The poacher of the black jungle

di MadAka
(/viewuser.php?uid=240768)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***



Capitolo 1
*** I ***


 

 

 

Abasi Ndomba era sempre stato un uomo tranquillo e profondamente soddisfatto del proprio lavoro. Per quanto a molti sarebbe potuto apparire monotono e noioso, certo non lo era per Abasi il quale si era sempre trovato a suo agio nell’ufficetto piccolo che aveva arredato a suo piacimento, in cui trascorreva ore della sua giornata a far scorrere gli occhi sui video dei monitor di sicurezza. Il deposito di munizioni di Omorate, uno dei più piccoli e relegati all’inizio della giungla che rivestiva il fiume Omo, proprio ai confini del Wakanda, era un posto tutto sommato tranquillo, in cui non era mai accaduto nulla di pericoloso o di inatteso. Le munizioni stoccate dalle case produttrici arrivavano in quel deposito una volta a settimana e nei sette giorni successivi venivano smistate in più casse e spedite nelle terre che le acquistavano. Tutto ciò avveniva sotto gli occhi vigili di Abasi che osservava la scena seduto alla sua scrivania, sui monitor 7, 8 e 9 che da sempre erano quelli collegati alla sala di smistamento. Parte di quelle munizioni erano riservate al regno del Wakanda, da cui provenivano venti dei cinquanta dipendenti di quel deposito e che, inoltre, si occupava della sorveglianza della zona.

Abasi era certo di essere di fronte a un’altra conclusione di giornata perfettamente normale. Erano quasi le dieci di sera e il suo turno era in procinto di concludersi. A breve avrebbe visto Salehe che gli avrebbe dato il cambio, e sarebbe tornato al suo alloggio per concedersi una cena e poi per immergersi nella lettura dell’ultimo romanzo da poco iniziato.

Fu mentre accarezzava quest’ultima prospettiva che qualcosa attirò la sua attenzione. Su uno dei monitor macchie scure e confuse cominciarono a comparire dal fitto della foresta; i volti coperti da passamontagna neri e grossi fucili stretti in mano. Abasi capì immediatamente quanto pericolo c’era in ciò che aveva appena visto. Senza pensarci due volte premette il pulsante rosso che aveva sopra la scrivania e la sirena d’emergenza si azionò, mettendo in allerta gli uomini della sicurezza del deposito. Tornò a controllare sul monitor e si accorse che gli uomini armati continuavano a uscire dalle fronde: dovevano essere almeno una ventina.

Un silenzio di ghiaccio anticipò il primo sparo. Abasi riuscì a sentirlo distintamente anche al secondo piano del deposito. Subito dopo altri spari seguirono il primo, divenendo sempre più numerosi e sovrapposti. Dagli schermi vide gli uomini con il passamontagna sparare ancora verso chi tentava di intervenire. Uno di loro estrasse una granata dalla cintura e la lanciò senza indugio verso l’ampio portone di lamiera. La deflagrazione fece tremare le pareti della struttura e fu seguita da altri spari e grida quando il gruppo di uomini fece irruzione con forza nella vasta sala del deposito, in cui la maggior parte degli operai tentava invano di mettersi al riparo dai detriti che ancora schizzavano come proiettili dopo l’esplosione. Abasi continuò a seguire terrorizzato ogni azione di quella notte che si era stravolta in pochi minuti, come se dai monitor stesse assistendo alla proiezione di un film terribilmente realistico. Era impietrito, spaventato come non si era mai sentito prima d’allora. Il suo cervello fu solamente in grado di dirgli di alzarsi e chiudere la porta dell’ufficio a chiave. Tornò a rivolgere gli occhi al monitor, sentendosi via via sempre più impietrito dalle scene che continuavano ad animare gli schermi. Gli addetti alla sicurezza si scontravano con le figure dal passamontagna; sparavano loro o si sfidavano in un corpo a corpo, ma non riuscivano ad avere la meglio. Uno dopo l’altro quelli che Abasi conosceva venivano uccisi tutti, fra grida di dolore, colpi di pistola e schizzi di sangue che imbrattavano i pavimenti.

Come risvegliato da un improvviso torpore Abasi si mosse rapido verso il telefono. Aveva l’orrore negli occhi e le grida dei suoi colleghi riecheggiavano nelle sue orecchie. Tentò di digitare il numero di telefono della polizia, ma le mani gli tremavano a tal punto da far fallire il primo tentativo. Tuttavia, quando tentò di digitare nuovamente la sequenza corretta, la serratura alle sue spalle scattò. In preda al panico si voltò verso l’ingresso, dove la porta si stava aprendo lentamente, mostrando dietro di essa due figure. Entrambe erano vestite di nero e indossavano anfibi sudici di fango e giubbotti antiproiettile. Solo uno dei due portava il passamontagna. Abasi riuscì a vedere il volto dell’uomo più vicino a lui, dai capelli brizzolati e scarmigliati, rasati ai lati, la barba di chi ha vissuto la giungla a lungo, il collo travisato da una cicatrice e occhi impenetrabili. Tuttavia fu il sorriso che aveva a far impietrire Abasi rendendolo incapace di reagire; nel sorriso di quell’uomo c’era una follia perversa, una distorsione allucinante in grado di far gelare il sangue.

L’uomo guardò negli occhi Abasi e il suo ghigno parve arricchirsi di ulteriore follia. «Mi dispiace dovertelo dire, amico. Temo che tu abbia visto troppo.»

Le parole che l’uomo pronunciò fecero subito capire ad Abasi che era segnato. Aspettò con sorprendente consapevolezza la pallottola che lo avrebbe ucciso, ma questa non arrivò mai.

Ancora sulla soglia, l’uomo con il passamontagna diede le spalle alla scena e si allontanò mentre l’altro, fattosi improvvisamente serio, sollevò la mano destra. Ad Abasi parve che l’arto avesse un colore innaturale, anche se non riuscì ad accertarsene in tempo. Un dolore come non ne aveva mai provato prima lo aggredì. Si sentì schiacciare da qualcosa che non era in grado di vedere ma che sentiva premere con ferocia contro il suo corpo. Non gli riuscì di gridare, né di pensare a un ultimo ricordo. Con la stessa rapidità con cui il dolore era arrivato se ne andò e Abasi non fu più in grado di provare nulla.

 

*

 

“… il comandante delle forze di polizia di Omorate non esclude alcuna pista. Le munizioni rubate all’interno del deposito erano pronte per essere stoccate negli stati che ne avevano fatto domanda. Con molta probabilità, secondo gli inquirenti, si sarebbe trattato di un attacco e di un furto su commissione, a opera di mercenari o possibili terroristi. Rimaniamo in collegamento…”

Il televisore continuava a proporre nuovi aggiornamenti riguardo l’attacco al deposito di Omorate della sera prima, mentre la luce del mattino entrava con forza dalle ampie finestre dell’ufficio personale del sovrano del Regno di Wakanda, annebbiando le immagini dello schermo tv. T'Challa sedeva alla scrivania, gli occhi che scorrevano sulle pagine di numerosi giornali e di altrettanti impegni annotati a penna su taccuini e agende. Sollevò lo sguardo solo quando sentì la porta aprirsi e il rumore di tacchi introdurre nella stanza la sua assistente. Quest’ultima raggiunse la scrivania, vi girò intorno e posò con leggerezza il caffè mattutino del sovrano – una miscela dei migliori caffè d’Africa da lui personalmente ideata; in quel gesto i lunghi capelli castani di lei scivolarono dalle sue spalle, per poi posarvisi nuovamente, ondulati e leggeri. La sua pelle bianca, europea, meravigliosamente dorata dal sole africano la faceva sembrare perennemente fuori luogo in Wakanda, se non fosse per l’incredibile sicurezza e la grazia con cui sembrava veleggiare fra i corridoi del palazzo e che lasciavano perfettamente intuire che, quella, era casa sua.

«Che cosa ne pensi Anisa?» domandò T'Challa, indicando con un rapido cenno il televisore, dove ancora il deposito di Omorate riempiva l’inquadratura. La donna non replicò e il sovrano riprese a parlare: «Cinquantadue dipendenti, tutti uccisi. Venti di loro erano wakandiani.»

T'Challa spense la tv, afferrò il suo caffè e andò alla finestra a osservare il cielo terso che sovrastava la capitale del suo regno, già viva di prima mattina.

«E non solo» riprese poi a dire. «Tre dei maggiori esperti al mondo di vibranio sono spariti e quattro giorni fa uno di loro è stato trovato morto sulle coste del lago Turkana. Una morte inspiegabile, la sua; aveva gli organi spappolati ma nessun segno di aggressione.»

Anisa rabbrividì appena all’idea. Aveva già letto del ritrovamento di quell’uomo sui giornali e anche allora la modalità della sua morte le avevano fatto impressione.

«Credi che ci siano dei collegamenti fra tutte queste cose?» chiese poi al sovrano.

T'Challa si voltò per vederla meglio in viso. I suoi occhi scuri puntarono decisi in quelli nocciola della donna che non si scompose, ma rimase immobile, le mani intrecciate in grembo, in attesa di una risposta.

«Sì, io penso che le cose siano collegate. Altrimenti non si può spiegare la scomparsa di tre uomini così simili fra loro per le conoscenze che possiedono e il furto di munizioni a sufficienza per rifornire un esercito. Le possibilità che queste cose non abbiano un nesso fra loro sono misere e le renderebbero coincidenze impensabili.»

Anisa rimase a guardare T'Challa mentre quest’ultimo sorseggiava un po’ del suo caffè; la pelle scura del sovrano era illuminata dalla luce che proveniva alle sue spalle e i contrasti che essa creava rendevano i lineamenti dell’uomo ancora più fieri e carismatici.

Lei aveva sempre nutrito profondo rispetto per T'Challa, fin da quando ne aveva memoria. A soli tredici anni, per via di alcuni stravolgimenti che le avevano compromesso un futuro sereno, Anisa aveva incontrato T’Chaka, l’allora sovrano del Regno di Wakanda, il quale aveva deciso di portarla con sé a palazzo e fare di lei la proprio figlia adottiva. Anisa e T'Challa erano cresciuti insieme, sigillando fra loro un legame di amicizia più forte e intenso di quello che caratterizzava i restanti figli del re. Quando T'Challa fu nominato sovrano, in seguito alla drammatica dipartita del padre, aveva espresso il desiderio di avere Anisa accanto e l’avevano nominata sua personale assistente. Mai si era pentito di quella scelta e mai la donna gliene aveva dato motivo.

T'Challa inspirò l’aroma della bevanda che stava sorseggiando e tornò a sedersi alla sua scrivania, sempre sotto lo sguardo di Anisa, che attese le successive parole del sovrano. Quest’ultimo spostò alcune carte del piano, scoprendo sotto di esse un’accurata cartina geografica delle zone limitrofe al Wakanda. Su di essa vi erano segni eseguiti con inchiostro rosso: cinque grandi X.

T'Challa alzò lo sguardo sulla donna, indicando con l’indice il primo dei cinque segni. «Kakuma. Un mese fa un piccolo villaggio ai confini della città è stato attaccato. Non hanno trovato alcun superstite, ma nemmeno un cadavere.»

Poi puntò in sequenza tre delle cinque croci, che salivano verso Omorate, come se fosse un percorso prestabilito. «Due aggressioni ad altrettante guardie, i cui corpi sono stati trovati pieni di ferite sospette e inspiegabili» disse, prima di soffermarsi sul terzo segno, quello in corrispondenza del lago Turkana. «Qui hanno ritrovato il cadavere di uno dei tre scienziati, quello di cui ti parlavo prima.»

Anisa annuì e T'Challa indicò l’ultima X rossa. «E infine il deposito di Omorate, ieri sera. Mi rifiuto di credere che siano coincidenze, che nessuna morte c’entri con la precedente.»

Sospirò, amareggiato da quanto aveva appena detto. «Inoltre se provi a seguire la scia…»

Lasciò la frase in sospeso, in attesa che a completarla fosse l’assistente. Lei dedusse immediatamente ciò che lui non aveva detto. «Pare quasi siano diretti qui» mormorò infine Anisa, sorpresa. Alzò lo sguardo su T'Challa e vide i profondi occhi scuri dell’uomo intenti a osservarla.

«È ciò che temo. Sospetto fortemente che presto possa succedere qualcosa anche da noi. E voglio evitarlo.»

Il sovrano parlò con voce ferma e sicura, senza interrompere il contatto visivo. Subito dopo, però, controllò l’orario sull’orologio che teneva al polso.

«Come pensi di fare?» domandò Anisa, ma non attese risposta; così come conosceva T'Challa conosceva anche i suoi modi di lavorare e tutte le tecnologie che aveva a disposizione. «Hai mandato delle Sentinelle?»

Le Sentinelle erano droni da terra, in grado di raccogliere informazioni di qualsiasi natura, fare riprese audio e video e registrare la presenza di forme di vita. Piccoli e veloci, lo scheletro in vibranio li rendeva pressoché indistruttibili.

T'Challa annuì alla domanda della donna, un sorriso compiaciuto a solcare il suo viso. Anisa non lo deludeva mai e la sua capacità di ragionare in fretta veniva a galla anche nelle piccole cose.

«I risultati dei loro rilevamenti dovrebbero arrivarmi a breve.»

L’uomo fece a malapena in tempo a finire la frase che qualcuno bussò alla porta. T'Challa diede l’autorizzazione a entrare e un giovane varcò la soglia della porta. Salutò i presenti nell’ufficio, portò il plico di carte stampate che teneva in mano fino alla scrivania e uscì con lo stesso passo con cui era entrato.

«Puntuali come sempre» sentenziò il sovrano.

Anisa guardò le carte. «Sono questi?» domandò, riferendosi ai rilevamenti delle Sentinelle.

T'Challa le rispose facendo segno di sì con la testa. Desiderava informare la propria assistente di come erano andate le cose, perciò subito dopo disse: «Ho saputo del furto al deposito questa notte, un paio d’ore dopo che esso era avvenuto. Quando ho visto che si trattava di Omorate ho pensato che fosse meglio indagare e ho mandato sei Sentinelle a fare rilevamenti nella zona.»

Divise accuratamente i fogli che aveva davanti in due pile identiche e, con un cenno della mano, indicò ad Anisa una delle sedie poste di fronte a lui, dietro le quali la donna si ostinava a stare ferma in piedi. Senza staccare gli occhi da T'Challa lei si sedette e il sovrano considerò quel gesto come il giusto pretesto per passare a lei uno dei due plichi di carte.

«Mi aiuti ad analizzare i risultati?» le chiese.

Anisa non replicò, ma afferrò il primo gruppo di fogli puntati insieme e cominciò a studiare tutta la serie di numeri, lettere e grafici che aveva faticosamente imparato a decifrare solo pochi mesi prima.

Quasi mezz’ora di silenzio e lettura dopo nessuno dei due aveva trovato qualcosa di cui insospettirsi nei dati che avevano letto fino a quel momento. Nelle aree scansionate dalle Sentinelle non c’erano stati movimenti che potevano far supporre alla presenza dell’uomo.

Anisa era ormai stufa di leggere tutti quei numeri quando notò un picco in uno dei grafici, in corrispondenza di una zona che, sulla carta, coincideva con una riva del fiume Omo.

«T'Challa.»

Il sovrano alzò in fretta il capo; anche lui era piuttosto annoiato dalla mancanza di anomalie dei suoi dati. Si fece serio quando vide lo sguardo incerto dell’assistente.

«Nell’area G29 c’è un incremento elettrico» disse lei, allungando a T'Challa le carte in questione. «Cosa c’è nel G29?» chiese poi, preoccupata.

Lui spostò in fretta le carte che coprivano la cartina che prima avevano studiato insieme e cercò il punto esatto; era proprio sulle sponde dell’Omo, nel folto della giungla che inverdiva le sponde del fiume, poco sopra il confine nord del Wakanda.

«Di cosa pensi si possa trattare?» domandò Anisa.

T'Challa capì dalla sua voce che anche lei trovava la cosa piuttosto sospetta. Fece mente locale, cercando di ricordare tutto ciò che sapeva del territorio. Alla fine ricordò: «Se non mi sbaglio c’è una centrale idroelettrica. Piccola e abbandonata da anni.»

«Forse non più così abbandonata.»

Il sovrano si disse d’accordo. Si alzò in piedi e tornò alla finestra, prendendo a giocare distrattamente con l’anello che portava all’anulare destro: uno spesso anello nero bordato d’argento.

«Voglio capire se è tutto in regola, oppure se in quella centrale c’è qualcosa che non deve esserci.»

Anisa controllò nuovamente la mappa appena T'Challa smise di parlare.

«Quella zona è terra etiope. Se vuoi mandare laggiù degli uomini per verificare che sia tutto in ordine dovrai chiedere il permesso al primo ministro etiope» gli fece notare.

Il sovrano non rispose subito; continuava a tormentare il proprio anello con le dita, sovrappensiero. Qualunque cosa stesse succedendo nelle terre che circondavano il suo regno, scoprirlo era suo compito. Le richieste politiche non avrebbero portato risultati immediati e il rischio di sentire di altre persone barbaramente uccise sarebbe aumentato mano a mano che lui avesse permesso al tempo di trascorrere. Non ne aveva alcuna intenzione. Se qualcuno stava minacciando la sua gente lui l’avrebbe scoperto, e in fretta.

Senza smettere di guardare la città che viveva oltre le mura del suo palazzo, T'Challa respirò a fondo.

«No» disse e Anisa osservò la figura del proprio sovrano con maggiore intensità.

«Non manderò alcun uomo a controllare. Questo è un lavoro per la Pantera.»

 

*

 

La giungla era un terreno spaventoso e impervio per chiunque. Anche in pieno giorno le fitte fronde, tenute insieme da liane, rami e tralci, risucchiavano la luce, proiettando solo nero in grado di assorbire ogni cosa. Nella profondità della foresta i suoni venivano attutiti; chi camminava sembrava circondato da ovatta, eppure anche il più minimo rumore si riusciva a sentire, solo che, in tal caso, o si era troppo vicini alla fonte, oppure era già troppo tardi. Per uno nato e cresciuto attorno a quella giungla orientarvisi all’interno era meno complicato e i suoni diventano più decifrabili e meno spaventosi.

Per Pantera Nera quegli alberi così uguali fra loro erano in realtà diversi e ciascuno tracciava un sentiero che un uomo dotato delle stesse capacità della Pantera era in grado di decifrare. T'Challa avanzava furtivo verso il cuore sempre più nero e vivo della giungla, alla ricerca di quell’arteria, l’Omo, sulle cui sponde avrebbe trovato ciò che cercava. Conosceva ogni verso e ogni abitudine delle creature che abitavano quelle terre, così come sapeva in che modo comportarsi per evitare di fare loro del male.

La luna era sorta da diverse ore quando T'Challa sentì i primi e flebili rumori della corrente del fiume Omo. Raggiunto l’argine la Pantera si guardò intorno e diversi metri più avanti vide il tenue bagliore di luci elettriche. Capì di non essersi sbagliato. L’edificio da cui proveniva la luce era la piccola centrale idroelettrica di cui si ricordava; avrebbe dovuto essere abbandonata da tempo, eppure non era così. T'Challa si avvicinò alla struttura, prestando sempre più attenzione a non fare rumore mano a mano che proseguiva verso la centrale. Quando si trovò nei suoi pressi si fermò e studiò l’area. C’era un uomo di vedetta, fermo accanto alla porta che con tutta probabilità usavano per entrare e uscire; portava un passamontagna nero calato sul volto e un mitra stretto fra entrambe le mani. Pantera Nera continuò a osservare l’edificio fino a notare ciò che cercava: una via d’accesso. Le finestre poste poco al di sotto del tetto erano per lo più rotte o frammentate e la grondaia che dalla copertura scendevano fino a terra era la scala perfetta per raggiungerle. Ignorò completamente l’uomo di guardia e, silenzioso come il felino di cui portava il nome, si accertò non vi fossero altre persone e raggiunse il tubo pluviale. Vi si arrampicò con rapidità e agilità, arrivando fio alle finestre mancanti. Diede una rapida occhiata all’interno e ringraziò di vedere le sue speranze concretizzarsi; sotto le finestre c’erano grossi condotti d’acciaio – il sistema di ventilazione – spessi e certamente resistenti, perfetti per permettergli di camminarvi sopra entrando così all’interno dell’edificio. Vi salì e guardò sotto di sé. La stanza era ampia, sgomberata quasi totalmente, fatta eccezione per le grosse turbine fissate al suolo che ancora troneggiavano in buona parte dello spazio; a un lato erano stati accatastati resti di lamiera, casse vuote, taniche di svariate dimensioni. Vicino al centro della sala una decina di grandi casse era sorvegliata da svariati uomini intenti a conversare fra loro convinti di essere al sicuro. Appena li vide, Pantera Nera si accucciò per evitare di correre il rischio di essere notato. Quasi subito nuove voci introdussero nella stanza altre sei persone. Quello che guidava il gruppo prese a parlare, il tono infastidito, indicando le grosse casse.

T'Challa sentì la rabbia montare dentro di sé quando riconobbe quell’uomo. I capelli brizzolati, la barba mal tenuta e quella cicatrice sul collo non potevano che dargli ragione. Era il bracconiere, lo sfruttatore che per anni aveva depredato le terre del suo Regno e che era sempre riuscito a farla franca: Ulysses Klaw.

Senza staccargli gli occhi di dosso T'Challa si costrinse a mantenere la calma e a continuare a studiare la scena. Klaw stava dicendo qualcosa ai suoi uomini, indicando insistentemente le casse che aveva davanti. Per colpa del vuoto che riempiva gran parte dell’edificio la sua voce rimbombava fra tetto e pareti, rendendo le parole difficili da decifrare. La Pantera cercò di concentrare l’attenzione sulle casse, tentando di carpire qualche informazione da qualcuna delle indicazioni riportate su di esse. Un timbro nero sbiadito, come se avessero tentato di cancellarlo, riportava la parola “Kelem” e T'Challa capì tutto. Dato che la città di Omorate era anche conosciuta come Kelem, quelle casse non potevano che essere le munizioni rubate dal deposito di Omorate.

Fu semplice collegare le cose. Ulysses Klaw non godeva certo di buona fama in quelle terre e i metodi spietati per ottenere ciò che voleva non erano né rari ne tantomeno nuovi quando si aveva a che fare con lui. Inoltre l’assoluta fissazione dell’uomo per il vibranio era nota al sovrano del Wakanda e ciò avrebbe anche potuto spiegare la scomparsa dei tre esperti del raro metallo.

Quasi certo di aver trovato i colpevoli che stava cercando, Pantera Nera soppesò l’ipotesi di attaccarli subito in quella vecchia centrale; in fin dei conti erano si e no una quindicina di persone e anche se erano armati di fucili e pistole la sua tuta con fibre di vibranio avrebbe resistito perfettamente. Tuttavia qualcosa attirò la sua attenzione: un veloce gesto nell’ombra, poi nuovamente buio. T'Challa focalizzò la sua attenzione in quel punto e vide due figure che prima non aveva notato. Entrambe erano massicce, la pelle scura dei popoli del Kenya, le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi su Klaw. Non indossavano giubbotti antiproiettile come gli altri, ma tute mimetiche identiche a quelle di Klaw. La Pantera rimase a fissarli a lungo e la sua intenzione di agire all’istante fu fermata dal suo istinto. Qualcosa in lui gli diceva di non sottovalutare quegli uomini, che qualcosa in ciascuno di loro li rendeva forti come tutti gli altri presenti nella sala. L’istinto di T'Challa si era sbagliato una volta soltanto e in quella occasione la rabbia lo aveva completamente accecato. Ora che conosceva il nascondiglio di Klaw e dei suoi uomini sapeva dove trovarli e sarebbe tornato presto, così da fermarli prima che potessero diventare ancora più pericolosi. Tuttavia quella notte decise di dare ascolto al suo istinto e silenzioso, così come era entrato, scivolò fuori dalla centrale e si immerse nella notte.

 

 

 

 

__________________________________

Come si usa dire: sono nuova nel fandom.

Sono appassionata del MCU ed è proprio da questo che ho preso spunti/ispirazioni/riferimenti per scrivere questa storia. Va anche detto, però, che alcuni dettagli li traggo anche dal mondo dei fumetti, perché mi piace arricchire di particolari e cercare di tenere ben salde fra loro le cose anche quando i film – per un motivo o per l’altro – non affrontano determinati argomenti o legami (vedi quello T'Challa – Klaw, che nei film non viene menzionato ma nei fumetti esiste da sempre).

Comunque mano a mano che la storia prosegue cercherò di spiegare le cose meglio che posso, tentando di evitare possibili spoiler.

Infine, perché una storia su T'Challa. Principalmente perché amo il suo personaggio e poi perché finalmente grazie anche al MCU l’ho potuto vedere al cinema. So che in Civil War si rende abbastanza antipatico, ma il T'Challa di cui vado pazza io è quello dei fumetti che confido “esca” in tutta la sua fiera meraviglia nel film dedicato a lui che già non vedo l’ora di vedere.

A ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Non avendo mai scritto nulla del genere ci sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto.

 

MadAka

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


 

 

 

Anisa camminò più in fretta del solito lungo il corridoio che l’avrebbe condotta nell’ufficio di T'Challa. La tazza di caffè che teneva in mano, da cui l’aroma saliva invitante e avvolgente, oscillava così violentemente che ogni due passi minacciava di far cadere sul pavimento buona parte del suo contenuto. La donna era adirata con il sovrano e niente, nel suo atteggiamento, poteva lasciare trasparire il contrario.

La notte prima Anisa aveva impiegato ore a prendere sonno e c’era riuscita solo perché era consapevole che T'Challa l’avrebbe informata del suo rientro. Lei voleva andare con lui a ispezionare la centrale idroelettrica in cui le Sentinelle avevano rilevato delle presenze, ma T'Challa non glielo aveva permesso. L’aveva convinta a rimanere al palazzo e le aveva detto che l’avrebbe svegliata non appena avesse fatto ritorno. Tuttavia quella stessa mattina Anisa si era svegliata al suono della sveglia come sempre e quando aveva realizzato che la Pantera era tornata a palazzo senza dirle alcunché, il nervosismo aveva preso il sopravvento.

Aprì la porta dell’ufficio con uno scatto, senza bussare nemmeno; la tazza che teneva in mano concretizzò le sue minacce e rovesciò alcune gocce di caffè sull’immacolata porta nera. Anisa trovò T'Challa in piedi, le mani dietro alla schiena, di fronte a quello che riconobbe come l’ologramma del primo ministro etiope. Il sovrano si voltò a guardarla un momento, dopodiché tornò a rivolgersi all’immagine dell’uomo: «Sa che parlerei ancora molto volentieri con lei, primo ministro» disse, sorridendo. «Tuttavia la mia assistente mi ha sta ricordando che ho diverse faccende da sbrigare.»

«Non voglio farle perdere altro tempo, allora. Mi informi subito se dovesse avere bisogno di qualsiasi cosa.»

«Senz’altro. Le auguro buona giornata.»

Il primo ministro fece altrettanto e la chiamata venne chiusa, facendo scomparire l’ologramma dalla stanza. T'Challa si rivolse verso Anisa, ancora immobile sulla soglia, l’espressione di chi non stava capendo esattamente cosa accadeva. Il sovrano le fece un cenno, indicando alla donna, in una mossa sola, di entrare e sedersi. Lei eseguì; si chiuse la porta alle spalle e andò a sistemarsi davanti alla scrivania, guardando T'Challa in modo confuso.

«Puoi bere tu quel caffè. Ne ho già presi due questa mattina.»

Anisa abbassò lo sguardo sulla tazza che ancora teneva in mano, sempre più confusa.

«Mi dispiace, mi sono dimenticato di dirti che non lo avrei preso» proseguì il sovrano.

«Ti sei dimenticato di dirmi un sacco di cose!» esplose la donna, appoggiando la tazza sulla scrivania con tale forza che molte gocce di caffè volarono sul suo piano, fortunatamente sgombro di carte. «Perché non mi hai detto nulla quando sei rientrato questa notte?»

Non riuscì a trattenersi. Aveva sperato e, soprattutto, confidato che una volta tornato a palazzo Pantera Nera le avrebbe subito detto ciò che aveva scoperto, anche se si fosse trattato di cose di poco conto. Dopotutto Anisa era per T'Challa molto più di una semplice assistente; tuttofare per il sovrano del Regno di Wakanda, combattente al fianco della Pantera.

T'Challa le sorrise, dolcemente. «Hai ragione. Ti chiedo scusa.»

Le poche parole parvero sufficienti a placare la donna. Anisa si ricompose, sistemandosi sulla sedia.

«Hai trovato qualcosa?» chiese poi. Era terribilmente curiosa di sapere la verità, di scoprire se ancora una volta T'Challa aveva ragione e, in quel caso, di capire se avevano a che fare con qualcuno che andava temuto oppure no.

«Ho trovato qualcuno» esordì il sovrano, divenendo improvvisamente più serio. Anisa trattenne il respiro, senza staccare gli occhi dall’uomo.

«È Klaw.»

A sentire quel nome la donna allentò la presa dalla tazza, che rimase così abbandonata sul piano della scrivania, con il proprio contenuto a raffreddarsi lentamente. Una morsa la braccò alle viscere e un grosso senso di malessere la pervase.

Ulysses Klaw. Se c’era davvero lui dietro alle morti, alle sparizioni e ai furti, bisognava agire in fretta e fermarlo prima che potesse fare del male ad altre persone.

T'Challa si accorse dell’improvvisa reazione della donna ma non riuscì a dire nulla. Lei, infatti, precedette le sue parole: «È in quella centrale? Dove dicevi tu?»

«Sì. Non credo si fermeranno lì a lungo. Perciò dobbiamo agire in fretta.»

«Quanti sono?»

«Ne ho contati diciassette, ma potrebbero essercene altri.»

Anisa si alzò di scatto dalla sedia, gli occhi spalancati. «Diciassette? Perché non li hai fermati subito? Hai affrontato gruppi molto più numerosi di così» esclamò.

T'Challa sollevò una mano per intimarle di calmarsi; lo sguardo fiero e risoluto con cui la guardò fece capire alla donna che si era spinta troppo oltre. Per quanto il loro rapporto potesse essere fraterno, quell’uomo era pur sempre il suo sovrano. Anisa tornò a sedersi e quasi contò i secondi prima che T'Challa riprese a parlare: «Non fraintendere, Anisa. Mi conosci perfettamente e sai che io stesso avrei agito subito, ieri notte. Tuttavia…»

Inspirò a fondo, ripensando alle due figure che erano rimaste nascoste nell’ombra. «Tuttavia qualcosa mi ha detto che da solo non ci sarei riuscito.»

Lei lo guardò esterrefatta, sorpresa da quella ammissione. Se non avesse visto le labbra di T'Challa muoversi a comporre quelle parole non ci avrebbe creduto.

«Klaw è ricomparso dopo anni, non è uno sprovveduto e sa benissimo con chi ha a che fare se si avvicina al Wakanda. Sono certo che gli uomini che sono con lui non vanno sottovalutati» spiegò il sovrano, la voce di chi era perfettamente consapevole di quanto stava dicendo.

«Perciò, cosa facciamo?»

«Prima, hai visto anche tu, ho parlato con il primo ministro etiope. L’ho informato di ciò che ho scoperto, omettendo una serie di cose, ovviamente» disse, un leggero sorriso in volto. «Ho avuto il permesso per intervenire con degli uomini in quella zona. Massima segretezza.»

Anisa rimase a guardarlo, capendo tutto. T'Challa avrebbe colpito Klaw alla centrale con un novero di soldati e, affinché la cosa non facesse clamore – poiché un intervento wakandiano in Etiopia avrebbe comunque fatto notizia – aveva informato dell’accaduto e chiesto il permesso a intervenire al primo ministro della nazione. Tuttavia nessuna informazione a riguardo sarebbe dovuta trapelare. Se l’intervento di T'Challa avesse avuto successo, Klaw sarebbe stato eliminato prima di fare altre vittime e le persone scomparse, i furti e i morti, sarebbero passati come disgrazie sotto silenzio con il tempo.

«A quando l’intervento?» domandò la donna, senza porre altre domande sul discorso fra T'Challa e il primo ministro etiope.

«Questa notte. Faremo in modo di essere alla centrale idroelettrica intorno alle due e di tornare entro l’alba.»

«Pensi che ce la faremo?»

Il sovrano annuì. «Porterò con me trenta uomini armati. Ma tu, Anisa, resterai qui.»

Il tono dell’uomo non ammetteva repliche, ma la donna non gli diede peso. Si alzò nuovamente dalla sedia e guardò T'Challa con una determinazione bruciante.

«Io verrò. Non puoi tenermi fuori da questa storia se si parla di Klaw» proruppe.

L’uomo, che non era rimasto sorpreso dall’affermazione di lei, distolse lo sguardo, scuotendo la testa. «Non posso permettertelo.»

«E perché no? Come se non avessi mai combattuto al tuo fianco, come se non avessi mai aiutato la Pantera» disse sprezzante.

T'Challa tornò a guardarla. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento. Conosceva l’avversione che Anisa provava per Klaw, così come sapeva ciò che l’uomo le aveva fatto e capiva i sentimenti di lei. Tuttavia voleva impedirle di correre il rischio di diventare schiava della brama di vendetta, come aveva fatto lui anni prima quando aveva dato la caccia a James Barnes.

Mantenendo il tono risoluto che lo contraddistingueva, le rispose: «Non si tratta di questo. So che saresti all’altezza. Solo non voglio che il desiderio di vendetta ti consumi come ha consumato tante persone prima di te.»

Anisa non si scompose a quelle parole. Si avvicinò al sovrano e alzò lo sguardo sul suo. Negli occhi scuri di T'Challa c’era una leggera sfumatura di preoccupazione che per lei fu semplice da interpretare.

«Io non voglio vendicarmi di Klaw» gli disse, in un modo che parve quasi una confessione. «Voglio solo che venga fermato, così da impedire che possa fare ad altre persone ciò che ha fatto a me.»

T'Challa rimase a guardarla, silenzioso. Non poteva biasimarla e non lo avrebbe fatto.

«E sia» disse, con un leggero cenno del capo. «Ma dovrai darmi la tua parola. Non voglio che quell’uomo ti trasformi.»

Anisa acconsentì, senza dire nulla. Non avrebbe permesso all’uomo che le aveva stravolto la vita di farlo ancora una volta e non gli avrebbe neanche permesso di diventare un’ossessione. Voleva solo che fosse fermato. In quale modo non le importava, così come non le importava che fosse lei a farlo; tuttavia, se poteva in qualche modo contribuire alla causa, non sarebbe certamente rimasta a guardare.

 

*

 

La luna riluceva sottile come una lama sopra le alte fronde degli alberi che costeggiavano rigogliosi il fiume Omo. Trentadue uomini non sarebbero certo passati inosservati neanche fra quelle foreste, se a guidarli non ci fosse stato qualcuno che conosceva perfettamente quelle terre. La Pantera, la tuta nera e iridescente per via del vibranio, camminava avanti a tutti posando i piedi nei punti migliori per evitare di fare rumore. Accanto a lui Anisa si muoveva con la stessa leggerezza; anche lei portava una tuta di fibre miste a vibranio, una maschera più simile a un elmetto così da proteggerle la testa senza però schiacciarle i capelli che dietro, raccolti in una lunga e stretta treccia, erano liberi di muoversi. Alla cintura in vita era agganciata una coppia di tonfa1, l’arma con cui lei si era sempre destreggiata.

Proseguendo nel fitto della foresta, T'Challa e i suoi uomini arrivarono in prossimità della centrale idroelettrica. Le flebili luci e l’uomo di vedetta davanti alla porta, fecero capire alla Pantera che non erano arrivati troppo tardi. Si voltò verso i suoi uomini e fece loro cenno di attendere l’inizio delle operazioni. I soldati si abbassarono, nascondendosi fra le basse fronde della giungla mentre T'Challa, silenzioso, arrivava alle spalle del nemico e lo atterrava con un’unica, precisa, mossa. Indicò agli uomini di raggiungerlo e così fecero, cercando di fare più silenzio possibile. Appostati intorno alla porta, uno degli artificieri sistemò alcune cariche in corrispondenza delle cerniere e le fece brillare. Per quanto la detonazione parve debole sortì ugualmente l’effetto desiderato e con un calcio assestato al centro esatto della porta, quella si staccò dai cardini e volò oltre l’ingresso, schiantandosi al suolo.

Gli uomini dentro la centrale ebbero a malapena il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo. I sodati del Wakanda entrarono rapidi nell’edificio cominciando a sparare. Se non fosse stato per i giubbotti antiproiettile molti nemici sarebbero stati abbattuti subito, ma solo alcuni caddero, colpiti alla testa. Quando T'Challa e Anisa entrarono, pochi istanti dopo, il conflitto a fuoco era già nel suo pieno. Gli uomini di Klaw si stavano riparando dietro a delle spesse casse, sparando con quante più armi avevano. T'Challa e i suoi uomini, invece, erano schiacciati contro le grosse turbine in disuso, poste proprio davanti all’ingresso. La Pantera analizzò rapida la situazione e trovò una via sicura per permettergli di arrivare alle spalle dei nemici. Con un cenno indicò il percorso ad Anisa, che fece a appena in tempo ad annuire prima che un soldato wakandiano urlasse: «Granata!»

Un boato spezzò l’aria e fece tremare ogni cosa. Pantera Nera fece scudo con il suo corpo su Anisa e il vibranio della tuta impedì alla deflagrazione di fargli del male. Sentì diversi uomini gridare, gli spari proseguire e il rumore di carne lacerata. Ignorando ogni precauzione e via sicura, T'Challa si avventò sui soldati di Klaw, affrontandoli nel corpo a corpo. Anisa lo seguì, i tonfa stretti in mano con cui sapeva combattere e difendersi perfettamente – anche grazie alla leggerezza e resistenza che il vibranio conferiva loro. I nemici erano una decina; T'Challa ne abbatté due e nel mentre venne raggiunto dai suoi uomini che presero a combattere anche loro a stretto contatto con gli avversari.

Erano prossimi a sovrastarli quando, improvvisamente, una risata folle si fece largo nella stanza, rimbombando in ogni dove.

«Pantera Nera!» urlò la voce, selvaggiamente divertita.

A T'Challa non servì altro per capire che si trattava di Klaw. Conosceva la sua voce e conosceva la follia che lo pervadeva ogni volta che si incontravano. La Pantera si voltò verso l’uomo, i muscoli tesi, pronto a scagliarcisi contro. Ignorò completamente i soldati che si stavano fronteggiando intorno a lui – Anisa compresa – e focalizzò la sua attenzione esclusivamente su Klaw.

Quest’ultimo avanzò nella stanza, i due grossi uomini che T'Challa aveva visto la sera prima al suo fianco. Klaw allargò le braccia, un ghigno a increspargli il volto.

«Mi fa piacere rivederti, credevo ti fossi completamente dimenticato di me.»

A quelle parole Pantera Nera scattò; fece un balzo, pronto ad avventarsi sull’uomo che tanto disprezzava, ma la persona alla destra di Klaw si mosse rapidamente, scagliando un coltello in direzione di T'Challa. Il sovrano riuscì a schivarlo al limite; sentì fischiare la lama del pugnale accanto all’orecchio e rimase sbalordito dalla velocità con cui era stato lanciato. Distratto da questo pensiero non si accorse della mano destra di Klaw, sollevata all’altezza del suo petto. La fase discendente del suo salto venne arrestata da una pressione che non riuscì a vedere: era come se qualcosa di incredibilmente pesante lo avesse respinto indietro. Si sentì percuotere anche all’interno della tuta della Pantera e cadde a terra, rialzandosi subito. Accanto a sé si trovò Anisa e realizzò che, nel frattempo, i suoi uomini erano riusciti ad avere la meglio sugli avversari. La donna teneva gli occhi fissi su Klaw, mentre quest’ultimo continuava a scrutare avido Pantera Nera. L’uomo sollevò nuovamente la mano destra.

«Non crederai che io sia tornato qui senza le armi adeguate per affrontarti, vero?» domandò, retorico.

Nuovamente qualcosa di invisibile parve spingere con una forza sovrumana T'Challa. Si accorse che lo stesso stava accadendo ad Anisa, che però portò le mani alle orecchie nel disperato tentativo di non sentire ciò che la misteriosa forza stava eruttando. T'Challa udì diverse grida di dolore provenire alle sue spalle, si voltò appena per poter vedere cosa stava accadendo dietro di sé. Molti dei suoi uomini urlavano, coprendosi le orecchie, chiudendo gli occhi o stringendosi le braccia al petto. Alcuni di loro caddero a terra, afflosciandosi privi di vita, finché finalmente la vibrazione cessò.

La Pantera non riusciva a spiegarsi ciò che stava succedendo e, notando l’espressione impressa sul volto della donna, capì che anche per Anisa doveva essere così. Ebbe malapena il tempo di prendere in considerazione l’ipotesi di attaccare nuovamente Klaw, che l’altro uomo che era al suo fianco, rimasto immobile fino a quel momento, fece un passo avanti. Fece scattare l’accendino che teneva stretto in mano e, in una maniera inspiegabile, da lì si propagò una feroce fiamma rossa che acquisì forza e dimensioni in brevissimo tempo. Sia T'Challa che Anisa riuscirono a schivare la fiammata per un soffio, lanciandosi ognuno nella direzione opposta. Per i soldati wakandiani – e anche per gli uomini di Klaw, svenuti o semisvenuti a terra – non fu così. Le loro grida si fecero largo strazianti nel vasto deposito quasi distrutto. Alcuni cercarono di scappare, altri non ne furono in grado, mentre la rovente fiamma non ne voleva sapere di estinguersi e lambiva vorace tutto ciò che incontrava. Pantera Nera riuscì ad arrampicarsi su una sporgenza della parete, al riparo dal fuoco; poco più in là vide che anche Anisa era lontano dalle fiamme, il volto intriso di terrore e incredulità.

«Mi dispiace dover lasciare la festa così presto, Pantera.»

La voce di Klaw tornò ad attirare l’attenzione di T'Challa, che si accorse che le fiamme non stavano in alcun modo minacciando il punto in cui i tre uomini erano fermi.

Klaw fece un cenno di saluto. «Ho delle faccende piuttosto importanti da sbrigare e non mi va di perdere altro tempo. Dopotutto era solo questione di ore prima che noi lasciassimo questa vecchia centrale.»

Detto ciò diede le spalle alla stanza e al sovrano, allontanandosi senza apparente fretta insieme ai due uomini. La Pantera balzò nel punto in cui i tre erano appena stati, deciso a inseguirli, ma le urla che continuavano a sollevarsi fra il fuoco alle sue spalle gli fecero capire che poteva ancora salvare qualcuno.

«Dobbiamo andarcene di qui!» urlò, rivolto ad Anisa.

Lei lo guardò come se non sapesse dove si trovava. T'Challa la raggiunse, per sua fortuna il vibranio della tuta rendeva le fiamme meno pericolose. « Anisa, dobbiamo muoverci!»

La donna si ridestò. Ancora incredula e disgustata dall’accaduto seguì il suo sovrano, cercando in ogni modo di schivare il fuoco. Aiutò Pantera Nera a portare fuori dall’edificio quattro superstiti, ma quando provarono a rientrare per cercare di salvarne altri, una violenta esplosione li ricacciò indietro.

Frastornato e stordito, T'Challa, sul limitare della giungla, sollevò lo sguardo in tempo per vedere la vecchia centrale idroelettrica che si accartocciava su se stessa, precipitando in un ammasso di calcinacci, polvere e fiamme. Quando ripensò a tutte le persone che erano ancora presenti in quell’edificio nel momento dell’esplosione e quando capì che fine avevano certamente fatto, il gelo pervase il suo corpo. Si sentì mancare l’aria e il cuore martellava colpevole nel suo petto. Rimase a guardare la polvere che si posava, il rombo dell’esplosione che ancora gli rimbombava nelle orecchie. Si alzò e si tolse la maschera della Pantera, facendo vagare rapidamente lo sguardo fra le basse fronde e i cespugli di felci, finché non individuò Anisa. La donna era carponi sulla terra e stava tossendo. La treccia le si era disfatta in buona parte e il suo elmetto giaceva immobile davanti a lei. T'Challa la raggiunse. Si chinò accanto a lei e le posò una mano sulla spalla; sentendo quel tocco Anisa sollevò lo sguardo. Aveva il viso sporco di fuliggine, ma per il resto era illesa.

«Come ti senti?» le chiese il sovrano.

«Io sto bene…» rispose, finendo inevitabilmente a guardare i resti della centrale idroelettrica. Come T'Challa anche lei era atterrata per ciò che era accaduto; si sentiva impotente, responsabile, come se non avesse potuto fare abbastanza per impedire agli avvenimenti di manifestarsi a quel modo.

L’uomo l’aiutò a rialzarsi e insieme andarono ad accertarsi delle condizioni degli unici quattro superstiti che erano riusciti a portare in salvo. Ad Anisa mancò il fiato quando li vide. Tre di loro erano svenuti, mentre il quarto si contorceva dolorante al suolo. Tutti avevano bruciature sparse sul corpo e il sangue delle ferite risplendeva alla luce del fuoco e della luna.

T'Challa si rivolse alla sua assistente: «Dobbiamo chiamare dei soccorsi. Hanno bisogno di cure mediche urgenti.»

La donna annuì e sollevò lo sguardo verso la centrale distrutta; sotto le macerie si vedevano ancora delle fiamme danzare, pronte a riemergere prepotenti dai resti.

«Dobbiamo anche fare in modo che l’incendio venga spento prima che si propaghi alla foresta» disse lei. T'Challa le diede ragione con un cenno e rimase a guardarla mentre chiedeva supporto con la sua ricetrasmittente.

Si sentiva vuoto e completamente atterrato. Più di venti persone erano morte in quell’attacco e ciò significava che era avvenuto perché lui aveva sottovalutato Klaw. L’esito di quella notte era stato per lui un duro colpo, la dolorosa conseguenza di una netta sconfitta.

 

 

 

 

 

Note:

1 tonfa: il tonfa è un’arma usata nelle arti marziali. Nei film della Marvel sono spesso usati dalla Vedova Nera. Avrei potuto dare un’arma diversa ad Anisa, ma ho sempre avuto un debole per i tonfa e li ho inseriti ugualmente.

 

 

 

 

___________________________

Solo una breve comunicazione.

Intanto grazie a tutti quelli che hanno letto primo e secondo capitolo (molti più di quanti mi aspettassi, lo ammetto).

Poi, ci tengo a fare una piccola precisazione sul rapporto Klaw – T'Challa. Il loro legame in questa storia l’ho tratto sia dal film che dal fumetto – come avevo già anticipato nel capitolo precedente. Quello che non ho inserito – avendo tratto ispirazione maggiore dal CMU – è il perché i due si conoscono. Nei fumetti, infatti, Klaw non è solo un uomo fissato con il vibranio che ha attaccato a più riprese il Wakanda, ma è anche la causa della morte di T’Chaka. Considerando però che in Civil War il sovrano del Wakanda muore in circostanze differenti mi sono attenuta a quella storia, perciò ho “limitato” l’odio che T'Challa prova per Klaw al fatto che ha depredato le sue terre per anni.

Grazie ancora a chiunque abbia letto!

 

MadAka

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


 

 

 

Il mattino seguente allo scontro alla centrale T'Challa si accertò di rendere omaggio nel migliore dei modi alle vittime. Durante la notte, con i soccorsi provenienti dal suo Paese, aveva contribuito a recuperare i corpi e, come aveva dolorosamente sospettato, nessuno era riuscito a sopravvivere al crollo dell’edificio. La Pantera aveva dovuto accettare la scomparsa di ventisei soldati, troppi per essere considerati solo una tragica fatalità. Aveva sottovalutato Klaw – e anche i due uomini che erano con lui e che ora gli parevano ancora più pericolosi – e degli innocenti ne avevano pagato le conseguenze. Tuttavia non avrebbe permesso che una cosa simile capitasse nuovamente.

Fermo davanti alla statua raffigurante Bast – la Dea Pantera, protettrice del Wakanda – T'Challa lasciò la mente libera di vagare alla ricerca di una soluzione.

Ulysses Klaw era fuggito e lui lo aveva permesso. Prima che l’uomo potesse essere fermato, però, era necessario trovarlo e per T'Challa ciò significava svolgere altre ricerche nella speranza di individuare in fretta il nuovo rifugio del nemico, o almeno trovarlo prima che potesse diventare nuovamente pericoloso. Era consapevole che non sarebbe stato semplice e, anche se lo avesse trovato, avrebbe dovuto affrontarlo in un’altra maniera. L’esito della missione della notte precedente – che lui aveva erroneamente immaginato veloce ed efficace – continuava a bruciargli dentro. Non riusciva a darsi pace per il fatto di essere stato tanto ingenuo da credere che tutto si sarebbe risolto in fretta e nel migliore dei modi, tuttavia era anche consapevole che non sarebbe riuscito a continuare se i sensi di colpa lo avessero sovrastato.

Ripetendo uno a uno i nomi dei ventisei soldati caduti, T'Challa accese una candela per ciascuno di loro e pregò Bast di accoglierli e guidarli verso il loro nuovo cammino oltre la morte. Dopodiché uscì dal tempio.

 

*

 

Anisa era ferma in piedi, le mani intrecciate all’altezza della vita, gli occhi bassi. L’ampia sala del tempio era gremita di persone, raccolte in preghiera e in ricordo dei soldati caduti. La veglia del sacerdote non era ancora iniziata e la voce che si stava levando sicura, forte, ma anche amareggiata, era quella del sovrano del Regno di Wakanda.

Era il pomeriggio successivo all’attacco al deposito, il momento in cui si piangevano le vittime. Anisa aveva ancora negli occhi la luce delle fiamme, i corpi privi di vita e le macerie, mentre le sue orecchie sembravano ancora ascoltare le grida di dolore e le richieste d’aiuto. Nonostante le fosse già capitato di vedere persone perdere la vita, ogni volta era per lei difficile assimilare la cosa e passare oltre. Avere rivisto Klaw, inoltre, aveva risvegliato in lei i fantasmi del passato e quel dolore così intenso che sembrava divorarla, non se ne andava mai. Per la donna la consapevolezza che quell’uomo era ricomparso la rendeva nervosa e il forte desiderio di fare qualcosa si era insinuato in lei. Tuttavia era necessario che si attenesse alle volontà del suo sovrano e, da quando erano rientrati a palazzo alle prime luci dell’alba, loro due non avevano avuto molto tempo per parlare. T'Challa era rimasto quasi tutta mattina in conferenza con il primo ministro etiope, trovando solo poco tempo per il suo personale ricordo alle vittime. Anisa, invece, si era accertata che i superstiti ricevessero cure adeguate e aveva fatto in modo che nessuno disturbasse il sovrano prima del tardo pomeriggio. In tutto ciò entrambi avevano dovuto convivere con la consapevolezza che tutto era accaduto a causa di Klaw.

«Che la Dea Bast possa avere cura dei nostri fratelli.»

Le ultime parole di T'Challa ridestarono Anisa, che ricacciò indietro i vari orrori e si sforzò di alzare lo sguardo. Nel suo elegante abito da cerimonia, il sovrano scambiò veloci parole con il sacerdote, infine raggiunse Anisa che, dopo un rapido inchino in direzione della sala e dei presenti, seguì T'Challa lungo il corridoio posto dietro l’altare. Sul retro del tempio li attendeva una lucida berlina nera che li avrebbe ricondotti a palazzo.

Durante i primi minuti di viaggio nessuno dei due parlò. Anisa non voleva fare il nome di Klaw e discutere di tutt’altro non avrebbe avuto alcun senso. Dopo altri, lunghi, minuti di silenzio, fu il sovrano a parlare: «Questa mattina il primo ministro etiope mi ha informato che i suoi soldati inizieranno a cercare Klaw per poterlo arrestare.»

A quelle parole la donna si voltò subito per poter vedere in viso l’uomo, rivolto, però, verso il finestrino. Il tono con cui aveva parlato rasentava la rassegnazione e ad Anisa non serviva domandare per quale motivo. Certamente T'Challa la pensava come lei, ovvero che chi non aveva mai avuto a che fare con Klaw direttamente non poteva sperare di catturarlo alla prima occasione. Perfino T'Challa, che lo aveva già incontrato più volte in passato, era stato sopraffatto nel loro ultimo faccia a faccia. Inoltre gli uomini che erano con Klaw erano un’incognita probabilmente ben più pericolosa di quanto si potesse pensare e le ventisei vittime della sera precedente potevano esserne la dimostrazione.

«Che cosa?» chiese Anisa, forse in modo più sconvolto di quanto lo fosse in realtà.

T'Challa rispose al suo sguardo.

«Non potevo non informarlo di Klaw. Non dopo quello che è successo» replicò il sovrano, infastidito da quella che a lui parve eccessiva insolenza.

La donna scosse la testa, tentando di rimediare all’errore. «No scusami, non volevo, è solo che… perché l’Etiopia vuole intervenire?»

«Immagino sia perché si sentano minacciati. Furti e uccisioni a Omorate… Ora che sanno a chi dare la colpa non possono fingere di non vedere.»

«Ma è Klaw» esclamò affranta la donna, dopodiché le tornarono alla mente le due possenti figure che erano con l’uomo e l’esito della notte precedente. «E non è solo. Le armi convenzionali non funzionano con lui, men che meno se usate da persone che non lo conoscono.»

Sospirò, un misto di disperazione e rabbia a riempirla. «Perché non possono lasciare che ci pensi Pantera Nera?»

T'Challa abbassò lo sguardo. Era d’accordo con Anisa. Anche secondo lui l’intervento Etiope – nel caso fossero prima riusciti a trovare Klaw – non avrebbe portato a nulla, se non ad altre vittime. Klaw era ricomparso più organizzato di prima e, come già aveva detto la donna, non era solo. Questa volta avevano a che fare con qualcuno che aveva imparato a conoscerli e che si era attrezzato di conseguenza.

«Temo che questa volta anche la Pantera non sia in grado di farcela da sola.»

Ammise infine T'Challa. Anisa lo guardò, stupita da tale dichiarazione. Non le riuscì di dire nulla se non uno sbigottito: «Cosa vuoi dire?»

Lei poteva aiutarlo, poteva combattere al fianco di Pantera Nera come aveva già fatto altre volte. Era pronta a ricordarlo all’uomo quando lui rispose alla domanda: «Hai visto anche tu, Anisa. Klaw sa cosa aspettarsi da noi e sono certo che i due uomini che erano insieme a lui non sono né gli ultimi arrivati ne tantomeno individui da sottovalutare.»

La donna non poté dargli torto. Ripenso a quelle due figure e al modo in cui tutto era rapidamente andato per il verso sbagliato appena avevano varcato la soglia della stanza nella centrale idroelettrica al fianco di Klaw. Tuttavia non poteva fare a meno di sentirsi confusa.

La macchina accostò sul ciglio della strada, davanti a uno degli ingressi a palazzo. T'Challa aveva già aperto la portiera dell’auto e stava per scendere quando la donna chiese: «Perciò cosa hai intenzione di fare?»

Non lo chiese con arroganza, ma con la sincera curiosità di chi non ha la più pallida idea di quale sia la risposta. Il sovrano si voltò a guardarla e le fece cenno di seguirla. Anisa capì che non avrebbe ricevuto una risposta subito, ma quasi certamente l’avrebbe ottenuta in tempi brevi, per tale motivo si affrettò a scendere dalla berlina. Insieme risalirono la gradinata per poter entrare a palazzo e, una volta dentro, proseguirono diretti all’ufficio del sovrano, la stanza più al sicuro da orecchie indiscrete. Lungo il tragitto T'Challa fu fermato da numerose persone che chiesero il suo parere o in che modo procedere con una determinata operazione. Il sovrano aveva impiegato due anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.

Finalmente, dopo diversi minuti e confronti con altrettante persone, T'Challa e Anisa raggiunsero l’ufficio del sovrano. Non lo trovarono vuoto; al suo interno, in un elegante tailleur bordeaux scuro molto simile a quello di Anisa, c’era in attesa una giovane donna. Teneva stretta al petto una cartellina, i lunghi capelli neri acconciati in strette e ordinate treccine.

«Ah, Mandisa» disse T'Challa appena la vide.

Lei si esibì in un rapido inchino. «Sire» lo salutò, lanciando poi un’occhiata torva in direzione di Anisa, che per via del suo colore di pelle non era ben vista da diverse persone – anche per l’incarico che ricopriva all’interno del palazzo.

«Hai qualcosa per me, non è vero?» proseguì l’uomo affabilmente.

Mandisa gli porse alcune carpette che teneva ancora strette al petto.

«Ti ringrazio molto» disse T'Challa, sfogliando rapidamente il contenuto di ciò che aveva appena ottenuto.

«Devo anche ricordarle» riprese la donna. «Che alle 18 è atteso per la conferenza con gli Stati limitrofi.»

«Ma certo. Non posso dimenticare una cosa di simile rilevanza.»

Indicò Anisa con un breve cenno, quest’ultima non si scompose minimamente.

«Ora, se non ti dispiace, dovremmo parlare di cose importanti» concluse il sovrano alludendo, grazie al gesto di poco prima, a lui e alla sua personale assistente. Mandisa fece un altro rapido inchino, dopodiché si affrettò a uscire. Fu solo dopo che si fu chiusa la porta alle spalle che T'Challa sollevò le carpette che aveva ricevuto poco prima e disse: «È questo che intendo fare.»

Allungò il tutta ad Anisa, la quale sfogliò confusa le prime carte, per poi capire. Quelli che teneva in mano erano documenti che gli esperti hacker di cui T'Challa disponeva avevano trafugato. Riuscì a intuirlo perché le carte che stava guardando avevano strani segni e codici non riconducibili a niente che le fosse famigliare. Continuò a sfogliare i vari documenti, soffermandosi con maggiore attenzione nelle parti che erano state evidenziate, sottolineate o cerchiate. Ogni diverso foglio di carta portava con sé alcune immagini sgranate prese da satellite, le coordinate del punto esatto e un’altra serie di immagini poco nitide di alcune persone. Anisa continuò a scrutare fra le righe, cercando di unire in fretta i tasselli così da avere la conferma dei suoi sospetti. Ogni singolo foglio, ogni singola indicazione, ogni parola evidenziata si riferivano alla stessa persona, quella che, in quei documenti criptati, sembrava essere inseguita con mediocre competenza: Captain America. Erano su di lui tutti i dati raccolti, così come le posizioni segnate e le foto sfocate che lo avevano mal immortalato.

«Il capitano Rogers?» chiese infine Anisa, che aveva, sì, capito, ma non ne era tanto convinta.

T'Challa annuì con la testa, smettendo di guardare fuori dalla finestra come aveva iniziato a fare in attesa che la donna dicesse qualcosa. «Quelli che hai in mano sono documenti che i nostri hacker hanno “preso in prestito” dalle Nazioni Unite. Sono relativi agli ultimi avvistamenti di Captain America.»

La donna lesse la data dell’ultimo dei fogli che teneva in mano e che si riferiva a soli tre giorni prima.

«Ammetto di non capire» disse infine, scuotendo leggermente il capo.

T'Challa sorrise, ma tornò serio immediatamente. «Come ti ho detto prima, temo che la Pantera non possa vincere questa battaglia da sola.»

«Vuoi chiedere a Captain America di aiutarti?» domandò lei, a cui bastarono le poche parole del sovrano per afferrare le sue intenzioni.

«Sì, esattamente.»

«Ma…» cominciò, mentre T'Challa sollevava le sopracciglia in attesa che continuasse la frase.

Anisa si era fatta raccontare tutto dall’uomo, tutti gli avvenimenti che avevano stravolto il gruppo degli Avengers ormai due anni prima e che avevano portato alla presenza di un ex assassino professionista nella loro camera criogenica. Così come sapeva di quella storia, sapeva anche che Steve Rogers, per quanto per molti continuasse a essere un eroe, era improvvisamente diventato un ricercato e che, insieme a lui in quella libertà precaria, c’erano almeno altre quattro persone.

«Perciò vorresti chiedere aiuto a lui?» domandò infine la donna, piuttosto confusa da tutta quella faccenda.

T'Challa annuì, ma non riuscì a dire altro. Anisa, infatti, intervenne nuovamente: «Perché chiedere aiuto a Rogers…»

Bloccò l’uomo, in procinto di replicare, con un gesto della mano. «Non fraintendere. Mi piace Captain America, penso che stia facendo del suo meglio per mantenere il mondo al sicuro. Tuttavia, e non puoi non essere d’accordo, ha un mandato d’arresto sulla testa.

«Non ha più senso chiedere a quegli Avengers che possono intervenire senza correre il rischio di trovarsi le Nazioni Unite alle calcagna?»

T'Challa non rispose subito. Capiva le perplessità e i dubbi di Anisa.

Aveva deciso di contattare Steve Rogers quella stessa mattina, mentre accendeva le ventisei candele per i soldati caduti. Per quanto paradossale potesse sembrare le Nazioni Unite sarebbero state un problema e lui lo sapeva perfettamente. Due anni prima Captain America si era reso disponibile ad aiutare il sovrano del Wakanda se ve ne fosse stato bisogno, siglando con tali parole l’amicizia che si era instaurata fra i due anche grazie al segreto che T'Challa aveva deciso di custodire e che rispondeva al nome di James Buchanan Barnes. Ora che T'Challa aveva bisogno di aiuto sapeva anche che di Rogers si sarebbe potuto fidare.

L’uomo prese una lunga boccata d’aria prima di parlare e decise che avrebbe impedito qualsiasi tipo di interruzione da parte della donna. «Se volessimo chiamare gli Avengers a cui ti riferisci dovremo rivolgerci direttamente alle Nazioni Unite. Dopo gli Accordi di Sokovia sono praticamente loro sottoposti, credi veramente che permetteranno a Iron Man o Visione di intervenire in Wakanda per fermare un uomo che, per loro, sta solo rubando munizioni? Le Nazioni Unite lo considereranno certamente una cosa di poca importanza e manderanno qui delle semplici forze speciali che non saranno in grado di fare meglio di ciò che abbiamo fatto noi questa notte.»

«Ma è Klaw!» esclamò lei, senza che T'Challa fosse in grado di fermarla. Ripeteva quella frase come un mantra; non riusciva a sopportare che qualcuno non si rendesse conto di chi fosse quell’uomo e, soprattutto, di cosa fosse capace di fare.

Il sovrano si avvicinò alla donna, tentando di calmarla. Anisa gli parve sull’orlo delle lacrime. Quando riprese a parlare lo fece con voce calma e sicura: «Proprio perché si tratta di Klaw abbiamo bisogno dei migliori aiuti possibili. Ed è per questo che voglio che le Nazioni Unite ne rimangano fuori. Captain America e chiunque abbia voglia di intervenire insieme a lui, sono i più indicati per aiutarci.»

Anisa annuì debolmente, dando così ragione a T'Challa, il quale proseguì: «Se Steve Rogers è disposto a darci una mano potremmo riuscire a fermare Klaw prima che faccia ancora del male. Tuttavia trovarlo non sarà semplice.»

Prese dalle mani di Anisa le carte che lei ancora stringeva e che si erano stropicciate in più punti. «Rogers è piuttosto in gamba e sa come evitare di farsi trovare.»

La donna continuava a guardare il sovrano in modo assente. Tentava ancora di riprendere il controllo di sé dopo l’ultima esplosione che l’aveva travolta e che aveva provocato nuovamente in lei l’apertura di vecchie e inguaribili cicatrici.

«Sai dov’è?» chiese infine a T'Challa.

Lui si voltò a guardarla. «Dimentichi che ho ottimi uomini a mia disposizione» detto ciò girò intorno alla scrivania, afferrò la cornetta del telefono e digitò alcuni numeri. Appena Anisa sentì il nome che aveva pronunciato cercò di ricomporsi al meglio, consapevole che entro breve, nell’ufficio, non sarebbero più stati soli.

Infatti, solo pochi minuti dopo, qualcuno bussò alla porta. Quando questa si aprì la figura di un giovane uomo, di proporzioni minute ma con uno sguardo sorprendentemente astuto, fece il suo ingresso nella stanza.

«Mio signore» disse, salutando il sovrano e facendo un inchino anche in direzione di Anisa.

Edet Usutu era uno degli uomini più fidati di T'Challa, così come lo era stato prima anche per T’Chaka. A soli ventiquattro anni era già uno dei migliori agenti wakandiani, in grado di ottenere informazioni certe in poco tempo e di riportarle utilizzando i canali più sicuri. Anisa non rimase sorpresa di vederlo lì; se c’era da rintracciare qualcuno in fuga nessuno era più indicato di Edet. Tuttavia si ritrovò a sperare con tutta se stessa che il ragazzo avesse già delle informazioni a riguardo. Non voleva che passasse troppo tempo prima di una nuova azione contro Klaw, c’era il rischio che l’uomo uccidesse ancora.

«Come stai, Edet?» domandò T'Challa, con una domanda formale a cui quasi nessuno rispondeva. Il ragazzo, infatti, fece un veloce cenno con il capo, sorridendo. Si avvicinò alla scrivania, dietro la quale il sovrano si era messo a sedere. Quest’ultimo, lasciando da parte ulteriori formalità, estrasse da uno dei cassetti una piccola scatola nera, i cui angoli rilucevano per via di lamine argentate. Fece scorrere la scatola sul piano del tavolo e l’affiancò alle carte con gli avvistamenti di Captain America, sotto lo sguardo vigile e attento di Edet. Anisa conosceva quella scatola, così come il suo contenuto.

«Ho un incarico per te» proseguì il sovrano, la voce bassa, determinata.

Il giovane uomo davanti a lui annuì nuovamente e prese il primo foglio dalla piccola pila di carte. Lo analizzò rapidamente, infine tornò a guardare T'Challa. «Captain America?»

T'Challa sorrise. «Esattamente. Ho bisogno che tu riesca a trovarlo e quelle sono tutte le informazioni che hai a disposizione.»

Sentendo quelle parole le speranze di Anisa si affievolirono immediatamente. Edet era il migliore nel suo campo, su questo non aveva dubbi, ma quello che il sovrano aveva appena detto lasciava perfettamente intuire che non aveva idea di dove esattamente si trovasse Steve Rogers. La sua ricerca avrebbe potuto richiedere settimane, nel peggiore dei casi addirittura mesi. Non disse nulla, rimase a guardare Edet che lasciava andare il foglio stampato per afferrare la piccola scatola nera, aprirla ed estrarne il contenuto. Era un anello; un anello nero con sottili incisioni argentate e una pietra verde lavorata in modo da farla sembrare un occhio. Per quanto fosse insospettabile quel piccolo oggetto era il canale di comunicazione più sicuro che T'Challa avesse ideato. Lui stesso aveva personalmente lavorato a quella tecnologia. Era riuscito a inserire all’interno di un anello un sistema informatico in grado di ricevere informazioni, criptarle e inviarle a un server sicuro per la decodificazione. Ogni informazioni inserita in quell’anello poteva essere estrapolata solo da poche persone e, esclusivamente, fra i confini del Regno di Wakanda.

Edet infilò l’anello all’anulare destro, decretando in tale maniera che accettava l’incarico.

«Quando lo trovi, di’ che ti mando io e che ho urgente bisogno del suo aiuto. Digli che James sta bene e che non c’entra. Non posso dare informazioni maggiori e se è disposto ad aiutarmi deve fidarsi di me e delle poche cose che posso dirgli fino al suo arrivo in Wakanda.»

Edet annuì alle parole del sovrano. Afferrò le carte dal piano della scrivania e rimase in silenzio, in attesa delle ultime parole che, sapeva, sarebbero giunte a breve.

«Mandisa ha fatto preparare tutto il necessario per la tua partenza. Si trova nell’hangar ovest.»

«Farò del mio meglio, mio Signore» disse il giovane.

«Ho fiducia in te, Edet

Con un nuovo inchino il ragazzo salutò i presenti. Con lo stesso passo sicuro con cui era entrato si affrettò a uscire dall’ufficio di T'Challa, sotto lo sguardo del sovrano e di Anisa. La piccola scatola nera, privata del suo contenuto, giaceva immobile sul piano della scrivania.

 

*

 

T'Challa uscì dal laboratorio di ricerca piuttosto soddisfatto. Le ricerche dei suoi scienziati stavano andando molto bene e sentiva che, almeno in quel settore, poteva lasciarsi andare a un cauto ottimismo. I suoi uomini stavano lavorando a quella tecnologia da ormai due anni e lui aveva contribuito in più occasioni, anche grazie alle quasi sconfinate conoscenze che possedeva. Tuttavia l’ultima versione, quella che avrebbe quasi certamente funzionato, era stata interamente ideata dal suo staff e la cosa lo rendeva carico di orgoglio.

Mentre camminava lungo uno dei corridoi del palazzo, una sensazione positiva a scaldarlo dentro, si accorse che la cosa non sarebbe potuta durare a lungo. Anisa stava sopraggiungendo verso di lui a passo rapido, il volto pallido e preoccupato. Era agitata e T'Challa capì subito che doveva essere accaduto qualcosa.

«C’è una cosa che devi vedere» gli disse la donna appena lo ebbe raggiunto.

Il sovrano seguì Anisa fino a una delle sale da conferenza del palazzo, in cui la donna si infilò velocemente. La sala era deserta e sarebbe stata silenziosa se non fosse per il televisore accesso, da cui provenivano i rumori. Anisa fece intendere a T'Challa che doveva guardare lo schermo e il sovrano lo fece.

Le immagini che vi baluginavano sopra si riferivano al piccolo villaggio di Ileret, ai confini con il lago Turkana e con il Wakanda. T'Challa lesse la scritta in sovrimpressione: “Ileret: trovati i corpi di tre soldati Etiopici. Mistero sulla morte.”

Senza aspettare che l’uomo le chiedesse qualcosa, Anisa intervenne: «Li hanno trovati morti carbonizzati. Non ci sono tracce di combustibile, né segni che lascino pensare che sono stati trascinati fin lì e nessuno sa spiegarsi come ciò sia possibile.»

T'Challa la guardò subito, esterrefatto e improvvisamente preoccupato. Sicuramente anche Anisa stava pensando alla stessa cosa, ovvero a quell’uomo, insieme a Klaw, che aveva fatto scoppiare l’incendio alla centrale semplicemente azionando un accendino.

La donna si lasciò cadere su una delle sedie disposte intorno agli ampi tavoli da conferenza.

«Sono pronta a scommettere che c’entra Klaw» disse avvilita.

Il sovrano non poté darle torto perché anche lui avrebbe scommesso lo stesso. Stava succedendo ciò che non avrebbe voluto, ovvero che Klaw ricominciasse a muoversi prima che lui potesse avere le giuste contromisure per fermarlo. Erano trascorsi sei giorni dalla partenza di Edet e l’agente ancora non aveva dato alcuna informazione sull’avanzamento del suo incarico. Ciò significava che non era ancora riuscito a rintracciare Steve Rogers, né qualcuno a lui vicino e T'Challa sapeva che quando Edet impiegava più di quattro giorni per portare a termine un compito significava che il lavoro avrebbe potuto richiedere molto più tempo.

Costrinse la sua mente a lavorare in fretta in cerca di una soluzione. Quei soldati morti potevano anche essere un caso, una coincidenza che però si incastrava fin troppo bene con tutta la serie di eventi che erano accaduti prima. Ciò però non significava che Klaw fosse già in procinto di fare nuovamente del male o di essere terribilmente pericoloso, i soldati potevano aver incrociato la sua strada per una fatale, quanto involontaria, circostanza. Pensò più rapidamente che poté, fece collegamenti, srotolò ipotesi. Se da solo Pantera Nera non era in grado di farcela a chi poteva chiedere aiuto se Captain America era così difficile da trovare e se voleva, al contempo, che le Nazioni Unite rimanessero all’oscuro di tutta la faccenda?

D’improvviso la risposta gli affiorò nella mente. Era un’idea folle, pretenziosa e arrogante ma che in quel momento gli parve come l’unica che avesse senso seguire. Si sarebbe trattato di un duplice scambio di aiuti che però non avrebbe costretto l’altro a ricambiare, a meno che non avesse voluto.

«T'Challa, mi hai sentito?»

Anisa riuscì a ottenere l’attenzione del sovrano, infine. Lui la guardò e la donna capì che non l’aveva ascoltata.

«Ti ho chiesto cosa possiamo fare. Edet non ci ha ancora fatto sapere nulla. E se non dovesse riuscire a trovare il Capitano Rogers? Forse dovremmo contattare le Nazioni Unite e chiedere l’intervento degli Avengers.»

«No, non chiamerò le Nazioni Unite. Da quando hanno messo sotto controllo gli Avengers non hanno fatto niente di buono» rispose ostinato T'Challa.

Anisa sospirò, accasciandosi nuovamente sulla sedia. Non riusciva a capire per quale motivo il sovrano continuasse a rimanere così fermo e cocciuto su quel punto. Faceva fatica ad accettare che lui tentasse di trovare una soluzione alternativa mentre là fuori un gruppo di uomini armati continuava a seminare morte avvicinandosi sempre più al Wakanda.

T'Challa respirò a fondo, accarezzando leggermente l’anello della Pantera. «Ho un piano» disse infine.

Anisa spalancò gli occhi a quelle parole, osservando con maggiore intensità l’uomo. Dentro di lei la speranza era appena risorta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


 

 

 

Era difficile stabilire con esattezza dove si trovasse. La stanza bianca, pulita, odorava di sterile ed era perfettamente insonorizzata, al punto da rendere quasi possibile sentire lo scorrere del tempo. Conosceva quella sensazione, quel torpore totale che avvinghiava ogni parte del corpo, anche la più misera, quella profonda stanchezza che rendeva inefficienti i muscoli e deboli i riflessi. Nonostante il luogo in cui si trovava lo tranquillizzasse a sufficienza, quelle sensazioni – e ciò che avevano sempre portato subito dopo – non lo facevano stare calmo.

James Buchanan Barnes non la smetteva di guardarsi intorno. Alle spalle del lettino su cui era seduto non vi era traccia di alcuno degli strumenti che solitamente usavano su di lui prima di prepararlo a un nuovo lavaggio del cervello. Tuttavia la cosa lo rilassò solo per poco. Sapeva di essere in Wakanda – l’ultima oasi sicura in cui si era rifugiato separandosi da Steve ancora una volta – ma non sapeva per quanto tempo avesse dormito, così come non aveva idea di chi fosse stato a scongelarlo. Queste incognite gli impedivano di abbassare la guardia e, anche per via dello stato in cui si trovava, lo facevano sentire ancora più vulnerabile. Era solo da parecchi minuti ormai; l’odore di sterile gli era penetrato in profondità, la limpida luce che entrava dalle finestre, benché filtrata dalle veneziane, continuava a essere accecante per i suoi occhi rimasti chiusi a lungo e, per via del silenzio, sentiva il tempo scandito dal battito del cuore che gli martellava contro lo sterno.

Finalmente la porta del laboratorio si aprì. Bucky scattò istintivamente sulla difensiva, puntando come un predatore gli occhi sull’ingresso e tendendo i muscoli doloranti. Tre medici entrarono, i camici bianchi immacolati, seguiti da una giovane donna e, infine, da T'Challa in persona. Il Soldato rimase sorpreso di vedere il sovrano. Questi non pareva minimamente invecchiato dal loro ultimo incontro e ciò fece capire a Bucky che non doveva aver dormito a lungo.

I medici andarono a sistemarsi dietro ad altrettanti monitor, cominciando a battere qualcosa sulle tastiere, mentre T'Challa si fermò davanti al Soldato, le braccia dietro la schiena, la giovane donna immobile alle sue spalle.

«Ben risvegliato, James. Come ti senti?»

Per Bucky fu strano sentire qualcuno rivolgersi così a lui. Dopo ogni risveglio dal ghiaccio nessuno si era mai preoccupato di come si sentisse, ma solo di portarlo il più in fretta possibile fra le braccia di quei tremendi macchinari che avrebbero riprogrammato la sua mente. Senza rispondere rimase a osservare T'Challa, per poi spostare il suo sguardo sulla donna alle sue spalle. Fu un gesto spontaneo; la presenza di lei in quel posto gli sembrava sbagliata. Senza rendersene conto si ritrovò a chiedersi cosa ci facesse una donna dalla pelle bianca in quello Stato e quella stessa domanda gli parve talmente fuori luogo che non si spiegò neanche per quale motivo l’avesse formulata.

Anisa osservò di rimando il Soldato d’Inverno come se sotto i suoi occhi ci fosse un gatto. Era così che gli parve quell’uomo, un felino. Continuava a fissare lei e T'Challa con uno sguardo misto di curiosità e diffidenza, esattamente come un gatto che non sa se fidarsi o meno degli umani davanti a sé. Quei pensieri, però, furono spazzati via appena realizzò che davanti aveva James Barnes finalmente sveglio. Non lo aveva mai incontrato, ma capitava che ogni tanto lei raggiungesse la camera criogenica in cui lui dormiva. Rimaneva a guardare per brevi momenti il viso dell’uomo addormentato, ritrovandosi a chiedersi cosa provasse una persona con un passato come il suo e di che colore fossero i suoi occhi. Ora lo sapeva. Quegli occhi grigio-azzurri, ricchi di intense sfumature blu, erano fissi in quelli nocciola di lei e si allontanarono solo quando Anisa distolse i suoi per prima.

«Quanto tempo è trascorso?» domandò infine il Soldato, rivolgendosi esclusivamente a T'Challa.

«Due anni, giorni più, giorno meno.»

Bucky parve soppesare quella risposta. Fece vagare il suo sguardo sul proprio corpo, soffermandosi sulla fasciatura nera che coprivano i resti del vecchio braccio bionico, amputato nel suo ultimo scontro. Ricordava quel conflitto, così come non avrebbe potuto dimenticare tutto quello che era avvenuto prima e dopo. Ricordava tutte le parole che Steve aveva speso per difenderlo, così come le azioni che aveva compiuto per riavere il Bucky che lui conosceva. Quel Bucky che non esisteva più, ma che Steve sembrava convinto di poter riavere. La guerra interna agli Avengers di due anni prima gli aveva fatto capire che, se anche non direttamente, il suo nome poteva ancora venire collegato al dolore. Come tutte le persone che aveva ucciso e che non aveva mai dimenticato, quegli avvenimenti erano ora indelebili nella sua mente. Il braccio amputato non era altro che il monito perenne di quel recente passato.

Aveva tantissime domande da fare a T'Challa, talmente tante che trovare quella da cui iniziare sembrava impossibile. Alla fine, fra la moltitudine di quesiti e dubbi che continuavano ad affollargli la mente, scelse la domanda più importante di tutte, quella la cui risposta avrebbe influito su tutto il resto.

«Avete trovato una cura?»

Lo chiese con la fronte aggrottata, come se la luce gli stesse facendo ancora più male e trovare le parole fosse difficile. Trattenne quasi il fiato in attesa della risposta, nonostante si ricordasse piuttosto bene degli accordi presi con T'Challa. Era troppo pericoloso. Se un nuovo Zemo fosse venuto a conoscere le parole in grado di risvegliare il bellicoso Soldato sopito dentro di lui, sarebbe tornato nuovamente a essere quell’arma che non riusciva a controllare. Non voleva più fare del male a degli innocenti, per questo aveva volutamente optato per l’ibernazione. Se T'Challa e i suoi uomini lo avevano fatto uscire dalla stanza criogenica, significava che la soluzione per il suo stato era stata individuata.

T'Challa sorrise. Era piuttosto soddisfatto del lavoro per trovare la cura svolto dai suoi ricercatori, la cui ultima versione risaliva al giorno precedente ed era l’apice mai ottenuto. Il farmaco funzionava; già da diversi mesi, grazie ai test, ne avevano la conferma. Ciò che l’ultima versione era riuscita a migliorare era la rapidità di azione e che non era un fattore da sottovalutare.

«Sì, abbiamo qualcosa. Si tratta di un farmaco, sperimentale ovviamente, ma i test lasciano ben sperare. Dobbiamo solo capire se anche con te può funzionare.»

Bucky fu sollevato da quelle parole; sentì addirittura di essere in procinto di sorridere se non fosse che era troppo stanco e scosso per assecondare il tremulo movimento delle proprie labbra. Avevano un cura, una soluzione, qualcosa che forse gli avrebbe permesso di riacquistare il pieno controllo delle proprie azioni.

Non notando alcun tipo di reazione da parte del suo interlocutore – se non una composta sorpresa –, T'Challa riprese a parlare: «Mi sento in dovere di avvertirti: il farmaco funziona, ma può darsi che nel tuo caso siano necessarie numerose sedute e molteplici somministrazioni. Inoltre, e di questo ne sono piuttosto sicuro, sarà doloroso.»

Il Soldato abbassò lo sguardo. Cosa c’era di più doloroso del suo passato, delle innumerevoli infiltrazioni fatte nella sua mente, dei continui ricordi che affioravano lancinanti e opprimenti? Se quell’ultima sofferenza appena nominata da T'Challa gli avesse permesso di non dover più temere se stesso, avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Acconsentì con un unico, deciso, cenno del capo. «D’accordo. Posso farlo.»

T'Challa parve ammirato da quelle poche parole. Solo due anni prima aveva rischiato di uccidere l’uomo per un crimine che non aveva commesso. Ora la prospettiva di redimersi dai propri errori aiutando quella stessa persona lo faceva sentire in pace. Era la prima sensazione realmente positiva che provava da giorni. Indietreggiò di un passo, fermandosi accanto alla giovane donna e posando una mano sulla sua spalla.

«Lei è Anisa» disse rivolto a Bucky, una nota più dolce nella voce. «Ha accettato di seguire tutto il tuo percorso di riabilitazione, se lo vogliamo chiamare così.»

Per la seconda volta Anisa e James si guardarono e per la seconda volta le domande che affiorarono nelle reciproche menti furono le stesse. Lui si chiese se la donna non fosse fuori luogo in Wakanda – come se stesso, del resto – e lei si domandò quali emozioni potesse provare un uomo con un tale passato.

«Quando possiamo cominciare?»

Il Soldato tornò a rivolgersi a T'Challa. Fremeva dal desiderio di fare qualcosa, di poter tornare a decidere delle proprie azioni.

Il sovrano inarcò appena le sopracciglia, sorpreso. «Penso che prima sia meglio che tu ti sistemi un po’. Non so, fare una doccia, mangiare un boccone» aggiunse, notando l’espressione di Bucky.

«Non serve. Ho passato di peggio» fu la risposta.

Tuttavia T'Challa non gli prestò particolare attenzione. Fece un rapido gesto con la mano, come a scacciare una mosca. «Insisto. Se proprio vuoi iniziare subito possiamo fare fra un paio di ore. Nell’immediato non te lo permetterei.»

Bucky non replicò. Si limitò ad annuire al sovrano, consapevole che la sua si potesse ugualmente considerare una vittoria. Rimase a guardarlo mentre si rivolgeva ad Anisa: «Tu saresti disposta?»

Lei rispose affermativamente con un gesto del capo e senza dire altro. T'Challa allargò le braccia, visibilmente soddisfatto. «Ottimo. Allora comincerai la tua terapia – permettimi di chiamarla in questo modo – fra due ore. Adesso, se sei d’accordo, ti farò mostrare i tuoi alloggi.»

A quelle parole la donna scattò, avvicinandosi al telefono posto accanto alla porta, digitando quattro cifre e pronunciando poche parole. Durante l’attesa T'Challa ne approfittò per dare alcune delucidazioni a Bucky per la sua prossima permanenza a palazzo. Il Soldato aveva libero accesso a quasi tutte le stanze e sarebbe stato trattato come un ospite gradito. A palazzo tutti sapevano del suo risveglio e nessuno avrebbe posto domande.

Dopo diversi minuti qualcuno bussò alla porta del laboratorio ed entrò dopo aver ricevuto il permesso a farlo. Madisa comparve nella stanza, i lunghi capelli sempre raccolti in ordinate treccine. Salutò i presenti con un inchino e si sistemò accanto al sovrano.

«Mandisa» la presentò lui al Soldato, indicando la donna. Dopodiché si rivolse direttamente a lei: «Vorrei che accompagnassi James Barnes nei suoi alloggi e che gli mostrassi come raggiungere l’altro laboratorio per dopo. Fagli avere anche degli abiti puliti, per favore.»

Lei lanciò un’occhiata diffidente a Bucky, infine rispose: «Certamente.»

«James, se non ti dispiace seguire Mandisa… Noi ci vediamo più tardi.»

Il Soldato si alzò dal lettino, faticando un po’. Anisa si tenne pronta nel caso l’uomo avesse avuto bisogno di aiuto, ma non fu necessario. Per quanto potesse sembrare impossibile si reggeva perfettamente sulle proprie gambe. Il suo corpo aveva ricevuto simili trattamenti – e molto spesso ben più spietati – parecchie volte ormai. Anche grazie agli esperimenti che avevano condotto su di lui e agli allenamenti che lo avevano plasmato e fortificato, per indebolirlo notevolmente serviva molto più di un risveglio dai ghiacci; da quello, come aveva appena dimostrato, sapeva rimettersi con estrema rapidità. Senza proferire altra parola Bucky seguì una riluttante Mandisa oltre la soglia, lasciando che la porta si richiudesse alle loro spalle.

«Cosa ne pensi?» esordì T'Challa subito dopo, rivolto all’assistente. C’era una nota di gioia nella sua voce, di pura soddisfazione. Anisa sapeva che era contento dell’esito di quell’incontro, ma per lei non valeva lo stesso. Continuava a nutrire dei dubbi; non su James Barnes, ma su tutta la situazione in generale. Quando T'Challa le aveva detto di avere un piano si era aspettata qualcosa di ben diverso, non che scongelasse Barnes nella speranza che, una volta rimosso ciò che lo rendeva il Soldato d’Inverno, lui accettasse di aiutarli a fronteggiare Klaw.

Scoccò una rapida occhiata in direzione dei tre medici ancora presenti, concentrati intorno a un unico schermo.

«Con tutto il dovuto rispetto, altezza» iniziò Anisa. Non fu in grado di tenere a freno il suo scetticismo, ma si ricordò bene di dare del voi a T'Challa come faceva sempre quando erano in pubblico. «Non penso che risvegliare il sergente Barnes sia stata la scelta migliore.»

Il sovrano la guardò sorpreso. «Ne abbiamo già discusso, Anisa.»

«Sì, ne sono consapevole. Tuttavia continuo a crederlo.»

T'Challa si voltò verso i medici; questi non davano l’impressione di essere interessati al dialogo fra i due, ma non gli importò. Con un cenno fece loro capire che voleva essere lasciato solo con la donna e i tre uscirono dalla stanza. Il silenzio calò intorno agli unici rimasti. T'Challa respirò a fondo e guardò Anisa negli occhi.

«Perché non dovrebbe essere la scelta giusta?» domandò, senza sentire realmente il bisogno di ricevere una risposta. «Pensi che possa diventare pericoloso?»

«Niente di tutto questo» replicò lei pronta. «Semplicemente considerando quello che sta accadendo avremmo dovuto dare altre priorità.»

«Quali altre priorità?»

«Lo sai a cosa mi sto riferendo.»

T'Challa prese a camminare avanti e indietro per la stanza, indispettito dal comportamento della donna.

«Barnes può aiutarci. Abbiamo trovato un cura, che senso aveva tenerlo ibernato ancora a lungo? Tanto valeva ucciderlo se non avevamo intenzione di risvegliarlo» le ricordò poi.

«E se lui non volesse aiutarci? Se le cose che gli hanno inculcato non se ne andassero solo con quel farmaco sperimentale?»

Ogni sua domanda era come uno sparo. T'Challa le aveva prese in considerazione tutte mentre si stava dirigendo verso la camera criogenica la sera prima, quando aveva dato l’incarico di scongelare il Soldato. Tuttavia non era riuscito a elaborare un piano migliore di quello. Se voleva tenere fuori le Nazioni Unite ma cercare qualcuno – qualcuno con capacità al di sopra di quelle umane – disposto ad aiutarlo in caso di una risposta negativa da parte di Captain America, non aveva trovato altra soluzione se non rivolgersi a Barnes. A ogni modo prima era necessario restituire le piene capacità decisionali all’uomo e ciò richiedeva tempo. Il sovrano sapeva che quello che preoccupava tanto Anisa era proprio lo scorrere del tempo.

«Avresti un’idea migliore?» chiese poi.

La risposta fu pronta: «Sai cos’avrei voluto fare. Ma tu hai preferito cercare Rogers!»

La donna era adirata, ma ciò che, in quel momento, incrinava la sua voce era l’angoscia. Il sovrano la guardò. Non riusciva ad arrabbiarsi con lei. Sapeva ciò che provava, così come sapeva quanto fremeva dal desiderio di fare qualcosa. Si avvicinò ad Anisa, per poi parlare con il suo tono più risoluto e calmo: «So che sei preoccupata che passi troppo tempo, che Klaw possa fare del male a qualcuno o che diventi più forte e organizzato. Tuttavia, Anisa, non sappiamo neanche dove sia nascosto.

«Mentre svolgiamo le ricerche per trovarlo c’è il tempo di aiutare Barnes. Può darsi che la sua situazione si sistemi prima di aver trovato Klaw e che lui sia disposto ad aiutarci ad affrontarlo. Oppure Edet può riuscire a trovare Captain America prima. Può accadere di tutto, lo sai.

«Tuttavia ti prometto che se trovassimo Klaw a breve e nessuno fosse disposto ad aiutarci, allora la Pantera combatterà quella battaglia anche a costo della propria vita.»

La donna lo guardò negli occhi scuri, calmandosi improvvisamente. Tutte le incognite in cui si erano imbattuti non la lasciavano in pace, eppure, così come aveva fatto per tutta la sua vita in Wakanda, decise di fidarsi di T'Challa ancora una volta. Annuì lentamente con la testa in un gesto fluido. Il sovrano prese la sua mano destra e la portò alle labbra, lasciandovi sopra un leggero bacio.

«Grazie» le disse e sul viso di Anisa si disegnò un lieve sorriso.

 

*

 

Varcata la soglia del laboratorio si rese conto che era molto più piccolo dell’altro. La stanza era circolare, interamente avvolta da ampie vetrate dietro le quali vide svariate persone, alcune addirittura armate. Non ne fu sorpreso, né infastidito; tutti avevano tentato di tenere a freno con quei mezzi l’ira del Soldato d’Inverno. Quando arrivò accanto al lettino al centro del piccolo laboratorio, gli abiti puliti e profumati di fresco, si accorse di non essere solo lì dentro. In quello che, fino a quel momento, era stato il suo punto cieco, notò la giovane donna dalla pelle bianca che aveva incontrato solo poche ore prima. Ricordava già il suo nome. Anisa aveva legato i lunghi capelli castani in una morbida crocchia sopra la testa, in una mano stringeva una cartellina, mentre nell’altra tenevano un anonimo contenitore bianco.

«Ben ritrovato» salutò lei, indicando poi il lettino presente al centro della stanza, unico oggetto d’arredo insieme a un tavolo apparecchiato con una caraffa colma d’acqua, due bicchieri e qualche piccolo piatto in acciaio. Bucky capì di essere stato invitato a sedersi e prese posto sul lettino. Compiere quelle azioni usando un braccio soltanto gli risultava impegnativo. Come prese posto, Anisa si avvicinò, posando entrambe le cose che reggeva sul tavolo.

«Pronto per incominciare, James?»

Lui la guardò. Per Anisa non fu semplice non sentirsi scrutata fin nel profondo dagli occhi chiari dell’uomo. Non le riuscì di leggere alcuna sfumatura emotiva in quello sguardo, se non una determinata attenzione. Nuovamente le parve di avere davanti un gatto, diffidente, in attesa e, improvvisamente, il desiderio di aiutarlo si intensificò in lei.

«Preferirei essere chiamato Bucky.»

Queste parole presero alla sprovvista la donna che quasi si era dimenticata di ciò che aveva appena detto. Riacquistando il controllo di sé, sorrise. «D’accordo, Bucky. Se sei pronto direi di cominciare.»

Non attese una risposta, sapeva che lui era pronto, così come aveva già capito che non sarebbe stato un paziente molto loquace. Dal contenitore che aveva posato poco prima fece scivolare fuori una capsula bianca, che cadde nel piattino in acciaio con un rumore sordo. Mostrò il tutto al Soldato.

«Questo è il farmaco di cui ti ha parlato T'Challa. È sperimentale, come avrai già capito, ma funziona.»

Bucky continuò a osservare la donna, sperando che approfondisse in fretta l’argomento. Anisa, infatti, continuò subito: «Il farmaco lavora a stretto contatto con i ricordi. È in grado di inibire gli impulsi elettrici relativi a un dato pensiero fino ad annullarli. È piuttosto difficile da spiegare» aggiunse, notando l’espressione dell’uomo, «ma funziona. Per farti capire, i test svolti avevano il compito di far dimenticare ricordi recenti, come ciò che le persone che stavano testando il farmaco avevano mangiato a colazione.»

Schioccò le dita. «Risultato? Non ricordavano nemmeno di aver fatto colazione.»

Il Soldato si sentì rinfrancato da una simile notizia, ma solo per pochi attimi. Ciò che doveva dimenticare lui era avvenuto molto tempo prima, non si poteva certo paragonare al fatto di non ricordare in cosa consistesse la propria colazione.

Come se avesse udito i suoi pensieri, Anisa precisò: «Nel tuo caso non sarà così semplice, per questo T'Challa ha detto che potrebbero servire molteplici somministrazioni. Non siamo neanche certi che su di te funzioni.»

«Non resta che provarlo» replicò l’uomo, una leggera alzata di spalle a precedere le parole.

Anisa sorrise. Aveva sempre avuto un debole per le persone che sapevano ciò che volevano e non poté negare che James Barnes fosse uno di quelli.

«Sono d’accordo. Ma prima devo spiegarti come funziona e tutto il resto.»

Sbuffò leggermente, sistemandosi un’inesistente piega dell’abito scuro. «T'Challa te lo ha detto, sarà doloroso.»

Il Soldato si irrigidì appena e serrò la mascella.

«Tuttavia non lo sarà dal punto di vista fisico, bensì da quello emotivo. Come ti ho anticipato il farmaco lavora a stretto contatto con i ricordi, ciò significa che per dimenticare sarai costretto a ricordare.»

Bucky capì subito che cosa intendeva la donna, così come T'Challa quando gli aveva anticipato la cosa ore prima. Il sovrano aveva definito la cura dolorosa e non a torto, ora lo aveva capito. Tuttavia, per quanto a lui avesse potuto fare male, per i presenti quel percorso sarebbe potuto essere pericoloso se il Soldato d’Inverno si fosse in qualche modo risvegliato. Improvvisamente si spiegò la presenza delle persone armate appostate oltre i vetri e non ne rimase sorpreso. Ciò che gli parve strano a quel punto era come mai, a seguirlo, T'Challa aveva preferito mettere una donna all’apparenza fragile come Anisa.

«Che cosa devo fare?» chiese infine, decidendo di andare avanti.

Lei, che certamente si aspettava quella domanda, disse: «Il farmaco inibisce e cancella i ricordi nei cinque minuti subito successivi alla sua assunzione. Ciò vuol dire che una volta presa una di queste belle capsule» mise sotto il naso di Bucky il piattino con la pastiglia in questione, «il farmaco comincia ad agire e ti fa scordare tutto ciò che ti torna alla mente in quei cinque minuti.»

L’uomo era stupito, ammirato e confuso al tempo stesso. Anisa non ci badò.

«Ora, correggimi se sbaglio, il pericoloso Soldato d’Inverno celato in te si risveglia se sente una precisa sequenza di parole russe, giusto?»

«Sì, è così.»

«Allora non dobbiamo fare altro che rendere tali parole prive di significato, usando questo» concluse, indicando nuovamente la capsula. Bucky vi posò sopra lo sguardo, corrugando lievemente la fronte.

«E come pensate di fare?» chiese, divenendo più scettico. Aveva assistito a parecchie cose strane dopo il suo penultimo risveglio, ma quello che Anisa gli stava raccontando gli sembrava assolutamente insensato.

La donna sollevò un sopracciglio, inclinando leggermente la testa di lato. «In che senso?»

«Come potete sperare di farmi dimenticare quelle parole senza che io torni a essere il Soldato d’Inverno?»

Contro ogni previsione dell’uomo, lei sorrise. Posò il piccolo piatto in acciaio sul tavolo e guardò negli occhi Bucky.

«Semplicemente scollegando quelle parole fra loro.»

Il silenzio del Soldato le diede modo di proseguire nella sua esposizione: «Quello che succede nella tua testa ogni volta che senti quelle parole è una sorta di reazione involontaria della tua psiche. Non puoi dominarla, è talmente radicata in te che ti è impossibile. È lo stesso principio che porta il nostro cervello a ritrarre la mano quando ci scottiamo. Così come se ci scottiamo ritiriamo involontariamente la mano, tu, se senti quelle parole, torni a essere il Soldato d’Inverno. Non è uno dei miei esempi più riusciti, spero di essere stata chiara.»

Lo era stata eccome. Nessuno meglio di lui sapeva cosa si provava a tentare di resistere inutilmente a qualcosa in grado di far perdere il controllo. Era una sensazione opprimente, che toglieva il fiato e rendeva tutto buio, pesante e freddo. Il fatto di non potercisi sottrarre era anche peggiore di come lo faceva sentire.

Tornò a guardare Anisa e scoprì che lei aveva ancora qualcosa da aggiungere.

«Ciò che dobbiamo fare è far si che quelle parole ti diventino sconosciute, totalmente prive di senso e di riferimento. Per fare questo lavoreremo su una sola parola alla volta e solo quando ci saremo accertati che essa abbia perso ogni significato per te passeremo alla successiva.»

Ancora una volta Bucky non proferì parola. Tuttavia Anisa non aveva altro da dire ed era curiosa di sapere cosa aveva intenzione di fare l’uomo. Non solo il farmaco era sperimentale, ma anche la terapia che T'Challa e i medici avevano ideato lo era. Inoltre le possibilità che funzionasse veramente erano poche, mentre il rischio di risvegliare il Soldato d’Inverno era decisamente maggiore.

Infastidita dal silenzio dell’uomo, Anisa decise di fargli notare di avere bisogno di un riscontro. «Quindi? Vuoi andare avanti?»

Per quanto chiaro, lo sguardo con cui lui la guardò era rovente, completamente intriso di determinazione.

«Siete voi a correre i rischi maggiori se la cosa non dovesse funzionare.»

Intuendo ciò di cui l’uomo parlava Anisa incrociò le braccia, un leggero sorriso divertito aleggiava sul suo volto.

«Per quanto forte possa essere, il Soldato d’Inverno senza il suo braccio di metallo è pericoloso la metà.»

L’impulso a sorridere di Bucky venne bloccato dalla consapevolezza che la donna aveva ragione.

«Comunque sia» si affrettò a riprendere lei, notando l’espressione del Soldato, «Se sei intenzionato ad andare avanti possiamo iniziare.»

Tornò ad afferrare il piattino in acciaio, portandolo davanti a Bucky. Lui osservò il suo contenuto, poi guardò la donna, tranquilla e sicura.

«Cominciamo» disse e afferrò la capsula che lei gli stava porgendo.

 

 

 

 

 

_______________________________

Ed ecco qui la mia nota a fine pagina.

James Barnes, il caro Bucky, è arrivato – o, meglio, è stato scongelato. Ero intenzionata fin dall'inizio a fargli prendere parte alla storia anche perché, diciamolo, la scena dopo i titoli di coda di CW fa ben sperare nella sua presenza al fianco della Pantera.

Per quanto riguarda la "cura" di Bucky avevo pensato a diverse ipotesi, ma alla fine ha prevalso quella del farmaco sperimentale, principalmente per il fatto che le altre avevano meno senso di questa.

Concludo ringraziando tutti quelli che stanno portando avanti la mia storia, grazie davvero!

MadAka

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V ***


 

 

 

Il metallo del tavolo vibrava a ogni colpo. Questi venivano scagliati con violenza, seguiti da grida soffocate, trattenute a stento fra le labbra serrate. Bucky Barnes continuava a dare pugni sul piano del tavolo, la mano destra dolorante, ma non sapeva come altro fare per tentare di tenere a freno un istinto di ghiaccio che non voleva rimontasse.

Diciassette – семнадцатьla parola che quel pomeriggio lo aveva avvolto nel freddo, facendogli improvvisamente perdere il completo controllo di sé. Si era sentito montare da un’improvvisa irritazione, una rabbia controllata che aveva reso i suoi muscoli tesi, che lo faceva fremere. Prima che potesse mancargli totalmente la lucidità aveva costretto se stesso a resistere, a combattere una lotta interna che sapeva già avrebbe perso e la cui strenua resistenza passava dal disperato tentativo di mantenere il controllo del proprio corpo.

«Basta così!»

La voce di Anisa si levò forte nel piccolo laboratorio. L’uomo che fino a quel momento parlava chiaro in lingua russa cessò d’improvviso e i colpi scanditi contro il piano metallico terminarono pochi attimi dopo. Solo il respiro affannato del Sodato riempiva l’aria mentre quest’ultimo teneva gli occhi fissi sull’argento sotto i suoi occhi.

Erano trascorsi otto giorni dall’inizio, da quando Bucky aveva assunto la prima capsula bianca, costringendo la sua mente a ricordare i giorni di prigionia nell’HYDRA e nient’altro e Muenda – l’uomo incaricato da T'Challa per la sua conoscenza della lingua russa – aveva iniziato a leggere in ordine sparso le fatidiche parole, affinché, grazie al farmaco, diventassero vuote. Con i giorni quelle dieci parole avevano perso ogni significato per Bucky. Erano diventate suoni estranei e niente di più. Tuttavia quando la sequenza di parole veniva correttamente pronunciata, qualcosa nella mente del Soldato scattava e neanche il farmaco era riuscito a sopprimere quell’istinto che si risvegliava – anche se non aveva ancora fatto in tempo a ridestarsi completamente. Ogni volta che stava per accadere Anisa bloccava tutto lasciando dentro Bucky una voragine caotica e un intenso dolore.

Per motivi che lui non riusciva a spiegarsi ogni volta che accadeva era una sofferenza, una tortura. Quelle parole lo rispedivano indietro, nel gelo di quegli squallidi laboratori sotterranei in cui lo avevano soffocato più volte, impedendogli di ricordarsi di se stesso, annebbiandogli la mente fino a farlo diventare incapace di provare qualsivoglia cosa. Per quanto si sforzasse non riusciva a controllarsi. La rabbia gli montava dentro, si insinuava in ogni più minima parte di sé, raggiungendo anche i punti più nascosti, accecandolo. Insieme a essa si facevano strada i ricordi, un ammasso caotico di grida, suppliche e sofferenza. Le sensazioni si ammassavano in lui, resistere loro gli era quasi impossibile e lo sapeva. Sapeva che se Anisa, ogni volta, non avesse interrotto il processo in tempo, impedendo a Muenda di proseguire, al progredire di quelle parole Bucky Barnes sarebbe stato annullato e sopraffatto dal Soldato d’Inverno che custodiva dentro.

Sudore freddo imperlava la fronte dell’uomo, che teneva ancora gli occhi fissi sul tavolo davanti a sé. Continuava a respirare pesantemente come se si fosse risvegliato da un brutto sogno. Poco dopo un bicchiere d’acqua venne posato proprio nel punto in cui stava fissando.

«Tre parole, Bucky. Ieri eravamo arrivati a cinque.»

L’ormai famigliare voce di Anisa gli fece sollevare lo sguardo e subito incontrò quello nocciola di lei. Fu un solo istante, scomparve veloce com’era arrivato, ma Anisa avrebbe potuto giurare di vedere un bagliore di paura negli occhi tanto chiari quanto belli dell’uomo. La donna rimase un momento spaesata, infine sollevò la testa e si rivolse a tutto il personale che, ogni volta, assisteva alla terapia del Soldato.

«Lasciateci soli, per favore. Anche tu Muenda» concluse, rivolgendosi al solo uomo insieme a lei e Bucky nella piccola stanza circolare. Il suo tono non ammetteva repliche, ma qualcuno, oltre i vetri, parlò attraverso l’interfono: «Ma, signorina ci è stato detto…»

Non concluse mai la frase. Anisa lo trafisse con lo sguardo ripetendo la richiesta di pochi attimi prima e lentamente il piccolo laboratorio si svuotò. Quando rimase sola con Bucky – il quale aveva preso a fissare ostinatamente il bicchiere – si sistemò sulla sedia libera proprio di fronte a lui. L’uomo non sollevò lo sguardo, lei rimase a guardarlo in silenzio. Da un paio di giorni avevano notato che la terapia non stava avendo lo stesso effetto che aveva all’inizio. Le singole parole russe era riuscito a dimenticarle in fretta grazie al farmaco, ma lo stesso non valeva per la loro lettura nella sequenza corretta. Lo vedeva, quando quelle parole erano pronunciate nell’ordine giusto qualcosa nell’uomo si trasformava. Si irrigidiva, tendeva i muscoli e i suoi occhi diventavano assenti. Cercava di resistere a quella involontaria trasformazione soffocando a stento grida e sfogando sul tavolo che aveva davanti la rabbia che certamente gli montava, ma Anisa sapeva che solo l’interruzione poteva funzionare e lei, ormai da giorni, bloccava tutto prima che Bucky potesse diventare pericoloso contro la sua stessa volontà. Tuttavia il fatto che la terapia di T'Challa avesse funzionato solo a metà e che fallisse proprio nella parte più importante di tutto il percorso, non la faceva stare tranquilla.

«Ti senti bene?» chiese infine la donna, dopo un lungo silenzio.

Bucky tornò a guardarla, senza rispondere. Il suo respiro si era regolarizzato e i muscoli rilassati, ma non poteva certo dire di stare bene. Dentro li vedeva ancora, li sentiva ancora, come fantasmi tornavano sempre insieme al gelo: i troppi ricordi di una vita passata a essere l’arma spietata e infallibile di persone senza anima. Continuamente si accavallavano dentro di lui portando con sé una consapevolezza fatta di angoscia e dolore.

«Bucky…»

Anisa provò a chiamarlo e per un momento all’uomo tornarono alla mente le persone che lo avevano chiamato così prima di lei.

«Non ci riesco» mormorò il Soldato, abbassando nuovamente gli occhi.

La donna rimase sorpresa dalla sua affermazione. Era la prima volta in assoluto che sentiva dire una cosa del genere da lui da quando avevano avviato la terapia. Stava per ribattere ma non fece in tempo. Nuovamente Bucky parlò con voce così bassa che lei dovette concentrarsi per non perdere una sola parola, nonostante il silenzio regnasse ovunque intorno a loro.

«Ogni volta che sento quelle parole qualcosa in me si risveglia, non riesco a controllarlo. E sono lì, i ricordi, i volti, i nomi delle persone a cui ho fatto del male sono ancora tutti lì.»

Aveva alzato il tono della voce, mentre la frustrazione divenne perfettamente decifrabile in ogni parola.

«È opprimente. Cerco di non pensarci ma non vogliono andare via.»

Anisa fece per parlare, ma non le riuscì di dire nulla. Sospirò silenziosa, consapevole di non poter immaginare come si potesse sentire l’uomo. Nessuno avrebbe potuto capire cosa si celava nella sua mente, quale dolore – o quale sensazione ancora più intensa – lo accompagnasse ogni volta. Improvvisamente le venne un’idea.

«Possiamo…» cominciò, ma si bloccò quando gli occhi grigio-azzurri dell’uomo puntarono nei suoi. Le parve smarrito, incapace di trovare una via di fuga dalla sua situazione.

Si ricompose, riprendendo parola: «Possiamo usare il farmaco se te la senti. Possiamo fare in modo che ti aiuti a dimenticarti di tutto ciò che hai dovuto fare per l’HYDRA.»

La risposta del Soldato fu pronta: «No. Non voglio dimenticare niente di ciò che ho fatto.»

Anisa fu presa alla sprovvista da quelle parole e non seppe cosa dire in risposta.

«So che non ero in me, che non avrei mai fatto quelle cose se avessi potuto scegliere e che tutti questi pesanti ricordi che porto dentro non ci sarebbero nella mia mente se non fosse stato per l’HYDRA. Tuttavia non voglio dimenticare. Solo così potrò essere sicuro di non fare più del male a persone innocenti.

«È solo che continuano a tornarmi alla mente. Non riesco a controllarli, non riesco a conviverci, sono una presenza costante che fa davvero male.»

Aveva stretto i denti sul finire della frase, la mano chiusa a pugno abbandonata in grembo. Il cuore aveva ripreso a martellargli nel petto e il respiro cominciava a infrangersi nuovamente.

Anisa rispettò il silenzio dell’uomo. Sentì formarsi un nodo alla gola mentre ripensava alle parole appena pronunciate da Bucky; la consapevolezza di non riuscire a capire veramente il suo stato d’animo la fece sentire inutile. Come poteva aiutare una persona in quella situazione? Come poteva anche solo sperare – lei, ma anche T'Challa – di restituire un po’ di pace a qualcuno che per tutta la vita si era macchiato del sangue di innocenti per conto di altri? Al confronto la sua storia, che lei aveva sempre trovato dolorosa, sembrava una gita in campagna. Ripensare al suo passato, però, le fece venire un’idea. Per quanto le loro storie non avessero nulla in comune, c’era qualcosa che aveva permesso ad Anisa di continuare per la sua strada e che poteva, in qualche modo e con tanta forza di volontà, aiutare anche il Soldato d’Inverno.

Respirò a fondo e si decise a dire a Bucky una verità che solo pochi wakandiani conoscevano.

«Rebecca Russell.»

L’uomo la guardò, corrugando la fronte confuso.

«Come?» sussurrò.

La donna rispose al suo sguardo con sicurezza, stringendosi leggermente nelle spalle. «Rebecca Russell. È il mio vero nome. Sono scozzese.»

Se possibile l’espressione di Bucky si fece ancora più confusa. Rimase a fissare Anisa non capendo dove volesse arrivare, né cosa c’entrasse la sua ammissione con quello che lui aveva appena detto. Tuttavia lei non parve fare caso a questo e, senza staccare gli occhi da quelli dell’uomo, ricominciò a raccontare: «Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in Kenya quando avevo dieci anni. Mio padre aveva trovato une bellissima casa vicino al lago Turkana, proprio al confine con il Wakanda. Insegnava inglese alla scuola di North Horr; ogni giorno doveva farsi più di due ore di macchina, ma a lui andava bene così. Gli piaceva il suo lavoro e a me piaceva vivere là.

«Poco dopo il mio tredicesimo compleanno, una sera, tre uomini vennero a suonare alla nostra porta. Il loro capo si presentò come Ulysses Klaw. Disse a mio padre che la nostra casa si trovava proprio sul più grande giacimento di vibranio non appartenente al Wakanda e che lui avrebbe voluto acquistarla. Era disposto a pagare qualsiasi cifra ma mio padre fu inamovibile; non avrebbe mai venduto. Klaw gli diede tempo per pensarci, mio padre gli disse che potevano anche evitare di tornare.

«Tre giorni dopo tornarono. Quando mio padre aprì la porta non gli chiesero neanche se avesse ripensato alla loro proposta. Gli spararono a bruciapelo e lo uccisero. Mia madre fece a malapena in tempo a dirmi di fuggire, subito dopo spararono anche a lei e io scappai quando mi resi conto che avrebbero ucciso anche me.

«Non sapevo dove andare e mentre correvo con loro che mi inseguivano perché avevo visto troppo, varcai involontariamente i confini del Wakanda. I wakandiani hanno sempre tenuto ben monitorati i propri confini. Si accorsero subito che c’era un intruso e alcune guardie mi raggiunsero prima che potessero riuscirci Klaw e i suoi uomini. Quando capirono cosa stava accadendo affrontarono Klaw e misero i tre in fuga, infine mi portarono a palazzo, dal sovrano.

«T’Chaka ascoltò il mio racconto e ne rimase commosso. Fece in modo che i miei genitori potessero avere una degna sepoltura, infine mi accolse a palazzo, sostenendo che T'Challa avrebbe potuto avere bisogno di una sorella in più. Non so per quale motivo avvenne, ma io e T'Challa stringemmo un legame indissolubile in breve tempo e diventammo inseparabili. Mi insegnò la lingua, a combattere e a cavarmela da sola, trasferendo a me gli insegnamenti che suo padre tramandava lui. Per il mio diciottesimo compleanno decise che meritavo un nome wakandiano e scelse per me Anisa, che significa “amica leale”. Una volta divenuto re fece di me la sua personale assistente ed è per questo che sono qui.»

Si zittì, distogliendo lo sguardo. Bucky non disse nulla, si limitò a guardarla, confuso e dispiaciuto. Aveva trovato una risposta a quella che era stata la prima domanda che gli era sorta in mente appena aveva visto la donna, ma aver scoperto come mai quella donna dalla pelle bianca si trovasse in Wakanda lo rattristò.

«Sono consapevole del fatto che le nostre storie non si possono paragonare e so di non poter capire come ti senti. Quello che cerco di dirti con tutta questa storia è che anche io ho perso tutto, una volta. Ma poi ho incontrato T’Chaka e ho avuto una nuova occasione. Anche tu hai ritrovato Steve Rogers, sei riuscito a liberarti dalla schiavitù dell’HYDRA. Hai finalmente la possibilità di decidere cosa fare e quali battaglie affrontare. Devi essere consapevole di ciò. Devi aggrapparti a questa consapevolezza con tutto te stesso e fare in modo che ciò che hai subito in passato diventi cenere al suo confronto

Il Soldato non rispose, tuttavia assorbì ugualmente ogni parola. Non gli fu semplice intuire subito cosa intendesse esattamente Anisa, ma alla fine capì cosa voleva dire la donna. Non sarebbe stato facile riuscire a far passare in secondo piano tutto il suo passato, anche se lo sprone era la consapevolezza che, una volta eliminata la sequenza di parole che lo rendeva il Soldato voluto dall’HYDRA, avrebbe potuto decidere della sua vita e riavere l’amico di sempre. Sapeva che Anisa aveva ragione. Aveva trascorso due anni – dopo la distruzione degli Helicarrier a Washington D.C. – in solitudine, senza fare del male a nessuno e costruendosi intorno l’abbozzo di vita migliore che fosse riuscito a ottenere del 1945. T'Challa gli stava dando la possibilità di trasformare quell’abbozzo in qualcosa di migliore e non sarebbero stati i suoi fantasmi, né il suo passato a distruggere il suo lavoro.

Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui gli sguardi dei due non si erano mai incontrati, fu Bucky il primo a interrompere tutto. «Mi dispiace per i tuoi genitori» disse.

La donna lo guardò e sorrise debolmente. «Non era di me che avevo intenzione di parlare» ammise lei, dopodiché sollevò il capo con fierezza e chiese: «Che cosa pensi di fare ora?»

L’uomo non dovette pensarci, aveva già preso la sua decisione attimi prima.

«Fai tornare qui Muenda. Ci voglio riprovare.»

 

*

 

«Non puoi immaginare quanto io sia felice di questa notizia, Anisa, davvero non ne puoi avere idea.»

T'Challa camminava avanti e indietro per il suo ufficio esternando con soddisfazione la sua gioia. Nella stanza era tutto in ordine come sempre, fatta eccezione per la scrivania, ingombra di carte, mappe e penne, che sicuramente erano parte del lavoro di ricerca su Klaw che T'Challa non avrebbe mai accantonato se solo avesse potuto.

Tre giorni dopo essersi presentata a Bucky per quello che era veramente – Rebecca – aveva raggiunto l’ufficio del sovrano per dargli la notizia che, finalmente, le dieci parole russe non erano più in grado di risvegliare il lato peggiore del Soldato d’Inverno. T'Challa era esploso in un grido di soddisfazione, ma prima di lasciarsi andare completamente aveva preteso delle conferme e Anisa, con una punta di orgoglio nella voce, aveva rivelato che quattro volte consecutivamente Muenda aveva pronunciato quelle dieci parole – con l’enfasi di chi vuole farsi obbedire dal Soldato – e per quattro volte James Barnes era rimasto immobile al suo posto, senza liberare neanche un solo, flebile, rantolo.

«Non avrei mai creduto che gli sarebbe bastato così poco tempo. Credevo sarei riuscito prima a trovare Klaw.»

L’euforia del sovrano si spense a quelle sue stesse parole. Nei dodici giorni necessari a Bucky per ritrovarsi, T'Challa non aveva fatto progressi sul nuovo nascondiglio di Klaw. Aveva mandato in avanscoperta uomini, Sentinelle, aveva raccolto dati, seguito piste e notizie, ma ancora non aveva niente. In compenso alcuni soldati etiopici erano stati feriti o uccisi, altri erano scomparsi e lui era pronto a giurare che dietro a tutto ciò si celava Ulysses Klaw.

«Ancora nessuna novità?» domandò Anisa, lo sguardo fisso sulle carte che ingombravano la scrivania e l’amarezza nella voce.

«No, purtroppo. Sto aspettando alcuni responsi di rilievi fatti questa mattina vicino al lago Turkana.»

La donna si limitò ad annuire, senza aggiungere altro. Anche T'Challa non proferì altra parola sull’argomento, ma tornò alla lieta notizia che Anisa gli aveva portato.

«Tornando a Barnes» esordì, catturando subito l’attenzione della donna. «Penso sia ora di fargli avere un braccio nuovo.»

«Braccio?»

Il sovrano la guardò, lievemente stupito dalla sua sorpresa.

«Sì, braccio. Non vorrai lasciarlo mutilato, vero? Ora che sappiamo che l’HYDRA non può più controllarlo non vedo perché proibirgli di riavere il pieno uso dei suoi arti.»

Anisa continuava a guardarlo, stranita. «Hai… hai già provveduto…»

Non terminò la frase. T'Challa sorrise, radioso. «Un piccolo capolavoro. Non posso certo prendermi tutto il merito dato che mi sono totalmente ispirato a quello che Barnes aveva e che è andato distrutto, ma il risultato non è niente affatto male. È venuto proprio come nei miei progetti.»

Il viso della donna si accigliò. T'Challa si rese subito conto che qualcosa la turbava, la sua reazione era totalmente differente da quella che si era immaginato.

«Qualcosa non va?» le chiese, facendosi improvvisamente serio e avvicinandosi di un passo ad Anisa.

Si guardarono, lui in attesa lei alla ricerca delle parole migliori per potersi esprimere.

«Glielo vuoi chiedere davvero?» domandò infine, mormorando in modo quasi incerto le parole. T'Challa ci mise pochi secondi ad afferrare ciò che lei voleva intendere.

«Sì. Voglio chiederglielo. Non gli farò alcun tipo di pressione, gli chiederò esclusivamente di scegliere ciò che vuole davvero fare.»

Silenzio. La donna distolse lo sguardo, come fosse sotto accusa. Non sapeva cosa pensare. Da un lato era consapevole che Bucky, ora, non rappresentava più un pericolo e che averlo dalla propria parte nella lotta contro Klaw si sarebbe potuto rivelare decisivo. Dall’altro lato, però, dopo aver scoperto il tormento che le azione da lui compiute in passato – anche se non aveva avuto altra scelta – continuavano a provocargli, si chiese con che coraggio gli si poteva domandare di affrontare un altro scontro che non aveva cercato.

«Anisa cosa ti preoccupa?»

Finalmente lei tornò a rivolgere lo sguardo al sovrano, dando voce e forma al pensiero che le aveva invaso la mente: «Non so, T'Challa…»

Il suo lieve temporeggiare diede la possibilità all’uomo di replicare: «Non ti fidi di lui? Tu stessa hai seguito la sua riabilitazione e mi hai garantito che il farmaco ha funzionato.»

«Sì, certo. Non sto dicendo che non mi fido di Barnes. È solo che nell’arco della sua vita ha combattuto quasi esclusivamente guerre che non gli appartenevano. Perché dovremmo chiedergli di affrontare anche la nostra?»

T'Challa si irrigidì, la consapevolezza che Anisa avesse ragione lo inondò. Come guardò gli occhi nocciola della donna, un misto di compassione e preoccupazione, un sorriso addolcì le sue labbra.

«Ti sei affezionata a lui?»

Lo chiese con legittima, ingenua, curiosità e nulla di più. Fu Anisa a irrigidirsi, ora. Gonfiò il petto in modo fiero, una leggera nota di stizza a condire il suo tono: «Se anche fosse, merito una risposta. Non puoi negare che io abbia ragione, così come non puoi negare il fatto che vuoi chiedere aiuto all’uomo che due anni fa volevi uccidere e che con tutta questa storia non c’entra niente.»

T'Challa non rispose subito. Chinò il capo con solenne rispetto, ammettendo così di dare ragione in tutto ad Anisa. Poi i suoi occhi scuri puntarono dritto in quelli di lei, risoluti e fieri, così come lo era la sua voce appena parlò: «Sai di avere ragione, Anisa; lo sai perfettamente e non negherò. Tuttavia sai anche quanto io sia preoccupato per il mio popolo. Temo che Klaw possa far loro del male e non voglio che accada. Con le sole forze che abbiamo, però, non sono certo che riusciremo a fermarlo. Barnes può aiutarci. So che non avrei il diritto di chiedergli aiuto, ma non so cos’altro poter fare. Comunque sia te l’ho detto: solo se lui è veramente disposto ad aiutarci, accetterò il suo aiuto.»

La donna parve lievemente rassicurata da quelle parole, ma T'Challa sapeva che sarebbe servito ben altro per farle passare il suo turbamento. Nei giorni che Anisa aveva trascorso insieme a Bucky qualcosa in lei era cambiato, il sovrano lo aveva capito. Non si trattava di preoccupazione per il fatto che il Soldato potesse fare del male a qualcuno, era la preoccupazione che tutta quella situazione potesse fare del male al Soldato a impensierire la donna.

T'Challa sospirò. «Sarò sincero con lui, terribilmente sincero. E qualsiasi sarà la sua scelta sarà mia premura assecondarla.»

Lei lasciò intendere il suo apprezzamento per quelle parole, mentre seguiva con gli occhi il sovrano, in procinto di raggiungere la porta dell’ufficio.

«Ma prima vorrei che il suo braccio venisse ricostruito. Sarebbe un vero peccato tenere separati un uomo menomato e una protesi realizzata su misura per lui.»

Aprì la porta, tornando poi a rivolgersi alla sua assistente: «Saresti così gentile da andare a chiamarlo?»

Anisa non si mosse subito. Rimase a fissare il sovrano negli occhi, in cerca di qualcosa che potesse esserle sfuggita. Solo quando si accertò che lui era stato realmente sincero su tutto fece un cenno del capo e si mosse, uscendo dalla stanza.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI ***


 

 

 

Nell’alto soffitto sopra di sé Bucky aveva ormai sciolto il suo sguardo. Fissava i pannelli bianchi perfettamente allineati da minuti interi, la luce tenue, chiara, a far risplendere tutto. Era disteso su un lettino, un occhio di bue sopra la sua testa e una luce più intensa a sinistra, calata in modo da permettere ai quattro uomini – due medici e due tecnici – di lavorare con cura, concentrandosi esclusivamente su quell’unico punto. Erano chini sul suo corpo, molteplici strumenti intorno, e un solo, impeccabile, arto metallico fra le mani, che con precisione e abilità stava preparandosi a incontrare il nuovo proprietario. Bucky non se lo sarebbe aspettato e, forse, una parte di sé avrebbe preferito che qualcosa di così forte non gli venisse più restituito. Tuttavia quando T'Challa gli aveva detto che, terminate le cure, era giusto che riavesse pieno uso del suo corpo, gli era stato impossibile dire di no. Meno di due settimane gli erano bastate per capire che se mai avesse dovuto avere bisogno di difendersi o scappare da qualcuno o qualcosa, senza quel braccio metallico con cui aveva imparato a convivere e sopravvivere non sarebbe mai andato lontano. Così aveva accettato, ringraziando l’omaggio che il sovrano gli aveva porto.

Fermo su quel lettino, consapevole, cominciò lentamente a sentirsi irrequieto. La prima volta che un braccio meccanico gli era stato impiantato era privo di sensi e i ricordi vaghi che aveva di quel momento lo riconducevano solo al suo offuscato risveglio, quando il Soldato d’Inverno era pronto a impossessarsi di lui. Ora invece era sveglio; poteva vedere il soffitto chiaro, sentire i medici e i tecnici che parlavano fra loro, i ferri a incastrare, spostare e saldare le numerose placche metalliche di quello che sarebbe diventato il suo braccio. Di nuovo un arto metallico, di nuovo una protesi avvinghiata al proprio corpo più resistente e forte della normale carne.

D’improvviso li sentì arrivare, numerosi e opprimenti: i fantasmi del proprio passato. I volti, le grida, le preghiere sue come quelle di tanti altri. Iniziò a sudare freddo, il cuore che martellava nel petto, i muscoli improvvisamente tesi, nervosi e irrequieti. Doveva andarsene da lì, allontanarsi da quelle persone prima di rischiare di far loro del male.

La porta scattò e la cosa parve spaventare i fantasmi che lo stavano asserragliando, che silenziosi e temibili come erano giunti, scivolarono di dosso all’uomo, lasciandogli un profondo senso di turbamento. Sollevando appena la testa Bucky fu in grado di capire chi era entrato. La figura di T'Challa, vestito con sobria eleganza come sempre, si fece strada intorno al lettino su cui era steso.

«Come procede?» chiese ai quattro uomini, i quali salutarono il sovrano e gli fecero un veloce riassunto dell’operazione, parlando però nella lingua del loro paese. Probabilmente la risposta che T'Challa ricevette gli fece molto piacere perché quando si rivolse a Bucky e quest’ultimo riuscì a vederlo bene in volto, stava sorridendo.

«Come ti senti, James?»

Il Soldato soppesò la risposta da poter dare. Si sentiva intirizzito, ancora scosso da quel breve e opprimente ripresentarsi del proprio passato. Sentiva la parte sinistra del corpo formicolare, i nervi pulsare intorno al collo e alla spalla. Non poteva certo dire che ciò che gli stava accadendo fosse piacevole.

«Intorpidito» rispose infine.

T'Challa rise lievemente. «Hanno quasi terminato, manca poco.»

Bucky fu rincuorato da quelle cinque parole. Non gli piaceva quella situazione, lo faceva tornare troppo indietro, a momenti ben peggiori.

Improvvisamente una leggera scarica lo attraversò. Scattò prima ancora che potesse rendersene conto. Si mosse sul lettino, sollevando il busto, puntellandosi sul gomito destro, gli occhi vigili in cerca di qualcosa. Accanto a lui medici e tecnici si ritrassero, spaventati, alcuni ferri caddero in terra e il suono riverberò nel silenzio per svariati secondi. Con sua grande sorpresa Bucky si accorse che il braccio metallico era perfettamente ancorato al suo corpo, scintillante, reattivo.

«Va tutto bene» disse T'Challa; lo fece per rassicurare l’uomo, ma anche gli altri quattro che continuavano a fissare il Soldato preoccupati e nervosi.

Bucky si rese conto di cosa aveva fatto e ne fu rammaricato; con tutta probabilità la scossa che aveva sentito era dovuta alla definitiva e perfetta unione fra sé e il nuovo arto. Guardò i medici e si calmò, tornando a sdraiarsi sul lettino e porgendo loro il braccio sinistro affinché potessero concludere correttamente il lavoro. T'Challa lo guardò di sottecchi. Capì che anche se il farmaco aveva funzionato sarebbe stato impossibile per Bucky ignorare il passato. Era evidente che la preoccupazione di essere sfruttato per fare del male fosse ancora radicata in lui.

Il Soldato parve chetarsi, infine. Rimase a fissare sopra di sé con sguardo vago, ignorando le continue, deboli e veloci, scariche che continuavano a irrigidire il lato sinistro del suo corpo. Poteva muovere le dita se solo avesse voluto; sentiva quell’arto fare perfettamente parte di sé, ora. Tuttavia lo tenne immobile fino a che uno dei tecnici parlò, rivolgendosi a T'Challa: «Abbiamo concluso.»

Bucky li sentì ritrarsi, li vide allontanarsi da lui e fermarsi in piedi, in attesa.

«Puoi alzarti, James» lo esortò T'Challa poco dopo.

Il Soldato si mise a sedere sul bordo del lettino, tirandosi su con entrambe le mani. Rimase sorpreso dalla leggerezza e dalla compiutezza di quel braccio metallico, leggero e reattivo forse addirittura di più di quello che aveva perduto. I suoi occhi scorsero avidi lungo tutta l’area argentata una, due, tre e più volte ancora. Guardò l’arto in ogni sua angolazione, scorse lungo i contorni delle placche, negli incavi delle giunzioni. Fendeva l’aria con inconsistenza, liberando a ogni gesto una delicata e piacevole vibrazione. Ne sfiorò la superficie con la mano destra, il metallo era freddo, cosa che non si sarebbe aspettato diversamente. Il suo nuovo braccio metallico, così simile eppure così diverso rispetto a quello che aveva avuto per settant’anni, era pronto.

«Cosa te ne pare?» chiese T'Challa dopo aver dato tempo a Bucky di osservare il nuovo arto in ogni sua parte. Quest’ultimo lo guardò senza dire nulla.

«È in vibranio, più leggero e molto, molto più resistente di quello che avevi prima. È studiato sulla base dell’altro e abbiamo lavorato per renderlo reattivo e funzionale. Ci sono oltre 17.000 unità tattili, tutte direttamente collegate al tuo sistema nervoso, esattamente come un braccio umano.»

Bucky tornò a guardare la protesi, mentre si accorgeva della nota di pura soddisfazione che arricchiva la voce di T'Challa. Era combattuto; quel braccio metallico era l’emblema del suo passato, lo rimandava a chi glielo aveva impiantato la prima volta, a ciò che poi lo avevano costretto a fare. Eppure la consapevolezza che quel braccio, di preciso, era collegato al suo nuovo inizio parve dargli un briciolo di speranza.

«Avete fatto un ottimo lavoro» disse infine. Poi si rivolse esclusivamente ai medici e ai tecnici: «Vi ringrazio.»

I quattro risposero con un rapido cenno, dopodiché fu nuovamente T'Challa a parlare: «Mi fa piacere sapere che tutto sia andato bene. Non era un intervento semplice, significa che i miei uomini hanno lavorato al pieno delle loro capacità. Vi sono riconoscente.»

Rivolse un inchino in direzione dei quattro uomini, infine tornò a concentrarsi su Bucky. «Ora, se non ti dispiace, avrei bisogno di parlare con te. Se prima vuoi rilassarti un po’, riprenderti da queste ore di operazione, posso capire e sei libero di prenderti tutto il tempo che desideri. Poi, però, avrei davvero bisogno di parlarti.»

Il Soldato lo guardò, lievemente confuso, poi rispose: «Possiamo parlare anche ora.»

«Ne sei sicuro? non voglio metterti fretta.»

Bucky scosse la testa e T'Challa prese quel gesto come la risposta che attendeva. «Molto bene. Andiamo mio ufficio. Seguimi.»

Diede un ultimo saluto ai suoi medici e si avviò fuori dalla stanza, facendo strada a Bucky fino al suo ufficio. Una volta dentro, il sovrano indicò all’uomo una sedia su cui potersi accomodare.

«Devo chiamare una persona» lo informò. Si avvicinò al telefono, compose un numero e dopo pochi secondi disse: «Anisa, puoi venire nel mio ufficio?»

Posò il ricevitore, infine lanciò un rapido sorriso in direzione di Bucky. Il Soldato avrebbe voluto dire qualcosa; il silenzio che si era creato era strano, teso e gli stava provocando una spiacevole sensazione. Capì che T'Challa avrebbe prima atteso l’arrivo della sua assistente e Bucky sperò che Anisa arrivasse in fretta. Andò esattamente così; poco dopo un paio di colpi alla porta ruppero il silenzio, introducendo la donna nella stanza. Lei entrò, indossava un completo color panna, i capelli sciolti le ricadevano sopra le spalle.

«Eccomi» disse. Si accorse solo in quel momento della presenza di Bucky, seduto alla sua destra. Voltò il viso verso di lui, gli occhi scivolarono veloci lungo il braccio metallico, scintillante e perfettamente visibile, infine tornò a rivolgersi al sovrano. T'Challa le sorrise, affabile.

«Cosa ne dici?» chiese, alludendo con un gesto in direzione di Bucky. Anisa tornò a guardare il Soldato.

«Direi che hanno fatto un ottimo lavoro.»

Non aggiunse altro. Si avvicinò alla scrivania e lì si fermò, in attesa. T'Challa la guardò, facendosi improvvisamente serio. Poi i suoi occhi scuri puntarono in quelli chiari di Bucky, che vi vide dentro una determinazione quasi spaventosa.

«Allora, James, come ti ho detto avevo bisogno di parlare con te.»

Spostò un momento lo sguardo su Anisa, per poi tornare a concentrarsi sull’uomo. «Voglio essere sincero con te, assolutamente sincero.»

Respirò a fondo, un gesto che contribuì ad accrescere la spiacevole sensazione nata all’interno di Bucky.

«Il tuo scongelamento è stata una scelta affrettata e, in un certo senso, azzardata. Tuttavia non sapevo che altro poter fare.»

La concentrazione di Bucky, a quelle parole, aumentò, una leggera linea orizzontale gli solcò la fronte.

«Qualcuno sta minacciando il mio popolo e, purtroppo, ho avuto modo di scoprire che la sola Pantera Nera non è in grado di fronteggiarlo. Ti ho fatto risvegliare perché se la terapia fosse andata a buon fine avrei potuto chiedere il tuo aiuto ed è ciò che sto facendo ora. Ti sto chiedendo di aiutarmi a proteggere il mio regno.»

Nella stanza calò un silenzio palpabile. Anisa e T'Challa stavano guardando entrambi Bucky mentre lui, sbigottito, spostava il suo sguardo in ogni direzione. La richiesta del sovrano gli sembrava assurda, soprattutto per il fatto che per anni lui era sempre stato una minaccia – e mai un aiuto – per la vita degli uomini. Prima che fosse in grado anche solo di formulare una risposta, T'Challa riprese a parlare: «So che non ho il diritto di chiederti questo. Come Anisa mi ha fatto notare hai passato la vita a combattere battaglie che non ti appartenevano. Ma non so a chi altro potermi rivolgere che sia in grado di aiutarmi mantenendo fuori da questa storia persone indesiderate.

«Non devi sentirti obbligato, James. Il mio desiderio di redimermi dagli sbagli compiuti con te ha fatto sì che io volessi liberarti dal dominio dell’HYDRA e farti ricostruire il braccio. Non hai debiti nei miei confronti. Qualunque sia la tua scelta sarà mia premura assecondarla. Sarai sempre il benvenuto nel mio Regno.»

Bucky rimase a guardare T'Challa, senza dire nulla. Nella sua mente si stavano accalcando così tante cose che per lunghi momenti non fu in grado di pensare con lucidità. La voce del sovrano era seria, quasi addolorata mentre parlava e per lui fu chiaro che la minaccia di cui aveva parlato lo preoccupava terribilmente. Se perfino Pantera Nera, un combattente senza paura, temeva per quello che poteva accadere se non fosse riuscito a trovare aiuto in tempo, era chiaro che chiunque fosse a minacciare il Wakanda doveva essere davvero pericoloso.

Il Soldato riuscì a fare chiarezza nella propria testa. Era stanco di combattere? Forse, ma dopo quello che l’HYDRA lo aveva fatto diventare che altro gli restava da fare? Lui una vita degna di essere chiamata normale non l’avrebbe mai potuta avere, lo aveva capito da tempo, ma delle scelte poteva finalmente prenderle. Aveva passato settant’anni a fare del male alle persone, poteva iniziare a usare le sue capacità per aiutare finalmente qualcuno e, questa volta, niente avrebbe potuto peggiorare solo per via della sua presenza.

«Chi sarebbe questo qualcuno?» domandò. Inclinò appena la testa di lato, con curiosità. Notò un leggero bagliore accendersi negli occhi scuri di T'Challa.

«Si chiama Ulysses Klaw. È un uomo senza scrupoli, un mercenario e un bracconiere.»

Quel nome fece scattare qualcosa nella mente del Soldato. Nel suo addestramento da assassino gli era stato insegnato a memorizzare in fretta; nomi, volti, suoni, la sua mente registrava ogni cosa con impressionante rapidità e le immagazzinava tutte, come se vi venissero incise. Istintivamente guardò in direzione di Anisa, consapevole che il nome di Klaw era riconducibile a lei, al suo passato. Tuttavia la donna non rispose al suo sguardo; continuava a tenere gli occhi fissi sul sovrano, una maschera indecifrabile calata sul volto.

Qualcosa dentro Bucky si animò: il desiderio di essere d’aiuto.

«Vi aiuterò» disse infine. Lo affermò in modo chiaro, pacato, con la consapevolezza di chi aveva volutamente preso una scelta. Vide il sovrano rilassare le spalle, il suo volto si distese.

«Ne sei sicuro? non devi sentirti obbligato.»

Bucky non diede peso a quelle parole. Osservò per l’ennesima volta il braccio in vibranio.

«Avete fatto molto per me e ve ne sono riconoscente. Se posso aiutarvi, voglio farlo.»

I due si guardarono negli occhi. T'Challa capì così che quella del Soldato era una scelta avvenuta con spontaneità – forse addirittura per motivi che a lui sfuggivano – e che nulla aveva a che fare con il fatto di sentirsi in debito per un arto metallico o una cura sperimentale.

Il sovrano fece un rapido inchino. «Te ne sono grato.»

Bucky si limitò a guardarlo.

«Hai scoperto qualcosa?»

Anisa si sentì libera di parlare ora che sapeva che Bucky era disposto a collaborare. T'Challa si rivolse a lei, un flebile sorriso in volto: «Ho una pista» rispose.

La donna si sentì improvvisamente fremere al desiderio di sapere cosa avesse per le mani il sovrano. Quest’ultimo aprì uno dei cassetti della scrivania ed estrasse un unico foglio.

«Ricordi che ti avevo detto di essere in attesa di alcuni responsi?»

Lei annuì.

«Benissimo. Sono arrivati e sono quello che cercavo. Si tratta di un vecchissimo deposito militare abbandonato da tempo, sulle coste keniote del lago Turkana. Sono pronto a scommettere qualsiasi cosa che si tratta di Klaw.»

Anisa non rispose. Bucky poté vedere la determinazione fondersi con l’odio nei suoi occhi nocciola. La guardò con insistenza, finché lei non parlò di nuovo: «Quando vuoi agire?»

T'Challa la guardò attentamente, poi osservò il Soldato che rispose al suo sguardo. «Questa notte.»

La sua affermazione celava una piccola nota interrogativa. Voleva che fosse Bucky a dargli conferma. Gli occhi degli altri due si puntarono tutti su di lui, che si strinse impercettibilmente nelle spalle.

«Ci sto.»

«E sia, allora. Sarà stanotte» confermò il sovrano.

«È bene che tu sappia chi andiamo a incontrare, però» riprese, rivolgendosi a Bucky. «Anisa, gliene parli tu?»

All’uomo parve che la scelta di T'Challa mancasse di tatto. Tuttavia si rese anche conto che il legame che univa i due non gli era ancora chiaro. Sapevano entrambi fin dove potevano spingersi con l’altro e T'Challa, indubbiamente, conosceva la forza interiore di Anisa meglio di quanto lui potesse sospettare. La donna gli era parsa fin da subito sicura di sé e delle proprie capacità, ma probabilmente c’era molto di più.

Anisa annuì con la testa, compostamente. Si avvicinò a Bucky e respirò a fondo. Gli aveva già raccontato cosa univa lei e Klaw, quello che le rimaneva da raccontare al Soldato erano le molteplici – passate, ma anche recenti – depredazioni che quell’uomo, senza ritegno né cuore, continuamente faceva alle loro terre.

 

*

 

La giungla li aveva inghiottiti da un paio di chilometri, ormai. Sopra le loro teste le fronde si erano chiuse, impedendo al blu scuro del cielo di essere visto. Bucky seguiva T'Challa e Anisa, fianco a fianco davanti a lui, cercando di non inciampare nella vegetazione bassa che, puntualmente, pareva intenzionata a intralciarlo. Il costume della Pantera – così come la tuta nera indossata dalla donna – quasi scompariva nel buio della foresta, se non fosse stato per le flebili iridescenze argentate che sembravano essere in grado di riflettere anche la poca luce che giungeva fin laggiù. Alle spalle di Bucky c’erano altre otto persone che T'Challa aveva voluto esclusivamente per sorvegliare il perimetro esterno dell’edificio. Dai dati che aveva raccolto – e che sapeva interpretare fin troppo bene – aveva dedotto che nell’edificio avrebbero dovuto esserci fra le otto e le dodici persone; dopo la prima, rovinosa, spedizione, aveva anche capito che quelle veramente pericolose erano tre, nonostante non escludesse che potessero essercene altre. Il sovrano e Anisa avevano raccontato tutto ciò che era accaduto, mettendo in guardia Bucky che, mentre ripensava a quello che gli era stato detto, strinse la presa sul fucile che aveva fra le mani. T'Challa aveva fornito il Soldato di tutto ciò che aveva a disposizione: una tuta in materiale simile al Tyvek, ma più robusta e resistente, giubbotto antiproiettile, un fucile d’assalto, un paio di pistole e alcuni coltelli. A Bucky pareva di essere tornato indietro nel tempo, a quando quell’armamentario gli veniva fornito dalle persone sbagliate. Solo la consapevolezza che davanti a sé, sotto la maschera della Pantera e a un elmetto nero molto simile a quello di Steve, si trovavano T'Challa e Anisa lo faceva stare calmo, sentendosi nel giusto ancora una volta.

A un tratto la Pantera sollevò una mano, intimando agli altri di fermarsi. Eseguirono tutti, abbassandosi fra le fronde proprio come stava facendo lui. Si tolse la maschera e guardò gli altri. «È quello» disse.

Bucky guardò oltre la sua spalla, riconoscendo un cumulo di terra, rami e alberi, sorti in posizioni curiose, addirittura sbagliate. Ne aveva visti a sufficienza per sapere che si trattava di un edificio interrato, probabilmente anche abbastanza profondo.

«Voi sapete cosa fare» riprese T'Challa, rivolgendosi ai suoi uomini. «Dividetevi e sorvegliate il perimetro. Non voglio che passi nessuno. In quanto a noi» e si voltò verso Anisa, «vediamo di trovare una via d’accesso. James, tu aspetta qui un nostro segnale.»

Il Soldato annuì con il capo e guardò Pantera Nera e Anisa che si facevano strada verso il deposito, scomparendo.

Bucky rimase in attesa per lunghi minuti, solo. Il silenzio che regnava intorno era snervante, al punto che temeva potesse dargli alla testa. Abbassò lo sguardo sul fucile che teneva in mano, i suoi occhi si erano abituati all’oscurità al punto da riuscire a decifrarne con esattezza i contorni, mentre i capelli scuri gli ricadevano stancamente sul viso. Si chiese se avesse fatto bene ad accettare questa battaglia, se, almeno questa volta, nessuno avrebbe corso dei rischi per lui. Gli fu inevitabile pensare a Steve e a ciò per cui si era condannato – lui, ma anche altri insieme al Capitano – solo per aver preso le sue difese, per avergli creduto, cercando di spiegare ad altri che qualcosa di umano, nel Soldato d’Inverno, c’era ancora.

Prima che quei pensieri potessero prendere pieno controllo della sua mente sentì uno strepito in corrispondenza del deposito interrato. Si concentrò sul punto in cui aveva sentito quel rumore, stringendo gli occhi per riuscire a identificare qualcosa. Una debole luce si stagliò in una porzione indecifrabile dell’edificio e la sagoma di un uomo sorse esattamente davanti a essa. Subito, però, quella stessa sagoma si accasciò debolmente, il suono che fece cadendo venne totalmente assorbito dalla vegetazione. Un’altra figura prese il posto della prima, a sovrastarla due nere orecchie da pantera. Quello era il segnale.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII ***


 

Il lungo corridoio che si stagliava oltre l’ingresso da cui Bucky era appena entrato mostrò subito la fatiscenza dell’edificio in cui erano. Molte luci erano fulminate, alcune pendevano dai loro fili; le infiltrazioni avevano ricoperto il pavimento di uno strato sottile – ma quantomeno uniforme – di acqua e sulle pareti muschi e licheni avevano appestato saltuariamente.

T'Challa richiuse la porta, cercando di fare meno rumore possibile. Non sarebbe stato semplice passare inosservati; il silenzio che regnava era tetro e fu subito evidente che anche il rumore più insignificante avrebbe rimbombato a lungo. Anisa si voltò appena verso i due uomini, i tonfa in mano, la lunga treccia ordinata e composta. Era vigile e reattiva come la corda di un violino.

La Pantera fece cenno di seguirla e si avviò per prima: la leggerezza con cui si muoveva era sorprendente, sembrava quasi galleggiasse sopra la terra. I tre proseguirono lungo il corridoio, appostandosi in corrispondenza di ogni porta e controllando furtivi se dentro le stanze vi era o meno qualcuno. Non incontrarono nessuno e non trovarono niente; la desolazione di quel luogo era quasi demoralizzante.

Una volta raggiunta la fine del corridoio – che, come Bucky aveva notato, pendeva leggermente – si trovarono davanti all’ultima porta. Questa si apriva su delle scale mal illuminate che portavano in profondità. La loro tromba quadrata e il metallo di cui erano fatte permisero a T'Challa di identificare subito il numero dei piani.

«Sono tre» informò i compagni.

«Forse ci conviene dividerci» propose Anisa.

«Mai» rispose pronta la Pantera. «Suggerisco di partire dal piano più basso e salire a ritroso.»

Gli altri due annuirono con un cenno, infine scesero le scale, raggiungendo il piano costruito nella piena profondità della struttura. Dalle dimensioni pareva un hangar. Lo osservarono attentamente, senza fiatare. Anisa notò una serie di grandi casse ammassate contro una parete, i tre uomini a sorvegliarle intenti a parlare. Non si erano accorti della loro presenza e questo semplificò notevolmente il lavoro di Pantera Nera. Si avviò silenzioso verso gli uomini, il passo accelerato che non provocava alcun rumore. Appena li raggiunse assestò un colpo al primo, gomito contro collo; questi crollò a terra subito, privo di sensi, e quando gli altri due si accorsero di cos’era accaduto era già troppo tardi. Anisa e Bucky assistettero da spettatori e videro il secondo dei tre venire colpito anch’esso al collo con il taglio della mano, mentre con altrettanta rapidità – come se i suoi movimenti non avessero bisogno di pensieri – la Pantera sferrava un calcio in pieno petto al terzo uomo, per poi finirlo con un colpo preciso e potente alla nuca.

«Armi» disse poi T'Challa, dopo aver controllato le iscrizioni sulle casse.

«Devono averne rubate ancora, non possono essere le stesse dell’altra volta. Quelle casse sono andate distrutte nell’esplosione.»

Anisa fece notare la cosa al sovrano, riferendosi a quanto successo nella vecchia centrale sulle sponde dell’Omo. Lei e la Pantera si guardarono, consapevoli della stessa cosa: Klaw aveva depredato ancora.

T'Challa si accorse che Bucky si stava guardando intorno, studiando l’ampia stanza.

«Hai notato qualcosa?» gli chiese.

L’uomo indicò un punto, nel lato corto opposto alle scale. «Laggiù c’è un altro ingresso. Forse c’era un montacarichi o qualcosa del genere.»

La Pantera apprezzò il suo spirito di osservazione, tuttavia trovò che quella informazione servisse a poco. Era in procinto di dire ciò che avrebbe voluto fare quando il rumore di molteplici passi che scendevano le scale attirò la sua attenzione. Fece cenno ai compagni di nascondersi e i tre si misero dietro le casse, accucciandosi.

Klaw in persona arrivò nell’ampia stanza, i due possenti uomini che già avevano visto insieme a lui erano alle sue spalle. Il bracconiere non disse niente. Si sentivano solo i suoi passi riecheggiare nella stanza, poi, come se avesse sempre saputo, si sporse oltre le casse.

«Buh» disse, una smorfia divertita in viso.

T'Challa non si domandò come fosse possibile che li avesse individuati, la risposta, qualunque fosse, non gli importava. Scattò contro l’uomo, gli artigli da Pantera sfoderati, e fendette il braccio destro del suo rivale con furia cieca. Il suono che l’impatto produsse fu sordo e innaturale. T'Challa venne colto alla sprovvista e Klaw ne approfittò; puntò la pistola all’addome di T'Challa e gli sparò. Il proiettile, però, incontrò la resistenza del vibranio e si dimostrò impotente. Bucky intervenne, sferrando un colpo con il calcio del fucile nel ventre di Klaw, che accusò e indietreggiò dolorante.

Anche Anisa scattò; insieme a T'Challa superò Bucky, i tonfa stretti in pugno per avventarsi sul nemico. Tuttavia non riuscirono a raggiungerlo in tempo. Uno degli uomini scuri che era con Klaw si fece avanti, Bucky mirò verso di lui ma fu inutile. Pantera Nera riuscì a riconoscerlo appena prima che l’uomo, esattamente come la volta precedente in cui lo avevano incontrato, estraesse un accendino facendolo scattare. Un’enorme fiamma rossa partì e si propagò con feroce violenza. Anisa e T'Challa si spostarono in tempo, il Soldato riuscì a sparare al limite prima che il fuoco lo raggiungesse, inghiottendo il suo fucile d’assalto. Mentre lasciava la presa dall’arma e rotolava a terra per schivare le fiamme e mettersi in salvo, avrebbe potuto giurare di sentire il suono per lui troppo famigliare della carne che viene lacerata con forza, strappata dalla violenza del proiettile.

La fiamma si estinse con la stessa, inspiegabile, forza con cui era sorta. Di Klaw e degli altri due non vi era più traccia ma si potevano ancora sentire distintamente i loro passi salire frettolosamente le scale.

Bucky si rimise in piedi, lanciando un’occhiata al fucile d’assalto che aveva imbracciato fino a pochi attimi prima: era in parte sciolto e parecchio rovinato. Se non avesse incontrato così tante cose strane già nel suo penultimo risveglio, quel breve incontro con Klaw e i suoi uomini lo avrebbe seriamente sorpreso. Non ebbe tempo di chiedersi cosa quel fuoco significasse, T'Challa e Anisa gli dissero di seguirli e lui, lasciando indietro il fucile d’assalto ed estraendo una delle pistole, li seguì senza fiatare.

Raggiunsero le scale e le salirono in fretta, tuttavia, all’altezza del secondo dei tre piani interrati, una nuova e possente fiamma si sprigionò da sopra le loro teste, in un punto imprecisato. T'Challa riuscì a schivarla al limite, appiattendosi contro la ringhiera e balzando sulla rampa di scale successiva con agilità sorprendente. Anisa e Bucky si videro costretti a tuffarsi nel corridoio che si apriva accanto a loro e, come vi furono dentro, sentirono la Pantera urlare: «Io lo raggiungo. Fate attenzione!»

Il fuoco non sembrava intenzionato a estinguersi; bruciava inspiegabilmente e circoscritto alle sole scale. Era assurdo, lo sapevano entrambi, eppure i due avevano smesso di porsi domande.

«Controlliamo che non ci sia qualcuno a questo piano» propose Anisa. Il Soldato annuì e si portò davanti a lei, iniziando a sorvegliare cautamente ciò che li circondava. Percorsero buona parte del corridoio prima di scoprire di non essere soli. Qualcosa alle loro spalle riverberava contro le pareti del corridoio e quando si voltarono, capendo che si trattava del rumore di passi, si trovarono davanti Ulysses Klaw e l’altro uomo che era con lui, l’unico che non aveva ancora fatto alcunché da quando lo avevano incontrato.

«Vediamo un po’» esordì Klaw, l’espressione di chi deve scegliere quale trancio di carne cucinare per prima. «Nessuno di voi è Pantera Nera. Questo vi rende totalmente privi di interesse.»

La sua attenzione poi si focalizzò esclusivamente sul Soldato; corrugando la fronte lo squadrò, dicendo: «Hai qualcosa di famigliare. Ti ho già incontrato altre volte?»

Bucky vide Anisa scattare in avanti prima che potesse in qualche modo impedirglielo. La donna aveva agito in modo avventato e lui lo sapeva perfettamente. Klaw sollevò la mano destra e la respinse indietro, provocando nell’aria che riempiva il lungo corridoio un riverbero e una pressione fortissimi. Il Soldato si sentiva schiacciare da quella pressione; il braccio sinistro era scosso con violenza, le orecchie gli facevano male ed era come se il suo corpo venisse compresso. Cercò di spostarsi dalla traiettoria di Klaw appena capì che in qualche modo era lui a provocare tutto quello e quando ci riuscì e sentì i suoi polmoni nuovamente in grado di respirare, prese rapidamente la mira e sparò. Colpì Klaw alla spalla, l’uomo si fece sfuggire un urlo di dolore e, puntato Bucky, sollevò nuovamente la mano destra. Ancora quella strana pressione aggredì feroce il Soldato. Inevitabilmente si portò le mani alla testa, il braccio sinistro come impazzito, il suo corpo incapace di reagire e un dolore opprimente a schiacciarlo da dentro. Notò di sfuggita Anisa, accasciata a terra poco più avanti di lui e quando la sua sopportazione fu al limite prese a gridare nella remota speranza di riuscire a resistere.

Il dolore cessò improvvisamente. Bucky respirava a fatica, ma si accorse di non essere l’unico. Si voltò appena e vide Klaw che lo stava fissando. Si teneva la spalla sinistra, ferita, con la mano destra, un largo rivolo di sangue rosso cupo a macchiare la mano e i vestiti e una pozza di quel suo stesso sangue a brillare inquietante sul lurido pavimento del corridoio. Il proiettile sparato da Bucky prima era andato a segno e, a giudicare da quanto Klaw sanguinava, l’uomo avrebbe dovuto medicarsi in fretta.

Con il fiato corto e la voce roca, Klaw si voltò verso il suo uomo e fece un cenno in direzione di Bucky – ancora troppo scosso per rialzarsi – e Anisa, dicendo: «Sule, pensaci tu.»

L’uomo acconsentì con il capo e si portò avanti, estraendo una pistola, mentre Klaw si allontanava lungo il corridoio, la mano destra sempre premuta contro la spalla sinistra.

Sule – a quanto pareva questo era il suo nome – puntò l’arma contro il Soldato e sparò. Il proiettile urtò contro il braccio metallico che Bucky aveva prontamente sollevato, lasciando i suoi riflessi liberi di agire con la rapidità che avevano conquistato a suon di allenamenti e combattimenti. Tuttavia il Soldato si accorse che la velocità con cui lo sparo lo aveva colpito era ben superiore a quella che si sarebbe aspettato; per un lungo attimo si chiese come ciò fosse possibile. Lasciò da parte i pensieri e si mosse, appoggiandosi con la schiena alla parete e puntando l’arma contro l’avversario. Quest’ultimo riuscì a spostarsi in tempo così da schivare il colpo lanciato da Bucky, preso con poca mira, e a rispondere al fuoco a sua volta. Nuovamente il Soldato fu più veloce e riuscì a proteggersi, ma ancora una volta la rapidità e il riverbero che quell’unico proiettile aveva provocato sul braccio gli fecero capire che c’era qualcosa di sospetto nell’arma – o addirittura nell’uomo. Si alzò per poterlo fronteggiare e vide Anisa, nuovamente in piedi, lanciarsi contro Sule. La donna tese il corpo e il tonfa destro, con un gesto fluido, andò a colpire l’uomo proprio sotto le costole. Lui si voltò a guardarla e le sferrò una gomitata, ma lei si mosse più velocemente e schivò il colpo, rispondendo a sua volta con un altro affondo dei suoi tonfa. Era evidente che Sule, nel corpo a corpo, non era ferrato quanto la sua avversaria – e probabilmente neanche quanto Bucky – e il Soldato rimase a guardarli mentre lei affondava e lui tentava di ripararsi, in attesa del momento in cui si sarebbero separati, così che potesse prendere adeguatamente la mira senza rischiare di ferire Anisa.

«Insegui Klaw!» gli urlò la donna all’improvviso.

Lui non si mosse subito. Non era sicuro che lasciarla sola fosse una buona idea, ma la sua superiorità su Sule, in quel momento, era evidente. Con un rapido cenno di assenso l’uomo si avviò, iniziando a correre lungo il corridoio, seguendo le gocce di sangue scuro che baluginavano qua e là.

Anisa, nel frattempo aveva messo alle strette l’avversario, che si era ritrovato con la schiena contro una serie di vecchie casse impilate l’una sull’altra. Continuava a proteggersi il volto con le braccia, la pistola in mano con la quale non riusciva a prendere la mira contro la donna. Il corpo a corpo non era mai stato la sua specialità e contro Anisa questa cosa era evidente. Lei si muoveva con rapidità e agilità; ogni affondo dei suoi tonfa era dato in modo fluido, elegante e potente e nei suoi gesti c’era una tale naturalezza che sembrava non avesse fatto altro per tutta la vita.

L’uomo cercò di controbattere; sollevò il ginocchio puntando all’addome della donna, lei se ne accorse in tempo, schivò il colpo e controbatté dandogli un pugno sotto al mento. A causa di quella botta Sule si morse la lingua, sentì la bocca riempirsi di sangue caldo e in preda alla più totale furia puntò istintivamente la pistola contro Anisa. Nuovamente lei fu più veloce; con quel gesto l’uomo aveva involontariamente esposto il collo e ciò diede la possibilità alla donna di colpire esattamente lì. Il rumore del suo tonfa che colpiva il collo di Sule fu violento e chiaro. L’uomo non riuscì a reagire, i suoi occhi si fecero vaghi mentre lanciava un’ultima occhiata ad Anisa e, boccheggiando sangue, si accasciò alla parete e scivolò fino in terra. Lei rimase a guardarlo un momento, attendendo che il suo respiro si regolarizzasse appena, dopodiché si avviò per raggiungere Bucky e cercare Klaw.

A metà del corridoio, però, non fu in grado di sentire i rumori provenienti alle sue spalle. Se solo ci fosse riuscita si sarebbe accorta che Sule si stava rialzando, il respiro ansante, il mento sporco di sangue e lo sguardo pieno di folle odio. L’uomo raggiunse il centro del corridoio, notando in lontananza la ragazza che correva per raggiungere le scale, sollevò la pistola e prese la mira. Anche se lei era distante sapeva perfettamente che il colpo sarebbe andato a segno: la sua mira era impeccabile e, inoltre, lui…

Lo scoppio dello sparo squarciò l’aria come un tuono. Anisa sentì in corrispondenza all’esplosione un intenso dolore farsi strada attraverso il suo fianco sinistro. Il respirò le morì in gola e le gambe cedettero improvvisamente, perse la presa dai tonfa e rovinò a terra, il viso contro il pavimento. Il suo corpo cominciò a essere scosso da dei fremiti involontari, mentre un calore viscido si propagava poco sotto le sue costole, riversandosi sulla pelle e sul pavimento, accompagnato da un dolore intenso come non ne aveva mai provati prima. I passi di Sule risalirono il corridoio e lei capì che a spararle era stato lui. Si sentì improvvisamente indifesa e l’angoscia e la paura si presentarono da lei, sgorgando a fiotti dalle profondità più remote della sua mente. Sule la raggiunse, contemplò per un momento il suo corpo, infine si chinò accanto a lei. Anisa vide i suoi occhi e il suo sorriso – macchiato di sangue – animati da una divertita follia.

«Ulysses mi ha detto che nelle vostre tute c’è del vibranio» esordì, senza staccare gli occhi da Anisa. Avvicinò il viso alla ragazza e mormorò: «A quanto pare nella tua non ne hanno messo abbastanza.»

La mente della donna era annebbiata dal troppo dolore e non fu in grado di dare un senso a quelle parole. Sentiva i polmoni bramare sempre più aria, ma respirare le faceva talmente male che desiderava non doverlo fare. Sule le afferrò la treccia, sollevandole le testa e avvinandosi ancora di più a lei. I suoi occhi, ora, erano neri e pieni di solo odio.

«Potrei finirti, ma non credo che lo farò. Sei talmente gracile che morirai dissanguata prima che qualcuno possa venire a recuperarti.»

La lasciò andare e si alzò, avviandosi verso le scale, senza voltarsi un’ultima volta.

 

*

 

Le tracce del sangue di Klaw portarono Bucky nel piano più interrato dell’edificio, quello in cui lo avevano incontrato all’inizio dello scontro. Lo notò mentre si avviava verso la parete opposta alle scale, il passo rapido e una fasciatura approssimativa sulla spalla. Klaw si voltò quasi subito, certamente sentendo il Soldato.

«Di nuovo tu!» ringhiò e senza aspettare altro puntò contro di lui la mano destro.

Come un’onda invisibile da quell’insignificante gesto si sprigionò un’intensa forza, che respinse Bucky e lo fece sentire come schiacciato da qualcosa. Era inspiegabile, tuttavia arrivò alla conclusione che, in qualche modo, quell’assurda pressione venisse generata dalla mano destra di Klaw. Si parò istintivamente con il braccio in vibranio e si accorse che nonostante l’arto vibrasse in modo quasi incontrollato era comunque in grado di attutire quella strana pressione. Traendo ispirazione da quella nuova e curiosa scoperta, il Soldato estrasse la pistola e cercò in qualche modo di prendere la mira verso Klaw.

Come l’arma divenne visibile agli occhi del nemico, però, la forza che continuava a percuotere e comprimere Bucky si fece più intensa. Qualsiasi cosa fosse a provocare quell’onda andava fermata subito, altrimenti, lui ne era certo, sarebbe rimasto ucciso. Respirava a fatica, la testa e le membra gli facevano malissimo e non sapeva per quanto avrebbe potuto resistere a una tale pressione. Le ginocchia gli cedettero e lui si ritrovò a terra, sentendosi senza via d’uscita. Con un ultimo sforzo, però, costrinse il suo corpo a seguire i suoi ordini ancora una volta; ignorò il dolore, rotolò rapidamente sul fianco e con altrettanta velocità prese la mira e sparò. Il colpo urtò la mano destra di Klaw, ma non accadde altro. L’uomo si voltò in direzione del Soldato, lanciandogli un’occhiata feroce. Bucky lo ignorò completamente, corse verso di lui e lo colpì con un destro che Klaw riuscì a schivare. In risposta quest’ultimo sferrò un colpo, magistralmente evitato dal Soldato che replicò a sua volta con un pugno. Klaw schivò anche quello e puntò la mano destra all’altezza del petto di Bucky che si accorse in tempo della cosa e riuscì ad afferrare il polso dell’altro, puntando il suo arto verso il soffitto.

Fece a malapena in tempo; la strana energia si sprigionò dall’articolazione del suo avversario e si propagò in alto, verso il soffitto. Sopra le loro teste si trovava un vecchio lampadario fatiscente, appeso al soffitto solo grazie a pochi e ormai consumati fili. Non fu in grado di resistere alla scossa che lo raggiunse, infatti i fili si lacerarono e il lampadario crollò pesantemente verso di loro. Entrambi gli uomini riuscirono a schivarlo al limite, lanciandosi indietro. Il crollò sollevò una nube di polvere, mentre calcinacci e pezzi di vetro schizzavano da tutte le parti. Bucky si rialzò, cercando di individuare Klaw; lo vide più avanti, diretto verso l’altro ingresso che aveva individuato prima. Estrasse la pistola prendendo la mira, ma questa volta fu l’avversario ad agire più in fretta. Klaw prese a sparare una raffica di colpi, mirando in direzione di Bucky che si vide costretto a proteggersi con il braccio in vibranio. Quando i colpi cessarono e lui tornò a guardare nel punto in cui si trovava Klaw, l’uomo non c’era più.

Corse verso l’uscita con l’intenzione di inseguirlo, ma come compì il primo passo il rumore di un solo sparo provenne da oltre quella stanza. Il Soldato si bloccò, rimanendo sul chi vive, cercando di decifrare altri rumori intorno a lui. Quel colpo fu l’unico ed era chiaro, per lui, che era stato sparato nel piano superiore rispetto a quello in cui si trovava. Si sentì improvvisamente gelare il sangue alla consapevolezza che, al piano di sopra, si trovava Anisa sola con Sule e, soprattutto, che quello armato fra i due era lui. Lasciò perdere l’inseguimento di Klaw e percorse a ritroso le scale in gran fretta. Come ebbe raggiunto il piano superiore, prima di imboccare il corridoio, estrasse la pistola e tese tutti i suoi sensi, dopodiché si avviò.

Mano a mano che si incamminava lungo il corridoio non trovò nulla, né sentì qualcosa in grado di permettergli di capire se lì si trovava qualcuno e, nel caso, chi fosse. Poi, poco più avanti rispetto a dove si trovava, vide qualcosa. Si avvicinò con cautela, finché non fu certo di quello che stava guardando.

Il corpo di Anisa era disteso a terra, il volto rivolto di lato e una pozza di sangue che lentamente si allargava intorno alla donna. Corse verso di lei, spaventato e le si inginocchiò accanto.

Anisa era cosciente ma respirava piano e quando puntò i suoi occhi in quelli di Bucky il suo sguardo era vacuo. Il Soldato rimase stordito per un momento, poi il suo sangue freddo prese il sopravvento. Osservò con cura la ferita della donna, il tessuto della tuta lacerato con millimetrica precisione. Capì subito che la lesione andava medicata in fretta, altrimenti Anisa non sarebbe riuscita a uscire viva da quell’edificio.

Bucky estrasse il coltello dalla cintura, distese il braccio e con cura lacerò i punti della tuta in corrispondenza della spalla sinistra. Aiutandosi con i denti forzò la cucitura finché questa non cedette, strappando la manica nella metà esatta e permettendogli di avere in mano una striscia di stoffa nera lunga quanto il suo braccio; l’avrebbe usata per medicare temporaneamente la donna, colpita al di sotto delle costole, il punto in cui il suo corpo si faceva sottile.

Prestando particolare attenzione anche al gesto più minimo voltò Anisa, sollevandole lentamente il busto e prendendola fra le braccia, le gambe di lei mollemente abbandonate sul pavimento. Abbassò la zip che la tuta della donna aveva sulla schiena e con cautela gliela sfilò tanto da permettergli di raggiungere il punto in cui era stata colpita. La fascia bianca che le stringeva il seno era in parte impregnata di rosso, così come il suo addome era striato dal sangue viscido. Bucky le avvolse intorno al corpo la striscia di stoffa che era riuscito a rimediare, stringendo a sufficienza per arrestare il flusso ma senza arrecare ulteriori dolori ad Anisa.

Quando ebbe finito di risistemarle indosso la tuta e aver richiuso la zip, la allontanò appena, facendole appoggiare la schiena al suo braccio di metallo, accorgendosi che lei continuava a guardarlo.

Fu una strana sensazione quella che provò; gli occhi della donna erano velati ma chiaramente fissi nei suoi e pareva non volessero abbandonarli. Dentro il Soldato il profondo desiderio di salvarla si accentuò; si ritrovò a sperare che tutto andasse per il meglio con una tale intensità che quasi si sorprese di provare simili sentimenti.

«Andrà tutto bene» le mormorò, mentre si apprestava a raccoglierla per poter andare a cercare T'Challa.

La sollevò con cautela, come se avesse fra le mani una sottile lastra di cristallo.

«Ora andiamo da T'Challa.»

Le sorrideva lievemente, come nel tentativo di tranquillizzarla, benché fosse preoccupato per le sue condizioni, mentre Anisa continuava a guardarlo. Bucky riusciva a sentire distintamente i deboli fremiti che percuotevano il suo corpo; conosceva quello stato, quegli spasmi involontari, indomabili, che un corpo ferito liberava in preda al dolore e che non lasciavano mai presagire nulla di buono.

Quando la donna chiuse gli occhi, registrando un’ultima volta i lineamenti del Soldato, l’uomo accelerò il passo. Salì di un altro piano, l’orecchio teso alla ricerca di suoni che potessero in qualche modo avvertirlo della presenza di qualcuno. Sule e l’altro uomo di Klaw erano ancora nell’edificio e avrebbe fatto bene ad accorgersi di loro prima che fosse tardi se mai avessero dovuto attaccarlo.

Non accadde; mano a mano che proseguiva cautamente lungo il piano cominciò a sentire dei rumori: colpi, scontri, rantoli. Identificato il punto dalla quale provenivano Bucky si avvicinò piano, stringendo più forte Anisa e si sporse lentamente per vedere ciò che stava accadendo nella stanza.

Il corpo di Sule era disteso a terra, al margine, sanguinava copiosamente, dei profondi tagli a lacerargli il fianco destro, la pistola ancora stretta in mano. Pantera Nera era concentrato sull’altro uomo, che in un modo o nell’altro continuava a bersagliare il sovrano con rapide e intense fiamme rosse. L’agilità della Pantera nello schivare il fuoco era tale che in un unico, curioso, attimo di consapevolezza Bucky si ritrovò a chiedersi come avesse fatto, anni prima, a resistergli in combattimento.

Un calcio veloce della Pantera fece saltare di mano l’accendino all’uomo, che cadde lontano e scivolò verso una delle pareti. L’uomo allora estrasse un coltello a serramanico, preparandosi a fronteggiare così T'Challa. Nuovamente – e come era prevedibile – il sovrano fu più veloce; si abbassò per schivare il fendente, approfittò di quel gesto per prendere la spinta e lanciarsi contro l’avversario, colpendolo con violenza al petto con il ginocchio. Subito, poi, gli diede il colpo di grazia assestandogli un calcio nel lato scoperto del collo. Prima ancora che l’uomo potesse accorgersi di ciò che era accaduto le gambe gli cedettero sotto il suo stesso peso e lui si afflosciò in terra privo di sensi.

T'Challa lo sovrastò con tutta la raffinata forza della Pantera Nera. Prima che potesse perquisire il corpo del malcapitato che giaceva ai suoi piedi, però, Bucky si fece avanti: «Pantera» lo chiamò.

T'Challa si voltò, fissò il Soldato per un attimo prima di capire. Anche se non la poteva vedere oltre la maschera, Bucky immaginò l’espressione che il sovrano doveva aver assunto; il modo in cui i suoi muscoli, da tesi e pronti che erano, si lasciarono andare, era il chiaro messaggio che ciò che aveva appena visto non sarebbe dovuto accadere.

«Anisa» mormorò.

Si avvicinò alla donna, le slacciò l’elmetto con delicatezza e le passò una mano sulla fronte imperlata. La donna era incosciente e respirava piano, stretta fra le braccia di Bucky.

«Le hanno sparato» informò quest’ultimo. «Se non viene medicata in fretta morirà.»

Il Soldato non usò alcun giro di parole. Sapeva perfettamente che T'Challa, che non era affatto uno sprovveduto, non si sarebbe illuso con semplici e banali rassicurazioni, specie in casi come quello. Inoltre, come se non bastasse, Bucky voleva davvero uscire in fretta da quell’edificio per poter affidare Anisa alle cure di medici competenti e dotati delle giuste strumentazioni.

T'Challa annuì, passando in maniera incerta la mano sulla fronte della donna.

«Dov’è Klaw?» chiese.

La sua domanda sorprese il Soldato, che abbassò un momento lo sguardo prima di rispondere.

«È fuggito. Dall’uscita che si trovava al piano più interrato.»

Il sovrano si voltò a guardare gli uomini di Klaw, entrambi a terra, soppesando mentalmente cosa fare di loro. Con tutta probabilità Sule non sarebbe sopravvissuto, ma l’altro si sarebbe svegliato prima o poi e sarebbe diventato nuovamente una minaccia se avesse ripreso in mano quel suo strano accendino. La risposta gli apparve improvvisamente semplice. Andò a recuperare l’accendino da terra e tornò da Bucky.

«Riportiamola a palazzo» disse, alludendo ad Anisa.

Il Soldato si avviò fuori dalla stanza, poi lungo il corridoio, seguendo la Pantera che apriva la strada con il suo passo felpato.

Quella missione era stata un fallimento e nel silenzio surreale che circondava i tre, quella consapevolezza si fece perfettamente palpabile.

 

 

 

___________________

Ehm, ehm… ciao!

Vorrei davvero scusarmi tantissimo con tutti quelli che hanno iniziato a seguire questa fan fiction, che magari ci si sono anche appassionati, e che poi ho lasciato “appesi” perché, di punto in bianco, ho smesso di aggiornare.

Scusatemi davvero tanto!

Non mi sono dimenticata di questa storia, al contrario. Il problema è che mi richiede molto tempo da scrivere perché non è semplice affrontare il tutto in modo soddisfacente – e spero, almeno un minimo, di riuscirci – e anche perché è comunque qualcosa di nuovo.

In aggiunta a questo c’è il fatto, e credo sia proprio questo il vero “problema”, che sto scrivendo la mia tesi di laurea, perciò davanti al pc non posso concedermi di scrivere di T'Challa, ma devo per forza buttare giù pagine e pagine di Word con cose universitarie.

A ogni modo, spero che questo mio ritorno possa contribuire a farmi perdonare. Temo che anche gli altri aggiornamenti richiederanno tempo – spero non così tanto quanto questo, almeno – e farò il possibile per pubblicarli.

Sto portando avanti questa storia, dovete credermi, solo molto lentamente.

Se siete arrivati fin qui grazie per essere passati!

MadAka

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII ***


 

 

La luce di mezzogiorno macchiava la penombra rilassante della stanza. Fuori dalla porta i rumori venivano filtrati dalle pareti, giungendo ovattati.

La sagoma forte di T'Challa era immobile, i lineamenti fieri sciupati dalla mancanza di sonno. I suoi occhi continuavano a scorrere sugli schermi a led incastonati nella parete, le orecchie piene del suono ritmico e ripetitivo del cardiofrequenzimetro. L’infermeria si trovava nella zona est del palazzo, lontana dagli hangar e dalle strade, nel cuore più verde e protetto di tutto il perimetro.

Anisa era stata ricoverata lì quella notte. Sottoposta a cure immediate era stato concesso perfino al sovrano di poterla incontrare solo quella mattina.

T'Challa guardò la donna; respirava piano, ma con regolarità, le lenzuola di cotone a coprirne il corpo fino al petto, i capelli castani morbidamente sparsi sul cuscino.

Il sovrano tornò a osservare il suo volto, chiuse gli occhi, inspirò e si fece forza. Per la seconda volta aveva sottovalutato Klaw e per la seconda volta qualcuno ne aveva pagato le conseguenze. Non c’erano state altre vittime, ma ciò non gli permise comunque di darsi pace. Una delle persone più care e fidate che aveva era stata gravemente ferita e se non fosse stato per James Barnes, probabilmente, l’avrebbe persa per sempre.

Una volta ritornati a palazzo i medici avevano immediatamente curato Anisa; le avevano fatto una trasfusione di sangue, suturato la ferita e si erano presi cura di lei alla perfezione. Benché – a detta loro – la donna si sarebbe perfettamente ripresa, quello che le era accaduto e il fatto che lui non era stato in grado di impedirlo continuavano a fare sentire frustrato il sovrano.

Sussurrando, gli occhi ancora chiusi, T'Challa recitò una preghiera a Bast nella speranza che aiutasse quella che, più di tante altre, per lui era una sorella.

Sentì aprirsi la porta della stanza. Aprì gli occhi, zittendosi e vide entrare Kenan Wambua, il medico più fidato e capace che avesse a disposizione. L’uomo fece un rapido inchino salutando il sovrano e si richiuse la porta alle spalle. I due rimasero in silenzio a lungo, un silenzio solenne, gli sguardi di entrambi fissi sul volto di Anisa.

«Come sta?» chiese infine T'Challa, prendendo forza. La risposta lo spaventava e agitava al contempo. Anisa non era in pericolo di vita; l’aveva sotto agli occhi e lui stesso poteva appurarlo. Tuttavia solo sentirselo dire da chi era perfettamente a conoscenza della situazione avrebbe potuto tranquillizzarlo.

«È stabile» rispose Kenan che poté notare il sovrano rilassare le spalle. «Si riprenderà completamente.»

«Com’è potuto accadere?»

T'Challa non si dava pace per quello. Aveva trascorso la notte tormentandosi letteralmente chiedendosi di continuo come fosse stato possibile, per qualcuno riuscire, a scalfire – fino a penetrare – la tuta di fibre miste della donna. Anche se non era composta esclusivamente da vibranio, i test che vi avevano apportato avevano dimostrato che l’indumento era in grado di resistere alla perfezione ad armi da fuoco e coltelli.

Il medico scosse debolmente la testa. «Le hanno sparato.»

«Questo lo so» replicò prontamente il sovrano, leggermente infastidito. «Ma nella sua tuta c’era del vibranio, come hanno fatto a ferirla?»

Kenan non rispose subito. Girò intorno al letto dove Anisa dormiva ancora, raggiungendo il sovrano. Giunto al computer digitò rapidamente qualcosa e sugli schermi – al posto dei parametri vitali della donna – comparvero delle immagini. T'Challa si voltò a guardarle, intuendo immediatamente di cosa si trattasse. Era la ferita di Anisa. Un profondo squarcio che, in quelle immagini ingrandite, sembrava più simile a una voragine. Il sovrano continuò a osservare il sangue rosso cupo che rivestiva le pareti di quella lesione come catturato.

«Ci siamo interrogati molto su ciò che può essere accaduto, altezza» esordì il medico, indicando poi su uno degli schermi l’immagine più ravvicinata della parte lesa di Anisa. «Nessuna delle nostre supposizioni, però, ha trovato un riscontro fondato. La pelle della signorina è stata troncata di netto, non vi sono i segni tipici delle lacerazioni provocate dalle armi da fuoco. Voi avete visto la sua tuta?»

T'Challa si voltò, in attesa che venisse dato un senso alla domanda.

«In prossimità della ferita, come appare il tessuto?»

«Perfettamente tagliato» fu la risposta del sovrano. Ripensò a quel cerchio perfetto in corrispondenza dell’ingresso del colpo nel corpo di Anisa, così come perfetto era il corrispettivo foro di uscita.

Quelle parole parvero bastare a Kenan. «Chirurgico.»

T'Challa ascoltò quell’unica parola, sentì il riverbero che lasciò nella stanza silenziosa.

«Lo abbiamo definito così» riprese il medico. «Mio signore, non vi sono tracce di polvere da sparo che lascino pensare che qualcuno abbia sparato alla signorina da una distanza molto ravvicinata. Il diametro della ferita non supera di molto i 9mm. E, come avete potuto notare, sia la tuta che la pelle sono state lacerate alla perfezione, in modo… chirurgico. Io… una normale pistola calibro 9 non può riuscire a fare tanto.»

Il tono di voce di Kenan lasciava intuire che la sua mancanza di conferme lo avviliva. Quell’impeccabile medico, che mai aveva avuto dubbi, si trovava ad affrontare qualcosa a lui sconosciuto.

«Lei crede che possa essere stata un’arma di tipo sperimentale a ferire così Anisa?» chiese infine T'Challa, dopo aver pensato per un breve momento a quella possibilità.

«Non glielo posso garantire, sire. Ma è un tipo di ferita con cui non abbiamo mai avuto a che fare.»

Tornò a rivolgere lo sguardo agli schermi, indicando altre immagini. «È viva per miracolo. Il proiettile – o qualunque cosa l’abbia colpita – ha passato il suo corpo da parte a parte, evitando fortuitamente organi vitali. Se il diametro fosse stato maggiore non ce l’avrebbe fatta, nonostante la prontezza con cui l’avete portata qui.»

Kenan sospirò. «Sono affranto dal fatto di non potervi dare informazioni attendibili.»

T'Challa lisciò il tessuto dell’abito, sovrappensiero. Stando a quanto gli aveva riferito Barnes, Anisa era stata colpita da Sule, uno dei due complici di Klaw. Quell’informazione, unita a ciò che aveva appena scoperto parlando con Kenan, permisero al sovrano di trarre una prima – forse evidente – conclusione: non avevano a che fare con persone normali. I due uomini di cui Klaw disponeva – oltre a se stesso – erano uomini addestrati e, con tutta probabilità, muniti di particolari armi all’avanguardia. Solo i risultati delle analisi che lui aveva fatto svolgere sull’accendino di cui si era impossessato la notte precedente gli avrebbero permesso di fare maggiore chiarezza in quel groviglio di incertezze.

«Ha fatto quello che era in suo potere. Ha salvato Anisa.»

T'Challa rivolse un leggere inchino in direzione del medico, pronunciando quelle parole. L’altro rispose con lo stesso gesto ma prima che potesse replicare venne interrotto. Qualcuno bussò alla porta e T'Challa diede il permesso di entrare. Oltre la soglia comparve Mandisa, composta e ordinata come sempre. Teneva una cartelletta stretta al petto e, entrando, salutò i presenti, lanciando infine una veloce occhiata in direzione del letto.

«Buongiorno Mandisa» l’accolse il sovrano.

«Altezza. Mi scuso per il disturbo, ma il Presidente keniota chiede di voi. La chiamata è in attesa nel suo ufficio.»

L’uomo si irrigidì appena, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Era difficile che fossero venuti a conoscenza dell’introduzione da parte di Pantera Nera entro i confini del Kenya, ma nulla era da escludere. Se era accaduto ciò, per T'Challa sarebbe stato necessario dare sfoggio delle sue migliori abilità diplomatiche per tentare di giustificare come mai, il difensore del Wakanda, avesse oltrepassato i suoi confini.

Si avviò da Mandisa, voltandosi prima verso il medico. «La ringrazio per il suo lavoro» disse.

Lanciò un’ultima occhiata al viso di Anisa, infine seguì la donna, che si avviò immediatamente verso l’uscita dell’infermeria. Appena fu fuori dalla porta, però, la robusta sagoma di un uomo attirò la sua attenzione.

James Barnes si fermò di colpo, fissando T'Challa e Mandisa a pochi metri da lui. Indossava vestiti wakandiani, leggeri, il braccio metallico scintillante sotto la luce del sole che entrava dalle grandi finestre del corridoio.

T'Challa gli sorrise. «James. Vedo che cominci a orientarti all’interno del palazzo.»

Fece un cenno in direzione della porta della camera di Anisa. «Sei qui per fare visita ad Anisa?»

La domanda rimase in sospeso a lungo. T'Challa era ormai abituato alla scarsa loquacità del Soldato d’Inverno e non si scompose. «Dentro c’è ancora Kenan, il mio medico di fiducia. Ho lasciato detto che tu possa vederla.»

Non attesa una risposta; riprese a camminare e si allontanò, seguendo la sua assistente lungo il corridoio diretto al suo ufficio. Bucky rimase a guardare le due figure che si allontanavano, finché il rimbombo dei tacchi di Mandisa non venne assorbito completamente dalla distanza. Poco più avanti vide la maniglia abbassarsi e un uomo uscire dalla stanza che T'Challa gli aveva appena indicato. Dedusse che si poteva trattare solo di Kenan.

Quest’ultimo guardò il Soldato per un breve momento, infine gli sorrise, mantenendo la porta aperta.

«Sta riposando.»

Bucky non replicò. Fece un debole cenno di assenso al medico avvicinandosi a lui, dopodiché entrò nella stanza, richiudendo dietro di sé la porta.

 

*

 

Le sembrava di essere avvolta da ovatta. La luce delicata non le diede fastidio appena aprì gli occhi, che si adattarono subito alla penombra del tramonto imminente. I suoni erano spenti, lontani, si percepivano a stento ed erano confusi. Anisa sbatté gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco il soffitto sopra di sé, il corpo immobile, il respiro ancora lento. Non riusciva quasi a sentire il proprio corpo, ma era rilassata.

Quel soffitto le era famigliare e le sue profonde convinzioni su cosa l’aspettava oltre la morte, esulavano completamente da una camera bianca e un letto in cui si sprofondava come nello zucchero filato.

Si guardò intorno, in attesa di riavere il controllo completo del proprio corpo. Voltò appena il volto verso destra e lo vide subito. Sembrava addormentato, le braccia incrociate al petto, gli occhi chiusi. Anisa lo guardò un momento e si trovò piacevolmente sorpresa di trovare nella sua stanza il Soldato d’Inverno. Rimase a osservare i tratti del suo volto e la mente la catapultò inevitabilmente indietro, alla notte precedente.

Era stato lui a salvarla, su questo non aveva dubbi. Ricordava alla perfezione il viso di Bucky quando l’aveva raggiunta nel corridoio in cui lei temeva sarebbe morta, del modo in cui l’aveva medicata, di come l’aveva raccolta da terra per portarla via. Ricordava la risolutezza nei suoi gesti, in quegli occhi tanto chiari, le ciocche di capelli scure che ricadevano scomposte sul suo volto. Fra le sue braccia si era sentita al sicuro e le ultime parole che lui le aveva mormorato le avevano dato speranza.

Forse era per quello che, appena risvegliata, era piuttosto certa di essere ancora viva e in un posto sicuro. Nel modo in cui Bucky si era preso cura di lei, Anisa aveva sentito che sarebbe andato tutto bene.

La donna sorrise leggermente fra sé, sentendo finalmente tornare un po’ di sensibilità fin nelle punte del proprio corpo. Era sicura che Bucky fosse cosciente e vigile, anche se si sarebbe detto il contrario.

«Ciao» disse infine, la voce roca e il tono più basso di quanto avesse pensato.

Non si era sbagliata. Il Soldato aprì subito gli occhi, puntandoli su di lei. Appoggiò i gomiti ai braccioli della sedia in cui si trovava senza dire nulla.

La donna gli sorrise, senza replicare. I silenzi di Bucky erano quasi snervanti, ma lei era certa di capire a cosa fossero dovuti. All’uomo servivano tempo, sicurezza e nuova speranza per riuscire a trasformare quei silenzi in parole e tutto ciò richiedeva tempo. Anche lei ci era passata anni prima e fu strano rendersi conto di non aver tenuto nei confronti di una persona in quella situazione, il comportamento che lei, in quegli anni, aveva desiderato che le venisse riservato.

Anisa tornò a rivolgere gli occhi al soffitto. «Grazie. Devo a te la mia presenza qui.»

«Come puoi esserne certa?» domandò Bucky, lentamente.

La donna si lasciò sfuggire una leggera risata, uno sbuffo fra le labbra. «Sei l’ultima cosa che ho visto prima di perdere i sensi. Direi che è proprio te che devo ringraziare.»

«Dovevo farlo» si limitò a replicare l’uomo, distogliendo lo sguardo proprio mentre Anisa tornava a posare il suo su di lui. Rimasero in silenzio ancora un po’, finché la donna non prese nuovamente parola: «Perché hai deciso di aiutarci? È solo per via della cura che ha trovato T'Challa?»

Aveva posto la domanda a bruciapelo e ne era consapevole. Tuttavia, dopo quello che aveva scoperto durante la riabilitazione di Bucky e dopo che lui aveva accettato di aiutare T'Challa nella sua personale lotta contro Klaw, quella domanda aveva cominciato a perseguitarla. Sapeva che non avrebbe ottenuto una risposta, a meno di chiedere al diretto interessato.

Il Soldato fissò a lungo Anisa, che non cedette per un solo attimo. Lui guardò attentamente i suoi occhi nocciola, lucidi per il troppo riposo, sentendola vicino a sé. Aveva capito di potersi fidare di lei e di T'Challa, di avere trovato qualcun altro, dopo Steve, con cui poter evitare di guardarsi perennemente le spalle. Per pochi istanti aveva dubitato delle sue ultime scelte, ma il breve e sincero ringraziamento che poco prima Anisa gli aveva rivolto era stato sufficiente per confermargli che la sua decisione era giusta.

Respirò a fondo, in cerca delle parole che, da quando James Buchanan Barnes era stato inghiottito dal gelo settant’anni prima, faticava sempre a trovare.

«Dopo che mi avete aiutato a guarire non potevo farmi congelare di nuovo. Farlo, dopo essere stato liberato dal controllo dell’HYDRA, sarebbe stato come scappare.»

Fece una pausa. «Ho pensato a quello che avrei potuto fare e mi sono tornate alla mente tutte le cose che mi aveva raccontato Steve. Ho capito che per la prima volta potevo mettere le mie capacità al servizio degli altri, che potevo usare le mie doti per fare finalmente del bene. È per questo che ho accettato. Volevo cominciare subito e T'Challa mi è sembrato avesse bisogno di aiuto. Ora so che ho fatto la scelta giusta.»

Anisa sorrise dolcemente, ripensando alle parole appena pronunciate dall’uomo. Ciò contro cui stavano combattendo era qualcosa – o meglio, qualcuno – contro cui le sole forze wakandiane non avrebbero potuto nulla. Dopo due scontri frontali con Klaw anche lei, a malincuore, aveva ammesso a se stessa quella sconsolante realtà. Era chiaro che l’aiuto che il Soldato aveva deciso di dar loro era stato provvidenziale.

Tuttavia bisognava ricominciare da capo ancora una volta. Era necessario trovare il nuovo nascondiglio di Klaw, prepararsi al meglio per affrontare lui e i suoi uomini, sempre che fossero sopravvissuti la notte precedente.

Fu in quel momento che si accorse di non avere informazioni sull’esito dell’attacco di quella notte – a parte il suo ferimento – e, testarda com’era, decise di andare da T'Challa a chiederglielo di persona.

Lanciò un’occhiata all’asta portaflebo immobile accanto al letto, la sacca in plastica vuota, mollemente abbandonata. Probabilmente si trattava di antidolorifici, somministrati per permetterle di riposare dopo essere stata medicata.

«Cosa c’era lì dentro?» chiese conferma a Bucky, fissando ancora la flebo esaurita.

Il Soldato non parve sorpreso per la domanda. «Analgesico.»

«Dubito ci sia scritto proprio così» replicò la donna, sarcastica.

Nuovamente Bucky non si scompose. «Trometamina» precisò.

«D’accordo.»

Detto ciò Anisa si puntellò con i gomiti sul letto, facendo scivolare le lenzuola all’altezza dell’addome. Non sentì dolore in corrispondenza della sua ferita, ma, probabilmente a causa dell’antidolorifico e del troppo riposo, il corpo non era abbastanza reattivo. Faceva fatica a mettersi seduta, la banale operazione le richiese dello sforzo anche per fallire totalmente.

Bucky la guardò, leggermente incuriosito, sforzandosi di capire perché quella donna non avesse voglia di fare l’unica cosa che, nel suo stato, avrebbe dovuto fare: stare ferma e riposarsi. Tuttavia Anisa provo a sedersi sul letto ancora una volta. Lui reagì istintivamente e si sporse avanti per aiutarla, ma si fermò subito. La donna notò il suo gesto.

«Oh, non preoccuparti, ce la faccio» disse.

Bucky si ricompose.

«Il sarcasmo non fa per te, vero?» aggiunse poi lei, ricadendo nuovamente sul cuscino.

L’uomo capì, si alzò dalla sedia, mormorando una rapida scusa, dopo di che aiutò Anisa. La sollevò leggermente, aiutandola a sedersi per bene, i cuscini disposti dietro la schiena. Quando si fu sistemata, lei gli sorrise, ringraziandolo. Bucky indietreggiò di un passo e rimase a guardare la donna che, come se fosse stata sola, sollevò la maglia dell’abito ospedaliero che indossava fino al punto in cui era stata colpita. C’era una garza con cerotto che la donna non esitò a sollevare, mostrando la pelle sotto di essa. Anche il Soldato rimase a guardare quei centimetri di pelle dorata, gonfia e arrossata per via di un segno verticale marcato, interrotto da quattro punti di sutura equidistanti fra loro. Anisa fece scorrere su quei punti il proprio indice, percependo il dislivello fra la carne sana e quella medicata.

«Non dovresti toccarla» la informò Bucky, ancora intento a osservarla.

Lei parve non ascoltare la sua affermazione. «Ne hai molte di queste?» gli chiese, senza guardarlo.

«Qualcuna» rispose lui, contandole mentalmente.

La donna tornò a sistemare sulla ferita la garza, facendo aderire il cerotto meglio che poté, infine abbassò la maglia. Si sporse sul bordo del letto, faticando un po’, gli occhi fissi sulle scarpe di Bucky, ancora in piedi accanto a lei.

Si sentiva strana; ancora non le sembrava vero che le avessero sparato. Eppure quella sua ferita era reale, l’aveva appena toccata e non poteva certo fingere che non fosse vera. Se quei pensieri potevano attraversare la sua mente in quel momento lo doveva solo al Soldato d’Inverno che, ora, le pareva strano chiamarlo ancora così. Quell’uomo le aveva salvato la vita e, quel gesto, non poteva che significare tutto per lei.

«Come va il braccio?» domandò poi, senza apparente motivo.

Bucky la fissò incuriosito, senza capire il perché di quel quesito. Guardò rapidamente il braccio in vibranio, muovendo istintivamente le dita, dopodiché Anisa riprese a parlare: «Non sono stata molto gentile con te finora. Avrei dovuto comportarmi decisamente meglio e mi dispiace. Eppure tu non hai esitato a salvarmi la vita.»

«Dovevo farlo» replicò lui, senza cambiare di una sola virgola l’identica risposta che aveva dato alla donna la prima volta in cui aveva tirato in ballo l’argomento.

Si guardarono per un lungo momento. C’era una forte intensità negli occhi grigio-azzurri del Soldato, un insieme di sentimenti vari, ammassati, contrastanti, che Anisa non riuscì decifrare. Si limitò a sorridere, sforzando poi il suo corpo ad alzarsi in piedi.

Bucky intuì subito quello che la donna era in procinto di fare e volle impedirglielo. Posò il braccio sinistro sulla spalla di lei, con ferma delicatezza.

Anisa si bloccò. Puntò prima lo sguardo sulla mano di Bucky, facendolo scorrere lungo tutta la superficie metallica del braccio, infine tornò a incrociare i suoi occhi. In quel brevissimo attimo il suo cuore ebbe un fremito e lei si arrestò completamente.

«Non puoi andare da T'Challa, ora. Hai bisogno di riposare ancora» le disse lui, il tono risoluto non ammetteva repliche. Anisa, infatti, non fu in grado di replicare. Ancora catturata dai suoi occhi chiari annuì con la testa e, ubbidiente, tornò a sdraiarsi sul letto, sotto lo sguardo vigile del Soldato.

 

*

 

La porta dell’ufficio di T'Challa non le era mai mancata così tanto. Anisa sfiorò leggermente il legno laccato di nero, prima di posare la mano sulla maniglia.

Era uscita dalla sua stanza in infermeria quella mattina, dopo due interi giorni trascorsi là dentro. Dopo il suo risveglio Bucky non si era più fatto vedere, ma T'Challa l’aveva visitata spesso, esprimendole il desiderio di essere raggiunto nel suo ufficio non appena fosse stata dimessa. Non le aveva raccontato nulla di tutto ciò che era seguito al loro allontanamento dal deposito interrato – dopo il suo ferimento – se non che, con tutta probabilità, Sule era morto.

Bussò alla porta, rimanendo in attesa. Sentì subito T'Challa che invitava a entrare e, lentamente, superò la soglia.

Il sovrano non era solo. Seduto alla scrivania, di fronte a lui, Bucky si voltò appena per vedere chi avesse fatto il suo ingresso. Come T'Challa vide Anisa si alzò in piedi, andandole incontro. L’abbracciò, stringendola a sé mentre sussurrava un veloce saluto wakandiano, parole di gioia e di ringraziamento. La donna si distese in quell’abbraccio, inspirando a fondo il profumo dell’uomo, un misto di pulito, caffè e vaniglia. Quando si separarono Anisa si sistemò istintivamente il lungo abito tipico di quelle terre, di stoffa naturale, leggera e non aderente, così che non andasse a tirare in corrispondenza dei punti di sutura non più coperti dalla garza.

Il sovrano invitò la donna a sedersi, ma lei preferì rimanere in piedi.

«Come ti senti?» le chiese T'Challa, tornando al suo posto.

«Decisamente meglio.»

L’uomo annuì, sorridendo. «Stavo parlando con James riguardo alle ultime supposizioni che ho formulato sugli uomini di Klaw» riprese poi, serio. «Vorrei rendertene partecipe.»

«Sono qui anche per questo.»

«Non so dove sia fuggito Klaw, ma ho già avviato delle ricerche. Un paio di giorni fa il Presidente del Kenya mi ha contattato per dirmi che, nella sua terra, sono accadute alcune cose strane, delle aggressioni.»

Sfogliò un paio di pagine con fare distratto, tornando a puntare lo sguardo su Anisa. «Sai già cosa sospetto, ma finché non ottengo qualche riscontro non c’è molto che possa fare.»

«Lo capisco.»

«Per quanto riguarda i due uomini di Klaw, quello che ti ha sparato dovrebbe essere morto, ma l’altro…»

Lasciò cadere la frase, estraendo da uno dei cassetti della sua scrivania un accendino. Anisa lo guardò, senza capire, sentendo su di sé gli occhi di entrambi gli uomini.

«Ho preso questo accendino quella notte, dall’altro complice, dopo che lo avevo atterrato. James mi aveva raggiunto dopo che ti avevano ferita e ti abbiamo subito portata qui. Sapevo che quell’uomo si sarebbe ripreso, prima o poi, ma speravo che sottrargli questo accendino potesse bastare a renderlo meno pericoloso. Credevo fosse questo l’origine del suo potere, di quelle fiamme irreali che sa produrre. Pensavo si trattasse di un’arma sperimentale, esattamente come la pistola con cui Sule ti ha colpito.»

Nel tono di voce di T'Challa c’era una sfumatura, piuttosto evidente, in grado di far capire alla donna che le cose non erano andate per il verso giusto.

«E invece?» lo incalzò, curiosa.

T'Challa abbassò lo sguardo sull’oggetto di quelle attenzioni. «È un comune accendino, come ce ne sono tanti. Due giorni di analisi per capire che questo non è altro che un normalissimo accendino.»

La sua voce si era caricata di irritazione sul finire della frase, mentre Anisa era semplicemente incredula. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile una cosa del genere. Lei l’aveva visto quell’uomo; fiammate simili non potevano essere provocate da un accendino normale.

«Non ha senso» disse infine.

T'Challa annuì leggermente. «Con James siamo arrivati alla conclusione che si possa trattare di uomini dalle capacità superiori, non sarebbe la prima volta.»

La donna non ebbe il tempo di stupirsi o trovarsi d’accordo con quelle parole. Improvvisamente, con calcolato automatismo, le veneziane delle grandi finestre si chiusero, facendo sprofondare nell’ombra l’ufficio di T'Challa.

Il sovrano, che come la donna conosceva quella procedura, si alzò dalla sua sedia, gli occhi improvvisamente brillanti. Bucky non capì cosa stava accadendo, ma puntò lo sguardo sulla parete alla sua destra, esattamente il punto in cui gli altri due stavano osservando. Con sua sorpresa, lì, l’ologramma di un uomo comparve fra due fasci di luci incrociati, lo sguardo astuto perfettamente decifrabile.

L’ologramma di Edet parlò con voce chiara, comunicando il messaggio che aveva registrato tempo prima: «Mio signore, sono riuscito a rintracciare Captain America. Stiamo rientrando in Wakanda.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3569301