Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
AbasiNdomba
era sempre stato un uomo tranquillo e profondamente soddisfatto del proprio
lavoro. Per quanto a molti sarebbe potuto apparire monotono e noioso, certo non
lo era per Abasi il quale si era sempre trovato a suo
agio nell’ufficetto piccolo che aveva arredato a suo piacimento, in cui
trascorreva ore della sua giornata a far scorrere gli occhi sui video dei
monitor di sicurezza. Il deposito di munizioni di Omorate,
uno dei più piccoli e relegati all’inizio della giungla che rivestiva il fiume
Omo, proprio ai confini del Wakanda, era un posto tutto sommato tranquillo, in
cui non era mai accaduto nulla di pericoloso o di inatteso. Le munizioni
stoccate dalle case produttrici arrivavano in quel deposito una volta a
settimana e nei sette giorni successivi venivano smistate in più casse e
spedite nelle terre che le acquistavano. Tutto ciò avveniva sotto gli occhi
vigili di Abasi che osservava la scena seduto alla
sua scrivania, sui monitor 7, 8 e 9 che da sempre erano quelli collegati alla
sala di smistamento. Parte di quelle munizioni erano riservate al regno del
Wakanda, da cui provenivano venti dei cinquanta dipendenti di quel deposito e
che, inoltre, si occupava della sorveglianza della zona.
Abasi era certo di essere di fronte
a un’altra conclusione di giornata perfettamente normale. Erano quasi le dieci
di sera e il suo turno era in procinto di concludersi. A breve avrebbe visto Salehe che gli avrebbe dato il cambio, e sarebbe tornato al
suo alloggio per concedersi una cena e poi
per immergersi nella lettura dell’ultimo romanzo da poco iniziato.
Fu
mentre accarezzava quest’ultima prospettiva che qualcosa attirò la sua
attenzione. Su uno dei monitor macchie scure e confuse cominciarono a comparire
dal fitto della foresta; i volti coperti da passamontagna neri e grossi fucili
stretti in mano. Abasi capì immediatamente quanto
pericolo c’era in ciò che aveva appena visto. Senza pensarci due volte premette
il pulsante rosso che aveva sopra la scrivania e la sirena d’emergenza si
azionò, mettendo in allerta gli uomini della sicurezza del deposito. Tornò a
controllare sul monitor e si accorse che gli uomini armati continuavano a
uscire dalle fronde: dovevano essere almeno una ventina.
Un
silenzio di ghiaccio anticipò il primo sparo. Abasi riuscì
a sentirlo distintamente anche al secondo piano del deposito. Subito dopo altri
spari seguirono il primo, divenendo sempre più numerosi e sovrapposti. Dagli
schermi vide gli uomini con il passamontagna sparare ancora verso chi tentava
di intervenire. Uno di loro estrasse una granata dalla cintura e la lanciò
senza indugio verso l’ampio portone di lamiera. La deflagrazione fece tremare
le pareti della struttura e fu seguita da altri spari e grida quando il gruppo
di uomini fece irruzione con forza nella vasta sala del deposito, in cui la
maggior parte degli operai tentava invano di mettersi al riparo dai detriti che
ancora schizzavano come proiettili dopo l’esplosione. Abasi
continuò a seguire terrorizzato ogni azione di quella notte che si era
stravolta in pochi minuti, come se dai monitor stesse assistendo alla
proiezione di un film terribilmente realistico. Era impietrito, spaventato come
non si era mai sentito prima d’allora. Il suo cervello fu solamente in grado di
dirgli di alzarsi e chiudere la porta dell’ufficio a chiave. Tornò a rivolgere
gli occhi al monitor, sentendosi via via sempre più impietrito dalle scene che
continuavano ad animare gli schermi. Gli addetti alla sicurezza si scontravano
con le figure dal passamontagna; sparavano loro o si sfidavano in un corpo a
corpo, ma non riuscivano ad avere la meglio. Uno dopo l’altro quelli che Abasi conosceva venivano uccisi tutti, fra grida di dolore,
colpi di pistola e schizzi di sangue che imbrattavano i pavimenti.
Come
risvegliato da un improvviso torpore Abasi si mosse
rapido verso il telefono. Aveva l’orrore negli occhi e le grida dei suoi
colleghi riecheggiavano nelle sue orecchie. Tentò di digitare il numero di
telefono della polizia, ma le mani gli tremavano a tal punto da far fallire il
primo tentativo. Tuttavia, quando tentò di digitare nuovamente la sequenza
corretta, la serratura alle sue spalle scattò. In preda al panico si voltò
verso l’ingresso, dove la porta si stava aprendo lentamente, mostrando dietro
di essa due figure. Entrambe erano vestite di nero e indossavano anfibi sudici
di fango e giubbotti antiproiettile. Solo uno dei due portava il passamontagna.
Abasi riuscì a vedere il volto dell’uomo più vicino a
lui, dai capelli brizzolati e scarmigliati, rasati ai lati, la barba di chi ha
vissuto la giungla a lungo, il collo travisato da una cicatrice e occhi
impenetrabili. Tuttavia fu il sorriso che aveva a far impietrire Abasi rendendolo incapace di reagire; nel sorriso di
quell’uomo c’era una follia perversa, una distorsione allucinante in grado di far
gelare il sangue.
L’uomo
guardò negli occhi Abasi e il suo ghigno parve
arricchirsi di ulteriore follia. «Mi dispiace dovertelo dire, amico. Temo che
tu abbia visto troppo.»
Le
parole che l’uomo pronunciò fecero subito capire ad Abasi
che era segnato. Aspettò con sorprendente consapevolezza la pallottola che lo
avrebbe ucciso, ma questa non arrivò mai.
Ancora
sulla soglia, l’uomo con il passamontagna diede le spalle alla scena e si
allontanò mentre l’altro, fattosi improvvisamente serio, sollevò la mano
destra. Ad Abasi parve che l’arto avesse un colore
innaturale, anche se non riuscì ad accertarsene in tempo. Un dolore come non ne
aveva mai provato prima lo aggredì. Si sentì schiacciare da qualcosa che non
era in grado di vedere ma che sentiva premere con ferocia contro il suo corpo.
Non gli riuscì di gridare, né di pensare a un ultimo ricordo. Con la stessa
rapidità con cui il dolore era arrivato se ne andò e Abasi
non fu più in grado di provare nulla.
*
“… il comandante delle forze di
polizia di Omorate non esclude alcuna pista. Le
munizioni rubate all’interno del deposito erano pronte per essere stoccate
negli stati che ne avevano fatto domanda. Con molta probabilità, secondo gli
inquirenti, si sarebbe trattato di un attacco e di un furto su commissione, a
opera di mercenari o possibili terroristi. Rimaniamo in collegamento…”
Il
televisore continuava a proporre nuovi aggiornamenti riguardo l’attacco al
deposito di Omorate della sera prima, mentre la luce
del mattino entrava con forza dalle ampie finestre dell’ufficio personale del
sovrano del Regno di Wakanda, annebbiando le immagini dello schermo tv.
T'Challa sedeva alla scrivania, gli occhi che scorrevano sulle pagine di
numerosi giornali e di altrettanti impegni annotati a penna su taccuini e agende.
Sollevò lo sguardo solo quando sentì la porta aprirsi e il rumore di tacchi
introdurre nella stanza la sua assistente. Quest’ultima raggiunse la scrivania,
vi girò intorno e posò con leggerezza il caffè mattutino del sovrano – una
miscela dei migliori caffè d’Africa da lui personalmente ideata; in quel gesto
i lunghi capelli castani di lei scivolarono dalle sue spalle, per poi posarvisi
nuovamente, ondulati e leggeri. La sua pelle bianca, europea, meravigliosamente
dorata dal sole africano la faceva sembrare perennemente fuori luogo in
Wakanda, se non fosse per l’incredibile sicurezza e la grazia con cui sembrava
veleggiare fra i corridoi del palazzo e che lasciavano perfettamente intuire
che, quella, era casa sua.
«Che
cosa ne pensi Anisa?» domandò T'Challa, indicando con un rapido cenno il
televisore, dove ancora il deposito di Omorate
riempiva l’inquadratura. La donna non replicò e il sovrano riprese a parlare:
«Cinquantadue dipendenti, tutti uccisi. Venti di loro erano wakandiani.»
T'Challa
spense la tv, afferrò il suo caffè e andò alla finestra a osservare il cielo
terso che sovrastava la capitale del suo regno, già viva di prima mattina.
«E
non solo» riprese poi a dire. «Tre dei maggiori esperti al mondo di vibranio
sono spariti e quattro giorni fa uno di loro è stato trovato morto sulle coste
del lago Turkana. Una morte inspiegabile, la sua; aveva gli organi spappolati
ma nessun segno di aggressione.»
Anisa
rabbrividì appena all’idea. Aveva già letto del ritrovamento di quell’uomo sui
giornali e anche allora la modalità della sua morte le avevano fatto
impressione.
«Credi
che ci siano dei collegamenti fra tutte queste cose?» chiese poi al sovrano.
T'Challa
si voltò per vederla meglio in viso. I suoi occhi scuri puntarono decisi in
quelli nocciola della donna che non si scompose, ma rimase immobile, le mani
intrecciate in grembo, in attesa di una risposta.
«Sì,
io penso che le cose siano collegate. Altrimenti non si può spiegare la
scomparsa di tre uomini così simili fra loro per le conoscenze che possiedono e
il furto di munizioni a sufficienza per rifornire un esercito. Le possibilità
che queste cose non abbiano un nesso fra loro sono misere e le renderebbero
coincidenze impensabili.»
Anisa
rimase a guardare T'Challa mentre quest’ultimo sorseggiava un po’ del suo
caffè; la pelle scura del sovrano era illuminata dalla luce che proveniva alle
sue spalle e i contrasti che essa creava rendevano i lineamenti dell’uomo
ancora più fieri e carismatici.
Lei
aveva sempre nutrito profondo rispetto per T'Challa, fin da quando ne aveva
memoria. A soli tredici anni, per via di alcuni stravolgimenti che le avevano
compromesso un futuro sereno, Anisa aveva incontrato T’Chaka,
l’allora sovrano del Regno di Wakanda, il quale aveva deciso di portarla con sé
a palazzo e fare di lei la proprio figlia adottiva. Anisa e T'Challa erano
cresciuti insieme, sigillando fra loro un legame di amicizia più forte e
intenso di quello che caratterizzava i restanti figli del re. Quando T'Challa
fu nominato sovrano, in seguito alla drammatica dipartita del padre, aveva
espresso il desiderio di avere Anisa accanto e l’avevano nominata sua personale
assistente. Mai si era pentito di quella scelta e mai la donna gliene aveva
dato motivo.
T'Challa
inspirò l’aroma della bevanda che stava sorseggiando e tornò a sedersi alla sua
scrivania, sempre sotto lo sguardo di Anisa, che attese le successive parole
del sovrano. Quest’ultimo spostò alcune carte del piano, scoprendo sotto di
esse un’accurata cartina geografica delle zone limitrofe al Wakanda. Su di essa
vi erano segni eseguiti con inchiostro rosso: cinque grandi X.
T'Challa
alzò lo sguardo sulla donna, indicando con l’indice il primo dei cinque segni.
«Kakuma. Un mese fa un piccolo villaggio ai confini della
città è stato attaccato. Non hanno trovato alcun superstite, ma nemmeno un
cadavere.»
Poi
puntò in sequenza tre delle cinque croci, che salivano verso Omorate, come se fosse un percorso prestabilito. «Due
aggressioni ad altrettante guardie, i cui corpi sono stati trovati pieni di
ferite sospette e inspiegabili» disse, prima di soffermarsi sul terzo segno,
quello in corrispondenza del lago Turkana. «Qui hanno ritrovato il cadavere di
uno dei tre scienziati, quello di cui ti parlavo prima.»
Anisa
annuì e T'Challa indicò l’ultima X rossa. «E infine il deposito di Omorate, ieri sera. Mi rifiuto di credere che siano
coincidenze, che nessuna morte c’entri con la precedente.»
Sospirò,
amareggiato da quanto aveva appena detto. «Inoltre se provi a seguire la scia…»
Lasciò
la frase in sospeso, in attesa che a completarla fosse l’assistente. Lei
dedusse immediatamente ciò che lui non aveva detto. «Pare quasi siano diretti
qui» mormorò infine Anisa, sorpresa. Alzò lo sguardo su T'Challa e vide i
profondi occhi scuri dell’uomo intenti a osservarla.
«È
ciò che temo. Sospetto fortemente che presto possa succedere qualcosa anche da
noi. E voglio evitarlo.»
Il
sovrano parlò con voce ferma e sicura, senza interrompere il contatto visivo.
Subito dopo, però, controllò l’orario sull’orologio che teneva al polso.
«Come
pensi di fare?» domandò Anisa, ma non attese risposta; così come conosceva
T'Challa conosceva anche i suoi modi di lavorare e tutte le tecnologie che
aveva a disposizione. «Hai mandato delle Sentinelle?»
Le
Sentinelle erano droni da terra, in grado di raccogliere informazioni di
qualsiasi natura, fare riprese audio e video e registrare la presenza di forme
di vita. Piccoli e veloci, lo scheletro in vibranio li rendeva pressoché
indistruttibili.
T'Challa
annuì alla domanda della donna, un sorriso compiaciuto a solcare il suo viso. Anisa
non lo deludeva mai e la sua capacità di ragionare in fretta veniva a galla
anche nelle piccole cose.
«I
risultati dei loro rilevamenti dovrebbero arrivarmi a breve.»
L’uomo
fece a malapena in tempo a finire la frase che qualcuno bussò alla porta.
T'Challa diede l’autorizzazione a entrare e un giovane varcò la soglia della
porta. Salutò i presenti nell’ufficio, portò il plico di carte stampate che
teneva in mano fino alla scrivania e uscì con lo stesso passo con cui era
entrato.
«Puntuali
come sempre» sentenziò il sovrano.
Anisa
guardò le carte. «Sono questi?» domandò, riferendosi ai rilevamenti delle
Sentinelle.
T'Challa
le rispose facendo segno di sì con la testa. Desiderava informare la propria
assistente di come erano andate le cose, perciò subito dopo disse: «Ho saputo
del furto al deposito questa notte, un paio d’ore dopo che esso era avvenuto.
Quando ho visto che si trattava di Omorate ho pensato
che fosse meglio indagare e ho mandato sei Sentinelle a fare rilevamenti nella
zona.»
Divise
accuratamente i fogli che aveva davanti in due pile identiche e, con un cenno
della mano, indicò ad Anisa una delle sedie poste di fronte a lui, dietro le
quali la donna si ostinava a stare ferma in piedi. Senza staccare gli occhi da
T'Challa lei si sedette e il sovrano considerò quel gesto come il giusto
pretesto per passare a lei uno dei due plichi di carte.
«Mi
aiuti ad analizzare i risultati?» le chiese.
Anisa
non replicò, ma afferrò il primo gruppo di fogli puntati insieme e cominciò a
studiare tutta la serie di numeri, lettere e grafici che aveva faticosamente
imparato a decifrare solo pochi mesi prima.
Quasi
mezz’ora di silenzio e lettura dopo nessuno dei due aveva trovato qualcosa di
cui insospettirsi nei dati che avevano letto fino a quel momento. Nelle aree
scansionate dalle Sentinelle non c’erano stati movimenti che potevano far
supporre alla presenza dell’uomo.
Anisa
era ormai stufa di leggere tutti quei numeri quando notò un picco in uno dei
grafici, in corrispondenza di una zona che, sulla carta, coincideva con una
riva del fiume Omo.
«T'Challa.»
Il
sovrano alzò in fretta il capo; anche lui era piuttosto annoiato dalla mancanza
di anomalie dei suoi dati. Si fece serio quando vide lo sguardo incerto
dell’assistente.
«Nell’area
G29 c’è un incremento elettrico» disse lei, allungando a T'Challa le carte in
questione. «Cosa c’è nel G29?» chiese poi, preoccupata.
Lui
spostò in fretta le carte che coprivano la cartina che prima avevano studiato
insieme e cercò il punto esatto; era proprio sulle sponde dell’Omo, nel folto
della giungla che inverdiva le sponde del fiume, poco sopra il confine nord del
Wakanda.
«Di
cosa pensi si possa trattare?» domandò Anisa.
T'Challa
capì dalla sua voce che anche lei trovava la cosa piuttosto sospetta. Fece
mente locale, cercando di ricordare tutto ciò che sapeva del territorio. Alla
fine ricordò: «Se non mi sbaglio c’è una centrale idroelettrica. Piccola e
abbandonata da anni.»
«Forse
non più così abbandonata.»
Il
sovrano si disse d’accordo. Si alzò in piedi e tornò alla finestra, prendendo a
giocare distrattamente con l’anello che portava all’anulare destro: uno spesso
anello nero bordato d’argento.
«Voglio
capire se è tutto in regola, oppure se in quella centrale c’è qualcosa che non
deve esserci.»
Anisa
controllò nuovamente la mappa appena T'Challa smise di parlare.
«Quella
zona è terra etiope. Se vuoi mandare laggiù degli uomini per verificare che sia
tutto in ordine dovrai chiedere il permesso al primo ministro etiope» gli fece
notare.
Il
sovrano non rispose subito; continuava a tormentare il proprio anello con le
dita, sovrappensiero. Qualunque cosa stesse succedendo nelle terre che
circondavano il suo regno, scoprirlo era suo compito. Le richieste politiche
non avrebbero portato risultati immediati e il rischio di sentire di altre
persone barbaramente uccise sarebbe aumentato mano a mano che lui avesse
permesso al tempo di trascorrere. Non ne aveva alcuna intenzione. Se qualcuno
stava minacciando la sua gente lui l’avrebbe scoperto, e in fretta.
Senza
smettere di guardare la città che viveva oltre le mura del suo palazzo,
T'Challa respirò a fondo.
«No»
disse e Anisa osservò la figura del proprio sovrano con maggiore intensità.
«Non
manderò alcun uomo a controllare. Questo è un lavoro per la Pantera.»
*
La
giungla era un terreno spaventoso e impervio per chiunque. Anche in pieno
giorno le fitte fronde, tenute insieme da liane, rami e tralci, risucchiavano
la luce, proiettando solo nero in grado di assorbire ogni cosa. Nella
profondità della foresta i suoni venivano attutiti; chi camminava sembrava
circondato da ovatta, eppure anche il più minimo rumore si riusciva a sentire,
solo che, in tal caso, o si era troppo vicini alla fonte, oppure era già troppo
tardi. Per uno nato e cresciuto attorno a quella giungla orientarvisi
all’interno era meno complicato e i suoni diventano più decifrabili e meno
spaventosi.
Per
Pantera Nera quegli alberi così uguali fra loro erano in realtà diversi e
ciascuno tracciava un sentiero che un uomo dotato delle stesse capacità della
Pantera era in grado di decifrare. T'Challa avanzava furtivo verso il cuore
sempre più nero e vivo della giungla, alla ricerca di quell’arteria, l’Omo,
sulle cui sponde avrebbe trovato ciò che cercava. Conosceva ogni verso e ogni
abitudine delle creature che abitavano quelle terre, così come sapeva in che
modo comportarsi per evitare di fare loro del male.
La
luna era sorta da diverse ore quando T'Challa sentì i primi e flebili rumori
della corrente del fiume Omo. Raggiunto l’argine la Pantera si guardò intorno e
diversi metri più avanti vide il tenue bagliore di luci elettriche. Capì di non
essersi sbagliato. L’edificio da cui proveniva la luce era la piccola centrale
idroelettrica di cui si ricordava; avrebbe dovuto essere abbandonata da tempo,
eppure non era così. T'Challa si avvicinò alla struttura, prestando sempre più
attenzione a non fare rumore mano a mano che proseguiva verso la centrale.
Quando si trovò nei suoi pressi si fermò e studiò l’area. C’era un uomo di
vedetta, fermo accanto alla porta che con tutta probabilità usavano per entrare
e uscire; portava un passamontagna nero calato sul volto e un mitra stretto fra
entrambe le mani. Pantera Nera continuò a osservare l’edificio fino a notare
ciò che cercava: una via d’accesso. Le finestre poste poco al di sotto del
tetto erano per lo più rotte o frammentate e la grondaia che dalla copertura
scendevano fino a terra era la scala perfetta per raggiungerle. Ignorò
completamente l’uomo di guardia e, silenzioso come il felino di cui portava il
nome, si accertò non vi fossero altre persone e raggiunse il tubo pluviale. Vi
si arrampicò con rapidità e agilità, arrivando fio alle finestre mancanti.
Diede una rapida occhiata all’interno e ringraziò di vedere le sue speranze
concretizzarsi; sotto le finestrec’erano grossi condotti d’acciaio – il sistema di ventilazione – spessi
e certamente resistenti, perfetti per permettergli di camminarvi sopra entrando
così all’interno dell’edificio. Vi salì e guardò sotto di sé. La stanza era
ampia, sgomberata quasi totalmente, fatta eccezione per le grosse turbine
fissate al suolo che ancora troneggiavano in buona parte dello spazio; a un
lato erano stati accatastati resti di lamiera, casse vuote, taniche di svariate
dimensioni. Vicino al centro della sala una decina di grandi casse era
sorvegliata da svariati uomini intenti a conversare fra loro convinti di essere
al sicuro. Appena li vide, Pantera Nera si accucciò per evitare di correre il
rischio di essere notato. Quasi subito nuove voci introdussero nella stanza
altre sei persone. Quello che guidava il gruppo prese a parlare, il tono
infastidito, indicando le grosse casse.
T'Challa
sentì la rabbia montare dentro di sé quando riconobbe quell’uomo. I capelli
brizzolati, la barba mal tenuta e quella cicatrice sul collo non potevano che
dargli ragione. Era il bracconiere, lo sfruttatore che per anni aveva depredato
le terre del suo Regno e che era sempre riuscito a farla franca: Ulysses Klaw.
Senza
staccargli gli occhi di dosso T'Challa si costrinse a mantenere la calma e a
continuare a studiare la scena. Klaw stava dicendo qualcosa ai suoi uomini,
indicando insistentemente le casse che aveva davanti. Per colpa del vuoto che
riempiva gran parte dell’edificio la sua voce rimbombava fra tetto e pareti,
rendendo le parole difficili da decifrare. La Pantera cercò di concentrare
l’attenzione sulle casse, tentando di carpire qualche informazione da qualcuna
delle indicazioni riportate su di esse. Un timbro nero sbiadito, come se
avessero tentato di cancellarlo, riportava la parola “Kelem”
e T'Challa capì tutto. Dato che la città di Omorate
era anche conosciuta come Kelem, quelle casse non
potevano che essere le munizioni rubate dal deposito di Omorate.
Fu
semplice collegare le cose. Ulysses Klaw non godeva certo di buona fama in
quelle terre e i metodi spietati per ottenere ciò che voleva non erano né rari
ne tantomeno nuovi quando si aveva a che fare con lui. Inoltre l’assoluta
fissazione dell’uomo per il vibranio era nota al sovrano del Wakanda e ciò
avrebbe anche potuto spiegare la scomparsa dei tre esperti del raro metallo.
Quasi
certo di aver trovato i colpevoli che stava cercando, Pantera Nera soppesò
l’ipotesi di attaccarli subito in quella vecchia centrale; in fin dei conti
erano si e no una quindicina di persone e anche se erano armati di fucili e
pistole la sua tuta con fibre di vibranio avrebbe resistito perfettamente.
Tuttavia qualcosa attirò la sua attenzione: un veloce gesto nell’ombra, poi
nuovamente buio. T'Challa focalizzò la sua attenzione in quel punto e vide due
figure che prima non aveva notato. Entrambe erano massicce, la pelle scura dei
popoli del Kenya, le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi su Klaw.
Non indossavano giubbotti antiproiettile come gli altri, ma tute mimetiche
identiche a quelle di Klaw. La Pantera rimase a fissarli a lungo e la sua
intenzione di agire all’istante fu fermata dal suo istinto. Qualcosa in lui gli
diceva di non sottovalutare quegli uomini, che qualcosa in ciascuno di loro li
rendeva forti come tutti gli altri presenti nella sala. L’istinto di T'Challa
si era sbagliato una volta soltanto e in quella occasione la rabbia lo aveva completamente
accecato. Ora che conosceva il nascondiglio di Klaw e dei suoi uomini sapeva
dove trovarli e sarebbe tornato presto, così da fermarli prima che potessero
diventare ancora più pericolosi. Tuttavia quella notte decise di dare ascolto
al suo istintoe silenzioso, così come
era entrato, scivolò fuori dalla centrale e si immerse nella notte.
__________________________________
Come
si usa dire: sono nuova nel fandom.
Sono
appassionata del MCU ed è proprio da questo che ho preso
spunti/ispirazioni/riferimenti per scrivere questa storia. Va anche detto,
però, che alcuni dettagli li traggo anche dal mondo dei fumetti, perché mi
piace arricchire di particolari e cercare di tenere ben salde fra loro le cose
anche quando i film – per un motivo o per l’altro – non affrontano determinati
argomenti o legami (vedi quello T'Challa – Klaw, che nei film non viene
menzionato ma nei fumetti esiste da sempre).
Comunque
mano a mano che la storia prosegue cercherò di spiegare le cose meglio che
posso, tentando di evitare possibili spoiler.
Infine,
perché una storia su T'Challa. Principalmente perché amo il suo personaggio e poi
perché finalmente grazie anche al MCU l’ho potuto vedere al cinema. So che in Civil War si rende abbastanza
antipatico, ma il T'Challa di cui vado pazza io è quello dei fumetti che
confido “esca” in tutta la sua fiera meraviglia nel film dedicato a lui che già
non vedo l’ora di vedere.
A
ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Non avendo mai
scritto nulla del genere ci sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto.
Anisa camminò più in fretta del solito lungo il
corridoio che l’avrebbe condotta nell’ufficio di T'Challa. La tazza di caffè
che teneva in mano, da cui l’aroma saliva invitante e avvolgente, oscillava
così violentemente che ogni due passi minacciava di far cadere sul pavimento
buona parte del suo contenuto. La donna era adirata con il sovrano e niente,
nel suo atteggiamento, poteva lasciare trasparire il contrario.
La notte prima Anisa aveva impiegato ore a
prendere sonno e c’era riuscita solo perché era consapevole che T'Challa
l’avrebbe informata del suo rientro. Lei voleva andare con lui a ispezionare la
centrale idroelettrica in cui le Sentinelle avevano rilevato delle presenze, ma
T'Challa non glielo aveva permesso. L’aveva convinta a rimanere al palazzo e le
aveva detto che l’avrebbe svegliata non appena avesse fatto ritorno. Tuttavia
quella stessa mattina Anisa si era svegliata al suono della sveglia come sempre
e quando aveva realizzato che la Pantera era tornata a palazzo senza dirle
alcunché, il nervosismo aveva preso il sopravvento.
Aprì la porta dell’ufficio con uno scatto, senza
bussare nemmeno; la tazza che teneva in mano concretizzò le sue minacce e
rovesciò alcune gocce di caffè sull’immacolata porta nera. Anisa trovò T'Challa
in piedi, le mani dietro alla schiena, di fronte a quello che riconobbe come
l’ologramma del primo ministro etiope. Il sovrano si voltò a guardarla un
momento, dopodiché tornò a rivolgersi all’immagine dell’uomo: «Sa che parlerei
ancora molto volentieri con lei, primo ministro» disse, sorridendo. «Tuttavia
la mia assistente mi ha sta ricordando che ho diverse faccende da sbrigare.»
«Non voglio farle perdere altro tempo, allora.
Mi informi subito se dovesse avere bisogno di qualsiasi cosa.»
«Senz’altro. Le auguro buona giornata.»
Il primo ministro fece altrettanto e la chiamata
venne chiusa, facendo scomparire l’ologramma dalla stanza. T'Challa si rivolse
verso Anisa, ancora immobile sulla soglia, l’espressione di chi non stava
capendo esattamente cosa accadeva. Il sovrano le fece un cenno, indicando alla donna,
in una mossa sola, di entrare e sedersi. Lei eseguì; si chiuse la porta alle
spalle e andò a sistemarsi davanti alla scrivania, guardando T'Challa in modo
confuso.
«Puoi bere tu quel caffè. Ne ho già presi due questa
mattina.»
Anisa abbassò lo sguardo sulla tazza che ancora
teneva in mano, sempre più confusa.
«Mi dispiace, mi sono dimenticato di dirti che
non lo avrei preso» proseguì il sovrano.
«Ti sei dimenticato di dirmi un sacco di cose!»
esplose la donna, appoggiando la tazza sulla scrivania con tale forza che molte
gocce di caffè volarono sul suo piano, fortunatamente sgombro di carte. «Perché
non mi hai detto nulla quando sei rientrato questa notte?»
Non riuscì a trattenersi. Aveva sperato e,
soprattutto, confidato che una volta tornato a palazzo Pantera Nera le avrebbe
subito detto ciò che aveva scoperto, anche se si fosse trattato di cose di poco
conto. Dopotutto Anisa era per T'Challa molto più di una semplice assistente;
tuttofare per il sovrano del Regno di Wakanda, combattente al fianco della
Pantera.
T'Challa le sorrise, dolcemente. «Hai ragione.
Ti chiedo scusa.»
Le poche parole parvero sufficienti a placare la
donna. Anisa si ricompose, sistemandosi sulla sedia.
«Hai trovato qualcosa?» chiese poi. Era
terribilmente curiosa di sapere la verità, di scoprire se ancora una volta
T'Challa aveva ragione e, in quel caso, di capire se avevano a che fare con
qualcuno che andava temuto oppure no.
«Ho trovato qualcuno» esordì il sovrano,
divenendo improvvisamente più serio. Anisa trattenne il respiro, senza staccare
gli occhi dall’uomo.
«È Klaw.»
A sentire quel nome la donna allentò la presa
dalla tazza, che rimase così abbandonata sul piano della scrivania, con il
proprio contenuto a raffreddarsi lentamente. Una morsa la braccò alle viscere e
un grosso senso di malessere la pervase.
Ulysses Klaw. Se c’era davvero lui dietro alle
morti, alle sparizioni e ai furti, bisognava agire in fretta e fermarlo prima
che potesse fare del male ad altre persone.
T'Challa si accorse dell’improvvisa reazione
della donna ma non riuscì a dire nulla. Lei, infatti, precedette le sue parole:
«È in quella centrale? Dove dicevi tu?»
«Sì. Non credo si fermeranno lì a lungo. Perciò
dobbiamo agire in fretta.»
«Quanti sono?»
«Ne ho contati diciassette, ma potrebbero
essercene altri.»
Anisa si alzò di scatto dalla sedia, gli occhi
spalancati. «Diciassette? Perché non li hai fermati subito? Hai affrontato
gruppi molto più numerosi di così» esclamò.
T'Challa sollevò una mano per intimarle di
calmarsi; lo sguardo fiero e risoluto con cui la guardò fece capire alla donna
che si era spinta troppo oltre. Per quanto il loro rapporto potesse essere
fraterno, quell’uomo era pur sempre il suo sovrano. Anisa tornò a sedersi e
quasi contò i secondi prima che T'Challa riprese a parlare: «Non fraintendere, Anisa.
Mi conosci perfettamente e sai che io stesso avrei agito subito, ieri notte.
Tuttavia…»
Inspirò a fondo, ripensando alle due figure che
erano rimaste nascoste nell’ombra. «Tuttavia qualcosa mi ha detto che da solo
non ci sarei riuscito.»
Lei lo guardò esterrefatta, sorpresa da quella
ammissione. Se non avesse visto le labbra di T'Challa muoversi a comporre
quelle parole non ci avrebbe creduto.
«Klaw è ricomparso dopo anni, non è uno
sprovveduto e sa benissimo con chi ha a che fare se si avvicina al Wakanda.
Sono certo che gli uomini che sono con lui non vanno sottovalutati» spiegò il
sovrano, la voce di chi era perfettamente consapevole di quanto stava dicendo.
«Perciò, cosa facciamo?»
«Prima, hai visto anche tu, ho parlato con il
primo ministro etiope. L’ho informato di ciò che ho scoperto, omettendo una
serie di cose, ovviamente» disse, un leggero sorriso in volto. «Ho avuto il
permesso per intervenire con degli uomini in quella zona. Massima segretezza.»
Anisa rimase a guardarlo, capendo tutto.
T'Challa avrebbe colpito Klaw alla centrale con un novero di soldati e,
affinché la cosa non facesse clamore – poiché un intervento wakandiano
in Etiopia avrebbe comunque fatto notizia – aveva informato dell’accaduto e
chiesto il permesso a intervenire al primo ministro della nazione. Tuttavia
nessuna informazione a riguardo sarebbe dovuta trapelare. Se l’intervento di
T'Challa avesse avuto successo, Klaw sarebbe stato eliminato prima di fare
altre vittime e le persone scomparse, i furti e i morti, sarebbero passati come
disgrazie sotto silenzio con il tempo.
«A quando l’intervento?» domandò la donna, senza
porre altre domande sul discorso fra T'Challa e il primo ministro etiope.
«Questa notte. Faremo in modo di essere alla
centrale idroelettrica intorno alle due e di tornare entro l’alba.»
«Pensi che ce la faremo?»
Il sovrano annuì. «Porterò con me trenta uomini
armati. Ma tu, Anisa, resterai qui.»
Il tono dell’uomo non ammetteva repliche, ma la donna
non gli diede peso. Si alzò nuovamente dalla sedia e guardò T'Challa con una
determinazione bruciante.
«Io verrò. Non puoi tenermi fuori da questa
storia se si parla di Klaw» proruppe.
L’uomo, che non era rimasto sorpreso
dall’affermazione di lei, distolse lo sguardo, scuotendo la testa. «Non posso
permettertelo.»
«E perché no? Come se non avessi mai combattuto
al tuo fianco, come se non avessi mai aiutato la Pantera» disse sprezzante.
T'Challa tornò a guardarla. Sapeva che sarebbe
arrivato quel momento. Conosceva l’avversione che Anisa provava per Klaw, così
come sapeva ciò che l’uomo le aveva fatto e capiva i sentimenti di lei.
Tuttavia voleva impedirle di correre il rischio di diventare schiava della
brama di vendetta, come aveva fatto lui anni prima quando aveva dato la caccia
a James Barnes.
Mantenendo il tono risoluto che lo
contraddistingueva, le rispose: «Non si tratta di questo. So che saresti
all’altezza. Solo non voglio che il desiderio di vendetta ti consumi come ha
consumato tante persone prima di te.»
Anisa non si scompose a quelle parole. Si
avvicinò al sovrano e alzò lo sguardo sul suo. Negli occhi scuri di T'Challa
c’era una leggera sfumatura di preoccupazione che per lei fu semplice da
interpretare.
«Io non voglio vendicarmi di Klaw» gli disse, in
un modo che parve quasi una confessione. «Voglio solo che venga fermato, così
da impedire che possa fare ad altre persone ciò che ha fatto a me.»
T'Challa rimase a guardarla, silenzioso. Non
poteva biasimarla e non lo avrebbe fatto.
«E sia» disse, con un leggero cenno del capo.
«Ma dovrai darmi la tua parola. Non voglio che quell’uomo ti trasformi.»
Anisa acconsentì, senza dire nulla. Non avrebbe
permesso all’uomo che le aveva stravolto la vita di farlo ancora una volta e
non gli avrebbe neanche permesso di diventare un’ossessione. Voleva solo che
fosse fermato. In quale modo non le importava, così come non le importava che
fosse lei a farlo; tuttavia, se poteva in qualche modo contribuire alla causa,
non sarebbe certamente rimasta a guardare.
*
La luna riluceva sottile come una lama sopra le
alte fronde degli alberi che costeggiavano rigogliosi il fiume Omo. Trentadue
uomini non sarebbero certo passati inosservati neanche fra quelle foreste, se a
guidarli non ci fosse stato qualcuno che conosceva perfettamente quelle terre.
La Pantera, la tuta nera e iridescente per via del vibranio, camminava avanti a
tutti posando i piedi nei punti migliori per evitare di fare rumore. Accanto a
lui Anisa si muoveva con la stessa leggerezza; anche lei portava una tuta di
fibre miste a vibranio, una maschera più simile a un elmetto così da
proteggerle la testa senza però schiacciarle i capelli che dietro, raccolti in
una lunga e stretta treccia, erano liberi di muoversi. Alla cintura in vita era
agganciata una coppia di tonfa1, l’arma con cui lei si era sempre
destreggiata.
Proseguendo nel fitto della foresta, T'Challa e
i suoi uomini arrivarono in prossimità della centrale idroelettrica. Le flebili
luci e l’uomo di vedetta davanti alla porta, fecero capire alla Pantera che non
erano arrivati troppo tardi. Si voltò verso i suoi uomini e fece loro cenno di
attendere l’inizio delle operazioni. I soldati si abbassarono, nascondendosi
fra le basse fronde della giungla mentre T'Challa, silenzioso, arrivava alle
spalle del nemico e lo atterrava con un’unica, precisa, mossa. Indicò agli
uomini di raggiungerlo e così fecero, cercando di fare più silenzio possibile.
Appostati intorno alla porta, uno degli artificieri sistemò alcune cariche in
corrispondenza delle cerniere e le fece brillare. Per quanto la detonazione
parve debole sortì ugualmente l’effetto desiderato e con un calcio assestato al
centro esatto della porta, quella si staccò dai cardini e volò oltre
l’ingresso, schiantandosi al suolo.
Gli uomini dentro la centrale ebbero a malapena
il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo. I sodati del Wakanda
entrarono rapidi nell’edificio cominciando a sparare. Se non fosse stato per i
giubbotti antiproiettile molti nemici sarebbero stati abbattuti subito, ma solo
alcuni caddero, colpiti alla testa. Quando T'Challa e Anisa entrarono, pochi
istanti dopo, il conflitto a fuoco era già nel suo pieno. Gli uomini di Klaw si
stavano riparando dietro a delle spesse casse, sparando con quante più armi
avevano. T'Challa e i suoi uomini, invece, erano schiacciati contro le grosse
turbine in disuso, poste proprio davanti all’ingresso. La Pantera analizzò
rapida la situazione e trovò una via sicura per permettergli di arrivare alle
spalle dei nemici. Con un cenno indicò il percorso ad Anisa, che fece a appena
in tempo ad annuire prima che un soldato wakandiano
urlasse: «Granata!»
Un boato spezzò l’aria e fece tremare ogni cosa.
Pantera Nera fece scudo con il suo corpo su Anisa e il vibranio della tuta
impedì alla deflagrazione di fargli del male. Sentì diversi uomini gridare, gli
spari proseguire e il rumore di carne lacerata. Ignorando ogni precauzione e
via sicura, T'Challa si avventò sui soldati di Klaw, affrontandoli nel corpo a
corpo. Anisa lo seguì, i tonfa stretti in mano con cui sapeva combattere e
difendersi perfettamente – anche grazie alla leggerezza e resistenza che il vibranio
conferiva loro. I nemici erano una decina; T'Challa ne abbatté due e nel mentre
venne raggiunto dai suoi uomini che presero a combattere anche loro a stretto
contatto con gli avversari.
Erano prossimi a sovrastarli quando, improvvisamente,
una risata folle si fece largo nella stanza, rimbombando in ogni dove.
«Pantera Nera!» urlò la voce, selvaggiamente
divertita.
A T'Challa non servì altro per capire che si
trattava di Klaw. Conosceva la sua voce e conosceva la follia che lo pervadeva
ogni volta che si incontravano. La Pantera si voltò verso l’uomo, i muscoli
tesi, pronto a scagliarcisi contro. Ignorò completamente i soldati che si
stavano fronteggiando intorno a lui – Anisa compresa – e focalizzò la sua
attenzione esclusivamente su Klaw.
Quest’ultimo avanzò nella stanza, i due grossi
uomini che T'Challa aveva visto la sera prima al suo fianco. Klaw allargò le
braccia, un ghigno a increspargli il volto.
«Mi fa piacere rivederti, credevo ti fossi
completamente dimenticato di me.»
A quelle parole Pantera Nera scattò; fece un
balzo, pronto ad avventarsi sull’uomo che tanto disprezzava, ma la persona alla
destra di Klaw si mosse rapidamente, scagliando un coltello in direzione di
T'Challa. Il sovrano riuscì a schivarlo al limite; sentì fischiare la lama del
pugnale accanto all’orecchio e rimase sbalordito dalla velocità con cui era
stato lanciato. Distratto da questo pensiero non si accorse della mano destra
di Klaw, sollevata all’altezza del suo petto. La fase discendente del suo salto
venne arrestata da una pressione che non riuscì a vedere: era come se qualcosa
di incredibilmente pesante lo avesse respinto indietro. Si sentì percuotere
anche all’interno della tuta della Pantera e cadde a terra, rialzandosi subito.
Accanto a sé si trovò Anisa e realizzò che, nel frattempo, i suoi uomini erano
riusciti ad avere la meglio sugli avversari. La donna teneva gli occhi fissi su
Klaw, mentre quest’ultimo continuava a scrutare avido Pantera Nera. L’uomo
sollevò nuovamente la mano destra.
«Non crederai che io sia tornato qui senza le
armi adeguate per affrontarti, vero?» domandò, retorico.
Nuovamente qualcosa di invisibile parve spingere
con una forza sovrumana T'Challa. Si accorse che lo stesso stava accadendo ad Anisa,
che però portò le mani alle orecchie nel disperato tentativo di non sentire ciò
che la misteriosa forza stava eruttando. T'Challa udì diverse grida di dolore
provenire alle sue spalle, si voltò appena per poter vedere cosa stava
accadendo dietro di sé. Molti dei suoi uomini urlavano, coprendosi le orecchie,
chiudendo gli occhi o stringendosi le braccia al petto. Alcuni di loro caddero
a terra, afflosciandosi privi di vita, finché finalmente la vibrazione cessò.
La Pantera non riusciva a spiegarsi ciò che
stava succedendo e, notando l’espressione impressa sul volto della donna, capì
che anche per Anisa doveva essere così. Ebbe malapena il tempo di prendere in
considerazione l’ipotesi di attaccare nuovamente Klaw, che l’altro uomo che era
al suo fianco, rimasto immobile fino a quel momento, fece un passo avanti. Fece
scattare l’accendino che teneva stretto in mano e, in una maniera inspiegabile,
da lì si propagò una feroce fiamma rossa che acquisì forza edimensioni in brevissimo tempo. Sia T'Challa
che Anisa riuscirono a schivare la fiammata per un soffio, lanciandosi ognuno
nella direzione opposta. Per i soldati wakandiani – e anche per gli uomini di
Klaw, svenuti o semisvenuti a terra – non fu così. Le loro grida si fecero
largo strazianti nel vasto deposito quasi distrutto. Alcuni cercarono di
scappare, altri non ne furono in grado, mentre la rovente fiamma non ne voleva
sapere di estinguersi e lambiva vorace tutto ciò che incontrava. Pantera Nera
riuscì ad arrampicarsi su una sporgenza della parete, al riparo dal fuoco; poco
più in là vide che anche Anisa era lontano dalle fiamme, il volto intriso di
terrore e incredulità.
«Mi dispiace dover lasciare la festa così
presto, Pantera.»
La voce di Klaw tornò ad attirare l’attenzione
di T'Challa, che si accorse che le fiamme non stavano in alcun modo minacciando
il punto in cui i tre uomini erano fermi.
Klaw fece un cenno di saluto. «Ho delle faccende
piuttosto importanti da sbrigare e non mi va di perdere altro tempo. Dopotutto
era solo questione di ore prima che noi lasciassimo questa vecchia centrale.»
Detto ciò diede le spalle alla stanza e al
sovrano, allontanandosi senza apparente fretta insieme ai due uomini. La
Pantera balzò nel punto in cui i tre erano appena stati, deciso a inseguirli,
ma le urla che continuavano a sollevarsi fra il fuoco alle sue spalle gli
fecero capire che poteva ancora salvare qualcuno.
«Dobbiamo andarcene di qui!» urlò, rivolto ad Anisa.
Lei lo guardò come se non sapesse dove si
trovava. T'Challa la raggiunse, per sua fortuna il vibranio della tuta rendeva le
fiamme meno pericolose. « Anisa, dobbiamo muoverci!»
La donna si ridestò. Ancora incredula e
disgustata dall’accaduto seguì il suo sovrano, cercando in ogni modo di
schivare il fuoco. Aiutò Pantera Nera a portare fuori dall’edificio quattro
superstiti, ma quando provarono a rientrare per cercare di salvarne altri, una
violenta esplosione li ricacciò indietro.
Frastornato e stordito, T'Challa, sul limitare
della giungla, sollevò lo sguardo in tempo per vedere la vecchia centrale
idroelettrica che si accartocciava su se stessa, precipitando in un ammasso di
calcinacci, polvere e fiamme. Quando ripensò a tutte le persone che erano
ancora presenti in quell’edificio nel momento dell’esplosione e quando capì che
fine avevano certamente fatto, il gelo pervase il suo corpo. Si sentì mancare
l’aria e il cuore martellava colpevole nel suo petto. Rimase a guardare la
polvere che si posava, il rombo dell’esplosione che ancora gli rimbombava nelle
orecchie. Si alzò e si tolse la maschera della Pantera, facendo vagare
rapidamente lo sguardo fra le basse fronde e i cespugli di felci, finché non
individuò Anisa. La donna era carponi sulla terra e stava tossendo. La treccia
le si era disfatta in buona parte e il suo elmetto giaceva immobile davanti a
lei. T'Challa la raggiunse. Si chinò accanto a lei e le posò una mano sulla
spalla; sentendo quel tocco Anisa sollevò lo sguardo. Aveva il viso sporco di
fuliggine, ma per il resto era illesa.
«Come ti senti?» le chiese il sovrano.
«Io sto bene…» rispose, finendo inevitabilmente
a guardare i resti della centrale idroelettrica. Come T'Challa anche lei era
atterrata per ciò che era accaduto; si sentiva impotente, responsabile, come se
non avesse potuto fare abbastanza per impedire agli avvenimenti di manifestarsi
a quel modo.
L’uomo l’aiutò a rialzarsi e insieme andarono ad
accertarsi delle condizioni degli unici quattro superstiti che erano riusciti a
portare in salvo. Ad Anisa mancò il fiato quando li vide. Tre di loro erano
svenuti, mentre il quarto si contorceva dolorante al suolo. Tutti avevano
bruciature sparse sul corpo e il sangue delle ferite risplendeva alla luce del
fuoco e della luna.
T'Challa si rivolse alla sua assistente:
«Dobbiamo chiamare dei soccorsi. Hanno bisogno di cure mediche urgenti.»
La donna annuì e sollevò lo sguardo verso la
centrale distrutta; sotto le macerie si vedevano ancora delle fiamme danzare,
pronte a riemergere prepotenti dai resti.
«Dobbiamo anche fare in modo che l’incendio
venga spento prima che si propaghi alla foresta» disse lei. T'Challa le diede
ragione con un cenno e rimase a guardarla mentre chiedeva supporto con la sua
ricetrasmittente.
Si sentiva vuoto e completamente atterrato. Più
di venti persone erano morte in quell’attacco e ciò significava che era avvenuto
perché lui aveva sottovalutato Klaw. L’esito di quella notte era stato per lui
un duro colpo, la dolorosa conseguenza di una netta sconfitta.
Note:
1 tonfa:
il tonfa è un’arma usata nelle arti marziali. Nei film della Marvel sono spesso
usati dalla Vedova Nera. Avrei potuto dare un’arma diversa ad Anisa, ma ho
sempre avuto un debole per i tonfa e li ho inseriti ugualmente.
___________________________
Solo una breve comunicazione.
Intanto grazie a tutti quelli che hanno letto
primo e secondo capitolo (molti più di quanti mi aspettassi, lo ammetto).
Poi, ci tengo a fare una piccola precisazione
sul rapporto Klaw – T'Challa. Il loro legame in questa storia l’ho tratto sia
dal film che dal fumetto – come avevo già anticipato nel capitolo precedente. Quello
che non ho inserito – avendo tratto ispirazione maggiore dal CMU – è il perché i due si conoscono. Nei fumetti,
infatti, Klaw non è solo un uomo fissato con il vibranio che ha attaccato a più
riprese il Wakanda, ma è anche la causa della morte di T’Chaka.
Considerando però che in Civil War il
sovrano del Wakanda muore in circostanze differenti mi sono attenuta a quella
storia, perciò ho “limitato” l’odio che T'Challa prova per Klaw al fatto che ha
depredato le sue terre per anni.
Il
mattino seguente allo scontro alla centrale T'Challa si accertò di rendere
omaggio nel migliore dei modi alle vittime. Durante la notte, con i soccorsi
provenienti dal suo Paese, aveva contribuito a recuperare i corpi e, come aveva
dolorosamente sospettato, nessuno era riuscito a sopravvivere al crollo dell’edificio.
La Pantera aveva dovuto accettare la scomparsa di ventisei soldati, troppi per
essere considerati solo una tragica fatalità. Aveva sottovalutato Klaw – e
anche i due uomini che erano con lui e che ora gli parevano ancora più
pericolosi – e degli innocenti ne avevano pagato le conseguenze. Tuttavia non
avrebbe permesso che una cosa simile capitasse nuovamente.
Fermo
davanti alla statua raffigurante Bast – la Dea Pantera, protettrice del Wakanda
– T'Challa lasciò la mente libera di vagare alla ricerca di una soluzione.
Ulysses
Klaw era fuggito e lui lo aveva permesso. Prima che l’uomo potesse essere
fermato, però, era necessario trovarlo e per T'Challa ciò significava svolgere
altre ricerche nella speranza di individuare in fretta il nuovo rifugio del
nemico, o almeno trovarlo prima che potesse diventare nuovamente pericoloso.
Era consapevole che non sarebbe stato semplice e, anche se lo avesse trovato,
avrebbe dovuto affrontarlo in un’altra maniera. L’esito della missione della
notte precedente – che lui aveva erroneamente immaginato veloce ed efficace –
continuava a bruciargli dentro. Non riusciva a darsi pace per il fatto di
essere stato tanto ingenuo da credere che tutto si sarebbe risolto in fretta e
nel migliore dei modi, tuttavia era anche consapevole che non sarebbe riuscito
a continuare se i sensi di colpa lo avessero sovrastato.
Ripetendo
uno a uno i nomi dei ventisei soldati caduti, T'Challa accese una candela per
ciascuno di loro e pregò Bast di accoglierli e guidarli verso il loro nuovo
cammino oltre la morte. Dopodiché uscì dal tempio.
*
Anisa
era ferma in piedi, le mani intrecciate all’altezza della vita, gli occhi
bassi. L’ampia sala del tempio era gremita di persone, raccolte in preghiera e
in ricordo dei soldati caduti. La veglia del sacerdote non era ancora iniziata
e la voce che si stava levando sicura, forte, ma anche amareggiata, era quella
del sovrano del Regno di Wakanda.
Era
il pomeriggio successivo all’attacco al deposito, il momento in cui si
piangevano le vittime. Anisa aveva ancora negli occhi la luce delle fiamme, i
corpi privi di vita e le macerie, mentre le sue orecchie sembravano ancora
ascoltare le grida di dolore e le richieste d’aiuto. Nonostante le fosse già
capitato di vedere persone perdere la vita, ogni volta era per lei difficile
assimilare la cosa e passare oltre. Avere rivisto Klaw, inoltre, aveva
risvegliato in lei i fantasmi del passato e quel dolore così intenso che
sembrava divorarla, non se ne andava mai. Per la donna la consapevolezza che
quell’uomo era ricomparso la rendeva nervosa e il forte desiderio di fare
qualcosa si era insinuato in lei. Tuttavia era necessario che si attenesse alle
volontà del suo sovrano e, da quando erano rientrati a palazzo alle prime luci
dell’alba, loro due non avevano avuto molto tempo per parlare. T'Challa era
rimasto quasi tutta mattina in conferenza con il primo ministro etiope,
trovando solo poco tempo per il suo personale ricordo alle vittime. Anisa,
invece, si era accertata che i superstiti ricevessero cure adeguate e aveva fatto
in modo che nessuno disturbasse il sovrano prima del tardo pomeriggio. In tutto
ciò entrambi avevano dovuto convivere con la consapevolezza che tutto era
accaduto a causa di Klaw.
«Che
la Dea Bast possa avere cura dei nostri fratelli.»
Le
ultime parole di T'Challa ridestarono Anisa, che ricacciò indietro i vari
orrori e si sforzò di alzare lo sguardo. Nel suo elegante abito da cerimonia,
il sovranoscambiò veloci parole con il
sacerdote, infine raggiunse Anisa che, dopo un rapido inchino in direzione della
sala e dei presenti, seguì T'Challa lungo il corridoio posto dietro l’altare. Sul
retro del tempio li attendeva una lucida berlina nera che li avrebbe ricondotti
a palazzo.
Durante
i primi minuti di viaggio nessuno dei due parlò. Anisa non voleva fare il nome
di Klaw e discutere di tutt’altro non avrebbe avuto alcun senso. Dopo altri,
lunghi, minuti di silenzio, fu il sovrano a parlare: «Questa mattina il primo
ministro etiope mi ha informato che i suoi soldati inizieranno a cercare Klaw
per poterlo arrestare.»
A
quelle parole la donna si voltò subito per poter vedere in viso l’uomo,
rivolto, però, verso il finestrino. Il tono con cui aveva parlato rasentava la
rassegnazione e ad Anisa non serviva domandare per quale motivo. Certamente
T'Challa la pensava come lei, ovvero che chi non aveva mai avuto a che fare con
Klaw direttamente non poteva sperare di catturarlo alla prima occasione.
Perfino T'Challa, che lo aveva già incontrato più volte in passato, era stato
sopraffatto nel loro ultimo faccia a faccia. Inoltre gli uomini che erano con
Klaw erano un’incognita probabilmente ben più pericolosa di quanto si potesse
pensare e le ventisei vittime della sera precedente potevano esserne la
dimostrazione.
«Che
cosa?» chiese Anisa, forse in modo più sconvolto di quanto lo fosse in realtà.
T'Challa
rispose al suo sguardo.
«Non
potevo non informarlo di Klaw. Non dopo quello che è successo» replicò il
sovrano, infastidito da quella che a lui parve eccessiva insolenza.
La
donna scosse la testa, tentando di rimediare all’errore. «No scusami, non
volevo, è solo che… perché l’Etiopia vuole intervenire?»
«Immagino
sia perché si sentano minacciati. Furti e uccisioni a Omorate…
Ora che sanno a chi dare la colpa non possono fingere di non vedere.»
«Ma
è Klaw» esclamò affranta la donna, dopodiché le tornarono alla mente le due
possenti figure che erano con l’uomo e l’esito della notte precedente. «E non è
solo. Le armi convenzionali non funzionano con lui, men che meno se usate da
persone che non lo conoscono.»
Sospirò,
un misto di disperazione e rabbia a riempirla. «Perché non possono lasciare che
ci pensi Pantera Nera?»
T'Challa
abbassò lo sguardo. Era d’accordo con Anisa. Anche secondo lui l’intervento
Etiope – nel caso fossero prima riusciti a trovare Klaw – non avrebbe portato a
nulla, se non ad altre vittime. Klaw era ricomparso più organizzato di prima e,
come già aveva detto la donna, non era solo. Questa volta avevano a che fare
con qualcuno che aveva imparato a conoscerli e che si era attrezzato di
conseguenza.
«Temo
che questa volta anche la Pantera non sia in grado di farcela da sola.»
Ammise
infine T'Challa. Anisa lo guardò, stupita da tale dichiarazione. Non le riuscì
di dire nulla se non uno sbigottito: «Cosa vuoi dire?»
Lei
poteva aiutarlo, poteva combattere al fianco di PanteraNera come aveva già fatto altre volte. Era
pronta a ricordarlo all’uomo quando lui rispose alla domanda: «Hai visto anche
tu, Anisa. Klaw sa cosa aspettarsi da noi e sono certo che i due uomini che
erano insieme a lui non sono né gli ultimi arrivati ne tantomeno individui da
sottovalutare.»
La
donna non poté dargli torto. Ripenso a quelle due figure e al modo in cui tutto
era rapidamente andato per il verso sbagliato appena avevano varcato la soglia
della stanza nella centrale idroelettrica al fianco di Klaw. Tuttavia non
poteva fare a meno di sentirsi confusa.
La
macchina accostò sul ciglio della strada, davanti a uno degli ingressi a
palazzo. T'Challa aveva già aperto la portiera dell’auto e stava per scendere
quando la donna chiese: «Perciò cosa hai intenzione di fare?»
Non
lo chiese con arroganza, ma con la sincera curiosità di chi non ha la più
pallida idea di quale sia la risposta. Il sovrano si voltò a guardarla e le
fece cenno di seguirla. Anisa capì che non avrebbe ricevuto una risposta
subito, ma quasi certamente l’avrebbe ottenuta in tempi brevi, per tale motivo
si affrettò a scendere dalla berlina. Insieme risalirono la gradinata per poter
entrare a palazzo e, una volta dentro, proseguirono diretti all’ufficio del
sovrano, la stanza più al sicuro da orecchie indiscrete. Lungo il tragitto
T'Challa fu fermato da numerose persone che chiesero il suo parere o in che
modo procedere con una determinata operazione. Il sovrano aveva impiegato due
anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente
lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si
stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.
Finalmente,
dopo diversi minuti e confronti con altrettante persone, T'Challa e Anisa
raggiunsero l’ufficio del sovrano. Non lo trovarono vuoto; al suo interno, in
un elegante tailleur bordeaux scuro molto simile a quello di Anisa, c’era in
attesa una giovane donna. Teneva stretta al petto una cartellina, i lunghi
capelli neri acconciati in strette e ordinate treccine.
«Ah,
Mandisa» disse T'Challa appena la vide.
Lei
si esibì in un rapido inchino. «Sire» lo salutò, lanciando poi un’occhiata
torva in direzione di Anisa, che per via del suo colore di pelle non era ben
vista da diverse persone – anche per l’incarico che ricopriva all’interno del
palazzo.
«Hai
qualcosa per me, non è vero?» proseguì l’uomo affabilmente.
Mandisa gli porse alcune
carpette che teneva ancora strette al petto.
«Ti
ringrazio molto» disse T'Challa, sfogliando rapidamente il contenuto di ciò che
aveva appena ottenuto.
«Devo
anche ricordarle» riprese la donna. «Che alle 18 è atteso per la conferenza con
gli Stati limitrofi.»
«Ma
certo. Non posso dimenticare una cosa di simile rilevanza.»
Indicò
Anisa con un breve cenno, quest’ultima non si scompose minimamente.
«Ora,
se non ti dispiace, dovremmo parlare di cose importanti» concluse il sovrano
alludendo, grazie al gesto di poco prima, a lui e alla sua personale
assistente. Mandisa fece un altro rapido inchino,
dopodiché si affrettò a uscire. Fu solo dopo che si fu chiusa la porta alle
spalle che T'Challa sollevò le carpette che aveva ricevuto poco prima e disse:
«È questo che intendo fare.»
Allungò
il tutta ad Anisa, la quale sfogliò confusa le prime carte, per poi capire.
Quelli che teneva in mano erano documenti che gli esperti hacker di cui
T'Challa disponeva avevano trafugato. Riuscì a intuirlo perché le carte che
stava guardando avevano strani segni e codici non riconducibili a niente che le
fosse famigliare. Continuò a sfogliare i vari documenti, soffermandosi con
maggiore attenzione nelle parti che erano state evidenziate, sottolineate o
cerchiate. Ogni diverso foglio di carta portava con sé alcune immagini sgranate
prese da satellite, le coordinate del punto esatto e un’altra serie di immagini
poco nitide di alcune persone. Anisa continuò a scrutare fra le righe, cercando
di unire in fretta i tasselli così da avere la conferma dei suoi sospetti. Ogni
singolo foglio, ogni singola indicazione, ogni parola evidenziata si riferivano
alla stessa persona, quella che, in quei documenti criptati, sembrava essere
inseguita con mediocre competenza: Captain America. Erano su di lui tutti i
dati raccolti, così come le posizioni segnate e le foto sfocate che lo avevano
mal immortalato.
«Il
capitano Rogers?»chiese infine Anisa,
che aveva, sì, capito, ma non ne era tanto convinta.
T'Challa
annuì con la testa, smettendo di guardare fuori dalla finestra come aveva
iniziato a fare in attesa che la donna dicesse qualcosa. «Quelli che hai in
mano sono documenti che i nostri hacker hanno “preso in prestito” dalle Nazioni
Unite. Sono relativi agli ultimi avvistamenti di Captain America.»
La
donna lesse la data dell’ultimo dei fogli che teneva in mano e che si riferiva
a soli tre giorni prima.
«Ammetto
di non capire» disse infine, scuotendo leggermente il capo.
T'Challa
sorrise, ma tornò serio immediatamente. «Come ti ho detto prima, temo che la
Pantera non possa vincere questa battaglia da sola.»
«Vuoi
chiedere a Captain America di aiutarti?» domandò lei, a cui bastarono le poche
parole del sovrano per afferrare le sue intenzioni.
«Sì,
esattamente.»
«Ma…»
cominciò, mentre T'Challa sollevava le sopracciglia in attesa che continuasse
la frase.
Anisa
si era fatta raccontare tutto dall’uomo, tutti gli avvenimenti che avevano stravolto il gruppo degli Avengers
ormai due anni prima e che avevano portato alla presenza di un ex assassino
professionista nella loro camera criogenica. Così come sapeva di quella storia,
sapeva anche che Steve Rogers, per quanto per molti continuasse a essere un
eroe, era improvvisamente diventato un ricercato e che, insieme a lui in quella
libertà precaria, c’erano almeno altre quattro persone.
«Perciò
vorresti chiedere aiuto a lui?» domandò infine la donna, piuttosto confusa da
tutta quella faccenda.
T'Challa
annuì, ma non riuscì a dire altro. Anisa, infatti, intervenne nuovamente:
«Perché chiedere aiuto a Rogers…»
Bloccò
l’uomo, in procinto di replicare, con un gesto della mano. «Non fraintendere.
Mi piace Captain America, penso che stia facendo del suo meglio per mantenere
il mondo al sicuro. Tuttavia, e non puoi non essere d’accordo, ha un mandato
d’arresto sulla testa.
«Non
ha più senso chiedere a quegli Avengers che possono intervenire senza correre
il rischio di trovarsi le Nazioni Unite alle calcagna?»
T'Challa
non rispose subito. Capiva le perplessità e i dubbi di Anisa.
Aveva
deciso di contattare Steve Rogers quella stessa mattina, mentre accendeva le
ventisei candele per i soldati caduti. Per quanto paradossale potesse sembrare
le Nazioni Unite sarebbero state un problema e lui lo sapeva
perfettamente.Due anni prima Captain
America si era reso disponibile ad aiutare il sovrano del Wakanda se ve ne
fosse stato bisogno, siglando con tali parole l’amicizia che si era instaurata
fra i due anche grazie al segreto che T'Challa aveva deciso di custodire e che
rispondeva al nome di James Buchanan Barnes. Ora che T'Challa aveva bisogno di
aiuto sapeva anche che di Rogers si sarebbe potuto fidare.
L’uomo
prese una lunga boccata d’aria prima di parlare e decise che avrebbe impedito
qualsiasi tipo di interruzione da parte della donna. «Se volessimo chiamare gli
Avengers a cui ti riferisci dovremo rivolgerci direttamente alle Nazioni Unite.
Dopo gli Accordi di Sokovia sono praticamente loro
sottoposti, credi veramente che permetteranno a Iron
Man o Visione di intervenire in Wakanda per fermare un uomo che, per loro, sta
solo rubando munizioni? Le Nazioni Unite lo considereranno certamente una cosa
di poca importanza e manderanno qui delle semplici forze speciali che non
saranno in grado di fare meglio di ciò che abbiamo fatto noi questa notte.»
«Ma
è Klaw!» esclamò lei, senza che T'Challa fosse in grado di fermarla. Ripeteva
quella frase come un mantra; non riusciva a sopportare che qualcuno non si
rendesse conto di chi fosse quell’uomo e, soprattutto, di cosa fosse capace di
fare.
Il
sovrano si avvicinò alla donna, tentando di calmarla. Anisa gli parve sull’orlo
delle lacrime. Quando riprese a parlare lo fece con voce calma e sicura:
«Proprio perché si tratta di Klaw abbiamo bisogno dei migliori aiuti possibili.
Ed è per questo che voglio che le Nazioni Unite ne rimangano fuori. Captain
America e chiunque abbia voglia di intervenire insieme a lui, sono i più
indicati per aiutarci.»
Anisa
annuì debolmente, dando così ragione a T'Challa, il quale proseguì: «Se Steve
Rogers è disposto a darci una mano potremmo riuscire a fermare Klaw prima che
faccia ancora del male. Tuttavia trovarlo non sarà semplice.»
Prese
dalle mani di Anisa le carte che lei ancora stringeva e che si erano
stropicciate in più punti. «Rogers è piuttosto in gamba e sa come evitare di
farsi trovare.»
La
donna continuava a guardare il sovrano in modo assente. Tentava ancora di
riprendere il controllo di sé dopo l’ultima esplosione che l’aveva travolta e
che aveva provocato nuovamente in lei l’apertura di vecchie e inguaribili
cicatrici.
«Sai
dov’è?» chiese infine a T'Challa.
Lui
si voltò a guardarla. «Dimentichi che ho ottimi uomini a mia disposizione»
detto ciò girò intorno alla scrivania, afferrò la cornetta del telefono e
digitò alcuni numeri. Appena Anisa sentì il nome che aveva pronunciato cercò di
ricomporsi al meglio, consapevole che entro breve, nell’ufficio, non sarebbero
più stati soli.
Infatti,
solo pochi minuti dopo, qualcuno bussò alla porta. Quando questa si aprì la
figura di un giovane uomo, di proporzioni minute ma con uno sguardo
sorprendentemente astuto, fece il suo ingresso nella stanza.
«Mio
signore» disse, salutando il sovrano e facendo un inchino anche in direzione di
Anisa.
EdetUsutu
era uno degli uomini più fidati di T'Challa, così come lo era stato prima anche
per T’Chaka. A soli ventiquattro anni era già uno dei
migliori agenti wakandiani, in grado di ottenere informazioni certe in poco
tempo e di riportarle utilizzando i canali più sicuri. Anisa non rimase
sorpresa di vederlo lì; se c’era da rintracciare qualcuno in fuga nessuno era
più indicato di Edet. Tuttavia si ritrovò a sperare
con tutta se stessa che il ragazzo avesse già delle informazioni a riguardo.
Non voleva che passasse troppo tempo prima di una nuova azione contro Klaw,
c’era il rischio che l’uomo uccidesse ancora.
«Come
stai, Edet?» domandò T'Challa, con una domanda
formale a cui quasi nessuno rispondeva. Il ragazzo, infatti, fece un veloce
cenno con il capo, sorridendo. Si avvicinò alla scrivania, dietro la quale il
sovrano si era messo a sedere. Quest’ultimo, lasciando da parte ulteriori
formalità, estrasse da uno dei cassetti una piccola scatola nera, i cui angoli
rilucevano per via di lamine argentate. Fece scorrere la scatola sul piano del
tavolo e l’affiancò alle carte con gli avvistamenti di Captain America, sotto
lo sguardo vigile e attento di Edet.Anisa conosceva quella scatola, così come il
suo contenuto.
«Ho
un incarico per te» proseguì il sovrano, la voce bassa, determinata.
Il
giovane uomo davanti a lui annuì nuovamente e prese il primo foglio dalla
piccola pila di carte. Lo analizzò rapidamente, infine tornò a guardare
T'Challa. «Captain America?»
T'Challa
sorrise. «Esattamente. Ho bisogno che tu riesca a trovarlo e quelle sono tutte
le informazioni che hai a disposizione.»
Sentendo
quelle parole le speranze di Anisa si affievolirono immediatamente. Edet era il migliore nel suo campo, su questo non aveva
dubbi, ma quello che il sovrano aveva appena detto lasciava perfettamente
intuire che non aveva idea di dove esattamente si trovasse Steve Rogers. La sua
ricerca avrebbe potuto richiedere settimane, nel peggiore dei casi addirittura
mesi. Non disse nulla, rimase a guardare Edet che
lasciava andare il foglio stampato per afferrare la piccola scatola nera,
aprirla ed estrarne il contenuto. Era un anello; un anello nero con sottili
incisioni argentate e una pietra verde lavorata in modo da farla sembrare un
occhio. Per quanto fosse insospettabile quel piccolo oggetto era il canale di
comunicazione più sicuro che T'Challa avesse ideato. Lui stesso aveva
personalmente lavorato a quella tecnologia. Era riuscito a inserire all’interno
di un anello un sistema informatico in grado di ricevere informazioni,
criptarle e inviarle a un server sicuro per la decodificazione. Ogni
informazioni inserita in quell’anello poteva essere estrapolata solo da poche
persone e, esclusivamente, fra i confini del Regno di Wakanda.
Edet infilò l’anello all’anulare
destro, decretando in tale maniera che accettava l’incarico.
«Quando
lo trovi, di’ che ti mando io e che ho urgente bisogno del suo aiuto. Digli che
James sta bene e che non c’entra. Non posso dare informazioni maggiori e se è
disposto ad aiutarmi deve fidarsi di me e delle poche cose che posso dirgli
fino al suo arrivo in Wakanda.»
Edet annuì alle parole del sovrano.
Afferrò le carte dal piano della scrivania e rimase in silenzio, in attesa
delle ultime parole che, sapeva, sarebbero giunte a breve.
«Mandisa ha fatto preparare tutto il necessario per la tua
partenza. Si trova nell’hangar ovest.»
«Farò
del mio meglio, mio Signore» disse il giovane.
«Ho
fiducia in te, Edet.»
Con
un nuovo inchino il ragazzo salutò i presenti. Con lo stesso passo sicuro con
cui era entrato si affrettò a uscire dall’ufficio di T'Challa, sotto lo sguardo
del sovrano e di Anisa. La piccola scatola nera, privata del suo contenuto, giaceva immobile sul piano della scrivania.
*
T'Challa
uscì dal laboratorio di ricerca piuttosto soddisfatto. Le ricerche dei suoi
scienziati stavano andando molto bene e sentiva che, almeno in quel settore,
poteva lasciarsi andare a un cauto ottimismo. I suoi uomini stavano lavorando a
quella tecnologia da ormai due anni e lui aveva contribuito in più occasioni,
anche grazie alle quasi sconfinate conoscenze che possedeva. Tuttavia l’ultima
versione, quella che avrebbe quasi certamente funzionato, era stata interamente
ideata dal suo staff e la cosa lo rendeva carico di orgoglio.
Mentre
camminava lungo uno dei corridoi del palazzo, una sensazione positiva a
scaldarlo dentro, si accorse che la cosa non sarebbe potuta durare a lungo.
Anisa stava sopraggiungendo verso di lui a passo rapido, il volto pallido e
preoccupato. Era agitata e T'Challa capì subito che doveva essere accaduto
qualcosa.
«C’è
una cosa che devi vedere» gli disse la donna appena lo ebbe raggiunto.
Il
sovrano seguì Anisa fino a una delle sale da conferenza del palazzo, in cui la donna
si infilò velocemente. La sala era deserta e sarebbe stata silenziosa se non
fosse per il televisore accesso, da cui provenivano i rumori. Anisa fece
intendere a T'Challa che doveva guardare lo schermo e il sovrano lo fece.
Le
immagini che vi baluginavano sopra si riferivano al piccolo villaggio di Ileret, ai confini con il lago Turkana e con il Wakanda.
T'Challa lesse la scritta in sovrimpressione: “Ileret: trovati i corpi di tre soldati Etiopici. Mistero sulla morte.”
Senza
aspettare che l’uomo le chiedesse qualcosa, Anisa intervenne: «Li hanno trovati
morti carbonizzati. Non ci sono tracce di combustibile, né segni che lascino
pensare che sono stati trascinati fin lì e nessuno sa spiegarsi come ciò sia
possibile.»
T'Challa
la guardò subito, esterrefatto e improvvisamente preoccupato. Sicuramente anche
Anisa stava pensando alla stessa cosa, ovvero a quell’uomo, insieme a Klaw, che
aveva fatto scoppiare l’incendio alla centrale semplicemente azionando un
accendino.
La
donna si lasciò cadere su una delle sedie disposte intorno agli ampi tavoli da
conferenza.
«Sono
pronta a scommettere che c’entra Klaw» disse avvilita.
Il
sovrano non poté darle torto perché anche lui avrebbe scommesso lo stesso. Stava succedendo ciò che non avrebbe voluto,
ovvero che Klaw ricominciasse a muoversi prima che lui potesse avere le giuste
contromisure per fermarlo. Erano trascorsi sei giorni dalla partenza di Edet e l’agente ancora non aveva dato alcuna informazione
sull’avanzamento del suo incarico. Ciò significava che non era ancora riuscito
a rintracciare Steve Rogers, né qualcuno a lui vicino e T'Challa sapeva che
quando Edet impiegava più di quattro giorni per
portare a termine un compito significava che il lavoro avrebbe potuto
richiedere molto più tempo.
Costrinse
la sua mente a lavorare in fretta in cerca di una soluzione. Quei soldati morti
potevano anche essere un caso, una coincidenza che però si incastrava fin
troppo bene con tutta la serie di eventi che erano accaduti prima. Ciò però non
significava che Klaw fosse già in procinto di fare nuovamente del male o di
essere terribilmente pericoloso, i soldati potevano aver incrociato la sua
strada per una fatale, quanto involontaria, circostanza. Pensò più rapidamente
che poté, fece collegamenti, srotolò ipotesi. Se da solo Pantera Nera non era
in grado di farcela a chi poteva chiedere aiuto se Captain America era così
difficile da trovare e se voleva, al contempo, che le Nazioni Unite rimanessero
all’oscuro di tutta la faccenda?
D’improvviso
la risposta gli affiorò nella mente. Era un’idea folle, pretenziosa e arrogante
ma che in quel momento gli parve come l’unica che avesse senso seguire. Si
sarebbe trattato di un duplice scambio di aiuti che però non avrebbe costretto
l’altro a ricambiare, a meno che non avesse voluto.
«T'Challa,
mi hai sentito?»
Anisa
riuscì a ottenere l’attenzione del sovrano, infine. Lui la guardò e la donna
capì che non l’aveva ascoltata.
«Ti
ho chiesto cosa possiamo fare. Edet non ci ha ancora
fatto sapere nulla. E se non dovesse riuscire a trovare il Capitano Rogers?
Forse dovremmo contattare le Nazioni Unite e chiedere l’intervento degli
Avengers.»
«No,
non chiamerò le Nazioni Unite. Da quando hanno messo sotto controllo gli
Avengers non hanno fatto niente di buono» rispose ostinato T'Challa.
Anisa
sospirò, accasciandosi nuovamente sulla sedia. Non riusciva a capire per quale
motivo il sovrano continuasse a rimanere così fermo e cocciuto su quel punto.
Faceva fatica ad accettare che lui tentasse di trovare una soluzione
alternativa mentre là fuori un gruppo di uomini armati continuava a seminare
morte avvicinandosi sempre più al Wakanda.
T'Challa
respirò a fondo, accarezzando leggermente l’anello della Pantera. «Ho un piano»
disse infine.
Anisa
spalancò gli occhi a quelle parole, osservando con maggiore intensità l’uomo.
Dentro di lei la speranza era appena risorta.
Era
difficile stabilire con esattezza dove si trovasse. La stanza bianca, pulita,
odorava di sterile ed era perfettamente insonorizzata, al punto da rendere
quasi possibile sentire lo scorrere del tempo. Conosceva quella sensazione,
quel torpore totale che avvinghiava ogni parte del corpo, anche la più misera, quella
profonda stanchezza che rendeva inefficienti i muscoli e deboli i riflessi.
Nonostante il luogo in cui si trovava lo tranquillizzasse a sufficienza, quelle
sensazioni – e ciò che avevano sempre portato subito dopo – non lo facevano
stare calmo.
James
Buchanan Barnes non la smetteva di guardarsi intorno. Alle spalle del lettino
su cui era seduto non vi era traccia di alcuno degli strumenti che solitamente
usavano su di lui prima di prepararlo a un nuovo lavaggio del cervello.
Tuttavia la cosa lo rilassò solo per poco. Sapeva di essere in Wakanda –
l’ultima oasi sicura in cui si era rifugiato separandosi da Steve ancora una
volta – ma non sapeva per quanto tempo avesse dormito, così come non aveva idea
di chi fosse stato a scongelarlo. Queste incognite gli impedivano di abbassare
la guardia e, anche per via dello stato in cui si trovava, lo facevano sentire
ancora più vulnerabile. Era solo da parecchi minuti ormai; l’odore di sterile
gli era penetrato in profondità, la limpida luce che entrava dalle finestre,
benché filtrata dalle veneziane, continuava a essere accecante per i suoi occhi
rimasti chiusi a lungo e, per via del silenzio, sentiva il tempo scandito dal
battito del cuore che gli martellava contro lo sterno.
Finalmente
la porta del laboratorio si aprì. Bucky scattò istintivamente sulla difensiva,
puntando come un predatore gli occhi sull’ingresso e tendendo i muscoli
doloranti. Tre medici entrarono, i camici bianchi immacolati, seguiti da una
giovane donna e, infine, da T'Challa in persona. Il Soldato rimase sorpreso di
vedere il sovrano. Questi non pareva minimamente invecchiato dal loro ultimo
incontro e ciò fece capire a Bucky che non doveva aver dormito a lungo.
I
medici andarono a sistemarsi dietro ad altrettanti monitor, cominciando a battere
qualcosa sulle tastiere, mentre T'Challa si fermò davanti al Soldato, le
braccia dietro la schiena, la giovane donna immobile alle sue spalle.
«Ben
risvegliato, James. Come ti senti?»
Per
Bucky fu strano sentire qualcuno rivolgersi così a lui. Dopo ogni risveglio dal
ghiaccio nessuno si era mai preoccupato di come si sentisse, ma solo di
portarlo il più in fretta possibile fra le braccia di quei tremendi macchinari
che avrebbero riprogrammato la sua mente. Senza rispondere rimase a osservare
T'Challa, per poi spostare il suo sguardo sulla donna alle sue spalle. Fu un
gesto spontaneo; la presenza di lei in quel posto gli sembrava sbagliata. Senza
rendersene conto si ritrovò a chiedersi cosa ci facesse una donna dalla pelle
bianca in quello Stato e quella stessa domanda gli parve talmente fuori luogo
che non si spiegò neanche per quale motivo l’avesse formulata.
Anisa
osservò di rimando il Soldato d’Inverno come se sotto i suoi occhi ci fosse un
gatto. Era così che gli parve quell’uomo, un felino. Continuava a fissare lei e
T'Challa con uno sguardo misto di curiosità e diffidenza, esattamente come un
gatto che non sa se fidarsi o meno degli umani davanti a sé. Quei pensieri,
però, furono spazzati via appena realizzò che davanti aveva James Barnes
finalmente sveglio. Non lo aveva mai incontrato, ma capitava cheogni tanto lei raggiungesse la camera
criogenica in cui lui dormiva. Rimaneva a guardare per brevi momenti il viso
dell’uomo addormentato, ritrovandosi a chiedersi cosa provasse una persona con
un passato come il suo e di che colore fossero i suoi occhi. Ora lo sapeva.
Quegli occhi grigio-azzurri, ricchi di intense sfumature blu, erano fissi in
quelli nocciola di lei e si allontanarono solo quando Anisa distolse i suoi per
prima.
«Quanto
tempo è trascorso?» domandò infine il Soldato, rivolgendosi esclusivamente a
T'Challa.
«Due
anni, giorni più, giorno meno.»
Bucky
parve soppesare quella risposta. Fece vagare il suo sguardo sul proprio corpo,
soffermandosi sulla fasciatura nera che coprivano i resti del vecchio braccio
bionico, amputato nel suo ultimo scontro. Ricordava quel conflitto, così come
non avrebbe potuto dimenticare tutto quello che era avvenuto prima e dopo.
Ricordava tutte le parole che Steve aveva speso per difenderlo, così come le
azioni che aveva compiuto per riavere il Bucky che lui conosceva. Quel Bucky
che non esisteva più, ma che Steve sembrava convinto di poter riavere. La
guerra interna agli Avengers di due anni prima gli aveva fatto capire che, se
anche non direttamente, il suo nome poteva ancora venire collegato al dolore.
Come tutte le persone che aveva ucciso e che non aveva mai dimenticato, quegli
avvenimenti erano ora indelebili nella sua mente. Il braccio amputato non era
altro che il monito perenne di quel recente passato.
Aveva
tantissime domande da fare a T'Challa, talmente tante che trovare quella da cui
iniziare sembrava impossibile. Alla fine, fra la moltitudine di quesiti e dubbi
che continuavano ad affollargli la mente, scelse la domanda più importante di
tutte, quella la cui risposta avrebbe influito su tutto il resto.
«Avete
trovato una cura?»
Lo
chiese con la fronte aggrottata, come se la luce gli stesse facendo ancora più
male e trovare le parole fosse difficile. Trattenne quasi il fiato in attesa
della risposta, nonostante si ricordasse piuttosto bene degli accordi presi con
T'Challa. Era troppo pericoloso. Se un nuovo Zemo
fosse venuto a conoscere le parole in grado di risvegliare il bellicoso Soldato
sopito dentro di lui, sarebbe tornato nuovamente a essere quell’arma che non
riusciva a controllare. Non voleva più fare del male a degli innocenti, per
questo aveva volutamente optato per l’ibernazione. Se T'Challa e i suoi uomini
lo avevano fatto uscire dalla stanza criogenica, significava che la soluzione
per il suo stato era stata individuata.
T'Challa
sorrise. Era piuttosto soddisfatto del lavoro per trovare la cura svolto dai
suoi ricercatori, la cui ultima versione risaliva al giorno precedente ed era
l’apice mai ottenuto. Il farmaco funzionava; già da diversi mesi, grazie ai
test, ne avevano la conferma.Ciò che
l’ultima versione era riuscita a migliorare era la rapidità di azione e che non
era un fattore da sottovalutare.
«Sì,
abbiamo qualcosa. Si tratta di un farmaco, sperimentale ovviamente, ma i test
lasciano ben sperare. Dobbiamo solo capire se anche con te può funzionare.»
Bucky
fu sollevato da quelle parole; sentì addirittura di essere in procinto di
sorridere se non fosse che era troppo stanco e scosso per assecondare il
tremulo movimento delle proprie labbra. Avevano un cura, una soluzione,
qualcosa che forse gli avrebbe permesso di riacquistare il pieno controllo
delle proprie azioni.
Non
notando alcun tipo di reazione da parte del suo interlocutore – se non una
composta sorpresa –, T'Challa riprese a parlare: «Mi sento in dovere di
avvertirti: il farmaco funziona, ma può darsi che nel tuo caso siano necessarie
numerose sedute e molteplici somministrazioni. Inoltre, e di questo ne sono
piuttosto sicuro, sarà doloroso.»
Il
Soldato abbassò lo sguardo. Cosa c’era di più doloroso del suo passato, delle
innumerevoli infiltrazioni fatte nella sua mente, dei continui ricordi che
affioravano lancinanti e opprimenti? Se quell’ultima sofferenza appena nominata
da T'Challa gli avesse permesso di non dover più temere se stesso, avrebbe
fatto qualsiasi cosa.
Acconsentì
con un unico, deciso, cenno del capo. «D’accordo. Posso farlo.»
T'Challa
parve ammirato da quelle poche parole. Solo due anni prima aveva rischiato di
uccidere l’uomo per un crimine che non aveva commesso. Ora la prospettiva di
redimersi dai propri errori aiutando quella stessa persona lo faceva sentire in
pace. Era la prima sensazione realmente positiva che provava da giorni.
Indietreggiò di un passo, fermandosi accanto alla giovane donna e posando una
mano sulla sua spalla.
«Lei
è Anisa» disse rivolto a Bucky, una nota più dolce nella voce. «Ha accettato di
seguire tutto il tuo percorso di riabilitazione, se lo vogliamo chiamare così.»
Per
la seconda volta Anisa e James si guardarono e per la seconda volta le domande
che affiorarono nelle reciproche menti furono le stesse. Lui si chiese se la
donna non fosse fuori luogo in Wakanda – come se stesso, del resto – e lei si
domandò quali emozioni potesse provare un uomo con un tale passato.
«Quando
possiamo cominciare?»
Il
Soldato tornò a rivolgersi a T'Challa. Fremeva dal desiderio di fare qualcosa,
di poter tornare a decidere delle proprie azioni.
Il
sovrano inarcò appena le sopracciglia, sorpreso. «Penso che prima sia meglio
che tu ti sistemi un po’. Non so, fare una doccia, mangiare un boccone»
aggiunse, notando l’espressione di Bucky.
«Non
serve. Ho passato di peggio» fu la risposta.
Tuttavia
T'Challa non gli prestò particolare attenzione. Fece un rapido gesto con la
mano, come a scacciare una mosca. «Insisto. Se proprio vuoi iniziare subito
possiamo fare fra un paio di ore. Nell’immediato non te lo permetterei.»
Bucky
non replicò. Si limitò ad annuire al sovrano, consapevole che la sua si potesse
ugualmente considerare una vittoria. Rimase a guardarlo mentre si rivolgeva ad
Anisa: «Tu saresti disposta?»
Lei
rispose affermativamente con un gesto del capo e senza dire altro. T'Challa
allargò le braccia, visibilmente soddisfatto. «Ottimo. Allora comincerai la tua
terapia – permettimi di chiamarla in questo modo – fra due ore. Adesso, se sei
d’accordo, ti farò mostrare i tuoi alloggi.»
A
quelle parole la donna scattò, avvicinandosi al telefono posto accanto alla
porta, digitando quattro cifre e pronunciando poche parole. Durante l’attesa
T'Challa ne approfittò per dare alcune delucidazioni a Bucky per la sua
prossima permanenza a palazzo. Il Soldato aveva libero accesso a quasi tutte le
stanze e sarebbe stato trattato come un ospite gradito. A palazzo tutti
sapevano del suo risveglio e nessuno avrebbe posto domande.
Dopo
diversi minuti qualcuno bussò alla porta del laboratorio ed entrò dopo aver
ricevuto il permesso a farlo. Madisa comparve nella
stanza, i lunghi capelli sempre raccolti in ordinate treccine. Salutò i
presenti con un inchino e si sistemò accanto al sovrano.
«Mandisa» la presentò lui al Soldato, indicando la donna.
Dopodiché si rivolse direttamente a lei: «Vorrei che accompagnassi James Barnes
nei suoi alloggi e che gli mostrassi come raggiungere l’altro laboratorio per
dopo. Fagli avere anche degli abiti puliti, per favore.»
Lei
lanciò un’occhiata diffidente a Bucky, infine rispose: «Certamente.»
«James,
se non ti dispiace seguire Mandisa… Noi ci vediamo
più tardi.»
Il
Soldato si alzò dal lettino, faticando un po’. Anisa si tenne pronta nel caso
l’uomo avesse avuto bisogno di aiuto, ma non fu necessario. Per quanto potesse
sembrare impossibile si reggeva perfettamente sulle proprie gambe. Il suo corpo
aveva ricevuto simili trattamenti – e molto spesso ben più spietati – parecchie
volte ormai. Anche grazie agli esperimenti che avevano condotto su di lui e
agli allenamenti che lo avevano plasmato e fortificato, per indebolirlo
notevolmente serviva molto più di un risveglio dai ghiacci; da quello, come
aveva appena dimostrato, sapeva rimettersi con estrema rapidità. Senza
proferire altra parola Bucky seguì una riluttante Mandisa
oltre la soglia, lasciando che la porta si richiudesse alle loro spalle.
«Cosa
ne pensi?» esordì T'Challa subito dopo, rivolto all’assistente. C’era una nota
di gioia nella sua voce, di pura soddisfazione. Anisa sapeva che era contento
dell’esito di quell’incontro, ma per lei non valeva lo stesso. Continuava a
nutrire dei dubbi; non su James Barnes, ma su tutta la situazione in generale.
Quando T'Challa le aveva detto di avere un piano si era aspettata qualcosa di ben
diverso, non che scongelasse Barnes nella speranza che, una volta rimosso ciò
che lo rendeva il Soldato d’Inverno, lui accettasse di aiutarli a fronteggiare
Klaw.
Scoccò
una rapida occhiata in direzione dei tre medici ancora presenti, concentrati
intorno a un unico schermo.
«Con
tutto il dovuto rispetto, altezza» iniziò Anisa. Non fu in grado di tenere a
freno il suo scetticismo, ma si ricordò bene di dare del voi a T'Challa come
faceva sempre quando erano in pubblico. «Non penso che risvegliare il sergente
Barnes sia stata la scelta migliore.»
Il
sovrano la guardò sorpreso. «Ne abbiamo già discusso, Anisa.»
«Sì,
ne sono consapevole. Tuttavia continuo a crederlo.»
T'Challa
si voltò verso i medici; questi non davano l’impressione di essere interessati
al dialogo fra i due, ma non gli importò. Con un cenno fece loro capire che
voleva essere lasciato solo con la donna e i tre uscirono dalla stanza. Il
silenzio calò intorno agli unici rimasti. T'Challa respirò a fondo e guardò
Anisa negli occhi.
«Perché
non dovrebbe essere la scelta giusta?» domandò, senza sentire realmente il bisogno
di ricevere una risposta. «Pensi che possa diventare pericoloso?»
«Niente
di tutto questo» replicò lei pronta. «Semplicemente considerando quello che sta
accadendo avremmo dovuto dare altre priorità.»
«Quali
altre priorità?»
«Lo
sai a cosa mi sto riferendo.»
T'Challa
prese a camminare avanti e indietro per la stanza, indispettito dal
comportamento della donna.
«Barnes
può aiutarci. Abbiamo trovato un cura, che senso aveva tenerlo ibernato ancora
a lungo? Tanto valeva ucciderlo se non avevamo intenzione di risvegliarlo» le
ricordò poi.
«E
se lui non volesse aiutarci? Se le cose che gli hanno inculcato non se ne
andassero solo con quel farmaco sperimentale?»
Ogni
sua domanda era come uno sparo. T'Challa le aveva prese in considerazione tutte
mentre si stava dirigendo verso la camera criogenica la sera prima, quando
aveva dato l’incarico di scongelare il Soldato. Tuttavia non era riuscito a
elaborare un piano migliore di quello. Se voleva tenere fuori le Nazioni Unite
ma cercare qualcuno – qualcuno con capacità al di sopra di quelle umane –
disposto ad aiutarlo in caso di una risposta negativa da parte di Captain
America, non aveva trovato altra soluzione se non rivolgersi a Barnes. A ogni
modo prima era necessario restituire le piene capacità decisionali all’uomo e
ciò richiedeva tempo. Il sovrano sapeva che quello che preoccupava tanto Anisa
era proprio lo scorrere del tempo.
«Avresti
un’idea migliore?» chiese poi.
La
risposta fu pronta: «Sai cos’avrei voluto fare. Ma tu hai preferito cercare
Rogers!»
La
donna era adirata, ma ciò che, in quel momento, incrinava la sua voce era
l’angoscia. Il sovrano la guardò. Non riusciva ad arrabbiarsi con lei. Sapeva
ciò che provava, così come sapeva quanto fremeva dal desiderio di fare
qualcosa. Si avvicinò ad Anisa, per poi parlare con il suo tono più risoluto e
calmo: «So che sei preoccupata che passi troppo tempo, che Klaw possa fare del
male a qualcuno o che diventi più forte e organizzato. Tuttavia, Anisa, non
sappiamo neanche dove sia nascosto.
«Mentre
svolgiamo le ricerche per trovarlo c’è il tempo di aiutare Barnes. Può darsi
che la sua situazione si sistemi prima di aver trovato Klaw e che lui sia
disposto ad aiutarci ad affrontarlo. Oppure Edet può
riuscire a trovare Captain America prima. Può accadere di tutto, lo sai.
«Tuttavia
ti prometto che se trovassimo Klaw a breve e nessuno fosse disposto ad
aiutarci, allora la Pantera combatterà quella battaglia anche a costo della
propria vita.»
La
donna lo guardò negli occhi scuri, calmandosi improvvisamente. Tutte le
incognite in cui si erano imbattuti non la lasciavano in pace, eppure, così
come aveva fatto per tutta la sua vita in Wakanda, decise di fidarsi di
T'Challa ancora una volta. Annuì lentamente con la testa in un gesto fluido. Il
sovrano prese la sua mano destra e la portò alle labbra, lasciandovi sopra un
leggero bacio.
«Grazie»
le disse e sul viso di Anisa si disegnò un lieve sorriso.
*
Varcata
la soglia del laboratorio si rese conto che era molto più piccolo dell’altro.
La stanza era circolare, interamente avvolta da ampie vetrate dietro le quali
vide svariate persone, alcune addirittura armate. Non ne fu sorpreso, né
infastidito; tutti avevano tentato di tenere a freno con quei mezzi l’ira del
Soldato d’Inverno. Quando arrivò accanto al lettino al centro del piccolo
laboratorio, gli abiti puliti e profumati di fresco, si accorse di non essere
solo lì dentro. In quello che, fino a quel momento, era stato il suo punto
cieco, notò la giovane donna dalla pelle bianca che aveva incontrato solo poche
ore prima. Ricordava già il suo nome. Anisa aveva legato i lunghi capelli
castani in una morbida crocchia sopra la testa,in una mano stringeva una cartellina, mentre nell’altra tenevano un
anonimo contenitore bianco.
«Ben
ritrovato» salutò lei, indicando poi il lettino presente al centro della
stanza, unico oggetto d’arredo insieme a un tavolo apparecchiato con una
caraffa colma d’acqua, due bicchieri e qualche piccolo piatto in acciaio. Bucky
capì di essere stato invitato a sedersi e prese posto sul lettino. Compiere
quelle azioni usando un braccio soltanto gli risultava impegnativo. Come prese
posto, Anisa si avvicinò, posando entrambe le cose che reggeva sul tavolo.
«Pronto
per incominciare, James?»
Lui
la guardò. Per Anisa non fu semplice non sentirsi scrutata fin nel profondo
dagli occhi chiari dell’uomo. Non le riuscì di leggere alcuna sfumatura emotiva
in quello sguardo, se non una determinata attenzione. Nuovamente le parve di
avere davanti un gatto, diffidente, in attesa e, improvvisamente, il desiderio
di aiutarlo si intensificò in lei.
«Preferirei
essere chiamato Bucky.»
Queste
parole presero alla sprovvista la donna che quasi si era dimenticata di ciò che
aveva appena detto. Riacquistando il controllo di sé, sorrise. «D’accordo,
Bucky. Se sei pronto direi di cominciare.»
Non
attese una risposta, sapeva che lui era pronto, così come aveva già capito che
non sarebbe stato un paziente molto loquace. Dal contenitore che aveva posato
poco prima fece scivolare fuori una capsula bianca, che cadde nel piattino in
acciaio con un rumore sordo. Mostrò il tutto al Soldato.
«Questo
è il farmaco di cui ti ha parlato T'Challa. È sperimentale, come avrai già
capito, ma funziona.»
Bucky
continuò a osservare la donna, sperando che approfondisse in fretta
l’argomento. Anisa, infatti, continuò subito: «Il farmaco lavora a stretto
contatto con i ricordi. È in grado di inibire gli impulsi elettrici relativi a
un dato pensiero fino ad annullarli. È piuttosto difficile da spiegare»
aggiunse, notando l’espressione dell’uomo, «ma funziona. Per farti capire, i
test svolti avevano il compito di far dimenticare ricordi recenti, come ciò che
le persone che stavano testando il farmaco avevano mangiato a colazione.»
Schioccò
le dita. «Risultato? Non ricordavano nemmeno di aver fatto colazione.»
Il
Soldato si sentì rinfrancato da una simile notizia, ma solo per pochi attimi.
Ciò che doveva dimenticare lui era avvenuto molto tempo prima, non si poteva
certo paragonare al fatto di non ricordare in cosa consistesse la propria
colazione.
Come
se avesse udito i suoi pensieri, Anisa precisò: «Nel tuo caso non sarà così
semplice, per questo T'Challa ha detto che potrebbero servire molteplici
somministrazioni. Non siamo neanche certi che su di te funzioni.»
«Non
resta che provarlo» replicò l’uomo, una leggera alzata di spalle a precedere le
parole.
Anisa
sorrise. Aveva sempre avuto un debole per le persone che sapevano ciò che volevano
e non poté negare che James Barnes fosse uno di quelli.
«Sono
d’accordo. Ma prima devo spiegarti come funziona e tutto il resto.»
Sbuffò
leggermente, sistemandosi un’inesistente piega dell’abito scuro. «T'Challa te
lo ha detto, sarà doloroso.»
Il
Soldato si irrigidì appena e serrò la mascella.
«Tuttavia
non lo sarà dal punto di vista fisico, bensì da quello emotivo. Come ti ho
anticipato il farmaco lavora a stretto contatto con i ricordi, ciò significa
che per dimenticare sarai costretto a ricordare.»
Bucky
capì subito che cosa intendeva la donna, così come T'Challa quando gli aveva
anticipato la cosa ore prima. Il sovrano aveva definito la cura dolorosa e non a torto, ora lo aveva
capito. Tuttavia, per quanto a lui
avesse potuto fare male, per i presenti quel percorso sarebbe potuto essere
pericoloso se il Soldato d’Inverno si fosse in qualche modo risvegliato.
Improvvisamente si spiegò la presenza delle persone armate appostate oltre i
vetri e non ne rimase sorpreso. Ciò che gli parve strano a quel punto era come
mai, a seguirlo, T'Challa aveva preferito mettere una donna all’apparenza
fragile come Anisa.
«Che
cosa devo fare?» chiese infine, decidendo di andare avanti.
Lei,
che certamente si aspettava quella domanda, disse: «Il farmaco inibisce e
cancella i ricordi nei cinque minuti subito successivi alla sua assunzione. Ciò
vuol dire che una volta presa una di queste belle capsule» mise sotto il naso
di Bucky il piattino con la pastiglia in questione, «il farmaco comincia ad
agire e ti fa scordare tutto ciò che ti torna alla mente in quei cinque minuti.»
L’uomo
era stupito, ammirato e confuso al tempo stesso. Anisa non ci badò.
«Ora,
correggimi se sbaglio, il pericoloso Soldato d’Inverno celato in te si
risveglia se sente una precisa sequenza di parole russe, giusto?»
«Sì,
è così.»
«Allora
non dobbiamo fare altro che rendere tali parole prive di significato, usando
questo» concluse, indicando nuovamente la capsula. Bucky vi posò sopra lo
sguardo, corrugando lievemente la fronte.
«E
come pensate di fare?» chiese, divenendo più scettico. Aveva assistito a
parecchie cose strane dopo il suo penultimo risveglio, ma quello che Anisa gli
stava raccontando gli sembrava assolutamente insensato.
La
donna sollevò un sopracciglio, inclinando leggermente la testa di lato. «In che
senso?»
«Come
potete sperare di farmi dimenticare quelle parole senza che io torni a essere
il Soldato d’Inverno?»
Contro
ogni previsione dell’uomo, lei sorrise. Posò il piccolo piatto in acciaio sul
tavolo e guardò negli occhi Bucky.
«Semplicemente
scollegando quelle parole fra loro.»
Il
silenzio del Soldato le diede modo di proseguire nella sua esposizione: «Quello
che succede nella tua testa ogni volta che senti quelle parole è una sorta di
reazione involontaria della tua psiche. Non puoi dominarla, è talmente radicata
in te che ti è impossibile. È lo stesso principio che porta il nostro cervello
a ritrarre la mano quando ci scottiamo. Così come se ci scottiamo ritiriamo
involontariamente la mano, tu, se senti quelle parole, torni a essere il
Soldato d’Inverno. Non è uno dei miei esempi più riusciti, spero di essere
stata chiara.»
Lo
era stata eccome. Nessuno meglio di lui sapeva cosa si provava a tentare di
resistere inutilmente a qualcosa in grado di far perdere il controllo. Era una
sensazione opprimente, che toglieva il fiato e rendeva tutto buio, pesante e
freddo. Il fatto di non potercisi sottrarre era anche peggiore di come lo
faceva sentire.
Tornò
a guardare Anisa e scoprì che lei aveva ancora qualcosa da aggiungere.
«Ciò
che dobbiamo fareè far si che quelle
parole ti diventino sconosciute, totalmente prive di senso e di riferimento.
Per fare questo lavoreremo su una sola parola alla volta e solo quando ci
saremo accertati che essa abbia perso ogni significato per te passeremo alla successiva.»
Ancora
una volta Bucky non proferì parola. Tuttavia Anisa non aveva altro da dire ed
era curiosa di sapere cosa aveva intenzione di fare l’uomo. Non solo il farmaco
era sperimentale, ma anche la terapia che T'Challa e i medici avevano ideato lo
era. Inoltre le possibilità che funzionasse veramente erano poche, mentre il
rischio di risvegliare il Soldato d’Inverno era decisamente maggiore.
Infastidita
dal silenzio dell’uomo, Anisa decise di fargli notare di avere bisogno di un
riscontro. «Quindi? Vuoi andare avanti?»
Per
quanto chiaro, lo sguardo con cui lui la guardò era rovente, completamente
intriso di determinazione.
«Siete
voi a correre i rischi maggiori se la cosa non dovesse funzionare.»
Intuendo
ciò di cui l’uomo parlava Anisa incrociò le braccia, un leggero sorriso
divertito aleggiava sul suo volto.
«Per
quanto forte possa essere, il Soldato d’Inverno senza il suo braccio di metallo
è pericoloso la metà.»
L’impulso
a sorridere di Bucky venne bloccato dalla consapevolezza che la donna aveva ragione.
«Comunque
sia» si affrettò a riprendere lei, notando l’espressione del Soldato, «Se sei
intenzionato ad andare avanti possiamo iniziare.»
Tornò
ad afferrare il piattino in acciaio, portandolo davanti a Bucky. Lui osservò il
suo contenuto, poi guardò la donna, tranquilla e sicura.
«Cominciamo»
disse e afferrò la capsula che lei gli stava porgendo.
_______________________________
Ed
ecco qui la mia nota a fine pagina.
James
Barnes, il caro Bucky, è arrivato – o, meglio, è stato scongelato. Ero
intenzionata fin dall'inizio a fargli prendere parte alla storia anche perché,
diciamolo, la scena dopo i titoli di coda di CW fa ben sperare nella sua
presenza al fianco della Pantera.
Per
quanto riguarda la "cura" di Bucky avevo pensato a diverse ipotesi,
ma alla fine ha prevalso quella del farmaco sperimentale, principalmente per il
fatto che le altre avevano meno senso di questa.
Concludo
ringraziando tutti quelli che stanno portando avanti la mia storia, grazie
davvero!
Il
metallo del tavolo vibrava a ogni colpo. Questi venivano scagliati con violenza,
seguiti da grida soffocate, trattenute a stento fra le labbra serrate. Bucky
Barnes continuava a dare pugni sul piano del tavolo, la mano destra dolorante,
ma non sapeva come altro fare per tentare di tenere a freno un istinto di
ghiaccio che non voleva rimontasse.
Diciassette – семнадцать – la parola che quel pomeriggio lo aveva
avvolto nel freddo, facendogli improvvisamente perdere il completo controllo di
sé. Si era sentito montare da un’improvvisa irritazione, una rabbia controllata
che aveva reso i suoi muscoli tesi, che lo faceva fremere. Prima che potesse
mancargli totalmente la lucidità aveva costretto se stesso a resistere, a
combattere una lotta interna che sapeva già avrebbe perso e la cui strenua
resistenza passava dal disperato tentativo di mantenere il controllo del
proprio corpo.
«Basta così!»
La voce di Anisa si levò forte nel
piccolo laboratorio. L’uomo che fino a quel momento parlava chiaro in lingua
russa cessò d’improvviso e i colpi scanditi contro il piano metallico
terminarono pochi attimi dopo. Solo il respiro affannato del Sodato riempiva
l’aria mentre quest’ultimo teneva gli occhi fissi sull’argento sotto i suoi
occhi.
Erano trascorsi otto giorni
dall’inizio, da quando Bucky aveva assunto la prima capsula bianca,
costringendo la sua mente a ricordare i giorni di prigionia nell’HYDRA e
nient’altro e Muenda – l’uomo incaricato da T'Challa per la sua conoscenza
della lingua russa – aveva iniziato a leggere in ordine sparso le fatidiche
parole, affinché, grazie al farmaco, diventassero vuote. Con igiorni quelle dieci parole avevano
perso ogni significato per Bucky. Erano diventate suoni estranei e niente di
più. Tuttavia quando la sequenza di
parole veniva correttamente pronunciata,
qualcosa nella mente del Soldato scattava e neanche il farmaco era riuscito a
sopprimere quell’istinto che si risvegliava – anche se non aveva ancora fatto
in tempo a ridestarsi completamente. Ogni volta che stava per accadere Anisa
bloccava tutto lasciando dentro Bucky una voragine caotica e un intenso dolore.
Per
motivi che lui non riusciva a spiegarsi ogni volta che accadeva era una
sofferenza, una tortura. Quelle parole lo rispedivano indietro, nel gelo di
quegli squallidi laboratori sotterranei in cui lo avevano soffocato più volte,
impedendogli di ricordarsi di se stesso, annebbiandogli la mente fino a farlo
diventare incapace di provare qualsivoglia cosa. Per quanto si sforzasse non
riusciva a controllarsi. La rabbia gli montava dentro, si insinuava in ogni più
minima parte di sé, raggiungendo anche i punti più nascosti, accecandolo.
Insieme a essa si facevano strada i ricordi, un ammasso caotico di grida,
suppliche e sofferenza. Le sensazioni si ammassavano in lui, resistere loro gli
era quasi impossibile e lo sapeva. Sapeva che se Anisa, ogni volta, non avesse
interrotto il processo in tempo, impedendo a Muenda di proseguire, al
progredire di quelle parole Bucky Barnes sarebbe stato annullato e sopraffatto
dal Soldato d’Inverno che custodiva dentro.
Sudore
freddo imperlava la fronte dell’uomo, che teneva ancora gli occhi fissi sul
tavolo davanti a sé. Continuava a respirare pesantemente come se si fosse
risvegliato da un brutto sogno. Poco dopo un bicchiere d’acqua venne posato
proprio nel punto in cui stava fissando.
«Tre parole, Bucky. Ieri eravamo
arrivati a cinque.»
L’ormai famigliare voce di Anisa gli
fece sollevare lo sguardo e subito incontrò quello nocciola di lei. Fu un solo
istante, scomparve veloce com’era arrivato, ma Anisa avrebbe potuto giurare di
vedere un bagliore di paura negli occhi tanto chiari quanto belli dell’uomo. La
donna rimase un momento spaesata, infine sollevò la testa e si rivolse a tutto
il personale che, ogni volta, assisteva alla terapia del Soldato.
«Lasciateci soli, per favore. Anche tu
Muenda» concluse, rivolgendosi al solo uomo insieme a lei e Bucky nella piccola
stanza circolare. Il suo tono non ammetteva repliche, ma qualcuno, oltre i
vetri, parlò attraverso l’interfono: «Ma, signorina ci è stato detto…»
Non concluse mai la frase. Anisa lo
trafisse con lo sguardo ripetendo la richiesta di pochi attimi prima e
lentamente il piccolo laboratorio si svuotò. Quando rimase sola con Bucky – il
quale aveva preso a fissare ostinatamente il bicchiere – si sistemò sulla sedia
libera proprio di fronte a lui. L’uomo non sollevò lo sguardo, lei rimase a
guardarlo in silenzio. Da un paio di giorni avevano notato che la terapia non
stava avendo lo stesso effetto che aveva all’inizio. Le singole parole russe
era riuscito a dimenticarle in fretta grazie al farmaco, ma lo stesso non
valeva per la loro lettura nella sequenza corretta. Lo vedeva, quando quelle
parole erano pronunciate nell’ordine giusto qualcosa nell’uomo si trasformava.
Si irrigidiva, tendeva i muscoli e i suoi occhi diventavano assenti. Cercava di
resistere a quella involontaria trasformazione soffocando a stento grida e
sfogando sul tavolo che aveva davanti la rabbia che certamente gli montava, ma
Anisa sapeva che solo l’interruzione poteva funzionare e lei, ormai da giorni,
bloccava tutto prima che Bucky potesse diventare pericoloso contro la sua stessa
volontà. Tuttavia il fatto che la terapia di T'Challa avesse funzionato solo a
metà e che fallisse proprio nella parte più importante di tutto il percorso,
non la faceva stare tranquilla.
«Ti senti bene?» chiese infine la
donna, dopo un lungo silenzio.
Bucky tornò a guardarla, senza
rispondere. Il suo respiro si era regolarizzato e i muscoli rilassati, ma non
poteva certo dire di stare bene. Dentro li vedeva ancora, li sentiva ancora,
come fantasmi tornavano sempre insieme al gelo: i troppi ricordi di una vita
passata a essere l’arma spietata e infallibile di persone senza anima.
Continuamente si accavallavano dentro di lui portando con sé una consapevolezza
fatta di angoscia e dolore.
«Bucky…»
Anisa provò a chiamarlo e per un
momento all’uomo tornarono alla mente le persone che lo avevano chiamato così
prima di lei.
«Non ci riesco» mormorò il Soldato,
abbassando nuovamente gli occhi.
La donna rimase sorpresa dalla sua
affermazione. Era la prima volta in assoluto che sentiva dire una cosa del
genere da lui da quando avevano avviato la terapia. Stava per ribattere ma non
fece in tempo. Nuovamente Bucky parlò con voce così bassa che lei dovette
concentrarsi per non perdere una sola parola, nonostante il silenzio regnasse
ovunque intorno a loro.
«Ogni volta che sento quelle parole
qualcosa in me si risveglia, non riesco a controllarlo. E sono lì, i ricordi, i
volti, i nomi delle persone a cui ho fatto del male sono ancora tutti lì.»
Aveva alzato il tono della voce, mentre
la frustrazione divenne perfettamente decifrabile in ogni parola.
«È opprimente. Cerco di non pensarci ma
non vogliono andare via.»
Anisa fece per parlare, ma non le
riuscì di dire nulla. Sospirò silenziosa, consapevole di non poter immaginare
come si potesse sentire l’uomo. Nessuno avrebbe potuto capire cosa si celava
nella sua mente, quale dolore – o quale sensazione ancora più intensa – lo
accompagnasse ogni volta. Improvvisamente le venne un’idea.
«Possiamo…» cominciò, ma si bloccò
quando gli occhi grigio-azzurri dell’uomo puntarono nei suoi. Le parve
smarrito, incapace di trovare una via di fuga dalla sua situazione.
Si ricompose, riprendendo parola:
«Possiamo usare il farmaco se te la senti. Possiamo fare in modo che ti aiuti a
dimenticarti di tutto ciò che hai dovuto fare per l’HYDRA.»
La risposta del Soldato fu pronta: «No.
Non voglio dimenticare niente di ciò che ho fatto.»
Anisa fu presa alla sprovvista da
quelle parole e non seppe cosa dire in risposta.
«So che non ero in me, che non avrei
mai fatto quelle cose se avessi potuto scegliere e che tutti questi pesanti
ricordi che porto dentro non ci sarebbero nella mia mente se non fosse stato
per l’HYDRA. Tuttavia non voglio dimenticare. Solo così potrò essere sicuro di
non fare più del male a persone innocenti.
«È solo che continuano a tornarmi alla
mente. Non riesco a controllarli, non riesco a conviverci, sono una presenza
costante che fa davvero male.»
Aveva stretto i denti sul finire della
frase, la mano chiusa a pugno abbandonata in grembo. Il cuore aveva ripreso a
martellargli nel petto e il respiro cominciava a infrangersi nuovamente.
Anisa rispettò il silenzio dell’uomo.
Sentì formarsi un nodo alla gola mentre ripensava alle parole appena
pronunciate da Bucky; la consapevolezza di non riuscire a capire veramente il
suo stato d’animo la fece sentire inutile. Come poteva aiutare una persona in
quella situazione? Come poteva anche solo sperare – lei, ma anche T'Challa – di
restituire un po’ di pace a qualcuno che per tutta la vita si era macchiato del
sangue di innocenti per conto di altri? Al confronto la sua storia, che lei
aveva sempre trovato dolorosa, sembrava una gita in campagna. Ripensare al suo
passato, però, le fece venire un’idea. Per quanto le loro storie non avessero
nulla in comune, c’era qualcosa che aveva permesso ad Anisa di continuare per
la sua strada e che poteva, in qualche modo e con tanta forza di volontà,
aiutare anche il Soldato d’Inverno.
Respirò a fondo e si decise a dire a
Bucky una verità che solo pochi wakandiani conoscevano.
«Rebecca Russell.»
L’uomo la guardò, corrugando la fronte
confuso.
«Come?» sussurrò.
La donna rispose al suo sguardo con
sicurezza, stringendosi leggermente nelle spalle. «Rebecca Russell. È il mio
vero nome. Sono scozzese.»
Se possibile l’espressione di Bucky si
fece ancora più confusa. Rimase a fissare Anisa non capendo dove volesse
arrivare, né cosa c’entrasse la sua ammissione con quello che lui aveva appena
detto. Tuttavia lei non parve fare caso a questo e, senza staccare gli occhi da
quelli dell’uomo, ricominciò a raccontare: «Io e la mia famiglia ci siamo
trasferiti in Kenya quando avevo dieci anni. Mio padre aveva trovato une
bellissima casa vicino al lago Turkana, proprio al confine con il Wakanda.
Insegnava inglese alla scuola di North Horr; ogni giorno doveva farsi più di
due ore di macchina, ma a lui andava bene così. Gli piaceva il suo lavoro e a
me piaceva vivere là.
«Poco dopo il mio tredicesimo
compleanno, una sera, tre uomini vennero a suonare alla nostra porta. Il loro
capo si presentò come Ulysses Klaw. Disse a mio padre che la nostra casa si
trovava proprio sul più grande giacimento di vibranio non appartenente al
Wakanda e che lui avrebbe voluto acquistarla. Era disposto a pagare qualsiasi
cifra ma mio padre fu inamovibile; non avrebbe mai venduto. Klaw gli diede
tempo per pensarci, mio padre gli disse che potevano anche evitare di tornare.
«Tre giorni dopo tornarono. Quando mio
padre aprì la porta non gli chiesero neanche se avesse ripensato alla loro
proposta. Gli spararono a bruciapelo e lo uccisero. Mia madre fece a malapena
in tempo a dirmi di fuggire, subito dopo spararono anche a lei e io scappai
quando mi resi conto che avrebbero ucciso anche me.
«Non sapevo dove andare e mentre correvo
con loro che mi inseguivano perché avevo visto troppo, varcai involontariamente
i confini del Wakanda. I wakandiani hanno sempre tenuto ben monitorati i propri
confini. Si accorsero subito che c’era un intruso e alcune guardie mi
raggiunsero prima che potessero riuscirci Klaw e i suoi uomini. Quando capirono
cosa stava accadendo affrontarono Klaw e misero i tre in fuga, infine mi
portarono a palazzo, dal sovrano.
«T’Chaka ascoltò il mio racconto e ne
rimase commosso. Fece in modo che i miei genitori potessero avere una degna
sepoltura, infine mi accolse a palazzo, sostenendo che T'Challa avrebbe potuto
avere bisogno di una sorella in più. Non so per quale motivo avvenne, ma io e
T'Challa stringemmo un legame indissolubile in breve tempo e diventammo
inseparabili. Mi insegnò la lingua, a combattere e a cavarmela da sola,
trasferendo a me gli insegnamenti che suo padre tramandava lui. Per il mio
diciottesimo compleanno decise che meritavo un nome wakandiano e scelse per me
Anisa, che significa “amica leale”. Una volta divenuto re fece di me la sua
personale assistente ed è per questo che sono qui.»
Si zittì, distogliendo lo sguardo.
Bucky non disse nulla, si limitò a guardarla, confuso e dispiaciuto. Aveva
trovato una risposta a quella che era stata la prima domanda che gli era sorta
in mente appena aveva visto la donna, ma aver scoperto come mai quella donna
dalla pelle bianca si trovasse in Wakanda lo rattristò.
«Sono consapevole del fatto che le
nostre storie non si possono paragonare e so di non poter capire come ti senti.
Quello che cerco di dirti con tutta questa storia è che anche io ho perso
tutto, una volta. Ma poi ho incontrato T’Chaka e ho avuto una nuova occasione.
Anche tu hai ritrovato Steve Rogers, sei riuscito a liberarti dalla schiavitù
dell’HYDRA. Hai finalmente la possibilità di decidere cosa fare e quali
battaglie affrontare. Devi essere consapevole di ciò. Devi
aggrapparti a questa consapevolezza con tutto te stesso e fare in modo che ciò
che hai subito in passato diventi cenere al suo confronto.»
Il Soldato non rispose, tuttavia
assorbì ugualmente ogni parola. Non gli fu semplice intuire subito cosa
intendesse esattamente Anisa, ma alla fine capì cosa voleva dire la donna. Non
sarebbe stato facile riuscire a far passare in secondo piano tutto il suo
passato, anche se lo sprone era la consapevolezza che, una volta eliminata la
sequenza di parole che lo rendeva il Soldato voluto dall’HYDRA, avrebbe potuto
decidere della sua vita e riavere l’amico di sempre. Sapeva che Anisa aveva
ragione. Aveva trascorso due anni – dopo la distruzione degli Helicarrier a
Washington D.C. – in solitudine, senza fare del male a nessuno e costruendosi
intorno l’abbozzo di vita migliore che fosse riuscito a ottenere del 1945.
T'Challa gli stava dando la possibilità di trasformare quell’abbozzo in
qualcosa di migliore e non sarebbero stati i suoi fantasmi, né il suo passato a
distruggere il suo lavoro.
Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui
gli sguardi dei due non si erano mai incontrati, fu Bucky il primo a
interrompere tutto. «Mi dispiace per i tuoi genitori» disse.
La donna lo guardò e sorrise
debolmente. «Non era di me che avevo intenzione di parlare» ammise lei,
dopodiché sollevò il capo con fierezza e chiese: «Che cosa pensi di fare ora?»
L’uomo non dovette pensarci, aveva già
preso la sua decisione attimi prima.
«Fai tornare qui Muenda. Ci voglio
riprovare.»
*
«Non puoi immaginare quanto io sia
felice di questa notizia, Anisa, davvero non ne puoi avere idea.»
T'Challa camminava avanti e indietro
per il suo ufficio esternando con soddisfazione la sua gioia. Nella stanza era
tutto in ordine come sempre, fatta eccezione per la scrivania, ingombra di
carte, mappe e penne, che sicuramente erano parte del lavoro di ricerca su Klaw
che T'Challa non avrebbe mai accantonato se solo avesse potuto.
Tre giorni dopo essersi presentata a
Bucky per quello che era veramente – Rebecca – aveva raggiunto l’ufficio del
sovrano per dargli la notizia che, finalmente, le dieci parole russe non erano
più in grado di risvegliare il lato peggiore del Soldato d’Inverno. T'Challa
era esploso in un grido di soddisfazione, ma prima di lasciarsi andare
completamente aveva preteso delle conferme e Anisa, con una punta di orgoglio
nella voce, aveva rivelato che quattro volte consecutivamente Muenda aveva
pronunciato quelle dieci parole – con l’enfasi di chi vuole farsi obbedire dal
Soldato – e per quattro volte James Barnes era rimasto immobile al suo posto,
senza liberare neanche un solo, flebile, rantolo.
«Non avrei mai creduto che gli sarebbe
bastato così poco tempo. Credevo sarei riuscito prima a trovare Klaw.»
L’euforia del sovrano si spense a
quelle sue stesse parole. Nei dodici giorni necessari a Bucky per ritrovarsi,
T'Challa non aveva fatto progressi sul nuovo nascondiglio di Klaw. Aveva mandato
in avanscoperta uomini, Sentinelle, aveva raccolto dati, seguito piste e
notizie, ma ancora non aveva niente. In compenso alcuni soldati etiopici erano
stati feriti o uccisi, altri erano scomparsi e lui era pronto a giurare che
dietro a tutto ciò si celava Ulysses Klaw.
«Ancora nessuna novità?» domandò Anisa,
lo sguardo fisso sulle carte che ingombravano la scrivania e l’amarezza nella
voce.
«No, purtroppo. Sto aspettando alcuni
responsi di rilievi fatti questa mattina vicino al lago Turkana.»
La donna si limitò ad annuire, senza
aggiungere altro. Anche T'Challa non proferì altra parola sull’argomento, ma
tornò alla lieta notizia che Anisa gli aveva portato.
«Tornando a Barnes» esordì, catturando
subito l’attenzione della donna. «Penso sia ora di fargli avere un braccio
nuovo.»
«Braccio?»
Il sovrano la guardò, lievemente
stupito dalla sua sorpresa.
«Sì, braccio. Non vorrai lasciarlo
mutilato, vero? Ora che sappiamo che l’HYDRA non può più controllarlo non vedo
perché proibirgli di riavere il pieno uso dei suoi arti.»
Anisa continuava a guardarlo, stranita.
«Hai… hai già provveduto…»
Non terminò la frase. T'Challa sorrise,
radioso. «Un piccolo capolavoro. Non posso certo prendermi tutto il merito dato
che mi sono totalmente ispirato a quello che Barnes aveva e che è andato
distrutto, ma il risultato non è niente affatto male. È venuto proprio come nei
miei progetti.»
Il viso della donna si accigliò.
T'Challa si rese subito conto che qualcosa la turbava, la sua reazione era
totalmente differente da quella che si era immaginato.
«Qualcosa non va?» le chiese, facendosi
improvvisamente serio e avvicinandosi di un passo ad Anisa.
Si guardarono, lui in attesa lei alla
ricerca delle parole migliori per potersi esprimere.
«Glielo vuoi chiedere davvero?» domandò
infine, mormorando in modo quasi incerto le parole. T'Challa ci mise pochi
secondi ad afferrare ciò che lei voleva intendere.
«Sì. Voglio chiederglielo. Non gli farò
alcun tipo di pressione, gli chiederò esclusivamente di scegliere ciò che vuole
davvero fare.»
Silenzio. La donna distolse lo sguardo,
come fosse sotto accusa. Non sapeva cosa pensare. Da un lato era consapevole
che Bucky, ora, non rappresentava più un pericolo e che averlo dalla propria
parte nella lotta contro Klaw si sarebbe potuto rivelare decisivo. Dall’altro
lato, però, dopo aver scoperto il tormento che le azione da lui compiute in
passato – anche se non aveva avuto altra scelta – continuavano a provocargli,
si chiese con che coraggio gli si poteva domandare di affrontare un altro
scontro che non aveva cercato.
«Anisa cosa ti preoccupa?»
Finalmente lei tornò a rivolgere lo
sguardo al sovrano, dando voce e forma al pensiero che le aveva invaso la
mente: «Non so, T'Challa…»
Il suo lieve temporeggiare diede la
possibilità all’uomo di replicare: «Non ti fidi di lui? Tu stessa hai seguito
la sua riabilitazione e mi hai garantito che il farmaco ha funzionato.»
«Sì, certo. Non sto dicendo che non mi
fido di Barnes. È solo che nell’arco della sua vita ha combattuto quasi
esclusivamente guerre che non gli appartenevano. Perché dovremmo chiedergli di
affrontare anche la nostra?»
T'Challa si irrigidì, la consapevolezza che Anisa avesse ragione lo
inondò. Come guardò gli occhi nocciola della donna, un misto di compassione e
preoccupazione, un sorriso addolcì le sue labbra.
«Ti sei affezionata a lui?»
Lo chiese con legittima, ingenua,
curiosità e nulla di più. Fu Anisa a irrigidirsi, ora. Gonfiò il petto in modo
fiero, una leggera nota di stizza a condire il suo tono: «Se anche fosse,
merito una risposta. Non puoi negare che io abbia ragione, così come non puoi
negare il fatto che vuoi chiedere aiuto all’uomo che due anni fa volevi
uccidere e che con tutta questa storia non c’entra niente.»
T'Challa non rispose subito. Chinò il
capo con solenne rispetto, ammettendo così di dare ragione in tutto ad Anisa.
Poi i suoi occhi scuri puntarono dritto in quelli di lei, risoluti e fieri,
così come lo era la sua voce appena parlò: «Sai di avere ragione, Anisa; lo sai
perfettamente e non negherò. Tuttavia sai anche quanto io sia preoccupato per
il mio popolo. Temo che Klaw possa far loro del male e non voglio che accada.
Con le sole forze che abbiamo, però, non sono certo che riusciremo a fermarlo.
Barnes può aiutarci. So che non avrei il diritto di chiedergli aiuto, ma non so
cos’altro poter fare. Comunque sia te l’ho detto: solo se lui è veramente disposto ad aiutarci,
accetterò il suo aiuto.»
La donna parve lievemente rassicurata
da quelle parole, ma T'Challa sapeva che sarebbe servito ben altro per farle
passare ilsuo turbamento. Nei giorni
che Anisa aveva trascorso insieme a Bucky qualcosa in lei era cambiato, il
sovrano lo aveva capito. Non si trattava di preoccupazione per il fatto che il
Soldato potesse fare del male a qualcuno, era la preoccupazione che tutta
quella situazione potesse fare del male al Soldato a impensierire la donna.
T'Challa sospirò. «Sarò sincero con
lui, terribilmente sincero. E qualsiasi sarà la sua scelta sarà mia premura
assecondarla.»
Lei lasciò intendere il suo
apprezzamento per quelle parole, mentre seguiva con gli occhi il sovrano, in
procinto di raggiungere la porta dell’ufficio.
«Ma prima vorrei che il suo braccio
venisse ricostruito. Sarebbe un vero peccato tenere separati un uomo menomato e
una protesi realizzata su misura per lui.»
Aprì la porta, tornando poi a
rivolgersi alla sua assistente: «Saresti così gentile da andare a chiamarlo?»
Anisa non si mosse subito. Rimase a
fissare il sovrano negli occhi, in cerca di qualcosa che potesse esserle
sfuggita. Solo quando si accertò che lui era stato realmente sincero su tutto
fece un cenno del capo e si mosse, uscendo dalla stanza.
Nell’alto
soffitto sopra di sé Bucky aveva ormai sciolto il suo sguardo. Fissava i
pannelli bianchi perfettamente allineati da minuti interi, la luce tenue,
chiara, a far risplendere tutto. Era disteso su un lettino, un occhio di bue
sopra la sua testa e una luce più intensa a sinistra, calata in modo da
permettere ai quattro uomini – due medici e due tecnici – di lavorare con cura,
concentrandosi esclusivamente su quell’unico punto. Erano chini sul suo corpo,
molteplici strumenti intorno, e un solo, impeccabile, arto metallico fra le
mani, che con precisione e abilità stava preparandosi a incontrare il nuovo
proprietario. Bucky non se lo sarebbe
aspettato e, forse, una parte di sé avrebbe preferito che qualcosa di così
forte non gli venisse più restituito. Tuttavia quando T'Challa gli aveva detto
che, terminate le cure, era giusto che riavesse pieno uso del suo corpo, gli
era stato impossibile dire di no. Meno di due settimane gli erano bastate per
capire che se mai avesse dovuto avere bisogno di difendersi o scappare da
qualcuno o qualcosa, senza quel braccio metallico con cui aveva imparato a
convivere e sopravvivere non sarebbe mai andato lontano. Così aveva accettato,
ringraziando l’omaggio che il sovrano gli aveva porto.
Fermo
su quel lettino, consapevole, cominciò lentamente a sentirsi irrequieto. La
prima volta che un braccio meccanico gli era stato impiantato era privo di
sensi e i ricordi vaghi che aveva di quel momento lo riconducevano solo al suo
offuscato risveglio, quando il Soldato d’Inverno era pronto a impossessarsi di
lui. Ora invece era sveglio; poteva vedere il soffitto chiaro, sentire i medici
e i tecnici che parlavano fra loro, i ferri a incastrare, spostare e saldare le
numerose placche metalliche di quello che sarebbe diventato il suo braccio. Di
nuovo un arto metallico, di nuovo una protesi avvinghiata al proprio corpo più
resistente e forte della normale carne.
D’improvviso
li sentì arrivare, numerosi e opprimenti: i fantasmi del proprio passato. I
volti, le grida, le preghiere sue come quelle di tanti altri. Iniziò a sudare
freddo, il cuore che martellava nel petto, i muscoli improvvisamente tesi,
nervosi e irrequieti. Doveva andarsene da lì, allontanarsi da quelle persone
prima di rischiare di far loro del male.
La
porta scattò e la cosa parve spaventare i fantasmi che lo stavano
asserragliando, che silenziosi e temibili come erano giunti, scivolarono di
dosso all’uomo, lasciandogli un profondo senso di turbamento. Sollevando appena
la testa Bucky fu in grado di capire chi era entrato. La figura di T'Challa,
vestito con sobria eleganza come sempre, si fece strada intorno al lettino su
cui era steso.
«Come
procede?» chiese ai quattro uomini, i quali salutarono il sovrano e gli fecero
un veloce riassunto dell’operazione, parlando però nella lingua del loro paese.
Probabilmente la risposta che T'Challa ricevette gli fece molto piacere perché
quando si rivolse a Bucky e quest’ultimo riuscì a vederlo bene in volto, stava
sorridendo.
«Come
ti senti, James?»
Il
Soldato soppesò la risposta da poter dare. Si sentiva intirizzito, ancora
scosso da quel breve e opprimente ripresentarsi del proprio passato. Sentiva la
parte sinistra del corpo formicolare, i nervi pulsare intorno al collo e alla
spalla. Non poteva certo dire che ciò che gli stava accadendo fosse piacevole.
«Intorpidito»
rispose infine.
T'Challa
rise lievemente. «Hanno quasi terminato, manca poco.»
Bucky
fu rincuorato da quelle cinque parole. Non gli piaceva quella situazione, lo
faceva tornare troppo indietro, a momenti ben peggiori.
Improvvisamente
una leggera scarica lo attraversò. Scattò prima ancora che potesse rendersene
conto. Si mosse sul lettino, sollevando il busto, puntellandosi sul gomito
destro, gli occhi vigili in cerca di qualcosa. Accanto a lui medici e tecnici
si ritrassero, spaventati, alcuni ferri caddero in terra e il suono riverberò
nel silenzio per svariati secondi. Con sua grande sorpresa Bucky si accorse che
il braccio metallico era perfettamente ancorato al suo corpo, scintillante,
reattivo.
«Va
tutto bene» disse T'Challa; lo fece per rassicurare l’uomo, ma anche gli altri
quattro che continuavano a fissare il Soldato preoccupati e nervosi.
Bucky
si rese conto di cosa aveva fatto e ne fu rammaricato; con tutta probabilità la
scossa che aveva sentito era dovuta alla definitiva e perfetta unione fra sé e
il nuovo arto. Guardò i medici e si calmò, tornando a sdraiarsi sul lettino e
porgendo loro il braccio sinistro affinché potessero concludere correttamente
il lavoro. T'Challa lo guardò di sottecchi. Capì che anche se il farmaco aveva
funzionato sarebbe stato impossibile per Bucky ignorare il passato. Era
evidente che la preoccupazione di essere sfruttato per fare del male fosse
ancora radicata in lui.
Il
Soldato parve chetarsi, infine. Rimase a fissare sopra di sé con sguardo vago,
ignorando le continue, deboli e veloci, scariche che continuavano a irrigidire
il lato sinistro del suo corpo. Poteva muovere le dita se solo avesse voluto;
sentiva quell’arto fare perfettamente parte di sé, ora. Tuttavia lo tenne
immobile fino a che uno dei tecnici parlò, rivolgendosi a T'Challa: «Abbiamo
concluso.»
Bucky
li sentì ritrarsi, li vide allontanarsi da lui e fermarsi in piedi, in attesa.
«Puoi
alzarti, James» lo esortò T'Challa poco dopo.
Il
Soldato si mise a sedere sul bordo del lettino, tirandosi su con entrambe le
mani. Rimase sorpreso dalla leggerezza e dalla compiutezza di quel braccio
metallico, leggero e reattivo forse addirittura di più di quello che aveva
perduto. I suoi occhi scorsero avidi lungo tutta l’area argentata una, due, tre
e più volte ancora. Guardò l’arto in ogni sua angolazione, scorse lungo i
contorni delle placche, negli incavi delle giunzioni. Fendeva l’aria con
inconsistenza, liberando a ogni gesto una delicata e piacevole vibrazione. Ne sfiorò
la superficie con la mano destra, il metallo era freddo, cosa che non si
sarebbe aspettato diversamente. Il suo nuovo braccio metallico, così simile
eppure così diverso rispetto a quello che aveva avuto per settant’anni, era
pronto.
«Cosa
te ne pare?» chiese T'Challa dopo aver dato tempo a Bucky di osservare il nuovo
arto in ogni sua parte. Quest’ultimo lo guardò senza dire nulla.
«È
in vibranio, più leggero e molto, molto più resistente di quello che avevi
prima. È studiato sulla base dell’altro e abbiamo lavorato per renderlo
reattivo e funzionale. Ci sono oltre 17.000 unità tattili, tutte direttamente
collegate al tuo sistema nervoso, esattamente come un braccio umano.»
Bucky
tornò a guardare la protesi, mentre si accorgeva della nota di pura
soddisfazione che arricchiva la voce di T'Challa. Era combattuto; quel braccio metallico
era l’emblema del suo passato, lo rimandava a chi glielo aveva impiantato la
prima volta, a ciò che poi lo avevano costretto a fare. Eppure la
consapevolezza che quel braccio, di
preciso, era collegato al suo nuovo inizio parve dargli un briciolo di
speranza.
«Avete
fatto un ottimo lavoro» disse infine. Poi si rivolse esclusivamente ai medici e
ai tecnici: «Vi ringrazio.»
I
quattro risposero con un rapido cenno, dopodiché fu nuovamente T'Challa a
parlare: «Mi fa piacere sapere che tutto sia andato bene. Non era un intervento
semplice, significa che i miei uomini hanno lavorato al pieno delle loro
capacità. Vi sono riconoscente.»
Rivolse
un inchino in direzione dei quattro uomini, infine tornò a concentrarsi su
Bucky. «Ora, se non ti dispiace, avrei bisogno di parlare con te. Se prima vuoi
rilassarti un po’, riprenderti da queste ore di operazione, posso capire e sei
libero di prenderti tutto il tempo che desideri. Poi, però, avrei davvero bisogno
di parlarti.»
Il
Soldato lo guardò, lievemente confuso, poi rispose: «Possiamo parlare anche
ora.»
«Ne
sei sicuro? non voglio metterti fretta.»
Bucky
scosse la testa e T'Challa prese quel gesto come la risposta che attendeva.
«Molto bene. Andiamo mio ufficio. Seguimi.»
Diede
un ultimo saluto ai suoi medici e si avviò fuori dalla stanza, facendo strada a
Bucky fino al suo ufficio. Una volta dentro, il sovrano indicò all’uomo una
sedia su cui potersi accomodare.
«Devo
chiamare una persona» lo informò. Si avvicinò al telefono, compose un numero e
dopo pochi secondi disse: «Anisa, puoi venire nel mio ufficio?»
Posò
il ricevitore, infine lanciò un rapido sorriso in direzione di Bucky. Il
Soldato avrebbe voluto dire qualcosa; il silenzio che si era creato era strano,
teso e gli stava provocando una spiacevole sensazione. Capì che T'Challa
avrebbe prima atteso l’arrivo della sua assistente e Bucky sperò che Anisa
arrivasse in fretta. Andò esattamente così; poco dopo un paio di colpi alla
porta ruppero il silenzio, introducendo la donna nella stanza. Lei entrò, indossava
un completo color panna, i capelli sciolti le ricadevano sopra le spalle.
«Eccomi»
disse. Si accorse solo in quel momento della presenza di Bucky, seduto alla sua
destra. Voltò il viso verso di lui, gli occhi scivolarono veloci lungo il
braccio metallico, scintillante e perfettamente visibile, infine tornò a
rivolgersi al sovrano. T'Challa le sorrise, affabile.
«Cosa
ne dici?» chiese, alludendo con un gesto in direzione di Bucky. Anisa tornò a
guardare il Soldato.
«Direi
che hanno fatto un ottimo lavoro.»
Non
aggiunse altro. Si avvicinò alla scrivania e lì si fermò, in attesa. T'Challa
la guardò, facendosi improvvisamente serio. Poi i suoi occhi scuri puntarono in
quelli chiari di Bucky, che vi vide dentro una determinazione quasi spaventosa.
«Allora,
James, come ti ho detto avevo bisogno di parlare con te.»
Spostò
un momento lo sguardo su Anisa, per poi tornare a concentrarsi sull’uomo.
«Voglio essere sincero con te, assolutamente sincero.»
Respirò
a fondo, un gesto che contribuì ad accrescere la spiacevole sensazione nata
all’interno di Bucky.
«Il
tuo scongelamento è stata una scelta affrettata e, in un certo senso,
azzardata. Tuttavia non sapevo che altro poter fare.»
La
concentrazione di Bucky, a quelle parole, aumentò, una leggera linea orizzontale
gli solcò la fronte.
«Qualcuno
sta minacciando il mio popolo e, purtroppo, ho avuto modo di scoprire che la
sola Pantera Nera non è in grado di fronteggiarlo. Ti ho fatto risvegliare
perché se la terapia fosse andata a buon fine avrei potuto chiedere il tuo
aiuto ed è ciò che sto facendo ora. Ti sto chiedendo di aiutarmi a proteggere
il mio regno.»
Nella
stanza calò un silenzio palpabile. Anisa e T'Challa stavano guardando entrambi
Bucky mentre lui, sbigottito, spostava il suo sguardo in ogni direzione. La
richiesta del sovrano gli sembrava assurda, soprattutto per il fatto che per
anni lui era sempre stato una minaccia – e mai un aiuto – per la vita degli
uomini. Prima che fosse in grado anche solo di formulare una risposta, T'Challa
riprese a parlare: «So che non ho il diritto di chiederti questo. Come Anisa mi
ha fatto notare hai passato la vita a combattere battaglie che non ti
appartenevano. Ma non so a chi altro potermi rivolgere che sia in grado di
aiutarmi mantenendo fuori da questa storia persone indesiderate.
«Non
devi sentirti obbligato, James. Il mio desiderio di redimermi dagli sbagli
compiuti con te ha fatto sì che io volessi
liberarti dal dominio dell’HYDRA e farti ricostruire il braccio. Non hai debiti
nei miei confronti. Qualunque sia la tua scelta sarà mia premura assecondarla.
Sarai sempre il benvenuto nel mio Regno.»
Bucky
rimase a guardare T'Challa, senza dire nulla. Nella sua mente si stavano
accalcando così tante cose che per lunghi momenti non fu in grado di pensare
con lucidità. La voce del sovrano era seria, quasi addolorata mentre parlava e
per lui fu chiaro che la minaccia di cui aveva parlato lo preoccupava
terribilmente. Se perfino Pantera Nera, un combattente senza paura, temeva per
quello che poteva accadere se non fosse riuscito a trovare aiuto in tempo, era
chiaro che chiunque fosse a minacciare il Wakanda doveva essere davvero
pericoloso.
Il
Soldato riuscì a fare chiarezza nella propria testa. Era stanco di combattere?
Forse, ma dopo quello che l’HYDRA lo aveva fatto diventare che altro gli
restava da fare? Lui una vita degna di essere chiamata normale non l’avrebbe
mai potuta avere, lo aveva capito da tempo, ma delle scelte poteva finalmente
prenderle. Aveva passato settant’anni a fare del male alle persone, poteva iniziare
a usare le sue capacità per aiutare finalmente qualcuno e, questa volta, niente
avrebbe potuto peggiorare solo per via della sua presenza.
«Chi
sarebbe questo qualcuno?» domandò. Inclinò appena la testa di lato, con
curiosità. Notò un leggero bagliore accendersi negli occhi scuri di T'Challa.
«Si
chiama Ulysses Klaw. È un uomo senza scrupoli, un mercenario e un bracconiere.»
Quel
nome fece scattare qualcosa nella mente del Soldato. Nel suo addestramento da
assassino gli era stato insegnato a memorizzare in fretta; nomi, volti, suoni,
la sua mente registrava ogni cosa con impressionante rapidità e le
immagazzinava tutte, come se vi venissero incise. Istintivamente guardò in
direzione di Anisa, consapevole che il nome di Klaw era riconducibile a lei, al
suo passato. Tuttavia la donna non rispose al suo sguardo; continuava a tenere
gli occhi fissi sul sovrano, una maschera indecifrabile calata sul volto.
Qualcosa
dentro Bucky si animò: il desiderio di essere d’aiuto.
«Vi
aiuterò» disse infine. Lo affermò in modo chiaro, pacato, con la consapevolezza
di chi aveva volutamente preso una scelta. Vide il sovrano rilassare le spalle,
il suo volto si distese.
«Ne
sei sicuro? non devi sentirti obbligato.»
Bucky
non diede peso a quelle parole. Osservò per l’ennesima volta il braccio in
vibranio.
«Avete
fatto molto per me e ve ne sono riconoscente. Se posso aiutarvi, voglio farlo.»
I
due si guardarono negli occhi. T'Challa capì così che quella del Soldato era
una scelta avvenuta con spontaneità – forse addirittura per motivi che a lui
sfuggivano – e che nulla aveva a che fare con il fatto di sentirsi in debito
per un arto metallico o una cura sperimentale.
Il
sovrano fece un rapido inchino. «Te ne sono grato.»
Bucky
si limitò a guardarlo.
«Hai
scoperto qualcosa?»
Anisa
si sentì libera di parlare ora che sapeva che Bucky era disposto a collaborare.
T'Challa si rivolse a lei, un flebile sorriso in volto: «Ho una pista» rispose.
La
donna si sentì improvvisamente fremere al desiderio di sapere cosa avesse per
le mani il sovrano. Quest’ultimo aprì uno dei cassetti della scrivania ed
estrasse un unico foglio.
«Ricordi
che ti avevo detto di essere in attesa di alcuni responsi?»
Lei
annuì.
«Benissimo.
Sono arrivati e sono quello che cercavo. Si tratta di un vecchissimo deposito
militare abbandonato da tempo, sulle coste keniote del lago Turkana. Sono
pronto a scommettere qualsiasi cosa che si tratta di Klaw.»
Anisa
non rispose. Bucky poté vedere la determinazione fondersi con l’odio nei suoi
occhi nocciola. La guardò con insistenza, finché lei non parlò di nuovo:
«Quando vuoi agire?»
T'Challa
la guardò attentamente, poi osservò il Soldato che rispose al suo sguardo.
«Questa notte.»
La
sua affermazione celava una piccola nota interrogativa. Voleva che fosse Bucky
a dargli conferma. Gli occhi degli altri due si puntarono tutti su di lui, che
si strinse impercettibilmente nelle spalle.
«Ci
sto.»
«E
sia, allora. Sarà stanotte» confermò il sovrano.
«È
bene che tu sappia chi andiamo a incontrare, però» riprese, rivolgendosi a
Bucky. «Anisa, gliene parli tu?»
All’uomo
parve che la scelta di T'Challa mancasse di tatto. Tuttavia si rese anche conto
che il legame che univa i due non gli era ancora chiaro. Sapevano entrambi fin
dove potevano spingersi con l’altro e T'Challa, indubbiamente, conosceva la
forza interiore di Anisa meglio di quanto lui potesse sospettare. La donna gli
era parsa fin da subito sicura di sé e delle proprie capacità, ma probabilmente
c’era molto di più.
Anisa
annuì con la testa, compostamente. Si avvicinò a Bucky e respirò a fondo. Gli
aveva già raccontato cosa univa lei e Klaw, quello che le rimaneva da
raccontare al Soldato erano le molteplici – passate, ma anche recenti –
depredazioni che quell’uomo, senza ritegno né cuore, continuamente faceva alle
loro terre.
*
La
giungla li aveva inghiottiti da un paio di chilometri, ormai. Sopra le loro
teste le fronde si erano chiuse, impedendo al blu scuro del cielo di essere
visto. Bucky seguiva T'Challa e Anisa, fianco a fianco davanti a lui, cercando
di non inciampare nella vegetazione bassa che, puntualmente, pareva
intenzionata a intralciarlo. Il costume della Pantera – così come la tuta nera
indossata dalla donna – quasi scompariva nel buio della foresta, se non fosse
stato per le flebili iridescenze argentate che sembravano essere in grado di
riflettere anche la poca luce che giungeva fin laggiù. Alle spalle di Bucky
c’erano altre otto persone che T'Challa aveva voluto esclusivamente per
sorvegliare il perimetro esterno dell’edificio. Dai dati che aveva raccolto – e
che sapeva interpretare fin troppo bene – aveva dedotto che nell’edificio
avrebbero dovuto esserci fra le otto e le dodici persone; dopo la prima,
rovinosa, spedizione, aveva anche capito che quelle veramente pericolose erano
tre, nonostante non escludesse che potessero essercene altre. Il sovrano e
Anisa avevano raccontato tutto ciò che era accaduto, mettendo in guardia Bucky
che, mentre ripensava a quello che gli era stato detto, strinse la presa sul
fucile che aveva fra le mani. T'Challa aveva fornito il Soldato di tutto ciò
che aveva a disposizione: una tuta in materiale simile al Tyvek,
ma più robusta e resistente, giubbotto antiproiettile, un fucile d’assalto, un
paio di pistole e alcuni coltelli. A Bucky pareva di essere tornato indietro
nel tempo, a quando quell’armamentario gli veniva fornito dalle persone
sbagliate. Solo la consapevolezza che davanti a sé, sotto la maschera della
Pantera e a un elmetto nero molto simile a quello di Steve, si trovavano
T'Challa e Anisa lo faceva stare calmo, sentendosi nel giusto ancora una volta.
A
un tratto la Pantera sollevò una mano, intimando agli altri di fermarsi.
Eseguirono tutti, abbassandosi fra le fronde proprio come stava facendo lui. Si
tolse la maschera e guardò gli altri. «È quello» disse.
Bucky
guardò oltre la sua spalla, riconoscendo un cumulo di terra, rami e alberi,
sorti in posizioni curiose, addirittura sbagliate. Ne aveva visti a sufficienza
per sapere che si trattava di un edificio interrato, probabilmente anche
abbastanza profondo.
«Voi
sapete cosa fare» riprese T'Challa, rivolgendosi ai suoi uomini. «Dividetevi e
sorvegliate il perimetro. Non voglio che passi nessuno. In quanto a noi» e si
voltò verso Anisa, «vediamo di trovare una via d’accesso. James, tu aspetta qui
un nostro segnale.»
Il
Soldato annuì con il capo e guardò Pantera Nera e Anisa che si facevano strada
verso il deposito, scomparendo.
Bucky
rimase in attesa per lunghi minuti, solo. Il silenzio che regnava intorno era
snervante, al punto che temeva potesse dargli alla testa. Abbassò lo sguardo
sul fucile che teneva in mano, i suoi occhi si erano abituati all’oscurità al
punto da riuscire a decifrarne con esattezza i contorni, mentre i capelli scuri
gli ricadevano stancamente sul viso. Si chiese se avesse fatto bene ad
accettare questa battaglia, se, almeno questa volta, nessuno avrebbe corso dei
rischi per lui. Gli fu inevitabile pensare a Steve e a ciò per cui si era
condannato – lui, ma anche altri insieme al Capitano – solo per aver preso le
sue difese, per avergli creduto, cercando di spiegare ad altri che qualcosa di
umano, nel Soldato d’Inverno, c’era ancora.
Prima
che quei pensieri potessero prendere pieno controllo della sua mente sentì uno strepito
in corrispondenza del deposito interrato. Si concentrò sul punto in cui aveva sentito
quel rumore, stringendo gli occhi per riuscire a identificare qualcosa. Una
debole luce si stagliò in una porzione indecifrabile dell’edificio e la sagoma
di un uomo sorse esattamente davanti a essa. Subito, però, quella stessa sagoma
si accasciò debolmente, il suono che fece cadendo venne totalmente assorbito
dalla vegetazione. Un’altra figura prese il posto della prima, a sovrastarla
due nere orecchie da pantera. Quello era il segnale.
Il
lungo corridoio che si stagliava oltre l’ingresso da cui Bucky era appena
entrato mostrò subito la fatiscenza dell’edificio in cui erano. Molte luci
erano fulminate, alcune pendevano dai loro fili; le infiltrazioni avevano
ricoperto il pavimento di uno strato sottile – ma quantomeno uniforme – di
acqua e sulle pareti muschi e licheni avevano appestato saltuariamente.
T'Challa
richiuse la porta, cercando di fare meno rumore possibile. Non sarebbe stato
semplice passare inosservati; il silenzio che regnava era tetro e fu subito
evidente che anche il rumore più insignificante avrebbe rimbombato a lungo.
Anisa si voltò appena verso i due uomini, i tonfa in mano, la lunga treccia
ordinata e composta. Era vigile e reattiva come la corda di un violino.
La
Pantera fece cenno di seguirla e si avviò per prima: la leggerezza con cui si
muoveva era sorprendente, sembrava quasi galleggiasse sopra la terra. I tre
proseguirono lungo il corridoio, appostandosi in corrispondenza di ogni porta e
controllando furtivi se dentro le stanze vi era o meno qualcuno. Non
incontrarono nessuno e non trovarono niente; la desolazione di quel luogo era
quasi demoralizzante.
Una
volta raggiunta la fine del corridoio – che, come Bucky aveva notato, pendeva
leggermente – si trovarono davanti all’ultima porta. Questa si apriva su delle
scale mal illuminate che portavano in profondità. La loro tromba quadrata e il
metallo di cui erano fatte permisero a T'Challa di identificare subito il
numero dei piani.
«Sono
tre» informò i compagni.
«Forse
ci conviene dividerci» propose Anisa.
«Mai»
rispose pronta la Pantera. «Suggerisco di partire dal piano più basso e salire
a ritroso.»
Gli
altri due annuirono con un cenno, infine scesero le scale, raggiungendo il
piano costruito nella piena profondità della struttura. Dalle dimensioni pareva
un hangar. Lo osservarono attentamente, senza fiatare. Anisa notò una serie di
grandi casse ammassate contro una parete, i tre uomini a sorvegliarle intenti a
parlare. Non si erano accorti della loro presenza e questo semplificò
notevolmente il lavoro di Pantera Nera. Si avviò silenzioso verso gli uomini,
il passo accelerato che non provocava alcun rumore. Appena li raggiunse assestò
un colpo al primo, gomito contro collo; questi crollò a terra subito, privo di sensi,
e quando gli altri due si accorsero di cos’era accaduto era già troppo tardi.
Anisa e Bucky assistettero da spettatori e videro il secondo dei tre venire
colpito anch’esso al collo con il taglio della mano, mentre con altrettanta
rapidità – come se i suoi movimenti non avessero bisogno di pensieri – la
Pantera sferrava un calcio in pieno petto al terzo uomo, per poi finirlo con un
colpo preciso e potente alla nuca.
«Armi»
disse poi T'Challa, dopo aver controllato le iscrizioni sulle casse.
«Devono
averne rubate ancora, non possono essere le stesse dell’altra volta. Quelle
casse sono andate distrutte nell’esplosione.»
Anisa
fece notare la cosa al sovrano, riferendosi a quanto successo nella vecchia
centrale sulle sponde dell’Omo. Lei e la Pantera si guardarono, consapevoli
della stessa cosa: Klaw aveva depredato ancora.
T'Challa
si accorse che Bucky si stava guardando intorno, studiando l’ampia stanza.
«Hai
notato qualcosa?» gli chiese.
L’uomo
indicò un punto, nel lato corto opposto alle scale. «Laggiù c’è un altro
ingresso. Forse c’era un montacarichi o qualcosa del genere.»
La
Pantera apprezzò il suo spirito di osservazione, tuttavia trovò che quella
informazione servisse a poco. Era in procinto di dire ciò che avrebbe voluto
fare quando il rumore di molteplici passi che scendevano le scale attirò la sua
attenzione. Fece cenno ai compagni di nascondersi e i tre si misero dietro le
casse, accucciandosi.
Klaw
in persona arrivò nell’ampia stanza, i due possenti uomini che già avevano
visto insieme a lui erano alle sue spalle. Il bracconiere non disse niente. Si
sentivano solo i suoi passi riecheggiare nella stanza, poi, come se avesse
sempre saputo, si sporse oltre le casse.
«Buh»
disse, una smorfia divertita in viso.
T'Challa
non si domandò come fosse possibile che li avesse individuati, la risposta,
qualunque fosse, non gli importava. Scattò contro l’uomo, gli artigli da
Pantera sfoderati, e fendette il braccio destro del suo rivale con furia cieca.
Il suono che l’impatto produsse fu sordo e innaturale. T'Challa venne colto
alla sprovvista e Klaw ne approfittò; puntò la pistola all’addome di T'Challa e
gli sparò. Il proiettile, però, incontrò la resistenza del vibranio e si
dimostrò impotente. Bucky intervenne, sferrando un colpo con il calcio del
fucile nel ventre di Klaw, che accusò e indietreggiò dolorante.
Anche
Anisa scattò; insieme a T'Challa superò Bucky, i tonfa stretti in pugno per
avventarsi sul nemico. Tuttavia non riuscirono a raggiungerlo in tempo. Uno
degli uomini scuri che era con Klaw si fece avanti, Bucky mirò verso di lui ma
fu inutile. Pantera Nera riuscì a riconoscerlo appena prima che l’uomo,
esattamente come la volta precedente in cui lo avevano incontrato, estraesse un
accendino facendolo scattare. Un’enorme fiamma rossa partì e si propagò con
feroce violenza. Anisa e T'Challa si spostarono in tempo, il Soldato riuscì a
sparare al limite prima che il fuoco lo raggiungesse, inghiottendo il suo
fucile d’assalto. Mentre lasciava la presa dall’arma e rotolava a terra per
schivare le fiamme e mettersi in salvo, avrebbe potuto giurare di sentire il
suono per lui troppo famigliare della carne che viene lacerata con forza,
strappata dalla violenza del proiettile.
La
fiamma si estinse con la stessa, inspiegabile, forza con cui era sorta. Di Klaw
e degli altri due non vi era più traccia ma si potevano ancora sentire
distintamente i loro passi salire frettolosamente le scale.
Bucky
si rimise in piedi, lanciando un’occhiata al fucile d’assalto che aveva
imbracciato fino a pochi attimi prima: era in parte sciolto e parecchio
rovinato. Se non avesse incontrato così tante cose strane già nel suo penultimo
risveglio, quel breve incontro con Klaw e i suoi uomini lo avrebbe seriamente
sorpreso. Non ebbe tempo di chiedersi cosa quel fuoco significasse, T'Challa e
Anisa gli dissero di seguirli e lui, lasciando indietro il fucile d’assalto ed
estraendo una delle pistole, li seguì senza fiatare.
Raggiunsero
le scale e le salirono in fretta, tuttavia, all’altezza del secondo dei tre
piani interrati, una nuova e possente fiamma si sprigionò da sopra le loro
teste, in un punto imprecisato. T'Challa riuscì a schivarla al limite,
appiattendosi contro la ringhiera e balzando sulla rampa di scale successiva
con agilità sorprendente. Anisa e Bucky si videro costretti a tuffarsi nel
corridoio che si apriva accanto a loro e, come vi furono dentro, sentirono la
Pantera urlare: «Io lo raggiungo. Fate attenzione!»
Il
fuoco non sembrava intenzionato a estinguersi; bruciava inspiegabilmente e
circoscritto alle sole scale. Era assurdo, lo sapevano entrambi, eppure i due
avevano smesso di porsi domande.
«Controlliamo
che non ci sia qualcuno a questo piano» propose Anisa. Il Soldato annuì e si
portò davanti a lei, iniziando a sorvegliare cautamente ciò che li circondava.
Percorsero buona parte del corridoio prima di scoprire di non essere soli.
Qualcosa alle loro spalle riverberava contro le pareti del corridoio e quando
si voltarono, capendo che si trattava del rumore di passi, si trovarono davanti
Ulysses Klaw e l’altro uomo che era con lui, l’unico che non aveva ancora fatto
alcunché da quando lo avevano incontrato.
«Vediamo
un po’» esordì Klaw, l’espressione di chi deve scegliere quale trancio di carne
cucinare per prima. «Nessuno di voi è Pantera Nera. Questo vi rende totalmente
privi di interesse.»
La
sua attenzione poi si focalizzò esclusivamente sul Soldato; corrugando la
fronte lo squadrò, dicendo: «Hai qualcosa di famigliare. Ti ho già incontrato
altre volte?»
Bucky
vide Anisa scattare in avanti prima che potesse in qualche modo impedirglielo.
La donna aveva agito in modo avventato e lui lo sapeva perfettamente. Klaw
sollevò la mano destra e la respinse indietro, provocando nell’aria che
riempiva il lungo corridoio un riverbero e una pressione fortissimi. Il Soldato
si sentiva schiacciare da quella pressione; il braccio sinistro era scosso con
violenza, le orecchie gli facevano male ed era come se il suo corpo venisse
compresso. Cercò di spostarsi dalla traiettoria di Klaw appena capì che in
qualche modo era lui a provocare tutto quello e quando ci riuscì e sentì i suoi
polmoni nuovamente in grado di respirare,prese rapidamente la mira e sparò. Colpì Klaw alla spalla, l’uomo si
fece sfuggire un urlo di dolore e, puntato Bucky, sollevò nuovamente la mano
destra. Ancora quella strana pressione aggredì feroce il Soldato.
Inevitabilmente si portò le mani alla testa, il braccio sinistro come
impazzito, il suo corpo incapace di reagire e un dolore opprimente a schiacciarlo
da dentro. Notò di sfuggita Anisa, accasciata a terra poco più avanti di lui e
quando la sua sopportazione fu al limite prese a gridare nella remota speranza
di riuscire a resistere.
Il
dolore cessòimprovvisamente. Bucky
respirava a fatica, ma si accorse di non essere l’unico. Si voltò appena e vide
Klaw che lo stava fissando. Si teneva la spalla sinistra, ferita, con la mano
destra, un largo rivolo di sangue rosso cupo a macchiare la mano e i vestiti e
una pozza di quel suo stesso sangue a brillare inquietante sul lurido pavimento
del corridoio. Il proiettile sparato da Bucky prima era andato a segno e, a
giudicare da quanto Klaw sanguinava, l’uomo avrebbe dovuto medicarsi in fretta.
Con
il fiato corto e la voce roca, Klaw si voltò verso il suo uomo e fece un cenno
in direzione di Bucky – ancora troppo scosso per rialzarsi – e Anisa, dicendo:
«Sule, pensaci tu.»
L’uomo
acconsentì con il capo e si portò avanti, estraendo una pistola, mentre Klaw si
allontanava lungo il corridoio, la mano destra sempre premuta contro la spalla
sinistra.
Sule
– a quanto pareva questo era il suo nome – puntò l’arma contro il Soldato e
sparò. Il proiettile urtò contro il braccio metallico che Bucky aveva
prontamente sollevato, lasciando i suoi riflessi liberi di agire con la
rapidità che avevano conquistato a suon di allenamenti e combattimenti.Tuttavia il Soldato si accorse che la
velocità con cui lo sparo lo aveva colpito era ben superiore a quella che si
sarebbe aspettato; per un lungo attimo si chiese come ciò fosse possibile.
Lasciò da parte i pensieri e si mosse, appoggiandosi con la schiena alla parete
e puntando l’arma contro l’avversario. Quest’ultimo riuscì a spostarsi in tempo
così da schivare il colpo lanciato da Bucky, preso con poca mira, e a
rispondere al fuoco a sua volta. Nuovamente il Soldato fu più veloce e riuscì a
proteggersi, ma ancora una volta la rapidità e il riverbero che quell’unico
proiettile aveva provocato sul braccio gli fecero capire che c’era qualcosa di
sospetto nell’arma – o addirittura nell’uomo. Si alzò per poterlo fronteggiare
e vide Anisa, nuovamente in piedi, lanciarsi contro Sule. La donna tese il
corpo e il tonfa destro, con un gesto fluido, andò a colpire l’uomo proprio
sotto le costole. Lui si voltò a guardarla e le sferrò una gomitata, ma lei si
mosse più velocemente e schivò il colpo, rispondendo a sua volta con un altro
affondo dei suoi tonfa. Era evidente che Sule, nel corpo a corpo, non era
ferrato quanto la sua avversaria – e probabilmente neanche quanto Bucky – e il
Soldato rimase a guardarli mentre lei affondava e lui tentava di ripararsi, in
attesa del momento in cui si sarebbero separati, così che potesse prendere
adeguatamente la mira senza rischiare di ferire Anisa.
«Insegui
Klaw!» gli urlò la donna all’improvviso.
Lui
non si mosse subito. Non era sicuro che lasciarla sola fosse una buona idea, ma
la sua superiorità su Sule, in quel momento, era evidente. Con un rapido cenno
di assenso l’uomo si avviò, iniziando a correre lungo il corridoio, seguendo le
gocce di sangue scuro che baluginavano qua e là.
Anisa,
nel frattempo aveva messo alle strette l’avversario, che si era ritrovato con
la schiena contro una serie di vecchie casse impilate l’una sull’altra.
Continuava a proteggersi il volto con le braccia, la pistola in mano con la
quale non riusciva a prendere la mira contro la donna. Il corpo a corpo non era
mai stato la sua specialità e contro Anisa questa cosa era evidente. Lei si
muoveva con rapidità e agilità; ogni affondo dei suoi tonfa era dato in modo
fluido, elegante e potente e nei suoi gesti c’era una tale naturalezza che
sembrava non avesse fatto altro per tutta la vita.
L’uomo
cercò di controbattere; sollevò il ginocchio puntando all’addome della donna,
lei se ne accorse in tempo, schivò il colpo e controbatté dandogli un pugno
sotto al mento. A causa di quella botta Sule si morse la lingua, sentì la bocca
riempirsi di sangue caldo e in preda alla più totale furia puntò istintivamente
la pistola contro Anisa. Nuovamente lei fu più veloce; con quel gesto l’uomo
aveva involontariamente esposto il collo e ciò diede la possibilità alla donna
di colpire esattamente lì. Il rumore del suo tonfa che colpiva il collo di Sule
fu violento e chiaro. L’uomo non riuscì a reagire, i suoi occhi si fecero vaghi
mentre lanciava un’ultima occhiata ad Anisa e, boccheggiando sangue, si
accasciò alla parete e scivolò fino in terra. Lei rimase a guardarlo un
momento, attendendo che il suo respiro si regolarizzasse appena, dopodiché si
avviò per raggiungere Bucky e cercare Klaw.
A
metà del corridoio, però, non fu in grado di sentire i rumori provenienti alle
sue spalle. Se solo ci fosse riuscita si sarebbe accorta che Sule si stava
rialzando, il respiro ansante, il mento sporco di sangue e lo sguardo pieno di
folle odio. L’uomo raggiunse il centro del corridoio, notando in lontananza la
ragazza che correva per raggiungere le scale, sollevò la pistola e prese la
mira. Anche se lei era distante sapeva perfettamente che il colpo sarebbe
andato a segno: la sua mira era impeccabile e, inoltre, lui…
Lo
scoppio dello sparo squarciò l’aria come un tuono. Anisa sentì in
corrispondenza all’esplosione un intenso dolore farsi strada attraverso il suo
fianco sinistro. Il respirò le morì in gola e le gambe cedettero
improvvisamente, perse la presa dai tonfa e rovinò a terra, il viso contro il
pavimento. Il suo corpo cominciò a essere scosso da dei fremiti involontari,
mentre un calore viscido si propagava poco sotto le sue costole, riversandosi
sulla pelle e sul pavimento, accompagnato da un dolore intenso come non ne
aveva mai provati prima. I passi di Sule risalirono il corridoio e lei capì che
a spararle era stato lui. Si sentì improvvisamente indifesa e l’angoscia e la
paura si presentarono da lei, sgorgando a fiotti dalle profondità più remote
della sua mente. Sule la raggiunse, contemplò per un momento il suo corpo,
infine si chinò accanto a lei. Anisa vide i suoi occhi e il suo sorriso –
macchiato di sangue – animati da una divertita follia.
«Ulysses
mi ha detto che nelle vostre tute c’è del vibranio» esordì, senza staccare gli
occhi da Anisa. Avvicinò il viso alla ragazza e mormorò: «A quanto pare nella
tua non ne hanno messo abbastanza.»
La
mente della donna era annebbiata dal troppo dolore e non fu in grado di dare un
senso a quelle parole. Sentiva i polmoni bramare sempre più aria, ma respirare
le faceva talmente male che desiderava non doverlo fare. Sule le afferrò la
treccia, sollevandole le testa e avvinandosi ancora di più a lei. I suoi occhi,
ora, erano neri e pieni di solo odio.
«Potrei
finirti, ma non credo che lo farò. Sei talmente gracile che morirai dissanguata
prima che qualcuno possa venire a recuperarti.»
La
lasciò andare e si alzò, avviandosi verso le scale, senza voltarsi un’ultima
volta.
*
Le
tracce del sangue di Klaw portarono Bucky nel piano più interrato
dell’edificio, quello in cui lo avevano incontrato all’inizio dello scontro. Lo
notò mentre si avviava verso la parete opposta alle scale, il passo rapido e
una fasciatura approssimativa sulla spalla. Klaw si voltò quasi subito, certamente
sentendo il Soldato.
«Di
nuovo tu!»ringhiò e senza aspettare
altro puntò contro di lui la mano destro.
Come
un’onda invisibile da quell’insignificante gesto si sprigionò un’intensa forza,
che respinse Bucky e lo fece sentire come schiacciato da qualcosa. Era
inspiegabile, tuttavia arrivò alla conclusione che, in qualche modo,
quell’assurda pressione venisse generata dalla mano destra di Klaw. Si parò
istintivamente con il braccio in vibranio e si accorse che nonostante l’arto
vibrasse in modo quasi incontrollato era comunque in grado di attutire quella
strana pressione. Traendo ispirazione da quella nuova e curiosa scoperta, il
Soldato estrasse la pistola e cercò in qualche modo di prendere la mira verso
Klaw.
Come
l’arma divenne visibile agli occhi del nemico, però, la forza che continuava a
percuotere e comprimere Bucky si fece più intensa. Qualsiasi cosa fosse a
provocare quell’onda andava fermata subito, altrimenti, lui ne era certo,
sarebbe rimasto ucciso. Respirava a fatica, la testa e le membra gli facevano
malissimo e non sapeva per quanto avrebbe potuto resistere a una tale
pressione. Le ginocchia gli cedettero e lui si ritrovò a terra, sentendosi
senza via d’uscita. Con un ultimo sforzo, però, costrinse il suo corpo a
seguire i suoi ordini ancora una volta; ignorò il dolore, rotolò rapidamente
sul fianco e con altrettanta velocità prese la mira e sparò. Il colpo urtò la
mano destra di Klaw, ma non accadde altro. L’uomo si voltò in direzione del
Soldato, lanciandogli un’occhiata feroce. Bucky lo ignorò completamente, corse
verso di lui e lo colpì con un destro che Klaw riuscì a schivare. In risposta
quest’ultimo sferrò un colpo, magistralmente evitato dal Soldato che replicò a
sua volta con un pugno. Klaw schivò anche quello e puntò la mano destra
all’altezza del petto di Bucky che si accorse in tempo della cosa e riuscì ad
afferrare il polso dell’altro, puntando il suo arto verso il soffitto.
Fece
a malapena in tempo; la strana energia si sprigionò dall’articolazione del suo
avversario e si propagò in alto, verso il soffitto. Sopra le loro teste si
trovava un vecchio lampadario fatiscente, appeso al soffitto solo grazie a
pochi e ormai consumati fili. Non fu in grado di resistere alla scossa che lo
raggiunse, infatti i fili si lacerarono e il lampadario crollò pesantemente
verso di loro. Entrambi gli uomini riuscirono a schivarlo al limite,
lanciandosi indietro. Il crollò sollevò una nube di polvere, mentre calcinacci
e pezzi di vetro schizzavano da tutte le parti. Bucky si rialzò, cercando di individuare
Klaw; lo vide più avanti, diretto verso l’altro ingresso che aveva individuato
prima. Estrasse la pistola prendendo la mira, ma questa volta fu l’avversario
ad agire più in fretta. Klaw prese a sparare una raffica di colpi, mirando in
direzione di Bucky che si vide costretto a proteggersi con il braccio in
vibranio. Quando i colpi cessarono e lui tornò a guardare nel punto in cui si
trovava Klaw, l’uomo non c’era più.
Corse
verso l’uscita con l’intenzione di inseguirlo, ma come compì il primo passo il
rumore di un solo sparo provenne da oltre quella stanza. Il Soldato si bloccò,
rimanendo sul chi vive, cercando di decifrare altri rumori intorno a lui. Quel
colpo fu l’unico ed era chiaro, per lui, che era stato sparato nel piano
superiore rispetto a quello in cui si trovava. Si sentì improvvisamente gelare
il sangue alla consapevolezza che, al piano di sopra, si trovava Anisa sola con
Sule e, soprattutto, che quello armato fra i due era lui. Lasciò perdere
l’inseguimento di Klaw e percorse a ritroso le scale in gran fretta. Come ebbe
raggiunto il piano superiore, prima di imboccare il corridoio, estrasse la
pistola e tese tutti i suoi sensi, dopodiché si avviò.
Mano
a mano che si incamminava lungo il corridoio non trovò nulla, né sentì qualcosa
in grado di permettergli di capire se lì si trovava qualcuno e, nel caso, chi
fosse. Poi, poco più avanti rispetto a dove si trovava, vide qualcosa. Si
avvicinò con cautela, finché non fu certo di quello che stava guardando.
Il
corpo di Anisa era disteso a terra, il volto rivolto di lato e una pozza di
sangue che lentamente si allargava intorno alla donna. Corse verso di lei,
spaventato e le si inginocchiò accanto.
Anisa
era cosciente ma respirava piano e quando puntò i suoi occhi in quelli di Bucky
il suo sguardo era vacuo.Il Soldato
rimase stordito per un momento, poi il suo sangue freddo prese il sopravvento.
Osservò con cura la ferita della donna, il tessuto della tuta lacerato con
millimetrica precisione. Capì subito che la lesione andava medicata in fretta,
altrimenti Anisa non sarebbe riuscita a uscire viva da quell’edificio.
Bucky
estrasse il coltello dalla cintura, distese il braccio e con cura lacerò i
punti della tuta in corrispondenza della spalla sinistra. Aiutandosi con i
denti forzò la cucitura finché questa non cedette, strappando la manica nella
metà esatta e permettendogli di avere in mano una striscia di stoffa nera lunga
quanto il suo braccio; l’avrebbe usata per medicare temporaneamente la donna,
colpita al di sotto delle costole, il punto in cui il suo corpo si faceva
sottile.
Prestando
particolare attenzione anche al gesto più minimo voltò Anisa, sollevandole
lentamente il busto e prendendola fra le braccia, le gambe di lei mollemente
abbandonate sul pavimento. Abbassò la zip che la tuta della donna aveva sulla
schiena e con cautela gliela sfilò tanto da permettergli di raggiungere il
punto in cui era stata colpita. La fascia bianca che le stringeva il seno era
in parte impregnata di rosso, così come il suo addome era striato dal sangue viscido.
Bucky le avvolse intorno al corpo la striscia di stoffa che era riuscito a
rimediare, stringendo a sufficienza per arrestare il flusso ma senza arrecare
ulteriori dolori ad Anisa.
Quando
ebbe finito di risistemarle indosso la tuta e aver richiuso la zip, la
allontanò appena, facendole appoggiare la schiena al suo braccio di metallo,
accorgendosi che lei continuava a guardarlo.
Fu
una strana sensazione quella che provò; gli occhi della donna erano velati ma
chiaramente fissi nei suoi e pareva non volessero abbandonarli. Dentro il
Soldato il profondo desiderio di salvarla si accentuò; si ritrovò a sperare che
tutto andasse per il meglio con una tale intensità che quasi si sorprese di
provare simili sentimenti.
«Andrà
tutto bene» le mormorò, mentre si apprestava a raccoglierla per poter andare a
cercare T'Challa.
La
sollevò con cautela, come se avesse fra le mani una sottile lastra di
cristallo.
«Ora
andiamo da T'Challa.»
Le
sorrideva lievemente, come nel tentativo di tranquillizzarla, benché fosse preoccupato
per le sue condizioni, mentre Anisa continuava a guardarlo. Bucky riusciva a
sentire distintamente i deboli fremiti che percuotevano il suo corpo; conosceva
quello stato, quegli spasmi involontari, indomabili, che un corpo ferito
liberava in preda al dolore e che non lasciavano mai presagire nulla di buono.
Quando
la donna chiuse gli occhi, registrando un’ultima volta i lineamenti del
Soldato, l’uomo accelerò il passo. Salì di un altro piano, l’orecchio teso alla
ricerca di suoni che potessero in qualche modo avvertirlo della presenza di
qualcuno. Sule e l’altro uomo di Klaw erano ancora nell’edificio e avrebbe
fatto bene ad accorgersi di loro prima che fosse tardi se mai avessero dovuto
attaccarlo.
Non
accadde; mano a mano che proseguiva cautamente lungo il piano cominciò a
sentire dei rumori: colpi, scontri, rantoli. Identificato il punto dalla quale
provenivano Bucky si avvicinò piano, stringendo più forte Anisa e si sporse
lentamente per vedere ciò che stava accadendo nella stanza.
Il
corpo di Sule era disteso a terra, al margine, sanguinava copiosamente, dei
profondi tagli a lacerargli il fianco destro, la pistola ancora stretta in
mano. Pantera Nera era concentrato sull’altro uomo, che in un modo o nell’altro
continuava a bersagliare il sovrano con rapide e intense fiamme rosse.
L’agilità della Pantera nello schivare il fuoco era tale che in un unico,
curioso, attimo di consapevolezza Bucky si ritrovò a chiedersi come avesse
fatto, anni prima, a resistergli in combattimento.
Un
calcio veloce della Pantera fece saltare di mano l’accendino all’uomo, che
cadde lontano e scivolò verso una delle pareti. L’uomo allora estrasse un
coltello a serramanico, preparandosi a fronteggiare così T'Challa. Nuovamente –
e come era prevedibile – il sovrano fu più veloce; si abbassò per schivare il
fendente, approfittò di quel gesto per prendere la spinta e lanciarsi contro
l’avversario, colpendolo con violenza al petto con il ginocchio. Subito, poi,
gli diede il colpo di grazia assestandogli un calcio nel lato scoperto del
collo. Prima ancora che l’uomo potesse accorgersi di ciò che era accaduto le
gambe gli cedettero sotto il suo stesso peso e lui si afflosciò in terra privo
di sensi.
T'Challa
lo sovrastò con tutta la raffinata forza della Pantera Nera. Prima che potesse
perquisire il corpo del malcapitato che giaceva ai suoi piedi, però, Bucky si
fece avanti: «Pantera» lo chiamò.
T'Challa
si voltò, fissò il Soldato per un attimo prima di capire. Anche se non la
poteva vedere oltre la maschera, Bucky immaginò l’espressione che il sovrano
doveva aver assunto; il modo in cui i suoi muscoli, da tesi e pronti che erano,
si lasciarono andare, era il chiaro messaggio che ciò che aveva appena visto
non sarebbe dovuto accadere.
«Anisa»
mormorò.
Si
avvicinò alla donna, le slacciò l’elmetto con delicatezza e le passò una mano
sulla fronte imperlata. La donna era incosciente e respirava piano, stretta fra
le braccia di Bucky.
«Le
hanno sparato» informò quest’ultimo. «Se non viene medicata in fretta morirà.»
Il
Soldato non usò alcun giro di parole. Sapeva perfettamente che T'Challa, che
non era affatto uno sprovveduto, non si sarebbe illuso con semplici e banali
rassicurazioni, specie in casi come quello. Inoltre, come se non bastasse,
Bucky voleva davvero uscire in fretta da quell’edificio per poter affidare
Anisa alle cure di medici competenti e dotati delle giuste strumentazioni.
T'Challa
annuì, passando in maniera incerta la mano sulla fronte della donna.
«Dov’è
Klaw?» chiese.
La
sua domanda sorprese il Soldato, che abbassò un momento lo sguardo prima di
rispondere.
«È
fuggito. Dall’uscita che si trovava al piano più interrato.»
Il
sovrano si voltò a guardare gli uomini di Klaw, entrambi a terra, soppesando
mentalmente cosa fare di loro. Con tutta probabilità Sule non sarebbe sopravvissuto,
ma l’altro si sarebbe svegliato prima o poi e sarebbe diventato nuovamente una
minaccia se avesse ripreso in mano quel suo strano accendino. La risposta gli
apparve improvvisamente semplice. Andò a recuperare l’accendino da terra e
tornò da Bucky.
«Riportiamola
a palazzo» disse, alludendo ad Anisa.
Il
Soldato si avviò fuori dalla stanza, poi lungo il corridoio, seguendo la
Pantera che apriva la strada con il suo passo felpato.
Quella
missione era stata un fallimento e nel silenzio surreale che circondava i tre,
quella consapevolezza si fece perfettamente palpabile.
___________________
Ehm,
ehm… ciao!
Vorrei
davvero scusarmi tantissimo con tutti
quelli che hanno iniziato a seguire questa fan fiction, che magari ci si sono
anche appassionati, e che poi ho lasciato “appesi” perché, di punto in bianco,
ho smesso di aggiornare.
Scusatemi
davvero tanto!
Non
mi sono dimenticata di questa storia, al contrario. Il problema è che mi
richiede molto tempo da scrivere perché non è semplice affrontare il tutto in
modo soddisfacente – e spero, almeno un minimo, di riuscirci – e anche perché è
comunque qualcosa di nuovo.
In
aggiunta a questo c’è il fatto, e credo sia proprio questo il vero “problema”,
che sto scrivendo la mia tesi di laurea, perciò davanti al pc non posso
concedermi di scrivere di T'Challa, ma devo per forza buttare giù pagine e
pagine di Word con cose universitarie.
A
ogni modo, spero che questo mio ritorno possa contribuire a farmi perdonare.
Temo che anche gli altri aggiornamenti richiederanno tempo – spero non così
tanto quanto questo, almeno – e farò il possibile per pubblicarli.
Sto
portando avanti questa storia, dovete credermi, solo molto lentamente.
Se
siete arrivati fin qui grazie per essere passati!
La
luce di mezzogiorno macchiava la penombra rilassante della stanza. Fuori dalla
porta i rumori venivano filtrati dalle pareti, giungendo ovattati.
La
sagoma forte di T'Challa era immobile, i lineamenti fieri sciupati dalla
mancanza di sonno. I suoi occhi continuavano a scorrere sugli schermi a led
incastonati nella parete, le orecchie piene del suono ritmico e ripetitivo del
cardiofrequenzimetro. L’infermeria si trovava nella zona est del palazzo,
lontana dagli hangar e dalle strade, nel cuore più verde e protetto di tutto il
perimetro.
Anisa
era stata ricoverata lì quella notte. Sottoposta a cure immediate era stato
concesso perfino al sovrano di poterla incontrare solo quella mattina.
T'Challa
guardò la donna; respirava piano, ma con regolarità, le lenzuola di cotone a
coprirne il corpo fino al petto, i capelli castani morbidamente sparsi sul
cuscino.
Il
sovrano tornò a osservare il suo volto, chiuse gli occhi, inspirò e si fece
forza. Per la seconda volta aveva sottovalutato Klaw e per la seconda volta
qualcuno ne aveva pagato le conseguenze. Non c’erano state altre vittime, ma
ciò non gli permise comunque di darsi pace. Una delle persone più care e fidate
che aveva era stata gravemente ferita e se non fosse stato per James Barnes,
probabilmente, l’avrebbe persa per sempre.
Una
volta ritornati a palazzo i medici avevano immediatamente curato Anisa; le
avevano fatto una trasfusione di sangue, suturato la ferita e si erano presi
cura di lei alla perfezione. Benché – a detta loro – la donna si sarebbe
perfettamente ripresa, quello che le era accaduto e il fatto che lui non era
stato in grado di impedirlo continuavano a fare sentire frustrato il sovrano.
Sussurrando,
gli occhi ancora chiusi, T'Challa recitò una preghiera a Bast nella speranza
che aiutasse quella che, più di tante altre, per lui era una sorella.
Sentì
aprirsi la porta della stanza. Aprì gli occhi, zittendosi e vide entrare KenanWambua, il medico più
fidato e capace che avesse a disposizione. L’uomo fece un rapido inchino
salutando il sovrano e si richiuse la porta alle spalle. I due rimasero in
silenzio a lungo, un silenzio solenne, gli sguardi di entrambi fissi sul volto
di Anisa.
«Come
sta?» chiese infine T'Challa, prendendo forza. La risposta lo spaventava e
agitava al contempo. Anisa non era in pericolo di vita; l’aveva sotto agli
occhi e lui stesso poteva appurarlo. Tuttavia solo sentirselo dire da chi era
perfettamente a conoscenza della situazione avrebbe potuto tranquillizzarlo.
«È
stabile» rispose Kenan che poté notare il sovrano
rilassare le spalle. «Si riprenderà completamente.»
«Com’è
potuto accadere?»
T'Challa
non si dava pace per quello. Aveva trascorso la notte tormentandosi letteralmente
chiedendosi di continuo come fosse stato
possibile, per qualcuno riuscire, a scalfire – fino a penetrare – la tuta di
fibre miste della donna. Anche se non era composta esclusivamente da vibranio,
i test che vi avevano apportato avevano dimostrato che l’indumento era in grado
di resistere alla perfezione ad armi da fuoco e coltelli.
Il
medico scosse debolmente la testa. «Le hanno sparato.»
«Questo
lo so» replicò prontamente il sovrano, leggermente infastidito. «Ma nella sua
tuta c’era del vibranio, come hanno fatto a ferirla?»
Kenan non rispose subito. Girò
intorno al letto dove Anisa dormiva ancora, raggiungendo il sovrano. Giunto al
computer digitò rapidamente qualcosa e sugli schermi – al posto dei parametri
vitali della donna – comparvero delle immagini. T'Challa si voltò a guardarle,
intuendo immediatamente di cosa si trattasse. Era la ferita di Anisa. Un
profondo squarcio che, in quelle immagini ingrandite, sembrava più simile a una
voragine. Il sovrano continuò a osservare il sangue rosso cupo che rivestiva le
pareti di quella lesione come catturato.
«Ci
siamo interrogati molto su ciò che può essere accaduto, altezza» esordì il
medico,indicando poi su uno degli
schermi l’immagine più ravvicinata della parte lesa di Anisa. «Nessuna delle
nostre supposizioni, però, ha trovato un riscontro fondato. La pelle della
signorina è stata troncata di netto, non vi sono i segni tipici delle
lacerazioni provocate dalle armi da fuoco. Voi avete visto la sua tuta?»
T'Challa
si voltò, in attesa che venisse dato un senso alla domanda.
«In
prossimità della ferita, come appare il tessuto?»
«Perfettamente
tagliato» fu la risposta del sovrano. Ripensò a quel cerchio perfetto in
corrispondenza dell’ingresso del colpo nel corpo di Anisa, così come perfetto
era il corrispettivo foro di uscita.
Quelle
parole parvero bastare a Kenan. «Chirurgico.»
T'Challa
ascoltò quell’unica parola, sentì il riverbero che lasciò nella stanza
silenziosa.
«Lo
abbiamo definito così» riprese il medico. «Mio signore, non vi sono tracce di
polvere da sparo che lascino pensare che qualcuno abbia sparato alla signorina
da una distanza molto ravvicinata. Il diametro della ferita non supera di molto
i 9mm. E, come avete potuto notare, sia la tuta che la pelle sono state
lacerate alla perfezione, in modo… chirurgico. Io… una normale pistola calibro
9 non può riuscire a fare tanto.»
Il
tono di voce di Kenan lasciava intuire che la sua
mancanza di conferme lo avviliva. Quell’impeccabile medico, che mai aveva avuto
dubbi, si trovava ad affrontare qualcosa a lui sconosciuto.
«Lei
crede che possa essere stata un’arma di tipo sperimentale a ferire così Anisa?»
chiese infine T'Challa, dopo aver pensato per un breve momento a quella
possibilità.
«Non
glielo posso garantire, sire. Ma è un tipo di ferita con cui non abbiamo mai
avuto a che fare.»
Tornò
a rivolgere lo sguardo agli schermi, indicando altre immagini. «È viva per
miracolo. Il proiettile – o qualunque cosa l’abbia colpita – ha passato il suo
corpo da parte a parte, evitando fortuitamente organi vitali. Se il diametro
fosse stato maggiore non ce l’avrebbe fatta, nonostante la prontezza con cui
l’avete portata qui.»
Kenan sospirò. «Sono affranto dal
fatto di non potervi dare informazioni attendibili.»
T'Challa
lisciò il tessuto dell’abito, sovrappensiero. Stando a quanto gli aveva riferito
Barnes, Anisa era stata colpita da Sule, uno dei due complici di Klaw.
Quell’informazione, unita a ciò che aveva appena scoperto parlando con Kenan, permisero al sovrano di trarre una prima – forse
evidente – conclusione: non avevano a che fare con persone normali. I due
uomini di cui Klaw disponeva – oltre a se stesso – erano uomini addestrati e,
con tutta probabilità, muniti di particolari armi all’avanguardia. Solo i
risultati delle analisi che lui aveva fatto svolgere sull’accendino di cui si era
impossessato la notte precedente gli avrebbero permesso di fare maggiore
chiarezza in quel groviglio di incertezze.
«Ha
fatto quello che era in suo potere. Ha salvato Anisa.»
T'Challa
rivolse un leggere inchino in direzione del medico, pronunciando quelle parole.
L’altro rispose con lo stesso gesto ma prima che potesse replicare venne
interrotto. Qualcuno bussò alla porta e T'Challa diede il permesso di entrare.
Oltre la soglia comparve Mandisa, composta e ordinata
come sempre. Teneva una cartelletta stretta al petto e, entrando, salutò i
presenti, lanciando infine una veloce occhiata in direzione del letto.
«Buongiorno
Mandisa» l’accolse il sovrano.
«Altezza.
Mi scuso per il disturbo, ma il Presidente keniota chiede di voi. La chiamata è
in attesa nel suo ufficio.»
L’uomo
si irrigidì appena, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Era difficile che
fossero venuti a conoscenza dell’introduzione da parte di Pantera Nera entro i
confini del Kenya, ma nulla era da escludere. Se era accaduto ciò, per T'Challa
sarebbe stato necessario dare sfoggio delle sue migliori abilità diplomatiche
per tentare di giustificare come mai, il difensore del Wakanda, avesse
oltrepassato i suoi confini.
Si
avviò da Mandisa, voltandosi prima verso il medico. «La
ringrazio per il suo lavoro» disse.
Lanciò
un’ultima occhiata al viso di Anisa, infine seguì la donna, che si avviò
immediatamente verso l’uscita dell’infermeria. Appena fu fuori dalla porta,
però, la robusta sagoma di un uomo attirò la sua attenzione.
James
Barnes si fermò di colpo, fissando T'Challa e Mandisa
a pochi metri da lui. Indossava vestiti wakandiani, leggeri, il braccio
metallico scintillante sotto la luce del sole che entrava dalle grandi finestre
del corridoio.
T'Challa
gli sorrise. «James. Vedo che cominci a orientarti all’interno del palazzo.»
Fece
un cenno in direzione della porta della camera di Anisa. «Sei qui per fare
visita ad Anisa?»
La
domanda rimase in sospeso a lungo. T'Challa era ormai abituato alla scarsa loquacità
del Soldato d’Inverno e non si scompose. «Dentro c’è ancora Kenan,
il mio medico di fiducia. Ho lasciato detto che tu possa vederla.»
Non
attesa una risposta; riprese a camminare e si allontanò, seguendo la sua
assistente lungo il corridoio diretto al suo ufficio. Bucky rimase a guardare
le due figure che si allontanavano, finché il rimbombo dei tacchi di Mandisa non venne assorbito completamente dalla distanza.
Poco più avanti vide la maniglia abbassarsi e un uomo uscire dalla stanza che
T'Challa gli aveva appena indicato. Dedusse che si poteva trattare solo di Kenan.
Quest’ultimo
guardò il Soldato per un breve momento, infine gli sorrise, mantenendo la porta
aperta.
«Sta
riposando.»
Bucky
non replicò. Fece un debole cenno di assenso al medico avvicinandosi a lui,
dopodiché entrò nella stanza, richiudendo dietro di sé la porta.
*
Le
sembrava di essere avvolta da ovatta. La luce delicata non le diede fastidio
appena aprì gli occhi, che si adattarono subito alla penombra del tramonto
imminente. I suoni erano spenti, lontani, si percepivano a stento ed erano
confusi. Anisa sbatté gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco il soffitto
sopra di sé, il corpo immobile, il respiro ancora lento. Non riusciva quasi a
sentire il proprio corpo, ma era rilassata.
Quel
soffitto le era famigliare e le sue profonde convinzioni su cosa l’aspettava
oltre la morte, esulavano completamente
da una camera bianca e un letto in cui si sprofondava come nello zucchero
filato.
Si
guardò intorno, in attesa di riavere il controllo completo del proprio corpo.
Voltò appena il volto verso destra e lo vide subito. Sembrava addormentato, le
braccia incrociate al petto, gli occhi chiusi. Anisa lo guardò un momento e si trovò
piacevolmente sorpresa di trovare nella sua stanza il Soldato d’Inverno. Rimase
a osservare i tratti del suo volto e la mente la catapultò inevitabilmente
indietro, alla notte precedente.
Era
stato lui a salvarla, su questo non aveva dubbi. Ricordava alla perfezione il
viso di Bucky quando l’aveva raggiunta nel corridoio in cui lei temeva sarebbe
morta, del modo in cui l’aveva medicata, di come l’aveva raccolta da terra per
portarla via. Ricordava la risolutezza nei suoi gesti, in quegli occhi tanto chiari,
le ciocche di capelli scure che ricadevano scomposte sul suo volto. Fra le sue
braccia si era sentita al sicuro e le ultime parole che lui le aveva mormorato
le avevano dato speranza.
Forse
era per quello che, appena risvegliata, era piuttosto certa di essere ancora
viva e in un posto sicuro. Nel modo in cui Bucky si era preso cura di lei,
Anisa aveva sentito che sarebbe andato tutto bene.
La
donna sorrise leggermente fra sé, sentendo finalmente tornare un po’ di
sensibilità fin nelle punte del proprio corpo. Era sicura che Bucky fosse
cosciente e vigile, anche se si sarebbe detto il contrario.
«Ciao»
disse infine, la voce roca e il tono più basso di quanto avesse pensato.
Non
si era sbagliata. Il Soldato aprì subito gli occhi, puntandoli su di lei.
Appoggiò i gomiti ai braccioli della sedia in cui si trovava senza dire nulla.
La
donna gli sorrise, senza replicare. I silenzi di Bucky erano quasi snervanti,
ma lei era certa di capire a cosa fossero dovuti. All’uomo servivano tempo,
sicurezza e nuova speranza per riuscire a trasformare quei silenzi in parole e
tutto ciò richiedeva tempo. Anche lei ci era passata anni prima e fu strano
rendersi conto di non aver tenuto nei confronti di una persona in quella
situazione, il comportamento che lei, in quegli anni, aveva desiderato che le
venisse riservato.
Anisa
tornò a rivolgere gli occhi al soffitto. «Grazie. Devo a te la mia presenza
qui.»
La
donna si lasciò sfuggire una leggera risata, uno sbuffo fra le labbra. «Sei
l’ultima cosa che ho visto prima di perdere i sensi. Direi che è proprio te che
devo ringraziare.»
«Dovevo
farlo» si limitò a replicare l’uomo, distogliendo lo sguardo proprio mentre
Anisa tornava a posare il suo su di lui. Rimasero in silenzio ancora un po’,
finché la donna non prese nuovamente parola: «Perché hai deciso di aiutarci? È
solo per via della cura che ha trovato T'Challa?»
Aveva
posto la domanda a bruciapelo e ne era consapevole. Tuttavia, dopo quello che
aveva scoperto durante la riabilitazione di Bucky e dopo che lui aveva
accettato di aiutare T'Challa nella sua personale lotta contro Klaw, quella
domanda aveva cominciato a perseguitarla. Sapeva che non avrebbe ottenuto una
risposta, a meno di chiedere al diretto interessato.
Il
Soldato fissò a lungo Anisa, che non cedette per un solo attimo. Lui guardò
attentamente i suoi occhi nocciola, lucidi per il troppo riposo, sentendola
vicino a sé. Aveva capito di potersi fidare di lei e di T'Challa, di avere
trovato qualcun altro, dopo Steve, con cui poter evitare di guardarsi
perennemente le spalle. Per pochi istanti aveva dubitato delle sue ultime
scelte, ma il breve e sincero ringraziamento che poco prima Anisa gli aveva
rivolto era stato sufficiente per confermargli che la sua decisione era giusta.
Respirò
a fondo, in cerca delle parole che, da quando James Buchanan Barnes era stato
inghiottito dal gelo settant’anni prima, faticava sempre a trovare.
«Dopo
che mi avete aiutato a guarire non potevo farmi congelare di nuovo. Farlo, dopo
essere stato liberato dal controllo dell’HYDRA, sarebbe stato come scappare.»
Fece
una pausa. «Ho pensato a quello che avrei potuto fare e mi sono tornate alla
mente tutte le cose che mi aveva raccontato Steve. Ho capito che per la prima
volta potevo mettere le mie capacità al servizio degli altri, che potevo usare
le mie doti per fare finalmente del bene. È per questo che ho accettato. Volevo
cominciare subito e T'Challa mi è sembrato avesse bisogno di aiuto. Ora so che
ho fatto la scelta giusta.»
Anisa
sorrise dolcemente, ripensando alle parole appena pronunciate dall’uomo. Ciò
contro cui stavano combattendo era qualcosa – o meglio, qualcuno – contro cui
le sole forze wakandiane non avrebbero potuto nulla.
Dopo due scontri frontali con Klaw anche lei, a malincuore, aveva ammesso a se
stessa quella sconsolante realtà. Era chiaro che l’aiuto che il Soldato aveva
deciso di dar loro era stato provvidenziale.
Tuttavia
bisognava ricominciare da capo ancora una volta. Era necessario trovare il
nuovo nascondiglio di Klaw, prepararsi al meglio per affrontare lui e i suoi
uomini, sempre che fossero sopravvissuti la notte precedente.
Fu
in quel momento che si accorse di non avere informazioni sull’esito
dell’attacco di quella notte – a parte il suo ferimento – e, testarda com’era,
decise di andare da T'Challa a chiederglielo di persona.
Lanciò
un’occhiata all’asta portaflebo immobile accanto al
letto, la sacca in plastica vuota, mollemente abbandonata. Probabilmente si
trattava di antidolorifici, somministrati per permetterle di riposare dopo
essere stata medicata.
«Cosa
c’era lì dentro?» chiese conferma a Bucky, fissando ancora la flebo esaurita.
Il
Soldato non parve sorpreso per la domanda. «Analgesico.»
«Dubito
ci sia scritto proprio così» replicò la donna, sarcastica.
Nuovamente
Bucky non si scompose. «Trometamina» precisò.
«D’accordo.»
Detto
ciò Anisa si puntellò con i gomiti sul letto, facendo scivolare le lenzuola
all’altezza dell’addome. Non sentì dolore in corrispondenza della sua ferita,
ma, probabilmente a causa dell’antidolorifico e del troppo riposo, il corpo non
era abbastanza reattivo. Faceva fatica a mettersi seduta, la banale operazione le
richiese dello sforzo anche per fallire totalmente.
Bucky
la guardò, leggermente incuriosito, sforzandosi di capire perché quella donna
non avesse voglia di fare l’unica cosa che, nel suo stato, avrebbe dovuto fare:
stare ferma e riposarsi. Tuttavia Anisa provo a sedersi sul letto ancora una
volta. Lui reagì istintivamente e si sporse avanti per aiutarla, ma si fermò
subito. La donna notò il suo gesto.
«Oh,
non preoccuparti, ce la faccio» disse.
Bucky
si ricompose.
«Il
sarcasmo non fa per te, vero?» aggiunse poi lei, ricadendo nuovamente sul
cuscino.
L’uomo
capì, si alzò dalla sedia, mormorando una rapida scusa, dopo di che aiutò
Anisa. La sollevò leggermente, aiutandola a sedersi per bene, i cuscini
disposti dietro la schiena. Quando si fu sistemata, lei gli sorrise,
ringraziandolo. Bucky indietreggiò di un passo e rimase a guardare la donna
che, come se fosse stata sola, sollevò la maglia dell’abito ospedaliero che
indossava fino al punto in cui era stata colpita. C’era una garza con cerotto che
la donna non esitò a sollevare, mostrando la pelle sotto di essa. Anche il
Soldato rimase a guardare quei centimetri di pelle dorata, gonfia e arrossata
per via di un segno verticale marcato, interrotto da quattro punti di sutura
equidistanti fra loro. Anisa fece scorrere su quei punti il proprio indice,
percependo il dislivello fra la carne sana e quella medicata.
«Non
dovresti toccarla» la informò Bucky, ancora intento a osservarla.
Lei
parve non ascoltare la sua affermazione. «Ne hai molte di queste?» gli chiese,
senza guardarlo.
«Qualcuna»
rispose lui, contandole mentalmente.
La
donna tornò a sistemare sulla ferita la garza, facendo aderire il cerotto
meglio che poté, infine abbassò la maglia. Si sporse sul bordo del letto,
faticando un po’, gli occhi fissi sulle scarpe di Bucky, ancora in piedi
accanto a lei.
Si
sentiva strana; ancora non le sembrava vero che le avessero sparato. Eppure
quella sua ferita era reale, l’aveva appena toccata e non poteva certo fingere
che non fosse vera. Se quei pensieri potevano attraversare la sua mente in quel
momento lo doveva solo al Soldato d’Inverno che, ora, le pareva strano
chiamarlo ancora così. Quell’uomo le aveva salvato la vita e, quel gesto, non
poteva che significare tutto per lei.
«Come
va il braccio?» domandò poi, senza apparente motivo.
Bucky
la fissò incuriosito, senza capire il perché di quel quesito. Guardò
rapidamente il braccio in vibranio, muovendo istintivamente le dita, dopodiché
Anisa riprese a parlare: «Non sono stata molto gentile con te finora. Avrei
dovuto comportarmi decisamente meglio e mi dispiace. Eppure tu non hai esitato
a salvarmi la vita.»
«Dovevo
farlo» replicò lui, senza cambiare di una sola virgola l’identica risposta che
aveva dato alla donna la prima volta in cui aveva tirato in ballo l’argomento.
Si
guardarono per un lungo momento. C’era una forte intensità negli occhi
grigio-azzurri del Soldato, un insieme di sentimenti vari, ammassati,
contrastanti, che Anisa non riuscì decifrare. Si limitò a sorridere, sforzando
poi il suo corpo ad alzarsi in piedi.
Bucky
intuì subito quello che la donna era in procinto di fare e volle impedirglielo.
Posò il braccio sinistro sulla spalla di lei, con ferma delicatezza.
Anisa
si bloccò. Puntò prima lo sguardo sulla mano di Bucky, facendolo scorrere lungo
tutta la superficie metallica del braccio, infine tornò a incrociare i suoi
occhi. In quel brevissimo attimo il suo cuore ebbe un fremito e lei si arrestò
completamente.
«Non
puoi andare da T'Challa, ora. Hai bisogno di riposare ancora» le disse lui, il
tono risoluto non ammetteva repliche. Anisa, infatti, non fu in grado di
replicare. Ancora catturata dai suoi occhi chiari annuì con la testa e,
ubbidiente, tornò a sdraiarsi sul letto, sotto lo sguardo vigile del Soldato.
*
La
porta dell’ufficio di T'Challa non le era mai mancata così tanto. Anisa sfiorò
leggermente il legno laccato di nero, prima di posare la mano sulla maniglia.
Era
uscita dalla sua stanza in infermeria quella mattina, dopo due interi giorni
trascorsi là dentro. Dopo il suo risveglio Bucky non si era più fatto vedere,
ma T'Challa l’aveva visitata spesso, esprimendole il desiderio di essere
raggiunto nel suo ufficio non appena fosse stata dimessa. Non le aveva
raccontato nulla di tutto ciò che era seguito al loro allontanamento dal
deposito interrato – dopo il suo ferimento – se non che, con tutta probabilità,
Sule era morto.
Bussò
alla porta, rimanendo in attesa. Sentì subito T'Challa che invitava a entrare
e, lentamente, superò la soglia.
Il
sovrano non era solo. Seduto alla scrivania, di fronte a lui, Bucky si voltò
appena per vedere chi avesse fatto il suo ingresso. Come T'Challa vide Anisa si
alzò in piedi, andandole incontro. L’abbracciò, stringendola a sé mentre
sussurrava un veloce saluto wakandiano, parole di
gioia e di ringraziamento. La donna si distese in quell’abbraccio, inspirando a
fondo il profumo dell’uomo, un misto di pulito, caffè e vaniglia. Quando si
separarono Anisa si sistemò istintivamente il lungo abito tipico di quelle
terre, di stoffa naturale, leggera e non aderente, così che non andasse a
tirare in corrispondenza dei punti di sutura non più coperti dalla garza.
Il
sovrano invitò la donna a sedersi, ma lei preferì rimanere in piedi.
«Come
ti senti?» le chiese T'Challa, tornando al suo posto.
«Decisamente
meglio.»
L’uomo
annuì, sorridendo. «Stavo parlando con James riguardo alle ultime supposizioni
che ho formulato sugli uomini di Klaw» riprese poi, serio. «Vorrei rendertene
partecipe.»
«Sono
qui anche per questo.»
«Non
so dove sia fuggito Klaw, ma ho già avviato delle ricerche. Un paio di giorni
fa il Presidente del Kenya mi ha contattato per dirmi che, nella sua terra,
sono accadute alcune cose strane, delle aggressioni.»
Sfogliò
un paio di pagine con fare distratto, tornando a puntare lo sguardo su Anisa.
«Sai già cosa sospetto, ma finché non ottengo qualche riscontro non c’è molto
che possa fare.»
«Lo
capisco.»
«Per
quanto riguarda i due uomini di Klaw, quello che ti ha sparato dovrebbe essere
morto, ma l’altro…»
Lasciò
cadere la frase, estraendo da uno dei cassetti della sua scrivania un
accendino. Anisa lo guardò, senza capire, sentendo su di sé gli occhi di
entrambi gli uomini.
«Ho
preso questo accendino quella notte, dall’altro complice, dopo che lo avevo
atterrato. James mi aveva raggiunto dopo che ti avevano ferita e ti abbiamo
subito portata qui. Sapevo che quell’uomo si sarebbe ripreso, prima o poi, ma
speravo che sottrargli questo accendino potesse bastare a renderlo meno
pericoloso. Credevo fosse questo l’origine del suo potere, di quelle fiamme
irreali che sa produrre. Pensavo si trattasse di un’arma sperimentale,
esattamente come la pistola con cui Sule ti ha colpito.»
Nel
tono di voce di T'Challa c’era una sfumatura, piuttosto evidente, in grado di
far capire alla donna che le cose non erano andate per il verso giusto.
«E
invece?» lo incalzò, curiosa.
T'Challa
abbassò lo sguardo sull’oggetto di quelle attenzioni. «È un comune accendino,
come ce ne sono tanti. Due giorni di analisi per capire che questo non è altro
che un normalissimo accendino.»
La
sua voce si era caricata di irritazione sul finire della frase, mentre Anisa
era semplicemente incredula. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile una
cosa del genere. Lei l’aveva visto quell’uomo; fiammate simili non potevano
essere provocate da un accendino normale.
«Non
ha senso» disse infine.
T'Challa
annuì leggermente. «Con James siamo arrivati alla conclusione che si possa
trattare di uomini dalle capacità superiori, non sarebbe la prima volta.»
La
donna non ebbe il tempo di stupirsi o trovarsi d’accordo con quelle parole.
Improvvisamente, con calcolato automatismo, le veneziane delle grandi finestre
si chiusero, facendo sprofondare nell’ombra l’ufficio di T'Challa.
Il
sovrano, che come la donna conosceva quella procedura, si alzò dalla sua sedia,
gli occhi improvvisamente brillanti. Bucky non capì cosa stava accadendo, ma
puntò lo sguardo sulla parete alla sua destra, esattamente il punto in cui gli
altri due stavano osservando. Con sua sorpresa, lì, l’ologramma di un uomo
comparve fra due fasci di luci incrociati, lo sguardo astuto perfettamente decifrabile.
L’ologramma
di Edet parlò con voce chiara, comunicando il
messaggio che aveva registrato tempo prima: «Mio signore, sono riuscito a
rintracciare Captain America. Stiamo rientrando in Wakanda.»