The Keepsake Tales di ChocoCat (/viewuser.php?uid=63124)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'assassina di ricordi ***
Capitolo 3: *** Quando si perde la passaporta che da tempo si aspettava ***
Capitolo 4: *** Prova a premere il Rewind ***
Capitolo 5: *** Io invece ero aria, e tu, tu eri come me ***
Capitolo 6: *** Di strani sogni e Ghermidori ***
Capitolo 7: *** In trappola ***
Capitolo 8: *** Bombarda Maxima ***
Capitolo 9: *** Una lettera scarlatta ***
Capitolo 10: *** Di piani, menzogne e carta bianca ***
Capitolo 11: *** Quella parte di me che odio di più ***
Capitolo 12: *** Il bacio del serpente ***
Capitolo 13: *** Mezzosangue, prigionieri ed ecchimotici ***
Capitolo 14: *** Di Amore, libero, e Barbablù ***
Capitolo 15: *** Lezioni di vita ***
Capitolo 16: *** Nell'occhio del ciclone ***
Capitolo 17: *** Troppo di tutto ***
Capitolo 18: *** Pezzo dopo pezzo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Alle volte accadono
stranezze anche nel mondo dei portatori di bacchette; basta
un incantesimo sbroccato
...tentare la sorte
impugnando il pugnale dei ricordi senza paura di ferirsi.
Perché la materia ama se
stessa, e non vuole abbandonarsi. Quei preziosi fantasmi del suo
passato non volevano lasciare il mondo.
Vagarono attorno a lei in
un chiarore argenteo, contornarono il letto di Ron, scintillarono
vicino a Seamus ma scesero le scale, come il fumo durante l’incendio,
alla ricerca di un’anima spezzata.
Chi sarebbe stato?
Ronald dal cuore puro e il
temperamento vermiglio? George e i suoi ricordi di Fred? Molly
sfiancata dalla perdita del figlio, braccata dai sensi di colpa?
La stria argentea esitò a
lungo su di lei, esitò a lungo su George e superò Ron
accarezzandolo appena, spostandogli impercettibilmente le punte dei
capelli, e ben presto trovò un luogo perfetto in cui posarsi.
C’era qualcuno, in quella
casa, che aveva già subito un incantesimo di memoria permanente.
Quel ragazzo ormai uomo
aveva un’insenatura perfetta nell’anima, che quei ricordi
coscienti riconobbero come fosse il loro luogo d’origine, perché
in un certo senso lo era.
Erano ricordi condivisi, di
un amore pazzo e sconsiderato, giudicato frettolosamente immeritevole
e cancellato dalla faccia della terra.
La scia argentea si adagiò
e i lembi della ferita in quell’anima combaciarono nuovamente.
Hermione perse una parte di
sé. Lui riacquistò i ricordi, da un altro punto di vista, ma che
importanza aveva?
La materia ama se stessa, e
non si sarebbe più lasciata abbandonare.
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Capitolo 2 *** L'assassina di ricordi ***
Note
dell'autrice: 1) Per qualche strano motivo il primo capitolo risulta
essere questo, ma c'è un PROLOGO! Basta andare indietro di un
capitolo ;) 2)Questo capitolo è un po' lento, devo ammetterlo; mi
sono persa in mille descrizioni, ma l'ho lavorato molto e non sono
riuscita a capire dove tagliare e dove no; ogni parola mi sembrava
utile. Non fermatevi alle apparenze, il ritmo cambia con il
susseguirsi delle vicende. Ogni personaggio avrà la sua fetta di
protagonismo, per cui se all'inizio il vostro favorito scompare per
un po' non allarmatevi: tornerà alla carica :-) buona_lettura!
1.
Era ancora una ragazzina impacciata, quando si ritrovò davanti al
proprio riflesso per truccarsi. Perché il mascara non era mai
simmetrico e le sue labbra sembravano una salsiccia al
sanguinaccio?
Dopo un sospiro carico d’impazienza, Hermione
prese un batuffolo di cotone e cancellò ogni traccia del turpe
misfatto. Una giovane strega non ha di questi problemi, normalmente,
eppure lei si sentì incapace di sfoderare la bacchetta magica.
Tremava un po’ la mano che scendeva a stirare le pieghe dell’abito,
al pensiero di ciò che l’aspettava.
Il naso a punta, gli
occhi spenti, le guance morbide ma pallide erano il suo nuovo
ritratto quotidiano. Non se ne accorse nemmeno, di quella sua brutta
cera, guardandosi e tentando di ravvivarsi il ciuffo che le si
arricciava ribelle in mezzo alla fronte; era da un po’ che non si
guardava più abbastanza da vicino. Riunì i capelli in una treccia
abbastanza elegante, poi in punta di piedi raccolse i vestiti sparsi
sull’antico parquet e si avviò per indossare il cappotto.
In
effetti nemmeno da ragazzina aveva passato tanto tempo davanti allo
specchio; aveva avuto ben altro a cui pensare, soprattutto l’ultimo
anno di scuola a Hogwarts, che aveva frequentato daccapo in seguito
alla caduta del Signore Oscuro; non poteva sopportare l’idea di
aver perso un anno intero di vita da latitante, e sapeva che questo
avrebbe inciso sulla sua futura carriera, ma non aveva avuto altra
scelta; e con lei, tutti quelli che erano stati colpiti più o meno
direttamente dal morbo di chi stava dalla parte dell’Opposizione e
dell’Ordine della fenice.
Hermione, ventitré anni appena
compiuti, era diventata una strega eccezionale; paziente, capace,
eccessivamente brillante; le sue qualità e la vocazione allo studio
l’avevano portata ad iscriversi all’Istituto di Storia della
magia di Dublino –il più famoso, in Europa!- e,
contemporaneamente, a lavorare in una biblioteca Babbana del Comune
per mettere da parte qualcosa. Così, mentre ci si aggirava per il
suo piccolo bilocale ottenuto con tante rinunce, si potevano
osservare pile di libri di ogni genere troneggiare sulla stanza e
tappezzare le pareti, ingombrare l’unica scrivania e il piccolo
tavolo a mezzaluna di alluminio laccato in bianco che lei teneva
perennemente aperto contro il muro; era il suo tavolo da pranzo, la
sua vera scrivania –si concentrava meglio, perché dava sull’unica
finestra della stanza- e in genere era anche la postazione di
controllo preferita dal suo gatto. La cucina si riduceva a un
lavello basso e consunto in alluminio e un piccolo forno a gas; c’era
un ripiano, ancorato al muro, anch’esso ricoperto di libri.
Chiunque si sarebbe chiesto come potesse cucinare in un luogo simile
ma Hermione poteva far bollire l’acqua con una bacchetta, e quello
era niente, niente in confronto ai potenti incantesimi di cui era
padrona. Avrebbe potuto cuocere un troll in umido, se solo
l’avesse voluto, in quell’angusta cucina che dava sul salotto,
sullo studio e sulla camera da letto insieme.
I passi di
Hermione risultavano delicati sul parquet, quasi avesse una vicina di
casa del piano di sotto che non sopportasse i rumori molesti; eppure
sotto al suo appartamento c’era una lavanderia, e in quel momento,
alle otto e mezzo di sabato sera, era chiusa. Un tappeto logoro di
color verde bottiglia dava un po’ di tono all’ambiente, ma non
poteva nascondere con i suoi angoli arricciati certi vecchi graffi
del legno sottostante; segnava inoltre la stanza, rendendola più
piccola, alzando i muri a tal punto da farla sembrare un largo
corridoio. La luce era anch’essa scarsa, concentrata nei punti
chiave dell’abitacolo, dove lei soleva accovacciarsi con un libro
in grembo e una tazza di the al limone in mano. La sua coperta in
tweed era ripiegata ordinatamente sulla scrivania, segno che era
appena stata riposta dopo una lunga giornata di studio.
Non
potendo permettersi una libreria grande a sufficienza, Hermione
teneva i suoi libri impilati gli uni sugli altri e succedeva che
spendesse un pomeriggio a settimana per spolverarli tutti e
mantenerli in ordine. Capitava spesso, inoltre, che fra i suoi libri
ce ne fossero in prestito due-tre alla settimana provenienti dalla
Biblioteca comunale. Libri Babbani, come lo era lei di nascita.
Fra
due colonne dominanti di grossi volumi magici, dalla parte opposta
dell’appartamento, spuntava il suo gatto Grattastinchi; era
acciambellato sull’unica poltrona di stoffa e la guardava spostarsi
avanti e indietro da una stanza all’altra con la calma dell’acuto
osservatore che era. Erano anni che la vedeva comportarsi in quel
modo; appariva determinata, tranquilla, felice a un occhio
disattento, ma Grattastinchi non perdeva di vista la sua pupilla.
Hermione era perennemente ansiosa. Quando studiava si avvolgeva
nella coperta e sprofondava nella poltrona, oppure si accovacciava
sul tavolino, penna d’aquila in mano, con una borsa d’acqua
bollente, costantemente alla ricerca di calore. Non si stupiva,
quella maestosa creatura dal pelo fulvo, quando improvvisamente
suonava il campanello e lei s’illuminava; dopo qualche minuto di
chiacchiere con Harry o dopo un bacio di Ronald, Hermione sentiva il
bisogno di togliere uno dei maglioni in lana fatto in casa che
indossava a strati quando era da sola. Poi, appena se ne andavano,
tornava a far bollire un po’ d’acqua per fare il the. Lo prendeva
bollente e poi lo lasciava intiepidire fra le mani, assorbendone i
caldi raggi attraverso la pelle.
Così, quando quella sera
Ronald suonò il campanello di casa Granger, Grattastinchi si
stiracchiò e prese a pulirsi il pelo con soddisfazione. Hermione
arrivò all’istante, con le scarpe dai tacchi a punta in mano, per
aprirgli la porta.
“Herm, tesoro”
“Ehi”
La
ragazza sorrise rapidamente, poi si sedette ai piedi della poltrona,
sul suo tappeto verde, per indossare le scarpe. Mentre già
allacciava il secondo cinturino, il gatto fulvo si arrestò e la
squadrò brevemente, poi riprese il suo lavoro con finta
indifferenza.
Era molto bella, con quell’abito viola
melanzana; sembrava quasi ridare colore alle sue guance, ma non ebbe
lo stesso effetto benefico sul suo umore; la mano tremava e mentre
lei si rialzava tornò a lisciare le pieghe già ordinate della
gonna. Ron, dal canto suo, non si era accorto di niente. La
osservava, trepidante, con lo sguardo che ha solo un uomo
innamorato. Ai suoi occhi, quei riccioli che irti sfuggivano alla
treccia e quei polsi fini che scendevano lungo i fianchi, fra le
volute color melanzana, erano semplicemente mozzafiato. Tuttavia,
quell’esile mano destra, sapiente portatrice di bacchetta, non
volle smettere di tremare.
“Andiamo, sei pronta?”
“Sì…”
e con aria decisa Hermione raccolse la bacchetta e lo seguì sotto
l’uscio, non prima di aver spento le luci e aver mandato un
bacio al gatto ancora seduto con aria scettica sulla
poltrona.
Grattastinchi rimasse immobile, e neppure il più
realista degli uomini avrebbe potuto negare l’aria assorta e
preoccupata di quello sguardo d’oro felino che ancora fissava la
porta. Quella sera, Hermione nascondeva decisamente
qualcosa.
2.
Harry Potter dormiva beato sul
suo divano sfondato in pelle all’incirca da quando era tornato a
casa dopo il lavoro; erano già passate un paio d’ore, eppure non
voleva saperne di svegliarsi.
Quel pomeriggio da Olivanders
c’era stata una nuova consegna di fasci di legni pregiati per
bacchette, e dato che il signor Olivanders non era più in grado di
fare molto, da solo, Harry aveva passato l’intero mese di giugno a
occuparsi del negozio. Certo, questo infieriva leggermente sul suo
rendimento all’Accademia degli Auror Londinese, ma non aveva saputo
dire di no a un vecchio, seppur strambo, amico. Passava le
giornate fra ragazzini che riportavano bacchette rotte con le
orecchie ancora rosse e strette fra le dita delle loro madri, gli
allenamenti fisici dell’addestramento Auror e il laborioso ripasso
degli incantesimi tutti nuovi da imparare che riceveva, in una lista
a calligrafia infinitesimale su una pergamena lunga sessanta
centimetri il primo di ogni mese da quasi due anni.
Dato che
la fine dell’anno scolastico a Hogwarts coincideva con l’acquisto
massivo delle bacchette per i maghi del primo anno non potevano
permettersi di cominciare ad agosto a prepararle; il signor
Olivanders ordinava il necessario già verso febbraio, e a giugno
riceveva in quantità massicce i suoi misteriosi ingredienti. Harry
non riusciva a frenare la lingua, di fronte a una tale quantità di
sostanze magiche sconosciute, tanto che oramai il vecchio mago aveva
preso l’abitudine di spiegargli ogni cosa mentre lui si occupava di
trasportarla nel negozio.
Olivanders, da quando era stato
prigioniero del Signore Oscuro, aveva perso la sua bacchetta ma
segnato a vita da quell’esperienza non aveva mai avuto il coraggio
di costruirsene una nuova.
Si limitava a venderne, e come le
costruisse per Harry era ancora un mistero.
C’era nel
retrobottega del negozio una stanza chiusa in cui il giovane mago non
aveva il diritto di entrare, e si era –stranamente per i suoi
precedenti- attenuto agli ordini, fin ora.
Quel po’ di soldi
che vi guadagnava, insieme alla piccola fortuna lasciata dai suoi
genitori, gli avevano permesso di comprare così giovane un piccolo
appartamento ammobiliato, caldo e confortevole. C’erano due stanze,
un salotto, una cucina confortevole e un bel caminetto che usava
spesso per comunicare con la famiglia Weasley, poiché da quando
Edwige era scomparsa non aveva avuto il coraggio di
sostituirla.
Fidanzato da più di tre anni con Ginny Weasley,
abitava con lei in quella casetta londinese luminosa e centrale – a
qualche passo da lì c’erano i negozi, un parco, perfino una
stazione della metropolitana Babbana che prendeva regolarmente per
sfizio- in cui però spesso e volentieri si ritrovava solo. La
ragazza, focosa in aspetto e in modi, era stata scelta come candidata
ideale in un viaggio a scopi umanitari in Sud America con una
compagnia di maghi. Era in pieno apprendistato di Curatrice e
Medimago, e la sua ambizione era stata premiata molto
precocemente. Così Harry la vedeva saltuariamente e non poteva
fare a meno di sognarla, su quel divano comodo su cui riposava, un
giorno no e due sì, perché gli mancava da morire.
Era
abituato a stare da solo, lo era stato per tutta la vita, ma da
quando era finita la guerra non accettava più le mezze misure.
Angoscia, sensi all’erta e incubi bui l’avevano abbandonato solo
di recente. Fortunatamente, gli impegni non mancavano mai, e riusciva
a distrarsi abbastanza da non soffrire troppo la sua assenza; ma quel
giorno, il trentun luglio, era particolare perché era il suo
ventitreesimo compleanno, e Ginny gli aveva promesso che avrebbe
cercato di esserci, quella sera.
3.
Un bel
ragazzo dai capelli rossicci e gli occhi di ghiaccio se ne stava
imbambolato davanti all’ultima porta del corridoio più lungo che
avesse mai visto, con numerosi promemoria che gli svolazzavano sopra
la testa cinguettando furiosamente, e fra le braccia un cartone
ricolmo di oggetti pesanti. Ronald Weasley, più alto e
dinoccolato che mai, aspettava il padre con un po’ di apprensione
davanti all’ufficio che condividevano da circa una settimana.
Era
successo tutto molto in fretta, gli avevano offerto il posto part
time rapidamente, e si limitava a seguire il padre e sbrigare le
faccende più semplici; era diventato il tuttofare del Dipartimento
per l’Uso improprio dei Manufatti Babbani del Ministero.
Era
felice di portare a casa un po’ di grana, soprattutto perché nel
frattempo riusciva a pagarsi gli studi; come Harry, si allenava per
diventare un Auror, ma era stato rimandato in troppi corsi a causa
del lavoro ed era ancora al primo anno.
“Ron, porta pure
tutto dentro, ho buttato le ultime scartoffie di Perkins… Ron, dove
sei? Oh, eccoti!”
“Sbrigati pa’, se no la mamma si
arrabbia molto stasera. È da una settimana che organizza la cena di
compleanno di Harry…”
Ronald posò con poca delicatezza il
macigno che teneva in braccio poco prima; al di sopra di tutti i
libri e gli oggetti infilati alla rinfusa, c’era una foto di lui,
Hermione e Harry che sorridevano ai tempi di scuola; dovevano avere
dodici anni, a giudicare dal fatto che la ragazza era più alta di
entrambi e dal suo sorriso spuntavano due incisivi leggermente
sporgenti.
Le sorrise con affetto, poi guardò l’orologio e
con uno scatto prese suo padre per la manica della veste e lo tirò
con insistenza fuori dall’ufficio. Non era il caso di fare tardi,
se ci tenevano alla pelle. Certo, la signora Weasley sapeva come
farsi rispettare. Lo dicevano tutti in ufficio.
4.
Mentre il signor Weasley, che per l’occasione indossava una
meravigliosa camicia a quadri con la cravatta ton sur ton –come un
vero uomo d’affari, vero Harry?-, si accingeva ad aprire la porta
della Tana al figlio accompagnato da Hermione, il giovane mago Seamus
Finnigan chiacchierava animatamente di Quidditch ingoiando con
rapidità sorprendente i biscotti glassati al cioccolato e menta
piperita della signora Weasley.
“Tieni caro, e mettili sul
tavolo questa volta” lo rammonì Molly, porgendogli un nuovo
vassoio e scoccando un’occhiataccia anche a Harry, che rosicchiava
lo stesso biscotto da qualche minuto, visibilmente
sovrappensiero.
“Grazie, signora Weasley. Dicevo, Arthur,
che non capisco come mai si siano rammolliti proprio ora che il
Manchester…”
“Seamus, che ti avevo detto? Non potevano
farcela, senza il secondo battitore; il sostituto è un fallito e non
so nemmeno come sia entrato in squadra…”
“Dev’essere
un novellino arrivato quest’anno. Com’è che si chiamava?”
soggiunse Harry.
In quel momento, apparvero Hermione e Ron, e
Harry non seppe decidere quale dei due fosse più bello. Una coppia
perfetta, pensava, mentre osservava il suo migliore amico distribuire
pacche a tutti i presenti con quelle sue mani grandi, le spalle
larghe, il sorriso spontaneo. Dal canto suo, Hermione era sublime;
indossava l’abito che aveva portato, anni prima, in occasione del
compleanno di qualcuno –o forse l’aveva indossato già qualche
volta? Non importava, era comunque di un’eleganza rara-, un vestito
a balze viola con lo scollo a cuore; al collo, sempre lo stesso
ciondolo: un medaglione a cuore con un’apertura. Harry non aveva
idea se contenesse veramente qualcosa, ma gliel’aveva sempre visto
addosso.
Si riscosse solo quando il suo chiassoso amico gli
appioppò una manata sulla nuca.
“Auguri, Harry! Hai
sentito? Ginny dovrebbe avere una giornata libera… papà prima
parlava di una Passaporta nuova, ma…”
“Ron, lascialo
respirare” lo rabbonì Hermione, sorridendo dolcemente all’amico.
Posò la borsetta di perline ricamate – la sua vecchia e temibile
alleata- su una sedia in vimini vicino al caminetto, poi si voltò
verso Harry. Gli posò le mani sulle spalle, guardò lungamente quei
suoi occhi smeraldini, poi lo strinse a sé con forza sorprendendolo
e trainando Ron nell’abbraccio.
“Auguri, caro…”
“Ehi,
ce n’è anche per me?”
Arrivò Seamus, ma prima che
potesse avvicinarsi si ritrovò con le gambe all’aria e il sedere
dolorosamente a terra; cercò una spiegazione verso l’alto, e
un'eminente figura dalla testa rossa gli si era posta davanti, con le
braccia incrociate, in tutta la sua statura.
“George, che
diamine…”
“Finnigan, quante volte devo dirtelo? Tu non
farai MAI parte di quel magico trio, mai. D’accordo? Mettitela via,
che so io, inscriviti al circolo delle Gobbiglie del Paiolo Magico,
vai in vacanza e fatti un Safari… non vedi quanto sono più belli,
più interessanti e decisamente superiori al resto del mondo?
Lasciali perdere, è un consiglio da amico” e con un occhiolino,
gli tese la mano.
Benché avessero una ventina d’anni a
testa, in un istante si ritrovarono a rotolare sul pavimento come
ragazzini, facendo cadere tutto sul loro passaggio, in balia di una
lotta impari; George era più grande, ma Seamus era decisamente
robusto. Ci vollero parecchi strilli di Hermione e della signora
Weasley, perché Harry e Ron, in preda a una risata interminabile, si
decidessero a separarli. Nella zuffa, la borsa di Hermione era
finita inspiegabilmente sotto di loro e un rumore di oggetti pesanti
–probabilmente altri libri- che cadevano rovinosamente richiamò
tutti all’ordine in qualche minuto. Lei raccolse la borsetta,
mordendosi un labbro e lanciando un’occhiataccia ai ragazzi. Al
solito, non esisteva serata tranquilla in casa Weasley.
5.
In mezzo ad una radura, sul versante ovest di una montagna irta e
verdeggiante in piena luce, una figura esile si dava da fare
camminando avanti e indietro davanti ad un vecchio secchiello da
spiaggia Babbano appoggiato casualmente ad una radice sporgente e
mezzo affondato nella terra. Che cosa ci facesse in mezzo alla
giungla più nera dell’angolo più sperduto sul suolo brasiliano
era un’ottima domanda, ma la cosa più strana di quella radura
restava la fanciulla che marciava sui propri passi da più di
mezz’ora.
Ginevra Weasley indossava un bellissimo abito di
raso verde scuro, era truccata a dovere per un gran gala e i suoi
capelli –divenuti lunghissimi, durante il viaggio- aleggiavano
attorno alle sue spalle donandole un’aria principesca, imprigionati
mollemente da un laccio in tinta col vestito. Peccato che, per
l’appunto, fosse mattina presto, e il sole tardasse ad alzarsi per
i suoi gusti.
Il cielo ancora scuro lasciava scorgere
all’orizzonte uno spicchio di un’arancio caldo e avvolgente che
mai avrebbe potuto vedere la luce in Inghilterra.
Ginny guardò
la sua bussola per un istante, l’ennesimo in qualche minuto, ma la
lucina sul display vibrava con la stessa frequenza di mezz’ora
prima.
Non sentiva, dall’alto di quell’area scoscesa e
pericolante, le voci dei suoi compagni di viaggio, che si accampavano
a qualche chilometro a piedi da li. Tia, Liam e Daniel avevano
chiesto di accompagnarla, dopotutto non era il posto più tranquillo
in cui stare, soli, di notte; Ginny aveva rifiutato, insistendo sulla
propria capacità di self control e sul fatto che fosse armata fino
ai denti con la sua semplice bacchetta. In realtà, non voleva che la
vedessero così agghindata dopo settimane di abiti smessi e
puzzolenti, di caldo afoso e umido e di cibo all’arraffata. Passavano
le giornate fra i maghi più poveri della regione per aiutarli a
rimettersi in sesto, a guarire gli ammalati offrendo loro servizi e
una tenda in cui riposare e per immunizzare quante più persone a
rischio per il vaiolo magico, che sebbene fosse stato eradicato in
Europa, ancora aleggiava nei paesi caldi dell’emisfero Sud del
globo. Erano in missione, e non avevano di certo bisogno di
vestiti eleganti o fronzoli, ma quella notte Ginny aveva frugato in
fondo al baule fra le magliette stracce e i suoi utensili e ne aveva
estratto un astuccio contente i suoi trucchi, un nastro di raso per i
capelli e il suo abito verde leggermente spiegazzato.
Dopo
settimane di duro lavoro, sebbene fosse appassionata e volonterosa,
era felice di staccare e poter riabbracciare la sua famiglia, e il
suo Harry.
Improvvisamente la bussola scottò e lei seppe che
era il momento di agguantare il secchiello, ma un rumore di frana e
un urlo disumano richiamarono la sua attenzione, e la Passaporta
chiuse il suo passaggio definitivamente, ritornando ad essere un
semplice oggetto abbandonato.
A niente servirono le settimane
di maturazione, controllo, alienazione… Ginny urlò dando aria ai
polmoni per liberare tutta la sua frustrazione. Aveva aspettato quel
momento per settimane.
Un secondo urlo, a giudicare dal
timbro, maschile raggiunse i suoi timpani e bruscamente interruppe le
sue imprecazioni. "AIUTO! AIUTATEMI... SONO QUI!"
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Capitolo 3 *** Quando si perde la passaporta che da tempo si aspettava ***
Dal
capitolo precedente:
Improvvisamente
la bussola scottò e lei seppe che era il momento di agguantare il
secchiello, ma un rumore di frana e un urlo disumano richiamarono la
sua attenzione, e la Passaporta chiuse il suo passaggio
definitivamente, ritornando ad essere un semplice oggetto
abbandonato.
A niente servirono le settimane di maturazione,
controllo, alienazione… Ginny urlò dando aria ai polmoni per
liberare tutta la sua frustrazione. Aveva aspettato quel momento per
settimane.
Un secondo urlo, a giudicare dal timbro, maschile
raggiunse i suoi timpani e bruscamente interruppe le sue
imprecazioni.
“AIUTO… AIUTATEMI… SONO QUI”
6.
Un
caldo profumo di pan dolce si fece strada dalla cucina, e la signora
Weasley fiutò immediatamente che era il momento di mettere la torta
in tavola. L’agitazione era palpabile, Ginny, la sua bambina,
sarebbe arrivata da un momento all’altro, e visibilmente gli ospiti
non aspettavano altro.
C’era
Harry che sembrava perso in un’altra dimensione, poi accanto a lui
George che discuteva con Ron e Seamus di Quidditch ma che continuava
a lanciare occhiate al polso dell’amico per vedere l’ora; infine,
Hermione; non alzava più lo sguardo verso nessuno e mogia guardava
il suo piatto.
Doveva
essere fame, doveva.
Così mandò Ron in cucina per sfornare la torta alla melassa, e si
avviò in salotto a svegliare il marito che sonnecchiava accanto al
caminetto in attesa che arrivasse sua figlia.
Ai
piedi del signor Weasley c’era una pila di regali per Harry e
qualche vestito nuovo per Ginny con un sacchetto di dolciumi da
portare in Brasile per i suoi compagni, al ritorno. Molly aveva
pensato proprio a tutto, tranne a quello che stava per succedere,
quella calda sera del 31 luglio.
Ron
si alzò di malavoglia e Harry lo seguì in cucina, complice la scia
profumata e irresistibile che gli annebbiava la mente nonostante la
quantità allucinante di cibo che aveva già ingerito in serata.
Ginny
non aveva detto a che ora sarebbe arrivata, anzi non ne aveva parlato
affatto con lui, dato che non aveva un gufo per risponderle da casa,
perciò tutte le notizie le aveva mandate alla Tana.
Harry
si mosse familiare in cucina e aiutò l’amico a sollevare
quell’enorme torta dal forno rovente. “Manca la glassa,
aspetta” disse Ron, rubando una briciola fragrante e infilandola
fra le labbra con soddisfazione.
Si
sciolse all’istante e l’assaporò con gusto. Fece scivolare da
una ciotola una golosissima glassa rosa sull’intero dolce, senza
tenere conto di alcuna proporzione che non fosse d’accordo con la
sua ingordigia. Harry, ridendo, faceva il tifo per lui.
“Di-più!
Di-più!”
“Ecco
fatto”
“…perché
Weasley è il nostro re…”
“Non
ricominciare, o è la volta buona che ti meno, ex Capitano dei miei
parastinchi!”
E
lo minacciò col cucchiaio su cui la glassa si era già
cristallizzata a formare una golosa patina rosata.
Tutto
quel buon umore non aveva raggiunto la tavolata del salotto.
Avevano
tutti un’aria assonnata, era mezzanotte passata e la serata si
faceva un po’ troppo lunga. Il posto di Seamus era vuoto, ma
nessuno si era chiesto dove fosse andato a finire quel disgraziato.
Charlie,
il fratello più vecchio di Ron, era seduto a capotavola e
giocherellava con il proprio bicchiere; accanto a lui Bill e Fleur
chiacchieravano sottovoce; dal lato opposto sedevano, uno di fronte
all’altro, George e Hermione, uno scomposto e comodamente adagiato
su due sedie, l’altra rigidamente costretta in una posizione di
perfetta immobilità da più di un’ora.
Nessuno
dei due osava fiatare. Mancava qualcuno, a quel tavolo, e George lo
sentiva, gli stracciava il cuore quel silenzio; non ci si abitua alla
scomparsa della propria controfigura, del proprio fratello,
dell’amico più stretto, più vicino di tutti.
Così
disse la prima cosa che gli venne in mente vedendo il viso pallido e
stanco di Hermione, sperando di riportare un po’ di brio e di
spazzare quel freddo siberiano che gli aveva stretto il cuore per
l’ennesima volta.
“Ron
mi ha detto per voi due. Allora, è vero che ne parlerete stasera ai
vecchi?”
bisbigliò George con aria cospiratrice. Hermione si alzò
improvvisamente, con la faccia di chi avesse ingoiato un limone. Il
piccolo cuore di metallo sobbalzava sul suo sterno in preda ai suoi
stessi battiti. Lo strinse in mano con forza.
“Torno
fra un minuto” esalò, con un’aria bizzarra.
Di
certo, George si aspettava di tutto, ma non una reazione del genere.
7.
Hermione
raccolse la borsetta di perline dalla sedia accanto alla propria e si
avviò verso il piano di sopra per entrare nella prima camera che
avesse trovato. Si ritrovò davanti al letto sfatto di Ron; sul
davanzale della finestra c’era una boccia di vetro vuota, il
vecchio Deluminatore e la sua bacchetta. I ricordi la sommersero; in
quella stanza, strategie, ansie, affetti, paure, e ancora gioie,
disappunto, e amori senza fine…
Fissò
lo sguardo davanti a sé e lo incontrò nel riflesso di uno specchio
antico che ricopriva l’anta di un trasandato armadio a muro la cui
vernice si scrostava a tratti lasciando intravedere un colorito scuro
e indefinibile. Quell’armadio e quella stanza incorniciavano un ben
triste ritratto di lei. Hermione si vide per quello che era, ed era
peggio di ciò che temeva.
Grottesca,
falsa, serpe, mangiatrice
di ricordi.
Il
suo cuore Grifondoro apparteneva a un passato sconosciuto; ora c’era
solo un’oscurità accecante che le aveva tolto il soffio vitale
dalla carne, e quel visino dagli occhi bugiardamente felici non
l’incantava più.
Non
riuscendo a trattenersi oltre, scoppiò in lacrime.
Un
nodo alla gola troppo stretto da allentare le opprimeva il respiro,
ma non portò nemmeno una mano al viso.
Voleva
vedere la vera sé, da vicino, per la prima volta in tanto tempo, e
anche per l’ultima.
Cercò
a tastoni la bacchetta nella borsa, fra i libri crollati e oggetti in
quel momento del tutto insignificanti. La bacchetta era scheggiata,
ma la sua mano tremante non se ne accorse; la puntò al proprio petto
e senza battere ciglio, si guardò per un ultimo, intenso minuto.
Poi,
sillabò l’incantesimo. Non sentì i passi di qualcuno dietro di
lei, non sentì le sue grida soffocate. Vide tutto nero, tranne il
proprio viso, una maschera dolce e nera, sfranta dal rimpianto, poi
più nulla: “Oblivion…”
Seamus
non si sentiva all’altezza della situazione, e sapeva per certo che
non avrebbe mai dovuto vedere ciò che aveva appena visto.
La
ragazza ora era accasciata fra le sue braccia, il viso rigato di
lacrime ma sereno, vuoto.
Espirò
una nebbia fine, biancastra, che serpeggiò via da lei, verso il
corridoio e le scale che portavano al piano di sotto.
La
piccola ruga di tormento che si era accomodata fra le sopracciglia
della ragazza anni prima stava lentamente scomparendo sotto ai suoi
occhi e lui non aveva idea di cosa significasse; le accarezzava la
fronte disperato, in cerca di risposte nascoste, indizi velati nella
stanza, sulle pareti, nel corridoio che poteva scorgere da lì ma da
cui l’aveva vista pronunciare l’incantesimo senza riuscire a
fermarla un attimo prima.
Hermione
aveva perso conoscenza, e lui non sapeva cosa fare.
Decise
che era meglio non parlarne con nessuno.
“Hermione,
perché?” mormorò fra sé, ancora sotto shock, mentre la stringeva
al petto.
Un
paio di minuti dopo scendeva le scale con lei in braccio, un peso
trascurabile e soffice quanto la stoffa di quell’abito scuro. Si
vide correre incontro Harry e Ron; non rispose nulla per un po’,
incapace di farlo. Ingoiò un bicchiere d’acqua e uno di liquore
prima di parlare. Si schiarì la gola.
“Penso
che abbia avuto un malore, ero appena uscito dal bagno ma mi sono
accorto di avervi lasciato la giacca, così ero salito di nuovo, e
l’ho trovata a terra in bagno. Aveva perso i sensi”
“Ma…
perché? Come…” Ron non si capacitava. “Aveva appena mangiato.
Dovremmo portarla al san Mungo.”
“Portarmi
dove?” mugugnò Hermione, svegliandosi.
Harry,
che si era allontanato a recuperare una spugna inumidita per bagnarle
il viso, si accasciò improvvisamente contro il lavello con un
fragore pazzesco e batté fortemente la nuca. Una nebbia fine si era
appena sospinta fino al suo viso, e lui, involontariamente, l’aveva
inalata.
Perse
anche lui i sensi e mentre un rivolo caldo gli colava nel colletto
della camicia, tutto si rabbuiò.
“Cosa
sta succedendo qui?” tuonò la signora Weasley, allarmata dal
rumore, e precipitatasi immediatamente a controllare il ragazzo a
terra. “Per Merlino, non saremo mai tranquilli in questa casa,
vero?” singhiozzò in preda all’angoscia, alla vista del sangue
di Harry, “ARTHUR!”
“Che
c’è?”
“ARTHUR…”
ripeté, minacciosa, con la voce spezzata.
Dal
salotto accorsero tutti quanti, e alla vista della scena si
attivarono per riordinare e dare una mano a trasportare Harry sul
divano. Borbottavano tutti sull’idea di chiamare un Medimago, ma
aspettavano ancora che Ginny arrivasse e nel mentre gli avevano messo
del ghiaccio sotto la nuca. Hermione era scossa ma si era ripresa;
districò le braccia che la tenevano inchiodata sulla sedia e si alzò
da sé. Prese docilmente la mano di Ron per raggiungere gli altri.
Seamus
li seguì con il cuore che gli martellava nel costato.
Cosa
era successo?
Perché
era stato coinvolto, ma soprattutto cosa era successo a Harry?
“Harry,
come ti senti?”
Il
ragazzo piagnucolò qualcosa di incomprensibile, poi strinse gli
occhi e il viso divenne una smorfia di dolore. Molly guardò
rapidamente Arthur con l’occhiata tipica di quando cerca
rassicurazione. Arthur annuì silenziosamente, poi si avvicinò al
giovane mago e gli posò una mano sul viso.
“Hai
male?”
“Terribilmente…
alla fronte.”
“Eppure
hai dato una botta di nuca… non capisco.”
“Fa
male…”
“Molly,
prepara un decotto per favore.”
“Ok,
ok, sto meglio… sto bene.” si precipitò Harry, che all’idea di
ingoiare qualche medicina aspra aveva qualche remora.
Si
sentirono tutti più sollevati, ma Hermione sembrava quella più
tranquilla. Era da un po’ di tempo che nessuno l’aveva vista così
allegra.
Il viso era morbido, le lacrime avevano formato strie leggere perché
per sua fortuna non si era truccata; il suo dolore, lancinante e
subitaneo, non l’aveva scorto quasi nessuno.
E
il sorriso di sollievo che aveva avuto, alla vista della smorfia
disgustata di Harry che non voleva bere il decotto, l’aveva
tranquillizzata.
Ron
le stringeva ancora la mano con forza, timoroso. Non si capacitava di
quella strana combinazione di sfortunati eventi, eppure non riusciva
a immaginare come potessero essere correlati. Ben presto tornarono
tutti al tavolo, stavolta con un po’ d’impazienza.
Era
passata un’ora dal compleanno di Harry, ma di Ginevra non c’era
ancora nessuna traccia, e l’orologio della cucina aveva appena
spostato su “pericolo mortale” la lancetta della cadetta dei
Weasley.
8.
Ginny
non era solo inviperita per aver perso la sua unica Passaporta per
tornare a casa quella mattina; aveva anche dovuto scalare un pendio
malagevole con il suo vestito più bello rovinandolo
irrimediabilmente, e arrivata all’insenatura da cui proveniva la
voce che aveva richiesto aiuto, trovò l’ultima persona al mondo
che avrebbe voluto rivedere.
“Gin...”
Lei
lo squadrò per un istante. L’aria ribelle che lo
contraddistingueva da sempre non se n’era andata; era sicuramente
diventata sua una parte indissolubile, insediata fra quelle
sopracciglia ad ali di falco e quegli occhi di caramello liquido che
la scrutavano con aria critica e leggermente sorpresa.
I
capelli corti sulle tempie e più lunghi sul capo gli conferivano
un’aria selvaggia e incivile, per non parlare degli abiti logori e
insanguinati.
No,
Michael Corner non era decisamente in buone mani con Ginny Weasley,
visti i precedenti… eppure non smise di sfidare il suo sguardo,
finché lei non si decise a chiudere la bocca spalancata e deglutire
rumorosamente.
“Si
può sapere, per le mutande sporche di Merlino, cosa ci fai tu in un
posto così e in questo stato? Fra tutti i posti di questo mondo,
tutti, dovevi proprio essere qui? Devo aver fatto qualcosa di
veramente brutto nella mia vita passata…”
“Con
calma, fai pure, non ho due gambe spezzate in questo momento che mi
bloccano il respiro da un’ora e che mi fanno rischiare il collasso
da un momento all’altro.”
“Sei
ferito?” Ginny accorse per tastargli il polso e la fronte, poi con
un leggero strappo spezzò su entrambe le gambe gli squarci aperti da
chissà che volo a faccia in giù fra le rocce avesse fatto quel
deficiente.
Respirava
aritmicamente, col fiato mozzo e il viso sporco, quel ragazzo
arrabbiato col mondo. Il cuore di Ginny fece una capriola; doveva
agire, e in fretta.
“Mannaggia
a te, cosa ti è venuto in mente di cacciarti nei guai? In Amazzonia,
per giunta, proprio dietro l’angolo se hai bisogno di un rapido
soccorso.”
“Io
lavoro qui, Weasley.”
Lei
gli lanciò un’occhiata fiammeggiante, poi riprese ad osservare le
ferite.
“Mi
ci vorrebbe la mia attrezzatura, ma non ho portato niente.”
“Lo
vedo.” ingiunse il ragazzo, osservando con curiosità malcelata
l’agghindata ragazza mentre si slacciava la chioma. Un ventaglio di
capelli rossi gli si aprì addosso e il profumo di agrumi che
trattenevano da legati esplose nell’aria.
Michael
si ritrovò ad assaporarlo suo malgrado, con un moto di affetto.
Ginny spostò un masso appiattito su un lato e glielo mise dietro la
schiena, poi lo aiutò ad appoggiarvisi; senza concedergli il tempo
di dare un ritmo normale al proprio respiro, morse il suo lungo
nastro verde e ne ottenne due, poi li usò a mo’ di laccio
emostatico. Un urlo rabbioso del ragazzo echeggiò nell’antro e in
tutto il burrone, facendo sollevare un intero stormo di uccelli dalla
foresta del versante a loro visibile.
Lei
gli tappò la bocca, poi estrasse la bacchetta dalla scollatura
dell’abito scatenando l’ilarità del ragazzo che tossicchiò
dolorosamente, e la puntò in aria.
“Accio
Folium Musae Acuminatae!”
“Hai
appena appellato qualcosa per uccidermi?”
“Quanto
sei idiota.”
“Seriamente,
Weasley. Cosa stai cercando di fare?”
Si
zittì quando quattro gigantesche foglie di banano gli piombarono
violentemente addosso in una insolita folata di vento.
“Senti
un po’, so come aggiustare le ossa con la bacchetta, ma primo non
l’ho mai fatto…”
“…allora
evitiamo e togli il disturbo, che ne pensi?”
“…e
secondo, avrò usato così tanta energia da non riuscire nemmeno a
fare un Levicorpus per portarti al mio accampamento.”
“Dove
io non ho assolutamente intenzione di andare, sia chiaro.”
“Siamo
d’accordo? Sì? Bene. Ora zitto e lasciami concentrare.”
“Cerchiamo
di capirci… tu non avrai mica intenzione di…”
“Zitto
ho detto! Sono in apprendistato per diventare Medimago, abbi un po’
di fiducia, per tutti i Gargoyle! Com’era? Sì, giusto… Femur
emendo.”
Il
ragazzo gridò con tutte le sue forze. Gli occhi lacrimanti rivolsero
una sorda implorazione alla strega, che si apprestava a riprendere in
mano la bacchetta. Le era caduta, ma a giudicare dal rumore secco che
aveva prodotto il suo incantesimo nella coscia macilenta del ragazzo,
era andato tutto come previsto. Gli scostò i capelli che rimasero
all’indietro, fradici di sudore e carichi di polvere e sporcizia.
I
suoi grandi occhi marroni si agitavano in tutte le direzioni, alla
ricerca di un appiglio, di sicurezza. Non aveva idea di che lavoro
facesse, ma di sicuro non era qualcosa di facile o sicuro. bene le
manie di Michael sull’esplorare il mondo e fare “esperienza”.
In
quel momento però lui piangeva come un bambino, e lei mise da parte
il rammarico, il dolore e il suo cuore spezzato.
“Sh,
è quasi finito. Su, stai calmo.”
“No…
basta… non voglio… no…”
“Solo
l’altra gamba. Solo un attimo… scusami. Femur
emendo.”
e puntò la bacchetta all’altra coscia, producendo un secondo <
crac > di ossa rotte, e un grido che si terminò in un lamento da
far venire i brividi. Altri stormi si levarono dalle cime degli
alberi, questa volta un primo raggio di sole li illuminava.
Rimase
seduta con la bacchetta in mano qualche minuto, a riprendere fiato,
anche lei turbata dal dolore del giovane mago. Eppure era abituata
alla sofferenza, alla povertà, alla vicinanza con le persone malate.
Perché quelle grida la laceravano dentro? Ginevra si osservò le
braccia: erano piene di lividi e sporche come al solito; il vestito
era sgualcito, ma non aveva ricambi. Non sapeva come avvisare i suoi
genitori che non sarebbe venuta quella “sera” da loro, e pregava
che nessuno si preoccupasse troppo per lei.
Un’ora
dopo Michael ansimava ancora, e il dolore l’aveva reso delirante.
Ginny
gli tastò la fronte e scoprì che era bollente. Non c’era niente
da fare, doveva passare la giornata con lui e aspettare di ritrovare
un po’ di forze per tirarlo fuori da quella situazione.
Nel
frattempo, bendò le cosce del ragazzo con le foglie di banano dopo
averle tagliate in più bande.
Lo
liberò della sua casacca di cuoio puzzolente, di li a poco si
sarebbe alzato una calura indecente e lei lo sapeva bene; quel petto
sudato dalla pelle di bronzo non voleva smettere di salire e scendere
a una velocità impressionante; una volta finito il lavoro, ancora
inquieta si accovacciò contro la parete rocciosa, ed esausta si
addormentò.
Si
svegliò di soprassalto e dovevano essere passati solo pochi istanti,
perché il ragazzo in pieno delirio da febbre la chiamava sottovoce.
Tastava il suolo con le mani, come accecato dal dolore.
Rivoli
di sudore gli rigavano la fronte e la gola, perfino il torace.
Era
fra gli effetti secondari del suo incantesimo?
Ginny
non lo sapeva; lo guardò preoccupata con mille formule di
incantesimi del tutto inutili che le frullavano in mente.
“Ginny…
stammi vicino…”
“Come
dici?” replicò lei.
“Ho
paura… stammi vicino.”
“Sono
qui.”
“Dove
sei?”
Si
avvicinò e gli prese la mano, a disagio ma con sicurezza.
“GINNY,
DOVE SEI? NON MI LASCIARE DA SOLO… NON MI… LASCIARE… SOLO…”
Michael
si addormentò all’improvviso, completamente incosciente.
La
ragazza sentiva il cuore pulsare, la gola stringersi. Non poté fare
a meno di ricordare ogni singolo dettaglio del loro ultimo scontro;
lui voleva un orizzonte più largo, lei desiderava stargli accanto;
lui l’aveva allontanata e se n’era andato, soffocato da un
bisogno smisurato di libertà, lasciandola in balia delle sue paure e
del suo dolore, lui…
Basta.
Harry, c’era Harry con lei e niente contava al mondo più di lui.
Si rasserenò improvvisamente, e il balsamo che le addolciva il cuore
tornò a fare effetto. Harry l’avrebbe sempre protetta, anche dai
suoi stessi ricordi.
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Capitolo 4 *** Prova a premere il Rewind ***
Dal
capitolo precedente:
“GIN,
DOVE SEI? NON MI LASCIARE DA SOLO… NON MI… LASCIARE…
SOLO…”
Michael si addormentò all’improvviso,
completamente incosciente di ciò che aveva appena detto. Lei però
sentiva il cuore pulsare, la gola stringersi. Non poté fare a meno
di ricordare ogni singolo dettaglio di ciò ch’era successo fra
loro; lui voleva un orizzonte più largo, lei desiderava solo stargli
accanto; lui l’aveva allontanata e se n’era andato, soffocato da
un bisogno smisurato di libertà, lasciandola in balia delle sue
paure e del suo dolore, lui…
Basta. Harry, c’era Harry con
lei e niente contava al mondo più di lui. Si rasserenò
improvvisamente, e il balsamo che le addolciva il cuore tornò a fare
effetto. Harry l’avrebbe sempre protetta, anche dai suoi stessi
ricordi.
10.
Harry
non capiva dove si fosse cacciato. Aveva appena aperto gli occhi e
attorno a lui si delineava un’oscura radura. Il suo cuscino era un
masso e la sua coperta una montagna di foglie secche. Gli alberi alti
e fitti coprivano ogni angolo di cielo ma era notte fonda, e si
sentiva solo il canto lontano di un cuculo. Era convinto di essere
già stato in quel posto, ma non avrebbe saputo dire quando.
Si
alzò appoggiandosi sui palmi, poi li strofinò sulla veste e si
guardò attorno infreddolito. Sentiva parlare una voce femminile
soffusa e gradevole, ma credette di essere vittima di un muffliato;
il rumore era ovattato, come quando i Ghermidori erano passati
accanto a lui ed Hermione durante il viaggio alla ricerca degli
Horcrux, e le loro voci seppur vicine gli apparivano lontane a causa
dei sortilegi difensivi.
L’ascoltò
parlare, indeciso, ebbro: gli era terribilmente familiare, tanto da
aprirgli uno squarcio nel cuore. Sapeva, per un motivo inspiegabile,
di essersi perso in un sogno e che quell’ambiente non era reale.
Forse… forse era un ricordo? E quella voce femminile, così dolce,
così suadente, era quella di sua madre?
Improvvisamente
il sogno gli si chiuse attorno fino a soffocarlo, per poi scomparire
nel buio di una porta di legno massiccio. Era appena stato chiuso
fuori da una stanza, nella sua mente, in cui credeva di non essere
mai entrato. Tentò invano di riaprirla, non seppe girare la maniglia
e si svegliò di soprassalto nel suo letto. Fece due profondi
respiri, ancora disorientato. Agguantò la sveglia per scoprire che
erano già le undici e mezzo.
Imprecò
fra due sbadigli.
La
sera prima non era riuscito ad addormentarsi; era preoccupato per
Ginny, ma non aveva voluto dire niente per non inquietare la signora
Weasley; inoltre, quella botta sulla nuca gli aveva impedito di
mettersi comodo e aveva dormito malissimo.
Si
alzò con un gran mal di testa, frastornato e indeciso sul da farsi.
11.
Hermione
si svegliò con uno strano sapore dolce in bocca; si sentì avvolta
da un odore familiare, e quando aprì gli occhi seppe di essere a
casa. Saggiò le coperte per raggomitolarvisi sotto, quando al posto
di un cuscino trovò un soffice ciuffo di capelli rossi.
Si
avvicinò al viso di Ron, e dopo averne respirato l’odore prese a
baciarlo lievemente per svegliarlo.
Il
ragazzo grugnì soddisfatto, allungando un braccio per avvicinarla al
petto.
La
sera prima erano tornati a casa tardi, di Ginevra non si era più
saputo niente ma avevano tutti liquidato l’accaduto pensando che
era troppo occupata e doveva sicuramente aver perso la passaporta.
L’aveva quindi accompagnata a casa, ma l’ora e il malore di
Hermione lo avevano convinto a passare la notte da lei. Era rimasto
sconvolto, quando la ragazza invece di tergiversare – cosa
penseranno i tuoi genitori di me?-
gli aveva proposto semplicemente di dormire nel suo letto. Non era da
lei farsi pochi scrupoli, eppure ora sentiva finalmente la situazione
in pugno.
Dalla
guerra ad oggi, Hermione era sempre rimasta un po’ schiva e la sua
riservatezza aveva spesso minato alla loro relazione. Quel
cambiamento improvviso per lui significava molto; che si fosse
finalmente messa il cuore in pace?
Hermione
gli accarezzò i capelli ancora per qualche minuto. Adorava quel
contatto, adorava non svegliarsi sola nel suo letto, e soprattutto
era felice di non sentire nessun peso sul cuore nell’aver agito in
quel modo.
Grattastinchi
saltò sul letto con uno scatto felino e venne a salutarla
strofinando la fronte con la sua, e senza volerlo, quella di Ronald
con la coda. Si misero a ridere e lo accarezzarono insieme, fino a
che lui non richiamò l’attenzione sul fatto che era decisamente
passata l’ora in cui solitamente riceveva la sua razione di cibo.
Hermione
fu la prima ad alzarsi.
«Resta
a letto, ti preparo qualcosa» gli disse, sorridendo con gli occhi.
12.
Doveva
essere pomeriggio inoltrato, quando Michael Corner apriva gli occhi
da un sonno offuscante e ansimava debolmente, intorpidito;
improvvisamente sentì un gran brivido freddo, nella calura della
giungla, e ricordò ogni cosa:
lavoro-sorpresa-paura-rabbia-indignazione-dolore-…Ginevra. Gin era
con lui? Davvero?
Quando si guardò attorno non vide nessuno.
Preoccupato
che le due merde vaganti non se ne fossero ancora andate, ebbe un
guizzo ansioso e si alzò malamente a sedere per osservarsi le gambe;
non aveva il coraggio di muoverle, il dolore che aveva provato il
giorno prima gli faceva stringere i visceri al solo pensiero.
Ingoiava l’aria rapidamente, nell’ombra umida della grotta,
boccheggiando come un pesce.
Un
rumore roccioso attirò la sua attenzione, e per la paura contrasse i
muscoli delle cosce. Niente. Non sentì alcuna fitta. Ginevra gli
aveva aggiustato entrambe le gambe; si ritrovò a gattonare verso il
bordo scheggiato che pendeva a strapiombo sul burrone; una raffica di
vento gli spettinò i capelli e la pelle sudata gli si gelò,
facendogli battere i denti. Il suo sguardo scuro saettò sui
dintorni, e Gin era li, sullo strapiombo. Dannazione, era con lui, in
Brasile. Era lì per lui? Impensabile.
La
ragazza era visibilmente occupata e gli dava le spalle, avvolta nei
suoi capelli come in uno scialle, così si avvicinò ancora di più e
lei sobbalzò per lo spavento. Ammiccò silenziosamente alle proprie
gambe, e lei accennò un assenso. Sembrava abbastanza compiaciuta, e
rincuorata dal suo risveglio, tanto che Michael perse l’aria
burbera che gli apparteneva e si mise ad osservarla, con un po’ di
diffidenza, appoggiato alla parete rocciosa. Un lungo, ventoso
silenzio rigenerante riempì l’aria attorno a loro, accogliendoli
entrambi in un unico abbraccio. Per qualche minuto, Michael non disse
niente; sentiva ancora la bocca impastata, e sembrava che anche
Ginevra non avesse nulla da dire.
Si
accorse di aver smesso di rabbrividire. Il vento aveva asciugato ogni
goccia di sudore, e ora gli afferrava le mandibole con pennellate
tiepide, costringendolo a socchiudere gli occhi e strizzare le
palpebre. Fra le ciglia, luccichii, bagliori, e Gin. Un secondo la
vedeva, quello dopo vedeva la roccia, poi le fronde di un albero
incastonato fra due massi scoscesi. Diamine, quella si che era una
visione.
Schioccò
la lingua con soddisfazione e agguantò il cappello di panama che gli
era scivolato via durante la lotta ed era andato a finire all’entrata
della grotta.
«Ti
sei svegliato»
«Sto
meglio, grazie» gracchiò in tutta risposta, da dietro il cappello.
«Grazie
a te, sei praticamente guarito da solo, vero?» fu la sua risposta
avvelenata.
Ahia.
Michael
buttò indietro la testa sbuffando, indispettito ma abbastanza fiacco
da non reagire.
La
osservò di sottecchi mentre faceva volteggiare un finissimo filo
d’acqua lungo quasi un chilometro dal fiume che scorreva sotto di
loro a una ciotola di foglie intrecciate fra le sue mani.
«E
così, l’incantesimo acuminato non era per uccidermi…»
Ma
Ginny, dopo un’occhiata eloquente – mi
stai disturbando, Corner-
lo ignorò completamente.
«Ti
sto parlando, potresti almeno fare finta di ascoltarmi»
La
ragazza finì di riempire la ciotola, poi con un gesto rapido e
misurato tirò fuori un oggetto tondeggiante dall’aria Babbana
dalle pieghe dell’abito.
«Cos’è?»
Lei
lo osservò lampeggiare, con aria esultante, e stava per alzarsi
quando Michael, improvvisamente avvicinatosi con uno scatto, le
agguantò un polso. La bussola le cadde di mano e volò dritta giù
nel burrone. La rabbia montò poco alla volta, sempre di più,
travolgendola. Si ritrovò a balbettare, mentre strattonava il
ragazzo per la camicia di lino lercia, scuotendolo come un sonaglio.
«Sei…
veramente… un’idiota Corner! Come credi che farò adesso per
trovare un’altra Passaporta? Non ci voleva, non ci voleva, non ci
voleva! Prima mi fai perdere quella per stamattina, poi distruggi
ogni possibilità di trovarne un’altra!»
«Come
facevo a sapere che un gingillo Babbano poteva dirti come trovare una
Passaporta?»
«Quel
gingillo
l’aveva costruito mio padre!»
«Bene,
cosa vuoi fare? Andare a prenderlo? Vacci!»
«Levati
di torno, prima che ti affatturo!»
«Avanti,
Weasley…»
«Ho
detto LEVATI! Vuoi che vada a riprenderlo? Adesso ci vado. Per la
barba di Merlino, adesso scendo questo fottuto pendio… mi fratturo
il collo… e saremo tutti contenti, OK?»
E
proprio quando Michael si aspettava il colpo di grazia, lei crollò
sulle proprie ginocchia, in lacrime. Scagliò la ciotola d’acqua
contro la parete in un impeto di rabbia, e il contenuto si riversò a
terra scorrendo in rivoletti fino ai suoi piedi. Michael era rimasto
immobile. Non aveva idea di che cosa fare.
«Senti,
so che è colpa mia».
Sì,
lo è,
pensava Ginevra infuriata fra le lacrime; non riusciva a pensare a
come avrebbe fatto per ritrovare la bussola, e quel ragazzo l’aveva
di nuovo messa nei guai. Inoltre non sopportava l’idea di avergli
fatto un favore, quando si era ripromessa anni fa di non avere più
niente a che fare con lui. Gli aveva aggiustato le gambe… avrebbe
dovuto pestarci sopra finché erano ancora rotte e frantumargliele
del tutto!
Addio
avventura, addio viaggi per il mondo…
«Gin,
ascoltami per favore» mormorò lui, prendendole le spalle, «scusa,
sono stato uno stronzo».
Lei
non riuscì a rispondergli dalla rabbia; si vergognava terribilmente
di aver pianto davanti a lui, così si divincolò e si asciugò le
lacrime dagli occhi. Raccolse la bacchetta e appellò un paio di
volte la Bussola. Niente da fare, o era rotta oppure la corrente del
fiume l’aveva già portata così lontano da renderla
irraggiungibile.
Si
avvicinò intimamente al ragazzo e gli strappò di dosso un laccio
per legarsi i capelli; lui si lasciò sfuggire uno sbuffo ma non osò
dirle niente. Era colpa sua se si erano cacciati in quella
situazione, e lo sapeva bene; era colpa sua, anche, se lei era in
quello stato e se lo era da prima di aiutarlo. Sapeva di averla
spinta ad odiarlo prima ancora che tutto finisse fra loro. Era sempre
stata "colpa" sua.
«Gin»
«Stai
zitto un attimo. Senti anche tu delle voci?» Sussurrò lei, con la
voce umida di pianto.
Nel
silenzioso cinguettio della giungla si sentivano distintamente il
rumore delle cascate sottostanti… e una cupa, rozza voce maschile.
Ginny
stava per urlare e chiedere soccorso, ma Michael le tappò la bocca e
imprigionandola in un abbraccio la costrinse a seguirlo in fondo alla
grotta in silenzio. Un rumore di oggetti pesanti appena gettati a
terra alla rinfusa la convinse che qualcuno, una decina di metri la
sopra, aveva appena deciso di fare una pausa.
«Michael,
si può sapere cosa ti passa per la testa? Ti sei del tutto
rimbecillito a forza di vivere nella jungla?»
«Scema»
sussurrò di rimando, senza mollare la presa su di lei.
Le
spalle fini e cosparse di lentiggini della ragazza non lo avrebbero
intimidito se solo fosse stata più vestita e non fosse stata la
prima donna che lui vedeva dopo mesi di vita da eremita.
Deglutì,
con il cuore rapido in petto, e la lasciò andare solo quando gli
schiamazzi si erano allontanati abbastanza una decina di minuti dopo.
Allora andò a riprendere la sua casacca e sfoderò la bacchetta.
Se
la ripulì sui pantaloni e li rattoppò con due colpi di Reparo.
Cominciò
a richiamare acqua, dalla zona sud dell’area scoscesa, quella
opposta alla direzione presa dagli uomini; riempì una vasca
immaginaria che galleggiava a mezz’aria. Ginny lo osservò con aria
scettica ma un po’ di curiosità.
«Chi
erano?»
«Banditi»
«Maghi?»
«Sì».
E cominciò a spogliarsi, un indumento alla volta, sotto lo sguardo
confuso della ragazza.
«Cosa
cercano?»
«Dipende
da cosa c’è da rubare… è la seconda volta che li incontro da
queste parti, ed entrambe le volte mi hanno portato via tutto…»
«Potresti
smetterla di…» Ginevra, cercando di guardare altrove mentre lui
restava in mutande.
«E
tu potresti raccogliere la tua bacchetta e sorreggermi l’acqua
mentre mi lavo?».
Lei
non rispose, ma obbedì, e quando Michael fu sicuro che lei sostesse
la massa d’acqua, posò la bacchetta a terra, nudo, e vi ci si
immerse. L’acqua era fresca, lo rinfrancò; si muoveva lentamente
al suo interno, come avvolto di una sostanza eterea; le cicatrici
sulle sue gambe erano arrossate, ma non erano le uniche sul suo
corpo. Ginny non riuscì a impedirsi di sbirciare almeno una volta;
l’intero corpo del ragazzo era un fascio di muscoli.
«Cosa
mi avevi detto che facevi, di lavoro?».
«Non
te l’avevo detto» sorrise lui senza pudore, scoprendola a
guardarlo.
Si
voltò di schiena e continuò a sorridere fra sé. Ginny mosse la
bacchetta, e in un attimo lui si ritrovò in una massa gelida che si
apprestava a solidificarsi.
«Raccolgo
legno magico e sostanze per bacchette… ora mi lasci andare, per
favore?».
Con
una risata, Ginevra lo avvolse in una nube di acqua calda e vapore,
provocando un grido di frustrazione.
«Brucia,
per dio! Vuoi fare qualcosa? Ahi… muoviti!»
«Così
impari a buttare la mia bussola giù da un dirupo» disse lei,
sciogliendo istantaneamente la bolla d’acqua e rimandandola verso
il fiume. Era ferma a mezz’aria quando il ragazzo, ora seminudo, le
si avvicinò rapidamente con aria fintamente bellicosa.
«E
così, io avrei buttato giù la tua bussola?»
Si
ritrovarono a terra, la bolla d’acqua esplose su di loro
infradiciandoli dalla testa ai piedi, e rotolarono ridendo sul
pavimento della grotta.
«Ahah…
smettila dai… Misha, smettila!».
Michael
la sovrastava. Non aveva mai voluto vedere quanto era bella; si
limitò a fissare i suoi occhi smeraldini per qualche istante, con
una punta di... che diavolo era?, estasiato da quello spettacolo;
illuminavano l’intera grotta… ma lui fece bruscamente ritorno
alla realtà. Misha.
Una
miriade di pensieri e ricordi senza data gli affollavano la mente.
Nessuno di essi si fermò abbastanza per essere rimpianto. Gli bastò
scuotere la testa per sbarazzarsene. Lei, però, era reale. Ed era
lì. Non sapeva quanto l’averla allontanata da sé l’avesse poi
ferita, o forse non aveva mai voluto saperlo per non danneggiare se
stesso; ma non poteva permettersi di riaprire una ferita in lei che
forse sanguinava ancora. Si allontanò per sedersi un po’ più in
là, leggermente scosso. Nel cielo passavano rapide nubi, e come da
una finestra poterono osservarle tutte attraversare l’entrata della
loro grotta.
Michael
rimase seduto a lungo, con lei accanto, senza voltarsi più a
guardarla; fissava un punto vuoto all’orizzonte. Dal canto suo,
Ginny non mosse più un dito. Sentiva di aver appena sprofondato
entrambi i piedi in un deserto di sabbie mobili. Non stava andando
nella direzione giusta, lo sapeva, e il battito frenetico del suo
cuore ne era un’ulteriore conferma. Quelle risate, quel dolceamaro
pizzicore al cuore erano un campanello d’allarme… non doveva
aprire le porte ai ricordi felici. Inspiegabilmente, tutto il male
che si erano fatti le sembrava lontano anni luce, ora che erano di
nuovo insieme; desiderava essere in quel luogo, lo desiderava con
tutto il cuore, perché lui era una persona luminosa e appassionata,
perché le era proibito, e il senno l’aveva lasciato a chi il cuore
non voleva seguirlo.
In
quelle terre, lontano da casa, lontano da Harry, non poteva
soffermarsi a lungo sui suoi pensieri; agiva d’istinto, si riposava
poco e bene, respirava aria nuova, saggiava la cruda realtà del
mondo e se rimaneva invischiata in situazioni improbabili le
affrontava di petto, anche se queste potevano significare la sua
rovina.
«È
ora di andare, sei pronto?»
Michael
squadrò la ragazza che con aria risoluta gli tendeva una mano.
«Ci
puoi contare».
Ginevra
fece per usare la bacchetta ma fu preceduta dal ragazzo. Michael
si posizionò a gambe larghe, in posizione stabile, sull’orlo del
burrone e sollevò la bacchetta al di sopra del fiume.
Cominciò
un complicato movimento di mani che finì per continuare con la sola
bacchetta; arrancando all’indietro, i capelli spazzati sulla fronte
da un vento che proveniva dal basso, prese la ragazza per
l’avanbraccio e l’avvicinò a sé. L’odore del fiume riempì
loro le narici e ben presto l’acqua, in un turbine alto e
imponente, li raggiunse e li sollevò fino a dieci metri più sopra.
Atterrarono
senza troppi danni con i piedi sul suolo, ma stavolta erano bagnati
sul serio.
Michael
ebbe un po’ di vertigini per la fatica ma tenne duro, e si voltò
verso di lei, con una mano sulla fronte a mo’ di visiera; la luce
del Sole era bassa, aranciata, potente e s’infiltrava senza
problemi fra i rami degli alberi, attingendo un colpo all’uno, un
colpo all’altro dei suoi occhi scuri.
Un
paio di metri più in là, completamente illuminata dal tramonto,
Ginny si strizzava la chioma in una lunga, interminabile treccia
bagnata. Si scambiarono uno sguardo silenzioso, e distolsero entrambi
gli occhi nello stesso istante, scottati dagli stessi pensieri e
dagli stessi ricordi.
“Per
la miseria, guarda che spreco.”
Una
bracciata di legna anonima giaceva bagnata ai suoi piedi.
“Che
roba è?”
“Legno
magico. Quello che ho raccolto io cercando quel dannato albero per
settimane in questa dannata giungla… e ora è fradicio. Quel babbeo
non è stato capace di…”
“…raccoglierlo
tutto quando se n’è andato? Ma ti sei fatto mettere nel sacco da
un Troll?”
“Non
mi sono fatto mettere nel sacco da nessuno!” ringhiando.
“Sono
stati loro a spezzarti le gambe?” chiese lei, prendendolo in
contropiede. Lui non disse niente ma annuì, scalciando la sua
merce ormai inutile giù dal dirupo.
“Chi
sono, Michael?”
“Penso
siano gli stessi Ghermidori che scorrazzavano per il mondo alla
ricerca del tuo fidanzato
durante l’Occupazione del Signore Oscuro. Non avendo più un lavoro
veramente remunerativo si sono ripiegati su qualcosa che non
implicasse direttamente la loro pellaccia…”
“Dubito
che siano venuti qui per caso.”
“…” il
silenzio parlava da sé.
“Michael…
ti hanno seguito?”
Lui
non rispose, le piantò gli occhi addosso con rabbia. Ginny, che
aveva letto anche timore, in quegli occhi, si avvicinò piano piano e
gli posò una mano sulla guancia. Michael non si mosse, ma guardò
altrove, infastidito. Si vergognava. Di che cosa? Ginevra non aveva
idea di cosa gli fosse successo, ma di sicuro l’avrebbe messo sotto
torchio. Appena tornata a Londra avrebbe sottoposto il tutto a
un’inchiesta del Ministero e avrebbe calcato sia con Harry che con
Ron; era decisamente un lavoro da Auror. Chi erano quei ladri? E
soprattutto, erano organizzati? Michael le aveva detto di essere
stato braccato due volte da quegli individui e questo la convinse che
non c’era niente di casuale nella loro apparizione in Brasile.
Doveva
assolutamente vederci più chiaro.
“Gin.”
Mormorò il ragazzo, indicando con lo sguardo la sua mano. Lei si
riscosse e la ritirò immediatamente. Poi gli sorrise.
“Andiamo.”
Stava
per fare buio, quando s’incamminarono lungo il sentiero a ritroso
che portava all’accampamento dei maghi. Gin era silenziosa, fin
troppo.
Michael
sentiva la gola secca e non sapeva cosa dire; si era sentito così
libero, fino a quel momento. Al solito lei aveva guastato tutto;
camminava davanti a lui, a piedi nudi e con le sue scarpe eleganti in
mano assieme alla bacchetta, mentre il vestito le scivolava addosso
completamente fradicio. Le onde di quel corpo fine erano un miraggio
per gli occhi; Michael cercava di guardare la strada per non
inciampare in qualche pianta, ma non la smetteva di perdersi nel
verde
sbagliato.
Il
mago si sporse in avanti per raggiungerla e le prese la mano. Sapeva
che non poteva averla, perché non gli apparteneva e mai gli era
appartenuta; non l’aveva neanche mai voluta.
Aveva solamente bisogno di quella sua mano. Ignorò con
determinazione lo sguardo confuso della ragazza e allungò il passo,
con lo stomaco che oramai gorgogliava sonoramente.
Ginevra
rise sommessamente; non si capacitava ancora della fortuna che aveva
avuto. Il suo migliore amico era di nuovo con lei. Quella sua mano
fredda, ruvida e secca però le aveva annodato lo stomaco; aveva
paura dei suoi sentimenti, del suo passato e di quello che poteva
scaturirne se non imparava a trattenersi prima di oltrepassare la
linea sottile su cui camminano tutti gli amici; un uomo e una donna
che condividono tutto, o che l’hanno condiviso, sono destinati a
una forma di collisione.
Non
aveva preso nessuna decisione, ma stava semplicemente ignorando la
sua mente; non voleva sentire ramanzine, non voleva sentirsi in
colpa; era da anni che sentiva il bisogno di vuotare il sacco,
spiegarsi con Michael e chi tirava i fili nell’ombra del mondo le
aveva appena dato una possibilità inaspettata quanto attesa.
Arrivarono
al campo, dove trovarono i ragazzi intenti a preparare da mangiare.
Tia si precipitò verso la sua compagna, con ancora il cucchiaio di
legno in mano, felice di ritrovarla. Era una giovane strega di
colore, bella come un narciso e buona come il pane. Si erano volute
bene subito, perché condividevano la stessa passione e gli stessi
sogni. Ginny l’adorava; era quasi come se l’avesse conosciuta da
sempre, e parlare con lei era facile, razionalizzava sempre ogni cosa
e le sembrava tutto più chiaro quando poi ci ripensava da sola. La
strinse a sé quando se la ritrovò addosso, un po’ sorpresa e un
po’ no, per l’entusiasmo.
“Ginny,
pensavo saresti tornata domani! Allora? Raccontami! Com’è andata a
casa? Te li hanno dati quei famosi dolcetti inglesi di cui parlava
tua mamma?”
“Tia…”
cercò di fermarla lei, con un sorriso bieco.
“E
Harry, come ha reagito?”
Michael
le scoccò un’occhiata insofferente. Era rimasto in disparte, ma
accanto a Gin fino a quell’istante. Scostò la mano dalla sua e si
avvicinò agli altri per chiedere se ci fosse qualcosa da mangiare
anche per loro. Si ritrovò a chiacchierare con Daniel (Danièl,
era “franciose”)
mentre lui cucinava per la truppa; era un ragazzo solare, ambizioso e
gentile; parlava con voce stentorea del loro percorso e non la
smetteva di fargli domande con quel suo accento a tratti ridicolo.
Era
sinceramente affascinato dallo stile di vita di Michael, che
nonostante dicesse di essere un lavoratore stagionale trascorreva una
vita da nomade in giro per i vari paesi, alla ricerca di oggetti rari
e sostanze magiche. Nel frattempo, Ginny aveva trascinato la
ragazza verso la loro tenda, e mentre si spogliava e si metteva dei
vestiti puliti ma slavati la rimbrottava senza remore.
“Come
avrei potuto immaginare che tu avessi perso la Passaporta? Insomma,
Ginny… io non ti capisco… e sai qual è la parte peggiore? Non mi
sembri nemmeno tanto delusa di esserti persa il compleanno del tuo
fidanzato.”
“Questo
non è vero!” l’aggredì Ginny, che si morse il labbro subito
dopo.
Era
verissimo. Era stata talmente presa dal presente che non si era
affatto preoccupata di ciò che avrebbero potuto pensare Harry e la
sua famiglia di quello che le stava succedendo.
“E
poi, che razza di storia è mai questa? Ti ritrovi sul ciglio di un
pendio per una giornata intera con questo tipo che conosci già,
insomma una possibilità su un milione… lui… chi è?”
“Tia,
tu devi promettermi una cosa…”
“Gin!
Ti prego... questo ragazzo cosa rappresenta per te?”
“Era
il mio migliore amico, ma…”
“Sì,
ma ora. Ora, cosa rappresenta? È una minaccia, per voi due? Per tu
ed Harry?”
“Tia,
no…”
“Ti
teneva la mano.”
“Sì.
Ma anche da amici, eravamo molto intimi.”
“Che
cosa intendi dire?”
Ginevra
soppesò per la prima volta il suo rapporto con Tia. Non perché lei
fosse una persona inaffidabile o stupida ma nemmeno insensibile…
semplicemente, perché non aveva mai parlato a nessuno del suo
rapporto con Michael, nemmeno a Harry. Si vergognava, era ancora
confusa, dopo tanti anni. L’idea che qualcuno la sapesse così
fragile l’aveva sempre spaventata.
Fra
lei e Harry, poi, era successo tutto un po’ di fretta; non le era
stato così difficile avvicinarsi a lui quando con Michael avevano
preso strade diverse… certo, non l’aveva scelto lei questo… ma,
insomma, diamine! Cosa stava pensando? Era una persona speciale,
sì, ma un amico. Solo e soltanto un amico.
“Tia,
non saprei spiegartelo a parole” cominciò, e pronunciò una frase
sottovoce con la bacchetta in mano, poi “ma se vuoi posso farti
leggere questo.”
Una
montagna di pergamene dall’aria curata, cucite da un lato in una
specie di manoscritto le si materializzò in mano. La tese all’amica,
con un po’ di timore negli occhi. Tia capì immediatamente.
“Ti
prometto che non ti giudicherò.”
“Grazie,
amica.”
“Dai,
fila a mettere qualcosa sotto ai denti.”
“Te
lo affido, mi raccomando.”
“Non
hai paura che qualcuno lo legga? Non hai messo nessuna protezione.”
“Posso
evocarlo solo io, quindi non l’ha mai scoperto nessuno. E poi è
solo una parte, questa.”
Le
sorrise, prima di uscire dalla tenda.
Tia
guardò l’amica andarsene con un po’ d’apprensione; sentiva
addosso la tensione con cui la ragazza le aveva teso il diario, quasi
fosse un pezzo del suo cuore. Mettersi a nudo in quel modo davanti a
un’amica significava molto, e soprattutto significava che Ginny non
poteva più portare quel peso da sola, e che aveva bisogno di un suo
consiglio. Sperò in cuor suo che non ci fosse nulla di troppo
complicato, ma vista l’espressione di quel ragazzo temeva il
peggio; sembrava così forte, combattivo, e al contempo così
fragile… le ricordava proprio Ginny.
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Capitolo 5 *** Io invece ero aria, e tu, tu eri come me ***
Dal
capitolo precedente:
“È
un frammento del mio diario, ma lo tengo in un posto che non conosce
nessuno e posso evocarlo solo io. Se desidero che venga letto, basta
farlo apparire. Oppure sparire.” Le sorrise congedandosi, prima di
uscire dalla tenda.
Tia guardò l’amica andarsene con un po’
d’apprensione; sentiva addosso l’inquietudine con cui la ragazza
le aveva teso il diario, quasi fosse un pezzo del suo cuore. Mettersi
a nudo in quel modo davanti a un’amica significava molto, e
soprattutto significava che Ginny non poteva più portare quel peso
da sola, e che aveva bisogno di un suo consiglio. Sperò in cuor suo
che non ci fosse nulla di troppo complicato, ma vista l’espressione
di quel ragazzo temeva il peggio; sembrava così forte, combattivo, e
al contempo così fragile… le ricordava proprio Ginny.
13.
Michael
camminava avanti e indietro davanti alla tenda di Ginevra, dal lato
opposto dell’apertura.
“Gin,
ti dispiace se parliamo? No, troppo diretto… Gin, sto per
riprendere il viaggio, e volevo parlarti dei Ghermidori… no, per
Merlino, no!”
Strinse
i pugni, frustrato. Non
mi devo vergognare… non mi devo vergognare, non devo! Solo perché
ho fatto un errore… oh, insomma, due volte lo stesso errore, non
significa automaticamente che io sia un idiota…
“Gin,
vorrei che tu chiedessi aiuto a Londra per identificare quei banditi,
è troppo pericoloso lasciarli in circolo, potrebbero prendersela con
chiunque… sì.”
Si
arrestò a metà strada, con una mano sollevata verso il nulla.
“Gin,
mi dispiace per la tua bussola…” sussurrò, a mezza voce,
incapace di formularlo chiaro e forte.
“Ginevra,
io-” esclamò con aria indifferente, arrestandosi immediatamente
alla vista di Tia seduta sulla brandina; fra le mani aveva un pacco
di pergamene che lui aveva già visto tempo addietro. Quindi
non ha mai smesso di scrivere. Lesse
negli occhi di Tia la verità: lui non aveva il diritto di leggere, e
quella ragazza non aveva idea di come impedirgli di farlo, ma più
importante ancora, quelle pupille inquiete gli dicevano che nel
diario di Ginevra c’era qualcosa che lui non doveva sapere. E
qualcosa scattò in lui, lasciando che per l’ennesima volta agisse
d’istinto, senza curarsi delle conseguenze. Niente era più
importante nell’attimo presente del sapere cosa avesse avuto in
mente Ginevra in quegli anni, nonostante avesse sempre sostenuto che
di lei non gli importava più niente da tempo. Doveva capirla, ne
aveva bisogno, voleva staccarsi da lei una volta per tutte; tuttavia
temeva la verità più di ogni altra cosa.
Il
sangue gli andò alla testa troppo rapidamente. Così, prima che lei
potesse reagire, le prese di mano il malloppo; lei mantenne la presa,
e si ruppe a metà.
“Evanesco.
E ora dammi il resto, se non vuoi che ti faccia del male.”
“Puoi
sempre provarci.” L’ammonì lui, prendendo la bacchetta “non
dirlo a Ginevra, te lo riporto fra un attimo e faremo come niente
fosse. Affare fatto?”
“Sei
un essere insulso. Ora so perché era così turbata. Spero per te che
leggi in fretta, perché altrimenti corro a dirglielo. La
responsabilità è tutta tua. Stronzo.” Ringhiò Tia. Stava per
mettersi a piangere.
Lo
guardò andarsene; quei suoi occhi scuri li odiava già.
Si
sentiva in colpa per non essere riuscita a fermarlo. Maledisse
l’amica per non aver protetto il suo diario, scusandosi mentalmente
per non essere stata degna di fiducia. Preparò mille e una bugie da
raccontare a Ginny, ma nessuna era plausibile; si convinse che era
credibile leggere tutto in un paio di giorni, non di più; ad essere
onesta, aveva letto più della metà in un’ora appena; era
curiosità accesa e pura, erano emozioni, era la sensazione di averlo
già vissuto sulla sua pelle, perché tutti perdono un amico, una
volta nella vita.
Si
dispiaceva che a Ginny fosse capitato Michael. Si mordicchiò le
labbra, impaziente, preoccupata, ma si rassegnò ad aspettarlo,
convinta che sarebbe tornato per leggere il resto. Era praticamente
impossibile che non lo facesse.
Michael
si smaterializzò qualche radura più in là, dov’era stato con
Ginevra appena qualche ora prima. Si sedette ai piedi di un albero,
guardandosi attorno cauto, poi cominciò a leggere.
Diario
di Gin. Weasley
A
Michael: il mio amico, il mio cuore, le mie fibre e i miei nervi
vitali, cui ho sempre negato tutto pur donandogli interamente me
stessa.
Ho
deciso –deciso?-, parlerò con te attraverso queste pagine. Non ho
molta scelta. Vero? Tu hai ricucito le tue cicatrici, hai leccato
ogni ferita e te la sei data a gambe. Avrei dovuto fare lo stesso,
invece mentre tu ti voltavi e correvi verso il futuro te, io sono
rimasta a guardare la tua schiena, sperando che ti voltassi. Non ti
sei mai più voltato; mai più.
Vorrei
tanto che tu potessi leggermi, vorrei tanto spiegarti cosa sia andato
a rotoli. Ma tu mi hai cancellata e scacciata via dalla tua vita, e
io per te non sono più niente. Come spiegarsi perché siamo arrivati
a tanto? Eravamo amici, nemmeno amanti. Due ragazzini di sedici,
diciassette anni appena, con l’intero mondo davanti e la voglia di
mettersi alla prova. Avrei voluto che tu mi vedessi crescere dopo la
scuola. Avrei voluto averti accanto, a volte; mi sono abituata a non
averti più. Ricordo l’ebbrezza che provavo in ogni attimo passato
vicino a quei tuoi occhi luminosi, il tuo sorriso non sbiadisce nei
miei pensieri, mi galleggia davanti invitante, e il mio cuore fa male
e si arrotola palpitante su se stesso come un riccio.
Mi
capita ancora di sognarti di tanto in tanto. Mi sveglio nel cuore
della notte con le lacrime agli occhi; il mattino è rabbuiato e mi
alzo con l’impressione che la giornata sia già morta.
Se durante i miei sogni avessi davvero potuto chiarire i nostri
problemi con te come desideravo ardentemente fare, ora sarei un’altra
persona, e tu non mi faresti così male. Invece sei ancora qui, una
ferita bruciante nella carne. Rivedo i tuoi occhi, no, non sono più
gli stessi; sono quelli di quando già ti allontanavi da me. La
consapevolezza di sapere che ti stavo perdendo mi uccideva, eppure tu
non te ne accorgevi, il tuo volto cercava ancora di essermi caro.
Ragazzo ingenuo sorridevi, e mi dicevi “ci rivediamo a settembre”.
L’avevo sentito, io, invece, che quell’estate ti avrebbe
cambiato, e che ti avrebbe portato via da me per sempre.
È
da circa un anno che ho smesso di sognarti regolarmente, ogni tanto
spunti fra i miei pensieri o in una conversazione e mi catapulti in
un mondo grigio al quale non voglio appartenere. Mi sento persa ogni
volta e ogni volta mi fai vergognare, perché il mio cuore si era
aperto per te e tu hai voltato lo sguardo altrove. Io lo sapevo che
mentivi, e tu vedevi il mondo attraverso i miei occhi, eri a
conoscenza di tutto, anche tu. Ero bugiarda perfino con me stessa. E
tu, che non sei mai stato bravo a mentire, negavi tutto.
Perché
non abbiamo parlato prima, non abbiamo agito, prima? Solo adesso so
cosa eravamo, tu ed io. Quel “tu ed io” che tanto ti ha fatto
crucciare e che ci ha separati, cancellando il passato così morbido
e ricco, così familiare. Come un fuoco d’artificio abbiamo
bruciato tutto attorno a noi e nell’arco di poco tempo non è
rimasto più nulla. Si sa che le scintille non hanno vita lunga. Così
come abbiamo squarciato il cielo, splendenti di luce propria, siamo
ricaduti sull’asfalto. E già non eravamo che polvere. Speravo
di spiegarmi con te faccia a faccia, rivolevo quella luce nel tuo
sguardo, la desideravo con ogni cellula del mio corpo, volevo che
m’illuminasse di nuovo. Che brillasse per me come aveva già fatto.
Non posso; mi fai troppa paura. Non reggerei il confronto, so che
cercherei le tue mani che non mi spettano più, e leggerei nei tuoi
occhi quel buio che vi ho letto mesi addietro, dopo che tutto era già
finito. Finito come? Non ricordo, ah no, forse si, ehm… già. Ti
ricordi, vero? Con un bacio.
Le
pergamene frusciavano nel tremore delle sua mano, mentre le pupille
non poterono fare a meno di continuare a saettare da sinistra a
destra, e poi d’accapo; ogni riga uno scalino al buio, ogni parola
un sobbalzo in fondo al cuore. Ginevra era molto più coinvolta di
quanto avesse mai potuto immaginare. Gin...
Sono
sempre stata fedele a me stessa. Una persona con idee semplici,
chiare. Crescendo poi ho capito quanto quello che dicevo suonasse
stupido nelle orecchie degli altri. A quindici anni ero una
ragazza piuttosto serena, spesso mi instillavo coraggio da sola per
l’inspiegabile paura che mi faceva il mondo. Volevo fare così
tante cose che mi perdevo nei miei pensieri e finivo per lasciarmi
scoraggiare, schiacciata dalla mia incapacità di scegliere. Tu
eri come me.
Eravamo
a scuola insieme da qualche anno, non ti avevo notato. Si, certo, ti
conoscevo. Ragazzo scalmanato, facevi parte di quella fetta di
Hogwarts che vive per creare caos. Ti trovavi bene con i miei
fratelli, infatti; io avevo Luna, la mia più grande amica. Eri bello
già allora, ma io non ti guardavo. La tua pelle, tesa sullo zigomo
chiaro e vellutato, una pelle di bambino, non chiamava il palmo della
mia mano, e no… il tuo sorriso non mi faceva stringere il cuore.
Non ancora. È con orrore che mi chiedo come reagiresti sapendo
queste cose. Se solo tu potessi leggermi…
Era
appena finito il quarto anno, quando ci siamo avvicinati. È stato
per caso. Non ricordo con precisione quando ho cominciato a pensare
che tu potessi essere un amico per me, un amico speciale. Forse era
una gita a Hogsmeade, ai Tre Manici di Scopa, in cui gli amici in
comune ci hanno trainato senza troppi complimenti. Tu eri là,
brillavi della tua luce, e solo standoti vicino mi sono accorta di
quanto ogni tua parola fosse giusta, succosa, interessante.
Abbiamo
cominciato a parlare fra noi; per un paio di giorni, quando passavamo
del tempo con gli amici –ora riuniti in un unico gruppo-, io e te
ci siamo accostati impercettibilmente e abbiamo imparato a
conoscerci. Eri un ragazzo pieno d’ideali, mi sembravi un pacco
da scartare, ma ancora non ti prestavo abbastanza interesse per
capire chi tu fossi veramente. "Caspita,
è simpatico, però".
Quando la sera andavo a dormire e tra le coperte ripensavo alle
giornate appena trascorse con te. E subito m’invadeva quella
sensazione di essere su una nuvola, neanche fossi la persona più
potente del mondo. Parlare con te… mi dava le ali per viaggiare al
di là dei muri. Ogni mattone di ogni muro, un briciolo di paura che
con orrore scompare dalla mia mente e la lascia libera. Tu questo eri
per me; prima ancora di conoscerti bene, prima di capirti. Come ero
io? A quindici anni avevo un fisico snello e fine, sapevo che i
ragazzi si giravano per guardarmi, ogni tanto. Io arrossivo ma facevo
sempre finta di essere una dura, una di quelle che uccidono con lo
sguardo. Niente di più falso, ma questo già lo sai. Ero una ragazza
con dei capelli luminosi che danzavano sulle spalle, il sorriso
spontaneo che si arricciava sulle labbra come una molla senza nessun
ritegno; due ciocche sempre davanti agli occhi, uno sguardo timido ma
pulito e sincero. Lo stesso sguardo che ti ha fatto scappare via da
me. Mi odio e mi odiavo; non me lo perdono ancora adesso.
Tu
avevi quei capelli che andavano in tutti i sensi, color cioccolato al
latte; sembravi un istrice, qualsiasi cosa cercassi di fare per
metterli a posto. Non lo sapevo, ma eri un fascio di muscoli per il
Quidditch sotto quelle vesti scure, quella camicia, quella cravatta.
Mi pare ancora di sentire il tuo profumo. Fa male. Lo sentivo anche
solo a stare seduta accanto a te per chiacchierare fra una lezione e
l’altra. Avevi sempre un maglione di troppo e le tue braccia erano
calde, quanto fredde erano invece le tue mani. Arrossivi facilmente
senza perdere il buon umore e senza nasconderti. Cominciavi a
balbettare, se imbarazzato, e cambiavi discorso con quell’espressione
strana e ridicola che mi viene in mente ora. Gli occhi ridevano e le
guance erano rosse e tirate; le labbra di sbieco sui denti piccoli e
regolari –miseriaccia, io ho dovuto mettere l’apparecchio per
ottenere un fac simile del tuo sorriso!
Anche
tu non risparmiavi i sorrisi. Chissà se gesticoli ancora come prima?
Era una cosa terribilmente divertente vedere nei tuoi occhi quello
che non riuscivi ad esprimere a parole e che cercavi invano di far
intendere a gesti. Sì, mi sono affezionata a ogni dettaglio; a
distanza di anni me ne ricordo ancora. Non
ti vergogni, Gin!
Così mi diresti, se solo… se solo io non avessi rovinato tutto in
partenza.
Avevo
imparato a leggere i tuoi occhi. Sei stato il mio primo specchio
umano: in te c’erano i miei sogni e le mie paure, in me i tuoi. Non
passava giorno senza che provassi brividi nel sapere che avrei fatto
una passeggiata con te e avrei potuto parlarti. Era quello che
sapevamo fare meglio! Chi siamo? Da dove veniamo? Cosa faremo più
tardi? Ne vale la pena? È giusto? È sbagliato? Mi piace… no,
questo no. Era come gridare in una stanza minoscola e vuota e sentire
l’eco. Nelle stanze l’eco non esiste. Nella nostra invece sì.
Esisteva. Ero stupita dal nostro affiatamento. Mi sei piaciuto
subito; eri così interessante.
Ti
ricordi quel giorno che siamo finiti in punizione perché Macmillan
ha fatto finta di non sapere dove fossimo quando la prof l’ha
mandato a chiamarci? Mi bolle ancora il sangue! Una bella fattura non
gliela toglie nessuno, se me lo trovo davanti adesso. Io avevo degli
ottimi voti, ma non parlavo mai in classe. Tu invece accantonavi una
pila di Deludente e Troll sul fondo del baule, ma chiedevano sempre a
te di leggere i testi ad alta voce. Adoravo ascoltarti leggere ad
alta voce; intonavi ogni parola con la giusta rapidità e modulavi la
voce con sorprendente maestria. Ti ammiravo, e ti invidiavo. Io
leggevo bene solo per me stessa, nel mio letto caldo, alla luce di
una lampada soffusa nel cuore della notte. Ci piaceva anche parlare
di libri, tu mi parlavi di Tolkien e io di Pullman. Ci siamo scoperti
a vicenda ed eravamo colmi di gioia, di aspettative.
“Un
amico, un amico vero!“ Gridava il mio cuore cercando di scoppiarmi
in petto.
Poi
è venuta l’estate. L’ho passata a casa con la mia famiglia,
ero felice, ero eccitata. Mille promesse nella mia testa. Con lei
arrivò il mio compleanno. Era attorno al dieci settembre, se non
sbaglio. Una domenica. L’abbiamo festeggiato tutti insieme,
mi ricordo di essermi emozionata molto. Gli amici erano tanti, il
buon cibo abbondante e i giochi divertenti. Poi, durante l’ennesima
pellicola di film babbano trito e ritrito –illegale, a scuola, e
fornito dai miei fratelli- io ho continuato a fare come se tu non ci
fossi. Come se fossi solo uno fra i tanti. Non ho fatto nessun
calcolo pensando a te. Non ho fatto nessun calcolo pensando a lui;
forse, invece, pensando a lui ne ho fatti troppi. Ho baciato Dean
Thomas. E
tu sei diventato il mio migliore amico.
L’ultima
frase era incisa più volte, con inchiostro rossiccio. Era rugosa al
tatto, rovinata, vissuta, probabilmente Gin aveva pianto scrivendola.
La sfiorò avanti e indietro, con l’indice, piano, prima di
continuare la lettura. Attorno a lui si sparpagliavano le pagine che
aveva già letto.
Come
avrei potuto saperlo? Dimmelo. Forse dal tuo sguardo? Dal tuo
sorriso, quello che rivolgevi sempre a me, solo a me? Perdonami. Ma
cosa diamine sto dicendo? Non sei tu che sei sparito con una
voragine al posto del cuore. Tu sei sparito, e basta. Non sei
tu quello che ancora non ci dorme la notte. Io so cosa fai di notte:
sogni. Oppure vai a ballare, adesso, da quando hai scoperto quanto ti
piace la musica moderna… o meglio, da quando i tuoi nuovi amici te
l’hanno fatta scoprire. Quello che sogna del passato, come se il
tempo di mezzo, quello che ci separa adesso, non esistesse affatto,
non sei tu. Quasi fosse tutto come prima... quella sono io.
Forse
più che a te dovrei chiederlo a me stessa. Ginny, perdonati per le
stronzate che hai fatto. Per gli errori che hai commesso. Per le
persone che hai scelto. Per le situazioni che hai compromesso. Ti
odio, Michael. Si, ho baciato Dean quella sera. È colpa tua. E
mia. È davvero una colpa? Ci siamo ritrovati vicini, erano mesi
che mi stava accanto, è con leggerezza che mi sono sciolta fra le
sue braccia, senza pensarci un attimo. Immagino che mi piacesse
davvero, in un qualche modo, quel ragazzo. Era molto alto, e molto
attraente. Trovavo confortante il calore della sua pelle e della sua
anima vicino alla mia. Sorrideva sempre, all’inizio, mi sembrava
un’ottima isola per il mio naufragio personale. È durata troppo,
tra me e lui, perché ero incapace di chiudere la storia. Accantonavo
scuse su scuse. Ma niente. Era di coccio, di legno, di ardesia. E
io invece ero di aria, e tu eri come me. Ero incapace di ammettere
che stavo con lui per comodità, per parlare di qualcosa, per non
starmene sola. Non lo amavo, e lui non amava nessuno al di fuori
di se stesso.
Eppure
ti avevo sempre attorno! Come ho fatto a non notare subito la
differenza? Quella tra lui e te? Ci ho messo un anno, ad
accorgermene. Ti ricordi? Ci siamo avvicinati ancora di più, con
la scusa che entrambi eravamo innamorati di qualcun altro. Parlavamo
sempre di loro, quando mettevamo un freno ai nostri bellissimi,
rammaricati viaggi mentali. Tra due pensieri puri, ci ficcavamo
loro. Tu eri, testuali parole,
pazzo di Calì Patil,
una ragazza dell’anno di Harry e Ron. Io ero, testuali parole,
davvero
innamorata di Dean Thomas.
Ci divertivamo a trovare in loro cose che non c’erano. Lei era
perfetta ai tuoi occhi, ma nonostante le tue mille avances non ti ha
mai degnato di uno sguardo. Lui era l’uomo della mia vita, ma non
abbiamo mai scambiato più di due parole; eravamo su due pianeti
lontani anni luce. E senza accorgercene, io e te eravamo così
vicini.
Parlavamo
piano, accoccolati ai bordi del Lago, su una panchina, sugli scalini
del Castello, in un pub malfamato di Hogsmeade. Su di un prato, le
teste vicine, sussurravamo strappando steli d’erba per solleticarci
il naso a vicenda, come due bambini. Ridevamo, scherzavamo sempre,
eravamo poi seri, ci guardavamo negli occhi qualche istante. Tu
arrossivi; io non avevo il coraggio di guardarti più di quel poco
tempo che mi accordavano i tuoi occhi. Avevo paura. Di cosa? Di
innamorarmi di te?
Adoravo
ascoltarti quando partivi in quarta in uno di quei tuoi discorsi
strambi sulla politica, quelli che riservavi ai nostri momenti perché
nessun altro ti ascoltava mai come me. Sapevo che avevi, in un modo
un po’ contorto, bisogno di me per questo motivo. Io ti ascoltavo e
ti rispondevo. Era piacevole come scambio. Nessuno era così disposto
a starti accanto come me. Spesso ti davo anche consigli su come
avvicinarti a Calì. Tu volevi sempre fare di testa tua e ogni volta
finiva che tornavi da me deluso e mi raccontavi tutto quanto come se
il mondo intero ti fosse crollato addosso. Avevo capito da tempo che
lei non voleva stare con te, nonostante non ti rifiutasse
apertamente. Me lo chiedevo anch’io, come faceva a non vedere
quanto vali (valevi?). Tu per me eri divino. Ti trovavo bello,
interessante, pieno di risorse, così luminoso.
Perché
lei non vedeva la tua luce? Non sono riuscita a impedirmi di
odiarla, per questo. Semplicemente, invece, non eravate fatti per
stare insieme. Eppure avevo paura di dirtelo, come se facendo così
potessi scoprirmi troppo, aprirmi troppo. Sapevo anche che tu
probabilmente non l’avresti accettato e avresti fatto finta di non
sentirmi. C’erano certi tipi di discorsi che non potevamo
affrontare, nonostante tutto. Nel frattempo, quando Dean tornava a
casa per le vacanze e noi invece restavamo a Hogwarts… e Calì non
si sa bene dove fosse andata a finire… ecco che abbiamo avuto tutto
lo spazio e il tempo necessari per avvicinarci. Era arrivato il
culmine della nostra amicizia… ci siamo dati spazio, quel poco che
bastava per farci cozzare come sassi nello spazio e creare scintille
sempiterne. Non siamo mai stati così vicini, come durante quelle
vacanze. Restavamo sempre soli, passavamo un sacco di tempo insieme.
Mangiavo in fretta per venire a trovarti; ci davamo appuntamento nei
luoghi più disparati. Solo per stare vicini, solo per chiacchierare,
per sentirsi come accarezzati dall’aura che l’altro emanava e per
l’effetto benefico che ne ricavavamo entrambi… un tepore
piacevole che distendeva le pieghe del cuore. Ho cominciato ad
allontanare Thomas per i suoi comportamenti sempre più equivoci ed
aggressivi, tu invece, forse per l’aria di vacanza che tirava, non
parlavi più tanto di Calì. Siamo andati a una festa in maschera
insieme, ti ricordi?
Ti
eri travestito da me e io avevo addosso la tua divisa di Quidditch,
Merlino sa quant’ero ridicola! Io facevo le tue smorfie strambe e
tu continuavi ad andare in giro gridando: “io sono Ginny, io sono
Ginny! Guardate che so fare! La secchioncella s’arrabbia
facilmente, attenti a voi o vi scateno contro l’inferno con una
fattura Orcovolante da brivido!” Facevi quella voce strana e
acidula, così orribilmente femminile, e sghignazzavano tutti. Eri
l’anima della festa. Io invece stavo in disparte, come al
solito. Ti guardavo da lontano, sorridendo, sentendo quel calore
all’anima che infuriava ogni volta che mi lanciavi uno di quegli
sguardi rapidi e carichi di affetto tra una battuta e l’altra,
dall’angolo opposto della stanza. Così lontani, così vicini…
Michael
tratteneva furiosamente le lacrime. Che razza di parole erano quelle?
Cosa significavano le scintille sempiterne? E quelle descrizioni
così accurate e poco lusinghiere di lui, eppure così intrise di
affetto? Si era aspettato parole di ogni genere, più che altro
insulti, ma non tutto quell’affetto e tutto quel rimpianto. Il suo
cuore era poco avvezzo al lasciarsi andare a quel genere di
sentimenti. Si sentì travolto dalla forza di quelle parole. Quel
calore all’anima che infuriava ogni volta che mi lanciavi uno di
quegli sguardi rapidi e carichi di affetto tra una battuta e
l’altra...
perché faceva così male? Così
lontani, così vicini... faceva
male da morire.
Alla
fine delle vacanze eravamo più uniti che mai. Improvvisamente gli
altri amici sono passati in secondo piano. Ogni
attimo che non passavo con te era un attimo perso.
Quando mi eri lontano mi mancava il respiro e ti cercavo con gli
occhi. Cercavo la tua mano e tu me la concedevi, apertamente, davanti
a tutti. Perché? Perché eravamo amici, di quelli veri, di quelli
che farebbero di tutto l’uno per l’altro. Era così chiaro per
noi, nessun sentimento equivoco.
Quando
la persona accanto a te brilla di ogni luce e tu ne rimani
abbagliato, cosa puoi fare? Quando una calamita vi costringe a stare
pelle contro pelle, come se ogni attimo fosse l’ultimo, cosa puoi
fare? Mi riservavi sempre quello sguardo affettuoso,
quell’abbraccio stretto ogni mattina per salutarmi, e il mio cuore
scoppiava di gioia. È il mio amico. Mio.
Mio?
Mi
ricordo di un giorno, in quel periodo bellissimo, uno fra tanti, uno
fra molti. Un giorno che ho custodito a lungo e protetto nel
groviglio della mia mente. Ero seduta in biblioteca con Luna, Neville
e qualcun altro. Tu sei arrivato dietro di me e mi hai coperto gli
occhi con le mani. Le ho riconosciute subito: fredde, secche, ruvide.
Profumate di te. Un odore così familiare da farmi girare la testa,
da provocare un enorme moto di affetto nei tuoi confronti. Non me
l’aspettavo. Ho perso un battito. Il mio cuore è inciampato. Un
bacio sulla fronte. Il mio cuore è rimasto a terra, incapace di
continuare la corsa. Ora palpitava sconcertato, incapace di stare
al passo con i miei sentimenti. Ho avvertito chiaramente un senso
di svenimento, come quelle dame del passato che avevano bisogno di
essere rinsavite con i sali. Una cosa così ridicola. Luna,
Neville, gli altri. Tutti mi hanno guardata. Ho letto nei loro occhi
la verità. Adesso sì, c’era qualcosa di equivoco. Ma né io né
te volevamo vederlo. Abbiamo continuato così per settimane, come
se fossimo irraggiungibili, come se la nostra amicizia non potesse
mai avere una fine. Sei diventato sempre più necessario, sempre più
vitale. Cercavo la sicurezza nei tuoi occhi. E
tu non ti sei mai tirato indietro.
Era doloroso. Era bellissimo.
Poi
un giorno…
“Sai,
Gin. Al tuo compleanno, quando hai baciato Dean Thomas.”
“Mh,
che cosa?” Giocavo con i tuoi riccioli, quelli sulla nuca, più
tondi, più a molla.
Parlavamo
del tempo che avevamo trascorso insieme, ripercorrevamo i sentieri,
le scelte, il passato, alla ricerca di non si sa bene cosa. Era
piacevole passare il tempo così.
Eravamo
sdraiati in riva al lago, sul lato della Foresta, in modo da non
avere seccature. Ci piaceva parlare, ma ci piaceva anche ascoltare il
silenzio della natura. Così quello era il nostro covo segreto, il
nostro posto preferito a Hogwarts.
“Sai,
quando ho visto che l’hai baciato non ti ho detto niente; riesco a
dirtelo solo adesso, perché sai… adesso non provo più la stessa
cosa, siamo amici. Adesso è diverso.”
“Cosa
è diverso?”
“…”
“Eddai!
Non puoi pretendere che io non insista… non dopo quello che mi hai
detto!”
“…”
“Misha?”
“Ero
pazzo di te, Gin.”
“Wow,
queste sono notizie” ho ridacchiato, me lo ricordo, mentre il cuore
ha accelerato. Inspiegabilmente. Qualcosa
in me si era destato, qualcosa di sconcertante e forte.
“Non
fare la stronza” subito offeso, rosso in viso e imbronciato per la
mia reazione.
“Misha,
perché ti piacevo?”
“Beh,
eri… forse era l’estate, non so, comunque i tuoi capelli erano
assurdi,
chiarissimi, profumavano… dio, non so neanche di che cosa e,
davvero non lo so, ricordo che ti ho trovata stupenda. Appena ti ho
rivista mi sei piaciuta da matti. Per giorni e notti non ho smesso di
pensarti, ero completamente partito… fino al tuo compleanno…”
Sul
tuo viso crucciato l’ombra del ricordo di ciò che hai provato per
me, in quelle giornate tiepide di settembre. Rivivo ancora
l’entusiasmo nei tuoi occhi e l’aria disinteressata con cui mi
hai detto che era solo acqua passata.
“Però
sono contento che tu sia con lui, alla fine. Altrimenti non saremmo
mai diventati amici”
“Eh...
già.”
Qualcosa
mi si era spezzato dentro, ma non lo sapevo in quel momento, non
l’avevo riconosciuto. Come una cuticola squarciata dentro alla
quale si nascondeva chissà che. Qualcosa di piccolo, con un gran
potere, che se n’è rapidamente tornato nel suo rifugio dopo essere
stato preso a bastonate.
“Sono
sicuro che insieme non saremmo durati più di due mesi”
“Davvero?”
Ti ho chiesto io, convinta del contrario. Non me lo spiegavo quel
nostro rapporto ambiguo, così altalenante, così esclusivo.
Eppure
non escludevo che, se fossimo stati innamorati uno dell’altra, e
insistevo bene sul SE, nella mia mente, beh non avremmo avuto
difficoltà. Sarebbe stato un gioco da ragazzi andare d’accordo.
Solo immaginare di baciarti, però, mi faceva girare la testa per
l’imbarazzo. No, non ero innamorata di te, mi dicevo.
Impossibile, eri come un fratello, come un cugino, come un
amico. Eppure…
Ovviamente…
avevi ragione tu.
“Mh-mh,
si, certo.” Hai annuito sicuro, come a voler dare conferma a me e
anche a te stesso “Non siamo mai d’accordo su niente!”
“Ma
cosa dici, Misha! Abbiamo solo argomentazioni diverse. Tendiamo
sempre alla stessa direzione. Pensavo che fossimo amici, proprio per
questo… non ho mai potuto dialogare e imparare così tanto con
un’altra persona. Lo sai.”
“E
anch’io, Gin. Certo che siamo amici per questo, perché ci piace
parlare. Ci piace molto! Ma le nostre idee sono sempre diverse” Hai
sostenuto tu, con determinazione.
Ti
vedevo autoconvincerti e ciò non ha fatto che confermare il
contrario in cuor mio, ma la bestiolina nel mio petto non accennava a
tornare fuori, era terrorizzata. Mi hai fatto tremare l’anima quel
giorno, angustiato di dubbi, con le tue affermazioni hai fatto
nascere in me un sentimento nuovo. La paura di perderti. Eri
ostinato a strapparmi il cuore dal petto il giorno stesso. Ma io non
ti avevo mai chiesto nulla di più della nostra amicizia. Non avevo
mai preteso niente di più. Mi bastava quello che avevo. A te no? Tu
ci hai portati in questo discorso, quel pomeriggio di maggio a
scuola! E hai battuto tu la terra per il bivio, quello che ci ha
costretti a prendere due strade che non si potranno mai più
incrociare. Siamo tornati al Castello vicini ma distanti. Stavolta
erano le nostre menti ad essersi allontanate. Quella notizia mi
aveva elettrizzata. Una scossa mortale da diecimila volt. Se
io non avessi baciato Dean, Michael si sarebbe fatto avanti.
Saremmo stati insieme? Cosa saremmo diventati? Un amore da
adolescenti? Un amore da adulti? O due innamorati?
L’avrei amato? Ci saremmo lasciati dopo due mesi, come diceva lui?
Una
cosa era sicura. Se l’avessi saputo, quel dieci settembre, che tu
eri pazzo di me, non avrei mai baciato Dean Thomas. E tu non saresti
mai stato il mio migliore amico.
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Capitolo 6 *** Di strani sogni e Ghermidori ***
Dal
capitolo precedente:
Michael
tratteneva furiosamente le lacrime. Che razza di parole usava quella
strega? Cosa significavano le scintille sempiterne? E quelle
descrizioni così accurate e poco lusinghiere di lui, eppure così
intrise di affetto? Si era aspettato parole di ogni genere, più che
altro insulti, ma non tutto quell’affetto e tutto quel rimpianto.
Il suo cuore era poco avvezzo al lasciarsi andare a quel genere di
sentimenti, e si sentì travolto dalla forza di quelle parole. Quel
calore all’anima che infuriava ogni volta che mi lanciavi uno di
quegli sguardi rapidi e carichi di affetto tra una battuta e
l’altra...
perché faceva così male? Così
lontani, così vicini...
faceva male da morire.
14.
Ginevra
assaporò il suo piatto di riso come raramente aveva fatto in vita
sua. Ringraziò Daniel per averla sostituita in cucina, a malapena si
reggeva in piedi dalla fame. L’arrivo di Tia la rese un po’
inquieta; si raddrizzò sullo sgabello scomodo su cui si era seduta,
osservando l’amica sedersi accanto a lei.
“Sei
stanca?”
“Abbastanza,
Tia…”
“Ho
cominciato a leggere, uhm, tu sai cosa.”
“Oh.”
“Già.”
Daniel
scrutò la scena per qualche istante, poi capì di essere di troppo.
“Ragosse,
vado a occuparmi dell’itinerèrio
della settimona
prossima. Dovremmo essere in marscia
per Sao Paulo già da un paio di giorni, e i rifornimonti
arriveronno
là. Manderò una missiva per avvisarli che non ci saremo per lundì
prossimo. Pulite voi i platti?”
ammiccò alle tre ciotole misere, la caffettiera ammaccata, le posate
e l’enorme pentola di rame che troneggiava sul tavolo pieghevole a
cui erano sedute.
“Non
c’è problema, va pure.” Tia attese che si fosse allontanato; “Mi
sembra comunque che non sia cosa da niente, la vostra amicizia come
la chiami tu.”
“Come
altro diamine dovrei chiamarla?”
“Oh,
non saprei. Cominciamo dall’inizio, comunque. A me sembra che tu
abbia avuto una bella cotta per lui a scuola!”
Ginevra
arrossì. Era la prima volta che inquadrava la questione con
l’aiuto di un’altra persona. Fino a quel momento, le ipotesi
aveva dovuto cavarle fuori da sola e spesso a furia di pensarci non
solo si incupiva e diventava intrattabile, ma capiva ancora meno
Michael. Non aveva idea di quanto le sue congetture potessero
avvicinarsi alla realtà, ma anche se fossero state lontano un miglio
avrebbe continuato lo stesso a produrne a palate; quegli incubi
intrisi di affetto e veleno che la squassavano ancora come una
bambina avevano lasciato posto, e se n’erano andati, solo
all’arrivo dei ricordi della guerra; non c’era stato periodo più
buio di quello in vita sua, ma non appena ci fu la calma, una volta
finiti i conflitti, una volta detto addio a suo fratello, si era
accorta che gli incubi precedenti stavano svanendo. Aveva avuto un
disperato bisogno di mettere quelle sue congetture per iscritto,
giorno dopo giorno, alla ricerca del loro significato; non voleva
abbandonare quei ricordi, nonostante il loro tempo fosse ormai
scaduto. Non aveva mai accettato la fine della loro amicizia.
“Non
ho toppato, giusto?”
“Giusto.
Però non era ricambiata, cara la mia investigatrice.”
“Prima
rispondi ad un’altra domanda. Era solo una cotta? A te lui non fa
più effetto ora?”
Lei
non rispose.
“Sei
fidanzata, e convivi! Adesso ti fai mettere in crisi da dei ricordi?”
“Tia,
io non sono in crisi! Sono solo arcistufa, e Harry è così lontano,
e non ha pensato nemmeno una volta di prendere l’iniziativa di
venire a trovarmi.”
“Non
farmi credere che sia questo il tuo problema, signorina!”
Un’ora,
due ore; non aveva importanza. Continuò a camminare fino allo
stremo, fino a spremere ogni goccia di sudore che la sua fronte
potesse produrre; lasciò che il sudore si mischiasse alla rabbia che
sfioccava dai suoi occhi; non poteva crederci, stava piangendo. Si
sentiva un’idiota, ma non era in grado, ancora, di venire a capo di
quel guazzabuglio che aveva in mente. Gin era la soluzione. Sapeva
di doverle delle spiegazioni, e ora anche lei gliene doveva; aveva
bisogno di risolvere la questione e una volta per tutte.
Non
gli era mai successo, da quando era partito, di sentirsi così
maledettamente debole; eppure non era mai stato così libero. Era
dolorosamente e irrimediabilmente liberato dalle sue menzogne,
spazzate via da quelle pagine scavate d’inchiostro e di lacrime e
forse anche di baci. Aveva trovato una foto, fra le pergamene, appesa
al ricordo della festa alla quale si erano travestiti assieme. Lui
era davvero attraente, con i capelli ordinati e gli occhi ridenti,
nonostante la gonna di Gin, la cravatta Grifondoro e il sorriso
scempio. Gin battitrice di Corvonero era sublime, ma qualcuno
aveva oscurato il suo viso con un pennarello nero. Evanesco. Ecco,
quegli occhi incriminanti, quegli occhi innamorati che nessuno dei
due aveva voluto vedere. Fino a quando era diventato troppo tardi.
Erano un pugno nello stomaco. I sentimenti di Gin gli turbinarono
dentro e gli diedero la nausea; anche lui avrebbe oscurato la foto,
se fosse stato in lei. E anche se non lo fosse stato. Facevano troppo
male. Aveva mentito a se stesso, per poter partire con la
coscienza pulita e per continuare ad andare avanti. Ora che lo
sapeva, che lo aveva finalmente capito, non aveva più senso
continuare a mentirsi. Se non poteva dirle almeno una volta in faccia
che era stato un’idiota, non se lo sarebbe mai perdonato. La sua
intera esistenza, il suo credo, la sua ribellione interiore, era
tutto sparito, spazzato via dalla malinconia.
I
sensi di colpa gli serrarono le budella, e provò mista alla rabbia
anche tenerezza, e comprensione e vergogna insieme. Le voleva ancora
bene, da matti, e lo sapeva. Gliene voleva così tanto, così tanto
che odiava se stesso nel farlo, perché aveva rovinato tutto, perché
se avesse avuto le palle glielo avrebbe detto, a Gin, che lui era
solo un vigliacco e che non voleva sentirle, le sue verità. Voleva
essere un adolescente ancora per un po’, lasciare che l’unico
dolore venisse dall’interno, e da nessun’altra parte.
Gin
era come una spina nel fianco, silente quando si è immobili, ma
capace di un dolore sordo e lancinante pronto a divampare al primo
passo falso. E lui non lo voleva; non aveva mai voluto soffrire per
mano sua. Così aveva deciso che sarebbe stato meglio odiare se
stesso.
Passò
la notte accucciato ai piedi di un albero, lanciando incantesimi alle
liane, tagliandole fino a trasformare l’intera matassa che gli
faceva da rifugio in un immenso spazio vuoto; ai suoi piedi si
posavano sempre più numerosi, ad ogni colpo di bacchetta, squarci
teneri e verdi di coriandoli.
Il
tramonto. Uno spettacolo da mozzare il fiato; gli uccelli in volo,
calava il sipario, i rumori della giungla cambiavano timbro. Era
assieme spaventoso e bellissimo. Per qualcuno, in quel momento,
esclusivamente spaventoso.
“Ginny,
no.”
La
ragazza dovette sollevare il capo dal macello di cui era vittima e
carnefice. Oggetti di ogni genere e svariati effetti personali
galleggiavano attorno alla strega dai capelli rossi, finendo per
essere infilati senza delicatezza nello zaino o scaraventati contro
le pareti della tenda.
“Devo,
guarda là fuori! Fra meno di dieci minuti non ci sarà più un filo
di luce la in mezzo! Sono passati tre giorni, Tia. E se gli fosse
successo qualcosa? Ho aspettato abbastanza.”
“Sarà
scappato a gambe levate quell’esempio di coraggio e umiltà.”
Sibilò Tia incrociando le braccia.
“Mi
ha sempre fatto penare, ma stavolta...”
“Pensi
che non sia andato via di sua spontanea volontà?” disse, poco
convinta. A poco a poco nella sua mente si materializzò l’idea
che fosse tutta colpa del diario. Scosse la testa, non voleva
pensare che quello scempio fosse tutta colpa sua.
“Non
lo so, quel che è certo è che lui è un idiota. Si è fatto
incastrare due volte da un Troll.
Io non posso permettermi di lasciarlo da solo adesso. La sua casacca
è ancora qui, e questo può significare una sola cosa. Ha o aveva
intenzione di tornare.”
“Quel
ragazzo, io giuro che...”
Tia
imprecò ancora masticando i suoi insulti, ma aiutò l’amica a
chiudere lo zaino col sacco a pelo. Ginevra sapeva essere
testarda; non era la prima volta che camminava nel verso opposto al
suo. Solo che stavolta rischiava la pelle. Aveva tentato di
tutto per trattenerla, e non era servito a niente.
“Lo
riporterò qui prima di domani mattina, stanne certa. Dopodiché chi
s’è visto s’è visto. Al diavolo. Lui e le sue trovate da
avventuriero dei miei stivali.”
“Sei
sicura che non vuoi che ti accompagni qualcuno?”
“Resta
con Daniel.” Le scoccò un bacio rapido sulla guancia prima di
uscire dalla tenda.
Indossava
la casacca di Michael. In
caso debba essere un addio.
“Sii
prudente, Ginny!”
“Aspetta!
Mi ridaresti il mio diario? Ci stai mettendo un sacco, è incredibile
che macinassi i libri di Patologia
Magica
più velocemente di queste quattro pergamenucole! Si vede che scrivo
proprio male, eh!”
“Eccolo.
Non è ehm...” Intero.
Voleva davvero dirglielo. Ginny però glielo aveva strappato di mano
ed era corsa via, infilandolo di malo modo nello zaino stracolmo,
senza rendersi conto di niente.
Per
fortuna, altrimenti, facendolo evanescere,
si sarebbe sicuramente accorta che qualcosa era andato storto.
Non
posso farcela.
Misha.
Era
circondato da un cuore.
L’immagine
si ripeteva ovunque sulle pagine disperse, a volte piccola a volte
grande, cerchiata più volte, incisa fino a bucare la pagina, sbavata
di inchiostro, raschiata dalla rabbia, riscritta nella disperazione.
Non
posso rivederla ora. È tutto troppo diverso.
Michael
si vergognò per lei e con lei, e tutto il veleno che le aveva
riservato negli anni gli si riversò in vena. Si alzò con
frenesia, doveva andare, partire e subito. Non era in grado di
affrontarla tornando al campo. Tutta la situazione gli era
sfuggita dalle dita.
Cosa
gli era preso? L’aveva tenuta per mano; lui!;
Si era sdraiato su di lei, ridendo; si era perso a studiare le
costellazioni delle sue lentiggini, proprio lì sulle spalle; aveva
riconosciuto i suoi avambracci delicati, le sue guance tornite, le
sue sopracciglia fiere e il suo sguardo buono e amareggiato. Come
ai vecchi tempi.
Con gli occhi sbarrati e il respiro accelerato, raccolse il malloppo
e prese a camminare sempre più rapidamente fra la boscaglia. Come ai
vecchi tempi, aveva ignorato i sentimenti di Gin perché non voleva
smettere di starle accanto e solo quando il bivio era diventato
inevitabile, aveva accettato di separarsi da lei. Umiliandola.
Dovette tenersi la gola, perché in un punto impreciso e vacillante,
fra il cuore e la lingua, sentiva un dolore pazzesco.
Tornerò
Ginevra, e mi scuserò con te, ma non ancora; non adesso.
E
poi, dopo, non ci vedremo più una buona volta per tutte.
Ginevra
saggiò l’area con lo sguardo, illuminandola con la punta della
bacchetta. Era soffocata dall’aria umida, dal buio e dai rumori
angoscianti tutto attorno a lei. Con la fronte sudata inghiottì una
boccata d’aria e proseguì il cammino facendosi strada fra le
liane. Ogni fruscio era un brivido su per il collo, così cercò di
concentrarsi su Michael. Non era poi così difficile, via. Era
comparso all’improvviso, strappandola alla bolla tiepida e calma in
cui si era infrattata, e poi se n’era andato di nuovo, lasciando
dietro di sé la scia distruttiva di un uragano. Non era cambiato di
un pelo. Lei sapeva che probabilmente quella casacca non significava
poi molto per lui, ma aveva voluto darsi una parvenza di dignità
davanti a Tia.
Avrebbe
dovuto ammettere, allora, che tutti i giorni non aveva fatto altro
che mentire a se stessa – va
tutto bene, Gin
-, che non voleva vedere Michael andarsene un’altra volta senza
spiegazioni – ti
prego lascia andare la presa sul mio cuore
-, che una piccola parte di lei aveva paura che gli fosse successo
davvero qualcosa nella giungla – fa
che non gli sia successo niente, fa che sia di nuovo, come sempre,
colpa sua
-.
Percorse
a ritroso il sentiero di quel pomeriggio, guidata dal terreno più
pulito, da segni precedentemente fatti sugli alberi e dalla luce
della bacchetta.
Si
fermò quando ebbe raggiunto il limitare degli alberi. C’era un
fuoco acceso là in mezzo; poteva trattarsi di Michael. Oppure… Nox.
“Spegnilo,
cretino.”
“Chiudi
il becco, come faccio ad abbrustolire le salsicce se non ho il
fuoco?”
“...dai,
dobbiamo ripartire.” in un ringhio.
“Hai
fretta? Il marmocchio di sicuro non ci troverà così facilmente”
“Non
credo che ci seguirà stavolta.”
Risero
sguaiatamente. Erano davvero stupidi come dei Troll. Non c’era
traccia di un Muffliato, di un incantesimo di protezione che fosse
uno. Non poteva credere che Michael si fosse lasciato derubare da
quei due. Un ex-Corvonero come lui? Impossibile... a meno che, non
avesse avuto la brillante idea di non proteggersi affatto,
esattamente come i due Ghermidori. Ginny sentì di conoscere una
delle due voci. Quando si decisero ad alzarsi per andare via,
carichi di legno pregiato e raro, lei non ci pensò due volte: doveva
seguirli e scoprire a chi lo vendevano.
15.
«Ron,
credo di essere pazzo. Faccio dei sogni»
«Ancora?
Dopo tutto questo tempo? Sono passati quattro anni Harry, forse è il
caso di parlarne con qualcuno di competente»
«Mi
vergogno»
«Come
mai? C’è ancora lui?»
«No,
Voldemort non c’entra nulla. Sono... ossessionato»
«Ok,
ora mi spaventi» deglutì il ragazzo dai capelli rossi, grattandosi
il mento ormai irto di barba ramata.
«Sono
io la mia ossessione. Mi piaccio, mi idealizzo, mi vedo meglio di
come sono... è come se una parte di me lottasse contro il mio
buonsenso!»
La
frase azzerò il sensore di pericolo acuto dell’altro e gli strappò
una risata liberatoria «Ma Harry! Hai abusato di Whiskey
ultimamente?»
«Cazzo,
Ron. Non sto scherzando. E smettila di ridere! Non ti rendi conto, io
sono davvero pazzo. Non sono mai stato così fuori di me! Mi vedo
come un estraneo, capisci? Da fuori. Non noti niente di diverso in
me?»
«Beh,
si. Sei estremamente affascinante, vuoi uno specchio per constatarlo
tu stesso?»
«Accidenti
a te, deficiente!» soffiò Harry a mezza voce, frustrato «mi sembra
di avere un’altra persona dentro. È una cosa folle. Non fare
quella faccia. Te lo giuro. C’è qualcuno che mi abita, Ron. Una
persona innamorata! Di... me. Capisci?»
«Credi
di essere vittima di un incantesimo?» Ron cercò di restare serio,
ma solo in nome della loro amicizia; quella faccenda era insensata a
tutto campo. Ci avrebbe scommesso cinque zellini. Forse.
«Non
lo so, ma non è finita qui» e con un’occhiata esaustiva, riuscì
a toccare le corde giuste, tanto che Ron strabuzzò gli occhi.
«Sogni
roba
di te stesso?»
«Io...
sì. Ogni notte. E... mi piaccio parecchio, anche, ma è come se
fosse tutto sbagliato, e lo è, cioè, me ne rendo conto! Ma non in
quel senso. È come se quella parte innamorata fosse cosciente, ed è
convinta di non meritarsi il mio affetto.»
«Harry!»
«Lo
so, lo so. Non dovevo nemmeno parlartene. È così vivido che non
riesco a smettere di pensarci, mi sta logorando. Seriamente, Ron»
disse, «tu cosa penseresti se sognassi di essere in un altro corpo,
e da quel corpo di osservarti, provare affetto per te e una miriade
di altri sentimenti?»
«Non
saprei» sentimenti, eh? Sentimenti e roba. Accidenti, Harry era
strano forte.
«Appunto»
«Ne
parlerò con Hermione, lei saprebbe dove e come documentarsi –
sempre che tu sia convinto di non voler andare all’ospedale, per le
mutande di…»
«Sei
impazzito? Prova a immaginare cosa penserebbe!» esclamò subito
Harry, con la mente piena di ricordi assolutamente indecenti e per
niente pronto all’idea di condividerli con qualcuno, figuriamoci
una donna «No, bocca cucita. Solo tu devi saperne qualcosa, hai
capito?».
«Come
vuoi tu Harry. Lasciati logorare dal tuo amore per te stesso allora!
Mi pare una cosa così stupida che non sta nemmeno in piedi nei miei
pensieri. Scusa, ma mi fa ridere. Io la prenderei più alla leggera
se fossi in te».
«Forse
hai ragione» disse Harry, per chiudere il discorso.
Non
era per niente convinto e lo sapevano entrambi. Harry non avrebbe
mollato, non lo aveva mai fatto anche in occasioni più confacenti ma
pericolose. C’era della magia, dietro a quelle sensazioni, era
chiaro come il sole. Ne avvertiva la presenza con assoluta certezza,
come quando aveva capito che la sua bacchetta l’aveva scelto. Ora
tutto era in secondo piano. L’Accademia Auror di Londra, Ginevra,
gli amici. Era così preso e così cosciente di esserlo che quasi si
compativa. Avrebbe aspettato la notte con trepidazione, avrebbe
atteso con gli arti formicolanti e le palpebre in fibrillazione fino
a sentire sulla pelle quelle carezze leggere come piume, quei
pensieri così dolci da toglierli il fiato, e quelle labbra che tanto
amavano le sue.
Era
nella mente di chi lo amava, non l’avrebbe mai ammesso, ma era
sicuro che fosse così. Un ricordo dopo l’altro, a ripetizione,
come un vortice; una febbre d’amore che ti costringe a letto e ti
rende stupido e felice, perennemente eccitato, in un bagno di sudore.
Era
davvero lui ad amare se stesso? Di chi erano quelle mani che
studiavano il suo viso, amandone ogni spigolo? Chi era così folle da
accendersi di passione solo perché lui spingeva in fuori la
mandibola quando rifletteva? Sì, spingeva in fuori la mandibola, e
la cosa era imbarazzante, una volta sveglio, ma quel moto di affetto
verso se stesso lo stendeva letteralmente.
Era
possibile, in un mondo di portatori di bacchette, sentire su di sé
ogni sfaccettatura dei sentimenti di un altro come un ricordo lontano
e considerarlo normale? Era un tormento così piacevole che il suo
corpo reagiva, si lasciava invadere. Non aveva idea che si potesse
avere la pelle d’oca per ore. Doveva indagare, e rischiare di
perdere quella beatitudine dei sensi?
Molto
meglio soccombere, quando Morfeo lo abbracciava; e così lui
s’infiammava dei baci che qualcuno ricordava di avergli dato, baci
veri, cancellati e dispersi e poi ritrovati.
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Capitolo 7 *** In trappola ***
Dal
capitolo precedente:
Era
possibile, in un mondo di portatori di bacchette, sentire su di sé
ogni sfaccettatura dei sentimenti di un altro come un ricordo lontano
e considerarlo normale? Era un tormento così piacevole che il suo
corpo reagiva, si lasciava invadere. Non sapeva nemmeno che si
potesse avere la pelle d’oca per ore. Doveva indagare, e rischiare
di perdere quella beatitudine dei sensi?
Molto
meglio soccombere, quando Morfeo lo abbracciava; e così lui
s’infiammava dei baci che qualcuno ricordava di avergli dato, baci
veri, cancellati e dispersi e poi ritrovati.
16.
Hermione,
sei felice. Sei mai stata così felice? Non senti più quella
voragine in petto. Tutto tace in te, mentre vivi il presente. Quanto
è piacevole vedere Ron spogliarsi senza paura di leggere in te una
reazione frenata o negativa? Lo accetti, lo abbracci, ti abbandoni
con lui e non lo avevi mai fatto. Ron ha le spalle larghe, la cosa
ti fa impazzire. Sotto l’ombelico la sua peluria di bronzo è
solletico, la sua pelle profuma di uomo e le sue gambe robuste e
muscolose ti schiacciano, ed è meraviglioso, ti sembra di essere su
un altro pianeta. Ron stavolta non è impacciato, reagisce
d’istinto, ti regala sensazioni mai provate... vero? Non è
inebriante, la vita? Ora si che va tutto come vuoi tu...
17.
«Ron,
stanotte ho sentito una voce» disse Harry dopo un gran sorso di
Burrobirra «sono sicuro di conoscere quella persona».
«Aspetta
un attimo, che stai dicendo? Non era un a parte di te?»
«No,
sì, no. Non lo è. Sono sicuro che non lo è. Inoltre, in quei
sogni, mi sento tremendamente donna.
Dio, non hai idea di quello di cui sto parlando, è una cosa
allucinante. Ron, sono sempre più convinto che si tratti di un
ricordo perso. Leggi qui»
«Ma
questo è l’articolo della Gazzetta di quando avevano aperto la
Camera dei Segreti!» disse, leggendo rapidamente i titoli della
prima pagina, fermandosi all’articolo cerchiato di rosso da Harry
con un sussulto «ALLOCK?»
«Esatto.
Un Oblivion
riuscito male. Te lo giuro, io lo
so,
ne sono certo.» Harry sembrava combattuto, gli occhi gli
scintillavano leggermente per la frustrazione e il timore di essere
frainteso.
«È
una teoria più che strampalata, ma te lo concedo, forse la vecchia
Romilda può non aver stemperato quella sua passione focosa per te»
«Chiunque
sia, ho come la sensazione che lo scoprirò presto; sembra che un po’
alla volta il vecchio Gilderoy abbia recuperato la memoria» e si
avvicinò a Ron prima di continuare con un tono più contenuto «e
questa roba, questi ricordi – perché di ricordi si tratta – non
sono venuti qui per caso. Stanno riempiendo uno spazio, una porta
nella mia mente che prima era occupata da qualcos’altro. Devo
capire di cosa si tratta. Forse, Ron. Forse, ascoltami, ti sembrerà
pazzo, ma sento che qualcuno mi ha obliviato
in passato, ed è l’unica ragione per cui questi ricordi sono
entrati in me e ora sembrano possedermi»
«e
pensi che probabilmente sia stata la stessa persona a svolgere i due
incantesimi» affermò Ron, mentre Harry annuiva con vigore. Si
mordeva il labbro, e il suo sguardo non ammetteva repliche: doveva
credergli, o sarebbe impazzito all’istante, e tutto gli sarebbe
crollato addosso. Ron sentì un gran peso, ma non lo diede a
vedere. Si considerava da tempo abituato alle stranezze
dell’amico, ma questa le batteva tutte.
18.
Cosa
c’è che non va? Cos’è questo gusto amaro in fondo alla
gola? Perché si stringe, si secca, e devi deglutire? Non era
esattamente quello che volevi? Ron è stato bravissimo, anche
stavolta. Ora
dorme accanto a te, le sue palpebre pesanti sembrano volerti
ricordare che tu sei sveglia, al contrario di lui. Sveglia, e
insoddisfatta. Eppure sembrava tutto perfetto; hai studiato e poi ti
sei preparata per il suo arrivo, ti sei perfino truccata. L’attesa
ti ha resa eccitata, famelica, i tuoi baci l’hanno quasi divorato
appena ha varcato l’uscio. Ti ha trascinata sul letto, sotto
alle lenzuola, e tu hai trascinato lui fra le cosce, con audacia. Da
quando sei diventata audace? E poi? Poi avete parlato. Man mano,
la tua mente si allontanava, distoglieva la sua attenzione, e ti sei
persa, lasciandolo solo nella conversazione. Una volta riscossa, ti
sei accorta che dormiva pacifico sul tuo stesso cuscino. Era stato
il silenzio a svegliarti? Fine dell’ebbrezza, fine dei piacevoli
sospiri... e poi?
Per
quanto ti basterà, quello che hai?
19.
«Ron,
lei sta sparendo. Ero così vicino, e ora mi sfugge».
Harry
era sconsolato, teneva la testa fra le mani da cui scappavano ciuffi
di capelli neri come la pece. Gli occhiali appoggiati malamente
sulla fronte scostavano le ciocche e scoprivano la vecchia
cicatrice. Ron si appoggiò allo schienale e smise di giocare con
il sottobicchiere. Non alzò lo sguardo su di lui.
«Lei
ti sfugge?»
«Sì,
non riesco più a capire chi sia. Ero sicuro che l’avrei
riconosciuta, ma da una settimana i miei sogni sbiadiscono. Non
riuscirò mai a capire chi sia stato, di questo passo»
«E
ora cosa vorresti fare? Non pensi sia il caso di dimenticare tutto?»
«No,
non voglio. Lei mi ha privato di una parte di me, la rivoglio
indietro. Rivoglio i miei ricordi. Aiutami a riprendermeli»
«Come
vuoi, amico. Vediamo di cercare in settimana nella biblioteca di
Accademia, deve pur esserci qualcosa»
Harry
notò il tono dell’amico, leggermente incrinato, e intuì che non
dipendeva dalla conversazione.
«Qualcosa
non va?»
Quello
che non si aspettava era che Ron finisse mezza pinta in un unico
sorso; non lo aveva mai fatto. Si erano sempre contenuti, e quella
era la loro Burrobirra “dell’amicizia”. Mezz’ora alla
settimana di chiacchiere a quel tavolo spazzava via tutti i malanni,
ma stavolta forse non sarebbe bastata. Ron posò il boccale e
trattenne un singhiozzo, poi spostò lo sguardo a terra, avvilito.
«Tutto
non va»
Harry
lo guardò per la prima volta con attenzione e scoprì con sgomento
le lunghe pieghe sulla sua fronte, il suo cipiglio e il verdeazzurro
dei suoi occhi intriso di nero, ingrigito. Ron aveva smesso di
tormentare il sottobicchiere solo per strapparsi le pellicine attorno
alle unghie; qualche polpastrello era sporco di sangue. Harry capì
che era il momento di ridimensionarsi per fare spazio alle
preoccupazioni dell’amico.
«TOM,
ALTRE DUE PINTE PER FAVORE!» gridò al barista, che risposte con un
cenno d’intesa. «Tutto non va, insomma.» disse con tono
interrogativo e cauto per non bruscare la timidezza dell’altro.
Ron
detestava aprirsi, e sapeva bene quali sarebbero state le sue
reazioni se avesse insistito senza delicatezza. Modulò il tono in
modo esemplare: era la chiave giusta. Ron implose nella sua rabbia
silenziosa, pronto a parlare.
«Era
tutto praticamente
perfetto, non eravamo mai stati così bene, e poi un po’ alla volta
è peggiorato tutto. Dopo tre anni, Harry! Tre anni insieme –
sembrava che andasse tutto meglio – e invece no. Non va bene
niente. Non va bene quando faccio da mangiare, non va bene che non so
scegliere il tè giusto – scusa
tanto se mi sono scordato che lo bevi solo al limone! E io nemmeno lo
bevo il tè! –
non va bene abbracciarla dopo averlo fatto» disse con disgusto, e
neppure l’occhiata di puro imbarazzo di Harry lo fermò, «per non
parlare del fatto che io sia indietro di un anno all’Accademia
Auror rispetto
a te.
Ovviamente confrontarmi con gente che ha passato il test solo
quest’anno è da deboli, e non conta nulla il fatto che io lavori
come un elfo
al Dipartimento con mio padre! Niente, Harry! Nemmeno il pane so
scegliere, sbaglio i cassetti, dico la cosa giusta al momento
sbagliato, il mio dormire la disturba – sì,
anche quando non russo!
– e le fa schifo il mio alito di burrobirra, nonostante la beva
anche lei, e quindi quando tornerò stasera mi spingerà via e non
vorrà nemmeno un bacio, e sarà nervosa tutta la sera, miseria
ladra! Non so più cosa fare Harry. Lei non mi vuole più»
«Ecco
a voi, sono quattro e quattro, otto falci»
«Tieni
pure il resto Tom – Ron, stai buono. Te lo devo, accidenti»
«Capisci?
Io non sono abbastanza»
nascose le lacrime dietro ai pollici, e a Harry si strinse il cuore;
voleva sotterrarsi, ma si costrinse a guardarlo. Era costernato e non
si aspettava assolutamente una confidenza simile. Cosa poteva fare
per il suo amico?
20.
Michael
si svegliò immerso in una calma innaturale. Quando ebbe aperto gli
occhi del tutto, trovò un tucano a qualche metro da sé. Era
colorato e lucente, bellissimo, e non aveva paura di lui. Si sedette
e il tucano prese il volo con un poderoso battito d’ali, sollevando
uno sbuffo d’aria calda verso il malcapitato. Doveva essere
mezzogiorno. Scostandosi i capelli dal viso fece cadere numerosi
coriandoli verdi e appassiti.
Dove
era finito? Aveva camminato tutta la notte fino a quando la
stanchezza aveva preso il sopravvento. Stravolto, era riuscito ad
addormentarsi ai piedi di un albero di mangrovia gigantesco. Ma era
stato tormentato dall’inconscio.
Si
massaggiò le tempie, scocciato, rendendosi conto di essere a due
passi dalla radura in cui gli avevano spezzato le gambe. Quella in
cui Gin gli aveva lanciato quello sguardo acuminato e lucente, mentre
si stava legando i capelli. No.
Niente Gin. Basta pensieri.
Si alzò e cominciò a camminare in tondo, senza sapere cosa
fare. Dove sarebbe andato? Come avrebbe pagato il prezzo della
spedizione senza i soldi della legna? Se
andassi ora da Gin potresti scusarti e lei potrebbe metterti in
comunicazione con qualche Auror.
Si
sentì punto nell’orgoglio. Non poteva chiedere aiuto,
soprattutto non a lei. Se la sarebbe cavata da solo, a costo di
rimetterci di nuovo le gambe. Doveva solo trovare il modo di
farlo. Così fece l’unica cosa che gli venne in mente e che faceva
sempre prima di cominciare qualcosa: si sedette a terra, al centro
della radura, e chiuse gli occhi.
Se
fosse riuscito a tranquillizzarsi, avrebbe acquisito lucidità e
senza ombra di dubbio avrebbe macchinato un piano per salvarsi il
culo. Era sempre stato così. C’mon
Michael.
Ginevra
li aveva braccati con la pazienza del felino, ma dovette ammettere a
se stessa che stava cominciando ad affaticarsi. Il nastro verde
dei suoi capelli doveva essersi allungato di qualche chilometro
mimetizzato nella vegetazione, ma era soddisfatta: ora poteva tornare
indietro facilmente.
Era
sudata, sporca, piena di escoriazioni e graffi urticati. Non aveva
portato unguenti, sicura che avrebbe trovato Michael nel giro di
qualche ora. Invece si era ritrovata a inseguire due Ghermidori su e
giù per la giungla, senza farsi scorgere, senza perdere traccia pur
mantenendo le dovute distanze.
Non
era una faccenda facile. Era prosciugata dagli incantesimi di
Disillusione, e quando si accorse che si stavano fermando per fare
una breve pausa si lasciò cadere a terra fra enormi foglie lattee
verdi e viola, lottando contro la stanchezza per non
addormentarsi. Per quanto ancora avrebbe dovuto seguirli?
I
due uomini, sulla mezza età, sedevano uno accanto all’altro su un
tronco tagliato da loro di fresco. Stavano per mangiare. A Ginevra
si torse lo stomaco dalla fame. Presto le forze l’avrebbero
abbandonata. Tese l’orecchio in uno sforzo immane, e rimase in
ascolto.
“Prendi
la mappa, Zorak.”
“Scherzi?
Sto mangiando. Fammi finire il panino!”
“Scabior
ti avrebbe già frantumato la testa. Possibile che io debba lavorare
con gente come te?!”
“Chi
te l’ha fatto fare, eh? Dammi la mia legna, stronzo.”
Ginevra
alzò gli occhi al cielo.
“Non
esiste! Senza di me non saresti mai riuscito a rintracciare il
marmocchio.”
“E
tu non saresti mai stato in grado di spezzargli le gambe.”
“Grrrr!”
“Senti,
la passaporta è qua vicino, me l’ha segnata sulla mappa la
Vermiglia di Notturn Alley in persona. Ora smettila di frignare e
lasciami mangiare in santa pace!”
“La
Vermiglia, dici?”
“Sì.
Parola mia, quella strega è orrenda. Brutta come il Vaiolo di Drago,
ma accidenti se ci sa fare.”
“Ne
ho sentito parlare; non sapevo che lavorasse a pagamento per
chiunque” era evidente lo scherno per il compagno “è vero che è
in grado di deviare i Caminetti, oltre che le Passaporte, senza che
il Ministero se ne accorga? E quale sarebbe il suo nome vero?”
Zorak
si guardò attorno con aria cospiratrice, prima di addentare il
panino.
“Nessuno
lo sa. Si fa chiamare La Vermiglia.”
Rimediò
uno scappellotto che gli fece sputare il boccone.
“E
allora cosa ti atteggi a fare?! Siamo in mezzo alla giungla, razza di
Troll instupidito. Nessuno di può sentire qui. Nessuno
lo sa,
pff. Di pure che tu
non lo sai.”
“Nient’affatto,
nessuno lo sa! Puoi starne certo. Vedrai, vedrai!, quando torniamo a
Londra. Ti mangerai le dita per avermi contraddetto.”
Londra.
A Ginevra balzò il cuore in petto. Il traffico era diretto
nientemeno che alla capitale!
“Zorak,
sei sicuro che a Sinister non dispiaccia, se usiamo il suo magazzino
come deposito?”
“Accidenti,
sì. Mi deve un favore.”
“Forza,
dobbiamo rimetterci in marcia.”
“Ecco
la mappa.”
“Avevi
ragione, è proprio qui dietro.”
Ginevra
sospirò esultante; non solo sapeva dov’erano diretti, e poteva
quindi mandare una missiva a Harry per allertare tutti quanti, ma
avrebbero anche potuto agire in fretta e preparare un’offensiva
organizzata prendendoli di sorpresa! Si sentì un genio
dell’investigazione, e assaporò la vittoria prima ancora di averla
visualizzata. Non solo, ora poteva finalmente tornare
all’accampamento, riposarsi un giorno o due e ripartire. Al diavolo
Michael, al diavolo tutto!
“Guarda
un po’ cos’abbiamo qui, Yano.”
“Ciao,
bocconcino.”
Non
aveva fatto in tempo a impugnare la bacchetta; senza che potesse
accorgersene, la stanchezza e la sensazione di sollievo avevano
allentato i suoi incantesimi fino a renderli del tutto innocui.
Ginevra era stata Schiantata prima ancora di rendersene conto.
“E
adesso cosa facciamo con lei?”
“Non
vorrei che fosse stata nascosta qua dietro tutto questo tempo.
Saremmo irrimediabilmente compromessi, se questo uccellino decidesse
di parlare.”
“Allora
facciamo in modo che non parli più.” Ghignò Zorak.
“Sei
pazzo? Io non uccido, razza d’idiota. La porteremo dal tuo amico
Sinister, sono sicuro che ha un posto dove tenerla, in attesa di
vendere il carico. Ci penseremo dopo.”
“E
va bene” se la caricò in spalla, “ora, in marcia.”
Michael
era deciso a tornare all’accampamento dei Medimaghi. Avrebbe
affrontato di petto le sue paure. Si, era finita l’era del
Michael cagasotto. Quando aveva aperto gli occhi dopo la lunga
meditazione, aveva ancora due pensieri fissi. L’indulgenza di Gin,
che non poteva più attendere oltre, e il risotto bruciacchiato del
damerino francese. Aveva maledettamente fame.
“Expecto
Patronum!”
Un
lupo grigio-argenteo gli venne incontro con le orecchie sollevate e
la coda dritta.
“Guidami
fuori di qui. Devo ritrovare Ginevra.”
“Tià,
guarda laggiù. Mi sombra
di vedere Michel!”
Daniel
ci aveva visto giusto. Non aveva previsto però che la strega
abbrancasse la bacchetta e la puntasse contro il ragazzo al limitare
della foresta, sparando una serie infinita di schianti fiammeggianti
senza riuscire a colpirlo.
“Tià,
sei impazzita! Che stai fascendo?!”
“RAGAZZI,
VIA. TREGUA?” gracchiò Michael, senza più un filo di saliva in
bocca. Un sorriso storto.
“Dov’è
Ginny? Perché non è con te?!”
“Io...”
Michael si guardò attorno, accigliato, prima di recepire il
messaggio “Gin non è con voi?”
“È
partita ieri sera per cercarti. Era convinta che tu avessi lasciato
la casacca apposta, che non te ne saresti andato. Dov’è?”
“Io…
mi dispiace, non lo so. La mia casacca?”
Si
era quasi dimenticato di averla lasciata lì, tanto era turbato il
pomeriggio che aveva lasciato l’accampamento.
Cominciarono
a cercare Ginevra nei pressi dell’accampamento, chiamandola a gran
voce, lanciando scintille rosse verso il cielo, al di sopra degli
alberi, sperando di attirare la sua attenzione. Passarono una
decina di minuti, prima che Michael, accovacciato nel fogliame alla
ricerca di qualsiasi cosa, trovasse effettivamente qualcosa.
Era
un nastro verde sbrindellato; quel
nastro. Lo
sollevò con una mano, trovando resistenza. Era incredibilmente
lungo.
“Ragazzi,
credo di avere una pista.”
“Merlino
ti ringrazio! Senti un po’, imbecille. Se mi fai un altro scherzo
simile sei finito. Non mi sei piaciuto fin da subito, ma ho chiuso un
occhio per lei. Non ti farò lo stesso regalo un’altra volta!”
“Non
perdiamo la calma. Prendiamo qualche provvista e seguiamola, non può
essere andata così lontano. È stata via solo una notte. La
ritroveremo, non preoccuparti. È scaltra, non le sarà successo
niente.”
“Ti
auguro di avere ragione, Corner.”
“Tià,
ma
chérie.
Accompagno io Michel.”
Non
era in vena, ma Michael non poté fare a meno di notare, nonostante
la situazione, che c’era del tenero fra quei due. Ma
chérie.
Alla faccia del damerino. Distolse lo sguardo per lasciarli
interloquire in privato. Pff.
Sentiva
gli arti tremare per la scarica adrenalinica; aveva trovato una
pista, Gin non era poi così lontana; l’avrebbero trovata, ne era
sicuro; altrimenti… altrimenti non volle nemmeno pensarci. Ebbe un
leggero malore, si appoggiò all’albero più vicino, ma decise che
non era il momento giusto per svenire. Doveva ritrovarla, prima che
le succedesse qualcosa.
“Tia,
voglio che vieni tu con me.” Disse poi, agguantandola per una
spalla, avvicinandola a sé. Le parlò sottovoce, perfettamente
udibile anche da Daniel che lo osservò fare con un sopracciglio
alzato. “Punto uno, lui parla crucco. Punto due, conosci Gin senza
dubbio meglio di lui, e magari colmerai le mie lacune, rendendomi più
facile il lavoro. Punto tre, abbiamo qualche questioncina in sospeso,
se non sbaglio.”
“E
va bene, fammi prendere la veste. Qui di notte c’è un freddo
Schiopodo, non si sa mai.”
La
ragazza tornò poco dopo con una veste smeraldina e una marrone
sgualcita, buttandogliela addosso. Michael la prese al volo,
leggermente infastidito. All’interno del suo mantello di fortuna
c’era un barattolo con del Fuoco Fatuo.
“Weasley
Handmade, eh?” Chissà
quanti marciotti affatturati per rubar loro le lanterne...
“Ottimo. Avremo anche la luce senza usare le bacchette. Andiamo.”
“A
dopo, Daniel.”
“Sois
prudente
ma
Tià.”
Si
abbracciarono brevemente, poi Tia raggiunse Michael che teneva
stretto il lembo di nastro nel palmo della mano.
Ginevra
si svegliò dolorante. Aveva qualche livido in più, ma se l’era
cavata con poco.
In
un lampo ricordò tutto, e tentò di alzarsi. Non ci riuscì, aveva
mani e piedi legati. I suoi effetti erano appesi a un gancio sulla
parete di un’angusta stanza di terra battuta, a giudicare
dall’umidità, sotterranea. Chiuse gli occhi. Non
è possibile. Si
era fatta mettere nel sacco, proprio come Michael. Se non altro,
aveva ancora le gambe intere. Mosse gli alluci con piacere, tentando
invano di sgranchirsi appropriatamente.
C’era
un’unica luce fioca nella sua prigione, era una torcia appesa
accanto al suo zaino. Doveva essere in uno scantinato, una
prigione. Se quel che ricordava era corretto, si trovava sotto al
Magie Sinister’s.
Un
boato sordo fece tremare il terreno. A Ginny s’incappò il respiro
a metà e inghiottì aria e saliva.
Un
ruggito spaventoso le squassò le ossa. Un Troll, vero questa volta,
si trovava nella cella di fronte alla sua. Erano separati da una
palizzata di sbarre metalliche rugginose. Mi
schiaccerà e mi ammazzerà prima che io riesca a tirarmi fuori di
qui.
Il panico la invase. Improvvisamente ricordò anche come era arrivata
in quella cella: l’avevano buttata a terra in malo modo, poi Yano e
Zorak avevano preso la chiave in prestito a Sinister – cos’era,
una specie di prigione a noleggio?!
– e se n’erano andati con il loro prezioso carico. Accidenti.
Cosa poteva fare? Doveva recuperare lo zaino. Non era in grado di
fare incantesimi di appello non verbali. Non gliene era mai riuscito
uno. Non
è il momento di perdere la calma, Ginny.
Respirò profondamente un paio di volte, poi strinse gli
occhi. Attese. Nulla. Ritentò ancora. Niente da fare. Non
aveva idea di dove fosse la sua bacchetta. Era in un pasticcio
bello e buono.
Note
dell’autrice:
1) Scabior, come molti altri ghermidori, muore nella battaglia di
Hogwarts. in particolare cade dal ponte di legno che congiunge la
foresta proibita al castello quando Nevile Longbottom lo fa saltare
in aria per difendere Hogwarts. (Harry
Potter Wikia);
2) la forma del Patronus di Michael l’ho inventata, ho cercato in
lungo e in largo, alcuni dicono si tratti di un gufo, altri di un
cigno. Per me, Michael è un ribelle, solitario e burbero lupo alpha;
3) Daniel chiama Michael “Miscèl” per via delle sue origini
francesi!
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Capitolo 8 *** Bombarda Maxima ***
Dal
capitolo precedente:
Accidenti.
Cosa poteva fare? Doveva recuperare lo zaino. Non era in grado di
fare incantesimi di appello non verbali. Non gliene era mai riuscito
uno. Non è il momento di perdere la calma, Ginny. Respirò
profondamente un paio di volte, poi strinse gli occhi. Attese. Nulla.
Ritentò ancora. Niente da fare. Non aveva idea di dove fosse la sua
bacchetta. Era in un pasticcio bello e buono.
21.
Dovevano
essere le sei del mattino o giù di lì.
Michael
saggiò con i polpastrelli l’ultimo brandello di nastro.
“Si
ferma qui, mi dispiace.”
“Non
può essere andata tanto lontano.”
“No,
infatti.”
Tia
osservò Michael cercare indizi, annusare le ceneri di un fuoco ormai
spento, sollevare un boccone masticato sospetto, e raccogliere dei
legnetti anonimi con gran garbo. D’istinto pensò che fosse pazzo;
la ragione la rimandò al loro incontro precedente, e appurò che
aveva probabilmente ragione.
L’aveva
guardato a lungo, durante il tragitto, e poco alla volta la rabbia si
era sopita. Era diventata curiosità a un livello morboso. Corner
si muoveva con disinvoltura nella boscaglia, barcollava appena per la
stanchezza evidente – aveva due occhiaie spaventose -, ma non
mollava l’osso; era la determinazione fatta a persona; aveva
affrontato a muso duro tutte le accuse che lei gli aveva rivolto,
finendo per chiedere scusa, dimostrando inaspettatamente di avere un
certo grado di controllo sulla propria tempra. Non era il suo
genere, ma aveva decisamente fascino.
Quei
capelli quasi rasati sui lati, la massa incolta e mora al di sopra,
le spalle eccessivamente muscolose, e tutte le cicatrici della sorte.
Non sapeva che Ginny avesse quel
genere di gusti.
Non
era propriamente un principe azzurro. Sembrava più che altro un
paladino dei senzatetto.
“Ho
una buona e una cattiva notizia.”
“Avanti,
parla.”
“So
esattamente dov’è e come trovarla.”
“E
questa è la cattiva, giusto?”
Sembrò
un istante eterno, ma lui non riusciva a parlare.
Spezzò
un rametto di quel legno chiaro nel palmo della mano, portando lo
sguardo in quello di Tia.
“...i
Ghermidori.”
“Che
cosa? Non ci sono più Ghermidori, non da quando gli Auror hanno
debellato il morbo Oscuro dal popolo magico.”
“Ti
stupiresti della quantità di fesserie che escono dalle bocche
sporche di quei bastone-in-culo di Auror! Posso assicurarti che ci
sono. Vuoi che ti faccia vedere la mia cicatrice più fresca? Se Gin
non mi avesse curato e protetto, l’altra notte, non sarei qui
parlarti. O forse sì, ma senza le gambe.”
“Dobbiamo
trovarla subito. Dove si trova?”
“A
Notturn Alley, da Magie Sinister. Ma tu rimani qui.”
“Non
esiste, Corner.”
“Fidati
di me, una buona volta. Torna all’accampamento e contatta la sua
famiglia. Suo padre lavora al Ministero della Magia, se non ricordo
male, e suo fratello dovrebbe essere in apprendistato per diventare
un Auror. Potranno avvisare rapidamente chi di dovere, e raggiungermi
a Notturn Alley.”
“Non
esiste. Verrà Daniel con te.”
“Oh,
cielo! Non abbiamo tempo da perdere! Dimentica il damerino! Prendi il
nastro, tieni. Ecco, ora vai. Io mi Smaterializzo direttamente la. Ci
si vede.”
“Credo
che tu non abbia afferrato la situazione.” Disse lei, agguantandolo
per il bavero “Expecto
patronum!
Vai
a dire a Daniel dove siamo.”
Guardarono
la volpe lattea saettare nella vegetazione fino a scomparire. Michael
aspettò con impazienza che lei lo lasciasse andare con uno
strattone. Era tutto, ancora una volta, colpa sua; ma che colpa ne
aveva la sua camicia più bella? Se la lisciò sulle spalle. Gli
era costata parecchio, ma era incantata: teneva perfettamente la
temperatura, che ci fosse caldo o freddo. Così come la sua
casacca. Eppure, in un baleno aveva dimenticato le cose
importanti, quando si era trovato faccia a faccia con Ginny. Aveva
svalvolato. Non
avrebbe mai dovuto rubarle il diario. Continuava a pensare a
quanto fosse strano il fatto di averla incontrata nel cuore della
foresta amazzonica. Intendiamoci, lui aveva scelto quel lavoro per
stare in pace. Era contento che gli avesse salvato
il culo,
ma forse sarebbe stato tutto più facile senza di lei. Forse, se non
ci fosse stata lei fin dall’inizio, lui non avrebbe mai sentito il
bisogno di andare a lavorare dall’altra parte del mondo. Se lei gli
avesse lasciato i suoi spazi, invece di soffocarlo con i suoi modi e
le sue attenzioni, lui...
Non
poté fare a meno di odiarsi, ardentemente, ancora una volta. Perché
pensava alle stronzate, perché Gin era a due dita dal farsi sgozzare
dalla prima Creatura prigioniera con lei sotto a Sinister’s se non
arrivavano in tempo. Perché era stata ancora una volta la solita
Gin, quella che lo rincorreva malgrado i suoi errori, per aiutarlo a
correggersi, per salvargli
il culo. Si,
non sbagliava mai con lei accanto. Non ne aveva il diritto.
Una
prigione dalle sbarre preziose. Una prigione nella quale avrebbe
preferito finire i suoi giorni, piuttosto che trovarsi in una
situazione come quella, in cui rischiava di scomparire per sempre
l’origine di ogni suo dissidio interiore. Senza Gin, i suoi
rancori perdevano vigore. Senza di lei la rabbia non aveva più
senso. Senza la sua coscienza, lui non era che il ragazzino
impaurito e ribelle che era stato prima di conoscerla. Era stata
lei, inconsciamente e dolorosamente, malgrado sé stessa, ad averlo
plasmato, ad averlo reso ebbro di sé; era per lei che aveva deciso
di darsi un senso, di cercarsi in un viaggio lungo come una vita.
Diede
un calcio al tronco rovesciato e rimediò un dolore lancinante.
“Accidenti!”
“Speriamo
che Daniel arrivi in fretta.”
“Non
è quello che mi preoccupa; i Patronus viaggiano alla velocità della
luce, se necessario.”
Tia
lo guardò dall’alto in basso, e non poté trattenere – bleah
- un moto di compassione. Lui era esausto, logorato dal perdifiato
e dal digiuno. Probabilmente non avrebbe retto alla
Smaterializzazione. Probabilmente? Era certo
che non ne sarebbe uscito indenne. Però non avevano scelta, se
volevano arrivare in tempo. Michael non aveva scelta. Sentì una
punta di colpevolezza, sapendo che lui era consapevole di poter
morire anche solo nel viaggio verso la meta.
Lo
sapeva anche lui che si sarebbe
spaccato.
Lo dicevano le sue spalle curve, i suoi occhi saettanti, le palpebre
tremule, le guance morse a sangue dai denti, le labbra pallide,
serrate, le pupille nerastre che dilagavano e gli offuscavano i
contorni, deformandogli la vista. Ma Tia non si lasciò
intenerire. Aveva letto abbastanza di lui per sentirsi invasa dai
sentimenti della sua amica per lui ogni volta che lo guardava.
Sentiva il suo rancore, la sua paura nel rivederlo, l’affetto che
non riusciva a trattenere e che infatti era uscito a fiotti ad ogni
occhiata; la paura dell’abbandono, la certezza di non essere
accettata per quello che era, la sensazione del rifiuto, ma nondimeno
quella strana speranza, malsana, che lui fosse così idiota, così
ingenuo, da mentire a sé stesso. Era ovvio, per lei, che Ginny
ricadesse preda del passato ogni volta che lo incontrava. Lui
emetteva sentimenti contrastanti, con gli occhi e la bocca da una
parte, con i gesti e l’incoscienza dall’altra. Un perfetto
cretino. Se fosse tutto andato liscio, non gliel’avrebbe mai
perdonato. Era disposta a tutto, per dargli quello che si meritava!
Tia
sentì le nocche tendersi quando si alzò un leggero alito caldo
nell’aria. Michael spezzettava la legna producendo un rumore
fastidioso, che non era disposta a sopportare ulteriormente. Doveva
essere passato qualche istante, ma il tempo era fermo e lei sentiva
l’angoscia crescerle in petto come una voragine. Il respiro
accelerava ogni minuto, arrivando a rendere udibile il suo inquieto
sibilare.
E
se Daniel non avesse recepito il messaggio? E se Michael non fosse
affatto sopravvissuto? Ginny glielo avrebbe mai perdonato? Sarebbe
riuscita a perdonare sé stessa? E soprattutto, cosa avrebbero fatto
allora con Ginny? Lei non era in grado di incantare una Passaporta.
Si stava preparando all’idea di doversi Smaterializzare con
Michael. Ginny…
Non
osò immaginare cosa potesse esserle successo. Ginny era una testa
calda. Sperò con tutto il cuore che non avesse aperto la bocca a
sproposito.
In
quel momento, con un crack
spaventoso nel quieto rumoreggiare della giungla, apparve Daniel.
“Come
diamine ha fatto a Materializzarsi qui?”
“Il
mio Patronus l’ha guidato.”
“Tià,
cosa è successo?”
“Ascolta
qui, Daniel” s’intromise Michael, guadagnandosi due occhiatacce
“Io e te adesso ci Smaterializziamo a Notturn Alley. Se non la
conosci, aggrappati al mio braccio e ti accompagno io. Ti avviso,
potresti perdere un pezzo. Non mi sono mai Smaterializzato così
lontano.”
“Dan,
io resterò qui. Tornerò al campo e chiederò un paio di volontari
dal campo di Sao Paulo per aiutarmi a spostare l’accampamento;
inoltre mi metterò in comunicazione con i Weasley. Ginny è in
pericolo; dovete salvarla.”
“D’accordo.”
“Ottimo.
Andiamo allora?”
“Michel,
sono pronto. Tià…”
Daniel
la salutò con lo sguardo intriso di affetto – cercava di
rassicurarla -, e ricevette un rapido bacio tremolante sulla
guancia. Lei non disse niente, aveva visibilmente la gola serrata;
dedicò una breve occhiata a Corner, che rispose strizzando l’occhio.
“Ci
si vede, Tia. Tieniti forte, amico. Si parte.”
Doveva
essere un arrivo discreto, perché a Notturn Alley Michael Corner non
aveva – come dire? - amici. Si e no c’era la Vermiglia, che se
pagata, teneva il becco chiuso e gli vendeva preziose soffiate su
cosa
cercare e dove cercarlo
– dei veri salassi, ma le sue finanze non erano mai state un
granché.
Cosicché,
quando mise piede nel sottopassaggio che collegava Diagon Alley a
Notturn Alley, fece il suo primo passo falso. Uno, era atterrato
allo scoperto, vicino a un piazzale angusto in cui regnavano odoracci
e gente poco raccomandabile. Due, si era spaccato dall’anulare –
mignolo incluso – fino alla clavicola, e aveva perso due dita
Smaterializzandosi. Tre, il suo urlo disumano aveva attirato gli
sguardi di tutti i passanti. Nel giro di poco, se qualcuno lo
stava cercando, avrebbe saputo che era lì. Doveva agire in
fretta, e trovare Daniel prima di tutto, ma il damerino era
scomparso. Ma soprattutto, quattro. Non aveva fatto i calcoli col
fuso orario. Era mezzogiorno, e le strade erano gremite di maghi
di ogni sorte.
Missione
fallita, gridavano tutti i suoi nervi, in preda a un dolore
insopportabile, incitandolo ad abbandonare, a calarsi contro il muro
sporco per riposarsi, solo per un po’. Era sporco e bagnato di
sangue, e la ferita era aperta, palpitava imbrattando la camicia; lui
cercava di scollarsela dalla pelle, ma quella, pesante di liquido
vermiglio, tornava al suo posto, come un soffio lieve e
fastidioso. Sentiva le dita perse formicolare.
“Forza,
Michel. Non abbiamo tempo da perdere.”
“Non
sai quanto sono contento di vederti, damerino.”
Daniel
sbiancò di netto quando vide la ferita; lui era indenne, per
fortuna; sollevò l’altro di peso e lo trascinò in una viuzza
deserta, lontano dai passanti.
“Epismendo!”
“…”
Michael
sentì le orecchie sturarsi e la vista tornare a fuoco. Se non ci
fosse stato Daniel, sarebbe svenuto sul posto e probabilmente, se
fosse sopravvissuto, qualcuno l’avrebbe raccolto e venduto.
Vendevano qualsiasi cosa, a Notturn Alley. Cercò di scrollarsi di
dosso quei pensieri ridicoli, ma il risultato fu disastroso. Ebbe un
capogiro e finì dritto per terra. Lottando per tenere gli occhi
aperti vide Daniel avvicinarsi e raccoglierlo nuovamente. Il medimago
gli passò un braccio sotto alla spalla e gli sussurrò contro un
altro incantesimo che Michael non riconobbe, ma che ebbe l’effetto
di non fargli sentire più alcun dolore. Il suo sospiro di sollievo
assomigliò più a un rantolo.
“Non
è il momento di sfiancare, l’ami.”
“Ora
va meglio. Grazie.”
“Solo
perché non sonti
dolore adesso non metterti a fare gesti bruschi. Potresti svenire e
non svegliarti più! Tergeo.”
“Gratta
e netta. Tergeo! Accidenti, non si smacchierà mai. Era la mia unica
camicia bianca!”
“Quel
sens de l’humour per
qualcuno che ha appena perso due dita. Risparmia la bacchetta per
dopo. Coraggio, alzati. Dimmi dove dobbiamo andare.”
Michael
tenne la bocca chiusa, perché non aveva abbastanza forza per parlare
e camminare assieme. Fece del suo meglio per richiamare con la
mente ogni briciolo di energia che aveva in corpo preparandosi a
fronteggiare il peggio. C’era freddo, e il vento gli trapanava
dolorosamente la fronte. Il grigio del cielo, i tetti svettanti, le
finestre sporche, i cocuzzoli e l’odore dei caminetti erano un
decoro bizzarro al quale non era più abituato. Non c’era una
traccia di verde, attorno a lui. Solo pietra e grigiume.
Fece
cenno al compagno di fermarsi e gli indicò con lo sguardo un
edificio nero, con i vetri unti e appannati, dall’altra parte del
viale.
“Ci
siamo, Daniel. Vedi quel negozio con l’insegna sudicia? Entra lì
dentro, fai diversione. Al piano di sotto hanno una specie di
prigione clandestina per le Creature Magiche dei contrabbandieri e i
rompicazzo come me. Ci sono già stato, e sono già evaso, so dove
tengono le chiavi.”
“Io
li distraggo, tu recuperi le chiavi. Ok.
Parfait.
E poi? Dove sci
ritroviamo?”
“A
quello penseremo dopo.”
“Aspetta,
sciocco, ho un’idea. Dove si trova il negozio di bacchette di
Olivander’s?
“Non
lontano da qui, ma-”
“Sei
capace di spiegarmi esattamonte
dove sia?”
“Quattro
isolati a sinistra da sotto il ponte, poi uno a sinistra, cammini
dritto, sei arrivato.”
Daniel
mimò con le labbra quell’assurda filastrocca e Michael lesse nei
suoi occhi che l’aveva ritenuta perfettamente. Non
male, damerino.
“Così
sai dove trovarmi se mi cerchi. So che lì sci
lavora part time un Auror.”
“Così,
se succede qualcosa, i bastone-in-culo ci tireranno fuori da là.”
“Esatto.
Dammi la mano, adesso.”
Michael
lo guardò con poco garbo, il sopracciglio sollevato, ma il francese
senza chiedergli il permesso gli rialzò la manica della camicia
sulla spalla.
“Ferula.”
Delle
bende apparvero dal nulla e si avvolsero attorno ai suoi monconi fino
all’avanbraccio.
“Desilludo.”
Sussurrò poi.
Michael
rabbrividì sotto l’incantesimo di Disillusione, poi si guardò le
mani e con gran soddisfazione vi vide attraverso i sanpietrini.
“Grazie,
amico. Adesso vai la dentro e distraili. Tira fuori tutto quello che
hai, mi raccomando.”
Daniel
annuì e si avviò. Non si voltò più indietro, attraversò la
piazza con un’andatura sicura che avrebbe bleffato chiunque; a
Michael parve comunque che non fosse abbastanza convincente. Strinse
le palpebre sugli occhi per qualche istante, incitandosi, infondendo
coraggio ai suoi arti monchi. Quando
Gin scoprirà che ho perso due dita andrà su tutte le furie. Il
pensiero, invece di provocargli la solita avversione, lo fece quasi
ridere. Sentì suonare il campanello stonato di Sinister’s. Era
venuto il momento di entrare in azione.
Entrò
con nonchalance sfruttando la porta ancora aperta – ringraziò che
cigolasse da far paura -, sentì indistintamente la voce distante di
Daniel che insisteva sul prezzo di chissà cosa, ma il guizzo di
adrenalina lo aiutò a proseguire fino al bancone. Si abbassò
immediatamente, e guardandosi attorno frugò nel sottobanco. Trovò
il mazzo di chiavi. Gattonò il più silenziosamente possibile verso
il retrobottega, dove sapeva della presenza di una botola. L’aprì
con cautela, poi si fece coraggio e saltò. Il tonfo prodotto
attirò l’attenzione del vecchio Sinister, e Michael pregò di
cuore che Daniel riuscisse a distrarlo. Non poteva sperare di
meglio: il mago francese, in preda al panico, aveva afferrato una
merce preziosa e se l’era data a gambe, non senza lanciare un
Bombarda
Maxima
al bancone del negozio. Michael sentì la botola disintegrarsi per la
detonazione appena un metro sopra ai suoi capelli. Il soffio bollente
gli diede il capogiro. Cominciò a camminare rapidamente per il
corridoio angusto, sorpassando numerosi portoni massicci di qualche
lega metallica particolarmente robusta; ogni cella aveva un solo
spiraglio, e dovette puntare la bacchetta in ognuna di esse per
guardarvi dentro.
“Gin,
dove sei?” bisbigliò.
Nessuna
risposta.
“Gin…”
“Gin?”
“Gin,
ci sei?”
“Gin...”
“Gin,
dove sei!”
“Michael?”
Appena
sentì il suono della sua voce, si precipitò verso la cella e
cominciò a trafficare con il catenaccio. Le chiavi erano una
cinquantina, tutte diverse.
“Come
hai fatto a trovarmi? No aspetta, non voglio saperlo.”
“Sei
incazzata con me? Oh, andiamo, davvero?”
“Non
mi sembra il momento adatto per parlare.”
“Sì,
sei incazzata con me.”
“Sei
proprio un cretino.”
“Non
ti sento.”
Michael
scherzando giocava con il fuoco; voleva allentare l’atmosfera,
voleva tranquillizzarsi e tranquillizzare Ginevra, ma la situazione
era lungi dall’essere a suo favore; la risata gli morì in gola; il
sollievo di averla trovata l’abbandonò del tutto quando l’istante
presente prese le parvenze di un incubo. I movimenti delle mani
cominciarono a rallentare, le dita mancanti avevano ripreso a
sanguinare e Michael pensò che non ce l’avrebbe mai fatta in
tempo. Temeva di aver provato le stesse chiavi un paio di volte, di
aver saltato quella giusta; sempre che ce ne fosse una, a questo
punto…
“Senti,
Gin. Ce la fai ad aiutarmi?”
“Non
posso muovermi, sono legata. E la mia bacchetta è appesa al muro,
vicino a te”
“Ok,
allora non abbiamo scelta. Stai indietro. Copriti.”
“Non
vorrai mica...”
“Bombarda!”
La
porta rimase sul posto, senza un danno. Michael imprecò. Pensò con
angoscia che avrebbe dovuto ricominciare daccapo a provare le chiavi,
ma uno scricchiolio sinistro mise i suoi sensi all’erta e si
allontanò giusto in tempo prima che il muro di pietra franasse ai
suoi piedi producendo un fracasso spaventoso. Era una questione di
attimi, tirarla fuori di li prima che arrivasse qualcuno. E se fosse
arrivato qualcuno sarebbe stato tutto inutile; Michael si trascinava
verso il muro crollato ormai per inerzia, anemico e indebolito
dall’incantesimo.
“Tutto
bene?”
“Sono
ancora viva.”
“Riesci
a vedermi? C’è troppo buio da te, non ti vedo.”
“Sì,
ti vedo. Sposta quella pietra, giusto davanti al tuo piede. No, non
quel piede, l’altro!”
Michael
spostò un macigno e liberò il passaggio. Si insinuò gattonando
nella cella di Ginny e le liberò i polsi dalle catene con un
incantesimo esplosivo. Ginny si massaggiò i polsi senza una parola,
se non ci fosse stato buio pesto Michael avrebbe potuto vedere le sue
labbra tremare per trattenere il pianto.
“Lumos.
Come stai, eh?”
La
sua luce era flebile, si spense in pochi secondi. Aveva visto solo il
brillio di due occhi lucidi. Ginny esitava, con le mani sollevate
verso di lui nella penombra. Michael non capiva. Stava soffrendo?
Cosa le avevano fatto? Lei prese coraggio e gli buttò le braccia
attorno al collo. In quelle circostanze, fra i Troll, i Ghermidori,
la prigione di Sinister’s, lei aveva ancora paura della sua
reazione. Traumatizzata dal rifiuto. Michael la strinse rapidamente,
le accarezzò il capo e si sfilò i capelli di lei dalle labbra
screpolate. Ne aveva un macello, erano dappertutto. Il suo cuore
accelerò il battito per il sollievo di sentire quella carne
miracolosamente viva fra le sue braccia; ma lui lo ridusse al
silenzio. Raccolse le ultime energie per pensare a come uscire mentre
si alzava. La sollevò di peso e l’aiutò ad alzarsi, per
scostarsela dal petto. Finse di non aver sentito le sue lacrime, e
non disse nulla del braccio ferito.
“Lumos!”
Con
una rapida occhiata la giudicò in grado di camminare. Pensò a come
sarebbero risaliti dalla botola; aveva abbastanza forza da praticare
un Levicorpus? E un Ascendio?
“Michael,
attento!”
Il
suo ultimo pensiero sfumò in un buio senza fine. Cadde addosso
all’amica, incosciente. Ginny dovette spazzare via ogni residuo
di debolezza. Ebbe appena il tempo di sguainare la bacchetta dallo
zaino, mentre sorreggeva Michael con un braccio. Non sapeva chi
fosse l’uomo che aveva di fronte, c’era troppo buio, ma non esitò
un solo istante.
“MONSTRUM…”
22.
Harry
si grattò il naso sotto gli occhiali, era fastidioso lavorare con
quel freddo pungente, e il sudore inaspriva il prurito. Inspirava
l’aria gelida che sapeva di camini e castagne come fossero boccate
di un fumo pregiato. L’autunno era proprio una bella stagione.
Sollevò l’ultima cassa di pandano magico con sollievo e la portò
nel retrobottega. Due omaccioni all’entrata stavano discutendo
con Olivander, ma Harry non si preoccupò più di tanto. Sapeva per
esperienza che il vegliardo si difendeva abbastanza bene. Uscì per
riposarsi, ma si appoggiò all’uscio con l’orecchio teso. Non
aveva intenzione di correre alcun rischio. Nel mentre, scartò una
confezione di Tutti Gusti +1. Se l’era meritata, così come la paga
che avrebbe ricevuto la sera stessa. Non vedeva l’ora di portare
il suo magro assegno alla Gringott. Niente da fare, la prima era
disgustosa. Doveva essere cerume o giù di lì.
“Solo
centocinquanta galeoni?! Ma noi abbiamo lavorato come degli Elfi per
raccoglierle questa legna! Ha idea di dove si possa trovare?!”
“Certo
che sì, sciocco!”
“Non
si permetta di darmi dello sciocco, vecchiaccio della malora! Lo sa
dov’è il Brasile? Eh?!”
“Zorak,
calmati. Senta, facciamo duecento galeoni e chiudiamola qui. Ci sta
facendo perdere il nostro tempo.”
“Non
pagherò mai duecento galeoni per del pandano bagnato e lercio! Ha
perso tutta la sua energia, tutto il suo valore! Solo uno sciocco
poteva trattarlo così! Non so chi siate, ma fareste bene a dirmi i
vostri nomi! Non farò mai più ordini dalla vostra compagnia, spero
di essere stato chiaro! E ora, fuori di qui!”
“Maledetto...
ti farò ingoiare la tua bile, se non cacci fuori i soldi!”
Harry
aveva la bacchetta pronta dall’inizio della conversazione. Aveva
avuto ragione a non fidarsi, erano loschi, ma non solo. Zorak.
Aveva visto quel nome sulla bacheca dell’Accademia. Era un
Ghermidore. Si preparò a scagliare il primo Expelliarmus, ma una
mano lo agguantò per il collo del giubbotto e lo tirò indietro.
Finì con le spalle al muro, fuori dal negozio, con la bacchetta
puntata verso il suo aggressore. Era un giovane mago con i capelli
biondi e la pelle limpida. Non aveva l’aria di volerlo
fronteggiare, ma allora perché...?
“Sei
tu, Harrì Potter?”
“Sì,
sono io. Ti dispiacerebbe…?”
“Certo,
scusa.”
Si
allontanò appena, lasciando andare la sua giacca; Harry non poté
fare a meno di notare che sembrava terrorizzato, con gli occhi grigi
cerchiati di rosso; aveva la veste leggermente bruciacchiata. In una
mano aveva la bacchetta, nell’altra teneva una statuetta di scimmia
in granito con due grossi occhi di rubino. Era inquietante, orribile,
probabilmente maledetta. Il mago la lasciò cadere a terra, come
se si fosse ricordato solo in quel momento di averla.
“Devi
ascoltarmi. Ginny Weasley, l’hanno catturata dei Ghermidori e in
questo momento è imprigionata da Magie Sinistre… o qualcosa del
genere! Dobbiamo fare in fretta, il mago mi ha seguito fino al ponte
e poi è tornato indietro e-”
“Ma
Ginny è in Brasile.”
“Non
più.”
“Ghermidori,
dici?”
“Sì,
un certo Zoràk e un certo Yano.”
“Zorak?
Aspetta un attimo…”
“Io
comunque mi chiamo Daniel.”
Ginny
a Londra. Zorak. Pandano magico.
Il
pandano è un albero che si trova solo in Amazzonia, Harry; non sai
quanto mi costa farlo arrivare! È un mestiere rischioso il nostro,
perché la merce non arriva mai in condizioni perfette e rischiamo di
pagare un prezzo ancora più alto del necessario. Ma le bacchette di
pandano, Harry, oh! Sono meravigliose… flessibili, leggere, sono
dei conduttori eccellenti.
Per
un attimo Harry faticò a trattenere il flusso di pensieri ma si
riscosse abbastanza rapidamente. Non avevano tempo da perdere!
Agguantò il ragazzo per la manica e lo trascinò dietro di sé.
Invece di imboccare Diagon Alley, tornò nel negozio di bacchette.
Non poteva lasciarli scappare, non adesso che sapeva esattamente chi
fossero. E sicuramente, se fermati, potevano dirgli come trovare
Ginny.
“Stupeficium!”
“Harry!
Cosa stai facendo?!” ululò Daniel.
“Non
fare uscire quel mago! Io mi occupo di legare l’altro”
Daniel
bloccò qualche incantesimo, ma il Ghermidore era in netto
vantaggio. Aveva fatto saltare in aria le casse di legno, creando
un caos pazzesco.
“Harry,
cosa succede?”
“Sono
Ghermidori, signor Olivander.”
“Briganti?!
E io stavo per dar loro ben 150 monete. Cielo, mi sembrava orrenda la
loro merce ma pensavo che fosse perché non ci sono più i
commercianti di una volta.”
“Potrebbero
averla rubata, signore. Non ci interessa molto in questo momento,
quanto il fatto che Ginny Wealsey sia in pericolo. Chiami
immediatamente la segreteria generale dell’Accademia Auror. Se non
rispondono provi all’Ufficio Auror del Ministero. Devono
assolutamente mandare qualcuno al negozio di Magie Sinister’s.
Questa volta, amico, riusciremo a incastrarlo con delle prove. Sono
anni che lo lasciano lavorare impunito.”
“Molto
bene, Harry. Io mi occuperò di consegnare quest’uomo quando
arriverà una squadriglia. Dovresti però dare una mano al tuo amico,
non credo che sia molto bravo con gli incantesimi Offensivi.”
“Sia
prudente. A fra poco!”
Zorak
aveva spinto Daniel in un angolo del negozio, ma incredibilmente la
situazione aveva finito per ribaltarsi. Daniel lo scaraventò con
un reducto ai piedi del bancone. Il Ghermidore ebbe il tempo di
arrancare verso l’uscio e uscire in strada, ma Harry e Daniel gli
furono subito dietro. Non aveva più scampo.
“Arrenditi
e non ti faremo niente!” lo avvertì Harry.
“Non
essere sciocco, ragazzo.”
“Uno...”
“Se
credete di potermi arrestare vi sbagliate di grosso. Serpensortia!”
“Due
- è davvero grave considerando i tuoi crimini e da che parte stavi
durante la guerra, Zorak – o meglio, Ivan Milbevorich per la
giustizia-, non conoscere bene il proprio nemico.”
La
vipera scaturita dall’incantesimo di Zorak si arrestò in volo, e
invece di attaccare Harry si intrufolò in un barile vuoto accanto
alla porta del negozio.
“Tre…”
Daniel
affatturò il fuggitivo.
“Non
male, Daniel.” Disse Harry, facendo comparire delle robuste corde
per legare le mani al criminale.
“Daniel
Haroche, pour
vous servir.
Ma ora andiamo, prima che sia troppo tardi!”
Note
dell’autrice:
1) il pandano magico è un albero di mia invenzione. Però l’ho
creato a partire da un albero vero, di cui ho cercato la
localizzazione geografica e che ho trovato molto bello e adatto. 2)
Svalvolare non esiste come verbo, però è un’espressione degna del
gergo di Michael. Spero che me la passerete come licenza poetica xD
3) Monstrum è l’incantesimo della fattura Orcovolante! 4) Pour
vous servir:
per servirvi!
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Capitolo 9 *** Una lettera scarlatta ***
Dal
capitolo precedente:
“Uno...”
“Se
credete di potermi arrestare vi sbagliate di grosso. Serpensortia!”
“Due
- è davvero grave considerando i tuoi crimini e da che parte stavi
durante la guerra, Zorak – o meglio, Ivan Milbevorich per la
giustizia-, non conoscere bene il proprio nemico.”
La
vipera scaturita dall’incantesimo di Zorak si arrestò in volo, e
invece di attaccare Harry si intrufolò in un barile vuoto accanto
alla porta del negozio
“Tre…”
Daniel
affatturò il fuggitivo.
“Non
male, Daniel.”
Disse
Harry, facendo comparire delle robuste corde per legare le mani al
criminale.
“Daniel
Haroche, pour
vous servir.
Ma ora andiamo, prima che sia troppo tardi!”
23.
Era
ormai notte, ma il caos sollevato da Daniel, Michael e Ginny aveva
messo la pulce all’orecchio in ogni strada del fetido sobborgo.
Notturn Alley era in subbuglio. Mentre la gentaglia si sparpagliava e
spariva a vista d’occhio in un fiorire di Smaterializzazioni, i
gendarmi del Ministero accerchiavano Magie Sinister’s in ranghi
serrati; la squadriglia Auror di cui Ron era cadetto era arrivata il
più presto possibile: c’era Adam, irlandese, primo anno, un
ragazzo smilzo con due grandi occhi grigi. Il suo accolita, Rexford,
era quello che prendeva tutte le decisioni quando non c’era
Shacklebolt; era un ragazzo affascinante e arguto; a Ron non piaceva
affatto. E poi c’era Megan, che era di rango senior rispetto a
loro, e non esitava a prenderli in giro quando lo reputava necessario
e aveva una predilezione per gli incantesimi offensivi. Essendo la
seconda squadriglia, formata principalmente da studenti per primo
anno, avevano il compito di starsene impalati fino a quando ci fosse
stato bisogno di loro. Shacklebolt era occupato a parlare con
Dawlish, e non aveva notato che mancava uno dei suoi allievi cadetti.
Ron
era infatti arrivato per ultimo, trafelato, perché aveva dovuto
avvertire i genitori della scomparsa di Ginny. Non c’era stato
verso, ovviamente, di farli rimanere a casa. Aveva dovuto implorare
il signor Olivander di prestargli il camino, ma lui aveva insistito
che non ne possedeva uno, perché in un negozio di bacchette non ce
n’era assolutamente bisogno. Allora era corso difilato ai Tiri
Vispi Weasley, dove George l’aveva accolto e l’aveva condotto al
suo camino. C’era voluta un’ora per convincere i genitori a
non mettere piede a Notturn Alley e a starsene buoni nel magazzino di
suo fratello.
Era
riuscito ad andarsene, con mille raccomandazioni, e a raggiungere la
squadra solo dopo aver riferito per filo e per segno ciò che gli era
stato raccontato di terza mano. Ginny aveva seguito dei manigoldi,
era stata imprigionata e si sospettava Sinister di avere una prigione
sotterranea. Inoltre, non era ancora stato chiarito il perché, ma
Michael Corner, un suo ex compagno di scuola, pareva essere
coinvolto.
La
parte peggiore l’aveva scoperta arrivando sul campo.
Riconobbe
Harry da lontano, perché i suoi occhiali riflettevano gli zampilli
del fuoco che ancora bruciava qua e la attorno all’orrendo negozio
di Magie Sinister. Lo conosceva bene, ci erano stati qualche volta
durante la guerra. Ora era distrutto, verosimilmente da
un’esplosione.
Harry
gli venne incontro con un’aria spaventosa. Dietro di lui
arrancava un ragazzo alto e magro, coi capelli biondi, avvolto in un
mantello, che non aveva mai visto. Erano entrambi cosparsi di
fuliggine e terribilmente stanchi.
Ron
finse di non percepire lo scherno dei suoi compagni di squadra
qualche metro più in là – sempre
in ritardo, che tempismo, Weasley
– era
sua sorella, poteva almeno fingere di essere interessato, non vi
pare?
– non
credo che siano molto legati, sai, i Weasley hanno una famiglia
numerosa; forse hanno dei fratelli preferiti; io che ne so, non ne ho
di fratelli, e sto bene così.
– bah,
non so cosa ci trovi Potter in un perdente simile. –
io ancora non capisco perché gli hanno permesso di entrare in
accademia.
– zitti,
che si avvicinano!
- e si allontanò con Harry per parlare. Daniel rimase indietro,
forse per lasciar loro un minimo di privatezza.
“Allora,
mi spieghi cosa è successo?” disse Ron, prendendo il braccio di
Harry.
“Dei
Ghermidori hanno preso Ginny e l’hanno portata qui da Sinister. Li
abbiamo beccati per caso mentre vendevano merce rubata, li abbiamo
legati, sono da Olivander’s. Dovremmo mandare qualcuno a prenderli,
ma sembrano tutti troppo stupiti per muoversi, qui.”
“Già,
che strano, no? Proprio sotto a un negozio pulito, rispettabile come
Magie Sinister. Mi facciano il piacere… ipocriti. E Ginny, l’avete
tirata fuori dal macello? Come sta?”
A
Ron non piacque fin da subito l’espressione dell’amico. Era un
misto fra una rabbia contenuta, il senso di colpa e la paura. Strinse
la presa sul suo avanbraccio.
“È
da venti minuti buoni che interrogano Sinister. Non riusciamo a
cavare un ragno dal buco. Secondo lui si è Smaterializzata, ma
abbiamo controllato il sotterraneo, se anche di presunte celle si
trattasse, era protetto. Non ci si poteva Smaterializzare là
dentro.”
“Cosa
vuol dire?”
“Che
qualcuno sta mentendo, oppure che lei è riuscita a scappare
abbastanza lontano, fino alla botola – secondo la nostra versione
c’era una botola dietro al bancone, ma è andata distrutta
nell’incendio- e che si è smaterializzata da lì.”
“Starà
bene. Ginny se la caverà.”
“…”
“Vero?”
Harry
guardò l’amico con costernazione. Gli sembrava di essere di
nuovo quel ragazzino che a dodici anni aveva aperto la Camera dei
Segreti per ritrovarla. Lei. La sorella del suo migliore amico.
“La
troveremo Ron, te lo prometto. Potrebbe essere la volta buona che uso
una maledizione Senza Perdono. Se è questo che vogliono, lo
avranno.”
“Ti
cancellerebbero dall’albo. Meglio una sana dose di botte per quel
che mi riguarda. Quello che non capisco è perché mia sorella si
trova sempre coinvolta in questo genere di situazioni!”
“Me
lo chiedo anch’io. Voglio dire, era in Brasile… non è
esattamente dietro l’angolo.”
“E
Michael?”
“Michael?
È introvabile.”
“E
qualcuno ha un’idea di cosa c’entri lui in questa faccenda?”
“Non
c’è traccia di nessuno dei due. Ovunque si trovino, spero che
almeno siano insieme.”
L’idea
che Ginny fosse di nuovo da sola gli faceva tremare le mani. Non era
bastato tutto il tempo passato lontano da lei alla ricerca degli
Horcrux a farlo sentire profondamente colpevole. O almeno, si era
sforzato che le cose andassero così. Aveva messo in sordina i
suoi sentimenti, perché altrimenti non avrebbe retto alla
tensione. Ricordava bene le reazioni di Ron quando si preoccupava
per la sua famiglia durante quel viaggio interminabile; e tutte le
conseguenze, con i loro pro e contro. Lui invece era rimasto
concentrato, freddamente impassibile. Era stato un terribile
vantaggio. Non aveva idea di dove avesse trovato tutta quella
tempra, tuttavia per un anno intero era riuscito a chiudere Ginny
fuori dalla sua mente. Ma ora era tutto diverso. Sembrava che i suoi
incubi e i suoi ricordi peggiori si rianimassero. Aveva tenuto duro
per così tanto tempo, che ora bastava una scossa leggera e crollava,
completamente fuori di sé. Prima non aveva niente da perdere. Ora
avrebbe potuto perdere tutto.
“Probabilmente
se lo sono inventato. Avranno tirato in ballo un nome a caso, per
fare polemica. Michael è sempre stato un tipo a posto. Ti ricordi?
Neville ci aveva raccontato che si era fatto torturare dai Carrow per
proteggere un ragazzo del primo anno. Era nell’ES. È per forza a
posto.”
“Non
ne ho idea, Ron.” Disse Harry con un moto di stizza. “Non mi
ricordo un granché di lui. Però sono sicuro del fatto che c’entri
qualcosa con questa storia, perché me ne ha parlato Haroche.”
“Daniel
Haroche? Mia sorella l’ha citato in un paio di lettere, dovrebbe
essere un suo buon amico. E che cosa ti ha detto?”
“Un
bel niente. Ho avuto poco tempo. Non possiamo parlare con lui qui,
però. C’è troppa gente.”
“Mi
stai dicendo che non hai intenzione di fare rapporto?”
stridette Ron, sconcertato.
“Per
il momento no. Sentiamo cosa ha da dirci Haroche.”
“Ok,
ma prima di tutto voglio vedere cosa ha da dire Sinister.”
“Ti
accompagno.”
L’uomo,
ormai decrepito, aveva due occhi acquosi, i capelli scompigliati e i
basettoni troppo lunghi. L’aria sgualcita non andava di certo a suo
favore, sembrava ancora più infimo di quanto non fosse. Harry si
chiese come potesse essere ancora vivo; ricordava di averlo visto
molto più giovane nel Pensatoio, e rimembrava perfettamente anche le
circostanze. Aveva dato dieci galeoni a Merope Gaunt per il suo
prezioso medaglione di Serpeverde. Meritava seriamente di finire i
suoi giorni in gattabuia con i Dissennatori attorno, ma ancora una
volta non c’era uno straccio di prova per incastrarlo.
Sinister
sosteneva la stessa versione che aveva già raccontato numerose volte
a Dawlish e ai responsabili del Ministero: ovvero, che non ci fosse
nessuna dannata prigione sotto al suo negozio. Harry e Ron
insistettero a lungo, ma conoscevano bene il loro interlocutore; non
avrebbe mai ammesso di essere in torto, nemmeno avesse avuto le prove
davanti agli occhi di tutti. E la ragazzina coi capelli rossi?,
gli avevano chiesto. Quale
ragazzina coi capelli rossi?
Era stata la risposta. Niente, non c’era niente da fare. Harry
lo maledisse mentalmente un centinaio di volte. Quel vegliardo si
ostinava a difendersi, come uno di quei parassiti che non vogliono
lasciare lo scheletro di casa che hanno rubato a
qualcun’altro. Ripeteva le stesse parole come una litania.
Sembrava completamente fuori di sé.
Sibilava
appena, spiegando com’era avvenuta l’aggressione da parte del
giovane mago biondo, e la sua voce era quasi fastidiosa, come un
fischio nell’orecchio, ma anche alterata e falsa, perché Daniel
Haroche era innocente, e Harry lo sapeva. Maledizione.
Naturalmente
la parte del negozio in cui esponeva la sua merce oscura e più
preziosa si era miracolosamente salvata, ma non c’era nessuna
traccia del luogo in cui avevano imprigionato Ginny.
Ci
avrebbe scommesso la bacchetta: il bastardo aveva sicuramente
incentivato le fiamme a divorare ogni prova a suo discapito.
Le
indagini erano in corso da quel pomeriggio, ma Harry non era riuscito
a ottenere ulteriori informazioni. Edwin e Basil, ex matricole in
procinto di diventare Auror, erano i suoi compagni di
squadra. Avevano loro il compito di fare le analisi; dopodiché ci
avrebbero lavorato insieme in serata, durante una riunione nella sala
studio dell’Accademia.
Dawlish
aveva preferito escludere Harry sul campo, considerandolo troppo
emotivamente coinvolto.
“Puoi
avvisare i familiari dei presunti scomparsi, se ti va bene.
Altrimenti, ci aggiorniamo stasera in Accademia.” Gli aveva detto
poco prima che arrivasse Ron, lasciando Harry basito ma ben
determinato a non restarsene con le mani in mano.
“Capisco.”
Aveva detto con semplicità.
“Niente
improvvisate Potter, siamo in due sul caso, noi e la squadra di
Shacklebolt. Ce la caveremo senza di te. Anzi, ho appena mandato i
cadetti di Shacklebolt a recuperare i due criminali da Olivander’s.
Tra poco dovremmo poterli trasferire.”
“Molto
bene. Posso almeno ospitare per questa notte il testimone francese?
Non ha un posto dove dormire.”
“Haroche?
E perché mai dovresti ospitarlo tu?”
“Me
lo ha chiesto personalmente.”
“No,
Potter. C’è il Paiolo Magico a meno di dieci minuti da qui.”
“È
venuto senza soldi.”
“Pagheremo
noi per lui.”
“Questo
non è legale, Dawlish, e lo so anche io.” Touché. Aveva la
situazione in mano, finalmente.
“E
va bene, Potter. Evita di stressarlo. Mi è sembrato piuttosto
suscettibile.”
“A
stasera, capo.” Harry annuì con aria grave.
“A
stasera. E niente sciocchezze di cui faresti pentire l’intera
squadra, spero di essere stato chiaro.”
“Trasparente.”
Voltò
le spalle al suo superiore e andò a cercare Daniel. Non ci mise
molto a trovarlo.
“Harrì,
non so come ringraziarti. Se non avessi testimoniato a mio favore
sarei già rinchiuso in una cella a quest’ora.”
“Non
posso garantirti che non succeda più in là, purtroppo Sinister
spara a zero su di te, sei il suo unico appiglio per salvare il
negozio dallo sfacelo e sé stesso da Azkaban. Insiste a dire che tu
l’hai derubato e hai dato fuoco al negozio senza motivo. Essendo
andato effettivamente a fuoco, e avendoti io visto con la statuetta
rubata, non si può certo dire che le cose vadano a tuo favore. Però,
c’è un però. Se riusciamo a dimostrare che c’era una prigione
sotterranea, puoi star certo che ti scagionano. E io non solo non
denuncerò quello che ho visto, ma farò tutto quello che mi è
possibile per innocentarti.”
“Harry,
stai scherzando?!”
“Ron,
fidati di lui. E di me.”
“Hai
camuffato delle prove. Se ti scoprono finisci nei guai, stavolta. Hai
idea di quello che può succederti se non riesci a dimostrare che
c’era una fottuta prigione sotto al culo di Sinister?”
Harry
camminava su e giù per camera sua. Era arrabbiato con Ron perché
non voleva assecondarlo, e anche con se stesso, perché sapeva che il
suo amico aveva ragione. Il ragazzo coi capelli rossi, in quel
momento estremamente arruffati, lo osservava sfuriarsi mentre sedeva
a gambe incrociate sul letto. Giocava con i fili di lana della
trapunta; era una coperta patchwork che Ginny aveva regalato a Harry
per natale. Nessuno dei due guardava l’altro negli occhi troppo a
lungo. Harry era brusco, agitato, fervente. Ron era preoccupato e
abbattuto; ne aveva abbastanza. Entrambi erano stanchi e poco inclini
ad ascoltarsi. Un Ron più giovane non avrebbe sopportato le sfuriate
dell’amico; era cambiato molto, da quando studiava all’Accademia,
e da quando stava con Hermione. E ora, nonostante fosse sommerso
dai problemi – ed Hermione facesse effettivamente parte di quelli
-, non aveva ancora perso la calma.
“Tu
non ti preoccupare di questo, lo scopriremo stasera quando Ed e Basil
faranno rapporto. Senti, nessuno ne saprà niente. Sarà una cosa
rapida, andiamo alla Gringott e depositiamo questa statuetta senza
una parola, e ce ne andiamo così come siamo venuti.”
“È
rischioso, Harry.”
“Se
incastrano Daniel se ne va l’unico che può aiutarci e che è dalla
nostra parte!”
“A
proposito di questo, io voglio proprio sentire cosa ha da dirci.
Tutte queste elucubrazioni non ci portano da nessuna parte, finché
non possiamo aggiungerci la sua versione integrale della faccenda.”
“D’accordo.
Va bene.” Asserì Harry, stufo di trovarsi un muro davanti. “Penso
che stia parlando con un altro apprendista medimago, un certo Liam.
Il loro accampamento è rimasto decimato, hanno bisogno di rinforzi,
ma soprattutto deve avvisare che probabilmente non tornerà prima di
un tot e che quindi dovranno cercare un sostituto permanente. Ci sarà
la fila, al College del San Mungo.”
“Harry,
hanno suonato?”
“Aspettami
qui. E tieni questo.”
Harry
gli appioppò la statuetta – Ron si apprestò a nasconderla fra i
cuscini – e tornò in salotto, dove il mago francese parlava
animatamente, nel suo inglese farlocco, con un giovane medimago che
spuntava dal caminetto.
Quando
Harry aprì la porta, trovò sull’uscio il signore e la signora
Weasley, e dietro di loro apparve anche George.
“Entrate,
presto.”
“Grazie,
Harry.”
“Ciao,
Harry.”
“Chiamo
Ron e vi spiego tutto.”
Passò
l’ora seguente a raccontare quello che avevano scoperto, per filo e
per segno. L’idea che ci potesse essere quel
Corner
rassicurò anche il signor Weasley, ma non attecchì con sua
moglie. Il the che aveva preparato per confortarli sembrava aver
invigorito gli animi, forse anche troppo.
“Voglio
parlare con il ragazzotto biondo.”
“Molly,
ti prego.” Cominciò Arthur, sperando di placare il suo animo
istintivo.
“No,
avete ragione. Non aspetteremo oltre. Per ragioni di sicurezza, però,
ci parleremo io e Ron in privato, e poi vi spiegheremo tutto.”
“Ha
un pessimo accento, non capireste nulla.” Aggiunse Ron,
incoraggiandoli a lasciare la cucina.
George
lasciò la stanza poco convinto, dietro ai genitori. Lanciò
un’ultima occhiata al fratello, una di quelle minatorie, che
lasciano sottintendere tutto. Noi
abbiamo il diritto di sapere.
Ron lo ignorò e tornò a sedersi. Non era il momento di lasciarsi
distrarre, e non era giusto che si sentisse colpevole; dopotutto, era
una faccenda da Auror. Non erano più ai tempi di scuola, quando
quello che facevano lui e Harry era sempre, immancabilmente
illegale. Beh,
circa.
Daniel
sembrava determinato a parlare. Ron e Harry lo guardavano
intensamente, pronti a captare qualsiasi dettaglio utile. Forse lo
intimidirono un poco, ma il giovane Curatore non perse il coraggio.
Posò
la tazza di the caldo sul tavolo, e piazzò gli occhi in quelli di
Harry.
Spiegò
tutto quello che sapeva su Michael, sul suo lavoro, sul perché
sapesse dove si trovava Ginny, del fatto che fosse sicuro della
presenza di una prigione da Sinister perché c’era stato lui
stesso. Spiegò inoltre che Michael non aveva dato molte spiegazioni,
ma che forse Tia Haldale, la loro compagna di viaggio, ne sapeva più
di lui.
“Perché
non l’ha denunciata a quell’epoca? La prigione, intendo.” Lo
interruppe Ron.
Il
francese fece una smorfia. Harry gli sfiorò l’avanbraccio con la
mano; il gesto ebbe l’effetto voluto.
“Ho
molta stima per quel ragazzo, è un vero spirito libero. Però credo
che questo implichi la sua dissociazione dalle regole implicite della
nostra società. Forse sperava di cavarsela da solo, forse non ha
fatto in tempo a parlarne con nessuno.”
“O
forse ha qualcosa da nascondere.” Insisté Ron.
“Forse.
Però non ha esitato un attimo a Smaterializzarsi direttamente a
Notturn Alley per salvare la sua amica.”
“Anche
questo è molto strano.” Mormorò Harry, guardandolo in tralice con
i suoi occhi verdi.
“Ha
perso due dita e si è spaccato lungo tutto un braccio.”
“E
tu l’hai visto aprire una botola? Perché di questo si tratta,
purtroppo.”
“Io
non dubito di quello che mi ha detto, mi fido di lui come di voi.”
“Ma
non l’hai visto aprire la botola.” ripeté Harry, perentorio.
“No,
non ho visto niente. Ero occupato a fare diversione.” Ammise lui,
suo malgrado.
Harry
e Ron si scambiarono un lungo sguardo.
“Non
abbiamo niente che possa aiutarti per ora, Daniel, mi dispiace.”
“E
non è tutto, ragazzi” Si intromise George dalla porta del salotto,
con in mano una busta con il sigillo ufficiale. “Ti è appena
arrivata questa.”
Harry
lesse la lettera, poi la stropicciò in mano e la scagliò in un
angolo della stanza.
“Sono
scappati i due Ghermidori.”
“Impossibile,
Harry. C’era Shacklebolt.”
“Rexford
è al San Mungo.”
“Non
è possibile…”
“Cazzo!”
esclamò Harry, battendo una mano sul tavolo.
“Può
voler dire solo una cosa.” Disse Ron, con gli occhi socchiusi,
temendo la reazione di Harry.
“Sì.
Ci sono degli infiltrati fra gli Auror.”
“Di
nuovo.”
24.
Sì,
forse avrebbe dovuto sentirsi ridicolo, conciato per le feste, con
quell’armatura addosso, la bacchetta in mano e il sedere per terra
ma Seamus Finnigan si rialzò dolorante in un solo balzo. Ignorò il
dolore sordo del suo fondoschiena offeso e riprese a saettare ora su
un piede e ora sull’altro.
“Expelliarmus!
Reducto! Stupeficium!”
Il
suo avversario, un guerriero di legno incantato, se ne stava fermo a
subire gli incantesimi. Esplodeva e si ricomponeva; perdeva la
bacchetta ma quella tornava indietro, al ritmo delle offensive del
ragazzo; erano mesi che si allenava discretamente e ancora non aveva
avuto il coraggio di dirlo a nessuno, per scaramanzia.
Forse,
se avesse tenuto la bocca chiusa, la sua vita non gli sarebbe esplosa
in faccia come aveva fatto fino a quel momento con una puntualità da
record. Era una riserva. Solo una riserva. Quella piccola R accanto
al suo nome, nella lista delle prove di ammissione all’Accademia
Auror di Londra significava suo malgrado molto per lui. In barba a
quelli che lo credevano incapace, in barba a se stesso – il più
gran sostenitore di quella massima -.
Naturalmente,
aveva due anni di ritardo rispetto ai suoi coetanei; ma che
importava? Avrebbe aspettato il tempo necessario. Era pronto a tutto,
per perseguire il suo sogno.
“Expelliarmus!
Stupeficium! Reducto! Expecto
Patronum!”
Niente.
Da quando era stato messo in riserva, marchiato come R, non era più
riuscito a produrre un Patronus. La sua volpe era scomparsa. Si
afflosciò su se stesso e lasciò cadere la bacchetta in un tintinnio
ligneo.
Si
slacciò i proteggi-polso e disfò le bende che portava alle
caviglie. Doveva riuscire quel dannato incantesimo, ce l’aveva
fatta quando aveva appena quindici anni. Possibile che non fosse più
in grado?
Il
ricordo infuriava ogni volta che falliva un tentativo. Quanti
tentativi, e quanti rimorsi.
“Molto
bene, signor Finnegan. Ci è giunta voce che sapesse produrre anche
un Patronus corporeo. Non lo consideri come una prova ufficiale, ma
come una dimostrazione della sua personale abilità.”
“Certo…
io… certo.”
E
niente. Il vuoto. Non era riuscito a farlo, nel giorno più
importante della sua vita. Gli era riuscito un milione di volte, a
Hogwarts, cullato dal candore dell’età innocente e dal calore
dell’amicizia. Una volta finita la guerra, gli era stato chiaro
fin da subito il suo destino. Doveva essere un Auror, come Harry e
Ron. Non gli importava un accidente che tutti l’avessero deriso,
chiamandolo il Signore del Fuoco, la Fenice Ardente e stronzate
simili. Ma nonostante tutto il suo duro allenarsi, non era entrato
in classifica. Perfino Ron ce l’aveva fatta, e a scuola non era poi
tanto più bravo di lui in Difesa delle Arti Oscure.
Il
nuovo Seamus era molto più caparbio, maturo e forte di quello che
aveva affrontato la prova due anni prima. Eppure non era in grado
di produrre il Patronus. Quello stesso ragazzo, stanco e avvilito,
stava raccogliendo la bacchetta per andare a riposarsi. Il sudore che
gli imperlava la fronte scivolò lungo il naso obliquo, fino alle
labbra, dove si mescolò al gusto del sangue e del catarro. Era
stanco, davvero stanco, e anche mortificato, ma non era ancora pronto
a demordere.
“Incendio!”
Il
manichino prese fuoco, arse per qualche lungo istante, poi rinacque
dalle sue ceneri. Le grosse fiamme blu che avevano invaso la stanza,
illuminando tutto di un chiarore accecante, erano scomparse. Se
non altro, questo mi riesce sempre. Sì,
Seamus aveva sfruttato la sua indisponente capacità di produrre
fiamme fino a comandarla alla perfezione. Si era allenato nei
boschi, in montagna, a lungo. Si era provocato ustioni di vari gradi,
e qualche menzione poco meritevole sui giornali, ma ora era in grado
di controllare un incendio, se necessario. Si scrollò le spalle,
poco appagato. Non era di questo che aveva bisogno.
Il
fruscio di un paio d’ali attirò la sua attenzione, e indirizzò la
bacchetta verso un allocco che sfrecciava difilato verso di lui,
senza dare cenni di riuscire a fermarsi.
“Cosa
succede, Paldor? Immobilus!”
Il
rapace si ritrovò suo malgrado immobilizzato a qualche centimetro
dal viso del mago. Portava una lettera dalla busta rossa, segno che
era un messaggio urgente. Seamus liberò la busta dalla presa del suo
allocco, che liberato dall’incantesimo volò sulla sua spalla per
mordicchiargli l’orecchio.
Caro
signor Finnigan, siamo costretti ad annunciarLe che un posto si è
momentaneamente liberato fra i nostri ranghi. La sua candidatura è
risultata idonea fra molte, e presto provvederemo, con il Suo dovuto
accordo, a inserirlo nell’Albo degli Auror della nostra Accademia,
nel caso in cui Lei fosse ancora interessato alla Nostra offerta, e a
permetterLe di seguire i Nostri corsi.
La
preghiamo di recarsi il più rapidamente possibile in segreteria per
concordare e firmare alcuni documenti, ed eventualmente pagare la
retta.
A
fra poco,
Distinti
saluti
Kingsley
Shacklebolt
Seamus
non poteva credere ai suoi occhi. Strinse la lettera fra le mani,
mentre un improvviso tremore gli invadeva gli arti. Mise la lettera
in tasca, non senza fatica. Stava fremendo di gioia e di smania.
“Questa
si che è una notizia! Cielo… andiamo, Paldor. Dobbiamo prendere il
camino e in fretta, ma prima meriti una fetta di crostata alla
marmellata. E una porzione anche per me, diamine. Pensavo non sarebbe
mai arrivata.” Questa
dannata lettera.
25.
Era
forte come non mai. La sofferenza, lo spavento, il disagio, il
batticuore; li aveva tutti temuti e poi sconfitti. Ora respirava
affannosamente, tossendo con forza, fino a espettorare l’elettricità
pura, guidata dall’adrenalina endogena, che si era impossessata di
lei e le aveva salvato la vita.
Appena
un attimo prima niente contava più che salvarsi la pelle, e lei non
aveva esitato. Aveva sorretto il suo salvatore e l’aveva salvato
a sua volta. Michael giaceva fra le sue braccia, inerme. Ginevra
avrebbe potuto svegliarlo con un Incantesimo Rigenerante, ma non
volle farlo. Quel ragazzo era un incubo anche mentre dormiva.
Era
atterrata in mezzo ai campi, a qualche centinaio di metri dalla porta
di casa sua, la Tana. Aveva lo zaino sulle spalle, la bacchetta in
mano, e trascinava l’amico svenuto fra le braccia, fra le
pozzanghere e le irte spighe che la sovrastavano. Non poteva
tornare a casa.
Non
voleva dare spiegazioni, voleva solo riposare, dimenticare.
Aveva
bisogno di tempo, e conosceva una persona, nel vicinato, che non le
avrebbe mai chiuso la porta in faccia.
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Capitolo 10 *** Di piani, menzogne e carta bianca ***
Dal
capitolo precedente:
Era
atterrata in mezzo ai campi, a qualche centinaio di metri dalla porta
di casa sua, la Tana. Aveva lo zaino sulle spalle, la bacchetta in
mano, e trascinava l’amico svenuto fra le braccia, fra le
pozzanghere e le irte spighe che la sovrastavano. Non poteva tornare
a casa.
Non
voleva dare spiegazioni, voleva solo riposare, dimenticare.
Aveva
bisogno di tempo, e conosceva una persona, nel vicinato, che non le
avrebbe mai chiuso la porta in faccia.
26.
“Ciao,
Luna.”
“Per
tutti i… ciao, Ginny! Presto, vieni dentro.”
L’amica
l’invitò a entrare nella sua casa bizzarra. Ora la cucina ospitava
una veranda improvvisata in cui si trovava un piccolo divano
circondato da pile di numeri del Cavillo. Su un tavolino di taglio
orientale, rosso e oro, c’era una foto di Luna e suo padre
incorniciata da conchiglie che Luna aveva raccolto a casa di Bill e
Fleur. Ginny lo sapeva, perché era stata la prima volta al mare di
Luna. Non proprio un’occasione allegra, ma lei era sempre stata
brava a cogliere il lato positivo. Le pareti alte e i muri gialli
erano ricoperti di scaffali colmi di cianfrusaglie. Insieme
adagiarono Michael sul divano. Luna le offrì di che saziarsi,
senza fare domande. La casa si riempì dell’odore di minestra
calda; mentre i vetri si appannavano, il cielo andava scurendosi.
“Non
mi aspettavo proprio di trovarti davanti all’uscio. Quando ho fatto
la lettura del fondo di caffè stamattina ho letto chiaramente che
sarebbe stato un corvo…” osservò Luna sorseggiando una tisana
piccante e speziata, qualche ora dopo.
“Un
corvo, dici?” rispose Ginny andando a cercare la bacchetta che
aveva appoggiato casualmente durante la cena sul tavolo della cucina
ricoperto di ortaggi di stagione. Con la pancia piena e il tepore
del fuoco era rinsavita. Indicò Michael con un cenno. “In un
certo senso, lui è un corvo.”
“So
bene cos’è lui. No, la Divinazione è una scienza esatta. Diceva
il
corvo, l’animale.”
“Come
preferisci, Luna.” Si arrese lei, bevendo un sorso dalla sua tazza.
“Hai
intenzione di svegliarlo prima che vada in coma?” chiese con
naturalezza, indicando il ragazzo.
“L’intenzione
era quella.”
“Sei
stanca, non è vero? Vado a prepararti un cuscino, che ne dici?
Possiamo mettere Michael nel letto di mio padre.”
“Io…
certo.” Esitò Ginny. “Ora lo sveglio, poi ti raggiungo. E
un’ultima cosa, Luna… grazie.”
Xenophilius
Lovegood scontava gli ultimi mesi della sua pena ad Azkaban per aver
tradito Harry Potter e averlo consegnato ai Mangiamorte. Luna si
arrangiava da tre anni. Aveva rappezzato la casa qua e là e la
sua stramba dimora assomigliava sempre più alla Tana dei Weasley; si
era rifiutata di farsi aiutare perché Merlino solo sapeva cosa le
avesse suggerito il suo intenso mondo spirituale.
Si
era tagliata i capelli corti fino al mento, erano ondulati, di un
biondo chiaro acceso. Non era cambiata significativamente, ad una
prima occhiata, a parte per quel dettaglio. Il suo viso era un po’
meno paffuto, ma non sciupato. Indossava ancora orecchini e collane
bizzarri e vistosi. A Ginny sembrò che i suoi occhi trasparenti
fossero meno tristi dell’ultima volta in cui l’aveva vista, che
risaliva a quasi un anno prima. Si stritolò le mani in un gesto
impacciato; per colpa sua, la sua amica doveva entrare nella camera
di suo padre. Avrebbe voluto dirle che le dispiaceva, o una
qualsiasi cavolata il suo cervello fosse in grado di produrre in
quello stato, sapeva che Luna avrebbe letto tra le righe.
Si
avvicinò a Michael che ancora giaceva immobile in una posizione
innaturale sul divano. Aveva la camicia imbrattata di sangue, sporca
di fuliggine e bruciacchiata.
“Reinnerva.”
“Uhh…”
“Uh
è tutto quello che riesci a dirmi?” gli chiese sussurrando.
Lui
non rispose, era molto pallido. Sembrava volerle comunicare qualcosa
muovendo appena le labbra e indicando il proprio torace con gli
occhi. Ginny si spaventò. Aprì la sua maglia e cominciò a tastare
il costato con le mani fredde tremolanti. Se c’era una costante che
la legasse a Michael erano le situazioni pericolose; ormai avrebbe
dovuto averci fatto il callo.
“Hai
male qui?” Chiedeva di tanto in tanto, spostando i polpastrelli.
Lui
accennava di no con la testa, indicando accanto, sempre più a
sinistra. I suoi occhi erano torbidi e impazienti. Ginny fece
scivolare la mano sul suo avanbraccio, lo sfiorò appena, e
finalmente lui produsse un suono stridente. Non era – come dire-
cosa da niente. A Ginny venne un accidente. Il braccio era squarciato
in lunghezza e mancavano il mignolo e l’anulare.
“Miseriaccia,
Misha. Un’altra cicatrice.”
“Bella,
eh.” Gracchiò lui in tutta risposta, in un tentativo di riprendere
il controllo di sé.
“Sei
un incosciente.”
Ginevra
si morse la lingua per non dire altro. Si alzò di scatto per
chiedere delle garze a Luna. Quando ebbe raggiunto l’uscio della
sua stanza, si fermò. L’amica era seduta sul letto, abbracciava
il cuscino che aveva preparato per Ginny.
“Tutto
a posto?”
“Ma
certo. Sono solo un po’ preoccupata.”
“Tornerà
presto. È tenace e forte, niente può smussare gli spigoli di
Xeniphilious Lovegood.” Sorrise Ginny, con più coraggio di quanto
ne serbasse realmente. “So che tornerà. Spero solo che non sia
cambiato. Voglio dire, quando tornerà, spero che sia il solito. Che
non sia… un altro, definitivamente. Capisci cosa intendo, vero?”
“Oh,
Luna… lo spero anch’io.”
Ginny
le accarezzò i capelli.
“Hai
svegliato Michael?”
“Sì”
si riscosse, le appoggiò la mano sulla spalla. “Ha bisogno di
essere medicato. Si è Spaccato.”
“Potete
restare quanto vorrete. Io in settimana sono fuori per escursioni. Ho
bisogno di materiale per il Cavillo.”
“Non
staremo molto, Luna. Ti ringrazio.”
“Figurati.
Dev’essere una situazione delicata, altrimenti non saresti venuta
da me.”
La
frase, onesta come una sferzata d’aria fredda, ebbe un certo
effetto sia su Ginevra che su Michael. Il ragazzo, medicato,
bendato e sonnolento, ora sedeva fiacco accanto all’amica e
osservava la sua ex compagna di Casa lavorare a maglia una coperta
psichedelica nella vecchia poltrona del padre.
“Bene,
per stasera ho finito.” Disse Luna, alzandosi e infilando le
pantofole. Posò il suo lavoro sulla poltrona con delicatezza e
raccolse le tazze vuote in un vassoio. “Gin, ti aspetto in camera.
Michael, buonanotte.”
“Buonanotte,
Luna. Grazie ancora per l’ospitalità.”
“Grazie.”
Rincarò Ginny, appoggiandosi estenuata allo schienale del divano.
“Stanca?”
azzardò Michael, lanciandole un’occhiata di traverso.
“Già.
Senti Michael…”
“No,
ascoltami. Non c’è niente da dire.”
“Volevo
solo ringraziarti!”
“Non
farlo.” Disse solo, posando la mano sul ginocchio di lei. Ginevra
si immobilizzò.
“Cosa
stai facendo?”
“Niente!”
Protestò lui, piccato.
Il
silenzio fu riempito dallo scoppiettare del fuoco. La situazione
era irreale, l’atmosfera strana e palpabile. Ginny si torceva le
mani nervosamente. Michael riusciva soltanto a fissare lo sguardo
a terra.
“Dovremo
parlare, lo sai.”
“Immagino.”
Convenne lui, cauto.
“Lo
faremo quando tu starai meglio.”
“Come
vuoi tu.”
“Ora
vado a letto. Cerca di non appoggiarti al braccio.”
Gin.
Ho letto il tuo diario.
“Uh,
sì.”
“Buonanotte.”
Gli
baciò rapidamente la guancia e si volatilizzò su per le
scale. Merlino, quella ragazza. Era un continuo su e giù per il
cuore. Quando l’ultimo scalino scricchiolò, Michael capì che
non sarebbe riuscito a raggiungere la camera, era troppo
stanco. Scivolò lentamente fino a sdraiarsi e si tirò una
coperta di lana addosso. Il crepitare del fuoco gli addolcì il
sonno. Si addormentò, troppo stanco per riflettere.
26.
Un
orologio a muro ticchettava rumorosamente, ma nessuno gli badava.
L’unica finestra dava sul parco dell’Accademia; era una vista
molto bella, ma non era sufficiente a salvare la stanza dalla
sensazione di claustrofobia che davano i cinque muri troppo stretti e
l’odore stantio che si emanava dalla carta da parati con una
fantasia di righe rosse, fiori e spighe, alquanto discutibile. I
soffitti erano alti, un caminetto scaldava la stanza; una orrenda
moquette bordeaux piena di macchie attutiva il rumore frenetico del
piede di Harry che sbatteva contro la gamba della sedia; le fiamme
che danzando uscivano dal fuoco acceso si riflettevano su un’infinità
di quadri appesi a differenti altezze, illuminando qua e là dei
vecchi diplomi incartapecoriti o dei mappamondi piatti del secolo
scorso. Il tavolo, le sedie. Tutto era un pezzo
d’antiquariato. Harry dovette frenare il suo tic nervoso quando
lo raggiunse l’occhiata di rimprovero del suo superiore. Si
schiarì la voce, ma non disse nulla, in attesa che i suoi compagni
finissero di trascrivere informazioni utili.
Edwin
e Basil prendevano appunti in un rumore di carta grattata. Harry
sedeva alla destra di Dawlish. Il tavolo della sala Riunioni era
coperto da gomiti sormontati da teste pesanti e sonnacchiose, e
numerose tazze di caffè fumante all’americana. I Weasley erano
finalmente tornati alla Tana, e Daniel era rimasto a casa sua in
attesa di notizie utili. Harry era uscito nel freddo e si era
dunque avviato solo per andare all’Accademia. Una volta
arrivato, si era limitato a sedersi e a tenere le labbra cucite il
più a lungo possibile.
Aveva
riportato lo stretto indispensabile per non farsi beccare. Nessuno
aveva dubitato della sua parola. I suoi compagni, Edwin Coulter e
Basil Toggenburg – lui li chiamava affettuosamente il
mostro a due teste per
la loro abitudine di fare tutto insieme-, stavano per andarsene.
Edwin, un ragazzo dai capelli corvini, ricci e arruffati, stava
prendendo la sua giacca e quella dell’amico dall’appendiabiti
nell’angolo della stanza vicino alla porta. Basil bevve in un
sorso il fondo della sua tazza e raggiunse il compagno verso
l’uscita.
Era
corpulento, molto alto, probabilmente oltre il metro e novanta, e
nonostante avesse la stessa età di Harry aveva un’aria più
adulta. Il viso aveva tratti decisi, la fronte era ampia, il naso
dritto e piuttosto importante. Il tutto era cosparso di lentiggini.
Fermò
Edwin prima che aprisse la porta, e si voltò verso il suo superiore.
Harry guardò i loro volti e sentì i sensi di colpa farsi strada a
morsi. Non poteva parlargli di Daniel, non si fidava ancora
abbastanza di loro. Pensava comunque di avere una fortuna
sfacciata rispetto a Ron, che non si trovava bene con i suoi compagni
di squadra.
Allontanò
da sé la tazza. Il caffè non gli piaceva un granché, ed era già
abbastanza agitato per conto suo.
“Signor
Dawlish!” esclamò Edwin, come se avesse dimenticato qualcosa. Si
voltò nuovamente, cercando il volto lentigginoso dell’amico.
“A
che ora domattina?” continuò Basil, con la sua voce grave, che
aveva rilevato la sua aria interrogativa. Nel frattempo si lisciò
i capelli ramati e vi calcò sopra il berretto.
“Io
direi di trovarci alle otto in punto all’inizio di Diagon Alley.
Dovremo interrogare i testimoni al posto della squadra di
Shacklebolt.” Disse, dispiaciuto. “Due passanti e il fabbricante
di bacchette. Harry, tu ti metterai in contatto con l’Ufficio
Metropolvere per sapere quando il signor Haroche potrà ripartire.”
“Molto
bene, a domattina.” Disse Basil con un cenno del capo.
“Arrivederci,
Harry, signor Dawlish.”
“Arrivederci,
Coulter, Toggenburg.”
“Signore,
vado anch’io.”
Il
vecchio Auror sembrava aver aspettato quell’istante tutta la
sera. Mentre un attimo prima appariva calmo e posato, d’un
tratto i suoi lineamenti si erano induriti, e ora serrava le mani una
nell’altra con aria tormentata. Non appena fu certo che i due
ragazzi se ne fossero andati, si avvicinò al tavolo appoggiandovi il
torace, spingendosi verso Harry, che indietreggiò appena per la
sorpresa. Si riscosse e si avvicinò cautamente, con
nonchalance. Nonostante gli premesse di tornare a casa e avesse la
mente già satura di domande, si costrinse ad ascoltare con molta
attenzione.
“Potter,
so che questo è davvero sbagliato, ma lei è l’unico che io
conosca abbastanza bene e di cui mi possa fidare qua dentro. Anche
Megan Reeves, Adam Fullbuster e Rexford Grant, in quanto vittime
dirette, sono al corrente della notizia. Speriamo che le voci di
corridoio non si facciano troppo chiassose, o rischiamo di allertare
i colpevoli. Prometta di non farne parola ai suoi compagni.”
“Io…
certo.” Rispose lui, preso in contropiede.
“Temiamo
che ci siano degli infiltrati in seno all’Accademia.” Sputò
Dawlish, in un sussurro. Era evidente lo scherno, il volto era
tirato dalla stanchezza, macchiato dal disonore.
“Lo
sospettavo anch’io.” Convenne Harry, sperando di non essersi
troppo sbilanciato.
“Non
possiamo farne parola con nessuno. Nel verbale di oggi dovrebbe
esserci il nome del colpevole – sempre che sia solo uno – ma non
possiamo accedere allo schedario.”
“No,
infatti. È vietato dal regolamento, fino al momento in cui sarà
processato, bollato e messo negli archivi. Dove vuole andare a
parare?” chiese, con una punta di sorpresa nella voce. Dawlish non
aveva mai mostrato tutta quella confidenza.
“Il
punto è, Potter, che noi abbiamo bisogno di quella lista per poter
estirpare il problema alla radice, altrimenti possiamo dichiararci
subito vinti e pronti ai prossimi soprusi. Perché se di infiltrati
si tratta, questo è solo l’inizio.”
“D’accordo,
ho capito.” Harry trattenne un sospiro esasperato.
“Voglio
che lei mi aiuti a procurarmi quel verbale, Potter.”
“Ci
sto, ma sotto condizione. Voglio fare le cose a modo mio.”
“Le
lascio carta bianca.”
Il
mattino seguente, Harry sedeva al Paiolo Magico in compagnia di
Ronald e Daniel. C’erano pochi altri tavoli occupati, ma la
fumarola che annebbiava la vista era quella di sempre. Harry
riconobbe due-tre volti, erano vecchi maghi sempre in viaggio che
facevano continuamente tappa a Diagon Alley. Fumavano come turchi
delle lunghissime pipe viola. Quando Tom il barista arrivò per
servirli e riconobbe il suo vecchie ospite s’illuminò come un
bambino alla vigilia di Natale. L’espressione gioviale sul suo
volto, quasi veneratrice, gli ricordò tristemente Dobby, ma Harry
aveva imparato a giostrarsi con quei ricordi. Si concentrò sul
presente, mentre i due grandi occhi acquosi dell’elfo scomparivano
pian piano dalla sua mente…
“Signor
Potter, quanto tempo!”
Dopo
un breve scambio di convenevoli, ordinarono tutti e tre una fetta di
torta di mele alla cannella e una cioccolata calda. Harry avrebbe
preferito tenere Daniel in casa per sicurezza, ma non aveva avuto
scelta. Era da un po’ che aveva gli scaffali vuoti in cucina, e
non poteva offrire acciughe sott’olio, riso bollito e caffè
solubile al suo ospite.
“Ok,
riassumendo, Ron. Ieri, prima di andartene, hai detto che conoscevi i
nomi di quelli che si dovevano occupare dei due Ghermidori.”
“Sì,
ho fatto una lista ieri sera.” Stirò una pergamena stropicciata
sul tavolo e la pose davanti a Harry e Daniel.
“Almeno
sappiamo da dove partire. Hai già i tuoi sospetti?” gli chiese,
dando una rapida occhiata ai nomi, strizzando le palpebre alla vista
della calligrafia di Ronald.
“Certo.
Sai quanti ex Serpeverde ci sono all’Accademia?”
“Non
ne ho idea.” Ammise Harry, colpito.
“Due.
Theodore Nott e Daphne Greengrass. Io direi che dobbiamo partire da
loro. Secondo la versione di Megan, la mia compagna di squadra,”
spiegò, rivolgendosi a Daniel di tanto in tanto. “C’erano
quattro squadriglie sul caso. Le nostre, e altre due che avevano il
compito di stare in Accademia come ricambio in caso di problemi.
Insomma, Harry, sai com’è che ci organizziamo.” Continuò,
sbrigativo. “E a quanto pare, loro due fanno parte di una di
queste. Come puoi vedere, i loro nomi sono in cima alla lista.”
Concluse, con orgoglio.
Harry
non perse tempo a spiegargli che non aveva capito un accidente di
quello che c’era scritto. Si limitò a dargli una pacca sulla
spalla a mo’ di ringraziamento. Daniel sorseggiava il cioccolato
con aria preoccupata e gli occhi bassi; non era poi molto concentrato
sulla faccenda. Harry e Ron si scambiarono uno sguardo.
“Daniel,
avevo previsto di andare all’Ufficio Metropolvere del Ministero la
settimana prossima, ma se hai necessità di tornare a casa presto
farò il possibile.” Disse Harry, con l’aria comprensiva più
credibile del suo repertorio. Non era mai stato molto bravo con i
sentimenti.
“Non
voglio che pensiate che io sia un codardo-”
“Non
lo pensiamo!” lo interruppe Ron. “Senza di te non avremmo nemmeno
saputo che Ginny era coinvolta.”
“Io
non farei fatica a pensarlo, al vostro posto.” Ammise lui, con
espressione avvilita.
“Abbiamo
bisogno di te qui, Daniel.” Insisté Harry, sperando così di
infondergli coraggio.
“Lo
so, e per questo non me ne andrò fino a quando non avremo trovato
Ginevra. Però sono nei guai… probabilmente mi perderò le ultime
settimane di tirocinio sul campo in Brasile… e… e ho bisogno di
mettermi in comunicazione con Tia. Sono convinto che potrebbe
spiegarci parecchie cose. L’ho sentita parlare di Michael con
Ginny, sono quasi certo che sappia qualcosa che possa interessarci.
Dove posso trovare un gufo?”
“Io
avrei Leotordo, ma purtroppo lo sto dividendo con il resto della
famiglia e non sono sicuro che sia a casa oggi. In compenso c’è
una guferia da qualche parte qui in centro.”
“Ci
andremo oggi in mattinata.” Concluse Harry, che desiderava
ardentemente rianimare la conversazione precedente. “Invece, Ron.
Torniamo alla lista.”
“Ovviamente
ci sono anche Rexford, Megan e Adam.” Borbottò, spostando lo
sguardo sulla tazza vuota.
“E
gli altri?”
“E
gli altri non lo so. Sapevo dei Serpeverde perché li sto tenendo
d’occhio per conto mio dall’inizio dell’anno.” Disse,
arrossendo vistosamente. Stava spiando due futuri Auror come lui in
nome delle vecchie rivalse? Sì. Era poi così sbagliato e
imperdonabile? Per Harry, decisamente no. “C’è una sola cosa da
fare.”
“So
di cosa parli.” Tossicchiò Harry, fingendo di ignorare la prima
parte del discorso. “Dawlish mi ha dato il permesso di frugare
negli annali per il verbale di ieri.”
“Basterebbe
una lista degli iscritti. Penso che ce ne sia una in segreteria.
Potremmo dividerci in due gruppi.” Propose Ron con improvvisa
veemenza. Azione! Finalmente avrebbe potuto concentrarsi su qualcosa
che non fosse estremamente doloroso… “Ti fidi dei tuoi compagni
Harry?”
“Non
saprei, abbastanza, ma non troppo.” Buttò lì lui, poco convinto.
“Abbiamo
bisogno di numero. Da soli è troppo complicato. E non possiamo
coinvolgere Daniel, è già abbastanza inguaiato di suo.”
Daniel
annuì, abbassando il capo.
“Però
posso procurarmi informazioni. Contacterò
Tia Haldale.” Disse, spalancando gli occhi azzurri verso i suoi
nuovi amici. “Lei… lei è la mia ragazza.”
“Oh.
Capisco.” rispose Harry, leggermente spiazzato. “Ottimo, allora.
Non ci resta che preparare un piano. Una cosa rapida, possibilmente.”
Aggiunse, tirando fuori dalla tasca dei jeans una penna Babbana e
improvvisando una lista di cose da fare sulla pergamena straccia di
Ron.
“Harry,
che fai? Non ce n’è bisogno. Innanzitutto, mi sono scordato di
dirti una cosa.”
“Che
genere di cosa?” gli chiese lui, seccato.
“Il
genere
importante. Megan mi ha chiesto di incontrarci verso le dieci e io le
ho proposto il Paiolo Magico. A quanto pare Shacklebolt l’ha
nominata come nuova assistente, frattanto che Rexford è al San
Mungo.” Si fermò, agghiacciato dall’aria contrariata dell’amico.
“Non guardarmi così Harry! Cosa dovevo dirle?! In più pare che
abbiano sostituito Rex con una nuova recluta, e vuole presentarmela.”
“Andiamo,
Ron… quella ragazza è simpatica come una Caccabomba, e altrettanto
esplosiva! E
io non mi fido di lei!”
“Non
dobbiamo dirle per forza tutto.” Suggerì Ron, con aria trionfante.
“Eccola là, sta arrivando. Sta a vedere, ci penso io.” Concluse,
con un tono che non ammetteva repliche.
Ron
fece spazio accanto a se sulla panca da bar e si sedette di fronte a
Daniel. Megan doveva avere venticinque anni o giù di lì. Era una
strega spietatamente avvenente, la cui aria calma era
ingannevole. Non era particolarmente dotata di tatto, si era
divertita a punzecchiare Ron più di una volta. Al più giovane
dei Weasley ricordava terribilmente i suoi fratelli gemelli. Solo con
un’arguzia tutta femminile e un viso grazioso capace di far
ammutolire persino i loro superiori. Per questo motivo Shacklebolt si
era sempre rifiutato di affidarle la responsabilità del gruppo, ma
ora come ora non aveva avuto scelta. La strega portava i capelli
scuri intrecciati e una frangia sbarazzina che la caratterizzava;
quel giorno inoltre indossava un cerchietto, che rendeva più marcato
il suo cipiglio. Indossava una giacca pesante di pelle e sotto un
abito viola piuttosto anonimo. Ai piedi aveva due imponenti
stivali pieni di fibbie, con una suola di almeno cinque centimetri.
“Potter.
E tu devi essere Haroche, giusto? Il testimone francese.” Disse,
senza aspettare risposta.
“Ciao
Megan.” Bofonchiò Ron, indispettito.
“Oh,
ciao Ronnie.” Gongolò lei con un sorriso fasullo.
“No,
hai ricominciato col Ronnie…” esclamò Ron, infuriandosi.
“Merlino, quante volte devo dirtelo che…”
“Shush,
pivello. Devo presentarvi qualcuno.”
Dietro
di lei comparve la recluta. A Ron e Harry cadde la mascella.
“Seamus?”
“Harry,
Ron.” Ammiccò lui, con un sorriso a trentadue denti.
“Ottimo.
Che dire… cominciamo dalle cose più semplici allora. Seamus, tu ce
l’hai un gufo?”
Ci
misero un po’ a raccontare la verità intrecciandola sapientemente
con qualche balla, ma ormai Harry era un maestro del mestiere. Megan
sorseggiava un’Acquarosa, ascoltando silenziosamente i resoconti
degli altri; era piuttosto pacifica, per i suoi standard. Seamus
sembrava un altro, Harry l’aveva riconosciuto esclusivamente per i
lineamenti marcati del viso. Ora portava i capelli leggermente più
lunghi sulla fronte, aveva una peluria ispida sul mento, negli occhi
si leggeva una determinazione tutta nuova. Aveva un’aria allenata,
pronta, risoluta, nonostante il suo scarso metro e settanta. Era
pronto a scommettere che il suo vecchio amico aveva delle spalle
enormi, nascoste sotto a quel maglione azzurro Babbano. Ron si era
limitato a squadrarlo dall’alto in basso, su e giù, senza riuscire
a frenare lo sguardo.
“E
dunque seguirai le lezioni di quest’anno con Ron.” Concluse
Harry, ancora basito dalla notizia.
“Proprio
così. È un piacere rivedervi ragazzi! Non siete cambiati di un
pelo!” disse con affetto. Ron distolse lo sguardo, leggermente
innervosito. Non gli piaceva che rimarcassero la sua
bocciatura. Megan alzò gli occhi al cielo, scatenando l’ilarità
generale.
Stava
per ricominciare a parlare – Seamus era sempre stato un gran
chiacchierone – quando Harry lo frenò tempestivamente.
“Abbiamo
fretta. Dobbiamo trovare abbastanza gente da fare un diversivo, poi
ci serve qualcuno che faccia l’allarme, e dobbiamo dividerci in due
gruppi.” Tre, qualcuno doveva anche andare alla Gringott, ma questo
lo tenne per sé.
“Quanti
siamo in tutto?” chiese Seamus, con lo sguardo attento di chi vuole
assolutamente partecipare.
“Io,
Seamus, Ron, Megan, Adam?, Edwin e Basil. Dovrebbe andare, no?”
disse Harry, abbastanza convinto dalla piega della situazione.
“Andiamo,
Harry. Dimentichi qualcuno.” Si intromise Ron, con un’aria
combattuta e leggermente contrariata. “Chi ha sempre ideato i
nostri piani? Chi si è sempre preoccupata che tutto andasse per il
verso giusto?”
“Hai
ragione, Ron. Dobbiamo parlare con Hermione.”
“Andiamo,
allora. Harry, stavolta pago io.” Si alzò e indossò rapidamente
la giacca e una grossa sciarpa rossa e oro che aveva dai tempi della
scuola. Ci era molto affezionato.
“Daniel,
vieni con noi o preferisci tornare a casa?”
“Scherzi?
Certo che vengo.”
“Megan?”
chiese Harry, alzando lo sguardo verso la donna che era già in piedi
da un paio di minuti.
“Io
preferisco raggiungervi dopo, ci troviamo di nuovo qui oggi
pomeriggio? Vado a vedere come sta Rexford.” Ammise, con un’aria
abbattuta che non sembrava abituata a portare. Harry tergiversò.
“D’accordo,
allora a questo pomeriggio. Mi raccomando, non farne parola con
nessuno.”
“Per
chi mi hai preso, Potter?” si offese lei. Fece un cenno di saluto a
tutti quanti, poi abbandonò il locale per prima. Harry, Ron, Daniel
e Seamus stavano ancora cercando di organizzarsi.
“Ok.
Seamus, conosci l'indirizzo di casa di Hermione? Ci sei già stato?”
“Ehm,
io… no.”
“Molto
bene.” Disse Harry. “Andremo a piedi. È a un isolato appena da
qui.”
Note
dell’autrice
Siete
solo in quattro ad averla messa fra le seguite, ma siete quattro
preziosi sostegni. Volevo ringraziarvi di cuore, e avvisarvi che
nonostante io continui a scrivere probabilmente pubblicherò i
prossimi capitoli quando le vacanze saranno cominciate, perché ho un
esame a breve e non riesco a rileggere e a correggere per bene i
capitoli. Spero che Megan, Edwin e Basil vi piacciano! Prima o dopo
compariranno nuovamente anche Adam e Rexford, e così potrete
conoscerli più a fondo ^_^ Inoltre, ho creato una pagina FB per
questa storia, in cui spammo banner e citazioni a manetta, se vi
interessa è in alto vicino al mio nome sulla pagina autore! Passo e
chiudo, buona domenica :*
|
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Capitolo 11 *** Quella parte di me che odio di più ***
Dal
capitolo precedente:
Stava
per ricominciare a parlare – Seamus era sempre stato un gran
chiacchierone – quando Harry lo frenò tempestivamente.
“Abbiamo
fretta. Dobbiamo trovare abbastanza gente da fare un diversivo, poi
ci serve qualcuno che faccia l’allarme, e dobbiamo dividerci in due
gruppi.” Tre, qualcuno doveva anche andare alla Gringott, ma questo
lo tenne per sé.
“Quanti
siamo in tutto?” chiese Seamus, con lo sguardo attento di chi vuole
assolutamente partecipare.
“Io,
Seamus, Ron, Megan, Adam?, Edwin e Basil. Dovrebbe andare, no?”
disse Harry, abbastanza convinto dalla piega della situazione.
“Andiamo,
Harry. Dimentichi qualcuno.” Si intromise Ron, con un’aria
combattuta e leggermente contrariata. “Chi ha sempre ideato i
nostri piani? Chi si è sempre preoccupata che tutto andasse per il
verso giusto?”
“Hai
ragione, Ron. Dobbiamo parlare con Hermione.”
27.
Hermione
si tolse il mantello di lana. Il suo piccolo appartamento non era più
stato così pieno dai tempi in cui aveva dato la festa per il
trasloco. Grattastinchi saltava dal divano alla poltrona con
soddisfazione, incapace di decidere dove fermarsi per
sonnecchiare. Alla fine optò per il grembo di Seamus, che non
vedeva più da tanto tempo. Vi si acciambellò con grande sorpresa
del proprietario, e prese a fare le fusa. Il suo muso brachimorfo
produceva un caloroso seppur molesto rumore di marmitta. Hermione
scosse la testa, quel gatto era davvero mezzo Keatzley.
Nonostante
l’urgenza della situazione, il disagio generale era evidente,
sembrava inibire i gesti e gravare sui pensieri. Hermione e Ronald
evitavano di scambiarsi occhiate troppo lunghe, Harry e Daniel
borbottavano preoccupati per la faccenda della statua rubata, e
Seamus faticava a credere di essere finalmente parte dell’élite,
una pedina al servizio della giustizia, al posto giusto nel momento
giusto, tanto che sentiva le mani fredde e umidicce stringersi una
nell’altra spasmodicamente, in attesa che qualcuno si decidesse a
parlare. Con un po’ di titubanza cominciò ad accarezzare
Grattastinchi che ora gli premeva il muso piatto contro il mento e
ora gli solleticava il naso con la punta della coda, alla ricerca
svergognata del suo affetto.
Harry
si fece coraggio alzandosi in piedi, organizzare il piano senza
lasciare indizi per strada era capitale, non era più un ragazzino a
cui tutto era perdonato. Se perdeva il suo posto in accademia il suo
duro lavoro sarebbe andato perso, per non parlare del danno causato
ai suoi amici. E Ginny era ancora dispersa, imprigionata chissà
dove. Gli vennero in mente le urla di Hermione quando Bellatrix
Lestrange aveva deciso di torturarla. Erano così vividamente
impresse nei suoi ricordi da lasciarlo ancora senza
fiato. Temporeggiò, strofinandosi il viso con veemenza. Cercò di
riprendere le redini dei pensieri, il che gli costò una fatica
immane, e spiegò l’altra parte del piano anche a Seamus,
camminando avanti e indietro sul tappeto verde di Hermione; di tanto
in tanto si spettinava i capelli, e si passava una mano sulla fronte
sudata; il rilievo della vecchia cicatrice era sempre lì, a
ricordargli chi fosse e cosa stesse facendo. Era sempre lui, con i
suoi migliori amici, alla ricerca di una soluzione a qualcosa di più
grande di loro. Non riuscì a non stupirsi e imbarazzarsi per
l’ennesima volta, leggendo l’animata ammirazione sui volti degli
amici, soprattutto quello cordiale di Seamus.
Il
simpatico ma turbolento ex Grifondoro era con loro e li aveva seguiti
dopo l’incontro al Paiolo Magico, ormai la frittata era
fatta. Sperò in cuor suo che non li tradisse e non facesse
saltare
tutto in aria
come al solito. Harry approfittò della spiegazione aggiungendo
dettagli in modo che anche Hermione potesse seguire il discorso. La
osservò di tanto in tanto, lanciandole le solite occhiate
interrogative, cui lei rispondeva sempre, in un modo o nell’altro,
onestamente. Hermione era stata, in pochi minuti, perplessa,
stupita, devastata – cosa sarebbe stato di Ginny? – e Harry capì,
alla fine del discorso e con il fiato corto, che il suo piano era
arzigogolato ma fattibile, perché ora Hermione gli rivolgeva uno
sguardo fatto di comprensione, risolutezza. Si sentì rinfrancato, e
finalmente scivolò seduto sul tappeto, con la schiena appoggiata
alla poltrona di Seamus. Aveva accuratamente evitato di notare il
disagio fra i suoi amici, ma ora era eclatante. Si sentì ferito e
scottato dalla proprio curiosità, ma non poté fare a meno di
osservarli. Hermione sedeva accanto a Ron con una tazza fumante di tè
al limone. Era seria e completamente assorbita dalla situazione.
Rifletteva e il rapido nistagmo degli occhi dava l’impressione che
lei non ci “fosse” con la testa. Ronald era seduto composto,
ingombrava la stanza con la sua stazza e il colore folgorante dei
suoi capelli rossicci. Eppure sembrava rannicchiato, quasi volesse
scomparire mimetizzandosi fra i mobili. Erano così vicini,
eppure… eppure così distanti – o era una sua impressione? Harry
voleva loro un gran bene, era brutto, orribile vederli soffrire, loro
non potevano, non dovevano - loro erano la sua famiglia. Avrebbe
dato qualsiasi cosa in quel momento per aiutarli.
28.
“Perché
mi hai portato qui?”
Il
pallido, umido pomeriggio inglese era malamente incominciato con
quella frase, che definirla a doppio tagliente sarebbe stato un
eufemismo. Era stata una scelta deliberata, una domanda timida che
aveva tardato a lungo perché si nascondeva fra le altre nella
speranza di non dover mai comparire sulle sue labbra. Era successo
ugualmente, perché tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi.
Dopo
una mattina frenata dalla debolezza fisica di Michael che viaggiava
dal divano al tavolo da pranzo in un continuo va e vieni e dalle
occhiate trasparenti e incriminanti di Luna dietro la sua coperta
psichedelica, Ginny si era decisa a parlare con Michael. Era
pomeriggio, ma fuori era tutto grigio e senza un orologio non
avrebbero mai potuto dire che ora fosse. Non era veramente un
problema, perché tutto in quelle giornate sembrava indicare che il
tempo si fosse fermato. C’era solo quella ragazza stramba a
scandire il tempo con le sue escursioni, ma tutto urlava
silenziosamente, come un soffio caldo e muto, che in quella casa,
quale che fosse il tempo necessario, sarebbero riusciti a
parlarsi. Perché erano soli. Perché non c’era altra scelta.
Luna
era uscita da poco, lasciando un clafoutis alle ciliegie in forno.
Ginny prese a intrecciarsi i capelli nervosamente, allontanando
lievemente il viso dal calore del fuoco. Si era seduta sul tappeto
del salotto, vicino al caminetto, mentre la pioggia batteva sul tetto
della veranda e il vento fuori spazzava la landa, pronta ad
affrontare il suo migliore nemico. Michael non le aveva concesso
delicatezze, non le aveva dato il tempo di prepararsi. Perché
mi hai portato qui? Il
tempo si era fermato su di loro, nonostante le lancette ticchettanti
e il cucù abominevole del signor Lovegood. Il profumo aspro della
cottura riempiva le narici, imprigionandoli in quel presente bizzarro
e scadenzato.
Ginny
cercava le parole, Michael contava gli attimi guardandola negli occhi
senza sosta. Con un po’ di apprensione in gola, decise di mandare
giù il gozzo e dire semplicemente la verità, ad ogni passo, poco
alla volta. Non era mai successo, dal loro litigio, che fosse lui
a fare domande. Lui era quello zitto, quello che non provava niente,
che si eccitava per qualsiasi questione ma no, non la loro, quella
era sempre stata acqua
passata,
fin dall’inizio della fine. E lei si era sempre ritrovata sola a
combattere una battaglia contro i suoi sentimenti, rincorrendo i suoi
perchè. Perché
siamo riusciti ad implodere per un bacio? Perché io ti ho perdonato
tutto, malgrado me stessa? Perché tu ce l’hai ancora con il mondo?
Perché il sapore della mia pelle non ti è piaciuto? Perché il tuo
invece me lo ricordo ancora, e mi è bastata una volta, e mi è
piaciuto, oh, così tanto?
Era
sempre stata lei a preoccuparsi di riallacciare i rapporti e
riavvicinare malamente i lembi della ferita.
“Perché,
Michael, non avevo idea di come dare spiegazioni ai miei.”
Di
solito lui buttava sale sul sangue.
“Sei
nei guai, adesso?”
Sembrava
provare un malato piacere a rigirare il dito nella piaga.
“Sempre
meglio che restare in una prigione sudicia, clandestina e di cui
nessuno sa nulla.”
“Tranne
me.”
“Già,
tranne te Michael.”
“È
gentile Luna. Sai, la casa…”
“Sì,
Luna è una persona adorabile e molto luminosa.”
“Tu
abiti qua vicino, vero?”
“Sì,
io… beh, in realtà…” ricordò improvvisamente che no, non era
così. Che stupida. Come poteva averlo dimenticato? “Prima di
partire in Brasile passavo molto tempo a casa di Harry.”
“Ne
hai di posti in cui tornare, dopo questo…” Episodio? Circostanza?
Varco spazio-temporale? Non seppe definirlo. Si trattenne dal mettere
in fondo alla frase qualche parola sghemba e inutile. Sapeva che lei
avrebbe intuito.
“E
tu?” chiese Gin, con aria fintamente divertita, come quando si
pongono le domande ai bambini meno fortunati. “Tu sai dove
tornare?”
Era
una domanda-abisso. Michael era stato solo un vecchio fantasma fino a
una manciata di notti prima.
Aveva
tentato di lottare, all’inizio – quando se l’era trovato
davanti in mezzo alla giungla, come un brutto scherzo del passato, ma
si era ritirata scottata, rimproverata nientemeno che da se stessa.
In fondo al cuore, che fosse a Natale, o al suo compleanno, o davanti
a una stella cadente, il suo desiderio più profondo era sempre stato
lo stesso. Era costretto, soffocato da strati di nuovi ricordi, da
pensieri, paure, emozioni più audaci che non faceva fatica a
mostrare. Ma i suoi sentimenti per Michael… no, per Misha…
erano un tormento che datava dai tempi della scuola. E avevano
superato l’ostacolo del tempo, quello che ogni ricordo deve
affrontare. Era sfumato il ricordo di Michael?
No.
Ricordava i tratti del suo viso e l’effetto della rabbia e dello
stupore e delle risa su quegli spigoli morbidi. L’aveva
ritrovato, come un gatto randagio e arruffato, ma era ancora lo
stesso – vero? “Tu
sai dove tornare”
implicava che lei volesse davvero saperlo.
“Non
vivo più con i miei.” Ammise lui, rastrellandosi i capelli
all’indietro con aria scomoda.
“Ah…?”
rabbrividì alla vista di quel suo gesto così familiare. Caro. Caro
e doloroso. I suoi aggettivi preferiti per Michael.
“Ah,
eh già.” Lui tagliò lo sguardo che lei cercava di intercettare
per posarlo sul fuoco. Nel marrone dei suoi occhi lei vide le fiamme.
“A dire il vero viaggio di continuo, dormo un po’ ovunque.”
Quanti
incontri, quante vite, quanti ricordi nuovi aveva lui, per
proteggersi dal passato?
“Il
mondo è la mia casa.”
Inaspettatamente,
la risposta di Michael la rasserenò un poco.
“È…
una bella cosa.”
Cosa
altro avrebbe potuto dire? Odiava ammetterlo, ma lo ammirava. Aveva
il coraggio di andare contro le convenzioni, contro il solito –
diploma-lavoro-casa-famiglia di cui lei si accingeva a superare la
prima tappa; Ginny aveva sempre soffocato quella parte di sé per
amore degli altri.
Il
mondo è la mia casa.
Ginny sentì il cuore stringersi in una morsa di dolorosa nostalgia,
come se lui le avesse appena dichiarato “ehi, sono ancora io”. Io
- io, io, io. Io quello che hai conosciuto un tempo, quello che ti
faceva tremare il cuore di gioia per qualsiasi sciocchezza, non il
Michael cattivo e spietato che ti ha spezzata come un
ramoscello. Quel io. Seguito
da un “corri subito a scriverlo sul tuo diario, avida (di –
ahahah
- amore), stupida, naïve piccola Ginny”.
Michael
la guardava – uno sguardo di cioccolato liquido
innocente
- e lei non riusciva a capacitarsi dell’incubo ad occhi aperti che
la sua mente riusciva a raffigurare. Era innaturale quella voce
distorta che le risuonava in testa come le campane. Pensò di essere
impazzita. Era tutto dentro di lei. Erano i suoi demoni. Non aveva
un posto dove nascondersi, se lui era realmente di fronte a lei. Li
aveva creati lui, quei mostri oscuri, glieli aveva liberati dentro
quando l’aveva abbandonata – abbandonata sì, da tutti, non solo
da lui: dai suoi segregati in casa, da Percy quell’invertebrato, da
Harry e Ron e perfino Hermione, perché lei era quella piccola,
quella che non doveva sapere niente, e da Fred, che non le aveva
lasciato il tempo di salutarlo. Finché ci sarebbe stato lui, però –
così pensava la piccola
Ginny
quando era ancora a Hogwarts e aveva il diritto di sognare, lui che
era sempre stato il suo Lumos,
non sarebbe mai stata da sola. Misha era la sua solida colonna
portante, capace di ridarle tutta la sua tempra con un semplice
sguardo dei suoi.
E
ora, chi era? Chi c’era dietro quello sguardo così sapientemente
lavorato da sembrare quello del suo Misha?
“Senti-”
“Senti…”
Michael
si alzò e prese a camminare sul tappeto, lentamente per non farsi
male.
“Vai,
prima tu.” Disse, con la bocca nascosta dietro la mano, grattandosi
nervosamente il mento.
“Mi
dispiace. Non volevo che ti ritrovassi nuovamente coinvolto.”
Rispose lei, abbassando lo sguardo. Nel
tutto. Nei maledetti briganti, nelle convenzioni che tanto
sapientemente rifuggi, nel mio amore sciocco e vischioso – pensò,
ma non lo disse.
“Non
è niente, non è quello. Io vorrei parlare di altro. Ci sono tante
cose che vorrei… chiarire, con te.”
Lo
sguardo atterrito di Gin frenò il suo entusiasmo iniziale. Sto
andando troppo in fretta? Si
spazzò i capelli dal viso e tentò di ricominciare il discorso in
modo appropriato. La ragazza stava lentamente sciogliendo la
treccia di prima, in un gesto che sembrava del tutto inconscio.
Michael rimase qualche istante a fissarla con le labbra semichiuse,
cullato dal gesto meccanico, incapace di formulare la frase. Si
avvicinò al caminetto, Gin era ai suoi piedi e lui abbassò la testa
per continuare a guardarla negli occhi. Se l’era ripromesso. Niente
più scappatoie. La punta del piede sfiorava la gamba di lei. Chiuse
gli occhi, pronto a buttarsi nel vuoto, quel vuoto che non aveva mai
voluto affrontare.
“Michael,
prima però devo dirti una cosa importante.”
Gin
si aggrappò alla sua gamba, si tirò in piedi. Il suo viso era d’un
tratto vicino, sfocato. Michael avvertì il calore rubato al fuoco
emanare dalla sua pelle, liberare la sua fragranza. Il cuore mancò
un battito. Si perse nell’olfatto che lo guidava verso quel
nuovo profumo, che aveva note lattee di amore perduto, di bisticci e
d’infanzia, nella vista, che scioglieva tutto attorno a lui in una
scia di colori per potersi focalizzare su di lei, quella ragazza dai
capelli di fiamma, e nel rumore del respiro che sfuggiva fra quelle
labbra rosse e succose che lo chiamavano. Che
lo avevano sempre chiamato. La
mano scappò al suo controllo e raggiunse una guancia vellutata e
bollente. Raccolse uno sguardo risoluto fra le dita e vi rispose,
suo malgrado, con affetto. Era quello che aveva sempre apprezzato in
lei. Era dinamite pura, appoggiata alla sua pelle, pronta a
esplodere. E lui sarebbe saltato in aria, ne era certo.
“Non
dovresti.” Accennò lei, beandosi di quel lieve contatto,
socchiudendo gli occhi.
“Lo
so.” La
parte di me che odio di più.
“Sono
stanca di rincorrerti, Misha, e di perderti, e di ritrovarti.”
Era
una confessione? Era un consiglio velato? Michael non seppe cosa
pensare. Vacillò sul posto, mantenendo il contatto. Gin posò una
mano sulla sua e gliela strinse. Lui lo prese come un invito a
continuare.
“Non
volevo che andasse tutto a finire male. Sai, io ero solo molto
confuso. Sono sempre stato una persona confusa. Mi sento perso tre
quarti del tempo, forse è per questo che mi arrabbio facilmente.
Sono perennemente nervoso e preoccupato. E… mi vergogno. Non vorrei
essere così.” Sussurrò Michael, lasciando che lei raccogliesse
quella mano fra le sue e la portasse contro il petto. “Tu… sembra
che sai sempre che tasto pigiare per farmi esplodere.” Guardò
attraverso la veranda, inseguendo le folate di vento che spostavano
la pioggia, al di sopra del capo di Gin. Era più facile, così.
Guardando altrove.
Non
era esattamente quello che voleva dirle, accidenti, ma era uscito da
sé.
“Mi
dispiace.” Soffiò lei. “Ho sempre saputo che era colpa mia.”
Tutto
quanto. Le notti insonni, il gioco di rincorrersi, l’affiatamento,
solleticarsi il naso con i fili d’erba, scappare dagli altri,
nascondersi insieme, condividere tutto, baciarsi per sbaglio…?
Michael
si allontanò di scatto.
“Che
cosa stai dicendo?” le disse, serrando la mascella. “Gin, tu non
capisci… hai solo scatenato il solito caos per l’ennesima volta,
quante volte hai ridotto in polvere le mie idee? Quante volte mi hai
fatto sentire uno stupido… ma non è per questo che è finito tutto
quanto.
Devi smettere di pensare in modo sbagliato… devi smettere di
pensare e basta! È successo, doveva succedere, ora è finito.”
Concluse, sperando di farle capire che il discorso doveva essere
chiuso lì, ora e per sempre.
Ginny
incrociò le braccia, facendo un passo verso di lui.
“E
questo
che
cosa rappresenta allora?” indicò lui, se stessa, la casa di Luna
con gesto teatrale. “perché io proprio non capisco, Michael. Forse
dovresti spiegarmelo tu.” Gli puntò un dito sul petto. “Tu con
la tua mente brillante! È tutto finito, vero? Ma certo.”
“No,
aspetta, non intendevo dire questo…”
Cercavo
la sicurezza nei tuoi occhi. E tu non ti sei mai tirato indietro. Era
doloroso. Era bellissimo.
“Gin,
devo dirtelo, io… io non avrei mai immaginato, nemmeno col senno di
poi, quanto potessi essere importante per te.” Non
senza il diario.
“Devi credermi, non ne avevo la minima idea. Perché…” esitò,
facendo un passo verso di lei, guadagnandosi un’occhiata
orripilata. “Perché io non volevo, Gin.”
“Tu
non volevi che cosa?”
“Non
volevo pensare, sapere, sperare ancora, soffrire per mano tua, …non
volevo nessuna responsabilità.
E tu eri un pacchetto integrale di responsabilità! Così
appassionata, così seria, mentre io… ero ancora un ragazzino,
spaventatissimo dal potere che mi avevi messo in mano. Avrei potuto
farti così male…” Michael prese le spalle di Ginny e la scosse
dolcemente. “Non voglio mai più avere quel potere fra le mani. Non
sono in grado di gestirlo. Mi capisci?”
Ginny
sentì gli occhi farsi lucidi, ma frenò le lacrime in un impeto di
forza.
“Oh,
si che capisco. Capisco tutto, Michael. Sei un cretino, ecco cosa
capisco! Avresti potuto farmi così male?” lo scimmiottò
acidamente. “Avresti?! Tu mi hai
fatto male.” Lo prese per il colletto della camicia e spinse il
naso contro il suo, guardandolo negli occhi, annaspando in
quell’alito fremente e familiare come un ubriaco in un oceano di
vino. “Mi stai facendo male, qui, ora. Mi hai fatto male quanto ti
ho visto con le gambe rotte.” Gli morse una guancia, fingendo di
ignorare quanto la sua voce fosse instabile. “Quando mi hai perso
la bussola.” Gli morse il labbro superiore, senza raccogliere lo
spillo di sangue pur vedendolo scaturire. “Quando mi sei
rotolato addosso.” Le scappò qualche lacrima fra le ciglia, giù
per il mento, per terra. Non
importa,
è
la rabbia. “Quando
hai implorato che restassi accanto a te perché avevi la febbre e
tremavi di paura!” Michael faceva di no con la testa, voleva
allontanarla, spingere via quegli incisivi crudeli, ma le mani
stringevano convulsamente due piccole spalle, e lui sapeva che erano
coperte di lentiggini, ricordava di aver inventato delle
costellazioni osservandole, nude, alla luce del sole – ricordava,
oh?, di averle amate.
Sapeva
di essere rosso in viso, accalorato per l’imbarazzo, il caminetto
scoppiettante e i baci avvelenati, e per la vergogna di provare un
immenso piacere. Tutto in lei lo conquistava, il dolore aveva un
sapore - un sapore? - invitante, e l’idea che si mischiassero gli
accese la mente di pensieri vivi come le fiamme. Perché
la parte di me che odio di più, Ginevra, sei tu. Quando
lei scese a mordergli l’incavo del collo Michael sentì la voce
morire – proprio lì, in fondo alla gola; i suoi sentimenti
diventarono una nube indistinta di rabbia e desiderio. Voleva
concedersi quello che si era sempre negato per codardia. Non era
mai stato così facile focalizzare lo sguardo su di lei, piccola
macchia bianca sul suo manto nero. Ginevra lo guardava e i suoi
occhi gli parlavano. Era così triste, arrabbiata e famelica e
appassionata, come non aveva mai avuto il coraggio di
affrontarla. Capiva e sapeva di essere capito senza il bisogno di
una parola. E ora, era chiaro, lei stava per fare qualcosa di
completamente pazzo. Dunque scappa Michael, oppure…
“Sai
cos’è il coraggio, Michael?”
“Gin…”
Ginevra
gli strappò un bacio. Lo tenne per il bavero, senza lasciarli via
di fuga, costringendolo a sbattere il muso contro la realtà, e
mentre lo assaggiava prepotente, premendo il viso contro il suo, si
mischiarono lacrime e sangue, e quel gusto era buono, salato e
metallico. Non aveva idea di quello che stava facendo, era da
tanto tempo che aspettava quell’istante, ma non se l’era
immaginato così cruento. Voleva dolcezza, romanticismo, audacia.
Michael aveva accettato di mischiare la saliva con la sua come un
cucciolo che non sa ancora come reagire, ma che si fida della
madre. Non era quello che voleva. Eppure il cuore le martellava
fino nelle orecchie, perché Michael non l’aveva rifiutata, la sua
lingua le era venuta incontro. Era completamente impazzito. Un attimo
prima era immobile, passivo, pietrificato. Forse aveva solo bisogno
di uno stimolo, o gli era mancato il tempo per respirare.
Gin
aveva accennato a scostarsi, ancora affannata, muta per lo stupore, e
lui lasciò le sue spalle per stringerla e farla cozzare contro di sé
in una stretta mortifera. Se
si potesse essere divorati da uno sguardo…
Gin era lì, sulla bocca del suo stomaco, come il più buono dei
dolciumi, come il più indigesto dei veleni.
Si
era accartocciato su di lei, attorno a lei, l’avvolgeva del tutto
con ogni lembo di pelle libero d’ingombri, scorrendo l'involucro
con le dita, incitandola a fremere di rimando. La paura, la paura…
dov’era andata la paura?
Gin
era calda come la brace, sapeva di casa - lei era
casa; assurdo, vero?, considerando che non ne aveva una; era sua da
sempre – lei, quel tenero fiorire di fiamme e costellazioni, mappa
del suo cielo, passato e presente, paura e desiderio. Gin
no, lei no, non può essere mia. La
paura? Eccola. Infantile, sciocca, lo pietrificava, perché lui
sentiva il cuore piccolo e pesante, e faticava a trattenerlo dallo
scoppiare; si, era convinto che lei non ci sarebbe stata tutta lì
dentro, nel suo petto. Troppa energia in un corpo solo. Troppe
sensazioni per non farlo impazzire.
“Tu…
tu sei sempre stata troppo, per me. Troppo di tutto.” Le mani
corsero a ripulirle le labbra dal suo sudicio sangue. Le dita
premettero sulla cute fino a farla sbiancare, accarezzò il suo viso
lasciando strie arrossate fino alla mandibola. “E io non ho i mezzi
per contenerti.
Non…” esitò, perché era difficile da ammettere. “Io non sono
abbastanza.”
Guardò
con rassegnato divertimento i suoi due moncherini fare capolino fra i
capelli di Gin, mentre giocando a far rifrangere il colore del fuoco
in quel rosso vivo, si beava di quell’accostamento – lui, lei –
così sbagliato, pure così giusto.
“No,
Misha, non è vero…”
Riuscire
a non baciarsi, a non far collimare quelle bocche affamate era
solamente un gioco, lo sapevano entrambi.
“Non
sarò mai in grado di farlo, Gin. Prendere o lasciare.”
L’abisso
sembrava allontanarsi proporzionalmente alla vicinanza con la sua
pelle.
Sentì
le mani di lei cercare le sue, studiarne i polpastrelli secchi e le
unghie morsicate, sfregarle, riconoscerle.
“Credo
che la mia scelta sia chiara, no?” sussurrò con voce roca,
sospirando contro il suo naso. “Prendere.”
29.
“D’accordo,
Harry. Ci divideremo in quattro squadre. Due persone con il mantello
dell’invisibilità andranno alla Gringott, possibilmente non
Daniel. Due resteranno al piano terra dell’Accademia e si
sposteranno su e giù per le scale controllando che non salga
nessuno. Altre due andranno in segreteria, e l’ultima coppia
rimasta andrà nella stanza degli annali.”
Hermione
aveva posato la tazza su una pila di libri con aria pensierosa.
Seamus era più che elettrizzato all’idea di condividere un segreto
di stato;
aveva preso la tazza e l’aveva portata nel lavello di Hermione
senza dire nulla. Quando vide l’aria preoccupata di Hermione
cominciò a scusarsi infinite volte, fino a farla scoppiare dal
ridere per l’imbarazzo e la situazione.
“Ho
fatto un disegno dell’Accademia, non dovrebbe essere così
difficile.” Si intromise Ron per tornare al discorso principale,
mostrandole l’altro lato della pergamena stropicciata che aveva
portato quella mattina al Paiolo Magico.
Hermione
gli lanciò uno sguardo nauseato. Il disegno era graficamente uno
scempio, e Harry che se n’era accorto lo prese di mano all’amico
e finse di studiarlo con grande attenzione.
“Entrate
di servizio qui, qui e qui.” Mormorò. “Bene, ragazzi, è molto
semplice. Direi che Daniel e io andiamo su agli annali, Edwin e Basil
in segreteria, Megan e Adam saranno il diversivo se succede qualcosa
al piano terra e tu, Ron, accompagnerai Hermione alla mia
cassaforte.”
Ci
aveva pensato a lungo, aveva evitato all’amico la vista della sua
fortuna per un sacco di tempo, ma stavolta era diverso, c’era in
gioco un fidanzamento; come altro definirlo? Si sentiva stupido, a
chiamarlo amore
ad alta voce nella sua mente. Quel “fidanzamento” era
amicizia, oltre che amore, e rappresentava un’evoluzione durata ben
sette anni di scuola, più quelli all’Accademia. Non poteva
permettere che si autodistruggessero per chissà quale
sciocchezza. Non si era mai intromesso, aveva accettato di buon
grado il loro rapporto, in nome dell’amicizia. Il trio aveva
retto a questo e altro, nel tempo. Ora, in nome dell’amicizia,
forse aveva fatto la mossa giusta. Forse, soli e nel cuore
dell’azione, con l’adrenalina in corpo, si sarebbero
ritrovati. Harry lo sperava con tutto il cuore.
“E
io?” gemette Seamus, imbronciato.
Dannazione,
se l’era dimenticato. Era talmente assorbito dalla nuvola di
malumore che aleggiava fra di loro che si era dimenticato dell’ultima
novità.
“Che
domande, Seamus.” Disse, tossicchiando per nascondere l’imbarazzo.
“Tu vieni con me e Daniel!”
Hermione
lo frenò.
“Harry,
sei convinto del piano?”
“Certo,
andrà bene. Deve andare bene.” Quel piano, e anche l’altro.
L’importante era ritrovare Ginny e far tornare tutto alla
normalità.
La
normalità. Una bufala, e lui lo sapeva. Ginny era scomparsa,
il vecchio Sinister mentiva, Daniel era nei guai, e lui aveva la
mente travolta da una sfilza infinita di pensieri e sensazioni non
sue che lo annientavano da dentro e gli sfuggivano appena cercava di
focalizzarle. Sapeva che non era stata una grande idea, mettersi
nella squadra più vulnerabile. Ma era davvero la sua? Forse no.
Accidenti, sicuramente, no. Sapeva anche che Seamus era di troppo
nella sua squadra. Avrebbe corso il rischio di metterlo nella
squadra di Ron? E guastare la possibilità che si riconciliasse con
Hermione? Forse rischiavano troppo e avevano almeno bisogno di una
copertura.
“Seamus,
cambio di rotta. Tu dovrai fare qualcosa di molto più importante…”
|
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Capitolo 12 *** Il bacio del serpente ***
Dal
capitolo precedente:
La
normalità.
Una
bufala, e lui lo sapeva. Ginny era scomaprsa, il vecchio Sinister
mentiva. Daniel era nei guai. E lui aveva la mente travolta da una
sfilza infinita di pensieri e sensazioni non sue che lo annientavano
da dentro e gli sfuggivano appena cercava di focalizzarle. Sapeva
che non era stata una grande idea, mettersi nella squadra più
vulnerabile. Ma era davvero la sua? Forse no. Accidenti,
sicuramente, no. Sapeva anche che Seamus era di troppo nella sua
squadra. Avrebbe corso il rischio di metterlo nella squadra di
Ron? E guastare la possibilità che si riconciliasse con
Hermione? Forse rischiavano troppo e avevano almeno bisogno di una
copertura. "Seamus, cambio di rotta. Tu dovrai fare qualcosa
di molto più importante..."
27.
Harry
e il mago francese camminavano con aria sciolta senza parlarsi.
Imboccando la via Babbana in cui si nascondeva l’Accademia Auror,
videro all’entrata Edwin, Basil, e Adam che parlottavano. Adam
fumava, dando una parvenza di banalità al gruppetto; dovevano essere
le otto in punto, perché l’ex Ministro della Magia ora tornato fra
i ranghi Auror, Kinglsey Shacklebolt, passò accanto a loro
salutandoli a malapena.
“Harrì,
grazie davvero. Ci tengo a dirtelo prima di…”
“Cerca
di non dare nell’occhio, qualsiasi cosa accada tu non ne sai nulla,
rigetta tutta la responsabilità su me o qualche altro Auror. Abbiamo
uno statuto speciale, che aumenta con il grado. Megan è il top e ha
la fedina penale pulita. Nel dubbio, è sempre
colpa
di Potter. Intesi?”
“Come
vuoi.” Rispose trafelato, faticando a stare al passo di Harry
malgrado fosse più alto di lui.
“E
non ringraziarci ancora. Non sono sicuro di aver avuto una grande
idea, mandando Seamus con Ron e Hermione.” Ammise Harry, tagliando
il discorso. Erano arrivati.
Finsero
tutti di salutarsi come ogni mattina.
“Megan
è di nuovo da Rexford. Ha detto che ieri quasi lo davano per
spacciato.” Bisbigliò Adam sopra la spalla di Harry, con
indifferenza.
“Mi
dispiace. Pensi di cavartela da solo?”
“Certamente.”
Rispose Adam, sollevando un sopracciglio con aria supponente. “un
diversivo è un diversivo.” disse con aria allusiva, come se fosse
una faccenda banale. “Non prendertela con lei.” Continuò poi,
fingendo di guardare la strada.
“Non
me la sono presa” ribatté Harry, un po’ infastidito dal suo
tono. Intravide l’occhiataccia di Edwin, che allungava il collo
cercando di ascoltarli.
Non
aveva assolutamente idea di che genere di sentimenti legassero i
Senior di Ron, e non gli interessava affatto. Gli bastava
l’adrenalina per quello che stavano per fare, a renderlo matto.
Continuava a controllare di avere la bacchetta e la Mappa del
Malandrino nella tasca posteriore dei pantaloni, e pregava in cuor
suo di non aver lasciato nulla al caso. Sapeva, naturalmente, che
ciò era impossibile. Pensava di non essere mai riuscito a
liberarsi da un’enorme, potente calamita per i guai.
Adam
spense la sigaretta con un colpo di tacco, poi la raccolse e la gettò
nel cestino dell’entrata; sembrava sul punto di dire qualcosa, ma
esitava, come se fosse scomodo, e indubbiamente spinoso da dire.
Trascinò
Harry per la manica a qualche metro dal gruppo, con gran disappunto
di Haroche, che si sentiva particolarmente a disagio con tutti quei
maghi anglofoni.
“Sputa
il rospo, Fullbuster.” esclamò Harry, con l’impazienza tipica
delle situazioni angosciose. Adam si morse il labbro. Poi cedette.
“L’altro
giorno, non era colpa di Rex, era colpa nostra. Megan… Megan non
stava bene, così l’ho accompagnata nel pub di fronte, quello
accanto a Mc Clan. Al nostro ritorno, Rex era a terra, e i due ormai
latitanti. Lei si sente molto in colpa” disse, lasciando intendere
che qualsiasi cosa lei sembrasse provare, per lui non era affatto
condivisibile. “Hanno trovato traccia di così tanti incantesimi su
Rex che non sono ancora riusciti a definirli tutti. C’è un reparto
intero di Medimaghi che se ne sta occupando, sai.”
“Non
importa, faremo senza di lei.” Concluse Harry, determinato. Gli
toccò appena la spalla, lasciandogli intendere che era il momento di
mettere da parte le preoccupazioni per la sua amica.
“Certo,
certo. Solo, non pensare male di noi. Né di Rex.”
Harry
non rispose. Giudicarli era l’ultimo dei suoi pensieri.
Entrarono
nell’Atrium della loro scuola, disordinati ma compatti; il custode
dell’edificio non alzò nemmeno lo sguardo, li lasciò firmare
nella lista delle presenze – “bisogna avere un permesso speciale
per entrare qui dentro” spiegò Harry a Daniel mentre gli
affibbiava una Toppa Adesiva sul petto: Daniel
Haroche, ospite dell’Accademia Auror di Londra.
Harry
sperò in cuor suo di non essersi preso un granchio; aveva riflettuto
all’idea di farlo entrare con una Polisucco, ma avevano deciso di
tenere le scorte private di Hermione in caso di emergenza alla
Gringott. Nonostante la tensione si divisero rapidamente ed
efficacemente in tre gruppi; non si salutarono; presto l’Atrium
risuonò dei passi che si allontanavano in tutte le direzioni, e il
nuovo, ricomposto esercito di Silente s’insinuò nei lunghi
corridoi muffiti per completare la sua missione: rubare informazioni,
frugando in reparti proibiti, e anche combattere, se necessario, in
nome della verità.
Harry
e Daniel raggiunsero rapidamente il Reparto degli Annali
attraversarono il dipartimento degli insegnanti senza incrociare
nessuno. Appena prima che il corridoio finisse, per poco non
sobbalzarono imbattendosi nientemeno che nel capo di Harry, Dawlish;
lui scosse la testa in segno di rimprovero alla vista di Daniel, ma
tornò nel suo ufficio rapidamente fingendo un improvviso interesse
per la posta appena recapitata da un grosso barbagianni. Harry, un
po’ turbato, si riscosse dai suoi pensieri abbastanza rapidamente e
costrinse Daniel a seguirlo. Il francese lanciò una lunga occhiata
dietro di loro, per accertarsi che nessuno, a parte Dawlish e il suo
barbagianni li avesse visti entrare. Dietro a una porta molto
semplice, munita di persiane, si apriva un dedalo di scaffali
ricoperti di scartoffie. Harry spinse dentro Daniel e chiuse la
porta dietro di sé, sigillandola con un incantesimo temporaneo. Fino
a quel momento era andato tutto fin troppo bene.
“Harrì,
sembra che quelli più recenti siano là in fondo.” Disse Daniel,
indicando un’insegna sbilenca che aleggiava appena sotto al
soffitto, con numerose frecce indicative di annate diverse che si
intercalavano caoticamente. A Harry parve quasi di essere tornato a
scuola.
“Andiamo”
annuì lui in tutta risposta.
Erano
ormai a metà della via principale fra i vari scaffali, quando si
ritrovarono immobilizzati, i movimenti e le espressioni del viso
congelate prima ancora di poter esprimere stupore, la bacchetta
inutilmente appoggiata nella tasca posteriore dei pantaloni.
“Voi
non andate da nessuna parte.”
Era
stata una ragazza a parlare. Harry avrebbe tanto voluto voltarsi per
poterla guardare in volto, ma riuscì solo a contrarre maggiormente
la mascella, facendo stridere i denti. Daniel accanto a lui non emise
alcun suono.
“State
pure tranquilli, è temporaneo.”
Harry
si ritrovò davanti un mago giovane e allampanato che doveva aver
frequentato Hogwarts con lui. Improvvisamente capì tutto. Lui
doveva essere quel Serpeverde, di cui non ricordava il nome, che Ron
teneva sotto controllo da qualche tempo. E quella voce femminile?
“Non
c’era davvero bisogno di questi due. Ora che facciamo, Daphne?”
Quella
Daphne? Daphne Greengrass? La sorella della fidanzata attuale di –
ugh,
lo sapevano tutti i lettori della Gazzetta del Profeta, grazie alle
foto ufficiali dell’incombente matrimonio – Malfoy?
Harry
non ci voleva credere, era tutto troppo insensato.
“Niente,
Theo. Ho quasi finito, aspetta e vedrai.”
Harry
pensò che quel Theo, malgrado tutto, avesse un’aria estremamente
umana mentre guardava la ragazza alle loro spalle. Si meravigliò
nel riuscire a leggere nei suoi occhi acquosi, nelle sue labbra
carnose rivolte all’ingiù, e in quegli zigomi sporgenti,
un’espressione che spesso aveva visto in faccia a Ron quando
Hermione voleva assolutamente fare di testa sua.
“Allora
fai. Li tengo d’occhio io.”
I
ragazzi sentirono i passi di lei allontanarsi, e cercarono nuovamente
di liberarsi dall’incantesimo.
“Allora,
Potter, come butta?” sussurrò il mago a pochi passi da lui,
rianimando la rabbia di Harry, spingendolo a infiammarsi i nervi
nella speranza di muovere anche un singolo muscolo.
“Si,
lo so. Non dev’essere stato facile neanche per te. Voglio dire,
basta guardarti per capirlo.”
Harry
sopportò a malapena l’occhiata di biasimo. Sperò che Daniel
non stesse ascoltando, ma si rese conto immediatamente di quanto il
pensiero appena formulato fosse ridicolo.
“Ma
non ti preoccupare, stavolta potrai dire che non è stata colpa tua.”
“Theo,
ce l’ho! L’ho trovato!”
L’ex-Serpeverde
fu raggiunto da un turbine di mantello scuro e capelli biondi, che si
spinse a un piccolo salto per poterlo abbracciare attorno al collo.
Daphne Greengrass stringeva in mano una pergamena curata che Harry
non faticò a identificare come il suo stesso obiettivo.
“Te
l’avevo detto, che l’avremmo trovato.”
“Theodore
Nott, voglio che sia tu a leggerlo! Avanti” e gli porse la
pergamena.
In
seguito, successero molte cose contemporaneamente.
Harry
sentì di aver riacquistato la capacità di movimento, e prima di
poter sfoderare la bacchetta contro Nott – ora ricordava il suo
nome, suo padre era nella lista dei Mangiamorte dell’Ordine - sentì
una folata sferzargli il viso. Con un incantesimo abbastanza
distruttivo, Daniel Haroche aveva mandato a gambe all’aria i due
maghi senza ferirli, riuscendo però a coglierli di sorpresa, e si
era lanciato verso di loro con una velocità inaudita. Harry
rimasto interdetto si accontentò di osservare la scena, puntando
prontamente la bacchetta verso gli ex-Serpeverde non appena la
pergamena finì nelle mani del suo compagno.
“Volevate
pararvi il culo, ammettetelo.” Cominciò, ringhiando, sentendo la
rabbia crescere ulteriormente in lui.
“Non
fare mosse false, Potter.” Lo minacciò il ragazzo, che aveva
puntato la sua bacchetta verso Harry e sembrava non riuscire a
trattenere i suoi poteri: degli sprizzi verdastri e luminosi
scoppiettavano dalla punta come se lui fosse sul punto di
esplodere. Harry cominciò a indietreggiare, tirando Daniel per il
braccio. Allo stesso tempo, però, non voleva dargliela
vinta. Aveva intenzione di far intervenire Dawlish il più presto
possibile. Ci voleva un diversivo, un modo per distrarli, e
contemporaneamente, ottenere informazioni, senza perdere altro tempo.
“Daniel,
leggimi i nomi.”
“Harrì,
non mi sembra…”
“Daphne
Greengrass, vero?” disse, furente, indicando la ragazza bionda, dai
lineamenti delicati, seminascosta dal mago che la proteggeva. Daniel
abbassò lo sguardo sulla pergamena, poi annuì a Harry che lo
guardava, senza riuscire a dire una parola. La rampolla dei
Greengrass e un figlio di Mangiamorte. L’Accademia Auror doveva
proprio essere caduta in basso, per accettare simile gentaglia fra i
suoi ranghi. A Harry venne in mente il giorno in cui aveva dovuto
fare mille prove per entrare. Per poco non lo rimandavano, ci
aveva messo troppo tempo a risolvere un indovinello, e lo stesso
aveva messo in crisi Ron quando era venuto il suo turno. Possibile
che quei due avessero passato quella infinita batteria di test e
incantesimi senza risultare un minimo fuori luogo? Harry non
ricordava di aver mai visto nelle targhette illustrative degli Auror
del passato un singolo mago proveniente da Serpeverde. Doveva pur
esserci un buon motivo, dannazione.
“Greengrass…”
Harry sembrava sul punto di aggredirli entrambi. Daniel non capiva
come appoggiarlo, cosa avrebbe dovuto fare. Aveva timidamente cercato
di attirare la sua attenzione, ma Harry continuava a fissare la
ragazza in cagnesco.
“Sì,
sono io Potter.” Sibilò lei, con un sorriso fasullo. “Ora, prima
di arrivare a brillanti conclusioni incongrue, continua a far leggere
la lista al tuo merdaservo.”
“Io
non ho nessun… che diavolo hai detto?”
“Daphne
Greengrass, Theodore Nott, Tyler Raeckelboom, Susan Bones, Rexford
Grant, Megan Reeves…”
“Lascia
stare, Daniel, penso che i primi due nomi siano sufficienti.” Lo
fermò Harry, pronto ad aprire la maniglia della porta ormai appena
dietro di lui.
“Complimenti,
Potter, hai proprio fatto centro.”
“STUPEFICIUM”
“EXPELLIARMUS”
Nel
giro di qualche secondo l’intera stanza esplose di incantesimi.
L’impianto elettrico, preso in prestito ai Babbani, era saltato, e
filtrava poca luce dalla porta dietro ai due maghi. Harry pensava
in fretta, ma non capiva cosa potesse essere stato a fare tutto quel
baccano.
“Harry,
li abbiamo presi!”
Lo
raggiunse la voce di Ron, e in un istante tornò la luce: il suo
amico aveva appena richiuso il Deluminatore.
“Harry,
ce l’abbiamo fatta senza problemi, e dato che ero già stato qui a
fare rapporto ho pensato di portare Seamus ed Hermione con una
Materializzazione Congiunta. È tutto al sicuro.” Disse,
avvicinandosi, mantenendo la bacchetta puntata appena dietro di lui,
dove i due ex-Serpeverde giacevano storditi.
Dalle
macerie spuntarono i volti di Hermione e di Seamus, uno vicino
all’altro, lontani dalla bolgia ma abbastanza vicini da poter usare
le bacchette in caso di necessità.
“Non
posso credere che siate arrivati fin qui senza danni.” Esclamò
Harry, esterrefatto.
“Non
posso crederlo nemmeno io.” Ammise Hermione, secca, scrollandosi la
polvere di dosso e incrociando le braccia. “dove sono gli altri?”
“Il
ritrovo non era qui.” Ribatté Harry, inflessibile. “Perché
avete preso questa decisione?”
Li
guardò uno dopo l’altro, ancora scioccato. Ron, che aveva
deciso per tutti, fece spallucce. Era evidente per ognuno di loro,
che senza quell’intervento tempestivo, non avrebbero mai steso i
due colpevoli.
“Dobbiamo
andare, ragazzi. Prima che ci scoprano tutti qui.” Disse allora
Harry, prendendo la pergamena con la lista che gli tendeva Daniel.
“Cosa
facciamo con loro?”
chiese Ron, prima che Hermione potesse parlare. Lei lo guardò in
malo modo, richiudendo la bocca.
“Beh,
li abbiamo beccati a frugare qua dentro per occultare le prove. Più
anti-sgamo di così.” Rispose Harry, grattandosi il mento.
“Ne
sei certo?” irruppe Seamus, avvicinandosi a Harry con aria poco
convinta. Sembrava avesse un’opinione del tutto diversa, e la sua
espressione pacata e riflessiva innervosì più di uno di loro.
“Non
hanno ammesso di averlo fatto, giusto?”
“Cosa
ti aspettavi, Finnegan, un giuramento scritto?” rispose acidamente
Ron.
“Io
dico solo che dovremmo dargli il beneficio del dubbio, prima di
consegnarli al direttore dell’Accademia, o peggio ancora, ad
Azkaban.”
“Le
faranno loro le indagini approfondite, Seamus.” Sentenziò Harry,
che cominciava ad agitarsi e camminava avanti e indietro. Sentiva in
fondo che Seamus aveva ragione, ma dall’alto della sua
inesperienza, e questo gli dava fastidio.
“Per
me Seamus non ha tutti i torti.” Si intromise Hermione,
avvicinandosi ai ragazzi e fermando Harry nella sua camminata nervosa
agguantandolo per il gomito. “Troviamo gli altri, intanto, e
portiamoceli dietro. Hai preso il mantello Harry?”
Harry
era dubbioso, dubbioso e irritato, ma accettò di consegnarle il
Mantello di suo padre; Hermione produsse un Levicorpus e mentre i
corpi inerti dei due maghi si alzavano a mezz’aria, li ricoprì
rendendoli perfettamente invisibili. Si voltò a guardare gli
altri, con un’aria interrogativa.
“Forse
dovremmo ripulire questo disordine.” Disse Ron, cominciando a
puntare la bacchetta sulle macerie. Era stupefacente il fatto che
nessuno fosse entrato per scoprirli. In quel momento però si aprì
la porta, ed entrò Dawlish. Non commentò la quantità di persone
di troppo, in quella stanza, ma Harry sentì il suo sguardo grave
soppesare le conseguenze delle sue scelte. Dopotutto, però, era
stato lui a dargli carta bianca. L’Auror non vide Nott e
Greengrass, e si limitò a parlare ai presenti in tono basso e
preoccupato.
“Ho
incantato la stanza, prima che arrivaste, con degli incantesimi
Insonorizzanti. Vi consiglio di uscire rapidamente prima che io debba
rendere conto ai colleghi della vostra presenza in questo corridoio.”
I
ragazzi uscirono in fila, in primis Hermione, che nascondeva davanti
a sé il Levicorpus e ancora tremava per la paura di essere scoperta.
Harry chiudeva la fila. Dawlish lo fermò.
“Allora,
Potter? Ce l’ha?”
“Sì,
ce l’ho con me. Questa sera le manderò un luogo e un orario per
incontrarci, ora devo andare. Più in fretta facciamo, più in fretta
li prendiamo.”
“Non
erano questi gli accordi. Io volevo che lei mi portasse la lista.”
“E
io non volevo che per l’ennesima volta fosse coinvolto qualcuno a
cui tengo. Eppure hanno in mano Ginny Weasley.” Harry sapeva di
aver usato un asso nella manica. Il mago tergiversò.
“Potter,
le conviene di non fare cose di cui potrebbe pentirsi non solo lei,
ma anche tutta l’Accademia. Intesi, spero.”
“Certamente.
Arrivederci.” Rispose semplicemente Harry, sfoderando il suo
miglior cipiglio di circostanza.
Un
rumore di frastuono li fece voltare simultaneamente verso il fondo
del corridoio. Si scambiarono un tacito sguardo di preoccupazione.
“Vada,
me ne occupo io.” Il vecchio Auror gli lanciò un’ultima occhiata
indagatoria prima di allontanarsi di corsa.
28.
Quando
Megan Reeves varcò l’entrata dell’Ospedale San Mungo, qualche
ora prima, più di un mago alzò la testa e si fermò a contemplarla
nella sua totale e insofferente bellezza anomala. Con quel corsetto
nero e i nastri viola seminascosti dalla veste aveva un aspetto
strano perfino per i maghi. Era graziosa e indisponente, mentre non
risparmiava nessuno del suo sguardo di biasimo. Fece abbassare uno
a uno tutti gli occhi che si erano levati, chi di imbarazzo e chi di
prepotenza. Il rumore dei suoi pesanti anfibi si mischiò al
brusio ospedaliero quando finalmente ebbe raggiunto la reception,
spingendosi nella calca di persone lamentose che aspettavano la loro
consultazione. Sbuffò pesantemente, dando una spinta poderosa a un
mago stizzito che l’aveva urtata per sbaglio al suo passaggio. Lui
si perse in scuse infinite, quando la riconobbe dietro la sua
maschera da bambolina babbana arrabbiata, ma lei tentò di zittirlo
in ogni modo; non era il caso che il mondo intero sapesse che avevano
messo in ginocchio il corpo Auror per l’ennesima volta. Doveva
essere più discreta, la prossima volta.
“Si,
si. Se ne vada. Arrivederci…Oh. Grazie. Pensavo non si sarebbe più
levato di torno.” Disse, inscenando un’aria affabile per niente
convincente con una famiglia numerosa che si era voltata a fissare la
scena, poco più avanti nella sua fila. Qualcun altro si mise a
bisbigliare, esasperando la sua già misera pazienza; essere la
figlia dell’ex Magisterium Reeves, morto durante il colpo di Stato
di qualche anno prima, giustiziato per aver rifiutato la totale
sottomissione ai Mangiamorte, non era divertente. Ancor meno lo
era il fatto che non avesse più parlato con suo padre negli ultimi
mesi prima della sua morte, per cui tutto quel rammarico dimostrato
dalla gente, quei bisbigli concitati attorno a lei, e le infinite
scuse e puntate di dita erano ancora più insulsi alle sue orecchie.
Megan guardò l’ultimo ficcanaso come se fosse una mosca
fastidiosa, e questo bastò a riportare la calma attorno a lei. Aveva
una confezione famiglia di cioccorane stretta in mano e la Gazzetta
del Profeta sotto il braccio; guardava con impazienza la lunga fila
che l’aspettava per chiedere il permesso di rendere visita al suo
compagno di squadriglia. Al pensiero le si strinse il cuore, ma
non lo diede a vedere.
Basta,
la misura era colma. Decise che non avrebbe perso altro tempo,
così sgusciò di lato dalla fila che si era già formata dietro di
lei, e guardando a destra e sinistra, con circospezione, scomparve
lungo il corridoio e su per le scale, dove sapeva essere la stanza di
Rex. L’aria vissuta, spaventosa per un
babbano,
di quei corridoi ospedalieri non ingannava i maghi, che sapevano bene
l’importanza del tempo per la potenza della magia. I luoghi più
antichi del mondo erano decisamente i più ricchi e propizi in cui
preparare pozioni o esercitare incantesimi.
Megan
batté le nocche un paio di volte su una porta malandata, la quale
rispose con un rumore pieno, a dimostrazione di quanto in realtà non
lo fosse affatto. Sotto al numero di stanza compariva il suo nome, in
corsivo anticheggiante: Rexford Grant. Megan bussò ancora,
leggermente inquieta.
Quando
capì che la porta era aperta e non presentava più nessun sigillo
magico, irruppe nella stanza e constatò con uno sguardo quanto era
probabilmente accaduto.
Con
l’orrore dipinto sul volto, vide il letto sfatto, il bicchiere di
vetro caduto a terra che prima era appoggiato sul comodino accanto a
una grossa candela giallastra; il cassetto a terra, proveniente dal
comodino, era vuoto, se non per una pergamena vecchia e ripiegata più
volte. Della bacchetta di Rex non c’era più traccia. Chiamò
l’infermiera tramite il campanellino vicino al letto, una, due
volte, trattenendo a stento un sospiro tremante.
“Rex,
cosa ti ho fatto…”
29.
Da
quando avevano smesso di parlare, Michael e Ginny si erano spostati
gradualmente fino alla cucina, in uno strano lento scadenzato, fino a
trovarsi a sbattere contro l’isolotto disordinato dei Lovegood.
Smisero
di baciarsi di malavoglia, si allontanarono in silenzio. Lei tentò
un sorriso incoraggiante.
Trovò
un’aria che non le piacque, ad accoglierla. Michael sembrava
pericolosamente aver perso il senno.
La
studiava assorto, con lo sguardo torbido, passando dalle spalle al
viso, dalle labbra al seno.
Le
raccolse i capelli in una coda, sulla nuca, usando le dita come i
denti di un pettine.
Le
spinse la lingua sui denti fino a farle aprire la bocca, e la
trascinò nel suo piacevole stordimento.
Ginny
cominciò a sentire le fiamme di brividi ardere sotto la pelle,
nessuno l’aveva mai toccata in quel modo.
I
baci di Michael non erano baci, erano morsi e linguate di forza. Era
quasi opprimente, una vera e propria lotta. Stava indietreggiando,
gli sfuggiva, ma lui la raggiungeva sempre e le toglieva il fiato di
nuovo.
Il
ragazzo muoveva la mascella a ritmo di lingua, spalancava la rima
labiale sulla sua e assaporava ogni angolo della sua bocca con una
costanza quasi molesta. Ginny lasciò libera la mente. Il paragone,
la sovrapposizione dell’esperienza tattile presente e passata, il
vecchio Michael e il nuovo, i suoi amori precedenti e ora. La
differenza era lampante e la frastornava. Con lui era tutta un’altra
storia. C’era qualcosa di indomabile e di selvatico, nei suoi
gesti e nei suoi tratti sfigurati dalle cicatrici. E nel modo in cui
infilava le mani sotto ai suoi vestiti, bruscandola. Falso.
Avrebbe preferito dirsi spaventata di quella voracità.
Ora
gli mancavano perfino due dita. Ginny Weasley, la fidanzata
storica del più famoso mago di tutti i tempi… fra le braccia del
suo amico d’infanzia, un precario dai legacci non troppo celati con
la malavita, di cui nemmeno lei avrebbe più dovuto fidarsi. Eppure…
quello che provava per lui era annientante. Come il bianco assoluto,
o il sole di mezzogiorno. La sua rudezza la faceva fremere come se
fosse la più delicata e amorevole delle carezze. Non era Dean,
finalmente.
Non era quel Tassorosso che aveva baciato una volta per sbaglio...
non era niente che potesse ricordare con le mani e niente che potesse
immaginare con la testa.
E
non era Harry. Non c’era nulla che le ricordasse della sua
timida, inglese gentilezza, o della sua calma imperturbabile.
La
premura aveva un altro sapore con Michael, e sapeva di occhiate e
lampi di comprensione, di maglie strattonate, predominio e un rude
riconoscersi nel desiderio dell’altro fra un gesto brusco e
l’altro. Michael accompagnava ogni gesto studiandola, scoprendo
ogni reazione e insistendo con forza ogni volta che la sentiva
sospirare appena. Non avevano fatto altro che baciarsi. Non
avevano bisogno di altro, se non imparare a conoscersi uno nella
bocca dell'altro, avvinghiati come due ragazzini. L'imbarazzo era
vinto. I ricordi non del tutto.
Le
labbra fini di Harry si sovrapponevano con quelle screpolate di
Michael, che le erano sconosciute, turbandola. Era come un brutto
sogno troppo appiccicoso. E quando apriva gli occhi dopo un bacio,
non trovare più il solito verde smeraldo era disarmante, come se
avesse accettato controvoglia di fare un salto nel vuoto.
Quello
che stava facendo era scorretto. Aveva importanza? Era così
appagante, sentire l’oppressione lasciare in pace il suo
cuore. Quel momento così agognato la stupiva e la travolgeva,
come se fosse sul punto di svegliarsi da un momento all’altro. Non
avrebbe mai voluto svegliarsi. Quel momento era già finito, e non si
doveva ripetere. Quella parentesi temporale andava chiusa.
Il
campanello li fece sobbalzare, poi ridere. Era solo un avviso di
Luna, che entrò un attimo dopo appoggiando un cesto all’entrata e
annunciando il suo arrivo. Tutta quella premura li fece sentire
terribilmente in imbarazzo.
Quando
entrò in cucina, la ragazza indugiò a lungo sulle loro dita
intrecciate, sollevò un sopracciglio e fece un mezzo sorriso, come
se niente al mondo potesse stupirla.
“A
che punto siamo?”
“Direi
che siamo a buon punto” rispose Michael, sorprendendole entrambe
con un sorriso timido. "Parlavo anche della torta, Michael."
la semplice osservazione di Luna piazzò un lungo silenzio indigesto
fra i tre maghi.
“Ok,
fine del momento imbarazzante, vi prego.” Disse allora Ginny,
prendendosi la testa fra le mani.
“Io
ehm, vado in camera mia. Devo… devo fare una cosa importante.”
Borbottò Michael, dileguandosi.
Luna
sollevò la torta fra due presine e ne aspirò il profumo con aria
sognante. Appoggiandola sull’isolotto urtò qualche barattolo e
pentolino di rame; si affaccendò subito a cercare un coltello, tre
piatti e tre forchettine da dolce.
“Allora,
Ginny?”
“Beh…
da dove cominciare…”
“L’importante
è che hai le idee chiare. Tu le hai vero? Voglio dire, adesso dovrai
lasciare Harry.” Aveva posto un interrogativo con garbo, ma il
silenzio che seguì la frase diede tutto il tempo necessario a Ginny
per assorbirne l’impatto.
“Che
cosa ho fatto Luna…? Sto mandando all’aria tutto.” Si sfogò,
appoggiando i gomiti sul marmo dell’isolotto, abbassando la voce.
“Se
parli del tuo imminente fidanzamento, direi che hai fatto bene a
mandare in aria tutto. Come pensavi di vivere tutta la vita con un
uomo che non ti interessa?”
“Come
puoi dire una cosa del genere? È spaventoso!”
“Ed
è la verità.”
“Hai
ragione.”
“Lui
non se lo merita.”
“No,
lui merita di meglio, hai ragione.”
“E
anche tu, Ginny.”
“Che
cosa intendi dire?”
“Che
né Michael né Harry ti possono dare quello che stai cercando. Sei
andata a vivere le tue esperienze lontano da tutti, hai seguito una
pista senza chiedere il permesso a nessuno, … hai scelto un modo
curioso per capirti, tutto qui. Ma direi che adesso ci siamo. O
sbaglio?”
“Luna,
non ti seguo.”
“Tu
ti sei imprigionata in una vita che non ti interessa. Ti sei inflitta
degli studi duri e pesanti, lunghissimi, e ti sei adagiata in una
relazione adolescenziale per darti tempo. Solo che a lungo andare,
non ti sei più sentita libera. È brutto non sentirsi liberi.”
La
portata delle sue parole era astronomica. Ginny tentennò sul
posto.
“Io
voglio molto bene a Harry… e voglio diventare un Medimago.”
“Però
ti stai rifugiando nelle braccia di un altro.”
“Michael
è qualcosa che non ho mai capito… credo sia il non
detto,
ad averci portati qui.”
“Oppure
il non
fatto.”
La punzecchiò Luna.
“E
comunque io mi sento libera.”
“Pensaci
bene.”
“E
non cerco niente in Michael che non sia lui stesso.”
“Io
credo che tu abbia bisogno di pensarci su…”
“Luna!”
“Ti
ho detto quello che pensavo e mi fermo qui. Non dovrei interferire,
ma la situazione andava chiarita. Ci tengo molto a te, ma tengo anche
molto a Harry e non voglio che lo prendi in giro.”
“Io…”
stava per reagire male, era pronta, una scheggia. Poi abbassò la
testa. “Hai ragione, Luna. Scusami.”
“Non
ti devi scusare con me.”
“Pensi
che dovrei dirglielo?”
“Penso
che una brutta bugia sia meglio di una orrenda verità. Voglio dire,
io preferirei non saperlo. Non entrare nei dettagli.”
“Non
intendevo farlo.” Rispose lei, mortificata.
“Dove
andrai? Hai già qualche idea? E lui?”
“Io…
non saprei. Penso di tornare a casa. Alla Tana, intendo. Poi penserò
a come spiegare tutto a Harry senza ferirlo e… e poi penserò a
riprendere gli studi, e scusarmi con i miei compagni di viaggio.
Michael… lui dice di non avere una casa fissa. Probabilmente gli
chiederò di stare un po’ al Paiolo Magico, il tempo di chiarire,
sapere almeno dove voglia andare…”
“Vai
a chiamarlo, io preparo il tè.”
Ginny
lasciò la stanza e si sentì come dopo una lunga chiacchierata con
Molly Weasley. Stanca, devastata, sommariamente felice. Bussò
alla stanza di Michael ed entrò subito dopo, spiegandogli
animatamente che Luna aveva già messo la torta nei piatti e
bisognava scendere; sorrideva, ed era serena, voleva sembrare
disinvolta dopo l’imbarazzo di poco prima. Ci mise un attimo di
troppo a realizzare l’aria turbata di Michael. Sembrava averlo
colto in flagrante. Non capiva, era sul letto, leggeva un libro,
non c’era niente che…
Bastò
un’occhiata a riconoscere la calligrafia, le orecchie sugli angoli
delle pergamene, e l’attimo dopo aveva già trovato il suo zaino in
fondo al letto.
“Dammelo.
Subito.”
“Aspetta,
adesso ti spiego. Dovevamo comunque parlarne…”
“Dammelo
Michael.” La sua voce tremava.
Michael
le restituì il diario. Un’ombra di rabbia gli offuscò lo
sguardo. Scuoteva la testa. Il gesto di stizza non le sfuggì.
“Avevamo
appena…”
“Vattene.”
“Ti
prego fammi parlare.”
Ginevra
trovò i suoi pantaloni e la sua maglia logora; gli lanciò addosso i
vestiti, prima accuratamente piegati su una sedia.
“Ho
detto VATTENE, MICHAEL.”
“E
va bene, se non vuoi parlarne sono cavoli tuoi! Lo rimpiangerai, Gin!
Appena sarò uscito di qui!”
“Non
mi interessa!” lo osservò tutto il tempo che gli occorse a
raccogliere i suoi effetti sparsi sul comodino e ai piedi del
letto. Tratteneva le lacrime come un velo, ma non le importava di
non vedere nulla. Trattenerle faceva male, e la faceva sentire
come se stesse facendo la cosa giusta.
“Ti
prego.” Le valigie presto fatte, si era messo sulle spalle la sua
casacca e non si decideva a lasciare l’uscio.
Si
avvicinò furtivamente e le strappò un bacio, rimediando uno
schiaffo. Lui abbassò lo sguardo, non disse nulla. Fine della
parentesi temporale. Lo sapevano entrambi, che era stato sciocco
lasciarsi andare.
“Addio
Michael.” Gli voltò le spalle, incrociando le braccia sul petto.
“Lasciami
almeno spiegare a Luna…”
“Luna
non fa domande. Le spiegherò io. Capirà.”
“Tu
sei ingiusta.” Mormorò lui. “Non sei mai stata onesta. Con me e
anche con te.”
“Come
ti permetti, di dire a me che sono ingiusta?” si voltò
all’improvviso, piangendo.
Fu
come ricevere un secondo schiaffo.
“Io
non volevo farti del male. Scusami. È l’ultima volta che ti
disturbo.” Rispose, grigio in volto.
“Fai
una cosa, Michael. Prendi questo. E sparisci.” Gli scaraventò
addosso il diario.
“Scusa.”
“Prendilo.
Portatelo via. Non lo rileggerò, è già tutto qui dentro” indicò
la sua fronte, aspra “E convivi con i tuoi errori. Io non so più
cosa farmene, Michael.”
Michael
strinse in mano la fodera di cuoio, e sentì il cuore sgretolarsi.
Con le labbra livide, accennò a un ultimo saluto, ma trovò solo uno
sguardo duro, così voltò i tacchi e se ne andò.
Ginevra
si raggomitolò sul letto e chiuse gli occhi. Aveva bisogno di tempo.
Ancora. E ancora…
Quando
Luna salì per cercarla, la trovò addormentata in posizione fetale.
“Cosa
hai combinato stavolta, Ginny?”
___
Note
dell'autrice:
mi dispiace molto di averci messo tanto a scrivere questa parte della
storia, ma non ce la facevo, era un periodo difficile sia perché
dovevo studiare, sia perché dovevo riordinare le idee. Ho cominciato
la stesura dei prossimi due capitoli, vi ringrazio se avete
continuato a seguirmi lo stesso, siete grandi! Spero di non
deludervi. Ormai sento che ho perso le redini dei personaggi.
ChocoCat
|
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Capitolo 13 *** Mezzosangue, prigionieri ed ecchimotici ***
Dal
capitolo precedente:
“Fai
una cosa, Michael. Prendi questo. E sparisci.” Gli scaraventò
addosso il diario.
“Scusa.”
“Prendilo.
Portatelo via. Non lo rileggerò, è già tutto qui dentro” indicò
la sua fronte, aspra “E convivi con i tuoi errori. Io non so più
cosa farmene, Michael.”
Michael
strinse in mano la fodera di cuoio, e sentì il cuore sgretolarsi.
Con le labbra livide, accennò a un ultimo saluto, ma trovò solo uno
sguardo duro, così voltò i tacchi e se ne andò.
Ginevra
si raggomitolò sul letto e chiuse gli occhi. Aveva bisogno di tempo.
Ancora. E ancora…
Quando
Luna salì per cercarla, la trovò addormentata in posizione fetale.
“Cosa
hai combinato stavolta, Ginny?”
30.
“Devo
andare, Luna.”
“Capisco.
È stato un piacere conoscerti, Michael.”
“Dici
davvero?”
“Certo.”
“Sei
una ragazza strana.”
“Me
lo dicono in molti. Alcuni in modo meno lusinghiero.”
“Non
lasciarti condizionare da quello che dicono. Gin ha una buona amica.”
“Grazie.
Sono sicura che riuscirete a parlare con più calma quando avrete
messo a posto il vostro disordine mentale.”
“Non
credo che ci rivedremo più, Luna. Adesso devo andare.”
“E
va bene. Se hai bisogno di qualcosa, sai dove cercarmi. Buona
fortuna, Michael Corner.”
Era
ricominciato tutto d’accapo. Troppo bello per essere vero, Michael.
Non ti illudere, Michael.
Cosa
stai combinando? Cosa credi di fare? Ma lui non aveva voluto
ascoltare la sua coscienza. Ed ecco che era riuscito a ferire Ginny
ancora una volta… e mandare tutto a farsi fottere.
Non
aveva saputo resistere alla curiosità. Ne era malato. È
di lei che sono malato.
Voleva solamente capire…
Meglio.
Giusto.
Andava
bene così.
Non
doveva più dirle che aveva letto il suo diario di nascosto, lei
l’aveva visto con i suoi occhi.
Non
doveva scusarsi, dare spiegazioni, lei gli aveva concesso un
espediente per allontanarsi per sempre dalla sua vita.
Era
stato un bel periodo. Del tutto irreale. Naturalmente.
E
lui comunque non era capace, non si intendeva di quelle cose. Quelle
cose là, insomma.
Le
scintille sempiterne e via dicendo.
Aveva
bisogno di stare da solo, di dipendere solo da se stesso.
Andava
bene così.
Gin
era troppo, la era sempre stata.
Si
era accasciato su una panchina che sembrava messa lì dalla
provvidenza. Era praticamente a metà strada fra la Tana e la dimora
dei Lovegood. Il tomo fra le mani era pesante come un macigno.
Si
decise a Smaterializzarsi. Non poteva aspettare di rimettersi in
sesto, aveva un mucchio di cose da fare.
Prima
di tutto, finire di leggere quel dannato diario.
Arrivato
al Paiolo Magico, ordinò un pasto sostanzioso e terminò i suoi
risparmi. Era quasi pronto.
Sarebbe
stato un gesto estremo, da parte sua, ma era convinto che fosse la
cosa giusta.
Prima,
aveva bisogno di una sferzata, di un po’ di coraggio in vena.
Aprì
lì dove le pagine erano strappate, dove aveva lui stesso ferito di
mano quell’incongruo rilegato pezzo di vita altrui.
Con
il dito seguì la lettura, per apprezzare la ruvidità della carta,
carpire eventuali lacrime, indugi e dissidi di Ginevra. Dopotutto
aveva avuto il permesso, giusto? Ormai, peggio di così.
Era
l’inizio della fine.
Hai
cominciato a passare sempre più tempo con i ragazzi del Quidditch,
con Finnigan, i gemelli, Jordan, e con Macmillan, diamine, che per
altro prima odiavi con tutto te stesso.
Perfino
con Dean Thomas, quando c’era anche lui nel gruppo. Ci eravamo
lasciati da poco, e lui se l’era presa tantissimo. A me non
importava, era fuori discussione passare un altro giorno con lui, con
la tempesta che avevo in cuore.
È
andata così. Vero? La tua versione quale sarebbe? Chissà, non mi
hai dato l’occasione di ascoltarla… ci siamo allontanati un po’
alla volta. Non importa, mi dicevo. Non ha niente a che fare con
quella discussione. Assolutamente, categoricamente NO. Invece
sì. Io
ho cominciato a uscire spesso con Luna nei week end, senza più
parlare di te. Lei non ha commentato, mi è stata accanto e si è
comportata come se quei mesi che ci avevano allontanate non ci
fossero mai stati.
Mi
ha aiutata a distrarmi con ogni sorta di cose, tra cui creature che
non esistono e sette macabre di cui erano zeppi gli articoli del
Cavillo. Nel frattempo, ci vedevamo ogni tanto, io e te. Sempre di
meno da soli, sempre di più con i tuoi amici. Avevo deciso che anche
a me andava bene così, che non soffrivo senza averti accanto. Non
capivo un accidente di quello che mi succedeva e le mie reazioni alle
tue parole erano assurde, sconclusionate.
Una
delle ultime uscite è stata con Padma, la gemella di Calì Patil. Ci
stava spiegando tutto sull’amore e sul sesso – si riteneva
un’esperta, ormai – mentre io e te sorseggiavamo Burrobirra come
due abituati, nascondendo i singhiozzi raschiandoci la gola. Te lo
ricordi? Ci siamo dovuti legare la lingua per non risponderle, con
quell’aria da saputella! Ci ha detto che si vedeva dalle nostre
facce che eravamo ancora “piccoli” per quel genere di cose.
“Obbiettivamente, eh” Aveva aggiunto poi, per non sembrare troppo
scortese. Io e te evitavamo di guardarci, altrimenti Pad avrebbe
capito che la stavamo deliberatamente prendendo in giro. A sedici
anni appena compiuti, raccontava di quanto fosse diventata esperta,
lei, con il suo ragazzo – un mago straniero di cui non abbiamo mai
ben capito l’origine-. Appena se n’è andata, io e te siamo
andati a farci una passeggiata veloce al Lago e abbiamo sputato fuori
ogni pensiero che ci era venuto in mente poco prima e che abbiamo
dovuto trattenere per non insultare il suo orgoglio.
“Io
voglio stare solo con un uomo”
“Credo
che hai ragione. Allo stesso tempo, però, penso che l’esperienza
sia importante.”
“Nessuna
esperienza, solo amore. Non credo che il sesso sia quel genere di
rapporto che ha bisogno di esperienze diverse.”
“Mh”
hai risposto tu, guardando le stelle, con lo sguardo perso di quando
pensi intensamente e chiudi il mondo fuori.
“Dai,
andiamo. Si fa tardi, se ci beccano sono guai”
Poi,
un giorno, ti ho visto uscire dalla sala degli esami per ultimo:
nessuno dei tuoi amici ti aveva aspettato. Io ero rimasta dietro la
porta, indecisa, obbligando Luna ad aspettarti con me.
Quella
gente non ti era amica, e l’idea che tu volessi sostituirmi con
loro m’infuocava.
Ti
odiavo per la tua testardaggine, volevi sempre vedere il meglio delle
persone.
Io,
delusa, maturata ancora acerba, avevo già capito che non bisogna
pretendere più di quanto gli altri possano dare. Qualche settimana
dopo gli esami di fine anno hai chiesto a un po’ di gente di venire
alla Testa di Porco per festeggiare. Eri incazzato nero: solo io ero
disposta a venire. Ma non era abbastanza per te. Non era una bella
occasione da passare insieme. Per te, per la tua felicità, io non
ero più abbastanza.
Si
era fatto giugno, ed era il giorno della partenza. Sapevo già che
non potevamo stare nello stesso vagone, tu avevi deciso di andare con
quei tipi e Luna mi aveva chiesto di raggiungerla con qualche
Corvonero. Appena due mesi prima avremmo fatto di tutto per stare
seduti assieme, isolati dagli altri, a mangiucchiare bastoncini di
liquirizia e raccontarci storie stupide.
Invece
non abbiamo fatto una piega.
Oh,
insomma.
Tu
non hai fatto una piega.
Poco
prima di chiudere i bauli, quella mattina, mi hai dato appuntamento
al Rifugio.
“Mi
mancherai quest’estate”
“Anche
tu, tantissimo, Gin”
“Non
cambiare troppo Misha” dissi, con una punta d’ansia nella voce.
Sapevo
che stavi cambiando, che stavi crescendo. Ti stavi definitivamente
allontanando da me.
“Come?”
hai detto tu, stranito, con un mezzo sorriso, come se scherzassi.
Era
il mio addio, in un certo senso. Avevo afferrato il verso delle cose
prima che precipitassero. Tu invece l’hai percepito come un
inizio. “Così. Me lo sento, mi fa paura. Non voglio perderti.
Sei troppo prezioso.”
Ti
ho stretto più forte fra le braccia e tu, basito, hai ricambiato.
Mi
hai accarezzato i capelli prima di allontanarmi con fermezza.
Sentivo
le lacrime bruciare fra le palpebre ma le ho tenute ben strette.
Se
tu le avessi viste, sarebbe stata la fine quel giorno stesso.
Non
allontanarti da me. Torna da me. Resta
con me.
Ma
tu non hai percepito la mia richiesta, il mio sussurro disperato.
Mi
hai salutato con un sorriso, entusiasta delle esperienze che avresti
potuto intraprendere durante l’estate.
Eri
curioso e spavaldo. Volevi conoscere il mondo. Io avevo paura che
questo ti portasse ad avere bisogno di spazi sempre più ampi, di
legami meno stretti. Sapevo che eri un’anima libera, che non
sopportavi catene, nemmeno fossero d’oro.
Quindi
era in quel momento, che si era perso tutto?
Michael
tentò di risalire a quel periodo con la mente, ma i ricordi si
perdevano.
Per
lui era solo, appunto, un momento. Uno come un altro. Non si era reso
conto del significato delle sue parole.
Non
solo, Gin aveva avuto ragione su tutta la linea. Lui si era
terribilmente arrabbiato, dopo quella frase, per la mancanza di
fiducia, per il desiderio espresso di lei di non vederlo cambiare –
non voleva che crescesse?
Che
maturasse e diventasse una persona migliore? – Michael si riconobbe
nella sua forma più giovane.
Aveva
ragione anche lui, dopotutto. La richiesta di Gin era fuori dalle sue
capacità, anzi era fuori dal mondo.
La
pagina seguente era talmente rovinata che fece fatica a leggerla.
Questione
di nanosecondi. Di un attimo. Cose che non durano. Cose che non hanno
il tempo di succedere in questo insulso lasso di tempo.
Eppure…
come
sarebbe potuta andare altrimenti?
Doveva
succedere qualcosa, dovevamo spezzare il legame malsano che ci
legava, ma nessuno dei due ne avrebbe avuto il coraggio. Io
desideravo il contrario, e tu non volevi ferirmi.
Alla
fine è successo, senza che potessimo controllarlo.
È
stato come un impatto contro un muro di mattoni, tanto brusco da
azzerare il mio impeto all’istante. Mi sembrava che il mondo mi
esplodesse intorno. E poi lava ovunque, addosso a me, pronta a
strapparmi tutto ciò che di prezioso possedevo.
Chiacchieravi
con i ragazzi, c’era Luna accanto a te.
L’ho
abbracciata.
“Com’è
andata l’estate ragazzi?”
“Avete
sentito le notizie?”
“Oggi
pomeriggio abbiamo…”
Ti
ho visto, i tuoi occhi brillanti hanno cercato i miei, al solito.
Hai
sorriso.
Eri
davvero
contento di rivedermi.
“Ciao,
Michael!”
“Ginny,
dio, quanto tempo!”
Con
impeto ho voluto baciarti la guancia.
Tu
forse volevi guardarmi negli occhi un attimo in più.
Questione
di nanosecondi.
Le
tue labbra appoggiate alle mie.
Mi
sei scivolato addosso come un nastro di seta, il tuo odore ha preso
una nota diversa, attraente, e subitamente ho provato vergogna.
Perché
reagisco in questo modo?
Siamo
arrossiti, hai riso, nervoso, allontanandomi; ho letto la scossa nei
tuoi occhi, la tua reazione negativa, quasi ti avessi scoperto a fare
qualcosa che non dovevo vedere. Io, che ero parte dell'istante
presente. Parte di quella... cosa.
Ho
avvertito il gelo farsi strada dentro di me per poi solidificarsi del
tutto attorno al cuore.
Si
è fermata ogni cosa, qualcuno ha premuto il tasto pausa.
Era
solo un errore, una stupidata, qualcosa di insignificante per due
amici.
Ho
rivisto tutta la scena da fuori.
Con
gli occhi socchiusi, però, in quell’attimo avevo potuto vedere ciò
che invece non avevo notato per mesi.
A
Michael cominciò a martellare il cuore. Forte e chiaro. Come allora.
Avevo
la veste sottobraccio e indossavo un maglione di lana grossa rosa
pallido, i jeans stringevano le mie cosce e su di esse tintinnava una
catenella, quella sulla quale portavo la chiave del baule. Le mie
mani strette delicatamente attorno al tuo viso raccoglievano quel
sorriso ancora vivo, ancora mio;
i miei pollici accarezzavano le tue tempie sfiorandole appena, le
altre dita coprivano le tue orecchie scarlatte.
Mi sono avvicinata pericolosamente a te, alla tua guancia,
assaporandone già la liscia tessitura, con un moto di affetto in
gola che spingeva per non essere più represso.
Baciavo
la tua guancia, ma tu inavvertitamente ti sei girato verso di me.
Come
potevo fidarmi di me, di te, in quel momento?
Mi
sembrava di avere la testa per terra e i piedi per aria.
Perché
non ci siamo scostati e non ci abbiamo riso su?
Dev’essere
stata colpa mia. La tua pelle emanava calore, le tue labbra erano
piacevoli, l’imbarazzo dovuto a chissà quale stratagemma inconscio
per farmi sentire sempre come se la mia vita non mi appartenesse.
Rivivo
la sorpresa come singhiozzo. Il diaframma che si contrae per errore.
L’aria che viene aspirata di forza, la saliva che mi strangola.
Non
mi dispiacevi.
Come
se non bastasse, durante il respiro seguente, appena ci siamo
scostati con una rapidità inimmaginabile, il tuo sguardo mi ha
fulminata.
È
stato in quel momento. Mi sono scoperta vulnerabile alla tua persona,
come avessi perso la mia conchiglia protettiva.
Niente
più scudo, niente più amicizia.
È
bastato un finto bacio per mettere a nudo i miei sentimenti. Io ti
desideravo.
Il
mio corpo si ribellava alla mia mente. Il tuo sguardo invece si
rivoltava contro il mio.
Il
mio cuore palpitava, piangeva, urlava, e il tuo si tappava le
orecchie, abbassava lo sguardo, e si voltava definitivamente per
guardare altrove.
Un
confronto muto.
Tu
hai percepito il fremito che mi animava, le fantasticherie dietro al
mio sguardo, fra le pieghe attorno alla mia bocca, e ne sei rimasto
vivacemente scottato.
Non
era quello che volevi.
E,
più di tutto, ti mandava in bestia il fatto che per me non fosse lo
stesso.
Non
era quello che mi aspettavo.
E,
più di tutto, desideravo che reagissi diversamente.
Me
ne sono andata, con il cuore spezzato, senza spiccicare parola. Tu
non mi hai preso per mano, non mi hai fermata, e sei scappato via,
lasciando gli amici ammutoliti dalla scena senza spiegazioni.
Non
ci siamo più parlati per una settimana.
Ricordo
di aver pianto a lungo, senza sapermi spiegare perché. Fiumi di
lacrime. Peggio di qualsiasi peggior momento. Come quando da bambino
scoppi a piangere nel cuore della notte, perché sei sveglio.
Non
volevo capire i miei sentimenti.
Non
potevo assecondarli.
Come
potevo sentirmi rifiutata per un semplice sguardo? Per una tua
reazione muta e irrazionale?
Invece
è andata proprio così.
Esistono
fiori, su questo pianeta, capaci di sbocciare e morire nell’arco di
un giorno.
Ho
scoperto di amarti allo stesso istante in cui ho capito che tu non mi
amavi.
Di
quel tipo di fiore era il nostro legame. Avrei dovuto capirlo prima,
ma… ero cieca.
Non
avevo visto arrivare nulla.
Michael
fu travolto dai ricordi.
Quel
maglione rosa… la catenella con cui giocava sempre… quel giorno
Ginny aveva i boccoli.
Lui
era tornato cresciuto, segnato dall’estate, con qualche lentiggine
in più e la consapevolezza di apprezzarsi in un altro modo.
E
lei… lei non l’aveva accettato, cazzo!
Voleva
il vecchio Michael, o forse il Michael che lei sperava che lui fosse.
Forse
non era mai stato quello che lei voleva… forse si erano solo
illusi.
Ma
l’amicizia, fra ragazzo e ragazza, esiste poi davvero?
Aveva
cercato di reprimerli, quei ricordi, perché portavano un malessere
che non voleva sentire una seconda volta. Provare quell’imbarazzo
infantile dopo i vent’anni era ridicolo. Esistono
fiori…
forse aveva ragione lei. Non su tutta la linea, certo. Finalmente
aveva ammesso con se stesso che aveva sempre provato qualcosa di più
per lei. Amore era una parola grossa. Però, accidenti.
Di
quel tipo di fiore era il nostro legame.
Era
tutto riassunto lì.
Il
passato e il presente, anch’esso appena divenuto passato.
Addio,
Michael.
E
forse, forse stavolta lei non l’avrebbe più voluto indietro.
Michael si strinse le spalle nella casacca, pervaso da un’improvvisa
sensazione di freddo e solitudine.
Nemmeno
lui aveva dimenticato la sensazione delle labbra di Gin. Quel bacio
frettolosamente cancellato, raschiato via dal suo passato, dichiarato
colpevole e processato senza possibilità di appello, era stato un
piccolo campanello d’allarme che avevano entrambi volutamente
ignorato.
O
forse solamente lui.
Lei,
forse lei si era aspettata qualcosa da parte sua.
31.
Il
ragazzo venne sospinto nello studio prima di poter reagire. Non
capiva chi lo avesse trascinato, nel dubbio tirava calci e pugni
nell’aria. Si agitava e scalpitava, in preda alla follia. Lo
obbligarono a stare seduto, prima con le buone, poi con la forza.
L’Auror gli porse un bicchiere d’acqua, e lui lo bevve tutto d’un
fiato, sbavando e sputando; era uno spettacolo penoso.
“Loro…
non capite… no! …erano come loro.
I mantelli e le maschere erano i loro…”
“Chi?
Grant, parla! CHI?”
“Stia
calma, Reeves, o dovrò mandarla fuori dai piedi.” Tuonò
Shacklebolt. “Calma, ragazzo. Li tenevi in pugno, giusto?”
“Noi…
noi li tenevamo, sì… Potter era andato via… io… forse sono un
po’ confuso” ansimava pesantemente, ogni tanto sputava nel
bicchiere. Insieme al catarro, c’erano delle macchie di sangue, ed
erano viola. “Io sento che mi hanno fatto bere qualcosa…”
“Grant,
lei era al San Mungo fino a stamattina. In prognosi riservata! Cosa
lo ha spinto a venire qui?”
“Io…
non lo so, io… ricordo di essere stato male… seguivo soltanto la
voce.”
“Quale
voce?! QUALE?”
“Non…
non lo so, signore! Io ero a Diagon Alley… Meg tu stavi male… mi
hanno sorpreso… fuggiti! E poi sono arrivati loro… Avevano i
mantelli bianchi… vernice… maschere argentate… hanno cercato di
aiutarmi… no, è impossibile. Devo averlo sognato? Merlino, non
capisco… non capisco più niente… cosa mi hanno fatto? Signore,
risponda…”
Rexford
Grant scoppiò in lacrime, ebbe un conato e Megan Reeves si precipitò
a sostenergli la fronte. L’odore che emanava era nauseante.
“Non
credo che sia tutta fuffa, signore.”
“Non
lo credo nemmeno io. E quest’odore… non bisogna essere un
Medimago per capirlo. Qualcuno le ha manomesso il cervello –
Merlino
mi perdoni
–, signor Grant, e anche il fegato”
Il
ragazzo sollevò la testa a fatica, aveva gli occhi iniettati di
sangue e le guance rigate. Megan si precipitò ad asciugargli le
labbra con la manica della veste.
“Non
è possibile… non può essere tornato, vero? Io… li ho visti…
mantelli bianchi… c’era anche un altro, ma… no, non vedo la sua
faccia, non me la ricordo. Lui c’era ma non me lo ricordo. No, non
ricordo! Non ricordo…”
“Di
chi diavolo sta parlando?”
“Mangiamorte.
Bianchi... a Diagon Alley.”
Megan
scambiò un’occhiata ansiosa con l’Auror. Rexford svenne,
rilassandosi fra le sue braccia con tutto il suo peso, e lei faticò
a rimetterlo malamente sulla sedia. Gli teneva le spalle per non
farle cadere, ma la testa del ragazzo le ciondolava fra le braccia.
Era imbrattato, malamente vestito, in uno stato pietoso.
Sembrava
un pazzo fuggito dal reparto Malati Mentali del San Mungo, e non più
un fiore all’occhiello dell’Accademia. L’Auror distolse lo
sguardo.
“Cosa
gli hanno fatto?”
La
determinazione vacillò appena.
“Lo
scopriremo presto. Adesso troviamo un modo di spostarlo da qui.”
“Come
ha intenzione di spiegare la sua uscita dall’ospedale? Il nostro
Senior…”
“Lasci
perdere i ranghi, Reeves. Stavolta dobbiamo cavarcela da soli. Ho
appuntamento con Potter stasera, sento di potermi fidare abbastanza
da rivelarle le mie intenzioni. Ha rubato il rapporto sull’incidente
di Grant e l’incendio di Magie Sinister per me. Intendo scoprire
chi ci abbia traditi.”
“Mangiamorte
bianchi, signore. Ha sentito? Chi può essere così folle da…?”
“Ne
parliamo dopo. Lo sollevi dalle braccia. Dobbiamo spostarlo, presto.”
“Spostare
chi?”
Entrò
un uomo, alto, magro, con i capelli bianchi e corti, l’aria
composta, moderatamente sontuosa.
Megan
lo riconobbe immediatamente, per i tratti in comune con il nipote
Edwin. Il naso, la fronte, o giù di lì. Ma ne conosceva anche il
nome. Era un pezzo grosso. Era il discendente diretto di uno dei due
fondatori dell’Accademia. Isaurus Coulter, un nome, una stirpe.
Auror di padre in figlio, da generazioni. Mai neanche un passo di
traverso, tutti dei dritti.
Alla sua età doveva essere in pensione, invece comandava ancora a
bacchetta l’intera Accademia. E ficcava il naso, naturalmente, se
fiutava qualcosa. Era particolarmente portato.
Ma
come faceva ad essere così magro e stare in piedi? Anzi, a
minacciarli addirittura, con le braccia conserte?
Li
guardò e si chiuse la porta dietro alle spalle.
Sentirono
la serratura scattare al suo tocco magico.
Erano
imprigionati.
“Signor
Coulter, il ragazzo si è sentito male, lasci che lo portiamo in
infermeria, noi…”
“L’ho
visto entrare poco fa. Aveva un’aria strana. Quel ragazzo non è a
posto. Cosa gli è successo?”
“È
svenuto, noi…”
“Zitta,
Reeves. Chi le ha dato il permesso?” sprezzante, il vegliardo.
Aveva
tutta l’aria di uno che non amava essere preso per i fondelli.
“Mi
scusi.”
“Avanti,
Shacklebolt. Parla. So che mi nascondi qualcosa, è da una settimana
che ti vedo agitarti alla tua scrivania.”
“Sono
preoccupato per le faccende dell’Accademia, come tutti. Tagliamo
corto, oppure lascia che Reeves si occupi del ragazzo. È da incivili
non soccorrere qualcuno in difficoltà.”
Le
diede una spinta, e lei non se lo fece ripetere. Si caricò l’amico
sulle spalle e si avvicinò alla porta. Il signor Coulter non si
scostò.
“Dove
crede di andare? Non ho finito. Hai sentito, Shacklebolt? Io so che
qualcuno è entrato nella stanza degli annali. Tu, che cosa ne sai?”
“Io
so solo che è successo qualcosa di grave, in seno all’Accademia,
e..”
“Fesserie.
Stupidaggini. Balle.
Non mi prenda in giro-”
“È
colpa mia, signor Coulter. Sono stata io.”
I
due uomini si voltarono verso la ragazza.
Capelli
tinti. Rossetto acceso. Occhi di ghiaccio.
Sconvolta
e risoluta.
I
conati del signor Grant spalmati sulla veste.
Lungo
le braccia tremori per lo sforzo del peso morto sulle spalle.
“Volevo
scoprire chi ci ha tradito. Giuro che vi spiegherò tutto, ma prima
posso occuparmi del signor Grant? Vi
prego.”
32.
“Si
stanno svegliando.”
“Era
ora.”
“Avanti,
stronzi.”
“Ron,
chiudi quella bocca.”
Ron
si voltò di scatto. Era l’ennesima frecciatina di Hermione. La
classica goccia che fa traboccare il vaso. Diede un calcio alla sedia
più vicina e si allontanò inviperito. Seamus, più calmo, si
avvicinò ai due ragazzi legati e imbavagliati e si sedette di fronte
a loro. Hermione, in piedi, teneva la bacchetta puntata. C’era una
risolutezza, nel suo sguardo, che avrebbe potuto spaventare i suoi
stessi amici. Con un incantesimo li liberò dal bavaglio.
“Era
ora, mezzosangue.”
Seamus
dovette alzarsi per fermare la furia di Ron. Si avvicinò al suo
orecchio, mentre lo costringeva a sedersi.
“Stai
calmo, amico. Per
favore.”
“Che
succede? Non c’è il vostro capo e non sapete più come
comportarvi?” sentenzioso, Nott.
“Harry
sta andando a denunciarvi.” sibilò Hermione.
“Che
buona idea. Tipico Potter.”
Daphne
Greengrass scambiò un’occhiata eloquente con la sua controparte
femminile. Hermione non batté ciglio. Seamus invece rifletteva
con un’espressione strana in volto.
Hermione
gli lanciò qualche breve occhiata, ma non ricevette risposta.
Il
ragazzo, Nott, sembrava giudicarla con lo sguardo. Non appena accennò
a parlare, sulle sue labbra si disegnò un ghigno beffardo.
“Già,
se solo voi non foste una manica di perfetti idioti.”
“Quante
volte devo dirti di stare zitto?” urlando, Ron.
“Weasley
chiudi il becco. Mi par di capire che tu non abbia voce in capitolo.”
“A
me pare di capire invece che voi siete qui e noi siamo in netta
maggioranza anche senza capo.
Perché non ci spiegate cosa ci facevate nella stanza degli annali
oggi pomeriggio?” controbatté Hermione.
“Tu
non c’entri.”
Liquidata.
Hermione boccheggiò, ma si riprese subito.
“Tutti
c’entriamo. È scomparsa la sorella di Ronald e la mia più grande
amica, quella sera. Noi dobbiamo sapere.”
“Mi
dispiace, avete toppato.” Sentenziò la ragazza. Aveva una
pronuncia piuttosto schietta, difficile da dimenticare, e quel tono
di voce da strega borghese di alto rango.
“Come
sarebbe a dire, ‘toppato’?”
La
rampolla dei Greengrass si chiuse ermeticamente, e così fece il suo
fedele accolita.
Non
ci fu verso di farli parlare. Sconfitti, si limitarono a chiuderli
in cucina. Hermione sigillò la stanza; teneva in mano le bacchette
dei due maghi. Seamus, seduto fino a quel momento sul divano sfondato
di Harry, si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro.
“Potremmo
aver sbagliato bersaglio.”
“Sono
sulla lista, Seamus.” Ribadì Hermione.
“Perché
non parlano, se non sono colpevoli?” si intromise Ron. Era riuscito
a calmarsi. Lo sguardo di scusa che rivolse a Hermione fu del tutto
inutile; incassò il colpo e abbassò il capo; c’era ben altro di
cui preoccuparsi.
“Perché
nascondono qualcosa o qualcuno.”
“Sì,
ma cosa? Sono dei futuri Auror come noi. Non possono essere…”
“Certo
che possono, Seamus.”
“E
perché invece non vogliamo dar loro una possibilità? Per me non
sono colpevoli. Guarda come ci prendono in giro. Bluffano. Ridono.
Ridono di noi!”
“Forse
perché sono delle viscide serpi.” Borbottò Ron, accasciatosi sul
divano, giocherellando con la bacchetta fra le dita.
“Forse
hai ragione, Seamus. Forse Bluffano e nascondono qualcosa. Però non
possiamo negarlo. I loro nomi sono sulla lista. Se non ci danno una
buona spiegazione… voglio dire dai, che probabilità vuoi che ci
sia di averli trovati casualmente al deposito dei documenti?
Impossibile, non possiamo escluderli. Colpevoli o meno, sono
coinvolti, è poco ma sicuro.” disse Hermione.
“Io
torno a controllarli. Non si sa mai.” Intervenne Ron, e così
dicendo eseguì, chiudendosi la porta alle spalle. Hermione e Seamus
si scambiarono un lungo sguardo.
“Io
sono d’accordo con te Seamus.” Sussurrò. “Ma dobbiamo
aspettare Harry. Finché Shacklebolt non gli dice cosa fare…”
Seamus
si alzò e si sedette più volte.
“Per
me abbiamo fatto un grave errore a imprigionarli. E se sono
innocenti? Potrebbero denunciarci! E Shacklebolt non sa niente
di questa parte del piano.”
Hermione
non rispose.
“Non
ho aspettato mesi, anni, perché tutto questo mi rovinasse la vita
definitivamente…”
“Come,
scusa?”
“Hermione…
io non sono come Harry o Ronald. Sono entrato dopo. Uno scartino.
Mi ci hanno infilato di forza, nel gruppo, e per una situazione di
emergenza. Non è nemmeno detto che io rimanga! Non servo a niente. E
non ho la protezione e la benevolenza di tutti per aver salvato il
mondo magico. Mi capisci?”
“Rischiamo
tutti allo stesso modo, se ti può consolare.” Rispose lei, con un
sospiro. “Ad ogni modo, si vede che un Auror in più non poteva
fare male.”
“Non
mi devi consolare. L’ho scelto io di accettare il posto.” Le
strinse la mano.
Hermione
alzò lo sguardo nel suo.
Era
sempre stato, oltre che un maldestro, un ragazzo tutto sommato
immaturo. Aveva litigato con tutti ai tempi del quinto anno per la
faccenda di Harry e del Profeta.
Doveva essere cambiato moltissimo negli anni del dopoguerra. Era
anche diventato sommariamente carino. Per creare tutta quella
massa muscolare doveva aver lavorato parecchi anni di fila; a un
corpo mingherlino non basta la buona volontà.
Hermione
esitò a lungo, sul suo volto, per studiarlo.
Mezzosangue.
Come lei.
“Se
hanno scoperto dei traditori, e stanne certo, li acciufferanno,
avranno bisogno di te. Forse non adesso, ma poi, dopo.”
E
detto questo, si alzò e raggiunse Ron e i due prigionieri.
Seamus
la guardò andarsene. Sentì che la Granger era proprio una dritta.
Anzi, una santa. Ad ogni modo, fu riscosso dai suoi pensieri, perché
il caminetto di Harry si stava illuminando di polveri e lingue
infuocate. La stanza intera divenne verde.
Tossendo
e incespicando, ne uscì Megan Reeves, con un ragazzo sulle spalle.
“Presto,
aiutami.”
“Da
dove arrivate?”
La
aiutò subito ad adagiare il corpo inerme sul divano.
“Direttamente
dall’ufficio di Shacklebolt. Non avevo idea di dove partire e dove
andare. In infermeria lo avrebbero riportato al San Mungo. Così sono
venuta qui. C’è Harry?”
“Harry
è appena andato all’Accademia.” Con tono di scusa.
“Come
sarebbe a dire?”
“Per
la lista. Aveva un accordo.”
“Gli
altri?”
“Sono
di là, con i prigionieri.”
Megan
intuì il disaccordo nel suo tono. Prigionieri? Chi? Da quando si
faceva giustizia in casa?
“Siamo
allo sbaraglio. Rex è ferito, credo abbia la vescica biliare
distrutta dai farmaci, e temo che lo sforzo per venire fino a qui le
abbia dato il colpo di grazia. Ha un’emorragia interna grave.”
“Farmaci?
Vado a chiamare Hermione.”
Hermione,
con l’intero armadietto da pozionista di Harry (di Ginny, per la
precisione) in braccio, li raggiunse, e al seguito c’era Ron che si
trascinava dietro minaccia i due ex Serpeverde. Quando videro chi si
prodigava attorno al divano, impallidirono.
“Voi?”
“Reeves,
ti facevo più sveglia. Allearsi con Potter e i suoi amichetti…”
la rimbrottò Greengrass.
“Io
non c’entro niente con questa faccenda.” Sbottò lei. “Ma Rex è
rimasto ferito. Aiutatemi, per favore.”
Loro
indietreggiarono, fino a cozzare contro il muro, con gli occhi
sbarrati.
Qualche
ninnolo cadde dal caminetto.
Nessuno
ci fece caso. Ron teneva ancora la bacchetta puntata su di loro.
Era distratto, però, dalla scena che aveva davanti. Lì, su quel
divano, c’era quello stronzo di Rexford.
Quante
volte l’aveva preso in giro.
Quante
volte lo aveva trattato come un Elfo Domestico.
Era
più morto che vivo, verdognolo, con ecchimosi violacee sparse sul
viso e sul collo. E anche sulle braccia, ripiegate sul petto, come se
dormisse.
Megan
coprì la vista chinandosi sul ragazzo e Ron si sentì meglio.
Se
fosse svenuto anche lui, sarebbe stato un bel guaio.
“Sta
molto male.” Disse solo la ragazza, con un tono che capirono tutti
nella stanza. Non c’era altro da aggiungere.
Gli
tolse la camicia da ospedale e gliela appallottolò sul ventre, per
pudore.
Si
alzò e guardandosi attorno, per studiare i suoi compagni, sguainò
la bacchetta.
“Qualcuno
di voi sa qualcosa di magia medica avanzata? Altrimenti faccio la
prima cosa che ci hanno insegnato al nostro corso – una semplice
infarinatura. Ma ho paura che non sia abbastanza.”
“Io.”
Disse solo Hermione. “Ho letto molti libri di interventistica. Per…
non si sa mai.”
“Hermione,
sei sicura?”
“Ron,
ti prego, lasciami in pace. So quello che faccio.”
“Non
è Harry, e non sono io. Se succede qualcosa…”
“Potrebbe
non perdonarmi? Dai, per favore, levati.”
“Cosa
hai intenzione di fare?”
“Un
Emendo
specifico.”
“E
ti sembra una buona idea?”
“Ne
hai una migliore, RONALD?”
Il
tono di voce acuto zittì tutti quanti. La mano della bacchetta di
Ron tremava violentemente.
Un
tremore parkinsoniano. Con le labbra strette, ceree, con rispose.
Hermione
aveva cominciato. Nessuno carpì il significato dell’incantesimo.
Di certo non era solo
un Emendo specifico.
Osservarono le macchie scomparire, la pelle diventare bianca,
trasparente, e poi grigia.
“Tu
dovevi fare il Medimago.” Sussurrò Seamus, estasiato.
Ronald
lo fulminò.
“Ginevra
è un Medimago. Se lei
fosse
qui…” Ma no, lei non c’era. “Mi dispiace.” Si zittì
subito, avvilito.
“Seamus,
andresti a prendere dei vestiti di Harry per questo ragazzo?”
“Io
non ho idea… indicami…”
“Ci
vado io.” Disse Ron.
E
successe. Aveva scostato la bacchetta un secondo. Solamente un
secondo.
L’esplosione
nel camino fece voltare tutti, compresa Hermione, che teneva ancora
le mani alzate sul corpo inerme. Erano fuggiti. Con la metropolvere
di Harry. Andati.
Era
finita lì.
Così.
Ron
si guardò attorno. Sentì sguardi malevoli, rimprovero, freddezza.
Lui non era all’altezza. Non lo era mai stato giusto? Bene.
Non
disse niente. Andò e tornò con i vestiti. Scelse quelli vecchi,
vecchissimi, in fondo all’armadio. Erano di Dudley, ancora. Lui lo
sapeva. Sapeva tutto. Non era uno stupido.
Sapeva
che stava per essere massacrato.
E
invece silenzio.
Nessuno
lo aggredì.
Fu
quasi peggio.
Il
senso di colpa. Il senso di colpa…
“È
un ragazzo bellissimo.”
“Sì.”
“Si
riprenderà.”
“Sì.”
“Eravate
amici?”
“Sì.”
Hermione
smise di fare domande. La ragazza che aveva accanto per certi versi
la intimoriva, ma in quel momento aveva occhi solo per il corpo
pallido infagottato negli abiti smessi di Harry Potter.
Era
vero, era bellissimo. Lo sarebbe stato ancora, Hermione ne era certa.
Ma il trauma vissuto, la paura della perdita, era ancora tutto così
fresco in lei che non provò rancore e non si spazientì con Megan
nonostante il comportamento ermetico. Non l’aveva ringraziata. O
meglio, non a voce. Sentì, a modo suo, che il semplice sopportare la
sua presenza e le sue domande era una forma di ringraziamento.
Guardò
ancora il ragazzo mangiato dal veleno. Aveva dei capelli biondi e
sapientemente spettinati, il viso squadrato, le labbra sottili e le
orecchio un po’ a sventola.
Qualche
lentiggine sparsa. Qualche cicatrice. Niente di che. Era
un ragazzo bellissimo.
“Era
sotto Imperius.” Disse, quasi senza accorgersene.
Voleva
condividere quell’informazione senza il parere di Harry? Non ci si
disabitua facilmente da certe abitudini. E lei era abituata, ad
aspettare il suo parere. Gli occhi di Megan erano pozzi neri, di
ghiaccio, sì, ma erano neri. Non aveva resistito. Voleva aiutarla. A
capire, a sopportare, a inquadrare… a vendicarsi?
“Ne
sei sicura?”
“Sì.”
“Conosci
l’incantesimo per-”
“Sì.”
“E
allora facciamolo.”
“Aspettiamo
Harry. Ti prego. Saperlo ora o stasera non cambierà niente.”
“Aspettiamo
Harry, allora.”
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Capitolo 14 *** Di Amore, libero, e Barbablù ***
Dal
capitolo precedente:
“Era
sotto Imperius.” Disse, quasi senza accorgersene.
Voleva
condividere quell’informazione senza il parere di Harry? Non ci si
disabitua facilmente da certe abitudini. E lei era abituata, ad
aspettare il suo parere. Gli occhi di Megan erano pozzi neri, di
ghiaccio, sì, ma erano neri. Non aveva resistito. Voleva aiutarla. A
capire, a sopportare, a inquadrare… a vendicarsi?
“Ne
sei sicura?”
“Sì.”
“Conosci
l’incantesimo per-”
“Sì.”
“E
allora facciamolo.”
“Aspettiamo
Harry. Ti prego. Saperlo ora o stasera non cambierà niente.”
“Aspettiamo
Harry, allora.”
33.
“Io
penso che dovremmo mangiare stasera, siamo una decina, giusto? Vado a
prendere del cinese. Ne ho visto uno all’angolo, venendo in qua.”
“Non
dimenticare Harry. E il mago francese, anche.” Rispose Hermione
all’appello di Seamus.
“Ok.”
“Vengo
anch’io.”
Ron
raggiunse la porta. Non si capiva da dove fosse uscito. Era stato
come un fantasma, fino a quell’istante.
“E
va bene.” Rispose Seamus, contando i soldi nel portafogli. Prese in
prestito un berretto dall’appendiabiti. “Ci vediamo dopo.”
Megan
stringeva la mano di Rex. Hermione si sentiva stanca. Si accoccolò
sul bracciolo del divano.
“Non
posso credere che siano scappati. Forse aveva ragione Weasley.”
Buttò lì Megan. Hermione rimase sorpresa. Non dava l’impressione
di essere una chiacchierona.
“Se
non avessero avuto niente da nascondere, non sarebbero scappati.
Avrebbero atteso di essere scagionati e ci avrebbero fatto la pelle.”
“È
quello che penso anche io. Però Daphne è una tipa a posto.”
“Non
sembra.” Disse Hermione con un tono strano.
“Comunque,
è un onore incontrarti. Potter e Weasley. Weasley e Potter. Non si
fa che parlare di loro. Solo perché sono entrati all’Accademia.
Come mai ti sei nascosta? Saresti un ottimo Auror. A dire il vero,
anche un ottimo Medimago.”
“Non
era quello che volevo. Io… volevo solo stare in pace. Io e i miei
libri e anche il mio gatto. Nessuno…” Hermione esitò. Ma
dopotutto, con chi stava parlando, il Ministro della Magia? “…nessuno
fra i piedi. Mi sono diplomata in Storia della Magia, ho reso
disponibile il mio indirizzo per delle consulenze, ma in modo
protetto. Mi occupo di libri antichi. Libri magici. Fin ora me ne
hanno mandati solo due, per cui… adesso lavoro per i Babbani in una
biblioteca. Loro non sanno niente.”
“E
non ti ricordano niente, anche.”
Megan
aveva capito l’antifona.
Hermione
voleva semplicemente evitare i suoi ricordi.
“Preferisco
così.”
“È
comprensibile.”
“Tu?
Chi sei? Ho già sentito il tuo nome, Reeves. Mi dice qualcosa.”
“Mio
padre, era un membro del Magisterium.”
“Era,
ed ora è…?”
“Morto
e sepolto. Voldemort l’ha ucciso.”
“No.
No io… credo di aver visto il tuo nome altrove. Ma ora come ora non
mi viene in mente.”
“Saresti
ben la prima!” borbottò Megan, chinandosi a guardare Rex.
“Ecco!
Tu facevi parte dell’Ordine, non è così?”
“Accidenti,
Granger.” Stupita, alzò lo sguardo. “Sì.” Disse, “Andava
troppo lentamente con i metodi di mio padre. E noi… abbiamo avuto
qualche disaccordo, mettiamola così. Avevo bisogno di sentire che
stavo facendo qualcosa, nel mio piccolo.”
“Quanti
anni avevi quando hai cominciato?”
“Dovevo
averne diciotto. Non è passato poi tanto tempo…”
“E
invece sembrano secoli.”
“Già.”
C’era
così tanto da dire, ma avrebbe significato aprire un vaso di
Pandora.
Nessuna
delle due voleva parlare del passato. Il
passato, meno lo maneggi e meglio stai, Meg.
Glielo
diceva sempre Rex, quando lei si perdeva a fissare il vuoto.
Così,
rimasero zitte per minuti interminabili.
La
chiave che girava nella toppa fu una vera e propria liberazione.
Hermione corse incontro alla porta che si apriva. Gli buttò le
braccia al collo, d’impeto.
“Harry.
Stai bene.”
“Certo.
Novità?”
“Qualcuna.”
Harry
si districò dal suo abbraccio e raggiunse il caminetto per togliersi
la giacca. Accese il fuoco con la bacchetta. Daniel Haroche si
avvicinò ciondolando per scaldarsi le mani.
“Siamo
rimasti in pochi, o sbaglio?” disse Harry a Megan. Fu prima di aver
visto Rex. “Come sta? Shacklebolt mi ha raccontato tutto. Il signor
Coulter vi ha dato del filo da torcere.”
“Rex
è… stabile.” Si voltò verso Hermione.
“Dovrebbe
cavarsela. Invece… Greengrass e il suo spasimante sfortunato si
sono liberati.”
“Perfetto,
abbiamo dei latitanti ora.” Sospirò Harry, coprendosi il volto con
le mani e guardando di traverso il francese.
“Pensavo
saresti imploso, Potter.”
“Pensavi
male, Reeves. Meglio così. Noi la pista ce l’abbiamo. Non possono
certo sparire. Se si tratta di loro, li staneremo, non ti
preoccupare. E comunque, dove sono finiti tutti?”
“Potter,
sicuro di stare bene?”
“Ma
cos’avete tutte e due?”
Hermione
si avvicinò a lei. Le pupille allargate allarmarono Harry, che si
voltò verso Daniel.
“Si
può sapere cos’ho in faccia che non va?”
“Ehm…
prima non c’era, n’est-ce
pas?
No. Ecco… una…”
“Una
voglia, Harry.” Sbottò Hermione.
Si
avvicinò e la studiò, non si accorse che Seamus e Ron erano
rientrati. Il profumo di cibo d’asporto fece gorgogliare più di
uno stomaco. Ron si fermò a metà strada, guardandoli come uno
strano animale da circo.
“Che
state facendo?”
“Harry
ha una nuova voglia.”
Rispose
Hermione, voltandosi.
“Sì,
ed è rosa.”
Aggiunse
Daniel, incredulo.
Forse
complice l’isteria sovrana, qualcuno cominciò a ridacchiare e
qualcun altro seguì. E, forse, propizio il momento, si svegliò
anche Rex.
“Granger!
Presto!”
Hermione
raggiunse la nuova, strana, amica.
“Meg…”
Era
la voce sommessa di Rex. Megan si fece più vicina. I suoi capelli
scuri gli solleticavano il naso.
“Meno
male.” Lei gli strinse la mano, gli accarezzò il volto.
“Disgraziato.”
“Non
è che…”
Nessuno
sentì il resto.
Megan
arrossì.
“Certo.”
Si alzò, rovistò nelle buste di Seamus e prese una confezione di
spaghetti al curry e un paio di bastoncini. “Ragazzi, devo andare.
Torno appena possibile.”
“Megan,
dove…” cominciò Ron.
“A
cercare Adam.”
“Aspettami,
vengo anch’io.”
Silenzio
abissale. Il clangore della porta che si chiuse. Il crepitio del
fuoco. Il rumore dello stupore.
“Mancherebbero
i grilli per un cri-cri teatrale.”
Hermione
lanciò a Seamus un’occhiataccia.
“Scusatemi.
È stato più forte di me.”
“Ma
cosa gli è preso?”
Harry
guardò Hermione insistentemente, ma lei non rispondeva, quindi si
alzò e si mise a seguirla nelle sue deambulazioni. Seamus si sedette
a mangiare accanto a Rexford, e Daniel si torceva le mani davanti al
fuoco.
“Parto
stasera.” Disse, tentando una conversazione con Seamus.
“Davvero?
Dove devi andare?”
Hermione
si chiuse il brusio di fondo dietro alle spalle. Harry sgusciò nella
stanza insieme a lei.
Le
tese una porzione di noodles e scartò le sue bacchette. Si sedettero
uno di fronte all’altro.
Harry
era al posto di Ginny, Hermione era al posto di Harry.
“Come
accidenti si usano questi cosi?”
“Devi
usare l’indice… così.”
“Hm.
Grazie.”
“Prego.”
“Senti,
Hermione.”
“Merlino,
che ansia. E va bene. Sì. Ron ti sta evitando.”
“Cos’è
successo?”
“Si
è lasciato sfuggire Greengrass e Nott. È tutta colpa sua. Venderà
l’anima al diavolo per espiare i suoi peccati. Sai com’è fatto.”
“Sei
troppo dura con lui.”
Il
tono irritato di Harry le fece alzare lo sguardo dal cibo.
“Non
è.”
“È
vero.”
“Certe
volte Ron è insopportabile.”
“Tutti
lo siamo.”
“Sì,
ma io non lo sopporto più.”
“Allora
lascialo.”
Harry
sentì Hermione fremere. Come si era permesso di dire una cosa
simile? Come gli era uscita? Non stava cercando di salvare il loro –
come l’aveva chiamato? – fidanzamento?
“Lascia
perdere, scusami. Non sono affari miei.”
“Cosa
c’è, Harry? Ti stai immedesimando? Ti fa pena?”
“Non
c’è bisogno che usi quel tono. E no, io…”
“Possibile
che lo difendi sempre?”
“Ma
è il mio migliore amico!”
“E
io sarei?” alzando il sopracciglio.
“E
tu…”
Lo
sguardo di Harry cominciò a vagare per la cucina, alla ricerca di un
appiglio. Come avrebbe rimediato a quell’impiccio? Se si fossero
lasciati, sarebbe stata colpa sua. Anche,
colpa tua, non solo colpa tua.
“Come
non detto, Harry. Non ti riesce proprio, di essere imparziale.”
“Non
sapevo fossimo al Wizengamot.”
“Senti,
hai presente quando la misura è colma? Quando tutto ti fa sbroccare?
Basta veramente poco, una briciola, ed ecco che il piatto della
bilancia si rovescia.”
Harry
deglutì.
“Davvero?”
“Sì.
Io… gli sto dando possibilità su possibilità. In nome del
passato, dell’amicizia, del tempo, dei traumi e di tutto quello che
vuoi metterci dentro. Perché alla fine è complicato anche fra di
noi. Però non c’è verso, Harry. Lui non cambierà mai.”
“Ne
avete – ehm – già parlato?”
“Certo.”
Harry
vide che era sul punto di piangere.
Hermione
si trovò le bacchette di Harry sotto il naso, con un boccone.
“Prendi.”
“Cos’è,
verdura?”
“Sì.”
“Ce
l’ho anche io.”
“Ma
questa è mia, è speciale.”
“Apprezzo
il tentativo, avvocato delle cause perse.”
Un
sorriso mesto, e il boccone fu inghiottito.
“Non
fare così. C’è sempre una soluzione.”
“Sì.
Solo che a volte non va bene lo stesso. Non era quello che ti
aspettavi.”
“Già,
noi…”
E
si zittì.
“Che
cosa?”
“Non
so, dovrei stare zitto. Non è il momento giusto per parlare di me.”
“Harry,
non dire sciocchezze.”
“Si
tratta di Ginny. Lei… prima di tutto questo. Prima ancora del
viaggio in Brasile. Mi mancava moltissimo.”
Hermione
si fece seria.
“Ma
poi ci ho fatto il callo, a stare sempre da solo.”
“Harry,
non puoi segregare una persona in casa.”
“Dai,
ma per favore. Io non sono Barbablù. Ma aveva bisogno di andare così
lontano?”
“E
tu, di andare a stanare gli Horcrux, ne avevi proprio bisogno?”
“Rivalsa?
No. O almeno. Non credo.”
Il
paragone, per chiunque altro, sarebbe stato inopportuno. E Harry
l’avrebbe percepito come tale, detto da un altro. Hermione c’era
sempre stata. Lei sapeva.
E tanto bastava.
“Forse
aveva solo bisogno di viaggiare, imparare a conoscersi.”
“Potevamo
farlo insieme. Invece ha deciso di farlo da sola.”
“Harry,
ma mettiti nei suoi panni una buona volta!”
“Senti,
non ci siamo fidanzati dopo la scuola per questo. Io ho aspettato,
lei ha aspettato. Sapevamo almeno vagamente a cosa andavamo incontro.
E io non pensavo fosse questo.”
“Questo
cosa? Non capisci? Londra per lei è una grande casa di Barbablù.
Grande e senza finestre! E tu non hai nemmeno tutte le chiavi in
possesso per dargliele. E quella tua stanza segreta a lei non è
andata giù. Ha bisogno di inseguire i suoi sogni. Ha bisogno di
conoscere il mondo senza di te. Come lo hai conosciuto tu, scappando,
eppure viaggiando. Soffrendo, ma vivendo.”
“No,
Hermione. No. No. C’è di più. Lei non ha mai avuto bisogno di me.
È sempre stata una scelta. Quella di stare insieme, un giorno alla
volta. Mi ha sempre affascinato il fatto che lei potesse andarsene in
qualsiasi momento, e invece restava. Probabilmente fa bene al mio
orgoglio. Il mio ego fa le fusa.”
“Cos’è
cambiato?”
“Non
lo so.” Ammise, quasi stupito da se stesso. “Il Brasile però è
lontano.”
“Tornerà.
Sono sicura che stia bene. Se come dici, non hanno trovato traccia…”
“Non
voglio parlarne. Non ci devo nemmeno pensare, altrimenti…”
“Ok.
Scusami.”
“Non
fa niente. Sono stato io a cominciare.”
“E
ti fa così male aprirti con me?” gli sollevò il viso per il
mento.
Le
scintillava lo sguardo. Lui lo vide.
“Non
fa mai male niente, con te.”
Era
uno di quei momenti che restano impressi nella memoria. Per la
dolcezza, l’intimità, l’ardore. La luce in fondo allo sguardo,
il sentimento puro e condiviso che scorreva dalla mano di lei al viso
di lui.
Hermione
guardò Harry finire il suo incarto con pacatezza. Il mondo fuori
dalla cucina, andasse pure avanti.
“Mi
fa stare bene parlare in questo modo. Non posso farlo con nessuno.”
mormorò Hermione.
Harry
sapeva che lei, senza Ron, era sola. Non aveva amici. Non coltivava
relazioni. Aveva reciso le sue radici e si era fatta orfana per
scelta. Il suo buonismo rasentava la follia. Ed era come lui, ora.
Forse in quel momento aveva solamente lui. Si sentì profondamente
onorato di essere suo amico, di poter finalmente essere utile.
Che
insulsità, lasciare le giornate passare via ad aspettare una donna
che vuole vivere solamente con se stessa.
E
aspettare, aspettare, aspettare. Giorno dopo giorno, continuare.
Liste di incantesimi inutili, un lavoro precario per un uomo vecchio
e pazzo un suo amico? Sì, forse. Forse era di quel genere di amici
di cui era ricco. Ma di Hermione ne aveva solamente una. Le prese la
mano, e la strinse, d’impeto. Lei capì.
Due
anime affini, cresciute e vissute insieme in ogni singolo instante.
Chi meglio di uno per l'altro poteva capire?
“Ho
bisogno di una mano. Ho notato che la mia bacchetta è scheggiata. So
che Olivander me ne farebbe comprare una nuova, ma io mi sono
affezionata. Potresti chiedergli di aggiustarla? So che ti darà
ascolto.”
Domanda
banale, dolce ma piatta. Aspettare, ancora, e continuare... Il
momento speciale, magico per certi versi, era già finito.
“Certo.
Ti accompagno domani mattina. Va bene?”
“Celere
ed efficiente.” Scherzò lei.
Qualcuno
bussò alla porta della cucina prima di entrare con circospezione.
Era Seamus.
“So
dove sono andati Nott e Greengrass.”
Harry
ed Hermione si guardarono. Sbigottiti.
“Come
diavolo?”
“Conosco
molto bene il fuoco. Ho imparato a …a domarlo. Posso convincerlo a
fare quello che voglio io. E io… l’ho costretto a farmi vedere in
che caminetto sono andati. Posso andarci anch’io, immaginando il
posto, ma non posso portare voi senza farvi vedere i miei pensieri.
Dovrò andare da solo.”
Harry
continuava a fissarlo senza capacitarsene. Hermione invece aveva lo
sguardo pieno di malcelata ammirazione. Era perfettamente plausibile,
no? Se non fosse che lui era quello del Wingardium Leviosa esplosivo
al primo anno. E tantissimi episodi successivi. Non valeva la pena
riportarli tutti.
Era
semplicemente stupita.
“Sei
bravissimo, Seamus. Complimenti. Sai quanti maghi sognano di fare
quello che sai fare tu?”
“Oh,
andiamo, Hermione…”
Era
impacciato, senza sorridere. Imbarazzato, si sfregava la mandibola.
“Davvero.
Lo dirò a Shacklebolt. Ne sarà entusiasta.” Disse Harry,
facendolo diventare paonazzo.
“Comunque,
credo sia ora di andare per me. Voi cosa fate?”
“Ti
seguo a ruota.” Hermione si alzò e cominciò a mettere in ordine
la cucina.
“Lascia
stare, faccio io dopo.” Mormorò Harry.
“Se
hai intenzione di vegliare su Grant, hai bisogno di qualcuno che ti
dia una mano però.”
“C’è
Daniel! È un tipo veramente simpatico, ho scoperto. Ed è quasi
medimago.” si intromise Seamus.
Hermione
sospirò, mentre dava loro le spalle, occupata a sciacquare i
bicchieri nel lavello.
Harry
se ne accorse, ma non lo diede a vedere a Seamus.
“Giusto.
C’è Daniel. Beh. Allora ci vediamo domani, comunque. Domani che
giorno è? Venerdì?”
“Sabato,
Harry. Ci troviamo qui?”
“Se
riesci a venire la mattina presto è perfetto. Così mentre esco a
fare due commissioni e accompagno Hermione per la sua bacche-”
“Andiamo?”
sbottò Hermione, rivolta a Seamus. Cosa stava cercando di
nascondere? Non c’era niente di male, a dover riparare la
bacchetta. Forse non voleva condividere i fatti suoi con chiunque.
Harry la guardò impertinente.
Seamus
invece capì. Lei, inconsciamente, si stava proteggendo. Qualsiasi
cosa avesse fatto con quella dannata bacchetta, quella sera del
compleanno di Harry era stato lui a raccoglierla esanime dopo il
misfatto.
Ma
non disse nulla. Ognuno i suoi segreti. E lei, nonostante tutto il
ciarlare altrui sul suo conto – brava, Hermione, saggia Hermione,
brillante, Hermione –, sembrava ne avesse parecchi.
34.
La
mattina seguente, Michael sedeva davanti all’Ufficio Auror
aspettando l’apertura. Aveva passato la serata al pub e poi era
dovuto uscire, avendo speso gli ultimi risparmi per mangiare. Così
aveva dormito là. Davanti all’Accademia. Leggeva, accoccolato
contro il muro, con la casacca a mo’ di cuscino dietro la nuca.
Leggeva
di lui e di lei. Leggeva di quello che era successo e che non sarebbe
cambiato mai. Perché il passato non si può cambiare, ma il
presente, oh, sì. E lui l’avrebbe fatto. Per cui leggeva
distrattamente.
E
guardava l’entrata, sperando di veder comparire qualcuno. Odiava
aspettare.
Odiava
la burocrazia, e odiava la gente.
Era
in una posizione pericolosa. Che scelta aveva? Tanto non aveva nessun
posto in cui andare.
Nessuno
lo aspettava.
Il
mondo è la mia casa.
Ricordare
o dimenticare.
Camminavo
su un'arma a doppio taglio, incapace di scegliere una o l'altra
strada, affranta dal tuo totale disinteresse.
Per
non parlare della tua reazione. Ti eri arrabbiato.
Come
hai potuto distruggermi così? Come hai potuto mandare all'aria
tutto?
L'umiliazione
brucia come acido sulle debolezze, e io ne sono tanto piena da
friggere in ogni punto.
Ho
creduto in noi, appena per un istante, e non avrei potuto fare niente
di meglio per allontanarti. Quando ci ripenso, brucia ancora; tu
improvvisamente, da amico, figura conosciuta che eri, sei diventato
un ragazzo degno d'interesse.
Ho
capito la passione che votavo alla nostra relazione; non solo mi
piaceva parlarti, ascoltarti, condividere le risate con te, ma il tuo
fisico atletico, il tuo viso a spigoli morbidi, perfino quei tuoi
capelli da istrice mi piacevano. Per non parlare dei tuoi occhi.
Non
avevo mai visto una sfumatura di cioccolato così perfetta. Gli aghi
verdi a raggera attorno alle pupille non facevano che abbellirli; un
concentrato puro di seduzione dagli effetti devastanti su di me.
Eppure la luce dei tuoi occhi non era data dalla loro bellezza;
emanavano un calore e una passione che non avevo mai scorso in nessun
altro. Tu mi piacevi per quello.
Parlavi
con gli occhi, combattevi con gli occhi, seducevi con gli occhi.
Michael
tossicchiò per camuffare una risata a se stesso.
Quelle
parole non l’adulavano, lo facevano sentire ridicolo.
Prima
dell'impatto, senza accorgermene, ero stretta sempre più nelle spire
di un'attrazione che non avrei mai avuto la forza di contrastare;
avresti potuto fare di me quello che volevi.
Forse
sono una persona troppo debole per starti accanto. Ero
morbida nelle tue mani, duttile, aperta, pazza d'amore fino
all'estremo, fino a non rendermene nemmeno conto, tanto i miei
sentimenti patinavano ogni situazione della mia vita, attutendo e
nascondendo le altre emozioni. Ero carne tenera, e tu non te ne sei
mai accorto. Quando
anzi te ne sei accorto, troppo tardi, eri già un altro.
Per
qualche settimana mi sono dannata a evitare ogni contatto con te.
Avevo paura che mi dicessi che non sarebbe mai dovuto succedere, che
ringraziavi ma rifiutavi l'offerta, che era una follia.
La
mia predizione dell'anno scorso prendeva forma in un modo più
doloroso di quanto pensassi.
Ero
terrorizzata dalla tua reazione.
Invece
tu ti ostinavi a fingere che non esistessi, quasi fosse la cosa più
facile, e non ci siamo parlati per un sacco di tempo. Ricordo di
essere dimagrita, di aver notevolmente aumentato la mia media
scolastica; dev'essere stato tutto quel tempo
da riempire.
La tua assenza mi inghiottiva sempre di più, non riuscivo più a
sorridere. Eri terribilmente vitale per me.
Soffocavo.
Morivo dentro, e non potevo parlarne a nessuno; non c'eri più tu ad
ascoltarmi.
Mi
ero slogata la caviglia circa una settimana prima, quando ci siamo
guardati negli occhi nuovamente dopo quello che era successo. Padma
ed io andavamo su per le scale, verso l'aula di Incantesimi, e tu
avevi un'ora di buco, probabilmente, perché ciondolavi nervosamente.
Io
non ero a mio agio, Luna era dispersa da qualche parte e mi aveva
lasciata nelle mani di Pad. Insomma, PAD! Lei non perdeva mai
occasione per mettermi in difficoltà, nel modo più naturale e
incosciente del mondo. Difatti, nutrivo per lei un odio
incondizionato, senza fine. Sia tu che Luna lo sapevate.
“Pad,
sei diventata un facchino?” le hai rivolto la parola, e quasi mi
sono soffocata inghiottendo l’aria al suono della tua voce.
Ecco.
Quel giorno, l’aveva odiata come un pazzo. Lei era lì, patetica,
con gli occhi pieni d’amore per uno stronzo. Senza volerlo, si era
resa insopportabile. Ed era stata lei, ad allontanarli.
Malvolentieri, forzatamente.
Lo
sapeva, in fondo, Ginny. Si capiva dal suo modo di scrivere. Era
quello che intendeva, quando gli aveva detto che era tutta colpa sua,
che voleva essere perdonata. Ma non erano riusciti ad essere onesti
uno con l’altro nemmeno quella volta. Capitolo chiuso.
Hai
sorriso, con una voce strana, rivolto alla mia sinistra, dove lei si
destreggiava per mantenere l'equilibrio con le nostre borse ed i
nostri pacchi di pergamene da mezza tonnellata. Molto gentilmente mi
accompagnava a lezione e portava le mie cose per non affaticarmi. Non
aveva ancora fatto la sua castroneria giornaliera per cui, nonostante
tutto, in quel momento provavo per lei un inconfondibile moto
d'affetto.
Tu,
verme, non eri nemmeno venuto a chiedermi cosa mi fosse successo.
Io
avrei voluto, Gin. Ma tu eri così… così odiosa! E innamorata e
odiosa! E non capivi. Non capivi di esserlo.
E
io ti odiavo, come un bambino. Come un bambino. Perché avevo bisogno
di te. Di te, e non di quel tuo amore vischioso e infantile,
assoluto, totalizzante. Soffocante. Malsano.
“Nel
caso in cui tu non te ne sia accorto, Ginevra ha una caviglia slogata
e non riesce più a camminare decentemente. Certo, se tu non l'avessi
ignorata in modo ignobile dall'inizio dei corsi ora lo sapresti e non
faresti domande così stupide! Sei diventato un vero schiopodo da
quando è succ...”
“QUELLO
CHE È SUCCESSO TRA ME E GINNY NON TI RIGUARDA, FATTI I CAVOLI TUOI”
Pietrificate,
io e lei ci siamo lanciate un'occhiata rapida, e io ho sentito
l'affanno crescermi in gola.
“Ma
come ti permetti?! Datti una regolata!”
“Tu
non osare dirmi quello che devo fare! E poi, se proprio vuoi saperlo,
è LEI che mi ignora da settimane!”
Sei
scappato via a passi pesanti, quasi ti avessimo fatto il torto
peggiore del mondo. Noi. Io.
Si,
ho smesso di cercarti.
Se
tu però avessi fatto un singolo passo verso di me avrei preso la
rincorsa e mi sarei buttata fra le tue braccia. Non sopportavo più
di non poter cercare il tuo sguardo per ogni cosa; mi ero accorta di
quanto spazio occupassi nella mia mente. Cosa mai ho potuto fare di
così brutto, mi chiedevo?
La
risposta non tardò ad arrivare. Ero in cortile con i ragazzi di
Corvonero, tentavo di ridere insieme a loro, ancora abbattuta dalla
tua reazione, quando sei arrivato. Con un sorriso di plastica mi hai
detto “Gin dobbiamo parlare”. Ti ho seguito. Non sapevo dove
intendessi andare, così sono passata davanti a te e ho scelto io la
strada. Tu continuavi ad avere quell'aria nervosa, ne ero
terrorizzata.
Senza
prenderti la mano, senza toccarti né guardarti ti ho portato dritto
nella nostra radura segreta, ai margini della foresta. Non ho avuto
il coraggio di sorriderti.
Che
idiozia.
Non
sono mai stata capace di nasconderti niente.
“Allora,
cos'hai da dirmi?”
“Cominciamo
dall'inizio. Si può sapere perché mi eviti?”
“Io
non ti sto evitando” ma tu mi hai immediatamente aggredita, con una
forza la cui origine non mi era chiara.
“Si
invece! Non mentirmi che mi manda in bestia.”
“Ma
chi ti mente, idiota! Mi sto solo comportando esattamente come fai tu
di solito, ultimamente. Ti lascio i tuoi tanti amati spazi.”
Touché. Ho
riportato le tue parole di quel giorno quando, orripilato, ti eri
reso conto che ero l'unica disponibile per le tue uscite strampalate;
hai finto che fosse colpa mia.
“Esco
sempre e solo con te, io ho anche altri amici!” mi avevi urlato,
quasi avessi organizzato un complotto per impedirti di vederli.
Michael
si stropicciò il viso, scioccato. Non aveva capito niente. Lui non
l’aveva mai capita. La piccola Ginny in preda ai singhiozzi che
tanto gli faceva paura, eccola, pronta a ferirlo. Ricordò ogni
particolare, dai toni striduli e ridicoli della propria voce da
adolescente a quelli tremuli e alle occhiate incerte e profonde di
lei. Lei che elemosinava il suo affetto… il morso dei sensi di
colpa si fece sentire.
Meglio
tardi che mai. Così si diceva.
Va
bene, è colpa mia. Un peso da niente per me, visti i miei
sentimenti. Pestami pure in faccia, Michael. Sarà un piacere. Avevi
percepito la punta dell'iceberg dei miei sentimenti, e lo rimpiangevi
con una rabbia tale da lasciarmi basita; non capivo quale fosse il
problema; potevo continuare ad esserti amica per sempre, non
m'importava che tu ricambiassi. Non mi sembrava un crimine.
Ma
le cose sono andate così: io non volevo ammettere di provare
qualcosa per te, non dopo aver visto la tua reazione; tu non
accettavi i miei sentimenti per chissà quale motivo.
Forse
non volevi che rovinassero l'amicizia; forse eri cambiato in un modo
che non potevo capire.
Ogni
volta che ti vedevo, poi, ripensavo alle tue labbra e arrossivo.
Anche tu avevi reagito alla situazione in un modo equivoco, e la cosa
mi turbava immensamente. Tutt'ora ripensare alla tua espressione in
quel momento mi provoca un'immediata sensazione di calore al viso.
Avrei
dovuto intuire che tu ed io stavamo prendendo una direzione
sbagliata.
Eravamo
un vagone allo sbaraglio.
E
quel giorno, ecco che mi sputavi in faccia parole, parole spaventose,
sbagliate, ingiuste.
“Non
voglio che la prendi male, non so come affrontare il discorso, ma io
non ne posso più. Tutto questo mi sta soffocando.”
“Tutto
questo cosa?” ho sussurrato io, sentendo gli occhi pizzicare.
“Noi
due, la nostra... amicizia. Non so perchè le cose siano diventate
quello che sono, mi è sempre piaciuto un sacco parlare con te, ma
ultimamente parlavamo sempre di cose tristi.”
“Cose
tristi? Ma...”
“Si,
tu sei pessimista e io vicino a te lo divento.”
Era
vero. Ginny si addossava ogni peso del mondo. Pensava di continuo a
quelli che stavano “veramente” male. Passava le giornate a
prodigarsi per distribuire il suo immenso amore bianco a chiunque. E
poi riversava il dolore ricevuto su di lui. E lui non lo sopportava.
Il suo cuore di ragazzo non lo sopportava.
“Io
non sono pessimista... è la vita, LA VITA, che ti rende pessimista!
Possiamo parlare di quello che vuoi! Dimmi di cosa vuoi parlare,
allora! Dimmi tu cosa vuoi fare. Io ti asseconderò, ma non dire più
cose così stupide. Oppure se non ti va di starmi attorno dimmelo
chiaro e tondo, invece di trovare espedienti.”
“Io
non trovo nessun espediente.”
“Oh
si invece, tiri fuori sempre la scusa degli altri amici che PER COLPA
MIA non riesci mai a frequentare!”
“Certo,
se tu pretendi sempre che usciamo da soli! Non c'entra niente, e non
è una scusa! Non ne posso più, ho anche altri amici, vuoi capirlo?
Mi sembra di diventare pazzo vicino a te! Possibile che non capisci?
Io voglio conoscere tanta gente, mi piace stare in compagnia, e
sinceramente il nostro rapporto si sta stringendo un sacco. Mi manca
l'aria; mi sta stretto, e tu sei molto elitaria. Io non ce la faccio
ad essere così. E la nostra amicizia è... è malsana, ambigua;
allora tu cosa decidi di fare?! Non mi parli più, quasi volessi
punirmi. Guarda che noi non stiamo insieme, siamo solo amici.
Mettitelo bene in testa.”
E
aveva sentito il cuore di Gin fare crac. Lo aveva fatto apposta. Non
era affatto sicuro che fosse la scelta giusta, ma all’epoca
cos’altro poteva fare? Non era capace di molto. E tuttora…
“SO
BENISSIMO CHE NOI NON STIAMO INSIEME” ho deglutito io, con più
forza in petto di quanto credessi possibile, “E non mi interessa
affatto punirti, anche perché tu non sei il mio ragazzo né vorrei
che tu lo fossi! Se tu fossi stato più furbo te ne saresti accorto
prima! Non ti chiedo di starmi sempre attorno, vorrei solo che quando
ci vediamo tu la smettessi di lagnarti perché gli altri non vengono
quando organizzi qualsiasi cosa... non sono elitaria, semplicemente
ho pochi amici, me ne bastano due o tre...”
“Infatti,
io invece non sono così.”
I
suoi famosi millemila amici? Tigli alti, molto più di lui,
svettanti, svaniti. E Gin, come un’edera, ostinata, era ancora lì.
Aleggiava attorno alla sua vita, come in attesa di essere estirpata o
accolta.
“Nessuno
ti ha chiesto di essere diverso da quello che eri.”
“Sei
possessiva.”
Vero
anche questo. Gin gli teneva le mani, gli teneva persino gli occhi,
in quegli anni l’avrebbe seguita in capo al mondo. Prima dello
scatafascio, del crac. Prima ancora del tumulto nel cuore.
“Cosa
c'entra adesso? E poi, io mi sono sempre comportata come tu mi hai
lasciato comportare. Se non ti va bene quello che faccio, devi
dirmelo! Ma non mandare tutto a farsi fottere solo perché non sei
capace di tirare fuori le palle e dirmi quando qualcosa non ti va
bene. Stai parlando di un sacco di cose perfettamente risolvibili con
il dialogo. Sei tu che sbagli a non parlarne con me.”
Sì.
Sì. Sì, Gin.
“Tu
hai cominciato da quando è successa quella cosa. Bella mossa,
proprio.”
“Non
diciamo stronzate. Te l'ho già spiegato. Tu ti comporti esattamente
così con me. Aspetti sempre che sia io a cercarti, da quando siamo
tornati a Hogwarts; io non voglio più starti dietro come un
cagnolino mentre tu mi ripeti che vuoi vedere gli altri e mi usi come
tappabuchi!”
“Io...
non ti userei mai come tappabuchi! Come puoi dire una cosa del
genere?”
Michael
quasi non se ne accorse; lesse la fine sottovoce, muovendo appena le
labbra, come se non potesse capacitarsene alla sola vista.
“Sono
i fatti che parlano per te! E ora scusa, ma devo andare.”
“Tranquilla,
ho finito anch'io.”
“Bene.”
“Bene!”
Te
lo ricordi, vero? Mi chiedo se tu abbia sofferto anche un decimo di
quello che ho sofferto io.
La
durezza delle tue parole era senza precedenti; non riuscivo più a
deglutire per l'angoscia.
Se
solo tu mi avessi degnata di uno sguardo ti saresti reso conto di
quello che provavo.
Invece
hai tenuto gli occhi bassi, tranne quando gridavi; e li ero io a non
riuscire a mantenere il contatto visivo. È terribile sentirsi
traditi in questo modo.
Tu
non avevi idea di quello che mi avevi fatto; io lo sapevo, te lo
leggevo in quella tua aria innocente e cocciuta. Così non ho mai
detto quello che pensavo.
Fine
dell'amicizia. Nonostante svariate discussioni per metterci
d'accordo, non siamo più riusciti a sentirci vicini come prima. Tu
credevi che io fossi cambiata; io stringevo i denti perché sapevo
che eri tu ad esser cambiato, così come sapevo che sarebbe successo.
Ho
perso un amico; sono diventata più forte.
Dio,
che brutta cosa. Che brutta cosa il rimpianto.
Una
voce lo scosse. Lo fece voltare.
“Ha
bisogno?”
Doveva
essere l’addetto al bureau di accoglienza dell’Accademia.
“Sì.
Mi chiamo Michael Corner, e vorrei costituirmi.”
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Capitolo 15 *** Lezioni di vita ***
↵
Dal
capitolo precedente:
Dio,
che brutta cosa. Che brutta cosa il rimpianto. Una
voce lo scosse. Lo fece voltare. “Ha
bisogno?” Doveva
essere l’addetto al bureau di accoglienza dell’Accademia. “Sì.
Mi chiamo Michael Corner, e vorrei costituirmi.”
35.
Camminava
svelto per non perdere il passo. I lampioni erano spenti, qualche
macchina
era parcheggiata accanto al marciapiede, ma c’era buio, veramente
buio, ed erano poche le finestre ancora illuminate. Si erano appena
materializzati, mano di lei sul suo braccio, senza una parola, ed
eccoli arrivati in un vicolo che non aveva niente di familiare.
Ronald Weasley non sapeva cosa pensare. Era confuso. Era perso. “Ehi,
pivello. Ti spiace aspettare qui?” Alzò immediatamente lo
sguardo all’appello di Megan Reeves, e scosse la testa in segno di
diniego. Si sedette su un muretto di mattoni rossi, dietro di lui i
cipressi lo costringevano a stare piegato in avanti, con la schiena
curva e il capo chino. Che odio, quei cipressi. Riuscì a
sbirciare Megan, le sue lunghe gambe femminili e l’andatura stanca
e altalenante, arrivare davanti alla porta. Lei suonò al campanello
più volte, in un modo che avrebbe sicuramente innervosito
oltremisura una come Hermione. Lo spiraglio della porta fece uscire
una fetta di luce dall’interno. La figura era alta, sovrastava
quella della sua Senior, ma non lo lasciò all’immaginazione e uscì
allo scoperto, accendendosi una sigaretta. Ron indietreggiò. Era
Adam Fullbuster, l’ultimo membro della loro squadra. Se avesse
un’aria preoccupata, Ron non avrebbe saputo dirlo. Lo guardò
mentre portava la mano tremante alla bocca per aspirare altro
fumo. Era nascosto nella siepe, su quel muretto, come un bambino.
In disparte, come in punizione. Sentì squarci della
conversazione. “…stabile. Ma tu devi andare a
vederlo.” “Cribbio Megan, io non posso.” “Nessuno
giudica nessuno. Sono a posto, davvero… fidarti di me.” “No.
Non se ne parla.” “…chiesto lui.” “Come? E gli
altri?” “Nessuno ha sentito. Rex… ti prego. Ha bisogno di
te.” Ron fissava le sue scarpe e i mattoni ordinati, il respiro
piatto e disteso, con la finta calma che conferisce il buio della
notte, forse per questo sussultò allo sbattere della porta. Megan
era lì, illuminata dalla fioca luce che sfuggiva all’oblò
dell’entrata. Era ancora voltata di spalle, e lui pensò che era
strano, che stesse voltata così tanto, ma non disse niente. Come
un bambino, attese. E lei dopo qualche minuto lo raggiunse. I suoi
occhi pesti di stanchezza e di trucco gli fecero pena in un modo
scomodo, che ti fa venire voglia di scappare, e non di
consolare. “Andiamo, Ronnie.” “...fanculo.”
Un
po’ di nausea ce l’aveva. Doveva essere l’indecisione di lei,
durante la materializzazione congiunta. Forse avrebbe voluto essere
altrove. Anche lui, dopotutto. Posto sbagliato, persone sbagliate. Al
diavolo tutto. La
seguì nel giardino posteriore di due villette a schiera babbane;
l’incantesimo che proteggeva la sua casa scomparve e lasciò
intravedere una grande villa bianca in fondo a un vialetto. “Vieni,
è per di qua.” La seguì attraverso il portico, fino all’uscio,
avvolti dal buio e dal rumore delle fronde degli alberi. “Ti va
un Jack Daniel’s?” “Che diavolo è?” “Va bene, non lo
vuoi.” “Ok, dammelo.” La seguì, ancora, fino a un
gigantesco salotto. Era grande, sgombro, elegante. E lei era in
mezzo, vicino a un carrello per le bevande veramente grazioso, doveva
essere una cosa da ricchi. Cristallo, ottone. Bottiglie di ogni
genere. Megan gli versò quel Jack Daniel’s, e lui si avvicinò,
titubante, sull’immenso tappeto orientale. “Buono.” “I
babbani ci sanno fare con l’alcool.” “Vieni spesso
qui?” “Questa è casa mia.” Ronald si guardò attorno
sbalordito. Doveva essere cinque o sei volte più grande della Tana.
Ed era solo per lei. “Non ti perdi mai?” Lei rise, di una
risata un po’ roca. “Vuoi vederla tutta? Non sei mai stato in
un posto del genere, vero?” “Più o meno. Ho conosciuto da
vicino Malfoy Manor.” Il pensiero gli ghiacciava ancora il
sangue. “Vieni, ti faccio vedere.” Tracannò un sorso che a
Ron parve troppo lungo direttamente dalla bottiglia, poi lo prese per
il polso e lo strattonò. E lui, stranito e perseverante, ancora
una volta decise di seguirla. Ogni tanto mandava giù un sorso, e
lei lo imitava. Si scambiavano a malapena qualche occhiata di sbieco.
Ron abbassava ostinatamente la testa per sottrarsi al contatto
visivo. Non capiva il motivo del suo sguardo triste, storpio,
capiva solamente lo sguardo in sé. Era uno sguardo da donna che
parla
e sa di saperlo fare. Non era un totale idiota, pensava. Non era
così stupido, così insensibile. Lei, per esempio, era così
limpida. Capiva le sue intenzioni. Niente a che vedere con i messaggi
crittografati ai quali era abituato. Così lasciò correre gli
occhi su quel corpo di donna. I fianchi, il fondo schiena, le
cosce, gli avanbracci. In un corridoio lungo, in un bagno grande e in
una sala da musica con il pianoforte al centro, in forse dieci
anticamere con i muri coperti di scaffali e pieni di libri. Finirono
nuovamente in salotto. Non aveva avuto l’occasione di toglierle gli
occhi di dosso in mezzo a quelle mille stanze. Il ricordo confuso del
pianoforte si sovrapponeva ai muri bianchi delle anticamere in un
vortice di colori e fattezze irreali. Fino a che lei si voltò
lentamente, con l’intenzione di guardare lui negli occhi. Proprio
lui. C’era ancora una vena ilare nel modo in cui lo squadrava,
ma ora si nascondeva meglio nel torbido dell’alcool. La bottiglia
era quasi vuota e anche il bicchiere di Ron. Lo posò. Le prese la
bottiglia dalla mano e bevve l’ultimo sorso. Lei non aveva smesso
di guardarlo. Era di fronte a lui, in attesa. In attesa! Voluttuosa
doveva essere la parola giusta per descriverla. Presto Ron non capì
più niente. Scuoteva il capo e scuoteva via gli ultimi rivoli di
coscienza. Il Jack Daniel’s era nel suo sangue e gli aveva
liquefatto la mente e le gambe. Sentiva solo una parte del corpo
sveglia, ed erano i lombi, incendiati da quella situazione assurda,
tanto assurda da spingerlo a desiderare, come un chiodo infisso nel
cranio, quel corpo di donna. L’idea martellante lo spinse ad
avvicinarsi. Una mano corse a lambire il petto, con un movimento dal
basso verso l’alto; e scese, s’impossessò del fianco; s’impresse
sui reni, per avvicinare quell’anima guasta alla sua, per portarla
a un palmo dal suo corpo confuso e fremente. Non dissero una
parola. Ron si tolse il maglione e la fece indietreggiare fino al
divano. Megan si slacciò il corpetto, scivolò fuori dai suoi
proverbiali anfibi e si tolse la gonna corta e spiegazzata. Ron si
sedette accanto a lei. Con una mano impacciata le scostò i capelli
dal viso. “Non devi farlo per forza.” Sussurrò lei, con un
sorriso beffardo. “Che cosa?” “Essere carino con me.” La
frase lo spiazzò, non riuscì a trattenere una risatina dal timbro
basso e canzonatorio. “Non sono qui per essere carino con te. E
nemmeno con me. Credo proprio che domani avremo più grane di
oggi.” “Mi va bene così.” Lui non seppe cosa rispondere.
Sorrise mestamente, e si lavò via l’ultimo barlume di riso. Era
rimasto con la mano sospesa dietro al suo orecchio. Qualche piercing,
una piccola croce gotica; un tatuaggio nascosto e leggermente in
rilievo sulla nuca; testimoni inanimati della sua animosa
diversità. “Che cos’è questo?” sussurrò avvicinandosi,
curioso. “Una rosa.” “Perché?” “Fatti gli affari
tuoi, pivello.” Ron rise ancora. “Ti
va bene così?” “Sì.” “Tu
ami Rexford?” Gli arrivò una scarica di pugni rivolti al suo
stomaco che riuscì a deviare goffamente. Avrebbe dovuto
aspettarselo. La odiò ancora un po’ di più. Dopo qualche istante,
però, lei gli rispose: “Rex mi piace. Ma io non piaccio a
lui.” “Mh. Non è tanto diversa la mia situazione.” Lei
lo guardò con tanto d’occhi. Ron sentì intimamente le viscere
torcersi per quegli occhi amari, ma non si sottrasse. “Cosa c’è,
la Granger è troppo per te?” “La
Granger
ha in mente qualcun altro.” Fece una breve pausa. “O
comunque non più me.” “Rex ama un altro.” Lo aveva detto
così rapidamente, fra le labbra arrabbiate, che Ron credette di aver
frainteso. Poi capì. Collegò. La conversazione a sprazzi. Lei
che alla richiesta di Rex e se ne andava e quasi dimenticava il
cappotto. Lei che accettava la sua presenza e anzi lo invitava a
seguirla. Lei che fingeva di desiderarlo, per sballarsi, per
dimenticare un attimo tutto e tutto in un attimo. “Fullbuster?” Lei
fece di sì. Le accarezzò la nuca, la rosa, il capo. “Dai,
rivestiti, Megan. Andiamo via di qui. Siamo patetici.” Fece per
alzarsi, ma lei lo prese per la collottola e lo baciò. Un brivido
gli s’irradiò dalla nuca verso i reni. Nessuno gli aveva mai
infilato la lingua in bocca in quel modo senza chiedere permesso. Le
reazioni fisiche, mentali, si contrastavano in un esplodere di
sensazioni luminose e dolorosamente gradevoli. “No.” Megan si
scostò, ricoprendogli la bocca di baci brevi e irriverenti. “Non
lasciarmi da sola stasera. Potrei morire. Giuro che potrei.” Ron
era rimasto interdetto. Per l’ennesima volta era in bilico. La
mente annebbiata rimandava immagini confuse di Hermione, di Harry,
dell’Accademia. Il piatto della bilancia della coscienza si
rovesciò con un clangore attutito, abbastanza forte da richiamare
l’attenzione ma abbastanza lieve da essere ignorato con
disinvoltura. Ron si divincolò, mentre il petto gli si sollevava
incontrollatamente per lo scompiglio profondo. “Vorresti davvero
scopare
con il Pivello? Guarda che poi te lo ritrovi davanti tutti i giorni,
a forza. Dico sul serio, Megan, non mi sembra una grande
idea.” Ansimava solo all’idea. Lei era molto attraente, ed era
lì, con il capo nascosto nel suo collo, occupata a nascondersi dal
suo sguardo. Docile, infinitamente fragile e femminile. Aveva una
scorza incredibile. Ron le sollevò il volto con il cuore che batteva
a mille. Lo stava facendo? Stava tradendo Hermione? Se lo meritava,
davvero? “Stai pensando a lei.” Lo rimproverò Megan. “Lei
non mi ha mai tradito.” “E tu non hai mai tradito
lei.” “Falso... questo è… falso. Prima ancora di stare con
lei… io ero a conoscenza dei suoi sentimenti, ma mi sono lasciato
…lusingare da Lavanda Brown. Una ragazza del nostro anno. Sai, a
scuola. Hogwarts. Lei mi ha baciato davanti a tutti e io… cosa
potevo fare? Ho accettato. Insomma, mi guardavano tutti! Ma… è
stato un errore clamoroso. A me era sempre piaciuta… solo lei.” “Ti
senti in colpa?” “No… Hermione mi sta lasciando.” “Allora
lasciala
tu per primo.” La
sentì mordergli il petto e le clavicole. Sì, Megan aveva ragione. E
anche la sua bocca ne aveva da vendere. E quelle sue mani… Si
lasciò andare. Finì di spogliarsi senza vergogna, disinibito
dall’alcool, e il fine riverbero delle vetrate illuminò a nastri
il suo addome diafano che nascondeva a malapena uno stomaco
dolorosamente annodato. Incurante del nodo in gola, si sdraiò su di
lei. La sentì sospirare sotto al suo peso e di rimando arricciò le
labbra in un fremito. Accolse un piacevole brivido di sollievo al
contatto con la sua pelle tiepida. Le scostò i capelli dal viso,
prima di baciarla una prima volta con delicatezza. “Ti ho già
detto niente smancerie.” Lui rise di nuovo, un po’ ubriaco,
fra le sue labbra, e in quell’istante, guardandosi cullati dal
buio, si sentirono un po’ più vicini, un po’ meno strani. Come
se un semplice bacio potesse suggellare un patto o cancellare la loro
abiezione. Ron capì che lei, in quel momento, Rex o non Rex, era
sua. E lei, che il pivello ne aveva da vendere, e quella Hermione non
era poi intelligente come aveva pensato. Si capirono con la
lingua, idioma universale. C’era buio pesto. Il Jack Daniel’s,
vuoto, era sul ricco carrello del signor Reeves ormai defunto. E Ron
e Megan, avvinghiati come serpenti, ondeggiavano di un amarsi malsano
e malvissuto, vero, sfrenato. Al resto ci avrebbero pensato
dopo.
36.
Harry aprì gli occhi
all’insistente suono del campanello. Raccolse la coperta in tweed
da terra e la mise sopra a quella di Rexford, che dormiva
profondamente e non si era svegliato in tutta la notte. Al contrario,
Harry non aveva chiuso occhio fino alle ultime ore. Era troppo
preoccupato e troppo frustrato. Si mise gli occhiali e tentò di
sistemarsi i capelli e la maglia di traverso prima di aprire la
porta. Alla vista di Hermione si sentì profondamente
sollevato. “Ah, già. La bacchetta.” “Hai dormito,
Harry?” La ragazza entrò senza togliersi la giacca e si
avvicinò cautamente al mago addormentato. Indirizzò qualche sguardo
verso Harry, e lui rispose con un pollice verso. “Vado a farmi
un caffè, vuoi qualcosa?” “Non vorrei darti spiacevoli
sorprese, ma le tue dispense ieri sera erano vuote.” “Da
quanto controlli le mie dispense?” “Da quando sono più in
questa casa che a lavorare fra i libri. E mi devo occupare di gente
che sta male, gente che si lamenta, gente che non sa quello che
vuole…” Lo raggiunse in cucina e finalmente si tolse i guanti
e la sciarpa. Li appoggiò nella ciotola vuota della frutta. Harry
appoggiò il bollitore e accese il fuoco. Aprì le ante degli
armadietti della cucina alla ricerca di una tazza pulita,
sbadigliando sonoramente. “Com’è andata ieri sera? Era molto
abbattuto?” Il disagio pervase la stanza. Li per li fu certo che
lei non avrebbe risposto, perché si era spinto troppo al di là
degli affari suoi. Non era la prima volta che qualcuno gli dava del
ficcanaso. Sentì Hermione accavallare le gambe alle sue
spalle. “Ron?” disse, “Non ne ho idea.” Harry si voltò
all’improvviso, sbattendo la testa nell’anta
aperta. “Accidenti.” “Harry, ma cosa fai!” Hermione
si precipitò da lui per vedergli la fronte. “Ti verrà un
bell’ematoma.” “Ron non è tornato?” “Non avere quel
tono stupito, cosa ti aspettavi da lui?” “Dai, non dire così.
Per favore.” “E che cosa dovrei dire? – ti fa male
qui?” “AHI, sì, dannazione. Non è che vorresti usare la
bacchetta, così, giusto per accelerare la guarigione? Ne ho
abbastanza di cicatrici idiote.” “Giusto per? È solo una
botta.” “Sembro Quasimodo…” “Va bene, va bene.”
Agitò la bacchetta sul bernoccolo di Harry e quello scomparve
immediatamente. “Comunque, se ci tieni a saperlo, non ha dato
notizie di sé. Zero.” “Dove si sarà cacciato quel… quello
scemo.” Borbottò Harry. “Notizie di Seamus?” tagliò corto
Hermione, visibilmente non in pena per la faccenda. “No, ancora
niente.” “Allora andiamo, ti va? Ti pago un caffè in centro.
Prima che tu ti faccia del male un’altra volta.”
37.
Il
cielo era incredibilmente limpido. Qualche stria bianca qua e là si
rifletteva sulla landa ombreggiando le spighe ancora tenere del
granoturco. In lontananza, uno tetto bitorzoluto invaso dai camini si
stagliava svettante contrastando in modo familiare il
panorama. Ginevra giunse in fondo al viale che portava al giardino
della Tana. Il vento sibilava così forte da farle temere per i suoi
timpani. Si stringeva ancora nella felpa di fortuna prestatale da
Luna. Tutto sommato, avanzare a testa bassa, senza guardare la
strada, non le era tanto estraneo. Tuttavia, ferma davanti al
cancelletto, non riuscì a muovere un muscolo. “GINNY!” Si
voltò di scatto, intimorita. “RON!” “GINNY.” Ron
arrivò correndo, incespicando nei suoi lacci sfatti, la raggiunse e
la strinse con forza. Le baciò tutta la testa, la strinse di
nuovo. Ginny respirò profondamente l’odore di suo fratello, e si
sentì a casa come non lo era da tanto tempo ormai. Le traballò il
cuore nel petto. “Sono così felice, Ginny.” “Ron, ma cosa
ti è successo? Sei tutto scombinato.” Lo sguardo duro che le
rivolse le gelò il sangue. “Cos’è successo?” “E a
te?” “Io… ho voluto seguire due Ghermidori e dal Rio delle
Amazzoni mi sono ritrovata sotto al negozio di Magie Sinister. Se non
fosse stato per… qualcuno, sarei ancora rinchiusa in quella
prigione, o più probabilmente il troll prigioniero nella cella di
fronte alla mia mi avrebbe uccisa.” “Ma come… dove sei stata
finora?” “Luna. Mi ha ospitata lei.” “E Michael?” “Sta
bene. Sta… lui… oh, insomma. Non voglio parlarne.” “Va
bene, andiamo. La mamma probabilmente non dorme dal compleanno di
Harry.” Le mise un braccio sulla spalla e stringendola la
sospinse verso casa. “Oh…” Ginny si immobilizzò. “Cosa
c’è?” “Niente, dovrò sistemare la faccenda anche con
Harry… ho alcune …cose. A cui pensare.” “Hai incontrato
qualcuno, laggiù? In Brasile?” “No.” Rispose lei,
ingrugnita. “Strano, non è da te.” “Se tu sapessi cosa è
da
me…” Entrarono
cautamente dal retro della cucina e trovarono la signora Weasley
addormentata sulla sedia a dondolo, fra le mani aveva l’ultimo
numero della Gazzetta del Profeta. La Tana era rimasta la stessa
negli anni, nessuno dei figli l’aveva veramente abbandonata
andandosene di casa. Più precisamente, avevano sparso cosi’ tanti
oggetti personali che nemmeno con un secolo a disposizione sarebbero
riusciti a discriminare cosa fosse di chi, a partire dai gingilli
babbani del signor Weasley, passando per i vari maglioni di lana
grezza e i diari segreti nascosti fra i libri usati dei figli, le
figurine delle Cioccorane – un tesoro comune, le vasche con i
girini dello stagno e le puffole pigmee appoggiate sul caminetto in
bella mostra vicino alle cornici degli ultimi diplomi. La ragazza,
di ritorno a casa dopo lunghi mesi in mezzo alla foresta, ebbe un
potente moto d’affetto che non avrebbe creduto possibile, lei che
si reputava un’indomabile viaggiatrice. Si tolse la felpa e si
avvolse attorno lo scialle che sua madre aveva abbandonato su una
sedia del soggiorno. Le lancette dell’orologio magico si rimisero
in posizione. Ginny era di nuovo al sicuro. Ron si servì una tazza
di latte e si avvicinò a sua madre, ancora indeciso sul come
l’avrebbe svegliata. “Mamma…” le mise una mano sulla
spalla e la scosse delicatamente. “Merlino… Ron! Cosa ci fai
qui…” ma si zittì non appena vide sua figlia. Ginny era
avvolta nel suo scialle, con i capelli spettinati che le coprivano le
braccia fino al gomito, e aveva gli occhi pesti di quando piangeva
tutto il sabato mattina per i capricci. E Ron, lui era conciato
come una persona poco raccomandabile, aveva la camicia abbottonata in
modo asimmetrico, non infilata nei pantaloni, e i lacci delle sue
scarpe si trascinavano pietosamente sotto alle suole e all’incurie
di quel benedetto figlio da strapazzo. Le bastò una lunga
occhiata per capire cosa era successo. Era furiosa, così furiosa
che le si riempirono gli occhi di lacrime. “Vorrei sgridarvi,
tutti e due. Ma non ci riesco.” Li abbracciò stretti, li
costrinse a cozzare contro il suo petto. Ron, piegato in due per la
sua rimarcabile altezza, allungò le braccia goffamente attorno alle
due donne. “Profumi di donna.” Sentenziò Ginny rivolta a Ron,
sbucando dal collo odoroso e familiare di sua madre, storcendo il
naso all’odore dolciastro e sconosciuto. Gli pizzicò la guancia
con fare ammonitore. Ron sembrò più arrabbiato di prima, ma
stranamente non rispose alla provocazione. “Sei stata via così
tanto… Ron vive con Hermione, adesso, sai?” la signora Weasley
prese la figlia per mano e la condusse a tavola, lasciando che Ron si
adagiasse sulla poltrona ancora calda vicino al caminetto. “Avete
fame? Io ho bisogno di un tè caldo.” “Mamma, più tardi
dovrei passare… insomma, testimoniare… contro i Ghermidori…” “Tu
non andrai da nessuna parte fino a nuovo ordine.” “Mamma ti
prego… non ho più dieci anni. È importante, davvero.” “Sai
cos’è importante? È importante non raccontare bugie ai propri
cari. E tu, cara,
me ne stai preparando una grossa come una casa. È solo un
suggerimento. Ti consiglio
di parlare.” “Mamma, lasciala respirare. Non dev’essere
stato facile nemmeno per lei.” Intervenne Ron. La signora
Weasley lo fulminò con lo sguardo. “Non ho detto questo. Non ho
detto questo…” Ron per poco non si pentì di aver parlato; sua
madre sembrava tremendamente avvilita dai sensi di colpa. La osservò
mentre preparava la colazione e gli sembrò più piccola che mai. “Ha
ragione lei. Avrei dovuto dirvelo prima che stavo bene.” Disse
Ginny. “E mi dispiace. Ho avuto tanti problemi e non sapevo come
affrontarli.” “Non pensi che avresti potuto parlarmene?”
rispose la signora Weasley, piazzandole davanti due tramezzini
tostati e un bicchiere di latte. Ginny non poté trattenere un
sorriso sincero, malgrado il sermone. Sua madre alzò gli occhi al
cielo in un tentativo imbarazzato di trattenere le lacrime che in un
primo momento non si erano fatte avanti. Ma ora il sollievo era quasi
sconvolgente. Sua figlia era lì con lei, e tutto era tornato al suo
posto. Ginny, stoica di natura, la guardava con gratitudine. Quasi
non credeva di poter assaggiare quelle leccornie ancora una volta. Si
avventò sul cibo come un’affamata, mentre sua madre e suo fratello
si scambiavano uno sguardo apprensivo. “Ho mangiato in questi
giorni, non vi preoccupate. È solo che… mi è mancata
casa.” Disse, candidamente. Ron sorrise reclinando la testa
all’indietro sullo schienale. “Tu non mangi niente,
Ronnie?” Ron storse la bocca. “Magari, qualcosina, se
c’è.” Ammiccò a sua madre indaffarata e socchiuse gli occhi
con immensa gratitudine. “Ti ho messo un’omelette sul fuoco.
Stai attento a non bruciarla. Vado a mandare subito un gufo a vostro
padre. Speriamo gli concedano di tornare a casa presto oggi…” Si
dileguò su per le scale scricchiolanti alla ricerca del piccolo
Leotordo, chiamandolo a gran voce. Rimasti soli, calò il silenzio
temporeggiato dai rumori di stoviglie e dalla masticazione sonora
della ragazza. “Si può sapere cos’hai combinato?” chiese
Ginny a bruciapelo. Ron si alzò mollemente e raggiunse i
fornelli. Passando, le strinse la spalla. “Allora?” “Un
pasticcio, ma tanto ormai era già andato tutto in brodo.” Rispose
lui, scrostando la frittata dalla padella. “Ci stiamo lasciando.
Probabilmente.” Ginny posò la tazza rumorosamente. “Che
cosa accidenti vorrebbe dire probabilmente?” Si
voltò a guardare suo fratello. Era occupato a rigirare la frittata
che ormai era diventata un grumo bruciacchiato al centro della
padella. Sembrava profondamente rassegnato. Ron si servì il
materiale grumoso in un piatto con una porzione generosa di ketchup e
si sedette vicino a lei. Ginny, a capotavola, gli puntò il
cucchiaino sotto al naso. “Parla, Ronald.” “Hermione ha
deciso che io non vado più bene per lei. Così ho deciso di
lasciarla io per primo.” “…e?” chiese lei, veemente. “E
stanotte ho dormito con un’altra.” Ammise lui, masticando con
disgusto un boccone bruciacchiato. A Ginny cadde il cucchiaio di
mano. “Stai scherzando, spero.” “Non mi giudicare. Io…
ho bevuto alcol e… Merlino, lei è praticamente il mio capo
all’Accademia…” La teiera fischiò indispettita fino a che
Ron si decise ad alzarsi per togliere l’infuso. “Il tè è
pronto.” Borbottò. Le versò il tè nel latte in un tentativo
goffo di premura, sporcando irrimediabilmente la tovaglia. “Gratta
e netta.
Sia maledetto il… beh, meglio di niente.” Tornò a sedersi e a
osservare con costernazione il suo piatto. Si mise le mani fra i
capelli. Ginny raccolse il cucchiaino e tornò a mescolare il tè nel
latte. Quei minuti furono fonte di incredibili sensi di colpa per
Ronald. Alla luce del giorno era difficile accettare quello che la
sua coscienza si era buttata alle spalle la sera prima. “Credo
sia un difetto di famiglia.” Buttò lì Ginny, tossicchiando. Ron
alzò lo sguardo immediatamente. La guardò fra le dita,
stropicciandosi il viso. “Però tu almeno avevi una
motivazione…” si precipitò a dire lei. “Hai tradito Harry?”
gemette Ron in falsetto. “Zitto, deficiente. Se ci sente la
mamma…” “Hai tradito Harry?” “Devo ricordarti che sei
stato tu il primo a confessare e cosa?” ringhiò Ginny,
piccata. “Con chi?” si protese sul tavolo, urtando ciotole e
bicchieri con le braccia. Lei istintivamente indietreggiò. “Senti,
è complicato. Anche perché è stata una cosa sbagliata e insomma ce
ne siamo accorti per tempo e adesso non abbiamo più niente a che
fare io e lui.” Riconobbe chiaramente un lampo di comprensione
negli occhi chiari del fratello. “Quel Corner.” La
accusò. “Cos’è questo tono sprezzante? Non posso credere che
venga da te. Voglio dire, Ronald, da che pulpito…” “Cos’ha
Harry che non va?” Ginny si fece di ghiaccio. Cos’era quella
domanda, che senso aveva? Non aveva appena detto anche lui di aver
fatto qualcosa di sbagliato? Non si sentiva in colpa? Si credeva
forse giustificato? “Senti, Michael e io siamo stati amici per
molto tempo e…” Si interruppe, osservando lo sguardo carico di
tristezza di suo fratello. I suoi occhi grigi erano sporcati dal
disprezzo, dalla paura, erano così allarmati. Ron sembrava fuori di
sé. Era un’altra domanda che stava ponendo. Cosa
ho io che non va. Se non va bene uno come Harry, come posso andare
bene io. Ecco
cosa passò per la mente di lei, mentre osservava Ron afflosciarsi
attorno al suo piatto, sconfitto. Ecco che ricompariva quel lato
odioso di suo fratello; lui aveva sempre faticato a credere in se
stesso, ed Hermione era stata la prima a credere in lui, a notare lui
e solamente lui. Non stava andando in frantumi solamente una
relazione, ma tutto il mondo e i castelli di carta di Ron. E lei non
ci poteva fare niente. Era colpevole di chissà quale crimine. Aveva
preferito dare una possibilità a Michael, piuttosto che restare
fedele a Harry, questo sì. Al di là del contesto, dei suoi
sentimenti, lei stava togliendo a Ron qualsiasi possibilità di
salvezza, con il suo comportamento. Se
le cose stanno così… Le
salì una rabbia in corpo che trattenne a stento mentre sbatteva il
cucchiaio sul tavolo. “Harry non c’entra niente. Harry è
buono e caro, ma non è l’uomo giusto per me e io non posso più
stare con lui, non dopo aver capito che ho bisogno di altro.” Lo
disse con un tono così basso e risoluto che stupì anche se
stessa. “Ti è chiaro il concetto?” “Limpido.” Ribatté
subito Ron. “E com’è andata a finire, con Corner?” le chiese,
velenoso. “Michael, si chiama Michael! Male, malissimo. Come
doveva finire. Non mi interessa.” “Bugiarda.” “Non sono
affari tuoi!” “Si che lo sono! Harry è il mio migliore amico
e tu…” “E io l’ho tradito, IO, non tu! Ora smettila di
sovrapporti alle sue disgrazie come se l’intero mondo femminile
fosse contro di voi!” sbottò. “Non è colpa di nessuno. Oh, non
posso credere che mi sto giustificando con te.” “Giusto,
perché dare spiegazioni alla feccia
di tuo fratello…” "Piantala." “No che non la
pianto! Devo andare.” Allontanò da sé il piatto con il grumo
di uovo bruciato e si alzò rumorosamente. “Ron.” Raccolse
rapidamente una giacca dall’appendiabiti – poteva essere solo di
Percy, vista la taglia e lo stile ricercato – e si avviò a grandi
passi, spostando le sedie, verso la porta aperta sul cortile. “Ron!
Dove stai andando?” chiese Ginny, terrorizzata. Ecco, stava per
espiare tutte le sue colpe per aver voluto rispolverare un vecchio
sogno dimenticato nel cassetto. Ci
siamo. È la fine. “Non
ti preoccupare, non dirò niente a Harry. Non voglio toglierti il
piacere di dirglielo di persona. Vado a spiegargli perché me ne sono
andato ieri sera. Almeno lui capirà. Dì a mamma che avevo da fare.”
Fece qualche passo senza voltarsi e si dileguò. Si era
smaterializzato.
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Capitolo 16 *** Nell'occhio del ciclone ***
Dal
capitolo precedente:
Raccolse rapidamente una giacca
dall’appendiabiti – poteva essere solo di Percy, vista la taglia
e lo stile ricercato – e si avviò a grandi passi, spostando le
sedie, verso la porta aperta sul cortile. “Ron! Dove stai
andando?” chiese Ginny, terrorizzata. Ecco, stava per espiare
tutte le sue colpe per aver voluto rispolverare un vecchio sogno
dimenticato nel cassetto. Ci siamo. È la fine. “Non ti
preoccupare, non dirò niente a Harry. Non voglio toglierti il
piacere di dirglielo di persona. Vado a spiegargli perché me ne sono
andato ieri sera. Almeno lui capirà. Dì a mamma che avevo da fare.”
Fece qualche passo senza voltarsi e si dileguò. Si era
smaterializzato.
38.
Fianco
a fianco per Diagon Alley, Harry ed Hermione fendevano la calca.
Harry era imbacuccato in una sciarpa di lana rossa e oro poco adatta
alla stagione, e continuava ad allargarsela con fastidio mentre a
ogni passo Hermione si voltava e gliela sistemava con impazienza.
C’era un vento quasi tiepido ad accarezzare la pelle, un dannato
sollievo per Harry, che si trascinava teso dietro alla ragazza, come
se non avesse scelto personalmente di essere lì, ed effettivamente
avrebbe preferito essere altrove; a cercare quei dannati Serpeverde,
per esempio. Era l’unica cosa alla quale fosse riuscito ad
aggrapparsi dopo la scomparsa di Ginny. Li odiava già, e i
sentimenti gli erano parsi ricambiati. Quella schifosa della
Greengrass l’aveva preso in giro e lui nemmeno sapeva chi fosse
fino al giorno prima. Tutto quell’astio nei suoi
confronti… Sorseggiò il caffè dalla tazza di carta che avevano
preso da Florian. Hermione gli aveva davvero pagato il caffè. Non
che navigasse nell’oro, lui lo sapeva. Era semplicemente troppo
preoccupato per il resto, per rendersi conto di aver appesantito le
sue finanze. Si sentì un po’ in colpa, ma si ripromise che le
avrebbe pagato il prossimo caffè. Un’occasione avrebbero finito
per trovarla, no? Fra un disastro e l’altro… Avevano appena
lasciato Rexford alle cure di Daniel Haroche e, sebbene Hermione
fosse certa delle sue qualità di Medimago, avrebbe preferito mille
volte essere presente se il ragazzo si fosse svegliato, per cui
camminava a piccoli passi svelti, e quasi Harry non le stava dietro.
Per qualche motivo lui sembrava particolarmente lento, un po’
confuso, forse preoccupato, e aveva dovuto richiamarlo più volte
alla sua attenzione. Quando lei si fermò davanti all’erboristeria
cedendogli il suo bicchiere di caffè da asporto – con molta panna
e molto caramello –, Harry si arrestò accanto a lei,
interrogandola con lo sguardo. Era sospettoso da quando lo aveva
addobbato come di un albero di Natale appena prima di uscire, e di
certo non era per il freddo. “Aspettami qui.” Gli rispose lei,
facendo scampanellare la porta. “Herm, un attimo.” Le tese il
portafogli, che lei spinse indietro più volte, prima di accettarlo
per accelerare le cose. “Per il caffè. Dai.” “Torno fra un
attimo.” Harry non si scompose, e attese svogliatamente che
facesse ritorno con una busta di carta piena di ingredienti freschi.
Lei frugò e gli offrì un tubo di pomata. Lui scoppiò a ridere. Era
una specie di crema coprente per le cicatrici. “Sul serio?
L’ultima volta che ho controllato non avevo più brufoli da almeno
sei anni.” “È per la tua voglia, Harry.” Borbottò lei,
arrossendo. Harry non aveva nessun brufolo, naturalmente. Era solo
terribilmente pallido, ma lo era sempre stato. “Ti ringrazio,
non credevo di averne bisogno…” La buttò sul ridere. Hermione
a volte era fin troppo premurosa. “Mi aiuti tu? Non so nemmeno
dove diamine sia questa voglia.” Lei gli fece cenno di sì. Lo
spinse in un luogo un po’ più appartato, dove la gente non li
avrebbe urtati se fossero stati fermi in mezzo alla strada. “Togliti
la sciarpa.” “Grazie al ciel… ah, che mani fredde!”
esclamò, sobbalzando. “Vedi di stare immobile.” “Stavo
soffocando con questa sciarpa. C’è veramente caldo oggi. Sai, la
signora Weasley è tanto cara, ma… la lana mi fa prudere un sacco.
Non mi è mai piaciuta.” Borbottava così serenamente che lei, a
una spanna dal suo viso, sorrideva sotto i baffi. Quando Harry
abbassò lo sguardo e trovò il suo naso a punta così vicino, si
sentì un po’ strano. Come se non fosse giusto
esserle tanto vicino. Ma non osò allontanarsi. Rimase fermo, a
disagio, mentre lei gli picchiettava il collo con i polpastrelli e
manteneva una dura espressione corrucciata. “Ecco fatto.
Dovrebbe bastare fino alla tua prossima doccia. Mi raccomando,
rimettila frequentemente, non posso fare niente di più per te. La
pozione ha bisogno di almeno due settimane per maturare.” Alzò
lo sguardo accigliato e trovò Harry occupato a studiare il suo viso.
I suoi occhi avevano una sfumatura chiaramente diversa. Come un
riflesso vitreo, ed era assurdo non averlo mai notato prima. Fece
per allontanarsi di scatto, ma lui la precedette, e la spinse al
muro, la bocca tanto vicina alla sua che sentì l’alito caldo
solleticarle la pelle. Sembrava avesse l’intenzione di…
baciarla? “Harry, che cosa stai…” sbottò subito. Harry
parve sovrappensiero. I suoi occhi tornarono di color verde
bottiglia. Gli occhi buoni di Harry. Harry il suo migliore amico.
Harry il buono. Harry? “Harry?” “Uh. Scusami,
Hermione.” “Andiamo, presto, prima che…” lo agguantò per
la giacca, ma lui rimase fermo, e lei, ancora intrappolata, dovette
restare ad ascoltarlo. “Senti, Hermione.” Disse, come se non
fosse successo niente, “Non è che mi spiegheresti la faccenda?
Perché io personalmente non ci vedo niente di male ad avere una
voglia sul collo. Non mi sembra che sia chissà che diavoleria
malvagia… ma non vorrei sbagliarmi. Non è una specie di marchio,
vero? Mi hai fatto preoccupare.” Hermione, ancora turbata,
rispose con un filo di voce: “La voglia è l’espressione
fisiopatologica di un tuo desiderio recondito, che sembra essere
legato a un qualche incantesimo, perché altrimenti non si
manifesterebbe – ne esistono di diversi colori, a seconda del tipo
di desiderio. È un’aberrazione, ovviamente, altrimenti saremmo
tutti cosparsi di macchie fino a diventare multicolore: appare solo
sulla pelle delle persone che soffrono di un bisogno… impellente…
e non lo risolvono per bene, ovvero che tentano di usare la magia in
modo improprio… per esempio…” e si fermò, non aveva preso
fiato fino a quell’istante. Arrossì vistosamente. All’improvviso
il comportamento di Harry le era parso più chiaro. Poverino, per
prendersela con lei non doveva più avere il controllo sulla sua
mente… “Per esempio?” la incalzò lui, avvicinandosi un po’
di più, senza rendersi conto di tenere in una morsa stretta entrambi
i suoi avambracci fra le mani. “Per esempio, se tu cercassi di,
uhm, ignorare con delle pozioni amnesiache i tuoi sentimenti per una
ragazza, o se prendessi delle pozioni soporifere per dormire e non
pensarci troppo, o se tentassi di infatuarti di un’altra con la
magia…” “Ho capito.” Harry si allontanò in preda a un
fremito profondo. I suoi sogni ricorrenti! Mentre Hermione tirava un
sospiro di sollievo, lui prese a camminare avanti e indietro, con le
sopracciglia contratte e le labbra assottigliate in un’espressione
di astrazione analitica. La ragazza si spostò un ciuffo disordinato
dalla fronte e portò la mano alla bocca per mordicchiarsi le unghie.
Vedere Harry così sovrappensiero… era chiaro. Lui doveva sapere
cosa gli stava succedendo, ma, sebbene l’argomento fosse parecchio
imbarazzante, Hermione sentì una punta d’inquietudine e di offesa:
era la prima volta che non parlava con lei per confidarsi. E se
avesse avuto dei problemi con Ginny? No, impossibile… le era
sembrato così innamorato, quando avevano parlato di lei. E così
preoccupato… Harry interruppe il filo dei suoi pensieri,
avvicinandosi di nuovo, con gli occhi alla stessa altezza dei
suoi. “Hermione, c’è altro che dovrei sapere?” L’urgenza
nella sua voce confermò ogni suo dubbio. “Sì. Tutta la
comunità magica sa cosa significa. È meglio non essere visto in
giro con quella roba.” “Cosa rappresenta il rosa?” le
chiese, con un accenno di timore, mentre le guance gli diventavano
porpora. Lui
sapeva. “La
passione inespressa.” “Ridicolo.” Harry scoppiò a ridere
in modo leggero, mentre gli angoli delle labbra tornavano invece
rapidamente a piegarsi verso il basso. Ora fissava la sua migliore
amica come a soppesare quanto lei potesse aver indovinato dei suoi
pensieri. L’imbarazzo era tale da spingere entrambi a guardare
altrove. Hermione si decise a muoversi per prima, quel siparietto era
durato fin troppo, gli diede una spinta sul petto e scartò a destra,
facendogli cenno di seguirla. “Avanti, non c’è tempo da
perdere.” “Cosa vorresti dire?” “Che quella macchia
diventerà sempre più grande, fino a farti diventare rosa dalla
testa ai piedi, e poi rosso. E tu non vuoi che il mondo intero sappia
che sei sessualmente frustrato.” “Cos…” Lei lo prese
per mano e si smaterializzò.
Una volta davanti alla porta di
casa, Harry comincio a trafficare con le chiavi. Aveva la testa
altrove. Doveva assolutamente capire chi aveva instillato quei
maledetti ricordi nella sua mente. Per colpa di quella persona, stava
rischiando la salute mentale. Hermione, dietro alle sue spalle,
gli regalò un’occhiata sconsolata. Era così agitata per quella
faccenda. Com’era potuto succedere? Ora avevano un mucchio di cose
a cui pensare: Ginevra scomparsa, Harry in preda a chissà quale
ossessione di cui non voleva sapere assolutamente nulla, il ragazzo
francese fra i piedi, l’auror Grant più di là che di qua sul
divano di Harry e la possibilità di scovare i colpevoli, e non
ultimo quel disgraziato del suo fidanzato… Il suono delle chiavi
nella toppa la fece abbandonare contro la parete dell’antro: una
volta aperta, avrebbero avuto un miliardo e mezzo di cose da
affrontare, e lei non aveva la più pallida idea di quale sbrogliare
per prima. All’ultimo scatto nella toppa, però, il ragazzo si
voltò e la sorprese a guardarlo preoccupata. Vide i suoi pensieri
volare via e lasciare spazio all’espressione assillante di
Harry. “Hermione, stai tranquilla.” “Oh, non dirmi di
stare tranquilla Harry Potter.” Alzò gli occhi al cielo. “Che
cosa c’è, adesso?” si apprestò a dire lui, che cominciava a
sentire puzza di litigata. “Ne hai parlato con qualcuno, Harry?”
sbottò lei, stupendo anche se stessa. “Di che cosa?” “Non
fare il finto tonto con me.” “Ok, sì Hermione.” Replicò
lui, con gli occhi che saettavano per evitare il suo sguardo “Con
Ron. E gli avevo detto di non parlartene. Non prendertela con lui. È
colpa mia.” Penoso. Facevano ancora comunella alle sue spalle
come dei ragazzini. E lei aveva anche il coraggio di preoccuparsi per
loro! Hermione, su tutte le furie, smise di rivolgergli la parola,
gli prese di mano la chiave ancora nella toppa e girò, poi spalancò
la porta e si premurò di darle una spinta per chiuderla proprio
mentre entrava Harry. “Non puoi prendertela perché ne ho
parlato con lui, Hermione! Dai, per favore! Non sarai
mica…” “Gelosa?” si voltò a fulminarlo lei. Certo che
lo era. Come poteva pensare di affidarsi a Ronald e non a lei?
Pensava che lui avrebbe trovato una pozione? Che avrebbe anche solo
cercato
una pozione? Quell’indicibile gnomo da giardino, quell’insofferente
babbeo, quel…
“Ehm, ragazzi…” Daniel, con i
capelli biondi arruffati che sbucavano da un berretto e un sorriso
radioso stampato in faccia uscì dalla cucina e cercò di
intromettersi, con le mani aperte e volte verso di loro, in segno di
pacificazione. Harry stava per dirgli che ne aveva abbastanza sia di
lei che di lui, che del ragazzo più morto che vivo sul divano, ma si
fermò come se qualcuno avesse premuto il tasto stop. Smise perfino
di respirare. C’era qualcuno nascosto dietro il mago
francese. “Ciao Harry.” “Ginny…?” Si precipitò a
stringerla, scansando Daniel come un fantoccio. Le stampò una scia
infinita di baci sulle labbra, preso com’era dall’emozione, ma
avvertì rapidamente che qualcosa non andava, e sentì l’entusiasmo
scemare bruscamente. “Ron è stato qui, ma aveva da fare in
Accademia, Harrì.” Intervenne Daniel, cercando di farsi piccolo
piccolo. Hermione, da lontano, osservò le spalle di Ginny
sciogliersi quasi istantaneamente. Si avvicinò e guardò a lungo
l’amica negli occhi; le prese le mani e le strinse. Si guardarono a
lungo, senza una parola, e si abbracciarono. “Mi dispiace di non
essere tornata subito. Ho avuto dei problemi… e ho dovuto
risolverli. Tutto qui. Sto benone.” Non era del tutto vero. Si
stringeva i gomiti nelle mani in maniera spasmodica, e si torturava
le labbra guardandoli tutti negli occhi a turno. Harry sembrava non
vedere altro che Ginny. Il suo sguardo, tuttavia, l’attraversava
senza fermarsi. Nessuna rifrazione. Pareva confuso. “Ti spiace
spiegare?” “Preferirei parlarne con te in privato.” Harry
lanciò un’occhiata al francese. “E va bene. Daniel, scommetto
che non vedi l’ora di tornare in Brasile? Andiamo in Accademia a
chiudere il caso. Ci sono pattuglie, oltre alla nostra, che stanno
lavorando senza sosta e, ecco, insomma, Ginny è visibilmente qui.
Voglio dire…” “Ho già preparato le mie cose.” “Ottimo…
Ginny, io… mi aspetterai qui? Insieme a Hermione?” Lanciò
un’occhiata fulminea all’amica che annuì risentita, prima di
ricordarsi il motivo della loro litigata. “Hermione, per la,
ehm, cosa… di cui parlavamo prima.” “Me ne occuperò stasera
a casa. A meno che tu non voglia farlo sapere a tutto il
mondo.” Suonava tremendamente come una minaccia, così Harry
salutò frettolosamente Ginevra, ancora incredulo, e fece strada a
Daniel Haroche per condurlo finalmente fuori dai quattro muri del suo
appartamento.
39.
Il Ministero della Magia
brulicava di gente, lavoratori impettiti di ogni sorta, stormi di
messaggi svolazzanti, ed era intimamente concorde alla sua versione
precedente l’avvento del Signore Oscuro. Che la tranquillità fosse
tutta scena, comunque, era difficile a dirsi. Forse era più
facile tornare alla normale quotidianità per la maggior parte delle
persone. La vita doveva andare avanti. Alcune categorie di maghi,
soprattutto quelli meno fortunati, avevano accettato di buon grado la
fine della psicosi, e l’idea che un potente mago “bianco”, come
il giovanissimo Potter, fosse pronto a sacrificarsi contro la sua
nemesi e a sconfiggerla era tutto sommato accattivante. Risaltavano
fra gli altri perché indossavano, in segno di rispetto e
gratitudine, un indumento qualsiasi di color verde smeraldo, e poteva
trattarsi di una sciarpa elegante come di un vistoso cappello di
velluto. Non fu difficile immettersi nella mischia, ma il fiume di
corpi non si fermava mai, soprattutto verso le undici del mattino,
l’orario dell’imprescindibile pausa caffè. Era da anni che
Seamus non metteva piede nel centro nevralgico del mondo magico. Era
basso, tenace, avanzava a spalle larghe e con la testa bassa, ma
sembrava impossibile andare contro la corrente. Dopo qualche spintone
si decise a mettersi in disparte per osservare una pergamena
stropicciata, masticando parole colorite. Non si accorse che qualcuno
lo aveva seguito fino a quell’istante e cercava di attirare la sua
attenzione. “Cerchi qualcosa?” Il signor Weasley, alto,
stempiato, con una piccola spilla verde a forma di quadrifoglio
appuntata nella veste da mago, gli sorrideva con garbo. Seamus lo
trovò tremendamente invecchiato. Perfino il suo sorriso sembrava
tirato in una ragnatela di piccole pieghe carnee. Spiccavano, nel
pallore del viso, i suoi occhi grigi, incredibilmente luminosi.
Ridevano. Ricordavano tremendamente quelli di Ron, e un istante dopo
quelli dei gemelli Weasley, in un modo familiare, tenero e un po’
amaro. “È così bello incontrarla, signor Weasley! Come sta? È
un pezzo che…” Un leggero tremolio della voce passò
inosservato nel suo sincero entusiasmo. Seamus si zittì,
imbarazzato. “Mi dispiace, io… dopo tutti questi
avvenimenti…” “Finnegan, rilassati. È una giornata
bellissima, oggi.” Lo prese per le spalle e gli tolse la pergamena
di mano, osservando con le sopracciglia corrucciate una serie di
indicazioni scritte da qualcuno che doveva aver avuto molta fretta.
“Lascia che ti accompagni. È per di qua. Devi sapere, ragazzo, che
mia figlia è tornata a casa da sola. Non so se mi spiego.” A
Seamus quasi cadde la mandibola. Stava per congratularsi, ancora
scioccato, stupefatto, quando il mago lo spinse in una stanza senza
preavviso. Il ragazzo starnutì convulsivamente, guardandosi
attorno. Sembrava un ripostiglio molto, molto polveroso. “Ginny!
E… sta bene?” “Sembra che stia bene. Ho avuto il permesso di
tornare a casa oggi, pare che sia arrivata stamattina presto.
Probabilmente organizzeremo una piccola cena, niente di che, stasera,
con Molly e i ragazzi. Vorresti passare a salutare qualcuno?” Seamus
non ci pensò due volte. “Ma certo!” disse, ancora leggermente
a disagio. Si guardava attorno, ma il signor Weasley non dava
segni di volergli spiegare il perché del luogo in cui si trovavano.
Sembrava felice in un modo quasi folle. E se non volesse veramente
aiutarlo? E se avesse capito qualcosa, se Seamus si fosse fatto
sfuggire involontariamente qualcosa? Cosa gli avrebbero
fatto? “Tranquillizzati, ragazzo. Non dirò a nessuno che sei
venuto qui. Stai cercando qualcosa che non dovresti, e tu lo sai.”
Gli disse, grave, il signor Weasley. I suoi occhi non ridevano
più. “Si, io… ehm.” “So che sei stato accettato
all’Accademia. Riguarda un’inchiesta?” “Eh… si, proprio
così, signore.” “Facciamo così, dato che non mi
dispiacerebbe vederti dare un paio di calci nel sedere a Ronald –
giusto educativi, sia chiaro – e a Harry, ti darò una mano.
Prometti che non ne parlerai con nessuno?” “Certamente.” “Allora
affare fatto. Non una parola, intesi?” “Chiaro.” Ridacchiò
nervosamente. Il signor Weasley puntò la bacchetta sulla
pergamena e gli scarabocchi divennero una mappa perfettamente
leggibile dei sotterranei del Ministero. Il sollievo si fece strada
nel cuore di Seamus. “Grazie davvero, non so come
ringraziarla.” “A stasera.” Il signor Weasley uscì per
primo dalla stanza. Seamus si ritrovò solo con la mappa fra le mani.
Adesso, doveva sbrigarsi.
40.
Harry, ancora sotto shock
per aver rivisto Ginny, lasciò Daniel in balia degli Auror, che si
prodigarono a trovare un modo per rispedirlo in missione il più
rapidamente possibile. Imboccò così solo le scale per il piano
terra dell’Accademia con un passo galoppante. Gli era parsa così
cambiata, così… lontana. Forse, se possibile, ancora più
selvatica. Probabilmente non si era più tagliata i capelli. Sembrava
in forma, non più deperita della volta precedente, in cui era
tornata dal Brasile per una breve pausa e doveva aver perso almeno
sei o sette chili. No, aveva le guance colorite, la bocca stretta in
una smorfia indignata, e quei suoi occhi erano tristi e in tempesta.
Quasi non si accorse del bolide che avanzava verso di lui salendo le
stesse scale: lo scansò all’ultimo, riconoscendo Seamus sotto al
cappuccio. “Ehi, amico.” “Seamus, che ci fai qui?” Si
fermarono, entrambi, a qualche scalino appena di distanza, prima
dell’urto. Harry rimuginò rapidamente sulle possibili ragioni
della presenza della nuova recluta ai piani alti, ma non trovò
assolutamente niente. Strano. “E tu, che ci fai qui?”
contro-domanda. Nascondeva qualcosa. “Ginny sta bene, ci
aspetta a casa. Sto andando proprio a raggiungerla, ho solamente
dovuto avvisare le varie pattuglie.” “Oh. Grandioso.
Capisco.” “Grandioso? Seamus, che ti prende?” “Niente,
amico. Devo proprio salire. Mi ha convocato Dawlish. Mi scuserai con
Ginny se passo a salutarla un altro giorno, ora devo andare.” Harry
si materializzò immediatamente davanti alla porta di casa, in preda
a dubbi infimi come serpenti in una cesta: cominciò ad avere un gran
mal di testa. Troppi intrecci, troppi ostacoli. Gli aprì
Ginevra. “Harry.” “Ginny.” Si chiuse la porta alle
spalle, indietreggiando, prendendole la mano e attirandola verso di
sé. “Come stai?” Lei non oppose resistenza, ma non si
avvicinò più di tanto. All’improvviso, cominciò a tremarle il
mento. “Mi dispiace tanto, Harry. Sono un mostro.” Si
infilò sotto alle sue braccia e lo strinse, aggrappandosi alla
maglia, singhiozzando in silenzio. Harry alzò lo sguardo e trovò
quello di Hermione. Sembrava estranea a ciò che aveva davanti, i
loro corpi intrecciati, i lunghi capelli di rame che brillavano sotto
al faretto dell'ingresso, l'appendiabiti triste e appesantito accanto
a loro, il muro bianco, tetro, la luce che sporcava ogni cosa in
prospettiva: ricambiava la lunga occhiata senza voce, e Harry si
sentì a sua volta spettatore. Chi erano loro? Chi era Ginevra
Weasley, oggi? Chi era Harry Potter, il ragazzo sopravvissuto, il
Marchiato, il frustrato con le voglie violacee? E chi era quella
damigella che li guardava, da dietro la frangia tutta onde, con
un’espressione emozionata e senza tempo?
41.
“…Corner
si è costituito.” “Chi diamine è Corner?” “Un ex
Corvonero del mio anno scolastico. Sarà sottoposto a giudizio la
settimana prossima.” “Per?” lo incalzò il ragazzo, con una
voce un po’ nasale, in uno scatto rabbioso, da dietro la
maschera. “Pare che avesse dei contatti a Notturn Alley. È un
lavoratore stagionale, si occupa di materie prime e rifornisce
erboristi e fattucchieri di bacchette un po’ dappertutto. Pare che
quegli stessi contatti lui non li abbia mai denunciati, pur avendone
la possibilità, e ora dovrà spiegare perché, visto che è venuto
tutto a galla quando è esploso Magie Sinister’s. Era un tipo a
posto, a scuola. Frequentava molto Ginevra Weasley, ma non saprei
dire se fossero in contatto già prima del viaggio in
Brasile.” “Potrebbe interessarci sapere anche questo.” “Ah
davvero?” Seamus cominciò a perdere la pazienza. “Sentite, non
mi piacciono granché i vostri modi.” “Ci sta minacciando? Ci
sta minacciando.” “Ti sbagli, non mi interessano i conflitti,
ma non mi fanno paura. Voglio solo farla pagare a chi è dietro a
tutto questo.” “Il giustiziere di Godric.” Lo canzonò
l’altro. “Falla finita, muso oblungo. C’è altro che
vorreste sapere o no? Ho da fare.” “Sì. Cosa ne pensa
Dawlish?” Seamus fremette, ma non rischiò: “Dawlish ha
collegato un paio di piste a Londra con il traffico sud americano. È
convinto di sapere chi ci sia dietro, ma non me l’ha voluto dire
esattamente. In effetti, chiacchierare di dossier confidenziali con
una recluta neonata con una manciata di giorni di servizio alle sue
spalle ha dell’inverosimile. Spero che ne siate entrambi
coscienti.” “Va bene. Noi dobbiamo restare discreti per
qualche tempo, non vogliamo destare sospetti in qualche mente
particolarmente debole e bacata, e mi riferisco ai tuoi amici
ficcanaso. Fai in modo che non succeda, e tutto andrà come si deve.
Ci aggiorniamo non appena avrai nuove notizie.” “Come vi
contatto?” “Ti contatteremo noi.” “Alla
prossima.” Seamus si calò il cappuccio e uscì dal vicolo buio.
Apprezzò la luce giallastra dei lampioni, un po’ meno il vento che
lo investì. Quella sera sarebbe tornato a casa a piedi: avevano
convenuto così, e poi aveva molte cose a cui pensare.
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Capitolo 17 *** Troppo di tutto ***
Dal
capitolo precedente:
"Noi dobbiamo restare discreti per
qualche tempo, non vogliamo destare sospetti in qualche mente
particolarmente debole e bacata, e mi riferisco ai tuoi amici
ficcanaso. Fai in modo che non succeda, e tutto andrà come si deve.
Ci aggiorniamo non appena avrai nuove notizie.” “Come vi
contatto?” “Ti contatteremo noi.” “Alla
prossima.” Seamus si calò il cappuccio e uscì dal vicolo buio.
Apprezzò la luce giallastra dei lampioni, un po’ meno il vento che
lo investì. Quella sera sarebbe tornato a casa a piedi: avevano
convenuto così, e poi aveva molte cose a cui pensare.”
42.
Ron
sedeva nella poltrona del piccolo salotto di Hermione. Si rigirava
stancamente una scatolina fra le mani: tanti sacrifici per niente.
L’apertura a scatto, che lui fece scricchiolare ripetutamente fino
al tintinnare delle chiavi sulla porta, lasciava intravedere un
anello magro di argento purissimo, dotato di un diamante circondato
da una corona di minuscoli zirconi. Hermione entrò e appoggiò
sul tavolo una busta di tela piena di bottigliette e barattoli di
vetro da erborista che richiamarono definitivamente Ron al momento
presente. Era venuto per chiarire: si fronteggiarono. Hermione
abbassò lo sguardo, stanca. Si avvicinò e gli accarezzò i capelli,
spazzandoli ai lati, sulle tempie, con un sospiro così pesante da
far vacillare la determinazione di Ron. Si capirono. Non ci fu
bisogno di parlare. Ron fece scomparire in tasca la scatolina con
un gesto tanto indifferente da eludere l’attenzione della ragazza.
Hermione si slegò i capelli e appoggiò il fermaglio sul tavolo;
cominciò a svestirsi per indossare qualcosa di più comodo. Si tolse
i piccoli orecchini che portava e si allontanò, andando nel loculo
che era la sua camera da letto. Era ormai in intimo, con la sola
canottiera morbida a coprire le sue timide forme. Si lasciò sfuggire
un altro sospiro. Che cosa doveva fare? Da dove cominciare? Perché
doveva essere sempre tutto così complesso, così pesante? Non aveva
voglia di litigare. E nemmeno Ron sembrava averne voglia. Come
l'aveva guardata, qualche istante prima... la fece rabbrividre e
scuotere vivamente la testa. C'era tanta colpevolezza nel suo sguardo
da farle pensare al peggio. Eppure, i suoi occhi grigio-azzurri
l'avevano rimirata per l'ennesima volta come se fosse un bellissimo
fiore sbocciato per caso nel proprio giardino mal curato. Nessun
altro l'aveva mai guardata in quel modo. Era di questo che si era
innamorata? Dell'impressione di essere amata? Fisicamente Ronald era
un bel ragazzo. La risolutezza e gli anni avevano dato un senso a
quelle sue ganciotte morbide. Era attraente, non fosse che per il suo
aspetto fisico. Ma era anche sempre stato uno da prima linea. Volente
o nolente: anche nei momenti peggiori, avevano combattuto fianco a
fianco: come non apprezzare il suo coraggio? L'unico suo limite, in
senso stretto, era il legame profondo che lo aveva sempre legato alla
sua famiglia. Non era il massimo, per un suicidario alla ricerca
degli Horcrux. Non aveva niente che non andava. Non si soffermò a
pensare ai suoi difetti, perché dopotutto, ognuno ne ha una bella
collezione personale, e i suoi di certo non erano da meno. Il gioco
era tutto lì: far combaciare gli sfregi dell'anima. Ci avevano
provato, ma provato davvero. Sentiva di aver veramente provato a
dargli tutta se stessa; forse non sempre, magari solo in qualche
momento speciale, in quelle giornate difficili da dimenticare in cui
ci si avvicina tanto gli uni agli altri da sentirsi una cosa sola. E
lui, di certo, di più non avrebbe potuto darle. Lavorava e studiava,
l'aveva sempre rispettata, tenuta in considerazione, aspettata con
pazienza, mai dimenticata del tutto nonostante le distanze o le
difficoltà, sia quelle intromessesi man mano nello srotolarsi del
filo della vita, sia quelle che lei stessa si era vista erigere a mo'
di barriera. Lui non aveva niente che non andava. Semplicemente, non
doveva essere suo. Ricordava ogni momento in cui si era sentita
vicina a lui, e non si raccapezzava dei pezzi di puzzle sbagliati che
aveva, ad oggi, fra le mani. Le era piaciuto far parte della sua
famiglia, stringere sua sorella e sentire in fondo al cuore di essere
legata a lei dal loro rapporto. Le era piaciuto frequentare quel
ragazzo timido e impacciato, che non sapeva vendersi bene, ma che non
esitava mai nel dire quello che pensava, e anche con un certo ardore.
Anche la forma di cliché in cui era caduta vittima del suo cuore,
qualche anno prima: l'amicizia che si tramuta in qualche cosa di più
intangibile e inspiegabilmente più potente e più affascinante. Era
stato bello. E ora non lo era più. C'era solo lei, nel suo mondo.
Sola, abbandonata perfino da se stessa. Un'infanzia regalata agli
altri, e l'esistenza stessa così superficiale che negli ultimi anni
le era sfuggita di mano e l'aveva lasciata con un pugno di mosche.
Perso Ronald, che cosa le rimaneva per stringere i denti, andare
avanti, ancora e ancora e ancora? Non si rendeva conto di quanto
fossero malati i suoi pensieri, turbinosi, ricorrenti, malati e
impietosi. Forse biasimava Ronald, perché lui era riuscito ad amare
quell'essere che lei non era in grado di apprezzare: se stessa. Era
così stanca di tutto quanto che accarezzò intimamente l’idea di
un riposo eterno. Sobbalzò appena quando, inaspettatamente, si
sentì abbracciare da dietro. Ron la cullò qualche istante, e lei lo
lasciò fare. Sentiva dolore, dolore e fastidio, e nostalgia, e un
indefinito moto di affetto. Quando le mani di lui scesero sui suoi
fianchi, capì. Capì dal modo inequivocabile in cui si mossero, con
una certa dose di determinazione, di virilità, che c’era un
non-sapeva-che di nuovo, così come capì che non era un buon
segno. Eppure lo accolse, forse sentendosi veramente coinvolta per
la prima volta in tutti quegli anni. Coinvolta, perché quando si
percepisce l’inizio della fine, riesce più facile donarsi,
dedicarsi, lasciarsi andare. Ron si sedette sul letto e lei si
accovacciò su di lui per stringerlo al petto. Ron rispose con ardore
a ogni suo movimento: guidava lei, come sempre, eppure era così
diverso. Ron la baciò in ritorno, sgomento, e sentì il trasporto
che ci metteva lacerargli il cuore definitivamente. Hermione gli
stava dando tutto, a cuore aperto, senza una remora, ignorando gli
abiti sconvolti, i segni sulla sua pelle - errori di scalpello da
parte di una qualche dilettante sulla sua pelle marmorea - e quel suo
nuovo odore dolciastro. Hermione lo stava amando, tutto, dalla testa
ai piedi, da quella sua nuova pelle alle più nere profondità in cui
pensava di essersi ormai perso. Era troppo, troppo per lui. Troppo
per i suoi sensi di colpa. Il suo cuore Grifondoro ruggiva sotto alle
stoccate di una battaglia interiore. Successe proprio così:
fecero l’amore, forse per la prima volta. Non riuscirono a
concentrarsi sul tempo, persero la cognizione, la sensazione
predominante era quella di stare per essere schiacciati fra due
muri. Ron le baciò ogni parte del collo, e lei non smise di
accarezzargli il volto. Si stavano salutando. A modo loro, come
potevano, come riuscivano: senza urlare, senza odiarsi, senza
riuscire a spiegarsi.
Hermione infilò la testa nella
canottiera, e poi in una maglia con il collo alto, sentiva
terribilmente freddo. Si alzò per recuperare gli altri indumenti
precedentemente scalciati in fondo al letto. “La tua voglia è
scomparsa.” “Scusa?” Si voltò, guardando Ron ancora
nudo, vestito delle sole occhiaie e di una serie di ematomi di cui
lei non era l’autrice. Il nulla. Un silenzioso boato in fondo alla
gola. Non si chiese nemmeno di chi potessero essere. Di chi fosse
Ron, adesso. Forse, per la prima volta, Ron era di Ron e nessuno se
ne stava approfittando impropriamente. “Sulla natica destra.
Avevi una voglia. Non c’è più.” “Non so di cosa tu stia
parlando.” Si affrettò a infilare l’intimo. Era distrutta.
Voleva dormire, dormire e non svegliarsi più. “Tornerò a
recuperare le mie cose, per adesso non parliamone con gli altri. Non
voglio impensierire i miei.” Ron esitò qualche istante sulla
porta, finendo di chiudersi i pantaloni con la cintura. Le scoccò
un’ultima occhiata: lei si era seduta al centro del letto, a gambe
incrociate, rinchiusa nel suo stesso abbraccio, come a proteggersi.
Una volta vestito, semplicemente uscì, chiudendosi definitivamente
la casa di Hermione alle spalle, e si smaterializzò. Non c’era
stato bisogno di dirsi addio. Hermione avrebbe tanto voluto essere
un’entità unicellulare flagellata, come quelle che aveva studiato
aprendo qualche libro di biologia Babbano, per non ricordare di aver
visto le tracce di un’altra su quello che era il suo fidanzato.
Ormai non più. Era finita. Non poteva crederci. Non pensava che
sarebbe successo così in sordina: aveva sempre saputo, però, che
sarebbe successo. Ma come poteva esserci tutto quel silenzio
attorno a lei? Lentamente cominciò a piangere, e il rimbombo dei
suoi singhiozzi finì per chiamare Grattastinchi, che si acciambellò
sulle sue gambe. Le lacrime rotolarono sulle guance, caddero sul pelo
del gatto e rotolarono nuovamente fino alle coperte. Come era
possibile non odiarlo più? Perché lui non aveva tentato di
spiegarsi? “Hermione, ho fatto un errore, vorrei aggiustare
tutto, continuare a stare con te.” Sarebbe stato molto più
normale. Chi può essere così malato da dire addio facendo
l’amore? Chi può essere così stolto da non tentare nemmeno di
parlare, di giustificarsi? Lui sapeva che lei avrebbe visto tutto.
Le scie dei baci di un’altra strega. L’impronta forte, lontana,
non più sua, che costei aveva assestato alle dita di Ronald. Lei
sapeva che lui sapeva. Ma
sapeva anche che non l’avrebbe ferita? Aveva agito in scienza e
coscienza? E perché lei non ne soffriva? Che razza di
stregoneria. Perché era una liberazione, pensare di non condividere
più niente, dopo aver condiviso tanto? Perché la sofferenza
derivava esclusivamente dall’idea di fallimento totale che le
pervase l’anima? “Oh, Grattastinchi. Mi ha tradita, mi ha
tradita e a me non importava nulla!” Lo sollevò da dietro le
scapole, portando il muso all’altezza del viso “Nulla… cosa ho
che non va, dimmelo. Dimmelo tu, tu lo sai cosa non va in me. Dimmi
che cosa ho fatto di male.” Il gatto soffiò infastidito. “Hai
ragione. È colpa mia. Non mi basta mai quello che ho. Non sono…
non
sono capace di essere felice.” Provò
disgusto per se stessa. Hermione Granger odiava Hermione Granger. Si
sentiva la Madame Bovary del mondo magico. Ricordava quando aveva
letto quel libro:
il più mediocre libertino ha sognato sultane; ogni notaio si porta
dentro le macerie di un poeta. Cosa
non andava in lei, per essere riuscita a odiare l’unico uomo che
l’avesse mai amata, tanto da spingerlo a rifugiarsi fra le braccia
di un’altra ?
43. “Siete
due pazzi.” “Finnigan, risparmia il fiato per quelli a cui
interessa il tuo parere.” “Come potete pensare che io riesca a
coprirvi le spalle mentre stanate un ex carcerato a Diagon Alley? Non
vi sembra un’operazione masochistica? Guardate che ho scritto in
fronte nuova recluta!” “Se vuoi saperla tutta, Finnigan, avete
anche un incantesimo appioppato sul coppino: seguono ogni vostra
mossa, in Accademia. Non siete mai soli. Capisci, quindi, quanto sia
importante il tuo intervento sotto copertura? Sei il nostro
diversivo.” “Non
mi sembra di avere molte alternative!” “Perché non ce ne
sono, lo vuoi capire?” la ragazza, sporgendosi sul tavolino dal
divano in cui era seduta, lo rimbrottò facendolo sentire come un
bambino fra gli adulti. “Chi vuoi essere veramente? Chieditelo,
Finnigan. Sono domande importanti, nel caso in cui tu non te ne sia
ancora accorto." L'ardore lasciò trasparire quanto le sue
convinzioni fossero la cosa più importante alla quale fosse riuscita
ad aggrapparsi, pensò Seamus. Lei viveva per servirle. La sua
animosità smosse qualcosa, in fondo al petto, facendolo ruggire:
certo che ci aveva pensato, a chi voleva essere, a che posto
prendere, quali ideali seguire. Aveva sacrificato tutto, per quel
dannato posto in Accademia. E adesso? Lei, in un impeto gli afferrò
il polso: "In questo mondo, il tempo è la misura più grande
che c’è dell’ingiustizia che regna fra le persone. Lo senti?
Tic, Tac, Tic? Non possiamo perdere tempo a vivere, mentre la feccia
striscia nel buio e fa i suoi danni! O preferisci fare la marionetta
nel teatrino per bambini che ti propinano in Accademia?” Lei
sapeva quello che faceva. Seamus sentì l'elettricità scorrere fra
di loro, unirli in un qualche modo insperato, ma ancora era
tremendamente diffidente, soprattutto per lo sguardo vigile che li
scrutava dietro alla maschera dall'altro lato del tavolino. Lei
lasciò la presa, senza abbassare lo sguardo da quello di Seamus. Lo
stavano guardando, forse speranzosi. Guardavano lui. Lui che era
stato solo un ombra, fino a qualche giorno prima. Come era potuto
succedere? Come era diventato, improvvisamente, così interessante?
Così utile? “Ribadisco, siete pazzi.” Seamus si mordicchiò
l’unghia del pollice. “Ma non mi tirerò indietro. Io voglio
esserci. Devo esserci.” “Certo che devi esserci.” Soggiunse
il ragazzo, da dietro la maschera. “Gli Auror sono troppo lenti.
Devono passare per un labirinto legale che intrappola e non perdona:
quand’è stata l’ultima volta che hai sentito la figlia di
Charity Burbage?” La voce di lei si ridusse a un sussurro. Seamus
cominciò a tremare violentemente. “Come fate… come fate a
sapere di lei?” “Sappi solo questo: non si è ancora mosso
nessuno, del Ministero, per sbrogliare la faccenda. Quella ragazza è
orfana, senza giustizia dalla sua parte, senza amici, senza pezzi
grossi, la situazione rimarrà invariata. Lei non sa chi ha
assassinato sua madre! Forse non lo saprà mai. Follia. Non ti
pare?” “Cosa sapete voi invece?” Da dietro le maschere si
scambiarono uno sguardo piuttosto rapido. Seamus saettò da uno
all’altro, in attesa di una risposta. “Abbiamo una traccia di
lei. Margaret Burbage.” “Non voglio sapere dov’è. Non ve
l’ho chiesto. Io vi ho chiesto…” “Te lo diciamo, in caso
tu voglia partecipare alla missione. Anche perché le piste che
stiamo seguendo ci portano esattamente nello stesso posto in cui
pensiamo si nascondano quei bastardi di Ghermidori: Diagon
Alley.” “Cosa sapete di me e di lei?” Seamus impallidì
all’idea di essere stato spiato. Ma che razza di maghi erano quei
due? “Oh, nulla. Abbiamo controllato gli annali di Hogwarts,
mentre facevamo ricerche per il caso Burbage e fra una cosa e l’altra
è risultato dai registri che tu frequentassi spesso quella casa
durante le vacanze scolastiche. Eravamo pronti, settimane fa, a
venire a interrogarti, ma ci sono stati dei contrattempi.” “Ad
esempio?” “Ad esempio il fatto che tu sia entrato in
Accademia. Ma soprattutto…” Seamus incoraggiò il suo
interlocutore mascherato con un cenno di diniego, sollevando le
sopracciglia. “Soprattutto abbiamo cominciato ad avere sospetti
su qualche recluta: sapevamo da tempo che c’erano degli
infiltrati.” “Più di uno?!” “Questo ancora non lo
possiamo dimostrare. E comunque, ribadisco, Finnigan: a te deve
interessare marginalmente. Considera questa esperienza sul campo come
una prova.” “Aspettate un attimo: mi state proponendo una
collaborazione segreta? Del tutto clandestina? Sapete quanto sia
vietato dal regolamento dei Coulter dal 1676, ovvero vietatissimo,
collaborare con organizzazioni esterne e segrete in seno
all'Accademia? Mi cacceranno a pedate nel sedere, se mi
scoprono!” “Tic Tac, Finnigan. Tu che campo scegli? Gli
ipocriti, gli inutili, gli egoisti... o i giusti?”
46. Harry
si accasciò sul divano, in preda a mille preoccupazioni, nell’attesa
che Ginny uscisse dalla doccia. “Dovevano parlare”. Sicuramente,
pensò. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva vista.
Si era quasi dimenticato dei suoi tratti: quell’aria da dura che
non le si addiceva affatto, le sopracciglia contratte, gli occhi
seri. Difatti gli era crollata addosso piangendo, implorandolo di
perdonarla per non si sa quale crimine. E piangeva così tanto, che
Hermione, da dietro di loro, aveva raccolto le sue cose e se n’era
andata mimando a malapena un cenno di saluto, dimenticandosi di avere
ancora la bacchetta scheggiata nella borsa. Harry scosse la testa,
dispiaciuto; avrebbe sicuramente parlato a Olivander’s il lunedì
successivo, non poteva pensare di lasciarla in quella condizione.
Oltretutto, come sperava di aiutarlo a far scomparire quella voragine
rosacea dal suo collo, senza una bacchetta perfettamente in funzione?
Megan era passata a recuperare Rex per portarlo a casa sua, ora che
non era più in pericolo di vita. Harry occupava l'intero divano,
sfondato in più punti, assieme a quella busta di carta
dell'erboristeria. Innervosito da tutta quella scena di falsa
tranquillità, si allungò per prendere la pomata coprente che gli
aveva procurato Hermione. Ripensò bonariamente al loro litigio di
poco prima: lei si arrabbiava sempre moltissimo quando si sentiva
messa da parte. Una volta convinto Olivander's, avrebbe cercato un
modo per ringraziarla che non fosse il minimo indispensabile, come al
solito. Lei se lo meritava tutto. Sempre che non fosse già morto
entro lunedì nell’attesa che la sua ragazza uscisse dalla doccia.
Si alzò in un guizzo atletico, ormai era una molla grazie agli
allenamenti, entrò in bagno e si sedette sul coperchio del water,
tenendo in grembo l’accozzaglia di abiti puliti che lei vi aveva
lanciato malamente prima di gettarsi nella cabina. “Avanti, che
cosa c’è. Parla, Ginny, oppure implodo.” Era pronto a tutto.
Si sentiva pronto a tutto. Aveva in mente le ipotesi più
strampalate. Che avesse cominciato a frequentare un Medimago?
Sicuramente… quali altre erano le opzioni? O forse, forse si era
solo stancata di quella relazione a distanza, ormai inesistente.
Forse voleva solo sentirsi libera, come suggeriva Hermione. Non la
biasimava del tutto, anche se faticava ad accettare le sue ragioni. O
forse si sentiva solo in colpa di averlo lasciato solo per così
tanto tempo: aveva reso così facile, quasi inevitabile, la distanza
fra le loro menti. Quello era proprio colpa sua, e lei, prima o dopo,
avrebbe dovuto ammetterlo. Sentì qualche singhiozzo impaurito
provenire da sotto il getto, ma il significato si perse nel rumore
dell’acqua. Harry chiuse gli occhi, concentrandosi, il vapore gli
aveva comunque sottratto il senso della vista. Dal canto suo, la
ragazza continuava a mugugnare, come se si fosse aperta una diga
impossibile da controllare. Quando uscì, lui l’avvolse
nell’asciugamano, abbracciandola, cosa che la fece singhiozzare più
forte. “Ho sbagliato tutto nella vita. Integralmente.
Tutto.” “Ma certo che no, sei solo scossa. Cosa ti viene in
mente, di pensare queste sciocchezze? Forse devi riposare. Prendere
del tempo per pensare. È questo che mi stai chiedendo?” Harry
drizzò le orecchie, pronto al peggio. Sollevò lo sguardo dolce
negli occhi di lei, gonfi di pianto. La teneva ancora stretta,
circondandola, strofinando di tanto in tanto tratti di pelle umida
con l’asciugamano. “Non ho bisogno di tempo.” E Ginevra,
visibilmente più turbata, smise di piangere. “So quello che non va
bene. Lo so già.” Si sentì attraversato dai suoi occhi: lei non
lo stava veramente guardando. O comunque, pensava così rapidamente
da non riuscire a concentrarsi sul presente. Strinse la presa su di
lei, indeciso, incapace di fare altro. “E allora, che cosa posso
fare io?” Sempre quel tono rassicurante, con una punta di
insicurezza - la voce appena incrinata, terribilmente docile: Harry
rendeva tutto più doloroso, nella sua premura. “Niente, Harry.
Tu non puoi più fare niente. Hai fatto anche troppo, per me.” “Che
cosa stai dicendo? Sei impazzita?” “Io… devo cambiare. Non
posso continuare così. Non sono… io e te…” “Aspetta…”
Harry si allontanò come scottato. “Mi stai lasciando?” La
sola idea lo punse e fece centro, come un insettino scaltro e
velenoso, disintegrando ogni certezza. Non aveva capito: pensava che
lei volesse risolvere. Chiarire per perdonarsi, farsi perdonare.
Andare avanti, insieme… “Non sono felice.” “Non sei
felice.” “Non lo sono.” “Che cosa posso fare per
renderti felice?” Lo sbruffo di impazienza a stento trattenuto
fece divampare la rabbia di Harry come fuoco nella sterpaglia. Lei
non se ne accorse, o forse, in fondo, non le interessava: “Tu
non puoi fare niente. Io devo. Io e io sola. Devo smettere di
delegare agli altri la mia incapacità di vivere. Ho deciso… ho
deciso che andrò a stare in Collegio per un po’. Al San Mungo.
Sarà difficile pagarmi l’affitto, ma con la borsa di studio e un
lavoretto dovrei cavarmela. I miei lo accetteranno. Ormai il tempo in
Brasile è agli sgoccioli, mi farò sostituire e rimborserò il
premio che avevo ricevuto per andare là.” Lo disse tutto d’un
fiato, così all’improvviso regnò il silenzio, e si sentì
costretta a gettare l’asciugamano sull’anta della cabina doccia
per cominciare poi rapidamente a vestirsi, sotto lo sguardo
sbigottito di Harry, che cominciava a malapena a capire
l’antifona. “Mi stai lasciando perché devi essere felice…
da sola?” Scoppiò a ridere, sconcertato, ma ritrovò quasi
subito una smorfia grave. “Mi dispiace, Harry.” Il suo sguardo
limpido era troppo risoluto per non essere preso sul serio. Lei,
quella maledetta donna fiammeggiante, in mutande nel suo bagno del
suo appartamento, gli stava dicendo addio in una maniera frettolosa e
ridicola, senza un briciolo di pudore, vergogna, senza… senza
neanche l’ombra di un dubbio. “Tu non puoi essere seria. Mi
stai prendendo in giro.” “Harry, non voglio più farti del
male, né farti perdere tempo. C’è sicuramente una persona, in
questo mondo, che ti sta cercando disperatamente, e io le sto
impedendo di raggiungerti. Io con il mio egoismo, le mie paure, la
mia incapacità di spiccare il volo. Mi sono adagiata fin troppo sul
tuo appoggio. Io… mi sento di dire che sono una persona orribile:
ma tu ti sei reso un’ottima stampella da solo. Ecco che cosa mi hai
dato: sicurezza, calma, tutte cose che non avresti mai dovuto
darmi.” “E che cosa avrei dovuto fare, di grazia? Farti vivere
in bilico? Se vuoi domani ti lascio io, e poi ricominciamo d’accapo,
visto che la cosa sembra divertirti tanto. Hai bisogno del brivido?
Non ti è bastato vivere per settimane nella giungla? Quando ti
stuferai di vagabondare da sola?” “Non è questo che stavo
dicendo! Tu travisi le mie parole!” Harry non mentiva, ma la
verità era dolorosa: è così difficile, accettare le proprie
insicurezze, i propri errori. “Potevamo partire insieme.
Potevamo andare in Irlanda, c’è un’ottima Accademia Auror e lo
stesso vale per il tuo corso di Medicina. Ma no, tu hai deciso che
girare il mondo da sola era un’ottima maniera per recuperare il
tempo perso durante la guerra! Ciao ciao Harry, adesso tocca a
me!” Ginny gli afferrò un braccio e lo strinse con forza, per
fargli male. “Tu non ti devi permettere di dire queste cose!”
Si avvicinò, tremante, mentre Harry indietreggiava, scuotendo la
testa, ormai distante anni luce da lei “Hai idea di che cosa
significasse per me restare a Hogwarts, mentre tu e mio fratello
siete partiti a cercare gli Horcrux? Non credi di essere un po’
troppo duro, con una persona che ha perso tutto e ha dovuto cercare
di resistere
da sola, in qualsiasi maniera possibile? Che cosa ti aspettavi, una
mogliettina pronta a riverire l’eroe del multiverso? Io ho dovuto
imparare a stare bene senza di te! E tu, tu non hai mai imparato a
stare bene senza di me! Lo vedi, che non funzioniamo, si o no?” “Se
volessi, ma se veramente lo volessi, Ginevra, potremmo recuperare
tutto. Ma tu non vuoi. Se non hai altro da aggiungere, per me il
discorso si chiude qui.” Ginny ci pensò, perché sapeva bene
che non poteva finire così: era troppo semplice. Aveva così tanto,
ancora, da dire. Ricordò il consiglio di Luna: la verità, le bugie.
La teoria della relatività, applicata ai sentimenti. Presa dal
turbinare della mente, non si accorse di quanto tempo ci aveva messo.
Harry era scomparso sbattendo la porta così forte da spostare lo
specchio, rompendolo in frantumi. Aveva lasciato cadere tutti gli
abiti di lei che aveva raccolto con affetto prima della
discussione. Si sentì spossata, terrorizzata: adesso era
veramente sola. Proprio
come voleva lei,
aggiunse una voce dell'inconscio, terribilmente odiosa. Sentì un
rumoreggiare confuso, ma violento, da dietro la porta. Senza aprirla,
sapeva esattamente cosa avrebbe visto: Harry che sfasciava ogni cosa
attorno a sé in una furia distruttiva. Ma un grido le fece
spalancare la porta prima che potesse soffermarsi ulteriormente:
Harry era a terra, in ginocchio, si teneva la testa fra le
mani. "Contatta Hermione, ti prego. E poi vai via." La
rabbia nella voce di Harry le spinse un nodo in gola. "Sbrigati,
non resisterò per molto tempo." biascicò, strizzando le
palpebre da dietro gli occhiali. "Stai male, Harry?" Si
avvicinò a lui, cominciò a pungolarlo con millemila mosse da
Medimago, cosa che non ebbe altro effetto se non innervosirlo
ulteriormente. "Si può sapere che cos'hai?" Lo stato di
Harry, però, si aggravò talmente in fretta da costringerla a
rivedere le priorità: corse al telefono fisso di Harry e cercò con
le dita tremanti, schiacciando più tasti insieme, il numero salvato
in rubrica. "Herm, Harry sta male, molto male, mi ha detto che
tu sai che cos'ha. C'è qualcosa che io possa fare, nel
frattempo?". Appena mezzo minuto dopo, il rumore della
Materializzazione di Hermione li raggiunse dal corridoio dell'uscio.
Andò ad aprirle, ed ebbero a malapena il tempo di registrare il
minimo indispensabile una sull'altra, prima di lanciarsi verso il
ragazzo in preda alle convulsioni. Hermione stava
piangendo. Ginevra stava piangendo. Ora anche Harry. "Era
una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da
quando Harry è epilettico?" Lei non rispose. Scostò appena
il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo
unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva.
La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò,
appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì.
Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli
incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo
interrogativo. "Non posso Hermione, non posso più. Mi
dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."
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Capitolo 18 *** Pezzo dopo pezzo ***
Dal
capitolo precedente:
"Era
una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da
quando Harry è epilettico?" Lei non rispose. Scostò appena
il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo
unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva.
La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò,
appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì.
Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli
incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo
interrogativo. "Non posso Hermione, non posso più. Mi
dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."
47. Aprendo
le palpebre, Harry ebbe la sensazione di avere della sabbia negli
occhi. Da quanto tempo dormiva? E perché vedeva nero? “Sono
cieco.” Disse, ad alta voce, spaventato. Una voce femminile gli
rispose, ma non riuscì a capire il significato delle parole. Era
tutto un garbuglio informe. Ebbe la sensazione di essere spazzato
dalla folata calda di un qualche incantesimo. Quella voce lo
richiamò… ma non proveniva da davanti a sé, come un attimo
prima. “… Harry, che cosa ci fai qui?” C’era odore di
fogliame, di sottobosco. Di feci di qualche grosso carnivoro. E
l’umidità era spaventosa, così come il freddo che lo faceva
rabbrividire. All’improvviso, di fronte a lui, apparve il suo
riflesso. Doveva avere quattordici anni, al massimo quindici. Sotto
alla veste e al maglione di lana indossava un pigiama a righe. Il
vento gli spostava i capelli e lasciava vedere la cicatrice, e i suoi
occhiali erano leggermente storti, a dirla tutta… ma non riuscì a
soffermarsi su quei dettagli perché i suoi occhi si spostavano
automaticamente sulla sua bocca, sulle sue clavicole che si vedevano
a malapena dal colletto del pigiama, e nonostante fosse certo di
essere cresciuto almeno un pochino dopo la scuola, si osservava dal
basso, e il suo corpo gli parve perfino un
po’
imponente. Harry il giovane parlava, ma non riusciva a sentirlo.
Aveva una sfumatura colpevole, negli occhi, che non gli sfuggì.
Cominciò ad avvertire agitazione, sconforto, e un inconfondibile
batticuore. Il
mio segreto… il mio segreto. Scomparve
tutto quanto, e riapparve un altro fantasma di Harry: questa volta
giocherellava con il boccino sul prato seduto accanto a Ron, molto
lontano da lui, quasi a strapiombo sulle sponde del Lago. Non
cadere, Harry. Il
cuore gli arrivò in gola, martellando come un forsennato, mentre la
sua vera coscienza, il suo vero io, si malediceva in tutte le lingue
del mondo. Aveva odiato suo padre: ed ora eccolo lì a fare il
deficiente con il boccino in mano, lasciandolo andare,
riacchiappandolo rapidamente, con un’aria completamente ridicola.
Se non per quel ciuffo in fronte, così audace, e gli occhi verdi
spensierati, e il sorriso luminoso, le risate inconfondibili di Ron
che abbracciavano il momento di complicità e rendevano il tutto meno
goffo, più sensato… era un ricordo bellissimo. Se ne era
dimenticato. Ma chi era? Chi lo stava guardando? Chi? Non poté
voltarsi, non poté cercare indizi guardandosi la veste o le mani,
perché il mondo lasciava spazio a un vortice scuro e
potente… “Harry!” Aprì gli occhi per bene, stavolta,
sentendoli bruciare, ma la cecità era scomparsa. Il tepore dei
ricordi lo abbandonò quasi del tutto mentre scivolava di nuovo nel
presente. “Hermione, sei tu?” Si alzò a sedere, confuso,
stropicciandosi il viso. Hermione lo guardava costernata. Era
pallida, con lo sguardo vigile di quando tornava dopo una notte di
ronda nella tenda, ai tempi della ricerca degli Horcrux. “Mi
dispiace, Harry. La pozione ha bisogno di più tempo di quanto tu
disponga. Io… io non so cosa fare. Vuoi andare al San Mungo?” “Cosa
dici, sto benissimo.” Gracchiò, rassettandosi appena, mentre si
rialzava, seguito da Hermione che sembrava pronta a raccoglierlo in
caso cedesse nuovamente. Si guardò intorno. Non capiva. Poi
ricordò. “Senti, Hermione. Mi ha lasciato.” Si trascinò
sul divano e si gettò la coperta addosso. Hermione gli tese un
bicchiere d’acqua che doveva aver preparato quella notte. Bevve
a piccoli sorsi, sentendo la gola pizzicare e contrarsi. Lei gli
prese la mano, sedendosi, e tirò un po’ di coperta sulle proprie
gambe. “Vuoi parlarne, Harry?” “Avevi ragione tu, mi sa.”
Mormorò. “Le stavo troppo addosso.” Stringeva il bicchiere fra
le dita. “Mi ha detto che io ero una specie di porto sicuro. Lei…
lei preferisce la tempesta.” “Vi siete voluti molto bene.”
Hermione tentò di scostargli i capelli dagli occhi, ma quelli
ricaddero subito al loro posto con uno sbuffo. “Sono cose che
succedono. Terribili. Ma succedono.” “Non devono succedere. Se
non sei innamorato, perché fai perdere tempo a qualcuno? Piuttosto
resta da solo. Piuttosto prenditi le tue responsabilità. Io… io la
odio.” Si scostò bruscamente, e appoggiò il bicchiere sul
tavolino davanti al caminetto con forza, ma poi tornò ad affondare
nello schienale. Si voltò a guardare Hermione da dietro i ciuffi
scuri, e forse complice la sudata post-convulsioni, quando li sollevò
all’indietro loro rimasero impettiti. “Non perdere tempo a
odiare. Non serve a niente.” Hermione gli rivolse uno sguardo
dolce, che lui non registrò, occupato com’era a provare
rancore. “Hai idea di quante sere ho passato da solo su questo
divano a guardare il soffitto? A pensare a lei?” Sorrise, poi, con
mestizia. “Ora mi sento un perfetto imbecille.” Hermione gli
rivolse un sorriso gentile. Se solo lui avesse saputo di lei e
Ronald! “Adesso dobbiamo pensare a come proteggere il tuo
cervello, perché stai cominciando a dare i numeri.” “Hai
ragione ma… a dirla tutta, sono un po’ stufo. Di ogni cosa,
intendo. Questa frenesia, il da fare, il tempo che corre. Ti dirò
che… i miei sogni, ultimamente, sono un grande conforto. A volte
vorrei non svegliarmi, restare imprigionato e…” Arrossì,
sentendosi invaso da quei sentimenti così semplici da apparire, ai
suoi occhi, tremendamente potenti. I sentimenti di quella che,
indubbiamente, lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Niente a
che vedere con Ginevra. Hermione soppesò le sue parole, incerta
se collegarle ai lapsus, ai jamais-vu, alle crisi convulsive o ancora
alla macchia che si apprestava a crescere e a ricoprirlo del
tutto. Povero Harry. La vita proprio non riusciva a lasciarlo in
pace. “Come ti senti?” disse, tentando di cambiare discorso.
Non voleva che lui si adagiasse in quei pensieri assurdi: doveva
restare ben ancorato alla realtà. Il più a lungo possibile, il
tempo di somministrargli quella dannata pozione per farlo tornare
quello di prima. “Riesci ad alzarti? Dovresti riposare, ma…” “Che
giorno è oggi?” “Lunedì.” “Ho dormito tutta la notte
per terra e tu sei rimasta qui?” “Avevo paura di svegliarti,
non volevo che tornassi in crisi. Quando durano troppo a lungo,
possono danneggiare irrimediabilmente le connessioni… potresti…
potresti perdere la testa.” Harry serrò la mascella. “Non
dovevi, hai fatto fin troppo per me. Non so come ringraziarti.” Il
sorriso che lei gli rivolse lo confortò: “Portami ad aggiustare la
bacchetta e non parliamone più!”
48. Erano
passati pochi giorni, dalle ultime vicende che avevano scombussolato
la vita un po’ a tutti. Senza ombra di dubbio, Seamus Finnegan,
nonostante il fervore in Accademia, passava più tempo da solo
rinchiuso nella sua stanza che a chiacchierare sulle voci che
giravano in seno allo studentato, e aveva le sue buone ragioni. Se
quello che pensava era vero, se ci aveva visto giusto, non solo
rischiavano la vita moltissime persone, fra maghi e Babbani, ma anche
il suo cerchio più stretto di amicizie. Quando gli era stato
proposto se seguire le vie convenzionali o sbarellare del tutto per
una strada più dritta, più giusta, ma molto più pericolosa, lui
non aveva avuto tutti questi dubbi. Era pronto da una vita, per
questo momento. Lì, proprio dove serviva di più, eccolo comparire
al momento giusto, con gli strumenti giusti: non era forse un segno?
Lui aveva imparato a domare il fuoco… aveva imparato la pazienza,
la perseveranza, l’umiltà… e la passione. Non dormiva da
almeno tre notti, perché dedicava ogni momento libero allo studio
del caso: qualcuno aveva gettato un incantesimo, una maledizione
senza perdono, sul suo compagno di corso, e per nascondere le prove
lo aveva avvelenato. Il tutto esattamente quando si stava delineando
la possibilità che ci fosse una spia fra i ranghi, una spia
destinata a seppellire le accuse e a cancellare i nomi sulla lista
degli ultimi scalpori avvenuti un po’ dappertutto nel mondo, ma in
particolar modo quelli che avevano coinvolto Ginny Weasley in Brasile
appena la settimana prima, ricollegando Magie Sinister’s con una
ipotetica massiccia trama a tela di ragno pregna di illegalità,
dilagante dai sobborghi di Londra verso tutte le direzioni. Era la
giusta occasione: incastrare Sinister’s, ripristinare lo splendore
dell’Accademia, rendere giustizia alle famiglie spezzate e non
ultimo… seppellire finalmente gli ultimi Mangiamorte sopravvissuti.
Ambizione era un eufemismo, per i grandi progetti di Seamus:
soprattutto perché aveva l’intenzione di coinvolgere meno persone
possibili. Le sue ultime collaborazioni di certo non lo aiutavano,
potendo agire solamente nell’ombra. Era lui l’unica pedina
giocabile. E doveva giocare se stesso, giocarsi da solo. Seamus
bevve un lungo sorso di caffè, svuotando la tazza fumante, spandendo
qualche goccia sulla scrivania, prontamente asciugandola con le
maniche del maglione. Voltò pagina, cominciando a leggere i nomi dei
primi indagati sulle scie della pista brasiliana, ma qualcuno bussò
sommessamente alla porta del suo dormitorio, e in qualche secondo
richiuse tutto e lo ficcò rapidamente nel primo cassetto,
chiudendolo a chiave. Calciò qualche abito sparso sotto al letto,
facendosi strada, e aprì la porta a Ron, che aveva la peggior faccia
da funerale che lui avesse mai visto. “Ciao, amico. Vieni
dentro.” Accese la plafoniera e spense la lampada ad olio che
illuminava poco prima la sua scrivania. Ron, senza troppi
scrupoli, si sedette ai piedi del suo letto, torcendosi le mani.
Vedendo che non accennava a parlare, Seamus cominciò a fare due
rapidi calcoli guardando l’orologio. “È ora di mangiare, ti
va di scendere in mensa e di discuterne davanti a una zuppa e un po’
di arrosto?” Ron sembrò riprendersi all’idea; forse aveva
avuto ragione, rivolgersi a Seamus non era stato l’ennesimo
errore.
“Seamus, posso stare in stanza con te per un po’
di tempo?” Ron doveva essere a digiuno da qualche giorno, a
giudicare dal suo appetito, ma non era quello che aveva sconvolto di
più Seamus, durante il pranzo. “Da me?” Era evidente che
non si aspettava una proposta del genere. Ron alzò lo sguardo da
dietro al bicchiere, mentre Seamus prese a bere un lunghissimo
sorso. “Solo il tempo di riprendermi. La tua è l’ultima
camera doppia con un posto libero. O meglio, ce ne sarebbe un’altra,
ma i miei superiori e io abbiamo qualche problema in questo
periodo.” “Ron, posso solo chiederti per quale motivo? Tu
non…” abbassò la voce, posando il bicchiere. “Non abiti più
con Hermione?” “Ci siamo… ci siamo lasciati.” La pausa
convinse Seamus a voltarsi nella stessa direzione che interessava
tanto Ron: comparvero in mensa Megan, Adam e Rex, in sedia a rotelle,
con una serie di sacche galleggianti che lo seguivano come palloncini
festosi. “Sembra ancora un cadavere.” Commentò Seamus. “Se
la caverà, se la cava sempre.” Ribatté Ron, troppo velocemente.
“Cosa ne pensi di andare a berci una birra?” “Devo intendere
che non hai ancora vuotato il sacco…” Seamus si pulì la bocca
col tovagliolo e si alzò immediatamente, riflettendo sul da
farsi. Ron poteva essere un freno, nella sua situazione: come
avere una telecamera sempre puntata in camera sua. Era davvero il
caso di accettare? Oppure… oppure poteva far girare la cosa a suo
favore. “Birretta sia. Sento che abbiamo un po’ di cose da
dirci.”
Alla quinta birra, perfino i più lontani rancori
erano sopiti: Seamus e Ron erano diventati, come un tempo, i migliori
amici che ci siano. Stavano facendo una gara a braccio di ferro, ma
dagli altri tavoli sembrava più che altro uno stringersi
convulsamente la mano in maniera cameratesca. Tuttavia, nonostante le
parecchie ore passate nel teporoso buio della taverna, avevano finito
per girare intorno agli argomenti prefissati, preferendo parlare
delle loro squadre di Quidditch preferite. Probabilmente, però, il
quinto calice fu quello di troppo. Ron cominciò a tentennare, con
gli occhi umidi, e Seamus, che gli teneva ancora saldamente la mano
in pugno, strinse più forte la presa, prima di abbandonarsi sul
tavolo appiccicoso, rivolgendogli uno sguardo compassionevole dal
basso. “Dimmi tutto, amico.” “Prometti… prometti che
rimane fra noi, o giuro che…” “Prometto solennemente!” Ron
fece una pausa ad effetto, forse non tanto voluta quanto necessaria
per prendere fiato e far arrivare un briciolo di ossigeno al
cervello. I ricordi delle ultime settimane lo travolgevano
turbinando, e lui non riusciva proprio
a fare chiarezza. “Sono andato a letto con Megan, e poi con
Hermione. E poi ci siamo lasciati! E avevo l’anello pronto, stavo
per chiederle di sposarmi… ma lei non mi vuole, e nemmeno l’altra.
Nessuna mi vuole. Cos’ho che non va?” Nonostante
l’ottundimento, Seamus esibì un’espressione stupita. Lasciò il
pugno dell’amico per stringere la sua manica, visibilmente
impressionato. “Tu non hai niente che non va amico, sei riuscito
a portarti a letto l’eroina del mondo magico e quella figa
da paura
della tua senior di rango. Tu, mio caro, sei un mito!”
49.
Dopo
nemmeno una settimana di discussioni burocratiche, era riuscita ad
ottenere esattamente quello che voleva: tutto, dalla restituzione del
premio alla cameretta nel dormitorio femminile dell’ospedale.
Perfino il lasciapassare di sua madre, che tuttavia rimaneva
fermamente convinta della sua posizione: Ginevra, tu stai scappando,
e stai dicendo troppe bugie ai tuoi cari. Ginevra, le bugie hanno le
gambe corte. Ginevra, perché copri tuo fratello? Non si fa più
vedere qui e non da segni di volerlo fare. Ginevra, perché non vuoi
parlarne? Ginevra, che cosa è successo, davvero, in Brasile? Era
stato molto semplice, alla fine, scomparire e trasferirsi in quella
cameretta angusta, con una finestra sola che dava sul cortile interno
e i bagni in comune con tutto il piano. Era un sabato, il suo primo
giorno di turno di guardia, da quando aveva ripreso le
lezioni. Ginevra si infilò nella fessura dell’uscio, silenziosa
come un gatto. Indossava gli abiti da lavoro: una casacca e un paio
di pantaloni di un colore vinoso. I suoi capelli lunghi erano legati
in una solida treccia che partiva dalla cima del capo. Si avvicinò
al Medimago turnista senza guardarlo in volto, ma osservando
immediatamente il loro primo paziente. Il suddetto mago, in tutta
risposta, le fece a malapena un cenno della testa e cominciò l’esame
obiettivo generale, prima palpando, poi passando in rassegna il corpo
inerme con la bacchetta illuminata. “Preparami un’infusione di
fluidi tiepidi e un catetere endovenoso. Vado a vedere com’è la
situazione di là, sta arrivando un’urgenza.” “E se si
sveglia?” Ginny indicò la donna addormentata, esangue, con
un’occhiata eloquente. “Poi ci penso io.” Si voltò a
guardarla, senza sprecare più di qualche secondo a indugiare sul suo
volto, fra gli occhi e la bocca. Senza altre spiegazioni voltò i
tacchi. Ginevra sospirò. Sperava in una personalità più cordiale,
ma dopotutto era stata sciocca. I medimaghi urgentisti erano tutti
così.
Freddi e burberi e… e avvenenti. Era giovanissimo, non poteva avere
più di tre anni in più di lei. Con la bacchetta collegò la
bottiglia di vetro contenente i fluidi per la sua paziente ai tubi
che l’avrebbero reidratata e riscaldata. Preparò l’ago, un
laccio emostatico e si apprestò a tastare per cercare la vena che
scorreva lungo l’avanbraccio. “Non così.” La voce
perentoria alle sue spalle la raggiunse e la fece irrigidire. La
guardava appoggiato allo stipite, con le braccia conserte. Che
stizza. Aveva fatto quell’operazione centinaia di volte, in
Brasile. Andava benissimo
così. “Ferma, che cazzo fai. Ora ti faccio vedere.” La
scostò di peso, invadendo i suoi spazi personali senza un briciolo
di pudore e mormorò un Revelio, impugnando la bacchetta attraverso
la sua mano e costringendola a fare l’incantesimo. “Puntalo
sul braccio. Si fa di prassi.” “Ma io non ho mai sbagliato una
vena in vita mia.” Mormorò lei, impietrita. “Sbaglierai,
sbaglierai.” Lui esplose in una risata, prima di gettarsi
stancamente su una sedia per osservarla di sottecchi mentre lei si
dava da fare a finire il lavoro. “Eccome se sbaglierai.” Ginny
non rispose ma serrò le labbra, nessuno l’aveva mai approcciata
con delle maniere così rudi. Sentiva l’orgoglio ferito ruggirle
dal petto. “Ed è giusto così.” Il cambiamento nella sua
voce, dal canzonatorio al dolce, la fece voltare per incontrare, per
la prima volta, gli occhi di lui. Non la prendevano più in giro:
anzi, sembrava imbarazzato dal suo improvviso interesse, dall’aria
seria e indagatrice di quella giovane apprendista focosa. Ginny
era folgorata.
Il turnista era un ragazzo, anzi un uomo, visibilmente atletico,
dall’aria sana, ma con delle occhiaie tremende. Aveva un paio di
occhi marroni dal taglio sottile, che affilavano lo sguardo, con le
ciglia e le sopracciglia nere. Portava un taglio corto e comodo,
elegante anche se spettinato, e si intravedeva qualche ciocca
argentea nella miriade di capelli neri come la pece. Il sorriso
storto, ancora un po’ provocatorio, era affascinante, torceva le
guance magre e dava vita a due enormi fossette. L’uniforme era
uguale alla sua, ma più sgualcita, usata; scivolava troppo bene
sulle sue braccia nude. Ginny si sentì arrossire fino ai capelli.
Era troppo giovane, per farle da mentore. E troppo attraente perché
lei non perdesse la concentrazione. “Vieni, ti faccio visitare
il reparto.” “Non c’era un’urgenza in arrivo?” “Morto
prima di arrivare.” Rispose lui, con tono neutro. “Come hai detto
che ti chiamavi?” La virata nella banalità la stupì, ma ormai
non sapeva più cosa pensare. “Non abbiamo avuto l’occasione
di dircelo. Mi chiamo Ginevra.” “Piacere, io sono
Matthew.”
50. Seamus si svegliò con un sapore
disgustoso in bocca, improvvisamente remore della sbornia epocale che
aveva condiviso con Weasley quel pomeriggio, che era poi stata
prontamente prolungata fino a sera. Non ricordava se non confusamente
come si erano trascinati fino alla camera, e in modo più particolare
al letto. Aveva il braccio dell’amico a peso morto sulla trachea.
Lo spostò tossicchiando e si alzò malgrado il mal di testa. Ron
smise di russare e aprì gli occhi in un minuscolo spiraglio, per
accertarsi che non ci fossero troppe luci accese. Distinse vagamente
la figura di Seamus davanti a lui, in piedi, appoggiata appena al
muro troppo vicino al letto. “Scusami.” “Non ti
preoccupare, non fa niente. Ti faccio preparare il letto però, che
non diventi un’abitudine.” Disse poi ridacchiando.
Quando
tornò in camera, Ron era ancora addormentato nella stessa posizione,
col braccio messo di traverso, come lo aveva spostato lui
alzandosi. Dietro di lui entrò un letto, levitando, che andò a
fondersi con il suo allungando notevolmente i suoi piedi, e poi una
scaletta che si fissò in fondo, su un lato. “Cosa ne
pensi?” Ron si alzò a sedere, ottenendo una sonora zuccata
contro le doghe di legno. “Che è meglio se dormo di sopra, la
prossima volta. Grazie di tutto, Seamus. Se posso fare qualcosa per
te…” Lo disse spontaneamente, quasi senza pensarci, con un
sorriso sincero dietro le espressioni rammollite dalla sbronza. E
Seamus decise, in quel momento, che sarebbe stato più facile
affrontare tutto, con qualcuno al suo fianco. “Forse qualcosa
c’è.” “Ovvero?” “Sto lavorando su un caso, e penso
che questo caso ti stia a cuore. Probabilmente anche a Harry. Ne
parliamo domani, con calma. Devo pensarci. Tieniti pronto.” “Dammi
tempo, Seamus. Sono uno straccio… ma domani… domani sarò pronto.
Te lo prometto”
51. “Di nuovo.” “Avis.” Due
uccellini apparvero dal nulla, mentre Hermione, visibilmente
spazientita, si lasciava cadere per l’ennesima volta nel buco del
divano di Harry. “È inutile, non mi accetta. Guarda che brutti
che sono! E quello è anche spelacchiato!” indicò con la bacchetta
l’uccellino più storpio, che si allontanò timoroso,
appollaiandosi fra il disordine di Harry al di sopra del caminetto
spento. Harry avvicinò le ginocchia al petto per farle spazio. La
bacchetta di Hermione era in riparazione, e ci sarebbe voluta qualche
settimana per rimetterla in sesto, secondo Olivander. Così, in
sostituzione, Hermione aveva guadagnato una bacchetta terribilmente
simile a quella che usava Ronald ai primi anni, e che non le era per
niente affine: salice e crine di unicorno. “Come ha potuto
pensare che questo obbrobrio potesse sostituire la mia
bacchetta?” “Sembra che siano le più reperibili, al momento.
E le più adattabili in linea generale. Mi dispiace, Hermione, porta
pazienza. Devi solo prendere confidenza. Riprova.” “Avis.
Vedi?” Un altro uccellino si appollaiò accanto ai suoi fratelli,
con aria circospetta. “Proviamo a cambiare
incantesimo.” “Abbiamo già appellato tutto il tuo armadio
stamattina.” “Qualcosa di più complicato, prova il
Patronus.” Hermione chiuse gli occhi per concentrarsi qualche
secondo, e pronunciò l’incantesimo. Tuttavia avvertì subito la
difficoltà farsi strada nelle sue membra. “Non riesco.” “Devi
stare tranquilla.” Harry si alzò e la raggiunse, per metterle le
mani sulle spalle. “Sei sempre stata capace di farlo. Ci devi
riuscire anche oggi. Non preoccuparti.” “Non posso.” Quando
alzò gli occhi, Harry capì perché: stava per mettersi a
piangere. “Scusami, ti ho spinta io a farlo. Non era il momento
giusto.” Si pentì immediatamente, dopotutto forse neanche lui
sarebbe stato in grado di produrre un Patronus in quelle condizioni.
I ricordi felici erano smembrati dal presente. “Mi dispiace.” Si
sedettero entrambi, sconsolati. “Hermione, vuoi parlare?” “Di
cosa?” “Del fatto che non abbiamo più nominato Ron
nell’ultima settimana… del fatto che hai quasi sempre dormito
qui, praticamente incastrata in fondo al divano, insieme a me, invece
di stare a casa tua? E anche… di altro, se c’è dell’altro. Io
non sto così
male
da aver bisogno del tuo controllo costante.” Cercò di guardarla
negli occhi, ma lei sbatteva le ciglia rapidamente e sembrava evitare
il suo sguardo. “Perché sei qui con me, Hermione?” “Forse…
forse mi sento un po’ sola.” “Mi vuoi dire che cosa è
successo?” Hermione si asciugò gli occhi con le dita e
finalmente si decise a guardarlo, con le guance intrise di
pianto. “Mi ha tradita e se n’è andato.” Harry sentì la
mascella cedere. Non era semplicemente possibile. Non Ron, non con
Hermione. Loro erano delle persone fantastiche. Nessuno dei due
avrebbe mai potuto ferire l’altro in una maniera così infima. “Il
peggio…” singhiozzò “è che non sono nemmeno triste. Mi sento
semplicemente… sola. Ma non è colpa sua. È solo colpa mia.” Si
avvicinò timidamente, sussultando, e Harry la accolse nel suo
abbraccio, adagiandosi con la testa contro il bracciolo, i capelli di
Hermione ovunque a offuscargli la vista. I suoi singhiozzi gli
facevano tremare il petto. Pezzo dopo pezzo, stava crollando tutto
il suo passato, sgretolando le basi del presente. Non c’erano
parole per confortarla, nulla che fosse in grado di esprimere. Si
lasciò contagiare dalla sua sofferenza, chiudendo gli occhi,
sperando che qualche carezza potesse farle capire che, se era da
sola, almeno era da sola con lui. E lui non l’avrebbe mai, mai e
poi mai abbandonata. Sperò con tutto il cuore che lei lo percepisse,
perché non si sentiva in grado di esprimerlo diversamente. Con il
cuore pesante e la mente sempre più vorticosa, riuscirono a trovare
un punto fermo nel limbo, nella tempesta, addormentandosi in mezzo a
tutto quel pericolare di vite intorno, freddando pensieri e ipotesi
sciocche, smerciando il tutto per qualche istante di pace.
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