Grimm - Mai più felici e contenti

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione, chiarimenti e spiegazioni ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo I - The Fairytale Department ***
Capitolo 4: *** Capitolo II - Turning Pages ***
Capitolo 5: *** Capitolo III - Bloody Snow White ***
Capitolo 6: *** Capitolo IV - Who is Afraid of the Big Bad Wolf? ***
Capitolo 7: *** Capitolo V - The Traitor's Offspring ***
Capitolo 8: *** Capitolo VI - Dreams Never Come True ***
Capitolo 9: *** Capitolo VII - The Prisoner ***
Capitolo 10: *** Capitolo VIII - The Girl in the Box ***



Capitolo 1
*** Introduzione, chiarimenti e spiegazioni ***


Angolo Autrice: *Cosa essere questa cosa?*
Nulla di più e nulla di meno rispetto allo storico Grimm - No more happily ever after. Questa che spero vorrete cominciare a leggere, è una versione 2.0 della storia che pubblicai più di due anni fa e che a tutt'oggi risulta incompleta. Il motivo per cui ho deciso di ripubblicarla, corretta e riveduta, intendo spiegarlo in questa introduzione.
Innanzitutto, comincio con lo scusarmi con tutti i lettori della storia per averla lasciata in stagnazione per troppo tempo. Non mi stupirebbe se quasi tutti o tutti voi vi foste dimenticate della stessa, dopo tutti questi mesi. I motivi per cui non l'ho più continuata sono vari, e spaziano dal personale al tecnico, ma non voglio annoiarvi con scuse e giustificazioni inutili e noiose; preferisco piuttosto giungere subito al nocciolo della questione.
Ho cominciato a scrivere Grimm per diletto personale, dando sfogo a quelle che erano supposizioni e fantasie di un'adolescente; di conseguenza, non mi impegnai troppo, i primi tempi. Tuttavia, come spesso accade, questa storia mi è rimasta nel cuore: mi sono affezionata a essa e ai suoi personaggi, e in questi mesi, contrariamente a quello che può sembrare, non l'ho mai abbandonata.
Grazie all'aiuto e all'entusiasmo di Nimel17 e di Phoebe Moon, che ringrazio con tutto il cuore, e al supporto e alle feroci critiche di mio fratello Luca (a tutt'oggi il mio critico personale più spietato e fedele), questa storia si è ampliata a un punto che nemmeno io stessa avrei potuto immaginare. Da qui, la mia decisione di ripubblicarla.
E non potevi semplicemente continuarla?, chiederete voi. Domanda assolutamente legittima a cui intendo rispondere: dato l'ampliamento della trama con conseguente aggiunta di vicende e personaggi, rileggendo la prima versione, mi sono resa conto di quanto fosse poco accurata. Troppi riferimenti disneyani, miti e leggende del folklore campati per aria in maniera tale che nessuno fosse in grado di coglierli, capitoli troppo brevi e costellati da bruschi e molesti stacchi narrativi, in particolare lasciavo perdere delle vicende nel bel mezzo del clou per dedicarmi ad altre, lasciandole in sospeso troppo tempo, tanto da far perdere il filo.
Dunque, semplicemente, ho deciso di riscriverla.
La versione 2.0 di Grimm sarà più organica e per certi versi più dettagliata, con capitoli e storie più compatte. Inoltre, ho apportato tantissime novità, che spero avrete la pazienza di voler scoprire. Prometto che farò del mio meglio per rendere questa lettura gradevole, e che stavolta non lascerò i capitoli in sospeso per così tanto tempo; prometto infatti un aggiornamento regolare di una o due settimane al massimo.
Per cominciare, vi lascio con il nuovo prologo e con i primi due capitoli completamente revisionati e ampliati. Come sempre, qualsiasi vostra opinione, anche negativa, è ben accetta.
Grazie a tutti, e buona lettura.
Un bacio,

Beauty

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo






CAPPUCCETTO ROSSO inciampò in una pietra sporgente, cadendo in avanti sul terreno bagnato. Cercò disperatamente di rialzarsi, affondando le unghie nell'erba sporca e umida di rugiada. Gemette; l'intero lato sinistro del volto era appiccicoso e caldo, e bruciava. Cappuccetto Rosso si portò una mano all'altezza del viso: tre lunghi e profondi tagli le segnavano verticalmente la guancia, partendo dal sopracciglio fino terminare alla mandibola, imbrattandole la carne di sangue fresco; lo zigomo sinistro era gonfio e violaceo, e il labbro superiore era squarciato dalla traccia di un grosso artiglio.
Fece forza sulle ginocchia, riuscendo a sollevarsi carponi sul terreno; un attimo dopo, udì un ululato in lontananza, seguito da un ringhio profondo e famelico che le fece accapponare la pelle. Si rialzò in fretta, ansimando, e cercò di rimettersi a correre, ma riuscì solo ad arrancare e zoppicare, incespicando miseramente. La caviglia le faceva male, e in un barlume di lucidità realizzò che forse doveva essersela slogata. Si accorse che dei passi umani alle sue spalle la stavano raggiungendo – è vicino, sta arrivando, per le forze del Bene, sta arrivando... – e cercò di correre più veloce, senza riuscirci.
Continuò ad arrancare con disperazione, più spinta dall'istinto di sopravvivenza che da altro: in fondo, sapeva che l'avrebbe presa.
Gli sei solo sfuggita, prima; non andrai lontano.
Strinse i denti e serrò gli occhi quando le lacrime di dolore per la caviglia slogata cominciarono a sfuggirle dalle ciglia, e si costrinse a riprendere a correre, più veloce, più veloce!
Il cappuccio le scivolò dal capo, lasciando che i capelli biondi e scompigliati si sciogliessero sulle spalle. Ormai non restava quasi più niente del regalo che la nonna le aveva fatto, era tutto un cumulo di brandelli: la mantella rossa era stracciata e chiazzata di fango e sangue, il vestito bucato dai segni di un grosso morso, gli stivali bagnati e anch'essi sporchi di sangue.
Inciampò di nuovo, e di nuovo cadde al suolo. Iniziò a singhiozzare rumorosamente, mentre i passi alle sue spalle si fecero sempre più vicini, fino a fermarsi. Udì un altro ringhio. Cappuccetto Rosso ansimò, voltando lentamente il capo.
Il mostro alle sue spalle ringhiò di nuovo, scoprendo le fauci.
- Ti prego... - implorò Cappuccetto Rosso, fra le lacrime.
Ebbe appena il tempo di urlare, prima che delle zanne aguzze si avventassero su di lei.

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Capitolo 3
*** Capitolo I - The Fairytale Department ***


Capitolo I
 
The Fairytale Department
 
 
Le due bambine si volevano molto bene
e si tenevano per la mano quando andavano fuori insieme: dicevano
che non si sarebbero mai separate e che
avrebbero sempre diviso fraternamente ogni cosa”
 
Grimm, Rosabianca e Rosarossa
 
 
New York, 2015. Ore 4.55 p.m.
 
 
L'OROLOGIO all'interno degli spogliatoi segnava meno cinque minuti al suono della campanella.
Elizabeth Hadleigh girò il rubinetto della doccia, e l'acqua smise immediatamente di scorrere. Alcune ciocche bagnate le si erano appiccicate alle guance e un'altra le stava ricadendo sugli occhi, ma sebbene la voce stridula della professoressa Antsey continuasse ad ammonirla rimbombandole nelle orecchie – Hadleigh! Quante volte te lo devo ripetere?! Sei fradicia, asciugati o inzupperai il pavimento! – si sporse comunque per vedere oltre gli armadietti allineati alla destra delle docce: beh, a dire il vero “vedere” in quel momento era impossibile, tutta gocciolante e per di più senza occhiali, ma non sentiva più nessun rumore e lo spogliatoio della palestra era impregnato del suo classico odore di sudore misto a borotalco e deodorante. Afferrò a tentoni l'asciugamano appeso alla doccia e si tamponò il volto, se lo avvolse intorno al busto e si rimise gli occhiali. Riprese subito a vedere normalmente, sebbene qualche goccia d'acqua stesse già appannando le lenti. Sbirciò ancora una volta oltre gli armadietti: stavolta no, era sicura che non ci fosse nessuno.
Zampettò fuori dalla doccia, augurandosi nell'ordine: di non scivolare sulle piastrelle bagnate come l'ultima volta, di fare abbastanza in fretta per essere fuori da lì al suono della campanella e che Jessica King non le avesse di nuovo buttato i vestiti dalla finestra. Avvampò ricordando quel che era successo un mese prima: aveva vagato per gli spogliatoi per venti minuti con solo l'accappatoio addosso cercando i vestiti che, ne era sicura, aveva lasciato piegati nello zaino, con le altre ragazze che o ridevano o facevano finta di nulla o strillavano come galline a cui era stato tirato il collo se per caso si azzardava a spostare una delle loro borse, e la professoressa Antsey che le dava della stordita, e che diavolo Hadleigh, ma possibile che non ti ricordi dove hai messo la tua roba?. Alla fine una studentessa della sezione B aveva avuto l'idea di sbirciare fuori dalla finestrella posta sopra il lavandino e ehi, Quattrocchi, sono quelli i tuoi vestiti?.
Era subito stato chiaro che fossero state Jessica King e Anne Hammonds a giocarle quel brutto tiro, e peraltro loro non avevano fatto niente per discolparsi. La professoressa Antsey aveva dato loro una nota di demerito, Elizabeth sospettava più per prassi o per salvare la faccia che per vero senso di giustizia, dal momento che non le aveva neanche rimproverate. Anzi, se l'era presa con lei, dicendo che Hadleigh, santo cielo, non è che ogni volta dobbiamo perdere mezz'ora di lezione solo per colpa tua!.
Elizabeth era sicura che la professoressa Antsey la detestasse. Non per cattiveria, ma per il semplice fatto che detestava chiunque non avesse ottimi voti in ginnastica, e non sopportava che una schiacciata mal riuscita o una presa maldestra facessero perdere la squadra della scuola ai campionati di pallavolo del quartiere. E lei, che non era capace di fare un salto in lungo senza slogarsi una caviglia, correva troppo lenta e giusto quella mattina si era presa una pallonata in faccia perché aveva sbagliato un bagher, rientrava a tutti gli effetti nella lista nera.
I vestiti erano ancora la loro posto e lei era riuscita a raggiungere lo zaino senza rompersi l'osso del collo, ma in compenso la campanella stava per suonare. Si asciugò al meglio che poté e s'infilò i jeans senza smettere di tamponarsi i capelli. Pensò che la professoressa Antsey aveva ragione quando le diceva che era lenta come una lumaca, visto che era sempre l'ultima a uscire dalla palestra e anche a finire di cambiarsi, ma quello che non aveva capito era che lo faceva apposta. All'inizio, il primo anno di liceo, pensava che uscendo nei corridoi sarebbe stata più protetta, in mezzo agli altri studenti e magari sotto l'occhio vigile di qualche insegnante, ma alla terza o quarta volta che era stata presa per il bavero della camicia e sbattuta contro il muro aveva imparato la lezione. Difficilmente gli insegnanti parcheggiavano nei corridoi durante i cambi delle aule, e se anche si accorgevano di qualcosa si limitavano a un richiamo. Quanto agli altri studenti...beh, o se ne fregavano oppure seguivano il gregge con incitamenti, schiamazzi e risa, radunandosi intorno a lei per gustarsi lo spettacolo.
Il segno che Liz-Hadleigh-Mangiamerda aveva davvero fatto centro.
Mancavano tre minuti alle cinque del pomeriggio. Rinunciò definitivamente ad asciugarsi i capelli, pensando che tanto sarebbe stato inutile – aveva sentito uno scroscio provenire dall'esterno della scuola, con ogni probabilità stava piovendo – e ficcò l'asciugamano bagnato nello zaino. Sua sorella veniva sempre a prenderla alle cinque spaccate, e Dio solo sapeva quanto poco conveniente fosse fare aspettare Anya quando era di cattivo umore. E sua sorella era sempre di cattivo umore.
Prese a guardarsi intorno alla ricerca delle proprie scarpe. Ne trovò una sotto la panchina dove le studentesse posavano le giacche e gli indumenti, ma era così lontana che dovette inginocchiarsi per recuperarla. Gli occhiali le scivolarono via dal naso, e di nuovo la vista tornò ad appannarsi. Elizabeth sbuffò, lasciandosi sfuggire un'imprecazione fra i denti. Recuperò gli occhiali e se li piantò di nuovo sul naso, poi allungò ancora il braccio per recuperare la scarpa da tennis. Avrebbe potuto giurare che qualcuno ce l'avesse spinta fin là sotto apposta, e non voleva nemmeno pensare al fatto che non sapeva dove fosse l'altra. Allungò il braccio all'inverosimile e riuscì ad afferrare le stringhe della scarpa e a tirarla verso di sé. Non appena l'ebbe afferrata saldamente e stretta fra le dita, sollevò il busto di scatto.
La testata che picchiò contro il bordo della panca fu così forte che il suono secco del legno rimbombò contro le pareti degli spogliatoi.
- Merda...!- Elizabeth digrignò i denti, prendendosi il capo fra le mani e piegando il busto in avanti. Mugolò di dolore, massaggiandosi la nuca. Aveva colpito il suo zaino facendolo inclinare in avanti, e parte del suo contenuto si era rovesciato sul pavimento. Elizabeth cominciò a raccattare penne, matite e quaderni, senza smettere di massaggiarsi il capo.
La campanella dell'ultima ora trillò. Fuori, nel corridoio, iniziarono a risuonare i rumori di porte che si aprivano, di chiacchiere e di passi. Elizabeth si affrettò a rimettersi le scarpe e a raccogliere gli ultimi oggetti che le erano sfuggiti dallo zaino. Imprecò a mezza voce quando si accorse che la relazione su Anna Karenina era finita in una pozza d'acqua sotto al lavandino; quando si rialzò dal pavimento per recuperare lo zaino, si accorse che non era completamente vuoto come invece aveva sospettato: si era ribaltato in orizzontale sulla panca, e le cinghie allentate avevano fatto in modo che dall'interno sbucasse qualcosa di rettangolare e marroncino che Elizabeth riconobbe subito come un libro. Sulle prime credette che si trattasse del volume di biologia, ma poi guardando meglio si accorse che la copertina era troppo rigida per essere di un libro di scuola. Ripose velocemente gli oggetti che aveva in mano ed estrasse il volume dallo zaino.
Si accigliò. Quel libro non era suo, e non si ricordava nemmeno di averlo preso in prestito alla biblioteca scolastica. Se lo rigirò fra le mani per esaminarlo meglio: la copertina era effettivamente rigida e spessa, di pelle marroncina. Le pagine erano ingiallite e fra di esse spuntava un segnalibro di stoffa viola sbiadito; i bordi erano delimitati da una sottile striscia dorata che tracciata un rettangolo, al centro del quale vi era quello che – osava presumere – era il titolo del libro.
 
Fiabe del focolare
 
La prima cosa che le venne in mente fu che era veramente, veramente strano che non ci fossero segnati autore e casa editrice. Elizabeth fece vagare lo sguardo sulla copertina alla ricerca del nome dello scrittore, ma non lo trovò. Anche il retro del libro era intonso, e non c'era nemmeno traccia di eventuali timbri o etichette che rimandassero a qualche libreria o biblioteca.
Pensò che doveva trattarsi di qualche altro scherzo. Magari Jessica aveva detto a Anne o a Julia di metterle il libro di qualcun altro nello zaino per farla finire nei guai. Non era mai successo, a dire il vero – in genere Jessica e le sue amiche si limitavano a scherzi diretti oppure alla forza bruta, non erano così argute da ordire un piano elaborato o i cui risultati si fossero avuti a lungo termine –, ma decise comunque di non rischiare. Quel libro non era suo, né l'aveva preso in prestito, di questo ne era assolutamente certa: lei faceva parte dell'arredamento fisso della New York Public Library, questo nessuno poteva negarlo, si poteva dire che passasse più tempo chiusa fra gli scaffali di quelle quattro mura che a casa, e non era insolito che prendesse dei libri facendosi trasportare dall'entusiasmo del momento o semplicemente perché una trama o un titolo l'avevano incuriosita...ma lei quel libro non lo aveva mai visto prima, e non aveva neppure nessun marchio della biblioteca.
Lo infilò nuovamente nello zaino, ben decisa a fare un salto in segreteria e consegnarlo come oggetto smarrito, prima che il legittimo proprietario l'accusasse veramente di furto. Indossò la felpa e sorpassò velocemente gli armadietti, diretta verso la porta, ma un rumore di colpi contro il legno la inchiodò sul posto.
- Ehi, Quattrocchi! Sei qui dentro?
Elizabeth sbiancò, e mosse un passo indietro. Alcune risatine seguirono, e qualcuno fece sferragliare alcuni portachiavi. Erano sicuramente le catenine e i ciondoli che Anne portava sempre allacciati alla cintura.
- Quattrocchi!- la voce di Jessica rimbombò contro le pareti dello spogliatoio. Elizabeth strinse le dita intorno alla tracolla dello zaino e indietreggiò ancora di più, appiattendosi contro gli armadietti. Trattenne il fiato, sperando solo che se ne andassero. Udì la voce di Ursula Harper che sussurrava qualcosa probabilmente a Julia – erano inseparabili, quelle due – e poi scoppiava in una risata grassa almeno quanto lei. Ursula era un vero e proprio colosso, parecchio alta per essere una ragazza e decisamente sovrappeso – molto più di quanto lo fosse Elizabeth stessa – e con braccia grosse e muscolose. Era la picchiatrice del gruppo. Tutte le volte che c'era da punire qualcuno per quelle che venivano considerate “mancanze”, Jessica sguinzagliava Ursula, e a quel punto dovevi solo sperare di trovarti un nascondiglio sicuro e restarci fino a che il pericolo non fosse passato.
Tutti avevano paura di Ursula, fra gli studenti, ed Elizabeth sospettava che anche i professori ne fossero intimoriti. L'unica persona di sua conoscenza che avesse avuto il coraggio di sollevare – metaforicamente, ovvio –, la picchiatrice per la maglietta senza ritrovarsi poi con un paio di costole rotte era stata sua sorella. Ma d'altra parte Anya non andava più a scuola da un anno e non aveva niente da perdere. Era facile essere coraggiosi, nella sua posizione.
Elizabeth si appiattì ancora di più contro gli armadietti, scivolando lentamente contro il metallo freddo alla ricerca di...boh, non sapeva nemmeno lei cosa. Una via di fuga, forse. Ma l'unico modo per uscire da lì era passare dalla porta principale, ostruita da Jessica e dalle altre. Una risatina acuta le confermò che anche Samantha Crawley era presente, e quindi erano tutte e cinque al completo.
Elizabeth chiuse gli occhi, sperando che non la trovassero.
- Ma sei sicura che la psicolabile sia qui dentro?
- Non hai visto che non era con le altre, quando sono uscite?
- Magari si sta masturbando.
Altre risate, e di nuovo Anne Hammonds fece sferragliare le sue catenine e i suoi portachiavi. Elizabeth sentì che avevano tutte abbandonato la soglia della porta e si stavano sparpagliando nell'ingresso dello spogliatoio. Strisciò contro gli armadietti, infilandosi fra un cappotto e un asciugamano rimasti dimenticati appesi ai ganci di ferro. Raggiungere l'uscita senza venire scoperta era impensabile, mancavano troppi metri. Non le restava che sperare che se ne andassero.
L'orologio segnò le cinque del pomeriggio.
- Probabile. Chi se la scoperebbe, quella?
- Io invece scommetto che fuori di qui la da via a tutti, come sua sorella.
Le catenine di Anne continuavano a sferragliare a ogni passo, ed erano l'unico indizio che le facesse capire all'incirca dove si trovasse il gruppo di Jessica. Udì il rumore di un rubinetto che veniva aperto e poco dopo lo scroscio dell'acqua.
- Riempilo tutto.
Merda, no! Non di nuovo!. Elizabeth strinse le dita intorno alla tracolla così forte che i polpastrelli sbiancarono. Abbandonò ogni cautela e riemerse dal rifugio sicuro fra l'asciugamano e il cappotto e provò ad avviarsi in punta di piedi fino alla porta. Forse era la forza della disperazione, ma in quel momento le sembrò davvero possibile riuscire a farla franca. Svoltò a destra, costeggiando un'altra fila di armadietti; là dietro sicuramente quelle cinque non avrebbero potuto vederla, era completamente coperta. Cercò di camminare lentamente per non fare rumore. Guardò l'uscita di fronte a sé...non era più così lontana...
Mosse un altro passo in avanti, ma una voce alle sue spalle la gelò.
- Ah, sei qui, Mangiamerda.
Era stata Ursula a parlare, nessun dubbio. Elizabeth avrebbe conosciuto quella voce grassa e rantolante anche al buio. Non ebbe il coraggio di voltarsi subito, e questo non giocò certo a suo favore.
- Allora, Quattrocchi?
Si accorse che una ciocca ancora umida di capelli le era finita sul volto, e ora penzolava su e giù proprio di fronte agli occhiali. Gli occhiali...! Signore, Ti supplico, fa' che non me li rompano...!
I passi si affrettarono nell'angolo in cui lei e Ursula si trovavano faccia a faccia. Elizabeth sentì che le altre quattro si erano disposte in modo da formare un semicerchio intorno a loro, ma lei continuava a tenere lo sguardo fisso sulla picchiatrice. Ursula ghignò, scoprendo l'apparecchio per i denti. Le attraversò la mente la malsana idea di girare i tacchi, aprirsi un varco fra Samantha e Julia e sgusciare via di corsa in direzione della porta, ma la possibilità che Ursula la potesse acchiappare per il cappuccio della felpa e sbatterla contro gli armadietti la fece desistere. Un tentativo disperato come quello non sarebbe servito ad altro se non a farsi picchiare di più e più forte che se se ne fosse stata zitta e buona.
- E' da un quarto d'ora che ti aspettiamo, stronza - Jessica parlò alla sua destra; Elizabeth la vide avvicinarsi a lei fino ad arrivarle a pochi centimetri di distanza – la distanza necessaria per un cazzotto ben piantato – e piegare la testa di lato per squadrarla. Aveva la lunga chioma bionda ricoperta di gel e il piercing al naso, e teneva una sigaretta fra le dita. Era vietato fumare all'interno della scuola, ma Jessica non si era mai fatta problemi, a quanto ne sapeva, perché la si vedeva sempre con la sigaretta fra le labbra, anche durante le ore di lezione. Ovviamente i professori la sgridavano, la sbattevano fuori dalla classe e non era nuova in presidenza, ma Elizabeth sapeva che lei semplicemente se ne fregava. Così come se ne fregava dei compiti a casa e dei test, altrimenti non sarebbe già stata bocciata due volte. Sia lei che Anne erano state nella stessa classe di sua sorella, solo che Anya si era diplomata nei tempi giusti, e loro invece stavano ancora lì, fra i banchi di scuola. Samantha e Julia invece avevano la sua stessa età ed erano in una sezione differente, ma quella che deteneva il record era Ursula: ventidue anni e nessuna intenzione di prendere il diploma in tempi ragionevoli.
- Dove cazzo eri?
Elizabeth la guardò negli occhi, e per tutta risposta Jessica soffiò fuori il fumo della sigaretta contro la sua faccia. Gli occhiali le si appannarono.
- Mi stavo vestendo...
- Io dico che ti stavi masturbando.
Non replicò. In tre anni di liceo aveva imparato che starsene zitta era la cosa migliore, se non volevi ritrovarti con il labbro sanguinante. Aspettò che Jessica continuasse.
- Allora?- Jessica tirò un'altra boccata.- Ce l'hai?
- Che cosa?
- Mi prendi per il culo?!
La solita sensazione di panico tipica di quelle situazioni cominciò a farsi strada dentro di lei partendo dalle dita delle mani fino ad arrivare al torace e a farle pulsare le tempie. Il suo cervello prese a lavorare a tutta velocità: cos'aveva dimenticato, stavolta? Sicuramente doveva essere qualcosa che riguardava la scuola, ma...
- La relazione, cazzo!- abbaiò Anne alle sue spalle, facendo sferragliare le catenine; una volta le aveva colpito un braccio, con quelle, e le aveva fatto un livido che ci aveva impiegato due settimane a sparire del tutto.- La relazione, pezzente che non sei altro. Ce l'hai, sì o no?!
Elizabeth trasalì, ricordandosi improvvisamente, e aprì in fretta lo zaino. Tirò fuori la relazione su Anna Karenina che la professoressa d'inglese aveva chiesto per il giorno seguente: era stato un lavoro non da poco, con riassunto, commento, esercizi e un confronto con Madame Bovary e Orgoglio e Pregiudizio. In tutto aveva scritto ventisette pagine. Cinquantaquattro, considerando che aveva dovuto farne due copie, una per sé e una per Jessica.
Era una storia che andava avanti da circa metà del primo anno di liceo, quella: Jessica le chiedeva di svolgere anche i suoi, di compiti a casa, e lei ubbidiva, o erano dolori. Elizabeth era abbastanza brava a scuola, le uniche materie in cui era un po' carente erano ginnastica ed economia domestica, ma per il resto aveva ottimi voti. Lo stereotipo della secchiona, in pratica. Era stato questo, a fregarla: sua sorella le aveva detto e ripetuto fino alla nausea che offrirsi di far copiare nei compiti in classe e passare gli esercizi svolti sottobanco era una pessima tattica per farsi degli amici, ma lei non aveva voluto ascoltarla e lo aveva fatto lo stesso. Non era mai stata brava a stringere amicizia, e dopo anni passati a essere etichettata come quella strana o la figlia di Christine Mason non vedeva l'ora di ricominciare daccapo una volta arrivata alla tanto ambita soglia del liceo.
Se poi si considerava il fatto che neanche sua sorella aveva amici da quando aveva finalmente deciso di mettere la testa a posto e mollare quello scalzacani di Bobby Joe Armstrong...beh, tanto valeva fare di testa sua.
E invece, ancora una volta la verve secca e perentoria di Anya aveva avuto ragione, e lei si era presto ritrovata vittima di stormi di fannulloni che la cercavano solo la sera prima del compito in classe di matematica e dalle cinque bulle del liceo, che a ogni occasione le sferravano un pugno nell'addome per convincerla a svolgere anche i loro, di compiti.
Lo scopo di tutto questo non lo comprendeva, dal momento che a fine anno restavano comunque bocciate, ma nella sua posizione non era il caso di indagare.
Porse la relazione a Jessica, che gliela strappò di mano e cominciò a sfogliarla.
- Perché le pagine sono bagnate? E' piscio, questo?
- Mi è scivolata nell'acqua...- mormorò Elizabeth, sentendosi una schifosa codarda.
Jessica la guardò, quindi passò la relazione a Anne.
- E che me ne faccio di uno schifo bagnato, eh?
Le strappò di mano lo zaino. Elizabeth provò a opporre una debolissima resistenza, ma alla fine la lasciò fare. Jessica lo aprì e lo capovolse, in modo che tutto il suo contenuto si riversasse sul pavimento. Elizabeth rimase a guardare fogli, penne, quaderni, libri di testo che si sparpagliavano disordinatamente sulle piastrelle; il libro di fiabe fu uno dei primi a cadere fuori dallo zaino, aprendosi su una delle prime pagine.
- Non c'è la copia!- Jessica la guardò come se avesse compiuto un delitto degno della sedia elettrica.- Dove cazzo è la tua copia?
- L'ho lasciata a casa, Jessica.
Sarà anche stata una schifosa codarda, questo non poteva negarlo neanche a se stessa, ma ormai aveva abbandonato qualsiasi possibilità di uscirne illesa, almeno per quella volta. Non le restava altro che quel briciolo di dignità da conservare.
Se Jessica non era soddisfatta della copia dei compiti che le aveva portato – i motivi potevano essere dei più disparati: era bagnata, non aveva imitato bene la sua calligrafia, puzzava di vomito...raramente un lavoro le andava bene qualcosa –, allora si prendeva la sua. Poco importava se si contraddicesse oppure che il giorno dopo fosse stato palese che non aveva svolto di persona i compiti, Jessica pretendeva la sua copia. E anche quando ciò non accadeva, provava comunque un immenso gusto nello stracciarla.
Il risultato era che lei doveva correre a casa in tutta fretta e trascorrere la nottata in bianco per rifare tutto dall'inizio.
Le prime volte, quando aveva quattordici anni e ancora s'illudeva che quelle prepotenze sarebbero cessate se lei avesse fatto finta di nulla, ci cascava sempre. Poi, aveva imparato la lezione, e da allora non portava più i propri compiti a scuola, se sapeva che Jessica le aveva commissionato qualcosa.
- Che cosa hai detto, Mangiamerda?!- ringhiò Jessica, avanzando di un passo nella sua direzione. Elizabeth deglutì, ma trovò la forza di rispondere.
- L'ho lasciata a casa - ripeté.- E' per me.
Uno schiaffo secco le colpì in pieno il labbro superiore, così veloce che non fece neppure in tempo a scansarsi. Elizabeth soffocò un gemito, portandosi una mano all'altezza della bocca. Provò a controllare se stesse perdendo sangue o meno, ma un attimo dopo una mano molto più grande e più forte di quella di Jessica – doveva trattarsi di Ursula, nessun dubbio – le colpì violentemente una tempia.
Gli occhiali le schizzarono via dal viso, finendo chissà dove sul pavimento.
 
Le previsioni del tempo, quella mattina, avevano annunciato una schiarita in giornata, ma erano quasi le cinque del pomeriggio e il tempo non accennava a migliorare. Anya Hadleigh gettò un'occhiata a una delle ampie vetrate dell'Once Upon a Time Café: le gocce d'acqua continuavano a cadere grosse e incessanti sulla strada di fronte al locale e sul marciapiede, e le auto procedevano arrancando una dietro l'altra. Al novanta per cento fra meno di un'ora ci sarebbe stato un ingorgo, ed era l'ultima cosa che le serviva, in quel momento.
Proprio in quel momento, con un tempismo impeccabile che sembrava fatto apposta per ricordarle il motivo per cui era nervosa, l'orologio del locale segnò le cinque. Anya si fece passare la caffettiera bollente da Doris, e lanciò un'occhiata di soppiatto a Bowen. Il suo capo, i bottoni della camicia che stavano per scoppiare sul ventre prominente e la pelata lucida, continuava a saltellare da un tavolo all'altro chiedendo ai clienti se avevano mangiato bene, se si trovavano a loro agio e sottolineando tre volte su due che lui era il proprietario di quel misero locale dimenticato in tutta New York. Anya guardò ancora l'orologio e iniziò a battere nervosamente un tacco dello stivaletto contro il pavimento.
- Ehi, occhio! E' bollente, rischi di scottarti come l'ultima volta...- borbottò Doris, senza alzare lo sguardo dal panino imbottito che stava preparando.
- Quando si decide a lasciarmi andare?!- sibilò Anya, nervosamente.- Devo passare a prendere mia sorella...!
- Ci tieni al tuo lavoro, o no? Fai la brava e resisti, c'è gente, oggi. Finisci di servire quei tavoli là in fondo e poi chiedi se puoi andartene. Tua sorella non è una bambina, può aspettare dieci minuti...
Anya ingoiò il boccone e sospirò rassegnata. Versò il caffè nel bicchiere di plastica e lo posò sul vassoio accanto alla fetta di torta di carota e al panino al tacchino e maionese. Lo prese fra le mani e si fece strada fra le sue colleghe fino al tavolo numero 5. Il cliente, un uomo sui cinquant'anni con un doppio mento da fare invidia a un suino all'ingrasso, le rivolse un'occhiata voluttuosa, ma lei finse di non accorgersene. Si limitò a scribacchiare il conto sul taccuino e ad augurare buon appetito, e se ne tornò in fretta dietro al bancone.
- Hai fatto colpo, vedo...- ghignò Juliet, un'altra cameriera, passandole accanto.
- Quando vorrò essere incoronata regina dei suini, saprò con chi convolare a nozze...- sbuffò Anya di rimando, per nulla intenzionata a stare allo scherzo, non quel pomeriggio. Aveva fatto il grave errore di fare la spesa nella pausa pranzo, e adesso era sicura che metà della roba si fosse sciolta sui sedili posteriori dell'auto. Aveva mal di testa ed era in ritardo, aveva litigato con Bowen per via di alcune tazze che giacevano nel lavandino da mezz'ora più del dovuto e quello era uno dei giorni in cui pensava seriamente di mandare al diavolo tutti e licenziarsi.
Non lo aveva ancora fatto solo perché sapeva che suo padre ne sarebbe stato felice, e stavolta l'avrebbe avuta vinta e preteso che lei si trovasse un buon posto da impiegata da qualche parte.
Aveva cominciato a lavorare come cameriera all'Once Upon a Time Café appena dopo essersi diplomata. Era stata fortunata, nessun dubbio: con diciotto anni e nessuna esperienza, dopo una settimana trascorsa a girare per mezza New York con una pila di curricula intonsi sottobraccio, era entrata in quella tavola calda con l'intenzione di bere un caffè e rimettersi subito in pista, e invece era venuta a sapere che cercavano una cameriera.
Aveva cominciato il giorno seguente, ma ne aveva impiegati altri quattro per dare la notizia in famiglia. Fosse dipeso da lei, a dire il vero, avrebbe continuato a lavorare e a lasciare che suo padre e sua sorella vivessero nella beata ignoranza, almeno fino al primo stipendio; ma papà sfortunatamente si risvegliava dal suo torpore di tanto in tanto e le aveva chiesto perché ultimamente uscisse di casa sempre con addosso quei pantaloni neri e quella camicia bianca – la divisa ufficiale del locale.
Avevano litigato furiosamente, quasi al pari di quando lei aveva quindici anni e tornava a casa ubriaca all'una di notte. Richard Hadleigh, il braccio destro della legge, il terrore di tutti i criminali, aveva un'inspiegabile avversione per il lavoro delle cameriere. Non importava quanto negasse, anche Liz se n'era accorta. Aveva cercato di giustificare la sua incazzatura con il fatto che non gli aveva detto niente, ma la verità stava solo nel suo odio profondo verso quel tipo di lavoro e che questo avesse mandato in frantumi tutte le sue – peraltro vane – speranze. Anya s'immaginava suo padre che pregava giorno e notte e faceva voto a tutti i santi del calendario perché lei non trovasse lavoro e fosse così costretta a iscriversi al college come lui aveva sperato.
Lei del college non ne aveva voluto sapere e glielo aveva anche detto in faccia, ma il grande poliziotto aveva continuato a farsi illusioni. Peggio per lui, perché lei invece non sarebbe potuta essere più fortunata. Malumori a parte, in genere il suo lavoro le piaceva. L'orario era buono, cominciava la mattina alle nove e terminava alle cinque del pomeriggio, a parte due giorni a settimana in cui le toccava fare il turno serale, guadagnava quattro dollari e mezzo l'ora più le mance, due domeniche al mese erano libere e aveva modo di conoscere parecchia gente e soprattutto se ne stava fuori casa la maggior parte del tempo.
Le cinque e sette minuti. Anya prese un altro bicchiere di plastica, l'ultimo del suo turno di quel pomeriggio, sperava, e si stava preparando a riempirlo, quando un colpo secco di fronte a lei fece tremare il bancone e schizzare alcune gocce di caffè sul vassoio.
Bowen diresse il suo occhio di falco proprio in quella direzione.
- Ehi, Greg...!- salutò Juliet, ammiccando.
Anya alzò lo sguardo dal macello che aveva fatto sul vassoio giusto in tempo per vedere il ragazzo risponderle con un cenno della mano. Era stato lui a causare quel terremoto di legno piantando i palmi aperti sul bancone. Non si aspettava che si scusasse, e infatti non lo fece.
- Ciao, ragazze. Ehi, Anya...!- di fronte a lei si aprì un sorrisone a quattromila denti. Non lo vedeva, ma era sicura che Bowen la stesse fissando come si fissa un punching-ball quando si è straincazzati. Forzò al massimo i muscoli delle guance per sfoderare un sorriso tirato.
- Ciao, Greg...- la sua voce non avrebbe potuto suonare più falsa, ma d'altronde stava solo cercando di fare buon viso a cattivo gioco per non far arrabbiare ancora di più il suo capo. Greg ghignò e inarcò il sopracciglio in quella maniera che le faceva venire voglia di prenderlo a schiaffi finché non implorava pietà. Era un vizio che aveva fin dal liceo: forse facendo così credeva di risultare irresistibile, ma a lei era sempre sembrato solo un cretino.
I primi tempi aveva anche provato a farselo piacere – se l'era ritrovato come compagno di banco ad economia domestica a quattordici anni, almeno il beneficio del dubbio aveva dovuto concederglielo...! –, ma presto aveva stabilito che l'unico tipo di rapporto che avrebbe mai potuto esserci fra lei e Greg Nedry era una cordiale, silenziosa e reciproca sopportazione fino a che un deus ex machina – meglio noto come campanella di fine ora – non avesse posto fine alla tortura.
Tutto perfetto, insomma. L'unico problema era che lui sembrava non condividere la sua idea.
A onor del vero, non si era accorta subito di piacergli. Ci erano voluti due inviti al ballo di fine anno rifiutati e circa una decina di dichiarazioni contro gli armadietti dei corridoi prima che Talisa – quella che all'epoca considerava la sua migliore amica, ma che di fatto l'aveva mollata quando aveva trovato di meglio – le facesse notare che forse Greg non stava solo cercando di fare lo spaccone come invece aveva pensato. Perché a lei questo sempre era sembrato: uno spaccone.
Greg Nedry era un colosso di un metro e novanta per cento chili, pieno di muscoli e di steroidi accumulati in quattro anni nella squadra di football del liceo. Ad Anya non era mai interessato troppo lo sport, ma Talisa spesso l'aveva trascinata a vedere qualche partita: Greg non giocava male, anzi, per quel che ne capiva lei di football era anche bravo, ma era spesso in panchina per qualche fallo in campo o rissa con gli avversari. Aveva anche fatto un provino per entrare a far parte dei New York Jets, ma non era andato a buon fine.
La sua idea che non fosse altro che uno spaccone derivava dal suo comportamento in campo, dal suo continuo mettersi in mostra, e dalla sua apparente incapacità di incassare un rifiuto o un insuccesso. Era abbastanza ambito dalle ragazze della scuola, ma dalla prima liceo Greg sembrava aver messo gli occhi su di lei, senza un motivo chiaro.
La sua corte non era stata serrata fin da subito. Per diverso tempo lei era stata insieme a Bobby Joe Armstrong, che non si faceva scrupolo a romperti l'osso del collo se per caso t'interessavi a qualcosa che lui considerava una sua proprietà. Quando finalmente a quindici anni aveva mollato Bobby Joe, tutti i suoi ragazzi successivi erano sempre stati troppo assorbiti da se stessi per avere il tempo di ingelosirsi, e quindi lei era stata preda facile delle poco desiderate avance di Greg Nedry. Infine, dopo aver rotto definitivamente con Ross, il suo ultimo surrogato di fidanzato, la sera del suo ultimo ballo scolastico, a Greg lei era sembrata finalmente libera e, di conseguenza, territorio di caccia autorizzato.
Era anche un bel ragazzo, alto, con la mascella squadrata, gli occhi grigi e i capelli corti di un biondo cenere, ma c'era qualcosa in lui – forse la sua insistenza, forse il fatto che somigliasse fin troppo a tutti i tipi che aveva frequentato negli anni del liceo – che la spingeva a non accettare i suoi inviti a uscire. Gli aveva rifilato un no dietro l'altro, gli aveva fatto capire in ogni modo che non era interessata, aveva cercato fino alla nausea di mettere in chiaro che non aveva alcuna intenzione di collezionare l'ennesimo fallimento sentimentale proprio insieme a lui, ma niente. Anche l'illusione di essersene liberata dopo aver preso il diploma era svanita subito.
Da quel che ne sapeva, Greg non era iscritto al college e non aveva nemmeno trovato un lavoro. Questo ovviamente ampliava di molto il suo spazio giornaliero dedicato al rovinare l'esistenza altrui. In qualche modo – non sapeva chi glielo avesse detto, ma se mai l'avesse scoperto allora la sua morte sarebbe stata lenta e dolorosa – aveva scoperto dove lavorava, era comparso lì un bel giorno e né lei né le altre cameriere se n'erano più liberate, dal momento che piantonava alla tavola calda un pomeriggio sì e l'altro no.
- Che fai di bello?- chiese Greg, sporgendosi ancora di più verso il bancone. Qualche cliente aveva cominciato a voltarsi nella loro direzione, e Bowen doveva essere sul punto di esplodere.
- Sto lavorando...- rispose Anya con ovvietà.
- Ah...e che fai, dopo?
Lei fece spallucce, quindi prese uno straccio e pulì il bancone dal caffè. L'arma del silenzio funzionava, qualche volta. Dava l'idea di essere tremendamente oberata di lavoro da non poter nemmeno prestare attenzione alla sua magnifica persona, e allora Greg annunciava che sarebbe passato la prossima volta e si toglieva di torno. Questo nei giorni in cui era fortunata. Ovvero, non quel pomeriggio.
- Intendevo dopo il lavoro...- insistette Greg.
- Niente di particolare.
- Ah! Quindi stasera sei libera?
Anya posò il caffè sul vassoio e alzò gli occhi al cielo.
- Non ho detto questo.
Sollevò il vassoio dal bancone e abbandonò la visuale del muso di Greg Nedry per avviarsi verso il tavolo 10. Contro ogni previsione, il ragazzo la seguì a ruota. Ora tutti li stavano guardando, e Anya dovette ricorrere a tutto il fiato che possedeva per fare respiri profondi e mantenere la calma. Bowen adesso stava scalpitando come un cavallo imbizzarrito. Gliel'aveva detto, il primo giorno di lavoro: “Qui da noi ci sono poche regole: non perdere tempo, ubbidire a quello che dico di fare e tenere la vita professionale separata da quella personale. Se hai litigato con il tuo ragazzo, sono problemi tuoi: non voglio piazzate, scenate di gelosia o corteggiamenti nel mio locale. Qualsiasi guaio tu abbia, lo devi risolvere fuori da qui”.
Era un miracolo che non l'avesse ancora licenziata.
- Io e i miei amici stasera andiamo in quella nuova discoteca...- tornò all'attacco Greg.- Ho pensato che...
- Stasera proprio non posso, Greg, scusami - lo liquidò, sbrigativa, servendo i piatti al tavolo.
- Allora, forse domani potremmo...
- No, neanche domani, mi spiace.
- Sabato?
- Sono occupata - guardò l'orologio: le cinque e dieci del pomeriggio.- Ehi, Bowen!- gridò.- Il mio turno è finito. Posso andare?
Non si poteva dire che Bowen fosse un tipo magnanimo o che si preoccupasse di venire incontro alle esigenze delle sue cameriere, ma pur di far cessare quell'imbarazzante teatrino che Greg aveva messo su sarebbe stato capace di cacciarla fuori dal locale a calci, senza che lei avesse bisogno di chiederglielo due volte. Le concesse il suo permesso con un gesto stizzito della mano.
Anya si liberò del grembiule e lo passò a Juliet, afferrò il cappotto e la borsa e si avviò in direzione della porta. Bowen la bloccò per un braccio appena prima che uscisse.
- Sappi che se si verifica ancora una scena del genere, ti sbatto fuori...- ringhiò a bassa voce. Anya venne colpita in pieno dalla zaffata del suo alito che sapeva di tabacco.
- Ha fatto tutto lui, non è stata colpa mia - sibilò lei di rimando. Bowen le lasciò andare il braccio malamente. Anya non si degnò di salutare nessuno; mise la borsa a tracolla e uscì dalla tavola calda.
Il tempo era peggiorato ancora, e la pioggia cadeva impietosa in grosse gocce su New York. Anya si appiattì contro la parete di un grattacielo, cercando di ripararsi sotto la sporgenza creata da un davanzale. Iniziò a frugare nella borsa alla ricerca dell'ombrello che ne era sicura, cavolo!, doveva avere preso con sé quella mattina, ma non trovò nulla. Si sfilò la borsa da tracolla, e fu allora che vide che, proprio all'altezza della sua testa, qualcuno aveva affisso un volantino che ora ballonzolava sotto i colpi impietosi del vento e della pioggia.
Anya gli dedicò solo qualche secondo di attenzione: al centro vi era la foto di una bambina dai capelli ricci color cioccolato e gli occhi azzurri, al cui sorriso mancavano due dentini da latte, sopra la quale vi era stampata a caratteri cubitali la scritta SCOMPARSA.
Anya lesse velocemente le informazioni sotto la fotografia.
 
SALLY CRANE, 4 ANNI.
SCOMPARSA IL GIORNO 3 SETTEMBRE 2015 DA...
 
Una folata di vento più forte della altre strappò il volantino dalla parete e la faccia di Sally Crane volò via prima che Anya potesse terminare di leggere. Un tuono rimbombò sopra la sua testa. La ragazza afferrò la borsa con entrambe le mani e la sollevò sul capo, ma prima che potesse compiere il passo decisivo che l'avrebbe infradiciata da capo a piedi, lo scampanellio della porta dell'Once Upon a Time Café la fece voltare in direzione dell'entrata del locale: Greg Nedry si era appena scapicollato fuori e ora stava scrutando la strada come un bambino smarrito cerca la madre.
- Ah, sei ancora qui!- esclamò quando la vide.- Credevo che te ne fossi già andata...il tuo capo ha un caratteraccio, sai...
- Hai un ombrello?- gli gridò Anya, cercando di sovrastare i rumori della pioggia e della metropoli.
- Che? No, io...
- Ci vediamo!- lo salutò, prima di lasciare il rifugio che si era trovata e cominciare a correre sotto la pioggia. Greg rimase un attimo interdetto, ma subito si riprese e cominciò a seguirla.
- Ma che, sei arrabbiata?- urlò.
- No, ho fretta!- sbuffò Anya. Finì con gli stivaletti leggeri in una pozzanghera, infradiciandosi tutta. Cercò di scorgere la sua macchina parcheggiata in mezzo alle altre, e si affrettò verso di essa.
- Il tuo capo è un vero stronzo!- commentò Greg, incurante del fatto che lei stesse letteralmente scappando da lui.- Dovresti lasciare quel lavoro, lo sai?
Non si degnò di rispondergli. Attraversò la strada a passo svelto, ringraziando che in giro non ci fossero abbastanza auto da far avverare la sua ipotesi di un ingorgo.
- Ehi, senti, ti posso parlare un momento?
- Mi spiace, ho fretta!- ripeté.
Finalmente, raggiunse il suo vecchio pick-up blu scuro parcheggiato dall'altro lato della strada. Spalancò la portiera ed entrò con una tale furia che quasi si ritrovò distesa sul sedile. Richiuse in fretta lo sportello e iniziò ad armeggiare con le chiavi. Le girò un paio di volte, e il motore diede un gemito soffocato, senza accendersi. Anya si lasciò sfuggire un'imprecazione che solo tre anni prima le avrebbe fruttato una sonora sberla da parte di suo padre, e girò un'altra volta le chiavi. Avrebbe dovuto prevederlo: ogni volta che pioveva o c'era umidità nell'aria, puntualmente il motore faceva i capricci. Anya girò più e più volte le chiavi, ma ogni volta la macchina emetteva solo dei rumori striduli che morivano sul nascere. Cacciò violentemente dalla sua testa la voce di suo padre che le ripeteva che era venuto il momento di trovarsi un'auto decente.
Era un vecchio pick-up, il suo; l'aveva comprato a sedici anni per trecentocinquanta dollari, usato e mezzo scassato, e già allora ci metteva dieci minuti solo per partire. Un bel guaio...soprattutto se avevi uno stalker alle calcagna!
Greg Nedry bussò contro il finestrino chiuso. Anya roteò gli occhi, abbassandolo.
- Ehi...- ansimò il ragazzo.- Senti, se la sera non puoi ci possiamo vedere dopo il lavoro. Che dici, ti offro una birra?
- Davvero, Greg, scusami, ma proprio non posso. Devo andare a prendere mia sorella...
Girò ancora la chiave. Con sua immensa felicità, il motore si avviò.
- Ciao!- salutò con noncuranza, prima di rialzare il finestrino. Spinse la frizione e premette l'acceleratore, immettendosi nel traffico. Sbirciando lo specchietto retrovisore, scorse il ragazzo in piedi sotto la pioggia che guardava la macchina allontanarsi con aria corrucciata.
Anya sospirò, abbandonandosi contro lo schienale e concentrandosi sulla strada.
Guidò in mezzo al traffico per dieci minuti buoni. Il tragitto che separava l'Once Upon a Time Café dal liceo non era troppo lungo, e non rimase nemmeno imbottigliata fra le altre auto come aveva temuto, ma la pioggia battente aumentò ancora di più il suo ritardo.
Non fece altro che pensare a Greg Nedry per tutto il tempo. Juliet sosteneva che avrebbe almeno dovuto dargli una possibilità, ma Anya aveva già incassato troppi colpi allo stomaco per volersene cercare degli altri. Conosceva i tipi come lui, e conosceva anche tutti gli altri: o erano una scopata e via oppure finivano con lo sposarti e metterti incinta, e prima che te ne accorgessi ti ritrovavi quarantenne, casalinga, depressa e isterica, stipata in un appartamento umido a occuparti di quattro marmocchi con un marito con un ventre dieci volte più tondo del normale, la cui occupazione principale era stazionare sul divano di fronte a una partita di football con un boccale di birra in mano.
E io non voglio fare la fine della mamma, si appuntò mentalmente, continuando a guidare. Avrebbe voluto fare marcia indietro e investire Greg: uno di quei giorni l'avrebbe davvero fatta licenziare, con il suo comportamento. E quel che era peggio, era che sembrava non capire l'ovvio: lui non le interessava. Avrebbe anche evitato di trattarlo così male, ma non poteva farne a meno. Gli aveva già detto più volte che no, non era né fidanzata, né impegnata, né lesbica, solo non interessata. Ma Greg doveva avere un porcellino d'India in prognosi riservata, nel cervello, per continuare a non capire.
Beh, peggio per lui.
Lei aveva ben altro a cui pensare, per potersi permettere di preoccuparsi anche delle tare mentali di uno scimmione scappato da un circo.
Arrivò alla scuola di Elizabeth che erano le cinque e trentacinque minuti. Si sarebbe aspettata di trovare sua sorella seduta sui gradini dell'istituto, con il cappuccio della felpa tirato sul capo, gocciolante d'acqua e intirizzita, e invece quando parcheggiò non vide nessuno. Certamente tutti gli altri studenti dovevano essersene già andati; pensò che per una volta Liz s'era fatta furba e stava aspettando all'interno della scuola. Le inviò un messaggio al cellulare dicendole che l'attendeva in auto, quindi prese a tamburellare con le dita contro al volante nella speranza che la stizza per la figuraccia che le aveva fatto fare Greg Nedry passasse.
Controllò il cellulare per ingannare l'attesa e trovò un messaggio di suo padre in cui le chiedeva se andava tutto bene. Anya fece una smorfia e lo ignorò. Compose il numero di sua sorella e attese che rispondesse.
 
Aveva mandato un SMS ad Anya da un quarto d'ora e lei non gli aveva ancora risposto. E lui sapeva che alle cinque e quaranta del pomeriggio aveva già finito di lavorare da un pezzo.
Prese il proprio cellulare e si preparò a rispedire lo stesso messaggio con lo stesso testo, ma un commento del suo collega lo fece desistere.
- Magari non l'ha ancora letto. Dalle il tempo di guardare il cellulare.
Richard Hadleigh non si degnò nemmeno di guardarlo in faccia. Si limitò a posare il cellulare sulla scrivania e ad abbandonare il dorso contro lo schienale della sedia. Gli aveva sempre dato fastidio che Jones gli desse consigli su come comportarsi con Anya e Liz, un po' per l'intenzione in sé e un po' perché il suo collega non aveva figli – e mai ne avrebbe avuti, sospettava, visto il soggetto. L'orologio appeso alla parete alle sue spalle, sopra le loro teste, indicava le cinque e quarantacinque del pomeriggio: mancavano più di due ore alla chiusura degli uffici, e un'altra mezz'ora di auto da lì fino a casa.
E lui non ne poteva più.
- Piove di nuovo - commentò Jones, con un'allegria del tutto inopportuna. Il suo collega faceva ancora parte di quella fascia d'età che riusciva a provare ancora un briciolo di entusiasmo per quel lavoro. Era stato assegnato al suo stesso dipartimento due anni prima, e già da subito il suo entusiasmo gli aveva dato sui nervi. In tutta sincerità, non aspettava altro che ricevesse una botta dalla vita così forte da capire finalmente che cosa significasse avere dei problemi.
E che lavorare in quella sezione speciale del distretto era tutto tranne che eccitante o...fiabesco.
Più del Dipartimento Favole, l'unica cosa che Richard Hadleigh aveva sempre detestato era il suo ufficio. Sin dalla prima mattina impestava un nauseabondo puzzo di sigaro e caffè, senza contare che il Dipartimento Favole era proprio a due passi dalla mensa, sicché anche l'odore di cavoli bolliti e detersivo per i piatti voleva la sua parte. I muri erano scrostati e pioveva dal soffitto – a proposito, doveva trovare la forza di alzarsi dalla sedia e svuotare quella pentola stracolma di acqua piovana nell'angolo, prima che strabordasse – e come se non bastasse le due addette alle pulizie che si occupavano di rassettare la centrale di polizia sembravano essere colte da un inspiegabile attacco di panico ogni volta che giungevano in prossimità del Dipartimento Favole, e fuggivano prima di essere contaminate dalla sporcizia che regnava incontrastata sul pavimento.
Non che fosse una novità. Aveva cominciato a lavorare in quel reparto speciale della polizia a diciannove anni, fresco fresco di diploma e pronto a tutto pur di entrare a far parte delle forze dell'ordine come suo padre, e da allora aveva visto solo il procuratore del distretto e Nathan Jones entrare in quell'ufficio. Hadleigh sospettava che si trattasse di una qualche diavoleria magica che impediva a tutti coloro che non erano a conoscenza dell'esistenza del Dipartimento di avvicinarsi.
Oppure, semplicemente tutti se ne fregavano. Lo stesso procuratore aveva sempre squadrato gli sfigati del Dipartimento senza curarsi di celare l'indifferenza che suscitava in lui il loro lavoro.
Non occorreva essere Nostradamus per indovinare che, in tutta la centrale di polizia, il Dipartimento Favole era considerato come la ruota bucata del carro. Hadleigh si chiedeva spesso a cosa fosse servito un diploma d'accademia di polizia e anni e anni passati a mangiare la polvere, se poi il suo destino era stato quello ammuffire per anni su una sedia con l'unico compito di...ricostruire la casa ai tre porcellini!
Come ogni volta, il pensiero gli fece venir voglia di vomitare. L'ispettore Hadleigh incrociò il proprio riflesso specchiandosi nel vetro della finestra rigato dalle gocce di pioggia: aveva quarantadue anni, i suoi capelli color castano scuro erano striati qua e là da fili grigi, e nelle giornate peggiori non riusciva neanche a camminare tenendo le spalle dritte. Stava invecchiando. Ma questo era anche disposto a sopportarlo. Quello che non riusciva a spiegarsi era perché il suo viso apparisse perennemente come ricoperto da un velo grigio, perché quelle lievi rughe intorno agli occhi fossero un segno evidente della stanchezza che si portava dietro da dodici anni, giorno dopo giorno...
La verità era che, a quarantadue anni, si sentiva un fallito. E un buon quarto della colpa era di quel fottuto Dipartimento.
Anche suo padre era stato un poliziotto, e lui era cresciuto nel grande sogno di poterlo diventare a sua volta, soprattutto dopo che lui e sua madre erano morti, e fino a diciannove anni aveva sentito parlare di CIA, DEA, FBI e tutte le sigle possibili e immaginabili, ma mai si era imbattuto in una cosa del genere. Aveva scoperto dell'esistenza del Dipartimento Favole poco tempo dopo aver cominciato a lavorare alla centrale. Erano stati i suoi superiori a spiegargli tutto, quando era stato collocato lì. Si trattava di una sezione molto particolare, gli aveva spiegato l'ex ispettore Fraser. Al suo sguardo incredulo il suo mentore aveva risposto dicendogli che tutte le fiabe e le favole, sì, quelle stesse fiabe che i genitori raccontano ai figli quando sono piccoli, e che lui leggeva alle sue figlie prima di andare a letto, erano vere. Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata...erano tutti personaggi reali, proprio come lo erano loro due. Ma non vivevano lì, nel loro mondo. Era una terra lontana, completamente separata da quella umana, un regno dove tutto doveva, rigorosamente, procedere secondo determinate regole, e l'ago della bilancia non poteva assolutamente pendere da una parte opposta a quella stabilita. Ed era per questo che loro del Dipartimento Favole erano così importanti, aveva concluso bonariamente Fraser dandogli una pacca su una spalla. Il loro compito era proprio mantenere l'ordine nel mondo delle favole.
Lo shock era stato non indifferente, e per due mesi di fila Hadleigh non aveva fatto altro che attendere il momento in cui tutti avrebbero gettato la maschera dicendogli che era tutto uno scherzo. Comunque, superati il trauma e la delusione per non essere stato assegnato al reparto omicidi, aveva scoperto che era anche piacevole lavorare in quella sezione. O almeno, lo era stato, finché anche lui era stato giovane e la vita non gli aveva sferrato colpi troppo duri perché potesse ritrovare la propria spensieratezza. Si era presto reso conto che il suo lavoro non era come quello degli altri poliziotti; i suoi colleghi, loro sì, si prodigavano per mantenere l'ordine nella società, per portare giustizia là dove non c'era. Mentre lui – lui e l'altro suo collega, Nathan Jones, un ciccione di trent'anni buono solo a ingozzarsi di ciambelle – se ne stava a marcire in uno squallido ufficio di New York per uno stipendio da fame, trascorrendo giornate tutte uguali che prendevano una breve piega colorita nelle pause caffè o nelle futili chiacchierate con i colleghi degli altri reparti. Era ben raro che gli capitasse di trovarsi a risolvere qualche caso: la bilancia pendeva sempre dalla parte giusta.
D'altronde, che ci si poteva aspettare da un mondo in cui i personaggi delle favole regnavano sovrani? Non c'erano reali problemi, solo piccoli e stupidi guai che, comunque, prima o poi davano a tutti il loro solito, melenso lieto fine.
Ma il suo lavoro non era ciò che lo preoccupava di più. Sapeva che ormai era tardi per rimediare, non si aspettava più niente dalla vita e trascinava le sue giornate con l'unico obiettivo di arrivare alla pensione con il minor numero di incidenti possibili.
Il vero problema erano le sue figlie.
Si vergognava di quel che era diventato per loro, perché tutt'e due, invece di avere un padre di cui andare fiere, ne dovevano sopportare uno sempre assente e di cui non sapevano praticamente nulla. Il Dipartimento Favole era un reparto segreto della polizia – una specie di CIA dei sette nani! –, fatto che lo obbligava a mentire anche alle uniche due persone che gli erano rimaste dopo la scomparsa di sua moglie. Aveva letto abbastanza temi e pensierini della scuola elementare e parlato con abbastanza maestre e professori per capire che, se qualcuno glielo domandava, Anya e Liz rispondevano che il padre era un poliziotto, ma non avevano idea se si occupasse di multe piuttosto che di omicidi. Lui non si era mai esposto troppo su questo punto e loro, peraltro, non si erano mai prese la briga di approfondire la questione: tutti e tre passavano l'intera giornata fuori casa, chi in un posto chi in un altro, e si vedevano a malapena la mattina a colazione e la sera all'ora di cena. Le due ragazze non parlavano molto con lui, né Hadleigh sapeva mai bene che cosa dire a quelle due giovani donne che, anni prima, erano state le sue bambine.
Non era sempre stato così: quando erano piccole, stavano sempre con lui, si divertivano a giocare insieme e ad ascoltare le fiabe che mamma e papà leggevano loro prima di andare a letto.
Ora, però, le cose erano cambiate.
Complice anche quello che la loro madre aveva fatto, prima di sparire, entrambe avevano smesso di avere un rapporto con lui, perlomeno un rapporto che non si esaurisse a una conversazione a monosillabi stanca e annoiata di fronte a un piatto di pasta. Non erano più bambine piccole, si disse il capitano, con una morsa di tristezza nel cuore. Ora Anya aveva diciotto anni e Liz sedici, e neanche si degnavano di rispondere al cellulare.
Era passato il tempo delle favole.
- Ehi, che muso lungo!- biascicò Jones con un sorrisone sul volto grasso.
Hadleigh sollevò un angolo della bocca abbozzando un sorriso tirato.
- Che c'è? Sei uno di quelli che la pioggia li butta giù neanche gli fosse morto il gatto?
- Sono un po' meteoropatico, lo ammetto - mormorò il capitano, sperando che questo bastasse a zittirlo.
Speranza vana.
- Pensa che anche mia madre è così...scemenze, a mio parere; se le cose vanno male, non è certo colpa del tempo...
- Già.
Jones tirò fuori dal cassetto della scrivania un mazzo di carte.
- Partitella? Si gioca a caffè, naturalmente...
- No, grazie. Scusa, ma non sono molto in vena...
- Pffft! Tu e la tua meteoropatia!
Hadleigh non disse nulla; stava per sprofondare di nuovo nei suoi pensieri, quando alcuni colpi risuonarono contro la porta dell'ufficio. Jones, che si stava ficcando in bocca una ciambella ricoperta di glassa, rimase con la mano sospesa a mezz'aria. L'ispettore fece schioccare le nocche.
- Avanti...- bofonchiò, sentendosi troppo indolenzito per domandarsi chi fosse. Si riscosse parzialmente dal suo torpore quando fece il suo ingresso nella stanza il procuratore Crawford.
Jones tirò una ginocchiata contro il ripiano della scrivania nello scattare in piedi. Hadleigh si alzò a sua volta in segno di rispetto.
- Signor procuratore - salutò, con un cenno del capo.
- Buona sera, ispettore...- gracchiò Crawford, sempre con quell'aria stanca e annoiata che lo caratterizzava in ogni momento della giornata. Il procuratore era una di quelle persone di cui non riuscivi mai a indovinare l'età. Alto e allampanato, con i capelli bianchi e corti e lievemente stempiato, ad Hadleigh dava l'impressione di non avere più di cinquantotto o cinquantanove anni, ma a volte somigliava più a un settantenne invecchiato male e in fretta.
Allungò un braccio facendogli cenno di sedersi, e lo imitò subito dopo. Crawford sembrava stare ignorando completamente Jones e il suo faccione grasso.
- Perdoni l'ora. So che fra poco il suo turno sarà finito, ma mi è giunta poco fa una notizia che rientra nelle competenze di questo Dipartimento. Ho pensato di venire subito per discutere con lei la faccenda, è abbastanza grave...
- Di che si tratta?- Hadleigh non sapeva se essere sorpreso o scettico. Possibile che nel Regno delle Favole fosse accaduto qualcosa di così grave da scomodare addirittura il procuratore? Ricordò che Fraser si era sempre lamentato del menefreghismo di Crawford nei confronti delle questioni che concernevano il Dipartimento; e, per quel che lo riguardava, non aveva mai più messo mano a un caso riguardante il Regno delle Favole dalla sparizione dell'ex capitano, dodici anni prima.
- Arriverò subito al punto. C'è stato un omicidio, due persone.
Jones sgranò gli occhi, evidentemente per lui la notizia era arrivata come una doccia fredda; quanto a lui, il suo già scarso entusiasmo si smorzò ancora di più. Trattenne un sospiro annoiato.
- Signor procuratore, anche nel Regno delle Favole avvengono queste cose - gli spiegò, pacato; pensò che forse Crawford fosse troppo abituato agli omicidi della vita reale e non considerasse le regole del mondo alternativo.- E' quasi la norma che un cattivo muoia, al termine di una favola, anche in modo cruento. Basti pensare ad Hansel e Gretel...sono dei bambini, eppure hanno spinto una strega nel fuoco. Oppure a...
- Non si tratta di un cattivo, stavolta.
Quella sì, che era una bella doccia gelida. Hadleigh vide con la coda dell'occhio che Jones continuava a fissarli con occhi da triglia. Deglutì; come, non si trattava di un cattivo? Era normale che un malvagio morisse, anche di morte violenta...ma che fosse un buono...
- Di chi...di chi si tratta?- domandò, sentendosi la gola secca.
- Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Il tono calmo del procuratore lo spaventava. Erano anni ormai che sapeva che i personaggi delle favole erano reali, e il pensiero che una bambina e una donna anziana fossero state assassinate gli fece perdere un battito.
Gli tornò alla mente il tempo in cui raccontava la fiaba di Cappuccetto Rosso alle sue figlie, e provò a immaginare come sarebbe stato se avesse letto loro questa macabra versione alternativa...
- E' certo che si tratti di un omicidio?
- Ho già provveduto a inviare alcuni uomini sul posto. Le fotografie dei corpi che hanno scattato lasciano pochi dubbi...
- Si sa chi le ha uccise?
- No, ma abbiamo una pista. Abbiamo bisogno della sua presenza sul posto e...anche di quella dell'agente Jones - Crawford lanciò solo una breve occhiata al suo collega, non occorreva un genio per capire che lo stava chiamando all'azione solo per cortesia e per la sua illustre parentela: il fratello maggiore di Nathan era un agente che si era distinto qualche anno fa in una non meglio specificata missione, anche se da allora non si era più sentito parlare di lui, né in centrale né altrove.
- D'accordo. Saranno presenti anche gli agenti di L.A.?
- Non so dirglielo con certezza. Ho cercato di contattare il distaccamento di Los Angeles, ma non ho ancora avuto risposta - il procuratore trattenne una smorfia, e Hadleigh non poteva dargli torto: quello di Los Angeles era l'unico altro Dipartimento Favole esistente insieme quello di New York, cinquanta volte più attrezzato del loro e pieno di imbecilli che passavano la giornata con le mani in mano. In cuor suo, sperava che non venisse nessuno di L.A. a ficcare il naso.
Crawford diede segni d'impazienza.
- Allora? Posso contare sulla sua presenza, ispettore? A occhio e croce ci vorranno almeno tre o quattro giorni per raccogliere tutti i dati e avviare le indagini come si deve.
- Così tanto?
- I corpi sono conciati male. Venga stasera alla centrale alle dieci e mezza, intesi?
- Sì...- balbettò Hadleigh.- Sì, certo...mi dia solo il tempo di avvisare le mie figlie...
 
...quattro...cinque...sei...
Elizabeth s'impose di resistere. Strizzò gli occhi e trattenne ancora di più il respiro.
...sette...otto...nove...
Presto l'avrebbero tirata fuori. Era ogni volta la stessa cosa: Jessica e le sue compari la facevano sempre stare con la testa sott'acqua per dieci secondi di fila, mai di meno e mai di più. Forse avevano paura che affogasse e le accusassero di omicidio volontario, riuscì a pensare.
...dieci!
La stretta intorno ai suoi capelli si fece più intensa, ed Elizabeth estrasse la testa dal lavandino colmo d'acqua. Tossì, boccheggiando alla ricerca di un po' d'aria.
- Allora, Quattrocchi...- vedeva tutto appannato, ma riconobbe la voce di Jessica King.- Ne hai abbastanza? Sì? Allora ripeti con me: non devo più prenderti per il culo, Jessica.
Elizabeth tentò di ingoiare più ossigeno possibile, prima che Jessica, digrignando i denti, facesse un cenno a Ursula. Questa aumentò la stretta intorno ai suoi capelli e le spinse ancora la testa nell'acqua. Elizabeth chiuse gli occhi e trattenne il fiato, aspettando che finisse.
Uno...due...tre...quattro...
Contare la calmava, e l'aiutava ad avere un'idea di quanto mancasse prima di poter tornare a respirare ancora. Non fece nemmeno un tentativo per tirare fuori la testa, o provare almeno a ribellarsi. Ci aveva provato altre volte, e non era servito a niente.
...cinque...sei...sette...otto...
Paradossalmente, in quel momento riusciva solo a pensare che sua sorella era là fuori ad aspettarla in auto da minimo mezz'ora. Aveva sentito il suo cellulare vibrare in qualche angolo dello spogliatoio, e per tre volte la colonna sonora di Pirati dei Caraibi aveva suonato a vuoto. Era Anya che la stava chiamando, incazzata come una iena, di sicuro.
...nove...dieci!
Ursula le tirò la testa fuori dall'acqua. Elizabeth tossì, senza fiato.
- Allora, troia, vediamo se hai capito - ringhiò Jessica.- Dillo: non ti prenderò più per il culo, Jessica.
Elizabeth inspirò a fondo, fissando l'acqua nel lavandino. Non rispose, si limitò solo ad attendere la mossa successiva. Non potevano tenerla con la testa dentro e fuori dall'acqua per sempre, prima o poi sarebbe passato qualche bidello a controllare.
Jessica si lasciò sfuggire un ringhio rabbioso. Sostituì la presa di Ursula ai suoi capelli e nel contempo le sferrò un violento calcio nello stomaco di Elizabeth. La ragazza finì accasciata sul pavimento dello spogliatoio. Le altre cinque risero sguaiatamente, mentre la guardavano strisciare al suolo. Poco dopo, si allontanarono. Sebbene avesse ancora la vista appannata, Elizabeth sentì chiaramente la porta dello spogliatoio chiudersi. Inspirò cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Quando il dolore allo stomaco fu passato, iniziò a tastare il pavimento alla ricerca dei propri occhiali. Glieli avevano fatti volare via dal viso un attimo prima di ficcarle la testa nell'acqua, e ora chissà dov'erano finiti. Si mosse nella nebbia per cinque minuti buoni, sentendo penne, matite e fogli sparsi sotto i polpastrelli, fino a che non arrivò a sfiorare la montatura con la punta delle dita, che repentinamente afferrò e si rimise sul naso. Un attimo dopo, la vista tornò nitida. Portava gli occhiali da quando aveva tre anni, e senza era praticamente cieca.
Con una rapida occhiata decise che tutti i suoi libri di scuola sparsi sul pavimento non sembravano presentare danni. Iniziò a raccattarli da terra. Un tempo avrebbe pianto, ma ormai si era abituata alle prepotenze di Jessica e della sua gang. Aveva anche smesso di difendersi; ci aveva provato i primi tempi, ovvio, ma non era mai arrivata alle mani. E comunque, sarebbe stato inutile: quelle cinque erano grandi, grosse e forti, e lei un topolino con gli occhiali grassottello senza nessuna speranza. Ne aveva parlato con sua sorella, e Anya era andata dritta dalla preside, ma a poco era servito – se si escludeva l'occhio nero che le era costato il giorno seguente.
Le era anche balenato per la mente di rivolgersi a suo padre, ma aveva subito scartato quell'idea. Papà era sì e no a conoscenza del fatto che lei andasse a scuola, figurarsi se avrebbe potuto fare qualcosa per risolvere i suoi problemi sociali. Sarebbe cascato dalle nuvole e avrebbe liquidato la faccenda con un paio di frasi annoiate, come faceva sempre per ogni cosa. Gli voleva bene, questo sì, e avrebbe fatto di tutto per lui – e anche Anya, ne era certa, anche se ripeteva sempre che di lui non gliene fregava nulla –, ma non poteva dire di sentirlo molto presente nelle vita sua e di sua sorella. E dire che da piccola lo considerava il suo Principe Azzurro...
Sì, Principe Azzurro mancato!
Elizabeth fece una smorfia: la voce della sua coscienza somigliava molto a quella di sua sorella, il che era preoccupante. In ogni caso, non c'era pericolo: ormai aveva smesso di credere al Principe Azzurro o a chi per esso; certo, in segreto lo aspettava ancora, ma disperava di poter mai trovare qualcuno che arrivasse sul suo cavallo bianco e risolvesse tutti i problemi della sua vita di merda. Perché la sua vita era veramente una merda, sia a scuola che a casa, e suo padre non faceva niente per migliorare la situazione. Chi si occupava di tutto era sua sorella. Da quando la mamma era sparita e papà era sprofondato in un'apatia molto simile a un letargo, era sempre stata Anya a occuparsi della casa e di loro due. Elizabeth non riusciva a capire come facesse sua sorella, dopo ore a sbattersi di lavoro in quel locale per guadagnare quattro soldi, a cucinare, lavare i pavimenti, tenere in ordine, fare la spesa...
Doveva solo evitare di giocare a fare la mamma, e per il resto era tutto perfetto.
Elizabeth si riscosse all'improvviso, battendosi una mano sulla fronte. E che cavolo, aveva passato dieci minuti seduta sul pavimento a pensare a sua sorella, ed era riuscita a dimenticarsi che sua sorella la stava aspettando là fuori da almeno mezz'ora!
Si alzò in piedi; controllò di non essersi macchiata la camicia bianca di sangue, ma lo fece più per abitudine che per altro, dal momento che il pestaggio era stato meno violento del solito. Toccò con la punta del piede qualcosa: era il libro di favole che aveva trovato nel suo zaino. Elizabeth si chinò a raccoglierlo; ormai era tardi per portarlo in segreteria, realizzò. Ci avrebbe pensato domani.
Lo rimise nello zaino, quindi uscì.
Era l'ultima studentessa rimasta all'interno della scuola. Si tirò il cappuccio della felpa sul capo e corse fuori dall'edificio sotto la pioggia battente, verso il pick-up di sua sorella.
- Ma che fine avevi fatto?- fece Anya, non appena fu saltata a bordo ed ebbe richiuso la portiera.- Ti ho chiamato tre volte! E' da venti minuti che...
- Scusa, ero...ero occupata...- rispose Elizabeth, evasiva. Non le andava di intavolare una discussione con sua sorella in merito a quel che era successo, e sperò accettasse le scuse senza porle altre domande. Anya la squadrò per un attimo, quindi mise in moto e partì.
Non parlarono per buona parte del tragitto, concentrandosi l'una sulla guida, l'altra sulle gocce di pioggia che cadevano sul parabrezza e venivano spazzate via dai tergicristalli.
- Che è successo? Ancora quelle stronze di Jessica e delle sue lecchine?- chiese Anya a un certo punto, secca, senza guardarla.
- No...- pigolò Elizabeth.- Non è successo nulla...
- Uhm...- Anya rallentò.- E allora da dove salta fuori quello?
Elizabeth abbassò lo sguardo: sul suo avambraccio destro c'era, in bella mostra, un livido grande quanto una moneta. Tirò la manica della felpa verso il basso, evitando di incrociare lo sguardo della sorella. Anya sospirò, ma Elizabeth sapeva che non aveva finito. Una volta arrivate a casa sarebbe scoppiato il vero ciclone. Tirò un sospiro a sua volta, rassegnandosi al suo destino, mentre Anya svoltava a destra per entrare nella via dove sorgeva il loro appartamento. 

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Capitolo 4
*** Capitolo II - Turning Pages ***


Capitolo II
 
Turning Pages
 
Quando le due bimbe si guardarono intorno, si
accorsero che il luogo dove avevano dormito era sull'orlo
di un precipizio, nel quale sarebbero di certo precipitate
se nel buio avessero fatto due passi di più.”
 
Grimm, Rosabianca e Rosarossa
 
 
New York, 2015. Ore 6:00 p.m.
 
 
VIVEVANO in quell'appartamento da tre anni, ed era stato l'ennesimo di tanti trasferimenti. Prima abitavano in una casa di proprietà a Briarwood, ma un po' perché quella sistemazione era stata voluta dalla mamma, un po' perché la loro psicologa dell'epoca aveva detto a papà di far loro evitare tutti i brutti ricordi legati a quel luogo, e un po' perché una notte un ispanico adolescente aveva cercato di entrare passando dalla finestrella nel garage per rubare, quando avevano nove e sette anni Richard l'aveva venduta e si erano trasferiti tutti e tre ad Harlem. Ma l'ambiente non era adatto per due bambine – questo sempre secondo Richard –, così dopo altri tre anni avevano fatto di nuovo i bagagli, e adesso vivevano in quell'appartamento al settimo piano di un condominio in periferia. Ad Elizabeth sarebbe piaciuto abitare in una zona come Chelsea, oppure a Little Italy o a Tompkinsville, o in un quartiere pittoresco, anche se non era sicura di voler tornare a Briarwood, che pure era un bel posto. Anya, invece, non si era mai pronunciata sulla faccenda, anche se faceva capire in ogni modo che quell'appartamento le faceva schifo.
Sua sorella parcheggiò e inserì l'allarme.
- Aiutami a prendere le borse...
- Le borse?
- Ho fatto un po' di spesa...- spiegò Anya, alzando le spalle. Elizabeth non disse nulla e prese due sacchetti di plastica mentre sua sorella reggeva il resto. Come al solito l'ascensore era fuori uso – a dire il vero in sei anni che abitavano lì nessuno di loro tre aveva mai potuto permettersi il lusso di prenderlo – e toccò loro scalare ben cinque piani a piedi cariche di borse della spesa. Quando arrivarono in cima, Elizabeth avrebbe voluto gettarsi a terra per lo sfinimento.
Guardò sua sorella mentre armeggiava con le chiavi nella serratura; era calato un silenzio teso fra di loro, proprio come tre anni prima, quando sua sorella tornava a casa a notte fonda mezza ubriaca e lei non aveva il coraggio di chiederle perché avesse addosso quell'odore di sigaretta e di...sedili posteriori di un'auto di seconda mano. Ora le parti si erano invertite: era lei a dover dare delle spiegazioni e sfortunatamente Anya non era remissiva tanto da lasciar perdere.
- Andrò di nuovo a parlare con quell'incompetente della preside - annunciò infatti, una volta che furono entrate in cucina.
- No!- si affrettò a dire Elizabeth.- No, l'ultima volta non è servito a niente, anzi, ha solo peggiorato le cose...
- Solo perché sono stata troppo gentile, stavolta ci andrò giù a muso duro - Anya si tolse il cappotto e lo gettò su una delle sedie della cucina.
- Non servirebbe a niente lo stesso. Sei solo mia sorella, non hai audience...
- Vediamo se non avrò audience dopo che l'avrò minacciata di andare alla polizia...
- E che cosa le dirai? Lo dirò al mio papà?- Elizabeth parlò in falsetto, imitando una grottesca presa in giro della voce di sua sorella.
- Invece di sfottere, aiutami a ritirare la spesa.
Elizabeth lo fece di malavoglia; Anya cucinava sempre roba pronta e cibo in scatola, e alla terza vaschetta di lasagne surgelate che tirò fuori dalle borse si sentì salire la nausea.
- E comunque, se anche fosse, questo basterà a farle alzare il culo da quella lurida sedia - era evidente che Anya non aveva finito, e con ogni probabilità ne avrebbe avuto ancora per un po'.- E poi, lei non sa che razza di fallito sia papà, le servirà solo sapere che fa lo sbirro...
Sempre che ti dia credito, dopo quei due anni d'inferno che le hai fatto passare, pensò Elizabeth, ma non lo disse ad alta voce. Per i primi due anni di liceo Anya era stata la peggiore alunna che un preside potesse avere, l'incubo di ogni insegnante; poi si era data una calmata e aveva preso il diploma con un voto dignitoso, ma la macchia che era stata sulla reputazione della scuola era indelebile. Ricordava ancora come le si era rivolta la professoressa Antsey durante la prima ora di ginnastica: Elizabeth Hadleigh? Oh, sì, ricordo, sei la sorella di quella sbandata.
Dubitava seriamente che qualcuno in quel posto avrebbe preso sul serio le minacce di Anya.
- E potrebbe anche essere un buon incentivo per lui. E' ora che s'interessi anche a qualcos'altro che non sia il suo lavoro, questo sarebbe perfetto per cominciare, no?
- Non voglio che tu lo dica a papà.
- Non vuoi che lo dica alla preside, non vuoi che lo dica a papà...devo contattare qualche entità superiore perché tu la pianti di farti pestare?
- Sul serio, Anya, non voglio che tu lo faccia...
- E allora impara a difenderti!- sua sorella sbottò.- Ce le hai, le mani, no? Usale! Sferra qualche schiaffo qua e là, vedrai che dopo un paio di giorni impareranno la lezione...
- Sì, se non mi spezzano l'osso del collo prima...- Elizabeth spostò il peso del corpo da un piede all'altro.- Sono in cinque, te lo dimentichi sempre.
- E questo secondo te sarebbe un buon motivo per continuare a farti riempire di lividi?
- No, ma...
- Sapevo che avevi l'autostima a livello zero - Anya sbatté un pacchetto di spaghetti sul tavolo.- Ma speravo che almeno un briciolo di istinto di autoconservazione ti fosse rimasto. Hai sedici anni, Liz, cazzo, se adesso ti fai mettere i piedi in testa sarai destinata a subire per tutta la vita...
- La prossima volta cercherò di stare alla larga da Jessica - sapeva benissimo che non avrebbe funzionato, ma lo disse lo stesso per farla stare buona.
- Tu scappi sempre. Prova ad affrontare il nemico, una buona volta...!
- Che hai contro la convivenza pacifica?- Elizabeth alzò gli occhi al cielo.- Perché devo proprio arrivare alle mani?
- Finiscila di dire stronzate, è tutto tranne che una convivenza pacifica...- Anya tirò un sospiro; si avvicinò al lavello e riempì una pentola d'acqua, che posò sul fornello incrostato di unto. Girò la manopola del gas e le fiammelle si accesero sotto di essa.- Senti, Liz...se non vuoi che io intervenga allora va bene, non farò nulla...ma non puoi continuare in questo modo. Non sarai sempre a scuola, non ci sarò sempre io a proteggerti, e se non impari a...
- E' un brutto periodo - Elizabeth scrollò le spalle; un periodo che dura da due anni.- Passerà.
Anya inarcò un sopracciglio.
- Davvero?
Non fu mai tanto grata come in quel momento di averle raccontato che le prepotenze e i pestaggi andavano avanti da poco, e non dal primo anno di liceo.
- Sì - rimarcò, cercando di apparire convinta.- Prima o poi le cose cambieranno.
Lo sguardo di scherno che Anya le rivolse diceva tutto.
- Cambieranno, dici? E cosa succederà? Arriverà il Principe Azzurro a portarti via?
- Non sfottermi!- ringhiò.
- Io non ti sto sfottendo, voglio solo che ti svegli e la pianti di vivere nel mondo delle favole! Far finta che i problemi non esistano o sperare che si risolvano da soli non ti aiuterà!
Elizabeth decise che ne aveva abbastanza. Finse d'ignorare sua sorella che smanettava in cucina – Anya si lamentava sempre che non le dava mai una mano, quando avrebbe potuto almeno preparare la tavola – e filò a chiudersi in camera sua.
Beh, non era proprio corretto definirla camera sua, visto e considerato che l'appartamento era piccolo e dunque fare fifty-fifty con sua sorella maggiore era stato obbligatorio. L'affitto a fine mese era abbastanza basso, si sarebbe potuto dire quasi stracciato, ma forse anche per questo l'interno di casa loro non era un granché: quando erano arrivati i muri della cucina era ricoperti di carta da parati colorata incrostata di unto e l'odore di olio e di fritto era quasi insopportabile, il divano in salotto era sfondato, alcune piastrelle in bagno rotte e la vernice in tutte la altre stanze incrostata. C'erano solo due camere da letto, e dal momento che una spettava per forza a papà, lei e Anya si erano dovute dividere l'altra. Elizabeth ricordava che era stata sul punto di scoppiare a piangere, la prima volta che l'aveva vista: era completamente vuota, senza arredamento, e la porta era scardinata; una trave di legno era fissata orizzontalmente al muro – molto probabilmente i precedenti affittuari la usavano come appendiabiti, aveva riflettuto in seguito – e sul soffitto si allargava una grossa chiazza nera da cui colavano gocce d'acqua.
Adesso, grazie a Dio, anche se l'appartamento non era un granché almeno era vivibile: papà si era messo d'impegno e in un mese aveva riverniciato, aveva sostituito la carta da parati in cucina, e comprato nuovi mobili. Alla loro camera da letto ci aveva pensato Anya fin da subito, e adesso c'erano due letti paralleli l'uno all'altro, un armadio che dovevano dividere metà per ciascuna, un bel tappeto color fucsia, una scrivania con computer e stampante – di sua sorella –, due comodini con lampade annesse e qualche mensola. Non sarebbe neanche stato male, se Anya non avesse preteso per sé metà dello spazio: a Elizabeth era rimasta solo una misera mensolina dove poter sistemare i suoi libri e i suoi CD, mentre sua sorella aveva occupato ogni angolo restante con i suoi cosmetici e i suoi dischi, e aveva tappezzato il muro con i poster delle star che piacevano a lei. A tutt'oggi, Elizabeth dormiva sotto lo sguardo vigile di David Bowie che torreggiava sopra la sua testa.
Si buttò sul letto a pancia in giù. Non aveva voglia di cambiarsi, per il momento. Sbuffò, affondando la testa nel piumone; il braccio sinistro le faceva male, probabilmente si sarebbe illividito entro sera pure quello. Se questo fosse stato un romanzo, pensò, il romanzo della sua vita, ecco, quello sarebbe stato il momento perfetto in cui l'autore – e lei stessa, ammettiamolo – ci avrebbe ficcato volentieri qualche riflessione esistenzialista su Jessica, Ursula, sua sorella, papà e la sua vita in generale, ma a lei non andava di pensarci, adesso. E a che scopo? Erano solo pensieri triti e ritriti che non avrebbero fatto altro che farla rimuginare a vuoto.
Il braccio continuava a farle male. Se lo massaggiò, poi allungò una mano in direzione dello zaino che aveva abbandonato per terra e tirò la zip. Oltre ad Anna Karenina quel giorno si era portata dietro anche una copia di Nord & Sud, e dal momento che era venerdì e aveva altri due giorni per studiare, decise di concedersi il lusso di scoprire quando John Thornton avrebbe scoperto che quello alla stazione non era l'innamorato di Margaret Hale, bensì suo fratello.
Invece, tirò fuori il libro di favole.
Stava per rimetterlo dentro, ma all'ultimo non lo fece. L'aveva rimosso dai suoi ricordi a breve termine, e non era ancora riuscita a spiegarsi come avesse fatto a finire nel suo zaino. Lo rigirò più volte fra le mani per trovare il marchio della New York Public Library o almeno della biblioteca scolastica, o se non altro di qualche indizio che la riconducesse al proprietario, ma non trovò nulla.
 
Fiabe del focolare
 
La scritta dorata sulla copertina di pelle marroncina era sempre lì, ma stavolta c'era una novità. Elizabeth avvicinò il volto al libro; gli occhiali le scivolarono lungo il naso e dovette rimetterseli a posto, e vide che più in basso, sotto al titolo, c'era un'altra scritta.
 
La vera storia del signor Jacob e del signor Wilhelm Grimm,
e di tutti coloro che vi presero parte
 
Elizabeth si accigliò. Era sicura di non aver visto quella scritta negli spogliatoi della palestra. Anzi, ricordava bene di aver cercato anche il nome di un autore e di non averlo trovato. Che le botte in testa di Ursula l'avessero rincretinita del tutto? Probabile.
Sempre più accigliata, aprì il libro. Nessuna traccia di casa editrice e di anno di pubblicazione. Il che era strano perché, se aveva capito bene, si trattava di una versione tradotta di Kinder und-Hausmärchen, la raccolta di fiabe dei fratelli Grimm, che avrebbe dovuto comunque avere delle indicazioni bibliografiche.
Le sembrò quasi di sentire la voce di sua sorella che gridava piantala di fare la saputella, sei pesante come un sacco di pietre!, e per una volta decise di ascoltarla. Fece spallucce e girò la prima pagina.
Al centro della prima pagina c'era solo una parola, scritta al centro.
 
Benvenuto
 
Elizabeth aggrottò le sopracciglia. Girò un'altra pagina. Stavolta c'erano più parole, sempre scritte al centro del foglio.
 
Il signor Jacob e il signor Wilhelm Grimm
sperano che questo viaggio
sia di vostro gradimento e vi augurano
di avere la buona sorte sempre sul vostro cammino.
 
Le scappò un sorriso. Non le era mai capitato di leggere un'introduzione di un libro scritta in quel modo. Le ricordava vagamente il diario di Tom Riddle in Harry Potter, o la Mappa del Malandrino. Cominciava anche a dubitare che si trattasse della raccolta di fiabe dei due scrittori tedeschi, ma non le dispiaceva affatto. Voltò ancora la pagina, e stavolta non si stupì di ritrovare il medesimo schema.
 
La vita ci insegna che il caso non esiste.
Il destino guida i nostri passi nelle più oscure foreste
di questo mondo e degli altri.
A volte dobbiamo prendere il nostro destino per mano
e lasciarci guidare.
 
Elizabeth trovò questo paragrafo molto banale e scontato, ma conosceva bene se stessa e sapeva che ci voleva ben altro per convincerla a posare un libro dopo neanche dieci pagine. Proseguì con la lettura, ma stavolta non trovò più brevi frasi o parole scritte al centro del foglio.
Dalla pagina numero 9 il testo rispettava i medesimi canoni degli altri libri, con tutto il foglio occupato dalle parole scritte. Elizabeth cominciò a leggere.
 
Una volta, molto più tempo fa di quanto un mortale privo di magia, bianca od oscura che dir si voglia, sarebbe in grado di rimembrare, i sovrani e i capi comandanti di ciascuno dei Nove Regni scelsero i loro migliori campioni, i soldati più valorosi e i generali più esperti, e inviarono messaggeri a bussare di porta in porta a domandare se ci fossero volontari disposti a combattere nelle file dell'esercito del proprio sovrano o, qualora non avessero trovato militari che avessero raggiunto le schiere di propria sponte, a prelevare giovani baldi e forti da arruolare.
Non venne fatta distinzione fra di essi: uomini o donne, ragazzi o vecchi, chiunque era bene accetto se voleva unirsi all'esercito del proprio sovrano che, una volta che tutti i combattenti dei Nove Regni furono radunati, divenne il più grande schieramento che questo mondo e gli altri avessero mai visto.
Allora i comandanti, non soddisfatti, chiamarono in loro ausilio anche coloro che possedevano o praticavano le arti magiche, senza alcuna differenza fra chi ne faceva uso per scopi personali o altrui nocivi, e chi invece le impiegava per più alti fini. Maghi, streghe e stregoni accorsero immediatamente al richiamo dei sovrani, e anch'essi misero a disposizione le loro persone e le loro conoscenze magiche per la guerra che stava appropinquandosi.
La ragione di questa adunata era da ricercarsi nel flagello che dall'alba delle memorie di ciascuno di noi si era abbattuto sui Nove Regni...
 
- Sei ancora viva?!
Elizabeth sobbalzò e lasciò cadere a terra il libro. Gli occhiali le scivolarono di nuovo lungo il naso e di conseguenza la vista le si appannò.
- E' la terza volta che ti chiamo. Credevo fossi morta.
- Scusa...- si rimise gli occhiali a posto, e subito la figura di sua sorella riacquistò i contorni; era in piedi sulla soglia della porta.- Stavo leggendo.
- Non l'avrei mai detto...- ironizzò Anya, roteando gli occhi.- Dai, vieni ad aiutarmi a mettere i piatti in tavola...questa è anche casa tua, cerca di dare una mano di tanto in tanto...
Elizabeth sbuffò e si sollevò a fatica dal letto. Seguì sua sorella in cucina e fece tutto ciò che le chiedeva. Anya non smise un secondo di tenerla d'occhio per tutto il tempo, osservando i suoi movimenti mentre apparecchiava la tavola: Liz era decisamente in sovrappeso, constatò con un po' di amarezza. Non era obesa, né eccessivamente grassa, ma i dieci chili in più che aveva si vedevano. Anya pensava che quei jeans che aveva addosso le sarebbero stati infinitamente meglio, se solo si fosse decisa a mettersi a dieta, o almeno avesse imparato a trattenersi un po' di più dall'ingozzarsi di cioccolato e porcherie varie. Peccato che il problema non fosse mancanza di forza di volontà, si costrinse ad ammettere. In casa era lei che faceva la spesa; era lei che controllava cosa mancava in frigorifero a fine settimana; ed era lei che dormiva nella stessa stanza di Liz e di notte la sentiva alzarsi e zampettare al buio fino alla cucina. E il giorno dopo mancava sempre qualcosa dalla dispensa o dal frigo. Vedeva sua sorella a cena avventarsi sul proprio piatto e spazzolare via tutto, e non era fame, era ingordigia. Liz cercava di ingoiare quanto più cibo poteva e non ne aveva mai abbastanza; era per questo che ingrassava; se avesse mangiato normalmente, non sarebbe stata in sovrappeso.
Anya aveva anche pensato di parlargliene, oppure di ricontattare l'ultima psicologa che le aveva avute in cura tutt'e due ed esporle il problema, ma non aveva mai fatto né l'una né l'altra cosa. Voleva bene a sua sorella, ma era stufa di continuare a risolvere quelli che erano i suoi casini. E in tutta sincerità, non credeva nemmeno che sarebbe dovuto toccare a lei. Possibile che fosse stata l'unica in quella casa ad accorgersi che Liz era presa di mira a scuola e che aveva dei problemi con il cibo? Papà dov'era? Viveva anche lui sotto quel tetto, no?
Eppure, o non vedeva, o se vedeva non si curava di fare nulla. Quell'uomo la faceva veramente incazzare.
Dal salotto provenne un rumore soffocato, che ben presto si distinse chiaramente come Hot Stuff di Donna Summer. Anya lasciò cadere il mestolo nel lavandino.
- Il tuo telefono...- bofonchiò sua sorella, sedendosi a tavola.
- Sì, ho sentito...- le rispose con un tono più secco di quel che avrebbe voluto; corse in salotto e dovette rovesciare la borsa per recuperare il cellulare. Accettò la chiamata senza neanche preoccuparsi di guardare il numero.
- Pronto?
- Ehi, Anya. Come stai?
- Greg?!- guardò inorridita il cellulare, come se avesse avuto in mano una tarantola.- Chi ti ha dato questo numero?!
- Juliet, la tua collega.
- Ah.
Promemoria: uccidere lentamente e dolorosamente quella ficcanaso alla prima occasione.
- Scusa, ma sto preparando la cena per stasera...
- Non ti ho disturbata, vero?
- Se proprio devo essere sincera, Greg, sì - Anya si morse l'interno di una guancia, cercando di ricordare le tecniche di rilassamento yoga che aveva visto in un programma TV qualche tempo prima; non gliene venne in mente neanche una.- Sono le sette di sera passate, la gente normale a quest'ora si prende un attimo di pausa dalla giornata, o ha comunque qualcosa da fare.
- Beh, al lavoro sei occupata, la sera non puoi...quand'è che dovrei parlarti, allora?- la voce dall'altro capo del telefono suonava tremendamente irritata. Non che gliene fregasse, ma trovava incredibile che Greg avesse anche il coraggio di innervosirsi in quel frangente.
- Forse non è una questione di essere occupata o meno. L'hai considerata questa ipotesi?
- Come?
- Mi sembra di capire che sia un no...beh, riflettici, okay?- riattaccò e lanciò il cellulare di nuovo nella borsa, e tornò in cucina con una gran voglia di spaccare la faccia sia a Greg che a Juliet.
- Chi era?- chiese Liz a bocca piena; era in piedi appoggiata al bordo del lavandino e stava sgranocchiando una barretta di cioccolato. Sua sorella provò il fortissimo impulso di darle una sberla su una mano perché la lasciasse, ma si trattenne.
- Uno che non conosci - Anya controllò che gli spaghetti fossero cotti, poi spense il fornello.- Aiutami a finire di preparare, fra poco dovrebbe arrivare papà...
 
*
 
New York 2015, ore 8:15 p.m.
 
ANYA posò due piatti di spaghetti al pomodoro sulla tavola, prima di prenderne un terzo e sedersi di fronte a sua sorella minore.
- Grazie, Anya...- mormorò Richard Hadleigh mentre impugnava la forchetta.
- Liz, a te ne ho messa un po' di meno...- disse la ragazza.
- Perché sapevi già che a me gli spaghetti al pomodoro non piacciono, vero?- borbottò Elizabeth di rimando, giocherellando con il cibo nel piatto.
- Non ti ho riempito il piatto, ma quello che c'è lo devi mangiare tutto.
Sì, mamma!, le rispose mentalmente Elizabeth, con una punta di fastidio, mentre mescolava svogliata gli spaghetti. Era tipico di sua sorella: forse neanche se ne accorgeva, ma in ogni cosa che faceva, fosse stato fare la spesa, preparare la cena o mettere in ordine la casa, tendeva sempre ad assumere il ruolo della mamma, anche quando papà era presente. Era un atteggiamento che le dava sui nervi quasi quanto il suo preoccuparsi di quanto mangiasse e cosa mangiasse.
- Com'è andata oggi a scuola, Liz?- le chiese suo padre.
Anya le gettò un'occhiata di sottecchi. Elizabeth fece spallucce.
- E tu, Anya? Il lavoro?
- Al solito. Niente da raccontare.
In cucina calò il silenzio, e Hadleigh sentì il proprio stomaco chiudersi. Odiava quando succedeva così, quando dopo un'intera giornata trascorsa lontana dalle sue figlie se le ritrovava di fronte e non sapeva neanche cosa dire loro. Parlare con Anya ed Elizabeth diventava ogni giorno più difficoltoso. Per di più, pensò guardando l'orologio, l'ora dell'appuntamento si stava avvicinando.
- La fai finita di giocare?- abbaiò Anya, vedendo che Elizabeth continuava a rigirare gli spaghetti con la forchetta. L'altra alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
Hadleigh allontanò da sé la cena e si schiarì la voce.
- Ragazze, dovrò andare via per un po'...- esordì, senza tanti preamboli. Tanto valeva tagliare la testa al toro e venire subito al sodo.
Entrambe sollevarono lo sguardo dal piatto.
- Perché?- fece Elizabeth a bocca piena.
- Questioni di lavoro. Vado via fra dieci minuti. Starò fuori casa...due o tre giorni, quattro al massimo - a dire il vero non sapeva quanto ci avrebbe messo esattamente, ma contava di fare abbastanza presto; si trattava pur sempre del Regno delle Favole, alla fin fine.
Elizabeth sembrò l'unica interessata alla faccenda. Anya riprese a mangiare come se niente fosse.
- D'accordo...- mormorò.
- Credete di cavarvela? Avete tutto?
- Ho fatto la spesa proprio oggi.
- Va bene. Anya, conto su di te, lo sai...- non seppe che altro aggiungere. Elizabeth continuava a guardarlo con curiosità, probabilmente avrebbe voluto chiedere qualche informazione in più, ma in ogni caso lui non avrebbe potuto dargliela. L'altra invece riprese a mangiare come se nulla fosse.
Hadleigh andò in camera da letto e prese un borsone sportivo dall'armadio. Mise dentro un cambio di vestiti e una busta di plastica: al suo interno c'era un completo che gli aveva sempre ricordato gli abiti medievali, con camicia, casacca, pantaloni e mantello, e un paio di stivali di cuoio. Servivano a mischiarsi alle favole, come gli aveva spiegato una volta Fraser, ma non li aveva mai indossati. Prese anche il portafogli e il cellulare – teoricamente sarebbe stato proibito, ma tanto sapeva già che anche se lo avessero scoperto non ci sarebbe stata nessuna conseguenza.
Quando tornò in cucina, Elizabeth aveva ripreso a mangiare e Anya stava mettendo il proprio piatto nel lavello. Fece schioccare le nocche della mano destra; sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa per accomiatarsi come si deve, ma non gli veniva in mente nulla.
- Se...se c'è qualche problema, ho il cellulare con me - che tristezza, sapeva benissimo che i telefonini non avrebbero mai preso nel posto in cui stava andando.- Allora...io vado.
- Okay, ciao.
- Ciao, papà.
Rimase ancora un attimo a guardarle, poi accennò un ultimo saluto e si avviò verso l'uscita, e poco dopo udirono la porta che si chiudeva.
Anya sospirò, mise un paio di guanti in gomma e cominciò a lavare i piatti.
- Secondo te dove va?- bisbigliò Elizabeth.- E' la prima volta che sta fuori casa per lavoro.
- Non lo so, e neanche m'interessa...- borbottò la sorella.- E' uno sbirro, avrà i suoi affari.
- Sì, ma di che si occupa di così importante? Insomma, okay che è un poliziotto, ma addirittura stare via da New York per tre giorni, o quello che è...
- Non ha detto che andava via da New York, ha detto che stava fuori casa per qualche giorno. Cos'è tutto questo interesse, Liz?- Anya si voltò.- Non mi sembra che te ne sia mai fregato niente...
Elizabeth si alzò da tavola e andò a recuperare il libro di favole.
- E' a te che non frega niente...- ribatté, un po' risentita.- E' solo che...ci hai mai pensato?
- A cosa?
- Che lavoro fa papà?
- Sei diventata scema?
- Intendo dire...fa il poliziotto, okay, ma tu lo sai a che sezione appartiene? I poliziotti non sono tutti uguali - a Elizabeth sembrò di vedere un barlume di confusione farsi strada oltre l'ostentata indifferenza di sua sorella.- Non ci ha mai detto di che si occupa.
- E tu non glielo hai mai chiesto. Ti è venuta voglia di saperlo a sedici anni?
- Magari è un agente segreto che lavora per la CIA!- Elizabeth fece una risatina forzata, cercando di sdrammatizzare.
- Sì...James Bond versione sfigata e letargica.
E ciò bastò a chiudere il discorso.
 
Mezz'ora dopo, Anya aveva finito di lavare i piatti, aveva riordinato la cucina e aveva tirato fuori dal freezer due pizze surgelate per il pranzo del giorno dopo; dopodiché, si era seduta in salotto a guardare una puntata registrata di The Bachelor e non aveva fatto più alcun commento su quel che aveva detto papà. Nello stesso lasso di tempo, Elizabeth si era resa conto che, da qualunque luogo provenisse quel libro di favole, chi lo aveva infilato nel suo zaino molto probabilmente aveva voluto mollarle una fregatura.
Aveva deciso di continuare la lettura dopo essersi seduta a gambe incrociate sulla poltrona di fronte ad Anya. Sua sorella si era espressa solo con un annoiato cosa leggi?, prima di stravaccarsi sul divano e accendere la TV; Elizabeth pensò che non dovesse importargliene molto della risposta, dal momento che quando aveva mancato di fornirgliela non aveva protestato.
Pur avendo aperto il libro a caso, si ritrovò nello stesso punto in cui si era interrotta, e da lì aveva ripreso.
 
La ragione di questa adunata era da ricercarsi nel flagello che dall'alba delle memorie di ciascuno di noi si era abbattuto sui Nove Regni...
 
Aveva girato la pagina con tutta l'intenzione di scoprire che cosa fosse questo flagello che all'alba delle memorie di ciascuno di loro si era abbattuto su questi fantomatici Nove Regni...e invece niente.
Proprio niente.
La pagina successiva era vuota, un immenso foglio bianco. E così anche quella accanto.
Elizabeth voltò un'altra pagina, ma ancora i due fogli successivi erano completamente bianchi. Si tolse gli occhiali e pulì le lenti con un lembo della maglietta, e voltò altre due, tre, quattro, sei, dieci, dodici pagine, ma niente. Ancora una serie infinita di fogli bianchi.
Un'altra persona – o almeno sua sorella – avrebbe di certo gettato la spugna e chiuso il libro, a quel punto, ma Elizabeth non lo fece. Uno strano puntiglio la spingeva a continuare e a venire a capo di quella faccenda. Afferrò la copertina rigida e inclinò il libro di novanta gradi, e cominciò a far scorrere velocemente le pagine fra le dita. Non trovò altro che pagine e pagine bianche e intonse, fino a quasi metà, quando qualcosa di scuro colpì il suo sguardo prima di essere sostituito da altri fogli intoccati. Elizabeth smise subito di far scorrere le pagine e tornò indietro.
Quando finalmente la trovò, la pagina presentava solo una scritta al centro del foglio.
 
Hai paura?
 
Girò ancora la pagina.
 
Non devi
 
- Ehi, che ti succede? Liz?
Elizabeth proseguì.
 
Tutto sarà come prima
 
Un'altra pagina.
 
Quando loro torneranno
 
- Liz!
Trasalì. Non avrebbe saputo dire se fosse stata lei a lasciare la presa o sua sorella ad averlo colpito, ma il libro le scivolò dalle mani e cadde sul pavimento, richiudendosi. Anya la scosse per una spalla.
- Tutto bene?
- Sì...- le uscì un rantolo dalla gola che faticò a riconoscere come la propria voce.
Guardò il libro che giaceva ai piedi della poltrona.
Anya si passò una mano fra i capelli e tirò un lungo sospiro.
- Ma che ti è preso?- sbottò Elizabeth, ripresasi.
- A me?!- Anya raccolse il libro da terra e glielo sbatté in grembo.- Sembravi ipnotizzata, come se fossi fatta. E non mi rispondevi. Mi sono spaventata, ecco cosa mi è preso!
- Scusa...
Guardò ancora il libro chiuso posato sulle sue ginocchia. La scritta dorata Fiabe del focolare era lì, come se fosse stata una cosa normale, ma Elizabeth aveva quasi la sensazione che presto le lettere avrebbero cominciato a staccarsi dalla copertina, a roteare su se stesse per poi...dare vita a qualcosa di brutto. Tipo quei film horror.
Anya le diede un colpetto sulla nuca con l'indice e il medio, poi prese il telecomando e spense la televisione. Il suo cellulare era abbandonato sul sofà; Elizabeth si accorse che vibrava, ma sua sorella lasciò cadere la chiamata.
- Chi era?
- Greg.
- Chi?
- Niente, lascia stare.
- Sempre quello di prima?
Anya si sgranchì le braccia e sbadigliò di nuovo. Elizabeth prese il libro con la punta delle dita e lo posò ancora sul pavimento. Sua sorella fece per chiederle spiegazioni, ma poi qualcos'altro la distrasse.
- Merda, il distintivo!
Elizabeth seguì il suo sguardo: sul tavolino alle loro spalle era posato, in bella mostra, il distintivo di Richard. Anya lo raccolse.
- Ma che razza di poliziotto è uno che si dimentica il distintivo?
- Magari non gli serviva...
Anya controllò all'interno della custodia di cuoio: oltre al distintivo al suo interno c'erano anche dei documenti e ci trovò pure due banconote da cinquanta dollari.
- Vado a riportarglielo, forse sono ancora in tempo - lo sbatté malamente nella borsa e s'infilò il cappotto.
- Sono le nove di sera passate, a quest'ora sarà già...
- Andrò alla centrale. A spiegare che mio padre, il grande poliziotto, s'è scordato di prendere il distintivo - fece una smorfia. Prese un ombrello e lo infilò nella borsa, poi raccolse ancora i capelli in uno chignon malfatto e cascante. Elizabeth fissò il libro di favole ancora per qualche istante: non avrebbe saputo spiegare perché, ma non si sentiva tranquilla, non con quell'affare in casa. Era una sensazione uguale a quella che aveva provato quella volta a undici anni, appena dopo essere andata a letto dopo che sua sorella l'aveva costretta a guardare con lei Pet Sematary. La suggestione, l'idea assurda ma al contempo sensata che qualcosa di brutto stesse per succedere da un momento all'altro.
Non stette lì a pensarci troppo. Saltò in piedi e indossò a sua volta un giubbotto.
- Vengo con te!- annunciò.
- Non serve, faccio in un attimo...
Elizabeth fece finta di non aver sentito, e si mise la propria borsa a tracolla, con Anya che era già a metà delle scale. Prima di seguirla, posò il libro sulla poltrona dove era seduta poco prima, appuntandosi mentalmente dove e la posizione in cui lo lasciava. E sperò che al suo ritorno di non trovarlo spostato, tipo la bambola Annabelle.
 
La centrale di polizia dove lavorava papà si trovava a circa due o tre chilometri da casa loro, e raggiungerla fu un penosissimo strazio. Anya ci mise venti minuti di giri di chiave, incitamenti e imprecazioni degne di uno scaricatore di porto per far partire quella ferraglia arrugginita che lei si ostinava a chiamare automobile, quando tutt'e due sapevano alla perfezione che la suddetta ferraglia arrugginita entrava in sciopero quando c'era tanta umidità e non si sarebbe messa in moto neanche se l'avessero spinta a mano. Alla fine, l'uomo aveva soccombuto alle macchine, e sua sorella aveva annunciato con la morte nel cuore che avrebbero preso la New York Underground per raggiungere la centrale. E così avevano fatto il doppio del tragitto impiegandoci il triplo del tempo, in piedi e stipate come sardine in una scatola nel vagone della metropolitana.
Quando finalmente scesero, non aveva smesso di piovere, anzi, il tempo se possibile era peggiorato. Elizabeth aveva sperato che le disgrazie fossero finite, ma c'erano almeno cinquecento metri a piedi per arrivare alla centrale. Si tuffò sotto l'acquazzone seguendo a ruota sua sorella, che aveva preso a correre cercando di ripararsi alla bell'e meglio sotto quell'ombrellino striminzito che si era portata dietro.
- Ma non potevi prendere un ombrello più grande?!- strillò Elizabeth; aveva sollevato la borsa sulla testa nel pietoso tentativo di ripararsi, ma la pioggia battente l'aveva infradiciata in poco meno di due minuti. Anya, dieci passi di fronte a lei, si fermò per aspettarla e le fece spazio sotto il suo ombrello, con il risultato che nessuna delle due fu abbastanza riparata e si bagnarono ancora di più.
La vista dell'insegna luminosa che indicava la centrale di polizia che si stagliava a pochi metri da loro sembrò quasi una sorta di intervento soprannaturale volto alla loro salvezza.
Anya lasciò l'ombrello sui gradini d'ingresso e fece per entrare, ma sua sorella le gridò di guardare alla sua destra. Non si distinguevano molto bene le sagome a causa della pioggia e della distanza, ma la maggiore delle Hadleigh intravide la figura di suo padre insieme a quella di altri uomini. Si scostò le ciocche di capelli fradici dalla fronte: Richard annuì rivolto a un uomo dai capelli grigi, quindi lui e gli altri poliziotti lo seguirono.
Riprese l'ombrello.
- Aspettami qui, faccio una corsa...!- gridò a Elizabeth; le diede parecchio fastidio che sua sorella la seguisse comunque, ma disse nulla. Corse a perdifiato fino all'incrocio oltre il quale erano spariti suo padre e gli altri. Svoltando a sinistra si aveva accesso a uno stretto vicolo, decisamente anormale per una città come NY, illuminato soltanto da un lampione. Anya lo percorse di corsa fino alla fine. Rimase un po' allibita quando non trovò altro se non una porta di legno neanche troppo alta e un po' tarlata.
Elizabeth arrivò trafelata alle sue spalle.
Anya cominciò a bussare con forza contro la porta e a chiamare suo padre.
- Ma che fai...?
- Devono essere entrati qui, per forza. Papà!- chiamò.- Papà, apri!
- Forse non è il caso...
- Non ho fatto tutta questa strada per un distintivo di merda solo per... - la porta si aprì da sola dopo l'ennesimo pugno di sua sorella. Anya fu sul punto di perdere l'equilibrio quando il battente si socchiuse in avanti. Entrambe si dimenticarono per un secondo della pioggia battente che cadeva sulle loro teste, e rimasero a fissare lo spiraglio che si era aperto di fronte ai loro occhi. Oltre quella porta doveva essere completamente buio, perché nessuna luce di lampadina proveniva dal suo interno. Da quel poco che si poteva vedere tutto era avvolto nell'ombra e nel silenzio. Elizabeth si sarebbe aspettata di sentire, se non la voce di suo padre, almeno quella di qualcuno che chiedeva spiegazioni. Pensò che era piuttosto strano che nessuno degli sbirri fosse venuto a controllare chi aveva aperto la porta. Provò a dire che forse era meglio entrare in qualche posto asciutto e telefonare a papà per avvisarlo del distintivo, ma non profferì parola in quanto Anya aveva già abbandonato l'ombrello a terra e aveva aperto la porta in modo da varcare la soglia.
Non si accese nessuna luce e l'interno continuò a rimanere silenzioso.
Elizabeth se la stava vagamente facendo sotto. Sua sorella sembrò esitare, ma alla fine entrò.
- Senti, lascia perdere...!- disse infine Elizabeth.- E' solo uno stupido distintivo, non so nemmeno perché hai voluto...
- Aspetta un attimo.
Anya mosse qualche passo all'interno della stanza, ritrovandosi a ringraziare Iddio Onnipotente quando si accorse che a pochi centimetri dall'ingresso c'erano degli scalini che conducevano verso il basso. Se fosse entrata più decisa, con ogni probabilità sarebbe ruzzolata giù dalle scale fino alla fine. A proposito...era possibile che non si vedesse il pavimento?
Mosse una mano a tentoni e solo quando riuscì ad aggrapparsi a quella che doveva essere una ringhiera di ferro trovò il coraggio di riprendere ad avanzare. Cominciò a scendere cautamente gli scalini.
Elizabeth si aggrappò allo stipite della porta.
- Ma ci tieni proprio a farmi morire?!- strillò.- Chi te lo fa fare?
- Tu resta fuori, se vuoi.
Non credeva veramente che l'avrebbe fatto, e come volevasi dimostrare udì il rumore delle scarpe da tennis di sua sorella che la seguivano lungo la scala. A ogni passo che compiva il tacco dei suoi stivali mandava uno stridio metallico contro i gradini, e un paio di volte Anya pensò fosse meglio tornare indietro. Ormai non pensava più neanche a quel dannato distintivo, le interessava soltanto venire a capo di quella faccenda: Richard era sparito dietro quella porta e così anche i suoi colleghi, ma quel luogo non doveva essere altro che una cantina o un magazzino, magari pure abbandonati. Inoltre, non sentiva alcun suono o rumore di voci, era ovvio che non ci fosse nessuno.
Cercò di rispondere a quell'interrogativo dicendosi che forse c'era un'altra uscita, da qualche parte. Papà e tutti gli altri non potevano essere semplicemente spariti nel nulla.
- A te che piacciono tanto i film horror - gracchiò Elizabeth alle sue spalle.- Questa non sarebbe una di quelle situazioni da evitare? Tipo, la scala che porta verso la cantina infestata o al mattatoio del serial killer.
- Liz, hai due possibilità: o vieni con me e la pianti di sparare stronzate, oppure continui a spararle ma te ne esci fuori sotto l'acqua. Non siamo in un film horror - la scalinata finì, e due secondi dopo Anya si sentì sfiorare la fronte dall'alto, da qualcosa di sottile e freddo. Comprese subito che si trattava di una cordicella, e la tirò. Sopra la sua testa si accese una lampadina, la cui luce era troppo fioca per illuminare tutta la stanza ma meglio di niente, realizzò Anya.
La stanza non era molto grande ed era quadrata, completamente spoglia fatta eccezione per alcuni scatoloni vuoti e sfondati ammassati agli angoli e due o tre sedie rotte. C'erano ragnatele ovunque, sia sulle pareti che sul pavimento.
Elizabeth la raggiunse.
- Senti, papà non c'è...- osservò con impazienza.- Ti devi essere sbagliata per forza.
Non c'era altra spiegazione, doveva convenirlo. Non solo non c'era nessuno, ma non c'era nemmeno nessuna porta che avrebbe potuto dare accesso a qualche altra stanza. Erano in mezzo a quattro mura e l'unica via d'uscita era quella attraverso cui erano entrate.
Una folata di vento fece richiudere la porta con un colpo secco.
Anya sospirò e si appoggiò contro la parete alle sue spalle.
- Se era una di quelle porte che si aprono solo dall'esterno, parola mia che t'ammazzo.
- Non è possibile, dai. E poi l'idea di entrare è stata tua.
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Le era scoppiato un gran mal di testa.
- Hai ragione, Liz. Scusami. Devo essermi sbagliata... - ancora non capiva come fosse stato possibile ed era sicura di ciò che aveva visto, ma beh, la logica e l'evidenza sostenevano il contrario.
- Che facciamo, adesso?
- Torniamo a casa.
- E il...
Elizabeth si bloccò di colpo, tanto che Anya sollevò lo sguardo su di lei per capire che cosa ci fosse che non andava. Sua sorella aveva gli occhi sgranati e gli occhiali le erano scivolati lungo il naso. La stava fissando.
- Che hai da guardare?
Nello stesso momento in cui lo chiedeva, sentì il muro a cui era appoggiata come spostarsi, o cedere. Notò che la luce nella stanza si era fatta più forte, ma non poteva essere certo la lampadina.
Avvertì i mattoni smuoversi contro la sua schiena. Si allontanò di scatto, unendosi a Liz nel fissare la parete.
- Ma che cavolo...?- boccheggiò sua sorella.
Anya sgranò gli occhi. Era come se la parete si stesse...aprendo!
I mattoni si muovevano, continuavano a spostarsi da soli, ad accavallarsi l'uno sull'altro, finché nel muro non comparve un'enorme voragine luminosa.
Un forte vento cominciò a soffiare nella stanza.
Elizabeth gridò, sentendosi sollevare in aria.
Entrambe vennero risucchiate nella voragine.

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Capitolo 5
*** Capitolo III - Bloody Snow White ***


Capitolo III
 
Bloody Snow White
 
 
 
Nel frattempo, la povera piccina rimase sola nel fitto
della grande foresta, ed ebbe così paura che si guardava intorno
smarrita, non sapendo cosa fare; poi cominciò a correre e corse
fra le spine e contro le pietre aguzze”.
 
Grimm, Biancaneve e i sette nani
 
 
 
TUTTO DIVENNE CONFUSO.
Elizabeth si sentiva stranamente leggera, come se fosse fatta di gommapiuma, si lasciava trasportare senza opporsi. Anya continuava a volgere lo sguardo intorno a sé, un po' frastornata, cercando sua sorella, ma non riusciva a pensare a nulla. Nella sua mente si affollavano solo ricordi sconnessi: le parole di suo padre prima di uscire, Liz che a nove anni esultava per aver vinto una partita a Monopoly, il primo bacio che Bobby Joe le aveva dato contro gli armadietti della scuola...sua madre...
D'un tratto, veloce com'era cominciato, tutto finì.
Anya cadde a terra con un tonfo.
- Ahi...- sentì gemere sua sorella.
Si tirò su indolenzita.
- Liz...!- chiamò.
- Sono qui...- gracchiò la voce dolorante dell'altra ragazza. Elizabeth era atterrata a qualche metro di distanza da lei, e aveva l'aria decisamente stravolta, con i capelli scompigliati e gli occhiali storti sul naso.
- Stai bene?
Elizabeth cercò di tirarsi in piedi. Entrambe avevano i cappotti e i pantaloni coperti di terra ed erba. Anya guardò in basso: erano atterrate su dell'erba! Erba a New York?
...l'erba più verde che avesse mai visto, persino più verde di quella di Central Park.
Anya pensò che dovessero trovarsi proprio lì, non vedeva altra soluzione.
- Ma che cavolo è successo?- fece Elizabeth.- Dove siamo finite?
Inutile illudersi: quella non era Central Park. Anya continuò a guardarsi intorno alla disperata ricerca di qualsiasi cosa l'aiutasse a orientarsi. Si trovavano in quello che aveva tutta l'aria di essere un bosco, una foresta i cui alberi dalle chiome verdissime – troppo verdi – erano così fitte – troppo fitte – da lasciare poco spazio allo sguardo. La radura in cui erano atterrate era ricolma di fiori, e sembrava che nessun essere umano ci avesse messo piede fino a quel momento – l'erba di Central Park era perennemente calpestata.
Era un posto meraviglioso, pensò Anya. Meraviglioso e irreale.
- Non lo so, Liz...
 
Rimasero a fissare imbambolate quel luogo per un tempo infinito.
Più volte Anya ed Elizabeth guardarono verso il muro d'alberi alle loro spalle e verso l'alto, ma non videro nulla che potesse ricondurre al...vortice, o qualunque altra cosa fosse, che le aveva trasportate lì.
- Dove siamo?- ripeté Elizabeth a un certo punto.
- Ti ho già detto che non lo so.
Più Anya cercava di trovare una spiegazione logica, più non ci riusciva, e a farne le spese era il suo umore. Un misto di ansia e nervosismo aveva cominciato a scalciarle all'altezza del petto, e sentiva di avere i palmi completamente sudati.
- Cerchiamo di ragionare...- soffiò.
- Ma come siamo arrivate qui?! Insomma, l'hai visto anche tu, no?- Elizabeth stava per iperventilare.- Il muro che si apriva, il vortice, questo!
- Sono sicura che c'è una spiegazione razionale...
- Razionale?! Cavolo, Anya, siamo appena state inghiottite da un muro!
- Accidenti, Liz, vuoi stare zitta un attimo?!- sbottò la maggiore.- Non riesco a pensare. Abbiamo visto papà entrare in quella stanza, giusto? Deve pur essere da qui da qualche parte. Troviamolo e chiediamo a lui una spiegazione...
- D'accordo. E da dove cominciamo?- Elizabeth allargò le braccia come a rimarcare l'insensatezza della situazione e l'impossibilità per loro di fare alcunché. Anya non si diede per vinta; prese a guardarsi intorno con più attenzione di prima, alla ricerca di Richard o di qualsiasi altra cosa potesse ricondurle alla sua presenza, ma senza alcun risultato.
Elizabeth la lasciò fare per qualche minuto, poi smise del tutto d'illudersi e sbuffò alzando gli occhi al cielo: era evidente che sua sorella stava disperatamente cercando di negare di essere totalmente spiazzata e di non avere alcun controllo della situazione. Stava per dirle che forse era meglio sedersi lì e aspettare che papà o qualcuno tornasse indietro o venisse a cercarle, quando notò un'impronta nell'erba, a pochi millimetri dalla sua scarpa da tennis. Si trattava della traccia lasciata da una scarpa, un piede umano, e sulle prime Elizabeth credette di averla lasciata lei stessa. Poi notò che chiunque avesse lasciato quell'impronta aveva il piede leggermente più lungo del suo, e che accanto a essa ce n'era un'altra.
E poi un'altra. E un'altra ancora.
Elizabeth le seguì, e quando fu costretta a sollevare il capo vide che creavano due file parallele, in cui un'impronta era poco più avanti dell'altra, fino a tracciare un percorso ben definito. Le tracce si allungavano di fronte a loro, scomparendo poi oltre una collinetta.
- Ehi, Anya...
- Che c'è?
- Guarda qui...
- Anya si sporse per vedere meglio, ma non riuscì a scorgere nulla oltre la collinetta.
- Quelle non c'erano, prima...- borbottò a bassa voce; Elizabeth non la sentì – o fece finta di non averla sentita; si avviò verso la collinetta seguendo le orme.
- Mi sa che siamo sulla buona strada...
- Ehi! No, Liz, aspetta!- gridò sua sorella, correndole appresso.- Per quel che ne sappiamo potrebbe anche esserci un maniaco, qui...- e prima quella orme non c'erano, cazzo, potrei giurarlo.
- Sento dei rumori...
Era vero; Anya tese l'orecchio, e poté constatare che da oltre la collinetta proveniva un brusio sommesso, come un chiacchiericcio. Elizabeth si arrampicò agilmente fino in cima: di fronte al suo sguardo ora si stendeva una piccola radura circolare, in cui un gruppo di persone – una decina, e tutti uomini – era riunita in quello che aveva tutta l'aria di essere un cortile.
Anya arrancò a fatica fino a raggiungerla.
- Credo di aver trovato papà...
 
La casa della nonna sorgeva in mezzo al bosco, non troppo lontano dal sentiero che la madre di Cappuccetto Rosso si era sempre raccomandata di seguire. Era una casupola di pietra a un solo piano, con il tetto di paglia e il comignolo un po' storto. Quand'erano arrivati sul posto, da esso fuoriusciva un denso fumo nero. Entrando, gli inservienti avevano dovuto spegnere quella che a occhio e croce doveva essere la zuppa che si era bruciata.
Il Dipartimento Favole di New York non era grande o attrezzato come quello di Los Angeles, e gli unici due agenti a lavorarvi erano lui e Jones; prima che scomparisse, anche Fraser faceva parte della squadra, e naturalmente c'era il procuratore, il quale tuttavia era super partes. Le altre persone che erano con loro erano inservienti: lavoravano per il Dipartimento Favole, ma non erano poliziotti, si occupavano solo di dare una mano ai veri agenti nei lavori di fatica o nelle mansioni più basse, e avevano l'ordine di non parlare con nessuno, e se per caso gli si rivolgeva la parola si limitavano ad annuire o a negare con un cenno del capo.
Si somigliavano tutti, tanto che spesso Hadleigh si era chiesto se fossero davvero esseri umani oppure oggetti inanimati resi senzienti per l'effetto di qualche magia.
Due di essi fecero per chinarsi sul telo bianco posto a pochi centimetri da lui, ma l'ispettore fece cenno di lasciarlo dov'era. Gli inservienti si allontanarono in silenzio.
Da più di venti minuti, Hadleigh fissava quel telo bianco sotto cui – lo sapeva – giaceva il corpo di Cappuccetto Rosso. Non l'aveva ancora vista, e sinceramente avrebbe preferito non farlo. Non perché la morte lo sconvolgesse – aveva già visto cadaveri di bambini –, ma per ciò che quel corpo stava a significare: qualcosa non andava.
Da quando Crawford gli aveva comunicato la notizia dell'omicidio, la sua testa era stata invasa da frasi assordanti, e tutte avevano la voce di Fraser. Per l'intera serata non aveva fatto altro che pensare a equilibri da mantenere e lancette di bilance. Se c'era qualcosa che Hadleigh avesse mai apprezzato di quello schifo di lavoro, era la sua sicurezza.
Cosa c'era di più sicuro e rassicurante di una bella fiaba?
Sapevi sempre ciò che ti attendeva alla fine: Cenerentola avrebbe sposato il Principe Azzurro, Biancaneve avrebbe sputato la mela, Pollicino avrebbe ucciso l'orco; c'erano sempre tre fratelli, e solo il minore, più buono e più bello, l'avrebbe spuntata; il soldato avrebbe salvato la principessa per poi sposarla; il drago veniva fatto a pezzi.
 
...il Cacciatore vide il Lupo Cattivo che russava beatamente, con il ventre grande e rotondo dopo aver ingoiato la nonna e la piccola Cappuccetto Rosso in un solo boccone; allora il Cacciatore si avvicinò, uccise il lupo e gli aprì la pancia con la sua scure, liberando le due prigioniere.
E tutti vissero per sempre felici e contenti.
 
Il pensiero che anche una bella fiaba si fosse trasformata in un incubo, e che a farne le spese erano state una bambina e una donna anziana...era raggelante.
- Attenti...!
La voce di Jones risuonò troppo tardi: uno degli inservienti si era lasciato scappare la sua parte della barella che stavano trasportando fuori dalla casa. Il suo collega intervenne con un'agilità che non si confaceva alla sua stazza, evitando per il rotto della cuffia che quei poveri resti venissero scempiati da una caduta.
Crawford, poco distante, fece roteare gli occhi.
Hadleigh rimase a guardare mentre il suo collega guidava gli inservienti e ordinava di posare il corpo della nonna accanto appena oltre la soglia della porta. Era stato il primo che aveva visto: l'assassino doveva averla colta di sorpresa, perché avevano ritrovato il cadavere disteso sul letto, con le coperte tirate fino all'addome. Lo sterno era stato sventrato, e gli occhi sbarrati attraverso le lenti degli occhiali quasi scomparivano in quel lago di sangue che era il volto, sangue che imbrattava anche i capelli grigi, la camicia da notte e le lenzuola, e perfino l'uncinetto a cui l'anziana donna stava lavorando. Hadleigh non ci aveva messo molto a capire la dinamica dell'omicidio. Chi aveva ucciso Cappuccetto Rosso e la nonna aveva prima aggredito quest'ultima nella propria casa – la porta era sfondata. Aveva prima ucciso l'anziana, poi era passato alla nipote. Molto probabilmente Cappuccetto Rosso doveva essere arrivata quando la nonna era già morta. Aveva visto la porta sfondata, era entrata per controllare e aveva trovato il cadavere e l'assassino ad attenderla. Il fatto che il suo corpo fosse stato ritrovato a diversi metri dalla casa dimostrava che la piccola aveva cercato di scappare, ma l'omicida l'aveva inseguita e raggiunta, e aveva terminato il lavoro.
Restavano solo due domande: chi era stato e perché.
Crawford sosteneva si fosse trattato del Lupo Cattivo, e in effetti le ferite sul corpo della nonna e il suo sterno fracassato rimandavano a un'aggressione animalesca, ma Hadleigh era rimasto parecchio sorpreso dal modus operandi. Benché i graffi e le lesioni fossero stati indubbiamente causati da artigli e i morsi da zanne aguzze, il duplice omicidio aveva un che di metodico. E questo presupponeva un intervento umano. Era come se l'assassino avesse atteso pazientemente il momento giusto per colpire le sue vittime, e non se ne fosse andato finché non aveva avuto la sicurezza di averle uccise. Senza contare che era palese che non potesse essere stato un lupo: i morsi erano troppo ampi e troppo profondi per i denti e l'apertura orale di un canide, e i graffi rimandavano a quello di una bestia molto più grande, come un orso o un leone.
E poi, restava sempre la questione del perché. Fatto salvo per le ferite, i corpi erano intatti. Se Crawford avesse avuto ragione e l'assassino fosse stato il Lupo Cattivo, allora avrebbe dovuto sbranare la nonna e Cappuccetto Rosso, non limitarsi ad ammazzarle. I lupi non uccidono per divertimento.
- Che ne pensa, ispettore?- la voce di Crawford lo riportò bruscamente alla realtà.
- Le ho già esposto la mia teoria...- rispose Hadleigh, pacato.- A mio parere, non si tratta di semplice furia animalesca.
- Quindi, lei esclude che si tratti del Lupo Cattivo?
- Non ho detto questo, ma lo ritengo poco probabile. Può anche darsi che l'assassino sia il Lupo Cattivo, è un'ipotesi da tenere in considerazione, ma non sarei troppo affrettato nel trarre delle conclusioni. Non mi sembra un omicidio casuale, dettato dalla fame o perché un animale si è sentito minacciato.
- Sta parlando di un omicidio premeditato.
- Di sicuro Cappuccetto Rosso e la nonna sono state uccise per un motivo. E poi, signore, se posso permettermi...- Hadleigh si schiarì la voce.- Se anche il Lupo Cattivo avesse deciso di fare uno strappo alla regola e stravolgere l'ordine, il Cacciatore avrebbe comunque dovuto fermarlo, a meno che la memoria non m'inganni. Dov'è il Cacciatore?
Crawford sembrò essere sorpreso da quella domanda, e ci mise qualche secondo per rispondere. Ma quando aprì la bocca per farlo, delle esclamazioni di orrore e mormorii nervosi alle sue spalle rprichiamarono l'attenzione di entrambi.
Gli inservienti avevano posato a terra la barella su cui giaceva la nonna e stavano indietreggiando, ma senza smettere di fissarla. Ad Hadleigh non sfuggì l'espressione d'incredulità e disgusto sul volto grassoccio di Jones.
Il telo bianco, prima chiazzato di sangue, era ora ricoperto di macchie nere. Un liquido del medesimo colore aveva iniziato a scivolare fuori da sotto la plastica. Nel giro di una manciata di secondi tutta la barella venne tinta di nero, e la sagoma prima chiaramente distinguibile della nonna scomparve sotto il telo. Hadleigh distolse velocemente lo sguardo; quasi automaticamente, afferrò un lembo della plastica bianca sotto cui giaceva Cappuccetto Rosso e lo scostò. Fece appena in tempo a incontrare gli occhi sbarrati e senza vita sul volto dilaniato della ragazzina, prima che anche il suo corpo si sciogliesse in una pozza di liquido nero.
Un istante dopo, del corpo di Cappuccetto Rosso non rimase altro che la mantella abbandonata in quella pozza scura come il petrolio.
- Ma che diavolo è?- sibilò Crawford.
Hadleigh chiese a uno degli inservienti di passargli un guanto di lattice, lo indossò e intinse l'indice e il medio nella pozza di liquido nero ai suoi piedi. Lo esaminò per qualche secondo.
- E' inchiostro - mormorò.
- Questo non è normale...- Crawford sembrò agitarsi.- Devo comunicare la cosa al Dipartimento Favole di Los Angeles, immediatamente. Il dottor Portrait va avvisato immediatamente.
- Che aiuto può dare, analizzando dell'inchiostro?- chiese Jones; Hadleigh non seppe se dargli dell'imbecille o se essere d'accordo con lui. Naturalmente quella roba andava spedita a Los Angeles per essere analizzata, ma dubitava che, pur in tutta la sua bravura, il criminologo del Dipartimento di LA potesse dire molto di più, se non che si trattava di inchiostro.
Inchiostro e sangue di un cadavere.
Crawford si agitò ancora per un poco, poi qualcosa attirò la sua attenzione appena sopra le loro teste.
- Che ci fanno loro due qui?!
Hadleigh sobbalzò. Scattò in piedi, e subito vide le sue figlie scendere lentamente dalla collinetta a sud della casa. Il suo sguardo scioccato incrociò il loro, che era a metà fra l'incredulo e il sollevato.
- Ragazze...- boccheggiò.- Che...che ci fate qui?
- Papà...- riuscì a mormorare Elizabeth; i suoi occhi dardeggiavano da lui alla pozza d'inchiostro ai loro piedi. Anya non parlava, non si muoveva, non sbatteva nemmeno le sopracciglia, sembrava quasi in stato catatonico.
Avevano visto tutto.
Hadleigh si passò una mano fra i capelli.
- Come avete fatto ad arrivare qui?
- Questa volta ha veramente passato il segno, ispettore!- sbraitò Crawford, parlandogli sopra.- Si rende conto di che cosa ha fatto?! Come le è venuto in mente di...
Hadleigh si voltò verso di lui.
- Non le ho portate qui io, signore. Non so come ci siano arrivate, ma...
- Era una sua responsabilità!- Crawford gli puntò il dito contro.- Mi aveva assicurato che non si sarebbe mai più verificato un fatto del genere! Ricorda cosa è successo l'ultima volta, solo per una sua negligenza?!
- Le ho detto che...
- Che cos'è questo posto?- chiese Anya.
Gli unici occhi che non si posarono su di lei furono quelli degli inservienti, i quali continuarono ad affaccendarsi intorno senza neppure alzare il capo. Hadleigh sospirò.
- E' il Regno delle Favole - ammise in un soffio.
- E' impazzito?!- urlò Crawford.
- Ormai sono qui, è giusto che sappiano...
- Decido io che cosa è giusto e cosa no. Devo ricordarle la sua posizione?- il procuratore si avvicinò alle ragazze. Prese Elizabeth per un gomito e la spinse lievemente verso sua sorella, poco più indietro.- Le signorine hanno visto anche troppo. Non tollererò ulteriori intromissioni da parte sua o delle sue figlie nella faccenda, ispettore. Ora, voi due...- Crawford si rivolse più alla maggiore delle due sorelle.- Siete arrivate qui attraverso la porta?
Ci volle qualche secondo prima che una delle due osasse aprire bocca.
- La porta dietro la centrale?- boccheggiò Elizabeth.
- Chi vi ha indirizzate lì?- incalzò Crawford, sempre rivolgendosi ad Anya.- L'ispettore Hadleigh vi ha parlato di quel luogo, o di quest'altro? O avete parlato con qualcun altro?
- Procuratore, loro non sapevano niente...- Hadleigh tentò d'intromettersi.
- Lei tenga la bocca chiusa! Allora?
- Nessuno ci ha detto niente - gracchiò Anya alla fine; cacciò una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori il distintivo.- Volevamo riportarti questo - guardò suo padre, uno sguardo a metà fra l'incredulo e lo schifato, il deluso più profondo.- Dove siamo?- chiese ancora.
- Questo non vi riguarda!- Crawford le strappò il distintivo di mano.
- Come fa a dire che non le riguarda?- Hadleigh li raggiunse.- Sono qui, sanno tutto...
- Cosa? Cosa c'è da sapere?
- A questo provvederemo una volta che saremo tutti tornati a NY. A cominciare da voi due!
Prese Elizabeth per un braccio e la spinse verso sua sorella; entrambe le ragazze protestarono per quel gesto, ma Crawford scrollò le spalle.
- Signorina, non potete stare qui - disse, rivolgendosi ad Anya.- Sarà mio dovere fornirvi tutte le spiegazioni del caso, ma non ora e non qui. La prego, torni indietro con sua sorella...provvederò io stesso a contattarvi una volta che tutto si sarà sistemato.
- Indietro? Più che volentieri, se solo sapessi come siamo arrivate qui - Anya sputò fuori quella rispostaccia maleducata come un serpente sputa del veleno. Elizabeth era rimasta imbambolata per un attimo a fissare la casupola molto simile a un cottage e la chiazza di liquido nero che si allargava sull'erba, ma si impose di riscuotersi.
- Esistono sette Porte che collegano questo luogo con New York - Crawford continuava a rivolgersi ad Anya, ma sembrava essere più calmo rispetto a prima.- Voi ne avete utilizzata una. Ora si è chiusa, e ci vorrà del tempo prima che si riapra di nuovo. Andate a destra, fra meno di cinquecento metri troverete un albero sul cui tronco sono incisi dei cerchi concentrici. Si tratta di una Porta. Dovrete solo toccare al centro dell'ultimo cerchio ed essa si aprirà, la magia penserà a tutto il resto...
- Magia?- fece eco Elizabeth, guadagnandosi uno shhht! da parte di sua sorella e un'occhiata di traverso dal procuratore. Vide che Hadleigh si fissava le scarpe.
- Tornerete a New York in meno di un minuto. Ogni volta che una Porta si attiva senza la mia autorizzazione vengono avvisati degli inservienti del Dipartimento; ne troverete uno o più ad attendervi. Non è permesso loro rivolgervi la parola, ma seguiteli e fate tutto ciò che vi indicheranno di fare.
- Ci riporteranno a casa?
- No. Dovrete rimanere alla centrale di polizia fino a che non sarò riuscito a liberarmi, ma si tratterà al massimo di qualche ora.
Anya rimase in silenzio, concedendosi un attimo per riflettere. Non ci stava capendo nulla, ma Crawford sembrava sapere il fatto suo. E lei voleva andarsene da quel posto, ovunque fossero.
Annuì, girò i tacchi e fece cenno a sua sorella di seguirla. Elizabeth agitò stupidamente una mano in segno di saluto – non sapeva bene chi stesse salutando, se suo padre o il procuratore – e corse nella direzione indicata da Crawford, cercando di stare dietro al passo spedito di Anya.
Hadleigh fece per seguirle, ma Crawford lo trattenne per la giacca, come se fosse stato un adolescente ribelle da rimettere in riga.
- Lei non va da nessuna parte, ispettore...
- Voglio solo accompagnarle...- cercò di liberarsi dalla presa.
- Riceverà un'ammonizione per questo!- ringhiò il procuratore.- Che cosa le è saltato in mente, si può sapere? Ha idea di quel che ha combinato? Non le è bastato quello che è successo l'ultima volta?
Jones mosse timidamente un passo in avanti.
- Signor procuratore...se vuole posso accompagnarle io. Rick ha ragione, è il caso che qualcuno vada con loro, giusto per assicurarsi che...
- Tu non t'immischiare!
A parlare era stato Hadleigh stesso, non Crawford. Jones tacque e non disse più nulla.
L'ispettore scoccò a Crawford un'occhiata rabbiosa, e si divincolò con furia.
- Certo che m'è bastato!- gli urlò in faccia.- Non me lo sono mai perdonato, e lei lo sa meglio di chiunque altro. Non ho idea di come diavolo abbiano fatto le mie figlie ad arrivare qui, ma di certo non ce le ho portate io!
Crawford non profferì parola.
Hadleigh inspirò a fondo, quindi si voltò a guardare il muro di alberi oltre il quale le due ragazze erano già scomparse.
- Ho pregato che non succedesse di nuovo. Spero solo che vada tutto bene...
 
***
 
LA SALA DEL TRONO era tanto ampia quanto cupa. Il pavimento era di marmo scuro e lucido, e le alte colonne che costeggiavano le pareti recavano scolpite statue di scheletri con le bocche spalancate in urla mute, le cui sagome erano rese ancora più tetre dalla flebile luce delle candele accese. Il Primo Ministro sospettava che non si trattasse solo di statue. Nei sotterranei del castello si udivano troppe urla perché lo fossero.
Le finestre che si alzavano dal pavimento fino al soffitto erano oscurate da tendaggi color porpora, mentre in fondo alla sala il trono reale sorgeva in cima a una scalinata.
La Regina Cattiva, il cui abito rosso sangue spiccava in mezzo a tutta quell'oscurità, osservò compiaciuta le due guardie in armatura ed elmo nero ritte sull'attenti di fronte alla porta d'ingresso, i cui battenti presentavano rilievi di teschi esattamente come i braccioli del trono. Il palazzo reale era molto cambiato da quando aveva spodestato Biancaneve. Prima era un castello luminoso e allegro, pieno di vita; ora, invece, era più consono ai suoi gusti.
Guardò il Primo Ministro, in piedi in fondo alla scalinata: era un uomo sui trent'anni, con i capelli castani e gli occhi di un azzurro cupo, come il cielo invernale. Era vestito completamente di nero, dagli stivali, alla divisa e al mantello. Sembrava assorto nei suoi pensieri, ma era certa che non riguardassero l'uomo che attendeva dietro la porta; o, se lo riguardavano, non c'era traccia di rimorso in essi.
- Primo Ministro - la voce della Regina Cattiva riecheggiò sulle pareti.
Il giovane si voltò immediatamente nel sentirsi chiamare.
- Potete farlo entrare...
Il Primo Ministro fece un cenno alle due guardie. Immediatamente, quelle sciolsero i catenacci che tenevano chiusi i battenti e li spalancarono. Nella stanza entrarono altre tre guardie, trascinando un uomo incatenato. Il Primo Ministro lo squadrò: la figura del prigioniero era massiccia, ed era alto quasi quanto lui, sebbene il tenere le ginocchia piegate e le spalle ricurve non rendeva noto questo dettaglio; aveva all'incirca quarant'anni, il volto ricoperto da una barba leggera e segnato da diversi graffi ancora freschi. La casacca marrone che indossava era strappata in più punti e chiazzata di terra e sangue. Le mani erano grandi e ruvide e il volto abbronzato. Il Primo Ministro ricordava che, quando era stato portato nei sotterranei del castello, le guardie avevano compreso subito che doveva certamente trattarsi di un uomo abituato a stare all'aperto, probabilmente un contadino...o un cacciatore.
La Regina puntò i propri occhi verdi in quelli castani del prigioniero; sorrise quando notò che erano arrossati dal pianto.
- Mi congratulo con te, Cacciatore - la Regina si accarezzò i lunghi capelli corvini, così lunghi che le oltrepassavano le reni.- Hai portato a termine egregiamente il tuo compito.
- Strega!- urlò il Cacciatore, di nuovo prossimo alle lacrime; scattò in avanti, tentando di liberarsi dalle catene. Il Primo Ministro distolse lo sguardo.- Voi...voi siete una strega maledetta...!
- Suvvia, non esageriamo. Sai bene che non è così. Non sono stata io a uccidere Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Il Cacciatore guardò il pavimento; pochi istanti dopo, cominciò a singhiozzare.
- Io non volevo...- soffiò fra le lacrime.- Non volevo ucciderle...non volevo ucciderle...io le conoscevo...volevo bene a quella bambina...- digrignò i denti, e piantò sulla Regina Cattiva uno sguardo di puro furore.- E' colpa vostra!- ringhiò.- E' colpa vostra se sono morte! E' colpa vostra se sono diventato un mostro!
La Regina cattiva ghignò, soddisfatta. Il Primo Ministro non lasciò trasparire alcuna emozione.
- Asciuga le tue lacrime, Cacciatore. Il tuo compito non è ancora terminato. Si alzò in piedi e scese le scale, fino a inginocchiarsi di fronte al prigioniero. Gli prese il mento con una mano e lo costrinse a guardarla negli occhi.
- Cappuccetto Rosso e la nonna erano solo le prime - sibilò.- Altri moriranno, molte di più saranno le vittime. Il lieto fine sparirà da questo mondo, l'Oscurità prenderà il sopravvento. E i Grimm risorgeranno!
La Regina Cattiva guardò in direzione delle finestre: attraverso le tende accostate s'intravedeva uno spicchio di cielo scuro. Le nuvole che lo oscuravano si diradarono lentamente, scoprendo una luminosa luna piena.
 
Elizabeth stava facendo una fatica d'Inferno a stare dietro ad Anya, che continuava ad avanzare a passo di marcia nella foresta, apparentemente incurante delle radici e delle pietre che accompagnavano il loro cammino sia di lei. Elizabeth quasi non riusciva a muovere un passo senza incespicare in sassi appuntiti o senza che l'orlo dei jeans le si impigliasse in radici che spuntavano dal terreno o in rovi sporgenti. A un certo punto sentì qualcosa pungerle la caviglia, e dovette fermarsi per rimuovere le spine dalla stoffa. Si guardò intorno: le fronde degli alberi torreggiavano sopra le loro teste come se volessero inghiottirle. Elizabeth aveva come l'impressione che l'atmosfera fosse cambiata rispetto a prima. Non solo non erano più a New York – a prescindere da quel che avevano detto papà e Crawford, certamente non erano più a casa, e forse nemmeno vicine –, ma l'erba non era più verde e brillante come prima, non c'erano fiori, ma solo erbacce rinsecchite e piante rampicanti, e gli alberi avevano tronchi così nodosi da sembrare facce demoniache.
Non c'era traccia dell'albero indicato da Crawford.
Si rialzò in fretta. Anya non l'aveva aspettata, e adesso era a diversi metri di distanza da lei.
Si affrettò a raggiungerla. Sua sorella pareva furiosa.
- Anya!- la chiamò.- Anya, aspetta!
- Muoviti!
- Come fai a vedere l'albero che Crawford ha detto di trovare, se vai così veloce?- annaspò Elizabeth, avvertendo una goccia di sudore scenderle dalla tempia lungo la guancia. Non riusciva mai a camminare molto in fretta, e correre era ancora più difficoltoso.
Anya non rispose, ma Elizabeth la sentì comunque borbottare fra i denti.
- Regno delle Favole...Dipartimento...stronzate, solo stronzate...
- Perché dici che sono stronzate?- Elizabeth dovette gridare per il timore che non la sentisse.
- Oh, andiamo Liz, non dirmi che hai creduto a quella sequela di merdate...
- Perché papà dovrebbe mentire, scusa? Se proprio doveva raccontare una bugia, allora poteva inventarne una decente - la sua mente aveva ripreso a funzionare a tutta velocità; in cuor suo era ancora scettica per quel che Richard e il procuratore avevano raccontato, ma cercava di usare la logica: erano arrivate in un posto sconosciuto passando attraverso un muro, quel che era certo era che erano lontane da New York e che lo stesso Crawford aveva dato loro delle spiegazioni.
Non conosceva il procuratore di persona, ma si trattava di un uomo di legge. Se anche Richard avesse voluto raccontare una balla, lui l'avrebbe certo sbugiardato.
- Oppure voleva coprire qualcos'altro - bofonchiò Anya.- Qualcosa di più importante che noi non dovevamo scoprire, e ha pensato di prenderci per due sceme.
- Non ha senso, e te ne accorgi anche tu. Forse papà ha detto la verità...- l'idea di essere finita nel Regno delle Favole per un attimo che fece correre un brivido di eccitazione lungo la schiena e le braccia.- Hai visto quella ragazzina morta? Hai visto la sua mantella?
- Liz, stammi bene a sentire: io non credo nelle favole e non ho intenzione di farmi incantare dalle cazzate di papà - ringhiò Anya.- E ora andiamo, voglio tornare a casa...
- Ma...
- Troviamo quell'accidenti di albero e chiudiamola qui. Una volta a casa potremo ragionare con calma...
- Ti accorgi che ti stai contraddicendo?!- Elizabeth accelerò il passo.- Dici che non credi a papà però credi a Crawford quando dice che...
Non terminò, perché inciampò all'improvviso in qualcosa che sporgeva dal terreno, forse una radice o una pietra; cadde a terra in avanti. Gli occhiali le volarono via dal naso.
Elizabeth udì un rumore che non le piacque per niente, il rumore di un vetro che si rompeva.
Tutto intorno a lei divenne nebbia.
Anya le corse incontro e la prese per un braccio per aiutarla a rialzarsi.
- Ti sei fatta male?- chiese.
Elizabeth mugolò. Non vedeva niente, ma sentiva i palmi delle mani bruciare, probabilmente doveva essersi graffiata, pensò. Quello che le premeva di più, in ogni caso, era recuperare un minimo di vista.
- Gli occhiali...- biascicò.
Anya iniziò a guardare freneticamente intorno alla ricerca degli occhiali della sorella, fino a che non li scorse poco distanti da loro. Li raccolse: la montatura era storta e ammaccata, una lente non c'era più e l'altra presentava una grossa crepa.
- Oh, Dio...- mormorò Anya; se li rigirò fra le dita.- Liz, resta dove sei, non ti muovere, provo a cercare l'altra lente...forse riesco ad aggiustarli almeno parzialmente...
Elizabeth non l'ascoltò, e si rimise in piedi a tentoni. Mise le mani avanti, cercando di orientarsi nella nebbia.
- Non vedo niente...- soffiò.
Anya si avvicinò a lei e le prese per mano.
- Senti, ti guido io fino a che non troviamo quell'albero...
Nel momento in cui sua sorella le strinse le dita intorno alla mano, la vista iniziò inspiegabilmente e lentamente a farsi meno confusa, divenne più chiara e nitida, fino a che Elizabeth non riuscì di nuovo a mettere a fuoco ogni cosa che le stava davanti, come se avesse gli occhiali.
Vide Anya che la fissava con aria stranita, distinse gli alberi della foresta e le proprie dita intrecciate a quelle della sorella. Boccheggiò: era incredibile, sua sorelle aveva in mano gli occhiali rotti, eppure lei vedeva lo stesso! Vedeva ogni cosa...non era stata in grado di vedere senza gli occhiali da quando aveva quattro anni.
- Liz...- chiamò Anya.- Liz, stai bene?
- Anya...
- Cos'hai? Ti sei fatta male?
- Anya, io ci vedo - disse Elizabeth.- Riesco a vedere senza occhiali.
- Che...?
- Ho detto che ci vedo.
- Ma come...
- Non lo so, ma ci vedo!- ripeté Elizabeth.- Te lo giuro, vedo tutto quanto come se avessi gli occhiali.
Anya le lasciò la mano.
- Ma...ma non è possibile...Liz, non sei mai riuscita a vedere senza...
Non riusciva a capacitarsi. Guardò ora gli occhiali ora sua sorella, esterrefatta. Non ricordava di aver mai visto Elizabeth senza occhiali, oppure era successo quando entrambe erano piccolissime. Senza quelli, era impossibile che vedesse!
Si guardarono negli occhi.
- Ammettilo...- mormorò alla fine Elizabeth.- Qui sta succedendo qualcosa...
L'altra aprì la bocca come se volesse replicare, ma non disse nulla.
Le fronde degli alberi parvero diradarsi, e la splendente luce di una luna piena si riverberò su di loro.
A una distanza di diversi chilometri da loro, nel buio della foresta, due occhi si aprirono e scoprirono delle penentranti iridi gialle.
 
La luna piena riluceva nel cielo.
Le finestre della sala del trono lasciavano intravedere il plenilunio come se quell'evento naturale fosse stato la scena madre di una rappresentazione teatrale.
La Regina Cattiva sorrise.
Accanto a lei, il Primo Ministro seguì il suo sguardo, ma nei suoi occhi non c'era alcuna traccia di compiacimento.
 
Anya guardò il cielo.
- Non mi ero accorta che fosse buio.
- Beh, erano quasi le otto quando abbiamo lasciato New York...
- Dai, cerchiamo questo cavolo di albero e torniamocene a casa. Domani mattina devo andare al lavoro presto...
Anya si girò e riprese a camminare nella direzione indicata da Crawford. Elizabeth rimase ferma ancora per un istante, ma poi si unì a lei. Da sempre, il carattere deciso e indipendente di sua sorella aveva il potere di tranquillizzarla e di farla sentire al sicuro, e più di una volta Elizabeth aveva preferito ignorare il proprio istinto per affidarsi ad Anya e al suo senso pratico. Ma in quel momento, Elizabeth si sentiva tutt'altro che tranquilla. Sua sorella rimaneva ancorata al suo scetticismo, ma era evidente che qualcosa non andasse: se anche l'intera faccenda del Regno delle Favole fosse stata una frottola, loro avevano visto cosa era successo al cadavere di quella ragazzina.
Si era sciolto, come se fosse stato gettato in una vasca di acido, e ne era rimasta solo la mantella che la povera vittima indossava.
Una mantella rossa con il cappuccio.
E lei ci vedeva. Erano dieci anni che portava quegli stramaledetti occhiali, e solo quella mattina quando era stata pestata da Ursula e li aveva persi, aveva brancolato nella nebbia per minuti interi per ritrovarli.
Non era normale che avesse ricominciato a vedere perfettamente nel giro di trenta secondi.
Elizabeth cercò di abituarsi a quella nuova sensazione. Alzò lo sguardo verso il cielo: era limpido e senza traccia di nuvola, e intorno alla luna piena si allargavano miliardi di stelle.
Sorrise istintivamente.
Anya continuava a camminare apparentemente sicura di dove si stessero dirigendo, ma presto fu chiaro a entrambe che stavano girando in tondo. La maggiore rallentò un po' il passo, cercando di orientarsi.
- Dove siamo?- chiese Elizabeth; la voce le uscì stranamente acuta.
- Crawford ci aveva detto di andare per di qua.
Anya fece saettare lo sguardo tutt'intorno, ma gli alberi le parvero tutti uguali. Che doveva fare adesso? Liz stava aspettando che le dicesse qualcosa, ma lei non aveva idea di cosa fare. Forse Crawford si era sbagliato, pensò; o forse aveva solo fatto male i calcoli e l'albero con i centri concentrici era più avanti. Probabilmente avrebbero dovuto proseguire, ma si stava facendo sempre più buio, e nel punto del bosco dove si trovavano la luce della luna faticava a raggiungerle.
- Proseguiamo ancora un po' - disse alla fine.- Può darsi che non siamo poi molto lontane...
- Oh, guarda!- Elizabeth la tirò per una manica del cappotto, e le diede talmente fastidio che si dovette trattenere dal darle dell'oca. Anya si voltò: sua sorella indicava un bagliore in lontananza, alla loro sinsitra, molto fioco ma non abbastanza da non riuscire a valicare l'intricata vegetazione che le separava da esso.
- Forse c'è qualcuno, potremmo chiedere indicazioni...
Anya ci pensò un po' su: erano nel mezzo di un bosco, da sole, al buio e senza niente per difendersi. In quelle condizioni un aiuto avrebbe fatto comodo, ma incontrare uno sconosciuto sarebbe stato rischioso.
Elizabeth stava per incamminarsi verso la luce, ma lei la bloccò per un braccio.
- Ma che fai?- le ringhiò praticamente in faccia.- Ti pare che sia così semplice? Tu vedi una luce e che fai? Le vai subito incontro...
Elizabeth sbuffò.
- E che altro proponi di fare? Non voglio continuare a brancolare alla cieca.
- Non stiamo...
- Oh, ammettilo che ci siamo perse!
- Non è un buon motivo per correre rischi inutili.
- Ma non sappiamo se c'è effettivamente un rischio. Potremmo almeno provare.
Un forte fruscio di foglie impedì ad Anya di replicare.
- Shhht...- soffiò invece, mettendosi in ascolto.
Per i successivi secondi non accadde nulla. Il fruscio non si ripeté. Il bosco mandava solo qualche suono, il canto di qualche uccello e il sibilo di una lieve brezza fra le fronde degli alberi.
Elizabeth si rilassò. Provò a riprendere la discussione, ma subito il rumore secco di un ramo spezzato la ridusse al silenzio. Le ragazze si volsero all'unisono in direzione di quell'ultimo suono: la foresta alle loro spalle appariva più buia e intricata di quando l'avevano attraversata. Il frusciò si ripeté, più forte di prima. E più vicino.
A Elizabeth sembrò di vedere un'ombra muoversi a un centinaio di metri da loro.
Un attimo dopo, udirono un ringhio canino.
Elizabeth si sentì salire il sangue alle tempie, e tirò di nuovo sua sorella per una manica del cappotto.
- Andiamo via!- sibilò, cercando di tirarla verso il bagliore.
- Ma che cos'è?- Anya si sentiva le gambe pesanti come il piombo, e aveva cominciato a sudare freddo. Avrebbe voluto indietreggiare ma gli arti si rifiutavano di rispondere ai suoi comandi.
- Non lo so, ma andiamo via...!- Elizabeth riuscì a tirarla indietro di qualche passo.
Il ringhio si ripeté, e subito dopo ne seguì un guaito.
- Sembra un cane...- mormorò Anya.
- O un lupo.
- Non ci sono lupi a New York...
- Non siamo più a New York, non lo hai ancora capito?!
Un altro ringhio, stavolta più vicino. Elizabeth sentì che non ce l'avrebbe fatta a rimanere lì un secondo di più. Aumentò la presa alla manica di sua sorella e le tirò il braccio, costringendola a muoversi.
Anya lanciò un grido di protesta.
- Ma che cosa fai?!
Elizabeth la trascinò giù lungo un pendio non troppo ripido, ma invaso da sassi e sterpi. Gli alberi su di esso erano molto più radi, e ai suoi piedi cominciava una piccola radura.
- Cerco di evitare che quel lupo ti faccia lo scalpo!- non poteva dire con certezza se si trattasse di un lupo, probabilmente aveva ragione Anya e si trattava solo di un cane randagio, ma preferiva non metterci la mano sul fuoco.
- Ma qui non ci sono...
Elizabeth l'ignorò, continuando a scendere il pendio nella direzione del bagliore. A poco a poco, esso si fece più nitido, e le ragazze videro da dove proveniva: una luce brillava oltre i vetri di una finestra, l'unica illuminata di una casette che sorgeva in fondo alla radura.
Anya pensò che quella era la casa più strana che avesse mai visto: assomigliava a un cottage di montagna, con le pareti di legno non verniciato e il tetto di paglia, ma a un esame più attento risultava molto piccola. L'intera struttura sorgeva su due piani, ma era alta sì e no tre metri, e le finestre avevano il diametro di una scatola per scarpe. La porta arrivava all'altezza delle loro spalle.
Elizabeth cominciò a bussarvi contro con furia, senza smettere di guardare in direzione degli alberi.
- Liz...
Sua sorella era in preda al panico; Anya la vide avventarsi sul pomello e tirare fino a spalancare la porta. Un ululato squarciò l'aria.
- Entra!
Anya venne spinta con forza all'interno della casa senza avere il tempo di opporsi, e mancò per un pelo di sbattere la testa contro la traversa. Sua sorella la seguì a ruota.
Entrambe erano state costrette a chinarsi per entrare.
Elizabeth sbarrò in fretta la porta e vi si appoggiò contro.
Chiuse gli occhi. Il cuore le batteva in modo veloce e irregolare, e si sentiva percorsa da scariche di adrenalina che le stavano facendo tremare le gambe. Aveva avuto una crisi isterica e se ne rendeva conto, ma sentiva di dover mettere in salvo se stessa e sua sorella. Sentiva che quello là fuori non era un cane randagio, l'aveva saputo sin dal primo istante.
E non era semplice paura quella da cui si era fatta prendere. Era autentico terrore. Era l'inspiegabile e inquietante sensazione che si ha da bambini quando si è soli, a letto e al buio, quel presentimento irrazionale che ti fa credere che sotto le coperte un mostro stia per afferrarti le caviglie, che un fantasma stia per sbucare dall'armadio o che un uomo mascherato e con in mano un coltello si nasconda dietro la porta, che ti induce a pensare che qualcosa di orribile stia per accadere da un momento all'altro.
Aveva provato la medesima sensazione a quattro anni, quel giorno in cui la mamma aveva spalancato la porta della camera da letto, aveva stretto Anya per un braccio e...
Scosse il capo con vigore, e riaprì gli occhi. Non voleva pensare a quel che era successo quel giorno, il giorno più brutto, e comunque con ogno probabilità sarebbe stato inutile. I suoi ricordi erano troppo vaghi e sfuocati. E poi, avevano ben altri problemi al momento.
Notò con la coda dell’occhio che appeso al muro c’era un catenaccio di ferro. Lo afferrò velocemente e lo agganciò al lucchetto, sentendosi infinitamente più al sicuro. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere in una casa sconosciuta.
Osservò l'ambiente: erano entrate in quella che aveva tutta l'aria di essere una cucina, una cucina come quelle che se ne vedevano nei film ambientati nel Medioevo: non c'erano fornelli, lavapiatti o elettrodomestici moderni, solo un circolo di pietre in un angolo all'interno del quale c'erano delle braci sulle quali era posto un pentolone nero.
Elizabeth storse il naso quando venne colpita dalla zaffata di cattivo odore proveniente da esso: qualsiasi cosa stesse bollendo in pentola, doveva essere bruciata da tempo.
Al centro della stanza c'era una lunga tavolata, apparecchiata di tutto punto, e una serie di sgabelli e seggiole della dimensione dei sedili di plastica per bambini che si vedevano nelle aree giochi dei centri commerciali: le loro dimensioni erano notevolmente ridotte rispetto allo standard, come se fossero state fabbricate davvero per dei bambini.
Il resto della stanza era tutto sommato spoglio, gli unici altri oggetti di arredamento erano una credenza e un acquaio posti al lato opposto delle braci.
- Si può sapere che cosa ti è preso?- ringhiò Anya; Elizabeth si chiese se si fosse resa conto di dove si trovavano.- Sembravi un'isterica! Ma che accidenti avevi? Quello poteva benissimo essere un cane randagio, e comunque non possiamo stare qui! Non sappiamo di chi è questa casa, siamo entrate senza permesso, se ci beccano una denuncia per violazione di domicilio non ce la leva nessuno...
- Hai visto quelle sedie?
- Eh?
- Le hai contate?
Anya fece un lungo sospiro. Guardò le sedie.
- E allora?
C'erano sette sedie di piccole dimensioni, più uno sgabello posto a capotavola. Elizabeth pensò di essersi lasciata sfuggire un'espressione strana, perché fu come se Anya le avesse letto sulla faccia ciò che le stava passando per la mente.
- Se solo provi a dirlo, parola mia che...
Si udì un tonfo sordo, subito seguito da un altro. Le due ragazze alzarono lo sguardo al cielo: proveniva dal piano di sopra.
- Che cos'è?- articolò Anya.
- Vado a vedere.
Elizabeth la superò, ma venne prontamente bloccata per un gomito.
- Ma cosa vai a vedere?! Liz, non dovremmo neanche essere qui, non sappiamo chi...
Elizabeth sbuffò e si liberò malamente dalla presa della sorella; si diresse su per le scale a passo spedito. La paura non era ancora svanita, ma si sentiva leggermente più tranquilla e quasi di buon umore. Se davvero si trovavano nel mondo delle favole, pensò – per quanto tutto ciò le suonasse ancora folle –, allora quella casa doveva essere abitata da chi supponeva.
E se era abitata da chi supponeva, cosa c'era da temere?
Sogghignò fra sé quando udì il rumore degli stivaletti di Anya che seguivano quello delle sue scarpe da tennis su per i gradini.
- Sto cominciando a preoccuparmi per la tua sanità mentale, sai?
Elizabeth la ignorò e proseguì fino alla cima della scala, ritrovandosi di fronte a una porta senza battente, anch'essa così bassa che fu costretta a chinarsi per entrare. Fortunatamente il soffitto nella stanza era abbastanza alto da non costringerla a camminare come una gobba.
La stanza aveva tutta l'aria di essere una camerata, un dormitorio, ed era lunga e stretta; la parete alla sinistra di Elizabeth era interamente occupata da sette letti apparentemente costruiti per dei bambini, tutti con le coperte lisce e in ordine, disposti uno accanto all'altro.
Un paio di finestre a forma di oblò sulla parete a destra completavano il quadro. Non c'era altro mobilio.
Anya arrancò all'interno della stanza proprio nel momento in cui lo stesso tonfo di poco prima si ripeté, proveniente dal fondo della camerata. Seguirono un gemito e dei singhiozzi soffocati.
- C'è qualcuno qui...- sillabò Elizabeth.
Anya sembrò riscuotersi. Sorpassò sua sorella seguendo il suono dei singhiozzi, che adesso si erano fatti continuati, più chiari e insistenti. Le due ragazze avanzarono lungo lo stanzone, ispezionando dietro ai letti alla ricerca della fonte di quel suono.
Quando giunsero alla parete opposta alla porta, Anya si sporse a guardare oltre l'ultimo letto, e per poco non cacciò un urlo.
In un angolo, raggomitolato su se stesso, c'era un fagotto di stracci da cui spuntavano due piedi nudi dalle dita bluastre per il freddo. Il fagotto gemette e si mosse, scoprendo un visino infantile seminascosto da una folta chioma di capelli neri e unticci, sui quali era stato sistemato un fiocco rosso un po' sbilenco.
Elizabeth si aggrappò a una spalla di Anya e si sollevò sulle punte per vedere oltre di essa: quella che stava loro di fronte era una ragazza che doveva avere all'incirca sedici o diciassette anni. Per certi versi, somigliava molto ad Anya, ma oltre a essere chiaramente più giovane era anche molto, molto più bella. La chioma corvina incorniciava un visetto ovale e dai tratti di bambina, pallido come la neve ma con le guance spruzzate di un gradevole colorito roseo; gli occhi erano grandi e con le iridi nere e le labbra rosse come il sangue. Portava un abito liso e stracciato, e le mani erano imprigionate dietro la schiena da una corda e le caviglie erano legate.
- Biancaneve...?- mormorò Elizabeth, d'istinto.
- Santo Dio, Liz!- Anya le diede uno spintone perché si facesse indietro e s'inginocchiò accanto alla ragazza prendendo ad armeggiare con le corde.- Aspetta, ora ti aiuto...- la guardò.- Che ti è successo? Chi ti ha fatto questo?
Per tutta risposta, la ragazza iniziò a singhiozzare più forte.
Anya sciolse i nodi che le tenevano legate le mani e si dedicò alle caviglie.
- Su, su...!- borbottò.- Chi è stato?- ripeté.
- Come ti chiami?- chiese Elizabeth.
La ragazza si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
- Io...- pigolò; aveva una voce acuta, ma molto debole.- Io mi chiamo Biancaneve...
Anya smise di botto di sciogliere i nodi per guardarla.
Biancaneve proseguì da sé il lavoro. Le corde dovevano già essere state allentate parecchio, perché si liberò le caviglie senza difficoltà, quindi si alzò dal pavimento.
- Grazie...- rivolse loro un sorriso smagliante che quasi raggiungeva i lobi delle orecchie.
- Chi ti ha fatto questo?- chiese Elizabeth.
- Loro...i nanetti...- cinguettò Biancaneve, con la voce incrinata.- Erano così strani, negli ultimi tempi...e poi, una settimana fa...- scoppiò di nuovo in lacrime.
Elizabeth le sorrise cercando di sembrare rassicurante, e le poggiò una mano sulla spalla. Biancaneve smise di colpo di piangere, e ruotò il capo fino a puntare lo sguardo su quelle cinque dita.
Anya stava guardando entrambe con la bocca semiaperta e l'espressione esterrefatta.
Biancaneve avanzò di qualche passo fino a raggiungere Elizabeth, e insieme si diressero verso l'uscita della camera.
- Cos'è successo? Dicci tutto...- la incoraggiò mentre scendevano le scale.
Anya le arrivò alle spalle e la tirò indietro per il cappuccio della felpa.
- Senti, falla finita con questa storia...!- sibilò.
- Ma falla finita tu!- la rimbrottò Elizabeth.- Anya, questa è Biancaneve!- aggiunse sottovoce, senza curarsi di celare l'eccitazione.
Anya l'avrebbe presa a schiaffi.
Se questa è Biancaneve, io allora posso anche essere Cenerentola, si disse, nella speranza di nascondere a se stessa il fatto che stesse vacillando. In cuor suo, sentiva che tutto quello che era successo non poteva avere una spiegazione razionale, ma il suo cervello insisteva che a tutto c'era una causa e questa causa non era mai da imputare a magie o roba da film fantasy.
Lei questo l'aveva capito da un pezzo, ma avrebbe voluto che lo capisse anche Elizabeth, la quale invece pareva convinta che quella povera ragazza fosse Biancaneve. Non che la povera ragazza in questione si stesse dannando per dimostrare il contrario...!
Anya pensò che dovesse avere qualcosa che non andava. Una specie di disturbo post traumatico che la faceva delirare. Quella sarebbe stata una spiegazione logica al perché continuava a professarsi come la protagonista della fiaba omonima.
- Beh, non lo so con esattezza...- miagolò Biancaneve – no, non Biancaneve!, quella sconosciuta che avevano liberato.- Sono sempre stati così gentili con me...sapete, io sono fuggita dalla Regina Cattiva, e poi ho trovato questa casetta...
- Okay - Anya incrociò le braccia al petto.- Va bene, papà, ci siamo cascate!- gridò rivolta al soffitto.- Bravi tutti, bello scherzo, ora però facciamola finita...
Elizabeth provò a protestare, ma lei non la lasciò finire.
- Ma dai, non ti accorgi che questa è una storiella scritta al copione e imparata a memoria?!
Biancaneve era arrivata al piano inferiore e si era fermata a guardarle, impassibile.
Elizabeth si sarebbe aspettata che rispondesse ad Anya, oppure se sua sorella aveva ragione che suo padre e gli altri artefici di quel presunto scherzo venissero allo scoperto, ma non accadde nessuna delle due cose.
Biancaneve fissò un punto indefinito di fronte a sé, quindi fece un breve scatto di lato con il collo. Lo ripeté altre due volte. Era come una specie di tic nervoso.
Anya ammutolì di colpo e insieme a Elizabeth scesero lentamente i gradini fino a raggiungere Biancaneve.
Questa ridacchiò.
- Con queste seggioline...e quei lettini...- fece un altro scatto con il collo.
- Non credo che sia uno scherzo, Anya...- boccheggiò Elizabeth.
- Okay...- Anya mosse un paio di passi in avanti.- Ascolta, Biancaneve...- esordì con cautela.- C'è un telefono da queste parti?
- Un...che cosa?- di nuovo quel tic. A Elizabeth sembrò che ci fosse una strana luce negli occhi neri di Biancaneve, qualcosa che prima non c'era, o non aveva notato.
- Lasciamo perdere...- Anya si scostò una ciocca di capelli dalla fronte. Aveva abbandonato l'ipotesi dello scherzo di cattivo gusto, ma non quella che quella ragazza avesse dei problemi mentali, avvalorata anche da quel tic nervoso. Si pentì amaramente di non essere stata più attenta durante le lezioni di psicologia al liceo, quando il prof spiegava come comportarsi quando si aveva a che fare con un malato mentale in una situazione potenzialmente rischiosa.- C'è un posto dove ti possiamo accompagnare? Un ospedale, qui vicino...? Hai dei parenti?- fosse dipeso da lei, avrebbe sollevato di peso sua sorella e, sperando di non crollare, avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata subito. Ma quella ragazza aveva degli evidenti disturbi, e il fatto che l'avessero trovata legata non era altro che un incentivo a fare il proprio dovere di essere umano e aiutarla.
Biancaneve non le badò; con quel tic nervoso che adesso presentava a intervalli regolari, iniziò a esplorare l'ambiente circostante con lo sguardo, come se fosse la prima volta che vedeva quella casa. Esitò un attimo, poi si diresse verso il pentolone con una lentezza esagerata, innaturale.
Anya fece cenno a Elizabeth di venirle più vicino, e sua sorella si affrettò a ubbidirle. Pur senza guardarla, si rese conto che aveva paura.
Era notte, fuori, e la luna piena faceva sì che le ombre degli alberi si allungassero fino a penetrare oltre i vetri ed entrare nella casupola; queste, unite al bagliore delle braci sotto al pentolone, davano alla cucina un'aria cupa e sinistra.
- Sapete, io cucinavo sempre per loro...- mormorò Biancaneve, esaminando i piatti e le posate sulla tavola.- Io cucinavo, lavavo, pulivo...e loro erano così contenti, mi volevano bene!...e io volevo bene a loro...- fece un sorriso, ma un sorriso strano, quasi un ghigno.- E' così bello avere qualcuno che ti vuole bene...è come...come quando ti lavi le mani e le vedi pulite...poi sei così felice!- Biancaneve rise mentre abbassava lo sguardo sul tavolo.
Le pupille di Elizabeth si dilatarono alla vista di un oggetto a cui non aveva fatto caso quando erano entrate: una grossa mannaia la cui lama scintillava alla flebile luce delle braci.
Di nuovo, si sentì invadere da quel senso di terrore irrazionale, ma stavolta sapeva che non era ingiustificato.
Biancaneve si fece seria, quindi afferrò la mannaia e la sollevò di fronte agli occhi.
Elizabeth sentì le unghie di sua sorella conficcarsi nel braccio, e un secondo dopo Anya cominciò a spingerla lentamente verso la porta.
- Non metterti a correre...- sibilò.- Non metterti a correre fino a che non hai aperto la porta. Fai finta di niente e vai...
Elizabeth si sentì improvvisamente debole e indifesa quando Anya le lasciò il braccio. Mosse dei passi lentissimi verso la porta, e in quel momento si pentì di aver chiuso con il catenaccio.
Anya rimase da sola di fronte a Biancaneve.
- Io sono felice...sono felice quando tutto è pulito...- soffiò quest'ultima.- Non si può stare sporchi...mi rende tanto triste vedere lo sporco...- il collo ebbe un altro scatto, e Biancaneve puntò i suoi occhi neri in quelli verdi di Anya.
La ragazza indietreggiò.
Elizabeth dimenticò tutte le raccomandazioni e corse velocemente alla porta, prendendo ad armeggiare con il catenaccio.
- Fammi vedere le mani...- sorrise Biancaneve, rivolta ad Anya.
La ragazza ricambiò con uno sguardo incredulo.
- Fammi. Vedere. Le mani!- strillò Biancaneve con voce stridula.- Sono sporche, vero? Sono sporche, è per questo che non me le vuoi far vedere!
Anya indietreggiò ancora.
- Senti, stai calma...- provò a dire, con l'unico risultato di rendere l'espressione di Biancaneve più feroce.
- Sono sporche! Hai le mani sporche!- urlò, mentre il tic al collo continuava, ossessivo.- Ti avevo detto di lavarle! Se non ti lavi le mani, allora niente cena!
- Ma che...
- Mi dispiace tanto, cara - squittì alla fine.- Ma temo che sarò costretta a metterti in castigo...
Il catenaccio alla porta cadde in quel preciso istante; Biancaneve ringhiò, e scaraventò la mannaia in direzione di Anya.
La ragazza si scansò un attimo prima che la mannaia la colpisse; perse l'equilibrio e finì inginocchiata sul pavimento. Avvertì un forte bruciore alla spalla, e quando guardò vide che era sporca di sangue.
Elizabeth gridò, piantando il dorso contro la porta. Anya cercò di rimettersi in piedi, ma in quel lasso di tempo Biancaneve aveva già afferrato un altro coltello dal tavolo, e in una frazione di secondo le fu addosso. Tentò di affondare il colpo con la lama, ma Anya le bloccò il polso.
Riuscì a mantenere l'equilibrio per miracolo. Afferrò i capelli di Biancaneve e cercò di spingerla via, ma fu la stessa Biancaneve a mandarla a cozzare contro il tavolo con un poderoso spintone, e le fu addosso di nuovo. Il peso di entrambe fu in grado di far ribaltare l'intera tavolata, e le due si ritrovarono di nuovo a terra in mezzo allo sfacelo di piatti e bicchieri frantumati.
Anya strinse gli avambracci di Biancaneve per evitare che le piantasse il coltello nella gola. Con un immane sforzo diede un colpo di reni che ribaltò le posizioni, inchiodando l'avversaria schiena a terra.
- Liz, apri la porta!- gridò, cercando di toglierle il coltello di mano.- Apri la porta, esci da qui!
Elizabeth si girò e inziò a girare furiosamente la chiave nella serratura.
Biancaneve cercò di ribaltare ancora le posizioni, ma Anya le sferrò una ginocchiata nello sterno abbastanza forte da lasciarla senza fiato e indolenzita. Nel frattempo, Elizabeth aveva aperto la porta.
Anya corse verso di lei e la prese per mano.
- Dai, corri!- gracchiò Elizabeth istericamente. Anya non se lo fece ripetere due volte e scappò con lei fuori dalla casa, ma la ferita alla spalla bruciava e i postumi della lotta iniziavano a farsi sentire. Elizabeth strinse la mano di sua sorella come se quello fosse stato l'unico appiglio rimastole per non morire, e si costrinse a dimenticare gli ululati mentre si avventuravano di nuovo fra gli alberi.
Udirono alle loro spalle la risata sguaiata e folle di Biancaneve, che aveva preso a inseguirle.
 
- Dove siete?- guaì.- Venite qui, è l'ora del bagno...!
Anya sentiva le gambe e il torace dolerle, e rallentò il passo. Elizabeth la tirò per il cappotto.
- Corri!- la incitò, ma sua sorella sembrava veramente distrutta.- Su, forza...!
I passi alle loro spalle si stavano avvicinando. Erano nascoste fra gli alberi, in modo che Biancaneve non le potesse vedere, ma se non avessero trovato un riparo le avrebbe scovate presto.
Anya si fermò, sfinita, e si piegò in avanti per riprendere fiato.
- Dove andiamo?- boccheggiò.
Elizabeth si guardò intorno, nel panico più completo. Non aveva idea di dove andare, gli alberi le sembravano tutti uguali e i passi e la risatina di Biancaneve non facevano che avvicinarsi...
Anya si costrinse a raddrizzarsi. Vide con la coda dell'occhio qualcosa che avrebbe fatto al caso loro. Non sapeva se fosse una buona idea o no, ma non ce la faceva più a correre e di tempo per pensare non ne aveva.
Tirò sua sorella verso un cespuglio di rovi abbastanza alto e fitto da sperare di non essere scoperte, e la spinse a terra dietro di esso.
Elizabeth si trovò con il petto e la faccia schiacciati a terra contro l'erba della foresta, e sentì il peso di Anya contro la propria schiena e la testa della ragazza nell'incavo fra il suo collo e la spalla, il respiro contro il suo orecchio.
- Che stiamo facendo?- sussurrò impercettibilmente.
- Shhhht!- la zittì Anya.- Stai zitta...!
- E se ci trova?
- Prega che non lo faccia.
I passi ora erano vicinissimi a loro, Elizabeth sentiva il rumore ovattato dei piedi nudi sull'erba. Si premette una mano contro la bocca: le sembrava che il suo respiro affannato facesse un baccano tale a quello di venti tamburi in una stanza chiusa. Dalla corsa, l'andatura dei passi si fece più lenta.
- Dove siete?- stridette la voce di Biancaneve.
Elizabeth fece appena in tempo a intravederne i piedi scalzi oltre le spine dei rovi, prima di serrare gli occhi e trattenere il fiato.
- Andiamo, non vi mangio mica...!
Trascorsero interminabili secondi, forse un minuto intero; poi, Biancaneve iniziò a mugolare, e poco dopo le ragazze la udirono allontanarsi canticchiando una melodia incomprensibile fra le labbra. Solo diverso tempo dopo da che la sua voce e i suoi passi non furono più udibili, Anya ed Elizabeth trovarono il coraggio di riprendere a respirare in modo regolare.
La minore delle sorelle Hadleigh si azzardò a muoversi solo quando sentì la maggiore liberarla del suo peso e dirle di rialzarsi.
- Pazza squilibrata...!- soffiò. Lo chignon le si era completamente sfatto, e ora diverse ciocche di capelli neri le ricadevano sugli occhi. Anya si tolse il nastro con stizza e si ravvivò i capelli con una mano, cercando di calmarsi e di riprendere padronanza di sé.
Elizabeth vide che le tremavano le mani, e anche lei si sentiva come se stesse per morire da un momento all'altro.
Rimasero sedute diverso tempo l'una accanto all'altra senza parlare, solo cercando di recuperare il sangue freddo.
- Spero che ora tu ti sia convinta che non è uno scherzo, questo...- mormorò a un certo punto Elizabeth. Anya si asciugò il sudore dalla fronte, annuendo a occhi chiusi.
- Ma dove cazzo siamo finite?- chiese.
Elizabeth non seppe dire se stesse parlando a se stessa o con lei, così se ne stette zitta. D'altra parte, non era nemmeno sicura della risposta. Ripensò a quello che aveva detto Richard, ma se quello era davvero il Regno delle Favole, beh, allora c'era qualcosa che non andava.
Si concentrò nel regolarizzare il proprio battito cardiaco e il proprio respiro, ma la borsa che teneva a tracolla le pesava come un macigno. Avrebbe già dovuto gettarla via durante la fuga per non avere pesi inutili, ma non ci aveva pensato a causa del panico.
Se ne liberò con uno sbuffo e la gettò di lato.
Il libro di favole ne fuoriuscì, abbandonato sull'erba.
Elizabeth vide che dalle sue pagine stava colando uno strano liquido nero.

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Capitolo 6
*** Capitolo IV - Who is Afraid of the Big Bad Wolf? ***


Capitolo IV
 
Who is Afraid of the Big Bad Wolf?
 
 
 
Il lupo non aveva ancora finito la frase
che subito saltò fuori dal letto e con un sol boccone
inghiottì la povera Cappuccetto Rosso
 
Grimm, Cappuccetto Rosso
 
 
 
LA CHIAZZA COLOR DELL'EBANO si stava allargando a macchia d'olio. Elizabeth scostò quasi di riflesso la gamba sinistra quando il liquido toccò la suola della sua scarpa da tennis.
Sentì Anya muoversi accanto a lei.
- Liz? Che succede?
La maggiore delle sorelle Hadleigh si sporse fino a poggiare una mano sulla spalla di Elizabeth. Quest'ultima non replicò né reagì in alcun modo al tocco. Anya vide che teneva lo sguardo fisso sul libro che le era scivolato dalla borsa, gli occhi sgranati e le labbra semidischiuse come se fosse stata un pesce fuor d'acqua in procinto di tirare le cuoia per mancanza d'ossigeno. E a proposito di ossigeno, le sembrava che sua sorella non stesse neppure respirando, in quel momento.
La scosse.
- Che hai? Cos'è quella roba?- la seconda domanda venne accompagnata da una smorfia disgustata e da un'occhiata diffidente alla pozza nera in mezzo alla quale giaceva il volume. Elizabeth sembrò aver elaborato il messaggio – aveva come l'impressione che il suo cervello stesse procedendo alla velocità di un bradipo –, ma non rispose e neppure guardò Anya.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dal libro di favole. La scritta Fiabe del focolare le appariva alla stregua di una carcassa di animale abbandonata sull'asfalto, una visione di cui chiunque avrebbe fatto a meno ma dalla quale non era in grado di distaccarsi.
Io l'avevo lasciato a casa, alla fine trovò il coraggio di lasciare che quel pensiero prendesse forma. L'avevo lasciato a casa. L'avevo lasciato a casa. Non l'avevo messo nella borsa, ne sono sicura.
Anya si fece più vicina.
- Allora, che cavolo è?!
Elizabeth sentì che si stava spazientendo, ma di nuovo non le rispose. Sollevò il libro da terra con la punta delle dita, attenta a non imbrattarsi i jeans con quella strana cosa nera che continuava a strabordare dalle pagine.
- Che cos'é?- Anya accennò al liquido.
- Il libro di favole che stavo leggendo a casa.
- Fin qui c'ero arrivata. Intendevo: che cos'é quella roba che sta colando?
Elizabeth si morse il labbro inferiore e intinse la punta dell'indice nella pozza accanto alla sua scarpa. Il liquido, caldo e viscoso, le sporcò anche le unghie e i polpastrelli del pollice e del medio, ma non ci furono altri effetti.
- Sembra...sembra inchiostro...- osservò.- Forse...deve essersi sciolto quando si è bagnato, prima, sotto la pioggia...
- E da quando un libro stampato perde inchiostro per un po' d'acqua?
Da quando quello stesso libro si sposta dalla poltrona a una sacca senza che nessuno ce lo abbia messo, pensò Elizabeth, ma non esplicitò la sua considerazione ad alta voce.
L'inchiostro aveva smesso di colare. Anya le strappò il libro di mano e lo aprì su una pagina a caso. Elizabeth vide che sua sorella era capitata sull'incipit di una fiaba: era Cappuccetto Rosso, come recitava in cima al foglio un'elegante font in corsivo, le cui lettere avevano le estremità affusolate e decorate con stilizzazioni di foglioline nere e boccioli di fiori.
Sotto di esso, le parole della storia erano pressoché cancellate: non si capiva nulla di ciò che vi era scritto, l'inchiostro era sbavato e rendeva le lettere illeggibili. Elizabeth socchiuse gli occhi – le faceva uno strano effetto leggere senza occhiali – e cercò di decifarare come meglio poteva le scritte, senza troppo successo. A mano a mano che scorreva le righe, si rese conto che mancavano alcuni termini qua e là, e dopo un'occhiata più attenta realizzò che non si trattava di omissioni casuali: qualcuno aveva cancellato deliberatamente le parole nonna e Cappuccetto Rosso.
Non erano sbavate come il resto del testo...erano mancanti, come se fossero state coperte con del bianchetto o eliminate totalmente dalla storia.
Elizabeth guardò sua sorella: Anya teneva le sopracciglia aggrottate in un'espressione confusa e insieme accigliata. Elizabeth voltò rapidamente la pagina, e così fece con un'altra, e un'altra, e un'altra ancora. Non perse altro tempo a cercare di decifrare le parole, poiché aveva compreso che sarebbe stato inutile; concentrò invece le sue energie nella ricerca di altre parole eliminate dalla storia. C'erano, ed erano sempre le stesse: nonna e Cappuccetto Rosso.
Giunse all'ultima pagina della fiaba, occupata interamente da un'illustrazione ad acquerello che all'apparenza non era stata danneggiata. L'immagine mostrava alcuni dettagli che facevano pensare a una camera da letto – un rettangolo di coperta sulla sinistra, mezz'anta di armadio sulla destra, un comodino –, probabilmente quella della nonna, ma in cui regnava un disordine tale – erano stati dipinti cocci di vetro e brandelli di stoffa sul pavimento d'assi, ed Elizabeth identificò come sangue una macchia rossa all'angolo inferiore sinistro dell'illustrazione – da far pensare a un soqquadro dovuto a un'incursione di ladri, o alla furia di un tornado.
Al centro dell'illustrazione, seminascosto da un'ombra tratteggiata al fine di celare buona parte del suo corpo, incluso il volto, era inginocchiato un uomo che indossava abiti scuri – forse marroni o neri – stivali pesanti e un'accetta legata alla cintura di cuoio. Reggeva fra le mani una mantella rossa.
Elizabeth spostò di nuovo la sua attenzione sul testo della fiaba: il finale della storia era in assoluto la parte più danneggiata, il tutto si riduceva a file di macchie nere senza più forma né significato; faceva eccezione un'unica parola, comunque deformata, ma ancora leggibile nonostante le lettere fossero sbavate e tracciate con mano tremolante.
La parola era Cacciatore.
Anya abbandonò il libro sull'erba.
- Andiamo via da qui, prima che quella pazza ritorni...- bisbigliò; ispezionò lo spazio circostante per un minuto intero, prima di essere sicura di potersi alzare in piedi. Elizabeth recuperò il libro e si tirò su.
- Anya, sta succedendo qualcosa...- mormorò.- Se questo è davvero il Regno delle Favole, allora c'è qualcosa che non va...
- E lo credo che qualcosa non va! Una schizzata ha appena cercato di ammazzarci!- Anya esaminò il taglio che Biancaneve le aveva fatto all'altezza della spalla: si trattava di una ferita superficiale, aveva persino già smesso di sanguinare, ma Elizabeth vide che sua sorella tremava.
Le sfiorò l'avambraccio.
- Ti senti bene?
Anya si ritrasse bruscamente, come se si fosse appena scottata.
- Sì - bofonchiò, poi aggiunse:- Non possiamo lasciare che quella vaghi a piede libero...forse è il caso di lasciar perdere quell'albero, tornare indietro e raccontare tutto a papà...
- Papà?
- Va arrestata, Liz. Lui e Crawford sapranno cosa fare...
- Ma cavolo, Anya, quella era Biancaneve!- imprecò Elizabeth, sentendosi il sangue salire alla testa. L'ostinazione di sua sorella a non voler vedere come stavano le cose iniziava a darle sui nervi, stava diventando ottusità.- Biancaneve, hai capito? Biancaneve, e ha cercato di farci fuori! E guarda questo coso!- le sventolò il libro di favole sotto al naso.- L'inchiostro non può essere colato a causa dell'acqua, l'hai detto anche tu! E io l'avevo lasciato a casa...l'avevo lasciato sulla poltrona in salotto prima di uscire, e adesso è ricomparso nella sacca senza che nessuno ce l'abbia messo...!
- Sarai stata soprappensiero, l'hai messo dentro e ora non te ne ricordi più!- insistette Anya.- E per favore, non diventare anche tu una povera demente come la mamma! Quella non era Biancaneve, quella era una malata mentale!
Elizabeth le colpì il braccio con il libro di favole. Anya si allontanò di un passo e si massaggiò la parte offesa.
- Ma sei deficiente?!
- Non mi paragonare alla mamma!- ringhiò Elizabeth.- E se quella era una pazza come dici tu, allora come lo spieghi che il libro...
- Non me ne frega niente se quell'affare perde inchiostro, va bene?! E abbassa la voce, quella squilibrata potrebbe...
- Squilibrata? Suppongo parliate di Biancaneve.
Anya trasalì e si voltò di scatto, allungando istintivamente una braccio per proteggere sua sorella, ma vide subito che non si trattava di Biancaneve come aveva temuto.
Elizabeth rimase interdetta. Si strinse il libro di favole al petto e guardò lo sconosciuto di fronte a loro. A parlare era stato un uomo alto e magro, vestito con pantaloni e camicia neri e stivali di pelle scura lucidissima; portava un mantello del medesimo colore dei vestiti, ma foderato internamente di un tessuto rosso scarlatto. Era abbastana giovane, a occhio e croce non doveva avere più di venticinque o ventisei anni, ma i lineamenti del suo viso erano troppo affilati per poter essere definito bello. Il mento era appuntito, il naso dritto, le guance lievemente infossate e gli zigomi alti e spigolosi che accentuavano i suoi occhi neri e penetranti, in cui era presente una luce attenta e furba, a tratti maligna. Aveva i capelli castani lunghi fino alle spalle raccolti in una coda dietro la nuca.
Una faccia da furetto, a Elizabeth sfuggì spontaneo il paragone.
Lo sconosciuto stava sorridendo, ma era un sorriso bizzarro; non di cortesia e neanche di allegria; si limitava a sollevare l'angolo della bocca in una smorfia beffarda e malandrina, come se stesse sorridendo di qualcosa che solo lui sapeva e non aveva intenzione di rivelare.
Sarebbe stato lo stesso sorriso che avrebbe avuto una volpe che avesse appena individuato il pollaio.
- Ehm...salve...- mormorò Anya, scostandosi una ciocca dei capelli ormai sciolti dietro l'orecchio. Elizabeth fu colta dal forte sospetto che sua sorella si sentisse intimidita da quell'uomo, il che era abbastanza singolare, poiché non riusciva a ricordare una sola occasione in cui Anya avesse mostrato timidezza o soggezione di fronte a qualcuno; comunque, non poteva darle torto: lo sconosciuto, forse per i suoi abiti scuri o per i suoi lineamenti affilati, le trasmetteva una strana sensazione di disagio, misto anche a un certo timore.
- Senta, noi...- Anya si ravvivò ancora i capelli, anche se quel gesto aveva un che di automatico.- Noi...siamo state aggredite...c'è una donna che...
- Sì, non mi stupisce - la interruppe l'individuo con noncuranza.- Povera principessina...da quando il Principe Azzurro l'ha...beh...- finse di pensarci su.- Come dire...non si è comportato esattamente da gentiluomo con il suo corpicino addormentato - ghignò.- Poveretta. Da allora è andata fuori di testa. In senso letterale.
- Fuori di testa è dir poco...- ironizzò Elizabeth a bassa voce.
Anya le regalò un'occhiata di rimprovero.
- Senta - esordì poi, diretta allo sconosciuto.- Noi...ci siamo perse, dovremmo tornare a casa. Sa dirci se per caso c'è un albero qui vicino che...
Lo sconosciuto schioccò le dita, e scomparve di fronte a loro.
Entrambe sgranarono gli occhi.
- Un albero, bella gioia?- fece una voce alle loro spalle.
Tutt'e due si voltarono: lo sconosciuto era ricomparso dietro di loro, e se ne stava con le spalle appoggiate al tronco di una quercia, le braccia conserte. Elizabeth avrebbe voluto cacciare un urlo o fare qualsiasi altra cosa, ma tutto ciò che le riusciva era fissarlo boccheggiando come uno scorfano.
- Ci sono tutti gli alberi che vuoi nella Foresta Incantata - proseguì l'individuo.- Parecchie varietà, anche: querce, abeti, salici...la tua domanda è un poco insensata, non trovi? O forse...- schioccò un'altra volta le dita, e scomparve di nuovo.
Ricomparì alla loro destra, appollaiato su un salice piangente con le mani dietro la nuca, la schiena appoggiata al tronco e le gambe distese lungo uno spesso ramo.
- Forse...- ripeté.- Tu stai parlando di un Portale. In tal caso sarebbe una richiesta legittima, ma...fossi in te lascerei perdere. Non è facile farli funzionare, a volte si attivano anche da soli, e ho sentito dire che la Regina Cattiva ha confuso le destinazioni con la magia per chiunque non abbia un Amuleto...rischieresti seriamente di ritrovarti in guai più grossi di quelli in cui sei adesso.
- Ma che accidenti vai farneticando?
- Come hai fatto ad arrivare fin lassù?- Elizabeth superò una stralunata Anya e arrivò a un metro dalle radici dell'albero.
- Magia, raggio di sole - ghignò lo sconosciuto.- Mai sentito parlarne?
- Solo nei libri...- ammise la ragazza, ma subito se ne pentì. Si stava facendo prendere un po' troppo dalle circostanze, si rimproverò. Era vero che si trovava nel Regno delle Favole – ormai l'ipotesi era diventata certezza –, ma questo non significava potersi concedere il lusso di abbassare la guardia. Ciò che era accaduto con Biancaneve ne era stata una prova sufficiente, e in più questo sconosciuto che le stava di fronte aveva tutto meno che l'aria innocente della bella principessa di poco prima.
Il suo volto sembrava innocuo tanto quanto poteva sembrarlo il muso di una lince.
A confermare il suo ragionamento ci pensò la punta dello stivale di sua sorella, dritta nel polpaccio.
L'individuo sorrise e balzò a terra. Si avvicinò alle due ragazze.
- Intendi libri come quello, raggio di sole?- indicò il volume che Elizabeth teneva fra le braccia. Anya prese un lembo della felpa di sua sorella e la tirò indietro. L'uomo si aprì in un sorriso, scoprendo due file di denti bianchissimi, e tese loro la destra con il palmo aperto.
- Suvvia, non c'è bisogno di allarmarsi tanto...- sdrammatizzò.- Voglio solo dare un'occhiata al tuo libro, nulla di più.
Elizabeth aprì la bocca per rispondere, ma sua sorella le marciò davanti, piantandosi a pochi centimetri dall'uomo.
- Senti, fenomeno da baraccone - ringhiò.- Non m'incanti con i tuoi giochi di prestigio. Chi ti conosce, eh? Cosa credi di fare? Noi vogliamo solo delle informazioni, e se non ce le vuoi dare, allora puoi anche toglierti dalle scatole!
Lo sconosciuto non si scompose, ma arretrò di un passo.
- Ma che maleducato!- esclamò.- Hai proprio ragione. Dunque, mi presento - detto questo, si esibì in un inchino a dir poco plateale, piegandosi in avanti e stendendo il braccio destro orizzontalmente mentre portava il sinistro all'altezza dell'addome.- Il mio nome è Tremotino, lieto di fare la vostra conoscenza - alzò lo sguardo su di loro.- Quanto alle informazioni...- sibilò.- Sì, posso darvi delle informazioni.
- Bene, sentiamo - Anya si mise le mani sui fianchi.
Tremotino, ripeté mentalmente Elizabeth. Dove aveva già sentito quel nome? In una favola, certo, non poteva essere altrimenti. Ma non riusciva a ricordare quale favola. Doveva averla letta di sfuggita da qualche parte, ricordava solo che c'entravano una bella fanciulla rinchiusa in una torre, della paglia e un bambino.
E che Tremotino non fosse esattamente l'eroe.
- Facciamo un accordo - propose Tremotino.- Io vi darò le informazioni a patto di poter avere il vostro libro. Che ne dite?
- Avere? Non è in vendita - replicò Elizabeth, sulla difensiva.- Posso fartelo leggere e poi tu me lo restituisci subito.
Negli occhi dell'uomo balenò una strana luce, che Elizabeth non fu in grado di decifrare, ma ebbe la certezza di averlo irritato. Tremotino inclinò lievemente il capo di lato e la guardò con un angolo della bocca sollevato nel suo sorrisetto sghembo, ma stavolta quella smorfia era più innervosita e amare che canzonatoria.
- Tratti sull'accordo, raggio di sole?- sibilò.- Hai la stoffa della mercante. O della strega.
Elizabeth sentì che sua sorella si era fatta vicina a lei e che cercava di porsi di fronte al suo corpo per difenderla. La strana luce negli occhi di Tremotino scomparve e l'uomo si schiarì la voce.
- Allora, affare fatto?
Le due sorelle si guardarono. Anya si morse l'interno della guancia, dubbiosa, ma alla fine cedette.
- Va bene - concesse.- Daglielo, Liz.
Elizabeth gli porse il libro, che Tremotino quasi le strappò di mano. Nel farlo, le sfiorò il dorso della mano con la punta delle dita, e la ragazza avvertì una forte vibrazione, come una scossa. Ritrasse la mano in fretta.
Tremotino cominciò a sfogliare le pagine del libro; le fece scorrere tutte nel giro di pochi secondi, quasi senza leggerle, quindi lo restituì a Elizabeth.
- Come immaginavo - commentò.- Era prevedibile, dopo quello che è successso alla povera piccola Cappuccetto Rosso e alla vecchietta...
- Allora?- incalzò Anya, senza badargli.- Le informazioni?
- Oh, sì! Giusto. Dunque, vediamo...- Tremotino si accarezzò il mento.- Bene, ecco qui: come avrete già intuito, madamigelle, le cose qui non stanno andando come dovrebbero. Non so se questo sia un bene o un male per voi, ma il sottoscritto ha solo da guadagnarci. Che altro? Beh, c'è una profezia, qualcuno che vuoi che i Signori Oscuri tornino a sconvolgerci la vita e le Forze del Male dietro l'angolo. Il tutto, naturalmente, orchestrato da lei.
- Lei, chi?- chiese Elizabeth.
- Brutto stronzo!- sbottò Anya.- Mi stai prendendo in giro?! Sarebbero queste le informazioni?!
Tremotino alzò le mani in segno di difesa.
- Tu non hai specificato che genere di informazioni volevi, carina. Fossi in te, mi accontenterei di quello che vi ho detto e lo terrei a mente. Anche se non credo che resterete qui ancora a lungo...
Un ululato squarciò l'aria. Era lo stesso ululato che avevano udito prima di entrare nella casa di Biancaneve, cupo e agghiacciante, ma molto più vicino.
Tremotino ascoltò e si aprì in in ghigno soddisfatto.
- Il punto è, carine...che questo è lo scenario perfetto per l'arrivo della Salvatrice...e poiché siete in possesso del libro, è molto probabile che sia una di voi due...
L'ululato tornò a diffondersi nell'etere. Elizabeth si fece più vicina a sua sorella.
- Ma che stai dicendo...?- mormorò quest'ultima.
- C'è solo un modo per scoprirlo: se una di voi è la Salvatrice, le Forze del Bene la proteggeranno dal nostro nuovo arrivato. Se nessuna di voi due lo è...beh, buona fortuna comunque. Spero vi piacciano i cani - sorrise beffardo e arretrò di qualche passo.- E' stato un piacere conoscervi, bellezze. Arrivederci...o almeno, me lo auguro per voi.
Schioccò le dita e scomparve dalla loro vista.
L'ululato tornò a farsi sentire, vicinissimo.
Elizabeth afferrò il polso di sua sorella, e Anya quasi incespicò in una radice nell'atto di indietreggiare. Un rumore di foglie secche e rami calpestati seguì l'ennesimo ululato, accompagnato da un ringhio. Entrambe le ragazze erano paralizzate; Anya si sentiva le gambe pesanti e inerti, come se gliele avessero inchiodate al terreno.
Qualcosa in mezzo alle fronde e alle sterpaglie ringhiò di nuovo. Le foglie di un alto cespuglio vibrarono, e attraverso di esso s'intravide un paio di occhi gialli.
Elizabeth fece per gridare, ma l'urlo le morì sulle labbra. Le due ragazze indietreggiarono, vedendo la bestia di fronte ai loro occhi.
Era un lupo, ma non si trattava di un canide come gli altri. Era un ibrido fra un lupo e un essere umano: camminava in posizione eretta, con le spalle ricurve, reggendosi sulle zampe posteriori; il torace era ricoperto da folto e ispido pelo marrone scuro, ma s'intravedeva la muscolatura caratteristica dell'addome umano; le zampe posteriori erano lupesche, così come il muso, la testa e le orecchie ritte sul capo, mentre quelle anteriori erano dotate di avambracci e bicipiti e terminavano con mani umane provviste di quattro dita con lunghi artigli affilati. Era privo di coda e doveva essere alto all'incirca due metri.
La bestia ringhiò e puntò gli occhi gialli in direzione delle due ragazze; si piegò sulle zampe posteriori e piantò a terra quelle anteriori, in posizione d'attacco.
Con un balzo si avventò su di loro.
- Sta' giù!- Anya spinse Elizabeth di lato e si gettò a terra un attimo prima che il Lupo le piombasse addosso. L'animale saltava troppo in alto e copriva distanze troppo elevate per un canide comune; atterrò a tre metri da loro. Scoprì le zanne ed emise un altro ringhio.
Elizabeth si sollevò su un gomito e cercò sua sorella: Anya era accasciata sull'erba a pochi metri da lei, lo sguardo puntato in quello selvaggio del Lupo.
L'animale si pose nuovamente in posizione d'attacco. Annusò l'aria, quindi puntò il muso in direzione di Elizabeth e spiccò un balzo verso di lei. La ragazza gridò, ma fu in grado di rotolare verso destra per evitare che il Lupo l'attaccasse. L'animale si sollevò eresse sulle zampe posteriori e alzò una mano artigliata per colpirla.
Anya scattò in piedi e afferrò la prima cosa che le capitò a tiro, una pietra a pochi centimetri da lei; senza rifletterci ulteriormente la scagliò verso il Lupo, colpendolo a una scapola.
L'animale ringhiò e si voltò verso di lei.
Aveva cambiato obiettivo.
- Vai, scappa!- strillò Anya, ma Elizabeth rimase paralizzata mentre il Lupo si avventava contro sua sorella. Anya si scansò appena in tempo e prese a correre nella direzione opposta rispetto a sua sorella. L'animale le fu subito alle calcagna.
Anya si addentrò nella Foresta Incantata, correndo a perdifiato, ma comprese subito che non sarebbe stato abbastanza. Dal terreno spuntavano numerose radici, arbusti e pietre che l'intralciavano, senza contare che quella belva era tre volte più veloce di lei e copriva falcate più ampie con meno movimenti. Lo sentiva avvicinarsi sempre di più alle sue spalle, e poi, dannazione!, lei stava correndo alla cieca. Era buio, non si vedeva pressoché niente e non sapeva dove stesse andando né dove trovare un posto dove nascondersi.
Le era andata bene con Biancaneve, non sarebbe stata altrettanto fortunata, ora.
Incespicò, finendo distesa in avanti sull'erba, ma non si era fatta nulla. Cercò di rialzarsi, ma qualcosa le bloccava le caviglie. Vide che sottili radici le si erano attorcigliate attorno ai polpacci; si dimenò e scalciò per liberarsi, ma il tentativo di liberarsi sortì l'effetto opposto: alcune radici si spezzarono, ma subito altre presero il loro posto, e quelle che non riuscì a staccare si fortificarono. Dai polpacci salirono fino alle ginocchia, sembrava che fossero dotate di vita propria.
Anya inorridì quando altre radici sbucarono fuori dal terreno, alcune strisciando come serpenti altre sfondando la terra che le ricopriva, e le si aggrovigliarono intorno alle gambe fino a raggiungere l'altezza delle cosce. La ragazza si puntellò sui gomiti, quindi agitò le gambe con quanta forza possedeva: riuscì a districarsi da alcune radici e ne spezzò altre con le mani, ma appena fu libera subito un altro fascio spuntò dal terreno e si avvolse intorno al suo braccio destro.
Parecchie ciocche di capelli le erano finite davanti agli occhi per la concitazione, ma Anya vide con chiarezza che quel fascio che le stringeva l'arto aveva fattezze molto somiglianti a quelle di una mano umana, ossuta e rachitica, con dita nodose che le si attorcigliavano intorno all'avambraccio.
La ragazza afferrò la radice e la spezzò per liberarsi; si rialzò, ma capì immediatamente che il terreno non era l'unica cosa di cui preoccuparsi: nello stesso istante in cui sentì un ringhio lupesco a pochi metri da lei, i rami degli alberi sopra la sua testa si staccarono piano dalle fronde e presero a calare su di lei, come mani e braccia pronte a stritolarla.
Una mano di legno piombò a pochi passi da lei, affondando nel terreno e stringendo erba e sassi fra le dita nocchiose. Un altro braccio bitorzoluto danzò sopra il suo capo cercando di afferrarle i capelli e di graffiarle il volto.
Anya sollevò le braccia all'altezza della fronte per proteggersi dall'aggressione e indietreggiò nel tentativo di allontanarsi, quand'ecco il ringhio sommesso farsi strada fra gli arbusti, e la ragazza e il Lupo si ritrovarono faccia a faccia.
L'attacco dei rami cessò. Anya si sarebbe aspettata che la bestia le saltasse addosso, invece avanzò con lentezza esasperante, quasi volesse sfidarla a scappare per avere il piacere di agguantarla alle spalle. La ragazza indietreggiò velocemente, ma finì per inciampare e cadere di schiena. Fece appena in tempo a sentire un forte splash! prima di ritrovarsi bagnata da capo a piedi.
Non era caduta in una pozzanghera, o in un piccolo laghetto. Si trattava di uno stagno, la cui acqua fangosa insozzava le canne e le ninfee.
Anya boccheggiò, capelli e faccia ricoperti di acqua e fango.
Il Lupo era pronto ad attaccare. La ragazza strisciò nell'acqua e toccò un tronco d'albero con la schiena. Era un albero cavo, abbastanza grande da potervicisi entrare. Non ci rifletté troppo e s'infilò nella cavità un attimo prima che il Lupo la raggiungesse.
L'animale iniziò a strappare a morsi i pezzi di corteccia e a colpirla a zampate. Anya gridò, non trovando modo migliore di ripararsi dalle schegge di legno e dagli artigli affilati se non quello di stringersi le ginocchia al petto. Aveva compreso troppo tardi l'errore commesso: quello non era un nascondiglio, era una trappola per topi!
Il Lupo riuscì nell'intento di scavarsi una via d'entrata abbastanza grande da potervi infilare il muso e una zampa. Scoprì i denti in un ringhio e le graffiò una coscia con una zampata. Le divelse i pantaloni strappandoli in quattro lunghe aperture, dalla quale iniziò a zampillare sangue. Il Lupo avvicinò le fauci sempre di più, e Anya chiuse gli occhi, in attesa di un morso che non arrivò mai.
Invece, udì solo un guaito.
Il Lupo abbandonò il suo bersaglio, voltandosi per vedere chi o cosa l'avesse colpito.
Elizabeth si allontanò di diversi passi e brandì il pezzo di legno che aveva usato per cercare di tramortirlo, anche se sapeva che si trattava di un'arma ridicola e inutile. Si diede dell'imbecille. Aveva agito d'impulso per aiutare Anya, ma non c'era modo che lei, da sola, potesse tenere testa a una belva come quella. Arretrò, agitando il pezzo di legno in direzione dell'animale, ma la bestia glielo fece volare via dalle mani con una zampata. L'arma improvvisata si schiantò al suolo, frantumandosi.
Elizabeth stessa perse l'equilibrio a causa della violenza del colpo, e cadde inerme nel fango. Il Lupo sollevò la zampa artigliata, pronto a calarla su di lei. La ragazza alzò un braccio come unica difesa e voltò il capo.
Udì il Lupo guaire. Sbirciò verso di lui per vedere cosa stesse succedendo, ma venne accecata da una luce fortissima e abbagliante, che dal nulla aveva circondato lei, la belva e Anya. Dovette stringere le palpebre per proteggersi dai raggi che le ferivano le pupille. Sentì il Lupo guaire di nuovo, e riuscì a socchiudere gli occhi abbastanza per vedere la sua sagoma fuggire via e scomparire nei meandri della foresta.
Lentamente, la luce si avvievolì fino a cessare del tutto.
Elizabeth si stroppicciò gli occhi, cercando di scacciare le macchie violacee che l'abbaglio aveva causato alla sua vista. Quando queste scomparvero e lei tornò a vedere normalmente, in piedi fra lei e Anya – ancora con il fondoschiena a mollo nello stagno e mezza nascosta nell'albero cavo – c'era una donna vestita con un lungo abito blu che le arrivava fino ai piedi. La gonna aveva un taglio a ruota, e quando Elizabeth riuscì a vedere al massimo delle sue – peraltro neo acquisite – capacità, notò che era molto pulita – neppure l'orlo era sporco di fango, e sì che si trovavano nei pressi di uno stagno –, ma vecchia e dall'aria di essere stata rattoppata innumerevoli volte. Il tessuto era grezzo, e qua e là recava qualche toppa dello stesso colore originario, ma più chiara o più scura, e segni di rammendo. Il corpetto e le spalline del vestito erano nascosti da uno scialle la cui coda terminava all'altezza delle ginocchia della donna, un triangolo di lana grigia che aveva conosciuto giorni migliori.
La stessa proprietaria non era più molto giovane, di certo doveva aver superato i quarantacinque anni: i contorni degli occhi erano solcati da ragnatele di rughe, la pelle delle guance aveva iniziato a perdere la sua tonicità e le labbra erano strette in una fessura severa e dolorosa. Nonostante ciò poteva ancora essere definita piacente; a Elizabeth venne quasi spontaneo paragonare il suo volto a quello di sua madre – o per essere più precisi, all'unica fotografia rimasta di Christine; Elizabeth non aveva mai saputo come avesse fatto a sfuggire all'accurata ecatombe che papà aveva fatto di ogni oggetto appartenente alla mamma, sapeva solo che aveva trovato quella foto infilata sotto la lavatrice durante l'ultimo trasloco, e che l'aveva nascosta in mezzo alle pagine di 1984 di George Orwell, dove si trovava tutt'ora.
La Christine Mason della fotografia aveva la stessa forma a cuore del viso come ce l0 aveva quella donna di fronte a loro, gli stessi zigomi alti e la stessa aria di chi ne ha passate troppe per ogni umana sopportazione. Ma Christine era più giovane e aveva i capelli corti e neri, mentre la sconosciuta portava la lunga chioma biondo paglia sciolta sulle spalle e la schiena, fatta eccezione per un fermacapelli azzurro appuntato all'altezza della tempia sinistra.
- Ti senti bene?- le domandò la donna; aveva una voce molto dolce e gentile.
No, Elizabeth avrebbe voluto rispondere; invece annuì e si rialzò.
- Grazie...- borbottò fra i denti. Era chiaro che era stata quella donna a salvarle dal Lupo. Guardò nella direzione in cui era scappato.
- Non temere - la rassicurò la donna.- Non siamo più in pericolo, ormai - indicò il cielo.- La luna piena calerà fra qualche ora, ma per stanotte non tornerà. Pover'uomo, avrei almeno voluto evitargli quest'altro supplizio...- aggiunse in un sussurro, coperto da un mugolio di dolore di Anya. Elizabeth vide sua sorella strisciare fuori dal tronco cavo e farsi strada arrancando nell'acqua fino a raggiungere la riva. La sua gamba spillava sangue, ma non sembrava avesse emorragie o che la ferita fosse molto profonda.
La donna si avvicinò ed esaminò la ferita da lontano.
- Non sembra grave - decretò.- Anzi, direi che lo possiamo sistemare subito.
Anya boccheggiò. Era smorta e sembrava sotto shock. La donna esaminò ancora la gamba, quindi infilò una mano nello scialle e ne estrasse un bastoncino bianco e sottile, lungo circa dodici pollici, e avvicinò la punta alle ferite di sua sorella.
Anya si ritrasse di scatto.
- Stai ferma, cara - la riprese la donna, ma non sembrava arrabbiata. Toccò con la punta del bastoncino ad una ad una le ferite di sua sorella. Da esso si sprigionò un bagliore simile a quello di poco prima, ma meno intenso, come la fiamma di una candela.
Un attimo dopo, Anya sgranò gli occhi di fronte alle ferite completamente rimarginate oltre la stoffa divelta.
- Diamo una sistemata anche alla spalla, che ne dici?
Senza lasciare che le rispondesse, la donna toccò anche la ferita inferta da Biancanevea a sua sorella, e anche quella si rimarginò del tutto.
Elizabeth deglutì. Se lei fosse stata Anya – l'Anya solita, non quella palesemente bisognosa di pronto intervento psicoterapeutico che le stava davanti ora – avrebbe iniziato a riempire quella donna di domande, su cosa fosse successo e perché, chi fosse lei, come avesse fatto a mettere in fuga quella belva e a guarire le ferite di sua sorella.
Invece, si limitò a gracchiare:- Chi è lei?
- Sono la Fata Turchina - rispose l'altra, con semplicità, del tutto ignara della doccia fredda che quell'affermazione era per loro due.- E voi due siete in disperato bisogno di aiuto e possibilmente di un bagno. Venite. Non è prudente stare qui, la Foresta Incantata non è un luogo sicuro. Non più - aggiunse.
Anya sembrava lobotomizzata. Elizabeth la raggiunse e l'afferrò sotto le ascelle per aiutarla a rialzarsi. Dopo quello che era successo con Biancaneve, Tremotino e il Lupo, fidarsi dell'ennesima sconosciuta equivaleva ad attraversare la strada con una benda sugli occhi, e ne era consapevole anche lei: ma diceva di essere la Fata Turchina, e le aveva salvate da quel mostro.
E loro non avevano poi molta scelta. Elizabeth aveva la sensazione che non sarebbero tornate a casa presto come avevano sperato. Ed erano da sole, perse in mezzo a una foresta in un posto che non conoscevano e che si stava rivelando pericoloso.
Seguì la donna trascinandosi dietro Anya.
- Sei convinta, adesso?- le bisbigliò. Sua sorella non rispose, ma dopo poco Elizabeth la sentì sussurrare qualcosa.
- Che hai detto?- fece, accigliata.
E' assurdo - ripeté Anya.- E' assurdo.
 
***
 
LE DUE RAGAZZE SI ALLONTANARONO seguendo la Fata Turchina. Poco dopo, la loro immagine scomparve dallo specchio, e la superficie tornò a riflettere il volto bellissimo e perfetto della Regina Cattiva.
Raccolse un rossetto dalla toeletta e se lo passò sulle labbra. Una tinta rosso sangue le colorò la bocca carnosa, e la sovrana mimò un bacio prima di rimirarsi nuovamente.
- Grazie, Specchio. Non ho più bisogno dei tuoi servigi, per il momento.
Lo Specchio rimase muto. La Regina Cattiva scrutò ancora la propria immagine con compiacimento misto a una certa noia. Afferrò con la punta delle dita il telo di seta nera posto sopra lo Specchio e lo tirò delicatamente in basso, in modo che la superficie riflettente e la stessa cornice venissero coperti.
L'intero castello era pieno di specchi. Solo nella sua stanza ce n'erano cinque: quello della toeletta, due sul comodino, uno alto quanto la sua intera figura posto accanto al letto e lo Specchio. Lo Specchio era l'unico fra i tanti a essere diverso, anche se all'apparenza non sembrava differente da qualsiasi altro. La cornice era nera e incisa in modo tale che desse l'idea di un motivo di rose rampicanti, ed era in grado di riflettere l'intero busto della Regina Cattiva dal capo sino alla vita.
E non solo quello.
Si trattava di un dono prezioso nonché di una potente arma strategica sia in guerra che in pace, motivo per il quale la Regina Cattiva si premurava di tenerlo sempre nella sua stanza da letto – di cui possedeva lei stessa l'unica copia di chiavi – e coperto con un telo nero.
L'ultima volta che qualcuno – era una domestica di cui non conosceva il nome – aveva fatto notare la stranezza di tenere uno specchio sempre coperto, era stato fatto frustare a morte insieme a coloro che aveva messo a parte di questa riflessione.
Lo Specchio era il suo miglior confidente, e non raccontava mai altro se non la verità. Era in grado di mostrarle qualsiasi cosa lei domandasse di vedere, sebbene avesse dei limiti: non poteva mostrare ciò che era stato né ciò che sarebbe avvenuto; e non poteva varcare i confini posti da magia più potente della sua.
La Regina Cattiva giunse le mani in grembo e si diresse al centro della stanza, pensosa. Ciò che le aveva mostrato lo Specchio non le era piaciuto, ma non se la prese con nessun altro se non con se stessa.
Avrebbe dovuto intuire che inviare il Cacciatore a uccidere le ragazze non era un piano che avrebbe avuto un certo successo. Non sentiva di aver sottovalutato le due sorelle: erano sprovvedute e stupide come le erano sembrate la prima volta che aveva chiesto allo Specchio di mostrargliele. Ciò che non aveva messo in conto era che anche altri esseri erano stati informati del loro arrivo, prima fra tutti Turchina.
E Tremotino...
La Regina Cattiva si morse l'interno della guancia e strinse le mani a pugno. Non poteva permettere che lui si mettesse in mezzo. I suoi passati tentativi di trattativa erano falliti: ciò significava che Tremotino non aveva intenzione di unirsi a lei, ma non era certo il tipo che si sarebbe opposto al ritorno dei fratelli Grimm.
Il che poteva voler dire soltanto che, qualsiasi fosse il suo piano, andava contro di lei e intralciava i suoi obiettivi.
La porta della camera da letto venne scossa da tre colpi sordi.
La Regina Cattiva sospirò e si ricompose.
- Avanti - concesse.
I battenti della porta vennero aperte dalle due guardie poste a sentinella, e il Primo Ministro venne fatto entrare. La porta si richiuse alle sue spalle, e l'uomo si inginocchiò in segno di saluto. Rimase con un avambraccio poggiato sul ginocchio sinistro e lo sguardo basso fino a che la Regina Cattiva non gli fece cenno di alzarsi.
- Vostra Maestà ha chiesto di vedermi?- domandò il Primo Ministro.
- E' così - i loro sguardi s'incrociarono; la Regina Cattiva studiò silenziosamente la luce negli occhi azzurri dell'uomo, prima di iniziare a passeggiare lentamente per la stanza.- Primo Ministro, sapete dirmi qual è lo svantaggio di possedere un Uomo Lupo e di impiegarlo per i propri fini?
- Che esso è solo attivo nei giorni di luna piena, Vostra Maestà. Per il resto del tempo, è un uomo come tutti gli altri. Un peso inutile, se ciò che ci occorre di lui è la sua forma animalesca.
- Esattamente.
La Regina Cattiva si fermò.
- Il Cacciatore non è riuscito nell'ordine che gli avevo dato, uccidere le due ragazze. All'alba la luna piena sarà scomparsa e non potrò più fare affidamento su di lui per dare la caccia alle due figlie di Richard Hadleigh. Comprenderete che questo è un problema.
- Certamente, Vostra Maestà. Volete che dia ordine al capitano Navarre di inviare un manipolo dei suoi soldati a prelevarle?
La Regina Cattiva sogghignò.
- Ammiro il vostro modo di ragionare e riconosco che sarebbe una mossa opportuna, ma dovete sapere che il Cacciatore ha fallito a causa di Turchina. Le ragazze sono protette da una fata appartenente alla corte di re Oberon, il che avvalora ancora di più la mia ipotesi.
- Voi siete certa che una di loro sia la Salvatrice, Vostra Maestà?
- La più giovane è in possesso del libro. Non può essere altrimenti. Resta sempre il quesito su chi delle due sia la vera Salvatrice, ma sarà un problema che passerà in secondo piano quando saranno morte.
- Cosa volete che faccia, Vostra Maestà?
La Regina Cattiva sorrise; si prese il tempo che desiderava per rispondere. Riprese a passeggiare per la stanza, lanciando di tanto in tanto delle occhiate di sottecchi al Primo Ministro. L'uomo non mostrava segni d'impazienza nonostante stesse attendendo una risposta. Nonostante non facesse parte del suo esercito né del corpo di guardia reale, la sua postura e i suoi modi lasciavano intuire senza ombra di dubbio il suo passato da militare.
Aveva avuto delle remore nel momento in cui si era trovata a dover decidere se accettare la sua richiesta di unirsi alle sue fila, ma dopo cinque anni di fedele servizio era quasi certa di aver compiuto un'ottima scelta nel nominarlo suo Primo Ministro. Quasi.
- Ho dato ordine di punire il Cacciatore con cinquanta frustate. Avrebbe meritato la morte per il suo fallimento, ma mi sono resa conto che la sua vita può ancora essermi utile. Ha ucciso Cappuccetto Rosso e la nonna quando gliel'ho ordinato, e il prossimo plenilunio sarà di nuovo un feroce assassino. Tuttavia, come avete giustamente osservato, per tutto questo tempo egli sarà un peso inutile. E io ho bisogno di un intervento immediato - la Regina prese alcune ciocche della sua chioma corvina fra le dita e iniziò a lisciarsele con fare lezioso.- Mi metteste a parte del vostro passato da soldato e ufficiale, Primo Ministro, e ho avuto modo di constatare con i miei occhi che siete un abile cacciatore e combattente.
- Vostra Maestà mi sta chiedendo di occuparmi personalmente della questione?
- Non sono mai rimasta delusa da voi o dal vostro operato, e confido non lo sarò neppure questa volta. Ma badate bene, mi occorre rapidità e discrezione. La situazione si sta facendo complicata, il Dipartimento Favole è entrato in azione dopo l'assassinio della nonna e di Cappuccetto Rosso, ma ho preso le mie precauzioni e ho buoni motivi per credere che la mia spia non fallirà. La mia preoccupazione più grande sono le due ragazze. Possiamo affermare che la profezia sia vera...- la Regina esitò, ma poi proseguì risoluta:- Ma ciò non significa che si debba avverare. Voi sapete cosa sto cercando, Primo Ministro, e anche a questo ho già provveduto. L'importante è che loro non arrivino prima di me. E' questo il vostro compito. Siete un abile spadaccino, un capace arciere, e conoscete alla perfezione la Foresta Incantata. Non dovrebbe esservi difficile trovarle. Le voglio morte, Primo Ministro - la Regina Cattiva tornò a guardarlo.- Non so chi delle due sia quella di cui parla la profezia, ma non posso permettermi di rischiare. Trovatele e uccidetele.
Il Primo Ministro fece un cenno di assenso con il capo.
- C'è qualcos'altro che Vostra Maestà desidera che io faccia?
- Il libro. Dovete portarmi il libro - disse la Regina Cattiva.- Lo credevamo perduto da anni, e invece ha deciso di palesarsi alla mocciosa più giovane. E' certamente un tassello fondamentale per il rituale, non possiamo permettere che vada perduto di nuovo. Partirete non appena sarete pronto. Posso fornirvi tutto ciò che desiderate.
- Ho le mie armi, Vostra Maestà, ma vi ringrazio per la cortesia.
La Regina Cattiva gli diede le spalle e si avvicinò all'unica finestra della camera da letto. La vetrata era alta e stretta, e oltre di essa si stagliava fino all'orizzonte il regno che aveva tanto sudato per ottenere, e che presto avrebbe varcato anche le soglie della Foresta Incantata e di ciò che la vista poteva giungere a scrutare.
- Vi faciliterò il compito. Vi permetterò di usare uno dei Portali che ho sottomesso al mio volere. Turchina avrà certamente protetto la sua dimora e le ragazze con la sua magia, ma posso riuscire a farvi arrivare abbastanza vicino a essa. Naturalmente...- la Regina Cattiva si voltò di scatto e si avvicinò a lui.- Questo non l'ho specificato, ma naturalmente la ricompensa per i vostri servigi sarà molto generosa.
Negli occhi azzurri del Primo Ministro balenò un guizzo di cupidigia. Sorrise. Era fin troppo facile: si trattava di null'altro che scovare e ammazzare due ragazze sole e indifese.
La Regina aveva già fatto tanto per lui. Era sicuro che avrebbe mantenuto le sue promesse, come aveva fatto cinque anni prima.
La sovrana ricambiò il sorriso.
- Uccidetele e mozzate loro le teste, poi portatele da me insieme al libro e ai loro cuori. Li voglio serviti su un piatto d'argento. Sono certa che non fallirete.
Il Primo Ministro fece per rispondere, quando altri tre colpi contro uno dei battenti della porta riecheggiò all'interno della camera da letto. Le pupille della sovrana si restrinsero in due fessure.
- Incompetenti, avevo detto loro che non volevo essere disturbata per nessuna ragione...!- sibilò.- Chi è?- domandò poi ad alta voce.
- Sua Altezza la Principessa Rosarossa domanda di essere ammessa alla vostra presenza, Vostra Maestà - rispose una delle guardie all'esterno.
- Fatela entrare.
I battenti si spalancarono di nuovo e si richiusero solo dopo che nella stanza fu entrata una fanciulla che non poteva avere più di quindici anni. Il Primo Ministro si scostò dalla Regina Cattiva per poter salutare con un inchino la nuova arrivata. Dato il suo rango di principessa si limitò a portare una mano all'altezza del busto e a inclinare lievemente il torace e la testa nella sua direzione, e la ragazza rispose con una profonda riverenza, prima a lui e poi alla Regina.
La sovrana la guardò.
- Ebbene?- incalzò.
- Perdonatemi se vi ho disturbata, Vostra Maestà - squittì la principessa Rosarossa.- Ma volevo informarvi che il capitano Thorne ha disposto che il capitano Navarre e torni ad Hagenheim con altri soldati per accertarsi che non vi sia rimasto più nessuno.
- E da quando spetta a te informarmi delle disposizioni del capitano Thorne?
La principessa arrossì violentemente.
- Mi ha chiesto di riferirvelo.
- Il capitano?
- No, sua moglie - Rosarossa avvampò ancora di più.- Lady Danielle ha detto che suo marito sarebbe dovuto andare ad Hagenheim al posto del capitano Navarre, ma lei ha insistito affinché rimanesse, dal momento che aspetta l'arrivo del bambino di qui a pochi giorni e vuole che egli le sia vicino. Ha chiesto a me di riferirvelo nel timore che vi sareste adirata perché lei lo ha pregato di restare.
L'espressione della Regina Cattiva divenne di ghiaccio, ma non disse nulla e si ricompose in fretta. Il Primo Ministro provò pena per la principessa Rosarossa; non poteva dire di averla vista molto, poiché conduceva una vita abbastanza ritirata e generalmente si trovavano sempre in posti diversi impegnati in occupazioni differenti, ma le poche volte che l'aveva incontrata lei era sempre stata così: spaurita, tremante, patetica.
Rosarossa aveva quindici anni ed era la secondogenita di re Mathias e della sua prima moglie. Era meno bella rispetto alla sorella maggiore Biancaneve – fatto che l'aveva salvata dalle ire della Regina Cattiva –, ma restava comunque graziosa. Era bassa di statura e aveva un fisico esile e minuto, una carnagione rosea, e un volto ovale e piacente, con zigomi alti, naso all'insù, labbra a bocciolo occhi neri come la notte. La fronte era alta e l'intero viso era incorniciato da una cascata di capelli neri e mossi, che spesso la principessa lasciava ricadere sulle spalle e sul dorso.
In quel momento era strizzata in un vestito color giallo canarino dal collo alto e dalle maniche lunghe e strette, con una spilla all'altezza del seno e la gonna stretta.
La Regina Cattiva le riservò un'occhiata di sufficienza, poi tornò a rivolgersi al Primo Ministro.
- Partirete il prima possibile - ripeté.
- Domattina stessa, Vostra Maestà.
- C'è altro?
Il Primo Ministro esitò. Non era certo di poter avanzare la sua richiesta senza adirare la sovrana o infastidirla, né se fosse il caso di porla di fronte alla principessa. Ma si disse che Rosarossa non avrebbe comunque compreso, e che la Regina Cattiva stessa gli aveva raccomandato massima discrezione.
- Vostra Maestà, c'è la possibilità che cali la notte prima che io possa fare ritorno al palazzo - disse.- Vi chiederei di fornire un palliativo al mio problema.
La Regina Cattiva lo guardò per un istante, e comprese. Si diresse a grandi passi verso la toeletta, aprì un cassetto e ne estrasse un portagioie d'argento tempestato di perle di fiume. Prese un mazzo di chiavi dalla tasca dell'abito e infilò una di esse nella serratura del portagioie: dentro vi era un sacchetto di stoffa nero, chiuso con una cinturina di cuoio.
La Regina Cattiva lo porse al Primo Ministro, il quale lo intascò e la ringraziò.
Non si scambiarono altre parole. Il Primo Ministro s'inginocchiò nuovamente per salutare la Regina e la principessa, quindi uscì, lasciando la sovrana sola con Rosarossa.
L'atmosfera nella stanza da letto si fece improvvisamente pesante e tesa. Rosarossa si rattrappì su se stessa, torcendosi nervosamente le dita delle mani. La Regina Cattiva sospirò, e si sedette su una poltroncina foderata di velluto viola.
- Non disturbarmi mai più per faccende tanto futili, Rosarossa.
- Sì, Vostra Maestà. Vi chiedo perdono.
- E non dare confidenza a Lady Thorne. E' la tua dama di compagnia, il che la pone allo stesso livello di una serva.
- Desiderava avere suo marito accanto qualora avesse partorito, e ha inviato me a chiarire la situazione con voi per timore che...
- E tu prendi ordini da una inferiore?!
Rosarossa abbassò lo sguardo, paonazza in volto, e si scusò ancora. La Regina Cattiva la guardò, gelida.
- C'è altro che vuoi dirmi?
Rosarossa scosse la testa in segno di diniego, ma quando la Regina la congedò esitò a uscire dalla stanza. La sovrana si spazientì.
- Cosa c'è?
- Nulla, Vostra Maestà.
- Perché sei ancora qui? Cosa stai fissando?
Alla Regina Cattiva non sfuggì lo sguardo della sorella di Biancaneve che correva lungo tutta la sua persona. Rosarossa provò a negare, ma poi ammise la verità.
- Vostra Maestà indossa il colore rosso - soffiò infine.- E' il colore proibito.
La Regina Cattiva rise, una risata che aveva dello scherno e del compiacimento insieme.
- E tu osi farmi una tale osservazione? Tu, con il nome che porti?
Rosarossa si pentì immediatamente di aver aperto bocca. Aveva sempre avuto soggezione della matrigna, ancor prima che si rivelasse nella sua vera natura, e dopo che aveva ucciso re Mathias e sua sorella Biancaneve viveva nel terrore di farla adirare.
Rosarossa aveva perso la madre quando era molto piccola, lei e sua sorella Biancaneve a stento la ricordavano. Il loro padre aveva atteso diversi anni prima di prendere una seconda consorte, e quando aveva sposato la Regina lei e Biancaneve erano subito state messe in ombra dal suo carisma e dalla sua bellezza.
Rosarossa aveva temuto la Regina Cattiva ancor prima che si rivelasse crudele e spietata. Ogni giorno si domandava perché avesse deciso di risparmiare lei, dopo che si era mostrata così senza pietà nei confronti di suo padre e sua sorella maggiore.
La Regina Cattiva le fece cenno di avvicinarsi. Rosarossa ubbidì, con il cuore che aveva preso a martellarle nella cassa toracica. Quando fu abbastanza vicina, la Regina le fece un altro cenno, invitandola ad inginocchiarsi accanto a lei.
Non appena Rosarossa si fu messa in ginocchio, aggrappata al bracciolo della poltrona, la Regina Cattiva le afferrò il mento, premendole le lunghe unghie laccate contro le guance. La principessa emise un gemito di dolore che si affrettò a soffocare.
La Regina Cattiva le regalò un sorriso dolce e gelido.
- Il rosso è il colore del trionfo. Del nostro trionfo - precisò.- E' il colore di cui si tingeranno i tetti e le strade quando l'Oscurità verrà liberata e i fratelli creatori torneranno. Il rosso diventerà il simbolo del potere e non più un vessillo da temere e celare, mia cara Rosarossa. Sarà meglio che lo impari...- le lasciò le guance, ma continuò a tracciarle il contorno della faccia con la punta dell'indice; sfiorò prima il mento poi l'angolo del labbro inferiore, poi tracciò una linea in salita lungo l'orecchio fino alla tempia e poi lo zigomo, dove si bloccò.
La Regina Cattiva ritrasse la mano.
- Cos'è questo?- ringhiò. Prima che potesse difendersi, Rosarossa sentì la mano della Regina affondarle nei capelli dietro la nuca e stringerli con furia. La principessa gridò di dolore e si lasciò sfuggire un gemito.- E'...trucco? Ti sei truccata?
All'angolo della palpebra sinistra di Rosarossa era rimasto un residuo di ombretto rosa. Si era lavata la faccia prima di presentarsi al cospetto della sovrana, ma quell'ombra di trucco le era sfuggita per la fretta e la disattenzione.
- Perdonatemi, io non...
La frase venne mozzata a metà da un sonoro schiaffo. Rosarossa perse l'equilibrio sulle sue ginocchia e finì a terra ai piedi della Regina Cattiva. La sovrana si alzò in piedi, imperiosa.
- Vattene - ringhiò.- Sparisci dalla mia vista, se non vuoi fare la fine di tuo padre!
Rosarossa iniziò a singhiozzare, ma fu rapida a rimettersi in piedi e a lasciare la stanza da letto, non senza prima aver fatto una riverenza con le guance rigate dalle lacrime.
Per l'ennesima volta quella notte, i battenti della porta si richiusero facendo riecheggiare il lori tonfo nella camera.
La Regina Cattiva chiuse gli occhi e sospirò, quindi andò a sedersi alla toeletta. Si ravvivò i capelli con qualche colpo di spazzola, sistemò il rossetto e si alzò ancora, dirigendosi verso lo Specchio.
Fece scivolare a terra la seta che lo ricopriva, e rimirò la propria immagine riflessa come sempre, prima di pronunciare la formula di rito.
- Specchio, Specchio delle mie brame...dimmi, cosa ordisce Rosarossa nelle sue trame?

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Capitolo 7
*** Capitolo V - The Traitor's Offspring ***


Capitolo V
 
The Traitor's Offspring
 
 
 
C'era una volta...un soldato valoroso che tornava
dalla guerra. Nonostante il suo coraggio, le sue tasche erano
vuote e la spada era rimasta la sua unica ricchezza”.
 
H. C. Andersen, L'acciarino magico
 
 
 
 
 
New York, 2015. Ore 2:30 a.m.
 
LA VOCE APPENA METALLIZZATA della giornalista giungeva dal salotto, dalla parte opposta a quella della cameretta. Katie pensò che papà dovesse essersi addormentato un'altra volta di fronte alla TV.
- ...la polizia non ha lasciato alcuna dichiarazione. Sarah Hammonds, nove anni, è scomparsa ieri sera da casa sua, intorno alle ventidue e trenta. La madre, Kelly Hammonds, segretaria presso uno studio legale, sostiene di essere entrata nella cameretta della piccola per controllare se stesse dormendo. La stanza era in ordine, la finestra chiusa dall'interno e non vi era alcun segno di effrazione o colluttazione. La sorella maggiore della bambina, Anne Hammonds, studentessa del liceo, che riposava nella camera accanto, afferma di non aver udito alcun rumore, esattamente quanto riportato dalla stessa signora Hammonds, la quale ha raccontato di aver messo a letto la figlia intorno alle ventuno. Ha aggiunto inoltre che la bambina appariva serena e tranquilla.
La scomparsa di Sarah ha molto in comune con quella avvenuta sabato scorso in un quartiere molto vicino a quello in cui si trova la casa della famiglia Hammonds: Joey Mitchell, sette anni, è scomparso dalla sua cameretta apparentemente senza che nessuno si sia introdotto in casa con la forza per prelevarlo.
Il procuratore Albert Crawford ha assicurato che...
Katie tirò un sospiro di sollievo quando sentì il padre sbadigliare e poi spegnere la televisione. I passi pesanti del papà si trascinarono lungo il corridoio, e un attimo dopo la bambina lo sentì coricarsi a letto. L'intera casa cadde nel buio e nel silenzio.
Katie si raggomitolò sotto le coperte. Era contenta che la voce della giornalista fosse cessata. Mamma e papà guardavano sempre il telegiornale, la sera, ma a lei non piaceva: si sentivano sempre un sacco di brutte notizie, alcune delle quali la spaventavano o comunque la facevano andare a letto con un senso d'inquietudine.
Il rumore di lenzuola che frusciavano la fece sussultare, ma comprese subito che si trattava di suo fratello che cambiava posizione sul materasso. Katie tirò la testa fuori dalle coperte e si sporse dal letto.
- Toby...- chiamò sottovoce, sperando che suo fratello fosse ancora sveglio. Dividevano la stessa stanza, e i due letti erano paralleli l'uno all'altro, quello di Katie sulla destra della stanza e quello di Toby sulla sinistra. Sentì il fratellino mugolare e biascicare qualcosa.- Toby!- ripeté Katie, più forte.
Il bambino si girò a guardarla, assonnato.
- Che c'è?
- Hai sentito cosa hanno detto alla televisione?- sussurrò Katie.
- No...
- E' scomparsa una bambina - nel dirlo, Katie sentì un brivido correrle lungo la schiena.- L'hanno portata via dalla sua cameretta...
- E allora?- borbottò Toby, scocciato.
Katie avrebbe dovuto sapere che intraprendere quella conversazione con Toby si sarebbe rivelato controproducente. Suo fratello aveva otto anni e non temeva niente: era capace di guardarsi un intero film dell'orrore senza nascondere la faccia dietro il cuscino nemmeno una volta, giocava solo con videogames di zombie e collezionava figurine e modellini dei grandi mostri del cinema.
Contro alla parete opposta della stanza, a pochi metri dai loro letti, c'era una cassapanca che Toby aveva dedicato esclusivamente all'esposizione dei suoi modellini. Katie detestava tutte quelle brutte facce: Dracula, Frankenstein, la Mummia, l'Uomo Lupo...quando era buio come in quel momento le sembrava che gli occhi di plastica di tutti quei brutti ceffi prendessero vita e la scrutassero da lontano.
Katie rimase in silenzio per un paio di minuti, poi bisbigliò:- Toby?
Suo fratello sbuffò.
- Secondo te...chi è stato?- chiese Katie, nervosa.
Toby si mise a sedere sul materasso, e sebbene fosse buio sua sorella riuscì a intravedere un sorrisetto furbo e malizioso spuntare sulle sue labbra.
- Ma il mostro sotto al letto, no?
Katie trasalì.
- Non fare lo scemo!
- Io non faccio lo scemo. E' la verità. Sotto il letto di ogni bambino vive un mostro che ogni notte, mentre dormi, esce per controllare che tu stia diventando bello grasso, e quando è ora ti porta via per mangiarti. E gli piacciono soprattutto le bambine noiose e rompiscatole di nome Katie...
- Smettila!- ringhiò la sorellina, arrabbiata; ma il suo cuore aveva iniziato a palpitare più velocemente.
Toby ridacchio.
- E dai, stavo solo scherzando...!
- Non sei divertente!
- E tu sei una fifona - Toby sbadigliò, quindi si rimboccò le coperte.- Non c'è nessun mostro sotto al letto, stai tranquilla. Beh, buona notte...
- 'Notte...- pigolò Katie; dopo qualche minuto, sentì che il respiro di suo fratello si era fatto più pesante, segno che si era addormentato.
Katie rimase immobile a fissare il soffitto, gli occhi spalancati nel buio. Non riusciva a prendere sonno. La cameretta era completamente al buio, lei detestava le tenebre e lo scherzo di suo fratello le aveva lasciato addosso una certa agitazione. Pur sapendo che non avrebbe dovuto farlo, non riuscì a impedirsi di guardare in direzione della cassapanca.
I modellini avevano un'aria ancor più sinistra e spettrale. Il Mostro della Laguna la fissava con la bocca melmosa spalancata e gli occhi vitrei, mentre la smorfia grottesca di Quasimodo non le sembrava così innocua come lo era alla luce del giorno.
Gli occhi della bambina incontrarono il modellino dell'Uomo Nero. Fra tutti i pupazzi di suo fratello, l'Uomo Nero era quello che la spaventava di più: era un mostro color della pece, con artigli al posto delle unghie, occhi rossi e famelici e la bocca contorta in un ghigno.
Katie si tirò la coperta fin sul naso. Non le piaceva, le faceva paura. Il buio e la tensione creavano l'illusione di un brillio negli occhi rossi dell'Uomo Nero, come se al posto della plastica avesse avuto dei bulbi oculari e la stesse...scrutando.
Katie strizzò gli occhi, ma quando li riaprì la sensazione non era scomparsa. L'Uomo Nero era ancora lì a fissarla.
La bambina si mise a sedere sul bordo del letto, cauta. Fece per poggiare i piedi a terra, ma le venne in mente la storia del mostro sotto al letto e li ritrasse. Si morse il labbro inferiore, poi prese un profondo respiro e spiccò un balzo, atterrando in piedi in mezzo ai due letti. Così, pensò, il mostro sotto al letto non avrebbe potuto afferrarle le caviglie e tirarla sotto.
Corse verso la cassapanca, prese l'Uomo Nero e lo chiuse in un cassetto.
Non fece in tempo a sospirare di sollievo che udì un mugolio alle sue spalle. Si voltò pronta a ricevere il rimprovero di Toby – suo fratello non sopportava che qualcuno toccasse i suoi modellini senza permesso –, ma rimase sconcertata: le lenzuola del letto di suo fratello si sollevavano e si abbassavano ritmicamente, come un fantasma fluttuante.
Katie deglutì, avvicinandosi.
- Toby?- chiamò, ma non ottenne alcuna risposta. Il mugolio si ripeté, e Toby scalciò di nuovo contro le lenzuola. O almeno, sperava che fosse Toby. Da dove si trovava, non riusciva a vedere la testa di suo fratello.
- Toby?- chiamò ancora.
Le lenzuola si sollevarono e si riabbassarono per l'ennesima volta, poi non si mossero più. Rimase solo una collinetta immobile e raggomitolata su se stessa, agitata solo da un flebile respiro sottostante.
- Toby?
La bambina arrivò sino al bordo del letto, nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la testa di suo fratello, ma Toby era invisibile; si distingueva solo la sua sagoma rannicchiata sotto le lenzuola.
- Toby?
Katie deglutì e allungò il braccio verso il letto. La mano le tremava. Scostò di scatto il lenzuolo.
Sgranò gli occhi e incespicò nel tentativo di allontanarsi.
Suo fratello non c'era. Toby era sparito.
C'era solo il materasso vuoto.
Katie iniziò a respirare affannosamente, con il cuore che sembrava volerle saltare via dal petto. Avrebbe voluto urlare, cercare suo fratello, correre ad avvisare mamma e papà, ma tutto ciò che riusciva a fare era fissare il segno sul materasso che rivelava che un tempo Toby era coricato in quel punto.
Udì un fruscio, prima lieve, poi più marcato.
Il buio. L'Uomo Nero. Il mostro sotto al letto.
Katie abbassò lo sguardo sui suoi piedi nudi, vicinissimi al letto di Toby.
Un paio di mani secche, nere e nodose spuntarono da sotto di esso e si avvolsero intorno alle caviglie della bambina.
Katie gridò e cadde a terra. Tentò di liberarsi, ma quelle mani avevano una forza straordinaria.
Fuori, nel corridoio, sentì i suoi genitori correre verso la cameretta. Fu un fugace barlume di speranza, ma inutile.
Gridò di nuovo mentre veniva trascinata sotto al letto, verso l'oscurità.
 
***
 
LA CARTA DEL FANTE di fiori andò a coprire il tre di denari.
Rosarossa si mordicchiò un angolo del labbro inferiore, studiando le carte che le erano toccate in sorte. Il fante valeva undici punti, soglia molto vicina alla carta del cavallo – dodici punti, la prima che lady Thorne aveva posato e che nessuna delle due era ancora riuscita a superare – e lei aveva fra le mani solo un dieci di picche, un nove di cuori, un cinque e un due di denari.
- Desidero pescare un'altra carta - annunciò.
- Mi lasciate via libera, Vostra Altezza - lady Thorne sorrise e calò la seconda carta di seguito: un dieci di cuori. Rosarossa sperò che le toccasse in sorte un asse, una regina o un re, e invece quando pescò dal mazzo ottenne solo un due di fiori.*
Lo calò senza entusiasmo.
Lady Thorne ridacchiò, quindi calò a sua volta la propria carta: la regina di denari.
Rosarossa osservò in silenzio mentre la sua avversaria effettuava la presa, vincendo la prima mano.
- Oggi sono fuori forma - commentò, pur sapendo di mentire. Non era mai stata brava a presa; quando era più piccola, non le era mai riuscito di vincere una sola mano contro sua sorella Biancaneve.
- No, Vostra Altezza. Siete solo sfortunata - lady Thorne sistemò il mazzo di carte appena vinto.- La presa è un gioco di fortuna. Non è come la zara, in cui occorrono strategia ed esperienza.
- Restate comunque la vincitrice.
Si trattava di una conversazione terribilmente tediosa e ricca di luoghi comuni, ma Rosarossa non fece neppure un tentativo per darle un tocco di colore. Perfino il silenzio che ne seguì fu totalmente privo di tensione.
Rosarossa si concesse qualche secondo per distrarsi ed ascoltare il crepitio delle fiamme nel camino acceso.
Non era mai venuta a conoscenza di quell'alloggio, prima che la Regina Cattiva disponesse che vi ci si trasferisse. Il che era buffo, dato che quel castello era stato la dimora di suo padre, e lei era una delle principesse; la logica avrebbe voluto che conoscesse ogni angolo del palazzo come le proprie tasche.
Invece, non era così.
Lei e sua sorella maggiore avevano trascorso l'infanzia quasi esclusivamente nella nursery dell'Ala Sud del castello, e raramente la lasciavano se non per cenare in compagnia del padre una volta alla settimana. Quando suo padre era ancora vivo, il palazzo reale era un luogo degno del nome che portava, non una fortezza militare.
Rosarossa sapeva poco del castello, e ancora meno conosceva della vita fuori di esso. Il re aveva specificatamente proibito qualsiasi forma di contatto con l'esterno alle sue due figlie. Rosarossa era molto piccola quando la regina era morta, non avrebbe saputo dire se la sua teoria si avvicinasse alla realtà o fosse solo frutto di un'ipotesi, ma sospettava che dopo la scomparsa della prima moglie, il re avesse iniziato a soffrire d'ipocondria.
Se c'era qualcosa che ricordava molto bene era il furioso strofinio della spugna contro la sua schiena ogni volta che le cameriere e la governante le facevano il bagno. Tutti là dentro tenevano in modo morboso che lei e Biancaneve fossero linde e pulite, vestite di tutto punto e in ottima salute.
Quando una delle due buscava un piccolo raffreddore, si scatenava un affannoso via vai e una sfilata di dottori ed erboristi fino a che il malanno non era passato.
Ogni volta si temeva che le due principessine avessero contratto la stessa misteriosa malattia che aveva portato la loro madre alla morte.
Rosarossa non sapeva come fosse morta la regina, così come non lo avevano mai saputo nemmeno Biancaneve, il re, i medici di corte o chiunque altro le fosse vicino. Si sapeva solo che la consorte di Sua Maestà aveva sempre goduto di una salute invidiabile, fino a che un giorno non aveva iniziato ad accusare debolezza, poi febbre molto alta, fino a che non si era messa a letto e qualche settimana dopo era morta. Tutto qui, nulla più e nulla di meno. La facilità con cui i demoni del Regno delle Ombre se l'erano portata via era disarmante.
Poco tempo dopo i solenni funerali, Biancaneve e Rosarossa erano state segregate nelle loro stanze, con la sola compagnia delle balie, della governante e delle cameriere. Trascorse un anno prima che potessero uscire di nuovo, e fu in occasione delle seconde nozze del padre.
- Desiderate giocare un'altra partita?- domandò lady Thorne; aveva l'aria rilassata, sprofondata nella poltroncina. Indossava un lungo vestito color lavanda, di seta, senza decorazioni fatta eccezione per una spilla a forma di goccia, d'oro con incastonate delle perle di fiume, all'altezza del seno. Il ventre prominente le impediva d'indossare il corsetto.- O preferite che vi legga qualcosa? Posso anche suonare il pianoforte, se lo volete.
Si accarezzava il pancione mentre parlava. Lady Thorne era al nono mese di gravidanza, e attendeva il suo secondo bambino di lì a poco. Solo il giorno prima era stata colta da una forte contrazione mentre cenava con la principessa Rosarossa, e sebbene fosse stato chiaro che non era ancora giunto il momento del parto, era stato altrettanto cristallino che il secondogenito del capitano Thorne avrebbe fatto la loro conoscenza a breve.
Lady Thorne aveva avuto il suo primo figlio a trentadue anni, abbastanza tardi per una donna sposata. Questa seconda gravidanza giungeva diversi anni dopo la prima, e la donna era parecchio in agitazione. Non smetteva mai di ringraziare Sua Maestà per la benevolenza e le cure concessale.
Già, realizzò Rosarossa, la Regina Cattiva sembrava essere molto interessata alla questione. Pareva che la salute di lady Thorne e del suo bambino non ancora nato le stesse sinceramente a cuore. Le aveva ordinato personalmente di non affaticarsi troppo e di riposare il più possibile, aveva convocato a palazzo tre medici solo per lei e due levatrici, aveva fatto in modo che le stanze di lady Thorne fossero il più confortevoli possibile, s'informava regolarmente sulla salute della donna e del neonato in arrivo e aveva perfino domandato se non occorresse una balia per tenere occupato il primo figlio dei coniugi in modo che non disturbasse la madre.
La principessa non sapeva se esserne sorpresa. La Regina Cattiva non era mai stata un tipo materno, non con lei e con Biancaneve; ma non si poteva negare che alcuni fanciulli nel corso del tempo avessero goduto del suo favore.
Come la sua ex protetta.
O come il primogenito del capitano Thorne e di sua moglie.
Rosarossa volse il capo verso il bambino in questione, mentre rispondeva alla madre.
- Non vorrei che vi stancaste - mentì. Non le importava granché di lady Thorne, né del suo bambino. Non quello che doveva ancora nascere, almeno.
- Oh, non preoccupatevi! Di certo non mi ucciderà.
Rosarossa sentì il cuore perdere un battito, a quell'affermazione.
- Come procedono gli studi di vostro figlio?- domandò per cambiare discorso. Non smise di guardare il ragazzino seduto sul pavimento in un angolo della stanza, mentre parlava.
Lady Thorne aveva un disgustoso atteggiamento da mamma chioccia. Non si spostava mai senza trascinarsi dietro il suo primogenito, o se proprio non poteva farne a meno, senza assicurarsi dove fosse e se stesse bene.
Quel giorno non aveva fatto eccezione.
Il primo figlio dei coniugi Thorne era accovacciato piuttosto lontano da dove la madre e la principessa stavano sedute, incastrato fra una libreria e una dormeuse. Il salottino era grande, di forma quadrata e arredato in ogni millimetro con mobili scuri e tendaggi pesanti, eppure il ragazzino era riuscito a trovare uno spazio in cui sistemarsi senza infastidire le altre due donne.
Teneva il capo abbassato così che il volto fosse interamente nascosto dalla massa di riccioli neri. Era concentrato nel suo gioco, una serie di soldatini di legno che aveva disposto in file di fanteria contro un drago di carta che aveva colorato e ritagliato.
- Molto bene. Sua Maestà vi avrà messa al corrente della cosa.
- Di che parlate, lady Thorne?
- Ha proposto a mio marito di far cominciare a Rael un addestramento militare in capo a un anno o due. Stando a quanto egli mi ha riferito, Sua Maestà ritiene che il bambino abbia la costituzione e la tempra adatta a divenire un soldato come il padre.
- Se Sua Maestà vede in lui del potenziale, io non sono nessuno per contraddirla - rispose la principessa Rosarossa, sgarbatamente. Lady Thorne la guardò perplessa, di sicuro non si capacitava del perché di tanta maleducazione.
Ma tu sei solo una dama di compagnia, pensò Rosarossa malignamente. Lady Thorne non poteva ribattere di fronte alla villania, se proveniva da qualcuno a lei superiore.
Concordarono di sfidarsi un un'altra partita di presa.
Rosarossa rifletté, mentre pescava le proprie carte dal mazzo, sulla decisione della Regina Cattiva di addestrare Rael Thorne. Il primo figlio del capitano e di sua moglie era un bambino di cinque anni, alto per la sua età, ma magrolino e allampanato, con i lineamenti sottili e piuttosto bruttino, con un naso e delle labbra troppo grandi per il suo volto.
Aveva inoltre un carattere molto mite e tranquillo. Rosarossa vedeva tutto in lui tranne che un soldato.
Quel dettaglio, unito all'interessamente per la gravidanza di lady Thorne, per Rosarossa era il chiaro segno che la Regina Cattiva volesse qualcosa dalla famiglia del capitano.
Guardò prima la sua dama di compagnia, poi il pancione nascosto sotto la stoffa dell'abito e infine sbirciò in direzione di Rael Thorne, ancora impegnato nella sua immaginaria guerra contro un drago finto. Sperò che, qualunque cosa la Regina Cattiva avesse in serbo per loro, fosse crudele e spietato.
Li odiava. Tutti e tre.
 
Il brillio d'astio negli occhi neri di Rosarossa fu l'ultima immagine che lo Specchio mostrò alla Regina Cattiva, prima di tornare a riflettere il volto gelido e incantevole della sovrana.
 
***
 
NESSUNA DELLE DUE sorelle Hadleigh profferì parola mentre seguivano la Fata Turchina. Di tanto in tanto Elizabeth lanciava delle occhiate preoccupate a sua sorella, che però non le restituiva nemmeno lo sguardo. Non percorsero molti metri prima che la maggiore delle Hadleigh mettesse un piede in fallo e incespicasse.
Riuscì a mantenere l'equilibrio, ma il movimento inconsulto attirò l'attenzione della Fata Turchina.
- Siete ancora scosse, posso capirlo. Tu soprattutto non mi sembri del tutto lucida - accennò ad Anya.- Prendi la mano di tua sorella.
Anya non si mosse. Elizabeth decise di prendere l'iniziativa, ma si limitò solo a stringere un lembo della manica di sua sorella fra il pollice e l'indice. Temeva che se avesse toccato Anya questa avrebbe avuto una brutta reazione, anche se non sapeva esattamente che reazione e quanto brutta.
- Brava. Ora chiudete gli occhi, sarà questione di un attimo.
Elizabeth socchiuse le palpebre e trattenne il respiro. Si sentì improvvisamente leggera, senza preoccupazioni e quasi intontita, come se fosse a un passo dal cadere addormentata.
Riaprì gli occhi di scatto, e vide che non si trovavano più nella Foresta Incantata.
Intorno a loro si ergevano quattro pareti di legno, e le loro teste erano riparate da un soffitto di paglia. C'era solo un tavolo con una sedia contro il muro alla loro sinistra, mentre davanti e dietro di loro c'erano due porte.
La Fata Turchina si guardò intorno con un sorrisetto soddisfatto.
- La zona non è del tutto sicura ma lo è abbastanza. Chiedo scusa, provvedo subito...- allungò il braccio destro di fronte a sé, sfregò il medio, l'anulare e il mignolo contro l'indice e il pollice e dalle sue dita cadde una polverina simile a sabbia.
La Fata Turchina fece cadere la polvere in quattro mucchietti a distanza eguale fra di essi; quando ritrasse il braccio, i mucchietti iniziarono a crescere in verticale, formando quattro colonne di legno; a loro volta esse si unirono a formare un quadrato sopra di esse, poi uno schienale e dei braccioli.
- Non sono abituata ad avere ospiti. Una seconda sedia è d'obbligo, in questo caso - sorrise, poi accennò alla porta alle loro spalle.- Là potrete darvi una rinfrescata. C'è un catino e una vasca da bagno. Chiedete all'acqua.
- All'acqua?
- Basterà un per favore.
Elizabeth era sicura che sua sorella stesse per avere un crollo nervoso. Anya sembrava l'unica vittima superstite a un massacro perpetrato da Jason Voorhes – pallida e tremante, con i capelli che le ricadevano disordinatamente sugli occhi e lo sguardo assente. Era la prima volta che Elizabeth la vedeva in quello stato, sconvolta e senza più padronanza di sé, ma non poteva biasimarla.
Sebbene non potesse vedersi in faccia, a pensarci bene, lei non doveva essere conciata tanto meglio.
Elizabeth aveva la certezza assoluta di due cose: primo, non erano più a New York, bensì nel Regno delle Favole, come lo aveva chiamato papà; secondo, lì c'era qualcosa che non andava.
Il solo essere stata quasi accoltellata da Biancaneve e sbranata da un lupo umanoide era un chiaro invito a bruciare tutte le idee che si era fatta leggendo i libri di fiabe da bambina.
A quel pensiero, sentì la tracolla intorno alla spalla farsi più pesante.
La Fata Turchina fece loro segno di andare verso la porta. Elizabeth tirò sua sorella per una manica e la trascinò in quello che aveva tutta l'aria di essere un piccolo bagno. Richiuse la porta: c'erano effettivamente un catino e una vasca da bagno molto somigliante a quelle di epoca vittoriana che si vedevano a volte nei musei, alta e sorretta da piedistalli a forma di zampa di leone.
In cima a essa c'era una finestrella di forma quadrata.
Non c'era acqua nel catino o altrove, nemmeno una brocca che potesse contenerla. Elizabeth si chinò sulla vasca, mordendosi l'interno della guancia. Sapeva che era stupido, ma...
- Ehm...uhm...- pensò a cosa dire.- Potresti...ehm...- sussurrò.- Potresti riempire la vasca, per favore?
Sul fondo della vasca cominciò a formarsi una piccola pozza d'acqua, che andò espandendosi fino a essere alta almeno dieci centimetri. Elizabeth sorrise.
- Ehi!- bisbigliò.- Hai visto?
Anya sembrava essersi ripresa. Ignorò sia lei sia la vasca, e raggiunse la finestra. Si sollevò sulle punte e alzò le braccia per cercare di raggiungerla, e quando capì che in questo modo non avrebbe ottenuto niente si aggrappò con entrambe le mani al davanzale e puntellò uno stivaletto contro il bordo della vasca per sollevarsi.
- Reggimi, su!- la incitò. Elizabeth corse a prenderla per i fianchi non tanto per aiutarla a salire quanto per evitare che si rompesse qualche vertebra in una eventuale caduta.
- Che stai facendo?
- Shhht!- la zittì malamente Anya.- Aiutami a salire...!- sillabò poi a fior di labbra, con i gomiti appoggiati al davanzale e senza toccare il pavimento.- Tu da qui non ci passi di sicuro, ma io posso uscire e poi trovare il modo di aprirti la porta...!
- Ma non credi che sia un po'...
- Io non lo farei, se fossi in te - giunse la voce della Fata Turchina dall'altra stanza; Elizabeth non avrebbe saputo dire se fosse stata la sorpresa o se fosse solo scivolata, ma Anya lasciò andare la presa e lei si ritrovò a sorreggerla per aiutarla a rimettersi in piedi senza che le cadesse addosso; sua sorella la ringraziò guardandola come se fosse tutta colpa sua.- Rischi veramente di farti male salendo sulla vasca per uscire dalla finestra. E' molto più conveniente usare la porta d'ingresso. Senza contare che di questi tempi è poco sicuro uscire di notte e senza una protezione.
Calò il silenzio da entrambe le parti. Anya afferrò le mani di Elizabeth e le tirò via dai propri fianchi con malgarbo, poi si ravvivò i capelli.
- Come faceva a sapere che ero salita sulla vasca?- bofonchiò.
- Fate pure con comodo. Quando uscirete troverete qualcosa di caldo da mettere sotto i denti.
 
Anya non permise a Elizabeth di lavarsi, nemmeno le mani o la faccia. Le disse che non dovevano toccare niente di cui non fossero totalmente certe della provenienza o dell'inoffensività.
- E dell'acqua che spunta dal niente in casa di una sconosciuta non risponde a nessuno dei requisiti.
- Ma non credi che...
- Pronuncia la parola magia e sei morta!
La Fata Turchina aveva preparato loro una zuppa di verdure che sembrava veramente deliziosa, ma Anya ordinò fra i denti a Elizabeth di non provare neanche a berla. Fu per non sembrare maleducata che la minore delle sorelle Hadleigh si decise a cominciare una conversazione.
- Ehm...noi...- si umettò le labbra.- Noi...la ringraziamo molto, signora.
- Sono la Fata Turchina.
Anya sbuffò e alzò gli occhi al cielo. La Fata Turchina ridacchiò e guardò Elizabeth.
- Tua sorella ancora sembra scettica. Ma è comprensibile, provenendo da un mondo molto diverso da questo.
- Io sono convintissima - la rimbeccò Anya.- Più che convinta. Con tutto il casino che è successo sarebbe da imbecilli non essere convinti. Ma le chiedo scusa se ancora fatico ad accettare che siamo finite nel Paese delle Meraviglie o quello che è...E comunque, lei come fa a sapere da dove veniamo o che siamo sorelle?
- Veramente questa è la Foresta Incantata. Il Paese delle Meraviglie è parecchio distante da qui.
Anya la guardò come per chiederle se la stesse prendendo in giro o no.
- Sarò felice di disegnare per voi una mappa, se lo vorrete - continuò la Fata Turchina come se nulla fosse.- Vi sarà di sicuro utile.
- No, per niente - Anya si mise a sedere dritta.- Senta, noi la ringraziamo per averci tirato fuori dai guai e per aver mandato via quel...qualunque cosa fosse. Però adesso io e mia sorella vogliamo tornare a casa. Non sappiamo neanche come siamo finite qui, a dira tutta...
- Comprensibile. In effetti, avevo sospettato che il vostro primo desiderio sarebbe stato questo...
- Bene. Ci dica da che parte è la strada e noi togliamo il disturbo - Anya si alzò in piedi e tirò Elizabeth per un braccio affinché facesse altrettanto; la minore delle sorelle rimase però seduta quando la Fata Turchina chiese loro di aspettare.
- Prima che andiate, tuttavia, vi chiederei di ascoltare ciò che ho da dire.
Anya si ributtò a peso morto sulla sedia.
- Sentiamo - sbuffò.
Elizabeth si sentiva profondamente in imbarazzo per la sgarbatezza di sua sorella. Era consapevole che la Fata Turchina non avesse cattive intenzioni – chiunque voleva far loro del male, in quel posto, ci aveva provato senza tanti salamelecchi – e anzi stesse cercando di aiutarle, ma Anya questo non riusciva o non voleva capirlo.
Comprendeva che sua sorella, visto anche il carattere che si ritrovava, non volesse accettare quella realtà e desiderasse solo tornarsene a casa – anche lei lo voleva –, ma un po' di collaborazione da parte sua non avrebbe guastato.
La Fata Turchina si strinse nel suo scialle di lana e le rughe sul suo viso si fecero più scavate. Elizabeth in quel momento pensò che non aveva per niente l'aspetto di una fata; sembrava piuttosto una donna stanca e provata dalla vita.
- So come conoscete i nostri regni, nel vostro mondo - esordì.- Alexander al tempo fece in modo che la vera storia di questi luoghi giungesse alle orecchie dei bambini nel modo più bello e lieto possibile.
- Chi è Alexander?- si lasciò sfuggire Elizabeth. Anya si accigliò, nemmeno lei sapeva di chi stesse parlando la Fata Turchina. Quest'ultima si mostrò sorpresa, ma non soddisfò la loro curiosità.
- Immaginavo anche questo. Non importa. Lo saprete a tempo debito - sospirò.- So che conoscete almeno alcune delle storie che vengono narrate su questo posto. Di certo Richard non vi avrà tenute del tutto all'oscuro.
- Intende...le fiabe?- Anya pronunciò quella frase come se stesse raccontando una barzelletta.- Certo, ovvio. Chi non ne conosce almeno una? La differenza fra leggere una fiaba e scoprire che tutta questa roba è vera, però...
- Vi sarete rese conto - la Fata Turchina la interruppe.- Vi sarete rese conto che...quanto vi hanno raccontato è molto diverso da ciò che avete visto.
- Sta dicendo...- Elizabeth si sporse in avanti.- Sta dicendo che...la realtà...voglio dire...- cercò di trovare le parole adatte.- Questo posto...è il luogo dove vivono tutte le fiabe, ma che non sono come ce le hanno raccontate?
- Un tempo lo erano. Dopo che l'Eroe anni fa...ecco...quello che dovete sapere è che questo mondo ha attraversato tempi molto bui. Poi, qualcuno giunse in nostro aiuto e cacciò il Male...ora però l'Oscurità sta per tornare, e tutto quanto sta cambiando. Purtroppo temo che il Male abbia intaccato anche gli animi del Dipartimento Favole.
- Conosce il Dipartimento Favole?- chiese Elizabeth.- Noi siamo venute qui seguendo nostro padre...beh, abbiamo visto delle insegne recanti quella dicitura vicino a...- s'interruppe.
- Mi fa piacere che Richard abbia tenuto il segreto, stavolta. Il Dipartimento Favole è una sezione della polizia del vostro mondo. Fu fondata anni fa da Alexander Hadleigh. I poliziotti che lavorano al suo interno si occupano di mantenere l'ordine in questo mondo.
- Alexander Hadleigh?- Anya fece una smorfia.- Non...non è un nostro parente, vero?- guardò sua sorella per cercare conferma.- E lei come conosce nostro padre?
- Tutti lo conoscono.
Le rughe agli angoli della bocca della Fata Turchina s'inclinarono impercettibilmente, ma a nessuna delle due ragazze sfuggì. Era come se quell'essere magico provasse disgusto nel parlare di Richard Hadleigh.
- Senta...qualsiasi cosa abbia combinato, noi non c'entriamo niente - disse Anya, sulla difensiva.
- Purtroppo temo che tu sia nel torto.
- Sta scherzando?!- boccheggiò la maggiore delle sorelle Hadleigh.- Non può prendersela con noi per qualsiasi cazzata abbia fatto nostro padre.
- Mi hai frainteso. Non sono io che la penso in questo modo. E' la profezia a stabilirlo.
- Una profezia?- Elizabeth si torse le dita delle mani.- Ci...ci hanno accennato a una profezia, vero?- balbettò, guardando la sorella. Anya le sferrò un calcio nel polpaccio.
- Vuoi stare zitta?!- ringhiò.
- Chi? Chi è stato?- incalzò la Fata Turchina.
Elizabeth esitò, poi rispose.
- Tremotino.
- Tremotino?!
- L'abbiamo incontrato nel bosco, prima che quella bestiaccia cercasse di ammazzarci - intervenne Anya.- Non sappiamo se sia il suo nome, lui ha detto di chiamarsi così.
- Come avete fatto a estorcergli questa informazione?
Le ragazze si strinsero nelle spalle.
- Non l'abbiamo fatto - rispose alla fine Elizabeth.- Ce l'ha detto lui.
La Fata Turchina non sembrava in grado di capacitarsi della cosa. Stette in silenzio per due o tre minuti interi, senza guardarle, persa nelle sue riflessioni. Infine, scosse il capo.
- L'ho sentita nel momento in cui mi sono avvicinata a voi. Sicuramente l'avrà sentita anche lui.
- Sentito che cosa, scusi?- gracchiò Anya, che ci stava capendo sempre di meno.
- La scintilla.
La Fata Turchina si avvicinò ad Anya. Le sfiorò la fronte con la punta delle dita, e la ragazza subito si ritrasse. La Fata Turchina non se la prese.
- E' debole - constatò.- Ma pare destinata a crescere.
- Cosa?!
- La magia. Scorre in ognuna di voi due, ma è ancora flebile. Avrà bisogno di tempo ed esercizio per svilupparsi.
- No, chiedo scusa, ma se c'è una cosa che non scorre qui è proprio la magia - la rimbeccò Anya, sempre sulla difensiva, ma la Fata Turchina l'ignorò. Si volse verso Elizabeth e le tese il palmo aperto.
- Posso avere la tua mano, per favore? La destra.
Elizabeth gliela porse. La Fata Turchina la esaminò pensierosa, accarezzandole il dorso fino alla punta delle dita. Corrugò la fronte.
- Ti ha toccato, vero? Lui, Tremotino, ti ha toccato...
- Sì - Elizabeth ricordò quella sensazione spiacevole, quella scossa che aveva avvertito quando si erano inavvertitamente sfiorati.- Per un secondo. Mentre gli passavo questo - decise che tanto valeva vuotare il sacco, sia in senso letterale che metaforico; estrasse il libro di favole dalla borsa.- Questo l'ho trovato nel mio zaino questo pomeriggio - spiegò.- Non ce l'ho messo io e non so chi possa essere stato. L'avevo lasciato a casa quando sono uscita ed è ricomparso nella mia borsa...e...noi...noi abbiamo visto...cose strane...
- Sì - il volto della Fata Turchina sembrò distendersi; sfiorò appena il libro di favole, poi ritrasse la mano come se avesse paura di scottarsi.- I tasselli stanno andando al loro posto.
- Posso avere i sottotitoli in una lingua che conosco, per cortesia?- sbottò Anya.
- Tremotino non concede il proprio nome a chiunque - spiegò velocemente la Fata Turchina.- Per lui non esistono semplici presentazioni. Ha delle regole tutte sue che segue alla lettera e che si è obbligati a seguire se si vuole uscire indenni dal suo gioco. Usa il proprio nome e quello delle persone come un oggetto che concede potere a chi lo possiede. Se ve l'ha detto, allora vuole qualcosa da voi. Hai detto che gli hai passato il libro?
- Sì, voleva esaminarlo. Ma questo è stato dopo che ci ha detto il suo nome. Ha chiesto di poter vedere il libro in cambio di informazioni.
- Come mai non l'ha preso?
Elizabeth fece spallucce.
- Perché avrebbe dovuto prenderlo?- inquisì Anya.
- Perché uno come lui non si fa sfuggire un'occasione come questa quando gli si presenta. In qualche modo, siete riuscite a eludere l'accordo.
- Vuol dire che siamo state brave?- la maggiore delle sorelle inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto.- Forse era perché era incazzato che ci ha mollate in balia di quell'animale.
- Credo che volesse mettervi alla prova.
- Vedere se saremmo sopravvissute o no?- Elizabeth ripose il libro nella borsa.
- Proprio così. Ha sentito che in voi c'è la scintilla. E ha pensato che, se una di voi era la ragazza della profezia, allora sarebbe sopravvissuta. Era una prova, e ora ha la certezza che la Salvatrice sia arrivata. Ragazze, ascoltatemi attentamente: qualsiasi cosa succeda, non fidatevi mai di Tremotino.
- Insomma, che cos'è questa profezia?- chiese Anya.
- Cosa vi ha detto Tremotino in merito?
- Nulla di chiaro. Ce l'ha solo accennato, fregandoci come due sceme.
La Fata Turchina restò in silenzio. Arretrò di un passo e nascose una mano sotto lo scialle.
- Il mio re mi ha affidato questo compito - sospirò.- Ora è giusto che dia a voi quello che vi spetta.
Elizabeth non avrebbe saputo spiegare come mai, ma si aspettava qualcosa di spettacolare. Pensava che la Fata Turchina avrebbe donato loro una bacchetta magica, un ciondolo d'oro, una corona...rimase abbastanza delusa quando si vide porre un pezzo di pergamena ingiallita piegato in quattro.
- Fate attenzione - si raccomandò.- E' molto importante.
Elizabeth aprì il foglio ed Anya si sporse per leggere insieme a lei.
 
Vicina è l'ora, lenta l'agonia
dei Fratelli Creatori il malvagio ritorno s'avvicina.
Prossimo è il momento, della Luna di Sangue il tempo è giunto,
tredici volte la purezza verrà corrotta,
tredici volte l'innocenza sarà violata,
tredici volte la speranza cadrà infranta.
Lenta sorge la Luna, l'Oscurità s'appressa,
del fine lieto si disperderà l'ombra.
I peccati dei padri saranno purificati,
del traditore figlio della salvezza la discendenza giungerà.
La Salvatrice a libertà giungerà, le cinque Chiavi ella conquisterà.
Solo un sogno infranto guarirà la ferita.
Solo la bellezza nella morte riporterà la vita...
 
Il testo s'interrompeva bruscamente in fondo alla pagina. Le due ragazze si guardarono, frastornate.
- Sembra...sembra un indovinello...- mormorò Elizabeth.
- Sin dal primo momento in cui il Male venne cacciato da questo mondo si è parlato del ritorno di un'epoca buia, in cui ogni barlume di speranza e felicità sarebbe stato cancellato. In cui il lieto fine sarebbe scomparso. Ora, dati gli ultimi avvenimenti, è chiaro che quest'epoca è giunta. Ma c'è ancora una speranza. Chi sta facendo tutto questo non potrà portare a termine il suo obiettivo senza la Pietra del Male.
- La Pietra del Male?- fece eco Elizabeth, quasi in trance.
La Fata Turchina annuì.
- E' un oggetto molto potente. Molti ancora credono che sia solo una leggenda, ma non è così. Alexander Hadleigh la nascose quando l'Oscurità lasciò questo mondo, nessuno sa dove sia. E se cadesse nelle mani sbagliate, non oso pensare a cosa...- s'interruppe, turbata.- La profezia che avete appena letto, però, parla di una Salvatrice. Un essere femminile che non appartiene a questo mondo, che sarà in grado d'impedire il ritorno dell'Oscurità. E dei fratelli Grimm...- la Fata Turchina sospirò.- Ma vi avverto, non sarà semplice. Solo Alexander Hadleigh sapeva dove fosse la Pietra del Male, e anche le Chiavi sono ben nascoste. Sono l'unica cosa che possono rivelarne l'ubicazione.
- Se ho capito bene, il sogno infranto e la bellezza della morte sono due delle Chiavi...- disse Elizabeth.
- Suppongo di sì. Purtroppo la profezia non è completa, e nessuno sa quali siano le altre tre Chiavi...
- Non che i primi due siano molto chiari - borbottò Anya.- Che accidenti vogliono dire sogno infranto e bellezza nella morte? E soprattutto, perché sta facendo leggere questa roba a noi? Non sarebbe meglio se vi metteste tutti a cercare questa Salvatrice?
- A giudizio mio e di molti altri – Tremotino incluso – la Salvatrice è una di voi.
Anya ammutolì. Vide che sua sorella pendeva dalle labbra della Fata Turchina, sembrava dimentica di tutto, del guaio in cui si trovavano, di ciò che avevano passato, del fatto che ancora non sapessero come fare a tornare a casa...Anya s'impose di mantenere almeno lei un briciolo di lucidità. L'intera vicenda l'aveva sconquassata, e le parole di quella Fata Turchina dei suoi stivali non facevano altro che confonderla.
Doveva rimanere fredda e obiettiva.
- E...non che me ne freghi, è giusto per togliermi una curiosità...su che base lei e quel fenomeno da baraccone nel bosco pensate questo?
- Non vi è altra soluzione. Alexander Hadleigh salvò questo mondo un tempo, e la profezia parla della discendenza di un traditore, a sua volta figlio di una grande salvezza. Voi siete giunte qui nell'ora più buia...non può essere che una di voi.
- Scusi, ma non è possibile che si tratti di qualcun'altra?- insistette Anya.- Insomma, non possiamo essere le uniche Hadleigh al mondo. E poi, non conosciamo nessuno che si chiami Alexander e...okay, papà non è il massimo, ma da qui a dargli del traditore...traditore di cosa o di chi, peraltro?
- La profezia non mente.
- Un consiglio spassionato, fata, la prossima volta che raccoglie qualche altro poveraccio nel bosco, sia meno criptica!
- Chi è la ragazza della profezia?- chiese Elizabeth.- Ammesso che sia una di noi...qui si parla di una sola Salvatrice. Chi è? Noi siamo in due...se tutto ciò fosse vero, una delle due è la Salvatrice e l'altra...
- ...è la povera sfigata che s'è trovata in mezzo senza un perché - concluse Anya a mezza voce.
- Questo nessuno è in grado di dirvelo. Dovrete scoprirlo da voi.
- Noi non scopriremo proprio niente!- Anya si alzò in piedi e stavolta diede a Elizabeth uno scossone così violento da farla alzare dalla sedia a forza.- Abbiamo ascoltato quello che aveva da dirci. Ora per favore ci aiuti a tornare a casa...e per favore, di idiota che gioca con le parole ne abbiamo già incontrato uno.
- Dunque...- la Fata Turchina le guardò entrambe.- Dunque, non accettate il vostro destino?
- Con tutto il rispetto...- Anya si umettò le labbra.- Io credo che il destino non esita. Semmai esiste la sfortuna, e noi oggi ne abbiamo avuta abbastanza - bloccò la reazione di protesta di sua sorella sul nascere.- Non sappiamo niente di questa storia, Liz. Non dovremmo nemmeno essere qui, ti rendi conto? Anche ammesso che questa storia della Salvatrice sia vera...e ho i miei dubbi...anche ammesso che lo fosse, andremmo completamente alla cieca. Mi spiace, ma non siamo due eroine, siamo due persone normali. Faremmo solo dei gran casini - tornò a rivolgersi alla Fata Turchina.- Senta, davvero, mi spiace tanto ma non insista.
- Non posso sperare in un vostro cambiamento d'idea?
- Siamo decise. Cerchi di capire, noi...noi non c'entriamo niente con questa storia. Non c'entriamo niente con questo mondo!- aggiunse con enfasi.- Noi viviamo a New York nella...realtà. Ed è lì che dobbiamo tornare, perciò per favore adesso ci dia una mano...
- Capisco...- la Fata Turchina sospirò, palesemente delusa.- Comprendo le vostre ragioni, e non posso fare nulla per fermarvi. Quando uscirete da qui, andate verso nord. Troverete ancora qualche poliziotto del Dipartimento Favole, forse anche vostro padre. Dite che vi mando io. Vi riporteranno a casa loro...
 
Il Primo Ministro scivolò rapidamente dietro il tronco di una quercia. Grazie all'Amuleto viaggiare tramite i passaggi magici era più sicuro e non si correva il rischio di sbagliare destinazione. Sua Maestà la Regina aveva fatto in modo che tutti i passaggi fossero incantati in modo da non permettere a nessuno senza un Amuleto di utilizzarli come un tempo.
Nascose l'Amuleto nella camicia e si coprì la parte inferiore del volto con il bavero del mantello, calandosi anche il cappuccio sul capo per mimetizzarsi meglio. La notte e la tenuta completamente scura gli permettevano di nascondersi e di muoversi più facilmente.
Impugnò saldamente l'arco ed estrasse una freccia dalla faretra.
Inspirò a fondo l'odore di muschio e di erba umida, di legno e di aria pura. Ricordò i tempi in cui il bosco era la sua casa, i tempi in cui vi trascorreva le giornate in compagnia del suo amico Cacciatore e di suo fratello, ma scacciò subito quel ricordo. Aveva detto addio a quella vita, e non voleva più riaverla indietro. Ora non era più la Foresta Incantata, la sua padrona. Era la Regina.
Si sporse quel tanto che bastava per poter vedere ciò che stava accandendo giù dalla discesa di alberi, in prossimità del luogo dove avrebbe dovuto trovare le due ragazze. La Regina Cattiva gli aveva indicato il punto più vicino che lo Specchio era riuscito a mostrare.
Checché se ne dicesse, lo Specchio non era infallibile: mostrava solo ciò che non era protetto da una magia più potente della sua.
Gli occhi azzurri del Primo Ministro si fecero più attenti quando vide le due ragazze indicate dalla Regina e dallo Specchio uscire da una capanna ai piedi della discesa. Sentì una delle due sbraitare come un minatore in osteria lamentandosi che ma che cavolo, abbiamo rischiato di farci ammazzare e adesso ci dice che per tornare a casa dobbiamo tornare indietro da papà?!, per poi ammutolirsi quando la capanna alle sue spalle si dissolse nell'aria.
Il Primo Ministro non ne fu sorpreso – lo Specchio aveva mostrato solo il punto più vicino a loro, non il luogo esatto, segno che qualche essere magico dovesse averci messo lo zampino. Attese che le due ragazze venissero più vicine per colpire.
 
Elizabeth sentiva le gambe pesanti, e faticava a stare dietro al passo sostenuto di sua sorella – che peraltro non stava andando da nessuna parte ma continuava a fare su e giù per cercare di ritrovare l'orientamento. Si sentiva strana, frastornata, come se non avesse più il controllo di sé e delle proprie azioni. E forse era proprio così.
Continuava a pensare alla Fata Turchina. Alla profezia.
Era assurdo, ma si disse che avrebbe dovuto imparare a conviverci, con l’assurdità. C’erano un sacco di cose che non avevano senso: la Luna di Sangue, le tredici speranze, le tredici innocenze e purezze infrante, e poi, che cavolo significavano il sogno infranto e la bellezza nella morte? E che c’entravano i fratelli Grimm? E soprattutto chi era la Salvatrice?
Quell’ultima domanda non le dava pace. Il pensiero che una di loro due potesse essere la Salvatrice, che forse lei era la ragazza di cui parlava la profezia, la torturava.
Se così era, allora non poteva tirarsi indietro. Personaggi delle favole o no, ne aveva la responsabilità. Ma la profezia non diceva nulla di chiaro. Si parlava solo di progenie di un traditore.
Traditore.
Alexander Hadleigh.
Salvatrice.
- Anya!- chiamò.
Sua sorella la guardò scocciata.
- Cosa c'è? Scusa, sto cercando di capire da che parte andare...trasportarci direttamemte lì era troppo per quella fata dei miei stivali, evidentemente...
- Io...io penso che dovremmo ragionare bene sulla cosa.
Anya non disse nulla. Si limitò a squadrarla come se la vedesse per la prima volta.
- Non mi ero accorta che avessi sbattuto la testa, quando sei caduta - e riprese a cercare di capire in che direzione andare.
Elizabeth non si diede per vinta.
- Puoi per una volta non essere così acida e starmi a sentire?! Lo so che tutto questo va fuori da ogni logica, ma ci sono troppe coincidenze. E la profezia parla di un traditore...se il traditore è papà, allora...
- Senti, Liz, ora tu questa storia della profezia te la devi dimenticare. Noi torneremo a casa e tutto questo sarà solo un bruttissimo ricordo, okay?
- Ma abbiamo delle responsabilità! Cioè, una di noi le ha, ma...
- Liz, basta. Noi torneremo a casa, punto e stop. E' che abbiamo delle responsabilità. E comunque, la profezia non dice un bel niente. Potrebbe riferirsi a chiunque.
- E come la mettiamo con Alexander Hadleigh? La Fata Turchina ha ragione, non può essere un caso...
- Ma chi lo conosce, questo Alexander Hadleigh?! Non l'ho mai sentito nominare in vita mia, e neanche tu! Per quanto ne sappiamo è un emerito sconosciuto con il nostro stesso cognome...
- E se fosse veramente un nostro parente? Che so, un antenato...se ci pensi, noi a parte papà quali altri parenti abbiamo?
- Non ti basta quell'esemplare paterno di bradipo? Cosa vuoi, ancora? Conoscere la famiglia di quella pazza che all'altro mondo ha cercato di spedirci per davvero?!
Anya si pentì immediatamente di quello che aveva detto una volta terminato di pronunciare l'ultima parola. Elizabeth incassò il colpo. Si accorse di non provare niente se non un enorme senso di vuoto.
Le attraversarono la mente sequenze di immagini sfuocate: la mamma che spalancava la porta della loro camera da letto, che afferrava sua sorella per un braccio e la trascinava via, poi la corda, la corda bianca intorno ai polsi, la carne che bruciava e poi...acqua.
Acqua caldissima, bollente, profonda. Un pianto. Gli strilli di sua sorella. I passi di corsa di suo padre lungo il corridoio, e poi i passi di sua madre, che si allontanavano sempre di più...
Inspirò a fondo cercando di riprendersi.
Superò sua sorella, scendendo un breve e poco ripido pendio, ma si arrestò accanto a un salice. Cercò di ritrovare un minimo di calma.
Era sempre così: ricordi sfuocati e confusi, mai nulla di chiaro.
Avrebbe voluto ricordare, ma una parte di lei – neanche tanto nascosta – era contenta di non riuscire a farlo: sapeva che sarebbe stato terribile.
- Liz!- sua sorella la raggiunse; le posò una mano sulla spalla e la fece voltare.- Liz, scusami, io...non volevo, davvero, mi spiace...
- Avevamo stabilito una regola, io e te, vero?- mormorò Elizabeth.
Anya annuì.
- Non si parla della mamma - dichiarò.- Scusa, davvero...è che ogni tanto mi dimentico che non ti va di parlarne...
- Non è questo - ammise Elizabeth con una punta di frustrazione.- Non è niente. Sul serio, non fa niente. E' che...io non mi ricordo niente di quel giorno. Quando la mamma è sparita.
- E meno male che non ti ricordi!- Anya si era rabbuiata a sua volta. Elizabeth si sentì improvvisamente egoista e in colpa per aver avuto quella reazione spropositata e illogica. Perché, questo lo sapeva, se lei non ricordava nulla, Anya era più grande e ricordava tutto.
Il discorso cadde, come sempre. A nessuna delle due andava mai di parlarne.
A pochi metri da loro, il Primo Ministro tese l'arco e puntò la freccia. Gli occhi si ridussero a due fessure. Piegò il gomito e mirò verso quella che fra le due sembrava essere la sorella maggiore. Solo l'istante di un attimo, pensò, e poi sarebbe toccato all'altra.
Del tutto ignara di ciò che stava per accadere, Elizabeth ritentò il discorso di prima.
- Tornando a noi, penso che dovremmo almeno rifletterci. Qui sembra esserci in gioco qualcosa di serio...
- E' il Regno delle Favole, Liz. Come può essere serio?
- Per favore, cerca di mettere da parte il tuo cinismo per cinque minuti e ascoltami!- sbottò la ragazza.- Non è normale, tutto questo. Hai mai letto una storia in cui Biancaneve fa fuori i sette nani? No, non penso. Credo che dovremmo almeno...
- Liz, ora basta! Tu torni a casa con me e non discutere!
Elizabeth lanciò un gemito di esasperazione, e le diede uno spintone.
Un secondo dopo, una freccia si conficcò a tutta velocità nel tronco del salice.
Il Primo Ministro imprecò a mezza voce mentre estraeva un'altra freccia dalla faretra.
Elizabeth strabuzzò gli occhi. Fece per tirare via la freccia dal tronco, ma questa si spezzò e la ragazza rimase con solo la parte posteriore fra le dita.
- Ma che cosa...- cominciò Anya, ma non le fu permesso di terminare.
Nel tronco del salice si spalancò una voragine da cui scaturì un'abbagliante luce verde. Proprio come quando avevano attraversato la parete, le due ragazze avvertirono un risucchio.
Elizabeth scivolò sull'erba e il risucchio l'attirò verso la voragine. Gridò. Anya si gettò in ginocchio verso di lei e l'afferrò per la mano e il braccio.
- Tieniti!- la spronò; sentì che il risucchio stava trascinando anche lei nella voragine. Strisciò sull'erba e lasciò il braccio di Elizabeth per conficcare le unghie nel terreno in modo da rimanervi ancorata; l'altra mano che tratteneva sua sorella cominciò a scivolare lungo il tessuto della felpa. Nonostante i capelli le svolazzassero davanti agli occhi, vide che Elizabeth era già stata risucchiata nella voragine fino alla vita. La sua mano intanto era scesa dall'avambraccio fino al polso.
Anya cercò di fare un disperato sforzo e di tirare sua sorella indietro con lei sull'erba, ma la mano di Elizabeth era sempre più sudata, le scivolava. E la voragine si stava chiudendo.
- Ma che diavolo è?!
- Zitta e pensa a tenerti...!
- Sto scivolando...!
Ormai Anya teneva sua sorella solo per le dita. Il risucchio si fece più forte, e con uno scatto violento la mano di Elizabeth si staccò dalla sua.
Lanciò un grido e scomparve all'interno della voragine. Questa si richiuse, e il salice tornò a essere un salice normale.
Anya chiamò il nome di sua sorella e fece per avventarsi contro l'albero; ma prima che potesse toccarlo qualcuno l'afferrò per la radice dei capelli e la tirò indietro. Finì con la schiena sull'erba.
La presa non si allentò, e la ragazza sentì qualcosa di freddo e liscio premerle contro la giugulare. Abbassò lo sguardo, e scorse la lama di un coltello.
Un attimo dopo, i suoi occhi ne incrociarono altri due, azzurri e gelidi come il ghiaccio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*il gioco è una variante di presa, un gioco di carte molto in voga nel Basso Medioevo. La procedura in questa variante è semplice: un giocatore mette in tavola una carta scoperta, e gli altri giocatori vi pongono sopra a turno una carta. Vince colui che posa la carta con il valore superiore rispetto alla carta iniziale posta sul tavolo, e il premio è l'intero mazzo di carte posate sino ad ora. Il gioco procede fino a che non si esaurisce il mazzo, al termine del quale il vincitore è quello che ha effettuato le “prese” più cospicue, ovvero colui che ha più carte di valore in mano; in caso di parità, si conta il numero delle carte.
I punteggi delle carte di Fante, Cavallo, Regina e Re li ho presi da un altro gioco famoso nel Basso Medioevo, ovvero i trionfi. Il punteggio è rispettivamente di undici, dodici, tredici e quattordici. L'Asse come al solito prende tutto ;).
Questo gioco, come molti altri, tornerà più avanti nella storia.

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Capitolo 8
*** Capitolo VI - Dreams Never Come True ***


Capitolo VI
 
Dreams Never Come True
 
 
 
Un giorno accadde che il re proclamò una gran festa da ballo
che sarebbe durata per tre giorni. Tutte le belle fanciulle
del reame furono invitate, in modo da permettere
al principe di scegliersi una sposa.”
 
Grimm, Cenerentola
 
 
L'IMPATTO CON L'ACQUA GELIDA fu scioccante.
Elizabeth si dimenò sott'acqua, gli occhi spalancati, confusa e frastornata su quanto le era capitato. Spalancò la bocca per gridare, con il solo effetto d'ingoiare l'acqua fredda, mentre le alghe sul fondale le si aggrovigliavano intorno alle caviglie. Elizabeth vide le bollicine uscire dalla sua bocca, e si riprese. Agitò con furia braccia e gambe e, quando scorse una flebile luce sopra la sua testa, oltre il pelo dell'acqua, la seguì.
L'aria fredda della notte le colpì in pieno il volto e penetrò con forza nei suoi polmoni non appena la ragazza tirò fuori la testa dall'acqua. Elizabeth tossì, si dimenò per restare a galla, con i capelli zuppi e appiccicati al cranio che le cascavano di fronte agli occhi impedendole di vedere bene. Lottò contro i flutti e la scarsa visuale concessale dall'acqua e dal buio, e infine riuscì a scorgere, a diversi metri da lei, la riva del fiume in cui era caduta dopo essere stata risucchiata dal vortice. Elizabeth si costrinse a raccapezzarsi, inspirò tutta l'aria che i suoi polmoni erano in grado di contenere e iniziò a muovere ampie bracciate, nuotando con disperazione verso la terraferma. Il suo cervello non ragionava quasi più, si limitava a formulare comandi e pensieri brevi e diretti, un obiettivo alla volta, terra, forza!, nuota...
Elizabeth cacciò un braccio fuori dall'acqua e si aggrappò con le dita a un ciuffo di erba bagnata. Tirò il resto del suo corpo contro la riva, fino a premerci sopra il busto. Tossì, e risalì anche con braccia e gambe finché non fu completamente fuori dal fiume. Ansimò, e attese fino a che gli ultimi colpi di tosse non si estinsero e i suoi polmoni si furono riabituati a una entrata e uscita regolare di ossigeno.
La vista era ancora ostruita dai residui di acqua e dai capelli bagnati che le dondolavano di fronte agli occhi. Elizabeth se li strofinò e scostò le ciocche fino a che, lentamente, sollevò il capo e riuscì a vedere ciò che le stava di fronte: il cielo notturno era tinto da sfumature rosse e arancioni, l'aria era pesante e quella che sulle prime la ragazza identificò come una lieve nebbiolina si rivelò invece del fumo grigio che, salendo nell'aere, formavano una calotta scura sui resti di un piccolo villaggio.
Si alzò in piedi. La tracolla della borsa le graffiò la pelle del collo lasciata scoperta dalla scollatura della maglietta. Elizabeth ebbe uno scatto di stizza e si tolse di dosso quel fardello. La borsa finì abbandonata sull'erba, ancora chiusa.
Elizabeth si accorse di avere il fiato corto. Restò a guardare la tracolla per un minuto intero. La sua mente riusciva quasi a oltrepassare la barriera di stoffa della borsa e a tracciare i confini del libro di favole contenuto al suo interno.
Arricciò il naso.
L'istinto di mollarlo lì era quasi impossibile da resistere, ma Elizabeth riuscì a combatterlo. Ricordò ciò che aveva blaterato poco prima, sulle responsabilità che lei e sua sorella presumibilmente avevano. Raccolse la borsa sbuffando. Abbandonare lì il libro di favole sarebbe stato come rimangiarsi tutta la discussione con Anya, mandare al diavolo la coerenza, e ammettere di aver parlato a vanvera tutto il tempo.
Se la rimise a tracolla e tornò a concentrarsi sulle rovine del villaggio. L'intera area era chiaramente stata devastata da un incendio. L'erba bagnata della riva si diradava man mano che si risaliva il piccolo dislivello che separava il fiume dalle case, divenendo sempre più rada, secca e bruciacchiata. Di fronte a Elizabeth si apriva una via che conduceva all'interno del centro abitato. Le case al suo ingresso erano distrutte, senza più i tetti, con le travi del soffitto crollate e inclinate dentro le dimore stesse. Le porte erano state sfondate e molte persiane delle finestre erano scardinate. Una delle case presentava anche un vistoso crollo di una delle pareti, con accumuli di mattoncini e assicelle ammassati in una montagna informe.
Aguzzando la vista – Elizabeth si stupì di quanto riuscisse a vedere bene anche senza gli occhiali – poteva scorgere alcuni piccoli fuochi ancora accesi qua e là fra le abitazioni.
C'era silenzio.
Elizabeth non si mosse. Uno spiffero di vento la fece raggelare nei suoi abiti bagnati. Si strinse nella felpa, con il risultato di sentirsi ancora più infreddolita. Guardò ancora il villaggio distrutto, poi si girò: gli argini del fiume non erano distanti fra loro; rituffarsi e raggiungere l'altra riva a nuoto non sarebbe stato difficile, ma oltre essa c'era la foresta.
Elizabeth osservò quella parete di alberi a lungo. Il verde delle fronde e il marrone dei tronchi erano stati fagocitati dal buio, e ora non erano altro che giganti scuri che si ergevano minacciosi oltre le acque del fiume. Elizabeth sentì la paura scorrerle nel sangue. Rivide il lupo mannaro, Biancaneve con la sua mannaia, Tremotino...gliene erano già capitate di tutti i colori, nel bosco. Il villaggio bruciato non era una prospettiva più allettante, no, ma aveva avuto abbastanza brutte esperienze nella foresta per volercisi addentrare da sola.
Il villaggio, invece, sembrava deserto. Era chiaro che ci fosse stato un disastro, ma al momento non pareva esserci nessuno rimasto lì. Se non c'era nessuno, per logica, nessuno avrebbe potuto farle del male.
E se per caso incontrassi qualcuno, si disse Elizabeth, potrei chiedere aiuto.
Il suo pensiero andò ad Anya. Non sapeva dove fosse. Non sapeva neanche se lei fosse stata a sua volta risucchiata da quel vortice. Non le era sembrato, ma chi poteva dirlo? Forse era rimasta dov'era, o forse no.
Sicuramente la stava cercando.
Doveva trovare Anya, pensò, ma prima doveva capire dove sua sorella fosse. E prima ancora, doveva capire dove fosse lei.
Prese coraggio e cominciò ad avanzare lentamente in direzione del villaggio. Quando fu quasi sulla soglia della strada, Elizabeth lesse un cartello semi distrutto. Alcune lettere erano cancellate, altre squarciate via a metà, ma il nome risultata comunque leggibile.
 
Hagenheim
 
Non era granché come informazione, ma meglio di niente.
Elizabeth esitò ancora un istante, poi s'insinuò fra le case distrutte.
 
***
 
LA LAMA FREDDA le premeva contro la carne della gola.
Avrebbe voluto urlare, ma era come paralizzata. L'agguato l'aveva colta impreparata. Era accaduto tutto troppo in fretta: il vortice, la mano di sua sorella che scivolava via dalla propria, quel coltello puntato alla carotide, quegli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio...
L'unica cosa che riuscì a fare fu schiudere le labbra, ma da esse uscì solo un gracchiare flebile.
Il Primo Ministro ringhiò, ritirando la lama con un gesto così repentino che Anya quasi faticò a cogliere. Ripose il coltello nel fodero che teneva agganciato alla cintura.
Anya si sentì afferrare per la seconda volta per i capelli e tirare in piedi a forza.
- Cos'è successo?!- urlò l'uomo.- Lo sapevi? Tu lo sapevi che stava lì? Dov'è finita?
Anya non ebbe la prontezza di rispondere, ancora frastornata. Preso dalla rabbia, il Primo Ministro la spinse in avanti facendola cadere a terra.
- In piedi!- ordinò immediatamente, ed eseguì da sé l'azione strattonandole un braccio e costringendola a rimettersi sulle sue gambe. Anya barcollò, ma aveva recuperato sufficiente lucidità mentale e presenza di spirito da rivolgergli uno sguardo furioso.
- E tu chi cazzo sei?!- strillò la prima cosa che le venne in mente, e cercò di liberare il braccio.- Lasciami, stronzo!
- Zitta!
Anya si ritrovò con una delle mani guantate dell'uomo stretta intorno alla gola. Non era una presa abbastanza forte da strangolarla, ma sufficiente a mozzarle il fiato e a immobilizzarla.
- Dov'è l'altra? L'hai aperto tu il Portale?!
- Quale portale?- gracidò.
Il suo aguzzino dovette comprendere che lei non aveva idea di cosa stesse parlando, perché mollò la presa dopo qualche secondo. Anya riuscì a reggersi in piedi, ma ebbe un accesso di tosse. Il Primo Ministro tirò un pugno al tronco di un albero per la rabbia.
La ragazza indietreggiò.
- Cos'è successo?- annaspò con la voce strozzata.- Cos'era quel vortice? Dov'è mia sorella?
L'unica risposta che ottenne furono due occhi azzurri e furibondi piantati su di lei.
- Non lo so dov'è tua sorella, sgualdrina!- l'afferrò di nuovo, stavolta per il bavero della maglietta.- Non lo so, ma sarà bene per la tua salute che non sia morta!
Anya gli strinse il polso e riuscì a staccarsi la sua mano di dosso per una frazione di secondo, ma l'altro fu più svelto di lei e sostituì la presa alla stoffa con un morso intorno all'avambraccio sinistro. La ragazza cercò di tenere il volto e il resto del corpo il più lontano possibile da lui.
- Si può sapere chi accidenti sei? Un altro ridicolo personaggio di questo mondo?
Il Primo Ministro stava per risponderle che chi fosse, lui, non era affar suo, ma l'istinto da cacciatore prese il sopravvento su quello di essere umano. Gli bastarono pochi istanti per ripercorrere con la mente l'intera scena e per analizzare la situazione presente. Comprese che doveva essere stata la sua freccia ad aver aperto il Portale, poiché non ricordava che nessuna delle due ragazze l'avesse toccato per sbaglio o con intenzione.
Si rimangiò un'imprecazione, e cercò di tirare la prigioniera verso di sé in modo da bloccarle entrambe le braccia. Anya gli oppose resistenza.
- Devo trovare mia sorella...- stava succedendo tutto così in fretta da non darle il tempo di ragionare. Ancora doveva capire chi fosse quell'uomo e cosa volesse da lei, ma in quel frangente sua sorella occupava gran parte delle sue preoccupazioni. Non riusciva a credere a ciò che era successo: Elizabeth era stata risucchiata da un albero!
Era assurdo. Ciò che era successo non poteva essere reale...
Perché non è reale, idiota! Questo è il fottuto Regno delle Favole, e niente funziona a rigor di logica...
...della sua logica, almeno. Fino a un attimo prima un solo accenno a ragionare in quel modo sarebbe stato un'ottima scusa per prendersi a schiaffi da sola, ma adesso Liz era sparita, e lei avrebbe dovuto adattarsi, se avesse voluto trovarla.
Liz, cerca di non esserti fatta male, o ti spezzo le ossa con le mie mani...!
- Tu non andrai da nessuna parte finché non lo dirò io!
Già. Le conveniva decisamente risolvere un problema alla volta; tanto per cominciare, doveva liberarsi di quel gran rompicoglioni, che chi fosse e cosa volesse lo sapeva solo lui, a lei interessava solo che la lasciasse andare.
Vedendo che agitarsi non aveva portato a nulla, Anya cercò di sferrargli un calcio a una delle gambe, ma lo sconosciuto si scansò.
- Sta' lontano da me!- gli urlò, ma ancora prima che terminasse la frase il Primo Ministro l'attirò a sé e le afferrò i capelli dietro la nuca, strappandole un gemito di dolore e sorpresa. Avvicinò proprio volto a quello della ragazza.
- Ora apri bene le orecchie - sibilò.- Sappi che non me ne importa niente di ciò che vuoi o non vuoi, quindi cerca di chiudere la bocca e di stare ferma. Per colpa tua e della tua sorellina, ora tu dovrai venire con me...
La spinse in avanti, mollandole il braccio, ma la sua presa venne subito sostituita dalla lama di un pugnale puntata all'altezza del fianco. Anya barcollò, incespicando nell'erba.
- Cammina!- ordinò il Primo Ministro, dandole un'altra spinta.- Muoviti, e ricordati che ci impiego un attimo a piantartelo nel fegato!- minacciò, accennando al pugnale.- Cammina, ho detto!- e accompagnò l'incitazione con una terza spinta.
Anya chinò il capo, e iniziò ad avanzare a passo sostenuto, senza prestare attenzione a dove stesse andando. Aveva intravisto il pugnale con la coda dell'occhio, si era sentita la lama contro la carne; era sufficiente per farla tacere. Continuò a camminare lentamente, senza guardarlo e cercando di temporeggiare e di farsi venire qualche idea.
Cosa volesse quel tizio da lei, non lo sapeva, ma bastava il modo in cui si era posto per comprendere che non fosse nulla di buono. Sospettava anche che non fosse lì per caso, ma che in qualche modo l'avesse puntata. E che avesse puntato anche sua sorella. Ripensò alle parole della Fata Turchina: le era parso di capire che in parecchi, in quel luogo, fossero a conoscenza della profezia e di questa fantomatica Salvatrice. Non l'aveva detto esplicitamente, ma lo aveva lasciato intendere. E non tutti erano entusiasti della cosa...bastava ricordare gli incidenti con quell'animale e Biancaneve...quel tipo, sicuramente, non doveva essere fra i fan della Salvatrice...
All'improvviso, gemette forte e si lasciò cadere in ginocchio sull'erba.
- Che cosa c'è, adesso?- il Primo Ministro le si avvicinò, furioso.- Avanti, non ho tempo da perdere!
- Sono inciampata...- mormorò la ragazza, tenendo la fronte bassa ma facendo saettaro lo sguardo tutt'intorno all'area che riusciva a coprire con la vista.- Non...non riesco a rialzarmi...- aggiunse, ad alta voce, quando vide un grosso ramo abbandonato a pochi passi da lei. Era veramente vicino, sarebbe bastato solo allungare un po' il braccio...
- Beh, vedi di riuscirci, altrimenti ti garantisco che non sarai più in grado di camminare per mesi...
- V-va bene...- soffiò Anya.- Dammi...dammi solo un secondo...
Allungò il braccio in direzione del ramo, poi scattò di lato e l'afferrò. Atterrò su un fianco e sollevò il pezzo di legno, colpendo il Primo Ministro a una spalla. Aveva mirato alla testa ma l'agitazione l'aveva tradita, però se non altro la legnata fu abbastanza forte da fargli perdere l'equilibrio.
Anya approfittò del suo momento di confusione per rialzarsi, e iniziò a correre, addentrandosi nella Foresta Incantata.
Continuò a correre a perdifiato per diversi metri, senza stare lì a pensare a dove stesse andando. Non aveva un piano preciso, voleva solo allontanarsi da quello stronzo e nascondersi. Saltò un tronco d'albero caduto, facendosi strada fra gli alberi e le pietre. Accelerò la corsa quando sentì i passi affrettati dello sconosciuto alle sue spalle.
Qualunque cosa tu voglia, sappi che non sono disposta a dartela...!
Superò un salice piangente, quindi girò intorno a un grosso masso che le ostruiva la via. Fu allora che avvertì il terreno divenire improvvisamente molle e cedevole sotto i suoi piedi, e abbassò lo sguardo su di essi: era finita proprio dentro a una grossa pozza di fango. Udì i passi alle sue spalle avvicinarsi rapidamente, e fece per riprendere a correre, ma non appena mosse due passi si vide sprofondare ancora di più nel fango. La melma ora le arrivava alle ginocchia. Tentò nuovamente di avanzare, ma a ogni minimo movimento sprofondava sempre di più, e il fango emetteva uno strano suono, un misto fra un risucchio e un rigurgito.
Anya vide con orrore di essere immersa nella fanghiglia fino alla vita.
Era impossibilitata a muoversi. E la melma la trascinava giù.
Si guardò freneticamente intorno, alla ricerca di un mezzo che l'aiutasse a uscire da lì. Lo sguardo le cadde su un ramo sporgente al di sopra della fossa, all'apparenza flessibile ma anche resistente. Anya allungò le braccia, aggrappandovisi con entrambe le mani. Strinse i denti e cercò di issarsi fuori da quello schifo.
Tenendosi ben salda al ramo, Anya riuscì a trascinarsi fuori dal fango fino alle ginocchia, quindi abbandonò il busto contro una parte di terra solida ed estrasse anche le gambe. Quando fu completamente libera, si rialzò e tentò di riprendere a correre, ma sentì un rumore secco e acuto, quasi un fischio, squarciare l'aria. Un istante dopo, avvertì un dolore lancinante alle gambe.
Anya cadde a terra, scivolando brevemente lungo un pendio non troppo alto che si trovava a poca distanza dalla fossa di fango, e si ritrovò distesa nel bel mezzo di una piccola radura. Strinse i denti per il dolore, il volto contratto in una smorfia: aveva sbattuto il fianco contro una pietra. Guardò le proprie gambe: le sue caviglie erano legate insieme da una frusta.
Serrò gli occhi, riaprendoli solo quando sentì i passi di poco prima, stavolta più vicini e non più affrettati, ma calmi e misurati, avvicinarsi a lei. Dopodiché, avvertì una lieve pressione all'altezza del busto. Guardò: lo sconosciuto le stava premendo uno stivale contro l'addome.
Anya cercò di riprendere fiato. Forse in quel momento avrebbe dovuto sentirsi disperata e impaurita, invece provava solo una gran rabbia, per non essere riuscita a scappare, per essersi fatta catturare, per non poter spaccare la faccia a quel pezzo di merda e per tutto quello che immaginava sarebbe successo di lì a poco.
L'uomo si chinò, liberandole le caviglie e riavvolgendo la frusta che agganciò poi intorno alla propria cintura. La prese per un braccio e la costrinse ad alzarsi. Si ritrovò di fronte a lui, con solo pochi centimetri a separarli. Lo sconosciuto era più alto di lei di almeno una spanna. Anya dovette fare un enorme sforzo di volontà, ma alla fine sollevò lo sguardo e agganciò i propri occhi a quelli azzurro ghiaccio dell'uomo: in fondo al cuore provava una certa paura, ma col cazzo che gliel'avrebbe lasciato capire.
Lui sostenne il suo sguardo, poi inclinò leggermente il capo di lato.
- Toglimi una curiosità...- esordì, con voce calma e monocorde, ma Anya colse ugualmente la beffa nel suo tono.- Cosa speravi di fare?
Anya non rispose né distolse lo sguardo. Le labbra dello sconosciuto si contrassero in una smorfia infastidita, quindi, prima che la ragazza potesse rendersene conto o fosse in grado di reagire, le assestò un sonoro schiaffo su una guancia, tale da farle voltare la testa di lato.
Anya boccheggiò, iniziando ad avvertire bruciore alla parte carnosa della guancia e alle labbra, mentre lo schiaffo le rimbombava nell'orecchio. Nessuno le aveva mai dato un ceffone così forte, pensò come prima cosa. Papà aveva mollato qualche schiaffo e qualche sculacciata a lei e a Liz, quand'erano piccole, ma mai aveva ricevuto una sberla così forte in vita sua, tranne...
- Anya, cosa stai facendo?
- Niente, mamma...
Le immagini di quel pomeriggio di dodici anni prima, quando aveva sei anni, cominciarono a scorrerle nel cervello con la rapidità dei flash di una macchina fotografica, come scene di un film tagliate e incollate insieme senza un vero senso logico.
- Cosa stai leggendo? Fammi vedere!
Sua madre le strappa il libro di favole di mano. Lei ha troppa paura per ribellarsi. La mamma è cambiata, non è più la stessa. Anche papà e Liz se ne sono accorti. E le fa paura.
Sua madre fa una smorfia rabbiosa, poi scaraventa il libro dall'altra parte della stanza.
- Sei una stupida! Perché leggi queste stronzate, si può sapere?! Quante volte ti ho detto che sono solo stupidaggini?! Lo sai che non voglio vedere robaccia del genere in casa mia!
- Scusa, mamma...
Uno schiaffo, forte, le rimbomba nell'orecchio e le fa bruciare la guancia e le labbra. Piange, e sa che questo le costerà un altro ceffone, ma non riesce a trattenersi. Subito arriva la voce di suo padre, e non è più allegra e scherzosa come una volta.
- Cos'hai fatto? Perché le hai dato uno schiaffo, si può sapere?!
- Perché se lo meritava! E' una spiegazione sufficiente, per te?
Papà urla, la mamma strilla. Odia quando fanno così.
- Non stava facendo niente di male!
- Lo decido io se stava facendo qualcosa di male o no. Non t'immischiare!
- Stava solo leggendo, perché le hai dato uno schiaffo?
- Ho detto di farti gli affari tuoi! Sono sua madre, so come educarla!
- Se un'isterica...
- E' colpa tua! E' tutta colpa tua!
Si riscosse non appena sentì lo sconosciuto afferrarle i polsi. Si lasciò scappare un gemito al contatto ruvido con la corda che le graffiava la carne. Il Primo Ministro sogghignò soddisfatto, stringendo in modo da rendere il nodo più saldo.
- La prossima volta che provi a scappare di spezzo il collo. Sono stato chiaro?
- Ma che cosa vuoi da me?!- strillò Anya, furibonda.
Per un attimo sembrò che il Primo Ministro volesse rispondere alla domanda, ma poi lo sguardo gli cadde alle spalle della ragazza. Si trovavano in una radura solitaria e circoscritta, lui e la prigioniera ci stavano a malapena in due, e oltre a essa si stagliava il muro di alberi della Foresta Incantata. Intorno a loro non si udiva nessun rumore, né il canto di un uccello né il fruscio delle foglie. Oltre gli alberi s'intravedeva solo l'oscurità.
Gli tornò in mente suo padre.
(Ricordati che non è il rumore che devi temere, nel bosco. Stai in allerta quando cala il silenzio)
Tutto era decisamente troppo silenzioso. Qualcosa non andava.
Il Primo Ministro tese l'orecchio, per la prima volta ringraziando che qualcosa di ciò che era stato fosse rimasto ancora in lui. Udì un fruscio, quindi un gemito lontano, ma non si trattava di un'illusione creata dal vento.
Per diverso tempo studiò l'oscurità intorno a loro. Poi, avvertì una sensazione strana nel cuore, una sensazione che conosceva bene: era paura. Paura folle e inspiegabile, che ti faceva gelare il sangue nelle vene, aumentare il battito del tuo cuore, e sapere che qualcosa di orribile stava per capitarti da un momento all'altro.
No. No, non è possibile. La Regina non può aver davvero liberato...
Un altro fruscio gli fornì la certezza assoluta che qualcosa si stesse muovendo nell'oscurità, avvicinandosi a loro sempre di più.
- Andiamo via...!- sibilò, prendendo Anya per un braccio; fiaccò la resistenza della ragazza e la trascinò via con sé, lontano da quella...cosa.
Solo quando tornò a sentire i rumori della Foresta Incantata si sentì più tranquillo, ma i suoi nervi restarono tesi. Non si sentiva un codardo. Sapeva quali fossero i suoi limiti e chi poteva combattere e chi no.
E quell'essere che si annida nel buio è pressoché invincibile.
Non riusciva a credere che la Regina Cattiva lo avesse fatto davvero. Si domandò se si fosse resa conto del rischio che avrebbe comportato liberare quella creatura e, soprattutto, se fosse in grado di controllarla.
L'Uomo Nero era uno degli esseri più temuti di quel mondo, forse più dello stesso Tremotino.
Lui e quella ragazza erano scampati alle sue grinfie per un pelo, ma il Primo Ministro sapeva che d'ora in avanti avrebbe dovuto tenere gli occhi bene aperti, specialmente di notte, e sperare che la Regina Cattiva fosse sufficientemente abile nel gestirlo. Se fosse sfuggito al suo controllo, allora le cose non avrebbero tardato a degenerare.
Di nuovo, le storie di suo padre riaffiorarono nei suoi ricordi.
(L'Uomo Nero è una delle creature più terribili di questo mondo. Sta in agguato nell'oscurità, attende e infine attacca. Se riesce a portarti via con sé, allora hai poche speranze di tornare indietro)
 
***
 
PIU' CHE IL REGNO DELLE FAVOLE, questo ha l'aria di essere un incubo.
Elizabeth ora si sentiva pronta a credere a tutto ciò che la Fata Turchina aveva detto. Non aveva avuto dei dubbi già all'inizio, ma adesso la situazione le appariva ancora più chiara. Era evidente che ci fosse qualcosa che non andava.
Qualcosa di serio, a giudicare dallo stato in cui era ridotta quella Hagenheim. Quella che un tempo doveva essere stata una cittadina, ora appariva più come una landa desolata. Elizabeth, che sulle prime aveva pensato a un incendio, adesso vedeva che le case, le strade e i giardini recavano il segno evidente e recente di un saccheggio. La maggior parte delle abitazioni era stata bruciata, e i vetri rotti delle finestre lasciavano scorgere il soqquadro che regnava all'interno di ogni casa.
Non c'era anima viva.
Elizabeth inciampò in un'asse di legno abbandonata in mezzo alla strada, ma riuscì a mantenersi in equilibrio e continuò a camminare, senza smettere di far saettare lo sguardo da una parte all'altra della via. Le pareva quasi di essere piombata dal Regno delle Favole a Silent Hill.
Ebbe l'improvviso e quasi irrefrenabile impulso di tornare indietro, verso il fiume. A differenza di prima, ora l'alternativa di provare a guadare le acque e inoltrarsi di nuovo nella Foresta Incantata le sembrava più allettante di continuare a vagare senza meta in quella città fantasma. A parte le case distrutte e qualche fuocherello che andava spegnendosi, Elizabeth aveva la sensazione che non ci fosse niente lì che potesse aiutarla a trovare Anya, e nemmeno nessuno che le desse una mano.
Magari sono tutti morti.
Quella constatazione la fece rabbrividire, e istintivamente cercò di guardare oltre le macerie delle abitazioni per scorgere qualche cadavere. Se lo impedì. Comprese che non aveva alcuna voglia di sapere se ci fosse della gente morta, ad Hagenheim. Senza contare che era già svenuta durante l'ora di biologia, quando il professore aveva messo di fronte a ognuno degli studenti una rana stecchita da dissezionare, non osava pensare a che reazione avrebbe avuto di fronte al corpo senza vita di un essere umano.
E poi, le occorreva gente viva a cui chiedere aiuto, non persone morte.
Sempre che i vivi avessero buone intenzioni...
Deglutì, e decise di fare qualsiasi cosa che ogni futura vittima idiota di qualsiasi horror di serie B avrebbe fatto in quella situazione. Sperando di non trovarsi in un film horror di serie B.
- C'è nessuno?- domandò ad alta voce, ma ricevette in risposta solo il proprio eco.
L'inquietudine che provava fu abbastanza da frenarla dal fare un secondo tentativo. Elizabeth riprese a camminare; non si accorse che qualcuno, poco lontano, la stava osservando.
 
***
 
New York, 2015. Ore 4:50 a.m.
 
GREG NEDRY RIVOLSE UN'OCCHIATA noncurante una fotografia che ritraeva due bambini sorridenti, notando appena che era l'ultima arrivata accanto ad altre tre.
 
SALLY CRANE, 4 ANNI
SCOMPARSA IL 3 SETTEMBRE
 
Il manifesto che segnalava la sparizione di quella bambina con il sorriso dai denti mancanti e i capelli color cioccolato era ancora intero per miracolo. Gli angoli del pezzo di carta erano piegati o strappati, e penzolava più mollemente rispetto ai due che l'affiancavano.
Il primo presentava la fotografia di un bambino con i capelli corti e biondi coperti in parte da un berretto a punta da festa di compleanno, le guance piene e un bel sorriso allegro di chi ha appena ricevuto una gustosa torta e un bel regalo.
 
JOEY MITCHELL, 7 ANNI
SCOMPARSO IL 22 SETTEMBRE
 
A differenza di Joey, la bambina del manifesto accanto era chiaramente imbronciata. I capelli erano raccolti in due code ai lati del capo, e indossava un grembiulino scolastico. S'intravedevano le spalle di altri due bambini accanto a lei e un trancio della testa di un terzo di fronte, segno che la fotografia dovesse essere il ritaglio di uno scatto di classe.
 
SARAH HAMMONDS, 9 ANNI
SCOMPARSA IL 29 SETTEMBRE
 
Un'ora prima, un poliziotto era entrato all'Once Upon a Time Café e aveva chiesto a Bowen di poter appendere al bancone, accanto ai tre manifesti, anche un quarto. Quest'ultimo, mostrava due bambini, fratello e sorella, che sorridevano all'obiettivo mentre si tenevano abbracciati.
 
TOBY, 8 ANNI, E KATIE MCPHERSON, 6 ANNI
SCOMPARSI IL 1 OTTOBRE
 
Greg smise di pensare ai bambini nel preciso istante in cui la sua attenzione si spostò dai manifesti al bicchiere di caffé che Juliet gli aveva posto di fronte.
- Allora...- esordì, bevendo un sorso di caffè e scottandosi la lingua.- Stasera Anya non lavora...
- Te l'ho già detto tre volte: no - Juliet poggiò entrambi i palmi sul bancone e si sporse verso di lui, in modo tale che Greg potesse avere una visione completa e alquanto piacevole della sua scollatura; era chiaro che l'avesse fatto apposta: Greg bazzicava l'Once Upon a Time Café da mesi, e aveva capito che Juliet aveva preso una bella sbandata per lui. Era molto più sexy di Anya Hadleigh, aveva un carattere molto meno spigoloso e ad intuito doveva essere di gran lunga più troia, peccato che non fosse lei il suo obiettivo.
Ma si era ripromesso di farci un pensiero, qualora fosse tornato in quella squallida tavola calda.
- Senti...- ridacchiò Juliet.- Che tu ci creda o no, non l'abbiamo nascosta nella cella frigorifera perché tu non la trovassi. Anya non fa il turno di notte, oggi. Sarà a casa, con la sua cara sorellina...
- Mmm...- Greg si finse pensieroso.- Okay, ti credo - buttò lì per fare una battuta, e la cameriera rise.- E...che turni fa, questa settimana? Oggi, ad esempio...
- Non sono autorizzata a fornirti informazioni!- ribatté Juliet, seccamente, ma il sorriso sulle sue labbra lasciava intendere che avesse una gran voglia di flirtare. Greg ne approfittò.
- Oh, andiamo!- giocherellò.
- No, mio caro. Se vuoi corteggiare la nostra Anya, devi appostarti qui fuori giorno e notte, con il caldo e con il freddo. Qui da noi le cose si fanno per bene - aggiunse, curandosi di sporgersi ancora più in avanti in modo che il reggiseno di pizzo bianco fosse ben visibile.
Greg bevve un sorso di caffè, fingendo di non essersi accorto di nulla. Erano quasi le cinque del mattino, oltre a lui nel locale c'era solo un gruppetto di ragazzi che si erano parcheggiati lì dopo una probabile serata in discoteca. Il proprietario non era presente. Avrebbe tranquillamente potuto trascinare quella puttanella sul retro e farsi una sana scopata, ma gli ordini ricevuti gli imponevano di comportarsi da perfetto gentiluomo.
- Sì, ma sarei molto avvantaggiato se avessi almeno un piccolo riferimento temporale...- sfoderò un sorriso ammaliante.- Andiamo...mattina? Pomeriggio? O fa il turno serale?
- Non so se posso dirtelo...- Juliet giocò ancora un pochino con lui, ma era evidente che non aveva intenzione di tirarla ancora per le lunghe; infatti, poco dopo aggiunse:- Okay, hai vinto: domani lavora dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio. Ricorda che ti ho dato questa informazione, quando vi sposerete e avrete dei figli. Sarà grazie a me.
- Oh, io non dimentico chi mi aiuta...- Greg le fece l'occhiolino, pagò e uscì.
Aveva al suo attivo poche ore di sonno, e fu quasi tentato di tornarsene nel suo motel e aspettare le nove del mattino per assicurarsi che Anya Hadleigh fosse andata al lavoro oppure no. Invece, montò in sella alla sua Suzuki nera parcheggiata a pochi metri dall'Once Upon a Time Café e infilò il casco.
Le strade, in quel mondo, soprattutto in quella New York, non erano mai poco trafficate o semi deserte. Ma restavano pur sempre le cinque di mattina, e Greg Nedry raggiunse la casa dell'ispettore Hadleigh e delle sue figlie in meno di un'ora. Ormai conosceva la strada a memoria, c'era stato tante volte negli ultimi anni.
Parcheggiò la moto in modo che fosse ben nascosta, anche se non aveva mai avuto problemi con ficcanaso dell'ultimo minuto, ma la prudenza non era mai troppa. Tenendo addosso il casco, si diresse con cautela al luogo dove sapeva che Anya Hadleigh aveva l'abitudine di parcheggiare il suo pick-up. Si corrucciò quando lo trovò ancora al proprio posto.
Greg Nedry masticò un'imprecazione, poi si tolse il casco, attraversò la strada ed entrò nel pub di second'ordine che sorgeva a circa tre metri di distanza dal condominio dove si trovava l'appartamento degli Hadleigh. Aveva scovato quel luogo cinque anni prima: gli piaceva, il proprietario lo conosceva ma nonostante ciò non aveva mai fatto domande.
E, fattore più importante, aveva delle splendide e ampie finestre che gli permettevano di monitorare la situazione e i movimenti delle sorelle Hadleigh e dell'ispettore.
- Il solito?- gli chiese l'uomo dietro al bancone quando lo vide entrare.
Greg si sedette a uno dei tavolini più vicini alle finestre, e annuì.
Mentre beveva il suo whiskey, prese a controllare l'orologio: mancavano meno di quattro ore alle nove.
 
***
 
A MANO A MANO che proseguiva, Elizabeth sentiva crescere dentro di sé uno strano senso di allarme. Di nuovo quella sensazione che aveva provato quando aveva lasciato cadere il libro di favole sul pavimento del salotto. La sensazione di essere...osservata.
Se era partita con l'intenzione di chiedere aiuto, adesso sperava con tutta se stessa di non trovare nessuno. Il fatto che quella cittadina fosse disabitata era una sfortuna, nelle sue condizioni; tuttavia, Elizabeth preferiva che non ci fosse nessuno, piuttosto che scoprire una qualche presenza che si manteneva celata.
Era arrivata a metà di una strada i cui cigli si allontanavano l'uno dall'altro progredendo con il cammino. Le case intorno erano più rade, e agli angoli della via c'erano cespugli e residui di piante bruciacchiate. Elizabeth pensò che dovesse trattarsi di una periferia. Era arrivata all'uscita di Hagenheim e non aveva risolto niente.
Pensò al da farsi. Se avesse proseguito si sarebbe trovata di nuovo in mezzo alla Foresta Incantata; se fosse tornata indietro...
Si guardò intorno circospetta, indagando ogni angolo.
La sensazione di essere osservata non era sparita. Era più forte di prima.
Se davvero c'era qualcuno, allora non doveva avere delle buone intenzioni. In mezzo a tutte quelle rovine solo un disperato o un malintenzionato avrebbe potuto nascondersi, e lei non poteva sapere chi si sarebbe trovata di fronte stavolta.
Elizabeth sentì che le sue mani avevano preso a tremarle. Non sapeva dov'era, non sapeva dove andare, non sapeva che fine avesse fatto Anya, era sola, inerme, indifesa...
Indietreggiò quasi d'istinto. La sensazione aumentò; ora era quasi una certezza.
Fece saettare lo sguardo in ogni direzione. La cosa più vicina a lei era un cortile la cui staccionata un tempo bianca era stata abbattuta, l'erba all'interno della sua area era alta e incolta e quasi nascondeva il largo viale che conduceva all'ingresso di un'imponente magione in pietra ingrigita, alta almeno tre piani. Le persiane erano tutte sbarrate e inchiodate con delle assi.
Ci fu un fruscio, forte, udibile. Alle sue spalle. La colse così all'improvviso che quasi non riuscì a trattenere un grido terrorizzato. Elizabeth si voltò repentinamente, ma non abbastanza per riuscire a vedere l'ombra scura che aveva appena attraversato la strada alle sue spalle, scomparendo poi in una via laterale.
Elizabeth indietreggiò il più in fretta che poteva, ma inciampò in un piccolo cumulo di mattonelle, finendo seduta a terra. Si rialzò alla velocità della luce, ma era in preda al panico. Il cuore sembrava sul punto di scoppiarle, e quella sensazione, quella dannatissima sensazione era enormemente accresciuta. Era quasi un mostro che camminava lentamente verso di lei, pronto ad afferrarla.
Elizabeth sentì la tracolla più leggera, e vide che il libro di favole era scivolato fuori. Si chinò per raccoglierlo e lo rimise al suo posto. Il rumore si ripeté. La ragazza voltò il capo nella sua direzione, sgranando gli occhi inorridita non appena scorse un'altra ombra a pochi metri da lei.
Era curva su se stessa, con una massa di capelli unticci e lunghi che le copriva la faccia. Annusava l'aria inspirando rumorosamente.
Quando smise di emettere quel verso, Elizabeth ebbe la certezza che l'avesse vista.
Si girò e cominciò a correre.
Quell'essere era lento, si muoveva piantando i piedi nel terreno come se fossero stati due incudini, ma i versi che emetteva ne lasciavano trasparire la ferocia. Elizabeth non l'aveva visto in faccia, si rifiutava di guardarlo, ma lo sentiva sbavare e ringhuare come una bestia affamata.
Si precipitò in direzione della staccionata abbattuta, e si lanciò di corsa lungo il viale. Era lunghissimo, quasi infinito, e al centro di esso sorgeva una fontana che prima non aveva visto, dal marmo scrostato, prosciugata e coperta di rampicanti; Elizabeth l'aggirò sentendosi il fiato corto.
La porta d'ingresso era scardinata. La ragazza entrò di corsa, esitando sulla soglia alla ricerca di qualcosa con cui sbarrare l'entrata; non la trovò, e la creatura era a metà viale. Elizabeth ne intravide una mano nodosa e color carne marcia, che reggeva un grosso pugnale.
Entrò in casa. Al centro dell'atrio una scala conduceva al piano superiore, ma molti scalini erano sfondati. Elizabeth si avventò sulla prima porta che le capitò a tiro: abbassò la maniglia più volte, ma era chiusa a chiave.
Intanto la creatura era arrivata sulla soglia dell'ingesso.
In quella casa l'unica fonte di luce era quella che filtrava dalla porta principale. Elizabeth si nascose il più possibile nella penombra, senza osare spostarsi da di fronte la porta. La creatura aveva ricominciato ad annusare l'aria.
La ragazza respirava affannosamente; stava facendo troppo casino, realizzò, e si premette una mano sulla bocca per non emettere più rumore. Il torace le si sollevava e abbassava convulsamente.
La creatura entrò in casa.
Prima che potesse farsi travolgere dal panico, Elizabeth sentì il sostegno alle sue spalle scomparire, e perse l'equilibrio cadendo all'indietro. Stava per urlare, ma un'altra mano andò a sostituirsi alla sua tappandole la bocca. La ragazza vide la porta contro cui si era appoggiata chiudersi di fronte a lei; si ritrovò distesa a terra, la mano sconosciuta ancora premuta contro il suo viso. Tutt'intorno era immerso nell'oscurità come nell'atrio, fatta eccezione per un barlume di luce proveniente da una finestrella dai vetri rotti dall'altra parte della stanza. Elizabeth sentì la mano sulla sua bocca scivolare via; incontrò un volto semi illuminato nella penombra.
Chi l'aveva trascinata in quella stanza si portò l'indice all'altezza delle labbra, facendole segno di tacere.
Elizabeth vide che si trattava di una ragazza. Una ragazza che a occhio e croce doveva essere poco più vecchia di lei, con i capelli biondi e un viso grazioso, per quel che riusciva a vedere. La lasciò andare, accucciandosi accanto alla porta; Elizabeth provò a tirarsi su dal pavimento, ma la sconosciuta la trattenne per un braccio, gesticolando in modo da ordinarle di non fare rumore. Poi la trascinò verso di sé e la aiutò a mettersi seduta al suo fianco. Elizabeth restò in ascolto insieme a lei: i passi si ripeterono nell'atrio, simili al rimbombo di un tuono. Più si facevano vicini più aveva l'impressione che la terra tremasse.
Non erano passi umani.
Si fermarono proprio di fronte alla porta.
Un verso a metà fra un ringhio sommesso e un grugnito giunse dall'esterno.
La sconosciuta si portò nuovamente l'indice all'altezza delle labbra, poi le fece cenno di seguirla. Strisciarono fino a un'alta credenza, e la ragazza spinse Elizabeth a fianco di essa in modo che fosse raggomitolata fra il legno e la parete. La sconosciuta, invece, si nascose sotto a un tavolo, abbassando il volto in modo da incrociare lo sguardo di Elizabeth oltre l'orlo della tovaglia.
Elizabeth chiuse gli occhi e ancora cercò di non respirare troppo affannosamente mentre Dio santo! quella cosa là fuori aveva ricominciato ad annusare l'aria come un segugio da caccia.
Quello strano verso si ripeté, poi i passi ricominciarono, forti e pesanti come macigni, e divennero sempre più lontani, fino a scomparire.
La sconosciuta si trascinò fuori da sotto il tavolo e, sempre restando in ginocchio, gattonò fino alla finestra rotta. Si sollevò quel tanto che bastava da sbirciare fuori.
- Se n'è andato...- dichiarò dopo un tempo che a Elizabeth parve interminabile.
Solo in quel momento trovò il coraggio di abbandonare l'angolino fra la credenza e il muro e di guardare la sconosciuta. Il gioco di luci e ombre non l'aveva ingannata, la ragazza aveva veramente i capelli biondi, lunghi e mossi, anche se erano semi nascosti da un vecchio foulard allacciato dietro la nuca. Il viso era piacente, giovane, con dei tratti da donna matura anche sebbene non dovesse avere più di vent'anni, ma stranamente stanco, gli occhi – che alla luce della finestra si erano rivelati azzurri – erano cerchiati come se avesse trascorso intere notti senza dormire. Elizabeth vide che era spaventosamente magra, così tanto che le braccia erano solo ossa e pelle.
Indossava una camicetta bianca più larga di almeno due taglie e una gonna color marrone scuro piena di toppe e dall'orlo sbrindellato.
- Siamo state fortunate - bisbigliò la ragazza, senza smettere di sbirciare fuori dalla finestra.- Sai, gli orchi hanno un olfatto molto fine...
 
Elizabeth trovò il coraggio di sollevare il fondoschiena dal pavimento solo dopo che la sconosciuta ebbe controllato per altre quattro o cinque volte che quella creatura se ne fosse andata e si fu rialzata a sua volta. Spiò un'ultima volta dalla finestra, poi Elizabeth la vide scheggiare verso la porta e sollevare un pezzo di legno quadrangolare abbandonato sul pavimento; lo inserì con decisione in sporgenze di ferro fissate agli stipiti della porta, poi girò la chiave nella serratura e girò un catenaccio arrugginito intorno alla maniglia. Dopo questo, parve più tranquilla, ma comunque sul chi va là.
Elizabeth sbuffò, rialzandosi a fatica. Si diresse verso la parete della stanza con la finestra per sbirciare a sua volta.
- E togliti dalla finestra!- bisbigliò la sconosciuta, strattonandola rabbiosamente lontano dal vetro rotto.- Vuoi farci ammazzare tutt'e due?!
Elizabeth ubbidì, sentendo la clavicola dolorante a causa dello strattone. La sconosciuta sospirò.
- Ringrazia la buona sorte che sei tutta bagnata...- mormorò.- Se così non fosse stato, quell'orco ci avrebbe di certo fiutate...
- Quello era un orco?- fece Elizabeth, un po' frastornata.
La sconosciuta annuì.
- Credevo se ne fossero andati tutti, ma a quanto pare mi sbagliavo...- sbirciò ancora fuori dalla finestra.- Immagino si trattasse di uno che è rimasto indietro, o di un disperso...gli orchi non sono un popolo molto coeso...
Elizabeth si rese conto di avere la bocca aperta come una cretina, e la richiuse. Cercò una risposta adatta, ma non la trovò. L'unica infarinatura che aveva in fatto di orchi era Shrek, oppure quel coso grande e grosso di Harry Potter e la pietra filosofale...no, un momento, quello era un troll...
Ma che accidenti stava farneticando?!
Si riscosse e tentò di recuperare un minimo di contegno; quello che era appena successo, dalla separazione da Anya a quel momento, l'aveva scossa parecchio, senza contare che il trovarsi in un mondo di cui neanche ventiquattr'ore prima sospettava l'esistenza non aiutava di certo, e ora il fatto che avesse appena scampato l'attacco di un orco e fosse in un villaggio ignoto, in compagnia di...
- Mi stai ascoltando?
Elizabeth si riprese, stavolta per davvero, incrociando lo sguardo spazientito della sconosciuta, la quale se ne stava a braccia conserte.
- Scusami, ero...ero soprappensiero...- pigolò la ragazza nel tentativo di salvarsi la faccia.
- Ho detto che è meglio sbarrare tutte le entrate e restare qui dentro, almeno per un paio d'ore...- ripeté l'altra, avviandosi verso la finestra e accostando le persiane. Elizabeth si trovò per un attimo disorientata nell'oscurità, ma riuscì a mettere meglio a fuoco l'ambiente non appena la sconosciuta accese una delle candele poste sul tavolo sotto al quale s'era nascosta. Si trovavano in una cucina, molto più grande di quella della casa di Biancaneve, con un grosso camino in pietra rossa con una mensola in marmo su cui erano state sistemate delle pentole; un pentolone nero era appeso a una gruccia su un fuoco spento, e accanto al camino erano stati impilati dei ciocchi di legno. Il tavolo era piccolo, da lavoro, con due sole sedie, e sulle due credenze erano ordinati piatti, tazze e posate.
Elizabeth riuscì a identificare le sagome di alcune mensole, ma non gli oggetti che vi erano posti sopra. Sulla parete a ovest della stanza, un po' nascosta, c'era una porta.
- E quella?- la indicò con l'indice.
- E' la porta di uno sgabuzzino senza finestre, non c'è bisogno di sbarrarla. Stai bene?- s'informò la sconosciuta.
Elizabeth annuì brevemente, sulla difensiva. Le sembrava quasi di avere una sorta di déjà-vu, in quella situazione. Rivide se stessa e sua sorella inseguite da Biancaneve armata di mannaia. Non il classico scenario fiabesco, insomma.
Scrutò attentamente, seppur di sottecchi, la sconosciuta, alla ricerca di qualche indizio, magari un tic nervoso, che ne rivelasse qualche sorta di anomalia o stranezza, ma non trovò nulla. La biona appariva ancora agitata a causa del pericolo appena scampato, un po' in subbuglio, ma comunque lucida e priva di stranezze. Sembrava una ragazza del tutto normale.
A parte, naturalmente, l'essere un personaggio delle favole. Cavoli, è più difficile da accettare di quanto pensassi...
- Sai, non credevo che fosse rimasto ancora qualcun altro, qui...- mormorò la sconosciuta.- Dopo che gli orchi hanno attaccato, sono tutti fuggiti, o sono morti...- la guardò.- Non ti ho mai vista ad Hagenheim. Chi è tuo padre? Oh, che sciocca!- la ragazza sembrò ricordarsi improvvisamente di qualcosa, e afferrò un mantello appoggiato allo schienale di una delle seggiole.- Tieni, asciugati!- disse, lanciandolo a Elizabeth; lei lo afferrò al volo, se lo avvolse intorno alle spalle e iniziò a tamponarsi i capelli, senza perdere di vista la bionda.
- Non sono di qui...- rispose serafica.
- Perché sei tutta bagnata?- chiese la sconosciuta; si morse il labbro inferiore.- E...non per essere indiscreta...perché sei vestita da uomo?- aggiunse, indicando gli abiti di Elizabeth e soffermandosi in particolare sui suoi jeans fradici.
La ragazza continuò ad asciugarsi le punte dei capelli, prendendo tempo. La bionda dovette aver capito che non le andava di rispondere, né a lei la risposta doveva interesare più di tanto, perché non insistette più e si sedette al tavolo.
- Cos'è successo qui?- chiese Elizabeth dopo qualche istante.
- Te l'ho detto. Gli orchi - rispose semplicemente la bionda.- Il loro territorio è molto lontano da qui. Amano gli ambienti freddi, la montagna, infatti la maggior parte si era stabilita sulle vette delle Terre del Nord. Non sappiamo perché l'abbiano abbandonato. Hanno attaccato circa un mese fa...ci erano giunte notizie sul fatto che avessero già compiuto razzie nei villaggi circostanti, ma...beh, non lo so, il borgomastro sembrava convinto che ad Hagenheim non sarebbe toccata la medesima sorte. E invece...- allargò le braccia indicando l'ambiente circostante, poi afferrò la seconda sedia e scostandola.- Prego, siediti...- offrì.
Elizabeth esitò, diffidente.
- Grazie. Ma...io ora dovrei andare...- mormorò in tono di scuse.
La bionda fece segno di no con la testa.
- Mi spiace, ma non credo sia sicuro...- disse.- Cosa c'è? Non ti fidi?- inarcò un sopracciglio, notando l'espressione diffidente di Elizabeth; la ragazza non rispose, presa in contropiedi, e l'altra scosse ancora il capo in segno di diniego.- Credimi, con tutto quello che è successo qui ad Hagenheim negli ultimi tempi, qui dentro è il posto più sicuro in cui saresti potuta capitare. Comunque, se vuoi andartene lo stesso, fa' pure. Non sarò io a fermarti.
Elizabeth rifletté sulle sue parole, quindi si sedette; in fondo, pensò, qualunque cosa fosse là fuori prima, orco o no, aveva dato prova di non essere particolarmente amichevole, e quella ragazza l'aveva salvata, dopotutto. Lei si era ripromessa di non farsi più prendere da eccessivo e sconsiderato entusiasmo per non ricascare nella trappola della casa dei sette nani, e la bionda non aveva niente che riconducesse all'espressione folle di Biancaneve o allo sguardo furbo e malvagio di Tremotino.
Sperò solo che il suo buon senso non le si rivoltasse contro.
- E' meglio che non usciamo da qui per le prossime tre o quattro ore...- disse la sconosciuta, seria, ravvivando la fiammella della candela; non fece alcun commento sulla decisione di Elizabeth.- Gli orchi non sono poi così stupidi come li si crede...è incredibile come siano riusciti ad affinare la loro arte. Prima si limitavano ad attaccare direttamentte...sai, assalti alle abitazioni, scontri frontali...ora, invece, sembra che abbiano imparato a tendere degli agguati - la bionda fece una smorfia infastidita.- Potrebbero essercene altri appostati qui fuori da qualche parte. E' meglio stare attente.
- Già...- soffiò Elizabeth.- Tre o quattro ore, hai detto? E poi?
- Poi, non lo so...diamo un'occhiata a com'è la situazione e decidiamo il da farsi.
- Io devo andarmene da qui al più presto - dichiarò Elizabeth.- Devo trovare mia sorella.
La sconosciuta la guardò per un lungo istante, quindi le prese inaspettatamente la mano.
Elizabeth sussultò, frenando l'impulso di ritrarsi.
- Ascoltami - mormorò la bionda.- Lungi da me voler essere indelicata o darti una brutta notizia, ma credo che, visto come stanno le cose, sia il caso di avvertirti. Se hai perso di vista tua sorella in mezzo al trambusto di tre giorni fa, allora...beh, ecco...credo che dovresti considerare la possibilità che potresti non rivederla più.
Elizabeth ridusse la labbra a una fessura e ritirò di scatto la mano, innervosita.
- Mia sorella non è morta!- disse.
- Non sto dicendo che sia morta. Non hai idea di quante donne siano state rapite per essere...di conforto ai soldati, o vendute come schiave ad Alf Layla...
Elizabeth scosse il capo con vigore.
- No, so per certo che non è così. Ho perso mia sorella...beh...credo sia un'ora fa...- spiegò, un po' imbarazzata a causa dello sguardo stralunato della bionda.- Credo di essere incappata in un passaggio segreto, o non so che...insomma, un albero si è aperto, c'era un vortice, lei è rimasta indietro, suppongo, e io sono arrivata qui...
- Chiaro. Hai attraversato un Portale...
- Un che...?
- Non sai cos'è un Portale?- la bionda la guardò incredula.
Prima che Elizabeth potesse spiegarsi, uno spiffero d'aria attraversò le persiane chiuse ed entrò nella stanza dove lei, ancora bagnata, rabbrividì per il freddo.
- Ti darei dei vestiti asciutti, se potessi - disse la bionda in tono di scuse.- Ma i miei sono un cumulo di stracci e credo che ti starebbero stretti, e non mi fido a darti quelli della mia matrigna o delle mie sorellastre. Non ho ancora avuto il tempo di bruciarli tutti, e ho paura che siano infetti.
- Infetti?
- Di colera.
Elizabeth sgranò gli occhi e tirò indietro il dorso. La bionda alzò entrambe le mani come per difendersi.
- Tranquilla. Va tutto bene. Io non sono malata. Se così fosse stato, sarei già morta da un pezzo...
- Hai detto colera?- fece eco Elizabeth.
La bionda annuì.
- Si sono ammalate all'improvviso, anche se credo che sarebbe stato destino, prima o poi...sai, loro non hanno mai avuto una costituzione molto robusta, erano poco abituate al lavoro duro e a stare all'aria aperta, e qui il cibo e l'acqua pulita mancano da settimane. Era inevitabile che in queste condizioni...- fece una pausa, come se non trovasse le parole.- La mia matrigna, che la sua anima possa accedere al Regno di Luce!, è morta nella notte il mese scorso, ce ne siamo accorte solo la mattina, poveretta...le mie sorellastre, invece, se ne sono andate una settimana fa. Ho dovuto seppellirle tutt'e tre nell'orto dietro casa, sotto al ciliegio. Mi dispiace che abbiano dovuto avere una sepoltura così misera, ma proprio non ho potuto fare altrimenti. E' per questo che sono ancora qui - si strinse nelle spalle.- Molti se ne sono andati dopo aver perso i loro averi durante le razzie dei soldati, e quando poi gli orchi hanno attaccato chi non è stato ucciso è fuggito. Ma io sono dovuta rimanere. Mi sono nascosta in casa. Madame Tremaine era già morta, ma Anastasia e Genoveffa erano malate e non riuscivano neppure ad alzarsi dal letto...è per questo che non sono scappata. Non me la sono sentita di abbandonarle.
Per Elizabeth scacciare la parola colera dalla mente si era già rivelata un'impresa titanica, e adesso a stento era riuscita a collegare i fili del discorso della bionda. Aveva parlato di una matrigna, di due sorellastre...
Sta' a vedere che...
- Scusa. Ti ho annoiato con tutta questa storia, e non ci siamo neanche presentate - sorrise la bionda.- Come ti chiami?
- Elizabeth Hadleigh. Liz - precisò, cercando di suonare amichevole.- E tu?
La ragazza abbassò lo sguardo come se si vergognasse.
- Puoi chiamarmi Cenerentola, se vuoi.
 
***
 
DOVEVA AMMETTERE di aver sottovalutato quella ragazza, ma ora poteva affermare senza ombra di dubbio di essere riuscito a fiaccare ogni sua resistenza. E di esserci riuscito tutto sommato abbastanza in fretta: erano bastati quattro o cinque spintoni e un paio di calci dati con la giusta forza, e lei se n'era stata buona.
Forse aveva capito che con lui non era il caso di scherzare. O forse era più debole di quanto volesse dare a vedere.
Il Primo Ministro distolse per un attimo l'attenzione dal coniglio selvatico che stava arrostendo sopra quel fuoco di fortuna, il surrogato di una cena, e puntò gli occhi azzurri sulla ragazza. Era accovacciata a un paio di metri da lui, raggomitolata su se stessa contro il tronco di una quercia, i polsi e le caviglie legati. Il Primo Ministro pensò che dovesse avere ancora le gambe doloranti dalla frustata che le aveva dato per arrestare la sua fuga.
Peggio per lei. Se l'è cercata.
La guardò meglio. Non era niente di speciale, in fondo. Aveva visto sguattere e puttanelle ben più degne di nota di lei, e se fosse stato meno esperto avrebbe pensato che quella ragazza somigliasse alla Regina Cattiva o alle principesse Biancaneve e Rosarossa, ma a un occhio attento non sfuggiva che quella sgualdrina da quattro soldi non avrebbe potuto lustrare le scarpe né all'una né alle altre. Sì, certo, tutte e quattro avevano una chioma di capelli corvini lunghi e splendenti, ma la somiglianza si esauriva lì. Biancaneve veniva appellata come la più bella del reame, e non per niente; il suo volto era stato quello roseo e pieno di una diciassettenne, i suoi movimenti erano aggraziati e sprigionava bellezza e vitalità da tutta la sua persona – questo prima che il Principe Azzurro le desse una ripassata e lei impazzisse, chiaramente.
Rosarossa...il Primo Ministro l'aveva sempre trovata fastidiosa. Gli ricordava troppo un micio da salotto, con il musetto aristocratico e l'aria leziosa, e non dubitava che la secondogenita di re Mathias ricalcasse caratterialmente questo modello. Mentre la Regina Cattiva, anche lei era bella, anche se non al livello di Biancaneve. La bellezza della sua sovrana era più matura, più intrigante e tentatrice di quella acerba e ingenua della più bella del reame; forse non era all'altezza della figliastra, ma le sue forme sinuose e il suo carisma la rendevano una degna rivale.
Quella ragazza, invece, era troppo magra e troppo pallida, con i lineamenti troppo seri, duri e spigolosi, per poter competere con loro. Non era né bella né brutta; non si sarebbe nemmeno preso la briga di portarsela a letto, tanto era insignificante.
Ecco, proprio così. Quella era la parola che stava cercando. Il modo migliore per definire quella ragazza era insignificante.
Non era bella, e tanto meno aveva l'aria dell'eroina. Il Primo Ministro non avrebbe scommesso un soldo sul fatto che fosse lei la Salvatrice.
Già, la Salvatrice...
Quello era il suo problema principale, in quel momento. Aveva catturato una delle due possibili candidate come gli era stato ordinato, ma si era lasciato scappare l'altra.
Per un soffio, dannazione! Se quella maledetta non si fosse scansata proprio quando la sua freccia...
Il Primo Ministro tolse il coniglio dal fuoco e ne addentò un generoso boccone. Aveva deciso di fermarsi con la ragazza in quello spazio ristretto di bosco, grande a malapena per starci in due e per mettere su un fuoco di fortuna. Se avesse avuto più luce avrebbe cercato un luogo più grande, magari una radura o una grotta, ma poiché il cielo sembrava limpido e si stava facendo buio, aveva preferito non proseguire oltre, anche in virtù del fatto che doveva ancora stabilire la sua prossima linea d'azione. Aveva portato a termine il lavoro solo a metà; per uno come lui, abituato a lavorare con metodo e rigore, era quasi al pari di una macchia su una camicia che all'apparenza sembrava pulita. Ma non era solo il fastidio che quel fallimento a metà gli causava. Quello era il male minore. Avrebbe anche potuto mozzare la testa ed estrarre il cuore alla sua prigioniera, ma non avrebbe potuto consegnarli alla Regina Cattiva se prima non avesse tagliato la gola anche all'altra ragazza.
Si era lasciato scappare un bersaglio fondamentale, una pedina decisiva nella scacchiera. Se non avesse rimediato, non l'avrebbe passata liscia.
Doveva trovare la ragazza, alla svelta. Quanto all'altra...
Maledizione, che doveva fare con lei?
La soluzione più veloce e pratica sarebbe stata quella di ammazzarla lì, seduta stante. Ma questa possibilità gli creava una sensazione di disagio.
Rifletté. Sarebbe stata la prima volta che uccideva un essere al di fuori di una battuta di caccia. Quando il rapporto era fra prede e cacciatori, era un rapporto alla pari. Le une avevano modo di nascondersi, di difendersi, si muovevano in un ambiente che era a loro conosciuto, mentre gli altri avevano a disposizione armi, astuzia, strategie di caccia. Che vincesse il migliore.
Prendersela con un animale fuori da questo contesto non gli piaceva. Non si trattava neanche di dare il colpo di grazia a un cervo ferito mortalmente e risparmiargli l'agonia di morire. Era più come strappare un gattino appena nato alla madre e affogarlo. Quel gatto non aveva nemmeno una possibilità di difendersi contro di te, era il più forte che faceva leva sulla sua brutalità per schiacciare il più debole.
Uccidere quella ragazza, disarmata e legata, non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione.
Inoltre, ricordò, era da cinque anni che non assaporava più l'ebbrezza di una battuta di caccia. La Regina Cattiva lo aveva nominato Primo Ministro inventandosi una carica da conferirgli per premiarlo dei suoi servigi, ma non svolgeva mai nessun compito di governo. Era tutto in mano alla Regina Cattiva, e lui era rimasto un sicario al suo servizio, e usava quel titolo solo per distinguersi ed elevarsi rispetto a inferiori come Navarre o Thorne. Qualche volta era uscito con loro a caccia, ma non c'era gusto. Non sapevano neanche che cosa significasse cacciare, quei due.
Dopo cinque anni, riteneva di potersi concedere il lusso di divertirsi ancora un po' con quella ragazza. L'avrebbe uccisa alla fine, certo, ma lo avrebbe fatto da cacciatore, non da codardo.
E poi, in fondo, aveva a che fare con una potenziale Salvatrice, nonché una patetica ragazza disposta a tutto pur di ritrovare l'altra, ci scommetteva. Avrebbe potuto tornargli utile nella sua ricerca. Sì, c'erano degli effetti collaterali...ad esempio, che fosse un peso morto e che l'eventualità che gli indizi che conducevano alla Pietra del Male saltassero fuori.
Ma questo poteva essere un altro vantaggio, a pensarci bene. Se avesse consegnato alla Regina Cattiva le teste delle due ragazze, e nel frattempo fosse riuscito a recuperare anche qualche traccia che conducesse alla Pietra...
Udì un fruscio. Senza smettere di masticare la carne, si voltò verso Anya, la quale ora stava tentando di abbracciarsi le ginocchia nonostante i polsi legati. Le sorrise con aria canzonatoria.
- Hai fame?- chiese guardandola dall'alto in basso; Anya non rispose, ma non distolse lo sguardo rabbioso da lui.- Sai, è veramente delizioso...- proseguì il Primo Ministro, noncurante, accennando al coniglio arrostito.- Sul serio, è davvero buono...
Anya si strinse ancora di più le gambe al petto, senza smettere di fissarlo. Al Primo Ministro non piaceva quello sguardo: c'era paura mista a furia, ma anche...qualcos'altro.
- E' normale avere fame, dopo tutto quello che devi aver passato - ghignò, estraendo il pugnale dalla cintura.- Non c'è nulla di cui vergognarsi. Capisco che tu sia affamata. Se ne vuoi un po', non hai che da chiedere.
La ragazza non rispose, né distolse lo sguardo.
Che aveva da guardare?
- Davvero non ne vuoi?- brandì il coltello e posò il coniglio arrosto sull'erba.- Ho capito, sei timida. Vedrò di provvedere io stesso...
Sollevò il pugnale e lo calò sul coniglio. La ragazza sentì il crack dell'osso del collo dell'animale.
Il Primo Ministro afferrò la testa della bestia e la lanciò verso Anya. La ragazza vide gli occhi morti del coniglio avvicinarsi a lei mentre il capo mozzato rotolava nell'erba.
- Prego, ingozzati pure!- rise l'uomo, addentando un altro pezzo di carne; Anya lanciò un gemito rabbioso e allontanò la testa dell'animale con un calcio.
- Sei un bastardo!- ringhiò, fissando quello sconosciuto in cagnesco.
Il Primo Ministro ricambiò lo sguardo, tornando improvvisamente serio. Non era stato l'insulto a colpirlo, aveva sentito anche di peggio, nella sua vita.
Ciò che non tollerava era quello sguardo.
(Tieni gli occhi aperti! Mi senti? Andiamo, avanti!)
(Dannazione, portatemi delle bende!)
Gli occhi verdi della ragazza lo scrutavano con tanto rancore e tanto odio che lui non poteva quasi sopportarlo.
(Lasciatelo crepare!)
(Ehi, amico? Forza, guardami! Guardami, sono qui!)
Era troppo; chi lo guardava lo rispettava o lo temeva. Erano finiti i tempi in cui la gente mostrava disprezzo nei suoi confronti.
(Non merita di vivere!)
(Zitta, strega!)
(Vi prego! Morirà dissanguato se non facciamo qualcosa!)
(Forza, non mollare! Te la caverai, amico mio...mi hai sentito? Te la caverai...)
Era da più di sette anni che nessuno lo guardava così. Con lo sguardo di chi avrebbe preferito la peste piuttosto che averti vicino, di chi ti avrebbe voluto vedere morto, di chi non sopportava neppure di sapere della tua esistenza...
(Come potete volerlo salvare?!)
(Non può vivere)
(Merita di morire)
Digrignò i denti, gettando nella terra il pezzo di carne e alzandosi di scatto. Raggiunse Anya con furiosa rapidità, strappandole un gemito di dolore quando l'afferrò alla radice dei capelli.
- Credi di farmi paura con un insulto?- sibilò.
La scrollò con violenza. Anya lanciò un grido e sgranò gli occhi. Di nuovo, il verde tornò a incontrare l'azzurro. Il Primo Ministro sussultò, capendo finalmente quale fosse il problema. Non c'era più furia nell'espressione della ragazza, ma non stava guardando lui o la sua faccia, lo stava fissando negli occhi.
- Che hai da guardare?- ululò.
Sentì le mani completamente sudate; non era successo niente, si disse. Era troppo buio, gli alberi creavano delle ombre troppo fitte. Quella sgualdrinella non poteva aver visto nulla.
Non è successo niente.
Lasciò la presa, allontanandosi da Anya. Si sedette a diversi centimetri da lei, dandole appena le spalle.
Non era successo niente, si ripeté. E poi, se anche ciò di cui aveva avuto paura fosse accaduto, che importanza aveva? Quella ragazza era solo la sua preda, niente di più. Se anche avesse visto…
Non avrebbe dovuto importargli se avesse visto o no. In fondo, non era nulla, non più.
Ma non voleva comunque. Non voleva che una stupida ragazza vedesse i residui di ciò che era stato. Non voleva e basta.
Fra poche ore sarebbe stata l'alba; il Primo Ministro s’impose di riacquistare la calma e l’autocontrollo. Se avesse avuto paura, allora sarebbe divenuto lui stesso una preda. Doveva restare vigile: aveva due problemi a cui far fronte, quella notte.
Uno era quella ragazza; non poteva dormire, non finché lei era lì. Avrebbe potuto scappare.
L’altro, era l’Uomo Nero.
Ancora non riusciva a credere che la Regina l’avesse liberato per davvero; avrebbe certamente potuto trovare un’altra soluzione per raggiungere i suoi scopi, e quella agli occhi del Primo Ministro era solo una volgare esibizione di potere del tutto fine a se stessa!
Ma ormai, l’Uomo Nero era libero, e a lui non restava altro da fare se non sperare che la sovrana fosse in grado di tenerlo sottocontrollo. E restare vigile.
L’Uomo Nero ubbidiva solo a chi lo comandava; per tutti gli altri, non avrebbe avuto pietà.
Strinse l’elsa del pugnale, pronto alla veglia. Si voltò appena per non dover incrociare lo sguardo della sua prigioniera.
D'istinto, tastò il sacchetto nero che gli aveva dato la Regina Cattiva.
Non voleva che lo guardasse negli occhi.
 
***
 
- DUNQUE...TU SARESTI una specie di chiromante?
- Non esattamente…- sospirò Elizabeth, al colmo dell’esasperazione.
Avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di raccontare la storia di Cenerentola a Cenerentola stessa!
- Ma conosci il mio futuro!- protestò Cenerentola.- Sai chi sono, sai della mia famiglia...sei una strega, forse?
- No!- Elizabeth estrasse il libro di favole dalla sacca e lo posò pesantemente sul tavolo.- Ho letto la tua storia. Ecco, aspetta...
Quasi come per magia, il libro si aprì al primo colpo sulla favola che Elizabeth stava cercando. Le due ragazze si sporsero per vedere meglio, e la minore delle sorelle Hadleigh sospirò. Proprio come aveva temuto, l'inchiostro era sbavato e illeggibile.
E c'era anche da aspettarselo, con il villaggio di Cenerentola invaso dagli orchi e matrigna e sorellastre morte per il colera!
- Io non riesco a leggere niente - Cenerentola fece una smorfia contrariata.- Mi stai forse prendendo in giro?
- No! Senti, le cose stanno così...- Elizabeth si sporse verso di lei.- Io vengo da un posto dove tu esisti in forma...diciamo letteraria. Fatto sta che sei la protagonista di un racconto, a un certo punto arriva una fata madrina e tu vai a ballare con un principe, poi perdi una scarpetta e...
- Questo lo so!- Cenerentola incrociò le braccia al petto.- Non m'inganni. Questa storia è stata sulla bocca di tutti per settimane. Sono diventata il pettegolezzo di Hagenheim.
Elizabeth la guardò, confusa e stralunata.
- Cioè...tu hai già incontrato la fata?
- Se ti riferisci alla Fata Turchina, sì - il suo sguardo si caricò d'amarezza.- Sai, credevo sul serio che volesse aiutarmi. Volevo tanto andare a quel ballo, e lei mi ha dato un bel vestito e delle scarpe di cristallo...ma ha voluto che tutto finisse a mezzanotte.
- E sei ancora qui?- fece Elizabeth, incredula.- Non hai sposato il principe?
- Il Principe Azzurro, dici?- Cenerentola parve stupefatta.- Certo che no! Abbiamo ballato insieme, ma niente di più. Perché un principe dovrebbe sposare una sguattera?
- Ma...ma...non hai perso la scarpetta?
- La scarpetta?
Elizabeth annuì; si rese improvvisamente conto di quanto fosse difficile quella situazione. Cenerentola non era al livello di Biancaneve, ringraziando il Signore, ma si trovava comunque a che fare con una realtà completamente stravolta rispetto a quella che conosceva.
Avrebbe dovuto stare molto attenta a ciò che diceva o faceva.
- Ah, sì!- Cenerentola si alzò in piedi; Elizabeth attese mentre rovistava su una delle mensole. Quando tornò da lei, Cenerentola reggeva fra le mani una scarpa elegante con un tacco basso, completamente trasparente, elaborata, e molto piccola.- Stranamente, questa non è svanita a mezzanotte insieme all'incantesimo...- tornò a sedersi.- Chissà dove sarà l'altra...probabilmente in qualche bordello...
- Quindi...- Elizabeth si umettò le labbra.- Il Principe Azzurro non è venuto a cercarti?
- No, non l'ho più rivisto da quella sera.
Elizabeth abbassò lo sguardo, e non rispose. Non riusciva a capire se Cenerentola fosse dispiaciuta per il suo non-lieto fine, anche se non conosceva la sua vera storia. Ma probabilmente, se si era innamorata del Principe Azzurro e lui l’aveva abbandonata in quella topaia, doveva starci male.
- Posso tenerla un attimo?- chiese, sperando di farle piacere.- Prometto che non la romperò...
Disse l'elefante nella cristalliera.
- Fa' pure. E non preoccuparti, credo che questo cristallo sia magico...se non si è rotta dopo quella fuga disperata...- Cenerentola ridacchiò forzatamente, e le porse la scarpetta.
Elizabeth la prese con attenzione fra le mani; non fece in tempo a sentirne la superficie fresca e liscia a contatto con le dita, che improvvisamente il libro di favole si spalancò, e le pagine iniziarono a scorrere come mosse dal vento.
Lei e Cenerentola sgranarono gli occhi quando l’intera scarpetta s’illuminò, brillando fino a nasconderne la forma.
Elizabeth puntò lo sguardo sul libro: era aperto su una pagina bianca. Lentamente, iniziarono a formarsi alcuni segni neri.
 
Vicina è l'ora, lenta l'agonia
dei Fratelli Creatori il malvagio ritorno s'avvicina.
Prossimo è il momento, della Luna di Sangue il tempo è giunto,
tredici volte la purezza verrà corrotta,
tredici volte l'innocenza sarà violata,
tredici volte la speranza cadrà infranta.
Lenta sorge la Luna, l'Oscurità s'appressa,
del fine lieto si disperderà l'ombra.
I peccati dei padri saranno purificati,
del traditore figlio della salvezza la discendenza giungerà.
La Salvatrice a libertà giungerà, le cinque Chiavi ella conquisterà.
Solo un sogno infranto guarirà la ferita.
Solo la bellezza nella morte riporterà la vita...
 
C'erano due righe in più rispetto a come l'aveva mostrata la Fata Turchina.
 
Denso di bugie è il cammino, d'inganni è costellata la via,
solo il riflesso della verità le mostrerà la scia...
 
- La profezia!- esclamò Elizabeth.- La profezia è cambiata!
- Ma che stai dicend...
Così come si era formata, la scritta svanì. Al suo posto apparve una circonferenza al cui interno vi era inscritto un triangolo che, a sua volta, conteneva un altro cerchio.
La scarpetta di cristallo svanì fra le mani di Elizabeth; un attimo dopo, sulla circonferenza più grande era spuntata una piccola pietra preziosa, color azzurro pallido.
La scritta della profezia riapparve. Le parole sogno infranto erano state cancellate.
Elizabeth comprese immediatamente tutto.
- Ma cos'è successo?
- La...la tua scarpetta...- boccheggiò Elizabeth.- La tua scarpetta era il sogno infranto...
- Che cosa?
Un violento colpo squarciò l'aria, seguito a ruota da un altro della stessa intensità. Le due ragazze sobbalzarono, mentre un terzo colpo si faceva sentire. Somigliava quasi al suono di un cannone.
- Oh, no!- esclamò Cenerentola, scattando in piedi. Corse alla porta, assicurandosi che il catenaccio fosse ben saldo, quindi controllò che le imposte della finestra fossero chiuse.
Elizabeth si alzò e le andò incontro.
- Che sta succedendo?
Il volto di Cenerentola era divenuto una maschera di terrore.
- E' il segnale...- soffiò.- I soldati. Stanno arrivando.

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Capitolo 9
*** Capitolo VII - The Prisoner ***


Capitolo VII
 
The Prisoner
 
 
 
Una graziosa fanciulla di nobili origini
chiamata lady Marian per nome
viveva nel Nord, in un magnifico palazzo,
poiché ella era una dama di grande spicco
 
F. J. Child, Robin Hood e lady Marian
 
 
 
LE PRIGIONI ERANO COLLOCATE NEI sotterranei del palazzo di Lindorm, ed era raro che un barlume di luce che non provenisse dalle torce accese filtrasse attraverso le pietre umide e squadrate delle segrete.
Ma a lady Marian la luce faceva male, ormai.
La sua cella aveva una sola finestra incastonata di sbarre, troppo in alto per poter essere raggiunta e troppo piccola perché i raggi solari potessero entrare in modo completo e continuo; e trentasei mesi di prigionia erano stati sufficienti affinché lady Marian si ritraesse nell'ombra come un topolino spaventato, abbracciandosi le ginocchia e affondando il volto nell'incavo creato dal suo grembo in modo che la luce non le facesse bruciare gli occhi ogniqualvolta un raggio impertinente osava violare l'oscurità della celletta.
La Regina Cattiva l'aveva rinchiusa là dentro tre anni prima, e da allora la porta era sempre rimasta sigillata tranne che per tre volte al giorno, quando, a orari regolari, un Indifferente la socchiudeva e si affacciava sulla soglia con il suo sguardo spento e faceva scivolare sul pavimento la ciotola contenente il rancio.
Gli Indifferenti non parlavano mai, e lady Marian era abituata al silenzio. Le segrete non erano rumorose; perfino le guardie limitavano i loro discorsi a mormorii e bisbigli troppo bassi per poter essere uditi dai prigionieri. Le uniche occasioni in cui quell'alone silenzioso veniva infranto era quando la Regina Cattiva o il capitano Thorne decidevano di punire qualcuno.
E' da stamattina che sento urlare. Ma perché non lo portano altrove?
Era già difficile dormire – il pagliericcio era così impregnato di umidità che si era sfatto dopo poche settimane della sua prigionia, e il pavimento era durissimo, per non parlare dei topi...la notte precedente Marian era stata svegliata da due ratti che le stavano rosicchiando il vestito, chi le garantiva che se non li avesse ammazzati stritolandoli fra le catene non avrebbero fatto lo stesso con le sue caviglie? –, con il chiasso secco e cadenzato delle frustate e dei gemiti di dolore di quel poveraccio la sua stanchezza e la sua emicrania non potevano che peggiorare.
Chiuse gli occhi e provò a rilassarsi e a ignorare quella cacofonia, ma era comunque difficile trovare sollievo in quelle condizioni. Dormire era l'unico passatempo che poteva permettersi. In tre anni aveva elaborato un programma giornaliero che, si era detta, le sarebbe servito per non impazzire: questo era avvenuto nelle prime settimane, quando ancora sentiva le pareti della cella schiacciarlesi contro e quando ancora credeva che sarebbe uscita da lì presto; era una strategia momentanea, si era detta: mangiava e dopo ogni pasto dormiva, poi cercava sempre di camminare su e giù nel ristretto spazio e per quanto le catene glielo consentissero, almeno quattro o cinque volte al giorno per circa dieci minuti, in modo da non atrofizzare i muscoli delle gambe; e quando Cassius non montava di guardia, a bassa voce ripeteva tutte le filastrocche e gli scioglilingua che conosceva, e di tanto in tanto canticchiava qualche stralcio di vecchia ballata.
Ovviamente non era durata poco come aveva sperato e nessuno era venuto a liberarla, ma la routine era rimasta, così come l'obiettivo di non perdere la testa.
Anche se me la faranno perdere presto, se vanno avanti con questa musica...!
Ogni colpo secco di frustata era seguito da un gemito o un urlo di dolore. Certo, il disgraziato si stava impegnando per provare a soffrire in silenzio, ma lo si sentiva lo stesso. Marian strizzò gli occhi e si rannicchiò in posizione fetale, prendendosi il capo fra le mani. Le tempie le martellavano come tamburi di una processione.
Rantolò di dolore e sul volto le si dipinse una smorfia quando sentì i polsi bruciarle. Un rivolo di sangue aveva macchiato l'anello di ferro e ora stava scendendo lungo l'osso metacarpale e il mignolo. Marian scattò seduta, emise un soffio felino e provò a infilare la manica del vestito all'interno dell'anello per tamponare e attenuare il dolore. La stoffa assorbì il sangue, scurendosi in un modo che alla ragazza sembrò poco naturale, quasi nero. Si dimenticò comunque subito della cosa, attribuendo la strana sfumatura alla penombra della cella.
Due anelli di metallo arrugginito le erano stati serrati attorno ai polsi, e agganciati ad essi vi erano un paio di catene fuse con dei ganci infissi nelle pietre del pavimento. Non glieli avevano mai più tolti, e dopo tre anni il ferro le aveva del tutto martoriato la carne, graffiato la pelle, e spesso dalle ferite spillava sangue.
Prestando attenzione a non farli sfregare più di tanto, lady Marian si sollevò dal pavimento. I gemiti erano cessati e gli schiocchi della frusta si facevano meno frequenti, avviandosi verso la cessazione.
Che l'abbiano ammazzato?
Riconobbe la mascella marcata di Cassius oltre le sottili sbarre della graticola – i cardini dello sportello avevano ceduto un anno e mezzo prima per colpa di un pugno troppo violento della guardia, e nessuno ne aveva mai messo uno nuovo. Marian assottigliò le labbra. Le carceri del castello erano un postaccio, l'ultimo dei luoghi in cui un membro della Guardia Reale degno di tale nome avrebbe voluto essere assegnato; si aveva a che fare con la feccia – prigionieri illustri, certo, in quanto prigionieri della sovrana, ma pur sempre tali e quindi feccia –, c'era poco ricambio di turni e ci si trovava a montare di fronte alle celle per ore e ore, spesso anche per tutto il giorno e tutta la notte prima di poter avere un po' di riposo.
- Immagino occorreranno uomini addestrati - aveva considerato in proposito il nuovo capitano della Guardia Militare, tale Alexandre Navarre, dopo pochi giorni dalla sua assunzione e dal suo arrivo a Lindorm. Stava discorrendo con il capitano Thorne di fronte al grande camino del salone dell'ala est, di fronte a una bottiglia di vino rosso della regione dei Quadling.
Lady Marian non aveva ricavato molta soddisfazione da quel tizio. L'impressione che aveva avuto di lui quando era arrivato alla reggia di Lindorm era stata tutto sommato confermata: Navarre sembrava uno che detestava i convenevoli e ancora di più detestava il capitano Thorne. Era difficile da spiegare a parole, ma lady Marian riusciva a percepire una sottile ostilità che ammantava l'atmosfera ogni volta che Navarre e Thorne si trovavano nella stessa stanza o si scambiavano quelle poche parole di rito.
Ma non pare esserci niente di losco, si era però ritrovata a constatare con una punta di delusione. Può darsi che sia solo antipatia.
- Nel Regno da cui provengo la residenza regia non disponeva di carceri - aveva aggiunto Navarre proprio mentre lady Thorne calava un inutilissimo due di fiori. Lei e lady Marian erano sedute a un tavolino che si trovava quasi dalla parte opposta del salone, e si faceva una fatica dannata a sentire cosa i due uomini si stessero dicendo. Lady Marian doveva solo ringraziare che parlassero con un tono di voce normale, se avessero bisbigliato sarebbe stato impossibile capirci alcunché.
Se fosse dipeso da lei, avrebbe trovato qualche scusa per sedersi a ridosso di una delle finestre a ricamare, vicino al camino, ma quell'oca di lady Thorne era sempre ansiosa di trovarsi un luogo il più distante possibile da quello in cui si trovava il marito, e se avesse insistito troppo avrebbe finito con il dare nell'occhio.
- Tocca a voi - aveva pigolato lady Thorne rivolgendole un sorriso gentile e sciocco. Aveva partorito da poco, non aveva ancora ripreso a indossare il corsetto e l'abito lasciava intravedere le forme più morbide residuo della gravidanza. Lady Marian era all'epoca appena quindicenne, e lady Danielle Thorne non le era mai piaciuta: non le ispirava antipatia come il marito, ma le dava l'idea di un esserino ebete e inutile, talmente spaurito e sottomesso da dare sui nervi.
Il sentimento di avversione si era acuito quando si era vista soffiare da sotto il naso il ruolo di dama di compagnia della principessa Rosarossa e della principessa Biancaneve proprio dalla moglie del capitano ventiquattro mesi addietro; era stata la Regina Cattiva a stabilire così, perché a quel tempo Marian era stata promessa in sposa e aveva dovuto lasciare la reggia di Lindorm per quella di Nottingham.
Il matrimonio era andato a monte e lei era tornata, stavolta come spia della Resistenza, ma il ruolo di dama di compagnia delle Loro Altezze era rimasto a Danielle. Marian non gliel'aveva perdonato. Le principesse le avevano sempre ispirato la stessa simpatia della Morte Rossa, ma ricoprire tale ruolo avrebbe potuto giovare alla sua missione; senza contare che faticava a tollerare il pensiero di essere stata rimpiazzata da una donna più che trentenne che poco aveva da spartire con delle bimbette di dieci e dodici anni com'erano le Loro Altezze, che non aveva nessuna arte nella conversazione, che non contenta di essere riuscita ad avere il primo figlio per grazia ricevuta dopo ben nove anni di matrimonio aveva pure scelto di allattare il suo bambino appena nato come una contadina qualunque invece di affidarlo a una balia come tutte le nobildonne, e a cui avevano perfino dovuto insegnare a giocare a zara.
Gioco a cui rimaneva comunque scarsa.
Lady Marian aveva calato un'intera scala di carte con una punta di soddisfazione che non si curò di nascondere, e aveva regalato alla moglie del capitano anche un sorrisetto compiaciuto quando tirò verso di sé il denaro posto in palio, ma non aveva distolto la propria concentrazione dalla conversazione in corso fra Navarre e Thorne.
- Non portiamo qui tutti i ladruncoli e le puttane che la Guardia Militare raccatta - il capitano Thorne aveva incrociato le braccia al petto, steso le gambe in avanti con le caviglie incrociate e appoggiato le spalle allo schienale della poltrona.- Le prigioni di Lindorm sono riservate ai traditori della Corona e a coloro che Sua Maestà reputa...importanti.
Lady Thorne aveva lasciato cadere un paio di carte sul tavolo, e si era affrettata a raccoglierle, ma le mani avevano continuato a tremarle. Marian aveva notato già da tempo che quella donna veniva colta da un forte nervosismo quando si trovava a condividere lo spazio con il marito. I suoi occhi sembravano diventare più grandi ogni volta che il capitano Thorne parlava.
- E come farò a sapere chi Sua Maestà vuole che sia condotto nelle prigioni di Lindorm?- Navarre si era riempito mezzo bicchiere e aveva ingerito il vino in un solo, rapido sorso.
- I vostri uomini condurranno chi arrestate nelle prigioni cittadine. Se Sua Maestà lo ordinerà, sarò io a inviarvi un messo con le generalità del prigioniero che dovrete trasferire a Lindorm. Lo stesso avverrà qualora il trasferimento debba essere effettuato alla Purificazione...
- Non conosco questo luogo.
- E' il posto dove mandiamo i bastardi più pericolosi. Un merdaio, parola mia - lady Marian era rabbrividita. Per anni aveva avuto a che fare con il capitano Thorne, e nonostante vivesse e lavorasse alla reggia di Lindorm non aveva mai perso la sua parlata da carrettiere. E aveva pure il coraggio di fregiarsi di un titolo nobiliare,
Nonostante si sia venduto pure quello per pagarsi i debiti.
Nei mesi precedenti lady Marian aveva scoperto dei dettagli sul passato di Gabriel Thorne che per la Resistenza erano stati ininfluenti, ma che per lei erano stati la conferma della bassa stima che già nutriva per quell'uomo.
- Ma in tal caso sarà Sua Eccellenza il giudice Lord a inviarvi un messo. Per il resto, sentitevi pure libero d'inviarmi tutte le teste di cazzo che compongono le vostre fila. Un annetto nelle prigioni di Lindorm e gli passa la voglia di fare stronzate.
- Avete detto poco fa che le carceri della reggia sono riservate ai traditori della Corona - a lady Marian, nonostante la lontananza, non era sfuggito il modo in cui Navarre aveva contratto la mascella.
- Ma mica come prigionieri, come guardie!- Thorne aveva emesso una risata catarrosa.- E' lì che mando le teste calde. Lo considero...formativo, diciamo così.
- So gestire da solo i piantagrane - Navarre si era alzato con tanta furia che quasi aveva rovesciato la bottiglia di vino e i due bicchieri; anche il tavolino aveva traballato. Lady Marian era sobbalzata e il tremore alle mani di lady Thorne era aumentato così tanto che tutte e sette le sue carte erano crollate sul tavolo.- Con permesso - Navarre era scattato sull'attenti, aveva fatto un rapido inchino a Thorne ed era uscito dal salone.
Cassius era uno di quelli che all'epoca il capitano della Guardia Militare aveva definito piantagrane; Marian non aveva idea di cosa avesse combinato, ma era stata la prima guardia a montare di fronte alla sua cella la notte in cui l'avevano imprigionata e, cambio turno a parte, stazionava lì da tre anni.
Qualche volta l'aveva sentito lamentarsi con altre guardie di quel lavoro ingrato ed esprimere ad alta voce le sue speranze che il capitano Thorne lo reintergrasse nel corpo addetto alla sorveglianza delle ale del castello.
E invece spero che tu marcisca qui fino a che non sarai così decrepito da non reggerti più in piedi.
Si avvicinò alla porta. Le catene si tesero e il ferro degli anelli graffiò di nuovo i polsi di lady Marian. Cercando di non farsi scoprire da Cassius, provò a sbirciare nel corridoio. C'erano poche torce accese, e di nuovo era calato il silenzio.
- Che cazzo fai?!
Balzò indietro di un passo alla manata di Cassius contro le sbarre. Il monociglio incolto della guardia e i suoi occhi infossati fecero capolino alla finestrella della porta. Lady Marian serrò le labbra ed espirò dal naso.
- Seduta!- abbaiò Cassius.- Torna in fondo alla cella, vacca.
- Chi è che hanno torturato?
Altre due poderose e secche manate fecero tremare sbarre e porta, e la cacofonia legnosa e metallica rimbombò contro le pareti della cella. Lady Marian sogghignò, e recuperò il passo di cui era indietreggiata.
- Torna a leccarti la figa nell'angolo, ho detto, cagna rognosa che non sei altro!
- Nervoso, Cassius?- gli regalò un sorriso amabile. Non poté non pensare che un tempo, quando scopriva i denti, era certa che il suo sorriso avrebbe fatto capitolare qualsiasi essere di sesso maschile, talmente erano dritti e bianchi. Dritti lo erano ancora, e ringraziando i Traghettatori non ne aveva persi, in tre anni, ma dovevano essere gialli come pannocchie, e ogni giorno pregava che non le venissero le carie.
Ma per questo scimmione basta e avanza.
E poi, l'obiettivo non era sedurlo. L'obiettivo era procurarsi un po' di divertimento.
- Allontanati dalla porta e rimetti il culo sul pavimento, altrimenti...
- Altrimenti, cosa? Cosa mi fai, Cassius?- avvicinò quanto più poteva il volto alla finestrella; le catene ai polsi si tesero e gli anelli le graffiarono i polsi, ma la soddisfazione di far imbestialire quel brutto ceffo quasi smorzava il bruciore.- Devo forse ricordarti che Sua Maestà ha ordinato di non toccarmi?
La guardia diede una raffica di secche manate alle sbarre, digrignando i denti ed emettendo un ruggito sommesso di rabbia – ecco, da bravo, sfogati, tanto questa è l'unica cosa che potrai fare! – fino a che dal fondo dell'androne provenne il suono secco di un oggetto di legno – una lancia – che batteva due volte contro la pietra del pavimento. Il suono si ripeté, più vicino, poi di nuovo una terza, una quarta, una quinta volta, sempre più vicino, fino a che anche Cassius, rimessosi in posizione, batté per due volte la punta inferiore della lancia a terra.
- Sua Maestà la Regina!- riecheggiarono una serie di voci, una dopo l'altra, accompagnate dallo schiocco delle lance.- Sua Maestà la Regina!
- Sua Maestà la Regina...- aggiunse svogliatamente Cassius, per poi passare l'onere dell'annuncio alla guardia successiva. Lady Marian si ritrovò seduta sul pavimento senza neanche essersi resa conto di aver compiuto alcun movimento.
Non c'era nessuna ragione per cui la Regina Cattiva avrebbe dovuto scendere nelle prigioni. Dopo un anno, lady Marian era certa che Maxime Beaumont fosse morto, dunque quella visita doveva essere per forza riservata a lei.
Udì la lancia di Cassius picchiettare contro la pietra del pavimento quando la guardia si mise sull'attenti, e dalla finestrella scorse la sagoma grottesca di un'Indifferente che armeggiava con il catenaccio.
La porta si aprì lasciando entrare la luce.
Il bagliore emanato dalle torce e dal chiarore dell'alba che filtrava dalle strombature nel corridoio non era molto forte, ma entrò con prepotenza nella cella distruggendone la penombra, e l'effetto fu quello di un incendio divampato improvvisamente in uno stanzino buio. Colpì gli occhi di Marian facendoglieli bruciare, e la ragazza serrò le palpebre e alzò istintivamente i pugni in segno di difesa, riparandosi il viso.
- C'è troppa luce, mia protetta?
Lady Marian dovette sbattere più e più volte le palpebre prima di riuscire a mettere a fuoco le figure di fronte a sé. La Regina Cattiva era come se la ricordava, non era cambiata neanche di un dettaglio in quei tre anni, dall'ultima occasione in cui l'aveva vista – il suo arresto. I capelli neri e lisci le ricadevano elegantemente in ciocche folte e setose fino alle reni, il volto maturo e affascinante non era solcato da neppure una ruga, ma la pelle era liscia e rosea, mentre gli occhi verdi conservavano ancora quel brillio in cui erano misti crudeltà e intelligenza perversa, quello stesso brillio che lady Marian aveva scorto innumerevoli volte in un numero infinito di occasioni, quando ancora era la sua protetta, prima che diventasse la spia della Resistenza, prima che la Regina Cattiva scoprisse del suo tradimento e la facesse rinchiudere nelle segrete.
La monarca era abbigliata con un lungo vestito color rosso sangue – il colore proibito – con gonna ampia e maniche svasate, e la scollatura abbondante il cui bordo era decorato da una sottile striscia di pizzo bianco. Sul capo portava una semplice tiara dorata con incastonato al centro un rubino.
Tutta la sua figura emanava imponenza e nobiltà, e non faceva altro che mettere in ombra la figurina magra, spaurita e rannicchiata al fianco della sovrana. Lady Marian riconobbe che, a differenza della matrigna, la principessa Rosarossa era cambiata, cresciuta. Di certo non era più la dodicenne petulante che piagnucolava se il té era tiepido. Era diventata molto somigliante alla sorella maggiore, ma era meno bella rispetto a Biancaneve e le forme da donna erano strette e castigate in un orribile vestito color salmone. Stava tre passi indietro alla Regina Cattiva, con le mani giunte in grembo e la testa china. I capelli erano sciolti e fra di essi era stato posto un fermaglio a forma di girasole.
Più che a una principessa, somigliava all'ultima delle dame di compagnia.
Lady Marian stava appena iniziando a chiedersi che fine avesse fatto la principessa Biancaneve, quando la Regina Cattiva parlò ancora.
- Ho pensato di farti una visita, cara Marian - le rivolse un sorriso cordialmente e crudelmente freddo.- Ti trovo parecchio sciupata, devo dire. Non assomigli più molto a una lady...
Lady Marian era molto più giovane di quanto dimostrasse; aveva appena compiuto vent'anni, ma il suo volto provato da tutto quel tempo trascorso dietro le sbarre gliene attribuiva almeno cinque in più. Indossava ancora l'abito che aveva addosso quando era stata arrestata, ma la stoffa viola scuro era lercia e strappata ai bordi della gonna e delle maniche. Le unghie delle mani sottili erano sporche e mangiucchiate, i capelli una volta morbidi e mossi erano ridotti a una massa castana arruffata e unticcia, mentre gli occhi tradivano tutta la stanchezza e la rassegnazione di chi non aveva più nulla in cui sperare.
Lady Marian si sentiva sconfitta, anche se non voleva ammetterlo a se stessa; si sentiva sconfitta da tre anni, quando un uomo che credeva suo amico aveva tradito lei e i loro compagni, lasciando che venisse arrestata e agevolando la scalata al potere della Regina Cattiva.
Si sentiva sconfitta, questo era vero; ma per nulla al mondo l'avrebbe dato a vedere alla sovrana. E per nulla al mondo si sarebbe lasciata insultare e umiliare più di quanto già la Regina Cattiva non avesse fatto.
Sono e sarò pur sempre una lady. E se le cose fossero andate diversamente, stareste parlando con la regina consorte di Nottingham, dannata strega...!
- Perché siete qui?- sibilò, sollevando fieramente lo sguardo.- Non sono dell'umore per ricevervi, né mai lo sarò.
- E' forse proibito visitare una vecchia amica?
- Voi non siete mia amica.
- Quanta scortesia...- commentò la Regina Cattiva, noncurante.- Constato con dispiacere che le buone maniere che ti ho insegnato si sono perdute, in questi tre anni. E dire che se ci avessi pensato due volte, prima di decidere di tradirmi, ora non saresti inginocchiata su un pagliericcio umido e con delle catene ai polsi...ma non voglio parlare di questo. C'è invece qualcosa che ti farà piacere conoscere...
- Non voglio sapere niente da voi, di qualsiasi cosa si tratti.
- Davvero? Neppure se riguarda la Salvatrice?
Lady Marian sentì il cuore perdere un battito.
La Salvatrice.
Per quanto tempo l'avevano aspettata? Trent'anni? Di più?
Le attraversò la mente il dubbio che la Regina Cattiva le stesse mentendo, chissà con quale subdolo fine, ma subito comprese che sarebbe stato improbabile. La sovrana non avrebbe mai potuto scherzare su una cosa simile. Se c'era qualcuno che temeva la Salvatrice più di chiunque altro, era lei.
Lady Marian conosceva la profezia. Era destino che la Salvatrice giungesse per ristabilire l'ordine, ma...non diceva nulla su quando, con esattezza. E lady Marian doveva ammettere di non aver neppure pensato a lei quando, cinque anni prima, aveva tradito la Regina Cattiva. Aveva creduto nella Resistenza, non nella Salvatrice. Era stata cieca; non si era resa conto, allora, che tutto stava lentamente ma inesorabilmente precipitando; e per due anni, fino al suo arresto, aveva continuato la sua missione convinta che le forze unite di tutti loro sarebbero bastate...ma se la Salvatrice era arrivata, alla fine, voleva dire che l'Oscurità era vicina. Molto vicina.
E i fratelli Grimm stanno per tornare.
La Regina Cattiva sorrise, compiaciuta nel vedere l'espressione sconvolta di lady Marian. Rosarossa si azzardò appena a sollevare lo sguardo, ma poi riabbassò subito il capo come un cagnolino obbediente.
- Sapevo che questa notizia avrebbe stuzzicato la tua attenzione, mia protetta...
- Avete poco da ridere, Vostra Maestà - Marian le sorrise trionfante senza curarsi dei denti ingialliti e di celare lo scherno nel pronunciare quel Vostra Maestà.- Sapete cosa significa? Avete perso. La Salvatrice vi fermerà. Non riuscirete a riportare indietro i Grimm, lei...
La Regina Cattiva la interruppe con una risata sommessa ed elegante; quella reazione colse lady Marian talmente alla sprovvista che fu in grado di zittirla.
- Temo che tu sia nel torto, mia protetta.
- Le frasi fatte non funzionano con me, dopo anni dovreste averlo capito.
- Io non sarei così certa di ciò che dici, se avessi visto che razza di sciocche sono le due potenziali candidate...e se sapessi che il Primo Ministro si sta già occupando di loro.
Lady Marian si sentì come se stesse cadendo in un buco nero, cadendo con la consapevolezza che la sua caduta non avrebbe mai avuto fine, e nonostante ciò non sarebbe sopravvissuta.
- Tu sei stata una dei tanti a perderci, quando lui ha deciso di stare dalla parte giusta. La mia.
- Maledetti!- gridò lady Marian, fuori di sé.- Siate maledetti entrambi! Traditore...!- ansimò.- Merita che il Baron Samedi lo trascini nel Regno delle Ombre! E' colpa sua! Ha infranto il giuramento, ci ha traditi...! Maledetto, se solo osa...
- Tutto questo affannarti non ti servirà a nulla, Marian...- fece la Regina Cattiva con tranquillità.- Tu conosci anche meglio di me l'abilità del Primo Ministro. Sarà solo questione di tempo prima che mi consegni i cuori e le teste delle ragazze, e tu non potrai farci nulla...
- Se la Salvatrice è arrivata, la Resistenza lo saprà a sua volta...!- ribatté Marian. Non ne aveva la certezza, ma voleva disperatamente crederlo.- Il Primo Ministro non è l'unico a conoscere la Foresta Incantata! Il Principe Filippo manderà qualcuno a fermarlo...e quando finalmente uscirò di qui, io...
- Come hai detto, prego?
Per assurdo che fosse, la Regina Cattiva le aveva posto la domanda con un tono che davvero lasciava intendere stupore, o che non avesse compreso. Anche il modo in cui aveva sollevato le sopracciglia – impercettibile, ma a lady Marian non era sfuggito – manifestava una certa sorpresa.
La prigioniera non si fece cogliere in contropiede.
- Mi tireranno fuori da qui - disse risoluta.- La Resistenza...
- Guardia!- chiamò la Regina Cattiva. Cassius sobbalzò appena per essere stato interpellato, e quell'ordine repentino sembrò aver colto alla sprovvista anche Rosarossa, che fece il gesto di appiattirsi contro la parete della cella.
Cassius rivolse alla sovrana un rapido inchino, in attesa degli ordini.
- Libera la prigioniera e conducila all'esterno della cella.
Marian vide Rosarossa e Cassius dilatare all'unisono gli occhi per lo stupore, ma nessuno fiatò. Lei stessa si ritrovò a boccheggiare come un'ebete, senza che il suo cervello riuscisse a produrre un pensiero di senso compiuto o una qualsiasi spiegazione a ciò che stava accadendo.
Cassius girò la chiave nelle serrature degli anelli, che si aprirono e caddero a terra. Lady Marian non riuscì a trattenersi dall'emettere un sibilo a fior di labbra: il bruciore ai polsi si era acutizzato quando l'aria aveva colpito i graffi. La ragazza vide che gli anelli di ferro le avevano lasciato dei doppioni incisi nella carne, cicatrici rossastre con taglietti e croste che le circondavano i polsi.
Non se ne sarebbero andati mai via, comprese.
Cassius le afferrò una spallina del vestito e la fece alzare in piedi.
Rosarossa si portò una mano alle labbra fingendo preoccupazione e sconvolgimento, ma i suoi occhi rivelavano solo un morboso interesse.
- Lasciala - ordinò la Regina Cattiva, e Cassius spinse lady Marian fuori dalla cella.
Gli occhi le fecero ancora più male stando così a contatto con la luce delle torce accese. Lady Marian trasse un lungo respiro; aveva fissato il pavimento per tutta la breve traversata, ma ora trovò la forza di guardarsi intorno.
Il corridoio era deserto, la Regina Cattiva e la principessa e Cassius erano alle sue spalle. Sicuramente la stavano fissando, ma nessuno faceva nulla per trattenerla. Le sarebbe bastato scattare e correre il più veloce possibile, ora che non c'erano più catene né celle a trattenerla, ma non si mosse.
C'era qualcosa di troppo strano.
Si aspettava che sarebbe accaduto qualcosa, e così fu.
Cominciò con un cerchio alla testa, che si fece sempre più intenso fino a diventare un'emicrania insopportabile che dalla fronte si estese fino alla nuca. Lady Marian si prese le tempie pulsanti fra le mani, scoprendo che l'intero volto era in fiamme, e nel mentre la vista le si annebbiò. Le sagome delle celle e delle torce divennero ombre che andavano via via svanendo a loro volta.
Era come se qualcuno le stesse aprendo il cranio a metà. Si accorse di stare tremando e di sudare freddo, e le gambe le cedettero. Cadde in ginocchio mentre il calore dalla testa s'irradiava in tutto il suo corpo.
Non c'erano fiamme, eppure stava bruciando viva. Cominciò a contorcersi e a urlare per il dolore.
La Regina Cattiva restò ancora per qualche istante a osservare lady Marian che strillava e si dimenava arsa da un fuoco invisibile, poi si rivolse di nuovo alla guardia.
- Riportala nella sua cella.
Cassius eseguì, e trascinò lady Marian fino a farla rotolare sul pagliericcio umido.
Le fiamme smisero istantaneamente di bruciare.
Marian smise di strillare. Si accorse di avere il volto inondato di lacrime. Esaminò le proprie mani alla ricerca di ustioni, ma non ne trovò né lì né altrove. Cercò di raccapezzarsi e riprendere fiato.
- Un sortilegio di clausura - spiegò la Regina Cattiva.- Prendo sempre le mie precauzioni, quando si tratta di investimenti importanti. Ora sai che cosa ti accadrà nella remota possibilità in cui qualcuno cerchi di liberarti - Cassius le aveva rimesso gli anelli; lady Marian non comprendeva il senso di quel gesto.- Resterai qui fino a che non si compirà la tua sorte. Il tuo destino è stato scritto ben dodici anni fa...sei la prima, Marian.
La Regina Cattiva fece un cenno alla guardia, e Cassius seguì lei e una rattrappita Rosarossa fuori dalla cella. Lady Marian udì il catenaccio che veniva rimesso al suo posto e scorse un'ultima volta il bel viso crudele della sovrana oltre la finestrella provvista d'inferriate, prima che anche quello scomparisse.
Lady Marian respirò affannosamente, tentando di riprendersi.
Sortilegio di clausura...la Salvatrice....
(Sei la prima)
D'un tratto, un rumore stridulo alle sue spalle la fece sobbalzare. Lady Marian si voltò. Sul muro erano state incise delle parole nella pietra.
 
 
Senza cuore è la Regina,
solo il Vero Amore salverà la prima bambina.
 
 
Dalla scritta iniziò a colare inchiostro nero.
 
L'ultima frustata trovò la sua schiena pressoché desensibilizzata.
Sentì il torturatore grugnire per la fatica; immaginò che si stesse asciugando il sudore dalla fronte. Lui, Eric, di sudore era madido, e la sua schiena era ridotta a una ragnatela sanguinante.
Ma se ci fosse stato Navarre a quest'ora non avrei avuto più la carne.
- Apri le manette - ordinò il capitano Thorne dietro di lui.
L'Indifferente strisciò con le spalle ricurve e il capo chino fino a lui, e obbedì. Il Cacciatore cercò istintivamente quelle pupille spente. Quando gli anelli di ferro agganciati alle catene infisse al soffitto si aprirono, Eric tornò a sentire le braccia. Un tenue formicolio cominciò a salirgli dagli avambracci fino alle falangi mentre crollava inginocchiato nella pozza di sangue e inchiostro.
Vedere quel liquido nero gli fece se possibile più male delle frustate stesse.
L'Indifferente si allontanò in silenzio, con la stessa espressione spenta.
- Se fosse dipeso da me, l'avrei ridotto come quel Beaumont, un anno fa - Eric si voltò a guardare oltre la propria spalla. Il capitano Thorne stava osservando la sua schiena martoriata con l'unico occhio che aveva, ma parlava con il torturatore, un uomo basso e grasso con la testa calva e le guance arrossate che annaspava come un suino mentre cercava di riprendersi dalla fatica.- Quello sì, che è stato un lavoro coi fiocchi - si complimentò.
- Non sono stato io - annaspò il torturatore.- Il capitano...il capitano della Guardia Militare...- sputò fuori.- Me lo ricordo come se fosse ieri. Ha insistito per occuparsi personalmente di lui.
La seppur accennata smorfia di compiacimento abbandonò il volto del capitano Thorne. L'Indifferente si trascinò fino alla porta della cella e l'aprì.
Thorne gli sferrò un cazzotto in pieno stomaco. L'Indifferente si portò le mani all'addome e si appoggiò con il dorso alla parete, ma non emise un verso, e le sue pupille rimasero spente.
Il capitano uscì dalla cella, e il torturatore lo seguì.
Eric guardò l'Indifferente, e questi ricambiò lo sguardo, ma di nuovo, nei suoi occhi e sul suo volto non comparve nessuna emozione. Infine, anche lui lasciò la cella.
Il Cacciatore si trascinò lontano dalla pozza di sangue nero, fino a distendere le gambe e a poggiare la nuca contro il muro. Gli avevano squarciato la camicia sul dorso per frustarlo, e adesso la stoffa gli ricadeva molle e sbrindellata sulle spalle e il torace.
I postumi e le frustate lo avevano spossato fino all'inverosimile. Ma non poteva permettersi di dormire, non adesso che credevano di averlo sotto controllo.
Quando era stato maledetto, aveva promesso a se stesso che avrebbe lasciato uscire il Lupo solo durante le notti di luna piena, ed era stato catturato e a pagare le conseguenze dei suoi buoni propositi erano state Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Non avrebbe permesso che la Regina Cattiva usasse il Lupo un'altra volta.
 
 
***
 
 
ELIZABETH SENTÌ CHE IL SANGUE le si era gelato nelle vene.
Cenerentola si assicurò ancora una volta che il catenaccio alla porta fosse ben saldo, quindi si voltò verso di lei. Elizabeth vide che era affannata e spaventata, tutta la sicurezza che aveva visto in lei pareva scomparsa, e questo non fece altro che terrorizzarla ancora di più.
- Che fai lì impalata?!- sbottò.- Hai sentito cosa ho detto? Stanno arrivando i soldati!
- I...i soldati?- boccheggiò Elizabeth. Dall'esterno della casa aveva iniziato a provenire il suono di cavalli al galoppo, che man mano che si avvicinava si univa a un vociare umano.
- La Guardia Militare della Regina Cattiva. Quelli sono anche peggio degli orchi - bisbigliò Cenerentola prima di rivolgere la sua attenzione altrove. Elizabeth la vide aprire un cassetto di una delle credenze ed estrarne due coltelli da carne. Cenerentola gliene porse uno.
- Prendilo!- la incitò, vedendo l'espressione perplessa della ragazza.- Avanti! Che aspetti? Potrebbe servirti...!
Elizabeth annuì e prese il coltello con le mani che tremavano. Cenerentola si portò l'indice alle labbra e restò in ascolto. Il galoppo si era arrestato a poca distanza dalla casa. Ora si udivano chiaramente solo voci che parlavano animatamente, risate sgangherate, e poi una che si levò sopra le altre, le quali tacquero dopo averne ricevuto l'ordine. Nonostante le persiane accostate, oltre la finestra iniziarono a intravedersi sagome scure.
Elizabeth si accorse che Cenerentola stava trattenendo il fiato.
La porta d'ingresso venne scossa da violenti colpi.
- Aprite!- tuonò una voce maschile, oltre i battenti sbarrati dell'ingresso e della cucina.- E' la Guardia Militare. C'è nessuno? Aprite, in nome della Regina!
- Dannazione...!- imprecò Cenerentola sottovoce; trascinò Elizabeth per un braccio fino alla parte opposta della cucina, aprì lo sgabuzzino e ce la spinse dentro; la seguì in una frazione di secondo, accostando la porta in modo che le nascondesse entrambe, ma lasciando comunque aperto uno spiraglio in modo da poter vedere ciò che stava succedendo nella cucina.
- Aprite, ho detto!
Elizabeth rivolse uno sguardo interrogativo a Cenerentola, la quale le fece cenno di accostarsi a lei.
- L'uscita sul retro è troppo lontana da qui, non arriveremmo in tempo...- scandì a mezza voce, quasi impercettibilmente.
- Pensi che entreranno?- sussurrò Elizabeth di rimando; non aveva capito il perché di tanto allarme – da figlia di un poliziotto le era stato insegnato a fidarsi delle autorità –, ma a quanto pareva i soldati della Guardia Militare non dovevano essere dei tipi con cui scherzare.
Un tonfo sordo le fornì la risposta; Elizabeth realizzò che avevano sfondato la porta, la cui sorte toccò poco dopo anche al battente della cucina. La stanza adiacente si riempì di passi e di voci, che però, se si alzavano troppo, venivano subito rimesse in riga dalla medesima, imperiosa, che le aveva zittite poco prima.
Elizabeth si sollevò sulla punta per vedere meglio oltre la spalla di Cenerentola: dalla porta socchiusa riusciva a scorgere due figure maschili, vestite completamente di nero, con mantello ed elmo, ma nella stanza dovevano esserci almeno cinque persone.
- Che stanno facendo qui?- sussurrò.
- Quello che fanno da un mese a questa parte: razzia - bisbigliò Cenerentola di rimando.- Erano già venuti quando Anastasia e Genoveffa erano ancora vive, ma quando si sono accorti che avevano il colera sono fuggiti più veloci del vento. La Guardia Militare dovrebbe proteggere la gente comune, ma da quando gli orchi hanno attaccato usano la situazione di emergenza come scusa per le loro porcate...saccheggiano le case e rapiscono le donne...non puoi nemmeno immaginare cosa hanno fatto alla figlia del lattaio...- Cenerentola scosse la testa.- Vengono, rubano e se ne vanno, e poi tornano dopo qualche giorno...ormai qui non c'è quasi più nulla, presto se ne andranno in un altro villaggio...
Uno degli uomini si era seduto al tavolo della cucina, posando gli stivalacci infangati sul ripiano, mentre un altro vi aveva posto sopra una damigiana. Tutta la stanza si era riempita di risate sguaiate, oggetti venivano spostati con incuria e di tanto in tanto qualche vetro veniva rotto. Elizabeth vide che Cenerentola aumentava la stretta intorno al manico del coltello a ogni minuto che passava.
Uno dei soldati batté violentemente una mano sul ripiano del tavolo, facendolo tremare, ridendo alla battuta di un compagno. Un secondo dopo, un secondo pugno scosse il mobile, e le due ragazze udirono la medesima voce che già aveva messo in riga gli uomini qualche minuto prima.
- Non siamo in un postribolo!- ululò.
I soldati moderarono i toni e da quel che si udiva parvero ricomporsi, ma continuarono comunque a spostare roba e a intascare l'argenteria e gli oggetti di valore che trovavano.
- Voi due - riprese la voce di poco prima.- Appena avete finito qui salite al piano di sopra e controllate nelle altre stanze. Non è rimasto nessuno in questa casa - aggiunse con convinzione.- Prendete solo ciò che vi serve e sbrigatevi. Vi lascio quindici minuti, non di più.
Per un colpo di fortuna, il soldato che aveva parlato si era portato proprio nello spicchio di spazio che la porta socchiusa dello sgabuzzino permetteva di esplorare. Qualcuno aveva posato sul tavolo dei bicchieri e aveva fatto cenno al soldato se volesse a sua volta da bere. Lui rifiutò con un gesto sdegnoso, ai limiti del maleducato.
Si trattava di un uomo sulla quarantina, con i capelli castani raccolti in un codino dietro la nuca, il naso grande e ingobbito, e un profilo duro tanto quanto lo erano gli occhi marroni.
- Quello è il capitano Navarre...- soffiò Cenerentola.- E' il capo della Guardia Militare della Regina. L'ho già visto all'opera, è un bastardo.
I soldati stavano continuando a ingozzarsi di vino e a intascarsi tutto ciò che ritenevano potesse fare al caso loro. Elizabeth sentì che il battito cardiaco si era un poco regolarizzato, ma aveva ancora paura.
Cenerentola stava in guardia, non perdeva un singolo movimento di quanto si stava svolgendo nella stanza adiacente. Elizabeth si chiese quando sarebbero uscite da lì.
 
 
***
 
 
LADY THORNE RICOMINCIÒ A RESPIRARE solo quando sentì il suo bambino non ancora nato augurarle il buongiorno dandole dei calcetti. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia dell'occhio, e subito si affrettò ad asciugarla.
Ida, che stava tentando da più di mezz'ora di lavare via una macchia particolarmente ostica dal pavimento, se ne accorse.
- Qualcosa non va, padrona?
Lady Thorne era seduta alla toeletta, con i capelli sciolti e ancora la vestaglia e la camicia da notte. Il suo riflesso nello specchio le regalò un sorriso tremolante.
- Scalcia.
Ida tirò un sospiro e giunse brevemente le mani, prima di rituffare la spazzola nell'acqua insaponata del secchio e riprendere a stofinare.
- Sia ringraziata Maman Brigitte...!- esclamò.- Siete un po' più tranquilla, adesso, vero?
Lady Thorne annuì, ma il suo sorriso sapeva ancora di pianto. Come al solito, pensò Ida. Lady Danielle prese la spazzola dalla toeletta e iniziò a pettinarsi i capelli.
Rael, già vestito e seduto sul materasso del letto di sua madre, alzò lo sguardo dal libro che teneva fra le mani. Lady Thorne gli rivolse il medesimo sorriso rotto, ma Ida aveva notato che ormai i suoi occhi erano come una diga pronta a rompersi. Lasciò perdere la macchia sul pavimento – tanto non verrà via...il sangue è la cosa peggiore da lavare, lo dice anche la mamma – e si diresse verso la toeletta, ponendosi alle spalle di lady Thorne.
Le prese la spazzola dalle mani.
Danielle si asciugò altre due lacrime con le nocche.
- Avanti, date a me...!- Ida le rivolse il suo miglior sorriso incoraggiante, iniziando a pettinarle i capelli.
Non c'è nulla di più rassicurante al mondo di qualcuno che ti spazzola i capelli, diceva sempre la nonna a lei e a sua cugina...peccato che poi desse di quegli strattoni che poco mancava sradicasse loro il cuoio capelluto, ma vabbé, quello era un altro discorso.
Ida fece del suo meglio per essere delicata.
- Scusa...- sussurrò lady Thorne.
- Fatevi forza, padrona...guardate il lato positivo: se scalcia, vuol dire che sta benone! Giusto?
Danielle annuì, e a Ida sembrò che si fosse un poco rinfrancata.
Ma mica poi tanto...
Ida lavorava come cameriera per quella famiglia da un anno e mezzo, e aveva notato che il padrone tendeva a visitare lady Danielle più spesso, ora che era incinta. Solo che la sera prima Ida l'aveva visto, che aveva la luna storta. Gli era rimasta dal falso allarme, quando lady Thorne aveva creduto di avere le doglie e l'aveva avvisato – e l'aveva ordinato lui che lo si chiamasse quando sua moglie stava per partorire –, ma poi era solo una piccola contrazione.
Ida scostò la chioma della sua padrona di lato per pettinarla meglio, e Danielle la riportò dov'era per coprire il livido. Un ematoma andava scurendosi dalla giugulare alla mandibola, e un altro faceva capolino all'angolo delle labbra. Un taglietto piccolo, ma che Ida aveva impiegato ben dieci minuti per tamponare – le ferite alla testa sanguinano sempre di più – era il ricordino lasciato dallo spigolo della toeletta sulla tempia della sua padrona.
Il padrone l'aveva stretta per la gola e le aveva rifilato un pugno sul labbro; da quand'era incinta, Ida notava che ci andava giù più piano del solito, ma la sera precedente doveva essere veramente furioso, perché s'era dimenticato di ogni prudenza e riguardo e aveva spinto la moglie a terra. Lady Danielle era riuscita ad attutire la caduta aggrappandosi prima alla superficie della specchiera e poi allo sgabello, ma aveva comunque battuto la testa contro la toeletta e non era riuscita a impedire che il suo pancione urtasse contro il pavimento.
- Oh, su, non fate la bambina...!- borbottò Ida, spostandole di nuovo i capelli di lato.- L'ho già visto, che credete?
- A quindici anni certe cose non si dovrebbero vedere...- mormorò lady Thorne, guardandosi le mani. E nemmeno a cinque, sembrava voler aggiungere, mentre sbirciava suo figlio dal riflesso dello specchio.
Ida alzò le spalle.
- Ne ho viste di peggio, sapeste...!
In realtà non era vero. Ida non era abituata a vedere un marito che picchiava la moglie. Suo padre era un uomo talmente mingherlino e placido che non riusciva neanche a immaginarselo mentre metteva le mani addosso a quel donnone di sua madre, e neanche nelle famiglie in cui era stata a servizio in precedenza aveva mai assistito a dei pestaggi in piena regola. Se così fosse stato, rifletteva ogni tanto, allora avrebbe saputo cosa dire a lady Thorne.
Aveva trascorso con lei la notte, seduta sul bordo del letto mentre la sua padrona soffocava i singhiozzi per non svegliare il figlio più grande, perché quello non ancora nato non si era più mosso nella pancia da quando aveva sbattuto il ventre a terra. Quel bastardo del capitano aveva quasi ammazzato il bambino per il quale tanto si preoccupava.
Ida continuò a spazzolare i capelli della sua padrona, e mentre li acconciava – tre trecce raccolte sulla nuca – gettava qualche sporadica occhiata al bambino accovacciato sul letto. Quando sua cugina Sofia era nata, così le raccontava la mamma, lo zio aveva bestemmiato il Baron Samedi per un'ora, perché voleva un maschio che ereditasse il mulino; Thorne un erede ce l'aveva, eppure lo schifava talmente tanto che non vedeva l'ora di avere il sostituto, e Ida non riusciva a comprenderne il motivo.
- Da dove vieni, Ida?- le chiese lady Thorne all'improvviso; Ida sbatté le palpebre perplessa, in un anno e mezzo non le aveva mai posto domande personali.
- Da Brema - rispose poi, senza trattenere una smorfia.- Ne avrete sentito parlare di sicuro. La chiamano la città della musica, anche se proprio città non è, sono due casette in croce...
- Mio zio mi ci portò, una volta, ad assistere a una fiera - le labbra livide di lady Thorne si distesero in un sorriso lontano e malinconico.- Avevo...circa la tua età. Mi piacerebbe tornarci, un giorno.
Ida si trattenne dal rispondere che lei non ci sarebbe tornata neanche a pedate, e si limitò a rivolgerle un sorriso tirato.
Finì di acconciarle i capelli in silenzio, e si mise a riordinare le forcine e i fermagli. Lady Thorne si alzò a fatica, tenendosi una mano sul pancione gonfio. Esitò un attimo, come se non sapesse bene che cosa fare, poi si diresse verso il letto.
Ida finse di non vedere mentre s'inginocchiava sul pavimento. In un anno e mezzo non si era mai neanche azzardata a pulire sotto al letto della sua padrona, immaginava che ci fossero gli acari che ballavano la contraddanza, ma aveva capito fin da subito che era una zona proibita. Lady Thorne ci teneva qualcosa, e Ida non aveva mai chiesto che cosa. Non aveva mai neanche sbirciato. Non perché fosse una persona discreta o di saldi principi, la tentazione di sollevare l'orlo della coperta e dare un'occhiatina la coglieva più volte nel corso di una sola giornata, ma aveva sempre desistito.
Non per dare un dispiacere a lady Thorne...ma per quello che suo marito potrebbe farle se anche a lui venisse l'idea di guardare là sotto.
La mamma diceva che la curiosità uccise il gatto. Ida si sentiva spesso un gatto, e altrettanto spesso percepiva lady Thorne come un micino bagnato e malaticcio in balia di quel segugio da caccia di suo marito. Era meglio evitare qualunque cosa gli rendesse più facile stanarla.
Danielle fece una fatica immensa a rimettersi in piedi, e se non ci fosse stato il bordo del materasso non ci sarebbe neanche riuscita. Ida vide che teneva in mano una busta sigillata.
- Vorrei chiederti un favore...- mormorò, e Ida sapeva già di che favore si trattasse. Era lo stesso da quando il ventre aveva cominciato a gonfiarlesi. Si limitò ad annuire e a prenderle la busta dalle mani.
- Mi raccomando...- soffiò lady Danielle un attimo prima che la cameriera uscisse.- Fai...fai attenzione...
- Passerò dal retro delle cucine, come sempre - la rassicurò Ida.- Da lì non passa mai nessuno.
Danielle si sedette sul letto e attese il clack della porta, poi si trascinò fino a suo figlio. Distese le gambe e tirò Rael a sé in modo che poggiasse la schiena contro il suo pancione.
- Si è sporcato - il bambino accennò ad alcune macchie d'inchiostro che avevano rovinato un disegno tracciato a carboncino. Il libro che teneva fra le mani era stato scritto a mano, in corsivo, con una calligrafia elegante che tracciava le lettere con inchiostro nero; le pagine – più di trecento – erano ingiallite e un po' rovinate ai bordi. Non aveva una copertina, ma sulla prima pagina la stessa mano aveva riportato il titolo e l'autore.
 
 
Tassonomia, Classificazione, Storia
&
Studio dei fossili
dei Draghi nell'Era Oscura
 
Uno scritto della signorina Danielle Kovach-Thorne
 
 
Rael teneva il volume aperto sulla prima pagina del capitolo ventitreesimo, intitolato Storia del Re di Lindorm e della Fondazione del Terzo Regno. La pagina raccontava la leggenda del Lindorm, mentre quella affianco era occupata dal disegno del drago stesso. Danielle non vedeva quella figura da anni, ma ricordava quanta fatica avesse fatto per tracciarla. Era sempre stata più brava a scrivere che a disegnare, ma aveva lavorato sodo affinché ogni ritratto di quel volume fosse il più storicamente accurato possibile. Aveva confrontato le varie informazioni sul Lindorm e fatto ricerche per decretare quali fossero vere e quali frutto della distorsione del tempo e delle varie versioni, aveva passato al setaccio la biblioteca del maniero dello zio Walter per trovare quante più immagini possibili e aveva gettato via una quantità imbarazzante di fogli prima di ritenersi soddisfatta del suo schizzo.
Le macchie d'inchiostro ormai secco coprivano le linee del muso e delle fauci del Lindorm. Danielle passò una mano fra i capelli corvini di suo figlio – erano foltissimi e li portava lunghi fino al collo – e vi affondò una guancia.
- E' una macchia vecchia di più di dieci anni. Vuoi che te lo legga io?
- Riesco da solo per il momento, grazie, madre.
- Ti fa ancora male il braccio?
Rael scosse il capo con energia in segno di diniego, e Danielle per l'ennesima volta si ritrovò a non riuscire a comprendere se le stesse nascondendo la verità. Una settimana prima, lei e Rael stavano giocando nel corridoio principale dell'Ala Nord, il bambino non aveva prestato attenzione ed era andato inavvertitamente a sbattere contro la gamba del capitano Thorne. Suo marito lo aveva guardato come lo guardava sempre, come se fosse stato un cucciolo deforme che andava soppresso, e gli aveva dato un calcio facendolo cadere per un'intera rampa di scale fino al pianerottolo successivo. Danielle aveva urlato e si era precipitata in lacrime a soccorrere suo figlio. Rael si era rimesso in piedi praticamente subito, ma per quattro o cinque giorni aveva accusato un forte dolore al braccio destro, su cui era atterrato a peso morto.
Danielle era stata sollevate e stupita che non se lo fosse rotto, ma già da quand'era piccolissimo aveva intuito che suo figlio avesse le ossa resistenti. Lady Thorne lo guardò: da seduto le sue gambe arrivavano alle caviglie della madre, a cinque anni era alto come un bambino di otto o nove.
- Mea maisva kdaj hasted...- sussurrò.- Ti ricordi cosa significa, vero?
Rael annuì impercettibilmente, ma Danielle ne ebbe la conferma ancora prima, quando suo figlio poggiò la nuca contro il pancione e le sfiorò il dorso della mano.
Danielle gli accarezzò ancora i capelli.
- Questo pomeriggio andrò a portare delle orchidee alla piccola Porzia...ti va di venire con me?
 
La porta che dava sul retro delle cucine si apriva su un cortiletto in disuso da anni, che veniva impiegato come luogo dove gettare pentole e cassette rotte o dove le sguattere si appartavano di nascosto nelle pause dal lavoro con i propri corteggiatori. Era circondato da un muretto di cinta che, tramite un cancelletto, dava accesso agli altri giardini privati della reggia di Lindorm. Nessuno lo usava mai e nessuno abitava più nelle stanze soprastanti che si affacciavano su di esso.
Ida lo attraversò spedita. Non si avvide della principessa Rosarossa, affacciata alla finestra sopra di lei.
 
 
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New York, 2015. Ore 8.23 a.m.
 
 
 
ANYA HADLEIGH USCIVA SEMPRE DI casa alle sei e mezzo spaccate, perché aveva calcolato che, contando il tempo che il suo scalcinato pick-up impiegava per accendersi e per attraversare quella porzione trafficata di New York in macchina, viaggio in cui era compresa anche una sosta di dieci minuti esatti in un Dunkin' Donuts per fare colazione – prendeva sempre due bicchieri di caffè, poi non c'era da stupirsi se era isterica...! –, occorrevano due ore per essere all'Once Upon a Time Café almeno alle nove meno un quarto. Detestava arrivare in ritardo o all'ultimo secondo, quando succedeva poi era di malumore per mezza giornata. Avrebbe potuto dormire un'ora in più e non avere sul groppone lo stress del traffico mattutino se avesse dato ascolto a suo padre e avesse preso la metropolitana – ma Anya si sarebbe fatta ammazzare pur di ascoltare un consiglio di Richard, non aveva comprato quella macchina scassata per lasciarla arrugginirsi in un vicolo di Harlem, le prendeva male al pensiero di doversi fare dieci minuti di strada a piedi d'inverno sotto la pioggia o la neve per raggiungere la stazione della metro più vicina e le veniva più comodo prendere l'auto perché così, quando staccava al turno del pomeriggio, poteva passare a prendere sua sorella a scuola.
Andava a prendere Elizabeth ogni volta che poteva per evitarle di prendere l'autobus, dato che circa un anno prima la piccola di casa Hadleigh aveva fatto ritorno a casa con il naso sanguinante e Anya era venuta a sapere che alcuni ragazzi del secondo anno che facevano la strada di ritorno con lei l'avevano presa di mira e non la smettevano di tormentarla. E quando aveva un turno serale e non poteva passare a prenderla appena poteva s'imboscava nel bagno del personale alla faccia del suo capo e le telefonava per assicurarsi che fosse arrivata e stesse bene. Faceva la spesa il giovedì o il venerdì, e da quando la scuola era finita e si era lasciata con il suo ultimo ragazzo non usciva mai la sera o nei giorni liberi.
Elizabeth Hadleigh si svegliava insieme alla sorella maggiore, ma camminava da sola fino alla fermata dell'autobus. Spesso aveva problemi anche all'andata, ma non l'aveva mai raccontato ad Anya o al padre. Entrava a scuola alle otto e mezza e non ne usciva fino alle cinque del pomeriggio, cinque giorni su sette; più tardi se, come il pomeriggio precedente, aveva avuto un incontro ravvicinato con le sue aguzzine. Tornava a casa e non ne usciva più, nemmeno nel week-end.
Quanto al capofamiglia, Richard Hadleigh era quello che più di tutti passava il suo tempo fuori casa. Usciva alle sette del mattino, raggiungeva la centrale di polizia in metropolitana – aveva la patente, ma non aveva mai più ricomprato un'auto da quando, un anno prima della sua scomparsa, la moglie aveva, in circostanze non ben chiarite, sfasciato la sua Kia mandandola a sbattere contro la parete di una casa in Briarwood – e vi trascorreva tutta la giornata fino alle nove di sera – le otto, la domenica – quando rincasava. Anche lui nessun amico, nessuna donna dopo la moglie, niente tempo libero.
Greg a volte si stupiva di se stesso per quanto fosse riuscito a imparare alla perfezione le abitudini di quella famiglia. Abitudini piuttosto grigie e noiose. Ogni volta che le ricapitolava sfogliando il block-notes su cui aveva annotato ogni spostamento con annesso giorno e orario, gli tornava alla mente quand'era piccolo e suo padre, per il suo compleanno, lo portava al lago ai confini delle Terre Fiere a pescare con le mani e i denti.
Ora quel lago è prosciugato, ricordò mentre pagava il whiskey. Ne aveva bevuti quindici in due ore ed era ancora lucido. Si godette l'espressione attonita del barista mentre lo osservava allontanarsi dal bancone senza barcollare e avviarsi verso l'uscita con le proprie gambe.
Raggiunse la moto e aspettò un altro quarto d'ora per sicurezza, ma già sapeva che cosa era accaduto. Nessuno era uscito da quella casa, e il pick-up di Anya era ancora parcheggiato dove l'aveva lasciato la sera prima. Le ragazze avevano attraversato il Portale.
Greg attraversò la strada e raggiunse la scala antincendio della palazzina in cui vivevano gli Hadleigh. Non smise un attimo di guardarsi intorno mentre saliva, ma non c'erano poliziotti e i pochi passanti erano senzatetto o ubriachi che non avrebbero visto o fatto caso a un ladro d'appartamenti.
Raggiunse la finestra. Sbirciò all'interno per assicurarsi che davvero non ci fosse nessuno, e quando vide la cucina con la luce spenta e senza nemmeno le tazze della colazione nel lavello, perse ogni tipo di esitazione. Recuperò il piede di porco dalla tasca dei jeans. Due settimane prima aveva passato metà della nottata a lavorare sulla serratura della finestra, attento a non lasciare segni che avrebbero fatto capire che era stata forzata, ma solo al fine di allentare la maniglia.
Bastò un rapido giro del piede di porco e la finestra si aprì con un sommesso cigolio.
Greg balzò all'interno della cucina. La luce del mattino permetteva di vedere senza bisogno di premere l'interruttore. Sapeva che sarebbe stato improbabile trovare qualcosa là dentro, ma prima di passare alla stanza adiacente aprì il frigo. Moriva di fame. Greg sapeva che Anya aveva fatto la spesa il pomeriggio precedente, ma non trovò nulla di suo gradimento fino a che non fiutò il contenuto di un involucro di carta.
Carne trita.
Lo aprì, prese una manciata di carne, se la ficcò in bocca e richiuse involucro e frigo mentre masticava, e passò nel salotto. L'appartamento era talmente piccolo che era facile averne una visione completa dopo un singolo e rapido esame. E Greg notò immediatamente quanto anonimo fosse quel posto; era una stanza con un divano e una poltrona, una televisione e un tavolino su cui era chiaro che non fosse mai stato posato nessun vassoio con del té o degli alcolici. Non era un ambiente né ricco né povero, era solo mediamente anonimo.
L'unica nota di personalità risiedeva nell'unica cornice della stanza, posata sul tavolino e contenente due fotografie: la prima ritraeva Anya Hadleigh nel giorno del diploma, che sorrideva forzata, annoiata e vagamente schifata all'obiettivo; il sorriso era più allegro, sincero e sdentato nella seconda fotografia, in cui una Anya Hadleigh di tre o quattro anni era affondata in un divano diverso da quello che Greg aveva di fronte e teneva sulle ginocchia una Elizabeth con i capelli legati in due codini e un pigiamino rosa con su la stampa di un coniglietto bianco.
Greg si era aspettato che non avrebbe trovato molto, almeno non esposto. Chi voleva in giro per casa le fotografie della propria moglie, dopo quel che era accaduto? Ma nemmeno una tale povertà e tristezza.
Riprese la concentrazione. Aveva messo in conto che Richard Hadleigh avrebbe fatto sparire dalla circolazione gli effetti personali della moglie; doveva solo sperare che non avesse gettato via ogni cosa. Decise di prendersi il suo tempo, e cominciò ad aprire tutti i cassetti, le ante e a frugare in qualsiasi luogo plausibile e non, facendo bene attenzione a riporre poi tutto com'era prima.
Gli bastava solo un oggetto, in fondo.
Ha detto che ne basta solo uno, solo un'unica cosa appartenuta a Christine Hadleigh.
 
 
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IL LUPO NON USCIVA SOLO alla luce della luna piena. Da quando era stato maledetto, il plenilunio non era l'unico momento in cui diventava un mostro.
Tutto ciò che era, vedeva, sentiva, era mostruoso.
Ma ora, la sua bestialità poteva tornare utile.
Il Cacciatore chiuse gli occhi cercando di concentrarsi. Il buio era scomparso, il sole era sorto, la notte s'era ritirata. Questo non poteva vederlo, ma lo sentiva.
Eric avvertiva l'alba e il tramonto pur senza vederli, sapeva se fuori stava piovendo anche se lo scroscio dell'acqua non giungeva fino ai sotterranei del castello, sentiva i bisbigli dei servitori nell'ala più lontana, le scorribande dei topi nelle pareti, ogni sussurro, ogni bisbiglio, ogni flebile respiro, ogni singolo passo delle guardie della Regina Cattiva.
Ora di fronte alla sua cella stazionava un solo soldato. La Regina Cattiva aveva creduto forse che le frustate e la maledizione sarebbero bastate a tenerlo a bada, ma non aveva calcolato che essere un Uomo Lupo non voleva dire solo trasformarsi in assassino ogni plenilunio e avere tutti e cinque i sensi più affinati.
Essere un Uomo Lupo voleva dire anche forza bruta; voleva dire velocità; voleva dire che con un pugno sarebbe stato in grado di sfondare una porta. Questo Eric ci aveva impiegato un po' di tempo per capirlo, ma ora che era consapevole delle sue nuove capacità era ben deciso a sfruttarle. Il dolore delle frustate e del ricordo di ciò che aveva fatto a Cappuccetto Rosso e alla nonna non faceva che dargli maggior sicurezza.
Non userai il Lupo una seconda volta.
Inspirò a fondo costringendosi a riprendere lucidità. Non poteva permettersi distrazioni in quel momento; non c'era in gioco solo la sua libertà, ora.
La Salvatrice è giunta.
Benché possedesse solo pochi e sfuocati ricordi di quando si trasformava, il Cacciatore riusciva a rammentare le due giovani contro cui la Regina Cattiva l'aveva scatenato, fortunamente senza riuscire nel suo intento di ucciderle. Una delle due era la Salvatrice, ne era certo. E lui doveva trovarle.
Ma prima doveva liberarsi da quella prigione.
Si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente alle inferriate della porta. Velocità e forza bruta. Ecco cosa gli occorreva. Aveva atteso che le sentinelle fossero lontane dalla sua postazione prima di agire. Non ci avrebbero messo molto per accorgersi di cosa stava succedendo, ma quando se le fosse ritrovate alle calcagna avrebbe già avuto un certo vantaggio.
Il soldato che stazionava di fronte alla sua cella aveva un profilo giovane e sbarbato, probabilmente non era neanche ventenne. Eric esitò. Gli sarebbe stato facile far passare le braccia attraverso le sbarre, afferrargli il capo e girarglielo fino a udire il crack del collo che si spezzava, ma non voleva uccidere un ragazzo giovane. Non voleva uccidere se non fosse stato strettamente necessario.
Cappuccetto Rosso e la nonna non sono state le prime...
Si riprese. Cercò di non pensare a Tristan Beaumont e ai suoi fratelli. Rapido, fece passare le braccia oltre le sbarre. La guardia voltò il capo, ma Eric gli afferrò la testa e gli premette una mano sulla bocca affinché non urlasse e lo tirò verso la porta in modo da fargli sbattere la fronte contro il legno. Un colpo, due, tre, e gli occhi della guardia si ribaltarono. Eric la lasciò cadere a terra priva di sensi. Afferrò poi le sbarre infisse nella finestrella della porta; i muscoli del collo e delle braccia si contrassero mentre la forza dell'Uomo Lupo si liberava e la porta veniva scardinata con un gran fracasso.
Eric non perse tempo, uscì dalla cella e prese a correre lungo lo stretto corridoio delle prigioni.
Il baccano aveva disturbato il sonno dei detenuti che ancora dormivano, e già udiva i mormorii di quelli che si stavano svegliando venire sovrastati dalle urla e dai passi affrettati delle guardie. Non ci sarebbe voluto molto prima che ne arrivassero delle altre.
Doveva andarsene da lì, e subito.

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Capitolo 10
*** Capitolo VIII - The Girl in the Box ***


Capitolo VIII
 
The Girl in the Box
 
 
 
Questi, un giorno che stava affacciato alla finestra, vide, sul
terrazzo del re di fronte, una bella ragazza bianca e rossa come
una mela che si lavava e pettinava al sole. Lui rimase a
guardarla a bocca aperta, perché non aveva mai
visto una ragazza così bella.
La ragazza, però, appena si accorse di essere guardata
entrò in una mela e sparì. Il re se n'era innamorato.
 
I. Calvino, La ragazza mela
 
 
 
ERA PASSATA PIU' DI MEZZ'ORA, ci avrebbe scommesso mille dollari e una merendina.
La paura era scemata abbastanza da permetterle di indugiare in pensieri stupidi, nonostante la tensione ancora si tagliasse con il coltello.
I soldati avevano terminato di gozzovigliare, i due che avevano lasciato la cucina erano tornati. Navarre non aveva avuto più problemi nel mantenere l'ordine dei suoi, ma Elizabeth pensò che fosse per via del fatto che i soldati erano stati impegnati ad appropriarsi di tutto ciò che in quella casa aveva un valore.
La ragazza sentiva il tintinnio dell'argenteria, gli strappi delle stoffe, e lo spiraglio fra lo stipite della porta e la testa di Cenerentola permetteva a Elizabeth di scorgere le credenze svuotate.
Entreranno anche qui quando avranno finito?
Cercò di attirare l'attenzione di Cenerentola tirandola per una manica, ma la ragazza le afferrò le dita e se le sciolse di dosso con calma e infastidita decisione. Elizabeth si sentì offesa a non essere presa in considerazione. Si guardò intorno: c'era polvere dappertutto, ragnatele spuntavano agli angoli del soffitto e contro ai muri erano impliati scope, secchi e strofinacci.
Elizabeth tirò ancora la manica del vestito di Cenerentola. L'altra si girò a guardarla con l'aria di chi avrebbe voluto darle uno schiaffo.
- Entreranno anche qui?- sussurrò.
- E io come faccio a saperlo?
Elizabeth avvampò, mortificata. Cenerentola riprese a sbirciare dallo spiraglio, mentre in cucina la baraonda continuava. Elizabeth si sollevò sulle punte, e senza che facesse nulla l'altra ragazza si voltò di nuovo e le fece cenno di stare zitta.
Le venne in mente sua sorella. Anya la zittiva spesso. Anche quando Elizabeth sentiva di avere qualcosa d'intelligente da dire. E anche quando non c'era alcun bisogno di zittirla.
(Liz, ora basta! Tu torni a casa con me e non discutere!)
Se non poteva uscire da quello sgabuzzino e nemmeno porre domande, poteva analizzare con calma quel che era accaduto. Erano trascorse poche ore dalla loro separazione, ricordava di essere stata risucchiata da un vortice...ma s'era completamente scordata della freccia.
Qualcuno aveva scagliato una freccia, ed era stata quella ad aprire quella specie di passaggio segreto, Portale, o quel che era. Non eravamo sole, allora...; e con ogni probabilità chi aveva scoccato quella freccia non aveva buone intenzioni.
Sperò che, chiunque fosse l'arciere, non avesse trovato Anya.
I soldati proseguivano con la loro opera di sciacallaggio. Elizabeth si avvicinò alle spalle di Cenerentola, si alzò in punta di piedi e le posò una mano sul braccio per vedere meglio: la bionda se la scrollò di dosso.
Elizabeth, irritata, fece un passo indietro. Non guardò dove andava, e inavvertitamente urtò una scopa con un gomito.
S'innescò l'effetto domino.
La scopa cadde colpendo uno spazzolone, che a sua volta cozzò contro dei secchi allineati in fila. Dallo sgabuzzino il fracasso riecheggiò fino alla cucina.
Cenerentola le rivolse uno sguardo a metà fra l'accusatore e il disperato.
- Cos'è stato?!- proruppe il capitano Navarre.
Dei passi affrettati raggiunsero lo sgabuzzino in pochi secondi; a Elizabeth si mozzò il respiro in gola quando la luce invase il ripostiglio e sulla soglia si stagliò la sagoma alta e scura di un soldato.
Non fece in tempo a formulare un pensiero che Cenerentola scattò in avanti. Affondò il coltello nel petto del soldato, trafiggendogli lo stomaco. Quello emise un grugnito di dolore, premendosi una mano contro l'addome e indietreggiando con passo barcollante. Cenerentola lo colpì nuovamente, affondando la lama nella coscia. Il soldato finì in ginocchio di fronte a lei. Elizabeth vide il sangue sgorgare dalle ferite: velocemente, il liquido rosso vivo divenne nero come la pece.
Come inchiostro.
- Corri!- gridò Cenerentola.- Scappa!
Elizabeth cercò una via di fuga, ma subito capì che non ce n'erano. In un attimo, gli altri quattro soldati furono loro addosso.
- Prendetele!- urlò quello che Cenerentola le aveva indicato come il capitano Navarre. Due soldati afferrarono Elizabeth per le braccia e la scaraventarono a terra, e poco dopo anche Cenerentola venne spinta in ginocchio da un altro soldato che provvide anche a toglierle il coltello di mano e a gettarlo sul pavimento.
- E queste chi sono?!
- Sopravvissute. Si nascondevano, le sgualdrine.
- Che ne facciamo di loro, capitano?
Navarre si massaggiò il mento e misurò lo spazio intorno a loro con passi lenti e cadenzati. Elizabeth era finita con una guancia premuta contro il pavimento. Il foulard di Cenerentola le era scivolato via dal capo, e i capelli biondi le coprivano il volto. Uno dei soldati le teneva le braccia intrappolate dietro la schiena. Elizabeth sentiva invece la pressione di un ginocchio in mezzo alle proprie scapole.
Accasciato a terra era anche il soldato che Cenerentola aveva colpito. Si teneva entrambe le mani sullo stomaco e un altro soldato stava cercando di allacciare la cintura sopra la ferita alla coscia, a mo' di laccio emostatico. Rantolava ed era pallido come un lenzuolo.
- McArthur - uno dei soldati scattò sull'attenti quando Navarre lo chiamò.- Torna dagli altri e porta qui il medico, di corsa!- McArthur uscì e il capitano, dopo una breve occhiata al soldato ferito, ne dedicò un'altra, altrettanto rapida e quasi incurante, alle due ragazze.- Ammazzatele dopo che avete finito con loro, non sono di alcuna utilità. Non sporcate, non siamo animali.
Elizabeth volse disperatamente lo sguardo nella direzione in cui il soldato aveva gettato il coltello. Non era lontano, ma loro due erano impossibilitate perfino a muoversi, se avessero tentato di raggiungerlo i soldati l'avrebbero prelevato o allontanato definitivamente.
Elizabeth si morse il labbro e iniziò a piangere e a mugolare.
Uno dei soldati afferrò Cenerentola per i fianchi e la fece girare supina. Era chiaro che riteneva di poter gestire una donna scalciante da solo.
Si sbagliava.
Prima che potessero fermarla, Cenerentola sferrò un calcio alla gamba del soldato, che cadde a terra. La bionda approfittò dell'attimo di sgomento per lanciarsi sul coltello.
- Idioti!- ruggì Navarre.- Fermatela!
Elizabeth compì un grande sforzo per riuscire a sollevare la schiena, ma subito il soldato che la teneva bloccata la ricacciò faccia a terra. Tentò comunque di agitare le braccia per liberarle.
Cenerentola, stringendo saldamente l'impugnatura del coltello, si portò in ginocchio e piantò la lama nella spalla del soldato che teneva imprigionata Elizabeth. La ragazza si ritrovò subito libera. Si rimise in piedi il più velocemente che poteva – e maledisse il suo peso, se fosse stata più magra avrebbe avuto uno scatto maggiore.
- Corri!- le strillò Cenerentola; si era rialzata a sua volta, aveva dato un pugno sul volto di un soldato e teneva il braccio disteso e il coltello di fronte a sé, pronta a piantarlo nel torace di chiunque le si fosse gettato addosso.
Era riuscita a posizionarsi in modo da dare le spalle a Elizabeth, così che anche lei fosse protetta.
Navarre aveva il volto chiazzato di rosso in più punti.- Incapaci...!- Elizabeth lo sentì ringhiare; un attimo dopo, si gettò su Cenerentola e cercò di afferrarle i capelli e il polso della mano che impugnava l'arma. La ragazza scattò di lato aggrappandosi ai bordi del tavolo.
Elizabeth corse in suo aiuto.
- Che stai facendo?! Scappa, ho detto!
Navarre e un altro soldato corsero loro incontro. Cenerentola afferrò il tavolo e gliela rovesciò addosso con l'aiuto di Elizabeth. Il capitano venne colpito in pieno, cadendo a terra; il tavolo gli finì sopra, bloccandogli una gamba.
Cenerentola afferrò Elizabeth per un braccio e la trascinò fuori dalla cucina di corsa. La ragazza si accorse che la compagna zoppicava, e abbassò lo sguardo sulle sue gambe: il polpaccio destro era attraversato da un lungo taglio, una striscia di sangue rosso che si mischiava a una sostanza nera.
Elizabeth e Cenerentola udirono le urla di Navarre alle loro spalle, e i passi in corsa dei soldati. Le due uscirono dalla casa e dal giardino, dove Elizabeth rallentò: sia perché il suo fisico non le permetteva di correre a lungo, sia perché non aveva la più pallida idea di dove andare.
Cenerentola la guidò nella direzione opposta da cui era giunta poche ore prima. Elizabeth si ricordò che forse, lì fuori, potevano esserci ancora degli orchi, ma non ne videro.
I confini di Hagenheim erano vicinissimi, li superarono in un paio di minuti. Elizabeth riusciva a scorgere la foresta di fronte a loro.
Lì forse potremo seminarli; ma era comunque distante.
E i soldati erano alle loro calcagna.
 
 
 
***
 
 
 
LADY MARIAN SI SVEGLIO' DI soprassalto, disturbata prima da un gran fracasso quindi dalle grida dei prigionieri. C'impiegò comunque qualche secondo per raccapezzarsi. S'era assopita poco dopo la partenza della Regina Cattiva, stremata dall'immenso dolore che il sortilegio di clausura le aveva procurato.
Si stroppicciò gli occhi con le nocche. Il baccano fuori dalla cella proseguiva, ma qualcos'altro attirò per prima cosa l'attenzione di lady Marian.
E' sparita.
Non ebbe il minimo dubbio sul fatto che non se lo fosse sognato, l'aveva vista eccome.
La scritta incisa nella parete era sparita.
Avrebbe voluto avvicinarsi per sincerarsene meglio, ma ormai era sveglia e non poteva più ignorare quella confusione. Quando si girò verso la porta, vide che Cassius era sparito. Lady Marian avanzò verso le sbarre della finestrella e vi ci si aggrappò per sbirciare cosa stesse accadendo là fuori.
Sgranò gli occhi e scattò di colpo all'indietro quando di fronte a lei una guardia venne abbattuta da un pugno, mentre un'altra, afferrata per la gola da una mano grossa e possente, fu scaraventata contro la parete opposta.
Un istante dopo, i suoi occhi ne incontrarono un altro paio, gialli e luminosi, che in una frazione di secondo ridivennero di un color castano chiaro. Lady Marian riconobbe chi c'era dall'altro lato delle sbarre.
- Eric!- esclamò.
Il Cacciatore boccheggiò, guardandola quasi incredulo.
- Lady Marian...- soffiò, come se non fosse certo di cosa stava vedendo. La ragazza annuì con vigore. Il volto del Cacciatore si aprì in un sorriso sollevato, mentre si avvicinava alla finestra della cella e prendeva le mani della ragazza fra le sue.- Siano ringraziate le forze del Bene!- mormorò, baciandone il dorso.- Vi credevamo morta...
- Lo so...- sospirò lady Marian.- Ma voi cosa ci fate qui? La Regina ha imprigionato anche voi?
Si rispose da sola. Eric era decisamente malconcio, con il volto stravolto, gli abiti stracciati e sporchi qua e là di polvere e sangue.
Le guardie stavano accorrendo dall'entrata dei sotterranei. Il Cacciatore guardò in quella direzione, ma non scappò.
- Non temete...ora vi faccio uscire di qui...- afferrò le sbarre della cella e tirò con tutte le sue forze, ma la porta non si scardinò com'era accaduto poco prima; non era nemmeno riuscito a divellere le sbarre. Riprovò, ma fu costretto a ritrarsi in preda al dolore; si guardò le mani: erano arrossate, era come se le avesse posate su delle braci ardenti.
Le guardie si stavano avvicinando.
- E' magica...- disse lady Marian; la Regina ha pensato proprio a tutto per tenermi chiusa qui.- C'è un sortilegio di clausura. Non si può fare nulla.
- No! Lasciatemi riprovare, sono sicuro che...
- C'è un sortilegio di clausura, vi ho detto, sarebbe comunque inutile. Ascoltate...- si affrettò a dire Marian.- La Salvatrice è arrivata, la Regina lo sa e ha sguinzagliato il Primo Ministro per trovarla...non so cosa voglia fare, ma la dovete trovare prima voi...
Il Cacciatore processò l'informazione. Più che sulla Salvatrice, il suo pensiero andò al Primo Ministro, di cui conosceva l'abilità nella caccia.
Ha smesso di cacciare animali per cacciare esseri umani.
- Dovete trovarla!- ripeté lady Marian; gli spinse il polso oltre le sbarre.- Dovete trovarla prima che lo faccia lui! E ora andate! Stanno arrivando!
- Non vi lascio qui...!- in fondo, sapeva che non avrebbe cavato un ragno dal buco, ma il Cacciatore provò nuovamente – e inutilmente – a scardinare la porta.
- Ve l'ho già detto, non potete fare nulla! La Regina non vuole che io lasci questa cella. Le servo per qualcosa, ma non so cosa...ha detto qualcosa sull'essere la prima, ma...- scosse il capo.
(Senza cuore è la Regina, solo il Vero Amore salverà la prima bambina)
I passi avevano iniziato a scendere le scale.
- Andate, ora! Ditelo al Principe Filippo, ditelo alla Resistenza!
Il Cacciatore non sapeva bene come avrebbe fatto a eseguire ciò che Marian gli chiedeva. Ora era un Uomo Lupo, e in passato aveva visto cosa accadeva a quelli come lui. Forse la Resistenza non lo avrebbe nemmeno ascoltato.
Baciò ancora la mano di Marian.
- Resistete. Tornerò a liberarvi, ve lo prometto.
Si allontanò dalla cella, e riprese a correre. Uscì dal corridoio delle prigioni e si trovò di fronte a una lunga scalinata di pietra, che iniziò a salire correndo, ma dopo soli pochi gradini tre soldati gli bloccarono il passaggio. Una delle guardie sguainò la spada; il Cacciatore afferrò l'arma prima che si abbattesse su di lui. Si ferì le dita, ma riuscì comunque a voltarla in posizione orizzontale e a spingerla contro il soldato, il quale cadde a terra travolgendo anche il suo compagno. La terza guardia gli si avventò contro, ma Eric lo colpì in viso mandandolo a sbattere contro il muro.
Li superò e percorse velocemente un centinaio di gradini, senza avvertire fatica o stanchezza.
Il Lupo è forte.
Arrivò fino a un pianerottolo dove c'era una finestra. Eric comprese di essere uscito dai sotterranei quando vide che essa dava sul fossato del castello. Quando la reggia di Lindorm era divenuta più una fortezza che un palazzo reale, intorno ad essa era stato scavato un largo canale collegato direttamente con le fognature delle prigioni. Lady Marian, cinque anni prima, era riuscita a trafugare la nuova planimetria della reggia e l'aveva consegnata a Jean-Baptiste Beaumont, che l'aveva studiata e spiegata a tutti – in previsione di un attacco che non s'era mai verificato.
(La profondità è...insolita per un fossato. Sarebbe interessante sapere se l'acqua è dolce o salata)
(Perché?)
(Perché se è così profonda...ed è salata...)
Il Cacciatore decise che non si sarebbe gettato in acqua, non poteva sapere se Jean-Baptiste ci avesse visto giusto o no, ma non voleva scoprirlo senza prima conoscere l'effettiva forza del Lupo. Svoltò l'angolo, e si vide arrivare contro altri cinque soldati. Si preparò a fronteggiarli, ma poi udì alle sue spalle i passi delle guardie che aveva stordito, e che si erano riprese fin troppo in fretta.
Non so se ce la faccio. Non ce la faccio.
Cercò una via di fuga che non fosse la finestra, pur sapendo che non ce n'erano.
(Perché se è così profonda...ed è salata...)
Sfondò il vetro. Salì con un balzo sul davanzale, chiuse gli occhi e saltò giù.
Ebbe la percezione di un brandello della sua camicia che si staccava, tirato dalla mano di una guardia. Poi, si ritrovò sott'acqua.
(Perché se è così profonda...ed è salata...)
Spalancò gli occhi. Galleggiava, non toccava né vedeva il fondo ma la superficie era vicina. Non attese di scoprire cosa ci fosse là sotto. Nuotò fino a riemergere con il capo e parte del busto, facendosi strada verso la riva prima che gli arcieri venissero avvisati.
Annaspò mentre si trascinava fuori dal fossato. L'acqua gli aveva lasciato un sapore sgradevole sulle labbra. Sapore di sporco e...
Sale.
L'aveva scampata, ma non era ancora al sicuro.
Era riemerso in prossimità del ponte levatoio. Era già stato abbassato, presto Thorne avrebbe sguinzagliato un manipolo di soldati perché lo catturasse. Il Cacciatore corse sotto l'asse di legno e si accucciò dietro a una delle rocce che ne sostenevano il peso.
Restò in ginocchio, con ancora il sapore del sale sulle labbra. Il Lupo aveva anche un olfatto straordinario, scoprì: fiutò la presenza dei cavalli e dei cani da caccia ancor prima che il ponte cominciasse a tremare sotto il peso degli zoccoli in corsa.
Eric abbassò la testa e si accovacciò raggomitolandosi su se stesso. La sensazione di avvertire tutti quegli odori – il pelo dei mastini e il manto e le criniere dei cavalli, il cuoio delle divise della Guardia Reale, perfino il dopobarba che alcuni soldati avevano spruzzato sul viso – quasi lo distrasse dalla paura di essere scoperto.
Il Lupo è forte, ha un olfatto straordinario...che altro può fare?
Un leggero crack lo fece sobbalzare. Era troppo lieve perché qualcun altro oltre a lui avesse potuto sentirlo; Eric guardò in basso: aveva calpestato con lo stivale un nido composto da ben cinque uova bianche e dalla forma ovale, schiuse.
L'olfatto del Lupo ci mise un attimo a identificare a quale animale appartenessero.
(Perché se è così profonda...ed è salata...)
(Costa stai cercando di dirci?)
(C'è la probabilità che nelle fogne e nel fossato vi siano dei coccodrilli del Mare di Celts)
La cavalleria aveva attraversato il ponte, ora il legno non tremava più. Il Cacciatore attese ancora, rimanendo in allerta. Faceva dardeggiare lo sguardo fin dove poteva per captare movimenti strani, umani o animali che fossero, e intanto cercava di richiamare alla mente la planimetria della reggia.
Ascoltò il proprio respiro e i battiti del suo cuore nelle orecchie. Vide un rialzo del terreno a pochi metri da lui, e poiché gli sembrava che quel rialzo avesse anche una coda e delle zampe, scelse di andare nella direzione opposta.
L'ambiente circostante somigliava molto a come Jean-Baptiste l'aveva ipotizzato. Il Cacciatore prese a camminare affondando gli stivali nel terreno cedevole e tenendo ginocchia e schiena piegati, la testa bassa. Doveva fare attenzione che non ci fossero né coccodrilli né guardie, e in più continuava a voltarsi per accertarsi che la montagnetta di terra con zampe e coda fosse ancora lì dov'era e immobile.
Avanzò semi-accovacciato fra i sassi e l'erba sporca di fango. La cima del pendio che conduceva al fossato era circondata da massi piantati nel terreno e incastrati uno contro l'altro. Non sarebbe stato difficile per qualcuno sporgersi e vederlo, ma era pur sempre una protezione, ed Eric cercò di sfruttarla più che poteva. Prese a tastare il terreno con la punta delle dita prima, con il palmo della mano poi.
Deve essere qui; aveva riconosciuto il punto in cui si trovava – ricordava che fosse nei pressi del fossato e a pochi metri da un pozzo...Eric vide quest'ultimo sopra la sua testa, in direzione est; ebbe un tremore quando gli parve di vedere un'ombra muoversi dietro a esso, ma poi niente si mosse più e si disse che se l'era immaginata – e cercava di rintracciare la X a carboncino che Jean-Baptiste aveva tracciato sulla planimetria.
 
Le mani di Jean-Baptiste Beaumont erano sottili e morbide e con dita affusolate. Più abituate a disegnare che a lavorare. Eric rimaneva sempre incantato di fronte all'abilità e all'eleganza con cui quelle mani scrivevano e tracciavano linee e schizzi che a poco a poco si tramutavano in complesse mappe e progetti architettonici.
Lui sapeva spaccare la legna, cacciare e compiere lavori di fatica molto meglio di quanto non avrebbe fatto Jean-Baptiste, che probabilmente non aveva mai lavorato in vita sua, ma provava lo stesso una certa invidia alla consapevolezza che, lui, non sarebbe mai riuscito a impugnare una penna o un carboncino con la medesima maestria.
La mano sinistra di Jean-Baptiste tracciò una secca e decisa X in un punto della planimetria della reggia di Lindorm.
- Ne sei certo?- Tristan Beaumont era in piedi alle spalle di suo fratello, a braccia conserte, e scrutava dall'altro la planimetria che il più giovane si stava dannando per studiare; inizialmente tutti credevano che la bocca tirata e le sopracciglia aggrottate di Tristan fossero un segno di una sua scarsa fiducia nelle capacità di Jean-Baptiste; poi però avevano capito che era la sua espressione di tutti i giorni.
- Lo sono - Jean-Baptiste guardò prima Tristan, poi Eric, poi ancora il Principe Filippo e abbracciò con un'intera occhiata il manipolo dei capi della Resistenza radunato intorno al tavolo.- E' qui...
Cancellò la X a carboncino e la sostituì con un cerchio, al cui interno era inscritto un triangolo, a sua volta contenente un cerchio più piccolo.
- Non sono sicuro che ve ne siano altri, ve lo saprò dire dopo che avrò esaminato meglio la planimetria - di nuovo, Jean-Baptiste guardò tutti loro da dietro i suoi occhiali dalla forma ovale.- Ma sono sicuro che qui ci sia un Portale.
 
Il Portale era nascosto piuttosto bene, ma non da un sortilegio. Dalla natura.
Nessuno l'aveva usato in così tanto tempo che felci e arbusti vi erano cresciuti tutt'intorno nascondendolo. Eric li strappò via: uno strato di bronzo rotondo chiudeva quello che sembrava un tubo fognario, da cui un tempo doveva sgorgare acqua sporca. Su di esso, vi era il simbolo del Portale.
Sentì il cuore più leggero, tanto che gli venne da sorridere.
Era libero.
Era libero.
Premette il palmo contro il cerchio.
 
- Vostra Maestà...il...il Cacciatore è fuggito.
Il capitano Thorne era pallido come un morto e faticava a mantenere la posizione dell'attenti. Si vedeva che sudava freddo e poco ci mancava che bagnasse i pantaloni e si mettesse a piangere come un bambino.
Omuncolo.
Omuncolo. Era stato il primo aggettivo che le era venuto in mente dopo averlo ascoltato parlare per la prima volta, anni prima, alla reggia di Wyvern. All'inizio della Purgatura, prima del massacro delle Terre Fiere, prima ancora che lei diventasse la regina. Anche a quel tempo le era sembrato un omuncolo.
Tante cose cambiano...la mediocrità no.
Tuttavia, la Regina Cattiva non si mostrò stupita o turbata dalle parole del soldato. Sapeva già cos'era successo. Aveva osservato tutto dal suo specchio.
- Lo so.
Thorne deglutì talmente forte che si fece sentire anche a tre metri di distanza.
- Invierò altri soldati a cercarlo.
- Avevate il dovere d'impedirgli di scappare, e avete fallito. Ora il compito di catturarlo spetterà al capitano Navarre.
Dallo specchio, la Regina Cattiva vide la mascella del capitano contrarsi; il pezzo di labbro mancante si piegò in una smorfia deforme, e l'intera figura del soldato s'irrigidì.
- Vostra Maestà...
- Sparite dalla mia vista, Thorne!- dalla gola della Regina uscì un sibilo come quello di una vipera. Thorne fece un inchino rapido e maldestro, e uscì dalla stanza più veloce di un felino selvatico.
Rimasta sola, la Regina tornò a guardare lo specchio. Sogghignò.
E così credi di essere scappato...non sai ancora che la tua vera prigione è dentro.
Poco importava che fosse fuggito da Lindorm. Quel palliativo di libertà non sarebbe valso per il Lupo. Se ne sarebbe accorto alla prossima luna piena.
Quell'idea gliene fece balenare in mente un'altra.
Il Primo Ministro aveva fallito, aveva catturato una ragazza ma s'era lasciato sfuggire l'altra. Con un po' di abilità, sarebbe riuscita a sfruttare il Cacciatore per risolvere il problema.
Forse può essermi utile già adesso...
Ogni Portale conduceva in un luogo preciso.
Fino a questo momento...
 
La pozza d'acqua stava penetrando nel terreno allargandosi intorno al pozzo e bagnandole la gonna. Ida s'era gettata in ginocchio non appena aveva visto quell'uomo sfondare la finestra e gettarsi nel fossato, e lì era rimasta...di fatto lasciandolo scappare.
Aveva lasciato scappare un prigioniero.
Oh, per tutti i Traghettatori...sono una criminale! Se mi beccano, altro che di nuovo a Brema con mamma e papà, mi sbattono dentro e buttano la chiave!
Le tornò in mente quel povero ragazzo. Quello da cui l'avevano mandata perché lo lavasse, quando la moglie di Larsen era ancora incinta...le avrebbero fatto fare la stessa fine?
Tu non hai visto niente!
Scattò in piedi e recuperò il secchio. Le tremavano le mani ma provò comunque a calarlo per tirare su l'acqua, con il rischio che le cadesse dentro al pozzo.
Tu non hai visto niente, va bene?, si ripeté mentre tirava la corda per issare il secchio. Tu eri qui a farti gli affari tuoi, e se te lo chiedono, tieni chiusa quella boccaccia...era un Portale, quello?
Scosse il capo come a voler scacciare ogni pensiero riguardante quell'incidente dalla sua testa. Non erano affari suoi. Non avrebbe fatto la fine di Maxime Beaumont.
 
 
 
***
 
 
 
New York, 2015. Ore 9:00 a.m.
 
 
 
AVEVA ROVISTATO IN TUTTO L'APPARTAMENTO, ormai, e ancora non aveva trovato niente. Non solo niente di rilevante, proprio niente. Greg stava cominciando a sudare freddo.
Non posso tornare da lui a mani vuote, e mentre lo pensava le mani le strinse a pugno, trovando i palmi sudati. C'è un accordo. E gli accordi andavano rispettati. Altrimenti...
Cercò di non pensarci e riportò la propria concentrazione sul suo obiettivo.
Come se fosse facile...
C'erano troppi pensieri che lo distraevano, e Richard Hadleigh con la sua condanna della memoria di sua moglie non lo stava aiutando.
Greg aveva passato al setaccio l'intero appartamento di Anya e della sua famiglia, ed era giunto alla conclusione che quello non fosse un appartamento, bensì un santuario. L'atmosfera era talmente anonima e asettica da risultare disorientante.
Era tutto minuziosamente pulito e ordinato. Ogni cosa era dove doveva essere, non c'era un granello di polvere su un mobile né una cornice storta appesa al muro.
A Greg era tornata in mente casa sua, caotica, con le pelli d'orso gettate alla rinfusa ovunque, i suoi giocattoli di legno e i coltelli e le pietre affilate con cui Zorek scuoiava la selvaggina e tagliava la carne, il fuoco sempre acceso per scaldarsi...poi aveva scacciato via ogni reminiscenza, ed era tornato a esplorare l'appartamento.
Aveva trovato pochissime altre fotografie oltre alle due in salotto – una sul comodino del padre, con un'Anya e una Elizabeth ancora piccole con addosso abiti estivi e sedute sul muretto di un giardino che non conosceva, probabilmente quello della casa di Briarwood; una appesa alla parete del corridoio e ritraente la sola Elizabeth a cinque anni, con uno zainetto di Barbie in mano e un grembiule scolastico, e gli occhi rossi di chi ha appena pianto; e un'altra, sempre in corridoio, in cui c'era soltanto Anya a mezzo busto, talmente scazzata che neanche guardava l'obiettivo e aveva pure addosso gli occhiali da sole, così a spregio – e basta.
Non una cartolina, non il poster di un concerto, e nemmeno una foto che ritraesse le due ragazze insieme con il padre. Diamine, neppure qualche fotografia più allegra alla spiaggia, o in montagna, o a una festa...!; sembrava che quella famiglia non fosse mai stata da nessuna parte, che non avesse mai fatto una gita insieme, che gli Hadleigh non fossero mai usciti una sera per andare al cinema o a mangiare una pizza.
Greg aveva sperato di avere maggior fortuna nella camera delle ragazze. Lì, i poster di David Bowie e di Freddie Mercury, i cosmetici e i libri, davano un tocco di personalità, ma ancora il ragazzo si ritrovò con un buco nell'acqua. Nessun oggetto strettamente personale e, soprattutto, niente che potesse in alcun modo ricondurre alla signora Hadleigh.
Il marito doveva aver fatto terra bruciata del suo ricordo, l'aveva bandito da quella casa. Non ci voleva molto a capire che fosse stato lui.
Greg un paio di volte dovette soffocare il panico, calmarsi e imporsi di continuare la ricerca. Solo un oggetto gli serviva, no? Un oggetto l'avrebbe trovato...si poteva fingere che il passato non fosse mai esistito, ma fra finzione e realtà c'era una grossa differenza.
Aveva lasciato la camera da letto di Richard Hadleigh per ultima. Non aveva niente di diverso dalle altre stanze, lo stesso arredamento asettico e anonimo, un letto in ferro a mezza piazza – il paparino non si porta donne in casa, e mi sa che neanche spera di farlo – e un comodino con annessa lampada e un armadio di legno marrone scuro, in contrasto con le coperte e il cuscino bianchi, effetto ospedale. Sembrava la camera di un novantenne.
Greg non trovò un beneamato accidenti nei cassetti del comodino, sotto il letto e sotto il cuscino – per qualche ragione s'era convinto che nel suo patetismo il capofamiglia dormisse con una foto della moglie sotto il guanciale, ma evidentemente era troppo anche per lui – poi aprì l'armadio. Anche gli abiti erano da vecchio, camicie bianche con cappotti, pantaloni e giacche scure. Greg li fece passare a uno a uno. Stava per mettersi a frugare in ogni tasca per la disperazione, quando lo sguardo gli cadde su una pila di camicie e maglioni: sembravano impilati uno sopra l'altro, ma il ragazzo vide spuntare sotto di essi l'angolo di qualcosa. Sembrava cartone.
Greg spostò i panni e scoprì lo scatolone nascosto sotto a essi. Era di dimensioni medie, dalla forma cubica, e non era sigillato con del nastro adesivo. Quando il ragazzo l'aprì, lo scoprì pulito, e così anche gli oggetti al suo interno; si sarebbe aspettato che fossero ricoperti di polvere, invece Richard Hadleigh doveva maneggiarli spesso.
La prima cosa che gli capitò in mano fu un mazzo di fotografie tenute insieme da un elastico. Greg le fece scorrere: ognuna riportava poche parole scritte sul retro.
La prima era parecchio vecchia, e ritraeva una coppia giovane. L'uomo aveva i capelli color biondo sporco così come la barba; aveva un'espressione stanca e provata, come di chi ne aveva passate troppe, ma che sorrideva felice come chi, invece, tutti i suoi guai se li era lasciati alle spalle. Aveva gli occhi azzurri come il cielo alle spalle sue e della donna attorno alle cui spalle avvolgeva un braccio; entrambi erano vestiti in maniera leggera, lui con dei jeans e una camicia bianca dal colletto largo e a maniche corte, lei con una gonna bianca a righe rosse, ques'ultime dello stesso colore della maglietta attillata. Al collo portava un fazzoletto candido e sul capo teneva un cappellino di paglia. Le scarpe da tennis di lei erano inadatte al paesaggio in cui si trovavano – una specie di dirupo roccioso che dava su una distesa di sabbia, probabilmente un deserto. Il sole li colpiva in pieno, soprattutto il viso della donna, che teneva gli occhi semichiusi e il sorriso era increspato. Lei era più giovane di qualche anno del compagno, aveva i capelli castani e dei boccoli sfatti, mentre alcuni crini erano appiccicati alla fronte.
Greg voltò la fotografia.
 
 
Alexander e Zelima
Phoenix, Arizona
1975
 
 
In un angolo in basso, un'aggiunta in penna recitava:
 
 
Grazie al tuo Dio siamo tornati
a New York!!!
 
 
Chissà perché ho la sensazione che si tirassero i piatti un giorno sì e l'altro pure!, sbuffò Greg.
La seconda fotografia ritraeva la stessa donna, in abiti diversi, invernali, nella cucina di una casa che Greg non conosceva. Sorrideva sempre con il suo sorriso increspato e aveva un bambino di circa due o tre anni che reggeva con un braccio.
Di nuovo, il retro della fotografia aveva delle brevi informazioni.
 
 
Zelima e Rick
casa nostra a New York
1977
 
 
La manciata di fotografie seguenti mostravano sempre la donna, Zelima, in compagnia dell'uomo della prima foto e del moccioso, con solo il bambino – che aveva sempre due o tre anni, oppure era addirittura più piccolo – in diverse parti della casa, oppure a New York. Greg le fece passare velocemente.
Arrivò a un'immagine più interessante. Stavolta Greg riconobbe subito lo sfondo: era la spiaggia di Long Island. Greg ci stava spesso, quando non ne poteva più del suo tugurio e non doveva stare appresso a quella stronzetta della Hadleigh, quando voleva respirare un po'. L'uomo della prima foto, Alexander, era in costume da bagno semidisteso su un telo da spiaggia, e teneva le braccia intorno al busto nudo di un ragazzino di circa quindici anni, che rideva.
Greg riconobbe il ragazzino come il bambino in braccio alla donna, e grazie ai lineamenti più adulti lo identificò come un Richard Hadleigh adolescente.
La foto successiva mostrava di nuovo Alexander in compagnia del figlio, il quale era più grande e indossava un outfit simile a quello che aveva Anya nello scatto in salotto.
 
 
Alexander e Rick,
giorno del diploma
1993
 
 
Un altro appunto in penna all'angolo in basso della foto.
 
 
Ottimo lavoro, ragazzo!
Sono orgoglioso di te.
 
 
La foto dopo aveva lo stesso schema, sempre Alexander Hadleigh con il figlio. Stavolta Richard aveva vent'anni o poco più, sembrava nervoso, ed entrambi erano in piedi su una bassa scalinata di marmo bianco. Hadleigh junior indossava dei jeans, una camicia e un maglione scuro con sopra un cappotto marrone – e Greg si stupì di questo quando girò la fotografia e lesse la dedica.
 
 
Alexander e Rick
New York
1996
 
Tanti auguri a te
e a Christine per il vostro
matrimonio!
 
Papà
 
 
Greg aveva imparato le usanze che gli umani avevano per quanto concerneva i loro matrimoni. Erano eventi che duravano anche una giornata intera, più d'una se avevi sfiga, in cui gli sposi avevano l'abitudine d'invitare anche altra gente ad assistere e doveva esserci per forza una persona autorizzata per legge a celebrare le nozze, non c'era l'unione del sangue, e tutti dovevano agghindarsi come per una festa. Era piccolo quand'era successo, ma ricordava bene come suo fratello Zorek se ne fosse uscito dalla loro hus la mattina per cacciare, e fosse tornato la sera con un taglio sulla mano e dicendo che s'era sposato. E di come suo padre prima si fosse incazzato perché Zorek aveva rimediato solo un capriolo, e poi avesse tranciato via la gamba del suddetto capriolo e l'avesse regalata alla moglie di Zorek come regalo di benvenuto nella famiglia.
Avevano passato la notte di nozze fuori casa e il giorno dopo Zorek, suo padre e sua madre s'erano messi a costruire una nuova hus dove suo fratello e la sua sposa potessero abitare. La moglie di suo fratello aveva ricevuto altre zampe d'animale dai vicini come regalo per il suo matrimonio, e dopo era finita lì.
Greg non aveva mai capito perché gli umani ritenessero importanti tutte quelle quisquilie che facevano quando due della loro razza si sposavano. Ma proprio per questo si stupì quando vide Richard Hadleigh vestito con abiti normali, non certo come uno sposo. Tuttavia, si sentì rincuorato perché, da come aveva capito, gli umani scattavano le fotografie anche alle spose, quindi ne avrebbe di sicuro trovata una con la signora Hadleigh.
Con suo grande sollievo, anche se non del matrimonio, la foto successiva ritraeva proprio Christine, e anche tutte quelle dopo.
Erano state scattate nel corso di alcuni anni, lo si capiva dal lieve mutamento dei lineamenti del viso della signora Hadleigh, da adolescente a donna. Compariva in diverse pose, in diversi luoghi, da sola o con altre persone: in una sola con Alexander, in altre con il marito, in altre ancora con una o entrambe le sue bambine. Sorrideva sempre.
Greg doveva ammettere che avesse proprio un bel sorriso, con denti bianchi e dalla forma regolare, e labbra rosse e carnose. Negli scatti in cui si trovava in spiaggia era abbronzata, ma negli altri si poteva intuire che avesse una carnagione pallida. I capelli erano neri come l'ebano, folti e lisci e lunghi fino alla vita.
Certo che era proprio una bella donna, dovette ammettere Greg. Anya le somigliava, ma non era graziosa quanto lei. Christine Hadleigh era alta di statura e aveva un fisico formoso e provocante, come quello di una spogliarellista o dell'attrice di un film che a Greg era capitato di vedere in TV qualche mese prima, una rossa che interpretava una ragazza ricca che durante una crociera s'innamorava di un biondo povero in canna che di mestiere faceva il pittore – finiva che la nave affondava e lui moriva.
Perché vuole un oggetto di questa donna? Che se ne fa?
Non gli era mai capitato di porsi domande in merito in quei quattro anni – lui gliel'aveva detto, fare domande non è il tuo compito, caro – tranne in quelle poche, sporadiche e svogliate volte che subito accantonava. Lui aveva ragione, fare domande non era il suo compito, e in fondo non gli era mai veramente interessato.
Ma adesso, qualcosa se lo chiedeva. Conosceva la storia di Christine Hadleigh come l'avevano raccontata giornali e telegiornali all'epoca dei fatti. Che se ne fa di un oggetto di una pazza?
Sapeva che una fotografia della donna sarebbe stata sufficiente; invece, riavvolse gli scatti nell'elastico e li ripose nello scatolone, continuando a rovistarci. A quanto pareva Hadleigh aveva conservato lontano dagli occhi delle figlie un bel po' di effetti personali della mogliettina fuori di testa. Greg trovò alcuni braccialetti di bigiotteria colorati, una versione rovinata de Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde – sulla prima pagina c'era scritto Christine Mason, anno scolastico 1992/1993 – dei fermagli per capelli, una camicia da notte bianca ripiegata, un portagioie di plastica, con una chiave e un lucchetto e due oggetti avvolti in vecchia carta di giornale.
Greg svolse il primo. Era uno specchio ovale, con il manico e il bordo nero in cui delle rose e spine rampicanti tridimensionali si avvolgevano una sulle altre. Il vetro era rotto, e in un punto in basso un frammento era mancante. Il ragazzo vide riflesso il suo volto deformato dalle sembianze umane e lo posò a terra.
Il secondo oggetto avvolto nella carta di giornale era un quaderno che sulle prime a Greg fece prendere un mezzo colpo, tanto era simile ai libri umani del mondo da cui proveniva. Poi si accorse che il cuoio marrone della copertina era in realtà finto cuoio e che le pagine erano solo vecchie, non antiche. Un nastro rossi sbiadito lo teneva chiuso, ma Greg sciolse il nodo con facilità.
Alcune pagine era staccate e c'era un quantitativo enorme di fogli e biglietti infilati fra di essi.
Lo aprì sulla prima pagina.
 
 
21 marzo 1989
 
   Tanti auguri a me, suppongo.
   Oggi compio 11 anni. Sheila mi ha organizzato una festa, ma non è che sia andata tutta 'sta favola...
   L'idea era d'invitare i miei compagni di scuola, ma è stata un po' un'idea del cazzo, a conti fatti. Non per niente è stata di Sheila. Io manco volevo.       Però Sheila ha detto che ero quella nuova, e che sarebbe stato “carino” invitare i miei nuovi compagni di scuola alla mia festa di compleanno. Le ho spiegato che passato il mese dall'arrivo una smette automaticamente di essere “quella nuova” e diventa una stronza come tutte le altre, ma Sheila ha detto che stronza lo sono davvero, se sparo queste stronzate.
   Nel caso ci fosse un'entità superiore che sbircia oltre la mia spalla – non si spia! – o nel caso mi trovassero morta e questo diario andasse agli archivi degli sbirri, Sheila è mia madre, ma lei non vuole che la chiami “mamma” perché dice che la fa sentire vecchia. Comunque alla fine della storia la stronza che spara stronzate si è rivelata lei, perché alla festa non è venuto nessuno.
   Non che me ne freghi qualcosa, eh. Solo che mi scoccia che Sheila abbia buttato via i soldi per la torta e abbia perso una nottata intera di sonno per scrivere i bigliettini.
   Io le avevo detto che di feste non ne volevo e che quelli erano tutti dei gran pezzi di merda, ma lei non mi ha ascoltato. Abbiamo litigato – anche se in realtà ha fatto tutto lei da sola – e alla fine m'ha pure tirato una sberla.
   “Tanto non si presenterà nessuno!” le ho urlato, mentre lei metteva i suoi addobbi del cazzo e tirava fuori dal frigo la sua torta del cazzo. Alla fragola, oltretutto, quando lo sa benissimo che a me fa schifo; quando gliel'ho detto, mi ha risposto che era quella meno cara e di non rompere il cazzo.
   “Facciamo così! Se per caso alla fine si presenta qualcuno ti pesto a sangue davanti a tutti, così impari!” ed è andata al piano di sopra a truccarsi e a cambiarsi il vestito.
   La sua festicciola del cazzo doveva iniziare alle tre, ma alle cinque ancora non c'era nessuno e io ero là seduta come un'imbecille di fronte a quella merdosa torta alla fragola che si stava squagliando. Alle sei è stato chiaro che non sarebbe arrivato nessuno.
   Allora Sheila ha cominciato a fare tutta la smielosa.
   “Oh, tesoro, mi dispiace tanto!”
   “Sto cazzo che ti dispiace, l'idea è stata tua, se non fosse stato per te non sarebbe mai successo!” le ho risposto; in genere quando le rispondo così mi prende per i capelli e mi trascina sul pavimento fino in camera mia, ma stavolta non l'ha fatto. E' da un po' che si comporta in modo strano, in effetti...non vorrei avesse ricominciato a bucarsi di nuovo, e che cazzo!, è uscita dalla riabilitazione solo da sei mesi! L'assistente sociale ha detto che se ci ricasca stavolta le tolgono la potestà genitoriale, e io finirò in un merdosissimo istituto.
   Gesù, lo so che non prego tanto e che bestemmio spesso, ma fa' che Sheila non ricominci a bucarsi. E che quella troia dell'assistente sociale non scopra che batte i marciapiedi – lei crede che mamma percepisca l'assegno statale di disoccupazione...che sì, è vero, ma tecnincamente sarebbe una truffa, perché dice che sta cercando lavoro.
   Comunque, dicevo, non mi ha riempito di cazzotti come fa di solito quando rispondo male, anzi, è corsa subito al telefono. Io credevo che c'avessero tagliato la linea ma a quanto pare no, vabbé. L'ho sentita borbottare per un quarto d'ora, poi è tornata in cucina trotterellando come una Miss Piggy ubriaca, tutta sorridente. Porca troia, neanche quando era strafatta si comportava così.
   “Indovina? La festa si fa comunque! Ho invitato tutte le mie amiche, ci divertiamo alla faccia di tutti quei coglioni!”
   Okay, le amiche di Sheila non sono male, questo lo riconosco.
   Tempo mezz'ora e sono arrivate tutte insieme. Tiffany, quella che sta con quel vecchio perché spera che muoia presto e che le lasci tutti i soldi; Lola, che è quella che batte con Sheila sulla 161esima Strada; e Patricia, che invece riceve i clienti in casa – lo so perché ho abitato da lei mentre Sheila era in riabilitazione.
   Ci siamo fatte questa.
 
Sotto c'era una fotografia ritraente quattro donne adulte e una bambina. Christine Hadleigh indossava una camicetta gialla su cui c'erano delle macchie di candeggina, e aveva le labbra piene di braccialetti e le dita occupate da anelli. I capelli neri erano tenuti in ordine da un cerchietto rosa, ed era truccata – ombretto azzurro e rossetto color Borgogna.
Dietro di lei, una donna sui ventisette o ventotto anni, con un abito corto, attillatissimo, dalla scollatura abbondante e ricoperto di perline, le teneva le braccia intorno alle spalle e una guancia premuta contro la sua. Aveva dei lunghi capelli biondi con una ricrescita castana, un viso allungato e pieno di lentiggini, e gli occhi verdi come quelli di Christine: Greg intuì da quest'ultima caratteristica che dovesse essere la madre, Sheila. Intorno a loro, sorridenti o che ridevano, c'erano le tre donne che Christine aveva identificato come Tiffany, Lola e Patricia.
Guardavano l'obiettivo. Di fronte a loro, sulla tavola, c'era una torta alla fragola mezza sciolta con su undici candeline accese.
 
   Patricia mi ha regalato degli orecchini di plastica, quelli a forma di ciliegia che avevamo visto al mercatino la settimana scorsa con lei e Sheila, Tiffany mi ha regalato un cerchietto nuovo e Lola ha detto che non ha avuto tempo di comprarmi il regalo, ma che il mese prossimo mi porterà a fare shopping con lei e potrò sceglierne uno.
   Sheila invece mi ha regalato una cosa strana. Ho proprio paura che si buchi ancora.
   Ha tirato fuori dalla borsa cinque foglietti di block-notes colorati d'azzurro con il pennarello. Al centro c'erano dei numeri scritti in penna, da 1 a 5.
   Sheila ha detto che sono dei “Buoni Sheila”.
   “Valgono un anno. Praticamente sono come dei piccoli desideri, hai capito?”
   Non avevo capito un cazzo e gliel'ho detto”
   “In pratica, facciamo finta che tu vuoi qualcosa, okay? Qualcosa che di solito io non voglio fare, o non voglio che tu faccia...fino all'anno prossimo, quando vorrai qualcosa del genere, avrai a disposizione questi cinque “Buoni Sheila”...li potrai usare per ottenere quello che vuoi”
   “Usali bene!” ha ghignato Patricia.
   A me sembrava un'idea cretina, ma non gliel'ho detto.
   La torta faceva cagare, si capiva perché costava poco.
   Abbiamo messo su i Pink Floyd e Sheila ha spostato il tavolo così potevamo ballare, poi ha stappato una bottiglia di tequila che Lola s'era portata da casa.
   E qui arriva la parte bella.
   Alle sette passate, ha suonato il campanello. Sheila e le ragazze erano ubriache. Niente d'insolito, eh, succede sempre quando sono insieme, solo che stavano ballando mezze nude fra la cucina e il salotto, c'era la musica a palla e loro non erano in grado di aprire la porta, quindi sono andata io.
   Mi sono ritrovata di fronte Mary Wilson con sua madre.
   Mary aveva l'aria di voler essere ovunque tranne che qui. Sua madre aveva un sorriso falso che però è crepato non appena ho aperto la porta e ha sentito i Pink Floyd sparati a manetta.
   Ha cercato di recuperare.
   “Ehm...tu devi essere Kathryn”
   “Christine” oca!
   “Tanti auguri, Christine!”
   Madonna che falsa!
   Ho guardato quell'ameba di Mary Wilson; era rossa come se le fosse andato di traverso qualcosa, manco mi guardava in faccia fra un po'. Aveva in mano una borsa di plastica colorata, di quelle in cui si mettono i regali. Me l'ha praticamente tirata addosso.
   “Buon compleanno, Christine!” s'è mangiata le parole mentre lo diceva, quasi non avevo capito.
   “La festa era quattro ore fa” ho detto io.
   La mamma di Mary è sembrata abbastanza scazzata, probabilmente si aspettava che la ringraziassi per il regalo. Piuttosto me lo ficco in culo, guarda, avrei voluto dirle.
   “Lo so, ma Mary aveva lezione di pianoforte, non poteva venire. Però ci teneva comunque a passare e a darti il suo regalo” io la vedevo che continuava a cercare di sbirciare dentro per vedere che cosa stava succedendo, stavo per mandarla affanculo, quando a un certo punto la faccia di Mary s'è illuminata.
   Il che è una gran cosa, di solito sembra un cadavere.
   “La festa non è ancora finita!” e ha guardato sua madre. “Posso entrare un attimo? Cinque minuti!”
   Stavo per dirle di no, però la signora Wilson mi ha preceduta.
   “Devi andare a letto presto, stasera, Mary, domani hai lezione di tennis...”
   Ed è stato a quel punto che è successo.
   Sheila stava ballando sul tavolo mezza nuda da mezz'ora. E' saltata giù e s'è affacciata sulla porta in mutande e reggiseno, ubriaca marcia e con una bottiglia di vino aperta in mano.
   “Ciiiiiaaaaooooouuuu!” no, giuro, ha fatto proprio così e io mi stavo pisciando sotto dal ridere! “Tu devi esshereh...un amicO...ahehm...volevo dire...un'amica di Chrishtine...shalve shignorah...!” ha ululato in faccia alla madre della Wilson. Deve anche averle dato un'alitata perché gli occhi già schifati di quel pezzo di legno hanno strabuzzato e lei ha boccheggiato. “Perché non entra dentroooooouuuu...” e ha perso l'equilibrio finendo quasi addosso a quella fica sfondata. “Shi fasciamo due chiacchiereh fra adulte mentre le pampine giocano...”
   “Spiacente!” ha gracchiato quella e ha dato uno strattone al braccio di Mary così forte che, no, davvero, sul serio, giuro che ho creduto che glielo staccasse. Pure gli occhiali a momenti le cascavano. “Ma abbiamo ospiti a cena. Andiamo, tesoro!” e s'è trascinata dietro quella merdina ammuffita di sua figlia. Poi, siccome nemmeno mentre se ne andava Mary la piantava di guardare verso di noi, le ha dato un altro strattone perché si voltasse.
   “Inaudito!” l'ho sentita dire. “Lasciare a una donna simile una bambina...inaudito!”
   Che se lo ficchi in culo, il suo inaudito.
   Morale della favola, dopo un po' Tiffany e Patricia e Lola se ne sono andate e Sheila s'è addormentata sul divano. Ho dato una pulita e ho aperto il regalo di Mary.
    Ed eccolo qui. Un cazzo di diario segreto.
   Okay, punto in più per Mary per non avermi comprato una di quelle robe iperglicemiche rosa e infiocchettate, si vede che aveva paura che glielo rompessi sulla testa, ma come cazzo le è venuto in mente?
   Anche se lei mi sa tanto del tipo che scrive le sue puttanate su un quadernetto tutto infiocchettato.
   Vabbé, comunque non lo userò. C'ho scritto solo per stavolta perché sono qua che m'annoio, in TV non c'è niente di bello e c'è Sheila che russa qui di fianco a me, e la scena di stasera mi sta ancora facendo spisciare.
   Detto questo, addio mio non-diario. A mai più rivederci.
 
Greg inarcò le sopracciglia e voltò la pagina.
Era scritta, e cominciava con la medesima data.
 
21 marzo, 1989
 
   'Fanculo, questa è davvero l'ultima volta che scrivo.
   Ma è successo di nuovo, e devo dirlo a qualcuno...
 
Una rapida scorsa alle altre pagine gli diede la conferma che Christine Hadleigh aveva, a discapito dei suoi propositi, continuato a scrivere il suo diario. Greg fece per continuare a leggere, ma dal corridoio provenne il suono dello scatto di una serratura.
Cazzo!
S'immobilizzò e iniziò a sudare freddo.
Il rumore di una porta che si apriva, dei passi pesanti e stanchi sul pavimento, e poi la porta che si richiudeva.
- Anya?
Cazzo!
Greg s'infilò senza pensare il diario nella tasca dei pantaloni, poi raccattò lo specchio e il portagioie e se li strinse al petto. Ficcò il resto dentro lo scatolone e vi mise sopra i vestiti alla bell'e meglio, poi richiuse le ante. Scivolò supino sotto al letto.
- Anya? Liz?
Greg cercò di respirare piano mentre ascoltava i passi di Richard Hadleigh muoversi per la casa. Lo udì prima dirigersi verso la cucina, poi in salotto, infine percorrere il corridoio con lentezza.
Greg si premette una mano sulla bocca.
- Ragazze? Siete in casa? Sono...tornato prima. Possiamo...possiamo parlare un po'?
I passi dell'ispettore andarono nella stanza delle figlie. Poi, con la coda dell'occhio, Greg vide le scarpe dell'uomo affacciarsi sulla soglia del letto, oltre l'orlo della coperta.
Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo...!
Si premette ancora di più il palmo sulle labbra per attenuare il suono del suo respiro, mentre continuava a seguire i movimenti delle scarpe. Le vide misurare il perimetro del letto fino al comodino, poi si fermarono. Hadleigh sospirò. Qualche secondo dopo, Greg sentì il tu-tu tu-tu di una segreteria telefonica.
Hadleigh sospirò nuovamente, un sospiro più stanco e profondo.
Greg riprese a seguire i movimenti delle sue scarpe indietro lungo il perimetro del letto e fino alla porta, e poi udì i passi dell'ispettore ripercorrere a ritroso il corridoio. Tirò un sospiro di sollievo quando udì la porta aprirsi e richiudersi.
Attese qualche minuto. Poi, quando fu sicuro che Hadleigh se ne fosse andato, strisciò fuori dal letto con ancora il portagioie e lo specchio rotto premuti contro il torace.
Poteva bastare, si disse. Lui ne sarebbe stato soddisfatto.
Lo spero.
 
 
***
 
 
- PRENDETELE!
Navarre e i suoi le stavano raggiungendo. Elizabeth si voltò senza smettere di correre: c'erano solo il capitano e altri due soldati, ma loro due erano comunque sole, disarmate e, per quanto riguardava Cenerentola, ferite. La bionda riusciva a correre a fatica a causa del taglio sanguinante sulla gamba, e già iniziava a rallentare la corsa. Elizabeth da parte sua sentiva i polpacci doloranti, respirava a fatica e iniziava a sentire dolore alle cosce e alla milza.
Quasi non si era accorta che avevano raggiunto i confini della Foresta Incantata e che ora stavano correndo in mezzo agli alberi, con la fatica ulteriore di dover aggirare quelli e le rocce.
Improvvisamente, Cenerentola crollò in ginocchio sull'erba con un gemito.
Elizabeth si fermò e la raggiunse, afferrandola per un braccio.
- Alzati!- quasi implorò.
- No...lasciami qui, vattene via...
Elizabeth provò ancora a tirarla in piedi.
- Forza, alzati...
- Ho detto vattene!
Elizabeth non si mosse. Non sapeva perché se la prendesse così tanto: Cenerentola era solo un personaggio delle fiabe, in fondo, si sarebbe quasi potuto dire che non fosse reale, e in ogni caso a conti fatti neppure la conosceva; ma sentiva che non poteva abbandonarla lì.
- Eccole!
Elizabeth si sentì afferrare le spalle e venne allontanata a forza da Cenerentola. Non fece in tempo a vedere cosa ne fu di lei, perché uno dei soldati la spinse violentemente a terra. Sentì una mano inguantata avvolgerlesi intorno alla gola, premendole la nuca contro l'erba.
- Ordini, capitano?
Cenerentola venne atterrata a sua volta, e un soldato le premette il torace e la guancia contro il suolo. Avvertì una lama fredda graffiarle la giugulare. I secondi che intercorsero prima che il capitano Navarre parlasse le sembrarono durare secoli.
- Uccidetele.
Elizabeth trattenne il fiato, sentendo il cuore balzarle via dal petto; non riusciva a pensare a nulla, vedeva solo la spada del soldato alzarsi sopra di lei, e presto anche quella vista venne appannata dalle lacrime.
Chiuse gli occhi.
La stretta intorno alla gola cessò. Una frazione di secondo dopo, sparì anche la lama, e insieme ad essa il soldato. Elizabeth lo vide sbalzare di lato, fluttuando a mezz'aria per mezzo istante prima di finire contro lo stesso capitano Navarre. I due uomini caddero a terra con un tonfo sordo unito allo sbatacchiare del ferro delle loro armature.
Elizabeth alzò lo sguardo: sopra di lei c'era un uomo di circa quarant'anni, dalla corporatura massiccia, con addosso un cappotto marrone rovinato. Il volto era ricoperto da graffi e tagli.
Il soldato che tratteneva Cenerentola si distrasse per guardare il suo compagno e il capitano accasciati al suolo; l'uomo sconosciuto approfittò del momento e lo afferrò per il bavero della cotta, sollevandolo di peso. Il soldato lasciò la presa ai polsi di Cenerentola.
Il Cacciatore gli strinse con forza la mano intorno alla gola, tanto che il soldato si ridusse a un gracchiare soffocato nel tentativo di respirare; Eric aumentò ancora la stretta, tenendolo sollevato a mezz'aria. Presto, gli occhi del soldato divennero vitrei, il volto cianotico, la lingua prese a penzolare fuori dalla bocca; Elizabeth vide il Cacciatore lasciare cadere il suo corpo svenuto.
Cenerentola ansimò sollevandosi in ginocchio; guardò lo sconosciuto, e la sua espressione si dipinse di terrore quando scorse Navarre alle sue spalle alzarsi e brandire la spada. Urlò, ma il capitano fu più veloce della sua voce, e colpì il Cacciatore un attimo prima che si scansasse, ferendolo di striscio a un fianco. Eric strinse i denti per il dolore, mentre i suoi occhi ebbero una scintilla di giallo brillante; si voltò a una velocità innaturale, animalesca, e bloccò il braccio di Navarre prima che questi affondasse un secondo colpo. Il Cacciatore fece inclinare la spada verso il suo avversario, e spinse il capitano lontano da sé.
La lama andò a sbattere contro il viso del soldato.
Navarre barcollò, cadde in ginocchio e cominciò a urlare come un animale al macello mentre lasciava cadere la spada e si portava entrambe le mani a coprire l'occhio sinistro. Dalle fessure fra le sue dita cominciò a spillare sangue.
Navarre ansimava e ringhiava come una bestia ferita; puntò l'occhio sano contro il Cacciatore: incontrò due iridi gialle, spaventose, le cui pupille erano ridotte a due lunghe e strette fessure.
L'altro soldato s'era alzato ed era caracollato al suo fianco, disarmato; tirò il capitano per la casacca, incitandolo ad andarsene. Navarre continuava a emettere versi rabbiosi e sofferenti, ma non se lo fece ripetere.
Solo quando non li vide più, Elizabeth ricominciò a respirare. Cenerentola appariva incredula e sconvolta. Entrambe si volsero all'uomo sconosciuto.
Eric non parve accorgersi dei loro sguardi. Ansimò, mentre gli occhi tornavano al loro naturale colore e le pupille ridiventavano rotonde. Soffocò un gemito e si portò una mano al fianco ferito che aveva preso a spillare sangue rosso scuro che in un attimo divenne nero. Il Cacciatore si voltò a guardare le due ragazze; boccheggiò, come se volesse dir loro qualcosa; invece, si accasciò al suolo.
Gettò il capo all'indietro mentre si lasciava crollare disteso sull'erba. Cenerentola si alzò e si lanciò verso di lui, provando a sostenerlo per le spalle, ma il peso era eccessivo per lei, e poté solo rallentare la caduta ed evitare che il capo dell'uomo sbattesse a terra.
Il Cacciatore chiuse gli occhi, ormai privo di sensi.
 
 
***
 
 
ANYA VENNE SVEGLIATA DA UN calcio nella colonna vertebrale. Tossì e si contorse per il male.
- Alzati!- le intimò rabbiosamente il Primo Ministro.- Alzati, muoviti!
Anya grugnì, puntellando i gomiti sul terreno. Il sole le bruciò gli occhi. Intuì che dovesse essere mattina.
Si era addormentata solo un paio d'ore prima, sfinita da tutte quelle emozioni e quell'avventura che definire poco piacevole sarebbe stato un cortese eufemismo; era rimasta sveglia tutta notte fino a che la stanchezza non aveva preso il sopravvento, sveglia a rimuginare sull'intera situazione senza trovarvi una via d'uscita. Aveva quasi totalmente accantonato l'incredulità del trovarsi davvero nel Regno delle Favole, e i suoi problemi principali in quel momento erano: trovare sua sorella; e, ancora più prioritario, trovare il modo per sottrarsi alle grinfie di quel bastardo.
Bastardo che era rimasto sveglio tutta notte, senza dare mai il minimo segno di stanchezza...e senza mai perderla di vista.
- Mi hai sentito?! Ho detto di alzarti!
Senza attendere oltre, il Primo Ministro la prese per il collo della maglietta e la tirò su. Anya si trovò accovacciata sull'erba, con i polsi e le caviglie ancora legati. L'uomo la squadrò per un lungo istante, prima di portarsi una mano alla cintura; sguainò un pugnale affilato, e Anya si sentì morire dal terrore quando si chinò su di lei, ma l'urlo le morì sulle labbra quando vide che aveva solo tagliato le corde intorno alle sue caviglie.
Il Primo Ministro si rialzò, le strinse il braccio e la fece alzare.
- E ora cammina!- abbaiò, cercando di spingerla in avanti. Anya digrignò i denti, irrigidendo i muscoli e puntando i talloni a terra. Cercò di divincolarsi ritraendo il braccio versi di sé, ma il Primo Ministro la trattenne. La strattonò.
- Ho detto di muoverti!
- No!- Anya arretrò per quanto la presa del suo carceriere glielo permettevano.
Il Primo Ministro le diede un altro strattone, tale da farla barcollare.
- Vedi di smetterla di ribellarti e iniziare a camminare, o giuro che ti spezzo le gambe!
- No!- la ragazza strillò nuovamente, come una bambina che faceva i capricci, iniziando a colpirlo al torace e alle spalle con i pugni con la poca forza che i polsi legati le consentivano. Il Primo Ministro le afferrò la gola, spingendola indietro e sbattendola contro il tronco di un albero lì accanto. Anya si mangiò un urlo quando la sua schiena cozzò contro la corteccia; un attimo dopo, sentì il peso dell'uomo che le stava premendo il proprio corpo addosso.
Alzò le mani legate come a volersi difendere, ma anche quelle si ritrovarono bloccate fra il proprio petto e il torace del suo carceriere. Anya si rese conto di essere busto contro busto, fianchi contro fianchi; non riusciva nemmeno a muovere le gambe, intrappolata in quella posizione.
L'uomo le piantò l'avambraccio di traverso contro la gola.
- La facciamo finita, sì o no?
Il Primo Ministro ansimò, sollevandò gli occhi azzurri su quelli verdi della ragazza. Quasi fu sorpreso di trovarvi evidenti tracce di paura. Aveva dimostrato di sapersi difendere, in fondo, ma era ancora troppo facile. La guardò meglio: era pallidissima, con la fronte sudata e tremava.
Non c'era gusto e non c'era onore. Era come ammazzare un cervo già ferito da qualcun altro, o un cinghiale finito nella tagliola di altri cacciatori. Non corretto, non onorevole.
Anche le prede hanno il diritto di potersi difendere.
Non aveva mai soprasseduto su questo, non l'avrebbe fatto adesso. Doveva solo trovare il modo di truffare lo specchio.
Guardò la corteccia alle spalle della ragazza. La linfa che zampillava da essa e scendeva lungo il tronco emetteva di tanto in tanto dei luccichii dorati. Il Primo Ministro aggrottò le sopracciglia. Usò la mano libera per toccare la linfa.
Subito questa si sciolse e sulla punta delle sue dita rimase solo una polverina dorata che di tanto emanava un luccichio.
Polvere di fae.
Dopo che lo realizzò, improvvisamente ai suoi sensi balzarono una serie di dettagli che la notte prima, al buio, gli erano sfuggiti: anche gli altri alberi intorno a loro erano coperti di linfa recante polvere di fae, così come le foglie, e persino l'erba.
Magia fae...
- Lasciami andare...- la voce di quella ragazza era un soffio.- Toglimi le mani di dosso!
Sembra un pulcino spaventato eppure riesce ancora a fare l'arrogante!
Si staccò da lei. Magia fae...; lo specchio non poteva mostrare ciò che era protetto con la polvere di fae. Lo aveva saputo dalla Regina Cattiva in persona: la polvere di fae era l'unica barriera che le impediva di raggiungere la Resistenza; senza di essa, lo specchio le avrebbe già mostrato dove si trovavano i ribelli.
Forse posso approfittarne...
Il tempo stringeva, e la Regina era stata chiara: voleva teste e cuori di tutt'e due le ragazze, e lui doveva portarglieli. Teste e cuori di entrambe. Non poteva ritornare al castello di Lindorm a mani vuote o con solo metà del lavoro fatto.
Doveva ancora trovare l'altra ragazza e aveva per le mani quella sciacquetta che con il suo ribellarsi e tirare calci e pugni l'avrebbe solo rallentato e gli avrebbe reso il compito più difficile. Il problema era che non aveva idea di come fare per farla stare buona. Ammazzarla, non voleva, non indifesa com'era; se le avesse fatto talmente male da ridurla al silenzio, non solo l'avrebbe resa ancora più indifesa, ma si sarebbe trasformata in un peso morto che l'avrebbe ostacolato ancora di più.
L'unico modo era tirarla dalla sua parte. Ma come?
Non poteva mostrarsi gentile e galante adesso, dopo averla imprigionata e maltrattata per una notte intera. Doveva tentare un'altra strada per ingraziarsela...magari fingendo un malinteso...mentendole sulle sue vere intenzioni...
D'altronde, il tempo che restava prima della Luna di Sangue era poco, e lui aveva a che fare con una potenziale Salvatrice, disposta a qualunque cosa – ci scommetteva – per ritrovare l'altra ragazza; se era la Salvatrice, era anche una notevole scorciatoia per la Pietra del Male.
E poi, per quel che ne sapeva, l'altra candidata poteva anche essere finita nella portata principale di un orco scampato alla Purgatura, o nella casa di qualche megera. Se al posto di due ragazze avesse riportato alla Regina solo una possibile Salvatrice, ma con essa anche qualche Chiave che conducesse alla Pietra...
Forse aveva delle buone possibilità di cavarsela, in questo modo. Si trovava in un luogo pullulante di magia fae, lì la Regina Cattiva e il suo specchio non avrebbero potuto vederlo. E se era vero che la Resistenza si proteggeva con la polvere di fae, forse anche i ribelli erano vicini.
Sorrise fra sé, facendosi coraggio.
E' ora d'iniziare la scena.
Il Primo Ministro estrasse di nuovo il pugnale dalla cintura. Accostò la lama alla guancia della ragazza, con la punta premuta contro lo zigomo.
- Vediamo se avrai ancora voglia di ribellarti, dopo che ti avrò cavato un occhio...
Fece salire lentamente la punta del coltello verso il bulbo oculare. Anya gridò, serrando gli occhi in un ultimo, disperato tentativo di autodifesa.
Poi, sentì improvvisamente la lama arrestarsi nel suo percorso, quindi il freddo del pugnale scivolare via dalla guancia; riaprì gli occhi: l'uomo di fronte a lei era concentrato sulle sue mani. Le afferrò i polsi e tagliò le corde con decisione. Anya avvertì la piacevole sensazione del sangue che riprendeva a fluire in modo normale. L'uomo si allontanò da lei di qualche passo e le diede le spalle. Anya inspirò per calmare il battito cardiaco ma senza staccare gli occhi da lui.
Il Primo Ministro si chinò a raccogliere il proprio arco e la faretra; si stava comportando come se lei non fosse stata lì. Anya sbatté le palpebre, in piena confusione: prima la trattava peggio d'un cane, la legava e la picchiava, poi dal nulla decideva di liberarla e fare finta che non fosse accaduto niente?!
Tutta la sua razionalità le urlava di colpire quel tizio con la prima pietra che le fosse capitata in mano, girare i tacchi e scappare da lì veloce come il vento, ma a quanto pareva l'incredulità aveva avuto la meglio sulle capacità d'obbedienza del suo sistema nervoso.
Il Primo Ministro vide con la coda dell'occhio che la ragazza non s'era mossa, e sogghignò fra sé. Si girò a guardarla con studiata lentezza.
- Sei ancora qui? Se non ho capito male, non avevi molta voglia di seguirmi...
- Ma...ma che...- balbettò Anya.- Che cosa...?
- Ti devo le mie scuse. Evidentemente non sei una spia.
Alla ragazza caddero le braccia. Una spia?! Era per questo motivo che l'aveva imprigionata e malmenata?! Solo per questo?!
- Brutto figlio di una grandissima puttana!- strillò, dimenticandosi che avrebbe dovuto essere già lontana da lì da un pezzo, invece di stare urlando contro un personaggio delle favole.- Hai idea di quello che hai fatto, pezzo di merda?! Una spia? Mi hai riempita di cazzotti solo perché pensavi che io fossi una spia mandata da chissà chi, maledetto stronzo?!- Anya gli andò incontro a passo di carica, alzando una mano pronta a colpirlo in pieno volto, ma il Primo Ministro le bloccò il polso prima che il pugno si abbattesse su di lui. Le girò il braccio dietro la schiena, imprigionandola, e Anya lanciò un urlo di dolore e protesta.
- In effetti, hai ragione - sorrise il Primo Ministro.- Sono stato veramente stupido a credere che una ragazzina ridicola e patetica come te potesse essere veramente una spia, ma fidati, sono stato gentile con te. Se così non fosse stato, tu a quest'ora giaceresti in un angolo della Foresta Incantata con una freccia piantata nel petto.
Anya si divincolò dalla stretta senza alcuna fatica; era chiaro che lui avesse voluto lasciarla andare, realizzò con frustrazione.
- E' per questo che hai scoccato quella freccia? Eri tu, vero? Mia sorella è scomparsa per colpa tua!
- Credevo che anche lei fosse una spia.
- E di chi?
- Di chiunque. Chiunque avrebbe potuto inviare una spia, specialmente la Regina.
- Eh?
Il Primo Ministro la superò con passo deciso, nascondendo un sorriso compiaciuto.
- Ora che ho appurato la verità, sei libera di andartene.
Anya ci restò di merda. Era assurdo! Fece dei bei respiri profondi, cercando di ragionare. La voglia di rompere il muso a quello stronzo era fortissima, ma ora doveva restare lucida. Le aveva detto che poteva andarsene. Certo, ovvio che se ne sarebbe andata, doveva essere pazzo a credere che sarebbe rimasta con lui! Doveva trovare Elizabeth...
Elizabeth, che in quel momento era chissà dove...
- Devo...devo trovare mia sorella...- mormorò, non sapendo bene se stesse parlando a se stessa...oppure se in lei ci fosse il desiderio inconscio di essere ascoltata.
- Buona fortuna, allora.
- L'ho persa di vista quando quell'albero...
- Si può sapere perché mi stai dicendo queste cose?- il Primo Ministro incrociò le braccia al petto.- Credi che m'interessi qualcosa di te e di tua sorella? Non spererai che ti dia una mano?- inarcò un sopracciglio, rivolgendole un sorrisetto beffardo.
Anya si corrucciò.
- Ma stai scherzando?! Io non voglio niente da te!
- Meglio così, perché io non ho tempo da perdere. Ho cose più importanti da fare, e la Pietra del Male non sta lì ad aspettarmi...
- La Pietra del Male? Intendi...ti riferisci a quella della profezia?
Il Primo Ministro nascose nuovamente un sorriso soddisfatto fingendo di sistemare il pugnale alla cintura.
- Non sei ottusa come pensavo. Bene, visto che sai di cosa parlo, ti renderai anche conto che non posso stare qui a perdere con te...
- Perché t'interessa tanto?
- Non è affar tuo. Sei ancora qui?
Anya, quasi per istinto, si guardò alle spalle.
- Chi sei?
- Non vedo perché dovrei dirtelo - il Primo Ministro iniziò ad allontanarsi. Era sempre stato bravo a inscenare quelle commedie per ottenere quello che voleva. Sogghignò quando sentì la voce di quella ragazza richiamarlo con un aspetta un attimo! che recava tracce non poi così sottili di disperazione.
- Cosa vuoi ancora?- l'apostrofò.
- So come trovare la Pietra del Male, se è questo che t'interessa - dichiarò Anya; in altre condizioni si sarebbe defilata prima di subito, ma in quel momento sentiva di avere bisogno di aiuto più che mai. Per quanto la storia della spia avesse un retrogusto ben poco chiaro che non la convinceva per niente, a conti fatti quel tizio non l'aveva ammazzata, la stava lasciando andare e sembrava sapere il fatto suo...e lei doveva trovare Liz. E dopo doveva trovare la strada di casa.
L'aveva maltrattata per una nottata intera, e adesso doveva fare affidamento su di lui. Uno sconosciuto pure stronzo. Era parecchio frustrante, ma non c'era altro modo.
Non era più a New York, dovette ammettere a malincuore, e dopo tutto quello che era accaduto doveva andarci piano con l'avventura.
Aveva già avuto due brutte esperienze a fare di testa sua nel bosco. Tre, se si contava quella che stava passando. Non poteva permettersi di cercare Liz da sola – se anche fosse riuscita a scampare Biancanevi assassine e licantropi assatanati, non aveva né soldi né l'abbigliamento adatto per un trekking nella foresta, e peggio ancora non aveva una pista da seguire.
Era anche possibile che Elizabeth fosse tornata a New York. Che ne sapeva lei di come funzionavano quei passaggi nelle pareti e negli alberi? Come loro erano arrivate, Liz poteva essere tornata...ma ancora, non poteva saperlo. Magari era a New York, e magari da qualche altra parte. In balia di chissà chi.
Ho bisogno veramente di aiuto.
- Ti propongo uno scambio!- affermò con forza; le sembrò una mossa intelligente, dubitava che quello l'avrebbe aiutata per buon cuore.- Io ti aiuto a trovare la Pietra del Male, e tu mi dai una mano a cercare mia sorella.
- Come fai a sapere come trovare la Pietra del Male?
- Conosco la profezia.
- Anch'io. E la conosce metà della Foresta Incantata.
- Posso comunque aiutare.
- Ho chiesto forse il tuo aiuto?
Anya si gelò. Non si aspettava una risposta del genere. E aveva l'impressione che quel bastardo avesse capito che lei era in difficoltà, ma si stava divertendo a torturarla. Che pretendeva? Che si mettesse in ginocchio e implorasse?
Liz vale pure questo...
Il Primo Ministro sospirò, ma aveva l'aria divertita. Era sempre così: con la giusta abilità, non avevi più bisogno di dare la caccia alla tua preda; sarebbe stata la tua preda a venire da te.
- Le regole sono queste...
- Che cosa? Regole? Non sono un cane, non puoi pretendere che...
- Le regole sono queste - rimarcò l'uomo.- Quando troveremo la Pietra, sarò io a prenderla e a decidere come usarla. Nel frattempo, non m'intralciare. Stai al passo, parla solo se strettamente necessario e fai quello che ti dico io.
- E mia sorella?
- La cercheremo strada facendo. Tu intanto tieni gli occhi aperti, non si arriva alla Pietra del Male senza Chiavi.
- Come la cercheremo mentre...
- Un'altra parola e l'accordo salta.
Anya si zittì, sentendo le mani bruciarle.
Il Primo Ministro le fece cenno di seguirlo. Lei ubbidì, imbronciata. Non le importava niente della Pietra del Male, per quello che la riguardava quel figlio di buona donna se la sarebbe pure potuta ingoiare, non le interessava.
Continuò a seguirlo per qualche minuto, stanzo mezzo metro dietro di lui, quando il suo cervello elaborò una domanda a cui non aveva pensato prima: chi era quell'uomo?
Si trovava nel Regno delle Favole, quello doveva essere per forza il personaggio di qualche fiaba. Ma chi?
- Tu chi sei?- chiese.
- Ero un prigioniero della Regina Cattiva, sono scappato qualche giorno fa.
Anya s'imbronciò ancora di più. Non era quello che voleva sapere. Tentò un'altra via.
- Come ti chiami?
L'uomo le lanciò un'occhiata in tralice.
- Ha importanza?
- No, ma volevo un modo per chiamarti che non fosse stronzo senza nome.
Lui sospirò e accelerò il passo.
- Chiamami Vincent.
Vincent, ripeté mentalmente Anya, tentando di richiamare alla memoria tutto quel poco che sapeva su favole e fiabe. Era Elizabeth l'esperta di libri, non lei; e il nome Vincent non le diceva niente.
Il Primo Ministro, intanto, si congratulò con se stesso.
Ora siamo alla pari.
 
 
***
 
 
New York, 2015. Ore 10:00 a.m.
 
 
 
ERA RIUSCITO AD AFFITTARE UN appartamento ad Harlem, quattro isolati più in là rispetto a dove abitavano gli Hadleigh. Ovviamente s'era sempre premurato di non far arrivare la cosa alle orecchie di Anya, o quella rompicoglioni sarebbe stata capace di pensare di aver a che fare con un vero stalker.
Greg parcheggiò la moto un attimo prima che cominciasse a piovere. Il cielo si era notevolmente scurito, sembrava quasi notte, e nel tempo che il ragazzo impiegò a salire le scale e a raggiungere l'ultimo piano del condominio, era scoppiato un violento temporale.
Il monolocale che aveva affittato era stato ricavato rimettendo a nuovo una mansarda, per questo era a prezzo stracciato. Greg vi si trascinò dentro e si buttò sul materasso posato direttamente sul pavimento. Era una sola stanza, escluso il bagno, e c'erano pochi mobili: una TV anch'essa posata sul pavimento, un angolo cucina che non utilizzava mai e un frigorifero. Di fronte al letto, un grande specchio a muro lo guardava dormire.
Greg fissò la propria immagine per un attimo, poi recuperò il piatto di carne che aveva messo a scongelare prima di uscire: erano tre salsicce crude. Ne prese una con le mani e cominciò a masticarla mentre posava sul materasso il diario di Christine Hadleigh, lo specchio e il portagioie.
Aprì quest'ultimo.
L'aveva preso nella speranza di trovarci dentro qualcosa da rivendere, ma ne restò deluso.
Ne estrasse un portachiavi a forma di mela rossa, probabilmente un portafortuna. Il portagioie, per il resto, era pieno di pezzi di carta. Greg trovò diversi biglietti d'auguri per la nascita di Anya ed Elizabeth, e una fotografia ritraente una Christine Hadleigh adolescente in compagnia di un'altra ragazza, piuttosto bruttina, con i capelli biondi tagliati a caschetto e degli occhiali rotondi.
C'era una dedica scritta in pennarello nero.
 
 
Per la mia amica Mary,
brindiamo a noi e all'inizio
di una nuova vita!
 
 
Gran bella vita che hai avuto, proprio...
Certo, non che lui potesse vantare il contrario.
Greg allontanò quei pensieri pericolosi e continuò a frugare nel portagioie. Trovò un biglietto spiegazzato e rovinato, tanto che le parole scritte risultavano quasi illeggibili.
Il ragazzo riuscì comunque a decifrarle.
 
 
Finestra, ore 24
Rick
 
 
Greg non ci capì niente, e lo gettò via.
Un secondo biglietto, su cui le lettere erano scritte con una calligrafia femminile, Greg intuì fosse stato inviato a Christine dalla Mary Wilson del diario e – presumeva – della fotografia.
 
 
Perché tu possa sempre
specchiarti e vederti
bella!
 
 
Questo deve essere stato inviato con lo specchio...era un altro regalo, allora.
Un regalo ben poco apprezzato, visto com'era stato trattato.
Greg prese lo specchio. Rimase a fissare la propria immagine riflessa...poi, dall'altro specchio, provenne qualcosa che lo fece trasalire e sobbalzare sul materasso.
Una risata canzonatoria, acuta e beffarda, riempì lo squallido monolocale. Una voce cominciò a recitare una strana filastrocca.
- Chissà chi lo sa, il mio nome qual sarà. Lo so soltanto io, che Tremotino è il nome mio.
Greg s'irrigidì. Guardò se stesso nello specchio, certo che presto sarebbe apparso un altro volto.
E così fu.
- Ti sono mancato, Fiodor?
 
 
***
 
 
New York, 2015. Ore 11:30 a.m.
 
 
 
LA SIGNORA WOODMAN RABBRIVIDI', SPEGNENDO la televisione non appena il talk show mandò in onda un altro servizio sui bambini scomparsi. Non si faceva altro che parlare di loro, al telegiornale, alla radio, sui giornali...e ora c'era anche chi avanzava l'ipotesi che fossero caduti in mano a un'organizzazione criminale che trafficava in organi, o di un serial killer, per non parlare delle continue allusioni alla pedofilia.
La signora Woodman scosse il capo e tornò a concentrarsi sul pollo che stava tagliando per il pranzo di quella sera, costringendosi a non lasciarsi prendere dalle sue paranoie. Era sempre stata molto sensibile, sin da ragazza, e la maternità l'aveva resa ancora più incline alla commozione facile, oltre che iperprotettiva e, come suo marito sosteneva, eccessivamente apprensiva.
Non osava nemmeno pensare a cosa fosse potuto accadere a quei piccoli angeli: Sally Crane, Sarah Hammonds, Joey Mitchell e quelli che erano stati ribattezzati dalla cronaca e dal pubblico come i due fratellini di Little Italy, Katie e Toby MacPherson. Povere gioie.
E come se non bastasse, quella mattina stessa era avvenuta un'altra scomparsa: Jenny Marsh, di dieci anni.
L'immagine di una bambina con i capelli biondi annodati in una coda e il naso cosparso di lentiggini aveva già fatto il giro di tutti i programmi televisivi, e il giorno dopo sarebbe stata certamente sui cartoni del latte e sulle pagine del New York Times, insieme a tutte le altre.
A quanto pareva, la piccola Jenny era sparita nientemeno che negli spogliatoi della palestra che frequentava, dopo aver terminato una lezione di nuoto insieme ad altre bambine della sua età. Le quali avevano detto che Jenny si era allontanata un attimo dal gruppo per andare al suo armadietto a prendere un asciugamano. Non era uscita dallo spogliatoio, ne erano certe.
Eppure, dal momento in cui Jenny Marsh aveva svoltato l'angolo oltre le file degli armadietti, nessuno l'aveva più vista.
La signora Woodman s'impose di non pensarci. I bambini scomparsi erano già sei...e lei sperava solo che una cosa del genere non accadesse mai a suo figlio...
Un pianto interruppe il silenzio, facendola sobbalzare. La signora Woodman lasciò cadere il coltello sul pavimento per la sorpresa e lo spavento. Chiuse gli occhi, portandosi una mano al cuore e traendo un profondo respiro. Si diresse in fretta nella direzione da cui proveniva il pianto, rimproverandosi di avere i nervi a fior di pelle.
Entrò nella cameretta di suo figlio, solo per trovarlo in lacrime seduto al centro del suo lettino.
La signora Woodman si avvicinò alle sbarre, sorridendo rassicurante.
- Cosa c'è, amore della mamma? Perché piangi?
Suo figlio Thomas, Tommy, aveva dieci mesi, non era ancora in grado di camminare se non gattonando e non parlava, ma lei comunicava sempre con lui come se fosse un adulto, fatta eccezione per i continui versetti e coccole che gli riservava.
La signora Woodman aveva quarantatré anni, suo marito quarantacinque, e pur avendo da sempre desiderato un figlio, ormai disperavano di poterne avere uno, fino a che non era nato Tommy.
Il bambino continuava a piangere; la signora Woodman tentò invano di calmarlo, ma doveva esserci qualcosa che non andava, realizzò. Provò a tastargli la fronte con una mano, ma non pareva avesse la febbre. La donna prese a guardarsi freneticamente intorno alla ricerca del problema, e sorrise quando lo trovò.
- Ecco qui! Era per questo che piangevi? Perché ti era caduto “Bobo”?
Gli porse un orsacchiotto di peluche e, proprio come aveva previsto, il bambino smise subito di piangere, afferrando il pupazzetto con allegria e regalando alla madre un sorriso sdentato. La signora Woodman ricambiò con tenerezza: “Bobo” era in assoluto il giocattolo preferito di suo figlio; si trattava di un vecchio orsacchiotto che aveva perso buona parte della sua imbottitura, malandato e spelacchiato, e che aveva ormai solo uno dei due bottoni che fungevano da occhi. Ma Tommy lo adorava, e non se ne separava mai.
La signora Woodman posò un bacio sulla fronte del bambino.
- Ecco, è tutto a posto adesso. Vero, tesoro mio?
Tommmy non diede segno di averla udita. Fissava attentamente un punto di fronte a sé. La signora Woodman seguì il suo sguardo: suo figlio teneva gli occhi puntati sull'armadio a due ante di fronte al lettino.
- Cosa c'è, Tommy? Perché guardi l'armadio?
Il bambino non distolse lo sguardo. La signora Woodman fece spallucce e si rialzò.
- Ora la mamma torna di là a preparare la cena, poi torna da te e facciamo la pappa, d'accordo?
La donna si voltò, rivolgendo a suo figlio un ultimo sorriso prima di uscire e chiudere la porta. Tommy rimase solo nella camera. Non aveva smesso di guardare l'armadio e di stringere il braccio di “Bobo” in una mano.
Per diversi minuti non accadde nulla.
Poi, dall'armadio cominciò a provenire un debole scricchiolio, che si fece via via più forte.
Tommy emise un versetto senza senso, continuando a guardare il mobile. Lo scricchiolio cessò di colpo, e nella stanza tornò il silenzio.
Tommy...
Oltre le ante chiuse provenne un sussurro. Tommy si aggrappò alle sbarre del lettino per sostenersi, tirandosi in piedi sul materasso.
Tommy...Tommy...
Il bambino strinse “Bobo” fra le dita. Si udì di nuovo uno scricchiolio, e le ante dell'armadio si aprirono un poco. Oltre osse non si vedeva nulla, solo il buio.
Tommy...Ciao, Tommy...
Quella che lo stava chiamando era le voce di una bambina. Tommy iniziò a saltellare su e giù sul materasso, regegndosi alle sbarre del lettino.
Tommy...vieni a giocare con noi, Tommy...
Stavolte la voce era chiaramente quella di un bambino. Thomas Woodman ridacchiò allegramente, agitando “Bobo” su e giù con il braccio.
Vieni a giocare con noi, Tommy...siamo tanti bambini, qui...ti divertirai, Tommy...
Lo scricchiolio si ripeté, le ante dell'armadio si aprirono ancora di più. Dentro non c'erano bambini, ma dallo spiraglio si scorgeva solo oscurità.
Ci sono tanti giocattoli...Tommy...non avere paura, Tommy...è bello qui, Tommy...
Ora le voci erano più d'una; voci di bambine, di bambini, che si confondevano, si sovrapponevano l'una con l'altra, lo chiamavano. Tommy iniziò a ridere.
 
 
Uno due tre,
l'Uomo Nero viene per te.
 
 
La voce di una bambina, quella che aveva parlato per prima, iniziò a canticchiare. Tommy smise immediatamente di ridere e saltellare, tornando d'un tratto serio, lo sguardo puntato sull'armadio e “Bobo” stretto fra le manine.
Le ante si aprirono ancora di più.
 
 
A b c,
guarda alle tue spalle, lui è lì.
 
 
La filastrocca proseguì, e le ante si aprirono ancora.
Tommy...Tooooommyyyyy...
Le voci ora erano più confuse, strascicate. Non umane.
 
 
Sotto il letto, in cantina,
l'Uomo Nero si avvicina.
Fa paura la sua voce,
al tuo cuore stringi la croce.
Apri gli occhi, stai in allerta,
lui è sotto la coperta.
 
 
Le ante continuavano ad aprirsi.
Tommy...
Ora non c'era più traccia delle voci dei bambini, ma chi lo stava chiamando aveva una voce profonda, cavernosa, orribile.
Al bambino iniziarono a salire le lacrime agli occhi.
 
 
Resta sveglio, non dormire questa notte, attento, attento!
Lui è dietro l'angolo del tuo letto.
Attento, attento, non puoi scappare.
Attento, attento, lui sta per arrivare.
La mamma dice “Vai a letto, bel bambino!
Dormi tranquillo sul tuo cuscino!”
 
 
Tommy scoppiò a piangere. Le ante dell'armadio si spalancarono di colpo, lasciando che l'oscurità entrasse nella cameretta.
 
 
Bugia, bugia,
l'Uomo Nero ti porta via!
 
 
“Bobo” cadde abbandonato a terra.




Angolo Autrice: Non tutto il male viene per nuocere.
Il mio computer mi ha abbandonata dopo cinque anni di onorato servizio. Ora è in rianimazione, e nell'attesa e nella speranza di recuperare tutti - e dico TUTTI - i file scritti lì sopra, ho preso in prestito quello di mio fratello e mi sono concentrata su ciò che avevo in chiavetta: questo capitolo.
Ringrazio chi mi segue e Fan of the Doors per aver recensito.
Un grazie speciale va a Sylphs (lei sa perché) e a Phoebe Moon per l'entusiasmo e il supporto e per queste bellissime immagini.
Un aesthetic su Cappuccetto Rosso:




Due aesthetic su Anya e Liz:

 

    

E infine, la copertina della storia:



Vi lascio qui il link alla pagina EFP di Phoebe Moon https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=247417


Grazie per contiCinuare a seguirmi :). Ci vediamo al capitolo IX "The Boogieman".
Un bacio,
Beauty

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