noli me tange ma poi ho studiato il verbo nolo e ho capito
di star
uccidendo il latino, seguiti da La
Rupe, tutti e quattro anche detti migliori
produzioni pre-Houses, risalenti più o meno ad aprile
dell’anno scorso e
addirittura novembre 2015. (Perché io faccio progetti a lungo
termine).
Pensando
a questo, di capitolo, sappiate che il titolo non è riferito soltanto a
Lorianne e Mattia, che effettivamente sono
irragionevoli, ma anche alla sottoscritta, dato che per scrivere certe
idiozie la ragione devi averla spedita alle Maldive.
Sul
serio, tutto il dialogo non ha un benedetto senso. Ma... eh, è il miglior modo
per continuare a lasciare quelle famose briciole di pane che se seguite
porteranno a scoperte incredibili. (Senza pressione: se non volete sfiacchirvi,
queste scoperte le farete tutti quanti andando avanti con la storia).
Tale
sopracitato dialogo, devo riconoscergli – e automaticamente
riconoscere a me – un merito, è stato scritto con un
lessico piuttosto studiato. Minimo tre parole sono assolutamente
intenzionali e
nulla è messo a caso. (Ma non la parte dei delfini. Quella
è messa a caso).
Una
piccola precisazione e poi vi lascio: tutti i posti citati in questa storia
sono realistici al 100% salvo dove diversamente indicato. Qualsiasi riferimento
a fatti, luoghi o persone realmente esistenti potrebbe non essere casuale.
Quest’estate venite a Gaeta. #OrgoglioGaetano #OraMiCaccianoDaFormia
Un
buon 2017 in ritardo, e ci vediamo alla prossima!
|
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Capitolo 12 *** Licaone ***
11. Licaone
Licaone
Si fe d’un huom’, un lupo empio, e rapace
Servando l’uso de l’antica forma,
Che l’human sangue
più che mai li piace,
De’ suoi vecchi desir
seguendo l’orma.
(Ovidio, Metamorfosi, libro I)
Quella
settimana ringraziai di non essere a Idris.
In quei due mesi o poco meno in cui ero
mancata erano successi un bel po’ di trambusti in Consiglio, e di questo ero
già a conoscenza grazie alle telefonate di mio padre, ma prima che arrivassero
a Villa Orlando delle lettere indirizzate a me e Chrysta non avevo idea che
tali trambusti avessero portato a dei seri, seri
provvedimenti.
In uno degli ultimi sogni con protagonista
il misterioso lupo avevo notato che le torri di Alicante erano tinte di azzurro,
come in tempo di Accordi. In teoria, la ratifica dei Dodicesimi Accordi sarebbe
dovuta avvenire nel 2037, come di consueto a quindici anni dalla convalida dei
precedenti, gli Undicesimi, nel 2022. Mancava ancora un intero lustro.
E invece no: alla luce dei recenti
avvenimenti, tra cui la crisi del Ministero della Sanità e varie rivolte dei
mannari di tutto il globo a seguito della morte per omicidio di ventisei
licantropi sul suolo di Idris, di cui ancora si cercava il colpevole – o i
colpevoli –, un’extrema ratio del
Consiglio aveva ordinato, come mai era successo prima, la firma degli Accordi
con ben cinque anni di anticipo.
Qualche tempo dopo, con la testa di Mattia
in grembo, le mani insanguinate e un pugnale d’argento abbandonato poco
lontano, mentre urlavo a squarciagola un’unica, inutile parola, avrei aggiunto
un altro, terribile motivo alla lunga lista dei già sufficienti presupposti
perché avvenisse un evento tanto strano.
Se la Chiaroveggenza avesse funzionato,
forse avrei potuto evitarlo.
Il
Sottomondo di Gaeta, contrariamente a quanto sembrava, era discretamente
attivo. Certo non era New York, ma per una cittadina di provincia avere un clan
di vampiri, un branco di mannari e una buona rappresentanza di membri del
Popolo Fatato era seriamente encomiabile.
Gli unici a mancare – come, alla fine, anche
nel resto d’Italia – erano gli Shadowhunters. Un solo Istituto su tutto il
territorio italiano, dalle parti di Roma, e vari Nephilim sparsi qua e là,
assemblati in minuscoli gruppetti che messi insieme non contavano più di un
migliaio di persone. Non che servissero: la presenza demoniaca nella penisola
era, ed è, più o meno equivalente alla presenza di panda rossi in Asia. In
fondo, quale entità infernale vorrebbe mai avventurarsi su un suolo così santo
e benedetto?
Risposta: un’entità davvero potente.
Comprai un libro di leggende locali nella
cartoleria sulla salita di Sant’Erasmo. Era la ristampa di un successo
abbastanza datato e molto conosciuto dalla gente del posto, un must have per le vecchie e nuove
generazioni. C’erano storie di tutti i tipi, dall’origine della rivalità tra
Formia e Gaeta ai racconti sulla nascita della tiella, ma tra le tante una in
particolare attirò il mio interesse.
Aveva come protagonista un enorme, maligno
serpente, che si era insediato nella piana di Sant’Agostino – una località alla
periferia di Gaeta, dalla spiaggia sassosa e dall’acqua fredda e spesso agitata
– e aveva reso impossibile coltivare i campi circostanti per via dell’immane
terrore che incuteva ai contadini. Nelle notti ventose, il suo fetore si
spandeva fino alla cittadina, e a volte il suo terrificante sibilo si
confondeva col vento. Le navi passavano al largo da quella zona, poiché la
capacità di ipnotizzazione del serpente era tanto forte da attirare i marinai
sulla costa, per poi divorarli.
In molti avevano provato ad ucciderlo:
principi, potenti, cavalieri, con bombarde, cannoni, spade e pugnali; uno aveva
addirittura proposto di esorcizzarlo col crocifisso, un altro di farlo
specchiare per riflettere il suo stesso magnetismo. Inutilmente.
Finché non arrivò il pazzo del villaggio, un
uomo, guarda un po’, di nome Erasmo, il quale, a dispetto della gente che lo
scherniva e gli rideva in faccia, decise di tentare un metodo tutto suo per mandare
il serpente all’altro mondo.
Si armò di pazienza e si trascinò fino a
Sant’Agostino, dove appese dei formaggi a un cipresso, che poi cosparse di
fuoco greco. Attese che il serpente uscisse dalla sua tana e avvolgesse le sue
spire attorno all’albero, quindi incendiò il combustibile e se ne scappò a
gambe levate.
Sfortunatamente, gli abitanti del paese non
vennero mai a sapere della riuscita dell’impresa a causa dell’eccessiva vanità
del vecchio, che aveva voluto usare la macchina volante di sua invenzione per
tornare in città ed era precipitato nel suo destino, peccando di superbia.
Ora, potrei anche essere di parte, ma mi
permetto di dire che questo fatto potrebbe effettivamente essere accaduto, con
un Demone Superiore nelle vesti del serpente e qualcosa, nel piano di Erasmo,
adatto ad ammazzarlo, come un’ingente quantità di fuoco greco, probabilmente
benedetto, o un formaggio scaduto sul quale era proliferata una muffa mortale
anche per i non umani.
Per concludere, sì, sul piano demoniaco
l’Italia è alquanto carente, ma quando un demone stabilisce di metterci
piede... be’, sono cavoli amari.
Peccato che non tutti i demoni siano come ce
li aspettiamo.
Un
demone che non è come ce lo aspettiamo, ad esempio, è mio cugino.
Avrei dovuto rendermi conto che i gemelli
Lewis, Logan in particolare, non sono tipi da appartamento, e pure incatenati
riescono sempre e comunque a combinare guai.
Nello specifico, il guaio combinato da Logan
era stato infilarsi nel letto di una vampira che per sua sfortuna era la
protetta del signore del clan. Tale signore si presentò a casa nostra la notte
tra martedì e mercoledì poco prima dell’alba, tenendo Logan per un orecchio e
gesticolando con la mano libera come se avesse dovuto scacciare uno sciame di
zanzare particolarmente assetate di sangue. Stette alla povera e assonnata
Chrysta scusarsi per lui e, più tardi, fargli una scenata da Oscar, mentre
Trish ed io ce ne stavamo sedute sulle scale a sbadigliare di continuo. Finito
il teatrino me ne tornai in camera, nonostante sapessi che difficilmente avrei
ripreso sonno.
Dopo una mezz’ora piena passata a girarmi e
rigirarmi, prima sul fianco destro, poi sul sinistro, a pancia in su e a pancia
in giù, mi alzai e me ne uscii fuori sul balcone a godermi la fresca aria
mattutina. Il sole era sorto da pochissimo ma non faceva freddo, e sebbene
fossero a stento le sei c’era già qualcuno in spiaggia, principalmente gente
che faceva jogging o si concedeva una passeggiata prima di iniziare la
giornata.
Tra le diverse figurine che si muovevano qua
e là, una mi strappò una risata: si trovava alla mia estrema destra, cioè a
ridosso del promontorio di Monte Orlando dal quale io la stavo guardando, e
correva nel modo in cui corre chi è stato scoperto a fare qualcosa di
compromettente. Era impossibile da confermare, ma avrei giurato che fosse nuda.
Notte brava?
Nemmeno a farlo apposta, proprio in quel
momento un altro reduce di una notte brava mi raggiunse sul balcone. Un iratze
appena tracciato gli sfrigolava sul collo, cancellando i segni di un morso
piuttosto appassionato.
— Adesso posso definitivamente considerarmi
non fidanzato — esordì, sedendosi con il busto contro la ringhiera per poter
far dondolare le gambe nel vuoto. — Menomale che ho già rotto con Tara. Sennò
sapessi che...
— Fammi capire una cosa — lo stroncai sul
nascere. — Hai già rotto con Tara ma solo adesso puoi considerarti definitivamente non fidanzato? Che
diavolo di senso ha?
Lui alzò le sopracciglia in un’espressione
che urlava ovvietà. — Io
ho rotto con
lei, lei non ha rotto con me. Secondo il suo punto di vista stavamo
ancora
insieme, solo che ora l’ho “tradita” e sai
com’è... — Si avvicinò l’indice alla
tempia con una strana smorfia sulle labbra.
— Matta.
— Completamente fuori di testa — convenne
lui, enfatizzando ogni singola parola. — Ha mangiato l’ikebana che avevamo in
biblioteca, Lori. Mamma ci aveva messo secoli a comporla. E lei in due minuti
se l’è divorata. Tutta intera.
— E perché ti piaceva, scusa? Quella tipa è
da manicomio, Logan!
— Perché — fece mio cugino, di nuovo con
quell’aria di superiorità, come se la cosa fosse talmente palese da risultare
semplice da comprendere anche a un bambino, — è una gran gnocca.
— E il fatto che sia una gran gnocca
giustificherebbe la sua pazzia?
— No — si ritrovò costretto ad ammettere, —
ma la rende più sopportabile.
Sbuffai, roteando gli occhi al cielo. —
Seguendo questa logica, la smisurata avvenenza di Trish renderebbe sopportabile
il suo ignobile comportamento nei confronti della schiera di ragazzi che lei ha
lasciato fuori la porta coi vestiti in mano e il cuore sotto i piedi, e non mi
pare che sia così, considerate le migliaia di lettere d’amore che continuano ad
inviarle – e figurati che pensavo non esistessero più, le lettere d’amore.
Logan si produsse in una breve risata. —
Lorianne, devi comprendere che non tutti siamo monogami come te. Sei stata,
quanto, tre, quattro anni con Jean, buon per te, congratulazioni, auguri e
figli maschi. Sempre con Jean e solo con Jean, ad amarlo e idolatrarlo sul
piano ideologico e sul piano fisico. E infatti si è visto com’è finita.
Serrai le dita sulla ringhiera. — Logan... —
sibilai tra i denti.
— Sì, sì, okay, perdonami — aggiunse lui
velocemente. — Ma il punto è che mentre tu ti sentivi bene a coccolarti con
Jean e a pomiciare in quel frutteto di arance io mi sentivo bene a vedermi con
una tizia al giorno e Trish con un tizio alla settimana, e non puoi giudicarci
sulla base di questo, non più di quanto io possa giudicarti per aver preso una
scelta a mio parere sbagliata, ma a tuo parere evidentemente giusta. —
Congiunse le mani davanti a sé, ora serio. — Si tratta appunto di scelte, Lori, e
fin quando queste scelte non danneggiano nessun altro a parte noi, e intendo
danneggiare seriamente, non al
livello di cuori spezzati e lacrime inutili, chiunque dovrebbe starsene zitto e
farsi i fatti propri.
Mi mordicchiai il labbro. — Trovala una
persona che si fa i fatti propri — dissi piano.
Stavolta Logan rise più forte. — Ce l’hai
davanti a te, Lorianne, non la vedi? E Trish, Chrysta, i tuoi genitori, i miei,
zio Magnus e zio Alec, Cameron, persino quel chiacchierone di Nathan, chi altri
sarebbero se non persone che si fanno i fatti propri? — Alzò di scatto la testa
per guardarmi negli occhi. — Oh, Lorianne, noi sappiamo determinate cose e tu
sai che le sappiamo, eppure non le diciamo e tu sai che non lo faremo mai, e ci
facciamo i fatti nostri, teniamo la bocca chiusa, non ci fiondiamo in Consiglio
ad accusare quella persona che pure si fa i fatti propri nonostante possa
liberamente non farseli e accusare te,
quella stessa persona che molto probabilmente prenderà il posto di nonno
Robert, e tutto questo solo perché tu vuoi che noi ci comportiamo in questo
modo. E ancora non hai fede. Complimenti, cugina, vai, continua così!
Le parole di Logan contenevano un’enorme
quantità di verità estremamente difficile da riconoscere e da accettare, per me
come per chiunque altro si fosse trovato nei miei panni. Quando qualcuno ti
schiaffa in faccia un particolare tipo di argomentazioni, siano anche – come in
quel caso – volte soltanto ad affermare che la sua tesi è migliore della tua, è
sempre arduo fermarsi un attimo e riflettere seriamente e tranquillamente su
ciò che si è detto. È molto più semplice, e più umano, abbandonarsi alla foga
del momento e tentare di difendere strenuamente il proprio punto di vista, pure
a costo di rimetterci la dignità. Tuttavia, complici forse il paesaggio che mi
si estendeva davanti e quel venticello frizzante che portava il profumo del
mare, non me la sentii di ribattere e iniziare così una discussione che sarebbe
rimasta tale, priva di una qualsiasi reale conseguenza, e che avrebbe solamente
contribuito ad inacidire gli animi in tutta la casa.
Perciò mi cucii le labbra e rimasi in
attesa, avvertendo che c’era ancora qualche frase sospesa in aria. E infatti
poco dopo Logan sospirò profondamente, pronto a concludere l’arringa: —
Ascolta, Lori, ad essere onesto non mi sembra che tutte quelle ragazze con cui
sono andato a letto – e non lo nego, erano parecchie – abbiano ricevuto da me
qualcosa in più di qualche ora di divertimento; di certo non le ho lasciate con
una pagnotta in forno. E sebbene non sia interessato a sapere cosa combina mia
sorella con le sue conquiste posso essere sicuro, mano sul fuoco, che non ne
abbia mai castrata una. Niente gravidanze indesiderate, niente sifilide, solo
decisioni personali e meditate. Abbiamo l’età che abbiamo e assieme ad essa anche
una certa maturità, se me lo permetti.
— Se me lo permetti — lo scimmiottai, con
uno scatto nervoso del collo, — anch’io ho l’età che ho e una certa maturità,
eppure mi pare che nessuno se ne renda conto.
Logan balzò in piedi come una molla. — Solo
perché abbiamo protestato contro la tua insana idea di farti monaca? Si chiama libertà di parola, Lorianne, lo
insegnano ai bambini.
— Quindi a te l’hanno insegnato quando, il
mese scorso?
Logan fece schioccare la lingua sul palato,
scuotendo il capo in segno di disprezzo. — Parla, parla, cara cugina. Di’ pure
le cose che vuoi dire e non quelle che devi
dire.
Lo guardai di sottecchi. — Che fai, fino a
poco fa blateravi di libertà di scelta e libertà di parola e ora ti contraddici
da solo?
Lui si appoggiò alla ringhiera. —
Riconoscine le conseguenze, Lori. Pensa a quello che hai fatto, a quello che non hai fatto, e alla condizione in cui
ci hai messi. — Rise. Era inquietante. — Ci andiamo di mezzo anche noi, signorina.
Così ci stai danneggiando, e se non sbaglio ho parlato anche di questo. Se non
lo so io, quello che ho detto...
Mi sudavano le mani. — C’è un tacito accordo
tra noi due — proferii a denti stretti.
— Mmm — fece lui, piccato. — E sentiamo, quand’è
che avreste fatto quest’accordo? Prima o dopo quella notte al lago?
— È tacito,
Logan...
— Aspetta! — mi interruppe violentemente,
girandosi verso di me. — Di notti al lago ce ne sono state due, per di più una
peggio dell’altra. Quando avreste trovato il tempo per stringere questo tacito accordo, eh, Lorianne? — Stava
quasi urlando. — Tra un colpo di spada e l’altro? Tra un fiotto di sangue e
l’altro? Tra una persona uccisa e
l’altra?!
A quel punto avevo perso la pazienza. — È
tacito, Logan, tacito!
— Vai, vai, continua a ripeterlo, ti piace
così tanto quest’aggettivo?
— Non avevamo bisogno di stringerlo — cominciai, tremando per quanto ero isterica,
— perché se si fa avanti lui mi faccio avanti anch’io, e rovinerei Jean più di
quanto lui possa rovinare me.
Logan tacque per buoni trenta secondi. —
Strano — disse infine. — Ti ho sempre sentito dire l’esatto contrario.
— Non è l’esatto contrario! — protestai,
gettando le braccia in aria. — Semplicemente, lui ha più prove. Molte più
prove. Punto.
Lui inarcò un sopracciglio. — E queste prove
valgono a confronto con la tua testimonianza? La testimonianza di una donna?
Avevo una voglia immensa di sbattergli la
testa contro il muro e poi buttarlo giù, o in alternativa lasciarlo appeso alla
ringhiera per le caviglie per tutto il giorno. Trassi un respiro profondo: non
potevo dargliela vinta.
— Logan... — iniziai, con tutta la calma che
ero riuscita a racimolare. — Logan, lui ha dieci persone pronte a giurare sulla
Spada.
— E tu no? — ribatté lui in tono lamentoso.
— Raziel, Lorianne, sei impossibile!
— Fammi finire. La differenza sta nel fatto
che queste dieci persone hanno visto, voi solo sentito, e per di più l’avete
sentito da me, il che vi rende parziali. Ma il punto non è questo. Il punto
è... che io non ricordo.
Logan si bloccò a metà di un respiro. —
L’avevo immaginato — mormorò. — Suppongo sia abbastanza normale. Ma la Spada...
— La Spada non può nulla — spiegai. — Non è
una memoria che ho perso, è più come una memoria che non ho mai avuto. Tuttavia
so che è successo, ed è una cosa talmente assurda che a volte non credo nemmeno
a me stessa.
Finalmente Logan mi si piazzò di fronte. — Fermati. — Batté velocemente
le palpebre. È un vizio di famiglia, lo facciamo per schiarirci le idee. — Cioè
ipotizzi che te l’abbiano fatto dimenticare o qualcosa del genere?
— Sì — asserii. — Bloccato o rimosso.
— Come zio Magnus con tua madre?
Annuii di nuovo, senza aggiungere altro.
Logan sbuffò. — Possibile — ammise,
laconico. — Zio Magnus può aiutare.
Scossi la testa in segno di diniego. — Ho
già chiesto a Chrysta.
— Chrysta non è zio Magnus — rincarò lui. —
Ma va bene, Lorianne; se non vuoi ricordarlo avrai i tuoi motivi, e su questo
non ho dubbi. Però sta’ attenta. Prima o poi... prima o poi salterà fuori.
Logan mi diede una pacca fraterna sulla
spalla e se ne tornò dentro, lasciandomi a fissare Gaeta che si svegliava. E
mentre gli abitanti di quell’infinitesimo pezzo di mondo si ridestavano
tranquillamente, qualcun altro non aveva affatto dormito negli ultimi giorni, e
altri ancora non dormivano da decenni.
Raccolsi dal pavimento un piccolo fiore blu
tutto stropicciato, caduto di dosso a Logan.
Anche i vampiri di Gaeta avevano le loro
buone paure.
Come
da qualche settimana a quella parte, passammo il weekend a mare. Con la fine di
maggio e l’inizio di giugno la cittadina stava cominciando a strabordare di
turisti, soprattutto in vista della festa patronale di Sant’Erasmo. Quei pochi
ombrelloni ancora liberi furono subito occupati, gli hotel registrarono clienti
su clienti e i ristoranti fecero entrare in campo le riserve sia in cucina che
in sala. Nel giro di pochissimi giorni l’intero lungomare, rischiarato da
grosse luminarie, venne preso d’assalto da stand, bancarelle, camion e
camioncini; ai balconi si vedevano bandiere rosse e dorate con l’effigie del santo;
il campanile, la cattedrale e la chiesa dell’Annunziata grondavano di fiori e
nastri.
Mi sentivo quasi estranea a quell’esuberante
euforia: a Idris non avevamo determinati eventi in cui la comunità tutta si
riuniva per festeggiare, e in realtà non ne avevamo nemmeno l’occasione.
Nonostante il popolo degli Shadowhunters sia più o meno unito dal punto di
vista degli ideali, degli scopi e degli insegnamenti di base, ognuno mantiene
le sue tradizioni e i suoi costumi; salvo casi particolari, come le funeste
commemorazioni delle Guerre e l’anniversario della fondazione dell’MSS, i vari
gruppi culturali restano separati e svolgono da sé i loro riti.
Essere testimone di una tale situazione mi
fece gradualmente sviluppare un senso di disagio nei confronti di quella che
prima consideravo casa. Anche se nel corso degli anni sempre più Nephilim si
erano stabiliti ad Alicante, eravamo comunque una popolazione abbastanza
ridotta. Tutti sapevano di tutti. Eppure era sbagliato dire che tutti conoscevano tutti.
Invece lì, tra centinaia di migliaia di persone,
centinaia di migliaia di anime, visi e corpi, serpeggiava un senso di
appartenenza, di fratellanza, di umanità
che mai avevo visto prima.
Era davvero, davvero difficile credere che
quell’angolo di paradiso alternativo avesse anche i suoi lati oscuri. Ma quel
fiore che Logan si era portato dietro, volontariamente o meno, era un
pericoloso indicatore non di una discordia tra due parti, e nemmeno di una
guerra, bensì di un potere totalitario e terrificante di una fazione
sull’altra.
Questioni del genere, benché ben nascoste e
sconosciute ai più, sono fatali per chiunque. E purtroppo mi si presentò
davanti, in un modo tanto imprevisto quanto, paradossalmente, previsto, una
delle vittime.
L’avevo
sognato per settimane. Ogni notte. L’avevo incontrato nelle mie visioni. Mi
aveva condotto a Mistici e maghi del
Tibet. Aveva preso a zampate le torri antidemoni di Alicante. E me l’ero
pure trovato di fronte. Senza riuscire a riconoscerlo.
Cosa più sconvolgente di tutte, si rendeva
persino conto di essere un lupo mannaro.
— Mia nonna ha il vizio di raccontare
storie. Tante, ne racconta. A volte sono strane, inquietanti. Un pomeriggio mi
raccontò del suo bis-bisnonno Carlo, o quel che era – non azzecco mai il
preciso grado di parentela. Carlo era un pescatore, e all’epoca del fatto era
in barca con un amico. Era una di quelle barche senza motore, a remi. Verso
sera il suo amico cominciò a sentirsi male, a dimenarsi e a gemere. Ordinò a
Carlo di vogare, vogare e vogare, il più velocemente possibile. Gli disse di
lasciarlo sulla spiaggia e correre via senza voltarsi indietro. Carlo così
fece. Alle sue spalle sentiva l’uomo urlare. Anzi, no: ululare. Alzò la testa e vide... vide che era luna piena.
Lo toccai col fiore di aconito. Gridò.
E poi si mise a ridere, a ridere come un
pazzo.
Perché pazzo era quello che pensava di
essere.
— Era l’alba, ed ero nudo.
L’avevo visto. La mattina della discussione
con Logan. L’avevo visto dal balcone di Villa Orlando. Correva, incespicando
sulla sabbia morbida. Continuava a cadere sulle ginocchia.
Sarebbe stato bellissimo vederlo più da
vicino.
— Per fortuna tengo sempre dei vestiti di
ricambio in cabina. Ho rotto il lucchetto e l’ho buttato via. Per misericordia di Dio il
mio cane non mi ha abbaiato contro quando sono rientrato in casa. L’aveva fatto
per le due settimane precedenti. È per questo che l’avevamo mandato dal
veterinario, perché mi aggrediva. Invece stavolta mi ha leccato il braccio.
Istinto animale. Era successo tra Cash e nonno
Luke, molto tempo prima. Nonno si era tagliato con la carta, e Cash l’aveva
subito leccato. Quando nonno veniva a trovarci in periodo di plenilunio, papà
doveva portare Cash fuori a fare una passeggiata. Freya, al contrario, si
limitava a ringhiare.
— Un susseguirsi di attacchi epilettici,
probabilmente, con annessa amnesia. In passato dicevano che la luna influenzava
il ciclo femminile. Si guardava al suo stesso ciclo per stabilire i giorni
perfetti per la semina e la raccolta. A questo punto, perché non potrebbe
regolare anche un attacco epilettico? Luci lampeggianti possono funzionare da
stimolo per un attacco epilettico. Forse a me dà fastidio la luce della luna.
Luna, luna, luna. Ricordava la luna, e la
luna soltanto.
— Una psicopatia. Teriantropia, per la
precisione. Sì, sì, licantropia. Licantropia clinica.
Si rendeva conto di essere un lupo mannaro. Ma
non del tipo che conoscevo io.
Perché Mattia Nardone era uno scienziato, e
mai avrebbe ammesso l’esistenza di qualcosa che andava completamente contro la scienza.
Chiamatela
ispirazione divina: la domenica delle Palme finalmente pubblico il capitolo di
svolta della mia più longeva storia (e sta durando un po’ troppo, questa
storia, mannaggia a me mannaggia...). Come al solito perdonate il ritardo, ma
stavolta le cause di questo allungamento dei tempi sono state molto più serie,
tra problemi familiari uno dietro l’altro che non mi hanno lasciato nemmeno un
attimo di respiro, impegni vari e una gitarella a Torino.
A
proposito di Torino, BACIATEMI IL CULO: state ora leggendo le parole di
nientepopodimeno che la terza classificata assoluta in categoria junior alle
Olimpiadi di Italiano, babies! *Si infila gli occhiali da sole al rallenty*
Raziel,
quanto sono orgogliosa. Raziel, quanto mi piace. Raziel, quanto mi sto
frusciando. (Per gli ignoranti, frusciarsi vuol dire darsi delle arie).
Tornando
seri, non ditemi che non avevate capito che è Mattia il famoso lupo perché non
ci credo. La questione verrà ovviamente ampliata e ben descritta nel prossimo
capitolo, che a livello di difficoltà è più o meno come questo, anche se non
sarà un parto altrettanto doloroso. Ci stiamo avvicinando a quei tre capitoli
di cui vi ho già parlato nella scorsa NdA e automaticamente ci stiamo
avvicinando anche al capitolo La rupe, in cui si scoprirà finalmente cosa
diavolo è successo tra Lorianne e Jean.
Venendo
a questo, di capitolo, spero di avervi dato una bella soddisfazione con Logan che
piglia a male parole Lorianne, perché non credo nemmeno che non la odiate, la
odio persino io...
Però
amo Mattia, e infatti gli farò passare tante belle cose MUHAHAHAHAHA.
Tenete
bene in mente il fatto dell’aconito (che per i non adepti preciso essere
soprannominato strozzalupo), poiché, come qualcuno – spero – avrà capito, la
presenza di una difesa contro i lupi mannari nel territorio dei vampiri è una
cosa piuttosto significativa.
Ultima
curiosità e poi vi lascio: la nonna di Mattia comparirà fisicamente più avanti
ed è un personaggio interamente modellato su mia nonna. [Ciao, nonna!
Probabilmente sei l’unica che legge le mie note dell’autore ❤]. Inoltre, la storia del
bis-bisnonno Carlo, salvo rapporti di parentela differenti, è vera.
Bene,
vi lascio qui con gli auguri di Buona Pasqua, Pasquetta, 25 aprile e tutto
quello che volete, ci rivediamo al più presto e, mi raccomando, almeno un 30%
di voi lettori si faccia sentire, se non per commentare il capitolo almeno per
aumentare un po’ il mio ego e farmi le congratulazioni per la vittoria alle
Olimpiadi.
Hasta
la vista, baby!
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Capitolo 13 *** San Tommaso ***
12. San Tommaso
San Tommaso
24Tommaso, uno dei Dodici, detto Dìdimo,
non era con loro quando venne Gesù.
25Gli dicevano gli altri discepoli:
«Abbiamo visto il signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle
sue mani il segno dei chiodi
e non metto il mio dito nel segno dei chiodi
e non metto la mia mano nel suo fianco,
io non credo».
[Giovanni 20, 24-25]
—
Stai meglio
coi capelli corti.
Mattia non mi guardava in faccia. Teneva lo
sguardo basso puntato su di sé, sulle sue braccia che stringevano il nipotino.
Valentino, un bimbo meraviglioso di tre mesi massimo, gli stava sbavando sulla
spalla, e aveva tutta l’aria di volersi ciucciare pure il papillon.
Eravamo seduti sul muretto di fronte al suo
ristorante, lui voltato verso il mare e io di tre quarti per poterlo scrutare
bene. Aveva un aspetto decisamente migliore rispetto a quando l’avevo
incontrato la domenica precedente, almeno a livello fisico; sotto il profilo
psicologico, al contrario, sembrava aver appena varcato la soglia dello studio di
uno strizzacervelli.
Ovvio,
considerando che credeva di essere pazzo.
Per poco non mi convinsi di essere pazza
anch’io, dato che non avevo riconosciuto la sua natura di lupo mannaro nemmeno
dopo tutti i sogni e le visioni che mi avevano tanto tormentato a New York. Ma
in fondo i veri e tangibili segni della sua licantropia erano pochi, magari
giusto la cicatrice del morso sul braccio.
Pensandoci più approfonditamente, però, mi
resi conto non solo che avrei dovuto includere l’attacco di un mannaro tra le
tante ipotesi che avevo formulato circa l’interruzione della sua chiamata tempo
addietro, ma anche che l’ultima volta che ci eravamo visti, a Serapo, un paio
di giorni prima del plenilunio, i suoi occhi erano più chiari certamente non
per un gioco di luce. E dire che ero abituata a notare il cerchio giallo
nell’iride di nonno Luke in periodo di luna piena.
Con una riflessione posteriore arrivai alla
conclusione che, in parole povere, non è che non ne ero stata in grado, anzi,
non avevo voluto mettere insieme i
pezzi del puzzle: io quel lupo l’avevo visto morto. Moriva continuamente, quel
bastardo, in un infinito, terribile, assillante loop.
E non è una bella cosa sapere della morte di
qualcuno, che tu lo conosca o meno. In quel caso, considerato che si
trattava di sogni e non propriamente di visioni, più che sapere della sua morte
sapevo che il destino gli avrebbe riservato brutte sorprese, e io gli avrei
fatto compagnia. Posto ovviamente che fosse lui quel mannaro, anche se ormai mi
pareva abbastanza certo.
Si risvegliarono in me le speranze,
abbandonate quasi definitivamente a New York, che il lupo avrebbe potuto
aiutarmi con la questione Jean. Oh, che bello: un ragazzo che nemmeno aveva
idea di chi era veramente si sarebbe fatto in quattro per far salire a galla la
verità su cosa era successo a dicembre dell’anno precedente in un paese che per
lui non esisteva e che coinvolgeva un tizio sconosciuto e una vacanziera
americana con una strana abilità nel parlare italiano senza accento. Che grandi speranze.
Oltretutto, Mattia manteneva la calma solo
grazie al nipote. La presenza di Valentino lì aveva il ruolo di freno
inibitorio, che gli impediva di alzare la voce, gesticolare come un pazzo o
compiere altri gesti avventati, quale ad esempio buttarsi in mare. Sospettai
sin dall’inizio che non fosse casuale il fatto che, dopo aver visto fuori dalle
finestre del ristorante che gli facevo segno di uscire, avesse prima preso in
braccio Valentino e poi mi avesse raggiunta. Lui me lo confermò più tardi:
aveva passato col nipote quasi tutta la settimana, dalla fine delle lezioni
fino all’ora di cena, salvo quando aveva dovuto fare affiancamento in ospedale.
La buttò lì, pratico e schietto. Partì
parlando della nonna, che abitava nello stesso palazzo del ristorante, e arrivò
con una naturalezza pazzesca al pezzo clue
del racconto. Probabilmente neanche si aspettava che lo capissi. E invece io
avevo capito tutto, persino più di lui.
Dovevo portarlo sulla strada giusta. Non
poteva continuare a credere di avere una strana patologia psichiatrica che
forse era anche stata disconosciuta come tale, non poteva presentarsi
impreparato alla prossima luna piena. Gaeta era troppo piccola e troppo piena
di gente perché potesse permetterselo.
Gli chiesi di farmi vedere il morso. Mattia
si rifiutò; in effetti, per lui non aveva alcuna importanza. Insistetti e
riuscii a convincerlo. Mentre Valentino, una volta deciso che la camicia dello
zio era stata impiastricciata a sufficienza, giocava con la catenella del
ciuccio, Mattia mi mostrò l’avambraccio. Era un brutto, brutto sfregio. — Ti
hanno messo i punti? — gli domandai, tentando un approccio clinico.
Ricevetti come risposta soltanto uno scatto
nervoso del collo che non stava a significare né sì né no. — Sono saltati —
disse dopo un bel po’. — La ferita si è rimarginata nel giro di mezza giornata,
non ho più avuto bisogno neppure della fasciatura. E la cicatrice è parecchio
restia ad andarsene, o almeno a ridursi.
— Non se ne andrà, Mattia — gli annunciai,
sincera. — Tantomeno si ridurrà.
Lui osservò i tentativi del nipote di
staccarsi la pinza del ciuccio dalla maglietta. — Con tutto il rispetto, tu
cosa ne sai?
— Mio nonno — gli spiegai, cercando di
incrociare il suo sguardo. Guardandomi negli occhi, Mattia sarebbe stato in
grado di riconoscere se stavo mentendo. — Anche lui è un lupo mannaro.
— Mmm — fece, con un’intonazione crescente,
sarcastica, che accompagnava un rapido contrarsi e rilassarsi della mascella. —
E quindi adesso che intenzioni hai, consigliarmi una casa di cura e prevedere
quale sarà il mio futuro da malato psichiatrico? Ho sentito che da qualche
parte hanno ricominciato con l’elettroshock.
Mi concessi una breve risatina. — La seconda
opzione è praticabile.
— L’elettroshock? No grazie. Preferisco una
lobotomia.
— Intendevo prevedere il futuro, idiota.
— Oh, e come lo fai? — esclamò Mattia,
sardonico, degnandosi di scoccarmi un’occhiata sbieca solo per prendermi per il
culo. — Nonna legge i tarocchi. Tu invece guardi gli astri? Mi tracci la linea
della vita sulla mano? Oppure tiri fuori una sfera di cristallo dalle tasche
della giacca dove tieni anche quel pugnale?
Trasalii, colta di sorpresa. Lui sbuffò. —
Sì, certo che me n’ero accorto. Ho l’abitudine di controllare addosso alla
gente per vedere se ha qualcosa di pericoloso, lo faccio da quando hanno
tentato una rapina al ristorante. Lo sai, tu sei il tipo di persona che mi fa
scattare sull’attenti — continuò in tono leggero. — Sei strana, tu. Con tutti
quei... cosi stampati sulla pelle e
un pugnale che ti sei portata appresso anche all’Eneas e a Monte Orlando. Mi
fai l’impressione che mi farebbe un adepto della massoneria o di Scientology.
Mi chiesi se fosse il caso di rivelargli chi
ero in realtà. Forse quello era il modo migliore di sbattergli in faccia le
cose come stavano e iniziare ad introdurlo al Mondo Invisibile. Di sicuro non
mi avrebbe creduta neanche per sogno se fossi andata avanti con la storia del
lupo mannaro: quello era – pur forzatamente – spiegabile con la scienza, o
perlomeno con una pseudoscienza. D’altro canto, vedere un disegno che scaturiva
a mezz’aria dalla punta di uno strumento privo di un qualsiasi genere di
inchiostro, brillava e infine svaniva
sotto i suoi occhi avrebbe potuto traumatizzarlo a vita.
In tali occasioni l’illuminazione o arriva o
non arriva, nessuna via di mezzo. E l’illuminazione me l’aveva offerta proprio
Mattia su un piatto d’argento. Letteralmente.
Mi sfilai con cautela il pugnale dalla
tasca. Riflettei se mi sarebbe convenuto ferirlo o anche solo toccarlo, ma la
vista di Valentino seduto sulle sue gambe mi fece desistere. Perciò
semplicemente glielo porsi dalla parte del manico, tenendo la lama tra indice e
pollice.
Mattia sollevò le sopracciglia. — Sì?
— Scommettiamo che riesci solamente a
sfiorarlo? — lo provocai, sfoderando un ghigno di sfida.
— È uno di quei dispositivi per la difesa
personale, vero? — replicò subito lui. — Come minimo dentro ci sono un taser pezzotto e un allarme che mi farà
sanguinare i timpani per quanto è forte.
Scossi la testa, ancora sorridendo. — Non
c’è trucco non c’è inganno. Lo farei testare a Valentino, ma sai com’è...
Mattia schioccò la lingua sul palato in
segno di scherno. — Da’ qua, dai. — Allungò la mano, impaziente.
— No, prima i termini della scommessa.
Ricevetti di rimando un sospiro esasperato.
— Sentiamo.
— Se vinco io — attaccai, già pregustando il
sapore della vittoria, — mi stai ad ascoltare. Nient’altro, tutto qui. Se vinci
tu, farò qualsiasi cosa tu voglia.
Mattia mi fissò per un attimo, poi scoppiò a
ridere sguaiatamente. — Ah, Lorianne, tu a me non mi fai fesso! — Era ridicolo,
tutto bello convinto che di lì a pochi minuti non si sarebbe ritrovato il palmo
coperto di bruciature. Ed era ridicolo pure che fosse caduto nel dialetto dopo
aver mantenuto un ottimo italiano fino ad allora, l’accento di stampo
napoletano adesso molto più marcato. — Non mi fregherai con questi giochetti
psicologici, nossignore.
Sogghignai. — Chi ci va a perdere di più tra
te e me?
— Appunto — rincarò lui. — Giochetti psicologici.
— Riformulo. Cosa ci vai a perdere tu?
Mattia finse di pensarci su. — Il mio
preziosissimo tempo.
— Oh, andiamo, Mattia, se non avessi voluto
parlare con me non saresti nemmeno uscito dal ristorante — sbottai, irritata. —
Parallelamente, se io non avessi voluto parlare con te ti avrei lasciato qui in
preda ai tuoi deliri da psicopatico. Mi hai scaricato addosso una bella patata
bollente, signorino.
— Già. — Mi stava palesemente sfottendo. — E
tu mi sei anche stata a sentire senza dire una parola. Chi sta messo peggio?
— Va bene, Mattia, vaffanculo. Probabilmente
non ti è chiaro che con quell’accenno a mio nonno volevo farti capire che io so
qualcosa sul tema o quantomeno ne so più di te, e stavo solo cercando un
pretesto per metterti un tappo alla bocca e costringerti a prestarmi
attenzione, dato che stai stupidamente evitando l’argomento — per poco non
urlai, trattenendomi solo per via di Valentino. Povero cucciolo, ormai non
aveva più nulla da ciucciare. — Quindi, fammi questo favore, sii ragionevole e
comportati da civile!
Serrando le labbra, Mattia si alzò e mi si
piazzò davanti. Si sistemò il nipotino a pancia in giù sul braccio e lo fece
dolcemente dondolare avanti e indietro, scatenando un accesso di risa in quella
meraviglia di bambino. — Ammira la reazione di paracadute — rincarò ancora,
facendo cenno a Valentino che aveva per istinto spalancato braccia e gambe. —
Sono così bravo a cambiare argomento...
— E io sono così brava a infilarti quel
pugnale su per il culo...
Mattia incassò il colpo e me ne rispedì un
altro ancora più forte. — Troveresti il passaggio bloccato, le corna sono
talmente grosse che arrivano fino a là sotto, risalgono e mi escono dal naso.
— Non ti dico quanto sono grosse le palle
che mi stai facendo girare soltanto per decenza pubblica, guarda.
Mattia si stampò in faccia un’espressione
ammirata. — Te le ho fatte anche crescere, le palle, hai visto che bravo? —
Fece una pausa ad effetto, mentre i suoi lineamenti si indurivano fin quasi a
sembrare di pietra. — Hai visto che pazzo?
Roteai gli occhi al cielo. — Ed ecco che
riparte.
— Hai una spiegazione migliore? Sono aperto
a suggerimenti.
Avrei potuto mettermi a cantare l’alleluia
per quanto ero contenta. Mattia pareva essersi rassegnato, e ormai aveva
iniziato a coccolare il nipote in maniera lenta e meccanica, senza pensarci
troppo.
Mi sistemai a gambe incrociate sul muretto e
mi concessi uno sguardo trionfante prima di esordire: — Ammetto che non hai
tutti i torti a chiamarla malattia, però sbagli il tipo, di malattia.
Mattia aveva rialzato la testa non appena
avevo detto malattia. — Sì?
— Vedila come un’infezione — spiegai, — che
si è trasmessa attraverso quel morso.
Lui alzò la mano libera per fermarmi. — No,
per favore. Non mi starai veramente parlando di lupi mannari nel senso
mitologico del termine!
— Okay, rigiriamo la frittata — gli
concessi. — Mutazione genetica. Va meglio così?
Mattia si passò Valentino sull’altro
braccio, gemendo. — Mica tanto. Gli X-Men mi piacciono finché restano sotto
forma di fumetti, poi per amor di scienza o li imprigionerei in un laboratorio
o gli pianterei una pallottola nel cervello, e ovviamente annegherei Wolverine
e Deadpool, loro hanno il fattore rigenerante.
— Non lo faresti. — Gli scoccai un’occhiata
saputa.
— Non lo farei, no — ammise. — Mi
ucciderebbero prima.
Ridacchiai. — Io non sto cercando di
ucciderti.
Se aveva colto l’antifona – e l’aveva fatto
– Mattia non mi diede corda. — Perché, quale bizzarra mutazione hai tu? Tutti
in famiglia hanno gli occhi scuri e tu sei l’unica ad averli verdi? Oooh, wow,
che figata, dovrebbero dedicarti un fumetto.
Strinsi i denti, contenendomi. — Cosa vuoi
sentirti dire, mmh, Mattia? Vuoi che ti accompagni al manicomio e ti tenga la
manina mentre ti spogliano e ti buttano sotto una doccia di disinfettante? —
Allargai le braccia esasperata. — Come può esserti così difficile accettare che
potresti effettivamente essere un
lupo mannaro se credi a qualsiasi – e dico qualsiasi
– cosa ti imponga la tua religione?
Tirare in ballo la religione era stato un grave,
gravissimo errore. Se in precedenza Mattia era solo lievemente infastidito, ora
era furioso. — Primo, la mia religione non mi impone un bel nulla. Secondo, il
modo in cui la osservo non è affar tuo. Terzo, qua fino a prova contraria
quello strano non sono io, sei tu, cara la mia signorina
“potresti-essere-un-lupo-mannaro”. Ma ci pensi prima di sparare?
— E tu ci pensi prima di darmi torto a
priori, Mattia? — controbattei, il mento alto a ostentare sicurezza. — Conosco
la tua versione, è tempo per te di conoscere la mia. Vediamo quale delle due
regge.
— Come faccio a sapere che non sei una pazza
anche tu? — soffiò lui, stringendosi Valentino al petto.
Sorrisi amaramente. — Tra pazzi ci si
riconosce, no?
Mattia sospirò a lungo. — Dammi quel
pugnale, avanti — sbuffò infine, tendendomi la mano in attesa.
— Non vuoi prima accertarti che non sia
tarocco? — lo stuzzicai. La stavo tirando per le lunghe, me ne rendevo conto,
ma era fondamentale che capisse che non stavo affatto giocando. — Io te lo
consiglio.
— E sentiamo, come dovrei farlo? — Roteò gli
occhi al cielo, senza scomporsi eccessivamente. Mattia era il tipo di persona
perfetto per fare l’insegnante: una dose pressoché infinita di pazienza, una
certa lucidità anche nei momenti peggiori e un attacco isterico di tanto in
tanto, quando una delle due veniva a mancare.
Riflettei per un attimo. — Al ristorante non
usate dei guanti per non lasciare le impronte su piatti e bicchieri? —
azzardai.
Lui annuì. — Ce li ho in tasca. Ma non ci
riesco con Valentino in braccio — continuò riluttante.
Scoppiai a ridere, alzandomi per potermi
avvicinare a loro. — Tranquillo, non gli faccio niente. — Quel bambino pesava
come tre o quattro cocomeri maturi. — Ciao, panzerotto!
— Panzerotto è italiano, qui si dice panzarotto — mi informò Mattia mentre si
infilava i guanti. Lanciò un’occhiata veloce al pugnale che avevo poggiato sul
muretto, mordendosi il labbro. — Come fai a sapere così bene l’italiano?
Insomma, in nessun corso di lingua è contemplata la parola panzarotto.
— Te lo spiego dopo. Ahia! — Quel birbante
di Valentino mi stava artigliando i capelli. — Su, la tua sposa ti aspetta —
aggiunsi in tono allegro, accennando al pugnale.
In tutta risposta, Mattia si mise a
fischiettare la marcia nuziale. — Davvero molto divertente, signorina.
— Ricordati la scommessa, signorino.
— Sì sì sì, vabbè vabbè vabbè — minimizzò
lui, sollevando il pugnale con cautela. Lo esaminò attentamente, da entrambi i
lati, le lunghe dita avvolte dai guanti bianchi che ne tastavano ogni singolo
rilievo e seguivano il filo della lama. — Sono sconvolto, non è tarocco! —
fece quindi, ostentando una finta espressione stupita.
— Perfetto, san Tommaso — approvai
sorridendogli. — Ora posalo di nuovo sul muretto, togliti i guanti e toccalo.
Io ci proverei soltanto con l’indice, se fossi in te, ma se ami l’avventura...
— Non amo l’avventura — mi stroncò subito.
Quanto avrei voluto il potere di farmi
materializzare una ciotola di popcorn tra le mani per potermi godere il momento
come meritava di essere goduto.
Nonostante avesse mostrato una certa
prudenza iniziale, dopo un po’ Mattia si era stufato e aveva calato l’intero
palmo su tutta la lunghezza del pugnale, uscendone dolorosamente ustionato.
Rimasi a guardarlo soddisfatta per due
minuti buoni, aspettando che si riprendesse e realizzasse che la bruciatura
sulla mano stava lentamente scomparendo. Quando si fu calmato a sufficienza gli
mollai Valentino – quel birbantello mi aveva strappato abbastanza capelli – e
lo invitai a sedersi accanto a me sul muretto. Stava ansimando: la scottatura
poteva anche essere scomparsa, ma doveva fare ancora parecchio male.
— Suppongo
che questa sia una prova piuttosto convincente — bisbigliò dunque, gli occhi
bassi per l’imbarazzo.
— L’argento è un buon ripiego, se non è
bastato il plenilunio — convenni. — Capiscimi, Mattia: non posso permettere che
tu metta a rischio la tua vita e la vita di chiunque lasciandoti all’oscuro di
tutto. Devi sapere, con le buone o
con le cattive.
— Ora come ora, preferisco le prime —
sussurrò lui, stringendo una manina del nipote che dava segni di stanchezza.
Annuii comprensiva. — Certamente.
— Non dovrò dire niente a nessuno, vero?
— Sarebbe meglio di no — concordai. —
Concedi il tempo di metabolizzare innanzitutto a te stesso, poi se vorrai...
chiuderò un occhio, ecco.
Mattia alzò la testa di scatto. — Chi sei
tu, un agente dei servizi segreti? Perché dovrebbe interessarti se rivelerò
tutto alla mia famiglia o no? Tanto ci andrei a perdere io — mugugnò
amaramente.
— Obblighi professionali — sintetizzai. — Ti
spiego ogni cosa, Mattia, ogni cosa, non
preoccuparti, ma per favore non mi interrompere se non è davvero importante.
Okay?
Mattia mi diede il via libera con un
sospiro. — Vai.
Mi rigirai il pugnale tra le dita mentre
iniziavo a parlare: — Non mentivo, riguardo a mio nonno. È anche lui un lupo
mannaro, sebbene la sua storia non sia delle più ortodosse. Questo — accennai
al pugnale, — me l’ha regalato lui. Sembra strano, ma è così: un lupo mannaro
mi ha regalato un’arma d’argento.
— Ti prego, non dirmi che l’ha fatto per
chiederti di ucciderlo — fece Mattia con un’intonazione a metà tra il
sarcastico e il timoroso.
— No, tranquillo — lo rassicurai sorridendo
appena. — Onestamente non so perché l’abbia fatto, ma gli sono molto grata.
Oltre ad essere d’argento è benedetto...
— Vampiri — intuì immediatamente Mattia. —
Andiamo bene...
Mi trattenni dal ridere. — Sì, vampiri.
Inoltre attorno all’elsa c’è un anello di ferro. E a cosa serve il ferro?
— A fare la ruggine?
— Serve contro le fate — lo corressi
sbuffando. — E quelli che a te sembrano disegni sono in realtà rune.
— E le rune sono per i troll — annunciò
Mattia, con l’aria di chi ha appena avuto l’illuminazione del secolo.
— Non per i troll, ma per qualcosa che ci
assomiglia — negai. — Vedi, la Bibbia ha ragione a proposito di Salomone — la
buttai lì, per metterla su un piano che lui conosceva.
Lui mi fissava con un sorriso saputo. —
Lorianne, ai demoni ci credo — dichiarò, spiazzandomi. — Lo stesso Gesù ne
esorcizza parecchi nel Vangelo. La differenza sta nel fatto che Salomone è
Antico Testamento, dove quarant’anni non sta a significare effettivamente quarant’anni e certo noi non siamo nati
da Adamo ed Eva; Gesù invece è Nuovo Testamento, ed è quella la base della mia
fede. E poi a questo punto sono pronto a credere a tutto — mormorò.
— E bravo Mattia, un passo l’abbiamo fatto.
— Gli allungai una pacca sulla spalla. — Pertanto, se ti dico Nephilim...
— Ti rispondo che i Nephilim erano figli di
uomini e angeli e hanno governato la Terra per generazioni, ma loro erano
giganti e tu sei bassa.
Rimasi di sasso. — Non ho affermato di
essere una di loro.
— L’hai affermato adesso. — Mattia gongolava
come un cagnolino accarezzato dietro le orecchie. — Perciò siete veramente
giganti e tu sei uscita fuori razza o cosa?
— Non siamo giganti, ma io sono uscita fuori
razza lo stesso — gli spiegai in breve. — La storia della nostra creazione è
una bella favoletta: nel 1234 – tra un paio d’anni infatti festeggeremo otto
secoli di lavoro tra le ombre per salvare il culo a voi mondani che nemmeno ci
vedrete mai, ed è ovvio che la Bibbia si riferisca ad altri Nephilim, se sono davvero esistiti – l’angelo Raziel donò il
suo sangue al primo di noi, tale Jonathan Shadowhunter, insieme ai tre
Strumenti Mortali e bla bla bla. I miei genitori, e di conseguenza la
sottoscritta, hanno anche il sangue di un altro angelo, Ithuriel, per ragioni
troppo complicate da esporre. Per cui, Mattia, cos’ho io che gli altri
Shadowhunters non hanno?
— Stando a L’ordine della fenice, la profezia nell’Ufficio Misteri — azzardò lui.
— O il naso, dipende dalle interpretazioni.
— Fai il serio.
— Ma sono
serio. — Si finse offeso. — La profezia. Leggi il futuro, no?
— Non lo leggo, lo vedo — chiarii. — Complimenti, Mattia, intuito formidabile. Ne
avrai molto bisogno, in futuro.
— Il futuro
— sussurrò. — Cosa dovrò fare, in futuro?
— In un futuro prossimo o in un futuro
remoto?
Non è bello il tuo futuro,
Mattia.
— Entrambi.
— Francamente non lo so — confessai a cuore
aperto. — Per ora limitati a scendere a patti con la consapevolezza di essere
un lupo mannaro, poi il resto con un po’ di fortuna verrà da sé. Goditi l’ultima
settimana di scuola e la festa di sant’Erasmo, ma non appena sarai libero dalla
maggior parte degli impegni dovrai cercarti un branco, non puoi restare da
solo. Non siamo noi Shadowhunters ad occuparci di queste cose solitamente, ma
ti daremo tutto l’aiuto possibile, fidati.
— Daremo.
I tuoi cugini? — Non era precisamente una domanda.
— I miei cugini — gli confermai. — Tranne
Chrysta, lei è una Stregona.
Mattia abbassò la testa e rimase a guardare
il nipote, ormai addormentatosi, per quello che parve un tempo interminabile.
Io invece riposi finalmente il pugnale al sicuro nella tasca della giacca, dopo
averlo tenuto in mano senza un apparente motivo fino ad allora.
Sobbalzai quando Mattia decise di provare a
conversare, spezzando quell’innaturale silenzio: — Hai presente il bis-bisnonno
Carlo?
Neanche quella era una domanda, ma Mattia
sembrava in attesa. Gli risposi di sì.
— La nonna mi ha raccontato che un giorno, mentre rammendava la sua rete
seduto sul molo di fronte al campanile, fu disturbato da un ragazzo straniero.
Il tipo era vestito in modo austero, con giacca e pantaloni dal taglio
sartoriale, ma aveva i capelli in disordine, sabbia dappertutto e la manica
sinistra alzata. Sul braccio c’erano degli strani simboli neri, come impressi a
fuoco. Come i tuoi.
— Uno Shadowhunter — intuii.
Mattia annuì. — Sì, suppongo. Carlo
probabilmente pensò fosse un pirata, cose così. Comunicava abbastanza bene in italiano,
senza accento. — Mi scoccò un’occhiata di sbieco. — Come te.
— Abbiamo una runa apposita – sì, questi
tatuaggi sono rune, come quelle sul pugnale — gli spiegai. — Altre Lingue. È utile anche per i
linguaggi demoniaci.
Lui rise brevemente. — Perché, i demoni
parlano?
— Insultano, più che altro, ma dipende
sempre dal tipo di demone con cui hai a che fare.
Mattia si mordicchiò il labbro. — Lo
incontrerò mai un demone, Lorianne?
— Può darsi — asserii. — A volte i mannari
si uniscono a noi nella lotta contro il male. In effetti, tra tutti i
potenziali compagni di battaglia voi lupi siete i più fidati. Oltretutto anche
voi siete per metà demoni.
— L’infezione di cui parlavi prima, giusto?
— Giustissimo.
— Wow, ne sto azzeccando una dopo un’altra.
Sono un mostro.
Scoppiai a ridere e gli tirai una gomitata
scherzosa. — Visto? Non era difficile.
Mattia scosse la testa freneticamente. — Adesso non è difficile, ma questione di
un’ora massimo e riprenderò a credere di essere pazzo, sicuro al cento percento.
Ridacchiai. — Puoi sempre chiedere a
Valentino di testimoniare il contrario.
— Se devo affidare la mia sanità mentale
alla memoria di un bimbo di tre mesi... — gemette lui. — Tra l’altro ha dormito
per tutto il pezzo clue, comunque non
potrei farlo.
— Affidala a me, allora — gli proposi,
ardita.
— Sì, a una che se ne va in giro con un
pugnale d’argento benedetto e... runizzato in tasca!
Gli feci l’occhiolino. — Almeno sei certo di
avere la schiena coperta.
Mattia sbuffò. — Non ho proprio nessun’altra
opzione, eh?
— Perché, ti sto antipatica?!
— No, ma mi fai una paura fottuta — svelò lui
con riluttanza. — Non che i tuoi cugini siano meno terrificanti, ora che penso
a loro come... Shadowhunters, hai detto?
— Shadowhunters, esatto. — Mi alzai in piedi
respirando a fondo, e Mattia mi seguì a distanza di qualche secondo. Gli tesi
la mano. — Buona fortuna, Mattia.
Lui me la strinse. La sua tremava un po’. — Buona
fortuna anche a te, Lorianne, col tuo tentativo di portarmi sulla retta via. E
la Madonna ci accompagni.
Solo tre settimane
di attesa. Amatemi.
Sto esultando
peggio di quando mi arriva la notifica di un commento. Questo capitolo è stato
molto più semplice di quello che mi aspettavo, anche se ha comunque richiesto
un impegno non indifferente, e finalmente la storia entra nel vivo, alleluia
alleluia.
A meno che non mi
faccia altri conti (cosa alquanto improbabile), vi annuncio che il prossimo
aggiornamento sarà quadruplo. Eh già, è arrivato il momento della famosa
triade. Alleluia alleluia pt. 2.
Stavolta non
faccio una NdA lunghissima, per vostra fortuna, ma ci tengo a precisare una
cosa: non so se qualcuno di voi ha letto Incontri, la OS su James Herondale e
Grace Blackthorn, ma vi invito caldamente a farlo, capirete poi il perché (o almeno
spero...).
Bene, mi
raccomando, non lesinate su voti e commenti
e fate contenta questa povera scrittrice che puntualmente assillate per sapere
quando arriverà il prossimo capitolo.
Buon ponte del
primo maggio, à bientôt!
|
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Capitolo 14 *** Anna ***
13. Anna
Anna
A mia nonna, seconda mamma e maestra di
vita.
36C’era anche una profetessa, Anna,
figlia di Fanuèle, della tribù di Aser.
Era molto avanzata in età, aveva
vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza,
37era poi rimasta vedova e ora aveva
ottantaquattro anni.
Non si allontanava mai dal tempio,
servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere.
38Sopraggiunta in quel momento, si mise
anche lei a lodare Dio
e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione
di Gerusalemme.
[Luca 2, 36-38]
—
OSSIGNORE!
Ma tu assommi sempre?!
E menomale che l’avevo avvertito. — Faccio cosa?
— Assommi. Compari così, dal nulla,
puf!
— No, non assommo — replicai. — Sono solo molto silenziosa, e tra l’altro
avresti dovuto sentirmi con il tuo nuovo udito da licantropo.
Mattia gemette lamentosamente. — Il mio
nuovo udito da licantropo ha un difetto di fabbrica: funziona come gli pare a
lui.
A quanto pareva, il signorino aveva la
tendenza a precipitare nel dialetto quando era nervoso. — Impiegherai del tempo
per abituarti a queste capacità, così come ti ci vorrà un po’ per essere
completamente padrone della trasformazione — gli spiegai, — ma un giorno sarai
capace anche di resistere alla luna piena, se avrai acquisito abbastanza
controllo.
— Controllo?! Cos’è, si mangia?
— Smettila di fare il cretino, per favore —
lo redarguii secca. — Sei in territorio nemico e hai bisogno di tutta la tua lucidità.
Mattia socchiuse gli occhi per ripararsi dal
sole. Stando a quel che mi aveva detto, il giorno della festa di Sant’Erasmo
era successo qualcosa che l’aveva fatto infuriare a tal punto da frantumare le
lenti degli occhiali che stringeva in mano. Sospettavo fossero implicati l’ex
fidanzata e l’ex migliore amico di cui mi aveva parlato all’Eneas.
— Non ci credo che i vampiri si siano
veramente stabiliti qui.
Lo scheletro dei vecchi cantieri navali
Italcraft si stagliava davanti a noi. L’insegna rossa era a malapena visibile
sui muri scoloriti e scrostati dalla salsedine; la ruggine ricopriva ormai
tutto il ferro presente nella struttura, disegnando chiazze rosse sull’intera
superficie dell’edificio.
Tra un buco nell’intonaco di qua e un
cornicione pericolante di là, l’unica nota stonata di quella straziante
immagine di abbandono erano le finestre: tutte chiuse, intatte e coperte da
pesanti drappi neri.
Mattia me le indicò con un cenno del mento.
— Mi hanno sempre detto che il nero ai vetri stava a simboleggiare il
fallimento e la rovina dei cantieri — sospirò. — Che desolazione, un’eccellenza
italiana andata allo sfacelo...
— Non possiamo farci nulla, Mattia — tagliai
corto, impaziente. — Su, veloce: più sale il sole, meno possibilità abbiamo di trovare
qualcuno sveglio.
Mattia fece un verso ammirato quando
sbloccai il cancello cigolante con una runa. — ... Figata. La voglio anch’io
una di queste cose.
— Impazziresti, con una di queste cose —
brontolai, facendo forza per spingere in avanti quell’ammasso di ferraglia. —
Esistono delle rune valide per voi Nascosti, ma sono più che altro per
occasioni particolari come i matrimoni, sebbene non sempre siano usate; di
solito in quei casi si sceglie la cerimonia mondana. I miei nonni si sono
sposati soltanto scambiandosi le fedi, per esempio.
— Capito. C’è qualcos’altro di importante
che dovrei sapere?
Gli feci segno di seguirmi al di là
dell’ingresso. — Dovresti sapere degli Accordi — riflettei, mentre scandagliavo
con lo sguardo l’intero fabbricato alla ricerca di una possibile entrata. —
Sono una serie di patti stipulati per la prima volta nel 1872 e rinnovati ogni
quindici anni alla presenza di dieci rappresentanze del Mondo Invisibile per
ogni razza. Per la cronaca, li stiamo violando in questo preciso istante.
Mattia si produsse in una risatina nervosa.
— Che bello.
Gli scoccai un’occhiata sbieca sogghignando.
— Te la stai facendo sotto, eh Mattia?
— Un tantino — fu costretto ad ammettere. —
Non sono esattamente il tipo da operazioni sottobanco.
Mi fermai davanti alla porta d’ingresso. Su
quella serratura arrugginita una runa sarebbe stata sprecata, perciò mi limitai
ad aprirla con un calcio. — Non è sottobanco, è solo non autorizzata. E dato
che è il capo di un Istituto a poter autorizzare cose del genere e un Istituto
qui non c’è... possiamo dire che ho preso l’iniziativa. — Gli allungai una
pacca amichevole su una spalla. — Tranquillo, Mattia, nessuno dei due ci
rimetterà le penne.
— Parla per te — lo sentii sussurrare
debolmente, prima che avanzasse per starmi dietro.
Il cambio di temperatura tra l’esterno e
l’interno era considerevole, così come la repentina mancanza di illuminazione. Avevo
dimenticato la stregaluce sul tavolo di Villa Orlando, quindi per ovviare al
problema mi tracciai una runa di visione notturna e avvertii Mattia che le sue
pupille si sarebbero abituate presto al buio. Lui non ne sembrava molto
convinto, però, e procedeva con immensa cautela.
Cautela che imitai, tenendo il pugnale a portata
di mano. Adesso che sapeva cosa potevano fare quei pochi grammi di argento,
Mattia stava ben attento a tenersene alla larga.
L’ambiente era spoglio e umidiccio;
tuttavia, niente faceva intendere che una volta lì ci fossero stati dei
macchinari o degli uffici, nemmeno un singolo pezzo di mobilia o un mucchio di
calcinacci. Tutto era incredibilmente pulito,
per quanto possa essere pulito un posto del genere.
Tale situazione mi lasciò così sorpresa che
faticai ad accorgermi della fila di vasi addossati al muro che costeggiava
l’intero perimetro del piano. Bloccai Mattia e preferii andare a controllare da
sola, realizzando cosa vi cresceva: aconito. Lo stesso fiorellino blu che Logan
aveva addosso più di una settimana prima.
— Ti senti bene, Mattia? — gli domandai, pur
già conoscendo la risposta.
— Non eccessivamente — disse infatti lui. —
Ma, su, credo sia normale, no?
— Lo è, sì — asserii indicandogli i fiori. —
Strozzalupo.
— Oh. Ehm... okay. — Strinse le labbra in
una strana smorfia. — Wow. Bel nome. Spero non ce l’abbiano con me in
particolare.
— Suppongo ce l’abbiano con tutti i
licantropi, purtroppo e fortunatamente per te. — Mi chinai per osservare meglio
le coltivazioni. — Molti gambi sono recisi. Ci sarà strozzalupo sparso
dappertutto.
— Esatto. E, in realtà, ne portiamo anche un
po’ in tasca.
Se a me venne quasi un infarto, non oso
immaginare cosa possa aver provato Mattia quando un vampiro comparve
all’improvviso ai piedi delle scale.
Per essere attivo a quell’ora della
giornata, ipotizzai, doveva essere, se non il signore del clan – che conoscevo
perché aveva gentilmente accompagnato a casa Logan tenendolo per un orecchio –
quantomeno il suo secondo. Di certo la sua immagine rifletteva un alto grado
sociale, ma a differenza di altri vampiri che avevo incontrato costui otteneva
quell’effetto solo con un abbigliamento assai curato: sebbene si mostrasse
rigido e autoritario, almeno a primo impatto, qualcosa nella sua postura
suggeriva che quell’impostazione non era affatto naturale, bensì il frutto
della pratica e dell’abitudine. Apparentemente era giovanissimo, forse giusto
un paio d’anni più grande di me, e non doveva essere tanto lontano nel tempo
neanche il giorno in cui aveva smesso di invecchiare. Fingeva di respirare;
notai che Mattia ne era scioccato.
Fu proprio su Mattia che il vampiro
concentrò la sua attenzione, comunque mantenendo le debite distanze. Io, per
contro, mi ci avvicinai. — Lorianne Herondale, Shadowhunter fuori servizio. Non
sono qui su ordine del Conclave.
Il Figlio della Notte spostò gli occhi da
Mattia solo per rivolgermi uno sguardo contrariato. Dalla sua pronuncia
traspariva un leggero accento anglofono. — Questo lo so. Cosa mai avremmo
potuto fare di male standocene qui al fresco a bere sangue che sa di plastica?
— Si rivolse a Mattia con un sospiro stanco. — Un’altra vittima, vedo.
— Aspetti un attimo — mi intromisi,
sollevando le sopracciglia in un’espressione incredula. — Cosa intende con
“un’altra”?
— Cosa potrei intendere? — ribatté lui, la
lingua che schioccava sprezzante sul palato. — Non sono una fata, Herondale,
non parlo per enigmi.
Incrociai le braccia sul petto, mentre un
brutto pensiero iniziava a farsi strada nella mia mente. — Pertanto intende...
Quello annuì in silenzio.
— Raziel — imprecai sottovoce.
Intravidi Mattia prendersi la testa tra le
mani. — Signori, per favore, potreste attenervi a una conversazione
comprensibile anche ai non Mondoinvisibiliani? Grazie — gemette sonoramente.
Il vampiro si leccò le labbra pallide, poi
scosse brevemente la testa e prese a salire su per le scale. — Silas Housley —
fece, e lo interpretammo come un invito a seguirlo. Lasciai che Mattia mi
precedesse per potermi guardare le spalle. — Non sei la prima Nephilim che
viene a farci visita, Herondale — proseguì Silas in tono divertito. — Né
peraltro sei la prima Herondale che incontro.
— Immagino — ridacchiai. — Noi Herondale
siamo pochi ma spuntiamo dappertutto.
Silas si arrestò davanti a una porta sul
pianerottolo e ce la tenne aperta per farci accomodare in quello che sembrava un
vecchio studio. Spontaneamente Mattia ed io puntammo il divanetto; all’altro
restò la sedia girevole dietro la scrivania. — Esatto. Peccato non abbia avuto il piacere di avere a
che fare con i membri più... illuminati della vostra famiglia. — Come a
rimarcare le sue parole, accese la piccola abatjour nell’angolo. Solo ora
potevo vederlo nei dettagli: biondo, pallidissimo e smunto, privo della tipica
corporatura marmorea della sua specie. Non sembrava essere molto in forma.
Mattia lo fissava stranito, busto proteso in
avanti e mani strettamente intrecciate. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la
sua impresa fu stroncata sul nascere da un fiotto di sangue che gli cadde sul
mento. Gli erano spuntate le zanne.
Silas si raddrizzò contro lo schienale della
sedia, deglutendo. L’odore del sangue ormai impregnava la stanza. Per istinto,
Mattia ringhiò. Quel suono mi fece impressione, a sentirlo provenire da lui.
Il vampiro ormai soffiava come un gatto. Il
desiderio di fame per poco non era visibile.
Balzai in piedi e mi frapposi tra i due, che
da un momento all’altro si sarebbero saltati addosso spinti da forze maggiori
della loro volontà. — Smettetela, tutti e due — intimai nel mio miglior tono
autoritario. — Mattia, asciugati quel sangue. Datti uno schiaffo in faccia per
far rientrare le zanne o un ceffone te lo tiro io. E tu calmati, Silas. Dopo
potrai mordere me, anche se non so quanto ti converrà.
Mattia mi diede subito retta, mentre ci
volle un po’ più di tempo per far placare Silas. Quest’ultimo alla fine si
produsse in un esagerato sbuffo di circostanza e si scusò per l’impulsività,
incolpando qualcuno o qualcosa di cui non riuscii ad afferrare il nome.
Calò il silenzio per un po’. Mattia si
leccava via meticolosamente il sangue dal labbro, una volta ripulitosi il mento
con un fazzolettino. Potevo quasi toccare la tensione di Silas.
Fu lui a riprendere parola, quando fu certo
che ogni traccia del liquido rosso fosse svanita: — Perciò volete informazioni
sui licantropi.
Mattia teneva lo sguardo basso. — Mi pare di
capire che non è una novità.
— No, non lo è — concordò Silas con un cenno
del capo. — Sfortunatamente, non posso esservi d’aiuto. Sapete, anni fa un
grande saggio ha detto: “Vai dalle fate per gli ultimi pettegolezzi sui vampiri
e dai licantropi se vuoi pettegolezzi sulle fate, ma non spettegolare mai sui
licantropi, perché quelli ti strappano la faccia a morsi.”
Sorrisi. — Conosco questo grande saggio.
Un guizzo divertito della mascella tradì
l’espressione seria di Silas. — Lo conoscevo anch’io, Magnus Bane. Ero con Lily
Chen al Dumort, finché non arrivò Stephen Herondale e la uccise.
Mi lasciai cadere sul bracciolo del divano
con un verso di sconforto. — Avevi ragione, non hai avuto l’onore di incontrare
Herondale illuminati — dichiarai amaramente. — Così sei scappato?
Lui annuì. — Unica destinazione, Gaeta.
— Scelta casuale o motivata? — intervenne
Mattia, sempre animato da spirito patriottico quando si trattava di proclamare
tutti i pregi della sua città.
— Assai
motivata. — Il vampiro pose l’accento su “assai”. — Herondale aveva dei
contatti, qui. Aveva saputo di Gaeta tramite una vecchia storia di famiglia,
forse un antenato venuto a visitarla o cose del genere. Fatto sta che Stephen
trovò pane per i suoi denti, e io trovai una scusa per potermi subito integrare
nel clan.
— Hai finto di essere un suo messaggero —
intuii, e lui me lo confermò. — Il trucco più vecchio del mondo.
— Sono vecchio anch’io.
Mattia tossì di proposito per attirare la
nostra attenzione, poi raccolse tutto il suo coraggio e si rivolse direttamente
a Silas: — Parlami di quell’antenato, per favore — mormorò titubante.
Colsi immediatamente il suo riferimento.
Eravamo a quota due racconti della nonna rivelatisi reali. — Tutte le storie sono vere, Mattia.
Lui emise un grave gemito sconsolato. —
Questo l’avevo già inteso.
— Non so nulla di questa persona, mi
dispiace. — Silas ci scrutava con un sopracciglio alzato. — E, sia ben chiaro,
nonostante sappia più di quanto voglia sapere sull’argomento, non ho la benché
minima intenzione di parlarvi dei mannari.
Mattia sprofondò nei cuscini sospirando. Con
i capelli tutti arruffati sembrava molto più piccolo. — Ti ringrazio lo stesso.
Silas si concesse di sollevare appena gli
angoli delle labbra. — Ti ringrazio io per non insistere.
— Sei determinato — ribatté Mattia, — e con
la determinazione non si discute.
— Sicuro, Mattia? — gli domandai dubbiosa.
Lui parve ritornare sui propri passi per un breve attimo, ma infine fece segno
di sì con la testa e a quel punto cedetti anch’io. — Grazie per il tuo tempo,
Silas.
Il vampiro finalmente sorrise da orecchio a
orecchio. — Per le vostre gentili maniere vi farò un regalo. — Se possibile,
allargò ancora quel sorriso enigmatico. — Santa Lucia. Cercate l’edificio con
lo stemma dei Durazzo.
Mattia scoppiò un una gioiosa risata
liberatoria. — Mia nonna è di Santa Lucia.
— Il tuo regalo sarà ricambiato. — Strinsi
calorosamente la gelida mano di Silas e Mattia fece lo stesso. — Un’ultima
cosa.
— Certo.
— I lupi mannari... — cominciai, non sapendo
bene come continuare.
— Sono camorristi.
Non
avevo mai fatto caso al colore di quel palazzo: quattro piani dipinti di un
giallo ocra con una cornice bianca attorno alle aperture, infissi d’alluminio
scuro e ringhiere di ferro nero. Ciò che lo rendeva particolare era la sua
vicinanza al mare e al campanile: avrei scommesso oro che dalla terrazza come
da qualsiasi finestra o balcone la vista fosse a dir poco spettacolare.
— È stato costruito nel dopoguerra —
m’informò Mattia. — L’ascensore risale a una quindicina di anni fa, e già
all’epoca era lento come una lumaca. Oltretutto per avviarlo ci vuole una
chiave, che io non ho. Per cui, saliamo a piedi.
Per uno scherzo del destino sua nonna
abitava all’ultimo piano. Arrivai di fronte alla porta della casa con la lingua
penzoloni e le gambe gonfissime – caldo maledetto.
Mattia bussò tre volte. Ci aprì una signora
sulla settantina che mi arrivava a stento alle spalle, dai capelli cortissimi
castani e gli occhi dello stesso colore schermati da occhiali senza montatura.
Spinse Mattia in casa dopo averlo salutato con un buffetto sulla guancia, poi
mi sorrise e mi strinse la mano. — Sono Anna, molto piacere.
Buffo, metà del mio nome era uguale al suo.
— Lorianne, piacere mio. — Ricambiai istintivamente il sorriso e la stretta,
era troppo adorabile.
Mi fece entrare e mi condusse fino alla
cucina, che in realtà equivaleva alla sala da pranzo. L’appartamento era
minuscolo, con un solo bagno, un piccolo soggiorno e una camera da letto che
affacciavano sul mare. C’era l’impianto di raffreddamento acceso, per fortuna.
Senza aspettare un invito mi feci cadere su
una delle sedie attorno al tavolo. Mattia mi imitò subito, e anche Anna ci
seguì dopo averci versato due bicchieri di succo ghiacciato. Per sé preferì
l’acqua del rubinetto, a temperatura ambiente. — A cosa devo la visita? —
esordì scrutandomi da dietro le lenti.
Mandai giù il succo il meno avidamente
possibile per non sembrare maleducata, ma suppongo di non aver ottenuto ottimi
risultati. Mattia non rispondeva, limitandosi a bere con un sorrisetto
divertito stampato sul viso, così ci pensai io: — Principalmente motivi...
logistici, ecco, ma Mattia riteneva che dovessi conoscerla.
Anna fece su e giù con le sopracciglia in
direzione del nipote, che ricambiò ridacchiando. — Oh, dammi del tu Lorianne. E
sì, Mattia non ha tutti i torti. — Allungò la mano verso il mobile alle sue
spalle e tirò fuori da un cassetto un oggetto di forma quadrata. — Mattia sa
anche cosa succede in questi casi. Lui dice che lo faccio per saggiare l’intelligenza del mio avversario,
ma in realtà è solamente perché mi piace.
Capii cos’aveva in mano solo quando lo mise
sul tavolo: una scacchiera. — Sono una campionessa a scacchi — commentai. —
Gioco da quando avevo sette anni.
— Non sottovalutare nonna — mi avvertì Mattia.
— Non ha mai perso nemmeno una partita, credimi, e ha sfidato mezza Gaeta
vecchia.
Anna mi lanciò un’occhiata astuta. —
Vedremo. Bianchi o neri?
— Neri — scelsi, per lasciarle la prima
mossa.
— Io faccio squadra con te — disse Mattia. —
Almeno in questo modo abbiamo una minima possibilità di batt... — Lo interruppe
il cellulare che squillava. — Accidenti — imprecò. — È l’ospedale, chiameranno
per l’affiancamento. Mi dispiace Lori, dovrai vedertela da sola. — Si alzò e
sparì in salotto. Coglione.
Anna mosse in avanti un pedone. — Nome
interessante, il tuo. Così simile al mio.
— Già — sussurrai, concentrata sulla
scacchiera. Alla fine puntai anch’io su un pedone.
Lei decise di spostare una torre. — Anna e sue varianti o composti non sono
rari tra noi Veggenti, sai.
Trasalii e serrai i pugni, tanto
terrorizzata quanto sbalordita. Raddrizzai un cavallo che avevo fatto cadere
con uno spasmo del braccio. — Mattia gliel’ha... te l’ha detto?
— No — negò pacatamente. — So riconoscere
chi ha il mio stesso potere, soprattutto chi come me è sotto l’influenza di
Raziel.
Di questo Mattia non era al corrente. Non
poteva saperlo, non gliel’avevo mai nemmeno accennato. Così compresi che le parole
di Anna erano assolutamente veritiere. — Spiegami tutto, per favore.
— Secondo la Cabala ebraica Raziel è
l’Arcangelo della Chiaroveggenza, oltre che dell’Intuizione e della Conoscenza.
— Giunse le mani. Notai che aveva gli occhi completamente bianchi, come
accadeva a me quando avevo le visioni: non era un riflesso del vetro, era
reale. — La maggior parte di noi Veggenti è tale proprio a causa sua. Alcuni
per un motivo, alcuni per un altro. Ad esempio io non ci sono nata, ma lo sono
diventata. Quando mio marito fu ricoverato a Milano iniziai a desiderare di
poter guardare nel futuro per avere delle certezze. Pregai, pregai e pregai,
giorno e notte. Raziel mi ascoltò.
— Non ci credo — replicai. — Non è così
magnanimo.
— A volte no, è vero — ammise. — In realtà
dipende da molti fattori.
Balzai in piedi e mi piegai in avanti,
furiosa. Anna rimase impassibile. — E allora perché a me non ha mai dato una
singola soddisfazione? — sibilai tra i denti. — Perché io sono da sempre la sua
schiavetta da torturare e vessare ogni santissimo giorno? Perché ho paura di me
stessa e di cosa sono capace?
— Perché non lo conosci — argomentò. — Non ti conosci. E ciò che non si conosce fa
paura.
Trattenni il fiato per un attimo, poi
espirai, riconoscendo che il ragionamento di Anna non faceva una piega. — Come
posso imparare a conoscermi, dunque?
— Ognuno percorre la propria strada —
ribatté Anna filosofica. — Dovrai scegliere la tua via e avventurartici senza
aiuti.
— Naturalmente — borbottai, secca. — Raziel
è anche l’Arcangelo Eremita. Quello che sta da
solo.
In fondo sapevo che ero destinata a una vita
solitaria. Da quando avevo pochissimi anni avevo allontanato tutto e tutti, mi
ero allontanata da tutto e tutti. Non potevo permettermi di avere nessuno al
mio fianco. Come Raziel, dovevo essere un’eremita.
Anna spezzò il silenzio: — Sono stati i tuoi
genitori a scegliere il tuo nome, Lorianne?
Mi
parve una domanda alquanto fuori luogo, ma risposi comunque: — Sì, mia madre,
poco dopo il parto.
— C’erano altre opzioni? — mi chiese.
— Be’, papà aveva pensato a Leigh... —
Sussultai, mentre una rivelazione sconcertante mi appariva alla mente. Mi
afflosciai sulla sedia e mi presi la testa fra le mani. Tremavo. — Leigh-Anne.
Anna allungò le braccia sul tavolo e si
stiracchiò. — Alla fine è sempre Raziel a decidere come dobbiamo chiamarci.
Sapeva che un giorno avrei ottenuto il potere, idem per quanto ti riguarda.
Siamo sotto la sua ala dal nostro primo vagito, Lorianne. Che lo vogliamo o no,
lui ci ha designati come suoi emissari sulla Terra.
— Così non fai altro che avvalorare la mia
tesi — brontolai. — Siamo i suoi schiavi. — Abbassai lo sguardo sulla
scacchiera e mossi la regina.
Anna fece saltare un cavallo. — La tua
visione della situazione è offuscata da troppi dubbi e troppe preoccupazioni.
— Niente di più corretto — ammisi mestamente
spostando una torre. — Il dubbio che il mio posto non sia questo, e la
preoccupazione che Raziel possa far soffrire le poche persone che mi sono
rimaste vicine.
Fissai la scacchiera malinconicamente. —
Questi pedoni non giocheranno mai la partita. — Li indicai con un ampio gesto
della mano. — Resteranno lì a guardare impotenti, mentre i pezzi attorno a loro
decidono le sorti del conflitto. Se vinceranno, o se perderanno. Se mangeranno,
o se saranno mangiati.
— Esatto — disse Anna. — Ma ricorda che, a
volte, sono proprio i pedoni a far pendere la bilancia dall’una o dall’altra
parte. — Ne mosse uno verso destra. — Scacco matto.
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Capitolo 15 *** Alea iacta est ~ Parte prima ***
14. Alea iacta est - Parte prima
Alea iacta esT ~ parte Prima
“Take a breath,
take it deep
Calm yourself,
he says to me”
Il vicolo era angusto e stretto. Tra i palazzi
c’era a stento un metro, e dalle finestre di quello di destra si poteva
sbirciare in quello di sinistra. Insomma, la parola privacy lì non esisteva.
—
Dio, come si fa a vivere così? — sussurrò Mattia, incredulo. — Nemmeno fossimo
nel dopoguerra.
— Già
— concordai. — Sembra tutto meno che la residenza di un clan di lupi mannari
camorristi.
— Non
ti fermare alle apparenze — mi avvertì lui. — A Secondigliano tempo fa
sequestrarono la villa di un boss. Esternamente era una topaia, ma dentro
faceva invidia alla Reggia di Versailles.
—
Voglio crederti — replicai scoraggiata. — Non vorrei essere venuta qui
inutilmente.
Mattia
esitò un attimo, poi mi passò il braccio attorno alle spalle e mi strinse
teneramente. — Ehi, andrà tutto a meraviglia.
— Non
dovrei essere io quella preoccupata — osservai. — Tu piuttosto come stai?
—
Abbastanza bene — gracchiò grattandosi la nuca. — Il pugnale d’argento è a
portata di mano?
— Sì,
tranquillo — lo rassicurai tirandogli scherzosamente un pugno alla mascella. —
Andiamo, dai.
Tracciai
una runa d’Apertura sulla serratura di un portone di legno che si aprì cigolando.
Entrai per prima e Mattia mi seguì trepidante.
Ci
trovammo in un ampio atrio adibito a casinò: lungo le pareti c’erano file e
file di slot machine, di fronte alle quali diversi tavoli da poker e da
biliardo davano bella mostra di sé. Proprio al centro della stanza era stata
scavata una grossa piscina piastrellata in ceramica verde e blu, ai cui angoli
svettavano delle fontane in stile romano raffiguranti uomini lupo che versavano
l’acqua dalle fauci.
Ogni
cosa era stata lucidata alla perfezione; non c’era nemmeno un granello di
polvere.
— Ed
ecco dove vanno a finire i nostri soldi — sospirò Mattia. — Che vergogna.
Feci
per replicare, ma un rumore pericolosamente vicino mi mise in allarme.
D’istinto avvicinai la mano alla tasca dei pantaloncini dove avevo infilato il
pugnale.
Tre
tizi sbucarono da una porta nascosta nel muro. Quello al centro era chiaramente
di parecchi gradini della scala sociale più in alto degli altri due, che invece
parevano essere lì controvoglia.
Gli
scagnozzi vestivano di nero: camicia e pantalone di fattura sartoriale
dall’aria molto costosa, ma un po’ stropicciati e consumati.
Al
contrario il boss era decisamente più colorato, e al suo confronto avrebbe
fatto impallidire persino zio Magnus e Chrysta. Lo smoking crema era abbinato a
una camicia a fantasie geometriche rosse e arancioni; nel taschino della giacca
c’era un fazzolettino di seta che richiamava i colori dei calzini marroni a
pois rossi. Al collo aveva l’immancabile croce d’oro, gigantesca e a dir poco
pacchiana, e al polso un orologio Cartier da almeno trentamila euro. Come tutti
i capiclan che si rispettino era grasso e pelato, e sulla testa calva spiccava
un paio di Ray Ban modello classico.
—
Shadowhunter — esclamò con un ghigno sprezzante nella mia direzione. — Avevo
sentito che in città erano arrivati dei Nephilim. Di dove siete? Inghilterra?
Stati Uniti?
—
Idris — chiarii. — Alicante. E veniamo in pace.
—
Ragazzina, hai fatto irruzione nella nostra dimora, non credo proprio. — Il
boss gonfiò il petto, ed ebbi seriamente paura che l’unico bottone superstite
potesse abbandonarlo. — E per di più portando con te un ostaggio.
Mattia,
fino ad allora rimasto in totale silenzio, intervenne gridando: — Non sono il suo ostaggio! Sono ostaggio della mia
licantropia, della licantropia che uno di voi mi ha trasmesso!
—
Esatto — confermai. — Chi è stato? — Li scrutai ad uno ad uno. Ormai le mie
dita erano strette attorno all’elsa del pugnale. Se i mannari avessero mostrato
anche il minimo segno di non voler collaborare sarei passata alle maniere
cattive. — Lascerò correre se il morso è stato inflitto per sbaglio, o meglio
ancora da un lupo alle prime trasformazioni, ma se vengo a scoprire che l’avete
fatto apposta... — Tacqui con un sorriso di circostanza.
Il
boss mi guardò per un infinitesimo secondo, poi scoppiò a ridere. — Che ci fai?
Ci uccidi? Non puoi. Tecnicamente non abbiamo commesso nulla di sbagliato.
— No,
non vi ucciderò — negai. — Vi consegnerò alla giustizia. E non a quella italiana.
— Il
vostro Clave non mi fa né caldo né freddo — continuò il boss imperterrito. —
Quindi non ho paura a rivelarti che il morso era intenzionale.
Mattia
smise di respirare. Lo sentii ringhiare. — Bastardi!
Il
boss gli si avvicinò pericolosamente ostentando un sorrisetto irritante. —
Bastardi? Bastardi? — lo schernì. —
Noi ti abbiamo dato un’opportunità. Vedi di non sprecarla andandotene
imprudentemente in giro con quella feccia degli Shadowhunters. — Distolse lo
sguardo da lui e lo puntò su di me. — Ma ammetto che la compagnia di cui ti sei
avvalso stasera è alquanto intrigante.
Mattia
scoprì le zanne e fece per balzare in avanti, ma io lo frenai all’ultimo
momento. — Sono off-limits — scattai, tenendo fermo Mattia per il braccio. —
Inoltre provengo da una relazione complicata.
—
Lori, non parlarne — sibilò Mattia, la voce alterata dai canini che, notai, gli
stavano tagliando il labbro. — Non è esattamente il momento migliore per
slittare nel futuro, come – ti ricordo che ne hai ampiamente discorso mentre venivamo qui – fai ogni volta che ripensi a questo Jean.
—
Chiudi quella boccaccia — sbottai furiosa. — E non permetterti di alludere a
Jean come se non fosse altro che il motivo delle mie visioni. È una persona,
Mattia. O almeno lo è stata.
Uno
sbuffo del boss bloccò Mattia prima che potesse replicare. — Non ho tempo per i
vostri litigi infantili e per sapere quante persone si contendano il tuo amore,
Shadowhunter. — Agitò una mano guantata in aria come per scacciare una mosca
piuttosto fastidiosa. — Ho una richiesta da fare al giovane licantropo.
— Oh.
— Mattia fece rientrare le zanne, colto di sorpresa. — Su, dica.
—
Seguimi. — Il boss girò sui tacchi e mosse qualche passo verso la porta da cui
era apparso, poi si voltò nuovamente e mi indicò con un dito accusatorio. — Tu
resta qui, ragazza. È una cosa tra lupi mannari.
— Ma
non ci pensate nemmeno! — proruppi estraendo il pugnale. Sia Mattia che il boss
trasalirono. I due brutti ceffi, più lontani, si limitarono a deglutire. —
Mattia, mi hai chiesto di accompagnarti. Di guidarti. Di proteggerti, anche se
in modo implicito. Quindi scordati che ti lasci andare da solo.
Il
boss prese a ridere sguaiatamente tenendosi la pancia che strabordava dai
pantaloni. — E chi saresti tu per dare ordini a me?
—
Sono Lorianne Herondale — dissi con orgoglio facendo volteggiare il pugnale in
aria.
—
Herondale — sussurrò il boss. — Mmm, interessante. Il tuo nome è molto
conosciuto nel Mondo Invisibile.
— Il
mio nome o il mio cognome?
—
Entrambi.
Mattia
diede un colpetto di tosse. — Ehm, Lori... la situazione sta diventando
alquanto imbarazzante.
—
Stai zitto.
— No,
sta’ zitta tu!
Il
boss sospirò sonoramente e batté le mani due sole volte, ma abbastanza da farci
tacere entrambi. — Va bene, potrai venire con noi, Shadowhunter.
Ed
ecco che tornava a chiamarmi Shadowhunter. Quel “ragazza” allora gli era
scappato. Tuttavia non avevo tempo né intenzione di contestare il modo in cui
mi stesse apostrofando. Rimisi il pugnale in tasca. — Forza, andiamo.
Accompagnato
dai due leccapiedi, che gli stavano dietro come se avessero dovuto reggergli lo
strascico, il boss ci portò in una stanzetta nascosta nel muro, una specie di
studio dominato da una grossa scrivania di legno massiccio.
Trattenni
il fiato.
Era
lo stesso posto della mia visione al JFK.
Presto
sarei stata incatenata alla scrivania. Presto avrei sentito gli spari e il
fruscio della pugnalata. Presto due persone sarebbero morte.
Con
un sussulto mi accorsi che una di quelle due persone sarebbe potuto essere
Mattia.
Come
mi aspettavo gli scagnozzi mi afferrarono per le braccia e provarono a
stringermi una corda attorno ai polsi, ma io mollai un calcione nello stomaco a
quello di destra e una ginocchiata nelle parti basse a quello di sinistra e
ripresi il pugnale.
Però
non potevo cambiare il mio destino. Ero riuscita ad evitare che mi legassero,
ma solo momentaneamente. Sarei comunque finita su quella scrivania, anche se
non capivo come.
Quei
bastardi me ne diedero subito un’idea.
All’improvviso
sentii un ago infilarsi nel collo, e un liquido freddo e denso si fece strada
nelle mie vene.
Lasciai
cadere il pugnale e mi accasciai sulle ginocchia, poi sul pavimento, da un
momento all’altro debole, stremata, stanca, sfiancata, come dopo aver
combattuto in prima linea per un’intera giornata.
A
stento capii che i due lupi mi avevano sollevata da terra e poggiata sulla
scrivania, e stavano iniziando a bloccarmi polsi e caviglie.
Quando
si allontanarono da me il boss e Mattia presero il loro posto. Entrambi non
proferivano parola, cosa che mi pareva abbastanza strana, soprattutto per
Mattia; mi chiesi se l’Alpha avesse il potere di zittire un Beta, ma lo trovavo
improbabile. Forse la scena aveva colpito Mattia a tal punto da fargli perdere
la voce.
Girai
la testa – fortunatamente libera – verso il boss. In qualche bizzarro modo
riuscii a trovare le forze per sibilare: — Che cosa mi hai fatto? — infondendo
nel tono quanto più veleno possibile.
— Ho
semplicemente bloccato le trasmissioni neurali tra i tuoi muscoli volontari e il tuo
cervello — spiegò lui come se stesse leggendo la ricetta di un dolce. — Sei del
tutto impotente. Secondo te avrei mai potuto permettere che una Shadowhunter
interferisse negli affari privati dei lupi mannari?
Facevo
un’enorme fatica a muovere labbra e lingua. — Interferire con i vostri affari è
il nostro lavoro.
Il
boss ghignò e aprì un cassetto. La scrivania tremò leggermente sotto di me. —
Non in questo genere di affari. —
Rivolse l’attenzione a Mattia, immobile come una statua di sale e con
un’espressione terrorizzata stampata sul viso. — Lo confesso: non so perché ti
ho morso. Di solito mi prendo un po’ di tempo prima di decidere quale sarà la
mia prossima vittima, ma con te è stato tutto velocissimo. E non capisco ancora
cos’abbia tu di tanto interessante, ad essere sinceri. Quindi devi
dimostrarmelo.
— Io
non dimostro niente a nessuno se non a me stesso.
—
Adesso mi stai dimostrando che sai rispondere solo con frasi fatte — replicò il
boss gesticolando con una mano mentre con l’altra frugava nel cassetto.
Già,
come se lui parlasse meglio.
L’Alpha
trovò ciò che stava cercando e lo mise sulla scrivania. Dal suono intuii che
fosse qualcosa di metallico, piuttosto pesante, e ne ebbi la conferma quando
alzò l’oggetto e lo tenne fermo a mezz’aria davanti agli occhi inorriditi di
Mattia.
Una
pistola a tamburo.
La
pistola che più tardi avrebbe sparato.
“If you play, you play for keeps
Take the gun,
and count to three”
Mi sarei
irrigidita per la paura se solo non lo fossi già stata.
Il
boss ficcò di nuovo la mano guantata nel cassetto e ne trasse due proiettili,
che dalla perizia con cui li maneggiava capii fossero d’argento. — Hai il
cinquanta percento di possibilità di restare vivo e altrettante chance di
morire — disse con voce completamente atona prima di infilare i proiettili nel
tamburo e porgere la pistola a Mattia. — Adesso puntati questa alla testa e
spara.
— No!
NO! Mattia, no! — Provai con tutta me stessa a muovere un braccio, e
inaspettatamente ci riuscii. Era questione di minuti prima che riacquistassi il
controllo sul mio corpo.
Naturalmente,
ora che le cose stavano cominciando a prendere una piega favorevole, comparve
un altro ostacolo ad intralciarmi.
Uno
dei due ceffi balzò in avanti e atterrò in forma di lupo sulle mie gambe a un
ordine del boss, che ficcò a forza la pistola nella mano di Mattia serrandogli
le dita sull’impugnatura.
—
Mattia, non farlo! — urlai a squarciagola, ma lui aveva già accostato la canna
dell’arma alla sua tempia. — MATTIA, NON FARLO!
Mi
sentivo una stupida, una sciocca, un’inutile ragazzina che era capace solamente
di ripetere sempre le stesse parole.
Non dovevo permettere che Mattia si sparasse,
non potevo permetterlo, e non volevo, e invece eccomi lì, con la
schiena contro un piano di legno e un licantropo addosso, a strillare
inutilmente come l’insulsa protagonista di un film dell’orrore da quattro soldi.
Mattia
avvicinò l’indice al grilletto, lo piegò, chiuse gli occhi. Poi si fermò di
colpo. — Non voglio morire così.
— Non
è detto che morirai — insinuò il boss in tono di scherno. — Spara, Mattia.
Dimostrami di avere coraggio da vendere, e vi lascerò andare.
—
Pensavo che sarei morto vedendo il mare — continuò Mattia. — Voglio vedere il
mare.
— Da
qui non puoi — ribatté l’Alpha, impaziente. — Puoi immaginarlo, però.
— Mi
aiuti a immaginarlo, dunque.
—
Bene — rispose l’altro con una singolare inflessione di voce di cui non
afferrai il significato. — C’è una distesa d’acqua azzurra, calma, piatta come
una tavola, spezzata dalle creste delle bianche onde spumeggianti. E ci sono
gli scogli, grigi e marroni, marroni come questo fazzoletto. — Tirò fuori il
fazzoletto dalla tasca della giacca.
E me
lo premette sulla bocca.
Annaspai,
improvvisamente a corto d’aria, e tentai di reagire, ovviamente senza
risultati.
Mattia
fece per scattare verso il boss, ma questi si fece scivolare in mano una
piccola misericordia e la spinse contro la mia gola. — Attento, Mattia. Se
azzardi un altro movimento che non sia premere il grilletto, la tua fidanzata
ci lascia le penne. In realtà, ci lascerà le penne anche se non ti sparerai
entro un minuto.
“I’m sweating
now, moving slow
No time to
think, my turn to go”
In quel momento, con un tempismo tremendo,
ricordai una cosa. Gli Angeli hanno bisogno di meno ossigeno rispetto agli
umani. I loro – e i miei – globuli rossi sono più piccoli.
Prima
che potessi riuscire in qualche modo ad avvertire Mattia di questa scoperta
dell’acqua calda, lui aveva già fatto la sua scelta.
Per
un millisecondo interminabile pregai perché non ci fosse il proiettile in canna
e che il tentativo del boss di giocare alla roulette russa fallisse
miseramente.
Ma il
colpo partì.
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Capitolo 16 *** Alea iacta est ~ Parte seconda ***
14. Alea iacta est - Parte seconda
Alea iacta est ~ Parte seconda
“And you can
see my heart, beating
You can see it
through my chest
Said I’m
terrified but I’m not leaving
I know that I
must pass this test
So just pull
the trigger.”
Il colpo partì.
Il
colpo partì, e io scoppiai a piangere.
Il
colpo partì, e il proiettile uccise.
Il
colpo partì, ma c’era qualcosa che non quadrava.
Era
troppo vicino a me. Il suono dello sparo proveniva dal punto dove si trovava
Mattia, ma avevo sentito il fruscio del proiettile a dieci centimetri dal mio
orecchio.
Raccolsi
tutto il mio coraggio e mi costrinsi ad alzare gli occhi su Mattia.
Aveva
uno sguardo spiritato, quasi folle, le labbra serrate in una linea sottile; era
proteso in avanti e teneva la pistola nella destra, il braccio leggermente
tremante per il peso e per il gesto appena compiuto.
In un
modo tanto inconcepibile quanto ammirevole era riuscito a sparare al boss.
E per
di più gli aveva sparato con una mano sola, senza poter mirare e senza la
possibilità di contenere più agevolmente il rinculo dell’arma. Oltretutto c’era
il rischio che in canna non ci fosse il proiettile, e che quindi Mattia avesse
fatto una figura di merda colossale prima di, con tutta probabilità, morire di
una morte ben più orribile rispetto a quella che gli sarebbe spettata se non
avesse commesso quell’eroico atto disperato.
Infusa
di una nuova forza e ormai sciolta dall’effetto dell’iniezione di inibitori
calciai via il licantropo che stava quasi per addormentarsi sulle mie gambe,
liberai polsi e caviglie dalle corde e saltai giù dalla scrivania.
Mi
concessi un secondo per scrutare con attenzione il corpo dell’Alpha morente.
Incrociai i suoi occhi da cui pian piano defluiva la vita, e il mio viso si
aprì in un ghigno sfacciato.
Mi
sentivo quasi male a sorridere davanti alla morte. Ripensai a Jean, e a nonno
Valentine e zio Sebastian, e a quante volte anche loro avessero sorriso davanti
alla morte e alla sofferenza di persone innocenti.
Ma
infine ricordai a me stessa che quell’uomo disteso ai miei piedi non era
innocente, e con le prove che avevo contro di lui – la più lampante delle quali
era sicuramente Mattia – sarebbe stato comunque condannato alla pena capitale.
Aveva morso decine di giovani per allargare il suo branco, violato gli Accordi
in un’infinità di casi e istigato Mattia al suicidio.
Ero
entusiasta che il boss stesse per finire all’altro mondo, entusiasta che quel
bastardo stesse crepando per mano di un novellino, entusiasta che questo
novellino fosse il ragazzo per cui, volente o nolente, stavo cominciando a
provare qualcosa.
Lo
stesso ragazzo che era crollato a terra tenendosi il fianco.
Con
orrore mi accorsi che il secondo scagnozzo, ripresosi dall’accaduto, aveva
raccolto il mio pugnale da terra, gridando di dolore per essersi bruciato la
pelle con l’argento, e accoltellato Mattia allo stomaco.
In un
impeto di rabbia mi scagliai contro di lui, gli tolsi il pugnale dalle mani e
ricambiai il favore trapassandolo da parte a parte. Gli tirai una ginocchiata e
lo feci cadere a terra, bloccando la fuga dell’altro ceffo ancora in forma di
lupo.
Velocemente
mi sfilai lo stilo dalla tasca dei pantaloncini dove era rimasto al sicuro e
tracciai in aria una runa che avrebbe creato un cubo protettivo attorno a me e
Mattia, prevedendo che altri licantropi ci avrebbero raggiunti.
—
Mattia! MATTIA! — strillai a squarciagola, come avevo inutilmente fatto fino a
poco prima intimandogli di non spararsi.
Sapevo
come curarlo, sapevo come guarirlo, sapevo che se mi fossi sbrigata lui non
sarebbe morto tra le mie braccia. Eppure non riuscivo a muovere un muscolo.
Riuscivo solo a continuare a gridare.
—
MATTIA! MATTIA!
All’improvviso
mi tornò in mente la visione al JFK. La visione in cui urlavo una parola che
collegavo allo zio Simon. E allora capii il perché di quell’associazione.
Entrambi
i loro nomi sono nomi ebraici, nomi di cui conosco il significato, nomi che mai
perdono il loro significato.
Mattia,
dono di Dio, stava recitando con un
fil di voce una preghiera che già avevo sentito dire altre volte da altre
persone.
“Say a prayer,
to yourself
He says close
your eyes,
Sometimes it
helps”
Stava
recitando l’Atto di dolore.
Si
pentiva dei suoi peccati, e ammetteva di meritare i castighi di Dio.
Mi
chiesi quali orribili peccati avesse commesso per meritarsi un castigo tanto
atroce.
Conclusa
la preghiera si fece il segno della croce. Mi aspettavo che la mano gli
tremasse, ma invece era ferma e decisa.
Ormai,
mi resi conto con un sussulto, non aveva più paura di morire.
Ma
non poteva morire. Non doveva. Non lì, non in una stanza nascosta in un muro in
un covo di lupi mannari camorristi. Non in quel momento, non nel fiore degli
anni, non quando era a un passo dall’entrare nella Facoltà di Medicina, non
quando aveva un nipotino da battezzare, non quando aveva da poco ottenuto un
lavoro non retribuito da guida turistica per vacanzieri americani. Soprattutto
non quando i miei precoci sentimenti per lui erano ancora segreti.
Gli
presi il viso tra le mani e seguii con le dita il contorno degli occhi chiusi,
del naso lentigginoso, delle guance paffute, delle labbra morbide. E, con un
gesto irragionevole e sensato allo stesso tempo, lo baciai.
Non
so perché, ma lo baciai.
Forse
pensavo che così avrei spezzato la maledizione e il Bell’Addormentato si
sarebbe risvegliato. Forse era solo un modo per non sentire il dolore di ciò
che rimaneva del mio cuore che si frantumava in mille pezzi. Forse era solo un
sistema per non cedere alla magia angelica che reclamava di essere sfogata.
Forse non volevo lasciarlo andare prima di avergli dato una prova del mio
affetto.
Mi
staccai da lui e piansi, piansi tutte le lacrime represse.
Avevo
perso Jean, e stavo perdendo anche Mattia.
Quasi
non mi accorsi che una furia di nome Chrysta Bane si era fiondata nella stanza
e aveva spazzato via i due cadaveri e il corpo dell’altro lupo ancora per poco
vivo. Quasi non mi accorsi che altre due furie, all’esterno, stavano lottando
contro un gruppetto di mannari che aveva ben poche possibilità di vincere
contro i micidiali gemelli Lewis. Quasi non mi accorsi che Chris era entrata nel
cubo e mi stava delicatamente allontanando da Mattia.
—
Lori, lascia fare a me — sussurrò, e io acconsentii.
Raccolsi
il pugnale da terra e sfrecciai via, menando fendenti alla cieca e ferendo
parecchi licantropi. Non era necessario che mi trattenessi a combattere con
Logan e Trish, sarei stata solo d’intralcio, quindi filai fuori il più
velocemente possibile e mi fermai solo quando mi accasciai a terra con la
schiena contro il portone di legno.
La
mia unica compagnia per parecchi minuti passati in contemplazione del nulla fu
un gatto che si leccava placidamente le zampe sotto la fioca luce della
mezzaluna.
Era
un gatto nero.
E
quando si stancò di starsene lì a farsi il bidet e mi passò davanti come si
deve a tutti i gatti neri che si rispettino – l’ennesimo segno della sfiga che
mi perseguitava dall’alba dei tempi – rientrai nel palazzo sbattendomi il
portone alle spalle.
Logan
e Trish mi raggiunsero scrollando le lame angeliche per ripulirle dal sangue.
Sul collo di entrambi andava scomparendo un iratze.
—
Mattia è vivo — si affrettò a precisare lei, — ma debolissimo. Dovrà stare da
noi per un bel po’, credo. Non dobbiamo perderlo d’occhio.
Il
mio cuore fece i salti di gioia, ma tornò subito a sprofondare: nonostante
Mattia fosse vivo e vegeto e non corresse alcun rischio grazie a Chrysta –
l’avrei ringraziata per tutti i secoli dei secoli – c’erano ancora molte
persone che lo volevano morto.
I
licantropi avrebbero voluto vendicare la fine del loro capo, ne ero certa. E
non ero certa di poterlo salvare di nuovo.
Ma
forse Mattia sarebbe riuscito a salvarsi da solo.
“As my life
flashes before my eyes
I’m wondering
will I, ever see another sunrise?”
Si svegliò il pomeriggio seguente.
A
parte noi due non c’era nessuno in casa: Chrysta, incapace di sopportare la
segregazione tra quelle quattro mura, se n’era andata in giro per Gaeta in
cerca di spacci gestiti da Nascosti o qualsiasi altro posto in cui vendessero
articoli per Stregoni; Logan e Trish si erano invece appostati di fronte al
palazzo dei mannari in attesa di notizie e/o loschi movimenti da riferirmi.
—
Come ti senti? — gli chiesi non appena fu in grado di parlare. — Ricordi
qualcosa di ieri sera?
—
Poco, davvero poco — rispose mettendosi seduto con un lieve gemito. — Ricordo
solo che ho cercato di fare il supereroe e me ne sono pentito. È tutto
abbastanza confuso. Giusto un paio di flash.
—
Quali flash? — gli domandai, allarmata. Se avesse ricordato che l’avevo
baciato... be’, sarebbe stato alquanto imbarazzante. Non ero ancora pronta ad
affrontare quella conversazione, anche se qualcosa mi diceva che avrei dovuto
farlo di lì a breve. In ogni caso era inevitabile. Presto o tardi, sarebbe
arrivato il momento di tirar fuori la questione. Meglio tardi, però.
— Flash.
Flash veri e propri, intendo. Tipo lampi di macchina fotografica.
Sospirai
di sollievo. — Sarà stata Chrysta. I suoi incantesimi tendono ad essere...
appariscenti.
—
Spero di sì, altrimenti indicherebbe che il mio cervello è stato gravemente compromesso.
— Allungò la mano sul tavolino e prese il bicchiere d’acqua che gli avevo
portato poco prima. — Tu credi a chi dichiara di aver vissuto esperienze di
pre-morte, Lorianne?
—
Dipende — commentai. — Non sempre riescono a convincermi. Ma in fondo io vedo
il futuro, quindi perché no?
Mattia
bevve un sorso d’acqua e aggrottò le sopracciglia. — Sai, riflettevo...
— Su
cosa?
— Stando
a quanto ho letto – e, sai, io ho letto molto – il futuro non è mai chiaro. I
Veggenti spesso sostengono di vedere diversi fili, diverse strade, di solito
tre, in cui potrebbe evolversi la situazione. Invece tu lo vedi precisamente,
nitidamente, e tutte le tue visioni si avverano alla perfezione. Giusto?
—
Abbastanza giusto.
— E
allora... — Mattia si sporse in avanti verso di me. — Come ti sarebbe possibile
vedere il futuro se questo non fosse già scritto?
La
sua osservazione mi spiazzò. In effetti aveva ragione. Era evidente, ovvio,
incontestabile. Ed era inspiegabile come fossi stata tanto sciocca da non
accorgermene in precedenza. Un neo-Nascosto aveva battuto in intelligenza e
intuizione una Shadowhunter/Chiaroveggente dalla nascita.
Lo
adoravo.
—
Io... io non ci avevo mai pensato — sussurrai sconvolta. — Davvero, Mattia...
non avevo idea del perché potessi vedere il futuro così come lo vedo.
— Ciò
significherebbe che è impossibile cambiare il proprio destino.
—
Credo... credo di sì.
Mattia
sprofondò nel divano con una risatina nervosa. — Ciò significherebbe anche che
il libero arbitrio non esiste. Che non sono padrone delle mie scelte, padrone
del mio corpo, padrone di me stesso, che faccio quel che faccio perché è
qualcun altro a ordinarmelo. Che senso avrebbe la vita, dunque? Che senso
avrebbe vivere senza essere realmente vivi?
Aveva
colpito nel punto. Centrato il bersaglio. Arrivato all’identica considerazione
che dall’adolescenza era stata il mio peggior cruccio.
Essere
controllata da Raziel, fisicamente e mentalmente, mi aveva spinta a figurarmi
come un burattino in carne e ossa il cui burattinaio viveva oltre le nuvole,
oltre l’arcobaleno. Il che era uno dei mille motivi per cui odiavo Over the Rainbow.
Tutti
mi mostravano e mi dimostravano compassione, pietà, forse un briciolo di
comprensione. Ma nessuno aveva mai affermato di sentirsi come me. Nessuno aveva
mai condiviso con me il peso dello sconforto che da troppo tempo gravava sulle
mie spalle, che presto avrebbero ceduto. Nessuno mi era mai stato così vicino.
— Non
lo so, Mattia. Non lo so. Ho gli stessi dubbi da anni. Mi pongo le stesse
domande da quando ho imparato a porre domande.
— Ci
sarà, al mondo, una risposta?
— Non
lo so — mormorai. — Se c’è, io non l’ho ancora trovata.
—
Quando la troverai, fammi un fischio.
Aveva
detto “quando”. Non “se”. Riponeva in me una tale fiducia da essere più che
sicuro che avrei scovato la soluzione ai nostri problemi.
Mi
commossi a quel pensiero: mi conosceva da solo un paio di mesi, e già aveva
messo la sua vita nelle mie mani. Mani che avevano minacciato di lasciarla
andare.
Si
era affidato totalmente e incondizionatamente a un’ambigua ragazza che si
definiva Chiaroveggente e che gli aveva confermato l’esistenza di figure
mitologiche e bibliche. L’ambigua ragazza aveva ricambiato la sua incrollabile
fede in lei abbandonandolo col fianco pugnalato su un freddo pavimento in una
dimora segreta.
Ero
stupida, stupida, stupida.
Se
trattavo in quel modo le persone che amavo, avrei fatto meglio ad unirmi alle
Sorelle di Ferro.
“So many won’t
get the chance to say goodbye
But it’s too
late to pick up the value of my life”
— Tu
lo sapevi, vero Lorianne?
La
voce di Mattia mi riscosse dalle mie valutazioni. — Sapevo cosa?
— Che
non sarei morto. Perciò sei corsa fuori e hai lasciato campo libero a Chrysta.
Be’, le cose non stavano esattamente così. Ma
in fondo aveva affermato di ricordare poco o nulla, quindi non avrebbe avuto
senso dirgli la verità proprio allora: avrei solamente innescato una bomba a
orologeria che mi avrebbe portato a rivelargli tutto, compreso che l’avevo
baciato. E non era affatto il caso. Specialmente perché se avesse saputo il
vero motivo per cui ero scappata non mi avrebbe mai più guardata in faccia.
— Ero
sicura al novantanove percento che saresti sopravvissuto. Ma questa visione non
era molto comprensibile. Era... diversa dalle mie solite.
Mattia
fece una strana smorfia e abbassò lo sguardo. — Sai, Lori, per quel novantanove
percento potrei pure infuriarmi se fossi in vena di farlo. Non si gioca con la
vita, Lorianne, e questo dovresti saperlo meglio di me. Personalmente, se
avessi avuto anche un unico dubbio sulla veridicità di quella visione non me ne
sarei scappato via come se fossi inseguito da un branco di segugi assetati di
sangue.
Boom.
Aveva colto nel segno per la seconda volta.
—
Nemmeno io l’avrei fatto, Mattia — bisbigliai. — Non l’avrei fatto un tempo,
almeno. Ora... ora non so più neppure chi sono.
— Un
giorno o l’altro mi racconterai cosa ti è successo, Lorianne?
— Non
posso giurartelo su Raziel. Ma ti do la mia parola che ci proverò. Non è
facile.
Mattia
posò il bicchiere sul tavolino e mi fissò dritta negli occhi. Nei suoi potevo
leggere lo sconforto. — Quindi adesso che cosa faccio? Che cosa facciamo?
— In
che senso?
— Ho
ucciso un uomo — disse in tono aspro. — Un camorrista. Un ricercato a livello
nazionale. Ci sono le mie impronte su quella pistola.
—
Sistemerò... sistemeremo tutto — promisi sincera. — Non è nuovo per noi avere a
che fare con situazioni del genere. La morte di un Nascosto è pur sempre una
morte: lascia un cadavere, degli indizi, un movente, un assassino. Ma ai
mondani basta poco per dimenticarsi del caso.
—
Basterà poco anche alla famiglia di quel poveraccio? — replicò bruscamente. —
Dio, Lori, mi sono macchiato della più orribile colpa — sibilò. — Ho commesso
un omicidio di secondo grado, per la miseria. E tu mi assicuri che sistemerai
tutto con qualche intimidazione e un paio di incantesimi!
Anch’io sono arrivata ad un pelo dal
commettere un omicidio di secondo grado, ma ti assicuro che avevo buone ragioni, avrei voluto rispondergli.
— È
stata legittima difesa, non puoi negarlo — gli risposi invece. — Non potranno
muovere alcuna accusa contro di te.
— Loro non potranno, chiunque siano questi
“loro” — ribatté lui. — Ma io sì. Posso accusarmi da solo. E credimi, lo faccio
da prima di premere quel grilletto.
Mi
passai le dita fra i capelli e mi avvicinai a lui. — Mattia... — iniziai,
esitante. — Mattia, il Sottomondo è un posto crudele, feroce, disumano. Tu sei
abituato a una vita vissuta in pace e tranquillità, priva di problemi
irrisolvibili, un cognome di cui mantenere l’onore e inevitabili spargimenti di
sangue. Il Mondo Invisibile è esattamente il contrario. Imparare ad
orientartici è la prima indispensabile sfida che dovrai affrontare, e dovrai
cominciare col renderti conto che un approccio diplomatico non è sempre il
migliore. Spesso serve più una bella botta in testa che non una lunga
chiacchierata.
Lui
si studiò le mani. Sulle nocche aveva ancora qualche goccia di sangue. — Se è
davvero così orrendo come dici, non sono certo di volerne far parte.
—
Temo che sarai costretto a farlo — sospirai. — Perlomeno finché non avrai
acquisito conoscenze e fatto esperienze che ti permettano di continuare a vivere
tra i mondani. Mia nonna ha provato ad uscirne, e non è stato semplice. Ci si è
ritrovata di nuovo dentro.
— Che
meraviglioso discorso d’incoraggiamento — sbuffò lui.
—
Sono l’ultima a poter incoraggiare qualcuno, dato che quella che dovrebbe essere
incoraggiata sarei io. E allo stesso modo sono l’ultima a poterti esortare ad accettare la tua natura e bla bla bla,
perché io non la accetto e non l’ho mai accettata. Dunque fai solo ciò che ti
senti di fare — conclusi alzando le spalle. — Io non so dirti altro.
—
Ascolta, Lori... — Si mordicchiò il labbro. — Comprendo che dovrò percorrere
questa strada unicamente con le mie forze, ma... ma non sono molto convinto di
riuscire ad arrivare alla meta. Questa non è la tua battaglia... lo capisco.
Però sei la persona di cui al momento mi fidi di più e una delle poche che può aiutarmi o
quantomeno sostenermi...
—
Farò tutto il possibile. Contaci.
S’illuminò
in volto. — Sul serio?
— Sul
serio. Non ti abbandono proprio adesso. Non lo farei mai.
Mattia
tirò un profondo respiro e abbozzò un sorrisetto. — Ti ringrazio, Lorianne. Di
cuore. Non so cos’avrei fatto se non ci fossi stata tu.
—
Ringrazia Chrysta — lo corressi. — È stata lei a salvarti. Non io.
— Ti
sbagli, Lori. — Scosse la testa. — Tu mi hai salvato molto, molto più di quanto
non abbia fatto Chrysta.
Insistette per tornare a casa. Non volevo
costringerlo a restare da noi, ma Chris mi aveva raccomandato di non perderlo
d’occhio. In realtà me l’aveva ordinato.
Così
mi ritrovai nella villetta dei Nardone a Serapo, una graziosa abitazione
circondata da un basso muretto che delimitava un piccolo giardino, nel quale
crescevano rosmarino, basilico, salvia, mentuccia, lavanda, un alberetto di
limoni profumatissimi e una piantina di pomodori.
Mattia
litigò con la serratura e solo dopo tre tentativi riuscì ad aprire la porta,
che dava su un modesto atrio dominato da una cassettiera in legno di noce.
Appese il mazzo a un portachiavi di ceramica e mi guidò al piano di sopra, dove
si trovava la zona notte. — Scusami se non ti faccio fare il tour, anche perché
ne varrebbe la pena, ma ho un assoluto bisogno di farmi una doccia e cambiarmi.
Mi sento ancora l’odore del sangue addosso. Mi sento sporco.
Le
sue spalle tremavano.
— Ti
capisco perfettamente. È una delle peggiori sensazioni che abbia mai provato.
Si
fermò di colpo, ma riprese a salire quasi subito. — Non puoi capirmi. Questo
sangue è umano, Lorianne. Non demoniaco. Umano. Non completamente, ma comunque
umano.
E invece no, Mattia, posso capirti eccome.
Per
la seconda volta, quel giorno, ripensai a quando anch’io avevo trovato conforto
nell’acqua bollente dopo essermi macchiata le mani di sangue umano. Di sangue
Shadowhunter. E desiderai, desiderai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con
tutta me stessa, che il destino smettesse di essere tanto crudele, tanto
avverso, tanto doloroso nei confronti di quel ragazzo colpevole unicamente di
innocenza.
Arrivammo
nella sua stanza. Mattia si svuotò le tasche, gettando il cellulare e un
bigliettino sul letto, afferrò velocemente un paio di vestiti dall’armadio e mi
disse: — Cercherò di fare il più in fretta possibile. Nell’attesa, hai la
libreria a disposizione. Da qualche parte dovrebbe esserci il libro di ricette
di papà, se vuoi un genere poco impegnativo. — Dopodiché sparì nel bagno.
Per
buoni cinque minuti setacciai mensole e scaffali in cerca di quel libro, per
poi accorgermi di un volume sospetto poggiato sulla scrivania. Mi avvicinai per
prenderlo, ma il bigliettino sul letto attirò la mia attenzione.
Non si fa, Lori, mi rimproverò la mia coscienza. Non si fa. Non si ficca il naso negli affari
altrui. Saranno fatti suoi, no?
No, Grillo Parlante, mi risposi da sola. Ho il dovere di scoprire se mi sta nascondendo qualcosa.
Ma se sei tu la prima a nascondergli
qualcosa!
Taci, la zittii, poi afferrai il foglio e lo
spiegai.
Aveva
un’impostazione familiare, che avevo già visto da qualche parte. Immaginai
fosse per la sua semplicità: presentava infatti una decorazione a zig zag di un
viola chiaro che partiva dall’angolo superiore destro e sfumava in diagonale su
sfondo bianco, con due numeri di telefono, un’e-mail e altri contatti sotto il
nome.
Realizzato
qual era il nome, compresi immediatamente il motivo di quella familiarità.
Mattia
aveva sicuramente preso il bigliettino dalla pila sul mobile all’ingresso di
Villa Orlando. Lì ce li aveva lasciati la signora Rita D’Amante, che ci aveva
affittato la casa di cui era proprietaria. La dottoressa Rita D’Amante, psicologa e psicoterapeuta.
Prima
che potessi formulare un qualsiasi pensiero, mi sentii chiamare: — Lorianne!
Lorianne!
Corsi
fino al bagno e accostai l’orecchio alla porta. — Mattia, che succede? Tutto
okay?
— No,
Lorianne, no che non va tutto okay! — Il suo tono era impaurito e supplicante.
— Per favore, Lorianne, per favore, aiutami.
Con
il cuore in gola, spinsi la maniglia ed entrai nel bagno mettendomi
istintivamente una mano sugli occhi, mentre con l’altra agguantai un telo
appeso allo scaldasalviette. — Esci subito dalla doccia, Mattia.
Attesi
che uscisse e si coprisse, poi aprii gli occhi. Tremava come una foglia. —
Santo cielo, Mattia, che ti è preso? Cinque minuti fa stavi bene, e adesso...
— Non
lo so, Lorianne, non lo so — rispose lui battendo i denti. — Ho ripensato a
quello che ho fatto ieri sera e...
—
Ehi, no — lo fermai. — Non dirlo. Basta, ora. Basta. Capito? Basta. — Gli cinsi
le spalle con un braccio. — Vieni.
Lo
condussi nella sua stanza e lo feci sedere sul letto, poi aprii l’armadio e
presi la coperta più pesante che trovai. Mattia ci si avvolse come se fossimo
in inverno inoltrato e non in estate con trenta gradi all’ombra.
Mi
sedetti accanto a lui e lo abbracciai forte, accarezzandogli i capelli che si
stavano già asciugando. — Calma, calma — gli sussurrai. — Respira e calmati.
Non
smetteva di rabbrividire. — A te sembra facile — replicò bruscamente, — ma tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
— Il
mare! — esclamai. — Il mare. Pensa al mare. Il mare ti tranquillizza, no? Pensa
al mare.
—
Oggi il mare è tempestoso, Lorianne, anche se a te non sembra — ribatté. —
Quando è tempestoso mi terrorizza.
—
Però è proprio durante le tempeste che si fanno le migliori battute di pesca,
giusto? Insomma, i pesci vengono a galla. Cioè, intendevo... ah, lascia stare.
— No,
hai ragione, vengono a galla — affermò. — A mangiare la palla di pelle di
pollo, fatta da Apelle, figlio di Apollo.
— Ma
smettila! — Scoppiai a ridere, e lui con me.
La
sua risata, da vicino, era ancora più bella.
C’era
qualcosa nel suo essere impaurito, così accoccolato in quella coperta troppo
piccola per lui, che quasi mi fece sporgere in avanti e cullarlo come fosse un
cucciolo bisognoso d’affetto. Ma non era un cagnolino – certo, questo sempre se
non si voleva far rientrare i mannari nella categoria.
Non
saprei esattamente dire come fossi finita a farlo, ma mi ritrovai a fissarlo
quasi ossessivamente, e ben presto lui se ne accorse e ricambiò.
—
Vuoi che ti faccia una foto, così la metti sotto il cuscino? — chiese,
ridacchiando, raddrizzandosi appena nelle coperte.
Mattia
indifeso era terribilmente dolce, almeno tanto quanto il Mattia più sicuro, che
avevo ora di fronte, sembrava irresistibile.
—
Sfacciato — risposi. — Un secondo fa mi tremavi fra le braccia... Aspetta un
attimo, non era mica tutta una tattica?! — domandai poi, guardandomi
ironicamente la scollatura della canotta che indossavo – la quale, in ogni
caso, non è che fosse questa gran bella vista.
Forse
fu quello che sbloccò definitivamente Mattia, o forse volle solo cogliere
l’attimo. Fatto sta che comunque un secondo prima era rannicchiato davanti a
me, e quello dopo... Be’, più che di davanti si sarebbe dovuto parlare di sopra, ecco, mentre con un sorriso
sornione mi scostava un ciuffo dal viso e cominciava a baciarmi con una grinta
che non gli avrei mai attribuito, ma diamine se mi piaceva!
Idolatravo
Jean per quanto fosse dannatamente esperto nel baciare – non per niente si
chiama bacio alla francese – e mai
avrei pensato che, un giorno, avrei trovato un ragazzo più bravo di lui.
Invece
mi ritrovavo a limonare, perché sì, è quello che stavamo facendo, con Mattia
come se non ci fosse stato un domani.
In
effetti per lui il domani era oscuro e incerto, almeno in quel momento. Ero
sicura che sulla sua testa incombesse una pesante taglia e che qualunque lupo
mannaro sul territorio avrebbe voluto la sua vita.
Motivo
in più per carpere diem e baciarlo
ancora più appassionatamente.
Ma purtroppo – o forse per fortuna –
era tutto un meraviglioso film mentale.
Restammo fermi, in silenzio, per più di un
quarto d’ora, finché Mattia non decise che era il momento di rivestirsi. Ci
rimasi un po’ male, anche perché ci avevo preso gusto a coccolarlo, ma
dopotutto, pensai, significava che il peggio era passato e forse quel
bigliettino non sarebbe stato di alcuna utilità.
Tornato
in camera dopo essere sparito per un paio di minuti in bagno, mi fece la
domanda del secolo: — Lorianne... uccidendo un Alpha non si prende il suo
posto?
Tale
domanda, tale risposta. Valore: un milione di dollari.
—
Oddio, non lo so. — Strabuzzai gli occhi. — Di sicuro i mannari ti
considereranno un capo, ma non ho idea se sarai un capo solo di nome o anche di
fatto. In fin dei conti, non l’hai ucciso in un modo... licantropesco. Non ti
sei battuto contro di lui con unghie e denti per il dominio, gli hai
semplicemente sparato.
—
Morale della favola, sono il boss di un clan di camorristi — concluse Mattia
sconsolato appoggiandosi alla scrivania. — Ma se sono veramente l’Alpha, che
abbiano o meno fiducia in me, dovranno obbedirmi o sbaglio?
— Non
sbagli.
—
Allora cambierò le carte in tavola. I lupi mannari di Gaeta non avranno più
niente a che fare con la criminalità organizzata. E i pezzi grossi finiranno
dritti in prigione.
— Hai
grandi progetti per il futuro — osservai sorridendo.
—
Esattamente — confermò lui. — Accompagnami a Santa Lucia. Tra poco avrai
l’onore di ascoltare il primo discorso del nuovo Alpha al suo branco.
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Capitolo 17 *** Canzoni di redenzione ***
15.
“Emancipate
yourselves from mental slavery
None but
ourselves can free our minds”
Mattia era una testa
dura già per principio. Quando ci si metteva, poi, niente e nessuno avrebbe
potuto fargli cambiare idea.
Chrysta mi avrebbe ammazzata se avesse
saputo che avevo acconsentito – per modo di dire – che Mattia tornasse nel
luogo in cui era quasi morto, potenziale fonte di stress fisico e psicologico,
per fare qualcosa che non solo si sarebbe potuta rivelare un’impresa suicida ma
avrebbe anche rincarato la dose di stress fisico e psicologico.
Come ci videro arrivare, Logan e Trish,
appostati fuori al palazzo dei mannari con aria annoiata dall’ora di pranzo, ci
corsero incontro esaltati.
— Buoni, buoni — li calmai. — Mattia non
vuole fare una strage. Vuole solamente parlare.
— E spero voi sappiate che so parlare abbastanza
bene — sottolineò il diretto interessato con finta aria di superiorità.
— Uhm, okay — acconsentì immediatamente
Logan. — Tanto per la cronaca, finora non c’è stato alcun movimento sospetto, a
parte un uomo e una donna che sono usciti da una stanza sistemandosi i vestiti.
— E tu come avresti fatto a vederli,
considerando che al piano terra non ci sono camere se non quella nascosta nel
muro? — lo interrogai aggrottando le sopracciglia.
— Ho la runa di Lunga Vista — borbottò lui
di rimando. Aveva le guance rosse. — Forza, andiamo.
Trish aprì il portone e ci fece entrare, poi
lo richiuse dietro di sé. — Domandina innocente: come faremo a chiamare a
raccolta tutti i lupi senza farci scannare?
— Grazie a me — disse una voce alle nostre
spalle.
Ci voltammo con un sussulto. A me balzò il
cuore in gola.
Una donna vestita di nero mosse un paio di
passi verso di noi. I tacchi alti riecheggiarono sul marmo lucidissimo del
pavimento. Portava i capelli raccolti in uno stretto chignon fermato con uno
spillone dai riflessi dorati. Il tailleur rigoroso e l’espressione fredda la
facevano assomigliare a una severa insegnante di danza classica.
Trish trattenne il fiato. — Ho combattuto
contro di lei ieri sera. Mi complimento per la bravura.
— La ringrazio — rispose la donna
ricambiando l’uso della terza persona. — Conosco molti stili di lotta e ho
avuto spesso a che fare con i Cacciatori.
Ci chiamava alla maniera italiana, notai.
Non come il boss, che preferiva “Shadowhunter”. Detto da lei, sembrava un
complimento. O quantomeno non suonava dispregiativo.
— Io sono – ero – colei che il capo di
questo clan si ostinava a considerare “moglie” — riprese avvicinandosi
ulteriormente e incrociando le braccia sul petto generoso. — Ho sposato quella
razza di canaglia per... be’, un matrimonio combinato. La notte scorsa ho
osservato da uno spiraglio quanto succedeva in quella stanza. — La indicò con
un gesto della mano. — Mi dispiace di non essere intervenuta, ma se avessi
anche solo bussato alla porta avrei fatto la sua stessa fine, Alpha — continuò
rivolgendosi a Mattia. — Uccidendo Carmine mi ha tolto un grosso, grosso peso
dalle spalle. Non lo dimenticherò mai. Non dimenticherò mai il servizio che
tutti voi mi avete reso.
Mattia si limitò a un formale e confuso
cenno del mento, imitato da me e Logan.
Trish al contrario dovette dire la sua. —
Perché mi ha affrontato? Avrebbe potuto morire anche lei.
— Ripeto: non è la prima volta che mi
ritrovo faccia a faccia con un Cacciatore armato — replicò la donna. — So come
difendermi, e in ogni caso avevo l’obbligo di dimostrare agli altri lupi che
ero vostra nemica e non, come invece è in realtà, vostra amica. Vado a radunare
il branco — concluse. — Voi aspettatemi qui.
Appena fu fuori portata d’orecchio,
sussurrai a Mattia: — Wow. Entrata a sorpresa. Ti fidi di lei?
— Sì — affermò lui. — Non per un secondo ho
percepito che ci stesse mentendo. Anzi, in lei ho avvertito una sorta di...
timore reverenziale. Potrebbe essere una forte alleata.
— Sono d’accordo, ma non la sottovalutare.
Certa gente ti volta la faccia quando meno te l’aspetti.
— Non lo farò — promise. — Ho più motivi di
chiunque, qui, per restare sul chi va là.
Proprio in quel momento un rumore ci fece
scattare in modalità sentinella.
Dalle scale sulla sinistra cominciarono a
scendere una ventina di persone, capitanate da un tizio vestito di nero –
evidentemente andava di moda tra i mannari – che doveva avere più o meno la
stessa età di Mattia.
Il ragazzo ordinò alla folla di arrestarsi
in fondo alle scale e ci venne incontro. Somigliava moltissimo alla donna che
ci aveva accolto.
— Salve
— ci salutò freddamente. — Adriano Mallardo, figlio
dell’ex boss Carmine che voi avete ucciso. Non vi
giudicherò per questo, anzi, almeno su questo mia madre ed io
siamo su un’unica
linea di pensiero. Tuttavia non ripongo molta fiducia in te. —
Incrociò lo
sguardo di Mattia. — Sei troppo giovane per guidare un clan di
queste
dimensioni.
— Oh, lo so — ribatté Mattia a bassa voce. —
Ma tuo padre non la pensava allo stesso modo quando mi ha brutalmente morso e
mi ha trasformato in una creatura che credevo fosse frutto della fantasia. Secondo
lui ero abbastanza maturo per affrontare una questione di tali proporzioni,
seppur in un ruolo diverso, quindi perché non dovrei essere adatto per questo
incarico? Ti consiglio di riporre la tua fiducia in me. Se la tradirò, i cocci
saranno solo e soltanto miei. Se non la tradirò, saprai che hai fatto un’ottima
scelta.
Adriano lo scrutò per un ultimo secondo, poi
chinò leggermente il capo con riverenza. — Per ora, mi piaci. In futuro...
vedremo.
— Cercherò di non fartene pentire — rincarò
Mattia. — Il branco è al completo?
— Sì — confermò Adriano, poi si voltò e ci
condusse verso il bordo della piscina al centro della stanza. Si fermò accanto
ad una delle statue-lupo e ce la indicò. — Papà sospettava molto della fedeltà
del suo branco. In ognuna di queste sono nascoste una microspia e un microfono
panoramico. Ti sentiranno anche al piano di sopra. — Dopodiché sparì tra la
gente.
Assestai a Mattia una pacca sulla spalla. —
Animo, horator. Dai il meglio di te.
Lui sbuffò, nervoso. — Tenetevi pronti, nel
caso la situazione dovesse sfuggirmi di mano. Sorvegliate la folla e fatemi un
segnale se doveste notare qualcosa di strano.
— Siamo nati pronti — lo rassicurò Logan con
un sorriso d’incoraggiamento. — Male che vada, li convincerai tutti con un bel
pranzo al ristorante. E, per inciso, stiamo ancora aspettando un invito.
Q — La settimana prossima riapriamo. Lunedì verso l’una? — propose Mattia.
— Perfetto — concordò Trish. — E ora bando
alle ciance.
Logan e Trish si divisero, andandosi a
posizionare l’uno nei pressi di un tavolo da biliardo sulla sinistra e l’altra
di fronte alla porta segreta, sulla destra. Io invece puntai il ballatoio, dal
quale avevo la completa visuale dell’atrio.
— Buonasera — esordì Mattia, palesemente
agitato. — La maggior parte di voi non mi ha mai nemmeno incrociato per strada
e sicuramente si sta domandando chi diavolo sia quel ragazzino che crede di
avere il diritto di parlare a persone di un certo riguardo come voi. Perciò mi
presento: Mattia Nardone, appena diciannovenne, catapultato in un mondo di cui
mai avrebbe voluto conoscere l’esistenza da un uomo che, ieri sera, l’ha
istigato al suicidio.
Dall’alto, vidi che parecchi corpi avevano
sobbalzato. Le possibilità allora erano due: o non avrebbero mai immaginato che
il loro capo potesse arrivare a tanto, o non era una novità.
— Mi ha detto che mi aveva morso
intenzionalmente — continuò Mattia, l’espressione dura come una pietra, e molte
delle persone che avevano già sussultato trasalirono di nuovo. — So vagamente
cosa siano gli Accordi, ma ne so abbastanza da essere certo che quanto ha fatto
il vostro Alpha è totalmente contrario alle leggi che governano la vita di noi
Nascosti. In realtà è contrario anche alle leggi dei mondani e a qualsiasi
legge morale, ma vi ritornerò in seguito poiché qui questo genere di azioni
illecite e, permettetemi, disumane non è l’unico. Dunque, non vi racconterò
integralmente cos’è successo la scorsa notte, anche e soprattutto perché il
ricordo è ancora recente e vivido nella mia mente e ripensarci mi fa male. Vi
basti sapere che l’Alpha mi ha messo una pistola in mano e mi ha ordinato di
spararmi. Per incentivarmi...
Alzò la testa e mi guardò, come per
chiedermi il permesso di parlarne. Gli feci cenno di sì.
— Per
incentivarmi ha bloccato le vie respiratorie alla ragazza che mi ha
accompagnato, un’amica fedele e sincera, già legata alla scrivania per polsi e
caviglie. A quel punto, ho sparato. Ma non a me stesso. Ho ucciso l’Alpha. L’ho
ucciso io.
Si bloccò e prese un profondo respiro, forse
aspettandosi che chiunque in quella stanza gli saltasse in preda a una furia
omicida.
— Non so come vi siate spiegati o come vi
abbiano spiegato ciò che è successo meno di ventiquattr’ore fa. Non so se la
morte di almeno due lupi e diversi ferimenti siano stati insabbiati oppure ne
siate a conoscenza. Anch’io ci sono quasi rimasto, essendo stato pugnalato con
una lama d’argento da uno dei tirapiedi del boss. Fatto sta che tutto è
iniziato con quello sparo. Me ne prendo la responsabilità, non nego né rinnego
nulla. Da quando ho premuto il grilletto non è passato un unico momento senza
che mi sentissi un brutale assassino, ma l’ho fatto per salvare non solo la mia
vita, bensì anche quella di Lorianne. Di istinto di sopravvivenza dovreste
capirne più di me. Comunque, fino a prova contraria adesso sono il vostro nuovo
Alpha. Dovrete rispondere esclusivamente a me.
E cominciamo col mettere un bel po’ di cose in chiaro.
Mosse un paio di passi in avanti con più
sicurezza rispetto a poco prima. — Chi, tra voi, ha subìto la mia stessa sorte
non abbia paura a dirlo. Dimenticate quel regime di terrore nel quale vivevate
fino a ieri, perché da oggi in poi tutto sarà diverso. Suppongo siano in
minoranza, qui, coloro che hanno deciso autonomamente
di condurre quest’esistenza basata sul significato letterale della parola
“Nascosto”. Si deduce quindi che la maggioranza sia stata trascinata in questo
mondo con la forza, come il sottoscritto, e che sia stata costretta a
rimanervi. Se avete giurato fedeltà all’ex Alpha, se con lui avete fatto un
patto di sangue, per me non ha alcuna importanza. Ormai è morto, e insieme a
lui nella tomba sono finite anche tutte le disgrazie che avete dovuto patire.
Se questa vita non vi piace, andatevene. Siete liberi di fare ciò che ritenete
il meglio per voi. Se invece vi sta bene, restate. A me farà soltanto onore. Ci
tireremo fuori da qualsiasi losco affare, ci ripuliremo le mani dal sangue e
renderemo il Sottomondo di Gaeta migliore per chiunque. Attenzione, però:
pretendo onestà e franchezza. Se mi rivelate di aver commesso qualche atto
sbagliato, tranquilli, non vi giudicherò. Ma se invece dovessi scoprirlo da
solo sarò inflessibile e vi consegnerò alla giustizia senza patteggiamenti.
Sarà punito anche chi per uno strano motivo si sentirà in dovere di farmi una
soffiata sulla condotta di questo o quell’altro.
Si passò la lingua sulle labbra. — In
sintesi, vi sto offrendo una possibilità. Non sprecatela. Offritemi una
possibilità anche voi, e prometto che non la sprecherò. Qualcuno ha da
obiettare?
Un tipo alzò subito la mano. — Come possiamo
essere sicuri che farà tutto quello che ha detto, Alpha?
— Non potete — rispose schiettamente Mattia.
— E per favore, smettetela di darmi del lei.
— Io vorrei una garanzia — replicò una tizia
dai capelli alla Crudelia De Mon. — Mi perdoni, ma sono una persona pratica e
per me contano più i fatti che le parole.
— Smettetela di darmi del lei — ripeté
Mattia con un piccolo sbuffo di impazienza. — Avete ragione a dubitare delle
mie parole. Purtroppo l’Italia non ha una buona fama in materia di promesse
mantenute. Però io parlo inglese per la metà del tempo.
L’innocente battuta sortì il suo effetto:
molti lupi ridacchiarono.
— Scripta
manent, verba volant, dicevano i Latini — commentò Mattia. — Gli scritti
restano, le parole volano.
— Quindi perché non firmare una
dichiarazione? — propose una terza persona. Era Adriano.
— Se fossimo vampiri, un patto firmato col
sangue avrebbe un diverso valore e mi vincolerebbe per sempre e senza
scappatoie a quanto concordato — contestò Mattia, — ma se servisse a
tranquillizzarvi lo farei immediatamente.
— No. Impiegheremmo troppo tempo. — La donna
che ci aveva accolti si fece avanti e raggiunse Mattia. — Andiamo, compagni,
davvero non siete disposti a credere a...?
— Mattia.
— Mattia? — riprese lei. — Davvero non
comprendete quanta verità c’è nel suo discorso? Voi tutti siete abituati a dar
credito solamente alla violenza, e dovete ringraziare quel grandissimo bastardo
di mio marito per questo. Prima vi lamentate di com’era bella la vostra vita
prima che Carmine vi adescasse per le strade, vi mordesse e vi portasse in
questo posto dimenticato da Dio, e poi quando vi viene concesso di tornare chi
eravate anni fa ve ne fregate altamente! Per una volta, usate la testa al posto
di denti e artigli! Per una volta, siate umani piuttosto che lupi!
Fissò Mattia dritto negli occhi per un
brevissimo istante, poi s’inginocchiò ai suoi piedi mostrandogli la gola.
Pian piano,
lentamente, un lupo dopo l’altro la imitò. Nessuno escluso.
— Rialzatevi — ordinò Mattia. — E che non si
faccia mai più una cosa del genere. Abbandonate queste usanze da barbari. Siamo
tutti allo stesso livello, qui. Scusatemi se ho fatto intendere il contrario.
— No — negò qualcuno. Sporgendomi dal
ballatoio, mi accorsi con sorpresa che era una minuta ragazza di massimo
quindici anni. — Hai fatto intendere esattamente ciò che volevi far intendere.
Mattia le rivolse un largo sorriso. — Ti
ringrazio.
— No — negò nuovamente lei. — Siamo noi a
ringraziare te.
“How
long shall they kill our prophets
While
we stand aside and look
Some
say it’s just a part of it
We’ve
got to fulfill the Book”
Ci congratulammo con
Mattia per la meravigliosa orazione. Lui accolse ogni complimento facendo il
modesto, sebbene la modestia stonasse con l’aria autoritaria che aveva
acquistato.
— La fortuna è stata dalla mia parte —
concluse scrollando le spalle. — E adesso... ci si mette all’opera!
— Neanche per sogno! — protestai
all’istante. — Adesso, usciamo di qui e ci facciamo il lungomare a piedi fino
alle Poste.
— Be’, non hai tutti i torti. Mi farebbe
bene scaricare un po’ i nervi — confessò lui. — Però... uff, c’è un lavoretto
che non voglio rimandare.
— Ci pensiamo noi — lo tranquillizzò Logan.
— Vero, Trish?
— Verissimo — confermò lei. — Finalmente,
della buona e sana attività investigativa.
— Vi farò una statua — sospirò Mattia con
riconoscenza. — Allora, dovreste perquisire la stanza nascosta nel muro e
qualsiasi mobile su cui riusciate a mettere le mani. Radunate qualunque foglio
o oggetto sospetto e magari interpellate la moglie del boss o suo figlio a
riguardo, se è proprio sospetto sospetto.
— Portiamo tutto a casa oppure lo lasciamo
qui? — domandò Trish.
— Decidete voi — rispose Mattia passandosi
una mano sul viso stanco. — A me farebbe più comodo la prima opzione, ma la
scelta è vostra.
— Perfetto. — Logan ci salutò e insieme a Trish
sparì nello studio segreto.
Uscire da lì non si sarebbe rivelata
un’impresa semplice. Infatti non riuscimmo ad allontanarci nemmeno di un
centimetro prima che la faccia scura di Adriano si piazzasse di fronte a noi.
Mattia alzò un sopracciglio. — Sai, vorrei
andarmene.
— C’è il funerale di papà — contestò
Adriano. Non accennò minimamente agli altri lupi morti. — Non partecipare non
sarebbe visto di buon occhio.
— Sì, ma partecipare equivarrebbe a
tributare onore a un uomo che di onore non ne aveva affatto — replicò
bruscamente Mattia. — Oltretutto non me la sento, Adriano, davvero.
Per tutta risposta Adriano girò sui tacchi e
borbottando si avviò rigido al piano di sopra.
Sua madre, scendendo, gli lanciò uno sguardo
di fuoco e subito corse a scusarsi con Mattia. — Perdonalo — lo supplicò. — È
ancora sotto shock.
— Lo sono anch’io — ribatté lui in tono
aspro. — Quindi, per favore, non trattenetemi qui.
La donna annuì. — Capisco. Non lo faremo. —
Tese la mano. — Comunque io sono Sabrina Monti.
Mattia gliela strinse. — Mattia Nardone, se
non si fosse capito.
Lo imitai. — Lorianne Herondale... sempre se
non si fosse capito.
Sabrina sobbalzò leggermente. — Herondale...
quegli Herondale?
— Ci siamo solo noi — sospirai. — Sì, quegli Herondale. Il mio cognome a
quanto pare mi precede anche in Italia.
— Il cognome non è altro che un insieme di
lettere — osservò Mattia. — Non dovrebbe pregiudicare chi lo porta.
Sabrina s’incupì. — Io sono stata spesso
pregiudicata per il mio cognome, da sposata e da nubile. Mi auguro che non
succederà più in futuro.
— Me ne assicurerò personalmente — le
promise Mattia, poi la congedò con un cenno del mento e si diresse impettito
verso il portone, seguito da me.
Attraversato l’atrio e oltrepassata la
soglia, il sole, nonostante fosse schermato dai palazzi e comunque abbastanza
basso all’orizzonte, ci ferì gli occhi. Mattia, che doveva ancora fare i conti
con le conseguenze della licantropia, iniziò a versare lacrime come se fosse
tremendamente allergico ai pollini e si trovasse in mezzo a un campo di fiori
in piena primavera.
— Accidenti — imprecò a labbra strette. — E
accidenti all’ottico che non mi ha ancora riconsegnato gli occhiali.
— Non fare i capricci! — lo rimproverai
scherzosamente. — Dai, tra poco sarà il tramonto. Sopporta e zitto.
— In effetti, ho già parlato a sufficienza.
Da Santa Lucia scendemmo sul lungomare, a
quell’ora gremito di persone che facevano jogging, ragazzini con le biciclette
e famiglie con i passeggini che si godevano il tepore del tardo pomeriggio.
Mi ritrovai a pensare all’ambiente nel quale
avevo vissuto fino ad allora ad Alicante. Lì al massimo si vedevano un paio di
coppiette lungo la sponda del lago Lyn oppure in un vicolo sperduto; gli Shadowhunters
che avevano figli in inverno preferivano restarsene al chiuso e in estate
giravano il mondo di Istituto in Istituto.
Tutto era più freddo, a Idris. Calore e
cordialità lì non trovavano alloggio. C’era posto solo per indifferenza e
ostilità.
Guardai Mattia di sottecchi. Stava fissando
il mare, in attesa che il sole sfiorasse l’orizzonte infuocando il cielo, un
sorrisetto appena accennato sulle labbra.
Rispecchiava alla perfezione l’opinione che
in molti hanno dell’Italia, o quantomeno del sud della penisola: simpatia,
umiltà e una porta sempre aperta.
Mi resi improvvisamente conto che la mia, di
porta, per lui era socchiusa. Se Mattia mi aveva detto qualunque cosa volessi e
non volessi sapere, io celavo ancora dei segreti. Un segreto, anzi. Un segreto molto, molto grande.
— Ehi, ma non è tua nonna? — La vista di
Anna a braccetto con un uomo corpulento, probabilmente suo marito, mi fece
ridestare. Quando lei ci avvistò, la salutai agitando la mano.
— Ciao, nonnina! — Mattia la abbracciò e le
diede un bacio su una guancia. Sebbene avesse i tacchi, Anna era più bassa di
lui di trenta centimetri. — Di solito uscite prima, non pensavo di incontrarvi.
— Ho fatto le tielle — disse Anna come se
quell’affermazione bastasse a spiegare tutto. — Le ho fatte anche per te. Vieni
a cena da noi, vero?
— Nonna, sul serio, non è necessario. Sono
figlio di un cuoco. So come badare a me stesso, e di certo non ho intenzione di
rimanere digiuno.
— Lo è, invece. Non voglio che resti solo,
Matti’.
— Nonna, dillo. Di’ che sono dimagrito e che
devo mangiare.
— Sei dimagrito e devi mangiare.
Spostavo lo sguardo dall’uno all’altra come
in una partita di ping-pong, tentando di non ridere. Era terribilmente
esilarante vedere Anna incarnare lo stereotipo della nonna che cerca di farti
ingrassare. Soprattutto perché Anna non era esattamente una nonna
convenzionale.
L’intervento del nonno mise fine alla lite. —
Basta. State facendo una commedia davanti a questa bellissima signorina.
— Oh, non preoccupatevi — li rassicurai. —
Dopotutto, siamo pur sempre umani.
Anna mi scoccò un’occhiata complice,
chiaramente divertita dalla mia affermazione. — Ti chiederei di tornare con
noi, Mattia, se non ci fosse Lorianne. O vuoi unirti a noi, Lorianne?
— No, grazie — rifiutai. — Tranquilli, io
posso continuare da sola. Inoltre, i miei cugini mi stanno aspettando. — Misi
su un ghigno sarcastico. — Vai, Mattia. E mangia, che sei dimagrito.
L’ultima immagine che ebbi di lui per quella
sera fu suo nonno che gli scompigliava i capelli.
Mi voltai e proseguii per la mia strada.
Camminando incrociai gli sguardi di alcuni passanti, e mi domandai se anche
loro vedessero Mattia come lo vedevo io.
No, mi risposi poi. Ovviamente non sapevano
ciò che sapevo su di lui. E magari, se pur lo avessero saputo, comunque non
avrebbero concordato con me.
Forse ero l’unica a vederlo in quel modo. O
forse non lo ero, considerato quanto era successo nel palazzo dei mannari.
Sperai che anche lui si vedesse così. Come
un ragazzo che era rimasto in equilibrio sull’orlo del baratro. Come un uomo di
grandissimo coraggio. Come colui che avrebbe portato speranza dove la speranza
si era estinta. Come un liberatore.
“Won’t
you help to sing, these songs of freedom
‘Cause
all I ever had,
Redemption
songs, redemption songs”
Aaand
here we go.
Mamma
mia, signori, non avete idea di che liberazione è stata pubblicare finalmente
questi capitoli.
Ma
andiamo per ordine.
Anna:
Niente
di particolare da dire, così come il capitolo stesso non è niente di
particolare. Lo so, è un po’ scialbo rispetto alla mia media, ma dovevo tenervi
freschi per la triade. Rinnovo l’invito a leggere Incontri,
comunque. E ovviamente Anna è mia nonna. La rivedremo moltissimo nelle Houses.
Alea
iacta est ~ Parte prima:
Non
so da quanto tempo ho pronto questo capitolo. Sicuro sicuro da marzo dell’anno
scorso. Ho dovuto adattare sia questo che i successivi a delle particolari
esigenze di trama e storyline, quindi magari qualcosa sarà risultata poco
chiara o frettolosa – me ne rendo conto, sì, ma riprenderò tutto nei capitoli a
venire – però è comunque un’ottima produzione per il periodo in cui è stato
scritto. Entrambe le parti di Alea iacta est sono
state scritte secondo lo stile della song-fiction su Russian Roulette di
Rihanna.
Alea
iacta est ~ Parte seconda:
Okay,
questo già mi piace un po’ di più. E ci credo, sono pure 4300 parole. (Dovevo
compensare le 2300 della prima parte). Mattia piuttosto badass.
Canzoni
di redenzione:
Come
Alea iacta est, anche qui song-fiction,
questa volta su, appunto, Redemption Songs di Bob Marley. Mattia ancora
badass. Adriano sarà importantissimo nelle Houses e anche Sabrina avrà
la sua buona parte. Carmine invece sarà sempre presente nei ricordi di
chiunque, come ogni uomo odioso e odiato che si rispetti. Da qui comincia la
vera storia e da qui cominciano anche le Houses. (MUHAHAHAHAHA).
Niente,
finisco qui. Anzi, altre due paroline ine ine: per carità divina FATEVI SENTIRE.
Non credo proprio che a questo punto non abbiate nulla da dire; prima poteva
anche essere, ma adesso... be’, proprio no. Ripagatemi questo sforzo, per
favore, io faccio di tutto per arrivare a toccare la vostra mente e il vostro
cuore. Davvero, almeno stavolta. Mi raccomando.
Alla
prossima,
Federica
|
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Capitolo 18 *** Vita informe ***
16. Vita informe
Vita informe
Quando prendo in esame la mia vita, mi
spaventa di trovarla informe.
[...] La mia vita ha contorni meno
netti: come spesso accade,
la definisce con maggior esattezza proprio
quello che non sono stato:
buon soldato, non grande uomo di
guerra; amatore d’arte, non artista
come credette d’essere Nerone alla sua
morte;
capace di delitti, ma non carico di delitti.
[Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano]
Anna
convinse Mattia a restare a dormire da lei per tutta la settimana.
A quel punto mi chiedevo se fosse a
conoscenza della difficile situazione che stava attraversando il nipote in quel
momento, o perlomeno se sapesse della sua natura di lupo mannaro; tuttavia,
dubitavo di entrambe le cose. E non perché non aveva avvisato Mattia –
conoscere il futuro serve a ben poco, se non puoi cambiarlo – ma perché non
aveva avvisato me.
Nessuno meglio di me avrebbe potuto
comprendere il vero significato di un certo tipo di visioni; se anche non
avesse voluto dirlo a Mattia, sicuramente io avrei potuto trarne vantaggio. E
invece niente, si era limitata a indicarci come arrivare all’edificio con lo
stemma dei Durazzo, il giorno in cui eravamo andati a casa sua, e a fare la
nonna amorevole con Mattia finché i suoi genitori e la famiglia di suo fratello
non erano tornati dalla gita fuori porta che li aveva provvidenzialmente tenuti
lontani da Gaeta in quel periodo.
Cominciavo a sospettare che qualcosa di
provvidenziale ci fosse veramente, nei motivi che avevano spinto Mattia a
rimanere da solo in città mentre madre, padre, fratello, moglie e nipotino si
concedevano una piccola vacanza al fresco dell’Umbria per festeggiare due
anniversari di matrimonio. Ufficialmente, Mattia aveva da studiare per la
maturità; ufficiosamente... be’, se non c’era davvero lo zampino di una qualche
entità onnisciente, suppongo che Mattia avesse già iniziato a subodorare cosa
sarebbe dovuto accadere.
Comunque stessero le cose, tanto meglio per
noi: io avevo la sicurezza che ci fosse una persona come Anna accanto a Mattia,
nel caso si fosse verificato uno di quegli orribili scenari per scongiurare i
quali non risparmiavo sui mezzi; lui in parallelo poteva andare e venire da
Villa Orlando e da Santa Lucia ogni volta che voleva, a patto di tornare dalla
nonna quantomeno per cena.
E dalla nonna ci tornava; riluttante, ma ci
tornava.
Se avevo capito qualcosa di Mattia quello era
il suo cieco e assoluto rispetto delle condizioni, sia che gliele imponessero
altri, sia che se le imponesse da solo. Aveva detto che avrebbe fatto una
determinata cosa? Bene, allora l’avrebbe fatta, punto e basta.
Per sua somma fortuna, i mannari arrivarono
quasi subito a questa conclusione. Quei pochi ai quali non era bastato il
discorso pronunciato neanche ventiquattr’ore dopo la morte dell’ex Alpha si
convertirono alla sua causa in seguito a una brevissima chiacchierata in
privato, mentre un Mattia rivelatosi assai abile nei giochi psicologici si
presentava alle teste seriamente dure come quello che riteneva essere l’esatto
opposto del suo predecessore: un giovane uomo comprensivo, aperto e
disponibile, la cui migliore arma e migliore difesa era la parola.
Aveva da subito messo in chiaro che non
avrebbe obbligato nessuno né a restare né ad andarsene; sottilmente, però, con
una maestria tale che neppure il più esperto avvocato sulla piazza avrebbe
potuto eguagliare, aveva celato tra le righe una tanto semplice quanto
importante affermazione: se ve ne andate, i cavoli sono vostri.
Contrariamente a tutte le sue e le nostre
stime, i lupi, da trenta che erano, trenta rimasero.
O almeno, trenta erano quanti abitavano al
Palazzo.
Secondo Adriano, contando anche le
affiliazioni e aggiungendo uno scarto minimo delle vittime non riconosciute o
accolte da altri branchi, il numero complessivo delle violazioni agli Accordi
di Mallardo&Co si aggirava attorno ai settemila. Solo in Italia.
Dal canto suo, Adriano recitava la parte
dello gnorri e dell’indifferente, ma in fondo era quello, insieme a Sabrina,
dalle cui spalle era stato tolto il peso più grande. Ed era anche quello che ne
sapeva di più sull’argomento, dato che era il primo e unico figlio del boss,
nonché prossimo erede dell’impero criminale dei Mallardo.
Riguardo la faccenda dell’erede, quando
Trish glielo accennò lui scoppiò a ridere amaramente. — Io? Io? Sì sì, come no... ma mi faccia il
piacere!
Ci aveva raggiunte in uno degli archivi al
secondo piano – Mallardo doveva proprio amare il cartaceo – e se ne stava fermo
sulla soglia, gambe divaricate e mani in tasca, a guardare me e Trish che
sgobbavamo per liberare tutti gli armadi, deliziandoci con gioiose storielle
tratte dal suo passato.
È anche vero che la rispostaccia ce
l’eravamo cercata con il nostro comportamento un tantino insolente, ma non
eravamo affatto preparate a quello che seguì suddetta rispostaccia: — Per il
giorno in cui mio padre avesse lasciato il trono, io sarei già stato sepolto
sotto sette metri di terra da decenni.
Per un’oscura ragione Trish, al sentire
quella frase, sobbalzò più violentemente del dovuto. — Mi dispiace — mormorò,
raccogliendo dal pavimento i fogli che le erano caduti di mano.
Adriano sorrise appena, poi tirò un lungo
respiro e prese a sbottonarsi lentamente la camicia. Arrivato al fondo spostò
la stoffa di lato, scoprendo una grossa e spessa cicatrice che attraversava
tutto lo sterno e finiva poco sopra l’ombelico.
Ci raccontò che i suoi problemi erano
letteralmente iniziati il giorno in cui era nato prematuro tra il settimo e
l’ottavo mese di gravidanza, con una grave patologia cardiaca a complicare
ulteriormente le cose e quel pazzo di suo padre che aveva tentato di morderlo
non appena l’avevano lasciato uscire dall’incubatrice. Aveva passato l’infanzia
in giro per ospedali e sale operatorie a stare ai comodi di medici illuminati
che in sostanza lo usavano come cavia per sperimentare nuove tecniche e nuovi
trattamenti, risultandone impedito ad andare a scuola e perciò dovendo essere
educato privatamente.
— Penserete che, con tutti quei soldi, a
questo punto io sarei dovuto stare meglio di voi due messe insieme. E mi
dispiace dirvelo, ma sbagliate, e di grosso pure. — Parlava come se avesse
ripetuto quel discorso così tante volte da averlo imparato a memoria. Un po’
della mancanza di espressione nella voce mi ricordava il padre, ma a differenza
di Mallardo senior Adriano aveva un ottimo motivo per non voler mostrare del
sentimento. — Mio padre non ha mai voluto sborsare un singolo centesimo per me.
Mi correggo: l’ha fatto, solo che non si è mai scomodato a cercare una
soluzione definitiva.
Faceva delle pause a effetto che sembravano
scritte tra le didascalie di un copione, per quanto erano azzeccate. Il tono
era amaro, ricco di rassegnazione, a tratti sarcastico. Era il tono che non
avrebbe dovuto avere un ragazzo di vent’anni massimo. Era il tono del
condannato alla gogna.
— Fino a poco fa credevo che al mio funerale
mio padre avrebbe buttato nella fossa, al posto delle rose, tutti i soldi che
aveva rifiutato di dilapidare per
salvarmi il culo. Immagino che dovrò cambiare le mie valutazioni del
post-mortem.
Mio
padre, mio padre, mio padre. Non l’aveva mai chiamato diversamente. Una
sorta di formale via di mezzo tra papà e
Carmine. Mi ricordava come Jean si
rivolgeva a René negli ultimi tempi.
— Mi hanno impiantato un defibrillatore che
dovrebbe aiutare a mantenermi su questa terra ancora per un degno periodo, ma
per qualche strano e astruso motivo la mia condizione peggiora molto più
velocemente della norma, perciò... evito di compiere grossi sforzi, anche
quando dovrei e vorrei.
Ci fece l’occhiolino. Era bello, Adriano, ma
di una bellezza effimera e fragile, che ti svaniva sotto gli occhi non appena
ti permettevi di distogliere l’attenzione. Era alto, serio e austero, ben
vestito, senza apparente traccia di sbavature e imperfezioni. Eppure a uno
sguardo più attento si notava che quest’immagine era solo un guscio, uno
scheletro, una corazza per tenere insieme tutti i suoi pezzi: colletto alto che
nascondeva un’eccessiva pulsazione della gola, maniche lunghe per celare un
lieve edema dei polsi, un tintinnio sospetto nella tasca che rivelava la
presenza di un tubetto di pillole – considerato l’edema, probabilmente
diuretici.
In lui c’era un qualcosa che avevo già visto
anche in Mattia: maturità, risolutezza, acutezza d’ingegno, un pizzico di
lucida follia. Era una preda facile da ottenere ma impossibile da accettare,
con un piede sull’orlo del baratro e un’insana determinazione a volersi buttar
giù piuttosto che indietreggiare.
Da quanto ci stava dicendo era palese che la
prospettiva di una morte improvvisa e senza troppa sofferenza lo stuzzicasse,
perlomeno prima della morte del padre. Ma ora che al mondo c’era una ragione in
più per vivere tutte le sue convinzioni, meditate in anni e anni, venivano
messe alla prova.
Per controbilanciare, lui metteva alla prova
Mattia. E Mattia, nonostante a primo impatto si mostrasse leggermente
indispettito, a modo suo gliene era assai grato.
La gratitudine non era un fatto nuovo per
Mattia – fosse stato per lui, avrebbe ringraziato anche Carmine
Mallardo per
avergli ficcato in mano quella pistola – ma per Adriano lo era
eccome. Citandolo letteralmente, solo tre persone gli erano mai state
grate in tutta la sua
breve vita, e Mattia era una di quelle.
A quel punto, a Trish parve lecito domandare
quali fossero le altre due persone. Adriano rispose subito, in quella maniera
concisa ed enigmatica che lo caratterizzava: — Due ragazze – dannazione, adesso
saranno due donne.
— E cosa hai fatto a queste due donne?
— Ti piacerebbe saperlo?
— Sì — affermò schiettamente lei, e non
c’era traccia di malizia.
Adriano sospirò. Sembrava rammentare
qualcosa di piacevole. — Ad entrambe mi sono concesso, sebbene in sensi diversi del termine. Per una ho speso il
mio tempo, per l’altra ho speso milioni, e tali milioni sono il perché non
posso trovare da solo i soldi per decidermi a salutare definitivamente questo
cuore di merda. Ho avuto l’accesso a una parte del conto del clan alla maggior
età, ma quel poco che potevo possedere l’ho usato tutto per un’impresa di cui
ancora non so l’esito.
— Le amavi? — chiese Trish esitante.
Parve rifletterci. — No — dichiarò infine. —
Insomma, la prima era un po’... difficile da amare, e per la seconda provavo un
immenso affetto, ma niente di più. No, non le amavo, anche se credo che avrei
potuto, in altre circostanze.
Trish
annuì. — Capisco.
— Fidati, Patricia... — Adriano rise
tristemente. — Tu non capisci.
— Ma...
— Non provarci nemmeno — la fermò
immediatamente lui, sulla via della porta. — E non azzardatevi a entrare nella
stanza chiusa a chiave al terzo piano, oppure ve la vedrete con me.
E se ne andò.
Ovviamente,
questione di cinque minuti ed eravamo già nella stanza non più chiusa a chiave
al terzo piano. Fortuna che Trish si era portata dietro il tablet, adesso
impegnato ad hackerare il sistema di sicurezza dell’edificio per poter accedere
alle telecamere di sorveglianza ed eliminare ogni traccia della nostra visita
di cortesia a quello che si era rivelato essere un vergognoso imbroglio: quel
discreto numero di metri quadri – bisognava ammetterlo, la camera era piuttosto
spaziosa – non ospitava altro che una grossa scrivania semicircolare con sedia
girevole annessa, lampadario a led, qualche finestra e, orrore!, altri armadi. Armadi
su armadi su armadi.
Quel palazzo era una delusione totale. Solo
armadietti, armadini e armadioni, cassetti, cassettini e cassettoni, fascicoli
su fogli, fogli su fascicoli, fascicoli su raccoglitori, archivi e archivi e
archivi. C’era carta dappertutto. (E
per fortuna c’era anche dove serviva).
Ragionevolmente, alla luce dell’avvertimento
di Adriano pensammo che ci dovesse essere un qualcosa di compromettente
racchiuso nei documenti di quella stanza. Trish provò a scannerizzare qualche
pagina di prova e ad avviare un sistema di riconoscimento parole chiave, ma era
un’operazione troppo complessa per un tablet che già stava dando il meglio di
sé; oltretutto, la maggior parte di quelle informazioni era scritta a mano.
Così lasciammo perdere l’approccio tecnologico e, sempre procedendo a caso, ci
dedicammo alla lettura.
Ciò che mi capitò di leggere inizialmente
non era niente di troppo interessante: intercettazioni telefoniche di scarsa
rilevanza, una lista di nomi sbarrati con un pennarello rosso, una serie di
foto non proprio pudiche di una donna che assomigliava a Sabrina – se fossi
arrivata a scoprire che quelle foto le aveva scattate Adriano, giurai, avrei
vomitato anche l’anima – e un paio di vecchie cartelle cliniche di Sabrina
stessa risalenti al periodo della gravidanza.
Fu proprio sotto a queste che trovai
un’altra cartella clinica, molto più corposa, che apparteneva stavolta ad
Adriano. Serrando i denti la sfogliai velocemente per più di metà, cercando di
non far cadere lo sguardo sugli orribili referti di quando era ancora bambino e
sui tracciati di elettrocardiogramma dei quali persino io riconoscevo le gravi
anomalie, finché non mi scivolò tra le mani, quasi tagliandomi, un piccolo
rettangolo di carta: la fotocopia in bianco e nero di un originale che avevo
visto a colori.
Subito chiamai Trish per mostrarle il
foglio, e se possibile lei rimase ancora più sbigottita di me.
— Non ci credo — mormorò, a corto di fiato.
Non potei far altro che concordare.
Un trillo del tablet ci impedì di continuare
la conversazione su quella linea. Trish si alzò riluttante per andare a
controllare, e stavolta fu lei a chiamare me: — Lori, non riesco a bypassare il
sistema.
— Impossibile — replicai per istinto, senza
darle corda. Faceva spesso così quando le cose si protraevano per più di dieci
minuti.
— No Lorianne, tu non capisci: io non ci riesco — ripeté sconsolata. La
intravidi scuotere violentemente la testa. — Quando siete venuti qui tu e
Mattia avevo trovato qualche difficoltà, ma niente in confronto a questo. C’è
stato un cambiamento, un grosso
cambiamento, nelle misure di sicurezza — aggiunse. — E il bello è che è tutto
impostato nello... nello stesso identico modo in cui lo imposterei io.
Stavo ancora fissando quel foglio, ma la sua
affermazione mi fece rapidamente distogliere lo sguardo per puntarlo su di lei.
— Perdonami, ma così non dovrebbe esserti più facile?
Trish pestò i piedi indispettita. — No che
non lo è! — ribatté, frignando come una bambina che fa i capricci. — Io uso uno
schema a cubo di Rubik, una derivazione di mia personale invenzione dallo schema a labirinto.
— E ciò significa...
Sospirò. — Quarantatré miliardi...
— Quarantatré
miliardi?!
— No — negò subito. — Quarantatré miliardi di miliardi di combinazioni
possibili. Solo per il primo livello.
Mi
misi le mani tra i capelli. — Quanto ti ci vuole?
Trish ci rifletté su per un po’. — Minimo un
mese, lavorando a pieno ritmo — rispose, imbarazzata. — Ma non avrebbe senso; a
quel punto avranno già scoperto che siamo state qui.
Sparpagliai i fogli sul pavimento in un
raptus di frustrazione, poi respirai profondamente e a lungo per calmarmi. —
Poco male, Trish. — Buttai la testa all’indietro sbuffando. — Al limite
chiederemo l’intercessione di Mattia.
— Perché, l’hanno già fatto santo? — fece
lei, sarcastica, mentre azzardava un ultimo, estremo tentativo di far valere la
sua sovranità di hacker. Tentativo che, anche se non servì al suo scopo
primario, servì certamente a farci fare un salto dalla sorpresa.
— Lori! — strillò Trish, saltellando per
l’esultanza. — Lori, è comparso qualcosa!
Scattai in piedi e mi avvicinai a lei per
leggere la scritta apparsa sullo schermo nero: — Animula vagula, blandula, hospes comesque corporis, quae nunc abibis in
loca pallidula, rigida, nudula, nec ut soles dabis iocos. — Mi accigliai. —
Cos’è, un carme?
— Suppongo — mugugnò Trish. — Non sono io
quella che sa a memoria centinaia di poesie in tutte le lingue del mondo,
Lorianne cara, quello è tuo padre. In ogni caso, se potessi navigare
nell’Internet la cercherei qui ed ora, ma questo tablet maledetto non è capace
di fare più cose contemporaneamente.
Come
se hackerare la rete di un clan di camorristi eliminando tutti i possibili
virus, disinstallando le backdoor, smontando una configurazione creata a
tavolino e facendo tante altre operazioni di cui non ho la minima idea non
fossero più cose contemporaneamente, pensai, ma mi trattenni dal dirlo. —
Potrebbe essere una specie di codice? — suggerii invece.
Contro tutte le mie previsioni, lei mi diede
ragione. — Può darsi — convenne infatti. — Ho bisogno del computer, però, il
che rappresenta un altro motivo per tornare a Villa Orlando — concluse con una
breve occhiata al pavimento, dunque prese baracca e burattini, mi salutò e mi
lasciò sola tra le carte.
Poco
dopo raggiunsi Mattia
nello studio segreto al piano terra. In quei giorni non aveva fatto altro che
dividersi tra l’ingresso, dove controllava assieme a Logan il materiale da
inviare a Villa Orlando, e quella stanza, nella quale teneva i suoi colloqui coi
mannari. Se Anna non gli avesse imposto di tornare da lei a determinati orari,
ero certa che avrebbe anche mangiato e dormito sulla scrivania. Si era pure
portato da casa una copia digitale della tesina di maturità e un paio di libri
scolastici, così da poter studiare nei pochi minuti liberi. Mi faceva pena
vedere il suo ambiente di vita ridotto a quel misero spazio, ma avevo compreso
che con lui non c’era di che discutere quando era tanto ostinato su qualcosa.
La porta era aperta, quindi entrai senza
bussare. — Ehi, Matti... oh. Adriano. — Indietreggiai d’istinto. — Me ne vado,
tranquilli.
— Ecco, brava — bofonchiò quello in
risposta, subito fulminato con lo sguardo da Mattia: — Vieni, Lorianne, e non
starlo a sentire. Oggi è un po’ mestruato.
Ricevette di rimando un verso di scherno, ma
lo ignorò e riprese a parlare: — Come dicevo, Adriano, io dei soldi non me ne
faccio niente, ergo spendeteli come vi sembra opportuno, io me ne frego.
Adriano batté i pugni sui braccioli della
sedia. — Mattia, ma mica pensi che noi con i soldi ci pulissimo il culo prima
che arrivassi tu? Ci sono gli informatori da pagare, i potenti da corrompere,
le piazze di spaccio da rifornire e i traffici da mandare avanti...
— E tu mica pensi che io voglia mantenere lo
stesso assetto che il clan aveva con tuo padre? — replicò, serafico, Mattia. —
Allora non ci siamo intesi, Adriano.
L’altro mi guardò male. — Ancora qua stai? I cazzi tuoi no,
eh?
Feci spallucce, sorridendo. — Se vuoi che
tuo padre venga sputtanato davanti all’intero Sottomondo...
— Ma è questo
il punto! — gridò lui, furioso, scattando in piedi e quasi facendo rovesciare
la sedia all’indietro. — Se sputtani lui sputtani anche noi, Mattia! Tutti noi! È un’ora che te lo ripeto!
— Ed è un’ora che io ti ripeto che vi
assicurerò protezione. — Mattia tentava di restare calmo, ma anche lui stava
perdendo le staffe. — Dopotutto, cosa mai avete potuto fare di peggio di quanto
ha fatto Mallardo?
Adriano trattenne il fiato per un secondo,
poi espirò violentemente scuotendo la testa. — Dio mio, Mattia, come puoi pretendere
di sederti al suo posto senza sapere
niente di noi, niente di me?!
Mattia colse la palla al balzo. — Perché, cosa
devo sapere di te? Cosa hai fatto, tu,
che io dovrei sapere?
Se ne fu anche minimamente colpito, Adriano
non lo diede a vedere. — La domanda non è cosa ho fatto — bisbigliò in tono
cospiratorio, — ma cosa non ho fatto.
— Bene — sussurrò Mattia. — Cosa non hai fatto?
La risposta giunse dal fondo dell’atrio: —
Te lo dico io, cosa non ha fatto.
Trish arrivò di corsa, stringendo in una
mano un fascicolo familiare e nell’altra il tablet, con un sorriso da orecchio
a orecchio stampato in faccia e gli occhi che brillavano. — Rita D’Amante —
annunciò, gettando il fascicolo sulla scrivania. — È la tua psicologa, Adriano.
— Oh, che novità — dichiarò lui, fintamente
sorpreso. — Guarda, non lo sapevo.
— E sei uno stupido, ti fai anche
prescrivere farmaci da una che non ha l’autorizzazione per farlo — continuò lei
imperterrita. — Comunque, vi rivelo che l’allieva ha superato il maestro: due
anni fa ho inventato il metodo a cubo di Rubik e il mio caro mentore ha capito
come usarlo da un paio di giorni soltanto, per di più con una grossa falla nel
sistema che era sì ben celata ma altrettanto facile da smantellare. Inoltre,
quel gran pezzo di cretino non ha neanche nascosto la sua identità e mi ha
persino fornito ogni singolo mezzo per sgamarlo. Perciò ecco cosa Adriano non ha fatto: non è stato prudente.
L’attenzione di chiunque era concentrata su
Trish, ma tutti riuscimmo a vedere Adriano sbiancare.
Mattia
non ci stava palesemente capendo un tubo, mentre io pian piano misi insieme i
pezzi di un puzzle sconvolgente. Logan aveva abbandonato la sua postazione all’ingresso
ed era venuto a godersi lo spettacolo; un piccolo gruppetto di lupi curiosi l’aveva
seguito.
Trish si concesse una breve risata di gioia,
poi afferrò Adriano per il bavero della giacca, trionfante. — Salve, Imperator.
*ba
dum tss*
Io
vi avevo detto che Adriano sarebbe stato importantissimo *fischietta*.
Niente,
non ho altro da dire quindi bye bye!
(Ah,
io sto ancora aspettando i commenti, eh. Non vorrei essere cattiva, ma che bei
lettori che siete...)
Aspettatevi
un capitolo il più presto possibile, alla prossima!
Federica
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Capitolo 19 *** Ciò che tu ami ***
17. Ciò che tu ami
Ciò che tu ami
Qual è la cosa più bella sulla terra
nera?
Una schiera di cavalieri? Di fanti? Di
navi?
Ciò che tu ami, io dico.
[Saffo]
Dopo
avergli urlato in testa un paio di cosucce non troppo carine, Trish si trascinò
via un inebetito Adriano verso una destinazione sconosciuta. Non ero sicura al
cento percento che anche lui fosse arrivato simmetricamente alla stessa
conclusione di mia cugina, ma qualcosa doveva pur aver capito.
Al contrario c’erano persone che – a ragione
– non avevano capito un bel niente, perciò a me e a Logan toccò tenere un breve
comizio per spiegare almeno i punti salienti della storia, a cominciare dai bei
vecchi tempi in cui la nostra cara Trish altri non era che un’ingenua apprendista
hacker adescata sulla rete da un tizio misterioso che si nascondeva dietro un
nome d’arte piuttosto azzeccato.
Inutile aggiungere che Mattia era furioso: se non avessi avuto la certezza
che non se lo sarebbe mai sognato, avrei scommesso che di lì a pochi minuti
sarebbe andato a cercare Adriano in qualunque posto fosse per, a dirla con le
sue parole, “fracassarlo di mazzate”.
Neanche i lupi che avevano assistito alla
scena furono risparmiati dalla sua ira, tantomeno scamparono a una ramanzina in
perfetto stile Mattia: — Ma quando avevate intenzione di dirmi che è un
maledetto criminale informatico?! —
Assomigliava in modo inquietante a una mamma che sgrida i suoi figli perché
hanno rotto la finestra dei vicini giocando a calcio. — Quante volte vi ho
ripetuto che dovete mettermi al corrente di qualsiasi
cosa o altrimenti il cazziatone ve lo beccate doppio? Mi sembra di parlare
ai muri, guardate, mi sembra di parlare
ai muri.
Mi veniva da ridere a vederlo sbraitare
così, però in effetti non aveva torto: i mannari dovevano riporre fiducia in
lui, sì, ma diametralmente anche lui doveva poter riporre fiducia in loro.
Purtroppo lì non pareva valere il principio della reciprocità, quantomeno non
nei modi in cui un cittadino civile si aspettava che valesse.
Nel palazzo dei licantropi – e probabilmente
anche nell’intero, enorme clan dei Mallardo – la reciprocità assumeva soltanto
valori negativi: tu mi fai un torto e io ne faccio uno peggiore a te, in
un’esemplare legge del taglione. Ciò che offriva Mattia temevo fosse per i lupi
semplicemente inaccettabile. Ammiravo la sua perseveranza, ma prevedevo che i
suoi buoni propositi un giorno sarebbero stati impossibili da attuare persino
per lui, e allora Dio solo sa cosa sarebbe potuto accadere.
A posteriori, molto a posteriori, realizzai che non mi sbagliavo affatto.
Presi da
parte Mattia per poter chiacchierare un po’; era da quasi una settimana che non
avevamo l’occasione di farlo seriamente. Era domenica, e in serata sarebbero
rientrati in città i suoi genitori e la famiglia di suo fratello: dalla mattina
dopo avremmo dovuto vedercela noi da soli, privi del suo aiuto e della sua
presenza rassicurante. Ci saremmo comunque incontrati al ristorante – avevamo
ufficiosamente prenotato un tavolo da quattro verso l’una – ma il Lupo di mare non era proprio il miglior
posto per un briefing.
Eravamo in una delle stanze al piano – il
primo – che ospitava gli alloggi per i membri del branco. Ognuno di questi si
componeva di una o due piccole camere da letto più un bagno e un modesto
soggiorno; la cucina e la sala pranzo erano comuni a tutti e si trovavano in
fondo al corridoio. Constatai che, nonostante il clima generale non troppo
spensierato, lì doveva essersi formata una bella comunità. Di sicuro Carmine
Mallardo sapeva bene come giocare le sue carte: una sistemazione del genere
necessitava di fiducia, collaborazione e rispetto reciproco, e un’eventuale
lite poteva essere facilmente sedata nello stesso modo in cui si sarebbero
messi a tacere due vicini di casa che litigavano per la spazzatura. Considerate
le sue abilità, non mi sorprendevo che fosse riuscito a creare e a mantenere
per così tanti anni un impero di quelle proporzioni.
Altro motivo, questo, per cui avevo il serio
timore che Mattia sarebbe rimasto schiacciato sotto quell’enorme carico di
responsabilità, prima o poi, o che peggio ancora, in futuro, il potere sarebbe
stato in grado di corromperlo come aveva corrotto Mallardo. Mattia aveva tutte
le buone intenzioni del caso e una testaccia dura che gli sarebbe servita non
poco, ma a conti fatti era solo un ragazzino neppure uscito dal liceo, con una
limitatissima esperienza di vita e ancor meno esperienza del Sottomondo, per
non parlare della sua assai naturale e assai nobile avversione nei confronti
delle attività illecite di cui ora, volente o nolente, era a capo.
Anche adesso che la sua anima candida era
indissolubilmente sporcata dalla macchia nera dell’omicidio, Mattia era
circondato da una cappa di innocenza quasi bambinesca che mi rendeva difficile
immaginarlo a doversi relazionare con un determinato tipo di situazioni, fosse
pure perché vi era costretto; in parallelo, però, nemmeno ritenevo possibile che
qualcuno volesse spontaneamente dargli una mano – i più “esperti” in primis – o
addirittura si offrisse di prendere il suo posto, così come dubitavo alquanto
che uno dei lupi si sarebbe azzardato a sfidarlo per strappargli il titolo di
Alpha: nel bene o nel male il fantasma di Carmine Mallardo aleggiava ancora sui
corpi dei suoi ex sottomessi, impedendo loro di compiere certe azioni o
prendere certe decisioni, costringendoli a credere di essere ancora suoi burattini.
Mi era capitato spesso, in quei giorni, di
vedere lupi – soprattutto i più giovani – che esitavano a rivolgersi a Mattia
in modo informale o persino a salutarlo con un ciao se incrociavano per sbaglio
il suo sguardo. Lui aveva provato a intervenire su quelle abitudini sbagliate, ma
aveva lasciato perdere quasi subito. Era lentamente arrivato alla conclusione
di avere potere di vita o di morte su chiunque appartenesse al suo branco, dai
neonati agli adolescenti e ai membri più anziani, di essere in sostanza
intoccabile e inviolabile, quasi venerabile. E ne era altamente disgustato.
Almeno questo mi rincuorava; in fondo, anche
dal suo primo discorso era intuibile quanto tutto ciò lo ripugnasse. Eppure,
non potevo fare a meno di ripetermi, chi disprezza compra.
Riflettei se metterlo al corrente o meno di
tali valutazioni, ma alla fine optai per il sì, sebbene non sperassi di
ottenere chissà quali risultati. — Capisco, Lorianne, ma non posso farci niente
— mi disse lui infatti. — Intanto ti do la mia parola che proverò a restare
sulla retta via, e se non terrò fede a questa promessa hai tutto il diritto di
venirmi a cercare e trapassarmi con quel tuo bel pugnale d’argento.
— Perché dovrei venirti a cercare se saprò
sempre dove sei? — ribattei per contro, sollevando le sopracciglia. — Ricorda,
hai messo la tua sanità mentale nelle mie mani.
Mattia sorrise mestamente. — La mia sanità
mentale starebbe meglio lontano da me.
Quelle parole non mi offesero né mi
ferirono, ma certamente mi lasciarono un po’ turbata. Questo cosa significava,
che voleva che io stessi lontana da
lui oppure che riteneva opportuno tenere metaforicamente a distanza la sua
ultima arma di controllo perché non venisse alterata dagli eventi in corso?
Non contribuì a fornirmi una risposta,
quantomeno non verbalmente. Preferì piuttosto mostrarmela.
Il lunedì
non fu tanto orribile come avevamo temuto. Con Mattia assente, una persona
insospettabile si assunse il compito di fare da mediatore tra noi e i lupi:
Adriano.
Trish era sicuramente implicata nel caso,
dato che i due erano spariti chissà dove per una giornata intera; in effetti,
interrogandola a proposito, mi sentii rispondere: — Come, cosa avete fatto?! Siamo andati a letto, è ovvio!
Gongolava come una bambina. Era difficile
restare indifferenti alla sua esuberanza, ma mi lasciai contagiare solo per lo
stretto necessario: i miei pensieri erano tutti rivolti ad Adriano e alle
conseguenze che le future azioni di Trish avrebbero avuto su di lui. Non mi
aspettavo certo che mia cugina avesse intenzioni serie – non le aveva mai avute
– né pensavo che si sarebbe concessa di essere un tantino più civile quando l’avrebbe
scaricato senza alcuna remora, perciò mi preoccupava molto come avrebbe potuto
reagire un soggetto emotivamente fragile quale Adriano. Inoltre, considerato
cosa implicava essere il nuovo scaldaletto di Patricia Lewis, mi allarmavano
anche i possibili cupi scenari in cui vedevo Adriano inevitabilmente morto –
nel miglior modo in cui si possa morire, sì, ma sempre morto.
Non che, per contro, Adriano non si tenesse
in attività: da quanto la madre stessa ci aveva rivelato, la sua ultima fiamma
era stata la ragazzina che poco meno di una settimana prima aveva ringraziato
Mattia dopo il suo discorso. Con i suoi quasi sedici anni, Melissa era la più
giovane del branco, morsa da Mallardo il Natale precedente. Lungimirante,
Mattia l’aveva da subito coinvolta nelle operazioni di perquisizione del
Palazzo – così, scoprii, i mannari chiamavano la loro sede, con tanto di p maiuscola – e lei era stata per noi un
aiuto formidabile fin dal primo momento.
Oltre che nello svolgere mansioni pratiche,
Melissa collaborò con noi anche nella fase di raccolta informazioni circa
Carmine Mallardo e il suo branco. A differenza dei lupi più anziani, lei non
era ancora arrivata alla fase “non aprire bocca neanche per tutto l’oro del
mondo” e si dimostrava aperta e disponibile. Da lei apprendemmo che Mattia era
stato la prima vittima a seguito di un lungo periodo di pausa e c’era una buona
probabilità che Mallardo non avesse mentito nel dire che le sue scelte erano
meditate e ponderate, però per Mattia aveva agito la sorte. Ci fece qualche
pettegolezzo persino sul conto dell’intera famiglia Mallardo, dichiarandosi
convinta che Carmine avesse più di un’amante – “Mano sul fuoco, Sabrina lo sa!”
– e non era escluso che lì fuori ci fossero pure suoi figli illegittimi;
tuttavia non volle sbottonarsi ulteriormente e perse del tutto la parola quando
provammo a toccare il tasto Adriano.
Quel lunedì passai mezza mattinata ad
elemosinare altri gossip da chi secondo me era malizioso abbastanza, ma alla
fine mi ritrovai con un bel pugno di mosche e una fame – era proprio il caso di
dirlo – da lupi.
Per fortuna il Lupo di Mare non era lontano, e per una qualche sorta di intervento
divino non era neppure troppo affollato. Il locale non era molto grande ma la
studiata disposizione dei tavoli faceva sì che l’ambiente non risultasse chiuso
e asfissiante; guardando con attenzione si capiva che in tempi relativamente
recenti era stato fatto un restyling totale, dalle pareti all’arredamento e
addirittura alle mattonelle. Dalla cucina proveniva un profumo delizioso e al
di là delle porte semiopache si intravedeva la sagoma del cuoco, il padre di
Mattia.
Inizialmente ci servì un tale Leonardo, che
solo dopo compresi essere anche lui un Nardone – per la precisione, il fratello
maggiore di Mattia, ossia il padre di Valentino. Si assomigliavano pochissimo,
ma entrambi avevano gli stessi occhi e lo stesso sorriso, oltre a quell’aria
rassicurante che tanto mi piaceva di Mattia.
Quest’ultimo si palesò verso le due e un
quarto, quando eravamo già al secondo: a quanto pareva era salito dalla nonna
per parlarle di qualcosa e Anna l’aveva trattenuto.
Portava la divisa – pantaloni e papillon blu
scuro, camicia bianca con le maniche lunghe arrotolate fino ai gomiti e gilet
grigio ferro – che già gli avevo visto indosso il giorno in cui mi aveva
rivelato di essere un lupo mannaro. Quei colori gli stavano a pennello,
soprattutto ora che lo vedevo sorridente e solare. Eh sì, sistemato nel giusto
modo Mattia era alquanto attraente.
Da sotto il tavolo, Chrysta mi conficcò il
tacco nel polpaccio. Da sopra, mi lanciò un’occhiata eloquente che interpretai
con un “Logan ha avuto la sua avventura, Trish sta a posto, manchiamo soltanto
noi due. Questo te lo vuoi tenere tu oppure posso prendermelo io?”
Com’era materiale.
Ma in fondo, mi resi conto, anche la sola
idea che qualcun altro mettesse le mani addosso a Mattia in un determinato
senso del termine mi faceva ardere d’ira.
Cos’era, istinto di protezione? Desiderio di
possesso?
... Gelosia?
Fissai i residui della ricciola nel mio
piatto come se avesse potuto darmi una risposta. Purtroppo, quel pesce era morto
da già parecchio tempo. Non che da vivo sarebbe potuto servire a qualcosa, sia
chiaro. Almeno aveva avuto una morte onorevole.
In tutto ciò, Mattia era rientrato nei panni
di cameriere e ci si era avvicinato: — ‘Giorno, ragazzi, come va il pranzo?
— Ottimo — replicò immediatamente Chrysta
tirandomi un altro calcio nello stinco, senza ottenere alcuna reazione da parte
mia. Sbuffò piano, quindi aggiunse: — Però devo farti un appunto, Mattia: gli spaghetti
erano...
— Fammi indovinare: crudi — la precedette
lui con un sospiro esasperato. — Sempre la solita storia. Siete voi che la
mangiate scotta, la pasta, non noi che la mangiamo cruda. È al dente, cari miei, è così che si fa in
Italia.
Chris alzò le mani per scusarsi. — Mea
culpa.
— Mi hai colpito nel mio orgoglio di
italiano, vergognati — ribatté Mattia, fintamente offeso. Un angolo della bocca
leggermente sollevato lo tradì. — L’antipasto e il secondo?
— Abbondanti — commentò Logan, e non potei
far altro che concordare. — Non capirò mai come facciate voi italiani a
infilarvi una tale quantità di cibo nello stomaco ogni giorno, credimi.
Mattia scoppiò a ridere. — Abitudine, ci
educano fin da piccoli. E poi, dai, vuoi confrontare la cucina italiana con
quella americana o di qualsiasi altro paese?
— Hai ragione — ammisi, — ma comunque non so
come riusciate ad alzarvi da tavola, dopo.
— Caffè e ammazzacaffè e passa tutto —
minimizzò Mattia, mentre cominciava a prendere i piatti vuoti. Si notava la
differenza tra lui e Leonardo: il fratello, che aveva fatto l’alberghiero,
aveva una tecnica e un equilibrio che lui non avrebbe mai potuto eguagliare. —
Frutta, dolce o entrambi? Mia cognata ha fatto una torta pere e cioccolato che
è...
Non lo lasciammo neanche finire di parlare.
— Pere e cioccolato — si fece portavoce Trish. — Com’è che si dice? Abbiamo fatto trenta...
— Facciamo
trentuno — concluse lui, ridendo, avviandosi verso la cucina. — Due minuti
e sono da voi!
Stavolta toccò a Trish trapassarmi la gamba
da parte a parte. — È una mia impressione o Mattia nell’ultima settimana è...
maturato?
— Ovvio che è maturato, Trish! — la rimbeccai. — Se ritrovarsi da un momento
all’altro ad essere l’Alpha di un branco fuori dall’ordinario in quanto a
dimensioni e potenza non è una buona spinta a maturare non so cos’altro possa
esserlo, detto francamente.
Logan ridacchiò. — Continua pure a tenere il
prosciutto sugli occhi, Lori, tranquilla.
— Il prosciutto ce l’ha anche sulle orecchie
— lo corresse Chrysta con un gesto eloquente della mano, seguita a ruota da
Trish: — E da qualsiasi altra parte.
Indirizzai a tutti e tre una pernacchia
sprezzante, inondando la tovaglia di saliva. Per carità di Raziel Mattia arrivò
giusto un secondo dopo con i dessert. — Oh, e quella per cos’era?! —
sghignazzò. — Non preoccuparti, Lorianne; vieni di là in cucina e ti do un po’
di melone, col prosciutto ci sta una meraviglia.
I miei cugini naturalmente scoppiarono a
ridere come pazzi, mentre io mi limitai a un bel vaffanculo ben piazzato. — Te lo ripeto, Mattia: sei l’unico che si
è meritato una gita a quel paese da parte mia dopo così poco tempo.
Lui mi sorrise beffardo. — Te lo ripeto
anch’io: felice di esserlo.
Restammo al
ristorante fino all’ora di chiusura, su insistenza di Mattia. Ci fece entrare
in cucina e osservare la brigata all’opera, capitanata dal padre, Claudio, che
era la copia spiccicata di Leonardo; dopodiché ci piazzò uno strofinaccio in
mano e ci mise ad asciugare bicchieri – “Siamo a corto di personale, non è
colpa mia”. Visto che ormai eravamo lì, ci adoperammo anche per risistemare il
locale, chi spazzando a terra e chi pulendo pentole e piani da lavoro. Mattia
era persino più pignolo di nonna Maryse e supervisionò le operazioni di pulizia
pronto a rimproverare il poveraccio di turno che aveva tralasciato quell’angolo
lì o non lucidato quelle posate là.
Si erano fatte quasi le cinque quando
finalmente uscimmo sul lungomare: l’aiuto cuoco e gli altri camerieri si
avviarono alle loro case, Leonardo e Claudio salirono da Anna e Mattia prese la
sinistra in direzione Serapo. Decisi di fargli compagnia: Chrysta aveva già
stabilito con Trish un programma di shopping convulsivo a Formia e Logan si era
poi unito a loro, molto probabilmente soltanto per fare da portaborse.
Dalle parti della chiesa dell’Annunziata
affrettammo il passo. Il vento spingeva le nuvole verso il mare e si sentiva
già odore di pioggia. Mi resi conto che Mattia, senza accorgersene, fiutava
l’aria.
La conversazione verté in particolar modo
sul pranzo e sulle ricette di tutti i piatti che avevamo assaporato. Era un
argomento interessante e ricco di spunti per poter ampliare il discorso ma,
ogni volta che andavamo eccessivamente fuori tema, in una maniera o nell’altra
ritornavamo sul soggetto principale. Dopo un po’ questo cominciò ad
infastidirmi, così gli chiesi se sapesse qualcosa che io non sapevo a proposito
della persona protagonista dei miei pensieri per quel giorno: Adriano.
Non appena feci quel nome Mattia storse la
bocca. — Sono informazioni confidenziali, Lorianne. Dovrei tenerle per me.
— Ricorda sempre che mi hai affidato un
pezzo di te. Sotto certi aspetti, io sono
te. Quelle informazioni rimarrebbero confidenziali.
Rise piano. — Ti ho già detto che la mia sanità
mentale deve starmi lontana.
Per la seconda volta in poco più di
ventiquattr’ore le sue parole mi disorientarono. — Bene, allora la terrò
lontana — azzardai, tenendomi vaga. — C’è qualcosa in queste informazioni confidenziali che potrebbe
influire sulla tua lucidità?
Mattia abbassò lo sguardo. — Dio mio, Lori,
quel ragazzo è... maledetto. — Scosse la testa, mordendosi il labbro. —
Mallardo ha provato a morderlo quando era ancora piccolissimo.
Sussultai. Non che non me lo aspettassi,
dopotutto da Carmine Mallardo ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, ma era
comunque orribile ascoltare.
— Non ha sviluppato la licantropia —
continuò Mattia, con voce atona come per estraniarsi dal contesto, — e perciò
il padre l’ha rinnegato. Gli ha precluso l’accesso al conto, l’ha fatto restare
in bilico tra la vita e la morte, non credo l’abbia mai nemmeno preso in
braccio. Non c’è da meravigliarsi se poi Adriano è così com’è.
— Cioè? Com’è?
Mattia ci rifletté su per un attimo. —
Singolare.
— In positivo o in negativo?
— Entrambi — concluse enigmatico, e tenne la
bocca chiusa per un bel pezzo.
Eravamo quasi arrivati all’Hotel Serapo
quando mi sorse spontanea una domanda: — Adriano ti ha detto come mai non si è
rivolto a uno Stregone? — Non ci fu bisogno di specificare perché si sarebbe dovuto rivolgere a uno Stregone.
— Ma l’ha fatto — replicò Mattia,
spiazzandomi. — Il problema è che nessuno ha voluto mettergli le mani addosso.
Sabrina sospetta che la causa sia la sua enorme fragilità di vita combinata a
quel poco sangue demoniaco che deve avergli trasmesso il padre al momento del
morso. Ora che me lo fai ricordare, devo farne parola con tua cugina, lei mi
sembra la più adatta a fare luce sulla questione — aggiunse. — Fatto sta che non
una sola persona si è azzardata a combinare qualcosa, si è rifiutato chiunque.
— Non si può biasimarli, Mattia; operazioni
del genere sono rischiose per tutte le parti coinvolte.
— Immagino — convenne lui, — ma poveraccio,
nemmeno con i metodi non ortodossi è in grado di trovare la pace...
Feci per ribattere, ma un flash di luce
seguito subito da un rumore improvviso mi mise in allarme. — Ahia, il lampo e
il tuono erano vicini. Acquazzone?
— Acquazzone — confermò Mattia, quindi mi
afferrò per la manica e mi trascinò correndo per il lungomare. — Dai su,
veloce, veloce!
— Non sei tu quello con le scarpe scomode! —
gli gridai dietro, mentre cominciavano a cadere le prime gocce.
Al contatto con l’asfalto arroventato dal
sole, la fredda acqua evaporava. Era una pioggia tutt’altro che rinfrescante,
che contribuiva soltanto ad aumentare l’umidità e far infuriare chi come noi si
trovava all’aperto.
Dovendo stare attenta a non scivolare, non
feci caso a qual era la nostra destinazione. Me ne resi conto solamente quando
riconobbi la maiolica del numero civico sul muretto che delimitava il giardino
dell’abitazione e il cancello che Mattia stava aprendo con un comando del
cellulare.
— Sotto il portico, Lori! — mi incitò lui,
lasciandomi il braccio per poter prendere le chiavi in tasca. Mi fiondai
all’ingresso e attesi che Mattia finisse di litigare con la serratura
sciorinando un torrente di incomprensibili imprecazioni in dialetto, poi attesi
il suo invito ed entrai in casa.
— Benvenuta – di nuovo – nella mia
umilissima dimora. — Mattia mi prese il coprispalle e lo appese
all’attaccapanni accanto al muro. — Scusa il disordine. Quando sono solo,
ecco... non è che mi dia alle pulizie.
— Eppure al ristorante sei così meticoloso. — Mossi un paio di passi in
avanti. L’atrio si restringeva in un corridoio che poi curvava attorno a un
pilastro che avevo più avanti sulla sinistra, così mi bastò girare l’angolo per
arrivare in salotto.
Mattia mi fece segno di sedermi sul divano.
Accettai subito: le mie gambe urlavano di dolore e le caviglie si stavano
gonfiando. Invidiavo il modo in cui Chrysta e Trish portavano i tacchi per ore
e ore senza effetti collaterali.
— Be’, abbiamo uno standard di qualità da
mantenere — spiegò. — E ciò implica anche, ahimè, un certo grado di pulizia.
— Ci tornerò — sussurrai, giocherellando con
la frangia di un cuscino sul quale erano ricamati dei gufi. — Al ristorante,
intendo. Con la mia famiglia. C’è una bella atmosfera, lì.
— Allora ti è piaciuto! — Mattia si lasciò
cadere accanto a me e mi punzecchiò il fianco con l’indice. — Dalla tua faccia
sembrava il contrario!
— È solo che la cucina italiana è molto... —
Schioccai le dita. Avevo la parola giusta sulla punta della lingua.
— Condita? — mi suggerì.
— Esatto. — Lo ringraziai con un cenno del
mento. — C’è tantissimo olio.
— Questo è niente — sghignazzò. — Considera
che papà cucina leggero.
— Sul serio ci sono cuochi che mettono
ancora più olio? — esclamai, sorpresa. — Non mi dire!
— Lo giuro! — assicurò con la mano sul
cuore. — Una volta, per mangiare una tiella, ho dovuto arrotolarmi le maniche
fino alle spalle.
— Sì, okay, ma la tiella è un’altra cosa...
Io non parlavo di pizze et similia —
chiarii, prendendo mentalmente nota del colore dei gufi ricamati sul cuscino:
lilla. Un gufo lilla non l’avevo mai visto, nemmeno a casa di zio Magnus dove
tutto era possibile. Decisi che il prossimo gufo che avrei disegnato sarebbe
stato di quel colore.
Calò il silenzio per buoni due minuti.
Proprio quando stavo per intavolare una conversazione, irritata dalla mancanza
di dialogo, Mattia lo spezzò sussurrando: — Lori?
— Sì? — Mi girai verso di lui.
— Questa è casa mia, perciò, perché ti ho
portata qui?
— Forse perché... sta piovendo? — azzardai,
poi mi maledissi mentalmente. Sì, come
no, Capitan Ovvio. Ti ha portata a casa sua perché “sta piovendo”.
Mattia tirò un respiro profondo, chiudendo
gli occhi. Quando li riaprì luccicavano. Mi accorsi che il cerchio dorato attorno
all’iride andava pian piano allargandosi: tra due settimane sarebbe stata luna
piena.
— In realtà ci sono tanti, tanti motivi —
sillabò lentamente. — In primis... — Prese fiato. — Non è vero che della... di
quella sera... ricordo poco. Anzi, ricordo a sufficienza. Ricordo di aver
sparato all’Alpha. Ricordo di aver visto tutto nero. Un dolore tremendo dalle
parti dello stomaco. — Mi guardò da sotto in su, attraverso le ciglia. —
Inoltre sono abbastanza sicuro che qualcuno mi abbia baciato. E vorrei davvero,
davvero tanto che non sia stato uno dei lupi.
Ops. Sgamata.
Avrei dovuto accettare l’offerta di un incantesimo
di memoria da parte di Chrysta. Lei aveva ragione: non volevo che rammentasse
di essere stato baciato in circostanze del genere, con me sul punto di cedere
per la seconda volta all’influenza della magia angelica e lui con il fianco
squarciato, più di là che di qua.
Mattia diede un colpetto di tosse. — Allora,
Lorianne? Ho un pretendente licantropo, è stata tua cugina o la realtà è
un’altra?
Aprii la bocca per rispondergli, ma ne uscì
solo un verso strozzato. Ci riprovai: stessa storia. Avevo il cuore a mille e
il sangue correva così velocemente da rimbombarmi nelle orecchie.
Mattia mi sfarfallò le dita davanti agli
occhi. — Ehi?! Terra chiama Lorianne!
Non reagivo. Tutti i suoi tentativi di farmi
riprendere erano inutili. Ero dinamica come un baccalà sotto sale e cosciente
come una zucchina.
Mattia sospirò lentamente. — Bene. — Strinse
la mascella. — Non pensavo di ritrovarmi in questa situazione. E vai col
cliché.
Si
sporse in avanti di colpo, mi prese il viso tra le mani e mi baciò.
Baciare un lupo mannaro era diverso dal
baciare uno Shadowhunter. Non sapevo cosa sentisse lui, con il suo olfatto
super sviluppato, ma io sentivo odore di pioggia, di foresta, di posti freddi e
bui, in contrapposizione con quell’avvolgente profumo di mare, sabbia e sole
che aveva sempre.
Ed era caldo, molto caldo. Le sue labbra
sopra le mie erano bollenti, le sue mani sulle mie guance roventi.
Istintivamente lo artigliai per la camicia e lo attirai ancora di più a me,
lasciando che il suo calore mi circondasse e scacciasse via il gelo e
l’oscurità che mi avevano accompagnata per troppo tempo.
Mattia si staccò il più piano possibile,
restando però a pochi centimetri dalla punta del mio naso. Io non mi mossi di
un millimetro, totalmente imbambolata.
— Grazie per avermi accompagnato al covo dei
lupi — mormorò. — Grazie per essere stata così stupida da non dirmi che avresti
potuto restare senz’aria per un quarto d’ora – incolpa tuo cugino per avermelo
spiattellato. Grazie per avermi fatto beccare una pugnalata all’addome. Grazie
per avermi salvato la vita, anche se... be’, non in prima persona. — Mi passò
l’indice sulle labbra. — Grazie per avermi baciato, Lorianne Herondale.
Lo fissai dritto negli occhi per un istante,
poi gli scoccai un ultimo rapido bacio a stampo. — Grazie per avermi dato un
motivo per restare, Mattia Nardone.
Oh, finalmente.
Qua molti di voi sclereranno come pazzi e altri moriranno di disgusto, ma
chissenefrega, è una parte importante della storia e spiana la strada per le
Houses, e in quanto tale doveva essere inserita.
Non mi sembra di
dover dire altro, a parte FARESTE BENE A SHIPPARE TRISH E ADRIANO SENNÒ SONO
GUAI. Poi se shippare o no Mattia e Lorianne sta a voi.
E non vi saluto
nemmeno, tanto è doppio aggiornamento e vi saluto di là u.u
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Capitolo 20 *** La rupe ***
La rupe
La rupe
Prometeo:
Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo.
Ma gli dèi sono quelli
che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere.
Sorridono davanti al
destino.
[Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò: “La rupe”]
Se Chrysta si fosse trovata lì
in quel momento, avrebbe detto che stavo gongolando. E in effetti era così: ero
talmente a mio agio tra le braccia di Mattia che per poco non mi misi a fare
le fusa come una gattina.
Fuori c’erano come minimo trenta gradi,
ma dentro casa l’aria era fresca. Sotto il lenzuolo si stava una meraviglia.
Davo le spalle a Mattia, che mi accarezzava il fianco con movimenti lenti e
circolari del pollice. Ad un certo punto disse qualcosa che curiosamente sembrava una frase
in latino.
— Ehi, cos’hai detto?
— Nihil
est magnum somnianti.
— Niente è impossibile a coloro che sognano?
— Esatto. Cicerone a volte ha ragione. Nulla
è stato irrealizzabile per me. Tutti i miei sogni si sono avverati... nel bene
e nel male.
— E cosa sognavi, giusto per curiosità?
— Be’... di trovarmi nello stesso letto con
una ragazza che stranamente somigliava a te — rivelò ridacchiando. Contro la
schiena sentii la sua cassa toracica vibrare.
— Lo prendo come un complimento — replicai
con uno sbadiglio. Che romantica.
— Tu invece cosa sogni, Lori? — mi sussurrò
Mattia all’orecchio.
— Troppo perché possa spiegarti tutto —
bisbigliai, sentendo improvvisamente il morale sprofondare. Presi un profondo
respiro; il cuore mi saltò un battito. — Al primo posto, sogno di dimenticare
un intero periodo della mia vita.
Percepii i muscoli di Mattia irrigidirsi, ma
non smise di accarezzarmi. — Se mai vorrai parlarne — mormorò, — io sono qui.
Sospirai a fatica e chiusi gli occhi. Quasi
immediatamente avvertii la solita sensazione alla bocca dello stomaco, uno
stretto laccio che mi impediva di fiatare. Dolori fantasma si risvegliarono in
diverse parti del mio corpo.
Il viso di Jean mi si affacciò alla mente.
Vidi i suoi occhi grigi, il suo naso all’insù, da perfetto francese, le labbra
che avevo baciato così tante volte. Vidi il pendente a forma di valknut che portava al collo.
Boccheggiai. Avevo capito che di lì a poco
avrei avuto una visione, come sempre quando mi capitava di ripensare a lui.
Curioso: voler tornare indietro nel passato, e invece trovarsi nel futuro.
Quasi fosse uno scherzo del destino.
Ma quello che mi successe fu esattamente il
contrario.
Ero abituata a slittare avanti
nel tempo; in quei mesi lo facevo almeno una volta al giorno. Ma non mi era mai
capitato di avere un flashback. Evidentemente Raziel aveva in serbo per me
un’altra sorpresina.
Non so spiegare con precisione cosa accadde.
Fu come rivivere la stessa scena di nuovo, dallo stesso punto di vista, nelle
stesse condizioni. Non avevo idea di nulla, nulla.
Camminavo mano nella mano con
Jean lungo la sponda del lago Lyn. I lampioni di stregaluce, coperti da un
drappo rosso-oro in vista del Natale, gettavano lunghe ombre sul suo viso, che
in quel modo appariva ancora più misterioso. Stranamente aveva la barba
incolta; soleva rasarsi quotidianamente. Lo preferivo così, in una sua versione
un po’ più trasgressiva.
Non sapevo perché mi avesse portata lì,
tantomeno perché me l’avesse detto con così poco preavviso. Era solito
avvisarmi giorni, anche settimane prima. Al tempo non me n’ero accorta, o forse
avevo preferito non accorgermene. Adesso riesco a capire che era un maniaco del
controllo.
Mi fece sedere sulla riva, a pochi metri
dall’acqua. Il clima lì era più mite, quindi non c’era neve né ghiaccio. Lui si
accasciò al mio fianco dopo aver fatto vagare lo sguardo verso la foresta di
Brocelind, punteggiata dalle fiammelle tremolanti accese dagli Stregoni per
illuminare il bosco, altrimenti buio. ― Bella serata ― commentò.
Vedendo che non continuava, replicai: ― Sì.
Ci sono molte stelle.
― Guardare il cielo in notti come questa ti
fa venire tanti dubbi ― sospirò malinconicamente. ― Ad esempio: quale sarà il
nostro futuro? Ci sposeremo mai, avremo mai una famiglia?
― Sarebbe fantastico ― osservai. Lo adoravo
quando si perdeva nelle sue elucubrazioni filosofiche.
― Potremo averne una certezza, sai. ― Mi
cinse la vita con un braccio, e io abbandonai la testa sulla sua spalla,
totalmente rapita. ― Con il tuo potere.
Mi irrigidii. ― Jean, te l’ho detto non so
quante volte. Non lo faccio sotto comando. Non è una cosa che posso
controllare.
― Ma potresti, non è vero? ― All’improvviso
me lo ritrovai davanti. Aveva assunto una posa felina, da pantera. I suoi occhi
luccicavano. ― Non ci hai mai provato. Perché non provare ora?
Sussultai, ma alzai subito il mento per
sfida. ― No.
― Hai paura? ― sussurrò lui addolcendo il
tono della voce. Sembrava realmente preoccupato per me.
― Sì! ― ribattei. ― Certo che sì! Tu non hai
idea, Jean ― sottolineai, ― non hai idea
di quanto Raziel possa essere vendicativo.
― Mi
accollerò tutte le colpe ― insistette. ― Dai, Lori. Almeno tenta.
Presi un respiro profondo. Dopotutto non mi
sarebbe costato nulla. ― Okay ― acconsentii infine. ― Ma non ti do alcuna
sicurezza.
Al suo cenno di assenso mi alzai in piedi.
Gli avevo mentito. Avevo già guardato nel
futuro intenzionalmente, un paio di volte. Forse più di un paio.
Lo scrutai attentamente. Me lo immaginai di
lì a dieci anni: più robusto, con un’aria più dura, la barba come sempre fresca
di rasatura, gli occhi grigi più maturi, simili a nuvole temporalesche.
Sentii la solita stretta allo stomaco, e mi
preparai a slittare.
Ma non successe niente.
― Allora? ― indagò Jean, più invadente che
curioso.
― Io... io non so perché... ― Scrollai le
spalle. ― Non sono riuscita a vedere nulla, Jean, mi dispiace.
Lui si tirò su. Sulle prime parve
rassegnarsi, ma dopo nemmeno un minuto prese a camminare avanti e indietro
nervosamente. — Tu... tu lo stai facendo apposta — sibilò tra i denti. — Non
è... possibile... che tu non ci
riesca.
— E invece sì — lo contestai. — Andiamo, Jean,
lascia perdere. So per esperienza che conoscere il proprio futuro non aiuta ad
affrontare i problemi della vita. Anzi, li peggiora.
— Lorianne, tu non hai capito che questo non
m’interessa. — Jean si bloccò di colpo, stringendo i pugni. — C’è qualcosa di
sbagliato nel voler sapere cosa mi accadrà tra un paio d’anni? Se sì, mi
spieghi il perché?
Non l’avevo mai visto così arrabbiato.
Certo, era irritabile e molto suscettibile, oltre che alquanto permaloso, ma di
solito la sua ira si placava quasi subito. Oppure mi accollavo io stessa la
responsabilità di placarla, trascinandolo a letto.
Non capivo cosa lo rendesse tanto furioso.
Forse credeva che gli stessi mentendo? Aveva scoperto che ero uscita di
nascosto con suo cugino? In tal caso avrebbe dovuto prendersela con lui, non
con me, dato che era stato Francis a convincermi. E poi, avevo tutto il diritto
di uscire amichevolmente con altre
persone.
Fatto sta che Jean era possessivo. Decisamente
possessivo. Non mi concedeva nemmeno di guardare
un ragazzo che non fosse lui oppure un nostro compagno di classe gay. Quasi per
miracolo tollerava che andassi a fare una passeggiata con Chrysta.
Purtroppo, all’epoca ero troppo cieca,
troppo ingenua, troppo innamorata per
accorgermi di tutto questo.
— Jean... — iniziai, esitante. — Jean, sto
dicendo la verità. Non riesco a guardare nel tuo futuro. Non so, forse stasera
non sono in vena, o sono le circostanze ad essere avverse. Ci riproverò domani
— azzardai, per cercare di calmarlo.
— No.
Tu devi farlo stasera. Stasera e basta.
Mi hai sentito, Lorianne? — Mi si avvicinò a grandi passi. — Fallo. In questo
preciso momento.
A quel punto non avevo idea di come reagire.
Scelsi la strada più facile, e la più veloce. Più tardi me ne sarei pentita.
Annullai la distanza fra noi avanzando
lentamente. Gli cinsi il collo e lo attirai a me. — La riva, Jean — gli
sussurrai all’orecchio. — Guarda quanto è invitante. Ho una tremenda voglia
di...
Lui mi prese il viso tra le mani. Pensai che
stesse per baciarmi, ma invece fece qualcosa di totalmente inaspettato: mi
allontanò con uno spintone.
— Lori, non tergiversare — sbottò. — Adesso
guardi nel mio futuro, e mi riveli cos’hai visto. Sbrigati.
— SMETTILA! — urlai. — Perché insisti, eh?
Cosa vuoi sapere di tanto importante?
— Ah, questo non è il mio campo! — gridò lui
di rimando. — Sei tu la veggente qui,
dovresti dirmi tu cosa voglio sapere!
— Ma io... — Emisi un verso esasperato e
serrai i denti, passandomi le mani fra i capelli.
Riflettei: tutta quell’ostinazione doveva
avere un’origine importante. Non era tipo da fissarsi su una cosa per più di
dieci minuti; se non otteneva ciò che voleva, nella maggior parte dei casi lasciava
perdere e non ci pensava più. Quindi era ovvio che avesse un ottimo motivo per
essere così testardo.
All’improvviso il mio cervello decise di
rimettersi a lavorare. La risposta apparve di botto nella mia mente.
— Oh no, oh no — mormorai, abbracciandomi
stretta come per proteggermi. — Ti prego, non dirmi che l’hai rifatto. L’hai
rifatto, Jean? Per favore, dimmi di no.
— Sì — bisbigliò lui. — Ma non come...
l’altra volta.
— Hai di nuovo ucciso un Nascosto, Jean? —
strillai. — Io... io non posso fartela passare liscia, mi dispiace, io vado a
denunciarti! È il terzo Nascosto che ammazzi nel giro di un mese, te ne rendi
conto? — Mi trattenni a sento dal rifilargli un calcio nelle parti basse. — E
vuoi che io veda il tuo futuro per scoprire se ti beccheranno o no... bastardo!
Ah, ma sai che ti dico? Sarò io a
farti beccare, sarò io la causa della
tua...
Non potei finire la frase.
Jean mi coprì la bocca. — Zitta. Non urlare.
— Con una mano mi strinse il polso destro. Gemetti, mentre una fitta intensa si
propagava in tutto il mio corpo. — La runa angelica ti fa male... credevi che
non lo sapessi?
Rise. Adoravo la sua risata. In quel momento la odiai. Mi
terrorizzò. — Su, Lori, siamo andati a letto troppe volte perché non ne fossi
al corrente. Conosco ogni centimetro di te. I tuoi punti forti... e i tuoi
punti deboli.
Aveva ragione. Ma non aveva capito che la
stessa cosa valeva anche per me.
Lo assecondai. Smisi di divincolarmi, così
lui allentò la presa. Sfruttai la situazione a mio vantaggio: gli afferrai il
braccio e lo torsi con tutta la mia forza, allontanandolo dalla mia bocca.
Voltandomi gli tirai una ginocchiata all’addome, dove sapevo che aveva una
brutta ferita ancora in via di guarigione. Jean accusò il colpo e si piegò in
due, ansimante.
Approfittai dell’occasione e gli sferrai un
calcio sul fianco con la punta dello stivale. Era di vera pelle: dura e molto
dolorosa. Proprio perfetta per bastonare i fidanzati.
Sfortunatamente Jean si rialzò in piedi
prima che avessi il tempo di scappare. Mi agguantò la vita con un braccio e mi
fece rovinare a terra, così caddi su una roccia appuntita che mi lasciò un
profondo squarcio nella parte bassa della schiena.
— Vergognati! — balbettai. — Vergognati!
Stai picchiando una ragazza, Jean!
— Oh, ma tu non sei una semplice ragazza —
mi schernì lui, sedendosi su di me in modo da impedirmi ogni movimento. — Sai
difenderti o no? Non me lo stai dimostrando, Lorianne.
Cercò di
schiaffeggiarmi, ma io scansai la sua mano. — Brava — sussurrò con aria
compiaciuta. — Ma non hai ancora raggiunto l’obiettivo. Cosa ti dico ogni volta
che facciamo sesso, Lori?
— Che devo impegnarmi di più — sibilai fra i
denti, mentre tentavo di trovare una via d’uscita. — Credo di averti
accontentato.
— È vero, l’hai fatto — ammise. — Tuttavia
non è abbastanza. Andiamo. Impegnati di
più.
Mi impegnai. Allargai le gambe, allungai le
braccia dietro la testa e alzai il bacino di scatto facendo leva a terra,
scaraventando Jean a un metro dal lago. Balzai in piedi e con dei colpi del
tacco lo feci rotolare finché non toccò l’acqua con la punta del naso.
— Sai
cosa succederebbe se tu facessi accidentalmente
un tuffo lì dentro e sempre accidentalmente
ti finisse un goccio d’acqua in gola?
Lui non rispose, così ci pensai io: —
Allucinazioni. Dolori incredibili. Mia madre ha provato quelle sensazioni e,
be’... non serve che ti dica che non ci ricascherebbe nemmeno sotto tortura.
— E se invece fossi tu a finire nel lago? — Jean ridacchiò. — Pagherei oro per vedere
la tua reazione a quell’acqua così angelica,
Lorianne.
Nel giro di un secondo invertì le posizioni,
in un modo che ancora oggi non riesco a capire. Forse aveva una doppia identità
– cosa che non mi sorprenderebbe affatto – e nella sua seconda vita era una
specie di ninja.
Avevo la guancia bagnata sia dal sangue che
scorreva da un graffio sullo zigomo sia dall’acqua del lago Lyn. La vocina di
Raziel nella mia testa si fece sentire, seguita da un intenso bruciore in tutta
la zona cervicale. Mi morsi il labbro per non gemere e tentai di mostrare il
mio lato da dura. — Sei uno stronzo — sibilai. — Io ti faccio causa, Jean. Non
credere che la passerai liscia. Ti farò rimpiangere di essere nato e di avermi
conosciuta, brutto coglione. E dire che ero innamorata di te... mi fai schifo. — Posi l’accento sull’ultima
parola.
Jean parve punto sul vivo. — Io... per
l’Angelo, cosa sto... — Si alzò di botto, liberandomi.
Non so perché non lo colpii subito.
Evidentemente pensavo – speravo – che
si stesse pentendo.
— Te lo chiedo per l’ultima volta: leggi nel
mio futuro, Lorianne.
— Sì, come no — brontolai, rotolando sul
fianco per rimettermi supina. — Hai per caso perso l’udito? Ti ho detto che non
ci riesco.
— E io ti ho detto che devi riprovarci! —
urlò, isterico. — Puoi anche scappare, ma non finirà qui. Se vuoi denunciarmi,
fallo. Ma devi rivelarmi il mio futuro. Ad ogni costo, capito? Ogni costo.
Scappai senza pensarci due volte. Lui non
provò nemmeno a fermarmi.
Corsi a perdifiato. Chrysta e Trish erano
delle maestre nell’arte della fuga con i tacchi, ma anch’io me la cavavo
piuttosto bene. Rischiai di inciampare su alcune pietre; fortunatamente scampai
la caduta scivolando di lato e toccando terra con la mano per riprendere
l’equilibrio.
Arrivata al limitare della foresta di
Brocelind, trovai il comitato di benvenuto.
Più di dieci persone mi circondarono. La
scarsa luce mi permise di riconoscere la sorella di Jean, Corinne, e un paio di
nostri compagni di classe. Giurerei di aver visto anche il favorito nella corsa
alla candidatura a Ministro Sanitario: Francis. Lo stesso Francis con cui ero
uscita qualche sera prima, che mi era sembrato tutto tranne che pazzo.
La comitiva strinse il cerchio. Jean s’infilò
tra Corinne e un’altra tizia, sorridendo malvagiamente. — Non dire che non ti
avevo avvertita.
— Non l’hai fatto — ribattei. — Mi avevi
concesso di scappare.
— Esatto — ammise lui. — Ma ti avevo
avvisata che non avresti fatto altro che rimandare l’inevitabile.
Ero sola. Sola contro un manipolo di
psicopatici assassini di Nascosti innocenti, che come minimo nascondevano
un’arma in ogni fessura immaginabile. Anche considerando l’eventualità che li
avessi battuti sfruttando l’effetto sorpresa, sarei stata comunque in
svantaggio.
Restava un’unica cosa da tentare.
Non ci avevo mai provato, e non avrei mai
pensato di farlo.
Mi inginocchiai e misi le mani dietro la
testa, in posizione di resa. Chiusi gli occhi. Spensi poco a poco tutti i miei
sensi. L’udito scomparve per primo, seguito dalla vista e dall’olfatto. Tenni
attivi tatto e gusto solo per accertare che il labbro e lo zigomo avessero
smesso di sanguinare, poi eliminai anche quelli.
Sentii un fuoco ribollire dentro di me. La
voce di Raziel, l’unico suono rimasto, si fece più forte e insistente.
Reclamava vendetta, guerra, castigo. Il sangue angelico divenne magia pura.
La liberai in un singolo, potente urlo.
Tutti furono sbalzati decine di metri
lontano da me, atterrando con un orrendo tonfo.
Quando, parecchi minuti dopo, mi tornarono i
sensi e scoprii cos’avevo combinato, per poco non svenni dalla paura.
Nessuno si muoveva. Corinne e il tipo che penso
fosse Francis erano distesi in una pozza di sangue. Jean aveva viso e collo
immersi nel lago.
Li avevo uccisi.
Tornai a casa per puro
miracolo. Non ricordo di aver camminato; forse Raziel aveva deciso di darmi un
aiutino e teletrasportarmi direttamente nella mia stanza.
Era mezzanotte passata. Dalla camera dei
miei genitori e da quella di Jon proveniva il sibilo dei loro respiri regolari.
Strano: di solito avevano il sonno leggero, e si svegliavano anche al minimo rumore.
Feci un bel po’ di casino. Buttai gli
stivali a terra, rivoltai l’armadio per cercare il pigiama e aprii il
miscelatore della doccia al massimo. Ma non me ne curai affatto.
Nonostante mi fossi più o meno rilassata
sotto l’acqua calda, faticai a prendere sonno. Continuavo a ripensare a cos’era
successo al lago, all’eventualità che mi fossi veramente macchiata di così
tanti omicidi. In cuor mio, però, sapevo che non era vero. O almeno lo speravo.
Raziel mi apparve in sogno,
come quasi tutte le notti. Non l’avevo mai visto in faccia; si limitava a
mostrarmi le ali. Paradossalmente, in quel modo incuteva anche più paura.
Non mi disse nulla, ma dalla tensione della
schiena intuivo un certo risentimento. Probabilmente non si aspettava un gesto
del genere da parte mia. Mi avrebbe punita, ne ero certa.
E avevo ragione.
I miei genitori vennero a
sapere dell’accaduto solo la settimana seguente. Ero riuscita abbastanza bene a
nascondere lividi e graffi e a mascherare il mio stato d’animo.
Non pensai nemmeno una volta a tornare al
lago.
Avevo finito la scuola da un anno ormai,
eppure continuavo a seguire alcuni corsi per passare il tempo. In quei giorni
non vidi né Jean, né Corinne, né Francis. Non era raro che anche loro si
presentassero a lezione; anzi, a volte venivano addirittura chiamati per
sostituire i professori, come me del resto.
Mamma e papà avevano notato che non ero
tanto in vena, ma avevano lasciato perdere quasi subito. A loro avevo detto che
avevo litigato con Jean, il che in effetti era suppergiù vero.
Credo sia stato per colpa dei miei se il
sabato mattina zio Simon si sia presentato alla nostra porta, con zia Iz, Logan
e Trish al seguito. Più tardi anche Chrysta si sarebbe unita alla comitiva.
Come al solito trascinai zio in camera mia.
Dopo diversi minuti passati a tergiversare ed esitare, gli raccontai tutto. Elusi
solo la parte in cui avevo dato libero sfogo alla magia angelica e, di
conseguenza, la questione “li ho uccisi o no?”. Ovviamente lui, da bravo
psicologo tarocco, lo rivelò subito ai miei genitori.
Non sto qui a spiegare la reazione di papà.
Dico solo che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe spezzato ogni singolo osso
di Jean e avrebbe buttato i suoi resti in un canile pieno di bestie affamate.
Piansi un bel po’, asciugando le lacrime
sulla guancia di papà, ma mi liberai di quel grosso peso che avevo portato per
troppo tempo.
Tuttavia restava ancora una questione in
sospeso.
Non potevo sapere che quello stesso giorno
avrei saldato il conto.
Libertà, finalmente. Ero libera
di fare qualsiasi cosa mi passasse per la testa, slegata dai vincoli che
m’imponeva Jean. Così decisi di andarmene tranquillamente in giro per Alicante
con Chrysta, Logan, Trish e un paio di nostri amici.
Lasciai loro tutto il tempo per prepararsi –
Chris impiegava secoli anche solo per scegliere le calze – e uscii di casa due
ore prima del rendez-vous, fissato alle otto nel piazzale di fronte
all’Accademia.
Errai senza una meta per una buona mezz’ora,
poi presi a quattro mani tutto il mio coraggio e mi diressi verso il lago Lyn.
È strano, lo so, ma volevo vedere se
c’erano ancora i segni della mia magia angelica. Se ci fossero stati, avrebbe
significato che non mi ero immaginata tutto. E che avevo realmente ucciso Jean
e gli altri.
Arrivai sulle rive del lago. L’erba era un
po’ smossa, come se ci avesse camminato qualcuno di recente – cosa molto probabile,
dato che quella era tappa obbligata per le passeggiate romantiche – e
bagnata per l’umidità, ma niente sangue né cadaveri nelle vicinanze.
Il cuore mi salì in gola. Le possibilità
allora erano due: o la mia mente mi aveva giocato un brutto scherzo, o ero una
ricercata a livello mondiale per tentati omicidi.
All’improvviso le mie orecchie captarono un
fruscio. Mi girai di scatto, spaventando un innocente piccolo scoiattolo. Mi
maledissi e tornai a guardare verso il lago.
Dopo nemmeno trenta secondi, un altro
scricchiolio. Ma stavolta non era uno scoiattolo.
Qualcuno mi strinse i fianchi, impedendomi
di voltarmi. — Sapevo che saresti tornata, Lorianne.
— Jean. — Deglutii, incapace di aggiungere
altro.
— Sorpresa di vedermi?
— Direi di no.
— Hai provato ad uccidermi — mi fiatò lui
all’orecchio. — Ci sei quasi riuscita.
— Come fai ad essere vivo? — sibilai,
chiudendo i pugni lungo i fianchi. — Non sai quanto desideravo sputare sul tuo
corpo lurido e schifoso, pronto per il rogo. Avrei appiccato il fuoco di
persona, puoi contarci. E lo farò.
— Oh, siamo arrabbiate — rise. — Su, non
portarmi risentimento — disse con falso tono supplicante.
— Come fai ad essere vivo? — ripetei
serrando i denti.
— Fortuna — dovette ammettere. — Molti iratze,
rune di trasfusione, rune di forza. E, soprattutto, le conoscenze di Francis.
Sai, è conveniente avere un cugino candidato al posto di Ministro della Sanità. È
facile così convincere i medici della Basiliade a tenere la bocca chiusa.
— Avrei dovuto pugnalarti il cuore e
affondare la lama fino all’elsa — replicai, mentre il mio occhio sinistro
iniziò a contrarsi per un tic nervoso. — Avrei dovuto controllare che fossi
morto. Mi pentirò della mia mancanza finché non sarò parte della Città di Ossa.
— Ci andiamo pesante con le parole — mi
canzonò, poi mi fece voltare verso di lui. Notai subito che non aveva più il
pendente al collo; inoltre, una grossa cicatrice sistemata alla bell’e meglio gli deturpava la gola. — Sì, ho perso il valknut nel lago — confermò, senza fare alcun accenno alla ferita. — Era un cimelio di
famiglia, molto, molto antico. Lo portava Colette Argentsang nata Vertlance.
— Non ho mai capito perché i figli di
Colette abbiano acquisito il suo cognome e non quello del padre — azzardai,
tanto per prendere tempo.
— Semplice: è una questione
di orgoglio. Non precisamente, ma il succo è questo. A Colette
sembrava giusto cambiare
il cognome in Argentsang, dato che i suoi genitori erano morti per mano
di una
spada d’argento, e le parve giusto che anche la sua discendenza
dovesse
conoscere le proprie origini.
— Già.
— Te la senti di guardare nel mio futuro,
Lorianne? — riprese. — Sul serio, è l’ultima volta che te lo chiedo con le
buone. Poi passo alle cattive.
Mi rassegnai. Tanto comunque non ci sarei
riuscita; per un motivo incomprensibile non potevo slittare in avanti sulla sua
linea. — Uff, okay.
Mi concentrai al minimo, giusto per
accontentarlo.
E, imprevedibilmente, vidi.
Vidi Jean di fronte al Consiglio, la Spada
in mano. Vidi Francis e Corinne seduti in prima fila sulle gradinate, una
strana espressione sul viso. Vidi Jia Penhallow seminascosta nella penombra e
mio nonno confinato in un angolo. Vidi me stessa, trattenuta da due guardie,
urlare e scalpitare.
Jean non stava confessando tutti i suoi
crimini. Stava giurando per diventare Inquisitore.
Uno schiaffo mi riportò alla
realtà. — Brutta BASTARDA! — mi abbaiò contro Jean. — Ah, io lo sapevo che
l’altra volta avevi finto! Cos’hai
visto? DIMMELO!
Trattenni un singhiozzo. — N-niente, non ho
vi... — Gridai di dolore. Jean mi aveva afferrato la mano, e premeva con forza
sulla runa angelica.
— Non è vero! — Mi diede uno spintone.
Normalmente avrei reagito, ma le visioni mi lasciavano sempre indifesa e
spossata, così caddi a terra piangendo. — Devi dirmi cos’hai visto, Lorianne, e
guai a te se ti permetti di mentire, perché te lo giuro su Raziel, te lo giuro
sull’Angelo, se non me lo dici io ti ammazzo seduta stante.
Ormai era sparito anche l’ultimo barlume di
assennatezza in lui. Si era trasformato in un folle.
— Non ti beccheranno, okay? — strillai,
terrorizzata, menando pugni alla cieca.
— Voglio i dettagli! — ruggì Jean.
— Non ce li ho, i dettagli!
Jean prese a respirare profondamente. — Va
bene. — Si inginocchiò su di me. — Va bene — ripeté. — Userò le maniere forti.
Da lì in poi, nella mia mente c’è un vuoto.
Non ricordo precisamente cosa accadde. Ho rimosso tutti i particolari, e non so
se questa sia una fortuna o una sfortuna.
Fatto sta che diverso tempo dopo – secondi,
minuti, ore... – riacquistai il pieno controllo sul mio cervello. Realizzai di
non avere più addosso la gonna, e le calze erano stracciate. Sentivo qualcosa
di viscido sulle gambe; toccando, scoprii con orrore che si trattava di sangue.
La giacca era volata qualche metro più in là. Avevo il trucco sbavato e il viso
bagnato per le lacrime che continuavano a scendere.
Era impossibile da credere, eppure era
reale, tangibile, evidente. In tutta la mia vita credo di non aver mai avuto
una certezza tale.
Ero stata stuprata.
Tornai nel presente di colpo.
Mi accorsi di essere sdraiata a terra, con le gambe alzate. Mattia, in evidente
stato di panico, mi schiaffeggiava le guance. — Mio Dio, mio Dio Lori, che è
successo? Altri due minuti e avrei chiamato l’ambulanza, santo cielo... — Mi
poggiò due dita sul collo, come a constatare che fossi ancora viva. — Adesso ti
porto in ospedale, non voglio sentire scuse!
— Mattia, non...
— Sei rimasta svenuta per la bellezza di
mezz’ora, Lorianne, non provare a protestare! — continuò, indeciso se mostrarsi
preoccupato o meno. Alla fine scelse la prima opzione. — Ringrazia Iddio che io
non sia debole di cuore. Mi hai fatto quasi venire un infarto, te ne rendi
conto? — sussurrò dolcemente, aiutandomi a tirarmi su. — Hai avuto una visione?
— Ehm, non so se la definirei così —
risposi, titubante. — È stato più un flashback.
— Vuoi raccontarmelo? — mormorò, facendomi
sedere sul letto.
Respirai profondamente e mi sdraiai su un
fianco. Misi le mani sotto il cuscino in un gesto istintivo. Lo faccio sin da
piccola, quando ho paura di qualcosa. — Ti dicevo che sogno di dimenticare un
intero periodo della mia vita...
Pian piano che andavo avanti, tutto divenne
più semplice. Le parole venivano da sole. Gli parlai di come avevo conosciuto
Jean e del perché all’inizio non volevo ammettere che mi piacesse, dato che avevo
una cotta tremenda per Logan. Gli raccontai del nostro primo bacio – e qui,
notai, gli scappò un verso di disprezzo – e della notte in cui persi la virtù.
Gli spiegai che ero talmente innamorata da non aver fatto caso a tutti i
segnali dello squilibrio mentale di Jean. Infine, gli rivelai ciò che era
accaduto in quei giorni infernali.
Quando finii, Mattia non riusciva ad aprire
bocca. E per me andava bene così. Non volevo qualcuno che fingesse di capire
come mi sentivo e blaterasse falsissimi stereotipi. Avevo bisogno solo di una
spalla su cui piangere, anche se stranamente non piansi. Ormai non ne avevo
motivo: mi ero liberata, e i fantasmi del mio passato non mi avrebbero mai, mai
più perseguitata.
Mi addormentai dopo nemmeno cinque minuti
tra le braccia di Mattia, che mi stringeva come se avesse paura che io potessi
scappare da un momento all’altro.
Quella fu la prima notte senza sogni. E,
come avrei scoperto in un futuro non tanto remoto, non sarebbe stata l’ultima.
Ma io adesso mi commuovo. Da quanto tempo
aspettavo di poter pubblicare questo capitolo *sigh*
Un paio di precisazioni: per
la storia della famiglia Argentsang ringrazio l’onnipresente e onnipotente
Althea Matijacic (e colgo l’occasione per ringraziarla anche per le copertine per Wattpad), mentre
per titolo e citazione iniziale è doveroso porgere un ringraziamento alla mia
prof di latino che ha tirato fuori quella frase di Dialoghi con Leucò l’anno scorso per la Notte Nazionale dei
Licei Classici.
La storia degli omicidi perpetuati da
Jean, della sua combriccola e del cugino Francis verrà ovviamente ampliata e
ben descritta nelle Houses.
Niente, passate una buona estate e per
carità divina fatevi sentire ogni tanto, in particolar modo ora che la trama è
arrivata al suo culmine.
Arrivederci,
una Federica mezza appicciata perché la
protezione 30 per lei non è abbastanza
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Capitolo 21 *** Dolore dal sapere ***
19. Dolore dal sapere
Dolore dal sapere
16Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io ho avuto una sapienza
superiore e più vasta di quella che ebbero
quanti regnarono prima di me in Gerusalemme.
La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza.»
17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza,
come anche la stoltezza e la follia,
e ho compreso che anche questo è
un inseguire il vento,
18perché molta sapienza, molto affanno;
chi accresce il sapere, aumenta il dolore.
[Ecclesiaste 1, 16-18]
— Quando battezzi
Valentino?
— Quattordici agosto — mi rispose Mattia,
staccando un bel morso dalla mela che aveva in mano. — Tu te ne vai alla fine
di luglio, no?
Annuii distrattamente. — Già.
Non avevamo ancora discusso i termini della
nostra ormai decollata relazione, e non sapevo bene cosa avrebbe significato
tornare a Idris dopo così poco tempo passato insieme a lui. Da un lato, ero
partita per l’Italia col presupposto che mi sarei concessa al limite una
storiella estiva di qualche settimana, se proprio l’avessi voluto e soprattutto
se ne fossi stata in grado; dall’altro, non volevo lasciare Mattia in quel
modo, solo tra i mannari e sperduto nel Mondo Invisibile. Era – forse – troppo
presto per dire che lo amavo, ma quel ragazzo mi piaceva davvero moltissimo e
volevo tenermelo vicino. Peccato che ad Alicante ci fossero delle questioni che
mi aspettavano.
— Tornerò — decisi sul momento. — Ho un paio
di cose da sistemare, che mi porteranno via qualche mese, ma poi sarò libera e
potrò bussare di nuovo alla tua porta.
Mattia sorrise da dietro la mela. — Ne
deduco che non sono il benvenuto a casa tua.
— Ehi, signorino, andiamoci piano — lo
rimbeccai, — ma hai ragione, in un certo senso. Di questi periodi i licantropi
preferiscono evitare Idris.
Mattia si accigliò e venne a sedersi accanto
a me attorno al tavolo. — Ah sì? E come mai?
Gli indirizzai un’occhiata amareggiata. —
Attento a ciò che chiedi, Mattia.
Lui sorrise tristemente. — Lorianne, ho
visto la morte in faccia. La mia e quella altrui.
— Sei pronto a vederla un’altra volta?
Fece segno di sì con la testa. Notai un che
di titubante in quel gesto. — Se lo sei anche tu.
Con un sospiro scostai la sedia e mi alzai
in piedi. — Aspetta qui — intimai, quando ero già sul primo gradino.
Salii fino in camera mia e recuperai dal
fondo della valigia i rapporti che mi aveva passato zio Alec, quindi ridiscesi
di sotto e li posai sul tavolo, davanti a Mattia.
— Wow — commentò lui. — Plico consistente.
— Purtroppo. — Mi appoggiai al lavello a
braccia conserte. — Oltre ai ventisei lupi di cui si parla lì dentro ne sono
morti anche altri due, singolarmente, più un vampiro che... conoscevo, a farla
breve.
Mattia mise a segno un tiro da tre coi
residui della mela lanciandola nel cestino dall’altra parte della stanza e aprì
il fascicolo. Il suo sguardo si incupì immediatamente. — Oh, Dio — sussurrò,
mentre scorreva le pagine con rapida perizia. — Dio mio. Avvelenamento? Di massa?
— Sì — confermai. — Ed eccetto questo si sa
ben poco.
Mattia rialzò per un attimo la testa. —
Nemmeno il movente?
— Potresti fare decine di ipotesi per un
caso del genere — obiettai. — Sparo di avvertimento? Vendetta? Semplice
sterminio? — Scrollai le spalle. — È impossibile avere qualcosa di certo, con
una tale carenza di prove.
Mattia allontanò i fogli da sé e ruotò la
sedia per essere faccia a faccia con me. — Com’è avvenuto il tutto? Non... ce
la faccio a leggere.
Mi
mordicchiai il labbro inferiore. Quel cuore tenero sarebbe stato la sua rovina.
— L’intero branco si era riunito ai margini
della foresta di Brocelind per una non specificata commemorazione in una villa
che sostanzialmente è una sede distaccata dell’Hotel Silverscale – la si può
affittare per pranzi, compleanni, matrimoni, cose così; i Silverscale hanno
anche altre costruzioni di questo tipo, sia dentro sia fuori Alicante. —
Sventolai la mano in aria come per scacciare quell’ultima informazione irrilevante.
— Comunque, chi ha effettuato le autopsie ha concluso che la polvere d’argento
doveva nascondersi nella frutta o nel dessert, considerato che durante tutta la
durata della cena nessuno aveva accusato sintomi di alcun tipo, a scanso di un
paio di bambini; ciò ha indotto il medico legale a supporre che una
leggerissima dose di polvere fosse stata mescolata anche all’acqua.
Mattia si coprì il volto con le mani. La sua
voce mi arrivava attutita. — Se la situazione non fosse quella che è, ne sarei ammirato.
È orribile da dire, ma questo killer sa il fatto suo.
A malincuore, dovetti concordare. — All’alba
erano già tutti alla Basiliade a sputare sangue. I più deboli, circa sei o
sette, sono morti entro dodici ore. Nel giro di due giorni non ne è rimasto
neanche uno.
Mattia scosse violentemente il capo,
sconvolto. — Com’è stata gestita l’emergenza?
— Non so darti i dettagli, ma è stato fatto
il possibile e si è tentato pure l’impossibile — gli risposi. — Hanno persino
chiamato diversi Stregoni, tra cui mio zio Magnus – ti ho accennato di lui, se
ricordi – e una sua amica di vecchia data, Catarina Loss, specializzata in
magia curativa. Sembrava quasi che fossero riusciti a salvare l’Alpha, ma in
realtà avevano peggiorato il peggiorabile. Alla fine non è restato altro che
concedere a quei poveri lupi una morte indolore, con tre o quattro infermieri
coraggiosi a consolarli e l’ago della morfina piantato nel braccio. — Ingoiai
un groppo amaro che mi si era formato in gola. — Terminate le autopsie, non si
è potuto neanche seppellire i corpi: l’argento aveva divorato ogni singolo
lembo di muscoli, tessuti e organi. Erano rimaste soltanto le ossa.
Mattia tirò un lungo respiro profondo. —
Immagino che ci sia andato di mezzo il personale innocente.
— Il personale innocente ci va sempre di
mezzo — replicai mestamente. — Oltretutto, l’enorme quantità di DNA presente
nella villa – sala e cucine in particolar modo – ha impedito di poter compiere
delle analisi forensi, nonostante questi non siano esattamente i nostri metodi
d’indagine. Per quanto riguarda la Basiliade, il Ministero della Sanità era già
in crisi da molto prima che si aggiungesse anche questa macchia nera.
Mattia si grattò il naso. — Ho sentito
Sabrina blaterare qualcosa sull’argomento. Correggimi se sbaglio: la maggior
parte dei licantropi vuole ratificare gli Accordi prima del solito aggiungendo
degli articoli a proposito della tutela dei Nascosti nell’ambito del Ministero?
— Esatto — asserii. — E se fino a qualche
tempo fa c’era la remota possibilità che potessimo dissuaderli dal farlo,
adesso non abbiamo più speranze. — Mi allungai in avanti e gli accarezzai
lievemente una guancia. — Sei consapevole che tutta questa... storia, di
Carmine Mallardo e del tuo branco, dovrà venire a galla, sì?
Mattia strofinò il viso contro la mia mano,
come un lupacchiotto in cerca di coccole. — Troveranno il modo di resuscitarmi
per potermi ammazzare trenta volte, Lorianne.
Aveva eluso la domanda. — Ti garantiremo
protezione, Mattia, sta’ tranquillo. Sarai... come un pentito che collabora con
la giustizia. Dopotutto, uscire allo scoperto è quello che vuoi, no?
Lui chiuse gli occhi. — Sai cosa fanno ai
pentiti, Lori? — Strascicò le parole le une sulle altre, con una lentezza
inquietante. — Li ammazzano per strada.
Aveva eluso anche la seconda domanda. —
Mattia, sta’ tranquillo — gli
ripetei. — Vorrei dirti che abbiamo tutto il tempo del mondo ma non è così. Di
questo passo gli Accordi verranno firmati entro settembre, a meno che la
pressione non aumenti e si arrivi addirittura a non attendere la nomina del
nuovo Console e del nuovo Inquisitore. Sei costretto a prendere una decisione e
a prenderla subito. E se persegui la
verità dovrebbe esserti facile.
Mattia mi circondò il polso con le dita. La
sua stretta non era ferrea o dolorosa, ma comunque decisa. — Non andare
sull’offensiva, Lorianne. Stai indurendo i toni soltanto perché ti rendi conto
che le ultime due frasi si possono applicare anche a te.
Mi liberai delicatamente dalla sua presa e
ritornai ad appoggiarmi al piano della cucina. — Non ti avevo già detto che ho
definitivamente abbandonato l’idea di farmi suora di clausura? Ringrazia te
stesso, per questo.
— Ecco, adesso la metti sul sentimentale. —
Mattia assottigliò lo sguardo. — Sai bene che non intendevo quel che hai voluto
intendere tu.
Roteai gli occhi al cielo con un sospiro.
Speravo che almeno lui mi avrebbe risparmiato la predica, ma in fondo Mattia
Nardone era il re delle prediche. — Da dove devo cominciare, mmh, Mattia? Ti
faccio il discorso standard o vuoi una delle tante versioni alternative?
Lui mi lanciò un’occhiata di rimprovero. —
Non difenderti, non ti sto attaccando e non voglio farlo. Però stiamo parlando
di verità, e io davanti a me vedo una grandissima bugia.
Serrai le dita sul marmo. — Non ho mai
mentito — sibilai. — Mai, Mattia.
Un guizzo delle sue labbra rivelò che si
stava scaldando. — Qual è il contrario della verità?
Rassegnata, crollai sulla sedia più vicina.
— Non riuscirai dove schiere di altri hanno fallito, Mattia. È una battaglia
persa in partenza.
— Non sono il tipo che perde le battaglie
senza combattere.
Ridacchiai nervosamente. — Sì, questo
l’avevo notato.
Anche Mattia sorrise, poi tornò serio e si
sporse in avanti verso di me. — Ce la fai a raccontarmi cosa... cos’è successo dopo, Lorianne?
Feci spallucce, preferendo non rispondere a
parole.
— Okay, devo interpretarlo come un sì o come
un no?
— Scendi più nello specifico — sillabai
velocemente. — Riesco a parlare meglio se ho un tema preciso.
Lui annuì comprensivo. — Ascolta, Lori... —
Sembrò radunare i termini adatti per esprimere il concetto. — L’altra sera
abbiamo dormito insieme. Ti
abbracciavo. Ti... toccavo.
Intuii all’istante dove voleva andare a
parare. — Già. Non me ne capacito neanch’io.
— Com’è possibile, Lorianne? — mormorò. —
Non ti ha agitata trovarti in determinate circostanze? Non che stessimo facendo
chissà cosa – lungi da me – ma nella maggior parte dei casi si sviluppa un PTSD
– Post-Traumatic Stress Disorder —
tradusse a mio beneficio. — Eppure non mi sembri così sconvolta a riguardo.
Fissai il pavimento, pensierosa. — Suppongo
di dover ancora metabolizzare il tutto — azzardai. — Sotto sotto ero preparata
all’eventualità che Jean potesse... perdere il controllo fino a quel punto. Il
suo comportamento in tempi recenti avrebbe dovuto far suonare un campanello
d’allarme, ma, come piace ripetere alla maggioranza degli Shadowhunters, le emozioni offuscano il nostro giudizio.
Mattia sollevò le sopracciglia in una
smorfia sarcastica. — Per questo ti do ragione.
— Ti ringrazio, compagno di sventure — replicai, utilizzando l’espressione che lui
stesso aveva usato la sera che ci eravamo incontrati. — Sbaglio o è la prima
volta che mi dai ragione?
Lui si permise di ridere brevemente. — Non
ti ci abituare. — Sospirò. — Per cui pensi di non aver sviluppato un PTSD
perché in cuor tuo – Dio, è orribile da dire – sapevi che sarebbe potuto
succedere?
— È solo il mio modesto parere non
professionale — chiarii. — Inoltre, ti ho già informato del fatto che non
ricordo... be’, non ricordo ciò che comunque non vorrei ricordare. — Avevo la
bocca secca. — E se ti avessero riferito del dolore che si prova a farsi
estrarre i ricordi dalla testa capiresti perché non voglio neanche affidarmi a
uno strizzacervelli.
— Okay. Okay, davvero, basta così — mi fermò
Mattia. — Ora, per favore, dimmi che ti sei fatta visitare.
— Mi sono fatta visitare — lo rassicurai, —
da un medico che conosco benissimo, Cameron Bla-Orwell — mi corressi istintivamente, e la finii lì.
Saggiamente, Mattia non mi incalzò a
continuare. Prima regola per far sì che le persone ti dicano di più: non
riempire il silenzio.
Gliela diedi vinta, per quella volta: — Ho
sbagliato ad aspettare la mattina per andare da lui; avrei dovuto farlo subito.
Appena ho messo piede in casa, quella sera, mi è venuto naturale buttarmi sotto
la doccia, e a quel punto addio sangue, fluidi e terra. Risparmiati la
paternale, ci ha già pensato Cameron.
Mattia schioccò la lingua sul palato. —
Questo Cameron, che specializzazione ha?
— Medicina interna, ed è pure parecchio
competente: è stato nominato Ministro per due mandati.
— Non dubitavo affatto della sua competenza,
uno che fa di cognome Orwell ha già tutta la mia simpatia.
— E infatti il pin del tuo cellulare
obsoleto è 1984.
— Guarda qua che grande hacker, fai
concorrenza ad Adriano — ironizzò lui, ma riportò immediatamente la
conversazione sui binari. — Cosa ti aspettavi di trovare, Lori?
— Sinceramente? Ben poco di ulteriore
rispetto a quello che avevo potuto trovare io — confessai. — Avevo qualche
livido su gambe e fianchi e si vedevano benissimo i segni delle mani e delle
dita sulla pelle, ma Cameron non riuscì a capire da dove proveniva il sangue
che mi ero lavata via di dosso – e per questo ero sicura di non essermelo, non
so, immaginato – né scoprì altri segni di violenza sessuale.
— Test di gravidanza?
— No — negai. — L’HCG, come saprai, è
rintracciabile solo dopo almeno otto giorni. Cameron mi sconsigliò di affidarmi
alle analisi di laboratorio perché avrei dovuto giustificarle, e il governo di
tecnici che manteneva – e mantiene tuttora – il Ministero ci teneva ad andare a
fondo alle questioni; molto probabilmente l’avrebbero capito. Per dirla tutta,
il cugino di Jean, Francis, è tra quei tecnici ed è anche candidato al posto di
Ministro. Ero bloccata, Mattia.
Lui espirò. — Capisco. E passati quegli otto
giorni?
Abbassai la testa. — Mi sono rifiutata di
fare il test.
— Mi fai cascare le braccia.
— Puoi biasimarmi, Mattia? — mormorai,
sempre tenendo lo sguardo puntato sul tavolo.
Parve riflettere. — No — ammise infine. —
Anche se dipenderebbe dalle circostanze.
— Fidati, Mattia, a circostanze diverse non
avrei reagito come ho reagito — gli risposi, e per un attimo sembrò che
l’avremmo conclusa su quella nota.
Mattia
intervenne all’istante per non far cadere l’argomento: — Quando avevi avuto
l’ultimo ciclo?
— Alla metà del mese, suppergiù. Potrai
immaginare il sollievo quando mi è tornato a marzo.
Mattia alzò una mano. — Ehi, ferma lì. Se mi
dici così è ovvio che penso male. — Deglutì. — Quella cosa che inizia per a... ti prego, ti prego, non avrai dovuto affrontare anche quello.
Impiegai un po’ a realizzare a cosa stava
alludendo. — Io... no, Mattia, no — lo rincuorai. — È solo che il mio ciclo è
un tantino irregolare. O meglio, è regolare ma dura quattro mesi. Non ho idea
del perché — lo precedetti, — ma sarà sicuramente implicato il sangue angelico.
Francamente, non mi lamento.
— E ci credo — commentò lui, accennando un
lieve sorriso. — Perciò non vuoi e non puoi denunciarlo, giusto?
Annuii. — Sarebbe la mia parola contro la
sua. Ho potere in Consiglio, non fosse altro che per la famiglia a cui
appartengo, ma molti diffidano di me in quanto “Shadowhunter impura” a causa di
questa maledetta Chiaroveggenza e la maggioranza non oserebbe inimicarsi
l’assai probabile nuovo Inquisitore.
Mattia fischiò. — Wow. Jean, un ragazzino, Inquisitore? Mi stai
prendendo in giro.
Gli indirizzai uno sguardo che parlava da
solo. — Seriamente, Mattia? Seriamente?
Tu sei un boss della camorra a diciannove anni. Jean ha tutto il diritto di
essere Inquisitore alla tua stessa età.
— Lorianne, è il percorso che importa, non
la mèta — ribatté lui. — Jean di sicuro non ci è arrivato per caso.
— Siamo un popolo precoce sotto la maggior
parte degli aspetti — chiarii. — Andiamo sul campo giovani, ci sposiamo
giovani, abbiamo figli da giovani. Lo senti necessario quando la tua vita
potrebbe finire da un momento all’altro. — Mi strinsi nelle spalle per
minimizzare il tutto. — Jean ha le qualità adatte per quel ruolo, e dopotutto
l’età non è mai stata altro che un numero. I miei genitori e i miei zii erano
anche più piccoli di lui quando hanno scongiurato due catastrofi globali.
— È per questo che chiunque conosce il tuo
cognome?
— La famiglia Herondale aveva una
connotazione illustre già da molto prima di mio padre — gli spiegai. — Come in
tutte le famiglie ci sono state delle pecore nere, ma il prestigio dei suoi
membri ha superato di gran lunga l’infamia buttata sul cognome da quei singoli
soggetti che ormai sono solo un lontano ricordo. Siamo un po’ come i Medici o i
Kennedy.
— O come i Nardone — si vantò Mattia.
Risi. — Perché, anche i Nardone sono famosi?
— Ovvio — millantò lui. — Mai sentito
parlare di quel tale, Mattia, che a diciannove anni era già un boss della
camorra?
Gli tirai una gomitata nelle costole
ridacchiando. — In effetti...
Mattia allargò le braccia per ostentare
potenza. — Guardami dal basso della tua posizione, plebea! Chissà se Mallardo
aveva un trono.
Emisi un verso di disprezzo. — L’unico trono
adatto a lui è la tazza del gabinetto.
Mattia scoppiò a ridere di gusto. — Questa
me la segno, sul serio — sghignazzò. — Se non un trono, perlomeno la poltrona
nel suo ufficio è comodissima.
— Anche la tazza del gabinetto necessita di
essere comodissima.
— Ma chi abbiamo qui, un’aspirante designer
di vespasiani? — mi stuzzicò, con un bellissimo sorriso che andava da orecchio
a orecchio.
— Pecunia
non olet — gli ricordai petulante.
Mattia strinse la mascella. — Pecunia olet, fidati — ribatté con voce
grave. — E a tal proposito, quale fine dovrei riservare al denaro del branco?
Tamburellai le dita sul tavolo, riflettendo.
— Adriano aveva ragione — dovetti ammettere. — Non puoi buttare all’aria tutto
quello che Mallardo ha costruito. Secondo il mio modesto parere ti conviene
farci la mano, imparare a capire come funzionano le cose, e solo allora, se
vorrai e soprattutto se potrai, sarai in grado di iniziare pian piano a
smantellare traffici, alleanze eccetera.
— Mi stai suggerendo di fare buon viso a
cattivo gioco? — mi chiese lui, dubbioso. —Temo di non esserne capace.
— Dovrai esserlo — replicai. — Prendila come
una sfida contro te stesso, poniti un obiettivo e cerca non solo di
raggiungerlo, ma anche di superarlo. Dopo un po’ ci farai l’abitudine.
Mattia si massaggiò le tempie con indice e
medio. — Io ci provo, però tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Sorrisi lievemente. — Se non cado in errore,
a te il mare piace.
— Sono nato in una città di mare, deve
piacermi per forza — contestò, ma aveva già perso la mestizia di prima. Mi
rivolse uno sguardo sfuggente da sotto le ciglia. — Promettimi una cosa,
Lorianne.
— Parla.
— Più sto insieme ai lupi, più apprezzo il
quid pro quo. — Mattia fece una pausa studiata. Lui poteva anche credere di non
essere un bravo attore, ma il modo in cui stava conducendo quel discorso diceva
tutt’altro. — Perciò, se io per il momento mando all’aria i miei buoni
propositi e mi comporto da bravo criminale, tu devi assolutamente – e
sottolineo assolutamente – andare
contro le tue errate convinzioni secondo le quali Jean se la caverà liscia
sempre e comunque. Tentar non nuoce, Lori.
— Mattia, ti do la mia parola, in questo
caso potrebbe nuocermi — sussurrai.
— E allora fa’ sì che questo non succeda. —
Il suo tono non ammetteva repliche. — Purtroppo non posso assicurarti il mio
aiuto, né tu potrai e tantomeno dovrai
fare qualcosa per me – non permetterti di obiettare, hai i tuoi nemici da
combattere e non puoi combattere anche i miei. Però, Lori, per quanto possa
valere, pregherò il mio Dio per te.
Non avevo mai pregato Raziel. Ne avevo avuto
l’occasione, certo, ma non ne avevo mai sentito il bisogno né peraltro avevo
mai voluto farlo. Sarebbe stato come
dargli un’ulteriore prova del fatto che ero sua subordinata. L’idea non mi
aveva nemmeno lontanamente sfiorata.
Eppure di una cosa ero certa: se avessi mai
avuto o avvertito la necessità di pregarlo, di rivolgergli una richiesta o
anche solo di parlargli, l’avrei fatto per Mattia Nardone.
(Avviso pre-NdA: non ho la minima idea del perché la formattazione sia diversa. Boh.)
Dai, ci ho messo
solo due settimane. Incolpate il caldo per il ritardo, avrei potuto finire in
molto meno tempo.
Annuntio vobis magnum gaudium: non habemus papam ma habemus sinossi di HoC! (A
dire la verità ce l’ho da un mese esatto e me ne sono ricordata solo adesso ma
SSSSSH):
“Un soffio e crolla tutto.”
Un fragile, volatile, effimero castello di carte: è
quello che Carmine Mallardo, boss della camorra e temuto licantropo, ha
lasciato al suo ignaro successore Mattia Nardone, che ormai si trova a tenere
in mano le redini di un impero. E non solo un impero italiano, bensì un impero
su scala europea, se non mondiale.
Un fragile, volatile, effimero castello di fascicoli
resi pubblici, morsi e transazioni di denaro sporco di sangue: è ciò che porta
alla decisione di ratificare gli Accordi con cinque anni di anticipo,
scatenando le proteste dell’intero Sottomondo. E mentre Mattia, a Idris nelle
vesti di rappresentante dei mannari, trova conforto in Lorianne Herondale,
qualcun altro trova conforto in dieci gocce di ansiolitico e nel pensiero che
di lì a poco prenderà il posto dell’amato e odiato Robert Lightwood, diventando
il nuovo giovane Inquisitore.
Un fragile, volatile, effimero castello di cartelle
cliniche e segreti inconfessati: è il Ministero della Sanità, che ormai naviga
in cattive acque da troppo tempo, e che vedrà uno dei suoi più esimi dipendenti
venire coinvolto in uno scandalo dalle proporzioni gigantesche. Scandalo che
comprende ben ventinove omicidi.
Un fragile, volatile, effimero castello di misteri
celati, baci perduti e ricordi dispersi: è ciò che Jean Argentsang si augura di
non far crollare, ma che vedrà crollare davanti ai suoi occhi.
È quello che Anna Incalzi ha costruito per la sua
famiglia.
È quello a cui è legata la vita di Adriano Mallardo.
È quello che Sabrina Monti si è definitivamente
lasciata dietro le spalle.
È un castello di carte.
— Non voglio insegnarti qualcosa di divino e demoniaco. Voglio insegnarti
qualcosa di umano.
— Umano? — Rise.
Gli faceva male la gola. — Dio, Nardone, nessuno di noi due è umano. Forse io
meno di te.
Lo so che è figa
assai, lo so. E detto questo, alla prossima, guys!
Federica
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Capitolo 22 *** Servire la luce ***
20. Servire la luce
Servire la luce
Agiamo nell’ombra per servire la
luce.
[Dal
serial Assassin’s Creed]
La
maturità tenne impegnato Mattia per due settimane. Gli Esami di Stato, in tutta
la loro storia, non erano mai cambiati molto: come di regola la prima e la
seconda prova si svolsero in due giorni consecutivi, per la terza si aspettò il
lunedì successivo e si fece in modo di riuscire a finire gli orali entro
giugno.
Mattia, che già non capiva più niente tra
branco, crediti, tesina, formulari e vocabolari vari, dovette fare i conti
anche con il plenilunio, che capitò a sproposito mercoledì 23, proprio nel
mezzo di quel periodo caldo. Stando alle carte lunari in possesso dei mannari,
inoltre, quel mese la luna sarebbe stata piuttosto forte; ergo, era possibilissimo
che il Cambiamento avvenisse pure il 22 e il 24.
Di nascosto da Mattia, andai preventivamente
a parlare con Sabrina per capire come era d’uso coordinare la situazione da
quelle parti. — Molti sono licantropi da parecchio — mi disse lei, — e non è
raro che non si trasformino. I più anziani si occupano dei novellini, che di
solito vengono tenuti nella cella nel seminterrato o raccolti al piano terra
dentro la piscina svuotata. Il resto di noi si gestisce da solo; ci sono zone di
Gaeta in cui è possibile errare indisturbati, e facciamo in modo di uscire
sempre a gruppetti di tre o quattro così da poter scongiurare qualsiasi
scenario tragico. — Sospirò. — Almeno su questo, Carmine è stato un buon Alpha.
— Concordo — commentai. — Perciò, quali
sarebbero queste zone sicure?
Prima di rispondere, Sabrina mi portò
davanti a una parete nascosta da un tendaggio scuro e pesante. Aprì la tenda
nel mezzo con uno scatto delle braccia, rivelando una composizione in maiolica
decorata a mano rappresentante un paesaggio che avevo ben scolpito nella mente:
Gaeta vista da Formia. Un’anfora spaccata in verticale immersa nel mare, il
campanile come una grossa matita quasi all’estrema sinistra, la gobba verde del
promontorio sulla destra, la sagoma rettangolare del Castello in alto. La firma
dell’artista era sapientemente contenuta nella forma della cresta di un’onda.
— Se ti stai chiedendo il motivo per cui
teniamo questa meraviglia celata agli occhi di tutti — mi anticipò Sabrina, —
innanzitutto è perché alcuni dei dettagli sono in foglia d’argento. — Mi indicò
le luci del Castello e il riverbero della luna sul mare, stando attenta a non
toccare le piastrelle. — Inoltre, questo è stato il regalo di uno dei clan
nostri affiliati, i Di Lella, che controllano buona parte della Campania.
Abbiamo avuto... delle dispute con loro, e per sfregio Carmine ha voluto
coprire quello che vedeva come il segno di un’amicizia incrinata. Aveva deciso
di distruggerlo, ma l’ho convinto a non farlo.
— Sarebbe stato un peccato distruggerlo —
sussurrai, ammaliata dalla perfezione delle pennellate sulla ceramica sottile
ma resistente, lucida e uniforme. Mi voltai verso di lei. — Mattia sa di queste
dispute?
Sabrina annuì. — Gliel’ho accennato io, poi
suppongo abbia approfondito il discorso con Adriano. Lui conosce i Di Lella
meglio di tutti noi. — Inarcò le sopracciglia, come se tra Adriano e i Di Lella
ci fosse stato qualcosa che lei non approvava. — Comunque, indubbiamente i
luoghi più adatti per vagare senza meta durante il plenilunio sono Monte Orlando
e Calegna.
Seguii il suo sguardo sul dipinto per poter
comprendere dove fosse questa Calegna. Stava fissando un punto vuoto, quindi
intuii che dovesse essere dall’altro lato della città, all’interno. — È
necessario rimanere entro i confini?
Sabrina fece spallucce. — Non abbiamo una
legge scritta né ci siamo mai dati delle regole in questo senso, ma in pochi si
avventurano verso Formia, sebbene anche lì ci siano lande sperdute in cui
potersi rilassare – tra le tante, i Venticinque Ponti o la Tomba di Cicerone.
In realtà si potrebbe salire su una montagna qualunque e stare in pace, e per
noi Itri e Fondi sarebbero l’ideale; in ogni caso però conviene non
allontanarsi troppo dal quartier generale, per questioni di sicurezza.
— Capisco — asserii. — Dunque Mattia...
— Sostanzialmente può fare quel che gli pare
— chiarì Sabrina. — Il mio consiglio sarebbe di farsi un giro per Via
Indipendenza, così ne approfitta per controllare il Mercato delle Ombre.
D’istinto sollevai una mano per fermarla,
incredula. — Gaeta ha un Mercato delle Ombre?
Lei mi riservò un’occhiata di scherzoso
rimprovero. — Continui a sottovalutarla, Lorianne.
— Non è questo, è che... — Mi morsi la
lingua. — Non ci sono più Mercati delle Ombre da quando è stata abolita la Pace
Fredda. Dopotutto, erano nati per contrastarla e sono morti nel momento esatto
in cui non aveva più senso protestare.
Sabrina mi rivolse un sorriso enigmatico. —
Ti sbagli. — Mi diede le spalle, cominciando a camminare nella direzione
opposta rispetto a quella da cui eravamo arrivate. — Vieni, ti mostro una cosa.
Curiosa, la seguii fino allo studio nascosto
nel muro. Ormai avevo imparato come sbloccare l’entrata: bastava premere sul
tramezzo sia col ginocchio che con la spalla in due punti particolari, e i
cardini automatici avrebbero ruotato di conseguenza. Stavolta, però, Sabrina
non aspettò che l’ingresso fosse completamente libero e sbatté la porta con una
violenza tale che i quadri alle pareti tremarono.
Si udì un clic e l’enorme libreria sulla
sinistra, con molto meno rumore di quanto mi sarei aspettata, si spostò di
mezzo metro più avanti. Sabrina sgusciò nell’intercapedine che si era creata e
mi fece cenno di raggiungerla.
Dietro quell’imponente scaffale si celava un
secondo stanzino segreto illuminato da una fredda luce a led, in totale
contrasto con gli sfarzosi lampadari in cristallo degli ambienti esterni. Anche
la mobilia era diversa: non più costoso legno di manifattura ma leggero, gelido
metallo, modellato in mensole, sostegni, tavoli e ripiani. Era chiaramente un
magazzino, non tanto grande ma comunque ben fornito. Mi sembrò ancora più
piccolo quando la libreria tornò al suo posto, scivolando su una serie di guide
incassate nel pavimento.
Mi accorsi di un minuscolo foro scavato nel
legno: avvicinandomi, scoprii che da lì era possibile avere una visuale dello
studio piuttosto chiara. Dal davanti quel subdolo spioncino non era visibile;
pensai che dovesse essere occultato da un qualche libro messo in diagonale, per
non oscurare la vista ma allo stesso tempo permettere di spiare.
Sentivo che Sabrina stava sorridendo. — Ero
qui, quella sera. Come vi ho già detto, potevo solo guardare. Sono stata in
grado di uscire soltanto dopo che Carmine e gli altri due lupi erano morti.
— E hai lottato contro mia cugina —
mormorai, girando sui tacchi per avanzare verso il centro.
— Dovevo salvare le apparenze — ribatté lei
senza espressione. — Fosse stato per me, vi avrei portato torta e caffè. E se
Patricia me ne avesse dato l’occasione avrei dovuto ucciderla. — Deglutì. — Ho
ordinato la ritirata per il vostro bene.
Mi appollaiai sull’unico tavolo che aveva un
angolino libero. Non riuscivo a capire cosa diavolo contenessero tutti quei
pacchi, pacchetti e pacchettini di cui la stanza era piena. — I lupi avrebbero
davvero combattuto fino in fondo per vendicare Carmine?
Sabrina sospirò. — Se c’è una cosa che
apprezzo in un lupo, quella è l’imprevedibilità. E i lupi che ci sono qui sono
tra i più imprevedibili al mondo, per una lunga lista di ragioni che ritengo
inutile elencare. — Tirò di nuovo un respiro profondo. — Eppure il più
imprevedibile di tutti resta sempre mio figlio.
La guardai di sbieco. — Sotto quali aspetti?
— Sotto la maggioranza di essi — replicò, e
non aggiunse altro su quella linea; preferì spostare la conversazione sul
motivo per il quale eravamo lì. — Prendi una di quelle scatole, su.
Afferrai alla cieca il parallelepipedo di
cartone più vicino a me. Percepivo i puntini in rilievo dell’alfabeto Braille
su una delle facce. Qualcosa in quell’involucro – il peso, forse, o i colori
della scritta, lievemente sbiadita – mi era familiare. Vi infilai le dita e ne
trassi fuori due blister di ben note compresse per metà bianche e per metà rosa.
Alzai la testa di scatto. — Questi sono...
— Analgesici specifici per i dolori
mestruali. Lo so, li uso anch’io. — Sabrina ostentò ancora quel sorriso
ambiguo. — Chi pensi rifornisca il Ministero della Sanità?
Mi rigirai le pillole in mano. Non potevo
credere ai miei occhi. — Non è possibile — sibilai tra i denti. — Non è
possibile che il Ministero si regga sul contrabbando.
Sabrina agganciò i pollici ai passanti della
cintura. Non l’avevo mai vista con vestiti diversi da camicia e pantaloni
stretti, tacchi alti ai piedi, rigorosamente di colori scuri nonostante fosse
estate. — Non mi sembra di aver menzionato il contrabbando — precisò, — ma in
un certo senso hai ragione: noi acquistiamo di contrabbando e contrabbandiamo a
chi poi vende legalmente i farmaci al
Ministero. Semplice ed efficace. Questo sistema non ha mai dato problemi.
— È una delle poche cose che funzionano
bene, già — bisbigliai mentre scendevo dal tavolo con un salto. Mi guardai
intorno, facendo una stima mentale di quanta merce dovesse esserci lì dentro. Anche
un calcolo approssimato era impossibile. — Caricate di molto il prezzo
iniziale?
Sabrina mi porse un fascicolo dalla
copertina verde. — Ci guadagniamo il minimo indispensabile, soltanto le spese
di spedizione e una scarsa sovrattassa; non è da lì che proviene il grosso dei
nostri soldi. Dà questo registro a Mattia — aggiunse. — Questo non è un
traffico che può finire, ne andrebbe della stabilità del Ministero. Anzi, della
sua stessa esistenza, considerato che già ora sta crollando sulle sue precarie
fondamenta. Con tali circostanze, spero che Mattia non protesterà.
Sfogliai brevemente il registro: erano
annotate le date di partenza e arrivo dei prodotti, i costi, le informazioni
sui vari farmaci. — Mattia non protesterà mai più — le annunciai. — Ha
accettato tutte le implicazioni del suo ruolo, anche se a fatica. Sarà un buon
Alpha.
Le iridi gialle di Sabrina brillarono sotto
i led. — La domanda non è se sarà un buon Alpha, Lorianne. La domanda è se
diventerà come Carmine.
Il
Mercato delle Ombre era stato la destinazione notturna di Chrysta fin dal
giorno in cui avevamo portato un Mattia quasi morto a Villa Orlando dopo i
funesti avvenimenti al Palazzo. Camminando tra gli stand e le bancarelle, con
Mattia al mio fianco, mi chiedevo come non fossi riuscita a capire che Chris si
stava dirigendo proprio lì, nel miglior posto dove poter trovare in terra
straniera tutto ciò di cui uno Stregone ha bisogno.
Sapevo che in valigia aveva messo
l’essenziale per casi di emergenza, ma pensavo che tra quelle scorte
rientrassero anche gli ingredienti – piuttosto comuni – per una pozione contro
i peggiori effetti della luna piena; non avevo certo idea che se li fosse
procurati all’occorrenza sul momento.
Comunque, in qualsiasi modo li avesse
ottenuti, la pozione era stata la mano di Dio per Mattia: non solo non aveva
affatto sofferto la trasformazione, ma aveva persino mantenuto la lucidità,
tanto da poter passeggiare tranquillamente in Via Indipendenza e rimanere
indifferente agli sguardi dei Nascosti che lo avvertivano come una presenza
oscura e ignota. Se percepivo che si stava scaldando, lo accarezzavo dietro le
orecchie per calmarlo.
La pelliccia del lupo conservava i colori
caldi della sua forma umana, da un profondo nocciola a un marrone più chiaro;
gli occhi splendevano come fuochi fatui nel buio. Il suo passo era silenzioso,
misurato, l’andatura involontariamente fiera e maestosa. Incuteva timore
reverenziale e rispetto nei licantropi che ci guidavano tra i vicoli di Via
Indipendenza, gli stessi mannari – pezzi grossi del branco – ai quali era
affidato il controllo del Mercato.
Dal più loquace di questi, tale Pietro,
avevo appreso nel pomeriggio che la funzione dei Mercati delle Ombre non era
poi molto cambiata dai tempi in cui questi rappresentavano un modesto fronte di
ribellione alla Pace Fredda: esisteva da sempre un mercato nero del Sottomondo,
solo che prima della Guerra Oscura il contrabbando avveniva in zone sperdute e separate
le une dalle altre; dopo, invece, si era formata una piazza comune dove quei
brutti poliziotti Shadowhunters non avevano giurisdizione. Non aveva senso
smantellare un’organizzazione del genere una volta destituita la Pace Fredda,
soprattutto dal momento che con la nascita del Ministero della Sanità c’era
stata una crescente necessità di pozioni e altre sostanze curative. Inoltre,
giacché l’Influenza B e la conseguente creazione del Ministero avevano messo in
discussione la legge che proibiva ai Nephilim di usare medicinali e metodi di
cura mondani, il Mercato poteva offrire una degna soluzione al dilemma:
farmaci, anche ancora in via di sperimentazione, opportunamente modificati da
fate e Stregoni.
Dopotutto, la storia che ci raccontavamo noi
Shadowhunters non era molto differente, salvo il fatto che in quella versione
non si faceva mai direttamente riferimento ai Mercati delle Ombre, preferendo indicare
i luoghi di compravendita delle forniture per il Ministero come semplici
industrie mondane con qualche eventuale infiltrato all’interno.
Mi domandai quanti e quali dipendenti del
Ministero sapessero come stavano realmente le cose; se queste fossero
informazioni riservate al Ministro e ai suoi più stretti collaboratori, oppure
se ne fossero a conoscenza anche i tizi che facevano le pulizie. Chiunque fosse
custode di quel segreto, comunque, doveva essere assai bravo a nasconderlo.
Il Mercato delle Ombre di Gaeta si
sviluppava dove durante il giorno aveva luogo la sua controparte mondana,
sostituendo banchi di frutta e verdura a chilometro zero con rivenditori di
polveri e misture fluorescenti, tappezzando le innumerevoli piazzette di Via
Indipendenza di coperte variopinte sulle quali sedevano rigattieri di ogni
forma e specie, stendendo sottili teli di cotone su leggere impalcature in
metallo per improvvisare un tendone. Sotto la lieve luce della luna che
filtrava tra gli stretti palazzi, anche in un buio quasi completo, tutto il
Mercato esplodeva in un caleidoscopio di tinte sgargianti e chiassose, che
quasi ferivano gli occhi quando lo sguardo vi si posava troppo a lungo.
Mi accorsi che c’era uno schema preciso
nella disposizione dei colori, una perfetta tecnica di merchandising studiata
per attirare e mantenere l’attenzione. Al suono di una melodia inumana che
sembrava provenire dal nulla, passammo dal rosa gentile dei filtri d’amore al
caldo rosso degli incantesimi erotici, dall’energetico arancio al giallo
pulito, poi al clinico bianco – i farmaci erano quasi tutti smerciati in
quell’area – per arrivare al nero, che portava con sé il sentore della magia
proibita. Il nero si schiarì nel blu dei sortilegi meno pericolosi, nel
marrone-viola del malocchio, nel profondo smeraldo della natura e nel verde
chiaro della speranza, fino a tornare di nuovo al bianco dei medicinali.
Tra questi ultimi, quando cominciai a
interessarmi maggiormente alla merce in bella mostra tutto intorno a me, notai
una confezione che pareva avere la mia età. In effetti, come mi assicurò il
pixie proprietario del bancone, la mia età ce l’aveva davvero: in esso era contenuta
una goccia del mio sangue. Anch’io, inconsapevolmente, avevo dato il mio
contributo per debellare l’Influenza B.
Mattia mi diede un colpetto col muso per comunicarmi
che si sarebbe avviato verso la parte più remota del mercato, che terminava in
Villa delle Sirene. Decisi di lasciarlo andare con la sola compagnia degli
altri lupi; non volevo impicciarmi più di tanto negli affari del branco, e in
fondo anche lui riconosceva che avrebbe fatto meglio a imparare a cavarsela senza
il mio costante aiuto.
Rimasi a guardare la mercanzia del pixie per
un po’. Aveva aggiustato tutti gli oggetti sull’espositore con una precisione
millimetrica e li aveva sistemati, da sinistra a destra, in una scala di
gradazione crescente, dal bianco sporco delle ossa e degli artigli al riverbero
lattiginoso di quello che avrei detto essere un estratto di un qualche fiore
fatato. L’unica nota stonata su quella superficie altrimenti asettica era un
vecchio mazzo di tarocchi impolverati, girati a faccia in su a mostrare le
figure policrome disegnate su di essi e tenuti insieme da un nastrino di raso
rosso.
I tarocchi mi avevano da sempre
appassionata. Non che mi servisse un altro modo per predire il futuro, ma c’era
un qualcosa di misterioso in quelle carte che mi attirava come una falena è
attratta dalla luce. L’impossibilità di avere una risposta esatta, forse, o
magari i diversi metodi di lettura che variavano da secolo a secolo, da paese a
paese, da cartomante a cartomante.
Non ebbi bisogno di chiamare il pixie: era
già direttamente di fronte a me, e mi stava scrutando con morbosa curiosità fin
dal primo passo che avevo mosso in sua direzione. — Quanto, per questi?
La piccola fata mi mostrò i denti appuntiti.
— Se mi provi che quel licantropo è Mattia Nardone, gratis.
— Cosa ci guadagneresti sapendo la sua
identità? — domandai, sospettosa, mentre esaminavo la carta del Matto. —
Oltretutto, come dovrei provartela?
Il pixie si strinse nelle esili spalle blu.
— Mi basta la tua parola. È Mattia Nardone?
— Io posso mentire — obiettai. — Perché vuoi
che te lo dica?
— Affari — mi rispose, vago. — Ora che è lui
il nuovo Alpha, il clima all’interno del Mercato è notevolmente cambiato.
— E potrete imboscarvi in faccende ancora
più losche, non è vero?
— È una parte della verità. — Gli occhi ferini
del venditore brillarono nella semioscurità. — È Mattia Nardone?
— Sì — capitolai. — È lui.
La fata sorrise di nuovo. — Coraggioso, a
presentarsi così al Mercato. In molti qui amavano Carmine.
Lentamente, realizzai qual era il quadro
della situazione.
I lupi avevano allontanato Mattia di
proposito. La musica ammaliante che ci aveva accompagnati per tutto il tempo
suonava anche a frequenze più basse, udibili a fatica, fastidiose e quasi
ipnotiche per chi non vi era abituato. Il pixie, approfittando del fatto che
non avevo seguito i mannari, mi aveva trattenuta volutamente in chiacchiere
inutili.
Mi ritrovai uno spadino puntato al collo. — En garde, Lorianne Herondale.
A
posteriori, mi resi conto che il mio metodo di fuga non era stato dei migliori.
Papà mi aveva insegnato l’arte della
ritirata, ripetendomi fino allo sfinimento di prestare attenzione all’ambiente
circostante, di guardarmi dietro le spalle, di mantenere una stretta né troppo forte
né troppo lenta sulla spada, di respirare con regolarità per evitare i crampi,
ma non avevo la lucidità necessaria per ricordarmi tutte queste direttive, al
momento.
Mattia era in trappola e io avevo l’obbligo
morale di strapparlo al pericolo, e in fretta.
Disarmai il pixie ribelle con una facilità
impressionante, tenendomi il fioretto – non avevo nulla a parte il pugnale di
nonno Luke e una lama angelica, e una spada un po’ più lunga non avrebbe fatto
male – per poi scattare verso il cuore del Mercato alla velocità massima che
potevo raggiungere a freddo, saltando su tombini aperti, rovesciando bancarelle
e tendoni, facendomi largo a spallate tra la gente e menando un pugno qui e una
gomitata lì quando uno dei molti fedeli di Mallardo si azzardava a tentare di
fermarmi.
Mi ero marchiata con una runa di resistenza
quando erano spuntate le prime stelle, e la sentivo bruciare sull’avambraccio
accanto all’Enkeli. L’effetto delle
rune su di me non era mai prevedibile: o duravano per ore o svanivano dopo
mezzo minuto, e in entrambi i casi sembravano comportarsi come se avessero un
intelletto e decidessero se urgeva il loro ausilio o no. Altro discorso con le
rune di mia madre, che invece, forse proprio per la loro provenienza terrena,
funzionavano sempre e comunque.
Colta da un’intuizione improvvisa, mi sfilai
lo stilo dalla tasca con la mano libera e tracciai una runa nell’aria davanti a
me. Trattenni il fiato per un attimo e lo liberai soltanto dopo uno slancio
grazie al quale macinai venti metri in pochi istanti, mentre la folla con torce
e forconi che mi stava inseguendo veniva bloccata da un muro invisibile. Ovvio
che i nemici fossero anche dall’altro lato della barriera, ma almeno erano in
numero minore.
Ingaggiai brevi combattimenti con chi tra
loro mi preoccupava di più – due ifrit provvisti di grosse scorte di acidi
demoniaci e una banshee che cercò di rompermi i timpani con il suo urlo
assordante – e corsi ancora, ansimando, un dolore pungente al fianco sinistro e
il sangue che mi colava giù da una ferita sulla gamba dove il colpo di una daga
era andato a segno.
Raggiunsi uno spiazzo aperto e girai sui
tacchi per disegnare un’altra runa Erkos,
poi a distanza di dieci passi ne disegnai un’altra, e dieci passi dietro un’altra
ancora, per precauzione. Avevo già notato prima che il territorio del Mercato
era limitato a Via Indipendenza e a Villa delle Sirene, per cui nessuno sarebbe
potuto uscire dai vicoli sulla strada principale.
Mi voltai di nuovo e mi fiondai nel centro
di un parcheggio quasi del tutto vuoto, dove i tre lupi nostri accompagnatori
avevano circondato Mattia e stavano lentamente compiendo cerchi dal diametro
sempre più ristretto per avvicinarsi a lui.
Mattia ringhiava, ma non era un ringhio
aggressivo: lo capivo dalla posizione del corpo inarcato all’indietro, dalle
orecchie basse, dalle labbra che scoprivano tutti i denti fino ai molari, dagli
occhi che non fissavano i suoi Beta. Era terrorizzato, impietrito, confuso. Per
un secondo restai immobile anch’io, percependo la sua paura.
Mi chiesi perché i mannari non attaccassero,
ma un’occhiata più attenta ai loro movimenti mi diede la risposta: ognuno di
loro voleva diventare l’Alpha, e ciò avrebbe significato assicurarsi che Mattia
morisse soltanto per mano sua. Avrebbero lottato l’uno contro l’altro, intuii,
per poter avere quell’onore.
— Ehi! — urlai, per farli distrarre dalla
loro preda. Il pugnale d’argento si conficcò nel collo del licantropo più a destra
con un piacevole gorgoglio, mentre i due rimasti volgevano la testa verso di
me. — Vigliacchi!
Anche Mattia mi stava guardando, scioccato,
ma un lampo passò nelle sue pupille e in un attimo comprese il motivo del mio
grido. In un balzo atterrò sulla schiena del lupo più vicino e gli inflisse un
grosso graffio sulla guancia, ricevendo in cambio un morso che per poco non gli
staccò un orecchio.
Il terzo mannaro mi caricò abbaiando, e io
riuscii a lacerargli il fianco con lo spadino prima di deviare di lato per
recuperare il pugnale d’argento dal corpo del brutto ceffo numero uno. Scorsi
Mattia spalancare gli occhi alla vista del cadavere umano, una debolezza che
gli risultò quasi fatale: dovette sacrificare la zampa sinistra al fine di scampare
a un attacco frontale.
Il pugnale non incontrò resistenza nel
trapassare l’addome del penultimo licantropo, che rovinò sul cemento
abbandonando le spoglie animali. — Uccidilo, Mattia! — strillai, senza sapere se
dovevo interferire nel duello o lasciare che regolassero i conti da soli. —
Mattia, è l’unico modo! Uccidilo!
Era impossibile ormai capire chi fosse chi:
le due bestie si rotolavano sull’asfalto assestando zampate alla cieca e
scrutandosi in cagnesco, incapaci di vibrare il colpo di grazia. Con un’imprecazione
sibilata mi portai in mezzo a loro per separarli e dare a Mattia il tempo di
respirare, mentre l’altro lupo latrava furioso. Lo tenni lontano per un po’,
sfruttando il suo tallone d’Achille per l’argento, ma ora che Mattia non
rischiava più la pelle l’adrenalina stava scemando, e cominciavo a sentire la
stanchezza dovuta alla mancanza di rune e alla perdita di sangue. Non ero al
massimo delle forze, non più.
Un’ombra mi passò sopra e nel momento in cui
posai lo sguardo su di essa Mattia aveva già toccato terra. Spinse il suo
avversario verso un SUV nero lì parcheggiato, lo incastrò contro la portiera e
gli squarciò la gola con gli artigli, uggiolando quando il sangue gli zampillò
in faccia, finendogli in bocca e negli occhi. Tremava, e tremò ancora di più
nel vedere il mannaro che aveva appena ammazzato trasformarsi in Pietro, il
volto rotondo pietrificato nell’espressione vacua del suo ultimo istante di
vita.
Gettai le armi e mi scagliai su Mattia,
afferrandolo per il busto e tirandolo via da quel massacro. Sotto le mani
percepivo i peli ritirarsi e le ossa fondersi in un nuovo scheletro, e un
Mattia nudo e sporco si aggrappò alle mie spalle per tenersi in piedi. Non ce
la fece, e cademmo entrambi in ginocchio, abbracciati, io che quasi piangevo
per il sollievo e lui che fremeva come una foglia, ricacciando indietro le
lacrime.
Si udì uno schiocco e Mattia urlò,
afferrandosi la gamba ferita: Pietro gli aveva fratturato il femore, e ora l’osso
si stava riparando con una lentezza esasperante. Lo strinsi forte a me,
ricordando di aver letto da qualche parte che gli abbracci rilasciano ormoni
inibitori del dolore, ripulendogli nel frattempo il viso dal sangue, scarlatto
e ancora caldo.
E mentre una nuvola oscurava la luce limpida
della luna, mentre le barriere che avevo creato con le rune si infrangevano e i
Nascosti del Mercato si riversavano nella piazza per assistere a quell’orrendo
spettacolo, mentre accarezzavo Mattia e fissavo le chiazze vermiglie sull’asfalto,
mentre tutto sembrava zittirsi e arrestarsi in contemplazione della morte, mi
chiesi se quella battaglia, la battaglia contro Mattia Nardone e l’innocenza di
Mattia Nardone, contro la determinazione e la fermezza di Mattia Nardone, la
battaglia contro il coraggio di
Mattia Nardone, sarebbe mai finita.
Per
la vostra gioia, finalmente un capitolo con un po’ d’azione. Ringraziate Lord
of Shadows per questo (onde evitare scleri inutili, no, non è ancora uscito in
italiano, lo sto leggendo in inglese).
Ci
avviciniamo sempre di più alle Houses, alleluia alleluia, e per farvi venire un
po’ di curiosità – se non ce l’avevate già – vi lascio un’anticipazione da
quello che conto di mettere tra i primi capitoli:
Mattia
ritirò la mano. Era calato il silenzio. — Nonna — fece, crollando sulla sedia.
— Nonna.
Anna combatté per non distogliere lo
sguardo. In quello di Mattia leggeva tristezza e tradimento.
Non
tu. Non tu, nonna. Non tu.
A
parte questo, niente da dire, oltre a rinnovare l’invito a
commentare. Ah, avete visto che la formattazione è tornata
normale? Boh.
Stranamente
so già come cominciare il prossimo capitolo, perciò stay tuned e aspettatevi un
aggiornamento il più presto possibile, bye!
Federica
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Capitolo 23 *** Deteriora sequor ***
21. Deteriora sequor
Deteriora sequor
Video
meliora proboque, deteriora sequor.
Vedo il
meglio e lo approvo, ma seguo il peggio.
[Ovidio, Metamorfosi]
Mattia era
una furia.
Con l’aiuto di una Chrysta mezza assonnata
eravamo arrivati via Portale al Palazzo, portandoci dietro anche i corpi dei
lupi morti, e attendevamo da un’ora e mezza il ritorno del resto del branco,
richiamato da Mattia grazie a una delle sue tante capacità da Alpha. Chris ed
io ci eravamo sedute sul bordo della piscina nell’atrio a fissare il fondo di
mattonelle decorate, non avendo altro da fare una volta abbandonati i tentativi
di calmare Mattia; nel frattempo questi, dopo aver raccattato con l’aiuto di
Adriano maglietta, pantaloni e un paio di scarpe, misurava a passi veloci il
perimetro della parete in fondo, aprendo e chiudendo i pugni con malcelata
rabbia.
Aveva sistemato di sua mano i cadaveri di
Pietro e degli altri due mannari sul pavimento e li aveva coperti con la
pesante tenda di velluto rosso che aveva strappato da una delle finestre,
incapace di sopportare quella vista ancora per molto. Poi, non contento, li
aveva avvolti nella stoffa come agghiaccianti involtini a grandezza d’uomo e li
aveva buttati in un angolo trascinandoli sul marmo, il volto contorto in una
maschera d’ira.
Zoppicava leggermente a sinistra e piccoli
rivoli di sangue continuavano a scorrergli giù dalle ferite, sporcandogli i
vestiti, ma a parte questo sembrava stare bene, quantomeno fisicamente. Sotto
il profilo psicologico, però, assomigliava terribilmente a Jean in quella notte
al lago, quando tutto il suo controllo era esploso in un raptus di follia
distruttiva.
Mi accorsi che Chrysta non gli staccava gli
occhi di dosso, pronta a contenerlo nel caso fosse scoppiato anche lui. Io
tenevo stretto il pugnale d’argento, malgrado sapessi che difficilmente l’avrei
attaccato con un’arma mortale. Gli avrei volentieri spaccato il naso a pugni se
ce ne fosse stato bisogno, ma mai mi sarei azzardata a mettere a rischio la sua
vita, soprattutto non quando io stessa ne ero garante.
Fu quasi necessario trattenerlo per le
braccia nel momento in cui diversi licantropi già in forma umana giunsero al
Palazzo, ricoperti di terra e sangue, e come da usanza si inginocchiarono
davanti a lui mostrandogli la gola in segno di sottomissione. Mattia stava per
aprire bocca e cominciare l’ennesima paternale, che stavolta avrebbe presentato
toni parecchio più accesi del solito, ma l’entrata di un secondo gruppo di
mannari lo stroncò sul nascere.
Erano molti di più, questi, ed ebbero la
sfrontatezza di restare stoicamente in piedi, sfidando l’Alpha, senza nemmeno
degnarsi di abbassare la testa. Navigavano nel sangue, proprio e altrui, il cui
odore metallico si spandeva nella stanza; tra di loro, anche morti o moribondi,
che strisciavano all’altezza delle caviglie di chi riusciva a reggersi sulle
gambe con acuti gemiti di dolore.
Per ultima venne Sabrina, bellissima nella
sua pelle di lupa bianca chiazzata di rosso, che stringeva tra le fauci il
corpo inerme di quella che sembrava una minuta ragazza, dal fisico quasi
bambinesco, il viso spaventosamente familiare.
Melissa.
Fu allora che Mattia si sbloccò e si fiondò
verso le due donne facendosi largo a spintoni, subito seguito da Chrysta.
Entrambi avevano capito che non era Sabrina la causa delle lesioni della
giovane e che quello era il modo meno pericoloso per trasportarla fin lì; ora
la stavano aiutando a deporre delicatamente Melissa a terra, mentre io mi
piazzavo di fronte alla consistente folla per tenere un occhio sulla
situazione.
Intravidi Mattia scambiare qualche parola
con Chris per accertarsi che si prendesse cura della sua Beta, poi si raddrizzò
e urlò a pieni polmoni: — Codardi!
Tutti si girarono verso di lui, chi era a
terra e chi non lo era, chi si leccava le ferite e chi gonfiava il petto al
fine di ostentare indifferenza e sfacciataggine. Il suono della sua voce
riempiva l’aria, la rendeva carica di ansia, di frustrazione, di collera, di
delusione.
— Codardi! — gridò di nuovo. — Come osate
insorgere contro di me, tramare contro di me, cospirare contro di me!
Scandagliò con lo sguardo ogni singolo
licantropo, uno ad uno, dal pauroso che chiedeva pietà allo spudorato che
esibiva con orgoglio il suo trofeo di caccia: la testa di un suo simile.
— E contro i vostri compagni! — continuò,
indicando la decina di corpi che giaceva sul pavimento, di cui solo un ristretto
numero riusciva ancora a respirare. Dopo aver stabilizzato Melissa, Chris corse
ad occuparsi di loro.
— Chi ha avuto il fegato e la stupidità di
compiere questa strage, si faccia avanti per aver riconosciuti i propri meriti!
Avanti, ho detto! — ruggì Mattia, le pupille che mandavano fiamme. — Forza, chi
mi seguirà nel girone degli omicidi? Avanti!
Nessuno proferì parola.
Adriano mi comparve alle spalle, silenzioso
come un gatto se non fosse stato per il respiro costantemente pesante. A quanto
pareva, dormiva in tuta: era stranissimo vederlo senza i suoi soliti abiti
eleganti. — Wow. — Fischiò. — È incazzato.
Fissai Mattia aggirarsi con fierezza tra i
mannari, provocandoli per indurli a confessare. — Eh sì — concordai. — Incazzato nero.
— È un bene — aggiunse Adriano. — Almeno
così siamo sicuri che li punirà.
Mi voltai leggermente verso di lui, senza
perdere il contatto visivo con Mattia. — Che punizione suggerisci?
— Papà uccideva — mi rispose lui, atono. —
Come puoi immaginare, è alquanto improbabile che Mattia si spinga fino a quel
punto. Oltretutto, se vuoi il mio parere, la morte è pura misericordia nei
confronti di questa gente. Io punterei ad umiliarli.
Mentre noi parlavamo, Mattia stava
esaminando il sangue e i graffi sui corpi dei suoi Βeta per capire se fossero
vittime o carnefici. Nel frattempo, non perdeva occasione per rimarcare la
vigliaccheria di chi aveva attentato alla sua autorità in sua assenza e ora non
aveva il coraggio per affrontarlo apertamente. — Mi correggo: che umiliazione
suggerisci?
Adriano mi rivolse un sorrisetto malizioso.
— Lasciamo fare a Mattia. È già ingegnoso per conto suo.
Il suddetto ingegno permise a Mattia di
individuare tutti i responsabili della strage: tre di loro glielo avevano
praticamente sputato in faccia, vomitando frasi su frasi riguardo
l’inadeguatezza del nuovo Alpha e l’eredità di Carmine che doveva essere onorata;
i restanti sei, fingendo timore reverenziale, si erano invece nascosti tra la
massa.
Ora Mattia li stava strattonando senza alcun
riguardo per metterli in prima fila e poter quindi riversare direttamente su di
loro tutta la sua indignazione: — Sareste così gentili da spiegarmi cosa
diavolo vi è passato per quella testa bacata? — sbraitò, la voce potente che
rimbombava tra le pareti. — Perfetto, noto che qui le parole non servono a
niente! Cosa credete, che io non sia capace di alzare le mani? Mi ritenete un
debole? Eh? Mi ritenete un debole?!
L’uomo più sulla destra ghignò. Mi pareva di
ricordare che si chiamasse Emanuele. — Esattamente.
Mattia soffiò dalle narici, sarcastico. — Mi
fa piacere che pensiate questo di me. Mi fa davvero molto piacere.
— Vedi, Mattia, tu sei bravo a minacciare —
rincarò Emanuele. A sentirsi dare del tu, Mattia trasalì. Anche se lui non
voleva, quasi chiunque gli dava ancora del lei. — Il problema con te si pone
quando bisogna agire sul piano fisico.
Mattia indietreggiò, mentre la
consapevolezza del vero motivo di quegli attacchi lo colpiva dritto allo
stomaco.
— Bastardi — sussurrò, oltraggiato. — Bastardi. Voi sapevate che ci
sarebbero state delle serie conseguenze e io sarei stato costretto quantomeno a
riempirvi di mazzate. L’avete fatto apposta, l’avete fatto apposta...
L’altro lupo allargò quel sorriso
strafottente. — Quando vuoi, sai essere malizioso.
— Vaffanculo, Emanuele — sbottò Mattia. Non
aveva affatto l’aria di chi sta scherzando: quello era un insulto venuto dal
cuore. — Bene, allora, vediamo di mettere in chiaro le cose.
Astutamente, allargò le gambe e incrociò le
braccia sul petto in una posizione di superiorità e dominanza. Ed era ancora
convinto di non essere un buon attore.
— Constato che eravate assurdamente certi di
potermi prendere per il culo, con questo vostro ridicolo tentativo di
obbligarmi a vendicare una mossa che non poteva restare invendicata e farmi
apparire agli occhi di tutti come il fesso di turno che compie azioni violente
esclusivamente per cause di forza maggiore. — Sul suo volto si leggeva il
disgusto. — Ebbene, grandissimi stronzi, mi avete fregato, complimenti. Adesso,
qualsiasi cosa faccia sarà interpretata come un vincolo, un’imposizione, un
gesto che faccio contro la mia volontà, soltanto perché è ciò che vi aspettate
che io faccia. Per cui, dato che ormai mi avete incastrato, vediamo perlomeno
di renderlo memorabile.
Il perfido sorriso da orecchio a orecchio
che sfoggiò Mattia fece ridurre quello di Emanuele a una miserabile,
insignificante piega della bocca.
— Sabrina — chiamò, e la donna gli fu subito
al fianco. — Nei sotterranei.
Percepii Adriano esultare tra sé e sé. — Ti
accompagno, mamma. — Riservò a Mattia un’occhiata soddisfatta. — Non finirà
qui, spero.
— Ovviamente no — ribatté Mattia, con un
luccichio pericoloso nelle pupille circondate di giallo. — Ma mi serve del
tempo per riflettere e devo recuperare la lucidità. Preferisco prendere questa
decisione a sangue freddo, piuttosto che cavalcare l’onda del momento.
Se non avessi saputo che a posteriori si
sarebbe fatto milioni di complessi, quella sera Mattia mi avrebbe quasi fatto
paura.
Sabrina annuì, zelante. — Resteremo lì di
guardia — gli assicurò, e Mattia la ringraziò con un cenno imperioso del capo.
Lei e il figlio scortarono i traditori nelle
celle al seminterrato. Non appena l’ultimo licantropo fu sparito dietro
l’angolo, Mattia abbandonò la maschera dell’Alpha inflessibile e sfrecciò fino
all’altro lato della stanza, dove Chrysta stava ancora curando i molti feriti.
Addossati al battiscopa giacevano quattro cadaveri. Per quella sera, la conta
dei morti era già a sette.
Mi accertai che il tragitto verso le
prigioni stesse andando per il meglio, poi anch’io mi accostai a Mattia e Chris
per poter aiutare in qualche modo. Per fortuna, Chris aveva stabilizzato la
maggior parte dei mannari e ora si stava dedicando a un tizio sulla trentina
con una spalla lussata, mentre Mattia dispensava parole di conforto ai più
disperati.
Mi accovacciai accanto a Melissa, distesa
sul pavimento con la giacca arrotolata di Chrysta che le teneva sollevati il
collo e il braccio sinistro. Il suo respiro era leggermente affannoso e sangue
e terra le imbrattavano il corpo snello, ma nel complesso sembrava non correre
rischi.
— Ehi — la salutai. — Fa male?
— Sì — mi rispose lei, in un soffio appena
udibile. A parlare le si spaccò un labbro e dovette leccarsi via il sangue. —
Meno di prima, però.
— Non sforzarti, Melissa — la rimproverò
Chrysta, multitasking come sempre. — Ti ci vorrà parecchio per guarire; non
rallentare il processo.
La lupa respirò a fondo, premurandosi di non
riempire troppo i polmoni per evitare di provare altro dolore. — Si dà il caso
che io non riesca a guarire —
sussurrò, chiaramente tentando di non farsi sentire. Quando si accorse che sia
io che Mattia l’avevamo sentita eccome, si produsse in un veloce sospiro di
stizza.
Mattia si congedò dalla donna che stava
consolando e venne a sedersi al nostro fianco, appoggiandosi al muro. Scrutò la
piccola lupa con attenzione clinica. — Come mai? Fa’ vedere.
— La Stregona ha già fatto abbastanza —
replicò lei, piccata. — E poi non potresti nemmeno toccarmi, Mattia: c’è dell’aconito nella ferita.
— Aconito? — Mattia ignorò il tono sdegnoso
di Melissa e si fece cupo. — Com’è possibile?
— Vampiri — lo informò Chrysta, a cui
evidentemente piaceva ficcare il naso nelle conversazioni altrui. — C’erano i
segni dei loro canini su alcuni dei tuoi Βeta; ho ragione di credere che
avessero un qualche tipo di estratto della pianta sui denti. Dopotutto, a
quanto pare l’aconito è la loro specialità.
Mattia si nascose la testa fra le mani. —
Cazzo — sibilò. — Buon Dio...
— Sì, come no — proferì Melissa, con un verso
dal quale traspariva tutto il suo disprezzo. — Dio è proprio buono.
Mattia la zittì immediatamente: — Taci. Non
sopporto di essere attaccato pure su quest’altro fronte. Se non vuoi avere
fede, non averla punto e basta. Sono stufo che mi si ripeta che devo smettere di essere cattolico solo perché
ho ucciso un uomo, stufo marcio. Anzi, notizia flash: ne ho uccisi altri tre.
Dovrebbe rendermi meno cattolico, questo? Al contrario: penso che ciò debba
darmi un motivo in più per pregare il mio Dio, ora che sono un peccatore
peggiore. — Strinse la clavicola di Melissa, autoritario. — Fa’ vedere.
La mannara schioccò la lingua sul palato. —
Non so se la tua fede così cieca e assoluta sia sinonimo di valore o di
stupidità — rincarò. — Sto bene, Mattia. E oltretutto non puoi toccarmi.
Chrysta si voltò per un attimo verso di lei,
la bocca ridotta a una linea dura e perentoria. — Ti ho ripulita dall’aconito,
Melissa. Lascialo fare. Il tuo Alpha ha conoscenze mediche, e potrebbe vincere
dove io ho perso.
— Ma...
— Forse non hai afferrato il senso delle mie
parole, Melissa. — Mattia rafforzò la stretta, quasi costringendo la ragazza a
sollevare il busto per poterla controllare. — Non è una richiesta, è un ordine.
Fa’ vedere.
Tra gemiti, sbuffi e imprecazioni sottovoce,
Melissa si tirò su a sedere e si piegò in avanti poggiandosi sulle ginocchia.
Era ancora nuda, e mi resi conto che quell’atteggiamento scontroso proveniva
dal suo imbarazzante disagio nello stare al cospetto del giovane e attraente
Alpha. Non che, comunque, a lui ciò importasse; tutto il suo interesse in quel
momento era rivolto alla grossa lacerazione sulla schiena di Melissa: partiva
dal bicipite sinistro, attraversava la scapola e terminava sulla colonna
all’altezza delle ultime vertebre. Chrysta l’aveva disinfettata e cauterizzata
ma, un po’ per la fretta e un po’ per la stanchezza, non aveva potuto
richiuderla.
Mattia, dopo essere rimasto ad osservarla
imbambolato per cinque secondi esatti, si rianimò e prese ad impartire ordini:
— Qualcuno mi porti ago, filo da sutura e un antidolorifico di quelli potenti.
Se non c’è l’ago curvo ne andrà bene uno lungo e sottile, eventualmente
provvederò a curvarlo io; se non c’è il filo... pace, mi arrangio, tanto serve
solo ad agevolare la cicatrizzazione. Chiaro?
Un uomo balzò in piedi. — Cristallino. —
Rivolse un cenno di assenso a Mattia. — Abbiamo una cassetta di pronto soccorso
al primo piano, l’ago e il filo dovrebbero esserci, ma l’antidolorifico...
— Morfina, Alberto — proclamò Mattia. — Su,
non dirmi che tra tutta quella roba che spacciamo non c’è una benedetta fiala
di morfina.
— Ovvio che c’è, ma non so dove la teniamo.
Scattai su come una molla. — Lo so io.
Intimai ad Alberto di proseguire per la sua
strada, quindi sfrecciai verso lo studio segreto, sbloccai il passaggio per lo
stanzino nascosto dietro la libreria e una volta lì mi trattenni un paio di
minuti per cercare la morfina tra i vari altri analgesici. La individuai dietro
ad un’ingente partita di eroina, e se su entrambe le confezioni non ci fosse
stato scritto il nome – con un pennarello cancellabile, naturalmente, per
impedire l’identificazione – avrei potuto scambiarle con facilità. Be’, l’eroina
avrebbe ugualmente fatto effetto, ma mi sarei beccata una bella predica da
Mattia.
Tornai nell’atrio con una boccetta in una
mano e una siringa impacchettata nell’altra. Mattia, con Alberto che
supervisionava le sue mosse, stava infilando un filo dall’aspetto inquietante
nella cruna di un ago a mezzaluna. Melissa tremava.
— Okay, signorina. — Mattia mormorò un
ringraziamento nella mia direzione e si dedicò a riempire la siringa con
perizia. — Ti spaventerò ulteriormente, però devo dirtelo: so come si fa, ma
solo in teoria.
Melissa roteò gli occhi al cielo.
Ciononostante, la sua ansia era palpabile. — Oh, Mattia, fammi il piacere,
quella morfina è la migliore in circolazione.
Mattia ridacchiò malvolentieri. — Qua siete
tutti drogati in un modo o nell’altro, eh?
— La tentazione è grande.
— Quindi non devo dirti che la morfina è tremenda,
giusto? — Mattia calcolò attentamente l’angolo di iniezione e riuscì a non far
neppure sussultare Melissa. Perlomeno, Melissa non sussultò per la puntura. — ...
Ops. Forse dovevo dirtelo, sì.
La ragazza trattenne il fiato e contrasse
ogni singolo muscolo, diventando più rigida di una statua di marmo. — Vaffanculo,
Mattia!
— Non è colpa mia — ribatté lui serafico. —
Dai, ora passa tutto.
Nel giro di poco più di un minuto, Melissa
si rilassò visibilmente. — Lori, per favore, mantienila — mi avvertì Mattia. —
Non vorrei che perdesse il controllo sul corpo.
— Ce la faccio — provò a protestare lei, ma
le era difficile anche solo articolare le sillabe. — No, non ce la faccio.
Mi inginocchiai e la tenni dritta per le
braccia, mentre Mattia – dopo essersi fatto un rapido segno della croce per
scaramanzia – iniziava a ricucire la pelle, la lingua tra i denti per la
concentrazione.
— Dove hai imparato? — gli chiesi, notando
che non sbagliava un colpo. — Non sei un po’ troppo piccolo per essere già
capace di certe cose?
Lui distolse brevemente lo sguardo dal suo
lavoro e mi sorrise. — Il mio rapporto con l’illegalità risale a ben prima di
questa storia — raccontò, un luccichio divertito nelle pupille. — A parte il
fatto che sono volontario in pronto soccorso da ormai un anno, ho scroccato
alcuni corsi alla facoltà di infermieristica su all’ospedale – sì, c’è una sede
distaccata della Sapienza da decenni, qui a Gaeta. Nonna è un’ex infermiera
professionista e mi ha permesso di imbucarmi a molte lezioni; ho pure ricevuto
tre o quattro attestati che avrebbero fatto salire esponenzialmente il numero
dei miei crediti se fossi andato all’università. Purtroppo, questa prospettiva
mi pare un po’ improbabile, alla luce dei... recenti avvenimenti.
— Purtroppo, sì. — Mi morsi il labbro. —
Ascolta, Mattia, la Basiliade offre la possibilità di seguire un percorso
formativo anche in loco, in aggiunta alle varie filiali in tutto il mondo.
Potresti fare domanda per studiare lì, e per la formazione che hai ti
consentirebbero persino di cominciare ad esercitare...
Il suo sorriso si allargò, e a quel gesto
una bolla di gioia scoppiò nel mio petto. — Ho fatto domanda lunedì, Lori. Non
appena saprò il voto finale della maturità dovrò notificarlo alla commissione
per l’istruzione, ma hanno già comunicato che sono il benvenuto.
— Non mente — confermò Alberto, che stava
man mano svolgendo il filo di sutura per Mattia. — Io stesso gli ho consegnato
la loro lettera di risposta. Vedremo se sarà così felice quando capirà con
quale ambiente avrà a che fare.
— È una sfida? — Mattia gli indirizzò un
ghigno furbo.
Alberto fece spallucce, ridendo. — Se vuoi
intenderla come tale...
— La intendo come tale. — Mattia annodò il
filo, lo spezzò e si alzò scrollandosi la polvere dai pantaloni. — Alberto,
fammi la cortesia di accompagnare Melissa in camera — declamò in tono
categorico. — Voialtri, salite nelle vostre stanze e riposatevi. Per il resto
del plenilunio, se riesco a procurarmi la pozione, rimarremo tutti umani.
Ciò detto, si ritirò nello studio e si
concesse di crollare.
Ci fu una
mezz’ora orribile durante la quale Mattia si comportò come una donna in piena
fase mestruale, tra sbalzi d’umore e ira incontrollabile, poi l’arrivo di
Adriano mise fine al teatrino e riportò il lupo al suo ruolo di Alpha spietato.
— Giù sta succedendo un casino della
miseria, porco mio padre! — concluse l’hacker, nervoso. — Devi sbrigarti,
Mattia, oppure romperanno le sbarre e la serata finirà in un bagno di sangue.
Mattia si premette le dita sulla fronte. Era
stanco, stanchissimo. Non c’era verso che tornasse a casa sua: una volta che
quell’incubo fosse terminato, avrei avvertito i suoi e me lo sarei trascinato a
Villa Orlando senza farmi raddolcire dalle sue proteste. Doveva dormire,
profondamente e a lungo, e doveva recuperare le forze per l’esame orale. Aveva
un bisogno disperato di assoluta tranquillità.
— Io non li uccido, su questo non si discute
— stabilì, e fu sorpreso nel constatare che eravamo tutti e tre d’accordo con
lui, Adriano in particolare. — Adesso il problema è decidere cosa fare di loro.
— Ti hanno propinato un bel servizietto,
bloccandoti così, con le spalle al muro — commentò Chris, palesemente esausta
anche lei.
— Se volete la mia opinione, non credo
l’abbiano fatto di proposito — si inserì Adriano, una mano sotto al mento in
una posa riflessiva. — Sono semplicemente una massa di animali ignoranti, a
scanso di pochi soggetti. Li avranno aizzati Emanuele e Pietro, e forse Stella
— spiegò. — Gli altri non hanno le abilità e l’intelligenza necessarie per tali
sottigliezze.
— Qualunque sia il caso — lo interruppe
Mattia, — devo emanare un verdetto definitivo e ne devo uscire degnamente e col
culo parato. È inaccettabile che una cosa del genere accada di nuovo, inaccettabile. A questo punto, suppongo
sia vero che è meglio essere temuti che amati.
Mi accigliai. — Meglio essere temuti che amati... è Machiavelli?
— No, la Regina Rossa di Alice in Wonderland — mi punzecchiò
Adriano. — Certo che è Machiavelli.
Mattia gli allungò una pacca sulla spalla. —
Sono piuttosto sicuro che lo dica anche la Regina Rossa.
— Ma è sempre una citazione di Machiavelli.
— Ragazzi — li redarguì Chrysta. — Non c’è
tempo per le sciocchezze.
— Sì, non c’è... tempo. — Il volto di Mattia
si illuminò all’improvviso. — Chrysta...
— Sì?
— Non è che sarebbe possibile una...
inversione di tempi?
Chris si appollaiò sulla scrivania,
interessata. — Chiarisci il concetto.
Mattia
inalò una violenta boccata di ossigeno. — Un attimo, riordino le idee. — Si
grattò il naso, meditativo. — Lupi di giorno e umani di notte, invece del
contrario? È peggio.
— Mmh. — Chrysta fece una smorfia dubbiosa.
— È peggio, ma anche più pericoloso.
Mi affrettai a rincuorare Mattia con una
leggera carezza sulla guancia, accorgendomi che si stava demoralizzando. — Su,
non perdere le speranze, la tua proposta non era poi così male.
Adriano concordò: — Non era affatto male.
— Dovresti estremizzarla, Mattia — suggerì
Chrysta. Avrei scommesso oro che avesse già elaborato una soluzione al problema,
ma voleva che ci arrivasse anche lui. — Ingigantiscila.
Mattia ragionò per diversi minuti,
massaggiandosi le tempie. In religioso silenzio mi unii a lui, e come me pure
Adriano, ponderando ogni plausibile espediente.
Malgrado la spossatezza, Mattia ci arrivò
prima di noi. — Okay, questa è stronza — fece infine. — Davvero, davvero stronza.
Adriano sogghignò. — Habla.
Chrysta lo osservò compiaciuta mentre lui ci
rendeva partecipi del suo piano: — Ripropongo la mia tesi precedente, ma in
versione riveduta e corretta — esordì, leccandosi le labbra con aria soddisfatta.
— Inversione di tempi 2.0. Umani per tre giorni, lupi per i
rimanenti.
Adriano batté le mani esultando a gran voce.
Io mi limitai a un: — Oh wow. Oh wow.
— Screanzato — lo schernì Adriano, ridendo.
— Grandissimo screanzato.
Ebbene sì, screanzato lo era eccome. Ma non
sapevo se accogliere questa rivelazione con gioia o preoccupazione. Però,
dopotutto, guardare la situazione dall’uno o dall’altro lato non aveva poi
molto significato, in quanto stava comunque a indicare una e una sola cosa:
Mattia aveva finalmente tirato fuori le palle.
— Si può, Chrysta? — Lo domandai con un
pizzico di esitazione, rendendomi conto soltanto in quel momento che quella
trovata non mi piaceva fino in fondo.
Quanto era giusto lasciarlo fare, non protestare
contro una simile scelta? A una Shadowhunter sarebbe dovuto stare a cuore il
bene del Mondo Invisibile, non la creazione di un nuovo mostro sul modello del
precedente. Non era una delle priorità di un Nephilim porre dei limiti a
determinati tipi di pensiero, evitare che il fiume strabordasse dagli argini,
far sì che i Nascosti seguissero una strada precisa?
Avrei contravvenuto al mio dovere se avessi
acconsentito a un’opera di tale portata?
C’era ben poco da fare, comunque, se
l’ostinazione di Mattia era ai soliti livelli. E, sfortunatamente per me, lo
era.
Chrysta sostenne che si poteva, manifestando nel contempo tutto il suo
assenso, ma negò di essere in grado di farlo subito: la serata era stata
sfiancante anche e soprattutto per lei, e doveva riacquistare i pieni poteri.
Mattia sembrò voler affrettare le cose. —
Chris, la velocità è fondamentale.
— Sì, ma la pazienza è tra le tue virtù —
obiettai. — Così facendo instillerai ancora più paura nei tuoi Βeta, e avrai
una stretta molto più salda sul metaforico manico del coltello. Ti conviene,
Mattia.
Lui scosse il capo. — No, non mi conviene —
contestò. — Loro penserebbero che non farò nulla, e questo è proprio ciò che
vogliono.
— Sull’altra faccia della medaglia — valutò Adriano,
— in questo modo li fregheresti alla grande, Mattia. Riflettici: non si
aspetterebbero certo una ritorsione, ma solamente perché sarebbero portati a
credere di essere riusciti ad avvelenare i pozzi. Quando scopriranno che bella
sorpresina hai in serbo per loro...
— Chiunque pagherebbe oro per essere al
posto mio — comprese Mattia, che ormai aveva acconsentito a rimandare l’impresa
all’indomani. Si riavviò i capelli sbadigliando. — Va bene, ragazzi,
infiliamoci sotto le coperte e dormiamoci su. Vi voglio qui prima di
mezzogiorno.
Su quella nota ci congedò, caldo come il
ghiaccio, e tutti, quella notte, andammo a dormire con un enorme macigno sul
petto.
E io che pensavo
che la fine di StF sarebbe stata una palla. Vabbe’.
Innanzitutto ringrazio
The Originals e la “abilità di mettere insieme i puntini” (cit.) di Francesca
Paduano per la geniale punizione di quei cattivoni dei Beta di Mattia. Non
ringrazio, invece, il caro OneDrive, che mi ha fatto PERDERE MEZZO CAPITOLO
perché evidentemente pensa che la Federica del computer e la Federica del
telefono siano due utenti diversi e dice che è “impossibile salvare le
modifiche gne gne gne”. A causa sua ho pure smarrito nell’etere un bel po’ di
parole su Trish e Adriano. E che cazzo.
A parte questo,
starò per una settimana circa in giro per la Toscana – ovviamente mi deve venire il ciclo – e ciò
significa una settimana in meno per scrivere, anche se non è detta l’ultima
parola dato che ho più o meno imparato a utilizzare Word da telefono. Comunque
ci vorrà un po’ più di tempo del canone di quindici giorni con cui ho
pubblicato ultimamente.
E niente, mi fermo
qui.
Alla prossima,
Federica
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Capitolo 24 *** Terrore ai malfattori ***
22. Terrore ai malfattori
Terrore ai malfattori
15È
una gioia per il giusto che sia fatta giustizia, mentre è terrore per i
malfattori.
[Proverbi 21, 15]
— Questa non
è una tazza di cappuccino. Questa è la madre
di tutte le tazze di cappuccino.
Sedevo di fronte a Mattia a uno dei tavolini
esterni del Bar Bazzanti, con le spalle all’antico colonnato della Gran
Guardia. Una cameriera ci aveva portato le nostre ordinazioni – avevamo scelto
entrambi la stessa colazione – e stavo fissando quella sorta di ciotola da
insalata che sia Mattia sia lo staff del bar insistevano a chiamare tazza con un tale ostinazione che per
poco non incrociai gli occhi.
— No, io non ce la faccio; tutto questo
latte a prima mattina no.
Mattia si dedicò con falsa tranquillità ad
aprire una bustina di zucchero di canna – come se non si rendesse conto che
potevo quasi toccare la sua tensione.
— Non dire che non ti avevo avvertita — mi
rimproverò, con tutta l’intenzione di risultare scherzoso, ma l’ansia che
sprizzava da ogni singolo poro sulla sua pelle rovinò l’effetto. — Male che
vada, salti il pranzo e arrivederci a stasera.
— Altro che pranzo, qua mi tocca saltare anche
la cena — sussurrai, seria fino al midollo.
— E la merenda. Non dimenticare la merenda. Non
sopravvivrei senza merenda. — Mattia mescolò distrattamente lo zucchero nel suo
cappuccino con cacao, mentre degnava appena di un’occhiata i cornetti alla
Nutella che ci avrebbero fornito le restanti calorie per ammazzarci in
definitiva. — La merenda è santa e sacrosanta.
— Non ha senso aggiungere sacrosanta se è già santa, basterebbe un
sacra.
Mattia minimizzò la questione con un gesto
scocciato della mano. Negli ultimi tempi era diventato bravo a fingersi
distaccato e disinteressato. — Considerala una licenza poetica.
Prese un sorso di cappuccino; sul labbro
superiore gli restò un baffo di schiuma che mi fece venire voglia di baciarlo
al fine di rimuovere quel ridicolo segno. Quando mi protesi in avanti per
farlo, lui si allontanò.
Mattia era restio ad abbandonarsi alle
effusioni in pubblico: me n’ero accorta già da tempo. A chiunque fosse capitato
per di lì, il pensiero che potessimo essere fidanzati non sarebbe neanche
passato per l’anticamera del cervello. Certo, la vista di due ragazzi che
facevano colazione da soli con tanto di mazzetto di fiori in mezzo al tavolo
avrebbe dato da riflettere, tuttavia dubitavo che emanassimo la tipica aria da
nuova coppietta felice e spensierata. In particolar modo perché felici e
spensierati non lo eravamo affatto.
Ovvio, con lui stavo bene, benissimo anzi, e
speravo che per lui fosse lo stesso, ma non avevamo esattamente avuto il tempo
necessario per poter legare più a fondo e approfondire la nostra relazione, a
causa di quanto accaduto negli ultimi giorni. Il mio affetto per lui andava
immensamente oltre una semplice amicizia, eppure dire che lo amavo non mi
sembrava – non ancora, se Raziel fosse stato caritatevole – la verità.
Mi ero innamorata di lui? Sì.
Lo amavo? Al momento, no.
Non sapevo se la mancanza di contatto fisico
tra di noi fosse proprio il risultato di tale insicurezza nei miei sentimenti;
magari Mattia l’aveva percepita ed era appunto da lì che derivava questo suo
strano comportamento freddo. Non era proprio il periodo migliore per farsi un
esame di coscienza a quei livelli, né per me né per lui, e c’erano questioni
ben più importanti che richiedevano la nostra attenzione: questo lo comprendevo
perfettamente. Eppure il giorno in cui avrei lasciato l’Italia per tornare a
New York si avvicinava sempre di più, e ancora non avevo idea di cosa avrebbe
significato quella partenza.
Sarebbe stata un addio, o un arrivederci?
Avrei portato con me qualcosa di diverso dal
solo ricordo di una semplice vacanza come tante altre?
Era già assodato che, in un modo o
nell’altro e prima o poi, avrei rivisto Mattia a Idris: mi aveva promesso che
avrebbe svelato al mondo i segreti del suo branco, e inoltre molto
probabilmente sarebbe stato chiamato a firmare gli Accordi in veste di
rappresentante dei mannari. Per quel tempo anch’io avrei avuto il mio da fare,
e con un po’ di fortuna avrei ottenuto che Jean scontasse la pena che meritava
– tutto ciò, naturalmente, posto che fossi riuscita ad aprire bocca davanti al
Consiglio: questo era quanto io, in cambio, avevo promesso a Mattia.
Per cui, sì, ci saremmo rincontrati. Lo
richiedevano le circostanze.
Il problema adesso era capire in quali panni
il destino ci avrebbe messo inevitabilmente l’uno di fronte all’altra.
Lo osservai di sottecchi. Non sembrava
essere molto intenzionato a riempirsi lo stomaco, e centellinava il cappuccino
nemmeno fosse del costoso bourbon da gustarsi con la maggiore lentezza
possibile. Aveva le palpebre pesanti per il poco sonno, e la stanchezza
trasudava da ogni suo movimento, persino il più piccolo.
Eravamo arrivati a Villa Orlando verso le
quattro, e avevo immediatamente ceduto la mia camera a Mattia per permettergli
di riposarsi come si deve. Ma anche dal piano di sotto, con tanto di Chrysta
che smuoveva pentole e padelle per preparare una dose da esercito di pozione
antilupo e nel frattempo studiava ad alta voce come imporre la maledizione sui
licantropi traditori, ero in grado di sentire che Mattia non la smetteva di
girarsi e rigirarsi nel letto.
Avvertiti i genitori di Mattia con un
messaggio dal suo cellulare, mi ero appisolata sul divano alle cinque passate,
dopo aver spiegato ai gemelli – che si erano svegliati per il troppo rumore – cos’era
successo in quella notte infernale e aver aiutato Chrysta al massimo delle mie
possibilità. A conti fatti, ma dopotutto me lo aspettavo, Mattia doveva aver
dormito addirittura meno di me.
Non che potessi biasimarlo: chiunque non
avrebbe chiuso occhio col peso di una decisione del genere sul petto. Se pure
Chris ed io, le più estranee alla vicenda, ne eravamo rimaste influenzate, non
potevo immaginare come ne fosse uscito lui.
Ci eravamo alzati tutti alle otto, di
malavoglia, e avevamo preso strade differenti: Chrysta era sparita tra gli
alberi di Monte Orlando per poter racimolare la concentrazione necessaria per
l’incantesimo, Logan e Trish erano corsi al covo dei vampiri allo scopo di
scoprire quale fosse la loro implicazione negli attacchi della sera precedente
e io avevo trascinato Mattia fuori di casa per fare colazione.
L’appuntamento era fissato per mezzogiorno
al Palazzo, ed erano le nove. Avevo tre ore a disposizione per assicurarmi che
Mattia non desse fuori di testa come già aveva minacciato di fare.
Spinsi leggermente verso di lui il piatto
con i cornetti. — Si faranno freddi se non li mangiamo entro breve.
Mattia mise lentamente giù la tazza vuota.
Guardandomi con sfacciataggine, staccò con indice e pollice la punta di uno dei
cornetti e se la portò alla bocca. — Già freddi. E poi non ho fame.
— Va bene, non ti costringerò — mi arresi,
allungando una mano per poter stringere la sua. Stavolta, lui non si ritrasse.
— Però, Mattia, smettila di rimuginare. Startene qui a pensare e ripensare non
ti sarà di alcun aiuto.
Mattia buttò fuori l’aria dalle narici in
quella che voleva essere l’emulazione di una risatina sarcastica. — Purtroppo
non riesco a fare altro, Lorianne.
Con un sospiro imitai il suo gesto di poco
prima e iniziai a smantellare il cornetto, in silenzio. L’operazione si fece
complicata quando cominciò ad apparire la Nutella, dunque dovetti per forza di
cose affondare i denti nella soffice pasta: non l’avevo fatto sin da subito per
evitare di sporcarmi tutto il mento di cioccolata e zucchero a velo e
ricoprirmi completamente di briciole. Fallii miseramente nell’intento di
concludere una colazione con dignità, cosa che divertì Mattia al massimo
grado.
— Sì sì, ridi pure — sbottai, mentre lui sghignazzava
senza ritegno. Se non altro sembrava che così un po’ del suo nervosismo fosse
volato via, lasciando immediatamente spazio all’appetito: in tempi non troppo
lunghi, anche il secondo cornetto sparì oltre le labbra di Mattia. Avevo notato
una certa riluttanza in lui, ed ero più che sicura che a pranzo non l’avrei
affatto spuntata col mio tentativo di farlo mangiare, ma almeno con quella
colazione sullo stomaco avrebbe avuto l’energia e la lucidità necessarie per
ciò che lo attendeva al Palazzo. E di energia e lucidità gliene servivano
parecchie.
Non mi permise di pagare – cavaliere fino al
midollo – e mi schiaffeggiò il polso quando provai a restituirgli quantomeno la
mia parte del conto.
— Non voglio fare la mantenuta, e dai! —
protestai, ma lui fece orecchie da mercante e mi trascinò fuori dal bar, in
direzione del lungomare. Mattia sceglieva sempre la strada del mare se aveva
bisogno di calmarsi.
Quel giorno faceva talmente caldo che un
paio di persone passeggiavano addirittura con gli ombrelli per ripararsi dal
sole, eppure, a detta di Mattia, non erano temperature eccessivamente alte per
quel periodo: i tizi con gli ombrelli dovevano essere turisti. In effetti
bastava solamente farci l’abitudine e camminare il più possibile vicino al mare
per godersi la fresca brezza profumata di salsedine, e l’afa si sarebbe
gradualmente trasformata in un calore tollerabile e a tratti persino piacevole.
Erano ormai due mesi che ero lì in Italia e
dai locali avevo imparato alcuni trucchi per sopravvivere all’estate: occhiali
dalle lenti scure e adatte a filtrare i raggi UV, molta acqua, crema solare per
le pelli più chiare, niente gioielli, tessuti o accessori che avrebbero potuto
provocare irritazione, abiti freschi e traspiranti. Avevo scoperto una virtuosa
passione per i vestiti in lino e fatto guadagnare una fortuna ai tanti negozi e
bottegucce che li vendevano, sia a Gaeta che a Formia e dintorni; per tenere in
ordine i capelli, più corti di come ero solita portarli, avevo fatto razzia di
forcine, cerchietti ed elastici tra le bancarelle della festa di sant’Erasmo. Calcolai
di aver riempito, con tutta quella roba, più o meno una valigia e un beauty
case: fortuna che Chrysta aveva allargato magicamente tutti i nostri bagagli,
altrimenti ognuno di noi avrebbe dovuto comprare una o due nuove borse affinché
potessero contenere i nostri acquisti italiani.
Quella valutazione mi fece riaffiorare alla
mente il dubbio che da svariati giorni era protagonista dei miei pensieri. Non
osavo immaginare come sarebbero state le cose, una volta preso il volo per New
York. Il solo pensiero mi faceva salire un doloroso groppo in gola.
E ancora mi chiedevo perché non volessi
andarmene: perché non volevo lasciare Mattia, oppure perché non volevo lasciare
Mattia da solo?
Da cosa era dettata la mia paura? Mi rifiutavo
di abbandonare come un cane quel ragazzo dal cuore d’oro, o soltanto di
abbandonarlo al suo destino?
Chi era lui per me?
Chi era davvero
lui per me?
Con un sussulto realizzai che non avrei mai
avuto la risposta a quelle domande. Non l’avrei mai avuta, se non avessi fatto
qualcosa per incentivare il naturale corso degli eventi.
Grazie alla mia esperienza di
Chiaroveggente, ero consapevole che il futuro era invariabilmente fermo e
inevitabile. Nessuno aveva una gomma per poterlo cancellare e una matita per
poterlo riscrivere: io stessa ero unicamente in possesso degli elementi che mi
consentivano di conoscerlo in anticipo, null’altro. Mai avuto voce in capitolo
nella progettazione del grande disegno dell’universo.
Dal mio punto di vista privilegiato, però,
ero in grado di individuare ogni singolo filo dell’enorme matassa delle
circostanze e sapere quali nodi era possibile spezzare o districare, e quali
invece sarebbero dovuti rimanere ingarbugliati. Con un po’ di sforzo avrei
potuto imporre la mia volontà. Avrei potuto – sì, avrei potuto cambiare il
futuro.
Come ho detto, ero in grado di individuare i
fili e sapere della condizione dei nodi. Punto e a capo.
Il motivo principale per cui litigavo così
spesso con Jean negli ultimi mesi era la sua assoluta incapacità di comprendere
che essere informato degli avvenimenti prossimi non gli sarebbe servito a un
bel niente, perché comunque non v’erano i mezzi per modificarli a suo
piacimento. E l’inesistenza – o forse la mancanza – di tali mezzi era ciò che
faceva infuriare anche me: essere capace esclusivamente di prevedere il futuro
mi faceva sentire imperfetta, incompleta; ridicolizzava le mie capacità fin
quasi al punto di rendermi non migliore di quelle fate che, per finta o
veramente, avevano qualche dote di divinazione. Che senso aveva essere
rispettata e riconosciuta nell’intero Mondo Invisibile se poi in realtà non ero
nessuno?
Mattia, Mattia sì che meritava di essere
rispettato e riconosciuto nell’intero Mondo Invisibile. Dannazione, persino
Jean lo meritava. Non io.
Con la coda dell’occhio fissai il profilo
rigido di Mattia, stagliato contro lo sfondo azzurro del cielo limpido. Chi mai
avrebbe potuto pensare che quel ragazzo non così dissimile dai suoi coetanei
fosse un potente boss della camorra e per di più un lupo mannaro? Neanch’io,
Shadowhunter dalla nascita, ero stata in grado di fare due più due.
Eppure un qualcosa, in lui, era scattato: se
non dal primo momento in cui Mattia era tornato al Palazzo dopo essere scampato
alla morte per un soffio, il meccanismo si era azionato a seguito della notte
appena trascorsa. Ed era un qualcosa di positivo o di negativo? Non ne avevo la
benché minima idea.
Chrysta mi aveva confidato che la linea
d’azione di Mattia l’aveva scioccata. Lei non aveva neppure lontanamente
immaginato un’eventualità del genere: la sua ipotesi, se avesse avuto l’opportunità
di esprimerla, sarebbe stata rendere i traditori lupi a vita, certo non
sovvertire il normale ordine della licantropia sottraendo i mannari
all’influenza della luna. Avrebbe voluto concludere la questione lì e subito;
un incantesimo di quel tipo – anzi, una maledizione
– avrebbe richiesto ore e ore di preparazione. Non era nemmeno convinta di
esserne all’altezza. Mattia l’aveva messa seriamente alla prova, cosa che a lei
nella maggioranza dei casi non andava giù.
Ma, se c’era qualcuno che poteva mettere
seriamente alla prova mia cugina, quello era proprio Mattia Nardone.
Mattia
aveva convocato l’intero branco: era deprimente vederlo dimezzato, ridotto a
solo una quindicina di membri effettivi, più i ribelli che stavano per essere
cacciati via a calci. L’atrio del Palazzo sembrava stranamente vuoto.
I nove poveracci sui quali si sarebbe
scagliata la furia di Mattia erano allineati sul bordo corto della piscina, di
fronte al muro in cui era nascosto lo studio di Mallardo. Adriano e Sabrina –
lei con indosso un paio di spessi guanti in cuoio – li avevano ammanettati con
l’argento. Ciononostante, nessuno pareva spaventato o ansioso: mano sul fuoco,
non uno di loro si aspettava che Mattia si sarebbe vendicato così duramente.
Lui stazionava a gambe divaricate su una
pedana evocata da Chrysta – come suo padre, Chris è piuttosto attenta a creare
una determinata atmosfera. Si mordeva la lingua e non faceva nulla per celarlo
a tutti noi, tantomeno tentava di mostrarsi fiero e altezzoso: evidentemente,
l’effetto era voluto.
Quando parlò, però, la sua voce riecheggiò
alta e stentorea: — Codardi.
Quell’unico vocabolo rimbombò come il suono
di uno sparo. Le sue pupille mandavano fiamme di pura e primitiva rabbia
ferina.
— Pusillanimi. Vigliacchi. — Mattia rincarò
la dose, non contento: — Grandissimi idioti. Ringraziate il cielo se non vi
uccido personalmente – peraltro, mi stancherei pure a farlo, ringraziate anche
la mia pigrizia. Vi auguro tutto il male del mondo, cari compagni. E che il
Signore abbia pietà di voi.
Scese dal podio con un’ultima occhiataccia
ai suoi ex Beta e andò a posizionarsi accanto a me e al resto del suo branco,
divisosi tra le scale e il ballatoio. — Chris, il palco è tuo.
Chrysta avanzò con un’espressione
terrificante stampata in faccia. Per l’occasione aveva rispolverato il suo
migliore abito rituale, commissionato alla sartoria Firestorm dal padre per il
suo diciottesimo compleanno: una lunga veste di un rosso talmente scuro da
apparire del colore del sangue, con ricami giallo-arancioni lungo l’orlo delle
maniche larghe e del cappuccio, chiusa sul davanti con quattro fibbie in
quattro diversi materiali – ferro, oro, argento, elettro. Si era legata i
capelli con un nastrino dorato per scoprire le orecchie da pipistrello. Tutto
in lei urlava temetemi.
— Luna di giugno — cominciò, indicando il
soffitto. — Perfetta per reinventare la vita, non è vero?
Sorrise. Quel sorriso fintamente
rassicurante contribuì ad aumentare l’aura terribile che già emanava. — Tra
meno di dodici ore la Luna sarà al suo apice, ma il plenilunio è stato forte
questo mese, giusto? Domani la Luna vi terrà ancora in pugno, e così ha fatto
ieri. E voi ne avete bellamente approfittato. Ed è per questo che ho consegnato
ai vostri colleghi due fiale di pozione: perché possano rilassarsi dopo una
notte tanto orribile, una notte tanto orribile per colpa vostra. Non che a voi importi, ovviamente.
Falsò un sospiro rassegnato. — E va bene,
vorrà dire che ne pagherete le conseguenze.
Si fece buio di colpo. Tutta la luce della
stanza corse a raccogliersi nel palmo di Chrysta, che la schiacciò sotto le
dita. L’unica fonte di illuminazione restò un lieve bagliore scaturito dalla
Stregona stessa, un brillio soffocato ma ampio, che si estendeva sino a coprire
un’area di qualche metro quadrato. Non era difficile figurarsi di essere in una
chiesa abbandonata al cospetto di una sacerdotessa di un culto pagano, o in un
bosco dell’antica Gallia pieno di druidi in cerchio. Si sollevò una brezza leggera
e profumata di cannella, la firma di Chris.
— Parole
della figlia di Edom.
Chrysta allargò le braccia, buttando il capo
all’indietro. Il suo tono era grave e impetuoso: richiamava a sé la magia.
— Da
Edom proviene il mio potere, in Edom mi nutro, per Edom vi punisco.
Un sonoro sussulto percorse i corpi dei
mannari disertori.
— Ascoltate,
o figli della Luna: dalla Luna proviene il vostro potere, nella Luna vi
nutrite, per la Luna siete già puniti. Vi libero dalla Luna, vi sciolgo dal
vincolo della Bestia: per voi vado contro la natura, ma io sono la natura. Per voi vado contro la Luna, ma
io sono la Luna.
Una cappa d’ombra svanì rivelando nove
figure inginocchiate, gli occhi spalancati, un’ingenua e misera speranza sui
loro volti.
— Io
sono una nuova Luna, una Luna che ristora e rinfresca, una Luna sotto la quale potrete
trovare piacere invece che dolore. Io sono la Luna che dà pace e vi restituisce
la vostra umanità battuta e sfiorita.
I licantropi gemettero di sollievo.
— Infatti
lupi sarete se non con la Luna, lupi sarete se non con me: io vi maledico.
Urla. Odore di carne ustionata, crepitio
dell’argento che sfrigolava.
— Mattia! Mattia!
— No! No! Mattia! Alpha! Non permetterà!
— No... Mattia!
— Io
sono Luna e argento e aconito: i miei raggi vi aprono la pelle in piaghe.
A un cenno
di Chrysta, un sottilissimo ma letale fascio di energia grezza frustò i
mannari. Si levarono altre grida. Mattia era immobile al mio fianco.
— Io
sono il vostro sogno e il vostro incubo, e io vi maledico.
Scoppiarono
i pianti.
— Che
ogni mia sillaba, mia consonante, mia vocale sia incisa nella pietra e non
svanisca tra le sabbie del tempo: per me voi sarete dannati. Io vi maledico,
nel nome di mia madre Lilith e Lucifero e Asmodeo: che le potenze infernali mi
assistano nel pronunciare questo giuramento.
Sul petto dei licantropi iniziò a delinearsi
un marchio.
— Così
come Dio giurò al Serpente che la donna gli avrebbe schiacciato la testa in
eterno, così io giuro che schiaccerò voi, riducendovi a miserevoli animali e
facendovi soltanto assaporare il reale gusto della vita per giorni tre nel
singolo mese.
Il marchio era completo: linee spigolose,
angoli acuti, curve severe. Feriva lo sguardo.
— Belve
siete stati in forma di uomini e belve sarete in forma di belve: così richiede
l’universo, così ordino io. E io ordino, e il vostro Alpha ordina, che le
vostre anime siano bruciate e le vostre esistenze condannate: da questo momento
su di voi pende il mio sigillo. E da questo momento voi siete maledetti!
Le manette attorno ai polsi dei nove divennero
catene. Nel corso di due secondi, chi era sul ballatoio dovette indietreggiare
di scatto: Chrysta aveva legato i lupi alla ringhiera delle scale.
Percepii Mattia fremere. — Più corte.
Chris non capì al primo colpo. — Le catene —
chiarì Mattia. — Le voglio più corte.
Passandosi la lingua sulle labbra, Chrysta
fece saltare via un paio di anelli. Quei bastardi adesso toccavano terra a
malapena con la punta delle scarpe.
Trattenni il fiato, sconvolta. Mattia era
impassibile. Mi girai nella sua direzione, ma lui teneva ostinatamente gli
occhi bassi sui suoi sottomessi, una stretta spasmodica sul corrimano della ringhiera.
— Voltatevi — comandò, e i traditori furono
costretti a ruotare la testa in modo innaturale per poterlo guardare. Lo
sguardo degli altri membri del branco era già fisso su di lui da prima che
parlasse. — Che questo sia di monito a tutti voi. Osate contestare la mia
autorità e subirete la mia ira. Ricordate sempre che c’è ben di peggio della
morte, e non c’è limite che non sono disposto a valicare. Godetevi il
plenilunio.
E filò fuori dal Palazzo, senza curarsi dei
Beta che si inginocchiavano ai suoi piedi, riverenti, e dei corpi che si
dibattevano disperati penzolando giù dalle scale.
Che figata
pubblicare in diretta dal mare.
So, here
we are, comunque a distanza di due settimane o poco più dall’ultimo
aggiornamento nonostante le mie differenti valutazioni. Sarà il caldo che mi
ispira.
Bene, mi
sembra di non aver nient’altro da dire, a parte le solite raccomandazioni di
votare e commentare (COMMENTATE, PER FAVORE, COMMENTATE!)
Un saluto
dalla spiaggia di Vindicio, dove tira un venticello che è qualcosa,
Federica
P.S.
Perdonate l’uso sconsiderato dei due punti e del punto e virgola. Colpa del
liceo.
|
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Capitolo 25 *** Non cadere ***
23. Non cadere
Non cadere
7Il Signore di tutti non si ritira davanti a
nessuno,
non ha soggezione della
grandezza,
perché egli ha creato il piccolo
e il grande
e si cura ugualmente di tutti.
8Ma sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa.
9Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie
parole,
perché impariate la sapienza e
non abbiate a cadere.
[Sapienza 6, 7-9]
Il primo
giorno dopo il plenilunio, il mare ci accolse come un vecchio amico.
Potevo chiaramente percepire quanto Mattia
fosse rilassato, in quell’ambiente semplice e familiare, dove non doveva
fronteggiare assalti alla sua autorità e ponderare con la massima attenzione ogni
sua singola scelta. Non era propriamente calmo e disteso, dato che di lì a
ventiquattr’ore si sarebbe ritrovato davanti una commissione di suoi professori
e perfetti estranei creata apposta per giudicarlo, ma era certamente un grosso
passo in avanti rispetto alla pietosa condizione in cui aveva versato fino alla
sera precedente. Speravo solo che, a quel punto, si ricordasse cosa significava
vivere una vita normale.
Perlomeno quella notte aveva dormito di più,
anche se l’immagine dei nove traditori che, ancora incatenati alle scale, si
trasformavano in lupi non appena sorgeva il sole doveva essergli rimasta ben
impressa dietro le palpebre.
In quell’ottica, Valentino era capitato a
proposito: Leonardo e Fabiana gliel’avevano immediatamente scaricato in braccio
quando erano arrivati in spiaggia e se l’erano filata alla volta del
divertimento su un altro lido, lasciando noi a fargli da babysitter. Non che
Mattia si lamentasse, e dopotutto non mi lamentavo neppure io.
— Spesso penso che si sono sposati troppo
presto — aveva commentato Mattia, osservando con un cipiglio di finto
rimprovero la coppietta felice che correva a spassarsela. — Sono due bambini
nel corpo di due adulti; davvero non mi capacito di come siano riusciti a
metter su famiglia.
E poi si era dedicato al nipotino, che
stravedeva per lui come Leonardo stravedeva per la moglie. Nel giro di qualche
minuto, ero anch’io a fare avanti e indietro dal mare per riempire la
piscinetta gonfiabile, approfittandone per tirare un paio di secchiate d’acqua
in testa a Mattia, e a ridere fino alle lacrime vedendo quella meraviglia di
bimbo che strisciava sul lettino come un buffo vermetto.
Purtroppo quel momento di serenità ebbe vita
breve, poiché alle tre Valentino cominciò a mostrare segni di stanchezza e
Mattia dovette percorrere tutta Serapo per farlo addormentare. Nell’attesa
frugai nella borsa di Mattia, come avevo fatto tempo addietro nella sua camera
a Villa Nardone, e ne tirai fuori un grosso volume dalla copertina cartonata.
Il titolo, a lettere bianche e sottili, recitava La Biblioteca dei Morti.
Curiosa, lessi la quarta di copertina,
quindi il prologo e il primo capitolo. Le pagine si susseguivano veloci: venti,
cinquanta, cento, centotrenta. Mi feci immediatamente trascinare dalla
narrazione di Glenn Cooper.
Erano descritte, tra le varie e frequenti
analessi apparentemente non aventi nulla a che fare con l’intreccio principale,
le vicende di un agente dell’FBI e della sua collega alle prese con un presunto
serial killer che comunicava alle sue vittime la data precisa della loro morte.
Peccato che ognuna di quelle vittime morisse nelle circostanze più disparate:
per cause naturali, per suicidio, per un semplice incidente. Il killer era
stato soprannominato Doomsday, giorno
del giudizio. Tra le righe, si scorgeva una sottotrama paranormale.
Ci volle un pizzico ben assestato da parte Mattia
perché mi accorgessi che era tornato.
— Perdonami — mi giustificai, colta con le
mani nel sacco. — A mia difesa, questo libro è assai interessante.
Mattia fece spallucce e venne a stendersi
accanto a me. Mi spostai verso destra per fargli spazio. — Puoi tenertelo, se
vuoi. Io lo sto rileggendo, non è un gran problema.
Il motivo per cui Mattia aveva deciso di
rileggerlo proprio in quel periodo mi fu improvvisamente chiaro: a modo suo,
anche quel killer atipico prevedeva il futuro.
— Va bene, allora stasera me lo porterò a
casa. Tu non vieni?
Un cenno di diniego del capo. — No. — Mattia
sospirò. — Non fraintendermi, il tuo letto è stupendo, ma ho già scoperto mio
padre che mi controllava portafoglio e comodino e mi piacerebbe evitare la
seconda parte del discorso iniziato anni fa, grazie tante.
Gli infilai un gomito tra le costole,
ridacchiando. — Quel discorso?
— Quel
discorso, esatto — confermò. — Avendo beccato me e Maura in flagrante delicto, papà non ha sentito il bisogno di
continuarlo. Ma adesso che sto passando le notti fuori e si sa quale piacevole
compagnia femminile frequento... fai un po’ tu. Oltretutto, capiscimi, voglio
la mia stanza.
Mi girai su un fianco. — Certo, tranquillo —
lo rassicurai. — Perciò tuo padre è un insegnante amatoriale di educazione
sessuale?
— Sostanzialmente — rise Mattia, poi gettò
un’occhiata alla carrozzina alla nostra sinistra. Valentino ronfava beatamente.
— Lui è un cuoco e io un futuro medico, non potremmo essere più diversi di
così, eppure siamo entrambi completamente d’accordo sul prevenire è meglio che curare. Con Maura, invece, dovevo
addirittura litigare. Diventavo una belva. Fortuna che in determinate occasioni
l’ira repressa non fa male.
— Non dirlo a me — commentai sarcastica. —
Nell’ultimo mese, tra me e Jean era solo e soltanto ira. Però, ad essere
onesta, abbiamo litigato per tutto ma mai per i preservativi. Prego che abbia
usato precauzioni anche con tutte le altre sue conquiste.
— Altre
sue conquiste? — Mattia sgranò gli occhi, sollevando il busto per
guardarmi. — Vuoi dire che ti tradiva?
— Gli avrei cambiato gli attributi, se ci
avesse provato — sbottai, secca. — No, Mattia, non mi tradiva. È stato dopo
la... rottura. Dovunque andassi, a Idris c’era qualcuno pronto a giurarmi di
aver sperimentato le gioie del sesso con Jean Argentsang. La figlia del
panettiere, la sorella di Liza della sartoria Firestorm, Sally Horsefly, Andy
Princewater – che avrà quindici anni, considera – persino il supplente di nuoto
all’Accademia... tutti mi hanno assicurato che il mio ex ragazzo è un’autorità
in quel campo. Quanto avrei voluto urlare in faccia a quegli emeriti idioti che
Jean era vergine, prima di me, e se ha raggiunto quel livello ci è arrivato con
la sottoscritta. Bastardi!
— Ti saresti sentita proporre indecenti ménage a trois, dunque meglio non averlo
fatto — ribatté Mattia, storcendo le labbra in una smorfia di disgusto. — Per
di più, millantare certe esperienze davanti a te... sì, non sapevano cos’era
successo fra voi due, ma che schifo lo stesso. Quanta bassezza, sul serio.
— È stato piuttosto orribile, già. E
comunque questa cos’è, gelosia retroattiva? — lo punzecchiai sorridendo.
— Sono italiano, sono costantemente geloso. — Mattia si aprì in uno dei suoi sorrisi a
trentadue denti che irradiavano più luce del sole. — A Idris dovrai
indicarmelo, questo Jean. Non lo nego, sono... curioso, nel bene o nel male.
Mi tornò alla mente l’ultimo sogno che avevo
fatto su di lui, quando per me era ancora un anonimo licantropo. La stessa
visione in cui lo osservavo prendere a zampate il simbolo della famiglia di
Jean inciso su una delle torri antidemoni, che brillava di azzurro per gli
Accordi.
Dovevo
dirglielo. Era inevitabile.
Mi tirai su a sedere di colpo. Mattia
sobbalzò, preoccupato. — Lori?
— Tutto a posto — minimizzai. — È solo... ho
ricordato una cosa. Sembra impossibile da credere, ma me n’ero quasi
dimenticata.
Anche Mattia si mise seduto, voltato di tre
quarti con un ginocchio poggiato sul lettino e l’altro disteso in diagonale a formare
un angolo di quarantacinque gradi con lo strato di sabbia. Mi balenò l’assurdo
pensiero che avesse assunto quella posa, consapevolmente o meno, per essere
pronto ad alzarsi e correre via. — Su, racconta — mi incoraggiò, una scintilla
di interesse indiscreto che gli infiammava le pupille nere.
Mi passai la lingua sulle labbra prima di
esordire: — Sei stato protagonista delle mie visioni, a New York. Vedevo questo
lupo, e vedevo me stessa, e la maggior parte delle volte ti vedevo morto.
— Mi fa piacere — mi interruppe Mattia,
sardonico.
— Immagina quanto facesse piacere a me —
continuai con altrettanta ironia. — Comunque, sei stato piuttosto ossessivo,
caro mio, ma altrettanto utile nel risolvere una questione spinosa che ci ha
tenuti impegnati in quei pochi giorni. Ti ho sognato la notte dopo aver tolto
di mezzo quel problema, e mai più.
Gli spiegai brevemente quale ruolo aveva
assunto in quel contesto. Notai che la sua espressione si era indurita.
— Se devo essere onesta, è avvenuto anche al
JFK – l’aeroporto, intendo. Una visione, di gran lunga peggiore delle altre.
Percepivo gli odori, avvertivo un peso sulle gambe, udivo il suono di uno
sparo...
Trassi un respiro tremolante. Mattia stava
pian piano mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle.
— ... Capivo che c’erano due persone in fin
di vita. Ma ho realizzato solo a distanza di settimane che c’entravi tu, e che
avevo vissuto ciò che sarebbe successo con Mallardo.
Mattia deglutì. — Mi sento in colpa per
averti importunata così tanto, nonostante... be’, nonostante colpa non ne
abbia. Se può rincuorarti, non... non ero io, quel lupo. Cioè, ero io, ma non
sapevo di essere lì. Non l’ho fatto di proposito, ecco, posto che sia possibile
farlo di proposito. Suppongo non debba essere stato stupendo sognarmi morto.
— È stato molto peggio vederti morto — bisbigliai a testa bassa. — E, per la cronaca,
neanch’io so se si possa fare di proposito.
Mattia mi prese una mano. La sua stretta,
seppur non dolorosa, era spasmodica. — Lori, ciò che ti ho detto, quel
pomeriggio... hai presente, no, tutte quelle parole sulla falsariga di il novantanove percento non è abbastanza e
avresti dovuto essere assolutamente
sicura che non sarei morto per concederti di scappare. Io...
Emise un verso di stizza. Faticava a trovare
i termini adatti.
— Mi dispiace, Lori. Non avevo idea che le
cose stessero così come stavano – come stanno.
Sono stato impulsivo e sconsiderato, ed ero spaventato...
— Smettila, Mattia — lo bloccai, poggiando
una mano sulla sua. — Non ti ho mai incolpato, per quello. Data la situazione,
era normale essere avventati e irriflessivi.
Mattia annuì e tornò a sdraiarsi sul
lettino, le dita intrecciate dietro la nuca e gli occhi fissi sul decoro a
righe dell’ombrellone. — Perciò tu ritieni che avrò una parte nella storia di
Jean? — chiese dopo un po’.
— Non lo ritengo soltanto, ne sono piuttosto
sicura — lo corressi. — Quale sia questa parte, al contrario...
— Non ne hai idea — mi precedette Mattia.
— Esatto.
Mattia si pizzicò la radice del naso,
sbuffando. — Sarebbe indelicato domandarti se hai avuto qualche altra visione a
tal proposito?
— Nulla è indelicato se detto da te — gli
risposi, — ma no, nessun’altra visione. In realtà — proseguii lentamente, — le
visioni sono... scomparse. Non ne ho una da un tempo talmente lungo che
addirittura non riesco a quantificarlo.
Mattia si accigliò. — È possibile?
— Non pensavo che lo fosse — mormorai. —
Dopo il... flashback, quello delle notti al lago, è improvvisamente finito
tutto. Già da quando sono in Italia il numero delle mie visioni si era
considerevolmente ridotto. Ora non c’è proprio più nulla.
Mattia diede voce al mio successivo
commento: — E ti dispiace?
— Per carità, assolutamente no! — Risi
nervosamente. — Però è strano.
Mattia si picchiettò l’indice sulle labbra.
Avevo notato che lo faceva spesso quando ragionava su qualcosa. — Hai mai
immaginato che fosse un effetto nocebo, Lorianne?
— Un effetto nocebo? — ripetei, confusa. —
Cosa?
— L’eccessiva quantità delle tue visioni —
chiarì lui. — Riflettici, Lori: mi hai raccontato che a Idris erano
spropositate, giusto? E stupide, perlopiù; inconsistenti.
Attese un mio cenno di assenso, quindi
continuò: — Un bel giorno parti da Idris. A New York sogni subito me. In
aeroporto vedi lo studio di Mallardo. Qui in Italia ti fai un viaggetto
temporale fino a dicembre dell’anno scorso. Poi, da allora, nient’altro. Mi
segui?
— Sinceramente?
— Sinceramente.
— No.
Mattia scoppiò a ridere di gusto. — Okay,
ammetto che potrei essere stato criptico. Cerco di farmi capire: le cose sono
migliorate non appena hai lasciato Idris, no?
— Sì, esatto — concordai. — E?
— E in Italia sono migliorate ancora.
— Stringi e arriva al punto — borbottai.
Mattia tamburellò le dita della mano destra
sul mio braccio. — A Idris ne hai dovute passare tante, Lori. Non credi di aver
sviluppato una sorta di forma psicosomatica di Chiaroveggenza, mentre eri lì, e
che il cambiamento d’aria ti abbia fatto da placebo?
Mattia aveva una spiccata capacità di
arrivare alle conclusioni più impensabili, e lo faceva con un ragionamento dei
più logici e sensati. Forse proprio per questo raramente aveva torto.
Non possedevo il privilegio di poter
esaminare le vicende da un punto di vista medico come Mattia, ergo non ero
neanche lontanamente giunta a una spiegazione del genere. Avevo interpretato il
tutto come una conseguenza di quella “evoluzione del mio potere” ipotizzata da
zio Magnus a seguito della mia inusuale visione su Camille e il lupo nella
biblioteca dell’Istituto, archiviando la questione come secondaria rispetto a
ciò che dovevo affrontare nel presente. Oltretutto, a dire la verità, l’assenza
di visioni non era affatto fastidiosa, specialmente in giornate come quelle.
— Potresti avere ragione — asserii. — Non
sono nella posizione di poterti dare una conferma o una smentita, ma per quanto
mi riguarda ci hai azzeccato.
— Oh, perfetto — gongolò lui, tronfio. —
Voglio un premio.
— E il mongolino d’oro va a Mattia Nardone! —
Gli consegnai un finto trofeo, alzando gli occhi al cielo. — Idiota.
— Non sarò tanto idiota se sono riuscito a
trarre una conclusione decente — obiettò Mattia, ancora con il sorriso sulle
labbra. Poi si incupì all’istante. — Hai ricevuto dai tuoi cugini aggiornamenti
riguardanti i vampiri?
L’atmosfera si fece repentinamente più
pesante. Anche il sole sembrò perdere un po’ della sua luce.
Mi tenni sul vago: — Ni — gli risposi. — Sappiamo
per certo che hanno messo la zampa negli avvenimenti dell’altra sera, ma Logan
e Trish, avendoli solamente pedinati, non hanno fiutato nulla di sospetto.
Le mie parole furono seguite da un lungo
sospiro di esasperazione. — Perciò devo andarci io per forza di cose, non è
così?
Mi strinsi nelle spalle. — Spiacente,
Mattia. Occupando una posizione come la tua, devi sbrigare da solo alcuni
affari.
Lui sibilò tra i denti serrati. — Credimi,
Lorianne, fosse per me salterei giù da quel piedistallo qui e ora. Peraltro
molti sarebbero deliziati dal mio gesto, considerando quanto mi disprezzano. Ma
purtroppo c’è pure chi sarebbe pronto a legarmi con l’argento per impedirmi di
lasciare il posto. E ho imparato a temerlo, l’argento.
Giocherellai coi laccetti del costume per
qualche minuto, in silenzio. — Jean fa di cognome Argentsang — dissi d’istinto.
Mattia mi scoccò un’occhiata di sbieco. — Lo
so, me l’hai nominato altre volte. E con ciò?
— Con ciò... — Mi agitai sul lettino, a
disagio. — Mattia, ormai abbiamo appurato che o ti incontrerai o ti scontrerai
con Jean, in un modo o nell’altro.
— E vorresti insinuare che mi farò mettere i
piedi in testa da lui soltanto perché ha argento
nel cognome? — replicò Mattia, ferito. — Ma dai, Lori! Per chi mi prendi?
— Ti prendo, Mattia, per uno che ha
pochissima esperienza del Mondo Invisibile, e questo è ovvio e palese —
ribattei in tono severo. — Se questa è tutta una metafora dell’Universo per
avvertirti di stare attento... io personalmente non ignorerei determinati
segnali, se fossi in te.
Mattia schioccò la lingua sul palato, un
ghigno sprezzante che gli si dipingeva sul viso. — Per favore, Lorianne! Mi hai
visto o non mi hai visto rompere a unghiate il sigillo della sua famiglia? Come
diavolo potresti interpretarlo se non come un’altissima probabilità che Jean ci
buschi le mazzate anche per mio merito?
Mi morsi l’interno della guancia per
rimanere lucida. — Il sogno è terminato lì — gli ricordai. — Non so cosa
succederà dopo.
La scintilla minacciosa negli occhi di
Mattia si spense lentamente. — Non sarebbe la prima ritorsione che mi ritrovo
ad affrontare — sillabò con forzata calma. La linea dura della sua mascella era
netta come marmo scolpito da un abile scalpello. — Proprio da te mi aspettavo
più fiducia.
— Raziel, Mattia! — per poco non strillai,
contenendomi unicamente per via di Valentino e degli occupanti degli altri
ombrelloni. — Secondo te ti avrei lasciato fare quello che hai fatto se non
avessi avuto fiducia in te?
— Già, perché giustamente tu hai un grande
peso sulle mie decisioni! — Mattia balzò in piedi sbraitando. Il lato destro
del mio corpo, non più a contatto col suo, sembrò improvvisamente più freddo. —
Come se avessi potuto desistere se me l’avessi ordinato tu! Ossignore, ma tu
guardala, entra nella mia vita senza permesso e pretende pure di tenerne le
redini!
— Sì che lo pretendo, brutto bastardo! —
urlai, chiudendo i pugni con una violenza tale che le unghie, seppur corte, mi
scavarono rossi solchi nella carne. — Ma guardati tu, che nel giro di neanche
un mese già hai le megalomanie! Dove arriverai quando di mesi ne saranno
passati due, tre, sei, dodici? Dove arriverai quando saranno passati anni, o
decenni? In una fossa senza lapide come Mallardo, ucciso dal suo Beta più
giovane? È questa la fine che vuoi fare?
Mattia ringhiò. In quel momento mi resi
conto che sarebbe stato capace di saltarmi addosso in forma di lupo, se
l’avesse voluto. Sin da subito aveva saputo controllare le zanne; non mi sarei
sorpresa se avesse già acquisito anche l’abilità di trasformarsi a suo piacimento.
Nel bene o nel male – nel bene e nel
male – il ruolo del licantropo gli calzava a pennello.
— Se quella sarà la mia fine — scandì con
tranquillità, — farò sì che tu sia abbastanza lontana da perderti lo
spettacolo.
Il mio cellulare trillò. Sobbalzai. Lo
lasciai trillare.
Tutta la mia attenzione era concentrata su
Mattia, e sulla gelida e ponderata collera che leggevo sul suo viso. Era la
prima volta che discutevamo seriamente su qualcosa. Dannazione, era la prima
volta che litigavamo. Ancora nessuno
dei due aveva capito se potevamo considerarci fidanzati o meno, e litigavamo.
Litigavamo come una coppia. Dolce
amaro paradosso.
Non posso dire che fu quella l’occasione in
cui mi accorsi dell’ambizione celata dietro la facciata da buon samaritano che
Mattia sfoggiava ogni singolo giorno: anche se non volevo ammetterlo ad altri e
soprattutto a me stessa, l’avevo realizzato già da quando avevo visto il nuovo
Alpha promettere ai suoi Beta una vita migliore – o, perlomeno, una vita diversa.
Sì, Mattia era ambizioso; ambizioso e
orgoglioso e assai cocciuto. Avrei potuto spaccargli un cocomero in fronte e a
rompersi non sarebbe stata la sua testa. Avrei potuto costruirgli un muro
attorno e l’avrebbe fatto crollare a suon di spallate, persino al costo di
fracassarsi l’articolazione.
Avrei potuto mettergli davanti Jean, e avrebbe
vinto.
Chinai il capo sotto il suo sguardo fermo e
fiero. Non in segno di sottomissione, ma in segno di accettazione. Non ero la
sua balia e lui di certo non era un bambino. Seppur con le dovute proteste del
caso aveva abbracciato la sua natura ed era stato costretto ad adattarsi a un
difficile contesto che andava contro ogni sua precedente convinzione; le dita
non gli si erano chiuse di loro spontanea volontà attorno allo scettro, ma ora
la sua presa era forte e solida.
Che mi piacesse o no, Mattia era un
licantropo, era un Alpha, ed era un camorrista.
Fino ad allora se l’era cavata egregiamente,
e gli auguravo di riuscire a continuare così finché non fosse morto in pace a
una veneranda età. Avrebbe imparato a sue spese le conseguenze di eventuali
errori futuri. Io potevo solo aiutarlo a prevenirli.
— Non mi scuserò per quello che ho detto,
Mattia — sospirai infine, rialzando lo sguardo. — È ciò che penso, e non lo
nego.
Lui annuì. — Lo so.
— Non vorrei vederti su un trono, ma ci sei e non voglio nemmeno buttarti giù
— continuai. — Perciò tieni il culo attaccato a quel cuscino di velluto,
tesoro, e ignora la proverbiale spada di Damocle sospesa a un centimetro dai
tuoi bellissimi riccioli. Le forbici per tagliare quel filo ce le hai soltanto
tu.
Mattia si passò la lingua sulle labbra,
quindi mi tese la mano con un gesto fulmineo. La strinsi vigorosamente e con
calore. — Non dubitare di me, Lorianne — proferì con voce carica di sicurezza. —
Custodisci la mia sanità mentale e non interferire. Abbiamo un patto,
dopotutto. Io intendo rispettarlo, e lo rispetterai anche tu.
Non mi sentivo come se mi stesse dando degli
ordini: mi sentivo piuttosto come se stesse facendo una semplice constatazione.
Ci eravamo presi un impegno e avremmo onorato l’accordo, ognuno con i propri
mezzi e le proprie possibilità. In fondo in fondo eravamo come soci in affari.
— Lo rispetterò — gli assicurai, e lui mi
rivolse un sorriso di gratitudine. — Non cadere, Mattia.
— Non cadrò.
Poi, con un’occhiata a Valentino che ancora
dormiva, Mattia aveva afferrato La
Biblioteca dei Morti e si era dedicato alla lettura.
Dunque la conversazione era conclusa. Sulla Lista delle 10 cose da fare col proprio
ragazzo era stata tracciata una linea su litigare e fare subito pace. Percepivo un bizzarro senso di
appagamento tra i rimasugli dell’ira.
Recuperai il cellulare dalla borsa e lo
sbloccai con una scansione dell’iride. C’erano una chiamata persa e un messaggio
in segreteria. Era Logan.
Lori,
dannazione, non ci sei mai quando servi! Trascinati dietro il tuo moroso e
vieni a Villa Orlando. Immediatamente!
Prima che potessi formulare un qualsiasi
pensiero, sullo schermo comparve la notifica di un messaggio. Stavolta era
Trish.
Lorianne
Amatis Herondale, per le divine mutande di Raziel, CI STANNO SFRATTANDO!
Composi il suo numero alla velocità della
luce. — Stanno facendo cosa? —
strillai, senza darle neppure il tempo di riempirmi dei suoi soliti insulti. Mattia
ripose il segnalibro tra le pagine sbuffando e mi puntò le pupille addosso.
— Benedetto sia l’Angelo, Lorianne, ma sei
dislessica? — sbraitò mia cugina di rimando. — Ci stanno sfrattando! Quella
troia ci sta sfrattando!
— Chi, Trish? — s’inserì Mattia. — Quella troia chi?
— La tua Beta, Mattia! — Dalla cornetta
giunse il rumore di passi affrettati insieme a un’imprecazione troppo
dialettale e troppo maschile per poter essere di Trish. Mi parve di riconoscere
il timbro di Adriano.
— Ne ho quindici, di Beta, per la miseria! —
replicò Mattia. — Nome e cognome, signorina!
— Ma va’ a quel paese!
— Ci vado volentieri se mi ci accompagni tu!
— Smettetela! — Sì, quello era decisamente Adriano.
Evidentemente per lui e Trish i letti e i divani del Palazzo non bastavano più.
— È Rita, Mattia! Rita D’Amante!
Okay,
ci ho messo un mese. Motivi del relativo ritardo: caldo, computer che avendo
qualche anno si scarica più velocemente, spiaggia, caldo, preparativi per lo
stage di Ravenna (e relative incazzature varie) e per un battesimo, punti morti
nel testo, caldo, poca ispirazione, citazione iniziale cambiata tre volte,
sistemazione del prologo e ultimi ritocchi all’introduzione di House of Cards, imminente
riapertura della scuola, ho già detto caldo?
Tralasciando
gli scherzi, perdonatemi, ma questo si è rivelato un altro dei miei capitoli
killer della voglia di scrivere e noioso fino al midollo (e ci credo, tutto è noioso
a confronto con la questione degli attacchi multipli e della maledizione), però
pazienza, anche questi sono parte della storia.
Giusto
una nota a titolo informativo e poi vi lascio: La Biblioteca dei Morti è un
libro davvero esistente, primo della trilogia omonima – comprendente anche Il
Libro delle Anime e I Custodi della Biblioteca – di Glenn Cooper (dovrebbe
esserci in realtà pure un quarto volume, ma a quanto ho capito è una sorta di
spin-off/universo espanso). Li ho letti l’estate scorsa e ne sono rimasta
estasiata; li consiglio a tutti gli appassionati del giallo e del paranormale,
ma a chiunque in generale, perché sono veramente meravigliosi.
Ci
risentiamo il prima possibile con il prossimo aggiornamento, che spero sarà più
interessante e meno statico. E mi raccomando, non
lesinate sui commenti!
Al
più presto,
Federica
|
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Capitolo 26 *** Se ho peccato ***
24. Se ho peccato
Se ho peccato
20Se ho peccato, che
cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo?
Perché m’hai preso
a bersaglio e ti son diventato di peso?
21Perché non
cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità?
Ben presto giacerò
nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!
[Giobbe 7, 20-21]
— Non mi inchinerò davanti a te!
A quelle parole,
Mattia sussultò, orripilato, come se avesse appena ingoiato un’anguilla viva. —
Guardi, stavo proprio per chiederle di non farlo, la ringrazio per avermi
anticipato. E, per la miseria, si tiri giù quella benedetta gonna!
La donna – o,
per meglio dire, la mummia – che
rispondeva al nome di Rita D’Amante, nostra padrona di casa e Beta dell’ex
branco di Mallardo, squadrò Mattia con un’espressione ancora più schifata e
scelse saggiamente di restare in silenzio, aggiustandosi la gonna con uno
scatto nervoso della mano. — Non posso credere che sia stato tu a uccidere Carmine!
Mattia roteò gli
occhi al cielo per quella che mi sembrò l’ennesima volta.
I dieci minuti
precedenti erano trascorsi con lui che tentava di capire quale fosse il problema
e la D’Amante che, irremovibile, insisteva a ricoprirlo di insulti. Unendo al
brodo anche Chrysta e Trish, che fino a un minuto prima non avevano fatto altro
che urlare addosso alla lupa, e Logan, pericolosamente sul punto di ficcarle il
mio pugnale d’argento in gola, quella era la peggior situazione in cui un tipo
pratico come Mattia potesse capitare.
— Che cosa
vuole, una dichiarazione scritta? — fece quindi, esasperato. — Tra l’altro,
perché le sto ancora dando del lei?
— Perché mi devi
rispetto, cosa che io non devo a te — replicò la D’Amante, con un ringhio
che più che altro sembrò un pigolio.
Mattia
assottigliò le labbra. — Non le serve una dichiarazione scritta, vero? — scandì
con calma, incurante della provocazione di lei. — Non le serve in quanto mi
riconosce come Alpha. Lo percepisce. Lo sa.
Rita sbatté la
borsa sull’isola al centro della cucina. Mallardo doveva averla pagata bene:
era una Michael Kors. Un tale accessorio d’alta moda su una persona come lei
faceva l’effetto di una lampada da tavolo dell’Ikea alla quale fossero state
attaccate gocce di cristallo di Murano. — Inammissibile! Inammissibile! — strillò, gesticolando animatamente con le mani
inanellate ricoperte da scure ragnatele di vene e rughe. Aveva le dita sottili,
ma non nel modo che le avrebbe rese affascinanti: sembrava quasi che ci fosse
solo l’osso. — L’impero dei Mallardo affidato a un bambino!
Mattia alzò lo
sguardo verso il soffitto e proclamò in tono lamentoso: — Gesù, Giuseppe,
sant’Anna e Maria, ma perché tutte a me?!
Dovetti
trattenere una risata.
— Mi dite da chi
altro ho già sentito questa solfa? — riprese Mattia, parlando in direzione del
piano cottura contro al quale si erano appoggiati i miei cugini. Adriano aveva
saggiamente scelto la via del terrazzo non appena eravamo arrivati Mattia ed io
e se l’era svignata borbottando improperi a mezza bocca.
— Facendo una
stima... più o meno tutto il branco — gli rispose Trish.
— Esattamente —
confermò Mattia. — Perciò, che me lo ripeta anche lei non fa una grande
differenza.
Rita lanciò un’occhiata
alle scale. — Adriano è a favore? Mi sorprende.
— Adriano l’ho
convinto — precisò Mattia, appollaiandosi sull’isola e mostrando perfetta
padronanza di sé e dell’ambiente. Già stando in piedi poteva guardare Rita
dall’alto in basso: ora lei doveva sentirsi una formichina a suo confronto.
Rita emise un
verso di disprezzo. — Adriano non si fa convincere.
— Con un poco di zucchero la pillola va giù...
— canticchiò Mattia. Nascosi un sorriso: se la stava magistralmente mettendo in
tasca. — Non è umiliando la gente che si ottengono risultati, Rita cara.
— E tu non pensi
di averlo umiliato costringendolo a sottostare a te, ragazzino?
— Dipendesse da
me, sotto ci starei io — commentò Mattia con tranquillità. — Purtroppo le cose
sono andate come sono andate; certo io non me la sono cercata.
Trish incrociò
le braccia sul petto e indirizzò uno sguardo di fuoco alla D’Amante,
impedendole di ribattere. — Oltretutto, su, quanti anni ha Adriano in più di
lui? Uno? Due?
Rita scoprì i
denti macchiati di rossetto nella patetica imitazione di un ghigno
intimidatorio. — Che c’è, signorina, vuoi sapere quante primavere ti separano
dal tuo amante e magari contare quelle che gli rimangono?
Dopo un millesimo di secondo, Trish le era a
un palmo dal naso. — E lei ha per caso intenzione di continuare a peggiorare la
sua posizione attuale, dottoressa? — le sibilò in faccia. — Mi lasci dire una
cosa, Rita: lei da qui non uscirà né migliore di prima né uguale a prima. Ne
uscirà ridotta a brandelli, per opera di Mattia, perché lui non è il fanciullo
debole e inesperto che tutti ritenete che sia. Vada un po’ a chiedere in giro
cos’ha fatto a chi l’ha tradito, vada, vada pure, e vediamo come ritorna. E se
si permette di sprecare anche solo un’altra parola invece di starsene zitta e
iniziare a subire, piuttosto che infliggere, e specialmente se tale parola sarà
riferita ad Adriano, le garantisco, le prometto, le giuro che da quella porta non passerà altro che la sua anima.
Saggiamente, la
donna non fiatò.
— Patricia ha
tenuto testa a Sabrina, Rita — rincarò Mattia, visibilmente soddisfatto, mentre
Trish indietreggiava senza fretta e con fierezza. Notai che dal provare
fastidio per un determinato genere di complimenti era passato ad esserne
compiaciuto. — Le assicuro che fa sul serio.
— Come se le
minacce di una sedicenne...
— Diciassettenne!
— ... potessero
farmi effetto — brontolò la D’Amante. — Ne ho ricevute di ben più orribili.
Mattia aveva
stampato sul volto il ritratto dell’esasperazione. — Mallardo la minacciava e
lei seguitava a lavorare per lui?
— Avevo fiducia
in Carmine. Fiducia che in te non ho.
Questione di
poco e Mattia l’avrebbe riempita di schiaffi: si poteva quasi vedere la
pazienza scivolargli via dal corpo. — Ancora con questa storia? Finiamola qui,
per carità cristiana, e rimandiamola a un altro giorno. Ora, per cortesia, si
può sapere perché diavolo ci ha degnati della sua rimarcabile presenza, mia
cara dottoressa dei miei stivali?
Rita arricciò le
labbra. Ringraziai che non avesse optato per il botulino, o l’effetto sarebbe
stato assai più terrificante. — Le notizie corrono veloci, Nardone. Il branco è
dappertutto e ha orecchie dappertutto.
— È in ritardo
per il funerale di Carmine — la precedette Mattia, secco. — Pertanto adesso
cosa ha intenzione di fare, tornare a farsi ribollire in una spa o godersi il
suo nuovo ufficio al Palazzo?
Rita indicò il
soffitto sogghignando. — Il mio ufficio è due piani più su, tesoro.
— Ma io gliene
darò uno nuovo. — Mattia batté le
mani, fintamente deliziato. Gli scappava da ridere: si stava divertendo un
mondo a giocare con lei. — Non è contenta?
La D’Amante
sbiancò. — E con quale autorità lo faresti? — chiese. Le tremava la voce.
Un lampo
pericoloso balenò nelle pupille di Mattia. Saltò giù dall’isola con un balzo
repentino e fronteggiò Rita con solennità. — Io sono il tuo Alpha, Rita
D’Amante — sillabò, calcando ogni singola lettera. — Io sono il successore di
Carmine, che ti piaccia o no. Se ti ordino di fare una cosa, tu la fai e non
provi nemmeno a protestare. Intesi?
— Intesi un corno — sibilò Rita tra i denti. A
furia di tormentarsi l’orlo di pizzo della blusa se lo stava quasi sfilacciando.
— Ho sentito cosa dicono di te, fuori. Tu predichi pace e bene, ma in fondo sei
più nero di tutti noi. Uccidere Carmine... — Scosse la testa, disgustata. —
Uccidere Carmine è stato solamente l’inizio.
Mattia allargò
le braccia e abbassò lievemente il capo in segno di assenso. Sorrideva. Non
c’era nulla di solare o spensierato in quel sorriso. Era il sorriso del mulo
che ha provato la violenza del bastone e scoperto che la carota è marcia, e non
gli resta altro che tirare l’aratro unicamente con le sue forze.
— Hai ragione, è
stato solo l’inizio — concordò. — Hai sentito anche cos’ho fatto a chi mi ha
tradito, Rita? Stamattina li ho visti fuggire lontano da me come conigli spaventati.
Vuoi per caso provare anche tu la stessa sensazione? Mi basta un colpo di
telefono.
Rita schioccò la
lingua sul palato. — Come pensavo. — Batté un pugno sul massiccio legno
dell’isola per sottolineare l’ovvietà delle circostanze. — Non l’hai fatto tu
di persona.
— Avrebbe avuto
scarsa possibilità di scelta, se l’avesse fatto lui di persona — intervenni,
ormai stanca di stare lì soltanto ad osservare. — La sua decisione è stata la
migliore.
Mattia staccò
gli occhi da Rita giusto per un secondo e mi rivolse uno sguardo che non
riuscii a interpretare. C’era rimprovero, nelle sue iridi scure; c’era
riconoscenza, disapprovazione, e distanza. — Grazie, Lorianne, ma so difendermi
da solo.
Incassai il
colpo e mi stetti zitta. Non aveva torto: quello era un duello e doveva
combatterlo alla pari con Rita, senza privilegi o aiuti esterni. Avrebbe
conquistato la vittoria onorevolmente e correttamente.
Mattia riprese:
— Prima o poi Carmine sarebbe morto comunque. Magari non oggi, magari non
domani, magari tra qualche anno, ma sarebbe morto. Qualcuno avrebbe raccolto il
coraggio necessario – lo stesso Adriano, forse? Sabrina? – e l’avrebbe
ammazzato.
— Oh, non
partire col discorso sul karma, il destino e quelle stronzate là, per amor del
cielo — sbottò Rita. — Risparmiamelo.
Mattia la
ignorò: — Dovresti aver capito che, per la particolare struttura di questa
organizzazione, è raro che un boss stia al comando per moltissimo tempo, e un
raid ben programmato potrebbe risolvere tutto in pochi minuti. Io già mi guardo
le spalle, e farlo mi è servito.
— Uuuh, che
novità, l’autorità di Mattia Nardone è stata sfidata!
Se Mattia me ne
avesse dato modo, le avrei spinto nell’esofago lo straccio per i pavimenti.
Sfortunatamente,
lui fu più veloce. — Chiudi quella fogna — le intimò, premendole una mano sulla
bocca e tenendole l’altra dietro il collo. Le guance di quel surrogato di donna
si chiazzarono di rosso. — Carmine ha ucciso i suoi genitori per ottenere il
comando. Io ho ucciso lui. Mi ha fatto puntare una pistola alla tempia e mi ha
detto di sparare. Ho sparato.
La D’Amante si
divincolò, ma la stretta di Mattia era ferrea. — Nei miei panni, Rita, cosa
avresti fatto? Avresti salvato la tua vita o la sua?
Le labbra della
dottoressa si mossero sotto la mano di Mattia, ma non ne provenne alcun suono.
Lui sembrava totalmente a proprio agio, come se avesse ripetuto quelle azioni
milioni e milioni di volte. Quella consapevolezza mi arrivò come una pugnalata
al cuore: Rita era un essere ripugnante, è vero, e si meritava tutto il
trattamento che stava ricevendo; eppure, sebbene fino a un paio di minuti prima
mi stessi godendo la disfatta della D’Amante ad opera del ragazzo di cui mi ero
innamorata, in quel momento non potevo più ricavarne piacere.
Mi trattenni a
stento dal correre verso di lui e spingerlo via, via, in un’altra stanza, sul balcone, all’aperto sotto il sole.
Un’immagine si sovrappose alla scena che si stava svolgendo davanti a me:
Mattia, sull’orlo di un burrone, un piede nel vuoto; e Rita, aggrappata alla
sua caviglia, che tentava di trascinarlo giù con sé. Sarebbe caduto.
Mi tornò alla
mente la conversazione che avevamo avuto meno di un’ora prima, in spiaggia.
— Non cadere, Mattia.
— Non cadrò.
Era facile
credergli, a sentirlo parlare. Era difficile credergli quando lo vedevi
compiere un altro passo sul cammino che aveva portato Carmine Mallardo alla
pazzia.
— Non avresti
salvato la tua vita, Rita — proseguì Mattia, respirando velocemente. — Avresti
salvato la sua. Perché la tua non vale niente. Sei miserabile. Anch’io
preferirei lui a te.
Con un acuto
grido, Rita riuscì a liberarsi. — Sparite da casa mia, fottuti Nephilim! — strillò,
sputacchiando saliva nell’aria. Le stavano spuntando artigli e zanne. Mattia le
latrava contro. — Questa è la mia proprietà e queste sono le mie regole! Fuori da casa mia!
Si udirono dei
passi concitati scendere le scale e Adriano comparve sotto l’arco della porta.
— Mattia, è in menopausa, fermala o te ne pentirai!
— Sarà lei a
pentirsene ― ringhiò Mattia di rimando. — Rita, la tua proprietà è mia! Mia!
La D’Amante si
azzardò ad avvicinarsi di dieci centimetri. — Non può essere tua.
— E invece sì —
continuò lui. — Io sono il tuo Alpha, Rita. Tutto ciò che è tuo è mio.
I dieci
centimetri guadagnati furono subito ripercorsi a ritroso. — Non puoi averla
rivendicata.
— No, infatti —
concesse Mattia. — La rivendico ora.
Percepii Adriano
bisbigliare: — Brutto figlio di puttana.
— Io rivendico
Villa Orlando, dottoressa Rita D’Amante, e tutte le cose al suo interno e le
persone che abitano al suo interno. — Mattia assunse un tono solenne, come un
sovrano che parla ai suoi sudditi. — Tu, come chiunque altro del branco, avrai
un alloggio e un ufficio al Palazzo. Villa Orlando sarà mia e mia soltanto.
Adriano scivolò
alle spalle di Mattia e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. Mattia, per tutta
risposta, lo scansò in malo modo. — Consegnami le chiavi, Rita — ribadì. — Non
hai più potere qui.
Rita strinse i
pugni, conficcandosi le unghie appuntite nella carne. Arretrò fino a trovarsi
con la schiena contro la parete, gli occhi ora bassi a fissare il pavimento. Mi
fece quasi pena: chissà quante volte doveva aver subito soprusi di quel genere,
ma in ogni caso questo non giustificava il suo comportamento riprovevole.
— Ave, Alpha —
pronunciò dunque, sputando via le sillabe. Si frugò in tasca e ne estrasse un
mazzo di chiavi che lanciò a Mattia. — Ode al nuovo eroe. Ma non illuderti di
star scrivendo la storia. Tempo qualche anno, e sarai diventato la leggenda di
un passato da dimenticare.
Mattia trasse un
respiro profondo, rigirandosi il freddo metallo fra le dita. — Gli eroi vengono
sempre ricordati, Rita. La storia la scrivono loro, dopotutto. Ma la storia si
ripete, generazione dopo generazione, e gli eroi muoiono per fare spazio ad altri
eroi.
Si concesse un
sorriso gelido. — Le leggende, al contrario...
Fu Adriano a
concludere la frase per lui: — Le leggende non muoiono mai.
Mattia passò gli orali
col massimo dei voti. Nella seconda settimana di luglio – la stessa settimana
in cui si scoprì che Silas Housley era diventato signore dei vampiri dopo aver
brutalmente ammazzato il vecchio capo, che aveva organizzato gli attacchi ai
licantropi e fornito l’aconito ai traditori – gli notificarono che aveva conseguito
la maturità con 100 e lode. Questione di altri due giorni e la Basiliade lo
inserì nel suo programma di formazione medica.
La raccomandata
con cui gli comunicavano di averlo accettato in facoltà arrivò a Villa Orlando
insieme a una lettera scritta sua manu
da Daniel Cartwright, segretario personale di nonno Robert, che richiedeva ad
Alicante la presenza degli ambasciatori delle varie razze in vista
dell’imminente nomina dei nuovi Console ed Inquisitore e l’ormai certa
ratificazione dei Tredicesimi Accordi. In quelle righe, Mattia venne
ufficialmente riconosciuto come rappresentante dei mannari.
La cosa che mi
sorprese, però, fu che sebbene quasi chiunque, nel Mondo Invisibile, avesse
saputo dell’inaspettato cambio della guardia tra i licantropi di Gaeta – come
aveva detto Rita, le notizie corrono veloci – nessuno al di fuori del branco
aveva idea di come stessero veramente le cose. Non era trapelata una singola
voce circa l’affiliazione dei lupi con la camorra, né tantomeno erano venuti a
galla i rapporti che questi intrattenevano con nient’altri che il Ministero
della Sanità. Per la maggior parte della popolazione Mattia era semplicemente
il sopravvissuto di una delle tante lotte all’ultimo sangue così frequenti tra
i mannari: nulla faceva riferimento alle decine e decine di violazioni degli
Accordi commesse da Carmine Mallardo prima che Mattia lo uccidesse.
In effetti,
volendo mettere i puntini sulle i, le prove contro Mallardo che avevamo trovato
in quel mese scarso in cui avevamo rivoltato come calzini tutti i benedetti
archivi del Palazzo, sia i cartacei che i digitali, erano perlopiù di carattere
soggettivo e impossibili da confermare o confutare con supporti oggettivi: le
testimonianze dei vari Beta che, come Mattia, erano stati morsi di proposito
valevano ben poco senza qualcosa di materiale da poter eventualmente portare in
corte d’assise. Purtroppo, verba volant.
Si giunse a una
scioccante svolta nel caso quando Trish e Adriano riuscirono a desecretare
l’ultima cartella ancora inesplorata: una volta rimosso ogni sistema di
sicurezza e decifrato ogni codice di criptaggio, il titolo risultò essere Vendite, prestiti e donazioni sotto Carmine
Mallardo – 2011-presente.
Ci volle più di
una settimana perché potessimo leggerne il contenuto senza che si inceppasse il
computer o la stampante, ma l’attesa fu degnamente ricambiata.
Trascorso il
periodo degli esami, Mattia aveva felicemente lasciato i libri di scuola ad
ammuffire sulla scrivania di casa sua e si era invece dedicato – di nuovo – a
studiare la storia criminale del suo branco. Vendite, prestiti e donazioni era il suo documento preferito:
vergate nello stile estremamente criptico e sintetico di Carmine Mallardo,
centinaia e centinaia di annotazioni accumulate in più di vent’anni
testimoniavano entrate e uscite economiche, pesi, prezzi, orari e luoghi di
smercio di carichi di farmaci o droghe, date di inizio e di fine dei lavori di
costruzione di determinati edifici, vittorie su clan rivali e conseguenti
acquisizioni. Mattia considerava quel registro come una sorta di Ab Urbe
condita: una fonte imprescindibile e insostituibile.
Non avendo nulla
da fare, lo aiutavo nel suo lavoro di ricerca. In due potevamo dimezzare i
tempi dell’opera, e all’occasione si univano anche Trish, Logan e Chris.
Ero da sola,
però, nel momento in cui cambiarono le carte in gioco.
Avevamo
esaminato il 2011, il 2012 e il 2013, e avevo appena cominciato col 2014. A
differenza degli altri, gli appunti di quell’anno partivano direttamente nel
mese di marzo, per la precisione il 7. E stavolta non furono le parole del lupo
quelle che la fecero da padrone.
Di Mallardo
c’era solo una breve introduzione, posteriore di parecchi mesi alla data del 7
marzo, che spiegava per sommi capi come fosse venuto in possesso della
successiva lunga serie di scannerizzazioni delle pagine più disparate – fogli
bianchi, di quaderno e di giornale, carta assorbente, tovaglioli, cartone e
cartoncino... – e perché non avesse mai fatto menzione, precedentemente, dei
fatti presentati.
Il 10 agosto mi hanno riferito che è morto
il 4. Volato in America il 13, presi i sottostanti il 14. Di lui non so nient’altro e nient’altro ho trovato segnato,
ma queste informazioni devono restare in mano mia. Se tale questione si era mai
aperta – e so bene di non averlo mai fatto, in passato – ora, ma forse solo
per ora, è chiusa.
Il boss, enigmatico, la concludeva qui.
Meno enigmatico, invece, era lo scrivente delle pagine
scannerizzate. Si poteva quasi toccare la differenza nel modo di esprimersi tra
costui e l’ex Alpha: avrei scommesso che, diversamente dal lupo, avesse
imparato come porsi e come esporre grazie a un percorso di studi mirato
all’arte oratoria e non per semplice abitudine.
Mi aveva detto di chiamarsi Carmine Mallardo.
Principale e
subordinata. Semplici ma incisive. Grafia ordinata e regolare. Grafia familiare.
Sulle prime mi
rifiutai di credere ai miei occhi. Si faceva cenno ad armi, molte armi – armi
bianche – e a un esercito di Nascosti. Si discuteva di trattative, di scambi,
di patteggiamenti e negoziazioni. Si menzionavano Idris e New York. Si menzionava
anche il mio cognome.
Era una
coincidenza talmente improbabile – avrei osato dire impossibile – che il mio scetticismo raggiunse altezze stellari.
Eppure non mi azzardai a chiedere conferma a chi di dovere se non dopo aver
fatto tornare il mio battito cardiaco ai normali livelli.
Papà rispose al
mio messaggio chiamandomi sul cellulare. Promisi che gli avrei spiegato la
versione integrale della storia non appena avessi rimesso piede a casa, ma pure
con i pochi punti che avevo potuto fornirgli per dargli perlomeno un quadro
generale della situazione era riuscito ad avere sufficiente sicurezza per
asserire che la mia supposizione era fondata.
Ricostruii la
vicenda per com’erano andate le cose soltanto in seguito; tuttavia avevo avuto
ragione su ogni singolo aspetto.
Nell’agosto del
2014, mese della mia nascita, gli Shadowhunters di New York e le loro truppe ausiliarie
dovettero combattere contro un manipolo di Nascosti ribelli che Mallardo aveva
armato e contribuito a formare. Era stato poco prima di quella battaglia,
oltretutto, che Silas Housley aveva abbandonato il clan del Dumort.
E non aveva
detto Silas che Stephen Herondale aveva contatti a Gaeta?
Oh, finalmente.
Sì, sì, scusate il
ritardo e bla bla bla. È tempo di scuola, perdonate una povera liceale.
A meno che non mi faccia
altri conti – cosa piuttosto probabile, nonostante tutto – vi annuncio che
questo capitolo sarà seguito direttamente dall’epilogo. Eh già, dopo più di un
anno e mezzo riesco a concludere anche StF *sigh*
Fortunatamente il
prologo di HoC – più che di prologo parliamo più che altro di inizio, e poi
capirete perché – è già pronto, così come anche tutti gli altri parametri da
sistemare per la pubblicazione di una nuova storia, quindi passerà massimo un
giorno simbolico a seguito dell’aggiornamento dell’epilogo prima che possiate
cominciare a leggere House of Cards.
Passiamo ora a un
paio di precisazioni a proposito di questo capitolo: le frasi con le quali
termina il primo paragrafo sono liberamente ispirate a due versi di Emperor’s New Clothes
dei Panic! At The Disco: Heroes always get remembered/But you know legends
never die, ossia “Gli eroi vengono sempre
ricordati ma, sai, le leggende non muoiono mai”.
Colgo l’occasione –
vi sembreranno cose scollegate ma vi assicuro che per me ha senso – per porgervi
una domanda: se doveste smistare Mattia in una Casa di Hogwarts, quale Casa
sarebbe? Sono curiosa di vedere cosa ce ne esce. E chissà se così riesco a
farvi parlare un po’.
Seconda
sottolineatura: sono stata volutamente criptica e poco comprensibile nell’ultima
parte – no, non è vero, la realtà dei fatti è che non sapevo come altro
scrivere e cosa altro scrivere e dovevo finire – perché tutta la backstory
della collaborazione di Mallardo e Stephen Herondale verrà non solo ampliata e
ben raccontata nelle Houses, ma ci sarà un riferimento anche in quell’“inizio”
di HoC di cui vi accennavo prima, per cui non preoccupatevi se non ci avete
capito niente.
Vi rinfresco la
memoria anche a proposito di Rita D’Amante e vi ricordo che la banda dei cugini
Nephilim™ è irrispettosamente entrata, capitoli fa, nel suo ufficio a Villa
Orlando e vi ha trovato, in aggiunta a una prescrizione a nome di Adriano – che
poi è la stessa prescrizione che, vista in fotocopia da Lorianne e Trish al
Palazzo, aiuta Trish a mettere insieme tutti i piccoli pezzi del puzzle e
realizzare infine che Adriano è Imperator (capitolo Vita informe) –
anche una finta laurea in Medicina che “giustifica” le prescrizioni di cui
sopra. Rita è perciò un medico abusivo, oltre che una pessima psicologa, e, ci
metto la mano sul fuoco, vi starà antipatica più di altri personaggi
rompicoglioni al massimo che incontrerete nelle Houses.
Ci tengo a dire
inoltre che altre eventuali questioni rimaste aperte o irrisolte verranno
riprese o nell’epilogo o nelle Houses. Mi è dispiaciuto liquidare il
coinvolgimento dei vampiri negli attacchi ai Beta di Mattia con mezza frasetta,
ma purtroppo non ne ho avuto i mezzi né i modi e dovete pure considerare che il
POV di Lorianne mi limita moltissimo (infatti nelle Houses mi sono decisa a
scrivere in terza persona, alleluia alleluia).
Bene, speriamo di
risentirci al più presto e come sempre mi raccomando di votare e commentare,
specialmente ora che la storia è al suo termine!
Alla prossima,
Federica
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Capitolo 27 *** Non limitare il mare ***
25. Non limitare il mare
Non limitare il mare
8Chi ha chiuso tra
due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno,
9quando lo
circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta?
10Poi gli ho fissato
un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto:
11«Fin qui giungerai
e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde.»
[Giobbe 38, 8-11]
La fine di luglio
portò con sé i temporali di mezza estate.
Sotto la grigia
cappa di nubi che si rifletteva nel mare colorandolo di grigio ferro, Gaeta
chiuse porte e finestre e si serrò al riparo dai forti venti e dalla pioggia
battente. Serapo dichiarò forfait; si riempirono invece bar, ristoranti e
locali di ogni genere. Assieme agli esercizi commerciali gioirono marinai e
pescatori: tempo un paio di giorni, e in ogni buona famiglia gaetana si
infornavano tielle di polipo.
Mattia portò a
Villa Orlando quello che aveva definito il suo capolavoro di tiella sabato 31,
l’ultima serata che avremmo trascorso a Gaeta. Era di dovere una cena di
arrivederci: Trish in particolare aveva insistito per vedere Adriano al di
fuori del solito contesto, e dovevo ammettere che quattro risate in compagnia
di cari amici e cibo delizioso non avrebbero fatto male a nessuno.
Da quando a Rita
era stata tolta la proprietà, a Villa Orlando non si respirava più la stessa
aria. La mansarda era libera, adesso, e mancavano tutti gli effetti personali
della D’Amante, eppure la casa sembrava essere stata rinnovata, più che privata
di qualcosa. Per quanto potesse dispiacermi per Rita, ora mi sentivo finalmente
a mio agio.
Avevamo spostato
il tavolo nel salone: ci era costato fatica e ce ne sarebbe costata
ulteriormente al momento di servire i piatti, essendo la cucina piuttosto lontana,
ma la vista del tramonto sul mare in burrasca dalle portefinestre ne era
decisamente valsa la pena.
La luce naturale
del sole morente e le poche candele sistemate da Chrysta tingevano di violetto
l’ambiente; da fuori arrivava una brezza profumata di salsedine che agitava
leggermente l’orlo della tovaglia bianca, mentre cominciavano a risuonare i
primi tuoni: di lì a breve sarebbe venuta giù acqua a catinelle.
Adriano,
incurante della minaccia, stazionava sul balcone, apparentemente non affatto
intenzionato a tornarsene dentro. A vederlo lì, mi chiesi quante volte avesse
guardato quel panorama, negli anni passati, aspettando che Rita vaticinasse
sulla sua salute mentale.
Trish aveva
tentato l’avventura due o tre volte, nei quindici minuti intercorsi dall’arrivo
di Adriano, ma aveva rinunciato: il giovane Mallardo quel giorno era
inavvicinabile.
Anche Mattia,
presentatosi fortunatamente poco dopo, suggerì di non sfidare la sorte. E Trish
Lewis, famosa per non stare a sentire mai nessuno, gli diede retta.
Costretti a
stare nella stessa stanza, i due si scambiarono giusto qualche parola di rito.
Adriano era distante più del solito, e Trish era priva della consueta allegria.
Domandai a me stessa se anch’io assumessi quell’atteggiamento al pensiero di
lasciare Mattia e tornarmene a New York, o se al contrario ne restassi
prevalentemente indifferente. Avevo paura che fosse la seconda opzione.
Tutto sommato,
contro ogni pronostico, alla fine la cena non andò poi così male.
La tiella di
Mattia – be’, di Anna, in realtà – era ottima, così come il riuscitissimo esperimento
culinario di Logan, il quale, al contrario di sua madre, era alquanto pignolo
nel seguire le ricette e dotato di un certo talento naturale: aveva sì
appestato tutta la cucina con un odore nauseante e probabilmente avremmo dovuto
dare fuoco alle tende, ma perlomeno quei tranci di pesce spada arrosto
rasentavano la perfezione.
Mattonella
gaetana per dolce, su consiglio di Adriano: quattro meravigliosi strati di
delizioso gelato ai gusti di nocciola, torroncino, cioccolato e amarena, con
paradisiache scagliette di cioccolato e quadratini di pan di Spagna bagnato
allo cherry, dalla storica gelateria Il Pinguino a Gaeta vecchia, nella cui
cassa avevamo versato come minimo trecento euro dall’inizio di maggio. Una cosa
buona, allora, Adriano l’aveva fatta.
Una forza
invisibile ci tenne incollati alle sedie anche dopo aver finito di mangiare.
Era la stessa forza che percepivo a casa, durante le feste e le cene in
famiglia; quella forza che per Mattia scaturiva semplicemente dallo stomaco
pieno, ma che per me rappresentava la consapevolezza che, una volta alzati, si
sarebbe rotto qualcosa, e non saremmo più stati capaci di chiacchierare come
prima.
Perciò ce ne
stavamo lì seduti, a giocherellare coi tovaglioli, a guardare distrattamente
fuori dalla finestra, a far sparire i residui della mattonella dal ruoto o, nel
caso di Trish e Adriano, a scambiarsi sguardi esitanti seminascosti dalle
bottiglie d’acqua. Mattia se ne uscì, scherzando con la proposta di una partita
a scopa, e alla fine la partita la facemmo veramente, con un mazzo di carte che
Logan aveva recuperato da uno dei tiretti della cristalliera, costantemente
perdendo contro la mente diabolica di Adriano. Mattia poi ci insegnò a giocare
a sette e mezzo e ad otto e nove, per i quali era d’obbligo una puntata
monetaria: in quel caso fu lui a intascarsi la maggior parte del banco,
svuotandoci le tasche di ogni spicciolo.
Benché
l’atmosfera fosse serena e rilassata, si avvertiva una presenza pesante e
opprimente, parole non dette che aleggiavano sulle nostre teste come la
proverbiale spada di Damocle, in attesa che il filo si spezzasse e le facesse
cadere infilzandoci a morte.
Sapevo che Adriano
continuava a disprezzare Mattia, e d’altro canto il lupo non era esattamente
bendisposto nei confronti del figlio dell’ex Alpha. Sapevo che Logan era
irritato dal fatto che né lui né la sorella fossero giunti a un accordo sulla
questione parabatai. Sapevo che la stessa Trish temeva di non essere capace di
distinguere tra Adriano e Imperator, e di mal interpretare i sentimenti che
provava per lui. Sapevo che a Gaeta mancava un Sommo Stregone, e Chrysta non
faceva mistero di essere piuttosto interessata al posto. E sapevo che sarei
stata malissimo se la mattina dopo non avessi salutato Mattia baciandolo sulle
labbra.
Si era fatto
tardi, e la tempesta ora infuriava. Logan dovette andare a chiudere le persiane
al piano di sopra poiché il vento le faceva sbattere. La luna si avviava a
concludere il suo ciclo: anche quel plenilunio, Mattia si era affidato ai
rimedi di Chris. Non osavo immaginare cosa sarebbe successo quando fosse
rimasto a corto di pozione.
Con
l’avvicinarsi della luna nuova, la sua energia diminuiva progressivamente.
Pochi lupi ne risentivano, ma lui era tra quelli. Il novilunio ci sarebbe stato
solo tra una settimana, eppure Mattia già sfoggiava un colorito più pallido del
normale, per quanto l’abbronzatura lo consentisse, e un’espressione più tesa e
stanca.
Ciononostante fu
lui ad aprire la conversazione, come sempre: — A gennaio parto — esordì. — Devo
fare il tour della vittoria e bussare alla porta degli altri membri del branco.
Secondo Sabrina è meglio che lo faccia al più presto.
— Gennaio non è
al più presto — osservò, laconico, Adriano.
— Grazie, non ne
avevo idea — sbottò Mattia per tutta risposta. — Può darsi che abbia altre cose
da fare, prima.
Adriano alzò le
mani per difendersi. — Dicevo tanto per dire.
— Sì, sì, vabbè.
Come vuoi tu. — Mattia tirò un lungo respiro. — In ogni caso...
— Ti serve
qualcuno che ti accompagni — lo anticipò Logan. — Io ci sto.
Mattia scosse la
testa, mordicchiandosi il labbro inferiore. — No.
— Vengo io,
allora — la buttai lì, e Trish mi diede manforte: — E io. Volevo dire, o io. Ammesso che tu abbia bisogno di
una persona sola.
Mattia negò
ancora. — No. Non esiste.
— Cos’è questa,
misoginia? — sbraitò quindi Chris, sbattendo un pugno sul tavolo. — Proprio da
te non me lo sarei aspettato.
— Sarebbe stata
misoginia se avessi detto di no solo alle ragazze e non anche a Logan — la
corresse Mattia, imperturbabile. — In realtà mi chiedevo se potessi avvalermi
delle conoscenze di un interno.
Adriano colse al
volo l’antifona. — Scordatelo.
Mattia sospirò.
— Ritiro tutto. Tranquillo, Adriano, non ti costringerò a uno sforzo fisico —
lo rassicurò. — Ma necessiterò comunque di un supporto...
— Informatico —
lo precedette Trish. — Perfetto. Avrai il mio contributo.
Adriano serrò le
dita sulla tovaglia. — Patricia, no. Quello è il mio campo.
Lei gli
indirizzò un ghigno sbilenco, a metà tra l’offeso e il divertito. — Mi pare di
aver già imparato da te, Imperator. Anzi, mi pare di averti persino superato.
Fu Logan a
rispondere, impedendo l’intervento di un Adriano parecchio infervorato: —
Trish, ti conviene davvero diventare parte attiva di tutto questo casiino?
Finora abbiamo fatto quel che dovevamo, ma adesso... francamente, sono ben
felice di tirarmene fuori.
— Bell’amico che
sei — brontolai, scoccandogli un’occhiata furiosa da sotto le ciglia. — Sempre
pronto ad aiutare il prossimo.
Avrei dovuto
tenermi quel pensiero per me. L’avevo fatto incazzare.
— Okay,
Lorianne, seriamente? — cominciò, scattando in piedi come una molla. — Amico? Mi sembra un tantino esagerato.
Dannazione, lo conosciamo da tre mesi, per l’Angelo, e in questi tre mesi ho
visto un Sottomondo peggiore di quanto avessi mai visto prima, ho visto persone
peggiori di... persone peggiori di qualunque demone sulla faccia del pianeta. E
io di Sottomondi ne ho visti diversi, cuginetta, non sono cresciuto sotto una
campana di vetro come te. È uno schifo, Raziel, uno schifo! — urlò. — Non sono un gran nuotatore: mi lascio trascinare
dal peso morto sul fondo dell’oceano, quando dovrei invece riportarlo a galla.
Pertanto, Lori cara, scusami se sono consapevole dei miei limiti ed evito di
cacciarmi in un guaio di queste dimensioni. Lo ripeto: sono ben felice di
tirarmene fuori.
— Un brindisi
all’enorme coraggio degli Shadowhunters — commentò Adriano, sollevando teatralmente
un bicchiere. — Forse mio padre aveva ragione a non volervi nemmeno portare a
letto.
— Parla quello
che si è scopato mia sorella! —
strepitò Logan, le guance chiazzate di rosso per la rabbia. — I gusti cambiano
da padre in figlio, eh?
— Fortunatamente
— replicò Adriano, serafico. — Comunque, se non cado in errore, Trish era più
che consenziente. Dovresti domandarlo a lei, dato che ci tieni tanto. Trish,
tesoro, vuoi controbattere?
Tutto ciò che
lei disse al contrario fu: — Logan, siediti.
Al comando della
gemella, lui abbassò la cresta e cedette.
— Sentite —
iniziò Trish, massaggiandosi le tempie. — Col presupposto che, sì, Adriano mi
piace moltissimo e potrei perciò essere di parte...
Si interruppe
per reprimere una risatina alla vista di Adriano che arrossiva. Arrossì a sua
volta, ma si ricompose subito. — Ragazzi, mi fate cascare le braccia. Come
Nephilim dovremmo valorosamente combattere le ingiustizie e l’illegalità nel
Mondo Invisibile – per la miseria, gli Accordi li abbiamo pure scritti noi – e,
nonostante questo, cosa stiamo facendo? Ce ne stiamo deliberatamente lavando le
mani. Per di più, Logan, ti ricordo che faremmo la figura degli ipocriti
insabbiando tutto ciò, quando eravamo noi, e siamo noi, i primi a forzare Lorianne a gridare al vento la verità.
La ringraziai
silenziosamente.
— Non saremmo
migliori di quei camorristi se semplicemente volgessimo la testa di lato e ce
ne fregassimo alla grande, così come se ce ne dimenticassimo o fingessimo di dimenticarcene. Abbiamo
assistito allo spettacolo e, che lo vogliamo o no, la storia adesso è anche un
po’ nostra. Personalmente, io non ho intenzione di fare un passo indietro.
Calò il silenzio
per un istante che durò un’eternità.
— Mattia — lo
interpellò infine Chrysta, facendo sobbalzare tutti. — Sei chiamato in causa.
Era strano che
non avesse già preso la parola e che fosse dovuta intervenire Chris. Forse doveva
ancora ragionare un po’, o, magari, non era sicuro di cosa dire.
Magari non era
sicuro di voler parlare.
Mattia si grattò
distrattamente il mento, meditando. — Ascoltatemi con attenzione — dichiarò, —
e che questo concetto non venga frainteso: non vi sto obbligando a fare nulla.
Tantomeno vi sto obbligando a considerarmi un amico; dopotutto, io stesso ho
ancora delle riserve su di voi. Insomma, mi siete piombati tra capo e collo,
come del resto io sono piombato tra capo e collo a voi, e capite bene che la
situazione richiede un determinato tempo di riflessione, cosa che né io né voi
abbiamo avuto. Ergo, non vi biasimo e non vi invidio. Nessuno vorrebbe trovarsi
nella posizione in cui è ognuno di noi.
Deglutì e si
concesse una piccola pausa. — Non so chi sarà il mio chaperon, l’anno prossimo.
Per come ho le idee chiare ora, potrebbe essere pure il mio cane. Tanto deve
soltanto farmi compagnia e non mandarmi in manicomio.
— Già — mormorò
Adriano, — per quello basta e avanza il branco.
— No, per quello
basti e avanzi tu — precisò Mattia. — Non vi nascondo che ho una paura fottuta
— confessò. — Ci sono persino due bordelli, signore e signori. Due bordelli.
— Oh, non
preoccuparti di quelli — minimizzò Adriano. — Ne ho fatto saltare in aria uno.
Ci restammo
tutti di sasso. — Hai fatto cosa? — strillò
Logan, mentre Mattia, evidentemente più abituato di noi alle bizzarre uscite di
Adriano, fece: — E perché l’avresti fatto, di grazia?
— Ho fatto
saltare in aria un bordello, con un bel po’ di gente dentro, perlopiù — sillabò
lentamente Adriano, come per spiegarlo a un bambino. — Una prostituta mi ha
mandato un SOS.
— Ah — borbottò
Trish. — Una prostituta. Ti ha mandato un SOS.
— Non ho
malattie veneree, se te lo stai chiedendo — interloquì l’hacker. — Quelle
cardiache sono sufficienti.
— Ovviamente ci
sei andato a letto.
— No, ci ho
progettato un blog. Naturale che ci sia andato a letto!
— Piantatela! —
proruppe Mattia in tono scocciato. — Dio mio, fate le vostre cose da
fidanzatini lontani dalla mia innocente e impressionabile persona, per carità
cristiana!
Adriano non
demordeva. — Disse quello cornuto e mazziato.
— Ti soffoco con
le spine del pesce.
— Piantatela! —
li scimmiottai. — Dio mio, fate le vostre cose da lupo e gatto lontani dalla
mia allergica persona, per carità cristiana!
Avevo sperato di
provocare una risata generale, ma tutto quello che ottenni fu un risolino cupo:
trascorso il siparietto comico, era il momento di tornare al motivo originale
della discussione.
Mattia si piantò
i denti nella lingua, come per impedirsi di aprire bocca. Purtroppo, però, una
sua arringa finale era inevitabile.
— Va bene,
questo è quanto. — Si interruppe per versarsi un bicchier d’acqua. — Non può
importarmene di meno di chi ha fatto saltare il bordello, perché l’ha fatto,
come l’ha fatto, chi era questa prostituta... ora come ora, non me ne frego
neanche di quelli che ci hanno perso la pelle, là dentro. Non è la mia
priorità, questa. La mia priorità è innanzitutto farmi una maledetta idea su
quale sarà il mio ruolo a Idris e su cosa diavolo significa rappresentare una
razza intera, inventarmi un buon metodo per riuscire a raccontare al mondo
questa storia tremendamente incasinata senza che ci vadano di mezzo le persone
sbagliate e possibilmente trovare un minuto per ricordare a un certo soggetto
di mantenere una certa promessa.
Molto poco
discretamente, mi indicò con un dito accusatorio.
Mi sentii andare
in fiamme, ma una bolla di gioia scoppiò nel mio petto.
— Inoltre, per
quanto riguarda voi e il vostro coinvolgimento in queste vicende, la questione
mi pare semplice: chi vuole ficcare le mani in pasta e aiutare, benissimo, che
aiuti, dunque. Ma, di conseguenza, chi non vuole non lo faccia. Punto. Non
potete pretendere, e io non posso pretenderlo da me stesso, che metta d’accordo
Logan e Adriano o Adriano e Trish o Lorianne e Trish o chicchessia, non sono un
arbitro. Vedetevela tra di voi, ché siete grandi, grossi e si spera vaccinati.
Ho già abbastanza problemi e non posso permettermi di risolvere pure i vostri.
Adriano gli
afferrò un polso. — Ehi ehi ehi, Nardone, calma. Controllati.
Mattia se lo
scrollò di dosso con un verso di disapprovazione, poi scosse la testa e sbuffò.
— Suppongo di essere arrivato al punto in cui controllarmi è impossibile.
— È vero —
confermai. — Non fai altro che distruggere ogni barriera che ti crei o che ti
fai creare.
Lui mi scoccò
un’occhiata storta. — Ed è un bene?
— Forse. — Mi
strinsi nelle spalle. — Forse dovresti provare l’ebbrezza della libertà.
— Siete stati
voi quelli che l’hanno incatenato — ci rammentò Adriano. — Ora i carcerieri si
ergono inaspettatamente a salvatori?
Logan si fece
scuro in volto. — Io non spezzerei la catena.
— Neanch’io —
concordò Mattia, sogghignando. — Pertanto, date le circostanze, allungatemela.
Chrysta si
pizzicò la radice del naso. — Perfetto. Diamo al cagnolino che tira un altro
metro di guinzaglio.
— Quel cagnolino
tirerà ancora e ancora e ancora — osservò Logan. — Volete farvelo scappare?
— Oh, ma io non
scappo, Lewis — sussurrò Mattia. — Sono tutto meno che un lupo solitario. Non
abbandono il mio branco.
Adriano strinse
nuovamente l’avambraccio di Mattia. — Se per non essere abbandonato devo far
parte del tuo branco, allora... — Serrò le labbra. — Porco mio padre. Non ci
credo che lo sto dicendo.
Mattia sorrise
malignamente. — Credici.
— Vaffanculo. —
Adriano respirò a fondo. — Sono del branco.
Istintivamente
mi sporsi in avanti e coprii la mano di Mattia con la mia. — Sono del branco
anch’io.
Trish intrecciò le dita con quelle di Adriano
e mantenne una presa salda sul polso del licantropo. — Anch’io.
— Adoro i
giuramenti — gongolò Chris, unendosi felicemente a noi. — Ai suoi servizi,
Alpha.
Fissammo Logan
con intenzione. — Al diavolo — imprecò, ma aggiunse la sua mano senza
esitazione. — Però voglio un drink di benvenuto.
E lì, in una
casa abbarbicata su un promontorio a picco su un mare in burrasca, mentre il
vento indomabile scuoteva le imposte e i lampi squarciavano il cielo, un tuono
sincronizzò i nostri cuori, e lasciammo che il silenzio suggellasse il nostro
patto.
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Capitolo 28 *** Epilogo ~ Veleno ***
Epilogo - Veleno
Epilogo ~ Veleno
Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit.
Dosis sola facit, ut venenum non fit.
Tutto è veleno, e
nulla esiste senza veleno.
Solo la dose fa in
modo che il veleno non faccia effetto.
[Paracelso]
Alberto, chaperon per
un giorno, attendeva impaziente seduto al posto di guida. Chrysta stava finendo
di caricare le valigie nel bagagliaio magicamente allargato, Logan chiudeva la
porta di Villa Orlando e Trish tentava, senza risultati, di scollarsi da
Adriano. In altre parole, un quadretto coi fiocchi: la partenza era ormai
incombente e improrogabile.
Mattia si
passava distrattamente da una mano all’altra qualcosa che non riuscivo a vedere,
scrutando l’orizzonte da dietro le lenti scure degli occhiali. La buriana della
sera prima aveva scacciato via il maltempo, e Gaeta aveva ricominciato a
brillare.
— Allora, signor
Nardone — esordii, tentando di mantenere un tono spensierato. — Quali sono i
suoi piani per oggi?
— Spiaggia — mi
rispose lui immediatamente. — Mare. Sole. Salsedine. Cocco bello cocco fresco.
Un po’ di tranquillità. — Sospirò. — Penso di meritarmela, almeno per un mese.
— Già. — Mi
concessi un sorrisetto. — Preparati per Idris.
— Lo farò.
Abbassai la
testa, cercando le parole adatte per dirgli addio. No, no: dirgli arrivederci.
— Lorianne.
Rialzai lo
sguardo. — Sì?
Mattia aveva la
stessa espressione che gli avevo visto stampata in faccia quella sera
all’Eneas. La stessa espressione che da allora non era mai più tornata, fino a
quel momento.
Era un misto di
rassegnazione, lontana tristezza, astuta curiosità e un pizzico di lucida
follia. Sentimenti che non avevano ragione di coesistere, ma che in qualche
modo riuscivano ad equilibrarsi e albergare pacificamente in quelle calde iridi
nocciola. Mi sentii attraversare da un’improvvisa, bollente e piacevole vampa
di calore.
— Tieni.
Mi piazzò tra le
braccia tre grossi libri. Riconobbi il primo: era La Biblioteca dei Morti.
Mattia mi
sorrise. — Poi mi dici come sono.
Percepii gli
angoli della bocca sollevarsi di loro spontanea volontà. — Grazie.
— Figurati.
Lo abbracciai
goffamente, intralciata dalla presenza dei volumi, ma lui sembrò non farci
caso. — Buon ritorno, Lorianne. Ci rivediamo a settembre.
Mi staccai a
malincuore, lo salutai con un veloce gesto della mano ed entrai in macchina
costringendomi a non voltarmi indietro.
Pochi minuti
dopo che Alberto mise in moto, però, quando eravamo quasi a tre quarti della
discesa, abbassai il finestrino, mi sporsi fuori con metà del busto e gridai: —
Come facevi a sapere che potevi rivendicare la proprietà di Rita?
Il suono della
risata di Mattia si perse nel vento. — Non lo sapevo.
Risi anch’io,
forte, e gli lanciai un bacio. — Ti adoro, Mattia Nardone!
— E tu non mi
repelli, Lorianne Herondale!
Mi buttai sul
sedile continuando a ridere, e ridevo, e ridevo, e ridevo. Era bello,
bellissimo. Era stupendo.
Quei tre libri
erano stupendi. Mattia era stupendo. E ciò con cui Mattia stava giocherellando,
prima, era stupendo.
Era un
bigliettino, infilato nella quarta di copertina de La Biblioteca dei Morti. Un semplice rettangolo di cartoncino,
bianco con cornice rossa, stampato a lettere piccole e chiare. Assieme ad esso
vennero fuori due chiavi attaccate a un anonimo anello di freddo metallo, ma
ciò che quelle chiavi rappresentavano, assieme a ciò che c’era scritto sul
biglietto, mi scaldò il cuore.
Mattia Nardone, parco Ralph Scott, palazzo
rosso, interno 3 – Alicante, Idris.
E, sul retro, vergato in una calligrafia semplice e
ordinata:
Se Maometto non va dalla Montagna, la
Montagna va da Maometto...
È la seconda volta che prendo l’iniziativa.
Dannazione, ragazza, svegliati. Non sono il tipo da Bella Addormentata nel
Bosco. Sono più il tipo da Malefica.
Mi sei strisciata addosso, vipera. È fiele,
quello che stillano le tue zanne?
Sublime.
Striscia di nuovo al mio fianco, ti prego.
Non smettevo di ridere. Ero isterica; non riuscivo a
fermarmi.
Mattia era un
bastardo. L’apoteosi, la genesi di tutti i bastardi. Uno stronzo coi fiocchi. E
gli stronzi coi fiocchi si meritano una bella punizione.
Be’,
tutto considerato, visto che proprio non poteva farne a meno... avrei
continuato a strisciare al suo fianco ancora per un bel po’ di tempo.
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Capitolo 29 *** Ringraziamenti ***
Ringraziamenti
Ringraziamenti
Stavolta un capitolo a parte è di dovere.
Questi infatti
non sono soltanto i ringraziamenti per StF, bensì quelli per tutta la trilogia.
Perciò, senza andare a fare un elenco che sarebbe il copia e incolla delle note
dell’autore dei due epiloghi precedenti, ci tengo a porgere i miei più sentiti
e solenni omaggi a chi mi segue sin dall’inizio; a chi mi ha aiutato in
qualsiasi modo possibile, anche solo leggendo; a chi è
arrivato dopo, specialmente coloro che mi seguono solo da qualche settimana e
hanno fatto scorpacciata di ogni singola storia in tempi record, e a chi invece
ha – più o meno pazientemente – aspettato gli aggiornamenti. Grazie anche a te
che magari sei capitato qui per caso, perché comunque mi hai dato una
visualizzazione, e hai contribuito a far rientrare di pieno diritto l’intera
trilogia tra le consigliate di Wattpad nel fandom di Shadowhunters.
Parlando più
specificatamente di Seeing the Future, in cima alla piramide non poteva esserci
altra persona se non Francesca Paduano, la formidabile Saint-Lucifer (passate a
leggere Bad Things Happen to Good Girls su Wattpad, la cui altrettanto magnifica
coprotagonista Karef è per buona parte farina del mio sacco), che si è sorbita
i miei audio di pure 12 minuti, telefonate di tre ore, papiri e documenti vari
già da prima che il prologo di StF vedesse la luce. Nelle Houses, il suo
contributo sarà ancora più grande.
Grazie, Fra.
Per seconde, Noemi Fabiano alias Alexiel94 ed
Emanuela Malec aka Malec_1234 (sì, chiamo tutti per cognome tranne lei,
semplicemente perché non so quale sia),
anche loro martiri costrette all’ascolto di audio secolari e alla lettura di
rotoli della Torah per la buona causa del compiacimento della sottoscritta.
Thanks, girls.
Terzo, colui che
ama Adriano e odia la D’Amante, il bel Marco Canonico (TheLonePianist), mio
follower da non così tanto tempo ma che si è degnamente guadagnato
l’appellativo di Sommo Lettore di Federica Improda. A lui sono però stati
risparmiati i lunghi monologhi via vocale.
E grazie anche a
te, Marcolì.
Grazie ad Althea
Matijacic per le copertine sia della serie Past, Present and Future che delle
Houses e per il booktrailer di HoC – arriverà a breve, don’t worry – oltre che
per avermi fornito il cognome di Jean insieme a un’esaustiva storia della
famiglia.
Menzione d’onore
al testimone di nozze dei miei genitori, che mi ha reinstallato Office dopo che
mi era scaduto l’abbonamento. Menzione di disonore a OpenOffice che, per quanto
mi faceva schifo scriverci sopra, mi ha fatto perdere l’ispirazione per un’estate
intera.
E, ultima ma non
meno importante, grazie a te, nonnina, perché è per merito tuo se amo Gaeta
così come la amo, se conosco tutte le sue leggende e il suo passato, se Mattia
è di Serapo, il Palazzo si trova a Santa Lucia e i vampiri si sono stabiliti
nell’ex Italcraft, se Anna è un personaggio tanto importante e se importante è
il Lupo di Mare. Ti ringrazio, nonna, per avermi supportata e supportata come
solo tu sai fare, e soprattutto per non esserti fermata al testo ma aver capito
cosa c’era dietro. Non sarei dove sono, e non sarei chi sono, senza di te.
Concludo...
anzi, no, perché dovrei concludere?
Questa non è una
fine. È tutto meno che una fine.
È la tredicesima
carta dei tarocchi: la Morte che spazza via il vecchio e fa largo al nuovo, che
estirpa il brutto per far crescere il bello.
Quattro storie,
tre coprotagonisti, infiniti personaggi secondari, luoghi vicini e lontani,
vite che si intrecciano come radici: sono House of Cards, House of Sand, House
of Wood e House of Stone.
Carte, sabbia,
legno e pietra, o forse aria, acqua, fuoco e terra.
Questo è
l’inizio delle Houses.
Grazie a tutti,
ragazze e ragazzi; a chiunque abbia nominato e non abbia nominato. Grazie anche
a me, dannazione.
Ci rivediamo
presto. O meglio, subito.
House
of Cards è online.
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