Il Crepuscolo degli Idoli

di RLandH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La barzelletta olimpica (Arvey I) ***
Capitolo 2: *** Il martini alla mela è più buono con l'ambrosia(July I) ***
Capitolo 3: *** La modestia non è prerogativa della progenie di Apollo(Heather I) ***
Capitolo 4: *** Fare l’esule fa schifo, ma fare l’esule mezzosangue è peggio(Carte I) ***
Capitolo 5: *** Una battuta è sensazionale solo se ha un finale d'effetto(Bernie I) ***
Capitolo 6: *** Quando sei un mezzosangue anche una corsa per schiarirsi le idee può essere una cosa degna di fama(July II) ***
Capitolo 7: *** Il dietologo dei mostri consiglia: pesce affumicato, crudo di mezzosangue e acqua di palude(Arvey II + BONUS) ***
Capitolo 8: *** Il verde è il nuovo nero – specie se il nero è il colore della morte(Heather II) ***
Capitolo 9: *** Un Tizio una volta ... ma quella era un'altra storia ...(Carter II) ***
Capitolo 10: *** Un semi-avvelenamento (quasi)direttamente dall'Inferno(Bernie II) ***
Capitolo 11: *** A volte per lasciarsi meravigliare basta semplicemente cambiare prospettiva, letteralmente(July III + Bonus) ***
Capitolo 12: *** Le colpe di un padre non dovrebbero mai ricadere su un figlio, in particolare se il primo non è esattamente uno stinco di santo(Carter III) ***
Capitolo 13: *** Oh Zia Fama raccontaci una storia!(Bonus) ***
Capitolo 14: *** Lui, lei, l'altro … e mancava giusto la peste(Arvey III) ***
Capitolo 15: *** Quando si parla di arma a doppio taglio, non si parla di certo di un coltellino svizzero (Heather III + Bonus) ***
Capitolo 16: *** Quando bisogna progettare un viaggio: assicurati che la meta non sia un posto di morte e devastazione (Bellatrix I + Bonus) ***
Capitolo 17: *** I briosi mostri di Járnviðr e altre cose molto (poco) allegre (Grace I + Bonus) ***
Capitolo 18: *** Leonardo DiCaprio l’aveva fatta sembrare di gran lunga più complicata (July IV) ***
Capitolo 19: *** Dove gli dei sono banditi, i re cadono e gli eroi si imporporano le guance come fanciulle(Bernie III) ***
Capitolo 20: *** Oh no! Sei sulla casella “Torna allo Start”(Ethan I) ***
Capitolo 21: *** Io & La dea che ha deciso di vivere abusivamente nella mia testa(Thalia I/Jude I) ***
Capitolo 22: *** Bisogna cogliere gli inaspettati aiuti … anche quando vengono da millenarie spade malefiche(Champ I/Drew I) ***
Capitolo 23: *** Il commovente momento in cui un’immersione negli abissi si trasforma in un’immersione nei propri desideri … no, aspé, fa schifo.(Bellatrix II) ***
Capitolo 24: *** Il sole, la stella e la Dea che gestisce un circolo incontri(Heather IV) ***
Capitolo 25: *** Davanti ad una sorella non c’è vendetta che tenga, tranne se sei stata protagonista di una profezia di morte, chiaramente (Puma I) ***
Capitolo 26: *** Un bacio è un apostrofo rosa tra le parole: “Forse non hai notato che siamo in mezzo ad un campo di battaglia!” (Arvey IV) ***
Capitolo 27: *** Quando non sai che fare: getta un sasso nell’acqua … e spera rimanga lì(Jude II) ***
Capitolo 28: *** Anche dei semidei senza ne arte ne parte meritano le proprie profezie, il problema è capire dove sono finite (Bernie IV) ***
Capitolo 29: *** Tranquillo, una passeggiata nel mondo onirico rimedierà tutte le fratture nel rapporto tra un padre e un figlio. No, aspetta, non funziona così … (Carter IV) ***
Capitolo 30: *** A volte anche i semidei hanno una giornata ordinaria, nessuna ironia nel testo (tranne per l’intervento di Eris, il rito, l’Ippogrifo, la Corrispondenza divina, la Dea Misteriosa ed il Barman figo, ok ***
Capitolo 31: *** Questa cosa del parlare delle proprie emozioni e dei propri traumi potrebbe non essere una cattiva idea(Drew II) ***
Capitolo 32: *** Una mela al giorno toglie il medico di torno, ma non i problemi, anzi di quelli te né da molti (parola di Eva, Atalanta e Biancaneve)[Champ II] ***
Capitolo 33: *** Bells LaFayett contro una serie di scelte piuttosto questionabili (Bellatrix III) ***
Capitolo 34: *** Il nemico del mio nemico è il mio … riluttante alleato? Immagino di sì (Heather V) ***



Capitolo 1
*** La barzelletta olimpica (Arvey I) ***


Allora questa storia(che è la prima in questo fandom, il che mi sta facendo tremare le gambe), prima di essere letta deve essere presentata da un mucchio di premesse.
La prima (in assoluto): questa storia è stata pensata subito dopo l’uscita di THoH, quindi si, prendeva in considerazione sommariamente alcune cose avvenute in quel libro, perciò ignora totalmente BoO.
Il che non sarebbe importante alla fine, poiché questa storia si svolge nello stesso tempo del viaggio dei sette, se non fosse che uno dei personaggi (mitologici) di questa storia (non è tra i principali, ma tra i fondamentali) compare effettivamente in BoO; il mio personaggio è comunque molto diverso da come lo ha dipinto RR, anzi non sono rimasta molto entusiasta di come è utilizzato nei libri.
Quindi si, questa storia non fa spoiler di BoO in alcun modo, ma se qualcosa, nel futuro potesse tornarmi utile (come qualche mezzosangue random presentato nell’ultimo libro), potrei scegliere di utilizzarlo.
L’idea di scrivere questa storia, è stata ispirata da Haley Riordan ed il suo Alabaster C Torrigoton, quindi si, mi sono sentita in dovere di inserirlo in questa storia.
La storia è narrata da più punti di vista; di consuetudine, tutte le storie con diversi punti di vista, cominciano nella stessa zona, si sparpagliano e poi si ritrovano, questa non è così.
Ci sono molti – troppi – personaggi, ma sono davvero pochi – non abbastanza – importanti.
In ultimo c’è da dire che si questa storia essendo ispirata a quella di Haley Riordan, parla proprio di tutti(non proprio tutti) semidei che erano dal lato di Crono e che dopo la titanomachia si sono ritrovati “perduti”; si ecco questa storia nasce sullo stesso principio: “Cosa è successo a tutti gli altri?”, con l’aggiunta: “Ma davvero non hanno possibilità di riscatto?”, solo che ecco, mi sono chiesta poi: “Ma loro una seconda possibilità la vorrebbero? O sarebbero ancora interessati alla loro ideale età dell’oro?” Quindi si è nata questa storia per colpa di queste tre/quattro domande.
Forse è troppo ambizione per una prima storia in questo fandom, anche perché potrebbe divenire più lunga di quanto io stessa abbia pensato.
E si, per quanto paia fuori contesto, questo primo capitolo, si rivelerà avere senso, poi ... Non trattando in particolare di alcun mezzosangue.
Avvertimento: Non sarò regolare negli aggiornamenti, non lo sono mai. Non intendo mentire.
Buona Lettura
RLandH


























Il Crepuscolo degli Idoli









Arvey I








La Barzelletta Olimpica




















Pasticcino finì di mangiucchiare la carne attorno all’osso con un espressione disgustata in viso, “Il Puma non era di tuo gradimento?” gli chiese retorico un suo compagno accomodandosi al suo fianco sull’erba bagnata, “Certo, potremmo banchettare con carne celeste o mortale ed invece siamo qui a mangiare un gattino troppo cresciuto” aveva commentato stizzita la donna, prima di grugnire infastidita, “Oh no, la carne umana è divenuta così grassa negli ultimi duecento anni” aveva ribattuto il suo compagno con un tono stizzito. Pasticcino aveva deliberatamente ignorato i commenti di quello per rivolgere gli occhi al terzo, “Tu che ne pensi Arvey?” aveva domandato con tono rude, “Cibo è cibo” aveva risposto schietto lui. Le sopraciglia scure della donna si erano contratte, portando a raggrinzire la fronte, ma non aveva espresso per lui alcun segno di immane disgusto, anche se dai suoi occhi di pece, Arvey percepiva l’incredibile disprezzo che lei doveva provare per non averla sostenuta. “Su Zuccherino, abbiamo una missione da compiere” l’aveva presa in giro il secondo, sollevandosi dal suolo e raggiungendo Arvey posato sul tronco di un vecchio albero, “Chiami ancora così, Mikey, e ti spedirò nel tartaro a calci in faccia” aveva detto schietta la donna, abbandonato l’osso sul manto della foresta, assieme al resto delle ossa del puma, e raggiungendo i tre.

Pasticcino era alta sette piedi, aveva un fisico tonico, fasciato di muscoli definiti, una criniera di capelli di un nero lucido ed occhi pece, intrappolati in ciglia scure, aveva un naso adunco e grosse labbra carnose da cui svettavano denti giallastri, una carnagione olivastra ed un cipiglio di perenne furore, il corpo era fasciato con una giubba stretta di pelle, che scopriva le braccia, ricoperte da tatuaggi neri, dalle più colorite che richiamavano vecchie leggende dei popoli del mare e dell’Asia minore, se non per il grande cuore sul bicipite, Pasticcino ama ZJ. Per quelli della loro razza, la donna era considerata decisamente minuta. “Facci strada fratellino, sei tu che hai l’olfatto migliore” aveva detto stizzita quella, tirando un pugno in maniera poco gentile all’avambraccio di Mikey, che aveva incassato il colpo senza batter ciglio, esibendo soltanto un sorriso seghettato di rimando. Era vero Michael Sanguinaccio aveva il miglior olfatto tra quelli della loro tribù, era sempre stato il più abile a ritrovare i semidei, quando erano liberi e non avevano obbiettivi.

Arvey pensava fossero passati troppi anni da quando non dovevano rendere niente a nessuno, cosa che alcuni dei suoi compagni avevano condiviso con lui, così quando la madre dei Giganti e della Terra aveva chiesto ai Lestrigoni di inginocchiarsi al suo servizio e di aiutarla a rovesciare gli dei, in maniera non esattamente educata Pasticcino l’aveva invitata ad infilarsi la sua vendetta da qualche altra parte – più che a lei lo aveva detto alla dea della neve, Khione – e se n’era chiamata fuori. Mikey l’aveva seguita a ruota, da bravo fratello minore ed Arvey era andato con loro, anche perché quei due erano rimasti in fin dei conti tutto quello che rimaneva del suo clan e non aveva decisamente voglia di trovarne un altro.

“Direi di scendere in città” aveva proposto Sanguinaccio, prima di rivelare che effettivamente sentiva solamente il nefando odore di mortali, dovuto alla grande presenza della città vicina alla foresta, “Forse dalla città sarà più facile individuare qualche eventuale mezzosangue” aveva commentato con estremo ilarità, era tipico di Mikey non prendere mai troppo sul serio nulla, infondo c’era sua sorella a preoccuparsi di tutto e di tutti. “Male che va potremmo banchettare con carne umana” si era consolata, posando la testa sulla spalla del fratello, che gli aveva accarezzato i capelli con incredibile affetto. Mikey era la versione maschile di sua sorella, erano uguali in tutto e per tutto, se non per il fatto che lui la superasse di un piede e la brutta cicatrice che partiva dalla fronte ed attraversava il naso fino alla guancia, in obliquo ed ovviamente i capelli, il crine di Pasticcino arrivava al suo sedere, mentre le punte dei capelli di Mickey superavano appena le spalle. Differentemente da loro, Arvey preferiva portarli corti, non per un senso estetico o di ordine, era un Lestrigone, per l’Ade, ma era capitato che durante gli scontri, qualche mezzosangue si aggrappasse ai capelli in un ultimo disperato tentativo di ferirlo, prima di ritrovarsi il cranio spappolato dalla sua mazza da battaglia. Ironia della sorte a fargli il suo primo taglio era stato un mezzosangue sulla Principessa Andromeda, non sapeva il suo nome, nessuno in verità ne era a conoscenza, non parlava mai, in quattro anni di vita sulla nave non aveva mai aperto bocca, aveva occhi di brace fumante ed era armato di una daga di ferro nero dello stinge, aveva usato quello per recidere la criniera castana che per secoli aveva continuato a vegetare e crescere sulla testa del Lestrigone. Come molti dei mezzosangue fedeli ai Titani sopravvissuti alla battaglia di Manatthan, era scomparso, preferendosi alla macchia.
Gea non li voleva nella sua armata. Ed il pensiero di quel mezzosangue lo spinse a tranquillizzare la sua compagna :“Lo troviamo un mezzosangue, Pasticcino, tranquilla, gli dei sono sempre così prolifici”, quella aveva sorriso sghemba alla realtà della cosa.

La nebbia aveva ridimensionato agli occhi degli umani il loro aspetto bestiale ed la loro atipica altezza. Mickey era per alto duecentoquarantatre centimetri, decisamente troppo per un essere umano e lui era poco più basso. Con la foschia sembravano semplicemente colossi di un umana statura. “Joe direbbe che è come essere ad un buffè mangia finchè non scoppi” aveva commentato nostalgica Pasticcino, adocchiando qualche mortale che era sfilato al loro fianco del tutto privo di interesse, sfiorandosi con la mano calloso la parte del braccio dove svettava il nero del cuore. “Si, è esattamente una cosa che Zotico Joe avrebbe detto” aveva rimarcato Arvey, lanciando uno sguardo alla compagna. Pasticcino non era sempre stata Pasticcino, almeno non di nome, il carattere irascibile e selvaggio era sempre stato parte effettiva della sua indole, se non quando era con Zotico Joe.

Prima di lui, Pasticcino era stata semplicemente Candace Sanguinaccio, l’avevano conosciuta con le mani sporche di sangue semidivino mentre beveva il midollo da un femore spezzato, in compagnia di Michael. Erano gli anni settanta e come abitudine i lestrigoni cambiavano sempre i loro nomi per abinarli al tempo ed il luogo che li ospitava. Era stato Zotico Joe a ribattezzarla Pasticcino, perché era così che si riferiva a lei, la sua bella, la sua metà. Nessun altro però si permetteva di chiamarla in quel modo però, era una concessione solo del suo fidanzato; per lo meno fino alla morte del loro capo clan, per mano di un mezzosangue figlio dei tre, Percy Jackson, l’eroe, e da quel momento Candace si era ribattezzata definitivamente Pasticcino, per non dimenticare, e dopo la caduta di Crono, aveva stabilito che avrebbe cercato da se la sua pace, spolpando il petto del semidio che aveva ucciso la sua metà. Jackson l’aveva privata del suo cuore e lei avrebbe fatto lo stesso, letteralmente.
L’unico problema era il fatto che fosse ampiamente sconsigliato nominare i nomi Zotico Joe e del mezzosangue che l’aveva ucciso in presenza della Lestrigona, se non era lei a farlo. Pasticcino aveva guardato Arvey, prima di digrignare i denti, “Ogni notte sogno di assaporare il sangue di quel ragazzino” aveva detto sardonica, facendo sghignazzare suo fratello.


“Aspettate” li chiamò Mickey puntandosi in una direzione ed annusando bene l’aria, “Ucci Ucci Ucci sento odor di semideiucci” aveva commentato sornione, esibendo la dentatura seghettata con orgoglio, “Per il Tartaro, era ora” aveva detto sicura di se Pasticcino, piantando le mani sui fianchi asciutti, con un ostenta sicurezza di se, “Di là” aveva detto Mickey, indicando con il dito una traversa, cosa che sua sorella non si fece ripetere e da bravo Arvey si accodò ai due, con un espressione disinteressata. Non gli dispiaceva poter stuzzicare sotto i denti della tenera carne di semidio, ma non aveva così tanta fame, il puma lo aveva abbastanza sfamato e soprattutto per mangiare un mezzosangue dovevi prima farli fuori e certi davano davvero filo da torcere. Sperava che questo fosse una mezzacalzetta da uccidere facile come un mortale.

Più seguivano il percorso di Mickey, più il profumo del mezzosangue si definiva anche alle loro narici. Metteva l’acquolina in bocca, era greco, si percepiva dall’odore dolciastro che emanava, come quello dei fiori di campo, i mezzosangue romani odoravano sempre di sangue ferruginoso, poi la nota personale, era limone fresco. Era decisamente vicino, quando si accorse che non era una fragranza sconosciuta, “Ma questo …” aveva esordito, “Era uno dei mezzosangue della Principessa Andromeda” aveva mormorato famelica Pasticcino, passando la lingua rossa sulle labbra carnose, già pronta a leccarsi i baffi. Un altro odore si sovrappose a quello di fiori e limoni, un odore sgradevole come pochi, quello di sudiciume, Ciclopi. “Fantastico adoro i monocoli” aveva commentato con accidia Pasticcino, “Speriamo sia un tontolone del sud” aveva risposto Mickey, “Adoro fare conversazione sui cento metodi migliori per fare il formaggio” aveva aggiunto divertito, prima di ghignare. Arvey aveva evitato di fargli notare che loro neanche lo mangiavano quell’alimento, si sarebbe però volentieri mangiato una pecorella, aveva una carne davvero delicata. Alla fine avevano optato per cercare i ciclopi, era più probabile che trovassero prima la mezzosangue di loro, i Ciclopi avevano occhio per la caccia, rise alla sua stessa battuta, che non avevano espresso ad altavoce catturò gli sguardi straniti dei suoi compagni.
I tre lestrigoni scovarono con somma tristezza un solo Ciclope; era imponente, molto più alto di Mickey – dunque anche più elevato di Arvey – e forse anche più di quanto lo era stato Zotico Joe, aveva un viso squadrato, la pelle scura come la terra, cosparsa di barba ruvida, capelli scuri come la pece raccolti in una moltitudine di Dred che incorniciavano il viso scendendo fino a metà della schiena, aveva un naso schiacciato su cui svettava un grande occhio dall’iride nera come la roccia vulcanica, la cosa che contrastava di più era lindo bianco della sclera. Aveva un collo taurino, che collegava un imponente torace, con muscoli pompati sulle braccia, anche le cosce erano erculee , era ad occhi e croce decisamente più ingombrante e pericoloso di Arvey, ma probabilmente Mickey sarebbe riuscito a tenerli testa, non era alto quanto lui, ma aveva la stessa imponenza.
Il ciclope teneva le sue massicce braccia incrociate al petto, mentre con l’occhio strizzato gli studiava, il naso era storto, doveva aver riconosciuto l’odore dei Lestrigoni. “Volete la mezzosangue” aveva sputato fuori aggressivo, nell’occhio divampava il fuoco, “L’ho puntata prima io” aveva sibilato con sicurezza. Arvey imprecò, una femmina? Erano sempre così minute e poco nutrienti, rispetto i maschi. Mickey aveva ridacchiato sarcastico, come se davvero avesse lasciato perdere un buon pasto per accontentare un monocolo e così aveva retto lo sguardo. Il Ciclope aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma poi l’aveva richiusa, l’occhio si era assottigliato, come se li stesse studiando, “Ma voi tre …” aveva mormorato, prima che potesse finire la frase, Pasticcino si era intromessa: “Sei Linden, vero? Linden del Nord” aveva commentato Mickey con un sorriso scanzonato sul viso, “Eri membro dell’esercito dei Titani” aveva aggiunto abbastanza colpita. Era un iperboleo? L’arma di Arvey era stata costruita proprio da uno di questi. “Voi siete i fratelli Sanguinaccio” aveva mormorato Linden, fissando i due fratelli, prima di spostare anche l’occhio sul terzo membro: “ E tu sei Arvey Spacca Meningi. Mio fratello ha fabbricato la tua mazza” aveva ripreso, se possibile aveva strizzato l’occhio maggiormente, doveva essere un tick di quando pensava: “Eravate i lestrigoni sotto Zotico Joe” aveva commentato alla fine Linden; Arvey immaginò di vedere Pasticcino infrangere il pugno chiuso sul viso del ciclope, disintegrandoli il naso. Ma la Lestrigona si limitò a storcere le labbra, profondamente infastidita dal nome dell’amato, pronunciato con così tanta leggerezza, “Quindi che facciamo con la mezzosangue?” domandò alla fine Pasticino, tenendo le mani sulla vita in modalità sfida, “Per quattro è troppo” aveva considerato Mickey, “E già” aveva detto Linden.

Sarebbe stato più nel loro stile darsele di santa ragione fino a che qualcuno non fosse crepato. Si sarebbero potuto mangiare la carne a vicenda se non fosse stato che la carne dei lestrigoni era disgustosa e quella dei ciclopi immangiabili. Se non fosse stato che in uno scontro formale, Linden avrebbe potuto schiacciarlo come una pulce, eppure Arvey quel colpo lo sferrò lo stesso. Il Ciclope sembrò accorgersene solo quando l’immensa forza del lestrigone finì totalmente abbattuta nella sua massima potenza contro i sue denti storti. Linden era caduto a terra, finendo per creare una fossa sotto il suo abnorme peso.
Pasticcino aveva riso sguainatamente, ma suo fratello in un attimo di serietà aveva colto nella caduta del ciclope un’opportunità ed era fuggito dove il naso lo portava. La sorella lo seguì senza una minima obbiezione, cosa che anche Arvey alla fine si trovò costretto a fare, Linden si rese conto della loro fuga, quando riuscì a connettere cosa fosse successo, la sua bocca era impastata di sangue ed alcuni denti erano caduti. “Banchettiamo noi con il sangue divino” aveva esclamato estremamente divertito Mickey, mentre prendeva una curva, aveva travolto un mortale indaffarato fasciato in un completo elegante, ma sembrava non esserne preoccupato minimamente, ne dalle offese del l’uomo ne dal fatto che avrebbe potuto accorgersi di quanto poco umano fosse.

Mickey era finito a terra quando un grosso pugno fasciato ferro lucido si era schiantato sulla sua pancia, costringendolo a terra, buttando con se anche sua sorella che non era riuscita a fare un balzo indietro per scansarsi. Davanti a loro si stagliava la massiccia figura di un altro ciclope, solo che questo era un ragazzino, alto quanto Arvey, forse della stessa età, aveva un solo grande occhio azzurro e capelli di un castano sporco elettrizzati sulla testa, vestito con una vecchia e malmessa armatura sicula, Sheamus del Nord, un monocolo che aveva lavorato nella fucina della Principessa Andromeda, l’apprendista del ciclope che aveva costruito la mazza di Arvey. Pasticcino si era scrollato suo fratello di dosso, sollevandosi svelta da terra, “Ma tu sei il piccolo Sheam” aveva commentato a mezza-voce, “La mezzosangue è nostra” aveva detto con sicurezza in ciclope tirando su ancora una volta il pugno ferrato, mentre venivano raggiunti alle spalle da un ancora parzialmente frastornato Linden.
Pasticcino aveva sfoderato i denti come un animale selvatico, per nulla intenzionata a lasciare a due ciclopi un pasto che sperava di consumare da settimane.

Sheamus sollevò l’occhio al cielo, dove sopra le loro teste volteggiava un’altra creatura. Poi si era unita a loro, era una figura alta, dal fisico di donna, coperta di piume nere come quelle di un corvo, aveva zampe d’uccello con artigli neri, le braccia erano ali che terminavano con mani allungate rispetto quelle umane, anche queste con lunghe ed affilate unghia lunghe, il palmo, le dita e la parte visibile del dorso erano colore della polvere, il viso era appuntito e lungo, non aveva capelli, erano altre piume corvine, sorgevano dalla fronte ed in un incredibile moltitudine, arrivando fino alle scapole, oltre le zampe e le mani, il viso era l’unica zona di pelle scoperta, aveva una carnagione così pallida da sembrare quasi grigiastra, labbra sottili ed una bocca piccola, quasi a sembrare un taglio sul viso, un naso residuo da diverse tumefazioni e due azzurre iridi come schegge di ghiaccio, incastonate in due occhi lievemente a mandorla e sopraciglia arcuate corvine, un’arpia. “Oh tu non eri nell’esercito di Crono” aveva commentato Mickey sfoggiando il suo sorriso seghettato, “Lei non vi conosce, ma vi ha sentito. Lei, però, vuole la ragazza” aveva gracchiato l’arpia, la sua voce era stridule ed acuta, proprio come quella di un corvo, chiudendo i pugni sui fianchi.

Linden tenendosi le mani coriacee sulla bocca, insozzate ora del suo stesso sangue, li raggiunse, ponendosi alle loro spalle, l’occhio pece fissava dritto sulla nuca di Arvey, quasi a volerla perforare. “Vediamo un po’: Tre lestrigoni, due ciclopi ed un’arpia, non so voi ma sembra l’inizio di una barzelletta” aveva commentato alla fine Mickey, guadagnando una gomitata nel centro dell’addome da sua sorella, che non aveva mutato di un millimetro la sua espressione aggressiva. Arvey fece l’unica cosa che gli venne in mente, la stessa che avrebbe fatto Zotico Joe, il Lestrigone che l’aveva tirato su come un padre da che ne aveva memoria; afferrò la sua abnorme mazza da battaglia e la sferrò con forza contro l’arpia che spiccò il volo in tempo per evitarla, alla sprovvista però il tiro continuò fino a urtare il viso di Sheamus.

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Capitolo 2
*** Il martini alla mela è più buono con l'ambrosia(July I) ***



Il primo capitolo/prologo della storia, non ha avuto molto successo.
Dunque, avevo pensato di non continuarla, ma avevo capitoli a vegetare sul computer, siccome occupava spazio inutilmente, ho pensato di aggiornare lo stesso. In fin dei conti questo è il VERO PRIMO CAPITOLO
Pace e amore
RLandH

















Il Crepuscolo degli Idoli




July I




Il martini alla mela è più buono con l’ambrosia


Le vetrine dei negozi erano luminose e colorate e July non poteva davvero evitare di guardarle, non importava se aveva soldi appena sufficiente per mangiare, avrebbe volentieri speso tutto quello che aveva per un bel capotto soffice di magenta lucido, come quello che svettava davanti ai suoi occhi, sul manichino. Ai piedi spiccava in nero e bianco, una cifra molto alta che faceva venire i brividi. Lei aveva sempre avuto un buon gusto, anche da poveraccia come in quel momento, sembrava più che bene, con tante collane colorate al collo ed il vestito arancio con i pantaloni morbidi a vita alta di corallo. Vistoso, luminoso. Ma suo. Eppure la pelle si era seccata, le labbra screpolate, i capelli erano unti, lunghi, squamosi e triple punte sulla schiena, neri sulla cima e quasi ossigenati alla punta, ella stessa era disidrata, magra e segnata sul viso. Il ventre vuoto e la gola arsa.



Si allontanò dalla vetrina alla fine. Chiudendo il cappotto dei grandi magazzini che aveva rubato ad una svendita fino al collo. Il padre di July gestiva una casa di moda, l’aveva ereditata da sua madre, e da che ne aveva memoria, lei aveva sempre vestito bene, avuto un ottimo gusto per le mode, un passo avanti a tutto e certamente non aveva mai avuto problemi economici. Erano poche le persone che potevano permettersi caviale e patè per brunch. Aveva anche partecipato alle più svariate prime internazionali di film, si ricordava ancora la sua foto con Tristan McLean sul tappeto rosso, quell’uomo era incredibilmente affascinante, specie per avere quasi l’età di suo padre ed una figlia di poco più piccola di lei. Aveva anche cercato di farci amicizia, si chiamava Piper, invitandola alle più svariate feste, ma alla fine aveva ottenuto nulla, anzi alla fine si era addirittura fatta arrestare. July aveva sentito la notizia dai telegiornali, si era chiesta quanto le sue amiche ne avessero riso; la figlia di uno degli attori più pagati di Hollywood si fa arrestare per furto di una BMW? Si i giornali scandalistici ne avevano parlato per giorni, così come avevano parlato della sua prima fuga di casa. July però l’aveva capita Piper, anche lei aveva un padre troppo occupato per curarsi di lei ed aveva fatto davvero di tutto per farsi notare. La differenza tra le due era che Tristan McLean aveva evitato che sua figlia finisse in galera, suo padre non si era preso neanche la briga di cercarla quando era andata via di casa. Entrambe le volte.




Racimolò i vari centesimi che le erano rimasti dall’ultimo scippo che aveva fatto ed era andata a comprarsi un panino da Subway, così per essere sicura di non svenire nei prossimi tre giorni. Aveva deciso di mangiarlo su una panchina vicino alla stazione degli autobus, così per godersi la frenesia delle persone che andavano e venivano e la compagnia dei barboni, erano anche simpatici quando qualcuno cercava di metterle le mani addosso o prenderle la giacca. Il suo preferito era quello che parlava dei mostri, tutti dicevano che era un vecchio pazzo, ma July aveva capito che era un semplice mortale parecchio sfigato che sapeva vedere attraverso la nebbia.


“Mio fiore di loto, non è che puoi darmi un po’?” aveva domandato per l’appunto il vecchio Hobb, venendo da lei, era curvo, con una barba grigia e crespa sul mento ed occhi affaticati e stanchi, indossava un lungo impermeabile macchiato d’olio, capelli lunghi, ma la parte superiore era quasi del tutto rasata. “Tieni Hobb” aveva detto. Non era sua abitudine essere cortese, con gli altri, ma il vecchio le piaceva abbastanza, anche perché nessuno sembrava curarsi di lui, “Sei sempre così cara” aveva detto quello, con un sorriso che sembrava incredibilmente bello per essere fatto da una bocca sdentata con pochi denti gialli. “Ti ho mai raccontato di quella volta che ho visto un ragazzo penzolare da un maxischermo in mutande?” domandò il vecchio, mentre si ingozzava del panino, un sopraciglia si alzò meccanicamente, “Questa me l’ero persa” rivelò alla fine con un sorriso scanzonato in viso. “Si a New York City, quasi un anno fa” rivelò Hobb, richiamando alla sua memoria quell’avvenimento, “C’era una gran bella donna vestita d’oro che cantava in maniera divina a Madison Square” rivelò con un sorriso nostalgico , “ E di tutto punto vedo questo tizio in mutande blu che penzola” aveva rivelato, “Io l’ho sempre detto che ci sono cose molto strane a questo mondo” aveva detto.
July aveva ridacchiato, finendo il suo panino, probabilmente Hobb aveva visto qualcosa riguardo la foschia che non era stato in grado di spiegarsi. Magari era qualche missione suicida dell’olimpo ed un bel mezzosangue si era trovato appeso in mutande, conosceva chi avrebbe riso di quella cosa. Mary si sarebbe fatta delle grasse risate, come quella volta che un telecino aveva annodato la sua coda attorno alla caviglia di Carter e quello era finito dritto nella piscina svuotata dove riposava il Drakon, se Rodriguez non fosse corso a salvarlo i mostri della Principessa Andromeda si sarebbero goduti mezzosangue arrosto quella sera, Tammy avrebbe gradito.


Alla fine aveva lasciato Hobb ai suoi deliri di mortale. July viveva ai margini della società, lavorava di mattina alle pulizie in un night quando gli ultimi clienti andavano via e le ragazze staccavano, per il resto del giorno andava a zonzo, rubacchiando qualche portafoglio e vivendo di stenti. Ecco cosa le aveva da offrire la grande Los Angeles. Sembrava così strano che appena due anni prima viveva nei grandi attici di quella stessa città. Ma dopo Manatthan, si era sentita un estranea nella sua vita, suo padre l’aveva accolta, spaventata, coperta di polvere e sporca di sangue. L’aveva avvolta in un coperta e stretta in un abbraccio e non aveva davvero fatto domande. Dopo il bagno più lungo della sua vita in cui, neanche per un istante, July aveva smesso di piangere, aveva dormito per due giorni interi, poi aveva infilato quanto più possibile in una borsa e se n’era andata, come aveva fatto quando Mary e Chris si erano introdotti nel suo attico. Lui aveva forzato la porta, July si era così spaventata che aveva strisciato fino dietro il divano e si era rannicchiata lì sperando di non farsi scoprire, di non piangere ed anche troppo pavida per arrivare al telefono e chiedere aiuto. C’erano telecamere all’ingresso del palazzo ed una certa sicurezza, eppure nessun allarme era scattato. “Ciao Coniglietto” le aveva detto Mary, piazzandosi davanti, la prima cosa che aveva registrato erano state la scarpe da ginnastica nere con le borchie d’oro, “I soldi s-sono-o n-nella ca-assa-aforte-e” aveva quasi miagolato lei, serrando gli occhi, sentendo le lacrime premere sulle palpebre, Mary si era chinata sulle ginocchia per mettersi alla sua altezza, aveva un viso fresco, dalla pelle olivastra e capelli ondulati scuri, non aveva l’aspetto di un criminale o almeno questo era quello che pensava una July che aveva vissuto tutta la vita sugli allori, “Ma noi non cerchiamo soldi, coniglietto” aveva detto con una voce fresca, “Noi cerchiamo te” aveva detto divertita. Era stato l’inizio di tutto, anche dell’amicizia più sincera che July avesse mai avuto. Ma a distanza di tempo era tutto finito.





Non era troppo lontana dalla stazione quando lo vide, un ragazzo, poco più grande di lei, aveva una matassa ingarbugliata di capelli castano scuro, indossava una giacca blu di una qualche squadra di football, con il nome di quest’ultima ricamata sulla schiena ed dei pantaloni larghi di jeans chiaro, con una catena appesa. Era davanti un cofano aperto di una macchina che sembrava interrogarsi su cosa fosse successo. July si era avvicinato, aveva un viso mascolino, un accenno di barba sulle guance, un profilo greco ed era bello. Alto, con il torace ampio ed un accenno di muscoli che la giacca non riusciva a nascondere ed aveva dei begli occhi verdi, come il mare. “Che è successo?” aveva domandato, indicando il parabrezza aperto, lui aveva sollevato le sopraciglia arcuate, come se fosse stupito al fatto che una ragazza potesse aiutarlo in qualche modo. Ma July era brava a riparare, quando era sulla Principessa Andromeda aveva speso molto tempo tra le fucine con i ciclopi, in cui aveva mostrato una certa bravura, Mary aveva ipotizzato potesse essere figlia d’ Efesto. Peccato che un padre lei lo avesse. “Credo sia defunta” aveva detto alla fine il ragazzo stizzito, tirando un calcio al paraurti, arrabbiato nero. “Posso dare un’occhiata?” chiese, “Sei in grado di animare questa creatura infernale?” domandò abbastanza sconvolto il ragazzo. No, non lo era, ma per far zizzania a scuola si divertiva a sabotare le macchine. Non rispose al ragazzo, ma si piegò semplicemente per guardare quello che c’era dentro. Come detto in precedenza, non era gentile, ma lui era davvero attraente.




“Dovresti cambiare il solenoide(*)” aveva detto alla fine, dopo un leggero esame, indicando il filo attorcigliato, “Non sarà una bizzarria d’Apollo?” aveva detto il ragazzo schifato, “No, no. E’ un filo condut …” stava rispondendo July quando si era fermata di colpo, “Apollo?” aveva domandato confusa, il ragazzo s’era fatto livido in viso, “E’ solo … devo andare” disse quello, di fretta aprendo la portiera della macchina con non poche difficoltà, ne era sceso uno snello cane nero, da arcigni occhi vermigli, “Sirio, sali su questo affare” aveva ringhiato il padrone, ma il cane non ne voleva sapere ed aveva cominciato a sgranchirsi tutto, “Senza il solenoide non puoi fuggire” aveva spiegato July, avvicinandosi al ragazzo, “Diciamo che sono ben consapevole di cosa nasconde questo mondo” aveva detto cercando di tranquillizzarlo, quello aveva annuito quasi rincuorato, “Sono così corto di cervello a volte” aveva mormorato il ragazzo, “C’è un meccanico a due isolati” aveva risposto la ragazza, cercando di rincuorarlo, dandoli anche un buffetto sulla spalla. Quel ragazzo era davvero molto bello, ma seriamente, non era sua abitudine aiutare la gente, soprattutto i probabile mezzosangue che avrebbero potuto metterla in rischio mortale. July aveva chiuso. O almeno lo sperava. Così continuò per la sua strada, il ragazzo la inseguì comunque, “Volevo dirti grazie” aveva commentato quello con un sorriso splendente, aveva una fila di denti bianchi davvero splendidi, “Prego” aveva detto lei, prima di girare i tacchi e darsi alla fuga.





Aveva continuato a camminare per la strada, rimuginando se avesse dovuto o meno aiutare di più il ragazzo decisamente affascinante, quando una limousine rallentò proprio nella sua prossimità, ma la ragazza diede segno di non farci caso, non voleva fermarsi, era vero si pieno giorno, ma l’ultima macchina che le si era fermata le aveva chiesto quanto volesse ed era un esperienza che l’aveva abbastanza scossa. Aveva infilato le mani in tasca e tirato dritto, ma la limousine aveva continuato a muoversi alla sua stessa velocità. Alla fine July si era fermata ad aveva aspettato, la limousine aveva finito per fermarsi qualche metro più, osservandola la ragazza aveva notato che non era eccessivamente imponente e lussuosa, era completamente nera, ma i finestrini erano oscurati di verde acido, sulla targa posteriore c’era scritto qualcosa in quello che aveva pensato fosse greco antico, che il suo cervello aveva riorganizzato come Una Cosa Piccola All’Inizio. Arrivò alla macchina, dal posto di guida era sceso un piccolo uomo calvo con indosso l’uniforme da un’autista, aveva un bastone alla mano sinistra ed indossava una maschera di cera rossa che copriva gli occhi, troppo eccentrico per essere qualcosa di mortale. Aprì lo sportello posteriore, “Andiamo signorinella, non ho mica tutto il giorno” aveva detto quello frustrato, con un tono di biasimo nella voce, July era entrata nella macchina e si era accomodata su sedili di pelle bianchi, mentre alle sue spalle la portiera si serrava.




Dall’altro lato della limousine che sorseggiava un martini alla mela, c’era una donna, vestita di nero morbido, con disegni luminosi che punteggiavano di bianco e linee sottili di grigio scuro a definire una scacchiera, aveva orride scarpe a punta che sembravano pantofole ma con un tocco d’eccentrico avevano piume che si incurvavano verso il piede costellato da perle, aveva capelli così scuri da sembrare inchiostro colato, raccolto in lunghe trecce, una fascia d’onice e perle circondava il crine e la fronte bianca, bracciali d’oro nero come serpenti ai polsi ed un sorriso stirato sul viso. Aveva un volto appuntito, con un naso dritto e sporgente, priva di una qualche bellezza, tranne i grandi occhi castani, circondati da lunghe ciglia, un dettaglio insignificante, eppure che la fece sentire un calore nel petto. July somigliava a suo padre, ogni dettaglio, dalla pelle bronzata al sorriso di perla incastrato in labbra carnose, ogni cosa, ma non gli occhi, suo padre aveva freddi occhi piccoli di un verde intenso, ma lei aveva occhi nocciola, grandi e caldi, l’unica cosa che aveva ereditato da sua madre. Di lei July aveva ignorato tutto per gran parte della sua vita, fino a che Mary e Chris non erano venute a dirgli che probabilmente era una dea e questo aveva chiarito tutte le sue lacune. Dalla dislessia, l’iperattività e le strane cose che di tanto intatto le succedevano, senza dimenticare la mancanza totale di un genitore.




“Sei mia madre, vero?” domandò la ragazza con un filo di voce. La donna bevé un po’ del suo martini, “Servirebbe un po’ di Ambrosia o Nettare” aveva commentato con un filo di voce ignorandola, mentre la macchina si spostava. Dopo aver stropicciato le labbra, aveva cominciato a fissarla con insistenza, “Sei uguale a Lawrence” aveva detto secca, sorseggiando il suo drink, si, doveva essere sua madre, per forza. “Come ti ha chiamato?” aveva domandato con un tono curioso, “July” disse mortificata la ragazza, possibile che sua madre non si fosse interessata a lei neanche un po’ da sapere il suo nome. Quella strabuzzò gli occhi, “Che sdolcinato” aveva commentato acida, “Era il nome con cui mi sono presentata, all’incirca, Mavis July” aveva spiegato, “Era luglio ed onestamente non avevo voglia di un cognome migliore” aveva rivelato con un sorriso tirato, prima di allungare l’alcolico verso la ragazza, “Vuoi un po’?” aveva chiesto, ma quella aveva alzato le mani in segno di negazione. “Si, per rispondere a prima, sono tua madre, si” aveva risposto schietta, terminando l’ultimo sorso della sua bevanda e farlo svanire in un fumo viola.




July strinse le dita sulle gambe, quasi a strapparsi i pantaloni. “Per l’Ade quanto sei fragile ed io che ti credevo una tosta” aveva commentato la donna, “Mi pareva così dalle storie della battaglia di Manhattan” aveva ripreso la dea. July aveva gonfiato le guancia arrossate come mele mature, “Hai una gran bella faccia tosta” aveva sputato fuori lei, “Mi hai ignorato per tutta la vita!” aveva detto decisamente scaldata, con occhi di fiamma contro la donna, “E tu ti sei unita all’esercito di Crono” aveva risposto secca, “Nella speranza di vendicarmi” aveva commentato con rabbia July, quando aveva sentito il ragazzo con la cicatrice parlare di prendersi la loro agognata vendetta verso i genitori da cui erano sempre stati abbandonati ed ignorati, non aveva potuto evitare di sentire montare in se il desiderio di potersi vendicare. Sua madre sorrise in maniera sardonica, “Ma io ho combattuto con voi” aveva detto lasciva, “Certo Ares continua a tenermi il muso ancora adesso” aveva detto fra se e se, ma poi aveva scacciato il pensiero con tanto di gesto di mano, aveva limate unghia smaltate d’oro.



“Perché non me l’hai detto?” aveva domandato lei, “Così ti distoglievo. Che motivo avevi per odiare così tanto gli dei, se tua madre era bella a coccolarti” aveva detto acida la donna, “O peggio ti schieravi con gli dei per andare contro di me” aveva detto lagnosa, facendo comparire una lima e cominciando ad aggiustarsi le unghia tonde. “E quindi hai pensato di abbandonarmi era meglio?” domandò irascibile lei, “Tesoro, nasciamo, viviamo e moriamo soli. Non è mia abitudine aiutare i mortali, mai, neanche i miei figli. Neanche quelli divini, se per questo” aveva detto con un tono infastidito, continuando a limarsi le unghia. July rimase muta come un pesce a quelle parole, “Non sono mica Poseidone che è sempre lì a sostenere quel suo figlio con il cervello annacquato” aveva detto sgradevole, mordendosi un labbro, riferendosi a Percy Jackson, l’eroe, “Insomma quale ritardato animale marino rinuncerebbe all’essere Dio?” chiese retorica, alzando un arcuato sopraciglio scuro.
“Posso chiederti esattamente chi sei?” domandò alla fine, la donna sollevò lo sguardo, “Una domanda intelligente” commentò divertita, “Hai davvero bisogno di chiederlo?” aveva domandato con un sorriso sardonico, “Ti ricordi quando in quarta elementare hai scritto un messaggio a Jamie Young da parte della sua amica Lisbe in cui le riferivi che la terza del loro gruppo diceva cose cattive su di lei. Solo per portare discordie tra loro? O quando hai fatto credere alla tua matrigna che tuo padre avesse un amante?” aveva chiesto divertita la donna, July sorrise istintivamente, sua madre aveva fatto finta di non sapere il suo nome, o forse non lo sapeva davvero, ma conosceva fatti della sua vita, così vecchi da sembrare una vita fa, “Anche se la mia preferita e quando hai rubato una scarpa a tutti i mezzosangue sulla principessa Andromeda e le hai nascoste nella stanza di un ciclope” aveva ripreso la dea, “Comprese le tue, tranne quelle di Luke Castellan e Jack Evandor” aveva ripreso la donna.
Anche July aveva annuito, lo ricordava bene, aveva evitato il primo per non coinvolgerlo, tutti temevano Luke, ma il secondo era il suo capro espiatorio, non sapeva perché ma era stato a pelle l’odio verso il ragazzo e per tutto il tempo della permanenza sulla nave da Crociera si erano dati battaglia, l’unico con ancora le scarpe, era stato ovvio che dessero a lui la colpa. Evandor l’aveva capito che era stata lei, non aveva detto nulla, ma durante un allentamento le aveva rotto un braccio di proposito, se possibile July l’aveva odiato di più. L’aveva odiato ogni giorno. Per tre anni. Eppure la notte prima della battaglia di Manatthan ci aveva fatto l’amore e si era chiesta quanto in realtà l’avesse amato, forse, Jack l’aveva detto ti amo una volta. Una sola. La sua testa era sulle ginocchia, una mano di July era sul suo petto, dove lui la teneva con la sua, l’altra era sul suo viso, l’ultima libera di Jack tenedeva a lei, al suo viso. Avrebbe dovuto chinarsi, baciarlo, dirgli anche io. Con l’inferno della battaglia che dipanava in ogni dove, July era stata in silenzio, aggrappandosi alla sua ultima immagine e alle sue ultime parole ed aveva pianto. Qualcuno l’aveva tirata via per i capelli, affinché si staccasse dal corpo, in tempo per evitare che una freccia la colpisse nella giugulare.



“E poi c’è da chiedersi perché non aiuto mai i miei figli” si lamentò la dea, schioccando le dita per risvegliare July dai suoi pensieri, “Scusa” disse pentita la ragazza, scacciando l’immagine di quel ragazzo dalla sua vita, ignorando il rosso che immaginava sulle sue dita, “Hai capito chi sono?” aveva domandato maliziosa, la donna, “Una che ama il caos ed i conflitti” aveva detto lei intelligentemente, “Akribes(**)” aveva riso quella, “Ecco a te la meravigliosa signora del Dolore, la dea della discordia, Eris” si era decantata con gloria la donna, quasi fosse una poetessa. Bene, July era la figlia del conflitto ed onestamente non se ne stupiva, era esattamente la madre adatta e la compagna ideale di suo padre, immaginava nel tempo speso assieme quanto dovevano essersi divertiti a creare problemi alla gente. “Ti sei avvicinata a mio padre per il cognome?” domandò poi, dopo un pensiero buffo, “No. Però ho influito” aveva scherzato la dea, “Lawrence Goldenapple” aveva detto con divertimento.



Eris aveva allungato la lima a sua figlia, “Prendila” le disse schietta, “Non è mia abitudine aiutare, ma quando lo faccio tendo a farlo bene” aveva spiegato con un sorriso sghembo. July prese la lima con un movimento cauto, “Sei il terzo figlio che aiuto in tutta la mia vita” aveva tenuto a precisare, “Solo te, Griet e Walter” aveva detto secca lei, “A lei ho dato un orecchino, a lui un pennello” aveva spiegato, “E a me la lima?” domandò la ragazza osservando l’oggetto. Eris mosse le spalle, “Prendi anche questo” aveva detto allungandoli quella che sembrava una bottiglietta di vetro, era colorata di nero e come etichetta aveva un adesivo che lo percorreva intorno di color giallo pergamena con svariate figure nere. “Sai perché ti aiuto?” aveva domandato Eris con un sorriso amichevole, July aveva taciuto, “Perché lasciata a te sei una cosa insignificante ma stimolata …” aveva detto lasciando in sospeso la frase, mentre la vettura sembrava arrestarsi, “Ed io lo sto facendo, nella speranza di vederti compiere grandi falcate e con la testa toccare i cieli” aveva confidato la dea. “Ma che devo fare?” aveva domandato July confusa, stringendo la bottiglia al petto, “Non abusare della mia generosità” l’aveva punzecchiata la donna, mentre la portiera accanto a lei si era aperta, “Devo capirlo da me, eh?” aveva chiesto retorica la semidea, “Nasci, vivi e muori da sola, lo sai” le aveva risposto Eris e la ragazza era uscita dalla macchina.


L’uomo calvo l’aspettava fuori dalla portiera, “Se vuole un consiglio spassionato, cerca il ragazzo con il sonno più profondo” aveva risposto l’uomo, chiudendo lo sportello e tornando al posto del guidatore, la macchina era partita e poi si era persa in una nuvola viola. July era rimasta sul marciapiede con una lima ed una bottiglietta sospetta in mano. Quando si guardò intorno si accorse che non era a Los Angeles. “Ed ora dove sono per la gloria di Crono?” imprecò pestando i piedi per terra presa dall’irritazione. Sua madre l’aveva portata chi sa dove, le aveva detto che andava stimolata e le aveva dato una lima e una bevanda, non aveva nulla se non i dieci dollari rubati la mattina ed un inutile consiglio di un’autista ridicolo. Si sua madre doveva adorare il caos, quasi preferiva ritornare a quando la ignorava apertamente. “Vi odio tutti!” gridò, digrignando i denti, battendo i piedi ancora, non sapeva neanche chi diavolo stava odiando, provava solo una grande rabbia e si forse sua madre aveva ragione, si sentiva più imponente. E poi … si sedé sul marciapiede e incastrò la testa tra le gambe e sperò di tramutarsi in pietra e scomparire, anzi che Zeus la fulminasse, seduta istante, in lontananza le parve di sentire un tuono, ti pareva che doveva essere la volta buona che qualcuno ascoltasse i suoi lamenti?




“Signorina, sta bene?” domandò un ragazzo inginocchiandosi al suo fianco e posando una mano sulla sua spalla, July mosse appena lo sguardo e vide che per aiutarla aveva posato la sua spesa per terra, una mela verde così chiara da sembrare gialla rotolò tra i suoi piedi, era piccola da entrare in un pugno, proprio come aveva sempre immaginato dovesse essere il pomo della discordia, mancava solo la fogliolina in cima. Lo raccolse, ignorando il ragazzo e ne sorrise, “Si, si” gli disse, volgendosi per dargli la mela, ma quando incrociò un viso lentigginoso e due occhi verdi con borse marcate e capelli castani che ne scivolavano sopra, ed un espressione confusa. “Goldenapple?” chiese quello, “Torrigton(***)” sospirò lei. Il pomo scivolò via dalle sue dita, finendo per ruzzolare per terra ed ammaccarsi un po’.














































(*)Citazione da La Guerra Dei Mondi, all’incirca. Diciamo che è anche l’unico componente delle macchine che conosco, oltre il motore.
(**) Mi pare voglia dire: Esatto oppure Certo, in greco.
(***) Personaggio appartenente ad H. Riordan ed anche principale ispiratore di questa storia.

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Capitolo 3
*** La modestia non è prerogativa della progenie di Apollo(Heather I) ***


Come sempre ricordo il totale no-sense di questa storia, con i POV posti in maniera atipica. Oltre questo, ho qualche nota su questo capitolo. Rispetto gli altri scritti fin ora (escluso il prologo[?]) – di cui voi pur troppo avete letto solo uno – è più breve, poiché il capitolo è stato spezzato. Intero sarebbe dovuto essere postato più in là, ma spezzato ho potuto inserirlo qui.

Non sono soddisfatta di come è scritto, ma dopo averlo risistemato tre volte, mi sono arresa che non mi avrebbe mai convinto, oltre questo è probabilmente tra i capitoli già scritti, il più importante, dal punto di vista narrativo.

 Finito di cianciare, vorrei ringraziare AliNicoKITE per aver recensito (Grazie di cuore), anche chi ha messo la storia tra le seguite e chi ovviamente ha letto.

Buona Lettura

RLandH








 

Il Crepuscolo degli idoli

 

La modestia non è prerogativa della progenie di Apollo
 

 

Heather I






Heather aveva quel nome per il fiore d’erica, erano arbusti spontanei sempre verdi. Sua madre diceva che l’aveva concepita, vicino quei fiori. Tanto tempo prima. Era una delle pochissime informazioni che aveva ricevuto su suo padre, prima di scoprire fosse un dio dell’Olimpo. Heather ancora ricordava quando era arrivata al Campo Mezzosangue per la prima volta, seguendo Qbert, un satiro sovrappeso con un incredibile amore per le lattine di coca cola senza zucchero. Delle tre settimane passate nella casa di Hermes a difendere con pugni e con i denti il suo spazio vitale. A Darren, che dormiva nel sacco a pelo affianco al suo, con quell’espressione beata ed i capelli sempre spettinati. A quando era stato riconosciuta, sulla cui stessa testa era fluttuato il simbolo di febo Apollo. E quando aveva conosciuto suo padre per la prima volta, durante un solstizio d’inverno, era salita sull’Olimpo ad una festa, dopo che Thalia Grace era stata confessata cacciatrice di Artemide. 
 
Era stata tutta tirata, seria e composta, ricordava il nervosismo che aveva avuto, la nausea alla bocca dello stomaco, aveva indossato un vestito lungo fino alle ginocchia, di un nero sbiadito, da farla sembrare un acciuga, era stata  accanto a Darren, che cercava di invogliarla a ballare, con scarsi risultati. Non era per qualcosa, adorava la musica ed avrebbe davvero voluto danzare con quel figlio di Demetra, era così carino, ma c’era così tanta gente lì, così tanti dei. Poteva esserci anche suo padre, non che lei avesse minima idea di che aspetto avesse. I suoi fratelli maggiori l’avevano descritto in più che svariati modi, “Vuoi ballare?” aveva ritentato ancora una volta Darren, passando una mano tra i capelli scuri, prima di allungarla verso di lei. Heather era stata sul punto di cedere, afferrare quella mano e tirarsi nella mischia. Ma alla fine,  un ragazzo aveva proteso un piccolissimo rametto  con foglie verdi acuminate e strette, con batuffoli rosa chiari, “Erica” aveva mormorato, risalita la mano aveva incontrato un ragazzo meraviglioso, dal viso bronzato ed i capelli d’oro fuso, come raggi del sole. Era rimasta un attimo folgorata, Darren aveva sbuffato infastidito, prima di accorgersi della luminescenza del ragazzo. “A-Apollo?” balbettò Heather con un soffio, cogliendo l’erica dalla mano del dio, “Somigli molto a tua madre, Heat” aveva detto giovanile quello. Lei aveva sorriso come una scema, era lo stesso nomignolo con cui la chiamava sua madre ed aveva aspettato così tanto di sentirsi chiamare così anche da sua padre, che quasi le sciolse il cuore. Certo era, ademente(*), strano, avere un padre che sembrava diciottenne, quando lei aveva a malapena tredici anni. Ma era stato incredibile lo stesso. Aveva poi ballato quella sera con Darren, con il ramo d’erica tra i capelli. A distanza di anni non si era ancora seccato, Heather lo portava sempre nella tasca.
 
“Hai finito con la lattina?” aveva domandato Qbert allungando l’occhio alla latina di coca cola senza zucchero, che stagionava accanto a dell’insalata abbandonata a se stessa e rifiutata, in favore di un solo gigantesco hamburger con aglio e cipolle. Heather guardò critica la lattina, la spiò minuziosamente, la soppesò con le dita e quando ritenne d’aver fatto sudare a freddo l’amico abbastanza, annui. Qbert la prese e la nascose nel suo enorme zaino d’avventuriero con spille colorate e della pace ad ornarlo. Assieme ad un’altra ventina, che avrebbe mangiato quando fosse stato sicuro che nessun mortale li guardasse. Qbert era paranoico, non credeva a pieno nella nebbia, non credeva a pieno se non si se stesso. Però ad Heather piaceva, anche perché lui era stata a trovarla tanto tempo prima. Certo allora Qbert era un satiro sovrappeso, con la passione per la nudità e le guanciotte rosse, che era arrivato fino al campo mezzosangue per unirsi al tiasio di Dionisio. Sfortunatamente per lui, non aveva trovato un simpatico dio ebro e voluttuoso, si era ritrovato un sarcastico, irritato e sobrio Dionisio. E così Qbert aveva cominciato il suo lento cambiamento. Dal perdere i chili, a coprirsi ossessivamente, per assicurarsi che nessun mortale si accorgesse di lui, girovagare con le stampelle ed un berretto o una bandana sulla testa. Aveva ancora le guance rosse, incastrate nei serpentini ricci castani, che scendevano alle spalle, si era sciupato nel corpo e secondo un sacco di ninfe al campo Qbert era un satiro molto carino, con molte O. Come diceva sempre Mirtle, agghindando i capelli viola scuro per apparire abbagliante. Il satiro non ne era consapevole ovviamente, ancora segnava qualche menade sconcia, per accorgersi di una certa pianta di mirtillo che sbatteva gli occhi lillà ogni volta che passava.
 
Qbert era stato incaricato da Chirone di cercare qualcuno o qualcosa, non erano stati molto chiari. Il direttore non poteva perdere molti elementi dietro a questa caccia al tesoro, non con Gea pronta a risvegliarsi ed i Romani pronti a dargli battaglia. Però Heather non se l’era sentita di lasciarlo da solo. Voleva bene a quel satiro, era stato lui a portarla al campo infondo. Darren era stato contrario, perché non aveva affatto voglia di separarsi da lei. Sarebbe voluto venire anche lui infondo, ma Miranda lo aveva convinto a restare, avevano bisogno di quanti più aiuti. Per convincere Will, c’era voluta Rachel.
 
“Non vorrei metterti in agitazione, ma Lei è appena entrata” aveva detto Qbert, con un tono asettico. Heather non si era voltata,  ma vedeva benissimo nella sua mente come doveva essere, era certa di vederla spiare con quegli occhi inquietanti ed un po’ folli, l’intero locale per cercarli, il riccio crine sangue, scomposto, ed il leggero giubbino rosso fuoco, con i bottoni d’onice stretti dal collo all’inguine. Da quando avevano lasciato il capo, che Lei li seguiva; avevano pensato fosse casuale all’inizio, ma poi si erano ricordati di essere mezzosangue e che il caso non esisteva. Qbert si grattò il pizzetto da capretta nero con fare pensoso, cercando di immaginare che fare. Lei allungò una mano fino alla sua borsa, dove c’era la spada di bronzo-celeste,ben nascosta sotto le sembianze di un lucidalabbra alla frutta. Combattiamo, avrebbe voluto urlare Heather, ma non lo disse. Voltò lentamente la testa verso di lei. Gli stava fissando, con gli occhi di brace, neri come il fumo di un comignolo, pulsanti del rosso vivo della rabbia. E sorrise. Sembrava un taglio sul viso, l’indecente recisione della nuda pelle, un taglio orizzontale che apriva il viso in maniera perversa. “Quella vuole ucciderci” commentò Heather. La preveggenza era un’arte concessa davvero a pochi, qualche figlio di Apollo l’aveva, non nella maniera di Rachel Elizabeth Dare certamente, ma riusciva a vedere qualcosa,  Heather non era tra questi ovviamente, come tutti i suoi fratellastri era in grado di percepire qualcosa, il futuro ne si faceva vedere chiaro ne come un incognita, era una lavagna nera, era come andare ad un interrogazione, non aver studiato, ma vedere il ragazzo in terza fila annuire, per rassicurati che avrebbe suggerito. Un po’ come quello, non un suggerimento, la sensazione di un suggerimento. Nel vederla, Heat sentiva la pelle accapponarsi, come se fosse trafitta da mille spilli infuocati.
 
La donna fece qualche passo verso di loro. Era giovane, più di quanto Heather avesse pensato, ma più vecchia di lei. Aveva un viso preciso, grazioso, ma severo, crudele e spinoso, concorde con gli occhi animanti da furore cieco. Heather sguainò la spada. Il resto del locale, continuò a mangiare i propri panini con disinvoltura. La donna continuò a sorridere, poi strinse il pugno sulla spada, così forte che Heather aveva pensato se la sarebbe affettata, tanto bianche erano divenute le nocche, però non venne fuori neanche un rivolo di sangue. Passò la lama poi, come se lei fosse stata un fantasma. “Adoro il bronzo celeste” commentò spudoratamente, prima di ridacchiare immensamente divertita, un ghigno malefico sul viso. “Hai miei tempi si possedevano armi di ferro mortale e bronzo celeste, sai” aveva commentato con un tono accidioso, leccandosi le labbra dipinte do rosso pallido. “Per l’Ade, abbiamo un bel problema” aveva commentato Qbert, la donna aveva chinato il capo da un lato, allontanando la mano, prima di estrarre lentamente  dalla tasca della giacca rossa quello che aveva tutta l’aria di essere un lungo stilo.  Heat riuscì ad intercettarlo con la sua spada, che fortunatamente non feriva i mortali, ma non aveva problemi con le armi mortali. Qbert aveva urlato, liberando il Panico che il dio Pan aveva distribuito ai satiri prima di dissolversi, afferrò per una mano Heather, trascinandola fuori dal locale, mentre la mortale che vedeva s’era accartocciata su se stessa, lasciando il pugnale per terra.
 
“Cosa, per l’Ade, era lei?” aveva urlato Heat quando era riuscita a prendere fiato, con gli occhi spalancati per il nervosismo, “Una mortale su di giri che vedeva attraverso la nebbia” aveva commentato sterile Qbert come se fosse abituato ad affrontare quel genere di cose tutti i giorni. “Senti! Puoi infilzare anche un minotauro, ma non un umana?” si era lagnata Heather, guardando la sua spada con un senso di vuoto, che senso aveva un’arma che non era in grado di ferire il suo avversario, Qbert si astenne dal commentare quando dovesse sembrare patetica nel parlare con una spada. “E’ perché ci ha aggredito?” aveva domandato poi Heather,  prima di ricomporsi. Dovevano andarsene alla svelta, davvero, prima che la donna si riprendesse, “Non importa” quasi belò il satiro, “Dobbiamo andare. Abbiamo una missione” disse alla svelta quello, tirandola per la manica della maglia. Heather annui.
 
L’amico la strattonò pesantemente, il pugnale schizzò così vicino da rischiare di squarciarle una guancia e finì a pochi metri da lei. “Quello del Panico è stata un’interessante dolo” aveva mormorato la rossa con un tono sottile, “Davvero, mi avete sorpresa” non mentiva, il suo tono mostrava davvero di esser sorpresa. Un sorriso maniacale ornava le labbra rosee. Non sembrava preoccupa dal fatto che fosse disarmata davanti una mezzosangue ed un satiro armato di Panico. Era in piedi, davanti loro con le mani nelle tasche della giacca. “Non abbastanza si direbbe” aveva mormorato Qbert, assottigliando lo sguardo, la donna non aveva fatto una piega, se non per annuire, prima di rispondere: “Ho avuto modo di vedere altre mirabolanti doli, per fuggire da voi due”, si era infilata una ciocca di capelli rossi vermigli dietro l’orecchio. Per un attimo sembrò l’innocenza fatta persona, ma poi la scanzonata malizia tornò ad impregnarla. Qbert fu svelto a recuperare la fionda e sparare un sassolino contro la fronte della donna, i satiri erano pacifisti, fortunatamente il suo amico no. La donna inclinò la testa quel tanto da evitare la pietra, “Io so ogni cosa, giovane satiro” aveva spiegato con un sorriso all’apparenza amichevole, “Tutto ciò che deve avvenire. Io la conosco” aveva ripreso con mera tranquillità. “Dimmi giovane Heather” aveva commentato, fissandola con gli occhi di brace, “Vorresti sapere qualcosa sul tuo futuro?” aveva domandato divertita in maniera quasi oscena, “Forse, sulla tua dipartita?” aveva inquisito, “Gioca pure con la pestilenza/Regina della fraudolenza/ il tuo destino è segnato/ il male acquattato/ verdi i suoi occhi/Letali i suoi stocchi/L’averno due volte visiterai/ma la seconda volta resterai” aveva detto. La sua voce era profonda, scura, antica. Come Rachel quando era posseduta dallo spirito dell’oracolo. Solo che non c’era fumo verde a contornarla, solo rosso di sangue. Heather si sentì quasi svenire; la donna aveva pronunciato la sua morte. Le venne da vomitare, le gambe tremarono.
 “Mi interessa: solo quanto in fretta prenderemo a calci il tuo didietro mortale” aveva risposto per lei Qbert,  riprendendosi dalla profezia, “Puoi dirmelo?” aveva bisbigliato retorico, prima di afferrare delle biglie d’onice e caricarle nella fionda. Quando lanciò, gli occhi della donna si spalancarono, lei sapeva, lei vedeva, ma aveva paura, il rosso pulsante nelle iridi s’era spento come la cenere,“Fuoco greco” aveva mormorato la donna, poi l’ambiente si era tinto di rosso ed arancio vivo, l’aria s’era fatta  irrespirabile, rifugio di polveri caustiche; tanto da bruciare la gola ed i polmoni. Lei si era allontanata per evitare di bruciare. “Non avremmo altre occasione per filarcela, Heat” le disse il satiro, prendendola per una mano e scuotendola, per risvegliarla da quella condizione in cui l’aveva imposta la profezia sulla sua morte.  Erano fuggiti tossicchiando, con i polmoni pieni del fumo nero. Qbert teneva a portata di mano altre biglie piene di fuoco greco. Quando riuscì a svegliarsi dal suo torpore, realizzò che se erano riusciti ad allontanarsi da quella pazza, era stato unicamente merito del satiro e non riuscì a sentirsi grata abbastanza che il suo amico fosse un aspirante tiasico anziché  un cercatore qualsiasi.  “Sei sprecato alla coltivazione di fragole” mormorò la figlia di Apollo, abbozzando un sorriso, “Non mi dire” rispose il satiro sarcastico, mentre saltellava via frettoloso. Il resto di quello che sentì, fu il più grande dolore al mondo. Dalla schiena al ventre, d’una forza ingestibile, scavata, trapassata, violata. L’aria nei suoi polmoni si fece di sangue e le forze vennero a mancare. Cadde sulle ginocchia, abbassò appena gli occhi, dal suo ventre spuntava la punta di una lancia, il suo sangue colava dalla ferita, “Oh Ade” imprecò con voce strozzata, piantò le mani sul ventre, cercando di ricordare dalla sua mente una vecchia filastrocca greca con cui curarsi. Poi il dolore ebbe la meglio sui suoi nervi. L’ultima cosa che vide, fu il viso affranto e preoccupato di Qbert che si chiudeva su di lei.
 
 
 
Il sibilo di un serpente, quando Heat schiuse un occhio, un serpente le stava strisciando ad un centimetro dal naso. L’urlo, oltre che indietreggiare di tanto, da sentir il vento sulla nuca ed il calore sotto la schiena. Volse il capo, per vedere il nulla sotto di lei, stava volando. “Heather calma” urlò Qbert, afferrandola per le mani e tirandola vicino a lui. Solo allora, la figlia di Apollo sembrò respirare e calmarsi  per realizzare che lei ed il satiro erano su quella che poteva essere considerata una macchina, incendiata da fiamme che non bruciavano, senza tettuccio, che volava, ed oltre il serpente, c’era un tizio seduto sul posto del guidatore, Heather vide i suoi occhi. Erano un castano amichevole. Tremava tutta, per l’intero non-sense della situazione, un attimo prima fuggiva da un fastfood e veniva trapassata da parte a parte con una lanciata ed ora era su una decapottabile in fiamme volante. Le venne da vomitare. La lancia, la nausea. La ferità. Ma non provava dolore?
 
Heather abbassò lo sguardo al ventre, con occhi serrati, gli schiuse lentamente, timorosa di scoprire perché non vi fosse dolore, ma ciò che trovò la disorientò più della mancanza di sofferenza, quanto la illuminò su questa condizione. Non c’era niente, solo uno squarcio sulla maglietta arancione del campo con qualche macchia di sangue, la pelle rosea attorno all’ombelico era integra, null’altro, “Per l’Ade” aveva esclamato, con un sorriso che l’era sorto sul viso, premendo le dita, doveva aveva visto la lancia, “Cosa è successo?” aveva domandato, alzando lo sguardo verso il satiro, “Ci ha salvato” aveva detto Qbert indicando il guidatore, il serpente era strusciato al suo fianco, fino ad arrotolarsi sulle sue gambe, lasciando la ragazza interdetta, “Regina è una coccolona” lo aveva rassicurato il guidatore, la sua voce era gentile. Il serpente aveva sibilato. Era lucido, di scaglie verdi e nere, con occhi grandi e gialli, sembrò muovere la testa, soddisfatta del complimento, prima di sistemarsi di nuovo tra le sue gambe.  “Oh bene” aveva detto Heather, indecisa se dovesse o meno toccare il capo dell’animale, “Grazie” commentò alla fine, rivolta al guidatore.
 
 
 
Arrestò in prossimità di quello che aveva tutta l’aria di essere un parcheggio per i centri commerciali. Ma dal panorama che si stagliava davanti loro, non erano più a Long Island. Qbert era saltato fuori dalla vettura, mentre Heather l’aveva seguito immediatamente dopo, Regina si era arpionata al suo braccio, arrotolandosi lungo di esso, come un braccialetto. Il guidatore era sceso dalla macchina, era un uomo oltre la mezza età, aveva capelli bianchi come nuvole ed occhi caldi, un espressione simpatica, indossava un lungo camice bianco da dottore, da cui spuntavano pantaloni indaco e scarpe di vernice, aveva anche uno stetoscopio appeso al collo, ma in mano al posto di una cartella clinica tipica dei dottori aveva una verga scheggiata, che aveva allungato verso Heather, a quel punto regina si aera srotolata dal suo braccio ed era andata ad attorcigliarsi attorno al bastone dell’uomo. Poi sorrise, “Non avete un topo per Regina, immagino” commentò l’uomo, prima di tornare serio. “Quella macchina è in fiamme?” aveva domandato Heather indicando la decapottabile sportiva, “Effetti collaterali del carro di Apollo” aveva risposto il medico con un sorriso genuino, il sopraciglio della ragazza schizzò fino al cielo, “Permettimi di presentarmi. Sono Ascelpio, dio della medicina, figlio d’Apollo, attuale custode del carro del sole ed ovviamente tuo fratello” aveva risposto il dio in maniera gentile. Heat rimase in silenzio, cercando di elaborare tutte quelle informazioni. Alla fine il suo fratellone divino gli aveva spiegato che con i dei maggiori barricati dentro l’Olimpo, qualcuno doveva pur far correre il sole ogni giorno nel suo sentiero e come figlio prediletto si era offerto lui.  E morale della favola gli aveva salvati dalla pazza mortale dai capelli di sangue che prediceva morti a tradimento.
 
Ascelpio era un chiacchierone, questa fu la prima cosa che Heat appurò di suo fratello, la seconda era che era molto potente, più di qualunque altro figlio d’Apollo, era anche capace di riportare i morti in vita, ma Zeus l’aveva proibito, ma di tanto in tanto, aveva detto, facendole l’occhiolino complice, prima ovviamente di tranquillizzarla che non era stato quello il caso; più che malconcia questo si,  ma Heather era sempre rimasta arpionata alla vita. La terza cosa che aveva compreso era che aveva ereditato la leggendaria modestia del loro padre. Ma gli era simpatico, infondo se poteva vivere con quel bipolare dall’arrabbiatura facile di Will, poteva convivere con chiunque. E poi aveva offerto il pranzo lui. Heather non pensava di avere tutta la fame che in realtà aveva, ma mangiò tutta la carne che riuscì ad ingurgitare, davanti lo sguardo disgustato di Qbert. “Sai avrei potuto ucciderti” aveva ripreso il suo monologo Ascelpio, “Il mio sangue è stato sostituito da quello di una gorgone, su un fianco scorre uno in grado di guarire qualunque malattia, dall’altro il più mortale veleno di sempre” aveva raccontato con un sorriso orgoglioso, dei suoi favolosi poteri, “Ma sai comincio ad avere una certa età e a perdere colpi” aveva detto con una falsa modestia. Heather era certa da quel tono beffardo, che non si sarebbe mai sbagliato, ma che adorava stare ore ed ore a vantarsi.
 
“Ma chi ci ha attaccati?” aveva domandato alla fine lei, mentre osservava solo l’olio che bagnava il piatto, “Un morto che Thanatos non ha ancora recuperato” aveva risposto evasivo l’uomo, pulendosi il viso rugoso con un tovagliolo, in maniera impeccabile. Heather lo aveva guardato scettica, Ascelpio aveva posato il tovagliolo sulle gambe, “Vogliamo procedere con il dolce?” domandò come se nulla fosse, “So che qui fanno un ottima Cheescake” aveva informato, “Hai satiri piace il formaggio vero?” aveva chiesto a Qbert che aveva mantenuto lo stesso sguardo di Heather. “Va bene, va bene” aveva ceduto l’uomo, muovendo la mano come a scacciare l’idea di quella cheescake che doveva proprio tentarlo. “Quando Gea ha aperto le porte dell’Ade, ha riportato in vita chiunque ritenesse utile allo scopo” aveva cominciato a spiegare, “Diciamo che non tutti hanno aderito, qualcuno ha preferito aiutare Gea in maniera più personale. Perpetrare una propria vendetta” aveva continuato il vecchio, “E diciamo che Apollo si è fatto un nutrito gruppo di nemici. Per ora ho riconosciuto tre persone” aveva rivelato, prima di comunicargli di non avere idea di chi fosse la pazza che aveva aggredito loro. “Alcuni sono certo non si uniranno a Gea alla fine, come Marsia, e mio nonno Flegias, fino al raggiungimento della sua vendetta, non se ne curerà affatto”  aveva  comunicato con fare pensoso, “Niobe si unirà certamente” aveva  detto alla fine con espressione seria in viso, battendo le dita sul tavolo, “Con un caratterino come quello di suo padre” aveva comunicato esasperato. Il discorso tra se e se andò avanti per  una buona decina di minuti, con Heather e Qbert che si rivolgevano sguardi confusi.
 
“E il loro vendicarsi di Apollo consiste nel …?” aveva cominciato Heat, “In una purga, sorella mia” aveva detto. E a quanto pareva prima di bruciare ogni tempio d’apollo in circolazione e spolpare il dio e chiuderlo nel Tartaro, avevano pensato bene di uccidere ogni suo figlio in circolazione. Bellissimo, pensò Heather. Davvero, aveva bisogno di sapere che avrebbero provato ad ucciderla, finchè Thanatos non avesse messo fine alla sua caccia. Gli vennero in mente le parole della donna, che aveva profetizzato la sua morte, aveva detto che il male aveva gli occhi verdi. Si guardò intorno nella sala e pensò a quante persone nel mondo avessero quegli occhi e da chi avesse dovuto diffidare d’ora in avanti. Guardò il suo riflesso nel coltello sporco di rosso sanguino e si ricordò di quanto poco castani fossero i suoi.
 
Riaccompagnarono Ascelpio al carro del sole, mentre il figlio prediletto di Apollo, lodava a Regina quella favolosa Cheescake infilandole nella gola pezzi di carne che aveva rubato dal suo stesso piatto, con un fare amichevole. “Vorrei potervi essere di più aiuto. Ma io ho la mia missione e voi avete la vostra” aveva detto il vecchio con un tono triste. Heat lo abbracciò, “Siete stato di grande aiuto, fratello” disse, seriamente riconoscente. Se Ascelpio non gli avesse soccorsi, ora sarebbero all’altro modo, almeno lei sicuramente. L’uomo le accarezzò i capelli, per un attimo in quelle rughe, Heather parve scorgere la giovinezza del dio del sole. Regina sibilò qualcosa, “Credo tu abbia ragione, ‘Gin” aveva detto amichevole al serpente, prima di ridacchiare divertito, “Ti sto per dare più di quanto dovrei, dolce sorella” gli comunicò Ascelpio, aprendo il cofano della macchina, da questo emersero le più strane cianfrusaglie del mondo. Heather vide anche un uccellino d’oro meccanico prigioniero in una gabbia, che continuava a battere le ali con ferocia(**). “Il divino Apollo è un accumulatore compulsivo” aveva detto impudente Qbert, la ragazza lo aveva freddato con lo sguardo, mentre l’altro uomo aveva continuato a cercare qualcosa nel bagagliaio, con Regina che sibilava per dare consiglio.
 
Ascelpio le allungò una faretra di cuoio con delle istoriazioni d’orate, “Bella” commentò Heather,appendendola in obliquo sul corpo, chiedendosi cosa dovesse farci di una faretra senza frecce. Ma quelle arrivarono subito dopo, tre per la precisione. Come le sfiorò, capi che c’era qualcosa di diverso, di sbagliato. Il legno di cui erano fatte, era così nero da sembrare marcio, ma al tocco era gelido, le piume sul fondo erano nere, come quelle dei corvi, la punta era di bronzo celeste, del colore del sangue, forma piramidale, con quattro aghi ai lati, che Heater sapeva avevano il preciso compito di lacerare pelle ed organi - provocando un’emorragia implacabile – se malauguratamente qualcuno avesse tentato di estrarla strappandola. La punta era acuminata come un diamante e nera. “Non sono frecce normali, vero?” aveva domandato la ragazza retorica, “Con una di queste puoi uccidere un uomo o ridurre alla fame una nazione” aveva detto Ascelpio, “Sono un’arma potente. La più potente di Apollo” aveva aggiunto. Heather le aveva guardate, le era salito un senso di vomito, aveva sentito le ossa farsi fragili e la vista debole, tornare il bruciore al ventre, il sapore del sangue sul palato. Davanti i suoi occhi, avvolta dal fumo nero, la donna ripeteva la sua nefanda condanna: Gioca pure con la pestilenza. Quelle che teneva tra le dita, come fossero state la folgore di Zeus in persona, erano le frecce della calamità, in grado di scatenare le piaghe e rovinare intere nazioni. Ascelpio non le disse cosa fossero, sapeva bene che lei avrebbe capito. “Non ho un arco” commentò alla fine, ma il fratello le fece l’occhiolino, “Ne sei certa?” aveva domandato retorico.
 
 



 
 
 




(*): Malsano modo per dire: Maledettamente
(**) Questa nota si ricollega al capitolo precedente, in realtà. Quando Hobb racconta a July del ragazzo in mutande appeso sul grande schermo. E July ipotizza fosse qualche sfigato mezzosangue. Si, ehm … era Percy – prima della scomparsa – in missione per conto del Dio Apollo, per recuperare la Corista D’oro, che aveva la capacità di trasformarsi in un uccellino d’oro – che si è quello citato qui sopra. L’avventura è stata scritta da RR e si chiama Percy Jackson and the Singer of Apollo, o qualcosa di simile
 

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Capitolo 4
*** Fare l’esule fa schifo, ma fare l’esule mezzosangue è peggio(Carte I) ***


Bene, bene … Ecco ci qui, al capitolo più statico della storia. E forse anche più breve. Si è un capitolo corto e statico, ma credeteci o meno è abbastanza importate. In origine questa sarebbe dovuto essere il primo da principio, anche prima di quello di Arvey. E nonostante il prossimo abbia comunque un nuovo narratore, recupereremo una delle storie aperte nei precedenti capitoli. Quindi oltre ad essere l’ultimo del giro di storie, segna (all’incirca) l’inizio del Guardia e Ladri generale di questa storia (Anche se, ahimè, non è corretto – Sono “umani” infondo possono sbagliare).
Vorrei sempre ringraziare chi segue e ricorda. Chi legge ovviamente, per caso o con interesse. Ed ovviamente AliNicoKITE che commenta – e mi rende una persona tanto tanto felice.
Oltre loro, vorrei fare un sentito ringraziamento a lamascherarossa che non legge fanfiction, ma solo originali, non ha mai letto PJ – e probabilmente non ha neanche visto i film – e che sicuramente ha nella vita cose più interessanti da fare (come calcolare le coniche in una sella da cavallo per scimmie?) ha avuto la sacrosanta pazienza di leggere e correggere i miei deliri. Grazie :D
Buona Lettura
RLandH
 
 





Il Crepuscolo degli Idoli

 

 

Fare l’esule fa schifo, ma fare l’esule mezzosangue è peggio
 
 

Carter I 


Nessuno si oppone ad un dio.  La sua voce era un' eco distante nella sua memoria.  Lei era seduta di fronte a lui, con le gambe incrociate, le braccia pigramente abbandonate lungo il corpo, lí a pochi centimetri. Se Carter avesse allungato la mano avrebbe potuto toccarla, eppure era consapevole di quanto fosse lontana. Nel suo viso, di linee sfocate e colori sbiaditi, lui non riconosceva nè i suoi dolci occhi nè alcun'altra fattezza, che tanto gli era piaciuta. 
“Lo so.”, le disse. Le ultime parole che lei aveva pronunciato erano state proprio quelle: "Nessuno si oppone ad un dio"; lui le aveva ascoltate, le aveva conservate con religiosa maniacalità, ma le aveva ignorate. Nessuno si opponeva ad un dio, ma lui non era nessuno e non poteva lasciarla andare così. Per un attimo gli sembrò di riconoscere in quel viso confuso, un sorriso. 

Al primo raggio di sole filtrato dalle tende, Carter aprí lentamente un occhio, quello che non era schiacciato sul cuscino, poiché dormiva abitualmente su un fianco. Intravide la figura del suo fratellastro dormire nel letto accanto, sotto le coperte; vedeva il suo profilo sollevarsi ed abbassarsi, regolarmente. Il rumore dell'acqua che scorre proveniva dal bagno. Lui si stese supino e, puntando il peso sui gomiti, sollevò la schiena. Era  dolorante per i lividi che ricoprivano il suo giovane corpo, lasciandogli chiazze viola, verde e giallo, inferti dai mostri che continuavano ad incontrare lungo il loro cammino. Carter avrebbe sacrificato la vita pur di evitare che accadesse qualcosa a suo fratello. 

Uscí dalle coperte, camminò ciondolante verso il minibar e sbirciò all’interno alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo. Non era mai completamente se stesso dopo averla sognata. Prese della semplice acqua e rivolse gli occhi alla porta del bagno, da cui spuntò una ragazza che indossava un accappatoio verde acido ed aveva i capelli bagnati. Era una creatura snella, dalla carnagione olivastra e grandi occhi a  mandorla, color nocciola, come il castano dolce dei capelli. 
“Sei già sveglio.”, mormorò con tono sorpreso, stringendo le ginocchia tra loro, “Vedo bene oltre la Foschia. Come fai a mantenere sempre quest’aspetto?” domandò Carter, mentre si sgranchiva.  La ragazza aveva abbassato lo sguardo sulle sue gambe nude, dove sapeva essere posato lo sguardo del ragazzo. 
“E’ Magia” aveva detto enigmatica, prima di fare pochi passi verso il suo zaino e recuperare qualcosa da indossare.
“Grace” bisbigliò Carter, posandosi sulla porta che la ragazza si era chiusa alle spalle. 
“Dimmi” rispose la ragazza, la voce attutita dalla porta stessa. 
“L’ho sognata” mormorò di rimando. 
Grace rimase in silenzio per quelle che sembrarono ore. “Dimenticala,” affermò semplicemente, “abbiamo altro di cui occuparci”  aggiunse prima di uscire dal bagno. 
“Hai ancora i capelli bagnati” le fece notare Carter. Lei lo fulminò con lo sguardo, le ciocche castane sembrarono accendersi di una luce calda e presto presero ad incendiarsi; in un battibaleno Grace non aveva semplicemente i capelli in fiamme, i suoi capelli erano fuoco, ardevano rossi ed arancioni; poi tornarono normali: castani ed asciutti. 
“E’ epico!” trillò la voce di un ragazzino. Carter e Grace si voltarono verso quest'ultimo, una figura delicata che dimostrava dodici anni, dai capelli biondi ed unti che arrivavano fino alle guance con due occhi spalancati dalla meraviglia nello scorgerlo sveglio. 
“Lo so” si vantò divertita Grace, avvicinandosi a lui ed accarezzandogli i capelli in maniera affettuosa, quasi materna. Carter era basito da lei, dal suo gesto; la ragazza aveva dimostrato da tempo di possedere una bontà genuina ed un incredibile affetto,  elementi inaspettati da esseri come lei. Aveva visto le sorelle di Grace nutrirsi di mezzosangue fino a non lasciarne nemmeno le ossa, ma quando era stato il momento in cui Carter aveva visto la morte in faccia, bruciante ed ardente nel fuoco greco che ardeva senza regole, lei lo aveva stretto con la sua pelle coriacea di mostro e protetto; saldo a lei si erano lanciati nel vuoto, le fiamme che avvolgeva la pelle di Grace fin quando l’acqua l’aveva spenta; quando erano riemersi dalle acque l’incanto che manteneva la ragazza bella era scomparso, e Carter potè vedere solo un orrido mostro dalla pelle rovinata dal fuoco che cominciava a rimarginarsi. Eppure, in quel piccolo punto del pacifico, Carter non aveva mai trovato  la sua compagna di avventura più bella. Ma nulla poteva cancellare dalla sua mente una sola domanda: Perché? Cosa spinge un mostro che si nutre di mezzosangue ad amare la sua cena e considerarlo addirittura un suo pari? 

Pagato il motel i tre si erano rimessi in viaggio, dopo settimane finalmente con abiti puliti, oltre che rilassati sia nel corpo che nei pensieri. Tutti tranne Carter che si sentiva inquieto per il sogno della notte prima e non aveva coraggio di proferirne parola ai suoi compagni di viaggio, al ragazzino in particolare. 
Il fratellastro ai suoi occhi era ancora un bambino, una creatura pura che non aveva idea di cosa la guerra fosse stata: non sapeva chi fosse Crono nè aveva idea del sangue che un anno prima aveva macchiato i marciapiedi di Manhattan e le loro anime. Dal canto suo, Carter aveva tradito Apollo senza curarsi della sua immensa gloria, andando contro il dio vendicativo per eccellenza e suo padre per questo gli aveva imposto di occuparsi di un' anima serena ed ingenua come quel ragazzino dai capelli d’oro. Per Carter quel fratello rappresentava il riscatto donatogli dal padre... E sapeva di dover ringraziare Grace, che lo aveva trovato e portato a lui. 

Voltandosi verso il fratellino di Carter, a Grace venne in mente il giorno in cui lo aveva trovato. Era vicino un vespaio in uno dei giardini botanici dell' università nel Missouri e glielo affidò Melissa, una ragazza che odorava di miele, dalla risata frizzante ed i capelli color melassa. Avevano stretto amicizia ed alla fine del suo compito Melissa si era disgregarsi in migliaia di api per tornare all’interno dell’alveare. Ed Grace sembrò di sentire ancora i rumori di quel momento: il ronzio delle api in cui si distingueva una fresca risata. 

“Dove andiamo?” aveva domandato allegro il ragazzino, carico di quell'euforia che Carter rimpiangeva di aver perso. 
Dove andavano? Era una bella domanda e nessuno di loro aveva una risposta; Grace voleva trovare Alabaster figlio di Ecate, il più forte della loro schiera oltre che uno dei più letali ed era certa che quello fosse in fuga e non addormentato sugli allori di una becera pace. La ragazza era anche sicura che questi avesse sputato in viso a Gea, perché ormai era noto che i Titani, i Giganti – o chi che sia – non fossero diversi dagli dei e l’età dell’Oro che tanto sognavano era possibile solo se operata dai mezzosangue. Alabaster per i suoi sviluppati poteri, che facevano sembrare Carter infinitamente inferiore, era il semidio adatto ed era anche il comandante della loro divisione. Era la persona di cui Carter stesso si fidava maggiormente... O almeno era stato cosí fin a che il suo fratellino non era diventato parte della sua vita e si era aggiudicato quel posto favorito. 
Carter non potè non notare che già quando aveva dodici anni lui stesso maneggiava una spada e si lanciava nella lotta come se non ci fosse un domani, uno dei migliori tiratori tra i mezzosangue e ricordò quanto Lee fosse orgoglioso di lui mentre suo fratello si divertiva a costruire strumenti musicali con oggetti improbabili e  decantare poesie alle foglie. Era certo che suo padre - loro padre - il divino Apollo non lo odiava e Carter voleva portare suo fratello al Campo Mezzosangue, un posto che detestava, ma che lo avrebbe malgrado tutto tenuto al sicuro ed gli avrebbe insegnato a combattere. Se Lee fosse stato vivo avrebbe battuto una mano sulla spalla del ragazzino rassicurandolo che entro la fine dell’anno sarebbe stato un guerriero più abile di uno spartano mentre Michael, con la sua solita espressione da furetto, gli avrebbe insegnato come essere scorretti e dare filo da torcere ai figli di Ares. 
Sapeva che Lee era morto ucciso in battaglia; sapeva che di Michael non era rimasto che un arco su un ponte, che per lui non c'era stato neanche un funerale, che non aveva ricevuto nemmeno un obolo, che era un'anima persa che non poteva scendere all’Ade. Lee era stato il suo mentore e Michael, cosí protettivo, un vero e proprio fratello maggiore. 
Ora sicuramente i figli di Apollo sarebbero stati guidati da Will: il ragazzo che dormiva sopra di lui nel letto a castello, che occupava il bagno per ore e regalava commenti acidi, che sembrava così umano in confronto gli altri due, che aveva amato come un fratello di sangue e come il migliore degli amici. Lo stesso Will che gli aveva quasi mozzato un orecchio durante l’ultima battaglia. 
Quel ragazzo lì avrebbe sicuramente aiutato il bambino molto meglio di un fuggiasco traditore e di un mostro travestito da mortale. 

Si inginocchiò sull’asfalto, tenendo una mano sulla spalla del ragazzino, per poterlo guadare negli occhi. 
“Marlon” cominciò Carter con serietà mentre gli occhi color pece del  fratellino si erano spalancati di fremente eccitazione, “Io e Grace ti stiamo portando in un posto chiamato Campo Mezzosangue dove ci sono altri semidei, come noi” gli aveva detto con un sorriso gentile. 
Marlon era rimasto attonito per qualche istante, prima che sul suo viso scoppiasse un tripudio di felicità, “Davvero?” domandò curioso. 
"Sí e ti insegneranno a combattere, tirare con l'arco ed un sacco di altre attività che adorerai!” gli aveva assicurato Carter, scompigliandoli i capelli biondi con fare affettuoso. 
Il bambino aveva sollevato gli occhi verso la ragazza al loro fianco, “Ed anche lei può venire?” aveva domandato ingenuamente. Grave aveva tirato i capelli dietro l’orecchio mordendosi appena le labbra, “Purtroppo no” aveva mormorato triste lei. In quegli istanti Carter avrebbe mandato al Tartaro tutti i suoi piani di dei, titani, gigante e mezzosangue ed avrebbe preso quei due per portarli lontano, al sicuro, dove rimanere uniti per sempre. Ma non era possibile. 
“Andiamo” concluse Grace. 

Una volta che Marlon sarebbe stato al Campo Mezzosangue, Carter e Grace avrebbero continuato si sarebbero rimassi sulle tracce di Alabaster. Non che la cosa fosse facile, considerato che il semidio era  abile nella manipolazione della nebbia; una persona che quando non voleva farsi trovare, sapeva sparire meravigliosamente. 
Carter era rincuorato in parte dal sapere che certamente non erano solo loro due a cercarlo. Se non erano morti, alcuni altri membri della loro divisione potevano essere sulle sue tracce, senza contare altri sopravvissuti di combriccole alleate. Senza dubbio le gemelle La Fayette, letali figlie di Nyx, figlie della notte, che avrebbero preferito una lancia nella milza che chinare il ginocchio agli dei; se chiudeva gli occhi poteva ritrovarle nei suoi incubi, nere come le nubi di una tempesta ed oscure come un’ombra. Respirare la loro stessa aria sembrava venefico per i polmoni del figlio di Apollo, che quand’era in compagnia delle due sembrava sentirsi così spento ed angosciato. Poi chi altri? Chris Rodriguez certamente no, l’ultima volta che Carter l’aveva visto era bardato di ferro lucido e brandiva le armi contro di loro; qualcuno aveva detto che il labirinto lo aveva reso folle, ma nei suoi colpi c’era precisione e nei suoi occhi albergava il furore ma non di certo la pazzia. Forse le voci erano finte o forse Chris aveva trovato come tornare sul sentiero della sanità, Carter non aveva avuto tempo durante la battaglia di attaccar bottone per far quattro chiacchiere con un amico che li aveva abbandonati. E poi gli altri? Non lo sapeva. Poteva solo sperare. 

Marlon si era seduto sull’autobus vicino al finestrino, con una Grace al suo fianco pronto a difenderlo per tutto. Al fianco della ragazza, seduto strategicamente dalla parte che dava sul corridoio- e solo quello a divederli – c'era Carter a sorvegliare la situazione.  Un posto vacante al suo fianco.
“Scusami bel faccino, posso sedermi?” aveva domandato una ragazza che sgomitava per cercare di farsi posto su quell’autobus diretto a Long Island, tirando una gomitata ad una signora di una certa età. Carter sollevò lo sguardo su una ragazza alta vestita di tutto punto, dal viso tondo delicato, tagliato da una frangia pari di un vivace castano rossiccio, dai capelli legati in una coda di cavallo alta. “Certo” disse Carter alzandosi lasciando così spazio alla ragazza, che si era infilata nel posto accanto aggiustandosi la gonnellina a pieghe. Era bella, constatò il ragazzo, più di Grace. “Em! Joe!” aveva esclamato sollevando il braccio bianco e facendole ondeggiare, “Ci sono due posti liberi qui davanti” aveva urlato. Sgomitando erano arrivate anche le ragazze interpellate: una ragazza bassina dal sorriso sfrontato, con i capelli ricci scuri tanto ingarbugliati da sembrare un nido di rondine, seguita da una stangona dalla liscia chioma dorata con un espressione timida in viso, quasi ad essere il complementare dell’altra. Non sembrarono badare a Carter, preferendo accomodarsi al posto che l’amica aveva trovata. Ma il ragazzo aveva notato loro, soprattutto l’ultima venuta, Joe, che lui stesso conosceva: diminutivo di Jordan Shelter, una figlia di Efesto che amava fare tiri mancini a tutti e che Carter aveva conosciuto quando lui e Michael si ritrovavano per caso a spintonare Will dalle parti dell’armeria per tentare di fargli attaccare bottone con Nyssa, la più gentile figlia di Efesto del mondo1. Solo allora il ragazzo si accorse della collana con le perline che circondava il collo della ragazza al suo fianco. Saettò gli occhi verso Grace e si trovò a fissare un nero pece spaventato, il naso aggrinzito ed il mostro al suo fianco aveva già capito la situazione dall’odore.
 
 

 
 
X1 – E lo so cosa penserete: Ma Will è dell’altra sponda! O almeno credo. In realtà non lo sappiamo con precisione, ma io – l’ammetto – ci spero a bestia. Solo che questa storia è stata scritta pre-BOO, avrei potuto correggerlo. Ma mi sono ricordata che le divinità sono tendenzialmente tutte bisessuali e che Apollo è tendenzialmente il più libero di tutti, così il fatto che possa essere bisessuale, non è così assurdo. E nella mia mente Nyssa  è timida ed impacciata come Nico – e comunque sia, si starebbe parlando d’un Will tredicenne(?) spintonato dai fratelli maggiori a provarci con una ragazza.
 

Note a Pie di Pagina
Personaggi apparsi:
Arvey Spacca Meningi (cap I)
Pasticcino Sanguinaccio(cap I)
Mikey Sanguinaccio(cap I)
Sheamus(cap I)
Linden(cap I)
L’Arpia(cap I)
Julay Goldenapple(cap II)
La Dea Eris(cap II)
Hobb(cap II)
Il ragazzo del Solenoide(cap II)
L’uomo con la Maschera(cap II)
Alabaster C. Torrigton(cap II)
La donna dai capelli Rossi(cap III)
Qbert(cap III)
Heather (cap III)
Ascelpio(cap III)
La ragazza dai capelli castano ramati(cap IV)
Grace(cap IV)
Carter(cap IV)
Marlon(cap IV)
Emma (cap IV)
Jordan Shelter(cap IV)
Regina > Serpente(cap III)

 

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Capitolo 5
*** Una battuta è sensazionale solo se ha un finale d'effetto(Bernie I) ***


Bene con questo capitolo chiudiamo il giro di narratori per ora (ve ne saranno altri in seguito – tra cui anche qualche vecchia conoscenza). Come avevo già preannunciato, mi pare, questo capitolo nonostante fosse con un nuovo narratore si ricollegava ad uno dei precedenti ed il titolo rende più o meno palese quale.
Altre varie note: Questa storia si prospetta fin troppo lunga rispetto quando avevo pensato, quindi devo cominciare a pensare come “accorciarla” e dunque pensavo di sistemare più avanti più punti di vista in un capitolo ... devo vedere, ma questo non c'entra nulla.Quindi sperò possiate gradire anche questo, vorrei ringraziare chi segue, chi preferisce, chi legge ed ovviamente chi recensisce (questi particolarmente vorrei ringraziare con tanto amore): summer_time.
Buona Lettura
RLandH
Ps - 
Questo capitolo era stato inizialmente betato da lamascherarossa, ma per una serie di disdicevoli incidenti informatici, mi sono trovata costretta a pubblicare il capitolo originale, che è risultato molto sincopato (causa la narratrice – ed il desiderio di rendere più possibilmente diversi i narratori) e con diversi errori di battitura – e non – in caso, sarei grata me li faceste notare.









Il Crepuscolo degli Idoli





Una battuta è sensazionale solo se ha un finale d'effetto





Berenyx I


Spezzò un po’ di cioccolata e ne mangiò un poco, facendo attenzione a non farsi vedere dalle commesse del supermarket o da altro. Un po’ come quando rubava cibo dalla cucina della principessa Andromeda e faceva attenzione a non farsi beccare da qualche mostro. Era più o meno la stessa cosa, certo se la guardia l’avesse punta, avrebbe potuto colpirla con un pugno dritto sul naso, un mostro era un po’ più complicato da buttare giù. Non se c’era Bells, lei avrebbe sconfitto anche Crono in persona, o almeno a Bernie piaceva pensare così, sua sorella era la più forte delle due, era la gemella maggiore, la più tosta ed intelligente, quella da cui era sempre dipesa. Ma Bells non c’era e Bernie era sola. Ingurgitò altra cioccolata. “Hei tu!” esclamò una guardia, indicandola; aveva un aspetto minaccioso, imponente e per un istante aveva pensato fosse un ciclope, ma la nebbia non si era diradata. Bernie infilò la cioccolata nella giacca, dove avesse potuto recuperala ed era corsa fuori. Una commessa aveva provato ad afferrarla, ma lei era scivolata, evitando le braccia della donna ed era corsa in fretta dalla porta a scorrimento.
Era riuscita a correre appena due isolati, prima che il fiato le si era spezzato in gola. Un tempo era più allenata, quando viveva sulla Principessa Andromeda. Posò la schiena al muro, cercando di prendere del fiato, prima di infilare le mani nella giacca ed estrarre la cioccolata, che aveva divorato famelica. Sorrise a quel dolce sapore. Aveva davvero bisogno di dolcezza. Chiuse gli occhi e per un attimo pensò di essere altrove. In un posto felice. Non sapeva quale fosse, se il ponte maestro della Principessa Andromeda, con il sole sul viso, bardata e pronta allenamento o nell’osservatorio dove lavorava suo padre, con l’occhio nella lente a spiare le stelle. Con Bells al suo fianco. Si diceva che le gemelle fossero uguali ed in sintonia e così erano lei e sua sorella. Fu di improvviso che accadde. Prima che riuscisse ad accorgersene, si sentì arraffare, schiuse gli occhi un attimo per vedere il cielo, poi di forza era stata buttata contro il muro, aveva urtato la testa contro i mattoni.
Volse appena gli occhi prevedere una figura alta, una macchia indistinta. Qualcosa di caldo le gocciolò tra i capelli e lungo il collo. Sangue.
 “Bells” mormorò.


 

Bells si era lanciata contro un gruppo di teppisti, afferrando un sasso da terra, era una furia, aveva scoccato l’arma improvvisata ed aveva colpito uno dei ragazzi alla vita. Quelli avevano lasciato perdere il cane che stavano tormentando ed aveva notato la spaurita tredicenne che li stava fissando, magra come un chiodo e con capelli dritti come spade, neri come la fuliggine. “Quella è una delle figlie di LaFayette?” aveva domandato uno dei ragazzi, era stato Ronnie James a parlare, il più alto, quindici anni, con i capelli rossi e due peli contati sul mento, con un sorriso sardonico sul viso. Bells era scappata immediatamente, era veloce, molto. Bernie che aveva osservato tutta la scena da dietro le assi del recinto, sperò che sua sorella arrivasse al passaggio segreto a pochi metri, quello dove Ronnie James non sarebbe riuscito a passare. Era capitato molte volte, che le due gemelle gli avessero interrotti dal loro bighellonare e quelli le avessero pestate, così Bernie aveva svitato un asse del recinto in modo che si sollevasse, così che le due ragazze riuscissero a scivolarci dentro.
Le LaFayette erano forti e sapevano anche difendersi vagamente, ma non erano capaci di tenere testa a cinque quindicenni, vigliacchi, per giunta, imprecava Bernie; Bells aveva più coraggio di loro messi insieme. Sua sorella riuscì ad infilarsi nel passaggio, sollevando l’asse, ma mentre scivolava un ragazzo le aveva afferrato una caviglia. “Bernie” aveva gridato quella mentre si aggrappava ai fili dell’erba del giardino e alla terra nel tentativo di non farsi tirare indietro. La gemella era corsa da lei, puntando i piedi a terra ed afferrandola per le mani, nel tentativo di resistere, intanto l’altra scalciava per farsi lasciare. Poi d’un tratto era cessato tutto, qualcuno aveva urlato. Bells era stata libera era strisciata dentro e Bernie aveva visto sullo stivaletto di pelle, alto fino al polpaccio uno schizzo di rosso ed era caduta al suolo. Altre urla ed altre botte. Colpi secchi. Sua sorella tremava, ma l’aveva afferrata per la camicetta di lino ed aveva cercato di trascinarla dentro casa, non avevano avuto la forza di guardare indietro o di alzarsi perfettamente in piedi, timorose di scoprire la verità.

Forzò le palpebre ed aprì gli occhi, il contorno dell’interno di una metropolitana si era disegnato, si era stropicciata gli occhi, prima di rendersi conto, era saltata in piedi, era stesa sul sedile di una metropolitana, poi si era toccata la nuca alla ricerca del sangue, aveva trovato una zona morbida e guardate poi le punte delle dita aveva visto il rosso. Nessuno sulla metropolitana sembrava essersi accorto di lei. “Sei sveglia” la voce era stata piatta, ne aveva ricercato la fonte, un ragazzo giovane, alto più di sette piedi, dai muscoli tirati sotto gli indumenti militari, capelli di un biondo scuro, occhi blu come il mare ed un sorriso seghettato da squalo, un lestrigone, anzi il lestrigone. “Arvey” disse con la lingua secca, come se l’intera saliva del suo corpo fosse scomparsa, il ragazzo sembrò abbozzare un riso genuino, “La piccola Berenyx LaFayette” disse con tono amichevole. E lei non seppe cose fare, se scappare via di fretta e furia, strapparsi gli orecchini di dosso, così da avere le sue armi, e provare a combattere oppure lanciarsi tra le sue braccia. Arvey si era sollevato dal suo posto. Era imponente. “Ringraziami” disse perentorio, “Se non fosse stato per me, due lestrigoni, due ciclopi ed un’arpia si starebbero spartendo le tue carni” aveva detto con nonchalance. Bernie ricadde seduta sul sedile della metropolitana, del tutto spaesata. Ancora una volta Arvery le aveva salvato la vita.

“Cos’è successo a Bells?” aveva domandato il Lestrigone, mentre scendevano ad una fermata, la sua voce era interessata e tradiva preoccupazione, “Non ne ho idea” rispose Bernie, perché era così. Durante la battaglia di Manhattan, aveva perso sua sorella nella foga. L’ultima volta che l’aveva vista, Bellatryx aveva una spada di stige nero lucido tra le mani e si lanciava contro l’Empire state Building, falciando a destra e manca chi capitava, con ardore negli occhi. Bernie era rimasta indietro, con la lama e lo scudo in seconda linea. Quando Crono era stato sconfitto. Quando il fuggi-fuggi generale era iniziato, Berenyx non era riuscita a ritrovare nessuno di cui gli importasse veramente, ne la sua gemella, ne il ragazzo per cui aveva avuto una cotta infantile.
Il ragazzo che non parlava mai, l’aveva afferrata per la vita e trascinata via, prima che gli dei folgorassero loro seduta istante. Bernie aveva scalciato, lo aveva graffiato, aveva tentato di scappare, di raggiungere il campo di battaglia. Di ritrovare tutti. Ma non c’era riuscita, un colpo ricevuto tra capo e collo e la sua coscienza se n’era andata all’averno, fino a che non aveva riaperto gli occhi ed era lontana dalla battaglia e da Manhattan. Sia nello spazio, sia nel tempo. Aveva urlato, si era infuriata, se l’era data di santa ragione con quel mezzosangue sempre muto. Ma alla fine, non aveva ottenuto nulla che altra rabbia. Avevano viaggiato insieme per tre settimane. Vagabondando come navi alla deriva, senza meta e senza scopo. Poi una mattina, a Boston, quando si era svegliata, in un appartamento disabitato, di un vecchio edificio, non l’aveva trovato più. Se n’era andato nella notte. Senza destarla, senza una spiegazione. Lasciandole un certo vuoto dentro. Si era raggomitolata sul pavimento ed aveva pianto. Per quel muto compagno che si era allontanato, che l’aveva gettata via come spazzatura, per quell’amore strangolato sul nascere e per la sorella perduta. Sentì come d’una mano sfiorarla, delicata tra i capelli scuri, materna. Nessuno era lì e nessuno le parlò, ma asciugatasi gli occhi Bernie era certa che sua sorella Bells dovesse essere viva, perché se così non fosse stato lei lo avrebbe saputo. Erano gemelle. Legate da qualcosa di più profondo del sangue. “Non è morta” disse ad Arvey, come per tranquillizzarlo ed anche ricordarlo a lei.
Le piaceva pensare che quel giorno, fosse stata la muta voce di sua madre a suggerirle che era così.

“La cerchi?” aveva domandato quello, passandosi una mano tra i capelli di un biondo paglioso, “Vorrei” aveva confidato. O si se avrebbe voluto. “Ma non saprei da dove cominciare” confessò con voce mogia. Non vedeva sua sorella dalla battaglia di Manhattan. Non aveva idea di cosa potesse essergli successo e soprattutto se Bells fosse la stessa che aveva lasciato quel giorno. L’ultima cosa che si erano dette era stata la stupida citazione di un film, dritte alla meta e conquista la preda, battendo le nocche scarne tra loro. Sorridevano, all’apparenza, ma tremavano pavide nelle loro viscere. Una battaglia, l’epilogo della loro vita si sarebbe giocato presto. Di li a poco. Tutta la loro esistenza, come la conoscevano, sarebbe cessata al tramonto di quel giorno. E ne erano spaventate. Bells era sempre stata la più forte ed era sempre stata la sua ancora, ma quel giorno tremava come una foglia d’autunno ed era stata Bernie a stringerla e a dirle che sarebbero riuscite a farcela, perché nessuno poteva fermare le Gemelle LaFayette. E che qualunque cosa fosse successa, sarebbero rimaste unite e tanto sarebbe bastato. Quasi le veniva da ridere a pensarci, che non solo avevano perso, ma che si erano perse. “Potrei aiutarti a trovarla” propose Arvey, prima di toccarsi il naso, “Ho un olfatto migliore” disse scanzonato. Berneyx sollevò lo sguardo verso di lui, quasi ebbe la vertigine nel cercare il suo viso così in alto, “Non hai di meglio da fare. Non lo so, sbranare mezzosangue? O dare la caccia a Percy Jackson?” aveva domandato piccata Bernie. Essere sulla principessa Andromeda, l’aveva spinta a diffidarsi dei mostri, metà di loro volevano solo averli per cena e l’altra metà, sperava solo di vederli putrefarsi, ma in cuor suo sapeva bene che Arvey era diverso.

Il lestrigone aveva infilato le mani callose nelle tasche dei jeans, mentre saliva lungo le scale, per tornare a vedere il chiaro sole, “Non in realtà no” confidò incerto. “E se mi do alla caccia di Jackson rischierei di rincontrare Pasticcino e gli altri” raccontò, “E gli ho fatto saltare una cena per cui si sarebbero squartati tra loro, che credo mangerebbero me, se dovessi rincontrarli” commentò con una punta di ironia, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Un po’ folle. Che a Bernie ricordò la prima volta che si erano incontrati. Del sasso che Bells aveva lanciato contro la fronte del lestrigone, che l’aveva preso in pieno, ma in vece di farlo svenire o almeno indietreggiare, Arvey aveva riso con una voce profonda e spaventosa, davvero divertito da quel mero tentativo di difesa. Aveva denti aguzzi, che avrebbero potuto aprire le loro piccole membra come se fossero fatte di gelatine e la sua mazza da battaglia, era macchiata di rosso sangue. Come quello che avevano ritrovato a sporcare i pali bianchi del recito di casa, la mattina dopo l’aggressione.
Quando al telegiornale, passavano i nomi di quei ragazzi, una banda di adolescenti sbardati, scomparsi chi sa dove. Tutti. La polizia aveva fotografato per ore quegli archi di rosso. Schizzi che Bernie, di li a poco tempo avrebbe imparato, fossero causa di un trauma alla testa. “Non cercherai di mangiarmi?” aveva domandato la ragazza, sollevando un sopraciglio, non che credesse seriamente che il lestrigone l’avrebbe fatto. Poteva sembrare strano, ma quello era comunque Arvey, non un mangia mezzosangue canadese a caso. L’aveva detto, quasi per spezzare il silenzio che si era creato, quando Berenyx era scivolata nei suoi ricordi. Il lestrigone ridacchiò divertito, “Sono sicuro, che avresti un sapore pessimo, La Fayette” rispose alla fine, con un sorriso vagamente malandrino.


 

“Quindi fammi capire, tre lestrigoni, due ciclopi ed un’arpia si incontrano per caso in una città per mangiarsi una mezzosangue” aveva commentato stranita Bernie dopo aver sentito tutte le strane circostanze che avevano portato Arvey a separarsi dai suoi compagni, per salvarle la vita. “Già” rispose lui, con un tono piatto, come se non lo preoccupasse per niente che cinque creature incavolate ed affamate stessero sulle loro tracce, “Sembra l’inizio di una pessima barzelletta” commentò con un tono d’accidia Berenyx pensandoci su, cosa che fece decisamente sghignazzare il mostro, che si giustificò dicendo che era stata la stessa cosa che aveva detto Mickey, prima che Arvey desse inizio allo scontro. “Il finale però è assolutamente una barzelletta” aveva commentato quello, leccandosi appena le labbra, mentre chiudeva meglio la giacca sul suo corpo imponente, “Dove altro si trova un lestrigone che salva una mezzosangue?” aveva chiesto retorico, facendoli l’occhiolino. Bernie lo guardò un attimo, nello stesso posto dove si trovavano evidentemente lestrigoni di bell’aspetto con gli occhi blu. “Non sarebbe la prima volta” mormorò con voce sottile la ragazza. Arvey aveva fracassato la testa dei ragazzi che avevano provato a picchiare Bells. In un modo contorto le aveva salvate. Quella era stata la prima volta. Ma Bernie non era riuscita a considerarla come tale, specie quando aveva scoperto che dopo aver ucciso quei ragazzi, il lestrigone assieme ad un altro suo compagno, li aveva mangiati. Non lasciando neanche le ossa pallide.

“Uhm, si, ho quasi perso un braccio nella battaglia del labirinto” aveva commentato Arvey, guardando il suo braccio con un senso di diniego, pensando a quando si era distratto dal suo scontro, osservandola cadere sull’erba bruma. La spada di bronzo celeste, aveva tranciato quasi di netto l’arto, ma il lestrigone aveva spaccato il cranio del suo avversario ed aveva colpito anche quello di Bernie, facendolo crollare accanto a lei. I suoi occhi erano socchiusi, ma riusciva ancora a vedere qualcosa. Sorrise appena. Il mangiatore di mezzosangue l’aveva afferrata per il busto e se l’era caricata sulla spalla come un sacco di patate, “Resisti, piccola” le aveva detto con un tono preoccupato, allontanandosi dal campo di battaglia. Il sorriso si formò sul volto di Berenyx, prima che spostasse una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Una volta Carter, figlio di Apollo, gli aveva detto che i mezzosangue venivano scoperti da Satiri in esplorazione e portati al campo mezzosangue, intorno ai dodici anni. Alle gemelle LaFayette era successa una cosa decisamente simile, ma invece di essere condotte in un mitico campo d’addestramento, erano state portate alla medesima età su una corazzata da guerra titanica, popolata da mostri e quant’altro, travestita da nave da crociera. Ed al posto di un simpatico ragazzo capra, ci aveva pensato Arvey Spacca Meningi ed un suo compare, della medesima specie. Davvero poco erano valse le battaglie di Bells o i pianti isterici di Bernie, loro le avevano prese e portate via. E per quanto l’altro lestrigone aveva commentato per l’intero viaggio quanto dovessero essere succulente da mettere sotto i denti, Arvey non aveva detto nulla. Si era limitato a salvare la loro vita salturariamente e riprenderle quando riuscivano a darsi alla fuga, una volta aveva spezzato l’avambraccio di Bells in due parti, dopo quella che era stata la loro ultima tentata latitanza prima di aggiungersi all’esercito di crono. Il lestrigone aveva capito che era Bellatryx la forza portante del duo e rendendo lei debole e dolorante, le aveva chetate entrambe.


 

“La prima cosa da fare e lasciare la città” aveva stabilito Arvey, mentre si avvicinavano a quella che aveva tutta l’aria di essere una stazione dei treni, “Poi dobbiamo trovare un indizio per trovare Bells” aveva stabilito con voce ferma, aggrottando le sopracciglia. Certo il lestrigone aveva buon naso, ma Berenyx si rendeva conto che serviva a poco se dovevano annusare tutto il suolo americano. Era meraviglioso quando una volte dietro c’era Luke, che sapeva sempre chi era dove; Bernie si chiedeva ancora quante spie avesse dovuto avere per avere tutte quelle conoscenze. Sentì la bocca dello stomaco amara a pensare a quella lingua di vipera, che tanto gli aveva ammagliati con quella sua elegiaca età dell’oro, figlio di Ermes suicida, che per tutti era l’Eroe, che aveva salvato l’Olimpo e tutti quei deifilii contro cui quasi tutti i suoi amici erano morti. Per lei, Luke era solo il traditore codardo. Nulla di più. Un abile oratore e null’altro. Come Ethan, l’orbo, che a Bernie guardava sempre, quand’era sulla principessa, chiedendosi cosa ci fosse dietro quella benda, se un occhio cieco o una concavità vuota. 

Berenyx ci aveva pensato a dove Bells poteva essere andata. Il primo pensiero era stato suo padre. Perché era lì che lei era andata, dopo essere stata abbandonata. Aveva trovato la casa dove avevano abbandonato fatiscente, il recinto con il passaggio segreto quasi sconquassato, il giardino verde e curato, era di un secco giallo, incolto. L’interno era un disastro, libri sparpagliati ovunque e l’uomo che aveva trovato non era nulla in confronto con quello che avevano lasciato. Suo padre era un brillante astronomo, che aveva passato la sua vita da quando era bambino alla scomparsa delle sue figlie, con gli occhi puntanti verso il cielo luminoso. La volta e le stelle, mai nella vita, qualcos’altro lo aveva preso tanto. Al meno fino all’incontro con Nyx, la dea della notte mortale. Infondo si diceva Bernie, quale altra divinità poteva essere attratta da un piccolo topo da telescopio come suo padre. Poi erano arrivate loro due e, Berenyx lo ricordava ancora, scompigliando i loro capelli, l’uomo diceva che loro erano le stesse più luminose di tutto il cielo. Le sue. L’uomo che si era trovato davanti, era sciupato, invecchiato di vent’anni in soli cinque, con i capelli grigi ed il viso incavato. Un uomo che aveva perso la voglia di guardare le stelle. Un uomo per cui il cielo era nero come il carbone. Eppure i suoi occhi si erano accesi come astri, quando l’aveva vista in piedi sulla porta, quasi incredulo davanti quella figura.

Era rimasta tre mesi con suo padre.
Tre mesi in cui l’aveva aiutato a rimettere in sesto la sua vita. A sistemare la recinzione, il giardino, la casa. Tre mesi in cui aveva recuperato cinque anni di vita. In cui si era riunita alla persona di cui aveva sentito più la mancanza. Tre mesi a guardare verso l’orizzonte, aspettandosi di vedere Bells arrivare, con un passo deciso, felpato, da pantera. Aveva visto i ragazzini giocare al parchetto dietro casa, dove avevano giocato anche lei e la sua gemella. L’aveva cercata nei visi dei bambini. In quella ragazzina poco più che infante, che si eleggeva regina del parco e che coinvolgeva tutti gli altri a fare quello che diceva. Una chimera l’aveva attaccata, ma Bernie era riuscita a sconfiggerla. Sfortunatamente aveva rischiato che suo padre si facesse male. Se n’era andata pochi giorni dopo, baciandogli la fronte e giurandoli che sarebbe tornata. Suo padre l’aveva stretta, come se non avesse voluto lasciarla andare, come se dallo sciogliere quell’abbraccio dipendesse la sua vita. Ma aveva capito, che il destino di un semidio non era diverso da quello di un dio. Che non erano destinati a restare, come la meravigliosa e oscura Nyx aveva dovuto lasciarlo, così doveva fare anche lei. “Ti prometto che tornerò a trovarti e Bells sarà con me” erano state le parole con cui era andata via. Ed un bacio sulla fronte.

Aveva provato a cercare sua sorella con un messaggio di Iris, ma non ci era riuscita. Forse, perché non aveva una prova tangente che fosse viva. Era come cercare di chiamare un numero che si era dimenticato. Null’altro. Il problema era che Bernie non aveva più idee. Non era a casa di suo padre, non era raggiungibile come messaggio di Iris e l’unica altra casa che avevano mai avuto era stata solamente la Principessa Andromeda, ma non c’era più, era esplosa, saltata in aria e bruciata. Dalle acque nere del mare, aggrappata ad Arvey, al fianco di sua sorella, Bernie l'aveva vista consumarsi nel fuoco. Erano stati Charlie Bekendorf e Percy Jackson a farla bruciare. Avevano spazzato via la sua intera vita.
La sua unica e magra consolazione era che uno dei due carnefici era morto.


Era stato Arvey a scegliere la destinazione. L’aveva fatto sbattendo la testa di due ragazzi su un muro nel bagno dei maschi, non preoccupandosi di lasciarli vivi o morti, aveva preso i loro biglietti ed era salito su quella carrozza, seguito da una silenziosa Berenyx. Che ad occhi serrati, ignara di ciò che era appena avvenuto. La sua mente era occupata da un unico pensiero, trovare un modo, uno qualunque per trovare sua sorella. Da dove cominciare non ne aveva idea. Aveva sbuffato pesantemente accomodandosi al suo posto, erano nella classe economica e lei occupava il posto accanto al finestrino. Non avevano detto niente. Il silenzio, assieme al continuo susseguirsi del paesaggio, l’avevano condotta nel mondo dei sogni, senza alcuna fermata.


Per un attimo le parve Bells, e poi se stessa, più vecchia e matura. La pelle era bruna come la notte, il fisico era fasciato di un velo nero e scuro, come il buio, su cui splendevano tutte le costellazioni de mondo, irradiando d’ogni colore. Capelli neri, vorticosi al vento ed ali di scuro piumaggio, impetuose. Un viso duro, su cui splendevano due occhi luminosi come quasar incandescente. Era splendida oltre ogni immaginazione. Sublime, incredibilmente bella ed incredibilmente spaventosa. “Madre” si lasciò sfuggire, Nyx sembrò incurvare le fini labbra in un sorriso, “Bambina mia” bisbigliò lei con una voce profonda, ma incredibilmente delicata, Bernie si sentì così piccola a quel contatto. Avrebbe voluto stringersi a lei, come faceva con suo padre, tanto quanto avesse desiderato da bambina.

Nyx sembrò farsi più vicina, luminosa come una stella, “Cose oscure stanno accadendo” aveva bisbigliato, “Gea e la guerra” aveva aggiunto, accarezzandole i capelli scuri. “Vuoi che io combatta?” aveva chiesto preoccupata. Nyx le sfiorò la guancia delicatamente, “Nessuno può chiederti tanto” aveva detto con un tono impastato, aveva lisciato la gota, sistemato i capelli scuri dietro l’orecchio, “Se vuoi combattere è una tua scelta” aggiunse, con un tono estremamente materno, giocando con i capelli della ragazzina. Aveva un tocco delicato, calmo. Nyx riusciva ad irradiarla dello stesso delicato calore che le dava suo padre quando l’abbracciava, la sicurezza della forte mano di Bells stretta alla sua. Fu irrispettoso forse, ma non poté non stringersi attorno a quel corpo, in un abbraccio disperato. Il vestito della dea coceva come fuoco ardente, ma non bruciò la pelle di Bernie. Lei chiuse le sue mani sul suo corpo, stringendola più forte. Come una vera madre.

“Ma voglio chiederti io un favore” aveva bisbigliato Nyx, con un tono calmo, allontanandola appena, senza allontanare i palmi dalle braccia, “Gea cerca un arma potente” l’aveva informata, “Un’arma?” bisbigliò Bernie con una voce tremante, la dea della notte mortale annui, era una creatura amena, la più bella che avesse mai visto, “Devi trovarla, bambina mia” aveva ripreso, la sua voce sembrava persa altrove, “Devo?” domandò confusa, sbalordita, con gli occhi sgranati. Che quella fosse una missione? Come le aveva definite Carter, quando parlava degli incarichi che i genitori divini davano ai figli? “Per te?” domandò, le parole le erano sfuggite spontanee dalle labbra, come se non fosse riuscita a trattenerle, Nyx mosse il capo, “Ne per me, ne per gli dei, ne per Gea” aveva risposto la dea. “Per te stessa” aveva bisbigliato, passando i pollici sotto le arcate delle sopraciglia, “E’ un’arma potente, che ha bisogno di un custode potente” aveva bisbigliato con un sorriso vagamente velato, “Sono una dea primordiale” aveva ripreso, “Hai ereditato da me capacità che non puoi neanche immaginare” aveva bisbigliato con un tono d’affetto, baciandole la fronte, come lei aveva fatto con suo padre. Non poteva essere! Pensò Bernie, non era lei quella forte, era Bells quella che riusciva a scivolare nelle ombre ed evocare una profondo buio, da celare agli occhi di tutti la vita stessa. Era la sua gemella l’essenza stessa dalla notte, non lei.

Nyx sollevò un lembo del suo vestito di fumo, con stelle lucenti e ne strappò un pezzo. Era il manto della notte, Bernie lo percepì nel sangue. La dea accartocciò tra le sue mani il fumo, fino a confinarlo in un solo palmo, stretto in un pugno, congiunse anche l’altra mano e quando volse le mani aperte verso di lei, la ragazza poté vedere che il fumo della notte, aveva una forma solida, un cannocchiale d’onice nero lucido, tempestato di lucenti spiragli, per un attimo pensò fossero piccoli zirconi o addirittura diamanti, ma emanavano calore, quando prese il cannocchiale dalle mani di sua madre, erano fatti di pura luce e calore, erano come minuscole stelle. “E’ un taumascopio” aveva spiegato Nyx, “Molto speciale” aveva ripreso con un tono profondo. Lisciò di nuovo le guance di Berneyx con entrambe le mani e le sorrise. Il resto si dissolse in un vortice di nera fuligine, che le offuscò gli occhi. Quando tornò il chiaro. La notte era scesa e dal finestrino si definivano i confini imprecisi, agli occhi ancora semidormienti, di una città.

Si voltò verso Arvey, la stava guardando attentamente, lei si morse un labbro preoccupata, percependo ancora sulla pelle il calore del palmo di sua madre. “Non era un sogno come un altro, vero?” aveva domandato preoccupato, grattendosi i capelli biondi, “Ho avuto una missione” rispose spaesata lei. Il lestrigone l’aveva guardata come se fosse stata la cosa più strana del mondo, del genere Gea che ballava a ritmo di nacchere, “Credevo che hai mezzosangue che dichiaravano guerra all’olimpo non venissero assegnate missioni” aveva sputato fuori Arvey, con un certo tono di saccente. Bernie aveva sospirato pesantemente, non aveva mica tutti i torti, sua madre era una grande madre, ma non aveva mai fatto nulla di davvero importante per lei o per Bells, non le aveva mai spinte tra le braccia dei Titani o degli Dei, così come ora s’era astenuta da immischiarsa a quella dei Giganti, erano state loro due ad aver preferito allearsi con Luke, perché sembrava bella la sua età dell’oro e speravano in cuor loro di ridare il mondo alla loro madre, come giusto che fosse. E quella era la prima volta che sua madre si immischiava pesantemente. Sentì qualcosa bruciare sul suo fianco, spostò la giacca di pelle, per vedere che tra la maglietta nera e la giacca verde bottiglia, c’era il taumascopio. Lo prese delicatamente.

Lo portò all’occhio, senza rispondere alla domanda di Arvey ne spiegare nulla. Ciò che vide davanti a lei, non furono altro che immagini distorte di specchi di luci colorati, che dovevano essere ciò che c’era davanti. Nulla di utile. Solo dilettevole. Ma tra i giochi di colore, s’era formata una sagoma indistinta. Bernenyx aveva giocato con gli obbiettivi, cercando di incastrare meglio le lenti, affinchè la figura si definisse, ma nel tentativo l’aveva persa. Allontanato il taumascopio dall’occhio aveva guardato Arvey. Il canadese la fissava prettamente confuso, “Devo trovare un’arma” aveva spiegato con voce neutra. Sua madre le aveva fatto una richiesta, si era fidata di lei, le aveva assegnato una missione e le aveva donato un oggetto ricavato dal manto stesso della notte. Strinse le dita fragili sul dono. Doveva trovare l’arma per lei, perché la custodisse. E questo voleva dire accantonare la ricerca di Bells. “So dove trovarne a bizzeffe” la rassicurò Arvey spacca meningi, passando una mano sulla sua mazza da battaglia. Bernie aveva aggrottato le sopraciglia, prima di mostrare il taumascopio, “Ne cerco una in particolare” ed ondeggiò l’oggetto, era ovvio che quello servisse per trovarla, almeno credeva. Aveva solo intravisto una figura imprecisa.

“Dovremmo mettere da parte Bells, per un po’” aveva detto rattristata. Mentre il treno s’apprestava alla fine delle sua corsa. Volse lo sguardo, su un cartello c’era scritto il nome della città, ma era così addormentata, che le lettere si mischiarono fino a creare un luogo mai udito. Lasciò perdere. “Ne sei certa?” chiese Arvey, con un tono apprensivo, quasi distruggesse lui l’idea di non trovare sua sorella. Bernie oscillò ancora una volta il taumascopio, senza rispondere. Forse era perché di fatto era stata sua madre a darle quell’incarico, ma lei lo ritrovava giusto, come se fosse stato qualcosa di cui aveva bisogno.

 

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Capitolo 6
*** Quando sei un mezzosangue anche una corsa per schiarirsi le idee può essere una cosa degna di fama(July II) ***


Questo capitolo è stato un parto: ho tagliato e riscritto interi pezzi, senza considerare che “il cattivo” del capitolo è stato cambiato una decina di volte e non parliamo del titolo, il finale è un po' a casaccio invece, perché non ero certa di come dovesse finire. Ed anche un po' turpe, credo, oltre questo c'è da dire che da ora cominciano le “botte” (all'incirca, Heather non farà nulla di chè) e contemporaneamente le giustificazione per il colore del rating. Approfitto per chiedere umilmente scusa, che faccio schifo nello scrivere di lotte.
Ci tengo a ringraziare chi legge e segue; ed ovviamente chi recensisce: summer_time e AliNicoKITE, voi mi rendete davvero una persona felice.

Note a fondo pagina, importanti da leggere, dopo.

Buona lettura,

RLandH

 









 

Il Crepuscolo degli Idoli

 

 

 

 

 

Quando sei un mezzosangue anche una corsa per schiarirsi le idee può essere una cosa degna di fama.

 

 

July II

 

 

 

La carnagione di Jake era mediterranea, spiccava sotto il lenzuolo bianco. Era un bel ragazzo, con i capelli scuri, sottili e disordinati, gli occhi grandi e neri, come il carbone. Nonostante gli arabeschi bianchi ne levigavano la pelle, rovinando la vaga illusione di un’adolescenza normale. Jake portava sulle guance, sulla carne, su ogni centimetro di se, il labirinto. Marchiato nelle cicatrici, nelle occhiaie scure – delle notti insonni – e in ogni sguardo disincantato dal mondo.

E respirava piano Jake, al suo fianco, con la bocca appiccicata alla sua guancia. “Lo sai qual è la mia più grande beffa?” le chiese sornione, con le labbra carnose arricciate in un sorriso da gatto del cheshire, mentre con le dita ridefiniva cauto la linea del suo profilo. “Non ho idea neanche chi sia tra i due il mio genitore divino” le disse poi, spento. S’era voltata per incrociare i suoi occhi; allora gli aveva detto, prima di baciarlo frettolosamente che non era importante. In quel momento, la July del Dopo Manhattan, avrebbe voluto dirgli di rimanere in quel letto con lei per tutta la vita, che davvero tutto il resto non importava.

Come il ricordo di quella notte era venuto, improvviso ed angosciante, alla stessa maniera era andato via.

 

 

 

July da sotto il lenzuolo d’un caldo ricordo, s’era ritrovata vagabondare per un parco. La brina primaverile inumidiva il letto d’erba, verde brillante, per celebrare la rinascita della primavera. “Non c’è da stupirsene” costatò lei, “La terra stessa sta rinascendo” aveva aggiunto, con molta meno allegria. Non gli era decisamente chiaro quale fosse il Piano Malefico della Madre Terra, ma il suo piano – Eris permettendo – non era cambiato affatto: trovare anche il più fetido dei buchi e nascondercisi fino alla fine dei tempi.

Madre Gea veniva dopo, però. Aveva di gran lunga la priorità scoprire in quale angolo di mondo si fosse svegliata, perché certamente non era lo stesso in cui s’era stesa la notte prima. Aveva affondato il viso nel cuscino di Torrigton, bella stesa sul letto che con molta eleganza e una certa reticenza il ragazzo s’era ritrovato costretto ad offrirle, in nome di un qualche codice cavalleresco, soppresso da secoli. Ed in quel momento era in un parco. Di quelli con ampi spiazzali verdi per il picnic, con alteri secolari, con tronchi ampi e rami resistenti, da poter sorreggere il peso di una persona. Non lontano spiccavano altalene ed altri giochi per bambini; eppure July aveva l’impressione che l’intero ambiente per quanto bello, fosse coperto da un sottile strato di nebbia, che offuscava anche gli occhi più attenti.

Il silenzio finì per infrangersi, nel delicato suono dolce d’un flauto. Una melodia delicata, preziosa, timida, come fosse stata la metafora della primavera rinascente, della natura, timorosa ad aprire gli occhi sul mondo, per accertarsi per davvero della fine del gelido inverno.

 

 

Seguì cauta il suono, inoltrandosi in quello che aveva l’aria di un piccolo bosco. A seguito del dolce suono, era venuto alle orecchie anche le frizzanti risate femminili. July s’era nascosta dietro il tronco d’una quercia, spiando attenta ciò che gli si era aperto davanti: un gruppetto di ninfe, con vestiti di fogliame, rideva e ballava al tempo di quella litania. Erano allegre driadi, non c’era nulla di così sospetto. Poi si accorse del suonatore, era più distante, sistemato sotto un pino, dagli aghi verdissimi ed acuminati, era un satiro. Accomodato sull’erba brina, agiato nella sua nudità, aveva capelli biondo sabbia, lisci, da cui spuntavano due fiere corna da caprone, un viso affilato e pallido, labbra sottili costrette in una posa strana1 per soffiare l’aria attraverso i giunti di un flauto di pan. A quella distanza July non riusciva a scorgere particolarità nell’oggetto, solo le cannucce non sembravano essere di legno.

 

“Sono colpita” aveva detto un’altra figura, avvicinando al satiro, era una donna matura, aveva la pelle eburnea come una statua. I capelli erano poco visibili sotto un manto carminio, ma risultavano dello stesso colore della pelle e rigidi, come se fossero stati scolpiti nella roccia. Lei era stretta in un lungo abito di satin rosso, con ghirigori e pennacchi dorati. Sebbene il vestito non stringesse sul fisico, mantenendo un panneggio morbido, il corpo della donna ne era ugualmente valorizzato, grazie ai fianchi tondi ed il seno gonfio, nonostante non fosse più così giovane e così soda era comunque una bellezza. Solo che non sembrava umana, sembrava qualcosa di diverso, tranne gli occhi di un colore non chiaro, una sorta di miele sporco. Il satiro non sembrò all’apparenza curarsi di lei, continuando la sua dolce nenia, però aveva aperto gli occhi, sotto le ciglia chiare, si nascondevano iridi castane piuttosto anonime. Aveva guardato appena la donna, senza curarsi di risponderle. “Non ti ho ancora visto muoverti” aveva stabilito quella, sedendosi accanto al satiro, ogni sua azione era compiuta con una certa regalità, “Non starai pensando di accettare la proposta di Gaia?” aveva indagato la donna, sotto le luci del mattino, un filo d’oro spesso quanto un dito riluceva attorno alla fronte. “Io potrei” aveva convenuto, sorridendo accondiscende, “Ma voglio prima vedere Apollo ed Artemide soffrire come ho sofferto io” aveva stabilito, chiudendo un pugno con forza, la pelle si era come crepata lungo il braccio come se fosse stata fatta di terracotta o ceramica.

Il satiro terminò la sua litania, “Lascia a me l’Orfeo in divenire” aveva stabilito quello, aveva una voce delicata, sottile ed antica, “Ma la Pazza ha detto già chi ucciderà la Regina della Pestilenza” si era lagnata la donna, ringhiando, anche agli angoli della bocca erano comparse crepe, “E allora?” aveva risposto seccato il satiro, “Ci sono interi campi che pullulano di progenie di Apollo” aveva risposto seccato, prima di inclinare il capo, come se cerchiasse di scrocchiare il collo, July ebbe l’impressione guardasse nella sua direzione. “Lo ucciderai così?” aveva ammiccato la donna, indicando con il capo più in là, allora la figlia di Eris si accorse che le allegre risa delle driadi erano cessate, come elle stesse, un cerchio di morte, erano tutte riverse sull’erba, sventrate, soffocate, tumefatte. Loro si erano uccise a vicenda?

“Una specie” aveva sentenziato il satiro.

 

 

La prima cosa che July aveva fatto era stato vomitare, il problema fu, che nonostante la buona volontà non era arrivata neanche alla porta del bagno di Al, finendo per svuotare lo stomaco sul pavimento. Accasciandosi, con sommo disgusto lì accanto. Il sogno era stato oltremodo indigesto. Era quasi ridicolo che un gruppetto di driadi morte l’avesse colpita a tal punto, specie per lei, che aveva visto gli orrori del labirinto, che aveva tenuto sul grembo il viso defunto del suo amante ed era la figlia della discordia stessa. “Juls!” aveva strillato Torrington, comparendo sull’uscio della porta, in boxer con i pois ed il fisico da polletto, gli occhi verdi sgranati.

“Stai bene?” aveva chiesto il ragazzo, tenendola su dalle spalle, “Che non lo sai che quando le persone stanno bene vomitano?” lo bacchettò lei, mostrando i denti. “Dei celesti! Perché ho dato retta ad Howard e non ti ho lasciato per strada?” s’era lamentato piccato il ragazzo, chiudendo gli occhi, profondamente seccato. “Perché siamo buoni?” aveva proposto una voce da un’altra stanza, con allegra onestà. Alabaster aveva aiutato July a tirarsi su, lanciando uno sguardo piuttosto critico alla chiazza di vomito sul pavimento, “Pulisco io” aveva bisbigliato flebile lei. Aveva fatto le pulizie per mantenersi negli ultimi tempi, infondo – aveva pulito cose peggiori. Torrington non aveva dato cenni di averla ascoltata, “Non esagerare Howard! Sei sempre stato ben lontano da essere un essere umano anche solo vagamente decente” lo aveva pungolato invece, con una mano attorno alle spalle di July e l’altra sul proprio fianco.

“E l'unica volta che ti sei mosso per aiutare qualcuno sei morto” aggiunse, scortando la ragazza fuori dalla stanza, “Prego! Prego!” rispose Horward ridendo – non avendo preso sul serio la questione della sua morte.

July sorrise. Il lare personale di Al, anche se il ragazzo s'era guardato bene dal definirlo così, era decisamente più accomodante e spesso simpatico dello stesso proprietario di casa, sebbene piuttosto superbo.

Alabaster, nonostante tutti i suoi cattivi pensieri, l'accompagnò fuori dalla stanza, tenendola per la vita, delicata. “Ho sognato qualcosa di brutto” aveva rivelato lei con voce mogia, gli occhi chiusi, nel riflesso delle palpebre le ridenti driadi morte.

 

Erano arrivati in cucina e July aveva occupato la stessa sedia della sera prima, ritrovandosi davanti al viso la bottiglia che le aveva regalato sua madre, racchiuse le dita attorno alla fronte con gli occhi strizzati, doveva darsi una calmata, nella sua vita aveva visto nella sua vita molte cose brutte … come il labirinto. Allungò una mano e raccolse la bottiglia, era fredda, come se fosse stata in frigorifero per tutta la notte, ma July sapeva fosse stato su quel tavolo tutta la notte ed il giorno precedente e quello prima ancora.

 

Alabaster le aveva piazzato una mela verde e lucida davanti, coperta da goccioline d'acqua e s'era accomodato di fronte lei, con gli occhi spenti, cerchiati da occhiaie rosse; July aveva morso la mela con un movimento lento e disinteressato, Al le aveva sottratto la bottiglia dalle mani, s'erano sforzati di riuscire ad aprirla ma non avevano cavato un ragno da un buco. “Forse è come Excaliburn” aveva scherzato Horward qualche giorno prima.

 

“Ho parlato con Bernie LaFayett” aveva sussurrato alla fine il ragazzo, continuando a tenere la bottiglia. July aveva sollevato le spalle, la presa della mela le era quasi sfuggita, tutta rigida e morbosamente curiosa, se pensava all'ultima volta che aveva veduto la ragazza in questione era stato durante la battaglia di Manhattan, Bernie era in seconda linea, vestita di pelle, con l'armatura oplitica semi indossata, spada e scudo alla mano, il groviglio di ricci raccolto appena sulla sommità del capo ed il viso sicuro – più di quanto fosse lei. Non erano mai state amiche, erano state compagne però, July s'era addestrata nell'uso delle armi con sua sorella Bell, che era una selvaggia pantera con gli occhi di fuliggine e nessuna pietà in duello, l'aveva vista ferire senza remore e vergogna chiunque – anche nella battaglia, tranciare statue e semidei, nonostante la paura, che mai le era appartenuta, appiccicata al viso, rifulgente di oscurità. Gli era venuto in mente come Carter si rivolgeva sempre a loro, Le terribili figlie della Notte, la progenie di Nyx, oscuri e pericolose, anche se July non riusciva a dare nessuno di quei due aggettivi a Bernie.

 

“Lei non è riuscita a dirmi niente … il contatto si è interrotto, qualcosa la ha attaccata” aveva mormorato vacuo Alabaster, gli occhi verdi piantati nel vuoto, la bottiglia tra le dita, “Le ho detto dove ero, lei sa trasportarsi nell'ombra” aveva sussurrato cauto. July aveva annuito, la manipolazione della nebbia e dell'ombra sembrava l'unica cosa in cui Bernie eccellesse alla sorella, “Quanto tempo fa è stato?” aveva chiesto lei, “Neanche tre ore fa” aveva risposto secco lui, “Ho provato a contattarla, ma non ci sono riuscito” aveva confessato tetro. Forse era morta, ipotizzò con sgomento July, per niente volenterosa di aggiungere un altro nome alla lista delle persone che aveva conosciuto in quelle dei morti, forse era stato per quello che per un anno se ne era tenuta fuori, non sapere a volte poteva essere meglio. S'alzò dalla sedia, “Io vado a fare una corsa, ne ho bisogno” aveva stabilito, prima di lasciarle la stanza a passo frettoloso, “Dimenticati di Bernie, pensa alla bottiglia” aveva sussurrato frettolosa, forse anche un po' ingiusta.

Era figlia della dea Eris infondo.

 

Alabaster si alzò con lei, tenendo la bottiglia tra le dita affusolate, “Il sogno!” aveva commentato il ragazzo, richiamando alla sua memoria la melodia del flauto di Pan, “Pensavo mi avresti ricordato di pulire il vomito” scherzò lei, con le labbra appena piegate in un sorriso amaro, Al strinse le labbra e trattenne una risata, appena. Era carino Alabaster, in un certo senso, un po' allampanato, con efelidi su tutto il corpo, un viso scarno, incavato, e capelli corvini intrecciati sugli occhi verdi. Indossava la maglietta del pigiama a mezza manica e dei calzoncini rossi, per nulla a disagio a starsene con le sue secche gambe nude davanti ad una ragazza, più grande per lo più.

July prese un sospirò e raccontò tutto.

“Un satiro, una donna dal viso crepato, ninfe morte ed un flauto di Pan” aveva ricapitolato Howard che aveva sentito l'intero discorso, era un uomo di mezza età, con i capelli sale e pepe ed un naso grosso a patata, insolitamente avvolto da una luce violacea, era un entità di sola nebbia. In mancanza di tasche, Al se ne stava a braccia incrociate e spalle incassato, “Dimentichi il desiderio di morte per i figli di Apollo” aveva aggiunto, osservando l'uomo.

Mentre i due ne discutevano July s'era cambiata, lasciando la porta aperta perché potesse sentirgli, liberatasi del pigiama che Alabaster aveva fabbricato con la nebbia – o forse sottratto – in favore di una vecchia tuta, forse troppo pesante per quella stagione, che aveva trovato in un fondo di una vecchia cassettiera. S'era chiesta, per un minuto o due quando era entrata lì nella prima volta, di chi fosse in realtà quella casa.

 

“Io vado a correre” aveva annunciato, infilando la lima per unghia nella tasca dei pantaloni larghi della tuta, d'un roso bruno, “Vuoi la mia pistola cara?” aveva chiesto il fantasma, “No, grazie signor Horward” aveva risposto, non sapeva usare un'arma da fuoco, era piuttosto brava nel corpo a corpo e nell'utilizzo di una lancia, ma la sua si era spezzata a Manhattan contro il busto di una statua; “Dottor, cara, Dottor Horward” lo corresse quello. Parecchio narcisista per essere un fantasma.

 

“Hai pulito il vomito?” chiese invece Alabaster, “Si” mentì lei, s'era limitata a stenderci sopra uno straccio. S'era diretta spedita verso la porta dell'abitazione, passando per l'ampio salotto, vicino la porta del microscopico androne, vicino l'appendiabiti c'era uno specchio, come ogni volta, July s'era guardata, concedendosi il suo più grande vizio, la sua vena vanesia – neanche fosse stata progenie d'Afrodite.

S'era sempre amata, ma per molto tempo, dopo il labirinto, aveva provato disgusto per il suo corpo martoriato, pieno di cicatrici, che solo Jake avrebbe potuto amare, perché era spezzato come il suo.

 

Ma nello specchio non aveva ritrovato la sua carnagione ambrata con i capelli rovinati, chiari al fondo e neri alla cute, ma il viso latteo cagliato, incorniciato in una chioma bruna ondulata e gli occhi cattivi. “Madre” si lasciò sfuggire, “Smettila di perdere tempo” aveva ringhiato la donna, con una voce sottile, stridula. “Certo devo cercare l'arma, il ragazzo con il sonno apparente” aveva ricordato July, le parole dell'uomo mascherato e di sua madre, con una certa incertezza. No, lei voleva trovarsi un posto sicuro dove aspettare la fine del mondo e pregare di sopravvivere, non era abbastanza forte per quel mondo.

Il viso di Eris era una maschera di furore, aveva a differenza dell'altra volta, i capelli raccolti in molte trecce e nastri bianchi legati in esse, macchiati di un rosso scuro e secco; “So cosa stai pensando: Non sono capace, gnegne” aveva aggiunto lei, con un sorriso sornione. July aveva passo un passo indietro, finendo con il sedere contro il cassettone vicino la porta, “Lo diceva anche Walter ma alla fine ha scoperto di essere un vero artista” aveva aggiunto la dea Eris, chiudendo gli occhi appena, “Pungolata a sufficienza la mia stirpe non conosce confini” aveva soffiato; non s'era sprecata a dire altro, di Eris nello specchio erano rimasti solo gli occhi nocciola, gemelli ai suoi, il resto era il suo contorno.

 

“Ho sempre pensato a te come una figlia di Afrodite” confidò Alabaster, posandosi con la schiena al muro e spiandola attraverso lo specchio. July non si voltò, limitandosi a fissare gli occhi verdi del ragazzo tramite il riflesso. “La mia vanità ti ha tratto di inganno” - s'aggiustò un ciuffo di capelli biondi dietro l'orecchio - “Direi che non ci sei neanche andato vicino, Al” aveva risposto sorniona, aprendo le labbra in un sorriso, “Tu, dici?” aveva chiesto quello, alzando un sopracciglio. “Ehm … si” aveva risposto lei, con una certa perplessità. “Sia Eris sia Afrodite sono dee bisbetiche, vendicative e piuttosto crudeli, sebbene alla Dea dell'Amore piaccia fingersi gentile” aveva chiarito quello, standosene con un sorriso tirato, che non prometteva nulla di buono sul viso, “Tutti gli dei lo sono” aveva ribattuto lei, prima di mordersi il labbro inferiore, “Rischiamo di inimicarci tutti parlando così” aveva osservato poi July, ottenendo da Al una semplice alzata di spalle, “Tanto io sono già odiato da tutti” aveva chiarito lui.

“Inoltre Eris è la compagna di battaglia prediletta di Ares ed Afrodite la sua amante per eccellenza” aveva aggiunto Alabaster, staccandosi appena dal muro, “Amore e guerra sono sempre compagne” aveva ribattuto July, ricordando vagamente le lezioni di letteratura quando ancora frequentava la scuola, “È la Discordia è l'antitesi dell'amore” aveva ribadito lui.

Al le era davvero vicino, avrebbe potuto quasi avvolgerla in un abbraccio. “Sai continuo a trovare strano che tua madre sia venuta, ti abbia fatto dei regali e scaricato qui senza una ragione” aveva fatto notare intelligentemente quello, perché per quanto July si divertisse a denigrare chiunque, doveva solo ammettere che il ragazzo che aveva davanti – tecnicamente alle spalle – era piuttosto intelligente, doveva essere almeno una settimana che quella curiosità frullava nella sua mente. “Oggi hai avuto un sogno” aveva aggiunto, “Tutti i mezzosangue ne hanno” aveva risposto prontamente lei, “Non ricordi? Carter e Chris ne parlavano sempre, anche tu sei stato al campo” aveva aggiunto immediatamente lei. Anche Jake Evandor ne parlava ogni tanto, un giorno le aveva confidato che non ne aveva più, che i suoi sogni erano lunghe oscurità pacifiche o silenziose, July aveva chiesto se questo lo rendesse felice, ma aveva ricevuto in risposta il nulla. “Sono gli dei a mandarci i sogni, Goldenapple” aveva risposto quello.

“Na parliamo dopo” aveva sentenziato lei frettolosa, “Devo correre” aveva raggiunto.

 

Sua madre l'aveva scaricata a Keesville proprio davanti al market dove Alabaster C. Torrigton il più brillante figlio di Ecate che la storia avesse mai visto da … sempre, per una ragione – ed anche ben precisa. Al era finito nel preciso mirino della dea della discordia, come chiaro aiuto a lei, ma July era fermamente convinta che il suo piano fosse più funzionale di quello di sua madre - che non s'era degnata neanche di spiegarle a dire il vero, aveva solo l'indizio dell'uomo mascherato – ovvero quello di nascondersi da qualche parte ed aspettare pazientemente, e passivamente, la fine. E di sicuro July dopo Jake e Mary non aveva affatto voglia di affezionarsi a nessun altra persona al mondo, che potesse andarsene di nuovo, lasciandola spezzata ancora, o peggio ancora avrebbe potuto darle motivo di voler lottare per quel mondo. Ma Alabaster era stato un compagno d'armi e meritava che almeno il crepuscolo dell'era degli Eroi se la facesse in pace in compagnia di quel suo lare tutto matto.

Aveva seguito il corso della strada in maniera automatica, lasciandosi guidare dal movimento lesto delle gambe, quando s'era fermata a riprendere fiato, non s'era neanche accorta dove avesse deciso di far sosta. Con le mani sulle ginocchia e piegata sulle gambe aveva ripreso un po' di fiato, sollevando appena gli occhi, ritrovandosi davanti un parco, per un secondo aveva pensato d'essersi ritrovata nel suo incubo, ma s'era accorta il parco fosse molto diverso, giusto un attimo dopo. Alcuni bambini giocavano nella sabbia ai giochi, qualche coppietta si godeva la prima luce di primavera sul parco, vecchi davano da mangiare ai piccioni e tutto sembrava così tranquillo ed autentico. Sorrise appena.

July era invidiosa dei mortali, non perché non avessero problemi – aveva vissuto da ragazzina ricca e da barbona, per sapere che la noncuranza era una brutta bestia, ma non quanto non avere i soldi neanche per mangiare – ma erano dotati di quella genuina immaginazione che gli rendeva così innocenti ai suoi occhi. Sulla Principessa Andromeda ne avevano parlato più volte, ricordava che le gemelle LaFayette avrebbero voluto avvertire i mortali sul mondo che gli circondava, come era in passato, che si sarebbero dovuti allenare come i mezzosangue, per difendersi, nessuno aveva compreso perché di quel comportamento. Carter e Jake sembravano orribilmente d'accordo. Lei no, come anche Alabaster, “Devono già occuparsi di far funzionar il loro incasinato mondo, per preoccuparsi anche del nostro” si ricordava aveva detto il figlio di Ecate. Qualcuno aveva detto voleva dare ai mortali un posto sicuro nella loro età dell'oro, sembrava stupido ma July non riusciva a ricordare chi avesse avuto un'idea tanto sciocca quanto bella assieme. E poi si ricordava di Lip, che era più piccolo di loro, sorrideva con i denti coperti dal ferro dell'apparecchio che rideva, così euforico di quel mondo per cui era sempre stato preso per matto. Come Hobb, quando July aveva conosciuto il vecchio barbone a Los Angeles aveva avuto l'impressione di parlare con Lip, con cui a pensarci bene, non aveva mai scambiato parole, eppure il peso della morte del ragazzino gli era sul cuore. Lip era fin troppo innocente.

 

“Va tutto bene?” aveva chiesto qualcuno sorprendendola, July era salta, con la schiena ritta, prima di identificare il suono della voce in un soggetto alquanto innocuo. Il suo primo pensiero era che una volta non si sarebbe mai fatta prendere così di sprovvista, particolarmente nel labirinto; le vennero i brividi. Il secondo pensiero fu che lo sconosciuto era piuttosto carino, forse più del tipo con il solenoide – che purtroppo era legato all'altro mondo - e le stava sorridendo. Era piuttosto alto, con l'incarnato olivastro, aveva un viso affilato e un groviglio di capelli neri, come il piumaggio di un corvo, era più grande di lei, di qualche annetto, aveva un aspetto trasandato ma in qualche modo attraente, come un poeta maledetto o quel genere lì. “Ero sovrappensiero” aveva risposto appena un po' imbarazzata, sorridendo anche un poco, il ragazzo, l'uomo, le sorrise di rimando, poi s'era spostato posizionando un cavalletto con della tela, che July non aveva proprio notato, o quello almeno si disse.

July s'avvicinò ad un panchina per sedersi, con le mani infilate nelle tasche della tuta. Sua madre e l'uomo mascherato volevano che trovasse il Ragazzo Con il Sonno Apparente, Alabaster voleva sapere la verità e lei sognava di Satiri che spingevano ninfe ad uccidersi a vicenda. “Nefasti numi” borbottò, “Volevo starmene in santa pace” ringhiò, percependo vicino alle sue dita un oggetto freddo, che giurava non doveva esserci stato quando aveva indossato la tuta quella mattina, svuotò la tasca per trovarci una lima, anzi la lima, il dono di sua madre – assieme all'inutile bottiglia. Osservò di sottecchi l'uomo che s'era bello messo a dipingere, aveva dita affusolate che teneva il pennello in maniera elegante, l'oggetto era di onice nero, quasi di styge, il pennacchio d'oro lucente. Sulla tavolozza c'erano solo due colori rosso bruno e oro brillante, eppure quando il colore toccava la tela, bianca come il latte erano altre sfumature ad appiccicarsi.

Mostrò i denti, chiudendo la mano sulla lima, come in cerca di un appiglio; era dannatamente certa lui sapesse perfettamente chi era lei, o per lo meno cosa era, e lei era disarmata e troppo lontana da Alabaster, non aveva neanche una dracma, per l'ira di Crono!

Il pittore continuò la sua opera indisturbato, come se di lei lì non importasse molto, anzi si voltò e le sorrise.

 

Un corpo cadde al suo fianco, seduto scomposto sulla panchina. Un odore pungente di fresie, July voltò il viso, con un espressione allarmata ancora prima di confermare ciò che avrebbe visto. Mary Beauchamp era seduta al suo fianco e le sorrideva compiaciuta, con le labbra sottili e gli occhi castani come il legno, “Tu sei morta” riuscì a sussurrare July con il fiato spezzato.

Il viso di Mary non s'era incrinato neanche di un momento, restandosene tutta tranquilla al suo fianco, “Lo sappiamo” sussurrò qualcuno negli intorni, “ È stata bruciata” disse qualcun altro, una voce femmine, bassa, “Il suo compagno la uccisa, ho sentito” sussurrò la prima voce, “No!No! È stato il figlio di Gea” s'aggiunse una terza voce, “ È soffocata nel sangue, dicono” era la quarta voce. July le sentiva tutte intorno a lei, un brusio basso di voci che s'accavallavano per urlare man mano, alcune sottili, altre veloci, alcune forti e tonanti, altre lente da perdersi nelle parole, tutte insieme da farle esplodere la testa. “Io l'ho vista, questo occhio non mente, s'è uccisa – pazza! Pazza!” era riuscita a distinguere, “No” si lasciò sfuggire July, Mary era troppo forte per uccidersi! “Queste orecchie l'hanno sentita lamentarsi, mamma mamma rispondimi! Piangeva” qualcun altro s'era fatto avanti nella confusione, July sentiva le voci rimbombare nella sua testa, mentre il viso sorridente di Mary era davanti al suo, “Oh no! Menti! July! July! Chiamava” la voce era certa delle sue parole, anche July sembrava volenterosa nel credergli, “Che tragedia, July perché mi hai lasciata da sola?” aveva sussurrato una voce, ma questa lei era riuscita a capire da dove venisse, veniva dalle labbra sottili di Mary – ma non era la voce della sua amica, non che riuscisse a ricordarla chiaramente, ma era una voce troppo calma, bassa e lenta per esserlo, Mary era impregnata sempre di allegra giocosità e scherno, era la sua armatura contro la sua paura.

“Tu non sei Mary” disse secca. Non sapeva perché ma era stata certa che pronunciata quelle parole l'inganno si sarebbe sfatto, le voci avessero perso suono e lei si sarebbe ritrovata a fissare il viso d'un mostro. Non era successo nulla di tutto ciò, le voci avevano continuato a mormorate e far rumore e lei s'era trovata ancora a guardare una Mary indispettita. Comunque decise non poteva essere la sua defunta amica, sia per il fatto che non fosse cambiata di una virgola in due anni, sia per l'abbigliamento, la Finta Mary indossava una giacca crema, un foulard con le ancore e stivali beige di camoscio, dove erano i jeans strappati, le maglie spiritose e le scarpe con le borchie?

Ed anche perché Mary era morta, anche se July era bloccata su un lettino nell'infermeria della Principessa Andromeda, quando avevano brucato una pira per lei, Carter non le avrebbe mai mentito, non su quello almeno.

 

“Certo che no, July, lei è morta” aveva risposto con onestà la Finta Mary sorridendo in maniera accondiscendente, lei aveva schiuso le labbra sorpresa da quella incurante onestà, “Mi hanno detto che è nei Campi Elisi” s'era imposta una voce, “No, no, l'ho vista vagare persa nei Campi degli Asfodelli” aveva dibattuto un'altra, “Mentite. Questo orecchio ha sentito i suoi lamenti nel Tartaro”, “E questo orecchio l'ha sentita ringraziare i numi nelle Isole dei Beati” aveva articolato qualcuno. “Dov'è?” aveva chiesto July, cercando di recuperare il raziocinio, le orecchie le bruciavano e la mente stava esplodendo, come se un tamburo battesse nella sua testa. Chiuse gli occhi, cercando di aggrapparsi a qualcosa, ma il rumore delle voci accavallate, aveva portato la sua mente ad ideare un mondo desertico, dal suolo scivoloso, con bolle pulsanti e fiumi di fiamme, un enorme edificio di bronzo battuto s'apriva davanti a lei, nessuna finestra, solo porte rosse di sangue, di tutte le forme e di tutte le dimensioni, alcune aperte, altre chiuse, qualcuna semi aperte e le voci sembravano arrivare da lì, da ognuna di quelle porte. Il dolore l'ha riportò presto alla realtà, qualcosa l'aveva colpita nel pieno del ventre, sbalzandola lontana dalla panchina.

 

S'era ritrovata sporca d'erba e terra, supina e la Finta Mary eretta ai suoi piedi in tutto il suo glorioso splendore. July aveva chiuso le mani attorno alla zona dolente, lasciando cadere la lima per terra, ritrovandosi presto le mani sporche di rosso, cinque lunghe linee scarlatte erano aperte sulla sua pelle. Respirò a fatica, con gli occhi annebbiati dal dolore alzò lo sguardo verso la Finta Mary, allora riuscì a scorgere appena, coperte da nebbia molto densa delle ali. Le più grandi che July avesse mai visto, lunghe, dalle piume affilate come lame, d'un rosso brunastro, come il sangue rappreso, un colore disgustoso, che s'abbinava bene alle malformazione, perché tra ogni penna, sembravano sorgere, e scomparire, bulbi oculari con iridi di ogni sfumature, orecchie di diverso taglio e carnagione e labbra umane, che parlavano svelte, con altrettanto lingue rosse che schioccavano al loro interno. Raccapricciante. “Cosa ... sei … tu?” chiese July a fatica, cercando di contrarsi per mettersi almeno sulla posizione seduta, ma i tagli scavavano l'addome.

“Cosa?” aveva chiesto retorica la Finta Mary perdendo tutto il suo tono morigerato, “Pensi di avere a che fare con un mostriciattolo?” aveva chiesto indignata, mostrando i denti, acuminati. “Certo, noi lo vediamo, lei è un mostro” una voce aveva cantilenato, “Il mostro più spaventoso, ho sentito, in grado di dilaniare membra come fossero fatte di burro” un'altra, “Mentite, il mio occhio vede tutto, lei è una dea” aveva sussurrato qualcun altro, “Le dee sono belle, lei è un mostro, l'ho sentito ammetterl0” aveva ripreso qualche altra voce, July vedeva tutte le labbra muoversi a ritmi diversi e parlare ad un certo punto, ascoltare era diventato impossibile, le orecchie le dolevano da morire.

La Finta Mary le aveva posato il suolo della scarpa sulla trachea schiacciandola appena, “Pensi che io sia un mostro, stupida mezzosangue?” aveva chiesto quella, guardandola divertita con gli occhi scuri. July aveva sentito la rabbia montargli dentro, non per l'epiteto o per il trattamento, ma per lo sguardo, non riusciva a sopportare che la sua amica Mary la guardasse così.

 

July sollevò a fatica le mani per raggiungere il piede della creatura, nel tentativo di allontanare la suola dalla gola per poter ritornare a respirare bene, la Finta Mary continuava a tenere un sorriso aperto sulle labbra, sentiva le dita, con le braccia, formicolare tutte, come se qualcosa si stesse risalendo sotto la sua pelle. Forza. Era forza. Il viso della creatura si ritrovò sconvolto, accompagnato da un urlo di dolore, quando July con più forza di quanto ebbe mai avuto, torse il piede con così tanta forza, da spezzare l'omero, che finì per sfilacciare la carne ed esporsi. La finta Mary s'era ritrovata presto stesa per terra, urlando di dolore, tenendo le mani premute sulla ferita zampillante, dal suo canto la figlia di Eris strillava per il bruciore, le sue mani erano ustionate, sporche del suo sangue e di velenoso icore dorato, “Se-sei ... una … dea?” riuscì a chiedere con una certa fatica, con le lacrime premute sugli occhi, mentre cercava di strisciare via.

La Finta Mary s'era chinata per stringere l'osso di nuovo alla gamba con il suo foulard, il viso aveva ripreso colore ed una discreta arrabbiatura, “Si piccola inutile mezzosangue” aveva ringhiato. Le voci per un attimo s'erano arrestate tutte e centinaia di occhi diversi, pupille tonde altre allungate, da felini e rettili, fissavano intensamente July, tutte le bocche erano sigillate e lei si sentiva stranamente fremere per la forza. Solo che, non sapeva spiegarselo, era come se la forza fosse un essere vivente, annidato nella carne viva che si spostava frettoloso e formicolante sotto la pelle … e l'adrenalina, era venuta così vivace da averle annebbiato il dolore per le mani fumanti e le ferite sul torace, era riuscita anche a mettersi in una posizione genuflessa con meno fatica di quanto avesse sprecato un attimo prima per pronunciare tre parole scarse. Allora s'era accorta della lima per le unghia infilata nella tasca della tuta.

 

Lei è una dea certamente” aveva sussurrato una voce, infrangendo il sinistro silenzio, “La più amata e desiderata” aveva aggiunto qualcun altro, una voce tonate, “Tutti dovrebbero a lei fare sacrifici” serpeggiava qualcuno, lentamente July aveva potuto scorgere le bocche ricominciare a schiudersi, le le palpebre chiudersi e gli occhi guardare in ogni dove, “Di Eracle ha tessuto le lodi”, “Ma anche raccontato i suoi tumulti”, “Di ogni eroe ha detto il bene ed il male, così è cosi va”, “La Fama è”, “Questi occhi hanno visto gli eroi”, “Queste orecchie hanno sentito le loro parole”, “Queste bocche hanno narrato le loro storie” - il brusio era tornato come il suono d'un martello d'un incudine, così prepotente da spingerla a chiudersi le orecchie con le dita, “Non sempre abbiamo detto il vero”, “Noi raccontiamo la realtà come la percepiamo”, “Una storia è bella a prescindere che sia vera o falsa, no July?” l'ultima domanda era venuta dalla Finta Mary, che sembrava ancora piccata per la ferita al piede.

Lei cercò di tirarsi su nella posizione eretta, finendo per ricadere atterra invece, la forza come era venuta sembrava essere scivolata via altrettanto, “Sei una narratrice di storie?” aveva chiesto July affaticata, sentendo nuovamente il dolore sul addome, “Una musa, forse?” aveva riprovato, avendo ottenuto dalla dea un ringhio basso, ottenne anche con la seconda domanda il nulla.

“Sei, davvero, così ottusa piccola semidea?” aveva chiesto la Finta Mary, mostrando i denti, “Io sono Fama, figlia di Gea, colei che porta notizia, che crea leggenda, colei che tutti dovrebbero ingraziarsi” aveva spiegato con un tono orgoglioso, “E di grazia cosa vorresti da me?” aveva chiesto a fatica July, cercando nuovamente di sollevarsi sulle gambe, una mano sul busto e l'espressione abbastanza tormentata dal dolore.

Fama sorrise, mostrando la dentatura affilata, “Fin ai confini del Tartaro è arrivata la voce che tua madre ti abbia assoldata per trovarle un'arma” aveva risposto con onesta, “Non sappiamo dove veleggia Eris, ma non vi sarà possibilità che una mortale qualsiasi possa trovare qualcosa che mia madre voglia” aveva soffiato, deturpando il viso di Mary con un espressione carica di ira.

A July venne da ridere, nonostante nel farlo finì per sputare un po' di sangue e farsi dolere ancora di più il ventre, “Scherzi?” aveva chiesto, “Gli dei mi odiano ed ora anche Madre Terra?” aveva chiesto irritata, “Be, che vadano tutti al Tartaro a me non importa nulla” aveva soffiato, riuscendo a tirarsi su.

Il piano non cambiava era sempre lo stesso: aspettare con calma la fine del mondo – Gea, Eris e Fama potevano anche andarsene a ninfe.

 

Fama aggrinzì le sopracciglia, nere come la fuliggine e spesse, come a Mary piaceva portarle. “Tu non sei interessata?” aveva chiesto confusa, anche le voci s'erano zittite e le orecchie sembravano ritte, pronte a catturare le sue gustose parole, “Di mia madre me ne infischio, gli altri dei gli disprezzo e di tua madre me ne curo anche di meno” aveva sentenziato sicura di se July, stringendo il pugno sulla lima con così tanta forza che il ferro aveva tagliato il palmo della mano, “Voglio vivere il resto della mia breve vita in pace” aveva aggiunto. “Sei una delusione” sentenziò Fama, “Racconterò in giro che hai combattuto con onore se vuoi, che sei stata una vera gloria” aveva aggiunto, “O forse dirò che ti sei nascosta pavida come un coniglio” aveva detto, prima di lanciarsi su di lei, in volo – avendo la gamba offesa – con le dita ad uncino ed unghia acuminate come artigli neri, che si conficcarono senza troppa remora nella sua spalla, stracciando la maglia e lacerando la carne della spalla. Imprecò in greco antico, forse … ritrovandosi presto stesa sulle terra con la dea a cavalcioni su di lei, seduta sulle sue ferite, le unghia conficcate nella carne e l'altra mano piantata sulla sua gola. “Si dirà che piangeva July Goldenapple” sussurrò una bocca lasciva, “Questo occhio ha visto le sue lacrime e questo orecchio ha sentito le sue suppliche” aveva aggiunto, “Disperata e patetica come la sua Mary” s'era unita al coro di voce quella di Fama.

July percepì ancora una volta la forza arrampicarsi sulle sue ossa, come scosse continue, nonostante il dolore lancinante alla spalla e la presa ferrea sulla gola, che rendeva ogni respiro di fuoco. “S-sta … zitt-ta” bisbigliò appena, stringendo con forza la presa sulla lima, prima di recuperare un tale vigore al braccio per farlo scattare verso il viso della dea, conficcando la lametta nell'occhio di quest'ultima. Fama rotolò d'un fianco strillando di dolore, liberandola dalla presa, July schiacciò il capo per terra, respirando ampiamente, percependo nelle grandi boccate d'aria dei forti bruciori ai solchi sull'addome, ma aveva ancora così tanta forza in corpo da poterlo sopportare e riuscire a mettersi in piedi, percependo un profondo senso di vertigine. Abbassò lo sguardo, dove la sua lametta grondava d'icore dorato; il bulbo oculare distrutto era vicino la sua scarpa.

 

Una risata la distrasse, July cercò il fautore di quell'azione, trovandola nel giovane artista del parco, di cui s'era completamente dimenticata; il pittore era ancora lì, con il cavalletto davanti ed il pennello tra le dita, “Non andava usata così, ma è un inizio” aveva sentenziato quello, con un certo scherno, con un sorriso bianco come una fila di perle, “Cosa … tu...” s'era dimenticato quello che stava per dire a causa del dolore, era tornato di improvviso, bruciando l'addome e la spalla, “Cosa, per il tartaro, sta succedendo?” riuscì a ringhiare, sentendo l'aria nei polmoni di fuoco. Il pittore la guardò appena, “Vedi ecco, potrei spiegarti queste scariche di forza facilmente e risparmiarti molta fatica” aveva detto quello con molta tranquillità. “E non lo farai” aveva rantolato July sentendo qualcosa scorrere lunga la guancia, non era certa fosse sangue, sudore o lacrime.

Perchè nasciamo, viviamo e moriamo soli, pensò.

 

Fama era riuscita a sollevarsi a fatica sulle ginocchia, con le dita strette sulla cavità vuota dove era stato l'occhio sinistro, il destro bruciava di collera, “Volevo essere gentile con te, ma di te non resterà ne polvere ne memoria” aveva ringhiato, mostrando i denti, July non aveva avuto tempo di comprendere ciò che era successo fino a che non aveva visto Fama volarle in picchiata addosso, con un occhio spalancato ed entrambe gli artigli delle unghia sfoderate, nere ed acuminate. Cercò di arretrare appena, ma il dolore l'aveva fatta cere appena, dandole le gambe molli, cercò stupidamente di difendersi con la mano con cui stringeva la lima, voltando il capo e chiudendo con gli occhi. Non avene alcun impatto. Schiuse le palpebre, trovando le unghia di Fama infilzate contro uno scudo tondo di ferro lucido, che July stringeva da un laccio di cuoio – non aveva più la lima in mano.

Fama aveva l'unico occhio sbarrato, sconvolta, la stessa espressione, “Cosa …?” aveva mormorato appena, “Un marchingegno di Eris” sveva commentato prima di sorridere ancora, “Uno scudo?” aveva mormorato sconvolta lei, sua madre le aveva donato uno scudo? “D'etere” aveva considerato Fama ammirata, “L'etere è il materiale degli dei” aveva detto una delle bocche nascoste nelle ali, avendo ricominciato a parlottare dandole alla testa, allora lo scudo aveva cominciato a muoversi quasi fosse fatto d'argilla lucente riprendendo la forma di una lametta. “Se vuoi saperlo è etere polimorfo” aveva detto il pittore alle sue spalle.

Questo occhio vede un gioiello e questa bocca ne tesserà le odi per sempre”, “Fabbricato dalle attenti mani di Eris, dall'abilità di Efesto” ed avevano cominciato ad offuscare con le loro mille voci l'anima. “Polimorfo vuol dire più forme, vero?” chiese con una certa incertezza, per osservare la lima non aveva notato il pugno di Fama che s'era abbattuto sulla sua faccia.

La lametta le era sfuggita dalle mani, mentre lei s'era ritrovata a pochi metri di distanza con la bocca ricolma del suo sangue e denti e mascella a pezzi probabilmente. “Prima regola in battaglia non distrarsi mai” le disse il pittore con un certo divertimento, July saettò per un breve istante gli occhi di su di lui, trovandolo solamente interessato alla sua tela, neanche spostava lo sguardo dalle forme cui si stava dedicando. Sputò a terra sangue saliva ed anche qualche pezzo di dente.

Rapidà voltò lo sguardo verso Fama che con gli artigli sguainati si stava buttando su di lei, rotolò su un fianco e la presa della dea finì contro l'erba, affondando le unghia nel terriccio mollo. “C'eri quasi” la prese in giro un poco, pentendosene l'attimo dopo. Fama aveva già alzato il pugno per colpirla di nuovo, July dopo un microsecondo di smarrimento, aveva reagito, memore della scarica di adrenalina, placando il pugno con la mano testa, rompendosi probabilmente qualche articolazione.

Arpionò con le gambe quelle di Fama che s'era ritrovata a terra stesa al suo fianco, per qualche fortuita coincidenza. July quando assestò una ginocchiata sulla femminilità della dea realizzò quanto vantaggio aveva sprecato fino a quel momento. A parte le ali, il gusto del vestiario ed il sorriso cattivo – ed ovviamente un certo quantitativo di forza – Fama aveva in tutto e per tutto il corpo di Mary, non era solo un'illusione, probabilmente la dea era una di quelle senza volto, come Nemesis che riflettevano per ogni persona qualcuno, ma era in qualche modo più tangibile, aveva le stesse ossa sottili ed allungate di Mary ed il suo intero corpo, contro cui July aveva passato giornate intere a cuocersi nelle armature, sotto il sole, sul ponte della Principessa Andromeda durante gli allenamenti.

Colpì con un calcetto la parte offesa della bassa gamba, issandosi a cavalcioni sul basso ventre, sottili e magro come quello della sua migliore amica, prima di arricciare le mani attorno al collo di Fama, per ricambiarle la simpatica cortesia, cominciando a stringere la gola, dotata di quella straordinaria forza a scariche – prima che s'esaurisse – sfortunatamente solo una mano riusciva a fare il lavoro bene, ed era rallentata dal fatto che fosse al fondo del braccio legato alla spalla dove Fama aveva affondato gli artigli, l'altra mano aveva le dita rotte, nonostante lei non ne provasse particolarmente dolore, ma solo un leggero formicolio, sintomo dell'apatia che terminava. Non era neanche certa che si potesse strangolare una dea.

 

Fu costretta repentinamente a lasciare la presa quando la scarica di forza venne meno e la mascella cominciò ad andare a fuoco, da impedirle di tenere anche la bocca aperta e le dita della mano offesa dolevano così tanto da farle desiderare di strapparle lei stesse a morse e l'attimo dopo anche la spalla torna a flagellarla ed anche il ventre, dove linee le artigliate hanno scavato la pelle e la carne viva. Fama si era alzata a fatica e stordita, ma gli occhi di brace fissi sulla sua pelle, le unghia sporche di sangue, pronta ad ucciderla finalmente. “Narreremo della tua forza, figlia di Eris” ripete una bocca infilata da qualche parte tra le acuminate piume arance, le bocche parlano assieme e veloci, con toni diversi, lingue serpeggianti e July sente i loro sibili e le loro urla, alla medesima potenza rimbombargli nella testa.

“Ci siamo divertite abbastanza” aveva commentato Fama e con quelle parole ed il sorriso piuttosto giocoso a July aveva ricordato davvero Mary. Aveva sentito la rabbia montargli dentro, in maniera diversa da come facevano l'adrenalina e la forza, qualcosa di più personale, meno magico, tremendamente reale. July poteva sopportare ogni cosa nella sua vita, ma non che ad ucciderla fosse qualcuno con l'aspetto di Mary, o peggio ancora, che qualcuno indossasse il viso della sua Mary con così tanta ignominia. Tremolante incerta aveva raggiunto con una mano la tasca dei pantaloni, trovando la lima lucente d'etere polimorfo, al tatto fredda, ma malleabile. “Una vera guerriera” aveva sghignazzato, le labbra ghignanti i denti incastrati come punte acuminate. July s'era auspicata nell'ultimo anno di avere il resto della vita pacifica, che fosse d'un mese, d'un anno o di cento, senza reagire particolarmente, lasciandosi trasportare nella pacatezza e nell'indolenza, ma davanti alla morte, vivida come nel labirinto, July s'era ritrovata a scoprire quanto attaccata alla vita era e quanto orgogliosa – come la progenie di Eris doveva essere – era, intenzionata ad andarsene combattendo.

Gli occhi di brace di Fama nei suoi. Ed il soffio della morte dietro il suo orecchio, sul collo, tra i capelli pagliosi. Il viso di Mary, troppo cattivo per essere il suo. “Fatti sotto Gallina Starnazzante” aveva scandito bene, con gli occhi ridotti a fessure, la mano stretta attorno alla lima, che morbida come la plastilina d'un lucido argento andava a mutare la sua forma in qualcosa di più consono, una lancia – finalmente si sentiva completa, da molto tempo.

Aveva sollevato lo sguardo, per fissarli bene in quelli di Fama. Il viso della morte.

E Jake da qualche parte sorrideva forse, perché a breve si sarebbero rivisti.

 

Fama urlò in una maniera animalesca, disumana, bestiale, mentre la maestosa ala sinistra s'accasciava sull'erba, in uno zampilli d'icore dorato ed ossa pallide recise, “Che creatura interessante” aveva esclamato qualcuno, “Più di Lamia, concorderai con me Al” aveva aggiunto, allora July aveva riconosciuto l'incorporeo contorno violaceo del Dottor Horward. In compagnia di un ragazzo splendente, allampanato, con una zazzera nera, jeans scoloriti, felpa viola e giubbotto antiproiettile mimetico, con simboli incandescenti su tutti i vestiti ed entrambe le mani chiuse su una spada d'oro lucente, dalla cui lama cola l'icore. July aveva faticato non poco a riconoscere il famigliare viso di Alabaster. “Dei del cielo, grazie” aveva sussurrato appena, cadendo a fatica sulle ginocchia.

Fama aveva il viso troppo vacuo e confuso, con le dita strette all'arto – si poteva dire? - amputato; “Scusa Goldenapple ci stavi mettendo troppo” aveva detto Al con tranquillità, sorridendo. July pensò che non ci fosse da stupirsi che Alabaster fosse uno dei membri più eminenti dell'esercito, che non fosse una semplice pedina sacrificabile, Mary lo aveva detto: “È il più intelligente, eppure Luke non ci ha neanche pensato di mandarlo a risolvere gli enigmi del labirinto”, poi le aveva preso la mano e s'erano fatte quatte, camminando lentamente e vicine, Chris stoico in avanti con una camminata fin troppo rigida per un ragazzo così spontaneo e Jake con la testa incassata nelle spalle e lo sguardo guardingo alle spalle, bloccati in una stanza delle torture in vita, in continua espansione, senza tempo e loro privi della speranza di tornare a vedere il chiaro sole.

 

La dea le dava le spalle, una schiena mutilata, tra i riccioli scuri di Mary, si intravedeva una sanguinolenta ferita ed icore dorato a macchiare i brandelli d'abito firmato ed il crine. Fama era scoordinata nei movimenti, agitava la grossa ala rimasta, mentre le ossa delle scapole innaturalmente cercavo di imitare il movimento nell'amputazione, menava artigliate a destra e manca, ma Alabaster sembrava danzare con lei, evitando i colpi come in un'articolata corografia, senza neanche degnarsi di usare la spada per difendersi – o attaccare. Sorrideva anche il mezzosangue, godendosi la sofferenza della sua avversaria.

Sull'erba smossa, l'ala recisa continuava ancora ad agitarsi, come la coda d'una lucertola dopo essere stata staccata, tra le piume i bulbi oculari si stavano seccando e patinando, con le pupille rivolte al cielo e le palpebre a mezz'asta, le orecchie erano annerite colte da una fulminante cancrena, le labbra coperte di grinze e le lingue spaccate, denti marci e gialli, ma ancora in movimento a sussurrare cantilene che July non riusciva a distinguere.

Mary Beauchamp è morta da eroe, lo diremo, lo diremo” una voce cercò di persuaderla, “Il sangue del padre divino ricade sui figli mortali! Oh quanta morte! O quanto dolore” una di avvertirla sottile, “La sorella spezzata, sa dove è il ragazzo con il sonno più profondo” l'ultima era una voce rauca e rovinata. July non dava peso a nessuna di quelle parole, cominciava a sentire le dita formicolare ed anche il corpo, come se la forza che in precedenza aveva ricevuto dopo ogni colpo si fosse improvvisamente svegliata di nuovo, anche se non era stata offesa in alcun modo … sebbene, il fatto che Fama avesse il viso di Mary la offendeva e feriva più di qualsiasi altro colpo, si sollevò sulle gambe, mentre tutte le fitte che attraversavano il corpo si facevano più tenue. La dea le dava le spalle, cercando di colpire Alabaster, che manipolando la nebbia sembrava esserle attorno in ogni dove, senza che lei riuscisse a raggiungerlo. E tutta questione di ciò che si vuol vedere anziché su ciò che si vuol far vedere, aveva sommariamente spiegato una volta Alabaster, quando aveva liquidato Jake e Ines – July non ne era sicura – su come controllare la nebbia.

 

Saettò con le mani, la lama acuminata di etere polimorfo aveva attraversato la carne della dea come fosse stata di burro, scavando una voragine nel centro della schiena ed apprendo uno squarcio sul seno destro … July si diede della vile per averla attaccata alle spalle e della stupida per non aver colpito il cuore. Quando era in ballo la vita stessa, si smetteva di essere eroici e cavallereschi, non che lei lo fosse mai stata, era una figlia di Eris, per la gloria di Crono!

Fama sputò icore dorato dalle labbra sottili di Mary, prima che Alabaster con tutta calma e praticita aveva sventolato la lama d'oro lucido, finendo per reciderle la giugulare con un movimento lesto, “Presto! È una dea, non siamo in grado di ucciderla” aveva risposto quello, rimettendo la lama nel fodero, ancora sporca di icore d'oro, tutti i simboli disegnati sui vestiti e sulla pelle, s'erano spenti, lasciando chiazze nere ed altrettanto velocemente erano scomparsi lasciando solamente un banale Al. July estrasse con sicurezza la lancia dalla schiena di Fama che incosciente era crollata sull'erba, aveva ignorato deliberatamente le parole dell'amico per voltarsi verso il pittore per vedere se avesse altro da dirle – o prenderla in giro – ma quello era scomparso avendo lasciato solo un cavalletto con sopra una tela dipinta, provò ancora di più rabbia per quella fuga, quell'omissione. Si voltò di scatto verso la dea che faticava a riprendersi, mentre le ferite inflitte sul corpo cominciavano a rimarginarsi, “Hai ragione, non possiamo ucciderla” aveva risposto con crudezza, stringendo le mani sulla lama, che s'era andata a mutare sotto la sua presa per cambiare forma, un'asta di una certa lunghezza, con il piatto di un'ascia sul fondo, “Ma possiamo rendere la sua rimarginazione un vero tormento” sorrise nel dirlo, pensando per un attimo sua madre sarebbe stata fiera di lei, infondo era la signora del dolore.

 

July posizionò un piede sulla spalla di Fama per assicurarsi non si muovesse ed abbassò l'ascia sulla dea, colpendola sul polso, lacerando la carne, “Sii” esclamò Alabaster, “Quando dicevo che ero già odiato dagli dei, non volevo per nulla dare l'impressione di volere altro rancore” aveva scherzato quello, “Tranquillo, la nostra simpatica amica, lavora per Gea! Si può dire stiamo facendo un favore agli dei” aveva aggiunto, prima di abbassare di nuovo l'ascia e lacerare la carne all'attaccatura del gomito, non riuscendo però a segare l'osso con un solo colpo, dovendo ritentare ancora, “Potresti fare uno dei tuoi simpatici Hocus Pocus e far sparire le parti un po' da tutte le parti?” chiese July senza cortesia, Al alzò le spalle, “Dopo mi racconterai tutto?” aveva contrattato il figlio di Ecate, July aveva annuito ed una volta recisa anche l'attaccatura della spalla era passa alla gamba opposta, Alabaster s'era inchinato vicino i resti della sanguinolenta dea ed aveva fatto il suo lavoro, senza che lei si curasse di lui, passando dopo la gamba all'unica ala rimasta, cavando occhi e strappando lingue, poi all'altro braccio e all'altra gamba.

Molto sangue, squartamenti ed abracadabra dopo, erano solo lei, Alabaster, Horward ed un lago di icore dorato ad impregnare la terra, fino a seccarla per il veleno all'interno. Nessun mortale era stato turbato dalle disperate urla e l'atroce fortuna, “Per un po' potremmo dire che la Fama Volabant, anziché Volant4” aveva esclamato il fantasma con un certo divertimento.

July s'era passata una mano sulla fronte, sudata ed insozzata di icore e sangue, la lima della sua consueta forma stretta tra le dita, “Torrigton, recupera la tela” suggerì, cominciando a sentire tutti gli arti formicolare nuovamente, ammiccando all'opera dello strano pittore.

Il dolore alla mascella era stato il primo a tornare, seguito da quello alle dita rotte, poi alla spalla ed infine al ventre, non aveva visto se l'amico avesse eseguito il suo ordine, perché presto il dolore s'era fatto così vivo, da percepire il cielo schiacciarla e ridurla a nulla più che una poltiglia al suolo.

Non aveva mai provato così tanto male, neanche nel labirinto, era come se tutto il dolore represso fino a quel momento, fosse esploso per reclamare il suo ruolo con gli interessi – decisamente salati.

“July” riuscì ad udire, la voce di Al, preoccupata, alta ed allarmata, prima che il mondo sprofondasse in un sordo silenzio ed un implacabile buio.

 

 

 

Note a pie pagina:

 

-Il Dr Howard (Claymore) era un dottore, piuttosto arrogante ma molto intelligente, anche antisociale, poco amichevole, che praticamente l'unica azione altruista della sua vita è stata aiutare Alabaster e rimanerci secco (oltre che far morire il suo unico amico, Burly Black) per questo Ecate lo ha reso uno spettro nebbiforme, che risiede in una carta, in modo che faccia sempre compagnia ad Alabaster. July però sintetizza tutto in un Lare.

-Fama allora è una divinità “ideata” da Virgilio, che rappresenta il pettegolezzo che vola di bocca in bocca, vive ai confini del mondo, nel palazzo che July intravede. Per il resto è più o meno come la ho descritta. Però c'è da dire che il motivo per cui aveva l'aspetto di Mary, non so se avrò mai voglia di spiegarlo – e prettamente una manifestazione come intuisce July (Come Leo per Nemesis vede zia Rosa), in questo caso Fama prende l'aspetto della persona più motivazionale che conosce.

-Lamia, be, Lama è la creatura che ha ucciso Horward, contro cui Alabaster si è scontrato.

-Si, credo che H. Riordan sia fan di SH, visto che descrive Alabaster disegnarsi prima di uno scontro delle rune sui vestiti, con qualche portere magico.

-Si, Alabaster è combatte con una spada d'oro imperiale (Sa fare anche tante altre cose fighe, di cui parlero)

Ps- Riguardo i “poteri” di July, non dico nulla per ora (così come sul pittore) tranne una cosa, per giustificare me, più che altro. Percy “controllava” l'acqua anche prima di scoprire di essere figlio di Poseidone, per July non è così, ho sempre avuto la romantica idea di Eris come si la signora del dolore, ma anche una dea in cerca di approvazione, per ciò ho ideato che avesse messo come veto che i poteri dei figli potessero essere attivati solo dopo essere riconosciuti. Come se tutto quel tempo fosse stata una prova per vedere se July ne era degna.

 

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Capitolo 7
*** Il dietologo dei mostri consiglia: pesce affumicato, crudo di mezzosangue e acqua di palude(Arvey II + BONUS) ***


Eccomi! In ritardo, con un capitolo scritto di fretta e furia ne betato ne letto da lamascherarossa, quindi si sarà un disastro. Ed il finale è stato riscritto un numero di volte indecente, ma sembra che io non ami molto concludere i capitoli. E va bene, dai.

Una nota da fare è che il capitolo presenta all'inizio un Bonus, ovvero un pezzo narrato da qualcuno che probabilmente non avrà mai un capitolo dal suo POV.

Voglio come sempre ringraziare tutti quelli che leggono e seguono ed ovviamente summer_time che mi rende una persona profondamente felice.

Buona lettura

RLandH









 

Il Crepuscolo degli Idoli




 

Il dietologo dei mostri consiglia: pesce affumicato, crudo di mezzosangue e acqua di palude.



 

Arvey II
(Bonus)

 

 

 

Osservò le sue dita ceree, lunghe ed affusolate, che a primo acchito non parevano di una guerriera, svelte giocare con due monete, una tonda d'argento con il la civetta incisa su un lato, l'altra era di rame esagonale, su una faccia c'era il profilo di un bel giovane, sull'altra era incisa una fiaccola. Fece cadere le due monete senza battere ciglio, lasciandole vibrare sulla mappa degli stati uniti, un suono profondo e ferruginoso.

Lanciò uno sguardo vacuo e spento alla moneta d'argento, sua madre le aveva fatto quel dono – se in tal modo poteva essere chiamato – tanto tempo prima, era una richiesta in verità, una missione. Ma lei ne aveva un'altra, una più grande.

Ricordava ancora lo sguardo serioso di sua madre, occhi grigi e spaventosi, “Dimenticati dei mortali, onora me” aveva ruggito. Era un onore essere scelti da Atena in persona per La Missione, per il recupero della statua, e dell'onore rubato dai Romani, nel corso dei secoli solo i più meritevoli erano stati scelti, ma a differenza dei suoi fratelli lei non era mai andata.

Era allora, quando sua madre s'era palesata, con il viso granitico, gli occhi severi e crudeli, adornata dalle serpi della gorgone, lei aveva risposto senza grazia che era un altro l'onore che voleva recuperare, ad altro era devota la sua fedeltà ed il viso dei nemici non coincideva con i romani.

Era stata l'ultima conversazione con sua madre, per tanto tempo …

Fino al confinamento dell'Olimpo, alla divinità bipolari e vaganti, matte come cavalli.

Poi qualcuno che doveva essere una pallida imitazione delle temibile Atena era apparsa nuovamente, farneticando di Romani, offese e della statua.

Lei aveva riso, ignorandola, “Hai alti figli, madre, figli che ti amano” aveva risposto infastidita, aveva pensato alla famosa Annabeth Chase, con gli occhi grigi ed il cipiglio, l'amica, amante e compagna di Percy Jackson.

“Mi hai chiamato” - una voce la risveglio dal suo torpore - “Jeha l'Arpia?”aveva chiesto gentile il ragazzo seduto dall'altro lato del tavolino da picnik, “Anche tu, con quest'orrido nomignolo?” sindacò lei, sollevando un sopracciglio pallido, con sguardo accusatorio il giovane. Quello sorrise di rimando, “Ne hai avuti nel corso degli anni tanti appellativi che ho creduto non ti turbassero più” aveva aggiunto quello, senza smettere per un attimo di sorridere, aveva un viso glabro, androgino ma ugualmente attraente, l'incarnato caucasico ed il crine liscio come la seta bruno, libero fino alle spalle, indossava una polo bianca su cui era scritto in nero Mantieni la calma ed mangia del nettare. “No, è solo questo che mi altera particolarmente” confidò, recuperando la moneta di Atena dalla cartina per infilarla nel fondo dei suoi pantaloni dalla tintura mimetica. Il ragazzo alzò le spalle, “Quando ti ho dato quel Betilio(1) non pensavo l'avresti usata così spesso” aveva scherzato lui, facendole l'occhiolino, aveva occhi cangianti, il cui colore sembrava mutare ad ogni battito di ciglia del ragazzo ed anche del suo, in quel momento la fissava con luminose iridi di lilà, “Se non ti sei ancora dissolto è perché ci sono io” aveva ribattuto lei, “Che continuo ad esserti devota” aveva risposto lei con una certo osteggiarsi, per nulla intimorita dal dio, “Non sei di certo l'unica, ma sei la mia protetta preferita” aveva canticchiato lui, allungando una mano verso il suo volto e premendo l'indice sulla punta del suo naso, “O a quest'ora ti avrei strappato la lingua per tanta impudenza” aveva detto quell'ultima frase con un tono dolce e carezzevole, le labbra aperte in un sorriso quasi il viso non corrispondesse alla minaccia.

“Ho bisogno del tuo aiuto” disse alla fine lei, neanche troppo turbata dalle parole, il dio sbuffò appena, “Sai la novità! Ed io che pensavo mi avessi chiamato per fare due chiacchiere” aveva commentato.

 

 

 

 

 

Arvey rise per un suo stesso pensiero.

Distraendosi un attimo dalla visione delle grandi cascate d'acqua a ferro di cavallo che s'apriva davanti lui.

La figura femminile al suo fianco aveva inclinato il capo perplessa, la fronte aggrottata, il crine scuro come l'inchiostro agitato come i flutti del mare, spessi e pesanti, con la scriminatura nel mezzo ed a cornice del viso tondeggiante, lunghi fino ai seni minuti. “Pensavo ad una cosa divertente” s'era difeso il lestrigone, sorridendo leggermente imbarazzato, sotto gli occhi scuri della mezzosangue. “A cosa?” aveva chiesto Bernie abbozzando un sorriso appena, “A Zotico Joe … il mio padre surrogato” aveva spiegato poi, “Lui mi ha insegnato a combattere, a cacciare. Il suo primo insegnamento era stato che dovevo puntare ai mezzosangue giovani” aveva cominciato a spiegare, ignorando l'espressione confusa sul viso della compagna, “Sai sia per la tenerezza della carne, sia perché è più facile uccidergli. Ma lui si è fatto accoppare da un tredicenne” aveva spiegato divertito.

Poteva sembrare sconvolgente ridere delle disgrazie di una persona a cui aveva voluto davvero bene, ma insomma erano mostri no?

“Era Percy Jackson” aveva detto Bernie dopo qualche istante di silenzio, sputando quel nome come fosse stata una sentenza di morte, “Aveva comunque tredici anni” aveva rimarcato Arvey.

Si non si era mai trovato a doversi confrontare contro il Salvatore dell'Olimpo, ma nel corso della sua lunga vita – o sarebbe stato meglio dire, lunghe vite? – s'era ritrovato ad affrontare qualche figlio di Poseidone, che poteva essere definito in qualsiasi modo tranne che speciale, e neanche troppo gustoso.

La ragazza seduta al suo fianco sulla panchina, fece battere fra loro i talloni degli stivaletti di camoscio, “Sai mi rincuora sapere i tuoi gusti alimentari” aveva provato a scherzare a disagio. “Tranquilla LaFayett non ti mangerei mai” aveva ripetuto con un certo sorriso, per tranquillizzarla; Bernie aveva ricambiato il gesto sorridendo a sua volta, onesta e consapevole, “La cosa preoccupante è che ti credo” aveva scherzato lei.

Arvey era sincero, non avrebbe mai mangiato Bernie – e probabilmente neanche Bells – a dispetto di qualsiasi altro mezzosangue, che fosse stato sulla Principessa Andromeda o no. Il motivo per cui non l'avrebbe fatto, che per molto tempo era stato giustificato come l'attaccamento di un bambino al proprio coniglietto, che finiva poi per tale motivo a non riuscir più a mangiare carne di coniglio, s'era andato tristemente a dissiparsi nell'ultimo periodo prima della Battaglia di Manhattan e a confermarsi per qualcos'altro durante lo scontro a Vernon contro i fratelli Sanguinaccio. Arvey adorava l'odore di limoni che impregnava Bernie, amava guardarla, parlare e fare altre cose che non si sarebbe mai permesso di dire alla mezzosangue neanche per loto(2).

 

“Perchè siamo venuti alle Cascate del Niagara?” aveva chiesto alla fine la figlia di Nyx dopo un certo tempo speso in silenzio con la sola compagnia del vociare dei turisti, “Uhm … Non c'è luogo più sicuro di casa propria” aveva risposto con onestà lui, sebbene leggermente titubante. Dopo aver raggiunto la destinazione dei biglietti che Arvey aveva sottratto ai due ragazzi alla stazione, avevano preso qualche altro treno per arrivare al confine con il Canada. Arvey era stato spinto dalla paura, in un certo senso, un sentimento che l'aveva pungolato nel raggiungere il primo luogo sicuro a cui si fosse appellato, la sua casa. “Sai quando l'Ombelico del mondo si sposta, tutto si sposta. Quando gli Dei soggiornavano in Grecia, noi eravamo in Trinacria, quando erano in Germania, noi in Fracia e così via, fino all'America ed il Canada” aveva spiegato poi, sentendosi stranamente intelligente e colto. Aggettivi che nessuno avrebbe mai appioppato ad un lestrigone.

Bernie lo stava guardando con gli occhi sbarrati, come quelli un animale, l'iride così scura da sembrare corvini come la pupilla, “Siamo praticamente a Mostrolandia?” aveva chiesto sconvolta, con le labbra semi aperte, “Per nasconderci daI Lestrigoni?” aveva aggiunto. Arvey non era riuscito a resistere al ridere, con i suoi denti seghettati, davanti il viso preoccupato di Bernie, “Tranquilla LaFayette, non c'è niente di più saggio che nascondere qualcosa in bella vista” aveva ribattito lui sicuro di se.

La ragazza aveva sbuffato, posando le mani piccole sulla sommità del capo tra i riccioli corvini, leggermente seccato, “Nefasti numi, com'è che esistono lestrigoni come te?” aveva chiesto poi, con un sorriso serpeggiante sul viso. Arvey sollevò le spalle come a sminuire la questione, non si era mai ritenuto troppo diverso dai suoi compagni, da non riuscire proprio a comprendere cosa Bernie trovasse di così eclatante in lui, “E da che hai tredici anni che pensi che in me ci sia qualcosa di strano?” aveva chiesto alla ragazza. La mezzosangue aveva irrigidito le spalle, stringendo una mano sul taumacoso che aveva posato sulle cosce, un oggetto sinistro, oscuro, che rifulgeva dello stesso alone della notte, puntellato che chiare luci, che nel giorno sembravano affievolirsi per brillare invece come quasar nella notte. Arvey sorrise appena al comportamento della mezzosangue, Bernie aveva comunque preferito eludere la domanda, “Sai ho sempre pensato che i Canadesi fossero carini e gentili” aveva preferito dire la figlia della Notte, “Come scusa?” aveva indagato lui, aggrottando le sopracciglia, “Sicuro non come Giganti Lestrigoni Cannibali” aveva rincarato lei, beccandosi una risata di scherno da lui, “Grazie, grazie tante, LaFayette” aveva rimbeccato Arvey.

 

La ricerca dell'arma – o quel che era – si era arenata al zoccolo delle cascate del Niagara, dove ancora una volta Bernie aveva cercato di spiare dentro il suo magico cannocchiale regalato dalla Dea Nyx in persona. Non era riuscita a vedere nulla a detta di lei, se non luci, colori e ambigue forme geometriche, nonostante passasse giornate a ruotare le lenti. “Non vedo armi” aveva sentenziato, “Ne Bells, ne altro” aveva soffiato, anche arrabbiata, con i denti a martoriare il labbro inferiore, carnoso e dipinto del colore del caffè. Era in piedi vicino al parapetto, un occhio chiuso e l'altro posato sull'oggetto, con la lente puntata verso le cascate, da perdersi fra i turisti. Per un essere umano non era minuta, era piuttosto alta, snella, senza eccessive formosità, tranne il sedere carnoso e tondo – specie in quei pantaloni di pelle – che Arvey si sforzò di non fissare per poter conservare una parvenza di decenza. Bernie era bella.

La ragazza si scosse appena, il lestrigone poté percepire un cambiamento nella ragazza, con le dita sottili stritolare, lo sguardo acute, il viso aperto però in un sorriso rilassato se non speranzoso. “Hai visto qualcosa” aveva notato Arvey, quando ancora con il viso quasi spensierato Bernie s'era voltata verso di lui, scostato il taumacoso dal volto. Era corsa verso di lui, quasi saltellante, “Alabaster! Ho visto Alabaster!” aveva gracchiato, non riuscendo ad arrestare il suo fremito, continuando a saltellare con le sue gambe lunghe. Il lestrigone aveva arricciato le labbra, cercando di rimembrare chi fosse il viso da accostare a quel nome, poi riuscì a districare nella sua memoria, il viso lentigginoso di un ragazzo con occhi verdi brillanti e capelli d'inchiostro, circondato da un alone di luce violacea, “Il figlio di Ecate” commentò, percependo il ricordo del suo profumo, qualcosa che ricordava la sangria. Bernie era sorridente, con le dita annodate attorno al cannocchiale, con un sorriso fanciullesco sul viso, “Si!Si! Al è vivo! Devo contattarlo” aveva esclamato; rinata.

 

Avevano dovuto cercare una fontanella, “Pensi possa aiutarti?” aveva chiesto Arvey, leggermente amareggiato da quella intrusione, se avesse visto Bells, il lestrigone pensava sarebbe stato meglio. La ragazzina s'era arrestata dietro un piccolo bambino, mettendosi in coda per la fontana. “Se non può Al, non può nessuno” – era piuttosto ammirata – “Poi se l'ho visto un motivo ci sarà” aveva chiarito immediatamente lei, mentre se ne stava irta come una stecca lungo la fila.

Un turista giapponese, un ragazzo dalla cresta blu ed un bambino sporco di gelato dopo erano arrivati in prossimità della fontanella, era concava di un materiale, una scodella tenuta su da un unico piede spesso con ghirigori poco affascinanti, screziati d'arancio. Il getto d'acqua zampillava continuo ma piuttosto lieve. Bernie si voltò verso di lui, prima di chinarsi per prendere qualche sorsata d'acqua, poi s'era raddrizzata, fissandolo, aveva un rivolo cristallino che le scendeva dall'angolo della bocca, percorrendo l'incarnato d'ebano. “Non n'è che per caso hai una dracma?” aveva chiesto leggermente titubante, ed imbarazzata anche, Arvrey aveva trattenuto appena il sorriso davanti a quel bel visino, prima di infilare le mani nelle tasche della tenuta mimetica, trovandosi a frugare tra i resti delle carte di caramelle, qualche osso di falange e ...si, qualche monetina. Aveva un quarto di dollaro e qualche dracma, era stato decisamente fortunato, “Per te, LaFayette” disse scanzonato allungandone una verso la ragazza, che l'aveva accolta un sorriso grato.

L'aver toccato gli ossi, gli aveva però ricordato che era davvero un bel po' di tempo che non mangiava qualcosa di sostanzioso, dal puma cacciato con i fratelli Sanguinaccio. “Qualcosa non va?” aveva chiesto giustamente Bernie, con le sopracciglia scure come il carbone, arricciate, una ruga solcava la fronte per evidenziare la sua perplessità, “Ehm … ho … tutto apposto” alla fine disse, ritenendo poco saggio dire ad una squisita mezzosangue che era un lestrigone affamato, anche se era Bernie. La figla di Nix distese la fronte, ma alzò un sopracciglio, come a lasciar intendere che non era così facile fregarla, “Facciamo così: tu chiama Alabaster, io mi faccio una passeggiata per godermi un po' della quasi aria(3) di casa” disse Arvey sbrigativo, cercando di non fissarla negli occhi, Bernie arricciò le labbra ma lo lasciò andare, concentrandosi sul misero getto d'acqua della fontanella chiedendosi come avesse dovuto fare per direzionarlo in modo che creasse un arcobaleno con il sole.

 

 

S'era allontanato poco cercando di visualizzare tra tutta quella gente una possibile preda. Una ragazza stava mangiando un gelato poco lontano, non era molto sottile, aveva capelli rossi fiammanti ed indossava un prendisole viola, che lasciava scoperte le gambe bronzee. Aveva occhi chiari, lo aveva guardato appena prima di abbassare lo sguardo piuttosto intimidita. Arvey aveva inquadrato un uomo poco distante da lui, aveva un viso fanciullesco, capelli corti che davano l'accenno di riccioli ed un completo di classe, camicia firmata, pantaloni di batista e scarpe di vernice, tutto rigorosamente in bianco acido, masticava una gomma alla fragola e sorrideva verso Arvey come se avesse saputo perfettamente chi era lui e non lo temesse affatto. Il lestrigone distolse, con sua somma vergogna lo sguardo, per controllare se con Bernie andasse tutto bene, la ragazza le dava le spalle, ma di fronte lei s'era aperta una sorta di finestra sfumata che la metteva in comunicazione con Al, di cui Arvey riusciva appena a vedere i contorni, abbandonato la guardia s'era accorto che l'uomo interamente vestito di bianco era scomparso.

Il resto era accaduto così velocemente che Arvey non era certo di averlo realizzato del tutto, l'odore di sangue e sudore era stata la prima cosa che aveva annusato, assieme all'odore acre di Pasticcino Sanguinaccio, la seconda cosa era stata la spada bastarda della suddetta che scavava la sua carne all'altezza della spalla, mettendo fuori uso il braccio destro, quello con cui brandiva la sua mazza da battaglia, “PUTTANA” riuscì a dire, prima di intercettare il viso della lestrigona e ricacciarlo indietro con un pugno, che le fece saltare qualche dente da squalo.

“Traditore bastardo” ringhiò lei, sollevandosi dalla posizione supina, il naso impiastricciato e colante di sangue. Nessun mortale sembrava essersi accorto di due lestrigoni che s'azzannavano di fronte le Cascate dei Niagara.

Arvey non aveva perso tempo a guardare la donna, limitandosi ad estrarre con un colpo netto la spada, maledicendosi l'attimo dopo, quando il sangue aveva cominciato a sgorgare senza sosta, con un disperato raccoglimento d'energia l'aveva usata contro la stessa proprietaria, troppo accecata dalla rabbia e furente come una fiera, Pasticcino non era stata lucida, essendosi ritrovata ben presto con due dita in meno alla mano sinistra che aveva intelligentemente usato per proteggersi il viso. “Maledetto figlio d'una ninfa” aveva ringhiato la donna, tirandosi su, con gli occhi corvini spalancati ai moncherini della mano, il naso ridotto a poltiglia e l'incarnato di bronzo macchiato di vermiglio vivo.

Arvey s'era allontanato molto poco eroicamente, liberandosi dalla spada dietro un cespuglio, cercando di estrarre dal fodero fatto di lacci la sua mazza chiodata, trovando in quell'azione più difficolta del solito. “Ehm … ehm” tossì qualcuno al suo fianco, l'uomo in bianco era al suo fianco, “Proteggerai quella ragazzina?” chiese l'uomo ammiccando a Bernie che ignara di tutto parlava con Al, molesto ed attento, come un animale a caccia, Mickey si stava avvicinando, “Morirei per lei” confidò senza esitazione lui, approssimando qualche passo dolorante verso il precedente amico, con il dolore alla spalla in fiamme, “Oh meraviglioso olimpo” esordì l'uomo in bianco, “Quanto mi entusiasmo per le passioni amorose” confidò tutto sicuro di se, prima di toccare la dolente spalla a Mickey ed la fitta si era dissipata, “La ferita c'è, solo che per un po' non la sentirai” aveva confidato quello, “Chi, orco, sei?” aveva rantolato lui confuso, quello aveva riso, l'alito odorava di fragole zuccherose, “Oh che importa” aveva esclamato, “Conta solo che tu sia animato da tanto ardore!” aveva aggiunto, “È quello a darmi forza” aveva aggiunto tutto soddisfatto, ghignante ed in qualche modo ridicolmente malefico. Oh be, Arvey non aveva tempo – ne voglia – di interrogarsi su buone divinità che si mettevano a sparpagliare favori a Lestrigoni a casaccio. Numi nefasti, aveva da allungare la barzelletta ancora con qualche altro improbabile aneddoto, sempre se ne fosse uscito vivo.

Aveva estratto la mazza con vigore, raggiungendo Mickey, che con il suo naso svelto s'era già accorto di lui, l'aveva anticipato con un pugno nudo nello stomaco, “Divi! Deve essere una vera delizia se l'hai voluta tutta per te” disse irrisorio Sanguinaccio, con il viso aperto in un pessimo sorriso malato, con gli occhi scuri come la pece ben centrati sulla snella figura di Bernie, “Troppo magra, troppo secca” aveva sentenziato critico, “Massimo la userò come stuzzicadenti” aveva stabilito, tirando un calciò all'addome di Arvey, in modo che non potesse rialzarsi, “Ho sempre sospettoso tu fossi un depravato” aveva constato Mickey, chinandosi per raccogliere la mazza dell'altro che era caduta per terra, grosso sbaglio! Arvey aveva afferrato con ambedue le mani il braccio dell'altro e con una forza disumana l'aveva tirato sfilacciando la carne e rompendo l'articolazione del braccio. Un rumore secco s'era udito nell'aria seguito da un disumano grido di dolore. Arvey aveva frettolosamente recuperato la sua mazza e l'aveva sfracellata con tutta la forza contro il viso di Mickey, senza il minimo rimorso, senza pensare che giusto una manciata di giorni prima viaggiavano assieme ridendo del pessimo senso dell'umorismo di Arvey e delle battute indecenti di Mickey, accompagnati dai ringhi di Pasticcino. Senza pensare che i Sanguinaccio erano stati i suoi amici, la sua famiglia, per quasi mezzo secolo, l'unico pensiero era stato il sorriso bianco di Bernie, come la falce di una luna sul suo viso bruno.

“Scusa amico, davvero” aveva sussurrato Arvey, senza però vero pentimento, mentre Mickey Sanguinaccio si disgregava in fine polvere, scomparendo da quella terra per un po', in cuor suo il lestrigone sperava fosse più tempo.

 

“Berenyx” strillò a gran voce, attirando l'attenzione della giovane, che era ancora intenta a parlare con il figlio di Ecate, “Siamo sotto attacco! Sarebbe il caso di filarsela” aveva commentato, voltandosi appena per scorgere Pasticcino coperta di sangue, il viso massacrato ed il fuoco vivo negli occhi. La rabbia tatuata sul viso che Zotico Joe aveva amato, “La vedi come bella” diceva, colpendolo appena con delle gomitate e la lestrigona si voltava verso di loro, sorridendo in maniera arcigna e tirata e Mickey al suo fianco rideva di gusto. Ed Arvey aveva privato Pasticcino di un'altra persona importante.

S'era avvicinato a Bernie, aveva il viso spaventato, pallido e le labbra tremolanti, con gli occhi vacui e scuri, persi oltre le spalle del mostro ad osservare il viso animato da odio e dolore di Pasticcino e la furia implacabile marchiata sulla pelle. “Dove sei, Al?” aveva chiesto concitata e nervosa la ragazzina, volgendo lo sguardo in ultima volta alla figura all'interno dell'arcobaleno, un ragazzo allampanato, puntellato di lentiggini, con le guance scavate e l'incarnato livido, “Keesville” aveva sussurrato, prima che la spada di Pasticcino fendesse l'aria e per poco il viso di LaFayette, se Arvey non l'avesse afferrata alla svelta spostandola di qualche centimetro, lasciando che la lama vibrante della lestrigona sfiorasse il crine corvino.

Bernie tremò appena, spaventata, poi allungò svelta una mano verso Arvey e prese quella del lestrigone; lui notò quanto piccola fossero le dita della ragazza in contrasto con le sue. La figlia di Ecate saldò la presa, “Reggiti forte!” strillò, prima che Pasticcino potesse abbassare nuovamente la lama su di loro e tentasse di affettargli ancora; Arvey percepì chiaramente il dolore più forte che avesse mai provato nelle sue lunghe vite, mischiato ad un potente stordimento e nausea.

Quando ebbe la sensazione che i piedi tornassero a toccare la terra, finì per piegarsi sulle ginocchia per riprendere fiato, vomito della bile prima di riuscire a comprendere cosa fosse successo e realizzare di non trovarsi più alle cascate del Niagara.

Bernie collassò al suo fianco, affatticata, quasi malata, con un rivolo di sangue bruno a correrle giù da una narice sulle labbra piene fino al mento spigoloso. “Co...cos-ah … è su...cce...ssO?” riuscì a rantolare a fatica, con l'aria bruciante nei polmoni, quasi si fossero dimenticati come è che si respirava, la ragazza prese due profondi respiri, mentre un altro rivolo aveva cominciato a scendere dall'altra narice, “Viaggio nell'Ombra” aveva risposto poi a fatica, premendosi una mano sul costato, “Ero fin troppo fuori allenamento e con poche cartucce” aveva confidato, stendendosi sul marciapiede con noncuranza, “Non sono mai stata molto capace, trovo sorprendente che non ci siamo sciolti nell'ombra” aveva confidato, recuperato colore sul viso e la vena chiacchiericcia, ma ancora abbastanza provata, da avere le epistassi e non riuscire a tirarsi in piedi.

Arvey percepì pregnante nelle narici un odore paludoso, di fango ed acqua fluviale, “Dove, per l'Orco, siamo?” chiese a fatica, riuscendo a recuperare bene, cominciando a sentir pizzicare la spalla, dove l'Uomo Vestito di Bianco aveva rimosso il dolore, dove Pasticcino l'aveva colpito. “Leesville, luisiana, dove altro dovremmo essere?” aveva chiesto retorica lei, riuscendo a tirarsi sui gomiti e rimanendo seduta per terra. Arvey aggrottò le sopracciglia decisamente confuso, “Leesville? Il figlio di Ecate aveva detto Keesville” aveva ribattuto lui, sconvolto ed anche piccato. Il viso di Bernie s'era tinto di bolgia, “No, no! Aveva detto Keesville” aveva ribattuto sicura di se lei, riuscendo anche a sistemarsi sulle ginocchia, con le mani sui pantaloni scuri.

 

Anche se erano nel luogo sbagliato, non che Bernie lo pensasse, erano entrambi fin troppo provati per poter riprovare il viaggio delle ombre, così s'erano ritrovati a vagabondare a zonzo per Leesville, con Arvey ancora più provato dalla fame e dal dolore e la mezzosangue con un occhio piantato all'interno del tautacoso senza alcuna vaga capacità di vedere qualsiasi cosa. E nello socntro avevano anche perso tutte le dracme che avevano, quindi caso mai avessero voluto avvertire Alabaster che ero ancora vivi, ma avevano semplicemente sbagliato città, non potevano.

D'altro canto, Arvey trovava che Leesville fosse un posto più o meno detestabile, pieno di zanzare, umido e di gente in infradito con i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia ed un caldo da fornace.

“Spero Al non si convinca che io sia morta o che so” aveva commentato tutta spenta Bernie, ciondolando al suo fianco, con una mano premuta sotto il naso, dove cercava di raccogliere il sangue in un fazzoletto e con l'altra teneva la giacca di pelle, bottiglia, che s'era dovuto togliere per il caldo, il sudore correva lungo le braccia nude scure assieme a qualche sottile linea di cicatrici, residuo di battaglie. E l'umore di entrambi era sotto i tacchi.

Avevano imboccato una strada che percorreva il fiume, dove l'odore paludoso era più forte e pullulava di pescatori con cappelli assurdi e barche improbabili che si davano alla raccolta di conchiglie o che altro. Bernie aveva cominciato a slacciarsi gli stivaletti di cuoio nero, dalla suola di carrarmato e lacci stretti, “Fa caldo” aveva commentato, mentre tenendosi in bilico su un piede solo era riuscito a togliersi una scarpa, rimanendo come un fenicottero, le braccia aperte a volo d'angelo per mantenere l'equilibrio; il naso aveva smesso di sanguinare.

Si era sfilata poi l'altra scarpa ed i calzini bianchi, rimanendo con i piedi nudi sull'asfalto, prima di raggiungere la banchina per sedersi e lasciare le gambe appese al vuoto, dove sotto un'acqua verdastra scorreva. Arvey s'era seduto al suo fianco, tra loro c'era solo gli stivaletti; “Quindi cosa facciamo?” aveva chiesto giustamente lui.

Non sapevano dove fossero, chi potessero contattare, come poterlo contattare.

Bernie aveva preso un lungo respiro, muovendo appena i piedi, tenendo le ginocchia appiccicate tra loro, “Devo recuperare le forze, poi proveremo il grande salto” aveva risposto con sicurezza.

 

L'aria s'era impregnata d'odore piuttosto buono, in una barchetta da quelle parti un uomo di una certa età stava arrostendo del pesce con della cipolla e qualche altra spezia piuttosto forte. Sembrò accorgersi di loro vagamente, sollevando appena gli occhi scuri, intrecciati tra ciglia grigie, sotto spesse ciglia sale e pepe. “Ho fame sai?” aveva bisbigliato Bernie, con gli occhi rivolto al pesce, che cominciava a scurirsi sul dorso, mentre l'aroma si faceva più pregnante, “Non sai quanto ne ho io” aveva bisbigliato Arvey che invece dello sfrigolare del pesce era più attratto dall'odore del fumo sulla carne dell'uomo, percependo il suo languore nella bocca.

Per un attimo Arvey si era davvero visto scendere nel fiume, salire sulla piccola barchetta dell'uomo, gustare la carne dell'uomo e riportare il pesce a Bernie e perdersi nel guardala sorridere. Allora avrebbe davvero dovuto ridere, perché sarebbe stata davvero una fottuta barzelletta! Un lestrigone che tradisce tutto e tutti per una mezzosangue e viene aiutato da una strana divinità?

La sua intera vita non aveva senso, ammise a se stesso Arvey, o forse aveva cominciato ad averla da quando aveva mangiato quel gruppo di ragazzi che tormentavano quelle due ragazzine.

“Cosa sta facendo?” aveva chiesto la mezzosangue attirando la sua attenzione, il lestrigone aveva seguito il dito della ragazza, trovando in quella direzione, dall'altro lato del fiume, sulla banchina, una bella donna era in piedi, che allungava le dita sottili verso le spalline di un vestito morbido di un colore tenue, per farle scendere e lasciar scivolare il vestito lungo il corpo snello e le gambe lunghe, rimanendo solo in un colorato costume da bagno a due pezzi, sandali alla schiava ed una sottile corno d'oro sulla sommità del capo, “Una dea?” aveva chiesto Bernie confusa, con gli occhi stretti e la fronte crucciata, “No” aveva risposto Arvey, afferrando la ragazza, piantandola sul suo petto ed avvolgendola tra le braccia in una morsa difficile da sciogliere.

La sconosciuta aveva cominciato a cantare una canzone piuttosto lenta e dolce, quasi avesse avuto la voce incantevole – ed ingannevole – di una sirena, tutti i mortali sulle navi erano stati attratti da quel candore, compreso l'uomo del pesce e Bernie che aveva cominciato a lottare contro le ferree braccia di Arvey, che non la lasciavano andare.

S'era lasciata, la donna, cadere nelle acque verdastre del fiume e senza smettere di cantare aveva preso a nuotare sul dorso come una foca, aveva occhi d'un lucido azzurro, che aveva rivolto verso di loro, sorridendo appena, gentile anche, poi gli uomini avevano cominciato a scavalcare i parapetti per raggiungerla.

“Lasciami andare! Bells mi sta chiamando” aveva languido la ragazzina, cercando di sgusciare da quella forte presa, “Lasciala a-andare-e” aveva cantato la donna, fermandosi non lontano da loro, rimanendo a mollo, con i fili dorati sparsi sull'acqua verde e sul corpo seminudo, non aveva arrestato il suo canto, “Cosa sei?” aveva ringhiato Arvey, cercando di trattenere Bernie più a se possibilmente, troppo spaventato all'idea di perderla, ma fin troppo bloccato per poter affrontare la creatura, “Così cantava Parthenope, che provava un dolore dolce … La sua voce era una freccia che colpì il mio cuore(4)” cantò con estrema dolcezza la creatura, allungando una mano verso di loro, muovendo un dito, come ad invitargli a raggiungerla.

Bernie assestò una gomitata sullo sterno di Arvey, che allentò la presa, di poco, di qualche momento, sgusciando così da quelle forti braccia. Il lestrigone sentì il mondo finire, distaccarsi dalla gravità stessa quando percepì il vuoto sul suo torace ed il rumore dell'acqua smossa, abbassò lo sguardo trovando spuma mossa dove qualcosa era affondata, come un gatto bagnato, Bernie era riemersa qualche istante dopo, gli occhi neri erano tinti di ipnosi e senza riuscire a fermarsi aveva cominciato a nuotare verso Parthenope. Arvey s'era lanciato presto dietro di lei, cercando di frenare la corsa della ragazza, ma nell'acqua Bernie s'era fatta più fuggevole d'un anguilla e difficilmente afferrabile, lui che invece appariva così imbranato.

“Lasciala ti prego” si ritrovò ad implorare il lestrigone, con l'acqua alla gola, quando Bernie, assieme agli altri pescatori avevano raggiunto la donna, ma questa non aveva occhi che per la figlia di Ecate, aveva accarezzato il viso di Bernie e immerso il naso spigoloso tra i capelli corvini della ragazza, “Figlia di una divinità protogenea” aveva sussurrato lasciva, “Un profumo così dolce” aveva bisbigliato poi Parthenope, schiacciandosi il viso di Bernie sul petto, non stava più cantando, ma l'incanto era persistente, “Puoi avere tutti i mortali che vuoi, ragazzone, ma lei è mia” aveva chiarito, allontanando appena il viso della mezzosangue dalla sua pelle per guardarla bene da vicino, s'era avvicinata ed aveva leccato una guancia di Bernie, “Davvero squisita” aveva aggiunto irriverente. “Stai lontano da lei” sibilò Arvey, avvicinandosi con un movimento netto alle due.

Parthenope sbuffò appena, infastidita, “Normalmente amo la dedizioni di voi Lestrigoni per il cibo, ma sei inopportuno” aveva chiarito quella, prima di schioccare le dita, tutti i mortali nell'acqua s'erano voltati verso di lui, “Prima che tu abbia finito con loro, avrò già finito con lei” aveva chiarito con un cenno di divertimento la creatura, prendendo sollevando dall'acqua un braccio di Bernie, che restava lì immobile, mentre i mortali avevano cominciando ad addossarsi contro Arvey, che non aveva remore nel fal crollare la mazza su di loro e colorare di rosso il fiume. Parthenope aveva sorriso, non aveva denti aguzzi o altri, sembravano abbastanza normali, “Di norma ti cucinerei per bene, ma vado di fretta” , aveva addentato il braccio di Bernie e strappare una piccola porzione di carne e pelle, la mezzosangue aveva appena recepito il fatto, con un semplice sussulto, ma era rimasta con gli occhi vacui ed il rosso aveva cominciato a scorrere sulla pelle scura. “Divi, potrei avere un orgasmo” aveva commentato Parhenope con il sangue a macchiarle il viso bello, “Posso comprendere perché la volevi tutta per te, ragazzone” aveva ghignato, la donna aveva infilato le dita all'interno del colletto della maglietta nera di Bernie, strappando in maniera netta il vestito, scoprendo la pelle nuda della spalla dove spiccavano le spalline di un reggiseno e quelle spesse di una canottiera e si chinò nell'incavo tra la clavicola ed il collo quasi volesse depositarle un bacio, ma invece strappo un altro lembo di pelle. La ragazza sussultò appena, ma sorrideva, incurante della realtà. Arvey affogò un uomo con la sola forza della mano, mentre percuoteva il capo d'un altro con la sua mazza, “Lasciale! Bastarda!” ringhiò.

Parthenope rise divertita, la carne pallida orribilmente macchiata di vermiglio, con i denti bianchi coperti di rosso.

Un colpo secco raggiunse la fronte della creatura, quando ancora il riso arcigno adornava ancora il volto, un singolo rivolo di sangue scuro scivolò da un foro sulla fronte, fino a che Parthenope s'era disintegrata in polvere sottile, riconsegnando in tale modo a tutti la lucidità, Bernie battè le palpebre diverse volte, prima di percepire il dolore dei morsi e cominciare ad urlare, confusa la gente ma non più minacciosa, Arvey era riuscito a nuotare fino a lei per avvolgerla in un abbraccio, “Va tutto bene” le disse, baciandole la fronte, mentre la ragazza continuava a tremare, lui invece s'era ben allarmato, alla ricerca di chi avesse ucciso Parthenope.

 

“Pensare che ci sono ancora mezzosangue che si ostino ad usare spade e frecce” commentò qualcuno, Arvey gli vide, due ragazzi erano in piedi vicino la banchina, vestiti in abiti mimetici e giacce di pelle, armati con quelle che sembravano armi da fuoco – semiautomatiche? Arvey riconosceva di avere una grave mancanza. Uno era alto, rasato, non un filo di barba o di capelli, scuro come un chicco da caffè con occhi gialli come quelli di una lince ed alcuni tatuaggi da scarnificazioni più chiari sul braccia nude e muscolose, l'altro era più bassino, con un naso dritto ed un sorriso corrosivo, aveva l'arma puntata verso di loro, gli occhi verdi infastiditi. “Signori mantenete tutti la calma” aveva urlato il ragazzo rasato, alzando le mani, lasciando cadere il fucile che era appeso ad una cinghia di cuoio che era appeso alla spalla, “Qualche fiore di loto ed avrete dimenticato tutto” aveva aggiunto, aveva una voce sicura, piuttosto autoritario, ma sapeva come parlare alla gente. L'altro aveva sbuffato, perdendo il sorriso sornione sulle labbra, “Lei ci serviva viva” aveva commentato infastidito, con le braccia incrociate al petto, “I mortali hanno la precedenza” aveva ribattuto qualcun'altra, era una voce femminile, ma Arvey non aveva individuato chi avesse parlato ne dove fosse.

Il ragazzo dagli occhi verdi era rimasto frustrato per qualche momento, prima di voltare lo sguardo verso di loro, notando lui per la prima volta, che teneva le mani attorno al piccolo corpicino sottile della mezzosangue, “Oh, la nostra cantante non è l'unico mostro qui” aveva commentato con veemenza, alzando l'arma verso di loro, lucida e grigia.

“Aspetta!” nel campo visivo di Arvey era apparsa una ragazza dai capelli biondi come il grano ardente, ma lo scoppio del colpo dell'arma da fuoco aveva catalizzato tutta la sua attenzione. Bernie sembrava aver realizzato la situazione, risvegliandosi, solo quando aveva sentito il colpo partito, Arvey l'aveva stretta forte, guardandola negli occhi se, se proprio doveva morire, sperava fosse vedendo il suo viso.

“No!” urlò la mezzosangue, un suono acuto e terrorizzato.

 









(1)Il betilo o (bétile - bethel) è una pietra a cui si attribuisce una funzione sacra in quanto dimora di una divinità o perché identificata con la divinità stessa. In questo caso io la immagino come una moneta e con la funzione di un cerca-persone.

(2) Un modo fantasioso per dire Neanche per cavolo.

(3) Arvey è canadese ed in quel momento si trovano proprio a confine con il Canada.

(4)Johann Gottfried Herder, Parthenope, 1796.

Il mito di Parthenope è un mito riguardo ad una sirena atipica (viene sempre rappresentata con corpo umano), qualcuna dice che era una mortale suicida per un amore non ricambiato di Ulisse, qualcun'altra che era stata maledetta da Afrodite che l'aveva trasformata in sirena, altre che era sempre stata sirena e che Orfeo l'avesse condotta alla morte durante la traversata dell'Argo. E la mortale della favola è che Parthenope è morta un certo numero di volte, che sembrava assurdo tenerla in vita.

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Capitolo 8
*** Il verde è il nuovo nero – specie se il nero è il colore della morte(Heather II) ***


Capitolo piuttosto breve, non molto corposo, ma credo abbastanza importante ed insomma da inizio ad una certa collisione di fatti, va bene non voglio fare spoiler vari, il capitolo è qui sotto, sistemato accuratamente da lamascherarossa, nonostante i nostri meravigliosi problemi di connessioni e i deliri da esami vari.

Oltre questo come sempre una dedica speciale a summer_time che ringrazio davvero di seguire questa storia ed ovviamente anche chi legge.

Buona lettura

RLandH

 



Il Crepuscolo degli Idoli

 

Il verde è il nuovo nero – specie se il nero è il colore della morte.

 

Heather II

 

Heather aveva una faretra con tre frecce della pestilenza ma nessun arco con cui lanciare, un inquietante profezia che si stava realizzando ed una paura dannata delle persone dagli occhi verdi oltre che una missione da compiere, senza dimenticare i sociopatici che volevano ucciderla per vendicarsi di suo padre. Heat strinse la pianta d’erica con forza, cercando in quel dono di suo padre l’appiglio. “Abbiamo una missione, no?” aveva detto Qbert, incrociando le braccia al petto, “Trovare l’Arma che Persefone ha nascosto sulla Terra, quando il Tartaro è stato invaso” aveva mormorato il satiro, ricordandole perché erano partiti. Facile per lui parlare. Non c’era una taglia sulla sua testa, non gli era stata predetta la morte. Ora quasi aveva senso lo sguardo ferito che Rachel aveva fatto, quando l’aveva incontrato fuori la casa bianca mentre aspettava Qbert... E pensare che il dono profetico di Apollo era molto limitato di quei tempi!

“Devo fare una chiamata” disse alla fine, sollevandosi dalla posizione che aveva avuto per due ore.

 

Aveva litigato con l’acqua e la luce per ottenere quel messaggio. E visto che non era più Iride a dare i messaggi, ma una simpatica ninfa delle nuvole di nome Fiocco, Heather aveva dovuto provare tre volte prima di vedere comparire nell’arcobaleno il viso di Darren, la pelle chiara ed i capelli castani sempre intrecciati, non aveva mai notato quanto verdi fossero i suoi occhi. “Hei D.” disse amichevole, stritolando la cintura del cuoio della faretra; il figlio di Demetra era nella sua stanza, quella che divideva con altri quattro fratellastri, “Ehi Heat, già ti sei stufata?” aveva domandato con sorriso sornione, “Lo sai che ti aspetto per prendere a calci le chiappe titaniche di Gea” aveva ricordato lui, "O gigantiche, cosa è meglio?" aveva chiesto tutto divertito. Heather aveva sorriso, dimenticando tutto per un momento.

Quando era partita con Qbert, Heather l’aveva baciato sulle labbra e gli aveva promesso che sarebbe tornata in tempo per combattere contro i giganti, "Questa sí che é una questione interessante" aveva risposto con allegria, ridacchiando appena sebbene il sorriso le si fosse smorzato presto sulle labbra; sentiva, infatti, nelle sue orecchio l'eco della donna dai capelli rossi. Restò in silenziò per qualche secondo. “Ci sarò” aveva commentato con voce bassa.

Forse non sarebbe tornata o forse si, forse era Gea ad avere gli occhi verdi e stocchi letali, il destino ed il futuro erano sempre imprevedibili. “La tristezza non si addice ad una figlia di Apollo” aveva detto Darren, notando la strana espressione che animava il suo viso; sorrideva nel vapore, con gli occhi belli e luccicanti come smeraldi; era così bello, con quel sorriso gentile e le labbra piene.

Quella frase la colse di sorpresa, non era abile nel mentire o forse non lo era con lui. Deglutì a fatica, posandosi una mano sulla guancia, inclinando appena il capo per poi abbozzare un sorriso caustico nel vano tentativo di celare tutta la sua paura. Non ne aveva mai avuto così tanta, neanche quando erano scesi a combattere a Manhattan ed aveva tenuto stretta la mano di Darren ... lui era la sua áncora, la sua forza e lei lo aveva chiamato proprio per questo, per dirgli della Purga dei figli di Apolo, per la profezia della donna dai capelli rossi. Ma lui aveva un sorriso così bello, così imperturbabile, neanche la rinascita di Gea sembrava toccare quella sua ingenuità ed Heather non aveva avuto il cuore di dire nulla, neanche una parola, era rimasta a crogiolarsi nel silenzio, con gli occhi verdi ed interrogativi di Darren su di lei.

Non voleva che si preoccupasse, non voleva destabilizzarlo e voleva tornare da lui. “Ti amo” soffiò alla fine, con la voce tremolante ed un sorriso più gentile e veritiero che potesse avere, “Ti amo, anche io” aveva detto Darren con onestà, comunque confuso da quel repentino cambiamento, incerto ugualmente ed ancora interrogativo, ma aveva sorriso alla confessione lo stesso, come un qualsiasi ragazzo innamorato.

"Mi hai chiamato per dirmi questo?" indagò lo stesso Darren, perchè era tante cose ma certamente non stupido; fu solo il rumore della porta dell'anticamera del bagno che dava cenno di aprirsi a costringerla a chiudere la chiamata con un sorriso incerto e veloce e la grazia di non dover mentire.

Un ragazzo era comparso sull'uscio del bagno, indossava una giacca pesante, sinonimo del freddo che doveva sentire nonostante l’arrivo della primavera. Aveva capelli di un biondo scuro, di una lunghezza così minima da non potersi spettinare ed aveva una carnagione livida. Occhi! La prima cosa che spiò la ragazza erano i grandi iridi azzurri come il cielo, segnati da occhiaie viola. Aveva sospirato. Lui l’aveva guardata, confuso, “E’ il bagno delle donne” aveva insistito Heather, indicando la porta di legno al suo fianco, dove svettava la figura con la gonna. Appurato che non avesse gli occhi verdi, non era una reale minaccia. Il ragazzo s’era fatto paonazzo in viso, prima di abbozzare un riso imbarazzato, cercando le scuse per andare via. Heat gli piegò le labbra in un’espressione rilassata, cercando di sembrare complice. Quello sorrise pavido, poi s’era voltato per uscire, ancora paonazzo in viso.

Heather vide qualcosa sopra il sopracciglio chiaro, una piccola lineetta sottile di modeste dimensione. Una cicatrice; una di quelle che un punta procurava con colpo di striscio. “Aspetta” aveva esclamato, seguendolo, il ragazzo s’era arrestato, “Noi ci siamo già visti da qualche parte?” chiese con innocenza, quando lui l’aveva guardata con un misto di confusione in viso. Davvero era certa di aver già visto quella cicatrice da qualche parte, forse era un ragazzo che viva in Kansas con cui forse andava in classe insieme. Era una cicatrice non poi così rara, forse era dovuta ad una caduta sullo spigolo di un tavolo. Lui aveva aggrottato le sopracciglia, probabilmente il suo viso doveva apparire il più comune di tutti, perché evidentemente non la riconosceva minimamente. Aveva mosso il capo in senso di negazione, poi aveva puntato gli occhi azzurri alle sue spalle, dove c’erano le tre frecce. Era diventato più pallido di quanto non fosse e si era allontanato in fretta, voltando però la testa solo dopo pochi passi. Voltato di schiena, Heather aveva pensato fosse un comportamento decisamente strano, per essere qualcuno che non la conosceva. “Fermati!” urlò, cominciando a correre. Quello si era voltato, poi aveva cominciato a metter velocità, ma la figlia d’Apollo gli stava facilmente dietro.

Era riuscita a fermare la sua corsa approfittando del lucernario del centro commerciale,l; Heater, infatti, aveva direzionato i raggi del sole verso gli occhi del ragazzo, che ne era rimasto accecato, in prossimità del parapetto. Si era coperto gli occhi ma era finito contro la ringhiera ed era caduto dal balconcino del primo piano, finendo su un esposizione di gioielli, rompendo il vetro in mille schegge che si conficcarono nella schiena. “O miei dei” urlò la Heat affacciandosi dalla ringhiera. Un gruppo di persone si era riunito intorno al ragazzo ferito, che aveva fatto a pezzi un mobiletto e sparso gioielli ovunque. Lui era steso per terra, cercava di muovere le dita delle mani, ma non era riuscito a farlo, aveva un espressione di dolore dipinta sul volto. Era completamente distrutto. Ed Heat si sentì profondamente in colpa, stringendo le dita sulla maglietta arancione strappata.

Si era praticamente lanciata di sotto, ma aveva ruzzolato per attenuare la caduta. La gente l’aveva guardata, ma Heather s’era sollevata ed aveva chiuso la giacca sulla maglia arancione per nascondere lo squarcio. Ne serviva una nuova! Sorrise nervosa, infilandosi nel mucchio di persone attorno al ragazzo steso. Erano tutti nel panico, qualcuno aveva chiamato l’ambulanza, anche le guardie del centro commerciale erano arrivate. Qualcuno proponeva di spostarlo, qualcun altro ribatteva che non si poteva visto che non si conosce né il tipo né l'entità del danno subito . Heather superò un agente della sicurezza e si chinò al fianco del ragazzo, facendo attenzione alle schegge di vetro, “Mi dispiace” aveva bisbigliato, quello aveva trovato la forza di aprire gli occhi per fulminarla con lo sguardo ma Heat tirò un sospiro di sollievo incontrando quegli occhi azzurrissimi e spaventati; lui stava bene.

La ragazza gli afferrò una mano, cercò in se stessa le parole e le forze per farlo, ricordò quando a dodici anni Carter le aveva preso le mani ed aveva cercato di insegnarle i rimedi medici dei figli di Apollo. Era nato tutto per una grave ustione subita a causa della lava sulla parete d’arrampicata. Sentì la voce di Carter nella sua testa, una voce carezzevole, genuina, sempre disposta ad aiutare. E cantò, con le dita stritolate intorno al palmo del ragazzo. I mortali dovevano aver pensata fosse pazza a canticchiare una canzone in greco antico, mentre teneva la mano ad uno che era letteralmente piombato dall'alto su una vetrina. Sentì le dita del ragazzo tremare, ma si chiusero sul dorso della mano di Heather. Lo percepì chiaramente anche lei, che la forza stava ardendo di nuovo nel ragazzo. Quando ebbe di nuovo vigore fu lui stesso a sollevarsi dalla posizione supina, con ancora schegge di vetri conficcate nella carne, quasi del tutto inconscio del dolore. Heat non diede tempo ai mortali di capire cosa stesse succedendo; stritolò di più la mano del ragazzo e corse via, la nebbia avrebbe risolto tutti i problemi, almeno in quel campo.

Doveva ritrovare Qbert e poi guarire decentemente quel ragazzo.

Il satiro stava bevendo una Sprite, esattamente doveva l’aveva lasciato, vicino al negozio di intimo femminile ad osservare l'intimo, per nulla preoccupato di quello che era successo al piano di sotto. “E’ una fortuna che i messaggi di Iris non costino” aveva detto divertito, alludendo a quella che secondo lui doveva essere stata una conversazione molto lunga, poi notò il ragazzo ed il fatto che si tenessero per mano, “Ha pianto Darren, quando l’hai scaricato?” chiese con una punta di divertimento. Heather tolse immediatamente la mano da quella dell’estraneo, “Qbert che dici!” disse imbarazzata. Figurarsi se piantava Darren per uno qualsiasi, per quanto bello potesse essere. Il satiro guardò il ragazzo poi indietreggio, “Puzza di natura marcia” aveva stabilito con disgusto, saltellando indietro. Heather si era voltata verso di lui, quello si stava sfilando delle schegge dalle braccia, sudice di sangue. “Togli la giacca” gli aveva detto lei, aiutandolo a sfilare la giacca; la maglietta del ragazzo era bianca ma macchiata di rosso dove le schegge di vetro conficcate lungo la schiena. “Che, Ade, è successo?” aveva mormorato Qbert.

Avevano passato parecchio tempo a sfilare via i pezzi di vetro di diverse grandezze dal corpo di lui. Heather aveva cantato, guarendo i tagli e pulendo il sangue. Quando toccò anche ai pantaloni la cosa si fece decisamente più imbarazzante. Il ragazzo s’era chiuso le dita sul viso, rosso e paonazzo; indossava mutande verdi con circonferenze nere. Dalle tasche dei pantaloni di jeans grigi, scivolò via un portafoglio marrone con una rosa d’oro all’angolo; aprendolo aveva trovato la carta di identità del muto, Jude Mortimer di Boston, aveva un anno meno di lei, quindici anni. Spiccava anche una foto, vecchia di un paio d'anni, in cui Jude stava accanto ad un ragazzo dai capelli scuri, con le lentiggini e borse sotto occhi. Verdi come la frutta matura. Rimise a posto la foto, ansiosa. Il ragazzo la fissava infastidito di quell’intrusione. “Scusa Jude” disse mortificata, allungando il portafoglio, quello l’aveva preso, “Heather Shine” aveva detto poi, trovando doveroso presentarsi. Quello si era infilato i pantaloni vagamente offeso.

“Jude l’Oscuro(*)” disse Qbert con un sorriso vagamente divertito, il ragazzo infilandosi la giacca lo aveva guardato vagamente confuso, “Lascia perdere” mormorò il satiro, prima di ridacchiare, “Sai che Rachel l’Oracolo per questa missione aveva parlato di praterie marcia” aveva commentato con un tono tranquillo. Heather aveva pensato quando la povera Rachel aveva fatto loro quella sgangherata e vacua profezia, con gli occhi mortificati poi, il Dono di Apollo era bloccato e l'oracolo si sentiva costretta a guardare il futuro come se spiasse dal foro di una tenda scura.

Jude sembrò improvvisamente interessato, avvicinandosi al satiro, “Sei tu che puoi trovare il sonno più profondo” aveva spiegato il satiro. Il ragazzo aveva sorriso, in maniera sbilenca, cosa che aveva portato Heat a pensare che quel ghigno doveva avere un significato tutto suo e di sicuro non c’era nulla di buono. Prima però che potesse pensare altro, Jude l’aveva già spinta a terra, crollandole addosso, qualcosa sopra di loro sbatteva le ali, era un agglomerato di piume nere, artigli che tranciavano la pelle. “La figlia della notte!” aveva gracchiato la creatura.

Il biondo le impediva di vedere bene cosa successe.

Sentiva solo Qbert cercando di calmare la creatura, doveva essere molto agitata.

 

Jude infilò le mani nella sua borsa, cercando qualcosa; Heather lo guardava sconvolta, sfilò via una barretta di cioccolato triplo caramello e l’allungo alla cosa. La creatura sembrò calmarsi e il ragazzo ruzzolò su un fianco. Heather aveva visto un turbine nero piazzarsi vicino un impala grigio, mentre si ingozzava con le sue barrette. Era un’arpia dal piumaggio nero, non ne aveva mai vista una così scarna in tutta la sua vita. Non sembrava malefica, ora che si era calmata. Respirava lentamente, mentre si riempiva il viso scavato con la cioccolata. Il ragazzo arrivò a lei, toccandole la fronte lentamente, in maniera molto amichevole. Heat si era avvicinata, quando quella aveva finito di mangiare la cioccolata. Anche Qbert saltellante era arrivato ad osservare la creatura. “E’ molto spaventata” aveva detto il satiro, percependo i sentimenti che dovevano animare l’arpia. Era strano, secondo Heat che il suo amico si procurasse per un’arpia, quella aveva sollevato lo sguardo, sorridendo al satiro, prima di battere le dita sul petto, “Lei è Ennoia” aveva detto l’arpia con voce sicura. “Piacere Ennoia, io sono Qbert, lei è Heather e lui è Jude” aveva spiegato, toccando la testa di entrambi, come a mostrargli fossero innocui.

L’arpia aveva la pelle grigiastra, gli occhi di ghiaccio ed era tutta di piume scure, aveva un fascino altolocato, non era il primo modo che li veniva per descrivere un arpia, insomma quelle del campo erano molto orride e l’unica che aveva fatto eccezione era l’arpia logorroica tutta rossa che era sempre con Tyson in ciclope, una tale Ella. Ma Ennoia era diversa, dalla sorella scarlatta o dalle altre. Dall’abbigliamento in primis, le arpie erano sempre strette in sottanelle leggere, ma lei era nuda, sotto le piume nerissimi si intravedevano grigio pellame. Aveva viso di donna, non maturo, ma comunque non più di giovincella, un decennio in più di lei, si disse Heat, non che avesse idea di come invecchiassero le arpie. Ennoia li guardò, poi sorrise candida a Jude. Lui le aveva dato il cibo ed era stato il primo a tranquillizzarla. “Lei non voleva fare del male” spiegò subito, “Ennoia voleva aiutare” aveva detto, allungando le mani verso il ragazzo, aveva palmi grigi, nudi rispetto alla pelle, che aveva usato per accarezzare i capelli di Jude, poi si era voltato verso di lei ed aveva preso anche i suoi capelli, poi anche quelli di Qbert, solo allora Heat aveva notato non avesse capelli, ma piume nere.

“Come volevi aiutarci ?” aveva domandato il satiro, prendendo con le mani, quelle della creatura, in maniera gentile, l’arpia si era leccata le labbra scure un attimo pensosa, “Ennoia è procella di Artemide(**)” aveva spiegato con un tono delicato, “Lei deve proteggere la figlia della notte” aveva spiegato, chiudendo gli occhi. Jude la fissava in maniera ossessiva. Heather era quasi più interessata a lui che alla creatura in questione, lo capiva da tutto il modo che aveva di essere rigido, attento, come se ogni parola pronunciata dalla bocca dell’arpia fosse oro colato. Magari lo era, forse non per Heat, ma forse per lui si. “Ennoia l’aveva trovata, ma il lestrigone l’ha presa” aveva detto con voce triste. Dal suo modo di parlare, si intuiva faticasse moltissimo a trovare le parole, non doveva essere abituata a chiacchierare. Jude si fece livido in volto ed afferrò Ennoia girandola verso di lui, l’arpia si agitò un po’ ed anche Qbert strillò, doveva essere stato inondato sia dalla decisione – e qualunque sentimento celasse – del biondo sia dalla paura che aveva animato la creatura. Jude fissava penetrante l’arpia, come se con i suoi occhi azzurri avesse voluto scavare fin dentro l’anima della creatura, che era tutta agitata e cercava di divincolarsi spaventata, di rimando il satiro era ancora preda di tutte quelle emozioni. E fu Heather a rompere quella situazione; le venne in mente Kayla che il mese prima era tornato con un passero ferito e per tranquillizzarlo aveva cantato. Così Heat cantò, una stupidissima canzoncina d’amore, che aveva sentito dall’Ipod che rarissimamente Darren tirava fuori alle loro passeggiate al chiaro di luna, dove cercavano per lo più di evitare altre coppiette o le arpie. E forse ci aveva pensato proprio perché doveva calmare un’arpia. E insomma la musica faceva bene a tutti. Di fatti s’erano calmati e la fissavano. Qbert sorrideva dolce, privo della sua paranoia, e preso da quello che lui stesso definiva estasi dei sensi, Ennoia si era semplicemente calmata, riguardo a Jude la fissava perché doveva trovarla pazza, o almeno i suoi occhi dicevano così. Magari pensava che i figli di Apollo fossero tutti folli canterini o cose così.

“La figlia della Notte non in pericolo” disse a fatica l’arpia, “Lei sa” aggiunse riferendosi a se stessa, “Pasticcino detto Arvey schifoso sdolcinato” aveva terminato, cercando di riavviare nella sua mente quelle parole. Jude per un attimo sembrò tranquillizzarli ed allora posò una mano sulla spalla dell’arpia in maniera gentile. Heather lo guardò attenta, si chiese quanto dovesse essere snervante non poter parlare, non potersi far capire. Ennoia, poso le dita affusolate su quelle di Jude, come a dire che a differenza della ragazza, lei aveva capito, forse era come i satiri, magari anche lei percepiva le emozioni. Il biondo sorrideva, “Tu aiuti lei a trovare la figlia della notte?” aveva chiesto l’arpia. Il ragazzo aveva annuito, stringendo le dita della creatura. Qbert sembrò punto nell’orgoglio ricordando a Jude che doveva aiutare loro con la missione, che se erano partiti in due era perché fosse scritto che lui era il terzo membro, per la storia dei capi marci. Il biondo l’aveva guardato, poi aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni e sollevato le spalle, la sua espressione lasciava intendere che non lo riguardava. Aiutare due perfetti estranei non poteva essere di suo interesse, invece, chiunque cercasse quell’arpia, a Jude interessava; le aveva dato del cibo, l’aveva ascoltata e tranquillizzata. “Ennoia è venuta qui, perché sentito odore” aveva detto, respirando l’aria intorno il biondo, “Lui può aiutare” aveva affermato con convinzione. Il ragazzo aveva annuito, passando le dita tra le piume nere della testa, il suo tacito consenso assoluto, che aveva fatto ridacchiare contenta l’arpia.

Heather aveva pensato alla donna dai capelli di sangue, alla profezia, alla pestilenza e alla morte. Aveva pensato a tutto, aveva sentito le frecce divenire pensanti come il mondo stesso ed il rametto d’erica bruciare. La nuda consapevolezza che la pazza aveva ragione, che se avesse avuto un po’ di sale in zucca, sarebbe tornata dritta al campo mezzosangue, a stringersi tra le braccia di Darren, gli unici occhi verdi che avesse mai voluto vedere. “Così poi la Figlia della Notte sarà sicura” la risvegliò Ennoia dai suoi pensieri, guardando Jude, “Vi aiuteremo a trovarla” aveva stabilito Heather, “E tu poi aiuterai noi a trovare Il Sonno Più Profondo” disse, speranzosa, lanciando uno sguardo d’intesa al satiro e poi a Jude. Il biondo sollevò la mano destra a pugno, alzò il pollice e sorrise; Heat pensò che il suo viso sapesse di fresco, di primavera, come quella che premeva per sorgere.

 

 




(*) Jude l'Oscuro (titolo originale Jude the Obscure) è l'ultimo romanzo di Thomas Hardy. Pubblicato inizialmente a puntate su un giornale, venne poi edito come libro completo nel 1895. Il testo, ribattezzato dalla critica Jude the Obscene (Jude l'Indecente), venne inoltre bruciato pubblicamente dal vescovo di Exeter lo stesso anno.

Non centra nulla con la storia, ma non sono riuscita a trattenermi nel mettermi.

 

(**) Procella vuol dire Tempesta, ma per via dell'assonanza con la parola ancella, ho deciso di porre la presentazione di Ennoia in questa maniera (come se dicesse Ennoia la Tempesta di Artemide). Anche il nome proprio dell'arpia aveva un signifcato preciso, ma giuro l'ho rimosso xD

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Capitolo 9
*** Un Tizio una volta ... ma quella era un'altra storia ...(Carter II) ***


QUESTO CAPITOLO E' STATO UN PARTO! Mi ha davvero dissanguato e mi dispiace di non averlo postato prima ma è stato soggetto a continui rimaneggiamenti, ultimi dei quali dopo sette ore di lezione (di cui tre di latino!) e quindi tante care cose.
Per prima cosa, se no, potrei dimenticarlo, GRAZIE DI CUORE a summe_time, alla fine di questa storia ti ricoprirò di cupcake, giuro.
Adesso passiamo alle precisazioni:
-Si, la questione del Nome Asiatico sarà ripresa.
- Si, il dono profetico è bloccato, ma insomma l'indovino nel Figlio di Nettuno ci riusciva piuttosto bene ... quindi, Licenza Poetica!
-Ok, io non ho capito perchè RR ha piantato Apollo a Delo, se no avrebbe perso lucidità, quando è l'unico dio maggiore che non avrebbe dovuto soffrire di schizofrenia - Insomma ha lo stesso nome tra Greci e Romani ("Perchè La perfezione non può essere migliorata" semicit); ma dobbiamo farcelo andare bene, ed io avevo già osato troppo con Ascelpio (Capitolo che avevo scritto prima di BOO) e quindi si, Apollo è agli arresti domiciliari, ma loro non lo sanno, ma in un certo senso voglio sperare che Apollo abbia affidato a tutti i suoi animali, simboli, cose di essere al servizio dei suoi figli. SI QUESTO E' SPOILER.
-Si, Carter è sentimentalmente confuso ma è colpa mia - che ho rimaneggiato la storia troppo.
-Questa è la canzone. Dura otto minuti, quindi non vi obbligo a sentirla xD

Buona Lettura

(Non sono riuscita a girare l'immagine, perdonatemi)







Il crepuscolo degli idoli




Un Tizio una volta ... ma quella era un'altra storia ...




Carter II





Jordan Shelter non aveva dato segni di averlo riconosciuto, aveva passato il viaggio a giocare ad un videogame sotto gli incitamenti della sua amica, quella che Carter aveva intuito chiamarsi Emma. Lui era rimasto con la sua vicina di posto, alta, dai capelli castano ramato e gli occhi di un delicato castano, lunghe ciglia ed una vena maliziosa minimamente velata. Si era presentata, Lauren Odalisque, senza smetterlo di chiamarlo Bel Faccino neanche una volta, sbattendo di continuo gli occhi e civettando amichevolmente.  Guardandola per Carter era stato impossibile non pensare fosse una figlia di Afrodite, era prettamente bella, come solo la progenie della Bellezza poteva essere, era perfetta, sembrava costruita su misura per esserlo, una beltà spontanea. Poi il cognome ricordava quello di una concubina, un odalisca. Si immaginò Lauren vestita di veli, ballare su una musica turca alla corte d’un sultano.
“Allora, bel faccino, il tuo nome?” aveva indagato Lauren, inumidendosi le labbra. “Carter Gale” sputò fuori lui, sperando in un miracolo non associasse il suo nome a qualcuno di conosciuto, la ragazza mise su un espressione crucciata, in cui Carter sudò a freddo, prima di voltarsi verso Grace per cercare il suo aiuto. La creatura aveva le mani, piantante sulla testa bionda di Marlon, e gli occhi perforanti alle ragazze sedute davanti. “Non è un nome molto asiatico” aveva semplicemente commentato Lauren, come se quella fosse la radice di tutti i mali. Carter aveva ridacchiato a freddo, prima di uscirne con un commento stupido, che aveva avuto l’effetto di farlo prendere per stupido dalla ragazza.
In un certo senso Lauren aveva qualcosa di familiare, qualcosa di lei, si ritrovò a pensare il ragazzo, cercando di afferrare il ricordo di quel viso perso da qualche parte nella sua memoria. Era ancora perseguitato dal sogno della notte prima, trovava così ingiusto non riuscire ad afferrarla a non dare contorni al suo viso. Ricordava un volto dolce, curvato, tondo, ma se chiudeva gli occhi non riusciva ad inquadrarlo, neanche quel bel sorriso e quei begli occhi, che tanto erano ridenti. La vedeva seduta sotto un albero a riparo dal sole, con i capelli scuri come inchiostro filante, ma null’altro dettaglio si incastonava in quel quadro.
C’era solo la sua voce,  priva di una delicata dolcezza e di una risa fresca. Carter voleva ricordare ardentemente quelle.
Nient’altro.

L’autista del bus si era fermato ad una stazione di servizio per fare il pieno e permettere ai suoi passeggeri di sgranchire le gambe, dopo buone quattro ore di viaggio. “Quindi, Carter Gale …” aveva detto Lauren, mentre il ragazzo si alzava, per raggiungere Grace e Marlon già incolonnati tra le persone che volevano uscire. “Si?” aveva domandato lui, “Ti piacerebbe prendere un caffè insieme?” aveva proposto.  Emma e Jordan che si erano alzate guardarono l’amica con occhi sbarrati, ma poi la bionda figlia di Efesto aveva spostato lo sguardo su di lui, gli occhi castani erano prontamente critici. “Tu” lo disse come un suono raschiante. Grace si era voltata verso di lui, gli occhi erano sbarrati dallo sgomento e dalla paura, Carter aveva fatto un gesto cauto, come a dirgli di non pensare a lui. Così la creatura aveva spinto indelicata Marlon giù dall’autobus, non prima di avergli lanciato ancora uno sguardo preoccupato.
“Joe chi è?” aveva domandato Emma, stringendo le mani sulla vita. Aveva un espressione battagliera sul viso, di chi difficilmente lasciava scappar via qualcosa.  Non era bella, neanche un po’, aveva un naso imponente e degli occhi stretti, poi di sicuro faceva una magra figura vicino Lauren, con il suo volto a cuore, ma Emma animata dalla malizia, sembrava guadagnare davvero tanti punti.  “Un figlio di Apollo” aveva risposto con voce stizzosa Jordan, “Un membro dell’esercito di Crono” aveva tenuto a precisare. Quel nome l’aveva sputato fuori come se fosse stata qualcosa di velenoso.  Emma ora lo guardava come se avesse voluto mangiarlo. Lauren al contrario era salita con i piedi sopra la sua sedia. Carter si chiese quanto tempo sarebbe passato prima di ritrovarsi una spada nelle budella? Poco ne era certo.

L’autista era sceso dal suo sedile, era un uomo alto, nerboruto, con una barba ispida nera striata di grigio argento, come fulmini, aveva un collo taurino, muscoli evidenti, anche sotto l’uniforme grigia. I suoi occhi erano scuri come il petrolio. Fu Lauren ad accorgersi di lui, “Em! Joe!” aveva squittito con voce sottile, “Non credo che lui sia il problema” aveva detto, indicando timorosa l’autista. Si voltarono verso di lui. L’autista sorrise in maniera oscena. “Giù” l’ordine di Emma fu un rantolo nella sua voce,  aveva tirato fuori il porta chiave dalla tasca e questo era divenuto un corto bastone di legno spesso, terminante con una punta, aveva due piatti d’ascia al fondo, uno era di bronzo celeste, scintillava d’oro scuro, l’altro era di un grigio lucente. 
Jordan aveva afferrato il martello dalle punte acuminate per l’emergenza ed aveva colpito il vetro, spaccandolo in mille pezzi. “Laurie!” aveva gridato Emma alla ragazza dai capelli di rame, ammiccando al vetro rotto, l'altra ragazza aveva annuito, aveva il viso dipinto di terrore ma aveva dato cenni dell'aver inteso e cauta s'era avvicinata alla figlia di Efesto. Jordan aveva aiutato Lauren a scavalcare il vetro rotto, poi s'era voltata verso la terza di loro,  “Emma?” aveva detto Joe, il viso non tradiva solo preoccupazione, ma anche profonda incertezza , “Vai tranquilla, dolcezza, io me la cavo” aveva risposto la riccia, afferrando la doppia ascia con entrambe le mani e sorridendo in una maniera irosa. Carter si sentì piccolo. Quella era la sua opportunità, sarebbe potuto fuggire e mettere in salvo Grace e Marlon. I vestiti dell’autista esplosero, mostrando un ornata armatura greca, che raffigurava visi urlanti, aveva catene sui polsi e sue caviglie dall’area pesante, ma lui non sembrava turbato, aveva una lancia ruggente in mano.

“Sei sicura?” domandò Carter, estraendo dalla tasca del pantaloni, l’accendino nero e rosso, fatta scorrere la rotella, anziché di una fiamma, si era ritrovato tra le mani una lama bronzo e ferro, era stata forgiata da un giovane ciclope di nome Sheamus, era un po’ tordo, ma aveva abili mani. Scoprirono presto che la lancia dell’uomo era estendibile tramite una catena di ferro nero e non s’era fatto problemi a lanciarla dritto al ventre di Emma, come se non vedesse l’ora di infilzarla come uno spiedino,  la ragazza aveva evitato il colpo, dirottando la lancia con la doppia ascia. Ma Carter l’aveva afferrata di forza  e l’aveva portata fuori, dallo stesso squarcio lasciato da Jordan, buttandola per terra. Emma si era voltata verso di lui, aveva occhi rabbiosi, come d’una bestia, infiammati di un ardore implacabile, come quelli di Mary, la figlia della vittoria. Carter si chiese perché mai l’avesse pensata, era una cosa che non faceva mai.
Emma s’era rimessa sulle gambe, “Cosa, Ade, fai?” aveva urlato contro di lui, sollevando l’ascia come se avesse voluto affettarlo come del prosciutto. Lauren e Jordan erano arrivata da lei. La prima aveva ancora dipinto sul viso un terrore folle, che ne rovinava i fini dettagli, le labbra schiuse, ma come ghiacciate. Joe teneva tra le mani un martello, che emanava scintille di fuoco, aveva aiutato con una mano Emma a sollevarsi, "Stai bene?" aveva chiesto apprensiva, in parte tremolante, l'altra aveva annuito, "Non ho intenzione di lasciarti presto" aveva aggiunto con sicurezza Emma, fissandola negli occhi decisa. “Cos’è?” aveva domandato poi Jordan in parte rischiarata e sollevata da quella promessa, ma una mano ancora arpionata sul braccio della compagna. Nessuno aveva risposto, Carter aveva gli occhi puntati sul pulmino, aspettandosi qualsiasi cosa, quasi bramando che accadesse. L’autista era passato dalla loro stessa finestra, ma ora s’alzava a venti metri d’altezza, era imponente, spaventoso. Era … un gigante. “Oh miei dei” strillò Lauren, chiudendo le dita sui capelli castagni, “Efesto aiutami tu” aveva ringhiato Jordan - Emma le aveva stretto la mano libera, a quel commento - cominciando a far roteare il martello attorno alla sua mano, creando una spira di fuoco, prima di lanciarlo verso il gigante, nella speranza di scogliere la pettorina e scavargli un poco la pelle. Tentativo che andò all'aceto, perché il fuoco annerì a stento l’armatura in bronzo e cadde ai piedi della creatura, lontano dalle mani della figlia di Efesto. “Ucciderò la zanzare di Ares per prima” aveva stabilito, inchiodando Emma con lo sguardo, provando ad infilzare di nuovo la ragazza. Con la sua spada Carter aveva intercettato la catena di ferro e l’aveva portata ad arrotolarsi sulla sua lama, impedendo al gigante il controllo sulla lancia, che giaceva smorta al suo fianco. 

Alle sue spalle Emma fece un sospiro di sollievo, con vigore scagliò la sua ascia verso la giugulare del mostro; non servì  a nulla. Anche con la gola squarciata e l'arma ancora incastrata nella carne,  il gigante era ancora possente ed in forze,  strattonò con decisione la catena liberando la sua lancia dalla presa di Carter, lasciando la spada del figlio di Apollo segnata da una ragnatela di screpolature - un altro fendente e sarebbe andata in frantumi. Il gigante si strappò via dal collo l'ascia, quasi fosse stato un cerotto, non turbato dai zampilli di icore e con una potenza portentosa la scagliò contro la proprietaria. Lauren aveva emesso un grido stridulo, Jordan non si era fatta prendere dal panico, senza aver mai lasciato la presa di Emma s'era lanciata per terra a qualche metro, con un balzo, portando l'altra con lei. "Mi hai fatto una promessa, eh!" le ringhiò contro, con i ciuffi biondi che sfuggivano alle code.
“Io sono Tizio” aveva detto con voce greve il gigante, “E non sarà Areseide a finirmi … ne tanto meno un Apollide” aveva esordito, alla fine, con un tono di scherno nella voce, prima di tentare di infilzare Carter con la sua lancia, mancandolo di davvero poco.  Il ragazzo si era allontanato con una furia che non credeva gli fosse mai appartenuta e l'eco del fischio della lancia che fendeva il vento nelle orecchi; era finito addosso ad una Lauren rigida come una statua, le mani ancora artigliate sul viso cereo a scavarlo.  
Emma non aveva preso bene l’offesa, s'era stacca con un gesto lesto da Joe - non prima di averle fatto l'occhiolino - ed aveva recuperato la sua ascia, infiammata dall'ardore della guerra era tornata alla carica, cercando di colpire nuovamente al collo del mostro, nel tentativo di staccargli la testa. Jordan, non era rimasta in disparte, aveva afferrato il suo martello con un movimento scaltro, s'era accodata all'altro continuando a far roteare l'oggetto e scatenare le fiamme.
 Carter era indietreggiato di qualche passo, sorpassando anche Lauren. Ora, avrebbe potuto fuggire, portare al sicuro Grace e Marlon, non avrebbe avuto altre occasioni. Ma guardò le tre ragazze. Ripensò per un attimo a Lee che si fermava sempre in armeria a scherzare con Joe, mentre Jake Mason gli urlava che era una animale per come riduceva il suo ferro.  Tutta quella vita che s’era lasciata alle spalle.  Alzò gli occhi al cielo e con più forza di quanto avesse si sforzò di proiettare i raggi del sole negli occhi del gigante per accecarlo il più possibile. Era il massimo che un figlio d’Apollo riuscisse a fare con il controllo della luce.

“Non importa quanto ci si provi” aveva detto Lauren, togliendo le mani dal viso, il suo tono era lugubre, “Come?” aveva chiesto Carter, “E’ un gigante” aveva detto la ragazza, sembrando riacquistare colore,  “Solo un dio ed un mezzosangue possono uccidere un gigante” aveva spiegato con un tono insicuro,  stringendo i pugni. Bene, erano davvero nei guai, insomma dove lo trovavano un dio? Senza contare che buona parte delle divinità odiavano Carter. “Che facciamo?” chiese a Lauren, sperando che la ragazza dicesse qualcosa, quella si morse le labbra. Emma s’era ritrovata una lancia nel femore, Jordan era stata sbalzata a distanza, finendo contro la pompa di benzina, per un miracolo divino non la ruppe - avrebbe rischiato di far esplodere tutto con il suo martello infuocato. “Vuoi aiutare?” aveva domandato ringhiante lui, stringendo l'elsa della sua spada inutilizzabile, si sentiva in parte colpevole, lui non stava facendo poi molto ed era praticamente dall'inizio dello scontro che cercava di filarsela.  Emma aveva voltato lo sguardo verso la figlia di Efesto, trovando Jordan in uno stato di semi incoscienza fin troppo lontano da lei, "Joe! Tesoro!" urlò e la sua voce era impastata di dolore, poi - lasciando Carter basito - aveva chiuso ambe due le mani sulla lanci e l'aveva sfilata con un unico movimento fluido, senza lasciarsi intimorire dal loro. Anche Tizio doveva essere rimasto colpito da quella prova di vigore, degna della progenie della guerra e forse per quello aveva lasciato che il fuoco lo cogliesse di sorpresa, alle spalle. Carter aveva lasciato saettare lo sguardo a Jordan, ma lei si stava tirando su a fatica, con una mano sulla testa ed una sulla schiena, il martello senza scintille a pochi piedi, allora aveva riportato lo sguardo su Tizio e la vidi: Grace rifugiata dietro l’autobus, occhi rossi come sangue e mani fumanti. 
Il figlio di Apollo si era già lanciato nella corsa, per poter aiutare l’amica, ma Lauren si era aggrappata a lui, “Che succede?” aveva chiesto sorpreso lui, ma gli occhi della ragazza erano cristallini, improvvisamente sembrava che la paura fosse dissipata dal suo volto ... quasi trasudava sicurezza; “Il simbolo di tuo padre sono i corvi, vero?” aveva domandato, il suo tono era retorico, sapeva perfettamente  la risposta a quella domanda. Carter annui, dopo un più che bravo esame delle sue conoscenze in mitologia, era un paio d'anni che non pensava ad Apollo ed il suo simbolismo.
Nel frattempo Grace aveva creato con la nebbia una lancia con sei uncini ed aveva attaccato alle spalle Tizio, non poteva sempre usare il fuoco, la sciupava, Emma aveva  fatto roteare l’ascia, tentando di far saltare la testa al titano ancora una volta, ma ad ogni ferita, quel mostro veniva rimarginato. 
Lauren piazzò le mani sulle guance del ragazzo, “Devi chiamarne uno” aveva esordito con voce profonda. “Un corvo?” chiese Carter, davvero quella ragazza li chiedeva un corvo? Un corvo contro un gigante? Non aveva senso! Era follia! Ma la ragazza sembrava stranamente sicura di se. “E’ corvo sia” aveva detto. Ma come diamine si invocava un corvo? Non era una cosa che avesse mai fatto. 

Padre so che mi odiate. Ma un corvo, per Lauren, Emma, Joe, Grace e … Marlon che è così innocente. Ci serve un corvo. Le dita di Carter si strinsero, fino a sbiancare le nocche e far sanguinare i palmi, non credeva davvero Apollo avrebbe potuto rispondere al suo appello, da che Carter aveva disertato il Campo l'influenza di suo padre s'era fatta così sottile su di lui da scomparire a volte, ma da quando lo aveva condotto da Melissa e Marlon sembrava essere scomparsa del tutto. Carter aveva sempre saputo di non avere il favore di suo padre, dopo la defezione - e perchè avrebbe dovuto? Aveva cercato di detronizzarlo -  ma ora sembrava essere scomparso in toto. Lauren continuava a tenere le sue dita sulle sue guance, aveva occhi fiduciosi, ma le sue labbra tremolavano appena. Non voleva deluderla, non voleva deludere Grace e non voleva deludere nessuno, non si era pentito mai così tanto di aver alzato la lama per il signore del tempo; ma aveva le sue ragioni, ragioni che la ragione stessa non comprendeva. Era il figlio al prodigo, aveva bisogno di quel padre a cui aveva voltato le spalle, per uno stupidissimo corvo che non avrebbe potuto fare nulla contro un gigantesco uomo alto venti piedi. Le sentì brucianti le lacrime sulle guance.
Stava piangendo?
Poi lo sentì, il gracchiare d’un uccello.

Sopra le loro teste s’era mostrato quell’animale, nero come la notte, ma con scintillanti occhi arancio. Unico nel suo genere, era più grande di un volatile normale, le piume erano lucenti e nonostante l'aria sinistra che Carter aveva sempre imputato a quegli animali - per colpa di un vecchio brano di Edgar Allan Poe - era piuttosto maestoso. Era bastato un suo gracchiare perchè gli infausti colpi del gigante subissassero un arresto e quando Tizio lo scorse, di primo strizzò gli occhi porcini, confuso, ma poi ... era divenuto sul viso livido come il gesso, “No! Uccelli no!” aveva urlato il gigante, accartocciandosi su se stesso, “Non avrai il mio fegato” aggiunse, pavido come una colombella. Grace ed Emma s'erano fermata dal loro scontro, con gli occhi rivolti alla macchia nera sul cielo a dir poco stupefatte. Il corvo aveva preso a vorticare a cerchio attorno a Tizio, gracchiando, come una iena intorno alla sua cascata, il gigante tremolava come fatto di burro, mentre sventolava le mani per allontanarlo, un altro versaccio del corvo e Tizio s'era alzato preso dal panico per correre in una direzione imprecisa, inseguito dal volatile. 

Carter era rimasto scioccato, era sembrato di vedere un elefente scappare davanti ad un tavolino e la cosa lo aveva fatto ridacchiare in maniera più stupida possibile; forse era stato lo stress. “Ma cos …” non finì la frase, con la ridarella sulle labbra, prima di ritrovarsi la risata soffocata dalle labbra di Lauren sulle sue, "Bravo!" aveva cantato sudigiri Lauren. Prima che Carter realizzasse il fatto, era stato in malo modo allontanato dalla ragazza, da Joe che era passata senza grazia tra i due, lanciata verso Emma; "Tesoro" strillò, disperata. La figlia di Ares era accasciata a terra, con le mani impiastrate di rosso sulla gamba, dove dal femore zampillava il rosso, il viso segnato da un profondo dolore.
Lauren era rimasta sbattuta qualche istante ferma, realizzando dopo il fatto e poi era accorsa dall'amica e Carter le era andato dietro. Grace era già lì, inginocchiata al suo fianco per studiare la ferita, mentre Joe aveva avvolto le braccia attorno al corpo esanime della ragazza e le aveva sollevato il busto per poterla tenere stretta.  Carter s'era infilato tra Grace e Lauren spintonandole un attimo per osservare meglio il colpo, rimanendo per un attimo perso: la ferità attraversava da parte a parte la gamba della ragazza, aveva un diametro imponente, ed era fiotti di sangue, poteva vedere l'osso ed i tendini recisi, la carne della figlia di Ares era bianco cagliata, il viso esangue e gli occhi semi chiusi di chi aveva raggiunto il capolinea. Carter era rimasto impotente, nonostante l’emorragia, Emma aveva continuato a combattere. Ed anche in quel momento gli ricordò Mary Beuchamp. Avrebbe voluto davvero aiutare Mary, era stato lui a trovare il suo cadavere e bruciarlo nella pira, aveva visto le ferite, era stata quasi triturata, non aveva smesso di combattere contro il figlio di Gea fino a che non aveva avuto tutte le ossa spezzate e la vita stessa non aveva potuto più abitare quelle carnie, l’avrebbe davvero voluta aiutare, darle un minimo di conforto. Aveva solo potuto che il suo spirito raggiungesse il regno dei morti - guadagnando l'ira e la disperazione di July, Perchè non mi hai aspettata? aveva chiesto in lacrime, con ancora i segni del labirinto marchiati sulla carne e nell'anima per sempre. “Resisti” disse ad Emma alla fine, quella annui, esangue in viso, "E resta sveglia" la ammonì lui ferrea.
Carter posò le mani sulla sua coscia, tremolante, ogni figlio di Apollo aveva le sue specialità, l'arco, la musica, la medicina e la profezia, Carter era sempre stato un bravo indovino e un discreto guaritore, ma come cantante era sempre stato piuttosto pessimo, ma in quel momento non ci badò neanche, troppo preoccupato di fallire. Cantò una vecchia litania greca, stonando ogni brutta nota, che aveva imparato assieme ad Heather e Kayla quando avevano curato un passero ferito. Sentì le dita formicolare come se cento formiche camminassero sotto la sua carne, sentì la pelle della figlia di Ares bruciare, il suo sangue bollire, la riccia urlò a squarciagola come se nulla potesse essere più doloroso di quello, ma in qualche modo rianimata e rinvigorita. Quando Carter abbandonò la zona ferita, aveva ritrovato solo un vecchio jeans consumato e strappato, che mostravano pelle nuda ma integra e qualche macchia di sangue già secco secco. L'incarnato della ragazza era tornato roseo e vigoroso, “Grazie” disse con una voce raschiante, di chi riacquistava le forze, abbozzando un sorriso. Carter le sorrise, ma finì lui accasciato per terra per lo sforzo.


Una ragazza era davanti a lui, aveva i capelli del colore della ruggine ed occhi verdastri come foglie in primavera. Indossava una maglietta arancione tutta stropicciata, rovinata, bucherellata e macchiata di sangue, sul petto c'era una scritta ed un pegaso, la ragazza era tutta presa da una serie di maglie in quello che sembrava il reparto di vestiti da donna. Carter aveva notato che all'altezza del ventre, sulla maglietta, c'era uno squarcio più grande che mostrava una bella porzione di pelle nuda proprio sopra l'ombelico. Lei indossava una collanina del campo mezzosangue, con almeno cinque perle. Carter ci mise davvero troppo tempo per riconoscere i connotati di Heather, la sua mezza sorella, dal sorriso sempre sbarazzino che girovagava con quel figlio di Demetra. “Heat” la chiamò. Per un attimo, sembrò come se sua sorella l’avesse sentito, aveva sollevato il collo e s’era guardata intorno, la confusione aveva dipinto il viso e lei era tornata al suo operato, tirando via da una stampella una maglietta nera semplice. Aveva cercato il dispositivo per togliere l’allarme, ma sembrava abbastanza limitata, “Jude, puoi aiutarmi?” aveva chiesto nel suo campo visivo si era palesato un ragazzo con una giacca di pelle, capelli biondi piuttosto corti, pelle di cera ed occhi chiari come il vetro. Era sfornito della sua lama di ferro di stige, ma anche senza la sua spada bastarda Carter sapeva chi era, lo aveva conosciuto sulla Principessa Andromeda, il mezzosangue che non parlava mai e seguiva come un cagnolino Alabaster. Jude, il figlio di Apollo si rendeva conto di non aver mai saputo il suo nome, sembrò guardarlo.
“O grazie agli dei stai bene” disse Marlon, con il viso rischiarato, stringendolo in un abbraccio soffocante ed amorevole. Grace era al suo fianco, gli occhi erano tornati nocciola, ma la sua mano era ancora così calda da bruciare, ma Carter era grato che fosse ancora stretta alla sua.  Davanti a lui, le tre ragazze del campo erano in piedi. Joe aveva smesso di lanciargli sguardi diffidenti, sembrava più occupata ad osservare che Emma stesse bene, tenendole apprensiva le mani attorno alla vita della ragazza, la figlia di Ares sembrava piuttosto contenta di vederlo stare bene - quando non diceva cose all'orecchio a Joe - e  lo stesso di poteva dire di Lauren, che gli aveva allungato una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi, “Davvero bravo bel faccino, ci hai fatto preoccupare” aveva detto sghignazzante, prima di scompigliarli i capelli scuri. Ed ad averla così vicina, Carter era avvampato pensando al breve bacio che lei gli aveva dato e che lui non si era potuto godere per nulla, doveva dire qualcosa? “Come sapevi del corvo?” chiese invece, cercando di riprendere fiato.
La ragazza se possibile sorrise di più, gli occhi sicuri di se, “C’è una sciocca diceria che vede che i figli di Afrodite siano stupidi” aveva detto quella con orgoglio, “Farà schifo con le armi …” l'aveva interrotta Emma ridacchiando, “Ma è più intelligente lei di tre quarti della cabina di Atena” aveva terminato per lei Jordan battendo le mani sulle sue spalle. Lauren sorrise orgogliosa ed un po' imbarazzata delle belle parole delle sue amiche, “Tizio era un gigante figlio di Zeus, dopo essere stato sconfitto da tuo padre e dalla divina Artemide, nel tartaro è stato condannato ad essere legato e con aquile ed avvoltoi a mangiare il suo fegato” aveva spiegato la figlia di Afrodite con sicurezza, “Quindi mi è sembrato naturale, che avesse sviluppato una naturale fobia agli uccelli, se per più di due mila anni si nutrono di te” aveva terminato soddisfatta.  “Ma non era Prometeo ad aver avuto quella punizione?” aveva invece chiesto Grace, grattandosi i capelli,  Lauren l’aveva guardata, aveva alzato le spalle e poi aveva risposto: “Dovevano essere carenti di fantasia” come se la cosa non la interessasse, infilando le mani nelle tasche della gonna a pieghe.


“Quindi andavi al campo mezzosangue” aveva constata Jordan, sedendosi accanto a lui, Carter aveva annuito.  Emma stava sistemando lo specchietto della macchina, per cercare di orientarlo bene per la sua altezza, avendo appena preso il posto della figlia di Efesto al volante, che di centimetri la superava parecchio. Lauren aveva sorriso dal posto affianco al guidatore, riguardo a Marlon, guardava eccitato il finestrino, sperando di scorgere Grace. Da quando avevano distrutto l’autobus e reso latitante l’autista, avevano dovuto ingegnarsi per raggiungere il campo mezzosangue. L’idea era venuta alla figlia di Afrodite tutt’altro che oca, che s’era maledetta per non avere la Lingua Ammagliatrice di alcune sue sorelle, aveva citato Drew, che Carter ricordava passivamente, ed una certa Piper, che gli era estranea. Con quella suddetta capacità, Lauren aveva rivelato che avrebbero potuto prendere un auto direttamente dal proprietario.
Dopo quelli che erano stati minuti di lunghissima preoccupazione, in cui Jordan si era offerta di forzarne una, mentre Emma di picchiare il proprietario; Grace aveva sospirato, “Sono un empusa” aveva detto con tono sterile. Gli occhi della figlia di Afrodite erano diventati scintillanti come stelle. “Davvero?” aveva domandato eccitata Lauren, quasi saltellando con le sue gambe. Quando Grace passava per la Principessa Andromeda, tutti i mezzosangue presenti avevano paura, non sapevano quanto diversa fosse dalle sue sorelle, temevano solo che volesse mangiarli. Anche Carter aveva avuto paura di lei, di Tammy, di Kelli e di tutte le altre. Aveva visto Grace schizzare nel fuoco, l’aveva vista combattere con forza e selvaggia degna di una belva ed aveva davvero temuto che la belva volesse lui. L’empusai lo guardava sempre, sembrava fosse il suo unico passatempo. In ogni momento Carter poteva sentire quegli occhi nocciola sulla sua nuca sulla sua pelle, “Sembra valuti come cucinare meglio la colazione” aveva detto un giorno July Goldenapple, mentre legava la pettorina al suo fisico snello. Ma aveva sbagliato, come tutti sbagliavano, Grace era buona, quando sorrideva sembrava così innocente; Carter aveva capito con il tempo quanto inoffensiva fosse Grace, nessun mezzosangue che l’avesse vista appena – o tentare di bruciare un gigante – aveva mai mostrato eccitazione e felicità nel sapere cosa fosse. “Si” aveva risposto tetra Grace, mentre teneva la mano di Marlon. Il viso di Emma e Jordan era ghiacciato, come la normale reazione da manuale. “La lingua ammagliatrice è una caratteristica delle’Empusai” aveva spiegato Lauren, giustificando quella tanta eccitazione nei confronti della creatura. “Sono fuori allenamento” aveva spiegato Grace, ma Carter sapeva bene che se si sera scoperta così tanto era solo per quello. 
“Mi fido di te” aveva commentato il figlio di Apollo, accarezzandole i capelli, “Solo non mangiarlo” commentò, prima di abbracciarla, “Non lo farei mai, con Marlon presente” aveva ribattuto offesa lei, come fosse stata un’accusa, chiudendo le mani con i fianchi.  Crucciata aveva l’espressione più carina di sempre, “Mi fido di te” ripeté, per un attimo il dolce calore di nocciola degli occhi era diventato rosso incandescente. Poi si era diretta verso il proprietario di una macchina che faceva benzina, disinteressato a quel delirio che erano le macerie del vecchio autobus. Aveva scavalcato un bel po’ di mortali confusi che si chiedevano cosa avesse fatto. Carter non era riuscito a sentire cosa l’uomo aveva detto, aveva capito dalla sua postura del corpo, che aveva stava cercando un approccio con la ragazza.  Si erano allontanati insieme, ma dopo pochi minuti era tornata solo lei. Aveva una camminata spigolante, con gli occhi ancora infuocati, con le chiavi in mano. “L’hai ucciso?” chiese Emma, avvicinandosi  cauta, Grace mosse il capo, anche se l’empusai avesse mentito per la presenza di Marlon, Carter non aveva dubbio che non l'avesse fatto. “Dormirà per molte ore” aveva risposto Grace sicura di se, accarezzando i capelli di Marlon, “Ma ricorderà che gli ho rubato l’auto” aveva risposto, prima di lanciare le chiavi a Jordan, “Solo cinque posti” aveva risposto, “Io vado a piedi” aveva spiegato.
Così Grace era una fiamma lungo la linea rossa, loro erano in auto, scambiandosi di ruolo nel guidare e diretti al campo mezzosangue.  Marlon aveva riempito di domande le tre ragazze sul luogo dove avrebbe vissuto e quelle aveva risposto con estrema novizia di particolari - chiedendo ancora se Grace avesse potuto rimanere con lui. “Si andavo al campo” rispose a Jordan, mentre la ragazza si sistemava i capelli biondi in due code, "Grazie per averla salvata, io non potrei vivere senza di lei" aveva sussurrato Joe ammiccando alla ragazza che guidava, Carter aveva annuito, comprendendo bene quel sentimento. Aveva sorriso alla ragazza, ottenendo di rimando un sorriso complice,  “Will ed Heat saranno contenti, sempre se non provino ad ucciderti” aveva aggiunto la figlia di Efesto, con un sorriso sbarazzino. Al secondo nome, Carter si irrigidì, ricordando il sogno, in cui Heather era a comprare magliette con il muto. Ed ebbe improvvisamente una pessima sensazione, quando pensò alla sua sorellastra, sentì quasi una nausea ribollirli nel ventre, tanto da voler vomitare. “Ferma la macchina” disse alla figlia di Ares, che arrestò la macchina lungo la strada.  Marlon era già saltato fuori, quando Carter rimise sull’asfalto, con il naturale aspetto costruito, Grace era china al suo fianco, che gli carezzava i capelli. Distorta, lontana, vedeva Heather sotto l’arco del campo, appena dopo l’albero di Thalia, la sua pelle era grigia e segnata due vene nere spesse che percorrevano il corpo, gli occhi vacuie e lucidi. Ma sorrdeva.

“Mi servono delle dracme” bisbigliò con voce pacata, sollevandosi sulle sue gambe, Grace l’aveva già circondato con un braccio per sostenerlo, doveva chiamare Heather. Ma la ragazza avrebbe rifiutato la sua chiamata, Carter era un traditore infondo, “Anzi, servono a te” disse a Joe, che era al suo fianco, “Chiama il campo! Devo sapere dove è Heat”  aveva detto. Nella sua mente si formò ancora quel sorriso affaticato, circondato da nere vene. Jordan annui, cercando nella sua tracolla di stoffa viola e bianca, tirando poi fuori quella che aveva tutta l’aria di essere una borraccia, “Laurie lo specchio” disse alla figlia di Afrodite, che prontamente le aveva passato l’oggetto in questione, recuperato da chi sa dove. Lo specchio era tondo, da un lato nero con fiori di rossi, dall’altro null’altro che una superficie riflettente; cominciarono a giocare con l’acqua e gli specchi tentando di creare un arcobaleno,  “Ci serve la tua luce” gli aveva detto Lauren, toccandoli i capelli in maniera gentile, amichevole ed anche intima. Carter aveva deglutito sonoramente, accaldato da quel contato innocente, ma aveva trovato la forza di annuire.
Si sollevò dalla posizione in cui era accucciato, per alzare gli occhi al cielo dove il sole si era fatto rossastro, dipingendo l'ambiente di un rosa pastello, “Non posso” s'era lamentato, profondamente mortificato dalla sua inettitudine, gli ultimi raggi del crepuscolo erano estremamente difficili da cogliere per un qualsiasi figlio di Apollo, figurarsi uno che era stato ripudiato dal suo stesso padre. Certo, era riuscito ad invocare il corvo, per una volta suo padre sembrava aver risposto al suo appello, ma lo avrebbe fatto di nuovo? Gli avrebbe dato abbastanza potere per cogliere un raggio di sole del tramonto. “Bene, allora riprendiamo il viaggio” aveva sentenziato Emma, “Fino ad un bad and breakfast, poi lì proveremo di nuovo” impartì categoria la figlia di Ares, nonostante si fosse ripresa il viso era profondamente segnato, avviandosi verso la macchina, Joe l'aveva afferrata per una mano, "Fa guidare di nuovo me!" aveva detto tutta inviperita, "Posso farlo io" aveva bisbigliato Carter, "Hai appena rimesso, neanche per sogno" aveva gracchiato la figlia di Efesto. Lauren aveva riso appena, "Io non ho la patente, ma se volete" aveva canticchiato. Per un attimo tutto era sembrato più leggero.  

Grace afferrò Carter per una mano, in maniera compostamente gentile, “Vedrai che non è nulla” aveva detto cercando di essere amichevole, “Vorrei poterlo dire anche io” aveva risposto asettico lui - perdendo quel momentaneo buon umore. Ma un figlio di Apollo non mente. Il sorriso sul volto di Grace si incrinò un attimo, avendo smascherato la menzogna. S'infilò in macchina, seguito da Marlon che si era stretto in maniera automatica a Grace quasi temendo che non l'avrebbe ritrovata alla sua discesa, mentre l'empusa dopo averlo delicatamente fatto entrare, chiudeva lo sportello. Carter si era trovato al centro e Lauren al suo fianco,  “Anche Michael lo faceva” aveva confidato con un sorriso un po’ smorto sulle labbra, “Quando vedeva qualcosa” aveva confidato con un tono piatto. Carter era rimasto in silenzio a pensare a quel ragazzo che era stato come un fratello maggiore ed aveva rivolto i suoi pensieri a Marlon, che aveva preso a ridere e scherzare con Emma, che si divertiva a raccontargli tutto e di più sul campo.  “Heather Shine” aveva risposto solamente lui,  Lauren aveva annuito con un movimento lento, “La fidanzata di Darren” aveva mormorato la figlia di Afrodite, chiudendo le braccia attorno alle ginocchia che s’era chiusa all’altezza del petto, "Il piccolo capolavoro di Mitchell" aveva bisbigliato cauta.
“Ho paura possa succedere qualcosa di brutto” aveva proseguito Carter, con quel macigno sull'esofago, soffocante, da stordirlo. Aveva tradito il campo, gli aveva traditi tutti, eppure una  parte di lui non poteva non preoccuparsi di loro, erano stati la sua famiglia, anzi erano la sua famiglia e lo sarebbero stati per sempre. Quando era sulla principessa Andromeda, Alabaster gli aveva detto un numero incessante di volte di dimenticare, altrimenti si sarebbe trovato spezzato, ma per quanto Carter lo stimasse, riteneva che Al non potesse capire, era stato un ragazzo del campo questo si, ma non era mai stato davvero parte di esso, viveva da figlio di Ecate tra i figli di Ermes, lui aveva una cabina, dei fratelli, dei legami ... era diverso. Non poteva capire Al, così come July, Ines e le gemelle LaFayette. Mary, Jake e  Chris potevano invece, quando erano andati via dalla loro casa, avevano lasciato un pezzo di cuore. Forse era per questo che lui non si era mai sentito in grado di condannare Chris per essere tornato sui suoi passi, o Ethan o per fino quel figlio di buona donna di Luke Castellan. 

Carter aveva lasciato il suo cuore in Lee, Mike, Will e tutti gli altri, due di loro non c’erano più ed ora temeva di perdere Heather, quella stessa Heat che se l’avesse avuto sotto mano gli avrebbe  tirato il collo di persona. “Io non la vedo da qualche mese, stavamo proprio tornando al Campo ora, ma sono sicura stia bene ... lei è una tosta” aveva confidato Lauren con un tono gentile, "Potrebbe infilzare uno scoiattolo in un occhio da due yard di distanza" aveva cercato di rincuorarlo “Ho paura possa esserle successo qualcosa” aveva ripetuto lui lo stesso, abbattuto. Carter non riusciva in alcun modo a liberarsi dell’immagine della sua sorellastra sofferente, senza contare che nel suo sogno l’aveva vista con Jude, il muto, che era stato uno di loro ... e Carter non credeva di potersi fidare di ciò che erano stati.  Emma si era voltata verso di lui, “Dovresti dormire un po’” aveva detto cercando di essere gentile. Carter aveva mosso la testa in senso di diniego, di tutto aveva voglia, tranne che dormire, "Tu dovresti farlo, ordini del medico" aveva ribattuto invece, Jordan aveva colto tutti di sorpresa ridendo, "Santi numi, sembri Will" aveva aggiunto.


La fiamma di Grace si era defilata in una curva della strada che aveva portato a quello che sembrava un bed&breakfast,  di tutto rispetto, preceduto da uno spiazzale  circondato da alberi sempre verdi. “La seguiamo?” aveva domandato la figlia di Ares, cercando gli occhi di Lauren dallo specchietto, la figlia di Afrodite aveva annuito dando il suo assenso. Carter aveva concordato, aveva davvero bisogno di dormire, anche se aveva detto ad Emma che non ne aveva bisogno e poi di Grace si poteva fidare, sebbene poteva capire che per gli altri mezzosangue doveva sembrare piuttosto ambiguo. "Rilassati Em!" la canzonò Lauren, "Mi pare che abbiamo attestato di poterci fidare di loro" aveva canticchiato la figlia di Afrodite, infilando un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, della sua ordinata coda non era rimasto altro che una matassa informa e sconvolta, ma era ugualmente bella. Le figlie di Afrodite lo erano sempre.
Emma aveva annuito, girando il volante per inseguire l'empusa e parcheggiare all'interno della piazzola a semicerchio, "Nel dubbio, tenete sempre le armi a portata di mano" aveva stabilito la figlia di Ares, slacciandosi la cintura.
Joe l'aveva fermata, "Tu proprio no! Non tenterai la fortuna più di quanto ai già fatto!" la canzonò, battendoli con l'indice sulla punta del naso, Emma ridacchiò imbarazzata. Alla fine scesero tutti giù dall’auto, Marlon era immediatamente corso verso Grace per prendere la mano, con un sorriso amorevole sulle labbra. Carter temeva il giorno che quei due si sarebbero dovuti separare; "Non potrebbero tenerla al Campo, oltre a ninfe e satiri, ci sono anche le arpie?" aveva buttato lì lui, mentre si allontanava dalla macchina, assieme a Lauren, "Renderebbe isterici gli altri, ma Chirone probabilmente non farebbe problemi" aveva constato la ragazza, con le braccia al petto, la pelle d'oca evidente sulle braccia. Carter era rimasto in silenzio, osservando i due davanti a lui, ascoltando il respiro di Laurie, pensando alla fiero aspetto del centauro che gestiva il campo, l'irritabile - e irritante - Dionisio e quanto avrebbero svalvolato gli altri al campo a sapere che un'empusa viveva con loro. Lauren aveva poi ripreso: "Infondo ci sono anche Tyson e Mrs O'Leary" - con un tono un oi' vacuo, preoccupato in un certo senso -  "E poi in casi disperati come questi, ogni aiuto è benvenuto" aveva commentato la ragazza. 

Prima che Carter riuscisse a proferire domande su ciò che la ragazza intendesse, che Marlon aveva attirato la sua attenzione, con gli occhi assottigliati, avvolti dal buio della sera, il suo fratellino indicando un cartellone s'era lamentato: "Uffa!Non riesco a leggere!” con un tono leggermente risentito. Carter aveva guardato anhe lui cercando di trovare un senso alle lettere rosse su sfondo giallo del cartello appena fuori dalla locanda. “Non è un bed&breakfast” aveva valutato Grace, “E’ un centro termale” aveva detto con un tono vagamente infastidito, “La foatna nid  Semacla” aveva detto con convinzione Joe, la prima ad esser riuscita ad ordinare in qualche modo le lettere sul cartello “La fontana di Salmace” l’aveva corretta l’empusa. “Bel posto dove fermarci” aveva commentato con un tono di stizza Lauren, ponendo le mani sopra i suoi fianchi, decisamente poco entusiasta della cosa, “Di sicuro non sarà come il centro di C.C. ma potrebbe andare bene” aveva detto Grace, ignorando deliberatamente la figlia di Afrodite, “Anzi a te, dovrebbe andare meglio” aveva aggiunto guardando Carter, “Nessuno ti trasformerà in un porcellino d’india” aveva risposto, cercando di sdrammatizzare un po', ottenendo solo sguardi confusi dall'amico.  

Il centro benessere era fatto in marmo bianco,  alto intorno ai due piani, come una villetta da quartieri residenziali in stile art nouvau, aveva un porticato in colonne bianche dal capitello corinzio e l’impalco di legno, le finestre erano coperte da tende colorate e la porta era di mogano, non aveva un campanello ma una testa di serpente, dalle cui zanne scendeva un anello in ottone, la lingua biforcuta correva su tutto esso. Fu Joe ad afferrare l'oggetto e picchiarlo contro la porta, finché qualcuno non l'aveva aperta, una ragazza dal fisico slanciato, labbra di fragola, un corpo tonico coperta da una mantellina viola e capelli ricci di una castano delicato, poteva essere sulla prima metà dei vent'anni e nonostante l'aspetto piuttosto grazioso aveva qualcosa di sinistro. La giovane donna aveva piantato gli occhi viola su di loro e gli aveva studiato per un bel po' di minuti, “Prego” aveva detto con un tono amichevole, prima di lasciarli passare, sembrava squisitamente gentile, aveva constata Carter, una gentilezza finitamente e finemente costruita.
 L’interno del centro era bello, era una reception con un bancone che sembrava un altare, in marmo rosa, con bassi rilievi di scene di caccia, un tappeto ricavato da pelle di una tigre e divanetti con cuscini ricamati per aspettare. C’erano due porte,  che conducevano altrove, speculari ed identiche, ai lati dell'altare, entrambe erano coperte da piogge di perline lilla chiaro, una musica particolare riempiva l’aria. “Con il nome di questo posto, non dovrei sorprendermi di sentire questa canzone” aveva constato Emma con un sorriso sornione in viso, le mani attorno alla vita di Joe. Carter aveva aggrottato le sopracciglia scure, “Come?” aveva domandato , “E’ una canzone dei Genesis” aveva spiegato la figlia di Ares ma, prima che potesse procedere, la donna vestita di viola l'aveva anticipata: “The Fountain of Salmace” prima di recarsi dietro il bancone-altare e tirare fuori quello che sembrava un registro. “Mi piace molto questa canzone” aveva confidato la donna, sfogliando il suo quaderno, Emma aveva annuito, “Sono il gruppo preferito di mamma, sono cresciuta con i Genesis nelle orecchie” aveva commentato, ripescando un vecchio ricordo.

La receptionista aveva sorriso, “Io sono Manto” aveva detto con un tono amichevole, “Sai già chi siamo dunque” aveva detto Lauren, frapponendosi tra lei ed Emma, con un tono da so-tutto-io,  “Si ... e cosa volete” aveva stabilito asettica Manto, prima di scarabocchiare qualcosa sul registro. Carter l'aveva guardata attentamente, sentendo brividi arrampicarsi lungo la schiena, la donna  aveva preso una ciotola con delle chiavi e ne aveva data una ad Emma, poi ne aveva pescata un'altra e l'aveva allungata a  Lauren, una terza ed ultima l'aveva posata sul bancone. “Dietro la porta sinistra, ci sono la sala da pranzo, con le scale che portano alle camere. La cena è già stata servita” aveva detto con un tono piatto Manto, “A quella destra ci sono le terme. Saune, piscine, fonti e tutto il resto” aveva spiegato, “Fate attenzione, a Giano piace stare da queste parti” aveva terminato, tenendo un sorriso sempre sfacciatamente finto.  Poi aveva fissato Carter per un po' di tempo, appena un po' confusa, “Carter, queste sono per te e tuo fratello” aveva commentato, indicando le chiavi, il figlio di Apollo aveva sentito vero freddo nell'essere stato chiamato per nome dalla donna, “Sempre che tu non voglia dormire con le fanciulle” aveva mormorato la donna, risvegliandolo dal suo momentaneo assenza,  facendo oscillare davanti a lui le chiavi.  Carter le aveva prese frettolosamente senza ringraziare.

“Ma lei chi è?” chiese il ragazzo fissando le chiavi con sguardo assente, “Manto figlia di Tiresia, maga ed indovina” aveva risposto con un sorriso sornione sulle labbra quella. “Lavori da sola?” aveva domandato Lauren, ora con un tono più gentile, posando il mento sui palmi delle mani, aveva un aspetto vagamente civettuolo, “Oh no” aveva risposto, “Ci sono anche il mio onorabile padre ed il caro Ermafrodito” aveva risposto Manto, uscendo da dietro il bancone ed avvicinandosi alla porta a sinistra, “Posso conoscerlo?” aveva chiesto con una punta di divertimento, “Sa questione da sorella a fratello … o sorella” aveva  spiegato Lauren. Manto aveva riso, chiudendo le dita sulle labbra, “Preferisce che si rivolga a lui come un uomo” aveva spiegato, con la stessa confidenzialità che si potesse dare ad amici di vecchia data, circondando le spalle della figlia di Afrodite, con una mano. Era più alta di Lauren e sembrava amichevole, ma Carter continuava a percepire disagio nel guardarla.

Avevano seguito Manto, dietro la porta, passando davanti una porta aperta che dava per una bella sala da pranzo con alcuni tavoli scuri con dei centrini decorati, ma la maga gli aveva indicato una scala a chioccia in frassino, sul corrimano c’erano incisi fiori, chiudendo la porta della sala.  “Carter, aspetta, devo parlarti” aveva detto l’empusa, fermandolo e costringendolo a passare proprio per la sala che Manto aveva chiuso. Avrebbero potuto parlare lì, ma quando l'empusa aveva scorto un ragazzo dai capelli scuri passare un panno su una spada d'orata, lo aveva spinto verso la porta finestra per ad andare all’aperto, Carter aveva guardato appena il ragazzo, che aveva sollevato il viso verso di loro ed aveva sorriso. Si erano stabiliti su una bella terrazza che dava la vista ad una grande città illuminata ad una certa distanza ed un cielo costellato di stelle. Il figlio di Apollo aveva potuto vedere gli altri averli seguiti almeno dentro la stanza - ma non sul terrazzo - Emma stava gesticolando qualcosa verso Manto ammiccando spesso a Malcom, scommetteva cercasse di guadagnarsi del cibi sfruttando l’irresistibilità di dodicenne di Malcom. “Non mi sono fermata qui senza motivo” aveva spiegato la creatura, "Sapevi di questo posto?" aveva chiesto confuso lui, ma Grace non gli aveva risposto, “Non volevo farlo, ma poi hai detto che non riesci a vedere bene" aveva chiarito l'empusa. Carter aveva deglutito timoroso e nervoso “Ci sono alcune fonti particolari qui” aveva spiegato,  “Una di queste potrebbe aiutarti” aveva mormorato con un tono gentile, lui aveva annuito, “Qualcosa che tolga le ragnatele dai tuoi occhi” aveva spiegato lei, prima di accarezzarli la guancia in maniera materna. “Ma, bisogna fare attenzione” aveva aggiunto Grace, “Potremmo sbagliare fonte o potrebbero non permettercelo” aveva terminato, per un attimo gli occhi erano scintillati di sangue e la pelle s’era fatta di latte. Poi era rientrata nella sala.
Carter non era riuscito neanche a dirle che quel posto lo spaventava.

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Capitolo 10
*** Un semi-avvelenamento (quasi)direttamente dall'Inferno(Bernie II) ***


 

Allora chiedo scusa per il ritardo ma i mesi passati sono stati devastanti e massacranti. E non ho scusanti, particolarmente per summer_time che è l'unica poverina che commenta il mio lavoro.
Vorrei ringraziare chi legge, o segue, o preferisce o che … spero possiate apprezzare.
Una piccola premessa: il capitolo è lungo, davvero lungo, è forse pesante, avevo avuto la mezza idea di dividerlo in due parti, ma non avrei saputo dove spezzarlo, visto che l'evento importante, che da il nome al capitolo, non sapevo dove ficcarlo. Comunque spero riusciate ad arrivare in fondo.
Come nel secondo capitolo c'è nuovamente una scena femslash (anche se questa è livemente più esplicita), non ero sicura se ci stesse bene o meno, comunque di tutti i personaggi incontrati in questo capitolo, solo uno è davvero importante, ma non vi dico quale ahahaha.
E forse il capitolo è anche filler.

Buona lettura,
RLandH

Comunque visto che non aggiorno da molto:
THE LONG SO FAR: Arvey, lestrigone piuttosto atipico, salva Bernie una mezzosangue che conosceva dai tempi della Principessa Andromeda, proprio dai suoi stessi compagni(più altri mostri), lasciando di fretta e furia Vernon. In viaggio Bernie riceve la visita di sua madre, la dea, Nyx che le affida un taumatoscopio ed una missione: ritrovare un'arma, nonostante la ragazza fosse animata dal desiderio di ritorvare Bells, la sorella gemella scomparsa da Manhattan. Alle Cascate del Niagara, i due sono attaccati da due vecchi compagni di Arvey, ma riescono a fuggire aiutati da un'ambigua divinità vestita di bianco – Bernie nel frattempo era riuscita a mettersi in contatto con Alabaster un vecchio compagno della titanomachia. Finiti in Luisiana e rimasti bloccati, Arvey e Bernie hanno uno scontro con un mostro di nome Parthonope, che aveva incantato Bernie. Il mostro viene freddato però dall'arrivo di altre persone, lo stesso destino con orrore sembra riservato ad Arvey.



 

 

Il Crepuscolo degli Idoli

 



 

Un semi-avvelenamento (quasi)direttamente dall'Inferno.

Bernie II

 

 

 

Arvey era stato sistemato sotto coperta, per non turbare nessuno dei membri dell'equipaggio dell'alionave. A Bernie era stato accordato invece di poter girovagare almeno sul ponte, ma lei d'altro canto era abbracciata al parapetto, ammirata dal panorama di quella meraviglia – e forse anche spaventata. Deedo le aveva spiegato fosse opera di un abitante di Bensalem(*) senza darsi troppo peso nello spiegare di cosa in realtà stesse parlando, aveva preferito aggiungere che comunque al Campo Mezzosangue un brillante figlio di Efesto ne aveva costruita una migliore e senza possedere una conoscenza millenaria di marchingegni e così via. Deedo era stata l'unica persona amichevole che avesse incontrato – se non contava il ragazzo di undici anni che la guardava oltremodo estasiato, che a Bernie aveva ricordato Lip, il bambino mortale che vedeva oltre la nebbia.

Il fatto che fosse stata gentile, però, non faceva di Deedo un'amica. Era poco lontana da lei, indossava un vestiario simile al suo: giacca pesante, pantaloni a sigaretta, stivaletti con i lacci, anche se rispetto a Bernie era pallida come la polvere,una statura piuttosto bassa e con un seno più corposo, questo non le impediva di avere comunque un corpo tonico ed atletico. Deedo aveva anche dei riflessi spiccati ed invidiabile, perché con il lancio di un disco era riuscita a curvare una pallottola fatta di oro imperiale che avrebbe disintegrato Arvey ad un solo contatto. Il primo pensiero quando Bernie l'aveva vista era stato che fosse Annabeth Chase, la compagna di Percy Jackson, se bene avessero in comune solo occhi grigi come cieli plumbei ed i capelli biondi – e probabilmente una madre.

 

“Allora ti piace?” aveva chiesto gentile Deedo, raggiungendola. Teneva le braccia aperte con il chiaro intento di mostrare, come un vanto, l'immensità del ponte – di tutto – dove la gente continuava a muoversi svelta per adempiere ai compiti e qualcuno come lei aspettava. Bernie s'era guardata in giro a disaggio, dove aveva scorto l'undicenne ancora fissarla, nascosto dietro uno dei tre grandi alberi della nave, viso scuro come il caffè e capelli neri come una macchia di inchiostro, aveva iridi chiare come il vetro che davano tutta l'impressione di uno spettro in piena regola, se non fosse stato per la maglietta blu brillante con degli omini che ballavano ed i bermuda con i fulmini.
“Una volta ne avevamo di navi del genere! Ma per quelle orribili condizioni adesso abbiamo una flotta indegna di tale nome” s'era lagnata la bionda, con i gomiti puntati sul parapetto. Gli occhi plumbei rivolti al cielo chiaro. Un aria fastidiosa batteva sopra le loro pelli ed irritava gli bulbi. Bernie aveva annuito, con la mano serrata al parapetto.

Deedo era amichevole, gentile ed accomodante, aveva salvato la vita ad Arvey e di questo Bernie ne era grata, ma era stata la stessa bionda a prenderli gentilmente in custodia, quando aveva afferrato – con una semplice occhiata – che Bernie esulava dal concetto di semidio Greco o Romano. Lei stessa si era poi affrettata a riferire di essere nata dai lombi di una divinità protogea e non era ancora certa che la cosa fosse stata una buona idea o meno. Deedo comunque aveva preso la palla al balzo e pratica aveva circuito i suoi compagni riferendo che sarebbe stata una cosa inaccettabile non accogliere tale semidea, sarebbe stata una mancanza di rispetto verso Nyx stessa.
Da quel momento Deedo era stata praticamente la sua migliore amica.
Le aveva raccontato tutto ciò che c'era da sapere di lei, cosa le piaceva, che genere di musica ascoltasse, dove le piacesse andare negli appuntamenti, chiacchierando a ruota libera. Bernie aveva cominciato a dubitare ad un certo punto di essersi sbagliata sulla divina discendenza di Deedo, fino a che non s'era resa conto che l’altra non aveva davvero detto nulla di utile (come chi fossero? Cosa volessero? Dove stessero andando?). Però le aveva tirato fuori di bocca davvero molte informazioni: come aveva conosciuto Arvey, di suo padre disperato, di Bells scomparsa da un anno e dei suoi pellegrinaggi, del ragazzo che non parlava che l’aveva lasciata da sola, di Boston doveva aveva incontrato Magnus(*) – e se ne era andata dopo aver saputo dei lupi dagli occhi blu. Bernie si reputava brava, aveva evitato con maestria di parlare della Seconda Titanomachia , di sua madre e della sua missione.
Come era il detto: si prendevano più mosche con il miele che con l'acido?
Deedo doveva esserne estimatrice.

 

 

 

“Quant'è che manca?” aveva sputato Bernie, con le braccia incrociate sotto al seno, sentendo il taumatoscopio piantonato contro una costola, ma affatto decisa a farlo scoprire. Non che se ne preoccupasse, si sarebbe dissolto, un comodo antifurto: il taumatoscopio non si faceva trovare da nessuno che lo stesso non volesse – quasi avesse vita propria.
Aveva chiesto quello, perché si era tristemente arresa al fatto che Deedo non avrebbe mai risposto alla domanda su dove fossero diretti, sperava almeno di scoprire almeno quanto mancasse. Quanto mancasse alla fine della sua vita? Nefasti numi, sperava proprio di no. “Ci siamo, diva” aveva soffiato qualcuno vicino al suo orecchio, Bernie non aveva sussultato, era stato così rigida ed attenta su quella nave che coglierla di sorpresa era impossibile. Aveva sentito l’altro avvicinarsi a loro, da almeno dieci metri. “Per la gloria di Baal, ti ho già detto di non darle fastidio” aveva ringhiato a denti stretti Deedo verso il nuovo venuto. Bernie non aveva afferrato il suo nome, ma aveva cominciato a chiamarlo Signor Grilletto Facile, era stato il figlio di ninfa che aveva sparato verso Arvey senza essersi fatto neanche una domanda. Aveva gli occhi verdi, delle efelidi delicati su un viso magro, leggermente incavato, aveva della rada barba bionda sulle guance, un fisico tonico e da uomo vero – certo non come Arvey, ma le misure lestrigoniche non contavano – e Bernie non poteva negare che almeno fisicamente fosse attraente. Che poi lo avrebbe strangolato a mani nude, era un’altra storia.
Ed era il fratello di Deedo.
O almeno loro si chiamavano così.

“Però ha ragione, siamo arrivati” aveva soffiato fuori il ragazzino-spettro, nelle quattro ore sull'alionave era stata la prima volta che aveva sentito il suono della sua voce. Si era avvicinato quatto come un'ombra. “Sei sicuro Mag?” aveva chiesto Deedo tutta gentile, riprendendo quel suo aspetto costruito dolce come una caramella mou, “Lo ha detto mio fratello” aveva soffiato lui. Bernie per via dell'aspetto, indovinò che Hannibal, l'altro ragazzo che gli aveva scortati lì, fosse il fantomatico fratello. La bionda aveva annuito, dando le spalle al ragazzino, “Allora Berenyx preparati a vedere qualcosa di sensazionale” aveva soffiato amichevole verso di lei, dandole una leggera gomitata fraterna sul braccio. Bernie non aveva ancora compreso perché si ostinasse a chiamarla così, quando neanche suo padre lo faceva.
Aveva annuito lei comunque, per nulla presa da quelle parole: ormai nella sua vita ne aveva viste fin troppe di cose sensazionali per stupirsi davvero.

 

Dovette rimangiare quel pensiero. L'Alionave aveva attraversato un banco di nebbia così fitta che per un attimo Bernie aveva pensato stessero attraversando del cotone cucito assieme. Gli occhi le erano letteralmente andati in fiamme, come quando affettava cipolle, costretta a tenerli serrati ed in lacrime per tempo che le era sembrato fin troppo esteso, buio e fuoco riflessi sulle sue palpebre. Poi tutto era passato. Schiuse le palpebre, Bernie aveva trovato prigionieri tra le sue ciglia una città monumentale, che senza averlo controllato s'era ritrovata ad occhi spalancati. “Oh” il suono era scivolato via dalle sue labbra, senza prenderla neanche in considerazione, scatenando una risata sorniona di Grilletto Facile.

La città che s'era aperta davanti ai suoi occhi era qualcosa di superlativo. Era la cosa più ampia e meravigliosa che avesse mai visto, era fatto di marmo bianco, con case squadrate, con tetti dritti e vasti giardini – alcuni dei quali pensili, sistemati sui tetti. Un'alta muraglia bianca circondava il perimetro della città, dove le onde dell'oceano si infrangevano contro, un enorme cancello spalancato, che apriva l'ingresso del fiume in città, verso un palazzo semicircolare, all'interno c'era un altro edificio circolare che sorgeva dalle acque, poco lontano c'era un enorme palazzo di marmo lucido con due bandiere, una sfoggiava un leone rampante e l'altra il viso granitico di una donna.
Oltre la città si estendeva su buona parte dell’isola, che non era poi così imponente, aveva anche delle sabbie bianche e campi verdi coltivati. E Bernie ne era estasiata.

La nave aveva cominciato a perdere quota senza eccessiva rapidità, puntando con la prua, con la polena di un leone rampante, verso il cancello aperto dritto nel cuore della città. Una voce s'era diffusa sul ponte, “Qui è il vice-capitano Himylce che vi parla” era una voce rigida e femminile, “Siamo pronti per l'ammaraggio” aveva cominciato tutta seriosa, “Invitiamo i signori passeggeri a ritirarsi nella stiva, buona continuazione” aveva soffiato prima di chiudere la comunicazione.
Deedo s'era voltata verso il bambino, “Va Mag!” aveva soffiato tutta gentile, prima di rivolgersi verso di Bernie, “Tecnicamente dovremmo andare, solo l'equipaggio può rimanere sulla nave” aveva aggiunto, prendendola sotto braccio, “Certo” aveva sussurrato lei, lievemente a disagio, con gli occhi ancora rivolti alla pallida città. Il fratello di Deedo aveva riso divertito, “Queste manovre sono state inserite praticamente per mia sorella” aveva aggiunto divertito, mentre camminava al loro fianco, aveva un andatura strana: le ricordava un cowboy. Bernie s'era voltato verso la bionda al suo fianco, “Sta parlando dell'altra” aveva chiarito Deedo posata. “Hai anche un'altra sorella?” aveva chiesto Bernie, sollevando un sopracciglio, ricevendo dalla bionda un mero gesto d’assenso.

 

Si erano dovuti sistemare nella stiva, “Posso andare da Arvey?” aveva chiesto invece, sperando che quella risposta le fosse concessa, “Certo” rispose Deedo. “Ti accompagno io” si era intromesso Grilletto Facile non dando alla sorella la minima possibilità di opporre resistenza, trascinandola via di forza. Bernie s'era divincolata di fretta infastidita, passandosi una mano sul braccio dove il ragazzo l'aveva stretta, risentiva ancora dei morsi di Parthenope. L’intero arto era indolenzito. Deedo le aveva detto fossero andati in missione per recuperare le corde vocali della creatura, ma che una figlia della notte era una ricompensa ben più grande. Bernie non aveva trovato piacevole essere considerata alla stregua di un premio.

“Potresti sforzarti di essere gentile” aveva puntualizzato lei, offesa, continuando a passarsi le dita sul braccio dolente. Il ragazzo aveva riso, aveva labbra carnose e piuttosto rosse, era una risata fredda e sarcastica, “Certo come Deedo?” aveva chiesto sornione. Lei di rimando aveva risposto piccata: “Perchè no?” non risparmiandosi la saccenteria. Grilletto Facile aveva riso di gusto, crudele, “Mia sorella è una machiavellica psicopatica, nulla di ciò che dice è spontaneo” aveva chiarito, disilluso. A questo Bernie c'era arrivata da sola, ma non aveva avuto da ridire contro di lui, in un primo momento. “Almeno lei non spara e poi fa domande” aveva sentito il bisogno di ribattere Bernie, con un tono basso, neanche certa di essere sentita. “Scusa se avendo visto una frastornata mezzosangue tra le braccia di un lestrigone io abbia pensato di salvarla” aveva riposto lui di rimando, irritato.
Bernie aveva sbuffato davvero infastidita, “Che ne potevo sapere che era il tuo ragazzo” aveva aggiunto disgustato Grilletto Facile. “Non è il mio ragazzo” aveva ribattuto lei, mentre il biondo si arrestava in prossimità di una porta, si era voltato verso di lei ed aveva sorriso, in maniera alquanto cattiva.

 

Era risalta sul ponte alla fine dell'ammaraggio, quando la voce femminile del vice capitano aveva invitato tutti a risalire ordinatamente per lo sbarco. Bernie s'era sollevata dalla sedia dove era stata seduta per i minuti che aveva trascorso sotto coperta, lanciando uno sguardo ad Arvey che finiva di gustarsi i resti di qualche animale. Era stata davvero stupita che non solo non avessero sbattuto il suo amico in una segreta, anziché sistemarlo in una comoda cabina spaziosa, ma lo avevano anche nutrito. Il ragazzo che aveva sparato a Parthanope, Hannibal, le aveva detto che il suo amico era piuttosto affamato, era una persona rigida, meno amichevole di Deedo, ma sembrava più autentico. Nonostante il nome, si era fatto di lui l’idea che fosse una brava persona. Bernie aveva chinato il capo e l'aveva ringraziato, mentre lui aveva annuito, restandosene con le spalle sulla porta, somigliava davvero a Mag.

“Mai fare aspettare Himylce” aveva sussurrato Hannibal, si era lasciato sfuggire un sorriso tenue, aprendo la porta per uscire sul ponte superiore. Bernie l’aveva seguito a ruota, Arvey era piantonato appena dietro di lei e teneva le mani sulle sue spalle, per ricordarle che in qualsiasi situazione fossero: lui c’era. E nefasti numi quanto ne era grata. Allungò una mano per stringerla su una delle due del lestrigone. Si erano dovuti sistemare in una fila, dove due giovani salutavano la gente con un sorriso aperto e con parole gentili. Il maschio era una copia sputata di Hannibal, stessa corporatura, stessa mascella squadrata, però gli occhi erano grigi e spettrali come quelli di Mag. La ragazza aveva un aspetto latino americano ed un sorriso perfetto ad ornarle il viso. Tutti e due indossavano un completo giacca-pantalone d’oro ruggente, da essere quasi accecanti. “Grazie per aver viaggiato sulla Gloria di Tanit” aveva detto l'uomo, indossava un capello con un'ancora blu cucita sopra, doveva essere il capitano o qualcosa di simile. “Fratello” aveva salutato l'uomo con il cappello, a differenza del fratello non era rasato, portava una sottile barba ed i capelli lunghi, ma sembrava più giovane rispetto Hannibal. I due si erano stretti le mani in maniera confidenziale e sicura di se. La donna invece lo aveva baciato sulle labbra, “Ci vediamo sta sera a cena, mio amore” aveva soffiato gentile, “A sta sera, mio amore” aveva risposto il loro accompagnatore.

La Gloria di Tanit era stata ormeggiata al porto, nel semicerchio esterno, quello ampio, una passerella era stata posta dalla banchina della nave fino alla pietra della strada.Nel momento stesso in cui avevano entrambi piantato i piedi sul suolo della città, tutti s'erano voltati verso di loro, quasi fossero stati due fenomeni da baraccone.

Quello che era successo dopo era stato parecchio caotico. Bernie aveva tenuto per tutto il tempo la mano di Arvey, mentre tutti gli occhi dei cittadini erano stati catalizzati da loro. Deedo era ricomparsa nel loro campo visivo e nella mezz'ora scarsa in cui Bernie non l’aveva vista, la bionda aveva avuto modo di cambiarsi, indossava una lunga veste di un bianco sottile, stretta sotto la vita aveva uno scollo a barca, dove erano state cucite delle pietre luminose. Indossava però gli stivaletti con i lacci e le suola a carro-armato. “Stai bene” si era complimentato Arvey, aprendo le labbra in un sorriso seghettato da vero squalo, “I Cento sarebbero entusiasti di avervi come ospiti” aveva soffiato con un voce gentile Deedo, con il solito sorriso cucito sulle labbra. Bernie se possibile aveva stretto la mano di Arvey più forte, ma si era mostrata rilassata all'apparenza, “Ne saremo onorati” aveva squittito lievemente, “Ma saremmo felici di sapere dove siamo” l'aveva seguito il lestrigone – piuttosto moderato.
Deedo aveva perso il sorriso in favore di un'espressione stupita, come se avesse trovato inconcepibile che non avessero ancora capito. “Questa è Nuova Cartagine” aveva esclamato con orgoglio Deedo, “Rinata come una fenice per adempiere all'Antica Promessa” aveva aggiunto. Gli occhi grigi erano scintillati come gioielli d'argento.
“Uh” aveva emesso semplicemente Bernie, mentre osservava il furore del viso di Deedo spegnersi per riprendere un viso stoico, “Prego seguitemi” aveva aggiunto poi, sorridendo spaventosamente e dando loro le spalle, per un attimo aveva immaginato avrebbe tirato fuori un fazzoletto da perfetta guida.
Non aveva illustrato nulla della città s'era limitata a guidarli lungo una grande via, dal suolo composto di San Pietrini lucidati d'onice nero, dove c'era un'incredibile calca di gente, da rendere l'aria stantia, ai lati c'erano disposti dei banchetti di frutta e verdura, dall'aspetto davvero invitante. Ed ovviamente tutti gli occhi erano rivolti verso di loro. Deedo gli aveva scortati fino al centro della piazza, vicino ad una fontana bianca dalla forma circolare, dove al centro c'era stagliata una figura di ferro ed oro che rappresentava una donna stesa su una lettiga che si impalava nel cuore con una spada di oro imperiale.
“Carina” aveva soffiato Bernie a disagio. La loro guida non si era lasciata scoraggiare però, continuando a sorridere – in quella maniera terribilmente finta – indicando loro quello che aveva l'aria di essere una splendida limousine bianca di un colore perla, con i finestrini neri. “Cartagine si manifesta sempre nella sua opulenza” aveva commentato il lestrigone, guadagnandoci uno sguardo perplesso da lei. “Ci sei stato nella ...ehm … originale Cartagine?” aveva chiesto poi Bernie, grattandosi il collo. Arvey aveva riso in maniera gutturale, con i denti da squalo in mostra, “Oh dannati! Ma quanto pensi io sia vecchio?” l'aveva canzonata un po'. Gli occhi del colore del mare salato luccicavano come acqua al sole, che Bernie s'era ritrovata accaldata sulle guance e con un sorriso sciocco sulle labbra senza controllarlo.

Deedo aveva aperto lo sportello della limousine, “Ci vedremo direttamente a Palazzo. La macchina vi porterà a fare un giro panoramico, mentre io provvederò a trovare abiti più appropriati per l'incontro con i Cento” aveva detto pratica la ragazza, ma con un tono amichevole. “Sono sicura che per trovare qualcosa per Berenyx non dovrebbe essere un problema” aveva aggiunto Deedo, leggermente più morbida, “Per un lestrigone però ...” aveva mormorato un po' in certa. Arvey le aveva sorriso, tentando di essere affabile forse, “Prova con una Gigante X Small” aveva aggiunto, con quel suo pessimo senso dell'umorismo. Deedo aveva riso, in maniera spontanea ed autentica, da colorarle le guance pallide, “Sei simpatico” aveva constatato, “Be, tu mi hai salvato la vita” aveva risposto di rimando Arvey, la bionda aveva annuito cheta, “Dovere” aveva risposto.

 

 

 

Bernie era salita sul sedile posteriore della macchina, seguita dal suo amico, un vetro nero separava la loro zona, rispetto quella del guidatore. Gli interni della limousine erano neri, pregiati e su un tavolino erano stati sistemati bicchieri assieme ad una bottiglia di vino rosso ed una caraffa di succo al pompelmo rosa. “Sono tutti così gentili” aveva mormorato Bernie, “Mi spaventano” aveva aggiunto, pensando al sorriso marcio di Grilletto Facile e alla totale mancanza di esitazione quando aveva sparato verso Arvey. “Hannibal sembra simpatico” aveva commentato Arvey con un sorriso spensierato sulle labbra, “Nonostante il suo nome, anche a me” aveva considerato. Non ci aveva parlato molto, era un ragazzo rigido, ma l’aveva salvata, prima di sapere chi fosse, e tanto le bastava per fargli avere la sua gratitudine.
Bernie aveva quasi pensato la simpatia rivolta a quel tale da parte di Arvey fosse dovuta proprio al tempestivo intervento contro Parthenope.

“Dobbiamo andarcene di qui” aveva poi stabilito poi con fermezza Bernie. Non lo sapeva quanto amichevoli potessero essere i Cartaginesi, ma non voleva rimanere per scoprirlo, anzi non credeva di potere, aveva una missione, affidatagli da sua madre, doveva trovare Bells e rintracciare Al. “Non sappiamo dove siamo e non abbiamo un alionave o che altro per fuggire via” aveva intelligentemente fatto notare Arvey. Doveva essere grave se a essere quello razionale era un lestrigone gigante cannibale. “Viaggio nell'ombra” aveva ribattuto lei, forse dopo troppi minuti di imbarazzante silenzio. Gli occhi azzurri di Arvey erano guizzati verso di lei, “Brillante” aveva esclamato e Bernie era arrossita, allungando poi una mano verso di lui, appena un po' tremante. Il taumascopio sembrava pesare incredibilmente sul suo addome. Arvey aveva allungato una mano verso di lei, ma prima di toccare la sua l'aveva ritratta come se la sua pelle fosse stata di fuoco, “Oh no! Non possiamo andarcene senza la mia mazza chiodata” aveva stabilito chiaramente il Lestrigone. Bernie s'era toccata d'istinto il lobo dell'orecchio, dove fino a poco tempo prima pendeva l'orecchino a forma di piccola lama – che sfilato diventava una sua coppia grande il quadruplo – che il fratello di Deedo le aveva sfilato senza molta grazia. Avevano tolto le armi ad Arvey anche. L'unica cosa che non avevano trovato era stato il Taumascopio, quando l'avevano perquisito l'oggetto s'era come liquefatto per poi essersi ricompattato a seguito.
Bernie non se n'era stupita in fin dei conti, era un oggetto oscuro fatto della stessa materia di cui era fatto il manto della notte. Era oscurità pura. E non avrebbe permesso a nessuno che non ne fosse designato di possederlo.

“Penso tu possa vivere senza” aveva borbottato Bernie, avrebbe vissuto anche senza l'orecchino che le aveva consegnato Luke quando lei e Bells avevano scelto di aderire alla causa di Crono, due orecchini gemelli per due gemelle. E a quel pensiero s'era sentita appena un po' spezzata, era un'altra cosa che divideva lei e sua sorella.
Lo sapeva che Bells era viva, lo sentiva pulsare nel suo spirito, ma aveva paura che non l'avrebbe mai trovata, aveva paura di essersi convinta davvero di questo. “No!” aveva ribadito il lestrigone."No?" aveva chiesto confusa Bernie.
"La mia mazza è stata fatta da due ciclopi: Berth e Sheamus" aveva spiegato sicuro di se Arvey. Bernie aveva tenuto le labbra serrate fra loro, animata nel viso di una certa confusione, "Berth è morto durante la guerra" aveva rivelato Arvey malinconico. "E Sheamus?" aveva chiesto Bernie con un filo di voce, quasi timorosa. "Ha vissuto con il fratello di Berth, Linden" aveva aggiunto cupo, "Sono morti entrambi a Vernon" aveva precisato. Bernie aveva sentito i brividi lungo la schiena, pensando alla sua pessima battuta di qualche giorno prima sulla Barzelletta Olimpica.
Poi Arvey le aveva raccontato dello scontro, dell'arpia che aveva ucciso Linden, calmo. "Sheamus l'hai ucciso tu?" aveva chiesto Bernie, con le mani tremolanti. Arvey aveva posato la testa sul finestrino. Si era così, aveva ucciso Sheamus e Mickey.
Aveva ucciso i suoi amici per lei.
"Troviamo la tua mazza" aveva stabilito Bernie, con sicurezza. Si era sfilata dalla tasca il taumatoscopio e s'era adoperata immediatamente. "Giustamente" aveva commentato a mezza-bocca, Grilletto Facile aveva la mazza da guerra legata alla schiena.

 

La carrozza s'era fermata e Bernie aveva infilato di fretta il cannocchiale a posto. Arvey aveva ancora il viso pallido posato sul vetro, quando una ragazza aveva tirato via l'imposta salendo a bordo.
Aveva gli occhi del colore della pioggia, incorniciati in capelli scuri.
"La figlia di Nyx" aveva commentato allegra, "Hannah Phoenix" aveva esclamato allungando una mano verso di lei. Indossava molti anelli d'argento. "Bernie" aveva risposto lei, ricambiando la stretta. A Disagio. Le mani della ragazza erano calde e creavano uno strano contrasto con il freddo metallo degli anelli.
Hannah era salita definitivamente a bordo, accomodandosi accanto ad Arvey. "Vai Earl" aveva strillato con vigore, prima di lanciare uno sguardo al lestrigone, "Arvey" si era presentato quello, con un sorriso da squalo. "Solo una figlia della notte poteva trovare una compagnia così... Interessante" e l'aveva detto leccandosi le labbra. "Ok" aveva borbottato Bernie per attirare l'attenzione, leggermente indignata.
La giovane l’ aveva guardata, possedeva occhi luminosi come un cielo estivo ed efelidi su un incarnato abbronzato. Hannah vestiva cona un abbigliamento piuttosto moderno, una camicetta semitrasparente nera che lasciava intravedere un reggiseno scuro, dei pantaloni lucidi e scarpe di vernice basse. Non sembrava a disagio.
Secondo Bernie: potevano essere coetanee.
"Benvenuti nel Paese dell'Opulenza e della Finta Cortesia" aveva aggiunto con smodata allegria Hannah.

 

Arvey aveva uno sguardo vacuo. Bernie invece sembrava stranamente colpita: la nuova venuta era diversa. Diversa dalla falsità di Deedo, dalla rigidità di Hannibal e dalla goliardia di Grilletto Facile.

"E tu chi sei?" aveva giustamente chiesto invece, "Figlia di Nike e di Cartagine" aveva spiegato, posando le mani sulle ginocchia ossute. Indossava molti monili, tra cui il suo orecchino. "Non sono quasi mai stata fuori dalla città" aveva ridacchiato. "E sei l'unica che risponde alle mie domande" aveva constato Bernie. Hannah aveva riso con una certa allegria, sollevando l'angolo della bocca. Le aveva ricordato Mary Beuchamp - la figlia di Nike morta nel labirinto che non si prendeva mai sul serio, anche se era mortalmente competitiva.

"Non ho nulla da nascondere" aveva risposto tutta divertita, coprendo con una mano piena di anelli i denti bianchi, per soffocare una risata. Era bella, che pensiero strano.

"Hai lo stesso odore degli altri due" aveva commentato Arvey, arricciando il naso - "Parli di Puma e Deedo?" aveva chiesto lei.

Bernie s'era chiesto cosa riguardassero i Puma con Deedo. Arvey aveva annuito. Hannah aveva continuato a sorridere, prima di sollevare le spalle, "Sono i miei fratelli" aveva spiegato.

Grilletto Facile si chiamava Puma?

"Pensavo che Deedo fosse figlia di Atena" aveva buttato fuori invece.

"Che occhio" le andò dietro Hannah, "Lo è" aveva acconsentito. "Mio padre era un uomo coraggioso o forse stupido" aveva confermato l'altra, facendole anche l'occhiolino, "E pensa un po': Puma non è ne figlio di Atena ne di Atena" aveva raccontato, tutta leziosa, di chi godeva nei pettegolezzi, passando le dita affusolate nei capelli scuri per spostare un ciuffo fastidioso dietro l'orecchio. Prima che potessero fermarsi a fare altre chiacchiere la macchina aveva subito un arresto, "Temo che siamo arrivati" aveva constato Hannaj aprendo la porta, poco prima che qualcuno potesse farlo, quando era uscita dalla macchina, Bernie aveva trovato gli occhi stupiti di Deedo ad attenderla, aveva lanciato una frustata con lo sguardo a sua sorella ed aveva allungato un braccio verso di lei. Si era liberata anche degli stivaletti ed aveva rinchiuso i vaporosi capelli in un acconciatura alta, "Possiamo andare" l'aveva invitata.

 

 

 

Il palazzo dove erano entrate era grande e luminoso, di marmi colorati con un lungo colonnato addossato ad un muro, c'erano metope ovunque, i colonne formavano dei triplici archi ogivali incisi nel muro e la porta era di ferro lavorato. Bernie aveva studiato storia dell'arte prima di abbandonare la scuola, ma non riusciva a ritrovare uno stile che avesse tutti quegli elementi: classico, romanico, gotico o che altro. Non aveva potuto studiarlo allungo, perché Deedo l'aveva trascinata dentro, in un ampio cortile interno ed Arvey era stato prontamente alle loro spalle, "Spero Hannah non ti abbia infastidito" si era raccomandata incredibilmente gentile Deedo. Bernie l'aveva rincuorata, evitando di dirle che di tutti i cartaginesi Hannah era stata la compagnia più gradita.
Come per la piazza principale nel centro del cortile interno c'era un'ampia fontana circolare al cui centro spiccava una piattaforma dello stessa forma, da cui Leoni Rampanti che vomitavano acqua, alternate a statuette di figure umane dai visi austeri, che però lasciavano uno spazio in mezzo, una donna sedeva nel centro, nuda come la terra, dal corpo formoso di un pallido azzurrino, un'indisciplinata chioma nera, pesante e folta, che scendeva sul corpo. “Solitamente le piace soggiornare nel palazzo sul mare” aveva preso a spiegarle Deedo tutta concitata, prima di entrare nei dettagli, la donna era una dea e solitamente preferiva vivere in una forma molto più imponente nel palazzo al centro del semicerchio dove erano attraccati almeno qualche ora prima. “Oh! E che dea è?” aveva domandato Bernie, non aspettandosi una reale risposta, le sembrava già strano che si fosse sbilanciata in quella spiegazione.

La dea aveva rivolto lo sguardo verso di lei, aveva iridi verdi acqua. “Sarai lei a dirtelo” aveva risposto squisita Deedo, mentre Arvey osservava la scena con una certa insofferenza, ma prima che potessero raggiungere la donna, un ragazzo si era frapposto fra loro. Forse era più giovane di Deedo, forse aveva la sua età, vestiva come un damerino da altri tempi, con una camicia bianca dal collo a sbuffo ed un gilet d'ocra con fiori damascati e calzoni crema stretti. “Oh mia luminosa signorina Phoenix, non vi è concesso concepire qual maligno fatto si è palesato” aveva cominciato tutto concitato, aveva occhi grigi, come quelli di Deedo, ma non sosteneva il loro sguardo e si puntava gli occhi sui piedi – anche lì indossava scarpe davvero particolari. Era carino, in un certo senso, non era il suo tipo, magro ed emaciato, con il naso dritto ed un po' pronunciato; aveva anche un accento strano, anche se Bernie non era in grado di individuarne la provenienza, non che fosse mai stata brava in queste cose.

Deedo aveva sorriso, in maniera forzata e forse anche un po' imbarazzata, come di chi abituato al controllo si ritrovava in balia degli eventi – un po' come loro, dopo New York. Il ragazzo aveva finalmente guardato la bionda chiedendosi forse perché non era curata dalle sue parole, “Oh! Non avevo notato foste in compagnia, mio ignobile temperamento” aveva squittito quello, toccandosi il petto, dove vi era il cuore, “Perdonatemi madamigella” aveva aggiunto poi, prendendole una mano timorosa e baciandole le nocche. Bernie era rimasta piuttosto confusa da quella scena, Arvey invece si era fatto spettralmente vicino arrivando ad ombreggiare il viso del nome, “Berenyx lui è Bartholomeios di Bensalem” lo aveva presentato Deedo, gentile nella sua costruita, “Incantato” aveva detto quello, poi aveva notato Arvey ed era divenuto bianco come un cencio.
“Sono certa che il tuo maligno fatto possa attendere” aveva aggiunto la bionda con un occhiataccia carica d'eloquenza a Bartholomeios, che aveva deglutito a disagio, “Non v'è più maniera di parlarsi aveva detto quello spettrale tornando a fissarsi le scarpe, sconfortato, le dita tra i capelli scuri, “Oh! Forse solo agli spiriti naturali è ancora concesso” aveva terminato. Deedo avrebbe voluto evitare quella conversazione, ma era stato il lestrigone ad attirarne l'attenzione, “Cos'è che dici, damerino?” aveva chiesto apprensivo, posandogli una mano sulla spalla, spaventoso, “Iris ed i Venti si erano già fatti inaccessibili, ma sfortunati noi, anche Fama lo è” aveva risposto. Arvey aveva riso, gutturale, profondo e con un certo scherno, “E' una dea quella, chi la fa fuori?” aveva berciato, retorico.

Bernie non era riuscita ad ascoltare la sconsolata – e piuttosto arcaica – risposta di Bartholomios, poiché Deedo tenendola in una morsa ferrea l'aveva trascinata verso la donna nella fontana.

 

La donna era scesa dalla piattaforma, scavalcando una statuetta ed immergendosi nelle acque limpide della fontana, con un sorriso allegro sulle labbra, “Una figlia della notte” aveva stabilito, senza che Deedo la presentasse, una voce profonda, cavernosa, qualcosa di antico. “Lei è la Divina Thalassa, dea primordiale del Mare Nostrum” aveva sussurrato la ragazza dai capelli biondi, “Con l'asse del mondo spostata: solo i cartaginesi si sono ricordati di me” aveva sussurrato Thalassa con un tono basso, con una punta di rancore, neanche mascherato.
La dea si era lasciata scivolare nelle acque, per sistemarsi comoda come una stella marina, “Entra” la invitò e per Bernie le parole di quella erano state iptnotiche quasi quanto quelle di Parthanope, l'unica differenza era che questa volta sapeva di non voler resistere. Si era slacciata dalla presa di Deedo, aveva sfilato la giacca pesante – il taumatoscopio era ancora una volta dissolto – e tolto gli stivaletti con un un movimento lesto, si sarebbe tolta anche i pantaloni e la maglietta, se il pudore non le avesse ricordato di trovarsi nell'interno di un prestigioso palazzo ed era entrata nella fontana.
Da vicino Thalassa era più incisiva, aveva una curva del viso meno morbido, i capelli che erano sembrati neri, erano di un verdone profondo ed odorava di salsedine e mare. Le aveva accarezzato il viso, “Sei fatta dello stesso manto di cui è fatta tua madre” aveva sussurrato, toccandola in viso, aveva le mani fredde, ruvide, ma non bagnate, non era un tocco umano. Come aveva sfiorato la sua pelle questa si era fatta di un buio profondo ed inconsistente, “Donami una stella e ti permetterò di vedere ciò che vuoi più di ogni altro” aveva sussurrato Thalassa.
“Non ho una stella” aveva risposto lei, confusa, ma nella sua mano si era ricompattato il taumatoscopio improvvisamente, d'onice nero con brillanti lucenti. Erano … erano stelle?
Thalassa sorrideva, con i denti da squalo, di chi doveva averlo già capito, aveva posato una mano sul cannocchiale, lì proprio dove una stellina brillava di una luce rossastra, con un polpastrello l'aveva spenta, per un attimo il mondo aveva brillato.
“Nonostante io venga dal mare, questa fonte è riempita dell'acqua dei Cinque Fiumi, senza eccezione” le sussurrò, prima di spingerla sott'acqua. Fu improvviso, netto spaventoso. Non voleva andarsene, combatteva, con le labbra serrate e l'ultimo fiato in gola e per quanto ci provasse, Thalassa era profondamente più potente di lei.
Sarebbe morta così?
La voce di Arvey era un eco lontano, chiamava il suo nome, si affannava.
Il giuramento … il lamento … l'afflizione … l'oblio … la memoria.
Thalassa cantava in greco antico, ma Bernie era riuscita ad udire solo quelle parole, prima che il bruciore, nella gola, nei polmoni fosse troppo. Ed aveva aperto la bocca.

L'acqua l'aveva inondato il suo corpo. Aveva pensato fosse quella la fine, ma invece della morte, dell'Acheronte, del Tartaro, di qualunque cosa vi fosse stata, aveva trovato qualcosa di diverso. Era seduta su un pavimento, bagnata, si era tirata su a fatica, stordita, “Arvey!” aveva strillato, la ma sua voce era echeggiata nel nulla, solo a loro aveva cominciato a delinearsi di fronte a lei una stanza, piccola, discreta, rettangolare, mani di pietra alle pareti reggevano fiaccole di fuoco sanguino, al centro della stanza un altare, con bassi rilievi contorti, di una battaglia che macinava morte e disperazione s'era eretto, una fanciulla si era creata, sfumata dalla nebbia prima e poi chiara come il primo raggio di sole. Un crine nero, scuro, come il manto della notte, un incarnato cioccolato e gli occhi ardenti, più asciutta, più snella di lei, ma maledettamente simile. “Bells” la sua voce era stato un sussurro così sottile, da non essere stata neanche sicura di averlo pronunciato, sua sorella si era voltata verso di lei, gli occhi castani sgranati: La vedeva!
Si erano ritrovate! “Bernie?” la voce di sua sorella era carica di disperazione, di appiglio, “Va via!” aveva sussurrato poi, con sicurezza, come quando da bambine cercava sempre di proteggerle, ma Bernie l'aveva ignorata e si era fatta più vicina, aveva allungato le mani verso quelle della sua gemella, legate con una catena di ferro sopra la sua testa, ma le sue dita erano passate a traverso. “Non sono veramente qui?” aveva domandato retorica, e confusa, guardandosi le mani, sua sorella le aveva lanciato uno sguardo perplesso, “No” le aveva risposto comunque, “Ti troverò e ti aiuterò” le aveva promesso Bernie lo stesso, facendo scorrere le dita vicino al suo volto, per poterla toccare, sebbene non era riuscita neanche a sfiorarla. Bells aveva sorriso, in quella sua maniera materna, anche quando le cose andavano male, come prima della battaglia di Manhattan; “Io me la so cavare, Bernie” aveva berciato con sicurezza, con uno sguardo di pura sfida sul viso.
Una luce in più si era aggiunta nella stanza, una donna era entrata nella stanza, aveva un viso granitico, adornato da polveri colorate, indossava una lunga veste bianca, con una spessa collana d'oro tempestata di gioielli, capelli riccioluti acconciati in una crocchia. In una mano aveva una candela ad olio, nell'altra un coltello dal manico di avorio istoriato, con una lama d'argento lucente. “Sei pronta?” aveva domandato quella, occhi cattivi di un castano vibrante, sollevando la lama. Bells aveva sorriso verso di lei, ignorando del tutto la nuova venuta, e le aveva fatto l'occhiolino, come a dire che andava tutto bene, “Puoi scommetterci Ify!” aveva risposto poi, leziosa verso la donna.

 

Bernie si era svegliata, era stesa sopra un letto e più cuscini quanto avesse mai visto, “Bells!” aveva chiamato, ma era Hannah ad essere accorsa quando aveva chiamato, apparsa da dietro le tende rossastre di un baldacchino, “Va tutto bene!” aveva esclamato lei, salendo sul letto ed abbracciandola, le aveva per caso sfiorato le feriti che Parthonope le aveva lasciato, “Che succede?” aveva domandato perplesso, “Dove è Arvey?” aveva chiesto poi, tutta tremolante. Hannah le aveva tirato maggiormente le coperte addosso per coprirla, indossava solo una sottile vestaglia bianca, chi gliela aveva messo?
“Calmati!” aveva provato a dirle la ragazza dagli occhi blu, accarezzandogli il viso dolcemente, ma Bernie continuava ad essere scossa dai brividi di freddo, ricordando l'agonia dell'acqua della fontana, avevano cercato di ucciderla?
“No!No!” strillò, “Che mi è successo? Dove è Arvey?” aveva strillato, agitandosi, ma Hannah l'aveva zittita con un bacio, mentre le teneva il viso con le mani, “Sta bene!” le aveva sussurrato, “E' fuori dalla porta! Ora lo chiamo!” aveva aggiunto, con un sorriso, alzandosi dal letto, per mostrargli la camera dove era sistemata, Bernie non l'aveva neanche vista correre alla porta, ma aveva scorto immediatamente il Lestrigone appariere. “Santi numi! Ti sei svegliata!” aveva detto, accogliendola tra le braccia, proprio mentre lei si era sollevata e le gambe si erano fatte molli, “Che, Ade, è successo?” aveva ringhiato, mentre Arvey la tirava su, per aiutarla e rimettersi sul letto, Hannah sostava nella stanza con occhi curiosi.

“Hai deciso che rischiare la morte una sola volta, fosse troppo poco” aveva scherzato il lestrigone, con quel suo senso dell'umorismo davvero scadente, aveva sorriso comunque, grato, con quella dentatura raccapricciante che a lei piaceva molto; “La dea Thalassa ti ha drogato con le acque infernali” aveva cominciato a spiegare quello, mentre le spostava i capelli dal viso. “Non è letale per nessun mezzosangue, ma può dar vari problemi” aveva ripreso mentre lei ascoltava attentamente, “Ma era abbastanza sicura vista la tua genealogia che non avresti avuto intoppi” aveva aggiunto, poi aveva trovato modo di spiegargli che se Thalassa l'avesse rassicurata della sua sopravvivenza, non sarebbe servito a nulla. “E' sempre una sfida” aveva mormorato Bernie, posando la fronte sulla sua spalla, “Ma cosa hai visto?” aveva chiesto lui invece, “Bells!” aveva squillato, “Lei è viva!” aveva aggiunto, tirandosi su, le gambe si erano fatte più ferree, così era riuscita a tirarsi su, “Dobbiamo trovarla!” aveva impartito. Alle ortiche la missione di sua madre, Bells aveva bisogno di lei, anche se lo aveva negato. “Prima dovete parlare con i Cento!” si era messa in mezzo Hannah, con uno sguardo colpevole, “Io devo andare via subito” aveva invece detto sicura di se Bernie, avvicinandosi alla ragazza, troppo ossessionata dall'idea di sua sorella, che voleva salvarla, senza pensare ad altro. “I Cento pensano che Nyx ci ha inviato te per una ragione” aveva detto la ragazza, posandole le mani sulle spalle, “Non si metteranno mai contro di te, ma non possono lasciarti andare senza nulla” le aveva spiegato. “Credo possano aiutarci” aveva spiegato Arvey sollevandosi, in tutta la sua imponenza, Bernie era rimasto scioccato dal notare fosse vestito da sera. “Si, mi sono chiesta dove diamine abbiano trovato questi vestiti” aveva risposto quello notando il suo sguardo, con una risata divertita sulle labbra.

 

 

 

“Mia sorella ti ha trovato questo vestito” aveva detto Hannah, mentre gli allungavano un appallottolato agglomerato di stoffa. Come Puma e Deedo, anche lei aveva efelidi sottili intorno agli occhi. “Volevo chiederti scusa per il bacio” aveva soffiato lei, con un tono leggermente imbarazzato, mentre Bernie si era sfilata la camicia bianca, provando il disagio di essere in intimo davanti un'estranea. “Il bacio?” aveva domandato perplessa, mentre osservava l'indumento cercando di capire come dovesse essere indossato, “Si” aveva risposto Hannah, aggrottando le soppracciglia. Bernie era rimasta un attimo in silenzio, fissandola dal riflesso dello specchio, era una bella giovane, con i capelli scuri raccolti sulla testa ed un lungo abito turchese, che non aveva nessun richiamo allo stile antico che sembrava ridondante in tutto quel luogo. Era senza spalline, con il disopra a cuore, scendeva stretto sul ventre, per cadere poi borbido sui fianchi ed era del colore dei suoi occhi.
Il bacio … Si, l'aveva baciata per calmarla, o coglierla in contropiede, Bernie non ne era sicura, quando si era dibattuta nel letto.
Aveva sentito un profondo imbarazzo, “Ehm … era la mia prima volta” aveva sussurrato con un bisbiglio, sentendosi anche più stupida, “Che baciavi una ragazza?” aveva chiesto Hannah avvicinandosi, scegliendo forse di ignorare il colorito sul suo viso, lei aveva degludito, voltandosi verso la figlia della Vittoria, “Che baciavo una persona in generale” aveva confidato poi, tra mostri e fughe, dopo la battaglia di Manatthan non aveva mai trovato tempo per amoreggiare. Le era piaciuto un po' Magnus, ma non credeva che quello avesse mai corrisposto in alcun modo, aveva troppi demoni da combattere. E prima di Manatthan, prima aveva Arvey … ed Arvey aveva tenuto lontano sempre tutti, anche le persone carine che le erano piaciute.

“Mi dispiace” aveva sussurrato Hannah, ma non lo sembrava per nulla, aveva lo stesso lezioso sorriso di suo fratello Puma, “Ti ho derubato di una delusione che ogni persona merita di doversi godere” l'aveva presa in giro, sfiorandole una spalla con una mano, “Forse avrei voluto che fosse più coinvolgente” aveva risposto di rimando Bernie. La verità era che non ci aveva mai pensato veramente, era una mezzosangue, arrivare alla maggiore età con tutti gli arti ancora attaccati sembrava un traguardo più che invidiabile, anche senza bisogno di qualche memorabile storia d'amore. Però si, se ci pensava in quel momento si sentiva derubata, derubata di qualcosa che non sapeva di aver voluto fino a quel momento. Ed anche arrabbiata ed irritata, o sentiva pizzicargli le dita, avrebbe colpito con un pugno sul naso Hannah anche in quel momento.
L'altra aveva modificato appena il suo sorriso, da tutta la sua ironia, era diventato gentile, amichevole e forse anche pacato, mentre continuava ad accarezzargli le spalle, “Fingi che non sia mai esistito” aveva sussurrato avvicinandosi, una mano della ragazza dagli occhi azzurri era salita lungo il suo braccio, sfiorandola solo con i polpastrelli, lungo la spalla, il collo, per infilare le dita tra i riccioli, l'altra invece l'aveva fatta salire fino alla sua guancia. Aveva fatto roteare appena il pollice sulla sua guancia; Hannah aveva inclinato appena il capo e poi si era avvicinata a lei, posando le labbra sulle sue, in un movimento gentile, delicato. Aveva fatto scorrere la lingua sulle labbra e poi si era insinuata nella sua bocca, in maniera gentile e Bernie le era andata dietro, percependo un lungo brivido lungo la schiena, aveva mosso le mani senza controllarlo, per allacciarle dietro il collo di Hannah, era più piccola di lei di statura, ma non sembrava in quel momento un problema.
“Puoi far finta sia questo il primo” aveva sussurrato ferace, “Io … si … wow” aveva sussurrato sconvolta, imbarazzata, forse in piccola parte anche a disaggio, “Grazie” aveva detto poi, cercando di sforzarsi di fissare le labbra di Hannah, che erano piene, invitanti e morbide. “Hai bisogno di una mano con quello?” aveva chiesto poi lei, indicando quell'ammasso di stoffa che aveva accidentalmente lasciato cadere per terra, “Si, forse si” aveva ammesso poi.

Era stato strano farsi aiutare da una persona con cui si era appena sbaciucchiata ad indossare un vestito, che l'aveva lasciata per almeno tre quarti d'ora seminuda. Era stato ancora più strano baciarsi un altro paio di volte, ma alla fine Bernie era riuscita ad infilarsi nell'abito, con suo sommo sconcerto, non era altro che un abbondanza di drappi e stoffe, di un colore amaranto brillante, con decori dorati che ricordavano fiori, lungo fino alle caviglie, con sandali di cuoio. Hannah le aveva anche legato una collana con delle pietre e dei bracciali da mettere sulle braccia nude. Aveva indossato come scialle il manto della notte, visto che il taumatascopio si era disfatto per prendere quell'aspetto, probabilmente doveva risultare incredibile come risultasse, stelle brillanti al posto di perline. Bernie aveva potuto notare dove fosse la stella che Thalassa aveva rubato, dove una macchia di profondo nero si apriva, dando l'idea di un profondo buco nero.

Arvey l'aveva aspettata appena fuori alla porta, con indosso la giacca nera, sopra la camicia bianca ed il farfallino scuro, “Sei molto... ” aveva cominciato quello, cercando di trovare le parole più gentili che le venivano in mente, “Drappeggiata, lo so” aveva risposto lei, mentre accoglieva il braccio che le era stato porto. Un lestrigone che faceva il vero galantuomo, ormai si chiedeva Bernie perché spendesse ancora tempo a stupirsi del suo amico. “Stai molto bene” gli aveva detto, “Sono tronfio” aveva commento con un tono divertito quello, mostrando la sua dentatura da squalo, gli occhi azzurri luminosi, bello e pieno di se. E sentiva il senso di colpa dei baci che si era scambiata con Hannah.
Giusto lei le aveva stretto un braccio attorno alla sua spalla, dall'altro lato rispetto Arvey, “Andiamo, nostri illustri ospiti” aveva detto lei, “Vi aspetta una più che una noiosa riunione” aveva aggiunto, “Ma mangeremo bene” gli aveva rassicurati, facendogli un occhiolino verso di lei.
Arvey l'aveva guardata, interessato, “Cosa pensi ci diranno?” aveva chiesto poi, guardandola attentamente, “Diranno che Nyx vi ha mandato per un motivo” aveva cominciato a spiegare, con un sorriso sulle labbra, “E che è loro dovere aiutarvi, anche se non l'avete chiesto, per ingrazziarsi la dea” raccontava, “Con i Dodici Olimpi in conflitto tra Greci e Romani, le divinità minori che fanno i diavoli a quattro, rimangono solo le i Protonopei a cui affidarsi” aveva aggiunto Hannah.
“Quindi?” Bernie se l'era lasciato sfuggire, “Oh! Vi affideranno un eroe, perché tre è il numero magico” aveva risposto lei, facendogli l'occhiolino.
Lei aveva sentito brividi lungo la schiena nel pensare che Hannah potesse essere il loro terzo membro, non perché non le piacesse, anzi forse proprio perché le piaceva, sicuramente più dei suoi fratelli, e forse anche come persona, come ragazza.
Ma … sembrava strana.

“E perché mai i Cartaginesi vorrebbero la guida dei Protonopei?” aveva chiesto invece Arvey, sia Bernie sia l'altra ragazza lo avevano guardato con uno sguardo interessato, lei era però per lo più confusa, ma Hannah aveva un aspetto da furbetta, come se avesse già capito dove la domanda stava andando. “Non sarà che aspettano assieme ai Bensalemite di vendicarsi verso i loro antichi nemici?” aveva domandato anche Arvey. Hannah aveva riso, “Forse vi ho sottovalutato” aveva detto, senza cattiveria, “Pensavo che fosse la figlia di Nyx ad amare le compagnie stravaganti” aveva ammesso lei, “Ma non credo che qualcuno abbia capito quanto veramente interessante sia tu” aveva notato Hannah.
Bernie aveva riso, per un momento rilassata ed aveva detto, sorridendo verso il lestrigone, “Oh! Non hai idea di quanto stupefacente sia Arvey.”

 









 

 

 

 

 

 

(*) Bensalem è La Nuova Atlantide, secondo Bacone. Percy dice chiaramente che Atlantide non esiste, ma Percy non è onniscente e nella mia mente, gli Atlantidei dopo la caduta di Atlentide hanno lasciato la loro isola per trasferirsi a Bensalem ed hanno intelligentemente cancellato le loro tracce: rimanendo così solo una leggenda. (E si vestono retrò, perché non hanno contatti con il mondo moderno).

(*) Magnus è il Magnus cugino di Annabeth. Non ho letto i libri con lui protagonista, ma so che era un senza tetto a Boston e quando abbiamo conosciuto Bernie si trovava nella città di Vernon, che non è molto lontano da Boston, quindi ho deciso che prima di essere stata in quella città era di fatti nell'altra.

Riguardo a Cartagine: l'antica promessa è quella di Didone.

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Capitolo 11
*** A volte per lasciarsi meravigliare basta semplicemente cambiare prospettiva, letteralmente(July III + Bonus) ***


Come sempre vorrei ringraziare summer_time, che legge e recensisce questa ff, credo di adorarti follemente.
Sempre grazie a chi legge, ricorda ed etc …
Spero possiate gradire questo capitolo,

pace e amore
RlandH

 

COSE IMPORTATI (Prima di) DA LEGGERE:
a) July ha spesso in questo capitolo una parlata un po' particolare, il suo discorso diretto non ha gli spazi tra le parole, questo era un maldestro tentativo di rendere il dolore alla mascella che la fa parlare male o comunque di fretta.
b)Questo capitolo ha un mucchio di Guest Star di RR! Ammetto che la maggior parte di queste comparse sono state una vera agonia da lasciare in quel ruolo, ma devo rispettare il canone.
c)Vi è oltre al regolare capitolo di July anche un altro bonus di Jeha.
d) Non sono entrata nello specifico di alcuni personaggi mitologici, ma diciamo che di chi non l'ho fatto – evitando di mettere accuratamente i nomi – saranno poi trattati.

The Road So Far (RIASSUNTO): July Goldenapple dopo aver vissuto per un anno per strada come barbona incontra finalmente sua madre, la dea della discordia Eris, che le affida una missione, senza degnarle però di darle informazioni, donandole però in regalo una lima ed una bottiglia. Viene però aiutata in qualche modo dall'autista di sua madre, che le da un consiglio: da dove cominciare.
I due nel frattempo scaricano July presso la casa di Alabaster C.Torrington, che come lei era membro dell'esercito di Crono e dal suo lare Dr Horward. La ragazza era piuttosto sicura di non volersi immischiare in quella faccenda comincia poi ad essere perseguitata dai sogni di un satiro che spinge con il suono del suo flauto ad uccidere. July accetta di raccontare l'incubo al suo amico Alabaster, ma decide di non parlarle della missione, che nel frattempo riesce a mettersi brevemente in contatto con l'altra mezzosangue Bernie, che però è costretta ad interrompere la conversazione perché attaccata da dei mostri.
La ragazza comincia anche ad essere perseguitata dalla visione
Durante una corsa July incontra un certo Pittore, che sembra saperla lunga su di lei, e la Dea Fama, figlia di Gea, che rivela che July è finita nella lista nera di Gea. Qui la semidea scopre che la sua lima è fatta di etere polimorfo e può prendere qualsiasi aspetto e che il suo corpo sembra aver cominciato ad avere strane reazione in confronto al dolore. Così riesce a sconfiggere Fama assieme ad Alabaster e decidono di smembrare la dea (interrompendo così tutte le comunicazione).
A fine dello scontro July scopre che il Pittore è andato via, lasciandole qualcosa, comunque non riesce a vedere cosa è, perché cade priva di sensi a causa delle ferite.
Jeha, detta l'Arpia, dopo un momento di riflessione aveva convocato la divinità a cui si era dichiarata fedele per una richiesta.

 

 

 

A volte per lasciarsi meravigliare basta semplicemente cambiare prospettiva, letteralmente.

 

July III

(Bonus)

 

 

“Mifamalelafaccia” aveva bisbigliato July, mentre continuava a passarsi le mani sulla mascella. L'ambrosia l'aveva fatta stare meglio, come se si fosse iniettata morfina in endovena, il nettare aveva rimesso apposto la lacerazione sulla spalla, la magia di Alabaster aveva sistemato le ossa delle mani – sotto le direttive del suo lare – ma solo le mani del chirurgo avevano risistemato la sua mascella. A quanto pareva Lawrence Goldenapple aveva lasciato a sua figlia la sua polizza assicurativa; July non sapeva perchè ma la cosa le aveva dato più gioia di quanto avesse immaginato. Il Dottor Horward le aveva chiesto se voleva restare per incontrare suo padre, perché tanto la polizia sarebbe arrivata a breve, nessuno aveva creduto alla frottola di Alabaster sul fatto che fosse stata attaccata da un leone di montagna e si erano convinti piuttosto che si trattasse di una violenza domestica. Ma July aveva deciso fosse il caso di andarsene via prima di ritrovarsi in centrale.

“Dormi un po'” le aveva detto Al, accarezzandogli il viso estremamente più gentile di quanto fosse nella sua natura. “No” aveva risposto lei seccata, continuava a vedere cose morte dietro le sue palpebre, il dolore poi rendeva anche l'addormentarsi un agonia e dulcis in fundo era perseguitata dall'idea che la somma grandissima Gea aveva piazzato una taglia sulla sua testa.

Grazie davvero madre! Una vita ad ignorarmi per poi abbandonarmi nei guai neri.

“Dovresti, cara, addormentarti” aveva commentato il Dottor Horward, la sua voce sembrava un po' costretta, poverino era chiuso nella sua carta, ficcata per di più all'interno della giacca di Alabaster. Per un attimo July si era chiesto quanto strano dovesse risultare un giaccone parlante, ma nessuno sul pullman sembrava averlo notate, “Vi aspetta una difficile prova” aveva aggiunto, mentre Al si dava qualche pugnetto allo sterno.

Il Dottor Horward non aveva prove per sostenere la sua tesi, ma la sfiga nera dei mezzosangue sembrava un buon corollario a cui appellarsi. July aveva ficcato le mani nella borsa ed aveva preso un flacone di antidolorifici e ne aveva mandati giù alcuni senza acqua e senza remore di effetti controindicativi, non poteva abusare dell'ambrosia. La mascella si era infiammata nel movimento costretto, non riusciva a masticare e parlare bene, non poteva neanche mangiare nulla che non fosse liquido – e quella mattina Alabaster le aveva frullato una pizza con le acciughe …

La spalla non le doleva in alcun modo, si era rimarginata completamente, per quanto linee rossastre l'adornavano, solo altre cicatrici che sarebbero divenute poi pallide, come tutte le altre. La mano sembrava perfetta, ma era un continuo formicolare e non riusciva a chiudere il pugno a pieno, la magia della nebbia era una pia illusione, era stato Alabaster a spiegarglielo una volta, ma a quanto pareva il suo amico sapeva fare anche magie che erano di tutto il degno rispetto e molto tangibili. “Mancanono ancora undici ore per arrivare” aveva risposto il suo amico con un sorriso sul viso, “E non ci fermeremo ad una stazione di servizio per le prossime tre ore” aveva aggiunto, “Sempreseearlnonvomita” aveva ringhiato lei di risposta, ammiccando all'uomo dalla faccia verde seduto dietro di loro, “Sempre se Earl non vomita di nuovo” aveva concesso Al.

Erano in viaggio da almeno cinque ore.

 

Alla fine la stanchezza aveva preso il sopravvento, assieme al lancinante dolore sulla mandibola ed il cupo silenzio di Alabaster, forse preso dai pensieri di Bernie che non era più riuscito a contattare. Per quello che era sembrato davvero poco tempo i suoi sogni erano stati una coltre assoluta di tenebre e pace, poi improvvisamente era stato come riemergere da una vasca ghiacciata. Il soffitto era del colore dello zucchero filato, July era steso su un pavimento di legno, “Ti prego, fa che non ci sia nessun Satiro psicotico” aveva soffiato, sbarrando le palpebre. “Nessuno ti assicuro” aveva mormorato una voce, July aveva schiuso un occhio per incontrare il viso di un ragazzo che non aveva mai visto, non molto attraente, dalla fulgida chioma bionda e gli occhi grandi come quelli di una mucca. “E tu chi sei?” aveva domandato lei perplessa, “Perchè mi vedi?” aveva domandando poi, confusa, non era mai riuscita a comunicare con nessuno attraverso i sogni. Il ragazzo le aveva allungato una mano, che July aveva usato come leva per tirarsi su, nei sogni non provava nessun dolore, “E dove sono?” aveva chiesto ancora più confusa, osservando la stanza dove si trovava, era piena di letti e gente che macinava sogni. “Sei nella Stazione Centrale dei Sogni” aveva risposto quello con disinvoltura scivolando a sedersi su una poltrona rossa dall'aria molto comoda, “Come?” aveva chiesto lui, “La Cabina di Hypson ed io sono Clovis a proposito” aveva risposto quello, “Probabilmente scappavi da qualche visione Onirica ed ai accidentalmente preso un sogno che ti ha portato qui” detto.

“Sono al Campo Mezzosangue?” aveva domandato lei, cercando una finestra da cui spionare, “In un riflesso, potremmo dire” aveva risposto lui, “Ma tu chi sei?” aveva chiesto, “ July, figlia di Eris” aveva risposto con onesta, non temendo quella risposta, “Quanti incubi ti perseguitano?” aveva chiesto Clovin, accavallando le gambe, aveva un'aurea da saggio, July si era accomodata su una poltrona di fronte a lui, che non era esistita fino all'attimo prima, “Troppi” aveva risposto.

Non doveva fidarsi dei ragazzi del Campo Mezzosangue, ma se Gea l'aveva messa sulla lista nera allora: il nemico del suo nemico era suo amico, anche se era stato nemico fino a pochi giorni prima. “Ti dovremmo chiedere scusa” aveva detto un altro ragazzo che doveva essersi svegliato dai suoi traffici, “Ma con le comunicazioni tagliate i sogni sono rimasti uno dei pochi sistemi di comunicazione funzionanti” aveva spiegato, “E noi sogniamo rumorosamente” aveva canticchiato Clovis, aveva le palpebre semi-calate, “Non sono molto sicure, però” aveva risposto lei, infilando le mani nelle tasche dei jeans, “No, la prova è che sei finita dritta nella nostra stazione” aveva risposto l'altro, era pallido come un lenzuolo e con i capelli lunghi fino alle spalle, tinti di un blu originale, “Tu usi i sogni per spiare i tuoi nemici, presumo” aveva fatto notare Clovis, con un sorriso rilassato. “Cosa impedisce le comunicazioni?” aveva domandato July, penso ad Alabaster che non riusciva a mettersi in contatto con Bernie, “Oh be, Iris si è ritirata a vita privata, Fiocca non riesce a far tutto, le aquile sono sotto il dominio romano, Ermes è murato nell'olimpo e qualcuno ha fatto sparire la Fama” aveva risposto quello con i capelli azzurri, July aveva sentito un moto di imbarazzo.

“Vuoi mostrarci i tuoi sogni o vuoi andare via?” le aveva chiesto Clovis poi, cogliendola dal rossore sulle sue guance, lasciandola in uno stato di confusione, “Come scusa?” aveva domandato, mentre prendeva posto vicino ad un puff rosa che era bastanza certa non fosse esistito fino all'attimo prima, “Scappando da un incubo sei finita qui” aveva fatto notare il ragazzo dai capelli blu, piuttosto frustrato, ma un'occhiataccia di Clovis lo aveva arrestato, “Potremmo aiutarti a venirne fuori” le aveva detto.

“Potreste fargli sparire dalla mia testa?” aveva chiesto lei, interessata. Poter chiudere gli occhi senza vedere un satiro pazzo e massacratore?

Avrebbe fatto alleanza anche con Percy Jackson in persona, va bene, forse, non fino a quel punto.

“Potremmo spiegarti come usarli a tuo vantaggio” aveva risposto Clovis, con un sorriso gentile, allungandole una mano verso di lei, “Perchè vuoi aiutarmi?” aveva domandato lei perplessa, facendo sorridere il ragazzo con le palpebre semi abbassate, “Sei una mezzosangue in cerca di aiuto” aveva fatto notare, con un movimento della mano per accompagnare le sue parole. July aveva schiuso le labbra, “Potrei non essere vostra amica” aveva fatto notare con una certa acidità, maledicendosi l'attimo dopo, aveva trovato qualcuno disposto ad aiutarla senza volere nulla in cambio – forse, era ancora tutto da vedere – e lei mandava tutto ai fiori di loto. “Se Gea dovesse vincere moriremo tutti” si era aggiunta una voce, una ragazza questa volta, anonima, dai capelli biondo cenere e gli occhi azzurri luminosi, “Non importerà chi siamo stati ed in cosa abbiamo creduto” aveva detto, “Maya” aveva sussurrato July sollevandosi dal puff per raggiungerla sul bordo del letto.

Maya aveva sorriso, aveva le labbra piene e rosee, “Il tuo viso ...” aveva bisbigliato lei, allungando una mano verso il viso a cuore, sfiorando la pelle della sua amica. L'ultima volta che aveva visto Maya era stato dopo l'esplosione della Principessa Andromeda, metà del suo viso era pulsante e viva carne rossa, con pus e pelle bruciata. “In un sogno posso essere ciò che voglio” aveva sussurrato lei, gentile.

Quando la nave era stata incendiata da Percy Jackson e dal suo amico, July aveva già abbandonato il luogo da almeno qualche mese, quando si era ripresa dal lungo sonno dopo la missione del labirinto, lei e Jake avevano seguito Crono a Manahattan – come Alabaster, Ines e altri ancora. Maya era rimasta a bordo, con Ethan Nakamura e Carter Gale, era stata una dei pochi mezzosangue ad essere sopravvissuta all'esplosione ed aveva lasciato sulla Principessa Andromeda una parte di lei, la migliore aveva aggiunto. July ricordava bene quando la ragazza aveva lasciato la loro causa, aveva fatto cadere le guardie dell'accampamento in un sonno profondo ed era fuggita senza aver dato spiegazioni.

“Tu … ci hai traditi?” aveva finalmente domandato July cogliendo quel pensiero sfarfallante nella sua mente, allontanandosi bruscamente; Maya aveva scosso il capo con un movimento deciso, “Oh no! Sono andata via” aveva confidato, “Non avevo nessuno da cui tornare, quindi non ho fatto altro che vagare” aveva risposto con onestà lei, “Come ...” aveva cominciato July. Maya aveva sorriso in quella maniera di miele che le confaceva, “Come sono finita qui?” aveva domandato retorica, “Un gruppo di semidei in cerca di materiali mi ha ritrovato dopo un infelice incontro con una dracena” aveva confidato.

July se le ricordava bene quelle lì!

“Ti hanno salvata” aveva constato poi July, perché loro erano i buoni, loro salvavano la gente e perdonavano, non pensavo di voler passare il resto della loro esistenza chiusi in un fetido buco ad aspettare la fine del mondo o fuggivano dalle proprie responsabilità. “Loro non avevano idea di chi fossi” aveva rivelato poi, prima di mettersi a raccontare del fatto che riportata al campo c'era stata parecchio dibattito sul tenerla o meno, ma una volta tenuta lì erano stati costretti a trattarla bene per la legge dell'ospitalità ed alla fine i suoi fratelli l'avevano riaccettata.

Aveva aggiunto che ancora occhi cattivi la guardavano con astio, specie da quando i suoi benefattori erano partiti assieme alla ragionevole Annabeth. Informazioni ottime, sempre comode, s'era detta July appuntandole mentalmente. “Ma siamo in guerra e tutti sappiamo chi è il nostro vero nemico” aveva confidato Maya, “Gea Fottuta Madre Terra” aveva ringhiato lei, “Mi ha appioppato una taglia sulla testa” aveva confidato” poi con un sorriso buono lei.

La ragazza dagli occhi azzurri le aveva accarezzato il viso, “Permettimi di condividere i tuoi sogni” l'aveva pregata, “Sai di poterti fidare di me” le aveva detto, passando le dita fredde sui suoi occhi per chiuderle le palpebre, July le aveva dato un tacito consenso. Quando la figlia di Eris aveva potuto riaprire gli occhi non era più nella cabina di Hypnos, ma sempre seduta sul bordo del letto era in un vico sinistro, un cerchio di morte gli attorcigliava, July non riusciva a distinguere se fossero ninfe, mezzosangue, mortali o che altro, gli guardava con rinomata nausea, quasi indegna di essere figlia di chi era. Il suono del flauto accompagnava quella scena di morte, “Ho sentito l'odore della mia cancrena e ho visto gente bruciata viva” aveva commentato Maya, “Questo dolore” aveva sussurrato sconvolta, le lacrime agli occhi. "Sono vicino alla puttana di Atena" aveva echeggiato una voce, July cercato l'origine di quella voce, lontano dai corpi, vicino il satiro stava con un uomo dallo sguardo duro.

 

"Che cosa puoi dirmi?" aveva domandato voltandosi verso la sua amica, il satiro aveva smesso di suonare ed aveva risposto qualcosa, ma tutto si era liquefatto prima che Maya o Clovis o qualsi altro loro fratello potesse dire, comparire o fare altro. Il nefasto odore di chiuso dell'autobus s'era palesato, assieme ai lancinanti dolori della mascella e le fitte alle dita, il freddo dello specchietto sulla tempia e la mano di Al delicati appena sotto la cicatrice di Fama. “Siamo vicini ad una stazione di servizio” aveva chiarito, ammiccando con gli occhi verdi proprio all'edificio che andava avvicinandosi ad ogni metreo guadagnato, “Mihaisvegliatoperquesto?” aveva chiesto a fatica July, frustrata. Al si era preso un bel po' di minuti per decifrare la sua stretta parlata, poi aveva negato “Hai dormito per ben sette ore” aveva constato il figlio di Ecate con un sorriso tutt'altro che rilassato; sette ore? Sembravano molte meno nella sua testa, neanche una manciata di minuti, “Ho temuto fossi caduta in un sonno profondo” aveva scherzato Alabaster. Ma July non aveva riso, il suo cervello era stato inondato da stimoli della memoria, feroci e prepotenti, aveva ricordato il primo incontro con sua madre poche settimane addietro, nella limousine, e l'autista, l'uomo dalla maschera di cera rossa “Se vuole un consiglio spassionato, cerca il ragazzo con il sonno più profondo” quello le aveva detto.

Alabaster aveva reso gli occhi verdi stretti come fessure, “Oh riconosco quello sguardo!” aveva sentenziato, “Hai appena avuto la divina illuminazione” aveva constato, lei aveva annuito.

Aveva speso i successivi quaranta minuti a raccontare per figlio e per segno ad Alabaster dove i suoi sogni l'avevano condotta e quello che l'autista dal viso mascherato le aveva detto, scusandosi per non averlo riferito prima, non per codardia come in passato, ma per dimenticanza. Era stato doloroso e faticoso, ogni parola un agonia, ma si era sforzata ed Albaster aveva ascoltato attento, prima sull'autobus poi nel bar dell'autostazione. Aveva sorriso, appena si, quando aveva sentito di una compagna ancora viva e lo aveva trasformato in una ghigno alla mancanza della prode Annabeth Chase, s'era rincuorato della scomparsa di Fama, forse Bernie poteva essere ancora viva allora.

“Che il misterioso Pittore ci abbia immesi sulla retta via allora” aveva constato Alabaster, con un sorriso gelido, preoccupato. July aveva annuito, sorseggiando succo di mirtillo dalla cannuccia, l'ambigua divinità – perché lei dubitava fosse qualcos'altro – che aveva incontrato assieme a Fama aveva concesso loro due doni, forse meglio dire tre. July aveva sentito per anni quanto fossero taccagni gli dei nel concedere i loro favori, quando a lei nel giro di qualche settimana s'era ritrovata sommersa di regali, alcuni utili, altri meno, qualcuno misterioso e tutti ugualmente terrificanti, senza contare che ne era scontenta. Quando aveva deposto le armi e si era concessa la pace, gli dei gli avevano rifiutato anche quell'umile desiderio. Colpevole una volta, colpevole per sempre, no?

Il Pittore aveva concesso loro due biglietti Vip per un giro completo del Georgia Aquarium con l'appunto di sperare di aver fortuna nel trovare chi si dispera di non essere morto; ed ovviamente un quadro, ma July si ostinava a non voler per nulla al mondo pensare al quadro, la spaventava molto, più di sua madre e della gigantesca Gea.

“Che relazione può essere con Chi si Dispera di Non Essere Morto ed il Ragazzo con il Sonno Più Profondo?” aveva chiesto Alabaster, mentre riprendevano posto sull'autobus, frustrato nel viso, per il non sapere, “Semprefattoschifoinmitologia” si era scusata July, con uno sbuffo, una contrazione. "Non chiedete a me, io sono un uomo di scienza" aveva sentito il bisogno di comunicare Howard da sotto il cappotto di Alabaster, che si era grattato con le mani dietro l'orecchio. "Andiamo con calma" aveva stabilito Al recuperando la sua sicurezza, battendo le mani tra di loro, per richiamare l'attenzione, Hordard era fuoriuscito dal collo della giacca come un sottile fumo d'incenso violaceo, ma nessuno sembrava attirato, "Qualunque cosa sia questo Aquario, sarà pericoloso" aveva detto saggio, con gli occhi verdi scuri e penetranti, "Nonmiilludodelcontrario" aveva risposto July, passandosi le mani sulle braccia, cercando di ignorare fitte e formicolii. Il suo amico non aveva smesso di guardarla, si era allungato verso di lei, i loro volti distavano un paio di centimetri, se si fosse trattato di qualcuno di diverso da Alabaster, July avrebbe pensato che stesse per baciarla. "Devo cambiarti la faccia" aveva stabilito alla fine il ragazzo, "So già che aspetto darti" aveva aggiunto, con un sorriso tutto pieno sul viso; July aveva sbuffato, con estrema fatica, senza neanche degnarsi di chiedere informazioni. Forse era per la taglia che Madre Gea le aveva affibbiato ...

 

Erano arrivati ad Atlanta qualche ora dopo e per quanto July fosse volenterosa di recarsi già all'aquario, Alabaster le aveva chiesto del tempo, "Perchè sono umano ed ho bisogno di dormire" aveva stabilito con un po' di acidità, le occhiaie violacee sotto gli occhi verdi. July si era sforzata di annuire, "Prenderòdelcaffè" aveva invece arrancato lei, perché di chiudere gli occhi non ne aveva proprio l'intenzione, certo le sarebbe piaciuto parlare con Maya ancora. Le sarebbe piaciuto parlare con tanta gente, Lip. Bells, perfino Carter Gale, ma aveva fatto a pezzi la Fama ed era difficile entrare in contatto con le persone in generale

Era seduta al bancone di un bar, non aveva idea di dove si fossero cacciati Alabaster ed il suo lare.

"Lamiavitafaschifo" aveva sussurrato a mezzavoce, mentre assaporava il caffè bollente, l'uomo dietro il bancone aveva un espressione annoiata ed anche disinteressata, era un uomo tarchiato, con i capelli grigi ed i baffi folti, aveva un aspetto triste, un po' come il posto in generale, sembrava uno di quei bar da film dove la gente in cerca di illuminazione veniva a sbronzarsi per lamentarsi dei propri problemi. Quanto doveva risultare patetica.

Una donna si era accomodata al suo fianco, "Dammi un nocciolino" aveva stabilito con una certa allegrezza, facendo battere il palmo contro il bancone e poi aveva aggiunto con sicurezza: "E mettici della panna!" prima di ridacchiare appena. July non si era neanche degnata di guardarla, aveva potuto vedere solo una chioma cioccolato con la coda dell'occhio. Il barman aveva sbuffato, forse scontento della povera richiesta di alcolici, ma si era limitato a voltarsi verso la macchinetta del caffè per pigiare i tasti della macchinetta per preparare l'ordinazione, che poi aveva servito alla donna con uno sbuffo sonoro, per esternare tutto il malcontento.

La donna aveva sorseggiato la tazzina con un certo gusto, "Oh certi drink ti svoltano la giornata" aveva commentato con allegrezza, leccandosi le labbra, July era stata inevitabilmente catalizzata da lei. Aveva una carnagione ambrata, degli occhi caldi e luminosi, non le era stato chiara la provenienza, ma non le era importato poi molto. Il suo aspetto era radioso e grazioso, non era priva di difetti, ma aveva questo aspetto affascinante, giovane ma con gli occhi vissuti. "Concordo" aveva sussurrato con i denti stretti, ignorando le fitte, sorseggiando il caffè; "Quali sono i tuoi demoni, cara?" aveva domandato, passandosi una mano sul crine scuro, "Mia ... madre ..." si era impegnata a dire con una certa fatica. Non riteneva esattamente intelligente raccontare i suoi problemi divini con una sconosciuta, "Io con mio marito" aveva detto la donna, "Abbiamo litigato" aveva bisbigliato, aveva un sorriso amaro, inclinato, July aveva fatto una smorfia.

La donna aveva finito il suo nocciolino, qualunque cosa fosse, prima di continuare il suo racconto, "Ed ogni volta che lo facciamo lui scappa ed io lo devo cercare" aveva aggiunto con una leggera nota seccata. July lo sapeva bene quanto era sfiancato cercare qualcosa che non era facile da trovarsi e che probabilmente non voleva essere trovato da una figlia di Eris. July era decisamente convinta che sua madre si fosse fatta molti nemici, nonostante l'aiuto del Pittore. "Ma certi drink ti svoltano la giornata" aveva commentato. July aveva annuito, terminando il suo caffè, godendosi il sapore con un certo gusto, posando la tazzina vuota, c'era gente che sapeva leggere le cose, non lei ovviamente. "Oroul" aveva squittito, allungando una mano verso di lei, "July" aveva risposto lei, prendendo la mano, "Oh! Che bel nome!" aveva commentato con un sorriso splendido.

July era arrossita sulle guance e poi aveva sorriso, come spiegarle che non c'era gioia in un nome dato in onore della dea della Discordia? Oroul si era lisciata le mani sui pantaloni stretti, "Ora giovane July devo lasciarti" le aveva comunicato alzandosi dallo sgabello. La ragazza l'aveva guardata, era una persona così rassicurante, "Ho un marito da ritrovare" aveva poi canticchiato posando dei soldi sul tavolo, più di quanti fossero dovuti, "Pago anche per lei" aveva aggiunto, ammiccando a July. Era andata via prima che potesse ringraziarla.

 

"Ho sempre gradito poco gli acquari" aveva sussurrato Horward, con quella sua forma nebbiforme violacea, mentre Alabaster la spintonava senza grazia in un vicolo, "Cosavuoifare?" aveva domandato perplessa July, mentre il ragazzo le faceva posare la schiena contro un muro ruvido. Alabaster aveva abbozzato un sorriso appena, "Sei ricercata! Devo cambiare il tuo aspetto, te l'avevo detto!" aveva stabilito, posandole l'indice della mano sinistra sulla fronte, "Nonc'èbisognono!" aveva bisbigliato lei, incrociando le braccia sotto il seno; amava troppo il suo corpo, specie da quando aveva ripreso un po' di peso e non sembrava più una mendicante. "Si invece, smettila!" aveva ribattuto Al fissandola perentorio con gli occhi verdi, come il veleno. Era sempre meglio non farlo arrabbiare uno come Alabaster, si era resa conto July, che si era limitata a deglutire.

Il suo amico le aveva posato le mani aperte sulle gote ed aveva cominciato a sussurrare qualcosa a basso tono, una specie di farfuglio, ma July non era in grado di identificare la lingua, non era greco e probabilmente neanche latino. La ragazza aveva sentito come un velo sottile posarsi su di lei, fino a che non si era fatta più pesante come una coperta di lana e poi di ferro, aveva percepito le ossa sfrigolare, creparsi, un dolore indescrivibile agli arti, come se qualcuno la stesse tirando o passando sotto ad un ferro da stilo. "Cosa, per l'Ade, stai facendo Al?" aveva ringhiato aprendo gli occhi, il viso del suo amico s'era fatto appeno più distante e le sue mani sul suo volto s'erano fatte più grandi, come se lei si fosse ristretta. Per un attimo non si era neanche accorta dell'assenza di dolore alla mascella. "Ho fatto!Ho fatto!" aveva scherzato quello, tirando via le mani dal suo viso. Alabaster era sempre stato più alto di lei, questo era vero, di una manciata di centimetri solo, July era piuttosto slanciata, ma adesso il ragazzo la superava di una testa e mezzo.

Stranamente il suo corpo non sembrava diverso, era tutto piuttosto reale e le calzava a pennello, però nei suoi vestiti sembrava caderci dentro, non aveva più la sua altezza, i suoi fianchi tondi ed anche il seno, "Mi dai la tua cintura? O rischio di rimanere in mutande" aveva bisbigliato mentre stringeva le dita sulle cintole dei jeans, ma Alabaster aveva mosso le dita appena, per un momento alcune effigi runiche erano apparse luminose sui vestiti, ma i suoi indumenti si erano modellati sul suo corpo, "Anche così funziona" aveva bisbigliato, "E tutta un illusione" aveva stabilito Alabaster, "Devi continuare a credere di non essere te stessa perchè la magia funzioni" aveva chiarito immediatamente il ragazzo, mentre Horward si congratulava del lavoro ben fatto. "La cosa buona è che a quanto pare mi sto anche illudendo di non provare dolore" aveva squittito July particolarmente allegra, guardando le sue mani piccole e toccandosi il mento, non riuscendo a riconoscere i suoi tratti spigolosi.

Al aveva fatto nascondere il suo lare nella sua carta, mentre loro si erano incamminati verso l'acquario, era strano muoversi in un corpo più breve, non era scoordinata, ma le prospettive erano tutte diverse, "E chi sono?" aveva chiesto poi, osservando l'immagine distorta in una pozzanghera, aveva un viso tondo a forma di cuore, con una chioma di lisci capelli bruni e degli occhi verde scuro, con ciglia nere, più infantile di lei. "Sei Lou Ellen, una mia sorella, a quest'ora sarò al campo e quasi certamente nessuno la cerca" aveva spiegato con una certa tranquillità, mentre infilando le mani in tasca continuava, "E tu, invece? La tua faccia non la cambi?" aveva inquisito perplessa, nel loro passo c'era sempre più distanza, ora che le gambe di July erano corte ed in fase quindicennale, pensare che lei a quella età s'era già fatta alta e snella.

L'acquario imponente, moderno, di vetro e piuttosto bello si era stagliato di fronte a loro, assieme ad una calca di gente che faceva la fila a cui si erano dovuti accodare con una certa boria. "Oh nessun mostro sano di mente si avvicinerà a me" aveva risposto con onestà lui, "Tranne Fama" aveva ribattuto July, "Prima cosa: Fama è una dea; seconda cosa: ha attaccato te quando eri da sola" aveva aggiunto Alabaster prima di decidersi a spiegarsi:"Ho trovato il modo di rendere la morte un concetto molto permanente per i mostri" aveva detto, facendogli l'occhiolino.

La figlia di Eris avrebbe davvero voluto chiedere più informazioni, era davvero interessata, il-problema-mostri era a cuore a tutti i mezzosangue in fondo, ma qualcosa l'aveva decisamente distratta, più che qualcosa ... qualcuno. Due ragazzi, anche se uno era stato ignorato da July a pie pari, l'altro no, "Oh porca madre Gea!" aveva esclamato a gran voce, attirando l'attenzione forse di almeno una dozzina di persona, "La lingua!" aveva urlato Horward da dentro il giubbotto di Alabaster, che la stava fissando scandalizzata, ma July aveva gli occhi piantonati davanti a lei un paio di metri, dove stavano due ragazzi ed un satiro, dell'uomo caprino aveva visto il cappello da baseball, di uno dei ragazzi avevano notato i capelli castani ed era asiatico e questo erano gli unici dettagli che aveva colto perchè l'altro aveva catalizzato la sua attenzione. "C'è quel figlio di una sgualdrinissima ninfa di Percy Jackson" aveva detto, indicando proprio un giovane dai capelli scuri, un orrida maglietta arancio e gli occhi verdi come il mare, che fitto fitto discuteva con il compagno, "Nefasti numi" aveva aggiunto Alabaster con gli occhi sbarrati.

"Dovremmo ucciderlo, non avrò mai più occasione di avere la sua testa" aveva sussurrato July, mentre aveva estratto la lima dalla sua tasca, che si era poi plasmata nella sua mano per assumere la forma di una lancia longilinea, "Tu non sai quanto vorrei dare a quel lurido ... tizio" aveva mormorato Alabaster, con un tono basso di un ringhio, cercando di darsi un contegno, "Quello che si merita" aveva terminato, gli occhi verdi erano ardenti fiaccole di odio. July si era voltata verso di lui con gli occhi sbarrati, "Non lo dire! Non osare dire Ma!" aveva quasi strillato e la gente continuava a guardarli, "Non c'è Ma che regga, Torrington!" aveva tuonato. Alabaster aveva fatto una smorfia e le aveva piazzato le mani sulle spalle, fissandola neglio occhi, "Ti giuro sulla mia nobilissima madre, Juls, che vorrei andare lì e prendermi la sua testa" aveva cominciato, piano. scandendo ogni parola, "Ma Percy Jackson non è in visita di piacere ci scommetto, così come Annabeth Chase non è assente dal campo per le vacanze" aveva aggiunto, "Sono in missione, indovino contro una virulenta dea primordiale che odia tutti noi alla stessa maniera" aveva soffiato, "Siamo tutti sulla stessa barca in questo momento" aveva terminato lasciandola, la lima di July si era plasmata perchè riprendesse la sua forma. "Non è giusto" aveva bisbigliato la ragazza, al che il suo amico aveva riso con un certo gusto, "Siamo in missione per conto di Eris; la giustizia è l'ultima cosa che pensavo di trovare" aveva detto con un certo sarcasmo.

"Non vorrei distrarvi dalle vostre elucubrazioni su Percy Jackqualcosa" aveva soffiato Horward prendendo una consistenza quasi umana al loro fianco, "Ma sono abbastanza convinto che quello sportello della biglietteria sia vostro, anche se ho tristi conoscenze delle lingue morte" aveva detto serioso, indicando verso la biglietteria, una delle finestre capeggiava una scritta in oro scintillante Biglietto prioritario per Vip, in greco antico ed in latino. "Odora di trappola e pessima idea" aveva squittito July, ma Al era già andato, sicuro di se, con la mano sull'elsa della sua spada d'oro, passando proprio al fianco di Percy Jackson e del suo amico, proprio quando una donna dai capelli ricci si era fermata a parlare con loro, July aveva lanciato loro un ultima lunga occhiata. Oh madre, apprezza il sacrificio che sto facendo per te, aveva pensato.

 

Dietro la cassa c'era un uomo molto triste, aveva un aspetto relativamente normale, capelli scuri come una macchia di petrolio, occhi azzurri come un mare estivo, leggermente distanziati ed un naso affilato, per il resto non aveva nulla che lo rendesse degno di nota, certo July non sarebbe riuscita a dire se avesse venti o quarantanni, visto che il suo viso sembrava etereo come uno di quei famosi bronzi di Riace o giù di lì. Indossava una polo grigio su cui era stato applicato un cartellino con il nome Tommy scritto sopra. Alabaster aveva dovuto bussare più di una volta al vetro per attirare l'attenzione del tipo, più catturato dall'idea di fissare l'aria, "Benvenuti al Georgiam Aquarium" aveva bisbigliato lentamente, sbattendo un paio di volte le ciglia, prima di adocchiarli meglio, "Ma siete idioti? Volete morire giovani?" aveva detto poi con un cambiamento repentino assottigliando lo sguardo, proprio mentre Alabaster tirava fuori i biglietti, "Eh?" aveva detto July confusa, "Questo posto è strapieno di mostri che i miei fratellio non vedono l'ora di sfamare con mezzosangue ingenui e curiosi" aveva bisbigliato Tommy, come se fosse ovvio.

July aveva sollevato un sopracciglio davvero sconvolta lei, "Non dovresti evitare di dirci queste cose?" aveva domandato poi perplessa, "Insomma non dovresti cercare di ingannarci?" aveva chiesto poi, "Che vuoi che ti dica sono un dio che ama lasciare sbigottiti gli altri" aveva commentato Tommy, prima di volgere lo sguardo verso Alabaster, "Purtroppo dobbiamo entrare lo stesso, gli oneri dell'essere eroi" aveva detto, infilando i biglietti che gli aveva lasciato il pittore insieme al suo quadro. Il dio aveva sbuffato appena, derisorio prendendo i biglietti e timbrandoli, prima di passarli di nuovo sotto il vetro, "Mezzosangue avvisati mezzi-salvati, ma vi affiderò ad Elettra" aveva aggiunto, "Tanto per darvi qualche possibilità" aveva terminato, premendo un tasto su una cornetta, "Meglio di Forco o Ceto" aveva detto tra se e se, "Credo che Percy Jackson comunque gli distrarrà" aveva mormorato, perdendo totale disinteresse in loro.

Una donna era comparsa al loro fianco, vestita come ... be, una guida, con tanto di nome applicato sul seno: Elettra. Era una bella donna, dai capelli scuri corvini acconciati in una treccia all'olandese, l'incarnato lievemente celestino ed orecchie con le pinne, forse, non ne era sicura July, doveva essere una ninfa o un'oceania, aveva attorno al collo sottile e squamoso una collana d'oro bianco in cui era incastonato un brillocco d'ambra, "Io sono Elettra e non ho per niente voglia di essere la vostra guida" aveva ammesso con un sorriso smagliante sul viso, prima di battere le nocche sul vetro di Tommy. Il dio si era voltato verso di lei, con un espressione crucciata, "Moglie mia" aveva sussurrato, con un sorriso abbozzato, "Marito caro, non potresti fare tu la guida?" aveva proposto quella senza smettere di sorridere, "Mi deprime alcune mie sorelle in quelle condizioni" aveva ammiccato, incrociando le braccia. Tommy aveva sbuffato, ma contro ogni previsione aveva acconsentito.

 

"Vi do un consiglio, non sposatevi mai" aveva sussurrato con un tono vacuo Tommy, tra una spiegazione e l'altra sulle grandi specie dell'oceano indiano, proprio mentre passavano davanti ad una vetrata piuttosto imponente, dove nuotavano diverse specie di pesci tutte colorate, "Interessante" aveva fatto notare Alabaster affiancandolo, "Da bambino andavo sempre all'aquario" aveva sussurrato, "Ma credo che la parte migliore di questo tour, sia quella che non vuoi proprio mostrarci" aveva stuzzicato il dio. "La curiosità uccise il gatto" aveva borbottato Tommy, continuando per la sua strada, alla fine però aveva ceduto, perchè anziché condurlo verso i mari del sud aveva imboccato un corridoio su cui era scritto Morte nelle Profondità Marine. "Rassicurante" aveva commentato July con un certo sarcasmo, il suo amico aveva allungato una mano verso di lei, stringendole la sua, "Oh! Sarà entusiasmante" aveva borbottato con una certa noia Tommy, mentre imboccavano tutti e tre - quattro, se si contava Horward, il corridoio tetro.

"Questo posto lo hanno costruito i miei fratelli Forco e Ceto, quando sono stati esiliati qui, così si sono impegnati per recuperare ogni specie rara abbia valicato gli abissi, principalmente perchè ... sono sociopatici" aveva spiegato, con le mani nelle tasche dei pantaloni, "E tu perchè gli aiuti?" aveva invece chiesto July giustamente, "Oh, be, qualcuno deve portare un po' di sanità in questa famiglia" aveva borbottato, mentre cominciava ad elencare le varie vasche e le creature che vi erano all'interno, alcuni erano mostri fatti e finiti di cui July non aveva mai sentito parlare, altri erano umanoidi, ma avevano un espressione vacua quasi fossero stati vittima di un qualche tripp di acidi - cosa che era probabilmente vero. "Cerchiamo una rarità in particolare" aveva fatto notare Alabaster, affiancandosi a Tommy, "Oh quale?" aveva detto quello senza interesse, mentre July si era piantonata dall'altro lato, con gli occhi rivolti alle vasche, spaventata e disgustate da quella visione; una delle vasche passate era composta da un paio di belle fanciulle dagli occhi assenti, la cui tara le segnava come le Oceanie, le sorelle di Elettra.

Come si poteva, si chiedeva July, lasciare il proprio sangue in quella cattività?

 

Alabaster ed Horward sembravano non condividere la sua stessa empatia, il lare aveva gli occhi intrigati da tutta quella meraviglia, che nella sua vita di mortale aveva sempre ignorato, Al invece era prettamente concentrato nella missione, non che questo la lasciasse particolarmente stupita, era sempre stato uno particolarmente in gamba. "Cerchiamo Chi Si Lamenta di Non Esser Morto" aveva spiegato Alabaster a Tommy, che aveva annuito, con una lentezza disarmante, quello aveva portato una mano sotto al mento, da vero pensatore, "Una lamentela di pochi, se mi permetto" aveva commentato poi con voce bassa, "Ma tu sai di chi si parla" aveva mormorato lei, intercettando il suo sguardo con sicurezza, toccandogli un braccio. Tommy s'era voltato verso di lei, "Non mi permetterei mai di mentire a due ... figli di Ecate" aveva mormorato, con un sorriso di chi la sapeva lunga, "Non crogiolatevi nella mia accondiscendenza" aveva berciato con una certa imperiosità, "Sono sempre figlio di mia madre" i suoi occhi erano scintillati di una luce cattiva.

"Credo che potremmo tutti mantenerci calmi" si era impicciato Alabaster con un tono calmo, da vero politico, "Madre o non madre, vuoi aiutarci, o ci avresti lasciato ai tuoi fratelli" si era intromesso Horward con tutta la sua sicurezza e con i suoi occhi savi, Tommy aveva abbozzato un sorriso gentile, di chi era grato della riconoscenza, "La verità è che hanno provato in troppi ad abbattere gli dei perchè io possa credere che qualcuno ci riuscirà" aveva ammesso il dio. July aveva sentito un crampo nello stomaco a quel pensiero, lei ci aveva creduto, davvero, che potesse essere possibile, ci aveva creduto lei e Jake, Mary, Ines e tutti quegli altri che non potevano più camminare su quella terra.

Tommy aveva preso un lungo sospiro, "Potrei avere una qualche vaga idea" aveva ceduto alla fine, mentre gli guidava verso un corridoio che conduceva ad un corridoio che conduceva Alle Specie d'Acqua Dolce, quel insegna aveva fatto salire la bile di July fino all'esofago. Si era specchiata per un'ultima volta verso una vasca lì vicino, dove una creatura con una lunga coda di pesce rossa era stesa come la sirenetta sopra una roccia, era un maschio, dal viso affilato ed elfico, aveva capelli rossi corti, mossi dalle acqua come alghe e l'espressione vacua di chi si era perso. La figlia di Eris aveva visto prima la ragazzina di cui indossava il volto nel riflesso, ma poi aveva visto se stessa quando si era concentrata di più, ma si era affrettata a ricordare se stessa che doveva credere nell'illusione o si sarebbe dissolta. "Lou! Lou dove sei finita?" l'aveva richiamata a gran voce Alabaster, che si era già addentrato nel reparto delle acque dolci con il dio loro cicerone.

Aveva raggiunto i due con una corsa, le sue gambe erano corte e non riuscivano a fare grandi falcate, dove aveva ritrovato i tre che s'erano arrestati per aspettarla, "Allora abbiamo trovato Chi Si Lamenta Di Non Esser Morto?" aveva chiesto immediatamente, osservando i visi di quelli, Tommy aveva sollevato le spalle. Alabaster aveva cominciato, "Secondo il nostro inaspettato amico, pare di si" aveva invece detto, indicando una vasca; July aveva seguito la direzione del viso per osservare una vasca d'acqua salmastra, decorato con rocce e canneti. Una donna stava nel centro, seduta tra le rocce piatte nere e bianche, come il resto delle creature aveva un espressione vacua, ma un sorriso albergava sul suo viso, come di chi fosse prigioniero di un bella memoria, una bellezza mediterranea, con curve giunoniche, belle cotta dal sole e ricci neri mossi appena dalle acque chete, una targa recitava Iuturna Fluminum Domina. "Non parlo latino" aveva bisbigliato July, aggrottando le sopracciglia, "Giuturna Signora, o Padrona, dei fiumi" aveva risposto Alabaster con un tranquillità, mentre la figlia di Eris aveva posato nuovamente lo sguardo sulla donna nell'acqua, Giuturna aveva occhi del colore del miele, era intontita,si, ma July poteva leggere una qualche gioia in quella vista. "E' così lieta" aveva sussurrato lei, posando una mano sull'aquario, "Fatico a credere sia qualcuno che si lamenti" aveva sussurrato poi, "Non conosci la sua storia?" aveva chiesto Tommy colpito, "No" aveva ammesso July, leggermente a disagio, ma Alabaster aveva rivelato di essere anche lui parecchio ignorante da quel punto di vista. "E lei?" aveva domandato allora il dio al lare, Hordard aveva posato gli occhi viola in quelli della ragazza accomodata, "Oh si" aveva commentato, chiudendo gli occhi come se richiamasse alla mente qualcosa, "Avevo sempre considerato la mitologia una baggianata, ma sono sempre stato interessato alla morte, nelle varie culture" aveva raccontato, "Non ricordavo di Giuturna finché non ho letto il suo nome" aveva terminato.

July aveva incrociato le braccia sotto al petto e si era posata alla vasca di Giugurta, "Quindi ci spiegate chi è?" aveva domandato retorica, osservando il lare, "Sono sicuro che Tommy conosca la storia meglio di me" aveva detto il dottor Horward con un estrema umiltà, che July non era sicura di avergli mai sentito. Il dio aveva acconsentito, guardando la donna nella vasca, "Oh" aveva emesso, con uno sbuffo, "E' una storia con radici antiche ..." aveva mormorato, attirando l'attenzione di tutti.

 

"... Dall'Arcadia venne un uomo, era figlio di un re e come suo padre ne divenne uno lui, in una terra ricca e florida, lontana dalla sua patria. Il suo nome era Dauno, Re dei Dauni e poi dei Rutuli.

E' come ogni re dei mortali, cercava una sposa ... e ne trovò una, bella come solo una dea poteva essere, una ninfa, della corte di Nettuno e moglie del dio dalle due facce Giano, Venilia si chiamava, sorella di Amata - ma questa è un'altra storia, forse.

Dauno l'amava e Venilia amava lui.

Giano ... Giano ... leale a se stesso, permise a Venilia di scegliere, ma potrei ricordare male, sono passati così tanti anni, ma non si oppose, rimase in disparte, forse non l'amava o forse sapeva del dolore che avrebbe provato, poi. Puoi amare un mortale con tutta la tua anima, quando sei un dio, ma loro sono così fragili, così effimeri e a noi non è concesso restare. Venilia restò con Dauno per anni, lo vide invecchiare, e gli dono tre splendidi, sani e forti figli. E poi un giorno dovette tornare al suo ruolo, alla sua vita e lasciare quel mortale che aveva tanto amato e quei bambini, che non poteva sopportare di veder morire prima di lei.

Di uno di loro, una bambina, il tempo si è preso il nome, è divenuta donna, divenuta moglie e madre, vecchia anche e nonna. Scelse una vita tranquilla e ne fu ripagata, ma come accade a chi prende quella via, il nome è stato portato via dal mare.

Gli altri due figli non ebbero quella fortuna, o sfortuna, dipende, ma rimasero immortali nelle memorie. Uno era un ragazzo, che divenne un guerriero ed un re come suo padre, promesso a sua cugina, promesso ad una vita migliore, morto con gloria in uno scontro, come se potesse esserci mai gloria nella morte. Morto giovane, ma immortale nelle memorie. L'altra fu una figlia, Giuturna, bellissima. Così splendida d'aver catturato gli occhi di Giove, anche se questo in effetti non è poi così strano. Giuturna, ammetto, aveva qualcosa di diverso dagli altri: possedeva una capacità d'amare senza eguali.

Non era a Giove però tale concessione. Giuturna amava follemente suo padre, sua sorella, suo fratello e la sua famiglia. Ma il padre dei Numi le concesse l'immortalità, di esser dea, così da poterla amare fino alla fine dei tempi, di non doverla mai vedere sfiorire e vederla perdere quella sua bellezza. E' divertente, sapete, ho visto uomini e donne sputare sangue e valicare prove indicibili, odiati dagli dei e tormentati, per raggiungere il premio della vita eterna ... Eracle, Dionisio, Psiche ... ma a lei era bastato essere bella. Nessuno però, neanche Giunone stessa, le portava rancore. Come si potrebbe d'altronde?

Così Giove fece di lei: Giuturna Signora delle Fonti.

E fu bello, fu buono, fu quasi ... perfetto, all'inizio. Giove l'amava e Giuturna poteva vegliare sui suoi fratelli. Splendeva quando il fratello divenne Re e piangeva di gioia quando Numano sposò la sorella. Non soffriva del vedergli invecchiare, ancora estranea e del tutto consapevole di ciò che l'immortalità era, ciò che le aveva tolto ... Oh, ma lo avrebbe scoperto ...

Il mondo perse la sua gioia quando un uomo arrivò, è una storia lunga però ed in tanti la hanno già narrata, tante e tante volte, con più capacità di me, devo ammettere.

Suo fratello morì, al termine di una guerra, o fu la sua morte a terminarla. Giuturna era una dea, sapeva e Giove le aveva impedito di combattere il fato.

Quando l'uomo morì, Giuturna seppe in quel momento quanto dolorosa fosse la sua immortalità, perchè nulla le avrebbe mai potuto ridare suo fratello e con il tempo anche sua sorella si spense.

E Giuturna rimase sola, disperata, con il dolore della sua immortalità, desiderosa null'altro che la morte la cogliesse, desiderosa di sbarazzarsi dell'eternità. Immortalis ego, piangeva, proprio io dovevo essere immortale ...

Giuturna Signora delle Fonti colei che si lamenta di non esser morta"

 

July era figlia unica e quel dolore non poteva neanche immaginarlo, ma era sopravvissuta a Mary e Jake e non credeva che questo dovesse essere troppo diverso. "Dobbiamo parlare con lei" aveva stabilito Alabaster con sicurezza. Tommy aveva sollevato le spalle, "Tecnicamente non posso lasciarvelo fare, i miei fratelli mi darebbero il tormento" aveva commentato a mezza voce con gli occhi bassi. Alabaster aveva annuito, "Capisco, folle o meno, la famiglia è la famiglia" aveva aggiunto, mentre July aveva estratto dalla tasca posteriori dei suoi jeans la lima, che presto si era plasmata per assomigliare a quello che sembrava una mazza da baseball e senza preavviso aveva colpito in pieno viso il dio. "Ma cosa?" aveva esclamato Horward, mentre Tommy era finito sbalzato di qualche metro, July era stupita della sua forza, Alabaster non si era fatto prendere dalla sorpresa e l'aveva agguantata per una mano, "Corri!" aveva strillato, July non era certa che tale richiesta fosse stata fatta a lei o al lare, ma si era ritrovata a correre per il corridoio tirata dal figlio di Ecate.

"Tu sei completamente folle!" aveva detto Horward, strillandole in un orecchio, forse il lare era abituato ai comportamenti savi di Alabaster, "Lascia perdere Claymore!" aveva strillato proprio quello, "I figli di Eris sono strateghi per lo più, ma hanno una vera inclinazione per la violenza" aveva aggiunto quello, facendole l'occhiolino. "Quando sei alle strette: un colpo ben assestato è la migliore strategia" aveva aggiunto lei con una mezza risata, mentre il ragazzo si era buttato contro una porta di servizio, July non l'avrebbe mai notata, era fatti una materia simil-roccia, così che potesse mimetizzarsi nell'ambiente.

"Dove stiamo andando?" aveva domandato July, mentre salivano su una scala a grate di ferro, in un corridoio con una luce rossastra, "Nella parte superiore delle vasche, per recuperare quella povera anima di Giugurta" aveva risposto lui, mentre raggiungeva la sommità, finendo su ponti grigliati in ferro, che stavano sospese su enormi vasche d'acqua. "Pensiamo, abbiamo svoltato due volte a sinistra, una a destra" aveva cominciato a farneticare Al, "Di qua!" aveva detto invece July spintonandolo in una direzione, non sapeva perchè era così sicura di se.

Horward aveva continuato imperterrito a ribattere che colpire un dio non era mai una buona cosa, "Perchè mai? Ne abbiamo già fatto appezzi uno!" aveva esclamato July con un bel po' di goliardia nella voce, l'adrenalina era salita su per la schiena, al punto che aveva sentito brividi sulla mano e sulla mascella, per un attimo aveva ripreso la sua prospettiva, ma aveva ripreso quella di Lou Ellen.

"Ok, questa è la vasca!" aveva strillato July, afferrando con le mani il parapetto, guardando sotto, riconosceva il crine scuro di Giuturna. Il ponte era sospeso a qualche metro dalla superficie dell'acqua e la vasca era parecchio profonda. "Immagino tu non abbia una tuta da sub nel taschino" aveva stabilito lei, mentre valutava cosa fare, "Forse potrei con la magia" aveva stabilito lui, mentre cominciava a slacciare la cintura dei suoi pantaloni, "Potresti farti una cosa come la bolla di Cedric Diggory nel calice di fuoco" aveva proposto July. Alabaster aveva fatto cadere la cintura per terra ed aveva cominciato a slacciarsi i lacci dei suoi scarponcini verde petrolio, "Io che?" aveva domandato confuso, "Harry Potter?" aveva risposto retorica lei. Al aveva sbuffato, "Forse ti sei scordata che sono dislessico, mi sento male quando leggo, cerco di farlo solo lo stretto necessario" aveva risposto lui. July sapeva che tutti, o quasi, i mezzosangue soffrivano di quel particolare disturbo della DSA, perchè il loro cervello era preimpostato per le lingue antiche, così come sapeva che in alcuni era più forte di altri, in July non era così forte da farle sanguinare le meningi quando leggeva, ma non rendeva quell'azione piacevole, si rendeva conto che per Al dovesse essere anche peggio a causa del fatto che riuscisse a leggere anche il latino, oltre che il greco, ed il runico e che altro. Era anche un po' strano che lei non comprendesse il latino, infondo era figlia di Eris, la Discordia ed ella era tale per greci e romani.

"Be, ci sono i film!" aveva fatto notare lei, beccandosi in piena faccia il giubbotto antiproiettile che il ragazzo indossava sempre in missione, mentre il suo amico era rimasto solo con una maglietta sottile ed i pantaloni, "Se dobbiamo scappare così non dovrò fuggire in mutande" aveva stabilito, posando le mani sul suo volto, una specie di scintillante luce viola lo aveva avvolto, un qualche ambiguo strano oggetto gli si era formato sulle labbra. Un respiratore?

Alabaster aveva scavalcato la ringhiera e si era poi tuffato nella vasca, "Fai veloce!" aveva fatto appena in tempo a dire July, prima che un qualcosa la aggredisse sbalzandola via, finendo per farle urtare la testa contro una grata. "Ma che ...?" era riuscito a dire, sollevandosi sui gomiti, mentre un enorme mastino dal pelo scuro, gli occhi erano strani, come guardare una galassia, d'un colore che andava dall'azzurro al rossastro. "Tommy?" aveva sussurrato confusa, "Non credo cara" aveva detto Horward ed in quel momento si era palesato oltre il mastino, che ringhiava sulla sua faccia, scoprendo i famelici canini, era un ragazzo.

"Non prenderla a male dolcezza, vorrei anche io essere a caccia di qualcun altro" aveva aggiunto questo, July lo aveva guardato, era un ragazzo attraente, dalle spalle larghe, indossava una giacca sportiva, aveva i ricci scuri e serpentini, gli occhi erano verde acqua ed il viso squadrato da uomo, "Ma tu sei il ragazzo del solenoide!" aveva strillato July, gli occhi di quello si erano fatti più sottili, come se avesse cercato di capire chi fosse lei, poi era stato come illuminato e lei aveva sentito l'incantesimo sciogliersi sulla sua pelle, lasciandole brividi sulla linea della mascella e sulle dita.

"La ragazza tanto gentile" aveva notato lui, accarezzando il capo dell'animale, "Mi dispiace" aveva sussurrato poi, "Vorrei passare il mio tempo ad uccidere le cacciatrici di Artemide, Orione mi ha anche prestato Sirio per questo" aveva stabilito con sicurezza, continuando ad accarezzare il capo del cane, "Ma Gea mi ha riportato alla vita e le devo qualche favore" aveva aggiunto, mentre estraeva un oggetto dalla tasca, una sorta di arco meccanico si era andato poi a svilupparsi e lo stesso era accaduto ad una freccia.

July era rimasto ferma ed aveva deglutito, mentre lenta con una mano cercava di raggiungere la sua lima, "Un vero peccato, fanciulla, sei così bella" aveva aggiunto quello, mentre continuava a tendere le frecce verso di lei, "Cosa ne farei del tuo corpo" aveva bisbigliato con gli occhi chiusi, sarebbe stato il momento propizio per colpirlo, ma ogni singolo movimento di July era seguito dagli occhi si Sirio e dai suoi ringhi. Il ragazzo del solenoide aveva aperto gli occhi, fissandola attentamente, "Oggi, mia bella, morirai per mano di Atteone" aveva stabilito quello, prima però July s'era lanciata contro di lui, con la sua lima in forma di pugnale, prendendo la costola dell'uomo.

Atteone aveva comunque scagliato la freccia, che si era conficcata nella su coscia, così come Sirio aveva stretto tra le zanne il suo polpaccio, ma come era accaduto contro Fama, July non aveva percepito alcun dolore, se non ancora più vigore nel suo corpo, aveva estratto la lama dal corpo dell'uomo e senza grazia aveva colpito il cane, aveva sentito tutto il corpo formicalare e farsi improvvisamente più spesso, come se fosse stata tirata contemporaneamente verso l'alto e verso il basso, per un secondo, aveva pensato che sarebbe stato spezzato in due, ma non era successo nulla, si era rifatto più forte, ancora una volta.

"Come ...?" aveva provato a chiedere Atteone, "Se stuzzicata posso valicare i cieli" aveva stabilito lei, pronta a colpirlo ancora con la sua arma, che era divenuta ora una lancia - la sua lancia.

Il suo nemico si era sollevato dalla posizione cucciata, aveva il mento sporco del suo stesso sangue ed aveva tirato via da sotto la giacca una spada corta, "Sarà un piacere ucciderti, mia bella" aveva stabilito quello, quasi colpendola con la spada, "Attenta al cane, July" aveva strillato Horward. Lei era rimasta in mobile, con la lancia puntata verso Atteone, dall'altro lato si era formata un altra punta, ma lei non poteva voltare il capo, per vedere il segugio, era alle sue spalle, avrebbe potuto aggredirla da un momento al atro. "E' un bravo cane, fedele, Orione è stato più fortunato di me" aveva sussurrato quello, ad ogni parola un rivolo di sangue scivolava sul mento.

Faceva uno strano pensiero, ma July si era resa conto che Atteone era un mortale, o un semidio, non lo sapeva, ma era qualcosa di diverso dall'uccidere un mostro o combattere una dea, sembrava immensamente sbagliato. Non sarebbe stato il primo, aveva già ucciso, a Manhattan, nel labirinto, ma non si era mai fermata a rifletterci, era una guerra quella, una guerra ai suoi caduti. Ora doveva uccidere a causa di Gea? Di sua madre?

Sembrava così ignobile.

Ed Alabaster aveva osato definirgli eroi, con Tommy.

"Potremmo far finta di nulla e continuare ognuno per la sua strada" aveva proposto lei, mentre continuava a tenere con sicurezza la doppia lancia in una mano. "C'è la spada di Alabaster!" aveva detto Horward, mentre lei poteva osservare la spada d'orata del suo amico, che aveva lasciato lì, quando si era tuffato, a proposito di quello ... non era ancora riemerso?

La risposta era arrivata quando qualcosa aveva letteralmente incendiato il pavimento sotto le zampe di Sirio.

Alabaster era riemerso dall'acqua, tenendo per le spalle Giuturna, che era immobile con gli occhi vitrei, Al teneva una mano sollevata, rune verdastre si intravedevano sui vestiti, il palmo della mano sembrava violacea, mentre il segugio piangeva, avendo dovuto allontanarsi.

Atteone aveva provato a colpirla con la spada e July l'aveva intercettata per pelo. Lui era piuttosto bravo nel duello, ma lei conosceva uno o due trucchi per difendersi, ed era sleale, questo giocava a suo vantaggio. Il suo nemico doveva essere stato addestrato nel suo combattimento da un qualche maestro, che gli aveva insegnato le regole, come un principe o un eroe, non era stato addestrato per la guerra, per combattere per avere salva la vita. Aveva colpito con un calcio lo stinco dell'uomo mentre la spada di questo era bloccata contro la sua lancia e poi lo aveva colpito con una testata, "Oggi tu muori, Atteone, ucciso da July Goldenapple figlia di Eris" aveva detto con sicurezza, con un fiato, nessun dolore, nulla, abbassando la lancia sull'uomo, che aveva rotolato da un fianco.

La punta della lima si era conficcata nella grigilia, mentre quello si era tirato da un lato, lasciando la spada corta, sorrideva in maniera malgna, sporco di sangue, "Può darsi" aveva stabilito e poi be ... July non era l'unica che in quella giornata non era stata nella sua pelle, perchè Atteone era divenuto un cervo e l'aveva caricata con vigore ed erano finiti ambedue nella vasca dove erano Alabaster e Giuturna.

July aveva conficcato la lancia nella giugulare dell'animale, ignorando le corna dell'uomo che avevano scavato la pelle e la carne, "Peccato, eri così carino" aveva stabilito, mentre estraeva la lama dal corpo dell'animale, mentre l'acqua si colorava di rosso, "Ti trovo bene" aveva stabilito Alabaster, mettendole la mano libera attorno alla vita per tenerla stretta a lui, anche lei sanguinava, "Dobbiamo uscire da questa vasca" aveva stabilito lei, "Come raggiungiamo il ponte?" aveva domandato lui, con gli occhi verso il ponte.

"Non...sai...lievitare?" aveva domandato lei, sentendo le fitte sul suo mento riformarsi, scomparso l'adrenalina, come quelle alla mano e poi erano venuto tutti gli altri dolori, la freccia alla coscia e le ferite delle corna che avevano reso il suo ventre una groviera, fortunatamente non avevano preso lesionato nessun organo interno, sembrava, avendo le punte raggiunto appena i muscoli, però rischiava davvero di dissanguarsi in questo modo.

Alabaster era diventato rosso di imbarazzo per la sua mancanza, "Potrei fondere un po' del metallo, far scivolare una delle due estremità ed usarlo come rampa" aveva cominciato ad ipotizzare lui, se la gravità gli assisteva. "Potrei far saltare via la vasca" aveva sussurrato poi, mentre la teneva stretta per la vita, Giuturna abbandonata sul suo fianco, la testa incastrata tra la clavicola ed il mento, "Ti giuro July, che ne verremo fuori" aveva borbottato. "Potrei lanciarvi una cima e potreste risalire" aveva esclamato una voce cogliendoli di sorpresa, sollevati gli occhi, avevano incrociato Tommy, poggiato alla balaustra, con una corda arrotolata in una mano.

Sorrideva sornione e se avesse in qualche modo accusato il colpo di July, non la dava a vedere.

 

July aveva appena sollevato lo sguardo, "Ma tu chi sei in realtà?" aveva domandato appena, mentre il dio aveva lanciato verso di loro la cima di una corda, "Taumante, figlio di Gea e Ponto, fratello di Ceto, Forco, Nereo ed Euribia, marito di Elettra e padre di Arpie, Iride ed Arcobaleno" aveva risposto con boria, elencando quei titoli e muovendo la mano annoiata, "E come il mare io terrifico e meraviglio" aveva sogghignato. Aveva con sicurezza saldato una delle due cime alla balaustra.

Lei aveva afferrato la corda, con un estrema fatica, "Dalle un pizzico" aveva sussurrato Taumante, facendogli l'occhiolino, "Haragione" aveva ringhiato July piena di fitte ed il suo amico, con una certa fatica che cercava di tenersi a galla. Alabaster aveva eseguito l'ordine e l'aveva pizzicata con così tanta forza che probabilmente sarebbe rimasto il livido, ma come dopo ogni volta che aveva ricevuto un colpo, il dolore era stato assorbito nel suo corpo e l'aveva temprato. July aveva afferrato la corda e s'era tirata su con la forza delle braccia, si era annodata con le gambe, così si era tirata sulla fune come non aveva mai fatto a scuola durante le ore di ginnastica e quando aveva raggiunto con le dita il pote si era stretta e poi si era arrampicata sulla ringhiera e l'aveva scavalcata, nel momento in cui aveva toccato con i piedi per terra, tutti i suoi dolori si erano manifestati come un'onda e lei era caduta, così a fatica s'era tirata di lato, posando la schiena alla ringhiera, ignorando Alabaster, come avrebbe fatto a tirarsi su assieme alla Bella Strafatta?

Tommy, o come si chiamava, si era chinato di fronte a lei, aveva un bel sorriso, "Madache ... parte ... stai?" era riuscita a dire lei con una certa fatica, un dolore in tutto il corpo, "Da chi mi stupisce e voi due avete meravigliato il dio della meraviglia" aveva riposto, allungando una mano verso la freccia nella sua coscia e l'aveva strappata con un movimento lesto, July aveva strillato alla pelle squarciata ed al sangue, nonostante il dolore alla mascella le impedisse i grandi movimenti. La sua voce era stata strozzata però da un rumore più assordata, come del vetro a pezzi ed una cascata d'acqua.

Qualcuno aveva rotto una vasca? Percy Jackson?

 

Il dio le aveva toccato la fronte con un pollice, aveva sentito la pelle coperta di brina, ma tutti i dolori erano scomparsi, così come le ferite che si erano rimarginate, "Chi l'avrebbe detto che prendere a mazzate un dio me ne avrebbe fatto guadagnare il favore" aveva commentato lei, riuscendo a tirarsi su senza fatica. Tommy si era sollevato con lei, "Vi ho detto di non entrare e l'avete fatto, vi ho detto di non prendere Giuturna e l'avete fatto e nel mentre avete ucciso anche Atteone" aveva commentato, "Il fato deve avervi baciato il capo e posso assicurarvi che il fato è l'ultimo dio che mi metterei contro" aveva stabilito. Alabaster era rotolato su un fianco, portandosi in spalla la dea, che era appesa e del tutto inerme a lui, "Ora andate, che Percy Jackson e Frank Zhang non riusciranno ad essere ancora una distrazione per molto tempo" aveva bisbigliato il dio, mentre Alabaster si preoccupava di rivestirsi, mentre July sorreggeva Giuturna.

Il viso di Taumante sembrava ambiguamente più rilassato, "Hai sbagliato, comunque" aveva detto lei con sicurezza, fissandolo, "Come?" aveva sussurrato confuso il dio, "Gli dei, su di loro, hai sbagliato" aveva stabilito con sicurezza July.

Tommy aveva inclinato il capo, "Ho preso un sacco di F a scuola, perchè non studiavo storia, ma alla fine lo ho capito, sai?" aveva ripreso a a parlare, "Prima c'erano i Protogei, poi sono stati detronizzati dai Titani e questi a loro volta dagli Dei. Figli che prendo il posto dei padri" parlava, attirando l'attenzione di Tommy, che era un dio primordiale ed aveva visto quello, "Quando un sistema cade, perchè lo fa, non importa quanto grande e splendente crolla perchè così deve essere. La vita, il tempo, è rinnovo" - aveva fatto una pausa - "Non si può tornare al precedente, si può solo andare avanti" aveva stabilito, con un sorriso.

Anche il dio forse lo faceva, sorrideva, "Gea si illude se pensa di poterlo fare" aveva terminato, "Questo come contraddice me?" aveva chiesto di rimando Tommy, "Perchè anche gli dei capitoleranno prima o poi" aveva risposto July facendoli l'occhiolino, prima di scappare assieme ad Alabaster, che si era caricato Giuturna in spalla come un sacco di patate ed il dottor Horward nella giacca.

Luke Castellan lo aveva intuito che poteva essere possibile, aveva promesso a July e gli altri una nuova età del loro, ma adesso lei si rendeva conto quanto razionalmente fosse difficile ricrearla e che con Crono al potere difficilmente si sarebbe realizzata, ma non poteva vedere grande differenza tra Crono o Zeus, era certa che poi Luke avrebbe cercato di sbarazzarsi del suo alleato, anche se poi si era reso conto di averlo sottovalutato. "Lo pensi davvero?" le aveva chiesto Alabaster, correndogli al fianco, "Mia madre è la dea più attiva dell'Olimpo, fa tutto da se, ma ha dovuto affidare questa missione a me" aveva berciato lei con sicurezza, "Ormai gli dei sono costretti a ricorrere a noi; fidati Alabaster: il mondo è prossimo al tramonto degli dei" aveva sussurrato.

 

 

Aiace l'aveva colpita con un sinistro al volto e Jeha era girata su se stessa prima di finire a terra e sputare un po' di sangue sulla sabbia, "Atena è una puttana che spero Gea mi farà fottere" aveva sentenziato l'uomo, afferrandola per le caviglie. Era un uomo vagamente attraente, per quanto disgustoso, con la pelle olivastra e gli occhi neri ed i capelli corvini. Aiace era stato un guerriero noto di Troia, maledetto dagli dei per il suo ingiurioso comportamento, ma Gea lo aveva riportato al mondo per vendicarsi.

"Comincerò con te e poi dirò a tua madre quanto hai goduto" aveva ghignato, con un tono annegato nella lussuria, che disgusto che faceva a lei, da farla sentire impura solo nell'averlo ascoltato.

Jeha aveva mosso con sicurezza la gamba per liberarsi dalla stretta e si era rotolata supina, l'arco le era comparso alle mani come la freccia e gli aveva puntati contro di lui, "Non sono sopravvissuta ad un processo di stregoneria ed agli inglesi per morire vittima di un cane come te" aveva berciato, prendendo in pieno costato con la freccia.

Aiace aveva ringhiato aveva fatto un paio di passi, con la spada sguainata, ancora pronto a colpire, mentre lei si era sollevata in piedi, "Jeha! Spostati!" aveva sentito una voce, così si era spostata ed un dardo infuocato le era passata accanto raggiungendo il petto di Aiace e l'uomo era andato in fiamme. Lo sapeva lei che morte orribile era, lo odiava, lo disgustava, ma aveva incoccato una freccia e lo aveva infilzato nella gola perchè avesse una fine breve, "Brucia nel tartaro, batard moche" aveva ringhiato, dando le spalle alla pira. Nessun odore era peggiore di un corpo bruciato.

"Lo sai che la prima volta che l'acheo Aiace si è spento è stato per annegamento?" aveva chiesto retorica la sua salvatrice, una ragazzetta molto più bassa di lei, dagli occhi azzurri e le sopracciglia scure, leggermente asimmetriche. "Grazie, Champ" aveva detto lei, battendoli una mano sulla spalla.

"Sai come è ... io sono i tuoi occhi nel retro della nuca, da almeno cinquecento anni" aveva borbottato quella, con le mani alla vita, "Anche se tu sei andata via senza attendermi" aveva ringhiato, "Ho seguito solo gli ordini della Luogotenente" aveva risposto seccata lei.

"A proposito della luogotenente, lei e Phoebe sono andati ad incontrare Hyllia Ammazza Due Volte e le sue amazzoni" aveva detto Champ.

Jeah aveva memorizzato quelle parole con un certo timore, se quell'alleanza era prossima a compiersi, anche la guerra lo era, purtroppo; Jeha avrebbe fatto il suo dovere, come la sua Signora voleva.

"Quindi ora sarai la mia assistente?" aveva chiesto Jeha, "Fino a che non sarò richiamata, almeno"le aveva detto Champ facendole l'occhiolino.

 

"Sei ancora crucciata per la questione della Statua di tua madre?" aveva detto la sua amica, sedendosi con le sulla sabbia pallida, i capelli scuri stretti in una coda di cavallo, "Se ciò che dicono di lei è vero, Annabeth Chase là ritroverà" aveva sussurrato Jeha, guardando la moneta di Atena, era l'unica figlia della dea della sapienza ad aver rifiutato la missione. "Sarebbe proprio il caso, visto l'incidente di cui si è reso reo un mio fratellastro; aprendo conflitto con i romani" aveva risposto Champ, stritolando la stoffa dei pantaloncini mimetici nel pugni, che avevano fumato appena. "Leo Valedez?" aveva chiesto retorica. Oltre ad essere uno dei sette, quel figlio di Efesto era riuscito a guadagnarsi le occhiatacce di quasi tutte loro quando la loro luogotenente si era riunita al suo fratello scomparso. "Rimaniamo concentrate" aveva sussurrato lei, riponendo nella tasca la moneta di sua madre e cogliendo invece il Betilio, "Sia come tu dici, m'am" aveva detto l'altra facendo il saluto militare.

"Oh! Jeha l'Arpia! La pazienza è la virtù dei forti, non lo sai?" aveva chiesto il dio, comparendo davanti a loro, "Questa intemperanza non ti dona ... oh! Alyson buongiorno" aveva sussurrato quello, guardando l'altra ragazza. Era molto alto, dai capelli castano luminosi e gli occhi dolci, "Illustre" aveva sussurrato Champ chinando il capo. "Trovo così divertente una francese ed un inglese amiche" aveva sentenziato quello. "Siamo protette di Artemide, non siamo più ciò che eravamo" aveva detto con una certa sicurezza Jeha sollevandosi dalla posizione seduta, "Sai quanto io sia rispettosa, ma siamo prossimi alla guerra. " aveva sussurrato, guardando la divinità che aveva da sempre onorato, oltre la Signora, a discapito di sua madre.

Il fuoco di quel dio le aveva cinto la carne senza bruciarla, l'aveva salvata da un rogo e l'aveva condotta da Artemide; "Hai trovato ciò che ti ho chiesto?" aveva domandato lei.

Quello aveva sorriso, accarezzandole un viso, ad un uomo non era concessa tale confidenza, ma la signora stessa aveva concordato che certi uomini meritassero rispetto, "Sai, i mortali hanno questo modo di dire quando hanno bisogno di qualcosa: Non chiedo la luna" aveva berciato lui.

Jeha aveva inclinato il capo, confusa decisamente, "Non comprendo" aveva ammesso, "Il problema, Jeha l'Arpia, è che tu mi stai chiedendo la luna."

Era passato un attimo in cui le due ragazze avevano taciuto, perplesse ed in parte irritate dalle mezze verità degli dei, anche loro amici. Il dio aveva sbuffato, gesticolando qualcosa a fatica, percependo la confusione delle due, "Forse non sono stato chiaro, colpa mia, voi volete la luna, letteralmente."

"Intendi l'astro celeste in cielo? aveva chiesto Champ, battendo la palpebre. Quello aveva annuito.

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Capitolo 12
*** Le colpe di un padre non dovrebbero mai ricadere su un figlio, in particolare se il primo non è esattamente uno stinco di santo(Carter III) ***


Salve, questo capitolo è stato un PARTO ed avrei dovuto ultimarlo settimane fa, invece si è protratto per lunghissimo tempo e non è stato neanche betato, per poco non lo pubblicavo senza neanche rileggerlo, quindi chiedo umilmente scusa se è un casino.
Evviva!
Come sempre i nostri personaggi incontrano un mucchio di gente, ma insomma non è detto che le persone presenti restino per i capitoli successivi. Ed io faccio schifo nello scrivere le scene di lotta, quindi va bene, no non va bene.
Ringrazio sempre summer_time per essere la mia unica commentatrice, probabilmente senza di te avrei abbandonato questa storia una vita fa, grazie, davvero mi chiedo chi ti faccia fare questa faticaccia.
Ma vorrei dedicare questo capitolo a Quel Ragazzo che, l'anno scorso – mentre limavo gli antagonisti delle storia - durante gli esami di Istituzione di Letteratura (e ringrazio portassi il Purgatorio dantasco e non l'Inferno o probabilmente sarei entrata in un panico senza fine), uscì dall'aula dell'assistente esangue in viso, dicendo: “Ma Flegias chi diavolo era?”
ECCO.
Ringraziate lui, particolarmente Carter …

Buona lettura,

RLandH

 

The Road So Far (Riassunto): Carter, figlio ripudiato di Apollo, viaggia con Grace, un'empusa dal cuore d'oro, in cerca di redenzione e di Marlon un suo fratellastro dall'animo innocente, che Carter vede come il riscatto che il padre gli ha concesso. I tre sono diretti al Campo Mezzosangue, luogo per cui Carter prova un profondo senso di vergogna, ma decide che quello è il luogo adatto per suo fratello – fin troppo innocente ed incapace di difendersi in quel mondo. Carter è inoltre perseguitato da un viso, di una giovane del suo passato, di cui ha cominciato a dimenticare i tratti.
I tre hanno modo di incontrare tre giovani mezzosangue, anche loro dirette al campo: la brillante Lauren, figlia di Afrodite, la fiera Emma, figlia di Ares, e la combattente Jordan, figlia di Efesto. Quest'ultima è a riconoscerlo, come Carter di Crono; ma prima che tra i quattro – perché Grace era corsa frettolosamente giù dal pulmino dove erano con Marlon – inizi uno scontro, essi vengono attaccati da Tizio, un gigante che fingeva di essere un autista, intenzionato a vendicarsi della progenie di Apollo ed Ares.
Carter, Emma, Joe e Grace, tornata, ingaggiano uno scontro contro il gigante, ma Lauren rimane paralizzata inizialmente dalla paura, ma sarà lei stessa ad ideare la strategia contro il gigante, facendo evocare a Carter un corvo, un animale guida di suo padre, che terrorizza Tizio mettendolo in fuga, a causa di un trauma passato. Emma rimane ferita brutalmente dallo scontro, ma Carter grazie ai poteri curativi la salva. Sembra incredibile ma Carter ha riacquisto poteri da figlio di Apollo che credeva di aver perso; affaticato dallo sforzo, perde i sensi ed ha una visone della sua sorellastra Heather, ragazza del campo, che cerca una maglietta in compagnia di un mezzosangue di nome Jude, che egli riconosce come il filo croniche che non parlava mai.
I sei partono in viaggio assieme, ma durante la tratta, Carter ha un'altra visione della sua amata sorella morente, così decide di volerla contattare, ma ormai giunto il tramonto non riesce a cogliere nessun raggio di sole per creare un arcobaleno, Lauren lo rassicura che l'avrebbero chiamata al mattino. Grace decide allora di condurre gli altri alle terme della Fontana di Salmace, dove vengono accolti dalla maga Manto. Carter comincia ad ipotizzare un futuro in cui potrebbero lui, insieme anche a Grace, unirsi a Marlon per l'arrivo al campo, cosa che sembra secondo Lauren fattibile.
Alle fonti, Grace rivela a Carter che uno di quei bagni potrebbe rischiare il suo dono divinatorio, stranamente cieco.








 

 

 

Il Crepuscolo degli Idoli

 

Le colpe di un padre non dovrebbero mai ricadere su un figlio, in particolare se il primo non è esattamente uno stinco di santo
 

Carter III

 

 

 

“Questo posto non mi piace” la voce di Carter era piuttosto perentoria, nonostante fosse stata bassa, Grace aveva irrigidito le spalle, mentre rimboccava le coperte di Marlon, che era sprofondato nel sonno, nonostante fosse un ragazzino piuttosto tranquillo, aveva dodici anni ed era un mezzosangue iperattivo, per convincerlo ad andare a dormire la cosa poteva diventare davvero estenuanti. Marlon poi lo percepiva che stava accadendo qualcosa, come succedeva a lui.

L'empusa comunque l'aveva sistemato a dormire grazie alla sua lingua ammaliatrice, non era una cosa molto rispettosa, ma Grace, nonostante la sua gentilezza, era una certa estimatrice degli Estremi Rimedi, quando le Mani si facevano Estreme.

“A volte mi sembra strano che abbia dodici anni” aveva commentato con una certa inquietudine Carter, “Lo so” aveva risposto Grace abbozzando un vestito, avvicinandosi verso di lui, indossava un accappatoio di spugna di un rosa sottile sul cui petto, dalla parte sinistra, c'era la scritta greca Salamace. “Lo guardi e vedi un bambino, non pensi abbia già dodici anni perché tu a quell'età andavi già in missione ...” aveva parlato la creatura, guardando Marlon con un un sorriso rilassato, avvolto nel suo bozzolo di coperte, Grace aveva uno sguardo così materno. “Ma è così che devono essere i dodicenni, Carter, cominciare a pensare che le ragazze sono carine e che non ti attaccano i pidocchi, che l'ultimo film sui supereroi è una figata e neanche essere sfiorati dall'idea che un mostro come me possa mangiarli” aveva aggiunto lei allontanandosi, gli occhi di Grace non erano coperti dalla magia ed erano di un rosso ardente, ma anche le vene della sclera era visibile, aveva gli occhi lucidi di chi si rifiutava di piangere.

Carter aveva abbozzato un sorriso a disagio, “Di mostri come te, ne esistono pochi, Gracie” gli aveva detto poi lui, posandogli una mano sulla spalla complice, ricordava ancora quando ci aveva parlato la prima volta, con i palmi in posizione di resa, Grace gli aveva ripetuto che non voleva fargli del male, che non voleva fare del male più a nessuno. E Carter si era fidato. E ringraziava ancora di averlo fatto – anche se non sapeva a chi quei ringraziamenti dovevano essere dati.

Lei aveva sorriso rincuorata in parte, la magia le donava un aspetto da femme fatale con gli scuri dalla forma appena allungata e l'incarnato olivastro, ma con un sorriso così innocente, tutto l'effetto finiva per dissolversi lasciando una sensazione stordente, qualcosa che sputava redenzione da tutti i pori. “Hai parlato con Manto?” aveva chiesto lui, mentre uscivano dalla stanza che gli era adibita, Grace condivideva la sua con Lauren, la figlia di Afrodite. L'empusa aveva scosso il capo con un movimento secco, “Si, ha acconsentito nel farti visitare domani le fonti” aveva aggiunto poi con un sorriso mesto, “Vado a parlare con le ragazze per vedere se hanno saputo qualcosa di Heat” aveva commentato lui di rimando, continuando a ricordare l'immagine morente di sua sorella sotto un albero; Grace aveva annuito, “Solo non metterci troppo tempo, non voglio lasciare Marlon da solo” aveva sussurrato lei poi.

 

Aveva incrociato Lauren nel corridoio, indossava come lui e Grace l'accappatoio delle terme, anche se poteva intravedere che sotto indossava una canotta bianca, i capelli bruno castagno erano privi della coda e scendevano sulle spalle, luminosi e setosi, bella come solo le figlie della dea della bellezza stessa potevano essere. Parlava con un'altra persona, un ragazzo … o una ragazza? Carter si ritrovava davvero preso dai dubbi, era comunque una persona dal fisico alto e snello, con un incarnato roseo pieno, con i riccioli biondi fino alle spalle, le labbra piene piegate in un sorriso malizioso e scanzonato.

“Il figlio di Apollo presumo” aveva squittito quello – quella - rivolgendo uno sguardo sottile verso di lui, aveva occhi di un verde maculato d'oro, “Il divino Ermafrodito?” aveva risposto di rimando Carter, inclinando il capo, quello aveva ghignato maggiormente e poi si era allontanato senza aggiungere altro. “Dovremmo andare via di qui il prima possibile” aveva chiarito immediatamente lei, guardandola con gli occhi scuri, “Sospetti di loro?” aveva chiesto di rimando Carter con un certo interesse. Lauren aveva annuito con un movimento lento della testa, “Tiresia, il padre di Manto, è stato maledetto da una dea perché aveva risposto onestamente alla domanda di un altro di essi” aveva spiegato cristallina la ragazza. Carter aveva annuito, onestamente ricordava distrattamente la storia dell'indovino e di sua figlia, ma aveva qualche vaga rimembranza di Ermafrodito l'aveva … si era ritrovato a dover dividere il corpo con una ninfa che aveva chiesto agli dei di non separargli mai.

Lauren aveva continuato a muovere il capo in un cenno d'assenso, “Cosa puoi dirmi su Heather?” aveva chiesto poi lui, ricordando per prima il motivo per cui era andata a cercarla, la figlia di Afrodite aveva annuito con un movimento lesto del capo, “Uhm … non ti piacerà” aveva risposto lei con un tono leggermente tetro, “E' in missione con Qbert per ricercare un'arma, ma Darren, il suo ragazzo, ci ha parlato giusto oggi è pare stia piuttosto bene, solo un po' pensierosa” aveva buttato fuori con un solo respiro lei, così velocemente da lasciarlo stordito per qualche istante.

Carter si era morso un labbro, timoroso, pensando alle due volte che aveva sognato sua sorella in quel giorno, non tanto quella dove l'aveva visto con il ragazzo che non parlava mai mentre cercava una maglietta, ma quella ove l'aveva visionata sotto un albero con la pelle chiara venata di nero, il viso contorto dal dolore e sporca di sangue. Sembrava una visione, qualcosa di futuro. “Dopo aver sbirciato dalle fonti, convincerò Grace ad andarla a cercare” aveva chiarito lui, con una certa serietà, non riusciva davvero a sbarazzarsi del magone che gli scavava il petto – eppure non aveva pensato ad Heather quell'ultimo anno se non distrattamente chiedendosi cosa lei, Will e gli altri stesso facendo; non aveva pensato ad Heather neanche quando si era unito alla causa di Luke, aveva pensato solo ad un'altra persona.

Nessuno si oppone ad un dio.

 

“A proposito di Grace” aveva attirato la sua attenzione Lauren, arrotolando attorno ad una delle dita sottile i capelli rossastri, “Cosa c'è tra di voi?” aveva chiesto con un sorriso piuttosto lezioso sulle labbra. Carter era rimasto un attimo in silenzio a quella domanda, decisamente confuso, non aveva mai sentito il bisogno di classificare cose fossero lui e Grace. Amici? Una vegana animalista che lo considerava come un coniglio? O che? “È la mia famiglia” aveva ammesso poi con un certo candore, forse imbarazzato che non si era davvero mai fermato a rifletterci. Grace era qualcuno in cerca di redenzione, un mostro dal cuore gentile, e forse vedeva in lui la salvezza … e lui in lei vedeva quell'armonia che credeva di aver perduto e che mai avrebbe ripreso. 

Lo sguardo di Lauren sembrava ambiguamente eloquente, come di chi avesse davvero apprezzato quella risposta, quasi non ne avesse voluta un'altra e lui si era sentito decisamente a disagio, pensando che una splendida, nonché brillante, creatura come quella fosse attratta in qualche modo da lui, Carter il figlio ingrato di Apollo. “Perchè mi hai baciato?” aveva sputato fuori, pensando a quando Lauren aveva allacciato le braccia al collo e pigiato le labbra alle sue dopo che lui aveva evocato il corvo per scacciare Tizio. Quella aveva sorriso, il viso era sembrato incredibilmente più luminoso, “Ci avevi appena salvati, un bacio era il minimo” aveva risposto lei di rimando, facendogli l'occhiolino, poi si era sollevata sulle punte prima di sfiorare un'altra volta la sua bocca, con le labbra, “Questo per aver salvato Ems” aveva aggiunto con un tono basso, soffiandogli sull'orecchio e fiondarsi di nuovo sulle sue labbra e quella volta non era stato un semplice tocco.

Carter l'aveva afferrata per la vita, spingendo il corpo di Lauren contro il suo, mentre le dita della ragazza scivolavano tra i suoi capelli, sulle sue spalle, sul suo corpo, come lui che aveva postato le mani dalla vita per farle scendere, mentre Lauren si ritrovava spalle al muro con un espressione stravolta, “Forse dovremmo trovare un posto più appropriato” aveva suggerito lei, con un sorriso sulla faccia, “Ah-ah” era riuscito a borbottare lui, mentre veniva trascinato via.

Lauren aveva trovato una stanza dove probabilmente non sarebbero mai dovuti entrare, visto il cartello che recitava la riservatezza, ma Carter aveva già smesso di pensarci, come vergognosamente aveva smesso di pensare ad Heather o al fatto che avesse promesso a Grace di tornare presto, quando aveva sentito ancora su di se le labbra di Lauren, fameliche, feraci ed invadenti. Oh nefasti dei! Quanto erano morbide e procaci, Carter poteva sentire brividi galoppanti risalire sulla sua schiena, scosse d'adrenalina e desiderio puro, così come sembrava la ragazza stesse rispondendo, con le dita un attimo tra i suoi capelli e poi sulle sue spalle, sul suo petto, avide di lui e Carter non si risparmiava a concedersi, succhiandole le labbra, tastandola in ogni luogo, lasciandole una fila di baci delicati sulla mandibola, gemiti leggeri erano l'unico rumore nell'aria.

“Io … wow … non sono mai così … così” si era riuscito a giustificare lui, allontanandosi appena, aveva le labbra gonfie e l'aria gli mancava nei polmoni, il sangue affluiva invece benissimo, in una zona particolare che non era il cervello. Lauren sembrava coinvolta quanto lui, le labbra carnose rosse e succose, appena aperte ed i capelli sconvolti, “Dei non parliamo di me, sono sempre stata una figlia di Afrodite piuttosto scadente da questo punto di vista” aveva buttato fuori di tutta fretta, prima di baciarlo ancora con un certo trasporto, facendo scorrere la lingua contro i suoi denti, poi si era infilata nella sua bocca per cercare la sua compagna e Carter l'aveva lasciata guidare quella danza. Infondo era lei la figlia dell'Amore.
Non doveva stupirsi che fossero finiti avvinghiati a sbaciucchiarsi da qualche parte, erano i figli delle due divinità più procaci e maliziose dell'Olimpo.

Anche se lui doveva ammettere non essersi mai ritrovato prima in una tale situazione, nonostante fosse arrivato alla veneranda età di diciotto anni – ed era una conquista per un mezzosangue – non aveva mai avuto tempo per amoreggiare con nessuno.

Prima c'era stata lei … quel volto che sognava negli incubi e che sembrava farsi ogni giorno più sbiadito, qualcosa di indefinito erano loro, qualcosa che stava lì tra la linea di amici ed amanti, senza andare da nessuna parte e Carter ricordava quando aveva tenuto il suo corpo stretto in un abbraccio, ancora caldo, “Meritavi di meglio” gli aveva detto Carter spostando una ciocca di capelli da quel viso, “Nessuno si oppone ad un Dio” aveva detto con un unico soffio lei.

Joelle.

E dopo di lei non c'era stato più nessuno.

E quel pensiero l'aveva interrotto, aveva fatto scemare l'ardore ed il desiderio, lasciando un ragazzo spoglio e triste che si lacerava l'animo pensando all'amica morta e poi sorella che aveva abbandonato, Heather, e alla morte che aleggiava su di lei.

“Lauren … io ...” aveva buttato fuori, spingendola via con delicatezza; non aveva voglia di raccontarle il motivo di quel repentino cambio d'umore, del perché si fosse unito in prima istanza all'esercito di Crono, di come avesse attivamente collaborato per uccidere lei e tutti i suoi amici, tra cui i suoi fratelli. Carter non voleva uccidergli davvero, Luke aveva promesso che le morti sarebbero state minime, ma necessarie, ma una volta vista la loro grandezza, tutti i mezzosangue si sarebbero uniti a loro.

Lauren però era sveglia ed aveva compreso, cosa esattamente Carter non poteva saperlo, gli aveva sorriso e carezzato una guancia, “Forse dovremmo rallentare un po'?” aveva proposto lei, amichevole, ricevendo un imbarazzato gesto d'assenso. Lauren gli aveva posato una mano sulla spalla, prima di distogliere lo sguardo verso l'ambiente circostante; la stanza dove erano entrati era stracolma di … cianfrusaglie.
“Che posto pensi sia questo?” aveva domandato lui, recuperando l'ultilizzo della parola, mentre la figlia di Afrodite cominciava a spostare gli oggetti per osservare bene alcuni di questi, “Penso sia come un deposito di oggetti lasciati dai clienti o rubati” aveva spiegato, giocando con quella che sembrava una mola colorata, prima di abbandonarla in favore di una pettinessa dalla forma di pesce colorato. Carter aveva trovato un vecchio scudo addossato ad una parete, era di ferro e bronzo celeste, il centro era un piccolo opale di madre perla rovinata, che portava a fuoco il pegaso nero del campo mezzosangue, il piatto era istoriato con motivi di una battaglia. Era coperto di polvere e ruggine sui margini, forse era più vecchio di Carter stesso. “Ma che bellezza!” il commento entusiasta di Lauren lo aveva distratto, aveva sollevato lo sguardo trovandola con in mano una spada. La ragazza aveva uno sguardo meravigliato, che dopo essersi avvicinato lui non aveva potuto evitare di condividere.

La spada era molto singolare, la lama era di un oro lucente e sulla parte vicino il manico c'era incisa una frase in una lingua che non era certamente greco – ed in caratteri che non erano latini – mancava di un manico di protezione, l'elsa era una specie di cilindro d'avorio lucido che raffigurava una storia scolpita finemente e minuziosamente, un lavoro di vero artigianato che era più sottile della mezza luna che era collegato all'attaccatura della lama. Un pomello dalla forma di una pietra sferica di un colore fumo era sulla cima; non doveva essere un'arma molto comoda, ma c'era qualcosa che emanava quella spada, qualcosa di regale, prezioso, ma anche spaventoso … 

“E' una spatha romana, la lama è fatta d'oro imperiale, doveva appartenere ad un semideo – o guerriero – romano” aveva spiegato Lauren con una certa sicurezza soppesando la lama, impugnandola per vedere come stava, sembrava essere molto leggera, “Semideo Romano?” aveva domandato lui confuso. Lei si era voltata verso di lui, con un sorriso aperto sul viso, piuttosto splendido, doveva adorare sciorinare informazione alla gente, “Oh bene devi essere rimasto fuori dal giro per un po'” aveva cominciato.

Quando era tornato nella sua stanza Carter aveva scoperto di una guerra imminente, dell'esistenza di una dualità degli dei Romani, di un campo opposto a quello Mezzosangue, della Porta della Morte aperta e della Missione dei Sette.

E Carter che pensava Gea fosse l'unico problema.

In un certo senso non doveva stupirsi però dell’esistenza dei romani, si era ritrovato a pensare, perché Joelle non era certamente adatta al campo mezzosangue, così come aveva detto il satiro che aveva portato lì solo lui. Era romana, dunque? No, era qualcosa di diverso, qualcosa che non sembrava trovare posto.

“Ho fatto un brutto sogno” era stato svegliato dalla voce alta di Marlon, che non riusciva, neanche volendo, ad avere un tono basso – vizio della sua età. Carter aveva schiuso gli occhi, osservando lo sguardo preoccupato sul viso del suo mezzo fratello, anche lui aveva avuto incubi, che avevano il viso di sua sorella Heather morente. “Succede a tutti i mezzosangue” aveva sussurrato tirandosi sui gomiti, con un espressione alla fine non così preoccupata, mentre suo fratello si sedeva sul suo stesso letto, con uno sguardo ancora afflitto, “Sono gli dei che ci mandano messaggi” aveva chiarito lui, chiedendosi quali dei potevano, se erano tutti barricati dentro l'olimpo. “Cosa hai visto?” aveva chiesto Carter poi, guardandolo attentamente, “Stavano parlando di come farci del male” aveva sussurrato, “A noi figli di Apollo” aveva aggiunto, “Di come ci avrebbero ucciso dal primo all'ultimo” aveva aggiunto con una voce sottile.

Carter aveva accarezzato le sue spalle con un movimento gentile, nel cercare di rincuorarlo, “Quello con gli occhi verdi come il veleno, aveva uno sguardo così orribile” aveva detto abbastanza tetro Marlon, ticchettando le dita sul ginocchio.  “Continuava a parlare di come una donna … Cassandra aveva visto tutto” aveva mormorato, con gli occhi castani rivolti al pavimento.

Cassandra … Cassandra …

Carter si era messo a scavare nelle sue memorie quel nome, ottenendo solo vaghi echi, ma s’era poi distratto subito, osservando il viso preoccupato del suo fratellino, avrebbe voluto rincuorarlo meglio, come Lee aveva sempre fatto con lui e Michael, e come lui era riuscito in passato a fare con  Will e Kayla, ma un tocco ritmico sulla porta lo aveva fermato.

“Chi è?” aveva chiesto sgusciando dalle lenzuola, “Manto” era stata la risposta secca che aveva ottenuto; aperta l’imposta s’era palesata sull’uscio la giovane donna che gli aveva accolti la notte prima, con i capelli raccolti in una crocchia ed un tubino acquamarina, che formava un contrasto intrigante con l’incarnato caramello. “Salve” aveva borbottato lievemente confuso dalla donna, “La tua amica empusa si è mostrata molto insistente affinché ti permettessi di visitare le fonti termali” aveva ribattuto Manto, con le mani incrociate sotto il seno, “Certo” aveva risposto lui, voltandosi verso il fratello,  “Marlon va da Grace e Lauren” aveva soffiato, prima di voltarsi di nuovo verso la donna.

Manto sorrideva in una maniera leggermente fredda ed aveva un passo quasi militare, nonostante i tacchi vertiginosi su cui camminava, smaltati. “Come ci sei finiti a lavorare per Ermafrodito?” aveva chiesto, perché riteneva più lecito che un’indovina lavorasse per un dio e non per il contrario, “Il divino Ermafrodito aveva sempre avuto a cuore mio padre” aveva spiegato la donna con un tono diverso da quello che utilizzava di solido, più morbido e gentile, quasi autentico, “Così prima di discendere nell’averno, ha chiesto al dio di prendersi cura di me” aveva aggiunto senza vergogna. Ed Ermafrodito l’aveva fatto.

“Cosa cerchi dalle sorgenti?” aveva chiesto Manto di punto in bianco, fermandosi davanti un’alta porta di legno bianco, con pomelli d’oro dall’aspetto di due teste ruggenti di leoni. “Non eri tu l’indovina?” aveva chiesto Carter sarcastico, al che il sorriso sulla bocca della giovane donna si era tramutato in una smorfia, “Attento” lo aveva semplicemente ammonito, prima di aprire la porta per mostrare una stanza piuttosto ampia piena di diverse piscine, piastrelle rosa opache e statue di nudi, dai colori brillanti, “Questo posto è decisamente più grande di quanto sembri da fuori” aveva detto stupidamente Carter. Manto sorrideva come se lui le avesse appena fatto un enorme complimento,  “Indovina!” aveva cantato una voce, cogliendoli entrambi di sorpresa, “Salve anche a lei” aveva mormorato  la donna con un tono di voce caustico, volgendo lo sguardo verso la nuova venuta. Carter aveva potuto osservare una donna raggiungerli, anche lei era avvolta nell’accappatoio di spugna, solo che anziché essere bianco, era di un azzurro vivissimo, che sembrava riflettere lo stesso colore degli occhi, era una donna molto alta, dal viso spigoloso ed il crine nero come l’inchiostro colato, “Devi concedermi ausilio, hai rimandato troppo” aveva puntualizzato quella e Carter s’era beato della musicalità della sua voce, solo dopo avere realizzato parlasse in greco antico, oltre che in una maniera così arzigogolata.

Manto aveva sorriso certosina, “Le ho già spiegato, onorabile Cenis, che in questo loco troverà solo soluzioni a metà” aveva stabilito quella perentoria, mentre prendeva a camminare lungo le piastrelle, con il ticchettare dei tacchi come colonna sonora. “Non ho valicato le Porte della Morte per ritrovarmi frenata in codesta maniera” aveva commentato aspramente la donna inseguendola, era scalza ed aveva i capelli inumiditi e Carter si era trovato ad inseguire le due donne con una certe frustrazione.

Aveva portato le due dita alla bocca ed aveva fischiato per attirare il battibeccare delle due si di lui, Manto si era chiusa le mani sulle orecchie prima che potesse emettere un suono, perché era un’indovina, “O Zeus Impalato!” aveva ringhiato Cenis, portandosi le mani alle orecchie, con un ringhio frustrato, guardandolo con un certo odio, se lo sguardo avesse potuto uccidere, Carter si sarebbe ritrovato un giavellotto in pancia.  “Scusa …” aveva biascicato, allontanando le dita dalla bocca, “Udimi pupazzetto, ho tolto il respiro per molto meno” aveva ringhiato, pigiandogli un dito sullo sterno, gli occhi azzurri infuocati.

L’indovina aveva allungato una mano verso quella di Cenis e l’aveva stretta sul polso sottile dell’altra abbassandola di forza, “Gradirei non minacciassi di morte i miei clienti” aveva berciato con una certa imperiosità. Cenis era più bassa di Manto, ma sembrava ugualmente più letale con quello sguardo virulento, ma l’altra non sembrava neanche piuttosto intimorita, “Seguimi” aveva imperato poi l’indovina verso di lui, ammiccando con un movimento del capo verso il corridoio con le vasche. Carter l’aveva seguita senza proferir parola, passando di fianco a Cenis, cercando di non guardarla negli occhi, ma aveva potuto continuare a sentirgli brucianti sulla pelle, comunque non si erano liberati di lei, perché gli aveva seguiti.

“Vuoi schiarire la tua visione del futuro vero?” aveva chiesto Manto, fermandosi davanti una vasca, era di una grandezza media, ma non sembrava più profonda di un metro e sessanta, nel suo punto più cavo,  la piscina raggiungeva la parete, così dai due spigoli opposti figuravano due statue a cui Carter non aveva dato che un’occhiata veloce, preso più dalla parete di mosaico che riportava il ritratto di una città, diverse scritte dorate si ripetevano sul bordo, lui aveva capito fossero la stessa parola ripetuta in più lingue, tra cui il greco – e sorprendentemente anche il latino – che era riuscito a comprendere: Piangente.

Cenis se ne stava al suo fianco, “Questa piscina è composta dalle mie lacrime” aveva soffiato Manto, “Tecnicamente è raccolta dalle acque che circondano Mantova, ma sono le mie lacrime” aveva aggiunto la donna,  ammiccando con la mano verso la fonte. “Chiunque vi si immerga, acquista momentaneamente il dono della preveggenza” aveva ripreso poi a spiegare l’indovina, “Ed è piuttosto prezioso di questi tempi, con Pitone a Delfi chiunque dipendesse dalle doti divinatorie di Apollo, si ritrova offuscato se non accecato” aveva ripreso la donna. Carter si era appuntato di cominciare a chiamarla: Mantopedia. “Quindi basta che io mi immerga?” aveva chiesto, cominciando a slacciare la cintura dell’accappatoio,  ma la donna lo aveva fermato con un movimento rude, “Credo tu conosca le regole” aveva commentato con una voce profonda, “Favellate proprio una lingua sgradevole” era stata la sgraziata aggiunta di Cenis. Carter aveva deciso di ignorare la ragazza dagli occhi azzurri, per guardare l’altra,  “Non ho dracme con me” aveva risposto poi osservandola con un tono vagamente lugubre, “Dammi ciò di cui non sei mai riuscito a liberarti” aveva soffiato lei, allungando una mano verso di lui, a palmo aperto.

Carter era rimasto in silenzio, aveva sentito la gola secca improvvisamente, aveva stretto il pugno con un certo nervosismo, “Di cosa parli?” aveva chiesto invece, timoroso di sentire quella risposta, Manto l’aveva guardata con un espressione cheta, “Lo sai bene” aveva soffiato lei, con la mano ancora protratta verso di lui. Carter aveva sentito brividi lungo la schiena, “È dentro il mio zaino” aveva risposto poi onesto, pensando alla collana con le perle del campo. Quando si era presentato da Luke per unirsi alla causa, si era già liberato della maglietta arancione, ma indossava ancora la collanina, dopo aver giurato a Crono, Luke gli aveva detto di liberarsene e Carter aveva promesso che l’avrebbe fatto. Però non era mai successo, si era sfilato la collana ed aveva pensato a come, se buttarla nell’oceano e lasciare che l’abisso se la prendesse, se lasciarla bruciare nelle fiamme e ricavarne solo cenere, se lasciarla come decoro di una tomba pallida, per una ragazzina morta troppo giovane; alla fine non c’era riuscito.

L’aveva tenuta in mano, aveva pensato ai suoi fratelli, a Lee, Michael, Heather e a tutti gli altri, così non c’era riuscito e l’aveva nascosta dove nessuno l’avrebbe mai potuto trovare, per riguardarla nei momenti difficili, per ricordare quanto le cose erano diverse, non per forza più semplici o migliori, solo diverse. L’allegra risata dei suoi fratelli e tutto quello che si era lasciato alle spalle.

“Ed ora non vi sarà più” aveva cinguettato Manto con un sorriso sulle labbra, riportandolo alla realtà, Carter aveva potuto osservare che aveva smesso di tendere la mano verso di lui, “L’ho persa per sempre, vero?” aveva chiesto lui, con una voce vacua, “Può darsi, può darsi di no” aveva risposto lei. Lui aveva annuito, privandosi dell’accappatoio, poi delle scarpe, i calzini e della maglietta, restando in pantaloni e canottiera, “Muscolatura invidiabile” aveva commentato Cenis, imbarazzandolo. Carter aveva guardato Manto chiedendo implicitamente se avesse dovuto privarsi di più abiti, ma lei aveva sollevato le spalle, come se la cosa fosse semplicemente una sua scelta e lui si era sfilato i pantaloni, cercando di non pensare alle due donne al suo fianco, Manto non aveva detto nulla, rispetto a Cenis, ma lui l’aveva ignorata.

Carter aveva immerso i piedi nella vasca, c’era una piccola scalinata bianca, che conduceva al fondo e lui l’aveva percorsa un passo alla volta, sentendo i brividi di freddo lungo la pelle e rizzarsi i peli, forse sarebbe stato più intelligente lanciarsi direttamente in acqua. “Non so come dirtelo, ma credo dovresti cercare di affogarti” aveva mormorato Manto quando si era ritrovato i suoi occhi confusi addosso,  Carter aveva posato i piedi nella parte più profonda, emergeva dall’acqua di almeno venti centimetri e fino a quel momento nessuna ragnatela si era spostata dai suoi occhi. Cenis aveva sbuffato appena, “Avendo concluso con costui, ti è concesso favorire me?” aveva chiesto infastidita, Manto non aveva perso la sua espressione squisitamente finta e Carter aveva roteato gli occhi, prima di prendere un bel respiro ed immergersi per intero.

Aveva sentito l’eco delle voci di Cenis e Manto, mentre cercava di comprendere come lasciarsi annegare … senza, be, soffocare. Conoscendo la sfiga dei semidei probabilmente al cosa non era contemplata, era riemerso prendendo una buona boccata d’aria, osservando ancora le due bisticciare, poi si era immersa nuovamente, con gli occhi aperti, timoroso, se fosse andata male, chi lo avrebbe salvato? Aveva aperto le labbra, appena, lasciando l’aria fuggire e l’acqua entrare con irruenza spietata, il suo corpo era stato sconvolto dagli spasmi, era così vicina la superficie ma improvvisamente così inarrivabile.

Ed improvvisamente aveva respirato, vomitando appena dell’acqua, sentendo le gambe molli, s’era ritrovato con le ginocchia puntate sull’erba verde, di una primavera splendente. Aveva alzato lo sguardo trovando stranamente qualcosa di famigliare in quel paesaggio: un altura collinare verde, non lontano da lui si innalzava un folto pino, “No” aveva bisbigliato Carter. Non voleva voltarsi e temere di avere davvero ragione, che alle sue spalle c'era il Campo Mezzosangue, la casa che aveva volutamente abbandonato.
Prima che potesse farlo davvero, voltarsi e vedere quel mondo che lo spaventava, aveva intravisto tre figure risalire la collina, erano piuttosto vicine e Carter aveva impiegato qualche minuto per comprendere che la figura centrale era sorretta dalle altre due, che la tenevano per la vita, mentre questa teneva le braccia attorno alle spalle delle altre due. Carter si era avvicinato ai tre, vedendoli in difficoltà nell'arrancare, avvicinandosi aveva potuto riconoscere le figure, la prima che gli era saltata all'occhio era stata proprio quella centrale, una ragazza pallida come un cencio, emaciata e con pulsanti vene nere che ne ricoprivano l'epidermide, i capelli rossi secchi e sporchi …. era Heather, con il dolore a rovinarle il viso. “Heat” aveva urlato il suo nome, ma la ragazza non lo aveva sentito, continuando a farfugliare cose che non poteva comprendere a mezza bocca agli altri due, allora Carter aveva volto l'attenzione sulle altre due figure. Una ragazza scura, dal crine riccioluto e corvino e l'altro era un giovane allampanato dai capelli castani coperto di efelidi chiare, erano Bernie figlia di Ecate, una delle due oscure gemelle LaFayette e Alabaster C.Torrigton, il figlio di Ecate; due mezzosangue che avevano servito Crono nel corso della guerra. Bernie e sua sorella erano state primariamente sue compagne, rispetto il ragazzo, ma Carter provava uguale gioia nel vederli, vivi e salvi, o almeno parzialmente, Heather sembrava letteralmente sul punto di morire. Come l'aveva vista lui nelle sue visioni, fino a quel momento.

“Ci siamo quasi” la voce di Bernie era sottile e gentile, con le dita affusolata aveva accarezzato i capelli ramati della sua sorellastra, “Rivedrò Darren, un'ultima volta” la voce di Heather era così bassa, da essere sembrata a Carter un miagolio. “Heat!” l'aveva chiamata lui, correndo incontro a loro, che non sembravano riuscire a vederlo. “Tu non morirai!” la voce di Alabaster era decisa e dura come il ferro, gli occhi verdi erano lucente ed inumiditi quasi da un pianto, la ragazza che arrancava aveva per un momento fermato i suoi piedi, costringendo gli altri due ad arrestare l'avanzata, “Sei una bella persona Al” aveva soffiato, ogni sua parola sembrava un agonia, “Prenditi cura di Jude, anche se dirà di non averne bisogno” aveva aggiunto, prima di voltare lo sguardo verso Bernie. “E tu sei una bella persona, non lasciarti convincere del contrario” aveva commentato, slacciando le braccia dalle spalle dei ragazzi.
Heather si era afflosciata sull'erba, livida e coperte di nero, il viso ridotto ad una maschera di dolore. Alabaster aveva posato la fronte sulla sua, con le mani posate sulle guance, “Ci siamo quasi, Heather, devi resistere solo un altro po'” aveva sussurrato, mentre Bernie aveva cominciato a corre, Carter si era voltato per osservarla superare il pino ed infilarsi sotto l'arco che annunciava l'ingresso del campo mezzosangue, gridando perché qualcuno venisse ad aiutarli – gridando per Darren.
“C'è il Vello D'Oro!” aveva strillato Carter, anche se non potevano sentirlo, ma quando aveva visto il pino aveva notato l'assenza della magica stoffa da sopra le fronde, dovevano averlo spostato, “Perchè i Romani avrebbero potuto prenderlo” aveva sospirato Carter, pensando a quello che Lauren gli aveva raccontato.
“Di a Carter ...” quel suono lo aveva stordito, lui aveva voltato lo sguardo verso la sua sorellastra e le sue labbra appena un po' schiuse, “Risparmia le forze” aveva detto Alabaster, tenendole le mani, le sue dita brillavano di una qualche luce viola che risaliva sulla pelle di Heather, stava cercando di darle la forza. Lui era caduto sulle ginocchia al suo fianco, per osservare quel viso così scosso dai dolori, mentre Alabaster lasciava le sue dita, per mettere le mani una sotto le sue spalle, una sotto le sue gambe, “Dimmi tutto, Heather, ti sento” aveva sussurrato Carter, cercando di prenderle una mano, ma le era passato in mezzo. Non era veramente lì, non sapeva neanche Quando fosse lì.
Sua sorella non era riuscita a dire cosa voleva che fosse riferito a lui ed Alabaster l'aveva sollevata tra le sue braccia, per portarla verso qualcosa – il pino, il campo, Carter non lo sapeva – ma prima che potesse dire altro, l'immagine si era dissolta davanti ai suoi occhi lasciandolo con un senso di vertigine e nausea.

 

Sentì l’aria nei polmoni e delinearsi davanti i suoi occhi la sala della piscine della Fontana di Salamace, “Non volevo infastidire il tuo bagno ristoratore, ma abbiamo una certa urgenza e sarà necessario ogni braccio armato disponibile” aveva commentato una voce femminile. Cenis lo stava tenendolo per il busto, affinché tenesse la testa fuori dall’acqua, “Devo parlare con Manto … O Grace” aveva bisbigliato. Doveva capire, doveva sapere.
La ragazza dal crine scuro l'aveva trascinato verso il bordo e poi lo aveva fuori con un movimento deciso, era in possesso di una certa forza, nonostante il corpo minuto. Carter aveva continuato a respirare solamente, sentendo l'aria nei polmoni quasi bruciare, mentre Cenis lo obbligava a stendersi sul pavimento, ignorando le sue proteste di volersi alzare, “Ho visto …” aveva cercato di dire, mentre la visione si rimanifestava con l'irruenza di una valanga nella sua memoria. Heather stava morendo, o almeno lo avrebbe fatto prima o poi, cercando di dire qualcosa per lui. E Carter non sarebbe stato lì. Lui doveva esserci.
“Giovane” gli aveva detto Cenis, teneva le sue piccole mani sopra i suoi zigomi, “Se non vuoi morire, devi riprenderti” aveva mormorato, il suo tono era stoico e fermo. “Di cosa parli?” era riuscito a sputare fuori, non era lui che rischiava di morire, ma Heather …. come Joelle. No! Non era giusto.
Lei aveva emesso una specie di basso ringhio, “Flegias, figlio di Ares ed un Re dei Lapiti, è venuto qui per trucidarti, figlio di Apollo” aveva rivelato Cenis, con un tono piuttosto perentorio, “Re dei chi? E perché? E chi è?” aveva domandato lui confuso, piuttosto nervoso. Non aveva tempo per pensare a quel tizio, chiunque esso fosse, doveva pensare alla sua sorellastra, di cui aveva avuto visione di morte per due interi giorni.
Cenis lo aveva fissato con durezza, gli occhi blu quasi abissali, “I Lapiti, un popolo degno di tutti gli oneri, discendenti da Apollo, parenti dei Centauri e fidati di me, qualcuno contro cui non mettersi” aveva sputato fuori lei, “Rispetto al perché possiamo enunciare che non abbiamo tempo per un addottrinamento di mitologia. Narriamo solo che Flegias ha deciso di porre fine all'intera stirpe degli Apollidi” aveva commentato con sicurezza lei.
Anche Heather … e Marlon?
No! No! Suo fratello era troppo innocente.

"Quindi un Re di un leggendario popolo vuole ucciderci" aveva carburato Carter e quel plurlae maiestatis era scivolato sulla sua lingua con estrema naturalezza. Aveva sentito il dramma dei figli di Apollo sulla sua pelle.
Si era messo in piedi, con un movimento un po' sbilenco, il suo corpo formicolava ancora tutto ed ancora spaesato aveva cercato i suoi vestiti, qualcuno gli aveva appesi sul braccio alzato di una statua dalle due facce. Giano non avrebbe gradito che un suo simulacro fosse usato come appendiabiti, ma onestamente Carter degli dei se ne fregava decisamente poco. "Possiedi ferri?" aveva chiesto Cenis, mentre si liberava del suo accappatoio restandosene con una mantella leggera che arrivava alle ginocchia, c'era una certa fierezza nel suo sguardo; Carter aveva estratto l'accendino dalla tasca dei pantaloni, appena infilati, lei era sembrata turbata dallo strano oggetto. Lui aveva fatto roteare la rotella, ma invece di nascere una fiamma, si era ritrovato in mano una spada, dalla doppia lama di ferro e bronzo celeste "Si” aveva detto goliardico, “Ma non ho un'armatura o altre protezioni” aveva berciato. “Fortunatamente ho scovato una stanza piena di cianfrusaglie in cui ci sarà sicuramente qualcosa" aveva sputato fuori Carter aveva parlato in inglese e se n'era accorto poi, timoroso che la donna non avesse compreso, ma Cenis aveva decisamente compreso.
Infondo sembrava essere stato in grado di capire benissimo i discorsi che avevano fatto lui e Manto.

 

 

"Ermafrodito quindi se l'è filata?" aveva sentito la voce di Lauren. La figlia di Afrodite era già dentro la stanza delle cianfrusaglie, dove fino alla notte prima stavano limonando allegramente, Carter l'aveva intravista dall'uscio ancor prima di entrare; Lauren se ne stava in tuta, con un armatura oplitica semi-messa e teneva in una mano la lama che aveva puntato la notte prima. Manto era al suo fianco, stavano parlando con una certa animosità, ma non sembrava una discussione, la maga se ne stava ancora sistemata nel tubino acqua marina, ma teneva in una mano una fiala di vetro – e Carter era certo fosse fuoco greco.
Lui e Cenis aveva attraversato l'uscio, che Joe si era palesata davanti a loro, l'armatura di ferro lucido di stampo medievale. "Siete arrivati" aveva detto tenendo con una mano il suo martello infiammabile, il suo tono era parecchio irritato, Carter non sentiva di avergliene a male, probabilmente rischiavano tutti di morire per colpa sua. "Il giovane non voleva lasciare le braccia di Morfeo" aveva sussurrato Cenis con con un mezzo sorriso, ammiccando a lui, mentre si allontanava da lui per cercare una qualsivoglia arma.

Lauren aveva sorriso vedendolo, Manto si era preoccupata di chiarire che effettivamente il dio se l'era filata. Grace era comparsa davanti a lui, l'incarnato olivastro era cereo ed i capelli scuri erano fiamme crepitanti, le sue vere gambe erano in mostra, la zampa d'asina e quella fatta di bronzo celeste. Se la creatura non stava lavorando con la foschia per avere l'aspetto gradevole, voleva dire di avere bisogno di tutto il suo potere. "Marlon?" aveva chiesto lui immediatamente, pensando agli incubi che avevano martoriato il suo fratellino quella notte, assieme alla vivida immagine di Heather in punto di morte, "E' con Emma" aveva detto immediatamente l'empusa, ammiccando alla mezzosangue mancante. Joe aveva annuito, "Voleva venire anche lei, il richiamo della guerra, ma, per l'orco, deve riprendersi" aveva berciato imperiosa, con gli occhi scuri stretti. Emma doveva essere ancora troppo debole per potersi lanciare di nuovo in battaglia.

"Perchè gli dei se la filano sempre nel momento del bisogno?" aveva domandato con una certa isteria Lauren, con una mano alla tempia, infastidita, "E' la loro becera indole" aveva detto Cenis, mentre frugava tra le cose alla ricerca di qualcosa da poter infilare, aveva avuto un tono macabro, che Carter sentiva di condividere, "Non possono aiutarci se non dimostriamo di meritarcelo" il commento di Carter era arrivato quasi senza che se fosse reso conto, con un tono basso e gutturale, ottenendo un'occhiataccia da parte di Joe, d'altro canto lui non aveva osato guardare Lauren.

Un ragazzo si era schiantato letteralmente nella stanza, inciampando nei suoi stessi piedi e finendo per cadere per terra e portarsi dietro la bionda figlia di Efesto, che con tutto l'armamentario medievale era accolta dal pavimento con una cacofonia di suoni. 

Carter lo aveva osservato mentre cercava di rimettersi in piedi, aveva i capelli scuri come la macchia di inchiostro, una carnagione malaticcia ed un fisico secco, era il ragazzo che aveva visto la notte prima nella stanza con i tavoli, quella che aveva il balcone dove aveva parlato con Grace. "E tu chi saresti, per grazie divine?" aveva chiesto irritata Joe spingendolo via, con i capelli biondi annodati e la coda bassa sfatta, il ragazzo era balzato in piedi aggrappandosi ad un mobilio, ignorando la figlia di Efesto a pie pari, "Allora sono in sei, un uomo insieme a due centauri e tre bicefali" aveva detto perentorio, mentre la stanza si riempiva di assistenti concitati del centro.

"Nessuno di noi è un combattente" aveva ammesso Manto con un tono basso, mordendosi un unghia, "Potresti sbatterci fuori" aveva proposto Lauren con un tono di voce piatto, mentre continuava a rimirare la spada che l'aveva tanto presa prima. A quel punto Cenis aveva riso con un certo gusto ed una qualche amarezza, "Se ci sbatte fuori, perde l'unica cosa certa che potrebbe garantirle una qualche incolumità" aveva ammesso poi, il suo tono era duro ed implacabile di chi conosceva bene quelle cose, "Entreranno, deprederanno e gli dei sanno cosa altro" aveva ammesso.

Il ragazzo che nel frattempo aveva sfilato, da chi sa dove, la spada d'oro scintillante che Carter gli aveva visto affilare la sera prima, "Non ho capito una parola, tesoro" aveva berciato contro Cenis, la confusione evidente negli occhi scuri, "Sei stupido?" aveva domandato di rimando la giovane donna, "Grande Giove, lo so che tu mi capisci, io non capisco te" aveva ripetuto, con un tono di chi stesse dicendo un'ovvietà.

"Sei un romano, vero?" aveva chiesto Lauren, con un sorriso leggermente incerto, ottenendo lo sguardo di quello, "Oh santi numi, quel sociopatico di Ottaviano aveva ragione, esistono i greci" aveva detto squillante quello, Joe aveva sbuffato e Grace aveva tossito ottenendo l'attenzione di tutti, che perentoriamente aveva ricordato a tutti che un re di un mitologico popolo era arrivato lì assieme ad un gruppo di mostri, anche se non aveva usato quelle parole, sarebbe stato un po' ipocrita.

"Ci serve un piano d'attacco" aveva stabilito Lauren poi, attirando nuovamente l'attenzione su di lei,  "Vuoi progettarlo tu, figlia di Afrodite?" aveva chiesto Manto con un espressione crucciata sul viso, cosa che non aveva allietato per nulla la ragazza in questione. "Enea era un figlio di Venere" l'aveva difesa, con una certa imprevedibilità, il ragazzo con i capelli scuri, "La guerra e l'amore sono amanti" aveva berciato Cenis con una certa sicurezza. "Apprezzo la vostra gentilezza" aveva soffiato Lauren, attirando nuovamente l'attenzione su tutti. Joe le stava piantonata al fianco, con una guardia, mentre sembrava mal tollerare la cotta che si era stretta addosso; "Per prima cosa mi serve tutto il necessario su Flegias" aveva imperato con una certa sicurezza la figlia di Afrodite, ma Carter non era certo fosse autentica. Continuava ad avere l'immagine di Lauren immobile soffocata dalla paura, mentre loro affrontavano Tizio. "In inglese possibilmente" aveva squittito il ragazzo dai capelli scuri, con una voce quasi miagolante, ottenendo una sinistra occhiataccia da Cenis, "Era un arseide, dal vigore di cento leoni e l'ira divampante come un incendio che non poteva avere fine. Governava sugli uomini, era Re dei Lapiti, un popolo di nobile stirpe e gloria viva, i discendenti del Re Flegias furono eroi di grande vigore, ma come lui furono puniti tutti o quasi per la loro tracotanza" aveva raccontato Cenis, con gli occhi azzurri appena un po' lucidi, "Non è che hai detto molto" aveva fatto notare Joe con qualche riserbo. "La hybris è sempre stata il difetto dei lapiti" aveva mormorato Manto, con le labbra sigillate in una smorfia, "Come quello che pensò bene di sposare la moglie di Ade?" aveva soffiato Grace con timore, passandosi le mani sulle braccia pallide, "Ed ognuno di loro ne ha pagato la colpa" aveva detto Cenis, con un espressione crucciata.
Ogni occhio era finito nella sua direzione e la cosa non sembrava averla lasciato con molto entusiasmo, “Sei una Lapita, vero?” aveva chiesto Grace con un sorriso abbozzato, una certa delicatezza nella voce, il viso di Cenis sìera fatto esangue, come se fosse stata colpita con del fuoco vivo, “Lo sono stata” aveva ammesso poi. Oh fantastico, era stato il primo pensiero di Carter, “Allora Flegias non dovrebbe essere il tuo Re?” aveva risposto lui quindi prontamente, Cenis aveva inclinato il capo, guardandola con un certo fastidio, “Pritoo, suo nipote, era il mio Re” aveva risposto meccanicamente lei. “Flegias poi è venuto con dei Centauri e … loro mi hanno ucciso” aveva soffiato, con le mani sulla vita e gli occhi che emanavano parecchia rabbia.

Lauren aveva attirato nuovamente l'attenzione su di lei, con un sonoro battimano, “Ragazzi concentrati! Non abbiamo molto tempo” aveva detto con una voce squillante, “Voglio sapere in cosa ognuno di voi eccelle!” aveva aggiunto poi.

 

 

“Mi sono reso conto che non so il tuo nome” aveva soffiato il ragazzo dai capelli neri, mentre infilava un capello morbido di un arancione vivace sul capo, “Io non so il tuo” aveva risposto Carter di rimando standoli accanto. Erano acquattati sotto una delle vetrate del pian terreno, mentre cercavano di studiare dove fossero Flegias e gli altri, “Druso Reed, mi chiamano tutti Drew” aveva commentato quello, allungando una mano verso di lui, sull'avambraccio aveva un tatuaggio, quattro lettere nere, sotto una specie di figurino umano stilizzato e sei lunghe linee scure, “Carter Gale” aveva replicato lui, stringendo la mano protratta verso di lui.
Drew aveva posato le spalle contro il muro, facendo attenzione a mantenere la testa bassa e l'accesissimo cappello fuori dalla portata di Flegias ed i suoi uomini; Carter non si era ancora affacciato per vederli, sapevano che erano sei. Due bicefali, tre centauri – Cenis aveva preteso che uno di essi perisse per sua mano – e Flegias che era lì per lui … e per Marlon. Era suo dovere proteggerlo, in qualità di fratello maggiore.
E per tutti i figli di Apollo, orgogliosi di esserlo o meno.
“Andrà tutto bene” aveva sussurrato Drew, con gli occhi chiusi, poi aveva ripetuto a mezzabocca qualcosa in latino, in maniera ritmata, come se fosse stata una cantilena. “Ripassiamo il piano?” gli aveva chiesto poi, improvvisamente. Carter stava rimirando l'arco e le frecce che Manto si era occupato di dargli, portava invece la sua fedele spada legata alla cintura, “Certo, tu li impasticci con l'argilla” aveva detto Carter, ricordando quando Lauren aveva dato tale compito al ragazzo appena aveva saputo della capacità di quello, “Gracie la solidifica con le sue fiamme” aveva aggiunto poi. Drew aveva tremolato appena, nel rendersi conto di quanto importante fosse il suo compito, “Poi tu, Martello Infiammabile e MissLaVostraLinguaMiFaSchifo li finirete” aveva sussurrato il Romano.

Proprio un piano infallibile, eh, cosa mai avrebbe potuto andare storto?
Non voleva neanche condannare Lauren e sminuire la faccenda: da una figlia di Afrodite che ti aspetti?
Perchè anche sull'orlo di una crisi di nervi, era riuscita comunque a pensare qualcosa a differenza degli altri.

“Ma perché Flegias odia te e i tuoi fratelli?” aveva chiesto Drew, Carter si era reso conto che il ragazzo era decisamente una lingua lunga, non sapeva se questo fosse un bene ed un male, non sapeva neanche se in quel momento era orribilmente grato che l'altro smorzasse una tensione che poteva essere affettata come burro o seccato perché lo stava distraendo quando probabilmente sarebbero morto da un momento all'altro. “Cenis ha detto che Flegias è uno che odia tutti” aveva spiegato immediatamente, ripensando a tutto quello che aveva comitato su di lui, la lapita, “Be, questo è perché non capisco una parola di quello che dice” aveva rimarcato con un certo distacco Drew, con uno sbuffo, frustrato. Cenis conosceva l'inglese, la prova era che comprendeva benissimo i loro discorsi, ma nonostante tutte le richieste di Drew aveva continuato a parlare in greco arcaico; una donna difficile. “Comunque pare che Flegias avesse una figlia, Coronis … o qualcosa del genere” aveva ripreso, il racconto glielo aveva fatto Lauren, mentre continuava a rimirare la spada che aveva rubato in precedenza, Carter era andato da lei per dirle qualcosa, ma non c'era riuscito, ritrovandosi ad ascoltare il discorso della ragazza. “Apollo la ha ingravidata, sai la novità” aveva soffiato con un tono calmo, “Flegias ha cercato di dar fuoco al tempio di Delfi e per vendetta e mio padre lo ha trivellato di frecce” aveva terminato, poi c'era stato anche una qualche maledizione che aveva perseguito il dio fin negli inferi, ma Lauren era stata distratta da Cenis che ripeteva fossero tutti pronti e Carter dal ritorno di Grace, che era scomparsa per andare a vedere come stavano Emma e Marlon.

Drew aveva preso un rumoroso respiro, “Grande Giove, quanto odio questa cosa” aveva ammesso il ragazzo con gli occhi bassi, “No sai? I peccati dei padri che ricadono sui figli” aveva aggiunto, con una mezza smorfia; “Tipo mia madre, lei è in guerra sia con Gaia sia con Giove” aveva mormorato con voce accondiscendente. Oh be Carter poteva immaginare del perché fosse capitato con loro nel bel mezzo del niente, era un esule come lui in un certo senso, Gea odiava tutti i mezzosangue e Carter si era praticamente inimicato gli dei, in fin dei conti era capitato anche a Drew, solo che probabilmente lui non aveva scelto quella vita.
Carter stava per chiederli se fosse per quello esule …
Se effettivamente fosse esule …
Ma poi le cose erano cominciate.

 

“Sono sicuro si possano risolvere le cose” aveva gridato Manto, era sul balcone al secondo piano, Carter poteva sentire la sua voce fin troppo lontana, ma poteva immaginarla mantenersi ferrea sul balconcino, con il vestito acquamarina e l'espressione dura. “Manto la strega immagino” aveva risposto qualcuno, una voce profonda e gutturale, “Gea spera tu possa unirti a noi” aveva aggiunto quello. “Rifiuto cordialmente” aveva risposto la donna, “E vi invito con gentilezza ad andare via” aveva berciato, “Potremmo lasciar impiedi questo posto se mi dessi i due figli di Apollo che nascondi lì dentro” aveva ribattuto la voce, con un tono lusinghiero, qualcuno aveva nitrito. “Certo” la voce di Manto era stata secca e dura, per nulla sedotta da quelle parole, “Porti con te un branco di mostri” aveva aggiunto la maga con sicurezza, “Alcuni dei quali sono noti per la loro voracità” aveva risposto la donna.
Il fatto che i Centauri ed i Bicefali si sarebbero avventati sulla strutta, su tutti i tesori che nascondeva e gli ospiti era l'unica ragione per cui Flegias non lo stava già prendendo ad accettate, perché ci scommetteva Manto non era il genere di donna che faceva la carità quando c'era la sua vita in palio.
“Bei hai ragione” aveva ribattuto la voce gutturale, con una risata piuttosto sorniona, “Perchè il mio amico Phil qui aveva proprio voglia di divertirsi” aveva aggiunto, “Potrei cavalcare te, splendore” aveva urlato qualcun altro.
“Al limite del disgustoso” aveva borbottato Drew, con voce disgustata, Carter non aveva avuto il cuore di dirgli di doverlo temere anche lui un destino simile – prima della morte chiaramente – visto che era così smilzo e femmineo. Prima che potessero dire altro, un forte scoppio li aveva distratti, “Manto ha lanciato il segnale” aveva sussurrato Carter, la maga aveva lanciato unafiala di fuoco greco verso Flegias ed i suoi, visto che non si era dipanato alcun urlo di dolore non doveva averli presi. Quando lui aveva visto la strega, con quel sorriso tirato e gli occhi cupi tenere la boccetta tra le mani, ondeggiandola lentamente per mostrarla a Lauren, i cui ingranaggi correvano veloci per partorire un piano in cui tutto poteva andare storto, Carter aveva sentito la paura schiacciante ed aveva afferrato la mano di Grace, aveva ricordato l'esplosione della Principessa Andromeda. Si era salvato solo perché non era stato vicino al fulcro dell'esplosione e Grace si era buttato con lui giù dal ponte; Grace che creatura meravigliosa.
“Madre assistimi” aveva sussurrato Drew alzandosi in piedi e Carter era rimasto in silenzio, con l'arco tra le gambe, il romano aveva aperto la finestra, improvvisamente la luce dei lampioni piazzati nello spiazzale esterno, aveva illuminato la loro posizione in una maniera quasi sinistra. “Sono sicuro possiamo risolverla pacificamente” aveva schioccato la lingua Drew attirando tutti e sei paia di occhi si erano direzionati verso di lui e Carter si era stanziato al suo fianco, con l'arco incoccato. I bicefali avevano un aspetto raccapricciante, con occhi cattivi di un colore perlaceo, uno indossava un chitone greco, mentre l'altro l'armatura oplitica, tre Centauri erano nerboruti, incazzosi e con lo sguardo di fiamma, “Carter Gale, cercavo proprio te!” aveva esclamato l'uomo, indicandolo con la punta del coltello. Flegias non era molto alto, ma era ben piazzato con le spalle larghe ed i muscoli tonici, occhi neri come il carbone ed i riccioli scuri lunghi fino alle spalle, il sorriso sembrava un brutto squarcio sulle labbra, aveva ricordato a Carter i membri della cabina cinque al campo mezzosangue. Nonostante tutto urlasse di Flegias la sua origine antica, indossava un abbigliamento piuttosto moderno, un'uniforme mimetica, ignorando l'anello di oro lucido che portava attorno alla testa, spesso almeno tre dita. “Ho tutta l'intenzione di sbudellarti e far avere a tuo padre i tuoi resti” aveva rivelato con un sorriso raggiante Flegias, “Dubito gli importi qualcosa” aveva replicato Carter per smorzare la situazione, mentre osservava le dita di Drew tremolare, “Ho intenzione di sterminare tutta la sua fastidiosa progenie, prima o poi lo becco il figlio prediletto” aveva ribattuto l'uomo. “E' così soffrirà come quella puttana di sua sorella ha fatto soffrire me” ringhiò Flegias, con la furia di Ares in persona negli occhi.
“Io devo insistere ancora per la pace” aveva aggiunto allora Drew, con sicurezza, Flegias gli aveva riso in faccia, “Ragazzino se ti fai da parte, potrei scegliere di darti una morte non poi così dolorosa” aveva ringhiato quello. Drew aveva sollevato le spalle, un sorriso strano adornava il viso, un autentica faccia da schiaffi, “Sa, Flegias, io sono un pacifista, ma delle mie parti la pace ha tutto un suo modo di essere” aveva detto perentorio sollevando le braccia verso il nutrito gruppo di nemici, con i palmi aperti verso di loro. “Si vis pacem, param bellum” urlò Drew.
Carter aveva sentito letteralmente la terra tremare, da ogni spaccatura del suolo, da ogni dove era arrivata l'argilla, in polvere, melmosa, mischiata alla terra, un po' di tutto, dei colori che andavano dal bianco sporco, il rosso e la fanghiglia. In parte le stesse articolazioni di Drew si erano smostrate in quella forma, uno spettacolo aberrante, “Mio dio sei Clayface” si era lasciato sfuggire Carter, sentendosi l'attimo dopo un perfetto idiota, “Carter!” era stata l'unica risposta del romano, mentre tutta quella poltiglia, che aveva colto di sorpresa il gruppetto, s'era avvolta su di loro, bloccandogli le gambe, le braccia. “Adesso!” la voce squillante ed alta di Manto, Carter non la vedeva, non lontano da loro, gli aveva risvegliati ed allora aveva visto una scia di rosso incandescente scivolare giù dal tetto come una scheggia, Grace era fuoco ed era veloce, non sembrava diverso da null'altro che un turbine rosso di fuoco, che lasciava terra bruciata ad ogni suo passo ed aveva cominciato a correre con uno slancio inumano intorno a loro, per avvolgerli in una specie d'uragano di fuoco. “Attenta bambolina! O rischierai di prosciugarti” aveva gridato con scherno un bicefalo, ingnorando che il calore del fuoco stava solidificando la fanghiglia, però aveva ragione, era stato il lampo che aveva bloccato Carter, la vampata più potente di un empusa era l'ultima, l'estremo atto di difesa, come un ape che punge, non sapeva però se per caso una fiamma portata all'estremo poteva uccidere un empusa.
Quando un empusa moriva l'ultima fiamma era la più forte o la fiamma più forte uccideva l'empusa?
Grace non morire, che senza di te non posso farcela, era stata la preghiera di Carter.
Le fiamme s'erano fatte rade ed il corpo della creatura aveva cominciato a farsi più visibile a nudo occhio, pallida come un cencio e con il crine nulla più che composto di qualche linea di fuoco, Grace era stata costretta ad arrestare la sua corsa, vene nere pulsavano sul suo corpo e la sclera degli occhi era giallognola, infinitamente malata, le punta delle dita carbonizzate. L'argilla però sembrava solida, Drew aveva abbassato le mani, rivoli copiosi di sangue scarlatto scendevano dal naso e le gambe si erano fatte di burro – metaforicamente, perché letteralmente erano tornate compatte.
Il primo colpo l'aveva sferrato Cenis con una sicurezza incredibile, scavando con la sua lancia un buco nel petto umano del centauro, proprio all'altezza del cuore, che aveva passato il corpo da parte a parte, “Che goduria” la voce di Cenis era allegra e carica, mentre lei scendeva da una finestra del secondo piano con un balzo piuttosto netto e felino, i capelli neri raccolti in una crocchia e con un'altra lancia alla mano. “Quell'accento lo riconoscerei ovunque” aveva notato Flegias, per nulla turbato dalla situazione in cui si era ritrovato, “Tu sei della mia gente” aveva aggiunto poi, guardandola con un certo biasimo, “Aye, sono Lapita ed ho servito con dedizione il Re Pirito, tuo nipote” aveva detto con orgoglio lei, “È perché allora, fanciulla, combatti contro i tuoi compagni?” aveva chiesto Flegias con un sorriso cattivo ad adornargli il viso, Cenis aveva sorriso in maniera irrisoria, “Sei tu che ti affianchi ai tuoi nemici, i tempi che i Centauri ed i Lapiti erano compagni sono finiti, mio Re” aveva ribattuto lei combattiva.
“Davvero non è il momento di far chiacchiere” aveva strillato Joe, Carter non l'aveva vista arrivare, teneva tra le mani il suo martello, le cui estremità avevano già cominciato a fumare, “La tua deliziosa amica ha ragione” aveva commentato uno dei Centauri con un sorriso tutt'altor che preoccupato sulle labbra; poi era andato tutto a rotoli.
Flegias aveva una mano che non era rimasta prigioniera della cera, ma era anche senza armi, questo non gli aveva impedito di strappare qualcosa dalla sua cintura, qualcosa che era poi divenuto un remo di legno nero, da sembrare quasi marcito. “Questo non l'avevo previsto” aveva ammesso piatta Lauren, Carter l'aveva trovata su un balcone esangue, proprio al fianco di Manto, armata da un numero inverosimile di intrugli in pozioni, “Abbatteteli idioti!” aveva strillato la maga cominciando a lanciare le sue pozioni. “E' solo un remo di legno” aveva fatto notare Joe, mentre il suo martello aveva preso fuoco, “No, è un remo infernale” aveva cominciato a spiegare Grace, ma la voce era sottile come del vetro spezzato e si teneva su in piedi a fatica, “Flegias è un traghettatore nell'Ade” aveva urlato Lauren.
Quando Carter aveva fatto scoccare la freccia era già stato troppo tardi, perché il remo aveva toccato la cera e quella si era crepata al punto di essersi rotta da sola, come un esplosione facendo schizzare le scaglie ovunque. Drew aveva creato un muro di cera molle, che aveva assorbito i frammenti, con eccezionale tempisto, cadendo l'attimo dopo per terra sconvolto da leggere convulsioni, mentre la barriera si liquefaceva come neve al sole.
“Temo abbiate perso l'effetto sorpreso ed il ceramista” aveva riso Flegias, “Be, io nel frattempo ti ho beccato” aveva constato Carter, ammiccando alla sua freccia, che si era conficcata nel petto dell'uomo, poco più sopra del cuore, ma se si era aspettato che presto una pozza di rosso avrebbe cominciato ad insozzare la maglia mimetica questo non era successo, “Sfortunatamente per morire, Carter Gale, bisogna essere vivi” aveva scherzato lui.
Un mana? Un goul? Un daimon?
Cosa?
“Uno zombie incazzoso, Emma si mangerà le mani per esserselo perso” aveva soffiato Joe prima di scagliarsi verso uno dei bicefali, facendo roteare il suo martello infuocato, con un vigore stratosferico negli occhi, Carter l'aveva coperta scagliando qualche freccia e Cenis si era lanciata nello scontro, pireottando con la sua lancia, contro un irruento centauro. Lauren si era buttata giù dal balconcino, agitato a destra e manca la sua arma, Grace si era sollevata ed era andata verso di lui, “Proteggi Drew e non fargli arrivare da Marlon” aveva detto immediatamente Carter, mettendoli le mani sulle gote, prima di liberarsi dell'arco per ritornare a brandire la sua fedele compagna.
“Cosa è?” aveva chiesto immediatamente a Lauren, ammiccando a Flegias che era stato frenato da una bomba di Manto, “Credo che l'aver fatto il traghettatore, deve aver ridato una certa soldità alla sua anima nell'orco” aveva cominciato a sputare fuori Lauren, a raffica, come una macchinetta, cominciando a sparare elaborate teorie, sul fatto che forse era uscito dall'Ade senza aver passato le Porte della Morte o facendolo non aveva recuperato il suo corpo mortale, o semplicemente il suo corpo vivo. “Credo potremmo dire che sia un'ombra molto solida” aveva ipotizzato.
Fantastico.
Come si uccide un'ombra?

Carter aveva spinto via Lauren, che era finita per cadere per terra, per evitare che Flegias la tagliasse in due, “Non farti distrarre dalla tua bella, Carter Gale” aveva detto con un sorriso sornione sulle labbra e la spada in una mano ed il remo nell'altra e lasciando a lui il dubbio di quale fosse più saggio evitare. “Senti Flegias, io con mio padre non ho mai avuto nulla da spartire” aveva preso tempo Carter, indietreggiando appena, lanciando sguardi preoccupati verso i suoi compagni, Drew era ancora stretto nel mondo dei sogni, tra le braccia di Grace, Cenis stava danzando attorno ad un centauro che sembrava intenzionato ad ucciderla con una zampata, Manto cercava alla belle e meglio di sopravvivere ad un bicefalo che le aveva già morso una spalla, l'altro era stato appena sbalzato via da una ponderosa martellata di di Joe, rimaneva un solo centauro ed aveva puntato senza molto dubbio Lauren, che si stava tirando su, armata della spada con un espressione al limite dello sconcertato – era di certo la più brillante figlia di Afrodite con cui Carter avesse avuto a che fare.
Si era distratto e questo avrebbe dovuto segnare la sua morte, perché la punta della spada di Flegiasa aveva avuto modo di passare sulla sua guancia, gli avrebbe staccato di netto la testa se qualche buon cliente delle terme non avesse cominciato a lanciare saponette e quant'altro verso i loro avventori.
Dei, Carter aveva partecipato ad una guerra, ma nulla era mai sembrato più surreale di una lozione per la pelle che colpiva sulla testa un traghettatore figlio di Ares che non aveva neanche la grazia di sanguinare quando ferito. “Nefasti numi” aveva gracchiato quello, con gli occhi di brace rivolti alle finestre delle terme e Carter aveva preso la palla al balzo per colpirlo con la sua spada, Flegias lo aveva intercettato in tempo, bloccandolo con il remo ed indietreggiando contemporaneamente di qualche passo, “Troppo lento” lo aveva canzonato Flegias, con la cattiveria nella voce prima di un movimento repentino e furioso che lo aveva fatto ritrovare con una spada infilzata sulla spalla, “Oh” era stato lo strozzato commento, mentre si tirava via, sentendo il sangue fuoriuscire dalla ferita. Il greco si era avventato contro di lui per finirlo, ma un'improvvisa ondata di argilla liquida l'aveva sbalzato, “Va bene ci sono” aveva mormorato Drew, avvicinandosi a passi incerti, ancora sporco di sangue e con un espressione stravolta, Grace lo sorreggeva, un po' più di colore adornava le guance, “Lo distraiamo noi” aveva detto la sua amica mentre con un movimento ammiccava verso una direzione.
Al fono del suo sguardo Carter aveva pensato di trovare Lauren alle prese con il centauro, ma sembrava che nonostante i suoi mal pensieri la rossa sembrava riuscisse a cavarsela piuttosto bene, quella che sembrava necessitare di un salvatore era Manto che se ne stava riversa a terra, il vestito strappato in più punti, con rivoli di sangue e sporco lungo il corpo, le mani spellate dal fuoco, il bicefalo era sopra di lei, sul punto di ammazzarla, ma Carter repentino gli aveva piantato la spada nell'incavo del collo, facendo disintegrare il mostro. “Ho vissuto due mila anni e non avevo per niente voglia di morire così” aveva berciato Manto, mentre raccoglieva la mano che lui le aveva teso, “Come strega sei piuttosto scadente” aveva fatto notare Carter, “Perchè non lo sono” aveva risposto cinica lei, mentre cercava di spazzolare via della polvere dal suo corpo. Lui aveva arpionato con una mano la spalla della ragazza, mentre l'altra l'aveva posata sulla sua ferita, recitando una cantilena in greco, la ferita non era così profonda, così come quelle della maga, al punto che rimarginarle non lo aveva depredato di molte energie.

Grace era finita a terra non lontano da loro, con un grosso squarcio sulla pancia ed i capelli ridotti ad un leggero fuocherello, “Come lo ammazziamo uno che è già morto?” aveva ringhiato verso di Manto, che si era tirato su con una certa fatica, Carter aveva fatto rapidamente scorrere gli occhi su Flegias ammantato nell'argilla, che era vittima di una furia cieca e menava fendenti a destra e manca con la spada ed il remo e Drew non sembrava capace di resistere ancora. L'uomo era bruciato parzialmente, ma non sembrava sentire neanche un po' quello che stava avvenendo, “Prima di tutto sbarazziamoci del remo!” aveva strillato Manto, dandoli un colpetto sulla spalla, come ad invitarlo. Carter aveva stretto l'elsa della sua spada con vigore e s'era lanciato senza lucidità contro Flegias, che di fronteggiare lui e Drew insieme non era pronto e s'era ritrovato l'arto mozzato, neanche una goccia di sangue era caduta, ma il remo si era ritrovato sbalzato fuori e Manto l'aveva raccolta prontamente lanciandosi poi all'aiuto di Lauren che era appena stata colpita in piena faccia da una zoccolata del centauro, “Ora ti sistemo io ronzino” aveva gridato in greco, colpendo l'inviperito capo del mostro con una remata, che aveva liquefatto la carne fino alle ossa, prima di far scomparire il centauro in polvere, sangue e disperazione, ma il legno le si era poi sfatto tra le mani, come se fosse stata ombra inconsistente. “Non è qualcosa che appartiene a questo modo, maga Manto” aveva gongolato Flegias, assestando un colpo con l'elsa sulla faccia di Drew, così stanco che era caduto per terra senza emettere un lamento. Lauren era fuggita pavida come una colomba per sostenere una sanguinante Grace, “Non puoi rimetterti in piedi con qualche magia?” aveva chiesto con voce sottile, al ché la creatura aveva annuito.

Carter aveva visto Drew cadere come un birillo, ma almeno non era morto, “Credo che avreste dovuto usare quel colpo per me” aveva scherzato quello pronto all'incontro, nonostante l'arto mancante, ammiccando ovviamente al remo che si era liquefatto nelle mani di Manto – come indovina, doveva ammettere Carter faceva piuttosto schifo. “E se ti faccio così tanto a pezzi da non aver bisogno di ucciderti?” aveva ribattuto lui retorico, senza mostrarsi pavido, nonostante tremassero le gambe, “Stesso senso dell'umorismo del buon Apollo, eh?” aveva chiesto con un sorriso sornione l'uomo prima di avventarsi su di lui, nonostante il vantaggio delle due mani Carter aveva avuto parecchi tentennamenti. Era decisamente fuori allenamento, aveva passato l'ultimo anno cercando di fuggire dai nemici anziché affrontarli, da aver dimenticato la fluidità di uno scontro.
Dannato Lee che diceva sempre che il combattere era come andare in bicicletta!
No! Non doveva pensare a suo fratello o non sarebbe riuscito a sopravvivere, ricordava il viso di Lee scosso dai tremori, l'incarnato olivastro impallidire e la macchia brunastra che si diffondeva sulla stoffa arancio della maglia ed il sangue sgorgava dalla ferita, rivoli rossi scivolavano lungo l'armatura dalla fenditura dove una spada ne aveva scavata una.
Il rumore delle lame che cozzavano fendevano l'aria, assieme ad un marasma di altri rumore, strepiti ed urla, non lontano l'ultimo centauro era crollato, sotto i colpi precisi e feraci di Cenis, ma lui non aveva potuto voltare neanche lo sguardo per osservarla, troppo preso dal suo scontro con Flegias. L'uomo era più bravo di lui, preciso e motivato, avevano insegnato a Carter che un avversario incaponito ed accecato dalla furia non era un vero rivale, ma il Re Lapita sembrava incredibilmente bravo nel dosare la sua follia con la sua precisione nel combattimento. Certo Flegias doveva essere stato allenato da un maestro d'armi, in un castello, in maniera principesca o qualche altra boiata del genere.
Grace lo aveva avvolto con del fumo viola per compromettere la sua vista, Cenis si era lanciata al fianco di Joe per aiutarla in battaglia e Manto era corsa a tirare via Drew da una posizione precaria, svenuto fin troppo vicino al luogo dello scontro. Lauren si era palesata al suo fianco, con i capelli aggrovigliati e l'armatura ammaccata, lividi e schizzi di sangue ne deturpavano la bellezza, una guancia era completamente aperta, la carne sfilacciata grondava sangue ed un occhio era pesto di un nero profondo e gonfio. “So come ucciderlo” aveva esclamato con una certa euforia, “Stai per farmi evocare un altro corvo?” aveva smorzato la tensione Carter, mentre osservava Grace colpire in faccia Flegias prima con lo zoccolo d'asino e poi con un pugno incendiato; “No ma dovremmo farlo alla maniera dei greci” aveva squillato Lauren esibendo la sua spatha, con un sorriso un po' perverso, l'arma sembrava rifulgere di qualcosa, che Carter non sapeva nominare, “Come?” aveva domandato lui perplesso, “Meschini e dolosi” aveva berciato lei.
E Carter l'aveva baciata, quasi senza motivo, “Non ho idea di cosa tu stia parlando” aveva aggiunto. Lauren era rimasta sbigottita un attimo, schiudendo le labbra, colta dal bacio sorpresa – sapeva di aver avuto un tempismo piuttosto pessimo - “Questa lama” aveva sussurrato lei poi, mostrandola, “Secondo quello che ha detto Manto potrebbe ucciderlo” aveva aggiunto, “Si nutre del dolore e della potenza del sangue in cui viene bagnata” aveva spiegato poi con sicurezza, Carter aveva osservato la lama d'oro imperiale, sembrava di intravedere venature sottili e vermiglie lungo il ferro. “Immagino sia stata bagna di molto sangue” aveva soffiato lui, facendo annuire la ragazza, “Credo anche imprigioni l'anima, lasciandolo in un oblioso tormento o che condanni l'anima in un tormento ferace” aveva aggiunto Lauren, prima di dire che nel mezzo della battaglia era stata appena un po' distratta. “Quindi che facciamo?” aveva domandato Carter con sicurezza e lei lo aveva guardato intensamente, “Tu distrai” aveva cominciato lei, “Ed io ho lo pugnalo alle spalle” aveva soffiato Lauren, “Be, speriamo questa volta tu abbia ragione Laurie” aveva risposto lui, guardandola attentamente, lei si era sollevata sulle punte e l'aveva baciato frettolosamente sulle labbra, “Che gli dei ci assistano, Carter!” aveva aggiunto poi, allontanandosi.

Grace si era buttata su di lui, per spostarlo da una spada che aveva cercato di aprirla come un'ostrica, “Quel fottutissimo Re Lapita sta risvegliando tutto il mio odio per i mortali ed i mezzosangue” aveva rantolato molto cattiva la creatura, mentre si rotolava sulla schiena, con una smorfia sulle labbra, “Ci penso io” aveva mormorato lui, alzandosi per affrontare Flegias, Lauren era scomparsa, così come Manto e Carter era abbastanza sicura che la maga le avesse avvolte nella foschia. “Credo sia arrivato il momento di chiuderla qui Flegias” aveva ruggito lui, con un certo tremore sulle labbra, “Hai ragione” aveva ringhiato l'altro con un tono collerico, probabilmente s'era pregustato che lui e Marlon sarebbero dovuti stare una preda facile ed invece buona parte dei suoi compagni s'erano ritrovati all'altro mondo, “Ho una lunga tabella di marcia!” aveva aggiunto Flegias, lanciandosi su di lui.
Carter s'era ritirato, ma non era riuscito a fermare la lama, aveva visto rosso bruno ed un dolore indecente, la metà del suo orecchio superiore era saltato, accompagnato dal sangue, ma quello non l'aveva fermato comunque, avendo reagito con un colpo netto che aveva aperto una ferita piuttosto profonda tra la carne del fianco di Flegias, lì dove Grace lo aveva bruciato. La lama aveva sfrigolato sulla pelle, ma la carne aperta non aveva perso neanche una goccia di sangue, “Non lo hai capito ragazzo, alla fine della fiera io sbudellerò te e vendicherò la mia meravigliosa bambina” aveva ruggito l'uomo lanciandosi di nuovo su di lui, questa volta Carter aveva fermato il corpo con la sua spada, “Dai, Flegias, è stata solo sedotta e abbandonata, non è così grave … è capitato anche a mia madre” aveva fatto notare lui, facendo un passo indietro prima di riprovare l'attacco, che era stato intercettato da Flegias, che non sembrava avere un minimo di difficoltà, “Tu non hai idea!” aveva ringhiato con furia cieca l'odio, “Neanche mi importa che mi abbia ucciso” aveva aggiunto poi, “Morire è qualcosa con cui tutti devono prima o poi fare i conti” la sua voce era sottile, incrinata dal dolore?
“La mia bella Coronide meritava qualcosa di meglio dell'essere illusa ed abbandonata, sola, con un figlio in grembo e disonorata in un mondo dove l'onore era l'unica merce di scambio per una donna” aveva rivelato lui, con gli occhi neri inumiditi, “Ed Ischys era disposto ad amarla lo stesso” aveva aggiunto Flegias, “Un brav'uomo disposto ad amare una donna abbandonata, nulla poteva rincuorarmi più di quello” aveva sussurrato, c'era dolcezza nel suo tono ed estrema malinconia, “Ma no Apollo non poteva sopportare che una donna che lui aveva spezzato in ogni modo possibile, potesse osare essere felice” aveva sferrato un altro colpo ed aveva preso Carter sulla spalla, aprendoli un taglio. “Ha spinto quella sua orrida sorella ad uccidere la mia bambina” aveva aggiunto con furia cieca Flegias, “Ed io farò in modo che Apollo subisca il mio dolore, ucciderò tutta la sua stirpe, violerò le sue figlie e massacrerò i suoi figli e tu, Carter Gale, sarai il prossimo” lo aveva condannato l'uomo – l'attimo prima che sangue nero scorresse dalle sue labbra.
Una punta dorata aveva scavato la sua carne, all'altezza del cuore, sbucando dal petto, meschinamente Lauren lo aveva colpito alle spalle, nel cuore. Flegias aveva urlato come una bestia al macello, occhi pazzi, folli e distanti, riviveva forse nel mondo tutto il suo dolore, la figlia di Afrodite aveva fatto scivolare la lama via dal suo petto, il nero del sangue era stato assorbito dalla lama, che era scintillato per un momento di una luce intensa, “Il tuo dolore, Flegias, figlio di Ares e Re dei Lapiti, sarà perpetrato in eterno” aveva detto Laurie con una voce morbida. L'uomo era caduto sulle ginocchia ed il suo corpo aveva cominciato a farsi un'ombra evanescente, Carter era scivolato con lui in per terra, “Quello che ha fatto mio padre è stato disgustoso” aveva sussurrato cercando di posare una mano sulla sua guancia.
Lo sguardo di Flegias era quello di molti dei mezzosangue che lo avevano affiancato durante la seconda titanomachia, “È prima o poi pagherà” aveva sussurrato, perché Lauren non lo sentisse, senza vergogna però, il Re Lapita lo aveva guardato confuso, ma aveva per un secondo sorriso, prima di disfarsi nell'ombra che era.
“O mio dio c'è l'abbiamo fatta!” aveva esclamato Joe, con un tono alto, Carter si era voltata vero di lei, la bionda aveva fatto cadere il martello, spento, dalla sua mano, che era finito per terra. La figlia di Efesto era coperta di sangue e terra, lungo l'armatura medievale uno squarcio d'apriva in obliquo, sotto cui pulsava una ferita rossa sporca, un taglio profondo era anche su una gamba ed anche la testa sanguinava, Cenis era al suo fianco, sanguinante, ma meno provata.
Jordan era crollata a terra, senza nessun preavviso, “Joe!” aveva strillato Lauren correndo verso di lei ed anche Carter lo aveva fatto ignorando il dolore delle ferite sul corpo, per raccogliere la ragazza stesa a terra che Cenis aveva cercato di tirare su. Il figlio di Apollo aveva preso tra le braccia la ragazza per sostenerla, “Joe apri li occhi” aveva sussurrato a lui, se la ricordava da bambina assieme alla sua sorellina Nyssa, che venivano sempre ad impicciarsi di cosa faceva Will. “Em ...em … ma” aveva sussurrato lei, aprendo appena le palpebre, “Em ...” aveva mormorato.
Le ferite erano profonde, aveva perso molto sangue ed aveva diverse lesioni interne, Carter le teneva il polso, dove un battito debole si faceva sempre più assopito e si era messo a cantare come aveva fatto il giorno prima per Emma, la ragazza di Joe, perché potesse salvarla.
Nonostante le sue canzone, il battito della ragazza si era fatto sempre più debole.
Poi era cessato.

Em … ma ...

 

 

 

 

> La sfigatissima storia di Flegias
> La povera Coronide
> I Lapiti, già che c'ero

 

 

Qui trovate i link, che portano su Wikipedia, ho volutamente omesso Cenis, nella speranza non la cerchiate su internet, perché – spoiler – è un personaggio che apparirà in seguito. E la stessa cosa riguardo la lama che Lauren maneggia.
E riguardo a chi sia la madre di Drew, anche taccio.

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Capitolo 13
*** Oh Zia Fama raccontaci una storia!(Bonus) ***


Ehm … Ehm … Non aggiorno da mesi e quando lo faccio non è neanche un capitolo, cioè non fraintedete il capitolo è prontissimo, deve solo essere betato, perché è lungo, prolisso e forse pure orribile.
Solo che non aggiornavo da così tanto tempo che piazzarvi il capitolo mi sembrava brutto ed ho pensato, faccio un riassuntone per vedere fin dove siamo arrivati … con tutti, non solo il narratore del capitolo (che sarà comunque presente nel capitolo prossimo).
Ma un riassuntone sterile non mi piaceva, quindi si: ho montato un capitolo con un narratore d'eccezione, tranquilli lei ricopre il ruolo di “lettrice” non avrà ruolo nella storia e a raccontare la storia fin ora letta è qualcuno che abbiamo già conosciuto.
Il capitolo è un riassunto su grandi linee, troverete molte più informazioni nei riassuntini specifici prima del capitolo, però diciamo che è: “A grandi linee quello che è successo ...”

Buona Lettura, RLandH

 








 

Il Crepuscolo degli Idoli



Oh Zia Fama raccontaci una storia!

(Bonus)


Apate era riuscita a rintanarsi nella sua dimora solo dopo molte ore di ricerca e quasi s'era pentita, mentre si sistemava nel calduccio del suo letto di non aver preso possesso della residenza, nel Tarato, della Dea Fama.
Il suo spettrale palazzo di pietra pomice, con i decori di allume e le mille porte dai colori variegati, alcune brillanti come gemme ed altre oscure e torbide, che potevano condurre in ogni luogo ed ogni dove – una delle vie d'uscite alternative al regno dei morti, rispetto Le Porte.
Se il palazzo fosse stato trovabile, ovviamente, ma Fama era un'avida puttana che sapeva dove nascondere cosa.
La verità era che la sua dimensione in quel momento si era fatta estremamente noiosa, quasi tutti i mostri erano impegnati nel cercare di valicare più in fretta possibile il confine dell'altro mondo, finché fosse stato così facile.;Giganti e Titani si appropinquavano ed eseguire come bravi soldati gli ordini della Grande Madre; i suoi fratelli, gli dei minori, sembravano invece essere bloccati a dibattere su quali cavalli scommettere, quali maledire.
Perfino sua madre, la dea Nyx, si era data alla macchia, ma la Miseria l'aveva rassicurata che tutti sarebbero tornati nel momento che gli sgraditi ospiti si fossero affacciati in quelle terre, anche lei era genuinamente curiosa di sapere quando e quali mezzosangue si sarebbero affacciati per chiudere le porte della morte.
Fino a quel momento l'unico mezzosangue che era riuscito a vagabondare in quelle terre e non riuscirne dilaniato nel corpo – e nell'anima – era il figlio di Ade; povero, ingenuo Nico Di Angelo, che già pensava di aver subito tutto per poter rimanere ferito da altro.
L'arroganza era un difetto di buona parte dei semidei, la loro assolutezza.
Comunque alla fine gli unici esseri divini che sembravano essere rimasti ad abitare il Tarataro, era il Dio stesso che ne era corpo, lei, il suo spettrale padre Erebo che presidiava al cancello – che separava quella parte degli inferi – ed alla fine del resto di loro, in particolare i suoi fratelli, erano rimasti in pochi e quasi tutti sgradevoli.
“Apate!” si era sentita chiamare, da una voce piuttosto sdrucciolevole, aveva sollevato gli occhi, la dea dalla coda di squame, per vedere una figura avanzare nella sua casa, gnuda come la terra e coperta di soli capelli biondi, una donna dalla curve giunoniche, una di quelle dall'espressione carina e leziosa, una perfetta ninfetta se la sua pelle fosse stata verdognola. “Sorella” aveva gracchiato Apate, sollevandosi, molto più imponente dell'altra dea, mero riflessione dell'umano, lei invece era possente, donna fino alla vita e poi squamosa come un serpente, il pungiglione velenoso d'uno scorpione al termine, la cui puntura poteva corrodere ogni spirito.
“Cosa vuole l'Amicizia dall'Inganno, sorella?” aveva chiesto retorica e infastidita lei, guardandola dall'alto della sua forma. “Come sempre porto doni” aveva replicato la dea Philotes, incredibilmente carezzevole, mostrando a lei un scatola di un nero profondo da sembrare di carbone, stretto in corde che Apate aveva riconosciuto come quelle della vita.
“Nostro fratello Hypnos ha trovato qualcosa” aveva soffiato lei, “Ma è il solito pigrone pesa culo” aveva replicato con fastidio lei, mentre recuperava la scatola dalle mani di quest'ultima, “Non vuole responsabilità” aveva proseguito Apate. Philotes aveva sorriso, “Ho pensato che tu non avresti avuto problemi ad occupartene” aveva risposto la dea dei buoni legami.
Non vi era posto più sicuro che proteggere qualcosa da chi avrebbe potuto ingannare chiunque.

Si era presa la briga di rompere le corde della vita solo dopo che la sua dolce sorella aveva abbandonato il suo antro per scoprire cosa Hypnos aveva avuto così tanto interesse da prendere, perché anche solo immaginare il più pigro dei suoi fratelli fare attivamente qualcosa, doveva essere giustamente cosa degna del suo tempo.
Quando aveva sollevato il coperto della scatola aveva potuto vedere ciò che vi era. Aveva infilato le mani all'interno assicurandosi che con le sue unghia dure e le mani da retile non ne facesse alcun danno prima di sollevarlo alla sua altezza.
Una testa: pelle grigia e raggrinzita, ricci capelli che sembravano variare il colore da uno smorto castano ad un rosso fuoco a seconda dell'angolazione, non aveva labbra ma solo un taglio sul viso e le palpebre calate, ciglia lunghe, ma sopracciglia sottili di un rossastro vacuo.
“Fama, svegliati” aveva sussurrato, nelle orecchie piccole e striminzite, erano coperte di rughe e verruche, così come quando aveva aperto gli occhi Apate aveva potuto spiarli coperti dalle cataratte, la sclera ingiallita e l'iride così scura da confondersi con la pupilla.
Che brutto era il vero viso della Fama.
“Apate” la sua voce era piccola e fastidiosa, “La figlia di Eris” aveva cominciato quella, la sua lingua era raggrinzita e di un rosa pallido, sembrava anche intorpidita.
“Oh! Credo di essere rimasta fuori dai giochi per un po'” aveva replicato Apate, Fama sembrava essersi accorta di quello che stava succedendo, “Fraus” l'aveva chiamata, la sua Controparte Romana e senza che potesse fare nulla per controllarlo il suo corpo si era mutato per essere più adatto alla figura disciplinata ed ordinata dei romani, non che la sua natura o la sua mente potessero subire mutamenti, la Dea dell'inganno come il suo elemento poteva avere diverse forme, ma la medesima mente.
“Perchè dolce figlia di Gea, non racconti a me, cosa è accaduto fino ad ora?” aveva chiesto allora Fraus, con un sorriso lascivo. “Sono stata smembrata, non riesco più a portare le notizie” si era difesa immediatamente la testa, ma questo non aveva fatto demordere minimamente la dea dell'inganno, “Ma puoi ancora vedere” aveva detto.

La dea, di cui era rimasta solo la testa, aveva schiuso il taglio che aveva come bocca, prima di accettare quella realtà. “Eris, ha incaricato sua figlia, July Goldenapple, ti cercare il ragazzo con il sonno più profondo; le ha donato un'arma potente ed anche un oggetto che ella deve imparare ad usare” aveva cominciato, mentre Fraus prendeva atto di quelle nozioni, “Ella si è unita ad Alabaster, un figlio di Ecate ed il suo strambo lare. Loro mi hanno smembrato” aveva spiegato inoltre, l'altra dea l'aveva continuata a far parlare a ruota libera.
“... Un dio, che non ho identificato – si non fare quell'espressione leziosetta, non sono onnisciente – gli ha indirizzati verso il Georgia Acquarium, dove risiedono Forco e Ceto, lì hanno rapito una dea fluviale: Giuturna, hanno ucciso il rinato Atteone e hanno avuto un incontro con il dio Taumante.
Erano lì, nello stesso momento di Percy Jackson, Frank Zhang ed il loro fastidioso Satiro. Anche se loro non ne sono a conoscenza: un altro dio si è avvicinato”
“Non lo stesso che gli ha indirizzati lì?”
“No”
“Quindi hanno rapito una dea Fluviale per cercare il ragazzo con il sonno più profondo. Oh! Stanno dunque cercando …”
“ … Si”
“Una storia non poi molto così interessante”
“Nyx ha incaricato sua figlia, Berneyx LaFayette, di trovare un'arma”
“Ti sto ancora ascoltando”
“Le ha donato un taumascopio in grado di vedere oltre, oltre cosa, però? Ne i miei occhi ne le mie orecchie hanno compreso”
“Niente altro?”
“Ella è aiutata dal Lestrigone Arvey, che ha tradito i suoi compagni per lei, due volte. Un dio, vestito di bianco, gli ha aiutati”
“Eros? Ah no, non Eros”
“Hanno contattato il figlio di Ecate, Alabaster, ma per raggiungerlo sono finiti nelle mani del mostro Parthenopea, dei cartaginesi gli hanno salvati e portati di forza a nuova Cartagine. Lì c'è stato un torneo perché fosse designato per loro un terzo.
Ma mentre era lì, Bernie ha donato una stella alla divina Thalassa, che le ha permesso di bere dalle fonti infernali, così ha potuto contattare sua sorella Bellatrix, ma la ha trovata prigioniera”
“E di chi?”
“Di Ifigenia”
“Questo si prospetta interessante”
“Qualcuno sta cercando una figlia di Nyx, non so quale delle due però” aveva ripreso Fama.
“Dovrei interessarmi di chi cerca le miei sorelline” aveva scherzato Fraus.
“Una procella, l'Arpia Ennoia, al servizio di Artemide, al suo seguito si sono uniti un fanciullo che odora di marcio, era parte dell'esercito di Crono. Inoltre si sono aggregati a loro un Satiro ed una mezzosangue che serve gli dei, Qbert e Heather Shine. Lei ha un' arma potente con se, gliela ha data un suo divino fratello, per proteggerla.
Una profezia grava su di lei, la morte le respira sul collo, è una figlia di Apollo e vi è una purga contro di lei, tante forze si sono messe in movimento contro di loro, una di esse la tallona”
“Indovino, capelli rossi ed una certa propensione per il melodramma?”
“ … Si. Suo fratello Carter la vuole raggiungere, ora sa che loro sono perseguitati, ha dovuto affrontare Tizio ed il Re dei Lapiti: Flegias. Anche lui ha trovato un certo numero interessante di compagni: un mostro dal cuore tenero, un fratellino che possiede il dono di vedere nonostante Phyton si stringa con forza sul dono profetico, tre giovani mezzosangue del campo, tre giovani fanciulle, una brillante figlia di Afrodite, un'amabile figlia di Ares ed una carina figlia di Efesto”
“Che strane caratteristiche”
“Hanno raggiunto la fontana di Salamacia, lì si sono scontrati con Flegias, aiutati dalla Maga Manto, dalla guerriera Cenis e da un mezzosangue romano, Drew. Curioso no, che quando i greci sono sul piede di guerra con i romani, siano riusciti loro ad allearsi?”
“Il caso fa l'uomo ladro, non è l'esempio adatto, ma direi che rende bene: nel momento del bisogno si fa il necessario”
“O il nemico del mio nemico è mio amico”
“Altro?”
“Egli si è immerso nelle acque del lago di Manto ed ha ritrovato la vista per qualche attimo, ha visto sua sorella Heather morire”
“Quella di cui abbiamo parlato, quella con l'arma potente?”
Quella che aveva la morte che le alitava addosso.
“Oh si, le frecce della pestilenza, ma lei ne cerca una molto più forte, per il campo”
“Penso di poter indovinare quale”
“Si, questa ricerca potrebbe ucciderla”
“Ma Carter ora sta andando a cercarla?”
“Lo farà, secondo i miei occhi, appena la pira per il morto si sarà spento. Egli però è dissidiato, vorrebbe mettere Marlon, suo fratello al sicuro, vorrebbe dare giustizia alla sua amica Joelle”
“E chi è?”
“Tante cose dicono le mie orecchie, ma nessuna che possa dir vera”
“Dunque andrà”
“Si. Così egli cercherà Heather, questa cercherà una delle figlie di Nyx, Bernie cerca l'altra, ma anche Alabaster e quest'ultimo è alla ricerca dell'uomo dal Sonno più profondo”
“Questa storia mi interessa decisamente tanto, quasi più intrigante dei sette della profezia, del figlio di Ade e di tutta l'ambaradan lì. A proposito mi pare che tu avessi parlato di Artemide, prima”
“Oh si! Le cacciatrici si sono momentaneamente divise, Thalia Grace andava a contrattare con le amazzoni, ma alcune di loro hanno dovuto svolgere altre missioni, un paio hanno affrontato Aiace rinato, uccidendolo, e con l'aiuto di un tale dio ...”
“Quale?”
“Non mi è dato saperlo”
“Sei molo disinformata”
“Io non riporto il vero, solo il noto”
“Vai avanti”
“Cercano la luna”
“... Ma non mi dire, questo, questo sembra davvero … davvero … Una coincidenza, se ci credessi chiaramente, ho sempre pensato che il nostro mondo fosse tristemente deterministico”
“Non me ne sono mai curata”
“Giustamente, perché una chiacchierona dovrebbe … ma dimmi, Fama, saprai almeno tu – che tanto conosci – dove è la Luna?”
“Lingue sibilano luoghi, occhi vedono spiragli e orecchie captano sussurri, ma sono in pochi a sapere come raggiungerla”
“Avranno bisogno di un ippogrifo”
“Forse”
“E sapresti per caso dirmi dove è il mio cinto? L'ho perduto tempo fa, quello che rendeva agli occhi dell'ascoltatore ogni menzogna vera”
“Mia madre l'ha preso e riassegnato”
“E se Gea possiede qualcosa non la darà via facilmente” aveva ammesso Apate.
“E dimmi, Fama, i sette …”
“Hanno abbandonato l'America, un mostro marino si avvicina, nel tentativo di trascinare negli abbissi la loro ridicola nave.
La scintilla della guerra è scoppiata, grandi angustie gravano sulle spalle della Pretore e il figlio della Morte è prigioniero sotto Roma, in un'urna. Dovrebbero sbrigarsi.
Ma tua sorella, Nemesis, lei ha progetti...”
“Gli ha sempre, va avanti, sono interessata ...”

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Capitolo 14
*** Lui, lei, l'altro … e mancava giusto la peste(Arvey III) ***


Unidici pagine di Word … si ho esagerato; però mi sembrava il caso di fare un Grande Ritorno e purtroppo devo fare la premessa che non ho idea di quanto aggiornerò, però il seguente capitolo per metà è già scritto  e c'è Poison Ivy quindi non so che dirvi, spero di non farvi aspettare così tanto.
Volevo ringraziare tutte le persone che seguono, leggono ed ovviamente summer_time che recensisce sempre e davvero: grazie di cuore (e per quel che vale non ho intenzione di abbandonare questa storia).

Spero che apprezziate questo capitolo,
(E oggi niente disegno)
Buona Lettura
RlandH

 

The Road So Far (quel che vi siete persi fin'ora): Arvey Spaccameningi è un lestrigone, mentre era in compagnia dei suoi “compagni di merende” riconosce l'odore di Bernie LaFayette mezzosangue che aveva avuto modo di conoscere durante la guerra di Crono, avendo questi combattuto dallo stesso lato. Arvey combatte contro i suoi amici – due lestrigoni - , due ciclopi ed un'arpia per riuscire a portare in salvo la mezzosangue. Mentre Bernie viene incaricata da sua madre di cercare un'arma, Arvey sceglie di aiutarla. I due prima finiscono alle Cascate nel Niagara, dove Bernie riesce a comunicare con il mezzosangue Alabaster, mentre Arvey è costretto nuovamente ad affrontare i suoi due amici lestrigoni (uccidendo uno di questi due) sebbene stremato per lo scontro, egli viene aiutato da uno strano uomo – presumibilmente un dio – Vestito di Bianco. Nel tentativo di raggiungere Keesville, i due finiscono a Leesville, dritti nella trappola del mostro Parthenope che sembrava intenzionata a consumare Bernie.
I due sono salvati da tre giovani mezzosangue, sebbene uno di questi tenti di uccidere Arvey scambiandolo per un cattivo.
I tre sono Cartaginesi che gli portano in un luogo nascosto noto come Nuova Cartagine, lì mentre Arvey apprende della sconfitta di Fama, che ha messo fine alle comunicazione, Bernie ha un incontro con la dea Thalassa che le permette di “comunicare” con la sua gemella Bells.
Sebbene i due siano intenzionati ad andare via – non prima di aver recuperato le loro armi – sono costretti a fermarsi poiché i Cartaginesi, secondo Hannah (una ragazza molto stretta a Bernie) vogliono donar loro un terzo membro per la loro ricerca.

(Colonna sonora)

                                                                    
 

Il Crepuscolo degli Idoli

 



Lui, lei, l'altro … e mancava giusto la peste.

 

 

Arvey III

 

Il mondo odorava di morte e putrefazione, lungo quella striscia di terra infossava sempre farsi nefasto insopportabile quel tanfo anche per il suo naso, il naso di un mostro. “Una volta almeno ci provavano a combattere” aveva commentato Joseph – quello che negli anni sarebbe diventato negli anni a venire Zotico Joe – il suo padre adottivo, “Secondo te?” aveva chiesto retorico verso di lui.
Arvey aveva alzato le spalle, mentre leccava via le ultime tracce di sangue che erano sulle sue labbra, osservando i resti del corpo che avevano divorato.
I mortali, i mezzosangue – dei! neanche lo sapevano – avevano trascinato il vecchio continente in una guerra che non sembrava trovare soluzione, priva di artifici, combattuta sempre, da chiunque. Ma non era una la loro guerra, “Che si ammazzino puro! Noi ci divertiremo!” esclamava sempre Joseph. Lui ed Arvey uccidevano indipendentemente dal colore delle divise, sui campi di battaglia, ed ogni tanto in quelle lunghe fosse comuni dove gli uomini si nascondevano per pazientare.
Le trincee.
Ad Arvey sembrava quasi gli uomini si fossero scavati da soli le tombe, dove essere sepolti.
“Adesso sono tutti così stanchi, neanche ci provano, vogliono solo dormire” gracchiava inferocito Joseph, colpendo l'elmetto di un soldato. Anche Arvey l'aveva notato che la grinta si era smorzata ed era venuta a mancare in quegli uomini, neanche più l'ardore di tornare a casa gli teneva aggrappati a quel mondo. Lui doveva ammettere che non era dispiaciuto quando un nemico non opponeva resistenza, si gli piaceva combattere – era un lestrigone, per Diana – ma certamente l'idea di non faticare lo lusingava troppo.
Più il mondo sprofondava in amarezza, più lui si concedeva all'ingordigia.
“Ma che avranno poi tanto da dormire!” aveva gracchiato Joseph, “ È perché sono stanchi” era stata la tetra risposta di di Arvey, che cercava tra i resti degli uomini qualcosa da potersi prendere, aveva trovato la foto di una donna, con gli angoli spiegazzati e l'aveva lasciata cadere a terra annoiato, secoli di vita ed un sentimento come l'attaccamento amoroso gli era proprio estraneo.
“È perchè sognano” una voce lo aveva richiamato, Arvey aveva sollevato gli occhi ed aveva visto sul ciglio della fossa, incurante degli spari e delle urla, una donna illuminata dalla sola luce di un bengala, carnagione olivastra e capelli neri, uniforme britannica e certamente nessuna origine nella terra al di là della manica.
“Qualcosa che a noi, mostri, è precluso” aveva sussurrato quella, con una voce afflitta ed una triste consapevolezza.

Perchè i sogni erano il messaggio degli dei per gli uomini – semidivini o meno – e non avevano nulla da dire a loro.
Quella era stata la prima volta che Arvey aveva conosciuto Grace l'Empusa, il Mostro dal Cuore d'oro – come era chiamata – sempre in cerca di un qualcosa che a nessun altro pareva interessare.
Arvey dopo quasi un secolo ci aveva pensato perché … perché era tornato lì, in quel lungo verme scavato nella terra.

 

“Cosa?” aveva domandato, confuso.
La notte prima s'era addormentato in una zona di camping, quando il suo turno di guardia era finito, con le mani di Bernie sulle spalle dirgli che ci avrebbe pensato lei, Arvey aveva preferito lanciare un ultima occhiataccia al loro nuovo compagno d'avventura, che steso placido guardava le stelle senza dar segno di volersi fidare di loro.
“Posso resistere” aveva risposto Arvey.
Ed in quel momento, dove era?
“Bernie! Bernie!Bernie!” aveva strillato con voce fragorosa, pensando alla figlia della Notte. O, dei, fate che non gli sia accaduto nulla! Pregava.

Nessuno rispondeva, la fossa pullulava di morti, di uomini pallidi, esangui, con vene nere, morti o morenti, nessun simbolo sulle loro uniformi, solo morte, una foto nel sangue e nel fango, Arvey aveva ricordato il momento in cui aveva visto quel del soldato morto, quasi un secolo prima.
Il viso della donna questa volta non era di una giovane dal colorito pallido di una sconosciuta, la foto mostrava il viso bruno di Bernie, con un crine corvino scuro, così bella.

Ora Arvey lo capiva quello.

Aveva passato un dito sulla foto per pulirla dalla terra, dal fango e dal sangue. “Posso davvero star sognando?” aveva chiesto retorico, con la schiena posata sulla terra, nonostante l'ambiente dove pullulava la morte, non un solo nefasto odore si sollevava in quello stretto corridoio di terra, non il rumore dei proiettili, le luci rossastre dei bengale e la confusione palpabile dell'organismo guerra che mangiava, calpestava e vomitava tutti.
Era come un fermo immagine, un quadro iconico che rappresentava quel momento della vita di Arvey, quando aveva trovato la foto di una donna nel taschino di un uomo morto ed aveva incontrato Grace l'Empusa. Che fine aveva fatto lei, poi?

 

“Si, è un sogno” aveva commentato una voce al suo fianco, Arvey s'era voltato allarmato, improvvisamente i suoi ricordi si erano sciolti come in un dipinto e si era ritrovato da … qualche altra parte. Un giardino dall'erba verde e lucida, seduto su un portico ad osservare ciò che si apriva davanti loro. Al suo fianco un giovane dai capelli ricci scuri come il caffe, un espressione mogia, labbra carnose e l'abito elegante di un bianco quasi accecante. “Tu sei quello che mi ha aiutato alle cascate” aveva detto Arvey indicandolo.
Un dio che scendeva ad aiutare un mostro, aveva fatto ad Arvey ridere pensandoci dopo, ma adesso quel dio si premurava di dargli un sogno.
Dei infami, la sua vita doveva proprio essere una barzelletta.

“Si, sono io” aveva risposto quello, la sua voce era pacata e gentile, “Sei venuto a riscuotere il favore?” aveva chiesto il lestrigone, aveva un discreto numero di anni da sapere che nessuno faceva nulla per nulla, figurarsi un dio. Quello l'aveva guardato, Arvey non poteva dire fosse giovane o vecchio, il suo viso era sereno, non una ruga lo deturpava ma gli occhi erano stanchi come quelli di un anziano, “No” aveva detto placido abbozzando un sorriso.

Le sopracciglia chiare di Arvey erano letteralmente schizzate alle stelle, “Oh” aveva detto, rimanendo a bocca aperta, “Gli dei spesso scelgono i loro campioni, che vuoi che ti dica, tu sei il mio” aveva borbottato quello, incrociando le braccia al petto, mentre con gli occhi nocciola studiava nuovamente il giardino, “Si, Arvey Sanguinaccio il tuo ardore ed amore per quella ragazzina figlia della notte, ti ha reso il mio protetto ideale” gli aveva detto quello.

Il lestrigone aveva appreso quella notizia con una certa confusione, le spalle rigide, “Non sono cose che ai mostri accadono spesso” aveva ammesso alla fine Arvey, “Dove siamo?” aveva chiesto poi alla fine dando un occhiata al portico, erano vicino ad una porta rossa, ma non poteva vedere la facciata della casa da quella angolazione, “Non è importante” era stata la risposta dell'uomo Vestito di Bianco; Arvey si era reso conto di non avere idea di chi fosse, ma sentiva un principio di timore nel chiederlo.
Sospettava fosse Eros, aveva sentito indossasse abiti impeccabili – e spesso in bianco – e parlava d'amore, ma aveva anche sentito che quel dio emanava un'aurea di timore e sadismo, quello al suo fianco sembrava una persona più … gentile?
Comunque non sapendone l'identità avrebbe continuato a riferirsi a lui come L'Uomo Vestito di Bianco, “Vuoi qualcosa di particolare?” aveva chiesto lui, guardando il dio, quello si era voltato a guardarla, “Hai mai sentito parlare di Sciro?” aveva domandato di rimando, come se le parole di Arvey fossero fatte di acque.
“E chi non ne ha mai sentito parlare?” aveva chiesto di rimando il Lestrigone, “Dove gli dei sono banditi, i re cadono e gli eroi si imporporano le guance come fanciulle” aveva aggiunto, pensando a quei racconti che avevano popolato la sua vita. “NonnoFate ha sempre voluto depredarlo” aveva commentato Arvey con un sorriso, “Diceva sempre che si sarebbe mangiato la faccia di Leecome ed avrebbe squartato le sue figlie” aveva aggiunto, con un mesto sorriso, “Nessuno ha mai avuto il cuore di dirgli che viveva nel mille e quattrocento” aveva aggiunto poi.

NonnoFate era Antifate, uno dei più celebri e truculenti Re dei Lestrigoni, era stato per Zotico Joe quello che lui era stato per Arvey; nei suoi tempi di gloria era stato un mostro ed un guerriero con i così detti, ma per quanto lui aveva avuto modo di conoscerlo era stato un vecchio farinoso con gli occhi liquidi e la demenza senile, poi un giorno si era disfatto nella polvere ed era finito nel Tartato. “Magari tra un centinaio d'anni, tornerà giovane e ruspante” aveva commentato quel giorno Zotico Joe, senza particolare tristezza.
Infondo la loro morte non sembrava mai una questione definitiva.

“Doveva essere un tipo interessante questo NonnoFate” aveva constato l'Uomo Vestito di Bianco, toccandosi sotto il mento, “Lo era” aveva risposto Arvey senza curarsi di correggere il reale raoro di parentela. “Magari un'orda di Lestrigoni e ciò che servirebbe a Sciro” aveva soffiato il dio, “Perchè mi parli di Sciro?” aveva chiesto allora Arvey, senza neanche curarsi di rivolgersi a quello con un titolo onorifico.
L'Uomo Vestito di Bianco si era sollevato dalla sedia, pecorrendo i pochi passi del portico, per posarsi ad una colonna di legno, “Le regole del fato sono precise, agli Dei non è concesso immischiarsi negli affari mortali, questo però non gli ha mai impedito di veicolarli. Nonostante tu non sia un uomo, rientri secondo questo ordine” aveva ammesso il dio, incrociando le braccia sotto al petto, “Mi stai avvertendo dunque? O veicolando?” aveva chiesto allora Arvey con un sorriso da squalo sul viso, il brivido della lotta a scaldargli il sangue.

“Prendine atto, mio campione, ed ascolta saggiamente le mie parole” aveva cominciato quello solenne, “Finchè sarai mosso da un ardore così acceso verso quella fanciulla, avrai la mia mano a coprire il tuo capo” aveva soffiato ed Arvey lo aveva ascoltato in silenzio, “Ma per avere una delle mie frecce dovrai osare tanto” aveva ammesso il dio.
“Lei è Eros, dunque?” aveva chiesto il lestrigone, rivolgendosi a lui con un tono più formale e la forma del lei, che aveva fatto ridacchiare il suo interlocutore, “Per tua fortuna no, o forse in questo caso è una disgrazia, le sue frecce sono assai più favorevoli da cogliere, sebbene spesso portino lacrime e dolore” aveva confessato.

Poi tutto si era liquefatto come un dipinto fresco su cui fosse stata gettata dell'acqua, era colato e s'era disfatto come argilla molle e quando il mondo aveva ripreso dei contorni stabili, quello che Arvey aveva visto era stata la coltre fitta della note, puntellata di luminose stelle ed aveva avuto l'agghiacciante sensazione che Nyx stessa rivolgesse i suoi occhi profondi verso di lei.

 

“Ti sei svegliato?” aveva sentito chiedersi, allora si era sollevato sui gomiti per osservare Bernie seduta su una coperta, con gli occhi tristi rivolti a quel cannocchiale che sua madre le aveva porto, da che avevano lasciato Nuova Cartagine non aveva fatto altro che spiarvi all'interno alla ricerca di sua sorella, prigioniera a quanto pareva di una Tale Ify. Quel oggetto le aveva concesso solo la visione del figlio di Ecate, Alabaster, che Bernie gli aveva raccontato fosse in compagnia di un'altra giovane ragazza che aveva fatto parte dell'armata dei titani, gli era stato riferito il nome, ma Arvey non ne possedeva che un nebuloso ricordo.
Aveva raggiunto la sua casa a Keesville, trovandola vuota, Alabaster le aveva lasciato un messaggio, era dovuto partire, assieme a quell'altra e braccato come era non aveva potuto scrivere dove erano diretti, si augurava però che il fato avesse intenzione di intrecciare ancora i loro i fili.

Dopo la scomparsa di Fama cercare di entrare in contatto con il figlio di Ecate si era fatto praticamente impossibile.
“Io … ho fatto un sogno” aveva ammesso Arvey, osservando per un momento il viso d'ebano della giovane farsi perplesso, “Impossibile, i mostri non sognano” la voce di Puma gli aveva distratti, il suo tono era aspro e rigido, aveva gli occhi verdissimi come quelli di una qualche bestia della notte, incastonati in un viso bello e lentigginoso.
La prima sera, come era stata preannunciato da Hannah Phoenix, i Cartaginesi gli avevano bloccati in un lungo banchetto, mai Arvey era stato così pingue davanti ad una tale opulenza e sfarzo ed alla fine avevano imposto loro un accompagnatore, il terzo membro per il loro viaggio.
Se gli dei avevano messo loro due sul loro percorso, i cartaginesi credevano fosse una richiesta del destino dare il membro mancante, poiché tre era il numero designato, anche questo aveva detto Hannah ed Arvey si era sentito piccolo ed impotente quando udite quelle parole Bernie aveva cercato gli occhi azzurri come laghi profondi della figlia di Nike.
Aveva avuto paura che potesse essere lei, per il modo in cui era cercata dalle mani affusolate di Bernie, ma aveva presto imparato che per una qualche ragione non era concesso ad Hannah di lasciare la città – aveva combinato qualcosa di grosso nei suoi ultimi viaggi.
C'era stato un torneo, di tutto rispetto, Arvey aveva parteggiato per il giovane Hannibal, poco socievole, ma letale, aveva salvato la vita di Bernie, senza avere alcun interesse per lei, e tanto bastava perché avesse la sua approvazione, anche la figlia di Ecate sembrava concorde con lui.

Il torneo era stato breve, ma intenso, la dea Thalassa stessa aveva convinto il grande consiglio dei Cento aveva ricordato loro quanto i tempi fossero stretti; Bernie stessa fremeva per lasciare quel posto, per cercare sua sorella: prigioniera.
I combattimenti erano stati duelli, senza esclusioni di colpi, Hannibal aveva continuato a vincere negli scontri, battendo suo fratello – Arvey non aveva afferrato il suo nome, ma lo aveva riconosciuto come il capitano della nave che gli aveva portati lì – e la sua bella fidanzata dall'aspetto latino. Aveva perso lo scontro contro un giovane uomo chiamato Sick, che Hannah aveva apostrofato come suo “cognato”, prima di raccontare fosse il fidanzato di Deedo ed uno dei figli prodigi di Cartagine, suo padre era un membro del consiglio dei cento e forse lo sarebbe stato anche lui.
Era bravo Sick – avevano scoperto non fosse quello il suo nome, ma onestamente non gli importava – aveva le spalle larghe, era alto, aveva un naso adunco, la pelle di rame ed un groviglio di capelli ricci, alcune cicatrice a decorargli l'incarnato, “Non sento di poterci fidare di nessuno di loro” gli aveva mormorato Bernie, mentre Sick sollevava le braccia per accogliere gli acclami dell'arena, scoporto di polvere, terra e sangue.
“Sono d'accordo” aveva soffiato lui, ma le sue parole erano cadute nel silenzio, l'aveva cercata con lo sguardo e l'aveva vista ridere, mentre Hannah le sussurrava qualcosa nell'orecchio – forse Bernie avrebbe dovuto correggersi, di qualcuno di loro voleva fidarsi.
Sick era arrivato a battersi nella finale, contro di lui avrebbero dovuto esserci uno dei due fratelli Phoenix. Arvey aveva vissuto molti anni ed aveva visto molti eroi, gli aveva guardati con un certo disinteresse e grigiume, ma quando aveva visto i due entrare nell'arena per un momento aveva sentito nel suo petto un incertezza, biondi e letali, l'uno contro l'altro sembravano due dei vendicatori.
Se aveva vinto Puma era stato un caso, la lotta era stata dura, silenziosa, adrenalinica, non una sola arma coinvolta.
Lei aveva deposto le sue spade, lui le sue pistole. Sangue ed ossa rotte.
Arvey aveva tifato per la giovane a cui doveva la vita, Bernie aveva osservato vacua la scena, tenendo la mano di Hannah piagnucolante che un giorno lo sapeva che quei due idioti dei suoi fratelli si sarebbero ammazzati.
L'ultimo scontro era stato tra Sick e Puma … non c'era stato confronto.
Dopo avergli imposto il più ostico e fastidioso dei loro giovani guerrieri, i cartaginesi avevano avuto la buona creanza di riportargli nel mondo civilizzato con una delle alionavi Benselemite, rifornirgli di cibo e ridargli le loro armi.
Ricordava s'era aperto un sorriso luminoso sul viso di Bernie, mentre ritrovava il suo orecchino, lei che sarebbe stata disposta a fuggire da quel posto senza di esso, giustamente cosa se ne faceva della sua arma senza poterla usare per difendere sua sorella. E pensare come da bambine fossero Bells lo scudo dietro il quale l'altra tendeva a nascondersi.

Arvey aveva guardato la sua mazza da battaglia, qualcosa di brutalmente simile ad un senso di colpa che serpeggiava in lui, ma l'aveva ignorato bellamente. Finché sarebbe stato mosso da ardore avrebbe continuato ad avere la mano dell'Uomo Vestito di Bianco sul suo capo, no, mentiva, non lo faceva neanche per quello.

 

“Credo tu abbia capito che Arvey non è come gli altri” era stata la pigra risposta di Bernie, guardando con sprezzo Puma Phoenix, che era rimasto seduto lì con quei suoi occhi da predatore a studiarli.
Arvey era preoccupato da lui, da ogni cosa di lui, dal suo temperamento impetuoso e dal suo aspetto attraente, dal modo in cui i suoi occhi si fermavano sulla figura di Bernie e come guardavano lui.
Prede: una da conquistare, uno da uccidere. Forse lo avrebbe mangiato, si, Arvey era certo che alla fine lo avrebbe fatto.
“Dobbiamo spostarci” aveva soffiato Puma, sollevandosi dalla posizione seduta, “Anche se non abbiamo idea di dove andare” aveva aggiunto con un certo sfacciato nervosismo, con le mani infilate nelle tasche dei jeans, “Mi dispiace se questo ti infastidisce” aveva ripiegato lei con le braccia chiuse sotto il seno.

Poi Bernie gli aveva abbandonati, dopo uno sguardo truce che aveva lanciato verso Puma, poi si era allontanato da loro con una certa velocità ed Arvey l'aveva seguita, dopo aver intimorito all'uomo di non seguirli.

Aveva trovato la ragazza non molto lontano, seduta su una panchina, con lo sguardo vitreo, mentre sollevava appena l'oggetto che sua madre gli aveva donato, “Niente” aveva detto Bernie senza preoccuparsi di alzare il viso per guardarlo, “Vedo Alabaster preoccupato, ora vedo anche una ragazzina dai capelli rossi” aveva aggiunto rabbiosa, “Una casa con un porticato” aveva detto, “Ma nulla di Bells! Nulla!” aveva afferrato l'oggetto e l'aveva lanciato con rabbia, esso si era liquefatto nell'aria senza schiantarsi in nessun luogo riformandosi sul suo ventre.
“Gli altri mostri mi disprezzano, ma forse potrei riuscire ad avere informazioni” aveva soffiato lui, accomodandosi al suo fianco, allungando una mano per avvolgerla atono alle sue spalle. Ossa così piccole quelle di Bernie rispetto la sua mano.

Prima che Arvey riuscisse a dire qualcosa o Bernie potesse rispondere era accaduto qualcosa: un boato della terra.

“Cosa, Tartato, è successo?” aveva strillato lei, aggrappandosi ai suoi vestiti, mentre la terra gorgogliava e sangue zampillava dalla terra, l'erba s'era fatta gialla e nera, i tronchi degli alberi polverosi e le foglie secche, la primavera che sembrava troneggiante s'era fatta in un momento cosa morta.
Puma era corso verso di loro, affannato e nel verde degli occhi c'era lo spettro della preoccupazione, “State bene?” aveva chiesto con il fiatone, Bernie aveva annuito, mentre con il piede dello stivaletto saggiava una piccola crepa che si era aperta sull'asfalto. “Sembrerebbe che qualcuno abbia preso a calci il divino culo di Gea” era stato l'ombroso commento di Arvey, venuto con il serpeggiare di un sorriso sornione.

 

Per i seguenti due giorni nulla, la terra s'era fatta improvvisamente povera e sanguinante, letteralmente, come se qualcuno avesse davvero colpito la signora degli dei davvero. Poi erano cominciati anche i giramenti di testa, non per Arvey, lui era un mostro, lui era immune, per lo più, ma Puma s'era fatto scostante e fastidioso, il naso gocciolante e gli occhi lucidi, Bernie invece aveva cominciato a sudare, arrossata sulle guance e la gola rauca. Si erano ammalati.

Cobe ho fatto ad abbalarbi?” aveva chiesto Puma, consumando un altro fazzoletto, sedendosi sul letto, avevano trovato un motel dove alloggiare, non lontano dalle Antelope Canyon ed in qualche modo sembrava che l'epicentro del colpo a Gea si fosse fatto più vicino. Arvey non aveva capito per quale motivo si fossero mossi in quella direzione, iniziava anche a comprendere che non fosse di certo stata una buona idea.
Bernie indossava una sciarpa intorno alla gola e lo aveva guardato con un certo sprezzo, non riusciva a a parlare qualsiasi per nulla, la sua lingua era gonfia e risultava incredibilmente disidratata. Anche il direttore del motel non stava bene, nessuno sembrava stare bene, tranne lui ovviamente e tutti i mostri della zona, ovviamente, e questo lo aveva messo in una difficile situazione, doveva prendersi cura di loro, ora che erano fragili.

“Forse ho un'idea” aveva soffiato Arvey, mentre si avvicinava alla finestra della stanza, avevano tirato le tende ma la prudenza non era mai troppa, aveva spostato con le dita il tendaggio ed osservato che il mondo esterno sembrava stranamente tranquillo, le piante che decoravano i contorni della piscina interna erano ovviamente marce ed appestanti. “Oh ba dabbero? Potebi dirlo priba!” aveva detto esasperato Puma, con gli occhi lucidi e le labbra secche, prima di ricevere un calcetto sulla schiena da parte di Bernie, che aveva affondato la testa nel cuscino, ma con la pianta del piede era riuscito a raggiungere l'uomo dai capelli biondi, che le aveva lanciato uno sguardo carico di fastidio.

“Una volta ho visto una cosa del genere, molto più grande, molto più spaventosa” aveva stabilito Arvey con un sospiro, abbandonando la tenda per voltarsi verso i due; la giovane era stesa supina sul letto, ai cui piedi era seduto Puma, entrambi piuttosto malandati.

Bernie si era sollevata dalla posizione in cui stava, sollevandosi sui gomiti, aveva provato a boccheggiare qualcosa senza che nessun suono venisse fuori dalla sua bocca, “Nel milleseicento” aveva spiegato immediatamente Arvey, “La pestilenza” aveva ammesso senza nascondere nulla.
“No!” aveva strillato Puma, prima che il lestrigone gli calmasse, non avrebbero preso nessun malanno letale, chiunque l'aveva scatenata non aveva il potere per appestare l'intera nazione, probabilmente era solo l'area della contea – o al massimo dello stato – o forse aveva semplicemente tirato un colpo poco calibrato.

“Chi ha buesto botere?” aveva domando Puma, aprendo un ennesimo pacco di fazzoletti, “Non ne ho idea” aveva ammesso Arvey con le braccia incrociate osservando i due. Nessuna idea.
La pestilenza apparteneva ad Apollo, ma il dio non sembrava in giro in nessun luogo, forse era barricato nell'olimpo o altrove, aveva sentito vociare di una sua presenza a Delo. Quindi no, non aveva idea di chi avesse scatenato una misera pestilenza lì.

 

“Certo che un bostro attratto da una dobba ubaba” aveva detto Puma mentre aspettava fuori dalla stanza con lui, indossava una giacca pesante ed un capello, il naso arrossato e colante, sembrava perdere tutta quella sua aurea da dannato cacciatore di mostri, ma sembrava quello che era un mortale qualsiasi, dall'aspetto davvero poco appetibile.
“Tu stai lontano da lei e magari non userò le tue ossa come stuzzicadenti” aveva ripiegato Arvey con un sorriso da squalo, che aveva fatto ridacchiare Puma, prima di guardarlo in una maniera piuttosto decisa, nonostante l'aspetto lucido e le venuzze rosse piuttosto in evidenza, i suoi occhi sembravano poter ancora conservare una certa temerarietà.

“Lo sabevo che non potebi essere così bobile di cuore” aveva detto con una certa cattiveria quell'altro, il lestrigone era certo che la conversazione con Puma sarebbe stata decisamente più incisiva se il mezzosangue non si fosse ritrovato ad intervallare starnuti su frasi brutalmente menomate dalla sua voce nasale e da lettere che non riusciva a dire. “Esatto” aveva cominciato Arvey, “Non sono nobile, non sono un mostro dal cuore tenero. Io vi mangio e lo faccio con gusto” aveva stabilito lui, troneggiando su Puma, del tutto disinteressato.

E lei che è diversa, solo lei, questo però non lo aveva detto a Puma.

 

Bernie era uscita dalla stanza del motel, anche lei era completamente ammantata nei vestiti, ma c'era qualcosa diverso nel suo viso, nei suoi occhi. “Che succede?” aveva domandato Arvey osservandola attentamente, la ragazza aveva provato a parlare, ma dalla gola erano usciti una serie di suoni così sottili di difficile comprendonio, almeno per un essere umano, “Hai detto … Bells?” aveva chiesto confuso, mentre l'altra annuiva con una certa frenesia. Arvey aveva tossicchiato per attirare la loro attenzione, perché il suo udito era quello di un essere umano, con un cerchio alla testa per di più, “Dice che Bells le è apparsa in sogno, per chiederle di raggiungerla” aveva tradotto lui, mentre osservava il viso della ragazza. “Se sei sibura?” aveva chiesto Puma, aggiustandosi il cappello meglio sulla fronte, la ragazza aveva annuito, mentre svincolava tra loro per potersi incamminare lungo la strada, aveva mormorato qualcosa appena verso Arvey che non si era degnato neanche di tradurlo a Puma che infervorato si era trovato costretto a seguirli.

Bells aveva detto a Bernie di seguirla nei pressi della riserva naturale.
Insomma era naturale che l'avesse contatta dopo il loro fugace incontro grazie alle acque della divina Thalassa, ma Arvey aveva un'opprimente sensazione addosso.

Gli altri due l'avevano seguita, il lestrigone le aveva messo un braccio attorno alla vita per sorreggerla in qualche modo, sembrava che gli effetti della pestilenza si stessero intensificando e che le ossa della giovane fossero morbide come l'argilla, riguardo Puma non aveva fatto altro che continuare a starnutire – ed aver cominciato a tossicchiare. Ogni tanto Arvey lanciava sguardi a quello per vedere se riusciva a stare al loro passo.
Si erano infiltrati nella riserva dei pressi dell'Antelope Canyon, nonostante questo non si fosse rivelato esattamente facile, essendo i suoi due accompagnatori ormai al limite dello svenimento.
“Come stai?” aveva chiesto Arvey con un tono apprensivo, mentre portava una mano sulla spalla della ragazza per sorreggerla, mentre osservava il viso della ragazza che sembrava essersi fatto più sciupato, aveva le occhiaie, le labbra erano crepate e spellate. Bernie aveva annuito lentamente, mentre teneva la palpebra semi-calata; lei aveva sussurrato altro, che solo l'orecchio da mostro di Arvey aveva potuto udire. Pestilenza o no, devo trovare Bells.

 

Guabdate qualcuno!” aveva strillato Puma tra un colpo di tosso ed un altro allungando una mano in una direzione, allora Arvey aveva cercato di affilare lo sguardo, per effettivamente riconoscere una figura nella notte, il viso s'era fatto più chiaro e riconoscibile solo quando si erano giustamente avvicinati.
“Bells” la voce di Bernie era uscita fuori come il miagolio di un gatto, ma Arvey poteva solo ipotizzare quanto sforzo avesse dovuto impiegare per dirlo, ma l'ombra era riuscito ad udirlo, sollevando il braccio in segno di saluto. Bellatrix LaFayette era lì, con i capelli corvini come la notte che cadevano in parte sulla faccia ed il viso bruno, l'unica luce sul viso erano le sclere bianche lucente, che circondavano iridi nere; aveva un fisico più vigoroso rispetto sua sorella, più alta e robusta, sembravano più sorelle che vere e proprio gemelle, i volti comunque tradivano l'incredibile somiglianza, la stessa forma degli occhi e le labbra carnose. Ed in quel momento che Arvey aveva notato non vi fosse un'ombra di sorriso su quella bocca.
“Bells!” aveva provato a strillare nuovamente Bernie, solo che questa volta l'aria non era riuscita a trovare strada dalla gola, ma quella era scivolata dalla presa di Arvey per mettersi a correre verso sua sorella, nonostante la malattia la facesse sembrare una specie di ubriaca con le gambe molli, che rischiava di cadere a terra ogni passo. Arvey l'aveva inseguita per sorreggerla prima che Bernie crollasse sulle sue ginocchia, mentre Puma gli aveva superati lanciandosi come un missile nella direzione di Bells.
La ragazza gli aveva guardati, il suo sguardo era spento, aveva abbassato appena gli occhi verso la sua stessa cintura, erano fili d'argento intrecciati attorno alla vita, “Vieni Bernie” aveva sussurrato Bells, “Ho bisogno di te!” aveva quasi piagnucolato prima di darl loro le spalle e mettersi a correre in una direzione opposta alla loro.

Bernie si era sollevata dalla presa di Arvey, ma lui l'aveva trattenuta, mentre Puma lanciava un breve sguardo verso di loro per lanciarsi nell'inseguimento di Bells. Dobbiamo andare, la voce della figlia della notte non era riuscita ad ottenere un suono, ma lui l'aveva udita lo stesso, “Potrebbe essere una trappola!” aveva ammesso con un leggero tremore Arvey, continuando a schiacciarsela sul petto. La pestilenza, Bells che appariva come una visione fugace e poi non si faceva neanche raggiungere?
La sua amica sembrava essersi fatta sorda alle sue paroli, forse non poteva aspettarsi logica da un lestrigone, ma era stata una certa ferita quando lei aveva raccolto la misera forza che la pestilenza le aveva lasciato in corpo per tirarle due manate sul petto nel tentativo di farsi lasciare, senza ottenere risultati. Arvey era sano, era in forze e la sua pressa era d'acciaio.
C'era rabbia scintillante negli occhi di Bernie, da farlo sentire in colpa, aveva spostato lo sguardo per osservare che ormai Puma e Bells si erano fatti puntini in sterminato capo aperto e poi … la figlia della notte era letteralmente scivolata via dalla sua presa come aria rarefatta. Arvey l'aveva osservata farsi opalescente fino ad ombra inconsistente e come una matassa di nera aria si era lanciata all'inseguimento di quei due e senza potersi opporre al gioco del destino, lui l'aveva seguita. “Dammi la forza! Dio vestito di bianco! Me lo hai promesso” gridò impudente, con il braccio al cielo, perché non era turbato dall'aver parlato con tono sfrontato ad un dio, era un Lestrigone, era la sua natura. E doveva proteggere Bernie. Doveva. Voleva.

Bells si era lanciata in una gola, Puma gli era stato attaccato ai talloni ed Arvey aveva potuto osservare il fumo nero inseguirli. Così si era infilato anche lui, scivolando all'interno di uno dei corridoi sotterranei dell'Antelope Canyon, un piccolo spettacolo della natura, nella piena luce del giorno, ma nella notte sembrava di essere stati inghiottiti nella pancia di un mostro.
Era quello che si era abituato meglio agli occhi questo gli aveva dato la possibilità di reagire prontamente all'ombra che si era scagliata su di lui, aveva protetto il viso con un braccio ed aveva sentito la lama scavargli nella carne, occhi rapidi e cattivi. “Coba, peb Ade, buccede?” aveva sentito Puma gridare, mentre con la coda dell'occhio vedeva il biondo precipitare a terra, colpito da un pugno che si era schiantato sul suo naso, “Una trappola!” era stato il suo commento mentre tirava una testata al suo aggressore che era stato costretto ad arrestare, sfilando la lama dalla sua carne.
Il corpo di Bernie si era ricompatto nel suo aspetto solito, sebbene lo sforzo, mischiato alle conseguenze della pestilenza, l'aveva costretta sulle ginocchia.

Il viso di Bells era una maschera serafica, ma Arvey riusciva a vedere il lieve trmolio del suo corpo mentre si posizionava in una posizione di difesa– anche lei sembrava piuttosto provata dalla pestilenza.
“Be, sebza obbesa siete stati patetibi” aveva borbottato Puma passando il braccio sotto il naso, per tirare via del moccio e del sangue, mentre con la mano libera cercava di raggiungere la pistola nella fondina. “Potevamo essere più bravi, vero” aveva concesso uno dei tre, quello che aveva attaccato Arvey, un ragazzo di media altezza, con le spalle strette ed il fisico asciutto, aveva lunghi capelli neri che arrivano a metà della schiena ed intorno alla fronte portava un laccetto intrecciato, pantaloni a zampa d'elefante ed una maglietta viola con lettere dorate ed il disegno dell'alloro, un romano! Sebbene il suo odore non fosse quello di un mezzosangue.
“Ci dispiace, Bernie, ma … Gea” aveva detto il ragazzo che aveva colpito Puma, aveva un aria famigliare, aveva costato Arvey quando l'aveva guardato ed il suo tono era incredibilmente dolce.

Lei che era stata interrogata, aveva volto lo sguardo verso la persona che aveva parlato, era un ragazzo alto, dall'incarnato olivastro dai capelli scuri, elettrici sul capo, aveva diverse cicatrici arabesche sul corpo, alcune erano sottili linee bianche, altre erano rimasugli di pelle rattoppata. Il suo odore non era mortale o di mezzosangue, era pregno del puzzo della cadaverina e dell'incenso funebre: un ghoul.

“Jake” la voce di Bernie era ancora terribilmente bassa, ma Arvey l'aveva sentito ed anche l'altro mostro che aveva chinato il capo con un certo imbarazzo.
“Benché lobo non bono inbluenzati?” aveva chiesto Puma che finalmente era riuscito ad estrarre la sua pistola, tenendo la canna contro il ghoul. “Perchè uno è un mostro, uno e spettro … e lei, lo accusa” aveva constatato Arvey ammiccando a Bells, a cui tremolavano le dita.
“Perchè?” si era lasciato sfuggire Bernie, ma non credeva che fosse arrivata a sua sorella la voce, “In realtà era morta anche lei” aveva soffiato lo spettro del romano, “Ma Gea le ha ridato la vita” aveva detto quello, con un sorrisetto a contornargli il viso.

Bibonoscebei quella baglietta obunque” aveva sentenziato Puma, spostando la pistola da Jake al Romano, “Oh un cartaginese!” aveva esclamato quello con un sorriso raggiante sulle labbra, “Credevo foste ormai tutti morti e sepolti” aveva commentato quello, “Non tutti” aveva risposto Puma sparandogli dritto nel petto, trapassandolo senza problemi e conficcandosi nella parete rocciosa. “Fai sul serio?” era stato il commento piuttosto divertito dello spettro, con un ghigno a decorargli il viso, d'altro canto Arvey aveva guardato il Campione di Cartagine con molta perplessità. “È uno spettro” aveva detto soltanto, passandosi una mano sul viso, “Ba bene, i mie broittili sobo a brova di mosbri” aveva risposto Puma sputacchiando cataro un po' in giro.
“Io lo spettro, tu il Ghoul” aveva cominciato allora il lestrigone riprendendo la calma; ma poi un cazzo di fantasma come lo ammazzava? Di certo non poteva prenderlo a randellato.
D'altro canto Jake aveva pensato bene di sferrare un sonoro pugno sulla mascella di Puma che si era lasciato prendere decisamente di sorpresa.

Bernie continuava a starsene sulle ginocchia, esangue, a fissare con gli occhi vacui sua sorella, comunque neanche Bells sembrava pronta a fare un qualsivoglia passo in avanti, se ne stava in posizione di difesa con le guance rosse ed il fiatone.
La pestilenza stava dando problemi anche a lei.
Fe abeffi un Quix(1)” il commento di Puma era caduto nel vuoto ed Arvey aveva ritenuto davvero poco produttivo pensando di preoccuparsi dello Spettro; mentre con la coda dell''occhio osservava ancora la figlia di Nyx continuare a vegetare sulle ginocchia. Lo spettro continuava a sorridere in una maniera fastidiosa mentre la sua pelle si faceva a tratti opalescente, sebbene mantenesse una strada lucidatura violacea – riconosceva Arvey il tronfio sorriso di un mostro. Aveva sentito nel corso delle sue vite che alcuni spettri erano in grado di nuocere alle persone reali, ma solo se erano corporei, dunque fintanto che quello non si fosse reso tangibile, il lestrigone non avrebbe potuto ferirlo.
La cosa valeva anche per lui, fintanto non avesse avuto corpo non poteva offenderlo in alcun modo.
Puma era riuscito a sollevarsi con una certa fatica, il naso sembrava un grumo di carne rossicia e nera, da cui grondava sangue, il pugno di un mostro lo aveva provato parecchio.
Bernie d'altro canto era riuscita a sollevarsi nonostante le sue ginocchia stessero tremolando come argilla, “Tu … sei … morta” aveva detto con estrema fatica, era stato letteralmente un raschio ed Arvey non riusciva neanche ad immaginare quanta fatica avesse dovuto impiegare per dirla, ma la voce le era venuta comunque a mancare e la stessa si era portata le mani attorno alla gola.
Tu sei morta ed io non lo sapevo?
La conosceva abbastanza da sapere che era quello che balenava nella sua mente, per tutto quel tempo lei era stata genuinamente convinta che sua sorella gemelle stesse bene, perché altrimenti lo avrebbe saputo.
“Si” aveva ringhiato Bells e negli occhi scuri divampava qualcosa, non mentiva su quello, poteva vedere riflesse nelle sue palpebre i colori della morte. Aveva sentito un dolore forte nel suo fianco, lo spettro romano lo aveva pugnalato mentre era distratto dalle due ragazze, per risposta aveva provato a colpirlo con un colpo ritrovandosi però a fendere solamente l'aria. “Dovresti fare più attenzione” aveva riso di lui quello, passandosi una mano tra i capelli scuri, “Oh! I mostri non sono più quelli di una volta!” aveva scherzato con quel sorriso sornione sulle labbra, aveva i canini leggermente appuntiti. “Per essere un morto chiacchieri tanto” aveva berciato Arvey, ponendo una mano sul fianco, il pugnale era stato ritratto, ma tra lo strappo della maglia aveva potuto sentire la pelle infossata ed una sostanza viscosa.
“Sono Mark Arminius, centurione della quinta coorte, ho accompagnato il pretore Michael Varus in Alaska” aveva cominciato lo spettro un lungo monologo, “Sei uno di quelli che è morto contro Alcinoo negli anni ottanta, eh? Incredibili nostalgici” aveva biascicato di rimando lui, per nulla interessato. Mark aveva ringhiato, mostrando per questa volta i denti in maniera molto meno divertita, mentre negli occhi violacei bruciava un certo fastidio, “Stai zitto” aveva berciato. “Uccisi da un gigante ed ora gli aiutate” aveva fatto notare Arvey sfoggiando il suo sorriso seghettato.
Il rumore piuttosto secco gli aveva distratti per un momento, Puma era riuscito a spezzare l'osso di un braccio di Jake. Il mezzosangue era a cavalcioni sulla schiena del ghoul, il sangue continuava a fluire, mentre il mostro cercava di ribaltare le posizione. “Nuova Roma ci ha abbandonati, i nostri fratelli, il campo” aveva detto con un tono austero lo spettro. “Gea ci ha salvato” aveva sussurrato Bells, respirando con una certa fatica, mentre tentava di mantenere la posizione di difesa.
Arvey lo poteva accettare che quella scapestrata si unisse ad una cricca per rivoluzionare il mondo guidata da un'entità primordiale – in vero era già successo – e poteva comprendere il suo parteggiare per Gea, se davvero l'aveva sollevata dalla morte.
Ma andare contro … la sua gemella?

Oh, quello no.
“Gea buole uccidefe tutti i bezzosangue, bob lo sai?” era riuscito a dire Puma prima di guadagnarsi una gomitata sotto il mento da Jake che era riuscito a muovere il braccio ancora sano, che aveva fatto schizzare il biondo per terra dandoli la possibilità di sollevarsi. “Ci darà un mondo nuovo” aveva detto Bells con le gambe tremolanti, il viso arrossato, probabilmente la febbre stava divorando il corpo.
Bernie si era voltata verso di lui, era esangue ed aveva gli occhi spalancanti, venuzze rosse brillavano e le sue labbra erano semi aperte e del tutto crepate, c'era disperazione nello sguardo, ma Arvey aveva sentito qualcosa di forte sostenerlo, come se qualcuno gli stesse impedendo di abbandonarsi nel dolore. Forse opera del dio Vestito di Bianco?

Aveva afferrato Bernie per le spalle prima che crollasse per terra e nel farlo aveva potuto immergere il naso nei suoi capelli, un gesto accidentale, che gli aveva ricordato quanto forte e delizioso fosse il suo odore in tutti i senti. Non lo trovava solo profumata, come femmina, ma anche come alimento, si vergognava, si schifava anche per quel pensiero.
“Non è tua sorella” aveva stabilito poi lui, mentre l'aiutava a sedersi, aveva avvertito con incredibile chiarezza come Mark avesse provato a colpirlo ancora, come se improvvisamente tutti i suoi sensi si fossero acuito ed in tale maniera era riuscito ad evitare il colpo con estrema destrezza. “Come?” aveva esalato Bernie che aveva posato il capo sulla sua cassa toracica, “Non è il suo odore” aveva stabilito Arvery, sotto l'odore della cenere funebre e dell'incenso, l'odore della ragazza non ricordava quello che aveva impresso nella memoria di Bellatrix LaFayette.
“Dovrei sentirmi offesa, Arvey Spaccameningi?” aveva chiesto questa con una certa sfrontatezza, non perdendo la sua posizione, ma la pestilenza sembrava limitarla molto nei movimenti. Si sentiva decisamente infastidito dal fatto che quella sapesse il suo nome, in un certo senso pronunciato con quelle parole era come sbattergli in faccia che si stesse sbagliando.
Ma non lo stava facendo, lo sapeva, ma era come portato a crederle, a volerle credere.
“Non sei Bells” aveva stabilito Arvey, con un tono grave, superando l'urlo a stento trattenuto di Puma, la cui spalla era stata addentata da quella del Ghoul.
“Chi se ne frega ama-ahh” qualsiasi cosa lo spettro di Mark avesse voluto dire era stata fermata e di egli non era rimasto che un misero eco nella cava, era stato come succhiato via da qualcosa ed era stato inevitabile pensare che qualcuno era arrivato per Arvey.
 

Puma era riuscito a togliersi di dosso il mostro ed aveva recuperato la sua pistola dall'impugnatura dorata che era finita per terra, tramite una qualche dinamica a cui il lestrigone non aveva minimamente badato, affrettandosi a sparare verso Jake, ma come nel caso di Mark il proiettile sebbene si fosse conficcato nella sua carne grigiognola non aveva fatto alcun danno. “E adesso?” aveva berciato quello incazzato e nel farlo non si era neanche reso conto che non sembrava più raffreddato.
“Mi sento bene” la voce di Bernie sembrava alta e fragorosa, come se non sapesse come modularla, il viso bruno aveva ripreso colore e la sua stessa espressione sembrava priva di tutta la sofferenza che l'aveva animata.
“La maledizione è finita” aveva constatato Puma che aveva preso a guardare la sua arma confusa, non sapendo bene come mai fallisse ripetutamente, “No, non è solo quello” aveva detto Jake, voltandosi verso Bells … che non era più Bells.

Aveva un viso famigliare questo si, in realtà Arvey era in grado di riconoscerla proprio grazie alle particolarità del suo viso, zigomi alti ed occhi allungati, ma era l'incarnato a risultare: bronzo scuro macchiato di bianco, vitiligine – era una dei mezzosangue che aveva preso le parti di Crono nell'ultima Titanomachia. “Tu sei ...” aveva cominciato il lestrigone, ma Bernie che era riuscita a rimettersi senza nessun problema in equilibrio, “Ines Fidanza, figlia di Ares” aveva berciato.
“Sembra che anche la cintura di Apate abbia smesso di fare il suo effetto” aveva constatato quella, sganciando dalla vitino da vespa la cintura con i fili d'argento, “Certo” era stato lo spento commento di Arvey, sapeva che chiunque se ne cingesse era creduto, qualsiasi menzogna avesse detto e dunque se essa si era dichiarata Bells ai loro occhi allora lo era stata.

Ines aveva buttato la cinghia per terra con una smorfia a deturparle il viso, “La cintura ha smesso di funzionare, anche i proiettili di oro imperiale” aveva fatto notare Jake, “Bronzo celeste, per favore” aveva sentito il bisogno di precisare Puma che aveva abbandonato la sua arma per lanciarsi direttamente sul mostro, ignorando anche la ferita sulla spalla, ma ci aveva guadagnato una ginocchiata in piena pancia.

Bernie aveva guardato la cintura ai piedi della figlia di Ares, “Tu” aveva commentato poi dando una spallata alla mano di Arvey che era posata sopra la sua spalla, “Questa cosa non mi piace” aveva mormorato il lestrigone, cercando di capire cosa era accaduto, ma non sembrava quella per nulla presa dalla questione. “Hai usato mia sorella contro di me” aveva ringhiato Bernie, “Prova ad essere morta” era stata la piccata risposta di Inez.
La figlia di Nyx aveva imposto le mani contro di lei, ma non era capitato nulla, “Sai credo che ogni tipo di defiance magica non funzioni, Berneyx” le aveva detto, sollevando un sopracciglio leggermente incuriosita da quello. “Lo sai che alla fine Gea ti getterà comunque via?” le aveva fatto notare Arvey, ma non riusciva a liberarsi della pessima sensazione che gli attanagliava le ossa, “Me lo dice uno che vorrebbe probabilmente mangiarmi con contorno di patate” aveva risposto pratica lei. “Non mangio carogne” aveva risposto pratico lui, muovendo con un movimento svelto la mazza per evitare che una lama si conficcasse sulla fronte di Bernie. Una figlia di Ares non aveva bisogno di ricorrere a doti particolari per essere mortale; “Forse dovremmo provare a parlare” aveva cercato di chetare le acque il ghoul, dopo aver tirato una testata a Puma che lo aveva fatto capitolare sulle spalle, lanciando uno sguardo alla sua compagna. “Insomma Inny, Marcus è scomparso” aveva berciato quello mentre dava stranamente una mano al cartaginese a rimettersi in piedi, “Cioè siamo un po' tutti sulla stessa barca” aveva cercato di alleggerire la cosa, “Poi conosciamo Bernie, lei...” aveva ripiegato Jake.
“L'unica barca su cui io sono mai stata era la Principessa Andromeda” aveva commentato a mezza-voce Ines, con le mani sui fianchi, “E ci sono morta” aveva ringhiato, “Gea mi ha sollevato dalla polvere” aveva esclamato la figlia di Ares, “Ed io ho deciso di seguirla, fino alla fine, indipendentemente da ciò che verrà poi” aveva detto con una certa esaltazione.

“Dunque se ella vuole che io uccida Bernie, io lo farò” aveva sentenziato, indicandola, gli occhi neri erano spiritati, le vene infiammate e la bocca distorta in un ghigno, “Non mi importa se abbiamo condiviso le frittelle e quant'altro, era un'altra vita, di cui Percy Jackson mi ha privata” aveva ripreso il suo monologo Ines, ogni occhio era rivolto verso di lei, calamitati ed ipnotici. “E fintanto che Gea segue lo scopo di ucciderlo, io la seguirò!” aveva impartito con vigore la donna.
Jake le aveva lanciato uno sguardo animato da un leggero disagio, poi aveva rivolto le iridi d'ambra sulla suola delle sue scarpe da tennis rovinate. Puma era aggrappato alla sua spalla che stava ancora cercando di comprendere come fosse finito ad usare come stampella il mostro che aveva cercato di uccidere, mentre Arvey continuava ad avvolgere Bernie per essere sicura di proteggerla.
“Tu che hai osato usare mia sorella contro di me” aveva mormorato la figlia di Nyx, sfuggendo alle braccia di Arvey, per l'ennesima volta da quando l'aveva rincontrata, come se non fosse possibile per lui riuscire davvero a proteggerla.
Nonostante fosse forte, non riusciva mai a tenerla tra le sue braccia.
Forse non poteva essere trattenuta la notte … forse …

Bernie si era lanciata su Inez, mentre quest'ultima le aveva conficcato una delle sue lame nell'avambraccio, mentre la figlia di Ares aveva urtato la testa contro il suolo duro.

 

 

 

“Io … Io … Io ...”

“Va tutto bene”

Arvey non aveva un panno bagnato ed aveva dovuto pulire le mani di Bernie con la propria maglietta, la pelle bruna della ragazza era rovinata sulle mani, aveva le nocche scorticate e ferite, forse una parte del sangue che ne adornavano era anche suo, qualcuno veniva dalle ferite sulle mani e altro veniva dalla ferita sull'avambraccio che aveva scavato la carne da parte a parte, riuscendo con qualche miracolo a non recidere l'osso.

Aveva dovuto bendare la ferita utilizzando un lembo di stoffa, ma nulla con cui poterla curare, già che erano costretti all'interno del Canyon. Qualsiasi cosa avesse fermato i loro poteri gli aveva anche confinato all'interno, avevano potuto utilizzare un po' di nettare perché Puma ne aveva portato con se un bel po' nella sua borsa – l'unica cosa che avevano potuto usare, peccato però il ragazzo non ne avesse poi molto ed era servito anche a lui che era finito un po' strapazzato da Jake.
Ghoul che non aveva idea di cosa fosse successo e si era offerto anche di aiutare, Arvey ci aveva messo un po' prima di identificare anche lui in uno dei ragazzi che avevano fatto parte dell'esercito di Crono, solo che era ancora un mezzosangue di quei tempi, la morte lo aveva trasformato.
Il lestrigone non aveva mai capito da cosa era guidata la mutazione, perché certi divenivano ombre, pallidi spettri di chi erano stati in vita, ed altri diventavano quel genere di mostri, guardiani del regno dei morti.
Comunque sia Jake e Puma si erano allontanati per valutare meglio cosa fosse successo, cosa scaturiva quell'invisibile gabbia naturale ed Arvey immaginava che Puma stesse caricando la sua arma di proiettili di piombo da scaricare sul ghoul appena si fossero rivisti. L'oro imperiale ed il bronzo celeste, che potevano uccidere mostri e mezzosangue, non avevano alcun potere, ma forse le armi mortali potevano ancora di fatto nuocere, sicuramente ai semidei ma ai mostri?
E la freccia della Pestilenza? Era collegata a loro o chi gli aveva chiusi lì dentro aveva provato a limitarne i danni? Volevano imprigionargli o erano semplici vittime?
Arvey comunque era pronto a sfracellare la sua mazza contro chiunque avesse provato ancora ad allungare le sue schifose mani su Bernie.

“Cavoli un altro mostro si è unito a noi, la cosa diventa sempre più divertente” aveva provato ad alleggerire la tensione, mostrando un sorriso seghettato che voleva essere incoraggiante, ma la ragazza aveva gli occhi vacui. “Io la ho uccisa” era riuscita a dire con un tono basso.

“Non è la prima volta” aveva soffiato Arvey, continuando a passarle il palmo sulle mani, lì dove il sangue si era deposto sulla pelle bruna; Bernie era cresciuta nella guerra, addestrata in una nave di mostri, combattendo in due grandi battaglie, uccidendo anche mezzosangue, lui stesso l'aveva vista tranciare i fili della vita con la spada che ora pendeva come un orecchino.

“Non così” aveva detto lei, guardandola, uno sguardo carico di disprezzo, ma era per se stessa; oh certo non così, non con una furia cieca, battendo il viso con il pugno. “Voleva ucciderti” le aveva detto Arvey, toccandole la testa, per accarezzarle i capelli, aveva una mano così grande contro il viso della ragazzina, “Era una persona, era stata una mia amica e le ho sfracellato il viso con i pugni” aveva pianto Bernie, nascondendo il viso nel suo petto, tremando come una foglia. “Era poco più di un mana” aveva commentato Arvey, continuando ad accarezzarle i capelli neri; “Lo sai che non è vero” aveva soffiato. “Era un'anima tormentata dai Capi della Pena, marcita fin nel profondo” aveva detto Arvey, sentendo il suo respiro sul petto ed i suoi singhiozzi. “Succederà anche a me … a noi ….” aveva mormorato lei, sollevandosi appena, per poterlo guardare nel viso, mentre Arvey continuava a tenerla stretta, “A me e Bells” aveva soffiato poi.
Il lestrigone avrebbe voluto baciarla in quel momento e dirle che fintanto lui avesse camminato su quella terra mai avrebbe dovuto preoccuparsi di ciò che sarebbe accaduto a lei – e alla sua gemella che avrebbe trovato se Bernie davvero lo avesse voluto – e poi anche.
Neanche Ade ed Orco l'avrebbero portata via da lui, le avrebbero fatto del male.
 

“Ho strane notizie!” aveva esclamato qualcuno attirando la loro attenzione, Arvey aveva allontanato veloce il viso da Bernie voltandosi verso chi era giunto, mentre la ragazza aveva chinato il capo per nasconderlo nel suo petto. Jake si era palesato, l'incarnato bronzeo sembrava lievemente ingrigito ora che le prime luci del sole cominciavano ad illuminare l'interno del canyon. “Cosa?” aveva chiesto lui, alzandosi dalla posizione seduta, portandosi dietro anche lei, che tremava e sanguinava, “Un castello” aveva rivelato lui, “Che vi giuro, ieri non c'era” aveva detto quello, lanciando uno sguardo agli spiragli della grotta.
Puma era ancora in giro.
“Non si vedeva, forse” aveva sussurrato Bernie, mentre si allontanava un po' da lui, per poter guardare quello che era venuto bene, “Un castello” aveva ripetuto invece Arvey.
Un castello che probabilmente era stato sotto un incantesimo che adesso si era sciolto, come era avvenuto a tutto il resto.
Un castello nei cui pressi nessuna magia può esistere.
Un castello intoccabile anche gli dei?
“Dobbiamo trovare Puma” aveva stabilito Arvey.

 

Dove gli dei sono banditi, i re cadono e gli eroi si imporporano le guance come fanciulle

 

 



(1) Allora, qui dovete concedermi una piccola licenza, il Quinx è un'arma che viene utilizzata nel Manga Tokyo Ghoul apposita per uccidere i Ghoul; solamente che questa battuta è un po' anacronistica perché questa storia si svolge più o meno negli stessi tempi di (SoN/)MoA/HoH/Boo che dovrebbero essere nella prima metà del 2010, mentre Tokyo Ghoul è stato serializzato nel 2011. Però, onestamente, non potevo non farlo.

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Capitolo 15
*** Quando si parla di arma a doppio taglio, non si parla di certo di un coltellino svizzero (Heather III + Bonus) ***


ECCOMI! Questa volta non so quando aggiornerò – sono prossima ad un esame – però vorrei ringraziare tutti quelli che seguono e leggono, grazie di cuore, vi voglio davvero bene!
Grazie per esserci davvero, se qualcuno volesse lasciarmi un parere (tristo o meno, mi renderebbe solo contenta)

UN GRAZIE SPECIALE ALLA MIA AMICA MARTA CHE HA SCELTO IL NOME DEL CAPITOLO :*
Un bacio,

buona lettura

RLandH

 

The road so far(Quello che avrete probabilmente dimenticato): Heather Shine, figlia di Apollo, insieme al suo amico satiro Qbert parte alla ricerca di un'arma per conto del campo mezzosangue.
I due sono tallonati da una mortale dai capelli rossi che fa un inquietante profezia ad Heather – in cui prevede anche la sua morte – ma i due sono soccorsi da dio Ascelpio, figlio di Apollo.
Ascelpio rivela che Heather, come tutti i loro fratelli, sono in pericolo perché vi è una purga in atto contro la discendenza di Apollo. Il dio inoltre fa a lei il dono di tre frecce della pestilenza.
Heather e Qbert entrano in contatto con Jude, precedente membro dell'esercito di Crono, mezzosangue di … poche parole (e dell'odore di natura marcia). I due designano il giovane come loro compagno nella ricerca, ma sono presto coinvolti da quest'ultimo nell'aiutare l'arpia Ennoia – procella di Artemide – nella ricerca di una figlia della Notte.

Lauren Odalisque stava tornando con le sue due amiche, Jordan ed Emma, al campo mezzosangue, quando hanno uno sfortunato incontro con Carter Gale, il suo fratellastro Marlon e l'empusa Grace. Grazie ad un'idea di Lauren ed i poteri di Carter i sei riescono a mettere in fuga il gigante Tizio e rifugiarsi dall'Indovina Manto nel suo centro termale la Fontana di Salamace.
Lì Carter, preoccupato per sua sorella Heather, vorrebbe accedere ad un fonte che gli permetta di vedere il futuro. Tra i due comunque scatta un momento di passione.
Ben presto gli ospiti delle Terme – con l'aggiunta di un mezzosangue romano Drew e della Lapita Cenis – si ritrovano vittima di un assalto da parte di Flegias ed alcuni mostri. Sebbene riescano Lauren ed i suoi amici a vincere lo scontro, non senza un prezzo.

 

 

Il Crepuscolo degli Idoli

 




Quando si parla di arma a doppio taglio, non si parla di certo di un coltellino svizzero

Heather III



“Chi è il ragazzo nella foto?”
Forse Heather non era stata particolarmente gentile o posata, magari con una certa irruenza, facendo sollevare lo sguardo del suo interlocutore, Jude stava bevendo un milkshake alla fragola, con lo sguardo perso da qualche altra parte, che aveva ora rivolto immediatamente verso di lei.
Le sue iridi erano di un colore limpido ed azzurro, una particolarità che aveva notato di quel ragazzo era il cambiamento che i suoi occhi avevano, potevano variare tonalità dal brace profondo al più chiaro dei celesti – anche se per fortuna, non sapeva di chi, Heather non gli aveva mai visti prendere alcuna sfumatura del verde.
Differentemente dal ragazzo della foto, che teneva nascosta nel portafoglio, che ogni tanto Jude prendeva per guardare in pace, quando pensava forse di non essere osservato.

Jude le aveva allungato il bicchiere del Milkshake senza neanche accennare a volerle dare una risposta; giustamente lui non parlava, in verità non comunicava, neanche ci provava, non faceva segni ed anche quando Heather aveva provato a dargli un quadernino, lui non lo aveva accettato.

All'inizio lei aveva pensato avesse rifiutato quel dono perché non fosse bravo nello scrivere, forse a causa della dislessia dei mezzosangue, ma si era dovuta arrendere al fatto che Jude si rifiutasse di entrare in contatto con le persone. Però sembrava che i suoi problemi si limitassero esclusivamente agli umani – mezzosangue e no – poiché anche senza bisogno di pronunciare mezzo suono era entrato in un'empatia incredibile sia con l'Arpia Ennoia, che riusciva sempre a calmare quando quella cominciava a starnazzare, sia con Qbert, nonostante egli si lamentasse del suo odore.
L'unica persona con cui Jude aveva eretto un muro era lei e la verità era che Heather avrebbe potuto superarlo se non fosse stata figlia di Apollo, che possedeva la musica, che era in grado di domare bestie, che con il canto aveva calmato Ennoia e poteva rinvigorire gli spiriti, ed i corpi. Forse era per il fatto che la cicatrice che gli deturpava il sopracciglio fosse opera suo, durante la battaglia di Manhattan.

Heather aveva preso il bicchiere ed aveva succhiato dalla cannuccia un po' di frappé, prima di restituirlo al ragazzo, che aveva ora gli occhi bassi e le labbra serrate, che non somigliavano affatto ad un sorriso. “Non vuoi dirmi neanche della figlia della notte?” aveva provato nuovamente lei, su quell'argomento Jude sembrava essere un po' più sbottonato, almeno la guardava in viso, aveva storto le labbra ed abbassato lo sguardo.
“Rammarico e colpevolezza” aveva sentenziato Qbert che poteva entrare in sintonia con le emozioni delle persone, mentre si accomodava accanto a loro sulla panchina, posando le finte stampelle sullo schienale e faceva discendere meglio il berretto nero sui ricci serpentini. “Ti senti in colpa?” aveva chiesto Heather sorridendo verso Jude nel tentativo di sembrare più amichevole, il ragazzo aveva annuito, passandosi una mano sulla chioma bionda, delineando il perimetro della testa fino alla nuca.

La rossa aveva preso a frugare nella sa borsa, sotto l'attento sguardo degli altri due, poi aveva estratto la sua armonica a sedici fori, in legno con la placca in metallo con un basso rilievo di un solo, un regalo che le aveva fatto sua madre, per mettersi a suonare qualcosa di allegro.

La musica era riuscita a penetrare la corazza di tristezza di Jude, che le aveva sorriso, con gli occhi lucidi, mentre Qbert aveva preso a fischiettare dietro di lei. “Ti senti un po' meglio?” aveva chiesto con una certa gentilezza Heather allontanando la bocca dallo strumento, Jude aveva annuito appena e poi … gli era spuntato un fiore sul capo.
Questo le aveva impedito in qualche modo di fermare il suo esercizio pr strabuzzare gli occhi, Jude aveva sollevato lo sguardo per seguire la sua direzione, ma ovviamente non era riuscita a cogliere cosa l'avesse fermata. “Hai un ... fiore …” aveva cominciato lei e la mano del biondo era scattata lesta sulla sommità della sua testa per toccare lo stelo, le sue gote si erano infiammato improvvisamente e poi con un gesto secco aveva strappato il fiore.
“Ti succede, spesso?” aveva chiesto Qbert con un sorriso divertito, passandosi le dita sul pizzetto caprino. Jude si era ritrovato ad annuire, mentre sollevava una mano a martello per oscillarla per fare il segno del così-così forse ad intendere che succedeva con una certa frequenza, che però non poteva essere definita spesso.
Con l'altra mano aveva allungato il fiore verso Heather che lo aveva preso con una certa rigidità: era una margherita. “Sei un figlio di Demetra?” aveva chiesto lei, ma il biondo aveva scosso il capo in un segno di dissenso, lei aveva storto per un momento le labbra, mentre Qbert aveva recuperato una lattina dalla borsa di Heather facendola inavvertitamente cadere per terra, “Che satiro distratto” lo aveva punzecchiato lei, premendogli un dito sulla guancia, mentre questo gli aveva mandato un bacio.
Jude si era chinato per raccogliere gli oggetti che erano caduti sull'asfalto, dracme, un lucidalabbra, un agendina su cui erano appuntate poesie di pessimo gusto e quant'altro, alcune fialette di ambrosia, due merendine, un'altra lattina e la piantina d'erica sempre in fiore.
“Vuoi?” aveva proposto Qbert facendo scattare l'apertura della della lattina, inebriando l'aria di odore di ciliegia, Heater l'aveva presa prima di farsi un gran sorso di quella schifezza dolciastra, il satiro le prendeva probabilmente per il profumo, visto che alla fine il liquido lo beveva quasi esclusivamente lei, mentre Qbert mangiava solo l'involucro.
Jude aveva ficcato tutto nella sua borsa, che aveva poi riposato sulla panchina accanto al suo milkshake quasi finito, mentre aveva tenuto in mano il ramo d'erica.
Heather aveva passato la lattina bevuta dal satiro, mentre osservava con le sopracciglia aggrottate il ragazzo che era completamente rapito da quella piantina, “Me la ha regalata mio padre” aveva spiegato lei, neanche sapeva perché, onestamente non aveva idea del perché lui l'avesse fatto.
Il rametto non aveva avuto alcuna particolare utilità nella vita, era solo sorprendentemente capace di non morire nonostante non fosse piantato in nulla e non avesse bisogno di essere annaffiato, ma non aveva altra particolarità.
Suo padre gliene aveva fatto dono la sera del solstizio, quando si era celebrato l'ingresso di Thalia Grace nelle cacciatrici, quando lei lo aveva conosciuto per la prima volta ed avevano ballato.
E Darren le aveva detto che stava bene, nonostante indossasse un vestito nero che la faceva sembrare un'acciuga.
Lo sapeva, che non quei momenti non potevano tornare, lo sapeva perché la donna dai capelli di sangue aveva detto che sarebbe morta.
Due volte? Così aveva profetizzato.

 

Jude aveva sorriso, in una maniera un po' stupita, ma tra le sue dita sembrava quasi la pianta avesse avuto una qualche reazione, era come vibrata, poi si era mossa quasi fosse stata viva, ma era tornato tutto a norma. “Immagino abbia potenzialità nascoste” aveva constato lei, recuperandolo, “Raramente i regali degli dei non le hanno” era stato il commento di Qbert con gli occhi sottili a spiare la pianta lui che non ci aveva mai fatto molto caso.

Ennoia ere piombata su di loro come un rapace, ma nessuno dei civili sembrava averlo notato, Jude aveva inclinato il viso verso quest'ultima, “Siamo vicini?” aveva chiesto il satiro, che purtroppo si era dovuto dichiarare incapce di aiutare in quella missione poiché non conosceva quasi per nulla l'odore della ragazza che i due cercavano, sebbene grazie ai messaggi naturali sembravano essersi messi sulla buona strada.
L'arpia aveva annuito, prima di direzionare l'ala verso una direzione, “Ennoia è brava” aveva esclamato, “Lei la ha sentita” aveva esclamato con una certa euforia, “Allora andiamo” aveva enunciato Heather sollevandosi dalla panchina, ficcando l'erica nella borsa che aveva messo sulle gambe di Qbert, portando già lei a tracolla le frecce che le aveva donato suo fratello.
Le frecce della pestilenza – sebbene non avesse un arco; regina della fraudelenza, gioca pure con la pestilenza.
Un brivido le era corso lungo la schiena.

 

Il loro mezzo di trasporto era una prius giallo limone che non passava inosservata in alcuna maniera, che Qbert era riuscito a rubare in una maniera che Heather non aveva neanche compreso.
Comunque alla guida stava lei, mentre Jude era al suo fianco, il satiro aveva preso l'intero posto dietro perché Ennoia sembrava soffrire malissimo i posti stretti, preferendo volare o arpionarsi al tettuccio della macchina, probabilmente risultando un piccione piuttosto ingombrante agli occhi degli altri.
“Quindi, andiamo a prendere questa figlia della notte” aveva esclamato Heather, posando le mani sul volante, “E poi potremmo cercare … l'arma” aveva aggiunto sottovoce.
Girate le chiavi era uscita dal parcheggio della stazione di servizio, Heather si occupava della segnaletica stradale, mentre Jude teneva gli occhi cangianti piantonati al cielo dove osservava gli spostamenti dell'arpia.
Una cosa buona c'era da dire da quando avevano avuto modo di incontrare quei due, la donna dai capelli rossi non sembrava essersi più palesata, nessuno in effetti sembrava essersi manifestato, nonostante Ascelpio si fosse premurato di metterla in allerta sui nemici di Apolo, intenzioni a commettere una vera purga.
 

 

 

“E quella chi è?” aveva chiesto Qbert ficcando la testa tra i due sedili, attirando l'attenzione sia sua sia di di Jude, su una ragazza che faceva l'autostop sul ciglio di una strada, aveva capelli lunghi, lucenti, il colore era di un ramato molto chiaro, quasi della stessa tonalità di Heather che sembrava molto più smorta a confronta. “Una persona?” aveva chiesto retorica, prima di sentire il tonfo di Ennoia che si era arrancata al tettuccio, “Negativo. Emana qualcosa che non è assolutamente umano” aveva replicato il satiro. “Un mostro? Un non morto? Un ...” aveva cominciato ad elencare Heather con una certa confusione, “Di più” aveva risposto il satiro.
Jude aveva slacciato la cintura per poterla vedere meglio e la figlia di Apollo aveva arrestato l'autovettura senza neanche rendersene conto proprio in prossimità della giovane, la prima cosa che aveva cercato erano stati gli occhi, non erano verdi, erano un colore chiaro e freddo, ma non quello che più temeva. Chiunque fosse: non l'avrebbe uccisa. Indossava una maglia aderente, dal collo alto ma senza le maniche, di un profondo bronzo scuro ed una gonna d'oro con un motivo floreale.
Jude aveva abbassato il finestrino, mentre questa si chinava per parlare con loro, aveva le guance piene, rosee ed un sorriso di miele, si, pensò Heather, era troppo bella per non essere una dea. “Le serve un passaggio?” aveva provato Qbert con poca sicurezza nella voce, la donna aveva mantenuto il suo sorriso, mentre Heather aveva potuto osservare come il satiro avesse cominciato a tremolare ed anche l'arpia a battere sul vetro con una certa repentinità, “No” aveva risposto pratica quella.
La figlia di Apollo aveva rimesso una mano sulla chiave per poter ripartire, percependo qualcosa di profondo premere su di lei, l'odore della giovane era di fiori di campo fresco, “Non servirà più neanche a voi” aveva soffiato quella, continuando a sorridere con le labbra di fragola, posando una mano sullo sportello.
“E adesso perché una dea mi vuole morta?” aveva chiesto con un tono retorico, girando la chiave della macchina per ripartire, il motore aveva rombato per un momento poi era collassato, “Certi fiori non temono nessuna temperatura” aveva commentato la donna, mentre Heather poteva vedere il cruscotto sollevarsi per lasciare dei rampicanti uscire ed avvolgere la macchina, foglie e fiori impedivano di vedere qualsiasi cosa. “Ma è Poison Ivy?” aveva chiesto Qbert con un tremolio nella voce, “Non credo sia questa la prerogativa” aveva commentato Heather, mentre cominciava a sentire il crepitio del vetro, perché i rampicanti avevano cominciato una lenta pressione.
“Moriremo stritolati” aveva ammesso Qbert con la voce smorta, mentre Heather sollevava lo sguardo al tettuccio che cominciava a dare segni di accartocciamento, pensando che Ennoia era la loro ulrtima possibilità, ma non si sentivano rumori da parte di lei.

Heather aveva preso il suo rossetto ed aveva estatto la lama da esso e l'aveva piantato nel tettuccio nel tentativo di fermare l'arrestare della pressione almeno verticalmente o almeno provare a recidere i rampicanti, ma sembrava che sebbene la sua spada non avesse avuto difficolta nel traforare il materiale di cui era composta la macchina, le piante fossero più robuste.
Qbert aveva provato a soffiare nel suo flauto per provare a corrompere le piante, così Heather si era aggiunta con la fisarmonica, non ottenendo risultati, mentre ormai erano schiacciati completamente l'uno sugli altri, il flauto aveva provato anche usando il panico, ma era riuscito unicamente a bloccare loro due, ma non i rampicanti. “Ho solo delle bombe al fuoco greco” aveva commentato quello con una voce spenta, con le mani nella sua bisaccia.
Perfetto no? Morire bruciati vivi o stritolati, questo era stato il primo pensiero di Heather prima di rendersi conto che sarebbe dovuta morire per stocchi letali di qualcuno con gli occhi verdi. “No!” aveva strillato, “Io non morirò così” aveva aggiunto, mentre il vetro al suo fianco andava in frantumi, lei si aggrappava con entrambe le mani ai rampicanti cercando la forza per rompergli.
Jude aveva estratto la sua lama nera, finendo per darle una gomitata sul naso e l'aveva ficcata nei rampicati del finestrino aperto, riuscendo a conficcarsi sebbene non fosse riuscito a recidergli.

La spada di Jude aveva arrestato orizzontalmente e quella di Heather verticalmente, ma entrambe non sarebbero riuscite a sostenere la cosa a lungo.
“Hai ragione” la voce era greve e per un momento Heather non aveva davvero pensato di averla sentita, ma era stato Jude il muto a parlare, con le labbra carnose piegate in un sorriso, mentre imitandola metteva anche lui le mani sulle piante, ma a differenza della ragazza non aveva cercato di strapparle, ma le aveva solo strette.
“Tu hai parlato” aveva constato Heather, “Non credo al momento importi molto” aveva commentato Qbert, mentre alle piante cominciava a succedere qualcosa, il verde aveva cominciato ad imbrunirsi di un marrone, stavano marcendo a velocità impressionante, cominciando a decadere e fermare la loro presa ferrea. “Jude!” aveva esclamato lei con un sorriso euforico quando il marcio era arrivato dal suo lato ed era riuscita perciò a rompere, così riuscendo a sgusciare fuori.
Qbert l'aveva seguita a fatica, trascinando con se anche Jude che sembrava riverso in uno stato non molto sano, visto che rivoli di sangue scendevano sia dalla bocca che dal naso, gli occhi erano in catalessi e le sue mani tremolavano, le piante della mani erano completamente spellate.
Della donna non vi era traccia, mentre Ennoia era riuscita a rompere i rampicanti – che grazie a Jude erano marcite - “Stai bene?” aveva chiesto Qbert guardandola dimenarsi, “Quella aveva cercato di soffocare Ennoia” aveva commentato l'arpia.
Heater si era inginocchiata a terra ed aveva preso le mani del ragazzo al suo fianco, cominciando a cantare una litania in greco antico che aveva riportato le mani di Jude ad uno stato simil decente. “Chi era quella?” aveva strillato Qbert tutto tremante, mentre Heather poteva cominciare a sentire le dita di Jude serrarsi sulle sue mani, che ancora tenevano quelle del ragazzo.
Nonostante alla ragazza fosse stato concesso potersi specchiare negli occhi, questa volta, scuri come una brace del giovane, il naso continuava a sanguinare copiosamente e Jude non sembrava essere del tutto in quel mondo, “Ci sei? Come stai?” aveva detto lei, cercando di attirare l'attenzione su se stessa, ma lui sembrava perso.
“Ennoia non lo sa!” aveva strillato l'arpia, con lo stesso tono stridente di un uccellaccio, scuotendo le piume, sentendosi forse minacciata dal terrore di Qbert. “Però Ennoia ha un sospetto” aveva ripreso l'arpia a parlare mentre Qbert cercava di farla calmare, ma sembrava anche lui in procinto di esplodere.

Lei invece si era tirata su, Jude aveva lasciato le sue mani ed anche lui sembrava aver ripreso la concezione del mondo, le aveva lanciato uno sguardo che era per metà spaesato e per metà annegante nel disagio, “A quanto pare parli” aveva stabilito lei, non voleva essere cattiva, ma erano stati in compagnia un'intera settimana e quello non aveva emesso mezzo suono.
Jude aveva battuto le ciglia, aveva ora occhi tondi di un celeste vibrante, poi aveva abbassato lo sguardo rendendosi incapace di sostenerlo, “Comunque grazie” aveva detto cercando di essere un po' più gentile, mentre si avvicinava alla macchina per recuperare la cose che aveva lasciato all'interno durante la sua frettolosa fuga, ormai tutti i rampicanti si erano seccati ed erano caduti morti a terra. Ci aveva impiegato un po' ed aveva tirato via la spada incastrata e messo a tracolla la borsa, aveva anche inalato la mano dentro quest'ultima per poter tastare il ramo d'erica. Andava ancora tutto bene.
Aveva preso la spada di Jude, era nera, pesante, il solo toccarla le aveva dato una profonda inquietudine e l'aveva allungata al ragazzo che si era alzato, “Aspetta” aveva bisbigliato lei, posandoli delicatamente la mano sul viso, avvolgendo il naso, imbrattandosi inevitabilmente il polso di sangue.

Ti en glicea tu si nifta ti en oria” aveva canticchiato con un certo nervosismo, non sembrava aver rimarginato nulla, principalmente perché non vi era nulla da rigenerare, l'epistassi di Jude doveva essere stata causata dal troppo sforzo, probabilmente far marcire le cose non doveva essere molto semplice. “Vuoi dell'ambrosia?” aveva chiesto poi lei, allontanando la mano e pulendosi il palmo sulla camicetta nuova, Jude aveva scosso il capo, mordendosi un labbro; perché aveva deciso di chiudersi di nuovo nel mutismo?
Nel frattempo Qbert era riuscito a calmare sia se stesso che Ennoia, adesso erano fermi tutti e quattro, come stupidi, sul ciglio di una strada con una macchina distrutta ed una divinità probabilmente desiderosa di ucciderli. “Odio la mia vita” aveva sussurrato Heather con un tono di voce basso, mentre incrociava le braccia sotto il petto, guardando smarrita la strada, chiedendosi cosa avrebbero dovuto fare in quel momento.
“Ennoia può portare uno di voi” aveva strillato l'arpia, “L'autostop non possiamo mica farlo” aveva sentenziato Qbert, con la loro fortuna e ci avessero provato avrebbero probabilmente preso uno strappo dalla morte, aveva pensato Heather, e questo le aveva dato un'idea.

Aveva svuotato le sue tasche per vedere quanta pecunia effettiva aveva, la bellezza di diciotto dollari e un penni, una carta di credito platino – doveva ancora ringraziare Cecil per quello – e un gruzzoletto di dracme sistemate in un sacchetto.

“E speriamo funzioni” aveva sussurrato, prima di lanciare una moneta d'oro sull'asfalto e recitare: “Stêthi, Ô Härmä diabolês” per un lungo momento non era accaduto nulla, poi l'asfalto aveva inghiottito la monetina e s'era sollevato da questo un inteso fumo nero, coltre degli abissi. “Non sarà mica...?” aveva cominciato Qbert, mentre il fumo si faceva sempre più solido fino a prendere l'aspetto di uno sgagherato taxi giallo, “Si” aveva risposto pratica lei, osservando l'infernale carro della dannazione.

 

“Le tre graie! Le tre graie!” aveva cominciato a squillare Ennoia, mettendo le mani sulle spalle di Jude nascondendosi poi dietro il ragazzo, il che non era una mossa particolarmente strategica, giaché quello poteva avere anche una certa croce di spalle, ma era di media altezza, quindi fin troppo piccolo per poter nascondere un'uccellaccio piumato di quelle dimensione.
Tre anziane signore non molto rassicuranti gli stavano fissando, all'incircia, due avevano gli occhi chiusi, mentre quella più a destra, aveva solo una palpebra alzata, che mostrava un avido occhio venoso, “Grazie per aver chiamato il nostro servizio” aveva gracchiato quella nella posizione centrale, “Non prendiamo mostri” aveva aggiunto precisa l'unica con l'occhio, dietro le loro bocche avevano gengive rossastre, senza denti, no una aveva un dente, dovette notare Heather, dopo che quella con le mani saldamente messe sul volante (che era coperto da una strana peluria dalmata) aveva aggiunto che prendevano però i satiri.
“Che gentili signore” aveva detto galante Qbert, recuperando tutto il suo sfacciato contegno, tirando giù il cappello, mostrando le corna caprine e facendo un singolare inchino, che poi con la sua ossatura da satiro era un po' tutta una risata.
“Ennoia può seguire in volo, lei ha ali forti” aveva squittito l'arpia, affacciandosi appena da dietro le spalle di Jude, che aveva una mezza risata sulle labbra piene, “Dubito, signorinella, tu possa stare dietro i viaggi ombra” aveva commentato con un certo acidume la vecchietta al centro, era senza occhi ne denti, aveva la pelle grigiastra che sembrava essere così tirata sul viso da risultare quasi uno scheletro farinoso. Ennoia era saltata fuori da dietro le spalle di Jude, con le guance piene ed il petto gonfio, quasi cercasse di gonfiarsi come un gatto, “Forcidi!” aveva strillato, con gli occhi azzurri come scheggie di ghiaccio rivolto alle tre sorelle grigie, “Non pensate mai che l'ombra possa eguagliare una tempesta!” aveva strillato, con la voce da rapace, aprendo maestrosa le ali, nere piume come un corvo, sbattute avevano mosso così tanta aria, che Heater aveva dovuto cambiare posizione delle gambe per non ritrovarsi per terra.

“Come ti pare” aveva detto quella con l'unico occhio, “Noi non rimborsiamo” aveva aggiunto quella con il dente, mentre Jude si apprestava ad aprire il taxi infernale per infilarcisi dentro, seguito a ruota da Heather e Qbert che cercava di mantenere la calma anche se i suoi zoccoli picchiettavano ritmici sul tappettino.
“Noi non facciamo beneficienza” aveva subito detto quella con l'occhio, volentandosi verso di loro, era inquietante e spaventosa, ed Heather aveva tirato su tremolante il sacchetto per far vedere le monete, quella aveva appena addolcito un po' il viso, ma lo spettacolo che ne era uscito fuori era grottesco e raccapricciante. “Allora, giovincelli, dove volete andare?” aveva chiesto quella con il dente, la lingua era spaccata e bianca sul disopra, Heather aveva guardato Qbert e Jude e antrambi l'avevano ricambiata con uno sguardo perplesso, “Non siete quelle che sempre sanno dove bisogna andare?” aveva chiesto retorica lei.
Infondo non sapevano bene dove dovesse andare, affidatasi al suo naso Ennoia aveva indicato per sommi capi la loro destinazione, una misteriosa figlia della Notte. “Ogni secolo i mezzosangue si fanno sempre più sfacciati” aveva commentato a mezza-voce quella senza ne occhio ne dente, “Perseo non era così sfacciato” aveva concordato quella con l'occhio solo, “Ma cosa dite mai? Siete diventate bacucche, quello ci ha rubato l'occhio” aveva gracchiato quella al volante, con la lingua che continuava a battere sul dente, “Ma non era stato l'altro” aveva ripreso quella centrale, sicura di se, “Ma no, sono stati entrambi” aveva soffiato quella al volante, il litigio era andato avanti per parecchio ed erano saltati molti nomi fuori, alcuni famosi, altri un po' meno.
Tutte sembravano però concordare che un tale Bill fosse un santo in pratica.
“Signore” aveva cominciato Qbert cercando di farsi spazio, quasi pestando con lo zoccolo un anfibio di Jude, “Siamo davvero colpiti della vostra sapienza” aveva ripreso il satiro e le tre ora sembravano pendenti dalla sue parole.
“Avremmo davvero bisogno della vostra guida” aveva commentato il satiro, “E cosa ci guadagniamo?” aveva chiesto una delle tre grigie, quella che possedeva l'occhio, una sclera patinata di un bianco piuttosto sporco, “La nostra eterna gratitudine” aveva provato Heather. Jude aveva alzato una monetina dorata, ma la graia aveva mosso il capo in cesura netta per sottolineare che voleva qualcosaltro. Heather aveva sentito pesarle incredibilmente le spalle, lì dove suo fratello immortale le aveva lasciato le peste della pestilenza, se ne avessero voluta una?
“Un bel bacio dal nostro bel Jude?” aveva provato il Qbert, con il sorriso capriccioso sulle labbra e gli occhi luccicanti, somigliava in quel momento pericolosamente alla sua versione tiastica con cui lei e Darren erano giunti al campo, che il satiro paranoico con cui aveva a che fare.

L'altro mezzosangue aveva spalancato le labbra e sbarrato gli occhi, prima di rivolgere uno sguardo carico di fastidio al satiro, che presto si era ritrovato attorno alle corna piccoli fiorellini di campo tra i capelli. Heather aveva lanciato uno sguardo perplesso a Jude, che a notare i piccoli boccioli tra i serpentini ricci di Darren, era arrossito con un certo imbarazzo.
Probabilmente questa cosa non la controllava molto bene.

“Ma fammi vedere un po'” aveva commentato la grigia senza nulla, poi ficcando le dita nell'orbita dell'occhio della compagna tirandole via l'occhio.
Heather avrebbe volentieri vomitato a vedere quella scena, portandosi i polpastrelli sulle labbra, l'espressione di Qbert era molto più controllata, invece Jude aveva nascosto il viso tra le mani, una persona profondamente timida.

La sorella grigia centrale si era ficcata l'occhio in una delle orbite, adesso che ne aveva uno in qualche modo il suo viso risultava diverso, principalmente più inquietante di prima, “Fatti vedere ben in viso ragazzino maledetto” aveva constato quella. Heather e Qbert aveva voltato il loro sguardo verso il loro amico, anche un'altra graia si era voltata – non quella alla guida – sebbene avesse le palpebre aggrinzite calate. Jude aveva tolto le mani per rivelare il suo volto, un ovale tondo, con occhi neri come la fuliggine, che sembravano brillare come stelle nere, aveva un naso dritto e stretto, non si poteva dire che fosse brutto. “Ragazzino maledetto?” aveva domandato Heather invece, rendendosi conto di quelle parole, “Carino” aveva constato quella.
Le sorelle grigie si erano guardate tra di loro, come a valutare il ragazzino, nel frattempo l'intero carro della dannazione si stava riempiendo di fiori di lillà ovunque, “Accettiamo” aveva constato quella con la sua voce gracchiante da vecchia. Heather aveva temuto che Jude vomitasse lì seduta instante, ma al contrario quello si era sposto ed aveva appiccicato le sue labra su quella delle vecchia.
“Alla mia età una si aspetta un po' più di passione” aveva constato quella, mostrando le sue gengive, prima di voltarsi, erano partiti ad una velocità spaventosa, le graie non si erano degnate di spiegare loro la direzione, avevano preferito mettersi a litigare perché solo una di loro aveva ottenuto un bacio.
L'unico in oltre tre mila anni a quanto pareva.

 

Heather aveva guardato Jude, mentre questo continuava a passare l'avambraccio sulle labbra come a pulirsi, “Grazie” aveva commentato Qbert, mentre cercava di strappare tutti i fiorellini dai suoi capelli, ma invece di diminuire questi avevano continuato ad aumentare.
“Ragazzo maledetto?” aveva chiesto nuovamente lei, guardandolo attentamente, “Oh si” aveva risposto una delle tre graie, “Non il solo a quanto pare. Cassandra non ti ha forte predetto il destino?” aveva domandato retorica quella che era al volante.
Lei aveva sentito il freddo piombarle addosso, ricordando bene la pazza dai capelli rossi che le aveva preannunciato che stocchi letali di qualcuno dagli occhi verdi le avrebbe concesso la morte. Profezia a cui lei si era fidata ciecamente, lì invece dove Qbert rifiutava di credere.
Cassandra era dunque la donna dai capelli rossi?
“Siete stati sfortunati” aveva commentato la signora grigia più a lato, “Cassandra, Matelda e siete diretti a Sciro” aveva commentato.
“Matelda?” aveva pronunciato Jude, aveva una voce bassa, fin troppo gutturale da accostare ad un viso pulito come il suo, “Sciro?” la voce di Qbert era un po' più acuta e spaventata, per un momento era stato come se il panico vibrasse nella carro della dannazione.
Heather era ancora divorata dall'idea della pazza Cassandra … era quella della guerra di Troia? Quella che profetizzava tragedie destinata a rimanere inascoltata.
Era stato Apollo a farle quella maledizione, perché la giovane non si era voluta concedere.
“Si, la figlia di Gea” quella frase pronunciata dalla voce da cornacchia di una graia aveva svegliato il suo vorticare di pensieri, “Chi?” aveva chiesto lei perplessa.
“Matelda?” aveva risposto Qbert con un tono che le aveva ricordato i professori quando la trovavano disattenta, “Una figlia di Gea?” aveva chiesto lei ancora. “Poison Ivy” aveva replicato Qbert, il loro livello di conversazione non doveva sembrare molto brillante, “Si, Q. ho capito che era lei, solo è davvero una figlia di Gea?” aveva insistito. “In vero è una manifestazione di Gea, una sorta di appendice, un ...” aveva cominciato quella alla guida, “Emanazione” l'aveva corretta invece un'altra, “Una parte della grande dea madre con una vita propria” aveva constatato.

“Oh smettetela, lo sapete che non è vero! Non del tutto” aveva gracchiato quella che era alla guida, voltando lo sguardo verso le sue sorelle, dimenticando la strada e finendo quasi per mandare il taxi sullo sferrato, “È una mezzosangue, nata dall'incrocio del seme d'un uomo sulla terra nuda. È una mezzosangue che ha raggiunto il grado di dea per via della sua esimia morale” aveva ripreso a parlare quella che guidava.
Poi si erano messe a litigare su quale versione fosse quella vera, erano molto vecchie e le storia dei secoli si era fusa nelle loro memorie in maniera non più troppo lucida, l'unica cosa su cui concordavano tutte e tre era che Matelda discendeva da Gea. Quella che ora possedeva l'occhio era certa che il carattere della dea fosse sempre stato duro come la roccia e fastidiosa, mentre le altre due erano certe che in principio ella fosse buona e cara, che la crudeltà dell'uomo l'avesse resa cruda. Le tre concordavano di nuovo sul fatto che Ade colpito dalla sua inflessione morale, che l'aveva disposta alle sue dipendenze, dove pareva quella avesse operato negli ultimi sette secoli, all'incirca, ma a quanto pareva da che Gea si fosse palesata sua figlia aveva pensato bene di unirsi a lei.
“Ha scelto sua madre” aveva constato Heather con un tono forse fin troppo neutrale, tenendo le mani sulle ginocchia, “Una brava figlia!” aveva gracchiato una delle graie.
“Perchè ci vuole uccidere?” aveva chiesto Heather sollevando lo sguardo, infondo poteva capire la stupida purga che avessero messo in scena i nemici di suo padre, ma adesso anche Gea doveva inviare sua figlia ad ucciderli? Cioè, si, poteva comprendere che madre terra avesse dei problemi con un po' tutti i mezzosangue – cioè gli considerasse delle cimici nel suo armadio – ma non era un tantino presa dai sette della profezia?
Nel senso, Heather non voleva essere cattiva – voleva molto bene ad Annabeth e Leo era molto simpatica – ma non avrebbe dovuto devolvere tutte le sue energie e compagni contro di loro?
“Oh be, perché pensa voi possiate trovare l'arma” aveva detto serafica una delle graie, poi un muro di rovi si era sollevato davanti alla strada.

“La nostra corsa finisce qui!” aveva strillato una delle Graie, inchiodando il pedale del frano, mentre un'altra si applicava per tirare il freno a mano, e loro si erano ritrovati quasi sballottati avanti per il brusco arresto. “Anche perché più avanti non saremmo potute andare” aveva detto quella con l'occhio, “Ma la vostra amica è a Sciro, o lo sarà a breve” aveva aggiunto, mentre gli sportelli s'aprivano da soli per sbalzarli fuori tutti e tre – ed alleggerirli delle dracme. “Ricorda, Heather della Fraudolenza, usa con cautela le tue armi” sentì una delle grigie sussurrare, senza poter scorgere quale, sentendo il suo petto vibrare a quelle parole, poi aveva strusciato a gran velocità il braccio sull'asfalto e solo il dolore per un momento si era fatto sentire, quando era riuscita a riprendersi aveva visto gli occhi di Matelda puntati sui suoi.
“Fantastico” era stato il suo unico commento sfoderando la spada per puntarla alla gola dell'altra, va bene aveva una spada di bronzo celeste che poteva ferire un dio e questo era il problema: Matelda era una dea, che ci fosse nata o diventata non importava, poteva solo ferirla. “Per quel che vale morire per mano mia sarebbe il meglio che ti potrebbe capitare” le aveva detto la dea con sicurezza, mentre lanciava uno sguardo ai suoi amici, Heather s'era voltata verso di loro, Jude stava aiutando Qbert a mettersi sulle zampe, di Ennoia nessuna traccia.
“Il mio nome è letteralmente: per la letizia. Ti pulirò dai tuoi dissidi e ti accompagnerò nell'averno, dove potrai trovare riposo per sempre” aveva commentato Matelda tranquilla.
“Passo” era stata la risposta di Heather che era scattata in avanti per ferirla con estrema sicurezza, guidata forse dal dettaglio degli occhi, dalla consapevolezza che non avrebbe potuto morire per mano di quella dea. Un braccio della dea si era fatto quercia e la spada lo aveva scavato senza però ferirlo, “Perchè i mortali si ostinano ad allungare la loro sofferenza?” aveva chiesto Matelda, mentre stendeva il braccio ancora umano verso i suoi amici, aveva chiuso il palmo e dalla terra, fregandosene dell'asfalto, mani di terra si erano scavate un'uscita.

“Tanto non morirò per mano tua” aveva sentenziato Heather continuando a tenere la spada pronta all'attacco, Matelda le aveva sorriso, “Giusto, giusto, la profezia ...” aveva commentato quella, prima di toccarsi con le dita le palpebre chiuse degli occhi, quando aveva sollevato le ciglia, lì dove erano state pozze azzurre si erano rivelati scintillanti iride come il veleno. “Una dea a molteplici forme, figlia di Apollo” l'aveva presa in giro la figlia di Gea con un sorriso di zucchero, “Appunto!” aveva strillato Heather affondando improvvisamente, Matelda s'era tirata via senza però riuscire ad evitare che la lama le scavasse la carne del braccio.
Cassandra le aveva predetto la morte per mano di occhi verdi, se fosse stato un dio non avrebbe potuto fare una cosa del genere, forse non era nulla a cui appellarsi, ma la verità era che conosciuta quella profezia Heather era certa che avrebbe saputo di chi fossero gli stocchi letali che l'avrebbero condotta all'averno.

 

Matelda si era toccata il braccio dove icore dorato aveva preso a scendere a flotti, aveva guardando il suo palmo della mano insozzata e Heather aveva potuto vedere il bruciore dei suoi occhi ardere. Qbert aveva scoperto nel frattempo che anche con tutto l'impegno che i golem di terra, fango ed argilla creati dalla dea sembravano sordi al panico, probabilmente perché inconsci, mentre Jude aveva strillato pavido quando l'aveva sentito urlare. Così il satiro aveva dovuo andare giù con la sua fionda di piccole palline di fuoco greco, la cosa buona era che quei dannanti golem bruciavano come fiaccole.

Jude usava la spada nera come uno schermidore professionista conficcandola nei golem, sebbene questa rimanesse impiastricciata senza far alcun serio danno, ma quando riusciva a toccargli con la punta delle dita questi si disfacevano come fanghiglia.
Sembrava che la morte aleggiasse profonda in lui; “Ti stai distruggendo” aveva urlato il satiro, mentre con una bomba prendeva un golem che si era avvicinato troppo ad Heather, che era in allerta con gli occhi rivolti alla dea, “Strappa il cuore, così non dovrai ricorrere ai tuoi poteri” aveva aggiunto, ammiccando a Jude, rivoli di sangue avevano già preso a colare dal suo naso.

La cosa era stata utile, all'incirca, non importava quanti Golem fossero abbattuti, ne venivano sempre di nuovi: Matelda era figlia della terra stessa, se era da essa che attingeva il suo potere allora non importava quanti ne avrebbero uccisi, lei aveva una riserva infinita.

Un pugno duro come la corteccia di un albero si era schiantato sul suo ventre facendo atterrare Heather a qualche metro di distanza, con un dolore così lancinante sullo stomaco e la difficoltà nel respirare. La terra aveva tremolato, mentre con fatica facendo letteralmente eruttare l'asfalto piante d'ogni genere si erano sollevata da terra, rampicanti e liane avevano allacciato le sue estremità portandola nella posizione di una stella, una radice gli aveva circondato il collo cominciando a stringerlo. “Preferisci essere soffocata, squarciata o … eviscerata?” le aveva chiesto Matelda avvicinandosi, raccogliendo la spada che Heather aveva perso.
Everybody sing this song, DooDah, DooDah ...Well everybody sing this song all the DooDah day” le parole Heather non sapeva da dove gli fossero usciti, erano stati quasi un gesto casuale, pensando che Matelda l'avrebbe uccisa gli era venuto in mente Lee. Suo fratello maggiore, con il sorriso di chi la sapeva sempre lunga ed il talento nei duelli, la musica è una delle armi più potenti di Apollo, questo le aveva detto una volta, Heather non ricordava bene le circostanze, solo che lei era seduta sulla branda sotterranea del letto a castello e Lee che le faceva quel discorso.
Quando non sai cosa e come farla, canta, la musica è un'arma potente, se le ricordava quelle parole.
La musica poteva evocare molto, in tutto ciò che aveva vita, plasmava le emozioni. “Cosa stai facendo?” aveva domandato Matelda crucciando la fronte, osservando che nonostante la canzoncina stupida che stava facendo non aveva funzionato nulla contro le erbacce. Ma la confusione che albergava sul viso della dea aveva comunque fermata le radici e le liane che avevano cercato da un lato di strozzarla dall'altro di squartarla. Era solo prigioniera, almeno.

Hit the floor, now dont be shy, flip flop until you die … Then give me all your ba bababa, do your thing, say DooDahDah” le aveva risposto semplicemente Heather mentre cercava di sollevarsi da terra, no, non aveva avuto alcun effetto sulle piante ma su di se si, aveva sentito la forza pomparle dentro e sapeva che non era stato solo per lei, visto che due fiori erano sbocciati dalle palpebre di Matelda occupandole la vista.

Jude era comparso al suo fianco strappando la radice dal suo collo e facendo appassire quelle che le bloccavano le articolazioni, sembrava quasi iridescente, la musica di Heather sembrava averlo rianimato ed anche Qbert che faceva esplodere golem come fuochi d'artificio il quattro luglio, anche Ennoia si era manifestata cavando i cuori dal petto con i suoi lunghi artigli da rapace.

 

Matelda aveva strappato i fiori dagli occhi mentre icore dorato aveva cominciato a scendere come lacrime dagli occhi, “Piccolo farabutto” aveva ringhiato la dea mentre i fiori che ora insozzavano le sue mani si erano liquefatti. Jude non aveva perso un solo momento per piantare la sua lama nera come il fumo nel centro dei seni della dea passandola da parte a parte. Prima c'era stato lo stupore, poi il dolore, il sangue dorato aveva cominciato a zampillare dalla ferita della dea, ma il sorriso sul viso di Jude era durato il tempo di rendersi conto che Matelda, nonostante il dolore, lo stava fissando incazzata.
“Se almeno avessi usato i doni di tua madre” lo aveva preso in giro, afferrandolo per la gola e cominciando a stingerlo, ancora una volta il suo braccio si era rivestito di una corazza, ma Jude aveva lascia l'esla della spada per posare le mani attorno al polso legnoso di Matelda, cominciando a far marcire il legno, Heather aveva continuato a cantare per dare a tutti la forza.

La dea aveva dovuto far cadere Jude e questo aveva dato il tempo anche a lei di recuperare la manovrabilità delle membra per afferrare la sua spada e sperare di riuscire a colpire Matelda, finendo per ficcarle la lama di bronzo nella spalla.
Come il ferro di stige – suppone Heather – il bronzo celeste non aveva recato grossi danni alla dea, se non aver fatto aumentare il numero di golem e di piante che avevano infestato la strada, c'erano anche acuminate spine di grano che erano affilate come rasoi.
La cosa non andava molto di gusto, visto che i cereali era qualcosa che associava con troppa nostalgia a Darren. Un melagrano le era letteralmente esplosa accanto come una granata, innumerevoli semini sparati in tutte le direzioni duri come piombini, Jude aveva eretto una specie di muro, anzi no, rete composta da foglie di banane. Non aveva avuto una resistenza invidiabile, ma aveva comunque attutito il colpo.
 

Heather aveva cercato di afferrare i raggi del sole per sparargli negli occhi della dea giusto un po' per distrarla e cercare di concentrarne una quantità tale per aderirne la terra, mentre Jude cercava di difenderli oltre che dalle piante e i golem – buona parte di loro erano stati attirati da Ennoia e Qbert – anche da dei verdognoli puttini che esplodevano in cereali.
“Io non morirò qui!” aveva sentenziato Heather con sicurezza, mentre cominciava a vedere che in alcuni punti la troppa luce stava davvero infastidendo le piante, certe piante erano sensibili, ma la cosa non stava funzionando alla grande – infondo Matelda era riuscita a far germogliare l'edera in un motore.
Heather della Fraudolenza, usa con cautela le tue armi, la frase che una delle sorelle grigie gli aveva detto prima di sbalzargli fuori dalla macchina le era venuta in mente in quel momente, mentre rifletteva come ferire la figlia della terra stessa. Lei aveva delle armi, aveva delle armi davvero pericolose …
Gioca pure con la fraudolenza

regina della pestilenza

parte della profezia di Cassandra gli era piombata addosso per la prima volta invece di affossarla e deprimerla l'aveva tirata su, fino al cielo.
Si era voltata di scatto verso Jude che aveva crucciato le sopracciglia, notando forse il sorriso luminoso che Heather era certo stesse illuminando il suo viso, mentre lei allungava una mano per cogliere una delle frecce dalla sua faretra.
Le graie avevano detto che doveva usarle con cautela, intendevano che doveva usarle con attenzione o che doveva distribuirle con attenzione?Forse quello non era il momento per preoccuparsene.
Aveva afferrato la freccia dalle piume che ne stavano sulla sommità ed aveva potuto già percepire da se l'angoscia risalirle dalle dita fino al petto, c'era qualcosa in quelle armi che le faceva girare la testa e seccare la gola. E Jude aveva capito, il suo viso si era fatto cereo ed una smorfia di fastidio si era allargata sul viso, quasi incontrollata, anche lui sembrava risentire delle emanazioni della freccia.
“Dovrò avvicinarmi” aveva sentenziato poi guardando Jude, chiedendosi mentalmente come, come avrebbe fatto ad avvicinarsi abbastanza a Matelda per conficcargli la pestilenza dritta nel petto, non ne aveva la minima idea, ma era rincuorata dal fatto che era certa che non fosse Matelda che l'avrebbe uccisa, anche se tecnicamente in quel momento aveva gli occhi verdi. “No” aveva detto Jude ed era proprio strano sentirlo il suono della sua voce, “Ho un piano” aveva aggiunto con sicurezza.
“Oh, be, non parli mai ma quando lo fai sei incisivo devo dire” aveva scherzato Heather guadagnando una pessima occhiata da parte del ragazzo che aveva deciso di abbandonare la loro rete di sicurezza fatta di banani senza curarsi mica di spiegarglielo il piano, eh no troppo preziosa la sua voce, andava distribuita con il contagocce.

“Dove va adesso?” aveva chiesto, prima di ricordarsi che un cacutus aveva deciso di suicidarsi lasciandosi contro di lei, mentre lei lo apriva in due con la sua spada, meno male che Matelda se le era sfilate dal suo braccio.

Heather aveva visto Jude lanciarsi contro la sua borsa, che nello sbalzo per scendere dal taxi non era finita proprio fuori a lui, “Dimmi che non vuole farle una doccia alla ciliegia” aveva commentato Heather con un po' di perplessità nella voce, ma le mani di Jude audaci nel lanciare fuori oggetti si erano acquietate solo quando aveva estratto il rametto d'erica.
“Non mi è stato d'aiuto fin ora dubito lo sarà adesso” gli aveva informato lei con una certa tristezza, no, onestamente non voleva smorzare un regalo di suo padre, ma si era allungo chiesta perché mai il dio della medicina, della musica e del sole le avesse regalato una pianta.
In realtà aveva scoperto che l'erica avesse una qualche capacità mistica, come tenere il male lontano, nonché Heather ne potesse davvero essere sicura, non era mai uscita per una missione prima di quel momento – e nonostante l'incontro-scontro con Cassandra e Matelda, era ancora viva – ma sapeva che anche nei momenti in cui gozzovigliava nel mondo dei mortali duranti l'inverno non gli era mai capitato nulla di grave, quindi si forse era un po' un porta fortuna.
Ma onestamente non ne poteva essere sicura.
All'inizio doveva ammettere, con un certo imbarazzo, che aveva pensato che Apollo glielo avesse regalato per Darren, per il loro legame, qualcosa come “Si, tesoro, approvo” e tanto di strizzata d'occhio, anche perché aveva spesso dei dare alla loro prole regali che in battaglia si rivelavano davvero efficaci, tipo il cappello che rendeva invisibili o …
Jude aveva appena reso il rametto d'erica un arco.
Oh.

 

Jude le aveva regalato un sorriso piuttosto luminoso sulle labbra, prima di rotolare per terra per evitare una granata di un cactus per raggiungerla. Lei gli era corsa incontro senza curarsi in effetti di guardarsi le spalle, forse offrendo a quella pazza di Matelda la più grande delle sue occasioni, lanciando poi via anche la spada continuando a tenere in una mano la freccia, che sembrava succhiarle via la voglia di fare qualsiasi cosa.
Aveva continuato a cantare quasi sperando che la cosa potesse avere una qualche utilità.
Jude le aveva allungato l'arco, mentre con l'altra mano riusciva a ricreare la sua rete di foglie sottili per evitare che i putti cerealosi implodessero come piccole granate.
L'arco non era liscio come quelli che aveva provato al campo, non era neanche così pesante e rigido, sembrava fatto di qualcosa di più malleabile, ma le aveva dato una sensazione di pace che aveva equilibrato la gravità della freccia.
Era nodoso, di un legno molto chiaro, aveva foglioline verdi ispidi che lo rendevano orribilmente scomoda da impugnare ed era puntellato di fiori violetti. “Posso farcela” aveva stabilito, mentre con la memoria richiamava un po' tutti i fallimenti che aveva avuto con il tiro con l'arco al campo, aveva ammesso di aver eccelso in altre abilità da figlia di Apollo, forse era stato per quel motivo che quando era partita non si era premurata di prendere un arco.

“Ne sei certa?” la voce di suo fratello Ascelpio gli era piombata in testa, ricordando quando il dio le aveva offerto le frecce e lei aveva risposto di non avere un arco, c'era un tono canzonatorio nella sua voce ed in un certo senso complicità.

Ascelpio doveva saperlo che nel male e nel bene alla propria eredità non si scappava.

“Devi” aveva mormorato Jude, oltre che dal naso, anche gli occhi avevano cominciato a lacrimare rosso, il suo viso era secco come la carta, le vene risaltavano blu in maniera spaventosa, gli occhi sembravano infossati, oltre che la sclera opaca.
 

La rete di Jude si era disfatta come neve al sole, non riuscendo più quest'ultimo a tenerla in piedi; Heather aveva tenuto saldamente il suo arco, lasciando che le foglie acuminate graffiassero la pelle, fino in fondo, mentre tendeva la corda – non gli era chiaro di quale materiale fosse fatto – dove la freccia sembrava fremere per essere tirata.
Adesso che era pronta all'attacco sembrava quest'utlima essere animata di una vita propria, la sua aurea pestilenziale sembrava ardentemente più bruciante della calma dell'erica, “Papà ...” mormorò lei piano, cercando di non farsi vincere dallo sconforto che la freccia bruciava sulle sue dita.
“Darren ...” aggiunse senza accorgersene, centra il bersaglio, trova l'arma, torna da lui, pensieri precisi, scanditi.
Il viso di Matelda si era fatto sconfortato, le labbra aperte e gli occhi sgranati, tutta la sua sicurezza era stata lavata via dalla consapevolezza, aveva riconosciuto la portata dell'arma che Heather brandiva, ma era come se il miasma che animava la freccia l'avesse già colpita, mentre questa ancora vibrava nelle corde. Heather aveva scoccato la freccia, l'attimo prima che Jude collassasse incapace di mantenere più le nefande erbacce di Matelda e l'attimo dopo che un golem avesse colpito in pieno Ennoia facendola schizzare verso di lei, ritrovandosi così investita dall'ingombrante peso di un'arpia.
La freccia aveva tagliato l'aria, inchiodando nel petto la sua vittima, fin troppo intorpidita dallo spavento per potersene sottrarre.
Per un momento Heather, che si era scrollata di dosso Ennoia forse senza molta grazia, aveva potuto osservare la punta conficcarsi nel senso, uno zampillo d'orato ma nulla di eccessivo, tranne il viso inorridito di Matelda, ma poi l'icore aveva perso lo scintillante dorato per macchiarsi di un grigio viscoso, il viso si era ridotto come se tutti i liquidi fossero svaniti, la pelle coriacea e grigia.
Quando Matelda aveva toccato il suolo esanime, era stato come se l'intera terra avesse ricevuto un colpo, aveva tremato, poi aveva cominciato a brontolare, zampillare sangue e marcire da ogni dove. Il miasma gli aveva colpiti in pieno.
I golem si erano liquefatti, le piante si erano seccati per distruggersi alcune nella polpeve e le altre cadere come corpi molti.
Qbert aveva cominciato a piangere, tremante quasi scosso dalle convulsioni, ma era riuscito a zampettare verso la dea stesa al suolo, che vomitava bile verdastra di continuo, mentre Ennoia strepitava come una gallina senza testa, “Cosa hai fatto ad Ennoia, maledetta” strillò verso di Heather. Lei d'altronde aveva abbandonato l'arco, che aveva ripreso il consueto aspetto dell'erica per strisciare verso Jude che riverso per terra continuava a perdere sangue, ma le forze le erano venute meno e si era ritrovata accasciata a terra a rimettere tutto ciò che aveva mangiato da … sempre.

“Non è morta!” sentì Qbert strillare, “Ennoia è preoccupata” aveva strillato l'arpia, ambe due sembravano ora essersi ripresi improvvisamente dal portentoso miasma della freccia, ma ne lei ne Jude sembravano poterne godere.
Aveva cercato di strisciare fino a lui, senza risultati, aveva allungato una mano verso il ragazzo, con le dita e riuscita a sfiorare la mano di quello, ma senza riuscire ad afferrarla, aveva cercato di cantare ma al posto della voce era uscito altro rigurgito. “Ragazzo-capra, Ennoia non sa cosa deve fare” c'era sincera preoccupazione nella voce dell'arpia, la risposta di Qbert era arrivata ovattata e distorta.
E poi aveva sentito il ruggito di un leone, l'unico rumore chiaro.

 

 

Bonus

Se avesse dovuto dire quale fosse il lato positivo … be, avrebbe taciuto.
Non c'era nessun fottuto lato positivo, la sua migliore amica era morta.
L'unica cosa che proprio non faceva schifo era che nonostante avessero perso i loro bagagli a seguito dell'attacco di Tizio, Manto aveva trovato loro dei vestiti - e la cosa era comunque pessima.
E Carter se n'era andato, la pira di Joe non si era ancora spenta quando quel fedigrafo figlio d'Apollo aveva fatto bagagli e baracchini e se n'era andato, accompagnato da Grace l'Empusa, Drew delle argille e Cenis la lapita e ciao. “Scusa Lauren devo andare a salvare Heather non vorrei finisse come la tua amica”, va bene, la figlia di Afrodite doveva ammettere che l'altro mezzosangue non si fosse congedato con quelle parole, anzi in realtà c'erano state parecchie lacrime, rimpianti e palata a tristezza.
Ma ciò non toglieva che se n'era andata con quella stramba compagnia – quattro porta male, questo l'aveva detto anche Manto – ed aveva lasciato a lei Marlon.

Tanto era diretta al campo, Marlon aveva bisogno di un posto sicuro dove stare e a lui comunque l'ingresso era intercesso fino alla fine dei tempi probabilmente.
E Lauren non lo sapeva perché sentiva tutto mangiarle gli organi, come se la rabbia, il rancore e qualsiasi cosa ribollissero dentro come lava cocente, se si escludeva che fosse morta la sua migliore amica.
Ma era sempre stata abbastanza sveglia, si rendeva conto che tutto quel fagocitare di rabbia sembrava in parte davvero avere una natura diversa.

Marlon cercava di non singhiozzare, ora che le mani di Carter e Grace si erano allontanati dalla sua stretta sembrava molto meno infantile ed immaturo, sembrava un giovanotto, ma ancora ben lontano dall'idea che aveva Lauren dei dodicenni, per diana, al campo gente dell'età di Marlon aveva salvato il mondo una volta o due.
Emma aveva deciso di gestire il lutto dell'amore della sua vita invece in una maniera un po' strana, dispetto di quanto si credesse i figli di Ares non erano spiriti molto repressi, anzi Lauren pensava avessero l'incredibile capacità di provare pathos un po' per tutto e di manifestarlo senza mezzi termini, il fatto che fossero spesso animati da rabbia non rendeva comunque strano che manifestassero con la stessa intensità amore e dolore. Però Emma aveva deciso di starsene zitta, seduta sopra un divanetto, con ancora l'abito nero che Manto le aveva prestato, che le scivolava dalle spalle a non fare assolutamente niente.
Non urlava, non si dimenava, non imprecava, al massimo strusciava il polso sugli occhi per asciugare qualche lacrima che proprio non voleva restare nelle cornee.
E la cosa faceva ancora più infervorare Lauren, perché … perché Jordan era morta e si meritava tutte le urla e gli strilli del mondo e non riusciva a concepire che Emma non si stesse rotolando a terra animata dal dolore urlando contro gli dei e maledicendosi per non esserci stata.

“Bevi” la voce di Manto era arrivata come una campana, si era voltata per osservare la strega che le aveva allungato un bicchiere.
Lo aveva prima odorato, ma il liquido non sembrava che semplice acqua, “Cosa è?” aveva chiesto con un certo nervosismo, “Lo uso per allontanare la nebbia dagli occhi dei mortali” si era giustificata da Manto. Lauren l'aveva guardata con una certa crudezza, “Non ne ho bisogno” aveva constatato, “Bevi” aveva replicato con voce dura la donna, allungandole ancora quel bicchiere.
Lei l'aveva preso con un sorriso un po' caustico prima di buttare la bevanda in gola, a prima acchito le era sembrato fosse semplice acqua, ma poi aveva sentito un retrogusto strano, amaro senza però essere in grado di comprendere cosa fosse.
Però si era sentita diversa, come se improvvisamente qualcuno gli avesse slacciato dei pesi che non si era mai accorta che avesse; “Come ti senti?” aveva chiesto l'indovina, mentre Lauren guardava il bicchiere che aveva svuotato, “Leggera” aveva ammesso lei, prima di lanciarle uno sguardo, “Cosa era?” aveva chiesto poi. “Quello che ho detto, serve per schiarire la vista, anche dalle venefiche influenze” aveva risposto serafica la strega.
Lauren ne aveva preso atto, improvvisamente tutta quella rabbia che gli era rimasta addosso sembrava essersi accettata, continuava a percepire la bile nel ventre ed il magone, la sua migliore amica era morta. Aveva cominciato a sentire gli occhi farsi lucidi e sentire le lacrime premere, “Cosa era successo?” aveva chiesto, passandosi una mano sugli occhi, “La spada” aveva spiegato Manto.
La cosa nell'ottica di Lauren aveva preso improvvisamente senso, si era sentita chiamare quando aveva preso quella lama la prima volta come una forza incredibile.
Quando l'aveva presa l'aveva sentita all'inizio fredda, come qualcosa che non potesse essere compreso, ma poi l'aveva percepita divenire rovente, come fuoco vivo che bruciava sulla sua mano e dopo che aveva colpito lo spettro di Flegias il fuoco era solo aumentato, come se l'anima stessa del re fosse bruciata nella brace di amarezza e rancore ed era solo esplosa in più.
Aveva provato rabbia per la morte di Joe e la spada sembrava essersene nutrita ed in parte averne accesa ancora di più, aveva sentito una rabbia all'ennesima potenza, aveva sentito nel petto lo stesso dolore sordo di Flegias per la sua bambina ed altri mille e mille.

“Liberartene è stata la mossa più intelligente che tu potessi fare, figlia di Afrodita” le aveva detto Manto con un sorriso delicato sul viso.
Tutto quel rancore l'aveva spaventata poi – e nonostante i melliflui effetti fossero rimasti appiccicati addosso – aveva sentito come se la spada l'avesse rifiutata, come se la sua paura fosse motivo di rifiuto della spada. Era pazza stava parlando come se quella avesse avuto vita proprio. “Che Spada era?” aveva chiesto poi, “È cosa poco nota che le Pleiadi siano rispettabili armaiole” aveva cominciato a parlare Manto, “Riptide la spada di Ercole fu forgiata da una pleiade di nome Zoe” le aveva spiegato al strega.
Lauren aveva schiuso le labbra, certa che il nome della spada fosse quella della lama di Percy Jackson, riguardo alla pleiade con quel nome, non se la ricordava, ma aveva capito da un po' che la storia era quella che piaceva raccontare agli dei e non per forza quella che era avvenuta.
“Quella fu forgiata dalla Pleiade Ellettra, per suo figlio Dardano, perché celebrasse la gloria di ...” aveva cominciato a spiegare Manto, “Troia” l'aveva interrotta Lauren, “Come scusa?” aveva chiesto Manto crucciando le sopracciglia, “La città” aveva ammesso la figlia di Afrodite con un un leggero imbarazzo. “Si, per Troia” aveva confermato Manto.
“La spada ha sempre dato una volontà ferrea a chi la impugnava” aveva commentato Manto e per un momento Lauren aveva immaginato la spada come un enorme carica batteria gigante, “Essa rappresentava la gloria di Troia” aveva ripreso l'indovina.
“Ed Enea la ha ceduta a Didone” aveva commentato Lauren sentendo un brivido lungo la schiena a citare il suo fratello più famoso, “Sembra che parli di una spada con una propria personalità sai?” aveva aggiunto lei, prima che Manto potesse riprendere il suo racconto, “Non sorprenderti esistono alcuni oggetti che hanno una coscienza, una volta conobbi un guerriero che mangiava una spada piuttosto chiacchierona” aveva ammesso con un sorriso un po' lezioso sul viso.
Va bene, Lauren quello non se lo aspettava. “La spada ha una personalità, ora, ma non l'aveva allora, non del tutto, aveva qualcosa che infondeva sicurezza e coraggio. Adesso ella è viva, poiché Didone risiede in lei” aveva ammesso Manto. “L'amarezza di Didone ed il potere empatico della spada hanno dato origine ad una combo letale” aveva ammesso quella.
Lauren aveva ricordato che la Regina Didone era stata abbandonata da Enea che gli aveva lasciato come unico regalo di commiato una spada, che era stata fatta per celebrare Troia. Enea aveva sposato una giovane donna italica poi ed Afrodite si era procurata di donargli una nuova spada – ed un nuovo scudo – perché, forse di questo non ne era proprio sicura, Troia doveva essere maestra ma non risorgere, così era il volere di Era.
Didone e la Spada si era mantenuti amareggiati assieme. “Quando la regina di Cartagine maledì la stirpe romana offrì la sua vita come tributo” aveva spiegato Manto, “Così lo spirito di Didone riposa nella spada premendo per avere la sua vendetta ed è accaduto ad ogni anima che è perita per colpa di dare lama” aveva aggiunto. “Tutti prigionieri in eterna agonia finché ogni anima all'interno non sarà soddisfatta” aveva detto Manto.
L'anima di Flegias adesso si tormentava in quella spada, assieme a quella di Didone e chi sa quante altre e mai la spada avrebbe potuto trovare pace ora se anche Carter, Marlon e tutta la stirpe di Apollo non fosse morta, probabilmente mai avrebbe potuto la spada trovare pace.
“Inoltre come tu stessa hai potuto vedere la spada accresce l'amarezza … la rabbia del possessore” aveva spiegato Manto, “Poichè più è grande il rimpianto ed il dolore, più essa diventa forte e più la spada si fortifica più il rammarico aumenta” aveva spiegato poi.
Era un ciclico continuo.

“Credo che l'obbiettivo primo della spada sia spingere il proprietario a soddisfare la sua sete di sangue per poi condurlo a soddisfare la sua” aveva commentato Manto, “Distruggere Roma” aveva detto Lauren, trasparente, “ovviamente, tutti coloro che hanno ferito Roma lo hanno potuto fare armati di quella lama, come Annibale” aveva rivelato Manto un po' lugubre, “Ma la spada ha influenzato anche Didone, volendo vendetta sui Greci e come ti ho detto: chiunque sia morto per quella lama ne ha accresciuto il desiderio” aveva detto Manto.
“Fidati, Lauren Odalisque, un'arma potente hai avuto tra le mani” aveva concesso l'indovina.
“Speriamo Gea non ne venga in possesso” aveva ammesso lei, cercando di alleggerire la morsa allo stomaco che sentiva, l'aveva percepita la malignità di quella spada, una lama che poteva condurre il proprio possessore alla rovina per placare la sua fame di dolore.

Manto aveva schioccato le labbra, “Io mi preoccuperei di chi ora la possiede” aveva detto quella, cogliendo Lauren con un brivido, pensando che quella spada l'aveva donata a Drew della Cera.
“Forse essere in mano ad un Romano potrà riconciliare Didone con il suo antico nemico” aveva concesso lei, pensando che adesso Annabeth Chase e Jason Grace avevano cercato di provare una pace tra i greci ed i romani, che di quei tempi era davvero necessaria.
Manto aveva sorriso in una maniera storta, come se sapesse qualcosa in più di Lauren e non era di fatto da escludere.
“Posso bere dalle acque di Mantova?” aveva chiesto allora la figlia di Afrodite attirando lo sguardo della maga, “Sfortunatamente no” aveva risposto Manto, “Ultimamente sai: la crisi per i mortali, due guerre olimpiche hanno ridotto gli affari di tanto, così io ed Ermafrodito abbiamo dovuto cedere alcune azioni” aveva spiegato quella. “Diciamo che una parte della Fontana di Salamace ora appartiene alla Trimuvirate Holdings” aveva aggiunto l'indovina, “Le acque di Manto appartengono a loro e per entrarci bisogna avere l'autorizzazione dalla loro compagnia” aveva detto.
“Ma hai fatto entrare Carter” aveva commentato Lauren perplessa, Manto aveva alzato le spalle, “Di fatti il contratto è entrato in vigore alla mezza notte di ieri, cosa vuoi che ti dica: Tempismo” aveva risposto quella, passandosi le mani sui pantaloni bianchi.
“Noi andiamo via” aveva stabilito Lauren, “Nessuno vi ferma” aveva stabilito quella, “Per i servigi arrecati e per il vostro lutto non dovrete neanche pagare il conto” aveva spiegato Manto, “O quello di quei quattro che se ne sono andati senza preoccuparsene”

“Grazie eh” aveva soffiato Lauren.
“Buona fortuna ne avrete bisogno” aveva risposto Manto.





 

 

 





N.B.
(La spada che parla è Jack)
Da Magnus Bane ho rubato brutalmente l'idea di dare una personalità vera e propria a La Spada, inizialmente doveva solo essere un contenitore di “rabbia e co”, ma dopo Jack ne sentivo il bisogno, sfortunatamente La Spada, che prima o poi avrà un nome decente, non parla.
Il Triumvirate Holdings sono i cattivi di The Trials of Apollo e tecnicamente la cosa non ha importanta, quando ho pensato questa storia non era ancora finito The Heros of Olympus quindi figurarsi se potevo immaginare TOA, di fatti si vede con l'utilizzo che ho “usato” per le frecce.
Non dirò come sono nel libro, non voglio fare spoiler :P Si, spoiler, ci sono; comunque ho usato il Triumvirato per giustificare perché Lauren non potesse farsi il “bagno” per sapere cosa sarebbe successo, nella versione originale troppo sconvolta semplicemente non si curava di fare quella richiesta, quindi si, come vedete nessuna particolare cambiamento.

 

CHE DANTE POSSA PERDONARMI, giusto a titolo informativo qui trovate Matelda
La mia Matelda, che con quella Dantesca ha poco che nulla in comune, nasce dall'idea che sarebbe piuttosto presuntuoso pensare che Percy sia stato l'unico mezzosangue in oltre due mila anni ad esser divenuto dio e poi che genere di creature sono quelle figlie di dei ma che non sono dei, se esistono a tutti gli effetti?   Ed il cattivo ha subito una serie assurda di cambiamenti: in origine doveva essere un trickster, poi una divinità nordica, poi una celtica, poi un figlio di dei non dio, poi chi più ne ha più ne metta, ma visto che avevo scritto una fanfiction a tema Supernatural sul purgatorio … Matelda, era lì … e …

 

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Capitolo 16
*** Quando bisogna progettare un viaggio: assicurati che la meta non sia un posto di morte e devastazione (Bellatrix I + Bonus) ***



Eccomi tornata! Come sempre in ritardo e chiedo scusa perché questo capitolo nulla porta se non qualche risposta per qualcuno e qualche domandata su qualcun altro. Comunque sia: NUOVO NARRATORE. Ne avevamo bisogno? Probabilmente no, ma era un personaggio che era in caldo da un po’ di tempo, quindi …
Vorrei chiedere scusa per come descrivo gli ambienti perché faccio schifo, in particolare a descrivere un Atollo come quello di Johnston (che si trova nel bel mezzo del pacifico).
Come sempre non ho una beta :c
Comunque sia ringrazio chiunque legga, un bacio.
The Road so Far (Quello che sicuramente avete dimenticato): Dopo la battaglia di Manhattan Bellatrix è scomparsa. Nonostante sua sorella Bernie l’abbia cercata con una certa intensità non è mai riuscita a trovarla fin chè giunta a Nuova Cartagine, bevute le acque infernali e riuscita ad entrare in contatto con sua sorella. Bells era prigioniera, legata su un altare, alla merce di una tale Ify, che non sembrava essere armata di tranquille intenzioni.
Jeha, cacciatrice di Artemide, in compagnia della sua compagna Champ, uccide il risorto Aiace e raggiunte da uno strano dio. Che Jeha conosce e “venera” da tempo, le informa che ciò che loro due stanno cercando è sulla Luna. Letteralmente.


                                                                                      

Il Crepuscolo degli Idoli


Quando bisogna progettare un viaggio: assicurati che la meta non sia un posto di morte e devastazione
 

 
Bellatrix I
 
La lama di Ifigenia si era piantata nel centro del suo stomaco. “Accogli questo mio sacrificio, o Dea” aveva invocato la donna, lasciando l’impugnatura d’osso ed alzando le mani al cielo.
Bellatrix aveva guardato con orrore la lama argentea scomparire nel ventre scuro del suo corpo e rivoli rossi ribollire come lava. Aveva provato a parlare ma il sangue le era arrivato fino alla lingua.
Così alla fine moriva?
Era contenta di esser riuscita a rivedere Bernie … anche se solo per un momento … anche se non era stata veramente lì.
Me la so cavare, certo come no.
Be, nonostante la sua impudenza, alla fine gli dei le avevano fatto un dono, no?
Non era stato un pugno quello che aveva colpito il suo naso, ma era stato ugualmente doloroso e tangibile. Era stata costretta ad una torsione del suo viso che l’aveva portata a deconcentrarsi, qualcosa che in uno scontro non poteva concedersi. Aveva voltato cattiva gli occhi verso il suo avversario, ma prima che potesse metabolizzare da dove sarebbe arrivato il prossimo colpo aveva sentito l’aria nella sua gola farsi di fiamma. Bruciava tutto. Non riusciva a respirare.
Era una mano inconsistente, di una leggera aurea violacea rarefatta, quella che si stava stringendo sul suo collo. Magia.
“Sei troppo impulsiva e distratta” aveva soffiato con un certo sdegno il suo avversario. Lui aveva abbassato la mano che rifulgeva di rune splendenti e lei aveva potuto sentire la presa mancare.  Era caduta per terra, con le mani sulla sua gola, respirava a fatica, ma con una certa urgenza e prepotenza. Poi aveva sollevato gli occhi per incrociare il verde veleno dello sguardo di Alabaster. “Così ti farai uccidere e farai uccidere tua sorella” aveva impartito quello, chinandosi per allungare una mano verso di lei, che aveva afferrato con una certa incertezza, poi si era lasciata aiutare per tirarsi su.
“Non posso farci nulla. Sento questa irrefrenabile energia che mi dice di agire” si era giustificata lei con una risata, mentre passava le mani sulle spalle di Alabaster.
Erano definite e le sue braccia accoglievano un leggero accenno di muscoli. Peccato si preoccupasse molto di più nell’arte della magia che nella lotta. “Allora morirai, Bells” aveva detto lugubre lui.
“Duelliamo con la spada figlio di Ecate, concedimi la vendetta” aveva risposto melliflua.
Aveva ripreso a respirare con una fatica immensa, ma aveva aperto gli occhi, aveva ancora il favore del ferro in bocca. Aveva allungato la mano, trovandola sciolta dalle catene ed aveva sfiorato con le dita il ventre, lì dove Ifigenia aveva piantato la lama, e non aveva trovato nulla, neanche un graffio. In verità non aveva neanche trovato l’orlo della sua maglietta, ma solo una lunga veste.
“Ti sei svegliata, portatrice di guerra” l’aveva presa in giro una voce. SI era voltata di scatto per incrociare Ifigenia con lo sguardo, seduta al suo fianco che sferruzzava.
Aveva cercato di ritrarsi ed era caduta giù dal letto, finendo per portarsi dietro anche le lenzuola bianche.
“Tu mi hai accoltellata!” la frase di Bells era uscita fuori senza alcun controllo. Aveva sollevato la veste che indossava – non era sua! – notando che oltre le mutande – almeno quelle erano sue – sul ventre scuro neanche una sottile linea della cicatrice. Aveva fatto saettare lo sguardo verso la donna che senza remore continuava a sferruzzare. Gli occhi di Ifigenia apparivano molto più umani di quanto fossero stati prima, mentre la pugnalava.  “Non posso negarlo” aveva confermato la donna, mentre continuava a far girare il filo dei ferri argentei con movimenti sinuosi, “Ma non ti ho ucciso” l’aveva rassicurata quella.
Come? Perché?
Erano ruotate nella mente di Bells, aveva messo una mano sul suo orecchio, trovando il pendente a forma di spada, aveva ancora la sua arma! Aveva cercato di tirarsi su ma appena aveva disteso le gambe le aveva sentite fatte di gelatina, sarebbe caduta se un’altra donna non l’avesse afferrata per la vita.
Capelli biondi come fili d’oro, era un’altra di quelle pazze donne che l’avevano catturata quando era giunta lì. “Signora, cosa dobbiamo fare?” aveva domandato ad Ifigenia, continuando a tenere Bells per la vita.
“Noora, falla accomodare a letto” aveva risposto Ifigenia, circumnavigando il letto, dopo aver abbandonato i ferri, e facendola accomodare di nuovo sul mobilio.
Le aveva messo le mani sulle guance, le sue dita erano bollenti come il fuoco, “Sembri sana, ma non lo sei, non del tutto” le aveva detto Ifigenia.
“Dell’acqua di …” aveva provato a boccheggiare Bells, “Lo so” l’aveva rassicurata Ifigenia, carezzandole il viso, “Noora!” aveva impartito alla donna dai capelli biondi. Quella aveva lasciato la sua vita ed aveva provveduto ad eseguire il muto ordine di Ifigenia.
“Non dovevi uccidermi, Serena Joy*?” aveva sussurrato Bells, sentiva il corpo debole da non riuscire a mantenere neanche la schiena dritta. Era stata accompagnata nella posizione supina da Ifigenia. “Ma io l’ho fatto” l’aveva rassicurata la donna, se così poteva essere considerato. Aveva passato una mano tra i capelli corvini di Bells, “Come vuole la tradizione” aveva continuato.
Bells non riusciva a comprendere, “Cos…” aveva provato a chiedere.
“La dea Artemide ti ha salvato” aveva bisbigliato Ifigenia.
Sii fedele ed ella sarà fedele.
 
“Ci uccideranno” aveva pianto Bernie, con le mani chiuse sulle cosce strette e gli occhi lucidi come spettri. Bells aveva ascoltato il singhiozzare di sua sorella, con mera indifferenza. I suoi occhi erano cupi come ombre nere, piantonati nei loro due carcerieri. Non erano esseri umani, Bells non poteva affermarlo con assoluta certezza, ma le sembrava così palese che non lo fossero. Quello più brutto, Dig, aveva la faccia butterata, gli occhi famelici ed i denti aguzzi. Era più grosso, più cattivo e decisamente più stupido. Arvey era il problema. Sembrava più umano, ma anche più sveglio, intelligente e letale.
“Non lo faranno” aveva detto lapidaria Bells, “O lo avrebbero già fatto” aveva aggiunto.
Gli avevano visti banchettare con la carne di uomini, probabilmente erano stati loro ad aver ucciso i bulletti del quartiere. Dig aveva ampiamento fatto notare quanto era stuzzicante il loro odore, ma Arvey lo aveva fermato, ‘Sono troppo secche’ aveva affermato. Ma era palese che le stessero conservando per qualcos’altro. Il che cosa spaventava a Bells.
Bernie era preoccupato potessero ucciderla in quel momento, che non avrebbero più rivisto papà. Ma no, Bells sapeva che qualcosa di peggio gli stava aspettando.
Arvey si era voltato verso di loro, aveva le labbra piene sporche di rosso, anche la dentatura da squalo era macchiata di vermiglio. Non aveva una brutta forma, aveva i capelli sabbiosi e gli occhi blu, se fosse stato un po’ più smilzo, un po’ più mansueto, un po’ più umano.
“Sta notte fuggiremo” aveva impartito a sua sorella. Bernie aveva tirato su con il naso, sconvolta.

Bells si era svegliata ancora, sempre stesa sul letto, sentendo dolore il braccio sinistro, quello che anni prima Arvey le aveva spezzato dopo la – fallita – rocambolesca fuga sua e di sua sorella.
Questa volta non aveva fatto nessun gesto inconsueto, spiando solamente la stanza in cerca di Ifigenia e l’altra ragazza.
Non c’era nessuno.
“Resta Calma Bells, sei sana e salva” aveva sussurrato, tirandosi su con i gomiti, indossava un abito di tela crema che le arrivava oltre le ginocchia, con uno scollo tondo che scopriva appena le clavicole e sbracciato.
Aveva fatto saettare anche questa volta la mano fino al suo orecchio, dove pendeva il gioiello con la forma di una spada. Probabilmente non avevano più intenzioni bellicose. Nonostante le avessero organizzato davvero un pessimo Party di Benvenuto. L’avevano catturata, incatenata ad un altare e sacrificata. Ma era ancora viva. Ed aveva una missione.
Aveva scosso la coperta ed aveva lasciato pendere le gambe dal letto, aveva tirato su l’orlo della gonna ed aveva cercato sul ventre ancora una volta qualsiasi segno del sacrificio. Però ancora una volta aveva trovato solo nuda e sana pelle.
Dove erano i suoi vestiti e soprattutto le sue scarpe? Si era chiesta, ma arresa a non trovarli, si era messa in piedi ed aveva spiato fuori dalla finestra.
Era piuttosto vivace, si rendeva conto Bells, quel luogo, considerando che per il pubblico era un’isola disabitata e contaminata. Forse aveva preso troppo sottogamba il suo compito, aveva pensato soltanto d doversi nascondere dal governo e non da altro.
Questo non era importate, era viva ed era ad Atollo Johnston. Esattamente dove doveva essere; doveva solo capire solo come uscire da qualunque-posto-fosse e trovare chi era venuta a cercare.
L’ambiente era particolare aveva studiato un po’ la conformazione degli atolli, ma la verità era che quello di Johnston era interamente coperto da cemento e calcestruzzo. Vi avevano costruito una base militare, per compiere certi determinati esperimenti.
Bells non aveva difficoltà ad indovinare di trovarsi nell’ala medica della base principale.
Aveva tirato su le imposte della finestra e si era seduta sul davanzale, era al terzo piano se si fosse lanciata come persona normale sicuramente si sarebbe rotta qualcosa. La sua ambrosia era stata requisita insieme ai suoi vestiti. “Su, Bellatrix, sei sopravvissuta a cose peggiori” aveva mugugnato, tipo la guerra aveva pensato, ma aveva mugugnato: “Tipo Maya ai fornelli”.  Aveva bisogno di fermare l’ansia, e i brutti ricordi, almeno con sé stessa.
Aveva tolto le lenzuola, coperte e coprimaterasso dal letto, gli avrebbe legati insieme e si sarebbe calata dalla finestra.
“Te ne vai già?” aveva domandato Ifigenia, cogliendola di soprassalto. Bells aveva ruotato il capo, trovando la donna posata sullo stipite della porta, indossava un abito simile al suo, una lunga veste stretta al busto, lunga fino alle ginocchia e con uno scollo tondo, la differenza era che Ifigenia vestiva di oro lucido. Aveva anche una collana d’orata con delle gemme lucenti, roba da vera principessa achea, probabilmente.
Però era scalza. “Le scarpe qui non piacciono eh?” l’aveva presa in giro Bells, lasciando perdere il suo lavoro di taglio e cucito, “Ne vuoi un paio, potrei fartele avere” le aveva proposto Ifigenia, non raccogliendo affatto la sua provocazione. Non sembrava somigliare per nulla alla folle sacerdotessa che l’aveva accoltellata.
“Lo sai che questo posto è praticamente radioattivo?” aveva chiesto retorica Bells, mentre si toccava con nonchalance l’orecchio dove portava la spada, non aveva fatto in tempo la prima volta, non si sarebbe fatta cogliere due volte impreparata. “Credi a tutto quello che il governo dice?” l’aveva allora stuzzicata di rimando la donna, con un sorriso mesto. “Senti Ify, patti chiari e amicizia lunga, cosa vuoi dai me?” aveva chiesto con un po’ di acidume Bells, Ifigenia aveva ridacchiato un po’, “Sei tu che sei venuta a casa mia, un posto che è proibito da leggi del mondo mortale e divino” aveva gracchiato di rimando la donna.
Colpita e affondata.
“Cerco un dio” aveva risposto mogia Bells. Sembrava assurdo dirlo ma era venuta in un dannato Atollo in mezzo al mare, proibito da ogni legge, perché aveva saputo fosse lì. Non si poteva raccontare quanto avesse faticato per arrivarci.
Ifigenia aveva annuito, “Su forza, vieni a prendere il caffè con noi” l’aveva invitata alla fine.
L’ordine di sacerdotesse – Bells presumeva fossero quello – vestiva in maniera del tutto uguale, se non in differenti sfumature di pastello delle vesti (Nessuna di loro era ingioiellata, però). Erano quasi spaventose raccolte tutte intorno ad una lunga tavolata di legno che mangiucchiavano biscotti e bevevano tè e caffè, ridacchiando come un gruppo di donne al club del libro. “I sacrifici umani arrivano prima o dopo il brunch?” aveva chiesto sarcastica Bells ad Ifigenia, che l’aveva guardata per un momento, “Di solito avvengono di prima mattina, ci piace cominciare la giornata con la giusta dose di adrenalina” le aveva risposto, strizzandole un occhio.
Il caffè era buono, i pasticcini decisamente no, ma aveva avuto la buona creanza di mangiarli lo stesso, una volta gli era stato detto che accettato il cibo di qualcuno si entrava nel diritto degli ospiti. E non si poteva essere uccisi o sventura a chi aveva mancato la promessa. Sperava valesse anche per loro.
“Noi siamo le sacerdotesse di Artemide, al servizio del Re Toante, signore della Tauride e di Johnston” aveva cominciato a spiegare Ifigenia, senza che Bells le chiedesse effettivamente qualcosa. Ma era una cosa gradita comunque, dunque non la interruppe. “Le regole che dobbiamo seguire sono semplici: chiunque giunga ai nostri lidi dovrà essere sacrificato alla dea” aveva ripreso a spiegare neanche fosse una voce di Wikipedia. “Di sicuro non finirete su Cortesie per gli ospiti” l’aveva interrotta Bells, guadagnandoci un’occhiataccia da tutta la tavolata.
Ifigenia aveva preso un sorso di caffè, “Non piaceva neanche a me, questa cosa, ma se non fosse stato per la dea Artemide, io sarei stata morta. Onoravo un debito e la signora stessa mi aveva lasciato da Toante. Così ho eseguito il mio compito – onestamente ripensandoci ora mi rendo conto perché Artemide mi avesse portato lì.
Comunque sia quando arrivò mio fratello Oreste le cose divennero un tantino difficili per me.” Aveva interrotto la narrazione per prendere del caffè.
Bells aveva immaginato Bernie nella stessa posizione in cui era stata lei tempo prima, legata all’altare pronta ed essere immolata.
“Io non ne fui capace. Oreste fu il primo che salvammo. Artemide ci aiutò, la signora ha sempre compreso il valore di un vero sacrificio, un estraneo che approdava sull’isola non lo era. Un sacrificio è qualcosa di cui privandoti ti spezzi il cuore. Come mio padre, la dea è inoltre molto buona” aveva ripreso Ifigenia. Bells aveva deciso di tenersi per se il fatto che suo padre avrebbe mandato al Tartaro la guerra di Troia e qualsiasi altra cosa piuttosto che piantare un coltello nel petto suo o di Bernie.
“Allora ci accordammo” aveva spiegato Ifigenia, “La dea Britomarte** costruì per noi la Rete che trattenesse la anime” si era interrotta perché una delle sue compagne aveva fatto un commento: “Dice che l’idea la avuta da una vecchia accattona marina***, ma che lo ha fatto meglio”. Ifigenia l’aveva zittita con un movimento gentile della mano.
“Peschiamo anime con una rete e le ributtiamo in mare si può dire. A Toante in effetti non importa credo, non si è mai neanche accorto dell’inganno” aveva spiegato placida. “Quindi io sono stata … ehm, morta?” aveva domandato Bells con un certo nervosismo, “Si, io, Portatrice di Guerra, ti ho uccisa e la Rete ha impedito alla tua anima di raggiungere l’orco” aveva spiegato placida la sacerdotessa.
“Quindi in questo posto la gente è tipo immortale?” aveva domandato abbastanza confusa Bellatrix, qualcuno aveva ridacchiato. “La Rete funziona solo sui sacrifici” aveva spiegato una donna, era Noora, “E neanche su tutti” aveva squittito un’altra sacerdotessa, indossava una tunica turchese ed aveva la pelle colore del caffè.
Oh fantastico, sarei potuta morire per davvero, aveva pensato Bells.
Ifigenia aveva posato la sua tazza di caffè, era ormai vuota, “La Rete in qualche modo non raccoglie tutti, credo si attenga a certi principi o forse alla volontà delle due dea che hanno progettato il sistema” aveva spiegato la sacerdotessa.
Bells aveva sollevato la tazza di caffè che aveva davanti, “Allora: lode alla dea Artemide” aveva detto.
Sii fedele ed ella sarà fedele.

Ifigenia le aveva restituito i suoi vestiti. Non le dispiacevano gli abitini a campana dai colori pastello e la moda hippy di andare scalza, ma si sentiva molto più a suo aggio con i pantaloni militari e gli anfibi al ginocchio. Sfortunatamente la sua maglietta con Darth Vader in stile ‘Zio Sam vuole te’ era andata a rovinarsi orribilmente durante il sacrificio e così un po’ delusa Bells si era ritrovata costretta ad indossare una canotta bianca sui cui era stato cucito, con le paillettes rosa, sono un’orsetta.
“Non ti ho chiesto come tu sapessi la mia identità?” aveva chiesto Bells, mentre prendeva il termos che Ifigenia le aveva allungato, poi lo aveva sistemato nella sua borsa assieme a l’ambra e tutto il resto. “Quando fui salvata dal sacrificio di mio padre, la dea Artemide mi concesse un po’ del suo potere. Sono immortale, come le sue cacciatrici, benchè io non lo sia” aveva spiegato Ifigenia, “In più di due mila anni si fanno tante conoscenze interessanti” aveva squittito con un certo divertimento. Qualcuno l’aveva avvertita, aveva realizzato Bells.
Pensava di sapere anche chi, in effetti.
“È tu come sapevi che ero io?” l’aveva stuzzicata Ifigenia, lei annui, mentre chiudeva la borsa, “Quando ho scoperto che il mio target era qui, sono stata informata” aveva spiegato. In verità era stata avvertita, ma quando in passato Alabaster le aveva detto che fosse troppo impulsiva non aveva di certo torto. Aveva sentito l’avvertimento da un orecchio e le era uscito dall’altro – completamente.
“Ti aiuterò a cercare Theos” aveva stabilito Ifigenia. “Non voglio neanche sapere come fai a sapere come fai a sapere chi cerco” aveva bisbigliato Bellatrix, indossando lo zaino e guardandola. La sacerdotessa le aveva sorriso, “È l’unico dio che abita qui, Portatrice di guerra” aveva spiegato di rimando, con un sorriso mesto.
“Guarda che puoi chiamarmi Bells” aveva replicato la figlia di Nyx.
Ifigenia aveva raccolto i capelli riccioluti e neri in una coda di cavallo, al posto della sua bella veste con la gonna a giro, indossava dei pantaloni da corsa ed una maglietta tristemente coordinata a quella di Bells. Sfoggiava sempre la sua collana preziosa e non aveva comunque le scarpe. “Mi sapresti spiegare perchè un dio, dovrebbe vivere qui?” aveva domandato Bells, osservando come Ifigenia si muoveva lungo la pista di atterraggio della base militare.
“Per più di una ragione” aveva risposto Ifigenia con una certa gentilezza, “La prima è che essendo un posto interdetto a buona parte della popolazione dei due mondi: poteva starsene in pace” aveva cominciato a spiegare. Ifigenia certe volte sembrava davvero parlasse come una voce di Wikipedia. “La seconda è che egli è molto devoto ad Artemide. Di norma la dea favorisce le donne, ma nel corso dei secoli non ha disdegnato tal volta di dare favore agli uomini. Theos è un cacciatore di degno rispetto” aveva ripreso. “Il terzo motivo è che egli è molto legato ai sacrifici, ma questa è la sua storia e non è mio diritto raccontarla; fidati hanno raccontato la mia storia in così tanti modi diversi che so quanto sia irritante” aveva spiegato Ifigenia.
“La mia non la ha raccontata nessuno” aveva ridacchiato Bellatrix.

 
Jeha III

“Quindi sulla Luna come ci arriviamo?” aveva domandato Champ, prendendo una grossa sorsata di coca cola dalla cannuccia. Jeha l’aveva guardata con un certo sdegno, continuando a giocherellare con la moneta di argento con la civetta di Atena. Il loro simpatico dio-di-quartiere invece stava giocando con le parole crociate. Aveva guardato il dio. “Non ci possiamo arrivare sulla luna” aveva detto chiaramente quello, mentre segnava delle lettere con una matita su Olympus Magazine. Le due cacciatrici non avevano distolto lo sguardo, “Sentite: io sono un dio minore, molto minore, cioè così minore che è un miracolo che non mi sia disciolto. Non ho idea di come arrivare sulla luna” aveva detto un po’ frustrato, passandosi le mani sui capelli castani.
“Ma sei un dio” si era lagnata comunque Champ, aggrottando le sopracciglia spesse. Quasi la divinità non si fosse lamentato fino quel momento di quella cosa. “Non sono onnisciente” aveva replicato quello. “Ma poi perché la Luna?” aveva indagato invece Jeha, il nume non si era degnato di molte spiegazioni neanche in quel caso.
Non poteva lamentarsi di lui in fin dei conti, la verità era che se in quel momento era viva era perché, si Artemide l’aveva salvata, ma anche lui, letteralmente. Aveva spento le fiamme che l’avrebbero arsa. “Dovete immaginare la luna come un grosso ufficio degli oggetti smarriti” aveva spiegato il dio. Champ aveva schiuso le labbra, “Astolfo e Roland!” aveva gracchiato. “Non sei una rozza inglese ignorante, Alyson, brava!” aveva tuonato il dio; “Bess ci teneva alla cultura” aveva ghignato Champ.
Erano oltre cinquecento anni che lei e la figlia di Efesto combattevano fianco a fianco, erano un duo micidiale. Ma ormai Jeha era esasperata da tutte le cose che Bess aveva voluto nel passato.
Un po’ non riusciva neanche a scenderle che a distanza di così tanto tempo Champ fosse legata a qualcuno che aveva lasciato quel mondo molto tempo fa. Non era corretto dire così doveva ammettere: Jeha stessa sentiva la mancanza dei suoi amici: il Bastardo e Gilles – nonostante tutte le nefandezze di quest’ultimo. Il problema di Champ era che dopo oltre mezzo millennio ella era ancora innamorata della sua amica Bess.
Artemide non questionava molto la cosa, fintanto che Champ si fosse astenuta dall’amare fisicamente – o platonicamente qualcuno di vivo – poteva anche rimanere legata sentimentalmente ad una donna morta. Inoltre la figlia di Efesto era entrata nelle cacciatrici quando Bess era ancora in vita. Aveva rinunciato all’amore e Jeha voleva solo che lo superasse.
Forse era egoista.
“Si, si” aveva commentato il dio, “Me la ricordo la tua Bess” aveva detto un po’ piccato. Alla fine Bess non si era mai maritata con alcun uomo, sebbene di pretendenti ne avesse avuto a bizzeffe – ma no, non era stato per Champ.
Alyson sorrise in una maniera infantile. Le ricordava Emmie in quei momenti, quando parlava di quanto fantastica fosse Jo, all’inizio, prima di capire quanto l’amassero.
Un po’ le invidiava Jeha, certo erano due vecchie rugose testuggini, ma erano felici.
Emmie era stata un mentore ed una sorella maggiore per lei, Jeha forse non le avrebbe mai perdonato di averla lasciata.

“A quanto pare quello che cercate è nel grosso divino ufficio degli oggetti smarriti. La luna” aveva spiegato il dio.
Jeha aveva guardato il cielo, era terso, forse avrebbe piovuto. “Sappiamo se la NASA abbia progettato un lancio per i prossimi giorni?” aveva chiesto retorica, posando il capo tra le mani. Era esausta e la cosa la lasciava profondamente disgustata, lei che non aveva mai, neanche per un momento, lasciato perdere.  Sotto il fango, la pioggia e mezza di sangue, Jeha aveva avanzato e lottato.
Champ era abbandonato il suo bicchiere, “Potrei costruirlo io un razzo” aveva detto, con un sorriso amichevole.
La bionda aveva spalancato gli occhi, “Davvero?” aveva chiesto illuminata, “Avrei bisogno di anger e di un sacco – ma davvero tanta – roba” aveva ammesso con un tono un po’ spento Champ, “Magari avrei necessità di qualche mio fratello o figlio di Ecate” aveva aggiunto, “Probabilmente dovremmo fare una capatina a Benselem” aveva terminato. Poi aveva delirato un po’ e Jeha aveva lasciato perdere i progetti ingegneristici di Champ.
Era quasi mezzo millennio che gli ascoltava.
“In realtà credo che la Luna sia un concetto molto figurato in questo caso” aveva ripreso a spiegare il dio, “Divino Imene” aveva allora parlato Jeha, “Deve esserci un modo per arrivarci” aveva detto, insomma se c’era giunto qualcuno ai tempi di Bess potevano raggiungerlo anche loro no?
“C’è in effetti, ma nessuno di essi vi riguarda” aveva spiegato, confondendo le due cacciatrici, “Non è necessario che arriviate sulla Luna. Qualunque cosa voglia la vostra minuscola signora” aveva berciato.
Champ aveva assottigliato gli occhi azzurri con un certo fastidio, nessuno poteva parlar male della loro signora, ma Jeha riconosceva che il Dio del Matrimonio non potesse ben tollerare la Dea della Caccia, viste le loro filosofie di vita e visione dei rapporti quasi opposte.
Eppure secondo Jeha non potevano esserci dei più simili, entrambi si prendevano cura delle giovani donne, venivano in aiuto dei più deboli e mai chiedevano nulla in cambio.
L’aveva salvata dal fuoco.
“Perché mi ha salvato”
“Perché sei buona e pura, non ti meritavi quello che tuo marito ti ha fatto”
“Ma io non sono sposata”, “Non ad un uomo certo. Ma a qualcosa di più grande”
“Non comprendo, mio signore”
“Comprenderai un giorno, Pulzella d’Orleans”
.

“Lo sai come sono fatto, no, Jeha?” aveva chiesto retorico Imene, “Ne approfitto sempre per fare del bene” aveva aggiunto.
Il dio si era sfilato dal taschino della sua giacca cachi un anello d’oro rosso che si era poi plasmato nel suo palmo in un grande piatto, della dimensione d’un viso umano, poi si era curvato per assumere l’aspetto di una liscia ciotola pregiata. “Alyson, se posso permettermi” aveva detto Imene e Champ aveva allungato la mano, aveva toccato appena con le dita il fondo della coppa, che queste si erano incendiate. Era un dono meraviglioso quello del fuoco, Efesto lo aveva concesso a pochi dei suoi figli.
Quando Champ aveva tirato via le dita, la fiamma era rimasta ad ardere nella coppa, come se stesse consumando una brace. Non vi era da stupirsi, Imene era sempre raffigurato con le fiamme, dell’amore? O del focolare come Estia?
Il fuoco aveva mutato, come un animale ed aveva preso diverse forme, erano donne: tre giovani. I loro visi erano fatti di fuoco aranciato e i loro capelli erano fiammelle scoppiettanti. Non distingueva alcuno dei loro colori, solo i dettagli dei visi. Una era acuminata ed appuntita come una lama, con un naso dritto ed un viso allungato, una aveva un viso largo, con un naso un po’ schiacciato e labbra piene – lei aveva qualcosa di incredibilmente familiare – e la terza era anonima, in un naso all’insù e in labbra sottili. Tutte giovani.
“A tutte e tre è stato affidato il compito di ritrovare ciò che voi state cercando. Una sola di loro raggiungerà la Luna” aveva spiegato Imene, “Perché così è stato deciso” aveva detto.
“Non posso dirvi se esse sono buone o perdute, se chi le ha incaricate è nobile d’animo o avido, o quanto le influenzi” aveva illustrato perentorio il dio.
“Nessuna di loro, però può riuscire da sola” aveva detto.
Champ aveva tossito, poi attirati i loro sguardi aveva chiesto, fissando il dio, aveva chiesto: “Tu vuoi che noi le aiutiamo?”.
 
 
 
 

*Serena Joy è un personaggio dei libri e del telefilm di The Headmaid’s tale (Lo amo ma mi mette angoscia) nel telefilm non emerge, ma nei libri viene ripetuto allo svenimento che Serena Joy fa quantità industriali di lavori a maglia.
**Dea delle Reti della mitologia Minoica e poi Greca. Tiene i cani da caccia di Artemide ed è anche la sua bff – come ci viene detto ne La Profezia Oscura
*** E’ un rifermento alla dea norvegese dei mari: Ran; nella saga di Magnus Chase viene rappresentata come una senzatetto che accumula nella sua rete qualsiasi cosa (dai relitti marini alle anime delle persone morte in acqua).

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Capitolo 17
*** I briosi mostri di Járnviðr e altre cose molto (poco) allegre (Grace I + Bonus) ***


Ei, dove sei stata per tutto questo tempo?” vi starete chiedendo. Forse no. Comunque ho avuto il mio bel da fare con l’università! Vi chiedo comunque umilmente scusa!
Allora, allora, nuovo capitolo: nuovi narratori. Ma tranquilli Vecchi Personaggi. Semplicemente una storia invece da essere narrata come sempre da A e narrata da B.
In più abbiamo il narratore Bonus, che non vedremo molto ma serviva per introdurre un personaggio che ammetto in una storia che parla di Mezzosangue che appartenevano all’esercito di Crono, doveva esserci.
Oltre questo è un capitolo stra-pieno di Mitologia NON greco-romana, la colpa è di Rick Riordan che ha scritto la Saga di Magnus Chase, che io amo troppo, e pure della mia tesi che è tutta sugli uomini del nord mica ho rubato il nome di Eirik dalla Saga di Eirik il Rosso.
Il disegno non mi piace molto: ma …
Vorrei ringraziare e_renna per il sostegno morale.
Vorrei anche ringraziare chi segue/legge/preferisce. Davvero. Grazie.
Buona Lettura.
The Road so far (O quello che ci siamo dimenticati):Grace l’Empusa, dopo essere stata parte dell’esercito di Crono si ritrova ad aiutare i due mezzosangue figli di Apollo: Marlo e Carter.
Dopo uno scontro con il gigante Tizio e l’improbabile alleanza con tre semidee del campomezzosangue (Lauren, Joe ed Emma). I sei approdano a La Fontana di Salamacia, un centro benessere. Qui fanno la conoscenza con la Maga Manto, che permette a Carter di immergersi nella vasca delle lacrime del lago di mantova per vedere il futuro, che ormai sembra difficile da scorgere. Carter infatti aveva avuto in precedenza lampi di visione della morte di sua sorella Heather – che Lauren il giorno stesso lo avvertere essere in missione, a detta del suo ragazzo Darren. Durante la visione mistica del futuro Carter scopre che  la sua sorellastra morente è scortata al campomezzosangue da due semidei che erano stati lealisti a Crono, Alabaster figlio di Ecate e Bernie figlia di Nyx. Heather morente chiama proprio Carter.
La visione è però interrotta dalla guerriera Cenis, che annuncia l’arrivo del Re Lapita Flegias insieme ad alcuni mostri. Qui aiutati anche dal romano Drew, signore delle Argille, Grace e i suoi amici si preparano alla battaglia. Lo scontro lì vede vincitori, con l’unica perdita della giovane figlia di Efesto Joe. Carter e Grace decidono di lasciare il giovane Marlo alle cure di Lauren perché lo riporti al campomezzosangue, mentre loro due proseguiranno nel tentativo di salvare Heather, Cenis la guerriera e Drew si accodano a loro. Il secondo inoltre riceve in dono la lama maledetta che Lauren aveva usato durante lo scontro(, il cui all’interno è infuso lo spirito vendicativo di Didone – e di tutti coloro periti per quel ferro).
Nel frattempo Alabaster C. Torrigton, in compagnia del suo lare personale Dr Claymor Horward, sta aiutando July, figlia di Eris, in una missione …

 
                                                                            

Il Crepuscolo degli Idoli
 
 
 

I briosi mostri di Járnviðr e altre cose molto (poco) allegre

 
 
(Bonus)

“Perché spacchiamo legna?” aveva domandato Will Solance osservando i movimenti fluidi di Chris Rodriguez. “Mi rilassa” aveva risposto quello, facendo cadere la mannaia e spezzando a metà il tronchetto; Clarisse La Rue era seduta su un prato con una mappa del campo sulle ginocchia ed un grosso pennarello viola, “Dove sono i figli di Atena, quando servono?” aveva chiesto nervosa, disegnando dei cerchi e delle x sulla cartina.
Will era slittato dalla sua posizione per affiancarsi a quella della figlia di Ares. Clarisse stava cercando di organizzare un efficace difesa per il campo, non appena i Romani fossero arrivati.  Lui aspettava quel giorno come una condanna, mentre Annabeth e gli altri si impegnavano per fermare i giganti e la rinascita di Gea, a loro toccava resistere fino al loro ritorno. Non molto eroico, doveva ammettere. Clarisse aveva sbuffato, lei non era una stratega, era una guerriera. “Forse dovrei andare a chiamare Malcom” aveva commentato con voce spenta, “No, andrò io da Pace e Chirone” aveva tuonato alzandosi in piedi subito, tenendo i fogli stropicciati in una mano.
Chris l’aveva guardata, abbozzando un mezzo sorriso, che era stato ignorato dalla ragazza, che se n’era andata a passo di carica. “Le cose non vanno bene?” aveva chiesto Will, ficcanasando un po’.
Il figlio di Ermes aveva sistemato un altro tronchetto che doveva essere spaccato, “Come sempre” aveva risposto con un sorriso lezioso sul viso.
Will stava per alzarsi e congedarsi, c’era l’intera infermeria da organizzare, i turni da fare tanto altro di cui occuparsi, ma qualcosa lo aveva fermato.
Lou Ellen era venuta verso di loro, aveva il viso cereo, gli occhi spalancati e tremolava. “Ei!Ei!” aveva esclamato Will scattando in piedi come una molla per andarle incontro, ma Lou lo aveva schivato svelta per dirigersi verso Chris. Il figlio di Ermes aveva fatto cadere l’accetta per indirizzarsi verso la figlia di Ecate. “Ho avuto un sogno” aveva sospirato con una voce miagolante lei, mentre Will metteva le mani sulle sue spalle, si rendeva conto che Lou fosse fatta di cera molle.
“Ne sei certa?” aveva subito tuonato Chris nervoso, i sogni, il futuro, erano tutti un gran caos e foschia di quei tempi. Lou Ellen aveva annuito. “Mia madre, è stata mia madre” aveva spiegato, lasciandosi scivolare sul prato, accerchiata dagli altri due.
“Cosa hai visto?” aveva chiesto incalzante Will, “Dobbiamo andare da Chirone” aveva risposto invece Chris, ma Lou lo aveva afferrato per la maglietta arancione per evitare che scappasse, “Lui non può aiutarlo. Anche se lo volesse” aveva sussurrato. I due ragazzi l’avevano guardata con apprensione, ma anche confusione; “Era su mio fratello Alabaster, qualcuno lo sta seguendo. È in pericolo” aveva bisbigliato lei.
 



(Grace I)

 
Serefone le aveva tenuto con le unghia le gambe spalancate, attraverso il pelo di una delle gambe aveva raggiunto la carne, stillando delle gocciole rosse da una ferita. “Devi essere pronta” aveva detto perentoria fissando Grazia con i suoi occhi carmini.
L’altra non riusciva neanche a respirare bene per il dolore, provava un male che non riusciva a descrivere, come se una forza senza eguali la spezzava dentro. “C’è qualcosa che non va” aveva mormorato, mentre stritolava il lenzuolo sotto le sue unghia.
Una sua compagna le aveva passato le mani sulla fronte. Era sorella Caterina, con il capo nascosto sotto il velo, vestita da suora.
Grazia non riusciva a venire a capo, la foschia si era completamente rarefatta, non riusciva neanche a mantenere l’aspetto umano, i suoi capelli erano fiamme vive e così le sue dita lattiginose schioccavano scintille. Avrebbe incendiato tutta la stanza.
Un’altra delle empuse aveva allungato la mano per posarla sul ventre pingue, “Scalcia, vuole nascere. Senti?” aveva detto entusiasta, prima di voltarsi e ghignare verso di lei.
“Devi spingere, sorella” aveva ringhiato Serefone, tenendole ancora le cosce spalancate, nonostante Grazia non desiderasse altro che serrasse e che quel dolore finisse.
C’era qualcosa che non andava.
Lo sentiva.
Le empuse  le percepivano quelle cose. “Qualcosa non va” aveva piagnucolato Grazia, sentiva nel ventre scalciare, voleva venire al mondo. “Sciocchezze Grazia” le aveva sussurrato una consorella nell’orecchio, tenendole la schiena perché non s’afflosciasse sul letto esanime.
“Brucia, sorella, vero?” le aveva domandato Serefone, avida, tenendole ancora con una morsa ferrea le gambe spalancate, “Sarà forte e potente” l’aveva rassicurato quella. “Il suo fuoco sarà potente” aveva valutato un’altra.
Grazia aveva annuito con le lacrime brucianti sulle guance ed il dolore nel ventre. Le fiamme più potenti di un empusa erano la prima e l’ultima. Quella di Grazia era stato uno dei fuochi più grandi che si fossero mai visti, che era finito poi per mischiarsi con l’ultima grande fiammata di sua madre. Grazia era venuto al mondo rubando l’ultimo fiato di sua madre.
Il loro fuoco era stato così potente da aver bruciato la grandiosa Roma.
“No” aveva mugugnato Grazia, “Non brucia” era riuscita a sussurrato con una fatica abissale. Non bruciava. Faceva male, un dolore inspiegabile, da spaccarla in due, da farla urlare.
Ma non bruciava. “Non brucia! Non brucia!” aveva continuato a ripetere, con le lacrime grosse negli occhi.
L’immagine di Albio era balenata davanti al suo viso, con quel suo ghigno nefasto, bastardo mezzosangue. Goditi del mio dolore, infame? Avrebbe voluto chiedere, ma non aveva fiato, non aveva capacità. Non bruciava.
Albio dietro le sue palpebre rideva di lei, rivoli di bruno sangue scendevano dalle sue labbra piene e dal centro del suo petto. Brucia nel tartaro, Marziale,  io ti ho ucciso. Grazia rise, tra le fitte, tra i lamenti, mordendosi poi le labbra con dolore. Ferro nella sua bocca.
“Sciocchezze sorella” le sussurrò qualcuno.
“Vedo la testa, Grazia! Spingi!” le urlò Serefone.
Per un solo, infinitesimale, momento Grazia sperò la creatura ereditasse gli occhi selvaggi di Albio.
Fu il dolore più forte della sua vita.
Poi vi fu il freddo.
Grazia schiuse gli occhi con fatica, timorosa, lo sentiva il sangue sgorgare dalla sua intimità, sentiva ancora la creatura legata a se dalle carni. Era un grumolo rosso, tra le dita arcigne di sorella Caterina. “Non c’è fuoco” aveva singhiozzato Grazia, stringendo le cosce. Sentendo per la prima volta un dolore più intimo. Poi qualcuno pianse.
Grazia spalancò le palpebre, gli occhi sottili e serpentini erano saettati verso le braccia di sorella Caterina, dove la piccola creaturina rossa aveva cominciato a mugolare. “Tagliate il cordone!” aveva subito strillato un’altra empusa al loro fianco. Grazia aveva alzato le braccia per accogliere il suo frutto. Aveva cambiato idea, sperava non somigliasse per nulla ad Albio. Che di quel bastardo semidio non fosse rimasta alcuna traccia su quella terra.
Caterina aveva bisbigliato a disagio, mentre troncavano il cordone, “È un maschio”. Grazia aveva veduto chiaro come il sole il viso di Albio delinearsi nella sua mente, con quell’espressione superba, selvaggio e con gli occhi argentei come le scure. “Come è possibile?” riuscì a chiedere solamente Grazia, mentre allontanava le mani dall’infante, combattuta da uno strano dissidio. Il timore verso quella così estranea creatura ed il desiderio di stringere al suo seno il suo frutto.
“Perché è umano” sancì Serefone, come una condanna.
 
 

“Ti sei addormentata?” la voce di Carter Gale era carezzevole, vibrava come corde d’arpa, era figlio del sole e della medicina, non vi era da stupirsi che fosse così armonioso. “No. Io … mi ero persa nel passato” aveva  sussurrato Grace, chinando il capo sulla spalla del ragazzo.
“Non ti ho mai chiesto quanti anni hai” aveva buttato fuori Carter.
Era di una bellezza intrigante, con la carnagione cannella, gli occhi scuri dalla forma allungata. Probabilmente oltre la discendenza divina, che lo rendeva particolarmente splendente, Carter aveva delle origini asiatiche, ma Grace non riusciva ad indovinare di quale luogo. Si rendeva conto che il ragazzo non aveva mai particolarmente parlato del suo passato, della sua famiglia. Sembrava che la sua vita fosse cominciata con il campo mezzosangue. Tutto quello che vi era stato prima ruotava intorno a Joelle.
Solo ed unicamente Joelle.
Grace aveva provato ad immaginarla molte volte. Una eterea donna dall’aspetto longilineo e lunghi capelli imbevuti dalla luce del sole, se la pitturava Grace. Una donna capace di rubare uno sguardo ad un uomo per l’eternità.
Ma Carter aveva negato più volte: Joelle era vera, non c’era nulla di superiore e magnetico. Grace un concetto come il vero non riusciva ad afferrarlo, era figlia della magia, tutto del suo aspetto non era che un illusione.
Grace non era vera. Forse non lo era mai stata. Forse solo con Marzio.
Non riusciva proprio ad escludere Marzio dai suoi pensieri ultimamente, perché si era ritrovata costretta a dover lasciare Marlo alle sue spalle. Carter l’aveva rassicurata che senza alcun dubbio il giovane ragazzino sarebbe stato meglio al campo mezzosangue e con Lauren.
Grace si era chiesto quanto avrebbe voluto anche Carter ritornare sui suoi passi e tornare anche lui a casa. Ricordava che dopo la loro mirabolante fuga dopo la battaglia di Manhattan, molte volte Carte le aveva detto che a volte sentiva la mancanza morbosa della sua casa, che avrebbe davvero tanto voluto. L’empusa gli aveva sorriso ed aveva acconsentito, “Bene, Carter, andiamo” aveva detto. Ma gli occhi scuri del ragazzo si erano fatti di ombra ed aveva chinato il viso, “Non posso più tornare a casa, Grace, mi è proibito” aveva mormorato.
Grace avrebbe voluto dirgli che non era vero, che se davvero avesse voluto, avrebbe potuto davvero, ma era rimasta in silenzio, perché non voleva rimanere sola. Perché casa sua non era più raggiungibile, era rimasta  in un altro tempo, in un'altra vita.


“Non è una cosa carina da chiedere ad una donna, Carter” lo aveva preso in giro Grace. Il figlio di Apollo aveva abbozzato una risata, la prima da molte ore, “Sono nata quindici giorni prima delle calende di Agosto, anno 817 dalla fondazione dell’Urbe” confidò alla fine Grace come un mantra. Non era una nomenclatura ancora in vigore si rendeva conto, ma era l’abitudine, dopo quasi duemila anni certe abitudini erano dure a morire. Grace non era di certo un dei mostri più vecchi in circolazione, bastava anche solo pensare alla guerriera che sedeva oltre le loro spalle, Cenis, era di gran lunga più vecchia. Però Grace aveva dalla sua un vanto non indifferente: non era mai morta.
Era strano che il suo corpo d’empusa non fosse avvizzito, ma come le sue illusioni si mantenesse giovane. Forse perché era nato da un rapporto consumato e non solo dalla magia e dal tartaro. Erano rare le empuse come lei.
“Non ho idea di cosa tu abbia detto” aveva confessato Carter.
“Cavoli fanciulla, te li porti benissimo” la voce di Drew delle argille aveva attirato la loro attenzione. Si era sporto dal sedile sul retro, infilando la testa tra i loro. Sorrideva in maniera un po’ affaticata, borse pesanti adornavano gli occhi. Durante il lungo viaggio in pullman non doveva aver dormito molto. Era colpa della spada, questo Grace non faticava ad immaginarla. Era un’entità viva e sobillante, Manto si era guardata bene dal dirlo quando la giovane Lauren l’aveva donata. Ma i suoi effetti venefici si sentivano. La spada sembrava rendere ogni loro emozione più gravosa. Grace aveva vissuto abbastanza allungo da aver visto ferri con volontà proprie, certe anche con personalità difficili e lingue lunghe, ma quella spada sembrava volersi nutrire di tutto ciò che avevano loro da offrire.
Aveva incisione nell’antica lingua dei dardani, ne Grace ne Cenis erano riusciti a leggerla, ma l’empusa sospettava di sapere che arma fosse quella.
“Grazie” aveva ghignato. “Volevo chiedere se per casa a qualcuno di voi due andasse di cambiare posto” aveva buttato lì Drew, occhieggiando la sua compagna di viaggio. Cenis sembrava più interessata a guardarlo storto che a ribattere ancora. Avevano litigato tutta la notte, guidati da una profonda incomprensione.
Cenis sembrava incapace di rispondere in inglese, nonostante lo comprendesse, di rimando Drew non riusciva a comprendere ne a ribattere in greco, così aveva cominciato a sputare veleno in latino. Grace non poteva negare di aver provato un certo brivido di piacere nel risentire la lingua con cui era vissuto. Conosceva il greco per diritto di nascita, tante altre lingue le aveva imparate nei secoli, ma il latino rimaneva sua.
“Come se io volessi sedere accanto a te” aveva ringhiato in arcaico la donna dagli occhi azzurri. “Abbiamo già appurato che nessuno capisce la tua lingua infame” aveva ringhiato il romano, “Io la capisco” aveva risposto Carter, con un sorriso fausto sulle labbra. Era la spada.
“Siamo quasi arrivati” disse decisa Grace, per calmarli. Era un mostro, aveva una resistenza maggiore alle maledizioni, rispetto gli umani.
 
“Dovresti parlare inglese, o il romano ne uscirà pazzo”, Grace aveva sentito quelle parole uscire dalle labbra di Carter, come un monito verso la guerriera lapita. Cenis aveva ridacchiato, mentre con gli occhi freddi aveva ammiccato al giovane signore delle argille. Drew non sembrava in realtà una presenza molto minacciosa, era fin troppo esile per i canoni romani, aveva quello che sembrava in toto uno striminzito petto di pollo e delle braccia sottili come spaghi. Però la spada si era fatta impugnare da lui senza alcun ritroso, lì dove Lauren s era confessata di aver avuto qualche rimostranza, voleva dire che era tanto il rancore che animava quel piccolo corpicino.
Aveva abbandonato i due per avvicinarsi a lui, sembrava proprio che il ragazzo stesse conversando con  la sua muta compagna. Lauren gli aveva donato la spada dicendo che probabilmente apparteneva più a lui che a lei. “Carter mi ha detto che sia Gea sia Giove hanno attriti con la tua divina madre” aveva soffiato Grace cogliendolo di sorpresa, “Si” aveva risposto Drew con la voce sottile di un gatto, “Immagino tu sia figlio di Cura, allora” aveva aggiunto il mostro. Gli occhi scuri del mezzosangue romano si erano sbarrati colti da stupore e sorpresa.
“Ho incontrato tua madre, qualcosa come seicento o ottocento anni fa” aveva confidato Grace, ammorbidendo il viso con un sorriso. Cura signora dell’inquietudine che tanto tormentava tutti gli uomini. Non poteva essere peggiore portatore per una spada che si nutriva di tali malignità. Romano, esiliato – si presumeva – e figlio di Cura.
“Conosci la storia della tua spada?” aveva domandato Grace. Drew aveva chinato il viso, osservando l’elsa con il pomello della sua compagna, il suo viso era macchiato di disagio. “Durante il viaggio in autobus, mi sono addormentato” le aveva risposto invece.  “Nei miei incubi è apparsa questa donna pallida e poi altri cento, tutti spettri, tutti affamati” aveva risposto alla fine il figlio di Cura.
Grace gli aveva preso una mano, lì dove svettava il tatuaggio del Campo Giove, vi era la sagoma nera di un uomo di profilo, le lettere di SPQR e sotto svettavano tre line nere.
“Non conosco la tua storia, Drew delle Argille, magari un giorno vorrai raccontarmela, ma non lasciare che nessuno di quei spettri si nutra di essa” gli consigliò solenne.
“Se avete terminato, di cincischiare, noi abbiamo adempiuto ai nostri doveri” la voce di Cenis era arrivata dura come un dardo, mentre si avvicinava verso di loro, indossava degli occhiali da sole con cui aveva tirato indietro i capelli sul viso e teneva due buste per la spesa in ogni mano. “Ti odio” era stato il freddo commento di Drew, con le sopracciglia crucciate.
Grace le aveva sorriso, accarezzando il viso del romano, prima di abbandonarli per raggiungere Carter. Anche lui avanzava verso di loro, tenendo delle buste. Aveva il viso basso ed un’espressione crucciata, Grace si chiese se pensasse a Marlo, Joelle o sua sorella Heather.
Il figlio di Apollo abbozzò un sorriso tutto stiracchiato e poco convinto, “Ho fatto la spesa” aveva detto imbarazzato, “Avevo già pagato quando mi sono accorta di aver preso le liquirizie” aveva mormorato con un tono spento. Marlo voleva sempre le liquirizie.
Grace aveva allungato una mano posandola sulla spalla di Carter, “La mangerò io” lo aveva rassicurato. “Usciti dall’I-70 E1; siamo praticamente arrivati, comunque” aveva commentato il figlio di Apollo un po’ frustrato, allungando una busta verso di lei. Grace aveva annuito. Avevano praticamente attraversato mezza America negli ultimi tre giorni. Carter non lo capiva bene a pieno perché Grace avesse così desiderio di raggiungere quella città, lui avrebbe voluto trovare Heather, prima che ella raggiungesse il campo, perché voleva salvarla. E Grace voleva dargli una mano.
“Voglio che tu sappia che nel mio passato io non sono stata una bella persona” aveva soffiato Grace, chiudendo gli occhi. Carter le aveva carezzato il viso, prima di stringerla con una certa rigidità in un abbraccio. “A volte mi rendo conto di non sapere nulla di te” aveva commentato alla fine il ragazzo, allontanandosi appena.
“Un’empusa vuole avere i suoi misteri” lo aveva stuzzicato Grace.
L’ultimo tratto di viaggio era stato indecente. Non avevano trovato un bus ed erano stati costretti a farla a piedi, fino a che Cenis non aveva fatto l’autostop e messo K.O. un giovane uomo a cui avevano rubato il mezzo.
“Stiamo andando nella direzione giusta?” aveva domandato Drew, mentre teneva le mani sul volante, Grace aveva annuito, spiando il figlio di Apollo sui sedili posteriori che era caduto a dormire con la testa sulla spalla della guerriera.
Cenis si teneva il braccio attaccato, “Stai bene?” aveva inquisito Grace guardandola dallo specchietto, “Si” aveva risposto seccata la guerriera, “Solo che disprezzo questo mio corpo” aveva aggiunto. “Ed eccola con il greco” aveva bisbigliato Drew. Grace aveva riso, mentre Cenis lo aveva occhieggiato male, “Parliamo di cose da donna, fidati non vorresti saperlo” aveva cercato di addolcire la cosa l’empusa. Le dita del giovane si erano un momento fatte più ferree sul volante, “Guarda che ho …  una sorella gemella, lo so come funzionano queste cose” aveva berciato un po’ arrossato sul viso. Poi gli occhi si erano ombreggiati di una profonda tristezza.
“Dove è tua sorella?” aveva domandato Grace, forse senza troppi riguardi, Drew si era morso un labbro, “Con nostro padre” aveva risposto poi con tranquillità, i suoi occhi si erano fatti un momento liquidi, “Io prima devo risolvere una cosa” aveva chiarito, prima di prevedere qualsiasi domanda Grace avrebbe voluto fare.
Cenis aveva chinato appena il busto, “Come appelli codesta tua cosa?” aveva domandato fastidiosa, “Lingua” era stato l’unico aspro commento di Drew. La donna aveva tirato la testa indietro, nascondendo un ringhio, “Cosa?” aveva domandato a fatica, in un inglese che risultava tanto buffo. “Devo uccidere un figlio di puttana” aveva detto con estrema semplicità il figlio di Cura, le due avevano fatto scattare la testa verso il giovane, perplesse e confuse. La spada che era stata sistemata di fianco a Drew aveva vibrato come il canto di una sirena. “Con tali funicelle?” aveva domandato Cenis, allungando una mano per pizzicare la parte sotto l’omero del braccio di Drew. Aveva parlato in un inglese molto fastidioso.
Il romano aveva fatto scivolare un sorriso piuttosto caustico sulle sue labbra, “Riparliamone quando affogherai nel fango” l’aveva minacciata.
“Basta bambini” aveva preceduto Grace l’altra donna, “Gira a sinistra” aveva aggiunto. Erano quasi arrivati, lo poteva percepire. “Dove è che andiamo?” aveva chiesto Drew, seguendo le sue istruzioni. L’empusa aveva mosso il capo, passandosi le dita tra i filamenti scure. Sentiva le falangi bollenti, ribollenti di fuoco e magia. “In un posto non bello” assicurò i guerrieri.
Cenis si leccò le labbra, improvvisamente vogliosa di uno scontro.
“Avevi un’improvvisa voglia di sciare?” aveva domandato Carter mentre osservava con attenzione la cittadina dove Grace li avevi portato. L’empusa si era limitata a guardarlo con un’espressione piuttosto critica, “Quando hai detto un posto brutto, confesso, non immaginavo Irowood” era stato invece il sagace commento di Drew, che osservava la cittadina con un certo interesse. Anche Cenis aveva mostrato senza vergogna la sua delusione per il luogo, quanto probabilmente più desiderosa di vedere campi di battaglia, così almeno pensava Grace.
“Ditemi l’ultima volta che un posto che innocuo lo è stato veramente?” aveva domandato allora Grace, mettendo le mani sui fianchi, “Perché vi ricordo che neanche una settimana fa eravamo in un centro benessere che si è trasformato in un campo di battaglia” aveva detto, con fermezza. Poi era caduto il silenzio. Tutti, Grace non aveva dubbi in questo, avevano rivolto i loro pensieri a Joe la figlia di Efesto, la pira non si era ancora spenta quando erano fuggiti via da La fontana di Salmace.
Quel silenzio era bastato a Grace perché tutti smettessero di comportarsi in maniera così infantile.
Prese un profondo respiro, “Questo posto non è un luogo dove essere sciocchi” aveva spiegato subito Grace, “Dovete rimanere incollati a me, tutti e tre, tutto il tempo” aveva sottolineato ancora.
Portare dei semidei – Cenis lo era? Non credeva di saperlo – a Ironwood.
Carter aveva annuito, afferrandole una mano, come a volerle dare sostegno.


Si erano incamminati lungo la cittadina continuando a seguire con attenzione tutti i passi che Grace stava compiendo. “Le empusa sono figlie, si diciamo di si, della magia di Ecate. Siamo streghe ed illusioniste” aveva cominciato a spiegare con una certa precisione Grace, mentre dava loro una dimostrazione sottile, manipolando la loro percezione e facendo risultare i suoi capelli da bruni di un colore violaceo, prima di riportare tutto al giusto livello. Tutto il suo aspetto era una costruzione mentale di nebbia e magia. “Ne ho incocciata qualcheduna come te” aveva detto Cenis, non guadagnando un’occhiata fastidiosa di Drew.
“Comunque è qualcosa di naturale per noi. Ma … c’è stato un momento in cui ho avuto bisogno di imparare cose nuove” aveva cominciato a spiegare Grace, “Ironwood è abitata da, chiamiamole, streghe” aveva spiegato poi. No, streghe non rendeva l’idea,  neanche un po’.
Era stata ad Ironwood con Marzio, un posto completamente diverso rispetto quello dove sostavano in quel momento, ma Grace la poteva immaginare sotto tutta quella perfezione la vera Ironwood.
Lui aveva bisogno di addestrare la magia che gli scorreva nelle vene, erano strane le creature come Marzio, era strana la magia che correva in loro.
“Conoscevo un figlio di Tria” aveva provato a buttare giù Drew, mentre teneva una mano sull’elsa della propria spada, non sembrava esserci residui di cattiveria nella sua voce, non era con il figlio di Tria che aveva problemi. Non era lui quello che doveva uccidere.


Grace si arrestò davanti a quello che aveva tutto l’aspetto di un piccolo negozietto di numismatica, si chiamava il Maine Penny2, nonostante fosse locato nel Wisconsin. Ma era una battuta che onestamente non ricordava.
Il negozio aveva due vetrate con esposte diverse monete d’argento, la porta era in legno d’acacia dipinto di un bianco sporco, chiaramente legno di ferro. Vi era affisso un cartello che riportava la scritta: Aperto.
“Un rivenditore di monete usate?” aveva domandato Drew, aggiustando il berretto di lana grezza sul capo, “Antiquariato ma per sole monete” aveva spiegato Grace, stringendo con più enfasi la mano di Carter, che si era voltato verso di lui ed aveva annuito.
Grace si era voltato verso i loro altri due accompagnatori, “Potreste …” aveva cominciato lei, “Essere i vostri occhi, empusa?” aveva domandato Cenis, facendo annuire il mostro. “Non ho idea di cosa abbia detto lei, ma presumo tu voglia chiederci di essere i pali” aveva commentato Drew, prima di farle l’occhiolino e sollevare il pollice in maniera affermativa.
Grace si era voltata repentina contro Carter: “Qualunque cosa accada. Fai parlare me” aveva soffiato con un tono preoccupato, mentre spingeva la porta del Maine Penny, facendo suonare un campanello attaccato dietro la porta.
“Benvenuti” la voce che li aveva accolti era armoniosa.
Il Maine Penny era luminoso, pieno di teche di vetro con monete preziose, ma Grace non si era degnato minimamente di guardarli, per andare dritto dietro al bancone.
“Grazia, che luminosa bellezza” aveva squittito l’uomo.
Eirik sorrideva in maniera così solare che oscurare il mondo. Grace aveva lasciato la mano di Carter senza neanche rendersene conto, quando si era avvicinata all’uomo per baciare le sue gote. “È la tua cena o continui con le strane idee vegane?” aveva domandato imberbe Eirik, osservando con gli occhi grigi come lame Carter.
Grace aveva fatto scivolare una mano sul mento squadrato di Eirik, fino poi a scendere sul suo collo coperto da una morbida pelliccia grigia con chiazze argentee e nere. Che manto stupendo. “Continuo” aveva spiegato subito, prima di voltare il capo verso Carter e sorridere. Il suo compagno non doveva sentirsi molto a suo agio in quel momento riconosceva.
Eirik aveva riso, con gli occhi scintillanti, con la mano rude le aveva carezzato il viso, “Odio questo tuo aspetto” aveva detto con voce spenta. “Ed io il tuo” aveva confermato Grace. Il vero aspetto di Eirik, il suo aspetto di bestia era senza alcun dubbio di una meraviglia unica, migliore di qualsiasi aspetto di uomo avrebbe potuto mai prendere. Questo era certamente vero. Ma Eirik indossava il viso di un uomo morto, che non poteva che stregare Grace. “Sto ancora aspettando quel bacio” aveva sussurrato Eirik, passando le nocche sulle sue guance tonde. Grace si era ritratta con un movimento svelto, ricordando con timore quel bacio che non si erano scambiati eoni ed eoni fa.
Eirik le aveva letto dentro, tanto tempo fa, nel profondo da averla scossa, nel profondo da aver mutato la sua illusione nel suo incubo.
Il lucido nero dei capelli, la carne di perla e gli occhi grigi come scuri lucenti, dopo tutto quei secoli, il viso di Albio poteva ancora stroncarle il fiato.
Perché somigliava così tanto a Marzio.

Grace si era avvicinata a Carter, “Ho bisogno di incontrare la Hag di Ironwood” aveva soffiato poi con sicurezza l’empusa. “La signora saprà già che siete qui. Non c’è cosa che ella non sappia se avviene nei confini del suo regno” aveva spiegato ferace Eirik.
Grace aveva sbuffato, aggiustando il colletto della giacca di jeans, “Sapere che sono qui e volermi vedere sono due cose diverse” aveva detto un po’ più infastidita Grace.
Eirik aveva riso, forse di lei, nonostante avesse rubato il viso di Albio della sua mente e lo avesse riprodotto in ogni minima rifinitura, non riusciva ad interpretare il ruolo con abbastanza convinzione. Non aveva mai voluto Albio e contemporaneamente non aveva mai voluto nessuno che non fosse Albio. “Vedrò cosa un umile commerciante possa fare” l’aveva rassicurata Eirik, “Ma devi sapere che l’Hag ultimamente si è data a parecchi affari” aveva spiegato pragmatico. E forse neanche troppo contento.
 
“La gente di questo posto è tutta inquietantissima” aveva detto Drew, mentre tagliava un po’ di pancake su cui aveva messo sopra sciroppo d’acero. Cenis aveva deciso di chiudersi in un mutismo assoluto, aveva messo la sua lancia rivolta con la punta al soffitto e l’aveva incastrata tra il piede della sedia ed il bordo del tavolo. Gli occhi blu erano come quelli di un rapace, rivolti a tutti i frequentatori del locale.
Carter invece guardava lei, negli occhi nocciola, dalla forma di una mandorla, poteva leggerci benissimo una confusione letale ed un’impellente voglia di chiedere.
Era sempre stato strano il rapporto tra loro due, si erano uniti e legati, come forse solo una famiglia avrebbe potuto, in lui, in Marlo, Grace aveva rivisto Marzio. Ma erano entrambi sempre stati restii a parlare di loro.
Grace aveva avuto poche, se non esigue, notizie di Joelle, spettro che animava il petto di Carter e lei, d’altronde, non è mai riuscita neanche a dirgli del fatto che un tempo è vissuto un uomo che si chiamava Marzio, e che era suo figlio.
“Se vi dicessi tutto, ogni illusione che vi è ad Ironwood crollerebbe. E fidatevi è l’ultimo posto dove vorreste trovarvi” aveva spiegato con sicurezza.
“Taluno si sta dilettando nello scrutarci” aveva sussurrato Cenis, parlando in un basso e stentato inglese, in modo che tutti potessero sentirla.
Tre paia di occhi senza particolare riguardo erano saettati nella direzione in cui erano rivolti quelli della guerriera lapita. Chi gli osservava erano due giovani, uomo e donna … e per Grace erano sinonimo di problemi. “Voi non siete abituali di queste parti?” aveva domandato alla fine con orgoglio.
“Di sicuro ora non siamo gli unici fiammeggianti in città” aveva buttato fuori la donna. Lei aveva la pelle di onice nero e capelli del più setoso corvino che Grace avesse visto, non era bella, non propriamente, aveva un grosso naso schiacciato ed occhi rossi come scintille del focolare. Lui era più signorile, con giacca e cravatta in gessato, incarnato nero come una notte senza stelle, capelli rossi come fuoco scoppiettante tenuti in una coda bassa ed un sorriso piuttosto pieno di se.
Grace aveva fatto schioccare le dita, per un secondo scintille rosse e gialle avevano illuminato i suoi polpastrelli, perdendosi poi in cenere sul pavimento a quadri della locanda. L’uomo aveva portato l’indice alle labbra, intimandoli quasi di far silenzio, ma in realtà aveva soffiato sopra accendendo poi la punta come una candelina. Aveva mosso il dito spegnendolo.
“Ma cosa?” aveva domandato Carter, sorpreso e forse anche colto un po’ in preoccupazione. “Siete lontani da casa” aveva mormorato Grace, cercando di mantenere calma nella sua voce, “Non quanto te” aveva sussurrato l’uomo, facendole l’occhiolino, aveva iridi del colore dell’oro fuso.
Stava cercando in ogni modo di sembrare quanto più controllata possibile per non dover dare motivo di preoccupazione ai suoi compagni.
“Sei decisamente fuori dai tuoi confini” aveva saggiato la donna, alzandosi e lasciando a metà il suo bicchiere. Cenis era scattata su come una molla, per troneggiare su di lei, la guerriera Lapita di certo non spiccava di per sé per altezza, mentre la donna nera sembrava una longilinea figura. “Lady Sinmara” aveva cercato di placare gli animi l’uomo dai capelli di fuoco.
La donna lo aveva guardato con semplice sbieco nel viso, lisciandosi con le mani la gonna a tubino che indossava, tutta vestita in rosso scarlatto. “Non ho intenti bellicosi, Mur” aveva chiarito immediatamente con un tono di voce misurato, “Sono solo molto curiosa” aveva commentato alla fine con onestà Sinmara, sorridendo verace.
Grace poteva dire di condividere la stessa curiosità e di averne anche un discreto timore.
Carter si era alzato, “Non vogliamo creare problemi” aveva anche acconsentito lui, facendo un movimento misurato verso Sinmara e sfiorandole appena la spalla.
Qualcosa di controllato e che sarebbe bastato forse in millesima parte a controllare qualsiasi animosità la signora del fuoco avesse avuto contro di loro. Parte del potere di Apollo era nelle doti dell’empatia, forse se Carter avesse cantato avrebbe fatto venir voglia a Sinmara di ballare tenendoli per mano. Ma Carter come figlio di Apollo non era purtroppo forte.
La donna era scattato prendendolo per un polso, non aveva messo alcuna forza. “In te percepisco un potere simile a quello di Frey. Una potente Alf Seidr” aveva notato la donna, la sua presa si era fatta per un momento di fuoco puro, ma Carter aveva resistito stoico.
“Non vorrei incidenti diplomatici nel mio bar” aveva squillato infastidito un uomo, voltandosi verso il loro quadrato. “Non vorremmo mai indispettire la Hag di Ironwood” aveva detto subito schietta Grace, assecondata da Mur.
Ma Sinmara aveva continuato a tenere Carter per il polso, “Io sono la signora di …” aveva cominciato con virulenza.
“Noi lo sappiamo chi sei tu, signora pallida” la voce era tuonata con il vigore di un tuono. Lì sull’uscio Eirik del Maine Penny teneva premute le mani sulla pelliccia raffinata. Al suo fianco erano due, una donna nerboruta ed un uomo ancora più nerboruto. “Ti ricordo che sei ospite della Hag e per tale motivo sei soggetta alle leggi dell’ospitalità” aveva detto uno dei tre nuovi venuti, “Inoltre, Grazia da Urbe è per sangue un membro dei clan di Ironwood” era andato a sua difesa Eirik.
Sinmara si era seduta nuovamente al suo posto, con un sorriso un po’ freddo sulle sue labbra, “Non vorrei mai mancare di rispetto” aveva spiegato con voce piuttosto rigida la donna, calcando bene sull’ultima parola.
Il polso di Carter era libero finalmente, ma un cerchio rossastro lo adornava, insieme alla pelle cotta e all’odore forte del bruciato.
Grace aveva afferrato il polso senza neanche guardarsi in faccia, cercando di ricordare una formula magica per lenire il dolore, Drew aveva cercato nella sua borsa per estrare dell’ambrosia liquida – doveva aver saccheggiato le cucine o l’infermeria di Manto.
“Il sindaco è pronto a ricevervi” aveva detto loro, la donna nerboruta.
 
“Sarei, in tal momento, curiosa di cognoscere l’ubicazione di tale loco, in cui ci hai scortato” aveva sussurrato Cenis all’orecchio di Grace, ma lei aveva fatto intendere di non averla senta, avendo preferenza nel prendere sotto braccio Eirik. “Quei due erano di Muspellheim3!” aveva sussurrato, a denti stretti, al ragazzo.
Non aveva senso dal punto di vista logico: perché mai due giganti di Muspellheim dovrebbero aggirarsi a Ironwood come i padroni incontrastati del mondo?
“Cosa vuoi che ti dica: Ragnarok si avvicina” aveva scherzato Eirik con un sorriso luminoso che sfoggiava sul viso, aveva denti con una dentatura affilata come spade. “Sei l’unica persona che può essere contenta della fine del mondo” aveva cinguettato Grace. La verità era che no, la notizia della fine del mondo era un problema su cui avrebbe dovuto concentrarsi, ma non ora, prima doveva assicurarsi di sopravvivere alla Hag di Ironwood, di ritrovare Heather, la sorella di Carter, e possibilmente salvarla. In fin dei conti si era sempre guardata bene dall’immischiarsi in quella situazione, probabilmente qualcuno più inerente al campo avrebbe fatto qualcosa per impedirlo …
Che poi non doveva essere ignorato il fatto che se non fossero stati i giganti di fuoco, forse sarebbe stata Gaia a mettere fine al mondo come lo conoscevano.
“Pronto: seconda titanomachia” l’aveva giocata un po’ Eirik. Oh be aveva ragione, decisamente un colpo di testa, non una delle sue migliori idee. Però aveva permesso di incontrare Carter e dunque forse poteva considerarsi come qualcosa di buono. “Avevo le mie ragioni” aveva spiegato solamente acre, “Credo di averle conosciute le tue ragioni. Solo il Signore del Tempo avrebbe potuto …” aveva replicato Eirik.
“Non pronunciare il suo nome” aveva detto solenne, prima di sciogliersi da lui, per ricongiungersi ai suoi compagni, mentre stoici percorrevano la strada per raggiungere l’ufficio del sindaco.
Carter l’aveva afferrata per un braccio, allontanandosi dalla traiettoria sotto lo sguardo piuttosto attento degli accompagnatori. “Grace, mi fido di te. Sei la mia famiglia” aveva sussurrato Carter, senza ombra di dubbio, cercando ti mantenersi più tranquillo, “Ma devo sapere su che uova stiamo camminando” aveva mormorato.
Grace aveva guardato il polso di Carter, era rimasto solamente una sottile linea di un rosa ambrato. “Divinità Norrene” aveva spiegato, “Siamo vicino ad una sorta di porta sul retro per Jotunheim. Non saprei spiegarlo bene” aveva cominciato ad illustrare la creatura, continuando ad accarezzare il polso martoriato. “Ma questo posto riflette esattamente una piccola porzione di un altro mondo, per l’appunto Jotunheim4, dove esiste questo luogo noto come Járnviðr, la foresta di ferro” aveva buttato fuori Grace.
Carter era rimasto in un silenzio brutale, “Esistono divinità nordiche” aveva esclamato confuso e concitato.
Grace aveva sollevato un sopracciglio, “Penso sarebbe un po’ troppo monoteistico pensare che esista solo un pantheon, no?” aveva domandato. Carter aveva aggrottato ancora di più il viso, “Nel senso, se esistito dei greci, perché non dovrebbero esistere dei diversi?” aveva domandato poi. “Questa cosa ha senso, anche se mi crea un numero imbarazzante e sconclusionato di domande sull’origine del mondo” aveva risposto Carter, grattandosi il capo. Grace aveva annuito, “Penso che ne parleremo bene dopo; cercherò di dirti tutto quello che so, non che sia molto” aveva spiegato lei ridente, incrociando le dita con quelle del ragazzo, “Solo che prima dobbiamo incontrare l’Hag – sta per  saggia, diciamo il capo –  di Ironwood” aveva ripreso subito Grace, voltando lo sguardo verso gli altri accompagnatori che sembravano essere a questo punto molto meno accondiscendenti a voler aspettare il loro temporeggiare.
“Vuoi anche spiegarmi perché vuoi incontrare questa signora?” aveva domandato poi Carter, voleva porre altre mille domande, “Perché dopo quell’ultimo messaggio di Laurie con il fidanzato di tua sorella, non si è riuscito più a stabilire alcun contatto. Ho vissuto quasi duemila anni per assicurarti che nessuno è più abile nel trovare qualcuno dell’Hag di Ironwood” aveva spiegato netta.
“Non stiamo per finire in un macello, vero?” aveva chiesto Carter poi, con genuina gentilezza, “Probabilmente sarà peggio” aveva concesso Grace. Prima di ridacchiare, accompagnata da quella del ragazzo.
 
L’ufficio del sindaco di Ironwood era assolutamente inquietante. Una stanza quadrata, dall’aspetto soffocate, su cui svettavano senza vergogna teste di vari animali impagliati e fotografie di panorami innevati, c’erano anche parecchie medaglie  trofei legati al mondo sciistico.
Sul muro dietro la scrivania svettavano, tra le teste di due cervidi, dei quadretti con dei disegni, in uno svettava un lupo, in uno una donna la cui metà del viso era d’ossa ed il terzo era un serpente.
Su una sedia di pelle dallo schienale imbottito, proprio dietro la scrivania, stava una donna con un ingombrante pelliccia di grigio morbido. Ma le attenzione di tutti erano rivolte al grosso lupo che sonnecchiava davanti alla scrivania, sul tappetto su cui erano riportati i colori ed il nome dei Red Sox – Grace non era molto informata, ma era abbastanza certa non fosse una squadra del Wisconsin.
“Quello è un lupo” aveva detto in greco Cenis senza alcuna vergogna, “A me piacciono i lupi” onestamente Grace non aveva idea di come Drew l’avesse capita.
“Nel dubbio posso suonare My heart will go on con il flauto” aveva buttato lì Carter.
“Siete davanti la nostra signora, dovreste avere rispetto” aveva tuonato Eirik.
Grace aveva deglutito, guardando il grosso lupo ronfare e poi alzando lo sguardo verso la figura dietro la scrivania.
L’Hag di Ironwood era decisamente diversa dall’ultima volta che Grace l’aveva vista, non poteva dire se fosse più vecchia o più giovane, fin dal primo momento in cui si erano incontrate l’empusa aveva potuto comprendere che la gigantessa di Ironwood fosse una delle più talentuose signore delle illusioni con cui avesse mai avuto a che fare. Il suo viso era senza tempo, con i capelli di polvere grigia e gli occhi di azzurro luminoso come stelle incandescenti.
Grace l’aveva trovata come qualcosa di profondamente etereo e degno di rispetto, in un certo senso anche antichità, nuda come la terra e solo con indosso la pelliccia di lupo.
In quel momento l’Hag era una donna senza alcun dubbio attraente, con capelli lucenti ed una grossa pelliccia in cui sparire dentro.
Ed era molto infuriata con il suo interlocutore al telefono. “Per il regno di mia figlia, non mi importa quello che state piagnucolando! Trovate quel moccioso” aveva urlato prima di battere giù la cornetta nel fisso. “Penso che sia sorprendente quanto siano incapaci i tuoi fratelli, Mánagarmr” aveva esclamato l’Hag aggiustandosi il colletto di pelliccia. Il lupo che era steso sul tappeto aveva sollevato il muso per guardare la donna, aveva anche quello occhi azzurri scintillanti. “Ma tanto può nascondersi quanto vuole, ma i suoi sedici anni saranno come il quattro di luglio” aveva ghignato, prima di degnarsi finalmente di guardare i venuti.
L’Hag aveva battuto le mani, “Grazia, Gratia, Grece l’Empusa, come devo chiamarti?” aveva inquisito, sollevandosi dalla sua poltrona, sotto la pelliccia, indossava un completo di pelle nera e lucida, “Grace, mia venerabile signora, sarà sufficiente” aveva soffiato l’empusa chinando il capo in maniera rispettosa davanti alla donna.
La gigantessa le aveva sorriso accomodante, aveva scavalcato il lupo fino a raggiungerla, era alta e longilinea come un airone. Aveva allungato una mano e l’aveva posata sulla spalla di Grace. Voleva esserci gentilezza ed amichevolezza nel suo tocco, ma l’empusa aveva sentito il gelo pervaderla. Come un tempo non sembrava riuscire a dare un’età al viso dell’Hag,  gli occhi da lupa erano piantonati nei suoi così tanto da farla sprofondare nel terrore.  “Mi è dispiaciuto sapere di tuo figlio” aveva detto glaciale l’Hag, Grace non aveva avuto il coraggio di voltare il viso verso i suoi compagni ma aveva sentito un profondo cambiamento in loro, in particolar modo in Carter. “Sono la prima a sapere quanto sia inutile una madre senza i suoi figli” aveva mormorato, c’era un po’ più di intimità in lei, gli occhi si erano voltati verso i quadri che ornavano il muro. I tre figli da cui Odino l’aveva separata.
 Gli occhi da lupa dell’Hag si erano di nuovo concentrati su di lei, poi erano scivolati verso i suoi compagni, “Perché, amica mia, non mi presenti i tuoi amici?” aveva domandato leziosa, prima di avvicinarli e sniffali per bene. Anche il lupo l’aveva seguita, quando aveva avvicinato il naso umidiccio a Drew questi era stato tentato di allungare una mano per grattargli il muso, ma un movimento secco del capo di Eirik lo aveva fatto desistere.
L’empusa aveva presentato i suoi compagni in maniera più sbrigativa e meno esplicativa possibile, con l’intenzione di tutelarli dalla gigantessa. “Bene, Greci, Romani, Lapiti!” aveva esclamato entusiasta l’Hag, con gli occhi luccicanti come una bambina nella mattina di Natale, battendo le mani tra loro, “Che gioia! Tesoruccio si scolerebbe il veleno se sapesse di essersi perso tali stranezze” aveva guizzato tutta corretta. Grace aveva speso del tempo, degli anni, nella Foresta di Ferro, ed aveva sentito la presenza di Tesoruccio aleggiare in ogni dove.
Una volta Eirik aveva detto che se la Saggia era una brava ingannatrice, il padre dei suoi figli era ben più pericoloso. Grace aveva visto di sfuggita, una sola volta, una sua immagine spettrale. Parlava con una lingua di miele e le sue chiacchiere stesse irretivano le orecchie di tutti gli uditori. “Miei gentili ospiti, io sono il sindaco di Ironwood, hag di Járnviðr, la nefasta gigantessa che partorisce lupi, quelle cose lì. Potete chiamarmi Angrboða!” aveva esclamato poi, aggiustandosi la pelliccia addosso. Aveva evitato di dire che era una lupa essa stessa, che tutti erano uomini lupo.
“Sei la madre di Fenrir” la voce era uscita da Drew, a tradimento, tutti gli occhi erano ruotati verso di lui, compresi quelli azzurrissimi della gigantessa, “Esatto!” aveva squillato, “Qualcuno qui si è guardato bene dal conoscere anche cose diverse” aveva aggiunto.
Drew aveva sorriso imbarazzato ai complimenti della donna.
Certamente Grace non doveva dirsi stupita che la messaggera del dolore5 ed il figlio dell’inquietudine si fossero trovati.
Angrboða aveva allungato una mano ed aveva messo il dito ad uncino nel bordo della maglietta viola sbiadito ed aveva poi disegnato con il dito una runa sul collo del ragazzo. L’attimo dopo Drew indossava una maglietta dei Red Sox, “Tifi molto questa squadra” aveva biascicato il figlio di Cura, se voleva essere una domanda era uscito più che altro un pasticcio sdolcinato. “Non ho mai perso una partita” aveva squittito Angrboða, avvicinandosi a lui.
“Adesso tutti fuori, io e gli adulti dobbiamo parlare” aveva detto secca, mostrando il viso a Grace. Carter aveva allungato una mano verso di lei per prenderla, ma l’empusa lo aveva guardato ed aveva chinato il capo a volerla assecondare.
“Mia signora” aveva provo Eirik, “Si fuori anche tu, mio caro, resterà solo Mánagarmr con me” aveva berciato la gigantessa sicura di se, “Inoltre non c’è nulla di cui preoccuparsi, Grazia è stata mia allieva e per giuramento di sangue appartiene a questo posto” aveva ricordato a tutti l’Hag.
 
La gigantessa aveva ripreso posto alla sua scrivania, davanti era apparsa una sedia, in cui Grace aveva preso posto sperando non fosse una qualche trappola mortale che sarebbe finita per ucciderla. Non accade.
“Un giorno mi spiegherai come fanno quelle come te a far perdere la testa agli uomini. Dopo tutti questi secoli Eirik è ancora pazzo di te” aveva soffiato l’hag, mentre estraeva una sigaretta dal suo reggipetto e l’allungava verso Grace. Questa l’aveva accesa con una piccola scintilla. L’attimo dopo sapeva di aver fatto crollare ogni maschera, sedeva come empusa davanti la gigantessa, una gamba di bronzo di ferro, e tinte d’azzurro, l’altra d’asina. La sua pelle era bianca come la cenere ed i suoi capelli scoppiettante fuoco vivo.
“Parte del nostro potere ha questo sgradevole effetto collaterale. Per questo di solito li uccidiamo” aveva soffiato Grace. Aveva sentito sulla lingua il sapore delle carni di Albio. “Temo non avrei potuto vincere contro un uomo-lupo” aveva ammesso alla fine.
L’Hag aveva ispirato un po’ del fumo della sigaretta, “Ah la carne degli uomini. Quanto mi manca” aveva sussurrato, con una mezza risata.
“Smettiamola con le stupidaggini, cosa vuoi da me, Grace l’empusa?” aveva domandato alla fine la gigantessa, con un sorriso sornione ad illuminarle il viso. “Ho bisogno di trovare una mezzosangue” aveva ammesso alla fine. Heather Shine, capelli di rame ed una condanna a morte sulla testa.
Angrboða aveva spento la sigaretta con un movimento brusco, “Benvenuta nel club. Gli hai visti quei due simpatici fiammiferi alla tavola calda di Stiff?” aveva domandato infastidita, “Sei entrata in affare con i giganti di fuoco” aveva stabilito Grace. La gigantessa aveva annuito, “Che vuoi che ti dica, una madre alle suppliche di un figlio non sa proprio dire di no” aveva mormorato con un sorriso serafico l’Hag.
Allora Eirik aveva ragione era proprio Ragnarok. Dietro a tutto quello doveva esserci il Lupo che non doveva assolutamente essere liberato, in base a quello che aveva capito nella sua permanenza in quei luoghi. “I miei ragazzi si sono persi un mezzosangue e sembra proprio che non lo riescano a trovare … e per quanto gli anni dei mortali siamo secondi sul mio orologio, siamo quasi ad uno” aveva detto infastidita.
“Stai dicendo che hai perso il tuo tocco?” aveva domandato Grace, alzando lo sguardo per vederla bene, accavallando le gambe e con un sorriso cristallino sul viso. Sapeva di essersi appena giocata una mano difficile. Angroboða era potente ed era intelligente, ma anche consapevole di questo nel bene e nel male. L’ego talvolta era più efficace degli incanti. “Non ho detto questo” aveva precisato immediatamente la gigantessa, ai suoi piedi il lupo aveva ringhiato senza alcuna remora.
“Non volevo mancarti di rispetto” aveva detto subito Grace, “Ovviamente non volevi farlo. Volevi premere sul mio narcisismo” aveva stabilito la gigantessa, con un sorriso forzato sulla faccia.
Grace era rimasta in un silenzio bruciante, temendo per la sua vita.
“Il cuccioletto che devo trovare è ben nascosto da più di un paio di divin mani, quindi forse per la tua mezzosangue avrei più fortuna” aveva ripreso Angroboða con voce più calma, incrociando le dita tra loro, “Ma dovremmo parlare del mio compenso” aveva detto. “Cosa desideri?” aveva domandato Grace, morendosi un labbro, “Hai presente quegli uomini che incontri una volta nella vita, quelli che ti strappano il cuore?” aveva domandato la gigantessa, toccandosi il petto sinistro.
Si, avrebbe voluto dire Grace, ma era lei ad aver strappato cuori. “Ecco, Tesoruccio è un uomo che fa queste cose, in maniera non molto metaforica” aveva ripreso l’hag, facendo scivolare la pelliccia e mostrando le spalle nude, poi aveva abbassato l’orlo dell’abito di pelle, senza alcuna pudicizia, lungo lo sterno, tra i seni una grossa cicatrice tagliava verticalmente lo sterno, “Ti ha strappato il cuore?” aveva domandato Grace confusa, con gli occhi sbarrati, “E lo ha mangiato” aveva berciato Angroboða.
L’empusa aveva schiuse le labbra decisamente raccapricciata da questa cosa, ma anche spaventata da quello che stava per accadere, “È orribile non sentire il battito del proprio cuore. Ne voglio uno, nuovo” aveva soffiato.
“Se potessi scegliere: chiederei Drew; ma so che sei troppo buona per vendere un tuo compagno” aveva detto la gigantessa, “Comunque manderò Magnarmr e i miei ragazzi a cercare chi vuoi, mentre tu mi porterai un grosso, succulente e potente cuore. Non risparmiarti Empusa” aveva soffiato Angroboða.
“Heather Shine, figlia di Apollo” aveva risposto solamente Grace, prima di alzarsi frettolosamente dalla sedia ed uscire senza congedarsi come d’uopo.
 
“Credo tu debba dirmi qualcosa” aveva detto Carter rabbioso, “Io ti ho sempre considerato la mia famiglia e … tu … tu …” aveva cominciato quello, concitato, nervoso, ferito. “Perché tu di Joelle mi hai sempre raccontato tutto, vero?” aveva chiesto lei di rimando. Erano rimasti per un momento in silenzio a guardarsi, poi Grace aveva sussurrato: “Devo uccidere una persona, Carter”, posando il capo sulla spalla del suo amico. Non aveva idea di dove fossero Drew e Cenis, aveva trovato solo Carter quando era fuggita di fretta dal comune. “Lei vuole che io uccida qualcuno, perché è una psicopatica del cazzo e sa che ho scelto molti anni fa di soccombere ai miei istinti” aveva pianto. Aveva compiuto nel tempo scelte difficili, anche l’essersi uniti all’esercito di Crono sembrava andare contro quello che lei stessa aveva detto, ma era stata guidata da qualcosa di diverso della sua natura e dei suoi istinti. Voleva tornare a casa.
Carter l’aveva stretta bene a se, le aveva passato una mano tra i capelli, tornati da fuoco ad illusione. “Raccontami bene” aveva detto poi allontanandola appena un po’. Grace aveva vuotato il sacco.
Il viso di Carter si era fatto cereo come la polvere.
Non avrebbe voluto, anzi dovuto, raccontare tutto al figlio di Apollo. Sapeva di averlo messo in una situazione difficile, gli aveva chiesto di scegliere tra chiunque – non esattamente – e sua sorella Heather.
E Carter era una persona buona, ma anche una persona che amava intensamente.
“Andiamo via, Gracie, non abbiamo bisogno di loro” aveva soffiato, “Non hai giurato, vero?” aveva chiesto poi con un tono ancora più apprensivo. L’empusa aveva scosso il capo.
“Bene. È stata una defiance, non ne abbiamo bisogno. Siamo figli di Apollo, lo so che possiamo trovarci, come ci eravamo trovati io e Marlo” aveva stabilito Carter.
Grace aveva annuito.
“Non ti ho mai parlato di Marzio, perché mi uccide dentro ogni volta che penso a lui” aveva sussurrato Grace, tenendo le mani chiuse su loro stesse. La sua voce aveva tremato, “Cavoli, Carter, lui è … era la mia luce, il mio tutto” aveva aggiunto, “Quando è nato era così piccolo, ma che polmoni. E poi è cresciuto, dovevi vederlo era … perfetto. Uno stregone, un guerriero ed era così intelligente. Carter è stato così agghiacciante, quando mi sono accorta di non star invecchiando con lui. Marzio cresceva così in fretta, che un giorno era lì, vecchio e canuto, mentre io ero impotente a guardarlo” aveva vomitato quelle parole senza rendersene conto.
Carter l’aveva stretta così forte da non lasciarla andare più via, per certi versi, per certi comportamenti non riusciva a non sovrapporlo a Marzio.
Forse il giovane avrebbe voluto raccontargli di Joelle o di come levarsi più in fretta possibile da Ironwood, quando erano stati interrotti da un certo tossire.
Quando Grace aveva alzato lo sguardo aveva potuto vedere era Eirik, “Recupera gli altri due” aveva sussurrato subito a Carter, prima di volgersi verso l’altro.

Eirik non aveva parlato fino al momento in cui non erano rimasti da soli. “Non ho potuto evitare di ascoltare. Cosa stai combinando, Grazia?” aveva domandato preoccupato, mentre la sovrastava. Grace aveva chinato il capo, non riuscendo a reggere lo sguardo dell’uomo davanti a lei. “Me ne sto andando” aveva soffiato con voce spenta.
“Per quanto averti rivisto mi ha acceso il cuore di gioia” aveva sussurrato Eirik, accarezzandole il viso con le nocche, “Non saresti mai dovuta tornare per qualcosa di diverso di una visita” aveva sussurrato. Leggersi, neanche troppo, tra le righe: non dovevo fare affari con l’Hag di Ironwood.
“Non ho giurato su nulla” aveva soffiato di rimando. Poteva andare via lo sapeva, faceva ancora in tempo.
“Andiamo via! Io e te” aveva sussurrato Eirik, cogliendola d’improvviso. Grace aveva battuto gli occhi più volte, perplessa, “Oh” era riuscita a dire, con gli occhi addolciti. Si era alzata sulle punte delle sue scarpe e gli aveva dato un bacio. Un unico ed eterno bacio.
Ricordando quello che non gli aveva dato, allora, quando aveva lasciato quella piccola porzione di mondo, portando suo figlio con sé. Marzio non era più un bambino, era un uomo ed era divenuto estremamente capace nel malleare la magia che poteva apprendere da quel mondo. Molto più di quanto avesse fatto lei.
Ed Eirik gli aveva chiesto di rimanere, non solo a lei, ma anche a lui.
Erano ricordi ovattati e felici, ma era qualcosa in cui nascondersi profondamente per Grace. Ricordava di come era l’uomo lupo con il bambino. E come era con lei. Non aveva rubato il viso di Albio dalla sua memoria perché pensava fosse quello dell’uomo che amava, ma perché era l’aspetto del padre di Marzio.
“Non voglio interrompere questa magia” aveva ghignato Drew, ma in sostanza lo aveva fatto. Quando Grace ed Eirik si erano allontanati aveva potuto osservare come il terzetto gli stesse guardando.
“Andiamo” aveva stabilito l’empusa, “Potrei aver fatto una stupidaggine” aveva soffiato, pensando che alla fine aveva fornito il nome di Heather Shine ad Angroboða.
“Il tuo ferace amante, si aggregherà a noi o …?” aveva domandato Cenis, nella sua fluente lingua natia, facendo aggrottare le sopracciglia di Eirik e sbuffare Drew. Carter aveva fatto scattare gli occhi verso Eirik.
“Vuoi scappare con me?” aveva domandato Grace voltando lo sguardo verso Eirik. “Si, mi pare di averti detto che si, volevo farlo” aveva ripetuto l’uomo lupo senza esitazione. “No, intendevo me-noi” aveva esemplificato meglio la creatura.
Eirik aveva deglutito, mentre con gli occhi aveva fatto saettare lo sguardo verso di loro, “Direi che è meglio di niente” aveva risposto.
 
  1. Autostrada americana. Grazie Google Maps.
  2. E come viene chiamata una particolare moneta di origine vichinga del XI sec. circa, rinvenuta a Goddard.
  3. Uno dei nove mondi secondo la mitologia norrena, in particolare quello abitato dai giganti di Fuoco. Governato da Surt (Uno dei principali cattivi di Magnus Chase e la spada dell’estate). Secondo la mitologia Sinmara dovrebbe essere la sua compagna.
  4. Altro mondo secondo la mitologia norrena, abitato dai giganti di ghiaccio e di fuoco.
  5. Il nome Angrboda vuol dire Messaggera del Dolore. Inoltre, ho trovato versione discordanti su dove sia a tutti gli effetti la locazione geografica di del Bosco di Ferro. Da alcune parti lo ho trovato situato a Joutheim, altre su Asgard, però scoperta l’esistenza di una cittadina chiamata Ironwood non ho potuto resistere.
 

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Capitolo 18
*** Leonardo DiCaprio l’aveva fatta sembrare di gran lunga più complicata (July IV) ***


Eccomi! Si sta volta non ci ho messo un secolo, non faccio promesse però, anche se una parte del prossimo (o più avanti devo decidere) capitolo è stato scritto. Il pezzo più sostanziale non ancora. Oltre questo devo premettervi che da questo momento la storia diventerà un po’ più cupa – non alla stessa maniera per tutti i personaggi.
Il titolo che ho scelto si riferisce ad un film di Leonardo DiCaprio e sospetto sarà chiaro a tutti alla fine del capitolo eheh.
Il disegno che trovate è fatto un po’ male, perché, ohibò, con gli acquerelli faccio schifo e non ho avuto tempo di mettere le ombre o fare l’indecente shatush/ricrescita di July.
Comunque sia (spoiler-non-spoiler) dopo 19 capitoli: finalmente cominciamo a capire il punto. Si, SONO PROLISSA.
Buona Lettura!
RLandH

The Road so far(Quello che è successo fin’ora): July Goldenapple, dopo aver conosciuto per la prima volta sua madre – ed aver scoperto per tanto di essere figlia della Dea Eris – viene “arruolata” (di forza) da quest’ultima per una missione, sebbene la dea non si scomodi a rivelare a sua figlia cosa in realtà voglia, July viene aiutata dall’autista di sua madre che a tutti gli effetti la indirizza dal Ragazzo dal Sonno Più Profondo. Eris dona a July una lima, che si scoprirà un’arma, ed una bottiglia dal contenuto non meglio identificato. A questo punto la semidea viene scaricata da sua madre in prossimità di Alabaster C. Torrigton, eccelso figlio di Ecate e ex-membro dell’esercito di Crono – come July costretto in esilio – e dal suo lare personale il Dottor Claymore Horward.
July inizialmente rifiuta di spiegare ad Alabaster cosa stia succedendo davvero. Quest’ultimo non solo riesce a contattare un’altra mezzosangue in esilio, Bernie figlia di Nyx, cerca anche di scoprire il segreto dietro la bottiglia lasciata da Eris; July, nello stesso tempo, invece comincia ad avere sogni inquietanti tra cui un Satiro che con il potere del flauto massacra delle ninfe ed inseguito chiacchiera con una donna, i due discutono su chi dovrebbero uccidere tra La Regina della Pestilenza e l’Orfeo in Divenire. Per cacciare gli orribili pensieri – e raggiunta e spronata ancora da sua madre -  July si ritira in una corsa per meditare. Qui fa prima l’incontro con il Pittore, uno strano individuo, probabilmente dio, poi con Fama, una dea figlia di Gea ed al servizio di quest’ultima, che indossa il viso di Mary, defunta amica di July. La semidea scopre con orrore di essere finita sulla lista nera della Dea Primordiale della Terra. Dopo uno scontro con questa dea, vinto con l’intervento di Alabaster. I Due mezzosangue fanno a pezzi la dea e con la magia del figlio di Ecate spargono i suoi resti per il mondo. Scoprono che il Pittore ha lasciato loro un dipinto ed un messaggio dove veniva richiesto l’oro di trovare Chi Si Duole di Non Esser Morto e di farlo nell’Giorgiam Acquarium.
Durante il raggiungimento di tale posto, July stremata dalla battaglia con Fama, ha un altro sogno qui riesce a connettersi con i ragazzi della Cabina di Hypson del Campo Mezzosangue, dove conosce Clovis, il capo-cabina, e ritrova Maya disertrice dell’esercito di Crono. Maya si offre di aiutare July con i suoi incubi e qui le due hanno modo di vedere il Satiro (già apparso in un sogno) parlare con un uomo che si confessa vicino alla puttana di Atena (Nb – Aiace, che si riferiva a Jeha). A seguito July è costretta a svegliarsi dal sonno per mano di Alabaster. Prima di raggiungere l’acquario la figlia di Eris fa una pausa in un bar, dove conosce una donna di nome Orual, che le racconta delle sue disavventure tragiche con suo marito. Ricongiuntasi con i suoi compagni Alabaster modifica l’immagine di July per renderle uguale alla sua sorellastra Lou Ellen. Mentre i tre fanno la fila per comprare il biglietto per l’acquario hanno modo di vedere Percy Jackson in compagnia di un satiro ed un altro mezzosangue. July tentata di proseguire la sua vendetta, viene placata da Alabaster che la riporta sulla “retta via”. Hanno tutti una missione e Gea li vuole tutti morti.
I tre fanno la conoscenza della guida dell’Acquario: Tommy, marito di Electra e fratello di Ceto e Forco. Tommy tenta di scoraggiare i tre più volte nel corso della visita ma alla fine loro lo convincono a vedere la parte del Tour non “adatta ai mortali”, dove sono prigioniere le più disparate creature marine. Tommy, interrogato da Horward e Alabaster, confessa di avere idea di chi sia Chi Si Duole di Non Esser Morto, portando i tre alla vasca della Dea dei Fiumi, Giuturna. Disperata dopo la morte dei suoi fratelli. Qui July, avendo compreso che Tommy ha scoperto il loro inganno – oltre che questo stesso abbia ammesso di essere parte della sua famiglia – nonostante egli stesso non creda nella causa di Gea, in quanto il mondo non può tornare indietro. Attacca il dio e fugge con Alabaster nei piani superiori, nel tentativo di raggiungere la dea Giuturna, sotto effetto di droghe. I due mezzosangue sono però costretti ad affrontare il redivivo Erittone, che July aveva incontrato in termini più accomodanti in precedenza, ed mastino di Orione, Sirio. I due sono stati incaricati da Gea, di uccidere July. Nello scontro July ed Alabaster riescono ad avere la meglio, ma rimangono prigionieri nella vasca assieme alla dea Giuturna. In loro aiuto arriva Tommy, che si rivela essere il dio Taumante, che come il mare scuote e meraviglia. Egli si ritiene molto colpito dal comportamento dei due e decide di aiutarli, guarendo le loro ferite e gli confida di fuggire con Giuturna, ora che Percy Jackson ed i suoi amici hanno dato loro un fortuito diversivo. Qui July, in riferimento al discorso che Taumante aveva fatto, gli confida che concorda con lui, il mondo deve andare avanti ( ed un giorno gli dei cadranno in favore dei mezzosangue). Alabester, July ed Horward fuggono perciò con la dea Giuturna, in stato comatoso.

 
 
                                                       




 
Il Crepuscolo degli Idoli


Leonardo DiCaprio l’aveva fatta sembrare di gran lunga più complicata


 
(July IV)

“Sei sicura di questo piano?” aveva domandato Alabaster, alzando un sopracciglio.
“Ero sicura che i pantaloni a cinta alta sarebbero tornati di moda, perché non questo?” aveva risposto con una certa retorica July battendo una mano sul cinturino corallo dei suoi pantaloni stretti dal brillante color pesca. Nel bene e nel male July riconosceva di non essere mai stata una persona a cui piaceva passare inosservata.
“Credo sia una pessima idea, signorina” aveva sentito il bisogno di dire il Dr. Horward, “E sono morto, si fidi” aveva replicato.
July aveva riso, dopo essere passata attraverso il labirinto, non credeva avrebbe mai potuto fare qualcosa di più stupido, ma era ancora giovane – non di certo per gli standard di un mezzosangue – quindi riteneva di poter fare nuova stupidaggini.
Onestamente non sapeva perché ma nel momento in cui aveva avuto bisogno di un piano per risolvere l’inconveniente che era successo a seguito dalla fuga dell’Acquario, le era tornato in mente la conversazione con la giovane donna del bar: Orual.
Sospettare, poi, che probabilmente la persona in questione fosse una dea, sembrava una cosa decisamente ovvio. Ne aveva parlato con Horward ed Alabaster. Se il secondo si era limitato a guardarla, prima di scuotere il capo, al contrario il lare si aveva confermato che il nome in questione era senza alcun dubbio molto particolare. E che echeggiava nella sua memoria.
Quello che invece echeggiava nella memoria di July era il monito di Orual: Ma certi drink ti svoltano la giornata. Le aveva detto la donna, mentre ondeggiava il suo nocciolino con la panna – che ordinazione ambigua. July ci aveva rimuginato su un sacco di volte, ogni volta che pensava ad un piano quella frase continuava a ritornarle nella mente. La dea, se lo era, doveva essersi assolutamente insidiata nella sua mente.
“Possiamo provarci” aveva concesso alla fine Alabaster, “Alla fine non sappiamo neanche se tu abbia ragione” aveva ammesso quello. Ma July sapeva di aver ragione, dal momento in cui Orual aveva insidiato nella sua mente quel pensiero le era stato tutto più chiaro. L’unico drink che aveva da farsi era quello che sua madre le aveva regalato, la bottiglia che non erano mai riusciti ad aprire. L’aveva ripresa in mano, improvvisamente, aveva capito.
Sua madre, come per tutte le cose, le aveva dato doni insidiosi, qualcosa che non avrebbe potuto usare fino a che non avesse capito come usare, così era stato per la lima – anche se lì doveva dirsi prevedibile – così doveva essere per la bottiglia. Forse senza Orual però non sarebbe riuscita a comprendere nulla. Questa cosa la spaventò un poco.
Dire che July con le divinità non si fosse mai presa era una menzogna, nessuna di loro, sua madre compresa, si era mai curata di lei per gran parte della sua vita. Poi Kronos un giorno l’aveva indicata ai suoi minions. No, non voleva pensare a Mary così, dopo lo scempio che Fama aveva fatto della sua immagine.
Ed era finito tutto con una taglia sulla testa da fottuta madre Gea, Eris signora del dolore che la riconosceva come sua figlia e, ben, due divinità che l’aiutavano senza chiedere un prezzo. Ed ogni cosa a quel mondo ne aveva uno.
“Se qualcosa dovesse andare storto, voi potreste riportarmi indietro?” aveva domandato comunque July, tenendo nella sua mano la bottiglietta con l’etichetta con le ceramiche greche. Alabaster aveva allungato una mano verso di lei, aveva un pennarello verde petrolio, che July giurava di non aver mai veduto prima. “So che sembra assurdo detto da una che viveva per strada, ma a questa maglia ci tengo” aveva soffiato la ragazza, gonfiando le guance, era una delle ultime cose che aveva ancora della sua vecchia casa, della sua vecchia vita. Le aveva prese prima della sua seconda fuga.
Alabaster aveva disegnato sulla sua pancia una sorta di P molto spigolosa, “Questo è la runa di Thurs, la spina, la protezione” aveva spiegato quello calmo.
July lo sapeva che Alabaster non poteva essere uno da accontentarsi di aver studiato solo le stregonerie greco-romano, anche contro la fama lo aveva visto riflettere di luce verdastra scaturita proprio dai disegni di rune su di se.
“Lo prendo come un: Ovviamente no, Juls, perché sono incapace” aveva soffiato lei, con una mezza risata, mentre osservava con un certo disgusto la camera del motel dove avevano trovato rifugio. La fortuna di aver beccato Percy Jackson ed i suoi compagni era che nessuno aveva badato a loro, anche se avevano portato via un’attrazione dal parco.
La suddetta, la dea fluviale, Giuturna era in quel momento stesa su un comodo letto a due piazze. Sarebbe sembrata addormentata perfettamente, se i suoi occhi non fossero stati semi aperti, assenti rivolti al soffitto. Lo scandire della sua vita era dato solamente dal suo respiro. Sembrava però beata. Anche senza tutte le droghe, o allucinogeni, che le erano state somministrate all’acquario, non sembrava dare cenni di volersi svegliare. Secondo Horward era ancora tutto in circolo, secondo Alabaster era lei la prima a non volersi svegliare.
July pensava che entrambi dovessero avere ragione.
Svitò il tappo dalla bottiglietta, non trovando in questo caso nessuna resistenza da quest’ultima, differentemente da tutti i tentativi precedenti. Ne aveva saggiato l’odore, era un aroma forte, da stordirla quasi senza rendersene conto.
Aveva preso un bel respiro e si era portato il collo alla bocca, aveva assaporato d’un fiato il liquido. Era viscoso, forte e bruciante. Sapeva per un retrogusto d’aceto e miele speziato. Si era staccato dalla bottiglia e l’aveva passata insieme al tappo ad Alabaster.
“Va tutto bene?” aveva domandato il ragazzo.
La figlia di Eris avrebbe voluto rispondere che si andava tutto bene, ma aveva sentito il suo corpo farsi fastidioso e l’attimo dopo aveva la bocca spalancata alla ricerca d’aria, mentre lo stesso Alabaster la teneva per le braccia per evitare, urlandole qualcosa. Ma tutto sembrava farsi ogni momento più distante.
Ed improvvisamente lei si era ritrovata cacciata fuori, in qualche maniera. Alabastar non stava più urlando a lei, non la stava più tenendo. Lei era in piedi, con le vertigini e non comprendeva a pieno dove si trovasse, aveva guardato il suo corpo e lo aveva trovato di un opalescente riflesso di viola. Come un lare. Era nella stessa camera d’albergo in cui si trovava prima.
“Funziona! Al! La vedo” aveva tuonato Horward, Il fantasma della nebbia indicava proprio lei, Alabaster aveva seguito il dito del suo compagno ma sembrava non riuscire a vedere. Riguardo a July lei riusciva a vederlo, ma sembrava che tutta la realtà fosse distorta, riusciva anche a scorgere se stessa, stesa sul letto, con i capelli scomposti e gli occhi rovesciati. “Sono in estasi divina” aveva biascicato solamente, anche la sua voce era diversa, sembrava quella delle registrazioni e si era resa conto che non veniva dal suo spettro, ma dal suo corpo.
“Avevi ragione era vino del Cantaro di Dioniso” aveva esclamato Alabaster sconvolto, “Avevo visto le baccanti strafatte di zabaione*, ma questo …” aveva esclamato il figlio di Ecate. “Non ti ricordi che una volta un figlio di Lys ne aveva parlato?” aveva domandato July, cercando di attirare l’attenzione dell’amico, ma quella volta non era riuscita a far arrivare la sua voce al suo corpo.
L’estasi permetteva letteralmente allo spirito di separarsi dal corpo.
“Non capisco perché non ho potuto farlo io” aveva detto il dottore, riusciva a sentire la voce di Horward bene, come se lui fosse tangibile e reale, diversa rispetto come la percepiva prima.
Era tutto così strano, una sensazione completamente diversa rispetto a quando Al aveva modellato il suo aspetto per assomigliare alla sorellina. Aveva sentito il suo corpo farsi diverso e non aderire perfettamente a lei, invece in quel momento non percepiva nulla, non riusciva a dare alcuna consistenza in se. Era come se fosse fatta di nulla, riusciva a malapena a tenere insieme la sua mente. “No! July! No!” aveva strillato Horward, tenendola per un braccio, il loro tocco era stato strano, non era come se riuscisse davvero a toccarla, ma era come se avesse improvvisamente reso reale quel suo strano corpo d’aria viola.
“Devi rimanere concentrata” aveva berciato l’uomo, “Se lasci che la tua mente vaghi: non potrai ritornare indietro” aveva detto immediatamente lui, con sicurezza aberrante. Horward era uno spettro nebbiforme, probabilmente se la cavava meglio di lei nel non essere reale. “Grazie” aveva sussurrato July, mentre lo osservava, erano creature strane. “Che sta succedendo?” aveva chiesto Alabaster preoccupato, la sua voce era distorta e lontana, però continuava a sorreggere il suo corpo reale.
“Mi hai chiesto perché non potevi essere tu?” era riuscito a dire alla fine, non era sicura che la sua voce fosse effettivamente uscito.
Perché sua madre l’aveva avvicinata e le aveva dato il vino, perché il pittore aveva lasciato a lei le informazione per raggiunge Giuturna – e quell’orrido quadro – e Orual aveva dato a lei quel consiglio.
“Perché è la mia missione” aveva detto, alcune di queste parole erano uscite dalla bocca della July in carne ed ossa.
“Missione? Che cosa?” aveva chiesto Alabaster, l’aveva mezzo urlato per la stanza. Era la missione che un dio le aveva assegnato e non poteva sottrarsi.
L’attimo dopo si era avvicinato al letto dove dormiva Giuturna, fluttuava come i fiocchi di neve cadenti, solo che non tendeva alla terra, ma al cielo, era come se  non riuscisse a rimanere aggrappata a qualcosa. “Non devi perderti nei tuoi pensieri, signorina, o non ti ritroverai” aveva sussurrato il dottore. Si chiedeva come, per Ade, riuscisse ad essere così reale lui, forse era perché la sua esistenza era legata ad una carta, forse era perché era morto.
Aveva allungato le mani verso Giuturna, non era riuscita a toccarla, c’era passata in mezzo alle sue carni, aveva sollevato il braccio fino a portare le dita al volto, si era concentrata, aveva focalizzato tutta la sua attenzione sulla punta delle sue dita, aveva sfiorata la guancia. L’aveva sentita. “Non …” aveva provato a dire, ma Horward stava dicendo qualcosa ad Alabaster.
L’attimo dopo il figlio di Ecate era lì al suo fianco, aveva forzato di poco la bocca di Giuturna, per versarle il vino di Dionisio, non molto, due sole puntine. “Cosa è inverso all’estasi?” le aveva domandato retortico.
“L’euforia!” avevano biascicato in sincrono le due July. Quando un Dio ti possedeva ed entrava in te.
Il viso della dea rifulgeva di una luce violacea, il suo spettro era ancora lì, nel suo corpo, assieme alla sua mente prigioniera nel suo mondo onirico.
E July aveva spostato le dita sulla fronte di Giuturna … ed era caduta giù, nell’oblio.
Quando aveva aperto i suoi occhi la sua carne era di nuovo rosea e sembrava incredibilmente più reale, per quanto si rendeva conto qualcosa stonasse, a cominciare dal vestito di veli lungo di un candore imbarazzante e la corona di fiori variopinti che portava sulla testa. Sentiva l’erba sotto i suoi piedi nudi ma non riusciva a percepirne l’odore o la freschezza.
Tutto intorno a lei sembrava incredibilmente patinato e luminoso, un paradiso bucolico di luce accecante, con interminabili colline verdi, alberi e mare d’argento. Non comprendeva perché ma aveva sempre dato al Campo Mezzosangue quella forma.
“Che fai! Devi correre!” aveva strillato una ragazza andando verso di lei, aveva riccioli indisciplinate ed una lunga veste del colore delle ciliegie. “Come?” aveva domandato perplessa alla ragazzina, “Fa parte del gioco” aveva soffiato, “Dobbiamo scappare” aveva squittito con voce allegra quella, prendendola per un braccio e portandola a correre lungo la collinetta.
“Chi sei?” aveva chiesto July perplessa seguendo la corsa con la ragazzina, era più piccola e sottile di lui, “Mi chiamo Lavinia!” aveva esclamato con una certa allegrezza, mentre si riparavano dietro un grosso faggio.
“Lavinia, dove siamo?” aveva chiesto preoccupata, “Ovviamente siamo in Esperia ad Alba Longa” aveva esclamato tutta ridente con allegrezza. July non aveva assolutamente idea di cosa quella ragazzina stesse parlando, ne di chi fosse o dove si trovasse. “Lavinia, ho bisogno di trovare la divina Giuturna! Dov’è?” aveva domandato cercando di acquisire lucidità, “Nascosta ovviamente, anche lei. Se no che gioco sarebbe” aveva  riso la ragazza, prima di alzarsi e mettersi a correre per le praterie, un giovane uomo l’aveva afferrata per la vita, lei aveva riso dichiarando la resa, si erano scambiati abbracci e baci, mentre lui l’aveva fatta volteggiare un po’. Ridevano.
Era un gioco d’amore.
“Che schifo” aveva ripiegato.
“Divina Giuturna! Divina Giuturna! Ho bisogno di parlarle!” aveva cominciato a strillare per i campi, ma aveva ottenuto risposta solo quando era giunta nei pressi di un fiume dalle acque di un azzurro così intenso da sembrare che avesse rubato il colore al cielo. “Sono qui, ragazzina” aveva risposto seccata una voce, “Così rovini il mio gioco, bambina” aveva replicato ancora. July aveva seguito la voce continuando a camminare.
Giuturna era sulle rive del fiume, la veste celeste terminava nel fiume. No, la veste era il fiume.
Era splendida diversamente dalla pallida imitazione che aveva potuto vedere nel suo corpo reale. Il viso era pieno di un’oliva luminosa, i capelli erano lucenti e ruggenti. “Siamo tipo … sai  Inception?” aveva chiesto sarcastica July.
La dea aveva sollevato un sopracciglio scuro, “Prego?” aveva domandato, “Tipo siamo dentro un sogno” aveva cercato di essere più chiara la figlia di Eris, pensando che probabilmente che una dea non era informata sulle ultime uscite cinematografiche.
Giuturna l’aveva fissata con una certa insistenza, aveva occhi scuri come noccioli di pesca,  “Si, bambina, questo luogo è la mia mente” aveva sussurrato la donna, alzandosi dalla posizione in cui era seduta, l’acqua dell’abito era crollata giù come una cascata, lasciando sotto un veste opaca da monte frange e drappi. “E tu non ne fai parte bambina” aveva aggiunto la dea, camminando verso di lei, era scalza ed il suo passo non faceva rumore.
“Lo so, di norma, non è mia abitudine infilarmi nei sogni altrui volontariamente” aveva confidato, riflettendo quando era finita nel pieno della stazione onirica della casa di Hypnos insieme a Clovis, Maya e i loro fratelli.
La dea la guardava con un cipiglio di scetticissimo in viso. Era alta quanto July, ma aveva un corpo più tonico e pesante, comunque sia erano solo una semidea che si fronteggiava con una signora.
Sperava che nel profondo della sua mente Giuturna ricordasse quando anche lei non era che una figlia di dea minore in balia di forze più grandi.
“Io ti conosco” aveva mormorato alla fine la dea, “Non conosco il tuo nome, ma il tuo volto si.  Assieme al tuo amico mi avete rapito” aveva notato quella, “Io direi più salvata” aveva sento il bisogno di sottolineare July prima di essere zittita da un’occhiata piuttosto eloquente della dea.
“Di certo non era una villeggiatura quella in cui mi trovavo, ma senza gli allucinogeni questo cominciare a scomparire” aveva sussurrato Giuturna con gli occhi stanchi, “Posso già cominciare a vederlo. Infondo quando sei immortale impari presto che con l’eccezione di se stessi, nulla è permanente” aveva aggiunto la dea. La sua mene vaneggiava per lidi per lontani da quelli a cui la mezzosague poteva anche solo pensare di avvicinarsi.
“Non vorrei mancare di rispetto” aveva esordito July, congiungendo le punte del pollice e dell’indice. “Dici?” aveva domandato retorica la dea, decisamente non colpita dai suoi buoni propositi, “Non mi sarei mai così immischiata se non fossi stata costretta” aveva ripreso con una disarmante sicurezza July. Per un momento davanti i suoi occhi erano balenati i freddi e crudeli occhi di sua madre. “Sono stata indirizzata qui da una divinità … Io lo chiamo il Pittore!” aveva ripreso con una certa urgenza, onestamente non era neanche sicura di sapere per quale motivo glielo stesse dicendo.
Il viso di Giuturna si era svegliato dalla sua boria, “Pittore?” aveva domandato perplessa, “Quale è il tuo nome?” aveva chiesto con un repentino cambio di atteggiamento, “July Goldenapple” aveva risposto con un tono schietto.
“Ah” aveva risposto la dea, inclinando il capo, una pioggia intensa di riccioli brumosi si era mossa, “Ricordo il tuo nome” aveva aggiunto. In quell’istante anche il volto di July si era fatto pallido come cera d’avorio. Prima che riuscisse anche solo a porre una domanda, la dea aveva ripreso: “Quando Enea, il pietoso, così dicevano. Venne nella terra del marito di mia zia Amata, proprio qui se vogliamo essere precisi. In cerca di un luogo dove edificare la sua nuova città. Cercai il suo nome tra le pergamene del fato, che orribile cordoglio fu leggere della sua morte e non poterlo avvertire” aveva sussurrato la dea, portando le mani al petto. July aveva ricordato il racconto di Taumante, Giuturna era rimasta dea ed immortale dopo la morte dei suoi fratelli, la femmina di vecchiaia dopo una lunga e cheta vita, il maschio di furore da guerra. A lei non era rimasto altro che il dolore.
“Durante la mia lunga vita presi il brutto vizio di continuare a spiare il destino dei mortali, di tanto in tanto alcuni nomi, con particolari sentieri, mi restavano impressi” aveva detto con un tono di supponenza.
“È bello essere ignorata per così tanto tempo e scoprire invece che dei, mai sentiti, ti spiavano da secoli prima che venissi al mondo” July non avrebbe voluto dirlo ad alta voce, ma invece lo aveva fatto.
La dea aveva deciso di ignorare apertamente la sua uscita, per sua fortuna, “Ho visto il tuo futuro. Fidati July Goldenapple, tu vuoi fallire questa missione qualunque essa sia” aveva detto solenne la dea, osservandola, “O sarai un passo più vicina a quello che il Pittore ti ha mostrato, perché non sarebbe stato così gentile da offrirti aiuto senza prendersi qualcosa” aveva aggiunto melliflua. July aveva ricordato il dipinto che aveva trovato dopo lo scontro con Fama, con un certo orrore. “Ci sono destini peggiori” aveva soffiato alla fine July, con un groppo alla gola e la bile lungo lo stomaco, non ci credeva in pieno neanche lei.
Giuturna aveva riso, “Torna nel tuo mondo, lasciami cullare nella mia illusione finché  è ancora possibile, bambina” aveva soffiato la dea.
“Il Pittore si è rivolto a lei come Chi si lamenta di non esser morto, ed anche Taumante” aveva spiegato July, non volendo mollare l’osso, “Vorresti poter morire un giorno, vero? Ricongiungerti con i tuoi famigliari?” aveva chiesto lei. “No. Io non appartengo al loro mondo, io non potrei mai ricongiungermi con loro” aveva risposto spenta Giuturna, “Mi accontenterei di scomparire, ma ahimè disgraziata, Virgilio mi ha reso immortale. Ci sarà sempre qualcuno che si ricorderà la storia nefasta di Giuturna, sorella di Turno” c’era disperazione e dolore nella sua voce, forse però anche irritazione.
“Il mio amico Alabaster sa rendere la morte un concetto permanente per i mostri, così che li tiene lontani” aveva spiegato precisa July. Aveva accennato a quella capacità prima che raggiungessero l’acquario, ma poi era stato molto più chiaro dopo essere fuggiti da lì.  July aveva chiesto come mai non avesse provato lo stesso incanto anche sulla dea Fama ed Al aveva alzato le spalle, non era sicuro potesse funzionare su una dea e … forse ne era anche spaventato. Dal suo potere. Luke Castellan aveva ragione quando diceva che nessuno era come Alabaster.
“Cosa stai suggerendo?” aveva domandato Giuturna, improvvisamente interessata, “Forse potrebbe provarci con una dea” aveva risposto July, con sicurezza. La donna aveva inclinato il capo, con un sorriso un po’ tirato, “Vai avanti. Potrei essere interessata” aveva mormorato.
Nonostante ci fossero stati momenti in cui July aveva pensato di non farcela, aveva pensato di desiderare di non avercela fatta, non riusciva davvero ad a comprendere quello: il desiderio di morire. Aveva amato Jake, aveva amato Mary, aveva voluto bene a Lip, aveva provato empatia con Ines ed aveva ammirato tanto, nonostante tutto forse lo faceva ancora, Luke Castellan. Ed aveva perso tutti loro. Eppure non era capace di provare quello che Giuturna provava.
Forse perché diciotto anni erano polvere in confronto a tutta la vita che aveva vissuto la dea davanti a lei.
“Però devi aiutarmi” aveva esclamato con decisione July, osservando come ancora una volta gli occhi della dea si erano dipinti di una sfumatura infelice. “Mi stai proponendo un accordo al posto del tuo amico e non sei neanche sicura che funzionerà, ma pretendi il mio aiuto. Sei così sfacciata” aveva tuonata imperiosa Giuturna. I suoi occhi erano lampeggiati di azzurro, come uragani di acque torbide.
“E voi siete tutti palloni gonfiati che pretendete, pretendete e pretendete. Siete vecchi, superati, nulla più che polvere, attaccati ad un mondo che vi ha rigettato tanti secoli fa” sputò fuori con arroganza July. “Avete bisogno di noi per ogni cosa, per ogni singola cosa.  Guarda mia madre, la preziosa e potente Eris che è dovuta ricorrere alla sua figlia ingrata” aveva aggiunto con rabbia. “E tu dovresti comprenderci. Sei stata una di noi, i tuoi preziosi fratelli sono stati noi. E sono morti perché voi e tutti quelli come te erano divertiti da questo. Achille, Enea, Odisseo, Fedra. Tutte le loro tragedie sono iniziate e finite per colpa vostra” aveva buttato fuori, “Per non parlare di Marsia, Arcane … Puniti per essere stati arroganti, così si dice no? No, puniti per aver dimostrato di essere migliori” aveva terminato.
E Mary che voleva solo un posto dove stare. Jake che non sapeva neanche dove dover guardare per il suo passato. E Lip che era un mortale, figlio di mortali, maledetto solo dai suoi occhi che vedevano oltre.
July li odiava, gli dei, e si chiese come avesse potuto per così tanto tempo dimenticarlo. Pensare di averlo superato.
“E i miei amici! I miei amici sono morti! E forse avevano compiuto degli errori. Ma non meritavano il loro destino!” le ultime cose le aveva detto con lacrime a ruggirgli negli occhi.
Pensare che essere lasciata in pace potesse essere meglio.
Pensò poi che fosse solo colpa di quel dannato quadro. Di quella dannata missione. Di quel dannato sogno.
Ricordò però Taumante … gli aveva aiutati senza chiedere nulla in cambio. Forse …
Poi aveva realizzato quel che aveva detto ed aveva temuto come poche cose al mondo di finire uccisa dalla signora dei fiumi.
Gli occhi di Giuturna erano tornati scuri come il caffè, aveva un’espressione sul viso di sgomento e poi di vergogna, così come le sue gote si erano tinte di un rosso innocente. “Devo chiederti scusa” sussurrò con disagio la dea, “Perché ho dimenticato, dopo tutto questo tempo” aveva ammesso quella. “Noi dei proviamo sensazioni ed emozioni, come voi umani, su questo non posso mentire, ma il modo in cui provate i sentimenti voi è diverso. È più intenso. Si dice che la rabbia degli dei sia eterna; questa cosa è vera, possiamo convivere con un sentimento come la rabbia, il rancore, forse anche l’amore in maniera cronica. Ma questo impeto, questo impeto. Un momento solo, di un’intensità brutale che nessun dio può comprendere.” aveva ammesso la dea. “Questa rabbia, questo tormento, so di averlo provato in passato. Lo so, me ne ricordo. Forse perché allora pensavo di avere una vita, una umana, con degli anni contati e sapevo di dover vivere tutto intensamente” aveva detto Giuturna, avvicinandosi a lei, aveva accarezzato il viso di July in maniera dolce, forse anche materna.
“Non sei animata da una furia cieca che potrebbe polverizzarmi seduta istante?” aveva chiesto la figlia di Eris perplessa.
“Si. Ovviamente sono arrabbiata, come potrebbe esserlo chiunque altro quando qualcuno gli scivola nella testa, pretende cosa e gli urla addosso” aveva risposto Giuturna con onestà disarmante, mentre abbandonava finalmente la sua guancia. Non c’era alcuna traccia di furore nei suoi occhi, “Però tu hai ragione” aveva constato la dea. July era rimasta sorpresa. “Non su tutto chiaramente, ma su qualcosa si” aveva soffiato la dea con un tono con un certo biasimo, prima di metterle una mano attorno alle spalle per accompagnarla prima di spingerla da qualche parte.


Nel mezzo di un prato erboso si era materializzato quello che aveva tutta l’aria di essere un tavolino tondo con un piede centrale, non molto adatto all’ambiente bucolico dell’Esperia dei sogni di Giuturna. Il cielo era passato da un azzurro così limpido da sembrare dipinto, cominciava a tingersi di un plumbeo. “Giove è turbato” aveva sussurrato Giuturna prima di chiudere gli occhi, “Lo dicevo sempre ogni volta che vedevo il cielo farsi terso” aveva sussurrato, prendendo posto al tavolino, erano comparse anche delle sedie e July si era seduta sull’altra.
“Ci passavo un sacco di tempo a fantasticare come dovesse essere Giove. Poi lo ho incontrato … e gli Dei avranno, tanti, troppi, difetti … ma qualche pregio lo abbiamo” aveva scherzato Giuturna, facendole l’occhiolino.
Bene, quello decisamente July non se lo aspettava, di ritrovarsi a fare chiacchiere con una dea. “Io lo ho amato Giove, con l’ardore di mille soli. E lo ho amato anche dopo, lo ho amato per secoli, forse una parte di me sente ancora il cuore battere con fragore quando pensa a lui” aveva ammesso.
Per un momento July si era concessa il lusso di ricordare Jake, che protraeva la sua mano verso di lei, nel tentativo di sfiorarle il volto, mentre le dita dell’altra erano intrecciate a quelle di July, sul petto. Ti amo le aveva detto. Ma July non era riuscita a rispondere, nonostante lo sapesse, nel suo petto, nel suo ventre, nella sua mente, che lo ricambiava. Ma non era riuscita a dirla.
Jake era morto senza sapere la sua risposta.
Giuturna dopo tutti quei secoli …
“Allora dimmi, July figlia di Eris, cosa vuoi da me?” aveva domandando di punto in bianco la dea, con gli occhi rivolti al cielo, si stava sgretolando. Era tutta un’illusione quella di Giuturna, qualcosa a metà tra un ricordo dolce ed un futuro che non si era mai realizzato. Chi sa come sarebbe stato il mondo immaginifico di July.
“Come?” domando colta di sorpresa, “Come posso aiutarti?” aveva domandato la dea. “Sono stato indirizzata da te dal Pittore, ma prima stavo cercando qualcosa per conto di mia madre, onestamente lei non si è neanche degnata di dirmi cosa, ma il suo autista, presumo vada bene se lo chiamo così … guidava lui la limousine” aveva cominciato a spiegare lei. “Era un uomo pelato con la maschera rossa?” l’aveva presto interrotta Giuturna. July aveva confermato, la dea aveva ridacchiato, “Era il dio Momo, signore del biasimo. Fratello di tua madre. Un tipetto molto particolare” aveva spiegato Giuturna.
La semidea aveva annuito, non voleva sembrare sgradevole, ma in realtà non le importava praticamente, “Bene, Momo mi ha detto di cercare il ragazzo con il sonno più profondo” aveva riferito.
Giuturna aveva sollevato le sopracciglia prima di aprire le labbra in un sorriso piuttosto aperto, “Direi che ha senso” aveva esclamato la dea, battendo il palmo sul tavolo e facendolo tremare.
July aveva sollevato un sopracciglio, “Stai parlando di quel pezzo d’uomo di Endimione dell’Elide” aveva spiegato chiaramente Giuturna, “Come me accade spesso …” aveva ripreso la dea, “Ogni tanto capito che qualche mortale attiri l’attenzione di una divinità. È successo con me, con tuo padre … insomma; sorvoliamo. Endimione attirò lo sguardo in realtà di più di un dio, Hypnos e la titana Selene. Ebbe una relazione incredibilmente focosa e proficua con quest’ultima, credo di aver smesso di contare i figli intorno ad una cinquantina, che Priamo di Troia deve solo vergognarsi. Comunque nasceva un grande problema: Endimione era mortale” aveva cominciato ad illustrare la dea, “Immagino che l’immortalità non sia esattamente qualcosa che può essere data con uno schiocco di dita” aveva mormorato July. Aveva pensato al racconto di Taumante, Ercole, Dionisio e Psiche si erano dovuti guadagnare quel premio con il sudore ed il sangue, perfino Percy Jackson aveva dovuto sconfiggere un titano per ricevere l’offerta, ma no Giuturna aveva dovuto semplicemente essere bella.
“Ehm, si …” aveva detto con un certo imbarazzo la dea, “L’immortale non poteva essere concessa ad Endimione, onestamente non so perché, non ero neanche nata, ma Selene ci provò in tutti modi. In un certo senso si arrivò ad un compromesso, grazie anche all’aiuto di Hypnos. Endimione è immortale ed ancora oggi vive, ma non può svegliarsi” aveva spiegato la dea, “Una sorta di questo perenne” aveva spiegato, “Chiamiamolo Sonno più profondo o morte apparente, non so, bene, ma è una stasi infinita. Anche Psiche ne cadde vittima, una volta, in effetti è l’unica che si è mai svegliata, non ricordo se è stato per l’amore di quel sadico di suo marito o per l’intervento di Giove amato” aveva spiegato svelta la donna.
Momo aveva consigliato di trovare Endimione, ma sua madre le aveva dato il Vino di Dionisio per potersi estraniare dal suo corpo. Chiaramente non era voluto per parlare con Giuturna ma con il simpatico bell’addormentato, perché voleva quello: il sonno più profondo.
“Che aspetto ha?” aveva chiesto, “Il sonno più profondo. Che aspetto ha?” aveva ripetuto la domanda, “Ah non lo so; io e Psiche non siamo esattamente amiche” aveva spiegato Giuturna, “Nel senso, lo so che non è una semplice maledizione, è una cosa fisica vero” aveva cercato di essere più precisa possibile July. “Si credo di si” aveva risposto Giuturna.
“Allora mia madre questo vuole” aveva constato tra se e se.
“Che la dea della discordia voglia un’arma capace di mandare in coma qualcuno senza probabilmente di risveglio, non mi sorprende” aveva soffiato la dea dei fiumi.
July si prese tempo per un grosso respiro, prima di incrociare le braccia sotto il seno, “Quindi come lo trovo questo Endimione?” aveva domandato alla fine.
Giuturna le aveva sorriso, “Non essere impaziente. Tu ed il tuo amico dovrete uccidermi dopo questo, quindi a tutti gli effetti sei appena diventata il mio testamento” aveva soffiato la dea, facendo schioccare le dita, erano apparsi sul tavolo una serie di cibi e delle bevande.
La semidea aveva allungato una mano e si era versato una bella coppa piena di vino dall’odore speziato, si prospettava una lunga chiacchierata, inoltre non poteva sbronzarsi in un sogno no?
“Io e Giove ci amammo tanto. Davvero tanto” aveva spiegato Giuturna, “Mi amò anche dopo” aveva continuato, “Ma ahimè, lui era, è, qualcuno che perde interesse facilmente. Chiedi ad Era. Ed io non ero in grado di starci dietro. Dopo la morte di Turno e di mia sorella, mi sono sentita spenta. Ma quando l’ultima goccia del loro sangue è scomparso da questo mondo io semplicemente sono voluta scomparire. Ma non ci sono riuscita, come ti dicevo, sia dannato Virgilio” aveva chiarificato tutto la dea, versandosi anche lei un po’ di vino.
July lo aveva sorseggiato mentre ascoltava il discorso, in realtà più colpita di quanto non volesse ammettere, “Si può dire che il mio desiderio di sparire, sia stato interpretato dal fato con il desiderio di perdermi” disse enigmatica Giuturna. La semidea l’aveva guardata con un certo interesse, mentre svuotava l’ultimo goccio dalla coppa, il vino era piuttosto buono, aveva un aroma dolciastro che non sapeva cosa fosse. “Così sono finita dove finiscono tutte le cose perse. Sulla Luna, in un certo senso” aveva esclamato Giuturna, con voce divertita.
“Intendi quella … Luna?” aveva chiesto perplessa July indicando il cielo, “Diciamo che la luna è un posto più che figurato. Una volta era proprio l’astro, sai la storia di Astolfo che dovette andare sulla Luna per ritrovare il senno di Orlando … Ma tu non hai idea di cosa io stia dicendo” Giuturna aveva fatto una pausa, per mangiare un dolcetto. July non aveva ancora avuto il coraggio di provarne uno, ma si doveva dire rapita dai racconti della dea, così come confusa.
“Quando mi persi, mi ritrovai lì, tra le centinaia e centinaia di cose perse e mai reclamate nei secoli, e non parlo solo di chincaglierie, ma anche amori perduti, senni e quelli come me. Quelli che non potevano sparire ma lo desideravano” aveva spiegato con calma Giuturna.
A July venne da ridere e si chiese come non era riuscita lei a finire sulla luna, che tanto si era sentita persa. Era solo finita in strade lugubri e mondi di ovatta, che sembravano luccicare nella notte e di polvere stantia il mattino.
Aveva vissuto per le strada di Los Angeles, pulendo e sopravvivendo di stenti. Dormendo dove era possibile, non sempre sotto un tetto, non sempre in tranquillità. Sentendo mancare l’aria al ricordo della Principessa Andromaca. Il rollio della nave come un cullare primordiale. A volte era di suo padre che sentiva la mancanza e di quella casa di cui si era sempre sentita estranea.
“Mi sono fatta un sacco di simpatici amici lì, come Galatea, ed è lì che dimora nel suo sonno perpetuo Endimione. Perduto, dopo che Selene è scomparsa, sopperita, assorbita da Artemide, non lo so. Che fortunata, devo dire. Così Endimione è lì” aveva soffiato la dea.
“Non so come mi ritrovai lì e ne come andarmene, non mi importava neanche farlo, ma un giorno venne Astolfo ed andai via con lui, si lo so che questo non è scritto da nessuna parte, ma avevo già l’Eneide non volevo essere ancora più ancorata a questo mondo. Il problema è che non saprei tornare lì” aveva spiegato poi, mentre July si decideva a sgranocchiare del pane dolce con semi di melograno tostato, “Oltre che perdersi” aveva aggiunto July, ricordando bene il discorso della donna, che aveva annuito, “Ma dicevi di questo Astolfo?” aveva domandato alla fine la semidea, gustandosi un po’ di dolciume.
 
Quando July era riuscita ad andare via dal mondo onirico di Giuturna, era stato probabilmente grazie alla luce. Era stata quella a guidarla fuori, proprio nel momento in cui aveva ottenuto, circa, tutte le risposte che le servivano e la dea le aveva fatto giurare che avrebbero provato ad ucciderla … July si era resa conto di non avere idea di come andare via.
Poi aveva visto la luce. Letteralmente.
Una P dalla pancia appuntita che illuminava la via come la stella promessa ed era la runa della protezione che Alabaster le aveva disegnato sulla maglietta. Forse era davvero la sua magia o forse era una specie di promemoria.
Mentre la seguiva il mondo bucolico di Giuturna cominciava a farsi sempre più sbiadito, come in vecchie foto fino a divenire un profondo abisso di nero. Doveva muoversi, doveva assolutamente sbrigarsi. Giuturna le aveva chiesto di mettere fine alla sua vita, mentre poteva ancora godersi il mondo immaginario che i sedativi di Forco e Ceto le avevano permesso di creare.
La runa aveva arrestato il suo fluttuare, July l’aveva toccata e si era trovata letteralmente tirata via. Abbagliata da una luce luminosissima.
Quando aveva riaperto gli occhi era ancora nel motel, la sua pelle era di traslucido viola opalescente ed era inconsistente, il suo corpo mortale era steso proprio accanto alla dea fluviale. “Horward! Torrington!” strillò cercando di guardare i due, ma non erano nella stanza. Sul pavimento c’erano dei simboli particolari, che luccicavano splendidi per terra. Dovevano essere a protezione.
July aveva deciso che avrebbe dovuto pensarci dopo, prima di avvicinarsi di nuovo al suo corpo. Be, non aveva proprio idea di come fare, aveva pigiato più volte le dita sul simbolo della spina, finendo per affondare nel suo stesso corpo. Alla fine si era arresa semplicemente nel voler cadere su se stessa e questo almeno aveva avuto successo.
Si era alzata dalla posizione supina sentendosi incredibilmente affaticata, dolevano tutte le articolazioni e sentiva gli arti formicolare, ma era riuscita a mettersi in piedi. L’orologio sul comodino segnava molte ore dopo rispetto quando aveva preso il vino.
Si era voltata improvvisamente verso Giuturna, il suo viso era ancora sereno e sembrava ancora cullarsi nel suo mondo, July si era sporta verso di lei ed aveva delicatamente preso i polsi della dea e gli aveva sistemati in modo che la mano sinistra fosse posata sul cuore e la destra sull’altra. “Trovo Al e ti prometto che manterrò la mia parte. Non svegliarti” la supplicò con gentilezza.

July era scattata in piedi, infilando una mano nella tasca dei pantaloni a vita alta, la sua lima era sempre lì, l’aveva estratta, “Non so bene come funzioni” aveva testato. Le armi di solito avevano due stadi: arma ed oggetto assolutamente innocuo con cui andare in giro, aveva visto alcune armi avere anche la funzione dell’oggetto innocuo – Carter Gale se si concentrava poteva far funzionare l’accendino-spada davvero come un accendino – ed altre invece erano solo l’arma standard. July aveva capito che quella lima non funzionava proprio così, era stata una lancia, un’ascia ed una mazza da baseball, intuendo sempre quello che serviva alla sua proprietaria. Il pittore aveva detto essere fatta di etere polimorfo. Etere dalle diverse forme, o qualcosa del genere, era abbastanza certa la figlia di Eris. “Mi serve qualcosa per trovare il mio amico” aveva stabilito con voce sicura.
La verità è che non voleva semplicemente pensare che Alabaster l’aveva piantata, non lo avrebbe fatto, non sapeva perché aveva questa certezza. Inoltre, Al aveva lasciato la sua felpa lì, questo non lo aveva notato.
La lima aveva cominciato a mutarsi davanti ai suoi occhi fino a prendere l’aspetto di una catenina d’argento con un prisma sul fondo. “Direi che non è il genere di gioielleria che fa per me” aveva constato, toccandosi con una mano le cianfrusaglie che portava al collo. Il prisma aveva cominciato a roteare, così pure la catenina, mentre continuava ad agitarsi nella direzione dei simboli per terra e della dea. “Oh capito! Sei uno strumento per la rabdomanzia, solo che percepisci la magia al posto dell’acqua” aveva avuto un eureka improvvisa July.
Poi era corsa fuori dalla stanza, dando un’ultima occhiata alla dea, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Il prisma aveva continuato ad indicare la direzione della camera anche mentre July si muoveva nel parcheggio, chiaramente una dea doveva essere un giacimento di energia non indifferente. Ma proprio quando era prossima al botteghino dove avevano preso le chiavi della stanza, il gioiello aveva improvvisamente cominciato a tirare in un’altra direzione.
E lei aveva seguito quell’identificazione.
Il primo che aveva riconosciuto era stato il contorno violaceo del dottore, poi aveva riconosciuto il profilo smunto di Alabaster ed erano in compagnia di un altro uomo. “Sembra che la tua amica si sia unita a noi” aveva berciato proprio quest’ultimo, aveva un sorriso sagace ad illuminare il viso, era un giovane intorno ai trent’anni, dalla carnagione di bronzo e gli occhi scuri come acque torbide.  Aveva un naso ingombrante. “Juls” aveva subito detto Alabaster con un sorriso grato che gli era lampeggiato sul viso. Indossava un completo gessato di un colore molto scuro, ma l’intero aspetto da signore per in carriera era rovinato da una collana di caucciù in cui erano incastrati dei bastoncini di legno chiaro. “Signorina, che gioia” aveva cinguettato Horward volandole intorno, lei aveva ricambiato con un sorriso gentile, prima di proiettare gli occhi verso il nuovo venuto.
“Io sono Yacatecuhtli2 , signore dio patrono dei viaggiatori e dei commerci” si era presentato con eleganza quest’ultimo,  “Non siamo delle stesse parti, vero?” aveva domandato retorica July, sollevando un sopracciglio, “Io sono di qui” aveva fatto presente Yacatecuhtli, “La mia gente ha abitato questi lochi ben prima che voi arrivaste. Però si, non siamo delle stesse parti, o almeno non lo eravamo in passato” il tono del dio era stato un tono misurato, ma July poteva sentire la nota collerica sotto. Era certamente un dio amerinde.
“July” l’aveva sommariamente rimproverata Al, “È giunto a portarci un messaggio” aveva aggiunto, ammiccando al dio.
Bene, ma non benissimo, almeno quello July si guardò di dirlo ad alta voce, dovevano ascoltare quel messaggio e poi dovevano tornare da Giuturna, nella speranza che l’incantesimo con cui Alabaster terrorizzava i mostri funzionasse ancora.
“Sapete, i vostri dei messaggeri non sono proprio al meglio” aveva soffiato Yacatecuhtli. July ricordò se stessa qualche giorno prima armata di una scure fare apprezzi la dea fama, lei l’avevano dispersa per il mondo e non uccisa. La sua momentanea scomparsa sembrava aver gettato le comunicazioni nel caos, ma si rendeva conto la figlia di Eris che non poteva essere solo questo.
“Sono stato invocato da un gruppo disperato di semidei greci e li avrei ignorati se uno di questi non fosse stato figlio del mio rivale Ermes” aveva spiegato il dio.
July aveva avuto un brivido, il suo primo pensiero era stato Luke! Ma Luke era morto, si, però le porte della morte erano state aperte … aveva soppesato poi.
“Per vostra gioia il messaggio è stato già pagato” aveva sentenziato il dio, prima di allungare una mano verso la sua collana e sfilare un bastoncino, l’attimo dopo ne era comparso un altro al suo posto, ma Yacatecuhtli aveva allungato lo stecchino verso il ragazzo, “Per Alabaster Cogito3 Torrigton, Ecateide” aveva specificato il dio. Una mezza risata aveva toccato July a sentire quel bizzarro nome, non credeva di averlo sentito fino a quel momento. “Da Christopher Rodriguez, Ermeside” aveva detto Yacatecuhtli, l’attimo prima di scomparire.
La figlia di Eris si era morsa il labbro. No, non voleva sentire cosa avesse da dire quell’inutile traditore. Se lo ricordava ancora come grigio e spaventato, gli occhi scuri animati dal tormento, la guardava un’ultima volta. Poi lui e Mary erano scomparsi dalla sua vista e lei era rimasta solo con Jake, nel labirinto. Nel dolore.
Quando gli aveva ritrovati Mary era poco più che resti e Chris aveva cambiato bandiera. Infame. Aveva pensato, lo aveva odiato e lo odiava ancora, eppure non poteva che sentirsi rincuorata di sapere che almeno, alcuni di loro … erano ancora vivi.
Alabaster aveva spezzato il bastoncino, “Cos” July non era riuscita a finire la frase che dal bastoncino era venuta una voce.
Al!” era inequivocabilmente una voce femminile. “Lou?” aveva risposto lui, perplesso, Lou Ellen aveva pensato July, la ragazza di cui aveva indossato la pelle all’acquario.
“Lou? Lou sei davvero tu? Davvero?” aveva chiesto ancora Alabaster, gli occhi verdi erano lucidi di pianto e d’emozione. “Al! Si, Al! Sono io, che bello sentirti!” aveva soffiato la vocina sottile, “Lou! Lou! Conosci le regole, tu non puoi …” aveva cominciato il figlio di Ecate, ma era stato interrotto da un lamento della sorella, “Al non capisci!” aveva tuonato. “Cosa succede?” aveva domandato subito Alabaster.
Madre mi è apparsa in sogno, mi ha detto che sei in pericolo” aveva soffiato immediatamente la ragazzina, “Che stai camminando per sentieri in cui non può raggiungerti”.
“Chirone non ci ha dato il permesso di venire” la voce che aveva parlato era maschile, July non la conosceva, “Già abbiamo diversi mezzosangue che hanno lasciato il campo di cui abbiamo perso i contati, mi dispiace” c’era un mezzo-singhiozzo nella sua voce. “Ma noi vi aiuteremo, Al, Juls … Avete bisogno del nostro sostegno. Solo che dovrete fidarvi” la voce era quella di Maya adesso, con il suo tono materno. “Certo” aveva strillato July, afferrando una metà del bastoncino, “I miei sogni. Il satiro …” aveva cominciato.  “È Marsia, non curatevi di lui, adesso cerca i miei fratelli” aveva parlato nuovamente la voce maschile. Era un figlio di Apollo. “Will, giusto?” aveva domandato Alabaster, cogliendo July di sorpresa. Era stato anche lui al campo, ogni tanto la figlia di Eris lo dimenticava. “Madre mi ha detto che c’è qualcosa di oscuro che si staglia sul tuo destino” aveva ripreso Lou Ellen. “Credo che quel qualcosa sia mia madre” July non lo sapeva perché lo avesse detto ad alta voce. Ma vedeva gli occhi verdi di Alabaster guardarla come un cervo guardava i fanali di una macchina sulla strada, anche il Dr. Horward non sembrava guardarla tanto meglio. “Ragazzi, grazie … ma non potete aiutarci” aveva soffiato Alabaster con una voce spenta. Erano esuli e fuggitivi, non potevano appellare alcun asilo, “Siamo raminghi e fuggiaschi nel mondo4” aveva sussurrato July, chiudendo gli occhi, era un passo della bibbia, credeva, non riusciva ad esserne certa. Lou Ellen e gli altri non potevano aiutarli, parte della loro punizione era il non poter ricevere aiuti o avere contatti, o sarebbero stati tutti maledetti anche loro. “Non me ne importa niente Al, sei mio fratello” aveva soffiato Lou Ellen, come una gatta selvatica. “Ed io sono vostra amica, permettetemi di aiutarmi” aveva aggiunto Maya. “Permettetevi di rimediare alle mie mancanze” la voce che aveva parlato era maschile, entrambi la conoscevano. “Chris” July non sapeva dove avesse trovato quel tono morbido nella sua voce, “Chris, il labirinto era troppo per tutti” aveva sussurrato lei. 
 

*1. RR ne il Diario del Semidio, dove appare proprio Alabaster ( e c’è anche il primo incontro do Annabeth con Talia/Luke, oltre che il primo acchito di seme della discordia in Luke) appaiono anche in una storia le Baccanti come un gruppo di ninfe invasate strafatte di Zabaione. Per il Politicaly Correct non possono bere alcolici perché sono minorenni(E poi c’è Magnus LOL).
*2(pronunciato Ya-te-coo-tli). Il Nome vuol dire: signore del naso; ed è un dio Azteco.
*3 Il Secondo nome di Al ci è in realtà sconosciuto, è sempre stato segnato solo come C., invece il nome che ho scelto io è Cogito, è la prima persona presente (indicativo) del verbo pensare in latino. (Quindi si sarebbe: Io penso; dal famosissimo cogito ergo sum, io penso dunque sono).
*4 non è esattamente così il passo, ma è “Sarò ramingo e fuggiasco” ed è una citazione della genesi, che Caino riferisce a se stesso dopo che viene allontanato e punito da Dio per il suo fratricidio. In un certo senso è la stessa colpa di July ed Al, aver tradito i propri “fratelli” ed essere stati poi maledetti dagli dei. (Onestamente non è mai specificato, ma nella mia storia tutti i mezzosangue che hanno fatto parte dell’esercito di Crono e non hanno defettato (vedi Chris e Maya) sono tutti a “spasso” nessuno di loro è mai riuscito a trovare dimora, come se fossero tutti maledetti come Caino. N.B. Non avevo mai notato questa cosa, fino a questo capitolo lol)

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Capitolo 19
*** Dove gli dei sono banditi, i re cadono e gli eroi si imporporano le guance come fanciulle(Bernie III) ***


Eccoci qui. Quattordici pagine di caos. Davvero penso di aver scritto un vero patema e vi chiedo umilmente scusa per questo caos.
Come sempre un mucchio di oc che vedremmo per uno o massimo due altre volte e poi ciao. Comunque sia c’è un evento importante che non vedevo l’ora di scrivere da non so quanti capitoli (anche se secondo me era telefonatissimo).
Quello che invece mi sento di dire – e che avrei già dovuto dire dallo scorso capitolo – che la storia si farà da questo momento molto più “scura”.
Già in questo capitolo è presente una scena non-con (o meglio di tentato). Inizialmente quando l’avevo progettato doveva essere molto più sanguinoso, sia la scena sopraccitata sia un’altra che alla fine ho “ellissato” e solo citato. Perché sono meno gore nello scrivere di quanto mi piaccia pensare.
Detto questo: grazie a chi legge, segue, preferisce e ricorda.
Buona Lettura
RLandH
The road so far (Quello che vi siete persi fin’ora): Bernie LaFayette figlia di Nyx, esule della battaglia di Manhattan, mentre cerca di ricongiungersi con la sua perduta gemella Bells, finisce per essere presa di mira da un gruppo di mostri. Così ha modo di riunirsi con Arvey Spaccamenigi, lestrigone, e suo amico e compagno. I due partono alla volta di Bells, ma durante un viaggio in sogno Bernie ha un incontro con sua madre che le chiede di recuperare un’arma e le dona un oggetto fatto dal manto della notte. Bernie ed Arvey raggiungono così le Cascate del Niagara, “vicino” la casa di Arvey. Ma mentre Bernie riesce a contattare il suo vecchio amico Alabaster, i due vengono attaccati dai fratelli Sanguinaccio – due ex-compagni di Arvey.
Il lestrigone ne uccide uno e Bernie, tramite il potere del viaggio dell’ombra porta lei ed il suo compagno via. Sfortunatamente i due capitano nel terreno di caccia del mostro marino Parthenope, che incanta con la sua voce Bernie con l’idea di mangiarla. I Cartaginesi (Puma, Deedo ed Hannibal) arrivano al loro soccorso, terminando Parthenope e “rapendo” loro due.
Condotti con un alio-nave nella misteriosa Nuova Cartago, Bernie ha modo di scoprire che sconfitta la dea Fama tutti i mezzi di comunicazione sono scomparsi. Dopo aver tratto un accordo con la dea Thalassa, Bernie può fare un bagno nella fontana delle cinque fonti, dove ha un esperienza extracorporea che la mette in contatto per la prima volta dopo quasi un anno con sua sorella Bells, prigioniera. La gemella la rassicura dicendole che saprà cavarsela.
Bernie ha seguito stretto un rapporto con Hannah (sorella minore di Deedo e Puma) a cui è proibito lasciare Nuova Cartagine, la ragazza rivela che i Cento vogliono incontrarli perché ritengono che sia un loro dovere aiutare la figlia di una protogena. (Hannah e Bernie si scambiano anche diversi baci).
Il consiglio dei cento indice un torneo per scegliere l’eroe che avrebbe dovuto affiancare Bernie ed Arvey nella loro missione. Pumayyaton Phoenix risulta essere il vincitore.
I tre dopo essere ripartiti per il continente finiscono vittime di un’influenza derivata da quella che Arvey ipotizza essere una freccia della pestilenza.
All’Antelopee Canyon, però i tre sono costretti ad affrontare tre membri dell’esercito di Gea. Due dei quali erano due mezzosangue morti dell’esercito di crono, la rediviva Ines e, l’ormai ghoul, Jake. Nel mentre dello scontro (in cui Bernie uccide Ines, mentre il fantasma si ritrova scacciato) una forza non specificata toglie loro i poteri – ma anche gli effetti della maledizione.
Jake sopravvissuto allo scontro, si allea con loro.
Mentre Arvey cerca di “consolare” Bernie, Jake e Puma si dividono dal gruppo. A tornare però è solamente il ghoul che rivela loro di aver improvvisamente scorto un castello.
È Sciro.


                                                             



Il Crepuscolo degli Idoli
 

Dove gli dei sono banditi, i re cadono e gli eroi si imporporano le guance come fanciulle.

(Bernie III)


Continuava a guardare le sue nocche sbucciate. Arvey l’aveva aiutata a pulire il sangue di Ines dalle sue mani, ma Bernie continuava a vederlo. Aveva fracassato il viso di Ines con le sue mani.
Aveva ucciso una persona.
Anche se Arvey aveva continuato a ripetere fosse nulla più che uno spirito vendicativo.
Forse Ines era già morta in passato, ma quando Bernie l’aveva colpita ripetutamente in viso aveva potuto sentire le ossa dell’altra fratturarsi sotto di lei.  Ines era stata anche sua amica, inoltre.
Poteva riconoscere che quella Ines non fosse più la figlia di Ares con la lingua biforcuta ed il pugno facile che aveva conosciuto in passato. Quella era stata la seconda orribile realizzazione.
Sarebbe capitato anche a lei ed anche a Bells, sarebbero divenuti spettri animati dall’odio, sarebbero stati mana come era capitato ad Ines.
Creature così rivoltati da rientrare nelle grazie di Gea.
Mostri.
Per un momento ebbe paura e ribrezzo.
Poi pensò alla rassicurante mano di Arvey sulla sua spalla.
Poco avanti Jake Evandor si lamentava del fatto che non riuscissero a trovare il dannato biondino dal Grilletto Facile.
Anche Jake era stato un essere umano ad era diventato un ghoul. Un mangia cadaveri.
Aveva sollevato gli occhi per guardare il profilo di Arvey, era così bello, nella maniera più umana e rassicurante del mondo, era la sua famiglia, in una forma intima e complicata da spiegare. E non gli era mai importato che non fosse umano e si rendeva conto che, anche in quel momento, la cosa non era di suo interesse. Improvvisamente tutta la paura che aveva provato si era vanificata. Si era sporta un po’ di più ed aveva posato l’orecchio sull’avambraccio di Arvey.
“Jake” aveva sussurrato, quello si era arrestato ed aveva voltato il viso verso di loro, “Si?” aveva domandato un po’ seccato, alle sue spalle Bernie poteva vedere lo splendente castello di Sciro, la fonte della loro trappola. “July” aveva detto lei, riferendosi alla figlia di Eris, con cui aveva visto in passato Jake passare del tempo. Loro non erano sembrati molto affiatati prima del labirinto, ma dopo , era come se un filo li unisse. Secondo Bells erano accumunati dallo stesso trauma e dallo stesso dolore. “Si, contavo ad un certo punto di sgattaiolare via da Gea per assicurarmi che sopravvivesse all’Apocalisse” aveva buttato fuori lui, con un tono un po’ lugubre e le mani nei jeans.
“Intendevo …” aveva deciso di ignorarlo Bernie, “Se per caso sono apparso da lei dicendo, Ei splendore sorpresa non sono semplicemente morto, sono un ghoul. No, ho evitato” aveva soffiato Jake sempre molto spento.
Bernie aveva sbuffato, “Volevo dirti che sta bene” aveva detto alla fine, attirando lo sguardo del ghoul, “Tu la hai vista?” aveva chiesto speranzoso, gli occhi scuri luccicanti di speranza, Bernie aveva mosso seccamente il capo, “Ho parlato con Alabaster però, prima che le comunicazioni cessassero. Ed era con lei” aveva aggiunto.
Aveva potuto vedere come quelle parole avevano fatto aprire un sorriso giallognolo sul viso di Jake, “Sono contento, Torrigton mi sembra uno che non muore manco se lo si ammazza; anche se July ha sempre avuto un debole per gli occhi verdi” aveva soffiato con una risatina, prima di rendersi conto di quello che aveva detto e prendere a ridere con molto più gusto.
Arvey aveva ridacchiato anche lui davanti quella scenetta, “A proposito di questo” aveva cominciato il lestrigone, “Di quelli come te ne ho conosciuti un po’, nel senso di Ghoul. E tu non mi sembri il tipo da diventarne uno” aveva buttato fuori.  Bernie non aveva esattamente una chiara idea di come si diventasse un ghoul e quali caratteristiche fossero richieste.
“Intendi così figlio di buona donna da non essere gradito manco nel regno dei morti?” aveva domandato retorico Jake, grattandosi i capelli scuri, “Si, ecco … Non lo so. Ero davanti al tribunale di Minosse e mi è stato cortesemente detto che il divino Ade non era interessato ad acquisire la mia anima nel suo dominio, potevo scegliere qualsiasi altro oltretomba” aveva spiegato Jake, ripetendo la cosa come fosse stato l’addetto di un call center che riportava le offerte. “Altro oltretomba?” aveva domandato Bernie perplessa, “Non esistono solo dei greci; ergo diversi dei, diversi pantheon, diversi oltretomba” aveva spiegato placidamente Arvey.
Che bellezza! Pensò Bernie, non esistevano semplicemente una carrellata di orribili dei Greci, ne esistevano infiniti. Decisamente il paradiso in terra, doveva ammettere.
Jake aveva ripreso la sua narrazione, “Così mentre vagabondavo come uno spirito esule, ho scoperto che … ecco … tecnicamente potevo diventare un ghoul” aveva buttato fuori, con una mezza risatina. “Perché Ade non ti ha voluto nell’Orco?” aveva intelligentemente chiesto Arvey,  “Ah  non lo so, a quanto mi è stato detto dalla divina Gea: sono finito in una lunga faida tra dei” aveva spiegato, grattandosi il capo, l’espressione un po’ incerta. Se Bernie non ricordava male, Jake non era riconosciuto, non sapeva neanche chi tra la madre o il padre fosse di origine divina.
“Ucci, ucci, ucci … sento odor di problemucci” aveva bisbigliato Arvey, risultando alle loro orecchie come una campanella, “Si, concordo” aveva sussurrato il ghoul.
“Nascondiamoci in un’insenatura del terreno” aveva sussurrato Bernie, assottigliando lo sguardo, non vedeva nulla ma si fidava abbastanza dei sensi dei mostri, aveva comunque infilato una mano nella sua giacca per estrarre il suo taumascopio. Ma non era più lì; era un oggetto ricavato dal manto della notte ed evidentemente non riusciva ad esistere sotto il dominio senza magia di Sciro.
Lontano aveva visto una sagoma umana, “Vedo qualcosa” aveva sussurrato solamente, ma l’attimo dopo qualcosa l’aveva pizzicata sotto la sua clavicola, proprio sopra il bordo della maglietta. Bernie aveva abbassato lo sguardo ed aveva visto quello che aveva tutta l’aria di essere un proiettile con una siringa in legno. Se l’era sfilato di forza dalla pelle, vedendo un rigolo rosso scivolare sulla pelle bruna, “Ma cosa è?” aveva domandato, l’attimo dopo Arvey glielo aveva strappato di mano, per odorarlo. “Vetriolo” aveva sussurrato con voce spenta il lestrigone, l’attimo dopo aveva cominciato a vedere intorno a sé le cose farsi confuse.

“Stai bene?” aveva domandato una voce, costringendo Bernie a sollevare lo sguardo. Aveva le mani sozze di sporco e sangue, non riusciva a stare in piedi bene. Aveva preso diversi colpi durante l’allenamento e si era dimostrata piuttosto patetica. Guardava con espressione pesa l’orecchino che Luke Castellan le aveva dato. Uno a testa, per lei e per Bells. Quando erano arrivate lì, sulla Principessa Andromaca. Diventava una spada corta con entrambi i lati affilati con un manico d’osso. Era una lama leggera, eppure per Bernie sembrava l’abisso da manovrare.
A sentire quella voce, lei aveva sollevato lo sguardo, trovando il suo personale incubo lì davanti a lei, Arvey il lestrogone, con i suoi denti acuminati come coltelli e gli occhi di un azzurro intenso come l’oltremare. Era rimasta di ghiaccio, davanti quel mostro. “Io ho …” aveva sussurrato, con un pavido tono, alzando le mani, per mostrare i segni dei colpi ricevuti. “Ah. Fai schifo, mi pare di aver capito” aveva sussurrato Arvey, facendo passare le dita sulla sua mascella, “La tua gemella anche con un braccio rotto, mi hanno detto impara presto” aveva ghignato con un certo divertimento.
“Lo so” era riuscita a sputare fuori, con una voce pallida come quella di un miagolio, Arvey l’aveva guardato dall’alto della sua stazza, “Vuoi fare un po’ di pratica, seria?” le aveva chiesto.
“È una scusa per cercare di uccidermi?” aveva domandato di rimando Bernie, con un sorriso tirato, forse anche un po’ spaventato, “Se avessi voluto farlo, bambina, saresti morta da un pezzo” aveva scherzato di rimando il lestrigone. Forse quello era stato il principio.

Bernie aveva schiuso le palpebre cercando di mettere a fuoco dove si trovava, quello che aveva potuto vedere era il viso piuttosto incazzato di Puma. Almeno era vivo.
Lo aveva chiamato per nome ed il ragazzo l’aveva inchiodata con i suoi occhi verdissimi, “Ben svegliata Diva” l’aveva presa in giro. Sfortunatamente anche il senso dell’umorismo era vivo.
Bernie aveva notato con orrore tutto il resto: sia lei, sia Puma erano legati con catene pesanti – che non sospettava di semplice ferro – a delle sedie, tra di loro c’era una larga tavolata rettangolare, imbandita di un certo numero di leccornie.
E non erano solo loro due.
“Arvey! E Jake!” aveva strillato, cercando di sfuggire alla presa delle catene, ma non poteva muovere liberamente il busto, “Ah! Nessuna idea, eri da sola quando ti hanno portato qui” aveva sputato fuori Puma. “Ero con loro, quando qualcosa mi ha colpito” aveva ricominciato lei, concitata, “Vetriolo” aveva aggiunto, ricordando le parole di Arvey.
“Strano che non abbiano portato qui anche i vostri amici” aveva soffiato una voce al suo fianco, Bernie aveva fatto scattare il viso identificando al suo fianco un giovane uomo, dalla pelle di caramello ed i capelli scuri, aveva il volto inclinato verso di lei e cercava di sorridere accomodante.
Anche lui era legato alla sedia.
Da quel lato del tavolo c’erano Bernie, il ragazzo che aveva parlato ed un'altra persona che non riusciva a vedere bene.
Di fronte c’era Puma, che fiancheggiava una giovane bella donna che ancora dormiva, con i riccioli biondi sparsi, poi un’altra donna: lei era sveglia, ma aveva occhi spenti e non parlava.
A capo tavola c’era un’altra figura.
“Perché siamo qui?” la domanda era stata posta dalla donna che sedeva a capo tavola, era una ragazzina giovane con il ventre gonfio.
“Siamo stati catturati, tutti” aveva parlato la donna con gli occhi spenti, aveva un profilo intrigante ed i capelli stopposi raccolti in una treccia, “Si ma da chi?” aveva domandato Puma tutto fiammeggiante, “Dai signori di Sciro” la risposta era venuta da Bernie.
La donna aveva annuito, “Io sono Polissena, siamo tutti prigionieri del bastardo di Sciro” aveva detto con una voce smorzata, affilata come una spada.
“E perché di grazia, ci ha catturato?” aveva domandato il ragazzo accanto a Bernie, “Perché è un sadico maledetto che gode nel terrore della gente” aveva stilettato Polissena con voce greve.
“Aspetta” aveva parlato Puma attirando lo sguardo degli svegli su di lui, tranne la ragazza gravida, lei continuava a tremare a ripetere perché. “Tu sei quella Polissena?” aveva insistito Puma, ammiccando alla ragazza dal suo lato del tavolo, “La sventurata? Si, sono io” aveva replicato la donna.
Bene, era un nome mitologico questo lo poteva affermare Bernie, in realtà non le sembrava neanche un nome troppo sconosciuto.
“Io sono Trevor, non vorrei essere sgarbato: ma quale Polissena?” aveva domandato il ragazzo accanto a Bernie, “Quella della Guerra di Troia” aveva buttato fuori Puma, c’era un po’ di astio nella sua voce. “Ah, roba greco-romana, non fa per me” aveva replicato Trevor con un movimento del capo, “Sono più da roba dall’altro lato del mediterraneo” aveva aggiunto.
C’era stato un confuso sguardo da parte di tutti gli altri, “Dalle parti del Nilo, sapete, no” aveva buttato lì, “Egizi” era stato il commento un po’ spento di Polissena.
“Sono uno stregone della Casa della Vita, in missione speciale” aveva chiarito immediatamente Trevor con un bel sorriso soddisfatto sulla sua faccia, “Il bell’addormentato accanto a me” aveva aggiunto, ammiccando al ragazzo che Bernie non riusciva a vedere, “Mi ha detto di chiamarsi Xander e di essere un anerjee, qualsiasi cosa sia” aveva rivelato lo stregone, “Lo continui a pronunciare male, è Einherji(*)” lo aveva corretto una voce.
Xander si era svegliato.
“Ben sveglio, amico” lo aveva accolto Trevor con un tono sorprendentemente amichevole, “Loro sono gli altri sfigati catturati da un tale bastardo di Sciro” aveva cominciato subito a spiegare al suo compagno, prima di rendersi conto che oltre Polissena non conosceva nessun altro nella stanza.
“Io sono Pumayyaton Phoenix, progenie della divina Ma ed orgoglioso figlio di Cartagine” aveva detto tutto altisonante quello, gli occhi verdi ruggivano di soddisfazione.
“Bernie, reietta” aveva sputato fuori solamente lei con un tono un po’ impacciato, mentre cercava di sgusciare dalle catene. “Questa qui è Hermione, si quell’Hermione” aveva detto Polissena ammiccando alla donna bionda che dormiva al suo fianco. Onestamente Bernie non conosceva nessuna Hermione che non fosse quella del libro di Harry Potter, aveva buttato uno sguardo a Puma ma anche lui sembrava confuso.
Xander e Trevor avevano parlato in contemporanea, “Hermione di Harry Potter?” aveva chiesto il mago, mentre l’Einherji aveva domandato: “Hermione del Racconto di Inverno?”.
Polissena aveva aggrottato le sopracciglia, confusa dalla loro domande, prima di scuotere il capo, ma prima che avesse l’opportunità di rispondere; “Si, il cazzo che ci pare. Come ci liberiamo?” aveva interrotto brutalmente tutti Puma.
“Siamo sotto una campana che non ci permette di usare alcuna magia” aveva spiegato apatica Bernie, ricordando la spiegazione di Arvey. Era così preoccupata, dove era lui, dove era Jake? Erano mostri … forse gli avevano uccisi! No, non poteva essere.
“Inoltre queste catene sono forgiate da una lega indistruttibile” aveva berciato Xander. L’attimo dopo tra loro si era sollevata una polveriera di caos di parole, idee, piani ed imprecazioni, interrotti però si dalla ragazza incinta, “Ma che state dicendo?” aveva chiesto, spaventata e confusa, gli occhi azzurri spalancati ed animati da confusione.
“Tu sei una mortale” Bernie lo aveva detto senza rendersi conto delle sue parole, “Si?” aveva chiesto isterica quella, “Ovvio che sono mortale. Tutti siamo mortali” aveva soffiato con un tono indignato. “No, credo che quello che Bernie stia cercando di dire è che tu … non c’entri nulla” aveva cercato di calmarla Trevor.
Non era servito a molto, perché quella aveva cominciato a piangere spaventata e a ripetere frasi, “Io non lo so perché la mia vita è andata a puttane” continuava a dire, singhiozzando.
Xander aveva cercato di imporsi su di lei, che era il più vicino insieme a Polissena – che non sembrava interessata a calmarla – “Ei, ei” aveva cominciato subito quello. “Guarda me, guarda me, rilassati e guarda me. Va tutto bene, ne usciremo tutti vivi” aveva detto con voce gentile, che era riuscito comunque nel suo intento nel calmare la donna. La ragazzina aveva annuito, fermando il suo tremore e singhiozzo, “Un anno fa avevo una vita completamente diversa” aveva confidato la donna con un tono basso e melanconico, “Poi .. sono rimasta incinta è le cose sono andate così male” aveva aggiunto.
Polissena aveva fatto scattare lo sguardo verso di lei. “Indovino eh” aveva cominciato Puma, “Hai iniziato a vedere cose strane, cose inspiegabili, che nessun altro vedeva?” aveva chiesto il cartaginese, la ragazza incinta aveva annuito, “Hanno detto che potevo essere schizofrenica, ma quelle cose, quei mostri, erano – sono reali!” aveva piagnucolato, “Lo so, ti crediamo” l’aveva rassicurata Trevor.
“Invece il padre del bambino è misteriosamente scomparso nel buio?” aveva domandato Xander preoccupato. La ragazza aveva annuito, un po’ tremolante, allora Bernie aveva capito. Era incita di un dio.
“Ho pena per te e per il tuo bastardello” aveva buttato fuori Puma, con un tono frustrato. Bernie non si sentiva di dargli torto. “Di cosa parlate?” aveva domandato la ragazza, “Benvenuta nel futuro di tuo figlio” aveva detto Polissena acre.

“Sono deliziato di sapere che i miei ospiti sono tutti svegli” una voce aveva interrotto le loro confidenze. Bernie aveva identificato chi aveva parlato, era un giovane uomo, forse di qualche anno più grande di lei, dalla carnagione ambrata ed i capelli fulvi, portati corti, indossava dei pantaloni militari ed una maglietta bianca a maniche corte, che lasciava ben in evidenza i muscoli. Indossava anche un anello di un metallo ramato, oro rosso, sul capo, tempestato di gemme e perle.
Dietro di lui, vestita come una matrona greca, di rosso scarlatto con fili d’oro che disegnavano arabeschi, lo seguiva una donna; “Ma la mia devota vedova dorme ancora” aveva aggiunto con un certo biasimo il giovane, posando gli occhi di brace su Hermione.
“Tu sei il bastardo di Sciro, quindi?” aveva chiesto Puma immediatamente, come uno schiaffo in faccia. L’uomo aveva percorso la strada che lo separava dal guerriero cartaginese, a cui aveva passato una mano tra i capelli, prima di spingere con forza il capo sul tavolo, facendo urtare il viso di Puma contro il tavolo, evitando a miracolo un piatto, “Per te, cartaginese, sono sua maestà Neottolemo” aveva ghignato, lasciando la testa del giovane. Quando il ragazzo aveva sollevato il viso, aveva fioti di sangue che scendevano dal naso, che sembrava in condizioni indecenti, aveva anche una chiazza rosa sulla fronte.
“Sei Neottolemo, Re dell’Epiro” aveva sussurrato Bernie, non sapendo da dove aveva pescato quell’informazione dal suo bagaglio di conoscenze, “Figlio di Achille” aveva sussurrato con voce sottile.
Neottolemo aveva sorriso verso di lei, “Si, brava” aveva concordato lui, “Tu sei molto interessante, semidea” aveva detto avvicinandosi a lei, “Ne carne, ne pesce” aveva aggiunto, toccandole la guancia, “Non sei ne greca, ne romana, ne altra cosa ancora. Sei più antica” aveva sussurrato, ammirato. Passandole il polpastrello del pollice sulle labbra. “A me piace americana, se vuoi anche franco-americana o algero-americana oppure afroamericana. Non mi importa. Dove sono i miei amici?” aveva detto Bernie con un tono acido, scostando il viso per fuggire a quel contatto ustionante. Neottolemo le aveva lasciato il viso, “Non ti preoccupare per la tua stravagante compagnia. Verranno, qui, presto” le aveva detto, non sembrava affatto una rassicurazione.

“Questa donna incantevole con me è mia madre, Deidamia di Sciro” il re dell’Epiro aveva presentato la sua compagna, con un sorriso molto affettuoso. La donna gli somigliava, aveva lo stesso ghigno cattivo, “Madre, sveglia Hermione o questo banchetto non potrà iniziare” aveva detto immediatamente.
La donna si era diretta verso la bionda ancora dormiente, “Liberaci! Neottolemo! O ti farai nemici potenti” aveva ringhiato Trevor.
“Pensi che io tema te o i tuoi compagni, strigo?” aveva domandato sarcastico quello avvicinandosi, “La mia gente ha messo fine a Roma, come pensi che la tua congrega possa spaventarmi?” aveva domandato retorico, con un ghigno, “Poi, non hai sentito cosa ho detto al cartaginese: Sua maestà” aveva ringhiato, stringendo con una mano il collo di Trevor.
“Esageri, Neottolemo, figlio di Achille” aveva ghignato una voce, “Ti dichiari Re dell’Epiro ma ti prendi i meriti della gesta degli Sciri(*)?” aveva domandato sarcastico sempre la voce. Allora Bernie aveva potuto identificare che nella stanza erano entrati altri guerrieri, uno di questi spiccava come una rosa in un bouquet di margherite, un uomo distinto, vestito con un abito pregiato sotto l’armatura da guerriero, aveva i capelli lunghi e neri, così come una discreta barba curata.
“Anche tu hai rinunciato alla sovranità degli Sciri” aveva detto Deidamia infastidita, mentre schiudeva una boccetta che aveva messo sotto il naso di Hermione, l’odore l’aveva fatta rinvenire.
“Oreste!” aveva chiamato la ragazza, sveglia ma non del tutto cosciente, “Sono dispiaciuto, moglie mia, ma il tuo folle è rimasto lì dove riposano i morti” le aveva detto con un tono di miele suo marito, ma immaginava che anche lì non vi fosse alcun tentativo di rassicurazione. Gli occhi neri di Hermione erano terrorizzati e presto s’erano riempiti di lacrime.
“Ma io ti conosco!” aveva detto Puma nella direzione dell’uomo con la barba curata, “Tu sei Re Odoacre!” c’era un certo tono di ammirazione nella voce del ragazzo.
Cosa che aveva notato lo stesso uomo, Odoacre aveva sorriso anche con una certa soddisfazione, “Oh, la mia fama mi precede” aveva notato con finta modestia l’altro Re. In realtà a Bernie sembrava decisamente più regale di Neottolemo.
 “Sei l’eroe della mia infanzia” aveva confessato con onestà disarmante Puma.
“Tu sei quello che ha deposto l’ultimo imperatore romano” aveva esclamato con grande stupore Trevor, non più interessato –  o meglio dire preoccupato –  di Neottolemo.
“Solo d’Occidente” aveva biasciato il figlio di Achille, come a ristabilire una sua supremazia, “E si dà il caso che io abbia messo fine alla dinastia di Troia” aveva ruggito.
“Che impavido gesto, buttare un’infante giù da una torre” aveva mormorato laconica Polissena, “Lui ha vinto pure contro un ragazzino” l’aveva aggredita Neottolemo, “Ed oggi tu vivi, per il mio solo diletto. O non avrò rimproveri ad ucciderti di nuovo” l’aveva minacciata. “Ventura migliore la morte, per me(**)” aveva risposto asettica la donna.
Odoacre aveva riso, di Neottolemo, “Almeno io, il mio ragazzino lo ho lasciato vivere” aveva detto con onestà disarmante, c’era una nota di biasimo ben udibile nella sua voce. “Adesso ti lascio ai tuoi giochi, io non me ne curo” aveva detto alla fine Odoacre. “Sono dispiaciuto del destino che ti attende, Cartaginese” aveva detto comunque il signore degli Sciri, voltandosi verso Puma, prima di estrarre una moneta d’orata dalle pieghe del suo ventre ed infilarla nella tasca dei pantaloni di Puma, “Quando sarai al tribunale, dì che Odoacre, nemico di Roma, ti ha raccomandato” aveva detto prima di abbandonarli lì.

“Perché ci siamo portati dietro anche lui, madre?” aveva domandato con voce rancorosa il Re dell’Epiro, “Perché è la famiglia” aveva detto la donna con un tono di voce spento. Poi aveva spiegato loro, non che fossero interessati, che Sciro sopravviveva da secoli, un posto dove crollavano eroi e civiltà. Licomede, padre di Deidamia, aveva messo fine alla vita dell’Eroe Teseo, Nettolemo aveva stroncato la dinastia di Ettore … Odoacre, loro discendente, guidando un popolo di diverse tribù, aveva messo fine all’egemonia di Roma.
Ed in quel momento erano tutti vivi per gentile concessione di Gea, nonostante avessero defettato dal suo regno.
“Tutto molto interessante. Ma perché siamo qui?” aveva chiesto Xander spazientito, “Per una cena da non dimenticare, giovane figlio di Freyja” aveva detto Neottolemo, scompigliandogli i capelli.
“Ti prego, lasciami andare, ti prego” aveva pianto la ragazza incinta, “Io vorrei” aveva sussurrato Neottolemo, con una finta voce accondiscendente, accarezzandole il viso tondo, “Ma fuori da questa gabbia, una dea potente vuole cancellare dei e uomini dal mondo” aveva chiarito subito; “Nel tuo ventre tieni quello che potrebbe essere in un prossimo futuro, l’ultimo semidio” aveva spiegato Neottolemo, accarezzandole il ventre florido.
La ragazza aveva ripreso a piangere con più vemenza.
Neottolemo aveva ordinato alle guardie di affiancare le persone legate, voleva far godere loro di un vero pranzo, ma sfortunatamente non poteva liberarli, sarebbero stati imboccati. Bernie si chiese esattamente cosa avesse a che fare quel Jigsaw dei poveri con il ferace guerriero della mitologia. “Tesoro” aveva detto Deidamia chiamando suo figlio, “Per il pranzo manca una sedia” aveva fatto notare con dolcezza, c’era una sola sedia libera a capo tavola, proprio tra Puma e Bernie. “Vero, otto sedie e nove persone, cara madre” aveva valutato Neottolemo con finto stupore.
“Uccidi me” aveva biascicato Polissena con voce spenta, incurante, “Principessa, non così in fretta” le aveva detto il re, “Ho scoperto un concetto interessante di questo mondo moderno: il Remake. E sono sicuro si presenteranno occasioni migliori” aveva detto Neottolemo, strizzandole un occhio.
Bernie lo aveva ricordato allora: Polissena principessa troiana era stata immolata come offerta al defunto Achille, dal figlio di quest’ultimo.
Stava parlando di ucciderla ancora. Bernie sentì un moto di bile in gola.
Neottolemo si era voltato verso la donna dai riccioli biondi.
Si era messo dietro lo schienale della sedia di Hermione, “Amore mio bellissimo” aveva sussurrato, allungando le mani per accarezzare le guance e poi il collo della donna. Nonostante le parole dolci, il suo tono era collerico. Bernie pensò di vederlo strangolarla lì seduta istante.
“Noi che discendevamo da dei, quanto sarebbe stata grandiosa la nostra stirpe, amore mio?” chiese Neottolemo amorevole, tenendo ancora una mano sulla gola della ragazza, “Avresti forse dovuto scendere dal letto della tua schiava in quel caso, amore mio” aveva risposto fredda Hermione.
“Ah, non usare la gelosia contro di me, mi ero già stancato di quella puttana troiana” aveva ringhiato Neottolemo, “Data a suo cognato, ancora pregna di me, con la mia prole bastarda a seguito” aveva detto con un tono deciso.
“A quel punto: avevo tutto, un regno, il potere, la gloria ed una moglie bellissima” aveva sussurrato Neottolemo, “Una moglie spartana per lo più” aveva aggiunto con il tono d’amante. “Ma la lascivia è di famiglia” era venuto da Deidamia il commento, “Che cosa potevo aspettarmi, no, dalla figlia di Elena di Troia?” aveva chiesto retorico Neottolemo, lasciando bruscamente il collo di sua moglie.
Hermione aveva preso un bel respiro.
“Cosa dovrei fare? Ucciderti ora?” aveva domandato Neottolemo schioccando le dita, l’attimo dopo una guardia si era prodigato nello slegare i catenacci di Hermione e lasciarla libera. Il principe di Sciro l’aveva afferrata per i capelli, mentre questa cercava di liberarsi. Era scappata lasciando alcuni dei suoi riccioli tra le dita del marito, ma la sua corsa era stata arrestata da un manrovescio di Deidamia, “Sgualdrina non hai il permesso di andartene” aveva impartito la dama, gli occhi neri erano fuoco puro. Neottolemo l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva fatta cadere con un movimento brusco, “Dovrei possederti ora, almeno togliermi lo sfizio, ma mi disgusti, amore mio” aveva sibilato, cercando di mantenersi controllato, mentre Hermione si trascinava contro una gamba del tavolo, un braccio aveva ricevuto una brutta slogatura.
Neottolemo aveva riso, “Ma questo è un banchetto, amore mio, ed è giusto che tutti mangino” aveva enunciato soddisfatto. “Tu sei completamente matto!” aveva impartito con un certo fervore Xander, “Forse si, forse no” aveva commentato Neottolemo con un ghigno.
Ma Bernie aveva cominciato a tremare, perché aveva un sospetto; Neottolemo aveva ordinato a delle guardie di tenere su la ragazza poi aveva girato il suo sguardo sulla figlia della dea della notte, “Sono rimasto piacevolmente sorpreso, dalle tue compagnie” aveva detto solamente.
Bernie aveva sussultato.
Quella frase l’aveva spaventata, “Non coinvolgerai i miei amici!” aveva ringhiato lei, cercando di rompere le catene fallendo. Era figlia di una dea progenitrice, era più di una semplice semidea, come poteva una stupida gabbia fermare i suoi poteri? Come?

Neottolemo aveva fatto entrare un altro gruppo di bardati soldati, che avevano scortato altri due prigionieri. Uno era quello smilzo ghoul dalla pelle grigia di Jake e l’altro si riconosceva per la stazza, il suo Arvey.
“Allora, signori, qui abbiamo due simpatici mangia uomini” aveva cominciato Neottolemo, “Invece di qua abbiamo temo un non così vasto banchetto, ma lo confermo: di prima classe, discendente del Cronide” aveva detto gongolando, ammiccando ad Hermione.
La ragazza aveva cercando di sgusciare alle prese ferree degli uomini, con gli occhi strizzati e gonfi di lacrime; “Tu vuoi che noi la mangiamo?” aveva domandato Jake, confuso.
Neottolemo aveva annuito, “Un bel bocconcino e vinciamo tutti” aveva esclamato con una certa allegria.
Arvey aveva nascosto un ghigno, “Manco se mi offrissi Percy Jackson con una bella mela in bocca io mi abbasserei a prendere ordini da un bastardo come te, Pirro” aveva ridacchiato, sfoggiando la sua dentatura a seghetti da sguardo. “Che poi così ti devo dire: sono un lestrigone, mi piace il brivido della caccia” aveva aggiunto, del tutto sdegnoso, Jake con la sua faccia di bronzo gli era andato dietro, “Poi dai: è tutta ossa, neanche per il brodo andrebbe bene!” aveva detto sfacciato.
Bernie pensava di amarli i mostri, in quel momento.
Neottolemo aveva annuito, “Lo trovo corretto, ma avrei piacere nel ricordavi che dal momento che non consumate il mio cibo, il diritto dell’ospite decade” aveva tenuto ad informarli mentre circumnavigava il tavolo, estraendo da una tasca interna del giacchetto un bel pugnale lucente. Ed era arrivato da Bernie, l’attimo dopo aveva sentito letteralmente la punta della lama pettinarle il collo, “Per tutti e tre voi” aveva scherzato con un sorriso dolce, “Così: o accettate il mio pasto o io offrirò questa esotica bambolina alla gloria dei miei avi” aveva detto immediatamente, “Chiedete a Polissena se ho problemi di sorta a sacrificare una fanciulla ai morti” aveva detto, ammiccando alla ragazza.
“Lo farà sorridendo” aveva detto la donna incatenata.
Bernie aveva avuto paura, aveva cercato di raccogliere il suo potere, ma era stato un appello muto, aveva fatto saettare lo sguardo verso gli occhi di ghiaccio di Arvey.
Si erano guardati per un lungo, interminabile, momento.
Neottolemo aveva pizzicato la sua pelle ed un rivoletto di sangue era corso giù dalla sua gola. Giusto un filo sottile. “Bendala e lo farò” aveva accettato Arvey, con un tono di voce rauco e infervorato.
No! No! Avrebbe voluto urlare Bernie, ma era così spaventata di parlare, sentiva la lama premere sulla sua carna, “Perfetto!” aveva esclamato con sua somma gioia Neottolemo.
L’attimo dopo Bernie si era ritrovata con qualcosa che le impediva di vedere. “Arvey! Arvey! Non è necessario!” aveva strillato solamente, cercando di scuotere le catene per liberarsi, una mano le aveva soffocato la bocca e lei aveva provato a morderla.
“Non farle del male” aveva tuonato Arvey, anche Puma aveva strillato qualcosa, ma Bernie non era più riuscita a sentire nulla, qualcuno aveva premuto con forza la sua testa facendola urtare contro la tavolata – ed il piatto.
Qui comando io.
Non era sicura di averlo sentito sul serio …
 
Bernie aveva respirato con una certa fatica, prima di riuscire ad aprire gli occhi, non era più legata, ma non aveva idea di dove si trovasse, tutto intorno a lei: il mondo era un oscuro buio. “Aspetta …” aveva sussurrato con voce sottile, era una sequenza onirica, come nel caso in cui si era addormentata sul treno ed aveva incontrato sua madre.
“Mamma?” aveva provato a dire con un tono di voce basso e titubante, non sapeva perché avesse immaginato davanti a lui manifestarsi la figura divina di sua madre, vestita del manto della notte.
“Temo di no, fanciulla” aveva sussurrato una voce divertita, Bernie aveva voltato il capo di scatto riconoscendo un giovane uomo alle sue spalle, era seduto all’indiana, era vestito totalmente di bianco ed aveva dei sottili riccioli scuri, aveva un viso piuttosto giovanile ed era … carino.
Bernie aveva studiato il figuro, non sapeva per quale motivo ma aveva l’impressione che mancasse qualcosa, anche se non riusciva a comprendere cosa. “Lei è …?” aveva provato a chiedere, non sentendosi sicura al cento per cento di che divinità fosse. Ma non pioveva sul fatto che fosse una divinità. “Uhm, qualcuno di non molto famoso devo ammettere” aveva emesso quello, facendo un movimento della mano per sminuire il suo ruolo.
“Ora ascoltami, giovane figlia di Nyx” aveva cominciato subito il dio, “Non abbiamo molto tempo. Ti trovi in un luogo dove fuggire è assai difficile, ma non impossibile” aveva detto immediatamente quello, “Inoltre la cavalleria potrebbe star per arrivare” le aveva aggiunto il dio con un tono sibillino.
“Perché mi stai aiutando?” aveva domandato comunque Bernie, cogliendo di sorpresa il dio che non aveva ancora finito il suo discorso, “Nel senso: gli dei vogliono sempre qualcosa in cambio” aveva aggiunto. “Ovviamente voglio qualcosa in cambio” le aveva detto con un tono calmo e misurato il dio, “Come tutti a questo mondo. Lo scambio è alla base della civiltà umana. Lo scambio è alla basa di tutto” aveva aggiunto il dio, con un sorriso ammirevole.
“Deve esserci sempre uno scambio, non si può pretendere nulla e non si può prendere nulla” aveva aggiunto allungando una mano verso di lei per accarezzarle i capelli.
Bernie non lo sapeva perché non si era ritratta.
“Mio fratello … uhm, uno dei miei tanti fratelli … pretende tutto. Pretende che gli sia concesso tutto con una devozione tale da devastare un animo. Ma per me no” aveva aggiunto il dio.
La ragazza era piuttosto certa di non aver capito il discorso che quello stava tenendo, ma il punto focale rimaneva: Lui l’avrebbe aiuta se lei aiutava lui.
“Cosa vuoi da me?” aveva domandato quindi secca. Il dio le aveva accarezzato il viso, “Voglio che tu incontri un giorno delle isteriche ragazzine prive di qualsivoglia gioia di vivere e che tu decida di fidarti di loro” aveva scherzato con un tono un po’ freddo. “Non credevo lo avrei mai detto” il secondo commento l’uomo vestito di bianco lo aveva detto con voce molto bassa e sarcastica.
Bernie si era grattata il capo, “Non ho capito” aveva ammesso, l’uomo aveva scosso la testa, “L’arma che tua madre vuole che tu trovi è il Sonno più profondo” aveva detto allora chiaro e tondo il dio, “Ed è un’arma estremamente potente che in certe mani potrebbe fare davvero dei grossi danni” aveva rivelato il dio.
Sua madre anche lo aveva detto, ma le aveva dato la libertà di sceglierne l’utilizzo a lei. “Tu vuoi che io te lo dia?” aveva domandato alla fine al dio. Quello aveva ridacchiato, in una maniera piuttosto sarcastica, “A me? E che me ne faccio? A me la gente serve sveglia. Poi mia cognata non sopporterebbe averlo intorno e non lascerei roba così potente vicino alle zampacce di mio fratello” aveva spiegato immediatamente. Bernie era decisamente perplessa.
“La tua vita Bernie LaFayette è tua. Nonostante il mondo deterministico in cui viviamo” aveva detto il Dio con un tono di voce molto basso, “Le tue scelte sono tue e solamente tue. Oggi io ti chiedo di ascoltare un gruppo di ragazzine a cui non darei mai corda” aveva detto. “Questo non ha molto senso” aveva ammesso Bernie, ma il dio le aveva preso le mani, entrambe, la sua pelle era di un calore quasi bruciante. Aveva guidato i palmi della giovane sugli occhi, Bernie aveva sentito le ciglia raschiare contro la pelle. “Ci sarà un momento in cui abbandonerai il mondo dei viventi, posso assicurarlo, dovrai scendere nei meandri dell’Ade. Dovrai fare una scelta” aveva confidato il dio.
Bernie aveva sentito un brivido scenderle lungo le spalle, fino alla schiena, “Stai parlando della morte?” aveva domandato confusa. Spaventata.
Doveva morire.
No, lei … Bells …
“Non posso dirtelo, fanciulla” aveva concesso il dio, prima di togliere le mani dal suo viso, Bells si era resa conto che era rimasto segnato con dei simboli. Gli aveva guardati per un solo momento vedendoli brillare sui palmi, erano il disegno bianco di due occhi. “Chiamale frecce se vuoi” aveva soppesato il dio, prima di allungare una mano per posarla sulla guancia di Bernie e tirarla verso di lui, “Ne ho promesso una al tuo amico Arvey. Dagliela per cortesia” aveva sussurrato con una certa cortesia.
Poi il dio aveva fatto una cosa che Bernie non si era minimamente aspettata, l’aveva baciata in una maniera ruvida e sensuale.
Qualcosa di completamente diversa dalla dolcezza che aveva usato Hannah con lei.
Aveva lasciato che i suoi occhi si chiudessero mossi dal desiderio, non sapeva perché, si sentiva stordita da quel bacio, quasi succhiata. Sentiva caldo ribollire in lei, sentiva la voglia. Voleva affogare in quel bacio, voleva mangiarlo. Voleva tutto.
Aveva fatto saettare le mani verso il collo del dio per tirarsi ancora più vicino a lui, aveva infilato le dita tra i riccioli scuri, aveva sentito i denti cozzare contro i suoi e le loro lingue. Poi il dio si era allontanato, nonostante Bernie avesse sentito il bisogno di cercarlo ancora. Si sentiva stordita.
“Questo dovrebbe darti la forza di raggiungere il sole” aveva chiarito il dio.
Non capisco, avrebbe voluto dire, ma tutto ciò che voleva in realtà era continuare a premersi su quelle labbra ancora ed ancora … magari per l’eternità.
“Adesso … devi tornare nel mondo vero, sotto la cupola di Sciro non potrò raggiungerti. Quando sarai uscita ci rincontreremo” aveva detto il dio.

Aveva sollevato lo sguardo ma il viso che aveva incontrato non era più quello del dio vestito di bianco ma quello di Xander, con i capelli biondi sottili ed il viso pallido di un cadavere. “Ti sei ripresa, finalmente” aveva sussurrato quello, “Senza poter ricorrere alla magia le mie arti mediche lasciano orribilmente a desiderare” – aveva provato a dirlo sorridendo, aveva fallito – “Non volevo fare il dottore d’altronde” aveva aggiunto.
“Dove mi trovo?” aveva chiesto allora lei, sentendosi stordita, le labbra ancora intorpidite dai baci, ma cominciava a sentire tutta la voglia e l’eccitazione sessuale abbandonarla. Non ci mise molto a riconoscere i confini di una prigione. Si era toccata la fronte, una fasciatura circondava la testa, così come una le stringeva il collo. “Nel Valallah, donna, che ti sembra?” l’aveva presa in giro il figlio di Freya.
“Ei, sono piuttosto sicura di avere una commozione celebrale” aveva bisbigliato offesa lei, gonfiando le guance, prima di sollevarsi dalla brandina da cui era seduta. “Non so come funzioni questa gabbia, ma purtroppo non riesco ad esercitare la mia magia” aveva ammesso l’ejehnir con un tono di voce basso.
“Si, Sciro … funziona così” aveva bisbigliato lei, mettendosi seduta, “Io vivo per merito della magia” aveva sussurrato il ragazzo passandosi le mani tra i capelli. Bernie era rimasta in silenzio, aveva visto lo spettro del romano venir letteralmente succhiato fuori, ma invece aveva lasciato in vita il ghoul. Il suo cannocchiale era scomparso …
Forse doveva smettersi di interrogarsi su quelle cose. Non ne avrebbe comunque tirato fuori un senso.
“Ma cosa è successo?” aveva domandato poi Bernie, confusa, guardandosi intorno, dirimpetto alla cella dove erano lui e Xander, poteva trovare invece lo stregone egizio. “Tu sei stata fatta svenire a forza” aveva risposto Trevor, “Tutti si sono agitati, specie il tuo amico mostro … Allora il Cartaginese ha sfidato Neottolemo a duello. Mettendo in discussione la sua mascolinità” aveva ripreso quindi quello, passandosi le mani sul viso.
“A quel punto siamo stati tutti costretti a tornare qui. E ci siamo evitati però il banchetto di Neottolemo” aveva soffiato Trevor, “Tranne la povera Hermione” aveva precisato Xander con voce spenta.
“Lei è stata …?” aveva avuto paura di finire di porre quella domanda. Lo sguardo degli altri due si era rivelato molto eloquente.
“Oh, Arvey” aveva sussurrato Bernie guardando i palmi delle sue mani, non c’erano i disegni degli occhi che il Dio vestito di bianco aveva lasciato su di lei. Certo, perché l’aveva raggiunta nel mondo onirico, non poteva darle nulla in quello reale fintanto che fossero stati sotto la “campana”. Però si sentiva davvero in forza, abbastanza per raggiungere il sole – credeva che con quel bacio effettivamente il dio le avesse dato qualcosa; probabilmente era qualcosa a livello anima. Non voleva pensarci.
Avvampava se ci pensava.
Si era sbaciucchiata con un dio.
Lei, che era stata fiero membro dell’esercito di Crono.

“Quindi adesso Neottolemo si sta sfidando con Puma?” aveva domandato subito guardando i due ragazzi, “No, si stanno preparando. Hanno portato il tuo amico in altre prigioni” aveva spiegato calmo Xander. “Penso ci faranno assistere” aveva confermato il figlio di Freya.
Doveva recuperare i suoi amici. Doveva assolutamente recuperarli.


“Dobbiamo rompere la gabbia o non potremmo andarcene di qui” aveva detto bruciante, chiudendo le mani alle sbarre. “Solo che non so come fare, oggettivamente” aveva rivelato con un tono di voce piuttosto piatto.
“Io un’idea la ho” aveva detto invece Trevor, “Cioè. Credo” aveva borbottato il mago, “Stai pensando al tuo cartiglio?” aveva domandato Xander guardandolo, sollevando un sopracciglio pallido. Evidentemente i due dovevano aver passato del tempo assieme, “Sto assolutamente parlando del cartiglio” aveva ghignato Trevor con un tono piuttosto allegro.
Bernie non aveva la minima idea di cosa stessero parlando, “Volete rendermi partecipi?” aveva domandato lei con un tono un po’ secco.
“Quando io ed il mio degno compare nordico qui presente ci siamo incontrati – prima di venir catturato ovviamente” aveva ripreso a parlare Trevor, ammiccando a Xander che aveva alzato le mani come se fosse in una classe elementare, “Stavo portando un importante manufatto ad Il Cairo …” aveva aggiunto Trevor, osservando che Bernie lo stava ascoltando interessata, “Un cartiglio… solo che in realtà era una prigione, ma visto che sotto questa cupola nessuna magia ha funzione anche l’incantesimo che confinava il prigioniero dovrebbe essere cessato” aveva detto. Un sorriso si era delineato sulle labbra di Trevor, “Ma non è successo” aveva cominciato Bernie, realizzando il discorso del ragazzo dall’altro lato della cella, “Se fosse successo fidati: lo avremmo notato. Tutti” aveva riportato lo stregone.
“Quindi esiste una parte all’interno di questa cupola, sperando nel palazzo, in cui i nostri poteri possono funzionare” aveva stabilito Bernie, in qualche modo rasserenata. Ciò non toglieva che erano comunque confinati nelle segrete di una prigione, in un palazzo che non conoscevano. E se si fossero liberati avrebbero comunque dovuto affrontare tutte le guardie, in realtà Bernie era piuttosto fiduciosa di quella parte. All’incirca. Era certa di avere una commozione celebrale ed aveva ancora sulle nocche i resti dello scontro con Ines.

“Ora dovremmo capire come uscire. Sfortunatamente non sono un grande scassinatore” aveva ammesso con onestà Xander, mentre allungava una mano oltre le sbarre, “Almeno non ha mani nude” aveva aggiunto. Bernie lo aveva guardato per un lungo momento, prima di sfilare l’orecchino con lo spadino pendente. Onestamente non capiva perché l’assenza di magia lo avesse reso un oggetto di bigiotteria rispetto un’arma, ma … “Questo passa il convento” aveva detto solamente.
“Non è che per caso, hai pure una forcina per capelli?” aveva chiesto Xander, ma la sua sembrava per lo più uno scherzo, ma Bernie gli aveva tirato un buffetto sulla spalla.
Il ragazzo aveva ficcato lo spadino nella serratura della prigione, cercando di forzarla, senza però riuscire molto bene nel suo intento. Il rumore di passi, gli aveva costretti a dismettere il loro lavoro; Xander le aveva allungato immediatamente l’orecchino e lei l’aveva recuperata con un movimento lesto, nascondendolo dietro la schiena, quando la signora Deidamia scortata da un gruppo di soldati barbari ben bardati si era fermata davanti loro. Aveva il viso granitico dal tono ambrato, una corona di capelli biondi con barde laterali che si riunivano in una treccia dritta che scendeva lungo la schiena. “Voglio lo stregone egiziano” aveva impartito ammiccando con le dita nella direzione di Trevor, “Tecnicamente sarei di New Orleans” aveva provato a ribattere quello.
Deidamia aveva voltato gli occhi scuri verso la loro cella, aveva lo sguardo affilato e ferino, di sicuro degno di attrarre le attenzioni di uno che Bernie aveva sempre considerato – canonicamente – gay. “Portate la figlia della notte dal vostro re” aveva aggiunto, sollevando appena il mento, prima di inchiodare con lo sguardo Bernie.
Come avevano provato ad aprire la loro gabbia, Xander si era fiondato contro i soldati, diretto con vigore, questo aveva preso le guardie così tanto da non aver tenta di aprire la cella di Trevor, di rimando anche Bernie si era lanciata nello scontro menando pugni e calci, “Fermatelaaa!” aveva strillato Deidamia, prima di ritrovarsi tirata per la bella treccia bionda proprio dallo stregone che l’aveva fatta sbattere contro le sbarre. Xander aveva tirato una ginocchiata nelle parti intime di un barbaro, urlando che non aveva alcuna intenzione di morire.
“Bernieee” aveva strillato Trevor, “Alle spalle” e Bernie si era voltata in tempo per ficcare lo spillo dello spadino nell’occhio di un tizio. “Adesso fuggi, Xander ti verrà dietro. Il cartiglio è potente e Neottolemo lo terrà in un posto sicuro” aveva strillato lo stregone, mentre un soldato lo aveva colpito attraverso le sbarre per allontanarlo dalla signora del palazzo, “Per divina carità non uccidetelo” aveva strillato proprio Deidamia prima che un gladio calasse sul giovane, “Mi serve!” aveva aggiunto, prima di voltare lo sguardo verso Bernie. “Prendete lei!” aveva ordinato con voce potente, i suoi capelli erano una matassa di biondo informe ed aveva perso la sua leggiadra grazia.
Lei era indietreggiata di un passo, era riuscita a fuggire dalla prigione, ma avevano invece ricacciato indietro Xander, che ora cercava di assestare man rovesci da dietro le sbarre, ma aveva una grossa ferita di sangue pullulante che gli macchiava l’intera spalla sinistra. Alzò le mani e si arrese. “Ma cosa fai?” aveva strillato il figlio di Freya con un tono di voce infervorato, gli occhi di ghiaccio erano bruciati.
“Mi faccio portare dal signore del palazzo” aveva risposto neutra lei, abbassando lo sguardo, “Brava bambina” aveva sussurrato Deidamia allungando una mano per carezzarla il viso, ma mentre teneva le dita sul suo volto l’aveva stretta all’altezza della bocca, incavando i polpastrelli e le unghia nella carne delle sue guance.
Bernie aveva fatto saettare gli occhi verso Trevor, si era appiattito contro il muro di mattoni della cella, ben lontano dalle sbarre, aveva degli occhi violetti si rendeva conto, che sembravano neri in quel momento. Trevor le sorrise, un sorriso fugace, veloce – per un secondo pensò di averlo immaginato. Ma lo stregone aveva capito.

Le camere di Neottolemo era grandi e spaziose, il pavimento era di un marmo lucido con sfumature violacee, in tutte e tre le stanze a lui adibite. Collegate tra loro tra tre forature nel muro dalla forma rettangolare, solo una di queste aveva una porta – spalancata – tra le tre stanze, quella che dava alla camera con il letto.
La prima camera aveva un lato absidale, pieno di mosaici di una certa bellezza ed una tavola semicircolare su cui erano accatastati dei divanetti intorno dal lato della pancia. Dei cuscini tubolari di rosso fuoco ed oro erano sistemati lì. Bernie non era riuscita a stare molto in quella stanza, era stata condotta nella seconda, da lì aveva potuto spiare la camera da letto nella terza, per un breve momento, prima di rendersi conto che Neottolemo era in quella stanza, steso su un divano morbido con gli occhi rivolti al cortile. Bernie si era accorta che una parete della stanza mancava completamente, era del tutto aperta e sorretta da un colonnato con capitelli a farfalla. Nel centro della stanza c’era qualcosa che stonava molto con l’ambiente antico, sembrava un timone, solo che invece di essere verticale al pavimento lo era orizzontalmente, al suo interno era incastrata una pietra nera che riluceva di una luce rossastra. Era una stella, questa consapevolezza la colpì immediatamente, ma non del cielo di sua madre. Era una stella di Erebo.
Non lo poteva sapere con certezza, ma lo sentiva.
“Benvenuta, figlia di Nyx” aveva sussurrato Neottolemo battendo le mani nella sua direzione, “Così non ci annoieremo” aveva aggiunto, “Pensavo avessi uno scontro a cui prepararsi, sua maestà” lo aveva preso in giro, ma Neottolemo aveva ghignato appena.
“Alle luci dell’alba di domani. I duelli migliori si svolgono con il bacio d’addio di tua madre” aveva aggiunto con una vena poetica, “Con Eos dalle rosee dita si affaccia al mondo” aveva sogghignato. “Pensi sarebbe meglio all’esterno della villa o nell’atrio?” aveva domandato poi ammiccando a qualcosa nel giardino esterno.
Il porticato era oltre il cortile porticato, ma Bernie non aveva potuto notarlo. Era rimasta a fissare l’enorme vasca nel centro dell’aia, circondata da erba verde sottile.
Una statua di un prode guerriero di erigeva dalle acque, con una spada alzata verso il cielo. Sia l’elmo, sia lo scudo – che imbracciava – che la pettorina della sua uniforme da battaglia era decorata in una maniera dettagliata. Era Achille?
La cosa che però catturò il suo sguardo fu che nel piedistallo su cui era posta la statua stava un oggettino di pietra dalla dimensione piuttosto modesta, stretta ma lunga quasi quanto due palmi, c’erano dei disegnini piuttosto stilizzati. Geroglifici! Il Cartiglio!
“Mio padre” aveva sussurrato Neottolemo facendola accomodare al suo fianco, “Uomo che ho sempre ammirato e a cui mi sono ispirato” aveva ammesso il re con un tono di voce zuccheroso, “Fallendo miseramente” Bernie non aveva potuto evitare di tenerselo il commento. Non era mia stata una che parlava a sproposito, la voce grossa tra lei e Bells, era sempre stata la sua gemella.
“Adoro le donne impudenti” aveva sussurrato Neottolemo senza vergogna alcuna, sporgendosi per dargli un baio sulla guancia, lei si era ritratta velocemente.
Lo sciro l’aveva afferrata per un braccio ma lei si era fatta sfuggente, non era servito a molto perché si era ritrovata l’attimo dopo per terra, scivolando sul pavimento di marmo. Neottolemo si era messo a cavalcioni sulla sua schiena, “Hai gli stessi riccioli di Andromaca lo sai?” aveva chiesto retorico avvicinando il naso ai suoi capelli,
“Una parte di me ha sempre preferito le brune, ultimamente mi era venuta voglia di una bionda. Ma non avrei mai toccato quella cagna di Hermione, riguardo a quella pregna, mia madre era tutta in brodo di giuggiole” aveva sentito il bisogno di dirle. Bernie aveva sentito le mani di Neottolemo spostarle i capelli per scoprire la collottola, aveva sentito la lingua dell’uomo sul suo collo e poi la punta fredda della sua lama. Aveva infilato la lama sotto il bordo della maglietta ed aveva fatto scorrere la lama per stracciare la maglietta e scoprire la chiesa, “Ma quanti vestiti indossano le donne di quest’epoca?” aveva domandato con un certo divertimento prima di prendersi la briga di strappare la canotta a mani nude.
Bernie lo aveva sentito giocare con il bordo del reggiseno, “Volevo farti una domanda” l’aveva informato Neottolemo, mentre lei spaventata sentiva i polpastrelli freddi dell’uomo sulla carne. “Hai mai giaciuto con un uomo?” aveva chiesto con un certo interesse chinandosi per baciarle la schiena lungo la spina dorsale. Bernie si sentiva terrorizzata, completamente bloccata, riusciva solamente a guardare il cartiglio nel centro della fontana con l’orribile consapevolezza di quello che sarebbe successo.
Aveva combattuto.
Era quasi morta.
Aveva visto la guerra.
Lo stento.
Ma ora aveva terrore!

Ti prego” era riuscita a sussurrare solamente, “Spero, dei di no, perché adoro bagnare la mia spada nel sangue di una vergine. Se capisci” aveva sussurrato con un tono lascivo Neottolemo, dando un ultimo strappo a ciò che rimaneva dei suoi vestimenti, lasciando la parte superiore del suo corpo nuda.
Neottolemo aveva avvinghiato le dita alle asole della cintura dei jeans ed aveva cominciato a farli scendere con una lentezza assoluta, “Sentiti libera di piangere, strillare e supplicare” le aveva detto Neottolemo.
Bernie aveva sentito le lacrime premere sui suoi occhi, aveva stretto le palpebre. Nel buio della sua vergogna aveva visto riflesso il viso di Bells, legata all’altare che le diceva che sarebbe sopravvissuta, poi a suo padre che le stava aspettando entrambe e ad Arvey con il suo sorriso seghettato. Arvey che le aveva insegnato come combattere, Arvey che era …
Non poteva arrendersi. Decise.
Cercò di colpire Neottolemo con il gomito, schiacciata per terra aveva una possibilità di movimento limitata, ma il re non le aveva bloccato le mani. E lei aveva abbastanza energia per raggiungere il sole. Si era dato quanto più slanciò riuscisse, mettendo nelle sue anche, nel suo busto, quanta più energia. Neottolemo rideva di lei, ma Bernie era riuscita a rovesciarsi sulla schiena, senza curarsi di aver esposto un minimo le sue grazie.
Neottolemo si era sbilanciato, ma aveva presto ripreso possesso di se, serrando le anche di Bernie tra le sue cosce ma Bernie gli aveva assestato un pugno dritto in faccia, richiamando quella forza brutale che aveva usato contro Ines.
Forse si era rotta una mano ma anche Neottolemo l’aveva sentita bene la sua botta, la seconda cosa era stato conficcargli il suo spadino-orecchino sul collo, era riuscito a scavare un po’ la carne senza però fare reali danni. Neottolemo aveva cercato di colpirla con il suo pugnale nel centro del petto, ma aveva finito per infilzarla solo nell’avambraccio, che lei aveva usato per proteggerti. “Si, brava. Dammi una sfida” aveva ghignato, ma Bernie in quel tran-tran aveva guadagnato abbastanza spazio da poter sfuggire alla presa ferrea di Neottolemo.
Aveva preso a correre nella direzione della fontana, correndo con un vigore letale verso la statua, onestamente non sapeva cosa fare esattamente. Negli intorni del cartiglio avrebbe avuto i suoi poteri, ma doveva fare attenzione a non romperlo.

Si era infilata nella fontana sentendo l’acqua raggiungerla alla vita, era a pochi passi dalla statura quando era finita per scontrarsi contro un muro invisibile. Ci aveva battuto le mani sopra.
“Mi dispiace, figlia di Nyx, ma la gabbia tiene dentro e tiene fuori finché è attiva” aveva soffiato Neottolemo con un sorriso amichevole, ammiccando alla stella luminosa bruciante nel centro del timone.
Il dio vestito di bianco le aveva dato abbastanza forza per raggiungere il sole, qualsiasi cosa significasse, ma era bloccato nella gabbia. E forse sapeva combattere, ma era nuda, senza armi e senza idee.
Come poteva salvare Arvey e Puma? Ritrovare Bells? Ma anche gli altri ragazzi, Trevor e Xander. La ragazza incinta. Perfino Jake.
Doveva salvarli. Ma come?
E poi il miracolo era avvenuto. Non aveva ascoltato per bene le parole del Dio Vestito di Bianco, aveva profetizzato la sua morte, aveva anche parlato di aiuti …
Dritta sulla statua, nella breve circonferenza in cui i poteri potevano funzionare, era scesa in picchiata una giovane donna, armata di una lunga spada nera fumosa. Bernie aveva tremato riconoscendola in quella del ragazzino muto.
La ragazza si sarebbe schiantata se un’arpia non l’avesse ripresa per miracolo da un braccio e l’avesse fatta atterrare delicatamente sul piedistallo, a pochi centimetri dal cartiglio.
“Oh! Finalmente Ennoia ti ha trovata!” aveva ghignato l’arpia, tutta in piume nere ruggenti guardando dritta negli occhi Bernie.
“Me?” era riuscita a bisbigliare.
La ragazza che era atterrata sul piedistallo si era tolta un ciuffo di capelli di rame dal viso, “Non so come la prenderete ma dobbiamo andarcene. Una parte dell’esercito di Gaia vuole prendere questa roccaforte” aveva detto con sicurezza.
Aveva un sorriso luminoso, poi aveva sgranato gli occhi verdi nel vedere l’abbigliamento singolare di Bernie, o meglio la sua nudità.
“Siamo prigionieri dentro” aveva detto solamente Bernie, pressando le mani sul muro invisibile.
“Il C.I.B.E.L.E. arriverà!” aveva detto la ragazza dai capelli rossi, prima di afferrare la lama di nero Stige e cominciare a tirare fendenti contro il muro invisibile.
Una crepa.
“E tu chi, per l’Ade, saresti?” aveva strillato Neottolemo, afferrando una spada degna di esser chiamata tale, mentre le guardie riempivano da ogni antro il porticato.
Bernie aveva notato per la prima volta la collana fatta di perline che portava al collo, era una semidea del campo.
“Oh!” aveva detto quella, poi si era presentata, “Io sono Heather Shine”.




(*) Gli Stregoni della Casa della Vita sono personaggi della saga dei Fratelli Kane; Trevor è un oc. Xander, è anche un oc, ma è uno dei guerrieri immortali di Odino che abitano il Vallalah, la versione RRiordiana è un hotel a boston ed è presente nella saga di Magnus Chase. (La saga è ambientata comunque quasi un anno dopo rispetto gli eventi di questo capitolo – e a prescindere dalla fine che farà o meno Xander, non è mai stato un membro del piano 19)
(**) Ora qui io mi sono presa una licenza poetica non indifferente. Ho giocato sulla semi omonimia tra Sciro (l’isola greca) e gli Sciri (una popolazione della Germania orientale). In questa storia gli Sciri sono i discendenti dell’isola di Sciro, per una qualche assurda connessione magica.
Principalmente perché Sciro è il posto dove Teseo è stato assassinato e dove Achille era stato nascosto, un posto dove “gli eroi cadono”. Mentre Odoacre – l’uomo che ha formalmente messo fine all’Impero Romano – era uno sciro. Si, questa cosa è crackissima. Ma, ahimè, si prestava bene.
(***) E’ una citazione del’Ecuba di Euripide, in cui Polissena rassicura sua madre che la morte è un destino che la aggrada più di una vita da schiava o da moglie greca.
 

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Capitolo 20
*** Oh no! Sei sulla casella “Torna allo Start”(Ethan I) ***


 
Ritornata dal regno dei morti! Eccomi!
Per “festeggiare” il 20 capitolo, ho deciso di farne uno flashback sulla vita di questi simpatici soggetti prima della fine della guerra, probabilmente più avanti farò anche un altro capitolo flashback con Luke, questa volta ho dovuto sacrificarlo in favore di Ethan.
Riguardo questa storia, non è mia intenzione abbandonarla, ma sto valutando di “riscriverla”; devo ancora decidere.
Buona Lettura


The Road so far (Tecnicamente: Ricapitoliamo quello che sapevamo prima dell’inizio): Bernie e Bells LaFayette sono due insicure figlie di Nyx, al servizio di Crono. July Goldenapple è una mezzosangue che ignora l’identità del suo genitore divino, ha attraversato il labirinto ed ha una relazione con Jake Evandor, un altro semidio non riconosciuto. Carter Grace è un reietto figlio di Apollo che ha un’amicizia piuttosto bislacca con Grace, un’empusa dal cuore d’oro. Maya è una figlia di Hypnos, rimasta brutalmente sfregiata dopo l’esplosione della principessa Andromeda. Arvey è un lestrigone sui generis con una ossessione per nulla velata per Bernie LaFayette, che ha portato lui stesso a Crono.
Jude Mortimer è semidio misterioso che non parla molto ed Alabaster C. Torrington  è un carismatico figlio di Ecate che cerca di salvare le persone che ama.
Ethan … è Ethan Nakamura.
(No, alla fine non sono riuscita a finire il disegno che stavo preparando ma colonna sonora)

Il Crepuscolo degli Idoli
 

 Oh no! Sei sulla casella “Torna allo Start”

Ethan I

“Come vanno le mani?” aveva domandato lui. “Bene, l’ambrosia ha fatto il suo effetto, non rimarranno neanche delle cicatrici e credo di star riprendendo sempre di più sensibilità” aveva risposto quella, aprendo e chiudendo i palmi più volte.
Il suo tono di voce era piuttosto carico di buon’umore da risultare forzato.
“Buono. Non vorrei che tu avessi problemi a reggere una spada, quando verrà il momento” aveva sentenziato lui con voce un po’ più incerta.
“Non vorrei neanche io” aveva ammesso la ragazza con un sussurro molto basso della sua voce, mentre ruotava i palmi per far vedere la pelle liscia, neanche qualche giorno prima si poteva vedere la carne viva, piena di pus e bolle, bruciata quasi fino all’osso delle fiamme infernali del fuoco greco.
Bells si era sollevata dalla sedia dove era seduta per avvicinarsi alla finestra, luccicante ed immensa New York si apriva davanti loro.
Era arroccato, l’esercito di Crono, in un hotel, come base operativa.
Così lontani dall’Empire da non poterlo vedere.
“Sai, Ethan … non credo che l’illustrissimo Crono, verrà a farci un discorso motivazionale, sai uno di quelli da venditore di idee e sogni che a Luke venivano così bene” aveva stabilito Bells, c’era un po’ d’ansia e nervosismo nella sua voce.
Si, Luke aveva un dono per quello. Avrebbe potuto convincere un eschimese a comprare ghiaccio.
“Penso dovresti farlo tu, sai?” aveva domandato retorica Bells, voltandosi verso di lui, nonostante avesse occhi neri come il carbone, in quel momento Ethan avrebbe giurato luccicassero come stelle nel firmamento.
“Forse lo farò” aveva detto lui, un tantino titubante.
Bells aveva accennato un sorriso nervoso, poi si era avvicinato a lui con un passo timoroso, rispetto l’aspetto sempre feroce, in quel momento ricordava più qualcosa di molto piccolo. Forse ricordava semplicemente l’aspetto che una ragazza di quattordici anni avrebbe dovuto avere, rispetto la fiera guerriera che l’educazione di Luke aveva forgiato.
Ma loro erano mezzosangue, loro erano cresciuti con la consapevolezza che quattordici anni – quelli che per i mortiali non erano niente – per loro erano tantissimo.
E questo faceva infuriare Ethan in maniera brutale.
Aveva diciassette anni ed aveva rischiato di morire così tante volte che aveva smesso di contarle. La media di vita di un mezzosangue era imbarazzatamente bassa.
Ethan non aveva conosciuto nessuno che fosse mai arrivato ai trenta.
Ma dopo quella battaglia … forse anche quello sarebbe cambiato.
Forse un giorno avrebbe visto una Bell vecchia con i capelli bianchi ed il viso farinoso.
Si chiedeva quanto di quello che Luke aveva promesso in effetti Crono avrebbe concesso.
Aveva sentito voci colleriche, poco più che sussurri, serpeggiare nell’esercito, dalla parte umana, in cui Luke aveva promesso loro una nuova età dell’oro, ove Crono sarebbe dovuto essere un mezzo per un fine.
Forse anche Luke si era sopravvalutato.
Bells si fermò a pochi passi da lui, sembrava spaventata ed agitata in quel momento, più di prima, ma gli occhi continuavano a luccicare come stelle.
In un anno si era fatta molto più alta, non quanto lui, ma abbastanza perché non dovesse neanche piegare il viso per guardarla negli occhi.
Sembrava un filino più donna, ogni giorno che passava rispetto al precedente, e Ethan non poté in quel momento che chiedersi come sarebbe diventata bella anche solo quando avrebbe avuto la sua età.
Era un pensiero stupido ed era la prima volta che si scopriva a farlo.
Bells aveva messo le mani a coppa attorno alle sue guance e lo aveva attirato a se, spingendo poi le sue stesse labbra sulla bocca di Ethan e provando poi a forzarci la lingua.
Per un solo secondo lui l’aveva assecondata poi si era ritratto svelto. “Cosa fai?” aveva domandato con un tono tagliente, forse anche troppo, perché aveva visto gli occhi lucenti ombrarsi di … qualcosa. “Io … io ho quattordici anni e non avevo mai dato il mio primo bacio” aveva ammesso poi Bells, “Ho rischiato di morire bruciata”, riconquistando fierezza, quella che abitualmente Ethan era abituato a vederle sul volto.
“E tu mi piaci” aveva aggiunto senza alcuna vergogna.
“E pensi che non ci sarebbe stata altra occasione, perché moriremo vero?” aveva domandato lui retorico, “Ci aspetta una guerra, contro gli dei” aveva detto lei con voce ferace.
“E tu non credi più in noi?” aveva domandato Ethan con un filo di rabbia nella voce. Come poteva Bells dopo tutto quel tempo, lei che era sempre stata la prima a gettarsi nella mischia. Lei che … non aveva mai conosciuta altra realtà di quel mondo se non la causa.
Non toccata dal campo e dai sofismi di quel mondo bastardo.
“Non è questione di non credere” aveva detto subito Bells con sicurezza, mostrandoli i palmi delle mani ormai guariti, “Io credo in noi. Credo così tanto in noi da sapere con certezza che il mondo che verrà dopo questa guerra sarà un mondo migliore” aveva ammesso, poi però lo aveva guardato dritta meglio occhi, “Quindi non è mancanza di fiducia la mia, ma realismo: potrei non arrivare a vedere il nostro glorioso nuovo mondo” aveva ammesso.
“Potremmo uccidere, distruggere, disintegrare gli dei e questo universo dalle fondamenta e ricostruirlo, ma io potrei morire sul campo di battaglia domani, tra due giorni o …” la sua voce era un po’ frenetica.
“O vivere per altri ottanta anni, Bellatryx” aveva stabilito Ethan, “Tu sei la Conquistatrice[1]. Tu vivrai Bell e conquisterai un posto nel mondo nuovo che tanto sogni” le aveva detto lui, “Perché giusto così” aveva stabilito.
“Come puoi dirlo?” aveva domandato lei, sorridendoli con amarezza, “Perché nessuno al mondo conosce l’equilibrio e la giustizia meglio di me” aveva risposto: “Sono il figlio della dea della vendetta, non dimenticarlo” aveva aggiunto sicuro. 
La figlia di Nyx gli aveva sorriso di nuovo, ma questa volta era animata da una sicurezza maggiore, “Vado a cercare Bernie, se io sono così nervosa, figurarsi lei” aveva sentenziato con sicurezza.
Sicuramente non era un azzardo da parte di nessuno dire che Bells LaFayette era la sorella più forte delle due, ma se Ethan nella sua breve vita vissuta fino a quel momento poteva dire qualcosa era che la vita era un continuo azzardo.
“Bells” l’aveva chiamata, mentre lei era sulla soglia della porta, “Si?” si era voltata lei, “Quando sarai più grande riparleremo, se ne avrai ancora voglia, dei sentimenti che provi per me” aveva detto lui.
“Sentimenti, questa è un’esagerazione, al massimo possiamo chiamarla cotta” aveva risposto schietta lei, prima di andare via.
 
Anche Ethan si era deciso ad uscire dalla sua stanza, aveva preso l’ascensore fino ad arrivare nel piano sotto la reception, dove l’hotel aveva predisposto la spaziosa sala da pranzo. Senza finestre, di giorno e di notte, l’illuminazione era data da sole lampade di un colore chiaro quasi disturbante.
Anche la Principessa Andromeda non godeva di illuminazione naturale, ma aveva un aspetto più accogliente, più … famigliare.
Immaginava che se doveva sentirsi lui così, che era stato sulla nave da guerra, un periodo di tempo quasi irrisorio rispetto più della meta dei mezzosangue presenti, si chiedeva come dovessero viverla loro.
Una ragazza aveva fatto cenno con la mano, quando lo aveva visto entrare, sedeva accanto ad un altro ragazzo, Ethan non riusciva a ricordare il nome di nessuno dei due.
Però riconosceva la ragazza bionda che si era appena accomodata con loro, tenendo tra le mani un piatto pieno di dolci.
Aveva un viso tondo e chiaro, sarebbe risultata una ragazza carina se non fosse stata per la bruciatura che le deturpava metà del viso. Maya – figlia di Hypnos.
Ethan non l’avrebbe potuta dimenticare, mentre lui a fatica era riuscito a sciogliere le cinghie della sua armatura, così pensate da continuarlo a tirare giù nell’abisso più profondo, mentre sopra di lui: letteralmente il mare bruciava. Maya aveva cercato di proteggere Lip, il ragazzino umano che vedeva nella nebbia che in un modo o nell’altro era diventata la loro mascotte.
Lip era morto e Maya aveva lasciato con lui più di una parte di sé.
Nonostante il nettare e l’ambrosia le ferite sul corpo della figlia di Hypnos non si erano rimarginate, contrariamente a quelle di Bells, secondo Carter Gale, il loro medico a giorni alterni, era dovuto alla volontà. In certi casi bastava la volontà – o meglio: a volte non era abbastanza.
Nonostante il discorso intrattenuto con Bells neanche un’ora prima, la figlia della notte non aveva intenzione alcuna di arrendersi, o almeno fino a che non avrebbe dato tutta sé stessa o forse era per non doversi separare da Bernie, Ethan non lo poteva dire con sicurezza; riguardo a Maya invece …
Maya l’aveva guardato con l’accondiscendenza di una madre delusa, prima di mordere timidamente un dolcetto.
Ethan era scivolato sulla sedia vuota accanto a quella di Carter, che non lo aveva degnato di uno sguardo, gli occhi a mandorla erano rivolti verso un tavolo decisamente più vivace del loro: mostri.
Ma Ethan non aveva bisogno di voltarsi per sapere che lì tra ciclopi e lestrigoni era incastrata anche Grace l’empusa.
Nessuno aveva capito quale relazione intercorresse tra i due, ma se di norma l’interesse di quelle creature per i fanciulli si traducesse nel desiderio del loro corpo – o per il sesso o per il cibo – quella condizione non sembrava adattarsi.
Una persona più fiduciosa nel mondo avrebbe potuto definirli amici.
“Le ferite di Bells sono guarite” lo aveva informato, “Penso sia anche merito tuo” aveva detto Ethan, “Sono contento così non dovrò passarci altro tempo, meno contatti ho con lei, più felice sono” aveva detto Carter con sincerità quasi candida.
Nonostante Carter avesse ripudiato Apollo – e non il contrario come egli si ostinava a professare – il sole era rimasto letteralmente radicato in lui.
Non c’era da stupirsi provasse quasi un atavico timore allora nei confronti di ambedue le gemelle LaFayette fiere figlie della notte.
“Sarebbe stato meglio se più persone avessero avuto la sua ripresa” aveva aggiunto Ethan, spiando con l’unico occhio sano Maya, sapendo bene che lei non era la sola.
“Non riesco neanche ad immaginarlo cosa deve essere stato” aveva stabilito invece Carter, calmo, tagliando un pezzo della sua carne.
Il figlio reietto di Apollo era già stato stanziato altrove quando Percy Jackson e Charles Beckendorf erano arrivati per distruggere la loro storica base.
Ethan non aveva avuto da Crono una valida spiegazione sulle persone che erano state scelte, non lo aveva neanche chiesto in fin dei conti – a lui era stata assegnata una missione. E non era neanche riuscito a portarla a termine.
“Bell mi ha chiesto di fare un discorso motivazionale al posto di quello che avrebbe fatto Luke” aveva sospirato con un certo disagio.
Luke aveva la lingua di Ermes, che tanto odiava, la lingua di un affabulatore.
Carter aveva sorriso forzatamente, “No” aveva stabilito poi, “Hai un’aggressività per nulla fruttuosa, non riusciresti a pigiare i tanti giusti per motivarci, posso assicurartelo” aveva detto poi, “Chiedi ad Alabaster di farlo” aveva ammesso.
“Al?” aveva detto Ethan, infastidito da quella frase.
Se conosceva tra di loro qualcuno dotato della sua stessa ‘aggressività per nulla fruttuosa’ quello era sicuramente Alabaster, oltre che essere sicuramente una persona, paradossalmente, meno amichevole di lui.
Era un figlio di Ecate a cui piaceva starsene con gli altri suoi mezzi fratelli e pochi altri eletti.
Era così anche prima, quando erano ancora al campo e dividevano lo stesso dormitorio.
“Sì” aveva stabilito Carter, “E so cosa stai pensando. Si è vero … provate la stessa rabbia per questo mondo” aveva cominciato a parlare il figlio di Apollo. “Siete motivati dal rancore per la mancata riconoscenza alle vostre madri” aveva ripreso, “Non odiate realmente gli dei, non come me, non come Luke” aveva detto.
Ethan aveva sentito la sua mano tremare, di rabbia, animato dal desiderio di colpire quel pingue figlio di Apollo, “Ma tu sei la vendetta e la vendetta piace a tutti ma nessuno ha il coraggio di ammetterlo” aveva ripreso a parlare Carter, “Noi siamo qui tutti per vendicarci, chi per un torto chi per un altro, ma continueremo a dire che lo facciamo per la giustizia” aveva detto.
“Io credo nell’equilibro, Carter, e voglio la giustizia” era riuscito a dire Ethan.
Carter aveva sorriso con una punta di sfacciataggine, “Ecco, quale è la differenza: quando Alabaster parla sembra davvero parli di giustizia” aveva confessato, “E poi è qui da più tempo. Forse tu sei il secondo di Luke, sei il luogotenente sul campo di battaglia e forse lui è solo il capitano di una squadra. Ma tu sei quello che ha perso la Principessa Andromeda e lui è stato uno dei primi a giurare” aveva stabilito Carter.
Dopo che il tradimento di Luke Castellan era divenuto argomento noto al campo, dopo l’incredulità ed il panico, alcuni mezzosangue avevano cominciato a … scomparire.
Alabaster C. Torrington era stato il primo, neanche una settimana dopo.
Ethan ricordava di averlo visto ficcare tutte le sue cose dentro una borsa una mattina molto presto, mentre tutti lasciavano la casa di Ermes per fare colazione. Due figli di due divinità minori ospiti di un altro dio perché non esisteva un luogo per loro ed i loro fratelli.
Alabaster lo aveva guardato per un momento, “Non vai a fare colazione?” gli aveva chiesto con un tono un po’ ansioso.
“Vado” era stata la sua semplice risposta, mentre lo guardava con la coda dell’occhio. Lou Ellen, mezza sorella di Alabaster, era rimasta in piedi sull’uscio della stanza ed Ethan aveva notato la ragazzina solo quando gli era passata accanto.
Lou aveva sorriso con nervosismo verso di lui, prima di entrare senza alcuna remora nella stanza dei ragazzi.
Neanche un’ora dopo mentre Ethan offriva del cibo a sua madre aveva potuto vedere la figlia di Ecate arrivare da sola alla mensa ed occupare un posto al tavolo di Hermes. Aveva gli occhi lucidi screziati di rosso, “Alabaster non viene a colazione?” aveva chiesto di sfuggita, passandole accanto, “No” aveva risposto spenta lei.
Quando era rincasato quella notte non aveva neanche dovuto gettare l’occhio alla branda occupata dal figlio di Ecate per sapere di trovarla vuota.
Poi era stata la volta dello stesso Carter Gale, un giorno le sue canzoni dalla melodia sempre triste che suonava con la chitarra erano venute a mancare, neanche tre settimane dopo Alabaster. Aveva sentito poi dai suoi fratellastri nella casa di Apollo che aveva chiesto a Chirone un permesso per andare a trovare sua madre, doveva essere una cosa di giorni ma poi non era più tornato.
Ethan non conosceva allora così bene Carter da comprendere le ragioni di quel gesto – non che fosse stato illuminato dopo –  ma ben presto gli fu noto che nessuno ne aveva idea, compreso i fratelli con cui aveva vissuto insieme fino a quel momento gomito a gomito.
L’unica cosa che si era chiesto lui era quando tempo ci sarebbe voluto perché anche lui, Ethan, decidesse di andare via.  
Qualcun altro era andato via prima della fine dell’estate e poi qualcuno non era più tornato l’anno dopo, un po’ alla volta ingrossando le file.
Alcuni Ethan gli aveva ritrovati lì: come Maya. Qualcuno lo aveva mancato per poco, come Chris Rodriguez che si diceva il labirinto aveva reso matto. Qualcuno era morto prima che arrivasse.
Di altri che al campo non si erano più visti, neanche nell’esercito di Crono si erano palesati. Forse avevano deciso di nascondersi ed aspettare la fine del conflitto o forse non erano stati così fortunati.
E poi Ethan aveva potuto vedere quanti di loro il campo non aveva mai trovato, quanti di loro avrebbero potuto continuare ad avere una vita di stenti e di dolori, incapaci di proteggersi da un mondo così ostico, perché dimenticati.
“Con che faccia dici di avere più odio degli altri?” aveva domandato con un tono collerico Ethan, “Perché il Campomezzosangue è casa mia  e voglio bene a Will, Michael, Heather e tutti gli altri e soprattutto amavo Lee Fletcher come un fratello per interno, non solo come un altro figlio di mio padre” aveva detto schietto, “E lo ho visto morire e sono ancora qui” aveva detto letale.
“Lui, ma anche gli altri, il campo, tutti loro sono la mia famiglia. Più di mia madre, più di chiunque qui” aveva detto con rabbia, prima di posare di nuovo gli occhi su Grace, che si era voltata a guardarli incuriosita dal tono man mano più alto della voce di Carter, “O quasi” si era corretto lui.
“Però sono ancora qui” aveva stabilito, “E combatterò con furore fino a che tutti colore che saranno sulla mia via non saranno morti” aveva detto lapidario.
Ethan aveva scosso il capo prima di alzarsi dalla sedia per dirigersi verso il self-service, trovando ormai intollerabile la presenza di quel fottuto pretenzioso figlio di Apollo.
Pensava forse di essere l’unico ad aver dovuto lasciare alle sue spalle qualcosa di prezioso o di importante?
Pensava di esser l’unico a provare nostalgia?
Pensava di esser l’unico ad aver dovuto sacrificare qualcosa?
“Capitano” aveva sentito la voce di un ragazzo chiamarlo, aveva distolto lo sguardo dalla generosa porzione di spezzatino che aveva appena messo nel suo piatto, per riconoscerlo come il ragazzo che aveva visto seduto al tavolo con Maya.
“Si?” aveva domandato con un tono piuttosto neutro, non riusciva proprio a ricordare il suo nome ed anche se aveva dissimulato lo spaesamento iniziale, immaginava che fosse ovvio per il ragazzo in questione visto che aveva fatto un passo indietro con un’espressione si poteva dire ferita.
“Alabaster la stava cercando con una certa frenesia prima” aveva stabilito quello con uno sguardo piuttosto basso, senza dare ad Ethan la possibilità di rispondere alcunché.
Lo aveva leggermente messo a disagio sapere che il prodigio di Ecate lo stesse cercano, specie dopo il discorso avuto con quel pretenzioso di Carter.
Aveva gettato uno sguardo al figlio di Apollo ma non era più al tavolo, così come Grace l’Empusa, non era più tra i mostri.
“Lascia perdere Jake è così drammatico” aveva detto una voce alle sue spalle, Ethan aveva avuto un brivido perché non l’aveva percepita per nulla.
“Tu sei Julie, vero?” aveva detto, riconoscendo la ragazza dal viso tondo e le labbra carnose, l’ultima volta che l’aveva vista era stata mesi e mesi prima i suoi capelli erano di un corvino profondo che male si accostavano alla chioma bionda che sfoggiava in quel momento.
“Quasi. July come il mese” aveva risposto quella con un sorriso sardonico.
Quando era entrato nell’esercito di Crono, July era stivata nell’infermeria della Principessa Andromeda, ma come era stata in grado di stare in piedi Crono l’aveva spostata tra le truppe di terra.
“Non si è mai ripreso dal labirinto” aveva sussurrato July.
“Cosa hai detto?” aveva chiesto Ethan, non certo di aver sentito bene, “Jake. Il ragazzo di prima, dopo il labirinto non è stato più lo stesso. Non che qualcuno di noi lo è stato” aveva ammesso con onestà disarmante, “Ma lui è rimasto più provato di me” aveva detto, “E pensare che è la mia migliore amica che è morta” aveva aggiunto con un tono più fermo.
“Eravate esploratori del labirinto” non era stata una domanda quella di Ethan.
“Esatto, siamo stati i primi ad entrarci per esplorarlo oltre che gli unici due, giusto unici tre – mi dimentico sempre di Chris – ad essere sopravvissuti” aveva risposto lei.
“Anche io sono sopravvissuto” aveva commentato Ethan sterile.
“Sei mesi” aveva risposto solamente lei.
Sei mesi dentro il labirinto.
“Non sei impazzita?” anche se era una domanda Ethan si doveva dire ammirato, “Incredibile, vero? Forse è merito di mia madre, non ho idea di chi sia, ma evidentemente deve essere una abbastanza ingannevole perché io abbia avuto una mente così resistente” aveva ammesso.
Una ragazza non riconosciuta.
Forse una figlia di Ate?
“Eri nella casa di Hermes al campo?” aveva domandato Ethan, non se la ricordava ma poteva benissimo non averla neanche notata, anche se gli sembrava difficile, era abbastanza sicuro fossero coetanei.
“Non sono mai stata al campo. Chris e Mary mi hanno rapito della mia bella casa a Los Angeles qualche anno fa” aveva scherzato lei, “Jake invece era al campo, nella casa di Hermes, come me anche lui è non è mai stato riconosciuto” aveva detto con calma lei, guardandolo di sottecchi.
Indossava almeno tre diverse collane, colorate ed assolutamente inadatte alla battaglia, che cozzavano in maniera imbarazzante con l’abbigliamento spartano che sfoggiava con la maglietta sintetica ed i pantaloni mimetici.
“Forse è per questo che è così arrabbiato. Il suo genitore divino non lo ha mai riconosciuto, la gente non si ricorda di lui e non gli rende il minino di giustizia nonostante abbia speso mesi a mappare il labirinto” aveva detto July, “Si, lo so: troppo melodrammatico. Specie per un mezzosangue che ha deciso di dichiarare guerra al mondo” aveva ridacchiato lei.
“Lo odi proprio” era stato il commento di Ethan, annoiato da quella conversazione, “In realtà credo di essermi innamorata di lui” aveva detto con un tono calmo July, “Che splendido disastro” aveva ammesso con voce mogia, “Comunque ero venuta qui perché Torrington premeva davvero per vederti” aveva ripreso lei.
“Non ho neanche cenato” aveva risposto lui seccato, “Il male non ha tempo di cenare, capitano Nakamura” aveva scherzato con una vena di cattiveria, “Adesso andrò a godermi un letto vero, prima di ritrovarmi a dover dormire in un accampamento sulla nuda terra” si era congedata.
Aveva comunque aspettato di finire la sua cena prima di mettersi a cercare Alabaster, aveva sentito da altri mezzosangue che il figlio di Ecate si era rifugiato sul tetto e così aveva preso l’ascensore fino a quel piano.
Ventisette lentissimi piani accompagnati da una musichetta fastidiosa.
Non era stato fortunato aveva però trovato Bernie, l’altra spettrale figlia della notte, intenta ad allenarsi assieme ad un lestrigone.  
Ethan era arrivato in tempo per vedere il pugno dell’uomo contro il viso della ragazza che l’aveva fatta cadere a terra con tanto di rivolo di sangue giù dal mento.
“Tutto bene?” aveva domandato Ethan con un tono basso, “Arvey non dosa mai bene la forza” aveva ridacchiato lei sputando del sangue per terra, forse anche un dente.
Arvey il lestrigone aveva sorriso in maniera piuttosto cattiva con la sua dentatura da squalo, i suoi occhi però non avevano nessuna allegrezza rivolti verso di lui. Erano quasi predatori.
Bells le aveva raccontato che era stato quel lestrigone a portare le due figlie della notta alla Principessa Andromeda, le aveva prese dalla loro casa e le aveva portate davanti a Luke, erano terrorizzate e spaventate, Bells aveva avuto anche un braccio rotto.
La sua amica le aveva confessato che era rimasta nell’esercito perché Luke l’aveva letteralmente convinta ma che non nascondeva che forse quello che aveva motivato sua sorella era stato il terrore.
Comunque aveva potuto stabilire Ethan, che Arvey era diventato come un guardiano per le due sorelle, questo non aveva impedito agli altri mostri dell’esercito sghignazzare sul fatto che  le stesse letteralmente allevando per essere il suo pasto prelibato.
Qualcosa che non faticava per nulla ad immaginare, se escludeva dalla sua mente la ritirata dell’esercito di Crono dal campo mezzosangue – proprio dopo che lui si era aggiunto – con il lestrigone con la mazza insozzata di sangue che teneva su una spalla una ferita Bernie o lui che usava il suo stesso corpo per schermarla.
Ad Arvey non importava nulla di Bells, nonostante il tempo che aveva speso con lei, a lui importava solo di Bernie, la sua gemella era un danno collaterale.
Riguardo ad Ethan poteva sicuramente stabilire che nello sguardo del lestrigone ci fosse fame.
“Sono un fiore, comunque. Quello che non uccide fortifica, no?” aveva risposto Bernie tirandosi su dalla posizione supina in cui era caduta, oltre il rivolo di sangue dal labbro, aveva anche un taglio sulla fronte che le aveva macchiato il viso scuro di sangue e diversi lividi sulle braccia, aveva diversi strappi sui vestiti ed era anche sudata.
“Tua sorella ti cercava” aveva detto subito, “Uhm … davvero? Forse dovrei cercarla …” aveva commentato con voce calma, strusciandosi il polso contro il mento per togliere via il sangue.
“Per caso hai visto Alabaster? Mi avevano detto fosse qui” aveva deciso di proseguire il figlio di Nemesi, guardando con circospezione il tetto, aspettandosi di vedere spuntare fuori Al all’improvviso quasi per magia.
“Si era qui, tipo due ore e mezza fa, però. Credo sia tornato nella sua stanza” aveva detto amichevole, mentre il lestrigone sistemava la mazza sulle sue spalle, standole alle spalle e non distogliendo gli occhi azzurri da Ethan neanche per un secondo, “Pronto alla battaglia, capitano?” lo aveva preso un po’ in giro.
“Prendi un goccio d’ambrosia, Bernie, non vorrei che questo allenamento ti distruggesse prima della guerra” aveva detto con un tono neutro guardando la mezzosangue.
“Non potevo mica andarci leggero, su un campo di battaglia non ci andrà nessuno” aveva scherzato con un tono basso e piuttosto malizioso.
Ethan era rimasto in silenzio, osservando per un ultima volta Bernie ed Arvey, decidendo che il loro rapporto gli sembrava più chiaro – e spaventoso – di quello di Carter e Grace.
“Sembri tranquilla” aveva detto solamente guardando la figlia della notte. “Lo dici con un tono così stupito” aveva replicato Bernie con una certa allegrezza.
Di solito era Bernie quella incerta, quella che aveva bisogno di sua sorella per tenersi su. Il mondo si era forse ribaltato.
Non sarebbe stato strano, infondo, erano arrivati agli sgoccioli, tanto valeva che si ribaltasse …
Alabaster aveva la camera due piani sotto quella di Ethan ed una vista meno bella, dava sulla cisterna sul tetto di un altro palazzo ed un buio muro di un altro palazzone appena più alto, oscurando completamente la meraviglia di New York.
Ethan non aveva neanche fatto in tempo a bussare contro la porta, che quella  era stata aperta dall’interno, permettendo al ragazzo di incrociare l’occhio con un ragazzo biondo.  Anche di lui Ethan non conosceva il suo nome, ma non perché non lo ricordasse ma perché quest’ultimo non si era mai degnato di dirlo, in verità non aveva mai espresso alcuna parola che il figlio di Nemesis sapesse. Non parlava mai.
Il biondo si era fatto da parte permettendo ad Ethan di entrare, come aveva battuto le palpebre i suoi occhi erano passati da un colore brace scuro ad un accesso azzurro ghiaccio.
“Un’eredità di sua madre” aveva sentito la voce di Al, “Jude è un essere in continuo divenire, si potrebbe dire” aveva aggiunto lo stregone.
Ethan lo aveva riconosciuto seduto su un divanetto di pelle rovinato mentre muoveva le dita facendo volteggiare delle tessere con delle epigrafi che non conosceva, sicuramente ne greco ne romano.
“Sai chi tra noi due ha una posizione più alta nell’esercito?” aveva domandato Ethan, ignorando l’informazione su Jude.
“Si, tu sei un uomo di Crono ed io sono un uomo di Luke” aveva risposto pratico Alabaster, “Ed è cambiata la dirigenza, purtroppo per me” aveva sospirato lo stregone schioccando le dita. “Quindi perché sono venuto io da te e non tu da me?” aveva domandato con un leggero fastidio Ethan, ma era stato ignorato.
L’energia verde accecante sprigionata dalle dita di Al si era spenta in un lampo e tutti i tasselli erano crollati senza pietà per terra, spargendosi sulla moquette.
Ethan aveva potuto sentire l’aria nella stanza farsi improvvisamente fredda come una giornata di un gelido inverno con la stufetta rotta.
Jude aveva sgranato gli occhi azzurri ed aveva posato una mano sulla maniglia della porta, stringendo tanto da far divenire bianche le nocche.
“Un brutto presagio?” aveva domandato Ethan guardando con l’unico occhio sano il viso cereo di Jude.
Alabaster aveva gli occhi verdi piazzati sulle tessere con un’espressione piuttosto afflitta, “Vai, amico mio, parleremo dopo” aveva detto alla fine lo stregone.
Il ragazzo silenzioso era rimasto in silenzio, prima di annuire, “Non chiamare El-G” aveva comunque detto alla fine Alabaster, l’attimo prima che quello scivolasse fuori dalla stanza con un sorriso timido ed impacciato.
“El-G?” aveva domandato solamente Ethan, infastidito del continuo silenzio a cui Alabaster lo stava costringendo, mentre percorreva la suite in cui era stato sistemato l’altro ragazzo, ancora sistemato sul suo divano con gli occhi rivolti alle tessere con un’espressione algida sul viso lentigginoso.
“È un dio” aveva rivelato quello, allora parla ancora aveva pensato con disinteresse Ethan preferendo però rispondere: “Non ne ho mai sentito parlare”.  “Non che tu ne sia a conoscenza, almeno” aveva risposto con una certa schiettezza Alabaster, mentre l’altro si sedeva al suo fianco.
“Cosa dicono le tue tessere? Hai visto il nostro futuro?” aveva domandato Ethan, osservando anche lui le epigrafi, sapeva che Al oltre il greco ed il latino era divenuto un cultore della antica lingua norrena, non faticava ad immaginare che potesse accedere anche alla corrente di magia di quelle fonti.
“No, solo quello di Jude” aveva sussurrato il ragazzo, “Non sono ancora in grado di salvarlo” aveva risposto con onestà disarmante.
“Perché mi cercavi?” aveva domandato alla fine, dopo un sospiro, decidendo che non gli interessava del futuro tragico che aspettava Jude.
Alabaster aveva raccolto le tessere per sistemarle all’interno di un sacchetto di pelle che aveva buttato poi su un tavolino spento.
“Hai ragione: sarei dovuto venire io da te, lo so” aveva ammesso alla fine il figlio di Ecate, passandosi le mani sul viso, come se avesse voluto togliere la stanchezza dal suo viso, “Ma avevo promesso a Jude questa lettura da troppo tempo” aveva ammesso alla fine.
Quindi?” aveva domandato Ethan con un tono secco, “Quindi: cosa volevi, non quindi: il destino di Jude” aveva ripreso a parlare il figlio di Nemesi.
 Alabaster si era voltato verso di lui ed aveva accennato un sorriso gentile, prima di alzarsi dal divano per recuperare dal minibar una bottiglietta, non era più grandi quelle degli alcoolici che si trovavano normalmente, ma non avevano nessuna etichetta ed il liquido era di un aspetto denso di un profondo viola.
Lo aveva porto verso Ethan, “Non berlo” aveva stabilito subito, trattandolo come un idiota, ma il capitano dell’esercito di Crono lo aveva raccolto senza particolare proteste. Bastava tenerlo in mano per percepire la quantità di angoscia che sprigionava, “È un veleno” aveva stabilito.
“Visto l’utilizzo della magia dovrebbe essere definita pozione, ma si anche veleno va bene. Il più perverso, più potente e più mellifluo che l’uomo abbia mai creato” aveva risposto Alabaster, “Il nostro capolavoro, mio e di Jude” aveva stabilito con calma spaventosa, “Crono voleva che per questa volta creassi qualcosa di ben peggiore di qualsiasi cosa avessi fatto fin’ora” aveva stabilito.
“Sei tu che hai creato il veleno per il Pino di Thalia, vero?” aveva domandato Ethan.
Alabaster aveva accennato un sorriso appena, “Era veleno di scorpione di Gaia” aveva detto calmo, “Il più pericoloso veleno trovabile in natura” aveva stabilito, “Lo ho distillato per poterne creare una versione più potente, che potesse contrastare con il potere di Zeus in persona” aveva ammesso calmo.
“Una bazzecola rispetto questo” aveva ammesso con voce calma, “Luke era una persona più gentile di quanto pensassi, almeno in confronto al signore dei titani” aveva aggiunto.
“Crono ti ha chiesto di creare un veleno” Ethan aveva ripetuto quel concetto con calma, “Si, per te” aveva risposto con calma Alabaster, “Per uccidere Percy Jackson senza rischio di errore” aveva stabilito calmo.
“Grazie Al” aveva risposto Ethan, “È il mio lavoro” aveva detto secco quello, sedendosi nuovamente sul divanetto.
“Lo hai … uhm … provato su qualcuno?” aveva domandato Ethan.
Alabaster era rimasto in silenzio, prima di annuire cautamente, “Posso dirti che è stato orribile” aveva confessato alla fine, “Così orribile da avermi fatto dubitare di tutto questo” aveva ammesso con voce tetra, “Questo veleno, Torrigton, è per Percy Jackson” aveva ripetuto Ethan, “Lo stesso ragazzo che ha bruciato la tua casa, che ha bruciato vivi almeno quindici mezzosangue” aveva riportato, “E Lip, che era un mortale” aveva ammesso.
Ed anche un numero esorbitante di mostri, ma sapeva che a loro quello non interessava.
“Gioisci di quello che hai creato” aveva stabilito, “Perché potresti essere l’artefice del nostro successo” aveva esclamato.
“O l’architetto della nostra disfatta” aveva sussurrato Alabaster, “Di ogni mezzosangue a questo mondo. Forse di questo mondo stesso” aveva ammesso.
Ethan aveva guardato ancora la boccetta con un’espressione cauta, “Di cosa stai parlando, ora?” aveva domandato preoccupato.
Alabaster aveva voltato gli occhi verdi verso di lui, “Io odio Percy Jackson e spero di essere lì a guardare, il giorno in cui morirà. Sia chiaro” aveva stabilito con certezza il ragazzo, prima di continuare: “Ma tu, Ethan, pensi che possiamo fidarci sul serio di Crono?”
 
[1] Letteralmente il nome Bellatryx è traducibile come “La portatrice di guerra/La guerriera” che è come più volte la ho fatta appellare da Ifigenia, però ci sarebbe un’interpretazione del nome come “traduzione” (forse meglio dire adattamento) dall’arabo Al Najid, che vuol dire appunto “Il conquistatore”.

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Capitolo 21
*** Io & La dea che ha deciso di vivere abusivamente nella mia testa(Thalia I/Jude I) ***


Ho la febbre e temo si veda ...
Allora in questo capitolo ci sono due diversi punti di vista: uno (il secondo) è volontariamente confusionario e nei capitoli successivi che riguarderanno questo personaggio (e la sua compagnia) sarà spiegato meglio; l'altro punto di vista (il primo) non vedevo l'ora di scriverlo, ed insomma, da quando sono comparse le cacciatrici era abbastanza telefonato che sarebbe apparso.
Riguardo al Giovane Ercole è uno spoiler ambulante da Trials of Apollo (In particolare La Profezia Oscura) che ho lasciato quanto più vago possibile (Però ecco, se avete letto il libro probabilmente avrete un'idea più chiara di quello che succede, perfino del narratore stesso).
Premessa: i due personaggi chiamati Quilly ed El-G, citati nello scorso capitolo, sono creati sulla stessa base del Triumvirato di Trials of Apollo ed appariranno bene/meglio più avanti. E so che uno dei due sembra uno stereotipo ambulante, ma giuro non è così).
A parte questo,
pace, amore e buona lettura,
RLandH



IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI



 
Io & La dea che ha deciso di vivere abusivamente nella mia testa

 
Thalia I



Sapeva di essere già stata lì, ma non riusciva a ricordare né quando né perché. Ogni trave, ogni mobilio, ogni scricchiolio del pavimento; cercava di ricomporre una vecchia memoria che aveva sepolto da qualche parte dentro di se.
“Chi c’è?” aveva chiesto titubante a nessun altra cosa che alla stanza buia,  aveva l’impressione che lì, tutto intorno a lei ci fossero cose … cose che potevano osservarla, studiarla.
“Quello che ti sei lasciata alle spalle” la voce di Luke Castellan esordì su di lei come il rombo di tuono in una notte cheta. Thalia si era voltata di scatto senza nascondere lo spavento. Lì, sotto l’uscio, Luke Castellan, aveva un sorriso affilato sul viso.
“Tu sei morto” aveva detto solamente Thalia, rimanendo inchioda sul posto. La pelle di Luke era di un traslucido grigio. “Si, no, si … Direi che non è così semplice” aveva spiegato il ragazzo senza smettere di sorridere in quella maniera smaliziata tipica dei figli di Hermes, nella sua direzione.
Thalia era irritata da quello – ed anche spaventata. “Si, sei morto” aveva detto con una certa perentorietà lei, “C’ero al tuo funerale” aveva aggiunto. Era una mezza-verità, era effettivamente al campo mezzosangue quando avevano avvolto l’Eroe della guerra in un drappo ed avevano dato fuoco al suo ceppo, ma non si era avvicinata minimamente alla funzione.
In fin dei conti Thalia Grace aveva pensava di aver dato il suo addio a Luke Castellan il giorno in cui del suo sangue era stata fatta linfa e dei suoi organi radici. Quello che era venuto dopo era un estraneo con un viso famigliare.
“No, non è vero, Thals” aveva soffiato Luke avvicinandosi a lei, indossava una vecchia maglietta dai bordi logorati ed i jeans strappati.
Era vestito come il Luke dei suoi ricordi.
“Io ero al tuo funerale, non il contrario” aveva biascicato quello ad un passo da lei. Il suo respiro era freddo come il vento delle mattine durante l’inverno. “E se anche avessi voluto partecipare al mio non avresti potuto” aveva aggiunto Luke abbassando gli occhi chiari, Thalia aveva guardato il suo viso estraniata e confusa, allora aveva notato qualcosa … La cicatrice.
Luke Castellan non aveva alcuna cicatrice che ne deturpava il viso.
“Tu non sei lui” aveva mormorato Thalia.
“No certo, Luke – quello vero – è morto. Senza ombra di dubbio” aveva chiarito subito SpettroLuke con voce calma e misurata.
Lei aveva annuito rigida, aveva fatto un passo indietro, le assi del pavimento in legno erano scricchiolate sotto il suo passo. E poi aveva sentito tutto intorno loro altri scricchioli ed il frusciare di cose.
“Non fare rumore o le attirerai” l’aveva rimproverata il ragazzo, nonostante quello fosse un avvertimento nel suo tono non era nascosto che del divertimento.
Prima che potesse esplodere chiedendo di cosa stesse parlando, chi fosse lui, dove fossero o altro … Thalia era stata stordita da un’incredibile sensazione di famigliarità.
“Queste è la casa di Halcyon Green” aveva dichiarato, guardando il braccialetto che circondava il suo polso, dove era la versione in-borghese della Finta Egidia.
“Ieri sera mi sono addormentata ad Hot Springs[1]” aveva ricordato con voce greve Thalia, “Sono ancora lì, ma non mi sono ancora svegliata. Questo è un sogno” aveva stabilito con voce smorta,  senza distogliere lo sguardo da SpettroLuke; “Dunque: chi sei tu realmente?” aveva ringhiato la semidea.
Il ragazzo aveva sorriso alla maniera del gatto del Cheshire, “Io sono la parte di te che più vuoi nascondere, Thalia Grace” aveva civettato quello, avvicinandosi a lei,  pericolosamente. I suoi passi erano sordi. “Inoltre se vogliamo essere precisi questo non è un sogno, è incubo” aveva specificato quello con una tranquillità quasi spaventosa.  
“Non ho parti di me che voglio nascondere, Luke” aveva detto lei, senza scomporsi eccessivamente, anche se sentiva sfrigolare l’elettricità sotto i suoi polpastrelli.
“Guardati: l’impettita e fiera luogotenente di Artemida” l’aveva beffata lui, c’era Vipera in una delle sue mani, materializzata improvvisamente, “Che si è bellamente nascosta tra le immortali zitelle per un cuoricino spezzato” aveva aggiunto, alzando la spada verso di lei.
Thalia aveva spostato una gamba in avanti ed aveva parato l’affondo con la Finta Egidia nella sua magnifica forma reale.
“Una cacciatrice di Artemide dovrebbe essere fiera ed indipendente, invece guardati: piccola e dipendente”  l’aveva presa in giro, ma Thalia aveva lanciato un fulmine dritto sul viso dell’altro senza alcuna esitazione.
“Se pensi che io mi sia unita alle cacciatrici di Artemide per questo: ti sbagli di grosso” aveva ringhiato.
SpettroLuke si era tirato su, aveva un grosso squarcio sulla guancia che pulsava di sangue nero e il tanfo del bruciato aveva appestato l’aria.
“Se pensi che qualcuno possa credere alla favoletta della famiglia ti illudi, Thalia” l’aveva giocata ancora lui con un tono spocchioso.
“Uh, uh. Hai rifiutato le cacciatrici per me la prima volta e per me le hai accettate l’ultima” aveva soffiato lui famelico, “Perché lo sapevi che non avresti potuto amare nessun altro dopo” aveva detto tagliante SpettroLuke. “Quanto potere ho su di te, eh? Da averti terrorizzato da tutti gli uomini del mondo, da averti fatto provare una paura così folle da aver spinto ad abbandonare le persone che ami!” aveva esclamato il ragazzo tronfio.
Thalia si era lanciata su di lui mossa da una furia cieca, “Stai zitto!” aveva strillato. Perché in quel sogno non aveva la sua lancia?
“Jason, Annabeth, Grover … Li hai lasciati, per sempre” aveva esclamato lo SpettroLuke, mentre cadeva a terra. Thalia aveva preso a colpirlo sul viso con le sue mani, “Non è vero!” aveva strillato.
“Non l’ho fatto per questo!” aveva ruggito.
“Non l’ho fatto per te!” aveva strillato.
Non li ho lasciati!
“Hai avuto un incubo?” la voce di Phoebe risultava ancora ovatta nel suo orecchio, Thalia l’aveva spiata con l’unico occhio aperto.
“Ho avuto un incubo” aveva constatato lei, passandosi le mani sugli occhi, si sentiva ancora intorpidita. “Era Gaia, puoi stare tranquilla” aveva stabilito l’altra cacciatrice, ponderando bene cosa dire, prima di sistemare la giacca argentata sulla maglia militare.
“Che ore sono?” aveva domandato invece Thalia decidendosi a sgusciare via dal suo saccopelo senza svestire l’espressione contrita che sapeva di avere in viso.
Non li ho lasciati.
Quel pensiero riverbera ancora nella sua testa.
“Tardi” è l’unica risposta che aveva ricevuto dalla sua compagna, Phoebe aveva fatto passare le dita sul lato della testa che possedeva ancora i riccioli rossi.
“Credo che questo taglio ti stia davvero bene. È molto punk” aveva stabilito Thalia tirandosi definitivamente su. Phoebe aveva sorriso verso di lei, “Sono contenta, ci ho messo solo tremila anni a decidermi” aveva ammesso poi, scivolando fuori dalla tenda.
Thalia aveva chiuso le mani sul viso con un sospiro.
Lo sapeva che era solamente Gaia. Luke Castellan era polvere, quello vero. Quello spettrale era nascosto così infondo nei suoi ricordi che non sarebbe potuto facilmente riemergere.
“Qualcuno oggi ha deciso che il sole non è sorto” aveva sentito una voce musicale da dietro la tenda, non aveva fatto in tempo a rispondere che aveva visto una mano infilarsi nella sua tenda, incarnato caramello ed unghia cortissime dipinte di un bordeaux scuro, teneva tra le mani una tazza con la faccia di Darth Vader.
“Ho fatto un tè al caramello e gelsomino” aveva squittito una voce femminile, “Grazie Chantico” aveva controbattuto Thalia, prendendo la tazza. Era bollente.
La sua compagna cacciatrice era poi andata senza curarsi di dirle altro, mentre Thalia si era goduta quell’orrida combinazione di tè, che si era praticamente costretta a bere di forza.

Le cacciatrici si erano sistemate ad Hot Springs con una serie articolate di tende, sembravano a metà tra un gruppo di ragazze in campeggio ed un ritrovo per profughi.
Thalia aveva trovato spaesante, come accadeva ogni mattina, per  l’assenza della tenda centrale più grande abitualmente situata al centro, dove risiedeva la dea Artemide – come il resto degli dei, in reclusione.
Aveva cercato la testa rossa di Phoebe tra le altre, l’aveva trovata ad arrotare le armi assieme ad alcune altre cacciatrici.
Invece lei si era diretta a passo spedito verso il tavolino con le panche di legno addebito per pick-nick dove alcune sue compagne si erano sistemate.
Una era Luminosa, era una figlia di Apollo – come Phoebe – era divenuta una cacciatrice da più di sei secoli, portava sul viso i segni del vaiolo che l’aveva colta qualche centinaia d’anni prima. Le cacciatrici potevano essere uccise solo in battaglia, erano immortali per il resto anche alle malattie potenzialmente mortali, ma non ne erano immuni.
Se Luminosa non avesse avuto la benedizione di Artemide, probabilmente sarebbe morta per quel male.
Oltre la figlia di Apollo, c’era Marin, mortale sia di madre sia di padre, l’ultima ad essersi unita alla caccia prima di Thalia – di Bianca – di almeno una mezza decade.
Non mancava Hvíta con un’espressione boriosa sul viso, mentre continuava a spulciare con le dita il lungo mantello di piume bianche e grigie.
Altre cacciatrici orbitavano intorno a loro tre, ma alla fine si erano tutte diradate, andando a compiere i loro compiti, quando Thalia era arrivata. “Qualcuno si è finalmente svegliato” aveva chiocciato Hvíta con un sorriso glaciale sul viso; era spettrale, aveva circa dodici anni fisicamente, con lunghi capelli bianchi come il latte cagliato ed il viso pallido come il gesso, letteralmente un fantasma.
“Gea è venuta a disturbare i miei sogni” aveva ammesso Thalia, sapeva che come giustificazione non era granché, probabilmente la signora dei giganti era venuta a disturbare tutte le loro menti.
Marin aveva deglutito con una certa preoccupazione, “Quella megera mi ha fatto sognare il quindici marzo almeno sei volte in una settimana” aveva soffiato, mentre passava le mani sulle cartine. La sua natura completamente mortale la rendeva più idonea ad occuparsi della cartografia, non soffriva di disturbi dell’attenzione.
Riguardo al quindici marzo, Thalia sapeva che era una data che aveva segnato in maniera profonda Marin, senza però avere una chiara idea di cosa fosse successo.
Non aveva mai approfondito, era nelle cacciatrici da poco tempo e stava ancora imparando a conoscerle tutte. Certe di loro avevano storie che si dipanavano fino a tempi remotissimi la questione.
Si sentiva comunque in colpa, in quel momento.
“Sei pronta per l’incontro?” aveva domandato invece Luminosa, sorridendo verso Thalia, la carnagione olivastra era completamente pezzata dalle macchie bianche.
“Zoe non l’avrebbe mai fatto” aveva tuonato Hvíta con un tono di voce secco, passando le dita le dita sui cerchi rossi che Marin aveva segnato sulla mappa come luoghi sicuri.
Luminosa l’aveva ghiacciata con gli occhi scuri, “Ovviamente” aveva detto con tono rude, “Ho amato e seguito Zoe come una sorella, come un’amica e come un soldato” aveva chiarito la figlia di Apollo sedendosi sul tavolo, “Ma era di ferro, si sarebbe spezzata prima di piegarsi” aveva stabilito.
“Non sono d’accordo” Thalia lo aveva detto cogliendo di sorpresa le tre, “Davanti una minaccia come questa anche Zoe sarebbe scesa a compromessi” aveva sentenziato lei.
Perché lo aveva visto fare alla fine, quando si preparavano alla titanomachia, era scesa contro i suoi principi e si era fidata di Percy Jackson.
Sì, lo avrebbe fatto, concordo” aveva detto Marin, ripiegando una cartina e passandola a Thalia, “Ma probabilmente non con lo stesso tuo savoir-faire” aveva aggiunto, facendole l’occhiolino.
L’idea di incontrarsi con le amazzoni ed unirsi a loro era venuto a Thalia dopo aver sentito di questo gruppo di seguaci di Artemide – e non solo.
Il piano era quello di formare un’alleanza e Phoebe lo aveva trovato piuttosto fattibile e questo aveva dato fiducia a Thalia, lei era certamente la luogotenente, ma Phoebe era stata la vice del luogotenente da almeno tremila anni.
Sfortunatamente non tutte le sue compagne avevano accolto quell’idea con la stessa positività di Phoebe, Marin e Luminosa.
Thalia era lì da troppo poco per conoscere tutti i trascorsi che erano intercorsi tra le Cacciatrici e le Amazzoni. Ma Orione le stava cacciando come un mastino, senza lasciare tregua e non sembrava fare poi così molta differenza tra loro e le altre. Senza considerare lo sgradevole problema della risurrezione imminente di Gea e la guerra dei giganti.
Hylla Ammazza-due-volte, l’attuale signora delle amazzoni, aveva anche acconsentito all’incontro. Thalia aveva sentito avesse dovuto combattere più volte contro uno degli sgherri di Gea che continuava a tornare dalla morte, prima che liberassero Thanatos, per tenere su la sua leadership. Onestamente Thalia non dubitava che per quanto fosse feroce – ed era certa lo fosse – anche lei cominciava a dare segni di cedimento.
“Riguardo alle nostre disperse?” aveva domandato Thalia, osservando le tre ragazze sedute attorno al tavolo. I loro sguardi si erano macchiati di un momentaneo disagio, di cacciatrici scomparse – che non risultavano uccise da Orione – se ne contavano tre.
Solo una delle quali era ufficialmente in missione sotto ordine di Thalia, anche se non aveva contatti con lei da abbastanza tempo da iniziare ad essere preoccupata. Le altre due però, a conti fatti, avevano disertato.
Ma fintanto che lei non avesse pronunciato quella sentenza non sarebbe stato altro che un pensiero. Tutte stavano sperando le due tornassero sui loro passi e si ricongiungessero.
“In effetti si” aveva risposto Luminosa, attirando lo sguardo delle altre tre, “Vivere un certo numero di secoli ti fa avere un’imponente rete di conoscenze” aveva detto la figlia di Apollo, “Io sono più vecchia di te” aveva detto la bambina pallida, “Ma sei certamente una persona difficile con cui trattare, mia cara Hvíta ” aveva replicato subito Luminosa, prima di estrarre dalla sua casacca un bigliettino.
“Sfortunatamente non è da quelle due” aveva detto solamente con un tono spento, mentre Thalia raccoglieva con le dita il foglio ripiegato.
Almeno la cacciatrice che lei aveva mandato in missione non era più scomparsa.


“Marin” aveva detto immediatamente Thalia chiamando la ragazzina mortale, “Vieni con me” aveva aggiunto, “Mi aiuterai insieme a Phoebe ad organizzare il viaggio” aveva detto alla fine, l’altra aveva mosso il capo in un segno d’assenso.
Hvíta aveva tossicchiato, “Hai già un’idea per la partenza?” aveva domandato, il suo tono voleva essere tranquillo, ma Thalia poteva intuire una punta di allegrezza.
Le aveva sorriso, “In campana, Hivta Vidardottir. Non andrò da sola” aveva risposto con tranquillità Thalia, “Oh fantastico” aveva detto Luminosa, battendo le mani, con la contentezza di una bambina in viso, “Non incontro amazzoni dalle guerre napoleoniche” aveva aggiunto, “Ed ovviamente sarebbe quanto mai incosciente incontrarle da sola, nonostante tutte le buone intenzioni” aveva ripreso con più calma.
“Non ho mai avuto intenzione di andare da sola” aveva concordato Thalia, “Ho sempre pensato di formare una piccola ambasceria” aveva ripreso, “Ma devo chiederti di rimanere qui Luminosa” aveva ammesso con un tono più spento, osservando il viso della figlia di Apollo imbrunirsi. “Servirà qualcuno che amministri, quando sarò andata” aveva risposto con onestà Thalia, “Porto Phoebe con me” aveva aggiunto, non che la ragazza svolgesse mai il ruolo di capo, sembrava anche lei trovarlo molto scomodo, nascondendosi sempre dietro frasi fatte come il preferire combattere che comandare. “Aspetta: mi stai dando il comando?” aveva domandato Luminosa, la sua voce sembrava essersi acutizzata improvvisamente, gli occhi scuri scalpitavano di soddisfazione.
Hvíta si era intromessa nel discorso, “Abbiamo già un sottotenente che ricopre il ruolo di comandante in assenza della Signora e del Luogotenente” aveva detto piccata.
Thalia aveva annuito, “Si” aveva ammesso anche, “Tu la vedi però?” aveva chiesto spenta, “Non posso affidarvi a qualcuno che non è qui” aveva dichiarato.
“Sono d’accordo” aveva asserito Marin, Hvita l’aveva guardata tradita, “Durante l’adunata per il pranzo annuncerò il tuo incarico formalmente” aveva ammesso Thalia.
Luminosa sorrideva contenta.
“Dandole questo ruolo, Thalia, ufficializzi la diserzione” aveva ammesso alla fine la bambina pallida, con la voce contrita.
“Le darò il ruolo momentaneamente; fino al ritorno di Jeha” aveva concesso Thalia, non disposta a ratificare l’ufficiale dipartita dalle cacciatrici di Artemide di due validi elementi come Jeha e Champ. Nonostante entrambe si fossero rivelate più o più volte poco affini con Thalia o con la figura dell’autorità in generale.
Certo Phoebe non si era risparmiata di rivelarle che Jeha era stata membro delle cacciatrici per almeno sei secoli ed aveva svolto il ruolo di sottotenente per almeno cinque di essi. La quale nonostante avesse un rapporto non sempre idilliaco con Zoe, la rispettava strenuamente – come avevano fatto con Thalia fino a quel momento– ma aveva sempre dato per scontato che un giorno sarebbe arrivato il suo momento.
Nell’ottica di Jeha, e di alcune altre cacciatrici, lei era spuntata dal nulla ed aveva avuto il loro comando, senza neanche sapere i loro nomi, senza sapere nulla.
Ovviamente Thalia non si sentiva di giudicarle male, ne aveva intenzione di rendere la loro diserzione ufficiale in alcuna maniera, non credeva neanche di avere il potere di scogliere un voto, onestamente. Però avrebbe tenuto conto di quella secessione, con o senza rientro delle due, se il lavoro di Luminosa si sarebbe rivelato buono, probabilmente le avrebbe dato la carica permanentemente.
“Invece riguardo a te, Hvitia, penso tu abbia bisogno di comprare una crema solare” aveva confidato Thalia, guardando la ragazza con il manto di piume, “Come?” aveva domandato quella confusa, “Andiamo in sudamerica” – aveva stabilito – “Verrai con me ad incontrare le amazzoni”.





Jude I


Jude se lo ricordava quando era arrivata la donna, aveva una camminata ondulante che ricordava le ipnotiche movenze di un serpente, con i capelli di un biondo sporco ed alcuna bellezza nel viso. Indossava un vestito per bene, giacca e pantaloni vinaccia, aveva una cintura dorata che ricordava un serpente, la sua fibbia era la testa che mordeva la sua stessa coda. Esibiva con una certa fermezza il suo distintivo dorato, che la identificava come una federale.
Però non era umana. Jude aveva nove anni, ma suo padre era stato categorico: doveva imparare a vedere o sarebbe morto, così lui aveva imparato. Perciò la donna non era umana.
Annie però lo era, per questo aveva lasciato la sua mano. Perché era umana e non voleva che morisse. Era un’assistente sociale di una certa età, aveva rughe sottili attorno alle labbra e gli occhi, i capelli scuri con fili d’argento, ma sembrava così buona. Così materna.
“Agente Chaucer Thisi” aveva detto meccanica la donna, guardando Annie, “Devo parlare con il ragazzino” aveva detto volendo il viso verso Jude, aveva occhi gialli serpentini. La donna aveva fatto carezzare la schiena del ragazzino, “Lui non parla” aveva detto immediatamente accomandate, “Avevamo pensato ad afasia[2], ma Jude sembra sanissimo, pensiamo che il problema sia della sfera emotiva. Il dottor Birrel, lo psicologo, non ha ancora avuto modo di parlarci” aveva spiegato Annie.
Thisi aveva allungato una mano verso Jude ed aveva accarezzato la sua testa, sorrideva in maniera così spaventosa, ma era certo che Annie vedesse tutto ovattato.
La donna era riuscita a portarlo via da Annie, mentre lo teneva per quelle dita coriacee, poteva immaginare che l’attimo dopo aver lasciato la stanza, l’assistente sociale lo avesse già dimenticato.
Jude non era riuscito a parlare, non sapeva perché, non era neanche riuscito a chiedere al mostro se l’avrebbe ucciso.  Ma era contento, Annie gli era piaciuta non avrebbe voluto che morisse come era successo a suo padre.
“Io di norma castigo gli assassini, non salvo innocenti” aveva stabilito subito la creatura, ma io sono un assassino, aveva pensato Jude, ma anche in questo caso le parole non erano uscite dalle sue labbra.
Forse il Giovane Ercole aveva fatto ammazzare suo padre, con i suoi dannati sgherri, ma era stato Jude ad ucciderlo. Sua cugina Alice glielo aveva urlato, con ancora il sangue sulle mani e gli occhi lucidi, “Lo sai che è colpa tua, maledetto bastardo” aveva urlato.
Si, maledetto, perché quello era.
Jude aveva voltato il viso verso Thisi, “Il mio nome è Tisifone, un’erinni!” si era presentata bene la creatura.  Lui non aveva idea di chi fosse né se avesse dovuto saperlo.


Tisifone non era un mostro, ma l’aveva salvato da diversi di questi ultimi. Il Giovane Ercole non era più venuto a cercarlo, evidentemente il suo interesse era circoscritto a suo padre ed Alice.
Era un lascito di Apollo lei, non come Jude, che aveva la sua origine nelle profonde pieghe della terra, Alice sembrava luminosa come i primi raggi del giorno.
Quando si sarebbe stufato di lei, Jude non voleva pensare a cosa il Giovane Ercole ne avrebbe fatto di sua cugina. Avrebbe potuto provare a salvarla. Ma se si fosse riunito ad Alice lei sarebbe morta per davvero.
“Lo vedi quel posto?” aveva chiesto Tisifone, quando si erano fermati, ammiccava ad un’altura verdeggiante, Jude poteva vedere un albero e delle colonne che sostenevano una pietra triangolare. “Va lì, sarai al sicuro. È fatto apposta per quelli come te” aveva soffiato la creatura, prima di allungarli quello che sembrava a tutti gli effetti una grossa spada, dentro una fodera di cuoio scuro, “Nessuno potrà arrivare a te, finché sarai nei confini del campo; forse imparerai anche qualcosa” Tisifone aveva insistito a parlare concitata, dicendo che da quel momento lei aveva esaurito il suo compito.
Jude avrebbe voluto chiedere quale fosse e perché lo avesse fatto, ma Tisifone era già andata via. L’ultima cosa che gli aveva detto era di non dimenticare ciò che era sul suo capo e poi aveva allungato verso di lui quella che sembrava a tutti gli effetti una spada sistemata dentro un fodero, Jude non sapeva neanche da dove l’avesse tirata fuori e non aveva capito neanche cosa avesse intenso Tisifone con quella frase di congedo.


Non era ancora arrivato ai confini del campo, quando aveva estratto la spada dal fodero. Aveva una lama nera lucida ed era pesante, come niente lo era mai stato in vita sua, era affilata da entrambi i lati ed aveva nel suo centro una scalfittura dritta che ne attraversava la lunghezza ed aveva un manico liscio ed il pomello con l’incisione di un fiore. Era bastato che Jude sfiorasse con le sue dita il piatto perché nei suoi occhi lampeggiasse un’immagine, una donna.
“Vieni dentro! Che stai facendo?”, Jude si era voltato ed aveva osservato un ragazzino della sua età, circa, correva verso di lui. “È pericoloso, vieni dentro!” aveva insisto questo. Aveva una maglia arancione con un cavallo alato, i capelli scuri e gli occhi verdi.
No, è pericoloso se vengo dentro. Avrebbe voluto dire Jude. Perché io sono maledetto e non esisterebbe luogo che io non farei morire. Non era riuscito a dirlo, ma aveva toccato con la mano l’erba, che presto era marcita.
Il ragazzino aveva sgranato gli occhi, “Sei potente” aveva esclamato ammirato. Sorrideva.
Il bambino si chiamava Alabaster, aveva dieci anni ed era un figlio di Ecate, aveva provato in ogni modo a farlo entrare nel campo ma non c’era riuscito. Con i suoi incanti però si era presto procurato un quaderno ed una penna. Jude odiava scrivere, non riusciva, invertiva le lettere, le disegnava in caratteri greci e la sua testa pulsava. Ma Alabaster sembrava condividere nella lettura il suo dramma.
Io sono Jude Mortimer, mia madre è una dea, ma non la conosco. Aveva scritto. Non posso entrare o morirete tutti.
“Morirai se resti fuori” aveva spiegato Alabaster, allungando una mano verso di lui.
No. Alabaster, io sono maledetto, vivrò per vedere tutto ciò che amo morire, aveva scritto con difficoltà sul quaderno.
Aveva consumato suo nonno come faceva con le piante, aveva dilaniato l’animo di zio Carter finchè lui non si era affogato nella vasca, aveva attirato i mostri che avevano ucciso Zia Jane, per liberarsi del suo incomodo suo padre aveva avuto contatti con il Giovane Ercole. Era stato fatto a pezzi da quest’ultimo quando aveva provato a sottrarsi. Avevano rapito Alice.
Non erano solo coincidenze.
Se avesse preso la mano di Alabaster e fossero corsi all’interno del campo, allora sarebbero morti tutti. Ed Al aveva appena raccontato con gioia di come quel posto fosse un rifugio ed una casa per quelli come loro.
Jude era scattato in piedi ed era corso nella direzione opposta a perdifiato ed Al lo aveva inseguito, senza riuscire a prenderlo. Jude aveva desiderato solamente andare lontano ed il mondo s’era aperto davanti a se in una fenditura d’ombra.
Jude aveva dieci anni quando aveva sognato per l’ultima volta Alice. Capitava spesso che la vedesse, all’inizio era solo spenta e triste, agghindata però come una regina, con un abito cucito di rose ed il sorriso triste. Man mano che il tempo passava il suo viso sciupava in una tristezza soffocante, poi un giorno i suoi vestimenti barocchi si erano fatti sempre più semplici. Giorni la vedeva nuda vestita di lividi, alla merce di un pazzo.
Non riusciva a capire dove fosse, ne riusciva a capire perché stesse accadendo ora che era lontano.
L’ultima volta i capelli biondi di Alice, non rifulgevano più della luce del sole, erano opachi e spenti, lunghi sul corpo nudo, magro, pallido e coperto di lividi. Non aveva fasciature, ma era piena di vecchie e nuove abrasioni, non c’era in lei nulla della facinorosa bellezza che aveva attratto il Giovane Ercole. “Mia Narcissa” la chiamava sempre così, Jude non lo capiva, ne capiva perché continuasse ad essere tormentato da quei sogni.
Il Giovane Ercole era bello, da fare male, di una bellezza cattiva e crudele. Teneva sua cugina per una mano, gentile come un amante, “Oggi ci uniremo per fare un bagno assieme” aveva detto, ammiccando ad una vasca. Jude non voleva vedere, ma non riusciva a svegliarsi, nonostante piangesse ed implorasse di poterlo fare.
Alice era entrata nella vasca ed aveva sorriso al giovane Ercole, il suo sorriso era una bozza malriuscita, in un viso tormentato. L’uomo aveva circondato la vasca ed aveva elogiato la bellezza della donna, continuando a chiamarla Narcissa, dicendo che non vi era da stupirsi che una donna che portava dentro di se il potere del sole fosse così bella così splendida. “Ricordami Narcissa, quanto lontano è il tuo sangue da Apollo?” aveva chiesto, accarezzandole i capelli e baciandole il collo. Lei era rimasta rigida come una stecca, “Egli era il padre di mia madre” aveva sussurrato, la voce sottile come di un piccolo animale ferito.
Zia Jane così ridente.
Il Giovane Ercole aveva annuito, aveva afferrato i capelli di Alice e l’aveva costretta e piegare la testa all’indietro prima di depositarle un bacio famelico sul viso, si era allontanato appena, “Lo sai, gli somigli così tanto” aveva sussurrato, con il languido dono di un amante, “La prima volta che ti ho veduta ho pensato fosse lui nelle vesti di una donna, tornato a tentarmi e tormentarmi” aveva aggiunto, baciandola ancora.
Alice aveva provato a parlare, ma lui l’aveva spinta nella vasca e l’aveva tenuta sotto. Nessun tentativo di sua cugina per tornare a respirare era valso ed alla fine Jude aveva visto i suoi arti smettere di agitarsi, finchè non erano stati calmi a penzoloni dalla vasca.
All’ora, solo all’ora, gli era stato concesso di svegliarsi.
Perché? Perché? Voleva strillare, le sono rimasto lontano. Alice avrebbe dovuto vivere, tanto da diventare madre, poi nonna, e morire canuta dopo una lunga vita d’amore. Jude non era andata a salvarla per non condannarla. Perché!
Piangeva.
La vita di Jude era cambiata quando aveva conosciuto Quilly. Leziosa e divertente, soprattutto non umana e non capace di subire la maledizione che lo colpiva. Era stata Quilly stessa a dirgli che avrebbe potuto liberarsene.
Sembrava una donna come mille altre con i pantaloni di jeans ed una camicetta firmata, niente che lasciasse intuire la sua esistenza di quasi due mila anni.
“Ho pescato un bel pesciolino, oggi, eh” aveva scherzato prendendolo per un braccio, aveva una forza immensa, Lasciami o ti uccidero! Voleva dirle Jude.
Ma Quilly aveva sorriso sorniona, come se avesse potuto leggergli la mente, studiandolo con quei suoi portentosi occhi blu. No, Jude aveva scoperto che non aveva il potere di spiare l’animo delle altre persone ma che era brava a leggerle.
Quilly l’aveva portato da El-G, quello che lei definiva l’amore della sua vita. E lui avrebbe giurato che mai nella vita avesse incontrato due persone più strambe, ma gli avevano dato una casa e gli avevano insegnato a combattere.
Jude avrebbe voluto dire loro che anche senza essere umani, lui avrebbe finito per rovinarli, perché era quello che faceva.
“Questo mio caro, perché non hai ancora capito il punto” aveva detto El-G un giorno, aveva i riccioli biondi di un putto e lo sguardo di un satanasso, mentre allungava un po’ il collo per baciarlo sulla guancia. Jude aveva dodici anni e l’aspetto di El-G non sembrava troppo più adulto di lui. “Non sei pazzo, no, sei davvero maledetto. Ma non hai fatto nulla per meritarlo, sei solo nato dal bocciolo sbagliato” aveva spiegato il giovane, mentre si sedeva sulla sua toletta, osservando l’immagine allo specchio.  El-G era sempre innamorato e disgustato da se stesso e Jude non aveva capito niente di lui. Voleva solo andare via per non arrecargli dispiacere e voleva assolutamente che l’altro lo pregasse di rimanere.
“Tutte le maledizioni possono essere infrante, fidati, ho vissuto abbastanza anni su questo mondo da poterlo dire – guarda che rughe” aveva detto El-G voltandosi verso di lui e strizzandogli un occhio. Aveva un viso assolutamente perfetto.
Il bacio del vero amore? Avrebbe voluto rispondere Jude, “No” aveva comunque detto El-G intuendo forse la battuta dal suo sguardo, “Uccidi il dio che te la ha messa addosso” aveva risposto con nonchalance quest’ultimo, afferrando dal tavolo un rossetto corallo che aveva cominciato a sistemare sulle labbra carnose.
Jude aveva aggrottato le sopracciglia, prima di storcere anche le labbra, “Giusto, dovresti scoprire quale … In effetti potrei anche darti un indizio” aveva detto divertito, dandogli le spalle e procedendo a sistemare il resto del suo trucco, “Ma sarebbe decisamente più facile se tu li uccidessi tutti” aveva soffiato, voltandosi di nuovo verso di lui.
Il ragazzo era sconvolto, mentre osservava l’altro ridacchiare, “Senti, ho sentito di questo tizio … un figlio di Ermes, vuole fare un putiferio contro gli dei. Io dico, che potrebbe avere bisogno del tuo prezioso aiuto” aveva aggiunto, ammiccandogli di venire verso di lui.
Lasciare El-G e Quilly era stata in assoluto una delle cose più difficili che avesse mai fatto. L’ultimo giorno lei gli aveva messo al collo una collana, “Non durerà per sempre, ma basterà perché tu non ti senta responsabile di alcuna morte … per un po’ di tempo” aveva spiegato, schioccando un bacio sulla sua fronte, quasi materna.
El-G non gli aveva dato nessun dono ne nessun bacio d’addio, gli aveva detto di muoversi ad andarsene o lo avrebbe fatto piangere ed il trucco sarebbe colato via.
Per quello Jude aveva riso, mentre sentiva le lacrime scivolargli sulle guance.
Luke Castellan, ribelle figlio di Ermes, aveva ancorato la sua nave da battaglia proprio ad Atlantic City, sotto il dominio di El-G che aveva accolto ghiottamente l’opportunità di invitare il più famoso nemico degli dei di quei tempi, con annessi tutti i generali.
Ed alla fine Jude era ripartito con loro quando la nave aveva abbandonato la costa, sotto il consiglio dei suoi due patrocinatori, incerto ed anche piuttosto spaventato su come avrebbe potuto uccidere degli dei. E sua madre? Avrebbe dovuto uccidere anche sua madre?
Sentiva il suo ferro, nero di stige, come aveva stabilito Quilly, pesare sul suo fianco.
“Guarda un po’, Jude Mortimer, il bambino maledetto” non lo sapeva perché ma aveva riconosciuto la voce di Alabaster immediatamente, quando l’aveva visto al seguito di Luke.
Quando avevano lasciato quel porto, Jude era rimasto in poppa ed aveva continuato a guardare Quilly che era rimasta sulla banchina, El-G non ci aveva messo molto ad andarsene, ma lei era rimasta.
“Spero tu ti renda conto di essere stato usato da loro e che non sono meglio di tutti gli altri” aveva soffiato Alabaster nel suo orecchio, con un sorriso sornione nel viso. Anche Quilly ed El-G erano dei, solo diversi dagli altri. Dei più nuovi, come piaceva loro considerarsi. “Si, lo so” aveva risposto Jude, prima di rendersi conto di non averlo solo pensato.
“Ma allora parli, Jude!” lo aveva preso in giro il figlio di Ecate.
Jude! Jude! Jude!” improvvisamente non si trovava più sul ponte della principessa Andromeda con gli occhi rivolti ad Atlantic City. A chiamare il suo nome era stata la sua compagna di viaggio: Heather Shine, figlia di Apollo, che somigliava così tanto, ma così tanto, ad Alice.
Ma intorno a lui c’era solo buio. “Jude, devi svegliarti” sussurrava la ragazza. La voce di Heather sembrava una preghiera, sommessa ed accompagnata da un tono lacrimoso.
 Ma non riusciva a capire da dove arrivasse la sua voce, era come se tutto fosse attorno a lei. “Devi farlo. Lei ha bisogno di te e tu hai bisogno di lei” aveva soffiato una voce attirando la sua attenzione, Jude aveva voltato il capo trovando Alice guardarlo, aveva un sorriso allegro, le gonfie trecce bionde che arrivavano appena sotto le scapole. Sua cugina si era sollevata dalla sedia in cui era sistemata, erano nella vecchia cucina del nonno quando abitavano nelle alture sperdute del Wyoming. Sia Alice sia Jude soffrivano quel posto orribilmente, ma non erano mai stati più al sicuro di lì. Prima che tutto andasse a rotoli …
“Tu non sei Alice” aveva detto burbero, la sua voce era vibrata per tutte le pareti, la FintAlice aveva annuito, si era sciolta i capelli, che erano cresciuti spessi come un mantello, fino ad imbrunirsi del colore della terra umida, indossava un lungo abito, composto da crisantemi. “Pensavo che tua cugina avrebbe potuto rendere questo momento più famigliare” aveva sussurrato la donna, il suo viso era bianco come la polvere ed emaciato.
“Alice non sarebbe mai stata così contenta di vedermi” aveva sussurrato Jude, posando la fronte sulla spalla della donna, “Poi cosa c’è di più famigliare della mia stessa madre?” aveva domandato, continuando a tenere le palpebre chiuse. Perché non aveva dubbi fosse lei, non poteva essere altra se non lei, lo sentiva dal profondo delle sue viscere.
Sua madre aveva spostato le mani per abbracciarlo, una delle due aveva raggiunto i suoi capelli biondi e li aveva accarezzati, materna e gentile.
“Si, bambino mio, sono io” aveva detto gentile sua madre, “E tu devi svegliarti” aveva aggiunto.
“Sto dormendo?” aveva domandato lui, sfregando la guancia contro la pelle di sua madre, “Non riesco a capire come … cosa … stia succedendo” aveva confidato.
Ricordava la macchina gialla.
Ricordava l’arpia che cercava Berenyx, la Berenyx che lui aveva abbandonato un anno prima.
Il satiro Qbert e la semidea Heather, che cercavano qualcos’altro ed avevano bisogno di lui.
Matelda ovviamente, con i suoi mostri e le sue piante.
E la pestilenza.
“Heather mi ha avvelenato” aveva mormorato. Non lo aveva fatto di proposito, ma aveva avvelenato con la freccia Matelda, che come lui, era interconnessa alla terra. Figlia di Gea.
“Ora stai bene” aveva sussurrato sua madre, allontanandosi da lui, tenendo però le mani a coppa attorno alle sue gote, “Il tuo corpo sta bene e solo la tua mente che non vuole guarire” aveva sussurrato sua madre.
“Perché dovrei farlo?” aveva domandato invece lui, “Svegliarmi, perché mamma?” aveva chiesto.
Che senso aveva vivere ancora in quel mondo, dove non avrebbe potuto fare altro che uccidere.
Tutto quello che amava era destinato a morire.
Tutta la sua famiglia.
Non aveva neanche potuto raggiungere Alabaster, altrimenti lo avrebbe ucciso. E non avrebbe sopportato di fare del male a lui più di chiunque altro.
“Perché Heather ha bisogno di te” aveva risposto sua madre calma, “Perché il mondo ha bisogno di te” aveva detto la donna.
“Mamma chi mi ha maledetto?” aveva domandato lui, forse non avrebbe mai avuto un’altra occasione per quello.
Un'altra occasione per sapere perché la sua vita era stata così miserabile.
“Se mi prometti che ti sveglierai, farò in modo che tu lo scopra” aveva risposto lei.
“È un ricatto?” aveva chiesto incredulo Jude, non riuscendo a trattenere le lacrime e sentendo i singhiozzi scuotere il colpo.
“No, bambino mio, è un incentivo” aveva risposto lei, “Per non arrenderti.”
 
[1] Parco Nazionale di Hot Springs, si trova nell’Arkansas
[2] è la perdita della capacità di comporre o comprendere il linguaggio, dovuta a lesioni alle aree del cervello deputate alla sua elaborazione.

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Capitolo 22
*** Bisogna cogliere gli inaspettati aiuti … anche quando vengono da millenarie spade malefiche(Champ I/Drew I) ***


LALALA avevo detto che la spada non avrebbe parlato e che avrebbe avuto un nome decente. Ho mentito.
Comunque la spada in mano a Drew da effetti diversi che in mano a Lauren, semplicemente perché sono persone diverse, ma il principio è quello raccontato da Manta.
Niente non sono riuscita a trovare un titolo decente.
Champ è un personaggio originale (come quasi tutti in questa storia) mentre né sua zia Kat né Jeha (ZANZANZAN) lo sono.
Ermafrodito parla al plurale perché in lui vive anche Salamace.
Va bene, buona lettura
RLandH

 




Il Crepusco degli Idoli
 


Bisogna cogliere gli inaspettati aiuti … anche quando vengono da millenarie spade malefiche
 



Champ I
Alyson era rimasta in un lungo, quasi dilaniante, silenzio per tutto il tempo.
Bess era nervosa, le sue dita continuavano a tremolare, mentre zia Kat[1] si occupava di sistemarle i capelli, in una bella e spessa treccia che racchiudeva i capelli di rame.
Lei era la più bella di tutte, splendida come la rugiada del mattino. Alyson non riusciva ad immaginarsela in altra veste se non di stoffe pregiate ed una corona di gioielli sul capo. Ricordava, però, la piccola zingarella dal viso butterato nei giardini di Kensigton, “Quella tua Bess, oh, d’oro vedo il suo mondo” aveva soffiato con gli occhi azzurri lucidi come specchi.
Alyson capiva il senso di quel discorso, poteva immaginarsela Bess luminosa e dorata.
Bess si era voltata verso di lei, aveva abbozzato un sorriso nelle sue labbra sottili, come a volerle far coraggio. Aveva fatto ridere Alyson perché non era compito di Bess dare coraggio a lei, ma avrebbe dovuto essere lei.
Si era alzata e le aveva preso una mano, con coraggio e gentilezza, cercando di reprime le sensazioni del calore che quelle dita sulla pelle le davano. Lo sapeva che era sbagliato, quello che provava, sbagliato per tante, tante, ragioni.
“Sarai perfetta, Bess” aveva detto con sicurezza, “Oh Alyson, sono così nervosa! Ho paura che mi sentirò male e vomiterò” aveva ammesso con paura tangibile.
“Non molto principesco” aveva detto zia Kat con una risata, mentre le carezzava la parte superiore della testa in maniera profondamente materna.
“Se poi accidentalmente colpissi il mantello di Mary sarebbe ancora peggio” aveva scherzato Alyson per rilassare Bess.
“Sua maestà, Alyson. Non dimenticare che è sua maestà ora” l’aveva ripresa zia Kat con un tono perentorio “E dovrai rivolgerti a Bess come sua altezza” l’aveva imboccata.
Lei si era morsa un labbro. Quando aveva conosciuto Bess e Mary, la sua sorellastra,  quest’ultima aveva il titolo di Madonna, mentre Bess era stata principessa, poi anche la sua amica era stata spogliata del suo titolo.
Solo negli ultimi tempi avevano riottenuti i titoli con cui erano nate, solo che dopo quel giorno Mary non sarebbe più stata principessa ma regina.
Regina della grandiosa Inghilterra.
“Ma io non sono una principessa” aveva sussurrato Bess con un tono di voce basso, come quello di una gattina, “Sono la figlia bastarda di una traditrice decapitata e di un uomo pingue” aveva detto spenta.
“Non dire sciocchezze, bambina!” aveva detto perentoria zia Kat, Alyson aveva annuito, “Tu sei Elizabeth Tudor, principessa di Inghilterra” aveva aggiunto con furore a ciò che aveva detto sua zia.
Bess le aveva sorriso dolce.
Anche se un giorno smetterai di essere Bess per rivestire a pieno il ruolo che ti confà.
Aveva pensato. Ed avrebbe dimenticato per sempre Alyson Champernowe figlia illegittima di qualcuno, destinata a perdersi nella storia.
“Domani entrerai trionfante a Londra, assieme alla regina Mary” aveva ripreso Kat, “Ed il tuo popolo ti darà il riconoscimento che sempre ti sei meritata” aveva berciato.

“A cosa stavi pensando?” aveva sussurrato Jeha risvegliandola dal suo dolce naufragar, “All’ultima volta che ho parlato con Bess” aveva rivelato con incredibile onestà Champ, mentre si rendeva conto di essere rimasta immobile, mentre la sua compagna sistemava nella sua moto le ultime cose del viaggio.
“L’ultima volta che le ho parlato come me, lady Alyson Champernowe” aveva soffiato con incredibile onestà.
Jeha aveva aggrottato gli occhi, le iridi grigie erano quasi perforanti, “Tu ti rendi conto che sei una cacciatrice di Artemide?” aveva chiesto retorica, mentre sistemava il casco sulla chioma riccioluta. “Non lo dimentico mai, Jeha” aveva risposto con onestà ammirevole lei, “Mai una volta negli ultimi cinquecento anni” aveva aggiunto, “In cui mi pare io sia sempre arrivata per salvarti il culo” aveva gracchiato Champ con una risata.
Jeha aveva dovuto riconoscere che la ragazza aveva ragione su questo punto, così alla fine si era guardata da dire altro preferendo di gran lunga lanciarle il casco. “Guido io, Jeha, quella bambina è mia” aveva esclamato con una certa allegrezza, tirandosi su dal marciapiede in cui era crollata.
“Ho giurato di non avere figli, ma puoi capire che come figlia di Efesto non mi sono potuta trattenere da metterlo al mondo” aveva soffiato con una certa allegrezza, passando la mano sul sedile in pelle della moto, ricavata da una bella bestiona che aveva occupato una caccia molto estenuante.
La carrozzerie era lucida di un nero brillante, per realizzarla Champ aveva dovuto lavorare sui metalli degli inferi.
“Basta che non la chiami Bess” aveva soffiato Jeha con una certe indignazione. “Di Bess c’è ne una sola al mondo” aveva ammesso con onestà disarmante Champ, “Due a quanto mi risulta” aveva detto dal canto suo la figlia di Athena.
“Ma la Francia non era la patria dell’amore e della poesia?” aveva scherzato Champ.
Jeha aveva scosso il capo con un movimento secco quasi, “La Francia è una vile puttana che pretende, prende e distrugge” aveva risposto solamente Jeha.
“Non sono l’unica ad aver lasciato il mio cuore indietro di secoli” aveva ammesso Champ, la sua voce era triste e melanconica.
Aveva visto il viso di Jeha contrirsi per un momento di rabbia, probabilmente voleva dire qualcosa che mettesse una cesura netta tra le loro storie.
Champ era stata innamorata di una donna, che per puro caso era stata anche una regina, che non aveva mai ricambiato il suo amore – che non lo aveva mai conosciuto.
Jeha aveva amato una patria sopra ad ogni cosa, di un amore che era sembrato ricambiato e che poi l’aveva condannata a marcire tra le mani straniere. A bruciare.
Champ aveva amato la gloriosa Regina di Inghilterra, Elizabeth. Jeha, lei invece, aveva amato la Francia.
“Quindi dove si va?” aveva domandato Champ attirando l’attenzione della sua amica, “Nevada, Champ” aveva soffiato Jeha, con un cipiglio sul viso, “E meno male che volevi guidare tu” aveva scherzato.
Trovava sempre incredibilmente estraniante quando la figlia di Atena si concedeva ad una certa ilarità, sembrava quasi innaturale.
Il posto dove Jeha le aveva condotte – sospettava su indicazione di Imene – era un centro benessere nel bel mezzo del deserto.
“Questo era qualcosa che non mi aspettavo” aveva ammesso Champ con onestà, scavallando giù dalla moto, “Non sono sicura che possano esserci utili. Duecento anni fa la Maga Circe mi ha rassicurato che le mie sopracciglia sono un caso disperato per chiunque” aveva scherzato con estrema tranquillità, indicando le sue sopracciglia.
Non che fosse una cosa importante, non risultavano particolarmente gradevoli per la sua discendenza, Champ era figlia di Efesto ed aveva ereditato da suo padre, oltre l’amore per i lavori manuali e la fornace, anche una forma non esattamente armoniosa del viso.
Per anni, secoli, Champ si era chiesta cosa avesse trovato una donna di buona famiglia inglese in un dio come Efesto. Anche il contrario era in effetti un buon quesito.
Jeha si era diretta a passo svelto verso l’ingresso del centro benessere. “La Fontana di Salamace” aveva letto Champ, incuriosita, inclinando anche il capo, prima di seguire a sua volta la sua compagna all’interno dell’edificio.
Il posto era accompagnato da una certa musica bassa, che le ricordava qualcosa, riguardo all’ambiente, l’aspetto non era molto da centro benessere quanto più da cantiere chiuso.
“Perdonatemi signore” aveva detto una voce attirando la loro attenzione, “Forse abbiamo dimenticato di mettere il cartello” aveva cinguettato un figuro avvicinandosi a loro. Era bello, con le ciglia lunghe ed i riccioli biondi che scendevano fino alle spalle, vestito in un completo gessato. La camicia era tirata sul petto, rivelando una sporgenza non propriamente maschile. In effetti alcuni tratti del suo viso lo facevano sembrare piuttosto femminile. Ed era bello. Oggettivamente bello anche per Champ.
“Ma siamo chiusi, sapete: ristrutturazione” aveva ammesso.
“Divino Ermafrodito” aveva detto composta Jeha, chiamando il capo biondo con un certo rispetto.
Champ l’aveva immediatamente imitata con una riverenza, a certi dogmi sociali era difficile dire addio, nonostante fossero passati secoli.
Ermafrodito ora sembrava più accomodante, “Oh, certo che siamo stati proprio antipatici. Vi stavamo cacciando senza neanche offrirvi dei dolcetti” aveva ammesso lui con voce più amichevole. “Accettiamo di buon grado” aveva subito tubato Champ. Si chiedeva se le leggi dell’ospitalità valessero anche per gli esercizi commerciali.
“Ora che riflettiamo, non vi abbiamo neanche chiesto il nome” aveva ripreso il dio, mentre le guidava verso una porta cautamente coperta da fogli di giornale. Champ poteva ammettere di essere piuttosto stupita che un dio non avesse idea di chi si fosse presentato.
“La pulzella Jehanne D’Arc e Lady Alyson Champernowe” aveva risposto chiara Jeha, mentre le spalle del dio si facevano ritte, realizzando qualcosa.
Efmafrodito aveva aperto la porta, gettando uno sguardo verso di loro, aveva luccicanti occhi di miele ed era piuttosto incantato da Jeha. Champ era abituata a quello sguardo, la sua amica si poteva definire in tutto e per tutto un’icona, al contrario lei era una bastarda senza ne arte ne parte che la storia aveva seppellito sotto tanti nomi.
Non che chi fossero state prima di giurare alla luna contasse veramente qualcosa.
“Non so perché avevamo di te un’idea più zelante” aveva ammesso con onestà il dio, “Aspettate di vedermi con una spada alla mano e ne riparleremo” aveva risposto con brutale sincerità Jeha. “Speriamo vivamente di non doverci mai trovare di fronte la spada di una così celebre cacciatrice” aveva ammesso, mentre illustrava loro quella che aveva tutta l’aria di sembrare una sala da tè.
Era l’unico spazio all’interno del Centro Benessere che non pareva essere invaso da carta di giornale, coperture e secchi di vernice.
“Qui non rimodernate?” aveva chiesto Jeha, “Forse più avanti” aveva ammesso Ermafrodite indicando un tavolino per farle sedere.
Champ era stato distratta dalle altre persone presenti nella stanza, c’era una ragazza con i capelli rosso bruno stretti in una coda cavallina che mangiava una cheescake, il suo viso era cereo, ma non quanto quello della ragazza che sedeva con lei, una brunetta vestita di nero che beveva solo caffè.
L’unico punto di luce nel loro tavolo era un ragazzino sui dieci anni, con gli occhi grandi come specchi d’acqua ed i capelli biondo paglierino. Tutto di lui emanava luce. Un figlio di Apollo.
Aveva sorriso verso di Champ e lei aveva ricambiato.
Alcune delle cacciatrici avevano l’età di quel bambino, alcuni degli eroi del campo pure, eppure sembrava infinitamente più delicato.
Quando si erano accomodate al tavolo, immediatamente dei servi invisibili avevano portato una teiera, dei biscottini ed una scatola con diversi infusi.
“Allora, allora, perché due aitanti cacciatrici di Artemide vengono qui nella casa di Ermafrodito?” aveva indagato subito il dio.
Champ si trattenne dal ridere, era così esilarante che per la prima volta un dio non avesse idea dei loro affari, non sapeva se quello di Ermafrodito fosse un’interessante gioco mentale o  una totale non curanza. Era comunque figlio di Afrodite, una dea a loro avversa, ed Ermes, il signore dei ladri.
Infido per natura.
“Non di sicuro per le mie sopracciglia” aveva risposto Champ con una certa ironia, osservando gli occhi grigi di Jeha contrarsi in una stilettata d’argento. Il dio aveva riso, “Temiamo che ci vorrebbero miracoli che neanche un dio, come noi, può operare” aveva detto con una certa cattiveria.
Eccoli i tratti di sua madre.
“È stato il divino Imene a mandarci da voi” aveva risposto Jeha, “Oh! Quel caro ragazzo” aveva ammesso Ermafrodito sbattendo le lunga ciglia bionde, “E come Imene pensa che noi possiamo aiutarvi?” aveva chiesto nuovamente.
Jeha aveva ficcato una mano nella sua tracolla estraendo dei fogli schizzati a mano, “Non sono molto brava nel disegno” aveva sbattuto sotto gli occhi del dio il ritratto di tre giovani fanciulle. Erano le dame nel fuoco che Imene aveva fatto comparire, una di loro tre aveva la possibilità di raggiungere la luna.
“Molto pittoresche” aveva scherzato Ermafrodito, mentre sistemava i fogli sul tavolo per osservargli bene, “Imene mi ha detto che tutte e tre sono in viaggio e di venire qui per trovarne una” aveva soffiato Jeha.
Il dio aveva guardato i ritratti con molto interesse, non erano precisissimi ma erano schizzi abbastanza chiari che avrebbero potuto ricondurre alle suddette donne.
Ermafrodito le aveva osservate con precisione maniacale cercando di trovare riferimenti, poi sconsolato aveva sollevato il viso, “Onestamente se ci impegnassimo e frugassimo in certi luoghi, potremo dirvi i loro nomi – così come poteva Imene – ma nessuna di loro è passata di qui” aveva soffiato con onestà disarmante.
“Fantastico Imene!” aveva esclamato Champ senza vergogna, mentre Jeha chiudeva le mani sul viso sconsolata.
“Un attimo fanciulle, non è tutto perduto” aveva ammesso Ermafrodito, prima di chiamare a gran voce qualcuno.
Manto.
Una giovane donna era scesa senza particolare fretta giù da una scala a chiocca in legno che Champ non aveva notato, indossava un vestito con le spalline sottili di un viola piuttosto opaco ed era di certo graziosa d’aspetto.
“Abbiamo il piacere di presentarvi la Maga Manto, figlia di Tiresia” aveva subito presentato il dio la sua compagna, che affiancata a quest’ultimo s’era lasciata baciare una mano.
“Come posso aiutarvi?” aveva chiesto con meno interesse mostrato da Ermafrodito, senza prendersi neanche la briga di presentarsi correttamente o informarsi sui loro nomi, “Queste due baldanzose cacciatrici cercavano una di queste tre signorine” aveva soffiato Ermafrodito indicando i disegni a Manto,
La maga aveva spiato con mogio interesse le immagini, “Nessuna di loro è passata di qui” aveva ripetuto le stesse parole di Ermafrodito.
“Allora immagino che Imene volesse che ci andassimo a fare un bagno termale” aveva scherzato Champ per alleggerire la tensione che stava palesemente premendo sul viso di Jeha. “Oh, sarebbe fantastico, ma il Triumvirate Holdings ha comprato questo posto è stiamo … rimodernando” aveva commentato Manto.
La sua voce era sottile e non nascondeva un certo fastidio. “Il che-cosa?” aveva domandato Jeha, il tono della sua voce sembrava ansioso.
Gli occhi scuri di Manto si erano accesi d’un lampo di consapevolezza, che Champ aveva visto anche in Jeha. Poi si erano osservate con intesa.
Ermafrodito aveva tossicchiato, “Oh, ma in questo disegno hai riportato delle perline” aveva ammesso il dio, ammiccando ad uno dei tre ritratti.
Champ aveva osservato la ragazza che indossava una collana sottile con delle perle, anche un'altra delle ragazze effettivamente sfoggiava diversi gioielli, ma quella del disegno a destra erano piuttosto singolari, perle dipinte infilate in un laccio di caucciù. Una ragazza del campo.
Manto aveva annuito, poi aveva sollevato lo sguardo, “Lauren!” aveva chiamato e Champ aveva potuto osservare la ragazza dalla coda cavallina lasciar cadere la forchetta su un piatto ormai vuoto e dirigersi verso di loro, “Abbiamo impacchettato tutto e partiremo tra una mezz’oretta” aveva chiarito subito la ragazza dai capelli castagno, mentre si avvicinava a loro. Sotto una camicia leggera, Champ poteva spiare sulle clavicole una collanina del campo.
“Conosci questa ragazza?” aveva chiesto calma Manto mostrando l’immagine di una delle tre, Lauren aveva recuperato il foglio ed aveva osservato il disegno, le sue sopracciglia si erano contratte prima di sollevarsi. “Dei infernali” aveva detto solamente.
“Direi che la conosce” aveva notato Jeha. Lauren aveva guardato con serietà incredibile Manto prima di mormorare, “Questa è Heather Shine” aveva detto.
Come se la cosa fosse ovvia, come se tutti nella stanza avessero chiara idea di chi, per l’ade, fosse Heather Shine.
“Oh” il commento di Manto, aveva fatto pensare a Champ che forse loro erano le uniche due a non avere effettivamente idea di chi fosse suddetta ragazza.
“Dove la possiamo trovare?” aveva chiesto subito Jeha, “Non lo so” aveva risposto con onestà disarmante Lauren, “Ha lasciato il campo ma da quando qualcuno ha battuto la Fama l’ultimo filo di comunicazioni si è spezzato. Nessuna la ha sentita per giorni” aveva raccontato Lauren, “Il mio amico Carter” aveva cominciato e la sua voce si era addolcita nel pronunciare quel nome, “La sta cercando, è la sua sorellastra” aveva ripreso, “Ha avuto una visione di lei morente che lo chiamava” aveva spiegato subito.
Anche la ragazza vestita di nero ed il ragazzino si erano avvicinati a loro per osservare il disegno, “Vicino al Pino del Campo-mezzosangue” aveva subito detto la riccia bruna, “Carter dice di averla vista lì, sorretta da due ragazzi che ha chiamato Bernie ed Alabaster” aveva detto inquieta, “Ma il punto è che non sa quando accadrà” aveva raccontato, “La vuole trovare prima, per ovvie ragioni” aveva detto cupa Lauren.
Perché morente chiamava il suo nome, ovviamente il loro amico sperava di trovarla prima.
“Carter la troverà prima” aveva detto il bambino, attirando lo sguardo di tutti, “Cosa hai detto Marlon?” aveva chiesto con una certa confusione la riccia.
“Li ho visti, loro” aveva indicato subito il bambino e questa volta aveva ammiccato anche ai disegni delle altre due ragazze, “Erano tutti davanti la casa bianca” aveva ripreso.
“Intendi quella presidenziale?” aveva chiesto Champ, ma il bambino aveva fatto cenni di diniego, “No. Era una casa bianca” aveva ammesso.
“Ma ho visto Carter con Heather e c’erano anche loro due. E non erano da soli” aveva ripreso, “C’era anche Drew con loro” aveva detto, ma il suo tono si era fatto per un momento incerto e gli occhi avevano tremolato.
“Sol…” aveva cominciato Lauren, “Dove è la casa bianca?” aveva domandato allora Jeha allarmata, “Io non lo so” aveva risposto Marlon.
“Ma tu quando hai visto queste cose?” aveva indagato subito la riccia, accarezzandoli la testa, “Ieri notte” aveva raccontato il bambino, “Non ho mai sognato così … ma dalla sera prima della battaglia contro Flegias ho cominciato” aveva raccontato.
Poi Marlon si era voltata verso di loro, con gli occhi grandi osservava Jeha come se la vedesse la prima volta, “Non era Dio” aveva detto, “Era Eris” aveva gracchiato.
Il viso della sua amica si era fatto esangue, “Tu … tu … non vedi solo il futuro” aveva mormorato, stringendo le nocche fino a sbiancarle.
Tutti sapevano che Jehanne D’Arc aveva visioni di Dio, ma era una menzogna, dopo secoli Jeha – e Champ era stata al suo fianco – aveva scoperto che era stata la dea della discordia ad aver sussurrato nelle sue orecchie.
A quel punto Manto era intervenuta, “Lauren!” aveva chiamato subito, “Potrebbe essere l’ultimo profeta al mondo … libero” aveva ripreso, “E non abbiamo idea di quante persone potrebbero volerlo catturare o … peggio” aveva commentato Ermafrodito con serietà, “Devi portarlo al sicuro” aveva chiarito immediatamente.
“Darò una mano io alle signorine a trovare Heather e Carter, ma è imperativo che voi raggiungiate il campo … o un posto sicuro” aveva ripreso a parlare Manto. Ne aveva già in mente uno.
“Non è più solo di Gea che dobbiamo preoccuparci vero?” aveva detto subito Jeha, “I Romani sono tornati” aveva sentenziato poi la sua compagna. Manto aveva annuito,
Champ era rimasta in silenzio confusa, realizzando che nel corso dei secoli aveva sentito qualche altra volta la sua amica usare quell’espressione, di solito solo con Hvìta o Luminosa, come se quello fosse un loro singolare segreto. “Anni difficili attendono questo mondo” aveva risposto la maga.
“Non vorrei essere invadente” aveva parlato la ragazza dai riccioli scuri interrompendo i suoi pensieri, “Ma voi siete Cacciatrici di Artemide vero?” aveva domandato subito, “Emanate questo riflesso argenteo” aveva detto con voce spenta.
“Si sorella” aveva risposto Champ. Sempre se Thalia non avesse avuto la sgraziata idea di bandirle da quel ruolo.
Non riusciva ad immaginarsi di vivere nuovamente tra i mortali e non riusciva a vederci neanche Jeha, lei che era nata per inforcare una spada e vivere di ideali.
“Io, Josephine Warlike, figlia di Ares, vorrei unirmi a voi, allora” aveva detto quella.
 

Drew I


“Non c’è dell’idromele?” aveva domandato il ragazzo di Ironwood, “No, coca-cola, buon vecchia e zuccherosa coca-cola” aveva scherzato Drew, mentre apriva la sua lattina con un movimento secco, cercando di ignorare le voci sinistre nelle sue orecchie.
La spada era brutale da quel punto di vista, non gli lasciava un solo secondo per respirare in pace, non capiva ancora come avesse fatto a resistere fino a quel punto.
Una parte di se aveva voluto buttare la spada, un’altra parte di lui non voleva privarsene neanche per un’istante, si sentiva più sicuro anche solo nello sfiorare il pomello, per non parlare che non la trovava per nulla pesante al suo fianco, lui che aveva sempre sofferto le armi in generale.
Perché usare la spada, o il gladio, quando aveva qualcosa di ben più pericoloso? L’argilla!
Era parte di lui, gli scorreva dentro, componeva le sue carni.
Perché arriverà il momento in cui tutto ciò che si frapporrà tra te e la morte: sarà una spada’ aveva ricordato le profetiche parole di sua sorella, certo mancavano di sacralità, quando un tono più spiccio e vagamente divertito,
Sembra sorella che io abbia trovato quella spada. Aveva pensato.
Avesse trovato solo quella, ci aveva trovato anche una donna volubile assieme, era cominciata a serpeggiare nei suoi sogni senza remore, senza saltare neanche una notte.
Non sempre era sola, diverse figure l’accompagnavano, una lunga parata di grigi spettri animati da quanto più bruciante rancore.
Uccidili tutti Drew, portaci giustizia, uccidili! Vendicaci!
Tutte le voci si fondevano in un unico coro che riportavano quelle parole. Ed ogni giorno che passava Drew si sentiva sempre più incline ad ubbidire, all’incirca, non era gli spettri che voleva soddisfare ma se stesso.
Drew voleva uccidere un uomo, uno specifico, non era ancora delirato al punto da mettersi ad ammazzare gente a caso.
No, lui voleva vendetta.
Era l’ultimo pensiero che aveva avuto da quel giorno in poi, prima di andare a letto. ‘Anche oggi ho fallito’ pensava, ma da quando aveva avuto la spada, non era diventato l’ultimo pensiero, era diventato anche il primo, anche quello della metà mattina, quello di ogni azione.
A volte i suoi compagni di viaggio gli parlavano e lui si scopriva assente, perché la sua mente era occupata da fiotti di sangue.
Senza parlare di Cenis, la cui ostinazione nel parlare quella atroce lingua rendeva per lui intollerabile la sua presenza.
Greci e Romani non si erano mai presi bene, ellenici e bizantini quali fossero.
E pensare che Drew non si era mai ritenuto un assiduo seguace del Mors Maiorum, decisamente no.
La ragazza incriminata aveva parlato proprio in quel  momento, non aveva la più pallida idea di cosa avesse detto ma visto il suo sorriso sembrava piuttosto soddisfatta, anche lei teneva tra le mani una lattina di coca-cola.
“I vantaggi della modernità” aveva scherzato, lanciando uno sguardo poi ai due isolati, l’empusa ed il figlio di Apollo.
Non ci era voluto molto per capire che i due erano molto legati, ma che probabilmente le cose tra di loro non erano sempre state trasparenti. Era stato abbastanza palese a tutti che Grace non avesse detto nulla su tutta la sua avventura ad Ironwood ne che avesse avuto un figlio.
“Non sei geloso?” aveva domandato alla fine Drew all’uomo del nord, quello aveva ridacchiato, sorseggiando un po’ di coca-cola, passandosi le dita sul collo di pelliccia, “Per favore” aveva scherzato con sdegno, “Ho conosciuto Grat… Grace intorno all’anno mille, abbiamo vissuto tanto insieme ed abbiamo persino visitato la Baia delle Meduse … io non provo gelosia per un ragazzino” aveva chiarito immediatamente.
“Sono stato un padre per suo figlio” aveva aggiunto anche, con un tono piuttosto tronfio, “E poi sicuramente so baciare meglio” aveva scherzato con una certa allegrezza, sorridendo.
Drew aveva socchiuso gli occhi, voltando il capo di nuovo verso i due, si non percepiva niente di romantico tra di loro, non che Drew si ritenesse un grande esperto.
Certo che un mostro ed un mezzosangue continuava a sembrargli una cosa da ridere.
“Da quanto tempo non la vedevi prima di questa simpatica avventura?” aveva provato ancora; Cenis gli ascoltava silenziosa, forse castrata che tra un romano ed un variago nessuno poteva  comprendere la sua lingua.
“Qualche secolo …” aveva risposto criptico.
“E sei rimasto innamorato di lei, per tutto questo tempo?” aveva domandato Drew, “Sono un Jothum, lo spazio di una vostra vita non è che qualche secondo sul mio orologio del tempo” aveva spiegato senza esitazione.
“Tu no umano” aveva detto Cenis, guardandolo, “Non più di quanto lo siate voi, se vogliamo” aveva precisato con un tono seccato, “Ma si immagino che la mia non-umanità sia più simile a quella di Grace che alla vostra” aveva puntualizzato.
In effetti in qualità di semidio Drew non poteva essere definito umano, riguardo a Cenis, immaginava che la sua storia non dovesse essere troppo diversa.
Forse era una semidea anche lei, forse era un lascito, forse non era più umana a causa della sua condizione di risorta, molte domande.
Che stai facendo?’ aveva sentito una voce femminile nella sua mente, era piena di rimprovero, ‘Tu bevi coca-cola con questo  malassortito gruppetto mentre lui vive?’ aveva insistito la voce.
Doveva calmarsi, era solo la spada.
Aveva scosso il capo, come a voler cacciare quel fastidio dalla sua mente, “La tua arma, vero?” aveva domandato l’uomo del nord con un tono di voce retorico, “Lei ti crea problemi” aveva ripreso a parlare.
“La sua aurea è nefasta, appesta l’aria, posso percepire anche io tutto il marciume con cui cerca di ingozzarti” aveva aggiunto tetro.
“Parla anche nella tua testa?” aveva domandato Drew con un brivido lungo la schiena, “No, probabilmente la puoi sentire solo tu che la possiedi” aveva spiegato quello calmo, “Ma è normale?” aveva chiesto.
Non aveva mai sentito di spade parlanti.
“Ogni oggetto che abbia ricevuto un po’ di magia dentro di non può esser considerato inanimato” aveva preso a spiegare l’uomo del nord, “Ci sono armi che tornano sempre in mano al proprio proprietario, nonostante egli continui a perderle, altre che riescono a comunicare con chi le possiede, alcune anche con gli altri” aveva aggiunto, tutto il suo tono epico era andato sbiadendosi nell’ultima affermazione.
“Stai pensando a qualcosa in particolare, vero?” aveva domandato, “Il mio amico Leif Eriksson aveva una spada fottutamente chiacchierona con una sfrenata passione per le ballate, che quasi ringrazio se penso che probabilmente in questi anni starà cantando Taylor Swift o Katie Perry” aveva risposto con una certa acidità.
“Perché?” aveva domandato solamente Cenis, lanciando una sguardo scettico alla sua lama, “A volte dipende da chi sono costruite, da cosa sono costruite, da chi sono brandite” aveva ripreso a parlare, “Quella che affligge la tua spada non è nulla di buono, ma io non sono un mago, il seiðr è una cosa da donne, sono sicuro che se la lasci cinque minuti a Grace ti risolve il mistero” aveva aggiunto poi.
‘Non c’è nessun mistero, c’è solo un omicidio da compiere, ragazzo’ aveva sentito ancora la voce femminile, aveva potuto intravederla alle spalle dell’uomo del nord che consumava la coca-cola, una splendida donna, dall’incarnato moro ed un lungo abito panna, esponendo con orgoglio una collana stretta sul collo tempestata di gioielli e pietre vitree ed una cintura di anelli bronzati allacciati assieme, sotto il seno.
Aveva occhi feraci,
“Allora vado a disturbare il confessionale” aveva stabilito Drew alzandosi.
Cosa ti importa? Noi ti daremo il potere per la tua vedetta, placa la nostra sete!’ aveva strillato la donna nella testa.
“Quindi è sepolto a Roma?” aveva trovato uno straccio di conservazione da parte di Carter, “No, a Ravenna, se ti dicessi ciò che ho fatto mi giudicheresti malissimo” aveva risposto la ragazza con un briciolo di imbarazzo, “Lui ha sempre amato le stelle, così lo ho sistemato sotto un cielo stellato, uno perenne e … il più bello” aveva mormorato con un tono calmo, sorridendo.
“Ho sistemato le sue ossa al posto di quelle di qualcun altro nel Mausoleo di Galla Placidia” aveva mormorato Grace con leggero imbarazzo.
“Immagino quelle della signorina Galla Placidia” aveva risposto Carter.
“Lei è sepolta a Roma” si era introdotto nel discorso Drew senza alcuna pretesa, “Gran signora, peccato che abbia avuto due figli davvero degeneri” aveva risposto Grace con un sorriso tirato, “Non volevo interrompervi” aveva cominciato Drew, cercando di evitare che si cominciasse una qualche lezione di storia sull’Augusta e sulla sua famiglia.
“Mi sono unito a voi perché mi sentivo perso” aveva ripreso Drew con calma, “Ero alla Fonte di Salamace per schiarire la mia mente, come voi” aveva aggiunto.
‘Oh no, Drew, tu non sei perso ne necessiti di chiarimenti, tu sai quello che devi fare’ aveva sentito la voce.
Certo che lo sapeva.
Ecco. Allora lascia perdere. Andiamo, troviamolo, consumiamolo’ aveva risposto la voce.
“Non ho trovato quello che cercavo” aveva chiarito immediatamente. “La tua faccenda?” aveva domandato retorica Grace, era rimasto per un secondo ammutolito, “Si” aveva risposto con un tono secco.
“Sto cercando una persona come voi” aveva preso a spiegare.
Ecco, bravo, continua così’ aveva sussurrato la voce.
“Ma non sono una discendenza di Apollo, o che altro, le lacrime di Manto non mi hanno aiutato” aveva chiarito con voce calma.
“Ma questa storia ha un punto, vero? O siamo punto e a capo con solo persone in più da cercare” aveva risposto Drew con un tono più secco.
“L’astrolabio di Leone” aveva risposto spazientito lui, “Nella fonte di Manto ho visto questo oggetto … non sapevo neanche cosa fosse, me lo ha spiegato Manto che era un astrolabio ma non mi ha detto molto altro” aveva detto chiaro lui.
“Però ti ha detto che era l’astrolabio del leone” aveva commentato Carter, ma lui aveva mosso il capo, “Di Leone, è un nome proprio e no, me lo ha detto la spada cosa era” aveva chiarito lui, “Te lo ha detto la spada?” la voce del figlio di Apollo era quanto mai scettica, ma Grace gli aveva assestato una gomitata.
“Si, me lo ha detto la spada, l’astrolabio apparteneva ad un geografo con un allucinante nome mediorientale noto per lo più come Leone l’Africano[2]” aveva chiarito, “Ho letto la Cosmographia dell’Africa, scritta da lui” aveva commentato Grace.
“Comunque l’Astrolabio di Leone permette di trovare chiunque al mondo” aveva chiarito, “Ne ho sentito parlare” aveva commentato Grace, “Oh, be, comunque dovremmo trovare anche quello” aveva detto con un tono più scettico Carter.
Drew immaginava ritenesse più pratico tentar di raggiungere sua sorella al campo mezzosangue.
Poteva capire quell’impellente desiderio di salvare, aggrapparsi alla speranza di Carter rendeva meno difficile cedere alla spada.
“Tu sai dove è” aveva stabilito Grace osservandolo attentamente, “Non io” aveva risposto Drew abbassando lo sguardo sulla spada.
Eccellente’.
Tutti e due avevano chinato lo sguardo.
“Fa tanto Bussola D’Ora” era stato l’unico commento di Carter, “Va bene allora Cenis fa Lyra, Grace-la strega, l’uomo del nord fa l’orso, io-il texano e tu fa lo zio-slash-padre” aveva risposto Drew.
“Lo hai letto” era stato il commento di Carter, “Ho visto il film” aveva replicato.
“Rimanete concentrati bambini” aveva ripreso la loro attenzione Grace, putando gli occhi di brace sulla sua spada.
Drew l’aveva estratta dal fodero per permettere all’empusa di osservarla meglio, ma come il piatto si era avvicinata alle sue mani la donna aveva fatto un passo indietro, “Credo che tu sia nato per impugnarla” aveva stabilito poi, “Ha un potere ambiguo, ma tu sei il figlio di Cura, signora dell’angoscia che domina ogni uomo” aveva aggiunto solenne.
Lui non pensava che avrebbe resistito alla spada più di chiunque altro.
Grace aveva sorriso materna, “Dovreste darli un nome, lo so che era un abitudine medievale, ma ogni importante spada merita il suo nome” aveva aggiunto, “Sono un Romano” aveva provato a dire Drew, ma trovava quella scusa piuttosto patetica. Molti al Campo di Giove avevano dato nomi alle loro armi e lui non era più un romano, lui aveva abbandonato la sua casa.
Si, Drew dacci un nuovo nome, non ne abbiamo abbastanza’ aveva vibrato la stanza.
Non parlava del darle davvero un nuovo appellativo, ma di uccidere la persona che Drew voleva, gli sembrava palese.
“Ha già un nome, ne ha tantissimi” aveva sussurrato Drew.
“Allora andiamo per Spada?” aveva proposto Carter con un leggero disagio, “Assetata” aveva provato poi Drew, “Visto che è smaniosa ed assettata” aveva chiarito.
Grace stava sorridendo verso di lui, “Il fatto che tu non l’abbia chiamata Vendicatrice dimostra che la puoi domare” aveva provato.
Sai della sete, allora lasciaci bere’.
“Sai esattamente cosa è questa spada, devo dedurre” aveva commentato Drew, “Non lei in particolare” aveva risposto con onestà Grace, “Ma basta un occhio appena allenato alla magia per sapere che su quella spada è un anatema” aveva risposto l’empusa, “Credo che Manto non vedesse l’ora di liberarsene” aveva aggiunto.
Ma non era stata la strega a darla a lui, ma la figlia di Afrodite.
“Volevi dire che c’è sopra un anatema” era intervenuto Carter osservando sinistro la spada, “No, è un anatema” aveva replicato Grace, “Ai giorni d’oggi quel termine viene utilizzato come mero sinonimo di maledizione, ma l’anatema è qualcosa di più profondo. Può essere un’offerta ed un sacrificio, a volte – come in questo caso – può assumere sfumature molto oscure” aveva spiegato didascalica, “Non introdurrai quest'abominio in casa tua, perché sarai come esso votato allo sterminio” aveva aggiunto calma Grace, “Dal libro del Deuteronomio, drammatici questi monoteisti” aveva detto, poi Grace aveva allungato una mano per posarla sulla spada di Grace, evitando accuratamente la spada, “Assetata è sicuramente notevole, ma non è così raro; la storia è piena di spade magiche, parlanti, che portano a grandi destini” lo aveva rassicurato.
Fidati, Drew, lei non ha la minima idea’  aveva detto sarcastica la voce nella sua testa, solo che questa volta non era una donna.
“Pensiamo all’astrolabio di Leone, ora” aveva ripreso la parola Drew invece.
 
 “Quindi ricapitoliamo giusto un po’ per ridere” aveva preso a parlare l’uomo del nord, “Gracie è un mostro, io sono un gigante di ghiaccio, Carter è un semidio esule per scelta, Drew per scelta degli altri” aveva fatto una pausa, leccandosi i denti, aveva i canini particolarmente appuntiti, “E tu, Cenis?” aveva chiesto, mirando la guerriera.
“Eirik!” lo aveva rimproverato Grace prima di mordere il suo bastoncino di liquirizia.
Stavano aspettando all’autostazione, avevano trovato un autobus che gli avrebbe condotti nella direzione che Assetata aveva loro indicato.
La donna aveva chiuso gli occhi azzurri ed aveva risposto, in un fluente ed assolutamente incomprensibile greco.
Drew aveva spiato con lo sguardo Carter, che di rimando stava studiando il suo accendino come se fosse la cosa più intrigante del mondo.
Grace aveva schiuso le labbra, “Non lo avevo capito” aveva confessato con un certo imbarazzo, “Ti immaginavo divers-” si era interrotta bruscamente, “Vuoi che cambi i pronomi?” aveva chiesto poi con un tentativo di gentilezza.
“Traducete anche per noi?” aveva domandato Eirik.
Carter aveva sollevato gli occhi con un sorriso un po’ più caldo, “Allora sei uno di noi, tu? Ribelle contro gli dei” aveva commentato placido.
Cenis aveva fatto un sorriso piuttosto sornione, prima di scrollare le spalle.
Grace aveva parlato: “Ceneo, un temibile signore dei Lapiti” – Drew aveva sentito i brividi lungo la schiena nel ricordare Flegias, re dei lapiti ed anche la sua spada aveva vibrato – “Aveva raggiunto un tale fama e potenza da essere venerato com un dio stesso” aveva terminato.
“E Zeus lo ha punito per questo” aveva detto invece Carter.
“Aspetta sei un uomo?” aveva domandato Eirik affiancandosi a Cenis con incredibile interesse ed un sorriso lupesco, “Daresti paste anche a Loki per una mutazione così ben fatta” aveva aggiunto, beccandosi un buffetto non particolarmente gentile dal guerriero in persona.
Drew era sconvolto.
Censi era un uomo?
“No, cretino” lo aveva rimproverato Grace, “È nato donna ma chiese a Poseidone di renderlo un uomo” aveva spiegato, Cenis aveva commentato qualcosa al che l’empusa aveva annuito, “Che immensa sfortunata” aveva detto, prima di spiegare loro che quando era morto la prima volta il suo corpo era tornato quello di una donna e sfortunatamente anche l’animo che aveva preso riposo nell’Ade e dunque quando aveva valicato lo porte si era ritrovato ancora bloccato in un corpo femminile.
“Eri alla Fonte di Salamacia perché speravi di trovare qualcosa che potesse trasformarti da donna a uomo, vero?” aveva domandato Carter invece, quello aveva annuito.
Drew non poteva dirsi sconvolto da quella notizia, infondo in quel posto vi lavoravano Ermafrodito, il dio dagli ambosessi e Manto, figlia di Tiresia, il cui aveva vissuto per diversi anni come una donna.
“Hai bisogno che un dio lo rifaccia, dunque?” aveva chiesto Eirik interessato, “Magari non uno dei vostri dei, ma ci sono eccezionali incantatori dal mio lato della mitologia” aveva ripreso a parlare, “Parli di qualche simpatico gigante che potrebbe volere pulirsi i denti con le nostre ossa?” aveva chiesto Grace, ma nel suo tono c’era molto più divertimento che altro, “Non pratichiamo cannibalismo” si era difeso fintamente offeso quello, “Comunque pensavo più a qualcuno tipo la dea Freya” aveva aggiusto.
“Magari sei fortunato a becchiamo due serpenti che copulano” aveva commentato Carter, era forse una delle primissime cose divertenti che Drew lo sentisse dire, “Si ma in quel caso dovrebbe azzeccare anche la testa giusta da tagliare[3]” aveva detto con una risata.
Cenis li aveva guardati con estremo rimprovero, aveva due azzurrissimi occhi affilati come pugnali, ma alla fine aveva ridacchiato anche lei -  o lui?
Se alla fine voleva essere un uomo, doveva dare del lui, no?

“Be ragazzi l’auto sta arrivando” aveva sentenziato Eirik, “Quindi più distanza tra noi e la Hag di Iroonwoood, esattamente quello che voglio” aveva aggiunto tutto tronfio.
“Ma pensate sul serio che ci lascerà andare così, senza opporre resistenza?” aveva domandato Drew, ricordava lo sguardo famelico della gigantessa e, forse non la conosceva bene, ma non le sembrava un tipo da lasciar perdere.
“Be, Grace ha detto di non aver giurato” aveva detto Carter, sfiorando la spalla della sua amica, “Si, può anche essere una persona che non molla l’osso, ma in questo momento sta attivamente cercando di aiutare suo figlio a dare inizio al Ragnarok” aveva aggiunto Eirik, “Magari si dimenticherà presto di noi” aveva aggiunto.
“Non importa” aveva preso la parola Carter, “Adesso troveremo l’Astrolabio di Leone, con quello potremmo trovare mia sorella, la faccenda di Drew ed un dio per Cenis” aveva detto secco il figlio di Apollo.
E poi scorrerà sangue’.
 
[1] Kat Champernowe coniugata Ashley è stata la governante di Elisabetta I
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_l'Africano
[3] Tiresia cambiò genere entrambe le volte perché aveva decapitato un serpente (prima femmina e la seconda volta maschio) mentre si stava accoppiando con un altro serpente. CHE BELLA LA MITOLOGIA.

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Capitolo 23
*** Il commovente momento in cui un’immersione negli abissi si trasforma in un’immersione nei propri desideri … no, aspé, fa schifo.(Bellatrix II) ***


THE ROAD SO FAR (o meglio quello che vi siete persi): Bellatrix LaFayette e sua sorella Bernie si sono divise a seguito della battaglia di Manhattan … a seguito, tra le due, non ci sono stati più contatti.
Dopo una anno di mistero, le due gemelle figlie di Nyx, sono riuscite a ricontrarsi telepaticamente (grazie alla bevuta delle acque degli inferi da parte di Bernie, che le hanno permesso di lasciare il suo corpo e raggiungere sua sorella, prigioniera di ‘Ify’). In vero Bells era stata catturata da Ifigenia quando si era recata nell’Atollo di Johnston per cercare un dio, nascosto lì.
In tale occasione la sacerdotessa immortale, devota ad Artemide, l’aveva sacrificata come usanza per poi riportarla in vita grazie alla rete raccogli animi della dea Britomarti.
A seguito Ifigenia si mostra ben favorevole ad accompagnare la giovane ad incontrare il dio che Bells era venuta a cercare.
Buona Lettura

EDIT: Non riesco a togliere il sottolineato D:


 

IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI
 

 
Il commovente momento in cui un’immersione negli abissi si trasforma in un’immersione nei propri desideri … no, aspé, fa schifo.


 
Bellatrix II


 "Ti ... prego", Bells aveva sentito quella richiesta come nulla di più di un sussurro nel vento, una voce bassa come il miagolio di un gattino, ma abbastanza per arrestare la sua corsa. Voleva raggiungere Ethan lì sull'Olimpo, dove la storia si sarebbe decisa per sempre. Crono contro Percy Jackson. Sembrava già una partita vinta, il più potente e pericoloso dei titani contor un mezzosangue. Eppure, mai prima di quel momento Bells aveva pensato che il destino del mondo fosse appeso ad un singolo filo.
“Ei, ei! Dove sei?” aveva chiesto – urtlato – aspettando di riconoscere ancora la voce. Aveva sentito un altro squittio, disperato uggiolato di qualcuno in cerca di aiuto ed aveva tentato di raggiungerla, seguendo la voce.
Poi l’aveva trovata, lì, sulle infinite scalinate dell’Empire State Building, tra un piano e l’altro. Aveva sentito ogni suo osso dolere per quella salita, una ragazzina esangue in viso che teneva le dita sottili sulla pancia, da cui sgorgava sangue bruno.

Bells non riusciva neanche a capire quanti anni avesse, era solo certa fosse più giovane di lei, così si era chinata al suo fianco.
“Ei, va tutto bene, sono qui” aveva sussurrato placida. La ragazzina non indossava le parole del campo, però Bells stessa non conosceva bene neanche tutti i suoi alleati, la ragazzina doveva ammettere non le sembrava familiare.
Forse era sua nemica, forse no, non le importava, non più così tanto.
La ragazzina le sorrise, aveva due rivoli carmini che le scendevano giù dalle labbra pallide e screpolate. “Ambrosi” riuscì a sussurrare solamente, la sua voce era un raschio sottile, che spensi Bellatrix a chiedersi come avesse potuto sentirla.
“Cerco” aveva detto immediatamente Bells, tastandosi le tasche dei pantaloni, non era sicura di avere più ambrosia, aveva saggiato le ultime gioccie qualche ora prima, dopo che una freccia l’aveva colpita sulla parte alta del pettorale, evitando cuore e polmone per miracolo.
Miracolo che non era certa di meritare. Però aveva trovato delle stupide caramelle al miele, che aveva rubato dalla hall dell’hotel che aveva utilizzato come fortino.
“Io … mi dispiace” aveva sussurrato solamente Bells, guardando quella caramella, l’altra ragazza aveva emesso un verso, sembrava un gorgoglio. Bells ci aveva messo qualche secondo a capire fosse una risata.
“Mi … fanno … schifo” aveva sussurrato, sembrava davvero una risata quella che aveva seguito l’inaspettata confessione.
“Be, magari, se fai così la snob non stai tanto male” aveva provato Bells, senza molto successo. L’altra aveva sorriso con una certa fatica.
“Figlia di …Lada
[1]” aveva detto quella. Poi, per un po’, non aveva detto nient’altro, aveva tolto una delle mani dal ventre. Uno squarcio le scavava le viscere, il palmo della ragazza era macchiato di lucido rosso, ma aveva comunque allungando la mano per raggiungere quella di Bells. “G-Gr…azie” aveva bisbigliato.
E mentre la presa si faceva più morbida, la figlia di Nyx si chiese per cosa venisse ringraziata.

 

“Sembri spaventata” la voce di Ifigenia sembrava stranamente allegra, “Mi stai dicendo di entrare in un buco al di sotto della superficie del mare, per incontrare un fottuto dio” aveva detto con un tono piuttosto acido Bells.
“Perché è nascosto lì giù?” aveva domandato leggermente infastidita. Ifingenia aveva riso – probabilmente di lei – “Non lo so. Forse perché c’è un ingresso del Labirinto lì vicino … Comunque, tranquilla, Theos non è nel labirinto, ma vicino all’ingresso” aveva specificato la sacerdotessa. “Questo lo rende solo migliore” aveva detto aspra Bells. “Theos era un dio buono” aveva cercato di consolarla Ifigenia.
Era, nessun buon segno.
Però Theos restava il dio che Bells era venuta ad incontrare. Ed aveva deciso di nascondersi dal mondo nel posto più triste che la terra avesse mai visto: l’atollo di Johnston, anzi sotto.
“Ti prego dimmi che hai da allungarmi una tuta da sub e delle bombolo d’ossigeno … o almeno delle pinne” aveva detto con un tono spento, osservando la maschia circolare di blu intenso, con angoscia.
“Giusto per la cronaca: se affogo la rete tratterà la mi anima, vero?” aveva domandato poi, non dando alla sacerdotessa il tempo di rispondere alla sua precedente frase.
“La rete … che non raccoglie sempre tutte le anime” aveva risposto immediatamente Ifigenia, “Vale unicamente sulla terra … o qualsiasi cosa sia quella su cui stiamo posando i piedi” era stata cristallina.
“Non nel mare” aveva valutato Bells.
“Con la resta stiamo già dando fastidio al sommo Ade, non vorremmo urtare anche Poseidone – lo chiamano lo scuotitore di terre per una ragione” aveva risposto tranquilla la sacerdotessa.
“Moriamo, è sicuramente meglio che stuzzicare qualche dio” aveva scherzato con acidità lei.

“Detto da chi ha militato sotto l’esercito di Crono” aveva risposto Ifigenia con estrema calma, “Comunque mangia questa caramella” aveva aggiunto, infilando una mano nello scollo del vestito per tiare fuori uno zuccherino ancora incartato.
“Il mio amico Aphros[2] le ha fatte” aveva aggiunto calma, “Grazie” aveva risposto Bells, scartando la caramella ed ingurgitandola, aveva la chiara idea che quello che aveva detto Ifigenia non fosse una semplice richiesta. “Sa di mangime per pesci” aveva sentenziato poi, “Mangia spesso mangime per pesci? Sì, comunque le torte li vengono decisamente meglio” aveva ammesso Ifigenia.
“Ora ascoltami bene, Theos vive dentro questa grotta, la puoi raggiungere da un tunnel sommerso all’interno della dolina. Solo non il primo, il secondo … o forse era il terzo” aveva aggiunto, passandosi le dita sulle labbra, con quel suo tono così calmo, “Se prendo il tunnel sbagliato che succede?” aveva domandato, “Potresti perderti per eoni negli abissi marini … o incontrare un vicolo cieco” aveva detto con un certo divertimento.
“Ti hanno mai detto che sei strana?” aveva chiesto retorica, “Ogni persona che ho sacrificato” aveva risposto con estrema tranquillità, poi aveva posato una mano tra le scapole di Bells e senza metterci particolare forza l’aveva fatta cadere giù dalla sporgenza, dritta nelle acque.
 

“Dany, Dany” aveva sussurrato la ragazza dai riccioli rossi, premendosi il viso di Dany sul petto, mentre le lacrime le tagliavano le guance tonde.
Dany però sorrideva, il suo viso era cristallizzato in un sorriso che sarebbe rimasto per eoni. Bells le teneva ancora la mano, anche se la presa di Dany si era fatta molle.
Se ne era andata così, sorridendo e tenendo le mani di una sconosciuta sulla tromba delle scale dell’Empire State Building.
Bells non aveva saputo il suo nome finché non erano arrivate le altre due ragazze, quella che era rimasta immobile e quella dai riccioli rossi che subito aveva cominciato a strillare il nome della defunta e scuoterla per poterla risvegliare, rima di realizzare l’inevitabile e terminare con lo stringerla al suo petto piangendo.
“Mi dispiace” era riuscita a sussurrare solamente Bells.
Anche dopo la morte di Dany non era riuscita a sciogliere le loro prese e riprendere la sua salita fino all’Olimpo per aiutare Ethan.
“Le hai permesso di non morire da sola e di questo noi ti saremo eternamente grate” aveva parlato l’altra ragazza, lei era un po’ più adulta di quanto non fossero Bells, Dany e la ragazza dai capelli rossi; aveva dei tratti del viso particolari, diversi, e nonostante la sua lingua fosse fluente rimaneva sporcata di un accento che Bells non aveva mai sentito.
“Affidiamo ora la sua anima immorale agli dei della morte” aveva cominciato a recitare gentile, prendendo la mano che era rimasta libera, “Dobbiamo trovarle un drappo Chantico e tributarle gli onori che si merita o non potrà passare l’acheronte” aveva parlato la ragazza dai capelli rossi, “Sarà così spaventa in questo momento” aveva sussurrato.
“E lo faremo, Phoebe, le daremo il funerale che si merita, assieme alle altre, dopo che la guerra sarà finita” aveva risposto l’altra, sedendosi anche lei sulle scale, volgendo un sorriso rassicurante verso Bells.
La guerra.
Dove alzarsi, doveva andarsene, doveva lasciare la mano di Dany, il suo corpo era con le sue amiche in fondo, doveva trovare Ethan. Doveva trovare Bernie.
Se le fosse successo qualcosa … no, Arvey l’avrebbe difesa a costo della sua stessa vita, non avrebbe mai permesso a nessuno di ucciderla, era qualcosa che voleva fare lui, con le sue modalità, con i suoi tempi.
E se fosse successo qualcosa a Bernie, lei lo avrebbe sentito, no?
Erano gemelle.
Phoebe teneva ancora il viso di Dany sul suo petto, “Ma Chantico, la guerra è finita” aveva detto calma, con gli occhi azzurri impastati di lacrime rivolti verso di loro.
“Come lo sai?” aveva osato chiedere Bells, “Io non lo so, sento solo un’armonia diversa” aveva aggiunto placida.


 

“Che stronza” aveva sussurrato Bells, aveva scoperto di poter respirare sott’acqua, appena aveva toccato la superficie attorno a lei si era formata una membrana … o qualcosa di simile, che le permetteva di respirare dell’aria, “Non mi sorprende che qualcuno dica sia figlia di Elena di Troia”.
Forse era colpa della caramella, qualunque causa fosse: Ifigenia avrebbe potuto anche scomodarsi a tranquillizzarla.
D’altronde non doveva stupirsi: neanche ventiquattro ore prima le aveva ficcato un coltello in pancia. Aveva sollevato lo sguardo oltre la superficie per cercare la sacerdotessa, non vedendola però più sull’altura.
Aveva deciso di tacere l’offesa che le era nata sulle labbra per tuffarsi nella profondità della grande voragine blu. L’acqua era gelida e niente sembrava intenzionato a navigare vicino a lei, sarebbe stato oltremodo fastidioso avere anche a che fare con uno squalo o quant’altro.
Abbandonate le acque sicure era entrata nella fossa vera e propria, con un leggero terrore, guardandosi intorno alla ricerca dei corridoi delle pareti.
Non il primo, ma il secondo o il terzo.
Sarebbe stato bello avere una qualche chiarezza, ma evidentemente Ifigenia non la pensava così.
Attraversato la prima fessura nelle pareti era scesa ancora nel profondo, fino a che non aveva trovato la seconda.
“Mi affido a te, Dea” aveva sussurrato alla fine, prima di entrare nel corridoio di roccia.
La fossa era stata scura, ma sottili raggi di sole riuscivano ancora a raggiungerla almeno fino all’altezza della seconda fessura, ma all’interno di quel corridoio c’era solo buio pesto. Ed era freddo.
Non sapeva neanche per quanto tempo aveva nuotato, ma abbastanza da sentire dei crampi sul suo corpo e da avere voglia di fermarsi.
Aveva iniziato a sospettare da un po’ che aveva sbagliato strada, almeno fino a che non aveva sentito dei rumori piuttosto particolare.
Il rifrangersi dell’acqua su una superficie.
Aveva aumentato le bracciate ed i movimenti netti delle gambe, iniziando a notare lontano un punto di luce azzurra.
Quando aveva raggiunto la luce azzurra aveva capito che era proiettata da una superficie, aveva sollevato lo sguardo aveva trovato oltre lei delle accese luci fredde.
Era emersa, trovandosi a respirare dell’aria vera e riconoscendone la differenza.
Aveva guardato intorno a lei, realizzando di essere all’interno di una caverna, dalle pareti lucide e coperte di licheni, le luci erano date invece da sferette accecanti che fluttuavano nell’aria la cui origine le era ignota.

“Nefasti numi!” aveva sentito una voce tuonare, Bells si era voltata intorno alla ricerca della provenienza, notando che una porzione della grotta aveva una spiaggia rocciosa e che qualcuno era lì: il divino Theos.
Aveva nuotato in quella direzione, sentendo nuovamente le articolazioni andare in fiamme.
Era decisamente fuori allenamento.
La sensazione della ghiaia sotto la suola dello stivale era stata una sensazione bellissima, finalmente era stata in grado di camminare nuovamente, aveva lasciato cadere le braccia inerti lungo i fianchi, mentre finalmente usciva dall’acqua.
“Lei è il divino Theos?” aveva chiesto solamente, osservando l’uomo che si stagliava non lontano da lei.
Se non era il dio che cercava, sicuramente ne era uno, era schifosamente attraente.
Un giovanotto dall’incarnato olivastro e gli occhi di miele.
“Sfortunatamente” aveva risposto solamente quello, l’attimo dopo allungare le mani per prendere Bells, le gambe erano cedute senza che facesse in tempo a realizzarlo.
“Credo tu abbia bisogno di bere e mangiare, signorina” aveva ammesso con un tono leggermente più accondiscende il dio, “E puoi darmi del tu, odio le formalità”.
“Un posto meno facile da raggiungere, no eh?” aveva scherzato solamente Bells mentre il dio la guidava per accomodarsi sul terreno ruvido, “Non abbastanza evidentemente” aveva detto quello.
A Bells era venuto da ridere.
Il dio Theos le offrì della carne secca, la cosa l’aveva divertita più del previsto. Di norma erano i mortali e i semidei ad offrire il loro cibo ad un dio, quindi Bells poteva ammettere di trovare una divertente ironia nella questione, specie se si considerava in passato in quale esercito avesse militato.
“Immagino che Ifigenia ti abbia detto dove trovarmi?” aveva detto con un tono leggermente risentito il dio, “Dopo avermi pugnalato” aveva risposto subito di getto lei, “Ma no, Ifigenia mi ha indicato solo la strada, meglio dire che mi ci ha buttato dentro” aveva detto.
“Sua madre era spartana e un miracolo che non lo abbia fatto con un calcio” aveva detto calmo Theos, “Però no, non è stata lei a dirmi dove trovarvi” aveva raccontato Bells, “È stat-” ma la frase della ragazza era stata interrotta da un movimento secco della mano dell’uomo, “Non mi importa se mi hai trovato vuol dire che questo posto non è poi così introvabile” aveva sbuffato il dio. Era attraente, in una maniera al di là dell’umana comprensione, con occhi profondi ed uno sguardo amichevole, indossava dei pantaloni mimetici ed un giacchetto aperto che lasciava scoperto il petto e le braccia, sul bicipite aveva un tatuaggio di colore vermiglio che riportava un fiore che sembrava di loto.
“Non sono esattamente affari miei ma perché sei nascosto in una grotta sotto l’oceano?” aveva domandato Bells.
Ifigenia aveva accennato qualcosa a proposito del fatto che c’erano motivazioni precise sul perché il dio si fosse nascosto proprio lì. “Se ti dicessi che mi fa schifo il genere umano, come la vedi?” aveva domandato retorico il dio, “Legittimo” aveva risposto Bells, “Bene. È esattamente così” aveva detto strappando con un morso una bella stringa di carne secca, “Quindi cos’è che vuoi?” aveva domandato il dio poi, “Dubito tu sia qui solo per il piacere della mia compagnia” aveva ammesso, “Nessun mezzosangue verrebbe qui senza un motivo” aveva detto.
Bells aveva sorriso, strappando un altro morso dalla sua carne secca, “Di solito gli dei sono sempre pomposi e pieni di loro” aveva constato, “Sono sul serio convinti che i mortali vogliano la loro compagnia” aveva aggiunto.
“Lo dici a me?” aveva chiesto Theos, “Uomini, dei, sono questo punto di vista sono tutti uguali” aveva aggiunto, “Tu non sembri” aveva scherzato Bells, “Questo perché io sono morto” aveva risposto lui, “Aspetta …” aveva cominciato la figlia di Nyx, ma il dio l’aveva anticipata, “Sono nato umano, sono divenuto dio poi” aveva spiegato, “Stavo per chiederti se eri stato recuperato anche tu dalla rete” aveva sospirato, “No, si, forse … onestamente non ho capito bene neanche io come è successo, un momento stavo annegando nel Nilo, l’attimo dopo ero sull’olimpo e Giove in persona mi diceva che ero stato divinizzato” aveva raccontato con una certa boria, “Ma andiamo avanti” aveva recuperato il dio, “Che cosa vuoi?” aveva chiesto.
“Recuperare quello che la Divina Artemide ti ha affidato” aveva risposto calma, “Qualcosa come mille anni fa circa” aveva aggiunto.
Theos aveva sollevato un sopracciglio, “Recuperare prevede che qualcosa ti è appartenuto” aveva detto  il dio “Ed anche se fosse la mia riposta è no”, “Si mi è stato detto che non avresti ceduto, forse, neanche se la divina Artemide in persona si fosse palesata davanti ai tuoi occhi” aveva mormorato lei, con un tono di voce calmo; “Per Artemide avrei ceduto, ma tu, ora, non parli a nome suo, giusto?” aveva domandato.
“Esatto” aveva confessato Bells con ignoranza: “Perciò ho intenzione di sfidarti” aveva aggiunto, alzandosi dalla posizione seduta in cui era sistemato, “Me?” aveva domandato il dio con un tono calmo e forse anche piuttosto stupito, “Si” aveva detto Bells, chiedendosi tutta quella sicurezza da dove l’aveva tirata fuori.
Il dio l’aveva guardata con una punta di curiosità e Bells si era ritenuta soddisfatta che lui non l’avesse incenerita con lo sguardo, o qualsiasi cosa Theos potesse fare, “Oh e sentiamo: a che cosa?” aveva chiesto, “A quello che ti pare” aveva ammesso Bells, “Se potessi sceglierei direi una bella caccia al tesoro, ruba bandiere o paintball, tanto vincerò” aveva dichiarato.
“Che sfacciata audacia” aveva detto il dio, “Potrei sfidarti alla lotta, pensi che potresti battere un dio?” l’aveva provocata.
Ovviamente no.
“Preferirei una caccia alla bandiera, ci ho giocato solo una volta, ma era molto divertente” aveva scherzato Bells con un tono calmo, era successo sulla Principessa Andromeda, era stata un’idea dei ragazzi che venivano dal campo. “Penso che non fosse ancora scoppiata la guerra dei cent’anni l’ultima volta che ho partecipato, credo non si possa fare senza le squadre” aveva sentenziato.
“Ma ricominciamo con le buone maniere” l’aveva invece rimproverata il dio, “Non temere per la tua vita, hai consumato il mio cibo, sei una mia ospite, perciò presentati” aveva sentenziato quello.
“Bellatryx LaFayett, figlia di Nyx e di Abe LaFayette, astronomo, ho quattordici anni e mi fanno schifo le carote” aveva spiegato subito lei con voce secca, “Ah si, durante la guerra titanica ho parteggiato per Crono e non sono sicura se tornando indietro cambierei le cose” aveva detto immediatamente lei con un leggero tremolio nella voce.
“Io sono Theos è farò finta di non notare le evidenti lacune nella tua storia, ammirato dalla tua sfacciata onestà” aveva risposto il dio, risedendosi sulla nuda pietra. Bells aveva sollevato un sopracciglio, “Irraggi luce, sono sorpreso le falene non ti stiano sempre addosso” aveva risposto con voce calma il dio, “Penso sia successo più di una volta” aveva confessato con un certo imbarazzo, sistemandosi nuovamente sulla roccia dove era seduta.
“Eppure non vieni a prendere qualcosa d me in nome di chi ti compete” aveva commentato il dio, “Non è stata una decisione a cuore leggero, ne abbiamo discusso parecchio anche, c’è stato un comizio non indifferente, penso che qualcuno ha anche cercato di colpirmi con una stella cinese” aveva raccontato con una certa ansia, ripensando alla divinità in questione: una figura vestita di bianco lucente e l’incarnato olivastro, gli occhi erano grandi e caldi.
Se avesse avuto un salvacondotto dalla dea Artemide
“Quindi quale dio è stato così sfacciato da mandare un membro dell’esercito di Crono a chiedere qualcosa che Artemide stessa mi ha affidato per proteggerlo … specialmente altri dei” aveva risposto divertito Theos.
“Si è presentata come Orual, si so che probabilmente non è il suo nome” aveva replicato subito Bells, “Era una donna splendida, con un sorriso così rassicurante” aveva aggiunto, “E sarò onesta: penso di poter contare le divinità che mi piacciono sulla dita di una mano monca”.
Non era mai capitato in tutta la sua vita che una qualche divinità potesse sembrarle gradita, forse solo una volta, ma riconosceva che non era la stessa Artemide a piacerle, più il suo codazzo di ancelle immortali, certo senza la signora della foresta forse Bells non sarebbe mai sopravvissuta a Manhattan.
“Cioè so che potrebbe essere una dea ingannevole e che tutta quella armonia sia una menzogna” aveva spiegato.
Theos aveva riso, aveva un sorriso caldo e pieno, non rassicurante come quello di Orul, ma sembrava certamente autentico, “Conosco Orual” aveva risposto lui, “Fidati solo lei può rasserenare un’anima inquieta. È letteralmente il suo campo” aveva soffiato Theos.
“Bene, quindi ho beccato una brava dea, sono contenta” aveva bisbigliato Bells non del tutto sicura, “Comunque non mi sono fidata di lei solo perché sembrava Maria Teresa di Calcutta in versione Gabriella Solis” aveva aggiunto poi con un po’ più di calma, “No, ne ho discusso con le altre” aveva aggiunto.
“Sono riuscita a trovarti grazie ad una cacciatrice di Artemide, Luminosa Dei Chiarieri” aveva raccontato. “Figlia di Apollo” aveva risposto Theos, toccandosi un bicipite nudo, “Durante la caccia di un Popobawa[3] mi ha ferito” aveva raccontato, con un sorriso rilassato, “Lei insiste a dire sia stato un errore” aveva aggiunto.
“Sono sicura che almeno metà delle volte che un dio venga ferito sia accidentale” aveva aggiunto lei, Theos aveva fatto un cenno di diniego, “Immagino che la tua adesione e dei tuoi amici all’esercito di Crono sia stata anche quella accidentale” aveva aggiunto.
“Facciamo pilotata, va” aveva sussurrato, “A dodici anni sono venuti due lestrigoni a prenderci per portarci da Luke Castellan … e non so se hai presente: ma stavamo tipo morendo di paura” aveva riportato con onestà.
“Si me lo ricordo cosa vuol dire essere spaventato” aveva risposto lui, “Sono un dio ora, ma non lo sono sempre stato come ti ho detto” aveva aggiunto. “E non hai neanche compiuto un’impresa eroica degna di Percy Jackson il perfettissimo? Così mi pare di aver compreso” aveva inquisito, “No, ho vissuto una vita normale: ho amato un uomo che mi venerava, ho mangiato del cibo ottimo mentre al mondo milioni morivano di fame, ho cacciato per gusto e sono stato un agnello sacrificale” aveva risposto secco, “Poi gli uomini hanno cominciato a venerarmi e sono risorto come dio, un dio meno potente, meno perfetto e meno … meno tutto” c’era una leggera amarezza nella sua voce.
Bells aveva ricordato ciò che aveva detto Ifigenia, Theos era legato a quell’isola in maniera personale, perché nell’Atollo Johnston si compivano continuamente finti sacrifici.
“Orual invece ha compiuto un’impresa degna degli dei” aveva confessato, “Lei era come me, partorita da una donna umana e senza una goccia di sangue divino nelle sue vene. Una mortale in tutta la sua patetica forma” aveva aggiunto.
Orual le era sembrata tutto tranne che patetica, con il viso a cuore e gli occhi caldi, “Ma con una dolcezza tale nei modi da ammansire ogni belva, incantare ogni uomo, perfino un dio” aveva replicato.
Questo lo trovava semplicemente coerente.
“Orual chiede per se stessa, non ordina, ne obbliga, lei chiede, ma tu anche desiderando non potresti dirle mai di no” aveva ripreso Theos, “A meno che tu non sia un dio, anche se meno perfetto” aveva detto poi.
“Per questo ha mandato me come carne da macello, quindi” aveva mormorato leggermente offesa lei, ma  aveva ricevuto un cenno di diniego, “Gli dei lo fanno sempre, anche i più teneri di cuore, non possono in alcuna maniera intervenire negli affari umani, così sono costretti a strumentalizzare gli umani” aveva spiegato lui, “E fidati se un dio ne è dispiaciuto quello è sicuramente Orual” aveva replicato, “Io d’altronde me ne vivo qui isolato appunto per evitare di dover interagire più del dovuto” aveva confessato.
Bells aveva riso, passandosi le dita sugli occhi, “Lo sai? Luminosa mi ha detto che tu avresti capito” aveva aggiunto, “Non le ho creduto, perché ‘Noze[4] ha un sacco di belle opinioni su un sacco di dei, tipo so padre” aveva confessato.
Cosa che in realtà Bells non condivideva per nulla.
“E perché riesco a ricordare ancora cosa vuol dire svegliarsi una mattina con la palpabile sensazione che quel giorno possa essere l’ultimo” aveva raccontato, “A volte mi manca, lo confesso, la mortalità” aveva aggiunto, melancolico.
“Mi manca l’odore umido della rugiada sulle foglie, il rumore fragoroso del Nilo, il modo che aveva di ridere Adriano. A volte mi manca anche l’espressione accigliata di Sabina” aveva raccontato, nostalgico.
Theos stava parlando di una lunga vita, che doveva essere rimasta sepolta sotto vento e terra di molti anni, secoli, forse anche millenni, lei non lo sapeva, ma si sentiva orribilmente simile, pensava a quanto un anno prima la sua vita fosse così diversa, da sembrarne un'altra.
L’oscillare periodico e materno della principessa Andromeda, il rumore fastidioso del pennarello nero di Ethan sulle mappe, il cozzare delle lame tra loro.
Bernie che la cercava per farsi coraggio e lei che si lamentava un giorno si e l’altro pure di qualsiasi cosa.
Aveva mentito a Theos, perché riconosceva, con il tempo, di aver creduto in quella guerra, in quella causa, in quel nuovo e meraviglioso mondo che le era stato promesso.
E Bells amava ogni secondo di quei pensieri, ogni istante speso titubando verso una vita che era finita sotto la polvere e le macerie, di un giorno d’estate che avrebbe segnato per l’eternità la sua esistenza.
Bells pensava cosa sarebbe accaduto se non si fosse fermata a soccorrere la ragazza sulle scale, ma avesse continuato a salire, sarebbe giunta fino in cima?
Sarebbe caduta giù con Ethan?
Lui le aveva assicurato che avrebbe avuto un posto nel loro mondo e Bells a volte odiava il fatto che avesse avuto ragione.
Le aveva anche promesso che avrebbero riparlato dei suoi sentimenti, una cotta, infantile, forse destinata ad estinguersi con il tempo o ardere poi di quell’amore un po’ folle degli adulti.
Ma Ethan era morto.


“Quindi mi darai una mano?” aveva domandato speranzosa Bells, alla fine Theos sembrava incredibilmente accomodante, “Non lo so, prima dimmi cosa ci devi fare” aveva stabilito il dio, sembrava legittimo.
“In realtà l’ho devo portare in una determinata coordinata ed Orual garantirà una tregua con un dio che ci è avverso” aveva riportato lei semplice, “Non ho idea a chi debba essere consegnata, lo confesso” aveva ammesso poi lei, “Ma tu stesso hai detto che Orual è buona” aveva aggiunto, “E fidati questa tregua ci è necessaria” aveva aggiunto perentoria.
Theos aveva riso, “Lo so, lo so. So anche come lei possa garantire tale pace” aveva detto, “Orual può muovere a compassione anche un dio impietoso” aveva riso.
Il dio si era poi alzato da terra ed aveva raggiunto la parte della laguna, lì aveva raccolto con una coppa scolpita nella roccia dell’acqua e l’aveva allungata verso Bells poi.
“Ne ho già bevuta abbastanza” aveva sussurrato, ma aveva notato che nella bacinella, l’acqua non era più pia cristallina ma di un intenso colore nero.
Il suo primo pensiero era che ricordava molto Harry Potter, per un secondò penso anche di farci una battuta ma si trattenne, ritrovandosi poi solo a dire: “Ora è più raccapricciante”.
 “Non ho una dominazione, non sono dio di niente, così mi prendo le mie libertà” aveva spiegato Theos, “Ora sono il dio dei desideri segreti” aveva  ammesso placido, “Quello che gli amanti sussurrano nella notte, delle genti odiate e dei bisbigli” aveva riportato, “Bevilo e sapremo ciò che non hai il coraggio di chiedere” aveva stabilito.
“Questa è la mia prova per te. Come un dio mi è concesso chiedertene una” aveva detto secco, “Orual ha occhi che vedono animi puri e tocca gli spiriti, io no, non credo nella stessa bontà d’animo degli uomini di lei” aveva stabilito.

Bells aveva raccolto la coppa di pietra, “Ti hanno ferito, mio signore, profondamente” aveva ammesso lei, “Ho ballato vicino al sole e mi sono bruciato, ho pensato che il mio sesso mi rendesse più valido di Poppea, Portia e Valeria” aveva detto.
“Non ho idea di ciò che intendi, senza offesa” aveva ammesso calmo, prima di farsi forze e portare la ciotola alle labbra.
Non aveva avuto idea di che sapore avesse dovuto avere la sostanza, ma sicuramente non era così, era viscoso e appiccicoso, come il miele, ma sapeva di qualcosa di acre, come mille limoni ricoperti di sale, da arderle la gola e lasciarle la lingua secca e bisognosa.
Aveva allontanato la ciotola e nel torbido liquido aveva veduto ombre oscure, il viso ombreggiato di Bernie, bambina, con le trecce a scivolarle sulla schiena, tendeva le mani verso di lei, alle sue spalle era comparso suo padre, giovane, con la barba rada ed un sorriso rilassante ed una donna piccola con gli occhi luminosi era con lui, sua madre, umana.
La ragazza aveva allungato una mano ed aveva immerso le dita nella poltiglia, sporcandosi le dita, “Cosa hai visto?” aveva domandato Theos.
“L’infanzia che non ho mai avuto” aveva ammesso, “Bernie, mio padre e mia madre, non come la grande Nyx, ma come una donna” aveva detto.
“Bevine ancora” aveva ordinato il dio e lei aveva inseguito.
Ancora una volta la lingua era stata arsita dal limone e dal sale, ma aveva sentito anche il sapore dell’amarezza e della nostalgia, o quello che avrebbero potuto avere se fossero stati cibo e non emozioni.
Poi aveva sentito le palpebre farsi pesanti ed il cuore lento, come se il suo mondo non fosse che melassa.
Ciò che non aveva il coraggio di chiedere era quel padre a cui si era costretta a stare lontana, quella madre che non aveva mai pregato e quella sorella che l’aveva ritrovata nonostante il tempo, lo spazio e la volontà?
Si…
Nel fondo della ciotola, nell’ultimo strato di liquido, Bernie era adolescente, aveva i capelli mossi ed era forte, il viso luminoso ed una spada lucente alla mano, pronta a rovesciare il mondo, s’era toccata l’orecchino dove era appesa la sua lama gemella.
“Mi dispiace sorella, di essere fuggita” aveva sussurrato “E di non esser mai tornata” aveva biascicato.
Poi il suo corpo non l’aveva più sostenuta.
 

Bells aveva notato che nel mostro c’era una certa grazia, almeno quando si trattava di sua sorella, non aveva capito perché. Quando le aveva spezzato un braccio Arvey l’aveva fatto con un sorriso soddisfatto ed anche una certa fame nello sguardo, cosa che anche il suo compagno di merende non si era risparmiato, “Dai hanno un odore così buono, possiamo prendercene una, almeno” aveva scherzato, “No” aveva risposto Arvey ed il suo tono si era addolcito, ammiccando con lo sguardo a Bernie.
Per Bells era stato stra ovvio in quel momento che qualsiasi cosa avessero fatto non si sarebbero mai promessi di ucciderle, era evidente che volevano portarle da qualcuno, vive ed entrambe. Quindi la domanda più raccapricciante era: chi le voleva? E perché?
Aveva immaginato un numero non indifferente di scenari, mentre cercava di tranquillizzare sua sorella. Bernie era sempre stata abbastanza fragile rispetto lei, Bells aveva capito subito che se non avesse progettato lei un piano, sua sorella non si sarebbe applicata molto. Riguardo lei, ci aveva rimesso solo una rottura di un osso che faceva un male così bruciante che Bells avrebbe voluto solo piangere. Arvey, il mostro – che risate, le aveva malamente steccato un braccio e poi le aveva qualcosa che somigliava tristemente a del miele, almeno d’aspetto, era di un brillante più lucente, ma il sapore era completamente diverso: una dolcezza ed una bontà indescrivibile. “Solo una goccia o potresti morire” l’aveva presa in giro il mostro con quel suo sorriso seghettato e crudele. Ed il braccio aveva smesso di fare male.

 

“Cosa ci vogliono fare?” aveva domandato Bells, con un tono di voce basso, spaventata che sua sorella potesse sentirla, anche solo per un sussurro. Bernie era distante raggomitolata sotto un albero che sussurrava parole sconnesse, forse pregava. “Chi?” aveva chiesto Arvey, mentre passava un panno sugli spuntoni della sua mazza, ancora insozzata di rosso bruno. Aveva ucciso i ragazzini del quartiere. Li aveva mangiati.
Eppure dei due era sicuramente il più chiacchierone.
“Quelli che vi hanno assoldato per rapirci” aveva strepitato secca. Il mostro l’aveva guardata con divertimento, aveva gli occhi di un azzurro quasi glaciale. “Non lo so, forse un sacrificio rituale” aveva borbottato, Bells aveva deglutito, “Reclutarvi” aveva rivelato. “E se ci rifiutassimo?” aveva berciato Bells, “Forse sarete libere o forse sarete buttate a mare” aveva detto placido il mostro, alzandosi dalla panchina in cui era accomodato, prima di lanciare uno sguardo sogghignante verso Bernie, “Io certamente mi gusterò tua sorella, fino all’ultimo ossicino” aveva dichiarato.
“Non finché io sarò viva” gli aveva impartito con ruggente Bells, “Ed anche se sarò morta, contaci, bestiaccia che ti porterò con me” aveva detto fiera.
Avrebbe protetto sua sorella da qualsiasi mostro si fosse parato davanti a voi.

 
Bells aveva ripreso conoscenza, poteva riconoscere che ultimamente stava cominciando un po’ troppo spesso, nelle ultime ventiquattro ore, era morta, riportata in vita, buttata in male ed avvelata da un dio.
A svegliarla era stato qualcosa che le era stato premuto contro la guancia, non con forza, anzi forse con una certa delicatezza.
Aveva fatto tremolare le palpebre e poi aveva aperto gli occhi, riconoscendo quello che a tutti gli effetti sembrava un becco, come quello d’un quali, una testa piumata di castano sfumato, come i raggi del sole al tramonto e le fogli d’autunno.
Il collo era lungo poi, si estendeva nella forma d’un cavallo, coperto di piume, le zampe anteriori artigliate come quelle di un uccello rapace e le posteriori con zoccoli d’equino ed una lunga coda cavallina, stretta in una treccia.
Un ippogrifo.
“Ti ho trovato” aveva sussurrato Bells con soddisfazione, si era tirata su, accarezzando il muso della bestia, mentre voltata il capo e destra e manca cercando di comprendere esattamente dove fosse, sembrava un ranch stereotipato del sud, era in un recinto, c’erano altri, in alcuni vi erano cavalli, in altri pegasi, giurava anche un cervo alato.
Non lontano poteva vedere una scritta, sembrava greco, forse per questo era riuscito a leggerlo bene: ‘Riserva Naturale di Arminio[5]’.
Le altre avevano detto che a causa di uno strano soggetto, non erano state molto chiare, che si faceva chiamare il Nuovo Ercole, molti animali stavano sparendo, rapiti da quest’ultimo, alcune erano state sistemate dalla cacciatrici di Artemide in un luogo sicuro di loro conoscenza, altre erano state affidate a Theos, tra cui quella che Orual[6] cercava.
“Se puoi sentirmi, grazie Theos” aveva strillato al vento, poi non del tutto certa di come fare aveva posato le mani sulla schiena della creatura e si era issata su di esso, differentemente da Harry Potter, il suo nuovo amico non era stato particolarmente turbato.
“Bene, cerchiamo la città più vicino da cui poterci spostare” aveva stabilito, dandoli una pacca sul lungo collo piumato, appena pronunciate quelle parole, l’ippogrifo aveva spiccato il volo con veemenza e Bells aveva realizzato di non possedere una cavalcatura.
 

 


[1] È una divinità dell’amore, dell’allegria ed un sacco di altre cose belle che probabilmente coinvolgono gattini e zuccherini, però in effetti ho trovato due versioni contrastanti, una la vede come divinità del Folklore slavo, l’altra come divinità del Fakelore (ovvero il Folklore inventato). Ai posteri l’ardua sentenza.

[2] Una divinità delle acque, compare nel Marchio di Atena, come responsabile del Camp Fish-Blood

[3] Spirito del folklore (moderno) di Pemba, Zanzibar e Tanzania. Una specie di pipistrello gigante stupratore.

[4] Ho pensato che Noze (Nos) come soprannome potesse funzionare con un nome come Luminosa.

[5] Allora: Theos è Antinoo; non lo volevo esplicitare, però mi sembrava corretto dirlo. Ho volutamente deciso di lasciare ‘ambiguo’ tutto, perché infondo il destino stesso di Antinoo è ambiguo. Comunque è divenuto un dio con lo stesso principio di Commodo, Nerone e Caligola in TOA

[6] Per quale dea sia Orual taccio, certo se lo googlate, risolvete subito il mistero :^

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Capitolo 24
*** Il sole, la stella e la Dea che gestisce un circolo incontri(Heather IV) ***


Eccomi tornata! Spero che sia rimasto ancora qualcuno a seguire questa storia:
Prima della lettura una serie di informazioni necessarie:
- Con la questione Sciro/Sciri mi ero presa delle belle libertà, diciamo che anche con il Sole Invitto lo ho fatto (parleremo meglio di questa figura più avanti, ma sappiate che ho un po’ calcato la mano, accorpando due dei assolutamente uguali di due mitologie che da spartire avevano poco).
- Tecnicamente ho trovato solo in un caso la denominazione Grande Madre Idea rispetto la semplice Grande Madre, però mi piaceva di più, sappiate che è una dea primordiale che trova la sua origine fin dall’età della pietra e che poi è stata reinterpretata anche in mitologie più moderne (per i romani è Cibile, per esempio).
-Atalanta e Ippomene sono due personaggi della mitologia di cui non ho spiegato il mito, in quanto non mi serviva, forse più avanti lo farò, per ora il necessario lo ho detto.
-Questo capitolo ed i prossimi saranno focalizzati sullo stesso punto, cambieranno i narratori, ma per la prima volta abbiamo una storia consequenziale senza salti a destra e a manca, mi spiace doverlo fare, ma era necessario fare un punto in questa questione.
- Questo capitolo riprende eventi già narrati nel capitolo 19 e 21.
Buona Lettura!

 
Il crepuscolo degli Idoli
 


Il sole, la stella e la Dea che gestisce un circolo incontri



Heather  IV

 
Tolse delicatamente con un coltello il bordo più duro del pancarré, come faceva sempre sua madre, occupandosi poi di spalmare il burro da un lato della fetta, poi aveva tolto la crosta anche dall’altro ma invece di cospargerla di burro, aveva preferito rovesciarci dalla marmellata di fragole, con tranquillità, aveva unito le due fette e poi con un taglio netto aveva segato in obliquo il panino.
Esattamente come quelli che faceva sua madre, non era mai stata una gran cuoca  Adele Shine, neanche una persona molto materna, preferiva di gran lunga starsene in ufficio a scrivere i suoi articoli, era partita da una rivista di moda che somigliava alla brutta copia di Vouge ed era finita in un’importante giornale sulla finanza, dove poteva essere contenta.
Non era stata una cattiva madre, questo Heather non lo avrebbe mai pensato.
Solo che riusciva a malapena a figurarsi sua madre con il tacco dodici della decolté ed il tailleur rosa antico, lasciarsi travolgere dalla passione con un dio greco vicino una pianta di erica.
Aveva preso la klyx che era sul tavolo, era da vino ma per Heather sarebbe andata bene lo stesso e ci aveva rovesciato dentro la diavolina a cui aveva dato fuoco con un fiammifero.
“Padre, ti prego accetta questa mia offerta” aveva sussurrato prima di lanciare uno dei due triangoli di panino tra le fiamme, per un secondo il fuoco si era fatto blu e il cibo era stato interamente consumato, “Ho davvero bisogno di te” aveva aggiunto, lanciando l’altra fetta, era avvenuto come prima, solo che il fuoco si era spento.
“Grazie, padre, sempre sul pezzo” aveva concordato con un leggero fastidio.
“Non è colpa sua” aveva sentito una voce alle sue spalle, “Anzi forse lo è questo è il punto” aveva aggiunto il ragazzo con tranquillità, abbandonando l’uscio per girarle attorno predatore, “Ma sono sicuro che se potesse risponderti lo farebbe” aveva cercato di venirle incontro, gentile.
“Apollo? Mio padre?” aveva domandato retorica lei, guardando la cenere nella kylyx con biasimo.
Lui le aveva sorriso ferino, era un bel ragazzo dal naso appuntito, l’incarnato olivastro ed una chioma leonina di un profondo colore scuro, come carbone.
“Tranquilla tutti gli dei sono uguali da questo punto di vista” aveva detto sedendosi alla sedia accanto alla sua, “Tranne la Grande Madre Idea. Lei è diversa” aveva raccontato con un sorriso dolce.
In quel momento erano da lei, nella casa della Grande Madre, che gli aveva offerto asilo e riparo, non esattamente, in vero Heather si era risvegliata lì, un attimo prima era lungo uno brutta strada di campagna ad affrontarsi contro una dea minore di nome Matelda, l’attimo dopo rinveniva in un morbido letto a due piazze con le lenzuola di lino ed il baldacchino.
A quanto pareva dopo aver scoccato una delle frecce della pestilenza di suo padre  aveva perso conoscenza, il ruggito che aveva sentito mentre sveniva era stato proprio quello del giovane vicino a lei, Ippomene e della sua compagna Atalanta, due guerrieri in grado di divenire leoni che trascinavano il carro della Dea Cibele.
Assurdo.
“Hai mangiato qualcosa?” aveva chiesto Ippomene, “Panini burro e marmellata” aveva chiarito lei, “Americani” era stato l’unico commento dell’antichissimo guerriero greco, “Mangia meglio, ci aspetta una battaglia” aveva commentato tutto contento.




“Ti ho portato una lattina di Doctor Pepper” aveva detto Heather allungandola verso Qbert, il suo amico caprino aveva annuito, raccogliendola con le dita, mentre con gli occhi gialli non schiodava minimamente gli occhi da Jude Mortimar, ancora steso sul letto dove la guerriera Atalanata lo aveva fatto accomodare.
“Ancora nessun cenno?” aveva domandato lei con leggera apprensione.
Jude era figlio di una qualche divinità legata alla natura, alla terra, come Matelda, e per questo motivo stava risentendo molto più di lei della freccia della pestilenza, erano ormai giorni che dormiva.
Non aveva ferite fuori, ma secondo la Grande Madre Idea era il suo inconscio ad essere stato scombussolato.
Heather si sentiva mortalmente in colpa, aveva scoccato la freccia perché non aveva trovato alcun altro modo per uscire da quella situazione, ma se avesse saputo del danno che avrebbe arrecato a Jude ne avrebbe trovato un altro.
Una ninfa dal sorriso caramelloso si era affacciata nella loro stanza ed aveva chiamato cortesemente Qbert, il satiro aveva annuito defilandosi.
La Casa della Grande Madre Idea era come un ospedale, anzi no, più come un centro di recupero, ma non come quello degli alcolisti anonimi, un po’ come un ritrovo per senza-tetto, per gente che non aveva più un luogo, che era turbata da tantissime cose, con spa e corsi di yoga inclusi.
“Giuro Jude mi dispiace tantissimo” aveva sussurrato allungando una mano verso di lui e toccandola la sua pelle, fredda come quella di un morto, immobile.
Non sembrava neanche che i suoi sogni fossero beati, il suo viso era contratto, come in una profonda agonia.

“Non è colpa tua bambina” aveva sussurrato la Grande Madre Idea, mentre si affacciava da dietro il baldacchino, “Non l’avevo vista” aveva cinguettato Heather, “Non ero qui” era stata la risposta pratica della donna, era così strana da guardare, perché non pareva mai uguale, un secondo, la prima volta che l’aveva veduta aveva pensato fosse sua madre, con lo stesso vestito rosa antico ed i capelli ruggine raccolti in una treccia all’olandese, severa, poi era stata un po’ come la logopedista che aveva frequentato durante le elementari per la dislessia.
Una miriade di donne che erano state figure dolci e gentili, nella sua vita, che si sovrapponevano in un continuo puzzle in movimento, da dare quasi fastidio alla testa.
La Grande Madre Idea una delle più antiche divinità esistenti ed allo stesso modo pareva così intangibile.
“Come volevo dirti non è colpa tua, hai solo aperto una ferita che era lì a sanguinare da un po’, devi lasciare che lui guarisca da solo” aveva cercato di dire, con un tono di voce materno.
Heather era rimasto seduta accanto a quel letto, sentendo nella tasca dei suoi pantaloncini l’immortale pianta d’erica, era stato solo grazie all’aiuto di Jude se era riuscito a mutarla fino ad assumere la forma di un arco, neanche Darren figlio di Demetra che aveva tenuto quel ramo tra le sue mani per tempo era mai riuscito a scrutarne il segreto.
Forse era destino che lei e Jude si incontrassero, di nuovo.
“Le tre grigie lo hanno chiamato ragazzo maledetto” aveva sussurrato solamente lei cupa, “Lo è, purtroppo” aveva commentato la dea, “Povero tesoro, una maledizione crudele che solo un dio molto spietato poteva scegliere di lanciare contro un’anima così innocente” aveva aggiunto, toccata.
Heather si era ritrovata a concordare, aveva passato relativamente poco tempo con Jude, però si lo aveva capito che era buono dentro, dal modo che aveva di relazionarsi con Ennoia e con Qbert, l’empatia e la dolcezza delle sue azioni, anche dannatamente riservato.
“Questo spiega perché uno come lui era filo-crono, almeno” aveva constato, guardando il viso sofferente del suo amico, lì sul sopracciglio un piccolo taglio lo segava storto, era stata opera sua, durante la battaglia di Manhattan.
Conscia di quel pensiero si era voltata spaventata verso la dea, Jude era un ramingo!
“Tranquilla bambina, il C.I.B.E.L.E. è un luogo dove rifugiarsi per tutte le anime perse che ne hanno bisogno, mortali, immortali che siano” aveva detto cheta la dea, “Noi non giudichiamo nessuno, in particolar modo un giovane ragazzino di quindici anni così sfortunato” aveva commentato.
“Dovrebbero esserci più dee come lei, grande madre idea” aveva sussurrato Heather, tra se e se, pensando all’offerta che quella mattina aveva fatto a suo padre.
“Ricordatevi che qui potete rimanere tutto il tempo che desiderate, ti ho già parlato di Michael lo chef? Davvero bravo! Ci sono corsi di yoga, cross-fit ed anche capoeira” aveva ripreso a parlare la donna, “Si, mi pare siano dopo le orge del venerdì” aveva scherzato Heather, arrossendo sulle gote, “Ecco, il problema di voi giovincelli e che negli ultimi secoli siete diventati così pudichi, il nudo è espressione e l’amore è completamento – è pace!” aveva stabilito, “Ma da mille anni a questa parte è tutto un no, scandalo, sporco, no, no” aveva commentato la dea.
Heather aveva pensato che non avesse tutti i torti, poi aveva pensato alle malattie veneree e quant’altro ed aveva deciso che forse il giusto poteva trovarsi nel mezzo.
Era comunque arrossita ferocemente, pensando a Darren ed i baci furenti che si erano scambiati e … poco altro.

“Lei è una dea così buona, ma sta preparando una battaglia” aveva riportato poi Heather, “In vero è desiderio di Atalanta, inoltre …” aveva risposto la dea, prendendo un momento di silenzio, aveva il viso abbattuto di Adele Shine in quel momento, “È così recriminante combattere per proteggere ciò che si ama?” aveva domandato.
Gea stava arrivando per il C.I.B.E.L.E.; questo Heather lo aveva capito, ma tra loro ed un ingente massa dell’esercito della Madre Terra c’era qualcosa in mezzo ed era probabile che la battaglia si sarebbe svolta lì.
Heather non era stata costretta a partecipare ma aveva comunque accettato per ripagare dell’ospitalità che era stata lei fornita.
“I romani lo dicevano sempre: se vuoi la pace, preparare la guerra[1]” aveva commentato la dea alla fine.

 

 

Si era svegliata nel cuore della notte, non perché sogni avessero inquietato i suoi pensieri, anzi no, era stata una notte fosca e buia come poche, ma perché aveva sentito una mano sulla sua spalla.
“Ennoia” era stato il primo pensiero, ma aveva potuto sentire il respiro ferace dell’amazzone appollaiata nel suo nido di lenzuola e gambe di sedie che si era costruita.
“No, non ti agitare Heather” la voce che l’aveva chiamata era maschile e suadente, ci aveva messo un secondo per metterlo a fuoco, un ragazzo di circa la sua età con il viso da putto ed i riccioli biondi che scivolavano sulle guance e le labbra tinte d’oro.
“Tu chi sei?” aveva domandato spaventata, allungando la mano, non aveva vicino a se niente se non le frecce, “Io sono il Sole Invitto” aveva chiarito quello, “Tuo padre non ha potuto risponderti ma io si” aveva mormorato, gentile, paterno.
“Come?” aveva domandato Heather spaventata, mentre si tirava indietro, “Be, in una parte di c’è una scintilla di sole quindi in un certo senso, sei anche un po’ figlia mia” aveva detto calmo il Sole Invitto, toccandosi lo sterno, Heather aveva realizzato indossasse una camicia con i volant di seta rossa semitrasparente, strano.
“Grazie, signor Sole Invitto, ma ho già un padre divino piuttosto sui generis non credo potrei resistere a due” aveva detto secca lei.
Ma il dio non era parso molto turbato, passandosi una mano sui riccioli da putto, “Ma io ci sarei, Heather Shine” aveva detto calmo, “Io sono il Sole, io sono eterno, ed ho sempre favorito chi mi ha seguito” aveva aggiunto poi, prendendole una mano, la sua pelle era calda, incandescente come un fuoco, ma non bruciava.
Era quasi ipnotico.
“Quando andrai al palazzo di Sciro” aveva ripreso suadente la voce, “Lì, nell’unico posto dove la magia può ancora funzionare” aveva comunicato il dio, ma Heather era distratta da quelle informazioni, non del tutto chiara di cosa l’uomo stesse farneticando, “Lì ecco: c’è un cartiglio, con il nome di Aton” aveva detto calmo, “Un discendente di Amon-Ra ci ha confinato il mio potere, ma tu, splendida figlia del sole, puoi liberarlo” aveva sussurrato, con un occhio di un colore caldo come l’oro liquido, aveva occhieggiato le due frecce rimaste.
“Libera il mio potere e non avrai eguali” aveva sussurrato, “Ti proteggerò in battaglia da ogni male,  anche dal tuo tristo fato” aveva detto, baciandola con le labbra tinte d’oro brillante il dorso della mano e lì come un marchio infuocato era rimasto l’impronta di quel bacio.
Ma quando Heather aveva sbattuto gli occhi il Sole Invitto non era più lì.

“Ma cos-” era riuscita solamente a sussurrare, “Ennoia! Ennoia!” aveva strillato con vigore svegliando l’arpia, che era saltata in piedi spiegando le ali corvine, “Un dio! Lei ne sente l’odore” aveva gracchiato con bruciante vigore la creatura.
Aveva svegliato interamente tutto il suo piano, che presto si era riversato all’interno della propria stanza, tutti pallidi visi nella notte.
“Cos’è questo baccano?” aveva ringhiato la prode Atalanta, alta e flessuosa, “Qui al C.I.B.E.L.E. abbiamo una politica molto restrittiva per i baccani notturni” aveva detto rigida.
“Sono accettati solo baccanali di Dionisio e castrazioni notturne” aveva ridacchiato un ragazzino alle sue spalle.
“C’era un dio qui, lei può sentirlo” aveva detto Ennoia, mentre Heather faceva staccare la luce della stanza per illuminare l’ambiente, alla luce delle lampade la pelle sul suo dorso era di un bianco spettrale, nessun rossetto dorato.
Atalanta con i suoi vaporosi capelli biondi aveva sniffato l’aria interessata, “Lo sento anche io, uno molto antico” aveva stabilito secca, “Antichissimo! Dove chiamare la Grande Madre Idea ” lo aveva detto subito, bruciante e forse anche timorosa.




“Sono perplessa, credevo il C.I.B.E.L.E. accogliesse tutti” aveva stabilito Heather, mentre osservava la tazza di te che gli era stata offerta da uno  ragazzo tutto sorridente che si era seduto al suo fianco.
“Sai per cosa sta la sigla?” aveva domandato lui, era giovane, con un viso affilato, come se uno scultore avesse dimenticato di sbozzare gli angoli e dunque di dare armonia alla sua creazione; il suo nome era Jordan o Josh, non riusciva a ricordarlo con precisione.
“Pensavo fosse il nome di una dea” aveva commentato lei, ma non ne era troppo sicura. “Si, Cibele è una dea romana, è una delle molteplici forme che la Grande Madre Idea ha preso nel corso dei secoli” aveva ridacchiato, “Però ci abbiamo costruito sopra un acronimo: Centro Incontri per Bistrattati Esseri Leniti Eternamente” aveva spiegato.
“Sembra uno di quelli di Harry Potter, tipo il C.R.E.P.A.” aveva ipotizzato lei con una mezza risata, “Esatto, si, modestamente è opera mia” aveva risposto, “Qualche genio lo ha tradotto in greco antico come esercizio ed io lo ho letto, fantastico” aveva dichiarato il ragazzo.
“Comunque la morale è che noi siamo disposti ad aiutare chiunque senza eccezioni che venga qui a chiedere aiuto” aveva chiarito immediatamente, “Ma non chi passa dalla porta di servizio per insidiare i nostri bisognosi ospiti” aveva detto secco.
“Si, lui mi era sembrato molto insidioso” aveva riconosciuto Heather.
La Grande Madre Idea aveva fatto la sua comparsa, in un pesante pigiama di flanella acquamarina con ed il cipiglio un po’ offeso di Danielle Brown, la capo cabina della casa di Apollo quando Heather era arrivata al campo la prima volta, una sorella maggiore esemplare, amorevole, gentile, ma anche rigida e severa.
L’anno che era andata al college non era tornata per l’estate perchè era indietro per gli esami e poi non era mai più tornata ed Heather non ne aveva saputo molto altro.
“Sono stata brava” aveva detto la Grande Madre Idea, “Poche regole: chiunque può venire, invitato o meno, ma nessuno può introdursi” aveva detto infastidita, “E doveva essere uno davvero potente, un protogeno per avermela fatta sotto i baffi” si era lamentata poi, offesa mortalmente.
Josh-Jordan l’aveva guardata muovendo una mano, esortandola a parlare, “Si è presentato come il Sole Invitto” aveva detto.
Atalanta aveva afferrato lo stipite con la porta con così forza che il legno si era crepato, la sua mano si era tramutata in una dorata zampaccia felina.
“Impossibile” aveva stabilito la dea, oltraggiata, “Sono certa che il Sole Invitto sia stato messo sotto vuoto anni orsono da uno stregone egiziano, se fosse stato libero per il mondo lo avremmo sentito” aveva risposto lei cercando di mantenere la calma.
“Mi ha detto che è stato fatto prigioniero il suo potere in un cartiglio che ora si trova a Sciro” aveva risposto Heather onesta.
Atalanta si era avventata su di lei, “Cosa? Giura laida di non mentire?” l’aveva imbeccata, “Dico la verità, mi ha detto di spezzare il cartiglio” aveva risposto Heather togliendosela via di dosso, con le unghia feline le aveva segnato la pelle.
Jordan-Josh era balzato su dalla sedia rovesciando il tè sul tavolo, “Questo vuol dire che nella barriera c’è uno spiraglio o la maledizione sul cartiglio sarebbe già caduta” aveva sentenziato allegro.
“Si” aveva stabilito sicura di se la Grande Madre Idea, agli occhi di Heather il suo volto era mutato ancora,  sembrava una versione a metà tra la Tomb Rider di Angelina Jolie e … sua madre quando guardava fiera il suo nome pubblicato.
“Non ho capito” aveva esclamato secca Heather.
“Ecco, devi sapere che un grosso dell’esercito di Gea, non sta marciando verso di noi, ma verso il Palazzo di Sciro, nell’Antelope Valley” aveva spiegato didascalica Atalanta, “Al suo interno c’è una pietra molto, molto, particolare: roccia viva, una stella del cielo infernale, presa dritta dal manto di Erebo” aveva riportato, “Capace di sollevare un velo che cadente sul mondo ne cancella ogni incanto, la realtà nuda e cruda” aveva detto.
“Gaia la vuole” era stato il sottile commento di Heather.
Che finalmente avesse trovato la pericolosa arma di cui l’oracolo al campo gli aveva parlato, il motivo della sua missione?
“Si” aveva detto Grande Madre Idea, “E noi non lo vogliamo e non vogliamo neanche rimanga nelle mani degli sciri, gente infida” aveva stabilito secca.
“Neanche l’esercito di Gea per quel che ne sappiamo può varcare la barriera quando essa è su, ma per qualche ora, anche solo secondo, essa viene abbassata ciclicamente” aveva raccontato Jordan-Josh.
“Inoltre Gea è una dea primordiale, ben più di me, pari ad Erebo e ne conosce i segreti” aveva riportato la Grande Madre Idea.
“Ma se il Cartiglio è lì, integro, allora nel palazzo vi deve essere un luogo dove la barriera non esiste perennemente” aveva stabilito Atalanta affamata di gloria, “Troviamo il cartiglio troviamo l’ingresso” aveva sussurrato Heather con vigore, “Ma come?” aveva aggiunto poi, più preoccupata.
E poi aveva chinato il suo sguardo sul suo dorso, dove neanche un’ora prima il dio l’aveva baciata, non era rimasta alcuna prova del suo rossetto d’oro, ma … “Spegnete le luci” aveva ordinato, Atalanta stava per dirle su qualcosa, ma il suo compagno aveva fatto scattare la luce, scintillante in oro era comparso il segno del rossetto.
“Meglio delle tinture fluorescenti che vanno di moda” aveva provato a scherzare Jordan-Josh, ma la sua battuta era caduta nel vuoto cosmico, “Credo mi abbia marchiato” aveva mormorato Heather, la Grande Madre Idea aveva allungato una mano e l’aveva presa per studiare quelle singolari labbra, “Si, mia cara bambina, pare anche a me un marchio” aveva soppesato poi.
“Fantastico” aveva commentato a mezza-bocca Heather non trovando nulla di quella situazione tranquilla, la dea aveva lasciato la sua mano quasi scottata, prima di voltarsi verso tutti, “Fuori tutti” aveva stabilito poi, ma dallo sguardo che le aveva rivolto, Heather aveva sospettato l’ordine non fosse stato esteso anche a lei.

“Ascoltami bene, con questo marchio sei l’unica che può trovare il cartiglio, bambina” aveva detto cheta la Grande Madre Idea, sedendosi di fianco lei, con espressione materna e gentile, “Ma il cartiglio serve per trovare un modo per infiltrarsi non per essere spezzato” aveva mantenuto un tono calmo, ma c’era urgenza nella sua voce.
“Qualsiasi cosa il Sole Invitto ti abbia promesso: mente” aveva riportato, “Egli è un dio antico, uno dei più antichi, ricorrente in quasi ogni credo, insidioso in quasi ogni culto ed è una creatura estremamente egoista, famosa per consumare i suoi devoti e passare ai successivi” la sua voce era greve e pericolosa.
“Non toccherò il cartiglio, qualunque cosa sia” aveva bisbigliato Heather, “Sarai tentata” aveva detto la Grande Madre Idea, “Quello che porti sulla tua mano è una dolce tentazione, che dalla pelle, arriverà al tuo sangue, alla tua mente e al tuo cuore” aveva sussurrato la signora.
“Ma tu dovrai resistere” l’aveva avvertito ed Heather aveva annuito, non del tutto convinta, in quel momento non sentiva minimamente il bisogno di liberare nessun dio pericoloso, ma non aveva la stessa certezza che il marchio lasciato dal Sole Invitto avrebbe funzionato ancora.

“Adesso dobbiamo parlare di come penetrare la barriera” aveva precisato la dea, “Pensavo non ci fosse una barriera” aveva stabilito, “Si, infatti, non c’è una barriera dove c’è il cartillio, ma tutto in torno ci sarà” aveva  precisato, “Non conosco un modo per penetrarla, ti confesso, però tu porti con te due armi che potrebbero farlo” aveva aggiunto.
“Le frecce della pestilenza” aveva mormorato Heather, sentendo salire nuovamente su di lei, l’angoscia di quel potere che aveva sperimentato appena pochi giorni prima, “E la spada di ferro di stige del tuo amico, un’arma che non appartiene a questo mondo e che non rispetta le regole di questo mondo” aveva detto onesta.
“Se non fosse che gli Sciri pattugliano ogni loco nella barriera, ti avrei chiesto di provare a fenderla con la spada dall’esterno, al sicuro” aveva aggiunto.
“Ma dovrò farlo dall’interno” aveva percepito Heather, “Si, una fenditura piccola, abbastanza perché tu possa scivolare dentro e rimuovere la stella dal luogo in cui è stata sottoposta” aveva detto onesta, “Però dobbiamo essere veloci” aveva aggiunto, “Perché l’esercito di Gea sta arrivando” aveva terminato la frase Heather.
 
Jude dormiva divorato dai suoi incubi, il ragazzo maledetto, così lo avevano chiamato ed anche la dea lo aveva confermato.
Pallido come un cencio, lo spettro di se stesso, divorato da un male che non gli permetteva di guarire, chi sa cosa nel suo inconscio lo torturava così duramente, chi sa cosa era la maledizione che lo affligeva, aveva recuperato il portafoglio del ragazzo dal comodino ed aveva guardato ancora la foto che ritraeva lo sconosciuto, non c’era quasi null’altro di intimo lì dentro, un documento, una foto e qualche contante – a e dracme come se piovesse. Heather era certa di aver visto il ragazzo ritratto altrove ma non riusciva a ricordarsi dove, “Senti Jude, mi pare ovvio lui sia importante e se resti addormentato non credo potrai ritrovarlo” aveva provato osservando la vecchia foto rovinata, aveva grandi e spettrali occhi verdi cerchiati di profonde occhiaie.
“Jude, ti prego, devi svegliarti, ho bisogno di te” aveva pregato, posando la sua fronte a quella del ragazzo addormentato, ma come tutte le volte precedenti lui non aveva aperto i suoi occhi.
Così Heahter si era sollevata, raccogliendo dal muro dove era stata accatastata la pesante spada in ferro di stige, ed aveva messo a tracolla la bretella del fodero, tenendola così sulla schiena come uno zainetto, proprio accanto alle frecce.
“Ho una pessima sensazione Heat” la voce di Qbert era arrivata simile ad un belato, anche lui sembrava pronto per la guerra, “Non sei costretto a venire lo sai” aveva provato lei, “No, ma Grande Madre Idea ci ha recuperato dalla strada, poi non so” aveva confidato il satiro, “Chiunque sia nemico di Gea, mi sembra un potenziale mio amico” aveva stabilito, “Però allo stesso modo: tutto questo ambiente così pacifico e loro organizzano guerre contro gli Sciri e Gea?” aveva domandato il Satiro; la verità era che la guerra era una missione di recupero, non avevano voglia di inimicarsi gli Sciri, ma evitare che venissero sconfitti da Gea e saccheggiati del loro tesoro, molto importante.
Si, non sembrava bello, ugualmente.
“Se vuoi la pace prepara la guerra, no?” aveva domandato retorica Heather, “Laddove fanno il deserto,  lo chiamano pace[2], se vuoi parlare per frasi fatte ci sono, eh” aveva commentato Qbert; Heather lo aveva raggiunto, “Lascia perdere: penso che la stella di Erebo sia l’arma che cercavo” aveva confidato, ma Qbert non sembrava esattamente convinto, “Non so, per trovarla avevamo bisogno di Jude” aveva chiarito e “Tecnicamente Jude è … così” aveva aggiunto ammiccando al ragazzo in coma nel suo letto.
“Be, un passo alla volta” aveva proposto lei, ricordava che Rachel aveva parlato di marce praterie e Jude era impregnato di morte e di fiori, ma per un secondo bruciante pensò che la profezia di Rachele  quella di Cassandra potessero trovare un appiglio in comune: la discesa nell’Ade.
“Se non dovessi sopravvivere, Heath, voglio dirti che è stato un onore essere il tuo satiro guida” aveva detto quello toccandosi con una mano il petto orgoglioso, Heather avrebbe voluto rassicurarlo con delle parole sagaci, ma invece si era sporta per abbracciarlo, “Per me lo è stato essere tua amica, invece” aveva sussurrato, “Ma non preoccuparti ne usciremo indenni, forse con qualche ossa-rotto” aveva scherzato cheta.
 
 
“Ennoia ti porta a volo, sei pronta?” aveva domandato l’arpia tutta contenta, leccandosi le labbra crepate con la lingua, ancora sporche delle briciole della colazione, “Non molto” aveva risposto Heather, mentre non vedeva davanti a se altro che mero nulla, alle sue spalle, non lontano era tutto il C.I.B.E.L.E. ad attenderla, solo Ippomene era venuto con loro, un fiero leone massiccio dal manto cacao e la criniera nera lucente, lei aveva allungato una mano ed aveva accarezzato tra le orecchie, aveva un pelo più ispido di quanto avesse immaginato.
Il leone aveva emesso un verso, non sembrava un ruggito, somigliava più ad un miagolio, forse era una sorta di incoraggiamento, Heather aveva annuito.
Atalanta prima quella mattina era stata chiara, se lei non avesse tolto la pietra dal meccanismo che apriva la barriera non avrebbe potuto intervenire, di positivo non avrebbe dovuto affrontare l’esercito di Gaia, di negativo probabilmente quello degli Sciri si, o forse peggio ancora sarebbe rimasta prigioniera di un solo punto per l’eternità, in compagnia del latente potere di un dio instabile.
Fantastico.
Come avrebbe voluto che almeno le comunicazioni funzionassero, così avrebbe potuto chiamare Darren.
“Andiamo Ennoia” aveva detto poi guardato l’arpia,”Inoltre se non ricordo male le tre invasate sul taxi hanno detto che la figlia di Nyx è a Sciro” aveva stabilito guardando l’arpia, non se lo ricordava con certezza ma così le era parso; la creatura aveva annuito immediatamente, sollevandosi in volo ed arpionando con le sue zampe da rapace le braccia di Heather e poi s’era alzata in volo con le sue grosse ali scure, verso la direzione che la figlia di Apollo strillava, guidata dal bacio dorato del Sole Invitto.
Provava un dolore bruciante alle braccia, che doveva tenere alzate ed aperte e temette le si sarebbero disarticolate anche le spalle, ma ogni volo nella direzione, poteva sentire la sua mano bruciare più forte.
“Le la sente!” aveva trillato Ennoia, “Il cartiglio?” aveva urlato Heather mentre il vento le schiaffeggiava il viso brutale, “La figlia della Notte, Ennoia sente il suo odore” aveva strillato l’arpia, certo l’amica di Jude, o almeno la conoscente, non aveva indagato molto.
“Bene, Ennoia, allora due piccioni con una fava” aveva strillato Heather, sentendo un’improvvisa euforia scorrerle dentro, probabilmente era vicina al cartiglio,
Poi lo aveva visto sotto di se, zenitale, una statua, in una piscina, nel bel mezzo del nulla, assoluto, quasi sospesa in cielo.
“Credo che questo sia il posto!” aveva esclamato allegra e neanche finite quelle parole Ennoia l’aveva fatta cadere giù di violenza nel cerchio, si sarebbe probabilmente sfracellata, se l’arpia non avesse compreso le sue azioni e si fosse guardata dal riprenderla a volo per farle toccare il piedistallo della statua in sicurezza.
Era una rappresentazione di Achille Pie Veloce e tra i suoi piedi c’era una lastra di pietra larga quanto un braccio, non troppo alta ed incredibilmente sottile, su cui erano incisi dei geroglifi, il Cartiglio! Ma era stato un pensiero fugace, perché la scena di fronte a lei si era mostrata limpida, nonostante davanti a lei dall’altro sembrava deserto, ma ora vedeva con splendore la corte a peristilio di un palazzo rale.

Una ragazza lì guardava, una nuvola di riccissimi capelli neri, sporca di sangue, senza la maglietta, con la pelle d’ebano e gli occhi così scuri sa sembrare buchi neri.
“Finalmente Ennoia ti ha trovata” aveva ghignato l’arpia, dritta vero la ragazza, era lei la figlia della notte, “Me?” aveva bisbigliato quella confusa.
Heather non ci aveva poi dato molto peso, “Non so come la prenderete ma dobbiamo andarcene. Una parte dell’esercito di Gaia vuole prendere questa roccaforte!” aveva detto con sicurezza e la stella di Erebo, aveva pensato.
“Siamo prigionieri dentro” aveva risposto l’altra ragazza, tastandole davanti il muro invisibile, Heather aveva preso un respiro, era solo questione di una breccia una piccolissima,
“Il C.I.B.E.L.E. arriverà!” aveva strillato, prendendo la lama di Jude e prendendo a fendenti il muro invisibile, come aveva detto la Grande Madre Idea una piccola crepa traslucida si era aperta nell’aria!
“E tu chi, per l’Ade, saresti?” aveva strillato un uomo che Heather non aveva notato, era un tipo poco raccomandabile, un boy builder biondo ruggente e bruciante, come una belva, aveva recuperato una spada da terra, mentre tutta la corte veniva invasa da guardie.
“Oh!” si era lasciato sfuggire lei, “Io sono Heather Shine!” si era presentata, tirando un'altra falciata alla barriera, creando un minuscolo varco.
“Il cartiglio!” aveva strillato la figlia della notte, “La stella!” aveva risposto di rimando lei, la fessura non era che un piccolo varco ampio qualche centimetro, non abbastanza per che lei potesse usarlo, ma abbastanza perché potesse far scivolare la punta della spada,  verso la ragazza, la figlia della notte aveva toccato la punta della spada di stige.
“Io sento il suo potere” aveva stabilito con voce onesta e meravigliata, l’attimo dopo un nemico aveva provato a passarla con la spada, ma l’arma aveva tagliato in due l’ombra della ragazza che scomparsa in un fumo nero si era ritrovata davanti a quello che sembrava un timone parallelo al pavimento, da esso veniva una luce violacea intensa.
“Questa?” aveva strillato, ottenendo la risposta positiva di Heather, che aveva forzato la spada ancora un po’ per infilarsi nella fenditura, cadendo l’attimo dopo nella piscia nella villa, dove l’acqua le arrivava oltre l’ombelico, aveva affondato immediatamente la lama nel fianco d’un uomo, mentre Ennoia al suo fianco aveva graffiato la faccia di un guerriero.
L’uomo burbero armato di spada si era lanciato contro la figlia della notte ma lei aveva evitato la fenditura con un movimento lesto, “Credo di aver bisogno della tua arma” aveva strillato verso la ragazza verso di lei,  per un secondo Heather guardo le sue spalle dove era il cartiglio del Sole Invitto, poi si era tuffata di faccia nella piscina intrisa di rosso, per raccogliere una spada caduta ad un guerriero, poi zuppa aveva tirato la spada verso Ennoia che a volo l’aveva presa e lanciata verso la figlia di Nyx lei l’aveva presa per un miracolo ed era fuggita alla lama del guerriero scomparendo nelle tenebre, quella che era disperata adesso era Heather che aveva solo una spada mediocre e niente di superpotente a cui potersi appellare, almeno così aveva sentito fino a che non aveva trovato il suo corpo rinvigorirsi ed il mondo farsi improvvisamente a colore.
“Heather Shine” aveva sentito urlare e si era voltata, il tempo di vedere la figlia della Notte dall’altro lato della piscina, in una mano la spada nera di stige, così scura da sembrare un buco nero, dall’altro teneva invece una pietra di un luminoso nero-viola.
La barriera era rotta.
Heather aveva efferato i raggi del sole come se fossero stati fili di luce reale e gli aveva puntati contro i suoi nemici, “Ennoia avverti Ippomene!” aveva strillato lei.
Un suo nemico aveva provato a colpirlo, Heather aveva potuto vedere l’attimo in cui la spada avrebbe fenduto le sue carni, ma aveva sentito un tocco sulla sua spalla, l’attimo dopo era stato come se un vortice brutale la risucchiasse, tutte le sue ossa avevano sfrigolato e l’attimo dopo si era ritrovata zuppa, con le ginocchia su un pavimento lercio a vomitare.
“Ho raggiunto il Cartiglio ma come aveva detto l’uomo vestito di bianco è stato il sole a raggiungermi!” aveva detto la figlia di Nyx a qualcuno, Heather con ancora il sapore di bile in bocca si era sollevata per osservare che erano nel corridoio di una prigione.
Heather era impallidita nel sentire quella frase, nel cartiglio c’era il sole! Quale dio vestito di bianco? Aveva guardato il suo dorso ma mancava il rossetto brillante.
“La gabbia è rotta, amici miei” aveva esclamato subito, “Heather Shine, loro sono Xander e Trevor!” aveva detto ammiccando a due prigionieri, un ragazzo bassino dall’incarnato caffèlatte ed un biondo slavato che sanguinava da una spalla.
“Posso aiutarti” aveva detto guardato lui, mentre la figlia della notte le allungava una mano per aiutarsi a rimettersi in piedi, aveva posato la spada di Jude per terra, ma non aveva lasciato la pietra, “Scusa i viaggi ombra fanno sempre una gran nausea la prima volta” aveva cinguettato, “Comunque io sono Bernie LaFayette” si era presentata la figlia della notte, “E devo ritrovare i miei amici” aveva stabilito.

 


[1] Citazione piuttosto nota dello scritto latino Vegezio (Si vis pacem, bara bellum), questa frase è stata utilizzata ed interpretata con i più variegati significati, nessuno dei quali si sposa bene con quello inteso in questa ff (ma facciamo finta di nulla).

[2][2]  E’ una citazione tratta dall’Agricola di Tacito (Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant)

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Capitolo 25
*** Davanti ad una sorella non c’è vendetta che tenga, tranne se sei stata protagonista di una profezia di morte, chiaramente (Puma I) ***


Se Edoardo811 non avesse cominciato a recensire questa storia probabilmente non avrei avuto idea di quanto l’avrei ripresa in mano, alla fine lo avrei fatto, perché tutto sommato torno sempre qui. Comunque sia questo richiede un grazie di cuore per lui <3.
Riguardo al capitolo: è oggettivamente uno dei peggior che abbia mai scritto, specie perché è dinamico e se c’è qualcosa che scrivo peggio delle scene d’amore, sono quelle d’azione, per questo spesso i miei personaggi risolvono tutto a chiacchiere.
Comunque è uno di quei capitolo noiosi da scrivere ma che non puoi proprio saltare ed è dal punto di vista di Puma, uno dei pochi previsti, solo per far sapere che non è una testa calda, tutto sommato.
Niente, finita qui, perdonatemi per le atrocità scritte, l’ho riletto un bel po’ di volte, ma ho decisamente bisogno di una beta.
Baci
RLandH

Riassunto degli episodi precedenti: Puma, Bernie ed Arvey, assieme al ghoul Jake, finiscono prigionieri di Neottolemo nel palazzo di Sciro, un impenetrabile fortezza dove i poteri dei semidei non hanno effetto. Puma sfida Neottolemo, ma il signore del palazzo pare più interessato a Bernie che a lui …
A loro insaputa l’esercito di Gaia si sta muovendo verso Sciro ed anche un organizzato chiamata C.I.B.E.L.E. guidata da Grande Madre Idea si approssima, per recuperare la stella di Erebo che permette allo scudo di Sciro di esistere. Con il C.I.B.E.L.E. è arrivata anche Heather Shine.

 

IL Crepuscolo degli Idoli

 

Davanti ad una sorella non c’è vendetta che tenga, tranne se sei stata protagonista di una profezia di morte, chiaramente.

 

Puma I

 

“Si riprenderà?” quando aveva posto quella domanda Puma aveva cercato di essere più freddo e distaccato possibile, ma non era riuscito del tutto, sapeva che il suo viso aveva tradito i suoi reali pensieri: era preoccupato.
Hymilce[1] aveva sollevato lo sguardo verso di lui, un viso bronzeo con due sopracciglia nerissime come il carbone, gli occhi erano rossi come fiammelle, degna figlia di Reshef, signore della guerra. “Neanche se la morte stessa venisse a bussare alla sua porta, Hannah si prenderebbe la briga di aprire” il suo tono era stato più gentile di quanto il suo aspetto sembrasse. Non si era infondo il proprio genitore divino, Hymilce era un’anima pacifica, per questo Hannibal, il suo migliore amico l’amava. La figlia di Reshef aveva dato un bacio sulla fronte di una ragazza che era stesa su un letto lì vicino, in stato di incoscienza, prima di lasciare la cabina. Erano in una degli abitacoli sottocoperta dell’alionave La Grande Tanit, dove Hymilce era nostromo ed infermiera-per-le-emergenze.
Puma si era seduto sulla sedia che era stato occupata dall’altra donna, trovando difficile portare gli occhi verdi verso l’altra. Hymilce le aveva dato due sorsi d’ambrosia, ma Puma sapeva che sotto le coperta, una ferita era ancora fresca di punti.
“Non comportarti come se avessi già tirato le cuoia, fratello” la voce di Hannah era arrivata senza preavviso, sottile, Puma l’aveva guardata osservando gli occhi blu appena visibili sotto le ciglia scure. Di tutti i figli di Elyas Phoenix, Hannah era quella che gli somigliava di più, la sua gloriosa bambina di Nike.
“Sei stata stupida, lo sai, vero?” aveva domandato lui retorico, “Volevo … volevo …” aveva mormorato Hannah cercando di recuperare la parola, “Uccidere un pretore di nuova Roma?” aveva domandato retorico Puma, “Piano geniale, sorella” l’aveva rimproverata, “Sono ferita non puoi essere cattivo” si era difesa debolmente lei.
“Sono molto cattivo” aveva commentato Puma, “Lo sai bene che Roma, anche la nuova, non può cadere senza la Lama dell’Antica Promessa” aveva detto infastidito lui. Onestamente trovava ancora così frustrante dover ricorrere ad una cosa antiquata come una spada, lui preferiva di gran lunga i proiettili. Era anche vero che Puma cacciava mostri e non persone, anche se erano romani.
“Ma io sono una figlia di Nike” si era difesa lei, “Non posso fallire!” aveva detto frustrata, con le lacrime negli occhi azzurri. Eppure, anche lei aveva fallito.
“Hai solo quindici anni, Hannah, avrai tutto il tempo per fallire ancora” aveva detto Puma, “Quando io sarò morto” aveva aggiunto. “Come?” aveva domandato Hannah confusa, “Io sono il fratello maggiore ed è mio dovere prendermi cura di te e Deedo, che vi piaccia o no” aveva stabilito, pensando alla sua spaventosa sorella tredicenne. “Comunque immagino che dopo questa tua ultima bravata non solo non ti sarà revocato il divieto di salire sul ponte” aveva ripreso a parlare, “Essere salita sull’albero maestro può non essere stata la mia migliore idea, lo concedo” aveva risposto Hannah, “Ma dubito che i Cento ti faranno lasciare Nuova Cartagine per molto tempo ancora” aveva sentenziato lui.

“Non puoi vincere contro Neottolemo, lui è il più forte degli uomini” la voce di Polisenna era lugubre, gli occhi neri erano segnati da ricordi di una vita precedente, di cui non riusciva a liberarsi.
Puma non l’aveva degnata di una considerazione, mentre arrotolava delle fascette attorno alle sue mani, “Rimane pur sempre un uomo” aveva commentato aspro lui, “Io sono un semidio, figlio di Ma” aveva stabilito con un certo fuoco nella sua voce.
“Chi?” aveva domandato la donna greca, sollevando un sopracciglio, “Una cazzuttissima dea della Cappadocia[2]” aveva stabilito, “Quindi si sono piuttosto convinto di poter prendere a pugni uno che butta bambini dalle torri e sacrifica fanciulle” aveva aggiunto apro.
Polisenna era avvampata, spostando una mano sul suo collo, dove Puma immaginava Neottolemo l’avesse strangolata la prima volta. “Il mio nome è Pumayyaton Phoenix, figlio di Elyas Phoenix, amante di tre dee ed ultimo possessore dell’Antica Promessa” aveva decantato con sicurezza, “Uno che butta bambini giù dalle mura non sarà un problema” l’aveva rassicurata.
Puma si ritrovò con imbarazzo a valutare che non aveva davvero una reale conoscenza su Neottolemo, sapeva che era figlio del prode Achille Piè Veloce, quindi se i padri contavano qualcosa … niente, non contava niente, perché forse su Elyas Phoenix non c’erano poemi ma questo non lo rendeva un guerriero meno audace. Inoltre, tutto quello che sapeva su Neottolemo era che aveva ucciso il figlio di Ettore e sacrificare Polisenna sull’ossario di suo padre, per poi sparire letteralmente dai miti fino alla sua morte. Immaginava visto il trattamento che aveva riservato alla povera Ermione, la signorina doveva essere responsabile di quest’ultima.
Ebbe un brivido di freddo nel pensare alla poverina e a quello che aveva fatto Arvey.
“Stai per vomitare di nuovo?” aveva domandato la fanciulla greca, “No” aveva detto, prima di riuscire a stento a trattenere la bile.
Puma salvava le ragazze dai mostri, non restava incatenato alle sedie a guardare impotente mentre una di loro veniva mangiata viva. Lo sapeva che Arvey era stato mosso unicamente dal desiderio di salvare Bernie da Neottolemo, ma allo stesso modo Puma sapeva di non poterlo ignorare.
Sapeva che una volta sopravvissuti a quel delirio – e non aveva idea di come avrebbero fatto – avrebbe dovuto svolgere il suo lavoro di cacciatore di mostri ed ucciderlo.
Bernie probabilmente lo avrebbe odiato e di sicuro Puma si sarebbe trovato a fallire la missione di soddisfare la divina Nyx e fatto piovere ancora più ignominia nel nome dei Phoenix. Però avrebbe salvato anche la vita di Bernie, che lei ne fosse consapevole o grata ed avrebbe soddisfatto il suo primo compito: proteggere gli uomini.

“Perché le guardie non sono ancora venute a prenderti?” era stato il commento di Polisenna, che aveva posato l’orecchio sulla porta di legno. Dopo che Puma aveva urlato a gran voce di voler un duello con Neottolemo e sicuro di se l’altro aveva acconsentito, invece di essere sistemati in prigione, lui e la ragazza erano stati chiusi in una stanza.
Era ovale, con il pavimento di marmo serpentino verde e la carta da parati seppia con delle figure scure umane, a cui non aveva lanciato neanche più di uno sguardo.
Per il resto c’era solo uno stibadium a cinque poltrone, con una mensa a sigma, su cui era seduto lui, non c’erano finestre e su una parete era stata sistemata una rastrelliera di armi di legno e spade di bronzo celeste ed oro imperiale spuntate.
Due guardie diverso tempo prima avevano portato per lui una pettorina, gambali e bracciali per il combattimento, cosa che non aveva per nulla aiutato l’umore di Puma. Era bravo nel corpo a corpo, con una sorella come Deedo non si poteva non esserlo, ma come spadaccino lasciava anche a desiderare, l’armatura lo rallentava, inoltre lui era decisamente più bravo con arco, freccia e pistola. Chi sa se avrebbe riavuto la sua arma, a quel punto.
“Forse Neottolemo ha deciso di cuocermi a fuoco lento” aveva mormorato con un tono basso di voce, mentre indossava gli spallacci dell’armatura con una certa boria, sentendo quel peso sulle spalle e sul corpo, sarebbe stato come muoversi della melassa.
“Sta succedendo qualcosa” aveva sussurrato Polisenna voltandosi verso Puma, prima che potesse rispondere alla ragazza, aveva sentito qualcosa dentro di lui, era stato difficile definirlo come qualcosa di diverso da un formicolio.
“Cosa ti è capitato?” aveva domandato immediatamente quella, staccandosi dalla porta per guardarlo, preoccupata. “Mi formicolano gli arti come se mi fossi alzato da un lungo sonno” aveva confidato, tirandosi in piedi, anche l’armatura non pareva più così opprimente e pesante sulle spalle e sul petto.
“Qualcuno ha rotto la bolla!” aveva esclamato poi Polisenna, battendo  il pugno verticalmente sul palmo rivolto verso il cielo.
“Ci sono tornati i poteri” aveva realizzato lui la portata di quelle parole, “Peccato che essere figlio di Ma non mi dia nessuna super abilità tranne una certa resilienza – ma immagino saprò farmela bastare” aveva valutato, prima di raggiungere Polisenna a grandi falcate verso la porta, l’attimo dopo aveva cominciato a prenderla a calci, ripetutamente con vigore. Trovando nelle sue cosce e nei suoi polpacci più potere di quanto non avesse percepito fino alla mattina stessa.
La porta di legno cedette sotto i suoi colpi cadendo spezzata contro il pavimento con un suono brutale.
Aveva guardato i resti della porta, prima di sollevare lo sguardo davanti a lui.
“Xavier!” aveva detto Puma, osservando il quasi-zombie nordico che lo guardava con gli occhi grigi spalancati davanti a lui, affianco da una ragazzina dal viso da gatta con affilati occhi verdi ed una zazzera rossa. “Xander” aveva corretto l’eijenir senza essere troppo turbato da quell’errore, “D’altronde non ho idea di quale sia il tuo nome” aveva aggiunto, “Eravamo venuti ad aiutarvi, ma lo avete fatto da soli” aveva commentato la rossa, indossava una collana di perline colorate, Puma le aveva studiate, appartenevano al Campo Mezzosangue, era una greca perciò.
“L’intenzione è stata sufficiente a questo giro” aveva ghignato Puma, osservandoli.
“Quella è la stella di Erebo, hai rotto tu l’incanto” aveva esclamato Polisenna sbilanciandosi per abbracciare la ragazza, “In realtà è stata la figlia di Nyx, io le ho solo dato una mano” aveva ammesso imbarazzata la rossa.  Bernie! Aveva pensato immediatamente Puma; poi Xander aveva allungato verso di lui una lama vagamente più decente di quelle da addestramento consumate all’interno della stanza. Era una lama di bronzo celeste, piatta, era affilata da entrambi i lati, non era il suo genere, ma poteva lavorarci.

“Io sono Heather Shine, dobbiamo muoverci perché sta arrivando l’esercito di Gea” aveva commentato con un certo nervosismo la ragazza, stringendosi le spalle con un certo disagio. “Fantastico, mancava giusto Gea” aveva commentato a mezza-voce Puma.
Heather si era avvicinata a lui, assottigliando lo sguardo, “I tuoi occhi sono verdi?” aveva chiesto a bruciapelo, momento sbagliato era stato il razionale pensiero di Puma. “Direi più nocciola, possiamo sopravvivere e parlarne dopo” aveva risposto schietto lui, notando poi che quella con gli occhi verdi era lei. Grandi, luminosi e verdissimi.
Heather aveva sorriso, come se improvvisamente si fosse rasserenata di qualcosa, come se immediatamente l’arrivo di Gea ed il fatto che fossero nel palazzo degli Sciiri non fosse più un problema, o almeno non quello più imminente.
“Aspetta: dove è Bernie?” aveva domandato poi Puma, parlando sopra alla povera Heather che stava spiegando loro dove andare, guadagnandoci uno sguardo tutto sommato non molto risentito. Xander si era fatto paonazzo in viso, bene anche gli zombie nordici potevano arrossire, “Lei e Trevor sono andati ad aiutare i suoi amici” aveva detto con un leggero disagio, rivolgendo gli occhi azzurri verso il soffitto.
“Ovviamente” aveva pronunciato spento lui.
Il lestrigone spaventoso e per non farsi mancare nulla anche il ghoul … mandato da Gea!
“Dobbiamo fermarla!” aveva esclamato immediatamente Puma.
“Si, neanche io sono particolarmente favorevole al lestrigone” aveva mormorato Polisenna esangue in viso, in ricordo ciò che era successo ad Ermione.
“No, il ghoul lavora per Gea” aveva risposto lui, “Ci eravamo momentaneamente alleati perché eravamo finiti sotto il velo” aveva spiegato, sentendo una preoccupazione incredibile piombarli addosso.
“Sotterranei!” aveva strillato immediatamente Polisenna, “Lì tengono i mostri” aveva aggiunto, “Bene, andiamo” aveva stabilito Xander, poi tutti gli occhi si erano rivolti verso la principessa troiana, “Giusto, non sapete dove sono” aveva mormorato a disagio.

Lungo la strada per i sotterranei avevano incontrato quanti più guerrieri sciiri in pieno panico, tutti piuttosto preoccupati dal fatto che l’esercito di Gea fosse vicino. Questo non aveva impedito alla metà di loro di provare ad attaccarli, ma davanti i poteri da stregone dell’einherjar non c’era stato molto da fare: era una specie di forza incontrollabile, qualcosa di simile alla brutale violenza della natura. “Meno male che quell’incredibile senso di nausea che avevo è passato” era riuscito a dire alla fine, passandosi una mano tra i capelli biondi Xander.
“Si, l’effetto della pestilenza si è esaurito” aveva valutato Puma, “Probabilmente non è stato un dio a scatenare la malattia sulla terra Navajo” aveva valutato. Le spalle della ragazza dai capelli rossi si erano fatte rigide come stecche, “Scusatemi” aveva commentato alla fine, con gli occhi bassi, “Stavo affrontando una vivace figlia di Gea” aveva cercato di giustificarsi Heather.
Polisenna aveva guardo tutti e tre confusa, probabilmente doveva già essere sotto la cappa di Sciiro quando era successo, “Aspetta” aveva buttato fuori l’einherjar, “Sei stata tu? Pazzesco!” aveva detto ammirata, “Conosco certi esperti signori del seidr[3] che non sarebbero mai riusciti a fare una cosa simile” aveva confessato ammirato.
Le guance piene della ragazza si erano tinte di un imbarazzato rosso paonazzo.
“Sei una figlia di Algos o qualche divinità di quel genere?” aveva domandato lui. Algos era la divinità del dolore, con un po’ di flessibilità una sua figlia poteva anche essere in grado di produrre la pestilenza, forse. Non era sicuro. Non aveva sentito mai che qualche mezzosangue potesse.

“Apollo! In realtà sono una anche piuttosto nella media, in effetti” aveva  risposto lei, ancora cotta dal disagio.
Puma era rimasto sconcertato per un momento, sgranando gli occhi ed osservando meglio quella ragazza, aveva un viso tondo ed infantile, non aveva un aspetto così spaventoso.
“So che Apollo può provocare malattie, ma non credevo che qualcuno dei suoi figli potesse” aveva commentato Puma, aveva visto alcuni di loro mostrare incredibili abilità mediche, ma il contrario, non lo aveva mai veduto.
Improvvisamente Heather sembrava più spaventosa di tutti i mostri che di lì a poco sarebbero apparsi lì.
Anche la ragazza doveva aver notato come fosse cambiato il suo sguardo, perché aveva abbassato gli occhi con un certo timore, passandosi le mani sulle braccia nude.
“Se avete finito di far salotto” aveva attirato l’attenzione su di loro Xander, schioccando le dita, mentre riprendevano a seguire i movimenti lesti e felpati di Polisenna.
Fino a che non avevano sentito l’urlo.
“Ti prego lasciami andare!”
Era una voce femminile.
“Chi è?” aveva domandato Heather mentre Puma la schiacciava contro un muro, anche Xander e Polisenna si erano putati contro una parete.
“Vedo due guardie davanti ad una porta” aveva detto subito l’antica greca, spiando dietro un angolo, Puma si era spostato per poterli vedere anche lui, due sciri ritti come pertiche mentre ignoravano completamente il caos che avveniva attorno a loro.
“Deve essere la ragazza incinta” aveva mormorato Xander con un tono di voce basso, attirando lo sguardo su di lui.
Puma la ricordava appena, non l’aveva degnata di uno sguardo di troppo durante il banchetto, una mortale pallida in viso, bionda e tremendamente spaventata.
“Non possiamo lasciarla in mano a questi pazzi, chi sa cosa le staranno facendo” aveva mormorato Polisenna, la sua voce era colma di dolcezza, mentre con una mano ancora una volta si grattava il collo.
“Andate da Trevor e Bernie” aveva stabilito Xander, “Ci penso io alla ragazza” aveva sorriso rassicurante.
“Da solo?” aveva domandato confusa Heather, stringendo la spada che aveva alla mano, era una spada dalla lama bastarda e l’impugnatura alemannica[4], doveva averla rubata ad uno dei germani che vivevano nel palazzo. “Sono uno stregone non-morto, figlio di Freya, di duecentodiciassette anni ed il record di morti più basse tra i ragazzi del Campetto Cinque di Folkvanger[5]” aveva detto sicuro di se, sul viso gli era sorto un sorriso da gatto del cheshire.
“Uhm, se ti ferisci cercami, sono una guaritrice” aveva detto immediatamente Heather, cercando di sorridere accomodante.
“Andate diretti, non vi vedranno” aveva mormorato Xander, mentre dalle sue dita si sprigionava una forte luce dorata, “Non potevi farlo prima?” aveva domandato piccata Polisenna, ma non aveva ricevuto nessuna riposta.

 

“Direi che quello è proprio un grosso esercito in movimento” aveva commentato Puma mentre guardava quelli che ormai non potevano più essere definiti puntini neri da una finestra, “Se non rimanessimo senza magia, potremmo pensare di rimettere a posto la stella e non fargli entrare” aveva aggiunto lei.
“Sei pronta ad un assedio?” aveva domandato retorico lui, “Perché alla fine anche Alesia è caduta[6]” aveva stabilito. “Io vedo anche il C.I.B.E.L.E. combattere contro barbari” aveva stabilito Heather, osservando con lo sguardo i piedi del castello, anche Puma aveva notato come un leone stava brutalizzando un soldato, mentre un altro combatteva contro un giovane uomo.
“Andiamo” aveva sussurrato alla fine lui, mettendo fine alla loro breve pausa, mentre osservava per un’ultima volta lo sguardo della ragazza dei capelli rossi, con gli occhi era palese scrutasse avida in cerca di qualcosa o di qualcuno.
“Heather” l’aveva chiamata, “Scusa, cercavo un mio amico” aveva ammesso quella, scuotendo il capo, “Allora speriamo di non vederlo” aveva detto lui.
Polisenna si era allontanata, solo per fermarmi pochi passi più in là, “Abbiamo un problema” aveva mormorato.
Il problema si manifestava nel viso disteso e sorridente di Odoacre, con la barba ordinata nera e l’anello di ferro d’argento tra i capelli corvini.
Vestiti di tutto punto, come il più rispettabile dei re.
“Lui è Neottolemo, vero?” aveva domandato Heather affiancandolo, “Neottolemo dovrebbe solo desiderare di essere come lui” aveva risposto Puma, senza riuscire a nascondere un certo rispetto.
Odoacre era l’uomo che aveva deposto l’ultimo imperatore.
Era stato colui che aveva formalmente messo fine all’impero di Roma, sebbene Deedo, questionasse ancora che era stato Alarico durante il sacco di Roma e Hannah difendesse a spada tratta che era Mehmet II che meritava quel titolo, per aver deposto Costantino XI.
Ma per Puma era stato Odoacre: l’eroe della sua infanzia. Ed ora suo nemico.
Puma aveva voltato lo sguardo verso la lama di d’oro imperiale che teneva ad una mano, era un esemplare meraviglioso, ma non era l’Antica Promessa.
“Io sono Flavio Odoacre, pulzella, re degli Sciiri e delle genti italiche” si era presentato amichevole Odoacre, chinando il capo rispettoso, “E necessito della simpatica pietra che tiene nella sua mano” aveva stabilito. Heather aveva chinato il capo verso la stella di Erebo.
“Andate, vuole me” aveva stabilito la ragazzina stringendo le spalle, mentre faceva scivolare la gemma nella faretra, aveva solo due frecce con sé e nessun arco, ma non sembrava curarsene. “No”, aveva stabilito Puma, “È un sogno che si avvera” aveva commentato lui con voce ridente ed un sorriso bello soddisfatto sulla faccia.
“Sono cresciuta tutta la vita con il suo mito” aveva stabilito.
Polisenna aveva afferrato la mano di Heather, fortemente più reattiva dell’altra ragazza, provando a trascinarla via, Heather aveva gettato un ultimo sguardo verso Puma.
Lui di rimando si era lanciato in tempo per intercettare con la sua spada la lama d’oro del Re Odoacre e siccome non era mai stato un combattente brillante con la spada, per formare quello scudo improvvisato aveva afferrato la punta della spada con la mano libera, quasi fosse stato un bastone, ferendosi le dita.
“Non sono interessato a te, Cartaginese, e neanche alle tue amiche. Voglio solo la gemma” aveva commentato Odoacre allontanando la spada dall’incrocio e rivolgendo uno sguardo verso Polisenna ed Heather che avevano preso a correre per il corridoio, “La troiana confesso non me l’aspettavo così” aveva aggiunto poi, con un sorriso divertito sulle labbra.
“Temo dovrai accontentarti di me” aveva risposto di rimando Puma, lasciando la lama con la mani insanguinata e tirando un calcio dritto all’inguine di Odoacre.
Si, poteva chiaramente realizzare non fosse un abituato a combattere con la lama o avrebbe utilizzato quella invece di un calcio.
Odoacre aveva accusato il colpo finendo poi per atterrare sul pavimento, ma si era presto tirato su come una molla, con la maglietta un po’ insozzata e la corona d’argento di traverso, “Avresti dovuto usare la spada, non sarò mai più così distratto” aveva commentato quello, non sembrava neanche infuriato.
Puma avrebbe disperatamente voluto dargli torto, ma aveva avuto tristemente ragione, “Dillo a Teodorico” aveva risposto solamente.
Canonicamente l’uomo che lo aveva ucciso Odoacre, almeno stando ai libri di storia.
Non che ci fosse da fidarsi al cento per cento di quei tempi, o il suddetto Re Sciro che ora tutto baldanzose si stagliava di fronte a lui, avrebbe dovuto trovarsi sotto terra fatto di null’altro che ossa e fango.
La calma basica che fino a quel momento aveva avvolto l’espressione del Re degli Sciri si era completamente estinta, con il solo nome di Teodorico. Gli occhi neri si erano fatti di fuoco vivo.
“Adesso ti ucciderò” aveva stabilito con voce secca e vibrante l’altro, alzando la lama dorata verso di lui, Puma si era lanciato di lato per evitare lo scontro, lasciando che la lama dell’avversario fendesse il nulla, ma Odoacre non aveva perso il minimo mordente.
Si era lanciato di nuovo contro di lui e le spade avevano vibrato ancora l’una contro l’altra.
Doveva concentrarsi, sapeva di poter vincere contro il suo avversario, Odoacre era l’uomo che aveva sancito la fine di Roma sconfiggendo in duello Oreste, ma aveva vinto una Roma già morente. Aveva vinto combattendo con l’Antica Promessa. E rimaneva solo un uomo.
Lui Puma, lui era un figlio di Cartagine, un autentico leone, sua madre era Ma, dea della guerra.
Per natura Puma era portato alle arti militari, per destrezza ed acume, non poteva perdere quello scontro.
E con questo pensiero si distrasse per prendere sul naso l’elsa di una spada.

“Scusa per l’occhio nero” aveva commentato divertito, osservando il viso rigido di sua sorella minore. Deedo aveva solamente quindici anni ma era legittimamente considerata da tutti una vera leonessa, la più giovane guerriera ad essere abilitata a lasciare i confini sicuri della città.
“Per il labbro spacco, no?” aveva domandato lei retorica, il viso bianco era ancora provato dallo scontro che i Cento avevano voluto organizzare per loro, affinché si decidesse il fortunato guerriero che avrebbe accompagnato la figlia di Nyx in missione. Infondo era destino che fossero arrivati in due e che la prassi richiedeva un minimo di tre persone.
“Non hai preso dell’ambrosia o dell’acqua luna?” aveva domandato retorico lui, mentre osservava sua sorella sciogliere le fascette dalle mani, erano rosse, come le sue nocche erano sbucciate e sanguinolenti. “No, non ha senso cancellare dolore e lividi, sono una lezione” aveva risposto lei, sorridendo appena verso di lui.
Aveva degli occhi plumbei come un cielo nuvoloso e l’espressione ieratica, si sforzava di sorridere, di apparire umana, ma sembrava sempre come se si studiasse il video di una statua.
“Il tuo fidanzato potrebbe non essere d’accordo, penso mi stia ancora maledicendo” aveva riso lui, sedendosi accanto a lei.
Lui aveva preso l’ambrosia, ogni ferita del suo corpo era stata guarita, era stato letteralmente ristorato di ogni cosa, pronto a partire in viaggio con una pericolosissima figlia di una dea protegena e del suo aiutante cannibale.
Senza Hannibal, che era stato il suo altro paio di occhi per un decennio.
“È divertente” aveva commentato sua sorella, ma il sorriso non aveva raggiunto gli occhi, “Sicheo fu ucciso da Pumayyaton di Tirso[7]” aveva valutato.
“Si, una delle mille stranezze della vita” aveva commentato con voce leggermente ruggente lui.
Pumayyaton di Tirso era stato un grande Re Fenicio, un nome importante, ma era anche un uomo che aveva ucciso suo cognato per avere quella corona ed esiliato sua sorella, Didone.
Si era sempre chiesto perché suo padre l’avesse chiamato contro chi aveva tradito la loro fondatrice.
“Pumayyaton è il male necessario” aveva sussurrato Deedo, cogliendolo di sorpresa, come se avesse letto nella sua mente, “Non capisco” aveva mormorato lui. “Elissa[8] non cerca mai vendetta contro Pumayyaton, accetta le sue azioni e si adegua. Crea una gloriosa terra senza null’altro che la sua mente e perdona suo fratello” aveva detto, “E se pensi che Elissa è il tipo di donna da aver usato la sua morte per siglare una maledizione che ancora oggi vive” aveva valutato Deedo, incrociando le braccia sotto il petto. “Non aveva né soldi ne armi” aveva considerato lui. “All’inizio si, hai ragione, aveva solo il suo ingegno e con quello si è costruita un regno[9]” aveva detto con orgoglio Didone, “Avrebbe poi potuto schiacciare che Pumayyaton” aveva valutato.
“Ecco” aveva detto Puma, “Riconosceva in suo fratello un male necessario” aveva provato.
Deedo aveva  annuito, “Per la storia, per l’economia della mitologia, probabilmente Pumayyaton era un male necessario si” aveva valutato, “Probabilmente anche Deedo lo ha realizzato, senza di lui non avrebbe mai avuto il suo regno” aveva detto sua sorella.
“Però, Pumayyaton avrebbe potuto far uccidere anche lei, oltre Sicheo, sceglie di lasciarla in vita per lo stesso principio per cui lei non ha cercato vendetta” aveva terminato Deedo.
Perché erano fratelli, aveva pensato Puma, che strani discorsi da fare da parte di sua sorella.
“Avresti dovuto proprio vincerlo tu questo torneo improvvisato, sorellina, sei così saggia” aveva concesso alla fine lui.
“Si, ma i nostri dei mi sono avversi per via di mia madre” aveva mormorato spenta Deedo, “O, forse io, sono semplicemente più bravo di te e del tuo fidanzatino” aveva scherzato lui, “Sei svelto e forte, ma sei uno spadaccino mediocre e senza la tua pistola sei perso” aveva risposto schietta lei di rimando.
“Noi tre siamo tutti figli di dee straniere” aveva detto Puma dandole una sonora pacca sulle spalle, “Era la specialità di nostro padre: combattere e sedurre dee straniere, fidati di me, per poco non ci siamo trovati un fratellino-sorellina figlio di Sif-o-Freya” aveva riso, cercando di spezzare il malumore che agitava sua sorella, “E non perderò la mia pistola”.
“Nostro padre era uno che non si faceva mancare nulla: sedurre dee e buttare spade importantissime” aveva replicato Deedo, “Perdere” l’aveva corretta Puma.
“Tu pensi davvero che nostro padre abbia perso L’Antica Promessa casualmente dopo aver avuto una figlia con Minerva[10]?” aveva domandato retorica Deedo, sputando il nome di sua madre con la stessa pesantezza di come avrebbe professato una condanna a morte.
Figlia di una dea romana.
L’unica figlia, romana, che quella dea aveva mai avuto a loro conoscenza.
“Non è giusto, dovevo andare io!” aveva strillato Hannah irrompendo nella stanza di Deedo, impedendo alla loro conversazione di continuare, tutta scarmigliata con i capelli scuri mossi e gli occhi azzurri velati di tristezza. “Dalla tua bravata di qualche anno fa devi solo tacere” aveva ringhiato Deedo, che era la minore ma sembrava la maggiore, “Continuano ad inventare regole apposite per te”,
“Oh, per favore Jason Grace sta benissimo” aveva replicato l’altra.

Aveva aperto gli occhi in tempo per vedere la scure calare su di lui, si era ribaltato in tempo per vedere un enorme uomo che lo guardava dall’alto in basso, prima che questo scomparisse preso in pieno da quello che sembrava fuoco.
“Oh ti sei svegliato, belladdormentato” aveva sentito al suo fianco, mentre vedeva un satiro correre verso di lui.
Puma si era guardato in torno: Gea era arrivata. I corridoi pullulavano di mostri bardati, che menavano lame con guerrieri sciri ed altre creature, Puma si dovette dichiarare sconfitto subito nel capire chi era con chi. Però con gli occhi riuscì a spiare Odoacre armato della sua spada sferragliare contro un giovane ragazzo dall’espressione seria.
“Ho perso conoscenza, poi deve essere andato tutto a lupanari” aveva mormorato Puma, mentre il satiro lo aiutava a mettersi in piedi, “Si quello con la corona stava per ucciderti, ma io e Josh siamo arrivati in tempo, solo che è andato tutto in malora dopo dieci minuti. Ora ti prego dimmi che sei uno dei buoni” aveva provato a spiegare alla buona, “Gaia è arrivata” aveva sancito lui con voce greve.
“O grazie agli dei sei uno dei buoni” aveva aggiunto nuovamente il satiro tremolante, “Sono un po’ paranoico ultimamente, ma perché nell’ultima settimana hanno cercato di uccidermi almeno due volte” aveva sputato fuori.
Puma si era alzato osservando il pavimento tra mostri e varie creature cercava la sua spada ma senza successo, di rimando il satiro aveva ripreso a lanciare con la sua fionda palle di fuoco greco. “Non è che hai un’arma?” aveva domandato poi speranzoso, “Aspetta!” aveva risposto subito il satiro, “Nyoh” aveva strillato subito, in direzione di un giovane umano dalla carnagione azzurrina e le dita palmate che aveva appena sputato dell’acqua sull’occhio di un ciclope, piuttosto minuto.
“Hai un’arma, si?” aveva domandato, caricando nuovamente una pallina esplosiva e lanciandola direttamente contro la faccia di un barbaro sciro, che si era ritrovato presto in fiamme a schiantarsi contro un muro, mentre anche la mantella prendeva pure fuoco.
Nyoh si era sdrotolato la sua cintura e l’aveva lanciata verso il satiro, quando il satiro lo aveva preso, non era più una cintola di cuoio ma era diventata una frusta, “Preferivi una spada?” aveva domandato retorico, “No, penso mi ci troverò” aveva risposto lui, con un sorriso soddisfatto sulla faccia, “Grazie. Di tutto” aveva detto, sdrotolando la frustra contro un mostro bicefalo aprendo un taglio sul suo pettorale, salvando per il rotto della cuffia qualcuno. Un guerriero Sciro, per la precisione, che si era voltato verso di lui, annuendo prima di lanciarsi con la sua spada almarica contro il bicefalo e farlo esplodere.

Odoacre aveva tirato una testata contro Josh facendolo indietreggiare, il ragazzo era rimasto contuso dal colpo, mentre rivoli rossi scivolavano giù dalla tempia e da un braccio. Il re Sciriano aveva alzato la spada per finire il giovane, ma Puma aveva lanciato la frustra per arrotolarla attorno al polso del Re. La prima volta che aveva usato una frustra aveva avuto dieci anni, il padre di Hannibal aveva spinto suo figlio, lui e l’altro suo figlio dentro una fossa di leoni.
‘Siete Leoni di Nuova Cartagine’ aveva detto.
“Oh ti sei svegliato” aveva valutato Odoacre facendo cadere la spada dalla mano prigioniera per passarla a quella libera, prima di cercare di fendere la lama, trovando però nella frustra una nemica più resistente. Josh ripreso aveva cercato di attaccare nuovamente il re, che di rimando era riuscito ad intercettare nuovamente il colpo, nonostante il suo braccio fosse ancora bloccato dalla sua frustra. Puma con vigore si era lanciato in una corsa evitando colpi a destra e manca per lanciarsi contro Odoacre che non era riuscito a vederlo così impegnato nel duellare contro Josh.
Aveva sferrato un pugno contro la guancia dell’uomo, che era volato con forza contro il muro lì di fianco, urtando nel mentre anche un telechino.
“Grazie amico” aveva detto Josh, “Prego. Sai se i non morti si disperdono in polvere – o?” aveva domandato retorico, mentre sfilava la spada dalla mano di Josh per conficcarla nel palmo di Odoacre, che aveva trovato un nuovo rivale nel telechino, che l’attimo dopo aveva preso fuoco, colpito da qualche d’un altro.
Odacre aveva urlato di dolore, prima di riprendere il suo atteggiamento stoico, “Tu volevi essere Teodorico?” aveva domandato retorico, “Non sei degno manco di essere il suo lustra scarpe” aveva sputato fuori, mentre aveva allungato la mano la mano libera per cercare di raggiungere l’elsa della spada.
Il sangue non smetteva di zampillare.
La mano libera anche sanguinava, i braccioli di ferro si erano piegati a causa della frusta ed avevano ferito la pelle.
“Tu hai comunque deposto un tredicenne, Flavio” era stato l’unico commento di Puma, estraendo la spada dalla carne dell’uomo.
Faceva comunque male essere considerato male da un eroe della propria infanzia, Josh aveva recuperato la spada dalle mani di Puma, “O tu sei Odoacre, si” aveva valutato quello, mentre si passava il polso di una mano per togliere via il sangue dall’occhio, mentre l’uomo si era sollevato, non avrebbe potuto impugnare ancora un’arma.
“Arrenditi Odoacre e … di ai tuoi uomini di aiutare i cibeliani” aveva stabilito Puma, alzando di nuovo la frusta contro un lestrigone grande come un armadio a tre ante che si era avventato contro di loro.
“Si” aveva stabilito con voce sconfitta il re degli sciri.
“Guerrieri” aveva detto poi Odoacre, richiamando la sua voce.

Puma aveva ripreso la sua discesa per le prigioni, lasciando il caos dello scontro alle sue spalle. In quel momento Sciri, sotto Odoacre, si erano uniti con gli amici del satiro, ma non aveva idea quanto sarebbe andata avanti così.
“Puma!” aveva sentito la voce alta di Polisenna, nella direzione opposta alla sua, assieme ad Heather, “Oh, ragazze!” aveva esclamato lui, “Dove è Bernie?” aveva chiesto poi, “Le segrete erano vuote, non ho trovato mostri, ma neanche Bernie e Trevor” aveva detto subito Heather, passandosi una mano sulla carne nuda delle spalle, aveva diversi graffi sul viso e sulle mani, ma stava bene. Stavano bene entrambe.
“La seconda cosa che volevano fare era trovare il cartiglio e so dove è” aveva detto la rossa, nervosa, guardandosi il dorso della mano. Non c’era niente, ma aveva l’impressione che la figlia di Apollo vedesse qualcosa che a lui sfuggiva.
“Odoacre?” aveva domandato subito Polisenna, “Abbiamo risolto” aveva detto lui, con un leggero disagio, mentre seguiva la ragazzina rossa per una ripida scalinata.

Erano sbucati in un cortile porticato, con una statua decapitata al centro di una fontana, per il resto non c’era nessuno lì, c’erano schizzi di sangue e lasciti di armi.
C’era stata una battaglia, ma non c’erano corpi, questo voleva dire che Bernie e Trevor in quanto umani non erano morti.
Tirò un sospiro di sollievo.
Heather guardò la sua mano con una certa passività, prima di voltare il suo sguardo verso la statua, “Il cartiglio non è più qui” aveva sussurrato lugubre, “Lo avranno recuperato!” aveva provato Polisenna mettendole una mano sulla spalla amorevole.
“Allora togliamoci da questo posto, che siamo scoperti” aveva stabilito Puma, lanciando uno sguardo severo al cielo, diverse creature volavano sopra le loro teste.
Heather aveva seguito il suo sguardo, era stata attirata da un arpia che cercava di ferirne un'altra, erano due macchie nere nel cielo, che emettevano versi striduli come aquile. “Si, torniamoci al C.I.B.E.L.E. e speriamo di incontrare gli altri sulla via” aveva stabilito acre, chinando lo sguardo verso di lui.
Non riuscirono a fare neanche un passo che una freccia fendetta l’aria con un fischio, prendola. I riflessi di Puma furono abbastanza svelti da afferrarla per un braccio e spostarla, perché la punta non le trafiggesse il petto, ma la spalla.
Di Imortales!” strillò Polisenna terrorizzata, mentre Puma le afferrava entrambi per trovare riparo dietro una colonna, prima che un’altra freccia piombasse su di loro.
“Se sei uno sciro, oggi siamo alleati!” aveva strillato con vigore.
Aveva rivolto lo sguardo verso Heather, la ragazza era esangue in viso una mano le tremolava protratta verso la freccia senza avere il coraggio di toccarla, questa ancora ben piantata nella carne. Dal bordo dello strappo della maglietta una macchia che impregnava il tessuto aveva cominciato ad espandersi.
Probabilmente se avesse estratto la punta avrebbe ancora di più lacerato la carne, ma non credeva sarebbe stata una ferita mortale, forse solo invalidante.
“Non dovrebbe essere troppo grave” aveva commentato a bassa voce allungando le dita verso lo stelo, “No fermati!” aveva strillato la figlia di Apollo, “C’è del veleno” aveva aggiunto solenne, chiudendo gli occhi, come se improvvisamente avesse compreso qualcosa.

“No! Non sono uno sciiro, io sono un troiano!”  la voce era arrivata forte e tuonata, ricca d’orgoglio.
“Cosa?” aveva chiesto Heather aggrottando le sopracciglia.
Probabilmente un redivivo di Gea.
Lui aveva fatto saettare lo sguardo verso Polisenna, lei aveva sospirato, “Anche io lo sono, conterraneo” aveva strillato lei, poi aveva detto qualcos’altro in quella antica lingua parlata dai dardani, Puma aveva distinto solo il nome proprio della fanciulla, forse si stava presentando o faceva valere il suo titolo di principessa.
Per un attimo era calato il silenzio.
“Sorella” aveva udito come risposta, abbastanza perché le spalle si facessero tese, prima di spostarsi dalla colonna, “Troilo” aveva pianto lei, sfuggendo alla presa di Puma, “Fermati!” provò a chiamarla, ma la ragazza aveva già compiuto i passi che la speravano dall’Arcere.
Si somigliavano, fu quello il primo pensiero che ebbe Puma nel vederli, lo stesso taglio del naso, gli occhi caldi ed il viso dolce.
L’uomo lasciò cadere l’arco per terra per stringerla tra le braccia.
“Ricordami chi era Troilo” aveva commentato Heather, posando la testa sulle colonna, “Era un figlio di Priamo, ucciso da Achille” aveva risposto lui, “Sulla sua testa gravava una profezia: se fosse morto prima dei vent’anni, Troia sarebbe caduta” aveva raccontato.
Heather aveva schioccato la lingua, “Che schifo le profezie” riuscì a dire solamente.
Polisenna si sciolse dall’abbraccio del fratello, posando materna una mano sulla sua guancia, a Puma ricordò le sue sorelle e sentì la loro mancanza bruciante.
“Perché ci hai attaccati?” aveva chiesto quella, “Perché non mi ero accorta fossi con loro, dolce sorella” aveva risposto Troilo con una voce dolce, “Ma non preoccuparti” aveva detto subito, “Ora che ci siamo ritrovati ti proteggerò” aveva detto chiaro.
Polisenna lo aveva abbracciato di nuovo, “Si, certo, andiamo via” aveva detto lei, prima di voltarsi nuovamente verso di loro, “Prima devo uccidere la figlia di Apollo, poi tu ed il tuo amico possiamo andare via” aveva stabilito con tranquillità.
Puma aveva sgranato gli occhi, “Colpa della fottuta purga” aveva  detto a denti stretti Heather.
“Cosa?” aveva domandato indignata la principessa, “Si, non ti preoccupare faccio subito” aveva detto lui con tranquillità.
“Ma, per l’Ade, cosa stai dicendo? Sei impazzito?” aveva strillato lei, “Vendetta, Polisenna, vendetta” aveva stabilito lui con tranquillità.
“Si contro Neottolemo, non Heather” aveva detto Polisenna. Puma non le avrebbe dato torto, il guerriero aveva ucciso lei ed il padre dello stesso aveva assassinato Troilo.
“Neottolemo, Achille, Agamennone” aveva risposto quello, “Sono stati strumenti della caduta di Troia, non gli artefici” aveva rivelato, “Gli dei sono i colpevoli, hanno giocato con noi come gatti con i topi” aveva raccontato con voce greve.
“Apollo tra tutti” aveva aggiunto Troilo, “Cosa dici?” aveva domandato retorica lei, “Certo, gli dei sono stati spesso infami, ma Apollo è tra tutti quello che ci ha aiutati di più” aveva difeso il suo dio.
“No, lui è la causa di tutto sorella” aveva stabilito perentorio, “Se non avesse maledetto nostra sorella Cassandra, allora avremo creduto alle sue parole” aveva rivelato, “Ma Troia è caduta, perché Apollo non aveva avuto la sua soddisfazione” era stato ruggente.

Puma si era voltato verso Heather, la ragazza aveva spezzato l’asta della freccia, non nascondendo una smorfia sul viso, “Questa è la storia della mia vita” aveva ringhiato lei, “Mio padre ignora apertamente le mie richieste di aiuto, ma rimango in balia dei suoi nemici” aveva esclamato.
Poi aveva fatto scattare il viso verso Puma, mentre teneva una mano sulla ferita, “Di che colore ha gli occhi Troilo?” aveva chiesto poi, improvvisamente.
“Cos’è questa, cazzo, di ossessione?” aveva letteralmente ringhiato Puma.
“Rispondi!” aveva insistito solamente lei.
Puma si era sporto per un secondo, osservando come i due fratelli stessero discutendo tra loro, “Direi castani” aveva risposto, cercando con gli occhi lo sguardo dell’altro.
Heather aveva tirato un sospiro, “Bene” aveva detto poi, “Allora non morirò qui” aveva annunciato, con un sorriso più rilassato in volto.
Lui aveva sollevato un sopracciglio, “Mi ucciderà qualcuno con gli occhi verdi” aveva dichiarato, prima di allontanarsi dalle colonne, osservando i due, con le mani alzate. “Senti, mio padre è uno stronzo te ne do atto” aveva confermato, “Ma ammazzando me non ci guadagnerai nulla” aveva stabilito.
Troilo l’aveva guardata, “Metterò fine alla sua stirpe” aveva riso, “Credo che Apollo abbia più figli delle stelle nel cielo, non credo che ti basteranno due o tre vite” aveva ribattuto lei, “Forse qualche figlio lo piangerà, ci scommetto, ma non sono io quella figlia” aveva rivelato. La sua voce era dura e ruvida, segno di una ferita che la lacerava. “L’ho incontrato una sola volta ed ogni volta che ho invocato il suo aiuto lui mi ha ignorato; perfino il Sol Invictus si è presentato al posto suo” aveva dichiarato Heather.
“Non importa” aveva stabilito Troilo, ma Polisenna si era mossa per mettersi davanti la figlia di Apollo con la braccia spalancate, “Che stai facendo?” aveva domandato retorico lui, “Difendo i miei compagni” aveva riportato subito la troiana. “In più anche tu sei un figlio di Apollo[11]!” aveva sentenziato la ragazza con voce ruggente, “No!” aveva risposto subito perentorio il fratello, additandola, “Sono figlio di Priamo, signore di Troia” aveva dichiarato con vigore.
Polisenna non si era spostata, “Adesso levati sorella, non ho nulla contro il maschio e la figlia di Apollo, tanto, è già morta” aveva dichiarato disinteressato il guerriero.
“A me sembra molto viva” aveva valutato Puma.
“Il veleno la ucciderà” aveva ribattuto Troilo.
“Sono una guaritrice e solo qualcuno dagli occhi verdi potrà uccidermi, lo ha predetto vostra sorella Cassandra!” aveva ribattuto con ostentazione Heather, sebbene il viso fosse ancora ottobrata dal dolore e la pelle bianca come la carta.
“Senti, siamo tre contro uno e c’è tua sorella” aveva esordito alla fine Puma, decidendosi ad uscire da dietro la colonna anche lui, di rimando non poteva umiliarsi troppo quando le altre due non avevano avuto remore nel mostrarsi così sfacciatamente.
“Ora, probabilmente Gea ti ha tirato fuori dagli Inferi e ti ha detto: Corri, Troilo, corri![12] Puoi vendicarti di tutti quelli che vuoi” aveva provato a dire, “Il sentimento di vendetta lo capisco anche io, sono un cartaginese, sono stato cresciuto a pane e rancore” aveva detto Puma, “Tutta la mia famiglia è stata sterminata!” aveva ringhiato Troilo, chinandosi per raccogliere l’arco dal pavimento, pronto probabilmente ad attaccare di nuovo.
“Si, ho letto l’illiade, in lingua originale, la versione dell’Ilias Latina di epoca neroniana e pure in inglese” aveva raccontato deciso, “E si nonostante da Troia sia nata Roma, penso che il destino di Illio sia stata una vera tragedia – e rispetto anche il tuo punto di vista su gli dei, in particolare Apollo” aveva sottolineato con ferocia.
Le sue chiacchiere erano state abbastanza convincenti per tenerlo impegnato, Puma doveva dichiarare di sentirsi stupido, non era mai stato bravo con le parole, era figlio di una signora della guerra ed Hannibal usava prenderlo in giro sul fatto che avesse il vizio di sparare e poi fare le domande.
“Ma tua sorella è qui” aveva detto, additando proprio Polisenna, “E tu vuoi farmi credere che vendicarsi di una qualsiasi figlia di Apollo e stare alle dipendenze di Gea, ne vale la pena?” aveva domandato retorico, continuando ad indicare la principessa di Troia.
“Perché lascerei bruciare Nuova Cartagine per le mie due sorelle” aveva detto solenne, tenendo uno sguardo netto sugli occhi del principe troiano.
Polisenna aveva finalmente abbassato le braccia per lanciarsi verso il fratello ed abbracciarlo di nuovo, “Ti prego, Troilo” lo aveva supplicato, “Dimentichiamoci di Gea, Neottolemo e gli Dei, accettiamo il tempo che ci è rimasto prima che chiudano di nuovo le Porte della Morte” aveva mormorato, posando il viso nell’incavo del collo del fratello.
Poi quando sciolsero il loro abbraccio, Troilo si voltò verso di loro, “Non mi sto arrendendo alla vendetta” aveva dichiarato, “La sto posticipando, se Gea dovesse vincere, tornerò per te, figlia di Apollo” aveva aggiunto, “Ma adesso dovete andarvene, perché Niobe[13] non sarà gentile quanto me!”  aveva terminato, invece Polisenna li aveva guardati con un sorriso dolce.
“So che questo contraddirebbe tutto ciò che hai appena detto, ma puoi dirmi che veleno hai usato?” aveva domandato Heather, “Per essere la regina della pestilenza, sei carente” aveva valutato Troilo, senza degnarsi di rispondere.
A quell’epiteto l’espressione della figlia di Apollo si era dipinta di terrore puro.

 

“Come va la ferita?” aveva domandato Puma, guardando la ragazza, aveva recitato dei versi in  greco ottenendo che l’emorragia si arrestasse.
Avevano appena affrontato un gruppo piuttosto agguerrito di telechini ed era toccato a Puma dover combattere visto la spalla malmessa di Heather, il problema era che alla fine erano finiti per fuggire via, per evitare di essere sopraffatti.
Per occuparsi della ferita, avevano trovato rifugio nel vano di un sottoscala; dovevano ancora trovare un modo di uscire da quel palazzo pullulante di mostri. Puma si chiese se fosse possibile utilizzare la stella di Erebo, come arma di difesa.
 “Non so se sono più preoccupata dalla possibilità che vada in sepsi per la punta ancora ficcata nella carne o dal veleno” aveva risposto la figlia di Apollo, aveva cercato di forzare dello scherzo nel suo tono ma aveva fallito.
Puma aveva allungato una mano verso di lei, sfiorandole la spalla non dolorante, “Troilo ti ha chiamato la Regina della Pestilenza, non posso credere che tu sia davvero preoccupata” si era lasciato sfuggire senza problemi, anche in parte ammirato.
“Non lo so, Cassandra ha detto che sarei morta per mano di qualcuno con gli occhi verdi, ma Troilo era così convinto quando ha detto che ero già morta” aveva valutato lei, con voce spenta, “Probabilmente intendeva solo che fosse molto deciso” aveva provato Puma. “Però sento qualcosa di strano in questo veleno” aveva confessato, “Non la stessa sensazione della Pestilenza ma è comunque diverso” aveva raccontato, “Non è che sia stata avvelenata molte volte, per dirlo, eh” aveva aggiunto. “Inoltre” aveva ripreso Heather, “Anche Cassandra mi ha chiamato così: Regina della Pestilenza, prima che … be, lo diventassi” la sua voce era stata dura come una condanna.
Prima che Puma riuscisse a rispondere però era accaduto qualcosa. Il mondo si era fatto oscuro, letteralmente, come se fosse calata improvvisamente la notte, ma anziché aver annerito solamente il cielo, senza neanche una stella a puntellarlo, era calato su tutto.
Come nebbia fittissima, nera come la polvere.
“Ma che c…” aveva detto solamente Heather, “Bernie!” aveva risposto solamente Puma, non poteva esserci altra spiegazione a quello se non che quello fosse il potere della figlia di Nyx.
Bernie aveva fatto letteralmente scendere una notte fitta su di loro.
Sarebbe stato buio pesto se non fosse stato per la luce violacea della stella di erebo, una fioca luce … e Heather.
“Sto brillando” aveva mormorato sconvolta la figlia di Apollo, guardando come la sua pelle di carta fosse letteralmente luminescente.  “Oh!” aveva commentato Puma, “Nello spazio è sempre notte, potremmo dire, ed il sole brilla sempre” aveva detto.
“Probabilmente il sangue di tuo padre deve aver reagito al potere di Nyx” aveva valutato solamente Puma, chiudendo le dita sul mento, “Fantastico: sono un led” aveva sussurrato Heather, ma dal sorriso sul suo volto pareva estremamente sincera della sua contentezza.
Il problema risultava solamente cosa fosse accaduto in Bernie, quel potere era angosciante, lo percepiva, ma si stupiva che la figlia di una divinità protogena avesse quel tipo di potere, ma lo scoppio così brutale di una energia doveva essere stato scatenato da qualcosa.
Lo sentiva che era accaduto qualcosa.
Quella nebbia oscura, quelle ombre, erano fitte di angoscia.



[1] Hymilce era stata già introdotta durante il capitolo su Cartagine, come il primo ufficiale della Grande Tanit e fidanzata di Hannibal (Giàcchè io sono una persona orribile la moglie di Annibale Barca si chiamava Imilce).

[2] In realtà Ma non è semplicemente una della dea Capadocia, ma una versione di Bellona (Yep, Puma è il fratellastro di Reyna).

[3] Tecnicamente il nome dovrebbe essere Alf Seidr, ovvero la magia degli elfi, comunque è una magia tipica delle streghe norrene (usualmente è un’arte da donna, ma sia nella mitologia canonica sia in quella riordana non mancano personaggi maschili che la praticano).

[4] Faccio prima a darvi la wiki: https://it.wikipedia.org/wiki/Spada_(periodo_delle_migrazioni)

[5] Se avete letto la saga di Magnus Chase saprete già che posto è quello indicato da Xander, se invece non lo avete fatto: Folkvanger (lett: Campo di persone) è un altro ‘paradiso’ a cui gli eroi nordici possono aspirare, oltre il più noto Vallalah. Questo perché Freya ed Odino si accordarono di raccogliere metà per uno le anime degli eroi. Mentre il Vallalah si trova su Asgard, Folkvanger è su  Vanaheim ed è “gestito” da Freya (che è la mamma di Xander). Nella saga di Magnus il Folkvanger è descritto come un posto molto allegro dove la gente fa pic-nick e gioca a baseball, per questo ho voluto dividere i guerrieri in campetti (rifacendomi al Vallalah Riordiano diviso per piani – perché è un hotel).

[6] L’assedio di Alesia: 52 a. C.,  dove Giulio Cesare ha definitivamente sconfitto Vercingetorice e fatto capitolare le tribù galliche (Ero indecisa tra questo assedio o quello di Costantinopoli, ma per Puma la vittoria su Alesia è decisamente più nefasta).

[7] Il fidanzato di Deedo, nel capitolo su Cartagine, viene chiamato “Sick” (Si, malattia) che è un nomignolo per Sicheus, proprio in onore di Sicheo marito di Didone (si, lo ho fatto di nuovo perché sono pessima).

[8] Elissa è un altro nome per Didone, molto più in voga tra i cartaginesi di Didone, ma non ne sono certa. Comunque ne approfitto per divervi che chiaramente anche il nome Deedo è ispirato a quello di Dido(ne), solo che ho preferito questa grafia perché altrimenti il nome Dido, con la pronuncia inglese, sarebbe stato letto come Daido, anziché Dido, come la versione latina vuole. Visto che sono pessima in tutto aggiungo che nell’eneide viene riportato che Didone aveva una sorella: Anna, a cui confidava tutti i suoi dubbi. Si. (In realtà nel capitolo su Cartagine ho fatto lo stesso gioco con Hannibal ed i suoi fratelli).

[9] Didone riesce a convincere i re africani a darle della terra con un “trucco”, essi si offrono di darle territorio quanto avrebbe coperto il manto della pelle di un bue (infatti Cartagine era soprannominata Birsa, in greco: pelle di bue – e fenicio: roccia) solo che lei la fa a strisce sottilissime e mettendole in fila riuscì a ricoprire un enorme zolla di terra.

[10] Sempre nel capitolo su Cartagine: Hannah diceva che lei ed i suoi fratelli erano tutti figli di tre dee diverse, così Hannah è figlia di Nike, una greca, Puma di Ma, una capadociana, e Deedo di Minerva, una romana. Come conferma Puma in questo capitolo sono anche tutte e tre dee estere rispetto Cartagine.
Nel capitolo su Cartagine, Hannah dice che Deedo e Annabeth hanno la stessa madre, cosa che “tecnicamente” è vera.

[11] In alcune versioni Troilo è indicato come figlio di Apollo! Ed anche in questa storia lo è.

[12] È la citazione di Forrest Gump. LoL.

[13] Ho già citato questa signora, in occasione del capitolo in cui compare anche Cassandra ed è anche apparsa in un incubo di July.

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Capitolo 26
*** Un bacio è un apostrofo rosa tra le parole: “Forse non hai notato che siamo in mezzo ad un campo di battaglia!” (Arvey IV) ***


ASPETTA: si, sto aggiornando davvero in breve tempo, mi è capitato di aver un momento libero e lo ho usato per la scrittura (e per lavorare con del foam, ma okay). Comunque, non vedevo l’ora di scrivere questo capitolo per una singolare scena e spero sia venuto bene.
Come avevo detto anche questo capitolo fa ancora pare della ‘Parentesi di Sciiro’ se tutto va bene e riesco ad organizzarmi come si deve, questo dovrebbe essere il penultimo.
Gli eventi di questo capitolo si svolge contemporaneamente al precedente (ed è solo sfiga se i vari pg non si intersecano).
Riguardo la relazione che intercorre tra Arvey e Bernie non è chiaramente ‘sano’, per quanto io abbia cercato di non renderlo tossico, o meglio ‘troppo’ tossico. Ho cercato di valutare come potesse interpretare dei sentimenti un essere non-umano, quindi con un codice di riferimento completamente diverso.
Buona lettura,
RLandH


IL Crepuscolo degli Idoli

 

Un bacio è un apostrofo rosa tra le parole: “Forse non hai notato che siamo in mezzo ad un campo di battaglia!”

Arvey IV

 

“L’hai mangiata” il commento di Jake, il ghoul, era stato non richiesto, almeno a pare di Arvey, ovviamente.
Il commento del mostro, abbastanza ipocrita a parere del lestrigone, era riferito alla triste sorte che era toccata ad Hermione, la prima moglie di Neottolemo, che lo stesso pazzo, aveva ordinato che venisse mangiata per pranzo, davanti i suoi ospiti.
Arvey non si sentiva più turbato del solito, aveva ucciso e mangiato un numero di mezzo-sangue e mortali che non poteva essere definito esigue. Hermione era stata solo un’altra tattica su una metaforica cintura e neanche una così sfiziosa.
“Si. Se non lo avessi fatto avrebbe ucciso Bernie” aveva confidato Arvey poi, senza scomporsi, aveva gli occhi chiusi, cercando di non pensare fosse ancora chiuso in una segreta sotto terra in un palazzo impenetrabile, così lontano da Bernie.
E non gli era importato molto altro, davanti quella scelta, di cannibalizzare viva ed ancora urlante quella povera anima rinata, aveva cercato di ucciderla subito, più per evitare di cibare Neottolemo del suo spettacolo che per reale delicatezza nei confronti della giovane.
Ad Arvey non importava dei mortali e dei mezzosangue, no, il suo cuore non si era convertito alla via della purezza, come Grace, a lui interessava solamente di Bernie – e per estensione le persone che contavano per lei.
Tranne Puma, anche se Bernie si fosse affezionata a lui; il modo che aveva il cartaginese di guardarla non lo avrebbe mai reso apprezzabile per Arvey.
E poi quell’infame gli aveva anche sparato, se fossero sopravvissuti a Sciiro ed il recupero dell’arma da parte di Nyx si sarebbe occupato anche di Puma.
Arvey scommetteva avesse un buon sapore, i mezzosangue lo avevano sempre.
“Ma era necessario che fosse viva?” aveva chiesto Jake ancora turbato; come mostro lasciava molto a desiderare. “Cucinare è uno sfizio che noi mostri ci prendiamo per sentirci più umani – cioè poi a Z.J. piaceva seppellire tutto sotto chili di salsa barbecue – ma per qualcuno di noi va ancora bene farlo alla vecchia maniera” aveva spiegato lui. Senza scomporsi.
Ricordando di tempi ormai passati da molte, molte, lune.
Certo preferiva di gran lungo scottare la carne con un filo di olio, ma non disdegnava per nulla fare le cose alla vecchia maniera.
Jake invece era sembrato profondamente turbato da quella confidenza, evidentemente la sua condizione di mostro doveva essergli non solo ancora estranea ma anche indigesta.
Doveva essere strano, in effetti, a pensarci, nascere in un modo e ritrovarsi poi bloccato in un’altra condizione, così diversa.
Infondo lui era sempre stato un lestrigone, in ognuna delle sue vite.
Alla fine dopo aver scosso il capo, Arvey si era limitato a commentare: “Pensavo che i ghoul mangiassero cadaveri, non credevo partecipaste anche a Master Chef”, con una ilarità amara.
“Si cadaveri. Morti. Defunti” aveva provato a giustificarsi quello, stringendo i pugni sui pantaloni di jeans, consumati.
L’espressione ancora colpevole sul viso, come se l’avesse mangiata lui quella povera donna e che neanche ventiquattro ore prima aveva cercato di far fuori lui, Bernie e Puma.
Arvey aveva piegato nuovamente le labbra in un ghigno, non sentendosi neanche in colpa per tutto quel disagio che tormentava il ghoul.
Poteva accettare che fosse difficile per Jake realizzare ciò che era, almeno a livello  superficiale, ma non nel profondo, non veramente. Perché tutto sommato Arvey adorava essere un mostro.
“Dimmi un po’: com’è che un cuore di panna come te è finito a lavorare per Gea?” aveva chiesto poi il lestrigone.

L’espressione sul viso di Jake era finalmente mutata, non più dipinta dalla colpevolezza, essa aveva assunto sfumature di sconforto.
Anche peggio.
Il ghoul si era morso il labbro, permeato da disagio, quella domanda doveva averlo colpito dritto su un nervo scoperto. Arvey avrebbe giurato non fosse una domanda così astrusa, ma immaginava che ogni storia a modo suo dovesse essere sensibile. Per esempio, nel suo caso, sarebbe stato: Arvey perché hai un’ossessione morboso-romantica per una mezzosangue invece che interrogarti con quale contorno starebbe meglio tra carote e patate?
Ognuno il suo.
Mia madre” aveva confessato alla fine, con leggero imbarazzo Jake.
“Tua madre?” aveva ripetuto allora il lestrigone, sbattendo gli occhi. L’altro era rigido come una tavola.
Sapeva che il giovane era stato un membro dell’esercito di Crono, non ricordava molto altro di lui, era stato uno degli esploratori del labirinto, ricordava questo.
Forse con sua madre, faceva riferimento alla sua divinità genitrice.
“Si, lei è una rusalki, praticamente un mostro, anzi meglio uno spirito vendicativo, credo, della mitologia slava” aveva spiegato.
“Sei un ghoul figlio di una fottuta rusalki?” aveva domandato confuso, schiudendo le labbra Arvey, quasi ammirato. Aveva conosciuto un paio delle donne dei corsi d’acqua appartenenti alla mitologia in questione, non sapeva se fossero le rusalki, le ville o le beregyn, nella sua ignoranza ad Arvey sembravano tutte uguali: creature simili a ninfe, bellissime, ma spettrale e letali.
Quelle che aveva incontrato lui erano fanciulle decisamente poco inclini alle chiacchiere e più pratiche nell’annegare uomini e mortali; una volta una di loro lo aveva costretto a ballare fino a che non era quasi morto di sfinimento.
Poi Pasticcino ci aveva intavolato una simpatica chiacchierata ed era fino tutto a cervella di mezzosangue e midollo spinale.
E altre cose molto appetibili.

“Si, io mica lo sapevo, eh” aveva detto subito Jake, “Sono cresciuto tra una casa famiglia e l’altra, la persona più vicina ad una figura materna è stata la Dottoressa Lewis, credo fosse una mezzosangue, lei è stata a portarmi al campo quando avevo dodici anni e a rassicurarmi non fossi pazzo, solo speciale” quell’ultima parola l’aveva detto accompagnata da uno sputo. Disgustato da quella definizione, che probabilmente dopo la vita e la morte non doveva trovar molto poetica.
“Fino a che non sono diventato non-morto, non avevo idea neanche di quale dei miei due genitori fosse il dio. Invece ero figlio di un mostro, all’incirca, quando mi ha messo al mondo era ancora umana, credo,  non ho capito se devo essere onesto, ero troppo sconvolto dal fatto di aver incontrato la mia mamma-mostro dopo essere letteralmente morto” aveva confessato, aveva senso, “La sua prima battuta quando mi ha visto era che non potevo essere altro che suo figlio” aveva aggiunto, il suo tono voleva essere divertito ma pareva per lo più patetico.
“Perché vi somigliate o perché siete refrattari alla morte?” aveva chiesto divertito il lestrigone, “La seconda ovviamente” aveva risposto Jake, “Solo che nel suo caso non c’è stato nessun negato ingresso, letteralmente lei si è rifiutata di morire, non prima di vendicarsi degli dei” aveva detto, con una leggera ammirazione.
“Mi ha confessato che se avesse saputo che mi ero unito ai mezzosangue di Crono, lo avrebbe fatto anche lei, ma in quel momento faceva l’assassina su commissione per un tizio noto come la Bestia” aveva rivelato.
“Mai sentito” aveva ammesso  Arvey, “Tuo padre, invece? Hai scoperto chi era?” aveva domandato, si, poteva ammettere di essere interessato a quella storia, almeno fino a che non avevano modo per sfuggire a quella prigione sotterranea, con sbarre in bronzo celeste e pareti in pietra-luna.
Jake aveva riso, con amarezza, “Ecco che arriva la parte migliore, mia madre non lo sa” aveva detto sprezzate, ma prima che il lestrigone potesse fare altre domande, un paio di sonore vibrate di lama aveva interrotto la loro chiacchierata.
“Sta succedendo qualcosa!” aveva esclamato Arvey tirandosi su dal lurido pavimento, proprio prima di vedere un giovane soldato sciro farsi l’intero corridoio delle celle per atterrare ai piedi della loro cella, pesto in viso.
Evidentemente gli sciiri non erano venuti per soddisfare un’altra curiosa idea del loro signore, ne per ucciderli. “Decisamente!” aveva esclamato Jake.
Il povero soldato aveva provato a reagire, ma un poi aveva cominciato ad urlare arpionandosi la testa, finendo per lanciare via l’elmetto ed appallottolarsi in posizione fetale.
“Lo scudo deve essersi rotto” era stato l’unico commento di Jake con estremo vigore, guardando le sue mani aspettandosi qualsiasi cosa.
Arvey non si era sentito diverso, ma immaginava non potesse esserci altra spiegazione e che presto anche la sua forza si sarebbe palesata ancora.
Le luci del corridoio si erano fatte più iridescenti, come se qualcuno avesse alimentato le fiaccole, lì tra le ombre si era scagliata la figura di Trevor, con scintillanti occhi inumani e le mani protese nell’aria, elettriche di un potere che Arvey riusciva quasi a respirare.
Ricordava che un giorno Mickey gli aveva raccontato di come i sacerdoti egizi riuscissero ad usare il potere degli dei facendosi possedere da loro, ma tutta l’attenzione che aveva dedicato a Trevor l’egiziano era scomparsa quando al suo fianco si era palesata Bernie.
Bella come la prima stella del mattino, rifulgente di quella vibrante alone che solo la notte poteva sfoggiare.
Arvey aveva temuto come sarebbe potuto essere il loro incontro, dopo ciò che aveva fatto, Bernie rimaneva speciale, ai suoi occhi, ma non era certo che quel sentimento sarebbe stato poi corrisposto dalla giovane, dopo gli eventi di quel meriggio.
Eppure non riuscì a trovare che sollievo negli occhi neri di Bernie.
“Sei ancora vivo!” aveva detto immediatamente la figlia di Nyx, posando una mano sulle sbarre ed infilato l’altra tra le asta per potergli accarezzare il viso.
Il suo tocco era bruciante e confortante.
“Si, non ho intenzione di morire per molto tempo” l’aveva rassicurata, prima di chinare lo sguardo e notare come al posto della sua maglietta, indossasse la felpa che aveva visto a Trevor durante il pranzo.
Arvey l’aveva stretta come se il resto della sua vita dipendesse unicamente da questo.


“Gli altri?” aveva chiesto poi, sciogliendosi da lei e ricordando il guerriero norreno, la greca, Puma e la donna incinta.
“Abbiamo mandato Xander ed Heather a recuperare Polisenna e Puma” aveva spiegato subito lei, prima di raccontare che avessero messo fine al veto della magia, “Adesso troviamo un modo per farvi uscire” aveva detto. Giusto quelle parole erano bastate affinché Arvey piantasse le mani sulle sbarre e recuperando quella sua brutale forza che il mantello di Sciro gli aveva assopito.
Aveva allargato le sbarre della prigione, sentendo il potere tornare con vigore a fluire in lui, aprendo così uno squarcio in cui potessero passare sia lui, sia Jake. “Ora si che mi sento bene” aveva commentato con un certo vigore, prima di scivolare fuori.

“Aspetta hai detto Heather?” aveva domandato poi Arvey. Quel nome sembrava decisamente nuovo. Possibile che con Bernie bastate distrarsi per un secondo che si ritrovava accerchiata di estranei?
“E la tizia incinta?” aveva domandato invece Jake.
Bernie aveva scosso il capo, “Oh, ci siamo dimenticati di lei” aveva commentato Trevor colpevole.
“Heather, figlia di Apollo, come aveva predetto il Dio Vestito di Bianco” aveva raccontato la figlia della notte, raccontando qualcosa che doveva avere senso per lei.
Arvey ebbe un brivido, ricordando il dio in questione, che aveva dichiarato di averlo scelto come campione.
Un dio che sceglieva un mostro.

Jake aveva sbattuto gli occhi, mentre anche lui scivolava tra le sbarre ormai mutilate, “Aspetta, tu stai parlando di Heather Shine, del campo mezzo-sangue,  della casa sette? Occhi verdi, capelli rossi, alta più o meno un metro ed un tappo di bottiglia?” aveva domandato.
Bernie aveva annuito nuovamente, “Si credo che quello fosse il suo cognome, però non ci siamo messe a fare molti convenevoli. Eravamo di fretta” aveva risposto la ragazza.
No, per Arvey quella descrizione non aveva senso. “Lei mi ha portato questa” aveva detto poi con un moto accattivante Bernie, sfilando da un fodero legato alla cintola una spada spettrale fatta di nero ferro di stige.
Arvey aggrottò le sopracciglia, una figlia di Apollo che la maneggiava? Impossibile!
Guardò meglio la spada … quel tipo di fattura e l’elsa liscia di sfumature dorate, il pomello era composto di minerale lucido, forse quarzo, su cui era inciso un fiore.
Arvey aveva allungato una mano per toccare la spada, ma l’aveva ritratta immediatamente, sfiorata appena la lama, quasi si fosse scottato con l’oscura magia che ne era infusa. Aveva già visto quel ferro ne era certo ed aveva già sentito quella sensazione.  


“Cosa è successo?” aveva domandato poi, “Non importa” aveva mormorato Bernie, il suo tono era stato freddo e duro, “Ne parleremo bene dopo” aveva cercato di mitigarsi dopo, “Ora dobbiamo recuperare il cartiglio di Aten” aveva ripreso la parola Trevor, con una voce greve ed innaturale.
“So dov’è!” aveva trillato immediatamente la figlia della notte recuperando la sua naturale indole, “Nella terrazza porticata al piano di sopra” aveva aggiunto, “Allora andiamo!” aveva detto subito Trevor, recuperando un aspetto più umano.
“Non dovremmo approfittare ad andare via?” aveva domandato Jake, “Senza il cartiglio non avrebbe senso.  È la prigione di un dio che non può essere lasciato incustodito” aveva risposto subito lo stregone, “Specie se consideriamo che sta ar…” l’altro aveva cercato di continuare il suo discorso, ma fu brutalmente interrotto da Bernie.
La figlia di Nyx aveva sollevato una mano, come se con quel gesto avesse letteralmente catturato la voce di Trevor.
Tutti avevano guardato allora Bernie, che aveva fatto uno scatto svelto e felpato, ponendo la lama nera sul figo della gola del ghoul.
Jake era riuscito a trattenere a stento uno strepitio, mentre Arvey e Trevor erano rimasti in un silenzio glaciale. “Bernie” il ghoul aveva fatto scivolare tra le labbra il nome della donna, “C’è qualcosa che dovresti dirci Jakie?” aveva domandato retorica lei, con uno sguardo ardente negli occhi scuri. Arvey aveva visto versione spettrali di Bernie, ma erano sempre accompagnate da una rabbia cieca, però in quell’occasione il temperamento della mezzosangue era animato da fredda calma.
“Non so …” aveva provato Jake, ma non era riuscito a finire il discorso, che Bernie aveva affondato lievemente la lama, tagliando la pelle grigiastra, quel tanto che una linea di sangue nero si aprisse sul collo del ghoul. Neanche un rivolo era scivolato, come non morto, non poteva sanguinare.
“L’esercito di Gea, amico mio” aveva ringhiato Bernie.
Il ghoul aveva abbassato lo sguardo colpevole, “Mi dispiace” aveva mormorato lui, “So che Madre Gea era interessata al meccanismo di difesa di Sciiro, ma l’assedio è stato lasciato a Niobe e Troilo. Io, con Arminius e Ines dovevo occuparmi di te” aveva raccontato subito, “Mi dispiace” ed Arvey percepì reale tristezza impregnata nelle sue parole.
“Mi sfugge solo un particolare” aveva commentato ancora Bernie, senza alcuna intenzione nell’abbassare la spada, “Cosa, per l’Ade, vuole Gea da me?” aveva domandato poi.
“Io non lo so!” aveva confidato Jake, “Se sotto Crono non ero che un soldato sacrificabile, sotto Gea sono pura polvere” aveva raccontato, “Lo aveva detto ad Ines, solo che ecco lei non me lo ha voluto mai dire” aveva provato a giustificarsi.
Arvey riusciva proprio a fiutarla la puzza del suo senso di colpa.
“Allora: abbandonala” aveva detto Bernie con voce onesta, allontanando la lama dalla gola del ghoul, “Combatti con me. Come è stato un tempo” aveva ricordato, “Quando combattevamo assieme” aveva sorriso nel dirlo.
C’era stato del dolore che aveva attraversato gli occhi di Jake, probabilmente aveva ricordato un tempo che doveva sembrargli in quel momento troppo distante, vista la sua nuova natura.
“Sopravviviamo a questa follia, poi ti porterò da Alabaster e da July” lo tentò nuovamente Bernie.
Ne avevano parlato anche prima, fuori dal palazzo, aveva ricordato Arvey; quella prospettiva era stata abbastanza intrigante per il ghoul da cedere, che netto aveva acconsentito.
“Se abbiamo finito questa interessante ora delle chiacchiere, andiamo a prendere il cartiglio” aveva immediatamente esordito Trevor con più vigore, “E andiamocene da questo posto dimenticato da Anubi” aveva detto ruvido.
“Si, poi riuniamoci a Puma, gli altri e il C.I-qualsiasi-cosa-sia-venuta con Heather” aveva detto subito Bernie, prima di voltare lo sguardo verso di Arvey e sorridere gentilmente.
Il lestrigone aveva allungato una mano, per arpionarla sulla spalla del ghoul, “Prima del XIX secolo, posso rassicurarti che raramente i mostri si organizzavano in eserciti, eravamo più inclini a razzie e banchetti” aveva riso con divertimento poi, “Non sono sicuro di voler sapere quali banchetti” aveva stabilito poi, Mickey sarebbe stato profondamente allietato da tanta innocenza dipinta sul viso del mostro, “Se sei preoccupato per come reagirà tua madre a questo, siete ambedue mostri, avrete probabilmente l’eternità per fare pace” aveva cercato di tranquillizzarlo.
Era certo che con qualche secolo anche Pasticcino l’avrebbe  pensata così.
“Lei è letteralmente uno spirito della vendetta” aveva sussurrato lugubre Jake.

“Ora che ci rifletto: chi sono Niobe e Troilo?” aveva domandato invece Bernie, mentre imboccavano le scale per lasciare le segrete. “Lui è un principe Troiano risorto; lei invece è figlia di Tantalo, tramuta da Zeus in pietra per sua stessa richiesta” aveva risposto Jake, “Aspetta in che senso di pietra? Tipo una statua?” aveva chiesto Trevor confuso. “Si, no … è una statua, solo che è viva. Non è immobile come una scultura, è una creatura fatta di pietra viva, inviolabile alle armi mortali e ardente di un dolore verso gli Dei da uccidere con un solo sguardo” aveva raccontato Jake, sentendo dei brividi lungo la schiena.
“Me la ricordavo diversa” aveva rivelato Arvey con leggera noncuranza, l’aveva incontrata una volta, un centinaio d’anni prima, solo che nella sua memoria non appariva la donna descritta da Jake, ma al contrario una figura informe distrutta dai singhiozzi delle lacrime. “L’avrei definita più una fontana” aveva aggiunto sprezzante, “Be, ora non è più così” aveva risposto il ghoul con un tono raschiante.

Nel mentre, della loro corsa per raggiungere i piani superiori, avevano potuto notare come il castello fosse sceso nel profondo caos, tra guerrieri che Arvey non conosceva che combattevano contro i soldati Sciri e l’ormai imminente armata di Gea giunta nei confini del palazzo. Non che la loro traversata fosse stata priva di combattimenti, non che questo lo avesse impensierito.
Amava combattere.
Amava il sangue.
La terrazza dove gli aveva condotti Heather non aveva neanche un corpo a adornarla, ma l’acqua della fontana era tinta di rosso vivo. “Il cartiglio!” aveva strillato Trevor fiondandosi nell’acqua rossa per recuperare dai piedi della statua un rettangolo, dagli angoli smussati, su cui erano incisi geroglifici egiziani.
Lì dentro c’era prigioniero un dio?
Aveva dissolto lo sguardo da Trevor e da Jake che si muoveva circospetto nel cortile, per rivolgerlo verso Bernie, era guardinga, in tensione.
“Pensavo non mi avresti più guardato allo stesso modo” aveva sussurrato Arvey, facendola sussultare improvvisamente. Lei aveva alzato lo sguardo di lui, “Mai” aveva risposto Bernie solenne, poi aveva chinato lo sguardo verso la sua mano, anzi verso il suo polso, “Il dio vestito di bianco mi ha dato una cosa per te, anche se non so come dartela” aveva ammesso, mostrando la parte interna del suo polso, la pelle caffellatte era segnata da linee bianche che ricordavano una freccia.
Come un tatuaggio ad inchiostro bianco.
“Possiamo pensarci dopo, leviamoci da qui prima che torni Neottolemo” aveva aggiunto poi lei, con voce più fredda e guardinga, “Heather ha detto di affidarci ai Leoni – e giuro, non ho idea di cosa voglia dire” e con quell’ultimo commento si erano decisi a lasciare la terrazza porticata.

La loro corsa era stata però interrotta dall’arrivo di un esiguo gruppetto di soldati sciiri, vestiti e pronti per la battaglia, insozzati di sangue, dovevano essersi confrontati già contro qualcuno, forse l’esercito di Gea, giunto alle porte del reggia, o quei strani guerrieri che si erano palesati in quei corridoi che dovevano esser stati alleati di Heather.
Tra i guerrieri, con gli occhi carmini come fuoco ed i capelli biondo ardente che Arvey aveva distinto il figlio di Achille, l’architetto del suo pranzo.
“Vedo, figlia della Notte, che hai ritrovato il tuo fedele compagno” aveva detto con disgusto il signore del palazzo.
“Neottolemo!” aveva strillato Bernie di rimando, con il corpo scosso dai tremori della rabbia.
“Ridammi ciò che mi hai rubato e potrò valutare di lasciarti andare via intonsa assieme ai tuoi barbari amici” aveva strillato l’uomo con espressione turpe, puntando gli occhi verso Bernie. “Mi dispiace ma la stella avrà già raggiunto mani più sicure, ora” aveva ringhiato lei, sollevando la spada pronta alla guerra, “Non temo né te, né ciò che Gaia mi ha lanciato contro” aveva esordito insofferente, “Io sono Neottolemo, signore dell’Epiro, principe di Sciro! Non temo te, ne temo Gaia!” aveva gridato.
“E io sono Bernenyx LaFayett e non me ne frega un cazzo!” aveva risposto di rimando Bernie, collerica, come non era mai stata vista da lui.

Arvey si era frapposto immediatamente tra lei e Neottolemo.
Il principe dell’Epiro, aveva riso con amarezza, “Il tuo mostro personale ti vuole difendere, direi che non ha compreso bene che tipo di persona sei” aveva stabilito con voce mesta, mentre sollevava la spada.
“Cosa vuoi che ti dica? Sono un mostro a cui piace fare l’eroe” aveva detto chiudendo i pugni, non aveva con sé la mazza chiodata, ma era pronto a farlo anche a pugni.
“Arvey” aveva sentito la voce di Bernie alle sue spalle, fredda come il ghiaccio, “Lui è mio” aveva stabilito con voce dura, Arvey aveva voltato appena il capo, per guardarla, gli occhi neri scintillavano ruggenti come stelle.
C’era una furia ruggente nel suo sguardo, che Arvey non le aveva mai veduto addosso.
“Abbiamo già avuto questa sfida, ragazzina” aveva detto Neottolemo, con un tono pieno di rancore e disgusto sul viso.
Bernie  aveva svicolato Arvey, chiamata dalla provocazione, lanciandosi contro il principe dell’Epiro con la spada di stige sguainata. Tanto era bastato per dare inizio ad i combattimenti.
Lui era riuscito appena a vedere la lama di Neottolemi scivolare sul colpo di Bernie e fendere l’aria, mentre la sua compagna spariva di fronte a lui, inghiottita in nero fumo ed apparire nuovamente alle sue spalle per colpirlo. Una sola occhiata primo che uno sciiro cercasse di seccare lui.
Arvey aveva fermato la lama con una mano, sentendo il bronzo celeste incidere con vigore la carne e fiotti di sangue bollente scivolare dal suo palmo lungo il braccio.
Non aveva desistito sotto lo sguardo sconvolto del soldato, non lasciando la sua presa, l’attimo dopo aveva colpito l’uomo con una testata, facendoli cadere anche l’elmo dal capo. Il soldato era caduto rovinosamente a terra.
Nella caduta aveva lasciato l’elsa del ferro, permettendo ad Arvey di tenerla tramita la lama. Con la mano sana aveva afferrato il manico sciogliendo la presa nell’altro.
Pizzicava da morire e fiotti di sangue continuavano a scendere, “Che rottura” aveva detto, prima di piantare senza indugio la spada nella gola del soldato, che aveva cercato di tirarsi su con fatica. Quello si era disgregato improvvisamente, come un mostro.
Strano.


Aveva voltato lo sguardo trovando il mago combattere contro un guerriero. Arvey non aveva mai visto combattere uno stregone egizio, ne aveva sentito parlare si, solo che era difficile da descrivere. Trevor sembrava il caos, aveva un modo di muoversi che ricordava quasi una pantera ed una ferocia. Lo aveva sentito strillare qualcosa su una certa Sekmeth, ma era stato distratto dall’improvvisa intrusione di Jake nel suo campo visivo, colpito in piena faccia da un guerriero.
Aveva allungato un passo verso di lui, ma aveva visto il ghoul tirarsi in piedi come una molla, senza esitazione, così Arvey aveva cercato l’unica persona a cui avesse pensato in quel momento.
Bernie si era rotolata per terra, non riusciva ad affondare la sua lama contro il Neottelemo, il principe era più svelto di quanto lei stessa avesse pensato nel parare i suoi affondi, nonostante lei potesse piegare la dimensione tramite le ombre, in tal maniera anche i colpi del greco non trovavano carne da colpire.
Era strano. Conosceva Bernie da sempre, l’aveva vista viaggiare nell’ombra, neanche una settimana prima avevano fatto mezza america in un balzo, ma contemporaneamente non l’aveva mai vista così svelta nel muoversi, così di frequente.
Nelle ore che erano stati separati, sembrava che Bernie avesse acquisito una padronanza del suo potere immenso … o forse era la spada che l’aiutava a controllarsi.
Arvey era stato sul punto di lanciarsi immediatamente verso di loro, se una lama non fosse schizzata verso di lui, ferendolo al braccio, dove era già la mano offesa.
Un gladio romano, che era poi vertiginoso crollato a terra.
Arvey aveva cercato con lo sguardo chi era potuto essere ed allora l’aveva veduta.
Pasticcino Sanguinaccio, sbucata fuori direttamente da un suo incubo.
Dall’ultima volta che si erano visti, neanche una settimana fa, alle Cascate del Niagara, il suo aspetto era mutato, i capelli lunghissimi ricci, erano ridotti a pochi centimetri ritti sulla testa ed un grosso squarcio decorava una guancia.
Ma sotto il gilet di pelle restava la brutale virago che avevo sempre conosciuto.

“Ti ho trovato finalmente, vile bastardo” aveva detto la donna, recuperando dalla sua cintola un’altra lama corta, con sguardo carico di sangue e rabbia.
“Immagino che questa sia la resa dei conti” aveva detto lui, lanciando uno sguardo a ciò che era attorno a lui. La lama di Neottolemo aveva strappato il pantalone militare di Bernie, graffiando anche la pelle d’ebano. L’odore di sangue aveva invaso le sue narici, così invitante, così distrattivo.
Avrebbe voluto intervenire ad aiutarla ma non avrebbe mai potuto abbassare lo sguardo contro Pasticcino.
“Dunque ti sei alleata con Gea?” aveva domandato retorico Arvey, recuperando la spada con cui aveva terminato il guerriero sciiro, con sguardo carico di sprezzo verso la sua vecchia amica.
“Mi ricordi che neanche qualche mese fa l’avevi mandata gentilmente al tartaro” aveva ricordato.
Pasticcino aveva sorriso arcigna, “Più che con lei, con la Tantalide” aveva ruggito, “Lei comprende il dolore del perdere la propria famiglia” aveva ringhiato, camminando verso il suo nemico con la stessa furia di una belva, “Ho sempre pensato fossi troppo melodrammatica, Candace” aveva detto, chiamandola con quel vecchio nome che lei aveva abbandonato, “Prima o poi, tu e Mickey vi sareste ritrovati, certo, ora accadrà prima del previsto” aveva  riso, mentre la osservava. Si studiavano, girandosi intorno.
Non si sentiva a suo aggio con una spada alla mano. Era un’arma troppo leggera per lui, gli sembrava fragile.
“Sarai tu a vederlo prima di me, purtroppo, ma sono sicura che anche lui avrà il suo piacere con te” aveva riso, mentre danzava attorno a lui, “E sono fremo a pensare cosa farà ZJ con te” aveva detto allusiva. Arvey di rimando aveva riso, “Direbbe che è fiero di me, per aver fatto quello che mi pareva, come lui e Nonno Fante mi hanno sempre insegnato a fare” aveva risposto acre.
“Sarebbe disgustato da te, perverso” aveva ribattuto Pasticcino, fiondandosi verso di lui con la spada sguainata, lui aveva intercettato il fendete della spada con la propria, prima che il tacco della suola dello stivale della sua compagna lo colpisse sulla coscia, brutale.
Era indietreggiato d’un passo, “Anche ZJ ha avuto le sue piccole ossessioni, prima di incontrarti, Candace” aveva riferito Arvey, “Ha vissuto quasi mille anni prima di incontrarti” aveva aggiunto.
Arvey se la ricordava quella notte.
Era stato quasi cinquant’anni prima, in un giorno dove gocce di pioggia zampillavano su pozzanghere di sangue, in un vicolo lurido di San Francisco.
Arvey aveva ancora il sapore di sangue sulla lingua e l’adrenalina nel corpo, mentre Joe e gli altri si divertivano ancora.
Candace e suo fratello erano giunti nel vicolo divertiti, attirato dai rumori e dal clangore dello scontro che si era appena concluso.
“Non è mai stato per una mezzosangue” aveva ringhiato Pasticcino, l’attimo prima che indietreggiasse per un affondo di Arvey, che le aveva aperto un taglio orizzontale sulla gota, evitando di poco l’occhio. Creando una croce con la cicatrice che segnava già il suo viso.
“Questo credi tu, Candace. Nel millesettecento-novanta però c’era questo mezzosangue, Jean Sylvan Miguet, figlio di Ersa, dovevi vedere se quella di ZJ non era un’ossessione …” aveva raccontato, “Ha inseguito quel mezzosangue per mezza Europa, per un ventennio, solo per soddisfare la sua fame” aveva detto.
Zotico Joe era sempre stato un estimatore delle lunghe caccie.
“Non trattarmi da scema, Arvey! L’ossessione che nutri per quella mezzosangue non ha nulla a che fare con la fame” era stato gridato Pasticcino, con rabbia bruciante. Per anni, Arvey aveva dovuto giustificare ai suoi compagni il suo immotivato e morboso appetito.
Pasticcino aveva affondato la lama, abbastanza da infilzarlo sotto la clavicola, evitando però qualcosa di letale.
Arvey si era sottratto, sfilandosi dalla lama, osservando il sangue impregnarsi nella sua maglietta, già di suo insozzata da quello di Ines, che aveva lavato dalle mani di Bernie.
Si avrebbe dovuto buttarla.
Che stronza” commentò solamente, palpandosi la ferita, un taglio netto che scavava la carne, “Vuoi sapere una cosa, Beatrix Kiddo[1], lo ammetto, si!” aveva strillato Arvey con più rancore, lanciandosi contro di lei e placcandola, senza che lei riuscisse anche solo a muovere la spada, colta in contropiede. Erano finiti entrambi per terra.
Pasticcino sotto di lui ed Arvey che la sovrastava. Non era mai stato particolarmente imponente, per gli standard di un lestrigone, non aveva mai saputo perché, perciò anche in quel momento, che la sovrastava, Pasticcino era più imponente di lui, ma questo non lo aveva fermato. Aveva sollevato un pugno ed aveva colpito senza esitazione dritto il viso della donna, “Ciò che provo è sempre fame, è solo una fame diversa!” aveva gridato.
Pasticcino con il viso tumefatto in sangue, si era sporta tirandoli una testata e poi scrollandoselo di dosso.
Arvey era rotolato per terra evitando la lama della lestrigona che era caduta su di lui come una scura, non aveva una buona mira a causa del sangue che le era finito sugli occhi.
Arvey aveva recuperato la sua spada, che aveva accidentamlmente abbandonato non sapeva neanche come, nel mezzo dell’incontro e con un movimento lesto aveva colpito il basso ventre della lestrigona, che era crollata su di lui.
Un fiotto di sangue era scivolato dalle labbra.
“Gioisci Candace, che a breve sarai tra le braccia di colui che ami” aveva detto, allungando una mano sul viso di Pasticcino per cercare di togliere via del sangue dal viso.
Pasticcino aveva cercato di utilizzare le sue ultime forze per sollevare un’ultima volta la lama contro di lui, ma la vita l’aveva abbandonata prima che potesse, disgorgandosi in pura polvere, “Tu infido …” con un solo raschio in gola aveva abbandonato una frase a metà.
“Temo ci vedremo ancora, amica mia” aveva commentato spento, osservando il rosso vivo sul suo ferro.
Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi più triste, per quasi cinquant’anni, Pasticcino era stata un paio di vigili occhi per le sue spalle, ma la verità era che non provava niente.

“Dobbiamo andarcene!” aveva sentito Trevor affiancandolo, con un labro tumefatto e sanguinante, mentre teneva tra le mani il cartiglio, “Gea, è qui” aveva confermato lui, prima di guardarlo bene in viso, c’era qualcosa di diverso nel suo aspetto, così come l’odore che lo avvolgeva. Sul suo polso, scintillava una gemma, incastonata in un bracciale d’oro, un amuleto.
“Al momento non sono il tuo amico, bestia” aveva risposto una voce più graffiante[2]; Arvey aveva deciso di ignorarlo deliberatamente. “Dobbiamo muoversi, Bernie può spostarsi nell’ombra” aveva valutato poi, “Recupera Jake, io prendo lei” aveva stabilito fiondandosi verso Neottolemo, travolgendolo d’un fianco, facendolo poi ruzzolare per terra.
C’erano tagli che deturpavano tutto il corpo dell’uomo, ormai tinto di rosso infuocato.
“Arvey!” aveva sentito strillare Bernie, un taglio le apriva la fronte, tingendole di sangue il viso, così come una delle sue gote erano violacee.
“Lui è il mio avversario, è la mia battaglia” aveva strillato fuori dalla rabbia, una anche più forte di quella che l’aveva tormentata quando aveva battuto fino al trapasso  Ines la non-morta, che aveva usato la sua scomparsa sorella come esca.
“Gea è qui, ho appena ucciso qualcuno che era per me come una sorella,  abbiamo bisogno della tua ombra per viaggiare” le aveva urlato contro, “Andiamocene!” aveva aggiunto più secco, verso di lei.
Bernie lo aveva guardato offesa ed anche turbata, “Lui, lui …” aveva mormorato con angoscia nella voce, stritolando in un pugno la mano senza spada, anche le sue braccia erano tormentate di tagli.
L’odore del sangue di lei era forte, ma allo stesso tempo un altro odore impestava la sua persona.
Neottolemo s’era sollevato da terra per attaccarlo alle spalle; “E ti avrò fino in fondo!” aveva urlato Neottolemo.
Trevor aveva pronunciato in un incanto nella lingue egizia, cercando di sbalzare via il principe greco, anche Jake aveva visto l’azione e si era lanciato contro Neottolemo, ritrovandosi poi sbalzato al muro assieme a quest’ultimo. “Scusa!” aveva detto Trevor, o chi per lui.

“Tu non capisci” aveva mormorato Bernie, “Lui ha… mi ha … ha provato …” aveva ringhiato, sollevando l’elsa della spada, mentre Neottolemo cercava di tirarsi su, ma Jake gli aveva tirato un pugno in faccia per tenerlo giù.  “E allora lo mangerò” aveva dichiarato Arvey con verve sicura, chinando lo sguardo verso Neottolemo.
Lo avrebbe ucciso, senza indugio.
Non aveva idea che saporo avessero i redivivi, ma lo avrebbe consumato fino all’osso. Non ne avrebbe lasciato nulla, neanche una briciola.
“Arvey, non è tuo compito combattere le mie battaglie” aveva urlato Bernie, fermando la sua avanzata, afferrandolo per la sua maglietta.
Non poteva mentire a sé stesso, quel bruciante potere che vibrava in Bernie, in quel momento, era la cosa più appagante che avesse mai respirato.
Voleva divorarla in quel momento, in ogni senso.
“Non puoi preservarmi dal male di questo mondo, ne puoi giungere come il mio cavaliere errante in ogni occasione” aveva detto lei rabbiosa, “Dai teppisti, dal Drakon, alla battaglia del labirinto, durante l’esplosione della Principessa Andromeda, a Vernon” aveva ripetuto.
“Non fraintendere Arvey, ti sono grata, ma io ho scelto di imbracciare le armi e come una guerriera devo affrontare la vita e la morte” aveva stabilito ruggente.

“Ti ho costretta io” aveva detto Arvey, mettendo le mani a coppa sulle sue guance, “Rapendoti dal cortile della tua casata e trascinandoti al cospetto di Crono” aveva ricordato.
“E da allora sei stato la mia opprimente ombra” aveva detto lei, “Ti sono grata di esserci sempre stato, ma io devo imparare a salvarmi da sola” aveva aggiunto Bernie, sparendo poi in un fumo nero, per ricomparire lì a pochi passi, per sguainare la lama di ferro dritta nel inguine di Neottolemo. Il guerriero si era sollevato a fatica, completamente colto in flagrante da quell’improvvisa azione. “Anche a me piace vedere la mia spada bagnata di sangue, se capisci” lo aveva preso in giro Bernie, acre,  prima di sfilare la lama, lasciando il principe cadere per terra, mentre sangue zampillava dalla sua ferita.
“Spettrale” aveva commentato Trevor, “Non credo di averti mai vista così” aveva stabilito Jake, mentre Neottolemo scompariva nella polvere.
Lo sguardo sul viso di Bernie era di fredda indifferenza, qualcosa che in lei, così passionale stonava orribilmente. Arvey aveva allungato una mano per prendere il braccio di Berenyx, “Saremo veloci” aveva detto agli altri due, trascinandola in un corridoio lì vicino.

“Lui voleva prendermi” si era giustificata subito lei, “Ed allora la sua morte sarebbe dovuta essere ancora più cruda” aveva dichiarato Arvey, “Ma volevo parlare di altro” aveva detto, “Io sono venuto sempre in tuo soccorso e così sarà sempre, Bernie” aveva chiarito, “Ho sacrificato i miei compagni per te ed ho consacrato la mia vita a te” aveva aggiunto.
“Io non te lo ho chiesto” aveva risposto Bernie, “Ne sono grata, sul serio. Arvey sei la mia famiglia, sei ciò che di più caro ho, che di più caro mi è rimasto, ma non ti ho chiesto di dedicarmi la tua esistenza” aveva detto poi lei, “Non so neanche perché lo hai fatto” aveva deliberato.
“In principio è stato il tuo odore” aveva raccontato Arvey, “Avevi un odore così buono, tu e tua sorella sareste potute passare per la medesima persona, ma il tuo odore era così invitante” aveva detto, “Non nego di aver desiderato di mangiarti, di averti curato come farebbe un fattore con i suoi animali, con l’unico scopo di consumarti” aveva detto.
Vide il viso di Bernie piegarsi in un sorriso, reazione che lo stupì non poco, immaginando che abbinato allo spettacolo di quel giorno con Hermione, non avrebbe dovuto sancire una reazione simile.
“Era piuttosto palese” aveva confidato lei, “Ma è cambiato, me ne sono accorta” aveva confidato lei, “Perché mi sono innamorato di te, LaFayette” aveva ammesso poi candido Arvey.
“Della tua forza inesauribile, la tua resilienza, lo spirito di sacrificio e l’assoluta speranza che arde in te in ogni occasione. Ed il tuo potere, come ora” aveva confidato, “Rifulgi di un potere che ti rende più di qualsiasi mezzosangue” aveva esclamato Arvey, “Pari ad una dea” aveva aggiunto.
“E ti amo” aveva ripetuto.
“Mi ami?” aveva chiesto lei stupita.
“Come un pari, non come un cacciatore per la sua preda, ma come un pari. Se fossi stato un mezzo-dio come te mi sarei dichiarato dopo l’esplosione della principessa e se tu fossi stata una lestrigona ti avrei già dichiarato mia” aveva asserito, chinandosi per saggiarne le labbra.
Un bacio.
Senza fame o ferocia.
Si era allontanato da quel viso, osservando gli occhi scuri di Bernie confusi.
“Arvey io …” aveva farfugliato, “No!” aveva strillato poi la ragazza.
Prima che Arvey potesse comprendere, aveva sentito un graffio ed un artiglio scavare nelle sue membra.
Poi il sangue era risalito lungo la gola.
“Era da Vernon[3] che ti dovevo questo colpo” aveva sentito una voce gracchiante alle sue spalle.
La conosceva, l’aveva sentita, ne era certo ma non riusciva a ricordare dove, di chi era.
Poi l’aveva percepita, quella sensazione, inconfondibile, l’anima che veniva strappata dalle carni ed il crepitio di un corpo destinato a sfaldarsi, sensazione che aveva provato più e più volte.
Aveva lanciato un ultimo sguardo a Bernie.
Perché ne valesse la pena.
Forse, se le porte della morte erano ancora aperte, avrebbe potuto valicarle in tempo per poter rinascere a breve, nel lasso di una vita in cui avrebbe potuto incontrarla ancora.
Avrebbe combattuto contro chiunque si fosse frapposto fra lui e Bernie.
 Aspettami” riuscì a dirle.
Scomparve mentre l’orrore del viso si dipingeva in Bernie.

 

 

Tutto sommato un campione di cui essere fiero
La voce del Dio Vestito di Bianco.

 

 

Una mano dietro l’altra, Arvey aveva fatto ciò che sapeva di dover fare.
Si era rampicato in quel stretto vicolo di terra e pus, del tartaro, graffiando le sue carni redivive nella terra ribollente.
E dalle profondità del tartaro era rinato, svelto, come mai era accaduto.
Aveva squarciato la membrana rinascendo sotto il cielo dell’erebo costellato di rosse sideree.
Lunghe file scomposte di mostri migravano nella medesima direzione.
Arvey da che era nato per la prima volta, nel lontano mille-trecento-settanta-nove, era morto innumerevole volte e mai si era sentito così vivo come in quel momento.
L’opera di Gea era vibrante in ogni frammento di sé.
“Ma guarda un po’ chi ci si palesa davanti” aveva sentito alle sue spalle, mentre emergeva come un verme dalla terra, “Mi eri mancato ragazzino” nonostante la prima cosa che la voce avesse detto fosse stata impregnata di scherno, il secondo commento era parso più sincero, per quanto la mancanza di poca dolcezza.
“Zotico Joe” aveva risposto Arvey con amarezza, senza aver il coraggio di voltarsi. Mickey Sanguinaccio si era palesato davanti a lui, accanto a sua sorella, duri come ferro e molti altri erano venuti attorno a lui.
Sperava che Bernie potesse sopravvivere fino al momento in cui si sarebbero ritrovati – o non l’avrebbe mai più vista, cosa che Arvey non poteva permettersi.

 

 



[1] Beatrix Kiddo, nota meglio come La Sposa, è la protagonista di Kill Bill, un personaggio mosso unicamente dal suo desiderio di vendetta – ed anche letale da morire.

[2] Allora non ho letto le Kane Chronicles (ho intenzione di recuperare) perciò non so bene come funzionano gli stregoni egizi, comunque so che in quella saga le divinità “possiedono” il corpo degli stregoni per permettere loro di usare il potere, immagino che esista un modo perché la cosa sia simbiotica, ma ho letto che è possibile per la divinità manovrare i corpi. Cosa successa in questa scena. La divinità da cui Trevor attinge i suoi potere e Sekmeth, la dea giaguaro egizia.

[3] Vernon era la città dove è ambientato il primo capitolo, non lo dico esplicitamente nel capitolo uno, forse nel cinque, comunque ho inserito una nota nel capitolo dieci.

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Capitolo 27
*** Quando non sai che fare: getta un sasso nell’acqua … e spera rimanga lì(Jude II) ***


Eccomi, incredibile che io riesca ad aggiornare così in fretta ma sono successe un paio di cose per cui ho inaspettatamente guadagnato tempo: mi sono ammalata (No, tranquilli, era semplicissima influenza già passata) che mi ha fatto cominciare la quarantena prima, sono rimasta bloccata fuori casa, è cominciata al quarantena e, dunque, visto che è andato tutto male, mi son detta sfruttiamo la situazione per guadagnarci qualcosa di buono, quindi mi sono messa a scrivere.

Allora, so che avevo detto che questo probabilmente sarebbe stato l’ultimo capitolo di questo arco, ma devo, ahimè, utilizzare un altro punto di vista per chiudere la questione.
Comunque per non fossilizzare troppo le cose ho inserito qualcosa per permettere ad un’altra trama di andare avanti.
Oltre questo: si, per scrivere le scene d’azione faccio schifo, non vedo l’ora di scrivere altre cose in futuro, ma era necessario.
Un bacio e buona lettura,
RLand

Ps- Ho fatto un po’ di disegni con stili di colorazione diversi (Digitale, che è ancora mio nemico; Pastello, in realtà due tipi diversi, di uno sono soddisfatto, di uno no; Pantone, che resta per ora il migliore) che probabilmente inserirò a coda del capitolo.

 

IL Crepuscolo degli Idoli

Quando non sai che fare: getta un sasso nell’acqua … e spera rimanga lì.

Jude II

Bellatryx LaFayett era uguale all’ultima volta che l’aveva veduta, come se quell’anno non l’avesse mai toccata, l’unica differenza erano gli incontrollati ciuffi di capelli neri che invece di scendere disordinati sul viso erano serrati in una severa coda cavallina. Per il resto era rimasta inalterata, tranne l’aurea, quella sembrava completamente diversa. Con la giacca di jeans ed il collo di pelo, sopra pantaloni mimetici ed anfibi al ginocchio. Era uguale, eppure tutto di lei ruggiva una notevole differenza. Sembrava più fiera, letale e acuta. Non che in passato Bells non lo fosse sembrato, almeno in confronto a Bernie, che era sempre così intimorita dalla vita.
La Bells dei suoi sogni aveva sorriso, ma non a lui.
Era stata sua madre a condurlo lì, dopo la loro conversazione nel loro mondo onirico; “come stai, bello?” aveva domandato retorica Bells, allungando una mano per grattare il muso di una bestia che a Jude era sembrata per un momento un cavallo, prima di accorgersi che non lo era.
Le zampe anteriori erano da rapace, come la sua testa era di un aquila ed era alato … non era un griffone né un pegaso, era un ippogrifo!
Bells aveva continuato ad accarezzare la bestia, “Va bene, ho ancora una barretta, bello!” aveva detto infilando la mano in una borsa a tracolla ed estrarre una barretta alla frutta, “Sei proprio affamato eh, Theos, ti teneva a pane e acqua” aveva ridacchiato, baciandoli il muso amichevole. “Adesso aspettami qui, che devo incontrare qualcuno e non so perché, bello, ho la sensazione ti piacerà” aveva detto leggermente divertita, ma la sua voce tradiva una certa rigidezza.
“Quella è un cavallo!” aveva esclamato un ragazzo avvicinandosi a lei, era un mortale e la foschia doveva ingannare i suoi occhi. “Che ci fa una ragazzina di notte con un cavallo in un parcheggio di un motel?” aveva domandato quello.
Puzzava di alcool, anche se non era materialmente lì Jude poteva sentirlo, “Mi hai scoperto sono una squillo minorenne ed ho rimorchiato un cavaliere medievale” aveva risposto cinica Bells, prima di ridere.
Aveva dato un’altra carezza al becco rigido dell’ippogrifo, “Non mi avvicinerei troppo, becca” aveva aggiunto allusiva, mentre si allontanava appena.
“Becca?” aveva provato il mortale allungando una mano, ritrovandosi la mano poi serrata nelle fauci del becco aguzzo della bestia.
Bellatryx aveva scosso il capo e preso una scala per raggiungere un ballatoio e Jude l’aveva seguita.
“Dai Bells, hai fatto cose più difficili” si era ripetuta lei, “Tipo esser uccisa” c’era una leggera isteria nella sua voce, “E poi potrò cercare di contattare le altre” aveva aggiunto, prima di arrestarsi davanti una porta, aveva sollevato la manica della giacca per scoprire sull’avambraccio scritto in nero un numero, “212B” aveva aggiunto, “Orual ha detto che il numero era questo” aveva riflettuto, prima di allungare una mano per battere contro la porta della stanza duecentododiciB del motel ‘Crepuscolo’.
Dove si trovava? Perché sua madre glielo stava facendo vedere?
Una testa viola era sbucata dalla porta, un fantasma! No, un lare.
“Oh, buna notte signorina, non è un po’ tardi?” si era sentita richiamare, “E tu saresti?” aveva domandato Bells, “Tu hai bussato” aveva fatto notare lo spettro.
“Bellatryx LaFayett, figlia di Nyx” si era presentata sfacciata lei, “Ho bisogno di vedere una vecchia amica” aveva detto sicura di sé.
“Io sono il Dr. Horward, è un piacere conoscerla” l’aveva palesemente ignorata, “Ricambio” aveva risposto Bernie, “Ora potrei …” aveva cominciato ad ipotizzare, quando la porta si era aperta investendo in pieno lo spettro e attraversandola, mentre Bells aveva fatto un passo indietro.
Oh.
Alabaster era comparso sull’uscio della porta.
E Jude era rimasto con il fiato spezzato in gola.
“Torrington, mi aspettavo July Goldenapple” aveva ammesso ferace Bellatryx, riconquistando immediatamente la compostezza che aveva perso per un momento.
Gli occhi verdissimi di Al non avevano avuto un mezzo tentennamento invece, “Be, anche io mi sarei aspettato perfino Chris Rodriguez che te” aveva ammesso poi.
“Be, un traditore per un altro, spero vada bene uguale” aveva risposto Bells, con un sorriso caustico sul viso.

 

 

“Pensi si sveglierà, mai?” aveva sentito una voce.
“Certo che lo farà, prima o poi, quando il suo spirito sarà pronto a riunirsi al suo corpo.”
“Immaginavo, Grande Madre Idea, ma confessò che con quella sua maledizione forse io avrei già messo fine alla mia vita.”
“Lo hai fatto, ti ricordo. E ti sei anche mutilato senza remore come tributo” aveva riso amaramente la prima voce, era femminile.
“Si può smettere di fare l’amore fisicamente, ma emotivamente?”
“Non saprei sai. Lo so che il mio aspetto mi fa apparire una creaturina da cinquecento anni al massimo, Attis, ma sono una dea ultra-millenaria, credo che l’ultimo amore della mia vita sia stato intorno ai sei-o-cinque-mila anni fa.”
“Ma non può lei, che è così potente, sciogliere il suo male?”
“No”
“No?”
“Una maledizione non è una cosa semplice da sciogliere, cosa pensi, ragazzino.”
“Ho tre mila e seicento dodici anni, Signora.”
“Undici. Tremila e seicento undici, Attis, il tuo compleanno non è ancora arrivato.”
“Bene. Tremila e seicento undici.”
“Comunque un ragazzino ancora in esperto.”
C’era stato un lungo momento di silenzio.
“Be, allora, questa maledizione che mina le capacità anche della più antica delle dee.”
“Per favore ragazzino, Gaia è molto più vecchia di me. E poi cosa pensi: che pungendomi sull’orgoglio mi muoverai a fare qualcosa che non posso fare?”
L’altro non aveva risposto.
“Le maledizioni sono un affare oscuro. Una volta lanciate non possono essere semplicemente ritirate o annullate con il pensiero. Anche Moros stesso dovrebbe ficcarsi le mani in … dove sa lui.”
Si era leggermente spazientita.
“Neanche se ritrovasse la Defissione?”
Sapeva cosa fosse una defissione, glielo aveva spiegato Quilly, era un modo per scagliare una maledizione, era quello che era stato usato su di lui, quando ancora non era che un bambino urlante.
Tavolette di piombo sottile su cui era incisa una dannazione, fissare da un chiodo e gettate nelle profondità delle acqua o della terra, dove riposavano i morti.


“Prima di tutto dovrebbe avere la capacità di spazzolare il fondale di ogni mare, fiume e lago o ogni tomba da qui all’inizio dell’universo e trovasse la sua maledizione … cosa che trovo assai improbabile, tutto sommato lui resta ancora umano, figlio di una dea, ma ancora umano.”
“… Ma è figlio di …”
“Anche solo per questo Ade non avrebbe il minimo interesse nel favorirlo nel cercare tra i morti la definissione. Potrebbe provare con Poseidone, ma quando mai quel Pesciaiolo in camice hawaiane ha mai trovato interessante aiutare qualcuno all’infuori di sé stesso ed i suoi figli.”
“E se trovasse il dio che gli ha scagliato la maledizione.”
“Te l’ho detto: una maledizione è un affare ghignoso, non è semplicemente questione di uccidere qualcuno.”
Aveva sentito una mano posarsi su di lui, sul suo petto, “Anche se immagino da questo simbolo che qualcuno lo abbia illuso del contrario.”
“Questa pendula è una moneta.”
“Non è un pendente, è un amuleto, atto a mitigare il male che affligge il ragazzo; però guardala meglio.”
“È una moneta romana, mi pare, da un lato c’è Harmonia, figlia di Marte.”
“Dall’altro, cosa vedi?”
“L’effige di una signorina di profilo, con un signor naso. L’epigrafe dice D. IULIA AQUILIA SEVERA AVG. Un’augusta immagino, forse la moglie o la madre di un imperatore.”
“Si, un’augusta moglie di un imperatore. Giulia Aquilia Severa, ma anche una Vestale – forse in questa veste te la ricordi meglio.”
“Una vestale ed anche la moglie di un imperatore? Che str… oh sì, ricordo. Meglio suo marito che lei, se devo essere onesto.”
“Che ieri ci ha onorato di una visita a sorpresa.”
“Non pensi fosse il Sole Invitto?”
“Se il Sole Invitto fosse libero, Attis, posso assicurarti che te ne accorgeresti senza ombra di dubbio.”
“Hai cambiato discorso, Grande Madre Idea, stavamo parlando delle maledizioni.”
“Si, anche trovando modo di porre fine all’esistenza del dio che lo ha maledetto, l’incanto non troverebbe soluzione.”
“Quindi è destinato a conviverci per il resto della vita. Jude Mortimer il Mortifero.”
“Attius, sei stato vittima tu stesso della maledizione di Adgistis, sai come funziona: una maledizione può consumarti, come è accaduto a te – non lasciandoti altra possibilità che porre fine alla tua vita, oppure puoi essere tu a consumare lei, come è accaduto a Zagreo, che è diventato la sua maledizione”
Aveva sentito un bacio toccarlo sulla tempia.
“Allora è condannato a portare sventura a chiunque ami e che gli sia vicino. Povera anima, io ero solo figlio della mia angoscia per i tradimenti compiuti. A modo mio, ero colpevole.”
“Quasi mai chi è maledetto lo ha meritato, Attis. Hai tremila e seicento undici anni, dovresti aver capito ormai come funziona il mondo … Però …”
“Però?”
“Immagino tu non sia avvezzo alle favole dei mortali, hanno trattato per secoli le maledizioni. Hanno scoperto sempre che ogni maledizione ha il suo, per usare il loro gergo, cavillo.”
“Uhm …?”
“Tutte le maledizioni possono essere rotte, ma da me, non dalle mani di chi lo ha scagliato, forse neanche dalle sue.”
Aveva sentito qualcuno sfiorare le sue dita.
“Non starai facendo riferimento ad una cosa così fatua come il bacio del vero amore, Grande Madre Idea?”
“Temo Attis, che se Jude posasse le sue labbra su chi più lo ama ed ali ama, troverà null’altro che una morte senza scampo.”
“E non sai come potrebbe fare?”
“Io no, forse il dio che lo ha maledetto”
“Sai chi è?”
“Non lo capisci da solo, amore mio? Ho sempre pensato fossi un uomo intelligente.”

“Se glielo dicessi potresti dargli una mano.”
“Non la vuole, davvero, o si sarebbe già svegliato, alle suppliche della sua compagna.”
“Ripeto: ho subito una maledizione sulla mia pelle, non era così crudele come la sua eppure ha guidato la lama al mio corpo.”
“Se dovesse poi invocare il mio aiuto, come si conviene per una dea, sarò lieta di dirgli il nome che vuole, ma fino a quel momento, come Dea non mi è concesso intervenire. Per questo, io e te Attis, siamo qui, mentre Atalanta e Melanione hanno accompagnato il resto del C.I.B.E.L.E.”
“A proposito di questo: mentre lasciavano questo posto il tuo viso mi era sembrato oltremodo turbato.”
“Stavamo per confrontarci in una guerra contro Sciiri e le forze di Gea.”
“Conosco il tuo viso come i palmi delle mie mani, Signora. Riconosco ogni ombra del tuo viso.”
“Strano, mi era parso di recente, che oltre la virilità ti fossi cavato anche gli occhi.”
“Sei ingiusta con me.”
“Uno dei nostri ospiti nasconde una più insidiosa natura.”
“Parli della mezzo-sangue, la figlia di Apollo? C’era su di lei un’aurea oscura, anche lei era maledetta?”
“No, su Heather la morte aleggia senza malizia. E no, Attis, neanche il satiro.”
“L’arpia, allora.”
“Perché a te quella sembrava un’arpia?”
“Si?”
“Bene, lavati gli occhi da fonti più limpide, amore mio. Perché non era che un aspetto fittizio.”
“Un’ingannatrice?”
“Una dea subdola, che differentemente tra noi può agire come meglio crede.”
“Un’estranea.”
“Questo concetto: estranei, barbari, stranieri, termini vuoti. In fin dei conti Attis anche io sono adottata da un pantheon che mi era estraneo, non sono nata né greca né romana.”
“Quindi chi è?”
“Te l’ho detto: una dea subdola.”
“Anche i tuoi occhi sono stati ingannati, vedo, mia Signora.”
“Sicuramente vedo molto meglio di te, Attis.”
Aveva sentito le voci dei due farsi più lontane, come sussurri.
Avevano lasciato il suo capezzale.
Jude aveva aperto gli occhi a fatica, sentendo le palpebre più pesanti di quanto fosse stato fino a quel momento.
Sentiva tutto il suo corpo intorpidito, come se fosse stato immerso nell’acqua gelida; nelle orecchie poteva ancora sentire la voce carezzevole della sua divina madre, mischiarsi con quello che avevano detto i due sconosciuti e le preghiere di Heather.
Aveva realizzato presto di essere steso un letto morbido, ampio, con un baldacchino con pesanti tendaggi di porpora che scendevano ad offuscare la luce del giorno dalle finestre e coperte rimboccate fin sotto al mento, ciò che solo sfuggiva al loro caldo abbraccio era l’amuleto di Quilly.
Ricordò quando l’aveva messo intorno al collo, per mitigare quel male su cui non aveva controllo.
Lo aveva preso sentendo suo braccio pesare mortalmente.
Non era arrabbiato con Quilly, sapeva che se la donna avesse potuto dire la verità lo avrebbe fatto, ma El-G non lo avrebbe mai permesso.
Che lui avesse mentito, quando lo aveva mandato da Luke, che uccidendo il dio che l’aveva maledetto si sarebbe sciolto il suo male.
Alabaster lo aveva confermato, tutto sommato Quilly ed El-G non erano che dei diversi.

Jude aveva cercato di alzarsi, sentendo ancora il corpo pesante come un macigno, mentre con gli occhi spiava la stanza abbandonata nell’oscurità in cerca della sua lama, ma l’unico oggetto che aveva trovato erano state delle lattine di Dr. Pepper mangiucchiate – Qbert!
Avevano bisogno di lui, Heather, che lo aveva supplicato di svegliarsi, Qbert il satiro, paranoico ed Ennoia … la finta arpia, secondo quanto avevano detto quei due.
Chi erano poi?
Attis e Grande Madre Idea.
Non conosceva il primo, ma aveva sospetti sull’identità della seconda.
Ma non avrebbe potuto far comunque nulla, contro di loro, con loro, né con Heather, né per la sua maledizione. La Grande Madre Idea aveva detto che avrebbe risposto alla sua domanda su chi l’aveva maledetto, sapeva di dover porre quella domanda, sua stessa lo aveva spronato a trovare l’uscita del regno onirico, promettendoli quella risposta al suo risveglio e Grande Madre Idea aveva confermato quello.
 Ma non avrebbe potuto aiutare Heather ne ottenere il suo nome, se non fosse riuscito a trovare un modo per sollevarsi dalla posizione supina.
Ne scoprire perché aveva visto Bells e Alabaster.
“Madre, dammi la forza” la pregò, ricordando le parole che la stessa avesse detto, riuscendo con enorme fatica a tirarsi nella posizione seduta.
“Oh! Ti sei svegliato, finalmente” aveva sentito una voce femminile cinguettare nel suo orecchio, lì sullo stipite della porta c’era sua zia Jane, con una gonna morbida dai motivi floreali ed un vassoio con del succo e dei biscotti, “Non ne ero sicura ma ho letteralmente sentito il cambio nell’aria” aveva stabilito lei gentile.
Zia Jane non somigliava all’ultima immagine che aveva di lei, ma una più lucida, pulita, come nelle lunghe giornate nel Wyoming, quando era bimbo ed il male sembrava lontano. Una donna dal viso ambrato e lunghi capelli biondi imbevuti del sole, così somigliante ad Alice.
“Zia Jane …” aveva sussurrato lui, stringendo le coperte tra le dita, la sua voce era rauca, trovava difficile parlare. “No, tesoro mi dispiace” aveva detto la donna, sedendosi al suo capezzale, posando il vassoio su un lato del letto.
La voce, Jude la riconosceva, era quella che aveva sentito prima.
“Grande Madre Idea” aveva aggiunto poi.
“Be, per essere un tipo taciturno ti ho sentito parlare parecchio” aveva ridacchiato la dea, allungando un bicchiere di succo contro di lui.
“La tua amica mi ha detto che non ti piace parlare, in vero, non ti piace comunicare con il mondo” aveva detto la Grande Madre Idea, “Non mi stupisce con la maledizione che ti tormenta; il linguaggio è il primo mezzo per entrare in sintonia con gli altri” aveva aggiunto.
Qualcosa che Jude non aveva mai potuto permettersi.
Aveva abbassato lo sguardo colpevole, guardando le sue mani fin troppo bianche, “Dai bevi, ho messo un goccino d’ambrosia in questa spremuta, così finirai di risanare il tuo corpo subito e potrai aiutare i tuoi amici” aveva insistito la dea.
A Jude non piacevano gli dei, o fidarsi degli dei in generale, mai, però Grande Madre Idea sembrava gentile, forse perché indossava il viso di sua zia.
Aveva fatto scattare lo sguardo verso di lei, allarmato, pensando a Heather, Qbert e … Ennoia.
“Si, vedi, i tuoi amici hanno accompagnato i miei adepti al Castello di Sciro, hai presente? Per recuperare la stella di Erebo che permette di erigere una protezione invulnerabile, che Gea …” la dea aveva cominciato a spiegare tutta la storia, di Gaia, di che posto fosse quello, di perché avessero deciso o meno di fare quest’azione, però tutta l’attenzione di Jude era stato catturato dal nome Sciro.
Anche le tre grigie l’avevano nominato, durante la folle corsa, dopo il bacio che Qbert lo aveva costretto a dare, si era anche chiesto perché avessero accettato un così ambiguo pagamento.
Avevano detto che Sciro era un posto oltre cui anche loro non potevano andare e ricordava avessero detto che anche la figlia della Notte si fosse trovata nei confini.
Alabaster le aveva detto che Bernie e Bells erano le prime figlie della dea Nyx ad aver camminato sul suolo terrestre in oltre mille e trecento anni.
Certo magari poteva esserne nata una nell’arco di quell’anno, perché Jude non credeva che qualcuno potesse scappare alla magia di Al o l’occhio attento di Crono.
Perciò non avrebbe potuto essere null’altro che una delle due, e se Jude non fosse stato certo fosse Bernie – Ennoia aveva citato un Arvey, e Jude ricordava distintamente un certo lestrigone Arvey sempre dietro quella figlia di Nyx – prima, dopo il suo sogno ne doveva essere certo.
Si era conservato fino a quel momento la speranza fosse Bells; quando erano stati nell’esercito, Jude aveva fiancheggiato le due, ma come per ogni persona della sua vita – o quasi – aveva cercato di tenerla a distanza, ma dopo Manhattan era fuggito con Bernie.
Erano stati assieme, si erano trovati bene, si erano affezionati.
Per Jude era stato bello, ma aveva capito che l’avrebbe uccisa in questa maniera e così l’aveva piantata, dal giorno alla notte, senza nessun avvertimento.
Non sapeva perciò come avrebbe dovuto comportarsi poi con lei.
Non era bravo con le persone.
Non voleva esserlo.
Ma ormai era sicuro fosse Bernie, perché Bells era al ‘Crepuscolo’ con Al, un'altra persona la cui assenza Jude sentiva come una spada che trafiggeva il suo petto. Avrebbe dato tutto per raggiungerlo, ora che sua madre gli aveva fatto sapere dove era, ma non poteva, sapeva di non potere, o lo avrebbe ucciso per davvero.


“Tieni tesoro, stai piangendo” aveva detto la Grande Madre Idea porgendoli un fazzoletto. Lui aveva allungato una mano, raccogliendo l’oggetto per tamponarsi gli occhi e le guance, non se n’era nemmeno accorto.
“Ora, Jude, bevi o mangia qualcosa, lo dico per il tuo corpo” lo aveva invitato la Grande Madre Idea, “La pestilenza ti ha provato sul fisico ma ha ferito anche il tuo animo già sanguinante, però hai dato grande forza d’animo risvegliandoti” aveva rivelato lei, “Adesso guarisce le ultime fatiche” aveva detto.
Jude aveva allungato una mano per raccogliere il bicchiere e berlo di un solo sorso sapeva di arancio, ma Jude poteva riconoscere il retrogusto dell’ambrosia, per il suo gusto ricordavano i french-toast bruciacchiati da un lato che venivano serviti sulla Principessa Andromeda durante il turno di cucina di Alabaster e la sua squadra.
Si era sentito ristorato nuovamente nel corpo, come nello spirito, riuscendo finalmente a muovere le gambe, per poter provare a sgusciare fuori dal letto, non percepiva ne nausea ne vertigini. “Ti vedo in salute” aveva detto la dea, alzandosi dal letto, dopo aver battuto le mani, “Ora puoi raggiungere i tuoi amici, cosa che mi farebbe volentieri bene, oppure andare via, cosa che mi dispiacerebbe, o aspettare, qui, con me” aveva commentato con voce amorevole.
Jude aveva inclinato il capo, chiudendo gli occhi e forzandosi di sorridere.
“Lo prenderò per un vado dai miei amici” aveva tradotto la dea, “Riguardo alla tua spada, la ha presa la tua giovane amica figlia di Apollo. Ora, lungi sapere come una figlia del sole possa utilizzare una spada infernale, ma immagino che le vie scelte dal Fato siano molteplici e misteriose” aveva aggiunto.
Jude rimase di stucco per un secondo, percependo come la Grande Madre Idea non stesse facendo riferimento ad un ipotetico fato, quanto ad una presenza, in qualche maniera, più concreta; poi realizzò di percepire la mancanza del suo ferro.
La spada era stato l’ultimo lascito di sua madre per lui, quando lo aveva ricondotto alle braccia di suo padre, era sua, ovunque Jude la lasciasse o dimenticasse la spada tornava sempre da lui, una volta l’aveva anche buttata, sapeva che cedere volentieri un’arma era l’unico modo per perderne la potestà, ma la spada era tornata comunque.
Alabaster aveva valutato che sopra ci fosse intessuto un potente incantesimo, la spada era di Jude e non avrebbe mai avuto altro possessore.
Però non era tornata da lui, perciò accettava il suo temporaneo possessore, Heather – o Bernie.
Jude poteva chiaramente percepirlo, in quel momento.
Doveva andare.
Forse il suo sguardo lo aveva comunicato alla dea, “Chiederò ad Attis di accompagnarti, se vuoi …” ma prima che potesse aggiungere altro, Jude era scivolato nell’ombra.

Quando era riemerso non era sicuro di dove fosse, era lungo un corridoio con una fila di finestre bifore, con piccole colonnine sottili, il clangore di piccoli scontri rimbombavano in tutto il corridoio.
Non erano lì.
Prima che potesse però scivolare di nuovo in cerca di Heather, Bernie o chiunque altro, una voce lo aveva catturato.
“Finalmente riesco a trovare un semideo” aveva detto un voce cavernosa, “Sembrano squagliarsi tutti al mio passaggio” aveva aggiunto, Jude si era voltato per incrociare una visione che lo aveva lasciato confuso, “Ma tu non lo farai vero, sacco di carne?” aveva chiesto retorica.
Era letteralmente una statua, di una sfumatura ambigua, però era viva, ogni suo movimento era strano e sinistro da spiegare, non aveva giunture mobili ma camminava come un essere umano normale, eppure ogni suo gesto sembrava innaturale ed accompagnato da rumori continui di fratture e crepitii. L’incarnato, come i capelli, erano eburneo con nuance d’azzurro, di vera stoffa erano fatti i vestimenti: una dalmatica d’oro con clavi purpurei; l’unica cosa umana rimasta di lei erano i suoi occhi, una sclera bianca umana screziata di rosse e iridi di miele sporco[1].
Jude aveva guardato le sue mani. Era fuggito con così tanta fretta dalla stanza dalla dimora della Grande Dea Madre, che aveva accidentalmente dimenticato di prendere un’arma, la forza dell’abitudine di poter contare sulla sua lama oscura.
“Oh, sei senza un’arma. Peccato” aveva detto la donna, avanzando verso di lui, aveva gambe lunghe e movimenti pesanti, ma nulla scalfiva il suo corpo, “Allora permetti di renderlo indolore, non ti conoscono e non ho nulla contro di te” aveva detto cercando di essere accomodante, aveva mosso le sue labbra si erano curvate in un sorriso sinistro, che aveva sfigurato la sua faccia la sua faccia,  come se qualcuno avesse scalpellato un sorriso sul viso di una statura dall’espressione sinistra, accompagnato da una serie di crepe e scricchiolii.
“Siccome sono una donna educata mi presenterò: io sono Niobe, figlia di Tantalo” aveva detto la donna ruggente, la sua voce era difficile da descrivere, era come sentire nel sottofondo di una pietra battere contro un’altra.
Jude era avanzato un passo indietro, cheto, non aveva un’arma con sé, non avrebbe potuto fare un altro salto nell’ombra, il suo corpo era ancora provato dalla pestilenza ed era su un corridoio di un piano sopraelevato, non c’era terra sotto i suoi piedi, non c’era terra per molti metri, non aveva molte opzioni … così era finito per fuggire via.
Solo che il pavimento stesso sotto i suoi piedi lo aveva tradito. Niobe era pietra ed era in relazione con tutto ciò che la circondava in qualche maniera, incluso il pavimento di marmo su cui erano. Il pavimento si scombinava sotto i piedi di Jude, letteralmente.
Era letteralmente inciampato nel marmo, quando si era aperta una crepa.

Jude si era tirato su, dopo aver frenato con i gomiti la sua caduta, quando la punta della sua scarpa da ginnastica si era intercettato contro un pezzo di marmo che era spuntato dal pavimento come uno spuntone.
Si era messo a carponi cercando di recuperare le sue forze, voleva sparire tra le ombre.
“Ti prego giovane mezzosangue, non fuggire” aveva detto Niobe, il suo tono non era stato particolarmente collerico, “Ho bisogno di una sfida” aveva valutato leggermente offesa.
Jude non aveva per nulla voglia di essere quella sfida, sapeva combattere, gli aveva insegnato durante gli anni sulla principessa Andromeda, ma non era un guerriero, anche se sua madre  gli aveva donato una spada.
Uccideva già troppo con la sua maledizione, non voleva doverlo fare anche attivamente.
Aveva voltato il capo verso Niobe alzando una mano verso di lei a palmo aperto, le piante, i germogli, erano troppo lontani perché potesse farli fiorire, non era un figlio di Demetra, non aveva quel potere. Si era morso il lato interno della guancia, senza la sua spada non aveva una via d’uscita chiara, inoltre anche utilizzando l’oscurità della sua maledizione, non avrebbe potuto nulla contro Niobe, non era una creatura viva, fatta di carne marcescibile, era pietra. Vibrante. Nuda pietra.
“Non sei un chiacchierone, vero?” aveva domandato retorico Niobe mentre percorreva  i metri che li separavano, i suoi talloni nudi battevano come pietra sul marmo dei pavimenti, “Mi dispiace a me parlare è sempre piaciuto” aveva valutato armoniosa Niobe, mentre il suo viso si modificava ancora con una sedie di crepe e scricchiolii, in un sorriso che non aveva nulla di rassicurante.
L’attimo dopo che sulla sua faccia si era schiantata una palla infuocata.
Il suo viso si era annerito, ma non era stato neanche incrinato.
“Oh! Ci speravo!” aveva squittito una voce che Jude conosceva bene; aveva fatto scattare lo sguardo nella direzione opposta di Niobe, riconoscendo il satiro dai riccioli serpentini, con la sua fionda da battaglia in mano, accompagnato da altre due persone.
Erano due sconosciuti.
Uno aveva una mano fasciata alla men e meglio che non smetteva di far gocciolare sangue e l’espressione pesta in viso.
“Non è stato carino, ma lo accetto” aveva detto Niobe con un tono secco, “Voi siete?” aveva domandato  mentre con le sue dite eburnee toglieva tracce di bruciature dalla sua faccia, “Io sono Niobe, figlia di Tantalo e orba[2] di moltissimi figli” aveva detto, la sua voce raschiante, si era incrinata, appena. Jude era stato confuso per un secondo, gli sembrava che la donna avesse due begli occhi molto vispi, oltre che non trovare relazioni precise con l’avere o meno figli.
“Oh! Sono così rari i mostri gentili” aveva valutato uno degli sconosciuti, un giovane bello dall’aspetto pulito, “Io sono Josh Melchiorre, figlio di Ermes” aveva detto il ragazzino, sorridendo splendente, “Loro sono Qbert e Odoacre” aveva detto Josh sorridente ammiccando agli altri due.
Jude era scattato in piedi subito.
“Oh ti sei svegliato bell’addormentato!” lo aveva preso in giro il satiro prima di zampettare verso di lui per abbracciarlo, un gesto che lo aveva colto per un secondo di sorpresa non abituato a tanto gratuito affetto. Aveva sorriso di rimando, stringendo tra le braccia il satiro, prima di ricordare la maledizione che gravava sulle sue spalle, staccandosi in mediatamente.
“Se possibile la tua anima sembra ancora più tumultuosa di prima” aveva valutato a mezza-voce il satiro.
Niobe aveva fatto battere tra loro le sue dita di pietra, evocando un eco sinistro e roborante, “Trovo queste scene sempre molto carine” aveva commentato, “Anche i miei figli erano così belli e vivaci, come voi” aveva raccontato, “Prima che Apollo ed Artemide decidessero di ucciderli tutti” il suo tono si era incrinato.
“Oh dei del cielo” aveva commentato offeso Odoacre, “Ecco, l’ennesimo soldato di Gea” aveva detto, “Non posso essere stato l’unico ad aver detto che quella tizia era pazza” aveva ammesso con un certo disgusto.
Jude aveva guardato nuovamente Niobe che fissava loro con una certa acredine, non si sentiva di giudicare la donna di pietra se ciò che cercava era vendetta per l’omicidio dei suoi figli, in fin dei conti lui stesso aveva scelto di issare il vessillo di Crono in favore di una guerra contro gli olimpi.
Non conosceva Josh.
Non conosceva Odoacre.
E forse conosceva poco anche Qbert.
Però avrebbe voluto dire a Niobe che la capiva, sì, come avrebbe voluto dirgli che loro quattro non erano certamente il suo nemico, che non avrebbero potute fare nulla contro il volere di Apollo ed Artemide, perché erano solo uomini, tra le mani degli Dei. Però come in tutti i grandi momenti della sua vita, la voce, le parole, la sua lingua, non riuscivano a tradurre i suoi pensieri.
Jude non lo sapeva perché fosse nato così storto, storto in tutto.
Secondo Alabaster – e Quilly – era una conseguenza della sua maledizione, un effetto del suo desiderio di voler tenere il mondo fuori, per volerlo difendere da lui.
“Senta signora Niobe, noi non abbiamo desideri bellici, il C.I.B.E.L.E. è un posto pacifico” aveva detto Josh, l’attimo dopo che Niobe aveva sollevato una mano verso di loro, con il dorso verso il pavimento e le dita a coppa, come se avesse voluto raccogliere dell’acqua da una fonte, ma poi le sue dita si erano sbriciolate come sabbia.
Per un secondo non era accaduto nulla, poi quella stessa sabbia si era fatta incandescente, poi una ragnatela di crepe si era frammentata nel pavimento di marmo che aveva reso il pavimento sotto i loro piedi morbido come biscotti ammorbidi dal latte, prima che una voragine si fosse aperta lungo il pavimento, facendoli precipitare al piano di sotto, mentre il corridoio veniva giù con loro.
“Nessuna offesa, giovanotti” aveva detto Niobe, mentre scivolava attraverso i detriti.

Qbert si era chinato verso Josh la cui gamba si era aperta in un taglio che l’attraversava dal ginocchio alla caviglia, tranciando anche i pantaloni. “Credo si sia spezzato” aveva detto Josh, “Dai è solo un taglio, brutto ma un taglio, ai miei tempi i giovani erano più resistenti” aveva professato Odoacre, mentre si toglieva i detriti di dosso, “Parlavo del braccio, quello sotto la grossa lastra di Greco Scritto[3]” aveva strillato il ragazzino.
Jude aveva una mano offesa, per colpa dei detriti ed anche un lancinante dolore alla gamba, ma nel peggio di quella situazione, aveva trovato qualcosa di positivo.
Non sapeva quanto si fossero avvicinati al suolo ma lo poteva sentire molto più vicino, poteva percepirne l’energia.
Si trovava nell’Antelopee Canyon, quasi tutto desertico, ma poteva sentire la terra sotto di lei.
Niobe era pietra, inerte e senza vita, ma la terra era viva, era solo questione di capire come usarla in quel momento.
“Tanto dolore” aveva valutato Niobe, “Mi sforzo di essere cortese, eppure vi guardo e non provo empatia, forse perché un tempo avevo cuore ed ora ho solo pietra” aveva rivelato, toccandosi il petto niveo, “Anche il pensiero dei miei figli non mi ristora, ne dolore, ne nostalgia” aveva detto.
“Speravo che aiutare Gea a compiere la sua vendetta, lei che con me ha visto i suoi figli distrutti, avrebbe potuto alleviarmi” aveva aggiunto, “Ma forse dovrei concentrarmi sulle seguaci di Artemide e la prole di Apollo?” aveva ammesso con un tono di voce greve.
Ogni suo passo le lastre di marmo si incrinavano come sotto un peso incontenibile, mentre fenditure si aprivano in ogni direzione.
“Dopo lo scontro con il cartaginese sono furioso” si era lamentato Odoacre tirandosi su, “Potrei provare con il panico ma ho l’impressione che contro una donna di pietra possa fare poco” aveva detto Qbert, lasciandosi sfuggire un belato di puro terrore.
Jude aveva guardato Josh che dopo aver tirato fuori il braccio dai detriti sembrava paralizzato dal dolore, recuperando la sua spada.
Era una lama bastarda di bronzo celeste, più leggera di quella a cui era abituato, in qualche modo sapeva sarebbe stata scomoda.
“Giovane mezzosangue non puoi fare nulla per me, con nessuna delle tue armi” aveva detto Niobe acre giungendo a poco da lui, tanto che la punta della lama aveva vibrato contro la dura epidermide del torso, sotto i vestiti, della donna di pietra, “A meno che tu non abbia una schiacciasassi” aveva valutato con una punta di divertimento, nonostante quanto avesse detto in precedenza sui suoi sentimenti.
Fece un passo indietro, urtando con un piede un frammento di lastra,
La pietra poteva essere spezzata, in qualche maniera.
Sicuramente i mortali avevano i loro modi[4], ma Jude aveva il suo.
Sorrise divertito verso Niobe e sollevò la mano con cui non teneva la spada, schioccando le dita, lasciando confusa la donna, che aveva aggrottato i suoi occhi, deformando il suo orrido viso, ma l’attimo dopo era lei che era scomparsa, inghiottita in un buco nero.
“Mie dee!” aveva esclamato Odoacre, “Dove l’hai mandata?” aveva domandato retorico l’uomo, “20°S 80°E[5]” aveva risposto, sentendo la sua voce quasi raschiante nella sua gola.
Nell’oceano indiano, non sapeva perché lo aveva scelto, forse era solo colpa di un documentario che aveva visto da bambino con Alice, non credeva comunque che avrebbero tenuto Niobe lontana per molto, Gea era la madre della terra e di certo aveva qualche divinità marina sotto il suo ombrello, eppure questo forse avrebbe allontanato abbastanza Niobe da loro, perché potessero uscire tutti vivi o forse sarebbe stato il problema di altri mezzosangue.
“Sei un figlio di Ade!” aveva detto sconvolto Josh, mentre si aggrappava a Qbert, “Pensavo ne avesse avuti solo due” aveva commentato, “Tre, se si considera la romana” aveva aggiunto, “No!” aveva ammesso Qbert, “Ho annusato Nico di Angelo” aveva risposto il satiro, “L’odore di Jude somiglia di più a quello dei figli di Demetra, anche se più putrido” aveva proseguito il satiro, prima di aggiungere con nervosismo: “Senza offesa, Jude, ti adoro” aveva confessato spontaneamente.
Jude gli aveva sorriso, “Persefone” aveva sussurrato.
“Io … wow” aveva ammesso Qbert, “Non credevo Persefone avesse figli mezzosangue” aveva detto il satiro, mentre Jude sollevava le spalle, non avendo risposte a quello.
Per quel che ne sapeva Jude, Persefone non aveva mai avuto altri figli, in base a quello che sapeva della mitologia oltre suo padre ed Ade aveva amato Adone, se non ricordava male, perciò forse nel corso del tempo c’erano stati altri uomini, quindi forse altri figli.
Ma Crono aveva reso chiaro che Jude, ai giorni attuali, era l’unico.
Suo padre aveva teorizzato che la maledizione che gli era stata scagliata fosse stata ad opera di Ade, ma era stata Persefone stessa a scagionare suo marito, Ade era un dio fin troppo ligio al suo dovere per maledire un ragazzino innocente solo perché figlio di sua moglie.
Anche Quilly aveva confermato che tra i due  signori degli inferi quella più spietata  era Persefone.

E poi il mondo era piombato in una coltre di oscurità. Un pesante velo, spesso quanto una coperta di cotone, era scivolato su di loro, composto di ombre e oscurità, come se fosse scesa una notte improvvisa.
Jude si era sentito rinvigorito da quello, aveva sentito la note vibrargli nel torace, “Oh mio dio questo dolore è atroce” aveva piagnucolato Qbert, si, poteva percepirlo l’angoscia che permeava quel velo, era sensibile per lui che era un solo semidio, figurarsi per i satiri che percepivano l’empatia.
Qualsiasi cosa fosse successa aveva sconvolto Bernie, perché solo lei avrebbe potuto fare quello, far sprofondare tutti, per chi sa quante leghe, nel buio pesto, solo il potere di una figlia di una dea protogena.
“Immagino sia opera della figlia di Nyx” aveva valutato Odoacre, cercando a tentoni Josh nelle ombre, “Deve essere lei” aveva confermato Qbert con una voce lacrimosa.
Jude aveva allungato la mano, nonostante sembrasse fitta come una coperta l’aria era rimasta intoccabile, eppure lui poteva percepire con vigore quel potere, aveva focalizzato tutte le attenzioni sulla punta delle dita nel tentativo di rendere tangibile quell’oscura area, poi quando le aveva sentito, una ribollente rabbia che fagocitava un dolore sordo, Jude si era immerso come sotto l’acqua scrociante di una cascata.
Si era sentito pregno di quell’oscurità, come se annegasse nelle gelide acque di un lago, prima di tornare ad un ambiente naturale.
Aveva oltrepassato le ombre di Bernie.
Era stato diverso rispetto quando viaggiava attraverso le sue, non sapeva descriverlo bene, ma era stato come indossare un vestito troppo inamidato.
Poi una forte luce aveva inondato il suo campo visivo, avvolti in quel buio era stato come guardare direttamente il sole.
“C’è qualcuno! Ma non sono loro!”
“Jude!”
Aveva sentito due voci sovrapporsi, ma non era riuscito a capire da dove venissero, essendo ancora la sua vista scossa dalla luce.
Poi aveva sentito una mano calda toccare le sue dita.
Gli esseri umani a loro modo erano sempre caldi, ma in quell’occasione il calore da cui era stato investito era stato molto, molto più potente, come se avesse imitato Muzio Scevole[6].
“Fa male” era riuscito a dire, sfuggendo alla presa immediatamente, “Scusami!” aveva detto la voce onesta e Jude l’aveva riconosciuta.
“È un cibeliano?” aveva domandato un'altra voce, sconosciuta, di uomo, “No, ma è un amico” aveva confermato Heather.
Socchiudendo gli occhi era in grado anche di guardare cos’era quella luce, un informe macchia dall’aspetto di una persona che cominciava man mano a diminuire, come se qualcuno avesse regolato l’emissione.
“Scusami Jude, ma il bagliore segue un po’ l’andamento delle mie emozioni ed ero molto felice di vederti” aveva aggiunto Heather, quando il suo corpo non era rimasto altro che un tiepido bagliore, come raggi del sole filtrati da una tenda chiara.
Lui aveva aggrottato le sopracciglia, “Non so perché brillo deve essere una risposta ai poteri di Bernie” aveva tentato di indovinare lei i suoi dubbi, prima di ammiccare allo stangone al suo fianco, un ragazzone dalle spalle ampie, biondo con le lentiggine sulla faccia, sembrava lo stereotipo del ragazzo cool delle serie tv americane liceali che Alice guardava.
“Jude-Puma, Puma-Jude” aveva detto frettolosa lei, “Qui siamo tutti amici e stiamo cercando Bernie, sospettiamo sia vicino al Cartiglio del sole invitto quindi  prego seguire la mano luminosa” aveva detto la figlia di Apollo immediatamente, posandoli una mano poi sul braccio, più tiepida.
Jude aggrottò le sopracciglia, era strano ma Heather sembrava in tutto più  mite, anche la sua espressione frizzantina sembrava essersi ammorbidita ed anche il sorriso non riusciva a raggiungere gli occhi.
“Non sono Qbert o Ennoia, non riesco ad interpretare le tue sopracciglia” aveva cercato di sdrammatizzare.
Si, Jude era frustrato da quello, se era sempre stata una cosa di cui si era sempre servito, in quel momento lo trovava castrante, c’era qualcosa che non andava in Heather e non era il fievole luccichio che permeava la pelle … ma il nome dell’arpia aveva immediatamente fatto rizzare tutti i suoi peli, la Grande Madre Idea aveva detto fosse una dea travestita.
Aveva afferrato il braccio di Heather, “Okay, questa è preoccupazione” aveva mormorato la ragazza, guardando la sua mano sul braccio.
“Non parla molto, eh?” aveva domandato retorico Puma, “Si, è diciamo che io non parlo molto il Judese” aveva cercato di giustificarsi la rossa, “Ma immagino che la questione possa riguardare Bernie e se così non fosse può aspettare che troviamo Bernie?” aveva domandato il ragazzo biondo avvicinandosi a lui.
Jude aveva annuito freneticamente.
“Perfetto, allora seguite la mano luminosa come se foste bambini in gita scolastica” aveva canticchiato, alzando una mano, sul dorso della sua mano c’era una luminosa chiazza di rossetto lasciata da quello che doveva essere un bacio. Il figlio di Persefone poté sentire i brividi galoppare sulla sua schiena, un’idea malsana aveva affollato i suoi pensieri.
“Heather” si era lasciato sfuggire.
Probabilmente non aveva mai parlato così tanto.
Heather, chi ti ha dato quel bacio?
Heather, cosa ti è successo?
Heather, perché puoi trovare il Sol Invitto?
Heather, perché sei tiepida?
La ragazza si era voltata verso di lui, il verde degli occhi di Heather sembravano meno accesi, ma non come la prima volta che l’aveva accidentalmente incontrata in bagno, con lo sguardo triste rivolto ad un’immagine nell’arcobaleno che scompariva, però in quel momento era diverso.
Era frustrante realizzare che c’era qualcosa che non andava ma non riusciva a capire cosa, non riusciva a vedere dove, non riusciva a dirlo.
“La spada” aveva detto alla fine posizionando una mano sul suo fianco, alla cintola sprovvista di spada di ferro di Stige e fodero infernale.
Heather era avvampata, “Dei immortali, che imbarazzo” aveva ammesso, “Lo ho lasciata a Bernie” aveva ammesso.

“Rossa! Rossa!” la loro corsa dietro la figlia di Apollo era stata interrotta da una voce, Puma si era frapposto tra lei e l’oscurità con la lama sguainata, “Per lo sfintere di Apopi[7] se non brilli rossa!” aveva detto una voce maschile, a tentoni dalle tenebre era giunto un ragazzo dall’incarnato di tek ed i riccioli nerissimi, teneva con ambedue le mani un enorme pietra piatta di poco spessore.
“Trevor!” aveva detto Heather, “Dov’è Bernie?” aveva chiesto immediatamente Puma, “Dove è Xander?” aveva risposto di rimando il ragazzo piccato da quell’irruenza, “E Polisenna?” aveva aggiunto.
“Lei ha ritrovato suo fratello, lui è andato a salvare la ragazza incinta” aveva risposto alla fine Puma lievemente risentito, “Bernie?” aveva inquisito ancora.
Jude poteva percepire l’apprensione nella sua voce.
Trevor stava per rispondere, quando era comparsa un’altra figura dalle tenebre, con il viso grigio, le sclere screziate di rosse ed il tanfo della morte cucito addosso, un ghoul.
Però non un semplice ghoul.
“Dopo lo scontro con Neottolemo, lei ed Arvey si erano appartati, ma poi …” aveva detto con voce spenta Jake Evandor, il mappatore del labirinto.
“Oh, l’amico di Al” aveva valutato proprio quest’ultimo, prima di essere afferrato  per la collottola da Puma e sollevato di qualche centimetro da terra, “Dove  cazzo è Bernie?” aveva ringhiato di nuovo.
Jude aveva allungato una mano verso di lui picchiettando con le sue spalle, attirando la sua attenzione, prima di sollevare la mano e cercare nuovamente di rendere tangibile l’oscurità, questa volta non l’aveva immaginata come acqua in cui immergersi, ma come spessi fili che si stendevano su di loro.
Quella Vacca di Hathor[8]” si era lasciato sfuggire Trevor, “Penso dovremmo seguirlo” aveva proposto Heather.

Jude aveva seguito i fili, guidato dal potere, dove sempre si manifestavano più intensi ed oscuri …. Atavici.
Al lo aveva detto, Jude lo ricordava ancora, quando per la prima volta l’aveva vista, ‘C’è qualcosa di caotico in loro, un potere capace di oscurare il giorno’.
Aveva avuto ragione.
“Non credevo che Bernie fosse così … tosta, Neottolemo giocava con il fuoco” aveva sentito Trevor alle sue spalle, “Non è figlia di Apopi, vero?” aveva inquisito poi, con una certa cautela.
“No, è figlia di Nyx” aveva rivelato Heather, “Una dea protogena, della nostra mitologia” aveva spiegato didascalica.
“Buona o cattiva?” aveva domandato Trevor sfacciatamente, c’era stato un momento di esitazione nella voce di Heather e Jude ebbe la sgradevole certezza che stesse rivolgendo i suoi occhi verso di lui, perché riconosceva che forse il giudizio di uno poteva essere diametrale a quello dell’altro.
“Neutra direi, è la notte, scende per tutti uguale. Fredda e splendente” aveva risposto alla fine Heather, cercando di apparire rispettosa.
Un ragionamento così sarebbe potuto valere anche per suo padre: Apollo, signore del sole, musica e medicina, tutte e tre le cose, infondo, non avevano parti, appartenevano agli uomini. Eppure Jude non lo avrebbe comunque considerato un dio buono.
Neanche Nyx.
Non credevano esistessero dei buoni, neanche sua madre.
Jude aveva deciso di ignorare il resto del discorsi per concentrarsi solo sul potere di Bernie, quando aveva sentito Heather chiedere indiscrezioni sulla lastra, che Trevor aveva assicurato fosse la manifestazione della prigione di una divinità egizia nota come l’Aten.
“Sei sicuro che non contenga il potere del Sol Invitto?” aveva inquisito, “Affermativo, è la custodia di Aten, ancora tutta integra” aveva risposto schietto l’altro.

Lui aveva arrestato il suo incedere, quando aveva trovato la fonte di quel potere, un’oscura figura, nera come il vantablack[9],  che a malapena ricordava una figura umana.
Ai suoi piedi stava la spada oscura di Jude, era bastato che sollevasse appena la mano perché questa vibrasse nuovamente alla sua mano, il movimento aveva aperto una fenditura nel buio, abbastanza perché riconoscesse inginocchiata, adorante, lì vicino, di nere piume Ennoia.
Ora che aveva nuovamente la sua spada in mano si sentiva potente, l’energia di Bernie rinvigoriva il suo spirito, nonostante fosse pregna di rabbia e dolore.
Jude si era avventata sull’arpia con vigore, questa si era ritratta, strarnazzante, quasi ad imitare una gallina. A guardarla in quel momento, con occhio attento, non riusciva comunque a distinguerla da qualsiasi altra delle sue compagne, se non per l’assenza di crine, anche nei capelli Ennoia aveva una cascata di piume di pece.
“Tu sveglio! Ennoia molto felice” aveva starnazzato l’arpia.
Ma Jude non aveva abbandonato la sua spada.  
“Ma che ti prende, è solo Ennoia” aveva cercato di intervenire Heather, mettendo una mano sulla sua nel tentativo di fargli abbassare la lama.
Ma lui non aveva desistito, prima di inclinare il capo verso la figlia di Apollo.
Puma, Jake e Trevor erano invece inghiottiti dalla figura oscura che emanava quella potenza, “Diva” aveva mormorato Puma, prima di lanciarsi su di lei, ma era stato rigettato da quella macchia nera con estrema potenza.
Jude aveva deglutito, sentiva la lingua intorpidita.
“Il sole” era riuscito a dire, solamente.
Heather aveva sbuffato, “Jude, sei un ragazzo pieno di sorprese ed ho capito che hai difficoltà ad interagire ma se quella è Bernie devi venirmi incontro” aveva detto la ragazza, sembrava esausta.
Lo sapeva.
“Il sole” aveva ripetuto, “Tu sei il sole” aveva detto poi.
Tu porti la luce, avrebbe voluto aggiungere, con la tua voce hai il potere di calmare gli animi.
Prima dell’incontro con Metelda e durante la sua degenza, l’aveva sentita intonare con la sua armonica.
“E lei mente” aveva aggiunto con rancore ammiccando ad Ennoia.
L’arpia aveva assunto una faccia stupita, ma era stata della durata di un minuto, prima di curvare le labbra in un sorriso arcigno, “Ennoia non mente, Jude, Ennoia è vostra amica” aveva riportato, ma la voce aveva perso la sua gentile innocenza, in favore di un tono più stucchevole.
Jude aveva sollevato la spada per colpirla, ma l’arpia era saltata indietro, svolazzando le ali oscure, “Jude!” aveva strillato Heather.
“Ragazzi, non so se lo avete notato ma c’è un enorme informe palla di materia oscura” aveva provato Trevor, nervoso, stringendo al petto la sua pietra.
Jake il ghoul aveva aiutato Puma a sollevarsi, il biondo aveva una ferita sulla fronte da cui scivolavano rivoli di sangue, “Che cazzo sta succedendo a Bernie, dove cazzo è Arvey?” aveva ringhiato allora il giovane.
“È stata lei” aveva latrato Jude, attirando l’attenzione nuovamente su di lui puntando la lama contro l’arpia. “Ennoia?” aveva domandato retorica Heather, sgranando gli occhi, “L-ei è una … dea” aveva buttato fuori.
La creatura aveva sorriso nuovamente, poi il suo aspetto aveva cominciato a mutare nuovamente, le piume nere sul suo capo avevano cominciato a mutare in neri capelli di seta, le ali erano rimaste, ma come putrida ribollente carne erano sorte due braccia di grigi avorio.
I connotati del viso si erano trasformati in quelli di un’attraente giovane donna con iridi gialle e pupille aguzze come serpenti, le piume del suo corpo erano scomparse lasciando la carne nuda di un corpo morbido, rovinato solo dall’incarnato grigiognolo, l’unica cosa che era rimasta dell’aria erano le zampe  artigliate da rapaci, dal ginocchio in giù.

“Signorina si copra!” aveva strillato in imbarazzato Trevor, alludendo alla nudità della dea, “Chi cazzo sei?” aveva domandato invece Jake.
Ennoia aveva ridacchiato, “Giovani d’oggi” aveva detto alla fine, allungando una mano verso l’oscurità e rendendola tangibile al suo tocco, molto meglio di come Jude avrebbe mai potuto fare, e sfilacciandola come una stoffa per indossarlo sul corpo nudo, le si era plasmato addosso e l’attimo la dea indossava una lunga  interula[10] scura puntellata di puntini luminosi, stelle!
Puma aveva aggrottato gli occhi, ma Jude poteva riconoscere la confusione albergare sul viso di Heather.
“Grazie, mi ero stufata di parlare in quel mondo demente: Ennoia vuole questo, Ennoia vuole quello” aveva ridacchiato quella.
“Tu …” aveva provato Heather, “Si, io” aveva ghignato la dea, “Ottimo acume Jude-carissimo, quando lo hai capito?” aveva domandato lei avvicinandosi,  toccando con il polpastrello del suo indice la punta della spada di ferro di stinge, “Sono contenta di sapere che oltre ad essere bello sei anche intelligente” aveva ghignato.
Jude aveva strizzato gli occhi, “Ah certo, non lo hai capito tu, è stata Grande Madre Idea, sapevo sarebbe stato un rischio, ma ormai ho trovato quello che cercavo” aveva detto allusiva la dea, “Non importa sei comunque abbastanza carino per permetterti di essere stupido” aveva esclamato.
 “Chi cazzo sei e cosa vuoi?” aveva domandato allora Heather con irruenza.
“Oh! Io sono Lilith, la Vergine Oscura[11].”



[1] Allora, se avete letto questa ff, per tempo questa descrizione potrebbe ‘stonarvi’ però se tornate al capitolo 6 ho modificato la descrizione di un personaggio che appare in quel capitolo (nel sogno di July) per mera esigenza estetica, mi piaceva di più l’idea dell’aspetto marmoreo che di terracotta.

[2] Ecco: in italiano non esiste un termine specifico per una persona che rimane priva di figli, però in latino esiste ed è Orbus (se lo ho scritto bene) che in italiano, Orbo, è finito per diventare ‘mancante di un occhio’ ma in latino chi era orbo, non era chi mancava della vita, ma chi aveva una mancanza così grande che non avrebbe mai potuto essere sanata e per questo veniva utilizzato per i genitori che perdevano i figli. Almeno da quello che mi ricordo delle lezioni di latino. Quindi so che il termine è sbagliato, però mi piaceva molto (avevo pensato di farlo alla Gladiatore maniera, ‘Padre di un figlio assassinato’), però rendendomi conto di questa licenza ho aggiunto Jude che non capisce.

[3] Il Greco Scritto è un tipo di marmo, il suo nome deriva dalle sfumature di colore che richiamano come forma proprio la scrittura (non è vero, ma spiegarlo ai marmologhi è inutile). E che personalmente trovo molto bello.

[4] Per esperienza personale vi dico che spezzare una pietra è davvero, davvero, difficile. Perfino con un piccone.

[5] Secondo GeoHack sono le coordinate dell’oceano Indiano.

[6] La celebre legenda (mi pare che lo fosse) di Gaio Muzio Scevola che per punire il suo stesso errore mise la sua mano nel fuoco dei sacrifici. Lo so era una nota inutile, ma va be.

[7]  Apopi è la divinità delle tenebre, del caos ed altre cose poco belline (Poi mi pare di aver capito che nelle KC sia il cattivo, ma come detto non lo so).

[8] Sono una persona pessima, lo so; comunque Hathor per certi versi è il corrispottivo egizio di Afrodite (infatti è dea della gioia, della bellezza e dell’amore), però è anche chiamata La Signora dell’Occidente (aka la Signora dei Morti, perché il regno dei morti era ad occidente del Nilo), che accoglieva le anime dei defunti all’aldilà, ma soprattutto era raffigurata come una vacca. Quindi si sono pessima.

[9] Il vantablack è un materiale nero, ritenuto il secondo più scuro al mondo.

[10] Sarebbe la Camicia medievale, in realtà sarebbe una sottoveste lunga fino ai piedi con una scollatura quadrata, era un abbigliamento intimo, comunque non ho idea del perché Jude dovrebbe sapere cosa è un’interula.

[11] Non avete idea da quanto tempo desiderassi introdurla; l’iconografia la ho presa da dal rilievo di Burney (https://it.wikipedia.org/wiki/Rilievo_Burney) che non sono certi sia Lilith al 100 %, ma ne sono abbastanza sicuri. Comunque, non poteva essere una serie con più pantheon e non ficcarci qualcosa di Cristiano, anche se ad onor del vero Lilith è una dea babilonese (e scegliere lei e non Oannes è stato davvero difficile). Eh, si, effettivamente Niobe non era l’antagonista di questa piccola porzione di storia, ma come ha valutato Jude: tornerà.
















Jude "Il Mortiferaio" Mortimer

Bernie LaFayett

Lilith La Vergine Oscura

Niobe, la donna di pietra

Heather Shine

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Capitolo 28
*** Anche dei semidei senza ne arte ne parte meritano le proprie profezie, il problema è capire dove sono finite (Bernie IV) ***


Sono tornata dal regno dei morti, avrei voluto aggiornare prima, ma mi sono persa, lo confesso, tra originali ed altre ff, però sono tornata. Finalmente cominciamo a sbrogliare la matassa (almeno spero) di questo ‘gran casino’ che è questa storia e concludiamo finalmente la ‘questione di Sciro’, sebbene non tutti i nodi vengono al pettine, ma dal prossimo capitolo si comincia nuovamente la ronda (penso toccherà al povero Carter, ormai abbandonato da troppo tempo).
Pace e amore,
RLandH

Il Crepuscolo degli Idoli

Anche dei semidei senza ne arte ne parte meritano le proprie profezie, il problema è capire dove sono finite

Bernie IV

E ti amo” aveva insistito nuovamente Arvey.
“Mi ami?” aveva chiesto Bernie stupita, confusa; Arvey la amava?
“Come un pari, non come un cacciatore per la sua preda, ma come un pari. Se fossi stato un mezzo-dio come te mi sarei dichiarato dopo l’esplosione della principessa e se tu fossi stata una lestrigona ti avrei già dichiarato mia” aveva asserito il lestrigone.
Il momento dopo Bernie aveva sentito le labbra di Arvey premute contro le sue.
Un bacio.
Tranquillo.
Giusto un tocco.
Diverso dalla passionalità del Dio Vestito di Bianco, e dall’imbarazzata irruenta di Hannah Phoenix.
Non sapeva come comportarsi in quel momento.
In quel contesto.
Nel mezzo di uno scontro …
Bernie non riusciva neanche a mettere assieme i suoi pensieri.
Aveva sempre voluto bene ad Arvey ed Arvey ne aveva voluto lei, ma amore.
Il lestrigone si era allontanato da lei, con un viso pieno d’ansia ed aspettativa.
Aspettativa per una sua risposta.
“Arvey, io …” era riuscita solamente a farfugliare, l’attimo dopo aveva visto qualcosa con la coda dell’occhio un ombra oscura, alata.
“No!” aveva urlato, troppo tardi, quando aveva capito.
Degli artigli affilati come rasoi aveva scalato il petto di Arvey, un colpo alle sue spalle, letale.
“Era da Vernon che ti dovevo questo colpo” aveva gracchiato una voce femminile alle spalle di Arvey, Bernie aveva distinto il viso di un arpia scorrere alle spalle del lestrigone.
Arvey aveva voltato il capo verso di lei e Bernie aveva potuto leggerci dentro tutto la disperata consapevolezza dei suoi occhi.
“Aspettami” sussurrò lui, con un solo filo di voce, prima di scomparire, di disgregarsi nel nulla.
Lasciandola lì sola.
“Ennoia ti ha trovato, figlia di Nyx” sussurrò l’arpia, allungando una mano verso di lei.
Bernie non riuscì a processare bene ciò che stava succedendo.
Arvey … Arvey era morto.
Arvey si era disgregato.
Arvey …
“No” sussurrò.
O Forse lo pensò.
Il momento dopo sentì una torrenziale rabbia sgorgare in lei.
Dentro di lei.
Da lei.
“No” urlò più forte.
Certa che in ogni angolo della terra potessero sentire la sua disperazione.

Una serie di immagini era vorticata nella sua mente.
Arvey l’afferava per un braccio.
Arvey sorrideva.
Un sorriso pieno di vita, da squalo.
Arvey che la stringeva, avvolti dalle fiamme, con l’acqua che risaliva fino alle narici.
Il sangue le scivolava dalla fronte, mentre il caos della battaglia s’apriva davanti a loro, mentre sentiva l’erba sotto di lei. Il campo mezzosangue.
Le mani di Arvey sotto le sue ascelle per tirarla su.
Lei che si svegliava a Boston, da sola, nessun ragazzo silenzioso, nessuna Bells, se solo avesse Arvey.
Arvey che le pulisce le mani scorticate, sporche di sangue.
Arvey che sorrideva come uno squalo.
Arvey che voleva mangiarla.
Arvey che la baciava.
Arvey che le premeva la testa contro un muro a Denver.
Arvey sul ponte della Principessa, con il vento a muovere i capelli e impregnato di salsedine.
Arvey che mangiava … umani.
Avey che  la colpiva.
Arvey che le insegnava a combattere.
Avey che aveva rinunciato tutto per lei.
Arvey che moriva …
Arvey …
Arvey …
Arvey …
Arvey!

“Ben sveglia” la voce che l’aveva accolta era stata carezzevole, profonda … materna.
“Bells?”  aveva provato Bernie, rifugiandosi nel più atavico desiderio della sua anima, mentre forzava le palpebre a stare su. Ma non era il viso di sua sorella quello che fluttuato davanti i suoi occhi.
Un viso scuro, occhi scintillanti come quasar incandescenti. Il volto incorniciato di spessi e neri capelli; Bernie aveva messo a fuoco gli occhi, riconoscendo anche il resto: sua madre, vestita del manto della notte. Un lungo abito da sera vantablack, puntellato di diamanti lucenti come stelle, di colore bianco, viola e blu.
“Temo di no, bambina mia” aveva sussurrato sua madre, allungando una mano verso di lei, per accarezzarle le guance con i polpastrelli, erano mai calde, quasi brucianti.
“Mamma” si era lasciata sfuggire, lacrimosa.
La dea aveva stretto a coppa ambedue le mani sulle sue guance prima di baciarla sulla fronte tonda, prima di stringerla in un abbraccio caloroso.
“Dove mi trovo?” aveva chiesto poi, guardandosi intorno, era  in un palazzo, più bello e allo stesso tempo spaventoso di quello di Sciro.
Pavimenti di marmo nero, colonne e semicolonne d’onice, anche le pareti erano scure come la notte e figure dipinte in bianco imitavano le costellazioni nel cielo. Invece di essere statiche, si muovevano in una continua danza.
Nyx le aveva sorriso, con una fila di denti bianchi perfetti, “Sei nella mia dimora, bambina mia, nel mio palazzo Nel Tartaro” aveva confidato, “Qui dove finisce la notte degli uomini e comincia quella dell’Oltre” aveva detto serafica.
“Come ci sono arrivata … io ero a Sciro … con Arv- Arvey!” aveva strillato Bernie, ricordando ciò che era accaduto, come il suo amico si era disgregato davanti a lei.
Nyx aveva sciolto l’abbraccio, “Si, temo di si, bambina, il tuo amico mostro sia … defunto, nonostante la benedizione posata sulla sua testa” aveva detto risposto sua madre, tentando di mantenere un tono gentile, ma la sua voce tradiva un certo disinteresse.
Tutto sommato Nyx, rimaneva comunque una dea.

Bernie aveva trattenuto un urlo di dolore, chiudendo le mani sul suo viso. “L’Arpia” aveva soffiato, ricordandone i contorni con precisione, piume nerissime, un viso grigio e quasi crudele.
Lo aveva infilzato, nel cuore, con un quel suo artiglio affilato.
Aveva pianto, soffocata dal dolore.
Arvey era suo amico. Il suo unico amico.
La sola persona, oltre a suo padre, a non averla mai delusa.
Dove anche Bells aveva fallito.
“Aspetta” aveva detto poi, allontanandosi da sua madre, “I mostri vanno nel Tartaro” aveva detto, poi, sfuggendo alla presa di sua madre, “Adesso siamo nel tartaro” aveva detto, “Posso raggiungerlo …” si era lasciata sfuggire, poteva trovare le porte della morte e valicarle … assieme.
Nyx si era lasciata sfuggire un risolino amaro, “No, Berenyx” aveva detto, “Temo che se tu lasciassi questo palazzo moriresti” aveva detto con una punta di cattiveria, “Morirei?” aveva chiesto confusa Bernie.  “Tralasciando che il Tartaro non è luogo adatto agli umani” aveva detto subito la dea della notte con una punta di cattiveria, “Forse se fossi giunta qui con le tue carni potresti” aveva ripreso sua madre, “Ma ora, tu, bambina mia, tu non sei umana” aveva sancito poi.
“Non sono umana?” aveva domandato confusa Bernie, “No, sei nera ombra” aveva aggiunto, “Il dolore per la morte del tuo amico ti ha … come possiamo dire? Scioccata, al punto di averti disgregata” aveva raccontato, “Ho pescato la tua coscienza prima che si dissolvesse come il tuo corpo” aveva aggiunto sua madre.
“Mi sono cosa?” aveva domandato Bernie, guardando le sue mani, sul polso non scintillava in bianco la freccia del Dio Vestito di Bianco, né le nocche risentivano delle ferite ricevuto nello scontro con Ines.
Cosa era successo?
Aveva affrontato Ines.
Era stata cattura a Sciro.
Il pranzo.
Il sogno.
Lo scontro con Neottolemo.
Heather Shine.
Aveva ritrovato Arvey e Jake.
Avevano recuperato il cartiglio.
Aveva ucciso Neottolemo.
… Arvey era morto.
Poi buio.
Buio.
“Onestamente, sono ammirata”, aveva ripreso a parlare sua madre. “Nel corso della mia permanenza in questo mondo ho avuto solamente nove figli semidivini” dopo aver detto quello, Nyx le aveva accarezzato una guancia, “Fino ad oggi, solo uno di loro aveva dimostrato di avere ereditato come potere il ‘buio pesto’” c’era, davvero, profonda ammirazione nella voce di sua madre.
“Certo. Questo è un potere che devi imparare a controllare o finirà per ucciderti” aveva terminato la dea della notte, con voce cupa.
“Mi ucciderà?” aveva chiesto Bernie.
“Hai presente quanto utilizzi le ombre per muoverti?” aveva chiesto sua madre, Bernie aveva annuito, “In questo caso sei divenuta l’ombra” aveva rivelato quello, “Hai trasformato il tuo corpo affinché divenisse ombra” aveva aggiunto, “Ti sei disgregata completamente” aveva rivelato, “E se non migliori con il controllo delle tue emozioni, la prossima volta non sono sicura di riuscire a pescare la tua anima prima che si dissolva anche lei in ombra e se perdi il tuo spirito non solo non potrai ricomporti, ma non potrai neanche accedere al regno dei morti” aveva spiegato sua madre.
Bernie era crollata per terra, sopraffatta.
“Ma tranquilla, se imparerai a domare questo potere, sarai inoppugnabile, figlia mia” aveva cercato di rassicurarla sua madre.
Bernie si era tirata su, sorretta da Nyx; “E come dovrei fare?” aveva domandato poi Bernie rabbiosa; sua madre aveva, letteralmente, fatto spallucce, “Non so, io sono sempre stata capace” aveva confessato senza esitazione.

“Però, ora, io e te, dobbiamo parlare di un’altra cosa” aveva detto sua madre, prendendole una mano e guidandola verso un divanetto.
“C’è qualcosa di più importante di un potere che può potenzialmente uccidermi?” aveva chiesto Bernie, con una puntina di sarcasmo, ottenendo da sua madre uno sguardo abbastanza allusivo.
“L’arma” aveva compreso Bernie. “Si, devi concentrarti su questa cosa solamente” le aveva ordinato sua madre, “So che è difficile, ma per ora devi dimenticarti del Buio Pesto ed anche di Bells; a proposito tua sorella sta benissimo” aveva commentato.
“È scappata da Ify?” aveva chiesto Bernie con apprensione, “Scappata? Sono diventate anche amiche” l’aveva rassicurata Nyx,  si era strappata un lembo di stoffa dal vestito e lo aveva spiegato nell’aria, un momento dopo il nero si era rarefatto mostrando l’immagine di due ragazze che parlavano vicine.
Una era certamente sua sorella, con i capelli sciolti ed una maglietta con le paillettes, l’altra sembrava la persona che aveva visto nel sogno, Ify, però priva di quel sorriso maniacale e la punta lucente del coltello alla mano.
“Bells” aveva detto con una punta di dolcezza.
“Sta bene, tue e tua sorella siete sicuramente ricche di temperanza” aveva detto con orgoglio Nyx, “Ma ora: concentrati” aveva commentato sua madre.
“L’arma, si” aveva ripetuto Bernie; “Ti dissi di recuperare l’arma per te stessa, non per Gea, me o il Campo” le aveva ricordato Nyx, Bernie aveva annuito; “In questo contesto potrei aver trascurato qualcuno” aveva ammesso la dea, piena di imbarazzo.
“Chi?” aveva chiesto Bernie, “Tua sorella” aveva risposto la dea della notte. “Bells?” aveva chiesto confusa allora la giovane semidea, “Oh! In effetti c’è anche la questione Bellatryx, sta lavorando per qualcuno ed onestamente quel gioco mi pare enigmatico” aveva valutato Nyx, sollevandosi dall’ottomana rivestita di velluto, “No, comunque una tua sorellastra, Eris, dea della discordia” aveva illustrato Nyx. Sembrava nervosa.
Bernie non credeva di aver mai visto una dea nervosa, in particolare una oscura e potente quale Nyx.
“Fedele a sé stessa, la mia adorata figlioletta ha cominciato a gironzolare intorno a questa storia e mandare i suoi galoppini” aveva raccontato Nyx.


“Lei da che parte sta?” aveva genuinamente chiesto Bernie, incrociando le gambe.  Aveva compreso che spesso Nyx fosse una dea al di là delle parti, una per ogni occasione. Sua madre aveva fatto una smorfia, “La sua” aveva risposto con ovvietà la dea, “Eris vive per l’unico gusto di creare caos” aveva detto, “O per sentirsi riconosciuta. Ha un grosso complesso di inferiorità ed abbandono, devo ammettere, immagino sia colpa mia. Non dicono che è sempre colpa delle madri?” aveva cominciato sua madre senza freni.
“Non so. Non ho mai parlato con uno psicologo o studiato” aveva detto Bernie, anche se non era certa che fosse la cosa giusta da fare. Nyx appunto aveva interrotto il suo flusso di coscienza, per sollevare un sopracciglio e guardarla, non aveva detto niente.
“Si, be. Eris potrebbe offrire i suoi servigi a Gea, o agli Olimpi, oppure tenersi un arma di questo potere tra le sue mani per usarla quando vuole lei. Come dicevo: caos” aveva soffiato Nyx.
 “Devo guardarmi dai galoppini di Eris” aveva aggiunto allora Bernie, “Ma potresti spiegarmi per bene cosa è questa arma?” aveva chiesto poi.
Sua madre si era accomodata di nuovo sull’ottomana, rovesciato il nome di Eris, sembrava che il nervosismo le fosse stato succhiato via dal corpo. “Un sidro: polvere di luna dalla pelle di Selene, capelli essicati di Crono, lacrime di Hypno e sangue di Tanatos” aveva raccontato Nyx, “Ovviamente raccolti in un determinato ordine, in un determinata situazione, cotti in una kylyx al centro dell’universo con una temperatura specifica, in un giorno particolare, che cade qualcosa come un lunedì ventinove febbraio ad un quarto dalla mezzanotte” aveva sciorinato sua madre.
“In pratica qualcosa di irripetibile” aveva valutato Bernie.
“Figlia intelligente” aveva risposto sua madre, pigiandole la punta del naso con un dito, “Una sola goccia sulla lingua è può cristallizzare il corpo nel tempo, in un sonno senza più risveglio” aveva detto, “Uomini e dei” aveva aggiunto.
“Il piano B. contro Gea, se i Sette falliscono” aveva commentato Bernie, “Si, o un arma pericolosa nelle mani di Gea o peggio di Eris” aveva aggiunto, “Personalmente io non me ne faccio nulla” aveva detto Nyx.
“Ma perché io?” aveva chiesto Bernie.
Sua madre si era morsa un labbro, “Molti anni fa una donna piuttosto rancorosa scrisse una serie di libri di profezie e cerco di venderle ad un Re piuttosto arrogante, poi li brucio … ed è una storia lunga è molto noiosa” aveva detto Nyx, “Comunque c’era questo libro di profezie, i Libri Sibillini – sì al plurale, come veniva chiamato” aveva spiegato sua madre,  “Be, questo libro è andato perduto molto, molto, tempo fa, forse nel quattrocentodieci dopo Cristo[1], non ne sono sicura” aveva raccontato con disinteresse.
“Comunque prima di questo evento,  una dea molto ribelle” aveva ripreso la dea, “Rubò una pagina, ai tempi di Alessandro Severo, credo. La strappò dal larario personale dell’imperatore, lui era uno dei decemviri sacris faciundis, i custodi dei Libri Sibillini” aveva raccontato.
“Come? Chi?” aveva chiesto confusa Bernie, chiedendosi cosa in quella storia fosse legata a lei.
“Alessandro accoglieva qualsiasi religione si potesse immaginare, sul serio aveva anche la statua il tipo simpatico del vino” aveva raccontato Nyx.
“Uhm, Bacco?” aveva provato Bernie, “Uhm, no, ma avevano un sacco di cose in comune” aveva valutato sua madre, “Però non è importante! Dicevo: una Dea palesatasi davanti all’imperatore con una richiesta non poteva tradursi in nessun altro modo che con il desiderio di Alessandro di soddisfarla; se devo esser onesta credo che quel ragazzo necessitasse di approvazione, forse spaventato a morte di poter far la fine del caro cugino. Comunque, questa deauccia aveva chiesto di  visitare il larario, guardare le profezie …” aveva cominciato la dea, “Prendere una pagina” aveva capito Bernie.
“Ecco, una pagina molto importante” aveva detto, “Che parlava di questo” aveva aggiunto Nyx facendo un ampio movimento con le mani, come a voler abbracciare il globo, “Di un sole che muore, una notte che incombe e di una figlia di due dee” aveva raccontato.
“Cos …?” aveva chiesto Bernie, ma sua madre aveva ripreso a parlare, “Così mi è stato detto da Eris, molti, molti Eoni fa” aveva detto.
“Ha rubato lei la profezia?” aveva domandato allora Bernie, “No. Ma ci ha provato, un paio di volte nel corso dell’impero romano, durante una notte di bagordi organizzata dalla Bestia c’era quasi riuscita. Poi quel figlio d’un’avvelenatrice se n’è accorto, ma non ci ha dato molto peso. Immagino che ora si stia mangiando le mani a non aver letto le profezie quando poteva” aveva raccontando poi sua madre. “Fai molte digressioni” aveva valutato Bernie, “Si, lo so. Dopo tutti i millenni che ho sulle spalle, cominciò a sviluppare un problema di attenzione” aveva detto lugubre la dea della notte. “Comunque quella profezia, ormai persa più di millecinquecento anni fa” aveva ripreso Nyx, “È stata ripescata dall’Oracolo del campo mezzosangue, a causa delle azione di Python,  il futuro si è fatto una tela nera e Rachel l’Oracolo non ha potuto che sbirciare poco della profezia” aveva spiegato, “Ha parlato dell’arma e praterie marce[2] ma credo fosse solo un modo di riferirsi al regno dei morti … o del tuo buon amico mortiferaio”.
Bernie non aveva la minima a chi stesse facendo riferimento.
“Ma pensi che sia io, la notte che avanza” aveva sussurrato poi.
Poi si era guardata il polso, non c’era il segno della freccia del Dio vestito di Bianco, ma ricordava le sue parole, “Il sole! Il sole sarebbe venuto in mio aiuto” aveva detto subito, “Heather è il sole” aveva aggiunto.
“Penso di sì” aveva riconosciuto sua madre, “Dalla lettura della profezia da parte di Eris ad oggi ho avuto solo quattro figli semidivini, un uomo di nome Al-Fayd, l’unico ad aver ereditato il buio-pesto,  Caterina De Medici” aveva ripreso sua madre, “Che sorella illustre” si era lasciata sfuggire lei, “E voi due, le uniche gemelle che io abbia mai avuto” aveva raccontato, “Ho anche ipotizzato che una delle due sarebbe nata dea e l’altra umana. Eravate una così incredibile stranezza” aveva aggiunto.
“Per ognuno di voi ho guardato avidamente per scoprire se era nata ‘La Notte Incombente’” aveva detto. “Con Caterina ci andammo vicini, alla sua corte non mancavano figli di Apollo” aveva raccontato, “Giurerei anche Apollo stesso ad un certo punto” aveva riportato.
“Ma non fu così” aveva compreso Bernie.
Nyx aveva mosso il capo in segno d’assenso, “Si. Quando siete nate tu e tua sorella però ho capito che doveva essere una di voi” aveva raccontato, “Chiamalo sesto senso da Dea” aveva aggiunto.
“Ho leggere il nostro destino” aveva borbottato Bernie. Il loro mondo sembrava orribilmente deterministico.
“Mi hai preso per Ermes?” aveva chiesto irritata sua madre, “La vostra forza me lo ha fatto intuire” aveva aggiunto questa.
“Perché io e non Bells?” aveva chiesto allora Bernie.
“Se posso essere onesta pensavo sarebbe stata tua sorella” aveva raccontato Nyx, “Era più socievole di te, aveva interagito con più soli” aveva aggiunto, “Tu d’altro campo avevi il tuo lestrigone” aveva commentato.
Arvey.
Bernie era rimasta in silenzio, “Ed Arvey ha sempre tenuto tutto il mondo lontano da me” aveva commentato con una punta d’amarezza.
“Poi un anno fa ho compreso che saresti stata tu, dopo la battaglia di Manhattan, ma ho scelto di non intervenire” aveva raccontato, prima che Bernie potesse chiederle perché, la dea aveva ricominciato: “Ovviamente perché speravo di sbagliarmi. Speravo che la ricerca di quest’arma sarebbe avvenuta molto più avanti, ma non è stato così” aveva detto, “Quando Rachel Elizabeth Dare ha vomitato la sua profezia, orribili forze si sono messe in moto” aveva raccontato Nyx, “Stavo parlando specificatamente di quella su di te e non quella su Gea, ma in effetti …” aveva valutato poi la dea.

“Cosa dice la Profezia?” aveva chiesto Bernie interrompendo la probabile digressione, “Nel senso: precisamente. Le parole” aveva raccontato.
“Questa è la parte che mi frustra” aveva commentato Nyx, mordendosi un labbro, “Sono solo quattro le persone al mondo, attualmente, a conoscerla tutta. Anzi tre e mezzo. E non tutti per esteso. Per quel che ne so io” aveva rivelato sua madre.
Eris, che ne lesse una buona metà durante un banchetto della Bestia, la Dea che ha strappato la pagina” aveva aggiunto Nyx. “Quindi, possiamo presuppore che l’Arpia scribacchina che ha raccattato Percy Jackson, non abbia potuto leggere quella specifica pagina” aveva rivelato Nyx.
“Hai detto quattro persone” aveva commentato Bernie, “Uno zombie poco socievole e una barattolo di marmellata parlante” aveva risposto sua madre.
Bernie aveva battuto le ciglia, “Cos-?” aveva chiesto, legittimamente confusa; “Non possono aiutarti fidati. Non vorrebbero neanche” aveva aggiunto sua madre, “Oltre al fatto che non ho idea di dove siano finiti” aveva aggiunto.
Se Nyx avesse avuto l’intenzione di continuare con le sue divagazioni, non l’aveva fatto.
“Quindi io sono la notte che avanza e Heather è il sole che muore, questo è sicuro?” aveva chiesto spaventata Bernie.
“Si. La tua amica ha avuto una profezia dalla nefasta Cassandra, le sue parole possono essere ignorate e disprezzate, ma non conoscono menzogna” aveva controbattuto Nyx.
“E la figlia di due dee?” aveva chiesto.
Sua madre l’aveva guardata con serietà spaventosa, “Non ne ho idea” aveva ammesso poi, con un briciolo di imbarazzo.
“Ah” era stata la risposta di Bernie, un po’ piccata.
“Comunque, dal canto mio, ho cercato di lavorare con frammenti di una profezia riportata da Eris, la discordia, che lesse per metà ad una festa. Sono una Dea ma non sono onnisciente” aveva cercato di giustificarsi sua madre, “Onestamente non ho idea neanche se figlia di due dee possa essere letterale o figurato. Una volta, Iris uscì con un tipo che di madre ne aveva Nove[3], il modo degli dei è incredibilmente complesso, bambina mia ” aveva ammesso nyx, stanca.

“Chi è la dea che ha rubato la pagina contenente la profezia?” aveva chiesto allora Bernie.
Sua madre aveva fatto un’espressione un po’ strana, come se dirlo le costasse qualcosa, “Psiche” aveva risposto. “La Psiche di Amore e Psiche?” aveva chiesto Bernie, confusa. Quello sembrava davvero gratuito.
“Ha dato colpa alla sua curiosità, il suo difetto fatale, a detta sua” aveva confermato Nyx, “E a detta sua non ricorda cosa diceva la profezia e ne dove accidentalmente abbia lasciato la sua pagina, troppo impegnata a girovagare per cercare Eros” aveva raccontato. “Ma tu non le credi” era intervenuta Bernie, “Si, ma non si può accusare senza prove la dea dell’Anima di mentire” era stata la risposta di sua madre.
“Ma al momento Psiche è un problema molto, molto, secondario” aveva detto, “Eris è il problema principale” aveva detto, “Gea è potente, il campo sa difendersi” aveva raccontato, “Ma entrambi sono presi da altro, come puoi immaginare” aveva detto.
“Mentre Eris no” aveva capito Bernie, “Ed è l’unica che ha letto almeno un pezzo della profezia, per davvero” aveva insistito Bernie, “Che conosce le esatte parole e le sfumature”.
Perché era lì il problema.
Eris avrebbe potuto mentire a Nyx, o la presenza di una parola al posto di un’altra avrebbe potuto capovolgere tutto.
“Lo sapevo quando ho conosciuto tuo padre che avrei avuto dei figli intelligenti” aveva ghignato con profondo divertimento Nyx, allungando una mano per accarezzarle i capelli, materna.
Bernie sentì una sensazione di calore allo stomaco, come non gli era mai capitato prima.
Era orgogliosa di quel complimento … venuto da sua madre.
“Adesso dobbiamo parlare dei tuoi nemici” aveva aggiunto, “Eris ha tre cavalli, che io sappia” aveva ammesso, “Sì, lo so, sono una madre pessima, ma differentemente da te e tua sorella, Eris ha una fissazione per rimanere anonima, prima del Grande Finale, come con la dannata guerra di Troia” aveva ringhiato.
“Sua figlia” aveva dichiarato Nyx, “Una tua conoscenza, una tale July Goldenapple” aveva raccontato.
July?
July che era con Alabaster! La July di Jake?
July che aveva una madre ignota?
“Certo July potrebbe essere un’arma a doppio taglio per Eris, perché pare l’abbia incastrata in questa missione” aveva raccontato poi, “Poi c’è la galoppina preferita di mia figlia” aveva aggiunto Nyx, “Giovanna D’Arco” aveva detto.
“Mi prendi in giro?” aveva esclamato Bernie confusa; “No. Hai presente quella storia che sentiva la voce di Dio? Era Eris, che cercava di incrementare la guerra tra inglesi e francesi” aveva raccontato. “Giovanna d’Arco è una cacciatrice di Artemide e figlia di Atena, un cocktail mortale: superbia e cieca rettitudine” aveva aggiunto, “Una che non può proprio credere di non essere indispensabile” aveva detto ridacchiando.
“Però Eris la sta ingannando di nuovo?” aveva domandato Bernie, “Probabile. Hybris difetto fatale, parecchio mortale” aveva risposto sua madre, prima di riprendere, “Per ultima abbiamo l’Arpia” aveva detto.
Un lampo nei suoi ricordi era comparso, “Quella che ha ucciso Arvey” aveva ricordato.
“Si. Ha cercato di prenderti a Vernon, ma il tuo buon mostro glielo ha impedito” aveva ammesso, “Così alla fine ha ripiegato su Heather quando ha capito che lei era il sole morente” aveva raccontato.
“Ha sfruttato il senso di colpa del Mortiferaio per raggiungerti” aveva aggiunto sua madre, pizzicandoli una guancia, “Ovviamente non è un’arpia, è una fastidiosa dea babilonese. Si lo so, non ha senso”.
“Adesso però è necessario che tu recuperi il tuo corpo” l’aveva avvertita sua madre.
“Facile, eh” aveva stabilito Bernie, onestamente non aveva la minima idea di come farlo, non era neanche riuscita a comprendere come aveva fatto, ne cosa avesse fatto.
Era uno spettro nel palazzo di sua madre, nel Tartaro, mentre il suo corpo si era disfatto nelle ombre a Sciro, all’Antelopee Canyon.
Sua madre aveva sollevato le spalle, “Immagino che se non troverai il modo di farlo, ci saremo sbagliati tutti” aveva detto perdendo tutto il suo charme materno, il viso si era contorto in un sorriso più spietato e crudo; “La porta è a sinistra” aveva detto, indicando la porta, “Adesso ho un appuntamento con una testa parlante” aveva detto sua madre con un allegrezza un po’ superficiale.

 

Bernie aveva annuito, prendendo la porta indicata, era di un legno nero con infissi d’oro opaco, l’aveva aperta aspettandosi di vedere comparire un corridoio o il Tartaro, qualunque fosse il loro aspetto, ma era solo uno spesso muro nero.
Ombra.
Solida.
L’aveva attraversata, trattenendo il fiato come quando si era immersa nella fonte di Thalassa.
Si era sentita come avvolta nell’acqua, solo che non riusciva a percepire il suo corpo, non percepiva niente, solo pace.
Come se galleggiasse nell’etere, aveva voglia di arrendersi a quella pace, a quella tranquillità.
Ma poi aveva sentito una voce, un sussurro appena, calmo, una litania leggera, delicata.
Era Oh My Darling Clementine, in una versione più lenta e sicuramente più depressiva della versione ufficiale.
La voce era femminile e dolce.
Bernie si era sentita leggermente più consapevole, mentre cercava di orientarsi nell’oscurità, attirata da quella voce.
Man mano che la seguiva, non sapeva come, visto che non aveva corpo, visto che non esisteva, ma lo percepiva, un avvicinamento, la voce si era fatta più intensa, forte e vibrante.
Poi era stata la luce, prima fioca, una sfera luminosa, non più grande di un pugno, nelle viscere dell’oscurità, poi aveva brillato con più vigore e si era espansa.
I contorni delle cose avevano cominciato a farsi più definiti, non era più nell’oscurità, c’erano cose accanto a lei, era reale e tangibile.
Aveva sentito sotto di se il freddo del marmo, la sua testa era sollevata, posata su qualcosa di morbido e caldo.
Oh My Darling Clementine si era fatta più forte e quando era finalmente riuscita ad aprire gli occhi. Era Heather che cantava, con la sua voce ipnotica, era sul suo ventre che aveva posato la testa. I capelli rossi della ragazza scivolavano verso di lei, solleticandole le guance e la fronte.
Dee, Heather era bellissima.
Splendeva come la luce del sole.
Splendeva letteralmente.
“Sei tornata, grazie al cielo” Heather aveva interrotto il suo canto per dirle quello, alle sue spalle. “Ti sei disgregata completamente!” aveva strillato, “Non ero neanche sicura che il piano di Jude potesse funzionare” aveva ammesso con imbarazzo, serrando le labbra.
Tremava. Heather tremava.
“Arvey è morto” era riuscita a sussurrare solamente Bernie, non riuscendo a frenare le lacrime che roteavano giù dalle sue guance, “Il mio Arvey è morto” aveva aggiunto. Portandosi le mani sul viso per trattenere i singhiozzi.
L’amava ed era morto.
Era nel Tartaro.
Forse un giorno si sarebbero rivisti, forse no.
Aveva riconosciuto sul suo polso la freccia bianca stilizzata.
Heather le accarezzò con le nocche la fronte, “Mi dispiace” le aveva detto e c’era onestà nella voce. Si erano conosciute neanche ventiquattro ore prima, non erano amiche, non avevano niente in comune, Heather non conosceva Arvey, non l’aveva vista interagire con Arvey, eppure sentiva reale afflizione, empatia, in quella voce.
“Mia madre mi ha detto che morirai” aveva sussurrato, tirandosi sui gomiti, tutto il suo corpo doleva, tutte le sue ossa, come se fosse finita sotto una pressa, prima di lanciarsi, nonostante i dolori lancinanti, su Heather per stringerla.
La figlia di Apollo era rimasta sconvolta da quello slancio d’affetto, “Si. Tutti dobbiamo morire” aveva scherzato Heather, per sferzare la tensione, “Mi piacerebbe non fosse qui ed ora, ritiriamoci al C.I.B.E.L.E.” aveva detto poi, mentre Bernie scioglieva l’abbraccio.
“Dobbiamo raggiungere Jude e gli altri, stanno affrontando Lilith, e Xander che non so dove sia finito e … tutto il resto” aveva detto la figlia di Apollo sollevandosi con fatica ed aiutandola a tirarsi su, “Come stai?” aveva domandato poi Heather, “Ti riesci a reggere in piedi?” aveva insistito.
 “Si per essermi appena liquefatta sto sorprendentemente bene” aveva scherzato, “Tranne che mi sento come se fossi finita dentro una trebbiatrice” aveva ammesso, prima di chinare lo sguardo sulla clavicola della  ragazza, lì svettava sanguinolente una ferita.
“Tu?” aveva chiesto poi, preoccupata.
La profezia!
“Mi hanno avvelenata! Ma sto bene, quando saremo al sicuro mi curerò per bene, adesso andiamo” aveva stabilito con sicurezza, prendendole una mano.
“Mi dispiace tanto per il tuo amico” aveva ripreso alla fine Heather, “So cosa provi” aveva raccontato la figlia di Apollo, “Ho perso due delle persone più importanti nella mia vita, negli ultimi anni” aveva ammesso lacrimosa.

 

“Ho preso dalla cucina qualcosa di dolce” aveva detto Puma, sedendosi davanti a lei, aveva uno zigomo completamente tumefatto, un occhio gonfio ed un labbro spaccato. Da questo stato anche la sua bellezza ferace ne era uscita compromessa. Aveva un vassoio di biscottini al burro in una mano.
“Dovresti metterti apposto la faccia” aveva risposto apatica, mentre teneva le ginocchia contro il petto, seduta su quel divano.
“Deedo dice sempre che i lividi sono lezioni” aveva raccontato lui, con un sorriso sfrontato, mentre le posava davanti quello che sembrava un buon piatto di pasta, “Anche se in questo caso, sono un cazzo, di trofeo” aveva aggiunto poi con ancora più orgoglio Puma, “Abbiamo catturato una fottuta dea” aveva detto tronfio.
Bernie aveva annuito,  l’arpia era la dea Lilith. Ecco cosa aveva scoperto quando era giunta al C.I.B.E.L.E.    
“Voglio parlarle” aveva stabilito, “Con Heather” aveva aggiunto poi, “Credo sia nella sua stanza, Grande Madre Idea la ha sepolta sotto un sacco di coperte. Le stavano facendo impacchi e non mi sorprenderebbe anche un salasso” aveva cercato di scherzare Puma, ma la sua voce era carica di tensione, “Posso accompagnarti da lei, volevo comunque passarci” aveva provato. Bernie aveva scosso il capo, “No, io ed Heather, insieme, noi due dobbiamo parlare con Lilith. Ci siamo dentro tutte e due” aveva spiegato.
“Certo, possiamo insistere con Grande Madre Idea” aveva detto Puma, “Però prima mangia!” aveva commentato, forzandola a mangiare i dolci che le aveva preso.
Bastò un morso per riconoscere il sapore delle uova fritte di suo padre la domenica mattina, “In questi biscottini c’è dell’ambrosia” aveva esclamato.
“Esatto. Una bella tagliata di carne, con un retrogusto zuccheroso” aveva ridacchiato Puma, “Comunque l’ambrosia è porzionata in modo che un semidio possa mangiarne due, massimo tre, Grande Madre Idea ha calcolato che tu potresti prenderne anche cinque” aveva esclamato, “Ma non è il caso di esagerare” aveva detto.
Sul piatto erano rimasti solo altri tre biscotti.

Jake l’aspettava fuori dalla stanza, aveva un’espressione contrita e gli occhi scuri persi, si era sporto, senza pronunciare una sola domanda e l’aveva stretto.
Era freddo. Come un morto doveva essere. Rigido.
Però Bernie si era accovacciata in quell’abbraccio, cercando la più piccola forma di calore e affetto. In quel momento Bernie era davvero grata della sua presenza, sembrava un pensiero egoistico, ma Jake c’era. C’era durante la guerra. Era suo amico prima. Era stato uno di loro.
Ed avevo visto il legame che aveva unito lei ed Arvey ed era l’unico, in quel momento che poteva davvero capire la sua perdita.
Aveva deciso di accantonare la morte del suo amico per un bene superiore, ma in quell’abbraccio tutti i suoi propositi si erano sciolti in un pianto liberatorio.
“Senti, Arvey era una brutta bestiaccia. Non lo conoscevo come te, ma sicuramente in questo momento sta scalando le porte della morte prendendo a pugni in faccia e strappando meningi a chiunque abbia la malaugurata idea di mettersi tra lui e te” aveva sussurrato Jake, “Probabilmente entro due settimane te lo ritroverai dietro come il segugio che è” aveva aggiunto.
Bernie aveva annuito. Si. Doveva pensarla anche lei in quella maniera. Arvey. Bells. Papà. Erano la sua famiglia ed aveva tutta l’intenzione di riunirla.
“Devo parlare con Heather Shine” disse poi.
“Ottimo tempismo, è rimasta incosciente più di te, ma Xander mi ha detto che si è appena svegliata” aveva detto Jake con un tono leggermente preoccupato. “Il veleno, si” aveva pensato nuovamente, il sole che muore.
Puma si era accodato a loro quando avevano intrapreso la strada per raggiungere la camera dove era stata sistemata Heahter. Dopo aver ripreso conoscenza, a seguito del suo viaggino nel Tartaro, era riuscita a fare ben poco, con la figlia di Apollo a seguito, raggiungere la donna-leone Atalanta, prima di soccombere nuovamente.
Heather per il veleno.
Lei per la stanchezza.
Era venuta l’alba.
Non aveva dormito, aveva affrontare una piccola pestilenza che aveva offeso la salute, Ines con cui si era scontrata con spirito e corpo. Il banchetto.
I due scontri con Neottolemo.
Arvey.
La disgregazione.

Avevano incontrato un ragazzo simpatico di nome Josh, piuttosto divertente, oltre che il non-morto – quanti c’erano negli ultimi tempi, doveva dire – con il sorriso rilassato, labbra piene e carnose, al suo fianco c’era anche la ragazza incinta, che aveva partecipato al pranzo degli orrori di Neottolemo.
Ora che la guardava da vicino sembrava quasi una sua coetanea, il viso soffriva ancora di una curva morbida infantile, aveva la carnagione rosea ed i capelli biondo grano, ordinati in una treccia. Era piccola e pingue, ma molto più pulita rispetto il giorno prima.
Continuava a passarsi la mano sul ventre, per calmarsi.
“Si chiama Skylar Casterly” l’aveva introdotta Xander mentre la guardava, non lontano, Skylar era seduta su una sedia, continuando ad accarezzare il suo ventre, quasi ignorando tutte le persone del C.I.B.E.L.E. che cercavano di conversare con lei.
“A quanto pare è incinta di un Dio, cosa di cui non aveva la minima idea” aveva raccontato tetro il figlio di Freya, “Situazione in cui confesso, mio padre non si è trovato, avendomi mia madre letteralmente sbolognato tra le sue braccia” aveva raccontato.
“Idem con patate” era stata la pigra risposta di Bernie, “Si, mi aggrego” aveva confermato Puma. Che stranezza, tutti e tre figli di una dea.
Jake aveva sbuffato, “Quando ho conosciuto mia madre ho dimenticato di chiederle come era andata con mio padre, solo domandarglielo la faceva andare su tutte le furie e le veniva voglia di uccidere” aveva ammesso Jake, “Inoltre si è scopata due dei, è non ha idea di chi sia mio padre” aveva esclamato. “Non gli ho mai chiesto se avesse idea se fossero due o come è andata l’incontro, o anche solo perché” aveva soffiato.
Si erano voltati tutti e tre verso di lui, sconvolti.
“Tua madre e mio padre dovrebbero darsi il cinque” aveva esclamato Puma, “Tecnicamente mio padre ha avuto tre figli da tre dee, ma Minerva ha la simpatica questione di forte sintonia mentale” aveva ridacchio Puma.
Bernie lo guardava davvero stupita, “Sai chi sono?” aveva chiesto con genuina curiosità, Jake aveva ridacchiato, “Mia madre non ha effettivamente certezze, ma ha le sue teorie. Ares ed Efesto sono esclusi” aveva ammesso. “Apollo è nel ballottaggio però” aveva raccontato Jake.
“Non sono un esperto di mitologia greco-romana confesso” aveva detto Xander, “Ma ricordo che era uno abbastanza socievole da questo punto di vista, si” aveva valutato il figlio di Freya.
“Potresti essere fratello di Heather!” aveva detto Puma, dando un buffetto, sulla schiena del Ghoul, fin troppo forte, da aver quasi fatto perdere l’equilibrio a questo.
Questo aveva fatto ripiombare nel buio Bernie, aveva gettato un ultimo sguardo a Skylar, “Povera anima; non sa cosa aspetta ne a lei ne alla sua creatura” aveva stabilito.
Skylar era condannata ad una vita di preoccupazione perenne per un figlio che probabilmente sarebbe morto giovane, come era quasi capitato molteplici volte a loro. Anche solo in quelle ventiquattro ore.

 

Ippomene era dritto davanti la porta di Heather, “La Grande Madre Idea sta conferendo con la vostra amica” aveva detto lui, cercando di apparire morbido, “Vi chiedo di aspettare” aveva ammesso, “Cortesemente” aveva aggiunto, gentile.
Bernie aveva sorriso.
“Però dentro c’è Trevor” aveva valutato Xander, indicando la porta, “Manca anche il satiro” aveva valutato Puma, “E Jude” aveva sottolineato Jake.
Ippomene, l’uomo leone, compagno di Atalanta era sembrato in difficoltà. “Guarda, a me non frega un cazzo, di nessuna dea in questo momento” aveva valutato Bernie, “Ho mangiato il suo cibo nella sua casa e sono perciò protettata dalle leggi dell’ospitalità, se fuori di qui vorrà punirmi, l’aspetto” aveva stabilito Bernie, provando a valicare la porta.
“Ho ordini pr-“ ma la figlia di Nyx non ascoltò il resto delle parole del giovane uomo, scomparendo in un nero turbine di ombre e riapparendo neanche un metro più in là all’interno della stanza.
Il primo viso che vide fu quello di sua sorella Bells, prima di capire che non era lei. C’era qualcosa di più maturo, adulto ed anche confortevole.
Poi riconobbe un giovane satiro agitato, che teneva la mano di Heather. Nel suo campo visivo si fece spazio il mago egizio Trevor che si fiondò ad abbracciarla come se fossero stati vecchi amici anziché appena conoscenti.
Bernie aveva comunque ricambiato l’abbraccio.
Poi vide Heather, seduta sul letto, con la schiena posata alla spalliera, quasi grigia in viso, con i capelli rossi unti, che scendevano a ciocche sulle spalle.
E sebbene fosse stata arpionata verso di lei, accadde qualcosa che non aveva previsto.
Il Jude di cui aveva parlato Jake era una sua vecchia conoscenza.
Jude il mortiferaio di cui aveva parlato sua madre, più volte.
L’ombra di Albaster, il ragazzo che non parlava mai, con la lama di nero stige.
Jude, si chiamava Jude e Bernie non lo aveva mai saputo.
Erano scappati assieme, da Manatthan.
Jude l’aveva tirata via dalla bolgia che era diventata quella città, quella battaglia, tutto quel sangue, quella morte. E la sconfitta.
E poi avevano vissuto per due settimane assieme, girovagando.
Jude non le aveva mai parlato, erano stati quasi due estranei, ma era stato bello avere qualcuno, con cui entrare in empatia.
Qualcuno con cui trovarsi.
Però una mattina, senza preavviso, a Boston, Bernie si era svegliata da sola. Jude se n’era andato, senza dirle nulla, neanche un addio, lasciandola sola in un mondo che l’aveva privata di Bells ed Arvey.
“B-Bernie” pronunciò Jude, con una voce profonda, greve, come il roborante della terra, anche se basso,
Lei di rimando sentì in quella voce, che mai prima di allora aveva pronunciato il suo nome, un fuoco dentro di lei, non pari alla morte di Arvey né alla furia che aveva provato contro Neottolemo o Ines, ma abbastanza da accenderla.
Tu bastardo!” strillò solamente.
Ma tutta la sua rabbia fu chetata dalla mano della donna dal viso simile a quello di Bells, posarsi sulla sua spalla, “La terribile Berenyx LaFayett, immagino” aveva sussurrato la donna, “Grande Madre Idea” aveva risposto Bernie. Qualcosa in quella donna non poteva che trasmettere altro che pace, sicurezza e quasi nostalgia, più materna di quanto non sarebbe mai stata Nyx in una vita.
“Immagino tu conosca già il nostro Jude” aveva sussurrato Heather, nonostante l’aspetto pallido, c’era un certo sarcasmo nella sua voce, “E faccia parte del club siamo arrabbiati con lui” aveva scherzato Heather.
Poi si era voltata verso il ragazzo taciturno, che se ne stava con le spalle, posate contro un muro e lo sguardo basso, che ogni tanto faceva slittare da Bernie ad Heather, “Tranquilla, non sono veramente arrabbiata con te” aveva detto con un sorriso buono, la figlia di Apollo, “A colpirmi è stato mio fratello Troilo” aveva stabilito, prima di voltarsi di nuovo verso Bernie.
“Come stai?” aveva chiesto la figlia della notte, “Pronta per partecipare a Project Runnaway” aveva dichiarato Heather, facendosi aiutare dal satiro a tirarsi su.
Doveva ammettere una cosa, anche grigia come uno spettro e con i segni di un avvelenamento, Heather Shine era la degna erede del sole.
Bernie aveva curvato le labbra in un sorriso, fino a quel momento aveva conosciuto solo Carter Gale – e forse Jake ? – come figlio di Apollo e mancava completamente di quella luce calda che emanava Heather.
“Dobbiamo parlare con Lilith, io e te” aveva detto poi, “Siamo finite in una profezia piuttosto lambiccata” aveva ammesso.

Grande Madre Idea aveva tossicchiato, attirando l’attenzione, “E lo farete, senza ombra di dubbio” aveva stabilito quella, “Ma prima: vorrei tentare qualcosa di potenzialmente mortale per aiutare Heahter” aveva aggiunto.
Tutti gli occhi erano proiettati su di lei, rapiti, “Il Nostro caro Sol Invictus ha cercato di ingannare Heather e la ha legata a lui, nella speranza di sfruttarla e consumarla; noi ricambieremo” aveva detto Grande Madre Idea.
“Suono proprio bene” si era lasciato sfuggire il Satiro, stringendo la mano sulla vita della sua amica.



[1] IL SACCO DI ROMA. ZANZAN

[2] Riferimento a capitolo 8.

[3] Si sta riferendo ad Heimdallr, che era figlio di nove madri diverse, era il guardiano del Bifrost (un ponte arcobaleno) per questo ho pensato ad un appuntamento con Iris.

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Capitolo 29
*** Tranquillo, una passeggiata nel mondo onirico rimedierà tutte le fratture nel rapporto tra un padre e un figlio. No, aspetta, non funziona così … (Carter IV) ***


TORNATA DAI MEANDRI DELL’INFERNO. Mi sono finita The Trials of Apollo è devo ammettere di averlo davvero apprezzato (penso di non aver apprezzato, giusto, una o due cose) comunque mi ha riacceso tutto l’amore per questa saga (ed il mio altalenante interesse per questa storia).
Volevo dire che sono troppo contenta di aver inventato un poter Ad Hoc per Heather che poi anche Riordan ha dato ai figli di Apollo (senza spoiler, ma <3).
Comunque, ecco, il capitolo: era un po’ che non avevamo ne questi personaggi, in particolare dal punto di vista di Carter.
Confesso, la sua trama era è sempre la più ostica (perché è abbastanza esterna alla vicenda) ma era necessaria (e spero di riuscire a renderla più interessante).
Comunque, riassunto veloce della trama di Carter:
Grace ha portato Carter e l’allegra combriccola (composta dalla guerriero Lapito Ceneo, biologicamente donna, ed il romano, probabilmente in esilio, Drew) in un luogo chiamato Ironwood, dove Grace era stata in passato con suo figlio Marzio. Qui Grace fa un accordo con la Hag di Ironwood (che vorrebbe che l’Empusa raccogliesse un cuore) che la stessa Grace non ha deciso di non rispettare, ‘troppo tenera di cuore’. Alla combriccola si aggiunge anche Eirik, il lupo, precedente – e rinnovato – amante di Grace. Il gruppo viene indirizzato da Assetata, la spada maledetta di Drew, alla ricerca di un oggetto molto particolare: L’Astrolabio del Leone, un oggetto che potrà condurli ovunque desiderino.
Per Carter sua sorella Heather, di cui ha continue visioni di morte, per Drew la sua vendetta e per Ceneo un dio che possa trasformare il corpo più in sintonia con la mente.
Comunque: in qualche modo, qualcosa va sempre storto …

Buona Lettura

 

Il Crepuscolo degli Idoli

 

Tranquillo, una passeggiata nel mondo onirico rimedierà tutte le fratture nel rapporto tra un padre e un figlio. No, aspetta, non funziona così …

Carter IV

“Cos’è?” aveva chiesto Carter, con un cipiglio sospettoso, “Tè” aveva esclamato Eirik con un certo divertimento, “L’ho fatto io” aveva ammesso il gigante nordico, anche se in quel momento sembrava solamente un normale giovincello, con la giacchetta con il collo di pelliccia anche se era primavera. “Gratia mi ha detto che il tuo dono della vista è compromesso” aveva provato ancora il gigante, “Non sono pratico nel sidr, ma ho vissuto ad Ironwood abbastanza da riconoscere le radici” aveva ripreso.
“Quindi non è tè” aveva valutato Carter, “Si, è tè per rischiare la mente, mezzosangue” aveva detto leggermente irritato il lupo.
Tanto era bastato perché Drew si palesasse, con il capello floscio arancione, tirato fin quasi agli occhi, con due grosse occhiaie, per raccogliere la tazza dalle mani di Eirik, “Allora lo prendo io” aveva detto secco. Con una mano reggeva la tazza, che si era portata alle labbra, e con l’altra teneva l’elsa della spada, nonostante questa fosse allacciata alla vita. “Come va con l’Anatema?” aveva chiesto Carter allora, “Bene” aveva detto Drew, “Meno con quel simpaticone di Ceneo che parla solo greco di merda” aveva ringhiato.
“Come sono le cose tra te e Grace?” aveva domandato Carter, “Ti facevo una persona estremamente seriosa Carter Gale, non uomo da chiacchierelle” lo aveva ribeccato Eirik, “Penso sia colpa dei geni di mio padre” si era giustificato.
Era la prima volta, in tanto tempo, che si rivolgeva ad Apollo come Suo Padre, senza sdegno ed in così tanta tranquillità, come se avesse fatto riferimento ad un padre di provincia qualsiasi e non al signore del Sole, fonte primaria di ogni sua disgrazia.
“Secondo me perché se la voleva bombare lui, l’empusa” aveva detto Drew con sprezzo, provava a combattere contro l’influsso venefico di Assetata, probabilmente era migliore di quanto sarebbe stato Carter con lei, già così pingue di rabbia per Joelle, per la sua vita. Ma la spada riusciva comunque a turbare Drew.
“Amico, io pianterei quella spada da qualche parte, si vede che ti logora” aveva esclamato Eirik, con una punta divertita nella voce.
Simpatici i Jothuneim.
“Se la lasciassi per anche solo cinque minuti, Assetata, troverebbe il modo di cadere in altre mani” aveva risposto Drew, “Be, dai, non è detto” aveva proposto Carter, “Chi sa per quanto tempo è rimasta nelle mani di Manto?” aveva proposto lui.
Drew lo aveva puntato con occhi appuntiti, “Diciassette anni” aveva rivelato, “Quando il suo ultimo portatore, Elyas Phoenix, la ha volutamente lasciata alla Fonte” aveva raccontato, “Questo me lo ha detto Assettata” aveva spiegato, “Il potere di Manto ha irretito la sua volontà; inoltre la strega l’aveva rinchiusa in un posto dove nessuno sarebbe dovuto entrare” aveva ripreso la sua storia Drew, lanciando uno sguardo al figlio di Apollo.
“Fino a Lauren” aveva specificato Carter, ricordando il viso tondo della figlia di Afrodite, con i capelli castano ramato e le labbra morbide, fatte apposta per essere baciate.
Aveva ricordato quel bacio, appassionato, che si erano scambiati nello stanzino degli oggetti perduti, brulicanti di emozioni e passioni.
Non si era mai sentito così, immaginava fosse da attribuire alla natura afrodisiaca di cui era intrisa per sangue Lauren stessa … o magari aveva solo una cotta, poteva succedere, infondo anche Carter era umano.
“Una figlia di Venere, ovviamente” aveva detto Drew, con un riverbero d’astio nella voce, probabilmente provocato da Assetata. “Come il semidio per cui la maledizione è nata” aveva provato a proseguire, ma la voce di Ceneo era venuta sopra a quella di lui, aveva fatto un commento non esattamente felice in greco.
Da quando Ceneo aveva fatto coming out non era cambiato molto, continuava ancora ad indossare le camicie in flanella a quadri, sopra le canotte, il seno però era scomparso dietro una banda. Anche i pantaloni di jeans scoloriti, sempre portati larghi, non erano cambiati.
I capelli scuri erano ancora raccolti in una coda cavallina ed il suo viso era ancora tragicamente femminile, situazione che doveva irritarlo non poco.
Carter lo sapeva che avevano bisogno di un dio che mutasse il corpo di Ceneo. Sapeva anche che a lui non sarebbe dovuto importare così tanto, ma immaginava – circa, al limite delle sue possibilità – che ritrovarsi in un corpo che non corrispondesse allo spirito doveva essere una delle cose più atroci mai successe.
Drew aveva ringhiato qualcosa di rimando a Ceneo, aveva parlato in latino, Carter come lingua non la conosceva, ma immaginava non fosse niente di gentile.

“La strada … controllata. Grace, lei, trovato la macchina … direzione spada” aveva riportato poi Ceneo, sforzandosi di parlare in inglese, come Grace aveva chiesto. Drew aveva emesso un verso vagamente gutturale, ma Carter aveva interpretato quel suono come un verso di apprezzamento.
“Immagino che non mi abbia lasciato un pezzettino” aveva ghignato il gigante nordico, con un tono melodrammatico.
“Grace non mangia uomini” aveva detto Carter, con voce scandalizzata, ma Eirik aveva riso, di lui.

 

Carter doveva ancora abituarsi al fatto che Grace avesse un fidanzatino, mostruoso e dall’apparenza bonaria come lei, anche se non credeva davvero che Eirik potesse essere come Grace.
Infondo nessuno era come Grace.
Giusto, sulla sua amica, c’era da considerare anche quel piccolo ed assolutamente trascurabile dettaglio che un tempo era stata madre. Sebbene, a primo acchito, questa notizia lo avesse non solo stupito ma anche destabilizzato, in seguito aveva spiegato molti comportamenti che la sua amica aveva adottato e che aveva sempre confuso Carter.
Perché non mangiava carne umana, perché era sempre così materna con lui e perché sapesse sempre cosa fare con Marlon, come rapportarsi con lui. Veniva da chiedersi se in Grace avesse visto in Marlon – e forse anche in Carter – un po’ di suo figlio.
Marzio, così aveva detto fosse il suo nome.

Nonostante lui e Grace fossero stati amici da tempo, quella che avevano avuto qualche giorno prima, era stata la prima chiacchierata a cuore aperto, dove avevano potuto essere onesti e sinceri. Grace gli aveva parlato di Marzio, chiamato così perché era figlio del figlio del Dio della Guerra, ma che non aveva predisposizione nell’arte militare, ma aveva ereditato da lei la magia ed avevano parlato dei loro viaggi. Carter di risposta aveva raccontato di Joelle, realizzando di averne parlato per la prima volta. Lo aveva reso più vero, Joelle era morta, ma lo aveva anche reso più affrontabile, qualcosa che mai, fino a quel momento non aveva mai pensato potesse essere.
E si era chiesto perché avesse aspettato così tanto per parlarne con Grace.

 

Carter si era sentito rinato, dopo quella conversazione, dopo tanto tempo era anche riuscito a disegnare.  Era stato solo uno schizzo, fatto con un fazzoletto di una stack-house, con un bastoncino e il fondo del caffè. Però era qualcosa ed ovviamente era Joelle. Informe, sì, abbozzato, ma reale. Dopo tanto tempo.
Nessuno si salva dopo aver sfidato un Dio” ecco come aveva detto Joelle. Però, Carter non avrebbe perso più nessuno.
Avrebbe preso l’Astrolabio di Leone.
Avrebbe trovato Heather.
Avrebbe trovato un Dio per Ceneo.
Avrebbe trovato la vendetta per Drew.
Ed un posto per Grace ed il suo lupesco fidanzato.
Forse avrebbe potuto rivedere Marlon e Lauren, magari baciarla ancora.
Dovevano solo capire cosa e come fare.
“Sei molto bravo” aveva valutato Ceneo al suo fianco, in greco, mentre infilava una patata bollente in bocca, “Sangue di Apollo” aveva ammesso candido Carter, accartocciando il viso di Joelle poi. Realizzando con orrore di averlo fatto di nuovo, di aver parlato con disinvoltura di suo padre.
“Sono naturalmente bravo nel disegnare, suonare e tirare d’arco, ma preferisco la spada” aveva spiegato Carter.
 “Sei anche un ottimo medico” si era intromessa Grace sorridendo bonaria, mentre posava la testa sulla spalla di Eirik, aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio del lupo, in una lingua che Carter non conosceva, aveva riconosciuto solo i termini ‘Apollo’ e ‘Freyr’.
“Per il canto?” aveva chiesto Ceneo, incuriosito, tecnicamente Carter era bravo anche in quello, non era di certo degno di The Voice, forse in effetti non era neanche così bravo, ma poteva utilizzare la sua voce come arma, di tanto in tanto, come ammansire le bestie, o per accrescere le sue altre doti, come quella medica.


Il loro pranzo era stato interrotto da Drew, che aveva spostato senza grazia i loro piatti, spalancando una cartina sul loro tavolo, “Lo abbiamo già fatto” aveva mormorato leggermente turbata Grace, “Io … mangiavo” aveva borbottato Ceneo, ammiccando al suo piatto da cui era stato tragicamente allontanato.
Drew aveva ignorato il secondo ed aveva risposto alla prima, “Sì lo so. Però ora lo ripetiamo” aveva detto, “Dobbiamo muoverci adesso, dobbiamo arrivare a Yellowstone il prima possibile” aveva ringhiato, armato di nervosismo il giovane. “Mozione per strapparli quella spada dal culo?” aveva chiesto Eirik, spiritoso.
“Sì, dividiamoci l’Anello del Potere” aveva accettato Carter, ignorando le proteste che erano naturalmente venute da Drew.


Nella macchina presa da Grace ci stavano tutti e cinque; un po’ stretti. Grace aveva preso il volante, il posto al suo fianco era stato arduamente lottato, lo aveva ottenuto Drew, solo a patto che mettesse Assetata nel bagagliaio.
“Se dovessimo essere attaccati, potrei non riuscire a recuperarla” erano state le vane prosteste del ragazzo di argilla, “Oh, tranquillo, Drew” aveva provato a rassicurarlo Grace, “Ho l’impressione che Assetata non starà molto in panchina” aveva bisbigliato.
Nei tre sedili dietro si erano sistemati lui, Ceneo ed Eirik. Carter che era il più piccolo di statura, meno spesso di Eirik e più basso di Ceneo, si era ritrovato ad occupare il centro.
“Va un po’ meglio Drew?” aveva chiesto Grace, rivolgendosi al ragazzo seduto sul sedile anteriore, “In realtà si” aveva ammesso quello, aveva ancora un tono aspro, ma sembrava più calmo, “Fantastico, allora farai tu le veci del gps” aveva stabilito Grace, mentre Drew distendeva la mappa davanti a sé, per poterli introiettare nella direzione indicata da Assetata. “Yellowstone stiamo arrivando” aveva canticchiare l’empusa come una scolaretta in gita.
Dopo che Grace aveva messo in azione il motore, Carter dovette ammettere di cominciare a sentire il sonno pressare sulle sue palpebre, era sempre stato sensibile ai mezzi, gli favorivano sempre l’addormentarsi, inoltre, in quei giorni aveva dormito poco tra attacchi da parte di gigante, guerriglia con spettri e centauri, funerali e pure il pantheon nordico.
Aveva provato a rimanere sveglio, appisolandosi più di una volta, finendo per urtare lo zigomo contro la spalla irta di Ceneo, ogni scossone della macchina lo aveva svegliato, ma alla fine, nonostante la strenua opposizione di  Carter, il sonno l’aveva avuta vinta.
Sarebbe stato bello, poter scivolare in un buio senza luce, ma raramente Carter era fortunato.

 

“Oh no” aveva mormorato, Carter, realizzando di essere in qualche luogo, a lui tristemente noto, sull’ansa del Lago Posa, non lontano dalla casa della sua infanzia.
“Mi sembrava azzeccato” aveva sentito una voce al suo fianco, con voce calma. Si era voltato allarmato, trovando un figuro al suo fianco. C’era un ragazzo proprio accanto a lui, uno di quei fighetti rivestiti che sua madre aveva sempre desiderato lui diventasse, con la pelle bronzea, la camicia sbottonata sui primi bottoni, i pantaloni crema e i mocassini.
Senza contare i capelli biondo d’orato un po’ selvaggio.
“Oh” si era lasciato sfuggire Carter.
“È tanto che non ci vediamo figliolo” aveva detto Apollo.
“Non chiamarmi così” aveva ringhiato Carter, la sua prima reazione spontanea.
“Eppure mi hai chiamato padre due volte, oggi” aveva replicato Apollo.
“Il fatto che tu sia mio padre, non fa di te un genitore” era stata la risposta di Carter.
Era strano averlo detto, dopo tutto quel tempo.
Apollo non aveva emesso nessun commento, il suo viso era rimasto neutro, cosa che non si addiceva molto a lui, visto di solito tendeva ad essere una personalità orribilmente passionale.
“Touché” aveva concesso il dio.
“Pensavo che la visione profetica fosse bloccata” aveva commentato poi Carter, dopo un certo silenzio imbarazzato, o la gita fino alla Fonte diventava obsoleta.
 “Si lo è. Un mio vecchio nemico, si è attorcigliato attorno alla fonte profetica di Delfi” aveva risposto suo padre senza nascondere una buona dose di veleno nella voce, “E voi non vi eravate murati nell’Olimpo?” aveva chiesto ancora il semidio.
Apollo aveva scosso il capo, a guardarlo così bello e perfetto, Carter lo capiva perché una donna intelligente e brillante come sua madre avesse commesso l’errore di cedere ad un tale faccia di bronzo.
“Mio padre mi ha esiliato a Delo. Insieme a mia sorella” aveva raccontato, “In questo momento, il tuo divino nonno mi odia e mi da colpe” aveva aggiunto con una punta di acredine, “Che non ho” ci aveva tenuto a specificarlo – il figlio ne aveva qualche dubbio.
“Oh!” aveva comunque commentato Carter, “Finalmente abbiamo qualcosa in comune, pare” aveva aggiunto.
Apollo l’aveva guardato con uno dei suoi occhioni blu ed aveva sollevato un sopracciglio, “Oh, ma che sciocchezza Carter, io non ti odio” aveva ammesso suo padre.
Sarebbe piaciuto a Carter dire che quella frase gli scivolò addosso come l’acqua, che dopo tutto quel tempo, dopo tutto quell’odio, sapere di non essere odiato, ma non fu così.
Ciò che Carter si era ritrovato a provare fu una primordiale confusione, disorientato confusione.
Perché lui aveva odiato Apollo – e lo odiava – e non poteva credere che quel sentimento che ardeva così feroce in lui, fosse a senso unico.
Non era giusto. Voleva che suo padre l’odiasse.
Suo padre doveva odiarlo, perché un dio e loro erano creature pingue, venali e crudeli.
“Parlavo di Zeus” aveva mentito Carter, per dissimulare quel tumulto di sensazione che albergavano dentro di lui.
Apollo aveva incassato il colpo, infilando la mano nei pantaloni kaki, con un’espressione colpevole in faccia.
Almeno ne era consapevole.

“Delo è la mia casa, lo sai, quella dove sono nato. Prima che l’agganciassero, era un’isola vagante, l’unico luogo dove mia madre, fuggiasca da Hera, poteva rifugiarsi …” aveva cominciato a parlare Apollo, ma era stato interrotto da Carter, “Si, la conosco questa storia, grazie” aveva replicato secco.
Anche in questo caso il dio non era sembrato particolarmente risentito dalla sua interruzione, “Si, be, la stavo prendendo incredibilmente alla lontana, sono il dio della poesia, sono un narratore eccezionale” aveva cominciato a ciarlare Apollo.
Carter lo aveva guardato con un certo biasimo, “Non ho bisogno di una storia alla lontana per sapere quanto facciano schifo gli Dei” aveva commentato con una certa acidità, suo padre lo aveva guardato con un certo biasimo.
Poi c’era stato del silenzio tra loro, “Puoi andare con la versione breve e spiegarmi quello che e che sta succedendo” aveva detto esasperato Carter, comprendendo che con suo padre non ne sarebbe venuto fuori facilmente; Apollo adorava troppo il suono della sua voce per poter velocizzare quel processo o essere rimproverato da un figlio traditore come Carter.
“Per farla breve Carter, quando la guerra è finita, noi Dei ci siamo ritrovati voi tra capo e collo” aveva cominciato suo padre, non sembrava breve.
“Noi? Intendi i mezzosangue filo-Crono?” aveva chiesto Carter, Apollo aveva annuito, “Avremmo potuto e fidati sia Atena sia Ares, per l’unica volta in accordo, erano piuttosto volenterosi di far calare la mannaia” aveva raccontato.
Carter era sbiancato, “Ucciderci?” aveva domandato, pensando con lucidità quanto avesse appena sfuggito quel destino.
Era coerente con il modo di interpretare la vita gli Dei, si lo era ma …
“No, no, quello era il piano della mia matrigna, sempre molto simpatica” aveva detto Apollo, colmo di imbarazzo.
“Tu invece sei sempre moderatissimo giusto” aveva rinfacciato Carter, non aveva senso tenersi tutto il suo veleno dentro a quel punto, tanto Apollo aveva ammesso di non odiarlo e di rimando Carter era già odiato.
“Non sono così cattivo come la gente mi scrive, sono un dio buono e disponibile …” aveva cominciato a blaterare suo padre.
Carter aveva sollevato un sopracciglio, “Infatti, io ho votato per lasciarvi in vita. Siamo stati la maggioranza” aveva esclamato soddisfatto di sè Apollo. Il figlio non gli aveva tolto gli occhi di dosso, sollevando un sopracciglio, “Dove è l’inghippo?” aveva domandato retorico. Il dio del sole era parso cotto per un secondo di puro imbarazzo, “Abbiamo valutato che vivere poteva rivelarsi una punizione più confacente” aveva ammesso.
Così potete tormentarci meglio, aveva pensato il semidio, morti non diamo troppa soddisfazione.
Io sarò ramingo e fuggiasco” aveva risposto Carter, allora. Apollo lo aveva guardato, con intensità, “È un verso della bibbia” lo aveva informato il semidio, “Lo so, lo so” lo aveva rassicurato il suo divino padre, “C’ero quando l’hanno scritto.”
“Atena e Ares vi volevano bandire tutti alla stessa maniera” aveva ripreso Apollo, “Ma poi, dopo la richiesta di Percy Jackson di riconoscere tutti” il dio aveva fatto una pausa, “Zia Estia consigliato di cuore di pensarci su un po’ di più, di considerare le cose per bene” aveva ammesso, “Tutti abbiamo un soft spot per Estia.”
“Oh, lo avete fatto Ad Personam” aveva realizzato Carter.
“Ogni singolo caso” aveva confermato Apollo, “Per una volta ci siamo impegnati ad essere bravi. Per davvero” aveva confessato, con un sorriso buono ad adornare il viso di bronzo.
Carter aveva fatto una smorfia, ma non era intervenuto. “Abbiamo ascoltato anche le Divinità Minori, per quanto, effettivamente non abbiamo potuto permettere a tutti di votare. Poi il processo sarebbe stato lungherrimo” aveva confidato, “Nel senso noi siamo eterni, ma voi … no”.
Immaginava, Carter, che dagli Dei non si potesse chiedere poi molto.
“Quindi: il mio caso, sentiamo” aveva berciato Carter, “Tanto è per questo che siamo qui” aveva detto.
Apollo, “Diretto: mi piace, questo lo hai preso da Kimmey” aveva ammesso suo padre. Carter aveva sentito un brivido lungo la schiena nel sentire suo padre rivolgersi con quel nomignolo dolce a sua madre.
“Tu non hai deposto le armi, fino a fine della guerra, hai tradito il campo mezzosangue e come hai ammesso tu stesso ad Ethan Nakamura. Riconosci il campo come la tua casa, riconosci i tuoi fratelli come tuoi affetti ed hai dichiarato più volte la tua idea di continuare a combattere contro gli Dei. Di volerci uccidere tutti” gli aveva ricordato suo padre.
Carter aveva sentito il fuoco bruciarli dentro, “Ed hai il coraggio di biasimarmi? Joelle!” aveva strillato, “Joelle era innocente! Non si meritava quello che …” aveva fatto una pausa.
Aveva immaginato il consiglio dei dodici dei che deliberavano sulla sua vita come se non fosse nulla, come probabilmente avevano fatto con Joelle, allora.
“Ho votato negativamente, figliolo, entrambe le volte!” gli aveva strillato contro suo padre, “Per te. Sempre per te” aveva aggiunto, accarezzandoli le guance con le nocche, la sua mano era calda, come giusto che fosse il Dio del Sole.
Carter lo aveva spinto.
Aveva spinto il Dio del Sole.
“Non mentirmi!” aveva strillato Carter.
Apollo sembrava irritato, “Non l’ho fatto e non accusarmi mai più di questo, ragazzino. Non abusare dell’amore che provo per te” gli aveva ringhiato.
Carter stava tremando di rabbia.
Amore? Quale amore?
“Ti ho dato il corvo, nonostante io odi quelle fameliche bestiacce, ti ho permesso di tenere i miei doni per te e ti ho perdonato, tutte le tue dannate ingiurie contro gli Dei e contro di me” aveva rimarcato Apollo.
Carter era rimasto in silenzio, assoluto, non sapendo bene come avrebbe dovuto rispondere a questo.
Suo padre sembrava ancora assurdamente infuriato, “Adesso: seguimi” aveva impartito, “Sto per mostrarti, per quanto possibile, il tuo futuro” aveva ripreso Apollo.
“Hai detto che un tuo noemico era avv-” aveva provato Carter, ma suo padre aveva mosso la mano come per scacciare quel discorso, “Visto che mio padre è arrabbiato con me, sono già in castigo e se i Sette non sistemano la situazione, saremo tutti morti. Sto facendo uno strappo alla regola” aveva detto Apollo.
“Ermes ha sempre saputo quale destino attendeva Luke, perciò, dopo il tuo processo …” aveva ripreso suo padre, “Dove avete dimenticato di convocare l’imputato” si era intromesso Carter, ignorato a pie pari, “Sono andato a controllare il tuo di futuro” aveva affermato Apollo, senza scomporsi.
Oh.
Wow.

Apollo aveva preso a camminare nella direzione opposta del lago e Carter lo aveva seguito, nolente, l’attimo dopo non erano più sulle rive del Pose, ma erano ad una stazione di servizio da qualche parte dell’America Rurale.
Carter aveva riconosciuto una macchina decapottabile rosso corallo, parcheggiata vicino un distributore della benzina. Carter aveva visto una ragazza che recuperava la manichetta della pompa per fare il pieno alla macchina, la sua prima, volgare, impressione fu che non era bello, c’era qualcosa di impreciso nel viso, come un disegnatore non si fosse curato troppo di mantenere una simmetria.
Fu tentato di chiedersi cosa volesse mostrargli Apollo, ma poi lo comprese subito.
Lauren era uscita dallo Store alle spalle, con la coda cavallina rosso castagno e la maglietta arancio del campo. Teneva due mik-shake in ambedue le mani, dirigendosi con un sorriso allegro verso l’altra ragazza.
Marlon la stava seguendo mangiando un pacco di patatine.
Di Emma, nessuna traccia.
“Potresti … Potresti tornare a casa, Carter” aveva detto Apollo, “Come ti sei comportato con Marlon, quello che dirà di te Lauren e allo stesso tempo …  Carter, tu, puoi tornare a casa” aveva raccontato.
“Se Percy Jackson ci salva il culo” aveva provato il semidio, cercando di tenere a galla la sua rabbia, rendendosi conto che stava cominciando a scemare.
Da quando si era confessato con Grace, il suo dolore stava cominciando a scemare.
Poteva tornare a casa.
Da Heather, da Will, Kayla e Austin.
“Sì, tragico effetto collaterale di questo mondo” aveva detto Apollo, prendendolo per un braccio per guidarlo via ancora.
Questa volta erano in una stanza, Carter non aveva ben idea di dove fossero, a guardarla sembrava una di quelle vecchie stanze nelle ville seicentesche che si vedevano sempre nei programmi storici, tipo le Stanze della Regina a Versailles, anche se, be, aveva dubbi fossero davvero quelle.
La carta da parati era comunque datata e con una fantasia floreale piuttosto pacchiana.
“Oh quanti ospiti interessanti” aveva detto un giovane uomo, “Ignorali Attis, sono spettatori passivi” lo aveva zittito Joelle.
Carte aveva sentito un tremore nel vedere il viso della sua amica, ancora tondo e roseo, con i capelli scuri ondulati, ma poi si era accorto che qualcosa stonava, non aveva gli stessi occhi grandi tondi, ma anzi erano più assottigliati, allungati, come quelli di Carter. Anche il naso era più stretto, aveva un collo lungo elegante come quello di un cigno ed un fisico a clessidra, da donna, come Joelle non lo era mai divenuta.
Era una creatura ibrida tra sua madre e Joelle, realizzava.
“Pensavo che questo posto fosse un posto sicuro!” aveva sentito strepitare qualcuno, non lo conosceva ma era giovane, forse suo coetaneo forse più giovane, un ragazzetto dalla pelle cotta, i capelli rasati e un’espressione funerea in viso.
“Non posso tenere fuori gli Dei se uno degli ospiti li invita. E questo dio qui è stato invitato” si era difesa Joelle-Kim, mettendo le mani sui fianchi, “Anche se si è presentato un po’ in ritardo” aveva detto guardando dritto Apollo; sul viso della donna si era dipinta un’espressione accigliata, che Carter riconosceva perfettamente in quella di sua madre, quando lui combinava qualche marachella da bambino.
“Nessuno ha invitato Lilith” aveva insistito quell’ultimo, “Si, giovane Trevor, quello è stato una mia svista” si era difesa la donna.
Doveva essere una dea, non poteva essere altrimenti. Si era voltata poi verso Attis, un uomo ancora giovane in viso, vestito con un maggiordomo, congedandolo.
“Uhm, possiamo … possiamo concentrarci?” per Carter sentire quella voce era stato disorientate, ma l’aveva riconosciuta subito, era una delle gemelle LaFayette, non erano omozigote, ma aveva comunque impiegato più del necessario per riconoscere chi era delle due.
Bernie, oscura, brillante e pericolosa. E sebbene Carter come figlio del sole le avesse sempre percepite entrambe in quella maniera, non aveva mai percepito Bernie così tanto in quel modo, aveva quasi l’impressione di percepire un’oscura aurea attorno a lei, come se sulla giovane mezzosangue ogni luce finisse per spegnersi.
Una oscura macchia di buio, ebbe paura che anche lui, vicino a lei, si sarebbe affievolito.

Bernie non era da sola, accanto a lui c’era un'altra conoscenza di Carter: capelli biondino pallido, con la pelle chiara come la carta da zucchero, anche lui aveva fatto parte dell’esercito di Crono, era il ragazzo che non parlava mai, l’amico di Alabaster – non era sicuro di ricordare il suo nome, o di averlo mai saputo.
“Loro sono vivi” lo aveva sussurrato ad Apollo con una gioia che non sapeva di avere, era strano? Non ne era sicuro.
Non aveva pensato molto a loro, loro due nello specifico, ma era felice, felicissimo, nel vederli.
Ebbe quasi l’impressione che Bernie potesse vederlo, nonostante Carter non fosse davvero lì.
“Si, tu e i tuoi amici siete estremamente tenaci” aveva concesso Apollo, ma la sua espressione era inasprita, come se qualcosa lo infastidisse nel profondo.
Perché erano i filo-titani.
 “Purtroppo il nostro universo è deterministico” aveva ripreso a parlare Joelle-Kimi, solo che non aveva risposto a Bernie, stava ancora parlando con Apollo, la sua voce era un morbido sussurro. “Grande Madre Idea” aveva provato il ragazzo dalla pelle scura, attirando nuovamente l’attenzione della dea. Carter non l’aveva mai sentita, ma percepiva dovesse essere una signora piuttosto potente.

Madre Idea con gli stessi occhi allungati di sua madre, del colore giallo delle foglie d’autunno, non aveva ancora dissoltolo lo sguardo da Apollo. Era pregna di afflizione “Però, possiamo barare un po’” aveva concesso, prima di voltarsi verso gli altri abitanti della stanza, aveva allungato una mano ed aveva accarezzato la testa rasata del giovane che le era più vicino.
“Bene, Trevor, mio giovane stregone” aveva cominciato Grande Madre Idea, strizzando la guancia di quello che doveva essere appunto Trevor, “Prendi quel tuo simpatico reperto archeologico” aveva aggiunto, “Non rischieremo di liberare l’Aten, vero?” aveva chiesto quello preoccupato.
“Allora il gioco varrebbe la candela” era intervenuta Bernie con voce ferace.
“Esatto: sarà necessario che tu sia così carica” aveva detto Grande Madre Idea, “Perché il tuo potere dovrà contenere quello di un Dio” aveva aggiunto mortalmente seria.
“Invece tu, Jude, dovrai utilizzare i doni che ti sono concessi da tua madre: la rinascenza” aveva aggiunto, ammiccando all’amico di Albastaer.
Non conosceva il nome di quel ragazzo fino a quel momento e non sapeva neanche di sua madre – era un pensiero stupido.
“Questo è colpa mia” aveva pronunciato Jude, le prime parole che Carter gli avesse mai sentito pronunciare, aveva una voce più adulta, profonda – diversa da come il figlio di Apollo l’aveva immaginata.
Il ragazzo si era avvicinato all’enorme letto matrimoniale, dove Carter in quel momento poteva scorgere fosse steso qualcuno, infagottato dalle coperte.
Bernie aveva rivolto uno sguardo di puro astio sul viso, verso Jude, condividendo evidentemente l’opinione del ragazzo stesso.  
“Non so se essere contenta o meno che Ethan non abbia usato il vostro veleno su Percy Jackson” aveva detto venefica.
Carter ebbe la certezza di sapere con vostro a chi si stesse riferendo, Jude ed il suo abituale comparo di merende: Alabaster C. Torrigton; Carter ricordava bene di aver visto i due cercare di creare un veleno che potesse seccare l’eroe Percy Jackson.
Lo avevano fatto, ma ricordava la titubanza che Ethan aveva avuto davanti quella mistura – proprio il giorno dopo, quella loro tesa conversazione a cena – ed alla fine aveva utilizzato altro.
Meno letale, meno efficiente.
Fallimentare.

Jude aveva chiuso gli occhi, c’era davvero dolore nel suo viso, si era morso il labbro. Una mano pallida come la neve, tormentata da macchie bluastre come una muffa, era emersa da sotto le lenzuola, posandosi sull’avambraccio di Jude. “Bernie” aveva sentito un sospiro, in quel momento, “Non tormentarlo” si era raccomandata la figura, che piano, piano, come un lombrico era strisciata da sotto le coperte.
Heather Shine, con la pelle squamata bianca come la neve, macchiata di vene blu come viticci, i capelli rossi cupi come sangue, spenta, era apparsa davanti a lui, come quando l’aveva vista alla fonte di Manto.
“No. Questo è sbagliato” aveva esclamato Carter, “Dovevamo essere al Campo …” aveva cominciato spaventato nel panico.
Dovevano essere al Campo, vicino al Pino, non c’era il vello, Heather era avvelenata come in quel momento, aveva chiesto di lui … si, ed era con Alabaster e … Bernie.
Dei immortali.
“Cominciamo! Heather, sfrutteremo il potere dell’Aten per guarirti, almeno parzialmente” aveva scherzato Grande Madre Idea.
“Mi raccomando Bernie … a te toccherà la parte più dura” aveva strillato la dea primordiale, “Cercherò di non disintegrarmi questa volta” disse Bernie lugubre.
Questa volta?
Carter avrebbe voluto vedere ancora, ma la visione si era sciolta come la neve in una giornata di sole.
“No! Aspetta, non è finita!” aveva strillato verso suo padre.
Apollo non aveva fatto una piega, “La salveranno, per ora” lo aveva rassicurato, c’era un fondo di dolcezza nella sua voce, ma la sua espressione rimaneva neutra, come se quella stesa sul letto di morte non fosse figlia sua.
Dei.
Infami.
Dei.
“Cassandra ha predetto la morte di Heather” suo padre aveva parlato con un tono pregno di dolore, Carter aveva potuto scorgere proprio la sofferenza quando aveva pronunciato il nome di ambedue.


Gioca pure con la pestilenza

Regina della fraudolenza

 il tuo destino è segnato

 il male acquattato

verdi i suoi occhi

Letali i suoi stocchi

L’averno due volte visiterai

ma la seconda volta resterai

Aveva recitato suo padre, “Questo Cassandra ha detto” aveva ammesso cupo. Carter aveva ascoltato quella piccola profezia, “Morirà e risorgerà” aveva sorriso per un mero secondo, “Gli ultimi due versi, potrebbero significare questo, no?” aveva incalzato verso suo padre.
Apollo si era morso un labbro, il viso invece di essere bronzeo sembrava bianchiccio e malato, non condivideva lo stesso cieco ottimismo di Carter, evidentemente.
Però aveva senso no?
Aveva visto Heather stare male, nel futuro – che ancora non era quello – ai piedi del Campo Mezzosangue, dove qualcuno avrebbe potuto stenderle addosso anche il vello d’oro. Dove un figlio d’Apollo come Will avrebbe potuto metterci mano.
L’espressione di suo padre era rimasta marcia.
“Ma tu non lo pensi e tu sei il dio della profezia” aveva sottolineato Carter, “Perché me lo hai mostrato?” aveva abbaiato poi, sentendo il sangue farsi amaro nelle sue vene.
Suo padre aveva sospirato, stanco, come se avesse faticato fino a quel momento, “Hanno fatto una previsione a tua sorella molti, moltissimi, secoli fa” aveva ammesso, “Ti ho detto che hai due vie” aveva aggiunto, “Casa” aveva ripreso Apollo, aveva fatto un gesto con la mano, aveva mosso del fumo verde, come quello degli oracoli, che si era condensato nella figura di Lauren Odalisque, “O … morte” aveva mosso ancora la mano, il fumo era mutato ed era divenuto Heather Shine.
“Non ci sono mai solo due strade” aveva risposto Carter,  “Giano non sarebbe d’accordo” aveva replicato suo padre, “Ecate si” aveva sottolineato lui, ripensando proprio al figlio di Ecate: Alabaster Torrigton con il sorriso storto e la malizia negli occhi … verdi.
“Al!” aveva strillato.
Apollo aveva aggrottato le sopracciglia bionde perfettamente pinzettate, “Cos …” aveva provato.
“Alabaster è uno spadaccino, oltre che uno stregone, uno dei migliori spadaccini che io abbia mai visto” aveva confidato, “Ed ha gli occhi verdi” aveva spiegato.
Verdi i suoi occhi,
letali i suoi stocchi.
“Il veleno che ha fabbricato Al è quello che la sta uccidendo ed Al non farebbe niente senza avere un rimediare” aveva chiarito.
Nella visione che aveva visto Heather era sorretta da Bernie ed Alabaster, che la stavano portando al campo mezzo-sangue, forse per chiedere aiuto, forse per recuperare degli ingredienti.
Heather non chiedeva di lui per una qualche connessione mistica, ma perché si erano probabilmente già incontrati …
Perché Carter le aveva portato la soluzione: Alabaster.
“Devo trovare Al, per Heather” aveva esclamato.
Eccola, la sua terza via.
Suo padre lo aveva guardato in tralice.
“No, Carter, non è qu-” ma il tentativo di evasione di suo padre era stato interrotto da Carter stesso, “Grazie, Padre” aveva ammesso, “Certo come dio della medicina, o padre del signore-supremo-della-guarigione, potresti comparire e sistemare Heather, fare un altro strappo alla regola” aveva aggiunto con una punta di cattiveria.
“Ma grazie” aveva aggiunto nuovamente.
Suo padre lo aveva guardato con un’espressione che Carter non era in grado di decifrare, leggeva un po’ di rassegnazione per non essere riuscito a dissuaderlo, ma anche soddisfazione, per lo stesso motivo. E c’era dolore, per lui, per Heather … perché la morte era la loro ultima fermata, ma sarebbe stato sempre così, che fosse avvenuto tra due giorni o vent’anni.
E c’era amore, negli occhi, tanto amore, che fece quasi male.
Apollo allungò una mano per provare ad accarezzare il volto di Carter, ma quello si ritrasse immediatamente indietro, timoroso di finire bruciato.
Nonostante tutto, Carter non era disposto a perdonare Apollo.
“Permettimi di darti due consigli allora” aveva cominciato suo padre.
“Due, addirittura: generoso” aveva scherzato forzatamente Carter, ma si rendeva conto che il sarcasmo che aveva voluto adoperare ne era uscito piuttosto fiacco. “Sangue chiama sangue, sempre. Non importa il pantheon” aveva detto lugubre Apollo.
Carter ebbe la sgradevole sensazione non stesse parlando di lui, “Grace” sospirò Carter, Apollo non confermò ne smentì nulla e tanto basto a lui per comprendere che aveva avuto ragione, “La tua amica ha fatto un giuramento di sangue all’amante di Loki” aveva spiegato suo padre.
L’amante di Loki?
Intendeva la Hag di Ironwood?
Prima che Carter potesse fare domanda, Apollo aveva ripreso a parlare: “I nordici prendono molto sul serio i giuramenti di sangue, ricordalo alla tua amica” aveva chiarito.
Carter aveva annuito – quello era un problema. Decisamente.
“La seconda questione riguarda l’Astrolabio di Leone” aveva detto, “Non lo potrai avere se permetterai ai sentimenti di aver ragione sulla mente” aveva spiegato suo padre.
“E tu, Carter, sei figlio mio. Sei molto passionale” aveva ammesso Apollo.
L’odio che lo teneva in piedi poteva esserne un grande esempio, “So essere schifosamente razionale, o avrei bruciato mezzo mondo” aveva ammesso Carter, incerto delle sue stesse parole.
Apollo aveva sorriso, circospetto.
Non gli credeva, ma a Carter non importava.
“Quello che mi hai risposto è la prova di ciò che ho detto, non mi hai chiesto nulla, non hai cercato di strapparmi alcuna informazione utile, preferendo aggredirmi” lo aveva stuzzicato suo padre.
Carter si era morso il labro, lo odiava, quanto lo odiava.
“Ma come si dice infondo: Il cuore conosce ragioni che la ragione non conosce” aveva sussurrato Apollo, l’aria intorno a loro stava cominciando a sfocarsi, sbiadirsi, stava iniziando a svegliarsi.
“La hai scritta tu?” aveva chiesto, “No, un tuo fratello” aveva risposto Apollo, “Ora scusa devo andare: Artemide mi sta punzecchiando con un ramo” si era giustificato il dio.

Carter si era svegliato improvvisamente, ritrovandosi collassato sulla spalla rigida ed ossuta di Cenis. “Non ho più percettibilità alla mia spalla, fanciullo” aveva scherzato il guerriero, con un tono vagamente divertito, sempre in greco.
“Scusa” aveva mormorato. “Era un bel po’ che non dormivi sogni tranquilli, eh?” lo aveva stuzzicato Eirik, ottenendo un grugnito da Carter, “Direi non fossero pacifici” aveva borbottato, quell’ammissione aveva fatto scaturire a Grace l’impulso di abbassare il volume della radio – interrompendo una canzone di Katy Perry e sì, Carter si sentiva come una ‘busta di plastica mossa dal vento’ – e guardarlo dallo specchietto retrovisore.
“Vuoi parlarne?” aveva chiesto apprensiva.
Carter serrò le palpebre e si prese un secondo per riflettere, “Sì” ammise.
Evitò di riportargli tutti i dettagli, come il permesso di tornare a casa, delle due scelte, preferendo concentrarsi sulla questione ‘Devo cercare Alabaster, poi Heather’ e ‘L’Astrolabio lo avremo solo se saremo lucidi e logici’.
Drew si era girato verso di lui, rischiando quasi di strozzarsi con la cintura, “Tuo padre ti è apparso in sogno?” aveva esclamato sconvolto, “Io … gli dei maggiori non rispondono a nessuno da mesi ed io … io credevo tu fossi … sai … un esule” aveva borbottato poi, sgranando gli occhi.
“Sono sconvolto anche io” aveva rivelato Carter.
Non era il sentimento giusto, era anche quello, ma soprattutto era la confusione.
Poteva tornare a casa.
Aveva rivisto Heather.
Poteva avere un futuro con Lauren – se sceglieva una via.
E suo padre non lo odiava.

“Comunque siamo messi male, allora” aveva valutato Eirik, attirando l’attenzione di tutti, “Come?” aveva chiesto Grace confusa.
“Tu, Gratia, sei un cuore raggiante, sei tutta un cuore, mossa da amore” aveva cominciato a spiegare Eirik, “Io mi muovo d’istinto, letteralmente due giorni fa ero a farmi i cavoli miei al mio bel negozietto” aveva sottolineato il lupo di Ironwood.
Due punti a loro sfavore.
“Drew, senza offesa,  ha la mente avvelenata” aveva ripreso a parlare Eirik, ammiccando a Drew, che si era limitato a dirgli qualcosa di poco carino in latino. “Magari Ceneo è equilibrato – ma la sua condizione deve destabilizzarlo un po’” aveva ripreso quello, di rimando il guerriero lapita aveva guardato le sue ginocchia trovandole incredibilmente interessanti.
“E io sono un figlio di Apollo” aveva commentato acre Carter, tre volte in un giorno.
“Ed io dovrei saperlo?” aveva chiesto retorico il lupo, giustamente, “No, non ti avrei dato comunque un centesimo perché tuo padre, che mi pare di capire, sia giusto sotto Gendo Ikari nella categoria dei pessimi padri” aveva detto Eirik.
“Tu conosci Neo Genesis Evangelion?” aveva domandato confuso Carter, “Sono un essere incredibilmente longevo Carter Gale, non ho passato tutta l’eternità a organizzare cene a base di giovani mezzosangue” aveva scherzato quello, “Trovo strano che tu, tra una titanomachia e l’altra, abbia trovato il tempo di vederlo” aveva scherzato.
Carter aveva sollevato un sopracciglio, “Oh, be, sulla Principessa Andromeda non dovevo preoccuparmi che i campi elettromagnetici – o quel che è – attirasse i mostri” aveva spiegato Carter, “Chris e Marvin avevano messo su una connessione wireless da urlo, prendeva nel mezzo anche in mezzo al mare” aveva raccontato con una punta di dolcezza, a quel ricordo.
Chris era ancora vivo, ma dopo il labirinto era uscito fuori testa – e quando aveva recuperato un principio di sanità mentale era rimasto con i suoi nuovi-vecchi amici, Carter non lo giudicava, era arrabbiato ma non lo disprezzava per questo – mentre Marvin, figlio di Efesto, era morto – e Carter non riusciva a ricordare come. Questo lo faceva stare peggio, perché si sentiva come un dio incurante.
Non conosceva benissimo Marvin, lo ricordava come un ragazzino sorridente con le lentiggini sulle guance, gentile.
Ma Marvin era stato uno di loro, lo aveva visto centinaia di volte sul pontile della Principessa, se lo ricordava mentre armato di fibra, fili e parabola assieme a Chris Rodriguez, mentre rassicurava tutti che avrebbero avuto una bella tv in camera.
Luke aveva strillato loro che quello non era affatto una nave da crociera, ma sotto la scorza dura anche il loro generale sembrava ammorbidito – a modo suo, anche lui soffriva il campo. Marvin aveva replicato che lo faceva per il ragazzino umano con la vista, la loro speciale Mascotte.
Anche lui era morto, quando la Nave era bruciata.


Probabilmente Grace lo aveva visto bianco come un lenzuolo, dallo specchietto centrale, per questo aveva parlato; “Apollo è stato comunque insolitamente gentile” aveva notato Grace, interrompendo qualsiasi conversazione che sarebbe potuta nascere su NGE o la valle di lacrime che sarebbe salita a Carter per quella passeggiata nel viale dei ricordi.
“Troppo” aveva considerato Carter, grattandosi sotto il mento. Non sapeva se fosse più turbato da quell’improvvisa pioggia di pensieri che riguardavano la sua vecchia vita, i suoi vecchi amici, o l’incontro con suo padre.
Le sue due scelte: vita – Lauren – o morte – Heather.
Tornare a casa.
Le parole di suo padre, la sua voce continuava a rimbombare nella sua testa, come un tenue veleno, all’inizio senza effetto, ma poi mano a mano paralizzava tutto il resto e lo consumava, come stava accadendo a sua sorella.
Poi, riflettendoci, Carter aveva realizzato di aver omesso un’altra cosa, inconsapevolmente quella volta, “Mi ha detto anche un’altra cosa” aveva mormorato Carter, “Sangue chiama Sangue, non importa il Pantheon” aveva riportato.
“Tetro” aveva commentato Drew cupo.
“Sventura” aveva sussurrato Cenis, in inglese moderno.
“Oh … norne nefaste” aveva detto invece Eirik, “Parlava di Gratia?” aveva chiesto poi allarmato a Carter.
“Si, ha fatto riferimento al giuramento di sangue” aveva mormorato Carter, rivolgendosi direttamente a Grace le aveva detto: “La Hag di Ironwood ha detto che per giuramento di sangue tu appartenevi a quel posto.”
Eirik aveva annuito.
Ceneo aveva parlato, “Tu … detto … non giurato” aveva provato comunque il guerriero Lapito, forse non era riuscito a seguire per bene tutto il discorso.

“Non è mai stato necessario che io giurassi” aveva mormorato Grace, colpevole, “Perché lo ho fatto secoli fa, ho giurato con il sangue, secoli fa” aveva detto amareggiata, “Speravo fosse una piccolezza di cui la Hag non tenesse conto” aveva cercato di dissimulare.
Non ci aveva davvero pensato, Carter lo realizzava.
Grace era fallibile.
“Ignorala!” aveva gracchiato allora Drew, “O ritarda il giuramento, o di che porterai il cuore che vuole tu e lo trafughiamo da una camera mortuaria” aveva proposto il romano.
Audace il romano.
“Non … accordo?” aveva provato in inglese Ceneo, prima di cedere a parlare in greco, “Non vi era tra di voi un legame di parola? Una cosa che tu farai per lei in cambio di una che lei farà per te?” aveva chiesto.
Ottimo punto.
Heather!
Carter aveva drizzato le orecchie, realizzandolo, fissando gli occhi di Grace dallo specchietto, “Anche questo è vero: non devo fare la mia parte fino a che Agrodoba non farà la sua” aveva esclamato Grace con rinnovata – finta – gioia, “Potrebbe non accadere mai, la Hag, come tutti ultimamente è a caccia del figlio di Freyr” aveva provato senza molte convinzione Eirik.
“Sì, abbiamo delle priorità: Yellowstone!” aveva strillato Drew.
Carter non era d’accordo, ma aveva anche la vaga impressione che se suo padre avesse spostato il suo divino deretano da Delo, fino ai suoi sogni, per avvertirlo, voleva dire una sola cosa: sarebbe successo.
E questo non aiutava la sua Ragione ad imbrigliare i suoi sentimenti, proprio per niente.

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Capitolo 30
*** A volte anche i semidei hanno una giornata ordinaria, nessuna ironia nel testo (tranne per l’intervento di Eris, il rito, l’Ippogrifo, la Corrispondenza divina, la Dea Misteriosa ed il Barman figo, ok ***


La nostra eroina ci è riuscita. Sono riuscita ad aggiornare, finalmente, questo capitolo è stato un parto, ho cambiato narratore tre volte ed alla fine ho deciso di andare con July, principalmente perché è quella con cui mi trovo meglio a scrivere, anche se be, questo capitolo è stato un parto. Però lo volevo inserire.
È molto probabile che da questo momento io proceda ad una correzione generale della storia, quindi, si, niente, lo volevo annunciare.
Vorrei fare un grazie speciale ad Edoardo811 che spreca del tempo prezioso a recensire questa amenità.
Un bacio e buona lettura

 

Ps – Illustrazione preparata per il capitolo 20, con ben 10 capitoli di ritardo:


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IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

A volte anche i semidei hanno una giornata ordinaria, nessuna ironia nel testo (tranne per l’intervento di Eris, il rito, l’Ippogrifo, la Corrispondenza divina, la Dea Misteriosa ed il Barman figo, okay, forse, quello va bene!)

(July V)

 

Una volta July aveva avuto un viso d’ambra, un po’ allungato, ma comunque piacevole, con capelli corvini ed una pelle liscissima, come quella di tutti i bambini – i bambini ricchi.
Poi era entrata nel labirinto, nulla era stato più lo stesso.
Era rimasta ferita, nel corpo, graffi bianchi e rossi avevano decorato la carne d’ambra.
Si era fatta bionda perché voleva che … voleva che l’immagine che le era stata restituita dallo specchio fosse in toto quella di un’estranea e non più quella di uno spettro.
In quel momento, dopo quasi due anni a guardarla vedeva una sconosciuta con un viso famigliare.
La pelle era scottata – nonostante la primavera che stavano attraversando fosse fredda ed il sole ancora invernale – era squamata, rovinata.
Lo scontro con Fama le aveva lasciato una cicatrice nuova su una guancia vicino al mento, i dottori l’avevano sistemata e Taumante l’aveva rimarginata per bene; ma restava lì, una riga chiara che tagliava la pelle, da sotto il mento che risaliva fino a metà della guancia.
Il corpo anche era rimasto segnato dall’incornate di Atteone.
Però, July, era ancora lì.
Aveva coperto il biondo impallidito di una tinta troppo consumata e una ricrescita evidente con una colata di nero.
Per un secondo, guadandosi, si era ritrovata ad essere July Goldenapple, figlia di suo padre, con un attico a Los Angeles, abituata al gusto del paté. Per un secondo.
Poi la realtà era tornata prepotente in lei, ricordandole in che situazione si trovava e chi fosse veramente, sebbene rimanesse ancora abbastanza perplessa dal fatto di non essere figlia di Afrodite.

“Non pensi di star vezzeggiando un po’ troppo?” l’aveva stuzzicata il suo riflesso, nello specchio del lavandino del bagno del motel.  Il suo doppio aveva assunto l’espressione contrita ed arcigna di Eris, sua madre, bianca come un lenzuolo e con le trecce nere.
“Ovviamente ora ti fai viva” aveva ribattuto July, cercando di contenere l’amarezza, ma sbrigliando senza vergogna il sarcasmo.
Eris aveva sbuffato, “Quando avrei dovuto? Ti ho dato tutti i mezzi e tu ti sei dimostrata capace. Brava. Te lo avevo detto, no?” aveva chiesto retorica sua madre.
“Pungolata posso arrivare a valicare i cieli” aveva dichiarato July, ricordando quella mezza profezia.
“Ho scoperto quello che volevi e chi lo ha” aveva mentito spudoratamente.
“Oh, sì, ma che brava!” aveva squittito soddisfatta Eris.
Doveva esserci qualcosa sotto, July se ne rendeva conto, sua madre poteva essere come tutti gli dei, costretta con le mani legate, ma non era una persona da lasciare il caos così a piede libero, senza insidiarsi per bene.
Se era apparsa era perché voleva qualcosa …

Il Sonno Più Profondo ovviamente …
Che July non aveva ancora. E non era più la sola a cercarlo, orami era palese.
“Tu non mi hai dato profezie o indizi, mi hai solo detto di dover cercare qualcosa” aveva valutato July, passandosi una mano sotto il mento, “Un’arma” aveva dichiarato Eris.
July non era sicura di ricordare che sua madre le avesse detto di cercare specificamente un’arma, l’indizio principale per trovare il Sonno Più Profondo lo aveva avuto da Momo e Giuturna, così come l’indizio per trovare la dea fluviale lo aveva avuto dal Pittore.
Per parlare con Giuturna era stato necessario il consiglio di Orual – certo Eris aveva fornito il mezzo, come se fosse stata assolutamente consapevole che July avrebbe dovuto usarlo ad un certo punto.
Giuturna le aveva detto della Luna.
Ed Orual …
Sua madre le aveva detto solamente: vai.
Si era nascosta dietro un bel: “Nasciamo, viviamo e moriamo soli”.
Però, ecco, qualcosa stonava.
“Tu non sai cosa è” aveva realizzato July, “Tu sai che io posso trovarla, perché lo hai letto nel mio destino – come Giuturna – ma non sai cosa è” aveva ripetuto.
L’espressione divertita di Eris era morta, “Non parlare di cose che non sai, bambina” la richiama subito all’ordine, “Sono la figlia della signora del caos” le aveva risposto July, le sopracciglia nere di sua madre si erano incrinate in un cruccio, “Io non sono serva di nessuno” aveva chiarito, prima di tirare un pugno allo specchio.
La superficie va in frantumi e l’urto le ferisce le nocche, ma il dolore non arriva, non subito, prima arriva la forza che fa ammaccare anche il muro dietro.
Poi arriva il dolore. Due volte più forte, ma dura un solo momento.
Potrebbe abituarsi a quel potere.
Quando esce dal bagno, si ritrova nella stanza del motel del Crepuscolo, dove sono un paio di giorni che lei ed Al si erano dovuti fermare.
Avevano dovuto lasciare di fretta la loro vecchia sistemazione dopo l’improbabile funerale di Giuturna ed il messaggio dei ragazzi del campo.
Alabaster forse aveva trovato il modo di rendere i mostri – e le dea, a quanto pare – permanentemente fuori gioco, ma la cosa non aveva minimamente sfiorato Cetus e Forco che non avevano gradito molto essersi visti distrutto il loro piccolo mondo da Percy Jackson e derubati da loro.
E se il figlio prediletto dell’Olimpo era una figura fin troppo difficile a cui stare dietro (July immaginava che la sua testa fosse ricercata da ogni mostro di questo mondo) loro due erano bersagli molto più avvicinabili.

Nella stanza non c’erano né Al, né Horward, né Bells, c’era solo Pippin l’Ippogrifo. La bestiaccia aveva completamente distrutto il letto matrimoniale del motel, per il solo gusto di strappare e beccare ed in quel momento impunemente se ne stava appollaiato come una gallina – July non aveva idea di come fosse anatomicamente possibile – affianco ai ruderi della sua preda.
“Siamo rimasti solo noi, pare” aveva detto spenta.
Secondo Al era meglio tenere la bestiaccia dentro la camera che legata fuori assieme alle biciclette, i mortali guardando l’ippogrifo vedevano un cavallo, cosa che poteva quasi passare inosservata, ma Pippin aveva l’abitudine di beccare chi passava troppo vicino.
E i cavalli attiravano sempre lo sguardo.
Pippin aveva emesso un verso stridulo, che ricordava l’urlo di un aquila. July aveva scansato con la scarpa un mucchio di piume e lanuggine per sedersi su una sedia sfuggita alla distruzione della bestia, molto poco contenta di essere chiusa in una scatola di sardine con tre mezzosangue.
“All’inizio pensavo che quella di mia madre fosse uno dei suoi giochi mentali alla Eris, porto una mela ad un matrimonio, una serie di tessere domino dopo Troia sta bruciando. Però, sì, penso che Momo non le avesse detto dell’arma” aveva dichiarato a Pippin, che aveva inclinato la sua testa d’aquila.
July aveva sospirato, alzandosi ed andare a rovistare tra le sue cose, non ne aveva molte con se, quando sua madre l’aveva prelevata da L.A. ma nel girovagare con Alabaster ne aveva rubacchiate un po’.
Aveva ritrovato la pergamena su cui era raffigurato il dipinto che il Pittore le aveva fatto durante la sua battaglia con Fama, non lo aveva più guardato da quel giorno, lo aveva volontariamente lasciato al parco, ma fastidioso quello continuava a tornare da lei.
Lo aveva srotolato, dissociata tra il voler guardare nuovamente ed il non volerlo fare.
Ho visto il tuo futuro. Fidati July Goldenapple, tu vuoi fallire questa missione qualunque essa sia o sarai un passo più vicina a quello che il Pittore ti ha mostrato
Aveva avuto un brivido ricordando le parole che Giuturna le aveva detto mentre impersonavano la loro versione tarocca di inception.
Questo destino hanno dato gli Dei ai mortali infelici: vivere afflitti …” la voce di Horward l’aveva colta di sorpresa, il lare era passato attraverso la porta chiusa ed ora lo guardava con bonaria pietà nel suo viso viola opalescente. July aveva accartocciato la pergamena, “Odissea?” aveva provato, “Illiade” l’aveva corretta il lare personale di Alabaster. July aveva buttato l’oggetto nel cestino più vicino, consapevole di non potersene liberare comunque.

L’imposta della porta si era aperta permettendo ad Alabaster di entrare, aveva un’espressione funerea in viso e l’inquietudine negli occhi verdi.
Qualche giorno prima aveva detto, cupo, che qualcuno lo stava cercando, un sesto senso da stregone super potente, a July era parso ovvio, visto che Lou Ellen aveva detto loro che una presenza oscura si stendeva sul loro cammino.
Lei pensava si riferisse ad Eris, Al credeva che ci fosse qualcun altro. July per la sua sanità aveva deciso che il suo amico dovesse essere paranoico, altrimenti non sarebbe sopravvissuta tra Satiri assassini che apparivano in sogno, sua madre, il pittore ed Orual.
“Stai bene” era stato il commento di Al, cogliendola di sorpresa, “Grazie, Torrigton” aveva risposto lusingata July. “Hai quello che ci serve?” aveva chiesto subito poi, tirandosi in piedi. Il figlio di Ecate l’aveva guardata, “Avevi i capelli così quando ci siamo conosciuti, vero?” aveva chiesto.  July aveva sollevato un sopracciglio, “Sì, ho preso quello che ci serve per
éukhesthai!” aveva confermato il figlio di Ecate e nel farlo aveva sorriso, soddisfatto ed avido di quella sensazione.
“Ringraziamo Chris ed il tuo amico Will per averci fornito la formula” aveva dichiarato lei, “E Maya per averla trasmessa” aveva concordato Alabaster, riferendosi alla conversazione che avevano avuto nella Stazione dei Sogni proprio in merito a quello – così da non dover disturbare un’altra volta dei di altri pantheon.

July fu colta da un momento di tristezza; era un pensiero stupido ma le dispiaceva, alla fine, che Chris non avesse potuto lasciare il campo e si fosse dovuto limitare ad aiutarli da lontano. July aveva speso tempo a odiarlo, dopo il labirinto, dopo il tradimento, ma dopo aver sentito di nuovo la sua voce, si era sentita sollevata.
Chris era vivo.
Chris stava bene.
Un altro di loro era vivo e stava bene.
Un altro di loro che comprendeva l’orrore che lei aveva vissuto – in particolare.
Lei voleva bene ad Al, come ne aveva voluto agli altri, ma Chris era stato nel labirinto con lei, come un mappatore e … Jake e Mary erano morti. Le restava solo Chris.
Era egoista si rendeva conto, ma era anche la figlia di Eris, si sentiva in dovere, in bisogno, di essere egoista.
Voleva rivedere Chris, davvero.
“Tutto bene?” l’aveva risvegliata Alabaster.
“Che ne pensi di Bells? Possiamo fidarci?” July aveva ignorato la sua domanda a pie pari, preferendone porre un’altra, dopo un sospiro, d’altronde, come poteva stare bene?

Alabaster aveva sollevato le spalle, “Non so, penso di sì? Ci stiamo fidando dei ragazzi del campo. Bells era una di noi, era la ragazza di Ethan” aveva considerato il figlio di Ecate, ma July la leggeva nella sua voce quella sfumatura di incertezza. “Lo hai notato anche tu quello, vero?” aveva insistito poi il ragazzo, notando evidentemente un’espressione che July non doveva essersi accorta di aver fatto. Gli occhi verdi di Alabaseter erano luccicanti come il veleno, sembrava mortalmente serio, come di quei tempi July si era abituato a vederlo.
Lei si era morsa il labbro, timorosa. Aveva avuto un grandissimo dubbio su Bells – all’infuori del suo provvidenziale arrivo, con tanto di Ippogrifo, proprio quando serviva a July, con tanto di benedizione di Orual – ma non aveva potuto dirlo ad alta voce fino a quel momento, specie perché Bells era stata sempre con loro, ad aspettare che Orual si palesasse.
July aveva inclinato il capo “Che non è cambiata di una virgola?” aveva domandato retorica, “Ho parlato con Bernie tramite messaggio di Iris, prima di quella brutta faccenda con Fama, be, Bernie era decisamente cresciuta, se capisci” aveva spiegato Al, con le guance arrossate, cercando di mimare con le mani delle coppe, ma rinunciando troppo presto a causa dell’ilarità di July.
Alabaster era sempre misurato, faceva strano vederlo così. “Ed ecco come il composto Alabaster C. Torrigton diventa un adolescente bruciante quando si parla di seno, sì, comunque, diciamo che Bells non è cambiata di una virgola” aveva ripetuto July.
Tra lei ed Al, che ora aveva perso il colore peperone, c’era stato uno sguardo di intesa.
“Ho l’impressione mi manchi un referente” aveva commentato Horward.
Bells era arrivata dopo di loro, interrompendo le loro speculazione. La ragazza aveva sul viso dipinta un’espressione tranquilla, “Se avete finito di spettegolare su di me, sono stata a Starbucks e nessuna sirena mi ha aggredito” aveva detto con leggerezza. “Wow, a me non succede mai” aveva realizzato July, “I mostri stanno alla larga da me, sono sicuro che ad una certa mi abbia servito il pranzo una dracena” aveva dichiarato Al, con quel suo sorriso sardonico.
Bells aveva sibilato qualcosa in greco ad Alabaster che prevedeva l’uso non esattamente canonico di un ravanello[1].

Bells aveva dato una ciambella a Pippin, commentando qualcosa sul fatto che Theos fosse troppo rigido con lui.
Loro di rimando avevano deciso di consumare la loro colazioni fuori dalla stanza – che ormai odorava ad un brutto misto tra stalla e voliera. Mortale.
“Non so cosa sia questo dolce, ma grazie” aveva dichiarato Al, dando un morso al panetto pieno di cioccolato che Bells aveva portato.
Per July aveva preso un cappuccino, cosa che a lei andava benissimo, per sé stessa Bells si era presa un caffè nero lungo – “Come i tuoi poteri” aveva scherzato la figlia di Eris, venendo accolta da uno sguardo un po’ amareggiato dell’altra.

“Quindi siamo sicuri?” aveva chiesto July, cercando il coraggio, mentre con gli occhi guardava gli ultimi resti della sua bevanda.
“Be, con Giuturna non è andata male” aveva dichiarato Alabaster, “Neanche con il dio azteco o Taumante. Ultimamente con gli Dei ci sta andando molto bene, cosa incredibile” aveva aggiunto. “Anche con Fama è andata benissimo, vero?”  era stata la pigra risposta di July, che portava ancora sulla faccia i ricordi del suo incontro con la dea alata, “Direi di sì, visto che noi siamo qui e lei è in molti luoghi” aveva risposto pratico Alabaster.
Anche Bells aveva detto la sua, “Infondo Orual vuole aiutarti, no? O non mi avrebbe chiesto di portarti Pippin e fidati che per recuperarlo non è stato molto facile: ho dovuto attraversare metà dell’America, prendere il mare su una barchetta, essere uccisa, sì, uccisa, poi buttata giù da una scogliera ed avvelenata” aveva dichiarato.
“Ei, non farti troppo la figa, noi abbiamo smembrato un dio” si era difesa July, con un sorriso allegro sulle labbra “E ucciso un altro” aveva dato manforte Al, desiderosi di non apparire meno di Bells.
Bells aveva riso, “Oh titani, mi eravate mancati. Non ne avete davvero idea” aveva dichiarato spontaneamente la figlia di Nyx, “Le mie compagnie ultimamente sono abbastanza noiose” aveva aggiunto poi.
July aveva riso allungando una mano per circondare le spalle di Nyx e far aderire le loro teste, in un gesto di contatto.
“Anche a me” aveva confessato spontaneamente Alabaster, “Onestamente non credevo potessero essere tre di noi nello stesso luogo” aveva valutato lugubre, “Basta guardare come io e Bernie siamo riusciti a malapena a sfiorarci. Tu e July siete state condotte da me da due dee diverse, altrimenti non credo sarebbe possibile” aveva aggiunto.
July si era allontanata da Bells ad aveva lanciato uno sguardo ad il suo amico, con il viso sporco di zucchero, che regalava sicuramente un’aria più sbarazzina, “Elabora, Torrington” lo aveva invitato.
“Ci stavo pensando da un po’. Tecnicamente noi siamo stati esiliati e banditi dal campo o altri posti sotto la diretta giurisdizione degli Dei, temo che se mettessimo un piede a Manhattan rimarremmo fulminati lì seduta istante, però non è strano che in un anno di girovagare a destra e manca noi non ci siamo mai incrociati? Nel senso, l’America è grande sì, ma per qualche assurda ragione, mostri e semidei si ritrovano sempre, attirati da quella reliquia lì, quella fonte di energia là, e compagnia. Ma noi non ci siamo mai incontrati, l’unica che sono riuscita a sentire è stata Bernie ma poi noi abbiamo dovuto lasciare Leesville e non so se lei ci è mai arrivata. Quindi ho maturato l’idea che non siamo stati solo esiliati dal Campo …” Alabaster aveva fatto una pausa, per dare loro il tempo di elaborare.
Aveva senso.
Certo July aveva vissuto solo a Los Angeles nell’ultimo anno, ma sembrava assurdo che effettivamente nessun semideo fosse mai finito lì.
“Siamo esiliati anche tra di noi. Tipo la foschia funziona in parte su di noi, come sui mortali, e modifica le nostre percezioni?” aveva domandato Bells, interessata. “Si, forse, non ho idea di come Bernie sia stata in grado di contattarmi, ma è stato solo quando mi ha trovato July, ma guarda un po’ non siamo riusciti a raggiungerci. Però io e Juls ci siamo incontrati per volere di Eris e tu e lei per volere di Orual” aveva ripreso il figlio di Ecate didascalico.
July anche aveva annuito, bevendo un altro po’ del suo cappuccino, “Ha senso. Se non riusciamo ad incontrarci non possiamo … organizzarci per creare un altro colpo di stato?” aveva chiesto.
E perché è più crudele, aveva pensato.
Nessuno di loro aveva più un posto, per qualche ragione, come aveva appurato da Alabaster di quei tempi, nessuno di loro poteva trovarne più uno nuovo. Buona parte dei loro amici era morta e quelli che non lo erano ancora, non erano altro che biglie impazzite che riuscivano a malapena a sfiorarsi.
“Per un anno mi sono chiesta perché un fulmine non mi avesse folgorato seduta istante” aveva dichiarato July, “Pensavo che gli dei si fossero dimenticati di me, se fossi stata ben nascosta nessuno mi avrebbe notato e invece …” aveva lasciato cadere la frase.
“Esilio” aveva terminato per lei Al, pulendosi poi la bocca, “Per tutti noi” aveva aggiunto spento.
Quas tuttii, aveva pensato July, lanciando un’occhiata veloce a Bells.
Horward era scivolato fuori dalla tasca, per guardarli, “Che la vostra maledizione sia vera o meno, non potete sprecare quest’opportunità. Il tempo è prezioso, fidatevi di uno spirito che ha sprecato gran parte della sua vita” aveva cercato di tirarli su, fallimentare.
July aveva posato il bicchiere di carta vuota vicino a lei e si era sollevata, “Il Dr. Horward ha ragione; mi sono stufata di essere una pallina da ping pong tra gli dei, Orual risponderà anche a questo. Facciamo l’éukhesthai!” aveva stabilito.
“Brava Goldenapple così carica ti voglio!” aveva dichiarato Bells imitandola e dandole anche il cinque. Alabaster con gli occhi verdi scintillanti all’idea di provare un rito mortale e vecchio di secoli, avuto grazie ad un giro clandestino di semidei loro nemici, aveva sorriso trionfale, prima di perdere quell’espressione, per una un po’ più ieratica.
“Ci serve un santuario, o un tempio o un posto del genere. L’incontro tra uomini e dei per un’invocazione può avvenire solo lì” aveva spiegato subito.
“Regolare: mia madre mi piglia sul ciglio di una strada, incontro il Pittore in un parco, la Fama pure, Taumante all’acquario e Orual al bar ma l’invocazione va fatta nel santuario” aveva dichiarato sarcastica July.
“Io conosco un tempio sull’Atollo di Johnston” aveva dichiarato Bells, grattandosi il capo, “Possiamo provare a costruire un tempietto noi, varrà lo stesso?” aveva proposto.
Al stava sorridendo di nuovo, come se avesse già trovato la soluzione al problema che lui stesso aveva posto.
Possibilissimo.
“Aspetta ci stia prendendo per il culo, sai esattamente dove andare vero?” aveva chiesto July, “Dr. Horward puoi sfoggiare i motivi per cui hai un titolo accademico che ti divertiti tanto a rinfacciarmi, a tre poveri mezzosangue con la terza media, per dare una perfetta definizione di santuario?” aveva detto sfacciato il figlio di Ecate. “Un santuario è un luogo considerato sacro per la manifestazione del divino, per la presenza di sepolture o reliquie, connesso ad eventi soprannaturali. Circa” aveva risposto il lare personale di Al.
C’era stato un momento di silenzio.
“Noi siamo una manifestazione del divino. Letteralmente” aveva commentato Bernie.
“Un museo!” aveva detto invece July, “Dove di solito ci sono un sacco di chincaglierie antiche che potrebbero essere reliquie, forse”.
“Dieci e lode ad entrambe. Dobbiamo trovare un museo con reperti greci o romani, quindi dove implicitamente il culto si mantenga, poi la nostra presenza e delle nostre armi, soprattutto quelle, basterà” aveva spiegato subito il figlio di Ecate.
“Un po’ forzato” aveva valutato Horward, “Tutto quello che facciamo è sempre un po’ forzato” aveva dichiarato July.
“Quindi? Tutti in groppa a Pippin e voliamo verso New York? Lì c’è il MET, se non ricordo male hanno tutta una sezione dedicata a greci e romani” aveva dichiarato Bells con tranquillità. “Nessuno di noi ci tiene particolarmente ad essere folgorato” le aveva detto Al, “O meglio io e July. Ho la vaga impressione che tu possa tranquillamente andare a New York, vero?” l’aveva stuzzicata il figlio di Ecate.
La figlia di Nyx era avvampata per un secondo, “Può darsi” aveva ammesso sdegnosa.
July d’altronde aveva avuto un cattivo pensiero.
“Siamo a Thousand Oaks” aveva commentato, “Sì” era stata la pigra risposta di Al, nonostante quella di July non fosse una domanda.
 “Siamo a un’ora, per essere larghi, di macchina da Villa Getty, non ho idea di quanto sia a galoppo di ippogrifo o viaggio ombra, ma sospetto di meno” aveva dichiarato la figlia di Eris, tirando un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, in un immotivato desiderio di ordine.
Al aveva assottigliato lo sguardo, “Si” aveva valutato. “Immagino che sia un museo” aveva dichiarato Bells invece, passandosi le mani sulla giacca, aveva avuto l’impressione volesse dire altro ma alla fine aveva taciuto.
“Sì, è un museo, prima era la casa dell’Uomo Più Ricco del Mondo, non ricordo quando, ma ha lasciato istruzione per cui diventasse un museo dopo la sua morte. Un uomo che ha speso più soldi per incrementare la sua collezione d’arte che per pagare il riscatto di suo nipote quando è stato rapito. O una storia brutta di questo genere.
Comunque Villa Getty contiene una collezione di reperti greci, romani ed etruschi, di cui sono sicura buona parte importati illegalmente.  Mi ricordo la collezione, perché quando avevo dodici anni mio padre ci ha organizzato una sfilata di moda, con vestiti ispirati all’antichità, un po’ come quella di Gucci, solo più bella. Villa Getty è fatta sulla base di una villa romana, non ricordo se di Ercolano o di Pompei” aveva raccontato July.
“Ercolano. La villa dei Papiri” aveva colmato subito le sue lacune Horward.
“Cazzo, Goldenapple, facevi proprio la bella vita” aveva dichiarato Bells, con un sorriso da squalo.
“Certo. Mio padre mi ha portato solo perché facessi compagnia alla pestifera figlia di Tristan McLean che, come mio padre, era troppo impegnato a fare la scintillante prima donna per badare alla propria figlia preadolescente[2]” aveva dichiarato con sdegno.
Non aveva nulla contro Piper nello specifico.
Aveva due anni meno di lei e July aveva riconosciuto in lei il suo stesso sguardo, delusione e trascuratezza. Poi, July aveva conosciuto Mary, aveva scoperto chi fosse veramente ed aveva combattuto una guerra.
E ricordava quella sua insofferenza come qualcosa di stupido e frivolo. Non aveva perdonato suo padre per averla trascurata, non era voluta rimanere con lui ma non provava più tutta quell’amarezza, perché infondo ciò che July aveva detto a Giuturna era vero: i suoi amici erano morti.
Cosa voleva essere il resto davanti la cosa più definita ed irreversibile dell’universo: la morte.
“Hai conosciuto Tristan McLean? Tipo Tristan McLean Re di Sparta? Jack Steel di Fuoco e Onore? Quello?” aveva chiesto Al, confuso … ed eccitato?
“Oh, abbiamo un fanboy!” aveva dichiarato divertito July.
“Per l’amore del cielo, Alabaster, Re di Sparta è un’offesa a chiunque abbia mai aperto un libro di storia, ma riconosco la bravura dell’attore protagonista” aveva detto Horward.
July aveva riso, della faccia sconvolta di Alabaster.
“Con figlia di Tristan McLean tu intendi Piper McLean?” aveva chiesto invece Bells timorosa. “Uhm, si, cosa è diventata, tipo, una fashion blogger o un influencer? Avevo sentito che un annetto fa era stata arrestata per il furto di una macchina” aveva valutato July.
“È una semidea come noi” aveva dichiarato Bells, “La ho conosciuta mesi fa, era in una mission con due sue compagni. In realtà credo sia in missione anche adesso, sia una dei Sette, sia … insomma, con Percy Jackson ed Annabeth Chase” aveva terminato.
I due nomi li aveva sputati fuori quasi fossero un’offesa.
“Piper? Cheeroke Piper?” aveva chiesto confusa July.
“Io con Jackson ricordo solo un grosso ragazzo dagli occhi a mandorla ed un satiro con una mazza da baseball” aveva dichiarato Al. “Non è importante, adesso” aveva dichiarato July poi, “Mi fa stranissimo pensare che ho conosciuto un’altra semidea” aveva dichiarato.
E che Mary e Chris non si siano preoccupati di prenderla, “Però, ecco, lasciamo a Piper e Percy Jackson il loro lavoro e noi facciamo il nostro” aveva detto, stanca.
Troppe informazioni da processare.
Eris che voleva che trovasse l’arma.
Endimione.
La Luna.
L’Ippogrifo.
Orual.
Bells.
Anche Pipr McLean no.
“Ecco, si, appunto;  dimenticati il viaggio nell’ombra, ultimamente faccio molte cilecche” aveva detto imbarazzata Bells, “E non credo che potremmo cavalcare Pippin in tre. Non è così forte, credo sia ancora giovane, anche se, be, non sono esperta di Ippogrifi” aveva terminato.
Alabaster aveva fatto scrocchiare le dita tra loro, con un sorriso da gatto del Cheshire sulle labbra, “Lasciate fare allo stregone” aveva dichiarato.

 

Villa Getty si rifaceva brutalmente ad una villa romana in piena regola, con l’ingresso sull’atrio, che risultava porticato, e lungo, erano state riprodotte con minuzia nelle pareti gli stili di dipinti romani, dal porticato si aprivano le stanze. Infondo dove si riunivano i braccio si affacciava l’edificio principale, da lì non si vedeva ma July sapeva fosse fornito di un chiostro interno e che alle spalle vi fosse anche la riproduzione di un teatro.
L’atrio di ingresso era occupato da giardini ed il centro era attraversato da un enorme vasca, che doveva raffigurare un ninfeo, quadrata, a cui nei due vertici erano statue sedute, affrontate ad altre due statuine fuori.
Era come fare un tuffo nel passato.
Se vuoi vedere le ville romane come sono vai a Pompei, se vuoi vedere come erano vieni qui[3]” aveva tradotto Horward i suoi pensieri.
Un passato un troppo pulito e finto, ma sicuramente l’adattamento migliore all’antico che July avesse mai visto e le riportò alla memoria una stretta al cuore.
Ricordava le modelle e i modelli di suo padre, vestiti di tutto punto, con evidenti rifacimenti dell’abbigliamento togato di Roma, scivolare al fianco del canopo, perfetti e leggerissimi.
Ricordava quando aveva suggerito a Piper che sarebbe stato molto fastidioso se avessero fatto il bagno nel ninfeo rovinando il momento.
Ricordava anche la faccia indignata di suo padre.
E la sua soddisfazione: ora mi vedi, padre, mi vedi!
Aveva pensato.
Che ragazzina sciocca!

“Se non ricordo male, qui al Getty c’è un caffè, vado a prendere un caffè alla nocciola per Orual, queste stronzate mettono sempre di buon umore le dee” aveva dichiarato July, ammiccando ai suoi due amici.
Bells stava assicurando le redini di Pippin, mentre Alabastar stava adoperando un’intensa magia verde e viola per manovrare la nebbia a suo piacimento, affinché l’ippogrifo non fosse solo percepito come un cavallo, ma non fosse percepito per nulla.
Erano arrivati lì con un Pick-up rubato. July al volante, perché era la più grande, anche se non aveva una patente, Al al suo fianco e Bells era stata dietro assieme a Pippin, tenendo bene le redini, mentre questo spigava le sue ali d’aquila con il favore del vento, desideroso forse di prendere il volo.
Era una creatura fatta per i cieli, non per starsene in balia di loro tre.

July aveva sorriso nel guardare loro due, era bello stare di nuovo tutti assieme. Si chiedeva, se Al avesse ragione, per quanto ancora sarebbe potuto durare.
Il Caffè del Getty era oltre l’atrio ed oltre l’edificio principale. July aveva scorso i corridoi con fretta, finendo ugualmente meravigliata da quel poco che era riuscita a vedere. Nonostante tutto dell’edificio urlasse finzione, i giardini erano stupendi e le opere esposte erano autentiche.
Erano un po’ come loro, figli di epoca diversa, trapiantate in un mondo nuovo. Spiccavano bellissime, in un contrasto meraviglioso, forse nel loro contento originale non sarebbero mai state così appariscente.
Insomma, il buon Paul Getty conosceva il suo perché.
Nonostante le sue gambe lunghe ci aveva messo un po’ per arrivarci, specie dovendo evocare la sua memoria per farlo.
Doveva anche riordinare le idee, stavano per fare un invocazione, i ragazzi del campo avevano procurato loro la formula.
Un invocazione, loro, lei, Al e Bells, tre semidei esiliati, dal lato di Crono. Loro. Loro tre, un’invocazione. Era folle solo a pensarlo.
Era entrata all’interno del bar, zigzagando tra i tavoli esterni.

La prima cosa che aveva notato quando era arrivata al bancone era stato il ragazzo che c’era dietro e poi July doveva ammettere che difficilmente avrebbe notato altro. Era bello, troppo bello, per non essere sulla copertina di Vanity Fair o Vogue, con un’espressione da Zoolander ed una giacca appesa alla spalla nuda o come commesso di Abercrombie.
Se fossero stato lì, ai tempi in cui il Signor Goldenapple stava organizzando la sua sfilata, July non metteva in dubbio che suo padre lo avrebbe rapito, per avvolgerlo anche solo in una tenda e farlo sfilare nei giardini.
“Buongiorno!” aveva detto lei, con nervosismo lisciandosi i capelli.
Prima di darsi della scema.
Aveva affrontato mostri e dei! Aveva letteralmente preso a bastonate in faccia il dio della meraviglia!
Cosa voleva essere un bel ragazzo?
Il ragazzo aveva sorriso, aveva una fila di denti perfetti, dritti e bianchissimi, che spiccavano molto a contrasto con l’incarnato olivastro, gli occhi scuri ma penetranti e i capelli nerissimi.
Il suo tipo.
Come Jake. E quel pensiero le diede una torsione alle budella che la costrinse a riprendere lucidità.
Oh il suo sfortunato Jake!
“Cosa posso fare per te, splendore?” aveva chiesto lui.
Splendore … lei?
“Si vorrei un nocciolino …è, tipo, un caffè alla nocciola, splendore” aveva chiarito lei.
Ricordava che Orual aveva preso quello quando si erano incontrate, quindi immaginava lo apprezzasse.
Il ragazzo aveva ridacchiato della sfacciataggine di July. “So cosa è, splendore” l’aveva rassicurata lui, “Piccolo o grande?” aveva chiesto lui, July ci aveva pensato, “Grande” aveva valutato – infondo era per una dea, non le piaceva l’idea di baciarle il culo troppo, ma doveva dare a Cesar quel che era di Cesare, ed Orual le aveva dato una mano senza chiedere – fino a quel momento – nulla in cambio, “Da portar via” si era affrettata ad aggiungere.
Lui aveva annuito. Era giovane, forse anche più di July, che aveva quasi raggiunto la veneranda età di diciotto anni, con il rotto della cuffia ed una serie di improbabili disavventure. L’altro sembrava tutto tranquillo, allegro, un normale ragazzo che arrotondava facendo il cameriere, per pagarsi probabilmente il book fotografico da modello.
Poi si era messo subito all’opera, “Penso sia molto rilassante bere caffè caldo, mentre si gironzola per il teatro o i giardini, specie durante questo periodo, che ti fa chiedere dove sia finito l’effetto serra” aveva dichiarato divertito lui.
July aveva riso, “Si. È una primavera un po’ fredda, per gli standard locali, si intende” aveva fatto un po’ di conversazione.
Erano comunque in California.
“Strano, no?” aveva chiesto lui, “Ho avuto l’impressione che la natura stesse subendo una sorta di risveglio. Più animali in giro, specie in zone dove normalmente non dovrebbero esserci, giuro le vespe sono anche più cattive; anche i terremoti mi sono sembrati aumentati esponenzialmente di numero, come se qualcosa sottostante si sia svegliato, roborante” aveva cominciato a raccontare lui, mentre trafficava.
Gea!
Tutto quello urlava di Gea, segno che chiunque – immaginava Jackson, Chase, il ragazzo dagli occhi a mandorla e Piper – non dovevano cavarsela benissimo.  
Il barman aveva continuato: “…ma il clima sembra tenersi sulla fine dell’inverno e tutti i fiori sono in ritardo nello sbocciare, come se la primavera non solo non avesse risposto a questo risveglio ma si fosse dimenticata di arrivare” aveva raccontato.
“Che stranezza” aveva dichiarato July assottigliando lo sguardo, quella conversazione sembrava troppo sospetta. “Forse Proserpina non è ancora tornata a casa” aveva risposto lui tranquillo, mentre metteva un tappo di plastica sul caffè alla nocciola.
Che cosa?” aveva chiesto July, forse strillando un po’ troppo, portandosi una mano al petto, dove ormai la lima aveva preso stabilmente l’aspetto di un pendaglio di argento lucente, quasi da sembrare mercurio, nonostante fosse stabile, dava l’impressione di poter mutare da un momento all’altro.
“Sai, no, la leggenda? Proserpina che sta sei mesi da suo marito Plutone e sei con sua madre Cerere?” aveva domandato il ragazzo non notando tutto il suo allarmismo.
Sembrava rilassato.
“Non prendi il caffè?” aveva domandato lui con un sorriso tranquillo, rilassato, allungando verso di lei il bicchiere, lei aveva allungato una mano titubante, sfiorando con le sue dita quelle del barman.
“Uhm, non sei un dio greco, vero?” aveva indagato July, sfacciata. Se tanto doveva ballare che ballasse.
Il ragazzo aveva riso, “Non sono un dio e non sono neanche greco, sono nato in provincia di Çanakkale, a dirla tutta, anche se ormai sono tantissimi anni che vivo qui, che ho quasi dimenticato come era la mia casa” aveva raccontato il ragazzo.
July era una capra in geografia, non aveva idea di dove fosse tale luogo, ma l’accento del ragazzo era assolutamente americano. Comunque, decise di evitarsi una pessima figura.
“Tu?” aveva domandato lui, “Los Angeles” aveva cominciato lei, “Nata, vissuta e probabilmente ci morirò” aveva mentito July.
“Va bene, straniera di Los Angeles; purtroppo devo tornare a lavorare” le aveva porto la bevanda ben gingillata, “Scusami! Ma quanto viene?” aveva chiesto July, mentre l’uomo le dava le spalle.
“Offre la casa” aveva risposto lui, tranquillamente, “Poi insomma è un nocciolino, imporre quella roba a qualcuno è una punizione di per sé” aveva scherzato quello.
“Puoi farlo? Non passerai dei guai?” aveva chiesto confusa lei, “Il mio titolare è al momento impegnato in altre cose più urgenti, non si accorgerà di quattro dollari e settantacinque in meno” aveva risposto tranquillo lui.
“Sicuro di non essere un dio?” aveva insistito July, questa volta come battuta.
“Sono solo uno che serve da bere” aveva replicato il ragazzo, alzando le spalle.
July aveva sorriso divertita, in una maniera colma di imbarazzo, ma anche rasserenata. Era un po’ strano il tipo, però era stata un’interazione abbastanza normale, la prima in moltissimi anni.
Pensò per un secondo di presentarsi, di chiedere di rivedersi.
“Va bene, allora grazie, splendore” aveva detto solamente July, decidendo che quel ragazzo gentile non meritasse l’angoscia di essere trascinato nella vita di una mezzosangue esule figlia di Eris.
Il ragazzo l’aveva guardata ancora, con un sorriso rilassato, prima di dedicarsi ad un attempato signore di origine tedesca, con i calzini bianchi abbinati ai sandali.

 

Al e Bells l’avevano raggiunta prima che lei ritrovasse loro. “Dove, Ade, eri sparita?” aveva indagato subito il figlio di Ecate. “Io, ecco, credo che un ragazzo ci abbia provato con me o almeno stesse flirtando, non so, non mi capita spesso. Caffè gratis!” aveva esclamato.
“Come è che non ti capita spesso? Hai le gambe da giraffa ed il culo a mandolino!” aveva esclamato Bells senza pietà,
July era avvampata sconvolta.
Anche Al, a quell’ammissione, specie quando la figlia di Nyx lo aveva incalzato a confermarlo, “Uh, hai degli occhi molto belli” aveva cercato di tirarsi via il figlio di Ecate.
July aveva ridacchiato, con nervosismo, pensando a tutte quelle cicatrici che adornavano il suo corpo. “Andiamo che è meglio” aveva dichiarato July, “Prima che Al venga una sincope a pensare alle parti anatomiche di una donna” aveva aggiunto.
“Per niente carino Goldenapple. Speculare sull’orientamento sessuale altrui è una cosa maligna” aveva aggiunto, incrociando le braccia sotto al petto. “Il mio era un riferimento alla tua timidezza cronica in quell’ambito, ma se senti di voler parlare con noi di qualcosa, Al, puoi parlare di qualsiasi cosa” aveva risposto July.
Bells aveva riso, “Andiamo, prima che convinca tutte e due di essere delle oche” aveva dichiarato furente il figlio di Ecate.
July era abbastanza certo che Alabaster non stesse scherzando.

 

La Villa Getty offriva la bellezza di venti-tre stanze ricche di opere d’arte, della collezione Getty, permanenti e cinque adibite alle mostre momentanee.
E tutte ricche di opere di bellezza magnifica. Avevano deciso di comune accordo di evitare di fare éukhesthai nella stanza dove appariva Giove – “Potrebbe risentirne e siamo già criminali. Nessuno vuole essere fulminato, parte seconda” – o quella con il trono di Elgin – “Dovrebbero restituirlo ai greci” – o quello con il Giovane Vittorioso – “Gli italiani dicono che è stato rubato”.
“Insomma facciamo schifo!” aveva dichiarato July.
“Qui dicono che c’è una gemma con l’effige di Antinoo. Lo ho conosciuto, è molto simpatico!” aveva dichiarato Bells.
“Io propongo Eracles. Si è stato il più grande campione degli Dei, la nostra antitesi in pratica, insomma alla fine è diventato pure un dio. Poi probabilmente era un grande stronzo, però … ecco, per un po’ è stato uno di noi, uno inviso agli Dei e completamente alla loro mercè. Esule” aveva provato Alabaster.
Bells aveva ridacchiato, “Ed è diventato un dio. Uno di noi, potrebbe?” aveva chiesto retorica.
“Bastano dodici fatiche” le aveva risposto Alabaster.
“O essere carine” aveva detto July, ma non c’era il minimo divertimento nella sua voce, ricordava la tristezza imperante che aveva assorbito la dea dei fiumi per la sua condizione. O Endimione costretto al suo sonno eterno.

 

L’Eracle, si trovava all’interno del suo personale Tempio, con un pavimento in marmi pregiati di tre colori che alternavano forme triangolari creando motivi geometrici di tutto rispetto. Con l’eccezione della parete a cui dava le spalle la statua, che era di un marmo scuro puntinato di bianco, che sembrava riprodurre un cielo stellato, il resto delle pareti erano sistemate con marmi dai vari colori. Creavano un universo di sfumature meraviglioso.
Horward era uscito dalla carta specifica, sempre ben nascosta all’interno della giacca di Alabaster, solo per sciorinare a loro delle interessanti nozioni sui marmi, sulla storia della statua. Interessanti per davvero, ma probabilmente non con il miglior tempismo.
Alabaster aveva sollevato le braccia, i simboli runici che aveva disegnato sul corpo si erano illuminati di una sinistra magia verde, aveva recitato qualcosa, in una lingua che July non aveva compreso, fitta, praticando una magia intesa, che aveva riassestato completamente l’ambiente. Ogni mortale nella stanza, stordito dalla foschia magica del figlio di Ecate, aveva lasciato l’ambiente e July era certo che nessuno sarebbe più entrato. Probabilmente Alabaster avrebbe fatto risultare la sala come compromessa.
“Mia Dea, Al sei potente” aveva commentato Bells, sembrava euforica, “Sul serio, la ho sentita la tua magia, sentita tutta” aveva dichiarato con vigore, su di giri. July non poteva fare altro che annuire concorde.
Un sorriso soddisfatto era serpeggiato sulla faccia di Alabaster.
Bene, era ora dell’Invocazione.



[1] Bells sta parlando del “rafanidòo” che è un verbo del greco antico traducibile in “Infilare un ravanello nell’ano” volevo inserirlo bello declinato nel testo, ma non ho mai studiato greco e non ho idea neanche di che coniugazione sia e coma vada messo. Nota inutile, ma mi ha sempre fatto troppo ridere per non metterlo.

[2] Non è “fuori dal nulla”, July parlava di Piper anche nel suo primissimo capitolo.

[3] Rielaborazione della frase di Paul Getty stesso (aka L’uomo più ricco del mondo): vai a Pompei ed Ercolano e guarda le ville romane come sono adesso, poi vai a Malibu e vedi come erano nei tempi antichi

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Capitolo 31
*** Questa cosa del parlare delle proprie emozioni e dei propri traumi potrebbe non essere una cattiva idea(Drew II) ***


QUESTO CAPITOLO E’ STATO UN PARTO.
Lo ho riscritto tre volte ed ha fatto schifo una peggio dell’altra. Nonostante tutto c’era un pezzo che volevo scrivere da moltissimo tempo e sono contenta tutto sommato di come sia uscito (aka: il finale). Tutto il pezzo di Carter e Drew non mi piace, ma perché fosse per me, i personaggi non dovrebbero interagire, empatizzare e tenersi tutto il loro dolore dentro fino ad esplodere.
Ma poi la storia non procederebbe.
Comunque ho pensato a lungo se rivelare, o meno, una certa cosa. Essendo Drew un narratore “fantoccio” ho deciso di non tenere troppo sulle spine le sue questioni.

Rigrazio chiunque si fustighi per leggere questo orrore (in particolare Edoardo811) e chiunque segua/preferisca/ricorda.
Vi voglio bene.
Buona Lettura
RLandH
(Ah, si avevo detto che avrei cominciato a revisionare, si? Succederà prima o poi)


Questa cosa del parlare delle proprie emozioni e dei propri traumi potrebbe non essere una cattiva idea

Drew II

Yellowstone.
L’ultima volta che Drew era stato al Parco Nazionale di Yellowstone aveva dodici anni, era stato con suo padre, la sua matrigna e sua sorella.
I mezzosangue non andavano in vacanze di piacere, ma la loro famiglia non era mai stata tradizionale. I Reed erano stati membri del Senato di Nuova Roma da quando Andrew Reed, mortale ma con il brillante dono della Vista, aveva incontrato Elizabeth McCurry, figlia di Marte, centurione della terza coorte, durante la guerra di secessione.
Drew era un lascito di Marte, ma non si era mai sentito tale.
Il sangue del dio della guerra nelle sue vene era ormai completamente annacquato e lui era un figlio di Cura. Quello sì, quello lo sentiva.
Non indugiare in questi pensieri, devi vendicarti, ricordare il tempo andato non lo renderà di nuovo presente. Lasciarci bene il Suo sangue, però renderebbe tutto meno doloroso, ancora una volta Assetata aveva parlato nella sua testa con la voce grondante di rabbia e dolore di una donna.
Drew non si sentiva mai sollevato, l’angoscia permeava ogni singolo aspetto della sua vita ed il dolore premeva sempre sul suo petto, ma la presenza della spada aveva reso più difficile ogni cosa.
Era stato rischiarante, per un po’, non averla con se, chiusa nel bagagliaio dell’auto.
Ma, lì, a Yellowstone, l’aveva dovuta riprendere.
Con la sete di vedetta della spada e la sua natura così melanconica, i cattivi pensieri, in un luogo così impregnato del suo passato, sentiva che tenere il controllo della sua mente era impossibile.
Se tu compissi la tua vendetta, noi ti allieteremmo del tuo cuore gravoso. UccidiLo è tutto andrà meglio. UccidiLo è anche tuo padre non avrà più vergogna di te.
Ed era un disastro perché quanto detto da Carter, addirittura consigliato dal Divino Apollo, avevano bisogno di essere razionali per ottenere l’Astrolabio.
A Drew faceva ridere, di rabbia e rancore, ovviamente, pensare al divino Apollo.
Carter, come lui, era un’esule, era lì sempre a lamentarsi di suo padre … che lo aveva aiutato senza condizione, aveva dato loro consigli, anche sulle divinità norrene, stando al suo racconto, aveva offerto a Carter anche la possibilità di tornare a casa, di vivere.
Drew con suo padre, il suo padre umano, non parlava da un anno, neanche con la sua matrigna, Angelica, e Cura, ovviamente, non si era degnata di palesarsi una volta.
La sua divina madre per Drew era un enigma, l’aveva incontrata una sola volta, a Roma, sulla riva del Piccolo Tevere.
Drew si era aspettato una qualche frase mistica misteriosa, non era quello che facevano gli Dei? Regalavano perle non richieste sul futuro, criptiche, o roba del genere? Certo, Drew in quel momento non sarebbe stato nello stato adatto per affrontare un aforisma divino, ma Cura era rimasta in silenzio, fissandolo con i suoi grandi occhi neri, come buchi nella terra, profondi e senza fondo.

Lei non aveva niente da dire. Ti stava giudicando, perché hai permesso a quell’infame di camminare via. Perché sei stato zitto e perché sei debole. Ma noi non lo siamo, Druso Reed, e noi ti renderemo forte.
Assetata aveva vibrato nella sua mano.

“La tua spada abominevole dice altro?” aveva interrotto il filo dei suoi pensieri il mostro nordico, “La mia spada abbominevole non sta mai zitta” aveva risposto Drew, sfiorando con le dita il pomello tondo, sulla cima dell’elsa.
L’Empusa aveva cercato di praticare un incantesimo sopra per mitigarne gli effetti, ma la magia della stirpe di Ecate sembrava un misero castello di sabbia contro le onde del mare in tempesta che era Assetata. Chiunque l’avesse maledetta, la Donna scommetteva, quella che tra tutte le anime della spada aveva sempre più voce, era molto più potente di Grace.
E con molta più volontà.
Era la volontà che faceva girare il mondo.
“Una delle anime rimaste intrappolate nella spada ha raccontato che l’ultima menzione nota dell’oggetto è stato qui, poco meno di trent’anni fa. Era un mezzosangue di nuova Roma, Kenny Dantelion, è morto combattendo contro un … cartaginese?” aveva provato.
Qualcuno a Nuova Roma diceva che esisteva una Nuova Cartagine, ma era più un sentito dire, una voce, che un vero e proprio fatto. Anche se quasi due anni e mezzo prima, Jason Grace, all’ora centurione della quinta coorte, aveva giurato di aver incrociato la lama con una ragazzina che si professava originaria di quella mitica terra. “Comunque era venuto a recuperare l’Astrolabio” aveva dichiarato, “Dantelion, intendo, non il cartaginese”.
Se degli annali riportavano di questa missione, lui non ne aveva saputo niente, ma Drew non era mai stato molto sul pezzo, aveva militato nella terza coorte, con un certo disinteresse, perché doveva. L’unico slancio politico che aveva avuto era stato orientato verso l’idea di intraprendere il cursus per divenire Flamen Dialis, il sacerdote di Giove.
Così avrebbe potuto partecipare alle riunioni del senato, avrebbe reso orgoglioso la sua famiglia. Era quasi nostalgico immaginarsi seduto sulla sedia crurale mentre osservava Drusilla sua sorella, sarebbero stati un sacerdote ed un pretore. Questo era il loro sogno, più il sogno di lei, che di lui, ma a Drew piaceva, non aveva mai perso troppo interesse a riflettere su cosa volesse – finché era felice Drusilla andava bene.
Però Nuova Roma aveva scelto Reyna Arellano.
Non sono arrabbiata, lei è fantastica ed io ho ancora tempo. Adam vuole ritirarsi tanto. Io sarò pretore di Roma” aveva dichiarato Drusilla con un sorriso che non poteva essere mitigato dalla sconfitta.
Erano stati gemelli, figli del ventre dell’angoscia, ma sua sorella rifulgeva del potere di Marte, con occhi lucenti e fiammeggianti di fiducia, di forza, orgoglio e con un’allegria di ferro.
Drusilla Reed, lascito di Marte, figlia di Cura, centurione di Roma.
Che non sarebbe mai stata Pretore.
E di chi è la colpa, Druso?


Si era accorto che tutti lo stavano fissando.
“Dovremmo saperlo noi?” aveva chiesto retorico il figlio di Apollo, ammiccando alla faccenda dei cartaginesi. Carter aveva un modo di guardare la gente, in particolare lui, che rendeva a Drew estremamente difficile parlargli; aveva il modo di porsi di un vecchio, di chi aveva vissuto, aveva sofferto e si erigeva sull’altare dei savi, di chi pensava di aver compreso tutto e rivolgeva agli uomini lo sguardo giudicante di un Dio stanco.
Inoltre, Carter poteva offrire un bel paio di occhi scuri, perforanti, incastonati su un viso carino, degno della progenie di Apollo, cosa che rendeva a Drew ancora più difficoltoso intervenire con lui. Stranamente, grazie al contributo di Assetata, offenderlo, sputando veleno e rabbiosa verità sembrava uscire molto più naturale.

“Sì. Comunque, era qui per recuperare l’Astrolabio di Leone, pensava potesse essere utile per la faccenda dell’Alas-Lasciamo perdere. Dovrebbe essere qui” aveva deliberato.
“Sto per dire una di quelle cose poco carine: dovremmo dividerci, per coprire più spazio” aveva proposto Grace con un sorriso nervoso sulle labbra, da quando erano stati ad Ironwood il suo buon umore si era fatto più finto della pazienza di Drew, “Se c’è un artefatto magico lo troveremo subito, di solito sono calamite per la sventura” aveva dichiarato, tirando i capelli scuri dietro l’orecchio.

“La mia vita somiglia un po’ ad un film horror, rispettiamo tutti i cliché” aveva dichiarato Carter con un tono lugubre, “Come ci dividiamo?” aveva chiesto.
“Io adoro spendere il mio tempo con te Gratia, ma sono un lupo solitario” aveva scherzato Eirik, aggiustandosi il colletto del suo smanicato di pelliccia; dopo averlo detto si era allontanato da loro di qualche passo, aveva incatenato i suoi occhi grigissimi su quelli dell’Empusa, aveva sciolto le spalle e poi senza alcun preavviso Drew aveva assistito ad uno spettacolo raccapricciante.
Gli arti di Eirik si erano allungati, le unghia delle mani si erano fatte nero, lunghe e spesse, così come  la mascella, il naso e la mandibola si erano modificate come se fossero state di argilla morbida, era crollato a quattro zampe e la pelliccia della giacca aveva ricoperto il corpo.
Raccapricciante” era stato Ceneo a dirlo, in inglese, per una volta Drew concordava con il lapita.
Dove prima c’era stato un ragazzo, dal sorriso sghembo, invece appariva un gigantesco lupo, due volte la taglia uno normale, con occhi grigissimi, luminosi come lune, il pelo era folto, lucido e di un colore scuro cenerino.
Grace si era sporta per accarezzare il lupo sulla testa, prima di grattargli dietro l’orecchio, in maniera amorevole.
Situazione bislacca, aveva pensato.
Stucchevole, aveva commentato Assetata. 

Ceneo aveva detto qualcosa, Drew aveva decifrato solamente due parole: Achei e Romaioi – che ricordava fosse il termine greco per i Romani. Reminiscenze di Storia Bizantina a Nuova Roma, un periodo storico in cui la differenza tra Greci e Romani era così flebile da essere divenuti praticamente un unico popolo.
Forse sarebbe successo di nuovo, se Gea non avesse vinto, ovviamente.
“Potrebbe andare” aveva valutato Carter, “Mi traducete?” aveva chiesto Drew leggermente spazientito, “Ceneo ha proposto di dividerci tra Romani e Greci, ma forse è meglio mischiare un po’” aveva spiegato Grace, “Io vado con Ceneo e tu con Carter” aveva proposto.
Il figlio di Apollo l’aveva guardata interrogativo, Grace aveva inclinato il capo ed aveva annuito, di rimando Carter aveva sollevato un sopracciglio e l’empusa aveva sorriso accomodante.
“State facendo una conversazione telepatica? Potete?” aveva indagato spazientito Drew, “No, perché non ci stiamo evidentemente capendo” era stata la pigra e frustrata risposta del semidio.
Grace lo aveva preso in disparte e si erano allontanati appena.
Ceneo aveva detto qualcosa, “Almeno sforzati un po’” aveva sibilato Drew, che di quella storia del greco antico iniziava ad essere terribilmente infastidito. Eirik aveva inclinato la sua testa, era piuttosto buffo, vederlo così.
Aveva sempre desiderato un cane da bambino, ma suo padre lo aveva sempre tacciato di essere lui, Drew, troppo piccolo per occuparsene e lui, suo padre, troppo impegnato. “Stanno parlando del tuo stato mentale alterato” aveva dichiarato il lupo.
“Tu … parole!” aveva esclamato Ceneo, sconvolto, anticipando Drew, circa. “Faticoso” aveva dichiarato solamente il lupo facendo scivolare a penzoloni la lingua dalle fauci.
Qualsiasi cosa avesse detto Grace aveva ottenuto alla fine un cenno d’assenso di Carter.

 

“Cosa hai deciso sul mio stato mentale?” aveva domandato Drew.
Che ti importa di questo bimbo piangente, dobbiamo vendicarci, troviamo l’Astrolabio e troviamo Lui. “So ammansire le bestie, con la musica, e so curare” aveva asserito Carter, “Così se do di matto tu puoi gestirmi meglio della strega” aveva considerato lui.
Se Carter fosse stata una persona diversa forse avrebbe manifestato dell’imbarazzo, ma la sua espressione era rimasta ieratica e si era limitato ad annuire, “Credo che Grace fosse più preoccupata a cosa avrebbe dovuto fare per gestirti” aveva commentato Carter.
“Lo preferisco” aveva dichiarato Drew, non aveva niente di specifico contro i suoi altri tre compagni di avventura – okay, forse contro Ceneo sì, ma solo perché continuava a parlare quella lingua maledetta – ma doveva ammettere di sentirsi più a suo aggio con Carter, nonostante fosse greco; forse era perché fossero due semidei. Ceneo era un guerriero vecchio tremila anni che non parlava la sua lingua, Grace era un’empusa di duemila anni ed Eirik … non era neanche del suo pantheon.  “Non è facile fidarti dei mostri quando passi tutta la vita a difenderti da loro” aveva commentato il semidio greco, cogliendo i suoi pensieri.
“Tu come fai?” aveva domandato alla fine Drew.
“Non lo faccio. Grace è diversa ed Eirik vuole essere dal suo lato buono” aveva risposto solamente.
Drew aveva annuito, accettando la risposta.
“Come ci sei finito con lei?” aveva indagato, “Sei chiacchierone oggi” era stata la lapidaria risposta di Carter, “Se sono distratto non penso e se non penso lei non può insidiarmi” aveva dichiarato frustrato, tenendo una mano sull’elsa della spada.
L’altro aveva annuito, lanciandoli però uno dei suoi sguardi, come se in Drew vedesse un piccolo umano fragile che andava compatito, questo faceva montare in lui la rabbia che Assetata incrementava, nutrendosi di ogni suo mal pensiero.
Spacca la faccia a quest’immondo abominio, figlio del male!
Oh il caro Flegias.
Carter aveva soffiato, “Qualche anno fa ho deciso di seguire un mio amico in un’impresa piuttosto folle, eravamo animati da buone intenzioni, ma come si dice spesso, la strada per l’Inferno ne è lastricata” aveva dichiarato, “Non che creda all’inferno, cioè credevo nel Tartaro ma visto questa storia dei diversi pantheon, mi sento aperto a diverse possibilità”.
Drew aveva aggrottato le sopracciglia, decidendo di ignorare la seconda parte del racconto, Carter aveva ripreso:  “In breve? Abbiamo dichiarato guerra agli dèi. Ora lui è morto ed io sono bloccato qui, esiliato” aveva spiegato in maniera più cristallino, “O almeno era così fino a qualche giorno fa” aveva dichiarato, “Differentemente da te, ho scelto io però la mia miseria” – Carter aveva fatto una pausa – “Oh, be, Apollo ha avuto il suo bel ruolo”.
Per un secondo Drew non aveva avuto la più pallida idea di cosa stesse parlando, fino a che non aveva ricordato la loro conversazione alla Fontana di Salmace dove aveva raccontato che Cura era nemica sia di Giove sia di Gaia.
“Non è proprio così” aveva ammesso alla fine Drew, “Essere figlio di mia madre mi ha sempre fatto sentire di troppo a casa mia, Nuova Roma, e quando me ne sono andato essere figlio di mia madre mi ha reso sgradito a Gaia” aveva raccontato poi, “Quindi anche tu potresti tornare a casa?” aveva indagato Carter, “Adesso sei tu quello chiacchierone” aveva replicato.
“Siamo letteralmente nel mezzo del parco di Yellowstone, fa un freddo del cazzo nonostante sia primavera, non c’è un anima in giro, tranne qualche orso che probabilmente si paleserà per mangiarci e noi stiamo dando retta ad una Spada Maledetta” aveva borbottato Carter. “Touché” aveva replicato Drew, sorridendo sottilmente. “Comunque, no, tecnicamente non posso tornare, non sono stato formalmente bandito ma ho disertato. Se tornassi a Nuova Roma dovrei nutrirmi di Orzo per il resto della vita, oppure essere percosso o la morte[1], immagino dall’umore di Reyna o di Jason[2], i Pretori” aveva riferito Drew.
Carter lo aveva guardato con una certa intensità, Drew aveva riconosciuto sul viso quella tacita domanda: ‘Perché te ne sei andato?’ ma il figlio di Apollo non l’aveva chiesto, così come Drew non aveva indagato sulle ragioni che lo avevano spinto a dichiarare guerra agli Dei.
“Perché tua madre non piace a Giove e Gaia?” aveva chiesto invece Carter. “Oh, be, è una storia buffa” aveva risposto Carter, “Tutti e tre reclamavano il dominio sulla stessa cosa” aveva cominciato, “L’argilla?” aveva domandato l’altro interrompendolo.
“Lo so che sembra che mia madre sia la dea dell’Argilla, ma è solo un’altra cosa. Grace lo ha detto, l’altra volta. Comunque tutti e tre reclamavano il dominio sulla creazione degli Umani” aveva risposto Drew.
Carter aveva schiuso le labbra, poi aveva ridacchiando, “Scusami ma tra Zeus che non si frega di nessuno e Gea che ci vuole morti, mi sembra quasi surreale” aveva detto. C’era simpatia nella sua voce, una simpatia un po’ isterica.
Drew aveva annuito, prima di cominciare la sua narrazione, che ormai conosceva a menadito. “Pare che mia madre, la Dea Cura, un giorno camminando vicino ad un fiume, abbia beccato questo terreno argilloso sull’ansa e si sia messa a modellare questa forma che poi è saltata fuori fosse un uomo. Lei era così contenta della sua creazione; Dei mi spieghino perché, che ha convinto il divino Giove ha dargli il soffio della vita e … TAC! Noi siamo nati” aveva aggiunto.
“Quindi tua madre è tecnicamente la madre di tutti noi?” aveva chiesto l’altro.
“Si, circa” aveva annuito Drew, inclinando il capo, “Comunque, gli umani sono piaciuti a tutti, dovevamo essere proprio piacevoli ai tempi, così mia madre ha cominciato a rivendicarne la creazione perché li aveva modellati lei. Poi visto che Giove è uno che non può fare a meno di essere il centro dell’universo, vedendo come tutti lodavano Cura, ha cominciato a pretendere lui la rivendicazione perché aveva messo il soffio vitale” Drew aveva fatto una pausa, guardando il cielo.
Era plumbeo, nascosto dietro grossi nuvoloni ed il clima freddo. “Non credo ci stia ascoltando” aveva valutato Carter, che come lui lo aveva imitato, facendo schioccare le labbra, “I vantaggi di essere schifato da tutti” aveva concesso Drew.
“Poi si è intromessa Gaia, lungi da me sapere perché, pretendendo la rivendicazione poiché l’argilla era stata gentilmente offerta da lei” aveva raccontato.

“E chi la ha spuntata?” aveva chiesto Carter, sembrava sinceramente interessato. Drew aveva sorriso, “Mia madre” aveva risposto, “Circa. Credo che per gli Dei sia impossibile concepire una vittoria onesta” aveva ammesso, finendo per raccontare il resto della storia: “Il corpo sarebbe tornato alla terra, e l’anima sarebbe ascesa al cielo da Giove – sai, ecco, credo che Giove aveva ancora affidato il regno dei morti a Plutone” aveva fatto una pausa. “A Cura sarebbero appartenuti gli uomini per tutta la durata della loro vita” aveva concluso per lui, di getto, Carter; estremamente capace ed intuitivo.  “Sì. L’angoscia che domina ogni uomo” aveva confermato Drew.
Tutte queste sono sciocchezze per ragazzini, noi abbiamo sete e tu hai giurato di dissetarci.
Drew aveva soffocato quella voce fastidiosa con tutte le sue forze, “Non migliora?” aveva chiesto Carter, lui aveva scosso il capo.
Il figlio di Apollo aveva fatto un passo verso di lui ed aveva sollevato una mano, per sfiorarli una guancia, fino a risalire sulla tempia, la temperatura delle sue dita era alta, però era stata lenitiva.
“Stai facendo quello che Eirik chiama Arte-Femminile? Ammansisci le bestie?” aveva chiesto retorico Drew, anche se si sentiva incredibilmente meglio.
Carter aveva sorriso in maniera quasi spontanea, qualcosa che non si sposava molto bene con la sua espressione funerea, che sembrava permeare sul suo viso sempre.
“Che ci posso fare se quello è un rozzo vichingo, le arti greche funzionano così” si era difeso bonariamente Carter, poi. “Scusa Nuova Roma è ancora ferma alla forma dei due pretori[3], non siamo ancora neanche al governo dei due consoli, praticamente non siamo ancora entrati nella pubertà, quindi, mi spiace, abbasso le molli arti greche e viva il Mors Maiorum e le spaventose discipline etrusche” aveva risposto Drew, facendosi cogliere da una risata.
I due ragazzi si erano guardati in faccia, cercando di mantenere delle espressioni serie sul viso, che però erano finite sopperite da una risata incredibilmente frusciante.
Non era neanche divertente, il loro scambio di battute era stato pessimo e fiacco, ma era bastato poco, perché si ritrovassero a ridere.
Carter si teneva la pancia, mentre Drew si lasciato cadere sull’erba del parco, ancora fremente dal riso.
Non era divertente, ma ne avevano bisogno loro, di aggrapparsi all’ultima perla di allegrezza che potevano avere.
Smettetela! Guardati ragazzino scemo, che sei qui a rotolarti sull’erba ebro come una ragazzina, mentre noi agonizziamo per un solo goccio d’acqua!
“Fottuta spada stai zitta” aveva urlato Drew, sfilando dal fodero la lama e guardandola con nervosismo, lo notava il suo potere, lo percepiva nelle ossa, nelle mani, in se stesso, era così forte da crepare l’argilla molle di cui ogni tanto la sua pelle si fondeva. “Trattala bene, che ci deve dire dove è l’Astrolabio” lo aveva ammansito Carter, con la sua voce morbida e musicale, proprio da figlio di Apollo, che a lui piacesse o meno.
Drew aveva annuito, “Troveremo tua sorella” aveva detto poi.
Una parte grande, grandissima, della sua mente era focalizzato su altro, alimentata dalla spasmodica fame di Assetata, una parte di se a cui non importava niente di Carter Gale e la sua sorella moribonda a cui importava solo di Lui e della sua vendetta.
Una parte che diceva: Prendi l’Astrolabio e scappa.
Somigliava alla voce di Assetata quando la sentiva, ma lo sapeva che non era quella della maledizione della spada, ma bastava concentrarsi un po’ sulle motivazioni che lo muovevano.
Vendetta! Vendetta!
Ed improvvisamente la sorella di Carter capeggiava nella sua immaginazione, non conosceva Heather Shine, non sapeva come fosse, se somigliasse al greco o fosse il suo complementare, nella sua mente somigliava a Drusilla, sua sorella.
La sua meravigliosa sorella.
“E la salverai” aveva detto ad alta voce Drew, aveva sentito qualcos’altro muoversi in lui, rabbia sì, rancore, ma anche volontà.
Non ci sarebbe stata nessun’altra Drusilla, se lui l’avesse potuto impedire.
Carter si era morso il labbro, aveva smesso di ridere, gli occhi a mandorla si erano fatti di nuovo ombrosi, “Il tuo … affare” aveva provato, “È una vendetta, vero?” aveva chiesto alla fine il figlio di Apollo, “Non lo stai facendo per tua madre” aveva dichiarato Carter.
Era bravo.
Drew aveva sorriso con amarezza, tirandosi su, per poter guardare nuovamente Carter in viso, “Lo faccio per mia sorella” aveva dichiarato alla fine, “La vendetta è sacra, non adempierla è una vergogna per l’onore, così come lo è sigillare una promessa che non si rispetterà. L’onore è tutto per un Romano e mia sorella era tutto per me” aveva dichiarato con sicurezza.
Lui e Drusilla erano figli di Cura, signora dell’Angoscia. Erano fatti di carne, sangue ed argilla, avevano diviso lo stesso ventre divino ed avevano condiviso lo stesso fiato nello stesso momento.
Se non avesse finito il suo dovere, sarebbe stato una delusione di romano, di uomo e di fratello.
Sì! Dovresti vivere così, con queste emozioni! Sì! Nutriti del tuo dolore, si e lasciaci nutrire!
Aveva strillato Assetata.
Carter lo aveva guardato con attenzione, come se lo stesse sondando, ogni centimetro della sua pelle, ogni centimetro della sua anima, poi aveva parlato.
“Noi mezzosangue moriamo tutti o quasi giovani, ci fai il callo, come pensiero, che magari a sedici anni ci rimarrai secco, mangiato da un drakon, mentre vai a prendere delle mele d’oro o una stronzata simile” aveva dichiarato Drew, Carter aveva annuito.
“Ma mia sorella non è morta così, se fosse morta così, io lo accetterei se fosse morta così, avrebbe voluto dire che è morta alle sue condizioni. Però Drusilla non è morta così, in missione, da eroe, la hanno uccisa e a nessuno e fregato nulla” era riuscito a vuotare quel tumulto Drew.
Probabilmente era stata la più lunga combinazione di parole che diceva a qualcuno da tanto – tantissimo – tempo su sua sorella.
Dopo la sua ultima frase era sceso un silenzio denso. Ma Drew sollevato gli occhi aveva trovato lo sguardo di Carter ad accoglierlo.
Non possedeva quel taglio duro e giudicante che aveva sempre, ne però era morbido ed accondiscendente, però sì, c’era qualcosa di caldo, di buono, che Drew poteva tradurre in una sola maniera, che non era né pena ne commiserazione, ma comprensione.
L’altro lo capiva.
In una maniera intima in cui Drew Reed non si era mai sentito capito.
“Si chiamava Joelle” aveva detto alla fine Carter.
“Pensavo Heather” aveva commentato Drew, incerto. Il figlio di Apollo aveva usato il passato.
Il greco aveva scosso il capo, “No. Joelle è morta” aveva specificato, poi aveva stretto le labbra, lo sguardo scuro si era fatto distante, come se improvvisamente non fosse stato più lì, ma altrove, con gli occhi vedeva cose distanti.
Drew riconosceva quell’espressione, perché era stato certo di averla già vista su se stesso.
Carter aveva sbattuto le palpebre, uno squarcio di dolore aveva attraversato il suo viso, distorcendo l’espressione in una maschera funebre, poi aveva recuperato la sua compostezza.
“Non lo avevi mai detto ad alta voce, vero?” aveva chiesto titubante.
“No” aveva confermato Carter, “Non così almeno” aveva ammesso.
Realizzazione.
“Era una tua sorella?” aveva domandato titubante, Apollo aveva molti figli, che lui ricordasse. Carter aveva scosso il capo, “No, lei era … una mia amica. Penso … avessi una cotta per lei” aveva aggiunto insicuro, sigillando poi le labbra.
Era caduto tra loro il silenzio.
In quel momento Drew lo stava guardando con quel medesimo occhio di comprensione e con quel sentimento nel petto aveva deciso di non insistere.
Carter voleva parlare, lo vedeva quasi dal tremolare del suo labbro indeciso se schiudersi o meno, ma forse non era ancora pronto. Non in quel momento.
Oh, che commovente scena, stupidi ragazzini, noi abbiamo fame. Dissetateci!


“Ti va se proviamo a far collaborare Assetata?” aveva chiesto Drew, ondeggiando la spada maledetta, “Magari Dandelion ha voglia di chiacchierare del suo omicidio” aveva provato, riferendosi all’anima del Romano prigioniero nella spada.
Come Flegias.
Carter aveva annuito. Era un pensiero strano per il figlio di Cura, da quando aveva lasciato Nuova Roma, era la prima volta che riusciva a trovare sintonia con qualcuno, probabilmente anche da prima, se si escludeva sua sorella.

 

 

Dandelion aveva avuto voglia di chiacchierare.

 

“Che ha detto?” aveva chiesto Carter apprensivo, “Ecco si, ad ucciderlo è stato l’ultimo proprietario della Spada Elyas Phoenix, quello che ha dato via Assetata dopo essersi innamorato di – e citerò le parole precise di Assetata –  una Gran Frigida” aveva cominciato a spiegare lui.
“Utilissimo” era stata la sarcastica risposta del figlio di Apollo.
“Oh, be, Dandelion mi ha, circa, detto anche i suoi indizi, in cambio della promessa che la prima persona che cercheremo è … quella che serve a me” aveva dichiarato.
“Che coincidenza” aveva replicato Carter, ma nel suo tono c’era una sfumatura piuttosto divertita, “È una millenaria spada animata dal desiderio di vendetta, sa come fare il suo lavoro” aveva ripiegato Drew, strizzando l’occhio al suo amico.
Così si erano ritrovati a seguire il volere della lama malefica, per il parco.

“Bene, Dandelion si ferma qui. L’Astrolabio doveva essere là. Il nostro amico non ha potuto provarlo, è morto lì, in quel punto, in effetti chiede anche se possiamo dissotterrarlo e bruciarlo con almeno un asse” aveva raccontato Drew, che aveva seguito per filo e per segno l’istruzione della spada. Indicando poi il luogo incriminato.
“Nel lago?” aveva domandato Carter osservando l’acqua. “No in quel punto lì” aveva rettificato Drew, pensando di essere stato chiaro.
Il figlio di Apollo lo aveva guardato con una certa criticità, “Parlavo dell’Astrolabio” aveva chiarito Carter, che probabilmente non doveva essere molto interessato a morti romani.
Drew si era sentito pieno di vergogna, ma aveva annuito, dedicando anche lui lo sguardo alla superficie del lago, se così poteva essere chiamato.
C’era stato tra loro un silenzio piuttosto pregno, poi Carter lo aveva stupito: “Spettacolare” era stato il commento che si era lasciato sfuggire, strabiliato.

 Era il Grand Prismatic Spring, sorgeva in una zona non boschiva, anzi quasi desertica, le piante la circondavano lasciando una lunga zona di terra dura. La fonte d’acqua era di un’estensione piuttosto imponente, di un colore di un blu così vibrante da sembrare temperata, sui bordi il colore prendeva prima sfumature verdastre, così come il tappeto dell’ansa sfumava dal giallo, passando per l’arancio e infilandosi poi in una terra di un marrone severo.
Ciò che più attirava lo sguardo, subito dopo i colori, però era il fumo che si levava dalle acque.
“Sì, lo è” aveva concordato Drew.
Il Grand Prismatic Spring era davvero spettacolare, ricordava di averlo visto anche da bambino, suo padre lo aveva guardato affascinato, aveva detto alla sua matrigna ‘Peccato’ – Drew si chiedeva se per caso suo padre avesse saputo ciò che Dellinger aveva scoperto –  di rimando quella poverina non aveva potuto dare a quelle parole molta importanza.
Sia la donna, sia Drew, avevano dato la loro priorità nel fermare Drusilla, intenzionata a voler nuotare in quel lago azzurrissimo.
“Fermati, leonessa, non vorrai scottarti, vero? Se entri in quell’acqua esci più cotta della pasta!” aveva ridacchiato la sua matrigna, con tanto divertimento.
Drew si era riscaldato con quel ricordo.
Si, giovane Druso, goditi questi ricordi, crogiolati e ricordati perché la vendetta è l’unica strada. Ricorda quel che hai perso. Vivi di questo rancore.
Aveva vibrato Assetata.
“Quello è il Grand Prismatic Spring, è la terza sorgente calda più grande al mondo ed ha la temperatura di settanta gradi celsius … circa centosessanta[4] fahrenheit” aveva raccontato Drew, ricordando le nozioni che aveva conosciuto da bambino.
Carter aveva imprecato in greco antico, “Chiaramente nessun umano può entrarci” aveva stabilito, “Se non vuole essere lessato no” aveva confermato Drew, “Chiunque lo abbia lasciato lì, probabilmente non voleva capitasse in mano di nessun mortale, casualmente. Magari esiste qualche armatura magica super fantastica nella mitologia da trovare” aveva provato Carter, mordendosi un labbro, pensieroso, “Forse la magia di Gracie può fare qualcosa, forse come figlio di Apollo posso regolare il mio calore del mio corpo, forse la pelle di Eirik è resistente a tutto questo, dovrebbe essere tipo un gigante di ghiaccio o una roba simile. Magari è come un ciclope” si era lasciato in elucubrazioni Carter.
Entra tu!
Aveva ruggito Assetata.
“Come?” aveva domandato Drew confuso.
Carter aveva ripreso il suo discorso, “No, aspetta … ehm, parlavo con la spada” aveva detto imbarazzato lui.
Ragazzino, mi pare evidente che i tuoi poteri ti permettano di sopportare quelle acque. Non sei forse tu fatto d’argilla?
aveva risposto la spada, era una voce femminile, ma era diversa da quelle che aveva udito fino a quel momento, era comunque carica di rabbia, ma sembrava anche più stanca.
“Sì, giusto. La ceramica, cioè l’argilla, cuoce intorno ai trecento gradi.” aveva dichiarato Drew, dandosi un colpo sulla fronte, come se si fosse immediatamente illuminato.
“Tu puoi entrare?” aveva chiesto Carter con genuina curiosità.
“Oh, be, se mantenessi il mio corpo fatto di argilla, qualcosa di molto, molto, faticoso per me, potrei resistere senza finire come un aragosta e trovare l’astrolabio. Come ho detto l’argilla si solidifica a temperature molto più alte, mentre bagnata resta malleabile, perciò finché sono d’argilla, sono salvo” aveva ponderato Drew.
“O potremmo cercare Grace” aveva proposto Carter.
“Magari facciamo ambedue le cose, la superficie della fonte è piuttosto vasta” aveva dichiarato Drew, mentre sfilava al cintura a cui aveva legato il fodero della spada, “Tuo padre ha detto mente lucida, si?” aveva dichiarato, anticipando la muta domanda di Carter.
Il figlio di Apollo aveva raccolto Assetata, facendo attenzione nel prenderla dalla cintola del fodero, quasi timoroso la lama fosse incandescente.
“Come respirerai?” aveva chiesto Carter.
Drew aveva preso un respiro, si sentiva più leggero, senza la spada, ma anche più debole.
Anche solo sfiorare il pomello di Assetata lo faceva sentire più saldo, duro e forte.
Aveva fatto saltare le converse e poi aveva tirato via i calzini zappettando, in maniera poco virile, aveva calato i pantaloni restando con le gambe nude come zampe di pollo ed i boxer ed aveva preso l’aria fredda dell’ultimo inverso sulla pelle non coperta dalla canottiera quando aveva tirato via la felpa. Si era sforzato di non guardare Carter, realizzando di non poter gestire bene il suo corpo così secco, specie in confronto al figlio di Apollo con la sua notevole croce di spalle ed indovinava il fisico tonico.
Drusilla diceva che lui pareva un chiodo con dei fili di spago legati – anche Ceneo lo aveva detto, in effetti.
“Quando sono in quello stato io … non ho bisogno di niente. Sono argilla!” aveva dichiarato Drew.
Era un essere materiale, inorganico, mosso da una mente e preda dell’angoscia … sperava che la sua lucidità restasse stabile.
Probabilmente il divino Apollo aveva prefigurato proprio quello scenario.
Dei immortali, quanto erano messi male.


“Che Tyche ti protegga” aveva detto Carter, il suo tono di voce, non era asciutto, ma carico di preoccupazione, era quasi rassicurante avere qualcuno che si preoccupasse ancora per lui, “Che Vica Pota mi assista” aveva corretto Drew, dea della vittoria e della conquista; poi si era messo a correre.
Si era sforzata, con fatica e concentrazione di trasformare tutto se stesso in argilla.
Non lo aveva mai fatto, non completamente.
Solo poche parti, solo poco porzioni.
Non conosceva nessun altro figlio di Cura, oltre Drusilla, nessuno con cui esercitarsi, nessuno che potesse spiegargli.
Esistevano ragazzi capaci di modellare cose, ricordava che Jason Grace aveva provato ad aiutarlo a dominare l’argilla, come lui faceva con l’aria, aveva funzionato per un po’, ma Jason Grace non diventava aria, non come Drew diventava argilla.
Drusilla riusciva a dominare l’aria, era una mastra vasaia anche più brava di quanto non fosse una combattente, ma non riusciva a modellare se stessa, non bene come Drew, era una donna tutta d’un pezzo diceva sempre la sua matrigna, preferiva combattere alla renziana ed usare l’argilla con dolosità, quindi sì, neanche Drusilla era stata una compagna.
L’argilla erano qualcosa solo tra Drew e sua madre – per quanto Cura non fosse mai stata una presenza ingombrante nella sua vita.
Però doveva farcela – ne sarebbe andato della sua sanità mentale, della sua vendetta e per Heather figlia di Apollo.
Diventare argilla era come smettere di esistere.
Tutto si allontanava, ogni sensazione, ogni calore, contatto, ciò che sentiva, ciò che percepiva, diventava ovattato, come il primo tuffo nell’acqua, con le orecchie ancora frastornate del fischio ed il corpo avvolto nella dolcezza di un brodo primordiale, con il nero delle palpebre serrate e l’aria inaccessibile da ogni via.
Nessun rumore.
Nessun odore.
Nessuna vista.
Tatto.
Be … si, anche nessun sapore.
Per un momento … per un lungo momento … poi cominciava la sensazione di cadere a pezzi, di squagliarsi, di sciogliersi, di perdersi e disseminarsi.
Ritornava corpo … ma non più solido …

Aveva intravisto la linea azzurra dell’acqua come qualcosa di fievole, appena percepibile, dietro il grigio, dietro un mantello di grigio e si era lanciato, incerto verso il dove, non comprendendo neanche dove iniziasse lui e finisse la terra.
E poi l’acqua.
Per un secondo solo l’aveva sentita, bollente, ustionante, ma poi era tornato in se, lucido, il dolore, la bruciatura lo aveva distratto per un secondo, per un momento era stato di nuovo umano, ma poi era tornato materiale.
Ed era in acqua, senza indugio.
Non sapeva come si stesse muovendo, ogni tanto percepiva qualcosa, con gli occhi, non abbastanza umani, vedeva liane di terra lucida molle, come sabbia bagnata, grigiastra muoversi al suo fianco.
Informe.

Trovare l’Astrolabio non era stato facile come aveva pensato.
La fonte aveva una profondità ed un’estensione notevole e i sensi di Drew erano annacquati dal suo nuovo corpo, quando provava a concentrarsi su qualcosa, acuire la sua vista, parte della sua fisicità si manifestava di nuovo in forma umana, assieme al bruciore dato dall’acqua bollente ed era costretta a ritornare nei meandri della sua coscienza, a diventare di nuovo informe.
E non era facile restare in quello stato, restare in pace, non con gli acuti dolori delle bruciature che lo avevano segnato ne dalla preoccupazione di non resistere, la sua stessa forma, di tanto in tanto si solidificava, non abituato a quello stesso indefinito.
La sua strategia si era rivelata pessima.
Sperava che Carter trovasse Grace ed il suo fidanzato gigante in fretta.
… L’Empusa aveva detto che avrebbero dovuto percepire l’Astrolabio, era un oggetto magico, oltre che probabilmente attira guai.
Ecco! Si disse, su quello poteva lavorare.
La percezione della nebbia prescindeva i sensi mortali, non erano influenzati dal suo corpo.
Non sapeva come, ma doveva, in qualche maniera.
Bravo Druso!” sentì una voce, un eco lontano, per un secondo pensò che fosse Assetata, ma non aveva la spada con sé.

Così si era concentrato nel percepire qualcosa, otturando tutti i sensi al massimo. Inesistente, sospeso ed in cerca di qualcosa nella calma.
Una vibrazione, appena una, aveva percepito e da essa era stato guidato.
Finché non era stata più forte, come onde che si infrangevano su una banchina e poi altre ed altre ancora.
Aveva dovuto forzare gli occhi, un poco, dietro una tenda grigio levigato aveva visto qualcosa d’orato, brillante, adagiato sul fondo, tondo ed indefinibile.
Aveva allungato qualcosa di se, coni d’argilla morbida ma lo aveva saputo dal primo momento che avrebbe avuto bisogno di arti veri per prenderlo.
Non c’era successo senza fatica e non vi era fatica senza sofferenza. Una volta lo aveva detto la sua matrigna, Aurelia Reed figlia di Vica Pota.

Aveva recuperato il suo braccio ed il dolore dell’ustione dell’acqua bollente, ma con fatica, isolando il dolore, estraniando il dolore, aveva raggiunto con le dita l’oggetto.
L’oro era freddo. Innaturalmente freddo, rispetto la brodaglia incandescente.
Il contatto lo aveva spezzato, dissociato.
Il dolore si era fatto insostenibile ma poi era tutto cessato.
tutto.
Buio.
E poi luce.
Lei sedeva su una … sedia, una bellissima sedia di legno lucido, ma una semplice sedia, quasi da tavola calda.
Una donna, con una lunga tunica bianca, dalle maniche amplissime con ricami dorati sugli orli, e laticlavi verticali porpora,  sopra indossava una clamide di un blu pavone, fermata alla spalla con una fibula tonda a due pendenti di perle.
Il viso era ieratico come quello delle statue della Minerva che aveva visto a Nuova Roma, aveva gli occhi erano di un grigio inteso come il mercurio liquido, dalla forma allungata, ed i riccioli biondi raccolti in uno chignon poco severo. L’incarnato era di un colore olivastro.
Bella! Primo triviale pensiero.
“Benvenuto giovane semidio!” aveva detto con serietà lei, un viso ieratico come una statua e nessun accenno di sorriso nelle labbra sottili.
“Divina Minerva?” aveva provato, nell’immaginarla con le fattezze di una statua non avrebbe potuto associarla ad alcuna altra dea, certo manca l’elmo e la collaretta con i serpenti intrecciati … o lo scudo … oh.
“Succede ogni volta, incredibile? Forse neanche così tanto! Infondo è mia madre!” aveva dichiarato la donna, “No, no, giovane mezzosangue io sono Ipazia di Alessandria, sì quella Ipazia, o almeno ero. Credo di essere morta no, sono una specie di spettro” aveva dichiarato, “Un memento, ecco” aveva spiegato.
“Cosa?” aveva domandato Drew, mentre si guardava intorno, era in una stanza, composta da scaffali altissimi, ripieni fino agli orli di fitti rotoli e volumi, quasi sul punto di straripare.
“Ipazia, io, Ipazia lei … ho costruito l’Astrolabium Ueritatis[5] ho impresso una parte di me in esso, per testare l’utilizzatore, non volevo che una mia creazione fosse usata impropriamente, ai miei tempi uomini avidi si nascondevano dietro grandi simboli per sfruttare le anime ignoranti” aveva chiarito subito lo spettro.
“Hai fatto come Sauron con l’Unico Anello?” aveva chiesto confuso Drew.
“Oh, be, lui tecnicamente lascia solo i suoi poteri” aveva risposto pratica Ipazia – Okay, Drew non era certo di voler sapere perché una filosofa morta quasi mille e seicento anni prima in Egitto sapesse qualcosa del Signore degli Anelli.
“Più come fanno gli armaioli creando armi senzienti, come immagino tu ben saprai, ti leggo dentro, Druso Reed” lo aveva anticipato Ipazia, “Io ho lasciato un po’ di me, per il futuro” aveva dichiarato orgogliosa del suo lavoro.
Drew aveva sospirato.
Ovviamente.
“Quindi ora che succede, reverentissima?” aveva chiesto, mentre si alzava dal pavimento e si accomodava su una sedia crurale che aveva trovato lì disponibile – dava un po’ di brividi e alla testa, erano sedie da senatore infondo!
Ipazia aveva sorriso – forse – sembrava che le labbra non si appuntissero mai molto.
“Ho detto che ti vedo dentro, ma non è del tutto vero, ti percepisco, ma devo testarti, vedere se sei degno della Verità” aveva dichiarato lo spirito.
“Probabilmente no” aveva dichiarato Drew.
Ipazia lo aveva guardato con accondiscendenza, “Dai, dai, non ti buttare giù, sei figlio di angoscia ma non è necessario seguirla così pedissequamente” aveva dichiarato Ipazia.
Drew aveva sorriso, stanco, ma aveva sorriso.
“Una domanda” aveva ripreso la dea, “Una sola domanda e potrai uscire da qui” aveva dichiarato Ipazia, “Se non fallirò chiaramente” aveva commentato Drew.
“Ma che sciocchezza! Uscirai da qui ugualmente, non sono crudele ne ho interesse nel tenere qualcuno legato a me, il mondo è vasto, ampio e pieno di mistero per passarlo confinati in un ricordo, no?” aveva dichiarato quella, con un sorriso – sì, in quel momento stava sorridendo.
Drew aveva sentito quelle parole pesanti come macigni posarsi sulla sua schiena.
Probabilmente la mente lucida non era servita per la traversata in acqua ma per quel confronto lì. “Se tu fallissi la prova, giovane semidio, non potresti usare l’Astrolabio e nessuno dei tuoi amici anche” aveva spiegato Ipazia, “Sarebbe solo un intoppo sulla tua strada, ovviamente, troveresti un altro modo per risolvere le cose … è una caratteristica squisita del genere umano questo!” aveva dichiarato la donna.
Drew non aveva mai visto la dea Minerva, ma aveva idea che dovesse essere così, voleva che fosse così, una donna dall’aspetto austero e ieratico come chi dispendioso di saggezza dovesse essere, ma con la mente giovane e vivace di chi era ancora pronto ad aprirsi al mondo.
“Va bene” aveva dichiarato.
Prima che scoprissero l’Australia quale era l’Isola più Grande del mondo?” aveva chiesto Ipazia a bruciapelo.
Non era quello che si aspettava.
“Come sa cos’è l’Aus-lasciamo perdere che è meglio” aveva dichiarato Drew. Conosceva Tolkien, perché non l’Australia?
“Pensaci attentamente Druso” lo aveva rimproverato Ipazia.
“Uhm … l’Africa, conta? O non conta perché è un continente? In quel caso non dovrebbe contare neanche l’Australia” aveva chiesto.
“Non conta perché non è un’isola e l’Australia non è un continente, fa parte dell’Oceania, che lo è” aveva detto leggermente frustrata la donna, cercando di mantenersi rilassata, “Insisto: pensaci bene” lo aveva rimproverato di nuovo.
Pensarci bene …
Allora l’Australia era l’isola più grande del mondo … buona a sapersi.
I continenti non dovevano contare, perciò doveva falciare i grandi nomi.
Le isole dell’arcipelago non dovevano essere un granché in grandezza.
Probabilmente in gara restavano solo Groenlandia, Giappone e Inghilterra. Si sentiva di escludere la terra del sollevante, era lunga ma stretta.
L’Isola più grande …

Questi pensieri continuavano a frullare nella sua testa.
Eppure trovava quella domanda strana ugualmente.
Non poteva essere nozionistica quella che chiedeva Ipazia, non aveva alcun senso, era una studiosa di geografia, di stelle, ma anche una filosofa.
Se avesse avuto con sé Assetata … ma l’aveva lasciata per avere la mente sciolta, libera, non imbrigliata a nulla, per essere calma.
Lo sapeva, sotto.
Drew lo sapeva che doveva esserci qualcosa di più … uhm … difficile sotto.
Prima che scoprissero l’Australia quale era l’Isola più Grande del mondo?
Prima che scoprissero l’Australia quale era l’Isola più Grande del mondo?
Prima che scoprissero l’Australia quale era l’Isola più Grande del mondo?
Prima che scoprissero … Sì!
Era nella lingua!
“L’Australia” aveva risposto Drew.
Ipazia aveva schiuso le labbra, “Ne sei sicuro?” aveva chiesto, per insinuarli il dubbio.
Drew aveva annuito, “Era nella lingua, l’intoppo intendo. Lei non mi ha chiesto quale fosse l’isola che ritenevano più grande ma quale lo fosse” aveva chiarito il figlio di Cura.
“Perciò sempre l’Australia anche se non era stata scoperta” aveva dichiarato con sicurezza.
“Risposta definitiva?” aveva chiesto Ipazia.
“Sì e non siamo su chi vuol essere milionario” aveva dichiarato Drew.
“Bravo, Druso Reed figlio di Cura, la risposta era l’Australia” aveva stabilito Ipazia.
Ancora troppo facile …
“Procediamo” aveva parlato allora lo spirito, “Perché pensi ti abbia chiesto questa domanda?” aveva chiesto allora Ipazia.
Bene, aveva pensato Drew, questo somigliava a qualcosa di più sensato.
“Sicuramente non per testare le mie conoscenze di geografia, forse per la logica?” aveva proposto. Non sapeva se poteva proporre qualcosa o dovesse dare risposte nette.
Ipazia aveva inclinato il capo, “Allora perché non darti una sequenza numerica?” aveva chiesto.
“Perché non le piacciono solo i freddi numeri” aveva risposto secco lui.
“Sono una matematica, Druso, adoro i freddi numeri” aveva dichiarato Ipazia.
“Mia sorella avrebbe saputo la risposta” Drew lo aveva detto di getto, “Dici?” aveva chiesto.
“Certo faceva cruciverba tutti i giorni, studiava l’etrusco e si dilettava negli indovinelli, diceva che tenevano il cervello sveglio. Mens sana in corpore sano” aveva dichiarato lui.
Probabilmente Carter e Grace avrebbero risolto tutto in poco tempo.
“Ammirevole, ovviamente io questo non lo posso sapere” aveva detto Ipazia, combinazione strana di parole, ma dal sorriso complice che stava mandando, doveva aver pronunciato qualcosa di importante.
“E non potrai saperlo, è morta” aveva risposto Drew, “Però sicuramente avrebbe trovato la tua risposta, lei le trovava sempre” aveva dichiarato.
Perché era brillante, intelligente e caparbia.
“Insisto: io non posso saperlo! Indipendentemente che io possa un giorno scoprirlo” aveva dichiarato nuovamente Ipazia.
“Be, fidati, sarebbe stato vero …” aveva detto lui, sconsolato.
Ipazia aveva sorriso, proprio un bel sorriso soddisfatto.
“Oh!” aveva esclamato lui, schiudendo le labbra, “Me lo hai chiesto perché anche se non conosciamo una cosa non implica che questa non solo non sia vera ma che non sia già successa” aveva proposto.
“Esatto. Come dice Huxley: I fatti non cessano di esistere solo perché sono ignorati” aveva esclamato Ipazia soddisfatta, prima di parlare: “Inoltre?” lo aveva invitato.

“Inoltre?” aveva provato Drew.
Ipazia aveva sollevato una mano per invitarlo, come se nel suo palmo ci fosse tutta la conoscenza del mondo. “Si, applica anche ai problemi” aveva concesso Drew.
Ipazia lo stava guardando con la stessa espressione soddisfatta e compiaciuta della sua matrigna la prima volta che Drusilla era tornata soddisfatta dopo aver vinto una corsa di bighe, Drew l’aveva seguita con le gambe di cera molle – letteralmente – ancora sbattuto.
“So di avere un problema” aveva ammesso alla fine il figlio di Cura, ne aveva parecchi di problemi.
Sua sorella. La vendetta. La spada.
“Certo che hai un problema. Ma quale?” aveva chiesto con gentilezza Ipazia.
Drew aveva schiuso le labbra.
Ho lasciato casa mia.
Mia sorella è morta.
Ho una spada che mi avvelena la mente.
Non ho un posto da chiamare via.
Mia sorella è morta.
Sono un fallimento.
Sono debole e strano.

“Mia sorella è morta” aveva risposto esausto. Ipazia aveva annuito, “Ti manca molto” non era una domanda.
“Lei era la parte migliore di me” aveva ammesso Drew, la donna aveva scosso il capo, “Che sciocchezza. Posso concordare con ciò che diceva Platone che gli esseri umani sono incompleti, ma non ho mai creduto che nessun’altra persona potesse essere il nostro complementare. Nessuno è la tua altra parte, figurarsi una migliore” aveva dichiarato Ipazia con calma.
Drew aveva sorriso mesto, “Però mi manca lo stesso” aveva detto. “Il fatto che non sia la parte migliore di te, non vuol dire che tu l’amassi meno” aveva chiarito Ipazia, “Questo luogo è una piccola stanzina del Museo di Alessandria, mio padre ne era il rettore, o almeno è la sua ombra, e io venivo a studiare qui, con mio fratello Epifanio – lo so, non lo hai mai sentito nominare – lui aveva per me questa venerazione” la donna aveva fatto una pausa.
“Ha vissuto tutta la sua vita nella mia ombra ed anche dopo la mia morte non ha mai avuto il coraggio di uscirne mai fuori, però era bravo, intelligente e passionale, non sto dicendo che dovesse diventare l’uomo più famoso del suo tempo, specie dopo la mia finaccia, ma speravo che riuscisse a vivere, almeno per se stesso” aveva dichiarato la donna.

Ipazia gli stava dicendo di lasciare il ricordo di Drusilla alle spalle?

“Non sapevo avesse un fratello, sì” aveva concordato Drew perché non sapeva cosa dire, Ipazia aveva annuito, “Nel film non c’era” aveva aggiunto lui.
Lei aveva sollevato un sopracciglio, “Si, ehm, a proposito di quello. Molto bello, credo mi abbiano fatto più intelligente di quanto non fossi[6] e … tra me e te, mi sarei fatta tranquillamente Max Minghella e Oscar Isaac!” aveva dichiarato sfacciata.
Drew era scoppiato a ridere, inaspettatamente.
Decisamente diversa da Minerva, doveva dire.
“Hai una risata molto bella Druso Reed, musicale, io non ne priverei il mondo” aveva dichiarato la donna, quasi materna.
Era la seconda volta in un pomeriggio che rideva così spensieratamente.


Poi erano rimasti in silenzio, a fissarsi, l’uno verso l’altro.
“Io … ehm … ho passato il test?” aveva chiesto poi Drew.
“Non lo so, lo hai passato?” aveva chiesto di rimando Ipazia, giocherellando con le dita su un ginocchio, con un sorriso soddisfatto da gatto del Cheshire.
Drew si era morso un labbro.
Anche quello pareva l’ennesimo test.
“Si” aveva risposto.
“Oh, be, chi sono io per contradire un giovane semidio che ha affrontato impervie angustie per raggiungere il suo premio” aveva dichiarato orgogliosa.
Drew ebbe l’impressione che Ipazia non stesse facendo riferimento al bagno infuocato a cui si era sottoposto, così come il premio non fosse l’Astrolabio.
Solo un altro intoppo. Solo un’altra tappa nel lungo viaggio.
“Ricordati Druso Reed, l’Astrolabium Ueritatis non è la Bussola di Jack Sparrow ne Alietrometro di Lyra Linguargentina[7]” aveva cominciato Ipazia.
Okay, Drew era davvero curioso di come lo spettro di una donna morta da più di mille anni, usata come antifurto di un oggetto nel fondo di un lago, da almeno vent’anni fosse così aggiornata sulla cultura nerd.
“Indovino solo una mente tranquilla può utilizzarlo” aveva proposto Drew.
“Oh, per la gloria di Serapide, no! Una mente tranquilla è così noiosa, solo una mente vivace può usarlo, ma razionalmente. Nessun meccanismo magico, nessun: seguo gli impulsi. Solo risolutezza: l’Astrolabio ti condurrà dove vuoi o meglio dove sai di volere” aveva detto calma lei.
Non lo potrai avere se permetterai ai sentimenti di avere ragione sulla mente” aveva decantato Drew, erano le parole che Apollo aveva detto a Carter nel suo sogno.
“Non è mai stato recuperarlo vero, è sempre stato il consiglio per utilizzarlo” aveva soppesato quasi tra sé e sé.
Ipazia aveva un sorriso calmo e sincero, poi aveva detto a Drew, qualcosa che lui stesso non si era aspettato: “Se mi è concesso darti un consiglio Druso Reed, figlio dell’Angoscia, uccidere Bryce Lawrence non ti ridarà tua sorella.”

 

Ipazia era lì e l’attimo dopo gli occhi di Drew era rivolti ad un cielo tinto di rosso e bluette. Stava tramontando il sole, lasciandolo esposto ad una notte fredda.
Il secondo, ancora più rapido pensiero, fu che era tornato di carne, umana carne, perché aveva sentito dolore come di migliaia di aghi infilzati nella sua pelle.
Era steso sulla nuda terra, sull’ansa del lago bollente, si era tirato su a fatica, non lontano dai suoi piedi scintillava dorato l’astrolabio, grande come il piatto di una batteria.
Ma l’unico pensiero di Drew era al suo braccio.
La carne era rossa putrida, gonfia, piena di pus.
Si era ustionato.
Aveva cominciato ad urlare, cercando di trasformare di nuovo l’arto in argilla per … per staccarselo e ricrearne uno nuovo, da convertire in cera.
Oh ma guarda che bel bocconcino, chi se lo aspettava un altro!” aveva sentito ghignare alle sue spalle.
La voce non era rassicurante.
Di Carter non c’era l’ombra.
E non aveva Assetata.
Stercore!

 



[1] Per la disertazione i Romani erano piuttosto creativi, le punizioni andavano dalle vergate, al mangiare solo orzo o anche ad essere costretti a vestirsi come donne, pure la morte. Cioè un po’ a seconda delle circostanze sia della diserzione sia del periodo storico.

[2] A questo punto della narrazione Jason non è più pretore di Roma, lo è Percy tecnicamente, comunque il ruolo starà per essere di Frank e Reyna sta per commettere lo stesso reato di Drew, però il nostro romano sfigato è lontano da Nuova Roma da abbastanza tempo da non avere idea della missione dei Sette e che Jason non è più pretore.

[3] Sono passati un po’ d’anni dalle mie ultime lezioni di Storia Romana Repubblicana (VIVA L’IMPEROOOO) e l’idea di una forma di governo con due pretori, prima di quella con i due consoli, era solo teorizzata, comunque apparteneva ad una fase precedente rispetto la più nota con i due consoli. Giuro è una teoria valida e seria che ha innumerevoli prove e che sicuramente sarebbe interessante da argomentare, Riordan comunque, con la divisione del potere militare nei due pretori (ho sempre pensato che questa divisione fosse solo per i ragazzi, confesso) sembra sostenerla, da lì il discorso di Drew. Oltre questo, Cicerone, riporta ad un certo punto dei suoi duemila scritti che “i fanciulli imparano il greco come un tempo facevano con l’etrusco” (semicit.-) intendendo che un tempo non si guardava alle “molli arti” greche ma a quelle etrusche (se poi pensiamo che tre dei sette re di Roma erano etruschi, si ipotizza che sia esistita una “dominazione” etrusca nell’ultimo periodo monarchico romano, ma questa è un’altra storia), che erano un popolo carino-carino con usi molto simpatici.

[4] In realtà è 158° F, circa. Non so mi piaceva che Drew usasse i gradi C, però poi ricorda che Carter è americano.

[5] Astrolabio della Verità, ho preferito usare il latino che il greco (nonostante Ipazia parlasse greco) perché A) so il latino e non il greco, B) Tecnicamente Ipazia è vissuta tra la fine del 300/inizio 400 ovvero nel momento in cui i due imperi si erano divisi (o poco prima) quindi il latino poteva essere ancora la prima lingua dell’impero.
Inoltre, ho utilizzato la parola Ueritatis al posto di Veritatis, perché il simbolo V è stato inventato circa nel rinascimento, ora la cosa non ha senso perché Ipazia sta parlando in inglese, però, nel senso, ho preferito darla la pronuncia Restituita che la pronuncia Scolastica perché Ipazia è donna di cultura (E perché a me piace di più *lalala*). Insomma, beghe a caso.

[6] Il film a cui faccio riferimento è Agora (vedetelo pls); ad un certo punto fa un volo pindarico bello peso su Ipazia e sul modello solare e l’orbita ellittica, che non ha fatti storici a supportarlo. Comunque, se non ricordo male gli autori lo hanno fatto con “consapevolezza” per tirare una certa frecciatina, credo.

[7] La Bussola di Jack Sparrow (Pirati dei Caraibi) indicava ciò che si desiderava di più, mentre Alietrometro di Lyra (His dark materials) rispondeva a tutte le domande. Si, il mio Astrolabio di Leone (che in realtà sarebbe di Ipazia lol) è chiaramente ispirato a questi due oggetti ma … ecco, non è un oggetto così di ‘pancia’ nella mia ottica.

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Capitolo 32
*** Una mela al giorno toglie il medico di torno, ma non i problemi, anzi di quelli te né da molti (parola di Eva, Atalanta e Biancaneve)[Champ II] ***


Bene ma non benissimo, sono contenta di essere riuscita ad aggiornare in tempi umani. Chiaramente non sarà possibile per la prossima volta. Mi aspettano due mesi di fuoco e non credo avrò tempo per scrivere. Sigh-Sigh.
Vi lascio un capitolo dall’apparenza “vuoto”, giuro sembra, ma in realtà ci sono disseminate un paio di notizie importanti.
Solo per rompere un secondo la narrazione dei filoni July-Carter che dovrebbero ricominciare alternandosi dal prossimo capitolo (con Bells-Grace-July-Carter; ma potrebbe cambiare) e quindi per un po’ lasciamo in stand-by il gruppo più nutrito che ha avuto praticamente tutta la trama di fila da 24 a 28. Ma giustamente avevo le cacciatrici in ballo e da qualche parte dovevo metterle.
Oltre questo, vorrei che durante la lettura del capitolo, voi ricordaste che le cacciatrici sfigate stanno cercando tre giovani donne e che una di queste è stata riconosciuta in Heather (guess who saranno le altre due?).
Vorrei ringraziare chi segue/ricorda/preferisce/legge e Edoardo811 che si prende la briga di recensire.
Detto questa buona lettura.
RLandH
Ps_ Vi lascio un’immagine qui, di una certa scena di questo capitolo:

https://www.deviantart.com/rlandh/art/Lilith-The-Dark-Maiden-890545954

 



IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

 

 

 

 Una mela al giorno toglie il medico di torno, ma non i problemi, anzi di quelli te né da molti (parola di Eva, Atalanta e Biancaneve)

Champ II

 

Lauren Odalisque era una figlia di Afrodite, qualcuno con cui usualmente Champ non aveva molto a che fare, ma le piaceva.
I figli della dea dell’amore erano, letteralmente, i loro nemici naturali, inoltre, Champ era una figlia di Efesto, il marito becco. Però, ecco si, Lauren era piacevole ed era anche sorprendentemente capace di chetare il piccolo veggente.
Solo che non aveva spiccicato molte altre parole all’infuori delle gentilezze rivolte al ragazzino – meglio, perché Champ non aveva idea di come si trattassero i dodicenni maschi.

Lauren aveva sospirato, pesantemente, i suoi occhi erano scuri ed ombrosi, screziati di rosso e lucidi per un pianto che a malapena riusciva a contenere. Champ la capiva, una delle sue amiche era morta, o almeno così le era parso, e l’altra aveva deciso di unirsi alle cacciatrici.
La figlia di Afrodite aveva cercato di far ragionare Emma sul fatto che la sua decisione fosse stata presa troppo di getto, troppo recente dalla morte di Joe, che ci fosse bisogno di tempo. Che Lauren avesse bisogno di lei.
La figlia di Ares non aveva voluto saperne niente.
Champ era tendenzialmente d’accordo con Lauren, essere Cacciatrice di Artemide era un impegno, per la vita – per la vita eterna. Non poteva essere preso così di getto, in uno stato d’animo così … confuso.
La divina Artemide non apprezzava molto chi non era seria, poteva capitare di dover lasciare, di cambiare idea, ma era raro.
Aveva avuto un moto d’angoscia a pensare ad Em e Joe. Le uniche due sorelle reiette – se così poteva definirle – con cui era rimasta in contatto.
Quando si diventava cacciatrice, si moriva cacciatrice.
Non era solo un giuramento, non era solo uno stile di vita, era una promessa. Plasmava la tua vita, il tuo corpo anche, la tua identità.
Nella sua esistenza era stata la Ashley di Beth e la Champ di Artemide.
“Comunque, Lauren, fino a che non fa il giuramento alla Divina o a Thalia, la tua amica può ancora tornare indietro” aveva provato ad aggiustare la situazione lei.
Non era brava a consolare le persone.
Aveva picchiettato con le dita il volante, aveva lasciato la sua bambina a Jeha e la loro nuova accolita, avrebbe recuperato tutte e tre una volta sistemati Lauren e Marlo.
Avrebbe tato voluto non curarsi di loro, ma una parte del giuramento che aveva fatto ad Artemide aveva previsto che avrebbe aiutato chi ne aveva bisogno – figurarsi un veggente, in un clima così stretto come quello in cui vivevano.
C’era anche da considerare che Jeha non si sarebbe portata in una missione mortale una sconosciuta, avrebbe dovuto riconsegnare Emma a Thalia.
In quel momento non erano neanche certe che ambedue fossero ancora Cacciatrici, se ci rifletteva un po’ Champ.
Formalmente Jeha era il sottotenente, ma aveva abbandonato la posizione ed il campo di sua scelta. Senza ordine o permesso di Thalia. Champ aveva seguito Jeha perché … era la sua compagna di battaglia. Ed era la sua migliore amica.
Tutte le cacciatrici erano sue sorelle, ma Jeha era anche sua amica.
Lauren aveva provato a sorriderle, grata, ma la curva dolce delle labbra non aveva raggiunto gli occhi lucidi.

Lei aveva provato a sorriderle incoraggiante, di risposta, prima di portare di nuovo gli occhi sulla strada. Champ se ci rifletteva bene non credeva che Thalia avesse il dono di revocare l’immortalità, ma se le loro consorelle avessero riferito la defezione ad Artemide …
“Emma non cambierà idea” aveva dichiarato Lauren pacata, “Da quando ha dodici anni vuole divenire una cacciatrice di Artemide” aveva raccontato, “Siete venute al Campo, con Apollo, Percy Jackson e … il figlio di Ade, lo, ricordi?” aveva chiesto poi la figlia di Afrodite.
Champ si era morsa le labbra.
“Si” aveva ponderato. Avevano da poco assunto tra loro Bianca DiAngelo, una ragazzina, con gli occhi ancora freschi del mondo, con un fratellino collerico con lei per quella scelta – e che era morta di lì a poco, in missione – assieme a Zoe, che per Champ era stata una guida, una sorella, una compagna.
Faceva male pensarci.
E poi avevano avuto Thalia.
Champ non aveva nulla di personale contro la loro Luogotenente, anzi Thalia come persona le piaceva proprio. Era dinamica, divertente, molto intelligente – aveva delle idee stuzzicanti in certe cacce da far impallidire Marin e Luminosa, le loro strateghe – aveva anche ottimi gusti musicali, la battuta mordace, riusciva a far impazzire mamma-Chantico.
Era potente, ovviamente, quello pesava moltissimo. Una volta Champ l’aveva vista scagliare un fulmine come una freccia, qualcosa di magistrale, se ci pensava.
Solo che Thalia era … giovane.
Avevano cercato di reclutarla anni prima, quando aveva dodici anni, perché l’avevano visto tutte il potenziale ed era stato pienamente soddisfatto, solo che era una sconosciuta.
Era una potente figlia di Zeus, che avevano conosciuto prima e che aveva accompagnato Zoe in missione, ma era assurdo che Artemide avesse dato il ruolo di Luogotenente a lei.
Phoebe era nelle cacciatrici da prima della guerra del Peloponneso.
Svettavano ancora le Aquile di Roma quando Cunegonda aveva giurato.
Leif Erikson non era aggiunto in America quando Hivitia era stata accolta tra loro.
Le più giovane di loro – prima di Bianca e Thalia – erano state Hunter e Marin, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta.
Il Luogotenente era la persona in cui loro avevano più fiducia dopo Artemide, la persona attorno a cui raccogliersi quando avevano dubbi.
Mettere in discussione Thalia era mettere in discussione Artemide e Champ si fidava della sua Signora, per questo aveva inghiottito il rospo, la loro Luogotenente si era anche dimostrata capace, però … aveva notato una certa insofferenza di alcune sua compagne, in primis Jeha che era stata investita della carica di sottotenente da Zoe, nel milleseicento, dopo che Phoebe aveva svestito volentieri i panni.
Sarebbe dovuto toccare a e lei.
A svegliarla dai suoi cattivi pensieri ci aveva pensato la sua compagna di viaggio.

“Sì, abbiamo fatto Caccia alla Bandiera” si era ricordata Champ; “Per la prima volta, abbiamo giocato anche noi, ai miei fratelli non piace moltissimo giocarci, a me sì, dopo quella ho sempre partecipato. Quella è stata la mia prima caccia, Silena ci teneva tantissimo. Me la ricordo ancora, era abbastanza ridicola con l’armatura che le stava grande e quel cipiglio” Lauren aveva fatto una pausa, sorrideva, ma la sua allegria era stata sporcata da qualcos’altro.
Tristezza e nostalgia.
“Abbiamo vinto noi” aveva valutato la cacciatrice, “E quei due figli di Ermes hanno avvelenato Phoebe” aveva aggiunto senza cattiveria. “Sì, decisamente una cosa da Travis e Connor. Non sono cattivi, sul serio, solo che ogni tanto …” aveva provato la figlia di Afrodite.
“Da quella volta, ogni volta che siamo state al campo è sempre stato solo per battaglie e guerre. Se Leo e gli altri riusciranno a salvare il mondo, la prossima volta potremmo tornare per darvi la rivincita” aveva fantasticato Champ. “Oh! Sarebbe fantastico!” aveva esclamato Lauren, rinnovata di nuova gioia, dedicandole un bel sorriso pieno.
Si vedeva al cento per cento la sua natura afrodisiaca. Rispetto a tante sue sorelle che aveva visto sembrava un po’ più naturale, più pudico, ma era solo apparenza; Lauren aveva un viso dalla forma di cuore, perfetto, una pelle liscia come una pesca di una tonalità chiara da sembrare nobiliare ma non smorta, i capelli erano ordinati, dritti come spade, di color castagno, che Champ nel corso della sua lunga vita aveva visto solo grazie a delle tinture, ma in Lauren pareva naturale.
Poi, ovviamente, Champ aveva fatto un giuramento ed un voto, niente più amore – o sesso – né con gli uomini, né con le donne, ma doveva ammettere che il viso dolce di Lauren figlia di Afrodite sembrava fatto a posta per tendere un’imboscata.

“Be, sì, dicevo, Emma voleva unirsi a voi già da quel momento, ma si era presa questa gigantesca cotta per Joe, che era arrivata al campo proprio qualche mese prima” aveva ripreso Lauren, ancora una volta la gioia nella sua voce si era affievolita.
“Eravate molto amiche” quella di Champ non era stata una domanda.
“Con Emma? Sì! Quando avevo dodici anni avevo questa cotta pazzesca per suo fratello Mark, così stavo sempre in intorno alla casa di Ares e siamo diventate amiche. Con Joe è stato, be … a Emma piaceva tantissimo … quindi cercavamo ogni scusa per farla uscire con noi, poi mia sorella ha cominciato ad uscire con Beckendorf, che era il fratello di Joe …” aveva fatto una pausa.
Champ sapeva chi fosse Beckendorf … Charles Beckendorf, era un mezzosangue figlio di Efesto, come lei, un suo fratello, morto eroicamente.
E Joe era sua sorella.
Lauren si era asciugata di ogni allegrezza ancora una volta.
Joe era morta. Beckendorf era morto. La fidanzata di Charles, che era la sorella di Lauren, era morta.
“A volte mi dispiace essermi persa il campo …” aveva dichiarato Champ, incerta delle sue stesse parole.


“Carter voleva portarmi al Campo” aveva dichiarato Marlo, attirando la loro attenzione, era stato fino a quel momento accomodato sui sedili posteriori della macchina, silenzioso come un gatto.
Champ aveva deglutito, non aveva ben capito che dinamica aveva avuto quel piccolo veggente ed il fratellastro che lo aveva abbandonato a Lauren, per andare a salvare un altro membro della famiglia dispersa.
La cacciatrice aveva realizzato di non aver mai avuto un rapporto stretto con i suoi fratellastri, per alcuni aveva provato empatia nel corso dei secoli, ma era diventata un’accolita di Artemide ancora prima di riuscire a comprendere per bene chi o cosa fosse, in quel momento pensava di ricordare solamente di Leo Valdez, l’amico del fratello di Thalia, che era un peperino, un po’ molesto ed aveva il Fuoco come lei, Charles Beckendorf l’eroe e Jake Mason, il corrente capo-casa che dopo la battaglia di Manhattan le aveva regalato una moka super tecnologica per il caffè, con la scusa che Charles aveva voluto lasciare qualcosa ad ogni suo fratello – e i suoi fratellastri avevano incluso anche lei.
Sebbene fosse un’estranea.
Le guance bianche di Lauren si erano tinte di un rosso pallido, “Ci andrai, ci andremo” aveva dichiarato la figlia di Afrodite poi, chinando gli occhi nocciola verso Marlo, “Non appena la minaccia Gea sarà sistemata. Il campo è un luogo sicuro, arrivarci un po’ meno” aveva detto evasiva Lauren.
Il campo era teoricamente un posto sicuro.
Ma avrebbe retto ai Romani? Ai Giganti? E madre Gea?

“Ci andrai, conoscerai i tuoi fratellastri. La casa di Apollo è un posto molto allegro, ti troverai bene. Will ti insegnerà tutto sulle arti mediche, Austin a cantare e suonare, Kayla con l’arco. C’è anche Rupert che è bravo quasi quanto lo era Miche… che è bravissimo con le maledizioni. Una volta hanno fatto parlare mia sorella Drew a rime incatenate per due settimane – anche se è meglio non farla arrabbiate.
 Oh, e ovviamente, anche, Heather … lei, sa tirare di spada molto bene ed è la migliore nelle arrampicate” aveva detto subito Lauren, “Poi il campo è davvero un bel posto. Si educano i futuri eroi sì, ma è anche divertente. Si fanno un sacco di attività piacevoli, un po’ pericolose ogni tanto, ma interessanti. La mia preferita è sicuramente la corsa con l’auriga – anche se giocare contro i figli di Efesto può essere letale. Pensa che una volta … Joe, sì Joe … aveva progettato questa lancia rotante che spuntava ogni volta che ti avvicinavi a meno di un metro e mezzo, per incastrarsi nelle ruote e prendere fuoco. Ho avuto bruciature e vesciche sui piedi per due settimane” aveva raccontato divertita.
Si stava sforzando di apparire più che mai allegra per non turbare l’umore del ragazzino.
“Oh, perché noi hai visto me” aveva ghignato Champ tenendole il gioco, “Anche se ero meglio nella giostra” aveva spiegato.
Avevano continuato con chiacchiere leggere per tenere il ragazzino di buon umore e distratto.
Champ sorrideva nel vederlo, non credeva di aver mai veduto prima di allora un ragazzino di dodici anni che lo sembrasse per davvero, tra i mezzosangue, come i mortali odierni.
Anche ai tempi di Champ a dodici anni i bambini venivano trattati come uomini, quasi, pensava con tristezza al piccolo Re tanto atteso, che era costato tanto dolore a Beth e Mary, morto, poi troppo giovane.
Una vita misera inghiottita dalla storia, niente di più che un nome in un libro.
Molto di più di ciò che avrebbe avuto Alyson Champerwne.
Sorrise a Marlo attraverso lo specchio retrovisore.

“Posso unirmi alle cacciatrici, invece?” l’aveva stupito il ragazzino. Lauren aveva scosso il capo, mentre Alyson aveva avuto un mancamento, “No, si, ecco, noi siamo le cacciatrici, niente maschietti” aveva dichiarato.
“Mai?” aveva chiesto Marlo.
“Oh, be, ci sono stati due uomini, prima che mi unissi io, con uno non è finita molto bene, per niente! Con l’altro meglio, però loro sono eccezioni[1], ecco, poi c’è quella faccenda con Phillis, ma lì era una situazione diversa, complicata, anche la Divina Artemide aveva i suoi dubbi – ma poi Phillis ha conosciuto George[2] … e sto divagando. Comunque, sì, è successo, ma, deve essere la Signora a deciderlo ed è difficile” aveva dichiarato.
Scommetteva che se Percy Jackson l’avesse chiesto, la divina Artemide avrebbe acconsentito.
“Allora posso diventare una cacciatrice di Artemide!” aveva dichiarato Marlo con un sorriso trionfale.
Lauren lo aveva guardato immediatamente, “No! No! Ci sono un sacco di controindicazione” aveva cominciato a parlare la figlia di Afrodite.
Se normalmente Champ sarebbe intervenuta, in tale occasione, aveva lasciato fare a Lauren il suo proselitismo.

 

 

 

 

Champ aveva arrestato la macchina davanti un bel cancello di metallo dipinto d’oro, che univa una cancellata di ferro lucente.
Alle sue spalle, prigioniero di un quadrato, imponente, di barre, appariva un giardino perfettamente curato su cui appariva una villa di dimensioni notevoli.
“Che posto è questo?” aveva chiesto Lauren, mentre Champ scivolava fuori dalla macchina.
Sul cancello, svettava un nome, scritto in lettere latine.
C I B E L E.
“Il posto sicuro più vicino. Avrei preferito andare ad Indianopolis[3] … ma dovremmo accontentarci” aveva dichiarato Champ.
Lauren l’aveva seguita con titubanza. Marlo era saltato giù dal sedile posteriore con più enfasi, ma la sua impressione cristallina si era imbrunita l’attimo dopo, come se un cattivo pensiero le si fosse annodato nella testa.
“Tutto bene, passerotto?” aveva chiesto subito Lauren, “Ci sono … cose oscure lì dentro” aveva stabilito Marlo con voce greve che mal si abbinava al suo aspetto così spensierato, “Può darsi, la Grande Madre Idea è una dea buona, ma ogni tanto si diletta in artefici che non sempre la gente comprende” aveva cercato di minimizzare Champ.
“Più oscure di Flegias” aveva dichiarato Marlo, rivolto a Lauren.
Champ aveva guardato la figlia di Afrodite in cerca di spiegazione, quella aveva risposto all’occhiata con un viso cereo. “Uno spettro semi-immateriale in cerca di vendetta, con un remo al limite del demoniaco” aveva riassunto la questione.
“State tranquilli, chiunque chieda il permesso di entrare è protetto al Cibele, anche dagli altri ospiti” aveva dichiarato Champ, prima di appropinquarsi al cancello.
“Se non viene concesso il permesso?” aveva domandato Lauren; “Non credo sia mai successo” aveva risposto con leggerezza Champ, “L’importante è che non si provi ad entrare di straforo” aveva chiarito.
Una delle poche regole di Madre Idea.
Marlo aveva guardato il cancello della C.I.B.E.L.E. come se fosse stato di fuoco rovente e alle sue spalle si fosse aperto il tartaro nei suoi pertugi più bui.

Dopo aver suonato, ci erano voluti una buona manciata di minuti, che avevano speso con Lauren cercare di apparire quanto più materna possibile, cercando di calmare un tremolio fastidioso che si era andato a creare nel piccolo veggente.
Poi, era comparso un ragazzo vestito da pinguino, che riconobbe subito in Attis, con la mascella affilata, il naso dritto come una freccia e i capelli neri come l’inchiostro di seppia. Sacerdote della dea Cibele.
A Champ non piacevano gli uomini, né come donna, né come cacciatrice. Per tutta la vita, prima di seguire la Signora, le era stato insegnato a temerli[4], però Attis le piaceva parecchio.
Le sembrava inoffensivo.
Forse perché era il servo devoto di una dea primordiale potentissima o … forse perché era pronto per entrare nel coro delle voci bianche.
“Lady Alyson, come è possibile che pur non invecchiando diventi sempre più brutta?” aveva chiesto sfacciato il sacerdote.
Lauren era sembrata oltraggiata.
“Passo la mia vita a prendere botte in faccia da mostri, tu che scusa hai?” aveva chiesto di rimando, mentre l’altro apriva il cancello, il momento dopo con una sonora risata Champ era stata accolta dalle braccia dell’uomo in un abbraccio veloce e non troppo invasivo, per quanto caloroso.
“Chi sono i tuoi amici?” aveva chiesto subito, notando gli altri due.
“Loro sono Lauren e Marlo, sono due semidei in cerca di rifugio” aveva dichiarato subito Champ.
Marlo continuava a guardare la casa alle loro spalle con occhi sgranati, Lauren aveva sollevato una mano in un saluto timido.
“Oh, benvenuti al C.I.B.E.L.E.! Questo luogo è un rifugio per ogni anima persa” aveva dichiarato Attis.
Marlo era rimasto in silenzio, “La sigla oltre che riferirsi ad una delle molte forme della Grande Madre sta per Centro Incon-” ma il vociare di Attis era stato inghiottito dalla voce squillante del piccolo mezzosangue, che aveva esordito: “C’è qualcosa di oscuro lì dentro!”
Attis aveva assottigliato lo sguardo, irritato di essere stato interrotto, ma poi aveva sorriso tranquillo; “Sì” aveva confermato a Marlo, “Ci sono diverse entità oscure, dentro, ma nessuna di esse ti infastidirà. Le regole del C.I.B.E.L.E. sono ferree” aveva dichiarato con tranquillità il sacerdote, aprendo poi la cancellata, “Comunque, Alyson cara, entra con la macchina se non vuoi che la rimorchino. Questo è un passo carrabile” aveva aggiunto.

 

“Ma che è successo qui?” era stata la genuina domanda che era sorta in Champ, quando aveva osservato che la hall del C.I.B.E.L.E. di solito animata dagli ospiti che andavano e veniva, con allegrezza sul viso e risate vivace, era animato da facce lugubre e riadattato come un campo medico.
“Oh, nulla di così eclatante, abbiamo avuto un alterco con la Signora Gea … In realtà prima con il Regno di Sciro, ma poi abbiamo fatto causa comune contro Gea” aveva dichiarato Attis, accompagnando il gesto con un movimento della mano, come se fosse una piccolezza.
Champ aveva preso un respiro profondo.
Grande Madre Idea era una delle dee più antiche che avesse abitato quel mondo, esisteva imperitura da millenni, non era antica come Gea, no, ma era vecchia, ed era potente, non credeva che la dea della terra avrebbe stuzzicato una nemica così forte così presto.
Prima ancora di essersi sbarazzata dei nemici che riteneva inferiori.
Un barbaro stava scappando piuttosto adirato dalle cure invadenti di una driade, nonostante avesse un viso tumefatto ed una camminata claudicante.
“Oh!” aveva esclamato solamente Lauren, con le labbra schiuse in un ovale perfetto, mentre stringeva le dita attorno alle spalle di Marlo, quasi timorosa di perderlo in quel caos.

Un ragazzo era corso verso di loro, aveva tra le mani una cesta piena di saponette, sali da bagno e asciugami. “Ei Attis!” lo sconosciuto aveva chiamato a gran voce il loro accompagnatore.
Champ aveva osservato il ragazzo, anche lui sembrava sfoggiare i resti dello scontro, in ammaccature violacee sul viso e gonfiore, aveva una mano bendata, però rispetto ad altra gente pareva stare piuttosto bene. Doveva essere sulla ventina, con i capelli biondo-castano, gli occhi nocciola ed efelidi castane a tormentare una pelle scottata dal sole.
La cacciatrice non era mai stata un’estimatrice di bellezze maschile, né prima della caccia né dopo – cosa che era assolutamente proibita – però doveva riconoscere una genuina bellezza.
“Oh, signor Phoenix, possiamo rimandare a dopo? Starei scortando nuovi ospiti!” aveva dichiarato Attis calmo, “Ci metto un secondo! Stiamo partendo, praticamente Bernie ha già le chiavi nel cruscotto. Posso prendere queste cose, si? Non prevedo molte dolce da qui ad Atlantic City!” non si era dato per vinto il ragazzo, senza arretrare di un passo.
Era un guerriero. Aveva spalle ampie, bicipiti imponenti e l’abitudine a non retrocedere mai. Dopo anni Champ aveva imparato a riconoscerli, i guerrieri.
“Si, certo!” lo aveva congedato Attis alla svelta, circumnavigandolo.
Il Signor Phoenix aveva chinato il capo, come segno di rispetto quando loro erano passate, con un sorriso bello felice per la piccola vittoria ottenuta. Lauren lo aveva osservato con un certo interesse, anche il signor Phoenix aveva fatto una pausa per gustarsi con lo sguardo la figlia di Afrodite.  “Pensavo che le figlie di Afrodite fossero più audaci nel flirtare?” l’aveva richiamata bonariamente Champ. La figlia di Afrodite era avvampata di un rosso balaustium.  “Pensavo che le Cacciatrici di Artemide, abborrissero la parola flirtare?” le aveva risposto, sempre in tono bonario Lauren, “Non quando dobbiamo ridere di qualcuno” le aveva risposto.

“Dopo la battaglia, qui la situazione è molto caotica, c’è chi, arriva, chi va!” aveva dichiarato Attis, nonostante stesse parlando di una battaglia, il suo tono era abbastanza leggero.
Voleva dire poche perdite.
Voleva dire vittoria – o di rimando sarebbe stati già tutto morti. “Chi ha mandato Gea contro di voi?” aveva chiesto titubante Champ, “Oh, Troilo, quel povero ragazzo, e Niobe, te la ricordi, si?” aveva chiesto Attis, aveva un sorriso strano sulla faccia, uno sfacciato e provocante.
Champ aveva fatto schioccare le labbra, “Non mi dice niente” aveva mentito.
“I suoi figli sono stati uccisi da Artemide ed Apollo” era intervenuta Lauren, con voce spenta, mentre seguivano Attis lungo la scala padronale, al centro dell’androne, verso i piani superiori.

Il sacerdote gli aveva guidati lungo un corridoio, un altro e così via, ad un certo punto il vociare concitato delle persone era stato sostituito da suoni sempre più radi, fino a ritrovarsi a camminare in un corridoio piuttosto silenzioso.
Attis aveva aperto le due ante di una porta bianca, offrendo la visione di un salottino, su cui un latto spiccava una finestra ottagonale che dava su una terrazza.
Se non avesse fatto così freddo, sarebbe probabilmente stata aperta per prendere il sole.
Champ aveva cominciato a studiare gli ospiti che vi erano, non tantissimi, alla ricerca della luminosa Dea.
Lauren però l’aveva stupita.
“Jake!” aveva dichiarato quella, superandola, Champ l’aveva vista sfilare verso delle ottomane imbottite, con una decorazione pacchiana a fiori, dove un ghoul … un ghoul?  Stava giocando con dei fili con una ragazza molto incinta.
“Jacob Evandor?” aveva riprovato la figlia di Afrodite.
Il ghoul – Champ era diventata brava a riconoscerli – aveva sollevato lo sguardo, aggrottando le sopracciglia scure. “Laura?” aveva chiesto confuso.
“Lauren” lo aveva corretto la semidea, “Lauren Odalisque”.
Jake si era sollevato, pieno di disagio.
“Oh vi conoscete?” aveva chiesto subito Attis, raggiungendo i tre. La ragazza incinta era rimasta seduta, con il viso tondo, pieno di confusione e curiosità.
Era giovanissima.
Champ aveva imitato il sacerdote e Marlo aveva seguito lei.
“Sì, non ci vedevamo da un paio d’anni” aveva riportato Lauren, grattandosi dietro l’orecchio, con un certo disagio addosso, come se improvvisamente avesse ricordato una cosa fastidiosa.
Ah, non si aspettava Lauren avere conoscenza con i mostri.
“Ehm, sì” aveva concesso Jake, anche lui pregno di disagio, “Da quando, da dopo la storia con la folgore” aveva provato il ghoul, cotto di imbarazzo.
Oh, da quando il famigerato Luke Castellan aveva rubato la Folgore di Zeus? Erano passati … quasi cinque anni!
Cosa c’entrava Lauren con un Ghoul?
Lauren non si era trattenuta da una smorfia, “Ti trovo diverso” aveva valutato cercando di recuperare la compostezza, Champ aveva letto un tentativo di gentilezza nella voce.
Quello aveva riso forzatamente, “Be, sì, i piacevoli inconvenienti di essere morti e risorti” aveva dichiarato quello.
Lauren aveva battuto le palpebre, colta in castagne, “Immagino che prima non fosse un ghoul” era intervenuta Champ, un po’ sulla difensiva.
“Oh, ma non c’è da preoccuparsi, qui, Jakie è un nostro ospite e non tenterà di mangiare nessuno dei presenti” aveva sottolineato Attis.
“Oh, sì è un mostro molto gentile” aveva dichiarato la ragazza incinta, aveva ancora i fili intrecciati alle dita.
Lauren aveva sul viso un’espressione sconvolta, “Come? Quando?” aveva chiesto confusa.
L’altro si era grattato il capo, tra i capelli scuri, “Come molti a Manhattan” aveva dichiarato, “Il come non saprei. Nel senso sono morto combattendo contro Malcom Pace o era Jake Mason? Non riesco a ricordarmelo! Sul perché sono un ghoul … ah, bo, a quanto pare non c’era interesse ad acquisire la mia anima nel dominio dei morti. Non chiedere, non ho idea di che voglia dire” aveva risposto spigliato quello.
Lauren continuava ad essere sconvolta.
“Visto che Jake Mason è mio fratello e so per certo da che parte sta, direi che questo mi dice da che parte eri tu” era intervenuta Champ con un tono rude.
Il ghoul aveva fatto un passo indietro. Lauren doveva averlo ricordato, probabilmente presa dalla gioia di vedere un vecchio amico, doveva aver dimenticato il tradimento.
“Tieni le frecce nella federa, Lady Alyson” l’aveva bonariamente richiamata Attis.
Lauren aveva guardato il mostro, confusa e turbata, dalla sua storia, dalla scioltezza in cui l’aveva racconta e chi sa che altro, aveva boccheggiato un paio di volte ma poi era riuscita a dire qualcosa.
“Ho incontrato Carter Gale” aveva dichiarato.
Jake era rimasto confuso da quell’annuncio, ci aveva messo un momento ad elaborarlo, “Davvero?” aveva chiesto sconvolto.
Molto sconvolto.
“Pari parecchio stupito? Sì, l’America è grande, ma sai come è … ci si ritrova sempre” aveva valutato proprio Lauren.
“Sì, ma c’è una purga specifica contro i figli di Apollo, non so bene perché, ma visto che Carter è uno di quelli che sta sempre da solo, non solo come figlio di Apollo, ma in generale. Un sacco di figurine pittoresche hanno valutato di occuparsi di lui e, ecco, avevo sentito che Flegias e Tizio lo stavano cercando” aveva detto pieno di imbarazzo il mostro.
Lauren aveva ridacchiato, “Ohh! E ci hanno trovato, ma ce ne siamo sbarazzati” aveva trillato soddisfatta.
Jake aveva sorriso, era raccapricciante ma sembrava rincuorato.
Il quadretto era stato interrotto da Marlo, si era rivolto alla ragazza incinta, ma lo aveva fatto a voce alta, così anche non volendo erano stati tutti catturati da quelle frasi.
“Non farlo abbeverare dalla fonte di Mnemosine o … potrebbe abbattersi una catastrofe su di noi!” aveva dichiarato il ragazzo, con una mano aveva sfiorato il ventre della giovane donna.
“Non so di cosa stai parlando” aveva detto quella confusa e spaventata, “Che succede al mio bambino? Qualche catastrofe?” aveva chiesto. “Interessante!” era stato il commento di Attis, “Ci hai portato un veggente!” aveva squittito, poi si era accorto dello stato di iperventilazione in cui era scesa la ragazza incinta.
Jake si era seduto accanto a lei, mettendole le mani sulle spalle ed invitandola a respirare piane, con calma, che andava tutto bene.
“Sky, cara, il tuo bambino sta bene! Non ti preoccupare. Hai sentito il veggente, tieni il bambino lontano da fonti d’acqua magiche ed andrà tutto bene, poi con calma ti spiego tutto” aveva detto Attis con tranquillità, poi aveva aggiunto: “Inoltre … il giovane Freyason ti sta cercando, sotto, voleva salutarti prima della grande partenza” era intervenuto subito Attis, facendole l’occhiolino. Sky era diventata rossa come un pomodoro sul viso, ma sembrava essersi calmata.
“Si” aveva sussurrato Champ al suo vecchio amico, “Ti ho portato l’ultimo veggente libero” aveva dichiarato, cercando di dare un tono.
Attis le aveva sorriso con la stessa malizia di un gatto sornione, “Ultimo è una parola piuttosto definitiva, ma apprezzo il pensiero. Immaginavo che la tua, qui, non fosse una visita per compagnia, o per il nostro rinomato buffet o la lezione di Yoga Acrobatico delle quattro” aveva valutato il sacerdote.
“Per quella mi fermo, sempre, lo sai” aveva ghignato Champ, che non voleva farsi cogliere nell’incertezza e dare soddisfazione ad un uomo, mai. “Lo so, Artemide ci ha fatto anche un’ottima recensione su Divinyelp[5]!” aveva dichiarato soddisfatto Attis, “Anche se ricordo sempre, noi non siamo un’attività commerciale, siamo un rifugio” la seconda parte l’aveva detto guardando Lauren, con un tono da vero P.R., di rimando la figlia di Afrodite era del tutto concentrata sul ragazzino e sulla donna di nome Sky.

Dopo la scoperta di Attis dell’esistenza di Marlo il veggente, erano stati finalmente ricevuti dalla Signora della Villa.
Champ provava sempre un senso di estraniazione e confusione, quando vedeva Grande Madre Idea.
Il suo viso era sempre bianco come il piombo e i capelli erano d’oro infuocato, era Beth, nello splendore del suo regno. La sua regina d’oro.
Ma aveva il cipiglio sicuro e forte di sua zia Kate Ashley, ma aveva quel portamento vigoroso e gli occhi intriganti della Regina Anne[6] – una delle matrigne di Beth che Alyson aveva amato di più.
Gli occhi però erano dello stesso colore rame della Signora della Natura.
Era sempre uno spettacolo Grande Madre Idea.
Lauren era stato del suo stesso avviso, aveva schiuso le labbra, “Sile-Mam… professoressa Ulrich?” aveva boccheggiato alla fine.
“Nessuna delle tre, temo, ma è un piacere essere scambiata per la divina Artemide – spero non si arrabbi per questo” aveva canticchiato la dea. Champ aveva spiegato per sommi capi come funzionasse l’aspetto della dea, come mutasse agli occhi di ogni persona.
“Come sapeva chi era mia madre?” aveva chiesto Lauren, “Oh, ragazzina, perché sei sinceramente la ragazza più bella in tutta la villa” aveva dichiarato la dea senza indugio.
Marlo, in mezzo a loro non aveva fatto un fiato. Grande Madre Idea aveva sorriso verso di lui, “E tu cosa vedi?” aveva chiesto la dea al ragazzino, Quello aveva inclinato il capo, come un cane, “Niente. La sua faccia, signora dea, è levigata come la pietra” aveva dichiarato, “Riconosco un po’ di naso, come nelle statue corrose dal tempo … e la sua pelle è di un colore str…” ma era stato interrotto dalla stessa Grande Madre Idea.
“Oh grande Giove! Che occhio!” aveva dichiarato quella, “Sì, ebbene sì, in realtà non ho una faccia, così che tutti possano vedere quella che da loro … be, l’idea di una madre” aveva dichiarato. “Ma io sono la Grande Madre non posso essere una grande madre, ma devo esserle tutte[7]” aveva aggiunto teatrale.
“Direi che ha senso” aveva dichiarato Lauren.
Grande Madre Idea aveva sorriso, “Non sono più una giovinetta, eh no, ho i miei millenni alle spalle, però devo dire che conto sulle dita delle mani tutte le creature che mi hanno saputo guardare in faccia” aveva rivelato.
Champ aveva sospirato, “Questo spiega perché sono qui. Marlo è un veggente, uno fortemente dotato, lo ho trovato alla Fontana da Manto e Ermafrodito, Lauren – la figlia di Afrodite aveva alzato una mano – voleva portarlo al campo, sicuramente un posto sicuro, ma di questi tempi …” aveva fatto cadere la frase lì.
“Di questi tempi non è così sicuro. Eroi scompaiono, serpeggia il caso, eserciti si avvicinano e arrabbiatissime signore che fanno sentire anche me una scolaretta si ridestano, lo so” le era andato incontro Grande Madre Idea.
“Quindi, sì, sono venuta qui in cerca di asilo per Marlo, l’ultimo veggente libero” aveva ripetuto Champ.
“Come potrei dire di no ad un faccino così carino?” aveva replicato la dea millenaria.
Champ non era stupita da quella reazione, ma giudicando l’espressione che aveva dipinto sul viso Lauren la sua compagna molto di più.
“Tu invece sei una nuova adepta delle cacciatrici?” aveva chiesto Grande Madre Idea.
“Oh no, io, ecco, pensavo di tornare al campo. Se ci sarà una grande battaglia vorrò essere lì” aveva confidato Lauren, bruciante di fierezza, aveva, comunque, guardato amareggiata Marlo, non entusiasta dell’idea di lasciarlo lì, il ragazzino le aveva sorriso, una piccola bozza, voleva incoraggiarla lui.
“Oh, be, da qui al campo, la strada è lunga e pericolosa. Resta al C.I.B.E.L.E. a breve avrò una delegazione da mandare al campo, devo consegnare un gingillo a Chirone, così viaggerai più sicura” le aveva detto la Grande Madre, accarezzandole il viso.
“Davvero?” aveva chiesto confusa lei, ma Champ poteva vedere la gioia serpeggiare in lei.
“Ma sì, è solo questione di capire cosa voglia fare la nostra giovane Sky. Le ho detto che può rimanere qui tutto il tempo che vuole, ma l’idea del Campo Mezzosangue la ha fatta splendere molto” aveva valutato la dea.
… parlava della ragazza incinta, sì.
Marlo aveva attirato l’attenzione della Dea, con molta gentilezza, era sicuramente il ragazzino più educato del mondo, certo anche a Champ continuava a disorientare il suo aspetto così bambinesco.
“Perché c’è così tanta oscurità qui?” aveva domandato il ragazzino. Sembrava ossessionato da quello, chi sa se i suoi poteri di preconoscenza gli stavano dicendo qualcosa.
Grande Madre Idea aveva inclinato la testa, facendo oscillare i capelli ramati, “Vediamo … credo perché ci sia la dea Lilith nel settore caldaie, la chiamano la Vergine Oscura per una ragione” aveva dichiarato quella poi.
La notizia aveva impattato Champ come un’onda d’acqua gelida in pieno viso.
“Lilith? Quella Lilith? La dea Babilonese Lilith?” aveva chiesto la cacciatrice con un certo mordente.
La sua … Anne?
“Oh, direi che è più la sua versione cristiana, ma sì, direi che è lei” aveva commentato la Grande Madre Idea.
Una serie di emozioni avevano scombussolato Champ, davvero difficili da comprendere o metabolizzare. Aveva sentito le mani di Lauren sul suo corpo, sorreggerla, evidentemente vittima di un mancamento.
La Grande Madre Idea aveva osservato la scena, assottigliando lo sguardo, “Vuoi parlarle?” aveva chiesto, titubante.
Voleva?
No e sì.
Aveva annuito, piena di incertezza.

Lauren timorosa aveva preso la parola, “Grande Madre Idea, io … so che Chirone ha un telefono nella Casa Grande ed i messaggi di Iris non funzionano più; perciò, mi chiedevo se potessi raggiungere il campo, io ho … delle notizie da dare” aveva detto lugubre la figlia di Afrodite.
La dea maggiore aveva annuito, “Oh, sì. I messaggi hanno perso tutti i loro veicoli. Nessuno sa che fine abbia fatto il dio del silenzio, la dea della fama è stata fatta a pezzi, Ermes è trincerato nell’Olimpo e Iris si è ritirata a vita private – pessimo momento per farlo. Si comunica solo con i sogni, ma come potete capire sono pericolosi e terribilmente trafficati” aveva spiegato la dea.
“Comunque ho il numero di quello stallone in rubrica, ovviamente” aveva aggiunto sfacciata grande Madre Idea, dando una sonora pacca sulla spalla di Lauren, che era arrossita come una prugna.
Mentre un servo accompagnava la semidea nell’ufficio dove sarebbe stato il telefono, il piccolo profeta si era avvicinato alla sua amica ed aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio della figlia di Afrodite.
Lauren si era sollevata, sul viso si era ritratto un’espressione piuttosto … confusa. Aveva gettato un sorriso incerto verso Champ e poi le aveva dato le spalle.
Quando Marlo era tornato da lei, la cacciatrice aveva chiesto cosa avesse detto all’altra.
Il ragazzino aveva sollevato le spalle, “Potrei anche dirlo, ma non so il senso” aveva ammesso poi quello, “Da quando ho fatto quel sogno, prima dello scontro con Flegias non riesco … non riesco più a controllarmi” aveva dichiarato.
Grande Madre Idea aveva scompigliato i suoi capelli biondi, in un gesto materno, “Oh, probabilmente perché raccogli il tuo potere da tuo padre, ma nelle attuali condizioni del Dio e dell’Oracolo di Delphi, immagino sia tutto molto … guasto. Adesso, io e te, andiamo da Josh nell’Adyton della casa. Credo tu abbia solo bisogno di ammaestrare il tuo dono, non esistono infondo solo profezie o sogni divinatori; ne esistono di altri mezzi, pensa che gli etruschi prevedevano il futuro anche solo con il volo degli uccelli” lo aveva rincuorato.

 

A condure Champ nei sotterranei ci aveva pensato la leonina Atalanta, compagnia che Champ apprezzava moltissimo. Un tempo era stata una cacciatrice, ma poi si era sposata ed era diventata una serva della Grande Madre, o almeno questa era la versione breve che Zoe e Phoebe le avevano dato. Però restava ancora una valida amica e godeva ancora delle grazie di Artemide, in qualche maniera.
“Ti trovo bene!” aveva detto Champ, incerta, Atalanta aveva un grosso cerotto che copriva la guancia destra, ma a parte il piccolo quadrato appiccicoso sul viso, sembrava uscita da una SPA che reduce da una battaglia.
“Praticamente è stata una scaramuccia per me. Sono entrata ardente di avere un avversario degno, ma non sono riuscita ad incrociarmi con nessuno di particolarmente dotato, mostri di quart’ordine e germani indisciplinati. Perfino Lilith l’avevano legata come un salame quando sono arrivata” aveva detto piena di rancore l’altra guerriera.
“Chi è stato?” aveva chiesto.
Champ aveva un ricordo di Lilith come qualcosa di piccolo e sottile, non una dea prorompente, ma pur sempre una dea.
“Una strana combo” aveva risposto Atalanta, “Un sacerdote egizio, seguace di Sekhmet, un guerriero cartaginese figlio di Ma e uno spaurito greco figlio di Persefone” aveva fatto una pausa, “E Josh” lo aveva aggiunto con un tono piuttosto confuso.
“Sembri stupita” aveva valutato Champ, “Quei tre sono bestie, ma il nostro Josh è una persona così tranquilla, è un figlio di Ebe; sta studiando per diventare Mediatore Linguistico” aveva risposto Atalanta netta.
Oh, be.
“In realtà credo abbiano contrastato Lilith con un po’ del potere dell’Aten” aveva aggiunto la guerriera al servizio della Grande Madre, corrucciando il viso olivastro.
Atalanta era slanciata, non era bella nel significato classico del termine, però aveva quest’aspetto fiero che le dava un’aurea di ruggente perfezione. Aveva i capelli gonfi e ricci, come sarebbe stato d’uopo sulla criniera di un leone.
Aten? Dove Champ aveva sentito quel nome.
Non riusciva a ricordarlo.
“Senti, Jeha ha detto qualcosa” aveva ricordato, non centrava con il discorso, “Sull’Aten?” aveva indagato Atalanta, “Cosa ne sa l’Arpia?” aveva domandato.
L’Arpia era un vecchio soprannome che avevano dato a Jeha nei primi tempi in cui aveva militato con le cacciatrici, non voleva più essere Jehanne La Pulzella di Orleans ed aveva abbracciato quel soprannome senza esitazione.
Quel soprannome le era stato dato per via del suo carattere non sempre semplice e per alcuni suoi poteri[8].
“No, no. Scusa su un’altra cosa, volevo chiederlo alla Grande Madre, ma lo ho dimenticato, ma sui Romani. Ha detto che sono tornati” aveva valutato Champ.
Atalanta l’aveva guardata con serietà, “Strano, non credevo se ne fossero mai andati” aveva ammesso.
Era lo stesso pensiero che aveva animato Champ[9].
Quelle considerazioni erano state soppresse dall’ingresso nello scantinato.
Lo scantinato della villa  era di dimensioni notevoli: da un lato sbeccavano una serie di lavatrici e lavasciuga in fila, per tutti gli ospiti, da un altro c’erano degli attrezzi, sedie e cose d’ogni genere accatastate, che davano l’idea più di un vecchio scantinato impolverato.

Poi, c’era un divano, di pelle bordeaux, sulla quale era seduta a braccia conserte una donna ed espressione rigida, non era Lilith, però. “Lei è sua altezza Deidamia, non le parlare, al momento è molto suscettibile” le aveva consigliato Atalanta.
La donna aveva guardato con quei suoi occhi scuri e perforanti verso di loro, se avesse avuto gli stessi potere di Champ, era certa che entrambe sarebbero andate a fuoco.
Atalanta l’aveva spinta oltre, avevano attraversato la cantina, fino ad una porta di ferro, che aveva portato nel locale delle caldaie.
L’ambiente se possibile si era fatto ancora più sinistro. Scuro, bollente, rumoroso e con l’unica compagnia di una luce sfarfallante.
La dea Lilith troneggiava nell’oscurità, era stesa su una rete di sottili fili d’oro, in vero ne era prigioniera, ma la sua posa molle e rilassata dava l’idea che fosse del tutto a suo agio, come una acrobata di tessuti aerei che una prigioniera.
Lilith era Lilith. Esattamente come l’ultima volta che Champ l’aveva vista.
Nel corso dei secoli si erano incontrate molte volte, alcune volte le sue consorelle ne erano state consapevoli (avevano tutte loro un rapporto complicato con la Vergine Oscura, Lilith era passione, erotismo ma era anche una donna fiera, impiegabile e orgogliosa – il lato oscuro di Artemide, diceva sempre Luminosa) e altre in cui non lo erano.
Champ e Lilith erano legate da un filo.

“Oh, Atalanta! Mi hai portato altre visite? Quelle due simpaticone se ne sono andate? Oh, ma per l’infamia di Adamo: Lady Alyson!” c’era quasi calore nella voce della dea, Lilith aveva labbra carnose e lingua di serpe. “Ciao Anne”, aveva miagolato Champ, incerta, sentendosi anche sciocca. “Ciao? Così saluti la tua regina?” l’aveva presa in giro la dea.
Champ aveva chinato il capo, “Non sei la mia regina da un bel po’, ansi, credo tu non la sia mai stata” aveva dichiarato, indicandosi il collo.
Lilith aveva riso di gusto, prima di spostarsi, per avvicinare il viso a Champ, al sicuro, dietro la rete d’oro, “Io sarò sempre la tua Regina, perché sarò sempre La Regina” le aveva detto.
“Beth è stata la mia unica regina” aveva dichiarato con orgoglio Champ.
Non lo erano state Jane, la Regina Anne, Mary e le due Kathrine, solo Beth. “Uhm … non Artemide? La piccola principessina di Zeus potrebbe restarci male, ma immagino che sia abituata a vederti correre dietro a Jeha. Dove la hai lasciata, a proposito?” aveva infierito Lilith.
“Dove hai lasciato tu la tua amica Eris?” era stata la risposta di Champ.
Lilith aveva riso con una certa cattiveria, aveva sollevato le braccia ed aveva intrecciato le mani nei capelli per scuoterseli e farli scivolare di nuovo sulla schiena, in un movimento fluido e seducente.
“Eris conduce i suoi giochi, io le do una mano quando mi annoio. Sai no, differentemente da lei, io posso agire direttamente. Sai, ho finto di essere un’arpia per entrare qui dentro, stavo proprio pensando alla nostra Jeha” aveva scherzato Lilith.
Aveva un sorriso da squalo, la pelle chiara della luna e occhi oro brillante.
“La nostra orgogliosissima Jeha” aveva ghignato Lilith ancora.
“Voi avete finito di beffarvi di lei” aveva dichiarato con rude Champ. “E tu invece, hai finito di beffarti di lei?” aveva chiesto la dea.
Champ era rimasta attonita.
“Non so di cosa stai parlando, Anne” aveva detto sdegnosa.
“Com’è che quella rigida stronzetta di Artemide non ti ha ancora cacciato dalle sue virtuose vergini?” aveva indagato.
“Smettila! Io sono pura!” era stata la risposta asettica di Champ, “Certo, magari nel corpo, ma non nello spirito. Lo sento traboccare da qui il tuo desiderio” le aveva risposto la dea, “Dopo secoli … lei vive nel tuo cuore, come nel mio” aveva dichiarato Lilith, toccandosi il seno sinistro.
Oh! Beth era stata la figlia di Henry, orgogliosa e potente, ma era stata anche l’eredità di Lilith … oh, Anne Boleyn come fingeva di essere[10].
“Ma è ovvio che un’altra presenza lo schiaccia” l’aveva provocata la dea.
Champ aveva deglutito, “Cuciti la bocca” era intervenuta Atalanta, la figlia di Efesto si era quasi dimenticata della sua presenza lì.
“Tagliamo la testa al toro, cosa vuole Eris? Chi sono le altre due ragazze? Come arriviamo sulla Luna?” aveva chiesto.
“Chi ti dice che ci sia Eris, questa volta, dietro?” aveva chiesto Lilith.
Perché solo Eris sapeva muovere la hyubris di Jeha così bene da spingerla ad abbandonare le cacciatrici. Champ l’aveva seguita animata dal suo desiderio di aiutare la sua amica, che sapeva essere animata da nobili motivi, ma dopo le parole del piccolo profeta le sembrava ovvio che dovesse essere l’ennesimo tiro mancino di Eris.
Che lo volesse o meno, Jeha era diventata la campionessa de facto della Signora della Discordia.
“Perché non sono scema, sono brutta come una capra ubriaca ma non scema” aveva replicato.
Lilith le aveva sorriso, “No, non lo sei” le aveva concesso, “Allora lascia che ti dia un consiglio: cedi alle tue passioni, abbandona le cacciatrici e muori dopo aver vissuto” le aveva dichiarato la dea.
“Un consiglio utile?” aveva chiesto.
“Conosci la storia di Ercole, Atena e la mela?” aveva chiesto Lilith allora.
“Sì. Conosco tutte le storie su Atena” aveva risposto Champ, perché Jeha le aveva raccontate e su Ercole, perché lo aveva fatto Zoe.
“Allora, ascoltami bene, Jeha è la mela” aveva dichiarato Lilith, “Solo un altro mezzo di Eris per accrescere – un altro piccolo agente del caos” aveva raccontato.
“Alla fine Ercole lasciava perdere la mela” aveva valutato Champ, Lilith le aveva regalato un sorriso senza mistero, mentre negli occhi leggeva tutta la pieta che una creatura come lei poteva provare … per Champ.
Lascia perdere Jeha.
“Ma se la mela veniva stuzzicata cresceva fino al cielo ed occupare ogni spazio della gola” aveva ricordato la semidea. Lilith aveva ridacchiato, amara, “Certo. E tu vuoi essere lì? Schiacciata e fagocitata dalla hyubris di una ragazzina che in seicento anni non si è mai fermata a riflettere se avesse commesso un errore?” l’aveva stuzzicata.
“Inoltre il mio ex marito e la sua mogliettina tutta Sì-Sì-Signore non ti hanno insegnato che è meglio evitarle le mele[11]?” l’aveva provocata ulteriormente Lilith, quando Champ non aveva abboccato all’amo, “Inoltre pensa alla guerra di Troia o … chiedilo ad Atalanta, per un paio di mele si è giocata un po’ il celibato e la sua fortuna” aveva aggiunto Lilith.
Atalanta aveva sbuffato, “Storia vecchia. Adesso sto bene” aveva detto solamente.
“Ti sei dimenticata di citare Biancaneve, Anne” le aveva risposto Champ, senza pazienza.
“Una mela al giorno toglierà anche il medico di torno, ma fa piombare la tua vita in un’esistenza miserabile. E Jeha è proprio una mela succosa” aveva detto graffiante la dea oscura.
La cacciatrice aveva inghiottito la bile e la rabbia per quel commento ed aveva preferito dire: “E sulla Luna come ci arrivo?”; aveva ricordato le parole del divino Imene. Non era a loro assegnato quel dovere, ma se esisteva qualcuno da sfidare il fato era senza alcun dubbio una dea fuori dal loro pantheon, fuori dalle loro regole.
Nessun dio poteva agire direttamente, ma Lilith lo faceva con non curanza, si mischiava agli uomini, fingeva di essere una di loro, o altre creature, non si limitava a restare il tempo di sgravare qualche mezzosangue – o demone? Contavano anche i demoni? – ma godeva nell’influenzare gli eventi.
Eris era la Dea della discordia e del caos.
Ma Lilith era caos.
“Ora stai chiedendo troppo senza dare nulla in cambio” aveva replicato Lilith.
“Cosa vuoi?” aveva chiesto Champ.
“Non puoi darle nulla” era intervenuta di nuovo Atalanta.
“Allora immagino che la nostra conversazione sia finita qui. Mi dispiace, devo ammetterlo, mi piaci Lady Alyson, mi sei sempre piaciuta, sicuramente più di Sir Robert Dudley[12]” aveva dichiarato Lilith. “Un bello spreco di tempo, Anne” era stato il commento acido di Champ, o un tentativo di esserlo. Un piccolo sorriso era scivolato dalle sue labbra, per quell’ultimo commento e per la schiacciante verità, nonostante tutto il suo astio, infinito astio, una parte di lei rimaneva affascinata dalla mortalità di quella dea, dal suo fascino, ed una parte sarebbe sempre stata perdutamente grata per aver messo al mondo Beth.
Lilith aveva riso.
“Direi proprio di sì” le aveva riconosciuto, “Perché mentre noi chiacchieravamo amabilmente, tu hai appena perso la tua migliore possibilità. Singolare eh” aveva dichiarato Lilith.
“Di che parli?” aveva chiesto Champ, preoccupata. “Non lo senti? L’aria ora è meno pesante, non c’è più tutta quell’angoscia” aveva dichiarato.
C’è qualcosa di oscuro, aveva detto Marlo.
“Non sei mai stata tu l’oscurità di cui parlava” non aveva fatto nomi, ma Eris aveva sorriso come se avesse capito tutto, da sorniona gatto del Cheshire.
“Oh non so se con l’oscurità ci si riferisse alla rifulgente figlia di Nyx o quella morta che cammina della progenie di Apollo” aveva detto.
Heahter Shine!
La Heather di cui aveva parlato Lauren, seguita dal suo amico Carter di cui avevano visto la morte.
Aveva abbandonato di fretta la caldaia, accompagnata dalle urla di Lilith, “Io darei o un bel morso a quella mela o me la lascerei alle spalle, Alyson!”; con altrettanta fretta, poi, aveva abbandonato anche lo scantinato ed era risalita per le scale due a due, fino a che non era ritornata al pian terreno.
“Heather Shine!” aveva strillato, “Heather Shine!” ancora.
Una delle tre ragazze che Imeno aveva detto potessero giungere sulla luna, era in compagnia di una figlia di Nyx, forse era una delle altre due.
“Heather Shine!” aveva chiamato ancora.
“Oh, cercavi Heat?” aveva parlato una voce, era un ragazzo giovane, indossava un impermeabile rosso, una camicia imbarazzante, scuro di carnagione con piccoli ricci serpentini neri, “Sono partiti poco fa” aveva dichiarato.
Reggeva sotto un braccio una lastra di pietra dall’aspetto non molto leggero.
“Dove sono andate?” aveva chiesto subito Champ, doveva … doveva scriverlo a Jeha? Come? O doveva lasciar perdere?
E se fosse stato un piano di Eris avrebbero dovuto ignorarlo, Imene aveva dato loro una mano, voleva pur dir qualcosa.
Il ragazzo aveva aggrottato il viso, nel cercare di ricordare, poi aveva detto: “Uhm … mi pare da due tali … Quilly ed El-G.; può essere?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Champ fa riferimento ad Orione, che nel canone Riordano è finito per odiare le cacciatrici e volerle uccidere (anche nel canone mitologico non finisce benissimo, visto che muore), l’altro invece è Ippolito, che era figlio di Teseo e l’Amazzone Ippolita. Visto che Ippolito rifiuta il culto di Afrodite e venera Artemide, ho pensato che in questo canone potesse essere un cacciatore.
Comunque Afrodite fa innamorare Fedra di lui, ma Ippolito la rifiuta (in quest’ottica perché cacciatore) e poi Teseo lo fa ammazzare (STORIA LUNGA, con menzogne, inganni e tradimenti) Artemide lo fa risorgere (utilizzando il nipote) e Ippolito manda al diavolo padre pentito e si trasferisce in Italia, dove poi le mitologie si biforcano e ciao-ciao. Nella mia ottica è stato un cacciatore per un po’, poi ha abbandonato in favore di una vita mortale (un trono ed una bella moglie). Niente, faccio sta cosa alla Jay Kristoff per non appesantire la lettura.

[2] Questa potevo risparmiarmela, comunque è semplicemente frutto di un’elucubrazione, stavo pensando se Artemide negasse l’accesso a chi è biologicamente maschio o chi lo è a livello di genere riconosciuto. Phillis, in questo caso, sarebbe un personaggio biologicamente uomo che non si identifica in tale (donna trans? No binary? Genderfluid? Non è importante) che ha creato una situazione di: Che facciamo?
Niente alla fine ha conosciuto un tale George e non è stato necessario sbrogliarlo. Una nota inutile, in una parte inutile, che poteva essere tolta però, bho, mi aveva divertito il problema.

[3] Quando ho pensato questa storia, non era uscito neanche l’ultimo della Saga degli Eroi, da quel momento ho cercato sempre di adattare il canone riordiano alla mia storia senza sconvolgerla troppo (in alcuni punti è stato necessario) però alcune volte non ho potuto. Adesso, letto TOA, sarebbe stato per logico per Champ andare ad Indianapolis dove ci sono Em e Joe, così ho dovuto comunque adattare le cose.

[4] Non giudicate male Alyson, ma è nata e vissuta in un’epoca dove le donne non avevano molta libertà e rimanere svergognate da un uomo era peggio di una condanna a morte. Insomma, si, venitele in contro. Poi è vissuta tra le cacciatrici, quindi si, ehm, Alyson ha i suoi limiti.

[5] Parodia di Yelp, che un po’ la versione in voga in America di App come Trippadvisor, non sono sicura, comunque ho aggiunto un Divin davanti, perché mi sono ricordata che Riordan usava fare un sacco di queste cosine (tipo il GPS, la pubblicità nel taxi di Ganimede e Apollo che citava un sacco di programmi tv trash olimpici).

[6] Anne di Cleves, nota come la cavalla delle fiandre, la mia moglie di Enrico VIII preferita! Era una persona così a modo che perfino BloodyMary non aveva inimicizie verso di lei.

[7] Nel mondo Riordiano anche Nemesis e Afrodite funzionavano così (Vendetta e Bellezza, che nella mia ottica ha senso che siano “ad personam”) ho applicato lo stesso principio a Fama (quando è attiva, poi nel capitolo riassunto si vede la sua vera faccia) e a GMI, come si era già visto (Heather, Bernie, Jude e Carter ne avevano dati tutti una descrizione diversa), inoltre se provate a googlare Grande Madre notereste che tutte le sue rappresentazioni in realtà sono senza faccia (mi raccomando evitate Simeoni e le sue teorie, pls, che non mi troveranno mai d’accordo).

[8] Non è “out of the blue”; nel capitolo 7, Imene si rivolge a Jeha chiamandola proprio: Jeha l’Arpia (e giuro capirete perché)

[9] Spiegazione casuale: Jeha faceva riferimento al Triumvirato, Champ invece ai mezzosangue del campo di Giove. Atalanta potrebbe far riferimento ad entrambi (nb. Parlava del Triumvirato che di quei tempi si era messo a finanziare prima Luke poi Octavian; così da per scontato che Jeha e Champ si riferiscano entrambe agli Imperatori, riportando che non sono mai andati via. Champ lo interpreta come i ragazzi del campo). Insomma una cosa inutile.

[10] Nel canone Riordiano ad un certo punto Apollo ha finto di essere, per del tempo, Narcisso, il personal trainer di Nerone, così per un periodo Lilith ha fatto il medesimo gioco (anche se Lilith è un caso a parte). E niente, non entriamo nei dettagli lol.

[11] Allora, Lilith a questo giro fa riferimento ad Adamo ed Eva, nonostante in questa storia ci si continui a riferire a Lilith come Dea Babilonese, in questo caso è connotata nella sua versione Giudaico-Cristiana, dove più che una dea è un demone ed è, ehm, libera dai vincoli di divieto di azione diretta. Riassunto: Lilith può fare quello che le pare. Visto che fare quello che le pare è la caratteristica madre della Lilith Giudaico-Cristiana.

[12] Uno dei favoriti della Regina Elizabeth I, nonché suo probabile amante.

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Capitolo 33
*** Bells LaFayett contro una serie di scelte piuttosto questionabili (Bellatrix III) ***


Buongiorno; non aggiornavo Il Crepuscolo da così tanto tempo che non mi ricordavo neanche dove fossi arrivata.
Metà di questo capitolo è stato scritto un anno buono fa e la seconda metà in questi giorni, detto questo credo si veda, la differenza credo si noti, spero di poter riprendere bene questa storia ed anche I Barbari (che ho ricominciato a scrivere). Detto questo, ho finalmente, definitivamente, chiuso il mio ciclo di studi e presto comincerò a lavorare, questo vuol dire che avrò meno tempo libero, ma quello che avrò sarà più definito.
Detto questo, il capitolo non è stato betato e temo si veda, probabilmente presto riprenderò definitivamente tutta la storia e la rivedrò da capo.
Oltre ciò, il capitolo voleva avere una disamina sulle cacciatrici di Artemide, ma credo non sia venuto bene per nulla e quindi probabilmente ne parleremo più avanti, probabilmente con Champ.

Buona lettura

RLandH

I L   C R E P U S C O L O   D E G L I   I D O L I

Bells LaFayett contro una serie di scelte piuttosto questionabili.

(Bellatrix III)

 

Alabaster aveva riempito una ciotola trafugata da una delle stanze – Bells era genuinamente ammirata da come e quando l’avesse trafugata. Piccolo tombarolo.
Aveva accesso un fuoco con la sua magia, “Passami quello che hai preso dal macellaio” aveva dichiarato Alabaster, così Bells gli aveva passato il sacchetto che gli era stato affidato dal Crepuscolo.
“Quindi, ecco, il gestore era piuttosto confuso dalla mia richiesta. Ossa e grasso in avanzo. Neanche chi fa la sportina per il cane prende queste cose” aveva dichiarato Bells, ricordando le commissioni che gli erano state assegnate.
“Sì, lo so. Al campo di solito ci insegnano a regalare agli Dei parti del pranzo, ma questa non è una semplice offerta” aveva raccontato Al.
“Lo diceva il libro che ci ha dato Chris?” aveva chiesto inoltre July, chinandosi appena, teneva tra le mani un bicchiere di carta con un cappuccio di plastica. “Lo diceva anche Prometeo, ma non sono sorpresa che non lo abbiate ascoltato mezza-volta” aveva raccontato Alabaster sicuro.
Prima che una delle due potesse dire qualcosa, il figlio di Ecate aveva schioccato le dita, dalla tasca della sua camicia, era uscito il suo fantasma domestico.
“Dimmi che non mi hai fatto uscire solo per una lezione di mitologia” aveva detto subito IL Dottor Horward, piuttosto seccato. “Uhm … mi devo concentrare, stiamo letteralmente grattando sotto il culo di Zeus. Sto convocando una dea di cui non so niente, neanche il nome, e devo dire una cosa … agli Dei non piace essere forzati a fare qualsiasi cosa ed io non piaccio agli Dei” aveva replicato Alabaster, “Senza dimenticare che io sono l’imbucato nella storia” aveva aggiunto il ragazzo.
July si era mossa e gli aveva arruffato i capelli, con gentilezza, nel tempo che erano stati assieme dovevano essersi legati parecchio.
Bells ricordava Alabaster mischiarsi solo con i suoi fratelli, e con il ragazzo che non parlava mai, mentre July, prima del labirinto era una persona divertente – un po’ leziosa – sempre in compagnia di Mary Beauchamp, dopo la sua disavventura si era fatta più acre, cattiva, non verso le altre persone, ma se stessa ed il mondo.
In quel momento, sembrava più se stessa.
“Tieni” aveva detto July allungando il caffè verso Alabaster, “Ne ho già preso uno, non voglio morire di infarto” si era difeso quello.
July aveva fatto una smorfia, “Prima di tutto è un nocciolino, secondo quando ho incontrato Orual vicino all’Acquario lei aveva preso questo. Così ho pensato …” aveva cominciato lei, Alabaster l’aveva guardata, con gli occhioni verdi ben spalancati, “Prima che tu dica qualcosa, no, non guastare il rituale, ma ammorbidirla dopo” aveva aggiunto.
Alabaster aveva sorriso con dolcezza, “Buona idea” aveva dichiarato quello. “Certi Drink ti svoltano la giornata” aveva scherzato July, dal suo tono sembrava avesse citato qualcosa, ma a Bells mancava il referente.
Di rimando lei, si era voltato verso il Lare, piuttosto seccato.
“Okay, va bene! Pensare che non mi ero sposato per non dover rispondere ai perché dei bambini” aveva esordito lo spettro, “Allora Prometeo, quello del fuoco, lo conoscete sì?” aveva cominciato il Dr. Horward.
“Sì, nel senso che lo conosciamo proprio” aveva risposto Bells, “Fa delle ottime Omelette” aveva aggiunto con una punta di divertimento July.
Il lare aveva aggrottato le sopracciglia opalescenti, “Bene; quando gli uomini dovevano decidere in che modo fosse d’uopo sacrificare agli dei, quali parti dare agli Dei, dell’animale. Prometeo – sempre pronto ad aiutare gli uomini – si offrì di aiutarlo. Siccome era un titano intelligente e l’intelligenza spesso si accompagna con la furbizia, decise di farlo alle sue condizioni, ingannando Zeus. Disse agli uomini di dare agli Dei la possibilità di scegliere quali parti avere dell’animale avere.
Sarebbe stato ideale, ma Prometeo disse anche agli uomini di spalmare le ossa di grasso e di mettere invece la carne buona nascosta sotto alle frattaglie, prima di presentare le parti agli Dei. Zeus e i suoi compagni furono ingannato dall’aspetto grasso e succulento delle ossa piene di grasso e scelsero quelle, lasciando agli uomini le frattaglie, ignari che il vero gustosità fosse lì.
Ovviamente, Zeus quando lo scoprì fu adirato, ma non poteva rimangiarsi la parola, così tolse loro il fuoco” aveva dichiarato Horward.
“Ovviamente Zeus non china mai il capo” aveva mormorato Bells, agghiacciata, “Ovviamente Prometeo è sempre dalla nostra parte, voleva aiutare gli uomini, gli dei erano già immortali, volevano anche la bistecca” aveva aggiunto July, spostando una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
“Immagino che se si fosse fatto gli affari propri, la situazione …” aveva cominciato Horward ma era stato interrotto da una risata di Bells, “Mi spiace, siamo parte del Fanclub Prometeo” aveva detto allegramente.
“Certo, siamo Presidente, Portavoce e Tesoriere!” aveva ammesso July. Anche Alabaster aveva dato il suo assenso, mentre continuava tranquillamente a spalmare le costine con il grasso.
Bells le aveva sorriso; si sentiva a casa.
No, non esattamente, casa era un concetto famigliare, accogliente, quella sensazione lì, lo era, ma solo per metà, era ammantato di nostalgia. Non era come tornare a casa, era come tornare in un posto che si era conosciuto, in cui si era stata bene. Esistere in un momento al di là del tempo, sospeso.
Non sarebbe durata e non per la maledizione di cui parlava Alabaster, ma perché Bells doveva andare via.
Alla fine sarebbe andata via.
Perché aveva fatto la sua scelta.
Ma fino a quel momento …. July si era lanciata su di lei e l’aveva braccata, facendola cadere poi per terra, un sibilo aveva fenduto l’aria ed una freccia si era conficcata sulla coscia di marmo di Eracle, sfiorando di poco la testa di Alabaster.
“Be, se somiglia a sua nipote, potrei iscrivermi anche io al Fan-Club di Prometeo” aveva tubato una voce.
Bells aveva girato il capo vedendola, lì sull’uscio, tranquilla come fosse stata ad un passeggiata c’era una figura, armata d’arco e freccia.
“Divina Artemide!” si era lasciata sfuggire Bells, prima di realizzare, che non lo era.
La sconosciuta somigliava alla Signora della Natura in modo spaventoso, i capelli dei colore della rugine, stretti in una treccia severa, l’incarnato olivastro ed occhi allungati di un giallo inteso. Era più matura di quanto non fosse mai stata nessuna manifestazione di Artemide, ma ad un’occhiata veloce somigliava alle statue della Diana più della dea stessa.
La donna aveva un arco d’argento che teneva pronto ad una mano ed una faretra piena di frecce, legata da una cintola di traverso. Sotto esibiva una maglietta aderente con una scritta di paillettes – e Bells aveva la vaga idea di sapere cosa fosse – e i pantaloni da trekking color cargo.
Sicuramente a Bells lo stile piaceva un sacco.
L’unica cosa che avrebbe stonato dal suo aspetto da ragazzaccia era una cappa di pelliccia, fermata da un bottone sulla gola.
“No, meglio!” aveva ghignato la sconosciuta, “Io sono Kallisto, sorellina!” le aveva detto, impegnandosi in una riverenza parodistica.
“Ed hai mancato il bersaglio!” l’aveva rimproverata un voce cavernosa, alle spalle della ragazza, che pur essendo snella e slanciata, appariva in quel momento come una piccola bambina, era comparso una bestia scimmiesca. Enorme, era un uomo Enorme, coperto di irsuto pelo nerissimo e con tre teste, tutte con occhi rossi, famelici e bocche piegate in smorfie soddisfatte. “Non ho mancato, era un avvertimento!” si era difesa Callisto.
“Potevi almeno distruggere quella faccia da bravo ragazzo ad Ercole” aveva grugnito il mostro.
“Lui è Caco, un gigante come potete capire non potete vincere” aveva ghignato la donna.
“Dopo la disavventura con Erittone, avevamo avuto una serie fortunata” aveva dichiarato July tirandosi su ed estraendo dalla tasca una limetta per le unghie, che subito aveva cominciato a cambiare la sua forma.
Bells si era portata una mano all’orecchino con la spada, ma si era arrestata, sfilandosi un anello che presto era diventato uno scudo tondo.
“Ragazze …” aveva cominciato Alabaster. “ Torrington, tu continua con l’invocazione, qui avremmo bisogno di una dea a breve” aveva detto July con fermezza.
“Dimmi Bellatryx vuoi Lara Croft o Chewbecca?” le aveva chiesto.
Io voglio lei” aveva scelto per lei Kallisto, scoccando a gran velocità una freccia verso di lei, Bells si era parata fulminea con lo scudo, in tempo, sebbene la freccia avesse perforato la parte di legno a qualche centimetro dall’ambone.
“Dalla maglietta mi pare di capire che tu abbia fatto una pausa a Johnston!” aveva valutato Bells tirandosi su, aveva sentito come un tonfo il rumore delle ossa buttate nel piatto infuocato da Al e le sue prime parole: “Ascolta Orual, o qualunque nome tu preferisca essere chiamata[1] …”

Kallisto aveva sollevato di nuovo l’arco e l’aveva fatto scattare contro Bells, “Be, sai com’è … Io e Ifigenia siamo amiche da qualche millennio o giù di lì, inoltre Theos capisce il mio dolore” prima di lasciare la freccia.
Bells era rotolata per terra, il tempo che la freccia sfrigolasse solo contro il polpaccio della sua gamba.
Caco si era lanciato su July, che sembrava molto più calma di lei; la figlia di Nyx non aveva tempo per guardarla, ma nonostante la lancia alla mano l’altra sembrava piuttosto intenzionata a non muoversi.
“E che ne pensano del tuo esserti alleata ai giganti?” aveva chiesto Bells, tirandosi su come una molla e prendendo con una mano l’orecchino a forma di spada, che subito si era tramutato nella sua versione quattro volte più grande.
Bells aveva posato la spada sul lato piatto, sull’orlo superiore dello scudo, che aveva usato ancora come difesa.
Kallisto non aveva perso il suo sorriso ferace, “Non dovevano saperlo per forza. Gea non ha nulla contro di loro e se continueranno a vivere nel loro piccolo Atollo non sarà necessario che lo sappiamo” aveva aggiunto.
Aveva fatto saettare un’altra freccia e Bells aveva usato lo scudo per proteggersi, ancora una volta aveva sfondato il legno, prendendo lo spazietto sotto l’ambone ed aveva graffiato la parte alta dell’avambraccio.
Bells si era lasciata sfuggire un lamento. Se avesse potuto usare le ombre come un tempo quello scontro sarebbe stato tremendamente più semplice, ma così, finchè quella era armata con le frecce e Bells non si fosse potuta avvicinare non sarebbe cambiato molto.
Caco aveva sfondato una parete della cappella privata, portandosi July con lui in una nuvola di macerie, polvere e grida disperate.
“Jules!” aveva gridato lei, prima che una freccia le si piantasse in una spalla, appositamente in un punto non letale.
“Sorellina! Pensa a me!” l’aveva bacchettata Kallisto.
Era partito un allarme all’interno del museo – chi sa che cosa doveva apparire per i mortali quel casino.
“Pensa allo scontro, fidati di me, giovane Bellatryx, la signorina Goldenapple è al sicuro” le aveva dato manforte il lare.
Bells si era strappata la freccia dalle carni non senza dolore, non sarebbe stata sicura di quanto detto dal Dr Horward se non avesse sentito in un’altra ala della villa, un forte tonfo accompagnato da un lamento troppo gutturale per essere July.
Kallisto aveva inforcato ancora una freccia e l’aveva puntata contro Bells, aveva un sorriso calmo e divertito, poi aveva deviato  la mira ed aveva scoccato la sua freccia dritta verso la testa di Al.
Bells si era lanciata verso di lui, consapevole di non essere veloce quanto una freccia.
Se avesse avuto l’ombra sì.
“Noooo!” aveva strillato piena d’angoscia. Ma il dardo d’argento era bruciato prima di raggiungere Alabaster, una nebbia opalescente, di un verde pistacchio, era apparsa rilucente attorno a lui.
Ah, bene, mentre July combatteva contro giganti a tre teste e lei evitava dardi letali, quello si era chiuso dietro una barriera?
Si, poteva fare?
“Oh Al!” si era lamentata, tirandosi su, le doleva da impazzire la spalla.
Kallisto aveva inclinato il campo rosso, piuttosto imbarazzata, avendo notato come il suo colpo non avesse prodotto effetti.
“Non avevi detto che ero io la tua avversaria?” aveva strillato Bells, dopo aver preso la rincorsa.
Kallisto si era accorta di lei quando la figlia di Nyx le era arrivata ad un palmo dal naso. Aveva provato ad infilzarla con la spada, ma l’altra decisamente più agile di lei aveva evitato il colpo con una mossa svelta, aveva abbandonato l’arco. Bells aveva provato un altro affondo ed in risposta aveva guadagnato una pugnalata – da dove lo aveva presa la lama, poi? – che era riuscita a fermare con il ferro dell’ambone.
Era riuscita a colpire Kallisto solo con una ginocchiata strategica, che aveva fatto perdere l’equilibrio di quella per un qualche secondo.
Era finita a terra, ma facendo pressione con i palmi si era tirata su, dando uno slancio netto ed aveva cercato di colpire Bells.
Lei si era lanciata in avanti.
Non era in grado di distinguere con lucidità ciò che era successo, quando il piede, con la suola a carrarmato di Kallisto, l’aveva presa in piena faccia.
Nella caduta aveva perso la sua spada, ma ben legato con i legacci al braccio aveva mantenuto lo scudo.
Anche la guerriera era crollata di nuovo a terra, con un naso storto e fioti di sangue ad insozzarle la parte bassa del viso. Bells doveva averla colpita, prima della caduta o con l’elsa della spada o con lo scudo.
La seconda realizzò, una sezione, della parte in legno, si era staccata, complice l’urto ed il servizio groviera, reso dalle frecce.

Aveva buttato via lo scudo, inutilizzabile, ed aveva guardato Kallisto tirarsi in piedi, mentre passava il braccio sotto il naso. “Oh, Sorellina, questo lo ho sentito” l’aveva presa in giro senza smettere di sorridere.
Erano nel corridoio, in qualche maniera erano usciti dal tempietto di Ercole, non sentiva più la preghiera di Al, così come la confusione tra July e Caco era andata ad acquietarsi lontano.
“Senza offesa, signora, ma ho già una sorella. E si da il caso sia molto più gentile di te” aveva chiesto, mentre sistemava le mani nella posizione del lottatore. Doveva raggiungere la sua spada, ovviamente, non credeva di poter essere in grado di vincere uno scontro a nocche crude contro la leggendaria Kallisto.
“Di sorelle ne hai tante, sorellina” aveva dichiarato Kallisto, aveva ancora il suo pugnale nella mano che continuava a far passare da una mano all’altra, “Anche io lo sono. Noi siamo figlie delle stessa madre” aveva dichiarato con un sorriso quasi maniacale, “Sei una figlia di Nyx?” aveva chiesto Bells con preoccupazione.
Luke Castellan aveva detto che erano le uniche, lei e Bernie, erano le uniche da molto tempo ormai.
“Nessun illustre madre, riguardo al padre, Licaone, ne avrai sentito parlare, immagino” aveva ghignato Kallisto, oh, be, sì, Bells aveva sentito parlare dell’uomo-lupo sia in relazione alla mitologia, sia alla sua ultima alleanza con Gea, che lo rendeva sgradito alla figlia di Nyx esattamente come la figliola lì davanti.
“Alla maniera Naturale, si intende” aveva specificato poi la guerriera. “Ma noi siamo sorelle, per scelta” aveva specificato Kallisto.
Bells aveva capito, spalancando gli occhi.
Aveva frequentato la scuola fino alla terza media, nonostante fosse figlia di un uomo brillante, doveva riconoscere che la dislessia non aveva reso affatto facile seguire le materie. Lasciare la scuola per darsi alla macchia e partecipare ad una guerra senza speranza con Ethan e Luke, era sembrata decisamente una cosa più nelle sue corde.
I miti però li conosceva bene, a metà perché dà che era entrato a piena gamba in una vicenda epica, letteralmente, si era dovuta informare, prima con Luke, poi … be con le altre, l’altra metà la doveva a suo padre.
Era un astronomo, non era un esperto di letteratura, storia o altro, ma conosceva le stelle e per diletto tutti i miti legati ad essa.
“Oh, oh, oh. Sei l’amante di Zeus!” aveva dichiarato Bells quindi, ricordando il mito di Kallisto, ben sapendo di andare a prendere un certo nervo.
Il viso della donna si era contratto in una maschera di furore, “Come osi? IO non sono una sgualdrina! Io sono stata ingannata!” aveva esclamato quella offesa.
“Come tre quarti delle sue amanti” aveva replicato Bells sollevando le spalle.
Onestamente non provava molta simpatia per Zeus, neanche dopo aver volatato le spalle alla causa di Crono, ma le sembrava evidente non riuscire a competere con lucidità contro una guerriera vecchia di tremila anni e passo, spietata e lucida.
“Ma tu eri una cacciatrice, dovevi essere superiore” le aveva detto Bells.
“Io sono una cacciatrice!” aveva replicato subito Kallisto, “La più devota tra di noi, la più devota alla signora e lei … mi ha cacciato” aveva detto indignata.
“Aye, lo so. Eri la più fantastigliosa, superperfetta, Artemide2.0! Ma poi ti sei concessa a Zeus” aveva replicato Bells.
Kallisto si era lanciata su di lei, con il coltello alla mano, pronta a ferirla, molto più grezza e cieca di quanto era stata prima.
Bells si era mossa, meno in fretta di quanto aveva pensato, la ferita alla spalla e la botta in testa, cominciavano a sentirsi nei suoi riflessi.
Aveva evitato il pugnale quel tanto che bastava per ritrovarsi un altro taglio sulla carne ed una sbucciatura nei pantaloni mimetici.
“IO.SONO.STATA.INGANNATA” aveva replicato Kallisto, “La mia devozione era per Artemide e con lei pensavo di essere” aveva urlato la donna.
Gli occhi non erano più umani. Erano feraci.
“E lei ha gettato via il mio amore, come se non fosse niente, mi ha guardato con sdegno. Come se fossi l’ultima creatura degna del suo sguardo. ME! Capisci, me? Me che l’amavo e che aveva sbagliato per il mio amore” aveva ringhiato, sì, non per modo di dire, era un ringhio, gutturale ed animale. “Peccato per il veto sull’amore, allora” aveva ridacchiato aspra.
L’immagine di Ethan Nakamura era affiorata nei suoi ricordi, un ragazzino magro, con l’armatura sempre troppo grande, con un’espressione tetra cucita in viso – non lo aveva mai visto sorridere.
“Io non sono un uomo. Il mio amore era eterno, assoluto, privo di quella fame disgustosa” aveva dichiarato offesa Kallisto, le sue ossa avevano cominciato a mutare, iniziava a sembrare sempre meno umana, riversa su quattro zampe, con i muscoli che stavano cominciando a ingrandirsi, come la versione nostrana di she-hulk.
Quando sarai più grande riparleremo, se ne avrai ancora voglia, dei sentimenti che provi per me.
Ricordava il sorriso circospetto di Ethan e il suo occhio nero scintillante.
Non ne avevano mai più parlato, era rimasto solo quel bacio quasi disperato tra loro … e Bernie non era mai cresciuta.
“Sempre di amore si trattava, sorella” aveva replicato Bells, inghiottendo il ricordo di Ethan.
Sii fedele ed ella sarà fedele.

Non c’era più Kallisto davanti lei, c’era una bestia mostruosa, grossa dall’irsuto pelo nero ed una bocca piena di denti aguzzi, era un’orsa! Più grande ed imponente di quanto ne fosse mai apparsa una. Non sembrava un’animale, ma uno mostro partorito dal tartaro. “Chi può rifiutare un amore simile?” aveva ruggito la bestia, la sua voce era profonda, cavernosa. “Sapevi quale fosse l’accordo” aveva detto Bells, “l’amore, la dedizione ed il rancore sono sentimenti da adulti” aveva ringhiato lei.
Era lì, non era l’amore, non semplicemente il voto di castità, era la scelta consapevole di non crescere. Dopo la battaglia di Manhattan Thalia glielo aveva spiegato, ‘Ti daranno un sacco di ragioni sul perché bisogna rimanere pure, davvero, tantissimi, qualcosa sulla sorellanza, la focalizzazione o anche l’espressione di se stesso, ma è solo questione di maturità” le aveva detto.
Siamo come i bimbi sperduti ed Artemide è la nostra Peter Pan’ aveva ridacchiato Bells, mentre beveva la cioccolata calda che luminosa le aveva detto.
L’amore, il dolore, la responsabilità sono pensieri che appartengono agli adulti. Ai bambini restano i giochi, l’ignoranza e la spensieratezza’ le aveva detto.
Bells lo aveva capito, aveva sentito Jeha parlare della purezza, della luce, della dedizione, ma lei lo aveva capito, nel tempo passato tra i boschi, alla caccia nei giochi.
Nei momenti di così ilare spensieratezza, in cui aveva quasi dimenticato Bernie, quando per la prima volta non l’aveva sentita.
Quando aveva giurato ed era stata consapevole, che non erano più un’unica unita, che un giorno le divideva e poi un altro, una settimana, un mese ed un anno.
Bells era uguale a se stessa e quando aveva visto sua sorella in un sogno Bernie era così diversa, aveva fianchi ampi, curve generose e sembrava più vicina ad una donna che una ragazzina. Un anno.
“Ti ha rifiutato perché hai osato imputarle causa della tua adorazione” le aveva detto calma, cercando di ignorare il dolore pulsante delle frecce, “Artemide ha accettato di essere tua sorella, tua signora, protettrice, tua madre anche, ma mai tua amante” aveva ringhiato.
Avevo tre anni quando chiesi a mio padre di non sposarmi mai, di rimanere celibe per sempre e di avere una schiera di ancelle giovani come me’ aveva raccontato Artemide con dolcezza una volta, rischiarando i dubbi di alcune fanciulle.

“Questo non ha importanza, distruggerò le mie stupide sorelle, le farà a pezzi, una ad una e quando Artemide non avrà altro che dolore, sarà sul mio pelo che piangerà” aveva ringhiato la bestia avventandosi contro di lei, Bells si era lanciata di lato, ma una zampata l’aveva comunque raggiunta, su una coscia ed era crollata a terra. Non aveva più lo scudo, la sua spada era perduta e non riusciva più ad utilizzare i poteri della notte.
Da quando aveva giurato non era stata più in grado, inizialmente aveva pensato che fosse per colpa del giuramento, il cambio di fedeltà, ma aveva dovuto ricredersi: Thalia poteva incoccare fulmini come frecce, Champ evocava il fuoco e Luminosa era in grado di guarire perfettamente chiunque, lei d’altronde non era in grado.
Forse sua madre era semplicemente arrabbiata perché aveva abbandonato la loro causa.
“Merda!” aveva gridato per il dolore, gli artigli di Kallisto erano affilati come lame, “Banchetterò con le tue viscere sorellina e porterò il tuo cuore in dono ad Artemide” aveva ringhiato la bestia, “Le farò dono di tutti i vostri cuori” aveva ringhiato lei.
“Non sono esperta di relazioni romantiche, ma sono sicura che quando si dice donare il cuore non si parli di questo” aveva scherzato forzatamente, mettendo una mano sulla coscia, le lame degli artigli non l’avevano scavata nel profondo, ma bruciavano.
“Sei debole sorellina, ti nascondi dietro la tua arroganza, ma sei debole. Io non ti avrei mai voluta, anche Zoe” aveva ringhiato.
“Differentemente da te ad Artemide andavo bene” aveva ringhiato.
Sarebbe stato menzognero dire che fosse stata la prima volta che si era sentita accettata, lo aveva sentito da sue infinite consorelle, Bells era stata bene a casa sua con suo padre e sua sorella, era stata bene sulla principessa Andromeda, era stata bene a Manhatthan, ma era stata la prima volta che si era sentita leggerà.
Suo padre era così preso dai suoi libri e Bernie era stata così aggrappata a lei ed aveva avuto paura, una costante paura di ciò che sarebbe successo sulla principessa Andromeda e poi era bruciata. Ed era arrivata stanca e pensava sarebbe morta lì su quelle scale.
Quindi non è mancanza di fiducia la mia, ma realismo: potrei non arrivare a vedere il nostro glorioso nuovo mondo.
Ma aveva trovato una scappatoia. Era sopravvissuta a sé stessa ed a Ethan e la sua profezia aveva avuto ragione. Avrebbe vissuto un altro giorno e forse mille altri e non avrebbe mai, mai, permesso ad una donna frustrata ed arrabbiata di toglierle quella profezia.
Bernie si era sentita felice con Artemide, perché si era sentita libera, nonostante tutti quei vincoli, libera del suo passato, delle sue responsabilità e delle sue preoccupazioni, era tornata bambina che giocava nel cortile di casa protetta dalla palizzata bianca dei LaFayett. E non avrebbe permesso a nessun Arvey, qualunque fosse la sua forma, qualunque fosse la sua storia, di buttarla giù di nuovo.
Quando la zampata di Kallisto l’aveva raggiunta non era riuscita a colpirla, fendendo l’aria, perché Bells si era ritrovata altrove, sempre in quella stanza, ma non lontana dalla sua spada, si era spostata, quasi teletrasportata, senza sapere bene come. Aveva utilizzato il suo potere? Non aveva sentito nulla.
Ci avrebbe provato dopo, aveva recuperato la sua spada e si era lanciata contro Kallisto, ignorando il dolore bruciante sulla sua spalla, sulla sua coscia e sulla sua caviglia.
Kallisto si era voltata verso di lui, con un ruggito brutale, con un fiato nefasto di morte, con quei denti bianchi ed aguzzi. Kallisto le aveva morso una spalla, ma Bells aveva ficcato una spada nella sua clavicola, tra il pelo nero e la pelle dura come il cuoio.
Kallisto aveva urlato di dolore, mentre lei si era morsa il labbro fino sanguinare per non farlo, ma non c’era riuscita.
Il dolore aveva riportato Kallisto nella sua forma umana, fragile, con la spada che le tagliava dalla clavicola e sbucava nella schiena, anche i suoi denti si erano ridotti ma avevano preso un bel pezzo della carne di Bells. “Sei debole, sorellina” l’aveva presa in giro Kallista con un tono pieno di folle divertimento.
Tu sei la Conquistatrice. Tu vivrai Bell e conquisterai un posto nel mondo nuovo che tanto sogni’.
Bells aveva tirato un colpo di reni, aggrappando la gamba con la coscia sana sul fianco di Kallisto costringendola a rovesciarsi, mettendosi sopra, una mano sullo sterno della donna per tenerla giù, una sull’elsa della sua spada per sfilarla, con fatica. “IO SONO LA CONQUISTATRICE” aveva detto, estraendo la lama, sentendo lo schiocco sull’osso.
Kallisto aveva gridato, mettendo le mani sulla ferita zampillante, aveva bisogno di più forza, non ne aveva abbastanza, era stanca e distrutto.
“Tu non sei … tu non sei … tu non sei? Tu sei? Io sono la grande Kall … io” aveva cominciato a borbottare Kallisto, i suoi occhi gialli erano distanti, portati nel nulla ed il suo vociare aveva cominciato a farsi così tanto sconnesso e confuso che non era stato più neanche in inglese.
“Non … ti ho … colpito in testa” aveva considerato Bells perplessa, “Certo che non la hai fatto” una voce musicale l’aveva colta.
Bells aveva tirato su lo sguardo, osservando il viso dolce di una donna e lei noto. “Orual?” aveva chiesto perplessa. La donna era davanti a lei era splendida, con la pelle d’ambra, gli occhi antichi, capelli scuri come le castagne, con indosso un abito da cocktail colorato.
Aveva in una mano il nocciolino che aveva preso July per lei. Alabaster bianco e cinereo era al suo fianco, il suo viso era smunto e le sue occhiaie violacee, come se quell’evocazione lo avesse sciupato dai suoi poteri.
“Vieni tesoro, ti aiuto con il tuo corpo” aveva detto con gentilezza Orual attirandola a sé, le aveva passato una mano sulla spalla ferita ed il dolore era diventato meno forte, così aveva fatto con le altre, “Perdonami, ma non sono una dea fisica. Non ho vere doti di guarigione” aveva ammesso piena di vergogna lei, “Ma trovo il tuo animo molto più integro”.
“Grazie Orual” aveva detto Bells, ricordava che la dea le aveva chiesto di chiamarla così che con qualche sofismo inutile, quando era comparsa per chiedere il suo aiuto.
La donna aveva sorriso, aveva dei denti bianchi e bellissimi, come una fila di perle, se Bells non ne fosse stata certa, avrebbe detto che Orual fosse Afrodite.
Le avevano detto che la dea della bellezza assumeva forme di ogni genere, ma Orual era diversa, la sua bellezza non aveva definizione.
“Cosa le hai fatto?” aveva chiesto Bells, sentendo il suo corpo leggermente rinvigorito, ma ancora di più il suo spirito, “Cose che non mi fanno onore te ne assicuro” aveva detto Orual stanca, “Mi occuperò io di lei. Kallisto può sembrarvi cattiva e ciò che le hai detto è anche vero, ha mancato il punto, ma errare è umano e so quanto l’amore può renderci umani e stupidi” le aveva detto con dolcezza, “Vi raggiungerò a breve, trovate July” aveva detto Orual.
“July sta affrontando un gigante ha bisogno di un dio” aveva parlato Alabaster con vigore, mentre aiutava Bells a tirarsi su, sentiva ancora le sue gambe molli, “Fidati di me, questo nocciolino è troppo buono per essere fatto da un uomo” aveva detto loro.

Avevano cercato July seguendo la strada di distruzione, i mortali in visita alla Villa si erano dati alla macchia, chissà come la Foschia aveva corretto le loro percezioni.
“Credo di aver usato i miei poteri” aveva detto Bells, mentre si trascinava con Alabaster, non era l’unica che era stata fiaccata. “Ah, da quanto tempo non succedeva?” aveva domandato lui, “Un anno, circa” aveva valutato Bells, “Manhattan” aveva aggiunto.
Cercava di ricordare davvero quando era stato l’ultima volta che aveva usato i suoi poteri. “Prima o dopo il cambio di bandiera?” aveva chiesto Al, senza cattiveria.
“Tu …” aveva detto lei con una punta di panico, “Tu vieni da noi servendo una dea, senza essere cambiata di un filo, Bells, non sarò tanto cose, ma di sicuro non sono stupido” le aveva detto. “Sono una cacciatrice di Artemide” aveva ammesso Bells, era strano dirlo ad alta voce, no, era strano dirlo ad alta voce ad Alabaster.
“Puttane frigide, non ti ci vedevo” aveva considerato il ragazzo senza particolare enfasi nella voce, non sembrava arrabbiato.
“Sono diverse da come me lo aspettavo” aveva ammesso Bells, “Se somigliano a Kallisto, immagino” aveva replicato Al, la sua voce era leggermente più incrinata. “Fidati sono materie ben diverse, c’è unita, c’è pace, dei, c’è spensieratezza” aveva raccontato.
Al aveva emesso un verso scocciato, “Sarà divertente sentire quando lo dirai a tua sorella” le aveva detto.
Bells aveva deglutito, “Io so che lei non capirà” aveva ammesso, “L’ho messo in conto” aveva aggiunto.
Non solo le aveva divise per sempre, aveva voltato le spalle al loro credo, aveva cambiato bandiera prima che la guerra stessa fosse finita. “Come è successo?” aveva chiesto Alabaster con più gentilezza, “Ho visto Ethan sparire ed ho capito quello che avrebbe voluto fare, si era sentito in colpa per non aver usato il veleno che avevi creato. Così lo ho inseguito, non chiedermi perché … ma quella mattina, io mi ero svegliata con la sensazione che se non lo avessi fermato non lo avrei mai più rivisto” aveva ammesso calma; non sapeva se i figli di Nyx avessero doti profetiche, non sapeva neanche perché, ma quando aveva visto la sua schiena sparire ne era stata certa, non si sarebbero più rivisti.
E così era stato.
Non ci sarebbe stato nessun glorioso domani per loro.
“E poi ho trovato questa ragazza sulle scale, per l’olimpo, era ferita e morente e … non ho potuto lasciarla, non ho potuto proprio” aveva raccontato. Era tornata distante su quelle scale, con a figlia di Lada, morente e quelle stupide caramelle al limone. “Si chiamava Dany, figlia di Lada, è morta tra le mie braccia e non sono riuscita a lasciarla lì” aveva spiegato, “Guardavo questa bambina, questa bambina come me, che era morta, come tanti altri e davvero Al non riuscivo a capire.”
Alabaster l’aveva guardata, gli occhi verdi erano un tumulto di emozioni senza controllo, stava riflettendo sulle sue parole. “Tu non sei mai stata al Campo” le aveva concesso poi, con un tono di voce basso, come se quella spiegazione bastasse.
“Lo so” aveva compreso il sottotesto Bells.
Avrebbe comunque scelto Luke se avesse conosciuto altro?
A Theos aveva detto di no, ma non ne era davvero così sicura.

“Sei inutile!” avevano sentito la voce femminile acuta e famigliare di Bernie, “Ti ho detto che non sono un dio combattente, sono il corrispettivo di uno stagista!” si era lamentato una voce maschile.
A fatica Bells aveva aumentato il passo con un passo veloce, sorreggendosi al suo amico con una certa fatica, avevano svoltato il corridoio infilandosi in una stanza dedicata agli etruschi che vedeva il patrimonio di un immenso valore storico ed artistico dell’universo etrusco, sparso sul pavimento in cocci.
Caco sembrava comunque molto in difficoltà, una testa mancava, quella centrale era tutta ammaccata, con lividi e sangue a coprirle, l’unica sana sembrava quella di sinistra e sembrava anche infuriata come un demonietto. July di rimando era fulgida, aveva un occhio pesto, un livido rosso sulla spalla e probabilmente un taglio verticale sulla coscia che rovinava i suoi pantaloni corallo, ma lei sembrava risplendere, sembrava anche più alta, più grossa, era difficile da spiegare.
“Sta luccicando?” aveva chiesto Bells confusa, “Sì, sono i poteri da figlia di Eris, più la si tormenta più diventa forte, tipo quella volta con Eracle e la mela” aveva spiegato Alabaster, “Non ho idea di cosa stai dicendo” aveva considerato Bells. “Riassunto: starà bene fino alla fine dello scontro, poi crollerà giù come una pera passata” le aveva spiegato.
“Oh siete vivi!” aveva detto July voltandosi verso di lei, aveva sorriso con solo mezza-bocca, la cicatrice sull’altro lato della faccia si era aperta di nuovo, “Kallisto a fallito, non c’era dubbio” si era lamentato la testa sana di Caco.
“Sì. Che sta succedendo?” aveva chiesto confuso Alabaster, “Che un gigante può essere ucciso solo da un semidio ed un Dio e come volevasi dimostrare gli dèi sono inutili” aveva ringhiato la ragazza, puntando con la lancia un angolo, i due si erano voltati.
Il ragazzo più bello che Bells avesse mai visto era comparso. Un bel giovane dalla pelle olivigna, i ricci neri adorabili, con il viso più elegante ed attraente che si potesse immaginare e sistemato in una camicia bianca di lino leggermente spiegazzata, teneva in mano come arma un punteruolo da ghiaccio. “Ti ho già detto che non sono un dio combattente” si era lamentato lui con le gote piene di rossore di imbarazzo, agitando il punteruolo.
“Almeno provaci a colpirlo, per l’Orco! Provaci!” aveva gridato July con una rabbia in corpo che la faceva apparire spaventosa, davvero spaventosa.
La nuova tinta di capelli scuri le avevano tolto quell’aria leggermente sbiadita che aveva avuto quando si erano riviste. Sembrava una signora della guerra, anche tutta pestata, anche più di come appariva prima di entrare nel labirinto, quando era la ragazzina leziosa e combinaguai.
“Mi sono stufato!” si era lanciato Caco, con vigore e forza, ma non era stato nulla contro July che come un olimpionica aveva tira la sua lancia, che nel mentre si era tramutata in un arpione, contro di lui trapassando il suo ampio petto e sbilanciando il gigante all’indietro, incastrando Caco contro un muro. “Io mi sono stufata” aveva gridato July raspante, si era voltato verso il dio, “Avvicinati con quello stupido punteruolo, ti prego” si era lamentato.
Il dio ci aveva provato, mentre Caco aveva messo le mani sulla lancia per cercarla di sfilarla a fatica dal suo petto, ma la forma in cui July l’aveva mutata, aveva permesso al gigante di estrarla, neanche nella sua immensa mole e forza.
Il dio sembrava piuttosto titubante, cosa che sconvolgeva non poco Bells, non era così abituato a vedere gli dei in quel modo. Erano creature splendenti, se pensava alla grande Dea Artemide, Theos ed anche Orual, perfino July tutta ammaccata sembrava più splendente di lui. “Oh, si sta liberando!” aveva detto il dio, con preoccupazione, osservando il viso rancoroso il gigante a tre teste, “E quando lo farà io non avrò l’arma” si era lamentata July, poi aveva voltato gli occhi castani verso di loro, “Al?” aveva chiesto.
“Ho appena fatto un evocazione, Juls, non credo potrei neanche scrivere mezza-runa” si era lamentato lui, “Ed Orual?” aveva chiesto allora con un principio di preoccupazione July. “Si sta occupando di Kallisto” aveva rivelato Bells, “Ha detto che avevi già un dio con te” aveva commentato con un leggera preoccupazione, guardando il dio che lento e timoroso come un gattino si avvicinava al gigante, che aveva cominciato a far vibrare la lama.
“Avete detto Orual?” aveva chiesto il dio bloccandosi e guardandoli, “Sì?” aveva risposto Bells. “Intendi una donna bisbetica, crudele e con gli occhi più infuriati del creato?” aveva chiesto il dio preoccupato, “Direi decisamente di no” aveva risposto Bells, “Più una bella donna, dalla voce gentile” le aveva dato manforte July.
“Questo non ha senso” aveva considerato il dio, “Sai cosa non ha senso? Che tu non abbia ancora ficcato quel punteruolo in uno degli occhi di Caco” aveva stabilito July poi, con più vigore. Bells doveva essere piuttosto ammirata da come fosse così selvaggia e brutale anche davanti ad un dio.
Onestamente Bells aveva pensato che anche July sarebbe stata come lei, una persona che aveva scelto i titani perché non aveva conosciuto altro, gli dèi non le avevano arrecato alcun male ed erano stati Crono e Luke a spingerla ad entrare nel labirinto, dove aveva perso la sua amica ed aveva perso un po’ di lei. Eppure, eccola, ancora fedele alla causa.
“No voi non capite” aveva detto il dio, “Nessuno che usi il nome di Orual è … fidato. Cioè in realtà è più complicato; più che poco fidato, chiunque si associ ad Orual è inviso agli dèi!” aveva spiegato il dio, “Considerando come ci ha aiutato” aveva soppesato Bells, guardando July, l’espressione della ragazza era molto diversa dalla sua.
July e Bells si erano guardate ed un pensiero aveva attraversato la loro mente, erano cambiate le loro percezioni, i loro favori.
“Bel ragazzo, forse non hai capito chi siamo” aveva replicato July, infatti. “Theos ha detto l’esatto contrario” aveva risposto poi pratica Bells, ricordando la conversazione con il dio nascosto, ricordando come l’altro avesse detto Orual comprendesse gli animi e fosse fidata.
Il commento di July aveva indisposto il giovane dio, ma quello di Bells aveva attirato la sua attenzione, le labbra piene e carnose si erano schiuse in un segno di stupore.
“Chi è Orual?” aveva chiesto Alabaster, sempre così calmo e misurato, “Possiamo sbarazzarci prima di Caco, sul serio? Il mio corpo tra un po’ avrà perso il potere del ‘contraccolpo’” si era lamentata July. Il dio l’aveva ignorata, “Orual è stata una dei primi umani a ribellarsi apertamente al volere degli dèi, li ha anche convocati a processo, lei a lor… noi, che il contrario” aveva rivelato sconvolto il dio.
Bells aveva ricordato le parole di Theos, che Orual era nata umana senza goccia di sangue divino, che aveva compiuto un’impresa divina, ma che l’animo di Bells doveva essere buono se era stato scelto. Non sapeva perché ma questa Orual descritta dal Dio sembrasse così diversa.
Un rumore di ferro gli aveva distratti, avevano fatto scattare lo sguardo su Caco, il gigante si era sfilato l’arpione dal suo petto, ma invece di avanzare era ondulato, sangue nero aveva cominciato a zampillare dal corpo, fiancandolo molto. “Potremmo applicare la stessa strategia usata con Giuturna?” aveva chiesto July ad Alabaster, mentre osservava il dio farsi piccolo e timoroso, anche di avvicinarsi al gigante morente, “Sono troppo debole, che ne dici di quella usata con Fama?” aveva proposto.
July aveva sbuffato, “Ci farà solo guadagnare poco tempo, senza i tuoi mirabolanti poteri” si era lamentata la figlia di Eris, cercando con lo sguardo la sua arma, quando aveva toccato terra aveva ripreso l’aspetto di una lima.
Caco era crollato a terra, ma aveva piantonato subito i palmi per terra per sollevarsi ancora, July si era voltata verso il Dio, “Ti prego” aveva supplicato.
“Tranquilli, biscottini, ci pensò io” era arrivata salvifica la voce di Orual alle loro spalle. La dea era zampettata per la stanza, cercando di evitare i cocci lasciati in giro per il pavimento, “Dei, avete idea di quanto valesse quell’Oinochoe?” aveva chiesto con più grazia, poi si era voltata verso Al, “Adesso, Cat ti prepara un po’ di quel suo buon caffè, così ritornerai al tuo fulgido splendore e potrai sistemare questo posto con la magia. Questo luogo per i mortali è di importanza immane” aveva detto, prima di posare una mano sulla spalla di July per sostenersi.
La ragazza si era fatta rigida come una spada, mentre tutti osservavano Orual sollevare un ginocchio per raggiungere la scarpa. “Grazie per il nocciolino, comunque” aveva detto Orual a July, che aveva annuito nervosa. La dea indossava dei decolté eleganti di un fucsia acceso, luccicanti, su cui era presente un tacco sottile d’argento. “Scusate non ho armi” aveva ammesso piena di imbarazzo, esibendo la sua scarpa.
Caco aveva sollevato lo sguardo appena in tempo per beccarsi una taccata nel centro della testa di mezzo e poi un’altra nella testa superstite, il gigante era morto in un lamento e polvere nera.
“Odio come è ridotta” si era lamentata guardando la scarpa con un certo biasimo, il tacco sottile era imbrattato di sangue, “Sono delle Goldenapple originali, 1990, con tacco in bronzo celeste” aveva scherzato con un certo divertimento Orual, asciugando il sangue sulla gonna a fiori.
“Goldenapple?” aveva chiesto July sorpresa, “Il mio stilista preferito” aveva risposto Orual, strizzando l’occhio alla figlia di Eris.
Goldenapple? Non era solo un evidente riferimento alla dea della discordia, ma anche al cognome che la ragazza usava. Ripensandoci, secondo Bells, era davvero una coincidenza buffissima.
La dea si era voltato verso il giovane dio, “Non hai sentito, Cat?” aveva chiesto con una certa urgenza, “Tu?” aveva chiesto quello, boccheggiando, “Tu non sei Orual” aveva aggiunto solamente.
“Presumo sia solo questione di punti di vista” aveva risposto la dea con un sorriso tranquillo, infilandosi nuovamente le scarpe, prima di guardare nuovamente il dio. “Cat, per favore, fai il caffè per Alabaster, questo macello non si aggiusterà da solo e devo occuparmi di July, tra due minuti probabilmente crollerà a terra” aveva insistito Orual
“Molto probabile, inizio decisamente a sentire un certo fastidio” aveva considerato July con la voce intrisa di sarcasmo.
“Avreste voglia, mia signora, di rivelare la sua vera identità?” aveva domandato Alabaster, assumendo un tono fastidiosamente diplomatico.
“Orual era una donna capace di tantissimo amore, infinito amore, a modo suo forse dannoso, ma gli dei inamovibili nei loro sentimenti non potevano comprenderlo. Orual, si può dire, è stata la prima di voi, la prima a ribellarsi contro questo sistema terribilmente ingiusto. Quando ho deciso di aiutarvi, perché come voi anche io sono stata più volte provata e più volte ritenuta inadatta, ho scelto il suo nome. Perché Orual non ha mai temuto di far sentire la sua voce e … be, oltre al fatto che sono, perché neanche la sua morte può averlo cambiato, io sono legata a lei in maniera personale; potete continuare a rivolgervi a me così, se lo desiderate” la dea aveva fatto una pausa, “Altrimenti … Io sono Psiche[2].”

 



[1] Da Eschilo, che nella versione originale metteva Zeus!

[2] Be, cari lettori, penso che fosse inevitabile da un certo capitolo.

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Capitolo 34
*** Il nemico del mio nemico è il mio … riluttante alleato? Immagino di sì (Heather V) ***


Questo capitolo mi fa abbastanza schifo e lo avevo scritto settimane fa, ho deciso di pubblicarlo perché è uscito in italiano The Sun and The Stars e sospetto che presto rientrerò di forza nella mia fase Percy Jacksoniana.
Un paio di punti: arrivata a questo punto della storia vorrei tornare indietro e cambiarla in più punti, ma ahimè non posso, il problema è che i personaggi hanno sviluppato sfumature diverse dal primo pensiero, la trama generale è rimasta invariata, ma ci sono stati cambiamenti.
Inoltre, ho sempre cercato di adattare ICDI al canone Riordiano, aggiustando e modificando dove mi era permesso, in base ai libri, senza devastare la trama (anche se a volte sì, vi faccio una confessione, il ruolo di Eritteo contro July, in origine, era di Orione, ma Orione era troppo diverso e troppo distante), considerate sempre che ho cominciato a scrivere questa storia che non era ancora uscito The House of Hades e a pubblicarla in contemporanea con Blood of Olympus (sul sito questa storia ha quasi 10 anni, ma sui diversi pc che ho avuto ne ha di più. Ho cominciato a scriverla prima del mio diploma, help), tutta questa premessa era per dire che con TSATS mi arrendo (questa storia segue il canon fino alla Torre di Nerone), non terrò conto di niente uscito da quel libro ne dal successivo previsto per l’autunno, ne modificherò la trama se per caso dovessimo imbatterci in qualche mostro/personaggio, altrimenti rischio di mandare tutto in malora, credeteci, o meno, dal punto di vista di trama: abbiamo passato il Rubicone.
Non ci sono più personaggi da conoscere, da introdurre (a parte qualche dio, personaggio secondario, ospite del capitolo o per qualche micro trama e ovviamente personaggi la cui identità è rimasta ancora misteriosa: Il-Dio-Vestito-di-Bianco o El-G e Quilly solo accennati, ma loro due sono gli ultimi) ma finalmente: abbiamo tutti i giocatori, tutti nel posto giusto, tutti che vanno in direzioni specifiche.
Vorrei dirvi che siamo in dirittura di arrivo, ma … no.
Però non possiamo più tornare indietro.
Un bacio per tutti coloro che sono arrivati fin qui, per chi ha mollato prima, per chi ogni tanto si ricorda, per chi verrà!

RLandH

Ps – Il titolo iniziale di questo capitolo doveva essere: Ehilà questo è il capitolo con tutti i call-back!

 

Il nemico del mio nemico è il mio … riluttante alleato? Immagino di sì

Heather V

Le onde magnetiche dei cellulari rendevano i mezzosangue facili bersagli dei mostri, circa. L’avevano spiegata così ad Heather quando Qbert l’aveva portata al Campo-Mezzosangue la prima volta e così lei l’aveva dovuta spiegare a sua madre.
Chirone però all’alba degli anni duemila si era ritrovato a far fronte a qualcosa che era capitato raramente nella sua secolare – millenaria – vita di educatore di giovani eroi: i genitori.
Quando Daisy Shine aveva sentito quella storia da sua figlia non era stata per nulla concorde con Chirone. Heather ricordava l’estate successiva alla prima che aveva passato al campo, di aver attraversato l’America in Aereo – “Madre, Zeus potrebbe essere turbato”, “Se così sarà che se la prenda con quel simpaticone di suo figlio” – per raggiungere New York per poter parlare a tu-per-tu con Chirone.
In quell’occasione non pochi mostri avevano cercato di ucciderle ed Heather continuava a pensare di aver salvato sua madre per il rotto della cuffia. Daisy Shine era rimasta incinta giovane, troppo giovane, da un ragazzetto bellissimo – retroattivamente aveva ammesso che non c’erano dubbi che fosse un Dio –  che le aveva promesso il mondo e poi era scomparso.
Heather si era chiesta per anni perché sua madre non odiasse suo padre o lei – Daisy Shine le aveva assicurato che nulla al mondo l’avrebbe mai indotta a provare qualcosa che non fosse un amore esautorante per Heather e nessun rancore per il suo amante passeggero, ‘Da lui ho avuto te’ aveva risposto.
Daisy Shine aveva scoperto che il padre di sua figlia fosse un dio – “Sai una parte di me ha sempre sospettato non potesse essere tutto vero, tutto umano” – quando Heather stessa lo aveva scoperto e quasi un anno dopo di lei che era Apollo.
Così Chirone quando si era visto palesarsi Heather, dodici anni, viso coperto di graffi e fuliggine, e la sua madre troppo giovane con sguardo determinato aveva capito che non avrebbe mandato facilmente via la donna.
Però le aveva spiegato che da un paio d’anni esisteva una casella della posta a Long Island, che Argo controllava quasi una volta a settimana, dove i genitori potevano scrivere e dove i figli potessero rispondere – quando per qualche ragione i messaggi di Iris non avessero funzionato, con i genitori mortali sprovvisti di vista succedeva spesso.
Ogni settimana, Heather – per l’invidia e la rabbia degli altri bambini – riceveva sempre molte lettere; specie dopo aver deciso di non tornare con la fine dell’estate, di restare al campo a tempo indeterminato.
Alcuni mezzo-sangue riuscivano a vivere una vita completa, ma Heather non voleva costringere anche sua madre a nascondersi dai mostri, quando la donna stessa non possedeva la vista.
Aveva fatto male, malissimo – per questo non cercava mai di pensarci, ma dopo la stoccata della freccia velenosa di Troilo – e la profezia! – ed un’occhiata alla giovanissima Sky, incinta di un bambino mezzo-dio, ma per Heather era stato impossibile ignorare la mancanza di sua madre.
Aveva leccato il bordo della busta prima di chiuderla ed infilarla nella cassetta delle lettere. 24883 Se Baseline St. Hillsboro, Oregon, Stati Uniti d’America – l’indirizzo di sua madre, della casa dove era cresciuta, con le piante di erica e brugo[1] in giardino.
Aveva scritto davvero poche cose: Ti amo e sto bene mamma!
E non si illudeva che quelle poche parole non avrebbero reso sua madre piena di ansia, specie quando avrebbe riconosciuto l’indirizzo diverso da solito di Long Island.
Aveva preso l’altra busta dalla borsa ed aveva leccato anche il bordo di quella per chiuderla, controllando per l’ennesima volta poi l’indirizzo, era quello della casella postale del campo – a Long Island – ma non ne era sicura.
Aveva scritto una lettera per Darren, per fargli sapere che era viva che stava bene, che le dispiaceva tanto di non averlo contatto prima, dopo la loro brusca interruzione in bagno, dopo non avevano più funzionato i messaggi. Aveva cercato di essere quanto più sintetica nelle informazioni da riportare a Chirone ed aveva evitato di riferirsi che si fosse messa in viaggio con Jude e Bernie, due mezzosangue che avevano seguito il fuoco fatuo di Chirone.
Aveva evitato di raccontare dell’avvelenamento ma solo del suo legame con l’Aten e che andava a farsi aiutare da un tale El-G, sotto consiglio di Grande Madre Idea.
Inoltre, riportava la separazione tra lei e Qbert che avrebbe condotto una povera anima persa al campo e che non aveva idea di come proseguire la missione.
E si era sentita così in colpa per le sue omissioni e le sue menzogne.

Quando aveva infilato anche la seconda lettera nella buca delle poste aveva sollevato lo sguardo verso Puma. “Patatina?” aveva chiesto retorico lui, allungando verso di lui la busta aperta. “Sì, ti prego” aveva risposto lei, infilando la mano nel pacchetto.
Erano in viaggio da due giorni, quando aveva pensato di fermarsi per inviare le lettere ed aveva avuto l’impressone che la sosta avesse giovato a tutti.
Heather si sentiva strana, non aveva altro termine per descriversi, una parte di se sentiva chiaro e netto il veleno che stava corrodendo il suo corpo, era come una mano invasiva sul suo corpo, sulla sua anima, come se certi parti di se non fossero più sue ed il potere dell’Aten non aiutava: era fuoco vivo che scorreva nelle sue vene. Dopo il rituale con il mago egiziano, aveva cominciato a portare un guanto sulla mano marchiata, per coprire la luce iridescente, che si vedeva comunque coperta dalla stoffa. Sentiva la sua pelle più calda di quanto non fosse mai stata, quando era tramontato il sole dopo il primo giorno, aveva illuminato l’ambiente come se fosse stata una lampadina e non era riuscita a spegnersi.
Almeno aveva recuperato quel controllo.
“Non riesco ancora ad abituarmi all’idea che ti chiami come un animale” aveva ridacchiato lei, “Disse quella con il nome di una pianta” aveva risposto il ragazzo, facendo trillare di più il pacchetto di patatine per invitarla a prenderne altre, “È un nome importante, non è Puma è Pumayyaton, Re di Tiro … forse lo conosci come Pigmalione” aveva considerato lui. “Era quello della statua?” aveva chiesto, “No, quello era Pigmalione re di Cipro, stesso nome, diverso re” aveva risposto.
Heather aveva inghiottito le patatine, “Meglio che un tributo a una pianta” aveva buttato fuori lei.
Puma aveva sorriso verso di lei, quasi incoraggiante, “Se può consolarti trovo molto belle le callune” aveva stabilito, sornione.
Heather era arrossita. Era uno splendido figliolo, aveva occhi verdi, ma non così verdi, più simile alla chartreuse, alto, con le lentiggini sulle gote, come quelle di Darren, ed una zazzera biondo ardente. Un tipo di bellezza che faceva sentire un po’ in colpa Heather pensando al suo povero Darren.
“Come stanno?” aveva chiesto Heather facendo riferimento ai loro umorali compagni di viaggio-
“Be, il tuo amico chiacchiera poco – ma mi han detto che questo è normale – e Bernie non sta bene” aveva risposto Puma, con un sorriso di vetro.
Heather non conosceva Bernie LaFayett, non aveva minimamente avuto idea della sua esistenza, neanche durante la battaglia di Manhatthan, ma avevano combattuto fianco a fianco durante la battaglia di Sciro, l’aveva vista disintegrarsi davanti a lei e ricomporsi, l’aveva ricondotta all’Ovile.
Aveva saputo in seguito, poi, che Bernie avesse visto morire il suo amico mostro – Heather non aveva voluto indagare – avuto una conversazione con sua madre: la terribile Nyx – Heather non aveva potuto indagare – ed aveva rincontrato Jude con cui non aveva un buon rapporto – Heather aveva saputo, invece.
Jude l’aveva salvata a Manhatthan e, poi, abbandonata, senza spiegazioni.
Heather non era stupita, Jude sembrava decisamente il tipo capace di scomparire senza dare una spiegazione, in una qualsiasi mattina, ma aveva trascinato Heather nella ricerca di Bernie, quando aveva pensato che la ragazza fosse in pericolo.
“Vado a parlare con Bernie” aveva considerato Heather, “Non dovresti parlare con Jude?” aveva chiesto invece Puma – che nome buffo, non aveva ancora avuto modo di interrogarlo su di lui, tipo: era anche lui un servo di Crono? – prima di ingollare delle patatine. “Avrebbe più senso ma, primo: Jude non parla; secondo: Jude sta attivamente cercando di evitarmi, sai sensi di colpa; terzo: io e Bernie abbiamo proprio bisogno di parlare” aveva spiegato pratica, “Cose da ragazze, immagino” aveva scherzato Puma.
“Immagino che cose di ragazze riguardino Lilith e la conversazione che avete avuto nella sala macchine del C.I.B.E.L.E” aveva buttato fuori Puma, “Sì, sai così: cose da ragazze, profezie mortali” aveva scherzato forzatamente Heather.
“Allora io mi assicuro che il tuo amico silenzioso non si dia alla fuga, mi hanno detto che è una sua specialità” aveva scherzato con divertimento, “Oh, be, sarebbe carino, visto che è lui la guida” aveva scherzato.
Jude era in macchina, che con una penna cercava di scrivere qualcosa su un taccuino, Heather sospettava fosse un: mi dispiace tantissimo che il veleno che ho progettato con il mio amico Al ti stia uccidendo.
Gli aveva sorriso incoraggiante ed il suo amico aveva immediatamente deviato lo sguardo.
Lei aveva raggiunto Bernie, che si era seduta su una panchina, nel parco vicino e guardava con sguardo neutro i bambini giocare.
“Sai a casa mia c’era un parco come questo” aveva detto Bernie, casualmente, mentre Heather si sedeva al suo fianco, stava consumando una bibita gassata dall’odore dolciastro e gliene offrì immediatamente un po’. “Vicino casa mia c’era la superstrada” aveva scherzato Heather, “Ma io avevo un bel giardino pieno di fiori” aveva buttato fuori.
Di tanto in tanto Heather si era chiesta perché non fosse nata figlia di Demetra, aveva anche ipotizzato potesse esserne discendente da sua madre, ma non aveva ricevuto mai notizie in merito …
“I ragazzini del parco erano cattivissimi e prendevano sempre in giro me e mia sorella, ma Bells non si faceva mai mettere i piedi in testa” aveva ricordato Bernie.
“Credo che voi due siate la prima coppia di gemelli semi-divini di cui sento parlare” aveva considerato Heather, “Da Castore e Polluce” aveva aggiunto, “Non quelli della mitologia, due ragazzi del campo … figli di Dioniso”.
“Luke Castellan diceva fossimo un miracolo, di solito quando nascono due gemelli mezzosangue, uno dei due è per forza mortale, sai Castore-e-Polluce, Ercole-e-Ificle … ma noi, noi no” aveva risposto, “Inoltre siamo due gemelli figli di una dea – e questo è davvero una rarità”.
Era quasi interessante come Luke Castellan risultasse un nome casuale sulle sue labbra, al Campo era una figura così complicata e indipendentemente da chi lo giudicava aspramente e chi con più mollezza, riabilitando la sua memoria con il suo ultimo sacrificio, indipendentemente: nessuno pronunciava il suo nome. Heather ricordava la prima volta che lo aveva visto quando l’aveva accolta nella Casa di Hermes, con il suo sorriso rassicurante e gli occhi smaliziati, quasi raggiante, quasi divino – era andato via quell’estate.
Il Campo-Mezzosangue aveva sanguinato e pianto quando il suo figlio amorevole l’aveva tradito. Tutti loro erano passati sotto le cure di Luke Castellan, per breve o per lungo tempo, forse solo Annabeth Chase era sua e forse solo i figli di Hermes erano i suoi fratelli, ma Luke Castellan era stato in qualche modo il fratello maggiore di tutti loro.
“Be, una non è la notte che avanza se non fosse speciale” l’aveva presa in giro Heather, ricordando le parole che Bernie aveva raccontato lei, dopo la conversazione con sua madre nel Tartaro, “Be, mia madre era abbastanza convinta che Bells dovesse esserlo, poi ha cambiato idea” aveva detto leggermente stizzita, ondeggiando una mano e sul suo palmo di onice nerissimo era apparsa uno strano cannocchiale, aveva dei punti di luce, fiochi sì, ma visibili, come piccoli diamanti.
“Oh, cosa è?” aveva chiesto con interesse.
“Un caleidoscopio magico, onestamente non so quale sia il suo funzionamento, me lo ha dato mia madre per cercare l’arma, ma una volta funziona e dieci no” aveva considerato leggermente offesa.
“Oh, l’arma!” aveva commentato Heather, chiudendo le mani sul viso.
“Oh, l’arma” aveva fatto eco Bernie, con un tono mogio. Non avevano discusso di cosa avrebbero fatto quando avrebbero trovato l’arma, Heather era intenzionata a riportarla al campo come piano B contro la terribile Gea – aveva già perso la Stella di Erebo, che era rimasta come protezione al C.I.B.E.L.E. – e non aveva idea di cosa volesse Bernie, o Jude, o Puma.
Quasi si pentiva di aver accettato la supplica di Qbert di portare la giovane Sky al Campo-Mezzosangue.
“Non avreste dovuto essere in tre, a proposito?” aveva chiesto Bernie, cogliendola di sorpresa, “Sì, avremmo dovuto se fosse stata una missione vera. Chirone non voleva far andare nessuno, la profezia di Rachel erano solo frammenti ma … era una speranza ed io volevo fare la mia parte. Ho detto a Chirone che sarei andata con o senza il permesso, Qbert ha accettato di accompagnarmi ed anche Darren voleva venire, ma … Un mezzosangue in pericolo bastava e avanzava” aveva raccontato.
Bernie sembrava interessata, “Per una volta ho sentito che questo era il mio momento” aveva scherzato, “Lungi da me immaginare una purga specifica contro i figli di Apollo” aveva scherzato, guardando il dorso della sua mano dove sotto il guanto rifulgeva il rossetto d’oro permanente del Sol Invictus.
Heather aveva chiamato suo padre ma aveva risposto il suo aspirante nemico – divertente!
E così tipico di suo padre, Heather lo pregava e rispondeva un suo avversario, mentre i suoi nemici si occupavano di tormentarla fino alla morte.
“Direi che questa era la tua missione, sì” aveva considerato Bernie ma non c’era gioia nella sua voce. Il Sole che muore.
Oh, be, lei era figlia di Apollo, era benedetta dall’Aten e stava morendo. Tutto regolare.
“Ti ricordi i versi della profezia dell’Oracolo?” aveva chiesto con interesse Bernie, “Sì” aveva ammesso, “La profezia di Rachel è su un’arma però, non è detto che sia la profezia dei libri sibillini, quella che parla di me, di te e della progenie di due dee” aveva considerato.
Da Lilith non erano riusciti a cavare fuori niente, se non che fosse complice di Eris – una delle poche dea ad aver letto casualmente la profezia, almeno una parte …
“A proposito di questa cosa, ho interrogato Puma, non ci crederai mai ma non sa nulla o quasi di mitologia, ripensandoci non mi sorprende che Mr-Sparo-E-Poi-Chiedo sia poco avvezzo allo studio. Comunque: normalmente si assistono a casi in cui un semidio ha più genitori, tipo, Teseo no, che era figlio di sua madre, del re di Atene e di Poseidone, nella mitologia norrena esistono pochissimi casi di due genitori divini per un semidio” aveva spiegato Bernie.
“Orione, in una versione è figlio di Zeus, Poseidone ed Ermes che hanno fatto pipi su qualcosa” aveva ricordato Heather – non riusciva a rammentare come lo avesse scoperto, qualcuno doveva averglielo detto, era sembrato divertente. “Ma indovino: due madri mai?” aveva chiesto poi Heather, osservando il profilo di Bernie, “Dei norreni esclusi, si intende” aveva considerato, giocando con il suo caleidoscopio la figlia di Nyx.
“Be, dopo aver conosciuto Xander figlio di Freya, direi che non mi sento di escluderli dall’equazione” aveva scherzato forzatamente.
Poi era caduto il silenzio tra loro, “Fammi vedere questo caleidoscopio” aveva considerato Heather allungando una mano verso l’oggetto. Bernie aveva allungato verso di lei l’oggetto, “Come lo usi di solito?” aveva chiesto con curiosità.
Nel momento in cui le sue dita avevano toccato il simil-cannocchiale aveva sentito un flusso d’energia attraversarla, come una scossa, i piccoli diamanti si erano accesi ed Heather aveva sentito il bisogno di ritrarsi, prima di combattere il suo impulso.
“Oh wow!” aveva esclamato Bernie, mentre scioglieva la presa dall’oggetto. “Puro manto della notte che incontra una figlia del sole potenziata dal disco solare, un miracolo che non abbiamo fatto boom!” aveva scherzato.
Bernie si era lasciato sfuggire una risata, quasi liberatoria. “Allora: come lo fai funzionare?” aveva chiesto di nuovo Heather, “Ci guardo dentro e faccio ruotare le parti e le immagini cambiano, passano da specchi di luce di ogni genere a … altre cose” aveva considerato.
“Ma niente arma?” aveva indagato ancora, “Ma niente arma” aveva ripetuto Bernie.
Heather aveva sentito l’oggetto tra le sue mani, con nervosismo, e poi aveva chiuso un occhio e guardato dentro. Aveva incontrato un intricato sistema di colori di ogni genere, che si riflettevano in forme geometriche sempre più strane, aveva cominciato a far ruotare le lenti, osservando i cambiamenti sempre più intriganti, poi mossa da qualcosa aveva fatto schioccare le dita, spingendo un raggio di luce perché lo illuminasse come era suo interesse ed invece di colori sgargianti al giro successivo era apparso un campo verde ed un albero dalle foglie grandi su cui sonnecchiava un drago, il Campo, aveva cercato di stringere il campo ma l’immagine era cambiata.
Era Darren nel campo di fragole che discuteva con Miranda Gardiner!
Aveva girato ancora le lenti ed aveva visto Qbert che teneva una borsa al fianco di Sky e girato ancora le lenti aveva visto altro ed altro, fino a che non era tornati  i colori.
“Oh capito” le aveva detto.
“Cosa?” aveva chiesto Bernie confusa, “Questo non è un mezzo, questo è un regalo” aveva specificato. “Come?” aveva domandato l’altra. “Non è un modo per raggiungere l’arma, non è un cannocchiale, non serve per vedere, ma per guardare” aveva spiegato, “Ora è tutto più chiaro” aveva detto Bernie sarcastica. “Non vedi niente con un caleidoscopio, guardi solo le immagini che le pietre e gli specchi al suo interno riflettono, creano composizioni bellissime che intrattengono i bambini, gli adulti, a cui ispirarsi e cose del genere” aveva cominciato ad illustrare Heather didascalica.
“Quindi mia madre mi ha dato un caleidoscopio per vedere delle belle immagini?” aveva chiesto retorica, “Non molto da mia madre” aveva considerato.
Heather aveva sorriso: “Questo è magico, sospetto che oltre fuori anche dentro ci siano frammenti di stelle, che ti permettono di vedere cose belle per te, io ci ho visto casa, mia madre, il mio ragazzo” aveva spiegato con calma.
Bernie si era morsa un labbro, “Ci ho visto Bells ed Al” aveva spiegato calma, “Quindi sì” aveva considerato, “Probabilmente mamma voleva farmi … vedere gli altri” aveva pensato. Heather aveva sorriso, “Magari scoprirai in futuro la sua utilità, due anni fa mio padre mi ha regalato un rametto di erica e neanche una settimana fa ho scoperto come utilizzarlo” aveva valutato Heather.
“Riesco a percepire che c’è un secondo fine, una delle stelle la ho donata alla terribile dea primordiale Talassa” aveva considerato. “Magari dovrai offrirla ad un altro dio, magari ad El-G” aveva ridacchiato Heather, guardando le labbra lucenti sulla sua mano, allungando verso la sua compagna la sua il suo caleidoscopio.
“Magari … posso guardare il Tartaro è vedere Arvey” aveva considerato Bernie, guardando l’oggetto con più morboso interesse, “Puoi tentare” aveva considerato Heather, “Mi dispiace per il tuo amico, comunque” aveva considerato, “Probabilmente non ti sarà di alcun aiuto: ma so come ti senti” aveva detto.
Lee. Michael.
Poteva il caleidoscopio guardare ovunque fossero le loro anime immortali?
“Ti ricordi i ragazzi del parco di cui parlavo prima?” Bernie aveva interrotto il suo vagare mentale, “Quelli che prendevano in giro te e tua sorella?” aveva chiesto retorica, “Arvey li ha uccisi e li ha mangiati” aveva detto Bernie, il suo tono era neutro, senza giochi, senza nulla, “Ha anche rotto il braccio di Bells per evitare che scappassi e mia madre mi ha detto che ha tenuto lontano da tutti” aveva spiegato, c’era qualcosa di rotto in lui, la sua voce, le sue emozioni sembravano un fiume in piena. “E lo so che lo ha fatto, che ha fagocitato ogni cosa che potesse ferirmi ma anche ogni cosa che potesse amarmi … eppure, mi manca” aveva soffiato e lacrime amare avevano segnato le guance tonde e piene. “Avevo lui anche quando non avevo nessuno” aveva detto.
Sembrava mostruoso
“L’amore non è razionale, anche quando è malvagio” aveva spiegato pratica Heather, pensando al suo padre volubile, che non rispondeva alle sue chiamate, che fossero disperate o solo guidate dal bisogno, ma che lei non smetteva di amare. Bernie le aveva sorriso, con le lacrime a segnarle le guance, “Volevo dirti grazie di cuore per aver cantato per me, la tua voce mi ha riportato in questo mondo” aveva considerato.
Heather aveva sorriso di rimando, “Non facciamola diventare un’abitudine, eh, non sono particolarmente brava a tirare fuori le persone da nubi oscure” aveva scherzato, godendosi quel momento di intimità.
Aveva l’impressione che quel ringraziamento, unito alla confessione sul suo amico mostro molto territoriale, sancisse qualcosa di diverso, di nuovo, di più personale.
“Non ho conosciuto molti figli di Apollo, in effetti solo uno, ma sei un sacco diversa” aveva valutato Bernie mesta, “Fidati io sono piuttosto nella norma, riguardo a Carter, sicuramente è un tipo, però mi manca” aveva sputato fuori Heather senza pensarci, non poteva essere nessun’altro infondo, se non suo fratello Carter.
“Sembrava sempre avesse un limone in bocca” aveva considerato Bernie, quasi amichevole, Heather aveva annuito, “Non me lo ha mai detto ma era palese che gli fosse successo qualcosa” aveva detto nervosa, qualcosa che lo aveva spinto quel giorno a fare i suoi bagagli, con la fine dell’estate e rispondere solamente con un sorriso mesto al ‘Ci vediamo!’ di Heather.
Neanche sul campo di battaglia si erano visti, Heather ne era grata perché non avrebbe saputo cosa fare dopo la  Battaglia del labirinto e poi a Manhatthan. Sentiva Carter la colpa per Michael e Lee?
Dii imortales, che assurdità, un anno fa eravamo per le strade di Manhattan a cercare di ucciderci ed ora guardarci” aveva dichiarato Heather.
“Sì, gloria ai titani, la mia vita è una barzelletta” aveva ridacchiato la ragazza, grattandosi la fronte, “Se … se trovassi io l’arma e la consegnassi io al Campo, pensi che ecco, gli dèi sarebbero disponibili ad una indulgenza?” aveva chiesto Bernie.
Questo! Questo l’aveva stupita.
“Vuoi la verità? Nessuna cazzo di idea, gli dèi fanno le cose a caso, ti perdonano per aver aiutato a mappare il labirinto e poi ti castigano per aver corteggiato la ninfa sbagliata” aveva sputato fuori, “Vuoi unirti al campo?” aveva chiesto, era proprio strano da pensare, immaginava che tutti i seguaci di Crono fossero profondamente anti-divinità. “Non lo so? Quando avevo dodici anni un lestrigone mi ha rapito e portato da Luke Castellan, non ho avuto molta scelta ed … è stato bello al C.I.B.E.L.E.” aveva considerato. Era strano da pensare per Heather che Bernie non avesse potuto avere scelta, che non avesse mai conosciuto da fare, era meno facile da odiare Carter, Alabaster ed i ragazzi che avevano tradito, ma Bernie?
Heather aveva sorriso, “Forse da Grande Madre Idea potrai tornare sicuramente” aveva valutato, pensando a come era stata gentile ed amichevole la dea con loro, “Penso sia la prima volta che una Dea si sia dimostrata così disponibile” aveva valutato. “Perché hai combattuto per gli dèi se ne parli sempre così male?” aveva domandato incuriosita, “Uhm … il male che conosci come ti sembra? Ma in realtà, ti direi che forse è il fatto che gli dèi non abbiano alcuna intenzione di mangiarmi, questo credici è un ottimo incentivo” aveva scherzato.
Bernie aveva ridacchiato, “Lo sai, no? Mi ha sconvolto il fatto che dopo Manhattan, dovevo guardarmi dai mostri” aveva considerato, sembrava quasi una battuta. “Ho ucciso la mia prima Dracena ha dodici anni, non ho idea neanche come sia successo, grazie a Qbert per lo più” aveva ridacchiato.
Aveva pensato al satiro e l’ultimo saluto lacrimoso che si erano scambiati, era davvero turbata dalla sua assenza, “Sembra un tipo simpatico” aveva considerato.
“Dovevi conoscerlo quando sognava tiasi dionisiaci!” aveva riso Heather. Bernie l’aveva guardata, con intensità, aveva occhi scuri, come legni bruciati ed avevano lo stesso intenso calore, ed aveva sorriso.
“Stavo pensando che … il nostro caro Jude spergiura che questo El-G debba sapere qualcosa su questa profezia, però, ecco, sai mi è sembrato molto insistente” aveva valutato Bernie, grattandosi sotto il mento. “Pensi stia mentendo?” aveva chiesto Heather, “Quando ha parlato di El-G, dopo che ho raccontato il mio sogno, Grande Madre Idea ha detto che era una cosa plausibile, quindi no, ma credo abbia altre ragioni per raggiungere questo El-G” aveva riportato Bernie, con gli occhi scuri distanti, il loro discorso però non aveva potuto trovare seguito.

Jude si era affacciato verso di loro, con espressione colpevole sul viso mentre teneva un foglietto di carta strappata tra le mani tremolanti. “Sappiamo che puoi parlare” lo aveva rimproverato bruciante Bernie.
Avevo lui quando non avevo nessuno … Heather doveva immaginare che Jude avesse finito per incarnare tutte le persone che volenti o nolenti avevano dovuto abbandonare Bernie, per questo era così arrabbiata con lui. Il labbro inferiore di Jude era tremato e le sue guance si erano fatte di un rosso infuocato mentre margherite fiorivano tra i capelli biondi, mentre frustrato allungava un biglietto verso Heather.
Lei lo aveva preso, “Non ti forzerò a parlare se non vuoi farlo” aveva detto accondiscendente.
Jude le aveva sorriso, grato. Bernie aveva fatto una smorfia meno comprensiva.
Heather aveva scartato il foglietto osservando ciò che Jude aveva scritto. Una sola parola: Zagreo.
“Zagreo?” aveva chiesto con perplessità Heather, “Gloria ai Titani, già la tua lingua è atrofizzata, anche le tue mani, più di due parole potevi scriverle?” aveva domandato con rabbia Bernie, oltre alle margherite erano fiorite anche campanule sulla nuca e dietro le orecchie, di colori brillanti.
“Fratello” disse Jude, toccandosi sullo sterno, sembrava sempre che ogni parola pronunciata fosse un dolore indicibile sul suo cuore.
Quello di Jude non era un problema legato alla voce, alle parole, ma alla comunicazione, poteva parlare, poteva scrivere, ma non voleva farlo. Voleva che il mondo rimanesse fuori.
“Tuo fratello? Zagreo? Non sapevo avessi un fratello, ci stai proponendo di andare da lui invece che da El-G?” aveva chiesto Heather, “Lui parla a differenza tua?” aveva chiesto provocatoria Bernie.
Jude aveva scosso il capo in segno di diniego, tirando fuori dalla tasca dei jeans logori il taccuino ed una penna, “Parla!” aveva gridato Bernie. “Morto” aveva detto lugubre Jude.
“Bene: Zagreo. Fratello. Morto” aveva ripetuto Heather, “Un terzetto rassicurante, Jude, che facciamo? Ci scriviamo una sciarada?” aveva risposto caustica Bernie.
Anche Puma gli aveva raggiunti, “Se abbiamo finito con le chiacchiere e le lettere, possiamo per cortesia ripartire, Atlantic City ci aspetta” aveva detto con un tono pieno di divertimento, quasi. “Vorrei prima mangiare qualcosa di più di due patatine ed uno slushie” aveva considerato Bernie, sorridendo verso il suo amico, anche se l’allegrezza si era fatta piuttosto fiacca.

 

“Secondo voi ha un odore giusto?” aveva chiesto Puma, odorando la sua fajitas, “Sì” aveva risposto Bernie, aggrottando un sopracciglio. “Scusami … vivo in un posto che non dispone di molte … novità” aveva considerato Puma leggermente nervoso.
“Le Fajitas non sono una novità … sono internazionali, globali” stava rispondendo Heather, osservando il suo piatto con un certo gusto – almeno il veleno non le aveva tolto l’appetito – “Aspetta: da dove vieni?” aveva chiesto.
“Da un’isola non segnata sulle mappe che teoricamente non esiste” aveva risposto con un sorriso sornione Jude, “E credo di cui tu non dovresti parlare” aveva considerato Bernie. “Gea si sta svegliando, il mondo sta finendo, credo sia ora di accettare che Nuova Cartago esista” aveva spiegato. “Oh, numi, stavo per chiederti se fossi di Atlantide” aveva scherzato.
“Oh no, ma ci sono stato, in vacanza, quando avevo quindici anni … organizzano delle feste da paura” aveva spiegato subito Puma, facendole ridacchiare. “Indovino, Hannah si è fatta cacciare anche da quelle?” aveva chiesto Bernie, un sorriso quasi genuino si era aperto sul suo volto, “Puoi scommetterci” aveva risposto Puma.
“Aspetta non scherzavi, sei stato davvero ad Atlantide?” aveva chiesto Heather stupita, “A Bensalem ma è circa la stessa cosa: filosofi, inventori, completamente fuori dal mondo e con feste da paura[2]” aveva spiegato nuovamente.
Heather aveva preso la sua cocacola zero ed aveva preso un sorso generoso, “Quando avevo dodici anni il mio mondo si è capovolto perché ho scoperto degli dei, del campo e sai … altro. Ed ora scopro che le cose che ancora mi mancano sono tantissime: il C.I.B.E.L.E., i norreni, gli egizi, nuova Cartagine e pure Atlantide” aveva ammesso.
Jude aveva emesso un singulto, “E tante ancora non so” aveva considerato guardando lo sguardo colpevole del suo amico, ‘e chissà quante non ne vedrò mai’ aveva pensato.
“Sì, tipo devo farmi dare la ricetta di queste cose e portarle a casa” aveva concordato Puma.
“Si, concordo sono ottime” aveva detto un uomo accomodandosi al loro tavolo.
Nessuno sembrava turbato nel piccolo locale messicano della sedia che era stata spostata e del nuovo ospite. “Stiamo per essere attaccati?” aveva chiesto Puma, guardando con tristezza il suo piatto, “Da me? Dei no, finirei per farmi piuttosto male credo, fai un sacco di cardio, vero?” aveva chiesto quello retorico, osservando i muscoli di Puma, “In realtà sono un guerriero fantastico, eh, ma a detta di mio padre – gran paraculo – non abbastanza” aveva raccontato. L’uomo aveva un viso giovane e gli occhi da vecchio, non erano verdi e questo bastava per tranquillizzare Heather, era uno castano dolce, che incarnavano un viso olivastro e ricci capelli rame.
Bernie aveva sbuffato, “Ti prego, abbiamo avuto una settimana impegnativa” aveva languito, prendendo la sua coca-cola possessiva, “Sì, sì, ho sentito” aveva considerato il giovane uomo, estraendo dalla tasca dei jeans della carta da pergamena ripiegata, gli aveva rovesciati sul tavolo prima di passare un foglio a Puma, uno ad Heather e anche uno a Bernie.
Il primo è: il primo, unico e solo, il secondo è: gli arti di Chirone, le gioie di Rhea e le disgrazie di Crono, l’ultimo accomuna il cinabro e la passione. Quando avrai sciolto e riunito la questione, allora avrai la tua occasione” aveva letto Bernie piena di confusione, “Cos’è? Una profezia?” aveva chiesto. L’uomo aveva sorriso: “Tecnicamente è una sciarada, ma sì è anche una profezia. Ti sarà utile” aveva precisato l’uomo, “Okay?” aveva bisbigliato lei.
Heather aveva guardato il suo foglio, “Sei, tipo, un dio?” aveva domandato, nella pergamena erano riportare delle note musicale su un pentagramma, in chiave di violino, “Dei del cielo no, no, solo un umile sacerdote” aveva risposto l’uomo con calma, “Indovino: anche a me servirà dopo” aveva considerato, “Forse non proprio a te, ma chi può dirlo, io potrei ma sai … le regole” aveva ammesso.
“Non capisco questa lingua” aveva detto Puma, “Che imbarazzo, mandarsi messaggi ultimamente è complicato ed abbiamo dovuto essere brevi per non indisporre un dio inca? Poco simpatici” aveva detto l’uomo dai capelli rame, recuperando il foglio da Puma, “Polissena dice di stare bene e di aiutarvi” aveva riportato l’uomo.
“Oh!” aveva esclamato Puma sorpreso, “È stata molto carina” aveva considerato, Heather aveva sentito prudere la ferita infettata che Troilo le aveva scoccato, “Sei uno dei suoi fratelli, si?” aveva chiesto. “Era la ragazza a tavola, vero?” aveva chiesto Bernie, che forse non aveva avuto modo di assistere e recuperare tutte le sfumature.
L’uomo aveva annuito, “Eleno, figlio di Priamo, per aiutarvi” si era presentato, “Si sente in colpa per aver abbandonato Polissena la prima volta, per me no, invece” una voce lugubre aveva gracchiato, di fronte Eleno, dal capo libero del tavolo si era seduta Cassandra, con la stessa giacca a vento blu con i bottoni ed i riccioli folli.
Heather aveva afferrato subito il coltello sul tavolo, “Cassandra mi dispiace, ma avevo chiaramente detto che andava fatto un sacrificio espiatorio, ma papà non mi ha ascoltato, d’altronde non mi ascoltava mai” si era lamentato Eleno, “Non fare questo gioco con me, Eleno” aveva sottolineato la donna inferocita, “Tu eri solo incazzato perché non ti avevano dato quella poveretta di Elena, ci hai condannati tutti, hai barattato la tua liberta per la vita di Polisenna, la forma di Ecuba, la dignità di Andromaca, la vita di Astianatte e, dei, la mia, la tua compagna di ventre, mentre ti lamentavi che non si teneva giustizia ad Apollo, io venivo stuprata nel tempio di Atena e ridotta come una schiava” aveva ringhiato Cassandra.
“Okay, questa mi sembra una conversazione fin troppo intima, che probabilmente dovreste risolvere fuori” aveva buttato fuori Puma.
Bernie aveva messo una mano su quella di Heather, “Anche a me non piacciono gli dèi, diverse creature – umani, dei e mostri hanno tentato di forzarsi su di me[3] e mia sorella se n’è andata senza mai guardarsi indietro, ma ti prego lasciarci andare … “ aveva detto calma, “Forse pensi che Gea potrà soddisfare la tua vendetta, ma poi?”.
“Prima di tutto non lavoro per Gea … Giganti, titani, dei, uomini sono tutti marci” aveva dichiarato Cassandra, “E lo si può vedere o starei nel vecchio mondo a dare fastidio ai sette eroi dell’Olimpo” aveva aggiunto la donna.
“Stanno tutti bene?” aveva chiesto Heather, quasi senza controllo. Cassandra l’aveva ignorata, riprendendo il suo discorso: “Onestamente non mi importa un fico secco, ho vissuto e sono già morta una volta, se il mondo finisse domani il mio unico rimpianto sarebbe di non aver visto Apollo prostrato ai miei piedi chiedermi perdono”.
“Cassandra” l’aveva rimproverata bonariamente Eleno, “Giusto; in realtà sono qui per scusarmi” aveva detto profetessa, voltando lo sguardo verso di lei, Heather aveva avuto un tremore, perché quegli occhi erano ancora folli e cattivi.
“Per aver cercato di uccidermi?” aveva detto Heather non mollando il coltello, “Sì” aveva concesso la sacerdotessa, “Perché?” aveva chiesto senza perdere mordente.
“La prima: era uno spreco di tempo, tu morirai lo stesso, stai già morendo, e non sarò io … scusa ho visto solo il tuo futuro quando l’ho profetizzato” aveva detto senza vergogna Cassandra. “Perché io ti credo?” aveva domandato Heather, cercando di ignorare la cattiveria e la gravità nella voce.
Era il sole che moriva, doveva immaginare che stesse morendo.
“Penso sia una difesa di Apollo” aveva cinguettato la profetessa prima di riprendere: “Secondo: ti ho osservata, ucciderti non avrebbe ferito Apollo in alcuna maniera, evidentemente sei la figlia di cui gli importa di meno, al tuo fratello traditore manda volatili e fa visite, per te … Asclepio, il Sol Invictus, per fino Polissena per chiedere aiuto a mio fratello che è il più devoto seguace di Apollo” aveva dichiarato.
Faceva un po’ male sentirlo nero su bianco, Heather aveva sentito le lacrime premere sulle ciglia, “Aspetta … hai detto fratello traditore? Carter?” aveva chiesto speranzosa.
“Occhi a mandorla, incazzato come una biscia ed in compagnia di una focosa Empusa?” aveva chiesto retorica Cassandra, “Si!” aveva esclamato Bernie. L’Empusa lo confondeva un po’ come informazione
“Terzo” aveva ripreso la profetessa, “I miei fratelli potrebbero avermi riportato alla ragione ed avermi fatto valutare che gli unici che dovrebbero pagare nella mia vendetta dovrebbero essere i veri colpevoli ed ho acconsentito ad aiutarvi perché se Gea vincesse io non potrei mai soddisfare la mia seta. Aiace è già ri-morto ucciso da una figlia di Atena, Apollo si sta nascondendo da qualche parte, ho intenzione di trovare Clitennestra – scommetto che quella frigida puttana è tornata in vita – e poi ucciderò anche Eleno” aveva stabilito, guardando il fratello, “Non mi opporrò, la mia cecità ed orgoglio mi hanno costretto a vivere oltre quanto era mio desiderio e sopravvivere a tutti i miei cari, il dolore di Andromaca, mi ha consumato ed accetto la morte” aveva considerato Eleno.
“Spero abbiate convinto anche Troilo” aveva considerato Puma, “Tranquillo, Polisenna lo tiene legato al suo mignolino” aveva stabilito la profetessa strizzando l’occhio verso di lui.
“Fantastico” aveva considerato Puma, “Bene, noi abbiamo fatto la nostra parte, la canzone per Heather, il messaggio per … Berenyx?” aveva considerato Eleno, “Per me e il giovane Jude, niente? Escluso, i saluti di Polisenna che ricambio volentieri” aveva chiesto. Eleno lo aveva guardato con sguardo intenso, “Vuoi un consiglio Pumayyaton Phoenix? Attento alla signora Abbandonata” aveva considerato.
“Sono confusa, nessuna profezia?” aveva chiesto Heather.
“Cassandra è la profetessa, io sono l’indovino, io posso darti le condizioni necessarie” aveva detto. “Questa non mi sembra una condizione necessaria, è una dannata sciarada” aveva replicato Bernie, facendo ondeggiare il foglio. “Scusate un tempo ero molto più preciso, ma caso mai non lo sapeste Pitone sta soffocando il dono profetico di Apollo. Riesco a vedere qualcosa solo perché ho avuto il mio dono da serpenti sussurranti … ma sono devoto ad Apollo, quindi …” aveva spiegato Eleno, “Poi insomma, penso sia parte del pacchetto che un indovino parli per oscure vie” aveva provato quello.
Senza molta convinzione.
“Ovviamente, siamo passati da Troia non può cadere se non ci sono certe condizioni a sciarade e pentagrammi” aveva sbuffato Puma.
“Per me? Niente?” aveva chiesto allora Jude, parlando con quella sua voce pesante e cavernosa, “Per te? Per te c’è il mondo intero Jude Mortimer, nel suo splendore e nel suo orrore, ma non ti è concesso scappare” aveva sentenziato.
“Bene, abbiamo portato i nostri messaggi, fatto le nostre ammende” aveva detto Cassandra alzandosi, quello sguardo cattivo era rimasto nei suoi occhi, “Godetevi il pasto prima che diventi un impiastro/ perché a breve arrabbiato arriverà un mostro” aveva sentenziato Cassandra.
“Merda!” aveva dichiarato Heather sapendo che da questo momento nessuno dei presenti avrebbe mosso un solo dito per scappare più velocemente, “Sai cosa Cassandra? Tieniti la tua ammenda io non ti perdono”.
“Cassandra!” l’aveva rimproverata Eleno, prima di voltarsi con vergogna verso di loro, pieno di imbarazzo, “Non posso controllarlo, funzionano così le profezie” aveva spiegato Cassandra, neanche un po’ imbarazzata.
“Almeno potreste dirci che tipo di mostro?” aveva gridato Heather, “Si chiama Sibari, la troverete una persona parecchio … velenosa” aveva risposto Cassandra.
Fantastico, altro veleno.
“Secondo me scherzavano” aveva commentato Puma, ovviamente, “No, ma ho intenzione di ordinare qual cos’altro prima che tutto vada al tartaro” aveva sbuffato lei.
D’altra parte del tavolo, Jude, con i suoi occhi che cambiavano ad ogni battito di ciglia la guardava pregno di colpa.
Be, sai cosa, ‘pa? Grazie. Odio la mia vita’ aveva pensato sarcastica Heather, il marchio dell’Aten aveva cominciato a bruciare leggermente.



[1] Nel primo capitolo ho detto che Heather si chiamava così per Erica – questo perché Heather è la traduzione di Erica, che è anche una pianta. In inglese, però, la pianta di Heather non è l’Erica ma è il Brugo.

[2] Avevo deciso che la parentesi Benselamita dovesse essere cancellata da questa storia e trattata come una gigantesca allucinazione (No sul serio è una parte inutile che avevo inserito in previsione di un ‘sequel’ che difficilmente ora avrà vita perché questa storia è diventata mastodontica ed io sempre più lenta negli aggiornamenti. Però visto che lo avevo inserito, ho pensato fosse okay sfruttarlo per qualche battuta).

[3] Ehm … Tecnicamente Bernie ha ricevuto un bel po’ di limoni non richiesti (Il dio vestito di bianco, Hannah, Arvey e tecnicamente Neottolemo aveva mire anche peggiori).

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