Dimentica

di Eleonora Bonora
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Era dicembre e la neve cadeva leggera sulle strade di New York, tingendole di bianco. Un colore che sarebbe durato poco, dato il continuo via vai di macchine che in tutta la notte non cessò mai di esserci. Persino adesso, alle sei e mezza del mattino, un uomo camminerebbe più velocemente di quanto farebbe una macchina immersa in questo traffico.

Il cielo non aveva un preciso colore, era più un misto fra grigio, bianco e azzurro. Assomigliava vagamente agli occhi di Bonnie, che al momento stava percorrendo le grandi vie di quella città. Adorava quel periodo dell'anno, perché camminare al mattino, prima di raggiungere la New York University, vedendo quell'incantevole e rilassante paesaggio era confortevole. Non dava peso alle auto né al chiasso che queste facevano. Erano solo lei e la bianca neve.

La sua era ormai un'abitudine: si svegliava sempre troppo presto e si ritrovava a far colazione sempre nello stesso bar. Quello dietro l'angolo della via che portava alla NYU. La prima volta vi si fermò perché comprando un panino da un venditore ambulante, non si preoccupò di controllare che cosa ci fosse all'interno e si ritrovò con la bocca in fiamme. Aveva un disperato bisogno di acqua e il primo bar che vide fu proprio quello. Non si fece problemi a giudicarlo esteticamente, perché, vedendolo così, in una differente situazione, non ci sarebbe mai entrata. L'insegna di legno, posta sopra la porta, dava modo di leggere Luke's, ma visto da lontano si sarebbe benissimo potuto pensare che fosse una falegnameria o perché no, anche un vecchio locale abbandonato. I vetri oscurati non davano modo di vedere all'interno, per questo Bonnie amava sedersi vicino al vetro. Gli altri non vedevano lei ma lei poteva vedere loro.

Entrando dalla porta verde scuro, percorse il piccolo locale sempre buio, nonostante le luci che si trovavano sulle pareti grigie. Passò tra i tavoli quadrati in legno e qualche volta sbatté la gamba nelle sedie di ferro. Finalmente raggiunse il suo tavolo al fondo del locale, quello che aveva una sola sedia ed era in un angolo tra la parete e il vetro che si affacciava sulla strada.

«Cosa ti porto?» chiese la cameriera sulla cinquantina.

Bonnie la trovava molto simpatica e ormai ci aveva fatto l'abitudine: la vedeva ogni mattina. Stessi indumenti neri abbinati al grembiule bianco, stessi capelli ricci e biondi raccolti.

«Un cappuccino» rispose la ragazza con la sua voce armoniosa.

Si tolse il pesante cappotto nero e lo appoggiò al retro della sedia, insieme al suo zaino grigio. Quando la cameriera le portò la sua ordinazione decise di pagare subito, per evitare che, come l'ultima volta, uscisse e tornasse indietro rendendosi conto di non aver pagato. Fortunatamente ormai era una cliente fissa e non si sarebbero fatti problemi se avesse consegnato il denaro il giorno seguente.

Prese la tazza bianca fra le mani e se la portò alla bocca. Nel momento in cui bevve un sorso sentì un piacevole calore invaderle il corpo congelato a causa delle basse temperature all'esterno. Passò una buona mezz'ora ad alternare lo sguardo fra le bianche strade e la sua tazza che a poco a poco si svuotava.

Data l'ora che s'era fatta, fu costretta ad uscire da quel suo piccolo angolo di paradiso per dirigersi verso l'istituto in cui avrebbe dovuto trascorrere ancora quattro anni. Non le dispiaceva come tipo di ambiente: era moderno e inoltre all'interno era presente una grande libreria nella quale trascorreva le sue ore buche. Aveva molti amici e amava tenerseli sempre accanto perché talvolta doveva spegnere la mente e divertirsi un poco, senza dover pensare ai problemi che la circondavano. Neppure nella sua casa si respirava un'aria di tranquillità, siccome c'era sempre molta tensione tra i due genitori a causa del lavoro di suo padre, o meglio, del vecchio lavoro dato che la fabbrica aveva chiuso lasciando a casa i dipendenti senza un minimo preavviso. Ma di questo Bonnie non si voleva preoccupare, infatti viveva la sua vita come ogni suo amico, al pomeriggio aveva il turno in una libreria vicino casa sua e i soldi che guadagnava erano sufficienti per pagarsi gli studi, ma non abbastanza per permettersi un appartamento. Ogni tanto dormiva a casa di Luce, una delle sue migliori amiche.

Passò la sua ultima ora a fissare il professore che con enfasi spiegava qualche argomento di matematica che quella mattina la sua mente proprio non riusciva a capire.

Decise di aspettare un po' prima di uscire dall'università e si diresse verso la sua amata biblioteca: c'era ogni sorta di libro all'interno. Salutò educatamente la bionda bibliotecaria che, come al solito, sedeva sulla sua comoda sedia nera leggendo un libro che, a parer della ragazza, era sempre lo stesso. Aveva l'aria molto vecchia ma non era ancora riuscita a capire di che libro si trattasse. Un giorno o l'altro glielo avrebbe chiesto.

Andò in fondo alla grande stanza e si sedette sulla prima sedia che trovò libera. Quell'angolo della biblioteca era dedicato alle persone che amavano leggere in tranquillità. E Bonnie era una di quelle. A prima vista poteva sembrare una ragazza molto chiusa, a causa delle sue abitudini, ma semplicemente le piaceva avere i suoi spazi e dedicare alcuni momenti della giornata a se stessa. Il sabato sera era solita uscire con i suoi amici e talvolta rientrare a casa molto tardi. Ma i suoi genitori non se ne accorgevano nemmeno.

In un batter d'occhio si fece subito tardi. Bonnie posò velocemente il libro sullo scaffale, non curandosi se fosse quello il posto giusto ed uscì raggiungendo a gran velocità la biblioteca in cui lavorava. Arrivò venti minuti in ritardo e entrando incontrò la bibliotecaria mora, ovvero il suo capo. La metteva sempre in soggezione: aveva un'aria molto seria, i capelli sempre raccolti, mai uno fuori posto. portava dei piccoli occhiali rettangolari chiari che contrastavano con la sua pelle scura. Aveva sempre una postura diritta, come se nessuno potesse essere superiore a lei.

«Grazie per essere andata al posto mio» le disse la donna.

A cosa si riferisce? Pensò Bonnie. Decise che fosse meglio assecondarla nonostante non sapesse di cosa stesse parlando.

«Non si preoccupi, nessun disturbo» rispose cercando di essere il più convincente possibile. Sperava di aver usato bene le parole. Vanno bene per qualsiasi situazione del genere. Si ripeté più volte.

«Dovrei darti un aumento: lavori qui da molto tempo e sei molto efficiente. Prenderò in considerazione la cosa. Ora ti lascio lavorare» fece per andarsene ma si voltò un ultima volta verso Bonnie. Il cuore cessò di batterle per un secondo. La signora Brooks odiava i ritardi, ma ancor di più odiava che le si raccontassero bugie. E se la sua fosse stata solo una tattica per vedere se Bonnie le avesse detto la verità? «ricordati di parlare a bassa voce: alle persone non piace essere disturbate mentre sono concentrate a leggere»

Buttò fuori tutta l'aria che aveva trattenuto e promise alla signora di fare come le era stato chiesto.

Quando raggiunse la sua postazione nel reparto dei libri classici, sobbalzò per un'improvvisa voce che si fece sentire alle sue spalle.

«Prego bionda!»

Era Zoe, la ragazza che lavorava ogni giorno con lei. Si vedevano solo nelle pause, perché lei era addetta al reparto dei romanzi storici. Era davvero una bella ragazza, non ci fu mai una volta in cui la vide con i capelli raccolti: era solita portare i suoi lunghi capelli neri sempre sciolti, ogni tanto se li portava tutti da un lato pettinandoli delicatamente con le dita delle mani.

«Grazie» era più una domanda che una risposta.

Zoe rise e si spiegò meglio «Ho detto io alla cornacchia che eri andata a casa di Mark per dirgli che il tempo per restituire il libro stava scadendo. Avresti dovuto vederla, era già su tutte le furie per il tuo ritardo e appena le ho detto questa innocente bugia, si è iniziata a lamentare dicendo che io dovrei imparare da te e bla bla bla» roteò gli occhi poi squittì allegra «ora ringraziami!»

«Grazie» rise.

«Questa sera vieni a mangiare una pizza con me? Ci saranno anche dei miei amici che sono impazienti di conoscerti. Gli parlo sempre di te: sei la mia unica amica al di fuori della scuola» domandò la ragazza dai capelli neri speranzosa.

Bonnie sembrò pensarci su un attimo poi accettò sorridendo. Le chiese l'indirizzo e, come se Zoe se lo fosse ripetuto a memoria un centinaio di volte, glielo disse. Mentre questa parlava, la ragazza non poté fare a meno di pensare che sembrasse un navigatore.

«Va bene, ci sarò» confermò la bionda.

Dei libri caddero a terra e il rumore le fece sobbalzare. Entrambe, quasi fossero coordinate, si portarono una mano sul petto e sentirono i battiti del loro cuore essere insolitamente veloci.

«Scusate» una voce maschile fece dirigere i loro sguardi verso sinistra, dove un ragazzo dai capelli neri era chinato intento a raccogliere i libri sparsi sul pavimento.

«Oh non ti preoccupare, ci pensiamo noi. E' il nostro lavoro e dato che non abbiamo mai niente da fare, non c'è problema. E' una tale noia qui!» si lamentò Zoe.

«Va bene, scusate ancora» disse il ragazzo rivolgendo finalmente lo sguardo verso le due ragazze. Aveva degli occhi stupendi: sembrava di star guardando del ghiaccio formatosi sulla superficie di un laghetto di montagna. Portò velocemente gli occhi su Bonnie poi si voltò e sparì dalla loro vista.

«Potevi lasciar finire a lui, tanto ormai aveva iniziato!»

«Oh zitta! Non potevo lasciare che ti guardasse il culo ancora per molto! In qualche modo dovevo pur mandarlo via!» Zoe parlò come se tutto questo fosse evidente.

«Cosa? Ma non è vero!» Bonnie alzò la voce e qualche persona la guardò in cagnesco per poi tornare a leggere il proprio libro.

«Zitta» la rimproverò «e comunque sì, è vero! Ora mettiamo a posto questi libri prima che la cornacchia torni»

Le ragazze si misero subito al lavoro e quando anche l'ultimo libro fu stato riposto sullo scaffale corretto, si erano già fatte le sette di sera. Fecero uscire le ultime tre persone rimaste a leggere non curandosi del tempo che passava. Si diressero velocemente ognuna verso casa sua per prepararsi alla cena fra amici che quella sera si sarebbe dovuta tenere.

Alle otto, Bonnie era già vestita e truccata, salutò i suoi genitori con un semplice «Ciao io esco» e infine diede un bacio veloce sulla fronte al suo fratellino.

Uscita di casa le sembrò di ricordarsi il percorso indicatole da Zoe, ma per sicurezza preferì impostare il navigatore sul telefono. Non prese la macchina, perché la distanza segnata era di soli settecento metri. Iniziò a camminare per le strade buie, illuminate solamente qua e la da qualche lampione dalla luce flebile.

Amava il buio, in qualche modo riusciva a sentirsi più libera senza troppe luci. Aveva smesso di nevicare e ora la neve caduta sul marciapiede cercava in tutti i modi di entrarle negli stivali marrone scuro che erano troppo bassi per la quantità di neve caduta.

Quella sera aveva deciso di osare e scelse di indossare un vestito con gonna a ruota nero, abbinato a delle calze leggermente più scure della sua pelle sempre abbronzata. Aveva lasciato ricadere i suoi morbidi capelli biondi sulle spalle. Non aveva esagerato col trucco, non lo faceva mai. Sul suo viso era presente solo l'eyeliner nero in modo che i suoi occhi verdi, con qualche pagliuzza azzurra qua e la, risaltassero.

La neve sotto i suoi piedi faceva un piacevole rumore e voltandosi vide che i suoi stivali avevano lasciato le impronte. Se entro il mio ritorno non dovesse nevicare, riuscirei a tornare indietro seguendo le mie impronte. Pensò sorridendo. Il telefono le cadde dalle mani e s'affrettò a chinarsi per riprenderlo imprecando per il fatto dello schermo che si sarebbe completamente bagnato. Quando le sue mani ebbero quasi raggiunto il telefono sentì dei passi farsi vicini. In un secondo prese il cellulare, accese la torcia e la puntò a destra e a sinistra per cercare di capire di chi fossero i passi.

«Abbassa la torcia! Mi stai accecando!» una voce familiare la tranquillizzò all'istante.

«Zoe, mi hai spaventata!» buttò fuori in un sospiro.

«Scusa, ma non arrivavi più allora ho pensato di venirti incontro» si giustificò.

«Va bene, ora andiamo: sto congelando»

Raggiunsero l'elegante pizzeria e si sedettero a tavola. Bonnie si scusò più volte per il ritardo e presto si trovò a parlare con tutte le persone sedute a quel tavolo. Le sarebbe piaciuto incontrarle ancora e probabilmente l'avrebbe fatto. Si sentiva come se le conoscesse tutte da una vita, avevano quasi gli stessi interessi e trascorsero due ore piene a discutere su film e libri. Uscì fuori un dibattito riguardo alle coppie omosessuali e lei si ritrovò ad essere dalla parte di quelli pro all'omosessualità. Era un argomento che le stava molto a cuore e che avrebbe difeso ad ogni costo. Non le sarebbe mai passato per la testa di iniziare una relazione di questo tipo, ma rispettava pienamente le scelte delle persone e se con queste decisioni si sentivano felici, lei si trovava ad essere d'accordo con loro.

Un cameriere alto e dallo sguardo simpatico, portò il conto al tavolo e un ragazzo, quello seduto accanto a lei, si offrì di pagare anche la sua parte. Bonnie rifiutò due volte per educazione e infine accettò. Pessimo tentativo di approccio. Pensò sorridendo. Si salutarono tutti e quando fu mezzanotte, la bionda stava già dirigendosi verso casa. Il telefono le vibrò fra le mani e, guardando lo schermo, vide che si trattava di un messaggio di sua madre.

«Torna a casa, è tardi e non hai preso le chiavi con te. Non mi va di rimanere alzata ad aspettare e tanto meno di lasciare la porta aperta.»

Guardò nelle tasche del suo cappotto, frugò nella piccola borsa che s'era portata appresso ma non le trovò. Sbuffò e rispose alla mamma.

«Sto tornando, dovrei arrivare tra cinque o dieci minuti, non so. Ma sono comunque a buon punto della strada.»

Riprese a camminare più velocemente per cercare di raggiungere casa sua il prima possibile, ma il terreno scivoloso non le facilitava le cose. Poi, sentì nuovamente dei passi avvicinarsi a lei. Probabilmente se li stava immaginando: era proprio in quel puntò che sentì Zoe accostarsi alla sua figura. Rise ripensando a quanto si fosse spaventata.

Delle mani le presero la testa, qualcosa le si poggiò sulla faccia, aveva un odore dolciastro. Cercò di dimenarsi per scappare e allontanarsi il più possibile da lì, ma a poco a poco iniziò a sentirsi sempre più debole, fino a perdere completamente le forze. Cominciò a vedere tutto sfocato per poi non vedere più nulla. Delle braccia la sollevarono da terra e infine, non sentì più niente.

S/A
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vale la pena continuare. Vi anticipo che tratterò tematiche forti più avanti e.. niente vorrei un parere sincero da parte vostra.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Un forte rumore iniziò a farsi strada nella mente di Bonnie, in poco tempo si rese conto di star sentendo della musica. «Non la sveglia! Non ancora!» pensò. Si rigirò su quel materasso che si ricordava essere più morbido e caldo. Finalmente si convinse ad aprire gli occhi. Aveva un forte mal di testa, dei frammenti di immagini cominciarono ad invaderle i pensieri. Non capiva se fossero ricordi del sogno fatto o se fossero ricordi concreti di fatti realmente accaduti. Guardandosi intorno non riusciva a riconoscere la stanza in cui si trovava. Era davvero molto piccola, nemmeno quel vecchio buco della camera da letto a casa della nonna era così minuscolo. I muri erano semplice cemento, nessuno si era preoccupato di verniciarli. Il letto da cui un momento prima si era alzata era di una sola piazza, si trattava semplicemente di un materasso posto su una struttura in ferro, con un leggero copri materasso bianco e un lenzuolo del medesimo colore. Al fondo della stanza il muro sporgeva di circa mezzo metro, creando un cubo. Sulla faccia destra di questo, c'era una piccola porta di ferro. «Sembrano le porte dei bagni del mio vecchio liceo» pensò. In effetti ci assomigliavano molto: erano grigie con qualche stupida scritta che gli adolescenti trovavano divertente fare. Anche quella aveva qualche scritta, ma erano incomprensibili: sembravano solo dei semplici scarabocchi. Aprendola scoprì proprio un bagno, niente di che: una semplice latrina. La musica ad alto volume cominciava a farle aumentare il mal di testa. Notò che sulla parete alla destra del letto era presente una seconda porta anch'essa in ferro. In alto era presente una piccola finestra rettangolare leggermente opaca. Si mise in punta di piedi per riuscire a scoprire cosa ci fosse all'aldilà. Vide solo un alternarsi di colori: viola, verde e blu. Sembravano le luci di qualche locale. Vide due ombre avvicinarsi alla porta e in un batter d'occhio tornò a coricarsi nel letto. Stava cercando di ricordare in che posizione si fosse svegliata, ma fu un tentativo invano. Si stese su un fianco con una mano sotto la testa e l'altra che le ricadeva su un fianco. La porta si aprì e Bonnie non ebbe modo di guardare chi fosse entrato dato che teneva gli occhi chiusi fingendo di dormire. «Non avresti dovuto usare il cloroformio» una voce potente, maschile, rimbombò nella stanza e per poco non fece sobbalzare la bionda stesa sul materasso. «Dovevo prenderla, non mi è stato detto come e questo è stato il metodo più veloce» rispose una voce che Bonnie si ricordava aver già sentito da qualche parte. «Spero che tu non ne abbia usato una quantità esagerata» «Non sono un'idiota, so con cosa lavoro» «D'accordo, allora fa si che si svegli. Non ho tempo da perdere» La porta si chiuse nuovamente e la ragazza aveva paura ad aprire gli occhi. E se qualcuno fosse rimasto nella stanza? Sentì dei passi avvicinarsi a lei e qualcuno scuoterle la spalla. «Mocciosa, svegliati» disse la voce familiare. Bonnie si rigirò nel letto per rendere il tutto più realistico, si stropicciò gli occhi e infine li aprì lentamente. Si guardò intorno fingendosi confusa. In realtà lo era, ma stava cercando di ripetere al meglio i suoi gesti precedenti. «Dovrei fare l'attrice» pensò per un attimo. Come poteva pensare a certe cose in un momento del genere? Portò lo sguardo sulla persona che aveva disturbato il suo finto sonno e la osservò spalancando gli occhi. «Tu? Ma tu chi diavolo sei?» disse con voce stridula. Proprio non si aspettava di trovarsi quel ragazzo davanti. «Finalmente, le altre sono state più veloci di te» Guardò schifata il ragazzo dagli occhi color ghiaccio che aveva incontrato quel pomeriggio in biblioteca. «Cosa vuol dire? E cosa ci faccio qui?» «Bonnie Curtis» affermò a voce bassa «almeno così ho scoperto» «Cosa vuoi da me?» domandò nuovamente irritata. «Non hai ancora capito che non risponderò a nessuna delle tue domande?» domandò con tono beffardo «Non hai nessun diritto di farmene e in ogni caso non sei nella posizione adatta, mocciosa» «Visto che sai il mio nome, chiamami con quello» «Ti conviene non irritarmi mocciosetta» Ancora seduta sul letto, appoggiò la schiena al muro, si portò le ginocchia al petto e si strinse in se stessa, come se quella posizione la facesse sentire più al sicuro. Non riusciva ancora a capire come mai fosse finita in quel posto, non c'era niente che la portasse a una soluzione. «Più tardi ti verrà spiegato cosa dovrai fare» disse col tono di uno che aveva ripetuto quella frase un'infinità di volte «a dopo mocciosetta» la salutò con la mano e fece uno di quei sorrisi falsi che tutti i ragazzi prepotenti, a parere di Bonnie, facevano quando si sentivano superiori ad ogni persona presente sulla terra. Quando il ragazzo uscì dalla stanza, le ci volle qualche secondo per riprendersi da quello stato di trance. Doveva scappare e tornare a casa, non aveva di certo programmato di passare la serata chiusa in una piccola stanza poco illuminata da cui entrava una musica troppo forte per i suoi gusti. Ci doveva essere qualche via di fuga, non poteva restare lì per sempre. Si guardò intorno una decina di volte ma niente, nessuna finestra, nessun buco da cui scappare. Era tutto solo cemento attorno a lei. Si lasciò andare a terra rassegnandosi all'idea di uscire. Non aveva idea di cosa ci fosse aldilà di quella porta in ferro e forse non l'avrebbe mai scoperto: era chiusa a chiave. A quanto pare non era gradita la sua presenza. Ma allora perché era lì? Si mise le mani in tasca per cercare il telefono ma non trovò nulla, nemmeno le tasche. Si rese conto dopo di non indossare il suo cappotto ma solamente il vestito che quella sera aveva scelto di indossare. La maniglia della porta cigolò e Bonnie portò lo sguardo sull'uomo che era appena entrato. Era molto robusto, senza capelli e con un accenno di barba grigia. Indossava una maglietta bianca e dei pantaloni neri. In mano aveva una busta di plastica e si dirigeva con passo deciso verso la bionda. «Curtis» le sembrò essere la voce sentita prima quando era intenta a far finta di dormire. Lo fissò in silenzio in attesa che proferisse parola. Il suo cervello stava elaborando milioni di pensieri e cercava in tutti i modi di rimanere sulla difensiva, anche se l'uomo non aveva ancora detto nulla. Pensò perfino di alzarsi e, con uno scatto felino, uscire da quella stanza. Ma cestinò l'idea: non avrebbe saputo dove andare una volta trovatasi all'esterno e di sicuro sarebbe stata presa di nuovo. «Alzati» ordinò l'uomo. La sua voce era talmente dura che sentendola, a Bonnie vennero i brividi su tutta la schiena. Le incuteva parecchio timore, ma non come la signora Brooks, lei era un pasticcino messa a confronto. Decise che sarebbe stato meglio obbedire e quindi si fece reggere sulle sue esili gambe, risalendo con l'aiuto delle mani che si appoggiavano al muro. «Mettiti questo» le porse la busta ma Bonnie esitò nel prenderla «Beh? Hai intenzione di rimanere impalata a guardare il mio braccio?» Aveva paura di quell'uomo. Afferrò velocemente la busta e ne guardò il contenuto. Rimase sbigottita da quello che vi trovò. Era un completo intimo, interamente in pizzo, unito a delle calze a rete. Il pezzo sopra e quello sotto erano collegati fra loro ma il pizzo nero avrebbe lasciato intravedere tutto il corpo al di sotto dell'indumento. Non l'avrebbe mai e poi mai indossato. Ma poi, a cosa sarebbe servito? «Su, avanti. Mettilo» La ragazza fissò l'uomo, convinta che non avrebbe mai obbedito ai suoi ordini. Aveva comunque una dignità da mantenere. «No» si ritrovò a dire a voce più alta di quanto pensasse. «No? Ne sei così sicura?» sorrise beffardo. Lo vide armeggiare con le mani dietro di lui e, istintivamente, fece un passò indietro quando quello tirò fuori una pistola e iniziò a rigirarsela fra le mani. «Te lo metti?» chiese nuovamente l'uomo. Bonnie si rassegnò e si diresse in bagno per cambiarsi. «Dove vai?» chiese l'uomo. «A cambiarmi» rispose tremolante. «Puoi farlo qui» No, questo non l'avrebbe mai fatto. Stava superando ogni limite. «Oppure no» ipotizzò. «Oh lo farai tesoro» Lei scosse la testa in segno di negazione. «D'accordo, forse non ci siamo capiti: provo a spiegarti meglio. Qui, comando io. Qualsiasi cosa io dica è un'ordine. O meglio, nessuno ti vieta di disobbedire, ma la conseguenza è qui fra le mie mani» Bonnie tremava sempre di più e le parole le si erano vaporizzate sulla lingua. «Cambiati!» urlò l'uomo. Lei iniziò a slacciarsi il vestito e la mano tremolante non l'aiutava. «Se non sei in grado tu, ci penso io» l'individuo irritato, si avvicinò ancor di più alla ragazza e le tolse il vestito con forza tenendola ferma per un braccio. Le stava facendo male. Una lacrima scese sul suo viso, seguita da un'altra. Era una cosa che non le piaceva di lei: quando aveva paura o quando era tesa e frustrata, piangeva. Cercò di dimenarsi in modo da liberarsi ma la presa sul suo braccio era talmente forte che muovendosi avrebbe rischiato di ritrovarsi con qualcosa di rotto. Quando ebbe finito di spogliarla, le mise fra le mani il completino e le ordinò di metterlo. Senza alcuna via d'uscita, lo fece e si ritrovò a coprirsi il più possibile. «Adesso ti copri, tra qualche settimana diventerai una puttana. Lo fanno tutte. Le donne nascono già così» rise e si girò per poi uscire dalla stanza lasciando Bonnie, la musica e i suoi singhiozzi da soli. Si lasciò andare in un pianto disperato. Non dovrebbe essere lì, ma a casa, con suo fratello e i suoi genitori. Cosa volevano? Cosa aveva fatto di male? Aveva freddo: era praticamente svestita. «E' incredibile la vita.» pensò. Ma come darle torto? Un momento prima tornava a casa felice dopo aver passato una bella serata in compagnia e, subito dopo, qualcuno la rapisce per chissà quale motivo. Era questo che Bonnie non capiva, se le avessero almeno spiegato il perché fosse lì, forse avrebbe potuto capire. Anche se, in realtà, dentro di sé, non voleva saperne il motivo. «Se non me lo dicono deve esserci una ragione.» oppure poteva essere tutta una messa in scena per il suo compleanno? No, il suo compleanno era già passato da un po', esattamente da sette mesi. Non aveva festeggiato e i suoi amici le avevano promesso che avrebbero fatto una festa più avanti, solo per lei, in cui avrebbero festeggiato il suo compleanno. Era altamente improbabile, ma convincendosi di questo, aveva trovato la sua ancora di salvezza. Lei non era mai stata un tipo da cose esagerate, per esempio come quella di indossare -se così si può dire- il completino. Non rinunciava mai a divertirsi, ma non perdeva mai il senno nei suoi attimi di incoscienza causati dal troppo alcool. In ogni caso, succedeva raramente che si spingesse oltre i suoi due o tre bicchieri di alcolici. Non aveva mai toccato una sigaretta perché trovava irritante l'odore del fumo. Insomma, non era una santarellina ma nemmeno una schiava della folla. Persino quando un ragazzo, uno dei più belli partecipanti alla festa a cui era andata qualche anno fa, le si avvicinò per ballare con lei, lo respinse. Non perché era impazzita, ma perché nonostante non fosse completamente sobria, sapeva di avere un fidanzato e sapeva che le intenzioni di quel ragazzo non erano solamente quelle di ballare. Ora non aveva più un fidanzato, secondo lui, avevano semplicemente forzato un'amicizia per poi perderla. Lei non la pensava allo stesso modo, era davvero innamorata ma era andata così e non poteva farci nulla. Avrebbe voluto cambiarsi, o almeno coprirsi, ma non poteva, perché i vestiti erano sotto la custodia dell'uomo con la pistola. Si mise sul letto e si coprì il più possibile rannicchiandosi per tenersi al caldo. Se dovevano proprio tenerla lì dentro, almeno un riscaldamento potevano metterlo. Si sentiva stupida a pensare queste cose, ma aveva due possibilità: pensare a cose ironiche che la facessero distrarre, oppure urlare nella speranza inesistente che qualcuno potesse sentirla. Scelse la prima opzione. «Come va mocciosa? Ti piace la tua nuova casa?» non si era nemmeno accorta che la porta si fosse aperta. Era troppo occupata a riempirsi la testa di stupide ironie sulla sua vita sfortunata che recentemente aveva scoperto di avere. Decise di non rispondere, voleva continuare a nascondere la testa tra i gomiti e le ginocchia. «Tranquilla, non ti porteremo ancora di là, non dureresti mezzo minuto.» «Esattamente, cos'è che fanno di là? E a cosa non durerei?» la sua voce era ovattata data la sua posizione ma il ragazzo, che ancora non aveva guardato in faccia, capì. «Tu cosa pensi?» «Che voi siate due pazzi da rinchiudere in manicomio.» «Touchè.» «Ho bisogno di capire che cosa ci faccio qui.» «No, non ancora.» «Cosa vuol dire non ancora? E perché sono stata costretta a indossare questa roba?» «Vuol dire che hai tempo prima che tutto ti venga svelato.» rispose ignorando la sua seconda domanda. «Non che abbia risposto alla prima.» pensò scocciata. «Tanto ormai sono qui, scappare mi è praticamente impossibile. Dimmi cosa volete da me e facciamola finita. Volete uccidermi?» se la dovevano proprio uccidere perché aspettare così tanto? Lei era pronta, essendo lì non aveva niente da perdere. Un colpo di pistola e basta, tutto sarebbe finito e loro sarebbero stati felici. Sorprendendola scoppiò in una sonora risata. «Ucciderti? Sul serio pensi che vogliamo ucciderti? E secondo te per ucciderti ti faremmo indossare una cosa del genere? Ti prego!» «Sinceramente io non so più cosa pensare, sono passata dal tornare a casa insultando la neve, all'essere rinchiusa in una stanza gelida senza una motivazione.» «Sei più privilegiata delle altre: ritieniti fortunata.» «E' già la seconda volta che dici le altre, c'è qualcun altro qui? Perché non li posso vedere?» «Bé, hanno più esperienza di te.» dice con fare ovvio «Diciamo che... è come se tu fossi la matricola.» «Mi sembrava di aver capito che potevo aspettare per saperne di più.» «Hai ragione, domani ne parleremo, per questa sera ti lascio col dubbio.» «Maledetta la mia boccaccia.» pensò corrucciando la fronte. «Buonanotte mocciosetta.» Fece uno strano saluto, come quello che fanno i militari e uscì lasciando nuovamente sola Bonnie.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Era la seconda volta che Bonnie rimaneva da sola in quel suo piccolo spazio. Non era terribile, avrebbe solo voluto un riscaldamento. Con quello, poteva benissimo essere una stanza di un motel economico: non la più bella della città, ma nemmeno la più brutta. Avrebbe voluto una finestra, anche piccola, per poter vedere la neve sulle strade della città, non un piccolo vetro opaco che si affacciava, probabilmente, ad un locale. Voleva sapere che ore fossero, ma nella camera non c'era nessun orologio. Era giorno o notte? Non poteva saperlo: non aveva modo di constatarlo e tanto meno poteva chiederlo. Perché pensava a queste cose, invece di cercare un modo per scappare? Perché Bonnie non era una di quelle ragazza a cui piaceva pianificare, lei era impulsiva: faceva tutto quello che il cervello le diceva sul momento. In effetti era meglio così: era convinta del fatto che, anche se si avesse pianificato la vita di ogni essere vivente, questa non sarebbe stata come ci si sarebbe aspettati, poiché ognuno la pianifica in modi diversi e ci sarebbe stato, prima o poi, un pezzo che non avrebbe combaciato. C'è sempre una falla nel sistema. Quando avrebbe avuto occasione di scappare, il suo cervello glielo avrebbe fatto capire. Di questo ne era sicura: è l'istinto umano quello di sopravvivere. Avrebbe voluto addormentarsi e svegliarsi nel suo letto matrimoniale, in cui adorava dormire di traverso, era una cosa che la caratterizzava: lo occupava sempre tutto con la testa a destra, al bordo laterale del letto, ma mai sopra il cuscino -quello lo metteva sopra la sua testa in modo che la luce mattutina non l'avesse svegliata- e i piedi erano inevitabilmente alla sinistra. A volte, in estate, durante la notte, invertiva la posizione per rimanere al fresco. Di sicuro quella volta non avrebbe avuto caldo. Aveva sonno e le opzioni a sua disposizione erano due: rimanere costantemente terrorizzata senza chiudere occhio, oppure dormire sperando che il giorno seguente sarebbe stato quello in cui sarebbe potuta scappare. Ammesso che in quel momento fosse notte, perché lei non ne aveva idea. Scelse la seconda opzione e si coprì quanto più possibile per tenersi al caldo. Si addormentò in breve tempo. Cos'era tutto quel rumore? Lasciatemi dormire una volta tanto! Basta! Se adesso, aprendo gli occhi, scopro chi è che sta piantando un chiodo.. Si alzò di colpo quando sentì un rumore amplificato una trentina di volte rispetto a quello che l'aveva svegliata. Cosa poteva essere stato? Le era addirittura venuta la pelle d'oca a udirlo, le ricordava qualcosa di già sentito, ma non ne era sicura, infondo si era appena svegliata e poteva benissimo essere parte di un incubo. In effetti tutto taceva intorno a lei. Si lasciò andare a peso morto sul letto. Le sue preghiere non erano state esaudite: non si era svegliata nel suo letto matrimoniale, ma ancora nel piccolo letto nella sua fredda stanza. Senza finestre e senza i suoi caldi vestiti. «Smettila di lagnarti e pulisci!» si sentì gridare dall'altra parte. Era una voce maschile, o era il ragazzo, oppure si trattava dell'uomo. A meno che non ci fosse qualcun altro. Ma la voce era così dura e spaventosa che non poteva essere nessun altro che quella persona schifosa. Decise di non dare peso alle frasi sentite: aveva ancora sonno, quindi decise di dormire, finché avesse potuto. Sognò quella vacanza fatta una decina di anni prima, quando lei aveva nove anni e sua mamma era incinta di Travis, suo fratello. Andarono in montagna. La sua famiglia era unita più che mai e Bonnie non vedeva l'ora che il nuovo fratellino nascesse. I due sono sempre stati legati nonostante gli anni di differenza, soprattutto nell'ultimo periodo dopo la perdita del lavoro del padre. Travis era piccolo, ma abbastanza grande per capire che qualcosa non andava nel verso giusto e la sorella era riuscita a spiegarglielo. Non doveva essere arrabbiato con papà, perché lui non ne poteva niente e aveva fatto tanti sacrifici per loro. Quando aprì gli occhi per la seconda volta, si sentì molto più riposata. O forse solo più rilassata: non era stata svegliata da un rumore assordante. Si girò un bel po' di volte nel letto prima di alzarsi. Voleva andare a sciacquarsi almeno le mani, voleva fare qualcosa che la facesse sentire a casa. Poteva sembrare banale, ma anche questa piccola cosa poteva farla stare meglio. Continuava a cercare qualcosa a cui aggrapparsi, per ora aveva sempre trovato un'appiglio. Sperava che tutto sarebbe finito presto ma, in caso contrario, sperava di trovare per tutto il tempo che le sarebbe servito, qualcosa che la facesse continuare ad auspicare. Quando raggiunse il bagno, si ricordò dell'assenza del lavandino, così tirò un pugno alla porta di metallo per scaricare la frustrazione. Decise di aprirla comunque, tanto il bagno doveva usarlo in ogni caso. Sussultò quando notò una ragazza addormentata sul pavimento del bagno. Cosa ci faceva qui? «Pensavo che non potesse entrare nessuno a parte loro due.» disse fra sé e sé. «Scusami.» disse a voce abbastanza alta in modo che la ragazza potesse sentirla. I lunghi capelli castani le coprivano la faccia leggermente inclinata verso destra. Era rannicchiata e, o era molto stanca, oppure aveva il sonno molto pesante, perché non sentì la voce di Bonnie. «Ehi.» provò di nuovo, alzando il tono. Indossava una maglietta bianca e dei leggins neri. Ma non aveva freddo? Vedendo che non avrebbe mai avuto risposta, si decise a cercare di svegliarla scuotendola. Di solito, quando doveva andare a scuola e non si svegliava, l'unico modo per farla alzare dal letto era scuoterla per un braccio. Magari anche per questa ragazza avrebbe funzionato. Quando la toccò cadde a peso morto davanti a lei. D'altronde era solo appoggiata al muro con la schiena, forse avrebbe dovuto utilizzare meno forza. Ma di sicuro non aveva sentito nulla: neanche in questo modo sembrava intenzionata a svegliarsi. «Uffa! Ti vuoi svegliare?» domandò spazientita. Si avvicinò di più quando le sembrò di vedere qualcosa sul retro della maglietta bianca, ma non riusciva a capire cosa fosse, dato che i capelli le coprivano gran parte della schiena. Li scostò e si alzò di colpo gridando. «Oddio.» questo continuò a ripetere per un tempo che sembrò infinito. Doveva essere tutto un banale incubo, non poteva davvero aver visto una cosa del genere. Non riusciva a togliersi quell'immagine dalla testa. La maglietta strappata e il sangue caldo che ancora le macchiava le dita delle mani. La profonda ferita sulla schiena, all'altezza del petto della ragazza. Gli evidenti segni di uno sparo e i lividi lungo le sue braccia che prima non aveva notato. Quale persona sarebbe stata così crudele? Se ne stava lì, incapace di muoversi. Guardava il corpo, senza trovare una spiegazione a tutto quello che stava vedendo. La porta della camera si aprì e Bonnie non si voltò per vedere chi fosse entrato, dato che la voce che parlò le diede la risposta immediata. «Oh, vedo che hai incontrato Lexy.» Si voltò verso quell'uomo che minuto dopo minuto non faceva altro che farle più schifo. Era stato sicuramente lui a farle questo. A quanto pare avrebbe dovuto avere paura di lui più di quanto pensasse. «Cosa le hai fatto?» domandò con voce tremante mentre riportò lo sguardo sulla povera ragazza. «Be', diciamo che non ha rispettato le regole e mi ha infastidito.» «E per questo motivo l'hai uccisa? Perché non ha rispettato le regole e ti ha infastidito?» domandò alzando il tono di voce a causa della rabbia. L'uomo non le rispose, ma le si avvicinò con sguardo duro. Le prese il polso e lo strinse con forza causandole dolore. Soffocò un grido per il gesto violento inaspettato. «Ascoltami tesoro, non ti conviene rivolgerti così a me, perché quello che ho fatto a lei lo posso fare anche a te. E non esiterei, non mi importa niente né di te né di tutte quelle che si trovano qui, io vi sto solo usando per i miei scopi e non ci metterei molto a trovare un rimpiazzo.» «Allora fallo, preferisco fare quella fine che avere a che fare con un coglione come te.» decise di sfidarlo. Non era quello che voleva in realtà, ma stando zitta avrebbe solamente dato ragione a quella persona malata. Lasciò di colpo il polso della ragazza e sfilò la pistola dalla tasca posteriore dei Jeans neri puntandogliela contro. I respiri di Bonnie iniziarono a farsi via via più corti, quasi faticava a respirare. Le mani iniziarono a tremarle e chiuse gli occhi in attesa che tutto finisse il prima possibile. Chissà, magari lei e Lexy avrebbero avuto la tomba vicina. «Ma cosa stai facendo?» una seconda persona aprì bocca. La bionda aprì gli occhi e trovò il ragazzo della biblioteca dietro all'uomo. «Ti ricordo che non ci serve morta.» continuò non ricevendo risposta. «Giuro che se mi rivolgi ancora la parola, senza che ti venga chiesto, ti sparerò all'istante senza lasciarti tempo di aprire bocca una seconda volta.» la minacciò, poi uscì dalla stanza. Bonnie buttò fuori tutta l'aria che aveva trattenuto fino a quel momento. «Tieni, mettiti questo.» le disse il ragazzo porgendole una felpa pesante nera e dei leggins del medesimo colore. «Grazie.» sussurrò. Si voltò per uscire dalla stanza. «Dovrà rimanere lì a lungo?» domandò Bonnie riferendosi alla ragazza in bagno. «Finché non troviamo un altro posto in cui farla marcire.» rispose prima di chiudersi la porta alle spalle. Finché non troviamo un altro posto in cui farla marcire. Questa frase continuava a tormentarla, l'essere umano doveva davvero fare così schifo? Persino Bonnie, che non aveva idea di chi fosse, era rimasta sconvolta nel vederla morta. Mentre loro, che probabilmente la conoscevano, non si sono preoccupati neanche di comunicare alla sua famiglia della morte. O forse era stata rapita come lei, magari da più tempo e i genitori si erano convinti che fosse già morta. Non aveva il coraggio di andare in quel bagno. Vedendola, avrebbe di sicuro provato quella stretta al cuore che sentì quando, entrando a casa della zia, la trovò addormentata sulla poltrona. Ma poi si rese conto che sarebbe stato un sonno molto lungo. Stava meglio ora che indossava vestiti più pesanti, ma i brividi continuavano a tormentarla e ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva una ragazza dai capelli castani che si divertiva con i suoi amici. Chissà qual era la vita di quella Lexy prima che venisse qui. Non aveva molti anni in più di lei. Le dispiaceva. Perché non poteva essere solo un banale incubo? Voleva svegliarsi, scendere in cucina, vedere una donna bionda, una bellissima donna bionda, prepararle la colazione, voleva vedere un uomo molto alto, dai capelli scuri, seduto a tavola con lo sguardo puntato sull'orologio per cercare di non fare tardi al lavoro. Anche se era consapevole che non sarebbe arrivato in orario, dato che il piccolo figlio si inventava milioni di scuse per trattenerlo. Sorrise a quel ricordo. Voleva tornare indietro di un po' di anni per dimenticarsi delle preoccupazioni. Tutti i ragazzi vorrebbero crescere in fretta, mentre chi è già cresciuto vorrebbe tornare indietro per rivivere la propria vita. E, anche se Bonnie non era ancora adulta, avrebbe comunque voluto tornare ad essere la piccola bambina bionda che non si preoccupava di nulla. Si riscosse dai suoi pensieri quando sentì delle voci in lontananza, ma non riusciva a riconoscerle. Decise di ascoltare comunque. «Non ancora, sarebbe una perdita di tempo.» «E' comunque una perdita di tempo.» «Tanto non l'hai presa per lo stesso motivo delle altre.» «Dovrei già avere le mani sporche del suo sangue.» «Non otterresti quello che vuoi in questo modo.» «Sai troppe cose, avrei dovuto stare zitto e obbligarti ad obbedirmi senza spiegazioni.» «Erano spiegazioni che mi dovevi dare.» Silenzio. Di chi parlavano? «E tu che diavolo ci fai qui?» la voce dell'uomo terribilmente vicina la spaventò. Voltandosi, lo vide accanto a lei con sguardo più cupo del solito. «Non è educato ascoltare le conversazioni degli altri.» continuò a parlare. «Non stavo ascoltando niente.» rispose subito. «Hai risposto troppo velocemente, ciò dimostra che sapevi già di cosa stessi parlando e che probabilmente ti aspettavi questa domanda.» «Tu non mi ucciderai.» «Questo non puoi dirlo, potrei farlo anche ora.» «Ma non lo farai.» «Ne sei convinta.» domandò tirando fuori la sua amata pistola. Bonnie annuì convinta di ciò che stava affermando. L'uomo gliela puntò contro, mirando alla sua testa. Un rumore, uno sparo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


A causa di quel forte rumore Bonnie si ritrovò a spostarsi spaventata. L'aveva mancata. Anche se era convinta che l'avesse fatto apposta. Come aveva già affermato, per qualche strano motivo non l'aveva uccisa e non poteva farlo. «Visto tesoro? Avrei potuto ucciderti.» spiegò l'uomo con ancora la pistola in mano. «Ma non l'hai fatto.» insistette. Puntò la pistola al di là della porta e sparò. «Sai, hai ragione tesoro. Mi servi viva, ma se mi farai irritare, non esiterò a spararti. Cosa sarà mai? Non potrò più fare quello che prevede il mio piano, ma troverò un modo per riuscire a fare quello che voglio anche senza di te.» «Ti servo per cosa?» «Attenta, la curiosità è una cosa che mi irrita.» le ricordò con un tono che a Bonnie diede tremendamente fastidio. «Ti ho avvisata. Ora, che ne dici se ti lascio un po' di tempo per pensare?» concluse così il suo breve discorso, composto più che altro da dimostrazioni, che da parole. Si richiuse la porta alle spalle e lasciò la ragazza da sola. Continuava ad essere convinta che non avesse altri modi, se non lei, per fare quello che diceva di dover fare. Altrimenti perché non l'aveva già uccisa? Insomma, ne aveva avuto occasione più di una volta. Forse era meglio evitare di irritarlo ulteriormente, doveva prima capirci di più. Ma era così difficile per lei non rispondere alle sue provocazioni! E' sempre stato così: non è mai riuscita a farsi mettere i piedi in testa e da quando era arrivata era già successo più volte. «Non riuscirò a stare zitta subendo e basta ancora per molto.» si ripeteva ogni volta che quell'uomo la metteva a tacere. Chissà come procedeva il mondo al di fuori di quella stanza. Probabilmente era un giorno come tanti altri, nessuno si era accorto della sua assenza. O forse sì, chissà. In quel momento avrebbe gridato e preso a pugni chiunque. Era così arrabbiata... Con chi? Non lo sapeva nemmeno lei. Era arrabbiata e basta, nessuna motivazione. Sarebbe cambiato qualcosa se quella sera non fosse uscita? L'avrebbero presa lo stesso? Le domande la torturavano. Lexy era ancora stesa nel bagno e Bonnie non aveva il coraggio di entrarci. Quell'uomo aveva ucciso una ragazza innocente e da come lo diceva, sembrava persino andarne fiero. Non capiva come potesse essere così crudele. Anzi, crudele forse non era neanche il termine giusto da usare, era insensibile, era malato. Forse la parola "malato" era quella calzante. Mentre stava seduta sul suo letto, portò lo sguardo sul piccolo tatuaggio che aveva sul polso sinistro. Era una frase che adorava. "I am the captain of my soul" Sono il capitano della mia anima. Sì, Bonnie amava quella frase. Lei era il capitano della sua anima, niente e nessuno decideva per lei. Perché secondo lei i fiumi non dovevano scorrere tutti nello stesso senso. Qualcuno doveva cambiare l'andamento delle cose: niente era perfetto, ma quando per perfezione si iniziava a intendere qualcosa uguale per tutti, Bonnie non era più d'accordo sul significato di perfezione. Secondo lei questo termine significava qualcosa di diverso, ma ammirevole, qualcosa in grado di affascinarti e spaventarti allo stesso tempo. Studiava giornalismo proprio per cercare di avere l'opportunità di creare qualcosa di diverso, secondo le persone, i giornali in cui si parlava di scandalo, erano quelli con più successo. Ma non era così: la mentalità dei cittadini, ormai era indirizzata verso questo lato, ma sarebbe bastato qualcuno che avesse avuto il coraggio di proporre qualcosa di diverso. Bonnie lo aveva: aspettava solo l'occasione per mostrarlo. La porta si aprì e Bonnie distolse lo sguardo dal suo tatuaggio per vedere chi fosse entrato. «Mi hanno detto che irriti parecchio mio padre.» esordì il ragazzo appoggiandosi alla porta chiusa alle sue spalle. «Sono padre e figlio?» pensò stupita la bionda. In effetti la somiglianza era davvero minima. Il viso dell'uomo era rotondo e paffuto, mentre quello del ragazzo aveva i contorni ben marcati. Gli occhi erano completamente opposti: si passava da occhi scuri e profondi a degli occhi chiarissimi. I loro modi di fare erano completamente differenti. «Mi sembra il minimo, dato che la mia dignità è svanita almeno posso distruggere la sua.» «La tua dignità è svanita?» domandò quasi ridendo, ma Bonnie non ebbe tempo di replicare, poiché continuò rimanendo vago «Aspetta e vedrai: tra qualche settimana ne riparleremo.» «Sei venuto per difendere la dignità di tuo padre, o per dirmi di evitare di tenergli testa perché altrimenti anche quel poco rispetto che ha per se stesso potrebbe svanire?» «Fidati che mio padre non ha poco rispetto per se stesso, anzi, totalmente il contrario. E per rispondere alla tua domanda, no, sono venuto per dirti che non ti conviene scherzare con lui. Se si mette in testa di volerti morta, vedrà il tuo corpo disteso a terra senza vita.» «Lui non mi ucciderà.» «E come fai ad esserne così sicura?» «Gli servo per il suo piano.» rispose virgolettando l'ultima parola. «Piano? Pensi che ci sia un piano? E da dove le tiri fuori queste idee?» «Lo ha detto lui.» «Fidati, lo ha detto solo per provocarti. L'unico piano che abbiamo per te, se così si può definire, è quello di farti andare la fuori» disse indicando la porta di metallo «in modo che tu ci faccia guadagnare dei soldi.» concluse. «Caleb! Dove sei?» si sentì l'uomo urlare dall'altra parte. «Arrivo!» gridò il ragazzo di rimando. Caleb. Almeno non avrebbe più dovuto chiamarlo "il ragazzo". Chissà quando avrebbe trovato un altro modo per chiamare l'uomo. Per ora nel suo elenco vi era soltanto "persona malata". «Ti ho avvisata.» disse prima di sparire dalla sua vista. Si lasciò sprofondare sullo scomodo materasso e iniziò a fissare il soffitto. In quel momento i suoi occhi chiari erano profondi quasi quanto lo è il centro del mare. Guardandoli, ci si poteva perdere dentro, come fissare da vicino un buco nero: profondo anche quello, ma nessuno ha idea di quanto, poiché tutti quelli che hanno provato ad oltrepassarlo, non sono tornati indietro per raccontarlo. Per Bonnie valeva lo stesso: l'unica differenza era che nessuno aveva mai cercato di guardare oltre i suoi profondi occhi chiari. Forse era brava a nascondere tutto, o forse nessuno era interessato a immergersi nelle paure della ragazza. Il fatto era che lei non aveva problemi, era felice e viveva la sua vita. Le paure erano iniziate dal momento in cui Caleb l'aveva portata in quel luogo: quando si è resa conto che la vita poteva essere stravolta con un minimo gesto. Perché infondo, non era successo niente di che, semplicemente un ragazzo le aveva fatto perdere i sensi. Da lì tutto era cambiato. Non sarebbe tornata a casa per sentire sua madre dirle che non poteva rientrare così tardi alla sera, che doveva stare vicino al papà perché quello era un momento difficile e che il suo fratellino aveva bisogno della sua compagnia. No, da quel giorno avrebbe solamente sentito un uomo minacciarla di morte, qualcuno dirle di non provocarlo per non rischiare di morire, avrebbe avuto la costante paura di ritrovare qualche cadavere sul pavimento del piccolo bagno nella sua fredda stanza. Tutto questo non le piaceva: lei odiava queste cose, non guardava i film violenti perché odiava vedere persone innocenti morire e per lo stesso motivo aveva smesso di guardare i notiziari. La differenza era che in uno, le morti erano finte, mentre nell'altro, erano tutte vicende realmente accadute. Se il destino delle persone era quello di morire lasciando solo un vuoto nel cuore ai familiari, rimpianti e rimorsi agli amici, perché doveva nascere? In questo modo si punivano solamente le persone accanto. Che senso aveva? Il mondo faceva veramente schifo. Anzi, non era il mondo a farle ribrezzo, erano le persone che lo abitavano. Quelle sì che non meritavano di essere lì. Ora che si trovava in quella stanza, illuminata solo dalle luci flebili del locale al di fuori della porta, cosa avevano guadagnato le persone accanto a lei? Insomma, i suoi genitori avevano perso una figlia: sarebbero passati come dei pessimi genitori che danno troppa libertà ai loro ragazzi. Un pessimo esempio. I suoi amici? Be', i suoi amici avevano perso un'amica. Ma quelli vanno e vengono, non creano molto scandalo. Per la terza volta in quella giornata, la porta in metallo si aprì cigolando e sul ciglio di quella, comparvero tre figure, due conosciute mentre l'altra le era estranea. Le uniche cose che riusciva a riconoscere era la divisa blu scuro, cappello compreso, e lo stemma blu, giallo, bianco e azzurro, quello con la scritta "Police department, City of New York". Erano venuti per lei? Qualcuno si era accorto della sua mancanza? Dovette presto spegnere quelle piccole scintille di speranza. «Hai visto tesoro? Veniamo a toglierti di mezzo la tranquilla compagnia. Troppo tranquilla per i tuoi gusti vero?» il tono derisorio che continuava ad usare quell'uomo iniziava ad irritarla. Seguì con lo sguardo l'uomo in divisa che si stava dirigendo verso il bagno portandosi appresso un grande sacco scuro che, stranamente, prima non aveva notato. «Adam, vieni a darmi una mano.» il poliziotto lo richiamò dal bagno. Ed ecco che Bonnie aveva trovato il nome con cui chiamare quell'uomo malato. «Caleb, vieni ad aiutarci.» ordinò al figlio, il quale aveva lo sguardo puntato sulla bionda, quasi come se si aspettasse che intervenisse per irritare il padre. Doveva proprio volerla vedere morta. Forse l'aveva avvisata solo per far sì che continuasse a farlo arrabbiare. In breve tempo i tre tornarono con il sacco che però questa volta era pieno. Bonnie non osava neanche pensare che all'interno ci fosse Lexy. «300 giusto?» domandò Adam. «150 per il silenzio e i restanti per far sparire il corpo. Esatto.» rispose il poliziotto allungando la mano per prendere i trecento dollari. Questo dimostrava la teoria di Bonnie, quella sul fatto che le persone facevano schifo. Persino una persona di cui tutto il mondo si sarebbe dovuta fidare, non era risultata altro che un corrotto. Non sapeva più di chi potersi fidare, tutti continuavano a stupirla. In realtà le stavano solo aprendo gli occhi: niente era come aveva sempre pensato. Certamente, sapeva che le persone non fossero tutte casa e chiesa, ma non pensava che fossero così vicine a lei. Tutti fingevano di essere sempre qualcuno che non erano. Questo perché? La solita teoria: la società era vergognosa. Nessuno era libero di pensiero e tutti venivano giudicati. I soldi erano l'elemento centrale di tutto, non si metteva più al primo posto la famiglia, ma il denaro. Senza qualche dollaro non potevano tirare avanti. Il motivo? Le persone, quelle che come si soleva dire, stavano "ai piani alti", non ne avevano mai abbastanza, più era in loro possesso e più avevano bisogno di possedere. Avevano una casa, volevano una città, avevano un bicchiere d'acqua e volevano l'intera fonte. Erano la vergogna della popolazione. «Cosa c'è? Adesso non parli più?» la punzecchiò Adam quando il poliziotto fu uscito portandosi dietro quel sacco macchiato di vergogna. Bonnie non rispose: voleva smettere di dargli corda. Era quello che voleva e lei non era intenzionata a soddisfare le sue richieste indirete. Evidentemente minacciare di morte le persone era una cosa che lo divertiva. Notò che lo sguardo dei due individui era puntato su di lei. La cosa la irritò parecchio: odiava essere fissata senza un presunto motivo. «Lo sai che quando qualcuno non mi risponde, mi dà parecchio fastidio?» la provocò ancora e la ragazza non si trattenne dal dargli almeno una risposta. «C'è qualcosa che non ti da fastidio?» rispose serrando i denti. «Allora parli! Sarebbe stato troppo semplice un discorsetto così breve per ammutolirti.» «Se mi uccidi, giova a me. Preferisco morire che vedere la tua brutta faccia ogni ora e sentire la tua orribile voce mentre cerchi di farti rispettare quando sai benissimo che un'essere come te non merita neanche di essere considerato una persona.» rispose sicura di quello che diceva. Continuava a pensare che non potesse fare a meno di lei per qualche motivo, ma anche se l'avesse uccisa, almeno gli avrebbe tolto qualcosa di cui si sarebbe dovuto servire. «Non mi provocare ragazzina.» la minacciò. «Avanti, uccidimi.» lo provocò. «Tu non sai cos'è la vita, se pensi che con la morte si possa risolvere tutto.» «Non è quello che pensi tu?» domandò tenendogli testa «Mi dai fastidio? Ti uccido. Mi tieni testa? Ti uccido. Sei una povera ragazza innocente che vuole solo tornare a casa? Ti uccido. Questo è il tuo modo di risolvere le questioni. Mi sembra un controsenso, non credi?» «Sei solo una povera mocciosa disperata, non meriteresti nemmeno di respirare la mia aria.» così si concluse il loro dibattito. Adam aveva evitato l'argomento perché sapeva di aver torto. Un'altro fattore che Bonnie odiava dell'essere umano. Il lupo, per dimostrare di essere il più forte, combatte fino all'ultimo, l'uomo invece scappa: neanche ci prova. «L'uomo non è degno di essere chiamato animale.» si disse prima di tornare a coricarsi su quel vecchio letto.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Passò all'incirca una settimana da quando Bonnie si rese conto di non potersi affidare alle forze dell'ordine. Tutto era stata una noiosa routine. La bionda si faceva reggere dal letto malandato, due volte al giorno le veniva portato un modesto pasto, Adam di tanto in tanto faceva irruzione nel suo piccolo angolo di solitudine e la provocava cercando motivazione per lanciarle qualche minaccia di morte. Nonostante ormai sapesse elencare a memoria ogni sua frecciatina, continuava a provare timore per le azioni di quell'uomo. Le sue convinzioni sul fatto che non l'avrebbe uccisa con tanta facilità, rimanevano salde, ma niente vietava che Adam potesse farle del male. Non sapeva più cosa aspettarsi da tanta insensibilità. Caleb era venuto un paio di volte ad avvisare Bonnie di stare zitta e evitare di rispondere a suo padre per prevenire un secondo cadavere sul pavimento di quella stanza. Ma lei non gli credeva. Il cigolio della porta in metallo fece rabbrividire la ragazza seduta sul letto, che ormai era diventata la sua seconda casa. Quell'ammasso di vergogna umana avanzò verso Bonnie con un sorriso soddisfatto sul viso. Che cosa voleva adesso da lei? Quando, la sera prima, era venuto per darle una gentile buonanotte, si era trattenuta dal rispondergli malamente, perciò, perché avere quello sguardo da "ti farò soffrire quanto tu hai fatto soffrire me"? «Buongiorno tesoro.» la sua voce riecheggiò all'interno della stanza. L'unica cosa che ottenne come risposta, fu una smorfia irritata da parte della ragazza, che non aveva alcuna intenzione di dimostrargli quanto in realtà, dentro di sé, avesse paura di ciò che sarebbe successo. «Non sei contenta? Oggi potrai uscire di qui.» finse una gentilezza che a Bonnie parve inquietante. Per un attimo il suo corpo si riempì di calore, speranza. L'avrebbero finalmente lasciata libera? Questi pensieri le occuparono la mente per poco. Perché avrebbero dovuto lasciarla andare se ancora non le avevano fatto niente? Insomma, qualcosa avrebbero pur dovuto farle: tante minacce, tanto mistero. Dovevano avere un fine. «Cosa vuoi dire?» domandò non degnandolo di uno sguardo, semplicemente perché i suoi occhi avrebbero tradito la sua corazza dura. «Non sei curiosa di sapere cosa ci fai qui?» «Dovrei?» si ritrovò a chiedere. «Certo che dovresti, anche perché curiosa o meno, il tuo compito dovrai svolgerlo ugualmente.» rispose incupendosi. Si alzò dal letto rassegnata all'idea di poter evitare ulteriori minacce o imposizioni da parte di Adam. «Ma prima dovrai farti una doccia, non hai un'odore molto piacevole.» impose prima che Bonnie potesse raggiungere la porta. «Oh, scusa se non ho usato la doccia che c'è nell'immenso bagno. Davvero, proprio non ci ho pensato.» fu la sua risposta. «Bastava chiedere tesoro.» Il fatto che lui la chiamasse "tesoro" la irritava parecchio: conosceva il suo nome, quindi perché non usarlo? La condusse al di là della stanza che ormai conosceva fin troppo. Ebbe modo di vedere un locale, come già aveva ipotizzato. I muri erano scuri e riflettevano le luci. Dal soffitto scendevano dei tubi in metallo che andavano a toccare dei cilindri rialzati rispetto al pavimento. A prima vista sembravano essere una decina. Sulla destra, c'era un bancone, il classico dove vendevano alcolici, anche ai ragazzini che ancora non avevano raggiunto l'età adatta per bere. Sulla sinistra, invece, una tenda argentata fungeva da ingresso, non dava però modo di vedere luce illuminare la stanza, per questo motivo Bonnie pensò che ci fosse una seconda entrata. Il locale era vuoto, questo perché era solo mattina e questo tipo di locali, era aperto esclusivamente la sera. La bionda venne condotta verso una porta beige, molto simile a quelle interne di casa sua, salì un'infinita rampa di scale per poi ritrovarsi davanti ad una seconda porta, questa volta però simile a quelle delle entrate degli alloggi di qualche condominio. Entrando, scoprì che le sue supposizioni erano corrette, infatti si ritrovò all'interno di un alloggio non troppo grande. «Le altre hanno un bagno più grande, ma tu sei arrivata tardi e per te è rimasta solo quella stanza.» spiegò l'uomo con falso rimorso. La fece dirigere verso una porta bianca semiaperta che dava modo di vedere un bagno. «Sbrigati e, quando hai finito, mettiti questi.» disse porgendole dei vestiti ripiegati, presi dallo scaffale in mogano alla sinistra dell'entrata del bagno. Non perse tempo ad esaminare che tipo di vestiti avrebbe dovuto indossare: di sicuro non le sarebbero piaciuti. Chiuse la porta, a chiave, per essere sicura che nessuno sarebbe entrato. Nel momento in cui l'acqua toccò la sua pelle, sentì i muscoli rilassarsi. Il soffione della doccia faceva sì che il getto la colpisse violentemente, ma a lei piaceva così. I lunghi capelli biondi, ormai completamente bagnati, le solleticavano la schiena. La doccia era veramente grande, questo era un aspetto positivo in quella situazione così innaturale. Una volta uscita, si prese del tempo per osservarsi allo specchio. In realtà non notava molte differenze dall'ultima volta in cui si era specchiata nel modesto bagno di casa sua. Portò lo sguardo sui vestiti consegnatigli da Adam. L'intimo era provocante tanto quanto quello che aveva dovuto indossare fino a mezz'ora prima, sempre in pizzo nero. Il pezzo sopra era collegato a quello sotto da qualche millimetro di pizzo che le ricadeva sui fianchi. I pantaloncini in Jeans, non erano degni di essere definiti tali, poiché decisamente troppo corti per i suoi gusti, mentre la maglietta nera lasciava scoperta la sua pancia piatta. Per quanto riguardava il pezzo sopra, non era male: era la classica maglia da indossare in discoteca, ma i pantaloncini proprio non riuscivano a convincerla. Si asciugò i capelli e, dopo aver raccattato tutte le sue cose, uscì ritrovandosi davanti l'uomo, quasi come se l'avesse aspettata per quei quaranta minuti in cui era rimasta rinchiusa all'interno. «Avevi paura che qualcuno venisse a guardarti?» domandò alludendo al fatto che aveva chiuso a chiave la porta. Non gli rispose. Semplicemente gli passò accanto dirigendosi verso la porta da cui era entrata. Quando raggiunsero nuovamente il locale, precedentemente vuoto, trovarono una ventina di ragazze, vestite quasi allo stesso modo di Bonnie. Alcune erano sedute su un divano, in pelle bianco appoggiato al muro, che prima non aveva notato, mentre altre erano in piedi a parlare fra di loro. Un improvviso silenzio si venne a creare quando notarono l'arrivo di Adam. Alcune fissavano la bionda. Ma era normale: era la nuova arrivata. «Ancora qui? Fate vedere a Bonnie come si fa, scansafatiche.» tuonò sorridendo. Queste subito presero posizione e si diressero verso i cilindri, altre invece salirono su un piccolo palco. Adam, invece, prese Bonnie per il polso e la fece sedere con forza sul divano. «Un "Bonnie, siediti" sarebbe bastato.» si lamentò massaggiandosi il polso. «Troppo tradizionale.» rispose a tono. Passò una buona ora ad osservare quelle ragazze incredibilmente attraenti per qualsiasi uomo le avesse viste. Si muovevano in maniera provocante sotto lo sguardo incontentabile di Adam, che non perdeva occasione di criticare ogni loro singola azione. «Se continuate così mi farete andare in rovina e la cosa nuocerà più a voi che a me.» lo aveva sentito gridare poco prima. L'idea che lei avrebbe dovuto iniziare a far parte di loro, la torturava, la distruggeva. Non voleva, non sarebbe mai dovuto succedere tutto questo. «Vuoi muoverti di più? Sembri un paletto che non si può piegare!» gridò contro una mora. «Non posso!» rispose questa a voce alta, facendo voltare le altre verso di lei «Mi hanno fatta cadere degli uomini ubriachi ieri sera, davanti a te. Mi fa male la caviglia!» «Non me ne frega un cazzo della tua caviglia. Questa è l'unica cosa che devi fare, almeno cerca di esserne capace.» «Ti costa tanto far venire uno dei tuoi medici corrotti per controllarla?» gridò. Bonnie portò lo sguardo sulla caviglia della ragazza. In effetti non era messa benissimo: era evidentemente gonfia. Venne distratta da un forte rumore che la fece sobbalzare. Alzò lo sguardo e vide che la mora si teneva una mano sulla guancia sinistra, mentre Adam aveva un'aria più arrabbiata del solito. Le aveva appena tirato uno schiaffo talmente forte che a Bonnie sembrò di sentire dolore. Lo fissò inorridita, sempre più convinta dell'inumanità di quell'uomo, qualunque persona, che, in quel momento, l'avesse guardata negli occhi, non avrebbe visto altro che un misto di rabbia e terrore impossessarsi di una ragazza che avrebbe preferito non aver alcun tipo di emozione. «Tu non devi guardare me, ma loro!» gridò ancora più forte Adam. Ci mise qualche secondo per capire che si stava rivolgendo a lei. Distolse immediatamente lo sguardo. «E voi, avete intenzione di andare avanti oppure volete continuare a guardare il vuoto?» domandò, mantenendo sempre la voce alta, questa volta rivolgendosi alle altre ragazze. Subito ripresero a fare quello che stavano facendo prima e Bonnie tornò a fissarle. Chissà se erano state portate qui nello stesso modo in cui era arrivata lei. Se anche lei avesse dovuto compiere i movimenti di quelle ragazza, cosa sicuramente certa, le sarebbe risultato difficile, dato che non aveva mai pensato di farlo. A cosa le sarebbe servito? Non aveva bisogno di compiacere uomini malati che si divertivano per soffocare i problemi della loro vita. Dopo un'altra ora, circa, Caleb li raggiunse con gli evidenti segni di una corsa. «Finalmente.» si lamentò Adam. Evidentemente, non era arrivato abbastanza in fretta. «Forza Bonnie cara, ti lascio nelle mani di Caleb. Spero che queste due ore passate ad osservare loro ti siano bastate, perché questa sera ci sei anche tu.» un'altra cosa evidente, era che Adam voleva stare a guardarla mentre si rovinava la vita. Adorava vedere che non avrebbe potuto fare altro che obbedire ai suoi ordini. Il ragazzo le fece segno di alzarsi e di raggiungerlo sul lato destro della stanza. Così fece, camminando molto lentamente. Se c'era una cosa che odiava, era quella di fare cose che non la facevano sentire a suo agio, davanti a perfetti sconosciuti. La faceva sembrare assai imbranata e odiava sentirsi tale. «Ti ha spiegato cosa devi fare?» Scosse la testa. Aveva pensato che osservare sarebbe bastato. In effetti era stato così: non ci andava un genio per capire che quello che avrebbe dovuto fare sarebbe stato convincere un uomo che lei sarebbe stata in grado di soddisfarlo. «Hai visto come fanno loro?» chiese allora. Bonnie annuì insicura. Certo che aveva visto come facevano, ma farlo con altrettanta facilità, non era affatto semplice. «Perché devono farlo anche di pomeriggio? Non possono improvvisare alla sera?» chiese la ragazza per cercare di evitare quell'imbarazzante scena in cui avrebbe cercato di fare i medesimi movimenti di quelle ragazze una miriade di volte più brave di lei. «Potrebbero, ma Adam vuole godersi lo spettacolo privato.» «Sai che spettacolo, le insulta ogni momento.» borbottò. «Vediamo cosa hai imparato.» Caleb sorvolò sull'argomento. «Sì, cos'ho imparato. Facile a dirsi.» mormorò. Il ragazzo fece una risata di rassegnazione. «Glielo avevo detto che era presto.» scosse la testa «Ti faccio vedere io.» Si avvicinò alla ragazza. «Scendi giù in questo modo.» mormorò poggiandole le mani sui fianchi e guidandola nei movimenti molto lenti. Bonnie sobbalzò al suo tocco e il corpo le si riempì di brividi causati dalla troppa vicinanza, ma non lo diede a vedere, per questo Caleb non se ne accorse. «Dovete chiamare un medico.» suggerì ripensando alla mora. Non aveva intenzione di dirlo ad alta voce, ma ormai lo aveva fatto. «E perché dovremmo?» «Per quella ragazza.» la indicò con lo sguardo «Le fa male la caviglia ed è gonfia.» Il ragazzo la osservò, come per esaminarla «Vedremo.» chiuse il discorso. «Okay, ora spingi il bacino leggermente in avanti.» continuò a guidarla «Non troppo velocemente, altrimenti sembrerai una ragazza fatta che cerca disperatamente di catturare l'attenzione di un uomo, invano.» Quasi rise a quell'immagine ridicola che non la rispecchiava per niente. «Risali mantenendo questa posizione.» Obbedì e le spiegò diverse cose che avrebbe dovuto fare. «Queste sono le cose principali: inizia con così.» disse allontanandosi da lei. Non avrebbe mai dovuto farle, non avrebbe mai dovuto essere lì. Non era a suo agio nel costume della persona che volevano diventasse. «Un'ultima cosa, quando un uomo ti si avvicinerà questa sera, dovrete andare nella tua stanza.» l'avvisò. «E ti conviene fare tutto quello che ti chiede, perché mi faccio dire l'efficienza delle mie ragazze e quelle che non accontentano le loro richieste, sono un peso morto, non so se capisci.» continuò a parlare Adam. «Ora preparati per questa sera: ti divertirai parecchio.» In quel momento, Bonnie stava pensando a quanto radicalmente fosse cambiata la sua vita. Ancora non se ne rendeva realmente conto: era successo troppo velocemente. Avrebbe voluto salutare ancora i suoi amici, suo fratello, i suoi genitori. Ma invece niente: era in quella stanza in attesa che Adam venisse a chiamarla per quella serata che loro definivano così divertente. In realtà lei aveva paura: cosa sarebbe successo? Qualche minuto dopo sentì la sua voce farsi forte nella stanza e capì che era arrivato il momento di andare. Sentiva già la musica ad alto volume provenire dal locale. Quando fu posizionata sul lato destro del palco, vicino alla camera in cui sarebbe dovuta andare. Sotto gli ordini di Adam iniziò a fare quello che Caleb le aveva insegnato la mattina. Per ora nessuno sembrava notarla e la cosa le andava più che bene. Ma poi un uomo sulla quarantina puntò lo sguardo su di lei e le si avvicinò. Troppo vicino per i suoi gusti. «Sei nuova.» lo sentiva appena. «Caspita, che perspicacia.» pensò. «Non ti ho mai vista qui.» le sussurrò troppo vicino all'orecchio. Avrebbe voluto scappare ma non poteva: Adam girava sempre intorno a lei per assicurarsi che non scappasse. «Qual è la tua stanza?» chiese con un sorrisino. Senza alcuna via di scampo, Bonnie fu costretta a portarlo all'interno. Quello che successe dopo non le piacque affatto. Quell'uomo, capelli scuri, pelle olivastra, fisico snello e occhi marroni, iniziò a toccarla con violenza, le serrava il polso, le imponeva di rimanere ferma. Ma lei non poteva fare nulla. Il suo istinto la spinse a ribellarsi: cercò di spingere l'uomo via da lei. Non ci riuscì: lui era troppo forte. La teneva bloccata contro il muro della sua stanza, con una mano le teneva stretti i polsi in modo che non potesse spingerlo via. L'altra invece percorreva il suo corpo tremolante a causa della paura. Non seppe più cosa fare, l'uomo la teneva ferma e non avrebbe rinunciato ad ottenere quello che voleva. Decise di chiudere gli occhi per cercare di evitare di vedere il suo sguardo compiaciuto mentre dimostrava la sua vittoria su di lei. Poi, un'idea le balenò nella mente. Era la sua ultima occasione di riuscire a scappare per evitare che la sua anima l'abbandonasse completamente. Alzò la sua esile gamba e portò il ginocchio a sbattere violentemente sul ventre dell'uomo. Questo mollò la presa e Bonnie non perse tempo: si diresse velocemente verso la porta per uscire. Ma non fu abbastanza rapida, perché venne raggiunta e spinta violentemente a terra. Sentì un dolore fortissimo che la immobilizzò per qualche secondo. Le sfiorò la gamba, come allo stesso modo una lacrima sfiorò la sua guancia. E mano a mano che l'uomo andava avanti, le lacrime aumentavano. Una dopo l'altra scendevano bagnandole il viso. Decise che prima tutto sarebbe finito, meglio sarebbe stato. Più avrebbe lottato e peggio si sarebbe sentita. Sarebbe stato tutto meno doloroso, se avesse spento completamente la testa: come galleggiare in mare aperto ormai vicini alla morte, quando si decide di mollare poichè si è senza speranza. Quando ne ebbe abbastanza, uscì lasciandola da sola. Fissava il vuoto. Portò lo sguardo sul polso dolorante e, per quanto fioca fosse la luce in quella stanza, individuò dei segni causati dalle prese troppo potenti di quell'uomo. In quel momento non riusciva a sentire nulla, nessuna emozione. Era semplicemente vuota. Non si preoccupò di rivestirsi, si mise in un angolino della stanza, con le ginocchia strette al petto. Le passarono davanti un'infinita quantità di immagini della sua vita. Una dopo l'altra, la stavano travolgendo. Decise che non sarebbe uscita di lì. Non le importava se ne avrebbe pagato le conseguenze: una volta in quella serata le era bastato. Tutto sembrava andarle addosso, sentiva ogni tipo di emozione sovrastarla. Si coprì le orecchie sperando di non sentire nulla, come se quel gesto potesse isolarla da tutto. Ma non funzionò. Allora iniziò a sfogarsi: pianse, gridò. Tanto nessuno poteva sentirla.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Aveva sempre pensato che la sensazione peggiore che un essere umano potesse provare, fosse quella di perdere una persona a lui cara, come i genitori o i figli. Ma si rese conto di essersi sbagliata: non c'è nulla di peggio che sentirsi abbandonata anche da se stessa. Succede in quel momento in cui senti di non poter più reagire, di aver perso. Sai che non hai più via di scampo. A Bonnie era successo cinque sere prima, quando per la prima volta si era sentita debole. La cosa si era ripetuta ogni sera fino a quel momento, in cui la ragazza stava pensando di rassegnarsi abbandonando la speranza. Quella sera, quando aveva deciso di non uscire da quella camera, Adam era entrato. Era davvero infuriato. Le aveva urlato contro, ma lei non aveva risposto. Aveva continuato a guardare il vuoto, senza nemmeno preoccuparsi di sbattere le palpebre nonostante gli occhi le stessero bruciando. Lui l'aveva presa per il polso facendola alzare, le aveva gridato qualcosa ma lei sentiva la sua voce lontana, troppo lontana per capire cosa stesse dicendo. Era nuda davanti a quell'uomo e per la prima volta non le importò minimamente. Voleva solo sparire, essere piccola come un granello di sabbia, anzi più piccola. Invisibile come un piccolissimo strato di polvere. Non voleva sentirsi così sporca. Il suo modo di fare era cambiato drasticamente da quando aveva provato quelle sensazioni. Quasi non le importava più di niente. Rivolgeva sia a Caleb che ad Adam sguardi spenti, non più carichi di odio. Non aveva più la forza nemmeno per quello. Viveva nel silenzio e amava sentirne il rumore. Non rivolgeva parola a nessuno, se non strettamente necessario. Sentiva il mondo ritorcerlesi contro. In quel momento stava, come tutte le altre ragazze, soddisfando le esigenze di Adam, regalandogli uno spettacolo privato. Lui si divertiva parecchio a darle ordini, soprattutto ora che non si preoccupava neanche di opporre resistenza con qualche risposta a tono. «Voi continuate, io vado a vedere cosa potete mettervi questa sera.» annunciò prima di sparire lasciando sole le ragazze. Appena l'uomo non fu più visibile si accasciò a terra, appoggiandosi al muro e chiudendo gli occhi cercando qualche bel ricordo da far riaffiorare. Come il sogno ricorrente in cui nasce suo fratello. Lei aveva nove anni e, nonostante fosse notte, aveva deciso di rimanere sveglia insieme a suo papà in attesa della nascita di Travis. Ricordò che la consapevolezza di avere un'altra persona a cui volere bene la rese felice e in quel momento sembrò provare di nuovo quella gioia. «Ciao, Bonnie giusto?» una voce la riportò alla realtà e fu costretta ad aprire nuovamente gli occhi. Davanti a sé trovò la figura esile di una ragazza forse più grande di lei di qualche anno. Aveva lunghi capelli rossi mossi che le contornavano il viso tondo. I suoi occhi verdi risaltavano sulla carnagione molto chiara. «Sì.» rispose soltanto «Tu sei?» «Allie.» le sorrise «Devo parlarti di una cosa.» «Dimmi.» disse con lo sguardo fisso nel vuoto. «Non adesso. Quando Adam e Caleb vanno via vengo da te.» spiegò andandosene poi con le altre. Bonnie rimase interdetta. Cosa avrebbe dovuto dirle? In quel momento il ragazzo entrò di corsa nel locale cercando qualcuno con lo sguardo. Evidentemente non lo trovò, perché iniziò a chiedere ripetutamente dove fosse Adam, fino a quando una ragazza gli indicò la porta per la quale Bonnie era dovuta passare la prima sera in cui aveva potuto bearsi dell'acqua calda. Il sole prima della tempesta. Caleb corse al piano di sopra senza degnare nessuno di uno sguardo. Aveva un'aria estremamente preoccupata e tutte le ragazze ancora guardavano la porta da cui era sparito qualche secondo prima. La bionda raggiunse la ragazza di prima, di cui non ricordava il nome. Voleva togliersi il problema il prima possibile e sapere cosa avesse intenzione di dirle. «Ora puoi dirmi quella cosa: loro non ci sono.» disse andando dritto al punto. «Non so, non vorrei che lo sapessero.» accennò con un volume molto basso della voce. Era davvero così importante e segreta quella cosa? «Se aspetti che non ci sia nessuno hai tempo tutta la vita. Nessuno a parte loro due entra nella mia stanza: quando ci sono dentro è sempre chiusa a chiave.» «Il fatto è che...» venne interrotta dal rumore di una porta che sbatté attirando l'attenzione di tutte le ragazze presenti nella sala. Adam aveva lo sguardo cupo, preoccupato e arrabbiato. Procedeva a passi lenti con la testa bassa, si voltò a destra e a sinistra: forse cercava qualcosa. Dietro di lui arrivò Caleb che sembrò illuminarsi una volta posato lo sguardo sul bancone del bar. «Non fate altro che creare problemi.» borbottò l'uomo stringendo i denti. Intanto, dall'altra parte del locale, Caleb esaminava l'angolo su cui aveva posato lo sguardo qualche secondo prima. «Ringrazia che il locale sia in un edificio vecchio.» disse il ragazzo facendosi sentire dal padre. «Cosa vuoi dire?» «Da piccolo andavo spesso qui. C'è una botola che porta alla cantina, ma è quasi invisibile: si confonde col pavimento scuro. Falle andare lì.» spiegò. «E cosa centra col fatto che il locale sia vecchio? Stiamo parlando di persone che hanno a che fare con queste cose quotidianamente.» «Lascia fare a me.» L'uomo acconsentì, mettendo in chiaro il fatto che se non ci fosse riuscito, ne avrebbe pagato lui stesso le conseguenze. La domanda era: che cosa avrebbe dovuto fare? Perso nei suoi pensieri, scese di sotto e ci rimase per qualche minuto, poi tornò di sopra con uno sguardo soddisfatto. «Seguitemi.» disse soltanto. Una ad una, furono fatte scendere per quelle vecchie scale di legno, che cigolavano ad ogni passo. Quando Bonnie riuscì ad appoggiare entrambi i piedi sul freddo pavimento in pietra, si concesse del tempo per osservare il luogo attorno a sé. Sembrava una cantina per i vini, senza le bottiglie. I muri, anch'essi in pietra, avevano sfumature gialle causate dalla luce flebile della lampadina che penzolava dal soffitto. Probabilmente, la temperatura era più bassa in quella stanza, che all'esterno. Un'infinità di ragnatele contornava gli angoli, dando un'aspetto macabro al tutto. Caleb si diresse verso uno scaffale, che la bionda non aveva notato. Quando lo spostò, una seconda stanza fu visibile. «Entrate e evitate di fare rumore: fidatevi, vi conviene.» Detto ciò, le fece entrare: la stanza era parecchio grande, ma altrettanto buia e non videro più nulla quando lo scaffale coprì parte della parete, bloccando la visuale. Dopo un tempo che sembrò infinito, si creò un irritante brusio, ma evidentemente al di fuori non doveva sentirsi, poiché nessuno si era disturbato a zittirle. Poco dopo sentirono molti passi sopra di loro, ma la maggior parte delle ragazze sembrò non farci caso e tornarono a parlare fra loro. La curiosità di Bonnie non riusciva a trovare pace: voleva capire cosa stesse succedendo. Perché le avevano nascoste lì? Cosa stava succedendo? E cosa doveva dirle Allie? Era successo tutto in qualche ora. Doveva saperne di più. Si avvicinò, senza pensarci due volte, alla ragazza dai capelli rossi che se ne stava in disparte. «Non credo che qualcuno ci senta, adesso.» esordì indicando le ragazze immerse in un discorso apparentemente interessante. L'altra portò lo sguardo nei suoi occhi, acconsentendo alla sua richiesta, pronta a dirle tutto ciò che voleva sapere. Come se quella misteriosa informazione avesse potuto essere una nuova ancora. Ma non era ancora sicura di cantare vittoria: sarebbe potuto essere qualcosa che l'avrebbe fatta crollare definitivamente.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Caleb Il ragazzo continuava a guardare il suo orologio: erano le 11:15 e aveva dieci minuti per tornare a casa. Adam non sarebbe sorvolato sul suo ennesimo ritardo. Doveva trovare un'altra scusa per lasciare la lezione in anticipo, mezz'ora prima che finisse. Era stufo di questa noiosa routine. Una volta tornato a casa, avrebbe dovuto aiutare Bonnie che ancora non era sciolta nei suoi movimenti. Cosa doveva saperne lui? Il tempo stava scorrendo e i minuti rimasti erano sei. Non faceva che torturarsi le labbra con fare nervoso. I denti facevano una forte pressione sul labbro inferiore e capì di doversi sbrigare quando iniziò a sentire un leggero sapore di sangue in bocca. Non sarebbe mai arrivato in tempo. Si alzò senza dire una parola e uscì dall'aula, sotto il severo sguardo del professore che ormai non chiedeva più il motivo di tutte quelle uscite anticipate. «Hey Caleb!» una voce fece fermare il ragazzo che era quasi arrivato all'uscita. Si girò verso la figura familiare che l'aveva richiamato. «Blake» Blake era uno dei suoi migliori amici: lo conosceva da circa tre anni. Era alto, biondo, palestrato; quello che si potrebbe definire un ragazzo modello sia caratterialmente che fisicamente. Caleb sapeva tutto di lui: suo padre era un poliziotto, quando aveva cinque anni era scappato di casa per vivere avventure, insomma, cose di ogni genere. Il problema era che Blake conosceva solo un terzo della vita dell'amico, o meglio, conosceva solo un terzo di verità: sicuramente non sarebbe mai venuto a sapere del modo in cui Adam si procurava da vivere. «Che mi racconti, amico? Salti le lezioni eh?» «Potrei dirti la stessa cosa, amico» rispose con un sorrisetto beffardo. «Giusto.» Caleb aveva due scelte: poteva dedicare un po' di tempo al suo amico, oppure andare via di corsa nella speranza di arrivare in tempo a casa, ma non sarebbe mai riuscito a correre tanto veloce, quindi optò per scambiare qualche parola con Blake. «Qualche novità?» «In realtà no, sempre la solita routine. Mio padre è impegnato col lavoro e io devo tornare a casa per stare con la mia sorellina» «Avevo capito che per questa settimana qualcun altro gli avrebbe coperto il turno.» «Sì, in teoria sarebbe dovuto essere così, ma devono fare un'ispezione in un locale di cui hanno sentito parlare da diverse persone e, da quanto hanno sentito dire, conviene essere in tanti perché il proprietario è piuttosto violento e dicono che non sia solo» spiegò il biondo. «Che tipo di locale?» domandò senza accorgersi di star trattenendo il respiro. «Uno in America Avenue, da quanto ho capito si trova nel seminterrato di un vecchio bar ormai chiuso da tempo. Dovrebbe esserci un'entrata dal retro per accedere al locale.» Quello di cui stava parlando era senza dubbio il locale di suo padre, in cui sarebbe già dovuto essere arrivato da svariati minuti. Doveva andare subito a casa e nascondere tutto ciò che dimostrasse la verità. «Ah capito, sono già là quindi?» «No, non ancora, ma credo che partiranno a momenti quindi mi devo dare una mossa e tornare a casa.» Caleb ringraziò mentalmente l'amico che gli aveva appena tolto il problema di congedarsi. Lo salutò e velocemente tornò per la sua strada, intento a tornare a casa il più presto. Era di fronte all'alto palazzo, forse uno dei più alti del quartiere, ma anche uno dei più trasandati: d'altronde, il quartiere in cui viveva, non era famoso per la sicurezza o per l'educazione dei ragazzi che ci vivevano. I muri erano decorati da una miriade di graffiti, ma si intravedeva ancora il colore nero che anni prima ricopriva il palazzo. Si diresse verso il retro cercando di evitare la spazzatura buttata per strada ed entrò di corsa sperando che ciò che poteva evitare dicendo a suo padre dell'ispezione a sorpresa evitasse che quest'ultimo lo cacciasse di casa. Entrando, vide che Adam non era presente, perciò corse il più veloce possibile al piano di sopra arrivando davanti alla porta della casa col fiatone. «Finalmente!» esclamò Adam che, come previsto da Caleb, era molto più irritato del solito. «Finiscila, sai che ho una vita al di fuori del locale.» «A me non interessa, tu sai che questo» con le braccia indicò il locale «è l'unico modo che abbiamo per vivere e per pagare la tua scuola» In quel momento gli venne voglia di lasciare che la polizia scoprisse tutto, perché Adam non aveva ragione: New York era piena di opportunità di lavoro e Caleb sapeva che della sua scuola non importava nulla a suo padre. In realtà, Adam, non capiva perché il figlio avesse scelto di studiare medicina, quando entrambi sapevano che il ragazzo sarebbe rimasto ad aiutare il padre. Ma alla fine decise che non poteva permettersi di vedere suo padre arrestato; probabilmente avrebbero arrestato anche lui: certo, il locale era di suo padre, ma lui aveva contribuito a tutto, soprattutto ai rapimenti delle ragazze. Proprio per questo motivo se le sarebbe ritrovate tutte contro. «Stanno venendo per un'ispezione.» buttò fuori. Adam si accigliò e il suo sguardo passò da arrabbiato a spaventato. «E tu come lo sai?» «Ti importa?» «E ora dove le nascondo? Le donne sono sempre solo un casino: inutili e portano solo casini; anche quando le usi per i tuoi scopi» Improvvisamente gli venne in mente del luogo in cui si nascondeva sempre da piccolo, a casa del suo amico dell'asilo: era un seminterrato nel quale si accedeva tramite una botola nel pavimento. Nei vecchi palazzi era quasi sempre presente e, forse, avrebbe potuto salvarli, se ci fosse stato anche lì. «Vieni» Caleb si fece strada nel locale mentre Adam sbatté violentemente la porta evidentemente irritato dal fatto che il figlio non gli stesse dando alcuna spiegazione. Lo sguardo dell'uomo mutò velocemente nel momento in cui si rese conto che il tempo a loro disposizione era sicuramente molto poco; era uno sguardo cupo, preoccupato, completamente diverso dal solito viso corrucciato e costantemente arrabbiato. In fondo, era un uomo anche lui, nonostante la sua umanità fosse minima. Mentre il ragazzo cercava un posto dove potesse trovare la botola, sentì il padre mormorare che le donne creavano solo problemi. Non era per niente d'accordo con questa affermazione: le donne erano importanti tanto quanto gli uomini e che non erano tutte uguali, ma non provava mai a parlarne con lui siccome non avrebbe mai capito. Quel pensiero era una costante nella mente di Adam e niente gli avrebbe mai fatto cambiare idea. Gli occhi del ragazzo caddero sul bancone del bar, o meglio, sul suo retro. Era un ottimo posto no? Dirigendosi verso il luogo che avrebbe potuto salvarli informò suo padre che era tutto risolto. «Ringrazia che il locale sia un edificio vecchio» disse a voce abbastanza alta. «Cosa vuoi dire?» ricevette di rimando. «C'è una botola che porta alla cantina, ma è quasi invisibile: si confonde col pavimento scuro. Falle andare lì.» «E cosa centra col fatto che il locale sia vecchio? Stiamo parlando di persone che hanno a che fare con queste cose quotidianamente.» precisò Adam. Caleb lo sapeva, ma questa era l'unica soluzione che potesse funzionare e non restava altro da fare che provarci. Per non lasciar trasparire alcuna insicurezza, rispose semplicemente, cercando di essere sicuro di sé «Lascia fare a me.» Vide suo padre annuire. «Sappi che questa cosa è diventata a carico tuo, perciò pagherai le conseguenze che ci saranno semmai non dovesse funzionare. Chiaro?» No, non era chiaro: se tutto ciò stava succedendo, era colpa di suo padre e non sua. Se mai li avessero scoperti, sarebbe stata solo colpa di suo padre. Caleb stava semplicemente facendo quello che era in suo potere per far sì che entrambi potessero avere i soldi per vivere. Ovviamente sapeva che tutto ciò non aveva senso, ma, seguendo un suo filo logico, il ragazzo era riuscito a convincersi che fosse giusto. Ancora assorto nei suoi pensieri, scese al piano di sotto per controllare cosa lo aspettasse. Vide che l'ambiente era abbastanza grande, ma sarebbe stato impossibile che i poliziotti non vedessero quella botola; suo padre aveva ragione: loro avevano a che fare con queste cose quotidianamente, specialmente in una cittadina come New York, dove queste cose erano all'ordine del giorno. Sperava di non dover lasciare le ragazze troppo a lungo in quel posto: la temperatura era davvero bassa e se Adam non le avesse uccise per un'attacco d'ira, sicuramente sarebbero morte per ipotermia. Stava per tornare al piano di sopra deluso, ma notò una fessura dietro ad un vecchio scaffale impolverato. Ci si avvicinò e lo spostò trovandolo particolarmente pesante. Scoprì una stanza molto più grande di quella in cui si trovava prima. Perfetta per nascondere tutte le ragazze. Tornò nel locale soddisfatto. «Seguitemi.» ordinò. Le ragazze obbedirono senza opporsi. C'era talmente tanto silenzio che si sarebbero potuti sentire i battiti dei loro cuori. «Entrate ed evitate di fare rumore. Fidatevi, vi conviene.» Una volta che tutte furono dentro, spostò a fatica lo scaffale e le lasciò lì, sperando che nessuno le trovasse. Caleb tornò di sopra. «Dovremmo essere tranquilli.» affermò. «Dovremmo? Caleb, ci serve certezza non dubbio.» suo padre alzò il tono della voce. «Sono sicuro.» confermò più convinto. Pochi minuti dopo qualcuno bussò pesantemente alla porta al ché, a Caleb venne in mente una cosa. «Io non posso stare qui.» «Cosa vuol dire? Te ne vuoi andare per evitare casini e lasciare il problema a me, non è vero?» «No. Ma c'è il padre di un mio amico, mi riconoscerebbe.» Dopo un leggero cenno del capo di suo padre, corse al piano di sopra. Fino a quando i poliziotti non fossero andati via, non avrebbe saputo se il suo piano, se così si poteva definire un'idea dell'ultimo momento, avesse funzionato. Non gli restava altro che sperare. Si coricò sul suo letto, nella sua vecchia e spaziosa camera che gli portava alla mente troppi ricordi. Ormai aveva assunto la capacità di reprimere i pensieri che non facevano altro che farlo annegare in un mare mosso da una tempesta che non poteva fermare. La sua mente si soffermò qualche istante su una figura femminile dai capelli biondi, dal carattere incredibilmente forte, dagli occhi pietrificanti. Anche se non lo dava a vedere, adorava quando Bonnie dava risposte pungenti a suo padre e a lui. Ultimamente non lo aveva più fatto e, nonostante non volesse ammetterlo, gli mancava quella che ormai era diventata la sua distrazione dalla realtà. Si voltò su un fianco cercando di nascondere il lieve sorriso che era comparso sulle sue labbra.

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